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Title: Le streghe
 -        dono del folletto alle signore
Author: Defendente Sacchi, - To be updated
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Le streghe
 -        dono del folletto alle signore" ***


produced from images generously made available by Biblioteca
Nazionale Braidense - Milano)



   [Illustrazione: Congresso delle streghe o Sabbath]

   [Illustrazione: Frontespizio — Il castello degli spiriti]

                               LE STREGHE


                           DONO DEL FOLLETTO

                              ALLE SIGNORE


                               presentato

                          DA DEFENDENTE SACCHI



                                 MILANO
                       _Presso Francesco Manini_
                           _Catag. Zanaboni_



                         Proprietà letteraria.



ALLE NUOVE LEGGITRICI


Trent'anni or sono quel brioso ingegno di Defendente Sacchi dedicava
alle Signore gentili, come strenna nuovissima, l'illustrazione del
vecchio mondo quando si credeva ancora alle streghe. Quel suo spiritoso
lavoro era accolto come un benefico presagio della caduta delle antiche
superstizioni e se ne teneva il ricordo come quello di una storia di
vecchie paure.

Eppure il nascere di una nuova generazione non ha bastato a distruggere
lo spasmodico impero delle malìe. Nell'anno di grazia 1868 si videro
a più migliaja di esemplari ristampati da noi col beneficio della
proprietà letteraria — _Il vero Drago rosso, o L'arte di comandare agli
spiriti celesti, terrestri, aerei ed infernali_; _La vera clavicola del
re Salomone colla cabala della farfalla verde_; _Il Tesoro del vecchio
Druido delle piramidi colla scienza dei talismani_; e per sino un
_Manualetto dell'Indovino e del Negromante_ di _Merlino Atanaele_.

Queste sozze scritture dovevano portare il loro frutto, e mentre
scriviamo queste pagine, le nostre magistrature stanno istituendo
processi contro poveri fuorviati, che tentarono uccidere infelicissime
vecchierelle credendole fattucchiere.

Pur troppo l'arte dello stregare è salita di nuovo in fama e solo chi
la professa ha ricorso a mezzi meno spaventosi. La vecchia dottrina
di Mesmer e del truffattore Cagliostro è risorta col sonnambulismo
magnetico, e la povera scienza medica che conta pur tanti martiri
si trovò ad un tratto ecclissata da una nuova razza di ciurmadori.
Nè qui arrestavasi la inesauribile credulità umana. Quegli astuti
prestigiatori che vengono dal nuovo mondo per beffare l'antico
trasferirono in Europa i tavolini parlanti e le evocazioni degli
spiriti.

I fabbricatori di apparecchi elettrici danno ai giuocatori di bussoli
il mezzo di rivelare i segreti di questa magìa, ma il pubblico
credenzone non vi abbada, e mentre si vanta di aver demolito tutte le
tradizioni della fede de' suoi padri, si fa seguace dei nuovi misteri
della evocazione dei poveri morti.

Leggitrici gentili che succedete a quelle che lessero, trent'anni sono,
le _Streghe_ di Defendente Sacchi e che leggeste, ora sono due anni, la
_Strega_ di Michelet, fatevi coraggiose esorcizzatrici delle vecchie
e delle nuove follìe dei negromanti. Io vi insegnerò a nome del mio
defunto parente la via più sicura.

Ormai questo nostro paese ha riconosciuto che tutta la sua potenza
educativa è riposta in quel sesso che ha su questa terra il duplice
ufficio di destare nella umana famiglia l'istinto dell'amore e la
carità che allevia e che consola. Defendente Sacchi nel chiudere questo
suo scritto vi ha consigliato a trasfondere negli uomini che ora vi
apprezzano e vi stimano un nuovo ammaliamento che non li porti a cose
vane, ma li spinga a far del bene alla patria ora redenta.

Ecco il campo delle vostre nuove malìe; stregate pure gli uomini col
fascino de' vostri vezzi per renderli buoni, operosi e cordiali. Non
concedete loro un sorriso se non quando vi recano per tributo un'opera
buona. Amateli come figli nella speranza di farli eroi.

Con queste affettuose aspirazioni rileggete intanto la vecchia storia
delle streghe e ricordatevi qualche volta dell'autore dell'_Oriele_ e
della _Pianta dei sospiri_ che vi amò tanto.

  _1.º Novembre 1869._

                                                     GIUSEPPE SACCHI.



PRELUDJ


I.

Prefazione.

  A B R A C A D A B R A
   A B R A C A D A B R
    A B R A C A D A B
     A B R A C A D A
      A B R A C A D
       A B R A C A
        A B R A C
         A B R A
          A B R
           A B
            A

Leggitrici, avete inteso? No? Respiro: la prefazione colse nel segno
come quelle di tutte le grandi opere; vi accenni che anche la presente
avrà molta profondità, e sentirà dei concepimenti filosofici del nostro
secolo. Mi do animo, e voi..... vivete come vi piace.


II.

Piano dell'opera.

Ecco un'altra superfluità che si pretende nei libri; v'ha egli
bisogno che un'opera abbia un piano? o almeno che si sappia trovarlo
dall'autore? Alcuni pongono innanzi l'esempio dei maestri di musica
o le orecchie di quelli che li sentono: quando fanno la sinfonia
del melodramma, in poche note v'infondono tutta l'indole della
composizione; in un momento siete trasportati dall'ameno dei campi
al rimbombo del tuono, al fragor dei cannoni, agli sdegni di guerra,
alle paci degli amanti, e chi se ne intende, pregusta tutta la grande
tela che seguita. Eh l'è un bell'esempio! dovrebbero seguirlo tutti
gli autori dei libri; porre in principio, se è un trattato filosofico
o di scienze, un'idea, come usarono Vico e gli enciclopedisti; se
un romanzo, un sunto a forma di novella; sarebbe una cuccagna, il
più bel progresso de' nostri lumi: la maggior parte de' lettori,
udita la sinfonia, se ne andrebbero, e tutti i giornali ad ogni
modo parlerebbero dell'opera dandone l'estratto.... Ma capisco, è un
chiedere troppo; non è tanto facile ad un autore compendiarsi, perchè
sovente non sa rendere ragione a sè stesso di ciò che abbia cantato in
un grosso volume.

Per queste buone ragioni dimando anch'io umilmente perdono, se
non valgo più degli altri autori; però, perchè non voglio in tutto
rinnegare l'utile, se non so imitare i maestri di musica, seguirò
l'esempio de' coreografi. Al primo alzar del sipario, essi sogliono
attelare sul palco tutta la gente che hanno parte al ballo, dal re fino
al fante, amici e nemici, e sovente anche quelli che devono arrivare da
lontani paesi; tutte quelle creature fanno quattro smorfie, una danza
fragorosa, si mischiano, si confondono, quasi non se ne cava più nulla;
ma in fine a gran ventura capita un messo, un carro, un temporale; si
acqueta quel fragore, tutti si dividono e ricomincia l'azione.

Terrò anch'io lo stesso metro; porrò innanzi assembrata tutta la
compagnia di maghi e di streghe. Così, amabili lettrici, vi spicciate
presto, un'occhiatina mentre fate vista di guardare al volume, e se è
gente che non vi garba, lo restituite, e lasciate pure che il librajo
faccia compianto coll'autore. Anzi, se volete proprio il mio parere,
è meglio che lasciate il libro, non vi è nè ut.... nè dil.... Zitti,
udite che baccano; lo spettacolo incomincia, mano ai cannocchiali:
vediamolo.


III.

Congresso delle streghe o Sabbath.

È una landa deserta, vasta, rotonda; non vi spuntano erbe, non vi
zampilla una fonte, non vi raccoglie il volo un uccello. Sul confine
sorge un'alta pianta, chiude l'orizzonte una montagna che ha le creste
come i merli di un antico castello. È mezzanotte; in cielo nereggia
un temporale, e appena da una nube squarciata trapela un corno di
crescente luna; l'aria è quieta e senza mutamento, tutto è bujo e
silenzio.

Suona una campana col battaglio di legno, e tosto ecco fischiar per
l'aria, strisciare sul suolo, scorrere fra' boschi notturne strigi,
sibili di serpenti, miagolati di gatti, scalpitar di cavalli, voci
orribili e diverse, e suon di musica strana. Di su, di giù, da ogni
parte s'affollano genti a popolare quella landa, diverse di forma,
orribili di favella. Sbocca dal suolo squarciato un carro che reca un
nume od una bestia, sole creature a cui è concesso il trionfo.

Capita da ogni parte il corteggio: ora un uomo grave in groppa a
riverso sur un somaro, prende la coda pel capo, e pare un filosofo
idealista; gatti che vanno spiccando salti, rospi che camminano come
uomini, animali della terra e dell'aria che tutti stridono e fanno
rombazzo. Alcuni gravi sono a cavallo d'un granchio, e vanno come
il progresso del nostro secolo; uccelli che camminano lindi, colla
testa alzata per essere creduti più grandi degli altri; animali con
più teste, uomini con molte gambe, altri colle corna o colle orecchie
lunghe; donne a cavallo di scope che pajon poeti lirici che giungono
da un volo; fanciulle colla coda come serpi, altre senza cuore, molte
senza testa; è il mondo in simbolo: tutti entrano nel cerchio della
maledizione.

In mezzo, sur un gran seggiolone, siede maestro Leonardo, spirito
folletto, preside della congrega: è tramutato in caprone a tre
corni, de' quali quello di mezzo gitta lume a rischiarar l'assemblea;
gli altri sono inghirlandati di corone nere: ha velli irti, faccia
squallida e torbida, occhi di bragia grandi, spalancati, spaventosi,
barba caprina, mani simili, dita tutte lunghe ad un modo, curve,
adunche; piedi d'oca, coda lunga pari a quella d'asino, e sotto
di questa un viso d'uomo nero; manda una voce rauca, fioca, ha il
portamento altero, aria melanconica; persona che siede in alto.

Tutte quelle strane creature che in forme diverse convenivano
all'assemblea, appena entrate nel circo si tramutano in maghi o
streghe; ciascuna va reverente innanzi a Leonardo, lo inchina, gli
bacia la faccia che ha sotto la coda, ed ei li retribuisce con vezzi,
lodi, denari.

Già l'adunanza è numerosa, il preside si leva, dà il segno e si apre
la festa: è il Sabbath. Ecco, vengono parecchi spiritelli, seguaci
e cortigiani di Leonardo; uno distribuisce le cure ed i posti; però
alterna sempre streghe con folletti e fattucchieri. A tutti vegliano i
correttori, piccoli mostri senza braccia; tengono acceso un gran fuoco,
e quando qualche strega cade in errore, ve la pongono a purgare, e la
ritraggono dopo la penitenza. Giungono anche i cavalieri del Sabbath;
sono grandi rospi, serventi delle streghe: vestono di velluto rosso
o nero, portano un campanello al collo e un altro ai piedi: camminano
ritti, vaghi come damerini.

I ricreamenti incominciano: è apprestato il banchetto, tutti siedono;
si servono le vivande; pane di miglio nero, carni d'impiccato o di
fanciulli non battezzati, vini fermentati che girano in tazze dorate.
Si mangia, si alternano canti nefandi e discorsi sacrileghi.

Finito il vivandare, suona la campana col battaglio di legno, ciascun
si leva, le mense scompajono, tutti venerano Leonardo, e s'intrecciano
diverse cure.

Qui si tiene ragione delle querele fra le streghe e i rospi loro
cavalieri, e se questi provano di non esser ben nudriti, i correttori
le castigano col fuoco. Qua streghe e fattucchieri rendono conto delle
opere loro, de' mali commessi, e se non riescirono a farne, come era
debito loro, punizione.

Ove si creano nuovi rospi a nuovi cavalieri, s'impone loro un nome e si
danno in dono alle streghe che hanno meglio meritato dal congresso. Ove
sorge un'ara, e un mago celebra un mistero infernale, e intorno alcuni
stanno in atto di ossequio. In un lato bolle una pentola immane sopra
un fuoco ardente; in un altro le streghe si gittano ignude, menano
danze oscene, portando in mano una candela accesa, e a certe cadenze
sospendono il ballo e vanno a baciare maestro Leonardo. In un angolo
più appartato si confondono amori nefandi di streghe, di folletti, di
maghi, nè si conosce parentela o rispetto conjugale.

Più allegra è invece la vicina quadriglia, ove le streghe e i rospi
vestiti di velluto rosso menano cantando il trottiglione. È un
frastuono, un trambusto orribile, una festa infernale..... Ma tutto
è sospeso, tutti tendono l'orecchio, è la chicchiriata mattutina del
gallo, è il segno della partenza. Leonardo prende l'acqua lustrale,
fa un'aspersione all'assemblea e la licenzia. Un sibilo, un subito
fragore; maghi e streghe riprendono le forme onde vennero: sparvero: la
landa è deserta.


IV.

Ai curiosi.

Voi leggete ancora? Dunque non gittaste il libro? Dunque?... Eh, non
presumo che possiate crederlo qualcosa; forse vi mosse curiosità
di sapere tutti i riti di quella festa inusitata. Avete petto
d'avventurarvi fra le superstizioni e gli errori de' tempi andati?
Ve ne dirò delle strane! Imparerete di molte cose e belle: a diventar
ricchi quando vi piaccia, a farvi amare da chi vi aggrada, a viaggiare
senza spese, e più di tutto, che il mondo fu sovente una gabbia di
matti.



CAPO PRIMO

I MAGHI.


I.

Della magìa.

Che cosa è magìa? chi sono i maghi e le streghe? uh! quante voci — una
follìa, tanti impostori o pazzi. — Maravigliate: è popolo che risponde,
son donne, fanciulli, uomini; ma non rispondevano così, appena ha
un secolo; era allora una credenza, adesso è dissipata: aveano torto
allora od adesso? Ci soccorra la storia.

La magìa era la scienza e l'arte di operar cose superiori all'umana
natura col sussidio degli spiriti malefici. Però questa definizione
è un po' vaga: i sapienti che ridussero la stregoneria a' principj,
e Agrippa che fu il Condillac della scienza cabalistica, dice che
la magìa era una facoltà fornita d'un gran potere, cui sieguono alti
misteri, i quali racchiudono una profonda cognizione delle cose più
secrete, la loro natura, potere, qualità, sostanza, effetti e rapporti;
con questi misteri essa produce quanto v'ha di più maraviglioso, ove
le sia in grado ed ove operi l'unione e l'applicazione delle differenti
virtù degli esseri superiori cogli inferiori. La magìa infine è, giusta
la sua sentenza, la sola e vera scienza, la filosofia più elevata e più
misteriosa, in fine la perfezione di tutte le scienze naturali.

La magìa, come tutte le scienze, ha le proprie divisioni, e diverse
specie tutte importanti, come quelle onde divise Buffon la storia
naturale. Vi è dunque la _vera magìa_, ossia la divina, o la cognizione
degli attributi della divinità che Dio rivela ad alcuni pochi,
compartendo loro ad un tempo di poter predire il futuro, operare
dei prodigj e penetrare nella mente dei mortali. La seconda è la
_magìa naturale_, ossia lo studio dei secreti della natura, e si
occupa dell'astrologia, della fisica, e in ispecie dell'alchimia e
dell'astronomia giudiziaria. Finalmente l'ultima è la _magìa nera_,
quella che rende sì potenti i negromanti, e dividesi in celestiale e in
cerimoniale; la prima attribuisce agli spiriti un dominio sui pianeti,
e a questi sugli uomini, sicchè si partono da essi o benigni o malevoli
influssi che governano le loro azioni o virtù. La cerimoniale poi è
riposta nell'invocazione dei demoni, nella podestà di comandare agli
spiriti aerei od infernali, podestà che solo si consegue con un patto o
tacito od espresso colle potenze dell'averno, sicchè sono sempre pronte
a prestare l'opera loro ai desiderj del mago.

Quest'ultima possente magìa poi prendeva diverse denominazioni,
secondo le cure a cui si rivolgeva, siccome la cabala, l'evocazione,
la divinazione, la profezìa, il sortilegio, ed altre che vi davano a
capriccio l'astuzia dei negromanti per abbagliare la credulità della
moltitudine.


II.

Come si diventasse mago.

Queste teorie sono belle, ma come tutte le altre a sistema patiscono
d'oscurità: è meglio cercare col fatto come si diventasse mago o
strega, e si pigliassero in pratiche tutte queste sorta di magìa.

Il primo modo era far patto con qualche demone che servisse per alcuni
anni, dandogli in compenso anima e corpo. Però come si venisse a questi
patti era vario il modo, e lo vedrete: l'incontrarsi collo spirito
malefico non era difficile; esso cortesissimo volava al più piccolo
desiderio; anche non richiesto veniva a sedurre le persone, e tutto
si adoprava perchè cadessero nelle sue grinfe. Esso poi faceva ogni
lor desiderio, manteneva da galantuomo i patti, ma si faceva mantenere
anche i proprj. A documento giustificativo, eccovi la storia del modo
onde alcuni pattuirono con lui e si fecero maghi.


III.

Il dottor Faust.

Quando lo spirito malvagio ponevasi in capo di fare qualche conquista,
siccome era furbo, non volgevasi a dappochi, ma pigliava gli uomini
dotti, come le donne che non seducono mai giovani di poca polpa o di
misera avvenenza. Nel secolo XVI pensò di ridurre a suo seguace il
dottor Giovanni Faust, uomo pieno la mente e il petto di dottrine.

Il dottore già da alcuni giorni volgeva in animo pensieri di
nuovi studj, poiché aveva già corsi quelli della medicina, della
giurisprudenza e della teologìa; pensava all'astrologìa. Or mentre
andava a diporto, gli appare un cane, che gli fa intorno varj giri,
lo avvicina, lo accarezza, pare cercargli amicizia. Faust si ritrae a
casa, e il cane dietro; l'uno lo guarda e l'altro si aggrandisce: Faust
lo scongiura a scoprirsi, e il cane si tramuta in un giovane elegante:
è il demone Mefistofele, solo secondo a Satana. Allora lo spirito
fece i suoi complimenti al dottore, se gli propose amico; l'altro
stette alquanto tremante, ma il desiderio della potenza lo vinse e
vennero a patti fra loro, e stesero un contratto, che lo storico Widman
riferisce, perchè forse era segretario d'inferno, e ripeto perchè si
conosca come l'arte de' notaj non è solo nota alle persone di questo
mondo. La scritta era in pergamena color di rosa: Mefistofele si
obbligava a servire Faust per ventiquattro anni; dopo, il dottore era
suo; anima e corpo. Ecco le condizioni:

Mefistofele sarà sempre ubbidiente al comando di Faust; gli apparirà
sotto una forma sensibile, o prenderà quella che piacerà al suo
signore.

Farà ogni comando di Faust e gli porterà prontamente tutto quello ch'ei
vorrà chiedergli.

Mefistofele sarà pronto e sommesso come un servo.

Apparirà a qualunque ora sarà chiamato, di notte o di giorno.

In casa non si lascierà vedere, nè riconoscere che da Faust, invisibile
ad ogni altro.

Faust invece si dava a Mefislofele senza riserva di alcun diritto di
redimersi, nè di ricorrere alla divina misericordia. Lo spirito gli
diede per caparra di questo contratto una cassetta piena d'oro.

Dopo quel momento Faust fu signore dell'universo, fu onnipotente:
ei viaggiava per terra, per mare, per l'aria; operava prodigj d'ogni
fatta. Amoreggiava le più belle donne che furono in tutte le età, ed
ebbe i vezzi d'Elena, di Aspasia, di Lucrezia, di Cleopatra, sebbene
le curasse poco, perchè, con buona pace delle lodi impartite loro da
Omero, da Virgilio e da Lucano, amava meglio una fanciulla del suo
secolo. Creava maraviglie a suo talento: alla corte di Carlo V fece
comparire Alessandro il Grande: in un banchetto d'amici, coll'agitar
della bacchetta, fe' zampillar vini, apparire viti e vendemmia; alla
curiosità dei discepoli evocò la bella Elena, avvenente come all'uscire
dal profumato talamo di Menelao. Denari non gliene mancavano mai; lo
spirito gliene dava: eran di legno o di corno, ma parevano d'argento o
d'oro. Faust chiudeva la bocca a que' che cicalavano e il disturbavano;
allora non vi erano giornalisti.

Faust ebbe strane avventure d'amore colla fanciulla contemporanea onde
fu preso; creò meraviglie, moltiplicava i libri, stendeva la sua parola
per tutto l'universo.

Ma infine passarono gli anni del prodigio, e un gelo al core lo avvisò
del prossimo fine. Cercò affrancarsi in un luogo sacro, ma Mefistofele
lo impedì, lo condusse sur un'alta montagna: Faust si raccomandava
a Dio, e il demone: — Ti dispera e muori, omai sei nostro, — e
giganteggiò fantasma fino alle nubi: mandava saette dagli occhi, fuoco
dalla bocca, e i piedi di bronzo mettevano sulla montagna un tintinnio
orrendo: prese fra le mani adunche lo sciagurato Faust, e con iscoppj
di risa orribilmente ripercossi nelle valli, lo mise a brani, e lo
precipitò nell'abisso.

Il dottor Faust fu un vero dotto e un uomo utile, fu l'inventore della
stampa, l'arte prodigiosa che moltiplicò i libri: però fu proclamata
arte diabolica, e si cercò Faust per abbruciarlo, e l'invenzione andava
distrutta, se non era Luigi XI. Widman fece della vita di quest'uomo
un romanzo nel 1587; Goethe poi un dramma: la storia di Faust basta a
chiarire come si adombrasse il vero colle invenzioni della magia.


IV.

Margherita di Milano.

Questi spiriti malefici si acconciavano a servire ogni razza di
persone, dotti e volgo, uomini e donne purchè ne avessero l'egual
prezzo. Cardano ne fa buona testimonianza d'una Margherita di Milano
che vide e conobbe.

Costei, non si sa a quale condizione, fece patto con uno spirito perchè
le stesse sempre vicino, meno alcuni mesi dell'anno; ei faceva, a suo
ordine, varj giuocarelli, sicché veniva chiamata per prezzo a dare
ricreamento nelle case. Quando dava principio allo spettacolo, essa
curvava il capo in seno, o lo avviluppava nel suo grembiale, chiamava
lo spirito; ei veniva, le rispondeva: però la voce di lui non si
intendeva vicino alla donna, ma da lontano come se uscisse da qualche
buco del muro. Se alcuno si avvicinava al luogo dove risuonava la
voce, essa si smarriva e si faceva udire in altro angolo della casa.
Questa voce non era articolata, nè chiara in modo che si potesse ben
comprendere; era acuta e debole in maniera che si poteva dire piuttosto
un mormorìo che un suono di voce. Margherita, dopo che lo spirito
aveva fatta la sua parte, gli serviva d'interprete, e ripeteva più
chiaramente le parole di lui, e tutti ne levavano meraviglie.

