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Title: Idillii spezzati Author: Fogazzaro, Antonio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Idillii spezzati" *** ANTONIO FOGAZZARO IDILLII SPEZZATI RACCONTI BREVI MILANO CASA EDITRICE BALDINI, CASTOLDI & C.º Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80 — 1902 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA _MILANO-TIP. PIROLA & CELLA DI R. CELLA_ Idillii spezzati Io tengo a Oria, sulle rive del lago di Lugano, una piccola villa battuta dalle onde a piede di un monte vestito di ulivi, di viti ed anche di allori, che nessun poeta, prima di me, è andato a cercare. È un ameno e tranquillo angolo del mondo, caro ai sognatori e agli artisti. Quando sono a Oria passo gran parte della giornata sul lago, solo nel mio canotto, vestito come un barcaiuolo, con qualche libro e i miei arnesi da pesca. Quest'abitudine mi procurò, molti anni sono, la più romanzesca avventura della mia vita. Approdai una mattina col canotto a una spiaggia fra due scogli in faccia a Lugano, dove c'è adesso la trattoria del Cavallino. Allora il luogo era del tutto selvaggio e deserto. Vi ha fra i due scogli un piccolo valloncello ombroso che conduce a una sottile argentea cascatella. Avevo pescato lungo le rive sassose del monte Caprino e rotta la mia pesca senza pigliare un pesciolino. Uscii della barca, sedetti all'ombra e mi posi ad accomodar la pesca. Ero lì da pochi momenti, quando udii in alto, sopra la cascatella, una rude voce d'uomo e piccole risate, piccoli strilli, come se ci fossero lassù delle signore imbarazzate a discendere. Infatti vidi calare adagio, sul pendìo erboso presso la cascatella, una bella fanciulla che aiutò con l'ombrellino un'altra giovanettina sui quattordici anni, che portava un canestro. Ultimo comparve, aggrappandosi all'erba e molto brontolando, un signore piuttosto attempato. Tolsero dal canestro _sandwiches_, bottiglie e frutta, e si disposero a far colazione. Il signore attempato, una figura massiccia dal naso rosso e dai favoriti grigi, pareva seccato della mia vicinanza; ma la maggiore delle signorine, datami una rapida occhiata disse sprezzantemente: _A fisher!_ (un pescatore). Rimasi un po' male e mi parve di diventar rosso. Coloro non fecero più attenzione a me, si misero a mangiare e a discorrere allegramente. Io che duro una gran fatica, di solito, a intendere chi parla inglese, fui meravigliato della chiarezza con la quale parlava quella gente, specialmente la signorina che aveva detto: _A fisher_. Questa era bellina assai, snella, piuttosto alta; aveva capelli bruni e begli occhi azzurri chiari. Non so più dire come fosse vestita; so che aveva un mazzolino di ciclami alla cintura, che i suoi piedi parevano piuttosto grandi e che la mano invece era squisita. Io avevo allora un cuore assai tenero, e la mia immaginazione era sempre pronta a vedere anime appassionate, tesori d'amore in tutti i begli occhi che si fossero incontrati tre o quattro volte con i miei. Veramente gli occhi della signorina mi avevano guardato una volta sola e quasi con disprezzo: ma appunto il suo supposto disprezzo mi infiammava l'immaginazione. Quand'ero ragazzo mi piaceva d'immaginare avventure amorose le più strane e inverosimili. Le donne delle mie avventure erano sempre belle e altere. Io ero un principe incognito. Chiedevo amore ed ero disprezzato; allora mi scoprivo e le altere bellezze cadevano a' miei piedi. Più tardi ho trovato che tutto questo non era molto nobile ed ho interamente cambiato idee. Mentre però guardavo e tornavo a guardare il delicato viso e la graziosa persona della fanciulla che mi aveva disprezzato, mi passò per la mente, non di farla cadere a' miei piedi, perchè non ero un principe, ma di colpirla, d'imporle un certo rispetto, sfoggiando il mio inglese e la mia letteratura. Appena il signore attempato ebbe inghiottita una conveniente quantità di _sandwiches_, cominciò a discorrere del ritorno a Lugano, e capii che non voleva saperne di arrampicarsi ancora sul monte per andare a prendere il vapore alla vicina stazione di Caprino. Che sorpresa se il pescatore si fosse presentato con un'aria signorile e un leggero sorriso a dire in inglese: «Le occorre un canotto, signorina? E un pescatore per barcaiuolo? Devo io condurla su _the oval mirror of the glassy lake_?» No, era troppo ridicolo; e se la ragazza mi avesse riso in faccia, che potevo fare? Potevo forse dirle: «Badi, signorina, che il verso è di Byron?» No, no, sarebbe stato più ridicolo ancora. Raccolti invece i miei arnesi da pesca, li portai nella barca, nascosi un volumetto di Heine che avevo con me, poi ritornai, mi accostai al signore attempato e gli chiesi in italiano, toccandomi appena il cappello, se voleva una barca per Lugano. Il signore guardò la sua figliuola maggiore che gli spiegò la mia offerta. Egli parve felice e mi rispose subito: _Yes, yes, Lugano, Lugano._ — Diamo un'occhiata alla barca, papà — disse con la sua dolce voce la signorina. — Non mi piacciono le barche dei pescatori. Son così sudicie! Chi sa che puzza di pesce, papà! Questa era un'amara ironia per me che avevo poco prima bestemmiato il destino durante la mia disgraziatissima pesca. L'altra giovinetta corse come una freccia alla riva e si mise subito a gridare da lontano: Harriet! Harriet! V'era sulla riva una sola barca e la ragazza non poteva ingannarsi. Era bene la mia. Miss Harriet fu molto sorpresa di vedere ch'era un'elegante barchetta di quercia con i cuscini di cuoio e si persuase che non aveva affatto odore di pesce. Anche il vecchio signore fu molto contento. — Chiedetegli il prezzo, Harriet, — diss'egli. — I barcaiuoli son tali malandrini, qui! Non potei a meno di commovermi un poco; ma fu ancora peggio quando miss Harriet rispose: — Questo non mi pare un malandrino. Ha l'aria onesta, papà. — Poi si volse a me e disse con un adorabile accento anglo-italiano: — A Lugano! Quanto? Arrossì leggermente anche lei parlandomi italiano. Era un tal piacere di guardarla, mentr'ella stessa mi guardava arrossendo, che stetti un bel po' senza rispondere. Poi dissi in fretta e a caso: — Cinquanta centesimi. — Quanto ha detto? — le chiese suo padre. — Dite ch'è troppo, Harriet. — Ma non è troppo, papà, è un'inezia. — È meno che mezzo scellino. La compagnia s'imbarcò e se mi fu poco piacevole di urtar su a bordo il signore dal naso rosso, ebbi però il compenso di sentire per un momento la mano fine di miss Harriet nella mia. L'altra ragazza saltò nella barca senza l'aiuto di nessuno. Il lago era liscio come uno specchio. Dal Cavallino a Lugano si può andar bene in mezz'ora, ma io confesso che non avevo fretta. Nessuno faceva attenzione a me e potevo guardare miss Harriet a mio agio. Mi pareva essere già innamorato di lei, mi pareva che si potesse remare un mese per mettere una parolina in quel piccolo orecchio roseo e venire ascoltato; un anno per posare un bacio su quella delicata guancia e non venir respinto; la vita intera per aver un tocco di quelle labbra fini e poterlo rendere. — Povero me! brontolò il vecchio signore, mentre io ero sprofondato in questa proporzione geometrica. — Credo che arriveremo a Lugano domani. Dite a quel poltrone di ragazzo che remi più forte, Harriet. Miss Harriet rispose con mio gran piacere che il lago era così delizioso e che Lugano era noiosa. Poi mi domandò il nome dell'ardito picco dirupato sopra la Valsolda. — Picco di Cressogno — risposi. — Cressogno? Cosa vuol dire Cressogno? Ella non seppe intendere la mia risposta e sua sorella rise. Allora le dissi in francese, sorridendo: Cressogno _c'est le nom du village que vous voyez là-bas_. Miss Harriet mi guardò attonita e io m'affrettai a dire che avevo fatto il barcaiuolo sul lago di Ginevra. La conversazione si animò. Il vecchio signore non sapeva una parola di francese e miss Bertha, la ragazza più giovine, ne sapeva solamente poche, ma Harriet lo parlava benissimo. Mi domandò molte cose delle montagne e del lago, e io, per farmi interessante, mi dimenticai un poco della mia parte, le parlai più come un artista che come un barcaiuolo. Le mostrai la mia lontana Oria e le dissi che in una di quelle casette battute dalle onde al piede della montagna vestita di ulivi e di viti viveva un giovine scrittore italiano; che lo conducevo spesso in barca e che mi ci divertivo moltissimo, specialmente quando il lago era in tempesta. Allora mi posi a descrivere la selvaggia bellezza della tempesta, la furia delle onde spumanti, i colori cangianti delle montagne e dell'acqua, la luce dei lampi sul picco di Cressogno. — Harriet — disse il signore — come si dice _to row_ in italiano? — Remare — diss'ella. Egli si voltò verso di me e mi apostrofò: — Remare, remare! Non potei trattenermi dal ridere di cuore, e le ragazze risero con me. Egli andò sulle furie, le sgridò e disse che io ero un impertinente insopportabile. Per alcuni minuti nessuno osò più parlare e io mi posi a remare di lena. La giovinettina mi guardava spesso curiosamente; ma non ebbi mai la fortuna d'incontrare gli occhi di miss Harriet. Pareva quasi che volesse evitare il mio sguardo. La prima che parlò fu Bertha. Disse, quasi sottovoce: — Io penso che è molto intelligente. — Può essere — rispose suo padre. — Certo è un gran chiacchierone ed è molto brutto. Mi divertii un mondo ad ascoltare questo dialogo e la discussione che seguì. Adesso ebbi più d'uno sguardo da miss Harriet. — Proprio un barcaiuolo, — disse suo padre — ha orecchie grandi come vele. Poi fece la crudele scoperta che somigliavo al nostro _Jack_.... Chi era il nostro _Jack_? Le ragazze protestarono tanto forte da farmi sospettare che _Jack_ fosse una scimmia. La più calda a difendermi era la più giovane. Miss Harriet criticò moderatamente l'opera della natura nella mia fisonomia, disse che in complesso io ero piuttosto piacente e che v'era in me qualcosa che insieme la imbarazzava e le piaceva. Io non sapevo più come stare nè dove guardare e avevo una terribile paura di tradirmi. Allora, siccome eravamo vicini a Lugano, domandai a miss Harriet dove desiderasse scendere. Rispose: — Villa Ceresio, — ch'è presso l'Hôtel du Parc. Poi domandai se forse desideravano fare qualche altra gita l'indomani e se dovevo venirli a prendere. Si accese una piccola disputa fra miss Bertha che insisteva per accettar la proposta e suo padre che non pareva disposto a prender me per barcaiuolo. — Oh, papà! — supplicò la ragazza. — Una barchettina così bellina! Mi parve che avesse le lagrime alla gola. Miss Harriet mi domandò dove proponevo di andare. Io proposi di lasciar Lugano alle nove del mattino, di scendere a S. Mamette, di fare una passeggiata nella pittoresca Valsolda, di ritornare a S. Mamette per la colazione e di ripartire quindi per Lugano. Il vecchio signore si arrese. — Si potrebbe prender con noi i Roberts — diss'egli. — Oh sì, andiamo coi Roberts, papà! — esclamò miss Bertha. Miss Harriet parve seccata e tacque. Io protestai, mentalmente, che non amavo affatto questi Roberts incomodi e che per parte mia potevano restare a casa. Eravamo allora a pochissima distanza da villa Ceresio. Miss Bertha si mise improvvisamente a battere le mani e a gridare: — Eccoli! Ecco i Roberts! Suo padre parve molto contento, e miss Harriet mormorò qualche cosa che non giunsi a intendere; quando approdammo, miss Bertha uscì la prima, dando la mano a suo padre, e io domandai a miss Harriet se dovevo aspettare gli ordini. Ella mi rispose che credeva di sì, posò sopra un cuscino della barca una moneta da cinquanta centesimi, si chinò a guardare il mio Heine che avevo nascosto male sotto un altro cuscino e che n'era scivolato fuori. Sorrise, e mi disse piano, in tedesco: — _Haben sie auch auf dem Rhein gerudert?_ (Ha remato anche sul Reno?). E saltò agilmente a terra senza lasciarmi il tempo di rispondere. Mi balzò il cuore di piacere. Non mi faceva ella discretamente capire di avere indovinato il mio segreto? Sentii che cominciava qualche cosa di delizioso e di serio. Ero tanto commosso che non feci attenzione all'incontro con i Roberts. Nascosi meglio il mio Heine e sedetti nella barca, pensando a ciò che poteva succedere. Aspettai un pezzo, e nessuno veniva a dirmi niente. Non vedevo qualcuno, ma udivo discorrere nel giardino, distinguevo le voci di miss Bertha e di suo padre miste ad altre voci sconosciute. Finalmente miss Bertha si affacciò alla ringhiera del giardino con un giovane ed elegantissimo signore che supposi essere il signor Roberts, il quale mi domandò in buonissimo italiano se lo avrei accompagnato a Castagnola. Castagnola era sulla mia strada per ritornare a Oria. Risposi di sì. Allora la ragazza mi disse in francese: — _Demain matin, à neuf heures, ici._ Poi comparve il vecchio signore, tutto sorridente e fiero, a braccio di una bella ed elegante giovane signora fra i venticinque e i trent'anni, che Bertha chiamava miss Roberts. Miss Harriet non comparve. Considerando la bellezza e l'eleganza del giovine signor Roberts, io ne fui quasi contento. Quando i signori Roberts furono nella mia barca e li potei vedere da vicino, la fisonomia del giovane signore mi dispiacque molto. Era veramente un bel giovane, alto, bruno come un arabo, con due grandi occhi neri e una barba nera, folta, corta, che sarebbe stata molto conveniente per un nipote dell'emiro Abd-el-Kader; ma lo sguardo era egoista, sfrontato e falso. Mr. Roberts aveva una voce strana, piuttosto aspra; miss Roberts invece, bianca, bionda, con gli occhi celesti, languidi, aveva una voce sottile, dolce e un poco sonnolenta. Mentre ci allontanavamo dalla riva, ella si voltò, spinta da lui, a salutare gli amici con una certa grazia stanca e noncurante, mentre egli invece salutò con calore a più riprese, gridando: — A domani! A domani! Ciò che successe poi mi riempì di stupore. Appena ebbero cessato di voltarsi verso villa Ceresio a salutare, le due faccie cambiarono in un modo incredibile, diventarono più fredde e dure che non posso dire. Quando si sentirono abbastanza sicuri di non essere uditi dalla riva, i Roberts cominciarono in tedesco un dialogo stupefacente. Miss Roberts dichiarò che l'indomani non sarebbe andata in nessun luogo, e Mr. Roberts le rispose con una tremenda bestemmia che s'ella non veniva l'avrebbe battuta. Ella pareva del tutto abituata a simili minaccie, perchè non se ne turbò troppo, e cominciò a burlarsi del suo compagno per il suo poco successo con le americane. Così appresi che miss Harriet era americana. Subito dopo ne appresi anche il nome. — Miss Forest ti conduce a scuola — disse la giovane. — Vedo bene che diffida di noi. Finirà a scoprire ciò che siamo. Per me, ne avrei piacere. Egli bestemmiò e rispose ch'era impossibile. — Glielo dirò io! — fece la signora con tranquilla insolenza. Egli si pose a ingiuriarla con ira; ella gli replicò con disprezzo. Si rinfacciarono l'un l'altro ogni sorta di vergogne e maledissero il giorno e l'ora in cui s'erano incontrati. Io fui più volte per esclamare che tacessero, che comprendevo il tedesco! Se miss Harriet non fosse esistita, l'avrei fatto. Così, indovinando che si ordiva una odiosa trama contro di lei, e che, se la donna era forse più infelice che colpevole, l'uomo era certo un gran furfante, non mi tenni obbligato a farlo. Perciò, quando deposi sulla riva di Castagnola quella coppia rispettabile, sapevo un poco anch'io chi erano, o piuttosto sapevo chi non erano. Non erano fratello e sorella, non erano Roberts, non erano inglesi. Probabilmente l'uomo non era neppure tedesco, perchè nel calore dell'ira gli udii pronunciare delle imprecazioni in una lingua a me del tutto sconosciuta. Non erano marito e moglie, non avevano una dimora in alcuna parte della terra. Il bel cavaliere non aveva danaro, malgrado i mezzi che adoperava, secondo la sua dama, per procurarsene. La famiglia della dama ne aveva, e veniva onorata da lui col titolo di «banda di ladri» perchè non ne mandava. Dopo essersi amati, Dio sa per quanto breve tempo, quei due si odiavano l'un l'altro, ed era difficile intendere quale legame li tenesse avvinti. Per parte mia, pensai che l'uomo tenesse quella donna per interesse e ch'ella lo servisse per paura. Egli le parlava con insolenza della sua passione per miss Forest e di un futuro matrimonio. Era un brutale capriccio, come doveva averne quel briccone, o credeva egli stesso che miss Forest avesse una ricca dote? Questo non lo so. Aveva imposto alla sua disgraziata schiava di aiutarlo ad entrare nelle buone grazie del professore Forest. Si capiva che la miserabile creatura, benchè combattuta da un ultimo senso di dignità e d'onestà, sarebbe stata contenta di questo matrimonio che l'avrebbe liberata da lui per sempre. Nell'uscire di barca l'uomo mi domandò, ancora in italiano, quanto mi dovesse. Avendogli io risposto ch'ero già stato pagato, si strinse nelle spalle e se n'andò con la sua compagna. Io avevo un amico a Castagnola. Andai a cercarlo e gli domandai se conoscesse i Roberts. Non no sapeva il nome, ma li riconobbe alla mia descrizione. Vivevano in una piccola villa sulla strada di Lugano. Si diceva che facessero commercio di gioielli orientali antichi e che la signora avesse la parte di far relazioni e di adescare compratori. Si affermava pure, con sicurezza, che il signore avesse avuto una condanna in Italia, per truffa. Erano a Castagnola da un mese e avevano la villa per un altro mese. Feci il tragitto da Castagnola a Oria con l'idea d'essere diventato un personaggio importante d'uno strano dramma, dove avevo la parte di salvare l'innocenza e di fulminare i suoi nemici. E poi, quale sarebbe il mio premio? È strano che non potevo immaginare la gratitudine di miss Forest. Invece mi sentivo intorno al collo le braccia e sul viso i favoriti del suo vecchio padre, e non ero ancora abbastanza innamorato della figlia per immaginare con piacere questi austeri ed ispidi contatti. Vivevo allora solo con una sorella maggiore nubile, una donna molto seria e positiva che aveva per me un'affezione materna, profonda, ma non cieca. Ella mi vide arrivare a casa tanto agitato che sospettò subito di qualche cosa. Le raccontai tutto, parlando il meno possibile di miss Forest, e il più possibile dei Roberts. Mia sorella non capì affatto la mia nobile parte nel dramma, disapprovò il mio scherzo, e mi disse: — Non andrai mica, domattina, suppongo? — Come non andrei? ma sì, certo, andrò. È il mio dovere di onest'uomo e di cristiano di andare. Mia sorella mi domandò se fosse il mio dovere di cristiano d'innamorarmi di tutte le belle ragazze che vedevo e di correr loro dietro. Io le risposi sdegnosamente che le sue idee erano sempre basse. Non tornammo più sull'argomento. Solamente la sera, quando ci separammo per andare a letto, ella mi disse che se io credevo mio dovere di onest'uomo di condurre inglesi o tedeschi o turchi a far colazione in casa, il dovere suo di donna cristiana era di dar loro pane e acqua. L'indomani mattina alle nove ero a Villa Ceresio. Miss Bertha era già in giardino ad aspettarmi e corse subito a chiamar suo padre e sua sorella. Miss Harriet aveva una _toilette_ elegante di flanella chiara con grandi bottoni bleu, cintura bleu e un berrettino bleu. Mi si strinse il cuore pensando che quel delizioso berrettino potesse essere dedicato a M.r Roberts. Ella mi salutò appena, senza parlare. Meno di così non avrebbe potuto salutarmi; eppure io vidi sul suo viso, quando lo piegò un poco, che non avrebbe salutato il barcaiuolo a quel modo. Mi accorsi pure che appena seduta mi diede due occhiate rapide come per esaminare i miei abiti. Ella si aspettava qualche cambiamento con intenzione, e c'era. Avevo i miei bottoni d'oro da polsini, col monogramma, e un anello con un piccolo brillante. Nella prima occhiata vide l'anello, nella seconda vide i bottoni; ne fui sicuro, benchè il suo volto non tradisse la menoma sorpresa. Per un pezzetto non mi guardò più, guardò a destra verso il Cavallino dove c'eravamo incontrati il giorno prima. Nella mia emozione diedi tre o quattro forti colpi di remi. Suo padre e sua sorella mi guardarono meravigliati; ella seguitò a guardare verso il Cavallino. Solo quando ripresi a remare tranquillamente i nostri occhi s'incontrarono e si fermarono. Lugano, Villa Ceresio, il Monte San Salvatore, i favoriti di sir Forest, tutto mi fece intorno la _grande ronde_. Intanto un battello partiva da Lugano per Oria e passava a poca distanza da noi. — Si poteva prendere il vapore! — brontolò il vecchio signore. — Ma non fa stazione a Castagnola, papà — disse Bertha. Si misero allora a parlare dei Roberts, e Harriet prese parte alla conversazione. Ella propose di non fermarsi a Castagnola. Sua sorella protestò e il papà diede ragione a lei.... Bertha era innamorata di miss Roberts e ammirava molto anche sir Roberts. Suo padre diceva che sir Roberts era un colto e intelligente giovine e che i suoi gioielli antichi erano magnifici. Io sospettai che agli occhi di quell'eccellente signore il gioiello più magnifico fosse il più moderno, miss Roberts, perchè non parlò mai di lei. Miss Harriet disse forte, quasi con affettazione, che preferiva i gioielli di Parigi a quelli di Memphis, e che il primo torto del signor Roberts era di essere antipatico e il secondo di avere miss Roberts per sorella. Aveva probabilmente osservato i maneggi della signorina con suo padre, perchè parlò di lei senza misericordia, come di una bambola dai capelli gialli, d'un ritratto dell'accidia sonnolenta. Bertha difese vivacemente i suoi cari amici. Il professore Forest era molto inquieto e borbottava come un vecchio orso malcontento. Egli non osò confutare Harriet, ma disse che le sue figliuole gli dovevano di essere cortesi con i suoi amici. — Non sapevo che fossero vostri amici — disse la ragazza, impallidendo. — Lo sono — rispose il vecchio. — Io ho molti doveri verso il signor Roberts per informazioni preziose che mi ha dato circa i gioielli siro-fenici e penso che la sua relazione vi è tornata molto utile quando ci siamo incontrati presso Pontresina, dopo quella disastrosa discesa dal Piz Zanguard. Siete stata ben contenta, allora, di accettare.... Qui egli s'interruppe: — Gli scialli di sua sorella, sì — disse Harriet. — Avete ragione, papà. È stato un atto magnanimo. Ci accostavamo a Castagnola. Miss Harriet era visibilmente turbata e non mi guardava più. Invece di dirigermi all'approdo, io voltai a poco a poco la barca nella direzione di Oria, cercando gli occhi di lei, volendo significare che avevo l'intenzione di non approdare a Castagnola senza un ordine. Il professore si accorse della cambiata direzione e mi indicò, emettendo voci inarticolate, il luogo dove bisognava approdare. Io guardai ancora, prima di ubbidire, miss Harriet, aspettando che dicesse qualche cosa. I nostri occhi s'incontrarono e vidi ch'ella m'aveva inteso. I begli occhi azzurri mi guardarono sorpresi e mi passò per la mente che mi domandassero se avessi remato anche sul Tamigi; ma nessuna parola venne, e approdammo a Castagnola. Passarono alcuni minuti e i Roberts non comparivano. Bertha faceva molte diverse supposizioni. Suo padre e sua sorella non parlavano. Finalmente il vecchio signore si alzò e disse che sarebbe andato a vedere. Miss Bertha si alzò pure per andar con lui; miss Harriet dichiarò che restava in barca. Io la guardai palpitando. Aveva le sopracciglia aggrottate, certo non per l'idea di restar sola con me. Essa non m'incoraggiò con un solo sguardo, ma io ero risoluto di parlarle ad ogni modo. C'erano otto o dieci minuti di cammino dallo sbarco di Castagnola alla villetta dove abitavano i Roberts. Quando il vecchio signore e la giovinetta si furono allontanati, io dissi a miss Harriet in francese: — Signorina, io non posso più fingere con lei. Ella