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Title: Idillii spezzati
Author: Fogazzaro, Antonio
Language: Italian
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                           ANTONIO FOGAZZARO


                            IDILLII SPEZZATI

                             RACCONTI BREVI



                                 MILANO
                 CASA EDITRICE BALDINI, CASTOLDI & C.º
                  Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80
                                   —
                                  1902



                     PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

                _MILANO-TIP. PIROLA & CELLA DI R. CELLA_



Idillii spezzati


Io tengo a Oria, sulle rive del lago di Lugano, una piccola villa
battuta dalle onde a piede di un monte vestito di ulivi, di viti ed
anche di allori, che nessun poeta, prima di me, è andato a cercare.

È un ameno e tranquillo angolo del mondo, caro ai sognatori e agli
artisti. Quando sono a Oria passo gran parte della giornata sul lago,
solo nel mio canotto, vestito come un barcaiuolo, con qualche libro e
i miei arnesi da pesca. Quest'abitudine mi procurò, molti anni sono, la
più romanzesca avventura della mia vita.

Approdai una mattina col canotto a una spiaggia fra due scogli in
faccia a Lugano, dove c'è adesso la trattoria del Cavallino. Allora
il luogo era del tutto selvaggio e deserto. Vi ha fra i due scogli
un piccolo valloncello ombroso che conduce a una sottile argentea
cascatella. Avevo pescato lungo le rive sassose del monte Caprino e
rotta la mia pesca senza pigliare un pesciolino.

Uscii della barca, sedetti all'ombra e mi posi ad accomodar la pesca.
Ero lì da pochi momenti, quando udii in alto, sopra la cascatella, una
rude voce d'uomo e piccole risate, piccoli strilli, come se ci fossero
lassù delle signore imbarazzate a discendere. Infatti vidi calare
adagio, sul pendìo erboso presso la cascatella, una bella fanciulla
che aiutò con l'ombrellino un'altra giovanettina sui quattordici anni,
che portava un canestro. Ultimo comparve, aggrappandosi all'erba e
molto brontolando, un signore piuttosto attempato. Tolsero dal canestro
_sandwiches_, bottiglie e frutta, e si disposero a far colazione.
Il signore attempato, una figura massiccia dal naso rosso e dai
favoriti grigi, pareva seccato della mia vicinanza; ma la maggiore
delle signorine, datami una rapida occhiata disse sprezzantemente: _A
fisher!_ (un pescatore).

Rimasi un po' male e mi parve di diventar rosso. Coloro non fecero più
attenzione a me, si misero a mangiare e a discorrere allegramente. Io
che duro una gran fatica, di solito, a intendere chi parla inglese,
fui meravigliato della chiarezza con la quale parlava quella gente,
specialmente la signorina che aveva detto: _A fisher_. Questa era
bellina assai, snella, piuttosto alta; aveva capelli bruni e begli
occhi azzurri chiari. Non so più dire come fosse vestita; so che
aveva un mazzolino di ciclami alla cintura, che i suoi piedi parevano
piuttosto grandi e che la mano invece era squisita.

Io avevo allora un cuore assai tenero, e la mia immaginazione era
sempre pronta a vedere anime appassionate, tesori d'amore in tutti i
begli occhi che si fossero incontrati tre o quattro volte con i miei.
Veramente gli occhi della signorina mi avevano guardato una volta
sola e quasi con disprezzo: ma appunto il suo supposto disprezzo mi
infiammava l'immaginazione. Quand'ero ragazzo mi piaceva d'immaginare
avventure amorose le più strane e inverosimili. Le donne delle mie
avventure erano sempre belle e altere. Io ero un principe incognito.
Chiedevo amore ed ero disprezzato; allora mi scoprivo e le altere
bellezze cadevano a' miei piedi. Più tardi ho trovato che tutto questo
non era molto nobile ed ho interamente cambiato idee. Mentre però
guardavo e tornavo a guardare il delicato viso e la graziosa persona
della fanciulla che mi aveva disprezzato, mi passò per la mente, non di
farla cadere a' miei piedi, perchè non ero un principe, ma di colpirla,
d'imporle un certo rispetto, sfoggiando il mio inglese e la mia
letteratura.

Appena il signore attempato ebbe inghiottita una conveniente quantità
di _sandwiches_, cominciò a discorrere del ritorno a Lugano, e capii
che non voleva saperne di arrampicarsi ancora sul monte per andare a
prendere il vapore alla vicina stazione di Caprino. Che sorpresa se
il pescatore si fosse presentato con un'aria signorile e un leggero
sorriso a dire in inglese: «Le occorre un canotto, signorina? E un
pescatore per barcaiuolo? Devo io condurla su _the oval mirror of
the glassy lake_?» No, era troppo ridicolo; e se la ragazza mi avesse
riso in faccia, che potevo fare? Potevo forse dirle: «Badi, signorina,
che il verso è di Byron?» No, no, sarebbe stato più ridicolo ancora.
Raccolti invece i miei arnesi da pesca, li portai nella barca, nascosi
un volumetto di Heine che avevo con me, poi ritornai, mi accostai
al signore attempato e gli chiesi in italiano, toccandomi appena il
cappello, se voleva una barca per Lugano.

Il signore guardò la sua figliuola maggiore che gli spiegò la mia
offerta. Egli parve felice e mi rispose subito: _Yes, yes, Lugano,
Lugano._

— Diamo un'occhiata alla barca, papà — disse con la sua dolce voce
la signorina. — Non mi piacciono le barche dei pescatori. Son così
sudicie! Chi sa che puzza di pesce, papà!

Questa era un'amara ironia per me che avevo poco prima bestemmiato il
destino durante la mia disgraziatissima pesca.

L'altra giovinetta corse come una freccia alla riva e si mise subito a
gridare da lontano: Harriet! Harriet!

V'era sulla riva una sola barca e la ragazza non poteva ingannarsi. Era
bene la mia.

Miss Harriet fu molto sorpresa di vedere ch'era un'elegante barchetta
di quercia con i cuscini di cuoio e si persuase che non aveva affatto
odore di pesce. Anche il vecchio signore fu molto contento.

— Chiedetegli il prezzo, Harriet, — diss'egli. — I barcaiuoli son tali
malandrini, qui!

Non potei a meno di commovermi un poco; ma fu ancora peggio quando miss
Harriet rispose:

— Questo non mi pare un malandrino. Ha l'aria onesta, papà. — Poi si
volse a me e disse con un adorabile accento anglo-italiano:

— A Lugano! Quanto?

Arrossì leggermente anche lei parlandomi italiano. Era un tal piacere
di guardarla, mentr'ella stessa mi guardava arrossendo, che stetti un
bel po' senza rispondere. Poi dissi in fretta e a caso: — Cinquanta
centesimi.

— Quanto ha detto? — le chiese suo padre. — Dite ch'è troppo, Harriet.

— Ma non è troppo, papà, è un'inezia. — È meno che mezzo scellino.

La compagnia s'imbarcò e se mi fu poco piacevole di urtar su a bordo il
signore dal naso rosso, ebbi però il compenso di sentire per un momento
la mano fine di miss Harriet nella mia. L'altra ragazza saltò nella
barca senza l'aiuto di nessuno.

Il lago era liscio come uno specchio. Dal Cavallino a Lugano si può
andar bene in mezz'ora, ma io confesso che non avevo fretta. Nessuno
faceva attenzione a me e potevo guardare miss Harriet a mio agio. Mi
pareva essere già innamorato di lei, mi pareva che si potesse remare un
mese per mettere una parolina in quel piccolo orecchio roseo e venire
ascoltato; un anno per posare un bacio su quella delicata guancia e non
venir respinto; la vita intera per aver un tocco di quelle labbra fini
e poterlo rendere.

— Povero me! brontolò il vecchio signore, mentre io ero sprofondato in
questa proporzione geometrica.

— Credo che arriveremo a Lugano domani. Dite a quel poltrone di ragazzo
che remi più forte, Harriet.

Miss Harriet rispose con mio gran piacere che il lago era così
delizioso e che Lugano era noiosa. Poi mi domandò il nome dell'ardito
picco dirupato sopra la Valsolda.

— Picco di Cressogno — risposi.

— Cressogno? Cosa vuol dire Cressogno?

Ella non seppe intendere la mia risposta e sua sorella rise. Allora le
dissi in francese, sorridendo: Cressogno _c'est le nom du village que
vous voyez là-bas_.

Miss Harriet mi guardò attonita e io m'affrettai a dire che avevo fatto
il barcaiuolo sul lago di Ginevra.

La conversazione si animò. Il vecchio signore non sapeva una parola di
francese e miss Bertha, la ragazza più giovine, ne sapeva solamente
poche, ma Harriet lo parlava benissimo. Mi domandò molte cose delle
montagne e del lago, e io, per farmi interessante, mi dimenticai
un poco della mia parte, le parlai più come un artista che come un
barcaiuolo. Le mostrai la mia lontana Oria e le dissi che in una di
quelle casette battute dalle onde al piede della montagna vestita di
ulivi e di viti viveva un giovine scrittore italiano; che lo conducevo
spesso in barca e che mi ci divertivo moltissimo, specialmente quando
il lago era in tempesta. Allora mi posi a descrivere la selvaggia
bellezza della tempesta, la furia delle onde spumanti, i colori
cangianti delle montagne e dell'acqua, la luce dei lampi sul picco di
Cressogno.

— Harriet — disse il signore — come si dice _to row_ in italiano?

— Remare — diss'ella.

Egli si voltò verso di me e mi apostrofò:

— Remare, remare!

Non potei trattenermi dal ridere di cuore, e le ragazze risero con me.

Egli andò sulle furie, le sgridò e disse che io ero un impertinente
insopportabile.

Per alcuni minuti nessuno osò più parlare e io mi posi a remare di
lena. La giovinettina mi guardava spesso curiosamente; ma non ebbi mai
la fortuna d'incontrare gli occhi di miss Harriet. Pareva quasi che
volesse evitare il mio sguardo.

La prima che parlò fu Bertha. Disse, quasi sottovoce:

— Io penso che è molto intelligente.

— Può essere — rispose suo padre. — Certo è un gran chiacchierone ed è
molto brutto.

Mi divertii un mondo ad ascoltare questo dialogo e la discussione che
seguì. Adesso ebbi più d'uno sguardo da miss Harriet.

— Proprio un barcaiuolo, — disse suo padre — ha orecchie grandi come
vele.

Poi fece la crudele scoperta che somigliavo al nostro _Jack_.... Chi
era il nostro _Jack_?

Le ragazze protestarono tanto forte da farmi sospettare che _Jack_
fosse una scimmia. La più calda a difendermi era la più giovane. Miss
Harriet criticò moderatamente l'opera della natura nella mia fisonomia,
disse che in complesso io ero piuttosto piacente e che v'era in me
qualcosa che insieme la imbarazzava e le piaceva.

Io non sapevo più come stare nè dove guardare e avevo una terribile
paura di tradirmi. Allora, siccome eravamo vicini a Lugano, domandai
a miss Harriet dove desiderasse scendere. Rispose: — Villa Ceresio,
— ch'è presso l'Hôtel du Parc. Poi domandai se forse desideravano
fare qualche altra gita l'indomani e se dovevo venirli a prendere. Si
accese una piccola disputa fra miss Bertha che insisteva per accettar
la proposta e suo padre che non pareva disposto a prender me per
barcaiuolo.

— Oh, papà! — supplicò la ragazza. — Una barchettina così bellina!

Mi parve che avesse le lagrime alla gola. Miss Harriet mi domandò
dove proponevo di andare. Io proposi di lasciar Lugano alle nove
del mattino, di scendere a S. Mamette, di fare una passeggiata nella
pittoresca Valsolda, di ritornare a S. Mamette per la colazione e di
ripartire quindi per Lugano.

Il vecchio signore si arrese.

— Si potrebbe prender con noi i Roberts — diss'egli.

— Oh sì, andiamo coi Roberts, papà! — esclamò miss Bertha.

Miss Harriet parve seccata e tacque.

Io protestai, mentalmente, che non amavo affatto questi Roberts
incomodi e che per parte mia potevano restare a casa.

Eravamo allora a pochissima distanza da villa Ceresio. Miss Bertha si
mise improvvisamente a battere le mani e a gridare:

— Eccoli! Ecco i Roberts!

Suo padre parve molto contento, e miss Harriet mormorò qualche cosa che
non giunsi a intendere; quando approdammo, miss Bertha uscì la prima,
dando la mano a suo padre, e io domandai a miss Harriet se dovevo
aspettare gli ordini.

Ella mi rispose che credeva di sì, posò sopra un cuscino della barca
una moneta da cinquanta centesimi, si chinò a guardare il mio Heine che
avevo nascosto male sotto un altro cuscino e che n'era scivolato fuori.

Sorrise, e mi disse piano, in tedesco:

— _Haben sie auch auf dem Rhein gerudert?_ (Ha remato anche sul Reno?).

E saltò agilmente a terra senza lasciarmi il tempo di rispondere.

Mi balzò il cuore di piacere. Non mi faceva ella discretamente capire
di avere indovinato il mio segreto? Sentii che cominciava qualche cosa
di delizioso e di serio. Ero tanto commosso che non feci attenzione
all'incontro con i Roberts. Nascosi meglio il mio Heine e sedetti nella
barca, pensando a ciò che poteva succedere.

Aspettai un pezzo, e nessuno veniva a dirmi niente.

Non vedevo qualcuno, ma udivo discorrere nel giardino, distinguevo le
voci di miss Bertha e di suo padre miste ad altre voci sconosciute.
Finalmente miss Bertha si affacciò alla ringhiera del giardino con un
giovane ed elegantissimo signore che supposi essere il signor Roberts,
il quale mi domandò in buonissimo italiano se lo avrei accompagnato a
Castagnola.

Castagnola era sulla mia strada per ritornare a Oria. Risposi di sì.
Allora la ragazza mi disse in francese:

— _Demain matin, à neuf heures, ici._

Poi comparve il vecchio signore, tutto sorridente e fiero, a braccio di
una bella ed elegante giovane signora fra i venticinque e i trent'anni,
che Bertha chiamava miss Roberts. Miss Harriet non comparve.
Considerando la bellezza e l'eleganza del giovine signor Roberts, io ne
fui quasi contento.

Quando i signori Roberts furono nella mia barca e li potei vedere
da vicino, la fisonomia del giovane signore mi dispiacque molto. Era
veramente un bel giovane, alto, bruno come un arabo, con due grandi
occhi neri e una barba nera, folta, corta, che sarebbe stata molto
conveniente per un nipote dell'emiro Abd-el-Kader; ma lo sguardo era
egoista, sfrontato e falso.

Mr. Roberts aveva una voce strana, piuttosto aspra; miss Roberts
invece, bianca, bionda, con gli occhi celesti, languidi, aveva una voce
sottile, dolce e un poco sonnolenta.

Mentre ci allontanavamo dalla riva, ella si voltò, spinta da lui, a
salutare gli amici con una certa grazia stanca e noncurante, mentre
egli invece salutò con calore a più riprese, gridando:

— A domani! A domani!

Ciò che successe poi mi riempì di stupore. Appena ebbero cessato di
voltarsi verso villa Ceresio a salutare, le due faccie cambiarono in
un modo incredibile, diventarono più fredde e dure che non posso dire.
Quando si sentirono abbastanza sicuri di non essere uditi dalla riva, i
Roberts cominciarono in tedesco un dialogo stupefacente.

Miss Roberts dichiarò che l'indomani non sarebbe andata in nessun
luogo, e Mr. Roberts le rispose con una tremenda bestemmia che s'ella
non veniva l'avrebbe battuta.

Ella pareva del tutto abituata a simili minaccie, perchè non se ne
turbò troppo, e cominciò a burlarsi del suo compagno per il suo poco
successo con le americane. Così appresi che miss Harriet era americana.
Subito dopo ne appresi anche il nome.

— Miss Forest ti conduce a scuola — disse la giovane. — Vedo bene
che diffida di noi. Finirà a scoprire ciò che siamo. Per me, ne avrei
piacere.

Egli bestemmiò e rispose ch'era impossibile.

— Glielo dirò io! — fece la signora con tranquilla insolenza.

Egli si pose a ingiuriarla con ira; ella gli replicò con disprezzo.
Si rinfacciarono l'un l'altro ogni sorta di vergogne e maledissero il
giorno e l'ora in cui s'erano incontrati.

Io fui più volte per esclamare che tacessero, che comprendevo il
tedesco! Se miss Harriet non fosse esistita, l'avrei fatto. Così,
indovinando che si ordiva una odiosa trama contro di lei, e che, se la
donna era forse più infelice che colpevole, l'uomo era certo un gran
furfante, non mi tenni obbligato a farlo.

Perciò, quando deposi sulla riva di Castagnola quella coppia
rispettabile, sapevo un poco anch'io chi erano, o piuttosto sapevo
chi non erano. Non erano fratello e sorella, non erano Roberts, non
erano inglesi. Probabilmente l'uomo non era neppure tedesco, perchè nel
calore dell'ira gli udii pronunciare delle imprecazioni in una lingua
a me del tutto sconosciuta. Non erano marito e moglie, non avevano una
dimora in alcuna parte della terra.

Il bel cavaliere non aveva danaro, malgrado i mezzi che adoperava,
secondo la sua dama, per procurarsene. La famiglia della dama ne aveva,
e veniva onorata da lui col titolo di «banda di ladri» perchè non ne
mandava. Dopo essersi amati, Dio sa per quanto breve tempo, quei due
si odiavano l'un l'altro, ed era difficile intendere quale legame li
tenesse avvinti. Per parte mia, pensai che l'uomo tenesse quella donna
per interesse e ch'ella lo servisse per paura.

Egli le parlava con insolenza della sua passione per miss Forest e
di un futuro matrimonio. Era un brutale capriccio, come doveva averne
quel briccone, o credeva egli stesso che miss Forest avesse una ricca
dote? Questo non lo so. Aveva imposto alla sua disgraziata schiava di
aiutarlo ad entrare nelle buone grazie del professore Forest. Si capiva
che la miserabile creatura, benchè combattuta da un ultimo senso di
dignità e d'onestà, sarebbe stata contenta di questo matrimonio che
l'avrebbe liberata da lui per sempre.

Nell'uscire di barca l'uomo mi domandò, ancora in italiano, quanto
mi dovesse. Avendogli io risposto ch'ero già stato pagato, si strinse
nelle spalle e se n'andò con la sua compagna.

Io avevo un amico a Castagnola. Andai a cercarlo e gli domandai se
conoscesse i Roberts. Non no sapeva il nome, ma li riconobbe alla mia
descrizione. Vivevano in una piccola villa sulla strada di Lugano. Si
diceva che facessero commercio di gioielli orientali antichi e che la
signora avesse la parte di far relazioni e di adescare compratori. Si
affermava pure, con sicurezza, che il signore avesse avuto una condanna
in Italia, per truffa. Erano a Castagnola da un mese e avevano la villa
per un altro mese. Feci il tragitto da Castagnola a Oria con l'idea
d'essere diventato un personaggio importante d'uno strano dramma, dove
avevo la parte di salvare l'innocenza e di fulminare i suoi nemici. E
poi, quale sarebbe il mio premio?

È strano che non potevo immaginare la gratitudine di miss Forest.
Invece mi sentivo intorno al collo le braccia e sul viso i favoriti del
suo vecchio padre, e non ero ancora abbastanza innamorato della figlia
per immaginare con piacere questi austeri ed ispidi contatti.

Vivevo allora solo con una sorella maggiore nubile, una donna molto
seria e positiva che aveva per me un'affezione materna, profonda, ma
non cieca. Ella mi vide arrivare a casa tanto agitato che sospettò
subito di qualche cosa. Le raccontai tutto, parlando il meno possibile
di miss Forest, e il più possibile dei Roberts. Mia sorella non capì
affatto la mia nobile parte nel dramma, disapprovò il mio scherzo, e mi
disse:

— Non andrai mica, domattina, suppongo?

— Come non andrei? ma sì, certo, andrò. È il mio dovere di onest'uomo e
di cristiano di andare.

Mia sorella mi domandò se fosse il mio dovere di cristiano
d'innamorarmi di tutte le belle ragazze che vedevo e di correr loro
dietro. Io le risposi sdegnosamente che le sue idee erano sempre basse.
Non tornammo più sull'argomento. Solamente la sera, quando ci separammo
per andare a letto, ella mi disse che se io credevo mio dovere di
onest'uomo di condurre inglesi o tedeschi o turchi a far colazione in
casa, il dovere suo di donna cristiana era di dar loro pane e acqua.

L'indomani mattina alle nove ero a Villa Ceresio. Miss Bertha era già
in giardino ad aspettarmi e corse subito a chiamar suo padre e sua
sorella.

Miss Harriet aveva una _toilette_ elegante di flanella chiara con
grandi bottoni bleu, cintura bleu e un berrettino bleu. Mi si strinse
il cuore pensando che quel delizioso berrettino potesse essere dedicato
a M.r Roberts.

Ella mi salutò appena, senza parlare. Meno di così non avrebbe potuto
salutarmi; eppure io vidi sul suo viso, quando lo piegò un poco, che
non avrebbe salutato il barcaiuolo a quel modo. Mi accorsi pure che
appena seduta mi diede due occhiate rapide come per esaminare i miei
abiti. Ella si aspettava qualche cambiamento con intenzione, e c'era.
Avevo i miei bottoni d'oro da polsini, col monogramma, e un anello
con un piccolo brillante. Nella prima occhiata vide l'anello, nella
seconda vide i bottoni; ne fui sicuro, benchè il suo volto non tradisse
la menoma sorpresa. Per un pezzetto non mi guardò più, guardò a destra
verso il Cavallino dove c'eravamo incontrati il giorno prima. Nella
mia emozione diedi tre o quattro forti colpi di remi. Suo padre e sua
sorella mi guardarono meravigliati; ella seguitò a guardare verso il
Cavallino. Solo quando ripresi a remare tranquillamente i nostri occhi
s'incontrarono e si fermarono. Lugano, Villa Ceresio, il Monte San
Salvatore, i favoriti di sir Forest, tutto mi fece intorno la _grande
ronde_.

Intanto un battello partiva da Lugano per Oria e passava a poca
distanza da noi.

— Si poteva prendere il vapore! — brontolò il vecchio signore.

— Ma non fa stazione a Castagnola, papà — disse Bertha.