Tali erano questa strega e questo folletto come li descrisse Cardano: è
facile comprendere che Margherita dovesse essere ventriloqua, persone
che hanno appunto l'arte di far sentire le voci che formano in petto
come se fossero lontane. Ma a que' tempi si voleva il maraviglioso, e
si aggiungeva anche che la Margherita quando dimorava in case altrui
avvolgesse il demone in un lenzuolo, che esso avesse il vezzo di
morderle la bocca, sicché ne portava i segni sulle labbra. Per fortuna
non fu abbruciata.


V.

Diplomi de' maghi.

Ho accennato le condizioni onde Faust contrasse alleanza con
Mefistofele; le parole non bastavano; il demone voleva talora altre
forme solenni, mandava diplomi in pergamena a maghi e a streghe adepti,
come usano le accademie.

Per meglio conoscere ove giungesse il delirio dell'opinione, reco
tradotti due di questi atti solenni che si trovarono nell'archivio di
Poitiers, e appartenevano al processo di Urbano Grandier; vedremo poi
chi fosse questo sgraziato. Il primo è la promessa di Grandier:


                     _Signore e maestro Lucifero._

«Ti riconosco per mio nume e principe, e ti prometto di servirti finchè
vivrò. Rinuncio a ogni altra divinità e ai santi, e alle credenze, e ad
ogni cerimonia e orazione, colla quale i fedeli potessero intercedere
per me; ti prometto che farò ogni male possibile, e procurerò di
condurre gli altri al male. Io rinuncio al battesimo ed agli altri
sacramenti, e se manco di servirti e di adorarti, almeno tre volte al
giorno, ti do la mia vita come se fosse tua.

Questo feci l'anno....... e il dì.......

                                                        U. Grandier.»


L'altro è il diploma speditogli dalla corte infernale:

«Noi, potentissimo Lucifero, col consenso di Satan, Belzebù, Leviathan,
Elimi, Astaroth e altri, abbiamo accettato oggi il patto d'alleanza
di Urbano Grandier, fatto nostro; e gli promettiamo la simpatìa di
quante donne splendono per bellezza sulla terra, dignità, piaceri e
ricchezze; esso ogni tre giorni prenderà gradito sollievo; gli sia
cara l'ebbrezza: ci offrirà una volta all'anno il sigillo del proprio
sangue; terrà sotto i piedi le cose sacre, e indirizzerà a noi le sue
preci. In virtù di questo patto vivrà vent'anni felice sulla terra, poi
verrà fra noi a maledire.

Fatto all'inferno nel consiglio dei demoni.

Han sottoscritto Lucifero, Belzebù, Satan, Elimi, Leviathan, Astaroth.

Visto per la firma e sigillo del gran maestro e dei signori principi
dei demoni.

                                            Contro segnato Baalberith
                                                       _Segretario_.»


VI.

Cerimoniale della magìa.

Però non sempre qualche demone aveva il tempo o la volontà di starsi
continuamente in compagnia de' maghi e delle streghe, e servirli da
segretario, cameriere o fante; perciò quei che inventarono sulla terra
l'arte magica a sussidio degli uomini, trovarono alcuni istrumenti e
formole, che valessero loro o d'ajuto quando erano lontani gli spiriti,
o potessero chiamarli per avere sussidio e servigio. Quindi ne usciva
la parte della scienza, che si direbbe cerimoniale, e il bisogno di
iniziatura e d'insegnamento. Omai eccoci nei segreti della magìa nera.


VII.

La bacchetta magica.

Il bastone fu presso tutti i popoli un'insegna di comando; variò nelle
forme e nei modi di usarlo, e quindi nella logica che gli andava unita.
Pei maghi si convertiva in bacchetta: faceva parte del loro potere,
perchè associava le forze occulte della stregoneria.

La bacchetta magica doveva essere fatta col ramo di un nocciuolo
di un anno, reciso dalla pianta verso mezza notte in un mercoledì
di luna nuova; mentre si calava il coltello a tagliarla, conveniva
gridare a gran voce: — Ti scongiuro di obbedirmi per tutte le potenze
celesti. — Quella bacchetta poi si rimondava dalle frondi, si rendeva
appariscente, perchè anche i maghi amavano il lusso; vi si incidevano
sopra in lettere greche dal lato più grosso _agla_, in mezzo _on_, e
dal lato più sottile _tetragmaton_.

Gran potenza della bacchetta! agitarla nell'aria e tramutare le cose,
era un sol punto. La bacchetta era solo di privilegio de' maghi;
le streghe di consueto non giungevano a tanto da meritarla, e se vi
mettevano le mani addosso, divenivano prepotenti. Una strega giunse a
ghermire la bacchetta al mago di Scozia, e lo trasmutò in bestia. Pare
che le donne abbiano gran tendenza a cambiare in bestia gli uomini,
quando pigliano loro la bacchetta del comando: Circe ed Alcina fecero
lo stesso: que' che hanno la filosofia dei simboli, forse potrebbero
vederne uno assai eloquente in questa storia.


VIII.

Strenne de' maghi.

Senza strenne omai non si raggiunge più nulla di buono a questo
mondo; leggerle o no, esse danno la scienza. Le donne hanno le loro
strenne per le diverse ore del giorno; strenne per le preghiere, per
ricrearsi, strenne onde avere argomento a parlare, quando certe visite
le mettono nella noja di non sapere trovare parola. Però queste strenne
spesso tengono un po' di magìa, perchè recate in dono sono solitamente
principio di simpatìa.

Anche i maghi avevano le loro strenne: erano di poche pagine; più
comode per leggerle presto: vi erano scritti gli scongiuri con cui i
maghi e le streghe chiamavano in sussidio gli spiriti coi quali avevano
pattuito.

Quando un libro magico era scritto, vi si faceva addosso questa
deprecazione, la quale era come l'ultima correzione d'un autore, o la
segnatura perchè avesse forza e valore.

— Spiriti quanti siete, vi scongiuro ed ordino di accogliere questo
libro in buona parte, affinchè tutte le volte che lo leggeremo, o che
verrà letto da altri, dobbiate comparire in bella forma umana, secondo
che il lettore vi ordinerà e giudicherà a suo piacere. Voi non avrete
alcun potere nè sul corpo, nè sullo spirito del lettore, nè darete
molestia alle persone che fossero con lui; nè con rumore, con tempeste,
tuoni, scandali, offese vi rifiuterete di obbedirlo: vi scongiuro di
apparire appena chiamati per eseguire prontamente quanto è assegnato in
questo libro in apposito capitolo; ubbidirete, servirete, insegnerete,
donerete, farete quanto è in vostro potere a utile di chi comanda, con
lealtà ma non con inganni. Che se qualche spirito quando è chiamato
non potesse venire, gli correrà obbligo di inviarne altri coi proprj
poteri, che gli giureranno d'ubbidire. Vi scongiuro tutti per la forza
che muove ogni cosa, di fare quanto qui è scritto. Se non ubbidirete,
vi caccerò per mille anni nelle pene. —

I maghi quando volevano operare prodigj aprivano il libro, scorrevano
l'indice, giacchè tutti i libri devono aver l'indice, altrimenti non
valgono nè pei curiosi, nè per chi studia: leggevano le parole segnate
al bisogno, e tutto si chinava alla loro volontà.

Questa strenna preziosa non era solo potente nella mano dei maghi, ma
di tutti quelli cui capitava. Or eccovi un bel fatto, se il credete.
Luigi Goffredi presso Marsiglia, come riferisce il Porta, ereditò dallo
zio uno di questi libri magici, il quale era di solo sei pagine; che
bel libro! Goffredi lo sfogliò e vi lesse entro i brevi versi di cui
lo vedeva segnato, ed ecco apparirgli innanzi un demone. Giova udire la
confessione dello stesso mago.

— Fu verso il mese di maggio, e Lucifero mi si appresentò in forma
umana vestito da galantuomo: sulle prime ebbi un po' di paura, ma mi
rinfrancai udendolo parlarmi cortesemente, e proferirsi ad ogni mio
desiderio. Sentii allora l'impero di due antiche passioni, un'ambizione
d'esser rinomato, in ispecie fra la gente dabbene, e un desiderio
sfrenato di galanteria. Allora lo spirito mi domandò: — Che mi darai
se accontento ogni tuo desiderio? — Gli risposi tutto lieto quanto
volesse; esso mi chiese tutti i miei beni; ci siamo accordati. Dopo
due o tre dì tornò annunciandomi essermi concesso che a un mio soffio
sarebbero prese per me donne e fanciulle, purchè esso giungesse fino
alle loro nari, e mi consegnò una scritta colla promessa. —

Goffredi era impaziente di esperimentare la sua nuova virtù; da molti
anni aveva posti gli occhi addosso ad una Madalena Mendoze; soffiò, ed
ella se gli legò d'amore.

Madalena fu a sua posta iniziata ne' misteri occulti, e fatta strega,
andò al Sabbath con Goffredi, e se la passavano allegramente. Ma non
durò a lungo quella felicità: furono scoperti, gittati in prigione,
persuasi a confessare ogni loro colpa dalla tortura, ed il povero
Goffredi fu abbruciato agli 11 aprile 1611. Ottenne quanto gli aveva
promesso il suo mal genio, cioè riputazione, poiché quel processo che
dovrebbe far ridere, commosse per la misera fine.



CAPO II.

LE STREGHE.


I.

Come si divenisse strega.

Le femmine sono destinate a dividere i beni e i mali concessi agli
uomini, quindi anche ad esse fu largheggiato il tesoro delle scienze
occulte, furono o streghe, o fate, o indovine, e ammaliatrici sempre.
In diverso modo esse venivano iniziate in quest'arte o per allettamento
de' genj malefici, o per affetto diviso coi maghi: nè son frottole:
svolgiamo la storia, e che storia! è tutta scritta ne' libri.


II.

Streghe create dagli spiriti.

Le donne non furono per lo passato troppo sollecite per gli studj: esse
non si curavano molto di libri e di lettura: è il nostro secolo che
le vuole sapienti; esse agognano all'usbergo di Minerva, forse perchè
gli uomini ghermirono talora il cinto di Venere. Perciò non capitavano
fra le mani alle donne de' tempi andati libri magici ove apprendere
ad evocare gli esseri malefici, a stringere con loro alleanza. Però
non isfuggirono la seduzione; esse hanno un'altra allettativa per gli
uomini e fino pel diavolo, quella della bellezza: questa strinse spesso
gli spiriti d'averno a inchinarsi al loro piede e legarle: umana natura
femminile! fu creata per essere sedotta o dai serpi o dai demoni, più
spesso dagli uomini.

Lo spirito Cerbero in persona fece strega Maria Martin, la condusse al
Sabbath, al quale volle per galanteria presiedere egli stesso; le era
prodigo di doni, ed andava a lei ogni volta che col digiuno lo evocava:
la slealtà di un fattucchiero che era a parte de' segreti di lei,
la scoprì, e presa dal tribunale di Mondidier, ella confessò queste
galanterie, poiché se le trovarono sul corpo segni di tatuamento.
Però quel crudele di Cerbero non le fu un amante fedele come Romeo,
e non andò a soccorrerla, quando ai 25 giugno 1586 venne impiccata:
s'accontentò di ghermirne lo spirito.

Vi ebbero altri folletti, parimenti cortesi damerini; uno tutto garbato
accompagnava sempre Maria Naguille al Sabbath presso un bosco a Pagole:
quando era l'ora di rendersi alla festa, ei si avvicinava alla finestra
della camera di lei, la apriva per avvertirla, e poiché Maria s'era
unta colla propria madre, il galante se le pigliava sotto braccio, e
viaggiavano bellamente per l'aria; finito il congresso le restituiva
alla propria stanza. La giovanotta aveva sedici anni, e imprudente, fra
i pizzichi della tortura, palesò questi suoi segreti.

Nè questi amanti erano avari colle streghe; davano loro dei buoni
denari, come usò uno con Giovanetta Grazianne, che sedusse apparendole
innanzi vago per sei belle corna in testa, e un bel pugno d'oro; sulle
prime la schifiltosa non si arrese, sicché il tristanzuolo, che a forza
tentò condurla al Sabbath, fu costretto lasciarla alla porta della
stanza a Sibour; ma infine sì la persuase, che fece intera professione
di magìa, e fu fra quelle giovinette a sedici anni, che sul principio
del secolo XVII perirono arse come fiori sopra cocente arena.

Però anche le streghe facevano ogni lor potere per apparire avvenenti
al demone: Giovanetta Viscard era zoppa, e quando si appresentava a
lui, perchè non vedesse il suo claudicare, faceva salti e capitomboli,
e l'altro credulo come sono tutti gli innamorati, la teneva lunga
tutta ad un modo, si tramutava in montone, sorte degli amanti, e se la
portava al Sabbath sulla propria groppa.

In questo congresso poi quello che presiedeva era più cortese colle
streghe che coi maghi, e s'intende colle streghe giovani; lo confessò
Giovanna Horpilopis, che di 14 anni presa in prigione nel 1603 rivelò i
misteri di queste galanterie.

Però lo spirito più galante di tutti era quello che corteggiava
Giovanna Harvilliers, la quale condotta dalla madre al Sabbath di
dieci anni, fu arsa a Compiegne nel primo aprile 1578, dopo che per
cinquant'anni, quando il desiderava, aveva la compagnia del suo fedele:
esso poi andava a lei tutto elegante, a cavallo, con stivali, speroni
e spada al fianco. Eppure non la soccorse quando fu condotta al fuoco:
forse quei cinquant'anni di servitù gli parvero bastante testimonianza
d'amore per non cercare di aumentarli, e chi sa quanti all'udire questa
storia invidiano il servente della povera Harvilliers.


III.

Sdegni degli spiriti colle streghe.

Dove sono amori e galanterie, vi sono le piccole burrasche, ed è
naturale che anche fra le streghe e i diavoli si scambiassero, come fra
Laura e Petrarca, dolci ire, dolci sdegni e dolci paci.

Lo spirito della fattucchiera Lescoriere prese gelosìa perchè una volta
essa mancò al Sabbath: si tramutò in gatto, le salì sul letto, e tanto
le diede peso sul petto che quasi la soffocò. Un'altra volta la mise a
colpi di pietra.

Maria Gastagnalde invece meritò molte busse dal suo genio perchè aveva
rivelati alcuni segreti del Sabbath, e sì la ruppe nella persona, che
i segni delle percosse valsero a testimonianza perchè fosse condannata
nell'anno 1608.

A rossore degli amanti colle corna e senza, conviene narrare la viltà
del folletto Lizabet colla strega Antide Collas. La poveraccia fu
presa nel 1599, e siccome il processo andava alla peggio, essa chiamò
in soccorso il suo alleato: questi andò a visitarla, e la consigliò o
a gittarsi dalla finestra o ad impiccarsi; tenero amante! nè volendo
acconsentire le diede molte busse: e la sgraziata morì al fuoco, e non
fu l'ultima abbandonata nella sventura.

Però, storico veritiero, e per non avere qualche sfida da creature
prepotenti, convien dire cho questo abbandono non era per durezza o per
viltà; ma perchè stava fra i riti della scienza occulta, che lo spirito
potesse andare a consolare in qualunque modo una strega o un mago,
quando era in potere della giustizia, ma nè liberarla, nè soccorrerla
nel processo. Vedete che astuto canone! pare proprio trovato per non
vedere la contraddizione fra la potenza attribuita ai maghi e i loro
patimenti.


IV.

Ricevimento delle streghe.

Tutte le associazioni del mondo da quella de' sacerdoti egiziani, fino
a quelle delle streghe, hanno forme di ricevimenti, iniziatura, perchè
gli uomini non sanno fare nulla senza cerimonie; gridano alla libertà,
e s'avvolgono continuamente di ceppi.

I maghi solitamente, umana fralezza! s'innamoravano, e come è solito
degli amanti che dividono colle belle i beni e i mali della vita,
insegnavano loro la stregoneria: avevano con esse comuni i servigi
degli spiriti, e più di sicuro la prigione e il rogo.

Tanto avvenne a quella Madalena Mendoze che Goffredi amoreggiò, fece
strega e condusse al Sabbath. Anche Giovanna Belloc confessò che un
fattucchiero la menò al congresso nel 1609, e fu presente a un ballo in
maschera.

Più sovente erano donne che iniziavano le altre in questi misteri:
esse conducevano al Sabbath le amiche e le figlie. Dojartzbal, giovane
strega di quindici anni, che per suo meglio si convertì e fuggì la
mala ventura, confessò d'essere stata presentata al Sabbath da una
strega che era in prigione: essa l'andava a pigliare al letto ove
dormiva presso sua madre, e poneva intanto in sua vece un fantoccio che
parlava.

Altre ho già ricordate, ma la più operosa nel procacciare adepte alla
magia fu Bensozia; costei radunava in una società le dame, ed ivi le
metteva in amicizia cogli spiriti, facevano congreghe e viaggi per
l'aria sopra bestie alate. Fu tanto universale questa opinione nelle
Gallie, che si credeva che tutte le donne fossero della compagnia de'
viaggi aerei. Bensozia pare un'antica fata, ma in tempi più recenti era
considerata come un nome di associazione di streghe.

Però quando una femmina era condotta al Sabbath, non diveniva subito
strega senz'altra cerimonia; conveniva fare il ricevimento: era una
delle varie scene di quella festa strepitosa.

   [Illustrazione: Ricevimento di una strega]

Si radunavano in un lato del campo del congresso le streghe e i maghi
che doveano prendere parte alla cerimonia, si faceva un cerchio, e
in mezzo si collocava assisa la nuova adepta, presso il tripode ove
stava il demone tramutato in caprone. Il mago o la strega che aveva
condotta la novizza, le dava alcuni precetti di magìa, le ricordava le
obbligazioni che assumeva, la faceva abbjurare alle antiche credenze:
ella aderiva con tremendi scongiuri, si alzava un grido d'applauso, il
presidente la dichiarava laureata in istregoneria, e la nuova alunna
festante volava fra folletti, rospi e fattucchieri a prendere parte a
tutti i tripudj della congrega.


V.

Gli iniziati.

Non mancarono alla compagnia gli iniziati: ogni strega prometteva
talvolta al Sabbath di offrire qualche fanciullo all'ara di maestro
Leonardo, o se non riesciva a rubare un ragazzo altrui, doveva
presentarne uno proprio. Si offriva in solenne congresso al maestro, ed
egli o il suo luogotenente Giovanni Mullin assegnava al fanciullo due
santoli, i quali traevano innanzi, e sul gran libro nero rinunciavano
in nome del figliuoletto alle antiche credenze. Dopo Leonardo lo
segnava col proprio corno nell'occhio sinistro, segno che lo indicava
ammesso all'iniziatura, e che teneva finchè non era compiuta.

Questa era posta nell'avere cura dei rospi che erano i cavalieri delle
streghe al Sabbath; l'iniziato doveva in alcuni giorni stabiliti,
vegliargli sulla riva di un lago con una bacchetta bianca. Spacciatasi
con diligenza di questa faccenda, e resane ragione in adunanza a
maestro Leonardo, esso conferisce loro il desiderato grado, col corno
gli fa un altro segno sulla schiena, gli imprime o una lepre o la zampa
di un rospo o di un gatto nero, ed è proclamato stregone, ed ammesso
a tutti i misteri della scienza occulta. Se invece quei marmotti si
mostrano in quella bisogna inabili al grande magistero della magìa,
sono messi a fette, e molte volte cotti e imbanditi al banchetto delle
streghe.


VI.

Strumenti delle streghe.

Le streghe erano da meno de' maghi nella potenza e nella scienza
delle cose occulte, perciò anche i sussidj che avevano non erano nè
onnipossenti, nè eletti come quelli de' primi: esse erano prive della
bacchetta e del libro, e quindi per operare la propria arte cogli
altri, usavano mezzi più faticosi. Avevano però alcuni strumenti
e ajuti che valevano specialmente pei proprj servigj, invece degli
spiriti che i maghi potevano chiamare ad ogni loro talento: vedremo
questi poi; ora i soccorsi delle streghe.


VII.

Gli unguenti.

Non vi ha donna senza profumi odorosi, non vi era strega senza
unguenti. Tutte avevano il loro vaso d'unguento che componevano in
alcuni Sabbath, mescolando in una grande caldaja l'adipe dei fanciulli,
erbe malefiche, mandragora, pietra neufite, e tutto bollivano a un
fuoco suscitato dall'averno.

Con questo unguento la strega si unge, e pronunciando parole a lei sol
note si tramuta nell'animale che più le aggrada; quindi esce di casa
prendendo la via delle finestre, spesso quella del fumo pel cammino,
corre i boschi, le città, va alle congreghe, a molestare mezzo mondo.
Per isciogliere la forza dell'unguento e ritornare alla prima forma,
abbisognavano alcune parole od altri unguenti che dovevano usarsi da
mani soccorritrici e dalle streghe stesse.

La forza di questi unti misteriosi non valeva solo per le streghe,
ma anche per qualunque cosa o persona che li toccassero: una scopa
intrisa nell'unguento di una strega prendeva il volo; un uomo che lo
adoperasse, mutava forme, e veniva a parte ai privilegj della magìa.

Giraud racconta che ad un uomo cadde sospetto sua moglie fosse una
strega: la tenne d'occhio, e la vide ungersi, trasformarsi in un
uccello e partirne a volo, nè ritornare che alla mattina. Resa alle
prime sue forme, il mariuolo volle che la moglie gli rivelasse il
suo segreto, e perchè la cattivella vi si accomodava di mal animo, la
costrinse con un bastone a manifestargli ogni cosa. Allora desiderò
egli pure di vedere il Sabbath, si unse e vi fu; ma poste le mense,
siccome non gli erano imbandite che vivande insipide, dimandò del sale,
ed essendogliene dopo gran tempo portato, l'inesperto ed imprudente
disse: — Sia ringraziato Iddio. — Allora udì un grande strepito,
disparve il congresso, e il tapinello si trovò solo in mezzo a una
montagna più di trenta leghe lungi dal suo paese; se non che per poca
prudenza di lui, saputo l'occorso dall'inquisizione, il fece prendere e
il mandò lungamente pentito della propria curiosità.

