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Title: Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I
Author: Graf, Arturo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I" ***


                              ARTURO GRAF


                     MITI, LEGGENDE E SUPERSTIZIONI
                                  DEL
                               MEDIO EVO


                               VOLUME I.

                     IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE
                         IL RIPOSO DEI DANNATI
                       LA CREDENZA NELLA FATALITÀ



                                 TORINO
                            ERMANNO LOESCHER

                   FIRENZE                    ROMA
             Via Tornabuoni, 20         Via del Corso, 307

                                  1892



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

            Torino — Stabilimento Tipografico Vincenzo Bona.



                                   AD
                           ANGELO MESSEDAGLIA
                                IN SEGNO
                         DI GRATITUDINE ANTICA
                        D'INCANCELLABILE AFFETTO

                                    . . . . . Thou hast deserved of
                                          me
                                    Far, far beyond whatever I can
                                          pay.

                                                   ROBERT BLAIR.



_AVVERTENZA_


_Dei tre scritti che compongono il presente volume il primo può dirsi
affatto nuovo, dacchè quello che io pubblicai, sono ora quattordici
anni, col titolo La leggenda del Paradiso terrestre, altro non fu, a
paragon di questo, che un embrione, o uno schizzo; il secondo riappare
con nuovo titolo e qualche piccolo accrescimento; il terzo corredato di
note, onde prima fu privo._

_Sarei lieto se tutti e tre potessero parere ajuto non inutile a quel
libero studio della mitologia cristiana che, quanto è meritevole di
favore, tanto è lontano ancora dal compimento._



IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE



IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE



INTRODUZIONE


È ormai notissimo a tutti che la immaginazione di uno stato di felicità
e d'innocenza di cui gli uomini avrebbero goduto nell'inizio dei tempi,
e dal quale sarebbero poi decaduti, immaginazione che porge argomento
ad uno degli antichi racconti tradizionali che vennero a raccorsi e
collegarsi nella Bibbia, e forma come il luogo d'origine di tutta
la rimanente storia che ad essa consegue; non è una immaginazione
particolare; non appartiene in proprio a quel libro; ma è generalissima
e diffusissima, e appare, con forme varie e mutabili, nei libri e nelle
tradizioni di molte religioni diverse, ed è parte vivace e saldissima
della comune e spontanea credenza umana, tanto che questa rimanga
impenetrata alla scienza e riottosa alla critica. Noi la troviamo su
tutta la faccia della terra, dovunque son uomini; essa era già nata
quando non era ancor nata la storia; essa vive presentemente; essa
vivrà per lungo tempo ancora in avvenire, benchè premuta da ogni banda
e incalzata da nuovo pensiero e da nuova coltura. Gl'Indi, gli Egizii,
gl'Irani, i Cinesi, le varie famiglie dei Semiti, i Greci, i Latini,
i Celti, i Germani conobbero il mito: se, lasciato il vecchio mondo,
attraversiamo i mari, noi ritroviamo il mito in America, in Oceania,
nelle ultime plaghe di terra abitata che cingono il polo.

E in tutti i tempi, e fra tutte le genti, sotto sembianze quando
simili in tutto, quando leggiermente disformi, il mito serba la stessa
sostanza di concetto e la stessa significazione, e secondochè più
direttamente e più strettamente si leghi all'idea di tempo, o all'idea
di luogo, esso riesce, sia alla immaginazione di un'età beata ed aurea,
sia a quella di un luogo paradisiaco ed arcano, primo ed unico albergo
della umana felicità.

I libri sacri dell'India e il _Mahâbhârata_ celebrano l'aureo monte
Meru, da cui sgorgano quattro fiumi, che si spandono poi verso
le quattro plaghe del cielo, e sulle cui giogaje eccelse olezza e
risplende, incomparabile paradiso, l'Uttara-Kuru, dimora degli dei,
prima patria degli uomini, sacra ai seguaci del Budda non meno che
agli antichi adoratori di Brama. Gli Egizii, a cui forse appartenne
in origine la immaginazione degli Orti delle Esperidi, serbavano
lungo ricordo di una età felicissima, vissuta dagli uomini sotto la
mite dominazione di Râ, l'antichissimo dio solare. L'Airyâna vaegiâh,
che sorgeva sull'Hara-berezaiti degl'Irani, fu un vero Paradiso
terrestre, innanzi che il fallo dei primi parenti e la malvagità
d'Angrô-Mainyus l'avessero trasformato in un bujo e gelido deserto;
e nell'Iran, e nell'India, come in Egitto, durava il ricordo di una
prima età felicissima. I Cinesi coronarono il Kuen-lun di un paradiso,
ove sono parecchi alberi meravigliosi, e d'onde sgorgano parecchi
fiumi. Nelle tradizioni religiose degli Assiri e dei Caldei il mito
appare con sembianze che non si possono non riconoscere come simili
affatto a quelle del mito biblico. Greci e Latini favoleggiarono
della età dell'oro, dei regni felici di Crono e di Saturno, e di più
terre beate. Non giova moltiplicar questi cenni: in tutte così fatte
immaginazioni noi troviamo elementi comuni che si compongono insieme o
si suppliscono a vicenda: alberi e frutti datori di vita e di scienza,
fontane d'immortalità o di giovinezza, fiumi che si spargono intorno
a fecondare la terra, mitezza e giocondità di cielo, riso perpetuo di
natura, un divieto, una trasgressione, una caduta; — una breve felicità
originale a cui sussegue lunga e crescente miseria.

La credenza che il monoteismo giudaico fosse religion primigenia,
indivisa, tutta omogenea e tutta coerente, è credenza sfatata da tempo,
e non v'è più modo di dubitare che il racconto biblico della caduta
dell'uomo non provenga d'altronde e non si leghi ad un mito molto più
generale e più remoto. Basterebbe a darne prova il fatto della poca
coesione sua con l'altro racconto, detto eloista, al quale esso si
congiunge nella Genesi. Il Lenormant, giudice non sospetto in così
fatta materia, e che, pur dichiarando di voler rimanere cristiano,
accetta le conclusioni della critica biblica moderna, scrive queste
testuali parole: «Ce que nous lisons dans les premiers chapitres de
la Genèse, ce n'est pas un récit dicté par Dieu lui-même et dont la
possession ait été le privilège du peuple choisi. C'est une tradition
dont l'origine se perd dans la nuit des âges les plus reculés, et que
tous les grands peuples de l'Asie antérieure possédaient en commun
avec quelques variantes. La forme que lui donne la Bible est même si
étroitement apparentée avec celle que nous retrouvons aujourd'hui à
Babylone et dans la Chaldée, elle en suit si exactement la marche, que
je ne crois plus possible de douter qu'elle ne sorte du même fond»[1].

E con ciò rimane annullata l'altra credenza che l'unica verità della
Bibbia voleva rifratta e dispersa nelle tradizioni e nei miti delle
varie genti pagane, a quel modo che, passando pel prisma, si rifrange e
disperde, colorandosi variamente, la luce bianca del sole. Questa fu la
credenza dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e questa era ancora la
credenza di Dante, quando a Matelda, là, nel Paradiso terrestre, faceva
dire:

    Quelli che anticamente poetaro
      L'età dell'oro e suo stato felice
      Forse in Parnaso esto loco sognaro.

I moderni scrutatori dei linguaggi, delle tradizioni e dei miti
posero in sodo che il mito, da alcuni per brevità chiamato edenico,
è uno dei più antichi di cui l'umanità serbi memoria. Le indagini
loro hanno disvelato una lontana convergenza, ed una, almeno
parziale sovrapposizione geografica delle tradizioni paradisiache
sparse fra le genti della doppia famiglia ario-semitica; e una
opinione s'è accreditata e fatta ormai generale fra essi, che quelle
tradizioni, per quanto spetta ai grandi popoli storici, mettan capo
a un'era antichissima, quando la gente aria viveva ancora congiunta
nell'altipiano del Tibet, o in regione a quello adiacente, e sieno,
in parte, lontane e diversificate reminiscenze di una patria comune.
Il mito, quale appare nelle tradizioni assiro-caldaiche e fenice,
e quale cel porge il racconto biblico, è esso stesso, secondo ogni
probabilità, di origine indo-germanica. Il cherubino, che nel racconto
della Genesi sta a custodia del Paradiso, non appartiene, nè pel
nome, nè per la condizione e l'officio, al mondo semitico, ma rimanda,
secondo congettura il Renan, a una radice gribh, o grabh, occorrente
in tutte quasi le lingue ariane, e ricorda in singolar modo, secondo
avverte il Lenormant, i Garudi dell'India. Da altra banda un vasto
complesso d'indizii mostra che l'Eden biblico deve rintracciarsi in
quei medesimi luoghi ove i libri sacri dell'India e dell'Iran pongono
il Meru e l'Hara-berezaiti. A me basta di avere accennato rapidamente
tutto ciò, non essendo mio còmpito addentrarmi nell'esame dei fatti
e delle opinioni, nè richiedendosi ch'io ne faccia una esposizione
particolareggiata e compiuta[2]. Ma come nacque, e di che ragioni,
il mito meraviglioso? e quali sono i collegamenti suoi con la realtà
geografica, con la vita storica primitiva, e con quello che, in
mancanza di più acconcia espressione, chiamerò il contenuto della
coscienza? Non è cosa agevole rispondere a così fatte domande.

Che il mito abbia una radice storica; che contenga dentro di sè,
oscurato più o meno, il ricordo di una antichissima sede, di una
prisca patria, alla quale tornano col pensiero e col desiderio,
fantasticamente abbellendola, le razze che ne migrarono; e che
immedesimandosi quel ricordo via via, come porta la fortuna di
migrazioni consecutive, con ricordi d'altre sedi mutate e rimutate,
serbi pur sempre alcun che dell'originale esser suo, è cosa che si deve
senz'altro ammetter per vera, e che tale è provata da più altri esempii
di miti affini.

Che, inoltre, nel mito, si riverberi il ricordo annebbiato di una
primitiva condizione sociale, anteriore allo stabilimento della
proprietà fondiaria, e agli ordinamenti che ne furono la necessaria
conseguenza, può credersi; ma che il mito stesso abbia significato
_essenzialmente_ economico, ch'esso sia _un grido di dolore del
proletariato_ e la _propria leggenda del socialismo_, come dissero
il Laveleye, il Malon, e ultimamente con dottrina copiosissima e
lucidissima esposizione, il Cognetti De Martiis[3], non parmi opinione
che regga, quando si considerino le condizioni tutte d'organamento e
di vita sociale con le quali si concilia, sia l'apparizione, sia la
perduranza del mito, e quando si ponga mente agli elementi molteplici
ond'esso mito è composto.

Innanzi tutto, come spiegare il fatto che il mito, sia pure in forma
rudimentale, appare tra schiatte d'uomini le quali durano nella
medesima, primitiva condizione di vita sociale ed economica di cui
quello dovrebb'essere, per lo appunto, un ricordo? Inoltre, se il mito
è leggenda di proletarii, perchè mai le teocrazie e le aristocrazie
tutte lo raccolsero esse così amorosamente, e così gelosamente lo
custodirono? Più lo scruto e lo sviscero, e più mi sembra che il mito,
s'è, per qualche picciola parte un ricordo, sia per la massima parte
una visione ideale, nasca dalla projezione di un fantasma interiore
nel tempo e nello spazio. Vero è che giova, a questo proposito, fare
alquanto maggiore la separazione tra il mito dell'età dell'oro e il
mito del Paradiso terrestre, e riconoscere che più copiosi in quello
sono gli elementi storici, sociali, economici, più copiosi in questo
gli elementi ideali, mitici ed etici.

Che nel mito paradisiaco ario-semitico, e in altri affini, si trovin
tracce di un antichissimo culto della natura, non credo si possa
negare. L'albero della vita è l'albero che porge il nutrimento;
l'albero della scienza è l'albero che dà responsi: entrambi appajono
in numerose mitologie, fatti spesso compagni dell'albero generatore
da cui procedono gli uomini. Indipendentemente da qualsiasi storica
reminiscenza, l'uomo è tratto, per virtù spontanea di fantasia, a
immaginare uno stato di vita assai più felice di quello toccatogli in
sorte, e a porre quella felicità assai remota da sè, o nello spazio,
o nel tempo. Se nel tempo, egli deve necessariamente respingerla nel
passato o nel futuro. A respingerla nel passato egli sarà sollecitato
da quella medesima illusione che forza i vecchi a lodare i giorni e le
cose che furono, da quella stessa mitica fantasia che lega insieme la
felicità, l'apparir del sole, il cominciamento dell'anno, la primavera,
la nascita di tutte le cose. Altre cagioni e ragioni potranno
sollecitarla ad allontanar nel futuro quel sogno di felicità, come
interviene a noi, cui la scienza vieta ormai di colorirlo nel passato.
Disse lo Schopenhauer: «La felicità è sempre, o nel futuro, o nel
passato, e il presente è da rassomigliare a una piccola nube oscura,
cacciata dal vento sul piano soleggiato: innanzi ad essa e dietro di
essa tutto è chiaro: essa sola getta sempre un'ombra sul piano.»[4] E
Vittore Hugo, nell'_Année terrible_:

    Les philosophes, pleins de crainte ou d'espérance,
    Songent et n'ont entre eux pas d'autre différence,
    En révélant l'Eden, et même en le prouvant,
    Que le voir en arrière ou le voir en avant.

A noi non è più concesso figurare il sogno nello spazio, almeno in quel
tanto spazio che la superficie del nostro pianeta comprende; ma tutta
l'antichità credette all'esistenza di popoli remoti, i quali, governati
dal senno e dalla virtù, beneficati da terra feconda e da clementissimo
cielo, vivevano felicissimi, esenti dai morbi, non asserviti al lavoro,
fruenti di rigogliosa longevità.

Quando la coscienza morale si desta, nuove ragioni concorrono a
figurare il mito e fermarne il significato. Gli uomini primitivi non
considerano e non intendono la morte come un fatto naturale: per essi
la morte è effetto di un errore, di un malefizio, di un castigo. In
molti miti di popolazioni selvagge si afferma che gli uomini dovevano
essere immortali, ma che per un error di messaggio, o per malizia
di certo messaggere, o per altra cagione sì fatta, avvenne poscia il
contrario. Allargandosi e chiarendosi sempre più la coscienza morale,
si venne a considerare la morte, e i mali stessi ond'è ripiena la vita,
quale conseguenza di un peccato commesso e di un meritato castigo.
Questa interpretazione non si ebbe se non quando furono ben definiti i
concetti di colpa e di pena, ed è frutto di un ragionamento, non giusto
certo, ma naturale in menti incolte: la pena è dolore; ma dolore sono
e la vita e la morte: dunque la vita e la morte son pena. Allora il
sogno di primitiva felicità diventa anche sogno di primitiva innocenza,
e l'intero sogno può benissimo intrecciarsi con ricordi storici o
semistorici, sia di una patria remota, sia di una perduta condizione di
vita sociale.

Dopo quanto son venuto dicendo non credo di dover giustificare
con altre ragioni l'uso da me preferito di dire _mito del Paradiso
terrestre_ anzichè _leggenda del Paradiso terrestre_, tanto più che
io prendo a considerare la tradizione quando è già staccata da quelle
radici storiche e reali che possa avere. Da altra banda occorre appena
avvertire che il mito, volgendosi, a guisa di largo fiume, attraverso
i secoli, e in mezzo a disparatissime genti, accoglie nel suo corso,
insieme con altri e svariati miti, leggende in gran numero.

Il mito del Paradiso terrestre doveva acquistare nuovo valore e nuova,
maggiore celebrità col diffondersi del cristianesimo, che tutto poggia
sulla dottrina della caduta e della redenzione. I profeti appena
fanno ricordo della beata dimora; i Padri e i Dottori cristiani son
pieni delle sue lodi, e spogliano i poeti pagani per far più vaghe le
descrizioni che vanno di essa intessendo. Non senza giusta ragione. Di
contro all'opera misteriosa e solenne della redenzione compiuta da un
Dio fatto uomo, il fallo dei primi genitori doveva apparire più che mai
mostruoso ed enorme, e per necessario effetto di contrasto, a paragon
di quel fallo doveva parere incommensurabile il primo benefizio di Dio,
doveva la patria dell'uomo innocente rifulgere di un più intenso lume
di cielo, e quello stato di prisca felicità dipingersi alle menti con
colori tanto più vaghi ed accesi, quanto maggiore era la miseria de'
tempi, quanto più vivo il sentimento della fragilità ereditata, quanto
più angoscioso il pensiero degli ostacoli innumerabili che impedivano
il conseguimento della salute, quanto più grave e più insistente il
terrore degli atroci castighi minacciati a coloro che fossero per
lasciar perdere il frutto della redenzione. Invano si tentò da alcuni
dare al racconto biblico un significato puramente allegorico: i più
lo presero alla lettera, e i poeti della nuova legge si voltarono
desiosamente a quelle prime origini a cui pareva dovesse ripiegare
il corso della storia, mentre una opinione già teneva gli spiriti,
che la beata dimora dei padri colpevoli, riaperta ai figli redenti,
dovesse accogliere, per misurato spazio di tempo, sino al giorno
dell'Universale Giudizio, le anime degli eletti, destinate ad ascendere
poi alle glorie incomparate e senza fine della Gerusalemme celeste. I
Chiliasti sognavano un nuovo Eden, sotto il regno millenario di Cristo,
e il sogno loro non era ancor spento nel secolo IX, quando si levava
a dannarlo Pascasio Radberto. I tempi, volgenti più e più al peggio,
favorivano quella disposizion degli spiriti. Si sfasciava l'impero di
Roma, irrompevano i barbari da ogni banda: una età di ferro, quale non
avevano immaginata le mitopee dell'antichità, pesava sul mondo, che,
nel corso di una storia calamitosa ed oscura, pareva divenir sempre
più il regno incontrastato di Satana. Qual meraviglia se poeti de'
primi secoli, Tertulliano, Proba Faltonia, Draconzio, Claudio Mario
Vittore, Alcimo Avito; se poeti e romanzatori, e narratori di leggende,
e scrittori d'opere ascetiche de' secoli successivi, raccolgono quante
reminiscenze dell'arte classica durano in loro, stemperano i colori più
accessi delle lor fantasie, impregnano di mistici ardori il sentimento
e la frase, per ripresentare agli animi una viva immagine di quel primo
soggiorno di beatitudine? Quanto più rude e turbolenta e malvagia
si faceva la vita, tanto più intenso doveva crescere negli spiriti
contemplativi il desiderio di ritrarsi con la fantasia in quella
solitudine beata e sacra.

    Oi! paradis, tant bel maner!
    Vergier de gloire, tant vus fet bel veer!

sospirava un trovero del XII secolo. E un poeta latino, forse anteriore:

    Eden digne pingere vanum est conari,
    Stillas paucas extraho de tam magno mari.

Di quel desiderio, come fiori da pianta vigorosa e feconda, nacquero,
nel corso dei secoli, numerose leggende e infinite altre immaginazioni,
nelle quali si vedono riapparire, con meraviglia di chi le consideri,
venuteci non si sa come, nè per qual via, molte particolarità del
mito più generale, trascurate nel racconto biblico. Se ne vedranno le
prove qua e là, nella trattazione che segue. Quelle finzioni sono,
come ho detto, assai numerose, e dovevano essere, dato il luogo che
nella memoria di tante generazioni di credenti aveva a tenere quella
prima patria degli uomini, dove s'erano scontrati tutti in un punto i
pugnanti fattori della storia, l'amor del piacere, l'amor del sapere,
il desiderio di potestà, la legge e la ribellione, la virtù e la colpa,
la vita e la morte. Molte di esse sono anche belle e fantasiose, accese
de' più vivi colori di una poesia fervorosa ed ingenua, e trasportan
la mente in un cielo di sogni meravigliosi, il cui ricordo faceva
esclamare al Leopardi:

                         Oh fortunata
    Di colpe ignara e di lugubri eventi,
    Erma terrena sede!

E di quelle finzioni principalmente io intendo fare discorso,
non toccando, se non di volo, qua e là, delle dispute teologiche
arruffatissime che si legano e si frammezzano a quelle, e sono, il
più delle volte, altrettanto vane e fastidiose, quanto sono quelle
dilettevoli ed istruttive[5].


NOTE:

[1] _Les origines de l'histoire d'après la Bible et les traditions
des peuples orientaux_, Orléans, 1880-4, vol. I, p. XVII. Intorno
alle tradizioni caldeo-assire vedi, oltre allo stesso LENORMANT, _Op.
cit_., vol. I, pp. 73 sgg., ed _ Essai de commentaire des fragments
cosmogoniques de Bérose_, Parigi, 1871, pp. 300-21; SMITH, _Chaldean
Account of Genesis_, Londra, 1875; DELITZSCH, _Assyrische Lesestücke_,
2ª ediz., Lipsia, 1878, tav. 40 e 41; H. FOX TALBOT, _Chaldean Account
of the Creation_ (_Records of the Past_, vol. IX); A. H. SAYCE, _The
assyrian Story of the Creation_ (_Records of the Past_, nuova serie,
vol. I); VIGOUROUX, _La Bible et les découvertes modernes en Egypte et
en Assyrie_, Parigi, 1877.

[2] Perciò tralascio di ricordare molt'altri libri capitali ove
la questione è largamente esposta e discussa. Solo soggiungerò che
FEDERICO DELITZSCH, in un volume intitolato _Wo lag das Paradies? Eine
biblisch-assyriologische Studie_, Lipsia, 1882, cercò di confutare,
senza però riuscirvi, la opinione più accreditata e diffusa, e di
provare che il mito edenico nacque propriamente in Caldea, e dalla
Caldea passò nell'Iran e nell'India. Vedi in contrario OPPERT, nelle
_Göttingische gelehrte Anzeigen_ pel 1882, vol. II, pp. 801-31, e
LENORMANT, _Les origines de l'histoire_ etc., vol. II, pp. 537-8.

[3] _Socialismo antico_, Torino, 1889. Vedi più particolarmente le
conclusioni, pp. 250 sgg.

[4] _Die Welt als Wille und Vorstellung_, 3ª ediz., Lipsia, 1859, vol.
II, p. 655. Lo Schopenhauer vedeva espressa nel mito della caduta,
sebbene sotto forma di allegoria, una verità metafisica, e diceva
esser quello il solo mito biblico che lo riconciliasse con l'Antico
Testamento (_ibid_., pp. 663-4).

[5] Tuttavia, per chi ne volesse qualche maggiore contezza, indicherò
qui alcuni libri, da' quali si può attingere facilmente: MALVENDA,
_De Paradiso voluptatis_, Roma, 1605; PEREIRA, _Commentaria in
Genesim_, Lione, 1607; INVEGES, _Historia sacra Paradisi terrestris et
sanctissimi innocentiae status_, Palermo, 1649 (traduzione italiana
ivi stesso, 1651); GIANGOLINO, _Hedengrafia, overo descrittione del
Paradiso terrestre_, Messina, 1649; TOSTATO, _Commentaria in Genesim,
Opera omnia_, Venezia, t. I, 1727; HARDOUIN, _Nouveau traité sur la
situation du Paradis terrestre_, nella raccolta intitolata _Traités
géographiques pour faciliter l'intelligence de l'Ecriture Sainte_,
La Haye, 1730; KIRCHMAYER, _De Paradiso_, ap. CRENIUM, _fasc. IV
exercitationum philologico historicarum_; HUET, _De situ Paradisi
terrestris_ (tradotto in più lingue e stampato assai volte in fine
del secolo XVII e in principio del XVIII); RELAND, Dissertatio de
situ Paradisi terrestris; Hopkinson, Descriptio Paradisi; Morin,
_Dissertatio de Paradiso terrestri_; VORST, _Dissertatio de Paradiso_,
tutti e quattro riprodotti nel vol. VIII del _Thesaurus antiquitatum
sacrarum_ dell'Ugolini, ecc, ecc. Veggansi inoltre tutti i Dizionarii
della Bibbia. Veggasi pure il curioso libro dello SCHULTESS, _Das
Paradies, das irdische und überirdische, historische, mythische und
mystische_, Zurigo, 1816. Il D_ictionnaire des légendes_ del DOUHET non
contiene sul Paradiso terrestre se non un'assai magra notizia.



CAPITOLO I.

SITUAZIONE DEL PARADISO TERRESTRE.


Dice la Genesi che Dio piantò il mirabil giardino nella parte orientale
di una regione chiamata Eden[6]; e questo cenno fece prevaler la
credenza ch'esso fosse stato, o fosse tuttavia, nella parte orientale
della terra, o, a dirittura, nell'estremo Oriente. Tale fu, come
può rilevarsi da Giuseppe Flavio, la comune credenza degli Ebrei[7];
e tale fu pure la credenza più accetta, nei primi secoli, ai Padri
della Chiesa, e poi nel medio evo, e oltre il medio evo, a teologi,
a viaggiatori, a romanzatori, a cosmografi. San Basilio Magno dice
che i cristiani pregano volti ad Oriente, quasi cercando la patria
perduta[8]; e Jesujabo, vescovo nestoriano di Nisibi nel secolo XII,
reca, come argomento della superiorità dell'Oriente sull'Occidente, il
fatto che il Paradiso terrestre è appunto in Oriente[9].

A confermare tale credenza cooperava del resto una ragione alla quale
è forse da far risalire, in qualche parte, la stessa indicazione
biblica. Basta ripensare un istante ai caratteri e agli officii
proprii del sole in tutte le mitologie, e in ispecie del sole
nascente, per tosto avvedersi che l'Oriente, cioè quella plaga della
terra onde si leva l'astro datore di vita e dispensator di letizia,
doveva, in virtù di un'associazion di concetti non meno naturale che
inevitabile, parer la più acconcia a porvi la culla dell'uman genere,
il giocondo ricetto della prisca felicità e della vita immortale. Che
se più tardi noi troviamo il Paradiso trasposto in altre regioni, o,
a dirittura, nell'ultimo Occidente, ciò avviene, come vedremo, per
ragioni particolari e avventizie, le quali, posteriori di tempo, nulla
detraggono a quella ragion generale e primitiva. Nè prova nulla in
contrario il fatto che l'Elisio, le cui descrizioni, come di stanza di
beati, concordano in molte parti con quelle del Paradiso terrestre,
ponevasi dagli antichi nell'ultimo Occidente, nella regione cioè ove
si occulta il sole, e muore il giorno; perchè l'Elisio era stanza,
non di vivi ma di morti, e perciò immediatamente prossima all'Hades.
L'opinione pertanto più antica, ed anche, data l'indole del pensiero
mitico, più razionale, era quella che situava il Paradiso terrestre
in Oriente, e ad essa si legava naturalmente, per le stesse ragioni,
l'altra che faceva volta ad Oriente la porta (quando si parlava d'una
e non di più porte) del Paradiso medesimo. Da altra banda, il non
trovarsi più vestigio di esso nelle regioni prima cognite dell'Asia,
e poi nelle regioni che furono conosciute più tardi; e quella natural
tendenza che induce gli uomini a immaginare come lontanissimi da loro,
dalle loro consuete dimore, i luoghi di sognate meraviglie e di sognata
felicità, dovevano esser ragioni atte a far trasporre il Paradiso
terrestre in un Oriente sempre più remoto ed arcano. Nell'apocrifo
etiopico, d'incerta età, intitolato _Combattimento d'Adamo ed Eva_, si
dice che Dio piantò il giardino paradisiaco il terzo giorno, ai confini
orientali del mondo, di là dai quali non v'è più se non l'acqua che
circonda la terra e attinge il cielo[10]. Perciò la credenza che il
Paradiso fosse in Mesopotamia, credenza suggerita dallo stesso racconto
biblico là dove nomina il Tigri e l'Eufrate, se trovò in ogni tempo,
e anche ai dì nostri, chi l'accolse e difese, non però si può dire che
sia stata la più diffusa. e, anzi, nelle leggende di cui avrò a parlare
più oltre, non compare nemmeno.

Fare una enumerazione di tutti gli scrittori sacri e profani, antichi
e del medio evo, i quali si contentarono di dire che il Paradiso
terrestre è in Oriente, senz'aggiungere altra più precisa indicazione,
sarebbe fatica non meno incresciosa che vana: essi sono, starei per
dire, innumerabili. A noi importano ora le notizie, o le affermazioni,
le quali, riferendosi pur sempre all'Oriente, sieno in qualche modo più
specificate e più precise.

Molte mappe del medio evo pongono il Paradiso terrestre in terra ferma,
nell'India, o di là dall'India, in una regione incognita, all'estremo
limite della terra bagnata dall'oceano che tutto circonda[11]; e
di là dall'India lo posero l'Anonimo Ravennate e la più parte dei
trattatisti, espositori e commentatori ch'ebbero a parlarne[12]. Non
aveva già detto Erodoto che quanto è di più bello al mondo si trova
agli estremi confini della terra abitata? Nel secolo XV la credenza
per questo rispetto non muta. Le mappe di Andrea Bianco (1436), di
Giovanni Leardo (1448), del Museo Borgia, altre, seguitano a porre
il Paradiso nell'India, o di là dall'India. Ma la nozione era di
necessità confusa ed incerta. Nel secolo XIV, Giovanni di Mandeville
afferma di essere stato in India, ma di non aver veduto il Paradiso,
il quale è in regione assai più lontana[13]; mentre Giordano da Sévérac
riferisce una credenza secondo cui il Paradiso sarebbe stato fra quella
che si chiamava la terza India e l'Etiopia[14]. Nel secolo XV, Fra
Mauro colloca il Paradiso in Oriente, _molto remoto dala habitation e
cognition humana_; ma non segna nella sua mappa il luogo preciso[15].
Da molti il Paradiso terrestre ponevasi nel Regno del Prete Gianni, o
in prossimità di quello, come vedremo più innanzi; regno che mutò più
d'una volta luogo sulla faccia della terra, secondo il bisogno della
leggenda; ma che fu da prima in India, o da quelle parti.

Dice Ranulfo Higden, nel suo _Polychronicon_, esser falsa la opinione
di coloro che credono il Paradiso disgiunto dalla terra abitata per
lunga distesa di mari[16]; ma bisogna pur riconoscere che tale opinione
professata, fra gli altri, nel nono secolo, da Valafredo Strabone e da
Remigio di Auxerre, e accennata da Rabano Mauro[17], doveva imporsi,
come quella che meglio s'accordava con certi sentimenti, e appagava
la fantasia, a molti spiriti. L'isola felice e la città d'oro dei
Vidyâdhari, di cui si racconta nel libro di novelle di Somadeva, son
poste anch'esse in parte remotissima ed ignota del mondo, e molte altre
immaginazioni affini si potrebbero qui recare a riscontro, delle quali
sarà detto più opportunamente altrove.

Quella opinione prendeva due forme diverse, secondochè il Paradiso
si faceva sorgere nell'antictone di Aristotele e di Eratostene[18],
ossia nella terra opposta all'abitata, divisa da questa dall'oceano
innavigabile; oppure in un'isola, remota sì da ogni contrada popolata
dagli uomini, ma appartenente nulladimeno al nostro emisfero.

Già Sulpizio Severo, nel IV secolo, dice, parlando dei primi parenti,
che essi furono cacciati come esuli nella terra da noi abitata, _in
nostram velut exules terram ejecti sunt_[19]; e in quello stesso secolo
Efrem Siro, ne' suoi Commentarii sulla Genesi, andati perduti, colloca
il Paradiso nell'antictone; ma Cosma Indicopleuste, nel VI, espone
tutta una sua dottrina in proposito la quale ha strettissima relazione
con antiche dottrine asiatiche, e, senza dubbio, ne dipende[20].
Cosma immagina la terra oblunga, e divisa in due parti, delle quali
l'una è interna e circondata dall'oceano, l'altra è esterna, cinge
l'oceano e si congiunge col cielo, volto in alto e all'ingiro a modo di
cupola. Il Paradiso è nella terra esterna, verso Oriente, e in quella
terra rimasero gli uomini sino al Diluvio. Noè, con l'Arca, traversò
l'oceano, e approdò in Persia, d'onde la sua progenitura si sparse in
questa parte di mondo ch'è ora abitata, mentre l'altra, che fu prima
abitata, ora è deserta. I quattro fiumi dell'Eden s'inabissano laggiù
nella terra, passano sotto l'oceano, e riscaturiscono di qua, dalla
parte nostra[21]. Sia ricordato, di passata, che gl'Indiani immaginano
un altro mondo (_loka_) di là dai Sette Mari, e che di là dall'oceano
immaginano gli Arabi la montagna di Kâf. Mosè Bar-Cefa, nel secolo
X, pose ancor egli il Paradiso nell'antictone[22]; e tale opinione,
avvalorata dal fatto (contraddetto, come poi vedremo, da molti sogni
che pure avevansi in conto di fatti) che il Paradiso, per quanto si
fossero corse le terre ed i mari, non s'era mai potuto rinvenire, ebbe
non pochi seguitatori, Dante fra gli altri.

Che Dante, ponendo il Paradiso terrestre sulla cima del monte del
Purgatorio, fece cosa non caduta in mente a nessuno dei Padri e Dottori
della Chiesa, fu notato già da parecchi; ma che, quanto alla situazione
del Paradiso, l'opinione di lui s'accorda con quella dei Padri e
Dottori che lo posero nell'antictone, non fu, ch'io sappia, fatto
osservare da alcuno. Conformemente alla comun dottrina de' suoi tempi,
Dante crede che la terra emersa, la _Gran secca_, com'egli la nomina,
sia tutta nell'emisfero settentrionale, e non si stenda se non picciol
tratto (circa 11 gradi secondo Tolomeo) oltre l'equatore. L'emisfero
meridionale è occupato dalle acque dell'oceano, salvo che in un punto
dove sorge il monte del Purgatorio, diametralmente opposto alla città
di Gerusalemme. Notisi tuttavia che de' quattro fiumi egli non dice
parola[23]. Quel viaggio sotterraneo, che altri faceva compiere loro,
doveva destare troppe obbiezioni nella mente di chi aveva disputato
la questione _De aqua et terra_, e aveva così giusta cognizione della
legge di gravità[24].

Molto più diffusa fu l'altra opinione, che poneva, come ho detto, il
Paradiso in un'isola del nostro emisfero, la quale quando è in Oriente
e quando in Occidente, secondo le immaginazioni. Poichè io parlo ora
della general credenza che assegnava il Paradiso all'Oriente, dirò,
prima, dell'isola, o, piuttosto, dell'isole orientali, salvo a dir
delle occidentali un po' più innanzi, quando parlerò di un'altra
credenza principale. In tanto viluppo ed intreccio d'immaginazioni, le
quali spesso nascono le une dalle altre, gli è affatto impossibile di
serbare, discorrendone, un ordine logico molto rigoroso.

Ma, prima di passar oltre, non sarà fuor di luogo ricordare che l'idea
di porre in un'isola segregata la stanza dei beati, o di attribuire
ad isole remote ed incognite una felicità non concessa al resto della
terra, è una idea naturale, molto antica e molto diffusa. L'Elisio
fu posto in una o più isole; e tutti sanno quanto dagli antichi siasi
favoleggiato intorno alle famose Isole Fortunate. L'isola dei Feaci,
e l'isola di Ogigia, descritte da Omero, sono terre di letizia e di
felicità; e l'isola di Pancaja, descritta da Diodoro Siculo, ha con
l'Elisio non piccola somiglianza. L'Atlantide di Platone e la Merope
di Teopompo erano immuni dagl'infiniti mali cui vanno soggette l'altre
contrade abitate dagli uomini. Oltre al monte Kâf, gli Arabi avevano
l'isola di Vacvac, ricordata nei viaggi di Sindbad delle _Mille e una
notte_, e di cui tante meraviglie narrano Masûdi e altri[25]; e avevano
le isole Saili, le quali erano di tanta vaghezza e felicità che chi vi
approdava dimenticava il resto del mondo[26]. Di un'isola dalle poma
d'oro narrarono le meraviglie i Celti.

L'isola paradisiaca sorgeva dalle acque di quel misterioso oceano
che fasciava tutto intorno la terra abitabile. L'immaginazione di
quest'oceano, antichissima, dacchè, prima che nei poemi di Omero
e di Esiodo, trovasi in India e in Caldea, durò viva quanto il
medio evo[27]. Isidoro di Siviglia l'accetta, e l'accetta ancora il
Boccaccio, quando il medio evo si chiude: le mappe la figurano. Notisi,
a tale riguardo, che, secondo Giuseppe Flavio, il fiume il quale esce
dal Paradiso, cinge tutta la terra, e che San Giovanni Damasceno fa di
quel fiume e dell'oceano circondante una cosa sola[28].

E molte mappe figurano anche l'isola, posta bensì in Oriente, ma non
sempre, come si può ben credere, nel medesimo luogo[29]. Di solito
essa non è designata con altro nome che quello di Paradiso, o Isola
del Paradiso. Nel poemetto che Cinevulfo (secolo X) compose intorno
alla Fenice, è detto che Dio pose l'isola santa così lontano dai
peccatori che nessuno può giungervi, e Dante fa un'isola del monte
_che si leva più dall'onda_. Una compilazione francese di storia
antica, che passò in traduzioni italiane, la ricorda, e dice che _è una
dolcie contrada, ed è assisa verso oriente, nel gran mare che tutto
il mondo atornea_[30]. Talvolta l'isola paradisiaca prende un nome,
o s'identifica con un'isola, non più immaginaria, ma reale. Giovanni
Witte di Hese (di Hees, Hesius) che negli ultimi anni del secolo XIV
compiè con la fantasia, senza muoversi da Utrecht, ov'era prete, un
meraviglioso viaggio in Oriente, e ne scrisse, in latino, un racconto
che fu messo a stampa sino dal 1489, dice che egli e i compagni suoi,
lasciate le terre del Prete Gianni, giunsero, dopo dieci giorni di
navigazione, a un'isola deliziosa, detta Radice del Paradiso, e dopo
dodici altri giorni, al monte Edom, il quale si leva erto e diritto
di mezzo il mare, come un'altissima torre, sicchè da nessuna parte
vi si può salire, e in cima ad esso si vuole che sia il Paradiso: «e
circa l'ora del vespero,» quando il sole declina, «si vede il muro
del Paradiso splendere di gran chiarità, e vaghissimamente a mo' di
stella[31]». Di questo monte e isola di Edom, il cui nome è, con tanta
disinvoltura, tolto alla Palestina, non so che sia fatta menzione
altrove.

Giovanni de' Marignolli, vescovo di Bisignano, che, insieme con altri,
fu da Benedetto XII (1334-1342) mandato in missione al Gran Cane dei
Tartari, afferma, nel suo _Chronicon_, che il Paradiso è a quaranta
miglia italiane dall'isola di Ceilan, d'onde si ode il fragore e lo
scroscio delle sue acque cadenti. Egli si vanta d'avere superato la
gloria del massimo Alessandro, il quale, pervenuto all'ultimo termine
della sua peregrinazione, eresse, a perpetua memoria, una colonna,
e di avere, nel cono del mondo, _in cono mundi_, alzata, di contro
al Paradiso una lapide, e sparsovi sopra dell'olio[32]. Ricorda la
opinione di alcuni, i quali asserivano in Ceilan stessa essere stato il
Paradiso; opinion ch'ei rifiuta, parendogli contraddetta dal nome[33].
Sta a ogni modo il fatto che alcuni ponevano il Paradiso in Ceilan, e
vedremo, in altro luogo, parecchie ragioni di così fatta credenza.

Che il Paradiso dovesse essere nella zona torrida, sotto il tropico del
Cancro, o a dirittura sotto l'equatore, fu opinione antica benchè non
molto diffusa. Tertulliano credeva che per il _flammeum gladium_ della
Genesi s'avesse appunto a intendere la zona di massima caldura, e fu
in tale sua credenza seguito da Filostorgio, da San Tommaso d'Aquino,
da San Bonaventura, e da parecchi altri[34]. Ma a tale opinione
contraddicevano molti, cui sembrava non la si potesse accordare con
quanto sapevasi del temperatissimo clima del Paradiso, e della copia
delle sue acque; al che rispondevano quei primi con dire che la troppa
caldura poteva essere mitigata dall'altitudine e da altre condizioni.
Al punto d'intersezione dell'equatore e del gran meridiano, gli Arabi
posero il Castello d'Arîn, di malagevole accesso, e il trono d'Iblîs.

Efrem Siro fu di opinione che il Paradiso, di là dall'oceano, circuisse
tutta la terra[35]; al qual proposito è da ricordare che anche
dell'Hara-berezaiti dei Persiani fu da taluno creduto altrettanto, e
che Plutarco parla di un continente che cinge tutto intorno la terra
(μεγαλη ἤπειρος) contrapposto al continente abitato (ἡ οἰκουμένη).
Altri andaron più oltre, e sostennero che il Paradiso si dovette
stendere sopra tutta la superficie della terra, senza di che non
avrebbe potuto contenere l'intero genere umano, che vi doveva avere
sua dimora, durando in istato d'innocenza[36]. Tale opinione professò
ancora in pien secolo XVI, Gioachino di Watt (Vadianus Sangallensis)
nel suo _Trium terrae partium epitome_.

Ma altre opinioni correvano, affatto a queste contrarie. Sin da'
tempi di San Teofilo di Antiochia (m. c. 181) c'era chi dubitava se
il Paradiso fosse mai stato in terra, dubbio ch'egli combatte[37];
e San Gerolamo ricorda una tradizione ebraica, secondo la quale
il Paradiso sarebbe stato creato avanti il mondo, e però fuori de'
suoi confini[38]. I Valentiniani lo posero sopra il terzo cielo; e
i musulmani credono ch'esso fosse nei cieli, e che Adamo, cacciato,
cadesse nell'isola di Serendib (Ceilan), e che quivi morisse dopo aver
fatto un pellegrinaggio al luogo dove poi doveva sorgere la Mecca.
In un manoscritto del Museo Britannico si legge che il Paradiso è
meravigliosamente sospeso fra il cielo a la terra, quaranta cubiti
sopra il più alto livello raggiunto dalle acque del Diluvio, che,
com'è noto, superarono di quaranta cubiti le cime delle più alte
montagne[39]. Altri pensarono che il Paradiso fosse bensì stato in
terra, ma che Iddio, corrucciato, l'avesse distrutto il giorno stesso
del peccato, o avesse più tardi permesso che lo distruggesse il
Diluvio. E qui è da dir qualche cosa della opinion di coloro i quali
credevano che il Paradiso fosse stato in Gerusalemme. Tale opinione
è già impugnata, nel IV secolo, da Sant'Atanasio, arcivescovo di
Alessandria[40]; ma bisogna riconoscere ch'essa non era sorta senza
qualche plausibile ragione, e che pareva formata a bella posta per
secondare certe tendenze della coscienza religiosa e per appagare certi
sentimenti dei fedeli. Dice Ezechiele in un luogo delle sue profezie
(V, 5):_ Ista est Jerusalem: in medio gentium posui eam et in circuitu
ejus terras_. Questo luogo, malamente interpretato, fece nascere la
credenza, serbata poi lungamente, che Gerusalemme fosse collocata nel
centro del continente abitato. Ora, è noto quanto la fantasia cristiana
sia stata vaga nei primi secoli, e poi nei secoli di mezzo, di collegar
fra loro, col sussidio di varie immaginazioni, più che non avvenisse
nel puro concetto dottrinale, i fatti varii della caduta e della
redenzione del genere umano, e di conferir loro, oltre alla continuità
e unità morale, anche una certa continuità e unità materiale. Si
credeva dai più che Adamo ed Eva, cacciati dal Paradiso, fossero poi
vissuti in luogo prossimo a quello; si credeva che Adamo fosse stato
sepolto sul Calvario; che la croce, fatta del legno dell'albero fatale,
che aveva dato esca al peccato, fosse sorta su quella tomba, e che
il sangue del redentore avesse bagnate le ossa del primo peccatore.
Come non credere allora che l'opera stessa della redenzione si fosse
compiuta nel proprio luogo ov'era stato commesso il peccato, e che in
quel luogo appunto fosse sorta la città santa e predestinata? Dante
pose il Paradiso terrestre agli antipodi di Gerusalemme; ma parecchi
dopo lui, sin oltre il secolo XVI, seguitarono ad aver l'opinione che
il Paradiso fosse stato in Giudea.

Se non che questa credenza, e la precedente, ebbero poco seguito, e
incomparabilmente maggiore l'ebbe l'altra, la quale affermava, non solo
che il Paradiso era stato veramente in terra, ma ancora ch'esso ci si
trovava tuttavia, serbato incolume, nella sua condizion primitiva. Di
ciò vedremo in seguito molte prove.

L'Elisio di Omero, le Isole dei beati di Esiodo, gli Orti delle
Esperidi, mutarono più volte luogo sulla faccia della terra
col mutare dei tempi, e altrettanto può dirsi del Meru indiano,
dell'Hara-berezaiti iranico, del monte su cui, dopo il Diluvio, si
fermò l'Arca ecc. Allo stesso modo mutò luogo il Paradiso terrestre,
salvo che il mutar suo non fu, di regola, come in altri casi avvenne,
effetto di migrazioni; ma fu più spesso effetto di speculazioni e
interpretazioni discordi, e talvolta di alcuno accrescimento del
sapere, o di alcuna scoperta geografica; e, più frequentemente ancora,
della irrequietezza stessa della fantasia, della mobilità della
leggenda. E al mutar suo, almeno in un caso molto importante, non fu
estraneo l'influsso di certi miti dell'antichità, e non furono estranee
le speciali condizioni di vita e di pensiero di alcuni popoli che non
entrarono se non tardi a far parte della grande famiglia cristiana.

La credenza più antica e più diffusa era, come abbiam veduto, quella
che poneva il Paradiso in Oriente; ma di contro ad essa vediam sorgere
una opinione contraria, che pone il Paradiso in Occidente, quando
più a settentrione, quando più a mezzodì. Già sin dal primo secolo
dell'èra volgare, gli Esseni, cedendo, senza dubbio, all'influsso di
miti pagani, ponevano di là dall'Oceano Atlantico il soggiorno dei
beati[41]. I Celti non avevano diversa credenza. Secondo la dottrina
loro, «gli uomini hanno per primo progenitore il dio della morte,
e questo dio abita una regione lontana, di là dall'Oceano; egli ha
sua dimora in quell'_isole estreme_, d'onde, secondo l'insegnamento
dei druidi, era venuta direttamente una parte degli abitanti della
Gallia». — «Secondo le credenze dei Celti, i morti vanno ad abitare
di là dall'oceano, verso Mezzodì, là dove si corica il sole la più
parte dell'anno, in una regione meravigliosa, che vince di gran
lunga, per gioje e seduzioni, questo mondo di qua. Da quel paese
misterioso traggono origine gli uomini»[42]. Queste credenze, hanno,
come si vede, molta somiglianza con quelle dei Greci e dei Romani,
ed è anzi probabile che abbiano esercitato sopra di esse un influsso
non lieve, concorrendo a fare spostare, specialmente verso il
Settentrione, l'isola di Saturno e il regno dei morti. Da altra banda,
le immaginazioni dei Greci e dei Romani non potevano non esercitare
alla lor volta un notabile influsso su quelle dei Celti. Mutata la fede
religiosa, molte delle antiche credenze naturalmente sopravvivevano,
accordandosi, fondendosi con le nuove, e in più varii modi alterandone
il concetto e la natura. Gaeli e Cimri favoleggiavano di un
meraviglioso paese, il quale sorgeva in mezzo all'oceano profondo, e i
cui abitatori, bevendo le acque dolcissime della fontana di gioventù,
non conoscevano nè la vecchiezza, nè i morbi. Un tal paese, nelle
menti dei convertiti, doveva necessariamente identificarsi col Paradiso
terrestre; ed è per questo che San Brandano muove, come vedremo, alla
ricerca del Paradiso navigando per l'Oceano occidentale. Tale credenza
aveva dunque un fondamento pagano, e perciò non è senza ragione che
Isidoro di Siviglia nota di paganità la opinion di coloro che ponevano
il Paradiso nelle Isole Fortunate[43].

Per le ragioni medesime furono talvolta situati in isole remote
dell'Oceano Atlantico il Purgatorio e l'Inferno. Già fra gli antichi
era nata una opinione che poneva in Gallia, o in Brettagna, il regno
dei morti. Plutarco ne fa ricordo, attingendo da un ignoto e più antico
scrittore. Claudiano, narrando certa navigazione oceanica di Ulisse,
già prima narrata da Solino, dice che l'eroe visitò un popolo di ombre
su quella estrema parte della Gallia che si protende nell'Oceano, nè
lascia intendere se alluda propriamente all'ultimo lembo occidentale
dell'Armorica, o alla Cornovaglia insulare (_Cornu Galliae_). Procopio
dà, in forma più compiuta, il racconto di Plutarco, e narra di una
popolazione di marinai, sulle coste settentrionali della Gallia,
officio de' quali era di tragittare di notte tempo le anime de' morti
in Brettagna. Di questa credenza è pur cenno negli scolii di Tzetzes
all'_Alessandra_ o _Cassandra_ di Licofrone, e nel medio evo essa non
era ancora del tutto perduta, perchè se ne trova un curioso ricordo in
un racconto tedesco del secolo XIII[44].

Ho detto che la latitudine del Paradiso occidentale variava, quando
più verso Settentrione, quando più verso Mezzodì. Che le fantasie lo
venissero respingendo talvolta nelle regioni più inospitali del globo,
verso i ghiacci e le nebbie del polo, non deve far troppa meraviglia,
se si pensa che già gli antichi ebbero alcune immaginazioni consimili;
che gl'Iperborei, i quali menavano vita felicissima, furono da essi
cacciati nell'estremo settentrione, di là dai monti Rifei[45]; che
nell'isola Prodesia, vicina a Tule, fu posto l'Elisio; e che tra
gl'Iperborei furono collocati da taluno gli Orti delle Esperidi[46].
Ed è curioso vedere come, nella seconda metà del secolo XI, Adamo
Bremense tramuti sulle rive del Baltico le Amazzoni, i Cinocefali, i
Macrobii, gl'Imantopodi, altri popoli strani e mostri varii, tolti la
più parte all'Asia leggendaria, e i Ciclopi per giunta[47]. Incoraggito
da sì fatti esempii, nel sec. XVI, il famoso Guglielmo Postel, che, fra
molt'altre cose, pretendeva d'essere ringiovanito e risuscitato, asserì
nel suo _Compendium cosmographicum_ che il Paradiso terrestre era sotto
il polo artico.

Ma, di solito, si preferivano latitudini alquanto più basse. A dispetto
d'Isidoro di Siviglia, alcuni seguitarono a credere che il Paradiso
fosse in quelle Isole Fortunate di cui tanto aveva favoleggiato
l'antichità, e dove pure erano stati messi gli Elisii. E a questo
proposito è da ricordare che i geografi arabici chiamarono le isole
che si trovano a occidente dell'Africa con due nomi diversi, Isole
Eterne e Isole della Felicità, e che queste Isole della Felicità pare
fossero le Canarie[48], che poi dovrebbero essere le Fortunate. E
dico _dovrebbero_, perchè nel medio evo ci fu grandissima confusione a
questo riguardo. Così, per citare qualche esempio, una delle carte di
Marin Sanudo (1306) pone a occidente dell'Irlanda nientemeno che 358
isole beate e fortunate, e sulla mappa di Fra Mauro (1457-9) si trovano
le _insule de Hibernia dite Fortunate_. Verso la fine del secolo XV
(1471) Grazioso Benincasa segna ancora due gruppi d'Isole Fortunate,
l'uno a ponente dell'Africa, l'altro a ponente dell'Irlanda[49]. Nel
primo gruppo sembra che ponesse il Paradiso terrestre Cristina di
Pisan, la quale visse sino all'anno 1431[50].

La vicinanza delle Isole Fortunate all'Africa doveva, o prima o poi,
suggerire l'idea che il Paradiso fosse appunto nel continente africano,
tanto più che si credeva da molti, come vedremo, essere il Nilo uno dei
quattro fiumi ricordati dalla Bibbia. Abbiam già veduto che Giovanni
de' Marignolli situava il Paradiso fra la terza India e l'Etiopia:
Lodovico Ariosto, più risoluto, lo pone senz'altro sul monte onde nasce
il Nilo, vicino al paese del Senapo, o Prete Gianni, mutato ancor esso
di luogo, e Giovanni Milton ne segue l'esempio[51]. Più d'uno udrà con
meraviglia che il celebre Livingstone cercava ancora il Paradiso nel
cuore dell'Africa, nella regione dei grandi laghi equatoriali.

Cristoforo Colombo ricorda la opinione di coloro che ponevano in Africa
il Paradiso, ma non vi si acconcia; anzi vuole ch'esso sia nelle nuove
terre da lui scoperte, non molto lungi dall'isola di Trinità e dalla
foce dell'Orenoco[52]. E con lui il Paradiso terrestre, dopo aver fatto
in certo modo il giro del mondo, ritorna in Oriente, giacchè, com'è
noto, il sommo navigatore morì senza sapere d'avere scoperto un nuovo
continente, anzi credendo d'aver raggiunto, navigando a occidente,
le isole e la costa orientale dell'Asia; la qual credenza gli faceva
dire che la terra non è così grande come dai più si crede. Si dovrà,
per la stessa ragione, riportare in Oriente il paradiso dei Gaeli?
Ebbero veramente costoro cognizione della rotondità della terra, come
fu da taluno asserito, e scoprirono essi, insieme con gli Scandinavi,
l'America, più secoli prima che il Colombo nascesse? e in che misura
la scoprirono? Non bisogna esser troppo corrivi nè ad affermare nè
a negare in così fatta materia. Se avessero proprio avuta quella
cognizione, e fatta quella scoperta, l'estremo Occidente, ov'essi tante
meraviglie ponevano, ridiventava, in certo modo, l'estremo Oriente dei
Padri e della più comune credenza. Ma sia di ciò come si voglia, non
è da dimenticare il fatto che parecchie mitologie, oltre alla greca e
alla romana, posero in Occidente paesi di delizie e di beatitudine. In
Occidente sorgeva, secondo gl'Indiani, Kanaka-puri, la Città d'oro; in
Occidente immaginano gli abitatori della Polinesia un'isola paradisiaca
detta Bulotu[53].

Chiudiamo questa ormai lunga rassegna con dire che non vi fu parte
della terra dove non si ponesse il Paradiso. Giorgio Federico Daumer,
nato nel 1800, lo pose in Australia, dove cresce l'albero del pane; il
celebre Giacomo Casanova lo cacciò insieme coi Megamicri, non degeneri
discendenti di Adamo, nell'interno del pianeta[54].

In leggende popolari tuttora vive, il Paradiso è in luogo prossimo a
chi le va rinarrando, nelle Alpi, per esempio, o nel Fichtelgebirge.


NOTE:

[6] Così si esprime il testo ebraico. La Vulgata, invece che _ad
orientem_, dice _a principio_, differenza importante nel fatto della
situazione, com'ebbero ad osservare RABANO MAURO, _Commentaria in
Genesim_ (_Opera_, t. I, col. 476, ap. MIGNE, _Patrologia latina_, t.
CVII), l. I, cap. 12, e altri.

[7] _Antiquitates judaicae_, l. I, cap. I, 3.

[8] _De Spiritu sancto_, c. 27.

[9] Nella _Bibliotheca orientalis_ dell'ASSEMANI, t. III, parte Iª. p.
306.

[10] Pubblicato da C. F. A. DILLMANN, sotto il titolo _Das christliche
Adambuch des Morgenlandes_, Gottinga, 1853: cf. MIGNE, _Dictionnaire
des apocryphes_, Parigi, 1856-8, vol. I, col. 297.

[11] Vedi la mappa di Torino in un codice del secolo XII; la mappa
del Museo Britannico (sec. XIII); quella di Silos; quella contenuta in
un manoscritto del _Polychronicon_ di RANULFO HIGDEN, del secolo XIV;
quella inserita in un manoscritto delle _Croniche di San Dionigi_, dei
tempi di Carlo V di Francia; e altre, riprodotte dal SANTAREM, _Atlas
composé de mappemondes et de cartes_, etc., Parigi, 1842, 1849, e
dallo JOMARD, _Les monuments de la géographie_, Parigi, s. a. V. pure
LELEWEL, _Géographie du moyen âge_, Atlas. Bruxelles, 1850, e DURAZZO,
_Il Paradiso terrestre nelle carte medioevali_, Mantova, 1887.

[12] Sarebbe inutile qui riferirne i nomi. Vedi l'indice dei tre
volumi dell'opera del SANTAREM intitolata _Essai sur l'histoire de
la géographie et de la cosmographie pendant le moyen âge_, Parigi,
1849-52, s. v. _Paradis terrestre_.

[13] _The Voiage and Travaile of sir_ JOHN MAUNDEVILLE, edizione curata
da J. O. Halliwell, Londra, 1839, cap. XXX, p. 303.

[14] _Mirabilia descripta per fratrem_ JORDANUM, _ordinis
praedicatorum, oriundum de Severaco, in India majori episcopum
columbensem, in Recueil de voyages et de mémoires publié par la Société
de géographie_, t. IV, Parigi, 1839, p. 56.

[15] ZURLA, _Il Mappamondo di Fra Mauro Camaldolese descritto ed
illustrato_, Venezia, 1806, p. 73.

[16] RANULPHI HIGDENI _monachi Cestrensis Polychronicon_, edito da
Churchill Babington nei _Rerum Britannicarum medii aevi scriptores_,
vol. I, l. I, cap. 10, pp. 70-2.

[17] WALAFRIDI STRABONIS _Glossa ordinaria, Liber Genesis_, cap. 2
(_Opera_, t. I, col. 86, ap. MIGNE, _Patrologia latina_, t. CXIII);
REMIGII AUTISSIODORENSIS _Comentarius in Genesim_, cap. 2 (_Opera_,
col. 60, ap. MIGNE, _Patr. lat._, t. CXXXI): RHABANI MAURI _Commentaria
in Genesim_ già citati, l. cit.

[18] Cf. una lettera del LETRONNE all'HUMBOLDT nell'opera di questo:
_Examen critique de l'histoire de la géographie du nouveau continent_,
Parigi, 1836-9, vol. III, p. 129.

[19] _Historiae sacrae_ l. I, in principio.

[20] Vedi GESENIUS, _Comentar über den Jesaia_, Lipsia, 1821, vol. II,
p. 525. Il sistema di Cosma presenta anche non poca somiglianza con
quello che espone MACROBIO, _In somnium Scipionis_, II, 5.

[21] Χριστιανικὴ τοπογραφία, l. II, in _Bibliotheca veterum patrum_ del
Galland, t. XI, pp. 414, 418-9.

[22] _De Paradiso_, parte I, cc. 8-9.

[23] _Inferno_, c. XXXIV, vv. 112-7.

[24] Il DE GUBERNATIS, in uno scritto intitolato _Dante e l'India_
(_Giornale della Società asiatica italiana_, vol. III, 1889, pp. 3-19)
sostiene che per Dante il monte del Purgatorio è l'isola di Ceilan; ma
poteva Dante ignorare ciò che tutti sapevano ai suoi tempi, cioè che
l'isola di Ceilan era popolata, non di anime purganti, ma di uomini
d'ossa e di polpe? che da quell'isola venivano spezie in gran copia?
che ad essa approdavano mercatanti e pellegrini in gran numero? Come
avrebbe potuto Dante dire il lido di così fatta isola

                        lito diserto
    Che mai non vide navicar sue acque
    Uomo che di tornar sia poscia esperto?

E come avrebbe potuto chiamar quell'isola un'_isoletta_? (_Purgatorio_,
I, 130-2, 100).

[25] Cf. REINAUD, _Géographie d'Aboulfeda_, vol. I, Parigi 1848,
Introduzione, p. CCCVIII.

[26] Vedi SHEMS ED-DÎN ABU-'ABDALLAH, _Nokhbet eddahr_, ecc., trad, da
A. F. Mehren, Copenaghen, 1874, pp. 171-2.

[27] Una ingegnosa ipotesi sulla origine di essa presso gli antichi
espone il PLOIX, _L'Océan des anciens, Revue archéologique_, nuova
serie, vol. XXXIII (1877).

[28] GIUSEPPE FLAVIO, _Antiq. jud_., I, 1; S. GIOVANNI DAMASCENO, _De
fide orthodoxa_, l. II, cap. 9.

[29] Vedi negli atlanti citati pur ora le seguenti mappe: di Enrico,
canonico di Magonza (sec. XII); quelle inserite in manoscritti del
_Liber Floridus_ di LAMBERTO, canonico di Saint-Omer (sec. XII); quella
inserita in un manoscritto della _Imago mundi_ di ONORIO DI AUTUN (sec.
XII); di Hereford (sec. XIII); di MARIN SANUDO, nel _Chronicon a mundi
creatione ad annum Christi 1320_. Cf. SANTAREM, _Essai_ etc., vol. III,
pp. 477-8, 497; vol. II, pp. 197, 241; vol. III, p. 140.

[30] P. MEYER, _Romania_, vol. XIV, p. 62; PARODI, _I rifacimenti e le
traduzioni italiane dell'Eneide di Virgilio prima del Rinascimento_,
nel fasc. V (1887) degli _Studj di filologia romanza_, pubblicati
dal Monaci, pp. 166-7. Il ms. A, I, 8 della Casanatense contiene il
testo francese. La traduzione italiana, oltre che nel ms. canoniciano
indicato dal Meyer, e nel ms. N. 10 di San Pantaleone _de Urbe_,
conservato nella biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, indicato dal
Parodi, si ha in un altro manoscritto, pure di S. Pantaleone, segnato
col numero 30, e conservato nella medesima biblioteca. In questo si
leggono, come io le ho trascritte, le parole: _è assisa verso Oriente,
nel gran mare che tutto il mondo atornea_, e non come dall'altro codice
le riporta il Parodi: _è assisa verso Oriente nel gran mare atornea_.

[31] Il racconto di Giovanni fu ripubblicato, di su un codice di
Berlino, da F. ZARNCKE, _Der Priester Johannes_, estratto dai volumi
VII e VIII delle Memorie della Società Reale delle scienze in Sassonia,
Lipsia, 1876-9, parte 2ª pp. 162-71. Il passo da me riferito è a p.
170.

[32] Ap. DOBNER, _Monumenta historica Boemiae_, t. II, pp. 89-90. Cf.
DE GUBERNATIS, _Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie Orientali_,
Livorno, 1875, p. 75.

[33] Ap. DOBNER. _Op. cit_., p. 96.

[34] TERTULLIANO, _Apolgeticus_, cap. 46; FILOSTORGIO, ap. NICEFORO,
_Hist. eccles_., l. IX, cap. 19; SAN TOMMASO, _Summa theologica_, II,
2ª, quaest. 165, art. ult.; SAN BONAVENTURA, _Sententiarum_ II, dist.
17. Cf. ALBERTO MAGNO, _De natura locorum_, tratt. I, cap. 6.

[35] MOSÈ BAR-CEFA, _De Paradiso_, parte I, cap. 13.

[36] Vedi UGO DI SAN VITTORE, _Adnotationes in Genesim_, c. 2.

[37] _Ad Autolycum_, l. II, 24; cf. SANT'IPPOLITO, vescovo di Roma, _In
Hexaemeron_.

[38] _Quaestiones hebraicae in Genesim_, cap. 2.

[39] WRIGHT, _St. Patrick's Purgatory; an Essay on the Legends of
Purgatory, Hell, and Paradise_, Londra, 1844, p. 25. Per contro, in un
codice riccardiano (n. 1717, f. 82 r.), quasi ad assicurar meglio la
più comune credenza, si dice: _El paradiso delitiano si è in terra, in
questo mondo, nelle parti d'oriente_, ecc.

[40] _Quaestiones ad Antiochum_, quaest. 47.

[41] GIUSEPPE FLAVIO, _De bello judaico_, l. II, cap. VIII, 11.

[42] D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, _Le cycle mythologique irlandais et la
mythologie celtique_, Parigi, 1884, pp. 26-8.

[43] _Etymologiarum_, l. XIV, cap. 6: cf. RABANO MAURO (De Universo, l.
XII, cap. 5) che qui e altrove copia Isidoro; PIETRO D'AILLY, _Imago
mundi_, c. 41. Vedi BEAUVOIS, _L'Élysée transatlantique et l'Éden
occidental, nella Revue de l'histoire des religions_, tt. VII e VIII
(1883), pp. 273-318, 672-727.

[44] PLUTARCO, frammento di un commentario sopra Esiodo, conservato da
TZETZES, in _Oeuvres de Plutarque_, ediz. Didot, vol. V, pp. 20-21;
SOLINO, _Polyhistor_, XXII, 1; CLAUDIANO, _In Rufinum_, I, vv. 123
sgg.; PROCOPIO, _De bello gothico_, IV, 20; LYCOPHRONIS _chalcidensis
Alexandra_, ediz. di Oxford, 1697, p. 90. Cf. WACKERNAGEL, _Das
Todtenreich in Britannien_, nella _Zeitschrift für deutsches Alterthum_
del HAUPT, vol. VI, pp. 191-2; D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, _Op. cit._,
p. 232. Durante tutto il medio evo l'Irlanda fu creduta paese di
meraviglie, come ne fanno fede la _Topographia Hiberniae_ di GIRALDO
CAMBRENSE, il trattato _De rebus Hiberniae admirandis_ di PATRIZIO,
il già citato _Liber Floridus di_ LAMBERTO, e altri. Jean de Meung,
l'autore della seconda parte del _Roman de la Rose_, tradusse un'opera
che s'intitola in francese _Merveilles d'Irlande_.

[45] Le opinioni degli antichi circa gl'Iperborei sono raccolte
dall'UKERT, _Geographie der Griechen und Römer_, vol. III, parte 2ª,
pp. 393-406.

[46] PRELLER, _Griechische Mythologie_, 2ª ediz., Berlino, 1860-1, vol.
I, p. 442.

[47] _Libellus de situ Daniae_, unito alla sua _Historia
ecclesiastica_, Lugduni Batavorum, 1595, cc. 228 e 232.

[48] Abulfeda le confonde insieme; Ibn-Sayd le distingue, intendendo
probabilmente per Isole Eterne le isole del Capo Verde e per Isole
della Felicità le Canarie. Crf. RENAUD, _Géographie d'Aboulfeda_, già
cit., vol. I, Introduzione, pp. CCXXXIV-CCXXXV.

[49] HUMBOLDT, _Op. cit._, vol. II, p. 159. Degli antichi, alcuni
noveravano sei Isole Fortunate; altri due solamente.

[50] _Le livre du chemin de long estude_, edito da R. Püschel, Berlino
e Parigi, s. a., ma 1881, vv. 1534-56. Che il Paradiso terrestre non
fosse nelle Isole Fortunate prova, con molti argomenti il Tostato,
_Commentaria in Genesim_, cap. XIII, qu. XCI, _Opera omnia_, Venezia
1727 sgg., t. I, p. 219.

[51] _Orlando Furioso_, c. XXXIII, vv. 109-110; _Paradise Lost_, I, IV,
vv. 281-3:

    Paradise under the Aethiop line,
    By Nilus' head, inclosed with shining rock,
    A whole day's journey high.

È difficile dire se fosse il Prete Gianni che si traeva dietro in
Etiopia il Paradiso terrestre, o questo che si traeva dietro quello,
o se ciascuno vi migrasse da sè per proprio conto. Come abbiam già
veduto, e come vedremo anche meglio più innanzi, il meraviglioso
paese del Prete Gianni, o Presto Giovanni, era in istretta relazione
col Paradiso; ma quella opinione intorno al Nilo, e il mistero che
circondava le fonti di esso fiume dovevano agevolare a ogni modo il
trapasso del Paradiso in Africa. Non è facile intendere dove situasse
il Paradiso (sebbene paja non fosse lungi dall'Africa), FRANCESCO
RINUCCINI, il quale nella _Invettiva contro a certi caluniatori di
Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer Giovanni Boccacci_,
dice che per fuggir quella _brigata di garulli_, dopo molto correre
il mondo riparò nel Paradiso terrestre: «di poi per non poter passar
più oltre sotto l'austro pell'oceano, ripasso il principio del Mare
rosso, andando in alto al paradiso terrestre, confinato da l'ocieano
di levante e da l'ocieano australe». L'_Invettiva_ fu pubblicata dal
WESSELOFSKY, _Paradiso degli Alberti_, vol. I, parte 2ª pp. 303-16,
Scelta di curiosità letterarie, disp. LXXXVI^2 (1867).

[52] In una lettera dell'ottobre 1498, egli scrive al re e alla regina
di Spagna: «Yo no hallo, ni jamas he hallado excriptura de Latinos ni
de Griegos que certificadamente diga el sitio en este mundo del Paraiso
terrenal, ni visto en ningun mapamondo, salvo, situado con autoridad
de argumento. Algunos le ponian allí donde son las fuentes del Nilo
en Etiopia; mas otros anduvieron todas estas tierras y no hallaron
conformidad dello en la temperancia del cielo, en la altura hacia el
cielo, porque se pudiese comprender que el era allí... Yo dije lo que
yo hallaba deste emisferio y de la hechura, y creo que si yo pasara
por debajo de la linea equinocial que en llegando allí en esto mas alto
que fallara muy mayor temperancia, y diversidad en las estrellas y en
las aguas, no porque yo crea que allí donde es el altura del extremo
sea navegable ni agua, ni que se pueda subir allá porque creo que allí
es el Paraiso terrenal...». Ap. NAVARRETE, _Viages y descubremientos
de los Españoles desde fines del siglo XV_, Madrid, 1835-9, vol. I, p.
258. Di ciò parlano anche parecchi biografi del Colombo.

[53] MARINER, _Tonga Island_, II, 107-9, citato dal Gerland,
_Altgriechische Märchen in der Odissee_. Magdeburgo, 1869, p. 41. Cf.
WILFORD, _An Essay on the sacred Isles in the West_, nelle _Asiatic
Researches_, vol. XI (1812), p. 91.

[54] Si può chiedere, del resto, se nell'interno del pianeta non lo
pongano anche alcune Visioni e leggende, come, per esempio, la leggenda
del Pozzo di San Patrizio.



CAPITOLO II.

NATURA, CONDIZIONI E MERAVIGLIE DEL PARADISO TERRESTRE.


Nella Genesi non si dice che il Paradiso fosse un monte, o sopra un
monte; ma i quattro fiumi che ne scaturivano lasciano congetturare
quale sia stata a tale riguardo la immaginazione primitiva. Essa non
era certamente disforme da quella che si trova in altri miti affini:
il Meru indiano, l'Alburz iranico, l'Asgard germanico, il Kâf arabico,
sono tutti monti; nè è questo il luogo d'andar ricercando le ragioni di
così fatta immaginazione. Ezechiele pone il giardino dell'Eden sopra
un monte tutto scintillante di gemme[55]. Tale riman poi la credenza
nei primi secoli del cristianesimo e durante tutto il medio evo. Molti
identificarono il monte del Paradiso col monte su cui si fermò l'Arca
di Noè quando cominciarono a scemare le acque del Diluvio; per Dante il
Paradiso è sulla cima del monte del Purgatorio.

Qui ci si offre una particolarità costante nella finzione. Il monte
paradisiaco s'immagina altissimo sopra tutti gli altri monti della
terra; al qual proposito non è da dimenticare che molti popoli, fra'
quali gli Ebrei, attribuirono ai monti più alti un certo carattere di
santità. Il Meru, meravigliosamente descritto nel _Mahâbhârata_ e nei
_Purâni_, si leva tanto sopra le nubi che nemmeno il pensiero vi può
salire. L'Alburz, l'Asgard, sono ancor essi di smisurata altezza. Del
Caucaso dissero gli antichi che attingesse col vertice le stelle, e
dell'Atlante che sorreggesse il cielo. Il Sinai e l'Olimpo si levavano
sopra la regione dei venti[56].

Le opinioni circa l'altitudine del Paradiso sono tutte concordi in
questo, che fanno veramente smisurata la elevatezza del monte, sebbene
poi discordino nei ragguagli. La credenza di alcuni, che il giardino
dell'Eden fosse stato distrutto dalle acque del Diluvio[57], era
contraddetta dalla credenza degl'innumerevoli, i quali pensavano che le
acque punitrici avessero bensì superato tutte l'altre cime della terra,
ma non quella, sopra tutte l'altre innalzata, del monte sacro. Nel
già citato _Combattimento di Adamo_ si legge che le acque del Diluvio
sollevarono l'Arca, sino appiè del giardino, e che quivi si umiliarono
gli elementi sconvolti ed infuriati[58]. Efrem Siro, ed altri assai,
dicono che il Paradiso non fu sommerso dal Diluvio; Merlino, insieme
con altri nove bardi, andò in traccia dell'isola verde che il Diluvio
non aveva potuto sommergere[59].

Nel l. VII delle _Istorie apostoliche_, attribuite ad Abdia, supposto
vescovo di Babilonia, San Matteo, predicando al popolo, afferma il
Paradiso terrestre salir tant'alto da esser vicino al cielo; e Alberto
Magno dice aver trovato in antichissimi libri che Matteo Apostolo fu il
primo a metter fuori la opinione secondo cui il Paradiso attingerebbe
il cerchio della luna[60]. Tale opinione ebbe seguaci parecchi,
fra' quali Rabano Mauro, Valafredo Strabone e Pietro Lombardo; ma fu
combattuta dai più[61]. Mosè Bar-Cefa si contentò di dare al monte del
Paradiso una grande altezza, allegando che senza di ciò non avrebbero
potuto i quattro fiumi passar sotto il mare e scaturir di bel nuovo
nelle nostre regioni[62]; e San Giovanni Damasceno di dire ch'esso è
più sublime di ogni altro luogo che sia in terra[63]. E' pare che Dante
ponesse ben alto il suo Paradiso, se s'ha a giudicare da ciò che nel
c. XXVII del _Purgatorio_ dice delle stelle, le quali sembravangli
più chiare e maggiori; ma vuolsi notare tuttavia che in fatto di
astronomia stellare le nozioni erano molto imperfette a' suoi tempi, e
che appena dei corpi del sistema solare si calcolava, assai falsamente,
la distanza. Al monaco Alberico il Paradiso era parso prossimo al
cielo[64]: in una leggenda italiana di tre monaci che andarono al
Paradiso terrestre, leggenda della quale dovrò parlare a suo luogo,
il monte è alto cento miglia. Il già ricordato Giovanni de' Marignolli
dice che il monte di Ceilan è forse, dopo quello del Paradiso, il più
alto che sia in terra.

Le opinioni circa l'estensione del Paradiso furono molto discordi, e
alcune di esse inconciliabili con la credenza che il Paradiso stesso
formasse la cima di un monte, o uno spianato altissimo. Come abbiam
veduto, credettero alcuni che il Paradiso coprisse in origine tutta
la faccia della terra, o la cingesse tutto intorno; altri pensarono
ch'esso chiudesse ne' suoi confini più regioni assai vaste, in modo
da potere accogliere tutto il genere umano, qualora Adamo non avesse
peccato. Nella leggenda di San Brandano, si dice che costui, e i
compagni suoi camminarono quaranta giorni nell'isola del Paradiso
senza poterne trovare la fine. I rabbini disputarono molto intorno a
questo punto, e alcuni di essi fecero l'Eden parecchie centinaja di
volte più spazioso della terra. Rabbi Giosuè (Jehoshûa), che ci fu e
lo descrisse, vi trovò, fra l'altro, sette case, ciascuna delle quali
era lunga 120000 miglia e larga altrettanto[65]. Per contro affermò
il Tostato che il Paradiso ebbe non più di tre o quattro leghe di
diametro, e circa dodici dì circonferenza.

La credenza più comune fece il Paradiso non troppo esteso, e permise di
cingerlo di un muro, il quale è talvolta di solida materia, e talaltra
di fiamma viva. Il muro solido è, secondo i casi, di cristallo, di
diamante, o d'altra gemma, di bronzo, d'argento, d'oro. Il muro di
fiamma, che probabilmente trae la origine dalla spada fiammeggiante
del cherubino, ricordata nella Genesi, s'incontra assai più spesso.
Già Tertulliano, e poi Lattanzio e San Giovanni Crisostomo, ne fanno
menzione[66]; ma chi ne ribadì la credenza nel medio evo fu Isidoro
di Siviglia, il quale dice che quell'incendio quasi s'alza sino al
cielo; e da esso attinsero, direttamente o indirettamente, Rabano
Mauro, Onorio Augustodunense, Giacomo da Vitry, Rodolfo da Ems, e altri
assai[67]. Nella già ricordata mappa dei tempi di Carlo V di Francia il
muro di fiamme è assai chiaramente indicato, e in pieno secolo XVI lo
descriveva ancora Davide Lindsay nel suo poema intitolato _The dream_.
Tale immaginazione non è, del resto, senza riscontri. Il castello in
cui, secondo la saga raccolta nell'Edda, dorme per decreto di Odino la
valkiria Sigurdrifa, è circonvallato di fiamme; a detta del Mandeville,
l'Arca di Noè, tuttavia esistente sul monte Ararat, è circondata da un
fuoco celeste che non permette altrui di avvicinarsele.

Molto sovente il Paradiso fu immaginato, nel medio evo, non più come un
giardino propriamente, ma come una città chiusa, o come un castello,
cinto di buone mura, fornito di torri e provveduto di porte; e così
si vede rappresentato in molti manoscritti e in parecchie carte[68].
Tale fantasia si lega, senza dubbio, come vedremo più oltre, alla
descrizione che della Gerusalemme celeste si legge nell'Apocalissi[69],
descrizione che diede più di un elemento alle nostre finzioni. Del
resto il Vara, o Paradiso dell'iranico Yima, era anch'esso cinto di
muro e conteneva molti e varii edifizii.

Ma prima di spingerci attraverso quel formidabile muro di fuoco, o di
varcare la soglia di quelle porte, per vedere le meraviglie molteplici
che in sè racchiude il divino luogo, bisogna che noi scorriamo alquanto
il paese dattorno (isole o terra ferma) e vediamo di qual natura esso
sia. Ora, è da notare che queste vicinanze si presentano nella finzione
con caratteri alle volte affatto opposti, quando dilettose e felici,
quando spaventose ed orrende.

L'idea di far precedere al Paradiso una regione che mostrasse in sè
alcuna delle condizioni di quello, e ne ricevesse, in certo qual modo,
il benefico influsso, era un'idea così naturale che non poteva non
sorgere negli spiriti e non riversarsi nella leggenda, sebbene dovesse
contrariarla il racconto dei patimenti a cui erano andati soggetti
Adamo ed Eva dopo la cacciata, durante il loro soggiorno in luoghi
affatto prossimi al giardino di beatitudine. In certo libro di Juniore
Filosofo, libro composto, secondo ebbe ad opinare il Mai, ai tempi
dell'imperatore Costanzo, e conservato in un manoscritto del secolo
X, si parla di un popolo il quale abita nel paese d'Eden, prossimo al
Paradiso, in una condizione di felicità e d'innocenza. Vivono quegli
uomini di pane che piove loro dal cielo, non conoscono le infermità e
campan cent'anni[70]. In parecchie delle leggende che dovrò riferire
più innanzi, coloro che muovono in cerca del Paradiso sono avvertiti
della sua prossimità dalla mitezza dell'aria, dallo splendore del
cielo, dall'amenità dei campi, dal sorriso dell'intera natura. Il paese
del Prete Gianni, situato a poca distanza dal Paradiso, è una specie
di paradiso esso stesso, dove è dolcissimo il clima, e gli animali sono
pieni di mansuetudine, e abbondano piante di gran virtù e di soavissimi
frutti, ed è grandissima copia di oro e di gemme, e scaturiscono
acque le quali serbano l'uomo sempre sano e sempre giovane, e scorrono
persino fiumi di miele e di latte[71].

    Quivi il balsamo nasce; e poca parte
    N'ebbe appo questi mai Gerusalemme.
    Il muschio ch'a noi vien quindi si parte;
    Quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme;
    Vengon le cose in somma da quel canto
    Che nei paesi nostri vaglion tanto[72].

Giovanni di Hese, del quale feci ricordo nel precedente capitolo, parla
di un'isola deliziosa, ove non è mai notte, e che si chiama Radice del
Paradiso: nel romanzo di Ugo d'Alvernia, la terra prossima al Paradiso
è detta Terra di promissione. Terre beate si stendono appiè del Meru e
dell'Hara-berezaiti.

Non di rado l'immaginazione è tutt'altra: appiè del Paradiso si
stende una regione selvaggia, tenebrosa ed orrenda, asserragliata da
monti inaccessibili, piena di serpenti spaventosi e di altri animali
terribili. Giacomo da Vitry afferma che tra la dimora dei primi parenti
e questo _nostro esilio_ è un gran caos, una gran distesa di terre,
popolata da serpenti innumerevoli[73]. Giordano da Sévérac narra che
nella Terza India, ov'è il Paradiso, «sono dragoni in grandissima
quantità, i quali recano sul capo pietre lucenti, dette carbonchi.
Questi animali giacciono sopra arene d'oro, e crescono assai, e mandan
fuori un fiato puzzolente ed infetto, simile a densissimo fumo, quando
si leva dal fuoco. A certi tempi si accolgono insieme e mettono le
ali, e cominciano ad alzarsi per l'aria; ma allora, per voler di Dio,
cadono, essendo di sì gran peso, in un fiume ch'esce dal Paradiso, e
quivi muojono[74].» Di una regione popolata di serpenti è spesso fatto
ricordo in racconti orientali, come, per citarne uno, in quello dei
viaggi di Sindbad, che si legge nelle _Mille e una notte_[75]; e del
Meru è detto che serpenti orribili ne guardano l'accesso. Il Mandeville
e altri parlano della regione inospitale ed asprissima che si frappone
tra il Paradiso e le terre abitate; una regione tenebrosa trovasi già
descritta nelle storie favolose di Alessandro Magno.