si turbò. — Ah! — disse. — Lei è lo scrittore italiano? — Sì. — L'ho sospettato subito ieri — esclamò, alzandosi. — Perchè questa commedia? Suppongo ch'ella sia un gentiluomo, signore. È stata una bella cosa di burlarsi di noi? Non credo di potere star qui, adesso. — Oh, si fermi, signorina! Io non ho voluto burlarmi di Loro. No davvero! È stata una piccola vendetta — soggiunsi sorridendo. — Si ricorda che mi ha creduto un pescatore, quando mi ha visto raccomodar la pesca? I suoi occhi esprimevano disprezzo, e dopo averla veduta non potevo rimanere sotto il suo disprezzo. — Ma non era disprezzo, signore! Era solo un equivoco. È possibile che io rispetti un pescatore onesto più d'un poeta che inganna! — Non ho voluto ingannarla, signorina; ho voluto piuttosto disingannarla. Desideravo farle sapere che non ero tanto inferiore a Lei quant'Ella aveva creduto. In principio ero mosso dall'orgoglio; ma poi vennero altri sentimenti molto migliori. Sono felice di poterle dire che Le sarà utile d'avermi conosciuto. — Perchè, signore? Vidi ch'ella era commossa e avida di una spiegazione. — Sieda, signorina! — dissi. — Non parlerò se non siede. Riprese il suo posto di prima, e io continuai dopo un momento di esitazione. — Intendo un poco l'inglese, signorina, specialmente l'inglese degli americani. Miss Forest trasalì. — Oh, signore! — esclamò. — Davvero? E Lei ha ascoltato, ieri, ciò che dicevamo noi; questo non è stato bello, signore! No, no, no! Ella si coperse il viso con le mani, fra sdegnata e ridente. — Di grazia, signorina — diss'io — quel signor _Jack_ che mi somiglia tanto, sarebbe una scimmia? — Ella meriterebbe che lo fosse — rispose miss Forest, ridendo, senza scoprirsi il viso. — Ma non lo è. — Bene, signorina, mi perdoni e mi ascolti, adesso. Devo darle notizie dei Roberts. — Davvero? Le mani le caddero dal viso ed ella si piegò ansiosa verso di me. — L'uomo è un abominevole briccone — diss'io — e la donna è la sua schiava. Non sono fratelli. Ci deve essere fra loro un legame vergognoso. Non sono inglesi. Lo stesso nome Roberts è falso. L'uomo s'è messo in capo di sposar Lei, signorina. — Ma come ha Lei saputo questo? Vidi ch'ella dubitava di me. — L'ho saputo ieri — risposi — venendo con loro da Lugano a Castagnola. Hanno sempre parlato di questo. Ho appreso così il Suo nome e la Sua patria. Lo so, miss Forest, Lei si domanda se deve credere a uno straniero che le è perfettamente sconosciuto? Ella tacque, ed io rabbrividii. — Mi creda — esclamai — La supplico di credermi! Non sono un mentitore! Non lo vede? Non lo sente? Piuttosto lasciarla in questo istante e non vederla mai più, ch'esser creduto da Lei un bugiardo. Addio, signorina! Stavo in piedi sulla riva, risoluto d'andarmene, senza pensar affatto alla mia barca. — Si fermi — disse miss Forest, quasi sottovoce, dolcemente. — Le credo. Io sedetti sulla prora della barca e mormorai: — Grazie! Nel silenzio che seguì, udimmo presto i passi del professore e di miss Bertha che ritornavano. — Sia lode a Dio! — disse Harriet. — Sono soli! Ho bisogno di domandare ancora qualche cosa, ma adesso è tardi. Infatti in quel momento sir Forest e sua figlia comparvero sulla riva. Non erano soli. Dietro a loro veniva il signor Roberts in una elegante _toilette_ da mattina. — Mi rincresce — diss'egli a miss Harriet, dopo averla salutata. — Mia sorella non sta bene e manda le sue scuse. Egli era bello, elegante, e sedette vicino a miss Harriet, ma non avrei cambiato posto con lui. Ella non avrebbe potuto essere più gelida. Quegli non ebbe l'aria di accorgersene; invece il padre ne soffriva visibilmente e cercava di parlare a Roberts, di esser gentile con lui quanto poteva. Allora sua figlia mi guardava; i nostri occhi si parlavano. Ero felice che gli altri mi credessero ancora un barcaiuolo, che lei sapesse e tacesse. Quando passammo davanti al piccolo promontorio dove sta il villaggio di Gaudria e si scoperse la Valsolda, miss Harriet mi domandò in italiano se il paesello che si vedeva a prora fosse Oria, e sir Roberts s'affrettò a dire ch'era Osteno. — È Oria — diss'io. — Colui dichiarò allora in inglese, che io non sapevo niente. La signorina sorrise e io mi morsi le labbra. — Una bella barchetta — diss'egli, dopo un momento. — Mi piacerebbe d'averla. — La comperi — disse miss Harriet, con un sorriso impercettibile. — Sì. E se prendo la barca, non prendo certo il barcaiuolo. Non mi piace affatto. Dev'essere un impertinente. E a Lei, signorina, piace? Ella arrossì forte e io pure, temo. Evitammo di guardarci e la udii rispondere in tono scherzoso: — Lo rispetti, è il barcaiuolo nostro e non il Suo. — Oh, sì, sì! — rispose colui con un sogghigno. — Lo rispetto, ma insomma, Le piace? — Lo credo onesto, e ciò che sopra tutto mi piace in un uomo è l'onestà. I begli occhi azzurri si volsero a me e mi dissero: — Desiderava Ella di più? Deve accontentarsi di questo. Non m'aspettavo di più e me ne accontentai, pensai ch'ell'era una intelligente, pronta, savia e franca creatura, e che chi l'avesse per moglie dovrebbe andare orgoglioso di lei. Il signor Roberts non si lasciò scoraggiare dalla sua freddezza. Parlò continuamente con suo padre, con lei, con miss Bertha, di molte cose, ma sopratutto di sè stesso, delle proprie qualità, dei proprii difetti. Secondo lui, il suo difetto principale era il cuore troppo largo e tenero. Per questo egli non aveva mai potuto arricchire. No, non era ricco. Era forse una vergogna di non essere ricco? Non lo credeva. Del resto, chi si poteva dire ricco che non avesse almeno quattromila sterline l'anno? Egli non le aveva. La sua fortuna non era molto inferiore, ma insomma non arrivava a questo. Voleva perciò lavorare ancora. Intendeva passare ancora un anno in Oriente. Poi, quando avesse potuto offrire a una donna amata tutte le dolcezze dell'esistenza, sarebbe ritornato in Occidente, e, se non riuscisse a farsi amare come e da chi voleva, sarebbe venuto ad abitare una riva solitaria del lago di Lugano e avrebbe scritto un poema perchè amava molto la poesia. Harriet ed io ci guardavamo spesso mentr'egli parlava e più d'una volta, quando gli occhi nostri s'incontravano, vidi spuntare sulle sue labbra un sorriso. A mezza strada fra Gaudria e Oria miss Bertha si mise a guardar la mia mano sinistra e lessi ne' suoi occhi una certa sorpresa. Si chinò all'orecchio di sua sorella, le disse qualche cosa che la fece arrossire. Sua sorella dovette risponderle di tacere, perchè diede molte altre occhiate al mio anello e a me, ma non parlò. A Oria il signor Forest propose di scendere e di camminare fino a S. Mamette. Il cielo era coperto, molto opportunamente per una passeggiata. Harriet approvò la proposta e Roberts si affrettò ad uscir di barca col professore e miss Bertha. Ella disse allora che le faceva molto piacere che suo padre camminasse, ma ch'ella sarebbe venuta a S. Mamette in barca. Sir Roberts voleva subito risalire nel canotto, ma la signorina lo invitò così recisamente ad accompagnar suo padre, ch'egli non osò insistere. Il cuore mi batteva di gioia e io stavo per ringraziare miss Harriet, ma ella mi prevenne e si affrettò a dirmi che desiderava sapere una cosa da me. Voleva sapere se avessi potuto scoprire particolari intenzioni di miss Roberts. Non disse più di così; tuttavia intesi benissimo. Risposi che, secondo me, miss Roberts aveva il compito di sedurre una certa persona, ma che ubbidiva di malavoglia. Passavamo, così parlando, sotto la mia piccola villa. La cameriera e la cuoca erano a una finestra e mi salutarono sorridendo. Il domestico spiava dal giardinetto, tenendosi nascosto fra le piante. Mia sorella stava dietro ai vetri d'un'altra finestra. Indovinai subito che mia sorella non aveva potuto tacere con le persone di servizio. Udii distintamente la cuoca meravigliarsi ch'io avessi con me una signorina sola. — La Sua villa? — disse miss Forest. — Un bel posto! Le dissi quanto sarei felice ch'ella vi potesse entrare almeno un momento, quanto avrei goduto di farle vedere i miei fiori, i miei libri; di dirle anche un poco i sogni che sognavo là, guardando le montagne, il lago. — È impossibile — rispose — E poi sarebbe anche triste di conoscerci troppo, perchè credo che non ci vedremo mai più. Ma io ho visto un arancio nel suo giardino e accetterò un piccolo ramoscello d'arancio. — Non ci vedremo mai più? — esclamai, cessando di remare. Ella non rispose e mi parve commossa. Ci guardammo in silenzio un momento, poi ella sorrise leggermente, e disse: — Come diceva, ieri, mio padre? _Remare, remare!_ Vorrei portar via mio padre domattina — soggiunse. — Vorrei che fosse possibile di fargli sapere, di fargli credere quelle cose orribili che Lei mi ha raccontate! — E se le credesse, vorrebbe Lei ancora partir domani? — Sì; credo che sarebbe necessario. — E dove andrebbe? — In America. — E se io l'aiutassi a far credere quelle cose orribili a suo padre, avrebbe Lei una briciola di gratitudine, si dimenticherebbe di me in America? Miss Harriet mi stese silenziosamente la mano, che io subito presi fra le mie, lasciando i remi. — L'aiuterò, miss Forest, e sono sicuro di riuscire. Ho preso più interesse a Lei, signorina, che non avrei creduto possibile in così breve tempo. Diventerò il mio proprio nemico purchè ella sia contenta. Non merito che si levi il guanto? Si tolse il guanto, e senza curarmi che dalla riva qualcuno ci potesse vedere o no, io posai e tenni un momento le labbra su quella bianca mano, ch'era fredda, per l'emozione, come il ghiaccio. — È strano — diss'ella, poi, sorridendo — che io non so neppure il suo nome. Glielo dissi, e poi si parlò di letteratura inglese, dei romanzi che conoscevamo l'uno e l'altra. Era un modo per me di esprimere i miei sentimenti e per essa di mostrare che non le dispiacevano. Fui particolarmente contento di udire che fra i romanzi di Dickens preferiva, com'io, «_A tale of two Cities_» e che Sidney Carton le piaceva più di tutti gli altri personaggi di quel libro. Era una gran gioia per me che le nostre anime si toccassero anche in un solo piccolo punto. Questo bastava per far passare una corrente elettrica che mi riempiva di dolcezza. Parlammo anche della Valsolda. Solamente chi ha un raffinato e squisito senso della natura può intendere il segreto fascino della Valsolda. La gente volgare non ne capisce niente. Ella lo intendeva. Le domandai se le sarebbe piaciuto di vivere in Valsolda. — No — diss'ella. — Non lo credo. Ho un carattere strano. Questa Valsolda mi sembra un porto. Mi piacerebbe vivere sul mare aperto e morire qui. Prima di giungere a S. Mamette dissi a miss Forest che trovasse modo di raccontar subito ogni cosa a suo padre. Io poi lo avrei persuaso che tutto era vero. Ella mi porse da capo la mano. — Grazie! — diss'ella. — Addio! — soggiunse sorridendo non senza tristezza. — È meglio che ci congediamo adesso, mentre siamo soli. — Ma io — risposi — ritornerò a Lugano con Loro. — Lo desidera? — diss'ella. — Non sarebbe meglio separarci prima? Potremo prendere un vero barcaiuolo che Le ricondurrà la barca. Ella mi darà il ramoscello d'arancio e ci lascieremo qui. Le domandai allora con voce tremante se il ramoscello d'arancio non potrebbe forse un giorno dar fiori per una ghirlanda. Non m'intese o non mi volle intendere. Non mi rispose. Forse, se intese, dubitò che fosse una frase poetica, non abbastanza ponderata e seria. Forse aveva altre ragioni; non ne so nulla. — Addio! — dissi sottovoce. Ella chinò leggermente il capo, come per gradire il mio saluto, e non aprimmo più bocca. Sir Forest e compagni ci aspettavano sulla riva. Miss Harriet discese per andare a far colazione con loro, e io dissi che dovevo allontanarmi, ma che sarei stato a loro disposizione fra un'ora. Ritornai con la barca a Oria, mi vestii convenientemente, mi posi all'occhiello un ramoscellino di arancio, e mi feci condurre a S. Mamette dal mio domestico, molto in fretta, anche perchè il cielo era diventato minaccioso. Andai alla _Stella d'Italia_, dove i Forest erano a far colazione, e mandai loro la mia carta da visita. Fui subito introdotto, e mi presentai direttamente al signor Forest. Gli chiesi scusa, in un detestabile inglese, se il giorno prima, avendo veduto che egli e le signorine avevano bisogno di una barca, mi ero permesso di offrire la mia con una innocente finzione. Il signor Forest era rosso e confuso; non sapeva evidentemente quale contegno tenere, se ringraziarmi o rimproverarmi. Miss Harriet mi ringraziò col più gentile sorriso. Miss Bertha mi guardava stupefatta, senza capir nulla. Mi voltai verso il signor Roberts, che mi guardava pure alquanto meravigliato e pareva quasi non riconoscermi. — Signore — gli dissi — Ella non è stata oggi molto gentile col barcaiuolo; ma siccome La conosco, voglio essere generoso con Lei e renderle ugualmente un piccolo servigio. La Sua signora Le manda a dire che l'aspetta a Lugano, per affari urgenti, col vapore. — La mia signora? — rispose il furfante — Lei s'inganna, signore. Io non La conosco e non ho moglie. — _Sprechen sie deutsch, mein Herr_ — diss'io in tono molto deciso. E continuai in tedesco: — Lei avrebbe dovuto essere più prudente, ieri, parlando con la giovine signora. Devo io ripetere ai signori Forest ciò che ha detto? Non mi costringa a questo. Il battello diretto a Lugano sta per arrivare qui. Parta! Parta subito! L'uomo esitò un momento, poi si voltò ai Forest e disse tranquillamente: — Me lo immaginavo. Questo povero signore che fa il barcaiuolo ha perduto la testa. Mi parla una lingua che neppure comprendo! Miss Harriet e suo padre mi guardarono, lei ansiosa, lui corrucciato. Io aveva preveduto che l'uomo tenterebbe questo colpo. — Caro signore — ripresi in tedesco, guardando l'orologio — Ella ha sette minuti di tempo per prendere il vapore. Se ella resta qui, Le prometto la preziosa conoscenza dei carabinieri di S. M. il Re d'Italia, i quali desiderano avere una piccola conversazione con Lei. Fu lui, allora, che perdette la testa e mi rispose: — _Das ist nicht wahr!_ Io mi voltai ai Forest e dissi sorridendo: — Il signore parla la lingua che non comprende! Egli s'era già accorto del suo sproposito; come il giorno prima, cacciò una imprecazione in una lingua sconosciuta; poi afferrò il cappello e disse ai Forest, indicandomi: — Se non parto, uccido quest'uomo! A Lugano mi giustificherò. E scomparve. Io gli gridai dietro: — Ella ha tre minuti! Le finestre erano aperte. Si udivano le ruote del vapore che si avvicinava. Non ebbi le braccia del signor Forest in torno al mio collo, nè i suoi favoriti grigi sulla mia faccia. Egli era molto turbato, e davvero, se il mio idillio era spezzato, lo era pure il suo. Lessi invece con gioia l'ammirazione e la gratitudine negli occhi di miss Harriet. — Partiamo subito! — disse suo padre. — Torniamo a Lugano subito! Io offersi la mia barca. Mr. Forest rispose abbastanza bruscamente che mi ringraziava, ma che non accettava, e che intendeva cercare subito un'altra barca. Gli occhi di miss Harriet domandarono scusa per suo padre. Non insistetti. Il signor Forest si avviò per uscire con le signorine, e io le seguii col cuore pesante. Eravamo nel piccolo corridoio scuro e stretto che serve d'ingresso all'albergo, quando un violento acquazzone strepitò fuori sulla piazza. Il vecchio professore dovette fermarsi. Egli e miss Bertha guardavano, stando sulla porta, il cielo tutto bianco e le oblique righe della pioggia. Io mi levai silenziosamente il ramoscellino d'arancio dall'occhiello e lo porsi a miss Harriet. Ella lo prese pure silenziosamente, ne staccò una foglia, se l'accostò alle labbra, me la diede e si nascose il resto in seno. Allora cercai segretamente la sua mano che segretamente rispose alla mia stretta. Guardavamo anche noi in quel momento nella piazza, ma senza sapere se vi splendesse il sole o vi cadesse la pioggia. Quando, dopo qualche momento, ella ritirò dolcemente la sua mano, le vidi lagrime negli occhi. La pioggia cessò; la barca fu presto trovata. — Credo che La debbo ringraziare, — mi disse finalmente il signor Forest nel congedarsi da me. Miss Harriet non mi disse nulla. Solo mi guardò con uno sguardo che m'entrò nel cuore e ancora di tempo in tempo mi fa male. Due giorni dopo andai a Villa Ceresio. I Forest erano partiti. Passai tre ore sopra un sedile del _quai_ presso l'_Hôtel du Parc_, all'ombra delle acacie, a guardare il Cavallino, Castagnola, villa Ceresio, le acque del lago scintillanti al sole. Il bel paese mi pareva scolorato, vuoto e triste. Non ho più veduto miss Harriet; non ho più udito parlare di lei. Sarei felice se queste righe attraversassero l'Atlantico, cadessero sotto i suoi occhi, o almeno sotto gli occhi di qualche amica sua, cui ella avesse narrato questo episodio della sua vita. Io pregherei questa sconosciuta amica di miss Forest di farle avere il presente racconto, e anche di dirle che la foglia d'arancio baciata dalle sue labbra è ancora custodita come una dolce, cara memoria, insieme alla monetina d'argento, nella piccola villa battuta dalle onde, a piè del monte coperto di ulivi, di viti e di allori. Il Crocifisso d'argento — Contessa, il caffè — disse la cameriera. La contessa non rispose. Le persiane erano chiuse, ma si poteva tuttavia vedere, sul velato candore del guanciale, il grazioso viso inclinato della giovane signora che dormiva. La cameriera, ritta accanto al letto, col vassoio del caffè, ripetè più forte: — Il caffè, contessa. La contessa si mise supina, sospirò ad occhi chiusi e sbadigliò: — Apri un poco. L'altra andò alla finestra senza posare il vassoio e, nel tirar la maniglia dell'imposta, rovesciò la tazza vuota sulla sottocoppa. — Piano! — fece la contessa, sottovoce, ma con sdegno. — Cosa fai stamattina? Dove hai la testa? Ecco che hai svegliato il bambino. Infatti il piccino s'era svegliato, piangendo, nel suo lettuccio. La signora alzò il capo dal guanciale e fece verso il lettuccio un imperioso: — Zitto! Il bambino si chetò subito, non mise più che qualche breve vocina dolente. — Questo caffè! — disse la signora. — Sei stata dal conte? Tien fermo! Cos'hai? Cos'aveva, infatti, la cameriera? La tazza, la sottocoppa, la zuccheriera, il bricco e il vassoio susurravano qualche cosa di sospetto col loro tremolìo. La contessa alzò gli occhi. — Cosa c'è? — diss'ella posando la tazza. Se il viso della cameriera era contraffatto, quello della dama non era adesso meno turbato dallo sgomento e dall'incertezza. — Niente — rispose la donna, tremante. La contessa le afferrò il braccio col vigore di una fiera. — Parla — diss'ella. Intanto un bel visetto d'un bambino sui quattro anni comparve attento e muto sopra la sponda del lettuccio. — Un caso, signora — rispose la cameriera, quasi piangendo. — Un caso di colèra. La contessa, livida, si voltò quasi per istinto e vide suo figlio che ascoltava. Balzò dal letto, impose rapidamente silenzio alla cameriera, accennandole di passar nella camera vicina, e corse al lettuccio. Il piccino ricominciava a piangere, ma ella lo baciò, lo accarezzò, scherzò e rise tanto con lui, che vinse le sue lagrime. Poi si mise in furia la veste da camera e raggiunse la cameriera, chiudendo l'uscio dietro a sè. — Oh Dio, oh Dio! — diss'ella ansando, spasimando, mentre l'altra si metteva a singhiozzare. — Zitto per amor di Dio! Guai a te se spaventi il bambino! Dov'è questo caso? — Da noi, signora! La Rosa del gastaldo — rispose colei. — Le ha preso il male a mezzanotte. — Oh Signore! E adesso? — Morta! Morta mezz'ora fa. Il bambino strillava chiamando la mamma. — Va — disse la contessa — giuoca con lui, fallo stare allegro, fa tutto quello che vuole. Sta quieto, caro! — gridò. — Vengo subito! Corse da suo marito. La contessa aveva una paura cieca e folle del colèra. Solo la passione per il bambino era più cieca e più folle. Ai primi rumori del morbo era fuggita dalla città, col marito, nella sua villa, nello splendido podere da lei recato in dote, confidando che il colèra non vi sarebbe penetrato nel 1886, come non vi era mai penetrato prima, neppure nel 1836. E adesso lo aveva in casa, nel cortile rustico della villa. Entrò, scapigliata e discinta, dal conte; e, prima ancora di parlare, diede al campanello due strappate furibonde. — Lo sai? — diss'ella con due occhi spiritati. Il conte, che stava facendosi la barba flemmaticamente, si voltò, col pennello insaponato in mano, e presa un'aria stupida, rispose: — Che? — Non sai della Rosa? Adesso il conte prese un'aria tranquilla e rispose: — Sì, lo so. Se sulle prime aveva nutrita un'ombra d'irragionevole speranza che sua moglie ignorasse ancora il caso della Rosa, gli parve poi che un contegno indifferente da parte sua dovesse rassicurare anche lei. Ma invece i begli occhi della signora gittaron lampi, una durezza selvaggia le comparve in viso. — Lo sa — esclamò — e pensa a farsi la barba! Cosa sei tu? Che padre sei? Che marito sei? — Oh Dio... — fece il conte allargando le braccia. Prima che il pover'uomo, insaponato fino agli occhi e affagottato nella salvietta, sapesse trovare un'altra parola, il cameriere bussò all'uscio. La contessa gli ordinò che nessun contadino del cortile rustico fosse lasciato entrare in casa e che nessuno di casa andasse nel cortile. Poi gli diede l'ordine per il cocchiere di tener pronto fra un'ora il _landau_ con i cavalli che gli avrebbe detto il conte. — Cosa vuoi fare? — disse questi, che intanto aveva ripreso fiato. — Non ammetto esagerazioni. — _Esagerazioni_, hai il coraggio di dire? Sarò tua schiava in tutto, ma quando si tratta della vita, capisci, quando si tratta di mio figlio, non ascolto più nessuno. Partire subito, voglio. Ordina i cavalli. Il conte s'irritò. Come si potevano spingere le cose fino a questo punto? Che convenienza c'era di scappare così? E gli affari? Fra due giorni, fra un giorno, via, fra dodici ore, sarebbe partito; prima no! La contessa non gli lasciava dir quattro parole senza ribatterle con la maggiore violenza. Che convenienza! Che affari! Vergogna! — E la roba? — diss'egli. — Bisognerà bene prendere con noi qualche cosa. Ci vorrà bene del tempo! Sua moglie fece un'esclamazione sdegnosa. Ella s'impegnava di allestire i bauli entro un'ora. — Ma dove si va? — domandò ancora il marito. — Alla stazione della ferrovia e poi dove vorrai tu. Ordina questi cavalli. — Sono stufo — gridò il conte. — Ordino quello che pare a me. E dopo tutto vadano anche gl'interessi, vada tutto, cosa m'importa? È roba tua, già... Le saure!... — diss'egli rabbiosamente al cameriere che aspettava in disparte, impassibile. Questi uscì. La contessa si vestì e si pettinò in un lampo, giungendo spesso le mani negli slanci di tacite preghiere, spiccando ordini ad ogni momento, facendo correre per la casa i domestici a frustate frenetiche di campanello. Era un saltar su e giù di costoro per le scale, uno sbatter usci, un chiamarsi, uno sgridare, un ridere e un imprecar sommesso. Le finestre che guardavano il cortile funesto furon tutte chiuse subito, anche perchè non si udissero strillare le figlie della morta; pure un triste odor di cloro spirava già per la casa, copriva già nella camera della contessa il delicato profumo di Vienna ch'era come l'aura sua. — Dio mio! — diss'ella rabbrividendo come se avesse odorata la morte. — Adesso m'ammorbano tutto. Presto nei bauli, presto nei bauli! E chiudere subito! Io muoio se porto via quest'odore. Non sanno che il cloro è inutile? Che brucino, che brucino tutto! Il padrone lo manderà via, il gastaldo, se trafugherà qualche cosa. — Hanno già bruciato, contessa — disse una cameriera. — Il medico ha fatto bruciare lenzuola, coperte e pagliericcio. — Ci vuol altro! — replicò la contessa. In quel punto il conte, sbarbato e vestito, fece irruzione in camera e prese a parte sua