Più dura fu la penitenza che toccò a quel curioso di cui narra Apulejo:
alloggiava in Bologna in casa una strega; gli punse voglia di prendere
parte a' segreti di lei, e sedotta la conscia fantesca, è ammesso
nella stanza degli unguenti: se ne spalma la persona, ma invece di
prendere quello che lo mutava in un uccello grazioso, capita nel vaso
che il converte in un asino: lo sgraziato s'accorge del suo danno,
vuole domandare ajuto, ma la parola se gli converte nella strozza in
un bel raglio. Giunge la fantesca; per ridurlo alle prime forme, si
volevano delle fresche rose, ma intanto che correva per esse nacque un
tal trambusto, un venire di ladri, uno accorrere di genti, che il nuovo
asino fu condotto altrove.

Ora pensi chi ha cuore qual fosse la passione di un uomo convertito in
asino, e che sapeva di esserlo; caso forse unico. Errò a lungo nelle
mani de' ladri, di mugnaj, di contadini, fu posto ad ogni corruccio;
cercò per molti anni di correre alle rose quando le vide ne' giardini,
sulle siepi, innanzi alle immagini e fino sul petto delle belle, e
acquistò sciagure e busse non poche, finchè non giunse a porre la bocca
al pasto desiderato. Questa disgrazia fece forse molti canti; pare che
anche le rose abbiano perduta la loro virtù.


VIII.

La scopa.

Misera condizione del sesso debole! Sempre disparità di privilegi
coll'uomo fino nella magìa: invece della bacchetta, alle streghe era
concesso il manico della scopa. Questo vile arnese di casa, questo
scettro delle fantesche era l'amico dello streghe. Esse potevano ad
ogni loro piacere convertirlo in un serpe volante, in un quadrupede, in
un uccello; vi si ponevano a cavallo e le trasportava lesto per l'aria
ove desideravano; con questo viaggiavano specialmente al Sabbath.

Alcune streghe usavano del manico della scopa come di una bacchetta
magica, e Cardano dice avere veduta una che uccise un figlio toccandolo
solo al dorso col manico della scopa. È facile comprendere che
questo fatto può esser vero, e se di quel manico ne fosse toccato per
avventura sul dorso anche al credulo filosofo, avrebbe sentito di qual
peso era la magìa della strega.

Però anche i maghi talvolta non isdegnavano scendere a questo vile
arnese. Guglielmo Edeline confessò di essersi reso al Sabbath a cavallo
di una scopa: erano come i nostri cavallerizzi, che nella campagna non
isdegnano mutare il somarello col cavallo arabo.


IX.

Moltiplicazione delle streghe.

Da quanto fu riferito è agevole comprendere, che poi non era una gran
faccenda il diventare strega; poco meno che diventare dottore. Di fatti
crescevano in ogni nazione come la gramigna: in Italia tutte le città
numeravano le proprie streghe; solo a Parigi al tempo di Carlo IX ve
ne ebbero trentamila, e regnando Enrico III si computava ve ne fossero
solo in Francia centomila. Si accusavano, si dava loro la tortura e
crude pene, e a frotte si mandavano sui roghi; anche la piazza de'
tribunali a Milano risplendè sovente di questa fiamma; e quelle streghe
che avean tanto potere da sconvolgere il mondo, sopportavano tutti que'
tormenti, nè valevano a liberarsi, nè a prendere vendetta.... Eppure
l'eloquenza di questi fatti non giunse a persuadere gli uomini che
le erano tutte follìe! argomentate da un solo esempio l'utile della
diffusione dei lumi.



CAPO III.

ALTRE INDOVINE.


I.

Intermezzo.

Nel cinquecento per alleviare un po' la noja delle tragedie foggiate
alla greca, si immaginò fra un atto e l'altro un intermezzo; era una
rappresentazione di fatti che non aveano parte all'azione del dramma;
erano avvenimenti di numi, di eroi: a poco a poco accrebbero di
spettacolo e si crearono i balli. Or bene penso anch'io a un po' di
riposo all'uso dei nostri padri: or che conosciamo i maghi e le streghe
alla fisonomia e all'insegne, prima di narrarvene i fasti, vo' dire
pochi cenni di due altre razze di donne che non partecipano di quelle
due prime, ma vi tengono qualche relazione, sono le fate e le zingare;
il primo e l'ultimo anello delle donne maravigliose. Sarà un intermezzo
non del tutto straniero al dramma.


II.

Le fate.

Correte i romanzi del medio evo, le tradizioni degli irlandesi e
germani, e troverete popolate le selve, i castelli di fate, di spiriti
aerei. Le fate sono forse immaginate sulla tradizione delle antiche
druidesse, ma con maggior potere; al par di loro penetravano i segreti
della natura, come i maghi comandavano a tutte le forze dell'universo,
ma avevano maggior privilegio di tutti, erano immortali.

Le fate abitano nei boschi, sulla riva dei fiumi, nelle grandi caverne,
si fabbricano palazzi e castelli incantati di smeraldo, di zaffiri.
Possenti sempre, vezzose, aveano solo a corruccio in alcuni giorni
della settimana l'esser tramutate in animali, più spesso in biscie, e
patire tutti i danni della loro nuova natura, meno la morte.

Le fate erano di diverse indoli; alcune benefiche, altre malefiche;
di diverso grado e potenza: le comandava una regina chiamata Titania,
moglie del re Oberone; essa ogni anno le congregava tutte in un bosco,
e dava loro premj o castighi, siccome avevano usato in bene o in male
del loro potere. Numerose fate erano in Frisa al tempo di Loiario, in
Isvezia, come narrano Kempen e Olan Magno; fate in tutta la Scozia, in
Alemagna, ove si chiamavano anche _donne bianche_.

Giova però avvertire che appunto in questi paesi spesso si scambiarono
co' palazzi delle fate le grotte di stalattiti; e quelle piramidi di
marmo bianco che si formano fra la pioggia delle acque filtrate, furono
tramutate in questi spiriti aerei immortali.

Le fate sono numerose, nè qui accade ricordare tutte le loro avventure,
perchè ne avrebbero gelosìa le streghe, e potrebbero sturbare la
fortuna di questo libro. Antica è la fata Manto che fondò la patria di
Virgilio. Alle lettrici che a Walter Scott e Balzac degnano associare
la lettura dell'Ariosto e del Tasso, non saranno sconosciute le fate,
e sapranno le venture buone e malvagie d'Armida e di Melissa, d'Alcina
e di Morgana. Per ora mi spaccio narrandovi i casi di Melusina, i quali
rileveranno forse il modo onde si creavano questi fantasmi.


III.

Melusina.

S'ode sulla torre del castello un grido, un canto: tremano tutti — fra
tre dì sarà certa sventura: è il presagio funesto della fata Melusina.
— Costei fu condannata dalla madre pel poco rispetto che ebbe con
Elinas suo padre re d'Albania ad essere metà serpente tutti i sabbati,
e fata per tutta la vita, se non trovasse un cavaliere che se la
sposasse, e non vedesse la sua forma di rettile. La fata accorta, un dì
che era donna e bella, colse Raimondino in un bosco, lo accese di amore
e fu suo marito, e lo addusse nel castello di Lusignano che fabbricò
per esservi beata.

Ivi splendeva di potere e di gloria ed ebbe varj figli, che però
tutti recarono dalla natura il segno della materna disgrazia. Uriam
aveva un occhio rosso e l'altro celeste, e le orecchie larghe come
un vaglio; il secondo Odone, bello della persona, con un orecchio più
grande dell'altro; Guion, bello, ma con un occhio più alto dell'altro:
molestava Antonio il più avvenente garzone che si vedesse mai, lo
sconcio d'una zampa di leone sulla guancia, dono che recò dall'alvo
materno; bello Regnaul, ma con un occhio solo, col quale vedeva però sì
bene, che distingueva alla distanza di ventuna leghe; il sesto nacque
con un gran dente che gli usciva dalla bocca più d'un pollice, per
cui fu detto Geoffroi dal gran dente. Raimond all'avvenenza associava
sul naso una macchia vellutata, come la pelle di una talpa: l'ultimo
della schiera, maravigliosamente grande, aveva tre occhi, uno dei quali
situato in mezzo alla fronte.

Però la curiosità non può solo sulle donne; anche il marito di Melusina
ebbe voglia di vedere la compagna nel giorno interdettogli: fece un
breve spiraglio che guardava nella stanza del bagno di lei, guatò, e la
vide serpente. La misera, astretta dal suo fato, non potè più rimanersi
con lui, e fuggì tosto dalla finestra in quella sconcia forma. Ella
vive tuttora, nè potrà morire fino al dì del giudizio.

La storia narra di Melusina altrimenti: la ricorda una principessa
potente: quando inviava una lettera, un decreto col suggello che aveva
improntata una sirena, conveniva ubbidire ciecamente, e sciagurato
chi osava opporsi! Il terrore ne fece a que' tempi una maga: ecco
come l'immaginazione de' popoli crea in tutte le età di barbarie una
mitologia.


IV.

Gli zingari.

Le lettrici di giudizio, quelle che hanno la fortuna o la disgrazia
di conoscere per pratica parecchi anni di storia contemporanea, forse
si sovverranno che fanciulle ancora, videro errare per le nostre città
alcune donne avvolte di cenci, recando sulle spalle in alcuni sacelli
la casa, le provvigioni, i figli; fermarsi per le contrade e nei paesi,
ricevere qualche piccola moneta e dire a chi la chiedeva, la buona
ventura o in pubblico ad alta voce, o in segreto, soffiando con una
canna i proprj oracoli all'orecchio di que' che le consultavano. Queste
erano le zingare; donde venissero discordano gli scrittori che fecero
gravi dispute intorno ad esse, poco dissimili da quelle sulle origini
delle emigrazioni dei Goti e Visigoti. I più s'accordano col dire che
in occasione di una pestilenza, che nell'anno 1348 afflisse Europa,
sorto il solito pregiudizio degli avvelenatori, e gittata questa taccia
addosso agli ebrei, si perseguitarono miseramente; che essi rifuggiti
in boschi, ne uscirono poi tramutati in bande erranti di zingari. Non
so se un avvenimento isolato possa determinare in un popolo nuova vita
e costumi; però non disputo, vengo a' fatti; ecco come la Miscella
bolognese narra il primo capitare di questa gente in Italia.

— A dì 18 luglio 1422 venne in Bologna un duca di Egitto, il quale avea
nome il duca Andrea; e venne con donne, putti e uomini del suo paese; e
poteano essere ben cento persone. Avevano un decreto del re d'Ungheria,
che era imperadore, per vigore di cui essi poteano rubare per tutti
que' sette anni per tutto dove andassero, e che non potesse essere
loro fatta giustizia. Sicchè quando arrivarono a Bologna, alloggiarono
alla porta di Galliera dentro e di fuori, e dormivano sotto i portici,
salvo che il duca alloggiava nell'albergo del re. Stettero in Bologna
quindici giorni. In quel tempo molta gente andava a vederli per
rispetto della moglie del duca, che sapeva indovinare e dir quello
che una persona dovea avere in sua vita, ed anche quello che avea al
presente, e quanti figliuoli, e se una femmina era cattiva o buona, ed
altre cose. Di cose assai diceva il vero. E quando alcuni vi andavano
che volevano far indovinare de' lor fatti, pochi vi andarono che loro
non rubassero la borsa, o non tagliassero il tessuto alle femmine.
Anche andavano le femmine loro per la città, a sei, a otto insieme.
Entravano nelle case de' cittadini, e davano loro ciancie. Alcuna
di quelle si ficcava sotto quello che poteva avere. Anche andavano
nelle botteghe mostrando di voler comperare alcuna cosa, e una di loro
rubava, e simili astuzie. —

In Francia gli zingari apparvero pochi anni dopo, vi si chiamarono
boemi dalle terre onde muovevano, e Pasquier narra la loro misteriosa
apparizione reduci dall'Italia: — Erano in numero di centoventi; uno
de' loro capi portava il titolo di duca, un altro di conte, ed erano
scortati da dieci cavalieri; dissero che venivano dal basso Egitto,
cacciati da' loro paesi dai Saraceni; che erano andati a Roma a
prendere assoluzione dei loro peccati dal papa, il quale aveva loro
imposta la penitenza di vagare sette anni pel mondo senza mai dormire
sopra letti. Furono alloggiati nel villaggio De la Chapelle presso
Parigi, dove la gente accorreva in folla a vederli. Avevano capelli
ricciuti, color bruno, e portavano anelli d'argento alle orecchie.
Le loro donne la facevano da indovine, predicevano per le piazze, pei
mercati la vita futura alle genti, indovinavano le loro venture, davano
sentenze come oracoli. Qua una mano all'uno, e vi scoprivano mirabili
cose; qui in revista le orecchie, il naso e davano strane novelle; ogni
parte del corpo era per loro un libro per leggervi la vita passata,
presente, futura d'una persona. Ora profetavano sur un tavolo ad alta
voce, ora susurravano in segreto, ora parlavano con lunghi tubi o canne
forate che il volgo metteva all'orecchio; in somma non lasciavano modo
e forma per darsi a credere grandi indovine.

Questi zingari non erano nè streghe, nè maghi; la loro condizione di
profughi, li stringeva a tener fra loro un linguaggio misterioso e
particolare; avevano anche riti e costumi che sentivano dell'antica
origine; ciascuna banda si eleggeva un re a cui tutti erano obbligati
ubbidire. Quando una zingara si maritava, tutta la cerimonia consisteva
nel rompere un vaso di terra davanti all'uomo del quale voleva divenir
moglie e viveva con lui finchè vi erano frammenti del vaso. Alla fine
di questo tempo gli sposi erano liberi o di abbandonarsi o di rompere
insieme un altro vaso di terra, e rinnovare l'unione. Questo modo per
formare e finire i connubj, era certo molto comodo per la facilità a
disperdere i frammenti del vaso onde passare a nuove nozze; guai se
quell'uso delle zingare divenisse di moda!

Esse non facevano professione che d'indovinare il futuro; studiavano
le fisonomie degli uomini, i loro movimenti, e inducevano sulle
loro inclinazioni. La parte che più s'accostava alla magìa era la
divinazione che facevano o pei segni delle mani o per le costellazioni
sotto le quali alcuno nacque.

Sovente le predizioni delle zingare turbarono la quiete di qualche
buona madre, di qualche uomo credulo, di qualche fanciulla ingenua.
Però quando più non si arsero le streghe, scemò l'opinione delle
zingare, e molti si fecero giuoco di loro. Un giovane travestito da
fanciulla consultò una famosa indovina; essa non potè conoscere di
parlare ad un uomo, e gli predisse che partorirebbe due figlie; allora
la pudica giovinetta si levò la cuffia e si lasciò cadere la veste
sulla piazza, e apparve un bel giovane che voleva prender moglie.

Una donzella di diciott'anni un po' curiosa, consultò parecchie di
queste maliarde: una le predisse che non si mariterebbe; l'altra che
si mariterebbe una volta sola ed avrebbe quattro figli; la terza
che andrebbe in punto di morte al suo secondo parto e morirebbe a
quarant'anni. Questa giovane si maritò tre volte, e visse fino a
sessant'anni. Ad una zingara fu condotto un giovanetto pensoso,
silenzioso: la indovina argomentò dalla sua severa fronte, che
riescirebbe meditativo, e sarebbe un giorno grande oratore alla camera
dei deputati; era sordo-muto. Si volle beffarla, ma essa destramente
rispose che aveva conosciuta la sua infermità, e che avea inteso di
dire, valere più un sordo-muto che certi cicaloni, i quali parlano
molto e non conchiudono niente. Ad un giovanetto condotto dalla madre
ad una zingara, essa profetò che vivrebbe modesto, sempre lungi dai
tumulti del mondo, sempre inclinato a dir bene ed a pensare bene del
prossimo; indovinate? è un giornalista, un autore d'almanacchi.



CAPO IV.

MAGÌA NERA.


I.

Un richiamo opportuno.

— Belle cose ci avete narrate! odo susurrare; delirj di pazzi, prodigi
di bacchetta e di scope, profumi d'unguento, lo spirito maledetto
come già ce lo siamo dipinto; questi non sono nè i maghi, nè le
streghe, le cui storie narrate dalle vecchie di casa ne fecero sovente
impallidire. —

Eh! un po' di pazienza; non volli al primo tratto porvi innanzi tutto
lo sgominìo di questi prepotenti fattucchieri; pensai di avvolgervi
nella gran matassa della magìa a poco a poco, come usano i vostri
adoratori che prima tutti umili vi gittano qualche sguardo, qualche
sospiro, e quando son divenuti signori del vostro cuore, l'avvolgono in
una rete d'onde non ne esce facilmente.

Sì, certo, vi suonarono all'orecchio spaventose le arti e i malefizj
delle streghe, e saprete che ne furono fiere le punizioni; ebbene,
uditele e argomentate qual giudizio avrebbero dovuto farne gli uomini
di buon senso, e quale fosse invece quello de' cari nostri padri in
que' loro tempi beati.


II.

Evocazione degli spiriti.

La cognizione delle scienze occulte, i patti coll'averno davano diritto
ai maghi di domandare gli spiriti in loro soccorso; ma questi talora
non erano di comodo a venir subito, o anche si rifiutavano a certi
servigj: era nulla l'aprire il libro, agitare la bacchetta, facevano
orecchio da mercante, bisognava evocarli con solennità, pregarli,
costringerli. I maghi erano sì forti che si facevano ubbidire, ma vi
volevano degli scongiuri.

Innanzi tutto si tracciavano in terra tre circoli col carbone, uno
entro l'altro, e si consacravano con preghiere sataniche: di questi
il più grande era di nove piedi di diametro. Entro i varj circoli si
scrivevano i nomi de' genj che presiedono alle ore, ai giorni, ai mesi,
alle stagioni, de' quali vo' dare l'elenco per quelli che amassero
farne la prova.

Presiedevano alle ore: a Yayn, ora prima, l'angelo Michele; a Janor,
ora seconda Anael; a Nasma, ora terza, Raffael; a Salla, ora quarta,
Gabriel; a Sadedali, ora quinta, Cassiel; a Thamus, ora sesta, Sachiel;
a Urer, ora settima, Samuel; a Tanir, ora ottava, Arael; a Neron, ora
nona, Cambiel; a Jaya, ora decima, Uriel; a Abay, ora undecima, Azael;
a Natalon, ora dodicesima, Sambael.

I genj della primavera detta nella cabalistica Talvi, sono, Spugliguel,
Caracasa, Commissoros e Amatiel: il nome della terra in questa stagione
è Amadai, il nome del sole Abraïm, quello della luna Agusita.

I genj dell'estate, detto Gasmaran, sono: Tubiel, Gargutiel, Tariel
e Gaviel. La terra si chiama Festativi, il sole Athemao, e la luna
Armatos.

I genj dell'autunno, detto Ardarael, sono: Torquaret, Tarquam e
Guarbarel. La terra è detta Rahimara, il sole Abragini, la luna
Mafatignay.

I genj dell'inverno, detto Fallas, sono: Attarib, Amabael, Crarari. La
terra chiamasi Geremia, il sole Commutat, e la luna Affetiram. Eguali
spiriti presiedevano a tutti i mesi e giorni che lascio di nominare,
perchè vedo che avete già brincia la bocca nel pronunciare questi;
povere bocche di rosa! non siete fatte pel linguaggio delle streghe:
eppure quello che ne esce è tutto incanto, ma allaccia senza il
soccorso dei demoni.

Fatto questo cerchio, il mago si poneva nel mezzo avendo cura di
non tenere addosso alcun metallo impuro, ma solo un pezzetto d'oro o
d'argento, avvolto in una carta bianca; questa talora si gittava allo
spirito quando giungea. Sovente si iniziava la cerimonia con fare un
sacrificio d'un cane, d'un gatto, d'una gallina. Gli scongiuri poi
erano di tre sorte: i primi naturali, e consistevano nell'ardere sur
un braciere profumi, secondo i diversi spiriti a cui si consacravano, e
talora essi benigni venivano subito. Il secondo usavasi coll'interporre
i pianeti, e offrire loro ostie e doni, perchè costringessero i demonj
a scendere ai voleri del mago. Ove queste due preghiere non valevano,
usavasi la terza che era la più tremenda e indubitata, poiché si
minacciavano gli spiriti di legarli nell'averno, e si deprecavano sino
con sacre cerimonie; era un misto di sacro e di profano, di bestemmie
e di orazioni; gli spiriti apparivano, il mago interrogava, ed essi
rispondevano.


III.

Dell'ammaliamento.

Fra i più temuti poteri de' negromanti era l'ammaliamento o
stregamento, per cui operavano sugli uomini quanto loro era in grado:
inducevano in essi il delirio, le malattie, e spesso li toglievano di
vita. Agrippa, nel suo _Trascendentalismo della filosofia occulta_, si
studia di insegnare in che fosse riposta questa magica potenza.

La malìa, giusta la sua sentenza, è un legame o una grazia, che dallo
spirito del fattucchiero passa per gli occhi al cuore del fatturato; il
sortilegio invece è lo strumento dello spirito, cioè un vapore puro,
lucido, sottile che scaturisce dal sangue migliore del cuore. Questo
spirito sparge continuamente per gli occhi dei raggi uguali, che recano
seco un vapore, e questo vapore opera sul sangue. Accade come vediamo
talora avvenire degli occhi infiammati e rossi, i cui raggi dardeggiati
agli occhi dei riguardanti, mercè il vapore del sangue corrotto,
inducono in essi la stessa malattia: così succede di un occhio aperto,
fermo, e che con forte immaginazione getta sopra alcuno i suoi raggi
apportatori degli spiriti; questi spiriti allora battono le pupille
dell'ammaliato, si mesce alla circolazione del sangue, lo penetrano,
lo innondano, lo inebbriano, sicchè in breve viene domato ed impacciato
dal demone straniero.

Queste sono le teorie del cabalismo che in vero io non vedo a che
possano riescire: parmi ne valgano a sciogliere il mistero solo le
donne, perchè io so avervi esse sole che coll'artifizio degli occhi
descritto da Agrippa giungano ad ammaliare i nostri poveri cuori.


IV.

Stregamenti mortali.