Si misero allora a parlare dei Roberts, e Harriet prese parte alla
conversazione. Ella propose di non fermarsi a Castagnola. Sua sorella
protestò e il papà diede ragione a lei.... Bertha era innamorata di
miss Roberts e ammirava molto anche sir Roberts. Suo padre diceva
che sir Roberts era un colto e intelligente giovine e che i suoi
gioielli antichi erano magnifici. Io sospettai che agli occhi di
quell'eccellente signore il gioiello più magnifico fosse il più
moderno, miss Roberts, perchè non parlò mai di lei. Miss Harriet disse
forte, quasi con affettazione, che preferiva i gioielli di Parigi a
quelli di Memphis, e che il primo torto del signor Roberts era di
essere antipatico e il secondo di avere miss Roberts per sorella.
Aveva probabilmente osservato i maneggi della signorina con suo padre,
perchè parlò di lei senza misericordia, come di una bambola dai capelli
gialli, d'un ritratto dell'accidia sonnolenta.

Bertha difese vivacemente i suoi cari amici. Il professore Forest era
molto inquieto e borbottava come un vecchio orso malcontento. Egli non
osò confutare Harriet, ma disse che le sue figliuole gli dovevano di
essere cortesi con i suoi amici.

— Non sapevo che fossero vostri amici — disse la ragazza, impallidendo.

— Lo sono — rispose il vecchio. — Io ho molti doveri verso il signor
Roberts per informazioni preziose che mi ha dato circa i gioielli
siro-fenici e penso che la sua relazione vi è tornata molto utile
quando ci siamo incontrati presso Pontresina, dopo quella disastrosa
discesa dal Piz Zanguard. Siete stata ben contenta, allora, di
accettare....

Qui egli s'interruppe:

— Gli scialli di sua sorella, sì — disse Harriet. — Avete ragione,
papà. È stato un atto magnanimo.

Ci accostavamo a Castagnola. Miss Harriet era visibilmente turbata
e non mi guardava più. Invece di dirigermi all'approdo, io voltai a
poco a poco la barca nella direzione di Oria, cercando gli occhi di
lei, volendo significare che avevo l'intenzione di non approdare a
Castagnola senza un ordine. Il professore si accorse della cambiata
direzione e mi indicò, emettendo voci inarticolate, il luogo dove
bisognava approdare.

Io guardai ancora, prima di ubbidire, miss Harriet, aspettando che
dicesse qualche cosa. I nostri occhi s'incontrarono e vidi ch'ella
m'aveva inteso. I begli occhi azzurri mi guardarono sorpresi e mi passò
per la mente che mi domandassero se avessi remato anche sul Tamigi; ma
nessuna parola venne, e approdammo a Castagnola.

Passarono alcuni minuti e i Roberts non comparivano. Bertha faceva
molte diverse supposizioni. Suo padre e sua sorella non parlavano.
Finalmente il vecchio signore si alzò e disse che sarebbe andato
a vedere. Miss Bertha si alzò pure per andar con lui; miss Harriet
dichiarò che restava in barca. Io la guardai palpitando. Aveva le
sopracciglia aggrottate, certo non per l'idea di restar sola con me.

Essa non m'incoraggiò con un solo sguardo, ma io ero risoluto di
parlarle ad ogni modo. C'erano otto o dieci minuti di cammino dallo
sbarco di Castagnola alla villetta dove abitavano i Roberts.

Quando il vecchio signore e la giovinetta si furono allontanati, io
dissi a miss Harriet in francese:

— Signorina, io non posso più fingere con lei.

Ella si turbò.

— Ah! — disse. — Lei è lo scrittore italiano?

— Sì.

— L'ho sospettato subito ieri — esclamò, alzandosi. — Perchè questa
commedia? Suppongo ch'ella sia un gentiluomo, signore. È stata una
bella cosa di burlarsi di noi? Non credo di potere star qui, adesso.

— Oh, si fermi, signorina! Io non ho voluto burlarmi di Loro. No
davvero! È stata una piccola vendetta — soggiunsi sorridendo. — Si
ricorda che mi ha creduto un pescatore, quando mi ha visto raccomodar
la pesca? I suoi occhi esprimevano disprezzo, e dopo averla veduta non
potevo rimanere sotto il suo disprezzo.

— Ma non era disprezzo, signore! Era solo un equivoco. È possibile che
io rispetti un pescatore onesto più d'un poeta che inganna!

— Non ho voluto ingannarla, signorina; ho voluto piuttosto
disingannarla. Desideravo farle sapere che non ero tanto inferiore a
Lei quant'Ella aveva creduto. In principio ero mosso dall'orgoglio;
ma poi vennero altri sentimenti molto migliori. Sono felice di poterle
dire che Le sarà utile d'avermi conosciuto.

— Perchè, signore?

Vidi ch'ella era commossa e avida di una spiegazione.

— Sieda, signorina! — dissi. — Non parlerò se non siede.

Riprese il suo posto di prima, e io continuai dopo un momento di
esitazione.

— Intendo un poco l'inglese, signorina, specialmente l'inglese degli
americani.

Miss Forest trasalì.

— Oh, signore! — esclamò. — Davvero? E Lei ha ascoltato, ieri, ciò che
dicevamo noi; questo non è stato bello, signore! No, no, no!

Ella si coperse il viso con le mani, fra sdegnata e ridente.

— Di grazia, signorina — diss'io — quel signor _Jack_ che mi somiglia
tanto, sarebbe una scimmia?

— Ella meriterebbe che lo fosse — rispose miss Forest, ridendo, senza
scoprirsi il viso. — Ma non lo è.

— Bene, signorina, mi perdoni e mi ascolti, adesso. Devo darle notizie
dei Roberts.

— Davvero?

Le mani le caddero dal viso ed ella si piegò ansiosa verso di me.

— L'uomo è un abominevole briccone — diss'io — e la donna è la
sua schiava. Non sono fratelli. Ci deve essere fra loro un legame
vergognoso. Non sono inglesi. Lo stesso nome Roberts è falso. L'uomo
s'è messo in capo di sposar Lei, signorina.

— Ma come ha Lei saputo questo?

Vidi ch'ella dubitava di me.

— L'ho saputo ieri — risposi — venendo con loro da Lugano a Castagnola.
Hanno sempre parlato di questo. Ho appreso così il Suo nome e la
Sua patria. Lo so, miss Forest, Lei si domanda se deve credere a uno
straniero che le è perfettamente sconosciuto?

Ella tacque, ed io rabbrividii.

— Mi creda — esclamai — La supplico di credermi! Non sono un mentitore!
Non lo vede? Non lo sente? Piuttosto lasciarla in questo istante e non
vederla mai più, ch'esser creduto da Lei un bugiardo. Addio, signorina!

Stavo in piedi sulla riva, risoluto d'andarmene, senza pensar affatto
alla mia barca.

— Si fermi — disse miss Forest, quasi sottovoce, dolcemente. — Le credo.

Io sedetti sulla prora della barca e mormorai:

— Grazie!

Nel silenzio che seguì, udimmo presto i passi del professore e di miss
Bertha che ritornavano.

— Sia lode a Dio! — disse Harriet. — Sono soli! Ho bisogno di domandare
ancora qualche cosa, ma adesso è tardi.

Infatti in quel momento sir Forest e sua figlia comparvero sulla riva.

Non erano soli. Dietro a loro veniva il signor Roberts in una elegante
_toilette_ da mattina.

— Mi rincresce — diss'egli a miss Harriet, dopo averla salutata. — Mia
sorella non sta bene e manda le sue scuse.

Egli era bello, elegante, e sedette vicino a miss Harriet, ma non avrei
cambiato posto con lui. Ella non avrebbe potuto essere più gelida.

Quegli non ebbe l'aria di accorgersene; invece il padre ne soffriva
visibilmente e cercava di parlare a Roberts, di esser gentile con
lui quanto poteva. Allora sua figlia mi guardava; i nostri occhi si
parlavano. Ero felice che gli altri mi credessero ancora un barcaiuolo,
che lei sapesse e tacesse.

Quando passammo davanti al piccolo promontorio dove sta il villaggio
di Gaudria e si scoperse la Valsolda, miss Harriet mi domandò in
italiano se il paesello che si vedeva a prora fosse Oria, e sir Roberts
s'affrettò a dire ch'era Osteno. — È Oria — diss'io. — Colui dichiarò
allora in inglese, che io non sapevo niente. La signorina sorrise e io
mi morsi le labbra.

— Una bella barchetta — diss'egli, dopo un momento. — Mi piacerebbe
d'averla.

— La comperi — disse miss Harriet, con un sorriso impercettibile.

— Sì. E se prendo la barca, non prendo certo il barcaiuolo. Non mi
piace affatto. Dev'essere un impertinente. E a Lei, signorina, piace?

Ella arrossì forte e io pure, temo. Evitammo di guardarci e la udii
rispondere in tono scherzoso:

— Lo rispetti, è il barcaiuolo nostro e non il Suo.

— Oh, sì, sì! — rispose colui con un sogghigno. — Lo rispetto, ma
insomma, Le piace?

— Lo credo onesto, e ciò che sopra tutto mi piace in un uomo è l'onestà.

I begli occhi azzurri si volsero a me e mi dissero: — Desiderava Ella
di più? Deve accontentarsi di questo.

Non m'aspettavo di più e me ne accontentai, pensai ch'ell'era una
intelligente, pronta, savia e franca creatura, e che chi l'avesse per
moglie dovrebbe andare orgoglioso di lei.

Il signor Roberts non si lasciò scoraggiare dalla sua freddezza. Parlò
continuamente con suo padre, con lei, con miss Bertha, di molte cose,
ma sopratutto di sè stesso, delle proprie qualità, dei proprii difetti.
Secondo lui, il suo difetto principale era il cuore troppo largo e
tenero. Per questo egli non aveva mai potuto arricchire. No, non era
ricco. Era forse una vergogna di non essere ricco? Non lo credeva.
Del resto, chi si poteva dire ricco che non avesse almeno quattromila
sterline l'anno? Egli non le aveva. La sua fortuna non era molto
inferiore, ma insomma non arrivava a questo. Voleva perciò lavorare
ancora. Intendeva passare ancora un anno in Oriente. Poi, quando avesse
potuto offrire a una donna amata tutte le dolcezze dell'esistenza,
sarebbe ritornato in Occidente, e, se non riuscisse a farsi amare come
e da chi voleva, sarebbe venuto ad abitare una riva solitaria del lago
di Lugano e avrebbe scritto un poema perchè amava molto la poesia.

Harriet ed io ci guardavamo spesso mentr'egli parlava e più d'una
volta, quando gli occhi nostri s'incontravano, vidi spuntare sulle sue
labbra un sorriso.

A mezza strada fra Gaudria e Oria miss Bertha si mise a guardar
la mia mano sinistra e lessi ne' suoi occhi una certa sorpresa. Si
chinò all'orecchio di sua sorella, le disse qualche cosa che la fece
arrossire. Sua sorella dovette risponderle di tacere, perchè diede
molte altre occhiate al mio anello e a me, ma non parlò.

A Oria il signor Forest propose di scendere e di camminare fino
a S. Mamette. Il cielo era coperto, molto opportunamente per una
passeggiata. Harriet approvò la proposta e Roberts si affrettò ad uscir
di barca col professore e miss Bertha. Ella disse allora che le faceva
molto piacere che suo padre camminasse, ma ch'ella sarebbe venuta a S.
Mamette in barca. Sir Roberts voleva subito risalire nel canotto, ma la
signorina lo invitò così recisamente ad accompagnar suo padre, ch'egli
non osò insistere.

Il cuore mi batteva di gioia e io stavo per ringraziare miss Harriet,
ma ella mi prevenne e si affrettò a dirmi che desiderava sapere
una cosa da me. Voleva sapere se avessi potuto scoprire particolari
intenzioni di miss Roberts. Non disse più di così; tuttavia intesi
benissimo. Risposi che, secondo me, miss Roberts aveva il compito di
sedurre una certa persona, ma che ubbidiva di malavoglia.

Passavamo, così parlando, sotto la mia piccola villa. La cameriera e
la cuoca erano a una finestra e mi salutarono sorridendo. Il domestico
spiava dal giardinetto, tenendosi nascosto fra le piante. Mia sorella
stava dietro ai vetri d'un'altra finestra. Indovinai subito che mia
sorella non aveva potuto tacere con le persone di servizio. Udii
distintamente la cuoca meravigliarsi ch'io avessi con me una signorina
sola.

— La Sua villa? — disse miss Forest. — Un bel posto!

Le dissi quanto sarei felice ch'ella vi potesse entrare almeno un
momento, quanto avrei goduto di farle vedere i miei fiori, i miei
libri; di dirle anche un poco i sogni che sognavo là, guardando le
montagne, il lago.

— È impossibile — rispose — E poi sarebbe anche triste di conoscerci
troppo, perchè credo che non ci vedremo mai più. Ma io ho visto un
arancio nel suo giardino e accetterò un piccolo ramoscello d'arancio.

— Non ci vedremo mai più? — esclamai, cessando di remare.

Ella non rispose e mi parve commossa. Ci guardammo in silenzio un
momento, poi ella sorrise leggermente, e disse:

— Come diceva, ieri, mio padre? _Remare, remare!_ Vorrei portar via
mio padre domattina — soggiunse. — Vorrei che fosse possibile di
fargli sapere, di fargli credere quelle cose orribili che Lei mi ha
raccontate!

— E se le credesse, vorrebbe Lei ancora partir domani?

— Sì; credo che sarebbe necessario.

— E dove andrebbe?

— In America.

— E se io l'aiutassi a far credere quelle cose orribili a suo padre,
avrebbe Lei una briciola di gratitudine, si dimenticherebbe di me in
America?

Miss Harriet mi stese silenziosamente la mano, che io subito presi fra
le mie, lasciando i remi.

— L'aiuterò, miss Forest, e sono sicuro di riuscire. Ho preso più
interesse a Lei, signorina, che non avrei creduto possibile in così
breve tempo. Diventerò il mio proprio nemico purchè ella sia contenta.
Non merito che si levi il guanto?

Si tolse il guanto, e senza curarmi che dalla riva qualcuno ci potesse
vedere o no, io posai e tenni un momento le labbra su quella bianca
mano, ch'era fredda, per l'emozione, come il ghiaccio.

— È strano — diss'ella, poi, sorridendo — che io non so neppure il suo
nome.

Glielo dissi, e poi si parlò di letteratura inglese, dei romanzi
che conoscevamo l'uno e l'altra. Era un modo per me di esprimere
i miei sentimenti e per essa di mostrare che non le dispiacevano.
Fui particolarmente contento di udire che fra i romanzi di Dickens
preferiva, com'io, «_A tale of two Cities_» e che Sidney Carton le
piaceva più di tutti gli altri personaggi di quel libro.

Era una gran gioia per me che le nostre anime si toccassero anche in
un solo piccolo punto. Questo bastava per far passare una corrente
elettrica che mi riempiva di dolcezza. Parlammo anche della Valsolda.
Solamente chi ha un raffinato e squisito senso della natura può
intendere il segreto fascino della Valsolda. La gente volgare non ne
capisce niente. Ella lo intendeva. Le domandai se le sarebbe piaciuto
di vivere in Valsolda.

— No — diss'ella. — Non lo credo. Ho un carattere strano. Questa
Valsolda mi sembra un porto. Mi piacerebbe vivere sul mare aperto e
morire qui.

Prima di giungere a S. Mamette dissi a miss Forest che trovasse modo
di raccontar subito ogni cosa a suo padre. Io poi lo avrei persuaso che
tutto era vero. Ella mi porse da capo la mano.

— Grazie! — diss'ella. — Addio! — soggiunse sorridendo non senza
tristezza. — È meglio che ci congediamo adesso, mentre siamo soli.

— Ma io — risposi — ritornerò a Lugano con Loro.

— Lo desidera? — diss'ella. — Non sarebbe meglio separarci prima?
Potremo prendere un vero barcaiuolo che Le ricondurrà la barca. Ella mi
darà il ramoscello d'arancio e ci lascieremo qui.

Le domandai allora con voce tremante se il ramoscello d'arancio non
potrebbe forse un giorno dar fiori per una ghirlanda. Non m'intese o
non mi volle intendere. Non mi rispose. Forse, se intese, dubitò che
fosse una frase poetica, non abbastanza ponderata e seria. Forse aveva
altre ragioni; non ne so nulla.

— Addio! — dissi sottovoce.

Ella chinò leggermente il capo, come per gradire il mio saluto, e non
aprimmo più bocca.

Sir Forest e compagni ci aspettavano sulla riva. Miss Harriet
discese per andare a far colazione con loro, e io dissi che dovevo
allontanarmi, ma che sarei stato a loro disposizione fra un'ora.

Ritornai con la barca a Oria, mi vestii convenientemente, mi posi
all'occhiello un ramoscellino di arancio, e mi feci condurre a S.
Mamette dal mio domestico, molto in fretta, anche perchè il cielo era
diventato minaccioso.

Andai alla _Stella d'Italia_, dove i Forest erano a far colazione,
e mandai loro la mia carta da visita. Fui subito introdotto, e mi
presentai direttamente al signor Forest. Gli chiesi scusa, in un
detestabile inglese, se il giorno prima, avendo veduto che egli e le
signorine avevano bisogno di una barca, mi ero permesso di offrire la
mia con una innocente finzione.

Il signor Forest era rosso e confuso; non sapeva evidentemente quale
contegno tenere, se ringraziarmi o rimproverarmi. Miss Harriet mi
ringraziò col più gentile sorriso. Miss Bertha mi guardava stupefatta,
senza capir nulla. Mi voltai verso il signor Roberts, che mi guardava
pure alquanto meravigliato e pareva quasi non riconoscermi.

— Signore — gli dissi — Ella non è stata oggi molto gentile col
barcaiuolo; ma siccome La conosco, voglio essere generoso con Lei e
renderle ugualmente un piccolo servigio. La Sua signora Le manda a dire
che l'aspetta a Lugano, per affari urgenti, col vapore.

— La mia signora? — rispose il furfante — Lei s'inganna, signore. Io
non La conosco e non ho moglie.

— _Sprechen sie deutsch, mein Herr_ — diss'io in tono molto deciso. E
continuai in tedesco: — Lei avrebbe dovuto essere più prudente, ieri,
parlando con la giovine signora. Devo io ripetere ai signori Forest ciò
che ha detto? Non mi costringa a questo. Il battello diretto a Lugano
sta per arrivare qui. Parta! Parta subito!

L'uomo esitò un momento, poi si voltò ai Forest e disse tranquillamente:

— Me lo immaginavo. Questo povero signore che fa il barcaiuolo ha
perduto la testa. Mi parla una lingua che neppure comprendo!

Miss Harriet e suo padre mi guardarono, lei ansiosa, lui corrucciato.
Io aveva preveduto che l'uomo tenterebbe questo colpo.

— Caro signore — ripresi in tedesco, guardando l'orologio — Ella ha
sette minuti di tempo per prendere il vapore. Se ella resta qui,
Le prometto la preziosa conoscenza dei carabinieri di S. M. il Re
d'Italia, i quali desiderano avere una piccola conversazione con Lei.

Fu lui, allora, che perdette la testa e mi rispose:

— _Das ist nicht wahr!_

Io mi voltai ai Forest e dissi sorridendo:

— Il signore parla la lingua che non comprende!

Egli s'era già accorto del suo sproposito; come il giorno prima, cacciò
una imprecazione in una lingua sconosciuta; poi afferrò il cappello e
disse ai Forest, indicandomi:

— Se non parto, uccido quest'uomo! A Lugano mi giustificherò.

E scomparve. Io gli gridai dietro:

— Ella ha tre minuti!

Le finestre erano aperte. Si udivano le ruote del vapore che si
avvicinava.

Non ebbi le braccia del signor Forest in torno al mio collo, nè i suoi
favoriti grigi sulla mia faccia. Egli era molto turbato, e davvero, se
il mio idillio era spezzato, lo era pure il suo. Lessi invece con gioia
l'ammirazione e la gratitudine negli occhi di miss Harriet.

— Partiamo subito! — disse suo padre. — Torniamo a Lugano subito!

Io offersi la mia barca. Mr. Forest rispose abbastanza bruscamente che
mi ringraziava, ma che non accettava, e che intendeva cercare subito
un'altra barca.

Gli occhi di miss Harriet domandarono scusa per suo padre. Non
insistetti. Il signor Forest si avviò per uscire con le signorine, e
io le seguii col cuore pesante. Eravamo nel piccolo corridoio scuro e
stretto che serve d'ingresso all'albergo, quando un violento acquazzone
strepitò fuori sulla piazza. Il vecchio professore dovette fermarsi.
Egli e miss Bertha guardavano, stando sulla porta, il cielo tutto
bianco e le oblique righe della pioggia.

Io mi levai silenziosamente il ramoscellino d'arancio dall'occhiello e
lo porsi a miss Harriet. Ella lo prese pure silenziosamente, ne staccò
una foglia, se l'accostò alle labbra, me la diede e si nascose il
resto in seno. Allora cercai segretamente la sua mano che segretamente
rispose alla mia stretta.

Guardavamo anche noi in quel momento nella piazza, ma senza sapere se
vi splendesse il sole o vi cadesse la pioggia. Quando, dopo qualche
momento, ella ritirò dolcemente la sua mano, le vidi lagrime negli
occhi. La pioggia cessò; la barca fu presto trovata.

— Credo che La debbo ringraziare, — mi disse finalmente il signor
Forest nel congedarsi da me.

Miss Harriet non mi disse nulla. Solo mi guardò con uno sguardo che
m'entrò nel cuore e ancora di tempo in tempo mi fa male.

Due giorni dopo andai a Villa Ceresio. I Forest erano partiti. Passai
tre ore sopra un sedile del _quai_ presso l'_Hôtel du Parc_, all'ombra
delle acacie, a guardare il Cavallino, Castagnola, villa Ceresio, le
acque del lago scintillanti al sole. Il bel paese mi pareva scolorato,
vuoto e triste.