moglie. — Cosa facciamo di questa gente? — diss'egli — Io non posso mica farli viaggiar tutti. — Quel che vorrai — rispose la contessa. — Mandali via. Qui in casa non ci resta nessuno di sicuro. Non voglio mica che prendano il colèra e che poi mi si appestino le camere col cloro e mi si bruci Dio sa quanta roba, perchè quando si tratta dei signori... Il conte era arrabbiato di aver ceduto, adesso. — Bella figura — diceva — che si fa. È una vigliaccheria, una vergogna di scappare a questo modo! — Ecco — rispondeva la contessa — come siete voialtri uomini! Il comparir forti, il comparir coraggiosi vi preme più che la salute e la vita della vostra famiglia. Avete paura di perdere la popolarità! Non la vuoi perdere? Fa chiamare il sindaco e offri cento lire per i colerosi. Egli proponeva allora di rimaner solo mentre lei partirebbe col bambino, ma non sapeva star fermo. Intanto i bauli si empivano. I giocattoli del bambino, i suoi vestitini più eleganti, il laudano, i libri di preghiere, gli opuscoli del dottor Tunisi, il costume da bagno, alcuni gioielli, la carta cifrata, le pellicce, le biancherie, molto del superfluo e poco del necessario, tutto era gittato dentro alla rinfusa. E poi i bauli, con grandi sforzi, si chiusero: e poi la contessa, seguita dal conte che dimostrava il più grande ardore di fare qualche cosa e non faceva niente, percorse tutta la casa aprendo cassettoni ed armadi, guardandovi dentro per l'ultima volta, chiudendo tutto a chiave di sua mano. Il conte dichiarò che sarebbe stato necessario di prendere qualche cibo prima di partire. — Sì, sì, — diss'ella con ironia — prender qualche cibo! Adesso vi dirò io cosa prenderete! E raccolti in una stanza suo marito e tutti i domestici, anche quelli ch'erano mandati alle case loro in licenza, perchè voleva il bene di tutti, li costrinse a prender dieci goccie di laudano per ciascuno. Il bambino ebbe del cioccolatte. Finalmente la carrozza venne di gran trotto, dalla parte del giardino, a fermarsi davanti alla villa. Prima di scendere, la contessa, ch'era molto pia, si ritirò nella sua camera per un'ultima preghiera. Presa una sedia, v'inclinò su la persona chiusa in un costume attillato di flanella bianca, congiungendo sulla spalliera i guanti neri ad otto bottoni, coperti, al polso, di cerchi di platino e d'oro, alzò al cielo la penna del cappellino di velluto nero e gli occhi fervorosi, battè frettolosamente ed a lungo le labbra. Non disse al Signore una sola parola per le miserabili creature che avevano perduta la madre, nè perchè il colèra risparmiasse le rudi vite incatenate nello stento alla terra potente che le aveva dato la sua villa, i suoi gioielli, i suoi abiti, il suo profumo di Vienna, le sue raffinatezze, il suo orgoglio, suo marito e suo figlio, il suo comodo Iddio. Non pregò neppure per sè. Ella, che vedeva già sè e i suoi colpiti dal colèra in viaggio, non volle pregare per sè e dimenticò di pregare per suo marito. Pregò per il bambino, si offrì per lui. Veramente le sue labbra non dicevano che de' _Pater_, degli _Ave_ e dei _Gloria_; ma Tanima sua era tutta nel bambino, nell'orrore che potesse essere colpito lui, nel desiderio intenso che non soffrisse neppure di questa partenza affrettata, di questo viaggio ancora ignoto, che non perdesse nè l'appetito nè il sonno, nè l'allegria, nè i colori, che le riuscisse di tenergli nascosto ogni aspetto del dolore e del terrore altrui. Si fece in furia il segno della croce, mise un grande mantello grigio e andò a chiudere l'unica finestra rimasta aperta. Il vento mattutino inclinava e cangiava davanti alla villa l'erbe mature del prato, corso da grandi ombre di nuvole, batteva le pioppe luccicanti del viale d'entrata. La contessa che lo stimava pieno di tradimenti, non ebbe uno sguardo di rimpianto per la pacifica scena famigliare a lei dall'infanzia; chiuse e discese. Presso allo sportello delia carrozza, il Sindaco parlava col conte. — Viene di là? — diss'ella indietreggiando. Udito che veniva di casa sua, inveì contro di lui che non aveva saputo tener lontano il male. Egli sorrideva e si giustificava, ma la signora rispondeva confusa: — Niente, niente; — e si affrettò a salire in carrozza col bambino. — Hai dato? — diss'ella sottovoce a suo marito, quando egli pure fu a posto. Questi accennò di sì. — Debbo ringraziare anche la signora contessa — cominciò allora quell'umile Sindaco — della generosità... — Miserie, miserie — interruppe il conte, non sapendo quel che diceva. Adesso che tutti erano in carrozza, la signora fece una rapida rassegna delle borse, dei _nécessaires_, degli ombrelli, degli scialli, dei soprabiti. Intanto il conte porse il capo a guardar se i bagagli fossero a posto nel barroccio sopraggiunto dietro il legno. — È fatto? — diss'egli. — E cos'ha quel marmocchio? — Chi piange? — esclamò alla sua volta la contessa, buttandosi quasi fuori del legno. — Fatto, signor sì — rispose un contadino che era stato chiamato in aiuto ai domestici. Un ragazzetto cencioso gli stava attaccato ai calzoni singhiozzando. — Va là, taci — gli disse il padre aspramente, e, volto alle signorie loro riprese: — Fatto tutto. Il conte si cacciò una mano in tasca, guardando il ragazzo. — Non romper l'anima — diss'egli — che ti darò un soldo anche a te. — La mamma ha male — singhiozzò il ragazzo disperatamente. — La mamma ha il colèra! La contessa diè un balzo, menò l'ombrellino, con un pauroso viso di follìa, sulle spalle del cocchiere. — Via! — gridò. — Via! Via subito! Quegli frustò i cavalli che s'impennarono con fracasso e presero tosto il galoppo. Il Sindaco fu appena in tempo di scansarsi, il conte fu appena in tempo di gittar a quell'uomo una manciata di soldi che si sparpagliarono a terra. Il ragazzo smise di piangere, l'uomo non si mosse, guardò dietro alle ruote scintillanti, agli ombrellini grigi, che si allontanavano rapidamente nella polvere, e disse fra i denti: — Maledetti porci di signori. Il Sindaco se n'andò quatto quatto, facendo le viste di non aver inteso. Colui era di statura e d'età mezzana, magro e livido in viso, con una sinistra guardatura di malvivente. Gli abiti gli cadevano a brandelli come a suo figlio. Gli fece raccattare i soldi e poi si avviò a casa con lui. Abitava, nel cortile di una fattoria della contessa, un tugurio di mattoni sgretolati, senza intonaco, fra il letamaio e i porcili. Un fossato nero di putridumi senza nome, gli puzzava sulla porta, sotto un pezzo d'asse marcia, buttato là per ponte. Si entrava in una caverna nera, lurida, senza pavimento, con un focolare di mattoni, tutto smozzicato all'ingiro, incavato nel mezzo dalle ginocchia villane di chi gli faceva cuocere la polenta. Una scala di legno, mancante di tre scalini, saliva alla camera, fetida di miseria e di vecchiume, dove padre, madre e figliuolo dormivano in un letto. Presso al letto si guardava giù, per il pavimento sfondato, in cucina. Il letto stesso era stato tirato per isghembo al solo posto dove, quando pioveva, non battessero le gocce dal tetto. Accasciata a terra, abbandonando il capo alla sponda di quel letto, stava la contadina presa dal colèra; una povera vecchia faccia di trent'anni, ch'era stata florida a venti e aveva ancora la bellezza di una mansuetudine santa. Suo marito, al primo vederla, capì cos'era e cacciò una bestemmia. Anche il figlioletto che lo seguiva, quando vide il viso nerastro di sua madre, ebbe paura e si fermò sull'entrata. — Gesù Signore, mandalo via — mormorò la donna con voce fioca. — Mandalo via che ho il colèra. Va dalla zia, caro. Conducilo via tu e chiamami il prete. — Vado — disse il marito. Discese, spinse il ragazzo verso il cancello del cortile, ripetendogli: — Va! Va dalla zia. Poi andò sotto il porticato della fattoria, ne ritornò con una bracciata di paglia, se la portò in cucina, e risalì da sua moglie che s'era potuta, intanto, rovesciare con grande sforzo sul letto. — Senti — diss'egli con insolita dolcezza — mi rincresce, ma se muori qui ci bruciano il letto, capisci? Pensaci. Ti ho portato della paglia in cucina, un bel mucchio. Ella perdeva rapidamente la voce, non poteva più farsi intendere. Accennò fervorosamente di sì con la testa e fece uno sforzo inutile per scender dal letto. Allora l'uomo la prese in braccio. — Andiamo — diss'egli. — Se creperò anch'io ci vorrà pazienza. L'inferma lo pregò a gesti di darle un piccolo crocifisso d'argento, appeso alla parete, e, avutolo, vi affisse avidamente le labbra, discese come un corpo morto sulle braccia di suo marito, che l'adagiò alla meglio sulla paglia e andò in cerca del prete. Allora anche la miserabile, sola come una bestia carbonchiosa sulla paglia già infetta, prima di partire per il mondo sconosciuto, pregò. Pregò per l'anima propria con umile contrizione, convinta di aver molto peccato benchè non avesse a ricordar come, torturata da questa impotenza. Venne, mandato dal sindaco, il dottore, che aveva paura; la vide spacciata, disse: — rhum, nè marsala, già non ne avete — le ordinò dei mattoni caldi sullo stomaco, pose il sequestro e partì. Venne il prete, un cappellano che non aveva paura, le disse rozzamente, con la tranquillità dell'abitudine, ciò che chiamava _le solite cose_, oscurandone, con la sua parola, il divino; che, guasto com'era d'ignoranza e d'inopportune durezze, pure empì di sereno e di luce la moribonda. Compiuta l'opera sua, anche il prete partì. Mentre il marito, levatole di sotto le spalle poche manate di paglia, aveva acceso il fuoco per riscaldare i mattoni, la donna pregò ancora, per i suoi; non così fervidamente per il fanciullo come per l'uomo cui aveva perdonato tanto e ch'era sulla via della perdizione eterna. Finalmente, baciando il crocifisso, un movimento del cuore le ricordò la persona da cui le veniva. Glielo aveva regalato, sedici anni addietro, per la sua cresima, la contessa; la padrona della splendida villa dov'era una gioia di vivere e del tugurio immondo dov'era una gioia di morire. La contessa era una bambina in quel tempo e avea donato il crocifisso alla figliuola del bifolco per suggerimento di sua madre, della contessa d'allora, una mite donna, morta da un pezzo e non dimenticata dalla povera gente. La moribonda si era confessata d'aver pensato male dei padroni, e anche d'averne qualche volta mormorato, facendo consentire suo marito a bestemmie, perchè, malgrado suppliche e suppliche, mai non le avean fatto riparare il tetto nè il pavimento, nè la scala, mai non le avean fatto mettere le impannate alle finestre. Adesso si pentiva, si ricordava della buona padrona vecchia, domandava perdono, nel suo cuore, al signor conte e alla signora contessa, pregava Dio e la Madonna per essi. Nello stesso momento in cui l'uomo le posò sullo stomaco i mattoni, che scottavano, ella ebbe una contrazione, uno spasimo di tutto il corpo e spirò. Egli le buttò della paglia sul viso nero, le tolse, a stento il crocifisso di mano, e se lo cacciò in tasca, brontolandogli come ad un buono a nulla; — per quello che le hai fatto, Cristo! — e tacendo il resto del suo pensiero. Ma nè lui sapeva nè noi sappiamo che avesse fatto il piccolo crocifisso tante volte baciato e invocato dalla poveretta; ancor meno sappiamo quale occulta benedetta via potrebbe fare in avvenire il pensiero pio, nato nel cuore di una vecchia dama, disceso a una bambina innocente e quindi risalito in gratitudine, riacceso in preghiera dentro uno spirito vicino e caro alla Infinita Pietà. Quella sera stessa i servitori che dovevano andare a casa in licenza durante il viaggio del conte e della contessa, si ubbriacarono, nel salotto della villa, di marsala e di rhum. La visita di Sua Maestà Il 12 dicembre 1873 S. A. R. il Principe Reggente ritornò a Corte da una partita di caccia verso le due pomeridiane. Il conte B., Presidente del Consiglio, lo attendeva ed ebbe subito con lui un colloquio che non durò meno di venti minuti. In seguito a questo colloquio S. A. R. si recò immediatamente negli appartamenti della Principessa Guglielmina, sua moglie. Due dame d'onore che erano presso l'augusta Signora, vedendo entrare S. A. R. in abito da caccia e con un viso molto serio giudicarono che vi fosse qualche novità e si ritirarono. Allora il principe domandò a sua moglie se sapesse che il senatore H. era agli estremi. Certo lo sapeva; la Corte mandava tre volte al giorno a casa H. a prendere notizie. «Ebbene, — disse il Principe, — il conte B. vuole ch'io ci vada.» Il senatore H., illustre storico e filosofo, era considerato una gloria nazionale. Fiero repubblicano nella sua gioventù, nemico quasi personale del Re, si era poi riconciliato, per effetto, sopratutto, d'una vanità smisurata, con la monarchia, ma senza modificare le sue idee filosofiche e religiose, abborrite dalla pia Principessa Guglielmina. «Naturalmente tu non ci andrai» — diss'ella. S. A. R. s'irritò moltissimo e rispose che ci andrebbe. In fatto egli non avrebbe voluto andarci e si era difeso a lungo contro il suo ministro. Non sapeva apprezzare il valore intellettuale di H. Quella sua clamorosa incredulità gli era antipatica e le ingiurie scagliate contro il defunto suo augusto fratello gli erano rimaste fitte nel cuore, anche dopo la conversione del filosofo alla monarchia. Ma S. A. era debole e non aveva saputo resistere al ministro che gli parlava di un onore da rendere a H. in ossequio al sentimento nazionale, del pericolo che un rifiuto fosse attribuito ad influenze clericali: perchè questa visita era stata, incredibile a dirsi, sollecitata segretamente dagli amici e dagli aderenti del moribondo. Il Principe, malcontento di aver ceduto, si adirava ora con sua moglie appunto perchè ella gli parlava come la sua propria coscienza: mentre egli era venuto da lei con la speranza dell'opposto. Si sfogò a dirle che le donne proponevano sempre vie molto semplici, ma che la questione era complessa, che il perdono delle offese era poi anche un atto cristiano, che una buona moglie avrebbe dovuto meglio apprezzare la sua posizione delicata e difficile davanti al ministro e al pubblico. La Principessa lo rimbeccò vivacemente e finì con dirgli che se si fosse trattato di ***, il suo scrittore favorito, il Principe Reggente non si sarebbe sicuramente mosso di casa. «Quello è un galantuomo, — rispose il Principe. — Al suo letto di morte vi sarà Domeneddio. Quest'altro si contenterà di me.» Ed ordinò ad un aiutante di far subito dire a casa H. che S. A. R. ci sarebbe andato alle quattro. La Principessa Guglielmina, appena fu sola, fece chiamare in fretta un canonico della Cattedrale, ch'era il suo elemosiniere privato e il suo segreto agente nei molteplici affari di coscienza cui S. A. R. alquanto _tracassière en bien_, secondo la frase di Chamfort, amava immischiarsi senza ricorrere al grande elemosiniere di Corte. Ella volle sapere dal canonico se l'Autorità ecclesiastica avesse tentato o fosse per tentare qualche cosa presso H. che nella sua prima giovinezza era stato credente e aveva note relazioni d'amicizia con un vescovo. Il canonico disse che la Curia aveva fatto qualche passo, ma inutilmente. Quand'anche il moribondo avesse avuto buone disposizioni, non sarebbe stato possibile di giungere a lui, tanto era guardata la sua anticamera dal nemico. La principessa si sdegnò di questa rassegnazione e osservò che Iddio può aiutare contro migliaia di guardie, ma che i suoi ministri non debbono smarrirsi d'animo. Allora il canonico, forse alquanto punto, mostrò di farsi animo a dire una gran cosa e confidò a S. A. che, ad insaputa dell'Arcivescovo e della Curia, un prete avrebbe tentato di penetrare nella prossima notte presso l'infermo, pigliando il posto della infermiera con la quale era stata già presa ogni intelligenza opportuna. La Principessa battè le mani. E chi era questo prete? Forse egli stesso? No, era il tale, un gran sollecitatore di elemosine, che la Principessa conosceva, un sant'uomo, corto di cervello, entusiasta, imprudente, uno che vedeva miracoli dappertutto e ne aspettava ogni momento. S. A. fu mediocremente soddisfatta della scelta, ma quando seppe che scelta non c'era stata, perchè il prete aveva detto lui a un amico di voler far questo colpo, ella si acquietò all'osservazione del canonico che ogni più disgraziato strumento può diventar buono in mano di Dio. * * * A casa H. la gente andava e veniva come nel palazzo di un principe fallito dove si tenesse una asta colossale. Infatti molti vanitosi, avidi di riputazione per lusso e molti figuri avidi di riputazione per necessità, venivano lì a pigliarsene un pezzo a buon mercato dicendosi amici del grand'uomo, il quale, del resto, se possedeva un amico nell'Episcopato cattolico, ne contava poi troppi altri nel laicato canaglia; amici questi della sua gioventù ribelle, che, salendo lui in fama, gli si erano appiccicati a' panni per modo ch'egli, pur desiderando levarseli d'attorno, non vi era riuscito mai. Nella stanza del malato e in un salotto vicino aveva posto il suo quartier generale uno stato maggiore di questa gente, i più audaci, i più violenti, i più famigerati, tutti bigotti dell'ateismo. La timida famiglia del professore, una sorella e un cognato, era stata messa da parte quasi colla violenza e coloro avevano preso possesso di H. come di una loro proprietà. Avevano fatto sostituire il medico ministeriale ad un professore radicale e avevano proibito di lasciar entrare preti; nè frati, nè suore. Ricevevano e aprivano i telegrammi, facevano pubblicare i bollettini; si facevano accendere gran fuochi nel caminetto e si ristoravano spesso col porto o col marsala e col cognac di casa. Uno si arrischiò una volta a fumare, ma questo non fu ammesso dalla maggioranza. Si erano tanto compenetrati nella persona del loro illustre amico che, rispondendo a chi domandava notizie di lui, usavano sempre il nominativo plurale, dicendo: «stamattina andiamo meglio, stasera stiamo peggio,» fino a che fosse venuto il momento di dire: «siamo morti». H. aveva una paralisi cerebrale, non gli restava che un barlume d'intelligenza. Si scuoteva solo quando gli dicevano che la Corte o i grandi Corpi dello Stato avevano mandato a chiedere notizie, che erano giunti telegrammi di personaggi importanti, che i giornali si occupavano della sua malattia facendo voti per la sua guarigione ed esprimendo quelli del popolo intero. Allora il senatore balbettava con viso ebete: «Ah, la Corte» «Ah, il Senato» «Ah, la Camera.» Per gli altri non veniva che un piccolo gemito sordo. Quando arrivava uno di questi messaggi, uno di questi articoli, persino l'amico che sturava la bottiglia di cognac e l'altro amico che attizzava il fuoco nel caminetto si sentivano crescere di valore e di maestà. Venivano anche parecchie signore per contendersi la gloria di dare a H. un pezzetto di ghiaccio e si guardavano con occhi altrettanto duri e freddi; ma verso mezzanotte non restava più in camera dell'ammalato che la sua vecchia infermiera. Gli _amici_ avevano fatto pressione per mezzo di deputati sul Presidente del Consiglio onde avere l'estrema unzione del Principe Reggente e ci erano riusciti, come s'è visto. Prima delle tre un aiutante venne ad avvertire la sorella ed il cognato di H. che S. A. R. sarebbe venuto alle quattro. Gli amici diedero subito la notizia all'ammalato con un breve preambolo che ne togliesse il significato lugubre. Ma H. non lo poteva ad ogni modo più intendere e solo la sua vanità moribonda si rianimò a questa violenta speronata. «Ah, il Principe» balbettò e i suoi occhi si ravvivarono. S. A. R. scendendo di carrozza a casa H. si trovò di fronte quattro o cinque _amici_ prima che la sorella o il cognato, e ne parve molto malcontento. Salì rapidamente le scale, e disse che desiderava essere introdotto dai parenti. I parenti lo introdussero infatti, ma dietro a loro entrarono altri e la camera si riempì di gente. Il Principe si accostò al letto e si curvò sull'ammalato. All'eccitamento momentaneo di prima era successo uno stato comatoso. «Mi conosce, caro senatore? — disse S. A. R. — Sono Adalberto. Sono venuto a farle coraggio. Ella ha lavorato tanto per la gloria Sua e del nostro paese. La ringraziamo, io e il popolo. Le auguriamo di ristabilirsi e di lavorare ancora.» Il Principe tacque, rimase curvo per un momento sul morente, poi si rialzò e disse sottovoce: «Credo che non abbia inteso.» La sorella di H. ringraziò piangendo S. A. Uno degli amici disse solennemente a voce alta: «Intenderà la Nazione, e intenderanno i posteri.» Il Principe non gli badò affatto e prese congedo dalla signora e da suo marito dicendo che, se potesse venir riconosciuto dall'infermo, ritornerebbe. Quando, partendo, attraversò il salotto, un individuo mal vestito, con un piede di barba, si mise ad arringarlo: «Vostra Altezza ha oggi compiuto uno di quegli atti...» Ma Sua Altezza, non potendone più di quella compagnia, gli voltò le spalle e uscì. * * * Alla sera i medici giudicarono che vi fosse un miglioramento e che la notte passerebbe probabilmente senza novità. Il Senatore aveva guadagnato alquanto nell'intelligenza e nella favella. Verso le nove aveva domandato ai medici con voce abbastanza chiara quando fosse per venire il Re. Aveva proprio detto «il Re,» ma questo scambio di un Reggente per un Re era molto scusabile in quel momento della vita in cui tutti apprezzano assai più la sostanza che l'apparenza delle cose. Gli risposero che il Principe... «Il Re, Il Re!» Voleva assolutamente un Re al suo capezzale e glielo diedero. Gli dissero dunque che il Re era venuto, che lui allora dormiva e che S. A... «Sua Maestà,» borbottò l'infermo: bene, che S. M. aveva promesso di tornar presto. Al tocco dopo mezzanotte, tutto essendo tranquillo, le persone di famiglia andarono a coricarsi. I due amici che erano di guardia quella notte non si coricarono, ma si addormentarono nelle soffici profondità di due grandi poltrone accanto al caminetto del salotto. Per dormir meglio avevano posto la lucerna a terra, dietro un'altra poltrona. L'infermiera seduta accanto al letto avanzò il capo a guardar il malato. Si alzò pian piano e lo guardò più da vicino. H. aveva gli occhi chiusi, la respirazione regolare. L'infermiera mise il suo scialle grigio, uscì, attraversò in punta di piedi il salotto e disparve. Ritornò dopo cinque minuti, ancora chiusa nello scialle grigio. Il suo passo era diverso, più lento, più lungo e, vorrei dire, più largo; il passo insomma d'una persona molto cauta e molto incerta del fatto suo. Urtò leggermente in un tavolino e sostò un lungo minuto. Le quattro gambe nere che uscivano dalle due poltrone verso il caminetto non si mossero e l'infermiera raggiunse senz'altre peripezie la camera del suo malato. Lì faceva ancora più scuro. Un lumicino da notte ardeva fra le invetriate e le imposte, velato dai cortinaggi. L'infermiera si guardò attorno un momento come se non riconoscesse il letto, guardò l'infermo che dormiva ancora, e, senza levarsi lo scialle, si mise a pregare fervorosamente con sommesse e frettolose parole. Dopo dieci minuti il malato mise un sospiro. Allora la finta infermiera si alzò, si chinò sopra di lui e lo chiamò con impeto soffocato: «Senatore! Senatore!» Quegli aperse gli occhi torbidi e girò il capo verso la voce. «Una visita, senatore! Una visita!» «Sua Maestà?» balbettò il senatore. «Sua Maestà?» e tentò di alzare il capo. «Sì, sì, Sua Maestà!» fece il piccolo prete prendendo subito l'accento dell'entusiasmo. Gli occhi del senatore si accesero. «Il Re? Il Re?» diss'egli. «Dio!» rispose il prete. Lo scialle grigio gli cadde dalle spalle nell'atto che, levandosi dal petto un crocefisso, egli lo alzava con le mani congiunte alzando anche il viso nello slancio del suo zelo incauto. «Sua Divina Maestà, Dio grande, Dio misericordioso che Le apre le braccia, che La chiama, che