Nelle Visioni il Paradiso terrestre è, non di rado, posto in regione
assai prossima all'Inferno o al Purgatorio, di guisa che l'anima
peregrina passa subitamente dai luoghi di tormento, al luogo di
beatitudine. Così nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, nella
Visione di Thurcill, in quella di Frate Alberico, ecc. Il Mandeville
pone una specie d'antinferno in vicinanza del fiume Fison, e l'Ariosto
apre una bocca dell'inferno alle radici del monte su cui è il
Paradiso[76]. Dante fa che il Paradiso coroni il monte del Purgatorio,
e in una specie di prologo che precede una delle redazioni del noto
poema _La vengeance de Jésus-Christ_, contenuto in un manoscritto
della Biblioteca Nazionale di Torino, il Purgatorio è nel fosso da
cui il Paradiso è cinto tutto all'intorno[77]. Così l'Elisio fu,
dagli antichi, immaginato contiguo al Tartaro: Ulisse, Enea, passano
direttamente da questo a quello.

E ora varchiamo il fosso e il muro e penetriamo nel luogo sacro, il
quale, stando a una ragionevole opinione di Marcione, il noto eresiarca
del secondo secolo, fu formato con la più pura parte della terra, e,
secondo Filosseno vescovo di Bagdad (secolo IX) e Mosè Bar-Cefa (secolo
X), di una materia più tenue e più pura, che teneva dello spirituale.
Regna nel beato giardino una perpetua primavera; non mai turbata da
venti e da procelle. Il cielo, che spande sopr'esso un lume sette volte
più chiaro che non sia quello del nostro giorno, ma scompagnato da ogni
fastidiosa caldura, non vi patisce nube alcuna, e mai non lo ingombra
la notte. Nè mai per l'aria dolcissima si riversa grandine o pioggia,
nè mai vi s'ode il pauroso fragore del tuono e l'orrendo schianto
della folgore. Tiene il luogo un'altissima quiete, una pace serena e
sacra, ignote affatto a chi vive quaggiù. Padri e Dottori della Chiesa,
e poeti cristiani dei primi secoli, vanno a gara in descrivere tanta
letizia, e le lor voci raccoglie Dante, quando nel canto ventesimottavo
del Purgatorio descrive

    La divina foresta spessa e viva,

e ricorda _l'aura dolce, senza mutamento_, che ne sommoveva le fronde,
e la perpetua primavera[78]. Anche qui i riscontri abbondano. Il Meru
e l'Hara-berezaiti non conoscono i rigori del verno, nè le tenebre,
nè le nubi, nè intemperie di nessuna sorte. Di tutti gli altri luoghi
di beatitudine fu necessariamente immaginato altrettanto. Veggasi ciò
che Omero ed Esiodo e Platone e Virgilio e tanti altri antichi dicono
del soggiorno dei giusti, o della condizione della terra durante l'età
dell'oro, o del paese degl'iperborei, o di altri così fatti:

    Hic aeterna quies, nulla hic jura procellis[79].

L'isola di Avalon, di cui tanto favoleggiarono nel medio evo i poeti
e i romanzatori del ciclo arturiano, e dove Artù, mortalmente ferito
in battaglia, era, per forza di miracolo, serbato in vita, l'isola di
Avalon godeva gli stessi benefizii del Paradiso terrestre[80].

Che quella stanza del Paradiso dovesse poi essere saluberrima; che i
morbi non vi potessero penetrare, nè vi potesse penetrare la morte,
s'intende di leggieri, ed è cosa in tutto conforme al concetto del
mito biblico. Ma non si creda che essa fosse sola a fruire di così
notabili prerogative. Dell'isola di Pafo fu creduto anticamente che
nessuna infermità vi potesse aver luogo. Nell'isola de' Macrobii, posta
nel mare dell'India, e visitata da Alessandro Magno, l'aria era così
pura, e così sano il clima, che gli uomini vi solevan vivere circa un
secolo e mezzo. Plutarco, rimaneggiando finzioni antichissime, narra
di due isole a ponente della Brettagna, abitate, l'una da uomini di
santa vita, immuni da ogni umana infermità, l'altra da Crono, immerso
in letargo e servito da demonii[81]. Nel l. VIII delle sue _Istorie
Filippiche_, delle quali non sono rimasti se non pochi frammenti,
Teopompo raccontava, conformemente a un'antica leggenda, come il re
Mida fosse riuscito ad ubbriacare Sileno e ad avvincerlo di catene.
Per racquistare la libertà Sileno dovette comunicare al re la sua
scienza, e tra l'altro gli narrò della terra Merope, posta di là
dall'oceano, e dove gli uomini vivono il doppio che altrove, e non
conoscono infermità, e il suolo spontaneamente produce le messi e ogni
altro frutto[82]. Di consimil natura era l'isola di Jambulo, di cui
dà ragguaglio Teodoro Siculo. Anche di luoghi dove non si moriva ce
n'era più d'uno. Giraldo Cambrense parla di due isole, poste in un lago
dell'Irlanda, nella minor delle quali nessuno poteva morire e nessuno
mai era morto, e perciò era detta Isola dei viventi. Chi oppresso dai
morbi, o giunto allo stremo della vecchiezza, desiderava por fine a
una vita divenuta ormai troppo incresciosa, si faceva trasportare
nell'altra isola, e come appena toccava terra, moriva[83]. Queste
isole sono spesso ricordate in leggende celtiche, e veggonsi poste
più di frequente nel mare ibernico. Si legge nel _Perceforest_ che i
principi Dardanon, Gadiffer con la moglie sua, Perceforest e Gallafar
si ritrassero nell'Isola di vita, per potervi aspettare la venuta del
Redentore. Invecchiano oltre modo aspettando, tanto che la vita s'è
fatta loro insopportabile. Avuta la nuova che il Redentore è nato, si
fanno trasportare altrove e muojono in pace[84]. Pietro Comestore parla
di più _isole dei viventi_, ove a nessuno è dato morire, e Gervasio
da Tilbury ne ricorda una, visitata da Alessandro Magno, là nei mari
dell'India[85]. Contrastava con queste un'isola dove non si poteva
nascere[86]. Il Paradiso terrestre, che Dante, acconciamente, disse

    Fatto per proprio dell'umana spece[87],

era immune dalla morte e dai morbi, non solo perchè il santo luogo non
poteva, per sua natura, essere contaminato da nessuna delle miserie
di quaggiù, le quali furono il tristo retaggio della colpa; ma ancora
perchè accoglieva in se stesso, come ora vedremo, più cose le quali
avevano virtù di combatterle e di tenerle lontane.

Degl'infiniti alberi d'ogni specie, che dovevano empiere il giardino
dell'Eden, la Genesi ne nomina più particolarmente due: l'albero della
vita e l'albero della scienza del bene e del male, concesso quello,
vietato questo ai due primi parenti. Il linguaggio del libro sacro è
del resto un po' ambiguo, perchè ora pare vi si parli di due alberi
diversi, e ora di uno solo, il che è da ascrivere certamente alla
imperfetta corrispondenza e alla poca fusione dei due racconti onde il
libro stesso fu composto. Vi è poi anche ricordato il fico, delle cui
foglie Adamo ed Eva copersero la lor nudità. Non parlo del _bedolach_,
intorno alla cui natura fu tanto disputato.

La stretta affinità che gli alberi paradisiaci della vita e della
scienza hanno con alberi meravigliosi di altre mitologie, col soma
degl'indiani, con l'haoma degl'Irani, con l'albero delle tradizioni
caldeo-assire, con l'albero della immortalità, che insieme con altri
alberi meravigliosi sorge nel Kuen-lun dei Cinesi, con quello che,
tutto splendente di poma d'oro, era custodito gelosamente nell'Orto
delle Esperidi, fu notata da un pezzo, nè io intendo di farne qui
particolare discorso[88].

Molto fu immaginato e disputato circa la specie e la natura dei due
alberi della vita e della scienza, e più specialmente del secondo.
Dall'uno o dall'altro si fece derivare, in una leggenda celebre di
cui avrò a parlare in luogo più acconcio, il legno onde fu formata
la croce; e il primo diede argomento anche a un'altra leggenda,
assai strana, ove si narra che mille anni dopo il peccato dei primi
parenti, Dio trapiantò l'albero della vita nell'orto di Abramo; che
una figliuola di Abramo ingravidò respirando il profumo dei fiori
dell'albero, e diede alla luce un fanciullo, il quale si chiamò Fanuel;
e che costui, avendo forbito sulla propria coscia il coltello con cui
aveva tagliato uno dei frutti dell'albero, vide la coscia gonfiarsi e
mettere al mondo, a tempo debito, una bambina che fu Sant'Anna, madre
della Vergine Maria[89].

Nel _Testamento d'Adamo_ Seth domanda che albero fosse quello del cui
frutto mangiarono i suoi genitori, e Adamo risponde che era un fico.
Isidoro Pelusiota, morto circa il 450, dice che, secondo l'antica
opinione, l'albero che condusse a peccare i primi parenti fu un fico,
e un fico si vede talvolta rappresentato nei monumenti della primitiva
arte cristiana[90]. Un fico lo dissero pure alcuni rabbini; ma altri
rabbini, seguiti in ciò dai Bogomili, pensarono che dovesse essere
la vigna (la quale fu, per contro, dai Mandaiti considerata pianta di
vita) oppure il grano[91]. Nel _Libro d'Enoch_, il profeta, seguitando
una sua fantasiosa peregrinazione, giunge al giardino di giustizia, e
vi trova, fra altri alberi, l'albero della scienza, il quale somiglia
al tamarindo, ha i frutti simili a grappoli d'uva, e spande intorno
un profumo balsamico[92]. Secondo una opinione molto diffusa tra i
musulmani il frutto vietato era, come per alcuni rabbini, il grano[93].
Felice Faber afferma che tutti gli Orientali credevano l'albero fatale
essere il musa (banano, fico del Paradiso), e dice che il frutto
mostra, quando è intero, la traccia di un doppio morso, e quando
è tagliato a mo' del rafano, il segno della croce, con una oscura
immagine del crocifisso, in ogni fetta che se ne leva[94]. Felice
scriveva verso la fine del secolo XV; ma molti prima di lui avevano
parlato del musa, e de' suoi frutti, chiamati anche pomi del Paradiso
(_arbor Adae, poma Adae_). Giacomo da Vitry e Giacomo di Maerlant,
nel suo poema _Der naturen bloeme_, e Thietmar, e, in generale, tutti
i peregrinatori di Terra Santa, ne fanno ricordo, notando più di
proposito la particolarità di quel morso, che pareva attestare in modo
irrefragabile l'origine della pianta e la parte da essa avuta negli
umani destini. Burcardo di Monte Sion descrive abbastanza minutamente
la pianta e i suoi frutti, ma nulla dice nè del morso, nè del segno
di croce[95]. Giovanni de' Marignolli per contro sa che delle foglie
del musa, le quali sono assai grandi, si coprirono, dopo il peccato,
i primi parenti, e che tagliando per traverso il frutto si vede in
ciascuna metà l'immagine di un uomo crocifisso[96]. Comunque sia, si
credeva universalmente che il pomo vietato, e gli altri frutti del
Paradiso, fossero di così grato odore e di così squisito sapore da
vincere di gran lunga quanti ne nascono in terra. San Giovanni, Enoch
ed Elia ne dànno alcuni ad Astolfo

    Di tal sapor, ch'a suo giudicio, sanza
    Scusa non sono i duo primi parenti,
    Se per quei fûr sì poco ubbidienti[97].

Ma si sa che il mal desiderato frutto restò nella strozza ad Adamo,
e formò quello che appunto si chiama dal volgo il pomo d'Adamo, e dai
dotti cartilagine tiroidea. Dio, «perciò che l'uomo sapesse che tutte
le schiatte doveano essere colpevoli di questo peccato, fece rimanere
lo nodo che àe la gola», si legge nel _Libro di Sidrach_[98]; e più
esplicitamente nei _Fioretti della Bibbia_: «Et quando Adamo mangiò
del pome, avengnia che buono gli parve al ghusto, sì gli ricordò del
comandamento che iddio gli avea fatto, et puosesi allora la mano alla
ghola, e ristrinse la volontae e fu pentuto, et per questo si dice che
gli uomeni anno uno nodo nella ghola e le femmine no»[99].

Tutti, o quasi tutti coloro che poterono penetrare nel Paradiso
terrestre, videro l'albero che aveva dato materia al peccato, spoglio
delle sue fronde e inaridito. Le leggende che io riferirò nel capitolo
IV cel proveranno. Nel _Combattimento d'Adamo_ è detto che Dio
stesso disseccò, dopo il peccato, la pianta; e disseccata prima, poi
_rinnovellata di novella fronda_, la vide Dante:

    Io sentii mormorare a tutti: Adamo!
      Poi cerchiaro una pianta dispogliata
      Di fiori e d'altra fronda in ciascun ramo[100].

Tale, e ingombra di spine per giunta, e con avvolta al tronco la
scoglia d'un serpente, la descrive Federigo Frezzi:

    Quando trovai un arbor senza fronde
      Ch'era di spoglio d'un serpente avvolto,
      Sì come un'edra che un ramo circonde.
    Lo spoglio avea di forma umana il volto;
      E l'arbore di spine era pien tutto
      Intorno a sè, siccome luogo incolto.
    Ogni altro legno ivi era pien di frutto,
      E di be' fiori e frondi, fresco e bello;
      E questo solo era secco e distrutto;
    E su non vi cantava alcun uccello[101].

Nello strano racconto francese che ho citato poc'anzi si dice che Dio
aveva fatto dono dell'albero della scienza ai demonii, e che Adamo ed
Eva, avendo mangiato del suo frutto, caddero in loro potestà.

Nella leggenda italiana de' tre monaci, della quale ho già fatto
parola, si ricordano quattro alberi meravigliosi di cui andava lieto
il Paradiso: l'albero del bene e del male, l'albero della salute,
del cui legno fu fatta la croce, l'albero della vita e l'albero della
grazia, o della gloria[102]; ma ben più numerose eran le piante che
v'allignavano. Ezechiele ricorda nominatamente i cedri, gli abeti e
i platani, e accenna a molti altri _ligna voluptatis, quae erant in
Paradiso Dei_[103]. Nelle innumerevoli descrizioni che se ne fecero la
selva divina appar sempre densa di alberi, e dove non è selva, è campo
sparso di minori piante, vestito d'erba e smaltato di fiori. I fiori
sono, di solito, questi nostri, la rosa, il giglio, il giacinto, la
viola, salvo che hanno assai più vivi i colori e più soavi i profumi.
Gli alberi, o sono i nostri, con più perfetta natura, come si conviene
al luogo, o son di specie meravigliose, incognite a noi, e sempre in
grandissima quantità. Rabbi Giosuè già ricordato, ne noverava 800,000
specie[104].

Si credeva che le piante aromatiche, le spezie, i balsami, venissero
dal Paradiso terrestre, o da luoghi prossimi al Paradiso terrestre, e
fatti, in certa misura, partecipi della sua condizione. Già Tertulliano
ricorda, a tale proposito, la cannella e l'amomo, e Alcimo Avito
descrive piante che stillano balsami. Arnaldo di Bonneval (m. dopo
il 1156) dice, in una sua entusiastica descrizione, che dalle piante
del Paradiso stillavano resine odorose e balsami d'ogni specie[105];
e il Mandeville fa venir giù dal Paradiso, con la corrente del Nilo
(che diventò, come s'è già notato, uno dei quattro fiumi) l'aloe; e
il Joinville, oltre l'aloe, ne fa venir la cannella, lo zenzevero o
gengiovo, il rabarbaro, i garofani e altre spezie[106]. Ma sino dal
IV secolo, Sant'Atanasio, arcivescovo di Alessandria, aveva detto che
gli aromati vengono dall'Oriente, perchè il Paradiso terrestre, che
appunto è in Oriente, impregna de' suoi olezzi le piante delle regioni
circostanti[107]; opinione seguìta poi dall'Anonimo Ravennate. A quei
fiati del Paradiso accenna Gualtiero di Châtillon, quando, descrivendo
l'Asia, dice:

                           instat ab arcto
    Caucasus, irriguo Paradisus spirat ab ortu[108].

Secondo una leggenda musulmana gli aromati nacquero dalle lacrime di
Adamo, espulso dal Paradiso e caduto nell'isola di Ceilan, mentre dalle
lacrime di Eva nascevano le perle.

Nel Paradiso era pure ogni specie di piante medicinali. Tertulliano,
dopo aver descritte molt'altre cose mirabili che ci si trovavano, dice:

    Et pulcre redolet munus medicabile Cretae[109],

alludendo al dittamo, o a più erbe medicinali, per cui andò famosa un
tempo l'isola di Creta. Nel trattato _Abodath Hakkodesh_ del Talmud è
detto che nel Paradiso terrestre sono tutte le piante medicinali[110];
e Gotofredo da Viterbo fa menzione di certi frutti ch'eran buoni,
sembra, contro tutti i mali:

    Optima per fluvium currentia poma tenentur;
    Infirmis oblata viris medicina tenentur;
    Solus odoratùs sanat odore caput[111].

Piante medicinali coprivano i fianchi del Meru: nell'isola d'Avalon,
qual è descritta nella _Bataille Loquifer_, le pietre della città
guarivano tutti i mali del corpo e dell'anima.

Il Petrarca paragona il suo lauro simbolico agli alberi del Paradiso:

    In un boschetto novo i rami santi
      Fiorian d'un lauro giovenetto e schietto
      Ch'un degli arbor parea di paradiso[112];

ma gli è certo che nel Paradiso ci erano alberi i quali vincevano di
molto in pregio e in virtù quel suo lauro. Onorio d'Autun ne ricorda
di proposito tre, oltre a quello della vita. Chi, a tempo opportuno,
avesse gustato dei frutti del primo, non avrebbe mai più avuto fame;
e chi avesse gustato dei frutti del secondo, sarebbe stato liberato
in perpetuo dalla sete; e chi di quei del terzo, non avrebbe più
conosciuto stanchezza[113]. Vedremo più oltre che nel Paradiso c'erano
pure alberi con le fronde d'oro e d'argento. In un luogo del _Mondo
creato_ Torquato Tasso accenna a _canuta e sacra fama_ appo gli
Ebrei, secondo la quale le piante del Paradiso avrebbero avuto senno
e favella. Da altra banda, nel _Libro d'Enoch_, è ricordato un albero
sempre verde, sempre fiorito, che spande un soavissimo odore, e a cui
non può agguagliarsi nessuno di quelli dell'Eden. I frutti suoi sono
serbati agli eletti dopo il Giudizio[114]. Le piante del Paradiso
non abbisognavano di nessuna coltura; e benchè mai non le bagnasse la
pioggia, serbavansi sempre verdi e fresche, e recavano sullo stesso
ramo il fiore appena sbocciato e il frutto già maturo. Tutti i poeti
concordemente lo affermano[115].

Sia ricordato ancora che il paradiso di Maometto è tutto pieno di
alberi, tra' quali primeggia lo smisuratissimo Thuba, grave sempre di
ogni specie di frutti; che un nuovo albero vi si pianta ogni volta
che un credente dice _Lode a Dio!_ e che secondo una opinione del
Profeta, o a lui attribuita, deriva dal Paradiso il succo del popone,
il quale perciò guarisce settanta specie di mali, e ha tal virtù che un
boccone che se ne mangi equivale a dieci buone opere e cancella dieci
peccati[116]. Alberi erano pure nel Vara, o paradiso dell'iranico Yima.

Nel racconto biblico è fatta parola della fonte che irrigava il
Paradiso, e da cui nascevano i quattro fiumi; ma non è detto che essa
avesse virtù di perpetuare la vita, o di restituire la giovinezza
perduta. Ciò nondimeno, l'idea di porre accanto all'albero della vita
anche una fontana di vita e di gioventù era un'idea così naturale,
tanto consentanea ad una delle fantasie mitiche più diffuse e più
costanti, che non poteva, o prima o poi, non sorgere nello spirito
di qualcuno. A farla sorgere sarebbero bastati i parecchi accenni
che ad una fonte di vita si trovano nelle Sacre Scritture[117];
sarebbe bastato l'esempio dell'autore dell'Apocalissi, che nella
celeste Gerusalemme fa scorrere presso l'albero della vita il fiume
della vita[118]; ma, anche senza di ciò, la fonte meravigliosa
sarebbe scaturita nel luogo di tutte le delizie, e perchè la natura
stessa del luogo pareva richiederla, e perchè essa esisteva già
e non c'era bisogno d'inventarla. Nel paradiso indiano sgorga la
fonte Ganga, da cui nasce il Gange; nell'iranico sgorga la fonte di
vita Ardvî-sûra; nel cinese è un fonte giallo dell'immortalità, il
quale si spartisce in quattro fiumi, o un fiume giallo, che ritorna
alla sua fonte, ed ha la stessa virtù; negli Orti delle Esperidi, o
nell'Elisio, sono i fonti dell'ambrosia, cioè del sacro liquore che
procaccia la immortalità[119]. Una fonte di giovinezza si trova nel
paradiso messicano, e nel gaelico[120], e in quello degli abitanti
dell'arcipelago di Hawai, e in altri. Di uno stagno, le cui acque
hanno virtù di ringiovanire, si parla nel _Satapatha Brâhmana_[121].
La immaginazione riappar frequente in tradizioni di più sorta e in
novelline popolari, alcune delle quali sono senza dubbio assai antiche.
Di una spedizione di Alessandro Magno alla ricerca della miracolosa
fontana si narra nello Pseudo-Callistene, nei poemi di Firdusi e di
Nizâmi[122], in quello di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay,
ecc. Tra le fiabe tedesche pubblicate dai fratelli Grimm, ve n'è una
intitolata _Das Wasser des Lebens_, nella quale si narra di tre giovani
principi, che per ridare la sanità al padre ammalato muovono in cerca
dell'acqua della vita: solo il minore dei tre riesce a trovarla[123].
Questa novella fu narrata anche in latino, ed ebbe corso nel medio
evo[124]; fiabe consimili si trovano nelle letterature popolari
di tutta Europa[125]. Nei racconti orientali la fontana di vita, o
di gioventù, è spesso ricordata[126], e i più dei geografi arabici
la pongono in Oriente[127], e in Oriente la lasciano, di solito, i
racconti occidentali. Il desiderio di Fausto fu desiderio di tutti i
tempi e di tutte le genti.

La fontana di vita e di giovinezza doveva dunque scaturire dal suolo
benedetto del giardino di felicità. Nel _Combattimento d'Adamo_,
l'acqua di che si formano i quattro fiumi sgorga dalle radici
dell'albero della vita[128]. Sant'Agostino racconta nel suo trattato
_De origine animae_ come a Santa Perpetua fosse conceduto di vedere
il proprio fratello, morto di lebbra, «aggirarsi pieno di salute e di
bellezza in una splendente dimora, bevendo acque miracolose entro una
coppa d'oro»[129]. Non dice che acque fossero; ma s'indovina ch'erano
attinte a una fontana di vita: quanto alla dimora splendente, essa
è, senza dubbio, come vedremo più oltre, il Paradiso terrestre. Nelle
leggende medievali concernenti il Paradiso si parla risolutamente di
una vera e propria fontana[130].

In altre leggende questa fontana appar di bel nuovo fuori del Paradiso,
con cui può serbare o non serbar relazione: nel secondo caso nulla
vieta di credere che si ammettessero più fonti diverse; nel primo
la fonte deriva in qualche modo dal Paradiso, o è piuttosto un'acqua
derivata dalla fonte del Paradiso. Di una fonte così derivata si parla
nell'_Huon de Bordeaux_:

    Ens ou vregiet l'amiral est entré;
    Dix ne fist arbre qui péust fruit porter
    Que il n'éust ens el vregiet planté.
    Une fontaine i cort par son canel;
    De paradis vient li rius sans fauser.
    Il n'est nus hom qui de mere soit nés,
    Qui tant soit vieus ne quenus ne mellés,
    Que se il puet el ruis ses mains laver
    Que lues ne soit meschins et bacelers[131].

Nel già citato _Romans d'Alixandre_ di Lambert li Tors e Alessandro
da Bernay la fontana ha la medesima origine, sebbene non troppo se ne
intenda il modo:

      Li fontaine sordait de l'flun de paradis,
    De l'aighe de Deufrate qui départ de Tigris[132].

Nel _Trojanischer Krieg_ di Corrado da Würzburg, Medea usa di un'acqua
venuta dal Paradiso terrestre per far ringiovanire il padre di
Giasone[133]; e dal Paradiso deriva la fonte che guarisce tutti i mali,
della quale si parla nel _Titurel_ di Albrecht[134]. Nell'_Arzigogolo_
del Lasca è ricordata cert'acqua che ha virtù di far ringiovanire e che
un tale andò a cercare nel Paradiso terrestre, sul Caucaso, consumando
nel viaggio gran parte della vita[135]

Ma della fonte si parla pure, come ho detto, indipendentemente dal
Paradiso terrestre. Stefano di Borbone (m. c. 1262) narra, per averlo
udito narrare da altri, il caso di un vecchio, il quale avendo, là
nelle terre d'oltremare, bevuto, senza intenzione, dell'acqua di
certa fonte, tornò subito giovane, ma dopo non potè ritrovar mai
più il luogo ov'essa scaturiva[136]. Il Mandeville, che tante cose
vide, vide anche questa. Egli dice che la fontana miracolosa sgorga
alle falde di un monte, vicino alla città di Polambe; che ha odore
e sapore di tutte spezie, e muta l'uno e l'altro a ciascun'ora del
giorno. Chi, a digiuno, beve tre volte di quell'acqua guarisce d'ogni
male; e gli abitanti di quelle terre vicine, i quali spesso ne usano,
vanno esenti da malattie e pajono sempre giovani. Il viaggiatore volle
berne ancor egli e credette di sentirsi tutto ringagliardito[137].
Nel _Phisiologus_ di Teobaldo (sec. XI), nei _Bestiarii_ di Filippo
di Thaun (sec. XII) e del chierico Guglielmo (sec. XIII), e altrove,
è riferita una credenza secondo la quale l'aquila, quando è vecchia,
sale verso il sole, e ne' suoi raggi quasi s'abbrucia, poi va in
Oriente, s'immerge nell'acqua di certa fontana, e insieme con la
giovinezza racquista il vigore perduto[138]. Questa fontana benedetta
fu anche fatta sgorgare nel Paese di Cuccagna e nel paese del Prete
Gianni. Nella lettera a Emanuele, imperatore d'Oriente, lettera che
andò soggetta a tante interpolazioni, il Prete Gianni dice che in un
suo palazzo, il quale vince di magnificenza tutti gli altri palazzi
del mondo, «scaturisce un fonte che non ha l'eguale per fragranza e
per sapore, e che non esce da quelle mura, ma corre da uno a un altro
angolo del palazzo, e scende sotterra, e correndo quivi in contraria
direzione, ritorna là d'onde è nato, a quella guisa che torna il sole
da Oriente a Occidente. L'acqua ha il sapore di quella cosa che colui
che la gusta può desiderare di mangiare o di bere, ed empie di tanta
fragranza il palazzo come se ci si manipolassero tutte le sorta di
balsami, di aromi e di unguenti». Chi la beve con certo modo e regola
campa più di trecent'anni, serbandosi sempre in età giovanissima[139].

In pieno secolo XVI la fontana di vita o di giovinezza[140] faceva
ancora sognare più d'uno. Luca Cranach si contentava di torla
a soggetto di un suo dipinto, e Giovanni Sachs di una poetica
fantasia; ma Ponce de Leon, lo scopritore della Florida (1512), mosse
appositamente con due navi per cercarla nell'isola di Bimini, dove
credeva ch'essa scaturisse[141]. Altri pure ebbe sì fatti sogni, e
trovò, sembra, chi lo mise in canzone[142].

La fantasia degli uomini del medio evo non si appagò del resto
della fontana di vita o di giovinezza, ma più altre cose venne
immaginando provvedute di quelle stesse virtù. In molti racconti
si parla di un'erba che ridà la vita[143]. Nella continuazione
dell'_Huon de Bordeaux_ si parla di pomi del Paradiso terrestre che
fanno ringiovanire; e Ugone ne dà a mangiare anche al sultano di
Tauride[144]. Gervasio da Tilbury dice che i frutti degli Alberi della
Luna e del Sole, alberi che diedero responso ad Alessandro Magno,
facevano vivere quei sacerdoti quattrocent'anni[145]; e Uggieri il
Danese ebbe a mangiarne. Del Santo Graal fu detto che avesse, tra le
altre virtù, anche quella di ringiovanire i vecchi e risuscitare la
Fenice[146]; e del pastorale di San Patrizio la leggenda narra che
conservava la gioventù e la bellezza. Virtù consimili furono attribuite
a molte altre cose. L'anello che Morgana dà ad Uggieri il Danese lo
restituisce e lo serba in età di trent'anni, sebbene egli ne abbia
più di cento: il cavallo bianco del re Thiermana-Oge, nel paese di
gioventù, ha, secondo la leggenda irlandese, tal qualità, che chi vi
monta su racquista immediatamente la più florida giovinezza, ma, come
ne smonta, subito la perde[147].

La fontana, di cui ho parlato, mi conduce ora, naturalmente, a dire
dei fiumi. La Scrittura ne ricorda quattro, tanti quanti ne venivan
dal Meru. La fonte da cui traggono l'origine, sia essa, o non sia, la
fonte di vita o di giovinezza, è spesso descritta come ridondante di
acque, dalle quali i quattro fiumi prendono nascimento[148]. A far
immaginare tanta copia di acque nel Paradiso deve aver contribuito,
oltre i precedenti mitici normali, la scarsità di cui se ne pativa
in Palestina, e che doveva di molto accrescerne il pregio agli occhi
degli Ebrei: in fatti sono frequenti nei profeti le lodi dell'acqua
fresca[149]; e anche nel paradiso di Maometto sono acque in gran copia.
Il Mandeville dice che a cagione delle grandi acque le quali vengono
dal Paradiso tutta l'India è come spartita in isole. Precipitando
dal monte altissimo, su cui fiorisce il giardino, nella sottostante
pianura, le acque levano un così terribil fragore che le genti di
quelle terre vicine son fatte sorde, anzi nascono sorde[150].

Già dentro al Paradiso, oppur fuori di esso, da un lago che il fonte
formava, nascevano i quattro fiumi, Fison, Gihon, Tigri (Hiddekel) ed
Eufrate[151], i quali ridussero alla disperazione quanti cercarono di
conciliare ciò che se ne dice nella Genesi con una realtà geografica
qualsiasi. Circa gli ultimi due non vi fu dubbio, generalmente
parlando; ma circa i due primi le opinioni furono infinite, e chi
volesse raccogliere tutte quelle che si trovano sparse negli scrittori
ecclesiastici e non ecclesiastici potrebbe formare un volume che
riuscirebbe di mole non picciola e di assai maggiore fastidio[152].
Basti dire che non vi fu fiume di qualche importanza il quale non
siasi fatto venire dal Paradiso. L'antica, diffusa e comoda dottrina
del corso sotterraneo, e anche sottomarino dei fiumi, permetteva, a
tale riguardo, e rendeva inconfutabile qualsiasi più arrischiata e
più strana opinione[153]; e la confusione, solita a farsi, dell'India
con l'Etiopia agevolava le più chimeriche fantasie. Ne ricorderò solo
qualcuna.

Che uno dei quattro fiumi, e propriamente il Gihon, fosse il Nilo è
credenza antica. Già Giuseppe Flavio, certamente non primo, asseriva
che il Gange, l'Eufrate, il Tigri e il Nilo derivano dal fiume
paradisiaco che cinge tutto intorno la terra[154]. Nel medio evo
quella credenza fu molto comune e sarebbe lungo ed ozioso recarne le
testimonianze: la confusione, pur ora notata, fra l'India e l'Etiopia
doveva favorirla e la favorì nel fatto[155]. Secondo gli autori del
_Bundehesh_ e dell'_Avesta_, risalendo l'Indo e il Nilo si giungeva
all'Hara-berezaiti. Altri, per ragioni facili a intendere, fece
venire dal Paradiso il Giordano[156]; e altri, non si sa perchè, il
Danubio[157]. Federigo Frezzi, per non far torto a nessuno, fa venire
dal Paradiso, oltre i quattro fiumi biblici, anche il Danubio, il Po,
il Reno, il Tanai[158].

Ma al Paradiso i soli fiumi d'acqua non potevano bastare, e Tertulliano
vi fa scorrere i rivi di latte. Più di un rabbino parla di fiumi di
latte, d'olio, di vino, di balsamo[159]; e Maometto se ne ricorda
descrivendo il luogo di beatitudine serbato a' suoi seguaci[160].
Cosa ben più strana, vi scorreva anche un fiume di pietre preziose.
Veramente, da prima, si parla di uno o più fiumi che, venendo dal
Paradiso, trascinano con sè grande quantità d'oro, d'argento e di
gemme. Nel già citato libro di Juniore Filosofo è detto che quelle
genti, le quali abitano in prossimità del Paradiso terrestre,
raccolgono con reti le gemme che seco mena un fiume[161]. Per Brunetto
Latini questo fiume è l'Eufrate[162]; ma secondo Giordano da Sévérac
le gemme abbondano in tutti e quattro i fiumi[163]. I fiumi del
paradiso di Maometto hanno le rive d'oro, il letto pieno di rubini e
di perle, scorrono fra montagne di muschio; e nella paradisiaca dimora
di Quetzalcoatl, quale la immaginarono gli Aztechi, sono in copia,
fra molte altre cose meravigliose, le gemme e i metalli preziosi.
Nella ricordata lettera del Prete Gianni all'imperatore Emanuele si
discorre di un fiume, chiamato Idono, il quale, venendo dal Paradiso,
mena con sè gran quantità di smeraldi, di zaffiri, di carbonchi, di
topazii, di crisoliti e di altre pietre preziose[164]; e si discorre
di un altro fiume, il quale passa sotterra, menando similmente con sè
grandissima copia di gemme. Di questo secondo fiume, che dà occasione a
una delle avventure di Sindbad il Navigatore nelle _Mille e una Notte_,
non è detto che venga dal Paradiso[165]. Un piccolo sforzo ancora e
si avrà il fiume di sole gemme immaginato da Giovanni d'Outremeuse
(secolo XIV), fiume che sbocca nel mar dell'arena[166]; nè quello
era uno sforzo difficile a fare, giacchè di un fiume di sassi e di
un mare d'arena, che si vedevano in Asia, parecchi avevan narrato le
meraviglie[167].

Era naturale che nel Paradiso terrestre si ponessero tutte le ricchezze
e tutti gli splendori: l'oro, l'argento e le gemme vi dovevano essere
in abbondanza. Un passo di Ezechiele mostra sì fatta tendenza in
modo assai spiccato[168]; il monte Meru, secondo una delle molte
immaginazioni cui porse argomento, aveva quattro lati, l'uno d'oro,
l'altro di cristallo, il terzo d'argento e il quarto di zaffiro.
Nell'Elisio descritto da Platone gli alberi recano gemme, come nel
paradiso di Maometto; e nella Gerusalemme celeste descritta dall'autore
dell'Apocalissi, abbondano le pietre e i metalli preziosi. Delle molte
gemme che sono nel Paradiso terrestre Tertulliano ricorda il prasio,
il carbonchio, lo smeraldo, e Alcimo Avito afferma che quelle che noi
chiamiamo gemme sono i sassi di colà. Sebbene il Mandeville dica che
non si può sapere di che cosa sia formato il muro del Paradiso, tanto
lo velano agli altrui sguardi il musco e l'edera, pure molti sapevano
ch'esso era di materia preziosissima e tutto tempestato di gemme[169].
Secondo qualche rabbino, tutto il Paradiso era selciato di pietre
preziose e di perle. Si sapeva inoltre che Adamo, uscendo dal giardino,
aveva potuto recar con sè l'oro, l'incenso e la mirra che dovevano
poi, dai Re Magi, essere offerti al bambino redentore, e deporli,
insieme con altre ricchezze, in una caverna, detta, per ciò appunto,
la Caverna dei Tesori[170]. Se si pensa alle virtù meravigliose, che
già nell'antichità, e poi, durante tutto il medio evo, si attribuirono
alle gemme, virtù di cui si discorre largamente nei _Lapidarii_, e al
significato simbolico che si soleva dar loro, non parrà strano che di
gemme si volessero pieni il Paradiso e le sue acque[171].

Il Meru, quale è descritto nel Mahâbhârata, è coperto d'oro, e aureo è
detto nei Purâni. Aureo meriterebbe d'essere chiamato anche il Paradiso
terrestre. Il muro che lo serra è, talvolta, tutto d'oro, e d'oro sono
i palazzi e le chiese ch'esso contiene. Un soldato di cui San Gregorio
narra la visione, passa un fetido fiume, e giunge a prati fioriti, dove
si stan costruendo, di mattoni d'oro, mirabili case[172]. Note sono
le relazioni mitiche dell'oro con la luce, col sole, con la felicità.
Una città d'oro, stanza di beatitudine, sognarono gl'indiani; la
Gerusalemme celeste sfolgora d'oro; i palazzi del paradiso di Maometto
sono costruiti d'oro, di perle, di smeraldi e di rubini. El Dorado
chiamarono gli Spagnuoli la nuova terra di promissione[173].

Con tali condizioni di luogo e di clima quali abbiamo vedute, con tanto
rigoglio di vegetazione soprammirabile, con tanto splendore di metalli
preziosi e di gemme, il Paradiso terrestre doveva essere di tale
bellezza e magnificenza da vincere ogni più ardita e fervida fantasia.
Ma ciò appunto doveva stimolare e far vie più intenso il desiderio di
rappresentarselo e colorirselo nella mente, di descriverlo con parole.
Chi sa quante anime innamorate di solitarii e di reclusi lo sognarono
nelle ore di estatica contemplazione, credettero d'intravvederne
gl'immortali splendori nello spettacolo d'un tramonto pomposo! I primi
poeti cristiani, che presero a sparger di fiori la nuda terra del
Golgota e a lumeggiare l'austera speranza sorta novamente negli animi,
andarono a gara in narrarne le divine delizie. Bisognava che gli uomini
conoscessero ciò che avevano perduto per poter meglio intendere il
pregio di ciò che il sangue di Cristo aveva loro ridato. Tertulliano,
Proba Falconia, Prudenzio, Draconzio, Mario Vittore, Alcimo Avito, ci
lasciarono tutti descrizioni calde di entusiasmo e non prive di merito,
le quali hanno questo carattere comune, che tutte traggono elementi,
colori ed immagini dalle descrizioni che i poeti gentili avevan fatte,
degli Elisii[174]. Nè questo poteva sembrare ai poeti cristiani un
procedimento illegittimo, giacchè essi credevano che il mito degli
Elisii altro non fosse se non una ricordanza e come dire un riflesso
alterato del racconto biblico[175]. E fu appunto la gran somiglianza
di sì fatte descrizioni quella che permise di attribuire a Lattanzio
il noto poemetto _De Phoenice_, il quale, non solo non è di lui, ma
non è, forse, nemmeno di autore cristiano, e in cui si descrive, non
già, come fu creduto, il Paradiso terrestre, ma il Bosco del Sole[176].
Proba Falconia formava la descrizion sua, e tutto il compendio del
Vecchio e del Nuovo Testamento di cui quella descrizione è parte, con
versi tolti a Virgilio. Mario Vittore chiamava il Paradiso col nome di
Tempe, e sebbene in certa _Epistola de perversis suae aetatis moribus
ad Salmonem abbatem_ rimproverasse, più specialmente alle donne, di
posporre Salomone e Paolo a Virgilio, ad Ovidio, ad Orazio, a Terenzio,
i suoi versi sono tutti pieni di reminiscenze classiche. L'autore
di un _metrum in Genesim_ (forse Ilario d'Arles, ancor egli, come
Mario Vittore, del V secolo), prendeva a modello il primo libro delle
_Metamorfosi_[177], e Sidonio Apollinare, cristiano, descriveva gli
Orti del Sole con quelle parole medesime che si usavano a descrivere il
Paradiso terrestre[178].

Le descrizioni del Paradiso terrestre si possono dire innumerevoli, e
vanno moltiplicando dai primi tempi del cristianesimo, attraverso il
medio evo, sino ai giorni nostri, e sono in verso e in prosa, e sono
in tutte le lingue. Compajono com'è naturale, nei Commentarii alla
Genesi, negli _Hexaemera_, nelle Bibbie versificate e istoriate, in
molti trattati teologici; compajono in trattati scientifici, varii di
natura e di forma; compajono in cronache, in Visioni, in leggende;
compajono in poemi d'ogni sorta[179]. I rabbini gareggiano in così
fatte descrizioni coi dottori e coi poeti cristiani, e di gran lunga
li vincono quanto a stranezza e audacia d'immaginazioni[180]; e tra'
cristiani v'è chi non si contenta delle descrizioni fatte da uomini, ma
altre ne pone in bocca a Dio stesso e agli stessi demonii[181].

Molte di quelle descrizioni sono documenti assai notabili del carattere
che venne assumendo nei primi secoli del cristianesimo e nel medio
evo il sentimento della natura[182]. La natura vi è idealizzata
conformemente a una immaginazione di bellezza e di giocondità
sovrammondana, che il Frezzi rese non infelicemente in tre versi:

    Rallegra tutto il cor quel paradiso:
      Ivi ogni cosa intorno m'assembrava
      Un'allegrezza di giocondo riso.

Il Paradiso terrestre diventava un prototipo di bellezza, e suscitava
altre immaginazioni affini, e di esso si ricordavano quanti poeti
prendevano a descrivere luoghi di delizie e di felicità. Isole e
giardini d'incantevol bellezza abbondano nei poemi cavallereschi,
nei romanzi di avventura, e hanno col Paradiso terrestre anche
questa somiglianza, che rinchiudono un principio malvagio, una
causa di scadimento e di perversione, come i giardini di Alcina e di
Armida[183]. Il paese delle fate, o _pays de faërie_, o semplicemente
_Faërie_, spesso descritto nei romanzi francesi, ha col Paradiso
terrestre moltissima somiglianza, e così l'hanno il regno sotterraneo
di Venere nella leggenda tedesca, e quello della Sibilla nella leggenda
italiana[184].

E a somiglianza del Paradiso terrestre fu immaginato il Paradiso
celeste, come già prova la Gerusalemme celeste dell'Apocalisse, e
come si può vedere negli scritti di parecchi Padri. Tale somiglianza
è spiccatissima in un _Rhythmus de gloria et gaudiis Paradisi_,
falsamente attribuito a Sant'Agostino, ma certamente assai antico[185].
San Pier Damiano pone nel Paradiso celeste prati fioriti, odori soavi,
musiche meravigliose[186]. Leggendo certa poesia latina pubblicata dal
Böhmer, non s'intende di qual Paradiso il poeta voglia parlare, fino
a che, a togliere il dubbio, non appajono il trono dell'Eterno, e i
cori dei santi e degli angeli che gli stanno d'intorno[187]. Talvolta
il Paradiso terrestre e il celeste sono fusi insieme e ne formano un
solo[188].

Tali, quali abbiamo vedute, erano le bellezze e le meraviglie di quello
che gl'Italiani chiamarono dolcemente il Paradiso deliziano[189]:
vediamo ora quali ne fossero, o ne fossero stati, gli abitatori.


NOTE:

[55] XXVIII, 13-16.

[56] Dell'Olimpo dice CLAUDIANO:

                        Altus Olympo
    Vertex, qui spatio ventos hiemesque relinquit.

E LUCANO del Parnaso:

    Hoc solum fluctu terras mergente cacumen
    Eminuit, Pontoque fecit discrimen et astris.

PLATONE, nel _Fedone_, parla di un luogo amenissimo posto sopra quella
regione dell'aria ove si formano le meteore. Intorno al monte Kâf
degli Arabi, vedi D'HERBELOT, _Bibliothèque orientale_, s. vv. _Caf_ e
_Schirin_, e J. LASSEN RASMUSSEN, _De monte Caf_, Hauniae, 1811.

[57] Secondo una leggenda dei Bogomili la vite fu portata fuori del
Paradiso terrestre dalle acque del Diluvio. WESSELOFSKY, _Altslavische
Kreuz- und Rebensagen, Russische Revue_, vol. XIII, p. 134.

[58] Ediz. cit., col. 362.

[59] DE LA VILLEMARQUÉ, _Myrdhinn, ou l'enchanteur Merlin_, Parigi,
1862, p. 25.

[60] ALBERTO MAGNO, _Summa theologiae_, parte II, tract. 13, qu. 79:
cf. FABRICIO, _Codex apocryphus Novi Testamenti_, edizione di Amburgo,
1719-43, parte II, p. 645.

[61] Vedi REISCH, _Margarita philosophica_, ediz. di Basilea, 1535, p.
608; TOSTATO, _Commentaria in Genesim_, cap. I, qu. 9; cap. XIII, qq.
100-6; HOPKINSON, _Fasciculus secundus opusculorum quae ad historiam et
philologiam sacram spectant; Sinopsis Paradisi_, Rotterdam, 1693, pp.
11-12.

[62] _Op. cit._, parte I, cap. 9.

[63] _De fide orthodoxa_, l. II, cap. 11.

[64] Visione del monaco Alberico, nella edizione della _Divina
Commedia_ fatta in Padova, l'anno 1822, vol. V, p. 319.

[65] BARTOLOCCI, _Bibliotheca magna rabbinica_, Roma, 1675-94, parte
II, p. 161, col. 2: EISENMENGER, _Entdecktes Judenthum_, Königsberg,
1711, vol. I, p. 871.

[66] TERTULLIANO, _De anima_, cap. 55; LATTANZIO, _De origine erroris_,
cap. 12; SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, _Homilia de divite_.

[67] ISIDORO DI SIVIGLIA, _Etymol._, l. XIV, c. 3; RABANO MAURO, _De
Universo_, l. XII, cap. 3; ONORIO AUGUSTODUNENSE, _De imagine mundi_,
l. I, cap. 8; GIACOMO DI VITRY, _Historia hierosolimitana abbreviata_,
l. I, cap. 85, ap. BONGARS, _Gesta dei per Francos_, t. I, p. 1100;
RODOLFO D'EMS, ap. DOBERENTZ, _Die Erd- und Völkerkunde in der
Weltchronik des Rudolf von Hohen-Ems_, nella _Zeitschrift für deutsche
Philologie_, vol. XIII, p. 172. Ciò che Isidoro dice del Paradiso
è anche ripetuto, quasi con le stesse parole, in un trattatello
cosmografico latino, di non molto a lui posteriore. Quivi, parlandosi
dell'Asia, si dice:

    Habet primum paradysi hortorum delicias,
    Omne genere pomorum circumseptus graminat.
    Habet etiamque vitae lignum inter midium.

    Non est aestas neque frigus sincera temperies.
    Fons manat inde perennis fluitque in rivolis;
    Post peccatum interclusus est primevi hominis.

    Circumseptus est undique rompheaque ignea,
    Ita pene usque celum iungitque incendia;
    Angelorum est vallatus cherubyn praesidia.

PERTZ, _Ueber eine fränkische Cosmographie des VII. Jahrhunderts,
Abhandl. d. k. Akad. d. Wiss. zu Berlin_, 1845, p. 264. Il muro di
fiamme è ricordato anche nel _Libro di Sidrach_ (testo italiano,
Bologna, 1868, p. 48).

[68] Nella mappa di Giovanni Leardo, del 1448, il Paradiso è figurato
come una piazza di città, con una colonna nel mezzo; in quella di Fra
Mauro esso è figurato a parte come un giardino circolare, cinto da un
muro merlato, con quattro torri.

[69] Cap. 21.

[70] _Auctores classici e vaticanis codicibus editi_, Roma, 1828-38, t.
III pp. 389-91.

[71] Intorno al Prete Gianni, o Pretejanni, o Presto Giovanni, vedi
OPPERT, _Der Presbyter Johannes in Sage und Geschichte_, Berlino,
1864; BRUNET, _La légende du Prêtre Jean_, Bordeaux, 1877 (estratto
dagli _Actes de l'Académie des Sciences, Belles-Lettres et Arts de
Bordeaux_); ZARNCKE, _Op. cit._ Vedi pure GHINZONI, _Un'ambasciata del
Prete Gianni a Roma nel 1481, Archivio storico lombardo_, vol. XVI. In
sul cominciare del secolo XVI, o poco prima, Giuliano Dati, fiorentino,
compose un poemetto in ottava rima intitolato _La magnificenza del
Prete Janni_ (pubblicato nel _Propugnatore_, t. IX, parte I, p. 141
sgg.). Da un passo della nov. 9ª, giorn. IX, del _Decamerone_, e da
luoghi di altre scritture si vede che il Prete Gianni e le meraviglie
del suo paese erano in Italia passati in proverbio nel Trecento.

[72] ARIOSTO, _Orlando Furioso_, c. XXXIII, st. 105.

[73] _Op. e l. cit._

[74] _Op. cit._, p. 55.

[75] Cf. più particolarmente _Die beiden Sindbad, oder Reiseabenteuer
Sindbad des Seefahrers. Aus dem Arabischen uebersetzt und mit
erklärenden Anmerkungen nebst sprachlichen Beilagen von_ J. G. H.
REINSCH, Breslavia, 1836. ISIDORO DI SIVIGLIA (_Etymol._, l. XIX, c.
3), e RABANO MAURO (_De Univ._, l. XII, c. 4) parlano degli smisurati
serpenti e dei grifoni che impedivano l'accesso ai Monti Aurei, in
India.

[76] _Orl. Fur._, c. XXXIII, st. 127.

[77] Vedi il passo riportato dal COMPARETTI, _Virgilio nel medio evo_,
Livorno, 1872, p. 202.

[78] Solino dice a Fazio degli Uberti, parlando del Paradiso, nel l. I,
cap. 11 del _Dittamondo_:

    E questo è un monte ignoto a tutta gente,
      Alto che giunge sino al primo cielo,
      Onde il puro aere il suo bel grembo sente.
    Quivi non è giammai freddo nè gelo.
      Quivi non per fortuna onor si spera,
      Quivi non pioggia, o di nuvola è velo.
    Quivi è l'arbor di vita, e primavera
      Sempre con gigli, con rose e con fiori,
      Adorno e pien d'una e d'altra riviera.

[79] STAZIO, _Sylvae_, III.

[80] L'isola di Avalon, che diventò un paese meraviglioso e mitico,
è veramente un'isola, posta nel letto di un fiume, nella contea di
Somerset. Fu creduta prima sede del cristianesimo in Inghilterra,
introdottovi, secondo la leggenda, dai discepoli dell'apostolo Filippo,
o da Giuseppe d'Arimatea. Intorno all'isola, trasformata dalla poetica
fantasia in un paradiso, vedi USSERIUS, _Britannicarum ecclesiarum
antiquitates_, ediz. 2ª, Londra, 1687, pp. 7-17, 61, e SAN-MARTE,
_Gottfried's von Monmouth Historia regum Britanniae_, Halle, 1854,
p. 417 sgg., dove sono riferite le descrizioni dello Pseudo-Gilda e
dell'autore della _Vita Merlini_. Vedi pure le descrizioni che si hanno
nel poema _La bataille Loquifer_, e in una delle rame dell'_Ogier_ (Cf.
_Histoire littéraire de la France_, t. XXII, p. 536). Un poeta inglese
moderno fa che il re Artù descriva egli stesso l'isola incantata,

    Where falls not hail, nor rain, nor any snow,
    Nor sea-wind blows loudly; but it lies,
    Deap-meadowed, happy, fair, with orchard lawns,
    And breezy hollows crowned with summer sea.

[81] _De oraculorum defectu_, 18; _De facie in orbe lunae_, 26 sgg.

[82] Tutto ciò si rileva da un breve estratto di ELIANO, _Variarum
historiarum_ III, 18.

[83] _Topographia Hiberniae_, dist. II, cap. 4, ap. _Camden_, _Anglica
Hibernica_, etc., Francoforte, 1602-3, p. 716. Di tali isole fanno
ricordo parecchi, tra gli altri MATTEO QUAD, nell'_Enchiridium
cosmographicum_, 2ª ediz., Colonia, 1604, parte I, cap. 3, _De
Hibernia_. Nella _Nouvelle fabrique des excellens traits de vérité_, di
FILIPPO D'ALCRIPE, Parigi, 1853 (_Du naturel d'aucun pays_), p. 86, in
luogo dell'Ibernia si ha, per errore, l'Iberia.

[84] Edizione di Parigi, 1532, l. VI, cap. 66.

[85] GERVASIO DI TILBURY, _Otia imperialia_, dec. I, cap. 14, negli
estratti datine dal Liebrecht, Hannover, 1856, p. 4. Vedi per altri
riscontri ivi stesso, p. 62-3.

[86] RANULFO HIGDEN, _Op. cit._, l. 1, cap. 35.

[87] _Parad._, I, 57.

[88] Vedi SPIEGEL, _Erânische Altherthumskunde_, Lipsia, 1871, vol.
I, p. 464; WINDISCHMANN, _Zoroastrische Studien_, Berlino, 1863, pp.
165-77; LENORMANT, _Les origines de l'histoire, d'après la Bible et
les traditions des peuples orientaux_, Orléans, 1880-4, vol. I. pp.
76, 81-2, 90-1, 93-4. La tradizione iranica talora reca un albero
solo, uscente dal mezzo della fontana Ardvî-sûra, nell'Airyâna-vaêgiah,
talora due. L'albero della vita e l'albero della scienza si confondono
nell'albero del Budda. (Cf. DE GUBERNATIS, _La mythologie des plantes_,
Parigi, 1878-82, vol. I, pp. 79 sgg.). Le poma d'oro dell'Orto delle
Esperidi sono di una specie con quelle del mito settentrionale d'Iduna.
(Cf. PRELLER, _Griechische Mytologie_, 2ª ediz. Berlino, 1860-1,
vol. I, p. 438; RASZMANN, _Die deutsche Heldensage und ihre Heimat_,
Annover, 1857-8, vol. I, p. 55). Un albero di vita compare con molta
frequenza nelle tradizioni popolari dei Tartari della Siberia.

[89] Vedi LE ROUX DE LINCY, _Le livre des légendes_, Parigi, 1836, pp.
24-28. Tale leggenda e narrata nella Vita versificata della Vergine
composta da Ermanno di Valenciennes (_Histoire littéraire de la
France_, t. XVIII, pp. 834-7). Ricordiamoci, a questo proposito, dei
miti paralleli di Dioniso, del dio Soma e di Aurva. Secondo FEDERIGO
FREZZI, _Quadriregio_, l. IV, cap. 1, l'albero della vita avea le
radici in cielo, girava due miglia e risonava di dolcissimo canto. Non
so se di esso si discorra nel libro di un GIOVANNI BRACESCO, intitolato
_Il legno della vita, nel quale si dichiara qual fosse la medicina per
la quale i primi padri vivevano novecento anni_, Roma, 1542. Vedesi
registrato nella _Biblioteca_ dell'HAYM, a p. 369 della edizione di
Milano, 1771-3.

[90] Vedi, per esempio, PERRETI, _Catacombes de Rome_, Parigi, 1851, t.
II, tav. 22.

[91] _Le Talmud de Jérusalem traduit par_ M. Schwab, Parigi, 1878-90,
vol. I, tratt. _Berakhot_, cap. VI, 2, p. 391; _Le Talmud de Babylone
traduit... par l'abbé_ L. Chiarini, Lipsia, 1831, vol. II, pp. 180-1.

[92] _Das Duch Enoch_, pubbl. da A. Dillmann, Lipsia 1853, cap. 31.

[93] GREGORIO ABU'L-FARAGI ricorda le varie opinioni secondo cui
l'albero della scienza sarebbe stato il fico, la vite, o il frumento,
_Historia compendiosa dynastiarum_, Oxford, 1603, vol. I, p. 4.

[94] _Evagatorium_, ed. del _Literarisches Verein_, Stoccarda, 1843-5,
voi. III, pp. 5-6.

[95] LAURENT, _Peregrinatores medii aevi quatuor_, Lipsia, 1864; pp.
87-8. Vedi la _peregrinatio_ di Thietmar ivi stesso, cap. XXIX, 4, e la
nota dell'editore sull'argomento. Giacomo di Vitry distingue l'_arbor
paradisi_, che dalla descrizione da lui fattane si vede essere il musa,
da un altro albero, il quale produce frutti con impresso il segno di un
morso, e sono perciò detti _poma Adam. Op. cit._ p. 1099.

[96] _Op. cit._, p. 98.

[97] ARIOSTO, _Orl. fur._, c. XXXIV, st. 60. Non so se la grande
riputazione dei pomi del Paradiso abbia contribuito a divulgare la
credenza che nell'estremo Oriente fossero uomini i quali non d'altro si
nutrivano che dell'odore di un pomo. L'autore del _Mare amoroso_, sia
desso o non sia Brunetto Latini, ne fa ricordo:

    E si vorrìa di quel pomo avere,
    Che dona vita pur col suo olore
    Ad una gente via di là dal mare,
    Che non mangian nè beono altra vivanda.

(Vv. 223-6, in _Propugnatore_, vol. I). E ne fan ricordo il Mandeville
e altri. Gli antichi conobbero gli astomi, i quali, non avendo bocca,
si pascevano dell'odore di radici, di fiori e di frutti selvatici
(V. BERGER DE XIVREY, _Traditions tératologiques_, Parigi, 1836, pp.
98-9, 472). In alcune storie di Alessandro Magno son uomini che vivono
dell'odor delle spezie. Gli abitanti della luna, di cui narra LUCIANO
nella _Vera Historia_, I, 23, si nutrivano del fumo di rane arrostite,
e Olimpiodoro scrisse, sulla fede di Aristotile, esserci stato un uomo
che si nutriva ponendosi al sole. Non voglio lasciar questo tema senza
ricordare un altro pomo mirabile dell'Oriente, il così detto pomo di
Sodoma, il quale, assai vago di fuori, era, dentro, pieno di cenere.
Ne parla già GIUSEPPE FLAVIO, _De bello judaico_, l. V, cap. 5, e
molti poi ne riparlano nel medio evo, tra i quali SAN PIER DAMIANO
nella epist. XVII _ad Desiderium abbatem_. Il COPPÉE, nella _Mauvaise
soirée_, ricorda

    . . . . . ces beaux fruits des bords de la Mer Morte,
    Qui, lorsqu'un voyageur à sa bouche les porte,
    Sont pleins de cendre noire et n'ont qu'un goût amer.

[98] Versione ed edizione citate, p. 47.

[99] Codice riccardiano citato, f. 48 v., col. 2ª.

[100] _Purg._, XXXII, 37-9.

[101] _Quadriregio_, l. IV, c. 1. La pianta dispogliata si vede anche
in qualche mappa, nel luogo ove devrebb'essere il Paradiso.

[102] Quattro alberi sacri poneva sul Meru la tradizione indiana.

[103] XXXI, 8, 9.

[104] Delle piante e dei frutti del Paradiso si parla diffusamente
in un opuscolo attribuito a Michele Psello. Una lunga enumerazione di
piante si ha in una parafrasi poetica tedesca della Genesi, contenuta
in un manoscritto che probabilmente appartiene alla seconda metà del
secolo XII, e pubblicata da E. HOFFMANN, _Fundgruben für Geschichte
deutscher Sprache un Litteratur_, Breslavia, 1830-7, vol. II, pp.
10-84. Cf. ZINGERLE, _Der Paradiesgarten der altdeutschen Genesis_, in
_Sitzungsb. d. phil.-hist. Cl. d. h. Akad. d. Wissensch._, vol. CXII,
Vienna, 1866. BRUNETTO LATINI dice nel _Tresor_ (ediz. Chabaille,
Parigi, 1863, l. 1, parte IV, cap. 123): «En Inde est Paradis
terrestre, où il a de toutes manieres de fust d'arbres et de pomes et
de fruiz qui soient en terre...». PIETRO DA BERSEGAPÈ, nel suo poema
biblico (ap. BIONDELLI, _Poesie lombarde inedite del secolo XIII_,
Milano, 1856, p. 41):

    El g'è d'ugni fructo d'arboxello
    Dolce e delectevole e bello.

[105] _Hexaemeran_, ap. MIGNE, _Patrol. lat._, t. 189, col. 1535.

[106] _Histoire de Saint Loys, Collection complète des mémoires
relatifs à l'histoire de France_, t. II, 1819, pp. 229-30. Il passo è
curioso, e merita di esser riferito: «Ici convient parler du fleuve,
qui passe par le païs d'Egipte, et vient de Paradis terrestre... Quant
celui fleuve entre en Egipte, il y a gens tous expers et accoustumez,
comme vous diriez les pescheurs des rivieres de ce pays-ci, qui au
soir gettent leurs reyz au fleuve, et és rivieres: et au matin souvent
y trouvent et prannent les espiceries qu'on vent en ces parties par
deça bien chierement, et au pois: comme cannelle, gingembre, rubarbe,
girofle, lignum aloes, et plusieurs bonnes chouses. Et dit-on ou païs,
que ces choses-là viennent de Paridis terrestre, et que le vent les
abat des bonnes arbres, qui sont en paradis terrestre; ainsi comme
le vent abat és forestz de ce païs le bois sec; et ce qui chiet en
ce fleuve l'eauë amene et les marchands le recuillent, qui le nous
vendent au pois». Che il Paradiso contenga ogni maniera di spezie è pur
detto in un vecchio poema tedesco, _Diu Buochir Mosis_, vv. 492-509,
ap. MASSMANN, _Deutsche Gedichte des zwölfen Jahrhunderts und der
nächstverwandten Zeit_, Quedlimburgo e Lipsia, 1837, p. 241.

[107] _Quaestiones ad Antiochum_, qu. 47.

[108] _Alexandreis_, l. II.

[109] _De judicio Domini_, cap. 8.

[110] Della origine paradisiaca di alcune piante medicinali è pur cenno
in tradizioni popolari tuttora vive.

[111] _Pantheon_, parte I. I versi con cui si descrive il Paradiso si
trovano pure nella _Memoria saeculorum_.

[112] Nella canzone: _Standomi un giorno, solo, alla fenestra_.

[113] _Elucidarium_, l. I, ap. MIGNE, _Patrol. lat._, t. 172, col.
1117. Così pure nella versione italiana che si conserva in parecchi
codici, p. es. in quello dell'Universitaria di Bologna segnato Aula II,
A, N. 157. Cf. _Il libro di Sidrach_, ediz. cit., p. 46.

[114] Cap. 24.

[115] Altrettanto fu detto di tutti i luoghi paradisiaci. V. alcuni
versi latini concernenti l'isola di Thyle, riferiti dal WRIGHT, _Op.
cit._, p. 94 in nota. Quest'isola, che parecchie carte pongono nel mare
d'India, corrisponde certamente alla Tylus di Tolomeo, e alle due Tylos
di Plinio. Cf. SANTAREM, _Essai_, voi. III, p. 239. Di un'isola Thilos
parla pure, citando Solino, DICUIL, _Liber de mensura orbis terrae_,
ediz. Parthey, Berlino, 1870, VII, 25.

[116] ALRIC, _Le Paradis de Mahomet_, Parigi (1892) pp. 57-9, 63.
La materia di questo libro è tratta dal Corano e da racconti e detti
tradizionali (_hadis_) che hanno corso fra i maomettani.

[117] _Proverbii_, X, 11: _Vena vitae, os justi_; XIII, 14: _Lex
sapientis fons vitae_; XIV, 27: _Timor Domini fons vitae_; XVI, 22:
_Fons vitae eruditio possidentis_.

[118] XXII, 1-2. Ebbe a ricordarsene Giacomino da Verona, il quale
fa scorrere per mezzo alla sua Gerusalemme celeste un fiume pieno di
gemme,

      De le quale çascauna sì à tanta vertù,
    K'elle fa tornar l'omo veclo en çoventù,
    E l'omo, k'è mil agni êl monumento çasù,
    A lo so tocamento vivo e sano leva su;

e altre acque la cui miracolosa natura è tale che chi ne beve non
morrà, nè avrà più mai bisogno di bere. MUSSAFIA, _Monumenti antichi
di dialetti italiani, Sitzungsber. d. k. Akad. d. Wissensch.,
philos.-hist. Cl._, vol. XLVI, Vienna, 1864, pp. 139-40. Giacomino
non si appaga di quanto, a tale proposito, è detto nell'Apocalissi, ma
aggiunge di suo.

[119] L'ambrosia, ἄμβροτος, dei Greci, corrisponde all'amrita
degl'indiani. Secondo una delle versioni della leggenda di Achille,
Teti rese il figliuolo invulnerabile e immortale aspergendolo di
ambrosia e poi mettendolo al fuoco. Un liquore di egual virtù si ha
nella mitologia germanica. Vedi KUHN, _Die Herabkunft des Feuers und
des Göttertranks_, Berlino, 1859, p. 175.

[120] I Gaeli immaginarono anche un paese di gioventù. Vedi BEAUVOIS,
_Op. cit._, pp. 308, 310-11.

[121] WEBER, _Indische Streifen_, Berlino, 1868-79, vol. I, pp. 13-15.

[122] Cf. SPIEGEL, _Die Alexandersage bei den Orientalen_, Lipsia,
1851, pp. 29, 47, 52. ETHÈ, _Alexanderszug zum Lebensquell im Lande der
Finsterniss_, negli Atti dell'Accademia di Monaco, 1871.

[123] _Kinder- und Hausmärchen_, num. 97.

[124] J. J. CRANE trasse dalla _Scala coeli_ di GIOVANNI GOBIO
(JUNIORE), il quale fiorì nella prima metà del secolo XIV, un
racconto latino che reca una parte soltanto della fiaba tedesca: _Two
mediaeval Folk-tales_, nella _Germania_, anno XXX (1885), pp. 203-4.
Cf. DU MÉRIL, _Études sur quelques points d'archéologie et d'histoire
littéraire_, Parigi e Lipsia, 1862, p. 454, n. 3.

[125] Vedi, per esempio, RALSTON, _Russian Folk Tales_, Londra, 1873,
pp. 231, 235, 240; _Svenska Folk-Sagor och Aefventyr, samlade of_
HYLTÉN-CAVALLIUS _och_ G. STEPHENS, num. 9.

[126] Veggansi, per esempio, nelle _Mille e una notte_ le novelle del
principe Mahmud e di Alì Giobari.

[127] Ma l'autore del _Kharîdat el-agiâib_ la pone in Occidente, in
un'isola del Mar Tenebroso, del qual mare si dirà più innanzi.

[128] Traduzione e edizione citate, col. 301.

[129] D'ANCONA, _I precursori di Dante_, Firenze, 1874, p. 34.

[130] Notisi, per altro, che Dante pone nel Paradiso terrestre i due
ruscelli di Lete e di Eunoè, le cui acque procacciano in certo qual
modo la vita eterna, non del corpo, ma dell'anima.

[131] Vv. 5537-45, ediz. del Guessard e del Grandmaison, Parigi, 1860.
Nella continuazione inedita del poema si parla di nuovo della fontana
di gioventù, ma per tutt'altra occasione, e di quella derivazione non
si fa più parola.

[132] Ediz. del Michelant (_Bibliothek des literarischen Vereins_),
Stoccarda, 1846, p. 350.

[133] Ediz. del Keller. (_Bibl. d. liter. Ver._), Stoccarda, 1858, vv.
10651 sgg.

[134] Ediz. del Hahn, Quedlimburgo e Lipsia, 1842, st. 6053-4.

[135] Atto I, sc. 1.

[136] LECOY DE LA MARCHE, _Anecdotes historiques, légendes et apologues
tirés du recueil inédit d'Etienne de Bourbon_, Parigi, 1877, p. 77.

[137] _Op. cit._, p. 69.

[138] _Notices et extraits des manuscrits_, t. V, p. 276; WRIGHT,
_Popular Treatises on Science written during the Middle Ages_, Londra,
1841, p. 110; LAUCHERT, _Geschichte des Physiologus_, Strasburgo, 1889,
pp. 9, 171. Vedi pure VINCENZO BELLOVACENSE, _Speculum naturale_, l.
XVI, cap. 36.

[139] ZARNCKE, _Op. cit._, parte I, pp. 94-95. Ma in altra parte di
quella lettera si parla di una fonte che scaturisce appiè del monte
Olimpo, la quale, come la fonte descritta dal Mandeville, ha il sapore
di tutte le spezie, e lo muta a ciascun'ora del giorno e della notte,
e a chi ne beva tre volte a digiuno dà sanità e giovinezza per tutto
il tempo della vita. Quel luogo è poco lungi dal Paradiso. E vi è
ricordata una fonte la quale scaturisce nell'isola della manna, e
ridà la giovinezza a quegli abitanti, i quali vivono cinquecent'anni.
Del palazzo è poi detto che chi vi è, non patisce fame nè sete, e che
nessuno vi può morire il giorno in cui v'è entrato, e chi v'entra
affamato o infermo n'esce così sazio come se avesse mangiato di
cento vivande, e così sano come se mai non avesse avuto male. Per
qualche altro riscontro vedi: _Museum für altdeutsche Literatur und
Kunst_, vol. I (1809), pp. 259-62; le note di VALENTINO SCHMIDT alla
scelta delle novelle dello Straparola da lui pubblicata (_Die Märchen
des Straparola_), Berlino, 1817, pp. 276 sgg.; J. GRIMM, _Deutsche
Mythologie_, 3ª ediz., Berlino, 1875-8, vol. I, pp. 488-9, vol. III, p.
167; VERNALEKEN, _Das Vasser des Lebens_, nella _Germania_, vol. XXVII
(1882), p. 103; KÖHLER, _Tristan und Isolde und das Märchen von der
goldhaarigen Jungfrau und von den Wassern des Todes und des Lebens_,
ibid., vol. XII (1866).

[140] Fontana di vita e fontana di giovinezza non sono propriamente,
in teorica, la medesima cosa: quella dà la immortalità e la giovinezza
insieme; questa dà la giovinezza per fin che dura la vita, ma non la
immortalità. Ciò nondimeno le due si confondono molto spesso nel mito.

[141] NAVARRETE, _Op. cit._, vol. III, p. 50; DENIS, _Le monde
enchanté, cosmographie et histoire naturelle fantastiques du moyen
âge_, Parigi, 1843, pp. 148, 276; GRAESSE, _Der Tannhäuser und Ewige
Jude_, Dresda, 1861, pp. 77-111. La spedizione di Ponce diede argomento
a un poemetto non finito di Enrico Heine.

[142] Conosco solo per il titolo i due libri seguenti: HUBERT DE
LESPINE, _Description des admirables et merveilleuses régions
loingtaines et estranges nations payennes de Tartarie, et de
la principauté de leur souverain Seigneur, avec le voyage et la
pérégrination de la Fontaine de Vie, autrement Jouvence_, s. l., 1558;
_Le nouveau Panurge, avec sa navigation en l'isle imaginaire, son
rajeunissement en icelle, et le voyage que fait son esperit en l'aultre
monde_, La Rochelle, s. a.

[143] Nota di R. KÖHLER, _Die Lais der Marie de France_, Halle a.
S., 1885, pp. CIV-CVIII. In una leggenda tartara si parla di un pino
dalle foglie e dalla corteccia d'oro, il quale è tutto coperto di
un'erba verde che ha virtù di risuscitare: appiè dell'albero, nascosta
nella terra, è una tazza d'acqua di vita. SCHIEFNER, _Heldensagen der
minussinischen Tataren_, Pietroburgo, 1859, p. 62 sgg.

[144] DUNLOP, _History of Prose Fiction_, nuova edizione (con le note
del Liebrecht), Londra, 1888, vol. I, p. 307.

[145] _Otia imperialia_, ediz. cit., dec. I, cap. 14, p. 4. Ne discorre
anche il Mandeville. I pomi d'Iduna, della mitologia germanica, avevano
la stessa virtù. Secondo il già citato ricordo di Teopompo, nella
terra Merope scorrono due fiumi, detti, l'uno del dolore, l'altro del
piacere. Sulle rive di entrambi crescono certi alberi: chi gusta dei
frutti di quelli che sono lungo il primo, non fa più se non piangere
sino alla morte; chi gusta dei frutti di quelli che sono lungo il
secondo, ringiovanisce gradatamente, torna fanciullo, e, sempre più
rimpicciolendo, da ultimo si dilegua. Nell'isola Buru, una delle
Molucche, nasce sulle rive di un lago un fiore che, secondo l'opinione
degli abitanti, dà la giovinezza a chi lo tiene in mano. BICKMORE,
_Reisen im ostindischen Archipel in den Jahren 1865 und 1866_. p. 223,
citato dal ROHDE, _Der griechische Roman und seine Vorläufer_, Lipsia,
1876, p. 207, n. 1.

[146] Nel _Parzival_ di VOLFRAMO D'ESCHENBACH; cf. BIRCH-HIRSCHFELD,
_Die Sage vom Gral_, Lipsia, 1877, p. 247.

[147] _Le Chevalier au Cygne et Godefroid de Bouillon_, pubblicati dal
De Reiffenberg, vol. I, Bruxelles, 1846, Introduz., p. CXXIX. Non la
si finirebbe più se si volessero ricordare tutte le immaginazioni che
con quelle già ricordate hanno affinità più o meno stretta. Tundalo
giunge in un luogo luminoso e fiorito dove scorre una fontana: chi
beve una volta delle sue acque non ha mai più sete. GERVASIO DI TILBURY
racconta di un'acqua che ristora in mirabile modo le forze (_Op. cit._,
dec. III, cap. 38, p. 23); e GALFREDO DI MONMOUTH parla di una fonte
le cui acque guariscono dalla pazzia e dal furore e ristorano le virtù
dell'anima, (_Vita Merlini_, vv. 1136 sgg., ap. SAN MARTE, _Die Sagen
von Merlin_, Halle, 1853, pp. 305-6).

[148] MARIO VITTORE dice il fonte più copioso d'acque che non sia
l'oceano, _ditior oceano_. ROBERTO PULLO (sec. XII) paragona il _fonte
immenso_ al Nilo (SENTENTIARUM, l. II; cap. 17, ap. MIGNE, _Patrol.
lat._, t. 186, col. 746), e _redundans enormiter_ è descritto il fonte
dal già citato Arnaldo di Bonneval.

[149] DE WETTE, _Lehrbuch der hebräisch-jüdischen Archäologie_, IV
ediz. Lipsia, 1864, p. 111.

[150] SAN BASILIO e SANT'AMBROGIO nei loro _Hexaemera_; il MANDEVILLE
ecc.

[151] GIOVANNI DE' MARIGNOLLI, _Op. cit._, pp. 93-4: «Fons autem
ille derivatur de monte, et cadit in lacum, qui dicitur a Philosophis
Euphirattes (_Euphrates?_), et intrat sub alia aqua spissa, et post
egreditur ex alia parte et dividitur in quatuor flumina....»

[152] Rimando per tutto ciò ai libri indicati in fine della
Introduzione. Anche alle falde del Kuen-lun cinese scorrono quattro
fiumi.

[153] Abbiam veduto quale uso ne facesse Cosma, e, dopo di lui Mosè
Bar-Cefa. Lo stesso uso seguitarono a farne Onorio d'Autun e molti
altri.

[154] _Antiquit. jud._, I, 1, 3.

[155] Ricorderò solo, per ragione di curiosità, che un capitolo (il
XXVII) della _Historia del Cavaliero Cifar_, composta nel secolo XVI,
è consacrato ai fiumi del Paradiso, e che tra questi è il Nilo (Ediz.
del Michelant, _Bibl. des liter. Ver._, Stoccarda, 1872, pp. 304-5).
Ora, circa il tempo in cui quel romanzo fu scritto, LIVIO SANUTO
sapeva benissimo che il Nilo proviene da grandi laghi equatoriali
(_Geografia_, Venezia, 1588, f. 111 v.). I dotti che, nel presente
secolo, cercarono d'indovinare che fiumi fossero, secondo la mente di
chi mise insieme il racconto biblico, il Fison e il Gihon, non poterono
accordarsi. L'Ewald pensa che il Fison sia il Gange; il Bertheau, il
Delitzsch, lo Knobel, il Lassen, il Renan, vogliono sia l'Indo. Quanto
al Gihon, lo Knobel e il Lassen credono sia l'Osso, mentre il Bertheau,
il Gesenius, il Delitzsch riconoscono in esso il Nilo.

[156] Nella già citata mappa di Torino il Giordano scaturisce dalle
radici dell'albero della scienza.

[157] Severiano, vescovo di Gabala nel III secolo, fa del Fison il
Danubio (_De creatione mundi_, orat. V), e lo stesso fa LEONE DIACONO
nel X (_Historia_, ediz. Hase, Parigi, 1819, p. 80).

[158] BRUNETTO LATINI s'attiene a' quattro fiumi tradizionali, senza
cercar altro, ma è comica la disinvoltura con cui ne discorre nel
_Tesoretto_ (_Raccolta di rime antiche toscane_, Palermo, 1817, vol. I,
pp. 37-8):

    I' vidi apertamente,
      Come fosse presente,
    Li fiumi principali,
      Che son quattro; li quali,
    Secondo lo mio avviso,
      Muovon dal Paradiso:
    Ciò son Tigris, Fison,
      Eufrates e Geon.
    L'un se ne passa a destra,
      L'altro ver la sinestra:
    Lo terzo corre 'n quae,
      Lo quarto va in lae:
    Sì, ch'Eufrates passa
      Ver Babilone cassa
    In Messopotamia;
     . . . . . . . . . .

[159] Nella Terra Promessa scorrono fiumi di latte e di miele (_Esodo_,
III, 8). Dione Crisostomo parla di una terra fortunata nella quale
scorrono fiumi di latte, d'olio, di miele, e anche una fontana
di verità. Di un fiume di miele, che si diceva scorrere in India,
fanno ricordo Ctesia e Onesicrito. Anche nel paese del Prete Gianni
scorrevano il latte e il miele.

[160] [HAMMER-PURGSTALL], _Rosenöl_, Tubinga, 1813, vol. I, p. 324;
ALRIC, _Op. cit_., p. 54.

[161] Vedi la nota 16 a questo capitolo.

[162] _Tesoretto_, l. cit.

[163] _Op. cit_., p. 56.

[164] Di questo fiume si parla pure in un rifacimento tedesco della
epistola:

    Idoneus ist ein wazzer genannt,
    Das vluzet durch ein heiden lant,
    Daz tut manchem man gemach;

e se ne fa ricordo nel _Titurel_, st. 6045. Vedi OPPERT, Op. cit., pp.
30-1. Un fiume che trascina gemme viene, secondo il Mandeville, dal
lago ch'è in cima al monte di Ceilan; ma di ciò più innanzi. Il PUCCI
fa scorrere quel fiume nel paese della Reina d'Oriente:

      Per lo reame suo correva un fiume
    Ch'uscia del Paradiso Deliziano,
    E pietre preziose per costume
    Menava, e oro, e ariento sovrano.

_Historia della Reina d'Oriente, Sc. di cur. letter_., disp. XLI,
Bologna, 1862, cantare I, st. 28.

[165] Un fiume sotterraneo, che ha

    Di care pietre il margine dipinto,

è descritto dal Tasso, _Gerusalemme Liberata_, c. XIV, st. 39.

[166] _Ly myreur des histors_, Bruxelles, 1869 sgg., vol. III, p. 65.

[167] Nella epistola del Prete Gianni all'imperatore Emanuele così se
ne parla: «Inter cetera, quae mirabiliter in terra nostra contingunt,
est harenosum mare sine aqua. Harena enim movetur et tumescit in undas
ad similitudinem omnis maris et nunquam est tranquillum. Hoc mare
neque navigio neque alio modo transiri potest, et ideo cuiusmodi terra
ultra sit sciri non potest. Et quamvis omnino careat aqua, inveniuntur
tamen iuxta ripam a nostra parte diversa genera piscium ad comedendum
gratissima et sapidissima, alibi nunquam visa. Tribus dietis longe ab
hoc mari sunt montes quidam, ex quibus descendit fluvius lapidum eodem
modo sine aqua, et fluit per terram nostram usque ad mare harenosum.
Tribus diebus in septimana fluit et labuntur parvi et magni lapides
et trahunt secum ligna usque ad mare harenosum, et postquam mare
intraverat fluvius, lapides et ligna evanescunt nec ultra apparent.
Nec quamdiu fluit, aliquis eum transire potest. Aliis quatuor diebus
patet transitus». Ap. ZARNCKE, _Op. cit_., parte I, p. 88. Giovanni di
Hese afferma d'aver navigato con grande pericolo tra il mare coagulato
e il mare arenoso (_ibid_., parte II, p. 164). Anche il Mandeville fa
menzione del fiume e del mare.