Non ho più veduto miss Harriet; non ho più udito parlare di lei. Sarei
felice se queste righe attraversassero l'Atlantico, cadessero sotto i
suoi occhi, o almeno sotto gli occhi di qualche amica sua, cui ella
avesse narrato questo episodio della sua vita. Io pregherei questa
sconosciuta amica di miss Forest di farle avere il presente racconto,
e anche di dirle che la foglia d'arancio baciata dalle sue labbra è
ancora custodita come una dolce, cara memoria, insieme alla monetina
d'argento, nella piccola villa battuta dalle onde, a piè del monte
coperto di ulivi, di viti e di allori.



Il Crocifisso d'argento


— Contessa, il caffè — disse la cameriera.

La contessa non rispose. Le persiane erano chiuse, ma si poteva
tuttavia vedere, sul velato candore del guanciale, il grazioso viso
inclinato della giovane signora che dormiva.

La cameriera, ritta accanto al letto, col vassoio del caffè, ripetè più
forte:

— Il caffè, contessa.

La contessa si mise supina, sospirò ad occhi chiusi e sbadigliò:

— Apri un poco.

L'altra andò alla finestra senza posare il vassoio e, nel tirar la
maniglia dell'imposta, rovesciò la tazza vuota sulla sottocoppa.

— Piano! — fece la contessa, sottovoce, ma con sdegno. — Cosa fai
stamattina? Dove hai la testa? Ecco che hai svegliato il bambino.

Infatti il piccino s'era svegliato, piangendo, nel suo lettuccio.

La signora alzò il capo dal guanciale e fece verso il lettuccio un
imperioso: — Zitto!

Il bambino si chetò subito, non mise più che qualche breve vocina
dolente.

— Questo caffè! — disse la signora. — Sei stata dal conte? Tien fermo!
Cos'hai?

Cos'aveva, infatti, la cameriera? La tazza, la sottocoppa, la
zuccheriera, il bricco e il vassoio susurravano qualche cosa di
sospetto col loro tremolìo. La contessa alzò gli occhi.

— Cosa c'è? — diss'ella posando la tazza.

Se il viso della cameriera era contraffatto, quello della dama non era
adesso meno turbato dallo sgomento e dall'incertezza.

— Niente — rispose la donna, tremante.

La contessa le afferrò il braccio col vigore di una fiera.

— Parla — diss'ella.

Intanto un bel visetto d'un bambino sui quattro anni comparve attento e
muto sopra la sponda del lettuccio.

— Un caso, signora — rispose la cameriera, quasi piangendo. — Un caso
di colèra.

La contessa, livida, si voltò quasi per istinto e vide suo figlio che
ascoltava. Balzò dal letto, impose rapidamente silenzio alla cameriera,
accennandole di passar nella camera vicina, e corse al lettuccio.

Il piccino ricominciava a piangere, ma ella lo baciò, lo accarezzò,
scherzò e rise tanto con lui, che vinse le sue lagrime. Poi si mise in
furia la veste da camera e raggiunse la cameriera, chiudendo l'uscio
dietro a sè.

— Oh Dio, oh Dio! — diss'ella ansando, spasimando, mentre l'altra si
metteva a singhiozzare.

— Zitto per amor di Dio! Guai a te se spaventi il bambino! Dov'è questo
caso?

— Da noi, signora! La Rosa del gastaldo — rispose colei. — Le ha preso
il male a mezzanotte.

— Oh Signore! E adesso?

— Morta! Morta mezz'ora fa.

Il bambino strillava chiamando la mamma.

— Va — disse la contessa — giuoca con lui, fallo stare allegro, fa
tutto quello che vuole. Sta quieto, caro! — gridò. — Vengo subito!

Corse da suo marito.

La contessa aveva una paura cieca e folle del colèra. Solo la passione
per il bambino era più cieca e più folle. Ai primi rumori del morbo
era fuggita dalla città, col marito, nella sua villa, nello splendido
podere da lei recato in dote, confidando che il colèra non vi sarebbe
penetrato nel 1886, come non vi era mai penetrato prima, neppure nel
1836. E adesso lo aveva in casa, nel cortile rustico della villa.

Entrò, scapigliata e discinta, dal conte; e, prima ancora di parlare,
diede al campanello due strappate furibonde.

— Lo sai? — diss'ella con due occhi spiritati.

Il conte, che stava facendosi la barba flemmaticamente, si voltò, col
pennello insaponato in mano, e presa un'aria stupida, rispose:

— Che?

— Non sai della Rosa?

Adesso il conte prese un'aria tranquilla e rispose:

— Sì, lo so.

Se sulle prime aveva nutrita un'ombra d'irragionevole speranza che
sua moglie ignorasse ancora il caso della Rosa, gli parve poi che un
contegno indifferente da parte sua dovesse rassicurare anche lei.
Ma invece i begli occhi della signora gittaron lampi, una durezza
selvaggia le comparve in viso.

— Lo sa — esclamò — e pensa a farsi la barba! Cosa sei tu? Che padre
sei? Che marito sei?

— Oh Dio... — fece il conte allargando le braccia.

Prima che il pover'uomo, insaponato fino agli occhi e affagottato
nella salvietta, sapesse trovare un'altra parola, il cameriere bussò
all'uscio.

La contessa gli ordinò che nessun contadino del cortile rustico fosse
lasciato entrare in casa e che nessuno di casa andasse nel cortile.
Poi gli diede l'ordine per il cocchiere di tener pronto fra un'ora il
_landau_ con i cavalli che gli avrebbe detto il conte.

— Cosa vuoi fare? — disse questi, che intanto aveva ripreso fiato. —
Non ammetto esagerazioni.

— _Esagerazioni_, hai il coraggio di dire? Sarò tua schiava in tutto,
ma quando si tratta della vita, capisci, quando si tratta di mio
figlio, non ascolto più nessuno. Partire subito, voglio. Ordina i
cavalli.

Il conte s'irritò. Come si potevano spingere le cose fino a questo
punto? Che convenienza c'era di scappare così? E gli affari? Fra due
giorni, fra un giorno, via, fra dodici ore, sarebbe partito; prima no!
La contessa non gli lasciava dir quattro parole senza ribatterle con la
maggiore violenza. Che convenienza! Che affari! Vergogna!

— E la roba? — diss'egli. — Bisognerà bene prendere con noi qualche
cosa. Ci vorrà bene del tempo!

Sua moglie fece un'esclamazione sdegnosa. Ella s'impegnava di allestire
i bauli entro un'ora.

— Ma dove si va? — domandò ancora il marito.

— Alla stazione della ferrovia e poi dove vorrai tu. Ordina questi
cavalli.

— Sono stufo — gridò il conte. — Ordino quello che pare a me. E dopo
tutto vadano anche gl'interessi, vada tutto, cosa m'importa? È roba
tua, già... Le saure!... — diss'egli rabbiosamente al cameriere che
aspettava in disparte, impassibile.

Questi uscì.

La contessa si vestì e si pettinò in un lampo, giungendo spesso le mani
negli slanci di tacite preghiere, spiccando ordini ad ogni momento,
facendo correre per la casa i domestici a frustate frenetiche di
campanello. Era un saltar su e giù di costoro per le scale, uno sbatter
usci, un chiamarsi, uno sgridare, un ridere e un imprecar sommesso. Le
finestre che guardavano il cortile funesto furon tutte chiuse subito,
anche perchè non si udissero strillare le figlie della morta; pure un
triste odor di cloro spirava già per la casa, copriva già nella camera
della contessa il delicato profumo di Vienna ch'era come l'aura sua.

— Dio mio! — diss'ella rabbrividendo come se avesse odorata la morte.
— Adesso m'ammorbano tutto. Presto nei bauli, presto nei bauli! E
chiudere subito! Io muoio se porto via quest'odore. Non sanno che il
cloro è inutile? Che brucino, che brucino tutto! Il padrone lo manderà
via, il gastaldo, se trafugherà qualche cosa.

— Hanno già bruciato, contessa — disse una cameriera. — Il medico ha
fatto bruciare lenzuola, coperte e pagliericcio.

— Ci vuol altro! — replicò la contessa.

In quel punto il conte, sbarbato e vestito, fece irruzione in camera e
prese a parte sua moglie.

— Cosa facciamo di questa gente? — diss'egli — Io non posso mica farli
viaggiar tutti.

— Quel che vorrai — rispose la contessa. — Mandali via. Qui in casa non
ci resta nessuno di sicuro. Non voglio mica che prendano il colèra e
che poi mi si appestino le camere col cloro e mi si bruci Dio sa quanta
roba, perchè quando si tratta dei signori...

Il conte era arrabbiato di aver ceduto, adesso.

— Bella figura — diceva — che si fa. È una vigliaccheria, una vergogna
di scappare a questo modo!

— Ecco — rispondeva la contessa — come siete voialtri uomini! Il
comparir forti, il comparir coraggiosi vi preme più che la salute e
la vita della vostra famiglia. Avete paura di perdere la popolarità!
Non la vuoi perdere? Fa chiamare il sindaco e offri cento lire per i
colerosi.

Egli proponeva allora di rimaner solo mentre lei partirebbe col
bambino, ma non sapeva star fermo.

Intanto i bauli si empivano. I giocattoli del bambino, i suoi
vestitini più eleganti, il laudano, i libri di preghiere, gli opuscoli
del dottor Tunisi, il costume da bagno, alcuni gioielli, la carta
cifrata, le pellicce, le biancherie, molto del superfluo e poco del
necessario, tutto era gittato dentro alla rinfusa. E poi i bauli,
con grandi sforzi, si chiusero: e poi la contessa, seguita dal
conte che dimostrava il più grande ardore di fare qualche cosa e non
faceva niente, percorse tutta la casa aprendo cassettoni ed armadi,
guardandovi dentro per l'ultima volta, chiudendo tutto a chiave di
sua mano. Il conte dichiarò che sarebbe stato necessario di prendere
qualche cibo prima di partire.

— Sì, sì, — diss'ella con ironia — prender qualche cibo! Adesso vi dirò
io cosa prenderete!

E raccolti in una stanza suo marito e tutti i domestici, anche quelli
ch'erano mandati alle case loro in licenza, perchè voleva il bene di
tutti, li costrinse a prender dieci goccie di laudano per ciascuno. Il
bambino ebbe del cioccolatte.

Finalmente la carrozza venne di gran trotto, dalla parte del giardino,
a fermarsi davanti alla villa. Prima di scendere, la contessa, ch'era
molto pia, si ritirò nella sua camera per un'ultima preghiera. Presa
una sedia, v'inclinò su la persona chiusa in un costume attillato di
flanella bianca, congiungendo sulla spalliera i guanti neri ad otto
bottoni, coperti, al polso, di cerchi di platino e d'oro, alzò al cielo
la penna del cappellino di velluto nero e gli occhi fervorosi, battè
frettolosamente ed a lungo le labbra. Non disse al Signore una sola
parola per le miserabili creature che avevano perduta la madre, nè
perchè il colèra risparmiasse le rudi vite incatenate nello stento alla
terra potente che le aveva dato la sua villa, i suoi gioielli, i suoi
abiti, il suo profumo di Vienna, le sue raffinatezze, il suo orgoglio,
suo marito e suo figlio, il suo comodo Iddio. Non pregò neppure per
sè. Ella, che vedeva già sè e i suoi colpiti dal colèra in viaggio,
non volle pregare per sè e dimenticò di pregare per suo marito. Pregò
per il bambino, si offrì per lui. Veramente le sue labbra non dicevano
che de' _Pater_, degli _Ave_ e dei _Gloria_; ma Tanima sua era tutta
nel bambino, nell'orrore che potesse essere colpito lui, nel desiderio
intenso che non soffrisse neppure di questa partenza affrettata,
di questo viaggio ancora ignoto, che non perdesse nè l'appetito nè
il sonno, nè l'allegria, nè i colori, che le riuscisse di tenergli
nascosto ogni aspetto del dolore e del terrore altrui.

Si fece in furia il segno della croce, mise un grande mantello grigio
e andò a chiudere l'unica finestra rimasta aperta. Il vento mattutino
inclinava e cangiava davanti alla villa l'erbe mature del prato,
corso da grandi ombre di nuvole, batteva le pioppe luccicanti del
viale d'entrata. La contessa che lo stimava pieno di tradimenti, non
ebbe uno sguardo di rimpianto per la pacifica scena famigliare a lei
dall'infanzia; chiuse e discese.

Presso allo sportello delia carrozza, il Sindaco parlava col conte.

— Viene di là? — diss'ella indietreggiando.

Udito che veniva di casa sua, inveì contro di lui che non aveva saputo
tener lontano il male. Egli sorrideva e si giustificava, ma la signora
rispondeva confusa: — Niente, niente; — e si affrettò a salire in
carrozza col bambino.

— Hai dato? — diss'ella sottovoce a suo marito, quando egli pure fu a
posto. Questi accennò di sì.

— Debbo ringraziare anche la signora contessa — cominciò allora
quell'umile Sindaco — della generosità...

— Miserie, miserie — interruppe il conte, non sapendo quel che diceva.

Adesso che tutti erano in carrozza, la signora fece una rapida rassegna
delle borse, dei _nécessaires_, degli ombrelli, degli scialli, dei
soprabiti. Intanto il conte porse il capo a guardar se i bagagli
fossero a posto nel barroccio sopraggiunto dietro il legno.

— È fatto? — diss'egli. — E cos'ha quel marmocchio?

— Chi piange? — esclamò alla sua volta la contessa, buttandosi quasi
fuori del legno.

— Fatto, signor sì — rispose un contadino che era stato chiamato in
aiuto ai domestici.

Un ragazzetto cencioso gli stava attaccato ai calzoni singhiozzando.

— Va là, taci — gli disse il padre aspramente, e, volto alle signorie
loro riprese:

— Fatto tutto.

Il conte si cacciò una mano in tasca, guardando il ragazzo.

— Non romper l'anima — diss'egli — che ti darò un soldo anche a te.

— La mamma ha male — singhiozzò il ragazzo disperatamente. — La mamma
ha il colèra!

La contessa diè un balzo, menò l'ombrellino, con un pauroso viso di
follìa, sulle spalle del cocchiere.

— Via! — gridò. — Via! Via subito!

Quegli frustò i cavalli che s'impennarono con fracasso e presero tosto
il galoppo. Il Sindaco fu appena in tempo di scansarsi, il conte fu
appena in tempo di gittar a quell'uomo una manciata di soldi che si
sparpagliarono a terra. Il ragazzo smise di piangere, l'uomo non si
mosse, guardò dietro alle ruote scintillanti, agli ombrellini grigi,
che si allontanavano rapidamente nella polvere, e disse fra i denti:

— Maledetti porci di signori.

Il Sindaco se n'andò quatto quatto, facendo le viste di non aver inteso.

Colui era di statura e d'età mezzana, magro e livido in viso, con una
sinistra guardatura di malvivente. Gli abiti gli cadevano a brandelli
come a suo figlio. Gli fece raccattare i soldi e poi si avviò a casa
con lui.

Abitava, nel cortile di una fattoria della contessa, un tugurio di
mattoni sgretolati, senza intonaco, fra il letamaio e i porcili. Un
fossato nero di putridumi senza nome, gli puzzava sulla porta, sotto un
pezzo d'asse marcia, buttato là per ponte.

Si entrava in una caverna nera, lurida, senza pavimento, con un
focolare di mattoni, tutto smozzicato all'ingiro, incavato nel mezzo
dalle ginocchia villane di chi gli faceva cuocere la polenta. Una
scala di legno, mancante di tre scalini, saliva alla camera, fetida
di miseria e di vecchiume, dove padre, madre e figliuolo dormivano in
un letto. Presso al letto si guardava giù, per il pavimento sfondato,
in cucina. Il letto stesso era stato tirato per isghembo al solo posto
dove, quando pioveva, non battessero le gocce dal tetto.

Accasciata a terra, abbandonando il capo alla sponda di quel letto,
stava la contadina presa dal colèra; una povera vecchia faccia di
trent'anni, ch'era stata florida a venti e aveva ancora la bellezza di
una mansuetudine santa. Suo marito, al primo vederla, capì cos'era e
cacciò una bestemmia. Anche il figlioletto che lo seguiva, quando vide
il viso nerastro di sua madre, ebbe paura e si fermò sull'entrata.

— Gesù Signore, mandalo via — mormorò la donna con voce fioca. —
Mandalo via che ho il colèra. Va dalla zia, caro. Conducilo via tu e
chiamami il prete.

— Vado — disse il marito.

Discese, spinse il ragazzo verso il cancello del cortile, ripetendogli:

— Va! Va dalla zia.

Poi andò sotto il porticato della fattoria, ne ritornò con una
bracciata di paglia, se la portò in cucina, e risalì da sua moglie che
s'era potuta, intanto, rovesciare con grande sforzo sul letto.

— Senti — diss'egli con insolita dolcezza — mi rincresce, ma se muori
qui ci bruciano il letto, capisci? Pensaci. Ti ho portato della paglia
in cucina, un bel mucchio.

Ella perdeva rapidamente la voce, non poteva più farsi intendere.
Accennò fervorosamente di sì con la testa e fece uno sforzo inutile per
scender dal letto. Allora l'uomo la prese in braccio.

— Andiamo — diss'egli. — Se creperò anch'io ci vorrà pazienza.

L'inferma lo pregò a gesti di darle un piccolo crocifisso d'argento,
appeso alla parete, e, avutolo, vi affisse avidamente le labbra,
discese come un corpo morto sulle braccia di suo marito, che l'adagiò
alla meglio sulla paglia e andò in cerca del prete.

Allora anche la miserabile, sola come una bestia carbonchiosa sulla
paglia già infetta, prima di partire per il mondo sconosciuto, pregò.
Pregò per l'anima propria con umile contrizione, convinta di aver
molto peccato benchè non avesse a ricordar come, torturata da questa
impotenza. Venne, mandato dal sindaco, il dottore, che aveva paura;
la vide spacciata, disse: — rhum, nè marsala, già non ne avete — le
ordinò dei mattoni caldi sullo stomaco, pose il sequestro e partì.
Venne il prete, un cappellano che non aveva paura, le disse rozzamente,
con la tranquillità dell'abitudine, ciò che chiamava _le solite
cose_, oscurandone, con la sua parola, il divino; che, guasto com'era
d'ignoranza e d'inopportune durezze, pure empì di sereno e di luce la
moribonda.

Compiuta l'opera sua, anche il prete partì. Mentre il marito, levatole
di sotto le spalle poche manate di paglia, aveva acceso il fuoco per
riscaldare i mattoni, la donna pregò ancora, per i suoi; non così
fervidamente per il fanciullo come per l'uomo cui aveva perdonato tanto
e ch'era sulla via della perdizione eterna. Finalmente, baciando il
crocifisso, un movimento del cuore le ricordò la persona da cui le
veniva.

Glielo aveva regalato, sedici anni addietro, per la sua cresima, la
contessa; la padrona della splendida villa dov'era una gioia di vivere
e del tugurio immondo dov'era una gioia di morire. La contessa era una
bambina in quel tempo e avea donato il crocifisso alla figliuola del
bifolco per suggerimento di sua madre, della contessa d'allora, una
mite donna, morta da un pezzo e non dimenticata dalla povera gente.

La moribonda si era confessata d'aver pensato male dei padroni, e
anche d'averne qualche volta mormorato, facendo consentire suo marito
a bestemmie, perchè, malgrado suppliche e suppliche, mai non le avean
fatto riparare il tetto nè il pavimento, nè la scala, mai non le
avean fatto mettere le impannate alle finestre. Adesso si pentiva,
si ricordava della buona padrona vecchia, domandava perdono, nel
suo cuore, al signor conte e alla signora contessa, pregava Dio e la
Madonna per essi.

Nello stesso momento in cui l'uomo le posò sullo stomaco i mattoni, che
scottavano, ella ebbe una contrazione, uno spasimo di tutto il corpo e
spirò.

Egli le buttò della paglia sul viso nero, le tolse, a stento il
crocifisso di mano, e se lo cacciò in tasca, brontolandogli come ad un
buono a nulla; — per quello che le hai fatto, Cristo! — e tacendo il
resto del suo pensiero. Ma nè lui sapeva nè noi sappiamo che avesse
fatto il piccolo crocifisso tante volte baciato e invocato dalla
poveretta; ancor meno sappiamo quale occulta benedetta via potrebbe
fare in avvenire il pensiero pio, nato nel cuore di una vecchia dama,
disceso a una bambina innocente e quindi risalito in gratitudine,
riacceso in preghiera dentro uno spirito vicino e caro alla Infinita
Pietà.

Quella sera stessa i servitori che dovevano andare a casa in licenza
durante il viaggio del conte e della contessa, si ubbriacarono, nel
salotto della villa, di marsala e di rhum.



La visita di Sua Maestà


Il 12 dicembre 1873 S. A. R. il Principe Reggente ritornò a Corte da
una partita di caccia verso le due pomeridiane. Il conte B., Presidente
del Consiglio, lo attendeva ed ebbe subito con lui un colloquio che non
durò meno di venti minuti. In seguito a questo colloquio S. A. R. si
recò immediatamente negli appartamenti della Principessa Guglielmina,
sua moglie. Due dame d'onore che erano presso l'augusta Signora,
vedendo entrare S. A. R. in abito da caccia e con un viso molto serio
giudicarono che vi fosse qualche novità e si ritirarono. Allora il
principe domandò a sua moglie se sapesse che il senatore H. era agli
estremi. Certo lo sapeva; la Corte mandava tre volte al giorno a casa
H. a prendere notizie.

«Ebbene, — disse il Principe, — il conte B. vuole ch'io ci vada.»

Il senatore H., illustre storico e filosofo, era considerato una
gloria nazionale. Fiero repubblicano nella sua gioventù, nemico quasi
personale del Re, si era poi riconciliato, per effetto, sopratutto,
d'una vanità smisurata, con la monarchia, ma senza modificare le
sue idee filosofiche e religiose, abborrite dalla pia Principessa
Guglielmina.