manda me, suo ministro...» Quando aveva detto «Dio!» le coltri si erano agitate come se il giacente fosse stato preso da una convulsione. Quando disse «suo ministro» lo interruppe una voce gutturale, strana, paurosa. Ogni moto delle coltri cessò. Il prete esterrefatto guardò H. Era morto. Il nome di Dio lo aveva colpito ed ucciso in pochi secondi. Essi bastano per lasciare una pia speranza alla Principessa e a noi; ma il canonico non può dire se il disgraziato, troppo semplice prete, sia stato nelle mani di Dio uno strumento di pietà o uno strumento di collera e di giustizia. L'Orologio di Lisa Io ero creditore, nel 1877, di circa trentamila lire verso la nobile famiglia Vicarelli di Battaglia, che da un'antica floridezza veniva cadendo, per eccessive spese e per mala amministrazione, in rovina. Da due anni non toccavo un soldo d'interessi. Pazientai, pregai, sollecitai; finalmente, spintovi dalle strettezze del mio modesto bilancio, ricorsi alle vie giudiziarie e ottenni un sequestro. Battaglia è così lontana dalla mia residenza abituale e io sono tanto occupato che per ogni trattativa con i fratelli Vicarelli e per la scelta del sequestratario dovetti interamente affidarmi al mio egregio avvocato di Monselice, al quale comunicavo tutti gli scritti che mi pervenivano circa questa malaugurata faccenda. Purtroppo non potevo fargli la girata anche delle noiose visite onde mi onorava di quando in quando un vecchio signore di Padova, che si faceva annunciare «dottor Molesin» e che soleva pure mandare dei letteroni interminabili, sottoscritti _Angelo D. Molesin, consulente legale_. Questo Molesin mi veniva sempre innanzi con informazioni, proposte o consigli, ora a nome dei Vicarelli, ora a nome di altri loro creditori, ora a nome del sequestratario, ora nel proprio nome suo e quasi per un'amorevole sollecitudine degl'interessi miei, per un desiderio virtuoso della giustizia e del bene; perchè in fatto egli non aveva alcun interesse personale diretto nella vertenza cui aveva cominciato a mescolarsi come consigliere di una vecchia merciaia di Padova, creditrice dei Vicarelli. A me non domandò mai danaro, ma seppi che i Vicarelli si lagnarono una volta o due delle spese incontrate per i consulti, i viaggi e le epistole del dottor Molesin. Col sequestratario egli parve guastarsi presto. Me lo denunciò come un furfante di tre cotte e me ne descrisse le imprese con quella sua spaventosa prolissità che riempiva fogli e fogli di prosa curialesca, brodosa, tutta seminata di spropositucci. L'altro non mancò alla sua volta di dipingermi l'avvocato Molesin come un vampiro. Quanto a me m'andavo persuadendo che fossero due valentuomini _eiusdem farinæ_. Il giallognolo dottor Angelo era di una farina per lo meno assai mal cotta, benchè impastata da oltre cinquant'anni. Aveva il cranio pelato; pochi cernecchi grigi dietro gli orecchi lustri e sudici; nella faccia scarna, terrea, e negli occhi profondi una espressione fissa di malumore bilioso; le mani ossute e nere. Portava sempre lo stesso soprabito color marrone, lo stesso fazzoletto rosso e giallo al collo, gli stessi calzoni bigi, e si poteva sospettare che portasse anche sempre la stessa camicia. Pareva una rispettabile, odiosa figura di onesto professore pedante, nemico della gioventù, dell'amore, del riso, della luce e dell'acqua. Non aveva modi ossequiosi; sorrisi e complimenti non erano affar suo; qualche volta pareva durar fatica a levarsi il cappello anche nel mio studio. Compreso della propria sapienza, quando degnava largirmi qualche consiglio prendeva un sensibile accento di stima per sè stesso e di compatimento per me. Insomma il nome _Molesin_, che in veneto vuol dire _morbido_, non andava certo bene alla corteccia del dottor Angelo. Egli non era nè morbido, nè untuoso. Tuttavia aveva ragione il mio domestico se, considerando le sue visite eterne, lo chiamava _«dotor tacaizzo» dottore attaccaticcio_. Malgrado la sua ruvidezza esteriore, aveva certo una gran facilità di appiccicarsi alla gente. Per non dire dei ricci di castagna, vi hanno seccumi ruvidi d'erba, frutti aridi e maligni di prati montani, che si attaccano alle vesti così. Si era fatto avanti in questo affare capitanando la merciaia e aveva finito con appiccicarsi a tutti, creditori e debitori. Evidentemente le sue pratiche officiose non miravano ad altro che a tirar le cose in lungo, appunto _cole molesine_, come diciamo noi veneti, per dar tempo al Molesin di viaggiare ancora fra Padova, Monselice e la mia residenza, di conferire con Tizio e con Caio e di procreare le sue mostruose epistole con quei caratteri compassati e sottili che solo a vederli mi opprimevano lo stomaco. Il mio egregio avvocato di Monselice, ben ferrato contro le arti molesine, spinse le cose al punto che, in contradditorio dei fratelli Vicarelli fu stabilito dal tribunale il 10 ottobre 1877 per la vendita all'asta pubblica dei beni ipotecati. Agli ultimi di settembre eccoti una delle solite vaste sopraccarte arancione, ecco i caratteri stomachevoli dell'amico Molesin. Egli si doleva, in tre pagine, del mio precipitoso avvocato, e mi pregava, in tre altre pagine, di far rinviare l'asta al 10 novembre, perchè nel frattempo, molto probabilmente, si sarebbero accomodate le cose all'amichevole. Qui il facondo uomo mi spiegava in sei pagine come i Vicarelli stessero negoziando un mutuo di diciottomila lire con la Banca Popolare di Treviso e la vendita di una casa col signor Zonca negoziante di legname a Padova fuori Porta Codalunga. Se le trattative affidate a lui, Molesin, approdassero, il mio credito verrebbe saldato senz'altro, capitale, interessi e spese. Mandai la lettera al mio avvocato il quale mi consigliò di pigliare informazioni presso la Banca Popolare e presso il signor Zonca. Risolsi di recarmi io stesso a Treviso e a Padova. Diffidavo dell'onorevole Molesin, ma non lo avrei creduto, fino a quel giorno, l'audace briccone che allora scopersi. Alla Banca Popolare di Treviso non avevano mai udito parlar di lui nè dei Vicarelli, e nè fuori di Porta Codalunga nè in alcuna altra via o sobborgo di Padova esisteva alcuna ditta Zonca. Il furfante aveva giuocato una carta arrischiata per mungere ancora un poco le sue vittime, specialmente quei disgraziati Vicarelli cui sarebbero anche toccate le spese per la rinnovazione del bando. Ma il giuoco essendo mal riuscito mi disposi a far sì che l'ottimo dottor Angelo pagasse. Andai a Santa Sofia dove sapevo che abitava, e trovai presto, sotto un portichetto oscuro, a fianco d'una porticina verde, il riverito nome «Angelo D. Molesin — secondo piano». Egli era uscito, ma la sua signora, che venne in persona ad aprirmi, udito il mio nome, mi assicurò che l'avvocato avrebbe rincasato assai presto, e mi fece passare in un salottino dove sua figlia, una giovinetta sui tredici anni, stava ricamando. V'era nell'aspetto pulito e triste della stanzetta, nella dignitosa simmetria dei pochi arredi e persino nelle vesti scure delle signore la espressione modesta e tuttavia alquanto contegnosa di una vecchia civiltà in piccola fortuna. La signora Molesin, sbiadita figurina ascetica dagli occhi di pecorella, aveva evidentemente nella faccia esangue quarantacinque anni di mansuetudine costante, le spalle curvate da altrettanta soggezione, una voce schiacciata e vôta d'anima, la più misera insipidezza di parola. La signorina, invece, piuttosto alta e sottile, aveva un viso singolare, ardito, già illuminato d'intelligenza e di volontà, non senza certa fierezza nascente negli occhi. — Si accomodi, — fece la signora pecora ascetica, ponendosi alla sua volta a sedere in silenzio, con le mani giunte sulle ginocchia, con l'abito spiegato a campana sul canapè e il busto irrigidito. Io guardavo la parete e lei guardava la finestra. Questo bel divertimento durava da tre o quattro minuti, quando la signora, senza dipartirsi dalla sua solenne attitudine, belò alla figliuola: — Lisa, ti ha detto niente papà quando è andato via? La ragazza, che aveva già lanciato a sua madre più di un'occhiata malcontenta, certo perchè non mi mandava a spasso, si strinse nelle spalle, scotendo il capo, e non rispose nè levò gli occhi dal suo ricamo. — Ha premura di lavorare, vede, signore — disse la mamma per medicare un poco le mie impressioni. — È giusto un dono per il suo papà, un'immagine dell'Angelo Custode, perchè presto viene il suo santo. Faglielo vedere, Lisa, a questo signore, il tuo ricamo. L'Elisa diventò rossa come una vampa, fece un cipiglio nero e cavò l'orologio, una cipolletta di argento, tanto per fingere di aver qualche faccenda e andarsene in fretta dalla stanza. Ma io, seccato di tutto questo, mi alzai prima di lei, dissi che sarei ritornato più tardi e chiesi alla signora dove, a ogni modo, avrei potuto cercare di suo marito. — Non saprei, — rispose. — Che ore sono, Lisa? — Due, — rispose la Lisa, brusca. — Potrebbe provare in tribunale. — Alle sei si pranza, del resto... Alle parole di sua madre _potrebbe provare in Tribunale_, la ragazza mi piantò pronta gli occhi in viso come se avesse voluto leggermi nel pensiero. Non capii affatto uno sguardo simile e me n'andai senza l'onore di aver salutato lei. Al Tribunale un usciere cui domandai di Molesin mi guardò in un modo poco lusinghiero; un altro che udì, sorrise. Un po' alla volta mi fecero sapere che in Tribunale, da un pezzo, per ordine superiore, il signor Molesin non ci poteva bazzicare. Una volta ci veniva per affari ufficiosi o per aste. Non era nè avvocato, nè dottore, nè niente; nemmanco aveva veduto la porta dell'Università. Per trovarlo bastava andare al caffè Socrate verso le tre. Sospettai allora di aver capito lo sguardo della signorina Lisa e la ragione per cui il sottile amico si sottoscriveva _D. Molesin_ e non _dottor Molesin_. Andai al caffè Socrate; sarei andato fino a Ponte di Brenta per ghermirlo. Il cranio pelato, il fazzoletto rosso e giallo, il soprabito marrone eran lì dentro, in un mucchio presso l'entrata. Prima di prendere il caffè, pronto davanti a lui, Molesin stava considerando e misurando attentamente due _baicoli_ per vedere quale fosse il più lungo e da scegliere. Me gli avvicinai. — Dottor Molesin? Il cranio pelato scattò su e vidi passar sopra la solita faccia biliosa e austera un'ombra di angustia, che sparì subito. — Servo suo, — disse Molesin piegando all'indietro la persona e posando le mani sul tavolo senza lasciare i _baicoli_. — Servo suo. Ha avuto la mia lettera? Risposi ch'ero venuto appunto per intendermi con lui circa la dilazione dell'asta; che vi accondiscendevo qualora nulla fosse mutato dalla sua lettera in poi. Prima di smascherare il briccone volevo chiudergli ogni porta di fuga. Egli mi rispose che nulla era mutato. Allora trassi la sua lettera e lo pregai di leggermene un brano dove non avevo potuto decifrar bene ogni parola. Era quello relativo al compratore della casa e Molesin me lo lesse esattamente: Zonca, fuori porta Codalunga. — Senta, — gli dissi allora _ex abrupto_ — mi conduca fuori Porta Codalunga da questo signor Zonca. Vorrei convincermi ch'è un compratore serio. — Seriissimo, signor mio, — fece Molesin, intingendo un _baicolo_ nel caffè. — Domanda se è serio! — soggiunse con un ghigno sarcastico, parlando, per un momento, al suo _baicolo_. — Benedetto, dico, — riprese voltandosi a me, — vuole che gli parli di un compratore da burla? Cosa si sogna? — Ah cane! — mi dissi nel cuore; e replicai forte: — Sarà un'ubbìa, ma Lei deve condurmi fuori Porta Codalunga dal signor Zonca. Molesin si rabbonì subito, disse ch'erano passi inutili, che però, se si trattava solamente di questo, m'avrebbe accontentato e volentieri. Pagò con tutta flemma il suo caffè e si alzò. — Andiamo, — diss'egli. — Dopo tutto ho piacere che Lei parli col signor Zonca. Guardò l'orologio e soggiunse: — Adesso lo troviamo di certo. — Diavolo! pensai. Sta a vedere che c'è davvero questo Zonca! Che bestia sarei stato! — Ma l'amico Molesin uscendo dal caffè voltò verso Santa Sofia. — Per di qua? — esclamai. — Mi rispose, senza scusarsi affatto, che doveva passare un momento da casa sua per avvertire di ritardare il pranzo. Erano le tre e mezzo e sua moglie mi aveva detto che pranzavano alle sei. — Cane, cane, — gli dissi ancora nel mio cuore, sentendo che lo riafferravo; e mi preparai al colpo ch'egli tenterebbe per sgusciarmi di mano. Avrei voluto salir le sue scale con lui ma non seppi trovar un pretesto plausibile e mi fermai sulla porta chiedendomi se il furfante non approfitterebbe di qualche maledetto scalino rotto per ammaccarsi una gamba o due e mettersi a letto. Dopo cinque minuti, non sentendo venir nessuno, salii. Non ero ancora a mezzo quando udii Molesin discendere brontolando: che fatalità, che fatalità! — Siamo sfortunati, — diss'egli vedendomi. — Ho trovato sul mio tavolino una lettera del signor Zonca che rinuncia all'affare. Per cui.... _Per cui_ lo tenevo per il collo. — Va bene, — dissi. — Adesso avrei a dirle due parole. Rispose asciutto: si accomodi, — e mi fece passare nel suo studio per il salottino che conoscevo. Il telaio della signorina v'era ancora, ma lei no. Molesin mi accennò di sedere, prese un venerabile berretto nero ricamato in oro e fece atto d'insediarsi egli stesso nel suo trono, un seggiolone solenne da magistrato, fra la biblioteca e la scrivania coperta di codici in fila, di scartafacci legati, di note, di buste, di calcaterre, di calamai, di penne d'oca, tutto in bell'ordine. — Senta, — cominciai. — Ella scriverà adesso ai Vicarelli che l'asta deve seguire il giorno fissato. — Perchè? — rispose Molesin. — Se manca la vendita resta il mutuo. È sempre una somma rispettabile che passerebbe nelle Sue tasche. — Scriva, — insistetti, — che l'asta deve seguire al giorno fissato. Io La pregherò pure di scrivere che lei desidera di ritirarsi affatto, per motivi suoi personali, da questa vertenza. Molesin mi guardò, stupefatto. — Non capisco, — diss'egli. — Scriva, — replicai. — Le detterò. — L'avvocato Molesin, viscere mie, — mi rispose, — non scrive sotto la dettatura di nessuno. — Se non scrive Lei, scriverò io. Il tôno delle mie parole fu tale che Molesin si alzò in piedi fissandomi con due occhi torbidi di mala coscienza; parve l'assassino che sospetta nel suo interlocutore un agente di pubblica sicurezza. — Scriverò io, — continuai, — che il signor Angelo Molesin si ritira perchè non c'è mutuo, perchè non c'è vendita, perchè non c'è compratore, non c'è niente! Molesin chiuse gli occhi sotto il colpo e tacque. Li riaperse, non più torbidi; il buono schermidore sapeva finalmente da che parte veniva la botta, e in un lampo, a occhi chiusi, aveva disposto la parata. — Si calmi, — diss'egli, con la solita odiosa espressione di compatimento. — Ella è stato a Treviso? — Sì, signore. — Già. Eh, ho capito. L'ho capito subito, quando la vidi al caffè. E lei ha cercato qui a Padova la Ditta Zonca? — Sì, signore. — Già. Oh già, già. L'ho capito subito. E Lei si figura di aver colto un galantuomo in fallo. Bravo, caro. Ella è fino, molto fino... Stese e alzò la mano spiegata per chiedere di non venire interrotto. Poi sorrise, scosse il capo, e riprese a voce bassa, lenta, solenne: — E Lei non ha pensato che per combinare mutuo e vendita, nelle condizioni dei Vicarelli, fosse necessarissimo il segreto; che se i Vicarelli mi richiedevano, come m'hanno richiesto, di non palesare i nomi veri neppure a Lei, anzi di fuorviare le Sue ricerche, io dovevo farlo nel Suo stesso interesse, perchè un creditore spaventato come Lei, ficcando il naso qua e là, avrebbe mandato all'aria tutto, senza volerlo. Il mutuo c'è, il compratore c'è. Sicuramente, era inutile andare a Treviso e in cerca del negoziante Zonca. Certamente, io ho simulato poco fa una lettera di questo Zonca, ma era per la buona riuscita dell'affare; e poi, cosa ha fatto Lei oggi con me? Non ha simulato fino a questo momento? — Oh, — scoppiai, — per chi mi prende? Anche in tribunale sono stato e so con chi ho da fare, so che avvocato è, so in che affari ficca il naso Lei! Egli parve annientato; non seppe che balbettar qualche parola incomprensibile. Intanto l'uscio dello studio, che si apriva all'infuori, a fianco della scrivania, fu spalancato bruscamente ma senza rumore. Molesin non se ne accorse, non potè vedere sua figlia, ferma con la maniglia in pugno, con gli occhi fissi in lui che balbettava, livida come una morta, come suo padre. Vide bensì il movimento ch'io feci, gli occhi miei volti all'uscio e guardò egli pure. Non seppe ricomporsi del tutto; sorrise però e disse: — Avanti, cara: cosa vuoi? È finito. — Scusi, no! — interruppi. — La ragazza lasciò andar l'uscio che, piano piano, si chiuse. — Non è finito, — ripresi a bassa voce. — Lei.... — La mia creatura! — fremette Molesin, alzando le braccia. — La mia creatura! Avrei scommesso ch'era uomo da venderla, la sua creatura; ma non v'era bisogno di mimica per farmi rispettare in essa un sentimento sacro. — Lei scriva ai Vicarelli, — dissi. — Lei si ritiri. Io non parlerò. Vede che non potrei avere riguardi maggiori. La riverisco. Uscii. Nel salottino non c'era nessuno. Entrando nel corridoio che metteva alla scala udii in una stanza attigua, a sinistra, la voce della Molesin e udii, a destra, la signorina Lisa che tentava inutilmente di aprire una porta chiusa e la scuoteva convulsa. Ella guizzò, fuggendomi, all'uscio della scala ch'era aperto. Qualcuno passava sul pianerottolo per salire al terzo piano, onde la ragazza si gittò alla discesa e scomparve. La seguitai. Di fianco all'ultimo braccio di scala v'era un andito scuro, ingombro di tavole. Lisa si era nascosta lì; la scopersi accoccolata in un angolo col viso fitto fra le due pareti, scossa le spalle da singhiozzi muti, da un palpitar d'uccellino moribondo. Non ebbi cuore di lasciarla così, sapendo che l'avevo ferita io. Me le avvicinai, la chiamai dolcemente; non diè segno d'avermi udito. La toccai con la punta dell'indice; trasalì, tremò tutta, si strinse in sè come tocca da un serpente. Allora le domandai scusa, sottovoce, del dolore che le avevo recato, dissi qualche cosa per incolpar me e scagionar suo padre; ma dovetti tacere perchè al suono della mia voce ella si dibatteva gemendo. Dio, che fare? Allontanarmi da lei, anzi tutto, come in fatto mi allontanai. A un tratto odo la signora Molesin che chiama: — Lisa! Lisa! — La ragazza si voltò di schianto, stravolta, ascoltando con gli occhi. Erano rossi ma senza lagrime. — Lisa! Lisa! — chiamò ancora sua madre discendendo le scale. Lisa stette un momento immobile; quindi con la subitanea rapidità del fulmine, si strappò dal seno il piccolo orologio d'argento, lo sbattè a terra, lo raccolse insieme ai frantumi di vetro. Allora solo s'incamminò lenta con questa misera cosa rotta nel cavo delle mani, mi passò davanti come un'ombra, salì le scale incontro a sua madre, singhiozzando amaramente. La lira del poeta Personaggi. X. poeta celebre. Il dottor Domenico SNÌCHELE. La PADRONA del Caffè del Gobbo. La scena rappresenta il Caffè del Gobbo a... città del Veneto. Il caffè è vuoto. La padrona, seduta dietro il banco, legge l'_Adriatico_. Entra il dottor SNÌCHELE con un soprabito logoro indosso e una tuba bisunta in capo. SNÌCHELE (_toccando il cappello_) — Servo. PADRONA (_asciutta_) — Serva. SNÌCHELE — In grazia, xe stà el commendator B.? PADRONA — No. SNÌCHELE — E el dottor C.? PADRONA — Gnanca. SNÌCHELE — E el professor D.? PADRONA (_seccata_) — Gnanca, gnanca. SNÌCHELE (_dopo una breve pausa_) — La scusa, voressela favorirme un gotesin de acqua? PADRONA, (_piglia un bicchier d'acqua da un vassoio e lo spinge sul banco, con mal garbo, verso lo Snìchele_) — El toga. SNÌCHELE — Grazie. No la ghe metaria na giozzetta de mistrà, par acidente? PADRONA — No ghi n'è. SNÌCHELE — Grazie istesso. (_Beve_) La scusa, li gala gnanca visti quei siori? PADRONA — I xe passà adesso. SNÌCHELE — Gaveveli insieme un foresto? PADRONA — Come gerelo? SNÌCHELE — Saverlo, siora Berta, come ch'el gera! El xe un omo grande ma mi no lo go mai visto. PADRONA — Questo gera picolo. SNÌCHELE — No fa gnente. E da che parte andaveli? PADRONA — Drio a le so gambe. Cossa vorìo, benedeto, che mi varda ste robe? I sarà andà in ciesa. SNÌCHELE (_si volta e guarda la chiesa monumentale ch'è in faccia al caffè_). — Sì pardia! I vien fora adesso. El ghe xe, el ghe xe, el foresto. Cossa fai? Par cossa se fermeli? Ah, i se spartisse, i se saluda. Xele scapelade! Cussì lo vedo pulito. Son contento perchè gera bramoso de vederlo. Ocio ch'el vien qua adesso, lu solo. Sì da bon ch'el vien qua! La vada a tor el mistrà, ela, siora Beta. PADRONA — Andemo, ja, nol seca. SNÌCHELE — Co ghe digo de andarlo a tore! Eccolo, st'altro. (_Siede a un tavolino e si mette a leggere la_ Difesa). X. (_entra senza salutare e siede a un altro tavolino in faccia a quello occupato dal dottor Snìchele_) — Un latte all'uovo. PADRONA — Subito. SNÌCHELE (_passa il giornale e saluta. X. saluta pure. Allora Snìchele riprende il giornale, finge di leggere, poi lo posa da capo e si mette a guardare dalla finestra_) Che tempo! (_X. cava un taccuino e piglia delle note_). Tempo brutto. Oggi è peggio di ieri. Non è vero, signora Elisabetta? (_La padrona non risponde e continua ad occuparsi del latte all'uovo. Snìchele si volta ad X._) Si diceva che il tempo è cattivo assai. X. (_asciutto_) — Già. SNÌCHELE — Peccato, vedere la città con un tempo simile! X. — Certo. SNÌCHELE — È la prima volta che il signore viene a...? X. — Sì (_alla padrona_). — Ha un giornale? SNÌCHELE (_si alza e si avvicina ad X. toccandosi il cappello_). — Perdoni tanto, signore; Lei è l'illustre X.? (_X. lo guarda attonito senza rispondere. Snìchele si leva il cappello e declama_): O degli altri poeti onore e lume, Vagliami il lungo studio e il grande amore Che m'han fatto cercar lo tuo volume. X. (_sorridendo e inchinandosi leggermente_). — Grazie. SNÌCHELE (_declamando_): Tale tuum carmen nobis, divine poëta, Quale sopor fessis in gramine, quale per aestum Dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo. X. (_meravigliato sorridendo_) — Grazie, grazie. SNÌCHELE (_coprendosi_) — Non guardi all'abito sdruscito, signore. Ho studiato qualche cosa anch'io. _Boni convenimus ambo._ Sapevo dal Commendator B. che Lei doveva venire oggi e avevo un desiderio immenso di conoscerla. B. ed io siamo amici, siamo stati a scuola insieme. (_X. gli fa segno di sedere. Snìchele prende una seggiola e gli siede in faccia_). Grazie. Conosco tutte le Sue opere. Grandi, veramente grandi. (_Smorfie di X._) Me lo lasci dire; e poi Lei lo sa. Anche il romanzo, ma specialmente le poesie. A voltar le Sue poesie in latino vien fuori Virgilio, come a voltar in latino quelle del professor Zanella vien fuori Tibullo; _te quoque Virgilio comitem_, sicuro. Di Lei, anzi, ho tradotto in latino quelle strofe: Qui mi vesta la vite i sassi aprichi, Voglio bermi la terra, il vento, il Sol.... eccetera eccetera: che io traduco un po' liberamente, si sa: Hic virides seram vites, hic mollia vina.... eccetera eccetera, per non tediarla. X. — Bravo, bravo. SNÌCHELE — Sì signore. Anzi ho presentata la mia traduzione ad un concorso per la cattedra di latino nel ginnasio comunale di.... X. — Bravo. Snìchele — Sì signore. Mi ricordo, del resto, che quando Ella ha pubblicato il suo primo libro.... a Milano, mi pare? X. — Sì. SNÌCHELE — Bene, mi ricordo che qui non La intendevano. Povero paese, sa, del resto, quanto a coltura; paese che si occupa di frivolezze; paese dove se domani io prendo moglie, non si parla d'altro per otto giorni. Io solo ho intesa la Sua grandezza. Anzi la ho presentita, Le dirò. Perchè una volta, pensando alla storia della letteratura italiana, ho scoperto che in Italia, quando