[168] XXVIII, 13-16.

[169] Il muro è così descritto in un racconto poetico latino del
viaggio di San Brandano, racconto contenuto in un codice del Museo
Britannico (Cotton. Vespas., D, IX, f. 9r., col. 2ª):

    Densa de caligine tunc prodiret prora,
      Fulgidis in finibus finit vie mora;
      Murus hic apparuit petens celsiora,
      Cui si nivem compares vix est indecora.
    Basis mons vicarius sustinens archana,
      Totus est marmoreus, aurum sunt montana;
      Muri tota matheria lenis atque plana;
      De qua sit matheria nescit mens humana.
    Procul in campestribus maris cedit unda,
      Muri circumstantia sit ut tota munda;
      Alas pulsat nubium muri dos iocunda,
      Gemmis instar siderum placide fecunda.

Si descrivono poi le gemme che adornano il muro e se ne dicono le
virtù. Il palazzo descritto dall'Ariosto, XXXIV, 52-3. gira più di
trenta miglia, e ha tutto d'una gemma il

                        muro schietto,
    Più che carbonchio lucida e vermiglia.

[170] Di questa caverna si parla nell'apocrifo intitolato _Penitenza_
o _Testamento d'Adamo_; in una cronaca siriaca di cui dà l'analisi
l'ASSEMANI, _Bibliotheca orientalis_, t. II, p. 498; t. III, parte
I, p. 281; _Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codicum manuscriptorum
catalogus_, t. III, pp. 329-31; nelle Storie di Eutichio, altrove.

[171] Vedi, a questo proposito, oltre ai molti libri, assai noti, ov'è
trattato delle gemme, una poesia intitolata De patria sanctorum, ap.
MONE, _Lateinische Hymnen des Mittelalters_, Friburgo, 1853-4, vol.
III, p. 28.

[172] _Dialogorum_ l. IV, cap. 36.

[173] A. JUNKER, VON LANGEGG, _El Dorado, Geschichte der
Entdeckungsreisen nach dem Goldlande El Dorado im XVI. und XVII.
Jahrhundert_, Lipsia, 1888.

[174] Vedi le descrizioni dei primi poeti cristiani raccolte
nell'Appendice I, che segue a queste note.

[175] Giustino Martire va più in là, e afferma nell'_Admonitorius
gentium_, che in descrivere gli orti d'Alcinoo, Omero imitò la
descrizione che Mosè porge del Paradiso terrestre, e traduce, in prova,
i versi dell'Odissea dove quegli orti sono descritti.

[176] L'autore era assai probabilmente pagano, ma conosceva forse alcun
che delle opinioni dei cristiani intorno al Paradiso terrestre, e se
ne giovò nella sua descrizione. Alcuno stimò di dovere attribuire il
poemetto a Claudiano, il quale, nell'idillio intitolato _Phoenix_,
parla ancor egli di un bosco meraviglioso, ponendolo di là dagl'Indi e
dalla plaga d'Euro, in mezzo all'Oceano. Può darsi ch'esso sia opera di
Placido Lattanzio, il mitografo.

[177] Vedi EBERT, _Geschichte der christlich-lateinischen Literatur_,
Lipsia, 1874-87, vol. I, p. 852.

[178] Nel carme II del Panegirico ad Antemio.

[179] Non intendo punto di ricordarle tutte, che sarebbe opera non
più finita: mi basterà dare alcune avvertenze e indicare alcune delle
scritture più importanti che ne contengono, oltre alle parecchie le
quali sono già state, o saranno citate in seguito. COMMENTARII AL
GENESI. Pressochè tutti, e sono in numero strabocchevole, contengono
descrizioni del Paradiso più o meno particolareggiate. Uno speciale
ricordo merita quella, assai poetica e viva, che ne porge _San Basilio
Magno_ nella _Homilia de Paradiso_. Hexaemera. Di Sant'Eustazio
Antiocheno, di Prudenzio, di Giorgio Piside, d'Ildeberto di Lavardin,
di Abelardo, di Arnaldo di Bonneval, di Stefano Langton, di Andrea
Sunösen, o Lundense, di Francesco Cattani da Diacceto. — BIBBIE
VERSIFICATE E ISTORIATE. Tutte contengono descrizioni del Paradiso,
meno quella che Alessandro de Villa Dei, nel secolo XIII, ristrinse
in 212 versi. Furono molto numerose, e non v'è letteratura che ne
vada priva. Di parecchie parlano il LEYSER, _Historia poetarum et
poematum medii aevi_, Halae Magdeb., 1721, e il CAVE, _Scriptorum
ecclesiasticorum historia literaria a Christo nato usque ad saeculum
XIV_, ediz. di Basilea, 1741-5. Per i poemi biblici volgari, e per
le narrazioni bibliche in prosa, sono da vedere le storie letterarie
particolari. Per quelli tedeschi e francesi, vedi più specialmente
MERZDORF, _Die deutsche Historienbibeln_ (_Biblioth. d. litter. Ver._),
Stoccarda, 1871, e BONNARD, _Les traductions de la Bible en vers
français au moyen âge_, Parigi, 1884. — TRATTATI SCIENTIFICI IN PROSA
E IN VERSO. _De mundi universitate_, di BERNARDO SILVESTRO; _L'image du
monde_; _Der Leken Spieghel_; _De proprietatibus rerum_, di BARTOLOMEO
GLANVILLE, e tutti, in generale, i trattati geografici e cosmografici.
— CRONACHE. Moltissime di quelle che cominciano con la creazione del
mondo contengono descrizioni del Paradiso terrestre: così il _Pantheon_
e la _Memoria saeculorum_ di GOTOFREDO DA VITERBO; il _Compendium
chronicum_ di COSTANTINO MANASSE; la _Weltchronik_ di RODOLFO D'EMS;
lo _Spiegel historiael_ di GIACOMO DI MAERLANT; il _Polychronicon_
di RANULFO HIGDEN; l'_Eulogium_; la già citata compilazione storica
francese. — VISIONI E LEGGENDE. Visioni di Drihthelm, di Tundalo, di
Owen, del monaco di Evesham, di Thurcill, di Alberico, ecc. Non sempre
s'intende, per altro, se le descrizioni che vi son contenute sieno del
Paradiso terrestre o del Paradiso celeste. Vedi più oltre le leggende
riferite nel cap. V. — POEMI VARII, DEL MEDIO EVO E MODERNI. _De
paradiso_, di TEODULFO; poemetto anglosassone sulla Fenice, composto da
CINEVULFO ad imitazione di quello attribuito a Lattanzio; _Titurel_,
di ALBRECHT; _De laudibus divinae sapientiae_, di ALESSANDRO NECKAM;
_Divina Commedia_; _Dittamondo_; _Quadriregio_; _De excellentium
virorum principibus_, di ANTONIO CORNAZZANO; _Discordia triumphata_,
di LORENZO ADRIANO; _The description of Paradyce_, di DAVIDE LINDSAY;
_Orlando Furioso_; _Guerrin Meschino_, di TULLIA D'ARAGONA; _Sette
giornate del mondo creato_, di TORQUATO TASSO; _L'Adamo_, di GIOVANNI
SORANZO; _L'Adamo_ di GIORGIO ANGELINI; _La creazione del mondo_ di
GASPARO MURTOLA; _La semaine de la création du monde_, di GUGLIELMO
DU BARTAS; _Paradyse Lost_, del MILTON; _L'Essamerone_, di FELICE
PASSERO; _La creacion del mundo_, di ALONSO DE AZEVEDO; _Del paradiso
terrestre_, di BENEDETTO MENZINI; _L'Adamo, ovvero il mondo creato_,
di TOMMASO CAMPAILLA; _Le paradis perdu_, di MADAMA DU BOCCAGE (la
parte che contiene la descrizione del Paradiso fu recata in italiano
da Gaspare Gozzi); _Le divine opere_, di FELICE AMEDEO FRANCHI; _La
inocencia perdida_, di FELIX JOSÈ REINOSO. Non ho altra notizia di
certo poema spagnuolo del secolo XV, che tratta del Paradiso terrestre.
Nel _Purgatorio de San Patricio_, del CALDERON, uno dei personaggi
del dramma, dopo aver descritto i luoghi di punizione da lui visitati,
descrive pure il Paradiso. Una poesia greca sul Paradiso si trova in
LEGRAND, _Bibliothèque grecque vulgaire_, vol. I, pp. XI-XIV.

[180] Citerò in prova la _Storia di Rabbi Giosuè figliuolo di Levi,
leggenda talmudica tradotta dall'ebraico da_ SALVATORE DE BENEDETTI
(_Annuario della Società italiana per gli studi orientali_, anno I,
1872, pp. 92 sgg.). Rabbi Giosuè fu portato dall'angelo della morte
nel Paradiso terrestre, il quale è dimora a varii ordini di giusti.
«Rabbi Giosuè andò cercando tutto il Paradiso deliciano, e quivi trovò
sette case, ed ogni casa ha dodici migliaia di miglia di lunghezza; e
di larghezza dodici migliaia di miglia; però che la misura dello spazio
di lor larghezza è pari alla lunghezza». Queste case sono, secondo la
dignità, di cristallo, d'argento, d'oro, ecc. La quarta «è edificata
bella così come lo primo Adamo». Meraviglie consimili occorrono anche
nel Paradiso di Maometto. In una specie di appendice, intitolata dal
traduttore _Ordine del Paradiso_, si descrivono l'altre meraviglie
del luogo beato. Sonvi due porte di rubino; baldacchini mirabili,
sotto cui riposano i giusti; mense di pietre preziose; quattro fiumi,
l'uno d'olio, l'altro di balsamo, il terzo di vino, il quarto di
miele. Vi abbondano piante di grandissimo pregio e virtù: nel mezzo è
l'albero della vita, il quale ha odori svariatissimi e cinquecentomila
sapori. Il tempo vi è spartito in tre veglie: nella prima i giusti
sono pargoli; nella seconda giovani: nella terza vecchi; e godono
successivamente dei piaceri proprii di ciascuna età. La storia di Rabbi
Giosuè è del IX o X secolo.

[181] Nell'_Adam und Heva_, di GIACOMO RUFF (pubblicato da H. M.
Kottinger, Quedlimburgo e Lipsia, 1848), il Padre Eterno descrive egli
stesso il Paradiso che si accinge a formare. In un _Meistergesang_, che
nel cod. 2856 della Biblioteca imperiale di Vienna reca il titolo di
_Klingsor Astromey_, un diavolo, incantato da un astrologo, descrive
il Paradiso. Nel già citato prologo alla _Vengeance de Jésus-Christ_,
Nerone, trasformato in diavolo, disputando con Virgilio, ricorda
l'altissimo muro di carbonchi che chiudeva tutto intorno il Paradiso
terrestre.

[182] Cf. BIESE, _Die Entwickelung des Naturgefühls im Mittelalter und
in der Neuzeit_, Lipsia, 1888, pp. 61 sgg. Lo speciale argomento nostro
non è del resto svolto in questo libro così largamente come avrebbe
meritato.

[183] Si possono confrontare anche con le descrizioni del Paradiso
terrestre, le descrizioni che di giardini incantevoli si hanno nel
_Roman de la Rose_, nelle _Selve d'amore_ di LORENZO DE' MEDICI, nelle
_Stanze_ del POLIZIANO, nei _Lusiadi_ del CAMOENS, là dove si narra
dell'isola di Teti, nell'_Adone_ del MARINO, e altrove.

[184] E molta ne hanno certi altri luoghi paradisiaci, simbolici e
non simbolici, immaginati da romanzatori, da poeti e da moralisti, i
quali ebbero molte volte dinanzi alla mente, non solo il mito biblico,
ma ancora i miti classici. Un paradiso delle Virtù descrive ALANO DE
INSULIS nell'_Anticlaudianus_. In un poemetto che fu già attribuito
a Ildeberto di Lavardin, ma che pare sia opera di PIETRO RIGA, e
che in un codice della Vaticana fu malamente intitolato _Descriptio
paradisi_, si descrive un luogo pieno di meraviglie, che ricorda il
Paradiso (HAURÉAU, _Notice sur un manuscrit de la reine Christine, à la
Bibliothèque du Vatican, Notices et extraits des manuscrits_, t. XXIX,
parte II, pp. 245-7). Un paradiso d'amore si descrive nella raccolta
intitolata _Fabliaux ou Contes du XII e du XIII siècle, traduits ou
extraits d'après divers manuscrits du temps_, Parigi, 1779-81, vol.
II: una descrizione di una specie di paradiso d'amore, con qualche
reminiscenza dantesca, si trova nel _Paradiso degli Alberti_, già
citato, vol. II, pp. 341 sgg. MICHELE DRAYTON dipinse un paradiso
delle Muse nella _Description of Elysium_. VINCENZO MARENCO, in un
poemetto anacreontico intitolato _Il tempio della Gloria_, attribuisce
a un'isola, dove sorge esso tempio, tutte le bellezze del Paradiso
terrestre. Parecchie isole felici furono immaginate a somiglianza
del Paradiso; così una descritta dal Mandeville, l'isola Thyle, già
ricordata, e quella famosa Isola Perduta, di cui dovrò parlare più
oltre.

[185] DANIEL, _Thesaurus hymnologicus_, Lipsia, 1855-6, vol. I, pp.
116-7; DU MÉRIL, _Poésies populaires latines antérieures au douzième
siècle_, Parigi, 1843, pp. 131-5.

[186] _Institutio monialis_, cap. 15.

[187] _Zwei lateinische Gedichte aus dem Mittelalter, Zeitschrift für
deutsches Alterthum_ del Haupt, vol. V, pp. 463 sgg. La prima di queste
poesie è una Visione. Un uomo devoto, attraversati mille pericoli,
giunge a un fiume igneo, accavalcato da un ponte, che i giusti passano,
ma dal quale i rei precipitano; il solito ponte delle Visioni. In
prossimità del fiume è il Paradiso.

    Erat autem murus ingens iuxta flumen positus
    Et in summitate muri campus amenissimus.
    Ipse murus velut eris protendebat speciem
    Sine manu constitutus a summo artifice.
    Sed et via per anfractus inerat deposita,
    Per quam poterat ascendi ad camporum menia.
    Ergo cum illuc transiret vir prefatus spiritu,
    Vidit beatorum turbas tripartita gradibus.
    Prima hora ultra flumen super muri verticem
    Trahet iter in immensum spatiorum limitem.
    Ibi loca spaciosa illustrata lumine
    Et in ipsis gens beata fruens pacis requie.
    Ibi silve quam condense diversarum arborum
    Poma ferunt universe saporum suavium,
    Alte valde ut excedant ceterarum species.
    Umbra quarum fit iocunda caloris temperies.
    Abest anguis, abest rana, abest mala bestia,
    Totum pulchrum, totum tutum, totum plenum gloria.

Il pellegrino vorrebbe penetrare in quel luogo di delizie,

    Sed cum multa perlustrasset ad radicem ducitur
    Montis alti cuius rupis murus est argenteus.
    Vidit scalam elevatam super montis verticem,
    Per quam scandit et iustorum contemplatur speciem.
    Ibi quoque spaciosam perspicit planitiem,
    Spatiose visionis exhibens blandiciem.
    Inter species herbarum prata viridantia,
    Liliorum et rosarum redolet fragrancia.
    Ibi multi dividuntur rivulorum impetus,
    Qui de fonte vite fluunt in mille meatibus.

Il pellegrino giunge a un palazzo tutto costruito _ex viridi iaspide_,
adorno di pietre preziose, coperto di un aureo tetto. Nel mezzo è il
trono dell'Eterno, e dal trono emana il fonte della vita. Intorno sono
i beati distinti in tre ordini e i cori degli angeli: il cielo risuona
de' loro cantici. Cf. VINCENZO BELLOVACENSE, _Speculum historiale_,
l. VIII, cap. 101, _De Judeo quem Beata Virgo tormentis et gaudiis
ostensis convertit_, e CESARIO DI HEISTERBACH, _Dialogus miraculorum_,
dist. XI, cap. 12.

[188] Così nella descrizione che si legge nel cap. 8 del _De judicio
Domini_ di TERTULLIANO; in una poesia inglese di cui dà notizia il
WRIGHT, _Op. cit._, pp. 86-7, e altrove.

[189] Si trova anche _paradiso luziano_, suggerito senza dubbio quel
luziano dall'idea della luce. Nel poemetto _Della caducità della vita
umana_, v. 25, si legge:

    Fora del parais delicial.

MUSSAFIA, _Op. cit._, p. 181.



CAPITOLO III.

GLI ABITATORI DEL PARADISO TERRESTRE.


Il primo uomo, e il primo abitatore umano del Paradiso terrestre
fu, secondo la Genesi, Adamo. Il mito ampliato e variato de' tempi
posteriori s'attenne scrupolosamente, per questo rispetto, alla parola
biblica, e la invenzione dei preadamiti, che prima di Adamo avrebbero
dovuto popolare la terra, è una invenzione assai tarda, ignota ai
cristiani dei primi secoli, ignota a quelli dei tempi di mezzo[190].
Eva fu la compagna di Adamo nel beato soggiorno.

Il racconto biblico è assai sobrio di notizie intorno ai due primi
parenti; ma una tal sobrietà non poteva appagare la fantasia dei
credenti, memori dell'antico peccato e consci della infelicità ond'esso
era loro stato cagione. Il bisogno di conoscerne meglio gli autori,
le condizioni, le conseguenze, nacque spontaneo negli spiriti; e da
quel bisogno ebbe origine una moltitudine d'immaginazioni, le quali
ripeterono fantasticamente tutta la storia dei due protoplasti, dalla
creazione alla morte, e più oltre ancora, sino alle vicende della
più prossima loro discendenza. In grazia di quelle immaginazioni, il
succinto e arido racconto biblico si muta in un lungo romanzo pieno
di meraviglie e di stravaganze, le cui parti non sono tutte insieme
congiunte; anzi si può dire che formino come tanti romanzi separati,
aventi il soggetto medesimo, e informati, generalmente parlando,
dal medesimo spirito. Esse appartengono, quando in comune, quando
in particolare, alle tre grandi famiglie religiose che nei libri
dell'Antico Testamento cercano il verbo primo, se non anche l'ultimo,
delle loro credenze: ebrei, cristiani, maomettani.

Prima di passare a vedere un buon numero di quelle immaginazioni, non
sarà fuor di luogo dare una rapida indicazione delle fonti da cui esse
derivano, o, per parlar più giusto, giacchè ben poco si conosce circa
le loro origini prime, delle scritture in cui ebbero a raccogliersi.
Le principali sono: 1º, Alcuni trattati del _Talmud_; 2º, la _Piccola
Genesi_, o _Libro dei Giubilei_, opera di autore ebraico, anteriore
a Gesù Cristo[191]; 3º, _Il Combattimento di Adamo ed Eva_, tradotto
dall'arabico in etiopico, e malamente attribuito a Sant'Epifanio,
vescovo di Cipro[192]; 4º, _La Caverna dei Tesori_, già ricordata; 5º,
_Il Testamento d'Adamo_, il quale è, assai probabilmente, tutt'uno
con l'_Apocalissi d'Adamo_ di cui fa parola Sant'Epifanio, e con la
_Penitenza d'Adamo_ registrata nel decreto di papa Gelasio[193]; 6º, Il
Libro d'Adamo dei Mandaiti[194]; 7º, una Vita greca[195]: 8º, una Vita
latina[196]; 9º, il Corano, e non poche storie, e non pochi trattati
geografici degli Arabi[197].

Le prime favole di cui noi dobbiamo ora prendere notizia sono quelle
concernenti la creazione di Adamo e di Eva. Anzi tutto è da ricordare
che i cabalisti conobbero un tipo celeste dell'Adamo terrestre, e lo
chiamarono col nome di Adam Kadmon, e che un Adamo celeste si mostra
pure nelle dottrine dei primi gnostici[198]. La Bibbia si contenta di
dire che il Signore plasmò il corpo di Adamo della polvere della terra;
ma tale linguaggio parve poi ai credenti troppo generico. Secondo
una finzione dei rabbini, la polvere con cui Dio plasmò quel corpo fu
raccolta da tutta la faccia della terra; secondo una finzione analoga
dei musulmani, la terra necessaria fu dai quattro angeli maggiori
recata dai quattro punti cardinali: solo il cuore ed il capo furon
fatti di terra tolta nei campi dove sorsero poi la Mecca e Medina, la
santa Kaaba e il sepolcro del profeta[199]. Ebrei e cristiani vollero
far notare, che Adamo era stato creato di terra vergine, di terra,
cioè, non ancora bagnata e polluta dalla pioggia e dal sudore e dal
sangue, nè seminata, nè arata[200]; e Sant'Agostino, per tal ragione,
poneva il nascimento del primo uomo a riscontro del nascimento di
Cristo, figliuol d'una vergine[201]. La terra non parve più materia
sufficiente a tant'opera, e si disse che Adamo fu formato di otto parti
diverse, e che la terra fu una delle otto, assegnando le altre, con
più varie enumerazioni, a elementi diversi, o sostanze, o corpi; per
esempio: mare, sole, nuvole, vento, pietre, spirito santo, chiarità
del mondo[202]. La credenza del resto che l'uomo fosse formato di
otto parti, si vede già ricordata da Plutarco, il quale l'attribuisce
agli stoici[203]. Stando a un'opinione assai diffusa, Adamo fu creato
nell'agro damasceno; ma parecchi affermarono ch'ei fu creato in Ebron,
presso Gerusalemme, e ciò per ragioni che vedremo tra poco[204].

I musulmani, i quali narrano più cose mirabili del modo con cui
l'anima immortale fu introdotta da Dio nel corpo appena plasmato, e
del diffondersi di quella per le varie membra e pei sensi, in guisa
che ciascuno ne ricevesse la vita, i musulmani asseriscono che il primo
uomo fu creato un venerdì, nell'ora in cui i credenti sogliono recitare
la terza preghiera, a egual distanza dal mezzodì e dal tramonto del
sole; e s'accordano così, quanto al giorno, con ebrei e con cristiani.
Dice Sant'Ireneo che Adamo fu creato un venerdì, e di venerdì peccò,
nel qual giorno poi ebbe a morire il Redentore per ricomprar quel
peccato[205]. Altri scrittori ecclesiastici notarono che come Adamo
fu creato il sesto giorno, così Cristo nacque nel sesto millenario.
Vedremo in seguito altri riscontri e collegamenti simili, immaginati
per coordinare sempre più fra loro i due fatti del peccato e della
redenzione, dei quali l'uno era causa e l'altro effetto; ma gioverà
notare sin da ora che nel racconto biblico quel benedetto giorno non
è molto sicuramente indicato, perchè mentre in una parte l'uomo appar
creato nel sesto, subito dopo i bruti, in un'altra appar creato prima
dei bruti e prima delle piante; altro segno della poca cura con cui
furono congiunte insieme le due tradizioni. Nel _Bundehesh_ si legge
che Ahura Mazda spese settantacinque giorni in formar l'uomo: non so
che nulla di simile siasi detto del creatore di Adamo.

Ma non da tutti si credette che di una così vile e malvagia creatura
come subito ebbe a mostrarsi l'uomo potesse essere fattore Iddio.
Gli gnostici, che tanto travaglio diedero alla Chiesa primitiva, e
per oltre due secoli ne minacciarono le dottrine e l'esistenza; gli
gnostici, per cui la materia era la corporalità stessa del male,
affermarono che tutta la creazione, e però anche l'uomo, fosse fattura,
non già di Dio, ma del Demiurgo, il quale, nella loro concezione
dualistica, s'immedesima sempre più col principio del male, e contro
cui è tutta rivolta l'opera salutare di Cristo. Pei Marcioniti il
Demiurgo creatore è bensì il Dio degli Ebrei, ma è, in pari tempo, un
principio malvagio, contrapposto al Dio superiore, il quale è tutto
amore e bontà. Il Demiurgo creò l'uomo e gl'infuse il suo spirito. Fra
i Manichei il Demiurgo assume talvolta il nome di Satana. Nel _Libro
d'Adamo_ dei Mandaiti, libro tutto penetrato di dottrine gnostiche, si
dice che il corpo del primo parente fu creato da genii malefici. Nel
medio evo i Concorezensi, i Bogomili e i Catari pensarono che i primi
parenti fossero spiriti angelici rinchiusi in corpi plasmati da Satana,
e che fosse un'illusione e un inganno dello stesso Satana il Paradiso
terrestre[206].

Che Eva fosse stata creata con una costa d'Adamo fu generalmente
ammesso dalle varie famiglie di credenti che si attennero al racconto
biblico; e alcuni rabbini seppero dire perchè il Signore avesse
scelta quella parte del corpo anzichè un'altra, e provarono pure
che, togliendola ad Adamo, Dio non era stato un ladro. Ciò nondimeno
una opinione diversa ebbe pure a sorgere, che suggerita da un'altra
ambiguità di quel racconto medesimo, trovò numerosi seguaci fra i
rabbini, e qualcuno anche tra i cristiani; la opinione cioè che Adamo
fosse creato primamente androgino, o con due corpi di sesso diverso,
congiunti insieme e poi separati da Dio[207]. La celebre visionaria
Antonietta Bourignon (1616-1680), la quale giunse a veder l'Anticristo,
vide pure il primo padre Adamo, quale fu nella sua gloria, e lo vide
androgino; ma a modo suo. In luogo di membro virile egli aveva un
naso, simile in tutto a quello che adorna il volto, e provveduto delle
medesime facoltà; e nel suo ventre avveniva così la produzione come la
fecondazione degli ovuli da cui nascevano altri uomini[208].

Naturalmente si volle che, prima del peccato, Adamo avesse avuto un
corpo molto più perfetto che non ebbe di poi, e che non sia questo
nostro; e si disse che, mentre durò nello stato d'innocenza, egli fu
tutto luminoso. Altrettanto si narrò di quel Yami della mitologia
indiana, il quale ha con l'Adamo biblico più di una somiglianza.
Nell'Evangelo di San Matteo è detto che i giusti risplenderanno come il
sole nel regno del padre loro, e di una parziale lucidità miracolosa
apparsa nel corpo di un santo uomo parla Cesario in uno de' suoi
racconti[209]. Alcuni rabbini pensarono che Dio avesse creato Adamo
con la coda, ma che poi gliela togliesse per amor di bellezza[210];
e qualcuno pur ve ne fu che di quella coda disse formata Eva[211]. Ad
ogni modo, Adamo fu la più bella delle creature, superiore in bellezza
agli angeli ingelositi, inferiore solamente a Dio[212]; ed Eva fu la
sua degna compagna; e se poteva importare, per altri rispetti, che essi
avessero, o non avessero avuto ombelico, per la bellezza non importava
gran fatto[213].

Ebbero bensì statura acconcia alle altre loro perfezioni. Secondo i
rabbini, Adamo toccava col capo il cielo, si stendeva da una a un'altra
estremità della terra. Gli angeli ne furono sgomenti, e allora Dio lo
rimpicciolì sino a mille cubiti; oppure, dopo il peccato, gli gravò una
mano sul capo e lo ridusse di 1000, 900, 300 o 200 cubiti. Anche pei
musulmani Adamo toccava col capo il primo de' sette cieli, e opinioni
consimili corsero tra' cristiani. Mosè Bar-Cefa riferisce, in relazion
con l'opinione che poneva il Paradiso terrestre nell'antictone, una
credenza, secondo la quale Adamo ed Eva, essendo di smisurata statura,
avrebbero attraversato l'oceano a guado per venirsene nella terra di
qua[214]. Non mancarono valentuomini che sulla vera ed esatta statura
dei primi parenti istituirono lunghe e faticose indagini[215].

Il nome stesso di Adamo diede argomento a parecchie strane
immaginazioni, perchè non pareva possibile che il nome imposto al
primo padre da Dio medesimo, non fosse formato in qualche maniera
speciale, non contenesse alcuna significazione occulta. Giuseppe Flavio
si contenta di dire che Adamo vuol dire Il Rosso, e che il primo uomo
fu così denominato perchè formato di terra rossa; ma in un opuscolo
_De montibus Sina et Sion_, falsamente attribuito a San Cipriano, si
mostra come il nome Adam sia formato delle quattro lettere con cui
principiano, in greco, i nomi dei quattro punti cardinali, ἀνατολή,
δύσις, ἄρκτος, μεσημβρία; e ivi stesso si svela che nel nome di Adamo
era indicato il tempo della passione di Cristo e il numero d'anni
speso da Salomone in costruire il Tempio. Sant'Agostino dice che quella
composizione del nome di Adamo sta a mostrare, sia che la discendenza
di Adamo si spargerà per le quattro plaghe della terra, sia che dalle
quattro plaghe saranno raccolti gli eletti[216]. Per quella ragione
Adamo fu detto _tetragrammatos_ e microcosmo[217]. Tralascio di parlar
di coloro che nei nomi di Adamo e di Eva trovarono, o credettero di
trovare, le prove del solito mito solare[218].

La creazione del primo uomo, se fu incominciamento d'iniquità e di
sciagura sopra la terra, fu pure cagione di discordia e di ruina nel
cielo. Narrano i rabbini, che come appena si sparse colassù la nuova
che l'Eterno voleva creare Adamo, si affollarono intorno al trono di
lui gli angeli e i genii, de' quali, parte lo esortavano a crearlo, e
parte ne lo dissuadevano. Gli angeli della Misericordia, della Pace,
della Giustizia e della Verità, espressero varii sentimenti e diedero
opposti pareri. Quest'ultimo gridò piangendo: «Padre del vero, tu crei
sulla terra il padre della menzogna». Ma l'Eterno rassicurò le schiere
degli spiriti, dicendo che la verità avrebbe legato la terra col
cielo; e Adamo fu creato[219]. Nel Corano il contrasto si aggrava, e
produce effetti disastrosi. Dio, dopo che ebbe creato Adamo, chiamò le
schiere degli angeli suoi perchè onorassero la nuova creatura. Tutti si
piegarono volentieri al divino comando, salvo Iblîs, l'angelo superbo,
il quale ricusò d'inchinarsi alla creta, e fu per tale disobbedienza
cacciato dal cielo; di che poi si vendicò, trascinando l'uomo e la
donna al peccato[220]. Fantasie simili ebbero anche i cristiani, e si
può tener per sicuro che Maometto, il quale da cristiani e da ebrei
toglieva ciò che gli tornava utile, ne conobbe qualcuna. Nella Vita
latina ricordata di sopra, Satana stesso narra ad Adamo la cagione
della sua caduta. Creato l'uomo, Dio ordinò a tutti gli angeli di
adorare quella sua immagine. Primo obbedì Michele, il quale poi fece
obbedire gli altri; ma Satana, tenendosi troppo da più di Adamo, ricusò
di adorarlo, e alle minacce di Michele rispose che porrebbe la sua
sede sopra gli astri del cielo, e si farebbe simile all'Altissimo.
L'ira dell'Altissimo piombò su di lui. Egli fu espulso, insieme coi
suoi seguaci, dal cielo, e per vendicarsi trascinò alla colpa chi
fu involontaria cagione della sua caduta[221]. Qualche accenno a sì
fatto mito si trova già, come fu notato da altri, in Tertulliano, in
Sant'Ireneo, in Sant'Agostino. Questi lo ricusa, e sostien la opinione
che Satana cadde per superbia nell'inizio dei tempi[222].

Il primo uomo aveva, del resto, qualità e pregi quasi divini, tali,
insomma, da meritargli l'ammirazione e la reverenza degli angeli. In
più luoghi si trova detto che egli vinceva in perfezione tutti gli
spiriti celesti: stando a una delle tante fantasie rabbiniche, gli
angeli, vedutolo, credettero ch'egli fosse un secondo Dio, e l'unico
vero Dio, per disingannarli, lo fece cadere in un profondo sopore, Non
si dimentichi che in molte altre mitologie il primo uomo è un dio, o
quasi un dio.

Adamo fu il più sapiente degli uomini, superato solo da Cristo, l'Uomo
Dio. Seguendo San Tommaso e la tradizione patristica, dice Dante che in
Adamo e in Cristo fu infuso da Dio stesso

    Quantunque alla natura umana lece
      Aver di lume[223].

Sapere connato dunque, non acquisito. I cabalisti pensarono invece che
Adamo fosse stato ammaestrato dagli angeli, e Mosè Maimonide asserì
ch'egli fu uno stolto finchè non ebbe gustato il frutto proibito.
La opinione, per altro, ch'egli avesse in sè, comunque acquistata,
ogni dottrina, fu la opinion prevalente. Alcuni rabbini dissero che
Dio stesso mandò ad Adamo, per mezzo dell'angelo Rasiele, un libro,
in cui erano dichiarati tutti i secreti del cielo, ed esposte tutte
le sante dottrine, e che gli angeli scendevano apposta per udirne la
lettura. Questo libro miracoloso ritornò da sè stesso in cielo dopo il
peccato; ma quando Adamo ebbe fatto penitenza, Dio ordinò all'arcangelo
Raffaele di riportarglielo, e Adamo ne fece diligente lettura, e
lo lasciò, morendo, a Seth[224]. Una finzione simile a questa corre
tra' musulmani: nella fantasia di taluno il libro diventò un vero e
proprio libro di magia[225]. Adamo fu tenuto inventore dei caratteri,
peritissimo in astrologia e, generalmente parlando, institutore di
tutte le scienze e di tutte le arti[226]. Frutto di tanto sapere furono
parecchi libri. Sant'Epifanio ricorda certe rivelazioni attribuite
dagli gnostici ad Adamo; alcuni rabbini parlarono di un libro di
singolarissimo pregio in cui egli raccolse quanto nel Paradiso
terrestre udì dalla bocca di Dio; Mosè Maimonide dice che i Sabei
facevano Adamo autore di trattati sopra l'agricoltura: persino libri
di alchimia gli furono attribuiti. Due salmi si volle fossero opera
sua. Eva dovette avere, in qualche parte almeno, il sapere di Adamo:
Sant'Epifanio fa menzione di un evangelo che si diceva dettato da
lei[227].

Una solenne e innegabile prova del suo sapere, se non altro filologico,
diede Adamo quando, essendogli stati condotti innanzi, da Dio, tutti
gli animali creati, egli seppe nominar ciascuno in settanta lingue
diverse, mentre, per confession dei rabbini, gli angeli non avevano
saputo nominarli nemmeno in una lingua sola. Gli è vero, per altro, che
di solito non si concede ad Adamo la cognizione di tante lingue quante
ne nacquero poi, al tempo della edificazione della Torre di Babele; ma
si ragiona della lingua parlata da lui come di una lingua assai più
perfetta che non quelle venute dopo, e perdutasi già sin dai tempi
della prima sua discendenza.

    La lingua ch'io parlai fu tutta spenta
      Innanzi assai ch'all'ovra inconsumabile
      Fosse la gente di Nembrot attenta,

dice lo stesso Adamo a Dante, là nel Paradiso[228]. Vero è che nel
trattato _De vulgari eloquentia_, Dante aveva affermato che la lingua
parlata primamente da Adamo fu quella stessa che parlarono poi gli
Ebrei, serbata integra, affinchè il redentore del mondo potesse
parlare il linguaggio della grazia, e non un linguaggio nato dalla
confusione[229].

Vogliono alcuni che Adamo fosse introdotto da Dio nel Paradiso
terrestre solo quaranta giorni dopo la sua creazione[230]. Checchè
sia di ciò, la felicità di cui godettero nel giocondo giardino egli
e la donna sua fu quale noi non possiamo nemmeno immaginare, nonchè
descrivere. Vivendo in terra, eglino eran fatti partecipi della vita
del cielo. Nel _Testamento_ ricordato pur dianzi, lo stesso Adamo
racconta al figliuolo Seth quale fosse la condizione di lui e di Eva
nel Paradiso, prima del peccato. Udivano il suono armonioso che moveva
dalle ali dei serafini preganti; udivano la gran voce dell'acque, le
quali, dal profondo, adoravano il loro fattore; udivano le preghiere
di tutti gli esseri distribuite per le diverse ore del giorno e della
notte. Fruivano della beatifica visione di Dio, e pascevano l'anime
della parola divina. Godevano delle delizie incomparabili del giardino,
circondati dalla reverenza e dall'amore di tutte le creature viventi.

Ma quanto tempo godettero di così invidiabile felicità? quanto durò, in
altri termini, lo stato di loro innocenza? Su questo punto le opinioni
divariano assai, giacchè nulla dicono le Scritture. San Giovanni
Crisostomo crede che Adamo ed Eva non rimasero forse nemmeno un giorno
nel Paradiso[231]; e narrano alcuni talmudisti che Adamo peccò nella
decima ora del giorno in cui fu creato, e che egli ed Eva furono pieni
di terrore quando, essendo già stati cacciati dal Paradiso, videro per
la prima volta in lor vita tramontare il sole[232]. In Occidente si
accreditò in più particolar modo la opinione che i primi parenti non
rimanessero nel Paradiso più di sett'ore, dalla prima alla settima,
o dalla terza alla nona del giorno in cui furono creati, o vi furono
introdotti. Perciò dice Adamo a Dante:

    Nel monte, che si leva più dall'onda,
      Fu'io, con vita pura, e disonesta,
      Dalla prim'ora a quella che seconda,
    Come il sol muta quadra, l'ora sesta[233].

Ma altre opinioni vi furono in buon numero, delle quali alcune poco
si dilungavano da questa, e altre moltissimo; e secondo che si badi
all'una o all'altra, Adamo ed Eva sarebbero rimasti nel Paradiso un
giorno, sei, nove, quaranta giorni, sett'anni, quindici, ventotto, un
secolo[234]. I maomettani ce li fanno stare cinquecent'anni.

Non si creda, del resto, che questi numeri fossero sempre immaginati a
caso; molte volte si cercò in essi un indizio di misteriose e recondite
colleganze tra i due fatti capitali della storia del genere umano,
la caduta e la redenzione. Le condizioni e il modo di quella dovevano
prenunziare le condizioni e il modo di questa. Perciò da taluno si fece
durare il soggiorno dei primi parenti nel Paradiso quanto poi durò la
passione di Cristo; e si disse che il peccato fu commesso l'ora sesta,
nella qual ora Cristo fu posto in croce; e che l'espulsione avvenne
l'ora nona, nella quale ora poi Cristo morì. Altre corrispondenze pure
s'immaginarono. I quarant'anni dovevano rispondere agli altrettanti che
gli Ebrei passarono nel deserto.

Secondo i musulmani, che drammatizzarono in assai poetico modo
la storia della tentazione, Adamo resistette ottant'anni alle
sollecitazioni di Eva, che voleva fargli gustare il fatal pomo. I
cristiani non si curarono di sapere troppi particolari in proposito.
Ammisero, senz'altro, che Adamo fu trascinato al peccato da Eva[235];
e solo si mostrarono alquanto più curiosi di conoscere la vera qualità
del peccato commesso da entrambi. La opinione ortodossa e legittima è
ch'essi abbiano veramente trasgredito il divino precetto mangiando il
pomo; non un pomo simbolico, ma un pomo reale. Divieti simili a quello
di cui narra la Genesi si trovano in tutte le mitologie, e non di rado
riguardano appunto una pianta; e di ciò non si meraviglia chi ricordi
con quanta facilità gli uomini primitivi attribuissero ai frutti, o
ai succhi di certe piante, virtù di conferire, sia la immortalità,
sia un sovrumano sapere. Dante, che in così fatte questioni suol farsi
ripetitore delle dottrine approvate dalla Chiesa, dice, parlando della
sacra pianta del Paradiso terrestre:

    Per morder quella, in pena ed in disio
      Cinquemil'anni e più, l'anima prima
      Bramò colui che il morso in sè punio;

e facendo consistere la colpa, non nel fatto materiale dello aver
mangiato il frutto, ma nella disobbedienza, pone in bocca ad Adamo
queste parole:

    Or, figliuol mio, non il gustar del legno
      Fu per sè la cagion di tanto esilio,
      Ma solamente il trapassar del segno[236].

Alcuni talmudisti, per altro, pensarono, non ostante il detto
divino _Crescete e moltiplicate_, che il peccato fosse consistito
nella copula, e questa loro opinione ebbe seguitatori anche fra'
cristiani[237].

Dove, quando seguì il primo accoppiamento dei due primi genitori? Anche
intorno a ciò vi furono più disparate opinioni. Alcuni rabbini dicono
ch'esso avvenne nel Paradiso, e che nel Paradiso furono concepiti
Caino e Abele. I musulmani narrano meraviglie delle nozze di Adamo
ed Eva, e del padiglione di seta sotto cui esse furono celebrate, nel
bel mezzo del Paradiso. Ma i Dottori cristiani, tra cui San Girolamo e
Sant'Agostino, sostennero sempre che Adamo ed Eva uscirono vergini dal
Paradiso terrestre, e non si congiunsero se non passato certo tempo,
più o meno lungo, dalla loro espulsione; e Felice Faber afferma che,
se fossero rimasti nel Paradiso, avrebbero generato senza perdere la
verginità[238]. Ad ogni modo si ammetteva da tutti che, immediatamente
dopo il peccato, essi avessero perduto in certa guisa la verginità
dello spirito, avvedendosi della nudità propria. Perciò parecchie
sètte di eretici, che si chiamarono col nome di Adamiti, sorte in varii
tempi, considerarono la nudità come un segno di libertà di spirito e
d'innocenza, e rifiutarono ogni maniera di vesti[239].

Ma fu veramente Eva la prima moglie di Adamo? ed Eva, la gran
prevaricatrice, fu ella sempre fedele al suo legittimo sposo? Strani
dubbii si mossero intorno a ciò; anzi strane cose si affermarono. Fu
credenza diffusa tra' rabbini che, prima di generar figliuoli con Eva,
Adamo ne generasse con un demone femmina per nome Lilith, il quale
vuolsi da taluno che sia una cosa istessa con Ilithia, dea della notte
e dello spazio, adorata in Grecia ed in Egitto. Da quelle prime nozze
nacquero molti spiriti maligni[240]. Secondo un'altra finzione, Dio,
prima di trarre Eva dalla costa di Adamo, creò di terra Lilith, la
quale rifiutò di obbedire al marito, lo abbandonò, e divenne un genio
malefico, infesto ai pargoli, e madre di demonii[241]. Per contro,
una favola satirica, dovuta assai probabilmente alla fantasia di un
trovero, narra che, prima d'Eva, Dio aveva dato ad Adamo una compagna
assai più perfetta; ma che Adamo, ingelositosi della superiorità di
lei, la uccise, dopo di che Dio, per punirlo, diedegli Eva, che lo
trasse al peccato[242]. E fu persin detto che Adamo non ischifò di
congiungersi con le fiere.

Eva, da canto suo, non avrebbe dato prova di troppo maggior
continenza[243]. Vogliono ch'ell'abbia avuto commercio con Samaele,
principe de' demonii, e procreato con esso più figliuoli, tra cui
v'è chi pone Caino, e anche Abele. Del resto le notizie intorno
ai figliuoli di Adamo ed Eva sono molto confuse, e non di rado
contraddittorie[244].

Negli apocrifi ricordati di sopra si narra l'aspra e dolorosa vita
che dovettero condurre i due primi parenti dopo la loro cacciata dal
Paradiso; si narra la dura e lunga penitenza con cui si studiarono
di cancellare il peccato e di racquistare la grazia e l'amore di
quel Dio che avevano offeso; si narra la vecchiezza loro e la morte,
supreme calamità che sulla terra produsse la colpa. Usciti dal luogo
di beatitudine, si trovano in una terra inospitale ed ingrata, fra
belve fatte nemiche; errano in cerca di cibo, e debbono contentarsi di
quello onde le belve si pascono. S'accostano di bel nuovo al Paradiso,
con isperanza d'esservi riammessi, ma la speranza rimane delusa. Essi
piangono vedendo i corpi loro tanto mutati da quelli di prima; piangono
pensando alla felicità irreparabilmente perduta. Pregano senza fine
il Signore, ne implorano la pietà, digiunando, rimanendo immersi per
lunghi giorni nelle acque del mare, o in quelle del Giordano o del
Tigri. Ma Satana, e gli spiriti suoi, non dànno loro pace, li insidiano
in tutti i modi, tentano di ucciderli, seducono una seconda volta Eva,
distogliendola dalla cominciata penitenza. A consolare tanta miseria,
a confortare gli animi che stanno per cedere alla disperazione, viene
di quando in quando dall'alto la voce del Signore, che annunzia il
futuro perdono e la redenzione: a rinfrancare i corpi afflitti Dio
misericordioso manda delle frutta del Paradiso. Nuovi uomini nascono
sopra la terra e si vanno aggravando le conseguenze fatali della
colpa. Caino uccide Abele: Adamo ed Eva piangono amaramente l'ucciso.
Sono corsi nove secoli, e Adamo, stremato dalla vecchiezza e dalla
malattia, manda il figliuolo Seth, manda la moglie, prima cagione di
tanto soffrire, a chiedere al cherubino, cui fu commessa la custodia
del Paradiso, l'olio di misericordia. Qui nuova promessa di futura
redenzione. Adamo passa di questa vita, profetando nuove colpe e nuove
sciagure; Eva non tarda a seguirlo. I figliuoli dànno sepoltura ai
loro corpi, e la storia del mondo procede qual fu pronunziata, correndo
incontro al Diluvio.

Tale in succinto, raccolta da' varii racconti, la storia dei due
primi uomini dopo il peccato. Come ognuno può immaginar facilmente,
più e più opinioni particolari si ebbero sopra tale, o talaltro punto
di essa. Nel trattato _Erubim_ si legge che la penitenza di Adamo
durò centotrent'anni: secondo una tradizione musulmana, le lacrime
ch'egli pianse dopo il peccato formarono il Tigri e l'Eufrate; secondo
un'altra, quelle lacrime caddero sull'isola di Serendib, e produssero
le piante medicinali e gli aromati. Uno dei tristi e più visibili
effetti della colpa fu, a detta di certi rabbini, la calvizie[245].
Circa il luogo ove i due primi parenti vissero dopo la espulsione dal
Paradiso, e il luogo dove poi ebbero sepoltura, furono varie credenze.
Si disse da alcuni ch'e' furono rimessi nell'agro damasceno, ov'era
stato creato Adamo. Secondo Sant'Epifanio (sec. IV), Adamo ed Eva
dimorarono alcun tempo in prossimità del Paradiso, poi errarono per
molte regioni, e finalmente vennero in Giudea, ove morirono[246].
Dionigi di Telmahar (sec. IX) dice che la caverna dei tesori, ove
ripararono e vissero i due cacciati, e sulla quale apparve poi la
stella che guidò i Re Magi, era posta nell'ultimo Oriente, nella
montagna di Scir, di contro all'oceano che cinge il mondo, e non
lungi dal Paradiso terrestre. Coloro poi che ponevano il Paradiso
nell'antictone, pensavano, come abbiam veduto, o che Adamo ed Eva
fossero rimasti di là, e la progenitura loro similmente, sino al
Diluvio, o che fossero venuti di qua, attraversando l'oceano. Secondo
un'altra opinione, che fu diffusissima, così in Oriente, come in
Occidente, e in Oriente è viva tuttora, Adamo ed Eva vissero gli anni
del loro esilio nell'isola di Serendib, o Ceilan.

Questa credenza è, senza dubbio, di origine maomettana, o, piuttosto,
è una credenza buddistica trasformata da maomettani; ed ecco in qual
modo. Credevano, e credono ancora i buddisti, che il Budda soggiornò
alcun tempo sopra un monte dell'isola di Ceilan, chiamato Langka dai
bramani del continente[247]; che quivi menò vita contemplativa; e che
sollevandosi poi al cielo, lasciò nella rupe la impronta del proprio
piede, visibile a tutti. I maomettani, usando un procedimento assai
frequente nella storia delle leggende, riferirono ad Adamo quanto si
narrava del Budda, e le due tradizioni continuarono a vivere l'una
accosto all'altra. Di ciò ci porge una curiosa testimonianza Marco
Polo nella relazione dei suoi viaggi. Egli dice che nell'isola di
Ceilan, sulla cima di un alto monte, al quale non si può salire
se non con l'ajuto di catene, è un sepolcro, che i Saracini dicono
essere di Adamo, e gli idolatri (intendi i buddisti), di Sergamon
Borcam. Il séguito del racconto mostra che questo Sergamon non è
altri che il Budda, il quale andò soggetto, come è noto, ad una altra
consimile trasformazione, diventando il santo Josafat della leggenda
cristiana[248]. Gli Arabi chiamarono il monte Rahun, e il primo loro
scrittore che abbia fatto ricordo della leggenda sembra essere stato
Suleymân. Edrîsi, il quale scrisse il suo trattato geografico alla
corte di Ruggero II di Sicilia, nel 1154, Edrîsi, il quale attesta,
fra tant'altre cose, d'aver visitato la grotta dei Sette Dormienti
presso Efeso, e d'aver veduto i loro corpi tra l'aloe, la mirra e la
canfora, non s'intende bene se morti, o sopiti di nuovo, riferisce
la leggenda del monte, da lui chiamato el-Rahuk. A suo dire, narrano
i bramani esservi sulla vetta del monte l'impronta del piè di Adamo,
lunga settanta cubiti e luminosa. Da quel punto, con un passo, Adamo
giunse al mare, ch'è lontano due o tre giornate[249]. Dicono inoltre
i maomettani che Adamo, cacciato dal Paradiso, cadde nell'isola di
Serendib, e quivi morì, dopo aver compiuto un pellegrinaggio al luogo
dove poi doveva sorgere la Mecca. Una descrizione del monte si trova
pure nei viaggi d'Ibn-Batûta[250].

La leggenda passò d'Oriente in Occidente, e dai maomettani ai
cristiani; e il monte di Ceilan, chiamato poi dai Portoghesi Pico de
Adam, diventò celebre. Eutichio, patriarca d'Alessandria (m. 940)
dice solo che Adamo fu cacciato in un monte dell'India[251]; ma il
monte è poi sempre quello di Ceilan. Odorico da Pordenone lo descrive
succintamente, e narra che nella sommità di esso era un lago che quelli
dell'isola dicevano formato delle lacrime piante da Adamo e da Eva
per la morte di Abele[252]. Giovanni de' Marignolli ha un racconto
più particolareggiato e più esplicito. L'angelo di Dio prese Adamo,
e lo posò sul monte di Ceilan, e l'impronta del piede di Adamo rimase
miracolosamente impressa nel marmo, lunga due palmi e mezzo. Sopra un
altro monte, lontano dal primo quattro piccole giornate, l'Angelo posò
Eva, e i due peccatori stettero disgiunti, immersi nel lutto, quaranta
giorni, trascorsi i quali, l'angelo condusse Eva ad Adamo, il quale
era ormai disperato. Sulla prima montagna erano, oltre l'impronta
del piede, una statua seduta, con la destra stesa verso l'Occidente;
la casa di Adamo; una fonte di purissime acque, le quali si credeva
venissero dal Paradiso, e in cui eran gemme, formate, secondo la
opinione di quegli abitanti, delle lacrime di Adamo; un orto pieno
d'alberi che recavano ottimi frutti. Molti pellegrini si recavano a
visitare il santo luogo[253]. Sulla fine del secolo XVII, Vincenzo
Coronelli diceva ancora che sulla cima del monte era sepolto Adamo, e
che ci si vedeva un lago formato delle lacrime versate da Eva per la
morte di Abele[254]. Quest'ultima affermazione contraddiceva a un'altra
credenza, che non sembra, per altro, sia stata molto diffusa. Il già
ricordato Burcardo di Monte Sion dice che nel fianco di un monte, nella
valle d'Ebron, era la spelonca ove Adamo ed Eva piansero cent'anni
la morte di Abele, e che ci si vedevano ancora i letti su cui avevano
dormito, e la fonte delle cui acque avevano bevuto[255].

Se fu posta sulla sommità del monte di Ceilan, la sepoltura di Adamo
fu posta pure in molti altri luoghi. Secondo una leggenda orientale,
Adamo fu seppellito nel Paradiso terrestre[256]; e nella già più
volte ricordata Vita latina si dice il medesimo; e nell'Apocalissi
greca si dice anche di Eva. Ma questa credenza non ebbe molto favore.
Nel _Testamento di Adamo_ si narra che Adamo fu seppellito a oriente
del Paradiso, e che gli stessi angeli e le Virtù del cielo ne fecero
i funerali. Nel _Combattimento di Adamo ed Eva_ il racconto si
arricchisce di particolari a questo riguardo, e si narrano parecchie
vicende a cui andò soggetto il corpo del primo genitore. Adamo mancò
l'anniversario del giorno in cui fu creato, ricorrendo l'ora in cui
fu espulso dal Paradiso. Il suo corpo fu deposto nella caverna dei
tesori, dove andarono a raggiungerlo a mano a mano i corpi degli altri
patriarchi. Avvicinandosi il Diluvio, Noè e i figliuoli tolsero, per
comandamento divino, dalla caverna il corpo di Adamo, insieme con
l'oro, l'incenso e la mirra che v'erano stati raccolti, e lo portarono
nell'Arca, lasciando gli altri corpi nella caverna, la quale fu
chiusa da Dio per modo da non lasciarne veder segno; e così rimarrà
sino al giorno della risurrezione. Molti anni dopo, morto Noè, Sem e
Melchisedec traggono, per ordine di Dio, il corpo dall'Arca, e, guidati
da un angelo, vanno a seppellirlo sul Golgota. Ecco qui la leggenda
celebre che vuole sepolto il peccatore nel luogo stesso ove dovrà poi
sorgere la croce del redentore, e che narra bagnata del prezioso sangue
di questo il capo ribelle che non aveva saputo piegarsi al divino
comandamento. Di questa, che certo è leggenda mirabile, s'inspirarono
le arti del disegno: il teschio che in infiniti quadri si vede fuor di
terra, appiè della croce, è il teschio di Adamo[257]. Alcuni eretici si
spinsero più oltre nei liberi campi della fantasia: essi identificarono
il redentore col peccatore, fecero passar l'anima di Adamo prima in
Davide, poi in Cristo. E Cristo fu anche detto secondo Adamo[258].
Vogliono alcuni Padri della Chiesa greca che la tradizione, la quale
dice Adamo sepolto sul Golgota sia di origine giudaica: concesso pure
che tale sia la sua origine (e gli Ebrei dovevano essere naturalmente
tratti a raccostare il padre del genere umano a Gerusalemme) bisogna
riconoscere che quella tradizione aveva ogni desiderabil carattere
per farsi accettar da' cristiani. Sant'Agostino esprimeva il pensiero
e il sentimento di molti quando mostrava che alla riparazione nessun
altro luogo poteva essere più acconcio di quello ove giaceva sepolto
il colpevole[259]. Accostandosi a certi racconti di cui dovrò parlare
più innanzi, e seguitando una opinione professata da parecchi rabbini e
da parecchi Dottori cristiani, dice l'inglese Sevulfo, nella relazione
del viaggio che fece in Palestina negli anni 1102 1103, che Adamo
era seppellito nella valle d'Ebron, insieme con Abramo, Isacco e
Giacobbe[260]. Di così ingegnosi collegamenti non si dilettarono, del
resto, solamente gli ebrei e i cristiani: secondo una delle tradizioni
maomettane, Adamo fu seppellito a poca distanza dal luogo ove doveva
sorgere la Mecca, sul monte Abù-Cais, oppure sul monte Arafat, dove
Adamo si ricongiunse con Eva dopo centovent'anni di separazione[261].

Adamo ed Eva lasciarono, com'è ben naturale, lungo ricordo di sè,
del loro peccato, e della punizione che gli tenne dietro, nella loro
progenie, defraudata per essi della felicità a cui Dio la voleva
chiamata, e data in preda a inenarrabili sciagure. Non si può aprire
libro di sacro argomento senza incontrare i loro nomi, e un qualche
cenno della istoria loro. Per secoli, durante tutto il medio evo, essi
furono vivi nella coscienza dei credenti, che sognavano e agognavano,
nella comune desolazione, la perduta felicità. Ai tempi di Michele
Psello (sec. XI) si vedevano in un luogo di Costantinopoli le statue
di Adamo ed Eva accanto a quelle della prosperità e della fame. Nella
solitudine dei chiostri, i monaci si proponevano a vicenda indovinelli,
cui porgevano argomento Adamo ed Eva, domandando per esempio: _Chi morì
senz'esser mai nato?_ Nei Misteri si vedeva la creazione dei due primi
parenti, e tutta la storia dolorosa della tentazione e del peccato,
sceneggiata[262]. Nelle epopee francesi del medio evo sono molto
frequenti le preghiere poste in bocca a tale o talaltro dei personaggi,
e quelle preghiere cominciano assai spesso con un cenno alla creazione
dei due progenitori e al peccato da essi commesso[263]. Non era forse
uscita da quel peccato tutta la storia dell'uman genere? I versi
d'Alcuino esprimevano a questo riguardo la credenza e il rammarico di
un infinito popolo:

    Postquam primus homo paradisi liquerat hortos,
      Et miseras terrae miser adibat opes:
    Exilioque gravi poenas cum prole luebat,
      Perfidiae quoniam furta et maligna gerit:
    Per varios casus mortalis vita cucurrit,
      Diversosque dies omnis habebat homo[264].

Ma lasciamo ora, per ritrovarli anco una volta un po' più innanzi,
Adamo ed Eva, e volgiamoci ad altri abitatori del Paradiso.

Primi ci si presentano Enoch ed Elia, il patriarca e il profeta che
mai non pagarono il debito loro alla morte, e vivi furono sottratti
alla vista degli uomini. La tradizione che entrambi li pone ad abitare
nel Paradiso terrestre è assai antica, e comune così ad ebrei come a
cristiani: essa aveva una sua ragion naturale nel pensiero che chi
scampava per divina grazia alla morte dovesse rientrar nel luogo
ove la morte non poteva aver potestà, ov'era l'albero della vita.
Sant'Ireneo, Tertulliano, Santo Agostino, Mario Vittore, Gregorio
di Tours, Sant'Aldelmo, altri assai, così del tempo più antico, come
del medio evo, la ricordano, e se i più l'accettano, parecchi ancora
la rifiutano[265]. Un dubbio rimane, se il luogo dove i due santi
soggiornano da secoli sia proprio il Paradiso terrestre. Nell'apocrifo
_Libro d'Enoch_ è detto che nessuno mai conobbe il luogo ov'ebbe
ricetto il patriarca[266]; e Alano de Insulis, per non recare altri
esempii, in uno degli scritti suoi dice che il santo fu trasportato nel
Paradiso terrestre, e in altro ch'egli fu trasportato, sia nel Paradiso
terrestre, sia in luogo a noi occulto[267]. Ma questo dubbio fu di
pochi. Le leggende medievali ci mostrano assai spesso Enoch ed Elia
nel Paradiso; e nel Paradiso li pongono Fazio degli Uberti e Federigo
Frezzi; e Dante non dice qual ragione l'abbia indotto a non lasciarveli
vedere[268].

Tradizioni simili a queste hanno i maomettani, i quali narrano che
Enoch, da essi chiamato Edris, ed Elia (Kheder, Khidr)[269] trovarono
la fontana di vita, e avendo bevuto delle sue acque non conobbero
la morte: essi sono pressochè sempre in moto per vegliare alla
sicurezza dei pellegrini che si recano alla Mecca, e solo di tanto
in tanto riposano in un paradiso ripieno di tutte le delizie[270]. Il
viaggiatore Abulfauaris dei _Mille ed un giorno_ trova Elia e Kheder
(qui Kheder è diverso da Elia) in un paradiso serbato agli amici e
discepoli del profeta[271].

Enoch ed Elia compaiono di solito vecchissimi, sebbene questa loro
vecchiezza male s'accordi con la credenza che nel Paradiso terrestre
fosse la fontana di giovinezza[272]. Essi non sono mai morti, e serbano
il corpo che già ebbero mentre furon tra gli uomini; ma non per questo
si sottrarranno alla comune e inflessibil legge cui è soggetta tutta
la discendenza d'Adamo. La morte loro è solamente differita. Alla fine
dei tempi essi torneranno sulla terra d'esilio, e combatteranno contro
l'Anticristo, e saranno uccisi da lui, ma per risuscitare poco dopo, ed
essere assunti alla gloria eterna del cielo. Questa credenza suggerita,
per una parte, dalla opinione che i due santi dovessero, come tutti
gli altri uomini, andar soggetti alla morte e alla risurrezione, e per
un'altra, da ciò che nell'Apocalissi è detto[273] di due testimoni
non nominati, i quali saranno uccisi dalla bestia diabolica e poi
risusciteranno, questa credenza ebbe tra' cristiani grandissima
diffusione. Non senza variare tuttavia in parecchi particolari. Così
qualche scrittore aggiunse terzo campione ai due primi San Giovanni;
altri fece compagno ad Elia, non già Enoch, ma Mosè, o Geremia, o
Eliseo; altri parlò del solo Elia[274]. I rabbini favoleggiarono
di un ritorno di Elia pel tempo della venuta del Messia, e poi pel
tempo della irruzione dei popoli di Gog e Magog. Non sarà fuor di
luogo ricordare a questo proposito che Lao-Tseu si tolse agli occhi
degli uomini ritraendosi sulle cime del Kuen-lun, ov'è il paradiso
dei Cinesi; e che la rimozione, o segregazione (quella che i Tedeschi
chiamano _Entrückung_) degli eroi, o di altri personaggi tra l'umano e
il divino, è tema comune la molte mitologie[275].

Nell'Evangelo di Nicodemo Enoch ed Elia accolgono nel Paradiso
terrestre le anime che Cristo ha liberate dall'Inferno, e a capo delle
quali è Adamo[276]. Che quel Paradiso dovesse esser luogo di dimora pei
giusti e per gli eletti, fu opinione seguitata da molti, così tra gli
ebrei come tra' cristiani, e assai naturalmente suggerita dal pensiero
che le anime riscattate da Cristo dovessero racquistare quanto la
diabolica frode aveva fatto loro perdere. Sant'Isidoro Pelusiota (sec.
V) dice che i giusti risorti saranno accolti da Cristo nel Paradiso
terrestre, come nella propria lor patria, dalla quale li ha esclusi
il peccato[277]; e nel già più volte citato _Combattimento di Adamo_
Dio promette al peccatore che il giorno in cui scenderà nel regno dei
morti, e spezzerà le ferree porte dell'Inferno, condurrà le anime dei
giusti nel giardino di beatitudine[278].

Ma la credenza prese, come si può bene immaginare, più forme, e se
da molti fu accolta, fu pure da molti contraddetta. Nel _Libro di
Enoch_, il quale, non tenendo conto di certe aggiunte posteriori, fu
composto, secondo la più probabile opinione, oltre a cent'anni prima
di Cristo, è fatta menzione del giardino ove abitano i giusti e gli
eletti, e tale giardino è, senza dubbio, quello stesso di Adamo[279].
Nel racconto di Rabbi Giosuè, figliuolo di Levi, ricordato di sopra, e
in un altro racconto rabbinico, ove si narra un'avventura di Alessandro
Magno, e del quale dovrò far parola più innanzi, si dice similmente
che il Paradiso terrestre è luogo di dimora ai giusti, e nel secondo si
soggiunge, sino all'universale Giudizio[280].

Tra' cristiani, i più di coloro che pensarono dovere i giusti aver
ricetto nel Paradiso terrestre, asserirono che questo loro soggiorno
sarà temporaneo, e durerà solo sino alla risurrezione e al Giudizio,
dopo il quale ascenderanno in cielo. Taluno di essi volle usata ai
soli martiri cotal grazia; mentre altri, o sostennero la opinione che
giusti e rei sono accolti in un luogo medesimo sino al novissimo dì, o
concedettero ai giusti d'entrare nel Paradiso celeste immediatamente
dopo la morte[281]. Quest'ultima opinione trionfò dopo il V secolo,
e riuscirono vani gli sforzi con cui Giovanni XXII tentò di far
prevalere la contraria dottrina, che gli eletti non saranno ammessi
alla beatifica visione di Dio se non dopo il Giudizio universale.
Ciò nondimeno, questa dottrina, che l'Università di Parigi condannò
come ereticale nel 1240, si vede implicitamente professata in alcune
leggende, delle quali dovrò dire più oltre, e in parecchie Visioni. In
esse, il luogo ove i giusti attendono il gran giorno, è talvolta il
Paradiso terrestre, espressamente nominato, e talvolta un luogo non
nominato, che può essere, o non essere, secondo i casi, il Paradiso.
Beda narra di un uomo di Nortumbria che, pellegrinando nel mondo di là,
giunse a una pianura fiorita e ridente, innondata di luce, chiusa da
altissimo muro, e popolata da innumerevoli beati vestiti di bianco, i
quali, non essendo stati perfetti in vita, attendono ivi il Giudizio.
Non dice che fosse quello il Paradiso terrestre[282]. Nel racconto di
cert'apparizione, riferito da Gervasio da Tilbury, è fatto cenno di un
Purgatorio nell'aria, e di un altro luogo, più remoto dalla terra, dove
le anime dei giusti aspettano il novissimo giorno[283]. Il monaco di
Evesham, di cui narra la Visione Matteo Paris[284], trovò dopo essere
uscito dai luoghi di punizione, anime beate, che soggiornavano in campi
luminosi e fiorenti, separati dal Paradiso da un muro di cristallo.
Nella Visione di Tundalo si parla di anime non abbastanza buone per
meritare il cielo, le quali si stanno esultanti in una dilettosa
campagna; ma non è detto che questa campagna sia il Paradiso terrestre,
sebbene possa farlo credere la fontana di vita che vi si trova[285].
Per contro nell'_Apocalypsis Pauli_ sono anime beate, le quali
aspettano nel Paradiso terrestre il giorno del Giudizio, in compagnia
di Enoch ed Elia[286]; e il medesimo si ha nella leggenda del Pozzo di
San Patrizio, nella Visione di Frate Alberico e in altre[287].

Quel Thurcill, di cui narra la Visione il testè ricordato Matteo
Paris[288], trovò nel Paradiso terrestre, seduto appiè di un albero
meraviglioso, accanto alla fonte da cui scaturiscono i quattro
fiumi, il primo padre Adamo, il quale sembrava ridere con un occhio e
pianger con l'altro, ed era coperto di una veste di più colori e di
meravigliosa bellezza. Egli rideva pensando ai discendenti suoi che
andrebbero a vita eterna, e piangeva pensando a quelli che andrebbero
a eterna dannazione. La sua veste non era intera, ma andava crescendo
per le virtù dei giusti, simboleggiate nei colori di quella: quando
sarà tutta compiuta il mondo avrà fine. Una Visione molto simile a
questa narra di un novizio cistercense Vincenzo di Beauvais[289],
il quale ne trae il racconto da Elinando. Qui nulla è detto di altri
eletti che si trovino nel Paradiso; ma non si esclude che ci sieno.
Altrove si ha notizia di altri particolari eletti, di cui si recano i
nomi, sia poi che ad essi diensi pochi compagni soltanto, o moltissimi,
quanti possono essere i giusti. I rabbini nominano di proposito, oltre
ad Enoch ed Elia, il Messia che deve venire, Elieser, servitore di
Abramo, Hiram, re di Tiro, il quale, montato in superbia, ne fu espulso
e precipitato nell'Inferno, e alcun altro, nove o tredici in tutto.
Nell'_Apocalypsis Pauli_ è fatto speciale ricordo, oltrechè della
Vergine Maria, la quale non è da considerare come abitatrice ordinaria
del Paradiso terrestre, e di Enoch e di Elia, anche di Abramo,
d'Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, di Mosè, d'Isaia, di Geremia, di
Ezechiele e di Noè. Frate Alberico dice che di coloro che sono nel
Paradiso San Pietro gli nominò soltanto Abele, Abramo, Lazzaro e il
buon ladrone. L'ingresso del buon ladrone nel Paradiso terrestre è
descritto nell'Evangelo di Nicodemo, dove si dice pure che dei redenti
da Cristo egli fu il primo a penetrarvi[290]. Altrove sono ricordati
i nomi di Giosuè, di Salomone[291], e, con assai maggior frequenza di
San Giovanni evangelista. Credevasi generalmente che in conformità
di alcune parole pronunziate da Gesù a suo riguardo (_Sic eum volo
manere donec veniam_[292]) l'apostolo prediletto non fosse mai morto,
e aspettasse, per ricomparire, il ritorno del suo maestro. Gregorio
di Tours racconta che San Giovanni si fece seppellir vivo e che dal
suo sepolcro scaturiva manna[293] Isidoro di Siviglia ripete questa
notizia, e dopo lui la ripetono parecchi, alterandola più o meno; e
fra i parecchi sono Brunetto Latini e il Mandeville, il quale ultimo
non dice cosa punto nuova quando dice che il santo era stato portato
in Paradiso, e nel sepolcro suo non si trovava se non manna[294].
L'Ariosto, facendo accogliere Astolfo da San Giovanni nel Paradiso
terrestre, si conformava a modo suo a una tradizione assai antica[295].
Un'altra leggenda fa entrar San Giovanni nella numerosa famiglia
dei _Dormienti_, e narra che l'apostolo dorme in una caverna vicina
ad Efeso, aspettando le ultime battaglie della fede e il ritorno di
Cristo.

Secondo una opinione che discorda da tutte le precedenti, gli eletti
non entreranno nel Paradiso terrestre, il quale alle volte diventa
tutt'uno col celeste, se non dopo il Giudizio universale[296]. Da altra
banda i chiliasti pensarono che tutta la terra dovesse diventare, in
certo qual modo, Paradiso terrestre durante i mille anni del regno di
Cristo, prima dell'ultimo sovvertimento finale.

Ma il beato giardino non fu abitato solamente da uomini: esso fu ancora
abitato da bruti, i quali vincevano di molto in dignità, in bellezza ed
in senno i loro simili della terra d'esilio, ed erano per ogni rispetto
tali da aggiunger vaghezza alla santa dimora. Non solo mostravansi
pieni di benignità e mansuetudine[297]; ma ancora, secondo afferma
San Basilio, parlavano assai sensatamente; e la leggenda maomettana
racconta che il cavallo Meimun rinfacciò ad Adamo, suo signore, il
commesso peccato. Com'è noto, nel paradiso di Maometto sono parecchi
animali, fra gli altri il cammello del Profeta, e l'asino su cui Gesù
entrò in Gerusalemme; e una leggenda tedesca narra di un paradiso
degli animali, dove questi, sotto la tutela di Dio, vivono in piena
tranquillità ed innocenza[298]. Vogliono alcuni che tutti gli animali
parlassero in origine, e che perdessero la favella in séguito al
peccato.

Fra gli animali del Paradiso tengono il principal luogo gli uccelli,
i quali empiono tutto il giardino dei loro dolcissimi canti. Non è
descrizione del santo luogo che non ricordi espressamente, insieme
con l'altre, anche questa delizia; e in più leggende particolari è
detto tale essere l'armonia e la soavità di quei canti da forzare al
sonno chiunque li ascolti. L'uccello del Paradiso è spesso descritto
nel medio evo per la sua gran bellezza, e il nome suo indica la sua
presunta origine[299]. Francesco da Barberino scrive meraviglie di due
uccelli bianchi che sono nel Paradiso terrestre[300] e una leggenda
dei Copti cristiani narra che il gallo fu messo in Paradiso per aver
rivelato a Cristo il tradimento di Giuda[301].

Ma di quanti uccelli poterono ornare e rallegrare di lor presenza il
Paradiso, il più mirabile fu, senza dubbio, la Fenice, quell'unica e
immortale Fenice, di cui tanto aveva favoleggiato l'antichità, e di cui
tanto ancora doveva favoleggiare il medio evo. Le ragioni che dovevano
favorire, anzi richiedere, l'introduzione della Fenice nel Paradiso son
quelle stesse che noi abbiam già veduto operare in altri casi analoghi:
tutto quanto si sottraeva alla morte, a quella morte ch'era apparsa
nel mondo come un effetto del peccato, apparteneva in certo qual modo
al Paradiso, stanza naturale dell'innocenza e della vita. I rabbini
spiegarono la immortalità della Fenice narrando che tutti gli uccelli
mangiarono, insiem con Eva, del frutto proibito, salvo quella, che
perciò rimase immortale[302]. Per i Dottori cristiani il meraviglioso
uccello diventò un vivente simbolo della risurrezione, del rinnovamento
mediante il battesimo, della felicità restaurata, della vita eterna, e
sono senza numero quelli che ne parlano. Come di simbolo ne usò l'arte
cristiana sino dai primi tempi, ritraendo la immagine sua sopra monete,
in sepolcri, in mosaici; ponendola accanto a quelle di Cristo e dei
santi; facendone più tardi una figura del Redentore medesimo[303].
Secondo Alcimo Avito, la Fenice raccoglie in Paradiso gli aromati con
cui forma il vitale suo rogo. Non m'indugerò a ripetere le descrizioni
che di essa si leggono nei _Bestiarii_, e in altri trattati del medio
evo, come sarebbe il _Tresor_ di Brunetto Latini. Dirò solo che della
sua esistenza nessuno dubitava; che il Prete Gianni asseriva d'averla
in quel suo fortunato paese; e che il Mandeville, il quale pretende
d'averla veduta due volte, la dipinge più grossa d'un pavone, con una
specie di corona in capo, le ali e la coda color di porpora, il dorso
turchino, e tinta di tutti i colori dell'arcobaleno quando il sole la
illumina. Il Petrarca vide un giorno, sognando desto,

      Una strania fenice, ambedue l'ale
    Di porpora vestita e 'l capo d'oro[304];

ma il Tasso, il quale osa dirla

    Augello eguale alle celesti forme,

ne fa una pittura ben più pomposa nel poemetto che appunto s'intitola
_La Fenice_[305]. Nè m'indugerò a dire dell'altre sue meraviglie; del
modo che teneva per abbruciarsi, anzi per rinnovarsi; e del tempo che
si diceva passare tra uno e un altro rinnovamento, e che varia, secondo
le opinioni, da 500 a 7000 anni. Noterò solamente, parendomi abbia più
stretta relazione col nostro argomento, che le fu attribuita anche una
certa virtù curativa, conveniente, del resto, alla natura del luogo
ove credevasi da molti ch'essa dimorasse. Secondo certa versione di una
leggenda che io ho già ricordata più sopra[306], i tre figliuoli del re
infermo vanno in cerca, non della fontana di giovinezza, o di vita, ma
della Fenice, che restituisca la sanità al padre loro[307].

Un'altra finzione fece compagno della Fenice, nel Paradiso terrestre,
il pellicano, simbolo anch'esso di Cristo, che dà col proprio sangue la
vita ai peccatori.

Certi monaci, della cui leggenda ho già fatto cenno e dovrò dar
ragguaglio più oltre, videro nel Paradiso, fra molt'altre meraviglie,
«una fontana lunga uno quinto miglio, et era ampia secondo che
rispondeva alla grandezza (_lunga e larga per spazio di miglia cinque_,
secondo altre redazioni) et era piena di pesci, i quali cantavano
tanto dolcemente, che quasi ogni creatura umana vi sarebbe dormentata,
tanto era soave e dolce a udire. E questo canto facevano a certe ore
canoniche del dì, quando udivano cantare gli angioli del Paradiso».

E basterà degli abitatori.


NOTE:

[190] Inventore dei preadamiti fu ISACCO DE LA PEYRÈRE (1594-1676),
il quale, fondandosi sopra un passo della Epistola di San Paolo ai
Romani, mise fuori la opinione che uomini fossero esistiti prima di
Adamo, e la sostenne in un libro stampato la prima volta nel 1653, e
intitolato _Preadamitae, sive exercitationes super vv. 12, 13 et 14,
cap. V, epistolae D. Pauli ad Romanos_. Questa opinione suscitò grande
scandalo e infinite dispute, e diede materia a numerosi libri, alcuni
dei quali scritti in tempi assai prossimi a noi. Eccone alcuni: FILIPPO
LE PRIEUR (sotto il nome di EUSEBIO ROMANO), _Animadversiones in librum
praeadamitarum_, Parigi, 1656; HILPERT, _Disquisitio de praeadamitis_,
Amsterdam, 1656; HULSIUS, _Non-ens prae-adamiticum, sive confutatio
vani cujusdam somnii, quo quidam Anonymus fingit ante Adamum primum
homines fuisse in mundo_, Lugduni Batavorum, 1656; GELPKE, _Ueber die
Erde oder das Menschengeschlecht vor Adam_, Braunschweig, 1820.

[191] _Das Buch der Jubiläen_, trad, dall'etiopico e pubblicato da A.
DILLMANN, nei _Jahrbücher der biblischen Wissenschaft_ dell'Ewald,
voll. II e III, Gottinga, 1849-51 (Lo stesso Dillmann pubblicò
poi anche il testo etiopico, Lipsia, 1859). Frammenti di un'antica
traduzione latina pubblicò il CERIANI, _Monumenta sacra et profana ex
codicibus praesertim Bibliothecae Ambrosianae_, t. I, Milano, 1861. H.
RÖNSCH ripubblicò i frammenti dell'Ambrosiana unitamente alla versione
latina del Dillmann, accompagnandoli di osservazioni e d'indagini:
_Das Buch der Jubiläen oder die Kleine Genesis_, Lipsia, 1874. Dalla
_Piccola Genesi_ Sincello e Cedreno attinsero parte dei racconti loro
concernenti Adamo ed Eva.

[192] _Das christliche Adambuch des Morgenlandes_, tradotto
dall'etiopico e pubbl. da A. DILLMANN, nei _Jahrbücher_ citati, vol.
V, 1853; traduzione francese in MIGNE, _Dictionnaire des apocryphes_,
Parigi, 1856-8, vol. I. Il testo arabico etiopico fu pubblicato dal
TRUMPP nelle _Abhandl. d. k. bayer. Akad. d. Wiss._, I Cl., vol. XV,
1881. Di questo importantissimo apocrifo dice il Renan nello scritto
qui sotto citato, p. 470: «C'est une sorte de chronique s'étendant
depuis Adam jusqu'à J. C., et où l'on a cherché à grouper toutes les
fables répandues en Orient sur Adam, le paradis terrestre et la vie des
premiers patriarches».

[193] RENAN, _Fragments du livre gnostique intitulé Apocalypse d'Adam,
ou Pénitence d'Adam, ou Testament d'Adam, publiés d'après deux versions
syriaques, Journal asiatique_, serie Vª, vol. II (1853), pp. 427-71;
MIGNE, _Dict. des apocr._, vol. I. Parti di questo racconto, o di
racconti affini, passarono nelle Storie di Sincello e di Cedreno, negli
Annali di Eutichio, nelle Istorie di Abû 'l-Faragi e di Dionigi di
Telmahar. Di essi dice il Renan (p. 470): «Il faut supposer évidemment
que ces traditions apocryphes formaient une sorte de fonds légendaire
commun à toutes les chrétientés de l'Orient, sans rédaction bien
arrêtée». Che a così fatti racconti abbia attinto anche ELMACIN, per
la sua _Historia saracenica_, afferma, forse sulla fede di manoscritti,
il Renan. A me non riuscì di trovar nulla nella stampa di Leida, 1625.
Nella _Historia compendiosa dynastiarum_ di ABÛ 'L-FARAGI, Oxford,
1663, n'è entrato ben poco.

[194] _Codex Nasaraeus Liber Adami appellatus_, ed. da M. NORBERG,
Hafniae, s. a. Il testo siriaco è accompagnato da una versione latina:
una versione francese in MIGNE, _Dict. des. apoc._, vol. I.

[195] Tradotta pressochè per intero da G. FUERST, nel _Literaturblatt
des Orients_, anno 1850, nn. 45-46; pubblicata integralmente dal
TISCHENDORF, _Apocalypses apocryphae_, Lipsia, 1866, e scema, di su un
codice ambrosiano, dal CERIANI, _Monumenta sacra_, t. V, 1868.

[196] W. MEYER, _Vita Adae et Evae, Abhandl. d. k. bayer. Akad. d.
Wiss. zu München_, I Cl., t. XIV, parte 3ª, 1879. Di questa Vita
esistono manoscritti del secolo VIII. Il Meyer istituisce un confronto
fra essa e la Vita greca, cui serba il nome di Apocalissi. Le due sono
dissimili nella prima metà, molto simili nella seconda. L'editore viene
a questa conclusione, che entrambe derivano da un testo unico, opera di
un Ebreo anteriore a Cristo, e porge una lista delle traduzioni e dei
rifacimenti della Vita latina (pp. 25 sgg.). Vedi inoltre: _The Lyfe of
Adam; The Lyfe of Adam and Eve; Vita prothoplausti_ (sic) _Ade_ pubbl.
da C. HORSTMANN nell'_Archiv für das Studium der neueren Sprachen und
Literaturen_, vol. LXXIV, pp. 345 sgg., 353 sgg.; vol. LXXIX, pp. 459
sgg. Intorno a racconti francesi, vedi MOLAND, _Origines littéraires
de la France_, Parigi, 1862, pp. 72 sgg. Una _Vie Adam et Eve_ in
prosa, trascritta nel 1576 da un Jehan Carton, si ha nel ms. M, VI,
7 della Nazionale di Torino. Di Adamo ed Eva lungamente si parla in
parecchi capitoli del primo titolo della prima parte delle _Istorie_
di SANT'ANTONINO, arcivescovo di Firenze. Molte favole riferisce il
FABRICIO, _Codex pseudepigraphus Veteris Testamenti_, Amburgo, 1722-3.