«Naturalmente tu non ci andrai» — diss'ella. S. A. R. s'irritò
moltissimo e rispose che ci andrebbe. In fatto egli non avrebbe
voluto andarci e si era difeso a lungo contro il suo ministro. Non
sapeva apprezzare il valore intellettuale di H. Quella sua clamorosa
incredulità gli era antipatica e le ingiurie scagliate contro il
defunto suo augusto fratello gli erano rimaste fitte nel cuore, anche
dopo la conversione del filosofo alla monarchia. Ma S. A. era debole e
non aveva saputo resistere al ministro che gli parlava di un onore da
rendere a H. in ossequio al sentimento nazionale, del pericolo che un
rifiuto fosse attribuito ad influenze clericali: perchè questa visita
era stata, incredibile a dirsi, sollecitata segretamente dagli amici e
dagli aderenti del moribondo. Il Principe, malcontento di aver ceduto,
si adirava ora con sua moglie appunto perchè ella gli parlava come la
sua propria coscienza: mentre egli era venuto da lei con la speranza
dell'opposto. Si sfogò a dirle che le donne proponevano sempre vie
molto semplici, ma che la questione era complessa, che il perdono delle
offese era poi anche un atto cristiano, che una buona moglie avrebbe
dovuto meglio apprezzare la sua posizione delicata e difficile davanti
al ministro e al pubblico. La Principessa lo rimbeccò vivacemente
e finì con dirgli che se si fosse trattato di ***, il suo scrittore
favorito, il Principe Reggente non si sarebbe sicuramente mosso di
casa.

«Quello è un galantuomo, — rispose il Principe. — Al suo letto di morte
vi sarà Domeneddio. Quest'altro si contenterà di me.»

Ed ordinò ad un aiutante di far subito dire a casa H. che S. A. R. ci
sarebbe andato alle quattro.

La Principessa Guglielmina, appena fu sola, fece chiamare in fretta
un canonico della Cattedrale, ch'era il suo elemosiniere privato e il
suo segreto agente nei molteplici affari di coscienza cui S. A. R.
alquanto _tracassière en bien_, secondo la frase di Chamfort, amava
immischiarsi senza ricorrere al grande elemosiniere di Corte. Ella
volle sapere dal canonico se l'Autorità ecclesiastica avesse tentato o
fosse per tentare qualche cosa presso H. che nella sua prima giovinezza
era stato credente e aveva note relazioni d'amicizia con un vescovo. Il
canonico disse che la Curia aveva fatto qualche passo, ma inutilmente.
Quand'anche il moribondo avesse avuto buone disposizioni, non sarebbe
stato possibile di giungere a lui, tanto era guardata la sua anticamera
dal nemico. La principessa si sdegnò di questa rassegnazione e osservò
che Iddio può aiutare contro migliaia di guardie, ma che i suoi
ministri non debbono smarrirsi d'animo. Allora il canonico, forse
alquanto punto, mostrò di farsi animo a dire una gran cosa e confidò
a S. A. che, ad insaputa dell'Arcivescovo e della Curia, un prete
avrebbe tentato di penetrare nella prossima notte presso l'infermo,
pigliando il posto della infermiera con la quale era stata già presa
ogni intelligenza opportuna. La Principessa battè le mani. E chi era
questo prete? Forse egli stesso? No, era il tale, un gran sollecitatore
di elemosine, che la Principessa conosceva, un sant'uomo, corto di
cervello, entusiasta, imprudente, uno che vedeva miracoli dappertutto
e ne aspettava ogni momento. S. A. fu mediocremente soddisfatta della
scelta, ma quando seppe che scelta non c'era stata, perchè il prete
aveva detto lui a un amico di voler far questo colpo, ella si acquietò
all'osservazione del canonico che ogni più disgraziato strumento può
diventar buono in mano di Dio.

                                   *
                                  * *

A casa H. la gente andava e veniva come nel palazzo di un principe
fallito dove si tenesse una asta colossale. Infatti molti vanitosi,
avidi di riputazione per lusso e molti figuri avidi di riputazione
per necessità, venivano lì a pigliarsene un pezzo a buon mercato
dicendosi amici del grand'uomo, il quale, del resto, se possedeva
un amico nell'Episcopato cattolico, ne contava poi troppi altri nel
laicato canaglia; amici questi della sua gioventù ribelle, che, salendo
lui in fama, gli si erano appiccicati a' panni per modo ch'egli, pur
desiderando levarseli d'attorno, non vi era riuscito mai.

Nella stanza del malato e in un salotto vicino aveva posto il suo
quartier generale uno stato maggiore di questa gente, i più audaci,
i più violenti, i più famigerati, tutti bigotti dell'ateismo. La
timida famiglia del professore, una sorella e un cognato, era stata
messa da parte quasi colla violenza e coloro avevano preso possesso
di H. come di una loro proprietà. Avevano fatto sostituire il medico
ministeriale ad un professore radicale e avevano proibito di lasciar
entrare preti; nè frati, nè suore. Ricevevano e aprivano i telegrammi,
facevano pubblicare i bollettini; si facevano accendere gran fuochi nel
caminetto e si ristoravano spesso col porto o col marsala e col cognac
di casa. Uno si arrischiò una volta a fumare, ma questo non fu ammesso
dalla maggioranza. Si erano tanto compenetrati nella persona del loro
illustre amico che, rispondendo a chi domandava notizie di lui, usavano
sempre il nominativo plurale, dicendo: «stamattina andiamo meglio,
stasera stiamo peggio,» fino a che fosse venuto il momento di dire:
«siamo morti».

H. aveva una paralisi cerebrale, non gli restava che un barlume
d'intelligenza. Si scuoteva solo quando gli dicevano che la Corte o
i grandi Corpi dello Stato avevano mandato a chiedere notizie, che
erano giunti telegrammi di personaggi importanti, che i giornali si
occupavano della sua malattia facendo voti per la sua guarigione ed
esprimendo quelli del popolo intero. Allora il senatore balbettava con
viso ebete: «Ah, la Corte» «Ah, il Senato» «Ah, la Camera.» Per gli
altri non veniva che un piccolo gemito sordo. Quando arrivava uno di
questi messaggi, uno di questi articoli, persino l'amico che sturava
la bottiglia di cognac e l'altro amico che attizzava il fuoco nel
caminetto si sentivano crescere di valore e di maestà. Venivano anche
parecchie signore per contendersi la gloria di dare a H. un pezzetto di
ghiaccio e si guardavano con occhi altrettanto duri e freddi; ma verso
mezzanotte non restava più in camera dell'ammalato che la sua vecchia
infermiera.

Gli _amici_ avevano fatto pressione per mezzo di deputati sul
Presidente del Consiglio onde avere l'estrema unzione del Principe
Reggente e ci erano riusciti, come s'è visto. Prima delle tre un
aiutante venne ad avvertire la sorella ed il cognato di H. che S. A.
R. sarebbe venuto alle quattro. Gli amici diedero subito la notizia
all'ammalato con un breve preambolo che ne togliesse il significato
lugubre. Ma H. non lo poteva ad ogni modo più intendere e solo la
sua vanità moribonda si rianimò a questa violenta speronata. «Ah, il
Principe» balbettò e i suoi occhi si ravvivarono.


S. A. R. scendendo di carrozza a casa H. si trovò di fronte quattro
o cinque _amici_ prima che la sorella o il cognato, e ne parve molto
malcontento. Salì rapidamente le scale, e disse che desiderava essere
introdotto dai parenti. I parenti lo introdussero infatti, ma dietro
a loro entrarono altri e la camera si riempì di gente. Il Principe si
accostò al letto e si curvò sull'ammalato. All'eccitamento momentaneo
di prima era successo uno stato comatoso.

«Mi conosce, caro senatore? — disse S. A. R. — Sono Adalberto. Sono
venuto a farle coraggio. Ella ha lavorato tanto per la gloria Sua
e del nostro paese. La ringraziamo, io e il popolo. Le auguriamo di
ristabilirsi e di lavorare ancora.» Il Principe tacque, rimase curvo
per un momento sul morente, poi si rialzò e disse sottovoce:

«Credo che non abbia inteso.»

La sorella di H. ringraziò piangendo S. A. Uno degli amici disse
solennemente a voce alta: «Intenderà la Nazione, e intenderanno i
posteri.» Il Principe non gli badò affatto e prese congedo dalla
signora e da suo marito dicendo che, se potesse venir riconosciuto
dall'infermo, ritornerebbe. Quando, partendo, attraversò il salotto,
un individuo mal vestito, con un piede di barba, si mise ad arringarlo:
«Vostra Altezza ha oggi compiuto uno di quegli atti...»

Ma Sua Altezza, non potendone più di quella compagnia, gli voltò le
spalle e uscì.

                                   *
                                  * *

Alla sera i medici giudicarono che vi fosse un miglioramento e che
la notte passerebbe probabilmente senza novità. Il Senatore aveva
guadagnato alquanto nell'intelligenza e nella favella. Verso le nove
aveva domandato ai medici con voce abbastanza chiara quando fosse per
venire il Re. Aveva proprio detto «il Re,» ma questo scambio di un
Reggente per un Re era molto scusabile in quel momento della vita in
cui tutti apprezzano assai più la sostanza che l'apparenza delle cose.

Gli risposero che il Principe... «Il Re, Il Re!» Voleva assolutamente
un Re al suo capezzale e glielo diedero. Gli dissero dunque che il Re
era venuto, che lui allora dormiva e che S. A... «Sua Maestà,» borbottò
l'infermo: bene, che S. M. aveva promesso di tornar presto. Al tocco
dopo mezzanotte, tutto essendo tranquillo, le persone di famiglia
andarono a coricarsi. I due amici che erano di guardia quella notte
non si coricarono, ma si addormentarono nelle soffici profondità di
due grandi poltrone accanto al caminetto del salotto. Per dormir meglio
avevano posto la lucerna a terra, dietro un'altra poltrona.

L'infermiera seduta accanto al letto avanzò il capo a guardar il
malato. Si alzò pian piano e lo guardò più da vicino. H. aveva gli
occhi chiusi, la respirazione regolare. L'infermiera mise il suo
scialle grigio, uscì, attraversò in punta di piedi il salotto e
disparve. Ritornò dopo cinque minuti, ancora chiusa nello scialle
grigio. Il suo passo era diverso, più lento, più lungo e, vorrei dire,
più largo; il passo insomma d'una persona molto cauta e molto incerta
del fatto suo. Urtò leggermente in un tavolino e sostò un lungo minuto.

Le quattro gambe nere che uscivano dalle due poltrone verso il
caminetto non si mossero e l'infermiera raggiunse senz'altre peripezie
la camera del suo malato. Lì faceva ancora più scuro. Un lumicino da
notte ardeva fra le invetriate e le imposte, velato dai cortinaggi.
L'infermiera si guardò attorno un momento come se non riconoscesse
il letto, guardò l'infermo che dormiva ancora, e, senza levarsi lo
scialle, si mise a pregare fervorosamente con sommesse e frettolose
parole.

Dopo dieci minuti il malato mise un sospiro. Allora la finta infermiera
si alzò, si chinò sopra di lui e lo chiamò con impeto soffocato:

«Senatore! Senatore!»

Quegli aperse gli occhi torbidi e girò il capo verso la voce. «Una
visita, senatore! Una visita!» «Sua Maestà?» balbettò il senatore.
«Sua Maestà?» e tentò di alzare il capo. «Sì, sì, Sua Maestà!» fece il
piccolo prete prendendo subito l'accento dell'entusiasmo.

Gli occhi del senatore si accesero.

«Il Re? Il Re?» diss'egli.

«Dio!» rispose il prete. Lo scialle grigio gli cadde dalle spalle
nell'atto che, levandosi dal petto un crocefisso, egli lo alzava con
le mani congiunte alzando anche il viso nello slancio del suo zelo
incauto. «Sua Divina Maestà, Dio grande, Dio misericordioso che Le apre
le braccia, che La chiama, che manda me, suo ministro...» Quando aveva
detto «Dio!» le coltri si erano agitate come se il giacente fosse stato
preso da una convulsione. Quando disse «suo ministro» lo interruppe una
voce gutturale, strana, paurosa. Ogni moto delle coltri cessò. Il prete
esterrefatto guardò H. Era morto.

Il nome di Dio lo aveva colpito ed ucciso in pochi secondi. Essi
bastano per lasciare una pia speranza alla Principessa e a noi; ma
il canonico non può dire se il disgraziato, troppo semplice prete,
sia stato nelle mani di Dio uno strumento di pietà o uno strumento di
collera e di giustizia.



L'Orologio di Lisa


Io ero creditore, nel 1877, di circa trentamila lire verso la nobile
famiglia Vicarelli di Battaglia, che da un'antica floridezza veniva
cadendo, per eccessive spese e per mala amministrazione, in rovina.
Da due anni non toccavo un soldo d'interessi. Pazientai, pregai,
sollecitai; finalmente, spintovi dalle strettezze del mio modesto
bilancio, ricorsi alle vie giudiziarie e ottenni un sequestro.
Battaglia è così lontana dalla mia residenza abituale e io sono tanto
occupato che per ogni trattativa con i fratelli Vicarelli e per la
scelta del sequestratario dovetti interamente affidarmi al mio egregio
avvocato di Monselice, al quale comunicavo tutti gli scritti che mi
pervenivano circa questa malaugurata faccenda. Purtroppo non potevo
fargli la girata anche delle noiose visite onde mi onorava di quando
in quando un vecchio signore di Padova, che si faceva annunciare
«dottor Molesin» e che soleva pure mandare dei letteroni interminabili,
sottoscritti _Angelo D. Molesin, consulente legale_. Questo Molesin
mi veniva sempre innanzi con informazioni, proposte o consigli, ora
a nome dei Vicarelli, ora a nome di altri loro creditori, ora a nome
del sequestratario, ora nel proprio nome suo e quasi per un'amorevole
sollecitudine degl'interessi miei, per un desiderio virtuoso della
giustizia e del bene; perchè in fatto egli non aveva alcun interesse
personale diretto nella vertenza cui aveva cominciato a mescolarsi
come consigliere di una vecchia merciaia di Padova, creditrice dei
Vicarelli. A me non domandò mai danaro, ma seppi che i Vicarelli
si lagnarono una volta o due delle spese incontrate per i consulti,
i viaggi e le epistole del dottor Molesin. Col sequestratario egli
parve guastarsi presto. Me lo denunciò come un furfante di tre cotte
e me ne descrisse le imprese con quella sua spaventosa prolissità che
riempiva fogli e fogli di prosa curialesca, brodosa, tutta seminata
di spropositucci. L'altro non mancò alla sua volta di dipingermi
l'avvocato Molesin come un vampiro. Quanto a me m'andavo persuadendo
che fossero due valentuomini _eiusdem farinæ_. Il giallognolo dottor
Angelo era di una farina per lo meno assai mal cotta, benchè impastata
da oltre cinquant'anni. Aveva il cranio pelato; pochi cernecchi grigi
dietro gli orecchi lustri e sudici; nella faccia scarna, terrea, e
negli occhi profondi una espressione fissa di malumore bilioso; le
mani ossute e nere. Portava sempre lo stesso soprabito color marrone,
lo stesso fazzoletto rosso e giallo al collo, gli stessi calzoni bigi,
e si poteva sospettare che portasse anche sempre la stessa camicia.
Pareva una rispettabile, odiosa figura di onesto professore pedante,
nemico della gioventù, dell'amore, del riso, della luce e dell'acqua.
Non aveva modi ossequiosi; sorrisi e complimenti non erano affar suo;
qualche volta pareva durar fatica a levarsi il cappello anche nel
mio studio. Compreso della propria sapienza, quando degnava largirmi
qualche consiglio prendeva un sensibile accento di stima per sè stesso
e di compatimento per me. Insomma il nome _Molesin_, che in veneto vuol
dire _morbido_, non andava certo bene alla corteccia del dottor Angelo.
Egli non era nè morbido, nè untuoso. Tuttavia aveva ragione il mio
domestico se, considerando le sue visite eterne, lo chiamava _«dotor
tacaizzo» dottore attaccaticcio_. Malgrado la sua ruvidezza esteriore,
aveva certo una gran facilità di appiccicarsi alla gente. Per non dire
dei ricci di castagna, vi hanno seccumi ruvidi d'erba, frutti aridi
e maligni di prati montani, che si attaccano alle vesti così. Si era
fatto avanti in questo affare capitanando la merciaia e aveva finito
con appiccicarsi a tutti, creditori e debitori. Evidentemente le sue
pratiche officiose non miravano ad altro che a tirar le cose in lungo,
appunto _cole molesine_, come diciamo noi veneti, per dar tempo al
Molesin di viaggiare ancora fra Padova, Monselice e la mia residenza,
di conferire con Tizio e con Caio e di procreare le sue mostruose
epistole con quei caratteri compassati e sottili che solo a vederli mi
opprimevano lo stomaco.

Il mio egregio avvocato di Monselice, ben ferrato contro le arti
molesine, spinse le cose al punto che, in contradditorio dei fratelli
Vicarelli fu stabilito dal tribunale il 10 ottobre 1877 per la
vendita all'asta pubblica dei beni ipotecati. Agli ultimi di settembre
eccoti una delle solite vaste sopraccarte arancione, ecco i caratteri
stomachevoli dell'amico Molesin.

Egli si doleva, in tre pagine, del mio precipitoso avvocato, e mi
pregava, in tre altre pagine, di far rinviare l'asta al 10 novembre,
perchè nel frattempo, molto probabilmente, si sarebbero accomodate le
cose all'amichevole. Qui il facondo uomo mi spiegava in sei pagine come
i Vicarelli stessero negoziando un mutuo di diciottomila lire con la
Banca Popolare di Treviso e la vendita di una casa col signor Zonca
negoziante di legname a Padova fuori Porta Codalunga. Se le trattative
affidate a lui, Molesin, approdassero, il mio credito verrebbe saldato
senz'altro, capitale, interessi e spese. Mandai la lettera al mio
avvocato il quale mi consigliò di pigliare informazioni presso la
Banca Popolare e presso il signor Zonca. Risolsi di recarmi io stesso a
Treviso e a Padova.

Diffidavo dell'onorevole Molesin, ma non lo avrei creduto, fino a quel
giorno, l'audace briccone che allora scopersi. Alla Banca Popolare
di Treviso non avevano mai udito parlar di lui nè dei Vicarelli, e nè
fuori di Porta Codalunga nè in alcuna altra via o sobborgo di Padova
esisteva alcuna ditta Zonca.

Il furfante aveva giuocato una carta arrischiata per mungere ancora
un poco le sue vittime, specialmente quei disgraziati Vicarelli cui
sarebbero anche toccate le spese per la rinnovazione del bando. Ma il
giuoco essendo mal riuscito mi disposi a far sì che l'ottimo dottor
Angelo pagasse. Andai a Santa Sofia dove sapevo che abitava, e trovai
presto, sotto un portichetto oscuro, a fianco d'una porticina verde,
il riverito nome «Angelo D. Molesin — secondo piano». Egli era uscito,
ma la sua signora, che venne in persona ad aprirmi, udito il mio
nome, mi assicurò che l'avvocato avrebbe rincasato assai presto, e
mi fece passare in un salottino dove sua figlia, una giovinetta sui
tredici anni, stava ricamando. V'era nell'aspetto pulito e triste della
stanzetta, nella dignitosa simmetria dei pochi arredi e persino nelle
vesti scure delle signore la espressione modesta e tuttavia alquanto
contegnosa di una vecchia civiltà in piccola fortuna. La signora
Molesin, sbiadita figurina ascetica dagli occhi di pecorella, aveva
evidentemente nella faccia esangue quarantacinque anni di mansuetudine
costante, le spalle curvate da altrettanta soggezione, una voce
schiacciata e vôta d'anima, la più misera insipidezza di parola. La
signorina, invece, piuttosto alta e sottile, aveva un viso singolare,
ardito, già illuminato d'intelligenza e di volontà, non senza certa
fierezza nascente negli occhi.

— Si accomodi, — fece la signora pecora ascetica, ponendosi alla
sua volta a sedere in silenzio, con le mani giunte sulle ginocchia,
con l'abito spiegato a campana sul canapè e il busto irrigidito. Io
guardavo la parete e lei guardava la finestra. Questo bel divertimento
durava da tre o quattro minuti, quando la signora, senza dipartirsi
dalla sua solenne attitudine, belò alla figliuola:

— Lisa, ti ha detto niente papà quando è andato via?

La ragazza, che aveva già lanciato a sua madre più di un'occhiata
malcontenta, certo perchè non mi mandava a spasso, si strinse nelle
spalle, scotendo il capo, e non rispose nè levò gli occhi dal suo
ricamo.

— Ha premura di lavorare, vede, signore — disse la mamma per medicare
un poco le mie impressioni. — È giusto un dono per il suo papà,
un'immagine dell'Angelo Custode, perchè presto viene il suo santo.
Faglielo vedere, Lisa, a questo signore, il tuo ricamo.

L'Elisa diventò rossa come una vampa, fece un cipiglio nero e cavò
l'orologio, una cipolletta di argento, tanto per fingere di aver
qualche faccenda e andarsene in fretta dalla stanza. Ma io, seccato
di tutto questo, mi alzai prima di lei, dissi che sarei ritornato più
tardi e chiesi alla signora dove, a ogni modo, avrei potuto cercare di
suo marito.

— Non saprei, — rispose. — Che ore sono, Lisa?

— Due, — rispose la Lisa, brusca.

— Potrebbe provare in tribunale. — Alle sei si pranza, del resto...

Alle parole di sua madre _potrebbe provare in Tribunale_, la ragazza
mi piantò pronta gli occhi in viso come se avesse voluto leggermi
nel pensiero. Non capii affatto uno sguardo simile e me n'andai senza
l'onore di aver salutato lei.

Al Tribunale un usciere cui domandai di Molesin mi guardò in un modo
poco lusinghiero; un altro che udì, sorrise. Un po' alla volta mi
fecero sapere che in Tribunale, da un pezzo, per ordine superiore, il
signor Molesin non ci poteva bazzicare. Una volta ci veniva per affari
ufficiosi o per aste. Non era nè avvocato, nè dottore, nè niente;
nemmanco aveva veduto la porta dell'Università. Per trovarlo bastava
andare al caffè Socrate verso le tre. Sospettai allora di aver capito
lo sguardo della signorina Lisa e la ragione per cui il sottile amico
si sottoscriveva _D. Molesin_ e non _dottor Molesin_. Andai al caffè
Socrate; sarei andato fino a Ponte di Brenta per ghermirlo.

Il cranio pelato, il fazzoletto rosso e giallo, il soprabito marrone
eran lì dentro, in un mucchio presso l'entrata. Prima di prendere il
caffè, pronto davanti a lui, Molesin stava considerando e misurando
attentamente due _baicoli_ per vedere quale fosse il più lungo e da
scegliere. Me gli avvicinai.

— Dottor Molesin?