nasce un grande poeta, entro poco tempo ne nasce un altro. Guardi Dante e Petrarca, Ariosto e Berni, Tasso e Tassoni, Manzoni e Leopardi. Anche nel nostro secolo ne abbiamo due. Non parlerò di quello che è nato prima. Testa forte, signor mio, testa grande, ma nato sotto una stella disperata. Il mondo non conoscerà mai quel nome. Io lo conosco, è nato nel 1829, anno di guerra, anno di carestia, anno del diavolo. Lei è nato nel 1843, mi pare? X. (_fa un cenno affermativo_). SNÌCHELE — Sicuro, vi è quasi la stessa differenza di età che fra Manzoni e Leopardi. Io dunque ho letto il Suo libro. Una rivelazione, signore. Quella modernità di concetti, quella classica perfezione di forma.... X. (_sorridendo_) — Grazie, grazie. SNÌCHELE — Perchè Lei ha studiato molto anche i greci; dica la verità. Per esempio, quei versi dell'ode sullo _Spartaco_ di Vela: Tu che furor nel marmo Spirasti ricordano un epigramma.... X. (_sorpreso_). — Per bacco, ma Lei ne sa molto! SNÌCHELE (_sospirando_). — Sì signore, ho studiato molto. Tal quale ella mi vede, possiedo un grado accademico, sono il dottor Snìchele. Mio padre era un signore e mi ha educato da signore. Io avevo il delirio dello studio, ho passato sui libri, per molti anni, i giorni e le notti, tanto che un capo ameno applicò a me, in quel tempo, i versi del Buratti: Tu che le carte argoliche Versi con man dïurna, Versi con man notturna, Con tute do le man.... (_Si alza, va a sedere accanto a X. e continua sottovoce_). — Vede in che paese siamo? C'è una greppia per qualunque asino, qui; ma crede Lei che vi sia un pane per me? Signor no. Ero impiegato alla Biblioteca e mi hanno licenziato per economia. Io son pronto a far qualunque cosa, concorro a qualunque misero posto. Non mi tocca mai niente. _Fodere non valeo, mendicare erubesco._ S'immagini che oggi non ho ancora mangiato niente, sono sfinito. Non domando nulla, ma se Lei di Sua spontanea volontà facesse qualche cosa, qualche piccola cosa per questo Suo ammiratore.... X. (_rannuvolato_). — Mi rincresce, sa, ma non posso far niente. SNÌCHELE (_a voce bassissima_). — Un'inezia, due lire! una lira sola! Anche meno! X. — Vi pare? Non vi avvilite così! Dopo i discorsi che fate! È brutto. SNÌCHELE — Basta, basta, non ne parliamo più. (_La padrona porta il latte all'uovo_). Buon appetito, signore (X si serve senza rispondere). Mi perdoni, non vorrei ch'Ella sospettasse in me un qualche rancore. Dio me ne guardi! Non avrò che venerazione, per Lei, fino alla morte. Anzi Le dirò che avendola conosciuta personalmente, mi metterò di maggior lena a un lavoro sopra di Lei, che vorrei pubblicare. X. (_fa una smorfia_). SNÌCHELE — Non tema che Le domandi denaro per questo; sarebbe un'indelicatezza. Ho qui degli amici che mi hanno promesso di aiutarmi. Da un pezzo sto raccogliendo tutti i riscontri de' Suoi versi con la poesia antica e moderna, italiana e straniera. Sarà come un trattato di letteratura universale e di buon gusto. Di poesia straniera me n'intendo poco, ma sento spesso parlarne da chi ne sa molto, e recipe taccuino. Intende? Tutti professori e letterati. Suppongo ch'Ella ne avrà piacere? X. (_inquieto_). — Faccia pure, faccia pure. SNÌCHELE — Dico bene. Per esempio quella Sua magnifica idea.... _Brillano i fini denti di salgemma._ l'ha avuta dicono anche un altro, un francese... X. (_interrompendo_). — Non è vero! SNÌCHELE — Che non sia vero? Corpo di bacco! Guardi un poco! E quest'altra: _Se il caro capo tuo diventa bianco_ _Sarà come un mandorlo a primavera_ dicono.... X. — Ma non è vero! SNÌCHELE — Neanche questa? Oh guardi! Non c'è proprio da fidarsi. E ne avrò notati un centinaio, capisce, di questi passi. (_Pausa_). Senta, io glieli mando. Veda Lei, faccia Lei. Se non vanno, ci vorrà pazienza; abbruci. Va bene? (_X. si stringe nelle spalle con affettata indifferenza_). Scusi, signore, mi dica proprio: debbo mandare o no? X. (_dopo un breve indugio_). — Peuh, mandi pure. Poco male; vedrò per curiosità. (_Chiama la padrona e paga_). SNÌCHELE — Perchè dovrò forse far ricopiare gli appunti.... Poi ci sarà la spedizione raccomandata.... Spese, insomma. X. (_posando sul tavolino una lira_). — Ecco. SNÌCHELE (_chinandosi a contemplar la lira senza toccarla, e parlando come fra sè_). — La lira del poeta, eh..... la lira del poeta..... sicuro..... sicuro..... X. Non è buona? SNÌCHELE — Eh sì signore, facevo solo così da me un piccolo conto. Circa quindici pagine a dieci centesimi la pagina fanno una lira cinquanta per il copista... poi c'è la Posta... mettiamo cinquanta centesimi... Ci sarebbe anche la carta... sì, insomma un'altra lira sola può bastare. Sì, dico, perchè le cose siano fatte bene. (_X. gli dà un'altra lira e si alza per uscire. Snìchele pure si alza e dice recando la mano al cappello_): — Ha premura, signore, per la spedizione? X. (_sdegnosamente_). — Che, che! SNÌCHELE (_facendo un profondo inchino_). — Resto coll'onore. X. (_asciutto_). — Buon giorno. (_Esce_). SNÌCHELE — (_sedendo_) — Parona! PADRONA — Cossa? SNÌCHELE (_freddo e serio_) — Mi ghe digo ludri. PADRONA (_che non ha inteso_) — Cossa ghe diselo? SNÌCHELE — Gnente. La stoza qua, e pò un cafè de bojo, la cesta, e de l'acqua fresca col mistrà che adesso ghi n'è, gala capìo? La Stria Alla Marchesa Angelina Lampertico Mangilli. Casa Ferretto, un palazzone alquanto malandato del cinquecento, ritto, come un capo burbanzoso di miserabili tribù, a cento passi dal suo villaggio, spiega i colonnati giallognoli verso il sole, l'aperta campagna e la lontana città di Vicenza; e oppone il dorso annerito dall'umido alla tramontana, alla strada maestra e alla vicina città di Thiene. Adesso non lo saprei dire, ma sette anni sono era certo, d'inverno, una Siberia spaventosa, malgrado la contraria opinione delle figure seminude di cui lo Zelotti, scolaro di Paolo Veronese, ha popolato soffitti e pareti di non so quanti sterminati stambergoni dai pavimenti alla veneziana; e checchè ne pensasse la calorosa padrona di casa, la _siora_ Gegia Ferretto. Nè coloro, nè costei si lagnavano mai del freddo; quelle, forse, perchè lo Zelotti le aveva bene e abbondantemente impastate di sangue caldo e di carne soda, questa perchè non aveva quasi più nè sangue, nè carne ma solo un fine, chiaro e tranquillo spirito, ribelle a qualunque gelo. È giusto dire che in quel paese, almeno la parte anziana della popolazione è generalmente provveduta di uno straordinario temperamento fisico per cui si vedono i più pacifici e tepidi individui, quando vengono assoggettati, nell'inverno, a una temperatura di dieci a dodici gradi R., diventare roventi, sbuffare, spalancare gli occhi con l'espressione più turbolenta. Tale non era però il temperamento della siora Nina, la figlia della signora Gegia, una damigella di quarant'anni, gialla, magra, vizza, che aveva sempre freddo e non osava mai lagnarsene alla mamma. Ancor meno era tale il temperamento della contessina Nana Dalla Costa, nipote della siora Gegia in linea retta e della siora Nina in linea collaterale; e il conte suo genitore, vedovo e carico di faccende, considerando certi nascenti calori per un tenente leggero di testa e di borsa, che suonava bene i walzer e li ballava meglio, l'aveva opportunamente spedita a passar Natale, Capo d'Anno, Epifania e forse anche Purificazione al fresco con la nonna, la zia, un vecchio fattore, e una vecchia cameriera ch'era stata la sua balia. La contessina Nana, aveva, sì, un cervellino e due occhi di fuoco, ma nelle sale dello Zelotti ci gelava, poverina, come una gazzella d'Africa. Si rincantucciava, quando poteva, nel «mezzà»[1] del sior Toni, il fattore, dove almeno c'era un caminetto, un tavolato d'abete, e l'umile calore devoto del buon vecchio sior Toni; del quale sior Toni, fra parentesi, pochi sapevano il cognome e io non lo so. In casa, in paese e anche a Thiene tutti lo chiamavano _el sior Toni_ e niente altro. So che era veneto ma non vicentino, perchè diceva _fado_, _stado_, _andado_ e altri anche più detestabili solecismi. Nel pomeriggio del quattro gennaio la contessina era lì nel «mezzà» ritta dietro i vetri dell'unica finestra, a veder nevicare sulle statue grigie del giardino, sulla capannina della gaggìa, sui cavoli dell'orto e più in là sui campi, sfumati nel chiarore bianco; mentre il sior Toni, seduto alla scrivania con gli occhiali sul naso, tagliava le cedole della Rendita. Ella vedeva forse le falde cadenti, ma per verità guardava nel chiarore bianco chi sa quali altre cose fantastiche, alle quali anche parlava silenziosamente con movimenti continui degli occhi, delle sopracciglia e delle labbra. «Vorrei essere una gaggìa, sior Toni!» diss'ella voltandosi bruscamente. «Almeno non mi lascerebbero gelare!» Era snella ed alta e se non poteva dirsi una bellezza, aveva però un pallido visetto assai espressivo e nei grand'occhi bruni una espressione di stranezza, d'intelligenza e di malinconia che andava molto, troppo presto al cuore dei tenenti e anche degli altri. Visto che non c'era più legna da gettare nel fuoco, prese il cestino delle cartacce ch'era vuoto. «Cossa fala, contessina?», esclamò il fattore. «Niente, sior Toni,» rispose la ragazza e adagiò tranquillamente il cestino sulle brage. «Ma no, contessina, cazza!» Il vecchio si alzò per correre in aiuto del suo cestino; la contessina gli si parò davanti, si mise a cantargli: «Ho freddo, sior Toni, ho freddo!» con quella cantilena che significa: non l'avete ancora capita? «Gesù mi poreto!» disse il sior Toni mettendosi le mani nei pochi capelli bianchi e guardando il cestino con faccia mezzo spaventata, mezzo ridente. «Senta, sior Toni» esclamò la Nana. «Vuole il cestino? Scriva una lettera come io Le dirò e poi mi conti una storiella». Il sior Toni, famoso raccontatore di storielle da osteria e da salotto, da signorine e da preti, promise ogni cosa e tolse il cestino dal fuoco. Scorgendolo già nero da un lato e fumante, il sior Toni non seppe che articolare la sua interiezione favorita: «jeh!» Ma la contessina Nana, più pratica, dato di piglio, sulla caminiera, a una gran tazza d'acqua, ne inondò in un baleno il cestino e le vaste estremità inferiori del sior Toni, che si ritirò in fretta alzando prima un ginocchio e poi l'altro fino al mento, vociferando «jeh, jeh, jeh!» Ristabilito l'ordine, la signorina spiegò ai sior Toni che due giorni dopo il quattro gennaio suol venire il sei e con esso la festa dell'Epifania e ch'ella aveva pensato una bella «stria». La «stria» è una benefica maga veneta, pronipote dei Re Magi, che nella notte dell'Epifania porta misteriosamente, calando nel camino della cucina, i regali che ora è moda di appendere all'albero di Natale. I bambini sogliono attaccare una calza alla catena del camino per maggiore comodità della _stria_, la quale trova così subito dove posare il suo carico; almeno un rosario di castagne, mele, arancie, foglie d'alloro. Presso alcune famiglie conservatrici che non vogliono saperne dell'esotico albero di Natale, è la _stria_ che porta, per la via romantica del camino, regali a grandi e piccini; e del donatore si dice che fa la «stria». Ora la contessina confidò al sior Toni che voleva fare una sola e unica «stria» per tante persone. «Per quante po?» chiese il sior Toni. «Per il mio maestro di musica, per la nonna, per la zia Nina, per la balia (jeh! fece il sior Toni), per il parroco, per i parrocchiani (jeh, jeh!) e anche per il sior Toni!» «Jeh, jeh, jeh!» Il buon sior Toni diede in una sonora risata. Ma, con suo nuovo terrore, la ragazza, lesta come un folletto, gli spazzò via davanti le cedole e le cartelle della Rendita, gli mise sotto il naso carta, penna e calamaio. «Presto, presto, scriva, scriva» diss'ella. E lui, docile come un agnello, scrisse sotto la dettatura di lei una lettera ad un «egregio signor maestro» invitandolo, per incarico della signora Ferretto, sua padrona e nonna della contessina Dalla Costa, a venire l'indomani sera col treno delle sei e mezzo a Thiene dove avrebbe trovato un biroccino... «Chi lo manda po?» brontolò il sior Toni scrivendo. «Io» rispose la contessina... «per recarsi a visitare la sua allieva. Avrebbe passato il giorno dell'Epifania in casa Ferretto e sarebbe stato così buono da suonar l'organo alle funzioni della parrocchia («benon, po» sussurrò il sior Toni) e anche poi da metter insieme una piccola accademia di piano (benon, benon, benon) perchè la nonna e la zia desideravano di udire in qualche bel pezzo a quattro mani, la loro cara nipotina (cara po, sipo po, tanto po!) «Non è vero, sior Toni? E adesso perchè conosco i Suoi gusti, scriva: Le si raccomanda di portare quel pezzo sul _Pirata_». «Grazie, po!» esclamò il sior Toni; e alzando ambedue le braccia vociò con un viso truce: Nel furor... Ma la contessina lo minacciò di un altro bicchier d'acqua se non si rimetteva subito a scrivere, e così gli smorzò il furore. Ell'attese un poco e poi disse: «Adesso metta i saluti». «Come, po?». «Metta così: La mandano, egregio maestro, a riverire la nona, la Nina, la Nana e la nena[2]». «Gesù mi poreto!» si mise a gridare il sior Toni, saltando sulla sedia, rosso come un gambero e lucente di riso negli occhi. «Chi elo stado po sto traditor?» Perchè l'allegro uomo scherzando una sera all'osteria su «la nona, la Nina, la Nana e la nena» non si era certo immaginato che le sue facezie venissero riferite alla contessina. Questa lo fece tacere, gli dettò l'indirizzo «Maestro Bortolo Barùgola (che nome po! Jeh!) ferma in Posta, Vicenza». Saputo che il postino non sarebbe partito per Thiene prima di sera, incaricò il sior Toni di portargli la lettera. Quindi, prendendo un'aria graziosa di timidità e di finezza, e mostrando temere che lo scherzo potesse non piacer del tutto alla nonna, accennò al sior Toni, con mezze parole, di farsi un poco traditore anche lui e di tastar la nonna prima di mandar via la lettera. «Poareta!» disse il sior Toni, tutto commosso di tanta delicatezza e anche, per dir vero, di tanta ingenuità, perchè come supporre ch'egli mandasse una lettera simile senza parlare con la padrona? «E adesso, ghe voi anca la storiela?» «Certo, sior Toni». »Ghe contarò quela del prete e de l'anguila». «Vecchia, sior Toni!» «Quela de quelo che gavea paura a passar el Torre». «Oh Dio, sior Toni!» «Quela de quelo che gà mandà a dir al Padre Eterno che i tedeschi gera ancora a Belun». «Troppo lunga, sior Toni». «Ma cazza po,» esclamò il sior Toni con un poco d'impazienza «vorla che ghe conta quella del sior Intento?[3]». «Quella, sior Toni! Domattina!» E la contessina corse via ridendo. Il sior Toni andò in cerca della padrona vecchia, le mostrò la lettera e le confidò il delicato riguardo della nipotina; confidenza ben preveduta dalla detta ingenua nipotina. La nonna che conoscendo il maestro Barùgola solamente di nome, s'era fatta, sulle prime, arcigna, si lasciò poi pigliare, come il sior Toni, a questo amo e diede il _placet_. Non poteva certamente supporre che le lettere dirette al maestro Barùgola quando avevano il _fermo in Posta_, capitassero, per effetto di arcane intelligenze, nelle dotte mani dell'altro egregio filarmonico signor Carlo Paribelli, tenente nel 3º bersaglieri. Era pur troppo così e il tenente aspettava una lettera simile sapendo bene che avesse a fare. * * * L'indomani sera alle sei il cielo era sereno e l'aria rigida; al chiarore delle stelle la neve pareva quasi prendere il colore azzurrognolo del ghiaccio. Ma siccome di giorno v'era stato il sole, nel salotto bene esposto dove «la Nona, la Nina e la Nana» pranzavano e dimoravano abitualmente c'era un clima possibile. Le signore avevan pranzato alle tre, secondo l'antica consuetudine vicentina serbata da pochi spiriti indomiti; e la Nana si era molto sorpresa, venendo a pranzo, di trovare che il vecchio piano codino di casa era stato trascinato lì dalle gelide pianure del salone vicino. La nonna le aveva poi detto sorridendo che le era venuta voglia di udirla suonare un poco. Chi si mostrava particolarmente lieta di questa prospettiva musicale era la zia Nina, una povera zitellona magnetizzata dalla bella, elegante e nobile nipote e da quel suo profumo d'intrighi amorosi, avida sempre di rifarsi giovane, di scambiar confidenze tenere, sempre intimidita dalla freddezza un poco sprezzante della ragazza. La zia Nina pretendeva avere un vero trasporto per la musica e quando sua madre non era presente soleva vantare alla nipote, con certi ah! e oh! pieni d'ogni sottinteso tutte la arie più freneticamente amorose del piccolo repertorio che aveva in testa, come _Vieni fra le mie braccia_ (ah!) dei _Puritani_ oppure _Quando il tuo labbro sul labbro mio_ (oh!) di _Allora ed oggi_, roba antica di cui la Nana neanche aveva udito parlare. Alle sei, dunque, la siora Gegia fece chiamare il sior Toni e la cameriera per dire il «terzetto» ossia la terza parte del rosario. Veramente, di solito si diceva alle otto, ma essendosi ciò timidamente osservato dalla Nana, la siora Gegia rispose blanda: «ben, vissere, sta sera te lo diré alle sie!» La Nana, che le altre sere cercava sempre di star vicina al sior Toni per farlo ridere, adesso mostrò invece un raccoglimento edificante, una fervorosa pietà. Finiti i cinque misteri, interruppe la nonna celebrante per osservare che alla vigilia d'una gran festa si poteva dire anche gli altri dieci. Il sior Toni guardò spaventato la padrona vecchia, che, per suo conforto, rispose: «Tropa grazia, tropa grazia» e si tenne al programma. Detto il «terzeto» la buona signora propose alla nipote di uscire a spasso con la zia e col fattore. A questi due l'idea parve alquanto strana e il faceto sior Toni brontolò nell'uscire: «Dove andemoi po? A beverghene un goto?» Ma la contessina Nana capì che la nonna le offriva tacitamente di andare incontro al maestro perchè il treno di Vicenza arrivava a Thiene alle sei e mezzo e dalla stazione di Thiene a casa Ferretto non s'impiegavano, in carrozza, più di venti minuti. Quando la Nana, che per verità cominciava a trepidare un poco, prese la via di Thiene, capì anche il sior Toni. Ma la zia Nina, che s'entusiasmava per le bellezze delle stelle e della neve, per la poesia dei canti, dei suoni che si udivano di qua e di là per la campagna, capì solamente quando la cauta nipote le spiegò la _stria_ che aveva preparato e accennò, esagerandola, alla tacita complicità della nonna. Allora la siora Nina, dimenticando le stelle, la neve e la poesia dei canti villerecci e la presenza del fattore, si affrettò a informarsi del maestro, seppe che era giovane e bellino, ma che (pur troppo, cara zietta!) il signor Barùgola aveva moglie e cinque figliuoli. «Jeh!» fece lo scapolo sior Toni. Intanto si camminava, si camminava e non si incontravan calessi. S'incontrò invece una frotta di gente che cantava: Mandiamo il crudo gelo Lontan dai nostri cuori, Cantiamo coi pastori.... . . . . . . . . . . . . Qui si interruppero perchè il sior Toni domandò loro, poco ragionevolmente, se avessero veduto un calesse. Uno rispose cantando: «No, gnente, gnente, gnente» e gli altri ripresero la via e il canto: Verranno in compagnia Tre Magi dall'Oriente. Il sior Toni spiegò alla contessina che quella era la «Compagnia della Stella» solita, per tre sere prima dell'Epifania e per tre sere dopo, andar attorno cantando e fermandosi ad ogni casa per aver vino e altro. Ma la contessina non gli stava molto attenta benchè anche per lei avessero un senso segreto quei versi: Verranno in compagnia Tre Magi dall'Oriente. E se non venisse nessuno? Malgrado tutto il suo amore ella cominciava a pensare che quasi quasi sarebbe meglio. Ma invece ecco un punto nero, un rumor di trotto, un cavallo, un cocchiere, un mago che salta come da una scatola nella neve, ravvolto in un tabarro alla veneta, senza maniche, simile a una mantellina da bersagliere, onde la Nana immagina per un momento che l'amico sia venuto in uniforme e ne ha i brividi. Ella presenta con un po' d'imbarazzo il maestro Barùgola a sua zia e al sior Toni che gli fa replicati inchini col cappello in mano; poi manda via il calesse, destina il sior Toni per cavaliere alla zia e li segue col maestro cui deve impartire ogni istruzione opportuna onde la scherzo riesca bene. Il sior Toni e la siora Nina rallentano il passo perchè vorrebbero udire anche loro ma la contessina protesta. Ella è la _stria_ e la _stria_ fa tutto in segreto. Il sior Toni racconterà intanto una storiella alla zia. «Gala capìo, siora Nina?» dice il sior Toni alla sua padroncina. «Per sta volta bisogna che La se contenta de mi. Comandela sta storiela?» «El tasa» risponde lei stizzita. «Ghi n'ho una de bela» — «No me n'importa». — «Ben, ben, ben, ben». Non parlano più nè l'uno nè l'altra, per cui non merita scusa il maestro che battezza subito la siora Nina per Marta e il sior Toni per Mefistofele. Gli dà torto anche la Nana, la quale, ora che la sua pazza idea è fatta realtà, si sente in cuore un ritorno impetuoso di tutte le idee serie e prudenti, si vede in testa tutti i guai che potrebbero succedere, e vorrebbe persuadere Carlo, poichè l'ha vista, poichè le ha dato un bacio e tenuta stretta una mano per cinque minuti e sfiorata con le labbra almeno la _toque_ e cantata almeno in _do_, in _re_, in _mi_, e nei relativi diesis la solita sinfonia, di ritornarsene alla stazione onde pigliarvi il treno che arriva a Vicenza verso le nove. Ma come si fa? Carlino la intende poco e non ha tutti i torti. Come si fa con Marta e Mefistofele? — Dio, almeno non bisogna che passi la notte in casa! Ma se non c'è albergo? Pensa e ripensa, la Nana decide che lo condurrà a casa per una visitina e che poi lo manderà a dormire dal parroco. * * * Le due signore fecero il loro ingresso nel salotto, accompagnate dal solo sior Toni. «Nonna» disse la contessina entrando, «c'è qui fuori qualcuno che domanda di te». «Vedemolo» disse la buona signora piegandosi a guardar verso l'uscio e aguzzando le ciglia. Visto entrare il giovinotto soggiunse: «Chi xelo sto signor?» «Il maestro di musica, signora» rispose il tenente, franco, ma evitando i nomi propri. «Il maestro della contessina ch'Ella ha avuto la bontà di invitare.» «Mi? Mi no sala. Mi no so gnente de inviti». Allora la contessina si fece avanti, tanto rossa che la siora Gegia le disse subito: «Ah te si stà ti, barona?» «È stata la stria, nonna. Siccome tu da brava bambina hai fatto portar qua il piano, la stria ti ha mandato un pianista. «Ben che lo veda pulito» disse con dolcezza la siora Gegia. Infatti l'antica lucernina d'argento a tre beccucci, dei quali due soli erano accesi, illuminava molto imperfettamente il giovane, vestito alla buona di abiti che non parevano i suoi. Però il sior Toni e la siora Nina lo avevano intanto scrutato molto bene. «Che zovene!» disse la vecchia signora quand'egli le si fece vicino. «Quanti anni gàlo?» Il tenente se ne aggiunse otto, e rispose «trentaquattro». Troppi! pensò la Nana, più accorta. Egli non guardava le cose tanto per la sottile e rispose con la più ardita spensieratezza a mille altre domande sulla sua famiglia, sulla sua patria, sulla sua vita, sugli scolari, sulle scolare, mentre la Nana fremeva e palpitava come un uccellino nella rete. Finalmente la vecchia cameriera portò il caffè e i _pandoli_ al tenente, che, pensando essersi ben guadagnata quella magra cena, divorò mezza dozzina di pandoli senza notare negli occhi della siora Gegia certe ombre di cattivo augurio. «El ne sona qualcossa» diss'ella. Il tenente si alzò e propose un pezzo a quattro mani con la contessina; ne aveva seco tre o quattro suonati già con lei in società, quando non si amavano ancora. «No» rispose la siora Gegia con voce blanda, ma ferma. «Sentimolo lu solo per sta sera.» Il tenente obbedì e si mise al piano. Il sior Toni domandò timidamente