[197] Ricorderò, come degne di particolare menzione, le Istorie di
Taberi.

[198] Nella prima Epistola ai Corinzii, XV, 45 sgg., San Paolo oppone
all'Adamo terrestre un Adamo celeste.

[199] WEIL, _Biblische Legenden der Muselmänner_, Francoforte, s. M.,
1845, p. 12.

[200] GIUSEPPE FLAVIO, _Antiq. jud._, l. I, cap. I, 2; TERTULLIANO,
_De carne Christi_, cap. 17; IRENEO, _Adversus haereses_, l. III,
cap. 32. Cf. KÖHLER, _Die Erde als jungfräuliche Mutter Adams_, nella
_Germania_, anno 1862, pp. 476-80.

[201] _Sermo V de Natali Domini._

[202] Questa enumerazione è data come di Metodio, vescovo di Tiro
nel terzo secolo, ma non se ne ha traccia negli scritti suoi, o a lui
attribuiti. Vedi P. PARIS, _Les manuscrits françois de la Bibliothèque
du roi_, vol. IV, p. 207. Cf. GRIMM, _Deutsche Mythologie_, ediz.
cit., vol. I, p. 470; _Adam de octo partibus creatus, Zeitschrift für
deutsches Alterthum_, vol. XXIII, pp. 353-7; KÖHLER, _Adams Erschaffung
aus acht Theilen_, nella _Germania_, anno 1862, pp. 350-4. Nel trattato
ebraico intitolato _Sefer Yesira_, si dice che la testa dell'uomo
è fuoco, il cuore aria, il ventre acqua. _Commentaire sur le Séfer
Yesira ou Livre de la création par le_ GAON SAADYA DE FAYYOUM, _publié
et traduit par_ Mayer Lambert, _Bibliothèque de l'École pratique des
hautes études_, fasc. LXXXV, 1891, p. 7. Ivi stesso le varie parti del
corpo sono messe in relazione con le lettere dell'alfabeto, a ciascuna
delle quali è attribuita speciale virtù.

[203] _De placitis philosophorum_, l. IV, cap. 4.

[204] In una vita inglese di Adamo, pubblicata dal Horstmann (_Archiv
für das Studium der neueren Sprachen_, vol. LXXIV, pp. 345 sgg.), si
dice in principio, che Adamo fu creato dove Cristo nacque, in Betlemme,
ch'è nel centro della terra.

[205] _Adversus haereses_, l. V, cap. 5. Un racconto molto
particolareggiato della creazione di Adamo porge MASÛDI, _Les
prairies d'or_, trad. dall'arabico da C. Barbier de Meynard e Pavet de
Courteille, Parigi, 1861 sgg., vol. I, pp. 51-4.

[206] Vedi l'apocrifo evangelo di San Giovanni, nel libro del BENOIST,
_Histoire des Albigeois_, Parigi, 1691, vol. I, pp. 283-96. Si nota
qualche varietà nelle dottrine dei catari a questo proposito.

[207] Che in una delle tradizioni entrate a formare il racconto
biblico si alluda, conformemente a quanto si vede in altre mitologie,
all'androgino, è più che probabile. Cf. LENORMANT, _Les origines de
l'histoire_, etc., vol. I, pp. 54-6. Una lunga lista di rabbini che
tennero quella opinione reca H. OTHO, _Lexicon rabbinicum_, Ginevra,
1675, p. 176.

[208] Vedi [LALANNE], _Curiosités littéraires_, Parigi, 1845, pp. 211-2.

[209] MATTEO, XIII, 43: _Fulgebunt justi sicut sol in regno Patris
eorum_; CESARIO, _Op. cit._, dist. XII, cap. 54.

[210] _Talmud de Jérusalem_, tratt. _Berakhoth_, cap. IX, 9 (ediz.
cit., vol. I, pp. 489-90); _Talmud de Babylone_, tratt. _Berakhoth_,
sez. VIII (ediz. cit., vol. II, pp. 330 sgg.). Per questa, ed
altre consimili fantasie dei rabbini, rimando alle già citate opere
dell'Eisenmenger e del Bartolocci; al BUXTORF, _Lexicon talmudicum_,
Basilea, 1540; al BREDOW, _Rabbinische Mythen, Erzählungen und Lügen_,
Weilburg, 1833.

[211] Vedi più particolarmente per ciò CASTELLI, _Leggende talmudiche_,
Pisa, 1869, pp. 197, sgg.

[212] Nel _Contes dou pellicam_, di BALDOVINO DA CONDÉ, si legge:

    Quant Dieus ot fait Adam no père
    Si biel, c'à lui nus ne compere
    Qui onques fu de mère nés, —
    Tant fu biaus et tant fu senés,
    C'après Dieu fu plus biaus que nus,
    Selon l'escripture, tenus,
    . . . . . . . . . . . . .

_Dits et contes de_ BAUDOUIN DE CONDÉ _et de son fils_ JEAN DE CONDÉ,
pubbl. da A. Scheler, Bruxelles, 1866-7, vol. I, p. 86.

[213] Questa grave questione fu trattata a fondo da CRISTIANO, TOBIA,
EFREM REINHARD, in una dissertazione stampata la prima volta in Amburgo
nel 1752, e ripetutamente dipoi, e intitolata _Untersuchung der Frage:
Ob unsere ersten Urältern, Adam und Eva, einen Nabel gehabt?_

[214] Alberto Dürer ebbe la fantasia di raffigurare Adamo ed Eva come
due nani, porgendo argomento ai seguenti versi del Marini:

    Stato fostu pur nano,
      Come ti finge Alberto,
      O ribellante al tuo Fattore ingrato,
      Reo del primo peccato,
      Chè non saresti certo,
      Quando primier la mano
      Stendesti audace a l'arboscel vietato,
      Per piacer a la credula consorte
      Giunto a coglier la morte.

[215] Un numismatico e orientalista francese, Nicola Henrion, presentò,
l'anno 1718, all'Accademia parigina, di cui era socio, uno specchio
comparativo delle stature umane, dalla creazione del mondo a Giulio
Cesare. Adamo ebbe di altezza 123 piedi e 9 pollici; Eva 118 piedi, 9
pollici e ¾. Noè non ebbe più che 103 piedi; Ercole non passava i 10.
Vedi [LALANNE], _Op. cit._, p. 216. Certo GOETZE stampò a Lipsia, nel
1727, una dissertazione intitolata _Quanta statura Adam fuit_.

[216] _In Joannem_, tract. IX, cap. 14; tract. X, cap. 12.

[217] Cf. PIPER, _Mythologie der christlichen Kunst_, Weimar,
1847-51, vol. II, p. 471. Di quella composizione del nome di Adamo
fanno menzione parecchi: BEDA, _Expositio in Joannem_, cap. II, v.
20; ALCUINO, _Commentarius super Joannem_, cap. 4; PAPIA (Lombardo),
_Elementarium_, s. v. _Adam_; PIETRO DI RIGA, nell'_Aurora_, ecc.
Si trova pure detto che il nome di Adamo fu composto con le lettere
iniziali dei nomi di quattro stelle.

[218] Vedi GOLDZIEHER, _Der Mythos bei den Hebräern_, Lipsia, 1876, p.
255. Adamo fu raccostato ad Adar (Ninip), divinità assira, il cui nome
sembra abbia significato in origine il fuoco: BURNOUF, _Commentaire sur
le Yaçna_, Parigi, 1833, p. 169; LENORMANT, _Essai de commentaire des
fragments cosmogoniques de Bérose_, Parigi, 1871, pp. 106-7.

[219] G. VON LEON, _Rabbinische Legenden_, Vienna, 1821, pp. 11 sgg.;
G. LEVI, _Parabole, leggende e pensieri raccolti dai libri talmudici
dei primi cinque secoli dell'E. V._, Firenze, 1861, pp. 10 sg.

[220] Corano, sura II. Questo racconto si trova pure nella Cronaca di
TABERI (trad. dello Zotenberg, v. I, p. 77) e altrove. Vedi un racconto
della creazione di Adamo e della disobbedienza di Iblîs, tratto da
Taberi e da Ibn-Kessir, in _Rosenöl_, vol. I, pp. 19 sgg.

[221] Ediz. cit., §§ 12 sgg.

[222] TERTULLIANO, _De patientia_, cap. 5; SANT'IRENEO, _Contra
haereses_, l. IV, cap. 40; SANT'AGOSTINO, _De Genesi ad literam_, XI,
18. W. MEYER, _Op. cit._, p. 15.

[223] _Parad._, XIII, 43-4. Giacomo Le Fèvre (m. 1537) discusse la
questione se Adamo sia stato creato con la scienza infusa. Un certosino
del secolo XV, Enrico di Hesse, rettore dell'università di Heidelberg,
ebbe a sostenere che Aristotile agguagliò Adamo in sapienza, opinione
che parve empia a parecchi. (LALANNE, _Op. cit._, p. 210).

[224] BREDOW, _Op. cit._, p. 18.

[225] GAFFAREL, _Curiositates inauditae_, Amburgo, 1703, vol. II, p.
488.

[226] Vedi SUIDA, _Lexikon_. Se Adamo sia stato inventor delle lettere,
e se prima di Adamo vi sieno stati al mondo uomini, lettere, libri,
discute PIETRO BANG (BANGIUS) nel _Coelum Orientis_, Hauniae, 1657.
Costui ebbe a sostenere in una sua _Historia ecclesiastica_ che Adamo
soggiornò alcun tempo in Isvezia e fu il primo vescovo di quel paese.

[227] Per le scritture attribuite ad Adamo, a Eva, a Seth, vedi
FABRICIO, _Op. cit._; CEILLIER, _Histoire générale des auteurs sacrés_,
vol. I, pp. 464-7; MIGNE, _Dictionnaire des apocryphes_, vol. II,
coll. 41-2. Nel 1717 fu stampata in Altorf una curiosa dissertazione,
opera di non so qual dottore, intitolata _Dissertatio de Adami logica,
metaphysica, mathesi, philosophia practica et libris._ Nel 1722 DANIELE
MUELLER stampò a Chemnitz un _Programma de eruditione Adami_.

[228] _Parad._, XXVI, 124-6.

[229] L. I, cap. 6.

[230] SINCELLO, _Chronographia_, ediz. di Bonn, 1829, pp. 8-9.

[231] _Homilia 59 in Matheum._

[232] LEVI, _Op. cit._, pp. 886-7.

[233] _Parad._, XXVI, 139-42. Questi versi di Dante non sono già così
oscuri come ad altri piacque di renderli, speculandovi intorno. Essi
diedero luogo, ciò nondimeno, a varie interpretazioni, e chi volle
che il poeta facesse rimanere Adamo nel Paradiso solamente cinque
ore, e chi sei, e chi sette, e chi non più di un istante. Ma le
parole del poeta sono esplicite e chiare abbastanza: Adamo stette nel
Paradiso dalla prima alla settima ora del giorno; e chi sappia che una
diffusa credenza faceva durare quel soggiorno sett'ore, non istarà
più a questionare se l'ora prima, o la settima, o entrambe, debbano
considerarsi incluse nel computo, o escluse da esso. Parlando dei primi
parenti, dice PIETRO COMESTORE: Quidam tradunt eos fuisse in Paradiso
septem horas (_Historia scholastica, Libri Genesis_, cap. 24); ed erra
il POLETTO, quando attribuisce a questo autore la opinione che Adamo
fosse rimasto nel Paradiso solamente sei ore; _Dizionario Dantesco_,
Siena, 1885-7, s. v. Adamo. CEDRENO ricorda la opinione di alcuni,
che facevano rimanere Adamo nel Paradiso dall'ora terza alla nona.
(_Historiarum compendium_, ediz. di Bonn, 1838-9, v. I, p. 12).

[234] BEDA, o chi altri possa essere l'autore dell'opuscolo intitolato
_Collectanea et flores_, dice: _Adam vixit annos quindecim in paradiso,
Eva quatuordecim: alii dicunt septem_. SINCELLO dice la trasgressione
avvenuta nel settimo anno, la cacciata nell'ottavo, tenuta occulta la
colpa quaranta giorni. (_Op. cit._, pp. 13-4). Anche Cedreno segue la
opinion dei sett'anni. Nel _Chronicon_ di TEODORICO ENGELHUSEN (m.
1434) si legge: «Adam et Eva, sicut creditur, die suae creationis,
scilicet sexta die mundi, circa meridiem praevaricati, paulo post circa
horam nonam ejecti sunt, et exilium projecti. In quadam tamen antiqua
_Chronica Treverorum_, quae et hodie jacet in Ecclesia S. Matthiae
ibidem, legitur septies quaternis temporum annis in paradyso fuisse, et
post haec expulsos.» (Ap. LEIBNITZ, _Scriptores rerum brunsvicensium_,
t. II, p. 979). Il soggiorno di un secolo è ricordato da Cedreno e da
alcun altro.

[235] Ciò che la Bibbia narra di Adamo tentato da Eva, si riscontra in
qualche parte con quanto il mito indiano narra di Yami, sollecitato
dalla sorella Yama ad altro peccato. Il Yami indiano diventa il Yima
iranico. Cfr. KOHUT, _Die talmudischmidraschische Adamssage in ihrer
Rückbeziehung auf die persische Yima- und Meshiasage_, in _Zeitschrift
der deutschen Morgenländischen Gesellschaft_, vol. XXV, pp. 59-94.

[236] _Purgat._, XXXIII, 61-3; _Parad._, XXVI, 115-7.

[237] Nel secolo XVI il celebre CORNELIO AGRIPPA la svolse nel suo
libro _De originali peccato_. Nel secolo seguente ADRIANO BEVERLAND
mise fuori una strana dissertazione intitolata: _Peccatum originale,_
κατ’ εξοχὴν _sic nuncupatum, philologice elucubratum a Themidis
alumno_, Eleutheropoli in horto Hesperidum, 1678. Egli sostiene:
«primum protoplastorum peccatum in coitu consistere et per arborem
scientiae boni et mali intelligi debere truncum illum, quem in
meditullio corporis Adami plantaverat naturae auctor, cuiusque florem
decerpere vetuerat». L'autore fu, per quella sua opinione, chiuso in
un carcere, d'onde trovò modo di fuggire. Morì pazzo molti anni dopo.
Quella opinione, del resto, è anche presentemente assai più diffusa che
non si creda tra certi cattolici, i quali, essendo digiuni di studii
teologici, credono che, per questa parte, il racconto biblico non
vada inteso alla lettera. Un recentissimo sognatore, CARLO SCHOEBEL,
prese di bel nuovo a propugnarla, in uno scritto intitolato: _Le mythe
de la femme et du serpent, étude sur les origines d'une évolution
psychologique primordiale_, Parigi, 1876. Bisogna per altro riconoscere
che la dottrina cristiana, coprendo di disprezzo la carne e di vergogna
l'atto generativo, legittimò così fatte stranezze. Pei catari, e per
altri eretici, la copula fu una frode del diavolo. Cf. _Curiosités
théologiques_, Parigi, 1861, pp. 4-5.

[238] «Venerunt autem ad illum specum, in quo Adam accepit Evam eamque
primo carnaliter cognovit, et ambo hic virginitatem perdiderunt, quam
si in paradiso mansissent, nec in conceptione nec in generatione
prolis amisissent, nec in carnali illo actu deformitas immoderatae
concupiscentiae fuisset, nam naturalia membra, ad hunc usum deputata,
sicut inferiores vires, omnino subdita essent rationi». _Op. cit._,
vol. II, p. 347.

[239] Vedi BEAUSOBRE, _Dissertation sur les Adamites_, nel secondo
volume della _Histoire du Concile de Bâle et de la guerre des
Hussites_, del LENFANT, Amsterdam, 1731.

[240] Vedi EISENMENGER, _Op. cit._, vol. I, pp. 165, 461; vol. II, p.
413.

[241] BARTOLOCCI, _Op. cit._, vol. II, p. 69. Cf. HAMBURGER,
_Real-Encyclopädie für Bibel und Talmud_, Strelitz, 1883, s. v.
_Lilith_.

[242] Vedi una finzione, pressochè eguale a questa, riferita da P.
PARIS, _Op. cit._, vol. IV, pp. 27-8.

[243] In una versione inglese della Genesi e dell'Esodo si dice, dietro
a non so quale autorità, ch'Eva si chiamò da prima Issa:

    Issa was hire firste name.

_The Story of Genesis and Exodus, edited by_ Richard Morris (_English
Text Society_), Londra, 1865, v. 233.

[244] Varia il numero totale, variano i nomi e altre particolarità di
alcuni. Secondo la Piccola Genesi, Adamo ed Eva avrebbero generato
in tutto quattordici figliuoli, dodici maschi e due femmine.
Nell'Apocalissi greca, e nella Vita latina, è detto che, dopo aver
generato Caino, Abele e Seth, Adamo ed Eva generarono ancora trenta
figliuoli e trenta figliuole. Stando a Sincello, i figliuoli furono
in tutto trentatrè, e ventitrè le figliuole; ma nei _Fioretti della
Bibbia_ il numero dei maschi e delle femmine, presi insieme, sale
a centoquaranta. Per le prime figliuole generate, sorelle e spose
di Caino, di Abele e di Seth, si trovano i nomi di Calmana, Debora,
Luva, Leluda o Lebuda, Aklejane, Chinia o Clinia, Ava, Azura o Azrûn,
Asua. Secondo una leggenda che appare in Metodio, in Eutichio, in
Abû 'l-Faragi, in Vincenzo Bellovacense e in altri cronisti (RENAN,
_Fragments_, etc., p. 467, n.), la inimicizia fra Caino e Abele nacque
per gelosia amorosa.

[245] Nel _Roman du Renard_ si narra che Dio diede ad Adamo ed Eva,
espulsi dal Paradiso, una verga di tale virtù, che percotendo con essa
il mare potevano avere tutto quanto desideravano. Adamo fece uscire
dalle acque una pecora, Eva un lupo, che acchiappò la pecora; poi
Adamo, di nuovo, un cane che inseguì il lupo, ecc. Tutti gli animali
fatti sorgere da Adamo si addomesticarono: tutti quelli fatti sorgere
da Eva inselvatichirono. Il poeta cita a tale proposito un libro
_Aucupre_, che non so quale possa essere. Ediz. Méon, Parigi, 1826,
vol. I, vv. 41-104; ediz. Martin, Strasburgo e Parigi, 1882-7, vol. I,
pp. 336-8.

[246] _Contra haereses_, 80.

[247] Cf. BURNOUF, _Recherches sur la géographie ancienne de Ceylan
dans son rapport avec l'histoire de cette île, Journal asiatique_,
serie V, vol. IX (1857), pp. 9 sgg.

[248] «Seilan est une grant ysle ensi con je voz ai devisé en ceste
livre en arieres. Or est voir que en ceste ysle a une montagne mout
aut si degrat celes rocches, que nul hi puent monter sus se ne en ceste
mainere que je voz dirai. Car à ceste montagne pendent maintes chaennes
de fer, ordrée en tel mainer que les homes hi puent monter sus par
cel chaene jusque sus le montagne. Or voz di qe il dient que sus cel
mont est le menument de Adan nostre primer pere, el Sarain dient que
celui sepoucre est de Adan, et les idres dient qu'il est le moument
de Sergamon Borcam...». _Voyages de_ MARCO POLO (_Recueil de voyages
et mémoires publiés par la Société de géographie_), Parigi, 1824, cap.
178.

[249] Traduzione di A. Jaubert (_Recueil de voyages et mémoires_,
etc.), Parigi, 1836, vol. II, p. 71.

[250] Traduzione di S. Lee, Londra, 1829, pp. 189-90.

[251] _Contextio gemmarum sive_ EUTYCHII _Patriarchae Alexandrini
Annales, interprete_ Edwardo Pocockio, Oxoniae, 1658, vol. I, pp. 15
sgg.

[252] _Descriptio de partibus infidelium_, cap. 39, ap. MARCELLINO
DA CIVEZZA, _Storia universale delle missioni francescane_, vol. III,
Roma, 1859, p. 760. La relazione del viaggio di Odorico si trova con
vario titolo nei codici, _Peregrinatio, De mirabilibus mundi, De rebus
incognitis_. Un'antica versione italiana, contenuta nel cod. marciano
ital. cl. VI, CCVIII, presenta alcune diversità in confronto del testo
latino pubblicato.

[253] _Op. cit._, pp. 94-7. Del Monte di Adamo parla anche Fra Mauro.
Vedi ZURLA, _Op. cit._, p. 51.

[254] _Isolario_, parte II, Venezia, 1697, p. 122. Una lista di
scrittori che parlano del Monte di Adamo può vedersi in FABRICIO, _Cod.
pseud._, vol. I, p. 30; vol. II, pp. 30-36. Io ne aggiungerò qui alcuni
altri. _Sketch of a Journey to the Summit of Adam's Peak in the Island
of Ceylon, Asiatic Journal_, vol. II, 1816; KNOX, _Historical Relation
of the Island of Ceylon_, 2ª ediz., Londra, 1817, p. 144; DAVY, _A
description of Adam's Peak, Journal of Science_, vol. V. 1818; _Notes
of an Excursion to Adam's Peak, Colonial Magazine_, vol. V, 1845; _A
Trip to Adam's Peak, Colonial Magazine_, voll. XIV e XV, 1848; SKEEN,
_Adam's Peak. Legendary, traditional and historical notices of the
Samanala and Sri-Páda_, Londra, 1878. Un'apposita dissertazione sulla
famosa impronta scrisse J. Low nelle _Transactions of the Royal Asiatic
Society of Great Britain and Ireland_, vol. III, 1835.

[255] _Op. cit._, pp. 81-2.

[256] D'HERBELOT, _Bibl. orient._, s. v. _Magarat al Conouz_.

[257] Vedi PIPER, _Adams Grab auf Golgatha_, nell'_Evangelisches
Kalender_ pel 1861, pp. 17 sgg.

[258] Di sì fatti collegamenti porgono un esempio, ma scevro di ogni
spirito di eresia, alcuni versi, i quali furono già attribuiti a
ILDEBERTO DI LAVARDIN. Eccoli:

    Arbore sub quadam dictavit clericus Adam
    Quomodo primus Adam peccavit in arbore quadam;
    Sed postremus Adam, natus de virgine quadam,
    Damna prioris Adam repensat in arbore quadam.
    Ni sumpsisset Adam fructus sub arbore quadam,
    Non postremus Adam moreretur in arbore quadam.

Li pubblicò P. Meyer nelle _Archives des missions scientifiques et
littéraires_, 2ª serie, vol. V (1868), p. 183. Vedi del resto il
poemetto d'ILDEBERTO, intitolato _De ordine mundi_, il quale comincia
col verso:

    Arbore sub quadam protoplastus corruit Adam.

(_Opera_, ediz. Beaugendre, col. 1179).

[259] _Sermo 71._ ABÛ'L-FARAGI si scosta alquanto dal racconto del
_Combattimento_. Egli dice che Noè prese nell'Arca solamente il capo
d'Adamo; che poi Sem e Melchisedec trasportarono quel capo sopra un
monte, su cui Melchisedec edificò Gerusalemme, e che su quel monte
Cristo fu crocifisso. (_Op. cit._, pp. 8-10). Dionigi di Telmahar, per
contro, segue fedelmente il racconto dell'apocrifo.

[260] _Recueil de voyages_, etc. vol. IV, p. 849.

[261] D'HERBELOT, _Op. cit._, pp. 20, 122, 708, 806.

[262] Ricorderò solo: l'_Adamo_ del grammatico _Ignazio_ (IX secolo)
pubbl. prima dal BOISSANADE, _Anecdota graeca_, Parigi, 1829 sgg., t.
I, pp. 436-44; poi dal DUEBNER, _Christus patiens_, etc., Parigi, 1846;
_Adam, drame anglo-normand du XIIe siècle, publié par_ V. Luzarche,
Tours, 1854; nuova edizione critica a cura di L. Palustre, Parigi,
1877; la _Creazione_ e la _Caduta_ nel _Ludus Coventriae_, Londra,
1841; _The Creation of the World, a cornish Mystery edited with a
Translation and Notes by_ Whitley Stokes, Lipsia, 1863; _Der Sündenfall
und Marienklage, zwei niederdeutsche Schauspiele herausg. von_ Dr.
O. Schönemann, Annover, 1855; JACOB RUFF, _Adam und Heva_, Lipsia,
1848. In Italia rappresentazioni di Adamo ed Eva non mancarono: vedi
D'ANCONA, _Origini del teatro in Italia_, Firenze, 1877, vol. I, pp.
85, 202; 2ª ediz., Torino, 1891, pp. 91, 228; TORRACA, _Studi di storia
letteraria napoletana_, Livorno, 1884, p. 20. Il FARSETTI (_Biblioteca
manoscritta_, Venezia, 1771-80, vol. II, p. 221) registra una
_Rappresentazione spirituale_ di Adamo ed Eva, in verso, manoscritto
del secolo XVI. Ricordo, sorpassando, l'_Adamo_ dell'ANDREINI, quello
del LOREDANO, l'_Adamo ed Eva_ di TROILO LANCETTA, l'_Abele_ del
METASTASIO, l'_Abele_ dell'ALFIERI, la _Morte d'Adamo_ del KLOPSTOCK,
il _Caino_ del BYRON.

[263] ALTONA, _Gebete und Anrufungen in den altfranzösischen Chansons
de geste_ (_Ausgaben und Abhandlungen aus dem Gebiete der romanischen
Philologie, IX_), Marburgo, 1883, p. 14. In una preghiera che si trova
nello _Chevalier au Cygne_ (vv. 1771-5), è detto:

                 Sire Dieu qui fesis mer salée
    Et le ciel et la tierre, créature fourmée,
    Et Adam à qui fu la pume devée,
    Eve l'en fist mengier, qui mal fu enortée,
    S'en fu bien Vm ans en prison enfremée.

Qui non si tratta di una leggenda speciale come opina il REIFFENBERG
(_Le Chevalier au Cygne_, Bruxelles 1846, Introduzione, pp. XCV-XCVI),
ma si allude solo alla dimora di Eva nel Limbo sino alla venuta di Gesù
Cristo.

[264] _De rerum humanarum vicissitudine et clade Lindisfarnensis
Monasterii, Opera_, ediz. Froeben, vol. II, p. 238, col. 2ª. È pur cosa
degna di nota che la storia della penitenza di Adamo si legò in Francia
al cielo del Santo Graal. V. _Le Saint-Graal_, ediz. Hucher, Le Mans,
1864-8, vol. I, pp. 452 sgg.

[265] Vedi THILO, _Codex apocryphus Novi Testamenti_, volume I, Lipsia,
1832, pp. 756-68; ITTAMEIER, _Die Eliassage_, in _Zeitschrift für
kirchliche Wissenschaft und kirchliches Leben_, anno 1883, pp. 416-30,
476-93.

[266] Ediz. cit., cap. 12, p. 6.

[267] _Opera moralia, paraenetica et polemica_, Anversa, 1654, pp.
164-5, 231.

[268] Nella _Istoria di cose memorabili della città di Bologna per
uno della famiglia de' Ramponi_ (ms. della Biblioteca Universitaria di
Bologna) Enoch ed Elia diventano a dirittura i custodi del Paradiso:
«Et est (_paradisus_) in Orientis partibus constitutus, quem propter
peccatum primorum parentum Helyas et Enoch pro ligno vite cum versatili
gladio custodiunt ante fores».

[269] La identificazione di Elia col misterioso Khidr non è sicura.
L'autore del _Tarikh montekheb_ li distingue, e così fanno altri. Khidr
fu pure identificato con Enoch.

[270] D'HERBELOT, _Op. cit._, t. II, p. 435; t. III, p. 118; REINAUD,
_Description des monuments musulmans du cabinet de M. le duc de
Blacas_, Parigi, 1828, t. I, p. 169. Un racconto diverso intorno
ad Enoch in _Rosenöl_, vol. I, pp. 30-2. In leggende orientali si
vede Khidr far da guida ad Alessandro Magno, che muove in cerca
della fontana di giovinezza, ed è curioso notare come nel _Romans
d'Alixandre_ Enoch diventi un semplice seguace di Alessandro, seguace
che trova la fonte, vi si bagna, ed è per ciò severamente punito. Ed.
cit. p. 335.

[271] _Les mille et un jours_, gg. 186-7.

[272] FAZIO DEGLI UBERTI dice, per altro, parlando della condizione del
Paradiso (_Dittam._, l. I, cap. 11):

    Vecchiezza e infermità non sa che sia
      Giammai colui che dentro ivi giunge:
      E questo prova Enoc ed Elia.

[273] Cap. XI, 3 sgg.

[274] Vedi intorno a questo argomento ZARNCKE, _Ueber das
althochdeutsche Gedicht vom Muspilli_, in _Berichte über die
Verhandlungen der k. sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften_,
Lipsia, vol. XVIII (1866), pp. 213-25.

[275] GRIMM, _Deutsche Mythologie_, ediz. cit., vol. II, pp. 794 sgg.;
III, pp. 284 sgg. Gli eroi rimossi ritornano spesso per difendere una
giusta causa, appunto come Enoch ed Elia.

[276] Cap. 25.

[277] _Epistolarum_ l. I, CCLXXXII, _Maxima Bibliotheca veterum
Patrum_, t. VII, p. 562.

[278] Cf. quanto è detto nel cap. 19 dell'Evangelo di Nicodemo.

[279] Ediz. cit., cap. 60.

[280] Come fu già notato, gli Esseni credettero che le anime pie,
sciolte dai vincoli della carne, avessero un soggiorno felice di là
dall'oceano.

[281] Vedi per le varie opinioni in proposito: BELLARMINO, _De
sanctorum beatitudine_, cap. 1; RENAUDOT, _Liturgia orientalis_,
Parigi, 1716, vol. II, pp. 332-3; ASSEMANI, _Bibliotheca orientalis_,
t. II, pp. 130, 165, 294-5; t. III, parte 1ª, p. 312; parte 2ª, p.
CCCXLII; THILO, _Op. cit._, pp. 749-55; ALEXANDRE, _Oracula Sibyllina_,
2ª edizione, Parigi, 1869, vol. II, exc. VI.

[282] _Historia ecclesiastica_, l. V, cap. 12.

[283] _Otia imperialia_, decis. III, cap. 103.

[284] _Historia major_, ad. a. 1196.

[285] _Visio Tnugdali_, ediz. Schade, capp. 16, 28.

[286] Cf. BRANDES, _Visio S. Pauli, ein Beitrag zur Visionslitteratur_,
Halle, 1885, pp. 8-9, 18; FRITZSCHE, _Die lateinischen Visionen des
Mittelalters bis zur Mitte des 12. Jahrhunderts_, Halle. 1885, pp.
18-9.

[287] Vedi WRIGHT, _St. Patrick's Purgatory_, p. 26; FRITZSCHE, _Op.
cit._, pp. 36-7. Altre credenze pure ebbero corso. In alcune redazioni
della leggenda di San Brandano si dice che i cristiani troveranno
ricetto nel Paradiso terrestre quando ricominceranno le persecuzioni.
Abû 'l-Faragi credette che il Limbo dei patriarchi fosse appunto
il Paradiso terrestre, e che in esso dovessero essere trattenute
perpetuamente le anime di coloro che non si mostrarono meritevoli nè
del cielo, nè dell'inferno. Dice Fra Mauro nella scritta che accompagna
sulla sua mappa l'immagine del Paradiso, che le anime dei giusti,
liberate da Cristo, furono introdotte nel giardino, e quivi rimasero
sino al giorno dell'Ascensione, in cui, seguendo Cristo, salirono al
Paradiso celeste. (Vedi ZURLA, _Op. cit._, p. 74). Non so ond'egli
abbia potuto trarre così curiosa opinione. È pur qui da ricordare una
credenza espressa nell'_Elucidarium_ di Onorio d'Autun, secondo la
quale gli uomini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero moltiplicati
nel Paradiso terrestre fino a raggiungere il numero degli angeli
caduti, e di mano in mano avrebbero sciamato dal Paradiso terrestre al
celeste per lasciar luogo alle nuove generazioni.

[288] _Historia major_, ad a. 1206.

[289] _Speculum historiale_, l. XXX, capp. 6-10. L'arcangelo Raffaele
guida il novizio prima al Paradiso e poi all'Inferno. Cap. 8: «Et cum
appropinquaret vidit novicius civitatem quandam ex auro, cujus porta
immense pulcritudinis erat. Quam cum miratur, angelus misit eum intra
portam, et vidit intra paradisum herbas et arbores pulcerrimas et aves
cantantes. Sub una arbore erat fons limpidissimus cujus rivi per mediam
civitatem fluebant. Cumque novicius vellet pausare iuxta fontem, duxit
eum angelus ad aliam arborem mire altitudinis et pulcritudinis, super
quam erat homo pulcerrimus et pregrandis stature, quasi gigas, vestitus
vestis diversorum colorum a pedibus usque ad pectus. Hic est, inquit
angelus, pater humani generis protoplastus Adam per sanguinem Jhesu
Christi filii Dei redemptus».

[290] Cap. 26. Fu molto disputato da antichi e moderni teologi se,
conformemente alle note parole di promessa pronunziate da Cristo in
croce, il buon ladrone fosse introdotto nel Paradiso terrestre o nel
celeste. Cf. THILO, _Op. cit._, pp. 768-79.

[291] Nel terzo cantare del poema del PUCCI, _Historia della Reina
d'Oriente_, la figliuola di questa Reina, mutata di femmina in maschio,
dice all'imperatore di Roma d'essere stata portata da Enoch ed Elia nel
Paradiso terrestre (st. 39):

                       i' fu preso
    Nella foresta da Enoc e Elia,
    Che con certi altri mi portàr di peso
    Dove si sta con gioia tuttavia,
    Ciò fu nel Paradiso Luciano
    Dov'era Salamone allegro e sano.

[292] GIOVANNI, XXI, 21; MATTEO, XVI, 28.

[293] _De gloria martyrum_, l. I, cap. 30.

[294] Vedi varie testimonianze recate dal THILO, _Op. cit._, pp. 764-5.

[295] _Orl. Fur._, XXXIV, 54-9.

[296] SAN TEOFILO, _Ad Autolycum_, l. II, cap. 26; PRUDENZIO,
_Cathemerinon_, inno X. Mario Vittore pone le Virtù a soggiornare nel
Paradiso terrestre, e nel Paradiso terrestre finge Metodio che abbia
luogo il suo _Convivium decem virginum_. Uno dei sette paradisi dei
Maomettani si chiama Eden.

[297] Una reminiscenza di sì fatta mansuetudine si ha nella leggenda
rabbinica della veste di Adamo. BREDOW, _Op. cit._, p. 50.

[298] BECHSTEIN, _Mythe, Sage, Märe und Fabel im Leben und Bewusstsein
des deutschen Volkes_, Lipsia, 1854, vol. II, p. 21.

[299] Dice il Pigafetta (ap. RAMUSIO, _Navigationi et viaggi_, vol. I,
p. 367): _Hanno opinione i Mori che questo uccello venga del Paradiso
terrestre._ Cf. DENIS, _Le monde enchanté_, già cit., pp. 150-1.

[300] _Del reggimento e de' costumi delle donne_, parte XVI.

[301] THÉVENOT, _Relation d'un voyage fait au Levant_, Parigi, 1665, p.
502.

[302] EISENMENGER, _Op. cit._, vol. I, pp. 868-9; LEVI, _Op. cit._, p.
218.

[303] Vedi intorno al mito della Fenice, prima nell'antichità, poi
nella sua notabilissima prosecuzione per entro al mondo cristiano:
HEINRICHSEN, _De Phoenicis fabula apud Graecos, Romanos et populos
orientales_, Hauniae, 1825-7: LEOPARDI, _Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi_, Firenze, 1848, cap. 17; PIPER, _Op. cit._,
vol. I. pp. 446-71; GRAESSE, _Beiträge zur Literatur und Sage des
Mittelalters_, Dresda, 1850, pp. 71-9. Per quanto concerne il carattere
astronomico della Fenice, e l'era di felicità che ad essa si collegava,
vedi LEPSIUS, _Die Chronologie der Aegypter_, Berlino, 1849, l. II,
cap. 73; SEYFFARTH, _Die Phoenixperiode, Zeitschrift der deutschen
morgenländischen Gesellschaft_, vol. III (1849), pp. 63-89. Alla Fenice
corrisponde, per questo e per altri rispetti, il Fong-hoang dei Cinesi,
che torna a intervalli, e il cui ritorno segna il principio di un'era
di felicità.

[304] Canz.: _Standomi un giorno, solo, alla fenestra_. Nell'atto II,
sc. 4, dell'_Ipocrito_ dell'ARETINO, Prelio racconta come sia andato
a prendere alcune penne d'oro e di porpora della Fenice per farne
presente all'amata.

[305] Non so che descrizione ne faccia TITO GIOVANNI SCANDIANESE in un
suo poema intitolato _La Fenice_, che io non conosco se non di nome.
Ho già ricordato altrove il poemetto attribuito a Lattanzio e quello di
Cinevulfo.

[306] Vedi p. 32 e la nota 69 al cap. II.

[307] DU MÉRIL, _Études sur quelques points d'archéologie et d'histoire
littéraire_, Parigi e Lipsia, 1862, p. 454, n. 3.



CAPITOLO IV.

I VIAGGI AL PARADISO TERRESTRE.


Fu comune opinione tra coloro (ed erano di gran lunga i più) i quali
ponevano il Paradiso terrestre in questa nostra terra, e lo dicevano
tuttavia esistente, che esso, o non si potesse per nessun modo trovare
dagli uomini, o, se pur si poteva trovare, fosse loro impossibile di
penetrarvi. I Padri sono concordi su questo punto. La impossibilità
di penetrarvi si faceva venire, di solito, dal volere divino, per
decreto del quale il Paradiso terrestre doveva, dopo il peccato,
rimanere inesorabilmente chiuso ai viventi; ma si faceva anche venire
da difficoltà naturali, che non lasciavano via da passare a chi avesse
in animo di recarvisi. Brunetto Latini, ripetendo quanto molti avevano
affermato prima di lui, dice nel _Tresor_: _Et sachiez que après lou
pechiéz dou premier hom, cist leus fu clos à touz autres_[308]. E nel
_Tesoretto_, parlando di Adamo:

      Per quel trapassamento
    Mantenente fu miso
      Fora del Paradiso,
    Dov'era ogni diletto,
      Senza niuno eccetto
    Di freddo o di calore,
      D'ira nè di dolore.
    E per quello peccato
      Lo loco fue vietato
    Mai sempre a tutta gente[309]

Che anche Dante avesse il monte del Paradiso in conto d'inaccessibile,
sembra risulti dal racconto che Ulisse fa del suo viaggio (_folle
volo_) nell'oceano[310]. Il Geografo Ravennate s'ingegna di mostrare,
con ogni maniera di buoni argomenti, come non sia possibile agli
uomini penetrare nel Paradiso[311]; e il Mandeville, cui duole di non
averlo potuto visitare, dice, ripetendo ancor egli cose già dette da
altri, che molti tentarono inutilmente di andarvi, e che l'altezza
e l'asprezza dei monti, e le strane fiere che infestano il paese
d'intorno, non lasciano che nessun vi s'accosti. Ne' _Fioretti della
Bibbia_ si legge: «Questa montangnia si dice ch'è sì alta et dura e
aspra fortemente e sì maravigliosa che neuno huomo per sua bontà non vi
potè mai salire, nè là drento intrare, secondo quelli che vi sono stati
nel paese»[312]. Perciò Fazio degli Uberti lo dice _un monte ignoto a
tutta gente_, e Giovanni di Hese lo descrive altissimo, con le pareti
a perpendicolo, a guisa di torre, _ita quod nullus potest esse accessus
ad illum montem_.

Ricordiamoci che per gli antichi gli Elisii erano _reclusum nemus,
discretae piorum sedes, regna impervia vivis_; e che frugando nelle
memorie mitologiche e nelle leggende, molti altri esempii si trovano
di luoghi o vietati, o inaccessibili. Del paese degl'iperborei dice
Pindaro che non vi si può andare nè per terra, nè per acqua. All'isola
dov'era l'Orto dell'Esperidi, serbato agli dei, nessuna nave poteva
approdare[313]; e al monte Kâf degli Arabi non si perviene se non
per arte magica; e all'isola Bulotu, immaginata dagli abitanti di
Tonga, non si approda se non per volontà degli dei. Il Mons Romuleus
(Rocciamelone), ove un re Romolo raccolse ingente quantità di tesori,
è descritto come inaccessibile nel _Chronicon Novaliciense_; e di
una montagna inaccessibile, a poca distanza dalla città di Die, nel
Delfinato, parla uno scrittore francese del secolo XVII[314].

Ma, a dispetto di chi diceva che non ci si poteva andare, e di chi
affermava che nessuno di coloro che avevan corsa felicemente tutta la
via era poi riuscito a penetrarvi, parecchi, in varii tempi, ebbero
desiderio di tentare l'avventurosa impresa; e se di alcuni la leggenda
narra che non fu dato loro di passare il formidabile muro di fuoco
o di diamante, e la ben custodita porta, di altri narra che superato
ogni ostacolo, penetrarono veramente nell'impareggiabil giardino, e
vi fecero alcuna breve o lunga dimora, e ne tornarono per dare altrui
alcun debole ragguaglio delle sue inenarrabili meraviglie. Ricordiamo,
anche a questo proposito, che gli Elisii antichi furono, più di una
volta, penetrati da vivi, e che altri consimili esempii si trovano in
altre mitologie.

Le leggende che ora io mi accingo ad esporre sono assai varie, non solo
per la qualità delle cose che narrano, e pel modo della narrazione,
ma ancora pel diverso spirito che le informa, e la ragione ond'hanno
principio. Alcune hanno carattere spiccatamente ascetico, e pajono
dettate da un indomabile fervore di fede e di desiderio; altre hanno
carattere spiccatamente romanzesco, e pajono dettate, più che da altro
sentimento o pensiero, da quella immaginosa e inquieta curiosità, da
quel vivo amor del meraviglioso che nelle fortunose epopee, nei lunghi
romanzi di avventura, si agitano, ma non si appagano. Molte di esse son
figlie tutte ideali della fantasia; ma parecchie ve n'ha, le quali pur
solvendosi, come l'altre, in un sogno, muovono tuttavia da alcun che
di reale. Nessuno di questi viaggi, per certo, ebbe suo compimento nel
Paradiso terrestre; ma più d'uno fu, anzichè immaginato da narratori,
impreso davvero da pellegrini e da naviganti. Ben s'intende come queste
distinzioni, che io ho accennate, sieno, del resto, assai più agevoli
e sicure in teorica che non in pratica; e se nelle pagine che seguono
io mi studierò di tenere un ordine che ad esse corrisponda, questa
corrispondenza sarà soltanto approssimativa, e quell'ordine avrà tanto
di rigore quanto ne può concedere la natura stessa delle cose, e non
più.

Ecco qua, anzi tutto, una leggenda celebre, la quale è inspirata bensì
da quel fervore di fede e di desiderio che informa l'altre di carattere
più risolutamente ascetico; ma vuol essere pure considerata come una
naturale espansione e prosecuzione _storica_, se così posso esprimermi,
di un tema leggendario anteriore, in quanto viene ad esplicare ed a
compiere, in conformità di certi postulati della coscienza religiosa,
una storia mitica non compiuta e non chiusa. Intendo dire la leggenda
di Seth, mandato dal padre infermo, e già vicino a morte, al Paradiso
terrestre per procacciare l'olio della misericordia. Questa leggenda
ebbe a congiungersi poi con quella del legno della croce, e delle due
se ne formò una assai complessa, la quale nel medio evo più tardo, a
partire dal XII secolo, ebbe così gran diffusione che nessun'altra
ebbe l'eguale. Tale leggenda ci pervenne in narrazioni di tutte le
lingue parlate da popoli cristiani, conservata in libri d'ogni titolo
e qualità, distribuita in numerose versioni, le quali furono dottamente
paragonate fra loro e raccolte in gruppi e categorie. Nella esposizione
che segue io dovrò attenermi a pochi racconti principali, e rimandare
il lettore desideroso di più minuti particolari alle ottime monografie
cui essi diedero argomento[315].

La prima memoria, sino a noi pervenuta, di un'andata di Seth al
Paradiso terrestre, si ha probabilmente in quell'Apocalissi greca da me
più volte ricordata nel capitolo precedente, e, senza giusta ragione,
intitolata Apocalissi di Mosè. Quivi si logge che Adamo, giunto all'età
di 930 anni, e infermo, mandò Eva e Seth al Paradiso terrestre, per
ottenere, a sollievo delle sue sofferenze, l'olio di misericordia[316].
Cammin facendo, Seth è morso dal serpente. Giungono alla porta del
Paradiso, ma non ne varcan la soglia; l'arcangelo Michele dice loro
che non avranno, per ora, quanto desiderano, e li fa tornare addietro,
annunziando che in capo di tre dì Adamo si morrà. Nella Vita latina,
pure ricordata nel precedente capitolo, si ha, con lievi differenze,
lo stesso racconto: Michele dice ai due pellegrini che l'olio di
misericordia non sarà conceduto se non passati 5500 anni; che allora
Cristo, figliuol di Dio, scenderà in terra, si farà battezzare nel
Giordano, risusciterà Adamo e gli altri morti, e a tutti i credenti in
lui largirà l'olio tanto desiderato. Così li accommiata, annunziando
che ad Adamo non rimangono se non sei giorni di vita. Si può tener per
certo ch'entrambi questi racconti derivino da una fonte più antica,
rimasta sinora sconosciuta[317].

Il racconto della Vita passa nell'Evangelo di Nicodemo, con questa
sola diversità di rilievo, che di Eva più non si parla, e Seth compie
solo il viaggio, e solo ascolta le rivelazioni dell'angelo[318].
Da indi in poi Eva rimane esclusa dalla leggenda, la quale, come ho
detto, si lega all'altra del legno della croce, e fa corpo con essa.
Questo congiungimento si può dire che fosse inevitabile, provocato,
e in certa maniera imposto, da quel vivo e tenace desiderio cui ho
più volte accennato, di raccostare alla caduta la redenzione, di
contessere, per così dire, in un'unica trama i fatti dell'una e i
fatti dell'altra. Leggende intorno al legno onde fu formata la croce,
strumento di redenzione, dovettero sorgere assai per tempo, ed era
naturale che alcune, se non tutte, facessero venire quel legno dallo
stesso giardino ov'era stato commesso il peccato, e dallo stesso albero
che aveva dato esca al peccato. Di più leggende simili, che poi furono
sopraffatte da una finzione più rigogliosa, e che meglio appagava
il sentimento e la fantasia dei credenti, è rimasta i memoria. «Una
tradizione greca narra senza più che un ramo dell'albero nel cui frutto
peccò Adamo, fu trasportato a Gerusalemme; e ne sorse un grand'albero,
donde fu fatta la croce. Altri dicono che Adamo stesso portò seco
dal paradiso un frutto o un rampollo dell'albero. Secondo una terza
versione Dio dopo il peccato svelse l'albero e lo gittò di là dal muro
del paradiso. Mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo
giardino. Un angelo (o Dio stesso) gli annuncia che su di esso Dio
(egli) verrà crocifisso[319]». O prima o poi, una di tali leggende
doveva incontrarsi con la leggenda di Seth, e mescendosi con essa,
dare origine a una tradizione nuova, secondo la quale l'albero onde fu
fatta la croce sarebbe venuto da un virgulto, o da semi che Seth stesso
riportò dal Paradiso. E in questa forma la leggenda trionfò.

Non può essere còmpito mio tener dietro alle troppe versioni in cui
essa ebbe a spartirsi, e al moto de' suoi varii elementi, i quali
senza posa si accozzano insieme, si disgiungono, trapassano da luogo
a luogo e gli uni agli altri sottentrano, come fanno i pezzetti di
vetro multicolore nelle mutabili figure del caleidoscopio. Io mi
contenterò di dar qui la sostanza di un racconto latino, il quale è
certamente anteriore alla fine del secolo XIII, e in cui la leggenda
appare in tutta la sua pienezza. Questa, nella forma che in esso
consegue, «ottenne straordinario favore, e si diffuse per tutta
Europa, dall'Irlanda e dalla Svezia alla Spagna, dalla Cornovaglia alla
Grecia», dando luogo a traduzioni e rimaneggiamenti innumerevoli[320].

Adamo ha vissuto 932 anni nella valle d'Ebron, nella terra d'esilio.
Egli è stanco di estirpare i rovi dal suolo, stanco del male e dei
mali che vede crescer nel mondo, fra la sua posterità, stanco di
vivere. Chiama a sè il figliuolo Seth, e lo manda al cherubino che
con la spada fiammeggiante sta a custodia dell'albero della vita, per
avere da lui certezza dell'olio della misericordia che Dio promise
al peccatore il giorno stesso in cui fu commesso il peccato. Va,
dic'egli al figliuolo: tu conoscerai il cammino dalle impronte che
noi vi lasciammo, tua madre ed io, venendo in questa valle, e sulle
quali non è più cresciuta l'erba. Seth s'avvia, giunge alla porta del
Paradiso. Il cherubino saputa la ragione del suo venire, lo invita a
mettere il capo dentro alla porta, e a gettar gli occhi sul giardino:
tre volte pronunzia l'invito ed altrettante Seth vi si conforma. La
prima volta questi contempla la vaghezza del Paradiso, vede le piante
e i fiori, il fonte lucidissimo da cui nascono i quattro fiumi, e
sopra esso un'arbore ramosa, ma nuda di frondi e di corteccia. La
seconda, scorge un gran serpente avvolto al tronco della pianta. La
terza, vede l'arbore elevata sino al cielo, e sulla cima un bambino
appena nato, e, da basso, le radici, penetrate sin nello inferno, ove
gli si scopre l'anima di suo fratello Abele. L'angelo spiega a Seth la
visione, gli annunzia la venuta del Redentore, e, nell'accommiatarlo,
gli porge tre granella del pomo fatale onde mangiarono i suoi genitori,
ingiungendogli di porli sotto la lingua di Adamo, quando, di là a tre
dì, questi sia morto. Seth se ne torna, e Adamo, udite da lui le parole
dell'angelo, ride per la prima volta in sua vita (deve intendersi
dopo il peccato), e muore. Seth gli pone sotto la lingua i tre semi,
e sotterra il padre nella valle d'Ebron, e dai tre semi nascono tre
virgulti, di cedro il primo, di cipresso il secondo, di pino il terzo,
i quali così si rimangono, senza mai crescere oltre l'altezza di un
cubito, e senza mai perdere il verde, sino al tempo di Mosè. Questi,
giunto col suo popolo, dopo l'uscita dall'Egitto, nella valle d'Ebron,
conosce essere nelle tre verghe alcun che di miracoloso, le toglie
di terra, sana con esse coloro che erano morsi dai serpenti, e con
esse fa scaturire l'acqua dal sasso; poi, conscio della morte vicina,
le ripianta alle radici del monte Tabor, o dell'Oreb, ed entrato,
ivi presso, in una fossa, rende l'anima a Dio. Mille anni stanno le
verghe in quel luogo, sino a che Davide, per avvertimento del cielo,
le viene a levare, e le porta in Gerusalemme, dove, poste in una
cisterna, metton radice, e si uniscono in un'unica pianta, cui Davide,
per trent'anni di seguito, cinge, ogni anno, di un cerchio d'argento.
Davide sa già, per rivelazione divina, che della pianta si farà la
croce, per la cui virtù cancellerassi il peccato. E la pianta cresce
lo spazio di trent'anni; e sotto di essa piange Davide i suoi peccati,
e sotto di essa compone il salterio; poi muore. Salomone gli succede,
e dà opera a compiere il Tempio. Un giorno gli artefici, abbisognando
di una trave, recidono l'albero miracoloso; ma poi, per quanto si
argomentino, non riescono ad adattare il legno ov'era bisogno, e
Salomone, chiamato a veder tal miracolo, ordina che il legno sia posto
nel Tempio, e da tutti onorato. Una donna per nome Massimilla vi si
pone sopra a sedere, e incontanente le sue vesti prendono fuoco, ed
ella grida: Signore mio, e Dio mio Gesù; udite le quali parole, gli
Ebrei, come bestemmiatrice, la trascinano fuori della città, e la
lapidano, facendo di lei la prima martire; poi tolgono la trave dal
Tempio, e la gettano nella probatica piscina che, per nuovo miracolo,
acquista virtù di sanare gl'infermi. Sdegnati, gli Ebrei tolgon la
trave dalla piscina, e la gettano, a mo' di ponte, sul Siloe, perchè
sia calcata dai piedi dei passanti. Viene a Gerusalemme la regina di
Saba, e ricusa di passare sulla trave, sapendo a che sia serbata, e
profetizza il Messia. Venuto il tempo della passione, gli artefici
fanno con essa la croce su cui è confitto Cristo.

Ho detto che non intendo tener dietro alle numerose versioni della
leggenda; solo ricorderò che in una di esse i viaggi di Seth al
Paradiso son due; e che talvolta l'angelo dà a costui, non già le
tre granella, come nel racconto testè riferito, ma un ramoscello
dell'albero della scienza, e che da quel ramoscello pende ancora, in
uno o due casi, parte del frutto morso da Eva.

Il viaggio che nei precedenti racconti si narra di Seth, Gotofredo
da Viterbo narra di Jonito (o Jonico) figliuolo di Noè[321]. Jonito,
udita dal padre la descrizione delle meraviglie del Paradiso, chiede
a Dio in grazia di poterle contemplare con gli occhi suoi proprii, e
ottenuto il suo desiderio, ne riporta tre virgulti, di abete, di palma
e di cipresso, i quali piantati da lui separatamente, si congiungono
in un'arbore sola, che ha tre colori, e le foglie di tre maniere, a
simboleggiare la Trinità. Seguono le fortune del legno (le quali in
parte solo concordano con quelle narrate nel racconto precedente)
finchè di esso si fa la croce. Gotofredo cita un Atanasio, il quale è
probabilmente immaginato da lui, come da lui probabilmente è immaginato
il rapimento di Jonito al Paradiso, giacchè della leggenda, in questa
forma, non si trova altro vestigio. Bensì è narrato altrove che un
figliuolo di Noè, per nome Jerico, desideroso di vedere la tomba di
Adamo si recò nella valle d'Ebron, e trovati i tre virgulti, li svelse,
poi li ripiantò, come narra il cronista[322].

Ma prima di passar oltre, fermiamoci a fare qualche considerazione
non oziosa sovra un punto della leggenda di Seth e del legno della
croce. Seth vede da prima l'albero del peccato, vedovo di fronde e
spoglio della sua corteccia, e io ho già avvertito nel capitolo II che
quell'albero è descritto assai volte come un albero secco. Ora, di un
Albero Secco, posto, di solito, nel remoto Oriente, e per più ragioni
mirabile, è frequente ricordo in iscritture del medio evo. Varian
molto le descrizioni che se ne fanno; ma io non dubito che, in alcuni
casi almeno, esso non sia da identificare con la pianta disseccata del
Paradiso, dalla quale, del resto, un poemetto latino, composto circa
il 1300, lo fa derivare. Secondo alcune leggende riguardanti la fine
del mondo, l'ultimo imperatore appenderà la corona ai rami dell'Albero
Secco, o alla croce[323].

Seth vede poi la pianta mirabilmente ingrandita, e fatta simile ad uno
di quegli alberi cosmogonici che in altre mitologie comprendono fra le
radici la terra, e, tra i rami e le foglie, il cielo, quali lo skambha
vedico, l'ilpa buddistico, l'irminsul e l'yggdrasil della mitologia
germanica. Anche la croce fu considerata come un albero, la quale
recò ottimo frutto, e talvolta a dirittura come un albero cosmogonico.
Venanzio Fortunato così la saluta in un suo inno:

    Arbor decora et fulgida,
      Ornata regis purpura,
      Electa digno stipite
      Tam sancta membra tangere;

e in un altro inno ecclesiastico si legge:

    Crux fidelis inter omnes
      Arbor una nobilis:
      Nulla silva talem profert
      Fronde, flore, germine.

Come un albero di dolcissimo e vital frutto, e tutto fragrante di
fiori, è invocata spesso la croce nelle laudi[324], e come albero di
vita in un canto latino del sec. XIV:

    Salve, Christi crux praeclara,
      Arbor astris pulchrior,
    Facta reis ex amara
      Mellis stilla dulcior;
    Vitae nobis viam para.
      Dux effeta gratior.

L'albero della croce diventa una pianta meravigliosa, come si può
vedere nell'opuscolo di San Bonaventura intitolato _Lignum vitae_, ove
si leggono questi due versi:

    O crux, frutex salvificus, viva fonte rigatus,
    Cujus flos aromaticus, fructus desideratus.

Ma già in un _Hymnus de Pascha_, attribuito a San Cipriano, la croce
è diventata una specie di albero cosmico, che s'innalza sino al cielo
e dalle cui radici scaturisce una mirabil fonte. I frutti di quello
dànno la vita eterna; l'acqua di questa lavano d'ogni macchia. Tutta
l'umanità trae all'albero meraviglioso. Gerolamo Vida, in un carme _In
Jhesu Christi crucem_, esclama:

    Nunc prope numen habes, sancta et venerabilis arbor,
    Coelo mixta comas caput inter sidera condis.

Il legno della croce fu fatto derivare di solito dall'albero della
scienza del bene e del male, ma talvolta ancora dall'albero della vita,
o da un altro albero paradisiaco, detto della salute[325]. Secondo una
leggenda siriaca la croce fu fatta del legno di un albero che da indi
in poi non cessò più di tremare, la tremula. Abbiam veduto come tre
virgulti di specie diversa, ma tutti derivati dal medesimo albero, si
ricongiungessero insieme per formar di nuovo un albero solo. Stando
ad altre immaginazioni, la croce fu veramente formata di quattro
legni differenti, palma, cedro, cipresso, olivo; oppure di tre, cedro,
cipresso, pino; palma, cipresso, abete. Il numero di tre simboleggiava
la Trinità[326]. Ricorderò da ultimo che, secondo i musulmani, la legge
da Mosè recata agli Ebrei era scritta su tavole formate del legno di
un albero Sedr, ch'è nel settimo cielo, e che secondo Mosè Bar-Cefa, la
lancia con cui fu ferito Cristo era quella stessa del cherubino posto a
custodia del Paradiso.

Io qui non parlo di coloro che videro il Paradiso terrestre solamente
in ispirito, come suole accadere nelle Visioni; ma di coloro che
v'andarono in carne ed ossa; e perciò solò in passando fo cenno della
questione agitata per sapere se San Paolo fosse stato rapito in cielo,
o nel Paradiso terrestre, o in entrambi. La questione non era ancor
risoluta a' tempi di Torquato Tasso, il quale nelle _Sette giornate_
chiedeva:

    È ver che 'l terzo cielo, ove fu ratto
    Già Paolo col pensier levato a volo,
    Sia terren paradiso?[327]

Nella leggenda che or segue noi abbiamo la favolosa istoria di alcuni
pellegrini che non muovono propriamente alla ricerca del Paradiso, ma,
dopo molte avventure, giungono in luogo prossimo ad esso, e di là se
ne tornano indietro. È questa la leggenda, greca di origine, e certo
assai antica, dei tre santi monaci Teofilo, Sergio ed Igino, nella
quale noi cominciamo a far conoscenza con quei monaci irrequieti ed
audaci, che spinti, non meno da curiosità venturiera, che da certo
fervor religioso, disertano i chiostri e si dànno a correr le terre ed
i mari attraverso a mille casi e mille pericoli[328]. Essa si lega al
nome di San Macario Romano, santo misterioso ed oscuro, il quale non si
sa in che tempo sia vissuto, e da taluno si dubita che in niun tempo, e
ch'egli sia, come tant'altri, un santo mitico.

Tre monaci di un convento di Mesopotamia, posto tra l'Eufrate ed il
Tigri, Teofilo, Sergio ed Igino, sedevano un giorno sulla riva di
quel primo fiume, e ragionavano devotamente tra loro della umana vita
e delle molte tribolazioni che affliggono i servi di Dio. A Teofilo
vien nell'animo un desiderio, e lo palesa ai compagni: Io vorrei, egli
dice, camminare tutto il tempo della mia vita, e giungere colà ove il
cielo tocca la terra. I compagni s'accendono del medesimo desiderio,
e nato del desiderio il proposito, tutti e tre, quella stessa notte,
si partono dal monastero. In capo di diciasette giorni giungono a
Gerusalemme, ove adorano il Sepolcro; dopo cinquanta, passano il Tigri
ed entrano in Persia; scorsi quattro mesi, entrano nell'India. Quivi
cadono in man degli Etiopi, e soffrono molti maltrattamenti; poi,
cacciati dagli Etiopi, rimangono ottanta dì senza prendere cibo alcuno.
Andando sempre verso Oriente, attraversano le terre dei Cananei,
altrimenti (così il testo) detti Cinocefali; quelle dei Pichiti, alti
un cubito; una regione montuosa ed orrenda, tutta popolata di draghi,
di aspidi, di basilischi, e altri animali velenosi; un'altra regione,
tutta sparsa di rupi asperrime; una gran pianura, ove pascolano
mandrie di elefanti; un'altra, ingombra di dense tenebre, e giungono
a un'abside eretta da Alessandro Magno quando inseguì Dario. Vivono la
più parte del tempo miracolosamente, senza cibarsi, e, proseguendo il
viaggio, trovano un lago pieno di anime dannate; un gigante incatenato
fra due monti; una donna avviluppata da un dragone; un bosco di grandi
alberi, su cui anime in forma di uccelli chiedono ad alta voce perdono
dei loro peccati. Succede a questi orribili e strani luoghi un luogo
bellissimo, custodito da quattro vecchi, i quali hanno corone d'oro
in capo ed auree palme tra mani; poi viene una regione tutta piena di
canti e di odori soavissimi, ove brilla una chiesa di varii colori,
d'incomparabil bellezza, e che par fatta tutta di cristallo. Intorno
ad essa sono uomini santi, di venerabile aspetto, che cantano, e
dall'altare scaturisce un fonte, che sembra di latte. Dopo avere
incontrato un altro popolo di pigmei, i tre pellegrini giungono alla
spelonca ove da lunghissimo tempo San Macario mena vita anacoretica, a
sole venti miglia di distanza dal Paradiso terrestre, e il santo dice
loro che non si può passare più oltre, e che il Paradiso è vietato a
tutti i mortali. Udita da lui la sua storia, i monaci riprendono la
via per cui sono venuti, scortati sino all'abside di Alessandro da due
leoni, compagni amorevoli e consueti del santo.

In questo racconto noi abbiamo un evidente influsso delle storie
favolose di Alessandro Magno, comprovato da quel ricordo dell'abside
da costui edificata. Leggonsi appunto in esse alcune delle meraviglie
incontrate da' monaci, e altre molte per giunta, delle quali è
frequente ricordo in iscritture del medio evo, e che veggonsi
pure raffigurate in parecchie mappe[329]. Non intendo discorrere
partitamente di tutte quelle che nella leggenda ascetica si trovano, ma
di taluna mi pare opportuno dir qualche cosa.

Di una specie di regione infernale posta in prossimità del Paradiso
terrestre abbiamo già trovato altri ricordi, molto meno antichi di
quello che hassi nella nostra leggenda [330]. Della regione tenebrosa,
per contro, abbiamo ricordi e più recenti e più antichi. Una regione
così fatta descrivesi nelle dottrine cosmografiche dell'India. Di là
dal fiume oceano si distende, a occidente della terra, secondo Omero ed
Esiodo, il tenebroso paese dei Cimmerii[331]; più tardi esso fu posto
a settentrione, intorno ai monti Rifei. Alessandro Magno si spinse un
tratto in una regione coperta di tenebre, la quale chiudeva in sè il
paese dei beati[332]; e di terre ov'è notte perpetua fanno parola Marco
Polo, il Mandeville e altri.

Le anime peccatrici, che i tre monaci trovano in sembianza di uccelli
appajono molto frequentemente in leggende ascetiche del medio evo,
quando come anime dannate, quando come purganti; al qual proposito
è da ricordare che nel simbolismo cristiano l'anima è consuetamente
rappresentata sotto forma di uccello, e che in una delle saghe
della _Saemundar Edda_, intitolata _Solar-liodh_, è ricordo di
anime in forma di uccelli neri[333]. In una leggenda riferita da San
Bonifazio, anime purganti, simili nell'aspetto ad uccelli neri, volano
intorno a un pozzo, da cui prorompono fiamme ardenti, e nel pozzo si
sprofondano[334].

Seth potè solamente sporgere il capo dalla porta del Paradiso
terrestre, e i tre monaci Teofilo, Sergio ed Igino dovettero fermarsi
a venti miglia di distanza da esso. Altri furono più fortunati. Ecco
qua la leggenda di tre altri monaci, la quale fa degno riscontro alla
precedente, sebbene sia da essa molto diversa[335].

Sulle rive del Gihon è un monistero abitato da uomini di santa vita.
Tre di questi, lavandosi un giorno nel fiume, veggono venir giù,
portato dalla corrente, un ramo meraviglioso: «l'una foglia pareva
d'oro battuto, l'altra pareva d'ariento, l'altra pareva d'azzurro
fino, l'altra vermiglia, l'altra era bianca, e così era isvariato
d'ogni colore». Il ramo recava, per giunta, frutti _molto dilettevoli_
a mangiare. Lo traggono fuori dell'acqua, e mentre lo contemplano,
pieni di ammirazione e di alleggrezza, senton nascersi in cuore un
desiderio smodato d'andarne sin là, all'incantato paese d'onde quel
ramo è venuto. E subito, accordatisi in un comune proposito, senza dir
nulla a persona, si partono dal convento, e camminando lungo la ripa
del fiume, ch'è uno dei quattro del Paradiso, si pongono in viaggio.
Giungono, dopo lunga peregrinazione, alla famosa porta custodita
dall'angelo, e domandato e ottenuto di varcarne la soglia, s'aggirano
fra l'ombre e le delizie del giardino immortale, mangiano di quelle
frutta soavissime, bevono di quell'acque miracolose che rinnovano la
giovinezza, e ragionano co' due vecchiardi Enoch ed Elia delle cose
del cielo. Credono d'essere stati nel beato luogo tre giorni, e vi sono
rimasti tre secoli. Tornati al convento, che ancora sussiste, ma dove
già dieci generazioni di monaci si son succedute, eglino, con l'ajuto
de' vecchi libri memoriali, mostrano e provano la lor condizione, e
narrata la storia mirabile del loro viaggio, in capo di quaranta giorni
improvvisamente si dissolvono in cenere, e ascendono alla gloria eterna
del cielo.

Questa leggenda sembra sia nata in Italia: io non so che si trovi in
altri linguaggi volgari, e nemmeno mi è noto un testo latino da cui le
redazioni italiane possano essere derivate. Ed è leggenda schiettamente
ascetica. Le descrizioni che delle meraviglie del Paradiso vi si
leggono sono come penetrate di un'aura di estasi, partecipano del
sogno. Il narratore non trova nel linguaggio degli uomini parole
acconce ad esprimere la novità e la bellezza degli spettacoli che si
offrono agli sguardi attoniti dei tre pellegrini, a significare lo
smarrimento di dolcezza onde sono prese le anime loro; e quando vuol
fare intendere altrui, in qualche modo, la virtù rapitrice che muove
da un canto non più udito, dice che ogni anima umana vi si sarebbe
addormentata, o avrebbe perduto ogni memoria e cognizione di sè[336].
Nella leggenda sono due cose che voglio notare: quel ramo meraviglioso
da cui i tre monaci sono allettati al viaggio, e l'error loro quando,
essendo dimorati nel Paradiso trecent'anni (settecento, in altre
redazioni), stimano esservi rimasti solamente tre dì (altrove, sette).
Giovanni de' Marignolli dice che foglie e frutti degli alberi del
Paradiso si trovano sovente nei fiumi che da questo derivano. Secondo
una tradizione riferita da Mosè Maimonide, Seth riportò dal Paradiso
parecchi alberi, tra' quali uno che aveva le foglie e i rami d'oro;
e secondo i musulmani l'albero della vita aveva il tronco simile a
dell'oro, i rami come argento, le foglie come smeraldi.

Di quell'alterazione nel corso del tempo, o nel giudizio della sua
durata, c'è da dire qualche cosa di più. Essa si produce in numerose
leggende, la più celebre delle quali è la tedesca del monaco Felice,
non più antica, sembra, del secolo XIV[337]. Era costui un monaco
cistercense, di ottima indole, di saldissima fede e d'irreprensibili
costumi, il quale, leggendo un giorno come la letizia del Paradiso
celeste sia eterna, e senza mescolanza alcuna di dolore, cominciò, per
la prima volta in sua vita, a entrare in un dubbio, e a disputar seco
stesso per che modo possa ciò essere. E il modo gli fece intendere
Iddio con un miracolo. Venne dal cielo un augelletto più candido che la
neve, il quale si mise a cantare con sì nuova e meravigliosa dolcezza,
che il monaco si credette un tratto rapito in Paradiso, e, voglioso
di averlo tra mani, si mosse per prenderlo; ma l'augelletto aperse
l'ali e sparì. Felice, rimasto pieno di desiderio e di rammarico, ode
una campana sonar mattutino, si ricorda del suo convento, e torna
addietro. Ma il portinajo non lo riconosce, e non lo vuol lasciare
entrare, e gli dà dell'ubbriaco e del pazzo quando gli ode narrare
la storiella dell'augelletto bianco che rapiva l'anima col suo canto.
Sopraggiungono gli altri frati con l'abate; ma nessuno riconosce colui
che afferma d'aver dimorato quarant'anni nel chiostro. Finalmente il
più vecchio della famiglia, il quale v'era stato già ben cento anni,
e giacevasi allora infermo, si ricorda che nel tempo in cui egli era
novizio, un dei fratelli, per nome Felice, era sparito un giorno di
primavera, e non se n'era mai più avuta novella. L'abate fa portare il
libro in cui da trecent'anni si registravano le morti dei monaci, e
si trova che Felice, il quale credeva d'essere stato assente un'ora,
era stato assente un secolo. In altre versioni della leggenda il
monaco chiede in grazia a Dio un piccolo saggio della beatitudine del
Paradiso, o è travagliato da un dubbio, come mai possa un secolo non
parere a Dio maggior di un istante[338]; ma in tutte è quell'error di
giudizio circa la durata del tempo; e tale errore si ripete in alcune
leggende paradisiache delle quali dirò or ora, e in altre pure, di
vario argomento. Narra il Joinville che un principe dei Tartari fu
assente tre mesi, e quando tornò credeva l'assenza sua esser durata
non più di una sera, ed ebbe nel frattempo una visione, o fu rapito
in Paradiso[339]. L'eroe di una leggenda celtica, Oisin, crede di
passare in compagnia di una bella fanciulla alcuni giorni solamente,
e sono, in realtà, più di trecento anni. Nel racconto di Roberto di
Boron, Giuseppe d'Arimatea, sostentato dalla vista del Graal, passa
quarant'anni in carcere senz'avvedersene. Secondo Giovanni di Hese,
tre giorni passati in quell'isola dilettosa ch'egli chiama Radice del
Paradiso, non sembrano durare più di tre ore[340].

Alla leggenda italiana dei tre monaci credo di dover far seguire la
leggenda del giovane principe; sia perchè italiana, come pare, ancor
essa di origine; sia perchè presenta con quella dei tre monaci, molta
somiglianza nello scioglimento e parecchia nello spirito di che è
penetrata. Benchè italiana, essa si legge in latino e in tedesco, nè
so che ve ne sia traccia in libri italiani, stampati o manoscritti.
La narra, o si vuol che la narri, Eberardo, vescovo di Bamberg, il
quale afferma d'averla udita in Italia, dall'abate di un monastero di
cluniacensi, posto nelle Alpi. Di vescovi di Bamberg, con quel nome, ce
ne furono due, l'uno morto nel 1041, l'altro nel 1172; ma è probabile
che il nostro sia il meno antico. Ecco, ad ogni modo, compendiato, il
suo poetico racconto[341].

Il figliuolo di un principe si ammoglia, e invita alle nozze il
suo angelo custode. Giunto il vespro del giorno solenne, egli, che
religiosissimo è, monta a cavallo, e si reca a pregare a certa chiesa,
che sorge su un monte. Al ritorno incontra un vecchio di venerabile
aspetto, vestito di candidi panni, circonfuso di luce, e seduto sopra
un mulo tutto candido anch'esso. Compreso di affettuosa reverenza, il
giovane prega lo sconosciuto di volere assistere alle sue nozze, e
menatolo al castello, quivi il fa signore d'ogni cosa. Si celebrano
le nozze pomposamente, e tre giorni dura il banchettare, senza che
mai le provvigioni per quanto si profondano, vengano meno. L'ospite
finalmente chiede licenza, e da tutti ringraziato e desiderato, si
parte, accompagnandolo il giovane sposo per un tratto di via. Giungono
al luogo ove si sono incontrati la prima volta. Il giovane vorrebbe,
tanto amore gli ha posto, abbandonare e la sposa e la patria, e andarne
con esso lui; ma quegli il dissuade dicendo: Non ora: fra tre dì, se tu
vuoi, potrai venirne alla mia stanza. Questo sentiero vi conduce, e qui
troverai tu questa mia cavalcatura, la quale ti porterà ove tu brami
di essere. Ciò detto si parte. Venuto il giorno segnato, il giovane si
accommiata dalla sposa, annunziandole che in breve sarà di ritorno,
si mette in via, accompagnato da' suoi cavalieri, giunge al luogo
stabilito, trova il mulo, e licenziati i compagni, monta su di quello
e segue suo viaggio. Passa una gola tetra ed angusta, e riesce in una
campagna di meravigliosa bellezza, piena di ogni maniera di alberi,
dipinta di odorosissimi fiori, rallegrata dal canto d'infiniti uccelli.
Percorre quattro stazioni, ove sono tabernacoli constellati di pietre
preziose, addobbati di seta e di porpora, adorni di tanta ricchezza e
splendore che nulla di simile può raffigurare la fantasia. Ciascuna
stazione ha numerosi abitatori, vestiti sfarzosamente, raggianti di
luce, i quali accolgono con gaudio e con onore il pellegrino. Nella
quarta questi trova l'ospite suo, non più solo, ma circondato da
molti compagni, tutti vestiti di bianco, tutti fregiati di corone, e
più luminosi che il sole. Le accoglienze sono, quanto mai si possa
dire, affettuose e magnifiche; il luogo pieno di tanta gloria e di
tanta letizia che nessuna parola può darne una immagine. Il giovane
vi dimora trecento anni e stima esservi stato tre ore. Indarno la
sposa, i congiunti, i cavalieri, i servi, pieni di ansietà e di dolore,
aspettano ch'egli torni. Il padre e la madre di lui vanno ad abitare
nel luogo ov'egli s'accommiatò dai seguaci, mutano il castello in
un chiostro, in una chiesa il palazzo. Volano gli anni: muojono i
genitori, muore la sposa, muojono l'uno dopo l'altro tutti i soggetti;
le generazioni succedono alle generazioni, ininterrottamente. Scorsi
trecent'anni, il giovane, il quale ha serbata incolume intanto la sua
giovinezza, chiede licenza e l'ottiene; ma tornato nella sua terra,
trova ogni cosa mutata, e nuove genti, che nè lui conoscono, nè sono
da lui conosciute. Gli appare il castello mutato in chiostro; gli appar
la chiesa eminente e magnifica, guernita di torri, dalle quali scoppia
un clamor di campane che fa tremare i monti circostanti, e sulla cui
sommità sventola, in luogo del vessillo con l'aquila, il vessillo con
la croce. Il giovane si dà a conoscere al portinajo del convento. Ecco
l'abate, ecco i monaci tutti trasecolati di meraviglia; ecco accorrere
d'ogni intorno il popolo tratto al grido di così nuovo prodigio.
Il principe narra la sua storia, la quale è messa per iscritto; poi
l'abate ordina un sontuoso banchetto, raccoglie buon numero d'invitati;
ma il principe, come appena ha assaggiato il pan degli uomini,
improvvisamente appar vecchio di decrepita, non più veduta vecchiezza.
Lo portano in chiesa, e quivi egli, ricevuti i sacramenti, si muore. Il
corpo suo, dopo funerali pomposi, è deposto in quello stesso sepolcro
ove da secoli già dorme la sposa.

Questa è leggenda risolutamente ascetica, e tale ancora è la leggenda
del cavaliere irlandese Owen, che nel 1153, secondo narra Enrico di
Saltrey, visitò in carne ed ossa i luoghi di punizione e il Paradiso
terrestre, non peregrinando per lunga distesa di terre e di mari, ma
scendendo in quel misterioso Pozzo di San Patrizio della cui fama fu
pieno per molti secoli il mondo. Vedremo in seguito che anche altri
prese, per giungere al Paradiso, quella medesima strada, non certo più
comoda, ma molto più breve[342].

Il cavaliere Owen[343], dopo una vita di dissipazione e di peccato,
fu preso da pentimento, e cercò modo di scontare, mentr'era ancor
vivo la pena che troppo temeva di dover pagare dopo la morte. A tal
fine si fece introdurre nella cava di San Patrizio, la quale dava
adito ai regni dei morti, e cominciò il meraviglioso suo viaggio,
del quale fece poi, ritornato nel mondo dei vivi, il racconto.
Attraversò da prima varii luoghi di punizione, e vide i castighi a
cui erano assoggettate le anime, e n'ebbe la parte che gli toccava,
insidiato e deriso per giunta dai diavoli che di quei castighi eran
ministri. Giunse ad un ponte periglioso (il solito ponte delle leggende
infernali), e passatolo, si trovò in una gioconda campagna, dinanzi
ad un muro altissimo e meraviglioso, e ad una porta tutta contesta di
metalli preziosi e di gemme. La quale apertasi, ecco venire incontro
al pellegrino una gloriosa processione di santi, e fargli lieta
accoglienza, e introdurlo nella divina città, e taluno di quelli
mostrargliene a mano a mano tutte le meraviglie. Il cavaliere non
vorrebbe più partirsi da quel luogo di beatitudine; ma gli è forza
tornare al mondo, e purgato d'ogni antica bruttura, ci torna[344].

Dice San Patrizio, in certa _Confessio_ a lui attribuita, che quelli
del suo sangue furono dalla Provvidenza dispersi in qua e in là
sino agli ultimi termini della terra[345]. Queste parole, vere o
supposte, di un santo di cui la stessa esistenza fu posta in dubbio,
ci richiamano ad un altro gruppo di leggende, nelle quali allo spirito
ascetico si accompagnano lo spirito di esplorazione e di ventura, e che
hanno per giunta questo comun carattere, d'esser leggende marittime,
e di avere ad eroi certi monaci settentrionali che odiano la pace
e l'ozio dei chiostri, ardono del desiderio di propagare la fede di
Cristo, sognan cose mostruose e terribili, ed essendo, in generale,
grandissimi santi, hanno pure in sè qualche cosa del pirata. Costoro
fioriscono più particolarmente sulle coste occidentali dell'Irlanda,
della Scozia e della Frisia; e campo alle loro imprese è lo sterminato
oceano che le bagna di onde perpetuamente in tumulto, e si stende,
formidabile e sconosciuto, fino all'estrema plaga del cielo, ove il
sole tramonta, fin sotto alla notte del polo; terribile ed infinito
oceano che tutto il mondo circonda, scrive Adamo Bremense (m. 1076),
oceano pieno d'intollerabile gelo e di caligine immensa.

Esso fu dalla turbata fantasia degli antichi prima, da quella degli
uomini del medio evo poi, empiuto di pericoli, popolato di mostri[346],
il terror de' quali fu di non lieve ostacolo alla temeraria
navigazion di Colombo, ma non valse a trattenere quegli arditi ed
oscuri esploratori del Settentrione a cui devesi la scoperta della
Groenlandia, e d'altre terre boreali, e della stessa America forse,
molti secoli prima che v'approdasse il grande Italiano[347]. Delle
esplorazioni loro molti ricordi, tra storici e favolosi, sono giunti
sino a noi, ed io volentieri m'indugio, prima di proceder oltre,
intorno a taluno, dacchè essi hanno stretta attinenza con le leggende
che verrò poscia esponendo, e servono a determinarne vie meglio il
carattere e ad illustrarle.