Il cranio pelato scattò su e vidi passar sopra la solita faccia biliosa
e austera un'ombra di angustia, che sparì subito.

— Servo suo, — disse Molesin piegando all'indietro la persona e posando
le mani sul tavolo senza lasciare i _baicoli_. — Servo suo. Ha avuto la
mia lettera?

Risposi ch'ero venuto appunto per intendermi con lui circa la dilazione
dell'asta; che vi accondiscendevo qualora nulla fosse mutato dalla sua
lettera in poi. Prima di smascherare il briccone volevo chiudergli ogni
porta di fuga. Egli mi rispose che nulla era mutato. Allora trassi la
sua lettera e lo pregai di leggermene un brano dove non avevo potuto
decifrar bene ogni parola. Era quello relativo al compratore della casa
e Molesin me lo lesse esattamente: Zonca, fuori porta Codalunga.

— Senta, — gli dissi allora _ex abrupto_ — mi conduca fuori Porta
Codalunga da questo signor Zonca. Vorrei convincermi ch'è un compratore
serio.

— Seriissimo, signor mio, — fece Molesin, intingendo un _baicolo_ nel
caffè. — Domanda se è serio! — soggiunse con un ghigno sarcastico,
parlando, per un momento, al suo _baicolo_. — Benedetto, dico, —
riprese voltandosi a me, — vuole che gli parli di un compratore da
burla? Cosa si sogna?

— Ah cane! — mi dissi nel cuore; e replicai forte:

— Sarà un'ubbìa, ma Lei deve condurmi fuori Porta Codalunga dal signor
Zonca.

Molesin si rabbonì subito, disse ch'erano passi inutili, che però, se
si trattava solamente di questo, m'avrebbe accontentato e volentieri.
Pagò con tutta flemma il suo caffè e si alzò.

— Andiamo, — diss'egli. — Dopo tutto ho piacere che Lei parli col
signor Zonca.

Guardò l'orologio e soggiunse:

— Adesso lo troviamo di certo.

— Diavolo! pensai. Sta a vedere che c'è davvero questo Zonca! Che
bestia sarei stato! — Ma l'amico Molesin uscendo dal caffè voltò verso
Santa Sofia.

— Per di qua? — esclamai. — Mi rispose, senza scusarsi affatto, che
doveva passare un momento da casa sua per avvertire di ritardare il
pranzo. Erano le tre e mezzo e sua moglie mi aveva detto che pranzavano
alle sei. — Cane, cane, — gli dissi ancora nel mio cuore, sentendo
che lo riafferravo; e mi preparai al colpo ch'egli tenterebbe per
sgusciarmi di mano.

Avrei voluto salir le sue scale con lui ma non seppi trovar un pretesto
plausibile e mi fermai sulla porta chiedendomi se il furfante non
approfitterebbe di qualche maledetto scalino rotto per ammaccarsi una
gamba o due e mettersi a letto. Dopo cinque minuti, non sentendo venir
nessuno, salii. Non ero ancora a mezzo quando udii Molesin discendere
brontolando: che fatalità, che fatalità!

— Siamo sfortunati, — diss'egli vedendomi. — Ho trovato sul mio
tavolino una lettera del signor Zonca che rinuncia all'affare. Per
cui....

_Per cui_ lo tenevo per il collo. — Va bene, — dissi. — Adesso avrei a
dirle due parole.

Rispose asciutto: si accomodi, — e mi fece passare nel suo studio per
il salottino che conoscevo. Il telaio della signorina v'era ancora, ma
lei no.

Molesin mi accennò di sedere, prese un venerabile berretto nero
ricamato in oro e fece atto d'insediarsi egli stesso nel suo trono,
un seggiolone solenne da magistrato, fra la biblioteca e la scrivania
coperta di codici in fila, di scartafacci legati, di note, di buste, di
calcaterre, di calamai, di penne d'oca, tutto in bell'ordine.

— Senta, — cominciai. — Ella scriverà adesso ai Vicarelli che l'asta
deve seguire il giorno fissato.

— Perchè? — rispose Molesin. — Se manca la vendita resta il mutuo. È
sempre una somma rispettabile che passerebbe nelle Sue tasche.

— Scriva, — insistetti, — che l'asta deve seguire al giorno fissato. Io
La pregherò pure di scrivere che lei desidera di ritirarsi affatto, per
motivi suoi personali, da questa vertenza.

Molesin mi guardò, stupefatto.

— Non capisco, — diss'egli.

— Scriva, — replicai. — Le detterò.

— L'avvocato Molesin, viscere mie, — mi rispose, — non scrive sotto la
dettatura di nessuno.

— Se non scrive Lei, scriverò io.

Il tôno delle mie parole fu tale che Molesin si alzò in piedi
fissandomi con due occhi torbidi di mala coscienza; parve l'assassino
che sospetta nel suo interlocutore un agente di pubblica sicurezza.

— Scriverò io, — continuai, — che il signor Angelo Molesin si
ritira perchè non c'è mutuo, perchè non c'è vendita, perchè non c'è
compratore, non c'è niente!

Molesin chiuse gli occhi sotto il colpo e tacque. Li riaperse, non più
torbidi; il buono schermidore sapeva finalmente da che parte veniva la
botta, e in un lampo, a occhi chiusi, aveva disposto la parata.

— Si calmi, — diss'egli, con la solita odiosa espressione di
compatimento. — Ella è stato a Treviso?

— Sì, signore.

— Già. Eh, ho capito. L'ho capito subito, quando la vidi al caffè. E
lei ha cercato qui a Padova la Ditta Zonca?

— Sì, signore.

— Già. Oh già, già. L'ho capito subito. E Lei si figura di aver colto
un galantuomo in fallo. Bravo, caro. Ella è fino, molto fino...

Stese e alzò la mano spiegata per chiedere di non venire interrotto.
Poi sorrise, scosse il capo, e riprese a voce bassa, lenta, solenne:

— E Lei non ha pensato che per combinare mutuo e vendita, nelle
condizioni dei Vicarelli, fosse necessarissimo il segreto; che se i
Vicarelli mi richiedevano, come m'hanno richiesto, di non palesare i
nomi veri neppure a Lei, anzi di fuorviare le Sue ricerche, io dovevo
farlo nel Suo stesso interesse, perchè un creditore spaventato come
Lei, ficcando il naso qua e là, avrebbe mandato all'aria tutto, senza
volerlo. Il mutuo c'è, il compratore c'è. Sicuramente, era inutile
andare a Treviso e in cerca del negoziante Zonca. Certamente, io ho
simulato poco fa una lettera di questo Zonca, ma era per la buona
riuscita dell'affare; e poi, cosa ha fatto Lei oggi con me? Non ha
simulato fino a questo momento?

— Oh, — scoppiai, — per chi mi prende? Anche in tribunale sono stato
e so con chi ho da fare, so che avvocato è, so in che affari ficca il
naso Lei!

Egli parve annientato; non seppe che balbettar qualche parola
incomprensibile. Intanto l'uscio dello studio, che si apriva
all'infuori, a fianco della scrivania, fu spalancato bruscamente
ma senza rumore. Molesin non se ne accorse, non potè vedere sua
figlia, ferma con la maniglia in pugno, con gli occhi fissi in lui
che balbettava, livida come una morta, come suo padre. Vide bensì il
movimento ch'io feci, gli occhi miei volti all'uscio e guardò egli
pure.

Non seppe ricomporsi del tutto; sorrise però e disse:

— Avanti, cara: cosa vuoi? È finito.

— Scusi, no! — interruppi. — La ragazza lasciò andar l'uscio che, piano
piano, si chiuse.

— Non è finito, — ripresi a bassa voce. — Lei....

— La mia creatura! — fremette Molesin, alzando le braccia. — La mia
creatura!

Avrei scommesso ch'era uomo da venderla, la sua creatura; ma non v'era
bisogno di mimica per farmi rispettare in essa un sentimento sacro.

— Lei scriva ai Vicarelli, — dissi. — Lei si ritiri. Io non parlerò.
Vede che non potrei avere riguardi maggiori. La riverisco.

Uscii. Nel salottino non c'era nessuno. Entrando nel corridoio
che metteva alla scala udii in una stanza attigua, a sinistra, la
voce della Molesin e udii, a destra, la signorina Lisa che tentava
inutilmente di aprire una porta chiusa e la scuoteva convulsa. Ella
guizzò, fuggendomi, all'uscio della scala ch'era aperto. Qualcuno
passava sul pianerottolo per salire al terzo piano, onde la ragazza
si gittò alla discesa e scomparve. La seguitai. Di fianco all'ultimo
braccio di scala v'era un andito scuro, ingombro di tavole. Lisa si
era nascosta lì; la scopersi accoccolata in un angolo col viso fitto
fra le due pareti, scossa le spalle da singhiozzi muti, da un palpitar
d'uccellino moribondo. Non ebbi cuore di lasciarla così, sapendo che
l'avevo ferita io. Me le avvicinai, la chiamai dolcemente; non diè
segno d'avermi udito. La toccai con la punta dell'indice; trasalì,
tremò tutta, si strinse in sè come tocca da un serpente. Allora le
domandai scusa, sottovoce, del dolore che le avevo recato, dissi
qualche cosa per incolpar me e scagionar suo padre; ma dovetti tacere
perchè al suono della mia voce ella si dibatteva gemendo. Dio, che
fare? Allontanarmi da lei, anzi tutto, come in fatto mi allontanai.
A un tratto odo la signora Molesin che chiama: — Lisa! Lisa! — La
ragazza si voltò di schianto, stravolta, ascoltando con gli occhi.
Erano rossi ma senza lagrime. — Lisa! Lisa! — chiamò ancora sua madre
discendendo le scale. Lisa stette un momento immobile; quindi con la
subitanea rapidità del fulmine, si strappò dal seno il piccolo orologio
d'argento, lo sbattè a terra, lo raccolse insieme ai frantumi di vetro.

Allora solo s'incamminò lenta con questa misera cosa rotta nel cavo
delle mani, mi passò davanti come un'ombra, salì le scale incontro a
sua madre, singhiozzando amaramente.



La lira del poeta


Personaggi.

  X. poeta celebre.
  Il dottor Domenico SNÌCHELE.
  La PADRONA del Caffè del Gobbo.

  La scena rappresenta il Caffè del Gobbo a... città del Veneto.
  Il caffè è vuoto. La padrona, seduta dietro il banco, legge
  l'_Adriatico_. Entra il dottor SNÌCHELE con un soprabito logoro
  indosso e una tuba bisunta in capo.


SNÌCHELE (_toccando il cappello_) — Servo.

PADRONA (_asciutta_) — Serva.

SNÌCHELE — In grazia, xe stà el commendator B.?

PADRONA — No.

SNÌCHELE — E el dottor C.?

PADRONA — Gnanca.

SNÌCHELE — E el professor D.?

PADRONA (_seccata_) — Gnanca, gnanca.

SNÌCHELE (_dopo una breve pausa_) — La scusa, voressela favorirme un
gotesin de acqua?

PADRONA, (_piglia un bicchier d'acqua da un vassoio e lo spinge sul
banco, con mal garbo, verso lo Snìchele_) — El toga.

SNÌCHELE — Grazie. No la ghe metaria na giozzetta de mistrà, par
acidente?

PADRONA — No ghi n'è.

SNÌCHELE — Grazie istesso. (_Beve_) La scusa, li gala gnanca visti quei
siori?

PADRONA — I xe passà adesso.

SNÌCHELE — Gaveveli insieme un foresto?

PADRONA — Come gerelo?

SNÌCHELE — Saverlo, siora Berta, come ch'el gera! El xe un omo grande
ma mi no lo go mai visto.

PADRONA — Questo gera picolo.

SNÌCHELE — No fa gnente. E da che parte andaveli?

PADRONA — Drio a le so gambe. Cossa vorìo, benedeto, che mi varda ste
robe? I sarà andà in ciesa.

SNÌCHELE (_si volta e guarda la chiesa monumentale ch'è in faccia al
caffè_). — Sì pardia! I vien fora adesso. El ghe xe, el ghe xe, el
foresto. Cossa fai? Par cossa se fermeli? Ah, i se spartisse, i se
saluda. Xele scapelade! Cussì lo vedo pulito. Son contento perchè gera
bramoso de vederlo. Ocio ch'el vien qua adesso, lu solo. Sì da bon
ch'el vien qua! La vada a tor el mistrà, ela, siora Beta.

PADRONA — Andemo, ja, nol seca.

SNÌCHELE — Co ghe digo de andarlo a tore! Eccolo, st'altro. (_Siede a
un tavolino e si mette a leggere la_ Difesa).

X. (_entra senza salutare e siede a un altro tavolino in faccia a
quello occupato dal dottor Snìchele_) — Un latte all'uovo.

PADRONA — Subito.

SNÌCHELE (_passa il giornale e saluta. X. saluta pure. Allora Snìchele
riprende il giornale, finge di leggere, poi lo posa da capo e si mette
a guardare dalla finestra_) Che tempo! (_X. cava un taccuino e piglia
delle note_). Tempo brutto. Oggi è peggio di ieri. Non è vero, signora
Elisabetta? (_La padrona non risponde e continua ad occuparsi del latte
all'uovo. Snìchele si volta ad X._) Si diceva che il tempo è cattivo
assai.

X. (_asciutto_) — Già.

SNÌCHELE — Peccato, vedere la città con un tempo simile!

X. — Certo.

SNÌCHELE — È la prima volta che il signore viene a...?

X. — Sì (_alla padrona_). — Ha un giornale?

SNÌCHELE (_si alza e si avvicina ad X. toccandosi il cappello_). —
Perdoni tanto, signore; Lei è l'illustre X.? (_X. lo guarda attonito
senza rispondere. Snìchele si leva il cappello e declama_):

    O degli altri poeti onore e lume,
    Vagliami il lungo studio e il grande amore
    Che m'han fatto cercar lo tuo volume.

X. (_sorridendo e inchinandosi leggermente_). — Grazie.

SNÌCHELE (_declamando_):

    Tale tuum carmen nobis, divine poëta,
    Quale sopor fessis in gramine, quale per aestum
    Dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo.

X. (_meravigliato sorridendo_) — Grazie, grazie.

SNÌCHELE (_coprendosi_) — Non guardi all'abito sdruscito, signore.
Ho studiato qualche cosa anch'io. _Boni convenimus ambo._ Sapevo dal
Commendator B. che Lei doveva venire oggi e avevo un desiderio immenso
di conoscerla. B. ed io siamo amici, siamo stati a scuola insieme. (_X.
gli fa segno di sedere. Snìchele prende una seggiola e gli siede in
faccia_). Grazie. Conosco tutte le Sue opere. Grandi, veramente grandi.
(_Smorfie di X._) Me lo lasci dire; e poi Lei lo sa. Anche il romanzo,
ma specialmente le poesie. A voltar le Sue poesie in latino vien fuori
Virgilio, come a voltar in latino quelle del professor Zanella vien
fuori Tibullo; _te quoque Virgilio comitem_, sicuro. Di Lei, anzi, ho
tradotto in latino quelle strofe:

    Qui mi vesta la vite i sassi aprichi,
    Voglio bermi la terra, il vento, il Sol....

eccetera eccetera: che io traduco un po' liberamente, si sa:

    Hic virides seram vites, hic mollia vina....

eccetera eccetera, per non tediarla.

X. — Bravo, bravo.

SNÌCHELE — Sì signore. Anzi ho presentata la mia traduzione ad un
concorso per la cattedra di latino nel ginnasio comunale di....

X. — Bravo.

Snìchele — Sì signore. Mi ricordo, del resto, che quando Ella ha
pubblicato il suo primo libro.... a Milano, mi pare?

X. — Sì.

SNÌCHELE — Bene, mi ricordo che qui non La intendevano. Povero paese,
sa, del resto, quanto a coltura; paese che si occupa di frivolezze;
paese dove se domani io prendo moglie, non si parla d'altro per otto
giorni. Io solo ho intesa la Sua grandezza. Anzi la ho presentita,
Le dirò. Perchè una volta, pensando alla storia della letteratura
italiana, ho scoperto che in Italia, quando nasce un grande poeta,
entro poco tempo ne nasce un altro. Guardi Dante e Petrarca, Ariosto
e Berni, Tasso e Tassoni, Manzoni e Leopardi. Anche nel nostro secolo
ne abbiamo due. Non parlerò di quello che è nato prima. Testa forte,
signor mio, testa grande, ma nato sotto una stella disperata. Il mondo
non conoscerà mai quel nome. Io lo conosco, è nato nel 1829, anno di
guerra, anno di carestia, anno del diavolo. Lei è nato nel 1843, mi
pare?

X. (_fa un cenno affermativo_).

SNÌCHELE — Sicuro, vi è quasi la stessa differenza di età che fra
Manzoni e Leopardi. Io dunque ho letto il Suo libro. Una rivelazione,
signore. Quella modernità di concetti, quella classica perfezione di
forma....

X. (_sorridendo_) — Grazie, grazie.

SNÌCHELE — Perchè Lei ha studiato molto anche i greci; dica la verità.
Per esempio, quei versi dell'ode sullo _Spartaco_ di Vela:

    Tu che furor nel marmo
    Spirasti

ricordano un epigramma....

X. (_sorpreso_). — Per bacco, ma Lei ne sa molto!

SNÌCHELE (_sospirando_). — Sì signore, ho studiato molto. Tal quale
ella mi vede, possiedo un grado accademico, sono il dottor Snìchele.
Mio padre era un signore e mi ha educato da signore. Io avevo il
delirio dello studio, ho passato sui libri, per molti anni, i giorni e
le notti, tanto che un capo ameno applicò a me, in quel tempo, i versi
del Buratti:

    Tu che le carte argoliche
    Versi con man dïurna,
    Versi con man notturna,
    Con tute do le man....

(_Si alza, va a sedere accanto a X. e continua sottovoce_). — Vede in
che paese siamo? C'è una greppia per qualunque asino, qui; ma crede Lei
che vi sia un pane per me? Signor no. Ero impiegato alla Biblioteca e
mi hanno licenziato per economia. Io son pronto a far qualunque cosa,
concorro a qualunque misero posto. Non mi tocca mai niente. _Fodere non
valeo, mendicare erubesco._ S'immagini che oggi non ho ancora mangiato
niente, sono sfinito. Non domando nulla, ma se Lei di Sua spontanea
volontà facesse qualche cosa, qualche piccola cosa per questo Suo
ammiratore....

X. (_rannuvolato_). — Mi rincresce, sa, ma non posso far niente.

SNÌCHELE (_a voce bassissima_). — Un'inezia, due lire! una lira sola!
Anche meno!

X. — Vi pare? Non vi avvilite così! Dopo i discorsi che fate! È brutto.

SNÌCHELE — Basta, basta, non ne parliamo più. (_La padrona porta il
latte all'uovo_). Buon appetito, signore (X si serve senza rispondere).
Mi perdoni, non vorrei ch'Ella sospettasse in me un qualche rancore.
Dio me ne guardi! Non avrò che venerazione, per Lei, fino alla morte.
Anzi Le dirò che avendola conosciuta personalmente, mi metterò di
maggior lena a un lavoro sopra di Lei, che vorrei pubblicare.

X. (_fa una smorfia_).

SNÌCHELE — Non tema che Le domandi denaro per questo; sarebbe
un'indelicatezza. Ho qui degli amici che mi hanno promesso di aiutarmi.
Da un pezzo sto raccogliendo tutti i riscontri de' Suoi versi con la
poesia antica e moderna, italiana e straniera. Sarà come un trattato
di letteratura universale e di buon gusto. Di poesia straniera me
n'intendo poco, ma sento spesso parlarne da chi ne sa molto, e recipe
taccuino. Intende? Tutti professori e letterati. Suppongo ch'Ella ne
avrà piacere?

X. (_inquieto_). — Faccia pure, faccia pure.

SNÌCHELE — Dico bene. Per esempio quella Sua magnifica idea....

    _Brillano i fini denti di salgemma._

l'ha avuta dicono anche un altro, un francese...

X. (_interrompendo_). — Non è vero!

SNÌCHELE — Che non sia vero? Corpo di bacco! Guardi un poco! E
quest'altra:

    _Se il caro capo tuo diventa bianco_
    _Sarà come un mandorlo a primavera_

dicono....

X. — Ma non è vero!

SNÌCHELE — Neanche questa? Oh guardi! Non c'è proprio da fidarsi.
E ne avrò notati un centinaio, capisce, di questi passi. (_Pausa_).
Senta, io glieli mando. Veda Lei, faccia Lei. Se non vanno, ci vorrà
pazienza; abbruci. Va bene? (_X. si stringe nelle spalle con affettata
indifferenza_). Scusi, signore, mi dica proprio: debbo mandare o no?

X. (_dopo un breve indugio_). — Peuh, mandi pure. Poco male; vedrò per
curiosità. (_Chiama la padrona e paga_).

SNÌCHELE — Perchè dovrò forse far ricopiare gli appunti.... Poi ci sarà
la spedizione raccomandata.... Spese, insomma.

X. (_posando sul tavolino una lira_). — Ecco.

SNÌCHELE (_chinandosi a contemplar la lira senza toccarla, e parlando
come fra sè_). — La lira del poeta, eh..... la lira del poeta.....
sicuro..... sicuro.....

X. Non è buona?

SNÌCHELE — Eh sì signore, facevo solo così da me un piccolo conto.
Circa quindici pagine a dieci centesimi la pagina fanno una lira
cinquanta per il copista... poi c'è la Posta... mettiamo cinquanta
centesimi... Ci sarebbe anche la carta... sì, insomma un'altra lira
sola può bastare. Sì, dico, perchè le cose siano fatte bene.

(_X. gli dà un'altra lira e si alza per uscire. Snìchele pure si alza
e dice recando la mano al cappello_): — Ha premura, signore, per la
spedizione?

X. (_sdegnosamente_). — Che, che!

SNÌCHELE (_facendo un profondo inchino_). — Resto coll'onore.

X. (_asciutto_). — Buon giorno. (_Esce_).

SNÌCHELE — (_sedendo_) — Parona!

PADRONA — Cossa?

SNÌCHELE (_freddo e serio_) — Mi ghe digo ludri.

PADRONA (_che non ha inteso_) — Cossa ghe diselo?

SNÌCHELE — Gnente. La stoza qua, e pò un cafè de bojo, la cesta, e de
l'acqua fresca col mistrà che adesso ghi n'è, gala capìo?