un poco di _Pirata_; invece la siora Nina, moderando alquanto le sue aspirazioni, mise fuori con un fil di voce la speranza di udire _Il sol dell'anima_ del _Rigoletto_, oppure _Ah forse è lui_ della _Traviata_, oppure il quartetto dei _Puritani_: A te, o cara, amor talora Me guidò furtivo, ardente. «Questo lo so benone!» esclamò il tenente e attaccò di slancio il motivo dolcissimo, un vero zucchero sulle sue fragole. Improvvisò un pot-pourri di _Puritani_, di _Rigoletto_, di _Pirata_, di musica per tutti i gusti, facendo il diavolo a quattro sul piano. Il sior Toni e la siora Nina erano conquisi, ascoltavano a bocca aperta. La vecchia cameriera, ancora in piedi presso l'uscio con il vassoio in mano, andava ripetendo sotto voce «Gesusmaria! Gesusmaria! Madre santa che bravo!» e anche qualche volta «Vergine che belo!» Infatti il tenente Paribelli cui gli amici lombardi chiamavano _Parì bell_ e _minga vess_, non era una bellezza, però aveva una fisonomia vivacissima, una selva nera di capelli ricciuti e un elegante paio di baffetti castani che avevano molta parte nei suoi successi. Chi proprio non pareva entusiasta di lui era la siora Gegia. Finito il pezzo, ella gli domandò se prima di partire per Vicenza si fosse recato a casa Della Costa per prendere commissioni. No, il maestro non ne aveva avuto il tempo. La Nana introdusse tosto un altro discorso, gli chiese di alquante amiche, specialmente di una tale che in addietro le aveva dato qualche ombra. «Tanto cara, non è vero, maestro? Tanto simpatica!» «No, non la posso soffrire!» «Suona così bene!» «Pasticcia!» «Ohe, ohe!» fece la siora Gegia. «El scusa, ma no me piase sto tajar zo de le so scolare». L'amico che, abituandosi alla situazione, diventava sempre più brillante e si figurava conquistar casa Ferretti a questo modo, rispose contraffacendo audacemente il dialetto veneto e quasi anche il tono di voce della vecchia signora: «Mi no tajo, mi no tajo». La Nana, spaventata, si affrettò a dire che la nonna aveva avuto la sua «stria» e che adesso bisognava farla al parroco, mandargli l'organista. Propose quindi che il sior Toni accompagnasse il maestro in canonica dove potrebbe anche passare la notte. La siora Gegia aveva fatto preparare segretamente una camera da letto e capiva poco, in cuor suo, l'opportunità di regalar un organista al parroco quando non poteva che metterlo a letto. Tuttavia non fiatò e lasciò il maestro al suo destino. Lo si pregò di un'altra sonatina e qualcuno nominò il _Mefistofele_. Il tenente guardò sorridendo la Nana e poi il sior Toni e domandò a quest'ultima se era lui che voleva il Mefistofele. «El Mefistufole?» rispose il sior Toni. «Mi no, La diga». Malgrado ciò l'altro si slanciò a capo fitto nel Sabba romantico, fece furore colla serenata classica, si sforzò sopra tutto di far cantare ai tasti il duetto e poi, per protestare contro le punture gelose della damigella, appiccò al Mefistofele con la sua invidiabile disinvoltura, nientemeno che l'aria di Buzzolla, ben nota a lei: Chi mai se penserave Vedendo la mia Nana Che l'apparenza ingana E sconto gh'è el velen? * * * Il mentore sior Toni, quando fu in istrada con Telemaco pensò: te soni pulito ma te ghè na gabana, ciò, da mezi litri anca ti: e invece di pigliar la via della canonica pigliò, per i suoi fini, quelli dell'osteria. All'allegro Telemaco piaceva la bonomia del vecchio fattore, e la conversazione fra loro, per effetto sia dei mezzi litri che delle «gabane» diventò subito famigliare. Il sior Toni fece all'altro gli elogi, _inter pocula_, della contessina e siccome non c'era nessuno, cominciò a tastarlo in un punto delicato. «La diga, maestro, che La savarà, come xela de sto tenente che i dise? Ghe xelo, sto Paribelo o no ghe xelo po?» «Go paura, _ciò_, ch'el ghe sia, sto can» rispose Telemaco nel suo veneto caricato. «E la diga, mo; xelo cristian, xelo turco, xelo sior, xelo desperà, xelo galantomo, xelo berechin, xelo belo, xelo bruto, cossa xelo?» «El xe sior, ciò, galantomo, belo e turco». «Jeh, jeh, jeh!» fece il sior Toni «Gesù mi poreto, el xe turco!» E vuotò un gran bicchier di vino. Poi ripigliò: «Xelo so amigo, elo, maestro?» «Un pocheto». «Xelo turco anca elo?» «Un pocheto, ciò». «Jeh! Gala imparà in Turchia a suonar l'organo? Gesù mi poreto!» Qui il sior Toni fece portare un altro mezzo litro onde venir a capo delle ragioni per le quali il conte Dalla Costa non voleva dar la figlia al tenente. Il suo compagno incominciò a dirgli che quanto al _turco_ aveva scherzato e che Paribelli era un ottimo cristiano. Soggiunse poi che il conte aveva una debolezza, una malattia nervosa per cui non poteva veder piume sui cappelli della gente. Era una vera disgrazia per la famiglia Dalla Costa e per la contessina non men che per il regio corpo dei bersaglieri. «Fiol de to mare d'un mestro» pensò il sior Toni, «goi po tanto un muso da macao?» E disse forte: «Bela, po». Sin da quando la contessina Nana lo aveva incaricato di raccontare storielle alla zia, era balenato al vecchio un sospetto, non certo del vero, ma di qualche trama, di qualche occulta complicità del nuovo venuto col terribile tenente Paribelli. Ora se ne persuadeva sempre più, e oltre al resto, gli bruciava un poco d'essere stato giuocato dalla contessina. Centellinando il vino, parlando, quasi, fra sè e sè, si mise a commiserare la ragazza, benchè a lui, veramente, non paresse tanto innamorata; tutt'altro! «Perchè?» esclamò il suo compagno, preso all'improvviso. Il sior Toni lo guardò sorridendo col bicchiere in mano. «Gnente po, sala» diss'egli. «Idee». Soggiunse piano che se si fosse trattato di renderla felice, avrebbe fatto qualunque cosa. «Proprio?» gli chiese l'altro, sullo stesso tono. «Proprio». «Anche.... portare...» Il sior Toni scosse leggermente le spalle e fece «peuh!» con la faccia espressiva d'uno che non trova poi tanto strano nè tanto difficile ciò che gli è proposto. Il suo compagno lo fissò in viso. L'uomo gli pareva molto fino. Susurrò: «Non avrebbe scrupoli?» «La diga; xelo proprio un galantomo?» «Eh altro!» fece il galantuomo. Il sagace sior Toni n'ebbe abbastanza; l'amico era certo un complice. In quel punto la compagnia della Stella fece rumorosamente irruzione nell'osteria. Il sior Toni si alzò, pregò il maestro di aspettarlo un momento, andò a parlare con l'oste che sapeva avere una carrettella, gli ordinò di far attaccar subito onde condurre un forestiero a Vicenza. «E se nol paga lu» diss'egli «pagarò mi». Poi tornò dal maestro e gli partecipò che essendo la canonica assai lontana aveva ordinato all'oste una vettura, che le istruzioni al cocchiere erano date bene, proprio bene, senza pericolo di sbagli, che lui doveva tornare immantinente a casa e che gli augurava la buona notte. Ciò detto se n'andò in fretta, lasciando il tenente alquanto sbalordito e incerto. Il tenente stette un quarto d'ora ad aspettare la carrettella sulla porta dell'osteria. Dopo un altro quarto d'ora di viaggio per la nuda e gelida campagna, non vedendo nè case, nè chiese, interrogò il vetturino e dovette, suo malgrado, persuadersi che il perfido Mefistofele lo aveva spedito a Vicenza. Furibondo, ordinò di fermare. Passava una frotta di ragazzi cantando in onore della stria. Uno di loro si accostò alla carrettella e gridò sul naso del viaggiatore: De Pasqua un bell'agnèlo, De carnevale un bel porzèlo, De Nadale un bel capòn, Buona notte sior paron. «Va all'inferno!» rispose il tenente. Voleva ritornare in dietro, castigare quel birbante, ma poi riflettendo, capì che sarebbe stato uno sproposito e ordinò rabbiosamente di proseguire. «Mefistofele» che si era accontentato di veder la carretta uscir dal villaggio e prendere la via di Vicenza, andò poi a casa più frettolosamente che potè. La siora Nina era a letto, ma la siora Gegia e la Nana lo aspettavano in salotto. La siora Gegia aveva lavorato in calza tutto il tempo con una faccia molto seria, senza rivolger mai la parola a sua nipote, che intanto, desiderando pure di evitare il dialogo, aveva letto il giornale e suonato il piano. «Benedeto!» esclamò la siora Gegia vedendo entrare il fattore «xe ora? E sto paroco dunque?» «Mi son qua de stuco» rispose il sior Toni. La Nana si sentì gelare il sangue e non parlò. «Cossa xe nato?» chiese la vecchia. «Cossa vorla che ghe diga! La stria lo ga portado qua e la stria lo ga portado via.» Le due donne lo guardarono, studiando il suo viso furbesco. La vecchia aveva i suoi sospetti e molti; trovandoseli vagamente confermati e ripromettendosi di sapere ogni cosa l'indomani mattina non domandò più nulla, diede una occhiata silenziosa alla nipote, spense uno dei due beccucci della lucernina e disse con tutta flemma: «Ben, andemo in leto». Il sior Toni sospirò perchè invece di andar a letto doveva lavorare in mezzà almeno un'oretta. Vi era da pochi minuti quando l'uscio si aperse piano ed entrò la contessina: «Un momento» diss'ella sottovoce. «Un momento solo! Cos'è questa storia della stria? Dica su presto!» «Védela, contessina benedeta» rispose con un sorriso pacifico ma significante il sior Toni «no la xé miga una stria sola, le xé do. Quela zovene lo ga portado qua e quela vecia lo gà portado via. Ma gnente de mal po sala, gnente de mal». «Sì, bravo, e come è andato via? Corse di notte non ce ne sono». «Ghe xé cavai e caretine». «Carrettino? È andato a Vicenza in carrettina? Con una notte simile? Sior Toni! Senza una coperta?» Le parole ed il viso della contessina eran tali che il sior Toni incominciò a non capir più niente ossia incominciò a capire anche troppo. Uno sbalordimento senza nome gli allargò gli occhi e la bocca: «Cossa?» diss'egli. «Ma quel sior... gerelo...?!» La contessina stupì alla sua volta, non capiva che egli non avesse capito, lo guardò un poco e scappò via senza rispondere. Allora il sior Toni, giungendo adagio adagio palma a palma, conchiuse con l'emozione più profonda della sua vita: «Jeh, jeh, jeh!». Per una foglia di rosa Una carrozza di Corte si fermò, verso mezzanotte, alla porta del palazzo Heribrand. Un ufficiale delle guardie ne saltò a terra, entrò nel palazzo e ricomparve dopo dieci minuti con un signore alto e magro che salì in carrozza frettolosamente e fu riconosciuto dai curiosi del vicino Caffè Orientale per il conte Maurizio Heribrand, generale a riposo, antico governatore, sotto il Re morto, del principe ereditario, ministro dell'interno nel primo anno del nuovo Regno e uscito poi dagli affari. La notizia ch'egli era stato chiamato a Corte si diffuse in città prima che la carrozza fosse di ritorno al Palazzo Reale. Quella sera tutte le birrarie, tutti i caffè della capitale erano pieni di gente e di rumore perchè nel pomeriggio la camera aveva rovesciato con quaranta voti di maggioranza, sopra una questione di politica estera, l'equivoco, impopolare gabinetto Fersen; e si sperava che S. M. avrebbe chiamato al potere il deputato Lemmink, capo dell'Opposizione, uomo di grande ingegno, di antica probità e di ferreo carattere, stato ancora ministro e noto per l'aspro contrasto a certe segrete debolezze del Re, cui il ministro Fersen, malgrado le sue velleità democratiche, si era sempre mostrato compiacente. Si sapeva che il generale Heribrand, ultra conservatore, era nemico personale del Lemmink, il quale una volta, da ministro, lo aveva trattato con pochi riguardi; e la sua chiamata a Corte dispiacque. — Si era tuttavia sicuri che egli avrebbe combattuto il Fersen, e sopratutto, la segreta influenza della principessa Vittoria di Malmöe-Ziethen, amica del Re. La principessa, francese di origine, divisa dal marito, era antipatica al popolo, perchè straniera, perchè s'ingeriva negli affari di Stato e perchè impediva il passo ad una regina. Il popolo avrebbe più presto perdonato al Re molti amori passeggeri che questa grande passione costante da tre anni. Il Re conosceva e sdegnava ciò. Egli univa un ingegno non comune a molta bontà di cuore; non aveva un alto concetto della propria corona nè della propria spada, non sentiva ambizione; era piuttosto poeta e artista che Re; era anzi tutto un delicato, un raffinato, a cui le ordinarie cure del governo pesavano, a cui piaceva di regnare solo per il lusso artistico di cui poteva godere, per le intelligenze rare di cui sapeva cingersi; e perchè convinto di essere amato dalla principessa Vittoria come uomo e non come Re, si compiaceva di possedere, quale amante, questa suprema e singolare distinzione del trono. Egli era tuttavia delicato e raffinato anche nella coscienza dei propri doveri, ciò che gli era cagione di lotte e di tristezze gravissime, poichè la sua nobile natura aveva una ingenita malattia mortale, il languore della volontà. Lo scioglimento della crisi per la quale il generale Heribrand era stato chiamato a Corte, poteva decidere sulle sorti del paese. Il conte Fersen conduceva il Regno all'alleanza con la potente patria della principessa di Malmöe-Ziethen e quindi, posta la situazione europea, alla guerra. Un Gabinetto Lemmink avrebbe significato riduzione delle spese militari e politica estera modesta. Tutti sapevano che il Fersen immediatamente dopo il voto aveva offerto le dimissioni del Gabinetto e posto a S. M. questo dilemma: o accettazione delle dimissioni o scioglimento della Camera. S. M. non aveva data una risposta definitiva e aveva conferito più tardi con i presidenti delle due Camere, i quali erano stati concordi nel consigliare un ministero Lemmink. Si sapeva pure che la principessa Vittoria era malata nella sua villa dell'isola Sihl. Una grande dimostrazione popolare era stata fatta al capo dell'opposizione, e vi si era gridato «abbasso la francese». La carrozza che portava Heribrand entrò nell'atrio del Palazzo Reale a mezzanotte, mentre una carrozzella da nolo, a un solo cavallo, ne usciva. Il generale dovette attendere cinque minuti nella sala degli aiutanti prima di esser fatto entrare nel gabinetto da lavoro del Re. Il gabinetto, poco spazioso ma molto alto, sta nell'angolo nord-est del Palazzo Reale, proprio nella torre. Ha due balconi immensi, uno sul mare, aperto, l'altro sulle grandi terrazze che degradano verso il porto militare; e ha, fra i due balconi, un caminetto di marmo nero dove quella sera, benchè si fosse alla metà d'aprile, ardeva il fuoco. Una lampada elettrica sospesa in alto illuminava meglio il palco di ebano scolpito, a rosoni d'argento, che la snella persona del Re, ritta davanti al caminetto. S. M. stese la mano al vecchio generale, che con la sua allampanata figura, con la sua magrezza portentosa, con i suoi lineamenti esagerati, pareva lo spettro di Don Chisciotte. — Caro generale — diss'egli con voce affettuosa, ma vibrante di emozione — mi perdoni se l'ho incomodata a quest'ora. Avevo bisogno di Lei. Heribrand rispose, alquanto freddo, ch'era sempre agli ordini di S. M. — Non ho bisogno di un suddito — replicò il Re, gelando alla sua volta. — Ho bisogno di un amico. Lei è in collera con me? Il generale protestò e S. M. lo interruppe dicendo — venga qua — gli prese il braccio, lo fece sedere in una delle sue poltroncine accostate per fianco al balcone sul mare, sedette egli stesso nell'altra e incominciò a parlargli della situazione. Riferì i suoi colloqui col ministro e coi presidenti delle due Camere, disse che sentiva di trovarsi di fronte all'atto più grave, probabilmente, della sua vita, che era atterrito dalla propria profonda perplessità; che sperava da Heribrand un giudizio, un consiglio sicuro, e che non aveva saputo aspettarlo fino all'indomani. Il generale lo ascoltò impassibile e rispose semplicemente: — Sire, bisogna chiamare Lemmink. Il Re si fece scuro in viso, tacque e, dopo un momento, alzatosi senza dir parola, si allontanò a lenti passi, andò a contemplare il fuoco del caminetto. Anche il generale si alzò e, girata rapidamente con gli occhi la stanza, guardava, fermo al suo posto, il Sovrano. Il suo sguardo e l'alta, leale sua fronte avevano una singolare espressione di gravità e di severità. — Lei non sa tutto — disse finalmente S. M., sempre pensieroso e senza guardare Heribrand. — Lei non sa cosa si prepara in Europa. Lei non sa gli impegni che abbiamo. — Sire — rispose subito il generale — se vi hanno impegni del ministero Fersen, sono caduti; se vi hanno impegni di V. M., mi permetto di chiedere rispettosamente perchè mi sia fatto l'onore d'interrogarmi. Un lampo di sdegno passò sul viso del Re. — Io non prendo impegni personali — diss'egli concitato — io sono fedele alla Costituzione. Lei mi doveva intendere, signor generale. Lei dovrebbe sapere che un governo può prendere certi impegni non formali, non scritti, ma che non possono lasciarsi cadere tanto facilmente. Il generale rispose che il voto della Camera aveva implicitamente disapprovati questi impegni. — Non mi parlate della Camera! — esclamò il Re. — Non è possibile che la politica estera sia fatta dalla Camera. Non si guidano cavalli mal sicuri per strade difficili, stando in un landau chiuso. — Non si guidano i cavalli, Sire, ma si sa dove si vuole andare e lo si dice al cocchiere. Il paese non vuole andare alla guerra. Il Re tacque. — Io non posso assolutamente — riprese Heribrand — dare a V. M. il consiglio che desidera. — Che desidero! — esclamò il Re sdegnosamente. — Che desidero! Guardi là quei vapore coi fanali rossi che fila adesso nel chiaro di luna. Là vi è un ragazzo che va a studiare l'arte a Roma con i denari miei; desidero esser lui! Ecco quello che desidero! Scusi, generale, Lei sa che Le ho sempre voluto bene, Lei è il primo cui mi rivolgo dopo i personaggi ufficiali, il primo a cui domando un consiglio, e mi parla così! Il generale esitò un momento e rispose quindi con voce sommessa, ma ferma: — No, Sire non sono il primo. Il Re trasalì e piantò gli occhi in faccia a Heribrand che non abbassò i suoi. — Che ne sa Lei? — diss'egli fieramente. Il generale allargò le braccia e chinò la testa come per dire: me ne rincresce, ma è inutile; lo so. — Crede Lei — riprese S. M. con voce sconnessa dall'emozione — crede Lei avere il diritto? Non compì la frase, ma tenne addosso al generale gli occhi irritati. — Nessuno ha osato mai! — diss'egli. — Sire — rispose Heribrand, rialzando il capo — la mia coscienza non è a disposizione di V. M., ma il mio grado e le mie decorazioni lo sono. — Questa è una risposta da scena — esclamò il Re — e non una risposta per me che ho una coscienza come la Sua. Il generale, pallidissimo, pregò il Re di voler piuttosto punire che oltraggiare un vecchio servitore sincero, e gli chiese licenza di ritirarsi. Il Re rifiutò con un gesto violento. — No, — diss'egli — voglio essere più generoso di Lei e mostrarle che vi è un'altra persona superiore alle sue insinuazioni, ai suoi sospetti, a tutte le bassezze di cui è pieno il mondo! Ciò detto si sbottonò il soprabito in fretta e in furia. Il generale porse le mani come per trattenerlo; allora il Re gli stese con impeto subitaneo le sue. — Ma senta! — diss'egli passando dalla collera all'affetto, — non mi irriti, dimentichi un momento ch'io sono il Re, mi tratti come si tratta un eguale, apra il Suo cuore come io sono disposto ad aprirle il mio! Apra il Suo cuore, ch'io senta una parola calda! Dica tutto quello che sospetta, tutto quello che teme, ma parli come un amico, capisce! Ma se io amo, merito io dunque il Suo sdegno? E mi creda, La scongiuro, Lei si inganna, Lei non La conosce, voglio che Lei sappia, voglio che lei veda! Sicuro che mi ha scritto, sicuro che mi ha consigliato! Ma come? Una donna che mi ama con tutta l'anima sua, è lontana da me e non mi manderà una parola in un giorno come questo? Ma generale, maestro mio, non è uomo, Lei? Non è stato giovane, Lei? E aperse le braccia al generale che, non persuaso, ma commosso, abbracciò il suo antico allievo. Il Re si sciolse per il primo, trasse dall'abito aperto un portafogli, e dal portafogli una lettera, e la porse a Heribrand. — Legga — diss'egli. Heribrand prese la lettera, ma per leggerla gli occorrevano gli occhiali e non gli riusciva nella commozione di trovarli, se ne impazientiva, ciò che fece sorridere il Re e finì di rinfrescare il sangue ad ambedue. Finalmente gli occhiali si trovarono ed il generale potè leggere questo biglietto della principessa di Malmöe-Ziethen: «_Silh, villa Victoria, le 14 avril._ SIRE, «Mon oncle de Ziethen vient de m'apporter les nouvelles de la capitale. On va voter aujourd'hui même et ce sera l'opposition qui l'emportera. — On fera beaucoup de bruit pour avoir M. Lemmink aux affaires, mais la _velche_, c'est ainsi que dit la ville, mais _l'étrangère_, c'est ainsi que dit la Cour, n'en voudra pas. Ce n'est pas M. de Fersen qu'on renverra, c'est la Chambre. Mon Dieu, que j'ai prevu tout cela! J'en ai le coeur navré. Pas à cause de moi, j'ai trop méprisé ces grands artistes en méchanceté, pour qu'on me soupçonne jamais de faiblir devant eux. C'est à cause de Vous, Sire. Je ne me soucie guère de la sottise publique ni de la perfidie de quelques misérables; je redoute Votre coeur même, ce que j'ai de plus cher au monde, ce grand amour où il fait si bon de sombrer avec son âme, son honneur et sa vie. M. Lemmink me déteste. C'est un terrible homme, paraît-il; il arrive appuyé par una foule grondante, il ne ménagera pas Vos sentiments, il voudra m'éloigner de Vous. Oh, Sire, mais la majorité de la Chambre lui est acquise, et si ce n'est pas la gloire, si ce n'est pas la grandeur, c'est du moins le bien-être, c'est la sécurité qu'il apporte! Il faut le prendre, Sire. Prenez-le, faites le bonheur de Votre peuple; le mien sera de Vous y avoir aidé! C'est bien la tâche d'une reine et Vous n'avez que cette couronne à m'offrir. Je vous la demande, mon ami, le sourire aux lèvres.» _Victoria_» Il generale rilesse lo scritto, poi presolo fra due dita, e alzatolo con un lungo sospiro, con un lungo _eh_ dubitativo, lo lasciò cader sulla scrivania. — Cosa? — fece il Re. — Ah, Sire, — rispose Heribrand — se mio figlio mi facesse vedere una lettera simile, gli direi «non ci credere, è tutto falso, anche questi segni di lagrime fra l'ultima parola e la sottoscrizione! Non senti» gli direi «che artificio di stile e di chiusa, non senti che persino queste lagrime sono politiche? — Maestà — esclamò egli a una violenta interruzione del Re — a mio figlio direi così! A V. M. posso dire invece, e forse chi sa? accostandomi di più al vero: questa donna non è sincera, ma crede di esserlo, crede alle proprie frasi, s'inebria all'immaginazione di un sacrificio che poi V. M. non le permetterà di compiere; si intenerisce sopra sè stessa e queste gocce cadute così presso al _sourire aux lèvres_ sono propriamente lagrime. V. M. mi ha domandato se sono mai stato giovane; credevo sapesse che lo sono stato troppo. Ebbene, di tante donne che ho amate, più o meno, una sola sapeva di recitare la commedia, e due sole veramente non la recitavano. Le altre erano attrici senz'accorgersene, come la principessa. Ma poi, Sire, se credete in Lei, perchè non l'ascoltate? Perchè non le date questa corona che domanda? Se la principessa è sincera, è eroica e poche regine avranno fatto altrettanto per un Re e per un popolo! V. M. ha l'animo grande, si compiacerà di essere amato da un altro animo grande che non solo immagina il sacrificio, ma lo compie. Coraggio, Sire! Sarebbe forse stato meglio non dirle, quelle altre cose amare. V. M. mi ha chiesto di aprire il cuore e l'ho aperto. Mi sarò ingannato, crederò anch'io tutto ciecamente, ammirerò la principessa, ma si faccia dunque ciò che dice lei! Non si giuoca una piccola posta, qui. Fersen giuoca il paese a _rouge et noir_; se esce _rouge_ sarà una gloria sterile o quasi, e pagata cara; se esce _noir_ sarà un disastro immenso. Sire, se parlassi da capo a mio figlio gli direi «il tuo dovere è