Vi erano varj modi di ammaliare: alcuni gittavansi in fiori che si
offerivano, altri in toccamenti. Dinscops, strega di Cleves, infondeva
il maleficio in tutti quelli cui stendeva la mano: fu presa e
abbruciata; ma que' ch'ella aveva fatturati non guarirono se non dopo
essere stata molto abbrustolita la sua mano diabolica. Caterina Dorèe
stregava con alcune polveri, e guariva gl'indemoniati mettendo loro
un piccione sul petto. Fu però abbruciata, e forse lo meritò, perchè
uccise un figlio dicendo che era per ordine del suo demone apparsole in
forma d'un grand'uomo nero.

Però non sempre si ha facoltà d'avvicinarsi a cui piace: quindi
le streghe immaginarono altre maniere, mercè cui potessero a loro
grand'agio, dimorando anche lontane, riflettere sopra altri il malefico
influsso delle proprie arti. Componevano alcune statuette di cera
che offrissero l'immagine di coloro che intendevano per qualche modo
fatturare, e quelle malìe che si facevano sulle immagini, avevano
potere su que' che rappresentavano.

Allorchè le maliarde volevano prendere vendetta di qualche loro nemico
e ucciderlo, fattane l'immagine, la collocavano in un vaso di legno
presso a un gran fuoco, e a maniera che dileguavasi quella cera, pure
disfacevasi la persona ammaliata, finchè ne morisse. Di ciò Agrippa ne
rende ragione col dire, che le esalazioni degli spiriti che escono dai
corpi dei negromanti, associati alle particelle che si volatilizzano
dalla cera, e agli atomi di fuoco, volano verso la persona fatta
segno al malefizio, se gli avventano e gli cagionano crudi dolori
finchè lo hanno morto. Per tal modo credono alcuni storici, che i
maghi uccidessero Eberardo arcivescovo di Tivoli; formato un idoletto
in figura del prelato, e stretto un prete a battezzarlo col nome di
lui, lo posero ad un ardente fuoco nel sabbato santo mentre Eberardo
conduceva le sacre funzioni, sicchè fu preso da improvviso malore e
in pochi istanti morì. Si vede che allora non si aveva ancora fatta la
statistica delle apoplessie.

Duffus, re di Scozia, si struggeva ogni giorno; si arrestarono le
streghe, il re guarì. Carlo IX morì pure sfinito; si disse che erano
le streghe, le quali tutti i dì facevano liquefare la sua immagine in
cera.

Questo pregiudizio riesciva a comodo dei tristi; a' tempi di Enrico VI
d'Inghilterra, il cardinale Winchester voleva liberarsi del duca di
Glocester; accusò la moglie di lui di magìa e che avesse con Ruggero
Bolimbroke e Maria Gardemain, negromanti, posta al fuoco l'immagine
del re in cera: l'accusa fu creduta, la duchessa condannata a carcere
perpetuo, Bolimbroke impiccato e la strega bruciata.


V.

Sortilegio per innamorare.

Grande sciagura è l'essere innamorato; continuo affanno, pene da
dannato, e infine se ne perde l'anima; le donne sono streghe che
ammaliano sempre: il bisogno di essere riamati suggerì arti diaboliche.

Quando però le streghe o i maghi volevano che una persona fosse presa
pel loro amore, facevano un idoletto di cera e impostole il nome di
lei, tenendolo fra le mani, s'immergevano nudi in qualche fiume, e
recitavano alcune preghiere; e tosto la giovane ammaliata era presa pel
mago e correva a lui. Alcuna volta si ingegnavano di avere i capelli
di una vergine, e fattivi sopra alcuni incantesimi, costringevano la
misera a venire a chiedere compassione al circolo del loro potere.
Queste follìe si credevano anche a' tempi d'Apulejo, e vediamo
nell'_Asino d'oro_, che una strega prese, invece dei capelli di un
giovane che vagheggiava, le setole di un porco, sicchè attrasse a sè
quell'animale.

Siccome poi pare che i maghi facessero loro delizia l'amore, così
Agrippa insegna moltissime maniere, doni, anelli e liquori con cui
innamorare altrui. Raccogliamo dalla _Vita di Cellini_, ch'ei prestasse
credenza a simili pazzìe, e le usasse finchè una leggiadra fanciulla il
ricevesse in cuore.

I filtri erano le arti che usarono specialmente fattucchieri e streghe
per legare gli amanti. Erano succhi cavati da erbe e da sostanze
animali. L'ipomane è il filtro più famoso, ed è formato con quella
escrescenza del pollo d'India che ha sul becco; ridotta in polvere, e
mista al sangue di chi si vuole allacciare, lo innamora disperatamente.
Un altro filtro componeasi col levarsi il proprio sangue in venerdì
di primavera, farlo disseccare al sole, e darlo da bere alla persona
onde si voleva amore. Vi sono poi altre ricette che le pajono quelle
de' medici per la terzana, ma per verità, per quanto studiassi entro il
libro d'Agrippa, vidi che pari alle sue teorie erano le sue ricette, e
anche in ciò risolversi tutta l'arte magica in istrane fantasìe. Solo
mi accertai che la più bella magia per innamorare le donne è riposta
nell'avere una bella faccia, e i giovani leggiadri essere i migliori
fattucchieri.

È agevole immaginare come facilmente si dovessero credere ammaliati
quelli che, presi da qualche lenta malattia, si consumavano a poco
a poco. Però che i medici potessero sfuggire la taccia d'ignoranza
con questo modo speditivo, era meno male; la peggio toccava a que'
sciagurati che venivano accusati d'avere usata la malìa, perchè vi
andava la vita. Tanto avvenne nel 1617 in Milano a una povera servente
nativa di Bronno, paese in oltre Po.

Cadde ammalato nel 1616 il senatore Melzi con dolori allo stomaco, per
cui perdette il cibo e il sonno: non sapevano i medici qual rimedio
usargli, dubbj del male; allorchè andò a rendergli visita il capitano
Vacallo, e gli disse che al certo egli era ammaliato, perchè gli
aveva trovata in casa a servente una fattucchiera, Caterina Medici.
A comprovargli tal sospetto gli narrò, come essendo costei al suo
servigio, ei se ne fosse sì invaghito che non potea aver pace; fu
giudicato ella lo avesse ammaliato _ad amorem_, ed essersi infatti
rinvenuto nel cuscino del suo letto, oltre a molte altre bazzecole,
un filo a misura del suo torso, in cui erano tre nodi, l'uno stretto,
l'altro meno, e il terzo appena formato; gli fu detto che tenesse ciò
a gran ventura, perchè se pure quel terzo nodo era chiuso, gli sarebbe
stato necessità sposare la Caterina o morire. A conferma poi gli
soggiungeva, il grande affanno che gli convenne sostenere allorché si
divise interamente da lei.

Non bisognò più oltre perchè si tenesse la Medici una maliarda, e
il senatore fatturato; si mandarono tosto i cuscini del letto a due
figlie di lui monache in san Bernardino; li scucirono, li cercarono,
e vi rinvennero per mala avventura dei gruppi di penne, dei fili e dei
pezzetti di carbone e di legno; si portarono al curato di san Giovanni
Laterano esorcista, e li giudicò preparazione di stregoneria. Allora i
medici prestamente conobbero la diatesi di quella malattia, ravvisarono
in quei dolori tutti i segni dell'ammaliamento, e spacciarono già da
gran tempo esserne accorti ne' loro consulti, ed anzi essere quello non
solamente _ad amorem_, ma anche _ad mortem_.

Intanto si era chiusa la povera Caterina in una stanza, e venne
dai servi e dai parenti costretta a disfare l'incantesimo, sebbene
asserisse di non intenderli; poi mandata al capitano di giustizia,
ebbe esami e tortura. Da principio asseverò non sapere che si fossero
nè i maleficj, nè i patti col demonio, nè il suo suggello che vollero
trovare impresso sulle spalle di lei; infine fra i tormenti, confessò,
come attesta un contemporaneo — che da quattordici anni abbjurata
la religione cristiana, e obbligatasi al principe delle tenebre, ha
frequentati i luoghi infernali e i conciliaboli de' demoni, gli ha
nefandemente adorati, e danzato, mangiato e giaciuta con essi; e con
arti diaboliche e veneficj ha tratto o procurato di trarre molti uomini
ad amarla, ed ha affascinati ed uccisi molti bambini col sottrarre
dai loro corpicelli il vital sangue, e finalmente ha commessi tali e
tanti delitti, che il senato nell'udirne il racconto inorridì. Perciò
statuitole un termine alla difesa, fatta difendere d'ufficio (poiché
nessuno si presentò per farlo), questa sacrilega e detestabile donna
fu condannata, previa la tortura ad arbitrio della curia, per la
manifestazione d'altri delitti e di complici, ad essere con mitra in
capo, avente l'iscrizione del reato, e cinta di figure diaboliche,
condotta al luogo del pubblico patibolo sopra un carro, percorrendo le
vie principali della città, tormentata durante il cammino con tanaglie
roventi e per ultimo bruciata. — Tali sono i termini della sentenza che
venne eseguita ai quattro marzo 1617: a tanto può giungere il fanatismo
degli uomini, od una crudele ignoranza.

Di questo pietoso caso il dotto Achille Mauri fece un romanzo, che
certo avrete letto, e commiserata la condizione di que' tempi.



CAPO V.

IL FUTURO.


I.

Della Divinazione.

La curiosità che alcuni vogliono imputare solo alle donne, è un
privilegio del genere umano; è forse un organo del cervello, un sesto
senso dell'animo, una forma dell'intelletto, pari a quelle create dai
frenologi e dai filosofi scozzesi e trascendentali. Gli uomini sono
curiosi, ma non solo del passato e del presente, anche del futuro. Fu
la curiosità che inventò gli oracoli e le sibille, le divinazioni de'
sacrifici, e doveva certamente consigliare ai maghi ed alle streghe di
rivelare il futuro. Essi se ne vantavano, profetavano largamente sugli
uomini e sulle cose, e si conciliavano la venerazione più per questa
facoltà che per le loro malìe.

L'arte magica poneva ne' suoi elementi la divinazione; ammetteva
che l'animo dell'uomo sortì dalla natura una virtù quasi divina, la
quale comprende ed è capace di ogni cosa, e da tutto sa argomentare
al conoscimento di quanto ne circonda. Da questa formola inducevano i
maghi che chiunque potrebbe avere facoltà di conoscere le presenti e
le future cose, ove fossero governate soltanto dall'umana saviezza;
ma siccome sovente si conducono pel ministero degli spiriti, così
a raggiungerle fra il bujo che le involge, voleano che fossero di
necessità il sussidio delle potenze occulte. Quindi per rivelare il
futuro i maghi o le streghe non pretendevano avere inspirazioni come
le sacerdotesse, ma ritrarle dall'arte loro, perchè prendesse maggior
credito. Vedevano essi il futuro o per l'evocazione degli spiriti,
o leggendolo negli astri, o deducendolo dalle particolari forme e
circostanze delle persone che cercavano la rivelazione: usavano i due
primi modi più sublimi i maghi, l'ultimo specialmente le streghe.


II.

Divinazione per mezzo degli spiriti.

Rade volte i maghi s'inducevano a tentare il futuro coll'evocazione
degli spiriti: però vi erano dei casi in cui potevano essere costretti
dai postulanti a questa evocazione, propiziandoli con offerte e
sacrifici che legavano quasi la loro volontà. Allora i maghi si
apparecchiavano a rendere quegli oracoli con grande apparato; si
ponevano in mezzo del circolo magico, ardevano aromi ai genj del
mese, del giorno, dell'ora; scongiuravano i demoni perchè apparissero
loro innanzi. Finalmente il mago impallidiva, sudava, capitavano gli
esseri misteriosi intorno al circolo del suo potere; egli o sedeva sul
tripode, o girava la temuta bacchetta, interrogava, ascoltava, e dava
quindi le udite risposte; sentiva e vedeva quanto operavasi altrove o
preparava il temuto avvenire.

Lunga era la cerimonia e strana che, come attesta Scheffer, usavasi in
Lapponia allorchè un mago o un fattucchiero era sollecitato a rivelare
quanto succedeva altrove, o seguire dovesse in avvenire. Poneano i
chiedenti un tamburo in terra e vi spargevano sopra alcuni anelli di
ottone legati a un filo dello stesso metallo; indi con un martello di
osso forcuto batteano il tamburo, sicchè gli anelli ne saltellavano,
e intanto intorno ad esso il mago e i circostanti cantavano una
canzone e nominavano sovente il luogo di cui intendevano conoscere
gli avvenimenti. Dopo avere menata a lungo questa carola e percosso il
tamburo, il fattucchiero se lo adattava in testa, e poco dopo cadeva
a terra come corpo morto. Non restavano però gli altri nè dal canto,
nè dalla danza, ma avevano somma cura di non toccare, nè destare
l'indovino, perchè ne sarebbe subito seguita la morte di lui, ed anzi
erano solleciti di allontanare le mosche o gli insetti che potessero
svegliarlo. Ripetevano le stesse cure per lungo tempo e talvolta fino a
ventiquattr'ore, finché il mago, ritornando in sensi, rispondea degli
avvenimenti futuri o di quanto avveniva nel paese a cui era stato
inviato, e recava in testimonianza del suo viaggio un anello, e talora
una scarpa dei popoli che aveva visitati.


III.

Astrologìa.

La più grande fra le arti della divinazione era quella che partiva
dallo studio della posizione e dell'influenza de' corpi celesti:
l'astrologìa è antica quasi come l'epoca in cui l'uomo alzò la mente
a considerare il cielo. I maghi e le streghe cominciavano dal fare
l'oroscopo di un uomo dalle varie costellazioni sotto cui era nato.

Dare le teorie dell'astrologìa giudiziaria sarebbe accrescere con
troppa tara di noja la derrata già astrusa onde aggravai i lettori. Gli
astrologi, perchè cavassero delle predizioni, accomodavano a loro modo
il cielo e le sfere, e l'astrologìa, come osserva Voltaire, è sempre in
contraddizione coll'astronomia.

Ora come ricordare tutte le profezìe e vere e false dei maghi? ne
dirò alcune. Bonato si dava vanto dall'osservare la congiunzione di
alcuni pianeti, avere scoperta una congiura che tenevasi in Grosseto
contro Federico II, e gli riuscì questa scoperta a maggior gloria,
perchè nessuno dei maghi di quel re ne avea avuto sentore. Nè Bonato
pretendeva solo vedere le cose presenti, ma ascose; si millantava di
avere predetti molti futuri avvenimenti ad Ezzelino, l'esito di varie
battaglie a Guido Novello, e ai Guelfi di Firenze il sanguinoso fine di
quella di Monteaperto.

Però talvolta quelle predizioni andavano un po' male. L'imperatore
Manuel che pretendeva sapere d'astrologia, dopo avere consultate
le stelle, mise in mare una flotta, dalla quale ei presagiva grandi
vittorie; fu vinta, incendiata, sommersa. Un giovane rubò, fuggì: un
mago disse che si sarebbe salvato, perchè quando nacque, Venere era in
congiunzione con Mercurio: intanto il ladro fu preso.

Anche le profezìe de' maghi bisognavano d'una interpretazione come
quelle degli oracoli, e allora sovente coglievano nel vero. Si predisse
ad un uomo che sarebbe stato ucciso da un cavallo, e ricovrò in
Venezia, ove non ve n'erano; gli cascò un'insegna di osteria sul capo e
lo uccise: questa recava dipinto un cavallo nero.

Però i maghi non ebbero a fare sempre cogli stessi umori e ne accaddero
di lieti e tristi casi. Uno scioperato a cui si aveva predetto il dì
della morte, si mangiò tutto: visse di più: cercava la carità, pregando
d'aver misericordia per un uomo che era vissuto più lungamente che
non credeva. Fu più amaro lo scherno che fece un contadino a Guido
Bonato: interrogato sul tempo che ne farebbe alla domane, e avendo egli
dopo l'osservazione delle stelle asseverato che non sarebbe caduta
alcuna pioggia, un petulante contadino ivi presente glielo disdisse,
sostenendo che alcuni movimenti del suo asino gli pronosticavano invece
che dovesse cadere molta pioggia, ciò che infatti seguì, e quel villano
andò in molta vanità per la sapienza della sua bestia: perciò non è
nuovo che gli asini s'abbiano più merito de' saggi.

Ma sciagure maggiori incolsero talora ai maghi, che o volontarj o
forzati predissero il futuro ai grandi che poi fallò, a mostrare che se
torcono a loro capriccio il presente, almeno non possono sull'avvenire.
Heggiage, generale arabo sotto il califfo Valid, consultò nella sua
prima malattia un astrologo che gli predisse una prossima morte. — Io
conto tanto sulla vostra abilità, gli rispose Heggiage, che voglio
avervi con me all'altro mondo, e vi spedirò innanzi, perchè possa
servirmi di voi tosto arrivatovi. — E gli fe' tagliar la testa, benchè
il tempo stabilito alla guarigione non fosse ancora giunto: questa era
barbarie da capriccio.

Il meglio è non impacciarsi con grandi, perchè non si coglie mai
bene: Enrico VII re d'Inghilterra, domandava a un astrologo se sapesse
dove passerebbe le feste dell'anno nuovo: questi rispose di no, e il
capriccioso re: — Dunque io sono più abile indovino di te, perchè so
che tu le passerai nella torre di Londra — e ve lo fece chiudere.

Boulainvilliers e Colonne che aveano molta riputazione a Parigi in
fatto di astrologia, predissero a Voltaire che morrebbe a trentadue
anni. — Io ebbi la malizia, scriveva il grande nel 1757, d'ingannarli
già da trent'anni, e ne domando loro umilmente perdono. — Egli li
ingannò più di vent'anni ancora.

Fu più imprudente il mago che squadrato il viso di Giovan Galeazzo duca
di Milano, gli predisse: — Signore, date ricapito alle vostre faccende,
perchè non avete gran tempo da vivere. — Come lo sai? — gli chiese il
Duca. — Colla conoscenza degli astri. — E tu quanto devi vivere? — Il
mio pianeta mi promette lunga vita. — Or bene, vedi che non bisogna
affidarsi ai pianeti — e lo fece impiccare.


IV.

Mandragore.

Ben vedevano le streghe che questo alzarsi in cielo aveva un po' di
pericolo, e le meglio accorte si ridussero a profezìe più generali
ed a consultare le cose terrene. Esse però per non apparire affatto
sprovviste di soccorsi misteriosi, dicevano di avere certi spiriti
famigliari, buoni diavoletti, sotto forma di piccoli uomini senza
barba, co' capelli sparsi. Tenevano quindi dei piccoli fantocci, ne'
quali dicevano che entrava un demone e dava loro consiglio. Erano i
Lari degli antichi, gli Alruni dei Germani; erano figurette, spesso
rappresentanti donne, fatte colle radici di piante dure, sovente di
mandragora: le lavavano ogni settimana con acqua e vino, le vestivano
con eleganza, le adagiavano su molli coltrici, e imbandivano loro
la mensa, altrimenti i poveretti mandavano grida disperate per fame.
Questi genj erano di sussidio nelle malattie, di consiglio nelle cose
dubbie, e rivelavano il futuro o con movimenti di capo o con parole:
pajono i fantocci dei nostri fanciulli.

Anche i maghi più antichi tenevano questi sussidj, e Filippo Villani
racconta che Guido Bonato aveva formata una statua di bronzo, che
interrogata del futuro, rendeva fedeli e indubitate le risposte.
L'autore del _Piccolo Alberto_ narra, che viaggiando per Lilla fu
condotto a vedere una vecchia strega, che in un gabinetto illuminato
da una lanterna, teneva sur un tavolo una statua seduta sopra un
tripode, la quale con un martelletto che stringeva in mano batteva un
bicchiere di cristallo per dare risposta alle fattele domande. Omai
non v'ha giuocatore di bussolotti che non presenti questi automi,
i quali si muovono per due maniere... eh, non voglio dire di più,
perchè altrimenti guasto il mio mestiere, e tengo ancora i bussolotti
per ultima mia risorsa; buoni amici, forse mi produrranno meglio dei
giornali e degli almanacchi.


V.

Chiromanzìa.

Le streghe e le frivolezze delle donnicciuole presero partito da ogni
cosa per indovinare tutto ciò che è quaggiù dal destino dell'uomo fino
ai numeri del lotto, si tolsero divinazioni dagli animali domestici,
dalle forme diverse di una persona, fino dalla sua scrittura, e se
ne fecero al solito tante scienze: enumerarle tutte sarebbe lungo e
nojoso; dirò solo della più importante usata da tutte le indovine e
dalle zingare, cioè la chiromanzìa o indovinamento dedotto dallo studio
della mano. Non vo' farne mistero, ma riprodurne gli elementi come li
ridusse Collin, perchè possiate apprendere quest'arte innocente.

   [Illustrazione: Mano colle linee per la chiromanzìa]

Or via, amabili lettrici, stendete la bella mano, svestitela
dell'invido guanto, consentite che la vediamo. Oh come è vezzosa! pare
scolpita da Canova: prima un bacio, perchè accenda la fantasìa, ridesti
lo spirito profetico. Ora badate a me: nella mano bisogna distinguere
varie parti: la palma al di dentro, il pugno al di fuori, quando è
chiusa: le dita, le unghie, le articolazioni, le linee e le montagne.
Lo sapete, cinque sono le dita: pollice, indice, medio, anulare,
auricolare o mignolo: quindici le articolazioni: due al pollice, tre
per ciascuno nelle altre dita, ed una fra la mano ed il braccio. Or
nella mano convien notare quattro linee principali. La _linea della
vita_ che è la più importante, comincia dall'alto della mano fra il
pollice e l'indice, e si prolunga sotto alla radice dell'ultimo fino in
mezzo all'articolazione che unisce la mano al braccio. La _linea della
salute e dello spirito_, che ha pure origine come quella della vita,
fra l'indice e il pollice, taglia in mezzo la mano e finisce alla base
di lei fra la giuntura del polso e il principio del dito mignolo. La
_linea della felicità o della fortuna_ nasce alla radice dell'indice
e termina sotto la base della mano al di qua della radice del dito
mignolo. Finalmente la _linea della giuntura_, la meno importante, è
quella che segna il passaggio dal braccio alla mano; è piuttosto una
ruga che una linea. Vi è pure una quinta linea che non si trova in
tutte le mani, e si dice del _triangolo_, perchè cominciando nel mezzo
della giuntura sotto la radice del pollice, ha fine sotto quella del
dito mignolo.