Di Aroldo, principe di Norvegia, narra il testè ricordato Adamo
Bremense come corresse con le sue navi il mare settentrionale, finchè
si vide intenebrare dinanzi gli estremi confini del mondo, e come a
stento scampasse da un _immane baratro dell'abisso_. Lo stesso Adamo
narra la seguente istoria. Alcuni nobili di Frisia, desiderosi di
accertarsi con gli occhi loro se verso Settentrione non vi fosse
più terra alcuna, ma solo quel mare che dicesi concreto o viscoso,
com'era comune sentenza, si misero in nave e sciolsero le vele ai
venti. Lasciando dall'una mano la Danimarca, dall'altra la Brettagna,
giunsero alle Orcadi, e seguitando la navigazione loro a occidente
della Norvegia (Nordmannia), pervennero alla glaciale Islanda,
d'onde, più oltre procedendo, verso il polo, entrarono nella region
delle tenebre, e furono travolti, con veementissimo impeto, in quella
profonda voragine, che assorbendo, com'è fama, e rivomitando immensa
copia di acque, dà origine al flusso e al riflusso del mare. Parecchie
loro navi andarono miseramente perdute con quelli che dentro vi erano;
altre, risospinte dal gorgo, uscirono dalle tenebre e dalla plaga del
gelo, e giunsero insperatamente ad un'isola, la quale era, a guisa di
fortezza, munita tutto intorno di altissimi scogli. Scesi a terra, i
naviganti non videro per allora gli abitatori, i quali, essendo l'ora
meridiana, si tenevano celati nelle loro spelonche; ma ben videro,
davanti agli aditi di queste, molti vasi d'oro, e d'altri metalli che
gli uomini stimano preziosi, e tolti di quelli quanti più poterono,
lietamente fecero ritorno alle navi. Ma ecco che improvvisamente si
videro inseguiti da uomini smisurati, che noi chiamiamo Ciclopi, i
quali erano preceduti da cani di molto maggior mole che i nostri non
sieno. Raggiunsero coloro uno dei fuggenti, e subito il fecero a brani;
mentre gli altri poterono riparar nelle navi, e allontanarsi, non
senza che i giganti li inseguissero buon tratto in alto mare, gridando
e minacciando. Tornarono a Brema gli esploratori, e narrate le lor
fortune al vescovo Alebrando, offersero sacrifici a Cristo redentore e
al confessor suo Villecado, in ringraziamento di lor salvezza[348].

Quell'immane abisso, quella voragine che produce il flusso e il
riflusso del mare, è probabilmente il Maelstrom, aggrandito e trasposto
dalla fantasia, ed altri ricordi se ne trovano in iscritture del medio
evo[349]. Quanto ai Ciclopi è noto che il mito loro fu diffuso così in
Occidente come in Oriente, e che nel medio evo esso riappare più di una
volta[350]. Del mare concreto o viscoso dirò più innanzi.

Un'altra spedizione, degna d'essere rammemorata, narra Sassone
Grammatico. Gormo, re di Danimarca, bramoso di scoprir cose nuove,
raccoglie trecento compagni, e alla guida di un tal Torkillo, con
tre navi saldamente costrutte, si mette in mare. In capo di certo
tempo giungono i naviganti a una terra, ove, essendo già stremati di
vettovaglie, fanno strage dei greggi che vi trovano. Le divinità del
luogo, offese, non li lasciano partire sino a che non abbiano offerto
in sacrificio d'espiazione tre di loro compagnia. Di quivi passano
nella Biarnia ulteriore, paese di delusive lusinghe e d'incantamenti
diabolici. Torkillo vieta ai compagni di parlare cogli abitanti, di
accondiscendere ai loro inviti, questo essendo il solo modo di render
vane le loro malie: quattro più incontinenti trasgrediscono il divieto,
e rimangono nella terra in una condizione di servitù neghittosa,
immemori del passato. Gli altri si partono liberamente, e pervengono a
un orribil castello, custodito da cani famelici, abitato da mostruose
e spaventevoli larve. Qui Torkillo ammonisce di nulla temere e di nulla
prendere delle cose che s'offrono alla vista, e lusingan la cupidigia;
ma egli stesso non sa resistere alla tentazione. Ne segue una terribile
zuffa. Al ritorno, dei trecento compagni non ne rimangono più che
venti[351].

Narrazioni consimili ebbero corso e celebrità fra i Celti, i quali
le designarono col proprio nome d'_imramha_[352]. Fantastica in
sommo grado, e lunghissima è quella della navigazione di Maelduin,
il quale desideroso di vendicare la morte del padre, ucciso da certi
pirati, si mise in mare con più di sessanta compagni, e correndo
verso Settentrione e verso Ponente, visitò un numero stragrande
di isole, piene d'infinite meraviglie, ed una tra l'altre in cui
non s'invecchiava, nè di male alcuno si pativa, e dalla quale era
malagevole cosa partirsi[353]. I figliuoli di Conall Dearg Ua-Corra
erano stati prima pirati, ma poi, pentitisi, fecero un pellegrinaggio
in mare, e videro anch'essi moltissime meraviglie, e tra l'altro alcune
isole che facevano officio d'inferno o di Purgatorio, e dov'erano
variamente puniti peccatori di più maniere[354]. Avventure in parte
simili alle loro, in parte diverse, si hanno nella narrazione del
viaggio di Snedhgus e di Mac-Riaghla[355], e in altri racconti, alcuni
dei quali tuttavia inediti. Di Merlino narravasi che fosse andato con
una nave di cristallo in traccia dell'Isole Beate[356].

Fra tanti navigatori erano forse i più ardenti, e non erano i meno
audaci, i monaci; sia che li sollecitasse la speranza di piantare la
croce in qualche isola incognita, perduta nella immensità dell'oceano;
sia che li movesse il desiderio di compiere, a salute dell'anime
loro, un pio pellegrinaggio su quel mare pien di pericoli, che si
credeva accogliesse, nella più remota sua parte, l'isola arcana
del Paradiso. Testimonianze del IX e dell'XI secolo provano che lo
zelo dei missionarii fece scoprire parecchie terre nell'Atlantico
settentrionale[357]; e Dicuil, nel suo trattato _De mensura orbis
terrae_, parla delle loro spedizioni[358]. I monaci di San Colombano
correvano temerariamente l'oceano con barche leggiere, intessute di
vimini, coperte di pelli, quali usavano sulle coste d'Irlanda, e uno
di essi fu spinto dai venti nell'Oceano settentrionale lo spazio di
quattordici giorni e quattordici notti. San Colombano stesso (m. 597)
fu un ardito navigatore[359]. Ed eccoci giunti ora a quella famosa
leggenda di San Brandano, che acconciamente fu detta una Odissea
monastica, e cui il Renan giudicò _une des plus étonnantes créations
de l'esprit humain et l'expression la plus complète peut-être de
l'idéal celtique_[360]: la quale non è punto, come pareva al Greith,
un'allegoria mistica intesa a rappresentare la vita claustrale[361],
ma è un racconto fantastico formatosi intorno ad un nucleo reale, e
strettamente legato a tradizioni e credenze gaeliche.

San Brandano fu irlandese, e se si debbono tener per sicuri i termini
che alla sua vita assegnano i biografi, nacque nel 484, morì nel
576 o 577. Il nome suo si scrisse in latino Brendanus; ma prese poi,
col divulgarsi della leggenda per le varie province d'Europa, varie
forme: Brandan, Brandanus, Brandon, Brandain, Blandin, Borodon, sotto
l'ultima delle quali ebbe forse ad essere confuso con San Barinto
(Barint, Barrendeus, Borandon) uno dei suoi precursori. San Brandano
(noi useremo questa forma, come quella che occorre più di frequente)
fu abate di Llancarvan e di Clonfert e fece veramente un viaggio,
e vuolsi che tornato in patria scrivesse un libro _De Fortunatis
Insulis_[362]. Questo viaggio egli compiè, secondo affermano parecchi
cronisti, l'anno 561[363], e la leggenda non dovette tardare a narrarlo
in guisa fantastica, sebbene sia da credere che solo a poco a poco essa
abbia preso rigoglio e raggiunta quella pienezza con la quale è sino
a noi pervenuta. Il racconto più antico, fu probabilmente gaelico,
ed è forse, in una forma più o meno alterata, quello stesso che si
conserva nel così detto _Libro di Lismore_, il quale è, per altro,
di età assai tarda, essendo stato scritto nel secolo XV. Dal racconto
gaelico avrebbe attinto l'autore del primo racconto latino, noto sotto
il titolo di _Navigatio Sancti Brendani_, conservato in un codice della
Vaticana, che, a ragione o a torto, fu stimato del secolo IX[364],
e in altri codici assai numerosi dei secoli XI, XII e XIII; e dalla
_Navigatio_ dipendono, direttamente o indirettamente, in tutto o in
parte, i molti racconti venuti di poi, latini e volgari, in prosa e in
verso[365].

Ridotto in breve, il racconto della _Navigatio_ è il seguente.

Un giorno San Brandano, padre di quasi tremila monaci, ricevette la
visita di San Barinto, il quale ebbe a narrargli come fosse andato
a visitare un altro sant'uomo, Mernoc, che con più monaci viveva in
un'isola dell'oceano, detta Isola Deliziosa; come in sua compagnia
fosse andato, verso Occidente, all'Isola della promessione dei santi
(_terra repromissionis sanctorum_), piena di ogni delizia, durata
incolume dal principio del mondo, e serbata da Dio ai santi suoi,
quando verranno gli ultimi tempi; come quivi avessero trovato un uomo
circonfuso di luce, col quale parlarono, e un fiume, che divideva
l'isola per mezzo, ed oltre il quale non fu loro conceduto di passare;
come tornassero indietro pel già corso cammino. Udita la narrazione di
Barinto, San Brandano arse del desiderio di vedere ancor egli l'isola
meravigliosa; e consigliatosi co' suoi monaci, dopo un digiuno di
quaranta giorni, presi seco quattordici compagni, e poi altri tre,
sopravvenuti senza suo desiderio, si recò nella terra ov'erano i
parenti suoi, e costrutta quivi una nave assai leggiera, formata di
legname e di pelli, entrò in mare e diedesi a navigare verso Occidente,
con prospero vento. Passati quaranta giorni, e venute già a mancare le
vettovaglie, giunsero gli esploratori ad un'isola altissima, le cui
ripe di pietra erano tutt'intorno tagliate a perpendicolo, men che
in un punto, ove s'apriva un seno capace di una sola nave; ed essi
entrativi, trovarono un castello, con una gran sala parata, ma vuoto
di abitatori, e per tre giorni consecutivi ebbero mensa imbandita
e ottimo ristoro. Quivi uno dei tre monaci sopraggiunti da ultimo,
rubò, contro l'ammonizione espressa del santo, un freno d'argento,
e per questo morì, ma confesso e perdonato, così che l'anima sua fu
dagli angeli assunta in cielo. Gli altri, rientrati in nave, ripresero
il viaggio, e vennero a un'isola popolata d'innumerevoli pecore
bianche, di grandezza maggiori dei buoi; poi ad una che pareva isola
ed era invece uno sterminato pesce, detto Jasconius, dal quale i
monaci fuggirono precipitosamente quando, sentito il calor del fuoco
accesogli sul dorso, quello si cominciò a muovere; poi a un'altra
isola, dov'era un infinito numero di uccelli candidissimi e parlanti,
sotto alle cui penne si celavano gli angeli che si mantennero neutrali
al tempo della ribellione di Lucifero; e quivi San Brandano e i suoi
monaci celebrarono la festa di Pasqua, e rimasero sino alla ottava di
Pentecoste. Partitisi anche da quella, non videro più, per tre mesi
interi, se non l'acqua e il cielo, finchè giunsero a un'isola abitata
da ventiquattro monaci santi, i quali si nutrivan di pane largito loro
dal cielo, serbavano rigoroso silenzio, non pativano i danni della
vecchiezza e dei morbi. Quivi celebrarono i navigatori il Natale, poi,
ripreso il mare, visitarono un'isola ov'era un fonte, le cui acque
inducevano profondo sopore in chi le beveva; navigando quindi verso
Settentrione, trovarono un mare che per troppa tranquillità era quasi
coagulato; poi approdarono di nuovo ad alcune delle isole che già li
avevano accolti l'anno innanzi, e nell'isola degli uccelli celebrarono
la Pasqua. Sette anni durò la meravigliosa navigazione, e tutti gli
anni gli esploratori, condotti dalla Provvidenza, tornarono a celebrare
il Natale e la Pasqua ne' medesimi luoghi. Noi non terrem dietro a
questi ritorni e alle ripetizioni cui dànno argomento; ma noterem solo
le nuove cose mirabili onde fa memoria il racconto. In sul principiar
del terz'anno i naviganti scamparono da un gran pericolo. Uno smisurato
cete li inseguì gran tratto, e li avrebbe tutti inghiottiti, se un
altro mostro marino, che sbuffava fuoco dalla bocca, non fosse venuto
con esso a combattimento, e non l'avesse ucciso. I monaci approdarono
a un'isola, dove stettero tre mesi, trattenuti dall'imperversare dei
venti contrarii, poi, navigando sempre verso Settentrione, giunsero a
un'altr'isola, popolata da tre torme, di fanciulli l'una, di giovani
l'altra, e di seniori la terza, i quali tutti consumavano il tempo
cantando salmi e lodando il Padre celeste; e quivi si rimase il secondo
di quei fratelli che raggiunsero il santo dopo la dipartita sua dal
monastero. E sempre meraviglie seguitavano a meraviglie: un'isola
tutta densa di alberi di una sola specie, i quali recavan per frutto
grappoli d'uva di portentosa grandezza, ove ogni acino era della misura
di un pomo; l'uccello _griffa_, che minacciò di divorare i naviganti,
e fu ucciso da un altro uccello; un mare di meravigliosa limpidità, in
fondo al quale si vedevano giacer sull'arena infiniti animali, a guisa
di greggi; una smisurata colonna di cristallo chiarissimo, la quale
sorgeva dal profondo del mare, e pareva toccare con la cima il cielo, e
aveva intorno come un gran padiglione, fatto a maglie larghissime e di
una sostanza che aveva il color dell'argento. Tanto corsero i naviganti
verso Settentrione che raggiunsero le terre dei dannati. E prima videro
una isola popolata da orrendi fabbri ferrai, i quali scaraventarono
loro dietro sul mare ingenti masse di metallo arroventato; poi un
monte ignivomo, dove il terzo ed ultimo di quei monaci avventizii fu
rapito dai diavoli. Passati alcuni giorni, trovarono Giuda sedente
sopra una pietra in mezzo all'oceano, in una condizione che sembra
a lui di riposo e di felicità paragonata con quella della sua dimora
ordinaria, nel più profondo abisso d'inferno. Quel refrigerio è a lui
conceduto dalla divina misericordia in ciascuna domenica, e nei giorni
ancora che vanno dal Natale all'Epifania, dalla Pasqua alla Pentecoste,
e dalla purificazione all'assunzion di Maria. Più oltre, navigando
verso Mezzodì, trovarono sopra uno scoglio un eremita per nome Paolo,
il quale, nutrito miracolosamente da una lontra, aveva raggiunto
l'età di centoquarant'anni, e doveva aspettare, vivo, il giorno del
Giudizio. Essendo già prossima la fine del settimo anno, San Brandano
e i compagni suoi, si videro avvolti un giorno da una densa caligine,
e quella attraversata, giunsero a un'isola circonfusa di splendidissima
luce. Era quella la terra di promissione, l'isola paradisiaca, da essi
con sì tenace desiderio cercata. Scesero su quella spiaggia benedetta,
e videro la campagna tutta verde di alberi, e mangiarono di quei frutti
deliziosi, e bevvero di quell'acque dolcissime. Trovarono il fiume
che spartiva la terra per mezzo, e oltre il quale non era lecito di
passare, e seppero da un giovane che Dio rivelerebbe quella felice
stanza ai cristiani quando fossero ricominciate le persecuzioni.
Adempiuto il voto, i felici esploratori presero la via del ritorno,
dopo avere empiuta la nave di frutti e di gemme, e rividero finalmente
la patria, dove San Brandano indi a poco morì, migrando gloriosamente a
Dio e alla gloria del cielo.

Tale è il racconto di questo mirabile viaggio, tutto impregnato di
spirito ascetico, ma penetrato ancora di un certo spirito eroico. I
naviganti continuamente si raccomandano a Dio, pregano, digiunano,
sono pasciuti miracolosamente, ascoltano rivelazioni e predizioni,
e si mostrano in tutto degni del nome di santi; ma sostengono pure
enormi fatiche, affrontano spaventosi perigli, e provano di meritare
anche il nome di eroi. San Brandano chiama i compagni _commilitones_
e _conbellatores_; gli autori delle versioni francesi e tedesche li
chiamano _baruns_ e _degen_.

Di quali elementi, e donde venuti, s'ha a dire composto sì fatto
racconto? Fu opinione del Cholevius che alcune delle meraviglie in esso
narrate sieno di origine classica[366]; ma sebbene questa opinione,
presa in sè stessa, non appaja troppo improbabile, quando si pensi al
rifiorimento di studii classici onde fu rallegrata l'Irlanda nei secoli
VI, VII, e VIII[367], pure non regge a un diligente e spregiudicato
esame[368]. Le immaginazioni ond'è tessuto il racconto dovettero
nascere, per la più parte, nella patria stessa di San Brandano; ma
non si può escludere la possibilità che alcune di esse sieno orientali
di origine, come non si può escludere la possibilità che alcune sieno
passate dal racconto latino in racconti orientali[369].

Tre sono, come ho detto, le redazioni della leggenda di San Brandano:
quella del racconto gaelico; quella della _Navigatio_; quella di alcuni
racconti tedeschi e di uno olandese. Veduta per intero la seconda,
vediamo ora alcune particolarità per cui dalla seconda si differenziano
le altre due.

Nella redazione gaelica manca il racconto di San Barinto. San Brandano
sente nascersi dentro spontaneamente il desiderio di visitare la terra
di promessione; la contempla anticipatamente da lungi, per grazia che
il cielo gli concede, e riceve da un angelo la promessa che il suo
desiderio sarà appagato. Prende il mare con tre navi, entro ciascuna
delle quali sono trenta de' suoi compagni. Naviga sette anni, e ritorna
in patria, senz'aver veduta la terra beata che l'aveva tratto sui mari.
Imprende un secondo viaggio, e dopo altri sette anni giunge finalmente
alla terra di promessione, e gli è conceduto di visitarla. Non accade
far ricordo delle avventure del doppio viaggio, le quali son quasi
tutte diverse da quelle della _Navigatio_.

Nella redazione che chiameremo tedesca il principio del racconto è
di tutt'altra maniera. San Brandano getta nelle fiamme, come opera
bugiarda, un libro in cui son narrate appunto quelle meraviglie di
cui egli dovrà essere spettatore più tardi. Dio, per punirlo della sua
incredulità, gl'impone di compiere il viaggio e di riscrivere il libro.
I naviganti incontrano le stesse avventure narrate nel racconto latino;
ma anche più altre, di cui non è cenno in questo: sono spinti da una
procella nel Mare viscoso, mar formidabile, sparso di navi trattenute
quivi in perpetuo; scampano al gran pericolo del Monte della calamita;
hanno briga coi grifoni e con le sirene. Queste immaginazioni son
derivate da altri racconti romanzeschi.

Nella _Navigatio_ il Paradiso terrestre è descritto con sobrietà
che può parere eccessiva, quando si pensi ch'esso porge lo scopo
del viaggio, e si consideri la prolissità con cui vi sono descritte
o narrate cose di assai minor conto. Questo difetto non incontra
nell'altre due redazioni, e non incontra nemmeno in parecchie versioni
della _Navigatio_. Nella redazione gaelica il Paradiso è descritto
assai lungamente, e non troppo in breve nella redazione tedesca. Qui si
legge che San Brandano e i compagni suoi giunsero a un'isola tenebrosa,
il cui suolo era d'oro, tutto sparso di pietre preziose, e dopo essere
rimasti quindici giorni immersi nell'oscurità, pervennero, rimontando
il corso d'un'acqua, in una sala tutta scintillante d'oro e di gemme,
dinanzi alla quale era un fonte, che spandeva quattro rivi, di latte,
di vino, d'olio e di miele, e da cui derivavano la lor virtù tutti
gli aromi e le spezie. Nella sala erano cinquecento seggi, e quante
ricchezze può avere un imperatore: il soffitto era coperto di penne di
pavone. Giunsero poi i naviganti a una città di meravigliosa bellezza,
raggiante di luce, immune da qualsiasi intemperie, davanti alla cui
porta sedevano Enoch ed Elia, ed era un angelo, con una spada di fuoco
in mano. Costoro presero uno dei monaci, e lo misero dentro alla città,
e subito Enoch chiuse la porta e lasciò gli altri di fuori[370]. Merita
d'esser notato che nella redazione tedesca San Brandano e i compagni
suoi giungono al Paradiso, non già in fine, ma quasi in principio del
viaggio. In qualche rimaneggiamento latino, e in taluna delle versioni
francesi della _Navigatio_, si descrive il muro tutto sfolgorante
di gemme ond'è cinto l'aureo monte del Paradiso, la porta custodita
da dragoni, i boschi pieni di selvaggina e le acque popolate di
pesci[371]. La versione italiana contiene una descrizione abbastanza
diffusa, con particolarità che non appajono altrove[372].

Soffermiamoci alquanto, chè non sarà senza frutto, a rilevare nella
nostra leggenda alcune cose che possono dar materia a indagini e a
riscontri.

Il racconto della _Navigatio_ somiglia molto a quelle narrazioni
gaeliche di viaggi ricordate più sopra. Il palazzo inabitato, dov'è
copia di tutte le cose necessarie alla vita; i frutti portentosi
di cui basta uno solo a sfamare e dissetare per lunghi giorni i
naviganti; l'isola popolata di fabbri ferrai; il mare limpidissimo di
cui si scorge il fondo; la colonna smisurata che si leva dall'acque e
nasconde la sommità fra le nuvole, l'isola degli uccelli bianchi; altre
meraviglie vedute da San Brandano e da' compagni suoi, si trovano nel
racconto delle navigazioni di Maelduin e di Snedhgus e Mac-Riaghla.

Quanto all'isola popolata di pecore, gioverà ricordare che Ulisse
trova, vicino al paese dei Ciclopi, l'isola Lachea; ma è questo un
riscontro puramente fortuito. Un'isola, dov'era grandissima quantità di
montoni, scoprirono anche gli Almagrurini, viaggiatori arabici, la cui
navigazione è narrata da Edrîsi e da Ibn-al-Vardi. Notisi che il nome
delle isole Färoer è composto di due vocaboli, i quali significano,
l'uno pecora, l'altro isola, e che Dicuil dice quelle isole _plenae
innumerabilibus ovibus_[373].

Il cete scambiato per un'isola si ha nello Pseudo-Callistene, nella
narrazione dei viaggi di Sindbad, in un racconto talmudico[374],
altrove; ma questo tema di leggenda ebbe origine probabilmente
nel Settentrione, e dal Settentrione, insieme con altri assai, che
già diedero materia al poema di Aristeo di Proconneso intitolato
’Αριμάσπεια, si diffuse verso Mezzodì e verso Oriente.

Gli angeli caduti, che San Brandano trova sotto forma di uccelli in
un'isola, darebbero luogo a parecchie osservazioni, e argomento a
parecchi riscontri; ma di essi mi si porgerà occasione di discorrere
altrove[375].

Nella _Navigatio_ è cenno di un mare _quasi coagulatum pre nimia
tranquillitate_; ma nei racconti tedeschi esplicitamente si parla di
un mare glutinoso, che nelle onde innavigabili trattiene prigioniere le
navi. Questo mare non fu ignoto agli antichi. I Latini lo dissero _mare
pigrum_, _coenosum_, o _concretum_[376], ed esso trova un riscontro
nel _Polmone marino_ di Pitea e nel Marimarusa di Filemone[377].
Dai Tedeschi fu chiamato _Lebermeer_, _Lebersee_ (_mare jecoreum_),
_Klebermeer_, e vedesi ricordato, o descritto, in parecchi de' loro
poemi, per esempio nel _Herzog Ernst_ e nell'_Orendel_[378]. Il _mare
coagulatum_ è ricordato pure nella già citata lettera del Prete Gianni
all'imperatore Emanuele, come quello che dovrebbe trovarsi a occidente
dell'Europa[379]: ma Giovanni di Hese pone il _mare jecoreum_ in
Oriente, di là dall'Etiopia, e seguendo l'esempio datogli da altri,
ne congiunge il mito con quello del Monte della calamita[380]. Anche
Beniamino di Tudela del resto sembra aver posto nel remoto Oriente un
mare coagulato.

Prima di giungere al Paradiso terrestre San Brandano e i compagni suoi
attraversarono una così densa caligine che appena l'uno poteva scorgere
l'altro. Essi passarono probabilmente quell'incognito e tenebroso mare
a cui accenna Adamo Bremense, e che già noto agli antichi, vedesi
spesso descritto dai geografi arabici; mare che era nell'estremo
Occidente e nell'estremo Oriente, perchè confondevasi col misterioso
oceano che fasciava tutto intorno la terra[381]. Credettero gli Arabi
che fuori dal mar tenebroso occidentale si levasse la smisurata mano di
Satana, pronta a ghermire le navi che ci si avventurassero[382]; e nel
_Pellegrinaggio di tre figli del Re di Serendib_, di Cristoforo Armeno,
si parla di una regione dell'India, dove si vedeva uscir dal mare una
gran mano aperta, che la notte ghermiva gli abitanti e li trascinava
sott'acqua.

I fabbri ferrai non sono già Ciclopi, come parve al Cholevius; ma
veri diavoli (e qualcuna delle versioni lo dice espresso), e, assai
probabilmente, diavoli martellatori di anime. Così fatti martellatori
già compajono nella Visione di Tespesio, riferita da Plutarco[383],
e ricompajono più volte in Visioni e leggende del medio evo. Nella
Visione di Tundalo sono fabbri diabolici che con le tenaglie afferrano
le anime, le gettano nelle fornaci ardenti, e arroventatele, e
appastatene venti, trenta, cento insieme, le martellano a furia sulle
incudini[384]. Giovanni Villani, ripetuto da Ricordano Malispini,
racconta che Ugo, marchese di Brandeburgo, cacciando un giorno in un
bosco, trovò _uomini neri e sformati_, che tormentavano, _con fuoco
e con martello_, anime dannate, e fu da quelli avvertito che, non
emendandosi, gli sarebbe toccata egual sorte[385].

Alle genti di razza brettone e gaelica doveva parer naturale di porre
l'Inferno, anzichè nelle viscere della terra, nelle varie isole mal
note e di malagevole accesso, sparse per il burrascoso oceano[386].
Nelle carte medievali è spesso indicata col nome d'isola dell'Inferno
una delle Isole Canarie, e più particolarmente quella di Teneriffa.

Dopochè San Brandano ebbe veduto Giuda sedere sopra una pietra in mezzo
all'oceano, più altri esploratori e venturieri, meno reali e storici di
lui, ebbero ad incontrarlo, presso a poco nelle medesime condizioni:
tali Ugone da Bordeaux e Baldovino da Sebourg. Ugone lo trovò in un
gran gorgo di mare, pel quale debbono passare tutte le acque che sono
sulla terra:

    Toutes les iaves, quanques dix fait en a,
    U qu'eles soient par ichi pasera[387].

Il monte ignivomo di San Brandano è certamente l'Hecla.

Da ultimo è da ricordare che la leggenda marinaresca fiorì già in
Grecia in antico e riappar frequente nella letteratura tedesca del
medio evo[388].

L'isola paradisiaca visitata da San Brandano lasciò di sè lungo
ricordo e vivissimo desiderio. Durante tutto il medio evo, e per buon
tratto di tempo anche dopo, si credette generalmente e fermamente
alla sua esistenza. Nelle carte essa fu molte volte indicata, sebbene
con differenze grandi, e naturali, di luogo. Quelle più antiche le
assegnano presso a poco la latitudine dell'Irlanda, o una latitudine
anche più settentrionale; nelle più moderne l'isola scende verso
Mezzodì, e appare a ponente delle Canarie, o Isole Fortunate, e con
queste, facendosene d'una parecchie, è confusa talvolta, o col gruppo
di Madera. Così nella mappa dei Pizzigani, ove si vedono nel mare
occidentale le _ysole dicte Fortunate S. Brandany_, e San Brandano in
atto di stendere le braccia verso di esse; così in quella di Grazioso
Benincasa, ove pur compajono le _Insule fortunate sancti Brandani_,
e in quella del Genovese Beccaria. Il Maurolico nel _Martyrologium_,
e Onorio Filopono nella _Navigatio in Novum Mundum_, affermano che
San Brandano approdò alle Canarie. Nel globo di Martino Behaira, del
1492, l'isola meravigliosa è situata assai più verso Occidente e in
prossimità dell'equatore[389]. Gli abitanti delle isole di Madera, di
Palma, di Gomera e del Ferro, ingannati da nubi, o dagli spettri della
Fata Morgana, credevano talora di scorgerla dalla parte di Occidente,
come perduta fra l'acqua e il cielo. E già essa aveva preso il nome
d'isola Perduta, _Insula Perdita_, e dicevasi, con qualche reminiscenza
forse dell'ἀπρόσιτον νῆσον degli antichi[390], che quando si cercava
non si trovava. Nella _Image du monde_ si legge:

    Une autre ille est que on ne puet
    Veoir comme on aler se veult,
    Et aucune fois est veue:
    Si l'appelle on l'Ille Perdue.
    Celle ille trouva sains Brandains,
    Qui mainte merveille vit ains[391].

Ma quest'isola Perduta, visitata da San Brandano, non si diceva poi
che fosse il Paradiso terrestre. Onorio d'Autun l'aveva descritta come
la più amena e la più fertile di quante ne sono in terra: «Est quaedam
Oceani insula dicta Perdita, amoenitate et fertilitate omnium rerum
prae cunctis terris praestantissima, hominibus ignota. Quae aliquando
casu inventa, postea quaesita non est in venta, et ideo dicitur
Perdita»[392]. Rodolfo da Ems dice che l'Isola Perduta è il più bel
paese del mondo, dopo il Paradiso terrestre, e che San Brandano v'andò,

    der vil wunderliche gotes degen;

ma a nessun altr'uomo fu più conceduto di ritrovarla[393]. Pietro
Bersuire riferisce questa stessa immaginazione alle Isole Fortunate,
così dette da alcuni «quia casu et fortuna quandoque reperiuntur; si
autem a proposito quaerantur, raro aut nunquam inveniuntur»[394]. In un
trattato dell'arte di navigare di Pietro di Medina, autore spagnuolo
del secolo XVI, l'Isola Perduta si confonde con la famosa Antilia, da
cui venne il nome alle Antille[395].

L'Isola Perduta e introvabile fu cercata da molti, specie dopo che la
scoperta del Capo di Buona Speranza e dell'America, ebbe acceso negli
animi la febbre delle remote esplorazioni; e qualcuno pretese anche di
averla trovata[396]. Ad ogni modo era comune speranza che dovesse, un
dì o l'altro ritrovarsi; e quando, il 4 di giugno del 1519, Emanuele di
Portogallo rinunziò alla Spagna, col trattato d'Evora, ogni suo diritto
sull'Isole Canarie, l'Isola Perduta, o Nascosta, fu espressamente
compresa nella rinunzia[397]. Nel 1569 Gerardo Mercator segnava ancora
sulla sua mappa l'isola misteriosa, e nel 1721 partivano in traccia di
essa gli ultimi esploratori.

La leggenda di San Brandano n'ebbe poche pari in celebrità. Essa fu
introdotta, in forma più o meno svolta, secondo le redazioni, nella
_Image du monde_, che diffusissima essa stessa, ajutò a diffonderla
sempre più[398]. Un frate Filippo di Cork la inserì, non so se per
disteso o in ristretto, in un suo trattato provenzale delle meraviglie
dell'Ibernia, che si conserva tra' manoscritti del Museo Britannico;
Pietro de Natalibus nel suo _Catalogus Sanctorum_; Wynkyn de Worde
nella sua _Golden Legend_, ecc. Ricordi se ne trovano nel _Lohengrin_,
nel _Wartburgkrieg_, e in altri poemi tedeschi. Essa era divenuta un
tema consueto di narrazione e di recitazione, e in un luogo della prima
rama del _Renard_ si trova ricordata insieme con istorie romanzesche
del ciclo brettone. Inni di religiosi sonarono in onore del santo che
aveva corsi i mari, e preghiere si recitarono, che dissero composte da
lui fra i perigli della temeraria navigazione[399]. Giovanni di Hese
ebbe fantasia di emularlo, e accrebbe con brandelli della leggenda di
lui l'ingegnoso tessuto delle sue innocenti bugie. Nel presente secolo
poeti inglesi si ricordarono del santo morto da dodici secoli, e presi
d'ammirazione, ne ricantarono in vario modo le meravigliose avventure.

Di queste avventure pochissimi si mostrarono disdegnosi nel medio evo,
e di questi pochissimi fu Vincenzo Bellovacense. Egli dice d'avere
escluso affatto dall'opera sua la storia della peregrinazione di
San Brandano a cagione dei vaneggiamenti ond'essa è piena, _propter
apocripha quaedam deliramenta que in ea videntur contineri_[400].
Ora, sì fatto rigore ha alquanto dello strano, perchè se la fama onde
Vincenzo gode presso i posteri è, per più rispetti, onorevole, non però
è fama di uomo in cui abbondi lo spirito critico e naturalmente avverso
a raccontar fanfaluche. E più sembra strano quando si vede ch'egli,
mentre ricusa di narrare la storia di San Brandano, narra poi la storia
non molto meno miracolosa di San Maclovio[401].

San Maclovio o Macute, o Macuto (il Saint Malo dei Francesi) fu
irlandese ancor egli; ma ottenne poca celebrità in patria, e divenne
per contro un santo famoso tra gli Armoricani, i quali si studiarono di
allargarne e adornarne quanto più poterono la leggenda, e l'allargarono
e l'adornarono, sembra, a spese di San Brandano; e dico _sembra_,
perchè la cronologia, in tutte queste storie di santi, è assai oscura
ed incerta, e può dar luogo a opinioni contraddittorie. Nei ricordi
più antichi San Maclovio è soltanto uno dei monaci di San Brandano,
e un compagno de' suoi viaggi, i quali sono ricordati solamente di
volo[402]; ma poi usurpa il luogo del suo superiore e diventa il capo
della spedizione, e San Brandano diventa uno dei seguaci. San Maclovio
imprende due viaggi per ritrovare l'isola d'Ima, la quale non è il
Paradiso, ma ha col Paradiso moltissima somiglianza. Nel secondo ha
compagno San Brandano, e chiede a un gigante da lui risuscitato notizie
dell'isola di cui va in traccia. Il gigante ricorda d'aver visitato
una volta un'isola, la quale, cinta di un aureo muro, splendeva come
uno specchio, ed era vuota di abitatori. Pregatone, egli, ch'è di
smisurata altezza, entra nell'oceano profondo, e si trae dietro la
nave dei monaci, per andare alla scoperta dell'isola beata; ma insorge
una furiosa burrasca, e debbon tutti tornarsene onde sono venuti. Poco
dopo il gigante, che ha ricevuto il battesimo, si muore[403]. Sigeberto
Gemblacense narra anch'egli il viaggio di San Maclovio; ma dice che
questi fu sollecitato, oltrechè dal desiderio proprio, dall'esempio
del suo maestro ed abate Brandano, il quale ardeva non men di lui della
brama di trovar l'isola felice, e fu il promotore della peregrinazione,
_ut scriptura vitae ejus demonstrat_. Mette in dubbio che l'isola da
essi cercata sia il Paradiso terrestre, e dice che, stando alla fama,
è un'isola copiosa di tutti i beni e abitata da _cittadini del cielo_,
che menan quivi santa e gioconda vita[404]. Anche San Maclovio scese
co' suoi compagni sopra il dorso di una balena, credendola un'isola,
e vi celebrò una messa. Quanto al gigante risuscitato e battezzato
da lui, sarà opportuno avvertire che nel racconto gaelico della
navigazione di San Brandano, questi risuscita e battezza una gigantesca
fanciulla bionda, la quale misura ben cento piedi d'altezza, e che
richiesta, dopo il battesimo, se voglia tornare fra' suoi, o andarne
subito in Paradiso, elegge la sorte più felice, e ricevuto il viatico,
incontanente rimuore[405].

Gli esempii di San Barinto e di San Mernoc, di San Brandano e di San
Maclovio, dovettero scaldare la fantasia e turbare i sonni a molti
monaci di buona volontà, non meno provveduti di fede che di coraggio.
Gotofredo da Viterbo, che parla della esploratrice curiosità di certi
monaci dell'Armorica,

    Qui marium fines scrutantur et ultima terrae,
    Ut valeant populis post tempora longa referre
      Quas ibi materies, quae loca mundus habet,

narra, fondandosi su certo _Libro d'Enoch ed Elia_, a noi sconosciuto,
una storia, che reca novella prova di quei desiderii irrequieti. Cento
frati in una volta si cacciano a navigar per l'Oceano:

    Vela vehunt validis erecta per aequora ventis.
    His super alta maris per tempora longa retentis,
      Sola poli facies, aequora sola patent.

Corrono fra cielo ed acqua tre anni, poi si scontrano in certe statue
emergenti dai flutti, le quali col braccio teso additano loro la via.
Arrivano finalmente a una montagna odorosissima, tutta d'oro, sulla
cui vetta è una città aurea, e una chiesa, d'oro essa pure, tempestata
di gemme sfolgoranti, e nella chiesa, sopra un altare prezioso,
un'immagine di Maria col bambino. È quello il Paradiso terrestre.
I naviganti, pieni di meraviglia, cercano da ogni banda se non vi
sia persona viva, e da ultimo scoprono, in una celletta splendida e
riposta, due vecchioni con barbe e chiome lunghe e candidissime, Enoch
ed Elia.

    Inclyta barba senum fuerat, longique capilli,
    Candida caesaries; nautisque petentibus illis,
      Surgentes pariter verba dedere senes.

I due santi dicono loro come in quel luogo sia variata la ragione del
tempo; come, al tornare che faranno in patria, troverannosi vecchi, e
vedranno mutate le generazioni, e tutt'altra la condizion delle cose.
Per ingiunzione di quei due si celebra allora una messa, alla quale
séguita una general comunione. I naviganti si partono, e rifanno in
cinque giorni la via in cui prima consumaron più anni; ma tornati in
patria non trovan più nulla di quanto già vi lasciarono. Sparita è la
loro chiesa, sparita è ancor la città, e ad un popolo nuovo nuovo re dà
legge novella. L'assenza loro durò trecent'anni[406].

Quelle statue che mostran la via hanno qualche riscontro; ma è più
frequente il caso di statue, o di colonne, che avvertono altrui di non
passare più oltre. Esse si moltiplicano sulle rive, o nelle men remote
isole di quel formidabile Atlantico, che fu teatro alle audaci imprese
dei nostri esploratori. Già le famose Colonne d'Ercole vietavano il
passo gaditano[407]. I geografi arabici, Ibn-al-Vardi Yakut, Edrîsi,
Masûdi, il Geografo Nubiense, parlano di statue colossali poste in
Cadice e nelle Canarie, o anche nelle Isole del Capo Verde, le quali
facevan cenno di non passare più oltre; e quella di Cadice è ricordata
anche nella Cronaca detta di Turpino. Nel _Mare amoroso_, attribuito a
Brunetto Latini, si fa cenno di un passo di mare

    Che fie chiamato il braccio di Saufi,
    Ch'à scritto in sulla man: niuno ci passi,
    Per ciò che mai non torna chi vi passa[408];

e nella mappa dei Pizzigani è una figura in atto di respingere i
naviganti che vorrebbero inoltrarsi sull'oceano[409]. Il Camoens ebbe
a ricordarsi di queste fantasie quando immaginò il suo gigantesco
Adamastore, che tenta di far tornare indietro Vasco di Gama. Ma fu pur
detto che nell'isola di Corvo, la più settentrionale dell'Azore, fosse
la statua di un cavaliere che con la destra indicava l'Occidente, quasi
per additare il cammino agli scopritori del Nuovo Mondo.

Dalle spiagge dell'Irlanda e dell'Armorica passiamo ora in Asia, o,
se meglio piace, in Ispagna per incontrarvi l'ultimo di questi santi
esploratori, Sant'Amaro, di cui narra le avventure una leggenda
spagnuola. Chi fu Sant'Amaro? in che tempo viss'egli? Confesso
schiettamente di non saperlo, e dubito forte non appartenga ancor egli
a quella abbastanza numerosa famiglia di santi, che vivissimi nella
fantasia popolare, non furono mai vivi al mondo. Un santo Amaro d'ossa
e di polpe ci fu, nativo, credesi, di Francia, fermatosi poi in Burgos,
e già venerato in Ispagna nel secolo XV[410]; ma egli, che attese tutto
il tempo di vita sua a curar gli ammalati e servir i poveri di quella
città, nulla ha da spartire col nostro. Sia come si voglia, la leggenda
di questo è assai moderna, e forse di poco anteriore al 1558, del quale
anno se ne ha una stampa, col titolo: _La vida del bienaventurado sant
Amaro y de los peligros que posò hasta que llegò al Parayso terrenal_.
Nelle altre letterature non se ne ha traccia; ma in Ispagna essa entrò
a far parte della letteratura popolare, e leggesi tuttavia. Io la
riferisco di su un _pliego suelto_ stampato in Madrid, senz'anno, ma
recentissimo[411].

Amaro fu d'Asia (non si dice di quale città o provincia) uomo
devotissimo, caritativo, e tutto preso dal desiderio di vedere una
volta il Paradiso terrestre, di cui sempre chiedeva novelle, ma
inutilmente, ai molti pellegrini che gli capitavano in casa. Una notte,
stando in orazione, udì una voce che gli disse: «Amaro, abbandona
la tua casa, va al porto, entra in una nave, lasciala andare dove
la Provvidenza la condurrà, e vedrai ciò che desideri». La dimane il
santo distribuì ai poveri le sue ricchezze, solo quel tanto ritenendone
che poteva bastare alla sua navigazione, e il terzo dì, accompagnato
da due servitori, e da quattro amici che non vollero andasse solo a
quell'impresa, si recò al porto più vicino, comperò una buona nave,
la fornì del necessario, e spiegò le vele, lasciandosi menare dai
venti. Trovò da prima un'isola, chiamata Deserta, ma subito se ne
dilungò, avvertito da una voce del cielo che quella era terra di
peccatori. Attraversò il Mar Rosso, e giunse a una seconda isola, detta
Fuen-Clara, fertilissima e deliziosa, abitata da uomini di bonissima
indole, i quali vivevano centocinquant'anni, senza conoscere infermità
o disagio alcuno. Non si sa come, i naviganti, dopo lungo tempo,
si trovarono nei mari polari, e per poco non rimasero prigionieri
dei ghiacci, dai quali venne loro fatto di scampare per un buon
suggerimento che diede a Santo Amaro la Vergine Maria. Approdarono ad
altre due isole, nell'una delle quali vivevano tredici monaci in una
badia murata, difendendosi a gran pena da innumerevoli e formidabili
fiere, e nell'altra era un sant'uomo, chiamato Leonita, perchè viveva
in compagnia di sei leoni, mansueti come agnelli. Giunsero finalmente
a una spiaggia deliziosa, ove nè caldo si pativa nè freddo, e quivi
Sant'Amaro ebbe finalmente notizia della terra beata di cui andava
in traccia, prima da due eremiti, poi da una santa donna per nome
Baralides, la quale era badessa di un chiostro ivi presso, e l'aveva
veduta una volta di lontano. Guidato da costei per un tratto di via,
Sant'Amaro, i cui compagni erano rimasti addietro, nel luogo ove
avevano preso terra, risalì una valle, superò alti e dirupati monti,
e giunse da ultimo in vista di un meraviglioso palazzo, munito di
altissime torri, cerchiato di saldissimo muro, formato il tutto di
gemme d'ogni colore, le quali ardevano di luce incomparabile. Fuor del
palazzo, alla cui porta vegliava un gagliardo giovane con una spada
in pugno, correvano quattro fiumi. Era quello il Paradiso terrestre.
Accostatosi alla porta magnifica, Sant'Amaro chiese al guardiano
se gli fosse lecito d'entrar dentro; ma quegli rispose che no, e
che si contentasse di ciò che poteva vedere standosi sulla soglia.
Obbedendo al precetto, Sant'Amaro vide gli alberi pieni di frutti, e
quello, fra gli altri, del cui frutto mangiarono Adamo ed Eva; e vide
cori di bellissime donzelle, coronate di fiori, le quali cantavano
dolcissimamente, e sonavano varii strumenti, e servivano con somma
riverenza e vivissimo amore la Vergine. Sant'Amaro credette di aver
fruito di quel divino spettacolo un'ora, ed erano passati dugent'anni.
Tornato al luogo dove aveva lasciato i compagni, trovò una bella città,
che essi avevan fondata, e finì i suoi giorni in un monastero che gli
abitatori di quella edificarono appositamente per lui.

Ma lasciamo oramai i santi, co' quali ci siam trattenuti così a lungo,
e accostiamoci a un'altra schiera, formata di conquistatori e di
venturieri, i quali, o deliberatamente muovono in traccia del Paradiso
terrestre, con animo, talvolta di assoggettarlo al loro dominio,
o, quasi senza pensarvi, a forza di girare il mondo, lo trovano, e
riescono, o non riescono, secondo i casi, a penetrarvi. E come ragion
vuole cominciamo da colui che la leggenda consacrò principe e modello
dei venturieri e degli eroi, da Alessandro Magno.

In un racconto latino, intitolato _De itinere ad Paradisum_, si legge
quanto segue. Alessandro, di ritorno dalla conquista dell'Indie,
si ferma sulle rive del Gange, il quale è qui tutt'uno col Fison, e
contemplando alcune foglie mirabili venute dal Paradiso, esce in tale
lamento: «Nulla io feci nel mondo, e nulla stimo la gloria mia, se
di tali delizie non godo». E subito, raccolti cinquecento seguaci,
salita una gran nave, si mette a navigare su per il fiume. In capo di
trentaquattro giorni ecco appar loro una gran città, le cui mura, tutte
coperte di musco non lasciano scorgere adito alcuno, e sembrano essere
di grandissima antichità. Per tre giorni cercano gli esploratori tutto
all'ingiro, e finalmente scoprono una postierla angusta e sbarrata.
Alessandro manda suoi messi a intimar l'obbedienza ed a chieder
tributo, essendo egli signore del mondo. Al picchiar di coloro, uno
di dentro apre l'usciolo, e alle parole minacciose e superbe risponde
con voce blanda e tranquilla l'aspettino alquanto fin ch'ei ritorni.
Va e torna, recando una gemma di singolare qualità e bellezza, e
dice loro la dieno al lor re, perchè conosciutane la natura, tosto
smetterà ogni ambizioso pensiero. Alessandro, veduta la gemma, udita
la risposta, incontanente si parte, e raggiunge le sue genti, insieme
con le quali se ne va poscia a Susa. Quivi un vecchio Ebreo gli fa
conoscere la virtù della gemma, e gliene svela il misterioso, simbolico
significato. La gemma, messa nel piatto di una bilancia, vince di
peso ogni maggior copia d'oro che le si contrapponga, ma, coperta di
un pizzico di polvere, diventa più leggiera di una piuma. Stupisce
Alessandro, e l'Ebreo gli dice: «Questa gemma è immagine dell'occhio
umano, che vivo di nessuna cosa si appaga, morto e coperto di terra
più nulla vagheggia». Alessandro intende l'ammaestramento, e represso
ogni ambizioso affetto, e licenziati i compagni d'arme, si ritrae in
Babilonia, dove dal tradimento è troncata la gloriosa sua vita. La
città murata e chiusa è la dimora dei giusti, ove soggiorneranno sino
al dì del Giudizio[412].

Questo racconto, pervenuto sino a noi in una redazione che
probabilmente appartiene al XII secolo, è, senza dubbio, di origine
molto più antica, e scaturisce da fonte giudaica. Nel trattato _Tamid_
del _Talmud di Babilonia_ se ne legge uno che ha con esso colleganza
strettissima, anzi si può dir quel medesimo, salvo che il latino deriva
da una redazione più larga e più antica. Nel racconto talmudico,
l'andata di Alessandro al Paradiso si rannoda con l'avventura della
fontana di giovinezza, e l'eroe riceve dagli abitatori del Paradiso,
non una gemma simbolica, ma un vero occhio umano, il quale si comporta
del resto come la gemma[413]. La leggenda passò nell'_Alexander_ del
Tedesco Lamprecht, ma con alcune particolarità diverse da quelle pur
ora vedute, e ch'egli, o poneva di suo, o toglieva da scrittura a noi
incognita. Alessandro e i compagni suoi risalgono l'Eufrate (non il
Fison) sostenendo grandi fatiche, e terribili procelle, che mettono a
dura prova il loro coraggio e la loro perseveranza. Alessandro ha fermo
nell'animo di conquistare il Paradiso, e infiamma i commilitoni alla
gloriosa impresa. Dopo lunga navigazione giungono a un muro altissimo,
tutto costruito di pietre preziose, del quale non viene lor fatto di
vedere la fine. Trovano da ultimo la porta, fanno la intimazione a quei
di dentro, ricevono la gemma. I più giovani contendono co' più vecchi e
savii: questi consigliano ad Alessandro di tornare; quelli di seguitar
l'impresa incominciata. Prevale il consiglio dei primi. Tornato in
Grecia, Alessandro fa vedere la gemma a molti che non sanno conoscerne
la virtù, finchè un vecchio Ebreo, da lui fatto venire appositamente,
gliela scopre, servendolo per giunta di una lunga ammonizione. Con
quest'avventura finisce il poema[414].

L'avventura fu pure narrata da Tommaso di Kent nel _Roman de toute
chevalerie_, e introdotta da un interpolatore nel poema di Lambert li
Tors e Alessandro da Bernay, e ripetuta nella compilazione intitolata
_Faits des Romains_[415], nei _Fatti di Cesare_ nostri[416], dal
Mandeville[417], da Pietro Paludano nel suo _Thesaurus novus_. Giovanni
di Hese dice che vicino al Paradiso terrestre è un monte, sul quale fu
Alessandro, che soggiogato tutto il mondo, dallo stesso Paradiso volle
avere tributo[418]. La novella dell'occhio umano, o della gemma che lo
simboleggia, si trova anche separatamente dal racconto del viaggio di
Alessandro al Paradiso[419].

Gli Arabi e i Persiani, che tante favole meravigliose narrano del
Macedone, parlano bensì di una spedizione ch'ei fece in cerca della
fontana di giovinezza, ma ignorano la sua andata al Paradiso. Solo
Nizâmi, il quale fa compiere all'eroe un viaggio nell'Oceano Atlantico,
dice ch'ei seppe, da certi selvaggi abitatori d'un deserto posto di
là dal mare, come fosse, nella regione dove più non brilla il sole,
una città magnifica, abitata da uomini di santa vita, i quali, senza
mai invecchiare, vivevano cinquecent'anni; e il poeta conduce l'eroe
a una terra felice, posta verso Settentrione, popolata da genti scevre
di ogni malizia[420]. A questo proposito non parrà superfluo ricordare
come Firdusi narri dell'andata di Rustem all'Alburz.

Di Alessandro Magno, che presunse di assoggettare persino il Paradiso
terrestre, ebbe forse a ricordarsi l'Ariosto, quando attribuì il
pensiero temerario di così gran conquista al suo Senapo, che ne fu
punito con la cecità e con le Arpie. Il Senapo

    Inteso avea che su quel monte alpestre,
      Ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva,
      Era quel Paradiso che terrestre
      Si dice, ove abitò già Adamo ed Eva.
      Con cammelli, elefanti, e con pedestre
      Esercito, orgoglioso si moveva,
      Con gran desir, se v'abitava gente
      Di farla alla sua legge ubbidiente[421].

Un autore spagnuolo del secolo XVI, Giovanni Gonzalez di Mendoza,
narra, traendola non so d'onde, la storia di un re del Bengala,
il quale mandò gente, con molte barche, su per il Gange, ordinando
loro d'andarne alla scoperta del Paradiso terrestre. Gli esploratori
navigarono più mesi a ritroso del fiume, e giunsero finalmente a un
luogo ove era mitissima la corrente, e già molti segni apparivano
della prossimità della felice dimora; ma per quanti sforzi facessero
non poterono passar più oltre, sebbene non ci si vedesse impedimento
alcuno[422].

Tornando per un istante ancora ad Alessandro Magno, ricorderò, per
opportunità di riscontro, come nello Pseudo-Callistene si racconti
l'andata di lui, attraverso a un paese tenebroso, ov'è la fontana
di giovinezza, sin presso alle sedi dei beati, dalle quali lo fanno
allontanare due uccelli parlanti; e come nel racconto di Giulio
Valerio, sia dato il nome di Paradiso al luogo dove gli Alberi del Sole
e della Luna diedero all'eroe il famoso responso[423]. Nel Titurel, due
principi indiani, che si vantano discendenti da Alessandro, descrivono
il loro paese, che si chiama Paradiso, senza però esser quello dei
primi parenti.

Ecco ora farcisi innanzi parecchi eroi della leggenda cavalleresca
medievale. Di Merlino si narra che movesse con una nave di cristallo in
traccia dell'isole beate[424]. Di Ugone da Bordeaux si può dire che, se
non fu nel Paradiso terrestre, fu in luogo molto a quello somigliante.
Un grifone lo trasportò sopra una montagna che non conosce le tempeste,
e dove sono alberi bellissimi e tutti i frutti della terra, e la
fontana di giovinezza. Gesù Cristo vi si riposò e la benedisse. Per
comando di un angelo, il cavaliere tolse tre pomi, che avevano virtù
di far ringiovanire[425]. Ma ben giunse al Paradiso terrestre un altro
eroe, Baldovino da Sebourg. Spinti da una furiosa procella, Baldovino
e Poliban passarono il mar d'Inghilterra, passarono il mare d'Irlanda,
e corsero oltre finchè si offerse loro agli sguardi un giardino
meraviglioso, murato tutto intorno di cristallo, splendente come l'oro.
Era quello il Paradiso terrestre. Approdarono i naviganti, e sulla
porta trovarono Enoch ed Elia, i quali, non vecchi già, ma parevano
essere nel fiore della giovinezza, e accolsero i cavalieri molto
benevolmente, e li misero dentro. Qui le solite meraviglie: uccelli che
cantano dolcissimamente, tra' quali alcuni che nascono da un raggio
di sole e sono detti _salamandre_; serenità perpetua; alberi sempre
verdi e carichi di frutti; l'albero del peccato, tutto secco. Elia fece
tornare il re Poliban di trent'anni, dandogli a mangiare di certo pomo.
Baldovino, ch'era giovane, avendo voluto far ancor egli l'esperimento,
contrariamente all'ammonizion del profeta, divenne in un momento
vecchissimo, e pien d'acciacchi, e non racquistò la gioventù perduta
se non quando Enoch gli ebbe dato a mangiare di un altro pomo del
giardino. I cavalieri seppero dai profeti che nel Paradiso avverrà il
Giudizio universale. Quando se ne partirono, sembrava loro di esserci
stati due giorni, e c'erano invece rimasti due mesi[426].

Un eroe più illustre di Baldovino, e anche di Ugone, fu Uggeri il
Danese, del quale pure si narra che andasse al Paradiso terrestre. In
uno dei poemi francesi cui la sua storia porge argomento, il poeta lo
conduce, non nel Paradiso propriamente, ma in quelle vicinanze:

    Car le Danois s'en va ou chastel d'aimant,
    Qui siet par faerie les Avalon le grant,
    Et Paradiz terrestre est un petit avant,
    Dont Enoc et Elie vont le saint lieu gardant,
    Et y furent ravy en char de feu ardant,
    Et la sont tous en vie, et sont jusqu'à tant
    Qu'Antecrist regnera, et cil deux dieu sergant
    Le meteront a fin: on le treuve lisant
    En la sainte escripture qui pas ne va mentant.

Segue poi il racconto del lungo soggiorno che fece l'eroe in quel
paradiso dei cavalieri che fu l'isola di Avalon[427]. Il medesimo si
ha nel romanzo in prosa, calcato sul poema[428]; ma moltiplicando e
affastellandosi sempre più le avventure dell'eroe, gli era naturale
che venisse a cacciarsi tra queste anche un vero e proprio viaggio al
Paradiso. Di tale viaggio è ricordo nei _Fioretti dei paladini_[429].
Giovanni d'Outremeuse narra che Uggeri volle conquistare il Paradiso
terrestre, e con un esercito di ventimila uomini passò regioni popolate
di serpenti, attraversò la valle tenebrosa, vide molte isole, molti
strani e spaventosi animali, mangiò dei frutti degli Alberi del Sole
e della Luna, e giunse al Paradiso, il quale è tutto cinto di monti
altissimi, ed ha un'unica entrata, guardata da fiamme, che non lasciano
passare nessuno[430].

Uggeri non pare che sia penetrato nel luogo vietato, ma bene vi
penetrò un altro cavaliere, il quale ebbe anche la ventura di visitare
l'Inferno, Ugo d'Alvernia. Dopo molte e molte avventure, le une più
strane delle altre, Ugo giunge al Paradiso terrestre, vede la fonte da
cui nascono i quattro fiumi, e presso a quella l'albero disseccato,
che pare tocchi con la vetta il cielo, e tra i rami dell'albero la
Vergine, con in braccio il bambino; poi trova Enoch ed Elia, i quali
si comunicano con cert'ostie ch'egli ebbe dal papa, e portò seco nel
viaggio. Così nel testo italiano del poema, che manoscritto si conserva
nella Nazionale di Torino, e così ancora, secondo ho ragion di credere,
nel franco-italiano della Biblioteca Regia di Berlino[431]. Nel romanzo
in prosa di Andrea da Barberino il racconto corre alquanto diverso. Ugo
risalì, cavalcando, verso le sorgenti del Nilo, accompagnato da alcuni
grifoni, suoi fedeli ajutatori: «trovò una nugola, come tenebra scura,
ed era come un muro, e alta, e tagliata insino all'aria, e divideva
la luce». Quivi presso era un pilastro, con una scritta, la quale
avvertiva chiunque non fosse mondo di peccato di non andare più oltre.
Ugo penò tre giorni ad attraversar quelle tenebre, dopo di che giunse
a un bel prato fiorito, pieno d'alberi, ch'era la _Terra Santa di
Promissione_: Vide Enoch ed Elia, e un luogo cerchiato di muro, ch'era
più propriamente il Paradiso terrestre, dove i santi dissero che nessun
uomo vivo poteva entrare; e non ben s'intende se all'eroe sia conceduto
d'entrarvi[432].

Molta somiglianza morale ha con Ugo d'Alvernia Guerino il Meschino,
e molta somiglianza spesso è tra le loro avventure. Guerino giunge
al Paradiso terrestre scendendo nel Pozzo di San Patrizio. Uscito
dall'Inferno, il cavaliere perviene, in compagnia di molti spiriti
vestiti di bianco, davanti a un muro, che gli sembra d'oro massiccio,
tempestato di gemme, ed è alto sino al cielo, e splende a guisa di
fuoco ardente. S'apre una porta, e n'esce un soavissimo odore, e uno
di quegli spiriti porge al cavaliere un _pomo molto odorifero_, da cui
questi si sente tutto riconfortare. Soppraggiungono Enoch ed Elia, i
quali menano il cavaliere in giro per una felice campagna che si stende
tutto all'intorno. Nel Paradiso stesso nessun uomo mortale può entrare.
Più oltre Guerino vede una città risplendente, cinta di un muro di
fuoco, e ode il canto degli angeli, ond'è rallegrata, ed ha, attraverso
una porta, un'assai strana visione della Trinità. Non s'intende bene
se questo sia il Paradiso terrestre o il celeste; ma è probabile
sia il celeste[433]. Tullia di Aragona rinarra tutto ciò, con alcune
differenze, nel suo poema, e pone ad abitare nel Paradiso terrestre,
insieme con Enoch ed Elia, anche San Giovanni[434].

Con la storia di Ugo d'Alvernia e di Guerino ha molta affinità la
storia di un Fortunato, che non ha nulla di comune con quello celebre
della leggenda popolare, al quale la Fortuna aveva fatto dono della
borsa che mai non si votava. Tale istoria porge materia a un ponderoso
romanzo in prosa, che si conserva fra i manoscritti palatini di
Firenze[435]. Come Guerino, il nostro Fortunato va in cerca del padre,
che non conosce; compie il solito viaggio in remote regioni; vede le
solite meraviglie; e giunge, con alcuni compagni alle falde del monte
del Paradiso, il quale è «tanto altissimo, che la fine dell'altezza»
non si può vedere, e nemmeno il mezzo; e così erto, che non ci si può
salire da quella parte. I viaggiatori son venuti su per il Fison, e
si trovano nella provincia d'Etiopia, confusa spesso, come s'è già
notato, con l'India. Dopo molt'altri giorni di viaggio, confessatisi
e comunicatisi a una badia, salgono il monte dalla parte opposta, e
trovano «molte ville e abitanti,» da' quali sono ricevuti con onore,
finchè, a un certo punto, vedono il monte «cerchiato di fuoco infino
all'aria,» e un angelo «tutto focoso, con una spada in mano,» dice
loro che a nessun uomo mortale è lecito salir più su, e li invita a
mandare un sacerdote che battezzi le genti da essi convertite alla fede
cristiana.

Gli è strano che l'altro Fortunato, quello la cui storia compare in
tutte quasi le letterature d'Europa, non esclusa l'italiana, non giunga
ancor egli al Paradiso terrestre, dappoichè la leggenda lo fa scendere
nel pozzo di San Patrizio, visitare il paese del Prete Gianni, e
correre tutto il mondo.

Gli ultimi cavalieri da noi incontrati ci hanno quasi ricondotti nel
mondo monacale ed ascetico, tanto è spiccato in essi il carattere
religioso, tanta la devozione con cui lungo tutto il corso degli
strani lor viaggi, e in mezzo a mille avventure e a mille pericoli, si
raccomandano a Dio, gridano i loro peccati, digiunano, si macerano, e
si confessano ogni qual volta è data loro occasione di poterlo fare.
Perciò sarà da ricordare qui la saga di Eirek, figlio di Thrand,
re di Drontheim, saga che manifestamente intende alla edificazione.
Partitosi dalla sua terra, Eirek giunge, in compagnia di un suo amico,
a Costantinopoli; ha con quell'imperatore un colloquio di argomento
religioso; attraversa la Siria, entra in mare, giunge in India, e a
un ponte guardato da un drago. Di là dal ponte è il Paradiso. Eirek
vi penetra, gettandosi nella bocca spalancata, passando attraverso il
corpo del mostro. Trova una campagna fiorita, corsa da rivi di miele, e
una torre sospesa in aria, a cui sale su per una scala leggiera, e dove
gli si offre una tavola apparecchiata. Tornato in patria dopo sette
anni di assenza, narra, a confusion dei pagani, le sue avventure, poi
sparisce, rapito miracolosamente, e di lui non si ha più notizia[436].

Ricorderò ancora Hélias, o il Cavalier dal Cigno, dei poemi francesi,
la figliuola della Reina d'Oriente, e il buon Astolfo. Del primo
fu detto che venisse dal Paradiso terrestre quando comparve sulla
navicella incantata, cui traeva per l'onde il candido uccello[437].
La seconda ci fu fatta andare dal Pucci[438]. Il terzo ci fu
condotto dall'Ariosto[439]. Astolfo, chiusa la bocca dell'Inferno, e
imprigionate per sempre le tetre Arpie, si lava da capo a piè:

    Poi monta il volatore, e in aria s'alza,
      Per giunger di quel monte in su la cima,
      Che non lontan con la superba balza
      Dal cerchio della luna esser si stima.
      Tanto è il desir che di veder lo 'ncalza,
      Ch'al cielo aspira e la terra non stima.
      Dell'aria più e più sempre guadagna,
      Tanto ch'al giogo va della montagna.

Quivi fiori che pajon gemme, alberi sempre fecondi, uccelletti di
tutti i colori che cantano dolcemente, ruscelli e laghi che vincono
di limpidezza il cristallo, un'aura soave che va predando ai fiori il
profumo, uno smisurato palazzo

                in mezzo alla pianura,
    Ch'acceso esser parea di fiamma viva:
    Tanto splendore intorno e tanto lume
    Raggiava, fuor d'ogni mortal costume.

Enoch, Elia, San Giovanni accolgono amorevolmente il cavaliere, lo
alloggiano in una stanza, gli dànno di quelle frutta che non hanno
simili in terra, provvedono buona biada all'ippogrifo. Il dì seguente
l'eroe si leva, e dopo aver discorso con San Giovanni

    Di molte cose di silenzio degne,

venuta la sera, entra con l'apostolo in un carro, tratto da quattro
destrieri più rossi che fiamma, e sale al mondo della luna per
ricuperare il senno d'Orlando.

Astolfo fu l'ultimo visitatore del Paradiso terrestre. Fausto,
l'inquieto ed insaziabile scrutator delle cose, figura e simbolo di una
nuova età, dopo aver corso in compagnia di Satana tutta la faccia della
terra, e penetrato gli abissi, pervenne, secondo il popolare racconto,
alle fatali giogaje del Caucaso, e vide, da lungi, fiammeggiare la
spada ardente del cherubino; ma, come tratto da nuova cura, non si
fermò e passò oltre[440]. E dopo di lui nessuno più vide la porta
meravigliosa sognata da tanti, e da così pochi varcata; la porta d'oro
e di gemme ormai chiusa per sempre.


NOTE:

[308] Ediz. cit., l. I, parte IV, cap. 123.

[309] Ediz. cit., p. 23.

[310] _Inf._, XXVI, 90 sgg. Che la _montagna bruna_ veduta da Ulisse
e da' suoi compagni nell'altro emisfero, debba essere, secondo la
intenzione di Dante, il monte del Purgatorio, par certo, malgrado le
obbiezioni di qualche commentatore.

[311] _Op. cit._, ediz. cit., p. 14.

[312] Cod. riccardiano 1672, f. 47 r., col. 1ª.

[313] POMPONIO MELA, _De situ orbis_, III, 6, parla di un'isola del
Mar Caspio, denominata Talca, la quale era naturalmente fertilissima,
e recava gran copia di frutti e di messi, cui, per altro, il vicino
popolo non osava di toccare, stimandoli serbati agli dei.

[314] PERTZ, _Scriptores_, t. VII, pp. 84-5.

[315] MUSSAFIA, _Sulla leggenda del legno della Croce, Sitzungsberichte
der k. Akad. d. Wiss._ di Vienna, philos.-hist. Cl., vol. LXIII (1869),
pp. 165 sgg.; W. MEYER, _Die Geschichte des Kreuzholzes vor Christus,
Abhandl. d. k. Akad. d. Wiss._ di Monaco, Cl. I, vol. XVI (1881),
parte 2ª. Vedi pure WESSELOFSKY, _Altslavische Kreuz- und Rebenssagen,
Russische Revue_, vol. XIII, pp. 130-52; KÖHLER, _Zur Legende von der
Königin von Saba oder der Sibylla und dem Kreuzholze_, Germania, anno
XXIX (1884), pp. 53-8. Un racconto italiano pubblicò il D'ANCONA, _La
leggenda di Adamo ed Eva, Sc. di cur. lett._, disp. 106, Bologna, 1870.

[316] GIOVANNI BELETH, nel _Rationale divinorum officiorum_, cap. _De
exaltatione S. Crucis_; ERRADA DI LANDSPERG, nell'_Hortus deliciarum_
(ENGELHARDT, _Herrad von Landsperg_, Stoccarda e Tubinga, 1818, p.
41); STEFANO DI BORBONE, nel _Tractatus de septem donis_ (LECOY DE LA
MARCHE, _Anecdotes_, etc., p. 425), dissero poi che Adamo era ammalato
di gotta.

[317] MEYER, _Vita Adae et Evae_, già cit., pp. 14 sgg.

[318] Cap. 19, ap. THILO, _Op. cit._, pp. 685-97.

[319] MUSSAFIA, _Sulla leggenda del legno della Croce_, pp. 165-6.
In altre leggende l'albero, del cui legno fu fatta la croce, non ha
relazione alcuna col Paradiso terrestre. Vedi MEYER, _Die Gesch. d.
Kreuzh._, pp. 106 sgg.

[320] MEYER, _ibid._, p. 130. Il testo latino è riprodotto ivi stesso,
pp. 131-49.

[321] PANTHEON, parte XIV, in _Pistor-Struve_, _Rerum germanicarum
scriptores_, t. II, p. 242.

[322] Nei _Fioretti della Bibbia_ la leggenda di Jerico segue a quella
di Seth, anzi forma parte con essa di una sola leggenda. Lo stesso
incontra nella catalana _Genesi de scriptura_, che ha coi _Fioretti_
strettissima relazione: _Compendi historial de la Biblia que ab lo
títol de Genesi de Scriptura_, Barcelona, 1873, pp. 12-15, 18-19.
Qui, nella stampa, si legge Genico; ma un manoscritto, che, sotto il
titolo di _Flos mundi_, si conserva nella Nazionale di Parigi (Esp. 46)
ha Gerico. Non credo che i _Fioretti_ abbiano attinto, come par che
stimino il Mussafia (p. 193) e il Meyer (p. 161), da Gotofredo; anzi
penso che questi trovasse il racconto in alcuna scrittura da cui anche
i _Fioretti_ l'attinsero. Di Jonito, primo inventore dell'astronomia,
fa ricordo anche BRUNETTO LATINI, _Li tresor_, ediz. cit., l. I, parte
1ª, cap. 21.

[323] Vedi per tutto ciò il mio libro, _Roma nella memoria e nelle
immaginazioni del medio evo_, Torino, 1882-3, vol. II, pp. 107,
491-6, 500, 502, 503. Alle notizie ivi raccolte ne aggiungo qui
alcune altre. L'albero descritto da Marco Polo sotto il nome di Albero
Secco, o piuttosto Albero del Sole, non è punto un albero disseccato
o dispogliato. Il ROUX DE ROCHELLE (_Notice sur l'Arbre du Soleil, ou
Arbre Sec, décrit dans la relation des voyages de Marco Polo, Bulletin
de la Société de géographie_, serie 3ª, vol. III, 1845, pp. 187-94)
lo identifica con un albero da manna; e nella già ricordata mappa di
Hereford si legge, sopra una penisola vicina al Paradiso terrestre:
_Arbor balsami est arbor sicca._ Andrea Bianco pone l'_alboro seco_
nella penisola stessa ov'è il Paradiso. Un _amiraus d'outre le
Sec-Arbre_ figura nel _Jeu de saint Nicolas_ di GIOVANNI BODEL, ap.
MONMERQUÉ et MICHEL, _Théâtre français au moyen âge_, Parigi, 1839.

[324]

    Dio te salve, santa croce,
      Arboro d'amor plantato,
      Che portasti lo fructo sì dolce,
      E lo mondo ay salvato. —

    O croce alma, mirabile,
      Arbore dolce, fruttifero,
      O pretio incomparabile,
      O premio salutifero. —

    Su nell'alto dello mare
      Uno arbore è apparito,
      Che de rose e de viole
      Tutto quanto è fiorito,

ecc. ecc.

[325] VENANZIO FORTUNATO, _Poematum_ l. II, _De cruce Domini_:

    De parentis protoplasti fraude facta condolens,
    Quando pomi noxialis morsu in mortem corruit,
    Ipse lignum tunc notavit damna ligni ut solveret.

[326] GIACOMO DA VORAGINE cita un verso (_Legenda aurea_, ediz.
Graesse, Dresda e Lipsia, 1846, cap. 68, p. 304):

    Ligna crucis palma, cedrus, cypressus, oliva

Altrove altri versi si leggono:

    Quatuor ex lignis dominis crux dicitur esse; —
    Pes crucis est cedrus; corpus tenet alta cupressus:
    Palma manus retinet; titula laetatur oliva,

MORRIS, _Legends of the Holy Rood_, Londra, 1871, p. XVII. Un ms.
della Palatina di Firenze, segn. CXXI, contiene una Meditazione
della passione di Gesù Cristo, divisa in quattro parti, di cui la
terza s'intitola: _Di quanti legni fu facta la santa croce, et come
lo stipite fu producto, tagliato et poi ritrovato._ PALERMO, _I
manoscritti palatini di Firenze ordinati ed esposti_, Firenze, 1853-68,
t. I, p. 235; _I codici palatini della R. Biblioteca Nazionale centrale
di Firenze_, Roma, 1886 sgg., vol. I, p. 113.

[327] SANT'ATANASIO, _Expositio fidei_, cap. 1, dice che San Paolo
fu rapito nel Paradiso terrestre; SAN CIRILLO, _Catechesis de Christi
consessu_, ch'ei fu rapito e nel Paradiso terrestre e in cielo.

[328] Un testo latino di questo racconto fu prima pubblicato dal ROSWEY
nelle _Vitae patrum_, Anversa, 1616, pp. 224-31, col titolo: _Vita
Sancti Macarii Romani servi Dei, qui inventus est juxta Paradisum,
auctoribus Theophilo, Sergio et Hygino_; poi negli _Acta Sanctorum_, 23
ottobre, pp. 566-71. In italiano si ha nelle _Vite dei Santi Padri_, la
cui traduzione suolsi attribuire al CAVALCA, ediz. del Manni, Firenze,
1731-2, vol. II, pp. 341 sgg.; in _Leggende del secolo XIV_, Firenze,
1863, vol. I, pp. 452 sgg., e in più codici, come, per esempio, nel
magliabechiano cl. 35, num. 221. f. 36 r. sgg., ove s'intitola: Q_ui
incomincia la storia di tre monaci romani e quali andorono al paradiso
luziano come voi udrete_. Il cod. VIII, B, 33 della Nazionale di
Napoli contiene dal f. 173 r. a 179 v.: _De tre monaci che se partino
per andare a lo Paradiso terresto, et como trovaro Machario romano
appresso al Paradiso XVIII miglia_. Il MIOLA nota essere questa la
leggenda di San Macario, ma affatto diversa da quella che si legge fra
le Vite dei SS. Padri. _Le scritture in volgare dei primi tre secoli
della lingua ricercate nei codici della Biblioteca Nazionale di Napoli,
nel Propugnatore_, vol. XIII, parte 2ª, p. 417. Cf. _H. Mertian_,
_Le Robinson de la légende_, in _Études religieuses, historiques et
littéraires_, Parigi, 1862, vol. I, pp. 372-85.

[329] Nella mappa d'Andrea Bianco, a occidente e in prossimità del
Paradiso terrestre, è disegnata una chiesuola, con le parole _ospitium
macorii_: a levante veggonsi due figurine d'uomini, con in mezzo
un albero, e scrittovi _omines parc_, e in altra riga alboro seco.
Il _Lelewel_ non intende nulla di tutto ciò. Egli dice (Op. cit.,
vol. II, p. 88): «L'Asie meridionale avance aussi par une péninsule
vers les extrémités orientales. Au bout de cette péninsule est situé
_paradixo terestro_, d'où sortent les quatre fleuves bibliques; dans
leur cours parallèle entre _ospitium macorii_ (Macarii? beati, μαχαρις
(sic), hospice de bienheureux); et les hommes, omines que s (sine)
_capitelos_? qui sont sans tête, le visage sur leur poitrine; _omines
parc_ (nt) _alboro se_(ri)_co_? les hommes préparant des arbres la
soie?». Ora l'_ospitium macorii_ altro non è che il romitaggio di San
Macario; e gli _omines parc_ sono gli _homines parci_, i quali vivono
dell'odore di un pomo, e non hanno nulla che fare con l'_alboro seco_.

[330] Vedi pp. 21-2.

[331] _Odissea_, XI, 14-19; _Teogonia_, 736-8, 813-7.

[332] _Pseudocallisthenes_, l. II, cap. 39, e molte delle posteriori
storie favolose di Alessandro.

[333] Vedi una nota del Liebrecht agli _Otia imperialia_ di GERVASIO
DA TILBURY, ediz. cit., p. 115, e, nel presente volume, lo scritto
intitolato _Il riposo dei dannati_.

[334] Epist. 10, ap. JAFFÈ, _Monumenta Moguntina, Bibliotheca rerum
germanicarum_, t. III, Berlino, 1866, p. 56.

[335] _Miscellanea di opuscoli inediti o rari dei secoli XIV e XV_,
Torino, 1861, pp. 165-78; _Leggende del secolo XIV_, già citate,
vol. I, pp. 489 sgg.; cfr. ZAMBRINI, _Le opere volgari a stampa dei
secoli XIII e XIV_, 4ª ediz. con appendice, Bologna, 1884, col. 574.
Questa leggenda occorre spesso in manoscritti italiani: vedi FARSETTI,
_Biblioteca manoscritta_, vol. I, p. 292; vol. II, pp. 83, 92. Nel cod.
magliabechiano pur ora citato, cl. 35, num. 221, essa tien dietro alla
leggenda dei monaci Teofilo, Sergio ed Igino. È pur contenuta nel cod.
7762 della Nazionale di Parigi, e nel cod. CCCXLIII della Corsiniana
(ora Biblioteca dell'Accademia dei Lincei) fondo Rossi. Ci sono, tra le
varie redazioni differenze alle volte notabili: io seguo quella che si
ha nella _Miscellanea_ sopraccitata. Alcune delle cose che nel Paradiso
vedono i monaci, vede anche Seth nel racconto italiano pubblicato dal
D'Ancona e ricordato di sopra.

[336] Di musiche, le quali con la soavità loro addormentano, è
frequente ricordo in leggende e in novelle popolari. Vedi, per esempio,
D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, _Op. cit_., pp. 289, 323, 328.

[337] _Felix im Paradise_, VON DER HAGEN, _Gesammtabenteuer_, Stoccarda
e Tubinga, 1850, N. XC, vol. III, pp. cxxvii, 611 segg. Vedi inoltre
GERING, _Islendzk Aeventyri_, Halle a. S., 1882-84, vol. II, pp. 120-2,
ove sono date le opportune notizie bibliografiche. Questa leggenda,
veramente assai bella, ebbe molta fortuna, e da poeti modernissimi
fu rinarrata più volte; tra gli altri, e meglio che dagli altri, dal
Longfellow.

[338] In quest'ultima forma la leggenda del monaco Felice ha certa
somiglianza con quella del rabbino Choni Hameaghel, il quale non
potendo intendere le parole del salmista: «Quando Dio liberò i prigioni
di Sion, noi eravamo simili ad uomini che sognino», fu miracolosamente
immerso in un sonno che durò settant'anni, dal quale destatosi, non
fu più riconosciuto da nessuno. EHRMANN, _Aus Palästina und Babylon_,
Vienna 1880, pp. 19-20. Uggero il Danese, tornato dopo dugent'anni
dal regno di Morgana, non riconosce più nessuno e non è da nessuno
riconosciuto.

[339] _Histoire de Saint Louis_, cap. 94, ediz. cit., p. 320.

[340] Si potrebbero moltiplicare agevolmente gli esempii e i riscontri.
Il tema appar molto spesso in novelline popolari. Il figliuolo di una
povera vedova sposa la Fortuna, che in capo di certo tempo lo abbandona
per andarsene a stare nell'Isola della Felicità. Il giovane la
raggiunge, e statovi dugent'anni, crede d'esservi stato solamente due
mesi. COMPARETTI, _Novelline popolari italiane_, Torino, 1875, _L'Isola
della Felicità_, pp. 212 sgg. Un giovane va al Paradiso: crede esservi
rimasto mezz'ora, o meno di un'ora, e v'è rimasto più di un anno, o
anche cent'anni. LUZEL, _Légendes chrétiennes de la Basse-Bretagne_,
Parigi, 1881, pp. 78 sgg., 216 sgg. Un fabbro ferrajo è invitato a
ferrar cavalli in un castello misterioso: ne ferra uno, e quando torna
son passati dieci anni, e trova la moglie maritata ad altro uomo. ZAPF,
_Der Sagenkreis des Fichtelgebirges_, Hof, s. a. pp. 6-7. Vittore Hugo
introdusse questo tema leggendario nella sua novella fantastica _Le
beau Pécopin_. Secondo altro tema, ch'è come il rovescio di questo, un
tempo assai breve è giudicato lunghissimo. Vedi KELLER, _Li romans des
sept sages_, Tubinga, 1836, p. clvii; WESSELOFSKY, _Il paradiso degli
Alberti_, vol. II, pp. 188-217; D'ANCONA, _Le fonti del Novellino_, in
_Studj di critica e storia letteraria_, Bologna, 1880, pp. 309-12. Il
celebre fumatore d'oppio De Quincey dice che ne' suoi sogni il tempo
gli sembrava sterminatamente allungato. Le immaginazioni della leggenda
e delle novelline popolari hanno importanza notabile per la dottrina
psicologica del tempo.

[341] Il testo latino fu pubblicato dallo Schwarzer nella _Zeitschrift
für deutsche Philologie_, vol. XIII (1882), pp. 338-51. Ne aveva prima
dato un breve sunto il MUSSAFIA, _Ueber die Quelle des altfranzösischen
Dolopathos, Sitzungsb. d. k. Akad. d. Wiss_. di Vienna, philos.-hist.
Cl., vol. XLVIII (1864), pp. 14-6. Altri racconti somiglianti indica
il KÖHLER, _Zur Legende vom italienischen jungen Herzog im Paradiese_,
nella _Zeitschrift_ ora citata, vol. XIV, pp. 96-8. Il codice tedesco
718 della Biblioteca Regia di Monaco di Baviera, da me veduto, contiene
(f. 77 r. a 85 v.) una traduzione tedesca della leggenda, col seguente
titolo: _Eyn hobische historie von dem irdischen paradise in welschem
landen gescheen_. In lingua ammodernata pubblicò CHR. A. VULPIUS,
nel vol. I delle sue _Curiositäten der physischen, literarischen,
artistichen, historischen Vor- und Mitwelt_, anno I (1811), pp. 179-89.