La Stria

                          Alla Marchesa Angelina Lampertico Mangilli.


Casa Ferretto, un palazzone alquanto malandato del cinquecento, ritto,
come un capo burbanzoso di miserabili tribù, a cento passi dal suo
villaggio, spiega i colonnati giallognoli verso il sole, l'aperta
campagna e la lontana città di Vicenza; e oppone il dorso annerito
dall'umido alla tramontana, alla strada maestra e alla vicina città
di Thiene. Adesso non lo saprei dire, ma sette anni sono era certo,
d'inverno, una Siberia spaventosa, malgrado la contraria opinione
delle figure seminude di cui lo Zelotti, scolaro di Paolo Veronese, ha
popolato soffitti e pareti di non so quanti sterminati stambergoni dai
pavimenti alla veneziana; e checchè ne pensasse la calorosa padrona
di casa, la _siora_ Gegia Ferretto. Nè coloro, nè costei si lagnavano
mai del freddo; quelle, forse, perchè lo Zelotti le aveva bene e
abbondantemente impastate di sangue caldo e di carne soda, questa
perchè non aveva quasi più nè sangue, nè carne ma solo un fine, chiaro
e tranquillo spirito, ribelle a qualunque gelo.

È giusto dire che in quel paese, almeno la parte anziana della
popolazione è generalmente provveduta di uno straordinario temperamento
fisico per cui si vedono i più pacifici e tepidi individui, quando
vengono assoggettati, nell'inverno, a una temperatura di dieci a
dodici gradi R., diventare roventi, sbuffare, spalancare gli occhi
con l'espressione più turbolenta. Tale non era però il temperamento
della siora Nina, la figlia della signora Gegia, una damigella di
quarant'anni, gialla, magra, vizza, che aveva sempre freddo e non osava
mai lagnarsene alla mamma. Ancor meno era tale il temperamento della
contessina Nana Dalla Costa, nipote della siora Gegia in linea retta e
della siora Nina in linea collaterale; e il conte suo genitore, vedovo
e carico di faccende, considerando certi nascenti calori per un tenente
leggero di testa e di borsa, che suonava bene i walzer e li ballava
meglio, l'aveva opportunamente spedita a passar Natale, Capo d'Anno,
Epifania e forse anche Purificazione al fresco con la nonna, la zia, un
vecchio fattore, e una vecchia cameriera ch'era stata la sua balia.

La contessina Nana, aveva, sì, un cervellino e due occhi di fuoco,
ma nelle sale dello Zelotti ci gelava, poverina, come una gazzella
d'Africa. Si rincantucciava, quando poteva, nel «mezzà»[1] del sior
Toni, il fattore, dove almeno c'era un caminetto, un tavolato d'abete,
e l'umile calore devoto del buon vecchio sior Toni; del quale sior
Toni, fra parentesi, pochi sapevano il cognome e io non lo so. In
casa, in paese e anche a Thiene tutti lo chiamavano _el sior Toni_ e
niente altro. So che era veneto ma non vicentino, perchè diceva _fado_,
_stado_, _andado_ e altri anche più detestabili solecismi.

Nel pomeriggio del quattro gennaio la contessina era lì nel «mezzà»
ritta dietro i vetri dell'unica finestra, a veder nevicare sulle statue
grigie del giardino, sulla capannina della gaggìa, sui cavoli dell'orto
e più in là sui campi, sfumati nel chiarore bianco; mentre il sior
Toni, seduto alla scrivania con gli occhiali sul naso, tagliava le
cedole della Rendita. Ella vedeva forse le falde cadenti, ma per verità
guardava nel chiarore bianco chi sa quali altre cose fantastiche, alle
quali anche parlava silenziosamente con movimenti continui degli occhi,
delle sopracciglia e delle labbra. «Vorrei essere una gaggìa, sior
Toni!» diss'ella voltandosi bruscamente. «Almeno non mi lascerebbero
gelare!»

Era snella ed alta e se non poteva dirsi una bellezza, aveva però
un pallido visetto assai espressivo e nei grand'occhi bruni una
espressione di stranezza, d'intelligenza e di malinconia che andava
molto, troppo presto al cuore dei tenenti e anche degli altri. Visto
che non c'era più legna da gettare nel fuoco, prese il cestino delle
cartacce ch'era vuoto.

«Cossa fala, contessina?», esclamò il fattore.

«Niente, sior Toni,» rispose la ragazza e adagiò tranquillamente il
cestino sulle brage.

«Ma no, contessina, cazza!» Il vecchio si alzò per correre in aiuto del
suo cestino; la contessina gli si parò davanti, si mise a cantargli:

«Ho freddo, sior Toni, ho freddo!» con quella cantilena che significa:
non l'avete ancora capita?

«Gesù mi poreto!» disse il sior Toni mettendosi le mani nei pochi
capelli bianchi e guardando il cestino con faccia mezzo spaventata,
mezzo ridente.

«Senta, sior Toni» esclamò la Nana. «Vuole il cestino? Scriva una
lettera come io Le dirò e poi mi conti una storiella».

Il sior Toni, famoso raccontatore di storielle da osteria e da
salotto, da signorine e da preti, promise ogni cosa e tolse il cestino
dal fuoco. Scorgendolo già nero da un lato e fumante, il sior Toni
non seppe che articolare la sua interiezione favorita: «jeh!» Ma
la contessina Nana, più pratica, dato di piglio, sulla caminiera, a
una gran tazza d'acqua, ne inondò in un baleno il cestino e le vaste
estremità inferiori del sior Toni, che si ritirò in fretta alzando
prima un ginocchio e poi l'altro fino al mento, vociferando «jeh,
jeh, jeh!» Ristabilito l'ordine, la signorina spiegò ai sior Toni
che due giorni dopo il quattro gennaio suol venire il sei e con esso
la festa dell'Epifania e ch'ella aveva pensato una bella «stria». La
«stria» è una benefica maga veneta, pronipote dei Re Magi, che nella
notte dell'Epifania porta misteriosamente, calando nel camino della
cucina, i regali che ora è moda di appendere all'albero di Natale.
I bambini sogliono attaccare una calza alla catena del camino per
maggiore comodità della _stria_, la quale trova così subito dove posare
il suo carico; almeno un rosario di castagne, mele, arancie, foglie
d'alloro. Presso alcune famiglie conservatrici che non vogliono saperne
dell'esotico albero di Natale, è la _stria_ che porta, per la via
romantica del camino, regali a grandi e piccini; e del donatore si dice
che fa la «stria». Ora la contessina confidò al sior Toni che voleva
fare una sola e unica «stria» per tante persone.

«Per quante po?» chiese il sior Toni.

«Per il mio maestro di musica, per la nonna, per la zia Nina, per la
balia (jeh! fece il sior Toni), per il parroco, per i parrocchiani
(jeh, jeh!) e anche per il sior Toni!»

«Jeh, jeh, jeh!» Il buon sior Toni diede in una sonora risata.

Ma, con suo nuovo terrore, la ragazza, lesta come un folletto, gli
spazzò via davanti le cedole e le cartelle della Rendita, gli mise
sotto il naso carta, penna e calamaio. «Presto, presto, scriva, scriva»
diss'ella.

E lui, docile come un agnello, scrisse sotto la dettatura di lei una
lettera ad un «egregio signor maestro» invitandolo, per incarico della
signora Ferretto, sua padrona e nonna della contessina Dalla Costa,
a venire l'indomani sera col treno delle sei e mezzo a Thiene dove
avrebbe trovato un biroccino... «Chi lo manda po?» brontolò il sior
Toni scrivendo. «Io» rispose la contessina... «per recarsi a visitare
la sua allieva. Avrebbe passato il giorno dell'Epifania in casa
Ferretto e sarebbe stato così buono da suonar l'organo alle funzioni
della parrocchia («benon, po» sussurrò il sior Toni) e anche poi da
metter insieme una piccola accademia di piano (benon, benon, benon)
perchè la nonna e la zia desideravano di udire in qualche bel pezzo a
quattro mani, la loro cara nipotina (cara po, sipo po, tanto po!)

«Non è vero, sior Toni? E adesso perchè conosco i Suoi gusti, scriva:
Le si raccomanda di portare quel pezzo sul _Pirata_».

«Grazie, po!» esclamò il sior Toni; e alzando ambedue le braccia vociò
con un viso truce:

    Nel furor...

Ma la contessina lo minacciò di un altro bicchier d'acqua se non si
rimetteva subito a scrivere, e così gli smorzò il furore.

Ell'attese un poco e poi disse:

«Adesso metta i saluti».

«Come, po?».

«Metta così: La mandano, egregio maestro, a riverire la nona, la Nina,
la Nana e la nena[2]».

«Gesù mi poreto!» si mise a gridare il sior Toni, saltando sulla sedia,
rosso come un gambero e lucente di riso negli occhi. «Chi elo stado po
sto traditor?» Perchè l'allegro uomo scherzando una sera all'osteria su
«la nona, la Nina, la Nana e la nena» non si era certo immaginato che
le sue facezie venissero riferite alla contessina.

Questa lo fece tacere, gli dettò l'indirizzo «Maestro Bortolo Barùgola
(che nome po! Jeh!) ferma in Posta, Vicenza». Saputo che il postino
non sarebbe partito per Thiene prima di sera, incaricò il sior Toni di
portargli la lettera. Quindi, prendendo un'aria graziosa di timidità
e di finezza, e mostrando temere che lo scherzo potesse non piacer del
tutto alla nonna, accennò al sior Toni, con mezze parole, di farsi un
poco traditore anche lui e di tastar la nonna prima di mandar via la
lettera.

«Poareta!» disse il sior Toni, tutto commosso di tanta delicatezza e
anche, per dir vero, di tanta ingenuità, perchè come supporre ch'egli
mandasse una lettera simile senza parlare con la padrona? «E adesso,
ghe voi anca la storiela?»

«Certo, sior Toni».

»Ghe contarò quela del prete e de l'anguila».

«Vecchia, sior Toni!»

«Quela de quelo che gavea paura a passar el Torre».

«Oh Dio, sior Toni!»

«Quela de quelo che gà mandà a dir al Padre Eterno che i tedeschi gera
ancora a Belun».

«Troppo lunga, sior Toni».

«Ma cazza po,» esclamò il sior Toni con un poco d'impazienza «vorla che
ghe conta quella del sior Intento?[3]».

«Quella, sior Toni! Domattina!»

E la contessina corse via ridendo.

Il sior Toni andò in cerca della padrona vecchia, le mostrò la lettera
e le confidò il delicato riguardo della nipotina; confidenza ben
preveduta dalla detta ingenua nipotina.

La nonna che conoscendo il maestro Barùgola solamente di nome, s'era
fatta, sulle prime, arcigna, si lasciò poi pigliare, come il sior Toni,
a questo amo e diede il _placet_. Non poteva certamente supporre che le
lettere dirette al maestro Barùgola quando avevano il _fermo in Posta_,
capitassero, per effetto di arcane intelligenze, nelle dotte mani
dell'altro egregio filarmonico signor Carlo Paribelli, tenente nel 3º
bersaglieri.

Era pur troppo così e il tenente aspettava una lettera simile sapendo
bene che avesse a fare.

                                   *
                                  * *

L'indomani sera alle sei il cielo era sereno e l'aria rigida;
al chiarore delle stelle la neve pareva quasi prendere il colore
azzurrognolo del ghiaccio.

Ma siccome di giorno v'era stato il sole, nel salotto bene esposto
dove «la Nona, la Nina e la Nana» pranzavano e dimoravano abitualmente
c'era un clima possibile. Le signore avevan pranzato alle tre, secondo
l'antica consuetudine vicentina serbata da pochi spiriti indomiti; e la
Nana si era molto sorpresa, venendo a pranzo, di trovare che il vecchio
piano codino di casa era stato trascinato lì dalle gelide pianure del
salone vicino. La nonna le aveva poi detto sorridendo che le era venuta
voglia di udirla suonare un poco. Chi si mostrava particolarmente
lieta di questa prospettiva musicale era la zia Nina, una povera
zitellona magnetizzata dalla bella, elegante e nobile nipote e da
quel suo profumo d'intrighi amorosi, avida sempre di rifarsi giovane,
di scambiar confidenze tenere, sempre intimidita dalla freddezza un
poco sprezzante della ragazza. La zia Nina pretendeva avere un vero
trasporto per la musica e quando sua madre non era presente soleva
vantare alla nipote, con certi ah! e oh! pieni d'ogni sottinteso tutte
la arie più freneticamente amorose del piccolo repertorio che aveva
in testa, come _Vieni fra le mie braccia_ (ah!) dei _Puritani_ oppure
_Quando il tuo labbro sul labbro mio_ (oh!) di _Allora ed oggi_, roba
antica di cui la Nana neanche aveva udito parlare.

Alle sei, dunque, la siora Gegia fece chiamare il sior Toni e la
cameriera per dire il «terzetto» ossia la terza parte del rosario.
Veramente, di solito si diceva alle otto, ma essendosi ciò timidamente
osservato dalla Nana, la siora Gegia rispose blanda: «ben, vissere, sta
sera te lo diré alle sie!»

La Nana, che le altre sere cercava sempre di star vicina al sior Toni
per farlo ridere, adesso mostrò invece un raccoglimento edificante,
una fervorosa pietà. Finiti i cinque misteri, interruppe la nonna
celebrante per osservare che alla vigilia d'una gran festa si poteva
dire anche gli altri dieci. Il sior Toni guardò spaventato la padrona
vecchia, che, per suo conforto, rispose: «Tropa grazia, tropa grazia» e
si tenne al programma.

Detto il «terzeto» la buona signora propose alla nipote di uscire a
spasso con la zia e col fattore. A questi due l'idea parve alquanto
strana e il faceto sior Toni brontolò nell'uscire: «Dove andemoi po?
A beverghene un goto?» Ma la contessina Nana capì che la nonna le
offriva tacitamente di andare incontro al maestro perchè il treno
di Vicenza arrivava a Thiene alle sei e mezzo e dalla stazione di
Thiene a casa Ferretto non s'impiegavano, in carrozza, più di venti
minuti. Quando la Nana, che per verità cominciava a trepidare un poco,
prese la via di Thiene, capì anche il sior Toni. Ma la zia Nina, che
s'entusiasmava per le bellezze delle stelle e della neve, per la poesia
dei canti, dei suoni che si udivano di qua e di là per la campagna,
capì solamente quando la cauta nipote le spiegò la _stria_ che aveva
preparato e accennò, esagerandola, alla tacita complicità della nonna.
Allora la siora Nina, dimenticando le stelle, la neve e la poesia dei
canti villerecci e la presenza del fattore, si affrettò a informarsi
del maestro, seppe che era giovane e bellino, ma che (pur troppo, cara
zietta!) il signor Barùgola aveva moglie e cinque figliuoli.

«Jeh!» fece lo scapolo sior Toni.

Intanto si camminava, si camminava e non si incontravan calessi.
S'incontrò invece una frotta di gente che cantava:

    Mandiamo il crudo gelo
    Lontan dai nostri cuori,
    Cantiamo coi pastori....
    . . . . . . . . . . . .

Qui si interruppero perchè il sior Toni domandò loro, poco
ragionevolmente, se avessero veduto un calesse. Uno rispose cantando:
«No, gnente, gnente, gnente» e gli altri ripresero la via e il canto:

    Verranno in compagnia
    Tre Magi dall'Oriente.

Il sior Toni spiegò alla contessina che quella era la «Compagnia della
Stella» solita, per tre sere prima dell'Epifania e per tre sere dopo,
andar attorno cantando e fermandosi ad ogni casa per aver vino e altro.
Ma la contessina non gli stava molto attenta benchè anche per lei
avessero un senso segreto quei versi:

    Verranno in compagnia
    Tre Magi dall'Oriente.

E se non venisse nessuno? Malgrado tutto il suo amore ella cominciava a
pensare che quasi quasi sarebbe meglio.

Ma invece ecco un punto nero, un rumor di trotto, un cavallo, un
cocchiere, un mago che salta come da una scatola nella neve, ravvolto
in un tabarro alla veneta, senza maniche, simile a una mantellina
da bersagliere, onde la Nana immagina per un momento che l'amico
sia venuto in uniforme e ne ha i brividi. Ella presenta con un po'
d'imbarazzo il maestro Barùgola a sua zia e al sior Toni che gli fa
replicati inchini col cappello in mano; poi manda via il calesse,
destina il sior Toni per cavaliere alla zia e li segue col maestro cui
deve impartire ogni istruzione opportuna onde la scherzo riesca bene.
Il sior Toni e la siora Nina rallentano il passo perchè vorrebbero
udire anche loro ma la contessina protesta. Ella è la _stria_ e la
_stria_ fa tutto in segreto. Il sior Toni racconterà intanto una
storiella alla zia. «Gala capìo, siora Nina?» dice il sior Toni alla
sua padroncina. «Per sta volta bisogna che La se contenta de mi.
Comandela sta storiela?»

«El tasa» risponde lei stizzita.

«Ghi n'ho una de bela» — «No me n'importa». — «Ben, ben, ben, ben».
Non parlano più nè l'uno nè l'altra, per cui non merita scusa il
maestro che battezza subito la siora Nina per Marta e il sior Toni per
Mefistofele.

Gli dà torto anche la Nana, la quale, ora che la sua pazza idea è fatta
realtà, si sente in cuore un ritorno impetuoso di tutte le idee serie
e prudenti, si vede in testa tutti i guai che potrebbero succedere,
e vorrebbe persuadere Carlo, poichè l'ha vista, poichè le ha dato un
bacio e tenuta stretta una mano per cinque minuti e sfiorata con le
labbra almeno la _toque_ e cantata almeno in _do_, in _re_, in _mi_, e
nei relativi diesis la solita sinfonia, di ritornarsene alla stazione
onde pigliarvi il treno che arriva a Vicenza verso le nove.

Ma come si fa? Carlino la intende poco e non ha tutti i torti. Come
si fa con Marta e Mefistofele? — Dio, almeno non bisogna che passi la
notte in casa!

Ma se non c'è albergo? Pensa e ripensa, la Nana decide che lo condurrà
a casa per una visitina e che poi lo manderà a dormire dal parroco.

                                   *
                                  * *

Le due signore fecero il loro ingresso nel salotto, accompagnate dal
solo sior Toni.

«Nonna» disse la contessina entrando, «c'è qui fuori qualcuno che
domanda di te».

«Vedemolo» disse la buona signora piegandosi a guardar verso l'uscio e
aguzzando le ciglia. Visto entrare il giovinotto soggiunse:

«Chi xelo sto signor?»

«Il maestro di musica, signora» rispose il tenente, franco, ma evitando
i nomi propri. «Il maestro della contessina ch'Ella ha avuto la bontà
di invitare.»

«Mi? Mi no sala. Mi no so gnente de inviti». Allora la contessina si
fece avanti, tanto rossa che la siora Gegia le disse subito:

«Ah te si stà ti, barona?»

«È stata la stria, nonna. Siccome tu da brava bambina hai fatto portar
qua il piano, la stria ti ha mandato un pianista.

«Ben che lo veda pulito» disse con dolcezza la siora Gegia.

Infatti l'antica lucernina d'argento a tre beccucci, dei quali due soli
erano accesi, illuminava molto imperfettamente il giovane, vestito alla
buona di abiti che non parevano i suoi. Però il sior Toni e la siora
Nina lo avevano intanto scrutato molto bene.

«Che zovene!» disse la vecchia signora quand'egli le si fece vicino.
«Quanti anni gàlo?»

Il tenente se ne aggiunse otto, e rispose «trentaquattro». Troppi!
pensò la Nana, più accorta. Egli non guardava le cose tanto per la
sottile e rispose con la più ardita spensieratezza a mille altre
domande sulla sua famiglia, sulla sua patria, sulla sua vita, sugli
scolari, sulle scolare, mentre la Nana fremeva e palpitava come un
uccellino nella rete. Finalmente la vecchia cameriera portò il caffè
e i _pandoli_ al tenente, che, pensando essersi ben guadagnata quella
magra cena, divorò mezza dozzina di pandoli senza notare negli occhi
della siora Gegia certe ombre di cattivo augurio.

«El ne sona qualcossa» diss'ella.

Il tenente si alzò e propose un pezzo a quattro mani con la contessina;
ne aveva seco tre o quattro suonati già con lei in società, quando non
si amavano ancora.

«No» rispose la siora Gegia con voce blanda, ma ferma. «Sentimolo lu
solo per sta sera.»

Il tenente obbedì e si mise al piano.

Il sior Toni domandò timidamente un poco di _Pirata_; invece la siora
Nina, moderando alquanto le sue aspirazioni, mise fuori con un fil di
voce la speranza di udire _Il sol dell'anima_ del _Rigoletto_, oppure
_Ah forse è lui_ della _Traviata_, oppure il quartetto dei _Puritani_:

    A te, o cara, amor talora
    Me guidò furtivo, ardente.

«Questo lo so benone!» esclamò il tenente e attaccò di slancio il
motivo dolcissimo, un vero zucchero sulle sue fragole.

Improvvisò un pot-pourri di _Puritani_, di _Rigoletto_, di _Pirata_,
di musica per tutti i gusti, facendo il diavolo a quattro sul piano.
Il sior Toni e la siora Nina erano conquisi, ascoltavano a bocca
aperta. La vecchia cameriera, ancora in piedi presso l'uscio con il
vassoio in mano, andava ripetendo sotto voce «Gesusmaria! Gesusmaria!
Madre santa che bravo!» e anche qualche volta «Vergine che belo!»
Infatti il tenente Paribelli cui gli amici lombardi chiamavano _Parì
bell_ e _minga vess_, non era una bellezza, però aveva una fisonomia
vivacissima, una selva nera di capelli ricciuti e un elegante paio di
baffetti castani che avevano molta parte nei suoi successi. Chi proprio
non pareva entusiasta di lui era la siora Gegia. Finito il pezzo, ella
gli domandò se prima di partire per Vicenza si fosse recato a casa
Della Costa per prendere commissioni. No, il maestro non ne aveva avuto
il tempo. La Nana introdusse tosto un altro discorso, gli chiese di
alquante amiche, specialmente di una tale che in addietro le aveva dato
qualche ombra.

«Tanto cara, non è vero, maestro? Tanto simpatica!»