Vi sono anche sette tuberosità o montagne, nominate dai sette pianeti.
Si avverta che per la chiromanzìa si usa sempre la mano sinistra,
perchè la destra essendo più affaticata, presenta qualche volta nelle
linee delle irregolarità che non sono naturali.

La mano va presa quando è riposata, un po' fresca e senza convulsione,
per vedere con precisione il colore delle linee e la forma dei tratti
che ha improntati.

La sola forma della mano può dare una idea se non della sorte futura
delle persone, almeno del loro naturale e spirito. In generale una
mano grossa, annuncia uno spirito ottuso, a meno che le dita non
siano lunghe ed ossee. Una mano carnosa con dita affusolate, come si
usa augurare alle donne, non accenna uno spirito vasto. Le dita che
rientrano nella mano sono segno sicuro d'uno spirito lento, qualche
volta inclinato alla furberìa; le dita rialzate all'insù, annunziano
le qualità contrarie. Le dita grosse egualmente all'estremità ed al
principio, annunciano nulla di cattivo: quelle più grosse alla giuntura
di mezzo che alla radice, indicano nulla di buono.

Una mano larga val meglio che una troppo stretta: perchè una mano sia
bella, bisogna che sia larga quanto è lungo il dito medio.

Se la _linea della giuntura_, che è qualche volta doppia, è viva
e colorata, indica un buon temperamento; se è dritta, tracciata
egualmente in tutto il suo viaggio, promette ricchezza e felicità.
Se la giuntura presentasse quattro linee, si può promettersi onori,
dignità e ricche successioni: se la linea è attraversata da tre altre
piccole perpendicolari, o segnata da alcuni punti molto visibili,
presagisce certamente all'uomo che sarà tradito dalle donne, ed alle
donne qualche sfregio dell'amante.

Quando dalla giuntura escono piccole linee che si perdono sotto la
radice del pollice, è certo presagio che si sarà tradito da' proprj
congiunti; quando esce una linea che giunga alla radice del dito medio,
è segno di felicità e di fortuna; questa linea non indica disgrazia
che quando va a perdersi sotto la radice del dito mignolo. Le linee
che partono dalla giuntura e si perdono lungo il braccio, profetizzano
l'esiglio dalla patria: se queste invece si perdono nel palmo della
mano, presagiscono lunghi viaggi per terra e per mare e una vita sempre
burrascosa.

Se nella giuntura della mano di una giovenetta si trovano tre linee,
delle quali una scompare sotto la radice del dito mignolo, l'altra
sotto quella del medio e la terza verso quella del pollice, si può
dedurre ch'essa si abbandonerà a' vizj nella più tenera età. Una donna
invece che abbia impressa una croce sulla linea della giuntura, è
casta, dolce, fregiata d'onore e di saviezza, e formerà la felicità del
proprio sposo.

Se la _linea della vita_, che si chiama anche _linea del cuore_, è
lunga, profonda, eguale, vivamente colorata, annuncia una vita senza
mali ed una vecchiezza prosperosa; se è senza colore, tortuosa, corta,
superficiale, intersecata da piccole linee trasversali, è presagio di
una vita breve, di una cattiva salute e di un carattere dappoco. Se
questa linea è stretta, ma lunga e ben colorata, esprime la saviezza,
lo spirito ingegnoso, la generosità di cuore: se è larga e pallida,
è segno di rozzezza e qualche volta di stolidità: se è profonda e
d'un colore ineguale, cioè segnata di macchie rosse e livide, dinota
malizia, doppiezza, ciarlerìa, gelosìa, presunzione.

Quando la _linea della vita_ è profonda, larga, rossa, indica un
temperamento lascivo, il naturale di un beone, l'inclinazione alla
furberìa: ove il colore di questa linea sia misto da un capo all'altro
di livido e di un rosso carico, annuncia un naturale collerico,
impetuoso, facile al furore. Quando al suo principio, fra l'indice ed
il pollice, essa si separa in due, in modo da formare la forca, è segno
d'incostanza: una croce sulla stessa linea nella mano d'una donna,
accenna l'impudenza e l'inclinazione al vizio.

Se questa linea è tagliata verso il mezzo da due altre piccole
trasversali, è segno di prossima morte; quand'essa è circondata da
piccole rughe che le danno la forma d'un arbusto carico di rami, purchè
questi siano vôlti all'insù della mano, è presagio di ricchezze e di
onori. Secondo la chiromanzìa, questo è il segno più fortunato; ma se
quelle rughe son vôlte verso il basso della mano, indicano povertà e
una prossima ruina.

Se queste rughe sono strette e dividono trasversalmente la linea della
vita, promettono un misto di bene e di male. Ogni volta che la linea
della vita è interrotta, spezzata, si può esser certi di una malattia:
seminata di punti o di piccoli buchi, segna un temperamento impudico;
e se questi punti sono rossi, annunciano un gran pericolo in una
avventura galante; quando lungo la linea si trova un punto circondato
da un piccolo cerchio, si diverrà guercio, perchè questa figura indica
la perdita di un occhio: se questo marchio è doppio fa temere la
cecità. Una croce posta all'alto della linea fra il pollice e l'indice
indica, sì in un uomo che in una donna, una determinata inclinazione
alla lussuria ed alle dissolutezze; se invece questa croce è alla fine
della linea della vita, presso la giuntura, profetizza la morte sul
patibolo.

La _linea della salute e dello spirito_ è anche chiamata linea di
mezzo. Questa diritta, ben segnata, d'un colore naturale, indica salute
e spirito, sano giudizio, buona memoria e vivace concepimento; lunga,
si godrà d'una salute perfetta fino all'estrema vecchiezza; corta, da
non giungere che alla metà della mano, si avrà timidità, debolezza,
testardaggine, avarizia; livida, perfidia. Curvata verso il dito
mignolo, presagisce una vecchiaja povera; se la curvatura forma una
specie di uncino, è segno di malvagità.

Ove la linea della salute e dello spirito si volga verso la giuntura
della mano, rivela sciocchezza e rustichezza; ove sia tortuosa,
l'inclinazione al furto; se al contrario è dritta e d'un colore
brillante, accenna una coscienza pura e un cuor giusto. Larga, profonda
e d'un rosso carico, questa linea annuncia la rozzezza e l'impudenza;
sparsa di piccoli cerchi, ognuno di questi cerchj accenna un omicidio
che si commetterà, se non si sta in guardia; se s'interrompe a metà per
formare una specie di semicerchio, è presagio che si correranno grandi
pericoli con bestie feroci.

Ove in mezzo alla linea della salute si alzi una piccola croce, si è
quasi certo di morire in quell'anno: forcuta all'origine, rivela uno
spirito precoce, ma che s'indebolirà presto; forcuta all'estremità,
o che si divida in più rami verso la base della mano, annuncia uno
spirito tardo, ma che si fortificherà cogli anni. Questo segno promette
anche una vita lunga, e spesso una vecchiaja povera.

La _linea della fortuna o della felicità_ comincia, come fu detto,
sotto la radice dell'indice, e termina al di qua della radice del dito
mignolo; è quasi paralella alla linea della salute. Questa linea eguale
a dritta, molto lunga e ben segnata scopre un naturale eccellente,
la forza, la modestia e la costanza nel bene. Se invece di cominciare
sotto la radice dell'indice, fra questo dito e il medio, ha principio
all'alto della mano, è presagio di orgoglio e crudeltà; molto rossa
nella sua parte superiore, indica invidia, svela un delatore, pronto a
nuocere, beato del male altrui.

Quando la linea della fortuna è sparsa di piccole linee a rami
elevantisi verso l'alto della mano, profetizza dignità, felicità,
potenza e ricchezze; ma se è assolutamente unita, senza rami, prepara
miseria e infortunio. Se dei rami ond'è ordinariamente fornita, tre
sono vôlti verso l'alto della mano dalla parte della salute, dinotano
uno spirito piacevole, un cuor generoso; sono il segno della modestia e
dell'amabilità. È raro che un uomo con questi tre rami non piaccia alle
donne, e una donna possa mancare d'amanti, s'intende purché non sia
brutta come il diavolo.

Una piccola croce sulla linea della fortuna, significa cuore liberale,
amico della verità, buono, affabile, ornato di tutte le virtù.

Se la linea della felicità o della fortuna, invece di nascere ove si
disse, ha principio fra il pollice e l'indice allo stesso luogo ove
comincia quella della salute, in modo che queste due formino insieme un
angolo acuto, è forza aspettarsi gravi pericoli, afflizioni, noja della
vita; se questa non si trovasse in mezzo alla mano e vi fosse solo
quella della vita, e quella della fortuna o della felicità riunite alla
loro origine a forma d'angolo, si perderà la vita in battaglia, o si
sarà mortalmente ferito in qualche avvenimento; in ogni modo, certezza
di non finire di morte naturale.

La linea della fortuna dritta e libera nella parte superiore, palesa
il talento di governare la propria casa e onestamente i proprj
affari; interrotta verso la metà da piccole linee trasversali, svela
l'adulazione e la doppiezza, vizj che attirano l'odio generale.

La linea della fortuna pallida in tutta la sua larghezza promette
pudore, castità, un temperamento freddo, ma una gran debolezza di corpo
e di spirito; se manca totalmente nella mano, è di cattivo augurio;
la persona priva di questa linea non ha alcun carattere; travestita,
sarebbe difficile conoscere a qual sesso appartenga, perchè partecipa
dell'uomo e della donna; è inclinata più al male che al bene; poca
costanza e molta tendenza a rattristarsi per la più lieve cosa. Le
piccole linee trasversali poi che appajono su quella della fortuna,
annunziano parecchi matrimonj o fatti o futuri.

La _linea del triangolo_ manca in molte mani senza che si sia perciò
sfortunati. Se essa è dritta, appariscente, perchè ordinariamente
si vede poco, e si stende fino alla linea di salute, promette grandi
ricchezze; se si prolunga fin verso la radice del dito medio, accenna
buone avventure, ma ove si perda sotto la radice del dito mignolo,
verso il basso della mano, arreca sventura, rivalità, odj; tortuosa,
ineguale, da qualunque parte si volga, annuncia sempre che non si
uscirà di povertà.

L'eminenza che si trova alla radice del pollice, e si stende fino
alla linea della salute, si dice _montagna di Venere_; quando questa
tuberosità è dolce, unita, senza rughe, gradevolmente colorata, è
segno d'un temperamento buono e di grande inclinazione alle avventure
amorose. Se questa montagna è fornita di una piccola linea parallela
a quella della vita e ad essa vicina, è segno di una foga insaziabile
per i piaceri di Venere; è anche presagio di ricchezze. Se l'eminenza
che si trova sotto il pollice è segnata da parecchie piccole linee
paralelle a quella della vita, si sarà ricco in gioventù e povero in
età avanzata; se però queste linee si dirigono in altro senso, cioè
se vengono dalla giuntura del pollice alla linea della vita, si sarà
povero in gioventù e ricco nella canizie. Quando questa eminenza ha
molte linee che s'incrocicchiano in lungo e in largo, si sarà ricco
per tutta la vita o per lo meno si godrà di una dolce agiatezza.
Il pollice, attraversato nella sua lunghezza da piccole linee che
vanno dall'unghia alla giuntura, promette una grande eredità. Ma
se il pollice è tagliato da linee trasversali, come la piega delle
articolazioni, è segno che si faranno viaggi lunghi e pericolosi.
Quando il pollice o la sua radice presentano dei punti o delle stelle,
vi è gajezza.

La figura di un piccolo cerchio sul pollice annuncia un temperamento
dedito all'amore: una o alcune croci, dinotano la pietà, la divozione e
l'inclinazione pel ritiro.

L'eminenza che si trova alla radice dell'indice, si dice _montagna
di Giove_. Quando questa tuberosità è unita e bellamente colorata,
indica un buon naturale e un cuore inclinato alla virtù. Se è coperta
di piccole linee poco profonde, si avranno onori e dignità importanti;
ove queste linee siano numerose e spesse, e si segua lo stato
ecclesiastico, si può sperare al cardinalato. Ove le pieghe formate
dalla seconda giuntura dell'indice siano larghe e d'un rosso carico,
indicano nell'uomo impotenza in amore, nella donna un parto pericoloso.
Se il di sotto dell'indice è attraversato da una linea in tutta la sua
lunghezza, si morrà di morte violenta: la giuntura che unisce l'unghia
coll'indice dolcemente increspata e naturalmente colorata, accenna
un carattere affabile, una voce sonora: la stessa persona avrà i due
primi denti della mascella superiore un po' lunghi senza essere brutta.
Alcune piccole linee fra la seconda giuntura e la radice dell'indice
presagiscono ricche successioni da parte di lontani parenti, dai quali
non si aspettava nulla.

La tuberosità che si alza nel palmo della mano alla radice del dito
medio, si chiama _montagna di Saturno_. Questa eminenza uguale e
di colore naturale, annunzia semplicità e amore al lavoro; ma se la
coprono piccole rughe, è segno d'inquietudine e d'un carattere facile a
turbarsi.

Quando la giuntura che separa la mano dal dito medio presenta delle
pieghe tortuose, si ha un intelletto tardo, uno spirito lento, una
concezione faticosa. Una piccola linea per ciascun lato della radice
del dito medio nella mano di una donna, annuncia una buona madre;
se le linee sono profonde, che darà alla luce dei figli maschi. Una
piccola croce sotto il dito medio, fra la seconda giuntura e quella
vicina all'unghia, annunzia a una donna prosperità futura, a un uomo
una disgrazia. La donna che avrà fra quelle due giunture cinque o sei
piccole linee disposte in lungo, avrà un figlio che diverrà prete; e le
sarà ucciso se si trovano fra queste linee un punto o la figura di una
stella.

La tuberosità sporgente alla radice del dito anulare è la _montagna
del Sole_: sparsa di piccole linee naturali, accenna uno spirito forte,
vivace; eloquenza, talenti fra gl'impieghi politici ed ecclesiastici,
forse un po' di orgoglio: vi è meno eloquenza, ma anche più modestia
e probità quando queste linee sono soltanto due. La radice sparsa di
linee incrocicchiate le une sulle altre, manifesta un individuo che
sarà vittorioso dei proprj nemici e rivali; se ha queste linee slegate
e di un colore un po' vivo, sarà allegro e piacevole; inclinerà a tutti
i vizj e malattie, se sono tortuose e d'un rosso carico; se forma la
croce di sant'Andrea, sarà moderato, previdente; una donna che avrà
sotto il dito anulare presso la seconda giuntura alcune linee disposte
in lungo, verrà arricchita dal marito; ma se queste linee sono presso
la giuntura vicino all'unghia, essa invece sarà divota, e forse si
chiuderà in un monastero.

L'eminenza posta alla radice del dito mignolo è la _montagna di
Mercurio_; unita, senza rughe, colorata con uguaglianza, palesa un
buon temperamento, costanza nello spirito e nel cuore, negli uomini
modestia, nelle donne una virtù invariabile. Se questa tuberosità
è attraversata da due piccole linee che si dirigono verso il dito
mignolo, è segno di liberalità; se le linee sono d'un rosso oscuro,
interrotte da macchie livide, in qualunque numero, scoprono la tendenza
alla menzogna e l'istinto del furto. La giuntura che unisce il dito
piccolo, sparsa di linee tortuose, dà grandi speranze e promette almeno
i favori della fortuna. Una donna che ha all'estremità del dito mignolo
una croce più o meno formata, è insolente e ciarliera. Due linee
formanti un angolo al di sopra della seconda giuntura del dito mignolo,
indicano l'amore allo studio, uno spirito ardito e un cuore altiero.
Una croce fra la seconda giuntura e quella vicino all'unghia, annuncia
tumultuose passioni, un sonno penoso, e una coscienza agitata; un
cerchio sul dito mignolo, dignità e potenza.

Lo spazio che si trova sul confine inferiore della mano, al di sotto
della montagna di Mercurio, dalla linea della felicità fino all'estremo
di quella dello spirito, si dice _montagna della Luna_.

Questo spazio uguale e liscio, si associa alla pace dell'anima e a
uno spirito naturalmente tranquillo; quando è molto colorato, si ha
tristezza, uno spirito inquieto, un temperamento melanconico. Se questo
spazio è sparso di rughe, si avranno viaggi e pericoli sul mare.

Lo spazio posto sulla estremità inferiore della mano, al di qua
della montagna della Luna, dall'estremità inferiore della linea dello
spirito fino a quella della giuntura, è denominato la _montagna di
Marte_. Quando questo spazio è uguale e liscio, svela vero coraggio e
prudenza che sempre si accompagnano alla bravura. Se è molto colorato,
disegna audacia e temerità. Molte e grandi rughe sulla montagna di
Marte indicano altrettanti pericoli più o meno grandi, secondo la
profondità e la lunghezza delle rughe: è anche il presagio di morte fra
i briganti, se le linee sono livide; è indizio d'una morte funesta,
se sono molte rosse; d'una morte gloriosa in campo di battaglia, se
dritte; di una morte obbrobriosa, se tortuose. Alcune croci sulla
montagna di Marte promettono dignità e comando.

Anche le giunture hanno i loro presagi: quando quella che separa il
pollice della mano, forma una linea profonda, semplice e ben segnata,
manifesta un temperamento forte e una costituzione ben organizzata:
se è ineguale, tagliata da altre linee, indica debolezza. Quando
si trovano nella giuntura che divide in due il pollice, tre linee
inferiori più o meno congiunte, più o meno segnate, felicità certa.

La prima giuntura dell'indice sparsa di piccoli rami, annunzia probità
e un buon naturale; la linea dell'estrema giuntura dell'indice,
semplice, unita, ben segnata, promette una perfetta salute.

La prima giuntura del dito medio sparsa di linee, dinota uno spirito
credulo, una persona un po' semplice e di buoni costumi; la seconda
con molte linee, un cuore ambizioso e uno spirito inquieto; la terza
segnata di tre linee più o meno pronunciate, un'anima schietta,
abborrimento alla frode.

La prima articolazione del dito anulare, sparsa di linee e di rami,
rivela una grande immaginazione. Se la seconda giuntura porta tre
linee, fra le quali quella di mezzo sia spezzata uno spirito giocondo;
se l'estrema giuntura è composta d'una sola linea unita, semplice e ben
segnata, abbiamo un buon cuore.

Quando le tre articolazioni del dito mignolo sono sparse di linee, rami
e tratti, indicano spirito, talento, eloquenza.

Anche le unghie avevano la loro parte divinatoria. Piccoli segni
biancastri sulle unghie presagiscono timori; neri, spaventi e pericoli;
rossi, cosa però molto rara, sventure ed ingiurie; d'un bianco puro,
speranza e felicità.

Quando questi segni si trovano alla radice dell'unghia, il compimento
di quanto presagiscono è lontano; salgono alla sommità dell'unghia
quando i timori e le speranze si avverano.

Perchè una mano sia perfetta, bisogna che non sia troppo grassa, ma
piuttosto lunga, le dita non troppo rotonde, e distinti i nodi delle
giunture. Il colore di essa dev'essere fresco e naturale; le unghie più
lunghe che larghe, la linea della vita ben segnata, eguale, fresca, non
sarà interrotta, e si protenderà nella linea della giuntura.

Quella della salute occuperà i tre quarti dell'estensione della mano,
quella della fortuna sarà sparsa di rami e ben colorata. Avventurato
chi con queste linee, con una mano di tal forma, unirà anche alcuni
dei benefici segni che abbiamo indicati! il suo carattere farà la sua
felicità, il destino la sua fortuna, e la sua stella gli renderà amico
il genio che conduce la gloria. —

Avete ben inteso, amabili leggitrici, che amate farvi astrologare? Per
maggiore facilità vi si offre in una tavola una mano colla topografia
delle linee principali: al nostro tempo la topografia che è incerta
fra gli stati, divenne sicura sul cervello con Gall, sulle mani
colla chiromanzìa: è tutto progresso. Però esaminando la mano, nel
cercare quelle linee cui i chiromanti diedero sì bei nomi, badate a
non isbigottirvi, perchè potrebbero essere quelle benedette rughe che
vengono cogli anni a molestare parti più nobili che non sia la mano.
Quando volete fare l'indovina sugli altri, prima di pigliar la mano,
badate all'età, e se è già matura, siate certe di trovarvi tutte le
linee che vi aggradano: del resto, destrezza, uno sguardo indagatore, e
i segreti si apriranno; se poi siete belle, e indovinate gli affetti di
un giovane, anche d'un autor d'almanacchi, non sarete mai smentite.


VI.

Gettatura.

Gli uomini vanno sì pazzi per la divinazione, che quando non trovano
persone che predicano per arte il futuro, si creano la buona o mala
ventura dalle cose fortuite che li circondano, o da esseri invisibili:
la prima arte è la gettatura creduta ancora dal popolo in varie
parti d'Italia e specialmente a Napoli, e intorno alla quale si sono
stampati grossi volumi a conforto dei curiosi. Credono adunque alcuni,
che certi uomini abbiano il potere di dare la buona o mala sorte, ne
temono l'incontro, o studiano ogni modo per rimediare al loro malevolo
influsso. Come li conoscano non è facile determinarlo, perchè molte
volte ha parte la simpatìa e l'antipatìa: ne sono poi segni in alcuni
il cappello a tese rialzate o a tre punte, in altri fibbie larghissime
alle scarpe, in chi gli occhiali armati non di metallo, ma di osso,
in chi la condizione, l'abito, la divisa. Quindi i creduli per farsi
schermo al loro sinistro influsso, portano al collo, nelle dita, ai
ciondoli degli orologi, mille minuterìe e talismani, e appena avvisano
di vedere qualche gettatore, li toccano, li mettono in movimento a
propria difesa; ed ove questi mancano, corrono colle mani a certe parti
del corpo. Non vi ha azione nella vita che non sia computata nella
gettatura; regole perchè non sia fatale non ne mancano, ma non accade
ripeterle per non aggiungere alla noja del passato capitolo


VII.

Il Malarbetto.