[342] Intorno a San Patrizio, al suo Pozzo, o Purgatorio, alle varie
leggende che si legano ad esso, e alle non poche questioni che intorno
ad esso si fecero, vedi il già più volte citato libro del WRIGHT, _St.
Patrick's Purgatory;_ MONCURE D. CONWAY. _The saint Patrick Myth,
The north american Review_, anno 1888, pp. 858 sgg.; ECKLEBEN, _Die
älteste Schilderung vom Fegefeuer des heiligen Patricius_, Halle a. S.,
1886. Per la bibliografia, vedi i rinvii e le indicazioni di L. FRATI,
_Il Purgatorio di S. Patrizio secondo Stefano di Bourbon e Uberto da
Romans, in Giornale storico della letteratura italiana_, vol. VIII
(1886), pp. 142-3. La leggenda del Pozzo e del cavaliere ebbe grande
diffusione e celebrità anche in Italia. L'Ariosto ricorda (_Orl. Fur._,
c. X, st. 92):

                  Ibernia fabulosa, dove
    Il santo vecchiarel fece la cava,
    In che tanta mercè par che si trove
    Che l'uom vi purga ogni sua colpa prava.

Nel secolo stesso dell'Ariosto il Pozzo fu descritto da un vescovo
italiano. (MORSOLIN, _Francesco Chiericati, vescovo e diplomatico
del secolo XVI, Atti dell'Accademia Olimpica di Vicenza_, 1878). Un
testo italiano della leggenda pubblicò il VILLARI, _Alcune leggende e
tradizioni che illustrano la Divina Commedia, Annali delle Università
toscane_, parte prima, t. VIII, Pisa, 1866, pp. 108 sgg.: un altro
pubblicò il GRION nel _Propugnatore_, vol. III, parte 1ª, pp. 116-49.
Un _Viaggio del Pozzo di San Patrizio_ fu più volte stampato in Italia.
(HAYM, _Biblioteca italiana_, vol. II, p. 624). Il Calderon compose un
dramma intitolato _El Purgatorio de San Patricio_. Tra le molte e varie
versioni della leggenda sono differenze notabili.

[343] Questa è la forma più divulgata del nome, che nel racconto latino
suona _Oengus_. Nella _Legenda aurea_ il cavaliere si chiama Niccolò,
Alvise nel testo pubblicato dal Grion, Ludovico Enio nel dramma del
Calderon, altramente altrove.

[344] Nel racconto riferito da GIACOMO DA VORAGINE (_Legenda aurea_,
ediz. cit., cap. 50, p. 216) due bei giovani conducono il pellegrino
fin sotto le mura di una città meravigliosa tutta risplendente d'oro e
di gemme, ma non gli concedon d'entrarvi, e gli annunziano che, tornato
al mondo, morrà in capo di trenta giorni, e potrà allora entrare nella
città paradisiaca. Nel dramma del Calderon, la città, inaccessibile, è
così descritta:

    Una ciudad eminente
    De quien era el sol remate
    A torres y chapiteles.
    Las puertas eran de oro,
    Tachonadas sutilmente
    De diamantes, esmeraldos,
    Topacios, rubles, claveques.

Qui, e nel racconto del Voragine, non ben si capisce se si tratti del
Paradiso terrestre o del celeste. Nel racconto italiano pubblicato
dal Villari, il cavaliere vede, dalla cima di un alto monte, il cielo
_simigliante a l'oro fine ch'è nella fornacie ardente_, e alcuni
arcivescovi, che l'accompagnano, gli dicono esser quel cielo la porta
del superno Paradiso, ov'entrano tutti coloro che hanno finito il tempo
della loro dimora nel Paradiso terrestre.

[345] Cap. I, in _Acta Sanctorum_, 17 marzo.

[346] Dice MASÛDI, parlando dell'Atlantico (_Les prairies d'or_,
trad, cit., vol. I, p. 858): «On en raconte des choses merveilleuses,
que nous avons raportées dans notre ouvrage intitulé les Annales
historiques, en parlant de ce qu'ont vu les hommes qui y ont pénétré au
risque de leur vie, et dont les uns sont revenus sains et saufs, tandis
que les autres ont peri».

[347] Vedi, a questo proposito, MARINELLI, _La geografia e i Padri
della Chiesa_, estratto dal Bollettino della Società geografica
italiana, anno 1882, pp. 11-15.

[348] _Historia ecclesiastica_, ediz. cit., capp. 246, 247.

[349] Nel già citato prologo della _Vengeance de Jésus-Christ_, Nerone
racconta a Virgilio com'egli e gli altri demonii, cadendo dal cielo,
aprirono un grande abisso nel mare, capace di trenta contee, il quale
è detto li _goufre de Sathanie_. Ogni nave che ad esso si accosti è
irreparabilmente perduta. L'acqua vi turbina con irresistibile impeto,
e così veloce

    Comme .I. quariaus quand on le lait aler.

(COMPARETTI, _Virgilio nel medio evo_, vol. II, p. 202). Cosroè
Anuscirvan fece un viaggio per conoscere un gran vortice ch'era in
mezzo del Mar Caspio, e si salvò per miracolo. DORN, _Auszüge aus
vierzehn morgenländischen Schriftstellern, betreffend das Kaspische
Meer und angrenzende Länder, Mélanges asiatiques_, vol. VI, pp. 638-40.

[350] V. W. GRIMM, _Die Sage von Polyphem, Abhandl. d. k. Akad. der
Wiss_. zu Berlin, anno 1857; GERLAND, _Altgriechische Märchen, in
der Odyssee_, Magdeburgo, 1869; KREK, _Einleitung in die slavische
Literaturgeschichte_, 2ª ediz., Graz, 1887. V. pure GORRA, _Testi
inediti di storia trojana_, Torino, 1887, p. 42; PARODI, _I rifacimenti
e le traduzioni dell'Eneide_, già cit., pp. 152, 184. Una fiaba
italiana dei ciclopi pubblicò il COMPARETTI, _Novelline popolari_, p.
308 sgg.

[351] _Historia danica_, ediz. di Copenaghen, 1839-58, vol. I. pp. 420
sgg.

[352] HERSART DE LA VILLEMARQUÉ, _La légende celtique et la poésie des
cloîtres en Irlande, en Cambrie et en Bretagne_, ediz. in-12º, Parigi,
1864, p. LVI.

[353] JOYCE, _Old Celtic Romances_, Londra, 1861, pp. 112 sgg.;
BEAUVOIS, _L'Élysée transatlantique_, p. 354 sgg.

[354] BEAUVOIS, _ibid_., pp. 365-7.

[355] ID., _ibid_., pp. 367-8.

[356] HERSART DE LA VILLEMARQUÉ, _Myrdhinn, ou l'enchanteur Merlin_,
pp. 25-6.

[357] HUMBOLDT. _Examen critique_, etc., vol. II, pp. 160-1.

[358] Cf. LETRONNE, _Recherches géographiques et critiques sur le livre
De mensura orbis terrae_, Parigi, 1814, pp. 129-46.

[359] DE MONTALEMBERT, _Les moines d'Occident_, Parigi, 1860-77, vol.
III, p. 287. Vedi la Vita maggiore del santo negli AA. SS., t. II di
giugno. Quivi è pur ricordato (l. I, cap. 20) un certo Baitano, _che
benedici a Sancto petivit, cum ceteris in mari eremum quaesiturus_.

[360] _La poésie des races celtiques_, in _Essais de morale et de
critique_, Parigi, 1859, p. 446.

[361] _Spicilegium Vaticanum_, Frauenfeld, 1838, pp. 145-7.

[362] Vedi per la vita del santo gli _Acta Sanctorum_, t. III di
maggio, pp. 599-608; DE LA RUE, _Essais historiques sur les bardes,
les jongleurs et les trouvères normands et anglo-normands_, Caen, 1834,
vol. II, p. 66; SMITH, and WACE, _A Dictionary of Christian Biography,
Litterature, Sects and Doctrines_, Londra, 1877-87, art. _Brendan of
Clonfert_; SCHIRMER, _Zur Brendanus-Legende_, Lipsia, 1888, pp. 1 sgg.
Non si confonda con la leggenda del nostro la leggenda, che tuttavia
corre per Toscana, in istampe popolari, di Brandano da Siena, vissuto
nel secolo XVI.

[363] Sigeberto Gemblacense, Alberico delle Tre Fontane, Ruggero di
Wendover, ecc.

[364] GREITH, _Op. cit._, p. 145 n.; HARDY, _Descriptive Catalogue of
Materials relating to the History of Great Britain_, Londra, 1871, vol.
I, i, pp. 159 sgg.

[365] Le redazioni della leggenda di San Brandano sono tre: quella
del racconto gaelico, quella della _Navigatio_, quella di alcuni
testi tedeschi e di uno olandese, i quali rimandano, probabilmente,
a un racconto francese. Vedi per tutto ciò, e per le relazioni e
derivazioni dei testi: PESCHEL, _Der Ursprung und die Verbreitung
einiger geographischen Mythen im Mittelalter, Deutsche Vierteljahrs
Schrift_, vol. II, 1854, pp. 242 sgg.; SCHROEDER, _Sanct Brandan, Ein
lateinischer und drei deutsche Texte_, Erlangen, 1871, pp. IV sgg.;
SUCHIER, _Brandans Seefahrt, Romanische Studien_, vol. I (1871-5), pp.
555 sgg.: SCHIRMER, _Op. cit._, pp. 14 sgg. Al lettore non sarà forse
discaro di trovar qui un po' di bibliografia de' testi in varie lingue
e dell'edizioni loro, bibliografia che, del resto, non do per compiuta.
LATINI: _Navigatio_: JUBINAL, _La légende latine de S. Brandaines_,
Parigi, 1836, pp. 1 sgg.; SCHROEDER, _Op. cit._, pp. 3 sgg.; MORAN,
_Acta Sancti Brendani_, Dublino, 1872, pp. 85 sgg.; _Florilegium
Casinense_, in appendice alla _Bibliotheca Casinensis_, Montecassino,
1873 sgg., t. III, pp. 411 sgg.: _Testi latini in verso_: LEYSER,
_Altdeutsche Blätter_, vol. II, pp. 273 sgg.; MARTIN, _Zeitschrift
für deutsches Alterthum_, nuova serie, vol. IV (1873), pp. 289 sgg.
— FRANCESI: JUBINAL, _Op. cit._, pp. 57 sgg., 105 sgg.; SUCHIER, pp.
567 sgg.; AURACHER, _Zeitschrift für romanische Philologie_, vol.
II (1878), pp. 439 sgg.; MICHEL, _Les voyages merveilleux de Saint
Brandan_, Parigi, 1878. — ITALIANI: VILLARI, _Alcune leggende_, ecc.,
pp. 134 sgg. Una vita italiana di San Brandano registra il Lami, e un
testo italiano della leggenda contiene il cod. 1008 della Biblioteca
di Tours, intorno al quale vedi _Bibliothèque de l'École des chartes_,
anno 1878, pp. 385-6. — INGLESI: WRIGHT, _St. Brandan, a medieval
Legend of the Sea in english Verse and Prosa_, Londra, 1844; HORSTMANN,
_Die altenglische Legende von St. Brendan, Archiv für das Studium
der neueren Sprachen und Litteraturen_, vol. LX (1874), pp. 17 sgg. —
TEDESCHI: BRUNS, _Romantische und andere Gedichte in altplattdeutscher
Sprache_, Berlino, 1798, pp. 159 sgg.; GENTHE, _Deutsche Dichtungen
des Mittelalters_, Eisleben, 1841, vol. I, pp. 337 sgg.; SCHROEDER,
_Op. cit_., pp. 51 sgg., 127 sgg., 163 sgg., — OLANDESI: BLOMMAERT,
_Oudvlaemsche Gedichten der XIIe, XIIIe, en XIVe eeuwen_, Gent,
1838-51, parte 1ª, pp. 100 sgg.; parte 2ª, pp. 3 sgg.; BRILL, _Van
Sinte Brandane_, in MOLTZER, _Bibliothek van middelnederlandsche
letterkunde_, Groninga, 1871. Tralascio di ricordare traduzioni e
rimaneggiamenti di tempi posteriori, pei quali si possono vedere gli
autori citati in principio di questa nota.

[366] _Geschichte der deutschen Poesie nach ihren antiken Elementen_,
Lipsia, 1854-6, vol. I, pp. 169-70. Cfr. JONCKBLOET, _Geschichte der
niederländischen Literatur_ (trad. di W. Berg), Lipsia, 1870-2, vol. I,
p. 177, e HUMBOLDT, _Examen_, etc. vol. II, p. 165.

[367] Vedi HAURÉAU, _Singularités historiques et littéraires_, Parigi,
1861, pp. 1 sgg.: _Écoles d'Irlande_.

[368] SCHROEDER, Op. cit., pp. XII-XIII.

[369] Vedi a questo proposito WRIGHT, _St. Brandan_, p. v. I riscontri
fra la leggenda di San Brandano e racconti arabici furono già notati
dal REINAUD nella citata Introduzione alla Geografia di Abulfeda, e
vol. II, p. 263; poi dal D'AVEZAC, _Les îles fantastiques de l'Océan
occidental, Nouvelles annales des voyages et sciences géographiques_,
anno 1845, vol. I, pp. 298-9. Secondo lo ZIMMER (_Keltische Beiträge,
Zeitschrift für deutsches Alterthum und deutsche Litteratur_, vol.
XXVIII, 1889) la fonte principale della _Navigatio_ sarebbe l'_Imram
Maelduin_. Ultimamente il DE GOEJE prese a dimostrare (_La légende
de Saint Brandan, Actes du huitième congrès international des
Orientalistes tenu en 1889 à Stockholm et à Christiania_, Sezione I,
Leida, 1891, pp. 43-76) che la più parte delle finzioni contenute nella
_Navigatio_ derivano dal racconto dei viaggi di Sindbad, o da altri
racconti orientali. Alcuni degli argomenti da lui addotti sono assai
validi, ma altri mi pajono debolissimi. Credo la questione sia ancora
insoluta.

[370] SCHROEDER, Op. cit., pp. 61 sgg., 169 sgg.

[371] SUCHIER, pp. 585 sgg.; AURACHER, p. 456; MICHEL, pp. 80 sgg.

[372] VILLARI, pp. 157 sgg.

[373] Leggesi in un'antica _Historia Norvegiae_: «Sunt item in
refluentis oceani insule ovium, numero [XVIII], quas patria lingua
Faereyar incolae appellant; ibi enim ruricolis opima grex affluit;
sunt quibusdam inde millia ovium». _Monumenta historica Norvegiae_,
Cristiania, 1880, p. 92.

[374] Vedi Freudenthal, nell'_Orient und Occident insbesondere in ihren
gegenseitigen Beziehungen_ del Benfey, vol. III, p. 354.

[375] Vedi in questo volume lo scritto che segue, e nel successivo
quello intitolato _Demonologia di Dante_.

[376] PLINIO, _Hist. nat_., l. IV, cap. 30: «A Thule unius diei
navigatione mare Concretum, a nonnullis Cronium appellatur».

[377] HUMBOLDT, _Examen_, etc., vol. I, pp. 196-8; vol. II, p. 161 n.

[378] Vedi BARTSCH, _Herzog Ernst_, Vienna, 1869, pp. CXLV-CXLVIII;
HOFMANN, _Ueber das Lebermeer, Sitzungsberichte der k. bayer. Akademie
der Wissenschaften_, anno 1865.

[379] ZARNCKE, _Der Priester Johannes_, parte 1ª, p. 911.

[380] ID., _ibid._, parte 2ª, p. 164.

[381] SANTAREM, _Essai_, etc., vol. I, pp. 333, 335, 336, 351, 354-5.

[382] FLETCHER S. BASSETT, _Legends and Superstitions of the Sea and
Sailors in all Lands and at all Times_, Chicago e New-York, 1885, p.
14.

[383] _De his qui tarde a numine corripiuntur_. Cf. DELEPIERRE,
_L'Enfer_, Londra, 1876, p. 23.

[384] SCHADE, _Visio Tnugdali_, § 11, pp. 12-3, e nelle versioni.

[385] _Istorie fiorentine_, l. IV, cap. 2.

[386] DE LA VILLEMARQUÉ, _La légende celtique_, etc., pp. LVI-LVII.

[387] Continuazione del poema d'_Huon de Bordeaux_, ms. della Nazionale
di Torino, L, II, 14, f. 360 r. Circa l'alleviamento di pena conceduto
al massimo dei peccatori vedi, in questo volume, lo scritto che segue.
In una Visione riferita da VINCENZO BELLOVACENSE (_Spec. hist._, l.
XXIX, capp. 6-10) si narra l'atroce castigo inflitto a Giuda, castigo
che non dà luogo a lenimento alcuno.

[388] Vedi ROHDE, _Der griechische Roman und seine Vorläufer_, Lipsia,
1876, pp. 167-287; BOSSERT, _La littérature allemande au moyen âge_,
Parigi, 1882, pp. 115-54: _Les légendes de la mer_.

[389] Cf. HUMBOLDT, _Examen_, vol. II, pp. 166-7; D'AVEZAC, _Op. cit._,
p. 300.

[390] L'Ἀπρόσιτος, o isola inacessibile di Tolomeo, è appunto una delle
Canarie.

[391] L. II, cap. 13; ms. L, IV, 5 della Nazionale di Torino, f. 220 v.

[392] _De imagine mundi_, l. I, cap. 36.

[393] _Zeitschrift für deutsche Philologie_, vol. XIII, p. 202.
Dell'Isola Perduta è anche ricordo nelle _Storie di Rinaldo_. Un'Isola
nascosta è menzionata nel Prologo e nel seguito del poema di Huon de
Bordeaux.

[394] _Reductorium morale_, l. XIV, cap. 22.

[395] D'AVEZAC, _Nouvelles annales des voyages_, etc., vol. II, p. 47.

[396] Vedi per queste curiose spedizioni JOSÉ DE VIERA Y CLAVIJO,
_Noticias de la historia general de las Islas Canarias_, Madrid,
1772-83, ove se ne discorre in un apposito capitolo, volume I, pp.
78-112. Cf. HUMBOLDT, _Examen_, etc., vol. II, pp. 167-73.

[397] Ciò ricorda quanto lo storico JUAN DEL CASTILLO narra (_Historia
de los Reyes Godos_, Madrid, 1624, p. 365) di Filippo II, che, sposando
Maria, s'impegnò a rinunziare alla corona d'Inghilterra nel caso che
fosse tornato il re Artù.

[398] Vedi, tralasciando le dissertazioni del Le Grand d'Aussy e del Le
Clerc, FANT, _L'Image du Monde_, etc., Upsala, 1886, p. 26.

[399] DUEMMLER, _Gedichte aus Ivrea: Hymnus Sancti Brendani
confessoris, Zeitsch. f. deutsches Alterth._, nuova serie, vol. II
(1869), p. 256; MORAN, _Acta Sancti Brendani_, p. 27 sgg. Nel cod.
palatino CXX della Nazionale di Firenze è una orazione di San Brandano
con questa avvertenza: _Santo Brandano monacho fece questa oratione
della parola di Dio, cioè Yhesu_ Χρι_sto per Michele Archangelo, quandò
passò sette mari_. PALERMO, _I manoscritti palatini_, vol. I, p. 234.
Della venerazione in cui era tenuto da certi monaci San Brandano porge
documento NICCOLÒ DI BIBERA (sec. XIII) nel suo _Carmen satiricum_, in
un luogo ove dice:

    Sunt et ibi Scoti, qui cum fuerint bene poti,
    Sanctum Brandanum proclamant esse decanum
    In grege sanctorum, vel quod deus ipse deorum
    Brandani frater sit et eius Brigida mater.

Ediz. Fischer, nel vol. I delle _Geschichtsquellen der Provinz
Sachsen_, 1870, vv. 1550-3.

[400] _Speculum historiale_, l. XXII, cap. 81. Vedi in contrario
GIRALDO CAMBRENSE, _Topographia Hiberniae_, dist. II, cap. 43, ap.
CAMDEN, _Anglica, Hibernica_, etc. p. 731.

[401] _Spec. hist._, l. XXII, capp. 96-7.

[402] Vedi la Vita inserita dal MABILLON negli _Acta sanctorum ordinis
S. Benedicti_, saec. pr., p. 178.

[403] GIOVANNI A BOSCO, _Bibliotheca Floriacensis_, Lione, 1605, pp.
485-515.

[404] Ap. LIPOMANO-SURIO, _De vitis sanctorum_, t. VI, f. 109 v.
Sigeberto è in qualche dubbio circa le ragioni della peregrinazione:
«Hanc viam insistere, utrum persuaserit sola quaerendae felicis
habitationis voluntas, an aliqua ex parte subrepserit animis eorum
humanae curiositatis voluptas, non habet discutere nostra temeritas».
Il racconto di Sigeberto passa in SANT'ANTONINO, _Historiarum_,
parte II, tit. XII, cap. 8, § 5. Vedi inoltre: CHÊNE, _Études sur
les anciennes vies de Saint Malo_, in _Revue historique de l'Ouest_,
vol. I (1885), PLAINE et DE LA BORDERIE, _Deux vies inédites de Saint
Malo_, in _Bulletin et mémoires de la Sociétè archéologique d'Ille et
Vilaine_, vol. XVI (1884).

[405] Nel 1408 il vescovo di Langres diede facoltà alla chiesa di
Bar-sur-Aube di rappresentare la vita di San Maclovio. (DOUHET,
_Dictionnaire des mystères_, Parigi, 1854, col. 500). Il miracolo della
risurrezione del gigante, e l'altre meraviglie, saranno stati, senza
dubbio, parte principalissima dello spettacolo.

[406] _Pantheon_, ediz. cit., pp. 58-60.

[407] Le Colonne d'Ercole s'andarono poi moltiplicando sulla faccia
della terra, e apparvero sotto tutte le plaghe, in tutti i luoghi
giudicati dover essere estremo limite alla curiosità e all'ardimento
degli uomini. Di colonne e statue consimili fu anche fatto autore
Alessandro Magno.

[408] Nel _Propugnatore_, vol. I, pp. 608 sgg., vv. 230-2.

[409] In un luogo del _Libro di Alessandro_ di Nizami si fa parola di
un timballo di bronzo, posto in cima a una montagna nel mar della Cina,
timballo che col suono avverte le navi di non passare più oltre.

[410] FLOREZ, _España sagrada_, 2ª ediz., t. XXVII, cap. 4, pp. 392-9.

[411] Della leggenda diede un fuggevole cenno il DENIS, _Le monde
enchantè_, p. 283.

[412] ZACHER, _Alexandri Magni iter ad Paradisum_, Königsberg,, 1859,
pp. 19 sgg.

[413] LEVI, _La légende d'Alexandre dans le Talmud, Revue des études
juives_, vol. I (1880), pp. 293-300; SAX, _Revue des traditions
populaires_, agosto-settembre, 1889. Cf. VOGELSTEIN, _Adnotationes
quaedam ex litteris orientalibus petitae, quae de Alexandro Magno
circumferuntur_, Vratislavia, 1865, pp. 15 sg., 19 sgg. Alquanto
diversamente leggesi il racconto in LEVI, _Parabole leggende_, ecc.,
pp. 218-22, e in TENDLAU, _Das Buch der Sagen und Legenden jüdischer
Vorzeit_, Francoforte s. M., 1878, pp. 44-5.

[414] _Alexander, Gedicht des zwölften Jahrhunderts, vom_ PFAFFEN
LAMPRECHT, ediz. Weismann, Francoforte s. M., 1850, vv. 6577- 7127.

[415] MEYER, _Alexandre le Grand dans la littérature française du moyen
âge_, Parigi, 1886, vol. I, p. 185; vol. II, pp. 201 sg., 356, 357. Il
racconto interpolato fu pubblicato dallo stesso Meyer nella _Romania_,
voi. XI, pp. 228 sgg.

[416] Pubblicati da L. Banchi (_Collezione di opere inedite o rare_),
Bologna, 1863, p. 116.

[417] Cf. GOERRES, _Die teutschen Volksbücher_, Heidelberg, 1807, p. 60.

[418] ZARNCKE, _Der Priester Johannes_, parte 2ª, p. 170.

[419] Nel poema di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay, Alessandro,
dopo essere uscito dalle terre della regina Candace, trova sopra una
pietra un occhio umano. Aristotele gli fa vedere come, posto in una
bilancia, esso vince di peso qualunque cosa gli si possa contrapporre;
ma tosto poi, coperto di un panno, diventa leggerissimo. (Ediz.
Michelant, pp. 497-9. Cfr. GIDEL, _La légende d'Aristote au moyen
âge_, in _Nouvelles études sur la littérature grecque moderne_,
Parigi, 1878, pp. 370-1). La storia della gemma simbolica è narrata
nel _Polychronicon_ di RANULFO HIGDEN, l. III, cap. 30. Adamo Oleario,
il quale viaggiò in Asia negli anni 1633-1639, riferisce una storia
persiana della ricerca che Alessandro Magno fece della fontana di
giovinezza, con alcune particolarità che credo non si abbiano altrove.
L'angelo Raffaele, custode della spelonca ove scaturisce la fonte,
porge ad Alessandro una gemma simile nell'aspetto a quella di cui si
parla nel racconto latino; ma ciò che poi si dice di essa non accenna
a nessuna qualità simbolica. (_Voyages très-curieux et très-renommés
faits en Moscovie, Tartarie, et Perse, traduits de l'original et
augmentés par le Sr._ DE WIQUEFORT, Amsterdam, 1727, coll. 865-71).

[420] BACHER, _Nizâmî's Leben und Werke_, etc., Lipsia, 1871, pp. 101,
113-5.

[421] _Orl. Fur._, c. XXX, st. 109-110. Cf. RAJNA, _Le fonti
dell'Orlando Furioso_, Firenze, 1876, p. 464.

[422] _Historia de las cosas notables, ritos y costumbres del gran
reyno de la China_, etc., ediz. di Roma, 1585, pp. 422-4.

[423] PSEUDO-CALLISTENE, l. II, capp. 39-41; GIULIO VALERIO, _Res
gestae Alexandri Magni_, ap. MAI, _Classici scriptores_, etc., t. VII.
pp. 193-4.

[424] DE LA VILLEMARQUÉ, _Myrdhinn_, pp. 25-6.

[425] Continuazione del poema nel ms. L, II, 14 della Nazionale di
Torino. Pel racconto in prosa cf. DUNLOP, _History of Fiction_ (1888),
vol. I, pp. 306-7.

[426] _Baudouin de Sebourc_, ediz. Bocca, Valenciennes, 1841, c. 15.

[427] Ms. dell'Arsenale di Parigi 2985, p. 632; testo del sec. XIV.

[428] Vedi RENIER, _Ricerche sulla leggenda di Uggeri il Danese in
Francia_, estr. dalle _Memorie della R. Accademia delle scienze di
Torino_, serie 2ª, t. XLI, p. 59.

[429] RAJNA, _Le fonti dell'O. F._, p. 473.

[430] _Ly myreur des histors_, vol. III, pp. 66-7. Avventure di Uggeri
sono narrate nella versione tedesca che della relazione dei viaggi
del Mandeville fece Ottone di Diemeringen (non in quella di Michele
Felser); ma ignoro se vi si narri il viaggio al Paradiso.

[431] Ms. di Torino N, III, 19. Del codice berlinese, già Hamilton,
diede notizia il TOBLER, _Die Berliner Handschrift des Huon d'Auvergne,
Sitzungsb. d. k. preuss. Akad. d. Wiss._, t. XXVII (1884). Il testo del
Seminario di Padova non contiene questa parte del racconto.

[432] _Storia di Ugone d'Avernia_ (_Sc. di cur. lett._, dispp. 188,
190), Bologna, 1882, vol. II, capp. LI-LII, pp. 36-40.

[433] Ms. 2267 della Riccardiana, l. VI, capp. 27 e 29, f. 137 r. e v.,
f. 138 r. a 139 r. Questa parte del racconto, e quella della discesa
all'Inferno, che la precede, furono poi, non s'intende perchè, escluse
dalle stampe, meno che dalle primissime. Vedi RENIER, _La discesa di
Ugo d'Alvernia allo Inferno_ (_Sc. di cur. lett._, disp. 194), Bologna,
1883, pp. XCVI sgg. In certa Visione, che si ha, narrata in italiano,
nel cod. Magliabechiano XXXV, 7, 3 (FRATI, _Il purgatorio di San
Patrizio_, già cit., pp. 172-4), il Paradiso terrestre e il celeste
sono come fusi insieme.

[434] C. XXVIII, st. 150 sgg.

[435] RAJNA, _Le fonti dell'O. F._, pp. 472-3.

[436] Se non erro, questa saga è tuttavia inedita. La notizia che io
ne do è tolta dal libro del BARING-GOULD, _Curious myths of the middle
ages_, Londra, 1877, pp. 260-4.

[437] STEFANO VINANDO PIGHIUS (malamente confuso da taluno con
Alberto), _Hercules prodicius_, Colonia, 1609, p. 52; _Le Chevalier au
Cygne_, pubblicato dal De Reiffenberg, Bruxelles, 1846, p. 224.

[438] Vedi più sopra la nota 102 al cap. III.

[439] _Orl. Fur._, c. XXXIV, st. 48 sgg.

[440] Basterà accennare che il gesuita TOMMASO CEVA (1638-1737) in
quel suo ridicolo, e già tanto lodato poema che s'intitola _Puer
Jesus_, narra un'andata di Maria Vergine al Paradiso terrestre. Chi
vuol saperne altro, vada e vegga da sè, chè io non mi curo di fame più
parole. Qui ricorderò ancora un pajo di racconti che hanno parecchia
somiglianza con quelli in cui si narrano viaggi al Paradiso terrestre.
Il primo si legge in un opuscolo intitolato: _Avviso, | O Lettera
Curiosissima, | del Nuovo Felice, | Fortunato, e stupendo camino, | Di
Don Eliseo da Sarbanga Paleologo | Armeno, | ecc. In Viterbo, & poi
in Bologna, per Bartolomeo Cocchi, 1609_. Don Eliseo guidato da una
iscrizione di Alessandro Magno, giunge, dopo lungo viaggio, attraverso
a un meato sotterraneo, agli antipodi. Quivi trova terra azzurra e
trasparente, erbe, fronde di alberi, spiche, tutte color d'oro, frutti
che mostrano impressa l'effigie umana, altr'erbe, segnate di caratteri
ebraici, fiumi argentei ed aurei, animali di pelle ignuda. In quel
felice paese la terra non chiede d'essere coltivata, ma tutto produce
spontaneamente, e mai non vi piove. Il fuoco è bianco, ed evvi un'erba,
che cibata una volta sola, sostenta l'uomo per venti giorni, durante i
quali non lascia più sentire nè fame nè sete. Gli abitanti usano di una
infusione d'oro per ringiovanire, e cresciuti che sieno interamente,
non passano tre palmi d'altezza. In un monte sono alcune statue
d'oro, sull'una delle quali è scritto: ALEXANDER MACEDO. La lettera
si dà come tradotta dall'armeno in greco e dal greco in italiano. La
sostanza di essa è recata, con alcuna mutazione, in quello spaventoso
zibaldone che è il _Condottiere de' predicatori per tutte le scienze_,
del padre MAURIZIO DI GREGORIO, siciliano, ediz. di Venezia, 1627,
incredibilmente spropositata, pp. 328-35, ed anche nel breve _Trattato
del Paradiso terrestre, dove si vedono diverse opinioni circa tal
oggetto, varietà di fiumi mal'intesi dal volgo, curiose historie, e
prove infallibili, che si dà questo ameno giardino, e ch'al presente
si ritrovi nel mondo, ma incognito a noi per li peccati nostri_,
opera lacrimabile del padre D. COSIMO GIOVANNELLI da Lucca, canonico
regolare Lateranense, Lucca, 1676, pp. 27-31. Questo buon uomo narra
pure (pp. 21-2), traendola da _certo Romanzo_, che io non so dire qual
sia, la storia di un cavaliere, che dopo molte battaglie e vittorie,
soggiogate innumerevoli province, giunse all'ultimo Oriente, dove trovò
un magnifico palazzo, tutto formato di pietre preziose, cinto da un
profondo fiume, e non vedendo porta, e chiamando gente, gli fu detto da
un venerando vecchio, il quale s'affacciò a un balcone, che quello era
il Paradiso terrestre, e non si poteva andar più innanzi. Il cavaliere
tornò su' suoi passi, dopo aver ricevuta dal vecchio una palla di
cristallo, che aveva dentro l'immagine d'una colonna d'oro, sormontata
da una corona cadente, e fiancheggiata da due leoni; e seppe poi da un
eremita ch'era quello un simbolo e un segno della sua prossima fine.
Quest'avventura ricorda, come si vede, quella narrata di Alessandro
Magno. Lo stesso buon uomo ricorda il caso di un tale che stette
lung'anni alla porta del Paradiso, picchiando, pregando e piangendo, e
dice che tale caso si narra nella leggenda di Santo Amato (p. 22). Di
santi di questo nome ce ne furono parecchi; ma in nessuna delle vite
loro che potei consultare mi venne fatto di trovar traccia di tale
leggenda.



APPENDICI



APPENDICE I

TESTI VARII CONTENENTI DESCRIZIONI DEL PARADISO TERRESTRE[441].


1.

TERTULLIANO, _De judicio Domini_, cap. VIII.

      Est locus Eois Domino dilectus in oris,
    Lux ubi clara, nitens, spiratque salubrior aura,
    Aeternusque dies, atque immutabile tempus;
    Est secreta Deo regio, ditissima campis,
    Atque beata nimis, sudaeque in cardine sedis.
    Aer laetus ibi, semperque in luce futurus,
    Lenis et aspirans vitalia flamina ventus.
    Omnia fert foecunda, solo praedivite, tellus;
    Flores in pratis flagrant, et purpura campis
    Omnia praerutila miscet non invida luce.
    Flos alium laetus suo lumine vestit amictus,
    Roscidaque hic multo variantur semine rura,
    Et roseis nivea crispantur floribus arva.
    Nescitur quibus usque locis felicior aura,
    Quae melior specie, vel plus precellat honore.
    Talia florigeris numquam nascuntur in hortis
    Lilia, nec nostris efflorent talia campis,
    Nec sic nata rubent, mox ut rosa panditur aura;
    Purpura nec Tyrio sic est intincta rubore.
    Gemma coloratis fulget speciosa lapillis;
    Inde nitet prasinus, illinc carbunculus ardet,
    Herbosaque viret praegrandis luce smaragdus;
    Hic et odoriferis nascuntur cynnama virgis,
    Et spisso laetum folio conflagrat amomum.
    Hic iacet ingenitum radiantis luminis aurum,
    Et nemora alta tenent florenti tempore coelum,
    Virentesque gravant uberrima germina ramos.
    Porrexit similes non illis India lucos,
    Non ita densa levat in monte cacumina pinus,
    Nec sic alticoma est umbra crispata cupressus;
    Nec vernus melius floret cum tempore ramus.
    Hic abietes celso florent in vertice nigrae,
    Aeternumque virent solae sine grandine sylvae.
    Nulla cadunt folia, et nullo flos tempore defit.
    Flos quoque floret ibi rubeus, ceu purpura Tarsi,
    Flos hic, credo, rosa est, rubor atque odor acer in ipso,
    Sic foliis speciem praefert, sic spirat odorem.
    Arbos stat cum flore novo, pulcherrima pomis.
    Vitalem et frugem foelicia robora densant.
    Mella viridanti conflagrant pinguia canna,
    Lac etiam plenis manat potabile rivis;
    Vitam aspirat ibi quidquid pia terra virescit,
    Et pulcre redolet munus medicabile Cretae.
    Fons illic placidis leni fluit agmine campis;
    Quattuor inde rigant partitas flumina terras.
    Ver puto semper agit vestitus floribus hortus,
    Non frigus variat hiberni sideris auram,
    Et reficit foetam, meliori flamine terram.
    Nox ibi nulla, suas defendunt astra tenebras;
    Iraeque insidiaeque absunt et dira cupido,
    Exclususque metus, pulsae de limine curae.
    Hic malus extorris, dignas exivit in oras,
    Nec vetitos umquam datur huic contingere lucos;
    Illic prisca fides electa in sede quiescit,
    Insistit gaudens aeterno in foedere vita,
    Et secura salus placidis laetatur in arvis,
    Semper victura, semperque in luce futura.


2.

PROBA FALTONIA (FALCONIA), _Cento Virgilianus_.

      Postquam cuncta pater, caeli cui sidera parent,
    Composuit, legesque dedit, camposque nitentes
    Desuper ostentat, tantarum gloria rerum:
    Ecce autem primi sub limine solis et ortus
    Devenere locos, ubi mollis amaracus illos
    Floribus, et dulci aspirans complectitur umbra.
    Hic ver purpureum, atque alienis mensibus aestas,
    Hic liquidi fontes, hic coeli tempore certo
    Dulcia mella premunt, hic candida populus antro
    Imminet et lentae texunt umbracula vites:
    Invitant croceis halantes floribus horti
    Inter odoratum lauri nemus, ipsaque tellus
    Omnia liberius, nullo poscente, ferebat.
    Fortunati ambo, si mens non laeva fuisset
    Conjugis infandae, docuit post exitus ingens.


3.

PRUDENZIO, _Cathemerinon_ hymn. III.

      Tunc per amoena vireta jubet
    Frondicomis habitare locis:
    Ver ubi perpetuum redolet,
    Prataque multicolora latex
    Quadrifluo celer amne rigat.


4.

DRACONZIO, _De Deo_, l. I.

      Est locus in terra diffundens quatuor amnes,
    Floribus ambrosiis gemmato caespite pictus,
    Plenus odoriferis numquam marcentibus herbis,
    Hortus in orbe Dei cunctis felicior hortis.
    Fructus inest anni, cum tempora nesciat anni.
    Illic floret humus semper sub vere perenni,
    Arboreis hinc inde comis vestitur amoene.
    Frondibus intextis ramorum murus opacus
    Stringitur, atque omni pendent ex arbore fructus,
    Et passim per prata iacent: non solis anheli
    Flammatur radiis, quatitur nec flatibus ullis,
    Nec coniuratis furit illic turbo procellis.
    Non glacies districta domat, non grandinis ictus
    Verberat, aut gelidis canescunt prata pruinis.
    Sunt ibi sed placidi flatus, quos mollior aura
    Edidit, exsurgens nitidis de fontibus horti.
    Arboribus movet illa comas, de flamine molli
    Frondibus impulsis immobilis umbra vagatur.
    Fluctuat omne nemus et nutant pendula poma.
    Ver ibi perpetuum communes temperat auras,
    Ne laedat flores, et ut omnia poma coquantur.
    Non apibus labor est ceris formare cicutas:
    Nectaris aetherei sudant ex arbore mella,
    Et pendent foliis iam pocula blanda futura,
    Pendet et optatae vivax medicina salutis:
    Cetera dipingit variis natura figuris.


5.

CLAUDIO MARIO VITTORE (VITTORIO, VITTORINO), _Commentarius in Genesim_,
l. I.

      Eoos aperit foelix qua terra recessus
    Editiore globo, nemoris Paradisus amoeni
    Panditur, et teretis distinguitur ordine silvae.
    Hic ubi iam spaciis limes discernitur aequis
    Solis, et aeternum paribus ver temperat horis.
    Illic quaeque suis dives stat fructibus arbor,
    Pomaque succiduis pelluntur mitia pomis,
    Quae iucunda epulis, et miri plena vigoris,
    Membra animosque fovent, pascuntque sapore et odore.
    Sidereos hic terra vibrat distincta colores,
    Semper flore novo frondens, fructuque recenti.
    Hic fragiles solvunt calamos, animata vigore
    Muneris ambrosii, spirantia cinnama odores.
    Sed nec quod Medus redolet, vel crine soluto
    Fragrat Achaemenius, quod molli dives amomo
    Assyrius, messisque rubens Mareotica nardo,
    Quod Tartessiaci frutices, quod virga Sabaei,
    Quodque Palestinus lacero flet vulnere ramus,
    Omnia certatim hunc congesta putabis in hortum.
    Namque huc cuncta Deus pariter, quae singula certis
    Accepit natura locis, conferta regessit:
    Motaque dum leni vibrat nemus aura meatu,
    Unum ex diverso nectar permiscet odore,
    Fitque novum munus, sibi nulla quod asserat arbor.
    Quoque tremens blando sensim iactata fragore,
    Commotis trepidat foliis, sonat arbore cuncta
    Hymnum silva Deo, modulataque sibilat aura
    Carmina, nec vacuus vanum quatit aere motus.
    Quippe apud auctorem, qui totum mole sub una,
    Res rebus nectens, alterna lege retentat,
    Nil temere fieri vel frustra credere par est.
    Quin etiam speciosa, nemus, silvaeque coruscae,
    Argumenta operum sunt, et plantaria rerum.
    Nec dubium primi quin delicta ante parentis,
    Hic sua fixissent pariter tentoria secum,
    Gloria, simplicitas, studium, sapientia, veri
    Diva tenax, prudentia, gratia, honorque, salusque,
    Praeclarique animae affectus, atque inclyta virtus,
    Et quicquid pulchrum orbis habet: quid denique paucis
    Enumerare velim quam plurima munera verbis?
    Iam satis hoc fidei est, laeto quod semine surgens,
    Hinc arbor vitae, celeri petit aera pomis;
    Illinc diverso nocitura peritia fructu,
    Notitiam rerum suspendit ab arbore legis.
      Ad gremiun sacri nemoris, quod silva coronat,
    Fons scatet, et diti prolem virtute maritat,
    Quadrifido tumidum laetus caput amne resolvens,
    Ditior Oceano: iugi nam gurgite pronus
    Ille suos donat latices, iste accipit omnes,
    Nec turget tamen: at minor est, qui crescere tantis
    Fluctibus infusis, quam qui decrescere nescit
    Amnibus effusis: quorum primo ordine Phison
    Prosilit exultans, fontis pars quarta beati:
    Edens naturae quas dat prudentia dotes,
    Gangetisque replet populos, atque indica regna
    Distendit limo, terrasque et semina volvens
    Quae facit arva serit, nudis qua squallet arenis
    Aurea fulgentis inter ramenta metalli.
    Hic ubi fulmineo rutilans carbunculus igne,
    Ac viridi radiat fulgescens luce smaragdus.
    Nec minor inde Geon, placidis sed mitior undis
    Niliacas attollit aquas, arsuraque late
    Diluvio tegit arva pio, coeloque repugnans
    Temperat Aethiopum stagnis refluentibus undas.
    Tertius hinc rapido percurrens gurgite Tigris
    It comes Euphrati iuncta quos mole ruentes
    Tellus victa cavo sorbet patefacto baratro:
    Donec in Armeniae saltus ac Medica Tempe,
    Quos non sustinuit, nec iam capit, evomat amnes.
    Sed Tygris, nigro tanquam indignatus averno,
    Prosilit aethereas motu maiore sub auras,
    Et rursum spelaea subit, mersusque cavernis
    Intus agit fremitus, et fortior obice factus
    Multiplicatur aquis, atroque citatior antro
    Exit et Assyrios celeri secat agmine campos.
    Iustior Euphrates, diti qui gurgite largus
    Irrigat arentes subiectae Persidis agros,
    Mollibus elicitus rivis, atque omnibus aeque
    Servit, et humanos totum se praebet in usus:
    Donec siccus aquis, nomen quoque prodigus ipsum
    Consummat terris, pelagi quod debuit undis.


6.

ALCIMO AVITO, _Poematum_ l. I, _De mundi initio_.

      Est locus eoo mundi servatus in axe
    Secretis, natura, tuis, ubi solis ab ortu
    Vicinos nascens aurora repercutit Indos.
    Hic gens ardentem caeli subteriacet axem,
    Quam candor fervens albenti ex aethere fuscat.
    Hic semper lux pura venit caeloque propinquo
    Nativam servant nigrantia corpora noctem.
    Attamen in taetris splendentia lumina membris
    Captivo fulgore micant visuque nitente
    Certior adcrescit conlatis vultibus horror:
    Caesaries incompta riget, quae crine supino
    Stringitur, ut refugo careat frons nuda capillo.
    Sed magnum nostros quidquid perfertur ad usus,
    His totum natura dedit telluris opimae.
    Quidquid odoratum pulchrumque adlabitur, inde est.
    Concolor his ebeni piceo de fomite ramus
    Surgit, et hic eboris munus quae porrigit orbi,
    Informis pulchros deponit belva dentes.
    Ergo ubi transmissis mundi caput incipit Indis,
    Quo perhibent terram confinia iungere caelo,
    Lucus inaccessa cunctis mortalibus arce
    Permanet aeterno conclusus limite, postquam
    Decidit expulsus primaevi criminis auctor,
    Atque reis digne felice ab sede revulsis
    Caelestes haec sancta capit nunc terra ministros.
    Non hic alterni succedit temporis umquam
    Bruma nec aestivi redeunt post frigora soles,
    Sic celsus calidum cum reddit circulus annum,
    Vel densente gelu canescunt arva pruinis.
    Hic ver adsiduum caeli clementia servat;
    Turbidus auster abest semperque sub aere sudo
    Nubila diffugiunt iugi cessura sereno.
    Nec poscit natura loci quos non habet imbres,
    Sed contenta suo dotantur germina rore.
    Perpetuo viret omne solum terraeque tepentis
    Blanda nitet facies, stant semper collibus herbae
    Arboribusque comae: quae cum se flore frequenti
    Diffundunt, celeri confortant germina suco.
    Nam quidquid nobis toto nunc nascitur anno,
    Menstrua maturo dant illic tempora fructu.
    Lilia perlucent nullo flaccentia sole
    Nec tactus violat violas roseumque ruborem
    Servans perpetuo suffundit gratia vultu.
    Sic cum desit hiems nec torrida ferveat aestas,
    Fructibus autumnus, ver floribus occupat annum.
    Hic, quae donari mentitur fama Sabaeis,
    Cinnama nascuntur, vivax quae colligit ales,
    Natali cum fine perit nidoque perusta
    Succedens sibimet quaesita morte resurgit:
    Nec contenta suo tantum semel ordine nasci
    Longa veternosi renovatur corporis aetas
    Incensamque levant exordia crebra senectam.
    Illic desudans fragrantia balsama ramus
    Perpetuum pingui promit de stipite fluxum.
    Tum si forte levis movit spiramina ventus,
    Flatibus exiguis lenique impulsa susurro
    Dives silva tremit foliis ac flore salubri,
    Qui sparsus terris suaves dispensat odores.
    Hic fons perspicuo resplendens gurgite surgit:
    Talis argento non fulget gratia, tantam
    Nec crystalla dabunt nitido de frigore lucem.
    Margine riparum virides micuere lapilli
    Et quas miratur mundi iactantia gemmas,
    Illic saxa iacent; varios dant arva colores
    Et naturali campos diademate pingunt.
    Eductum leni fontis de vertice flumen
    Quattuor in largos confestim scinditur amnes.
    Euphraten Tigrinque vocant, qui limite certo
    Longa sagittiferis faciunt confinia Parthis.
    Tertius inde Geon, Latio qui nomine Nilus
    Dicitur, ignoto cunctis plus nobilis ortu.
    Cuius in Aegyptum lenis perlabitur unda
    Ditatura suam certo sub tempore terram;
    Nam quotiens tumido perrumpit flumine ripas
    Alveus et nigris campos perfundit harenis,
    Ubertas taxatur aqua caeloque vacante
    Terrestrem pluviam diffusus porrigit amnis.

Seguita descrivendo le innondazioni del Nilo, dopo di che parla del
Fison. Trascrivo qui, perchè si possano paragonare con quelli di Alcimo
Avito e degli altri, alcuni versi del poemetto _De Phoenice_, ove si
descrive il bosco del sole, e alcuni del carme II del _Panegirico ad
Antemio_, ove gli orti del sole sono descritti dal cristiano Sidonio
Apollinare.

  _De Phoenice._

    Est locus in primo felix oriente remotus
      Qua patet aeterni ianua celsa poli:
    Nec tamen aestivos, hiemisque propinquus ad ortus,
      Sed qua sol verno fundit ab axe diem.
    Illic planicies tractus diffundit apertos,
      Nec tumulus crescit, nec cava vallis hiat.
    Sed nostros montes, quorum iuga celsa putantur,
      Per bis sex ulnas eminet ille locus.
    Hic solis nemus est, et consitus arbore multa
      Lucus perpetuae frondis honore viret.
    Dum Phaetontaeis flagrasset ab ignibus axis
      Ille locus flammis inviolatus erat.
    Et cum diluvium mersisset fluctibus orbem,
      Deucalioneas exsuperavit aquas.
    Non huc exangues morbi, non aegra senectus,
      Nec mors crudelis, nec metus asper adit,
    Nec scelus infandum, nec opum vesana cupido,
      Aut Mars, aut ardens caedis amore Furor:
    Luctus acerbus abest, et egestas obsita pannis,
      Et cura insomnis et violenta fames.
    Non ibi tempestas, nec vis furit horrida venti,
      Nec gelido terram rore pruina tegit.
    Nulla super campos tendit sua vellera nubes,
      Nec cadit ex alto turbidus humor aquae.
    Sed fons in medium est, quem vivum nomine dicunt,
      Perspicuus, lenis, dulcibus uber aquis.

  _Sidonio Apollinare_.

      Est locus Oceani, longinquis proximus Indis,
    Axe sub Eoo Nabathaeum tensus in Eurum,
    Ver ubi continuum est, interpellata nec ullis
    Frigoribus pallescit humus: sed flore perenni
    Picta peregrinos ignorant arva rigores.
    Halant rura rosis, indescriptosque per agros
    Flagrat odor: violam, cytisum, serpilla, ligustrum,
    Lilia, narcissos, casiam, colocasia, calthas,
    Costum, malobathrum, myrrhas, opobalsama, thura,
    Parturiunt campi: necnon pulsante senecta,
    Hinc rediviva petit vicinus cinnama phoenix.
    Hic domus aurorae rutilo crustante metallo,
    Baccarum praefert lenes asprata lapillos.


7.

_Oratio de Paradiso_, attribuita a SAN BASILIO MAGNO, versione latina,
nel t. 1 delle Opere, ediz. di Giuliano Garnier, Parigi, 1721[442].

  Quemadmodum enim hominem eximia ac singulari formatione prae
  reliquis animantibus dignatus est, sic et hominis domicilium
  suae opus dexterae voluit: delecto loco idoneo, omni creatorum
  praestante natura, cui ob celsitatem nullae umbrae obtunderent,
  decore mirabili, tuto situ, quod cunctis emineret, splendido, ac
  quod omni siderum ortu collustraretur, limpidissimo circumfuso
  aere; partium anni temperatione jucundissima simul optimaque.
  Ibi igitur Deus paradisum plantaverat, ubi non ventorum vis, non
  anni tempestatum intemperies, non grando, non ignei turbines, non
  procellae, non contorta ac violenta fulmina, non glacies hyemalis,
  non veris humiditas, non aestatis ardor ac aestus, non autumni
  siccitas, sed temperata pacataque anni temporum mutua concordia,
  singulo quoque proprio convestito decore, et quod a vicino nihil
  sibi insidiarum timeret.... Terra illa opima mollisque, ac quae
  prorsus melle manaret ac lacte, atque ad omne fructum genus edendum
  esset idonea, fertilissimisque aquis circumflua. Aquae ipsae
  perpulchrae ac dulces valdeque tenues ac limpidae, quae et aspectu
  plurimum recrearent, ac quam oblectarent majorem quoque utilitatem
  praeberent..... Exinde in eo plantavit genus omne pulcherrimarum
  stirpium, quae et aspectu summam gratiam haberent, et summam gustu
  homini dulcedinem praeberent..... Sane quidem nec hic desunt prata
  florida, aspectuque perpulchra ac grata..... Illic vero flos,
  non ad breve effulgens tempus, tumque deficiens, sed perennem
  jucunditatem ac sempiternam habens; aspectum gratum ac immortalem,
  fruitionem indelebilem; fragrantia, omnis taedii expers; coloris
  suavitas jugiter effulgens..... Ipsa quoque stirpium venustas, quae
  et ipsa conditoris opificium ac plantationem deceat, quaecunque
  sarmentitiae sunt et quae fruticosae, quae unistirpes, multiramae,
  alticomae, opaca viriditate, foliis deciduae, semper foliatae,
  quae folia exuant, semper virentes atque floridae, frugiferae,
  infrugiferae; quarum aliae usui destinatae sunt, aliae conferant
  ad jucunditatem fruendam; praestantes omnes proceritate et
  venustate, opacae ramis, comis virentes ac floridae, fructibus
  scatentes, quae aliam atque aliam cum utilitatem tum oblectationem
  ubertim praebeant..... Ibi et avicularum omnigenum genera, tum
  pennarum flore, tum nativo concentu atque garritu, miram quamdam
  a se jucunditatem spectantibus offerentia; ut nullo non sensu
  homo liberalissime acceptus, qua visu, qua auditu, qua tactu,
  qua olfactu ac gustu affatim deliciaretur. Cum volucribus erant
  et terrestrium animalium omnigena spectacula, sicura omnia et
  mansueta; pari cunctis secum indole ac ingenio, sic audientia ac
  loquentia, ut nullo negotio intelligerentur.....


8.

TEODULFO, _Carmina, De Paradiso_.

    Primus amoena tenens factoris munere rura
      Helisii celsi tum bene factus homo,
    Floribus umbriferis vitam peragebat in arvis,
      Quo, paradise, tuus vernat amoenus ager.
    Florigeras sedes, iucundo et murmure rivos,
      Undique stipatos floribus atque rosis.
    Arborei foetus vario quo stipite pendent,
      Perpetuo numquam desit ademtus ei.
    Illic multigeni pariuntur cespite flores,
      Malorum fructus fertilis almus ager.
    Quo crepitans croceum pirum rubet arbore, foeta
      Ficus odorifero flore virescit ubi.
    Puniceo tellus flavescit cortice pomo,
      Et laurus redolet, mirtus opaca simul.
    Lenta liquore madens, geminis et turgida baccis
      Quove canis olea stat onerata suis.
    Arbor in immensum spaciatur nomine vitae
      Helisii medio e vertice surgit eri.
    Mille soporatas profert pulcherrimus herbas
      Campus inauditus, quas dat amoenus ager.


9.

Bellissima è la descrizione che del Paradiso terrestre si legge nel
poemetto _Fênix_ di CINEVULFO, ma alquanto troppo lunga, talchè non
mi sembra opportuno di qui riferirla. Se ne può vedere una versione
tedesca nel libro di F. HAMMERICH, _Aelteste christliche Epik der
Angelsachsen, Deutschen und Nordländer_, Gütersloh, 1874, pp. 105-8.


10.

ARNALDO DI BONNEVAL (ARNALDO, ERNALDO, ARNOLDO CARNOTENSE), _De
operibus sex dierum._

  Emanabat e medio fons vitreus irrigans et humectans omne gramen
  radicitus, nec tamen redundans enormiter, sed elapsu subterraneo
  totam horti illius aream imbuens. Frondes patulae in proceris
  arboribus subiecta gramina obumbrabant; humorque inferior, et
  superior temperies virorem perpetem in cespite nutriebant. Aderat
  aura meridianis horis si quis forte erat vaporem abigens et
  propellens. Locus omnino nivium ignarus et grandinis, et perpetui
  veris aequalitate iocundus. Erat ex fructibus et ipsis virgultis
  aromatica, et ex ipsis truncis pinguedines pigmentariae erumpebant.
  Stillabat storax, et liquor balsami, ruptis corticibus, ultra
  pavimenti crustas affatim imbuebat. Defluebant per prata nardina
  unguenta spirantia; et gummis, stillantibus sine praeli violentia,
  tota undique regio illa innumeris perfundebatur odoribus.

Seguita descrivendo le altre meraviglie, da cui tutti i sensi erano
allietati, e, insieme con la fonte che versava acque vitali, celebra le
frutta squisite, il canto ineffabile degli uccelli.


11.

BERNARDO SILVESTRO (BERNARDO CARNOTENSE), _De mundi universitate_, l. I.

    At potius iacet aurorae vicinus et euro
      Telluris gremio floridiore locus.
    Cui sol dulcis adhuc primo blanditur in ortu,
      Cum primaeva nihil flamma nocere potest.
    Illic temperies, illic clementia caeli
      Floribus et vario gramine praegnat humum.
    Nutrit odora, parit species, pretiosa locorum,
      Mundi delicias angulus unus habet.
    Surgit ea gingiber humo surgitque galanga
      Longior, et socio baccare dulce thymum.
    Perpetui quem floris honor commendat acanthus
      Grataque conficiens unguina nardus olet.
    Pallescitque crocus ad purpureos hyacinthos,
      Ad casiae calamos certat odore macis.
    Inter felices silvas sinuosus oberrat
      Inflexo totiens tramite rivus aquae.
    Arboribusque strepens et conflictata lapillis
      Labitur in pronum murmure limpha fugax.
    Hos, reor, incoluit riguos pictosque recessus
      Hospes, sed brevior hospite primus homo.
    Hoc studio curante nemus natura creavit,
      Surgit fortuitis cetera silva locis.


12.

GOTOFREDO DA VITERBO, _Pantheon_, parte I; _Memoria saeculorum_, parte
I. I manoscritti offrono grande varietà di lezione.

    Est locus excisus, nullo prius ordine visus,
    Nec prius auditus; terrestris id est Paradisus,
        Floribus orditus deliciisque situs.

    Germinat haec illud vitae memorabile lignum,
    Scire bonum dat sive malum laudabile signum,
      Quo mors aut vita pendula stabat ita.

    Pars quasi facta poli regia vacat illa decori,
    Non patet algori, neque subditur ipsa calori,
      Dans habitatori non ibi posse mori.

    Civibus angelicis meruit locus ille beari,
    Fluminibus variis varia statione rigari,
      Gemmas mirificas alveus ille parit.

    Flumina bis bina Paradisus habere notatur;
    Tigris et Euphrates Phisonque Gehonque vocatur,
      Aurum cum gemmis fluminis unda vehit.

    Optima per fluvium currentia poma tenentur,
    Infirmis oblata viris medicina videntur,
      Solus odoratus sanat odore caput.

    Non oculus vidit, nec homo valet ore fateri,
    Nulla beatorum valet optima vita mereri
      Quae Deus hic sanctis dona daturus erit.

    Cherubin et Seraphin reserant portas Paradisi,
    Ensibus eversis per eam sunt currere visi,
      Mens mea cum sanctis illa videre sitit.


13.

ALESSANDRO NECKAM, _De laudibus divinae sapientiae_, dist. V.

    Ausi sunt veteres terram censere rotundam,
      Quamvis emineat montibus illa suis.
    Quid quod deliciis ornatus apex paradisi
      Lunarem tangit vertice pene globum?
    Hunc spaciosa locum generosaque vitis amoenat,
      Et nitidi fontes fontiferumque nemus.
    Hortum nobilitat preciosi gloria fructus,
      Non arbor sterilis crescere novit ibi.
    Ventorum rabiem cum densis nubibus infra
      Se vidit, insultus aeris omnis abest.
    Ultrices scelerum non sensit aquas cataclismi,
      Nec novit tumidas Deucalionis aquas,
    Raptus Enoch subito, curruque levatus Helias,
      Illic tranquillae gaudia pacis amat;
    Athletae Domini precursoresque secundi
      Adventus, fidei lumina clara sacrae.
    Convincetur ab his sanctorum publicus hostis,
      Mons Olei mortis conscius ejus erit.
    Hic mons, a prima nascentis origine mundi
      Conditus, aurorae regna propinqua tenet.


14.

Nel poema latino di cui ho riferito alcuni versi nella n. 115 al cap.
II, si leggono pure questi altri, che compiono la descrizione.

    Aura leni sibilo tempus narrat vernum,
    Et, ut verum fatear, ver est hic eternum;
    Hic pratorum gloria, gaudium par ternum,
    Virens, florens, redolens, habet ius supernum.

    Odor florum, fructuum, arborum, herbarum,
    Tago fluctus induens aurum harenarum,
    Humi sparsa rutila sidera gemmarum,
    Addunt indicibile ius deliciarum.

    Non hic asper carduus, rampuus vel urtica,
    Non infelix lolium pululans cum spica,
    Arborum vel olerum non stirps inimica:
    Queque sunt hic consona, quia sunt aprica.

    Non hic estus ingruit, ymber vel tempestas;
    Fame, siti, frigore, sors, hic non infestas:
    Adam, nisi rueret manus per incestas,
    Esset horum omnis omnibus potestas.


15.

_L'ymage du monde_, l. II, cap. 2. (Dal ms. L, IV, 5 della Nazionale di
Torino. Trascrivo il passo esattamente quale ivi si legge).

    La premiere region d'Aise
      Est Paradis, li lieux plain d'aise,
      Si plain de joye et de solas
      Que nus n'y puet devenir las,
      Ne veillier de nulle partie.
      Layens est li arbre de vye.
      Qui auroit mengier de ce fruit
      Jamais ne morroit jour ne nuyt.
      Mais nuls hons aler n'y porroit
      S'angles ou dieu ne l'y menoit,
      Car tous est claus de feu ardant
      Qui jusqu'as nues va flambeant.
      Layens une fontaine neist
      Qu'en iiij fluns devisée est,
      Dont ly uns d'eulx Fyson a non,
      Ou Gange, ainsi l'appelle on,
      S'en va par Ynde loing et pres,
      Et sort du mont Artabanes,
      Et siet par devant Oriant,
      Et chiet en la mer d'Occidant.
      Li autres, Gyons ou Nilus,
      Entre en terre ung petit ensus,
      Et par dedens terre s'en court,
      Tant qu'em la Rouge Mer ressort,
      Et toute Europe avironne,
      Si qu'em une parties se donne,
      Et va par Egypte courant,
      Tant qu'il rechiet sur la mer grant.
      Tygris et doncques Euphrates
      Sordent en Germenie[443], pres
      D'une grant montaigne environ,
      Qui mont Pethoatus a nom,
      Et s'en vont par mainte contrée.
      Jusqu'à tant qu'il ont rencontrée
      La mer moyenne, ou il se fiert,
      Si com leur nature requiert.
      De ce Paradis tout entour
      A lius moult divers en main tour,
      Car nus hons n'y porroit trouver
      Point de son vivre n'abiter,
      Pour bestes crueuses et fieres
      Qui la sont de maintes manieres:
      La sont jaiant et chenelieu,
      Qui tout devorent comme leu.


16.

_Baudouin de Sebourc_, ediz. Bocca, Valenciennes, 1841, c. 15 (Cf. pp.
120-1).

      Et quant Baudewins vint à che lieu avenant,
    Ne vit tour, né chastel, né dongon, en estant;
    Fors arbres qu'en tous tamps sont vert et fruit portant.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      Et li doy chevalier n'i font arrestement,
    En paradis terrestre sont entré liëment:
    De trestoutes manières d'oysiaus du firmament
    I ost-on le son chanter si douchement,
    Que de la mélodie n'a, el mont, si dolent
    Qui n'en fust resjoïs à che démainnement.
    Adès i fait estès, n'i keurt pluie né vent;
    Li arbre y sont tout vert, en tous tamps, vraiëment.
    Li fruit y sont pendant, sans chéoir nullement,
    Né jà ne kerra fruis, s'escripture ne ment,
    Dès-si jusques au jour du très grant jugement
    Que Diex fera le monde finer parfaitement.


17.

RUDOLF VON HOHEN-EMS, _Weltchronik_. (DOBERENTZ, _Die Erd- und
Völkerkunde in der Weltchronik des R. v. H.-E. Zeitschrift für deutsche
Philologie_, vol. XIII (1882), p. 172).

    Daz irdensche Paradis,
    daz nach dem wünsche alle wîs
    lît, daz ist das hôhste lant,
    daz in dem teil ist lant genant.
    daz muoz — als uns diu wâhrheit seit —
    unbûhaft al der menscheit
    von grozer unkünde sîn,
    wan ez ein mûre fiurîn,
    diu hôhe durch die lüfte gât,
    beslozzn und umbevangen hât;
    dar ûz Tygris und Physôn
    Eufrâtes unde Gêôn.
    diu vier wazzer, fliezent
    ûf die erde, und begiezent
    diu lant und machent mit ir kraft
    die erde fiuhte und berhaft.
    Zwischen dem Paradîse lît
    manic lant und îsel wît
    unbûhaft âne bû erkant
    unz an diu bûhaften lant:
    wan in der wüeste und underwegen
    ist wüester wilde vil gelegen;
    dar in sô vil gewürmes lît,
    und tiere, daz ze keiner zît
    nieman drinne mac genesen
    noch mit deheinem bûwe wesen
    in den wüesten landen dâ.


18.

JACOB VAN MAERLANT'S _Spiegel historiael_, edizione di Leida, 1857-62,
parte Iª, l. I, c. 17.

    Dat paradijs es sekerlike
    Dat oest ende van erderike,
    Vul bomen van goeder maniere,
    Vul van elken crude diere.
    Daer es in des levens hout,
    Ennes daer in no heet no cout,
    Maer getemperde lucht ende reine.
    In midden so es eene fonteine,
    Die dat proyeel can verchieren,
    Ende deelt hare in viere manieren.
    Noint man wits diere in comen conde,
    Sint dat Adam dede die zonde;
    Want een mir van viere claer
    Gaeter omme, dat es waer
    Alsic wel sal doen verstaen:
    Daers Enoch ende Helyas in gedaen.


19.

JAN DECKERS, _Der leken spieghel_, l. I, cap. 21 (_Werken uitgegeven
door de Vereeniging ter bevordering der oude nederlandsche
Letterkunde_, vol. I, Leida, 1844, pp. 77-8).

    Dit paradijs, heb ic verstaen,
    Es recht int oeste ghestaen,
    Ende es so schoene, dat gheen man
    Te vullen gheprisen en can,
    Van boemen, van cruden mede,
    Ende van alderhande chierhede.
    Daer en is noch hongher no dorst,
    Onghewedere, coude no vorst,
    So zuet is daer die lucht ende stille.
    Daer en is gheenen onwille,
    Daer die creatueren souden
    Eeuwelijc leven sonder ouden.
    Alle ghenade ende onghenaden,
    Die ons comen vrouch ende spade,
    Die ons God sent, deeuwege vader,
    Comen uten oesten allegader;
    Die inghele oic, waerlike,
    Want het es daensichte van hemelrike.
    . . . . . . . . . . . . . .
    In des paradijs pleyne
    Springhet eene scone fonteine,
    Die soe groot es, heb ic verstaen,
    Datter vier rivieren af gaen.
    Dese loepen in cruus wijse
    Te vier sijden uten paradise.
    Elke mach wel also groot zijn,
    Off meere dan die Rijn.
    Dit sijn haer namen, sijts ghewes:
    Physon, Gyon, Tygris, Effrates,
    Die meenich lant ende meneghe stat
    Verversschen ende maken nat,
    Daer waters breke soude wesen,
    En daet die planteyt van desen.
    Men vinter oic in saphiere,
    Ende alderhande ghesteente diere,
    Die herde weert sijn ende fijn,
    Ende van groter macht oic sijn.


20.

FEDERIGO FREZZI, _Il Quadriregio_, l. IV, capp. I e II.

    . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quando fui presso al fin di quel cammino,
      Il Paradiso vidi, ch'è terrestro,
      Il qual fe' Dio per singolar giardino.
    E s'egli è bello pensisi il Maestro
      Il quale il fece, e posel dove il sole
      Ha più virtù, e 'l cielo, a lato destro.
    Lì era un pian di rose e di viole
      E d'altri fiori, e di maggior fragranza
      Che qui, dove siam noi, esser non suole.
    Che ogni frutto, quanto ha più distanza
      Da questo loco, tanto ha vertù meno,
      E quanto più s'appressa in virtù avanza.
    Tra quelli fiori e l'aere sereno,
      Tra le melodie dolci di quel piano,
      Io trapassai di dolci canti pieno.
    Da quel giardino er'io poco lontano,
      Ch'io vidi un serafino in sulla porta,
      Ch'è posto lì da Dio per guardiano.

L'angelo concede l'entrata, e Minerva s'accomiata dal poeta,
affidandolo alla guida di Enoch ed Elia, che lo conducono a vedere
le meraviglie del beato giardino. Ecco prima l'_arbor senza fronde_,
l'albero della scienza del bene e del male (v. più sopra, p. 28); ecco,
dopo, l'albero della vita:.

    Poscia trovammo la pianta più bella
      Del Paradiso, la pianta felice,
      Che conserva la vita e rinnovella.
    Su dentro al cielo avea la sua radice,
      E giù inverso terra i rami spande,
      Ov'era un canto che qui non si dice.
    Era la cima lata e tanto grande
      Che più, al mio parer, che duo gran miglia
      Era dall'una all'altra delle bande[444].

Enoch spiega al poeta la virtù della pianta, e gli narra di Seth, come
ne tolse il ramoscello, che fatto albero a sua volta, porse il legno
onde fu formata la croce, e gli dà ragione della mitezza di temperatura
onde il luogo si allieta; Elia lo ammaestra circa i fiumi che nascono
dal gran fiume paradisiaco.

    Poi ci movemmo per le adorne strade
      Tralla fragranza e soavi melode,
      Tra nettar dolci in scambio di rugiade.
    Ivi ogni senso si rallegra e gode:
      Alla verzura si conforta il viso;
      L'orecchie a' canti degli uccelli ch'ode.
    Rallegra tutto il cor quel Paradiso.
      Ivi ogni cosa intorno m'assembrava
      Un'allegrezza di giocondo riso.


NOTE:

[441] Raccolgo in quest'appendice alcune descrizioni tratte da
scritture appartenenti ai primi secoli della Chiesa e al medio evo,
affinchè il lettore possa, da sè, farsene un più giusto concetto.

[442] A pag. 69 diedi, per errore, come di San Basilio, senz'altro, una
opinione che trovasi espressa in questa scrittura, a lui attribuita.

[443] L. _Hermenie_.

[444] Correggasi a p. 140, n. 35, l'accenno che a questo luogo si
riferisce. Secondo il poeta, la cima dell'albero doveva avere più di
sei miglia di circonferenza.



APPENDICE II

L'ANDATA DI SETH AL PARADISO TERRESTRE.


Traggo dal manoscritto francese L, II, 14, della Biblioteca Nazionale
di Torino (f. 4, v. a 6 r.), un racconto in versi del viaggio di Seth
al Paradiso terrestre. Esso appartiene a uno strano poema che fa da
prologo alla _Vengeance de Jésu-Christ_ (cf. STENGEL, Mittheilungen
aus französischen Handschriften der Turiner Universitäts-Bibliothek_,
Halle a. S., 1873, pp. 13 sgg., 19 sg.) e presenta alcune particolarità
curiose, che, spero, lo faran gradire al lettore. È opera,
probabilmente, del secolo XII.

      Or vous ai dit dou traitre Chain,
    Et de son fait com il pot avenir:
    Or vous dirai d'Adan(s) jusqu'(es) en la fin.
    Vérités fu que Adans tant vesqui
    La blanche barbe desus le pié li gist,
    Et si traine ses cheviaus autresi,
    Ce dist l'estoire,.II. grans piés et demi;
    Sus le menton li gisent si sourchil;
    Vestus de fuelle cousus de jons marins.
    .I. jour apelle le mainé de ses fis;
    Chil ot non Sept, si fu preus et gentis:
    «Sept», dist li peres, «entendes envers mi:
    Il te convient mon mesaige furnir.
    Droit en terrestre en iras Paradis[445]
    Parler a l'angle c'a non Cherubins;
    L'aubre de vie garde em Paradis:
    C'est li conpas de quan qu'il raverdist,
    Car sus cet arbre fu escris li pepins,
    Et la feive et li glans et li ris,
    Dont nous avons boschages et gardins.
    Tu me diras a l'angle, biaus amis,
    Qu'il voist moult tost parler au roi de Paradis,
    Et si me saiche à dire au revenir
    Quant trespaserai hors de cest siede chi,
    Et li dous oilles et quant me venra il,
    Que nostres sires mes peres me proumist
    Quant je voloie mes .VII. enfans perir
    En Rouge Mer et lancier et flatir.
    Iceste juste emporte avoecques ti,
    De la fontainne de jouvent .I. petit
    M'aporteras si plaist a Cherubin:
    Se j'en ai but juvenes sui et meschins,
    Si garderai mes filles et mes fis,
    Et le grant peuple qui est de moi partis.
    Va t'ent la voie et les pas que je vins,
    Bien les connoisteras, biaus tres dou[s] fis,
    Il sont tout sec et de ta mere ausi,
    Car, puis celle eure que j'en fui partis,
    Toute sustance et tous biens i failli.
    Le gués prilleus trouveras devant ti;
    C'est Purcatoire qui garde Paradis:
    Çou est .I. fus qui tous jours art et frit;
    L'iave est plus rouge que n'est li sans de ti;
    Li boullon sont si haut, se diex m'ait,
    Qu'il n'est nus ars qui par desus traisist,
    Et s'entrecontre par si tres grant air
    Que de .XX. lieues le puet on bien oir
    L'une unde en l'autre et hurter et flatir.
    Qui devera entrer em Paradis,
    Ne ou vergier de quoi je sui banis,
    Tant ert ou gués dont je parole chi
    Qu'il ert si purs li arme et li espirs
    Com dameldex en son cors l'ame mist.
    C'est la premiere porte de Paradis,
    Mais l'autre porte est trop en grinour pris»[446].
    Et li varlés avalle le larris,
    Vestus de fuelle cousus de jons marins;
    Vers Rouge Mer acqueille son chemin.
    Che jour encontre l'enfes maint porc marin,
    Maint ours sauvage, lions, et cocatris,
    Et grans dragons, alerions petis.
    Tant a esré li freres à Chain
    Qu'il trespassa .I. grant bos de bresil,
    Apres le bos est montés .I. lairis,
    Espurcatoire a devant lui coisi.
    Lors li sembla que chieus et mers arsist:
    Il chiet pasmé, s'a jeté .I. grant cri,
    Apres dous dex a conforter se prist;
    Prent s'escharboucle, sel frote au samit,
    Li feus en saut à alumer l'a pris.
    L'angles le voit, c'ot à non Chérubins:
    En autant d'eure com .I. iex puet ouvrir
    Vient a l'enfant, si l'a à raison mis:
    «Diva! varles, et qui t'envoia chi?
    Ains, puis celle eure c'Adans en fu partis,
    Me vi jou chose qui car et sane euist,
    Qui de si pres aprocha Paradis.
    Va t'ent ariere, par amours je t'en pri,
    Que cis grans feus ne t'ait ja englouti».
    Et dist li enfes: «Este[s] vous Chérubins,
    Qui mon pere chacha de Paradis
    A une espée ardant? il le m'a dit.
    Par moi te mande, et je sui qui te di,
    Que parler voisses au roi de Paradis,
    Et li demandes, par amours je t'en pri,
    Quant trespasera hors de ce siecle chi,
    Et li dous oilles et quant li venra il,
    Que nostres sires, ses peres, li proumist,
    Pour quoi doit estre encore ses amis».
    Et dist li angles: «J'ai grant merveille oi».

    Et dist li angles: «Amis, or m'entendes.
    Verités fu quant Adans fu fourmés,
    Et il peut bien et venir et aler,
    Oir, sentir, et veoir, et parler.
    Quanque diex ot li fu abandonnés,
    Fors .I. pumiers qui li fu devées,
    Qu'il avoit as anemis donnés
    Pour .I. serviche qu'il li firent en mer,
    Car il alerent le grant goufre effondrer
    Par quoi li iave se prist a avaler
    Tant com la terre parut aval la mer.
    Il en menja, mes che pot lui peser:
    Il fu tantost as anemis livrés:
    Et nostres sires s'en ot duel et pité,
    Pour vous ala ens en abisme entrer,
    À Lucifer tout maintenant parler,
    Demanda lui par fines amistés
    S'on vous poroit ravoir ne rachater
    Pour nul avoir c'on vous seust donner.
    Et Lucifers respondi par fierté:
    «Oil, biau sire; se vous tant les ames
    C'ous en voeilles vo cors abandonner,
    Vous les aures de prison delivrés,
    Et li vergies vous ert quite clamés,
    Ne jamais jour n'i volons retourner».
    Adont se teut li rois de majesté,
    N'encor n'est mie li jugemens donnés,
    Ne il n'est angles lasus tant soit senés
    Qui de dieu sache son cuer ne son penser,
    S'il vous vorra perdre ne rachater;
    Mes puis celle eure qu'il ot en si parlé
    Je ne vi diable ens ou vergier entrer[447].
    Et, s'il vous plaist, avec moi en venres;
    Mousterai vous la fine verité,
    De vostre pere comment il a ouvré,
    Et le vergier de quoi estes tourblé».
    Et respont Sept: «Je l'ai moult desiré,
    De l'eritaje veoir et regarder.
    La devissions en glore demorer»
    Et dist li angles: «Amis, vous le verres».

      L'enfant embrache li sains angles honestes,
    Si l'en emporte en Paradis terrestre;
    De fin or pur ouvri une fenestre:
    «Amis», dist il, «or boute chi ta teste;
    Si verras ja le tourment et la perte
    Qu'[est] pour ton pere en Paradis terrestre.
    Oisiaus n'i chante, ne n'i demainne feste,
    Solaus n'i luist ne au main ne au vespre,
    L'iave n'i sourt, ne n'i raverdist herbe,
    Ne il n'i a fors tenebre et tempeste»[448].

      Li damoisiaus a regarder a pris
    Par le vergier qui n'est mie floris:
    L'aubre de vie a veu devant lui,
    Plus grans des autres bien resambloit sapins,
    Tous fu brisiés et entour et emmi.
    Par desus l'aubre a .I. bel nit coisi;
    .I. pellicans se seoit droit enmi;
    C'est li prumiers oisiaus que dex fesist;
    Dex ne fist plume que cis la nen euist.
    Comparés fu il meismes à li,
    D'estre sages et dous et bien amanevis,
    Courtois et larges et destre, à point hardis,
    Ne pour sa vie de noient ne mesprist.
    Morte estoit sa fumelle fennis:
    Remés l'en fu .III. faonniaus petis[449].
    Or a alé contreval le gardin,
    .III. jours et plus si com la bible dist,
    Ne trueve chose dont il se puist garir,
    Ne ses faons de les lui soustenir,
    C'ains puis celle eure c'Adans en fu partis
    Toute sustance et tous biens i failli.
    Or entendes que li dous oisiaus fist,
    Quand il voit bien nes puet mais soustenir.
    Ancois qu'il voist autre oisel assalir,
    Premierement en vorra ja morir.
    Dou bech trenchant en son pis se feri,
    Le cuer dou ventre a perchié tout parmi.
    Li sans en saut et enprent à issir,
    À cescun fan en a bailliét .I. fil,
    Et cil le boivent qui en ont grant desir,
    Batent lor elles, dou pere sont parti,
    Volant en vont contreval le gardin.
    Li pellicans à regarder les prist,
    Grant joie en a de çou que vis les vit,
    Mes tant fort sainne ne se set astenir
    Ne garde l'eure qu'il se voie morir.
    Et li chieus oeuvre, l'angles en descendi,
    L'oisiel emporte lasus em Paradis,
    Si le courronnent les chelui qui le fist.
    Adont coumenche la noise en Paradis
    D'angle contre autre dont i a plus de .M.:
    Là ont jugiét le roi de Paradis,
    S'il voet droiture user et maintenir,
    Et voet ravoir les siens certains amis,
    Que telle guise li convenra tenir.
    Apres la noise qui fu em Paradis,
    Une grant raie dou solaill descendi
    Ens ou vergier, s'en est entré[e]s ou nit:
    Or li aporte le saintisme esperit:
    En guise estoit d'un enfanchon petit,
    Qui d'un blanc gant le peuist on couvrir.
    Adont coumenche et la joie et li ris:
    Chil oisel chantent, de terre sont parti,
    Les iaves sourdent, li pré sont raverdi,
    Et toute riens dou mont se resjoi.
    Qui que fait joie l'enfes jeta .I. cri:
    Adan regraite com ja poires oir.