di non permettere questo giuoco». — La ringrazio — disse il Re — Lei ha detto alcune cose che io credo molto ingiuste, duramente ingiuste, ma è stato leale e adesso ha parlato col cuore. La ringrazio. Del resto non credo che Lei sia giusto neppure col ministero. E qui si diffuse sui possibili effetti d'una guerra fortunata, parlò di una grande unione politica che avrebbe potuto costituirsi intorno al suo trono, di un impero del Nord ch'era già l'oggetto di trattative segrete colla Francia. Si capiva che la sua parola tepida rifletteva idee altrui, le ambizioni di un ministro e d'una donna anzichè quella del futuro imperatore. — Sire — disse Heribrand dopo aver ascoltato rispettosamente — se non temessi di offendere V. M. direi un'altra cosa. — Dica. — Direi che questa non è l'ultima comunicazione della principessa. Il Re arrossì e s'imbarazzò un poco. — Lei deve aver incontrato una carrozza, venendo qua — diss'egli. — È per questo che adesso... — No, Sire — rispose Heribrand — non è per questo. Gli occhi suoi si fermarono sopra un punto della scrivania. Il Re guardò subito dove guardava il generale, e, non potendo vedere, si tradì. — Le è bastato un fil di seta — diss'egli, arrossendo più di prima... — Mi è bastato meno — rispose il generale con un sorriso — il filo di seta non c'è più come non c'è più il fiore. Il Re si avvicinò alla scrivania, vide due filuzzi di musco e una lieve macchia umida sul cuoio dell'impiallacciatura. — Non l'ho nascosto — replicò vivamente — entrando l'avrebbe anche potuto vedere. Infatti, non proprio nell'entrare ma poco dopo, girando la stanza con gli occhi, il generale aveva scoperto sopra una mensola, di fianco a un grande stipo, il lagrimatoio d'alabastro di Volterra che aveva questo fiore misterioso. — Ecco — disse il Re, andando a pigliare il vasetto antico. Era un'opulenta, magnifica rosa, allentata e come languente nei petali più esterni e chiari, appena socchiusa nel denso cuore con una voluttuosa espressione d'invito. — La conosco — disse Heribrand, odorando il fiore. — Amo anch'io le rose. È la _France_. Magnifica! Meglio allearsi a questa Francia qui che all'altra. L'altra ha troppe spine. Odorò il fiore, si avvicinò al Re, e gli parlò per un quarto d'ora, mostrando l'inopportunità dell'alleanza francese con parola chiara, calda, convincente. — E se pigliassi Lei, generale? — disse il Re, sentendo di piegare, aggrappandosi a Heribrand per non cadere a Lemmink, i cui modi rudi gli erano intollerabili. — No, Sire — rispose il vecchio — io sono troppo impopolare, sono troppo amico di tante cose passate, e poi non sarei più indulgente di Lemmink colle rose parlanti. Bisogna chiamare lui. — Le giuro che non sapevo il nome di quella rosa! — esclamò il Re con impeto — e Lei è sicuro che sia la _France_? Ci pensi! E si mise a camminare su e giù, a capo chino, dall'uscio al caminetto, ripetendo macchinalmente ad ogni tratto «ci pensi!» mentre il generale protestava di esserne sicuro. Finalmente gli si fermò davanti e gli stese la mano dicendo: — Credo che Lei, domani, sarà contento di me. E allora spero che sarà contento pure della principessa, non è vero? — La venererò, Sire — rispose Heribrand. Prese congedo. Nell'uscire gli sovvenne degli occhiali che aveva lasciati sulla scrivania, ritornò indietro, e nella fretta del riprenderli, urtò involontariamente con la manica il piccolo vaso antico che si capovolse lasciando cadere a terra la rosa. Il generale si chinò, con una esclamazione di dispiacere, a raccoglierla; e, brancicando sul pavimento, invece di pigliare il gambo, pigliò il fiore. Lo rimise a posto presso che incolume; solo un petalo, dei più aperti, n'era rimasto sgualcito e quasi staccato. S. M. vide tutto e non si mosse, non disse parola. Il suo sentimento poetico della perfezione, la sua raffinatezza femminile si offendevano incredibilmente di ogni goffaggine, di ogni menoma distrazione altrui. Gli si sarebbe guasta l'ammirazione per un uomo d'ingegno vedendogli scotere sul tappeto la cenere d'una sigaretta, e la più seducente signora avrebbe molto perduto del suo fascino, se, parlando con lui, si fosse versata sull'abito una goccia di thè. Quando Heribrand fu uscito il viso del Re si colorò di malcontento. La vista di quella foglia cadente, di quella rosa brancicata gli dava fastidio. Prese il fiore, ne trasse il bocciuolo interno e gettò il resto sulle brage del caminetto. Poi, ripensando al colloquio recente, quel fastidio gli si mescolò, nella memoria, alla figura e alla voce del generale, ne rese ancora più sgradite le parole severe e meno gradite le affettuose; tanto che sentendo crepitar la rosa sulla brage, odorandone la lieve fragranza resinosa diffusa in aria e vedendovi balenare sul nero le ultime faville, ripensò di proposito a quel caso e gli venne il sospetto che vi fosse stata intenzione. Lo cacciò subito, era un sospetto troppo ignobile; ma gliene rimase questa spiacevole idea che la sbadataggine del generale fosse stata offensiva. E in pari tempo, questo intenso desiderio sorse nel suo cuore: oh se fosse venuta lei invece di mandar la rosa, se entrasse adesso, se l'avessi qui, almeno fino a giorno, prima di pensare alla politica! Si strinse poi sulle labbra un foglietto, la lettera venuta col fiore; sulle labbra, sul cuore, sulla fronte, come per illuminarsi la mente con l'amore; poi sulle labbra ancora, più forte di prima. Il sottile profumo della carta, l'odor di mughetto caro alla principessa lo faceva palpitar di passione, gli annebbiava il cervello. Mise un profondo sospiro come in cerca d'aria e di vita e rilesse la lettera che diceva: «C'est arrivé, donc! Du courage, Sire, faites votre devoir; ce sont vos amours qui Vous en supplient. Je souffre, mon ami, car je t'aime comme une folle et je voudrais venir me jeter dans tes bras. Je ne viendrai point, jamais je ne saurais m'en arracher! Je t'envoie une rose pour le vase d'albâtre, tu sais, pour le charmant petit vase aux larmes, qui lui convient. Elle en a eu, de larmes. Et de baisers, donc! Elle est heureuse, pourtant, de passer la nuit avec toi et de mourir demain. «Adieu, Sire. Si Votre choix est arrêté, faites-le-moi connaître bien vite. N'éteignez pas de la nuit Votre lampe; je comprendrai que M. Lemmink sera ministre. Je la vois de ma chambre, Votre lampe, à l'aide d'un binocle. C'est mon étoile, elle n'aura jamais été si pure, si haute! _Victoria._ L'odor di mughetto gli aveva ridato nella fantasia il corpo della principessa e queste paroline scritte in fretta, a grandi tratti impetuosi, tutte inclinate come da un soffio di passione, gliene ridavano l'anima. Già inebriato, si sentì nella coscienza domandar debolmente se non fosse male di lasciarsi trasportare così, di smarrire, in un desiderio di amore, ogni calma e ogni forza quando più ne aveva bisogno. Si rispose ch'era dolce perdersi a quel modo, che forse l'amore lo avrebbe ispirato meglio; e fece tacere con un colpo di volontà, la debole voce molesta. Adesso fu nel ritratto di lei che volle affissarsi, negli occhi pieni di dolcezza e di fierezza che lo guardavano da quel noto viso, più signorile e delicato che bello, chiuso nel capriccioso disordine d'un velo nero. Quindi, sentendosi ardere, aperse il balcone a mare e uscì fuori nel vento rigido, nel fracasso cupo, misurato delle onde che si rovesciavano sulla scogliera. La luna era nascosta fra le nuvole; però l'isola Sihl si vedeva benissimo, nera, a breve distanza. Il vento freddo ristorò un poco il Re, ma le tenebre, per la loro virtù demoniaca di oscurar nell'uomo il sentimento del futuro e di esaltargli i desideri amorosi, cospiravano coll'isola Sihl. In quel luogo, in quell'ora le combinazioni politiche parevano al Re niente, e l'amore tutto. Dopo cinque minuti rientrò nel gabinetto, si giustificò, per parere onesto a sè stesso, di ciò che stava per fare sfiorando rapidamente col pensiero gli argomenti malfermi che ne aveva, gl'impegni del ministro, l'impero del Nord, e, posto un dito sul bottone elettrico, senza voler più riflettere, spinse. Era il tocco e cinquanta minuti. La cameriera della principessa di Malmöe-Ziethen avvertì subito la sua signora che alla finestra dello studio di S. M. non si vedeva più lume. La principessa balzò dal letto, afferrò il cannocchiale che l'altra le porgeva e spalancò le invetriate. L'appartamento reale non aveva più che undici finestre illuminate delle solite dodici; la dodicesima, quella della torre d'angolo, era oscura. Vittoria abbracciò la ragazza, guardò ancora col cannocchiale, lo gettò da sè, ritornò palpitando a letto, felice; e, mentre colei chiudeva stupefatta la finestra, le domandò se avrebbe paura d'una gran guerra vicina. Dodici ore dopo, la _Gazzetta ufficiale_ pubblicò il decreto di scioglimento della Camera, controfirmato dal conte di Fersen. Il testamento dell'orbo da Rettorgole La storia che segue mi fu raccontata dal mio amico M. «Nel 1872 — mi diss'egli — ero praticante presso il notaio X. di Vicenza. Una mattina di agosto, verso le dieci capitò nello studio un contadino di Rettorgole e pregò il notaio di andar con lui a raccogliere le ultime disposizioni di suo padre, che stava, secondo si espresse «mal da morte.» Il notaio volle che io lo accompagnassi e partimmo ammucchiati tutti e tre in un misero biroccino senza cuscini, saltando, al trotto sgangherato d'una vecchia rozza, sopra un sedile molto amaro per due notai magri e avvezzi a due poltrone eccellenti. X. aveva il muso lungo e brontolava maledizioni ad ogni scossa, io fremevo pure, e il contadino imperterrito ci descriveva la malattia del padre, un tal Matteo Cucco, detto l'Orbo da Rettorgole, perchè aveva un occhio solo «El ghe vede pi elo, sior, con quell'ocio solo — disse l'afflitto e rispettoso figlio — co no fa nualtri tre con sìe.» Non molto fuori della città lasciammo la strada maestra e ci cacciammo in un pantano secco di stradicciuola affondata nei campi, dove il biroccino saltava peggio che mai. Per fortuna si arrivò presto alla meta, una misera casaccia piantata nel fango dove son le abitazioni del maiale e della gente, in una mota puzzolenta; appoggiata dall'altra parte a un gran fienile, a un portico arioso e asciutto. X. e io stavamo per entrare in cucina, ma il nostro conduttore ci avvertì che l'ammalato non era in casa. Il caldo e il puzzo erano tali nella sua camera che avevan dovuto portarlo sul fienile. Sul fienile, adesso, bisognava salirci dal portico con una scala a piuoli. X. andò sulle furie. Tempestava che mai non gli era toccato un caso simile, che mai non avrebbe salita quella scala. Voleva tornar subito in città. Intanto il contadino teneva la scala ripetendo ch'era ben ferma e salda; e, sul fienile, un altro suo simile accorso al rumore l'aveva abbrancata anche lui e aiutava pure con la voce: «El vegna, sior! nol gai paura, sior! La xe franca, sior!» Neppur io, che odio la ginnastica e l'alpinismo, ci avevo tutti i gusti a quell'ascensione aerea; ma insomma un certo sentimento del dovere misto a una certa curiosità, a una certa voglia di raccontar poi l'avventura, mi vinse. Salii con grande prudenza e, quando fui al sicuro, persuasi X. di salirvi anche lui. Lassù bisognava poi guardar bene dove si mettevano i piedi, per non sprofondare. Trovammo un giaciglio miserabile, sucido, e distesovi sopra un vecchio calvo, smunto, dalla faccie ossuta e gialla, con un occhio chiuso e l'altro semispento. Respirava con stento, ma non pareva però agonizzante. Aveva due uomini accanto, uno a sinistra e l'altro a destra; due faccie rase, magre, astute. Uno teneva in mano una frasca e cacciava le mosche dal viso del moribondo, l'altro gli andava ficcando nella bocca sdentata pezzetti di pane secco e pezzetti di formaggio. — Magnè, pare — diceva — magnè, pare.» Più discosto, seduta sul fieno, una vecchia si teneva il viso fra le mani. Da un'altra parte alcuni contadini, evidentemente i testimoni, discorrevano fra loro sotto voce. Non mancava il tavolino, nè il calamaio, nè la sedia. Ci fu detto subito che l'ammalato aveva fatte le sue devozioni il giorno prima, che non parlava più, ma che capiva tutto e poteva far segni. In queste condizioni X. non voleva saperne di stendere il testamento. Si tentò una prova. «Pare! — gridò curvo sul morente colui che gli somministrava il pane e il formaggio, — me lo lassèu a mi el porco?» Il vecchio accennò col capo di no. «Ghe lo lassèu qua a Tita?» Il vecchio accennò di sì. «E la tera de Polegge a chi ghe la lassèu?» Il vecchio guardò l'uomo che era venuto a prenderci. «A Gigio, no xe vero?» Il vecchio accennò di sì. «Vedelo, sior, s'el capisse tutto» conchiuse, non a torto, l'interrogatore volgendosi a X. Questi volle tuttavia chiederne alla moglie dell'ammalato, la vecchia che piangeva accoccolata sul fieno. Ella confermò, con una subita parlantina, che Matteo era nel pieno possesso della sua mente, che solo mezz'ora prima s'era fatto intendere di non volere, contro il consiglio del veterinario, lasciar salassare un bue. Disse poi, quanto al testamento, che conosceva da un pezzo le intenzioni del marito. Questo lo disse con grande agitazione e commozione. Pareva una buona donna; nessuno avrebbe sospettato che volesse ingannar il notaio. Infatti questi chiese a lei le informazioni opportune sugli eredi legittimi e sul patrimonio. V'erano soltanto tre figli maschi, tutti presenti. Il patrimonio, molto superiore a quanto si poteva immaginare da quelle apparenze, comprendeva una ventina d'ettari di buon terreno, parte a Polegge, parte a Rettorgole, un'altra casa a Bertersinella, parecchi animali, parecchi generi ancora invenduti. Quanto la vecchia disse fu confermato dai figli e dai testimoni. Il notaio avrebbe desiderato che si suggerisse al vecchio una disposizione sommaria, almeno un riparto della sostanza per quote. Non fu possibile. Moglie, figli e testimoni osservavano che la volontà fissa dell'uomo era d'assegnare specificatamente certi dati enti a ciascuno de' suoi figliuoli. Fra i testimoni v'era un vecchiotto alquanto rincivilito che offerse tabacco al notaio e parlandogli con un sorriso pieno di compatimento per l'ignoranza degli altri contadini e di soddisfazione per la propria sapienza, lo rassicurò, prima ancora che la questione fosse sollevata, sulla misura delle quote, rispetto alla legittima. «Matìo xe fin,» diss'egli. Allora X. si pose a interrogare il vecchio e io mi posi a scrivere sotto la sua dettatura. Così, a forza d'interrogazioni e di segni, le case, i campi, i buoi, il cavalluccio, il maiale, persino il biroccino infame, tutto passò per la mia penna a beneficio di Gigio, di Tita e di Checco, i tre figli del testatore. «E vostra moglie? — gridò X. — Non volete lasciar qualche cosa a vostra moglie?» Il vecchio accennò di no, e tutti, compresa la moglie, confermarono che questa era la sua conosciuta volontà. «Bene — brontolò X. — a questo provvede la legge. Per questo ci rimetteremo alla legge.» «Sior, — disse la vecchia stoica — mi no intendo che me gai da tocar gnente. La fame la go patia prima e la patirò anca dopo.» Il mio principale non le diede retta e si dispose a leggere il testamento ad alta voce. Io gli cedetti il posto e stavo guardando, mentre X. leggeva, un bel gallo orgoglioso saltato su dal portico sull'orlo del fienile. Udii qualche cosa, mi voltai e mi vidi incontro una giovane contadina con un lattante in braccio, rossa, scarmigliata, ansante. «Cossa fali qua, eli? — mi diss'ella piantandomi in viso due occhi sfolgoranti. — Me sassìneli mi e la me creatura?» Successe un trambusto, la vecchia si alzò in piedi, i suoi figli si slanciarono contro la nuova venuta. X. balzò pure in piedi e impose a tutti di non muoversi. «Chi è questa donna?» diss'egli imperiosamente. Fu la madre che rispose: «Ghe lo dirò mi, sior, chi la xe. Nostra fiola la xe, intendelo. Ma a ela, intendelo, no ghe va gnente, no ghe va. So pare el ghi n'a dà anca massa, el ghi n'a dà. A no so...» «Anca vu, mare! — interruppe la giovane amaramente. — Pazienza me fradei che i xe sempre stà cani con mi; ma vu? Cossa sonti mi? no son del vastro sangue mi, ca me gabiè da tradir anca vu? Cossa podìo dir, vu de mi? Cossa podìo dir de me marìo?» «Basta, basta, basta! — gridò X. stracciando il testamento. — Vergognatevi tutti quanti! E chi apre il becco lo faccio andar in galera!» I testimoni erano lividi di spavento, i figli erano lividi di rabbia, la madre e la figlia si guardavano minacciose in viso; ma nessuno proferì più parola mentre X. furibondo andava stracciando la carta in minuti pezzi. A un tratto la giovine si scosse, e, senza che alcuno osasse trattenerla, andò dritta al morente, gli posò accanto la sua creatura. «Pare — gridò ruvidamente — s'a voli ca mora de fame mi, morirò; ma lassèghe na feta de polenta a questo chive!» Il vecchio, non potendo fare altro segno ostile, chiuse il solo occhio che aveva. Mai non dimenticherò il guanciale con le due teste, la testa bionda del bambino color di latte, ridente dalle iridi azzurre alla madre, la testa calva del vecchione arcigno, scura nell'ombra della morte. L'idea sinistra che la Potestà delle Tenebre si aggravava su quel guanciale e stava pigliando per sè una delle due anime, mi fece rabbrividire. Anche X. guardava attonito ciò che mi pareva uno scherzo mostruoso del destino. In quel punto ecco il prete, un buon uomo semplice che conosco. Vide il bambino sul letto, capì male, si fece ilare in viso, «Oh bene, bene — diss'egli — Dio sia lodato.» Il bambino si mise a piangere e sua madre fece l'atto di riprenderselo, ma Don Rocco non lo permise. «Lasciate, lasciate, — disse pigliando il polso dell'infermo. — Lasciatelo morire con un angioletto a lato. Oramai ci siamo.» E si mise a recitar le preghiere degli agonizzanti. X. poco amante di simili spettacoli, preferì la scala a piuoli. Nessuno si mosse per aiutarlo e perciò dovetti seguirlo io: ma, prima di partire a piedi con lui, tornai su, curioso come mi conosci, un momento. Figli e testimoni erano spariti, non so da qual parte. La giovine madre, ripreso il bambino piangente, non si occupava che di chetarlo con baci e carezze, come s'egli solo meritasse attenzione da lei. La vecchia, fedele fino all'ultimo all'uomo del quale aveva divise e servite le passioni con una specie di devozione selvaggia, pregava inginocchiata al suo letto. Camminando poi attraverso campi di rigoglioso, lucente granturco, attraverso prati floridi, lungo filari di grandi ontani allacciati da festoni di viti dove l'uva già nereggiava, pensavo perchè mai tanta bellezza innocente di natura, tanto fiore di vita, tanta benedizione di frutti avessero ad alimentare nel cuore umano le cupidigie più bieche, gli odii più esecrandi. «Non la intendo — conchiuse l'amico M. — Vi dev'essere qualche sbaglio nel sistema che gli uomini hanno ideato per servirsi di tanta grazia di Dio.» «Lo temo anch'io — dissi. — Temo che vi sia un vizio radicale di egoismo. Ma lasciamo fare al Padrone della terra e degli uomini che ci troverà bene il rimedio.» Il Folletto nello specchio (_Fiaba per Maria_). Viveva una volta a Milano, a pochi passi dalla Galleria De Cristoforis, una vecchia dama, la contessa X. molto ricca e molto brutta, a cui piaceva assai di tenere società; e siccome aveva un ottimo cuoco, la società non le mancava mai. Una sera vi erano undici visitatori nel suo salotto; una giovane vedova, una signora inglese, un consigliere d'appello, un grosso generale, un sottile tenente del genio, un zazzeruto maestro di musica e un poeta pelato, celebri ambedue, e quattro giovinotti eleganti, occupatissimi di far niente. Caduto il discorso sull'eterno paragone fra la vanità degli uomini e la vanità delle donne, la maggioranza fu d'avviso che il sesso più vanitoso fosse il mascolino; ma quando la padrona di casa, per darne un esempio, sentenziò che non v'era uomo, per quanto vecchio e serio, capace di passare davanti a uno specchio senza dare almeno una sbirciatina alla propria seducente immagine, gli uomini celebri, il consigliere, il grosso generale protestarono che questo non era vero e che la vanità mascolina si manifestava in altri modi. Tosto due brevi sottili risatine trillarono in aria. Ciascuno credette che avesse riso la vedova, e la vedova credette che avesse riso l'inglese, l'altra signora. Invece chi rise fu un diavolino di quelli che girano intorno alla gente per far dire bugie e commettere peccati di vanità. Il discorso morì lì, anche perchè suonava mezzanotte. Le due signore si alzarono e la padrona di casa invitò molto amabilmente tutta la compagnia a pranzo per l'indomani alle sei. All'indomani, che fu una giornata gaia e calda di aprile, gl'invitati si recarono al pranzo, le signore in carrozza, gli uomini a piedi, ciascuno per proprio conto. Il consigliere e il generale abitavano in via Alessandro Manzoni; degli altri chi in via del Monte, chi in via S. Andrea, chi in Borgo Spesso, chi in Borgo Nuovo. Insomma ciascuno passò per la Galleria De Cristoforis e benchè vi passassero tutti fra le cinque e tre quarti e le sei, il caso volle che non si accompagnassero fra loro, neppure in due. Tu sai che la Galleria De Cristoforis ha due bracci ad angolo retto e che uno specchio è infitto nel canto che la gente rade svoltando dall'uno nell'altro braccio, in faccia alla birraria Trenk. Dietro a questo specchio si insinuò il maligno spirito e stette aspettando gl'invitati per un suo diabolico scherzo. Passa, per il primo, il generale, si guarda nello specchio con la coda dell'occhio, e si vede raccapricciando, una macchia d'inchiostro sulla guancia sinistra. Mancavano cinque minuti alle sei, non c'era più il tempo di ritornare a casa. Il generale affretta il passo tenendosi il fazzoletto sul viso, e appena entrato nell'anticamera della contessa, chiede al domestico una salvietta e un po' d'acqua. Il domestico lo introdusse in una camera da letto e stava versandogli l'acqua nel catino, quando fu da capo suonato all'uscio. Ecco il consigliere che entra tenendosi il fazzoletto sulla guancia sinistra e dice: — Presto, per carità, una salvietta e dell'acqua. — Il domestico lo conduce in un'altra camera da letto e gli versa l'acqua. Si suona; è il tenente che si tiene una mano sul viso e dice: — Mi rincresce, ho dei guanti che lasciano il colore; avete dell'acqua? — Il domestico si meraviglia molto e lo conduce in una terza camera da letto. Quarta scampanellata; è il maestro di musica, che dice brusco: — Dell'acqua! Conducimi in camera. — Signore, — risponde duro duro il cameriere — ci sono già tre signori che si lavano in tre camere e di libera non c'è più che la camera della contessa. Se crede Le porto qua l'acqua e una salvietta. — Porta — risponde il maestro. Il cameriere va, ritorna con l'acqua e la salvietta. Colui si frega il viso, e guarda se la salvietta n'è sudicia e siccome la salvietta è sempre pulita, frega e guarda, frega e guarda, rifrega come un disperato. Ancora un colpo di campanello. Ecco il poeta celebre che vede l'amico stropicciarsi e dice: — Bravo. Oh bella, occorre anche a me. — Son pulito? — gli chiede l'altro mostrandogli la faccia. — Perfettamente. Il maestro, felice, entra dalla contessa dove trova il generale e le altre signore. Poi suonano, uno dopo l'altro, tre dei giovinotti eleganti e ciascuno vuole acqua salvietta e anche sapone. Il domestico si trattiene a grande stento dal ridere e non sa più dove battere il capo. Gli mancano salviette, deve chiederne alla guardarobiera, corre da lei; la guardarobiera si arrabbia; intanto suonano all'uscio e nessuno apre; suona anche la contessa perchè vadano ad aprire, torna a suonare e nessuno si muove; esce lei e chiama la sua gente. Allora il quarto giovinotto che aspettava fuori dall'uscio con l'idea egli pure d'avere uno sgorbio sul viso, udendo