Quante volte dal popolo d'Italia o di Francia non si ode maledire e
invocare nel primo paese il _Malarbetto_, nel secondo la _Malebête_?
non è parola a caso perchè nei popoli non si hanno senza motivo, non
dirò credenze ed usi, ma fino le espressioni. Volete conoscere il
Malarbetto? è un mostro scappato dall'averno che corre le contrade
di notte, e porta la malavventura a quelli che incontra, sovente la
morte al prossimo giorno, e propriamente si chiama Malabestio. Questa
opinione era viva nel popolo di Tolosa, ed anche fra di noi in alcune
campagne si teme questo fantasma notturno, sicchè i fanciulli, sentendo
rumore o il fragore di qualche cocchio, credono che giunga. Sebbene
tolta questa opinione in altri luoghi, resta ancora l'abbreviatura del
nome siccome esclamazione d'impazienza o di ammirazione: in Lombardia
suona sovente fra le grazie della lingua milanese il _Malarbetto_.



CAPO VI.

AZIONI E POTENZA DEI MAGHI E DELLE STREGHE.


Dopo tanti sussidj i maghi doveano esser tenuti potenti sopra la terra:
essi davano salute e sventura, creavano ricchezze, fabbriche, facevano
tremare i grandi, indemoniati gli uomini ed irrequieti i morti.
Imitando gli storici che adducono pergamene e cronache, rechiamo noi
pure i documenti giustificativi. Sono tutti cavati da libri stampati
da Delancre, Leloyer, Lenglet, Gabriella, ecc., dunque devono avere
autenticità presso quelli che vogliono credervi.


I.

Elisir di lunga vita.

Gli Dei avevano il nettare e l'ambrosia, i maghi e le streghe l'elisir
di lunga vita. È un liquore rosso o bianco, portentoso come il
cerotto di Dulcamara, e nel quale Trevisan diceva filtrata la pietra
filosofale.

Le streghe l'avevano siccome beveraggio potente: guarisce tutti i mali
e prolunga la vita finchè piace, e quando un tisico abbia appena un po'
di polmone, basta per conservarglielo sempre. Ma questo è poco; cambia
il rame, il piombo, il ferro, e tutti i metalli in oro più puro di
quello delle miniere. Peccato che non lo possedano quei poveri diavoli
che si consacrano alle lettere! non sarebbero costretti a fare degli
almanacchi.

La strana ricetta dell'elisir di lunga vita si ebbe a gran ventura
perchè la palesò un vecchio contadino calabrese a un ammiraglio di
Carlo V, il quale il dimandò come fosse in sì grande età e robusto.
Si fece popolare, si usò da molti, e si narrarono meraviglie come
del Leroi e dell'omeopatismo. Guarì un conte alemanno, il marchese di
Brandeburgo e la duchessa di Friburgo dopo lunghi anni di malattia.
Però ora si crede di poco utile, se ne è inventato invece uno migliore
almeno per l'apparenza, e si vende dai profumieri: esso consiste in
acque per tingere i capelli, in essenza per ammorbidire le carni, in
parrucche: se non allungano la vita, allungano alquanto l'illusione di
averla migliore.

Anche il balsamo universale era un elisir che valeva a tutti i mali.
Un alchimista di Besançon vendeva questo balsamo, ma siccome si osò
dubitare delle sue virtù, costui si tagliava le mani, la testa più
volte, e se le rappiccava col balsamo: diceva esser pronto a farne
l'esperimento con altre persone; si presentarono alla prova tre
Savojardi, tagliò loro la testa e le mani, trasse loro gli intestini, e
rimise tutto a posto. Però la seconda volta volle per maggior prodigio
aspettare alla dimane ad aggiustarli: portò i laceri corpi a casa,
ma per sciagura un gatto rubò ad uno la mano, e un cane mangiò gli
intestini dell'altro; ma lo stregone da bravo, sostituì le busecchie di
un porcello, e la mano di un impiccato, e ritornò in vita i Savojardi.


II.

Edifizj fabbricati per incanto.

Mefistofele e i suoi colleghi, amici agli stregoni, faceano loro non
solo ogni servigio, ma spesso da muratore. Vi è un racconto popolare,
assai curioso nella Campania, d'un granajo che un demone fabbricò a
Giovanni Mullin fatto mago: siccome non è per noi di molto interesse,
ne narrerò invece uno lombardo.


III.

Il ponte di Pavia.

Ognuno sa che il ponte sul Ticino a Pavia è magnifico ed a lungo fu
il primo d'Italia; dicono i cronacisti a che ne furono architetti
Giovanni da Ferrara e Jacopo da Gozzo; ma corre a Pavia fra il volgo
una tradizione strana sul modo onde fu edificato: la raccolsi da un
cenciajo che tiene sua bottega sulle sponde del ponte, e vende fibbie
scompagnate, volumi guasti e simili bazzecole, ed ha una faccia che
somiglia un pochetto ad un trovatore. Udendomi, mentre io guardava a
certi libriccini che aveva nella sua piccola bottega, parlare con un
amico del tempo che fu costrutto il ponte, esso mi guardò e disse:

— Oh! si volevano altro che gli uomini a fare questo ponte: ella non
ne sa niente; quando i cittadini di Pavia stabilirono di fabbricarlo,
ne diedero la cura ad un maestro muratore di cui non si sa il nome,
ma sono note le vicende. Costui era in grande affanno, non sapea da
che parte incominciare, e andava farneticando per la città gittando
bestemmie a suo potere; allora gli capitò innanzi un uomo tutto avvolto
nel tabarro, e gli chiese che cosa avesse; il poveraccio glielo
disse, e l'ignoto offrì di fargli il ponte in una notte se voleva
dargli l'anima. Sulle prime l'artefice sbalordì, poi pensato al gran
guadagno che ne avrebbe, rispose di acconsentire, stese la destra, e
quell'altro, scosso alquanto il tabarro, mise fuori una mano che aveva
certe griffe da far paura: si videro anche gambe di capra, barba....
insomma quel signore era Berlicche. Il muratore titubò un pochetto, ma
udendo l'amico dirgli: — Sarai un signore a questo mondo, — per avidità
di guadagno, strinse la mano; l'ignoto gli diede la posta per la mezza
notte sulla ripa del Ticino, nel luogo ove doveasi edificare il ponte,
e gli ordinò di portare seco un foglio di cartone, un cane ed un pane.

Il maestro non mancò e il signore dal tabarro venne poco dopo a
cavallo di un gran caprone: attraversava il fiume come se camminasse
sul solido: quando fu a mezza via, essendo bujo, disse al capro di far
lume, e questo scosse le corna e diventarono due fiamme. Approdò, e
voltosi al muratore:

— Or da bravo, fratello, il ponte sarà fra poco costrutto, e tu dimani
chiuderai nell'arca tutto il valore che hai pattuito col signor sindaco
del paese: so che egli usa mettere un po' di tassa a questi contratti;
bada a non dargli nulla; s'affoghi nei debiti chè sarà mia preda a suo
tempo; tutto in tasca; dammi il cartone. —

L'altro glielo sporse, e il demone lo gittò nell'acqua, e tosto
lo si vide crescere, allungarsi, rialzarsi, parte sprofondarsi nel
fiume, parte sollevarsi in archi, e formarsi colonne e tetto; insomma
costruirsi un ponte bello e grande come è al presente. Però lo Spirito
s'accorse che colui rideva, e siccome gli aveva stretta la mano e
non giurato, s'avvide volesse gabbarsi di lui, e costrutto il ponte
far penitenza e rubargli l'anima. Ma colui era furbo più di noi
rivenditori, e guardandolo:

— Ora che il ponte è fatto, prova quanto valga, gittavi sopra quel
pane, e mandavi il tuo cane a pigliarlo. —

Il maestro ubbidì, lasciò il cane che corse sul ponte, ma questo si
aprì e la povera bestia precipitò, nè più si vide. L'avaro impallidì, e
l'altro ghignando:

— Giura di darmi l'anima, e il ponte diverrà di pietra; se no, fa a tuo
modo e sarai povero. —

L'avarizia strinse il tristo; giurò, si sentì un cupo fragore, il capro
si tramutò in un cavallo, il diavolo gli saltò sopra, galoppò sul ponte
e si udì il battere sulla pietra della zampa ferrata.

Alla mattina si trovò il ponte bello e magnifico, solo in un pilone
era un buco, dove stava sepolto il cane; il buco vi è ancora, e
dicono alcuni che alla notte la povera bestia ne metta fuori il capo
e latri; io non l'ho mai udito, perchè a molti curiosi colse entro
l'anno qualche disgrazia. L'avaro artefice ebbe la pattuita mercede,
ma potè goderne per poco tempo, giacché un giorno gli apparve quel
signore dal tabarro mentre era sulla ripa del Ticino, e gli disse: —
Amico, son venuto a pigliarti — nè consentì che rispondesse, perchè
nel tempo stesso si aprì il suolo sotto a' loro piedi e buona notte,
sparvero; uscì un puzzo di zolfo, si fece una voragine sopra la quale
corse subito l'acqua del fiume, e formò quel piccolo seno che si chiama
Ticinello. —

Così narrava il cienciajo; mi veniva voglia di ridere, ma colui mi
guardava con un far sì cagnesco, che tenni per lo meglio andarmene.


IV.

Nuovi prodigj.

Nessuna azione maravigliosa era difficile ai maghi, ognuno lo
sente. Non dirò di Merlino e di Atlante, de' quali parlano i poeti
romanzeschi; ricorderò alcuni del secolo XIII, e più recenti.

Guido Bonato, troppo famoso per le opere sue e per le arti con cui
seppe volgere a proprio talento l'animo d'Ezzelino da Romano, scuotendo
la magica bacchetta, operava quanto gli talentava; ergeva edifizj,
distruggeva monumenti, infondea vita nelle cose inanimate e reggea la
fortuna de' lontani avvenimenti. Sovente Bonato aveva soccorso alla
pericolante fortuna di Ezzelino, ed allorché il conte di Montefeltro
usciva da Forlì a campo cogli altri popoli di Romagna, il mago salito
sulla torre di san Mercuriale, col tocco della campana dirigeva il
principe nella battaglia, quantunque fosse delle miglia ben molte
lontano, e quindi riescì più volte troppo fatale ai Bolognesi.

   [Illustrazione: Il mago di Scozia fa tremare Parigi]

Ma la magìa venuta a parte della diplomazia, operò in que' secoli
un grande prodigio per mezzo di Michele di Scozia. Fu data a costui
commissione dalla sua patria di andare in ambasciata in Francia, per
ottenere risarcimento di alcune piraterìe commesse sulle coste di
Scozia dai marinaj francesi; l'ambasciatore non volle altro seguito
che un suo demone famigliare che tramutò in cavallo; ma come giunse
a Parigi, il re di Francia tenne di poco conto un messo sì male
in arnese; e accolta con disprezzo la fattagli domanda, era ormai
vicino a rimandarlo senza che nulla gli concedesse. Allora il mago
il pregò perchè innanzi di definire ogni cosa, concedesse che il suo
cavallo percuotesse colla zampa il suolo; il re non seppe negargli sì
mite richiesta; lo Scoto toccò della sua verga il ronzino. Sentite
meraviglia: al primo battere della fatale zampa, tremarono tutte
le torri di Parigi e suonarono tutte le campane; al secondo si fe'
più fiero il terremoto e caddero tre cupole della corte. Il re che
vide questa piccola bagattella, spaventato, pregò l'ambasciatore
facesse sospendere il terzo colpo, a cui già innalzava il piede il
temuto cavallo. Così apprese che conveniva aver maggior riguardo agli
ambasciadori in qualunque forma apparissero; accordò al mago quanto
richiese, nè si tenne sicuro finchè nol vide partire.

Nel secolo XIII vi furono molti maghi oltre al Bonato che visse fino
al 1300; un Riprandino veronese, un arabo che denominavasi il nuovo
Barlaamo, Giovanni da Paria e Gherardo da Sabionetta cremonese, erano
in molta riputazione, usavano alle corti, e teneano dimestichezza coi
grandi. Nè fu allora solo che costoro salirono a tanto potere, ma nel
secolo che seguì, il duca Giovanni Maria Visconti non si conduceva a
operare la più piccola cosa, ove non avesse consultato il suo mago e
le stelle; e abbiamo da Schiller che quel valente soldato il quale in
tempi più recenti capitanò la guerra dei trent'anni, solea sovente aver
consulta coi maghi.


V.

Riccardo senza paura.

Però per quanto i fattucchieri avessero potere di porre in iscompiglio
gli uomini e le cose, e gli spiriti loro seguaci li soccorressero in
ogni evento, non tutti si lasciavano intimidire, e spesso alcuni la
vinsero alla prova con loro; sovente si cimentarono a combatterli, e ne
uscirono vincitori o vinti, siccome meglio resse loro l'animo a frenare
i pregiudizj d'una educazione falsata. Vo' riprodurvi alcune storielle
piuttosto curiose.

Tra i più coraggiosi a bravare la magìa fu Riccardo, pel suo coraggio
soprannominato senza paura; era figlio di Roberto il Diavolo, quello
stesso che venne non ha molto posto in iscena sui teatri di Parigi.
Uno spirito chiamato Brudemort udì del costui coraggio, n'ebbe un po'
d'invidia e si mise in capriccio di fargli paura, ma non vi riescì.
Primamente lo appostò con dieci mila civette in un bosco, e quando
il vide giungere, fece che tutte si dessero a stridere: pensate che
frastuono! Il demone intanto avvertiva caritatevolmente Riccardo perchè
si salvasse, ma egli niente, si mette a gridare con loro a più potere,
nè tacque finchè si dissiparono.

Un'altra volta tre grandi cavalieri neri cacciavano coi cani nelle sue
terre, e facevano atti da spaventarlo; ma Riccardo fuori una spada,
è sopra loro, ne uccide uno: era uno spirito travestito; sarà poi
risuscitato.

Un dì Riccardo correva una foresta, vide un bambino sur un albero,
vi si arrampicò e ne spiccò la creatura, che era femmina, e la diede
a nutrire alla moglie del suo guardaboschi. La fanciulla crebbe sì
prospera che in sette anni si fece una bella tosa che pareva ne avesse
quattordici. Riccardo non avea eredi, ed i suoi baroni il sollecitarono
a prendere moglie; si arrese e sposò Roena, la fanciulla misteriosa.
Dopo sette anni di beatitudine conjugale, la sposa cadde malata e
morì; però essa nell'agonìa pregò il marito di farla seppellire nella
foresta. Riccardo annuì, la fe' recare ove ella aveva divisato, e
si trattenne a piangerla; ma a mezzanotte si aprì la bara, l'estinta
riprese vita e fece un gemito che risuonò per tutto il bosco; quindi
si alzò, diede una stretta alla gola del cavaliere che era in compagnia
del marito e scomparve. Però Riccardo non ne prese paura, e si accorse
che sua moglie era stata un diavolo; caso forse unico che un marito si
avveda di questa qualità della moglie solo dopo che sia morta.

Convien credere che Brudemort, essendo stato una volta battuto dal
valente principe, avesse deposti i pensieri ostili, perchè oltre
avergli fatto da moglie in buona pace, seguì a soccorrerlo poi. Carlo
Magno diede un torneo, Riccardo vi accorse, vide alla festa la figlia
del re d'Inghelterra, e se ne invaghì, ma non giunse ad ottenerla in
isposa; ei che vinse gli spiriti non temeva gli uomini; era innamorato,
e si rapì la giovinetta. Il re d'Inghilterra l'ebbe per onta, volle
vendetta, corse con molte armi sugli stati di Riccardo dimandando la
figlia; allora Brudemort venne in sua difesa: gli alleati sconfissero
gli inglesi, e Riccardo celebrò colla vittoria un bel par di nozze.

Però anche il folletto non fa servigi senza ricompensa; Brudemort
aveva guerra con un altro demone Burgifer; chiese soccorso a Riccardo
che acconsentì di buon amico. Si armarono, ed uniti andarono in una
foresta; ivi era il re dell'averno, assiso sopra una sedia tutta nera,
levata al piede di un olmo largo e spazioso; vestito di velluto nero,
faccia terribile, cinto da numeroso stuolo di spiriti tutti neri, molti
armati, altri senz'arme. Il re infernale li squadrò da capo a piedi,
li commendò, ed ordinò loro di disporsi alla battaglia. Si trovarono
presto con Burgifer; Riccardo volle misurarsi pel primo; corsero
furiosamente ad incontrarsi, si ruppero le lance, vennero alle spade,
scintillarono gli scudi e menarono colpi alla disperata, ma Riccardo
era più poderoso, e il nemico chiese misericordia e si diede vinto; si
fece la pace, e Burgifer rese omaggio a Brudemort.

Dopo tante vittorie Riccardo non avea più freno, pensò alla conquista.
Carlo Magno mandò i suoi baroni e cavalieri ad una spedizione
in Terra-Santa; Riccardo vi si rese in abito sconosciuto; battè
e sconfisse i paladini di Francia in un torneo; poi trasse in
Inghilterra, commise azioni di gran valore, e si fece proclamare re.
Tutto questo perchè era uomo che non aveva paura neppure dei demoni.


VI.

Il Castello degli spiriti.

Però il genio Malarbetto non è sempre paziente come avvenne con
Riccardo: se la passò un po' male un Olandese, che, come narra una
cronaca d'Utrecht, volle penetrare un castello incantato, rôcca levata
in deserta landa, cinta di fosse, torri e merli anneriti dal tempo e
dai licheni. Erano chiuse sempre le porte, nessuno poteva penetrarvi;
narravansi meraviglie; vedersi solo di notte mostri, donne, demoni,
giungere a volo per l'aria ed entrare per la parte del tetto; ivi fare
i loro congressi le streghe, celebrarsi il Sabbath. Tutti passavano
tremando presso il castello, guardavano con terrore, e non osavano
accostarvisi.

Un giovine di belle forme, ardito, udì quelle maraviglie, e fu punto
dalla curiosità di visitarlo: chiamò a suo ajuto un mago possente nella
propria arte e negli scongiuri, condusse seco due valletti armati,
penetrò nel castello. Era silenzio nella corte, e sotto le vôlte
de' grandi porticati, che rispondevano cupamente con un roco risuono
all'alternare dei passi del profano. Appena pose piede nell'atrio,
eccogli una vecchia che gli attraversa la via; una mano invisibile
respinge il viaggiatore. Questi chiamò il soccorso del mago, che alza
la bacchetta e scongiura; la vecchia fugge tramutata in nibbio, ma per
farne vendetta prende i due scudieri pel naso, e se li porta a volo
come se fossero pulcini.

L'audace giovane non ismarrisce, inoltra in una sala deserta,
silenziosa, ove in mezzo eran ossa disfatte e in polvere. Quella vista
lo atterrisce, ma il mago lo rinfranca ponendogli al collo un amuleto,
e innanzi; ed ecco sbucare dalla soglia un orso e muovere contro il
profano: questi trasse la spada, ma si ruppe al toccare della belva;
venne a soccorrerlo il mago, e l'orso fu stretto fuggire. Poco dopo
diruppe una pioggia di sangue e un fragore di lamenti; il giovane mosse
alla stanza onde venivano, e trovò uno scheletro incatenato, il quale
aveva il cuore che batteva e gli occhi che giravano nelle occhiaje.

A sì strani portenti già il viaggiatore perdeva la ragione, ma il mago
abbruciò dei mirti verdi, e tosto mutò scena: apparvero tappezzerie
e fiori, una mensa e vivande servite da mani invisibili, e gli ospiti
audaci si posero al desco e si rifocillarono.

Non durò a lungo quella fortuna: quando si servirono le frutta, venne
bujo, tuoni, saette, un rimbombo in tutte le parti del castello: cadde
la folgore sulla mensa, e la distrusse, s'infiammò la stanza, s'aprì la
vôlta e grandinò una falange di mostri che ingrandivano, ingigantivano,
altri coll'ale, altri di fuoco, uccelli, rettili con teste umane,
insomma si aprì il Sabbath. Una strega portò un fanciullo neonato, lo
si uccise e si pose allo spiedo pel banchetto: cadde un'ampolla nera,
tutti s'inchinarono, ne escì il presidente del congresso e se gli
intrecciò intorno una danza.

Intanto che maestro Leonardo si godeva quel tripudio, vide i
due profani, sebbene si fossero avvolti da una nebbia e celati
all'assemblea; diede un grido, furono scoperti; si sciolse l'infernale
congrega e tornò il bujo.

Restati soli, il mago invitò il coraggioso amico a prendere riposo,
e si adagiarono sul letto ov'era lo spettro; ma poco dopo questi si
alza, impreca sul loro capo perchè turbassero il riposo de' morti,
e leva la mano per strangolarli. Il mago lo scongiura a sospendere
e a manifestare la propria sorte, solleva la bacchetta del comando e
minaccia toccarlo. Lo spettro fu preso da timore, rispose:

— Perchè mi sforzi a rompere il silenzio che serbo da cento anni? Io
mi chiamo Lenderbonne: il fondatore di questo castello mi prese al suo
servizio nella mia gioventù. Non era maritato: una sera si bagnava al
chiarore di luna, vide una giovane che annegava, la salvò, e siccome
era bella, la sposò e venne con lei ad abitare questo castello. La
sposa gli partorì un figlio, ma appena nato sparve colla madre. I
saggi, consultati in proposito, risposero che il mio padrone aveva
sposato un demone succubo, e indovinarono. Un giorno ch'io percorreva
la foresta col padrone, essendomi dilungato da lui e postomi dietro una
macchia frondosa, ei mi scambiò con un lupo e mi mandò all'altro mondo.
Vi trovai sua moglie. — Lenderbonne, mi disse, torna sulla terra: vi
ho lasciato uno sposo che mi fu infedele, e lo scopersi coll'arte mia;
dagli la morte. — Fui forzato ubbidire. Dopo quel delitto, costretto
a restare nel castello, ho strangolati i mortali che hanno osato
penetrarvi. Quantunque io non sia colpevole che per forza, sostengo
ancora la punizione de' miei omicidj; il sacrificio di una gallina nera
consumato da una mano innocente, può solo mettere un termine al mio
supplicio. —

Allora il mago commosso, promise allo spettro di liberarlo da quella
pena, se gli restituiva i due scudieri che aveva rapiti. Apparvero
tosto, e i quattro compagni uscirono dal castello, e all'indomani
liberarono lo spettro col sacrificio della gallina nera.

Queste credenze di spettri condannati a correre una penitenza
sulla terra erano popolari, e vediamo anche Boccaccio immaginarne
una novella, i poeti alemanni farne argomento a que' loro racconti
tetri e melanconici di morti e di ombre. Ne leverò ancora due dalla
_Spectriana_, che sono piuttosto comici.