      «Ahi, Adan», dist il, «de vo biauté,
    De vous estoit cis lieus enluminés.
    Ja n'est il angles lasus tant soit senés
    C'à vo fachon seust rien amender.
    Or vous perdrai ains qu'il soit avespré,
    Qu'il vous convient ens en enfer entrer,
    Dont deussies estre avoec moi couronnés.
    S'on vos peust de tresor rachater,
    Ne de rien née que on peuist penser,
    De ma grant perte ne fusse espoentés;
    Meis si grant painne m'en convient endurer,
    Se voel droiture maintenir ne user,
    Com cil oisiaus qui s'est à mort livrés,
    Qui l'essamplaire nos a lasus moustré
    Com faitement je me doi demener
    Se je vos voel de prison delivrer,
    Et je vous voel ravoir ne rachater».
    Adonques a .I. si grant cri jeté
    Que de .X. lieues le peust on ascouter,
    Que moult redoute ce qu'il a à passer.
    Quand Sept l'entent si a l'angle apellé:
    «Cherubin sire», dist il, «or m'entendes.
    Que chou est or que jou ai ascouté
    Desus cel arbre ou a telle clarté?»
    «Amis», dist l'angles, «que vauroit li celers?
    Chou est li fis de la grant majesté,
    Ch'est ses espir[s], ses sens et sa bontés,
    Et sa grans force et sa grans dingnité[s].
    Or soiies aise, vous seres rachaté,
    Que je sai bien son cuer et son pensé.
    Je ne le seuc .VII.C. ans a passé,
    Ne jou ne autres tant par soit ses privés;
    Ne puis c'Adans fu dou vergier sevrés
    Ne sot nu[s] angles son cuer ne son penser;
    Mais or le sai je, si le te voel conter.
    En une vierge qui moult ara bonté
    Prendra il vie, sanc et charnalité,
    Et se fera noirir et alever
    Tres qu'il sera si grans et si fourmés
    Comme Adans dont tu es hui sevrés.
    Lors se fera et prendre et atraper
    As anemis, desus .I. fust cloer,
    Perchier sa char et issir le sanc cler:
    Adont seres de prison delivré,
    El li fis dieu est en gage remés».

      «Amis», dist l'angles, «la chose est trop amere
    Par le pechiet de ton pere et ta mere;
    Mes cis dous enfes et ses sans qui tout leve
    Vos fera en transissant grace et saveur et seve»

      «Grasse et saveur et seve vos fera en trespassant
    L'enfes qui en cest nit pleure si doucement:
    Çou est li fis de dieu le roi dou firmament,
    En une vierge pure penra aombrement,
    Et se vestra de li et de char et de sanc,
    Et se fera noirir a guise d'un enfant,
    Et puis respandera par vostre amor son sanc,
    Et chieus qui n'i querra moult l'ira mallement,
    En infer les iront diable devorant.
    Or tost va t'ant ariere, en Sinais le grant;
    Si enterre ton pere tres au piet dou pendant.
    Il li convient morir, il ne puet en avant.
    En la bouche li met ces pepins, mon enfant».

      «En la bouche li met, enfes, ces .III. pepins;
    C'est de la pume que tes peres quoilli,
    Qu'il jeta jus quant vit qu'il ot mespris.
    Je les te rent, porte les avoec ti;
    Que li peres voet desus son fil morir
    Pour vous ravoir des morteus anemis.
    Quant tu aras ton pere enfoui,
    Desus la langue li met ces .III. pepins,
    Et li arenge bellement, biaus amis.
    Dou cors d'Adan, et de sa seve ausi,
    Et de son cuer, et de ces. III. pepins,
    Nestera, fiex, .I. arbrisiaus petis
    Qui metera .III.M. ans au norir;
    Cescun .M. ans croistra piet et demi.
    Tant seres vous avoec les anemis
    Ains que cis enfes que tu os en cest nit
    Soit sus cel arbre atachiét et assis,
    Ne si dous membre cloé de claus massis,
    Ne ses clers sans ceure par le pais.
    C'est li dous oilles que ton pere proumist
    Quant il voloit ses .VII. enfans perir
    En Rouge Mer et lanchier et flatir,
    Parcoi est haperés des anemis».

      Li enfes pleure, grant duel va demenant.
    Il regarda le figier d'euriant,
    Qui est mués tous en autre samblant:
    Il estoit tourbles quant il li vint devant,
    Or est si biaus com solaus flamboiant,
    Ains li samble tout aviseement
    Que li mur soient de piere d'euriant.
    .I. tuel voit qui fu d'or flamboiant,
    Qui vient des chieus bellement descendant;
    Par ce tuiel va l'iave degoutant
    En la fontainne petite de jouvent
    Dont .IIII. ruiselait alient naissant:
    Quant il sunt hors si se vont esperdant:
    L'uns fu Inges, et Grandes li plus grans,
    L'autres Gerons, et l'autres Ifratans;
    De l'un des rieus va Rouge Mer naissant.
    L'enfes apelle Chérubin en plorant:
    «De la fontaine me donnes de jouvent,
    S'en porterai à mon chier pere Adan;
    S'il en a but je sai certainement
    Qu'il revenra en l'age de .XXX. ans».
    Et dist li angles: «Je ferai son coumant;
    Mes il n'est iave, ne mers, ne lavement
    Qui le garisse dou dolereus tourment
    Ou il ira ains le solaill couchant».
    Il prent la juste et si li va puisant
    En la fontainne, et puis li va ballant;
    Puis a pris Sept, en air le va portant.
    En autant d'eure com .I. iex va cloant
    Le met en Inde, si s'en va retournant.
    De si tres lonc com le va parchevant
    Encontre vienent tout si frere courant,
    Tout autresi si en vienent bruiant
    C'alerion quant il vont descendant.
    E vous Isaach et Jourdain et Rubant:
    Leur frere voient, si le vont ravisant.
    Dist Jourdains: «Frere, bien soies vous venant».
    Et il a pris la juste maintenant,
    En haut le drece, si le va maniant:
    Elle li chiet et le va respandant;
    En Rouge Mer va l'iave en batant
    Comme .I. quarriaus quant de l'archon destent;
    La Rouge Mer va toute trespassant,
    En Paienime va l'iave espandant,
    A .III. lieuetes devant Jherusalem:
    Le flum Jourdain l'apellent li auquant:
    Puis s'i lava li dignes rois amans
    Quant il fu nés de lui em Bethleem,
    S'i baptiza son ami S.t Jehan.
    Et on amainne tantost le viel Adam:
    À ses .II. mains va ses sourcis levant
    Qui li gisoient sour le menton devant;
    Son fil regarde, si le va conuissant,
    Ansi le lieve com se fust .I. enfant,
    Si avoit il bien .XII. piés de grant.
    «Fis», dist li peres, «vous soies bien vignant;
    Aves esté au vergier d'euriant?
    Que dist li angles qui me par ama tant?
    Aurai je ja pais ne acordement
    Envers celui qui me fist doucement,
    Puis me banni dou sien vilainement?
    Or m'en vinc chi entre ces desrubans».
    «Oil, biaus peres, au chief de .III.M. ans».
    «Ne plus?» fait il; «me vas tu voir disant?»
    «Oil, biaus peres, sachies le vraiement».
    Adont s'en va Adans agenoullant,
    Devers le chiel ala moult regardant,
    Et voit les angles qui le vont asenant
    Qu'il ne se voist de noient esmaiant.
    De la grant joie que il va atendant
    Ala sa painne del tout entroubliant.
    Il n'avoit ris bien avoit .VII.c. ans:
    Adonques rit li vieus si durement
    Li cuers dou ventre li va parmi partant.
    L'ame en ont prise li diable, li tirant,
    Si l'en emportent en infer maintenant.
    Sa fosse font .IIII. de ses enfans;
    Leur pere enterrent et si le vont plorant;
    Desus sa langue alerent arengant,
    Les .III. pepins dont je vous dis avant,
    C'aporta Sept del vergier d'euriant
    Dont li arbres, signeur, ala naissant,
    Qui mist au croistre tout à point .III.M. ans,
    Ou li fis dieu tout respandi son sanc
    Pour chiaus ravoir dou dolereus tourment
    Ou tout estiens livré comunement.


NOTE:

[445] Il ms.: _Droit en terrestre iras em Paradis_. Qui, e in alcun
altro luogo, mi giovo di correzioni suggerite da G. Paris in una
notizia che del mio primo opuscolo sulla leggenda del Paradiso
terrestre egli diede nella _Romania_, anno VIII, 18-19, pp. 129-30.

[446] L'immaginazione dantesca di porre il Purgatorio quasi a custodia
del Paradiso terrestre, e di far purificare attraverso il primo chi
vuol salire al secondo, ha qui un riscontro notabile, che non è il
solo.

[447] Tutta questa finzione, che potrebbe parere una pura e semplice
stravaganza del poeta, si conforma alla dottrina di alcuni Padri, che
insegnarono la passione di Cristo essere stata come una soddisfazione
giuridica e una indennità conceduta da Dio a Satana in risarcimento del
torto e del danno fattogli riscattando l'uomo. V. IRENEO, _Adversus
haereses_, III, 18, 7; V, 21, 3; ORIGENE, _Epist. ad Rom._, 2, 13,
e altri. Il sacrificio di Cristo è considerato piuttosto come atto
di giustizia che come atto di misericordia anche nel famoso _Plait
de Paradis_, che in più forme si trova come componimento a sè, o
introdotto in misteri e sacre rappresentazioni.

[448] Questa descrizione discorda assai da tutte l'altre, dove il
Paradiso serba intero, o quasi, il suo primitivo e naturale splendore.

[449] Il poeta ignora, o altera deliberatamente, il mito della fenice,
ancor vivo a' suoi tempi.



APPENDICE III.

IL PAESE DI CUCCAGNA E I PARADISI ARTIFICIALI.


La immaginazione del Paradiso terrestre, e le altre consimili, hanno
stretta relazione con quella del Paese di Cuccagna, o come altrimenti
si chiami la terra beata che nelle tradizioni orali e nelle letterature
di buona parte d'Europa ebbe quel nome. Tale relazione non è, come fu
troppo leggermente asserito, quella proprio che passa tra la parodia
e la cosa parodiata; giacchè se la parodia fa capolino talvolta nelle
allegre descrizioni del Paese di Cuccagna, non però si può dire sia
quella che consuetamente ne suscita negli spiriti e ne promuove la
immaginazione. Entrambe le immaginazioni piuttosto traggono l'origine
da un principio medesimo, da uno stesso desiderio e da uno stesso
sogno di felicità, i quali, se variano quanto a certe parvenze e a
certi caratteri, nella sostanza rimangono pur sempre invariati. Il
Paradiso terrestre e la Cuccagna sono due termini diversi, ma non
contraddittorii, a cui riesce lo stesso pensiero, secondo l'affetto che
lo muove, e in conformità della mente entro la quale si muove[450].
Del resto, tra le due immaginazioni non c'è una separazione costante
e sicura, anzi si passa per gradi dall'una all'altra: il Paradiso è
talvolta poco più nobile e poco più spirituale del Paese di Cuccagna,
e talvolta il Paese di Cuccagna, idealizzandosi alquanto, diventa
un Paradiso. Sarebbe forse difficile dire se l'uno o l'altro sia il
luogo di beatitudine promesso da Maometto a' suoi seguaci. I paradisi
delle religioni inferiori sono veri Paesi di Cuccagna, e poco mancò
che tal Paese non diventasse talvolta anche il Paradiso cristiano, sia
terrestre, sia celeste.

I Greci, ch'ebbero la finzione dell'età dell'oro e dei Campi Elisi,
ebbero anche quella di una terra felice, la quale mostra con la
Cuccagna grandissima somiglianza. Tale finzione sembra sia stata assai
popolare ed ebbe talvolta, ma non sempre, carattere e intenzione
di parodia. Ateneo ricorda nel sesto libro de' suoi Δειπνοσοφισταί
sette poeti comici che la introdussero in loro commedie[451].
La città degli uccelli, nella commedia di Aristofane, abbonda di
ricchezze e di letizia. I racconti meravigliosi concernenti l'India e
l'Etiopia indussero taluno a porre in quelle remote regioni la terra
sognata[452], mentre certa comica bizzarria d'umore e certo gusto del
paradossale, non disgiunti talvolta da intenzione satirica, indussero
altri a fare della descrizione di quella terra un tessuto risibile
d'ingegnose fanfaluche e di argute panzane. Con la lepidezza che
gli si appartiene Luciano descrive nella _Vera Istoria_ la città dei
beati, la quale è tutta d'oro, con le porte di cinnamomo, il suolo
d'avorio, i templi di berillo, gli altari d'ametista. Cinge la città
un fiume d'ottimo unguento, largo cento cubiti, profondo cinquanta. Le
terme sono grandi palazzi di cristallo, dove, in luogo di acqua, si
adopera rugiada riscaldata. Quivi non è mai notte, nè dì, ma un lume
mitissimo, quale si ha il mattino, prima del levare del sole; nè altra
stagione vi si conosce che la primavera, nè altro vento che il zeffiro.
Abbondano in quella terra piante bellissime d'ogni qualità e che mai
non cessano di far frutto. Le viti si coprono di grappoli dodici volte
l'anno; le spiche del grano, in luogo di chicchi, recan pani. Intorno
alla città sono trecentosessantacinque fontane d'acqua, altrettante
di miele, cinquecento di varii unguenti, ma più piccole, sette fiumi
di latte, otto di vino. L'Elisio è un campo bellissimo, cinto da una
selva di grandi alberi vitrei, che recan per frutti coppe di varie
forme e grandezze. Chi vuol bere non ha che a spiccarne una, la quale
tosto si colma di vino. Dense nubi assorbono dalle fontane e dal fiume
gli unguenti, e premute da lievi aure, li riversano in rugiada[453].
Altrove Luciano parla di un'isola di formaggio, che sorge in un mare
di latte, coperta di viti che dànno latte[454], e nei _Saturnali_
introduce Saturno a fare una comica descrizione della felicità de'
suoi tempi. In un trattatello, greco in origine, tradotto in latino nel
secolo IV, e intitolato _Expositio totius mundi_, si descrive un paese,
dove un popolo felice, ignaro dei morbi, si ciba di miele e di pani che
cadono dal cielo[455].

La finzione fu certamente nota anche ai Latini, sebbene nella loro
letteratura non si trovi ricordata in modo esplicito. Il valoroso
Terapontigono Platagidoro del _Curculio_ di Plauto, conquistò, fra
molt'altre, anche le terre di Peredia e di Perbibesia.

Nel medio evo la finzione riappare assai per tempo, e acquista di poi
favore grandissimo. La troviamo la prima volta in quel poemetto latino
di _Unibos_, che un chierico franco d'ignoto nome compose nel secolo X.
Il contadino Unibos, di cui si narrano quivi le astuzie e gl'inganni,
dà ad intendere a tre suoi persecutori che in fondo al mare è un
regno felicissimo, e così li induce a precipitarvisi e si libera di
loro[456]. Qui si ha appena un cenno fuggevole del paese felice; ma si
può credere che in alcune almeno delle versioni del racconto, che già
sin da allora dovevano correre tra i volghi d'Europa, si avesse di esso
una descrizione più particolareggiata, e meglio acconcia ad accendere
la fantasia e sollecitare il desiderio di coloro cui si supponeva fatto
l'inganno. Tale sarà stato il caso per taluno almeno dei racconti
orientali da cui probabilmente traggono la prima origine i racconti
largamente diffusi in Occidente[457], e tale è infatti per parecchi
di questi[458]. Nei romanzi persiani è spesso ricordo di un paese di
Sciadukiam, che non è punto diverso dal Paese di Cuccagna[459].

Non si può dire con sicurezza quando appaja da prima questo nome di
Cuccagna[460], nè molto sicura è la sua etimologia[461]. A me basterà
qui di ricordare che un _abbas Cucaniensis_ è già in una poesia
goliardica composta probabilmente fra il 1162 e il 1164[462]; che
Cuccagna fu il nome di un castello ancora in parte esistente presso
Treviso; che tal nome occorre già in documenti del 1142; che un
Warnerius de Cuccagna comparisce in una carta del 1188[463]; e che nel
_Pataffio_ si legge:

    Erro, cu cu andra' tu in cuccagna
    Dal pero al fico sempre perperando?[464]

Sia qual essere si voglia l'origine del nome, il componimento più
antico, fra quelli sino a noi pervenuti, ove si descriva il paese
indicato per esso, è un _fableau_ del secolo XIII, intitolato _Li
fabliaus de Coquaigne_[465]. L'autore dice d'essere andato per
penitenza al papa, che lo mandò al paese di Cuccagna:

    Li pais a à non Coquaigne,
    Qui plus i dort, plus i gaaigne.

Le case vi son fatte di pesci, di salsicce e d'altre cose ghiotte. Le
oche grasse si vanno avvolgendo per le vie, arrostendosi da se stesse,
accompagnate dalla bianca agliata, e vi son tavole sempre imbandite
d'ogni vivanda, a cui ognuno può assidersi liberamente, e mangiare di
ciò che meglio gli aggrada, senza mai pagare un quattrino di scotto. Da
bere porge un fiume, il quale è mezzo di vino rosso, e mezzo di vino
bianco. In quella terra il mese è di sei settimane, e vi si celebrano
quattro pasque, e quadruplicate sono l'altre feste principali, mentre
la quaresima viene solo una volta ogni vent'anni. I denari si trovano,
come i sassi, per terra; ma non bisognano, perchè nessuno compra o
vende, e tutto quanto è necessario alla vita si dà per nulla. Le donne
che vi sono altro non chiedono che di fare altrui piacere, e ci è la
fontana di gioventù,

    Qui fet rajovenir la gent.

Il poeta, uscitone, non trovò più la via di tornarvi.

Non giova ch'io vada ritessendo la descrizione delle delizie ond'è
pieno, secondo i varii racconti, il Paese di Cuccagna, giacchè se
mutano esse nei particolari, o nell'ordine con cui sono presentate,
rimangon sempre, sostanzialmente, le stesse, e non muta lo spirito di
sensualità, alle volte assai grossolano, che ne suggerisce e ne informa
il concetto. E nemmeno tenterò di rifare la storia della finzione
nel medio evo e nel tempo di poi, o di ricordare ordinatamente i
componimenti cui essa diede materia nelle varie letterature d'Europa,
bastando al proposito mio ch'io noti della finzione alcun elemento
principale, alcun carattere più generale.

Il più delle volte non si dice, e per buone ragioni, dove sia il Paese
di Cuccagna, o la situazione sua s'indica con parole scherzevoli che
non danno senso, come le _drey Meil hinter Weynachten_, di una poesia
di Hans Sachs. Talvolta invece si ha una indicazione geografica più
o meno determinata e precisa. La terra di Bengodi, della quale Maso
narra le meraviglie a Calandrino, terra dove si legano le vigne con le
salsicce, ed hassi _un'oca a denajo e un papero giunta_, è posta nel
paese dei Baschi, ed è lontana da Firenze più di millanta miglia[466].
In un poemetto inglese, composto, come pare, verso la fine del secolo
XIII, o sul principiar del seguente, il paese di Cuccagna è in mezzo
al mare, ad occidente della Spagna[467]. In un codice del Museo Correr
si ha una _Descrittion del Paese di Cuccagna vicino a S. Daniel, città
nel Friuli, Stato della Repubblica veneta_[468]. Finalmente, in un
dramma religioso tedesco lo Schlaraffenland è tra Vienna e Praga[469].
Qui il Paese di Cuccagna s'immagina in luogo assai prossimo a chi
scrive: altrove, per contro, è accennata grande distanza, senz'altre
indicazioni geografiche. Nella _Historia nuova della città di Cucagna,
data in luce da Alessandro da Siena e Bartolamio suo compagno_[470],
si dice che per andare in Cuccagna bisogna viaggiare ventotto mesi
per mare e tre per terra; e _in quodam terrae cantone remoto_ pone
il felice paese Teofilo Folengo[471]. Una poesia tedesca del secolo
XVI lo pone a mano manca del Paradiso terrestre[472], mentre un'altra
vuole si avverta che esso non è nel Paradiso, _dov'era vietato di
mangiare_[473]. A questo proposito è da notare che l'autore del
poemetto inglese testè ricordato giudica il Paese di Cuccagna assai
miglior luogo del Paradiso, ove non c'è altro da mangiare che frutta, e
altro da bere che acqua[474].

Se un desiderio, dirò così, generico di felicità e d'innocenza suscita
nell'anime devote l'immagine delle delizie del Paradiso, un desiderio
più particolare di uscir di stento, di appagare gli appetiti più
animaleschi e più imperiosi suscita l'immagine delle delizie del Paese
di Cuccagna in tutti i miseri, in tutti gli affamati, in tutti coloro
la cui vita è un perpetuo combattimento fatto più aspro e doloroso
dallo spettacolo degli agi e delle lautezze altrui. Per tutti costoro
la Cuccagna è una vera _terra promissionis_, com'ebbe a dirla Geiler
di Keisersberg, da far riscontro alla _terra repromissionis sanctorum_
delle leggende ascetiche, e dove si mangia e si beve e d'ogni buona
cosa si gode senza metter mai fuori un quattrino. Perciò coloro che ne
celebrano le meraviglie spesso si volgono ai poveretti, e li chiamano a
raccolta, e annunzian loro che anche per essi è venuta finalmente l'ora
di scialare; e chi li invita si trova nella stessa lor condizione. In
certo _Capitolo di Cuccagna_ esclama il poeta:

    hor andiamoci tutti, o poverelli!

e in certo _Trionfo de' poltroni_:

    Deh poveretti non stemo più a stentar![475]

L'autore di una poesia spagnuola intitolata _La isla de Jauja_, detto
che in quella terra chi lavora riceve dugento bastonate ed è cacciato
in bando, descritte tutte le comodità di cui vi si gode, si volge ai
poveri idalghi, al gran popolo dei miseri:

    Animo pues, caballeros,
    Animo, pobres hidalgos;
    Miserables, buenas nuevas,
    Albricias todo cuitado,
    Que el que quisiere partirse
    A ver este nuovo pasmo,
    Diez navìos salen juntos
    De la Coruña este año.[476]

Ma poichè i pasciuti hanno sempre confuso gli affamati coi furfanti,
così vediamo il Paese di Cuccagna, sogno degli affamati, diventare
talvolta una terra di riprovazione. Dallo Schlaraffenland descritto da
Hans Sachs sono sbanditi gli uomini morigerati e dabbene: le bugie vi
son tenute in gran conto, e chi più le dice grosse è premiato:

    für ein gross lügn gibt man ein kron.[477]

Per contro si vede la finzione del paese di Cuccagna adoperata come
strumento di satira e d'invettiva contro i pasciuti e i gaudenti.
Così nel poemetto inglese citato di sopra, il quale è tutto una satira
contro la grassa e dissoluta vita dei monaci. A volte poi i racconti
non sembrano nascere da altro che dalla voglia di ridere e di sballarle
grosse[478]. Il Novati giustamente distingue dalla immaginazione del
Paese di Cuccagna certe immaginazioni epicuree, quali son quelle che
s'incontrano nel _fableau_ di _Belle Eyse_ e nella descrizione che il
Rabelais fa dell'abbazia di Thélème[479].

Se le finzioni greche, di cui s'è detto di sopra, sono talvolta parodia
dell'età dell'oro o dell'Elisio, la finzione del Paese di Cuccagna non
è, o almeno di rado è, una parodia voluta del Paradiso terrestre. Le
vere parodie di questo bisogna cercarle altrove, nel _Paradis perdu_
del Parny, in un poemetto intitolato _Adam et Eve_ e inserito nel vol.
VI della raccolta _L'Evangile du jour_, pubblicata in Parigi dal 1769
al 1778, ecc.[480]

Finalmente è qui da dir qualche cosa di quelli che si possono chiamare
paradisi artificiali. Non è improbabile che i giardini sospesi di
Babilonia volessero essere una riproduzione del Paradiso assiro[481].
Il più celebre di questi paradisi artificiali fu senza dubbio quello
del famoso Veglio della Montagna, di cui tanto si parlò e si scrisse
nel medio evo[482]. Narrasi in certe tradizioni orientali che Ad,
pronipote di Noè, divisò un meraviglioso giardino, e quello poi disse
essere il Paradiso, e che Sceddad, figliuolo di Ad, costruì una città
chiamata Gennet, cioè Paradiso, la quale sparì dopo l'esterminio
di lui e de' suoi. Di questo Paradiso molti autori musulmani fanno
ricordo. Secondo Scehabeddin, nel _Libro delle perle_, Sceddad,
avendo saputo che nel Paradiso terrestre le colonne erano d'oro e
d'argento, la polvere di muschio e d'ambra, e i sassi gemme, volle
rifare quelle meraviglie, e mandò messi pel mondo, i quali penarono
cent'anni a trovare un luogo acconcio[483]. Altri soggiungono che la
città di Sceddad era costruita nei deserti d'Aden; che le mura de'
suoi edifizii erano d'oro e d'argento, le colonne di smeraldi e di
rubini, e che c'erano voluti trecento anni per erigerla. Ibn Khaldun,
ne' suoi _Prolegomeni storici_, lamenta la credulità degli scrittori
che avevano divulgato quelle favole[484]. Di un orto nel quale s'erano
fatti seppellire Jannes e Mambres, magi di Faraone, con la speranza di
risuscitarvi e vivervi come in un paradiso, si narra nelle _Vite de'
Santi Padri_[485].


NOTE:

[450] Ciò fu giustamente notato dal NOVATI in un breve, ma giudizioso
e piacevole scritto, intitolato _Il paese che non si trova_, e inserito
nel giornale _La domenica letteraria_, anno IV, num. 11, 15 marzo 1885.
A torto ebbe a credere il LE CLERC che il Paese di Cuccagna altro non
sia che una immagine della beata vita dei monaci. _Histoire littéraire
de la France_, t. XXIII, p. 151.

[451] Cf. MEINEKE, _Fragmenta comicorum graecorum_, Berlino, 1848, vol.
II, parte 1ª, pp. 108, 237, 299, 316, 360; parte 2ª, pp. 753, 850,
1158; SCHENKL, _Das Märchen vom Schlauraffenland_, nella _Germania_
del Pfeiffer, anno VII (1862), pp. 193-4; POESCHEL, _Das Märchen vom
Schlaraffenlande_, Halle a S., 1878, pp. 7 sgg.

[452] POESCHEL, _ibid_., pp 13, 15.

[453] _Vera Historia_, l. II, capp. 11-14.

[454] _Ibid._, l. II, c. 4.

[455] MUELLER, _Geographi graeci minores_, vol. II, p. 514.

[456] J. GRIMM e A. SCHMELLER, _Lateinische Gedichte des X. und XI.
Jh._, Gottinga, 1838, pp. 378-80.

[457] Per la diffusione e le parentele di tali racconti vedi KÖHLER,
_Ueber I. F. Campbell's Sammlung gälischer Märchen_, in _Orient und
Occident_, vol. II (1864), pp. 486 sgg.; COSQUIN, note ad alcuni dei
_Contes populaires lorrains_ pubblicati nella _Romania_, anno 1876, pp.
357 sgg.; anno 1877, pp. 359 sgg.

[458] Per esempio, per la _Storia di Campriano contadino_, ediz. di A.
ZENATTI, nella _Sc. di cur. lett._, disp. CC, Bologna, 1884, st. 71-7.

[459] D'HERBELOT, _Biblioth. orient._, p. 386.

[460] _Cucania_, in latino; _Coquaigne, Cocagne_ in francese; _Cucaña_
in ispagnuolo; _Cokaygne_ in inglese, ecc. In Germania si disse
_Schlauraffenland_, _Schlaraffenland_; in Fiandra _Luilekkerland_.

[461] Vedi POESCHEL, _Op. cit._, pp. 20, 22, 25.

[462] Ciò fu già ricordato da altri: POESCHEL, p. 22; NOVATI, nel
_Giornale storico della letteratura italiana_, vol. V, p. 263, n. 5.

[463] GRION, _Fridanc_, in _Zeitschrift für deutsche Philologie_, vol.
II (1870), p. 430.

[464] Cap. 5, vv. 101-2.

[465] BARBAZAN-MÉON, _Fabliaus et contes_, vol. IV. pp. 175-81.

[466] _Decamerone_, giorn. VIII, nov. 3.

[467] Più volte stampato, dall'Hickes, dall'Ellis, dal Furnivall, e
ultimamente dal MAETZNER, _Altenglische Sprachproben_, Berlino, 1867
sgg., vol. I, pp. 147 sgg. Cf. WRIGHT, _St. Patrick's Purgatory_,
pp. 53 sgg.; WARTON, _History of english Poetry_, ediz. dell'Hazlitt,
Londra, 1871, vol. II, pp. 54 sgg.

[468] NOVATI, _Giorn. stor._, vol. V, pp. 265-6.

[469] POESCHEL, p. 34.

[470] In Vinetia et in Vicenza, 1625.

[471] _Baldo_, nella edizione delle _Opere maccheroniche_ curata dal
Portioli, Mantova, 1883-9, vol. I, p. 61.

[472] POESCHEL, p. 38.

[473] ID., p. 36.

[474] Non di rado il Paradiso celeste diventa nella fantasia popolare
un vero paese di Cuccagna: vedi la descrizione che ne porge una poesia
tedesca, in WRIGHT, pp. 191-2. In una poesia greca volgare, contenuta
in un manoscritto del secolo XV, un beone dice di credere che i
quattro fiumi del Paradiso menino vino. LEGRAND, _Recueil de chansons
populaires grecques_, Parigi, 1874, p. 6.

[475] Riprodotti entrambi dallo ZENATTI, in calce alla citata _Storia
di Campriano_.

[476] DURAN, _Romancero general_, Madrid, vol. II, 1855, p. 395.

[477] _Dichtungen_, ediz. Tittmann, Lipsia, 1870-1, vol. II, pp. 30-3.
Molta somiglianza con questa di Hans Sachs ha una poesia pubblicata
nella _Zeitschrift für deutsches Alterthum_, vol. II (1842), pp. 364-9.

[478] Do qui i titoli o le indicazioni di alcuni altri componimenti che
trattano del Paese di Cuccagna, e di altre scritture, ove la finzione
è introdotta. Non ho bisogno di avvertire che sono semplici cenni ed
appunti, slegati e molto incompleti. Al Paese di Cuccagna somiglia
molto la Papimanie descritta dal Rabelais. Nel 1718 fu rappresentato
in Parigi _Le roi de Cocagne_ del LEGRAND, dove Filandro, cavaliere
errante, giunge, con la scorta del mago Alchife, al fortunato paese.
Tutto il dramma ha intendimento satirico. (_Théâtre des auteurs
de second ordre_, t. IV). Tra le canzoni del BÉRANGER ve n'è una
intitolata _Le pays de Cocagne_. Di componimenti italiani vogliono
ancora essere ricordati: _Il trionfo della Cuccagna nel quale si
contiene tutto il suo dilettoso paese_, ecc., Firenze, s. a. (NOVATI,
_Giorn. st._, vol. V, p. 265, n. 4); GIO. BATTISTA BASILI, _La Cuccagna
conquistata, poema heroicu in terza rima siciliana_, Palermo, 1640;
QUIRICO ROSSI, _La Cuccagna_, poemetto in trentadue ottave, più volte
stampato; CARLO GOLDONI, _Il Paese della Cuccagna_, melodramma giocoso.
La finzione è inoltre introdotta: nella Selva seconda del _Chaos del
Triperuno_ di TEOFILO FOLENGO; in una lettera di ANDREA CALMO (_Le
lettere di messer_ A. C., ediz. del Rossi, Torino, 1888, l. II, 34, pp.
138 sgg.); nei cc. XII e XIII del poema di PIERO DE' BARDI intitolato
_Avino Avolio Ottone Berlinghieri_; nel capitolo _Dei pellegrini
o viandanti_ della _Piazza universale di tutte le professioni del
mondo di_ TOMMASO GARZONI; nel c. IX della _Presa di Samminiato_ del
NERI. Della _Cuccagna_ del MARINO, andata perduta, è forse qui da far
ricordo più pel titolo che per altro. L'Arciprete di Hita fa due volte
allusione al paese di Cuccagna, st. 112 e 331; e, oltre a quella citata
di sopra, un'altra romanza spagnuola si ha sullo stesso argomento.
(NOVATI, _Giorn. st._, vol. cit., p. 263, n. 5). Di un poemetto
olandese diede notizia il HOFFMANN VON FALLERSLEBEN, _Horae Belgicae_,
vol. I, pp. 94-5. (Cf. MONE, _Uebersicht der niederländischen
Wolks-Literatur_, Tubinga, 1838, p. 303). Per la finzione in Germania
vedi: GRAESSE, _Lehrbuch_, vol. II, parte 2ª, p. 961; GOEDEKE,
_Grundriss_, vol. I, pp. 232. 282; POESCHEL, pp. 31 sgg.

[479] _Il paese che non si trova_, già citato.

[480] Il BARBIER, _Dictionnaire des ouvrages anonymes_, 3ª ediz., vol.
I, s. t. _Adam et Eve_, lo attribuisce al Voltaire, ma basta leggerne
una pagina per vedere quanto tale attribuzione sia improbabile.

[481] LENORMANT, _Essai de commentaire des fragments cosmogoniques de
Bérose_, p. 300.

[482] Lo descrissero Marco Polo e il Mandeville. Per altre descrizioni
vedi _The book of_ SER MARCO POLO, _newly translated and edited by_ H.
Yule, Londra, 1871, vol. I, p. 136.

[483] _Notices et extraits des manuscrits_, vol. II, p. 140.

[484] _Notices et extraits_, vol. XIX, parte 1ª pp. 23-4. Ne parla
anche Taberi, in principio della sua Cronica. Di una specie di
Paradiso, costruito da un ricco uomo, fa ricordo il Mandeville, forse
ripetendo quella stessa tradizione.

[485] Parte I, cap. 65.



IL RIPOSO DEI DANNATI



IL RIPOSO DEI DANNATI


Ciò che fa maggiore impressione sull'animo di un lettore moderno
della _Visio Pauli_, non è la descrizione degli orrori e dei tormenti
infernali, nè la descrizione, assai più sbiadita, degli splendori e
dei gaudii celesti, in quella unica redazione che la contiene[486]; ma
bensì la parte del racconto in cui si narra della sospensione di pena
conceduta ai dannati, nell'abisso d'inferno. Guidato dall'arcangelo
Michele, San Paolo ha tutto percorso il _doloroso regno_, ha veduto
i varii ordini di peccatori e gli aspri castighi a cui li assoggetta
la divina giustizia, ha versato a quella vista lacrime di pietà e
di dolore. Egli sta per togliersi all'orror delle tenebre, quando
i dannati gridano ad una voce: «O Michele, o Paolo, movetevi a
compassione di noi; pregate per noi il Redentore!» E l'arcangelo a
loro: «Piangete tutti, ed io piangerò con voi, e con me piangeranno
Paolo e i cori degli angeli: chi sa che Dio non v'usi misericordia».
E i dannati gridano: «Miserere di noi, figliuolo di David!» ed ecco
scende dal cielo Cristo incoronato, e rinfaccia ai reprobi la malvagità
loro, e ricorda il sangue inutilmente versato per essi. Ma Michele
e Paolo e migliaja di migliaja di angioli s'inginocchiano dinanzi al
figliuol di Dio, e chiedono misericordia, e Gesù mosso a pietà, concede
alle anime tutte che sono in Inferno tanta grazia che abbiano requie, e
sieno senza tormento alcuno, dall'ora nona del sabato all'ora prima del
lunedì[487].

Questa poetica finzione, impregnata di un così ardente alito di
umanità, è, a parer mio, la più bella e la più nobile di quante se
ne trovino nelle Visioni anteriori alla _Divina Commedia_; e poichè
la Visione che la contiene è una delle più celebri e più diffuse nel
medio evo, e ce n'ha, insieme con altre versioni volgari, anche qualche
versione italiana[488]; e poichè gli è assai probabile che Dante questa
Visione l'abbia conosciuta, non sarà, credo, senza qualche utilità
discorrere di essa finzione, e delle ragioni ed origini sue, le quali
son molto più antiche e più generali di quanto si potrebbe alla bella
prima immaginare. Ciò mi porgerà pure occasione e modo di fare alcune
osservazioni sopra l'_Inferno_ dantesco.

Della eternità delle pene infernali la Chiesa cattolica fece, come
tutti sanno, un dogma. Non solo i tormenti dei dannati non avranno
mai fine, ma non avranno mai neanche mitigazione: anzi, dopo il
giudizio universale, e dopo che alle anime saranno restituiti i
corpi, si faranno più atroci di prima[489]. Non indaghiamo se nelle
parole dei profeti e negli evangeli il dogma abbia sicuro fondamento,
o se ve l'abbia l'opinione contraria, che la Chiesa condanna; non
discutiamo gli argomenti addotti e contrapposti dai sostenitori
dell'una e dell'altra credenza: l'officio nostro non è di esegeti,
e tanto men di polemici; l'officio nostro è di storici, e un tantino
anche di psicologi, desiderosi di darsi conto di un motivo religioso,
che diventa, in un particolar genere di letteratura, anche motivo
poetico[490].

Riportiamoci con la mente alla prima età del cristianesimo, all'età
che si può chiamare precostantiniana. La religione di Cristo è allora,
essenzialmente, una religione d'amore. I dogmi, che dovevano poi
raccogliere in forme rigide ed invariabili la sostanza della fede,
o non son nati ancora, o non sono ancora ben definiti; i grandi
concilii non si sono per anche adunati e non hanno piegato le coscienze
sotto il grave giogo dell'autorità. La Chiesa si edifica, e ciascun
operajo lavora un po' di suo capo all'edifizio comune: le frontiere
dell'ortodossia e dell'eresia sono incertamente segnate. La fede è
viva e calda, ma alquanto indeterminata; essa è anche serena e piena
d'abbandono, e non conosce le tetraggini e l'ansie che la sopraffaranno
più tardi. Una grande speranza la penetra e la feconda: la comune
credenza è che i più saran salvi. San Paolo aveva detto: Come tutti
muojono in Adamo, così tutti rivivranno in Cristo[491].

Circa il principio del secolo III Clemente Alessandrino nega le pene
puramente afflittive; la pena per lui ha sempre carattere e scopo
pedagogico. Origene, suo illustre discepolo, uno dei più grandi spiriti
ch'abbia prodotto l'antichità cristiana, e certo il più libero e il più
liberale, afferma la salvazione finale di tutte le creature, compreso
Satana e gli angeli suoi, il ritorno a Dio di quanto viene da Dio
(ἀποκατάστασις τῶν παντῶν). La dottrina sua era fatta per cattivare gli
animi più generosi ed aperti; ma per ciò appunto non potè prevalere.
Impugnata e contraddetta da impetuosi avversarii mentr'egli era vivo
ancora, quella dottrina fu condannata dal sinodo di Alessandria
del 399 e poi, anche più risolutamente, dal concilio ecumenico
costantinopolitano del 545.

La dottrina contraria, la dottrina che affermava l'eternità delle pene
infernali e la dannazione irrevocabile, trionfava, s'imponeva alle
coscienze, diventava dogma. Ma il suo trionfo non fu e non poteva
essere intero ed assoluto. Da una parte essa si trovò di fronte
lo spirito critico e speculativo, cui non riesce ad impor silenzio
un canone conciliare; da un'altra il sentimento, che, ributtato o
compresso, torna ostinatamente alla sua condizion naturale. E lo
spirito critico e speculativo diede più particolarmente forma a
dottrine teologiche eterodosse, mentre il sentimento la diede in
più parti colar modo a credenze popolari. Nel quarto secolo Gregorio
di Nazianzo e Gregorio di Nissa insegnano la temporalità delle pene
infernali e la restaurazione finale di tutte le creature nel bene.
San Gerolamo parla di coloro che al tempo suo avevano quella medesima
credenza. Da altra banda l'opinione, già sostenuta da Taziano, da
Ireneo, da Arnobio, che i reprobi dovessero perir nel castigo e
rimanere annientati, non mancò di seguaci nè allora, nè poi. Ma come
più la dottrina della Chiesa s'andava determinando e acquistava rigore
dogmatico, più doveva agitarsi negli animi il desiderio di sfuggire,
in parte almeno, alle sue terribili conseguenze. La coscienza dei
credenti non oserà più contraddire alla dottrina ortodossa in ciò che
essa ha di essenziale, ma s'ingegnerà, e le verrà fatto, di temperarla
alquanto, di piegarne la rigidezza soverchia. Il ricco malvagio
ricordato da Luca non può ottenere che una goccia d'acqua gli bagni
le labbra arse dall'incendio infernale[492], e nell'Apocalissi detta
di San Giovanni è scritto che i dannati saranno tormentati nei secoli
dei secoli, senza aver mai requie nè giorno nè notte[493]: la semplice
teologia del sentimento affermerà che ai dannati la misericordia divina
accorda talvolta riposo e refrigerio. Il dogma vuole che i dannati
rimangano chiusi nell'Inferno in perpetuo: quella stessa teologia del
sentimento non lo negherà, ma romperà con alcuna eccezione la regola,
narrerà di dannati che in virtù di grazia speciale poterono uscir
dell'Inferno. La teologia popolare si farà lecito di dissentire dalla
teologia dogmatica, e delle due la prima sarà la più pietosa e la più
umana. Quanto alle ragioni del dissenso non occorre andar molto lontano
a rintracciarle; esse scaturiscono dalla stessa natura dell'uomo
razionale ed effettiva.

Ed ecco qua un primo e curiosissimo documento di quella teologia più
pietosa e più umana: l'apocrifa apocalissi di San Paolo, composta
probabilmente da un qualche monaco greco. Di apocalissi attribuite
all'apostolo delle genti ce ne furono due, ricordate da Sant'Agostino,
da Sozomene, da Epifanio, da Michele Glica e da altri: di esse l'una
andò perduta, se pur non la conserva alcun manoscritto ignorato;
l'altra fu ritrovata dal Tischendorf nel 1843 e da lui pubblicata[494].
L'editore opina ch'essa sia stata composta nel 380, il qual anno,
se non è proprio quello della composizione, di poco certo se ne
discosta. L'autore di questa scrittura s'inspirò evidentemente di
quanto San Paolo dice, con coperte parole, nella epistola seconda
ai Corinzii[495], di un suo rapimento al terzo cielo. Guidato da un
angelo, San Paolo assiste al giudizio delle anime, vede il soggiorno
dei beati, percorre l'Inferno. A un certo punto scende di cielo
l'arcangelo Gabriele con le schiere celesti, e i dannati implorano
soccorso. San Paolo che ha pianto sui tormenti inenarrabili che ha
veduti, prega insieme con gli angeli: Cristo appare, mosso dalle loro
preghiere, e concede ai reprobi di poter riposare la domenica della sua
risurrezione, a cominciar dalla notte che la precede.

L'incognito autore di questo apocrifo ammetteva dunque che i dannati
riposassero un giorno nell'anno e propriamente il giorno della
risurrezione di Cristo; ma tale credenza non era di lui solo, era,
sembra, di molti intorno a quel medesimo tempo. Aurelio Prudenzio (c.
348-408?) la ricorda e la professa in certi versi famosi di un suo
inno[496].

    Sunt et spiritibus saepe nocentibus
    Poenarum celebres sub Styge feriae
    Illa nocte sacer qua rediit Deus
    Stagnis ad superos ex Acheruntiis
    . . . . . . . . . . . . . .
    Marcent suppliciis tartara mitibus,
    Exultatque sui corporis otio
    Umbrarum populus, liber ab ignibus,
    Nec fervent solito flumina sulphure.

Se si considera che l'autore dell'Apocalissi di San Paolo era greco, e
che Prudenzio era spagnuolo, si dovrà ammettere che la credenza fosse
molto diffusa: a tale diffusione sembra in fatti che voglia alludere lo
stesso poeta quando chiama celebri le _ferie_ concedute ai dannati. Ma
di quella diffusione un'altra prova ci si porge, anche più importante.
Nel cap. 112 dell'_Encheiridion_, Sant'Agostino dice, accennando
appunto a coloro che tenevano quella credenza: _poenas damnatorum,
certis temporum intervallis existiment, si hoc eis placet, aliquatenus
mitigari_[497]. Egli non la biasimava dunque, sebbene non la facesse
sua, e tra coloro che in quel tempo la professavano era nientemeno che
San Giovanni Crisostomo[498]. Nella leggenda di San Macario egizio,
narrata già da Rufino d'Aquileja (c. 345-410) si ricorda come il santo
anacoreta trovasse una volta nel deserto un teschio, s'intrattenesse
con esso delle pene dell'Inferno, e da esso sapesse che la preghiera
reca alcun lieve refrigerio ai dannati[499].

Gli scritti che vanno sotto il nome di Dionigi Areopagita appartengono,
secondo fu dimostrato dalla critica più recente, ai tempi di Proclo, se
non alla prima metà del secolo VI a dirittura. In una delle epistole
che vi si leggono, la ottava, è narrata una visione di San Carpo,
inspirata evidentemente da quello stesso sentimento di umanità che
informa la credenza ricordata pur ora. Cristo vi mostra una grande
pietà per i pagani che i diavoli cacciano nell'Inferno, si dice pronto
a morire una seconda volta per gli uomini, ed egli e gli angeli suoi
stendono soccorrevolmente la mano a coloro che stanno per essere
inghiottiti dall'abisso[500]. In sul finire del secolo VI, o in sul
principiare del VII, Isidoro di Siviglia crede che i suffragi giovino
in qualche modo alle anime dannate[501], e la leggenda ascetica afferma
di bel nuovo che alle anime dannate è conceduta alcuna requie o alcun
refrigerio. La Visione di San Baronto risale alla fine del secolo VII,
e in essa si dice che quelli tra i dannati i quali hanno fatto nel
mondo alcun bene, sono all'ora sesta di ciascun giorno, confortati
con un po' di manna del Paradiso[502]. Qui la pietà giunge a far
scendere ogni giorno in Inferno una particella, sia pur piccolissima,
della beatitudine celeste. Nella Visione del monaco Wettin, ch'è del
principio del secolo IX, si dice, parlando del castigo a cui sono
assoggettati in Inferno i chierici incontinenti e le loro concubine,
che essi sono flagellati tutti i giorni della settimana, meno uno,
nelle parti genitali[503].

In quel medesimo secolo IX, il più copioso di leggende ascetiche
fra tutti i secoli del medio evo, comincia pure a diffondersi fra
i cristiani dell'Occidente la _Visio Pauli_, la quale altro in
sostanza non è se non la versione latina della greca Apocalissi
di San Paolo[504]. Quella versione, e le versioni volgari che ne
derivano, presentano, rispetto al testo originale, nelle redazioni
varie, diversità di maggiore e minore rilievo; ma una è quella che
più particolarmente chiama la nostra attenzione. Nell'Apocalissi
greca un sol giorno di riposo si concede ai dannati, la domenica
della risurrezione di Cristo, con le due notti ancora fra le quali è
compresa: nella _Visio_ latina, e nelle versioni volgari, i dannati
riposano tutte le domeniche, anzi, più propriamente, dall'ora nona del
sabato alla prima del lunedì.

Il D'Ancona, ponendo mente alle parole con cui la Visione comincia in
alcune redazioni latine e volgari[505], pensò la santificazione della
domenica essere il concetto animatore di tutta la leggenda[506]. Se non
che tale pensiero egli esprimeva quando le redazioni latine più antiche
non erano conosciute ancora e non erano conosciute le relazioni della
Visione latina coll'Apocalissi greca. Nell'Apocalissi greca i dannati
riposano, come s'è veduto, la domenica di risurrezione; ma il concetto
che informa quella parte della leggenda, non è la osservanza e la
santificazione di un giorno sacro; bensì è il pensiero semiorigeniano
di una intermittenza nelle pene infernali. Così pure nelle redazioni
latine più antiche della Visione, dove nulla è detto della particolare
santità della domenica, e della osservanza in cui la domenica vuol
esser tenuta, il concetto che informa la leggenda è pur sempre questo
stesso pensiero semiorigeniano, e si può dire che continui ad essere
anche nelle redazioni latine più recenti, e nelle volgari, nonostante
ciò che intorno la domenica vi si nota espressamente. Non è però che la
santità del giorno sia stata senza importanza, e senza esercitare un
qualche influsso sulla leggenda. Se nell'Apocalissi vediamo assegnata
ai dannati, quale giorno di riposo, la domenica di risurrezione, non
dovette esser lungi dalla mente dell'autore il pensiero che essendo
quello un giorno di universale salute, anche i dannati dovevano averne
qualche beneficio. E se nella Visione il riposo si allarga a tutte le
domeniche dell'anno, possiam credere che ciò non avvenga in tutto fuori
del pensiero che la domenica è per sè stessa giorno di salute e di
grazia. Di essa aveva detto Sant'Agostino: _Domini enim ressuscitatio
promisit nobis aeternum diem, et consecravit nobis dominicum diem;_
e ancora: _Dominicus dies..., aeternam non solum spiritus, verum
etiam corporis requiem praefigurans_[507]. Si può ricordare, a questo
proposito, che secondo i musulmani il fuoco infernale cessa di ardere
il venerdì. Del resto anche un altro concetto si fa manifesto tanto
nell'Apocalissi quanto nella Visione, il concetto della grandissima
efficacia e della quasi irresistibilità della preghiera,

    Che vince la divina volontate.

Il credente, il quale ha ferma fede nella efficacia della preghiera,
difficilmente può indursi a pensare che questa efficacia possa in tutto
mancare in certi casi, e lo stesso dicasi quanto alle altre pratiche,
cui sia annessa virtù deprecatoria e propiziatoria, e alle cose tutte
cui sia attribuito un carattere sacro e una qualche virtù taumaturgica,
come le reliquie, l'acqua benedetta, ecc. Al qual proposito vuol essere
notato che nella fede volgare quelle pratiche e quelle cose acquistano
una virtù loro propria, di cui altri può giovarsi per un fine anche
malvagio. Nei poemi epici del medio evo si parla spesso di reliquie
tolte dai saraceni ai cristiani, e delle quali i saraceni al par dei
cristiani si posson giovare. In certi malefizii magici si faceva uso di
cose consacrate. Della virtù della preghiera si trovano dimostrazioni
ed esempii in parecchie religioni oltre la cristiana: mi basterà
di citarne un caso che fa più particolarmente per noi. Fu opinione
dei rabbini che la punizione dei malvagi in Inferno fosse sospesa
durante le preghiere solite a farsi ogni giorno dai credenti. Queste
preghiere eran tre, e il riposo per ciascuna preghiera era di un'ora e
mezzo. A questo si aggiungeva il riposo del sabato e delle feste del
novilunio[508]. Qui vuol anche essere ricordato che in certi antichi
offici della messa si trova una preghiera _pro anima de quo dubitatur_,
e che si leggono in essa le seguenti parole: _ut si forsitan ob
pravitatem criminum non meretur surgere ad gloriam, per haec sacrae
oblationis libamina vel tolerabilia fiant ipsa tormenta_[509].

Riprendiamo la enumerazione delle immaginazioni e delle leggende in cui
è in vario modo espressa la credenza che le pene dei dannati possano
essere alcuna volta mitigate o sospese.

San Pier Damiano (988-1072) racconta quanto segue: «Non mi par da
tacere ciò ch'io appresi dall'arcivescovo Umberto, uomo di somma
autorità. Tornando egli dai confini di Puglia, asseriva essere nel
territorio di Pozzuoli un promontorio sassoso e ronchioso, sorgente
di mezzo ad acque negre e puzzolenti. Fuor da quell'acque vaporanti
si vedono repentinamente sorgere, per consueta usanza, uccelli di
spaventevole aspetto, i quali, dall'ora vespertina del sabato sino
al nascer del sole del lunedì, son soliti mostrarsi alla vista degli
uomini. Durante quel conceduto spazio di tempo si vedono vagare
liberamente in qua e in là per il monte, come prosciolti d'ogni
vincolo. Spandono l'ali, si ravviano col becco le penne, e per quanto è
dato d'intendere si rifanno nella tranquillità del refrigerio che per
un tempo è loro largito. Questi uccelli non sono mai veduti cibarsi,
nè si possono prendere, per nessun'arte che s'usi. Come schiara l'ora
matutina del lunedì, ecco che un corvo, grande quanto un avvoltojo,
si mette lor dietro, gravemente gracchiando dalla concava gorga.
Quegli incontanente si sommergono nell'acque e si nascondono, nè più
si lascian vedere, sino a che all'imbrunire del sabato novamente si
levano dalla voragine dello stagno sulfureo. Però vogliono alcuni che
sieno essi anime d'uomini dannati alle vendicatrici pene dell'Inferno,
le quali anime, tormentate tutti gli altri giorni della settimana,
abbiano, a gloria della risurrezione di Cristo, refrigerio la domenica
e l'una e l'altra notte tra cui quella è compresa[510].

San Pier Damiano ricorda, a questo proposito i versi di Prudenzio,
riferiti qui sopra, e dice che Desiderio, abate di Montecassino,
sopraggiunto quando egli aveva scritto il racconto di Umberto,
negò recisamente la cosa, mentre da canto suo Umberto disse di non
affermarla come vera, ma d'averla solamente riferita quale si narrava
dagli abitanti della campagna di Pozzuoli.

Corrado di Querfurt (m. 1202) narra in sostanza il medesimo fatto, ma
con qualche diversità, nella nota lettera scritta di Puglia l'anno
1196 allo scolastico Herbord. Egli pone la scena del miracolo in
Ischia, forse per un error di memoria, e propriamente intorno a certa
bocca dell'Inferno che ci si vedeva: «Tutti i sabati, circa l'ora
nona, in prossimità di quel medesimo luogo, si vedono, in certa valle,
uccelli neri, e brutti di sulfurea fuliggine, i quali ivi riposano la
domenica fino all'ora del vespero, quando con gran dolore e lamento se
ne partono e s'immergono in un lago bollente, nè più ritornano sino
al sabato susseguente. E stimano taluni siano essi anime tormentate,
oppure demonii»[511]. Il racconto di San Pier Damiano è riferito, quasi
con le stesse parole, da Vincenzo Bellovacense[512].

Corrado di Querfurt dice che quegli uccelli erano creduti da alcuni
anime dannate, o demonii, e demonii veramente sono gli uccelli che
incontra nell'avventuroso suo viaggio San Brandano, la cui leggenda
latina risale per lo meno all'XI secolo, e quelli ancora che in
prossimità del Paradiso terrestre trova Ugone d'Alvernia, e che hanno
riposo la domenica[513]. Tale immaginazione deve essere del resto
assai antica, perchè se ne trova traccia nella leggenda di san Macario
Romano, attribuita ai tre monaci Teofilo, Sergio ed Igino[514].

Che la preghiera potesse alleviare la pena dei dannati, era, come
abbiam veduto, opinione di alcuni, anzi di molti; ma non mancavano
altri modi d'alleviarla. Cesario di Heisterbach (m. c. 1240) racconta a
tale proposito una edificante novella. Certo milite morto fa manifesto
a un tale d'essere in Inferno per aver tolto ingiustamente l'altrui, e
dice che se i figliuoli suoi volessero farne restituzione, potrebbero
scemargli alquanto il castigo. I tristi figliuoli preferiscono
lasciarglielo intero[515]. In una novellina popolare della Bassa
Brettagna, viva ancora tra il popolo, ma, probabilmente, antica di
origine, un fanciullo mitiga nell'Inferno le pene dei dannati gettando
acqua benedetta nelle caldaje dove essi stanno a bollire[516].

Non era possibile che in così fatto ciclo di leggende o prima o poi
non entrasse la Vergine, la pietosissima donna, la interceditrice a
cui nulla si nega, l'avvocata dei peccatori. Il già citato Tischendorf
diede notizia di un'_apocalypsis Mariae_, conservata in parecchi
codici greci, e opera certamente di un monaco del medio evo. La
leggenda ebbe, sembra, varie redazioni; ma la sostanza del racconto
è la seguente. Maria desidera di visitare l'Inferno, e l'arcangelo
Michele, accompagnato da numerosa schiera di angeli, ve la conduce.
Vedute le pene orribili dei dannati, ella chiede d'essere condotta in
cielo, affine di poter pregare Iddio per loro. L'arcangelo le dice
che egli, insieme con gli angeli tutti, prega per i dannati sette
volte il dì e sette la notte, ma invano. Maria insiste, e rinnovate
le preci col concorso di tutti i beati, Dio accorda un alleviamento
di pena, alleviamento che dai frammenti trascritti dal Tischendorf non
si può capire qual sia[517]. Mi par probabile che questa _apocalypsis
Mariae_ altro non sia che una imitazione dell'_apocalypsis Pauli_,
con la quale ha veramente molta somiglianza, e la sostituzione della
Vergine all'apostolo parrà più che naturale a chiunque abbia qualche
famigliarità con le leggende mariane del medio evo e specialmente
con quelle in cui si vede la Vergine adoperarsi e intercedere per
i peccatori più malvagi e più indurati. E nel medio evo fu opinione
di alcuni che le pene dei dannati fossero mitigate, in grazia della
Vergine, nel santo giorno dell'assunzione di lei.

Il naturale sentimento di pietà che suggeriva l'idea di una generale
mitigazione di pena accordata in certi tempi, e con certe condizioni,
ai dannati, poteva pure, anzi doveva suggerir l'idea di certe
mitigazioni speciali accordate ai dannati più rei, a quelli cui alcun
singolare peccato, eccedente i termini della malvagità consueta,
procacciava in Inferno, o anche fuori di esso, alcuno speciale castigo,
eccedente i modi delle pene ordinarie. Il più malvagio dei peccatori,
il più indegno di perdono, o di commiserazione, è Giuda, e la pena
cui egli soggiace è di regola, tra quante colpiscono i dannati, la più
terribile e la più orrenda. Ne fanno fede le Visioni tutte e tutte le
descrizioni dell'Inferno, nelle quali è parola di lui; e un pezzo prima
di Dante, altri aveva pensato di porre tra le formidabili mascelle
di Lucifero il discepolo traditore[518]. Ma la stessa immanità del
castigo, voluta dal fervore della fede, doveva destare negli animi meno
rigidi un senso di pietà, e suggerire il pensiero di un temporaneo
alleviamento. Secondo una leggenda musulmana, Iblîs, veduto che Dio
aveva perdonato ad Adamo, chiese ed ottenne che il proprio castigo
fosse sospeso sino al dì del Giudizio.

Nel corso della sua miracolosa peregrinazione, San Brandano trova
Giuda seduto sopra una pietra in mezzo all'oceano; dinanzi a lui pende
un panno, raccomandato a certe forche di ferro. Le onde lo assalgono
e lo percotono d'ogni banda, recedono, lo investono di bel nuovo; il
vento gli sbatte quel panno nel volto. Interrogato dal santo, egli
dà contezza di sè e narra la propria pena. Per sei giorni consecutivi
egli arde e arroventa, simile a massa di piombo fuso; ma il settimo,
cioè la domenica, la misericordia divina gli accorda quel refrigerio,
in onore della risurrezione di Cristo. Il medesimo alleviamento di
pena gli è conceduto dalla Natività sino alla Epifania, dalla Pasqua
sino alla Pentecoste, e dalla Purificazione sino all'Ascensione di
Maria. Negli altri giorni soffre inenarrabili tormenti in compagnia di
Erode, di Pilato, di Anna e di Caifasso. Quel panno egli diede in vita
a un lebbroso; ma poichè non era suo, gli nuoce ora, più che non gli
giovi, la mal fatta elemosina. Le forche di ferro diede ai sacerdoti
del Tempio perchè se ne servissero a sorreggere le caldaje. La pietra
su cui siede usò a turare certa fossa che era in una pubblica via di
Gerusalemme. Il suo refrigerio dura dal vespero del sabato a quello
della domenica, e in confronto delle torture che sopporta gli altri
giorni, gli par quello un paradiso. San Brandano, per quella volta,
glielo prolunga sino allo spuntar del sole del lunedì[519].

Dalla leggenda di San Brandano lo strano racconto passò, alterandosi
in varii modi, nella _Image du monde_[520], in una leggenda di Giuda,
latina ed in versi, pubblicata solo in parte dal Du Méril[521],
nella continuazione dell'_Huon de Bordeaux_, così in verso[522], come
in prosa[523], nel _Baudouin de Sebourc_[524]. Nella continuazione
dell'_Huon de Bordeaux_, Ugone trova Giuda perpetuamente sbattuto in un
gran gorgo di mare, dove passano e ripassano tutte le acque del mondo.
Il dannato non ha altro schermo che un pezzo di tela, postogli da
Cristo accanto al viso. Di altra pena, o di riposo, non è cenno.

Che alleviamento e abbreviamento di pena si potesse procacciare
alle anime purganti, con la elemosina, con la preghiera, e con altre
pratiche di devozione, era credenza universale, e su di essa non fa
bisogno d'insistere; ma l'alleviamento assumeva anche in tal caso,
alle volte, una forma e un carattere che importa di far rilevare.
In principio del secolo VIII San Bonifazio narra in una delle sue
epistole la visione di un tale che vide anime purganti, in figura di
uccelli neri, uscir di un pozzo che vomitava fiamme, posare alquanto
sul margine, e riprofondarsi nel pozzo[525]. Nella Visione che da lui
prende il nome (fine del secolo IX) Carlo il Grosso trova in Purgatorio
suo padre Luigi, che un giorno sta immerso in un dolio d'acqua
bollente, e un altro in un dolio d'acqua tiepida e chiara, grazia
concedutagli per le preghiere di San Pietro e di San Remigio[526].
Migliore d'assai è la condizione del re Comarco, cui Tundalo vede
sedere con gran gloria e letizia sopra uno splendido trono, in un
palazzo luminoso e mirabile, ma che paga la pena di certi suoi peccati
stando tre ore di ciascun giorno immerso nel fuoco sino all'ombelico, e
coperto il rimanente corpo di cilicio[527].

Nel poemetto francese intitolato _La court de Paradis_, Maria
Vergine impetra dal figliuolo due giorni di riposo per le anime del
Purgatorio[528]; al qual proposito è da ricordare che Santa Brigida
asseriva d'avere udito dire alla Vergine stessa che per intercessione
di lei le pene del Purgatorio si mitigavano[529].

L'esempio di quanto avveniva in Purgatorio avrà più d'una volta
contribuito a far nascere l'idea di certi alleviamenti di pena
conceduti ai dannati in Inferno. Anche in tal caso la fantasia popolare
sapeva mostrarsi ragionevole e logica. Se la preghiera, se le opere
buone possono far sì che Dio punisca le anime del Purgatorio meno
aspramente di quanto la colpa loro, secondo giustizia, vorrebbe;
perchè non potranno esse produrre il medesimo effetto in beneficio
delle anime dannate? E a questo proposito vuol essere ricordato che
i teologi stessi di professione ammettevano che la giustizia divina
non si eserciti sopra i dannati con tutto il rigore che alla malvagità
loro si converrebbe; ammettevano una parziale, ma continua remission di
castigo, riconoscendo che essi erano puniti _citra condignum_. Perchè
dunque la giustizia divina, che s'era già da sè stessa mitigata una
volta, non dovrebbe più altre volte, o mitigarsi da sè, o lasciarsi
mitigare da altrui?

Ma la teologia che io ho chiamata del sentimento non fu paga
di arrecare alcun lenimento alle orrende torture che le anime
soffrivano in Inferno; essa si ribellò anche al dogma della eternità
incondizionata ed assoluta di quelle torture, e volle che, in certi
casi almeno, le porte dell'Inferno potessero riaprirsi e lasciar
libero il passo a chi le aveva varcate una volta, e che alcun'anima
dannata potesse, per eccezione, esser fatta cittadina del cielo.
Questo suo placito si afferma in numerose leggende. Quella di Trajano
imperatore, liberato dall'Inferno per le insistenti preghiere di San
Gregorio Magno, è cognita a tutti[530], e il curioso si è che San
Gregorio afferma l'eternità e irrevocabilità delle pene infernali.
Egli dice nel l. IV, c. 44 dei suoi _Dialoghi_ esser giusto che non
manchi mai di tormento chi mai non mancò di peccato. Sant'Agostino
racconta come Dinocrate fu liberato dall'Inferno per le preghiere
di sua sorella Perpetua[531]. Santa Viborada liberò nello stesso
modo un fanciullo. Sant'Odilone, abate di Cluny, rese tale servigio
all'anima di Benedetto IX papa, che davvero non lo meritava[532]. Di
un certo Evervach, dannato, a cui Dio permette di tornare al mondo a
farvi espiazione narra Cesario di Heisterbach[533], e son numerose le
leggende in cui tal miracolo si compie per intercessione della Vergine,
o di santi[534]. E c'è di più. Nella Visione del monaco Ansello si
dice che tutti gli anni, nel giorno della Risurrezione, Cristo scende
all'Inferno e libera le anime dei peccatori meno malvagi[535]. Nel
_fableau De saint Pierre et du jougleor_, un giullare, che era stato
lasciato dai diavoli a custodia dei dannati, giuoca questi a dadi con
san Pietro, che vince, e tutti li conduce in Paradiso[536]. In molti
racconti popolari si legge di pessimi uomini, che avendo meritato dieci
volte l'Inferno, riescono, con astuzia o con inganno, a cacciarsi fra i
beati.

La teologia del sentimento, che il più delle volte è la stessa
teologia popolare, ammetteva che le pene potessero essere alleviate
in qualche modo ai dannati; ma la teologia raziocinante, dottrinale,
scolastica, di solito lo negava. San Tommaso d'Aquino, lume di questa
seconda teologia, dimostra a fil di logica che in Inferno non può
esservi mitigazione di pena[537], e San Bonaventura è del medesimo
avviso, sebbene ammetta che Dio punisce i dannati meno di quanto si
converrebbe alle colpe loro. San Bernardo di Chiaravalle si scalmana a
dimostrare che i beati godono dello spettacolo che pongono loro sotto
gli occhi i tormenti dei dannati, e ne godono per quattro ragioni
propriamente: la prima, perchè quei tormenti non toccano a loro; la
seconda, perchè dannati tutti i rei, non potranno più temere malizia
alcuna, nè diabolica, nè umana; la terza, perchè la gloria loro sarà
fatta maggiore dal contrasto; la quarta, perchè ciò che piace a Dio
deve piacere ai giusti[538]. Qualsiasi mitigazione di pena conceduta
ai dannati sarebbe dunque diminuzione di beatitudine agli eletti,
e tale diminuzione tornerebbe in nuovo refrigerio dei dannati,
i quali, per più loro tormento (così si dice), hanno cognizione
di quella beatitudine. La Chiesa non porse mai, gli è vero, una
soluzione dogmatica del dubbio, ma non pregando per i dannati diede
implicitamente ragione a coloro che negano qualsiasi mitigazione.

Come la pensò in proposito Dante? Non è senza importanza il notarlo.

In materia teologica Dante s'attiene, essenzialmente, alle dottrine
dell'Aquinate, e certo non è da aspettarsi che voglia scostarsene
quanto alle pene infernali: ciò nondimeno, anche in questa parte, come
in altre, si può notare nel discepolo alcun dissentimento dal maestro,
e, alle volte, qualche po' di contraddizione con sè stesso.

Molte volte, percorrendo i varii cerchi dell'Inferno, Dante si mostra
preso di pietà profonda alla vista dei tormenti atroci cui soggiacciono
i dannati. Egli è _quasi smarrito_ di pietà quando ode da Virgilio

    Nomar le donne antiche e i cavalieri;

vien meno al racconto dei casi di Francesca e di Paolo; lagrima
sull'affanno di Ciacco; ha il cor compunto alla vista del castigo che
travaglia i prodighi ecc.[539] Vero è che quando egli non può _tener
lo viso asciutto_ vedendo lo strazio degli indovini, Virgilio gliene fa
rimprovero e lo ammonisce con le terribili parole:

    Qui vive la pietà quando è ben morta[540];

ma lo stesso Virgilio, divenuto tutto smorto in su la proda

    Della valle d'abisso dolorosa,

aveva detto al discepolo:

                  L'angoscia delle genti
    Che son quaggiù nel viso mi dipigne
    Quella pietà che tu per tema senti[541].

Ma la pietà altrui può essa arrecare qualche beneficio ai dannati? e
può mai aversi in Inferno alcuna interruzione o alcun alleviamento di
pena? Parlando della bufera che travolge i _peccator carnali_, Dante la
chiama

    La bufera infernal che mai non resta;

e di quei peccatori dice espressamente:

    Nulla speranza li conforta mai
    Non che di posa, ma di minor pena;

ma poco più oltre fa dire a Francesca che il vento alcuna volta si
tace[542], e questi riposi del vento non si possono intendere disgiunti
da un certo riposo concesso alle anime dannate. La piova del terzo
cerchio imperversa sempre ad un modo,

    Regola e qualità mai non l'è nova;

ma i dannati

    Dell'un de' lati fanno all'altro schermo,

e si volgono spesso[543], e riescono in tal modo a trovare un
alleggiamento, sia pur piccolissimo, al loro tormento. Similmente i
dannati del cerchio ottavo, sommersi nella pegola ardente, guizzan
fuori alquanto _ad alleggiar la pena_[544]. Per contro i dannati, o
almeno i diavoli, possono andar soggetti a un accrescimento di doglia
prima ancora del Giudizio universale[545]: dopo il Giudizio, i dannati,
rivestiti dei corpi loro, soggiaceranno a pena maggiore[546].

Dante ammette che i dannati possano avere, in mezzo alla spaventosa
loro miseria, alcuna consolazione. Francesca e Paolo hanno dallo stare
insieme, non accrescimento, ma lenimento di pena. Virgilio invita
il discepolo a chiamarli a sè _per quell'amor che i mena_, ed essi
non sanno resistere all'_affettuoso grido_, e delle lacrime di Dante
si mostrano riconoscenti. I dannati cui non bruttarono colpe vili,
desiderano, come Ciacco, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Guido
Guerra, Tegghiajo Aldobrandi, Jacopo Rusticucci, il conte Ugolino,
che la memoria di loro sia rinfrescata o vendicata nel mondo, e Dante
promette ad alcuno il suo ajuto. Afferma San Tommaso d'Aquino che
l'amore dei congiunti e degli amici non lenisce, ma inacerba i tormenti
dei dannati, i quali se ne sentono indegni. Dante non la pensa proprio
a quel modo. Cavalcante Cavalcanti, tuttochè dannato, ama il figliuolo,
e certo non può essergli grave d'essere amato da lui; Brunetto Latini
senza dubbio si allieta dell'affetto che addimostragli Dante.

Che Dante abbia conosciuta la _Visio Pauli_ è più che probabile[547];
che non l'abbia imitata in quella finzione dell'interrotto castigo è,
credo, da deplorare. Di quella finzione il meraviglioso suo ingegno
avrebbe saputo senza dubbio giovarsi. Con far tacere subitamente le
grida disperate dei dannati, con farle poi ricominciare, giunto il
termine del riposo, più spaventose di prima, egli avrebbe trovata la
via a bellezze poetiche di prim'ordine, degne del poema immortale. San
Tommaso forse fu quegli che non gliel permise.


NOTE:

[486] Per le varie redazioni e per le relazioni che passan fra loro,
vedi H. BRANDES, _Visio S. Pauli, ein Beitrag zur Visionslitteratur mit
einem deutschen und zwei lateinischen Texten_, Halle, 1885.

[487] Il racconto varia alquanto nelle varie redazioni della Visione,
ma è in sostanza quale l'ho riferito.

[488] Una ne pubblicò P. VILLARI, _Alcune leggende e tradizioni
che illustrano la Divina Commedia_, nel t. VIII degli _Annali delle
Università toscane_, Pisa, 1866, pp. 129-33; le altre sono inedite. Per
notizie circa le versioni volgari di varie letterature, vedi D'ANCONA,
_I precursori di Dante_, Firenze, 1874, pp. 43-4, e BRANDES, _Op.
cit_., pp. 42-62.

[489] Uno studio comparativo degli Inferni immaginati dalle varie
religioni, non sarebbe certo senza interesse, e importerebbe anche
all'argomento nostro; ma tale studio non si può dire che sia stato
fatto ancora. Il libro di O. HENNE-AM-RHYN, _Das Jenseits_, Lipsia,
1881, è assai manchevole, e più è quello di O. DELEPIERRE, _L'Enfer,
Essai philosophique et historique sur les légendes de la vie future_,
Londra, 1876.

[490] Chi desiderasse conoscere un po' più da vicino i termini
della questione e le opinioni dei teologi, vegga: TEOFILO RAYNAUD,
_Heteroclita spiritualia caelestium et infernorum, Opera_, Lione,
1665-9, t. XV, pp. 429-31; VINCENZO PATUZZI, _De futuro impiorum
statu_, 2ª ediz., Venezia, 1764, lib. III, c. 12; A. BERLAGE, _Die
dogmatische Lehre von den Sakramenten und letzten Dingen_, Münster,
1864, pp. 890-902; J. BAUTZ, _Die Hölle_, Magonza, 1882, pp. 197-210, e
i numerosi scritti speciali registrati dal GRAESSE, _Bibliotheca magica
et pneumatica_, Lipsia, 1843, pp. 12-3.

[491] I _Cor_., XV, 22; cf. _Rom._, V, 19.

[492] XVI, 24.

[493] XIV, 11.

[494] _Apocalypses apocryphae_, Lipsia, 1866, pp. 84-69. Notizie
concernenti il testo greco ivi stesso, pp. XIV-XVIII. Una versione
siriaca si conserva in parecchi codici.

[495] XII, 1 sgg.

[496] _Cathemerinon_, inno V. Di questi versi molti ebbero a far
parola: vedi ROESLER, _Der katholische Dichter Aurelius Prudentius
Clemens_, Friburgo i. B., 1886, p. 455. Errava il Patuzzi quando
affermava (_Op. e loc. cit._) le parole di Prudenzio doversi intendere
solo poeticamente.

[497] Nel cap. 113 dello stesso libro si leggono quest'altre parole:
«Manebit ergo sine fine mors illa perpetua damnatorum, idest alienatio
a vita Dei, et omnibus erit ipsa communis. quaelibet homines de
varietate poenarum, de dolorum relevatione vel intermissione pro suis
humanis motibus suspicentur».

[498] _Homil in epist. ad Philip._, III, 4.

[499] _Acta sanctorum_, t. II di gennajo, p. 1011.

[500] _Opera_, Parigi, 1644, t. I, pp. 790-3.

[501] _De officiis ecclesiasticis_, lib. II, in fine.

[502] _Acta sanctorum_, t. III di marzo, p. 573.

[503] DUEMMLER, _Poetae latini aevi carolini_, t. II, p. 270. Questa
particolarità si ritrova nel racconto in prosa di Heitone; ma sparisce
dal poema che sulla Visione compose Valafredo Strabone, _ibid._, p.
314.

[504] Per le relazioni delle versioni latine e volgari, e della siriaca
col testo greco, vedi BRANDES, _Op. cit._, pp. 2 sgg., e _Ueber die
Quellen der mittelenglischen Paulus-Vision_ dello stesso, Halle, 1883
(estratto dagli _Englische Studien_, vol. VII). Il Brandes non parla
delle versioni italiane e sembra non le abbia conosciute.

[505] _Dies dominicus dies est electus, in quo gaudent angeli et
archangeli maior diebus ceteris_. (Redazione latina II pubblicata
dal BRANDES, _Op. cit._, p. 75). _Lo die della domenicha è grande da
temere e da guardare di tutte le rie opere_ ecc. (Testo pubblicato dal
VILLARI). _Lo dia del dimenge es elegutz del cal s'alegron tug li angel
e li archangel e li sant car major es de totz los autres dias_. (Testo
provenzale pubblicato dal BARTSCH, _Denkmäler der provenzalischen
Litteratur_, Stoccarda, 1856, p. 313).

[506] _I precursori di Dante_, p. 48.

[507] _Prologus in psalmos; De civitate Dei_, lib. XXII, c. 30.

[508] EISENMENGER, _Entdecktes Judenthum_, Königsberg, 1711, vol. II,
pp. 347 sgg.

[509] Cfr. DE-VIT, _Come si possa difendere la Chiesa cattolica nelle
sue preghiere pei defunti incriminate dagli eterodossi_, Prato, 1863.
Vedi pure DURAND, _Rationale divinorum officiorum_, Venezia, 1577, lib.
VII, c. 35.

[510] Illud etiam, quod Humberti Archiepiscopi, summae videlicet
auctoritatis viri, narratione cognovi, silentio tradendum esse
non arbitror. Nam cum a finibus reverteretur Apuliae, asserebat in
regionibus quae Puteolis adiacent, inter aquas nigras et foetidas,
promontorium eminere saxosum et scrupeum. Ex quibus videlicet
exhalantibus aquis consueto more teterrime videntur aviculae repente
consurgere et a vespertina sabbati hora usque ad ortum secundae feriae
solitae sunt humanis aspectibus apparere. Quo indulti temporis spatio
videntur hinc inde per montem velut solutae vinculis libere spatiari.
Alas extendunt, plumas rostro prosequente depectunt, et in quantum
datur intelligi, concessa ad tempus refrigerii se tranquillitate
resolvunt. Quae profecto volucres nec unquam videntur vesci, nec
quolibet aucupis valent ingenio capi. Dilucescente igitur matutina
secunde feriae hora, ecce magnus ad instar vulturis corvus post
praefatas aviculas incipit concavo gutture graviter crocitare. Illae
protinus sese aquis immergentes abscondunt, nec ultra videndas se
humanis oculis offerunt, donec advesperascente iam sabbati die, de
sulphurei stagni voragine rursus emergunt. Unde nonnulli perhibent
eas hominum esse animas ultricibus gehennae suppliciis deputatas.
Quae nimirum reliquo totius hebdomadae tempore cruciantur, dominico
autem die cum adiacentibus ultra citroque noctibus pro dominicae
resurrectionis gloria refrigerio potiuntur. _Epistola IX, ad Nicolaum
II pontificem maximum_. _Opera_, Parigi, 1663, t. III, p. 186.

[511] Videntur circa eumdem locum qualibet die sabbathi, circa horam
nonam, volucres in quadam valle nigrae et sulphureo fumo deturpatae,
quae ibi quiescunt per totum diem dominicum, et in vespere cum
maximo dolore et planctu recedunt, numquam nisi in sequenti sabbatho
reversurae, et descendunt in lacum ferventem. Quas quidam afflictas
animas arbitrantur vel daemones. Ap. LEIBNITZ, _Scriptores rerum
brunsvicensium_, t. II, p. 698.

[512] _Speculum historiale_, lib. XXVI, c. 62.

[513] Vedi per ciò il mio studio intitolato _Demonologia di Dante_, nel
volume seguente.

[514] _Acta sanctorum_, t. X di ottobre, pp. 566-71. Vedi addietro pp.
84 sgg.

[515] _Dialogus miraculorum_, Colonia, 1851, dist. XII, c. 14.

[516] LUZEL, _Légendes chrétiennes de la Basse-Brétagne_, Parigi, 1881,
vol. II (_Les littératures populaires de toutes les nations_, vol.
III), pp. 169-70: _Le fils du diable_.

[517] _Op. cit._, pp. XXVII-XXX. Quale sia non si rileva nemmeno
dall'analisi del GIDEL, _Étude sur une apocalypse de la Vierge Marie,
Annuaire de l'Association pour l'encouragement des études grecques en
France_, anno V (1871), pp. 92 sgg.

[518] Vedi nel volume seguente il già citato studio _Demonologia di
Dante_.

[519] JUBINAL, _La légende latine de S. Brandaines, avec une traduction
inédite en prose et en poésie romanes_, Parigi, 1836; SCHROEDER,
_Sanct Brandan, ein lateinischer und drei deutsche Texte_, Erlangen,
1871; FRANCISQUE-MICHEL, _Les voyages merveilleux de saint Brandan_,
Parigi, 1878 ecc. Com'è naturale, le varie versioni e redazioni
non concordano sempre nei particolari. In una versione tedesca, la
pena assegnata a Giuda nei giorni di refrigerio è molto più aspra:
l'apostolo traditore gela nell'una metà del corpo, abbrucia nell'altra
ecc. (SCHROEDER, _Op. cit._, p. 178). In una delle versioni francesi
crescono e si moltiplicano i tormenti a cui soggiace il dannato sei
giorni della settimana; ma si moltiplicano pure e si prolungano i
riposi: egli ha alleviamento di pena per quindici giorni a Natale, e
tutte le feste della Madonna (MICHEL, _Op. cit._, pp. 63 sgg.). Nella
versione italiana pubblicata dal VILLARI (_Op. cit._, p. 149) Giuda ha
alleviamento anche il dì d'Ognissanti; ma brucia sulla pietra che lo
regge in mezzo all'onde.

[520] Il racconto dell'_Image du monde_ è riferito dal DU MÉRIL,
_Poésies populaires latines du moyen âge_, Parigi, 1847, pp. 337-40. Si
tratta propriamente della redazione rimaneggiata del poema. Vedi FANT,
_L'Image du monde, poème inédit du milieu du XIIIe siècle_, Upsala,
1886, p. 26.

[521] _Op. cit._, pp. 236 sgg.

[522] Cod. L, II, 14 della Nazionale di Torino, f. 360 _r_ e _v_.

[523] DUNLOP-LIEBRECHT, _Geschichte der Prosadichtungen_, Berlino,
1851, pp. 128; _History of Prose Fiction_, nuova ediz., Londra, 1888,
vol. I, p. 305.

[524] _Histoire littéraire de la France_, t. XXV, p. 595.

[525] Epistola X, in JAFFÈ, _Monumenta Moguntina, Bibliotheca rerum
Germanicarum_, t. III, Berlino, 1866, pp. 56-7.