«No, non la posso soffrire!»

«Suona così bene!»

«Pasticcia!»

«Ohe, ohe!» fece la siora Gegia. «El scusa, ma no me piase sto tajar zo
de le so scolare».

L'amico che, abituandosi alla situazione, diventava sempre più
brillante e si figurava conquistar casa Ferretti a questo modo,
rispose contraffacendo audacemente il dialetto veneto e quasi anche
il tono di voce della vecchia signora: «Mi no tajo, mi no tajo». La
Nana, spaventata, si affrettò a dire che la nonna aveva avuto la sua
«stria» e che adesso bisognava farla al parroco, mandargli l'organista.
Propose quindi che il sior Toni accompagnasse il maestro in canonica
dove potrebbe anche passare la notte. La siora Gegia aveva fatto
preparare segretamente una camera da letto e capiva poco, in cuor
suo, l'opportunità di regalar un organista al parroco quando non
poteva che metterlo a letto. Tuttavia non fiatò e lasciò il maestro
al suo destino. Lo si pregò di un'altra sonatina e qualcuno nominò il
_Mefistofele_. Il tenente guardò sorridendo la Nana e poi il sior Toni
e domandò a quest'ultima se era lui che voleva il Mefistofele.

«El Mefistufole?» rispose il sior Toni. «Mi no, La diga». Malgrado ciò
l'altro si slanciò a capo fitto nel Sabba romantico, fece furore colla
serenata classica, si sforzò sopra tutto di far cantare ai tasti il
duetto e poi, per protestare contro le punture gelose della damigella,
appiccò al Mefistofele con la sua invidiabile disinvoltura, nientemeno
che l'aria di Buzzolla, ben nota a lei:

    Chi mai se penserave
    Vedendo la mia Nana
    Che l'apparenza ingana
    E sconto gh'è el velen?

                                   *
                                  * *

Il mentore sior Toni, quando fu in istrada con Telemaco pensò: te
soni pulito ma te ghè na gabana, ciò, da mezi litri anca ti: e invece
di pigliar la via della canonica pigliò, per i suoi fini, quelli
dell'osteria.

All'allegro Telemaco piaceva la bonomia del vecchio fattore, e la
conversazione fra loro, per effetto sia dei mezzi litri che delle
«gabane» diventò subito famigliare.

Il sior Toni fece all'altro gli elogi, _inter pocula_, della contessina
e siccome non c'era nessuno, cominciò a tastarlo in un punto delicato.

«La diga, maestro, che La savarà, come xela de sto tenente che i dise?
Ghe xelo, sto Paribelo o no ghe xelo po?»

«Go paura, _ciò_, ch'el ghe sia, sto can» rispose Telemaco nel suo
veneto caricato.

«E la diga, mo; xelo cristian, xelo turco, xelo sior, xelo desperà,
xelo galantomo, xelo berechin, xelo belo, xelo bruto, cossa xelo?»

«El xe sior, ciò, galantomo, belo e turco».

«Jeh, jeh, jeh!» fece il sior Toni «Gesù mi poreto, el xe turco!»

E vuotò un gran bicchier di vino. Poi ripigliò: «Xelo so amigo, elo,
maestro?»

«Un pocheto».

«Xelo turco anca elo?»

«Un pocheto, ciò».

«Jeh! Gala imparà in Turchia a suonar l'organo? Gesù mi poreto!»

Qui il sior Toni fece portare un altro mezzo litro onde venir a capo
delle ragioni per le quali il conte Dalla Costa non voleva dar la
figlia al tenente. Il suo compagno incominciò a dirgli che quanto
al _turco_ aveva scherzato e che Paribelli era un ottimo cristiano.
Soggiunse poi che il conte aveva una debolezza, una malattia nervosa
per cui non poteva veder piume sui cappelli della gente. Era una vera
disgrazia per la famiglia Dalla Costa e per la contessina non men che
per il regio corpo dei bersaglieri.

«Fiol de to mare d'un mestro» pensò il sior Toni, «goi po tanto un muso
da macao?» E disse forte:

«Bela, po».

Sin da quando la contessina Nana lo aveva incaricato di raccontare
storielle alla zia, era balenato al vecchio un sospetto, non certo del
vero, ma di qualche trama, di qualche occulta complicità del nuovo
venuto col terribile tenente Paribelli. Ora se ne persuadeva sempre
più, e oltre al resto, gli bruciava un poco d'essere stato giuocato
dalla contessina. Centellinando il vino, parlando, quasi, fra sè e sè,
si mise a commiserare la ragazza, benchè a lui, veramente, non paresse
tanto innamorata; tutt'altro! «Perchè?» esclamò il suo compagno, preso
all'improvviso. Il sior Toni lo guardò sorridendo col bicchiere in
mano. «Gnente po, sala» diss'egli. «Idee». Soggiunse piano che se si
fosse trattato di renderla felice, avrebbe fatto qualunque cosa.

«Proprio?» gli chiese l'altro, sullo stesso tono.

«Proprio».

«Anche.... portare...»

Il sior Toni scosse leggermente le spalle e fece «peuh!» con la faccia
espressiva d'uno che non trova poi tanto strano nè tanto difficile ciò
che gli è proposto.

Il suo compagno lo fissò in viso. L'uomo gli pareva molto fino.
Susurrò: «Non avrebbe scrupoli?»

«La diga; xelo proprio un galantomo?»

«Eh altro!» fece il galantuomo.

Il sagace sior Toni n'ebbe abbastanza; l'amico era certo un complice.
In quel punto la compagnia della Stella fece rumorosamente irruzione
nell'osteria. Il sior Toni si alzò, pregò il maestro di aspettarlo un
momento, andò a parlare con l'oste che sapeva avere una carrettella,
gli ordinò di far attaccar subito onde condurre un forestiero a
Vicenza.

«E se nol paga lu» diss'egli «pagarò mi». Poi tornò dal maestro e gli
partecipò che essendo la canonica assai lontana aveva ordinato all'oste
una vettura, che le istruzioni al cocchiere erano date bene, proprio
bene, senza pericolo di sbagli, che lui doveva tornare immantinente a
casa e che gli augurava la buona notte. Ciò detto se n'andò in fretta,
lasciando il tenente alquanto sbalordito e incerto.

Il tenente stette un quarto d'ora ad aspettare la carrettella sulla
porta dell'osteria. Dopo un altro quarto d'ora di viaggio per la nuda e
gelida campagna, non vedendo nè case, nè chiese, interrogò il vetturino
e dovette, suo malgrado, persuadersi che il perfido Mefistofele lo
aveva spedito a Vicenza. Furibondo, ordinò di fermare. Passava una
frotta di ragazzi cantando in onore della stria. Uno di loro si accostò
alla carrettella e gridò sul naso del viaggiatore:

    De Pasqua un bell'agnèlo,
    De carnevale un bel porzèlo,
    De Nadale un bel capòn,
    Buona notte sior paron.

«Va all'inferno!» rispose il tenente. Voleva ritornare in dietro,
castigare quel birbante, ma poi riflettendo, capì che sarebbe stato uno
sproposito e ordinò rabbiosamente di proseguire.

«Mefistofele» che si era accontentato di veder la carretta uscir
dal villaggio e prendere la via di Vicenza, andò poi a casa più
frettolosamente che potè. La siora Nina era a letto, ma la siora Gegia
e la Nana lo aspettavano in salotto. La siora Gegia aveva lavorato in
calza tutto il tempo con una faccia molto seria, senza rivolger mai
la parola a sua nipote, che intanto, desiderando pure di evitare il
dialogo, aveva letto il giornale e suonato il piano.

«Benedeto!» esclamò la siora Gegia vedendo entrare il fattore «xe ora?
E sto paroco dunque?»

«Mi son qua de stuco» rispose il sior Toni.

La Nana si sentì gelare il sangue e non parlò.

«Cossa xe nato?» chiese la vecchia.

«Cossa vorla che ghe diga! La stria lo ga portado qua e la stria lo ga
portado via.»

Le due donne lo guardarono, studiando il suo viso furbesco. La vecchia
aveva i suoi sospetti e molti; trovandoseli vagamente confermati e
ripromettendosi di sapere ogni cosa l'indomani mattina non domandò
più nulla, diede una occhiata silenziosa alla nipote, spense uno dei
due beccucci della lucernina e disse con tutta flemma: «Ben, andemo in
leto».

Il sior Toni sospirò perchè invece di andar a letto doveva lavorare in
mezzà almeno un'oretta. Vi era da pochi minuti quando l'uscio si aperse
piano ed entrò la contessina:

«Un momento» diss'ella sottovoce. «Un momento solo! Cos'è questa storia
della stria? Dica su presto!»

«Védela, contessina benedeta» rispose con un sorriso pacifico ma
significante il sior Toni «no la xé miga una stria sola, le xé do.
Quela zovene lo ga portado qua e quela vecia lo gà portado via. Ma
gnente de mal po sala, gnente de mal».

«Sì, bravo, e come è andato via? Corse di notte non ce ne sono».

«Ghe xé cavai e caretine».

«Carrettino? È andato a Vicenza in carrettina? Con una notte simile?
Sior Toni! Senza una coperta?»

Le parole ed il viso della contessina eran tali che il sior Toni
incominciò a non capir più niente ossia incominciò a capire anche
troppo. Uno sbalordimento senza nome gli allargò gli occhi e la bocca:

«Cossa?» diss'egli. «Ma quel sior... gerelo...?!» La contessina stupì
alla sua volta, non capiva che egli non avesse capito, lo guardò un
poco e scappò via senza rispondere. Allora il sior Toni, giungendo
adagio adagio palma a palma, conchiuse con l'emozione più profonda
della sua vita:

«Jeh, jeh, jeh!».



Per una foglia di rosa


Una carrozza di Corte si fermò, verso mezzanotte, alla porta del
palazzo Heribrand. Un ufficiale delle guardie ne saltò a terra, entrò
nel palazzo e ricomparve dopo dieci minuti con un signore alto e magro
che salì in carrozza frettolosamente e fu riconosciuto dai curiosi
del vicino Caffè Orientale per il conte Maurizio Heribrand, generale a
riposo, antico governatore, sotto il Re morto, del principe ereditario,
ministro dell'interno nel primo anno del nuovo Regno e uscito poi dagli
affari.

La notizia ch'egli era stato chiamato a Corte si diffuse in città prima
che la carrozza fosse di ritorno al Palazzo Reale.

Quella sera tutte le birrarie, tutti i caffè della capitale erano pieni
di gente e di rumore perchè nel pomeriggio la camera aveva rovesciato
con quaranta voti di maggioranza, sopra una questione di politica
estera, l'equivoco, impopolare gabinetto Fersen; e si sperava che S. M.
avrebbe chiamato al potere il deputato Lemmink, capo dell'Opposizione,
uomo di grande ingegno, di antica probità e di ferreo carattere, stato
ancora ministro e noto per l'aspro contrasto a certe segrete debolezze
del Re, cui il ministro Fersen, malgrado le sue velleità democratiche,
si era sempre mostrato compiacente. Si sapeva che il generale
Heribrand, ultra conservatore, era nemico personale del Lemmink, il
quale una volta, da ministro, lo aveva trattato con pochi riguardi; e
la sua chiamata a Corte dispiacque. — Si era tuttavia sicuri che egli
avrebbe combattuto il Fersen, e sopratutto, la segreta influenza della
principessa Vittoria di Malmöe-Ziethen, amica del Re.

La principessa, francese di origine, divisa dal marito, era antipatica
al popolo, perchè straniera, perchè s'ingeriva negli affari di Stato e
perchè impediva il passo ad una regina. Il popolo avrebbe più presto
perdonato al Re molti amori passeggeri che questa grande passione
costante da tre anni. Il Re conosceva e sdegnava ciò. Egli univa un
ingegno non comune a molta bontà di cuore; non aveva un alto concetto
della propria corona nè della propria spada, non sentiva ambizione;
era piuttosto poeta e artista che Re; era anzi tutto un delicato, un
raffinato, a cui le ordinarie cure del governo pesavano, a cui piaceva
di regnare solo per il lusso artistico di cui poteva godere, per le
intelligenze rare di cui sapeva cingersi; e perchè convinto di essere
amato dalla principessa Vittoria come uomo e non come Re, si compiaceva
di possedere, quale amante, questa suprema e singolare distinzione del
trono. Egli era tuttavia delicato e raffinato anche nella coscienza
dei propri doveri, ciò che gli era cagione di lotte e di tristezze
gravissime, poichè la sua nobile natura aveva una ingenita malattia
mortale, il languore della volontà.

Lo scioglimento della crisi per la quale il generale Heribrand era
stato chiamato a Corte, poteva decidere sulle sorti del paese. Il conte
Fersen conduceva il Regno all'alleanza con la potente patria della
principessa di Malmöe-Ziethen e quindi, posta la situazione europea,
alla guerra. Un Gabinetto Lemmink avrebbe significato riduzione delle
spese militari e politica estera modesta. Tutti sapevano che il Fersen
immediatamente dopo il voto aveva offerto le dimissioni del Gabinetto
e posto a S. M. questo dilemma: o accettazione delle dimissioni o
scioglimento della Camera.

S. M. non aveva data una risposta definitiva e aveva conferito più
tardi con i presidenti delle due Camere, i quali erano stati concordi
nel consigliare un ministero Lemmink. Si sapeva pure che la principessa
Vittoria era malata nella sua villa dell'isola Sihl. Una grande
dimostrazione popolare era stata fatta al capo dell'opposizione, e vi
si era gridato «abbasso la francese».

La carrozza che portava Heribrand entrò nell'atrio del Palazzo Reale
a mezzanotte, mentre una carrozzella da nolo, a un solo cavallo, ne
usciva. Il generale dovette attendere cinque minuti nella sala degli
aiutanti prima di esser fatto entrare nel gabinetto da lavoro del Re.
Il gabinetto, poco spazioso ma molto alto, sta nell'angolo nord-est
del Palazzo Reale, proprio nella torre. Ha due balconi immensi, uno
sul mare, aperto, l'altro sulle grandi terrazze che degradano verso
il porto militare; e ha, fra i due balconi, un caminetto di marmo nero
dove quella sera, benchè si fosse alla metà d'aprile, ardeva il fuoco.
Una lampada elettrica sospesa in alto illuminava meglio il palco di
ebano scolpito, a rosoni d'argento, che la snella persona del Re, ritta
davanti al caminetto.

S. M. stese la mano al vecchio generale, che con la sua allampanata
figura, con la sua magrezza portentosa, con i suoi lineamenti
esagerati, pareva lo spettro di Don Chisciotte.

— Caro generale — diss'egli con voce affettuosa, ma vibrante di
emozione — mi perdoni se l'ho incomodata a quest'ora. Avevo bisogno di
Lei.

Heribrand rispose, alquanto freddo, ch'era sempre agli ordini di S. M.

— Non ho bisogno di un suddito — replicò il Re, gelando alla sua volta.
— Ho bisogno di un amico. Lei è in collera con me?

Il generale protestò e S. M. lo interruppe dicendo — venga qua — gli
prese il braccio, lo fece sedere in una delle sue poltroncine accostate
per fianco al balcone sul mare, sedette egli stesso nell'altra e
incominciò a parlargli della situazione. Riferì i suoi colloqui col
ministro e coi presidenti delle due Camere, disse che sentiva di
trovarsi di fronte all'atto più grave, probabilmente, della sua vita,
che era atterrito dalla propria profonda perplessità; che sperava da
Heribrand un giudizio, un consiglio sicuro, e che non aveva saputo
aspettarlo fino all'indomani.

Il generale lo ascoltò impassibile e rispose semplicemente: — Sire,
bisogna chiamare Lemmink.

Il Re si fece scuro in viso, tacque e, dopo un momento, alzatosi senza
dir parola, si allontanò a lenti passi, andò a contemplare il fuoco
del caminetto. Anche il generale si alzò e, girata rapidamente con
gli occhi la stanza, guardava, fermo al suo posto, il Sovrano. Il suo
sguardo e l'alta, leale sua fronte avevano una singolare espressione di
gravità e di severità.

— Lei non sa tutto — disse finalmente S. M., sempre pensieroso e senza
guardare Heribrand. — Lei non sa cosa si prepara in Europa. Lei non sa
gli impegni che abbiamo.

— Sire — rispose subito il generale — se vi hanno impegni del ministero
Fersen, sono caduti; se vi hanno impegni di V. M., mi permetto di
chiedere rispettosamente perchè mi sia fatto l'onore d'interrogarmi.

Un lampo di sdegno passò sul viso del Re.

— Io non prendo impegni personali — diss'egli concitato — io sono
fedele alla Costituzione. Lei mi doveva intendere, signor generale. Lei
dovrebbe sapere che un governo può prendere certi impegni non formali,
non scritti, ma che non possono lasciarsi cadere tanto facilmente.

Il generale rispose che il voto della Camera aveva implicitamente
disapprovati questi impegni.

— Non mi parlate della Camera! — esclamò il Re. — Non è possibile che
la politica estera sia fatta dalla Camera. Non si guidano cavalli mal
sicuri per strade difficili, stando in un landau chiuso.

— Non si guidano i cavalli, Sire, ma si sa dove si vuole andare e lo si
dice al cocchiere. Il paese non vuole andare alla guerra.

Il Re tacque.

— Io non posso assolutamente — riprese Heribrand — dare a V. M. il
consiglio che desidera.

— Che desidero! — esclamò il Re sdegnosamente. — Che desidero! Guardi
là quei vapore coi fanali rossi che fila adesso nel chiaro di luna.
Là vi è un ragazzo che va a studiare l'arte a Roma con i denari miei;
desidero esser lui! Ecco quello che desidero! Scusi, generale, Lei
sa che Le ho sempre voluto bene, Lei è il primo cui mi rivolgo dopo i
personaggi ufficiali, il primo a cui domando un consiglio, e mi parla
così!

Il generale esitò un momento e rispose quindi con voce sommessa, ma
ferma:

— No, Sire non sono il primo.

Il Re trasalì e piantò gli occhi in faccia a Heribrand che non abbassò
i suoi.

— Che ne sa Lei? — diss'egli fieramente. Il generale allargò le braccia
e chinò la testa come per dire: me ne rincresce, ma è inutile; lo so.

— Crede Lei — riprese S. M. con voce sconnessa dall'emozione — crede
Lei avere il diritto? Non compì la frase, ma tenne addosso al generale
gli occhi irritati.

— Nessuno ha osato mai! — diss'egli.

— Sire — rispose Heribrand, rialzando il capo — la mia coscienza non è
a disposizione di V. M., ma il mio grado e le mie decorazioni lo sono.

— Questa è una risposta da scena — esclamò il Re — e non una risposta
per me che ho una coscienza come la Sua.

Il generale, pallidissimo, pregò il Re di voler piuttosto punire che
oltraggiare un vecchio servitore sincero, e gli chiese licenza di
ritirarsi. Il Re rifiutò con un gesto violento.

— No, — diss'egli — voglio essere più generoso di Lei e mostrarle
che vi è un'altra persona superiore alle sue insinuazioni, ai suoi
sospetti, a tutte le bassezze di cui è pieno il mondo!

Ciò detto si sbottonò il soprabito in fretta e in furia. Il generale
porse le mani come per trattenerlo; allora il Re gli stese con impeto
subitaneo le sue.

— Ma senta! — diss'egli passando dalla collera all'affetto, — non
mi irriti, dimentichi un momento ch'io sono il Re, mi tratti come si
tratta un eguale, apra il Suo cuore come io sono disposto ad aprirle il
mio! Apra il Suo cuore, ch'io senta una parola calda! Dica tutto quello
che sospetta, tutto quello che teme, ma parli come un amico, capisce!
Ma se io amo, merito io dunque il Suo sdegno? E mi creda, La scongiuro,
Lei si inganna, Lei non La conosce, voglio che Lei sappia, voglio che
lei veda! Sicuro che mi ha scritto, sicuro che mi ha consigliato! Ma
come? Una donna che mi ama con tutta l'anima sua, è lontana da me e non
mi manderà una parola in un giorno come questo? Ma generale, maestro
mio, non è uomo, Lei? Non è stato giovane, Lei?

E aperse le braccia al generale che, non persuaso, ma commosso,
abbracciò il suo antico allievo.

Il Re si sciolse per il primo, trasse dall'abito aperto un portafogli,
e dal portafogli una lettera, e la porse a Heribrand.

— Legga — diss'egli.

Heribrand prese la lettera, ma per leggerla gli occorrevano gli
occhiali e non gli riusciva nella commozione di trovarli, se ne
impazientiva, ciò che fece sorridere il Re e finì di rinfrescare il
sangue ad ambedue. Finalmente gli occhiali si trovarono ed il generale
potè leggere questo biglietto della principessa di Malmöe-Ziethen:

                              «_Silh, villa Victoria, le 14 avril._

      SIRE,

  «Mon oncle de Ziethen vient de m'apporter les nouvelles de la
  capitale. On va voter aujourd'hui même et ce sera l'opposition qui
  l'emportera. — On fera beaucoup de bruit pour avoir M. Lemmink aux
  affaires, mais la _velche_, c'est ainsi que dit la ville, mais
  _l'étrangère_, c'est ainsi que dit la Cour, n'en voudra pas. Ce
  n'est pas M. de Fersen qu'on renverra, c'est la Chambre.

  Mon Dieu, que j'ai prevu tout cela!

  J'en ai le coeur navré. Pas à cause de moi, j'ai trop méprisé ces
  grands artistes en méchanceté, pour qu'on me soupçonne jamais
  de faiblir devant eux. C'est à cause de Vous, Sire. Je ne me
  soucie guère de la sottise publique ni de la perfidie de quelques
  misérables; je redoute Votre coeur même, ce que j'ai de plus cher
  au monde, ce grand amour où il fait si bon de sombrer avec son âme,
  son honneur et sa vie.

  M. Lemmink me déteste. C'est un terrible homme, paraît-il; il
  arrive appuyé par una foule grondante, il ne ménagera pas Vos
  sentiments, il voudra m'éloigner de Vous.

  Oh, Sire, mais la majorité de la Chambre lui est acquise, et si ce
  n'est pas la gloire, si ce n'est pas la grandeur, c'est du moins
  le bien-être, c'est la sécurité qu'il apporte! Il faut le prendre,
  Sire. Prenez-le, faites le bonheur de Votre peuple; le mien sera de
  Vous y avoir aidé! C'est bien la tâche d'une reine et Vous n'avez
  que cette couronne à m'offrir. Je vous la demande, mon ami, le
  sourire aux lèvres.»