la voce della dama, e, temendo incontrarla nell'anticamera, si bagna il fazzoletto nella saliva e assicuratosi che nessuno gli vede fare questa porcheria, si frega la guancia sinistra a più potere, come gli altri. Finalmente tutti gl'invitati si raccolgono in sala e la contessa, che intanto ha potuto saper qualche cosa dal domestico, dice sorridendo: — Cos'avete fatto, caro generale, a quella guancia che siete così rosso? — Subito gli altri personaggi mascolini pensando aver pure una guancia rossa, si recano per istinto la mano al viso; la contessa ride; ride uno dei giovinotti, un secondo, un terzo, scoppia una risata generale; la contessa, poichè il ghiaccio è rotto, racconta il caso alle due signore e tutte voglion sapere il come di questa epidemia straordinaria. — Per conto mio — rispose il poeta — convien dire che un'amica d'infanzia, la duchessa Y. una vera sorella per me, abbia oggi mangiato del carbone perchè prima di venir qua fui ad incontrarla alla stazione e mi ha dato un bacio proprio qui sulla guancia sinistra. — Io invece — disse il consigliere d'appello, — credo di essermi macchiato con la tintura del ministro B. che oggi è a Milano e mi ha fatto chiamare per un affare importantissimo. Siamo amiconi, e lui, scherzando, mi ha preso una guancia fra l'indice e il medio. Siccome si tinge, è facilissimo che avesse le dita sudicie. — Quanto a me — disse il tenente, dimenticando la storia dei guanti che lasciano il colore, — promisi un acquarello a Sarah Bernhardt, e ci ho lavorato fino all'ultimo perchè le preme assai. Certo mi sarò spruzzato dell'inchiostro della China sul viso. — Io — disse a sua volta il maestro di musica — uscivo di casa quando mi è venuta una idea per il preludio del mio quarto atto. Sa, un lampo elettrico proprio. Lo dico perchè non ne ho merito; le buone idee mi vengono così, misteriosamente. Sono corso a buttar giù otto battute, e certo, nella foga dello scrivere, mi sarò sgorbiata la faccia. — Ecco — disse il generale, che aveva passata la sessantina. — Io faccio molta ginnastica ogni giorno. Oggi alle cinque ho fatto parecchie elevazioni con gli anelli. Può essere che uno degli anelli non fosse pulito e che mi abbia sfiorato il viso. — Non so davvero come ciò abbia potuto succedermi — disse uno dei giovinotti eleganti. — Proprio oggi, mezz'ora fa, ho adoperato il _Shetland-soap_, una novità inglese che ho fatto venire io da Londra e che forse nessuno a Milano conosce! — Come, come? — esclamarono due de' suoi colleghi. — Se io l'ho da ieri! — Se io l'ho da ier l'altro! — Allora — replicò il primo, — sarà certo un difetto dello _Shetland-soap_. — Ma no — esclamò il quarto, quello che aveva fatto pulizia fuori dell'uscio. — L'ho anch'io e non credo d'esser macchiato, guardatemi. — Ma, signori — osserva la contessa, — voi altri mi dite: sarà stato il sapone, sarà stato l'inchiostro di China, sarà stato questo, sarà stato quello. Vorrei un po' sapere, adesso, come abbiate fatto ad accorgervene di queste macchie sul viso, e come non ve ne siate accorti che fuori di casa! Vi fu un silenzio lunghetto. — Un amico... — incominciò il poeta con imbarazzo; ma il generale si decise nello stesso momento, a rispondere francamente: — Diciamola! Per parte mia Le confesso, contessa, che mi son guardato nello specchio della Galleria De Cristoforis. — Oh bella! — Oh diavolo! — Oh perbacco! — esclamarono involontariamente il maestro di musica, il tenente ed uno dei giovinotti eleganti. — Oh, oh! — fecero allora alla loro volta le signore indovinando; e costrinsero quei tre a confessare che anche loro si erano guardati nello specchio: poi le signore e i quattro rei confessi diedero addosso con un gran baccano agli altri per far confessare anche loro, e tutti, salvo il poeta che si ostinò col suo amico, finirono col metter fuori quel maledetto specchio della Galleria. — Dite _benedetto_, signori, — osservò ridendo la contessa — perchè capisco che se non c'era lui mi capitavate in una bella figura. — Pur troppo — rispose il generale — lo domandi a Federico. Federico, il cameriere, entrò in quel punto ad annunciare il pranzo. — Non è vero, Federico — gli disse il generale, — che avevo il viso conciato bene? Io e anche gli altri, non è vero? — Per verità rispose Federico, — del signor generale, del signor consigliere e del signor tenente non lo posso dire perchè tenevano la faccia coperta, ma gli altri signori ho veduto benissimo che non avevano niente. Tutti protestarono e il cameriere tenne fermo, lasciando intendere che sospettava la stessa cosa del generale e del tenente. — Come, come? — esclamò la contessa. — Questa è magìa! Non si va a pranzo se non si scopre questo mistero! — Il tavolino, contessa! — disse la signora inglese ch'era spiritista e faceva spesso delle esperienze con la padrona di casa. — Bisogna interrogare il tavolino. Detto fatto, fu portato il piccolo tavolino che si mise subito a girare, scricchiolando tutto come se ridesse; e interrogato sul dove, sul come e sul quando delle famose macchie, debitamente rispose: _Ogni specchio è casa mia,_ _Son le macchie mia bugia._ _Tutte l'altre son bugie_ _Delle loro signorie._ IL FOLLETTINO DELLA GALLERIA. I signori uomini non attesero che finisse e si diedero a schiamazzare: — A tavola! A tavola! Presto! Presto! Storie! Fandonie! A tavola! A tavola! — E, portando seco le signore che ridevano come pazze di loro e sopratutto del poeta, della sua duchessa e del suo amico, si precipitarono nella sala da pranzo come un uragano. Màlgari Molti e molti secoli fa, un gran vecchio poeta e Re di un paese lontano, cantò sulla riva del mare un magnifico poema, s'intenerì del proprio canto sino a piangerne; e le sue lagrime, cadendo nell'Oceano, vi diventarono perle. Trecento anni or sono fu pescata la più superba di queste perle, che aveva la forma d'un cuore; e il Doge di Venezia la regalò a S. E. Contarina Contarini, moglie di un _Cao_ della Repubblica. La Contarini, bella, ricca, virtuosa, non era felice. Aveva perduto nel terzo anno del suo matrimonio l'unica bambina; e siccome quando incomincia questa storia forse più vera che verosimile erano passati dodici anni dal giorno della sventura, nè lei nè suo marito osavano più sperare che il buon Dio mandasse loro un'altra creaturina in luogo della morta. Un giorno mentre Contarina scendeva dalla sua gondola in campo S. Zanipolo per andare alla predica, una povera donna che aveva seco due bambini cenciosi e sparuti le chiese piangendo l'elemosina. Contarina le diede uno zecchino e la povera donna esclamò piena di gratitudine «Dio La benedica, Eccellenza, Lei e le sue creature! La Madonna Le dia allegrezza». La dama si turbò ed entrò a S. Zanipolo dove un frate predicava sulla educazione e stava raccontando all'uditorio la storia di Cornelia Romana che disse de' suoi figliuoli «ecco i miei gioielli». Contarina pensò allora: ah se invece della perla che m'ha donato il Doge avessi ancora la mia bambina! Dopo la predica, ritornando in gondola al suo palazzo della Madonna dell'Orto, Contarina si addormentò e udì in sogno una voce che le disse queste parole incomprensibili «se non la vuoi perdere, guardati dalla poesia e dalla musica». Ella si svegliò subito assai meravigliata di un tal sogno, piena d'inquietudine. Scendendo al suo palazzo udì un gran chiasso, un gran litigare dei domestici. Le vennero incontro parlando tutti insieme, e Contarina potè a stento intendere che si accusavano a vicenda di aver lasciata aperta la porta della calle, poichè qualcuno doveva esser entrato di furto con una creatura che si era poi udita gemere, e si era trovata sola soletta proprio nella camera di Sua Eccellenza e proprio nella culla d'argento vuota da dodici anni. Contarina mise un grido e respingendo tutti col gesto si slanciò nella sua camera. * * * Trovò infatti nella culla d'argento una bambina bianca come l'alabastro, con due occhioni color di mare, che subito cessò di gemere e le stese le sue manine. Contarina corse allo stipo dei gioielli; era aperto, e la famosa perla del Doge, scomparsa. Ella intese allora che Dio aveva veduto il suo pensiero di S. Zanipolo ed esaudito il voto della mendicante. Folle di gioia, vestì subito la piccina con le vesti della sua dolce morta e mandò a chiamare il marito cui raccontò ogni cosa, l'augurio, il pensiero e il miracolo. Sua Eccellenza Giovanni Contarini rispose che probabilmente un ladro aveva rubata la perla e lasciata la bambina, ma che vedendo lei così felice, egli era contento di tenersi la piccina per figliuola. Era il giorno di Santa Margherita e le fu imposto il nome di Margherita che vuol dire perla, ma lei, quando cominciò a parlare, invece di dire «Margherita» diceva sempre Màlgari e tutti finirono con chiamarla così. * * * Màlgari crebbe rapidamente e sarebbe stata la più bella bambina di Venezia senza quel suo pallore straordinario. I domestici di casa Contarini e le dame invidiose di Venezia volevano per forza che fosse sangue vile di zingari o di ladri; ma ell'aveva un viso così nobile e gentile, una voce così soave ch'era ridicolo di affermare tal cosa. Vivacissima di sentire, era molto gaia, scherzava, giuocava tutto il giorno, rideva spesso d'un suo breve riso argentino, a trilli; ma se udiva una maldicenza, una parola incivile o triviale, se vedeva un atto malvagio o villano, se le raccontavano dolori o tristizie della gente; se qualchevolta suo padre e sua madre altercavano insieme, e, sopratutto, se si accorgeva di una menzogna detta in sua presenza, si chiudeva tosto in una grave, silenziosa malinconia. Aveva quattro anni quando, una notte d'estate, passò per il rio della Madonna dell'Orto qualcuno che cantava accompagnandosi con la chitarra. Màlgari, che dormiva con sua madre, si svegliò, scivolò dal letto, vi rimase fino a che potè udire la voce che si perdeva verso S. Alvise, e cadde poi svenuta sul pavimento. Quando rinvenne, nel letto di sua madre, la supplicò di lasciarla ritornare alla finestra, di farle udire ancora quel suono e quel canto. Poi assalita da una febbre ardente, delirò per tre giorni e tre notti, tornando sempre a questo punto che la chiamavano, che doveva partire, che lei non era veneziana, che aveva udito una voce del suo paese; e abbracciava la povera desolata Contarina dicendole: «Mamma, mamma, conducimi via!» Allora Contarina, ricordandosi delle parole udite in sogno e pensando che a Venezia sarebbe stato impossibile tener Màlgari lontana dalla musica, se non dalla poesia, propose al marito di partir per la sua isoletta di Syra nell'Arcipelago greco, dove aveva un palazzo che sorgeva fra boschi di ulivi, di aranci e di lauri a guardar il mare. L'isola non era abitata che dai coloni e dai giardinieri di Contarina. Sua Eccellenza Contarini rispose ch'era una pazzia e ch'egli non poteva spiantarsi da Venezia. Contarina si ostinò e partì sola con Màlgari. * * * Tutti gli abitanti di Syra ebbero subito assoluto divieto di tenere strumenti di musica e di cantare. Contarina proibì persino di suonar le campane della chiesa perchè la sera stessa del suo arrivo all'Ave Maria, Màlgari si era tutta rimescolata udendole suonare nella solitudine, tra il fragore del vento e delle onde. Non per questo la bambina riebbe l'umor lieto di prima. Giuocava di rado, adesso, e non rideva quasi mai; era però contenta di trovarsi proprio in mezzo al mare e passava lunghe ore sul lido ad ascoltar la gran voce dell'Egeo. Avanzando negli anni diventò avida di letture e fece lunghe dimore nella biblioteca del palazzo, dove una volta sua madre la trovò a leggere il Tasso, con gli occhi scintillanti, con il polso e il calor febbrile, ebbra di quella poesia. Perciò Contarina fece togliere dalla biblioteca e bruciare tutti i libri di versi. Sua Eccellenza Contarini non veniva a Syra che una o due volte l'anno nè vi si tratteneva più di tre giorni. Egli era irritato, sulle prime, di ciò che chiamava la pazzia di sua moglie; poi vi si abituò. Màlgari si affliggeva segretamente di veder che suo padre e sua madre non si amavano più e aveva pregato più volte quest'ultima di ricondurla al padre, non sapendo il segreto della propria origine e della fuga da Venezia che ella attribuiva a quel suo capriccio infantile di bambina malata. Ma sua madre l'avea sempre supplicata, prima con baci e carezze, poi con lagrime, di non insistere. Màlgari era sui tredici anni quando una cameriera cacciata le disse, per vendetta, come ella fosse entrata in casa Contarini; per mano dei ladri e di zingari. Màlgari gelò, diventò ben più bianca d'una perla, rispose a colei «vi perdono» e andò da sua madre, volle, colla fermezza severa d'una piccola regina, conoscere da lei la propria storia. Contarina le raccontò tremando il miracolo, e, il bel viso pallido di Màlgari si trasfigurò come se vi salisse dentro una luce di alba. «Sì, mamma» diss'ella «sento che non sono la zingara, che son la perla; ma non bisogna dirlo nemmanco all'aria che non m'ingiallisca, nemmanco al mare che non mi prenda. Ora spiegami perchè non vuoi che nessuno qui suoni nè canti e perchè non mi hai più lasciato leggere quel libro così dolce.» Contarina si schermì dal rispondere a queste domande, e Màlgari non insistette. Si accontentò di sussurrar nell'orecchio a sua madre, abbracciandola: «vorrei ritornare a Venezia». * * * Quella sera stessa la giovinetta discese al mare in un recondito seno chiuso fra due scogli neri dove l'onda si addormenta sulla sabbia fine e lucente, e grandi pini ad ombrello, levandosi sopra le macchie di Lauri, cantano ad ogni fiato di vento che passa in alto. Parve Màlgari non aver mai amato tanto il mare. Si lasciò cader sulla sabbia, si distese lungo l'umido confine dell'onda, se ne fece lambire dai piedi ai capelli, e l'onda era così tepida, molle, amorosa, che Màlgari parlò con lei, piano piano, figurandosi la sua vita antica di perla, aprendo il suo cuore, domandando all'acque materne quella dolcezza che aveva sentita una notte a Venezia, che aveva sentita un giorno nella biblioteca leggendo la storia di Clorinda e di Tancredi. E l'onda rispondeva piano piano, pareva che avesse in sè qualche cosa dell'una e dell'altra dolcezza, che promettesse molto più. Il cielo era oscuro, l'alto mare si confondeva con esso; ma, a poco a poco, Màlgari, non sapendo bene se fosse desta o no, vide tanti piccoli chiarori argentei movere da lontano verso di lei; distinse a poco a poco, in ciascun chiarore, una figurina umana, tante bionde e brune teste di giovinette che rompeano veloci le acque fosforescenti, tante picciolette mani che gittavano scherzando a manca, a dritta e in alto spruzzi di brillanti. Non entrarono nel seno dove era Màlgari, ma gli passaron davanti rapidamente, così da presso che il bagliore delle fosforescenze illuminava gli scogli, la riva ed il bosco. Ciascuna testina si voltava, passando, a guardar Màlgari ma nessuna venne a lei tranne l'ultima che girò fra gli scogli ed entrò nella rada, fermandosi a pochi passi dal lido. — Chi siete? — le chiese Màlgari. — Nereidi. — Nereidi? Allora sapete predir l'avvenire? — Sì. — Dimmi il mio. La piccola Nereide la guardò un poco e rispose: — Di musica e di poesia sei nata, in poesia e musica ritornerai. La Nereide aveva un delicato viso di bambina; ma gli occhi suoi erano belli, malinconici e profondi come d'una donna di trent'anni. — Come sei bella! disse Màlgari. — Vieni a darmi un bacio. — Non posso. Le Nereidi non toccano il lido. — Ci ritroveremo mai? — Io son del mare — rispose la malinconica testolina bruna. — Tu sei del cielo. E senza dirle addio girò veloce e disparve dietro lo scoglio, seguendo le sue sorelle. Màlgari se ne ritornò a casa, non parlò delle Nereidi e non domandò mai più a Contarina perchè la tenesse lontana dalla musica e dalla poesia. * * * Ella non rise più, dopo quella sera; e diventò ancora più dolce e pia. Nessuno soffriva nell'isola senza ch'ella pure soffrisse, senz'avere da lei pietà, aiuto e conforto. Ella entrava nelle case e nelle anime della povera gente, e nelle case e nelle anime restava un lume di lei. Ritornò sovente, la sera, a quel golfo recondito ma non vide più le Nereidi. A quindici anni ne mostrava nel viso e nell'alta graziosa persona, dieciotto; e Contarina andava già pensando se le cercherebbe marito o no. Giovanni Contarini non veniva da due anni e scriveva di rado, non più di una volta ogni due mesi, quando la nave dei Borsari, mercanti a Rialto, andando a Smirne, toccava l'isola. Una volta la nave non portò lettere, portò invece la notizia che una terribile pestilenza era scoppiata in Venezia. Contarina ne fu atterrita pensando al pericolo del marito, al rimorso proprio s'egli venisse colto dal morbo e lei non fosse ad assisterlo; ma molto più rimase atterrita quando Màlgari le dichiarò con i suoi modi miti e risoluti che il loro dovere era di ritornare a Venezia e che bisognava compierlo. Contarina piegò il capo come lo avrebbe piegato davanti a Dio e quindici giorni dopo le due signore entravano nel loro palazzo della Madonna dell'Orto dove Giovanni Contarini era morto di peste il giorno innanzi. Contarina si disperò, pianse molto e propose a Màlgari di partire subito; ma la fanciulla che non aveva strillato nè pianto, le rispose che se Contarini era morto nell'abbandono, la colpa ne pesava sopra di loro e bisognava espiarla. Ella stessa, per sua parte, intendeva farsi infermiera degli appestati. Contarina si sentì morire ma non ardì opporsi perchè Màlgari aveva parlato con un'aria di regina e anche di Santa. * * * Questa si pose subito all'opera. I poveri infermi erano spesso abbandonati, per paura, dai loro parenti, si trascinavano spesso a morire sulla pubblica via. Màlgari, con quella sua bellezza mistica, con la voce soave, con le delicate mani abili a tutto e di nulla sdegnose, fu invocata e benedetta da ricchi e da poveri, che la chiamavano la _Madonna dell'Orto_. Ella assistette, fra gli altri, un giovine musicista straniero, venuto dal Nord in Italia per l'arte sua; un povero bello e gentile giovane, che, guarendo, si innamorò forte di lei e non glielo potè dire perchè ella, sentendo pure confusamente che l'avrebbe amato e che quello non era il tempo di amare, lasciò a un tratto di visitarlo. Cessata la morìa, pensò ancora a lui, e molto; ma non lo vide più. Il Senato la onorò grandemente, il Doge fece ancor più: la domandò in isposa. Contarina, malgrado mille trepidazioni sue proprie e la fredda renitenza di Màlgari, fu di avviso che non si potesse rifiutare il Doge. Tuttavia Màlgari lo rifiutò, e solo per ischerzo soggiunse che s'egli dotasse tutte le donzelle povere e ricoverasse tutti i pezzenti di Venezia ci ripenserebbe; se poi levasse dalla piazza di S. Marco il Campanile cui non poteva soffrire, si risolverebbe addirittura di sposarlo. Il Doge rispose che le due prime condizioni erano accettate e che eseguirebbe anche l'ultima nel terzo anno dalle nozze. Màlgari si rattristò assai perchè se diceva di no toglieva pane, tetto, allegrezza a tante migliaia di creature umane e il sì le ripugnava oltremodo. Le parve che il bene fosse dalla parte del sacrificio e si sacrificò. * * * Per ritardare le nozze, pregò all'ultimo momento che si celebrassero nell'isola di Syra. Il Doge acconsentì e i due fidanzati partirono sopra due navi della Repubblica, accompagnati dai loro parenti, da un gran numero d'amici, di clienti e di servi. Era il plenilunio di agosto e la seconda notte del viaggio, una notte splendida, Màlgari salì sola verso il tocco in coperta a goder la luna ed il fresco. Sedette a prora contemplando il mare e dopo qualche tempo s'avvide di un marinaio che voleva accostarsi a lei e non ardiva. Gli domandò affabilmente che desiderasse ed egli si scoperse per il giovane musicista straniero guarito dalla peste. Màlgari si turbò profondamente, non gli chiese perchè si trovasse a bordo in quel travestimento; e il giovane le disse solo che il suo repentino abbandono l'aveva accorato e che ora era felice di poterle almeno dire «grazie». Per la prima volta un lieve color di rosa passò non veduto sul viso della fanciulla che lasciò cadere questo discorso. Pregato da lei, il giovane straniero parlò del suo paese. Era un paese lontano lontano verso il nord, cinto a mezzogiorno e a ponente da un mare tempestoso d'estate, gelato d'inverno, un triste, povero paese tutto scogli, laghi, boschi di betulle che negli anni di carestia si scorticano per farne pane; un paese di gente buona e semplice, di pescatori che errano sui laghi nei tronchi incavati degli abeti, che cercan la trota sotto le cascate spumanti, di cacciatori che inseguono l'anitra selvatica e l'_eider_ fin sulle onde del mare, che volano sulle slitte veloci in traccia della volpe, del lupo e dell'orso; un paese povero d'oro, conchiuse il giovane, ma ricco delle due più belle cose che il mondo abbia, la musica e la poesia. Màlgari trasalì. «Come mai?» esclamò. «Come può dir questo?» Allora il giovane straniero le parlò di un magnifico poema della sua patria, che ancora si cantava dal popolo, nella fredda stagione intorno al focolare domestico e nell'estate all'aperto, sulle praterie, sulle sponde fiorite dei laghi, sui lidi del mare. E le raccontò le parti più belle del poema, storie d'amore, storie d'odio, storie di pace, storie di guerra. In ultimo le raccontò la storia di un gran vecchio glorioso, poeta e Re, che cantando sul lido s'intenerì del proprio canto, e pianse, e le lagrime cadendo nel mare, vi diventarono perle. Màlgari voltava le spalle alla luna che battea sul viso dello straniero; seguiva il racconto con gli occhi spalancati, intenti, stringendosi le mani di ghiaccio sul petto pieno d'amore e di dolor mortale. «Perchè» susurrò poi ch'egli tacque «perchè non vi ho riveduto prima?» E subito si pentì di queste parole, si voltò a guardare il mare in silenzio. Ed ecco non tanto lontano i correnti chiarori argentei, le testine bionde e brune delle Nereidi. Màlgari credette ravvisar la sua, la sola che si voltasse a guardar il bastimento; credette incontrare e intendere quello sguardo. «Mi suoni» diss'ella subito al giovane «mi suoni il canto del vecchio poeta». * * * Il giovane andò e tolse il suo strumento, un violino italiano, «Grazie» disse Màlgari al suo ritorno. «Aspetti, non voglio esser veduta se mi cercano.» Sedette fra il cannone di prora e il parapetto della nave. Lo strumento suonò, con tutta l'anima sua di patriota, di artista, e di amante, una musica sublime. I delfini innamorati seguivano la nave, i marinai e gli ufficiali, i servi e signori accorsero, si affollarono sul ponte ad ascoltare il magico suono senza che il suonatore se ne avvedesse. Quando se ne avvide s'interruppe, volle congedarsi da Màlgari; ma di lei non trovò più che un fazzoletto bagnato di lagrime. La gente stupida credette che si fosse gittata dalla nave per non andare sposa del Doge. Contarina Contarini morì di crepacuore vedendola tornata in perla sul fondo dell'Adriatico, ma noi non abbiamo queste idee sciocche e tristi. Se di lei solo rimase un fazzoletto bagnato di lagrime, noi sappiam che la perla era fatta di lagrime appunto e dell'anima d'un poeta; noi sappiamo cos'ha detto la piccola Nereide malinconica dell'Egeo: «Io sono del mare, tu sei del cielo». INDICE Idillii spezzati Pag. 1 Il Crocifisso d'argento » 43 La visita di Sua Maestà » 65 L'orologio di Lisa » 81 La lira del poeta » 101 La stria » 115 Per una foglia di rosa » 147 Il testamento dell'orbo da Rettorgole » 171 Il folletto nello specchio » 183 Màlgari » 197 NOTE: [1] Scrittoio. [2] La balia. [3] La storia del sior Intento è uno scherzo che si fa ai bambini per pigliarsi giuoco della loro curiosità. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Idillii spezzati" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.