[526] Ap. PERTZ, _Monumenta Germaniae, Scriptores_, t. V, p. 458.

[527] Cum autem modicum precederent, uiderunt domum mirabiliter
ornatam, cuius parietes et omnes structure ex auro erant et argento et
ex omnibus lapidum preciosorum generibus; sed fenestre ibj non erant
nec hostium, tamen omnes qui intrare uolebant intrabant. Erat uero
domus intus tam splendida ac si non dico unus sol sed quasi ibi soles
multi splenderent. Verum ipsa domus erat ampla nimis atque rotunda,
multis columpnis fulta, et cum auro et lapidibus preciosis totum
corpus eius uestibulum erat stratum. Cum autem illa anima in talibus
delectaretur edificijs, circumspiciens uidit unum sedile aureum cum
gemmis et serico et omnibus ornamentis ornatum, et uidit dominum regem
Chomarcum in ipso throno sedere talibus uestimentis uestitum, qualibet
nec ipse nec aliquis regum terre umquam uestiri potuit. Dum ipsa igitur
admirans aliquantulum staret, uenerunt plurimi cum muneribus in illam
domum ad regem, et illi singuli offerebant cum gaudio munera sua. Et
cum diucius ante dominum suum regem starent (erat enim dominus eius,
dum uterque uiueret), uenerunt multi sacerdotes et leuite, uestiti
sollempniter sicut ad missam cum sericis casulis et ceteris ornatibus
ualde bonis, et ornabatur undique regia domus mirabili ornamento.
Ponebant etiam ciphos et calices aureos et argenteos et eburneas
pixides supra paxillos et tabulas, et sic domus ornabatur, ita ut, si
maior gloria in regno dei non esset, ista sufficere posset. Omnes ergo
illi qui ministrabant uenientes ante regem, coram eo genua flectebant
dicentes ‘Labores manuum t[uarum] qui mand[ucabis] beatus es, et bene
tibi erit’. Tunc anima dixit ad angelum ‘Miror, mi domine, unde huic
domino meo tot ministri, inter quos nec unum de suis, dum esset in
corpore, possum cognoscere’. ‘Non sunt isti (ait angelus) de eius
familia, quam habebat cum esset in corpore. Nonne audis (ait), quomodo
isti clamant dicentes labores ma[nuum] t[uarum] qui m[anducabis] beatus
es et bene tibi erit? Isti enim quos tu uides omnes sunt pauperes
Christi et peregrini, quibus ipse rex largiebatur bona temporalia
dum illic esset in corpore, et ideo per manus ipsorum retribuitur
ei merces eterna hic sine fine’. ‘Vellem (ait anima) scire, si iste
dominus meus rex passus est umquam tormenta, postquam relicto corpore
uenit ad requiem’. ‘Passus est (ait angelus) et cottidie patitur ed
adhuc pacietur’. Et adiunxit ‘Prestolemur paululum et uidebimus eius
tormentum’. Et cum non diu expectarent, obscurata est domus, et omnes
habitatores eius illico contristati sunt, et contristatus est rex,
flensque surrexit et exiuit. Cumque illa anima sequeretur eum, uidit
hanc multitudinem, quam intus antea uiderat, expansis in celum manibus
deuotissime deprecantem deum atque dicentem ‘Domine deus, sicut uis
et scis, miserere serui tui!’ Et respiciens uidit ipsum regem in
igne usque ad umbilicum et ab umbilico sursum cilicio indutum. Ait
autem anima ad angelum ‘Quam diu ista anima hoc pacietur?’ Et angelus
‘Cottidie per trium horarum patitur spacium et per spacia XX et unius
requiescit horarum’. ‘Domine (inquit anima) quare hijs et non alijs
dignus iudicatur supplicijs?’ Angelus respondit ‘Ideo ignem patitur
usque ad umbilicum quia legittimi coniugij maculauit sacramentum; et
ab umbilico sursum patitur cilicium quia iussit interficere comitem
iuxta sanctum Patricium et preuaricatus est iusiurandum. Exceptis
hijs duobus cuncta eius crimina sunt remissa quo ad culpam et penam’.
_Visio Tnugdali_, ed. Schade, Halle, 1869, pp. 17-8. Il luogo, dove
Tundalo trova l'anima del re Comarco, è, a dir vero, una specie di
luogo intermedio fra il Purgatorio e il Paradiso, o, se così piace,
un secondo Purgatorio, dove sono molte delizie, e dove _habitant boni
non valde, qui de inferni cruciatibus erepti nondum merentur sanctorum
consorcio coniungi_. Ricorderò che un luogo di consimile natura ammise
pure il BELLARMINO, _De Purgatorio_, l. II, c. 7.

[528] BARZABAN-MÉON, _Fabliaux et contes_, Parigi, 1808, vol. III, p.
128.

[529] Vedi ancora la citata edizione della _Visio Tnugdali_ a p. 24.

[530] Vedi intorno ad essa G. PARIS, _La légende de Trajan_, nel fasc.
XXXV della _Bibliothèque de l'École des hautes études_, 1878, pp.
261-98, e il mio libro _Roma nella memoria e nelle immaginazioni del
medio evo_, Torino 1882-8, vol. II, pp. 1 sgg.

[531] _De origine animae_, I, 10.

[532] SAN PIER DAMIANO, _Vita S. Odilonis, Opera_, ediz. cit., t. II,
p. 183.

[533] _Op. cit._, dist. XII, c. 23: vedi anche dist. I, c. 32.

[534] _Roma nella mem. e nelle immag. del m. e._, vol. II, pp. 41-2 _n_.

[535] DU MÉRIL, _Poésies populaires latines antérieures au douzième
siècle_, Parigi, 1843, p. 213.

[536] BARBAZAN-MÉON, _Op. cit._, vol. III, p. 282.

[537] SAN TOMMASO chiama la opinione contraria _opinio praesumptuosa,
utpote sanctorum dictis contraria, et vana, nulla auctoritate fulta et
nihilominus irrationalis. Summa theol., Suppl._, q. 71, a. 5.

[538] _In quadragesima, sermones in psalmum_ XC, _sermo_ VIII.

[539] _Inf._, V, 72, 140-1; VI, 58-9; VII, 36.

[540] _Inf._, XX, 19-30.

[541] _Inf._, IV, 7-21.

[542] _Inf._, V, 31, 44-5, 96.

[543] _Inf._, VI, 7-9, 20-1.

[544] _Inf._, XXII, 22-4.

[545] _Inf._, IX, 97-9.

[546] _Inf._, VI, 103-11.

[547] OZANAM, _Dante et la philosophie catholique au treizième siècle_,
Parigi, 1845, p. 345; D'ANCONA, _Op. cit._, p. 45. Gli è cosa degna
di nota che nella versione siriaca dell'_apocalypsis_ greca è menzione
di dannati i quali non furono propriamente nè giusti, nè peccatori, ma
consumarono la vita in neghittosa spensieratezza, simili molto alla

                    setta de' cattivi
    A Dio spiacenti ed a' nemici sui.

Ci son buone ragioni per credere che questa particolarità fosse già
nel testo greco, e non è fuor del possibile che essa passasse in alcuna
versione latina, ora perduta, ma conosciuta da Dante



LA CREDENZA NELLA FATALITÀ



LA CREDENZA NELLA FATALITÀ


I.

Nel dogma cristiano la dottrina del fato, quale già l'ebbero gli
antichi, del fato esistente in sè e per sè, come separata e suprema
potenza, non può trovar luogo: essa ripugna troppo al concetto del Dio
uno e massimo che campeggia nei libri sacri dell'Antico e del Nuovo
Testamento, e in cui è fondata la fede. Le opinioni e le sentenze
dei Padri e dei Dottori della Chiesa in proposito, così dei più come
dei meno antichi, sono concordi ed esplicite; e san Tommaso che le
accoglie, le condensa e le epiloga, mostra come il fato, il caso e la
fortuna si risolvano da ultimo nella potestà, volontà e provvidenza
di Dio, e come la stessa necessità delle cose materiali, essendo
conseguenza della natura e dell'ordinamento loro, sia perciò un effetto
mediato dell'unica potestà divina, creatrice e ordinatrice del tutto.
Dante descrive la fortuna come una ministra di Dio, intesa a permutare
_li ben vani_

    Di gente in gente e d'uno in altro sangue
    Oltre la difension de' senni umani[548].

Il Petrarca, seguendo la opinione di san Girolamo e di sant'Agostino,
dice il fato e la fortuna essere nomi senza significazione[549].

All'influsso degli astri generalmente si crede nel medio evo; ma
non senza molte riserve. San Tommaso ammette l'azione loro sulla
vegetazione, sull'atmosfera, sui corpi in genere, non esclusi gli
umani; ma nega che possano operare sull'intelletto e la volontà, salvo
che indirettamente, e togliere o scemare la libertà dell'arbitrio.
Anche gli astri, del resto, sono organi e strumenti della provvidenza.

La volontà divina è dunque, secondo il canone cristiano, il principio
vivo, eterno ed immutabile d'onde fluiscono le forze tutte, non
solo che producono ed instaurano, ma ancora che reggono il mondo.
Essa è la necessità suprema ed invincibile, così per rispetto alla
natura, come per rispetto agli uomini, i quali possono bene, essendo
provveduti d'intelletto e di libertà, agitarsi entro il circolo che
quella volontà stringe loro d'attorno; ma non lo possono per nessun
modo spezzare, e non ne possono uscire. L'arbitrio umano sarà libero,
come sotto l'impero del fato antico; ma gli eventi saran necessarii,
e molte volte saranno necessarie le azioni. Di qui quella terribile
quanto logica dottrina della predestinazione, secondo la quale la
eterna salute e la eterna dannazione dipendono, non già dagli atti
umani e dall'umano volere, ma dal volere divino e dalla divina
grazia; dottrina che escogitata prima da sant'Agostino, esplicata e
compiuta più tardi da Isidoro di Siviglia (m. 636) e da Godescalco
(m. 867), avversata sempre dalla Chiesa greca, fu tratta alle ultime
e inevitabili sue conseguenze, asseverata in tutto il suo rigore, da
Zuinglio e da Calvino. Un rozzo dramma religioso, composto in Italia
in sul principiare del secolo XV, se non forse anche prima, prende
argomento da quella dottrina e, in pari tempo, la nega[550]. Un giovine
lascia il padre, la madre, e il buono stato in cui era cresciuto, per
consacrarsi al servizio di Dio, e attendere, lungi dagli allettamenti
e dagl'inganni del mondo, alla salute dell'anima. Un vecchio eremita,
che l'ha accolto nella sua cella, e l'ha fatto compagno dell'austera
sua vita, vedendolo tutto infervorato nel bene, e dedito alle sante
pratiche di devozione, assai se ne loda, e chiede a Dio che gli riveli
in grazia qual posto è serbato al giovine fra i beati in Paradiso.
Un'amara delusione lo aspetta. L'angelo del Signore gli annunzia che,
non il Paradiso, ma l'Inferno sarà dato in premio a tanta virtù;

    E tu che vai cercando il destinato,
    Sappi che il servo tuo sarà dannato.

Ecco la dottrina della predestinazione affermata in tutta la sua
crudezza. L'eremita molto si accora della terribile sentenza, e biasima
la presunzione propria con argomenti tolti di peso ai campioni di
quella dottrina:

    O uomo istolto, che vai tu cercando
      Quello che a te non appartien sapere?
      Pensi tu, sempre qui bene operando,
      Di dover l'alta grazia possedere?
      Non sai tu che tu hai di lassù bando
      Per non saperti nel ben mantenere?
      E questo vuol la tua ribellïone,
      Che stii qui sempre in gran confusïone.
    Se in Dio non esser giustizia dirai,
      Dappoi che vuol chiunque ben fa dannare,
      Così per contro arguir tu potrai
      Che voglia quei che mal fanno salvare;
      E se per lui esser giusto vorrai,
      La cagion perchè il fa vorrai cercare,
      E sarai fatto come chi non vede;
      Perchè dov'è ragion manca la fede.

Egli non sa tacere al giovine ciò che gli fu rivelato; ma questi non si
smarrisce, non dispera; anzi, pieno di mansuetudine e di rassegnazione,
risolve di servir Dio con più amore e più fervore di prima, quale che
sia il decreto divino a suo riguardo, poichè egli non può volere se non
ciò che Dio vuole. Il demonio tenta invano distorlo da tale proposito
e ricondurlo nel mondo; e il vecchio eremita, dopo aver pregato
lungamente, apprende dall'angelo che il discepolo sarà salvo. Udita la
buona novella, il giovine esclama:

    Padre, ben che l'umana intelligenza,
      Gravata dal peccato, intenda poco,
      Nondimeno io non ebbi mai temenza,
      Facendo ben, d'esser dannato al foco[551].

Ecco la dottrina della predestinazione risolutamente negata.

Aveva ragione Fausto, vescovo di Riez, nella seconda metà del secolo
V, quando affermava che con quella dottrina si tornava per altra via al
fatalismo antico. La Chiesa cattolica sentì la gravità del rimprovero,
e ricusò da ultimo il dogma pericoloso e spietato, piegando, senza
addarsene quasi, verso l'opposta dottrina del grande avversario di
sant'Agostino, Pelagio, che da più di un sinodo era stato condannato
per eretico. Ma il concetto della fatalità, cacciato da una banda,
irrompeva da un'altra, e in altro modo soggiogava gli spiriti. Il
popolo, che poco intende e meno si cura delle sottili dispute e delle
più sottili distinzioni dei teologi e dei filosofi, non lasciò mai
di aver fede in una o più potenze, occulte e irresistibili, distinte
e separate dal volere divino, e variamente designate, secondo i
casi, coi nomi di destino, di fortuna, o d'influsso astrologico. Di
tale credenza, a cui non rimasero estranei i dotti, sono vestigia
e documenti lungo tutto il medio evo. Nel libro I del suo poema
_De diversitate fortunae et philosophiae consolatione_, Arrigo da
Settimello (XII secolo) esclama: «A cui mi debbo io dolere della
fortuna? non so:» e nel secondo libro chiama quella sua nemica,
perfida, stolta, lingua dolosa, meretrice, che si vanta dea e signora
del tutto. Un vescovo di molta riputazione, Ildeberto di Lavardin (m.
1133), si lagna assai della fortuna in un carme _De exilio suo_, e in
certa breve poesia, che appunto s'intitola _De infidelitate fortunae
et amoris mundi_. Più tardi il medico fiorentino Tommaso del Garbo, e
il poeta aretino Braccio Bracci, chiedevano al Petrarca che fosse la
fortuna; e rispondendo al primo, il Petrarca si doleva dei _moltissimi_
che a quei tempi credevano in lei, e come dea la ponevano in cielo, e
il favore di lei mettevano sopra, non pure alla virtù, ma allo stesso
ajuto divino, e volevano piuttosto essere amici suoi che di Dio. E
questa fortuna si vede assai volte figurata in libri del medio evo,
quando d'una e quando d'altra maniera, ma più spesso in forma di una
ruota simbolica, che mossa da virtù fatale, girando senza posa, muta e
rimuta con eterna vicenda, irresistibilmente, le sorti di quaggiù:

    Est rota fortunae variabilis ut rota lunae:
    Crescit, decrescit, in eodem sistere nescit[552].

E ciò che della fortuna, s'ha pure a dir del destino. Dante, ora fa
del volere divino e del fato una sola e medesima cosa, ora sembra che,
almeno fantasticamente, li distingua, e distingua pure il fato dalla
fortuna.

    Alto fato di Dio sarebbe rotto
      Se Lete si passasse e tal vivanda
      Fosse gustata senza alcuno scotto,

dice Beatrice là nel Paradiso terrestre[553]. Ma prima di lei Virgilio
aveva detto, distinguendo l'uno dall'altro:

    Senza voler divino e fato destro[554].

Vedendoselo capitare innanzi, laggiù in Inferno, Brunetto Latini chiede
a Dante:

                 qual fortuna o destino
    Anzi l'ultimo dì quaggiù ti mena?[555]

E lo stesso Dante che percuote col piè nel viso Bocca degli Abati, non
sa

    Se voler fu, o destino, o fortuna[556].

Ai grandi d'Italia il Petrarca gridava:

    Qual colpa, qual giudicio, o qual destino
    Fastidire il vicino
    Povero; e le fortune afflitte e sparte
    Perseguire?

Agl'influssi degli astri si dava assai più forza che i teologi non
volessero. Essi reggevano la vita di ciascun uomo, la prestabilivano
immutabilmente, e ne svelavano il corso sin dalla nascita. Nei lirici
nostri delle origini sono frequenti gli accenni all'irresistibile
potere degli astri, e per bocca di Marco Lombardo Dante biasima la
opinion comune che al loro influsso appunto assoggettava tutte le cose
di quaggiù:

    Voi, che vivete, ogni cagion recate
      Pur suso al cielo, sì come se tutto
      Movesse seco di necessitate[557].

Ma Cino da Pistoja prega Cecco d'Ascoli di scrutare nei cieli quali
stelle sieno a lui, Cino, favorevoli, e quali contrarie, soggiungendo:

    E so da tal giudizio non s'appella.

E Cecco d'Ascoli, il quale mostra, come più tardi fa pure Gerolamo
Cardano, che la vita dello stesso Cristo fu soggetta al corso degli
astri, è, per questo e per altro, accusato di eresia, condannato,
bruciato vivo[558]. Il Petrarca, pur così avverso a tali credenze, dice
in un verso:

    Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce.

Gli è un fatto che quelle credenze erano radicate nello spirito dei
più e porgevano argomento a leggende e a novelle diffuse tra i volghi.
Un poeta spagnuolo del secolo XIV, Giovanni Ruiz, più conosciuto
sotto il nome di Arciprete d'Hita, dice che nessuno può sfuggire alla
propria sorte, e narra a tale proposito un esempio che vive ancora
nelle letterature popolari dei giorni nostri. Cinque astrologi, tratto
l'oroscopo al figliuolo pur allora nato di un re moro, predissero
ch'egli morrebbe lapidato, bruciato, precipitato, impiccato, affogato.
Il re, dubitando di qualche ciurmeria, fece trattenere e custodire
gli astrologi, per vedere che cosa seguisse di quella strana e,
in apparenza, contraddittoria lor profezia. Passati più anni, il
figliuolo, divenuto adolescente, chiede un giorno al padre e ottiene
il permesso di andare a caccia. Si scatena una furiosa tempesta, e il
giovinetto è, insieme co' suoi, lapidato da una orribil grandine. In
quell'ora istessa, passando egli un ponte, lo investe la folgore: il
ponte si squarcia sotto a' suoi piedi; egli precipita, rimane appeso
per le vesti ad un albero, ma si sommerge con parte del corpo nel
fiume. Così muore lapidato, bruciato, precipitato, impiccato, affogato,
secondo dagli astrologi era stato predetto[559].

Durante tutto il medio evo si credette pure ai giorni perigliosi,
che in numero variabile (sino a quarantaquattro, se non più) veggonsi
registrati nei calendarii. Chi in uno di quei giorni infermava, non
guariva più; chi si poneva in viaggio, più non tornava; chi toglieva
moglie aveva l'inferno in casa. Qualunque cosa si cominciasse a fare
in quei giorni non se ne poteva sperare buon fine. Ancora oggi dice il
popolo:

    Di Venere nè di Marte
    Non si sposa e non si parte.

C'erano necessità che sfidavano la stessa potenza di Dio. Fra Filippo
da Siena (XIV secolo) narra la storia di uno sceleratissimo soldato,
che venuto a morte, disse al confessore, il quale lo esortava a
pentirsi e a sperar perdono: «Io ho tanti nemici nell'altra vita,
che mi saranno contrarii, che se Dio mi volesse perdonare quasi non
potrebbe»[560].


II.

Tali immaginazioni e credenze appajono, nel medio evo, incarnate in
numerosi racconti, de' quali alcuno ripete un tema pagano antico, altri
sono certamente venuti dall'Oriente, altri sono, secondochè si può
ragionevolmente congetturare, nati qua e colà, fra le genti cristiane,
senza che sia possibile dire nè come nè quando.

Il tema più usuale e più diffuso di racconto è quello di una sequela
di casi, meravigliosi e terribili, pronunziati di lunga mano, i quali
si effettuano a dispetto di quanti provvedimenti furono presi in
contrario; anzi, molte volte, in grazia di quei provvedimenti medesimi.
Nasce un bambino, o una bambina: gli astrologi, o gl'indovini, o
alcun'altra persona, umana o soprannaturale, a cui sia data facoltà
di leggere nel futuro, predicono che l'essere novamente nato morrà di
mala morte, in tale o tal modo; o soggiacerà a gravi sciagure; o di
gravi sciagure sarà cagione altrui. I genitori, o altre persone cui
ciò importi, chiudono e custodiscono il fanciullo, o la fanciulla, in
un palazzo, in un castello, in un fondo di torre, o li abbandonano in
luogo deserto, o li gettano in mare, o in altro modo procacciano, senza
venirne a capo, la morte loro. Dopo alcuni anni, tutto quanto era stato
preveduto e annunziato, subitamente e irresistibilmente si compie.

Il più antico racconto di tal fatta che si conosca è la storia del
Principe predestinato, scritta in Egitto ai tempi della XXª, se non
pure della XVIIIª dinastia, ma narrata forse fra quel popolo assai
prima che scritta: dopo di essa si può ricordare la storia di Ati,
figliuolo di Creso, riferita da Erodoto. Nel medio evo corsero fra le
genti cristiane numerosi racconti inspirati da quel tema, alcuni dei
quali mi pajono meritare uno speciale ricordo.

Anzi tutto è da avvertire che il mito di Edipo, il quale è, fra i
miti dell'antichità pervenuti sino a noi, quello che più fortemente
esprime il concetto del fato, non solo fu cognito al medio evo, ma
fu, da scrittori di quella età, ripetuto, e preso a soggetto di nuove
composizioni. Abbiamo di un ignoto poeta, vissuto non più tardi del
XII secolo, una lamentazione latina di Edipo sui corpi de' suoi due
figliuoli. Edipo dice, tra l'altro, che tutta la sequela dei luttuosi
avvenimenti, sino al fratricidio, era stata preordinata dal fato:

    Ab antiqua rerum congerie
    cum pugnarent rudes materiae
    fuit moles hujus miseriae
    ordinata fatorum serie[561].

In quello stesso secolo XII, un poeta francese, che non si sa con
certezza chi fosse, introduceva il mito classico in un poema che ha il
proprio argomento, e quasi anche il titolo della Tebaide di Stazio, il
_Roman de Thèbes_[562], poema che fu, assai probabilmente, tradotto o
rifatto in Italia[563].

Ma queste sono reminiscenze e ripetizioni di carattere puramente
letterario, le quali non provano punto che la credenza nel fato
durasse ancor viva tra le genti cristiane. Molti miti, e moltissime
storie dell'antichità classica furon tolti nel medio evo a soggetto
di nuove composizioni, sia a fine di sola esercitazione scolastica,
sia per imbandir nuovo pascolo a menti avide di meraviglie. Ed era,
in certi casi, non pur naturale, ma necessario, che chi si faceva a
ripetere quei miti e quelle storie, lasciasse parlare in essi dottrine
e credenze, che se non quadravano con le sue proprie, erano pur quelle
che avevano governato i suoi eroi; come in altri casi era pur naturale,
fatta ragion dei tempi e della coltura, che il ripetitore mutasse le
parti, e facesse pensare, parlare e operare come cristiani i personaggi
mitici o storici di Grecia e di Roma. Difficilmente avrebbe potuto
un poeta letterato del medio evo rinarrare la storia d'Edipo senza
lasciarvi al fato l'officio che v'ebbe in antico; e perciò quelle
ripetizioni erudite nulla provano, come ho detto, in favore di una
vera e propria credenza: ma quando noi vediamo quel mito riapparire in
racconti affatto popolari per indole e per fattura, i quali non dànno
segno d'esser passati mai per nessuna trafila letteraria; o quando
vediamo il tema, e come lo spirito di esso, trasportati ad un racconto
di origine bensì letteraria, ma affatto cristiano pel soggetto e per
gl'intendimenti, noi non possiam più venire nella medesima conclusione
negativa, noi abbiamo la prova che una certa credenza nel fato vive,
per quanto alterata o contraddetta da altre credenze, nell'intimo della
coscienza cristiana. Lascio in disparte i racconti popolari che qui
potrebbero essere ricordati, e metto innanzi il racconto di origine
letteraria, racconto che com'ebbe giustamente a osservare il D'Ancona,
non diventò mai veramente popolare, sebbene abbia avuto diffusione
grandissima, e nel quale tutti quasi i critici ebbero a riconoscere il
mito di Edipo trasformato, appropriato ad altre persone, trasportato in
altro ambiente morale. Questo racconto è la leggenda di Giuda[564].

Il medio evo fantasticò molto intorno all'apostolo traditore, alla sua
fine scelerata, agli atroci castighi inflittigli dalla divina giustizia
nell'ultimo fondo d'inferno, o in altri luoghi di pena, sulla faccia
stessa della terra, perchè potesse essere ai vivi di ammonimento e di
terrore. Per una inclinazion naturale, e di cui non poteva rendersi
conto pienamente, la coscienza cristiana era tratta ad aggravare
sempre più la malvagità di quanti, in uno od in altro modo, avevano
procacciato la morte di Cristo e preso parte, con animo di nemico, alla
sua passione, ed in ispecie la malvagità di colui che l'aveva tradito
e venduto. La leggenda compie l'usato suo lavoro di concatenazione e
di accumulazione così pel bene come pel male; fa magnanimi e forti gli
eroi sin dall'infanzia, fa tristi e vili i malvagi sin dalla culla;
cerca, con avvedimento degno di un più maturo sapere, negli antenati,
nella fortuna delle cognazioni, la causa delle virtù e delle colpe
dei nipoti, e non si cheta finchè non abbia creato figure compiute e
perfette, e interi lignaggi di scelerati e di eroi. Così fece di Giuda,
collegando al misfatto finale tutta una sequela di misfatti e di colpe,
ch'entran gli uni negli altri come gli anelli di una lunga catena;
sequela che si inizia prima ancora che il maledetto sia nato.

Quando e dove e per opera di chi questa leggenda sia sorta, non si sa.
Verso la fine del secolo XIII la narrò Giacomo da Voragine, traendola
da una storia certamente latina, ch'egli stesso dice apocrifa, ma della
quale non si hanno altre notizie[565]. Un uomo di Gerusalemme, chiamato
Ruben o Simone, aveva per moglie una donna: chiamata Ciborea. Costei
sognò una notte di mettere al mondo un figliuolo che sarebbe cagione
della ruina di tutto il suo popolo, e narrò il sogno al marito. Passato
certo tempo, partorì un bambino, e ricordando il sogno, consenziente
il marito, lo mise in una cesta e lo buttò in mare. Le onde portarono
la cesta a un'isola detta Scariot, dov'era una regina, che non avendo
figliuoli, fece allevare il bambino segretamente, si finse gravida,
e diede a intendere al marito e a tutto il popolo che il trono aveva
finalmente un erede. Grande fu la letizia nel regno. Il fanciullo ebbe
nome Giuda Scariote, e il re lo fece nutrire ed educare magnificamente;
ma non andò molto che la regina ingravidò davvero, e diede alla luce
un figliuolo. I due fanciulli crescono insieme, e Giuda comincia a far
palese la malvagia sua indole maltrattando il presunto fratello. La
regina parteggia naturalmente pel figliuolo vero contro il supposto. Si
scopre il fatto della supposizione: Giuda, pien d'ira e di vergogna,
uccide di nascosto il rivale, poi temendo il castigo, fugge, ripara
in Gerusalemme, ed è accolto da Pilato che lo fa suo maggiordomo.
Accanto al palazzo di Pilato era l'orto di Ruben, padre di Giuda;
nè questi sapeva di cui fosse figliuolo, nè quegli immaginava che il
bambino commesso un dì alle onde fosse scampato dalla morte. Standosi
un giorno Pilato alla finestra, vede nell'orto del vicino alcuni frutti
bellissimi, ed è preso da un irresistibile desiderio d'averne. Giuda,
per fargli cosa grata, va e comincia a coglierne. Sopravviene Ruben;
nasce una contesa, e alle parole tenendo dietro le busse, Giuda, con
una sassata fra capo e collo, uccide il padre. Pilato dà in premio
all'amico suo tutto l'avere di Ruben, e per giunta gli fa sposare
Ciborea. Non passa gran tempo e i due sposi si riconoscono. Ciborea
induce il figliuolo e marito ad andare a trovar Cristo, e chiedere
a lui il perdono de' suoi misfatti. Cristo accoglie Giuda fra suoi
discepoli, poi fra gli apostoli: il resto è noto.

Che l'intenzione dell'autore della favola sia stata quella di rendere
vie più malvagio e di mettere in sempre più mala vista l'apostolo
traditore, è chiaro; ma si deve pur riconoscere, da altra banda,
che egli non raggiunge troppo bene lo scopo, e che la favola da lui
narrata, assai più che alla malvagità di Giuda, fa pensare all'occulto
destino da cui questo è tratto a compier misfatti ch'egli propriamente
non volle, e la cui mostruosità non conosce se non dopo averli
compiuti. Il parricidio e l'incesto non sono propriamente delitti
suoi, ma del destino, del _fatum invictum_, che ciò che vuole opera,
e così saranno gli altri delitti che lo sciagurato commetterà, e che
avranno per ultima, inevitabile conseguenza la ruina e la dispersione
del popolo d'Israele, annunziata dal sogno fatidico. Un certo concetto
e spirito di fatalità appajono del resto in un'altra leggenda, che
anch'essa si lega al nome di Giuda, la leggenda dei trenta denari,
prezzo del tradimento, narrata da parecchi nel medio evo, e, fra gli
altri, da Gotofredo da Viterbo, che certamente, per altro, non fu
il primo a narrarla[566]. I trenta denari furono coniati da Nino, re
degli Assiri, con la propria effigie, e, diranno alcuni, con l'oro che
Adamo portò seco, uscendo dal Paradiso terrestre[567]. Abramo li portò
con sè nella Terra di Canaan, e con essi fu comperato dagli Ismaeliti
Giuseppe, il figliuol di Giacobbe. Passarono dopo per molte mani;
furono nei tesori di Faraone, di Salomone, di Nabuccodonosorre, sempre
insieme raccolti. I magi ne fecero offerta al bambino Gesù. Da ultimo,
per ordine dello stesso Gesù, furono donati al tesoro del Tempio di
Gerusalemme, d'onde passarono nelle mani di Giuda, e poi in quelle dei
militi che furono posti a guardia del sepolcro. In un poema tedesco del
XII secolo si dice che la Vergine Maria mandò dal cielo trenta monete
al re Orendel, perchè potesse comperar con quelle la veste di Cristo, e
il poeta avverte espressamente che per altrettante fu venduto Cristo da
Giuda[568]. Ecco dei denari predestinati, com'è predestinato il legno
della croce nella leggenda famosa di questo nome.


III.

Più strano parrà vedere il fato introdursi nelle storie dei santi, ed
esser causa precipua dei casi che vi si narrano. Non altrimenti segue
nella storia di quel San Giuliano, che, sotto nome di Ospedaliere, ebbe
culto celebre nel medio evo, e fu il natural protettore dei viandanti e
di quanti abbisognavano d'albergo e di ristoro. La sua leggenda, che fu
diffusissima per l'Europa, diede argomento, tra l'altro, a una gustosa
e nota novella del Boccaccio e a un dramma di Lope de Vega[569].
Vincenzo Bellovacense e Giacomo da Voragine la narrano press'a poco
allo stesso modo[570].

Giuliano, di nobile famiglia, inseguiva un giorno, essendo giovine, un
cervo alla caccia. A un tratto il cervo si volta, e facendo intendere
umano linguaggio, gli dice: Osi tu d'inseguirmi, tu che ucciderai tuo
padre e tua madre? Inorridito di tale annunzio, il giovine diserta la
casa, abbandona la patria, e fugge in remoto paese, ove diportandosi
assai valorosamente in guerra ed in pace, entra in grazia del principe,
che lo fa cavaliere, e gli dà in moglie una vedova nobile e in dote un
castello. Intanto i genitori di Giuliano, non si potendo dar pace della
perdita del figliuolo, andavano pellegrinando, chiedendo di lui in ogni
luogo, e tanto andarono che giunsero a quello stesso castello ov'egli
faceva con la moglie dimora. Quel giorno appunto Giuliano s'era per
poco assentato. La donna, riconosciuti, discorrendo, i genitori di suo
marito, li accoglie benevolmente, e li fa coricare entrambi nel letto
conjugale, adagiandosi ella in altro letto. Ecco la mattina seguente
torna Giuliano, mentre la moglie sua er'ita in chiesa, ed entrato in
camera, veduti i due addormentati, crede senz'altro sieno la moglie
infedele e lo adultero, e tratta in silenzio la spada, li uccide.
Conosciuto indi a poco l'errore, disperato e piangente, risolve di
espiare con asprissima penitenza l'involontario delitto, e subito vi si
accinge, insieme con la moglie, che non vuole abbandonarlo. Trascorsi
molti anni, dopo un miracolo che assicura Giuliano dell'ottenuto
perdono, muojono entrambi in grazia di Dio[571].

Come nella leggenda di Giuda, il destino, in questo racconto, non è
nominato, ma è presupposto e sottinteso: esso è dietro gli avvenimenti
che, senza altrui volere, si compiono; è la forza primordiale,
ineluttabile, occulta, che li preordina e li promuove, incalzando.
Giuliano non è, come Giuda, un malvagio. All'annunzio dell'orrenda
sciagura che minaccia lui, e per lui i suoi genitori, egli fugge, egli
pone di mezzo, tra' suoi genitori e sè, i monti ed i mari, studiandosi
di opporre, in qualche modo, alle insidie del fato i ripari della
natura. E che qui del fato propriamente si tratti, e non di altra
potenza, si può conoscere con poco studio. Se cagion prima degli
avvenimenti fosse il demonio, la leggenda ascetica non lascerebbe
di farne cenno; e poi, al cristiano, armi contro il demonio non
mancano. Nemmeno si può dire che gli avvenimenti qui sieno opera della
provvidenza divina. Molte volte, gli è vero, la provvidenza divina,
secondo il concetto che se ne forma il credente del medio evo, opera il
male, o sembra operare il male; ma sempre per impedire mali maggiori,
per conseguire un fine buono. Questo concetto è in più particolar modo
significato nella leggenda celebre dell'angelo e dell'eremita, della
quale non è qui luogo a discorrere[572]. Ma nella leggenda di Giuliano
non si vede a qual fine buono serva il doppio parricidio; perchè se
si dice che esso serve a far di Giuliano, mediante la penitenza, un
santo, il mezzo ci sembra troppo sproporzionato al fine, e privo di
ogni ragionevole relazione con esso. In fatti, Giuliano è buono sin
da principio, e non s'intende che bisogno ci sia di trarlo con sì
violento modo all'ascetismo, e sopratutto poi non s'intende che bisogno
ci sia di farlo avvertito del parricidio ch'egli dovrà mal suo grado
commettere. Così non si comporta la divina provvidenza; ma così si
comporta per lo appunto il fato. Lo stesso Giuliano sente e mostra di
sentire che il terribile decreto viene, non già da Dio, ma da un'altra
potestà. Dio si lascia piegare e muta i suoi decreti: egli non è sordo
alla preghiera, alla voce di chi implora perdono, o soccorso;

    _Regnum coelorum_ vïolenza pate
      Da caldo amore e da viva speranza,
      Che vince la divina volontate,

dice Dante[573]. Ma il fato non si piega e non si muta. Giuliano, udito
il formidabile annunzio, non ricorre a Dio, non prega, non si umilia;
ma fugge, tratto dall'unica e, starei per dire, istintiva speranza di
nascondersi, di far perdere al destino la traccia di sè, di fargli
scambiar la via, come usa la belva inseguita dai cani. Ma nemmeno
questo avvedimento gli riesce; anzi in grazia di esso la predizione
si compie: truce ironia, che fa più oltraggioso l'evento, mesce alla
tragedia lo scherno.

Molto simile alla leggenda di san Giuliano è la leggenda di sant'Ursio,
venerato più particolarmente nella diocesi di Vicenza; nè so quale
delle due possa aver servito di modello all'altra, se pur non nacquero
entrambe spontaneamente. Ursio, nato in Francia di nobili genitori,
era ancora lattante, quando un pellegrino annunziò alla madre che il
figliuol di lei sarebbe un dì parricida. Passano gli anni, e Ursio
cresce in corte dell'imperatore, valente della persona, esperto
nell'armi. Dalla madre, che non può guardarlo senza piangere, viene
a conoscere il terribile vaticinio, ed egli, senza frappor dimora,
lascia la patria e se ne va con un suo compagno in Dalmazia. Quivi
uccide molti pagani, converte il re loro alla fede di Cristo, ne
sposa la figliuola, e sale poi, morto il suocero, sul trono. Il
padre del giovine, avuta notizia di questi casi, muove per venirlo a
trovare, e càpita al reale palazzo giusto in tempo che il figliuolo
era ito a cacciare. Si fa ciò nondimeno riconoscere dalla nuora, la
quale lo accoglie in quel medesimo letto in cui ella riposa con un
suo fanciulletto. Il demonio, sotto sembianza di un cameriere, fa
credere a Ursio che la moglie gli manchi di fede. Ursio accorre, e,
ingannato dalle apparenze, uccide il padre, la moglie, il figliuolo.
Segue la scoperta della verità, l'orrore del misfatto commesso, la
penitenza[574].

In altri racconti non solo il destino non è nominato, ma non è nemmen
fatto cenno di casi preordinati che si debbano compiere: e pure si
sente che quei casi seguono, nella mente di chi li narra, per una forza
irresistibile, che non è la divina provvidenza, non è, il più delle
volte, il demonio, e tanto meno poi la umana volontà. Anch'essi sono, e
ciò va notato, leggende di santi.

Cominciamo da quella di sant'Albano[575]. Un possente imperatore del
Settentrione ama di amore incestuoso la propria figliuola, e la rende
madre di un bambino, ch'egli vorrebbe tor di mezzo facendolo uccidere,
ma che, per intercessione della madre, è mandato in Ungheria e quivi
esposto sulla pubblica strada. Un pallio prezioso, una borsa con
entro un anello e non poche monete d'oro, dànno indizio della origine
illustre del bambino, che, raccolto, è portato al re. Questi, non
avendo figliuoli, lo riceve assai lietamente, come un beneficio del
cielo, e accordatosi con la moglie, questa simula gravidanza e parto,
di maniera che da tutto il popolo si crede il bambino sia veramente
figliuolo de' suoi principi. Albano cresce di bellissimo aspetto,
di grande prestanza, di ottimi costumi, tanto che ne va la fama
all'imperatore, il quale, desiderando di lasciare l'antico peccato, e
nulla sospettando di un nuovo, pensa dargli la figliuola in isposa.
Si fanno le nozze pompose e solenni; madre e figlio son moglie e
marito e s'amano con gran tenerezza. Inferma intanto il re d'Ungheria,
e prima di morire svela ad Albano il segreto del suo ritrovamento,
e gli consegna il pallio e la borsa. Poco dopo, la donna, e Albano
stesso, poi l'imperatore, vengono a cognizione del resto. Lacerati dai
rimorsi, desiderosi di cancellare con penitenza adeguata i volontarii
e gl'involontarii peccati, ricorrono per consiglio a un vescovo, il
quale li manda a un santo eremita. Questi impone loro di andare esuli
per sett'anni, e per sett'anni essi vanno pellegrinando, ciascuno per
conto suo, con molto travaglio e fra molti pericoli, e ciascun anno
se ne tornano al santo eremita per avere da lui consiglio e conforto.
Passato il termine prescritto, fatti mondi oramai d'ogni colpa, si
ritrovano insieme, e insieme s'avviano alla dimora dell'eremita.
Ma, andando, smarriscono la via e sono soprappresi dalla notte in
un bosco. Il giovine, in mal punto, compone pei genitori un letto di
foglie, e va a dormir sopra un albero. Ma il demonio risveglia nel cuor
dell'imperatore e della donna l'antico ardore scelerato; essi ricadono
in colpa, e il giovine, ch'è di ciò testimone, vinto dallo sdegno,
entrambi li uccide. Comincia allora per lui una seconda penitenza, che
dura altri sett'anni, in capo dei quali, avendo rinunziato al regno,
e accingendosi a condur nella solitudine il resto de' suoi giorni, è
assalito da ladroni ed ucciso. I miracoli che seguono fanno prova della
sua santità[576].

Più antica, e più famosa della leggenda di sant'Albano è la leggenda di
san Gregorio papa, da cui quella forse deriva. Un conte d'Acquitania
ama per istigazione del diavolo la propria sorella e pecca con lei.
Nasce dal loro peccato un bambino, il quale, per ordine della madre,
è posto entro una barca in mare, insieme con quattro marchi d'oro, un
pallio alessandrino, e alcune tavolette d'avorio ov'è narrata la storia
del suo nascimento. Il padre, che ad espiar la colpa, aveva fermo
d'andarne in pellegrinaggio a Gerusalemme, inferma e muore. Allora
molti baroni si fanno attorno alla donna, rimasta erede di tutto il
dominio, e la sollecitano, perchè scelga uno di loro in isposo; ma ella
ostinatamente ricusa. Di ciò sdegnato, un duca le muove guerra, e il
contrasto dell'armi durerà lunghi anni. Frattanto il bambino è tratto
fuori dall'acque da due pescatori che sono al servizio di un'abbazia,
ed allevato, per ordine dell'abate, da uno di essi. Il fanciullo cresce
degno del suo lignaggio; ma azzuffatosi un giorno con un figliuolo del
pescatore, viene a sapere dalla moglie di costui, sdegnata, la propria
storia. Allora va a trovare l'abate, e gli annunzia la deliberazione
presa d'andar vagando pel mondo, in cerca d'avventure. L'abate si
studia di consolarlo e di dissuaderlo, lasciandogli intendere che
potrà, col tempo, diventare abate a sua volta, ma il giovine si mostra
sordo ad ogni consiglio, dice di voler essere non frate, ma cavaliere,
e ottenute le tavolette di avorio ov'è scritta la storia del suo
nascimento, se ne parte, ripassa il mare, e giunge al paese materno
giusto in punto che l'ultima città, dopo lunga guerra devastatrice, sta
per cadere nelle mani del nemico. Sconosciuto, offre i suoi servigi,
che sono tosto accettati. Combatte, sconfigge gli avversarii, fa
prigione il duca, e in premio della vittoria ottiene la mano della
contessa. Ma già s'avvicina la prevedibil catastrofe. Le tavolette fan
conoscere alla donna chi sia Gregorio, e questi non tarda a conoscere
chi sia colei ch'egli chiama col nome di sposa. Egli impreca al
demonio, cui imputa l'accaduto, e d'accordo con la madre, risolve di
cancellare con asprissima penitenza la colpa. Un pescatore, cui egli
ha fatto noto il suo divisamento, lo conduce in cima a uno scoglio in
mezzo al mare, lo avvince di ceppi, getta la chiave dei ceppi in acqua,
e lo abbandona senza più curarsi di lui. Passano diciasette anni. In
Roma muore il pontefice, e un angelo, messo dal cielo, indica nuovo
pontefice ai Romani il penitente, senza per altro far noto il luogo di
sua penitenza. Muovono ambasciatori in traccia dell'eletto di Dio, e
càpitano alla capanna del pescatore, il quale nel ventre di un grosso
pesce, che dee servir loro di cena, trova la chiave gettata diciasette
anni innanzi nel mare. Gregorio diventa papa, e la madre di lui, che il
tutto ignora, si reca a Roma per confessargli i suoi peccati. Madre e
figlio si riconoscono. Quella entra, per esortazione di questo, in un
chiostro, ed entrambi finiscono santamente la vita[577].

A noi ora non importa sapere chi sia stato, nel pensiero del primo
narratore quel Gregorio papa; se Gregorio Magno, o Gregorio V, o
Gregorio VII, o altro meno illustre. Le opinioni sono su di questo
punto discordi, e l'una non ha nella storia più fondamento dell'altra.
Non cercheremo nemmeno se la leggenda di san Gregorio, e quella di
sant'Albano, e alcun'altra simile, abbiano, o non abbiano, col mito
di Edipo, relazione diretta o indiretta, prossima o remota, se ne
sieno in qualche modo una derivazione o un riflesso, perchè anche
intorno a ciò dissentono i critici, e a noi non importa, pel proposito
nostro, confrontarne e discuterne i pareri[578]. Ma bene c'importa
sapere quale sia il concetto che in esse s'accoglie. Secondo il
Comparetti, quel concetto sarebbe che non vi è così grave e mostruoso
peccato che non possa con opportuna penitenza e per i meriti di Cristo
ricomperarsi[579]. Non v'è dubbio che più ragioni favoriscono tale
opinione. La dottrina e il sentimento cristiano conferirono alla
penitenza valor grandissimo, non inferiore a quello che in India
le fu attribuito dagli adoratori di Brama e dai seguaci del Budda.
Albano e Gregorio compiono asprissime penitenze, e diventano santi
e s'acquistano il regno dei cieli. Ciò si può dire anche di Giuliano
e di Ursio. Nei _Gesta Romanorum_, la leggenda di san Giuliano reca
in fronte la seguente intitolazione: _Quod omne peccatum, quamvis
predestinatorie gravissimum, nisi desperationis baratro subjaceat,
sit remissibile_[580]: parole che appunto richiamano l'attenzione
sulla gran virtù della penitenza. Ma non è però men vero che a provare
quella virtù, e a persuadere altrui di farne esperimento, avrebbero
giovato assai meglio storie ed esempii di uomini veramente malvagi, i
quali avessero con acconcia penitenza ottenuto il perdono di peccati
volontariamente commessi. E di tali storie ed esempii v'era dovizia,
nonchè altrove, nei leggendarii dei santi, ov'è memoria di omicidi, di
predoni, di prostitute e di molt'altri malvagi dell'uno e dell'altro
sesso, i quali ravvedutisi in tempo, e fatta debita ammenda dei loro
peccati si riconciliarono con Dio e andarono a gloria eterna. In un
vecchio racconto islandese si narra di un padre e di una figliuola,
che peccarono insieme, e generarono tre figliuoli, i quali, nati
appena, furono uccisi dalla madre. La madre di costei, e moglie del
padre incestuoso, avendo scoperta la tresca, è uccisa dalla figliuola,
che poi uccide anche il padre, quando questi, pentito, le annunzia
di volersi separare da lei e andare in pellegrinaggio in Terra
Santa. Compiuto questo nuovo misfatto, la scelerata femmina toglie
l'oro paterno, e va in altra città, e qui mena vita dissolutissima e
vituperosa. Ma un giorno entra in una chiesa, ove predicava un santo
vescovo, e colta da amarissimo pentimento, e dall'angoscia della
contrizione, muore dopo essersi confessata, ma prima d'avere ottenuta
l'assoluzione. Una voce dal cielo annunzia ch'ella è salva e fatta
compagna di Cristo[581].

In questo, e in altri racconti simili, è veramente dimostrata, con
le giustificazioni opportune, la virtù della penitenza, ma non nelle
storie di Gregorio, di Albano, di Ursio e di Giuliano, i quali non
vogliono nessuno dei misfatti che commettono, e perciò non sono
malvagi, ma sciagurati, e non dovrebbero aver bisogno di penitenza, ma
di soccorso. Certo, tra i fatti narrati in esse, non può essere quella
logica consecuzione, e quella giustificazione reciproca che non era
nemmeno fra i pensieri, i sentimenti e le credenze degli autori loro;
ma non è men vero che il concetto il quale sembra se ne sprigioni
con più vigore è il concetto di una forza occulta che trae gli
avvenimenti e le fortune in modo disforme da ogni avvedimento umano,
o, a dirittura, in contrario di ogni umano avvedimento; il concetto
stesso del fato, che nella leggenda di san Gregorio appena si occulta
dietro il supposto di un'azione diabolica. Giuliano, Ursio, Albano,
Gregorio, peccano senza sapere e senza volere, e se non facessero
penitenza sarebbero irremissibilmente dannati. Non è questa fatalità
bella e buona? Essi, come Edipo, purgano in sè la colpa del fato, e la
provvidenza nei casi loro non interviene se non forse per volgere da
ultimo a fine buono la lunga sequela dei mali, o, piuttosto, per trarre
dal male il bene.


IV.

Il fato si mostra in più diversi modi, e talvolta anche più aperto, in
altre leggende, varie di età, di origine, di carattere.

Gli eruditi sanno che la leggenda dei santi Barlaam e Giosafat, la
quale appare da prima in greco, poi, nel XII secolo, in una versione
latina, d'onde passa in numerose versioni occidentali, mentre altre
versioni se ne moltiplicano in Oriente, altro non è se non la favolosa
storia del Budda, venuta d'India fra genti cristiane, e fatta essa
stessa cristiana. Di così fatte derivazioni ed appropriazioni sono
altri esempii in buon numero, e mercè loro si leggono di santi
cristiani, veri o immaginarii, storie meravigliose, narrate gran
tempo innanzi fra gl'infedeli, nelle più remote contrade dell'Asia.
A tacere di Barlaam, Giosafat non esistette mai, o esistette sotto
tutt'altro nome, chiamandosi prima Siddhârtha, poi il Budda[582].
Ecco che cosa si narra di lui. Un re dell'India, glorioso e possente,
ha, dopo averlo lungamente desiderato, un figliuolo. Gli astrologi,
consultati, annunziano mirabili cose; ma uno di essi svela che il
principe novamente nato abbandonerà il regno, e le pompe del mondo, e
la religione de' padri suoi per darsi a Cristo e alla vita ascetica.
Profondamente addolorato di tal predizione, il re fa rinchiudere il
figliuolo in un meraviglioso palazzo, dove ha tutto raccolto quanto può
rallegrare i sensi e lo spirito, e dove al fanciullo fanno compagnia
servitori e donzelli, cui fu severamente proibito di lasciarsi sfuggir
parola che alluda, comechessia, alla miseria del mondo, alla brevità
della vita, alla morte inevitabile. Spera il re per tal modo di
poter combattere nel figlio ogni innata inclinazione all'ascetismo
e contrastare al destino; ma torna vana ogni sua cautela. Giosafat
cresce, d'animo naturalmente austero e raccolto, e in breve acquista
cognizione della infermità, della vecchiezza, della morte, di quanto
la provvidenza paterna avrebbe voluto occultargli. Allora subito si
risolve. Istruito da Barlaam nella dottrina di Cristo, rigenerato nel
battesimo, egli rinunzia al regno, agli agi, al mondo, e si ritrae a
vita solitaria, mutando la corona del principe nell'aureola del santo.

Il tema del parricidio predestinato, che abbiam veduto porgere
argomento a leggende di santi, appare anche in parecchie storie
profane. Secondo un'antica tradizione, riferita la prima volta, verso
la fine del secolo X, nella cronica che va sotto il nome di Nennio,
e ripetuta poi da parecchi, tra gli altri dal poeta normanno Wace
nel XII, Bruto, figliuolo di Silvio e nipote di Enea, Bruto, che
diede il nome alla Brettagna, uccise involontariamente la madre ed
il padre, secondo era stato predetto dagl'indovini[583]. In un poema
latino, attribuito a Ildeberto di Lavardin, già citato, o a Bernardo
di Chartres (XII secolo), si narra di due sposi di Roma, i quali si
struggevano d'aver figliuoli, e a' quali fu predetto che il figliuolo
nato da loro ucciderebbe, per decreto del destino, il padre[584].
In un racconto olandese d'incerta età si legge di uno sconosciuto
eroe, Seghelino di Gerusalemme, che esposto appena nato, è raccolto e
allevato da un pescatore, compie, giovanissimo ancora, molte mirabili
imprese, sposa la figlia di Costantino Magno, trova insieme con lei la
croce, diventa imperatore, uccide imprudentemente il padre e la madre,
si fa eremita, e, come san Gregorio, finisce papa sotto il nome di
Benedetto I[585].

Ma non sempre il _fanciullo fatale_, che campeggia in tutti questi
racconti, uccide entrambi i genitori, o l'uno o l'altro di essi.
Talvolta, conformemente a una predizione fatta, egli acquista alcuna
gran dignità, per modo che i genitori diventano suoi soggetti e gli
si debbono umiliare dinanzi; oppure uccide il padre adottivo, ovvero
anche compie certa azione, o sale a certo grado, a dispetto di tutti
i provvedimenti presi in contrario. Parecchi di tali racconti si
leggono nelle varie redazioni del _Libro dei Sette Savii_, o in altre
così fatte raccolte, venuteci originariamente dall'Oriente[586]. Uno
speciale ricordo merita a questo punto una curiosa favola, che di
Costanzo, padre di Costantino, si legge in un racconto francese del
secolo XIII[587]. Un imperatore di Bizanzio, a nome Muselino, vagando
una notte con alcuni suoi cavalieri per la città, s'imbatte in un
uomo, il quale, pregando ad alta voce, chiede a Dio alternatamente due
grazie, l'una all'altra contraria: la prima che gli faccia sgravare
felicemente la moglie soprappresa dalle doglie del parto; la seconda,
che non permetta a costei di partorire. Stupito, l'imperatore interroga
lo sconosciuto, il quale risponde la contraddittoria preghiera essergli
suggerita dalla scienza di astrologia, che egli appieno intende,
e che gli mostra quali sieno i buoni e i maligni influssi degli
astri, e quale il punto del tempo propizio o infausto al nascere.
Soggiunge poscia d'avere ottenuto che il suo figliuolo nasca in punto
felicissimo, e che però questi sposerà la figlia dell'imperatore,
e all'imperatore succederà nel dominio. Sdegnato e turbato di tale
annunzio, Muselino si parte; poi manda un suo cavaliere a involare
il bambino. Avutolo tra mani, gli fende il ventre, dallo stomaco
all'ombelico, e s'accinge a strappargli anche il cuore, ma, ad istanza
del cavaliere, nol fa, e ordina che così mezzo morto sia gettato
nel mare. Il cavaliere, cui non regge l'animo di eseguire il crudele
comando, depone il bambino davanti alla porta di un monastero. I frati
lo raccolgono, lo fanno curare, e in ricordo di quanto loro costò
l'opera dei medici, gli pongono nome Costante. Il fanciullo cresce
e dà assai buona speranza di sè. L'imperatore, che per caso viene a
conoscerlo e a sapere chi egli sia, risolve novamente di farlo morire,
e dovendo muovere contro a' nemici, consegna al giovinetto una lettera
da recapitare al governatore di Bizanzio, lettera che contiene una
sentenza di morte. Prima di recapitarla, Costante o Costanzo, entra
nel giardino imperiale e vi si addormenta. La figliuola dell'imperatore
lo vede, se ne innamora, legge la lettera, e s'affretta a sostituirne
un'altra, scritta da lei, con la quale s'ingiunge al governatore di
far sposare al giovine la principessa. L'imperatore, al suo ritorno,
trova il matrimonio già celebrato, e allora, rinunziando a' suoi tristi
propositi, riconosce Costante per figliuolo. Più tardi, Costantino,
figlio di Costante, diede a Bizanzio il nome del padre. Così ebbe
compimento la volontà del destino.

Molta somiglianza con questa storia di Costante ha la storia
dell'imperatore Enrico III, che Gotofredo da Viterbo (m. 1191) è forse
il primo a narrare. L'imperatore Corrado, secondo di questo nome, era
severissimo punitore di chiunque turbasse la pace. Un conte Lupoldo
che appunto era reo di tal colpa, temendo l'ira di lui, fuggì in una
selva remotissima, ed ivi si stette insieme con la moglie sua, abitando
in un tugurio. Avvenne che l'imperatore, cacciando, capitò da quella
banda, proprio la notte che la contessa metteva al mondo un bambino, e
standosi a riposare, udì per tre volte una voce dal cielo che diceva:
O imperatore, questo bambino sarà tuo genero e regnerà dopo di te. Sul
far del giorno Corrado diede ordine a due suoi famigli di uccidere il
bambino e di recargliene il cuore. Quelli, mossi a pietà, abbandonarono
la creaturina sopra un albero e recarono all'imperatore un cuor di
lepre. Certo duca, passando per di là, trova il bambino abbandonato,
lo prende con sè, e lo adotta come figliuolo. Passati molt'anni,
l'imperatore vede in casa del duca il giovine, e venutogli sospetto che
possa essere il bambino della selva, gli consegna una lettera che lo
danna a morte, e gl'ingiunge di portarla alla imperatrice. Ma un prete
scambia la lettera, sostituendone una in cui è ordinato all'imperatrice
di dare la figliuola in moglie al giovine. Così segue, e il giovine
diventa poi imperatore sotto il nome di Enrico III[588]. Nei _Gesta
Romanorum_ tedeschi questa medesima storia si trova narrata; salvo che
un re Annibale vi prende il posto dell'imperatore Corrado, e Lupoldo è
il duca che adotta il bambino[589].

Ma non sempre la _storia fatale_ si lega, come negli esempii recati sin
qui, a un _fanciullo fatale_: il destino prepara anche e svolge altri
temi e altri casi. Nel poema di Gudruna è fatale l'andata dei Burgundii
alla corte di Attila, fatale la strage loro, predetta dalle ondine.
Francesco Pipino, cronista bolognese del secolo XIV, narra nel seguente
modo la morte di quel Michele Scoto, che Federico II ebbe assai caro,
e che Dante pose per mago in Inferno. Michele previde ch'e' morrebbe
della percossa di un sassolino di peso determinato che doveva coglierlo
in capo, e a guardarsene si munì di una celata di ferro, e mai non
andava senz'essa. Ma un giorno, trovandosi in chiesa nel momento della
elevazione, per riverenza se la tolse, e in quel medesimo punto cadde
una pietruzza dal soffitto e lo colpì nel capo. Pesatala e trovatala
del giusto peso che aveva preveduto, conobbe essergli imminente la
morte, e dato ordine alle cose sue, poco dopo morì. E così, soggiunge
il cronista, si vede avverato per lui quel detto di Giuseppe Flavio,
che gli uomini non possono fuggire il destino nemmen quando il
prevedano[590].

Come abbiam veduto, si poteva peccare, servire il diavolo, rendersi
compartecipi della sua iniquità, e meritare l'eterna dannazione,
senza sapere e senza volere: è questo il luogo di dir qualche cosa
di una specie di predestinazione diabolica, in virtù della quale
l'uomo poteva esser dannato anche senza peccare, senza far nulla
che, a ragione o a torto, dovesse tirargli addosso sì fatta sorte.
Numerose storie del medio evo narrano di figliuoli consacrati, ceduti
o venduti al diavolo, prima ancora che nascessero, o dopo nati, dai
proprii loro genitori. Talvolta è il marito che così cede o vende la
moglie; tal altra, ceduto e cedente, venduto e venditore, sono affatto
estranei l'uno all'altro[591]. Nella novella popolare italiana di
Liombruno, che appare in istampa già nel secolo XV, è un pescatore,
che per assicurarsi buona pesca, cede il figliuolo al demonio. Chi
si trovava in tal condizione era irremissibilmente perduto, se una
fortissima volontà, o il cielo, non l'ajutavano. Fra Filippo da Siena,
già ricordato, narra la storia di due genitori, che avendo un loro
figliuolo malato, e non potendo ottenere da Dio che il guarisse,
ricorsero a una incantatrice, la quale, in loro nome, l'offerse al
diavolo. Il fanciullo da prima sembrò guarire; ma in capo di tre mesi
morì, e sotterrato tre volte, fu tre volte rigettato dalla terra
benedetta del cimitero, che mal volentieri accoglie i dannati. Da
ultimo se ne trovarono le membra lacerate e sparse per un bosco attiguo
alla chiesa[592]. Più ancora pesava la diabolica fatalità su quelli
ch'erano veri e proprii figli del demonio; ma nemmeno ad essi era
chiusa ogni via di salute; e se Ezzelino da Romano fu dannato, Merlino
e Roberto il Diavolo riuscirono a riscattarsi.

Gli uomini del medio evo credettero alla libertà dell'umano volere;
ma le azioni umane ed i casi assoggettarono a influssi, a necessità
molteplici. La terra, luogo per essi di passaggio e di prova, luogo
ancora di punizione, perchè vi espiavano l'antico peccato ereditario,
ond'erano macchiati già prima di nascere, cinta e chiusa tutta intorno
dai nove cieli di Tolomeo, li faceva inevitabilmente sottoposti a tutti
gli influssi che del continuo piovevano dagli astri. E altri influssi
salivano pur del continuo dal grembo di essa, ov'era il regno di Satana
e degli spiriti suoi, di guisa che l'uomo era preso in mezzo e premuto,
tra il cielo e l'inferno, da un doppio sistema di forze. C'era poi la
provvidenza divina, imperscrutabile ne' suoi fini e nelle sue vie, che
soprastava a quelle forze, ma lasciava pur luogo ed azione ad altre
potenze, oscure e mal definite, al caso, alla fortuna, al destino. Gli
uomini di quella età credettero nel destino, senza troppo discutere se
e come il potessero fare, e di tale loro credenza porgono documento,
oltre alle leggende e ai racconti che abbiamo veduti, innumerevoli
novelle popolari, che da quella età vennero sino a noi, e sono tuttora
vive nei parlari d'Europa.


NOTE:

[548] _Inferno_, VII, 73-96.

[549] _Lettere senili di_ FRANCESCO PETRARCA _volgarizzate e dichiarate
con note da_ Giuseppe Fracassetti, Firenze, 1869-70, lib. VIII, lett.
III, vol. II, p. 468; _Epistolae de rebus familiaribus et variae_,
ediz. Fracassetti, Firenze, 1859-63, _De rebus familiaribus_, lib.
XXII ep. 13, vol. III, pp. 160-1. Coluccio Salutati compose un libro
_De Fato et Fortuna_ che inedito si conserva nella Laurenziana. Vedi
per altre notizie bibliografiche ARPE, _Theatrum Fati, sive notitia
scriptorum de Providentia, Fortuna et Fato_, Rotterdam, 1712.

[550] Vedi PALERMO, _I manoscritti palatini di Firenze_, Firenze, 1853
sgg., vol. II, pp. 337 sgg.; DE SANCTIS, _Un dramma claustrale, Nuova
Antologia_, vol. XIII, 1870, pp. 437 sgg., ripubblicato in _Nuovi saggi
critici_, Napoli, 1879, pp. 77 sgg.; D'ANCONA, _Origini del teatro in
Italia_, Firenze, 1877, vol. I, pp. 187 sgg.; 2ª ediz., Torino, 1891,
vol. I, pp. 210 sgg.

[551] Il De Sanctis, che dice più cose buone ed acute intorno al
concetto che informa questo dramma, non accenna alla dottrina della
predestinazione, che pure vi tien tanto luogo. A me sembra che
principale intendimento dello sconosciuto autore di esso fosse appunto
di combattere quella dottrina e i perniciosi suoi effetti. Molti anni
innanzi Uguccione da Lodi aveva fatto lo stesso nel suo poema. Vedi
TOBLER, _Das Buch des Uguçon da Laodho_, estratto dalle _Abhandl. d. k.
preuss. Akad. d. Wissenschaften_ di Berlino, 1884, vv. 380 sgg.

[552] Vedi pure intorno a questo argomento MEDIN, _Ballata della
Fortuna_, in _Propugnatore_, serie IIª, vol. II (1889), pp. 101 sgg.

[553] _Purgat._, XXX, 142-4.

[554] _Inf._, XXI, 82.

[555] _Inf._, XV, 46-7.

[556] _Inf._, XXXII, 76.

[557] _Purgat._, XVI, 67-9.

[558] PIETRO D'AILLY (1350-1420) mostra il medesimo in un suo trattato
_De vita Christi_, e in una _Concordantia astronomiae cum theologia_.

[559] _Coleccion de poesias castellanas anteriores al siglo XV_, ediz.
di Parigi, 1840.

[560] _Gli assempri di_ FRA FILIPPO DA SIENA, pubblicati da C. F.
Carpellini, Siena, 1864, cap. 34, p. 117.

[561] Questo componimento fu pubblicato di su un codice del secolo XII
dall'OZANAM, _Des écoles et de l'instruction publique en Italie aux
temps barbares_, _Oeuvres_, Parigi, 1855-9, vol. II, pp. 377 sgg.,
e di su un codice del secolo XIII dal DU MÉRIL, _Poésies inédites
du moyen-âge_, Parigi, 1854, pp. 310 sgg. Lo ripubblicò da ultimo il
DUEMMLER, _Zeitschrift für deutsches Alterthum_, n. s., vol. VII, 1876,
pp. 89 sgg.

[562] Vedi CONSTANS, _La légende d'Oedipe étudiée dans l'antiquité, au
moyen-âge et dans les temps modernes, en particulier dans le_ Roman de
Thèbes, _texte français du XIIe siècle_, Parigi, 1881.

[563] Vedi RAJNA, _Il Cantare dei Cantari e il Serventese del Maestro
di tutte l'Arti, Zeitschrift für romanische Philologie,_ vol. II, 1878,
pp. 245-6, 429.

[564] Un racconto albanese, con la sua versione tedesca, diede
J. G. VON HAHN, _Albanesische Studien_, Jena, 1854, fasc. II, pp.
167-8; _Griechische und albanesische Märchen_, Lipsia, 1864, vol. I,
Introduzione, pp. 49-50; vol. II, pp. 114, 310. Il CAMARDA lo inserì,
tradotto in italiano, nella sua _Appendice al Saggio di grammatologia
comparata nella lingua albanese_, Siena, 1866, pp. 20-3. Un racconto
finnico riferì il GRAESSE, _Märchenwelt_, Lipsia, 1868, p. 208. Per
racconti slavi vedi NOVAKOVIĆ, _Die Oedipussage in der südslavischen
Volksdichtung, Archiv für slavische Philologie_, vol. XI, 1888, pp.
321-6. Cf. COMPARETTI, _Edipo e la mitologia comparata_, Pisa, 1867,
p. 83; D'ANCONA, _La leggenda di Vergogna_ ecc., _Scelta di curiosità
letterarie_, disp. XCIX, Bologna, 1869, p. 106. Il Comparetti, il
D'Ancona, il Constans, riconoscono nella leggenda di Giuda il mito di
Edipo; così pure il CREIZENACH, _Judas Ischarioth in Legende und Sage
des Mittelalters, Beiträge zur Geschichte der deutschen Sprache und
Literatur_, vol. II, 1875, p. 201; G. PARIS, _La littérature française
au moyen-âge_, 2ª ediz., Parigi, 1890, p. 203. Il CHOLEVIUS aveva
lasciata la cosa in dubbio, _Geschichte der deutschen Poesie nach ihren
antiken Elementen_, Lipsia, 1854-6, vol. I, p. 169.

[565] _Legenda aurea_, cap. XLV, _De sancto Mathia apostolo_, ediz.
Graesse, Dresda e Lipsia, 1846, pp. 184-5.

[566] _Pantheon_, part. XIV, PISTORIUS-STRUVIUS, _Scriptores rerum
germanicarum_, t. II, pp. 243-4, e in DU MÉRIL, _Poésies populaires
latines du moyen-âge_, Parigi, 1847, pp. 321 sgg. In italiano si ha
la leggenda nel _Fiore della Bibbia_ e in un codice della Biblioteca
Nazionale di Napoli: v. MIOLA, _Le scritture in volgare dei primi tre
secoli della lingua ricercate nei codici della Biblioteca Nazionale di
Napoli_, nel _Propugnatore_, t. XV (1882), parte 1ª, p. 168.

[567] Vedi in questo volume a pp. 39 e 61.

[568] _Der ungenähte Rock oder König Orendel, une er den grauen Rock
gen Trier brachte. Gedicht des zwölften Jahrhunderts übersetzt von_
KARL SIMROCK, Stoccarda e Tubinga, 1845, p. 32.

[569] Vedi nel volume seguente lo scritto intitolato _San Giuliano nel_
Decamerone _e altrove_.

[570] VINCENZO BELLOVACENSE, _Speculum historiale_, l. IX, c. 115;
GIACOMO DA VORAGINE, _Legenda aurea_, ediz. cit., c. XXX, pp. 142-3.
Una versione spagnuola della leggenda offre, sotto il titolo di _Carlos
y Lucinda_, un particolare degno di nota. Carlo, il padre di Giuliano,
ebbe questo figliuolo da una giovinetta a nome Lucinda, che egli rapì
da un convento in Ispagna e condusse in Napoli: DURAN, _Romancero
general_, Madrid, 1849-51, vol. II, pp. 332 sgg. Un testo italiano
della leggenda si ha nel _Propugnatore_, anno V (1872), parte 1ª, pp.
246 sgg.

[571] Un racconto notabilmente diverso da questo ebbe pur corso: vedilo
succintamente riferito negli _Acta Sanctorum_, t. I di maggio, ediz.
di Venezia, 1737, p. 227. Non so se sia quello stesso che si legge
nella collezione del BUTLER, _Lives of the fathers, martyrs and other
principal saints_, più volte stampato, ma che a me non fu dato vedere.

[572] Un testo latino ne diede il DU MÉRIL, _Études sur quelques points
d'archéologie et d'histoire littéraire_, Parigi e Lipsia, 1862, pp. 496
sgg. Vedi intorno alla leggenda G. PARIS, _La poésie au moyen-âge_, 2ª
ediz., Parigi, 1887, p. 151 sgg.

[573] _Parad._, XX, 94-6.

[574] _Acta Sanctorum_, t. cit., pp. 226-7.

[575] Altrimenti Albino. Vedi GREITH, _Spicilegium vaticanum_,
Frauenfeld, 1838, p. 159; SCHROEDER, _Sanct Brandan_, Erlangen, 1871,
p. XV, n. 24, p. 102, n. al v. 388.

[576] _Acta Sanctorum_, t. IV di giugno, ediz. di Venezia, 1743, pp.
94-5; HAUPT, _Vita Sancti Albani martyris_, in _Monatsberichten der k.
Preuss. Akad. der Wissensch. zu Berlin_, anno 1860, p. 241 sgg. Questa
leggenda porge pure argomento a una poesia basso-renana del secolo
XII, della quale rimangono solo alcuni frammenti, e si ritrova fra
i racconti dei _Gesta Romanorum_, ediz. Oesterley, Berlino, 1872, n.
244, pp. 641-6. Non dev'essere confuso col nostro un altro Sant'Albano,
che pecca con la figlia di un re, poi la uccide, e finisce con ottener
perdono delle sue colpe e rientrare in grazia di Dio. Vedi D'ANCONA,
_La leggenda di Sant'Albano, prosa inedita del secolo XIV, e la storia
di San Giovanni Boccadoro secondo due antiche lezioni in ottava rima,
Sc. di cur. lett._, disp. LVII, Bologna, 1865.

[577] _Vie du Pape Grégoire le Grand, légende française publiée pour
la première fois par_ Victor Luzarche, Tours, 1857. La leggenda sembra
nascere in Francia, ove appar già costituita verso la fine del secolo
XI: sarebbe inutile registrare qui le numerose versioni che di essa si
hanno in altre lingue.

[578] Intorno alla leggenda, e ai dubbii e alle questioni cui diede
e dà luogo, vedi: GREITH, _Op. cit._, pp. 137 sgg.; LITTRÉ, _Légende
sur le Pape Grégoire le Grand_, in _Histoire de la langue française_,
6ª ediz., 1873, vol. II, pp. 170 sgg.; COMPARETTI, _Op. cit._, pp.
89 sgg.; D'ANCONA, _Op. cit._, Introduzione; CONSTANS, _Op. cit._,
pp. 111-30; LIPPOLD, _Ueber die Quelle des Gregorius Hartmanns von
Aue_, Lipsia, 1869, pp. 55 sgg.; KOEHLER, _Zur Legende von Gregorius
auf der Steine_, in _Germania_, anno 1870, pp. 288-91; BIELING, _Ein
Beitrag zur Ueberlieferung der Gregorlegende_, Berlino, 1874; KOELBING,
_Ueber die englische Version der Gregoriussage in ihrem Verhältniss
zum französischen Gedichte und zu Hartmanns Bearbeitung_, in _Beiträge
zur vergleichenden Geschichte der romantischen Poesie und Prosa des
Mittelalters_, Breslavia, 1876, pp. 42-79; DIEDERICHS, _Russische
Vervandte der Legende von Gregor auf dem Steine und der Sage von Judas
Ischarioth_, in _Russische Revue_, vol. IX, pag. 119-46; SEELISCH, _Die
Gregoriuslegende_, in _Zeitschrift für deutsche Philologie_, vol. XIX
(1887), p. 385 sgg.

[579] _Op. cit._, p. 87.

[580] Ediz. cit., cap. 18.

[581] _Islendzk Aeventyri, Isländische Legenden, Novellen und Märchen
herausgegeben von_ HUGO GERING, Halle a. S., 1882-4, vol. II, pp.
105-7.

[582] Dei molti scritti che si potrebbero citare intorno alla leggenda
di Barlaam e Giosafat, mi basterà di ricordare i seguenti: LIEBRECHT,
_Die Quellen des Barlaam und Josaphat_, in _Jahrbuch für romanische
und englische Litteratur_, vol. II, pp. 314 sgg., riprodotto nel volume
_Zur Volkskunde_, Heilbronn, 1879, pp. 441 sgg.; COSQUIN, _La légende
des saints Barlaam et Josaphat, son origine, Revue des questions
historiques_, 1880; BRAUNHOLZ, _Die erste nichtchristliche Parabel
des Barlaam und Josaphat, ihre Herkunft und Verbreitung_, Halle,
1884; ZOTENBERG, _Notice sur le livre de Barlaam et Joasaph_, etc.,
in _Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Nationale_,
t. XXVIII, parte 1ª, 1886. In Italia la leggenda ebbe più redazioni
diverse, e diede anche argomento a una sacra rappresentazione.

[583] Vedi la cronica di NENNIO nel primo volume dei _Monumenta
historica britannica_, Londra, 1848. WACE, _Le roman de Brut_, publié
par Le Roux de Lincy, Rouen, 1836-8, vol. I, vv. 118-48, pp. 7-9.

[584] Sotto il titolo di _Mathematicus_, il poema fu pubblicato dal
Beaugendre fra le opere d'ILDEBERTO DI LAVARDIN, Parigi, 1708, coll.
1295 sgg. Vedi in proposito HAURÉAN, _Notice sur un manuscrit de la
Reine Christine à la Bibliothèque du Vatican_, in _Notices et extraits
des manuscrits de la Bibliothèque Nationale_, t. XXIX, parte 2ª, pp.
341-7.

[585] HOFFMANN VON FALLERSLEBEN, _Horae Belgicae_, Vratislavia, 1830-8,
parte 1ª, p. 69; _Seghelijn van Jherusalem naar het Berlijnsche en den
ouden druk uitgeg. door_ J. VERDAN, Leida, 1878.

[586] Nel dramma olandese d'_Esmoreit_, composto verso il mezzo del
secolo XIV, è un fanciullo, che, per decreto del destino, deve uccidere
il padre adottivo. Il dramma si scosta dalla novella onde attinge e la
profezia non si avvera. HOFFMANN VON FALLERSLEBEN, _Op. cit._, parte
6ª, pp. 3 sgg.; JONCKBLOET, _Geschichte der niederländischen Literatur_
(trad. dall'olandese), Lipsia, 1870-2, vol. I, pp. 306-7.

[587] _Contes dou roi Coustant l'Empereur_, nelle _Nouvelles françoises
en prose du XIIIe siècle_, pubblicate dal Moland e dal D'Héricault,
Parigi, 1856. Un racconto in versi, alquanto dissimile da questo in
prosa, pubblicò il WESSELOFSKY, _Le dit de l'empereur Coustant_, nella
_Romania_, vol. VI (1877), pp. 161 sgg.

[588] _Pantheon_, partic. XXIII, ediz. cit., pp. 333 sgg., e in PERTZ,
_Scriptores rerum germanicarum_, t. XXII, p. 243 sgg. Gotofredo
racconta questa storia in prosa e in verso, e molto più lungamente
in verso che in prosa. Essa si legge in molti altri cronisti, e nei
_Gesta Romanorum_, ediz. cit., num. 20, pp. 315-6, e nella _Legenda
aurea_, ediz. cit., cap. CLXXXI, pp. 840-1. Dei cronisti italiani
la riferiscono, o l'accennano, oltre l'anonimo autore della _Cronica
degli imperatori romani_, _Sc. di cur. lett._, disp. CLVIII, Bologna,
1878, pp. 149 sgg., anche RICOBALDO DA FERRARA, _Historia imperialis_,
ap. MURATORI, _Scriptores rerum italicarum_, t. IX, col. 120; GALVANO
FIAMMA, _Manipulus florum_, ap. MURATORI, _SS._, t. XI, col. 616;
GIOVANNI VILLANI, _Istorie fiorentine_, l. IV, cap. 14. Vedi pure
MASSMANN, _Kaiserchronik_, Quedlimburgo e Lipsia, 1849-54, vol. III,
pp. 1095-6.

[589] _Gesta Romanorum, das ist der Roemer tat herausgegeben von_
Adelbert Keller, Quedlimburgo e Lipsia, 1841, pp. 59 sgg.

[590] _Chronicon_, cap. L, ap. MURATORI, _SS._, t. IX, col. 670.

[591] Vedi, per alcuni esempii, VINCENZO BELLOVACENSE, _Speculum
historiale_, l. VIII, cap. 115; CESARIO DI HEISTERBACH, _Dialogus
miraculorum_, ediz. Strange, Colonia, 1851, dist. V, cap. 12;
_Miracle de l'enfant donné au diable_, in _Miracles de Nostre Dame par
personnages, publiés par_ G. Paris et U. Robert, Parigi, 1876 sgg.,
vol. I, pp. 1 sgg.; _Histoire littéraire de la France_, t. XXIII, p.
123.

[592] _Op. cit._, pp. 30-6.


  FINE DEL VOLUME PRIMO.



GIUNTE E CORREZIONI


Pagina 5. — Quando scrissi quella pagina io credeva assai più che ora
non creda all'autenticità del trattatello De aqua et terra attribuito
a DANTE. Vedi nel _Giornale storico della letteratura italiana_, vol.
XX (1892), pp. 125 sgg. un importante scritto del LUZIO e del RENIER,
intitolato _Il probabile falsificatore della «Quaestio de aqua et
terra»_.

Pag. 71. — Il poemetto _La Fenice_, da me ricordato come cosa che stia
da sè, non è se non parte della Quinta Giornata del _Mondo creato del
Tasso_, parte che fu anche impressa separatamente; onde l'errore.

Pag. 98. — Intorno ai manoscritti della _Navigatio Brendani_ vedi
STEINWEG, _Die handschriftlichen Gestaltungen der lateinischen
Navigatio Brendani_, in _Romanische Forschungen_, vol. VII, fasc. 1 (1
decembre 1891), pp. 1 sgg.

Pag. 166, n. 54. — Iššah significa donna in ebraico.

Pag. 182, n. 40. — Cf. il libro di A. MIDDLETON REEVES, _The finding of
Wineland the good, the history of the icelandic discovery of America,
edited and translated from the earliest records_, Londra, 1890.

Pag. 185, n. 58. — Intorno alle versioni italiane della _Navigatio
Brendani_ vedi NOVATI, _La «Navigatio Sancti Brendani»_ in antico
veneziano, Bergamo, 1892.

Pag. 236, n. 29. — Non è esatto il dire che l'isola di Papimanie,
descritta dal RABELAIS nel l. IV, cc. 48 e sgg. del _Pantagruel_
somigli molto al Paese di Cuccagna. In quell'isola, Homenaz descrive,
dopo desinare, la felicità di cui godrebbe il mondo sotto l'impero
delle santissime decretali, felicità non dissimile da quella che nel
Paese di Cuccagna si gode.



INDICE


  AVVERTENZA                                           _pag._ VII
  IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE                          »    IX
      INTRODUZIONE                                        »    XI
      CAPITOLO I. Situazione del Paradiso terrestre       »     1
      CAPITOLO II. Natura, condizioni e meraviglie del
                     Paradiso terrestre                   »    16
      CAPITOLO III. Gli abitatori del Paradiso terrestre  »    44
      CAPITOLO IV. I viaggi al Paradiso terrestre         »    73
      NOTE:
              Capitolo I                                  »   129
              Capitolo II                                 »   136
              Capitolo III                                »   158
              Capitolo IV                                 »   175
      APPENDICI:
              Appendice I                                 »   197
              Appendice II                                »   218
              Appendice III                               »   229
  IL RIPOSO DEI DANNATI                                   »   241
      NOTE                                                »   263
  LA CREDENZA NELLA FATALITÀ                              »   273
      NOTE                                                »   305



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

L'elenco delle "Giunte e correzioni" dell'intera opera si trova in
originale nel secondo volume. Quello relativo a questa prima parte è
stato qui riportato per comodità di consultazione.

Le note ai capitoli della sezione "Il mito del Paradiso terrestre",
nell'originale poste al termine della sezione stessa (come si può
notare nell'Indice), sono state spostate per necessità di trascrizione
alla fine dei capitoli cui si riferiscono.





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