VII.

La barba di uno spettro.

Uno spettro visitava da lungo tempo un castello della Sassonia, metteva
spavento in tutti coloro che ardivano prendervi alloggio, usando loro
malvessazioni indiscrete, talchè già da parecchi anni era inabitato;
un giovine animoso divisò di passarvi una notte, e prese seco all'uopo
provvisioni, lume ed armi. A mezza notte, mentr'era sul dormire, udì
da lunge un tintinnìo di catene, e dopo strascinate alcun tempo pei
corritoj, si girarono le chiavi, si aprì la porta della stanza ov'egli
ricovrava, e vide entrare un grande spettro pallido, macilento, colla
barba lunga e che recava un astuccio. Il giovane stette fermo, lo
spettro chiuse con diligenza la porta, ed accostatosi al letto fe'
segno all'ospite di levarsi, gli mise un accappatojo sulle spalle,
e gl'indicò colla mano un banco sul quale gli accennò di sedere. Il
giovine che già erasi alquanto impaurito, sbigottì fortemente quando
vide che il fantasma trasse dall'astuccio un piatto da barbiere, ed
un immane rasojo; tuttavia dopo si rinfrancò, e lasciò che l'altro
proseguisse. Allora lo spettro con tutta gravità, gl'insaponò il mento,
gli tonse con molta diligenza la barba e i capelli; e poi gli levò
l'accappatojo.

Sin qui nulla di nuovo; era noto al giovane che lo spirito tondeva in
questo modo tutti quelli che dormivano nel castello; ma si aggiungeva
innoltre che dopo averli rasi, malmenava a colpi del suo grosso e
scarno pugno. Il giovane sbarbato si levò dal seggio senza poter
soffocare un doppio spavento: fissò gli occhi allo scheletro per vedere
se non gli tempestava il resto sulle spalle; tuttavia, non perdendosi
affatto d'animo, si rinfrancò ancor meglio, vedendo che l'ombra si
poneva sul seggio al di lui posto, e gli accennava l'astuccio che
aveva deposto sur un tavolo. Tutti quelli che lo avevano preceduto nel
castello, furono presi da tanta paura che erano caduti in isvenimento,
mentre si tagliava loro la barba, e questa era la causa che ne fossero
malmenati a pugni. Il giovane notò la lunga barba del fantasma, e tosto
si accorse che dimandava lo stesso servigio che gli aveva reso; gli
fece una buona saponata, e con coraggio gli rase la barba ed i capelli.

Appena fu compiuto quest'ufficio, lo spettro che fino allora era stato
muto, parlò come persona viva, seppe cortesia al giovine come a proprio
liberatore, e narrò che nel buon tempo passato egli era feudatario del
paese, e che teneva il costume inospitale di tondere irremissibilmente
tutti i pellegrini che prendevano alloggio nel proprio castello;
sicchè per dargli castigo un pio levita, reduce di Palestina, lo
aveva condannato a tondere dopo la morte tutti gli ospiti, finchè non
capitasse uno tanto audace da radere lui pure. — Sono trecento anni che
dura la mia penitenza, e tu mi hai liberato — soggiunse lo spettro, e
dopo avergli rese di nuovo le maggiori grazie, partì.

Il giovane ardito, pienamente sicuro, dormì saporitamente; indi comperò
il castello per picciolo prezzo e vi passò molti anni beatamente con
forte maraviglia de' terrazzani, che lo spacciavano per un valente
incantatore.


VIII.

Una donna e le orecchie d'un folletto.

Si dice che le donne menano gli uomini pel naso, è loro virtù; esse
valgono a qualche cosa di meglio se una non ebbe timore di pigliare il
folletto per le orecchie. Madama Deshoulieres andò ad alloggiare in un
castello: fu posto tutto a suo ordine, meno una stanza che se le disse
abitata da uno spirito: curiosità femminina! Desiderò vederlo, volle
dormire in quella stanza.

Poichè fu adagiata e spense il lume, udì spinger la porta mal chiusa,
e qualcuno muovere a passi gravi verso il letto, aprire le cortine e
stendersi sulle coltri: madama coraggio, s'alza, minaccia, e non le
è risposto; ella s'adira, allunga le mani, e le capitano due larghe
orecchie vellose: le crede quelle del demone infesto, le prende
strette, e dice: — Ti voglio vedere. — Chiama gente, e si scopre che
il diavolo, il quale era nelle unghie di madama, era un grosso cane che
ogni notte andava a dormire in quella stanza.

Se si volesse dare la storia di tutti i luoghi che si credevano
incantati, si avrebbe quasi sempre questo scioglimento: o malizia
degli uomini o fortuite circostanze, che nella paura prendono forma di
prodigio!


IX.

Ancora il Sabbath.

Or bene, credete forse che tutta questa razza di streghe, di
fattucchieri, di negromanti, sparsi sulla superficie della terra, e
tutti appartenenti ad una grande associazione, potessero passarsi senza
conferire insieme per stringere i legami e avviar meglio le faccende
comuni? Non vi hanno umani consorzj senza corrispondenze e congressi;
verranno a termine con molte chiacchiere, non importa, purchè si
facciano.

Diversi erano i modi co' quali i maghi corrispondevano fra loro. Alcuni
mandavano a volo gli spiriti che avevano a proprio servigio come noi i
corrieri per le poste; altri si adagiavano in certe positure a divisate
ore del giorno, e vedevano e sentivano quanto un altro mago nella
stessa attitudine volea significare e far loro vedere; altri finalmente
scrivevano o in terra o sopra alcune pietre fatate, cifre e simboli, la
luna li specchiava e tosto li ripercuoteva a quello cui erano diretti,
che gli leggeva senza cannocchiali; per tal modo i maghi si ricercavano
a vicenda con mutui discorsi e insegnamenti. Le streghe non avevano
questo privilegio; bisognava si dessero fastidio di muoversi, di uscire
di casa e si incontravano mutate in gatti sui tetti, od in civette
sulle piante.

Però queste erano conferenze di poco conto, erano visite di amici; più
gravi bisogni chiamavano sovente maghi e streghe in generali congressi
a luoghi divisati: allora bisognava che si ajutassero ne' viaggi dalle
proprie arti.

Diversi erano i modi con cui andavano da un luogo all'altro, quanto
erano vaghi i capricci dei maghi. Abaris soleva viaggiare a cavallo
della sua bacchetta magica; abbiamo veduto che lo Scoto andasse a
Parigi con un demone tramutato in ronzino: spesso ove erano molti
maghi in viaggio corsero fino alcune barche che navigavano per l'aria.
Altri volavano in seno a qualche nube, altri avevano un legaccio che
stringevano al piede, e in poche ore facevano lunghissimo cammino;
molte volte stendevano alla sera a terra il mantello, e standovi seduti
sopra, a grande agio, si trovavano col dì nascente ove era loro in
piacere: alcuna volta viaggiavano fino coricati sui letti, come vediamo
nel Boccaccio i maghi di Saladino facessero in una notte trasportare
messer Torello dall'Oriente in s. Pietro in Ciel d'oro a Pavia.
Alle streghe però non era facoltativo viaggiare con tanta dignità,
prendevano per cavallo una scopa, un montone od una capra, ma più
spesso si spalmavano cogli unguenti dei quali Vierio e Cardano vollero
darne la ricetta; allora erano trasformate in qualche uccello o bestia
e giungevano spiccie al loro destino.

Le loro universali congreghe si chiamavano Sabbath: i nostri lettori
fecero la prima conoscenza con tutta codesta diabolica genìa in uno di
questi congressi.

Il Sabbath tenevasi nelle notti dal mercoledì al giovedì, o dal venerdì
al sabbato: alcuni credono si chiamasse Sabbath dai Sabbazj, antichi
popoli, primamente convocati da Orfeo, o da Saboè, parola con cui
s'invocava Bacco nelle orgie.

Questo congresso tenevasi talora in un trivio, in un quadrivio, ma più
spesso in un luogo deserto alle falde di un monte presso qualche grande
pianta, meglio sulle rive di un lago od in maremma per aver più facile
l'elemento a fabbricare le tempeste; il terreno ove si celebrava il
Sabbath si spogliava di vegetazione: tali erano i campi di Benevento
presso un gran noce, tale quel circolo rotondo che vide lo Strozzi
presso Vicenza.

Così le brughiere del milanese sono da alcuni credute inaridite dalle
streghe, terre di maledizione ove non doveano crescere nè piante, nè
virgulti; venne però l'irrigazione e l'agricoltura a sciorre l'incanto.

Chi fosse presidente dell'assemblea, che vi si operasse, ognun già
sel conosce che vide la prima scena di questo dramma fantastico;
ivi maestro Leonardo, i maghi, fattucchieri, streghe e rospi, loro
cavalieri serventi, facevano quanto era di più strano e di più nefando.

Però non tutte le streghe trovarono il Sabbath sì spaventoso: Maria
della Ralde condottavi per la prima volta di dieci anni, diceva che
parevale di andare a una festa di nozze, non già per immodestie di cui
non aveva mai veduto farne, ma perchè lo spirito che signoreggiava,
teneva sì legate le loro volontà e i loro cuori, che non v'avea luogo
altro desiderio; vi era inoltre una musica sì armoniosa che credeva di
essere in paradiso.

Al Sabbath vi erano fuoco, cucina e mense, e buona illuminazione,
giacchè Antonio Dumonsar fu castigato perchè vi portasse le candele: al
Sabbath vi erano suonatori e mimi, si ballava, e si decidevano le sorti
dei mortali, ai quali si volevano apportare tribulazioni coi maleficj.
Tutti i riti di questa congrega sono provati da testimoni di veduta che
li deposero in solenni processi, la maggior parte stampati da Delancre;
e vedremo più innanzi di quanta autorità fossero questi processi.



CAPO VII.

LE PURGAZIONI.


Gli uomini che si studiarono di trovare farmachi a tutti i mali, non
potevano restare inoperosi a ricercarne contro questo fantasma della
magìa, da cui avevano tanti malanni. Anzi per applicare meglio i
medicamenti, moltiplicavano i mali, creavano fatturati e fatturatori in
ogni luogo; quindi vi davano rimedj or miti, più spesso tremendi: erano
ora il medico che sana con blande medicine, ora il chirurgo che adopra
il ferro ed il fuoco.


I.

Amuleti.

Tutti gli animi timorosi dell'influenza della magìa, procuravano di
vestire un usbergo che ne rintuzzasse le ferite; erano amuleti diversi.
Di consueto si facevano di pergamena ma presceglievasi la vergine: ecco
come si formasse: prendevasi un agnello che non avesse generato, si
chiudeva in luogo segreto, e formato un coltello col legno d'un anno e
scongiuratolo, lo si adoperava per iscorticare l'agnello: poi trattane
la pelle, l'aspergevano di sale, la ponevano per quindici giorni al
sole; quindi presa una pentola dipinta a caratteri misteriosi, vi si
immergeva la pelle con calce viva; dopo alcuni giorni la si ritraeva,
se le toglievano i velli, si faceva essiccare e si adoperava per farne
amuleti.

Con un brano di pergamena vergine si componeva il pentacolo:
attendevasi a quella cura al mercoledì del primo quarto di luna, a tre
ore di mattino in una camera aperta, imbiancata di nuovo. Ivi si hanno
penne, oro, colori tutti consacrati, e con questi si fanno tre circoli
l'uno chiuso nell'altro con quest'ordine: oro, cinabro e verde, e in
mezzo un triangolo. Si scrivono fra i circoli dei nomi sacrosanti, e
le parole _formatio_, _reformatio_, _trasformatio_, e in mezzo la più
potente, _agla_; si fanno profumi, si pronunciano orazioni e scongiuri,
ed il pentacolo è formato. Talora invece della pergamena usavasi una
lamina d'argento o di rame, e vi si incidevano parole e circoli colle
stesse cerimonie.

Eguali sono i _talismani_. Si scrivevano su una pergamena tagliata a
tondo dei segni celesti e si adoperavano egualmente dai maghi per le
loro malìe, dai timidi per schermirsene.

Un altro talismano si solea formare colla verbena; quegli che attendeva
a prepararla stava fisso all'oriente, fermava la sinistra mano
sull'erba, pronunciava mistiche parole e se le girava attorno senza mai
volgersi addietro; infine la cuoceva con legna benedetta.

Finalmente un amuleto che tutti solevano portare sulla persona era la
parola _Abracadabra_, scritta e ripetuta a triangolo sur una pergamena
in maniera, che da ogni parte che si leggesse dasse la combinazione
dell'intera parola o d'una parte. Eccovi il simbolo che ho posto a
prefazione di questo libro, perchè mi riparasse le maledizioni di
quelli che ne sono annojati.

Questa possente parola valse anche contro la seduzione; un galante
narrava tutto commosso ad una signora a cui non piaceva, che aveva
il cuore lacerato, che spasimava, che era lì per morire, ed essa
freddamente gli rispose _Abracadabra_. Il povero diavolo vide che
gettava il suo fiato, e gli morirono le parole sulle labbra; prese il
cappello e muto partì.


II.

Degli esorcismi.

In tempo che credevasi allo stregamento, molti, confondendo il vero col
fantastico, erano facili a porsi in capo che qualche spirito diabolico
prendesse abitazione ne' loro corpi; però il ministro ecclesiastico
che sempre soccorre nelle necessità ai credenti, non poteva restare
indifferente a tante loro perturbazioni, e trovò maniera a liberararli
dai mali e a ridonarli alla pace coll'esorcismo. Convenne però che
anche i più prudenti nei rimedj si accostassero all'indole dei mali, e
in tempi rozzi usassero formole se non materiali, che almeno parlassero
ai sensi; se non che alcuni sì le moltiplicarono che indussero gravi
errori, i quali vennero poi condannati da varj concilj.

Teneansi diverse maniere di esorcizzare. Primamente, e quelli che
erano posseduti dal demonio, e quelli che dovevano scacciarnelo, aveano
certe regole oltre le quali non conveniva trascorrere e per non cadere
in peccato, e perchè non andasse a vuoto l'esorcismo. Di queste molte
sono prescritte nell'_Enchiridion_ di papa Leone; altre si trovano in
una Collezione che Bernardo Sannig ordinò di scongiuri, benedizioni ed
esorcismi.


III.

Carattere degl'indemoniati.

Allorchè presentavasi qualche sgraziato che cercava essere liberato
dal demone che il possedeva, doveasi innanzi tratto esaminare se non
lo affliggesse qualche malore, o veramente lo turbasse uno spirito
nemico; distinguevansi i segni che indicavano un fatturato in certi
ed in probabili. Dei primi era il parlar bene ed a lungo una lingua
sconosciuta, e profetare cose lontane ed occulte: dei secondi tremare
al suono delle sacre parole, usare motti e contorsioni, abborrire dalle
cose sante; insolita grossezza del corpo e del volto, e forze maggiori
che non si convengono all'età ed alla persona. Si aggiungevano pure
l'insensibilità, la sordidezza, l'immobilità, i borborigmi di ventre,
occhi immobili, salassi senza sangue, vomitare molte spille; insomma
una specie di cholèra. Però era di necessità interrogare lo spirito che
invadeva lo sgraziato, del suo nome, di sua condizione, se fosse solo
od accompagnato, in qual tempo avesse penetrato quel corpo e qual causa
ve lo avesse condotto. Siccome poi in queste risposte il demone sovente
ripeteva le più strane cose del mondo, e sovente anche l'esorcizzante
gli faceva strane interrogazioni, Sisto V proibì di domandarlo di cose
che non appartenessero all'esorcismo, ed ove fossero donne di non dare
interrogazioni che potessero molestare al pudore.


IV.

L'esorcismo.

Poichè aveasi certezza che il penitente fosse indemoniato, si tracciava
un circolo con un carbone, e vi si faceva entrare il paziente; se gli
faceano sopra infinite croci, se gli posava sul capo il pentacolo
o la verbena od altre reliquie, e recitavansi devote orazioni;
finalmente con tre diversi scongiuri, l'uno più tremendo dell'altro, si
discacciava lo spirito maledetto. Non occorre ricordare che in questi
scongiuri, come li abbiamo osservati nel Sannig, invocavasi quanto vi
ha di più sacrosanto nella religione: però alcuni quasi dubitassero
che lo spirito più di quelle invocazioni dovesse temere la forza di
alcune parole, vi accoppiarono molti nomi ebraici che col loro suono
mettessero la fuga nello spirito nemico; uno scongiuro di san Zaccaria,
comincia: — Maledetti e scomunicati demonj, in virtù di queste parole
_Emmanuel, Sabaoth, Adonay, Athanatos, Ischyros, Eleison, Imas, Irios,
Tetragrammaton_. —

Mentre seguivano queste preci e cerimonie, gli indemoniati sovente
si rotolavano per terra, parlavano lingue orribili e diverse, faceano
contorcimenti e mandavano lunghi ululati, finchè non fosse fuggito lo
spirito che li tenea. Finalmente rigenerati alla grazia, spossati per
tante fatiche, tributavano inni di ringraziamento e promesse divote.


V.

Imposture di alcuni indemoniati.

Sarà agevole comprendere come alcuni, o per melanconìa o affetti
da malattia, od anche per ingannare altrui, potessero far credere
che li governasse il demonio, e quindi destare la compassione e la
misericordia dei più creduli, i quali non di rado erano larghi ai
posseduti, di elemosine, perchè potessero viaggiare ai luoghi di
maggiore santità per purgarsi o cercare esorcisti di maggiore virtù.

In fatti un tessitore Brossier, sul declinare del secolo XVI,
sapendogli assai male il lavoro, pensò con tre sue figlie di correre
la Francia, e facendole vedere come indemoniate, commuovere la
compassione e vuotare la borsa dei pietosi. Fra queste, Marta, sapea
più destramente d'ogni altra fingersi attratta, contraffarsi in forme
diverse, e corrispondere alle prove che si facevano sopra di lei;
insomma adoperava in tal modo che ognuno la credeva posseduta da un
demonio, ma di tanta malignità, che non era riuscito a scacciarlo
nessuna forza di esorcismi; eppure ne aveva avuti assai, perchè in ogni
città domandava le benedizioni, e le otteneva con abbondanti elemosine.

Il vescovo d'Orleans però che non si lasciava prendere dall'altrui
malizia, volle smascherarla. Incominciò dall'invitare Marta a pranzo,
e le fece ministrare, senza ch'ella se ne avvedesse, dell'acqua
benedetta, ed ella la bevè senza che lo spirito ne facesse motto; e
invece, allorchè si recò l'aspersorio bagnato in acqua non benedetta,
ella cominciò a concitarsi e si fece tutta attratta. Il prelato prese
il libro degli esorcismi, e facendo vista di leggere, recitava in voce
alta i primi versi dell'Eneide, e Marta sentendo il latino si rotolava
sul suolo, rispondea parole latine, e facea sentire che lo spirito
l'affliggesse. Allora il vescovo, allontanata ogni persona, gravemente
la rimproverò di questa impostura, e ammonitone il padre perchè più
oltre non seguisse, minacciando di appalesare la loro impudenza, li
licenziò.

   [Illustrazione: Esorcismo di Marta Brossier]

Ma Brossier, che traeva buon guadagno da quella commedia, non curò
quella minaccia e quel consiglio, e condotta Marta a Parigi dimandò
l'esorcismo in santa Genueffa, e persuase ad ognuno che la cattivella
aveva in petto un demone de' più possenti. Ne corse la novella
per la città, tutti traevano a vederla, e il vescovo fece visitare
l'indemoniata a sette medici; e questi, essendo a controversia fra loro
sulla condizione di lei, il prelato ordinò che al primo aprile 1599
venisse esorcizzata dal padre Serafino che allora era in credito di
molta santità.

Quando Marta fu all'altare e vide principiare la cerimonia, contorse
gli occhi, allungò la lingua fuori dalle labbra, e quando sentì più
forte lo scongiuro, si rotolò dalla tribuna fino alla porta della
chiesa. Allora Marescotto, uno dei medici presenti, che di mal umore
s'ingojava quella menzogna, corre presso alla donna, e presala alla
gola, le ordina di fermarsi; ella subitamente atterrita, arresta; ma
destramente, per non iscoprirsi, adduce che il demonio l'ha in quello
istante abbandonata; il vescovo e i medici partono ed ella rinnova la
commedia.

Costei rispondeva in greco, in latino alle domande che facevansi
al suo spirito; e mosse tal rumore che persuase sì gli animi della
propria sciagura, che già lamentavasi forte di un recente rescritto
del re contro gli esorcismi, e la bisogna andò sì innanzi che convenne
incarcerare Marta e suo padre. Fuggì però anche quel travaglio e andò
a Roma, sperando di far maggior profitto nel suo mestiere, ma palesata
l'impostura dall'ambasciatore di Enrico IV, morì povera in un ospizio
di carità.

Luigia Maillat viveva nel 1598 tutta melanconica; la si sospettò di
fatturamento. Fu esposta innanzi a una chiesa, si fecero imprecazioni,
e dàlli, e grida, si scoprì da alcuni che aveva in corpo nient'altro
che cinque spiriti, e tutti col lor nome, cioè: lupo, cane, gatto,
grazioso, griffone, e faceano conversazione in tutte le lingue con que'
che li parlavano. Infine madamigella vomitò due pillole grosse come un
pugno, una rossa e l'altra nera, poi altre tre: erano i diavoli, che
andavano vaghi, vaghi vicino al fuoco, e scomparivano, e tutti questi
spiriti la povera Luigia li aveva ingojati in un frusto di pane che le
aveva dato Francesco Secretail.

Una signora di Londra, restata sola, divenne melanconica, se le
contorsero le mani, se le fece la voce rauca: fu giudicata indemoniata:
lo spirito che non voleva rispondere fu costretto coll'esorcismo;
confessò che l'aveva fatturata un priore, e sull'asserzione della
pazza, il pover'uomo fu preso ed abbruciato come mago. È facile
accorgersi che lo stregamento si propaga quasi sempre per pestilenza;
nel 1566 vi ebbero trenta fanciulli indemoniati, e a Roma divennero
tali in una notte trenta figlie, nè si poterono liberare per due anni;
Cardano osò dubitare che fosse causa di questi guai la mal'aria, e
Delancre disse che questo dubbio era empio.

Quando più non v'ebbe lo stregamento vennero le convulsioni, che si
moltiplicano anch'esse come i folletti: in un ospedale tutte le giovani
avevano le convulsioni: non v'era rimedio: Boherave lo ha trovato.
Fece porre in mezzo alla sala un braciere di carboni ardenti, e
arroventativi entro alcuni ferri, chiamò uomini con tanaglie, e disse,
che appena venivano le convulsioni tastassero le persone delle malate
con que' ferri; le convulsioni non apparvero.

Fu più accorto un savio cappuccino, che fu l'ultimo guardiano nella
casa di Pavia, come egli stesso piacevolmente mi narrò: egli trasse con
molta disinvoltura dall'errore del fatturamento, non solo un paese, ma
anche un buon parroco.

Resosi dunque il savio frate a tenere certe missioni in una parrocchia
di campagna, il parroco gli disse d'avere molti suoi popolani
indemoniati e che si raccomandava alle orazioni di lui, perchè potesse
salvarli da tanta disgrazia. Il cappuccino che si vide alle mani
un'occasione di liberare da un fatal pregiudizio molte persone, disse,
che di voglia lo avrebbe fatto, che in verità predicando, aveva sovente
visti molti presi da improvvisi scuotimenti; ma non temesse ch'egli
recava seco una tale reliquia che valeva a cacciare Belzebù con tutta
la sua schiera se fossero ricovrati in un corpo solo.

Ne fu oltremodo contento il buon parroco e confidò a credenza con
alcuni quella ventura, e in breve lo spirito malvagio invase nuove
persone, giacché il possedimento è simile alle convulsioni che si
propagano per simpatìa, e da lì a non molto la chiesa fu piena di
ispiritati, ed ispecie donne, che incominciando colle convulsioni,
terminarono con gridare ed urlare disperatamente. Il cappuccino come
vide gli animi presi a questa follìa, pose di venirne a capo, e disse
al parroco essere presto ad esorcizzare una di quelle donne, ove però
fosse delle più fortemente possedute. Il parroco ne fe' venire una
che avea voce di essere più d'ogni altra perseguitata dal demonio,
e il missionario fattasela cadere ginocchioni dinanzi, annunziò che
metteva fuori una reliquia di gran santità che aveva seco e tutti la
ossequiassero; e trattala di sotto alle vesti, tenendola avvolta in
un bianchissimo pannolino, la innalzava in vista di molta devozione.
La spiritata che appena egli levò la mano colla reliquia, era stata
presa da alcuni scuotimenti, come vide avvicinarsele l'esorcizzatore,
incominciò dal mandar voci alte o lamentevoli, e parole latine ed
altre più strane ancora, che alcuni meravigliando dicevano ebraiche. Il
frate parve commosso di tanto, poichè asserì accorgersi chiudere quella
sgraziata in petto uno spirito di prim'ordine, ma però non ismarrirsi,
nè dubitare che alla forza della sua reliquia quel maledetto sarebbe
fuggito.

Indi incominciava dal recitare a gran voce parole latine e nomi
ebraici, e posto sul capo alla donna il suo talismano, imponeva al
folletto, con tremende imprecazioni, di uscire da quel corpo ormai
reso sacro per le sue benedizioni: imponevagli di uscire per la bocca,
e la donna era presa da subito impeto di vomito; il frate imprecava,
e diceva di vederlo già spuntar per le corna, e la paziente seguiva a
scacciarlo con ogni potere: finalmente quando il frate scagliò l'ultima
maledizione e disse che lo spirito se ne andava, ella stanca, sudata,
anelante con un gran urlo il cacciò fuori, e sana alzatasi corse
allegra fra le braccia del marito, mentre tutti gridavano al miracolo.

Io strabiliava a quel racconto e il cappuccino soggiunse di aver seco
ancora quella reliquia possente, e levatala di tasca, come già usò col
parroco e cogli altri che gli faceano intorno maravigliosa festa per
l'ottenuto prodigio, me la mostrò: era la sua tabacchiera di corno. Io
risi, e il valoroso cappuccino mi disse che siffatta lezione riescì
di gran profitto a que' superstiziosi, e aggiunse che radunati i
mariti, insegnò loro un altro rimedio possente contro il fatturamento;
cioè che preparassero alcune buone verghe di sambuco, legno che
sortì dalla natura una potenza demonifuga, perchè nel nome racchiude
qualche parte di quello de' santi; ordinò loro che in qualunque ora
le proprie donne fossero agitate dai demoni, le sferzassero pure con
quelle sbracciatamente, nè badassero ai loro pianti, perchè esse non
pativano, ma sibbene il demone, e proseguissero a sferzarle recitando
qualche orazione. I mariti seguirono quel consiglio, e il nemico
sloggiò da quella parrocchia in meno di quindici giorni: furono tolti
da grave errore non solo i mariti, ma i più savj sacerdoti: tanto potè
conseguire un cappuccino di spirito.



CAPO VIII.

SORTE DEI MAGHI E DELLE STREGHE.


Dopo tanti prodigj della magìa, omai cerchiamo la beatitudine delle
streghe: doveano essere gente che avesse delizie per tutta la vita,
solo triste il fine della pattuita perdizione: invece non aveano che
l'ultimo, non se le portava il folletto, ma le martoriava l'ignoranza.
Liberato un indemoniato, si dovea cercare a punizione chi lo aveva
fatturato: si faceva incetta di maghi e streghe, si davano nelle mani
della giustizia, e Delancre fu in Francia giudice che distribuì tanti
castighi a maghi e streghe, quanti grani di tempesta cadono in un
temporale, e se ne diede merito e stampò opere sulla magia, le quali
concorsero a materiali di questo libro.


I.

Come si conoscessero le streghe.

Guai al tempo degli incettatori di rei di magìa! La dottrina, lo
studio dell'astronomia, delle scienze naturali era un dono funesto: i
filosofi erano maghi: Bruno, Campanella, Francesco Stabili scontarono
come fattucchieri il funesto dono della sapienza, sul rogo o nelle
carceri. La vecchiezza, venerabile per l'età, era fatale, perchè
andava associata al sospetto di stregonerìa. Si spiava la condotta
delle vecchie, e ogni loro azione era indizio dell'arte che credeasi
professassero. Se usavano la chiesa, era per vedere l'ostia nera e
profanarla; se non vi andavano, era perchè avevano abbiurato alla
religione; se si rendevano a pregare ne' cimiteri, profanavano gli
estinti per fare maleficj.

Vi erano anche le prove per conoscere una strega. Quando si prendeva
una persona sospetta di magìa le legavano mani e piedi, e la gettavano
nell'acqua, e se veniva alla superficie era mandata al rogo come rea.
Poi si svestiva per cercar se avesse sul corpo i suggelli di maestro
Leonardo, si indagava se usasse piangere, giacché alle streghe era
negato il beneficio delle lagrime: finalmente era chiamata ad esame e
si persuadeva a confessare.


II.

Processi delle streghe.

Parrà strano che tante streghe e fattucchieri fossero puniti e arsi
per la stessa loro confessione, e da ciò alcuni vollero indurre prove
all'esistenza della magìa. Converrebbe esaminare que' processi e
persuadersi altrimenti: eran tutti presso a poco ad un modo: dopo avere
interrogati que' sgraziati intorno a cose generali, li stringevano
sull'argomento.

— Siete voi una strega?

— Oh che dice mai! Il cielo me ne guardi!

— Ecco una profanazione, bestemmia! Confessa, chè già è nota ogni cosa.
Non parli? Ebbene ti persuaderà un po' di corda. Ehi! —

Ed ecco il manigoldo conduce la donna a una corda che pende da una
carrucola dalla vôlta, le lega le mani alle spalle, le rafferma
a questa corda, tira l'altro capo: si rivoltano alla sgraziata le
braccia, scrosciano l'ossa al peso della persona.

— Ah, Signor Iddio! misericordia!

— Taci, non nominare il nome del Signore invano; confessa: sei una
strega?

— Sì, sì: mi liberi da questo tormento, e dirò tutto. —

E l'esaminatore dà un cenno, la corda allenta e la sgraziata mezza
rotta, è slegata.

— Dunque sei strega?

— Sì signore.

— Hai fatto patto col diavolo?

— Sì signore.

— Sei stata al Sabbath?

— Io non so che si dica. Ho fatto tutte le settimane il venerdì e il
sabbato.

— E che! Osi anche motteggiare, sfacciata? è lo spirito d'averno che
risponde per te: un po' di corda.

— No, per carità! sono stata al Sabbath.

— Che cosa vi hai veduto?

— Per verità non lo so, direi una bugia.

— Ehi! mettetela sul letto. —

E i manigoldi la distendono su una specie di cataletto ove resta legata
mani e piedi.

— Ma che cosa mi fanno? Per carità! Io non intendo nemmeno che cosa
vuole sapere.

— Ti sei divertita al Sabbath, al congresso delle streghe?

— No signore; non so niente.

— Ebbene, datele un po' piacere. —

E i manigoldi si mettono a farle solletico con spazzole di ferro sotto
la pianta de' piedi.

— Ahi misericordia!

— Confessa che cosa hai fatto.

— Ho ballato.

— Nient'altro?

— No signore. —

Ed ei fa un cenno col capo, e quegli altri incominciano a pungerla con
degli spilli.

— Misericordia! Ho mangiato.

— Che cosa facevano gli altri?

— Non lo so.

— Fatele venire la memoria — e i manigoldi le stringono colle tanaglie
le orecchie, le strappano i capelli.

— Ahi! ahi! per carità... Sì signore, ho veduto il Maledetto colle
corna, coi piedi d'oca, vestito di rosso, colla barba.

— Lo hai baciato?

— Oh! che dice mai? Io baciare il diavolo? Caro signore! Io lasciarmi
baciare?

— Ebbene senti i suoi amplessi — e un cenno, e i manigoldi le cingono
al fianco un cilicio, la pungono miseramente, ed ella:

— Sì, sì... mi ha abbracciata?

— E d'altro che avvenne?

— Non lo so. —

Poi la tastano con ferri roventi, ed ella:

— Ah per carità! Non mi diano più tormenti; sì, confesso tutto:
il Nemico mi ha fatto tutto quello che dicono; mi levino da questo
martirio. —

Si alza; si redigono di nuovo, in forma di confessione con
applicazioni, quegli asserti; la donna sta un po' dubbiosa prima di
confermarli; ma gira la vista, vede la corda, il letto, i manigoldi,
si sente un brivido per l'ossa, e conferma: il processo è fatto colla
confessione della rea e la sgraziata è condannata al fuoco.


III.

Urbano Grandier.

Di questo modo andò il processo di Urbano Grandier, che fu pubblicato
sotto il titolo di _Storia dei diavoli di Loudon_, e accennato in
quelle _dei fantasmi_ di Gabriella P., da cui estraggo parte.

Le conclusioni, il delirio degli indemoniati si apprese alle Orsoline
di Loudon: i nemici del parroco Urbano Grandier, lo accusarono di
stregonerìa, di averle ammaliate. Le donne ogni dì facevano nuove
stranezze, la superiora, che era bellissima, aveva in corpo varj
spiriti, tra i quali Astarotte: diversi folletti maligni possedevano
le altre monache, fra quali Zabaclon aveva presa casa da una laica. I
nemici di Grandier, cioè il procuratore del re, e Mignon inquisitore,
coi giudici andarono nel collegio. Appena si accostarono alla
superiora, la cominciò a contorcersi, a mandare grugniti: allora il
giudice Mignon mise un dito in bocca alla donna e imprese a interrogare
in latino Astarotte che la possedeva.

— Con quai mezzi sei tu entrato in corpo a questa monaca?

— Con delle rose.

— Chi le ha mandate?

Dopo un momento di silenzio: — Urbano.

— Qual'è l'altro suo nome?

— Grandier.

— La sua qualità?

— Parrocco.

— Di qual chiesa?

— Di san Pietro di Loudon.

— Chi ha portate le rose?

— Uno spirito trasformato. —

Si tornò altre volte alle interrogazioni della monaca e d'una laica, e
sempre Astarotte per bocca di costoro nominò Grandier come stregone.

Lo sgraziato fu preso; si rinnovarono i processi alle donne, e
uscirono le accuse più strane contro Grandier: si mostra, e lo ho
recato altrove, fino il patto ch'egli aveva colle potenze d'averno,
e fattele parlare sovente per la bocca delle indemoniate, sulla loro
testimonianza, si condannò l'innocente ad essere arso, e gittate le
ceneri al vento.

Fatta la condanna si mandò un chirurgo nella prigione di Grandier
con ordine di radergli la testa, il viso e il resto del corpo per
vedere se portava qualche marchio, e strappargli le unghie. Dopo fu
vestito d'un cattivo abito e condotto in quello stato al palazzo di
Loudon, ove si trovavano radunati tutti i giudici con una folla di
spettatori. Lactance e un altro suo collega scongiurarono l'aria, la
terra, il reo stesso e ordinarono agli spiriti di lasciare la persona
del fattucchiero. Quindi Grandier si pose in ginocchio ed ascoltò
la lettura della sua sentenza con una costanza che meravigliò tutti
gli astanti: egli però non aveva confessato, fu posto alla più fiera
tortura; inutilmente: non proferì parola, non si salvò.

Venne al dì statuito condotto al supplizio. Se gli era promesso di
lasciargli parlare al popolo, e di strozzarlo per sollevargli il
martirio del fuoco: non lo si fece: ogni volta che apriva bocca, gli
esorcisti gli gittavano sul viso tant'acqua che era soffocato. Mentre
si apparecchiava il laccio, alcuni lo rannodarono in modo che non
valesse, altri diedero fuoco al rogo innanzi tempo: il misero Grandier
disse al suo esorcista:

— Ah! questa non è la promessa: vi è un Dio che sarà il mio e il tuo
giudice, e ti stabilisce a comparire innanzi a lui un mese. —

Ma la fiamma tutto distruggeva. Uno stuolo di colombe errava intorno a
quel rogo; i tristi dissero ch'erano demoni che cercavano di soccorrere
il mago; una mosca volò intorno alla testa di Grandier, e dissero che
era il demone che veniva a raccoglierne l'anima.

L'infelice cadde, e molti perirono al par di lui per varj secoli
nello stesso modo, miserando esempio della tristizia degli uomini e
dell'ignoranza dei tempi.


IV.

Supplizj delle Streghe.

Ma non tutti avevano l'animo di Grandier; inventavano tra' triboli
strane venture e complici, e quindi nuovi tormenti e nuovi tormentati.
Gautiere accusò nel 1582 Laforde d'averla condotta al Sabbath, ed
ebbero entrambe la mala ventura.

A Casale, in Piemonte, vi era una strega chiamata Androgena, che
nel 1538 fu accusata di apportare la morte nelle case ove andava, e
confessò che aveva una società di 40 streghe, colle quali faceva un
maleficio onde ungevano le porte delle case. Sempre la stessa storia
degli avvelenatori, e per sciagura la stessa barbarie di abbruciarli.

Anche le pazze e le frenetiche si prendevano come streghe. Maberthe che
viveva nel 1618 era un misto di fanatismo religioso ed empio, diceva
che amoreggiava esseri celesti, che una mano le toccava il capo, e
una voce le ripeteva: sei perdonata. Fu chiamata all'inquisizione, e
confessò che dormiva con un folletto, che era strega, che andava al
Sabbath e infine che l'inquisitore voleva sedurla: convenne spacciarla,
e fu abbruciata. Invece Giovanna Ribadin fu condannata a morte il 5
giugno 1587, perchè in un delirio profetizzò che Dio proibiva alle
donne di portare le maniche increspate, e agli uomini berretti rossi, e
raccolse in domenica erbe malefiche.

E di queste follìe ve ne avrebbero molte da narrare per un dì; ma omai
è meglio venirne a capo per consolarci almeno con un altro pensiero,
che sono finite le streghe e questa cantafavola.



CONCLUSIONE.

Il buon senso.


Ho cominciato con una celia, e venni a fine con una tragedia. Però
omai rallegriamoci, non vi sono più nè maghi, nè streghe, nè incanti,
nè malìe, non vi son più indemoniati, inspiritati, e quanto più vale,
non ardono più roghi. Eppure era temerità il dubitarne, e passarono
appena due secoli. Di questo mutamento, che per vero pare un prodigio,
vuolsi dar merito al buon senso. Esso non mancava sicuramente quando
s'accendevano i roghi, e vi stridevano fra le fiamme uomini e donne
innocenti: molti compassionavano que' miseri, ma non osavano spargere
in pubblico una lagrima, alzare una voce in loro difesa: il buon senso
di pochi è superiore al proprio secolo, e non ha parte alla civiltà
d'una nazione.

Fu quella filosofia che alcuni gravano di tanti delitti, che ne liberò
dalle streghe. Essa dimostrò quali siano le cose che possano avvenire
in questo mondo, svelò molte virtù occulte delle produzioni naturali,
e molta ipocrisia degli uomini; osò a poco a poco insinuare negli animi
di tutti i proprj dubbj, rivelare certe verità, insomma fare universale
quel buon senso che prima era privilegio di pochi; rendere opinione di
tutto quanto prima era un pensiero dedotto dal ragionamento. Quando
un'opinione è universale, non ha più forza che vi resista: potranno
alcuni sforzarsi di ritardarne i buoni effetti, ma infine ella riesce
a vincere. Questa opinione creata dal buon senso, il quale vide che
la magìa era un delirio, distrusse i maghi e le streghe, perchè più
non vi si credea, e rese ridicole le persecuzioni che si faceano
loro; e un'opinione che non ha nè persecuzioni, nè martiri, diviene
indifferente. Eccovi la forza che sterminò la magìa.

Ora, amabili lettrici, tutto il potere de' maghi e delle streghe è
capitato in vostra mano: voi ammaliate, mettete le convulsioni, date
e togliete la vita; come le fate, tramutate gli uomini in bestie od in
numi, secondo che meglio li desiderate, o inerti o virtuosi. Or bene,
giacchè è tempo che amate gli studj e consultate fino gli almanacchi,
fate che la vostra potenza magica riesca utile a qualche cosa.
Infondete in questi uomini che fatturate, qualche diavoletto che non
si ricrei solo di cose vane, ma produca qualche bene al vostro paese, e
non sarete state streghe inutili.

  FINE.



SPIEGAZIONE

DELLE TAVOLE


  Pag.   5. Congresso delle streghe o Sabbath (Prima
              del frontispizio).
   »    38. Ricevimento di una strega.
   »    86. Mano colle linee per la chiromanzìa.
              Eccole:
            A. Linea della vita.
            B. Linea della salute e dello spirito.
            C. Linea della felicità o della fortuna
            D. Linea della giuntura.
               1. Montagna di Venere.
               2. Montagna di Giove.
               3. Montagna di Saturno.
               4. Montagna del Sole.
               5. Montagna di Mercurio.
               6. Montagna della Luna.
               7. Montagna di Marte.
            Le quattro figure geometriche che
            sono in alto rappresentano: le due circolari
            superiori i talismani, la circolare
            inferiore più grande un pentacolo:
            il triangolo è quello che si disegnava
            in mezzo al circolo magico.
  Pag. 121. Il mago di Scozia fa tremare Parigi.
   »   127. Il castello degli spiriti. (Vedi il frontispizio).
   »   150. Esorcismo di Marta Brossier.



INDICE


  ALLE NUOVE LEGGITRICI                       Pag. III

  PRELUDJ.

     I. Prefazione                             »     1
    II. Piano dell'opera                       »     2
   III. Congresso delle streghe o Sabbath      »     5
    IV. Ai curiosi                             »    10

  CAPO I.

  I MAGHI.

     I. Della magìa                            »    11
    II. Come si diventasse mago                »    14
   III. Il dottor Faust                        »    15
    IV. Margherita di Milano                   »    19
     V. Diplomi de' maghi                      »    21
    VI. Cerimoniale della magìa                »    24
   VII. La bacchetta magica                    »   ivi
  VIII. Strenne de' maghi                      »    26

  CAPO II.

  LE STREGHE.

     I. Come si divenisse strega               »    30
    II. Streghe create dagli spiriti           »    31
   III. Sdegni degli spiriti colle streghe     »    35
    IV. Ricevimento delle streghe              »    37
     V. Gli iniziati                           »    39
    VI. Strumenti delle streghe                »    41
   VII. Gli unguenti                           »   ivi
  VIII. La scopa                               »    45
    IX. Moltiplicazione delle streghe          »    46

  CAPO III.

  ALTRE INDOVINE.

     I. Intermezzo                             »    47
    II. Le fate                                »    48
   III. Melusina                               »    50
    IV. Gli zingari                            »    53

  CAPO IV.

  MAGÌA NERA.

     I. Un richiamo opportuno                  »    60
    II. Evocazione degli spiriti               »    61
   III. Dell'ammaliamento                      »    64
    IV. Stregamenti mortali                    »    66
     V. Sortilegio per innamorare              »    69

  CAPO V.

  IL FUTURO.

     I. Della divinazione                      »    75
    II. Divinazione per mezzo degli spiriti    »    77
   III. Astrologìa                             »    79
    IV. Mandragore                             »    84
     V. Chiromanzìa                            »    86
    VI. Gettatura                              »   109
   VII. Il Malarbetto                          »   110

  CAPO VI.

  AZIONI E POTENZA DEI MAGHI E DELLE STREGHE.

        Preliminare                            »   111
     I. Elisir di lunga vita                   »   112
    II. Edifizj fabbricati per incanto         »   114
   III. Il ponte di Pavia                      »   115
    IV. Nuovi prodigj                          »   119
     V. Riccardo senza paura                   »   122
    VI. Il castello degli spiriti              »   127
   VII. La barba di uno spettro                »   132
  VIII. Una donna e le orecchie d'un folletto  »   135
    IX. Ancora il Sabbath                      »   136

  CAPO VII.

  LE PURGAZIONI.

        Preliminare                            »   141
     I. Amuleti                                »   142
    II. Degli esorcismi                        »   145
   III. Caratteri degl'indemoniati             »   146
    IV. L'esorcismo                            »   147
     V. Imposture di alcuni indemoniati        »   149

  CAPO VIII.

  SORTE DEI MAGHI E DELLE STREGHE.

        Preliminare                            »   158
     I. Come si conoscessero le streghe        »   159
    II. Processi delle streghe                 »   161
   III. Urbano Grandier                        »   165
    IV. Supplizj delle streghe                 »   169

  CONCLUSIONE. Il buon senso                   »   170
  Spiegazione delle tavole                     »   173

FINE DELL'INDICE.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Le streghe
 -        dono del folletto alle signore" ***

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