                                                        _Victoria_»

Il generale rilesse lo scritto, poi presolo fra due dita, e alzatolo
con un lungo sospiro, con un lungo _eh_ dubitativo, lo lasciò cader
sulla scrivania.

— Cosa? — fece il Re.

— Ah, Sire, — rispose Heribrand — se mio figlio mi facesse vedere una
lettera simile, gli direi «non ci credere, è tutto falso, anche questi
segni di lagrime fra l'ultima parola e la sottoscrizione! Non senti»
gli direi «che artificio di stile e di chiusa, non senti che persino
queste lagrime sono politiche? — Maestà — esclamò egli a una violenta
interruzione del Re — a mio figlio direi così! A V. M. posso dire
invece, e forse chi sa? accostandomi di più al vero: questa donna non
è sincera, ma crede di esserlo, crede alle proprie frasi, s'inebria
all'immaginazione di un sacrificio che poi V. M. non le permetterà di
compiere; si intenerisce sopra sè stessa e queste gocce cadute così
presso al _sourire aux lèvres_ sono propriamente lagrime. V. M. mi
ha domandato se sono mai stato giovane; credevo sapesse che lo sono
stato troppo. Ebbene, di tante donne che ho amate, più o meno, una sola
sapeva di recitare la commedia, e due sole veramente non la recitavano.
Le altre erano attrici senz'accorgersene, come la principessa. Ma poi,
Sire, se credete in Lei, perchè non l'ascoltate? Perchè non le date
questa corona che domanda? Se la principessa è sincera, è eroica e
poche regine avranno fatto altrettanto per un Re e per un popolo! V.
M. ha l'animo grande, si compiacerà di essere amato da un altro animo
grande che non solo immagina il sacrificio, ma lo compie. Coraggio,
Sire! Sarebbe forse stato meglio non dirle, quelle altre cose amare. V.
M. mi ha chiesto di aprire il cuore e l'ho aperto. Mi sarò ingannato,
crederò anch'io tutto ciecamente, ammirerò la principessa, ma si
faccia dunque ciò che dice lei! Non si giuoca una piccola posta, qui.
Fersen giuoca il paese a _rouge et noir_; se esce _rouge_ sarà una
gloria sterile o quasi, e pagata cara; se esce _noir_ sarà un disastro
immenso. Sire, se parlassi da capo a mio figlio gli direi «il tuo
dovere è di non permettere questo giuoco».

— La ringrazio — disse il Re — Lei ha detto alcune cose che io credo
molto ingiuste, duramente ingiuste, ma è stato leale e adesso ha
parlato col cuore. La ringrazio. Del resto non credo che Lei sia giusto
neppure col ministero.

E qui si diffuse sui possibili effetti d'una guerra fortunata, parlò
di una grande unione politica che avrebbe potuto costituirsi intorno
al suo trono, di un impero del Nord ch'era già l'oggetto di trattative
segrete colla Francia. Si capiva che la sua parola tepida rifletteva
idee altrui, le ambizioni di un ministro e d'una donna anzichè quella
del futuro imperatore.

— Sire — disse Heribrand dopo aver ascoltato rispettosamente — se non
temessi di offendere V. M. direi un'altra cosa.

— Dica.

— Direi che questa non è l'ultima comunicazione della principessa.

Il Re arrossì e s'imbarazzò un poco.

— Lei deve aver incontrato una carrozza, venendo qua — diss'egli. — È
per questo che adesso...

— No, Sire — rispose Heribrand — non è per questo.

Gli occhi suoi si fermarono sopra un punto della scrivania. Il Re
guardò subito dove guardava il generale, e, non potendo vedere, si
tradì.

— Le è bastato un fil di seta — diss'egli, arrossendo più di prima...

— Mi è bastato meno — rispose il generale con un sorriso — il filo di
seta non c'è più come non c'è più il fiore.

Il Re si avvicinò alla scrivania, vide due filuzzi di musco e una lieve
macchia umida sul cuoio dell'impiallacciatura.

— Non l'ho nascosto — replicò vivamente — entrando l'avrebbe anche
potuto vedere.

Infatti, non proprio nell'entrare ma poco dopo, girando la stanza con
gli occhi, il generale aveva scoperto sopra una mensola, di fianco a un
grande stipo, il lagrimatoio d'alabastro di Volterra che aveva questo
fiore misterioso.

— Ecco — disse il Re, andando a pigliare il vasetto antico.

Era un'opulenta, magnifica rosa, allentata e come languente nei
petali più esterni e chiari, appena socchiusa nel denso cuore con una
voluttuosa espressione d'invito.

— La conosco — disse Heribrand, odorando il fiore. — Amo anch'io le
rose. È la _France_. Magnifica! Meglio allearsi a questa Francia qui
che all'altra. L'altra ha troppe spine.

Odorò il fiore, si avvicinò al Re, e gli parlò per un quarto d'ora,
mostrando l'inopportunità dell'alleanza francese con parola chiara,
calda, convincente.

— E se pigliassi Lei, generale? — disse il Re, sentendo di piegare,
aggrappandosi a Heribrand per non cadere a Lemmink, i cui modi rudi gli
erano intollerabili.

— No, Sire — rispose il vecchio — io sono troppo impopolare, sono
troppo amico di tante cose passate, e poi non sarei più indulgente di
Lemmink colle rose parlanti. Bisogna chiamare lui.

— Le giuro che non sapevo il nome di quella rosa! — esclamò il Re con
impeto — e Lei è sicuro che sia la _France_? Ci pensi!

E si mise a camminare su e giù, a capo chino, dall'uscio al caminetto,
ripetendo macchinalmente ad ogni tratto «ci pensi!» mentre il generale
protestava di esserne sicuro. Finalmente gli si fermò davanti e gli
stese la mano dicendo:

— Credo che Lei, domani, sarà contento di me. E allora spero che sarà
contento pure della principessa, non è vero?

— La venererò, Sire — rispose Heribrand.

Prese congedo.

Nell'uscire gli sovvenne degli occhiali che aveva lasciati sulla
scrivania, ritornò indietro, e nella fretta del riprenderli, urtò
involontariamente con la manica il piccolo vaso antico che si
capovolse lasciando cadere a terra la rosa. Il generale si chinò, con
una esclamazione di dispiacere, a raccoglierla; e, brancicando sul
pavimento, invece di pigliare il gambo, pigliò il fiore. Lo rimise
a posto presso che incolume; solo un petalo, dei più aperti, n'era
rimasto sgualcito e quasi staccato.

S. M. vide tutto e non si mosse, non disse parola. Il suo sentimento
poetico della perfezione, la sua raffinatezza femminile si offendevano
incredibilmente di ogni goffaggine, di ogni menoma distrazione altrui.
Gli si sarebbe guasta l'ammirazione per un uomo d'ingegno vedendogli
scotere sul tappeto la cenere d'una sigaretta, e la più seducente
signora avrebbe molto perduto del suo fascino, se, parlando con lui,
si fosse versata sull'abito una goccia di thè. Quando Heribrand fu
uscito il viso del Re si colorò di malcontento. La vista di quella
foglia cadente, di quella rosa brancicata gli dava fastidio. Prese il
fiore, ne trasse il bocciuolo interno e gettò il resto sulle brage del
caminetto. Poi, ripensando al colloquio recente, quel fastidio gli si
mescolò, nella memoria, alla figura e alla voce del generale, ne rese
ancora più sgradite le parole severe e meno gradite le affettuose;
tanto che sentendo crepitar la rosa sulla brage, odorandone la lieve
fragranza resinosa diffusa in aria e vedendovi balenare sul nero
le ultime faville, ripensò di proposito a quel caso e gli venne il
sospetto che vi fosse stata intenzione. Lo cacciò subito, era un
sospetto troppo ignobile; ma gliene rimase questa spiacevole idea che
la sbadataggine del generale fosse stata offensiva. E in pari tempo,
questo intenso desiderio sorse nel suo cuore: oh se fosse venuta lei
invece di mandar la rosa, se entrasse adesso, se l'avessi qui, almeno
fino a giorno, prima di pensare alla politica!

Si strinse poi sulle labbra un foglietto, la lettera venuta col fiore;
sulle labbra, sul cuore, sulla fronte, come per illuminarsi la mente
con l'amore; poi sulle labbra ancora, più forte di prima. Il sottile
profumo della carta, l'odor di mughetto caro alla principessa lo faceva
palpitar di passione, gli annebbiava il cervello. Mise un profondo
sospiro come in cerca d'aria e di vita e rilesse la lettera che diceva:

«C'est arrivé, donc! Du courage, Sire, faites votre devoir; ce sont vos
amours qui Vous en supplient. Je souffre, mon ami, car je t'aime comme
une folle et je voudrais venir me jeter dans tes bras. Je ne viendrai
point, jamais je ne saurais m'en arracher! Je t'envoie une rose pour le
vase d'albâtre, tu sais, pour le charmant petit vase aux larmes, qui
lui convient. Elle en a eu, de larmes. Et de baisers, donc! Elle est
heureuse, pourtant, de passer la nuit avec toi et de mourir demain.

«Adieu, Sire. Si Votre choix est arrêté, faites-le-moi connaître bien
vite. N'éteignez pas de la nuit Votre lampe; je comprendrai que M.
Lemmink sera ministre. Je la vois de ma chambre, Votre lampe, à l'aide
d'un binocle. C'est mon étoile, elle n'aura jamais été si pure, si
haute!

                                                          _Victoria._

L'odor di mughetto gli aveva ridato nella fantasia il corpo della
principessa e queste paroline scritte in fretta, a grandi tratti
impetuosi, tutte inclinate come da un soffio di passione, gliene
ridavano l'anima. Già inebriato, si sentì nella coscienza domandar
debolmente se non fosse male di lasciarsi trasportare così, di
smarrire, in un desiderio di amore, ogni calma e ogni forza quando più
ne aveva bisogno. Si rispose ch'era dolce perdersi a quel modo, che
forse l'amore lo avrebbe ispirato meglio; e fece tacere con un colpo di
volontà, la debole voce molesta.

Adesso fu nel ritratto di lei che volle affissarsi, negli occhi pieni
di dolcezza e di fierezza che lo guardavano da quel noto viso, più
signorile e delicato che bello, chiuso nel capriccioso disordine
d'un velo nero. Quindi, sentendosi ardere, aperse il balcone a mare
e uscì fuori nel vento rigido, nel fracasso cupo, misurato delle
onde che si rovesciavano sulla scogliera. La luna era nascosta fra
le nuvole; però l'isola Sihl si vedeva benissimo, nera, a breve
distanza. Il vento freddo ristorò un poco il Re, ma le tenebre, per
la loro virtù demoniaca di oscurar nell'uomo il sentimento del futuro
e di esaltargli i desideri amorosi, cospiravano coll'isola Sihl. In
quel luogo, in quell'ora le combinazioni politiche parevano al Re
niente, e l'amore tutto. Dopo cinque minuti rientrò nel gabinetto,
si giustificò, per parere onesto a sè stesso, di ciò che stava per
fare sfiorando rapidamente col pensiero gli argomenti malfermi che ne
aveva, gl'impegni del ministro, l'impero del Nord, e, posto un dito sul
bottone elettrico, senza voler più riflettere, spinse.

Era il tocco e cinquanta minuti. La cameriera della principessa di
Malmöe-Ziethen avvertì subito la sua signora che alla finestra dello
studio di S. M. non si vedeva più lume. La principessa balzò dal
letto, afferrò il cannocchiale che l'altra le porgeva e spalancò le
invetriate. L'appartamento reale non aveva più che undici finestre
illuminate delle solite dodici; la dodicesima, quella della torre
d'angolo, era oscura. Vittoria abbracciò la ragazza, guardò ancora col
cannocchiale, lo gettò da sè, ritornò palpitando a letto, felice; e,
mentre colei chiudeva stupefatta la finestra, le domandò se avrebbe
paura d'una gran guerra vicina.

Dodici ore dopo, la _Gazzetta ufficiale_ pubblicò il decreto di
scioglimento della Camera, controfirmato dal conte di Fersen.



Il testamento dell'orbo da Rettorgole


La storia che segue mi fu raccontata dal mio amico M.

«Nel 1872 — mi diss'egli — ero praticante presso il notaio X. di
Vicenza. Una mattina di agosto, verso le dieci capitò nello studio
un contadino di Rettorgole e pregò il notaio di andar con lui a
raccogliere le ultime disposizioni di suo padre, che stava, secondo
si espresse «mal da morte.» Il notaio volle che io lo accompagnassi e
partimmo ammucchiati tutti e tre in un misero biroccino senza cuscini,
saltando, al trotto sgangherato d'una vecchia rozza, sopra un sedile
molto amaro per due notai magri e avvezzi a due poltrone eccellenti. X.
aveva il muso lungo e brontolava maledizioni ad ogni scossa, io fremevo
pure, e il contadino imperterrito ci descriveva la malattia del padre,
un tal Matteo Cucco, detto l'Orbo da Rettorgole, perchè aveva un occhio
solo «El ghe vede pi elo, sior, con quell'ocio solo — disse l'afflitto
e rispettoso figlio — co no fa nualtri tre con sìe.» Non molto fuori
della città lasciammo la strada maestra e ci cacciammo in un pantano
secco di stradicciuola affondata nei campi, dove il biroccino saltava
peggio che mai. Per fortuna si arrivò presto alla meta, una misera
casaccia piantata nel fango dove son le abitazioni del maiale e della
gente, in una mota puzzolenta; appoggiata dall'altra parte a un gran
fienile, a un portico arioso e asciutto. X. e io stavamo per entrare
in cucina, ma il nostro conduttore ci avvertì che l'ammalato non era
in casa. Il caldo e il puzzo erano tali nella sua camera che avevan
dovuto portarlo sul fienile. Sul fienile, adesso, bisognava salirci dal
portico con una scala a piuoli. X. andò sulle furie. Tempestava che mai
non gli era toccato un caso simile, che mai non avrebbe salita quella
scala. Voleva tornar subito in città. Intanto il contadino teneva la
scala ripetendo ch'era ben ferma e salda; e, sul fienile, un altro
suo simile accorso al rumore l'aveva abbrancata anche lui e aiutava
pure con la voce: «El vegna, sior! nol gai paura, sior! La xe franca,
sior!» Neppur io, che odio la ginnastica e l'alpinismo, ci avevo tutti
i gusti a quell'ascensione aerea; ma insomma un certo sentimento del
dovere misto a una certa curiosità, a una certa voglia di raccontar
poi l'avventura, mi vinse. Salii con grande prudenza e, quando fui
al sicuro, persuasi X. di salirvi anche lui. Lassù bisognava poi
guardar bene dove si mettevano i piedi, per non sprofondare. Trovammo
un giaciglio miserabile, sucido, e distesovi sopra un vecchio calvo,
smunto, dalla faccie ossuta e gialla, con un occhio chiuso e l'altro
semispento. Respirava con stento, ma non pareva però agonizzante. Aveva
due uomini accanto, uno a sinistra e l'altro a destra; due faccie rase,
magre, astute. Uno teneva in mano una frasca e cacciava le mosche dal
viso del moribondo, l'altro gli andava ficcando nella bocca sdentata
pezzetti di pane secco e pezzetti di formaggio. — Magnè, pare — diceva
— magnè, pare.» Più discosto, seduta sul fieno, una vecchia si teneva
il viso fra le mani. Da un'altra parte alcuni contadini, evidentemente
i testimoni, discorrevano fra loro sotto voce. Non mancava il tavolino,
nè il calamaio, nè la sedia. Ci fu detto subito che l'ammalato aveva
fatte le sue devozioni il giorno prima, che non parlava più, ma che
capiva tutto e poteva far segni. In queste condizioni X. non voleva
saperne di stendere il testamento. Si tentò una prova. «Pare! — gridò
curvo sul morente colui che gli somministrava il pane e il formaggio,
— me lo lassèu a mi el porco?» Il vecchio accennò col capo di no.
«Ghe lo lassèu qua a Tita?» Il vecchio accennò di sì. «E la tera de
Polegge a chi ghe la lassèu?» Il vecchio guardò l'uomo che era venuto
a prenderci. «A Gigio, no xe vero?» Il vecchio accennò di sì. «Vedelo,
sior, s'el capisse tutto» conchiuse, non a torto, l'interrogatore
volgendosi a X.

Questi volle tuttavia chiederne alla moglie dell'ammalato, la vecchia
che piangeva accoccolata sul fieno. Ella confermò, con una subita
parlantina, che Matteo era nel pieno possesso della sua mente, che solo
mezz'ora prima s'era fatto intendere di non volere, contro il consiglio
del veterinario, lasciar salassare un bue. Disse poi, quanto al
testamento, che conosceva da un pezzo le intenzioni del marito. Questo
lo disse con grande agitazione e commozione. Pareva una buona donna;
nessuno avrebbe sospettato che volesse ingannar il notaio. Infatti
questi chiese a lei le informazioni opportune sugli eredi legittimi e
sul patrimonio. V'erano soltanto tre figli maschi, tutti presenti. Il
patrimonio, molto superiore a quanto si poteva immaginare da quelle
apparenze, comprendeva una ventina d'ettari di buon terreno, parte a
Polegge, parte a Rettorgole, un'altra casa a Bertersinella, parecchi
animali, parecchi generi ancora invenduti. Quanto la vecchia disse fu
confermato dai figli e dai testimoni. Il notaio avrebbe desiderato
che si suggerisse al vecchio una disposizione sommaria, almeno un
riparto della sostanza per quote. Non fu possibile. Moglie, figli e
testimoni osservavano che la volontà fissa dell'uomo era d'assegnare
specificatamente certi dati enti a ciascuno de' suoi figliuoli. Fra i
testimoni v'era un vecchiotto alquanto rincivilito che offerse tabacco
al notaio e parlandogli con un sorriso pieno di compatimento per
l'ignoranza degli altri contadini e di soddisfazione per la propria
sapienza, lo rassicurò, prima ancora che la questione fosse sollevata,
sulla misura delle quote, rispetto alla legittima. «Matìo xe fin,»
diss'egli. Allora X. si pose a interrogare il vecchio e io mi posi a
scrivere sotto la sua dettatura. Così, a forza d'interrogazioni e di
segni, le case, i campi, i buoi, il cavalluccio, il maiale, persino il
biroccino infame, tutto passò per la mia penna a beneficio di Gigio,
di Tita e di Checco, i tre figli del testatore. «E vostra moglie? —
gridò X. — Non volete lasciar qualche cosa a vostra moglie?» Il vecchio
accennò di no, e tutti, compresa la moglie, confermarono che questa era
la sua conosciuta volontà. «Bene — brontolò X. — a questo provvede la
legge. Per questo ci rimetteremo alla legge.» «Sior, — disse la vecchia
stoica — mi no intendo che me gai da tocar gnente. La fame la go patia
prima e la patirò anca dopo.» Il mio principale non le diede retta e si
dispose a leggere il testamento ad alta voce. Io gli cedetti il posto
e stavo guardando, mentre X. leggeva, un bel gallo orgoglioso saltato
su dal portico sull'orlo del fienile. Udii qualche cosa, mi voltai e mi
vidi incontro una giovane contadina con un lattante in braccio, rossa,
scarmigliata, ansante. «Cossa fali qua, eli? — mi diss'ella piantandomi
in viso due occhi sfolgoranti. — Me sassìneli mi e la me creatura?»
Successe un trambusto, la vecchia si alzò in piedi, i suoi figli si
slanciarono contro la nuova venuta. X. balzò pure in piedi e impose a
tutti di non muoversi. «Chi è questa donna?» diss'egli imperiosamente.
Fu la madre che rispose: «Ghe lo dirò mi, sior, chi la xe. Nostra fiola
la xe, intendelo. Ma a ela, intendelo, no ghe va gnente, no ghe va.
So pare el ghi n'a dà anca massa, el ghi n'a dà. A no so...» «Anca vu,
mare! — interruppe la giovane amaramente. — Pazienza me fradei che i xe
sempre stà cani con mi; ma vu? Cossa sonti mi? no son del vastro sangue
mi, ca me gabiè da tradir anca vu? Cossa podìo dir, vu de mi? Cossa
podìo dir de me marìo?» «Basta, basta, basta! — gridò X. stracciando il
testamento. — Vergognatevi tutti quanti! E chi apre il becco lo faccio
andar in galera!»

I testimoni erano lividi di spavento, i figli erano lividi di rabbia,
la madre e la figlia si guardavano minacciose in viso; ma nessuno
proferì più parola mentre X. furibondo andava stracciando la carta in
minuti pezzi. A un tratto la giovine si scosse, e, senza che alcuno
osasse trattenerla, andò dritta al morente, gli posò accanto la sua
creatura.

«Pare — gridò ruvidamente — s'a voli ca mora de fame mi, morirò; ma
lassèghe na feta de polenta a questo chive!» Il vecchio, non potendo
fare altro segno ostile, chiuse il solo occhio che aveva. Mai non
dimenticherò il guanciale con le due teste, la testa bionda del bambino
color di latte, ridente dalle iridi azzurre alla madre, la testa calva
del vecchione arcigno, scura nell'ombra della morte. L'idea sinistra
che la Potestà delle Tenebre si aggravava su quel guanciale e stava
pigliando per sè una delle due anime, mi fece rabbrividire. Anche X.
guardava attonito ciò che mi pareva uno scherzo mostruoso del destino.
In quel punto ecco il prete, un buon uomo semplice che conosco. Vide il
bambino sul letto, capì male, si fece ilare in viso, «Oh bene, bene —
diss'egli — Dio sia lodato.» Il bambino si mise a piangere e sua madre
fece l'atto di riprenderselo, ma Don Rocco non lo permise. «Lasciate,
lasciate, — disse pigliando il polso dell'infermo. — Lasciatelo morire
con un angioletto a lato. Oramai ci siamo.» E si mise a recitar le
preghiere degli agonizzanti. X. poco amante di simili spettacoli,
preferì la scala a piuoli. Nessuno si mosse per aiutarlo e perciò
dovetti seguirlo io: ma, prima di partire a piedi con lui, tornai su,
curioso come mi conosci, un momento. Figli e testimoni erano spariti,
non so da qual parte. La giovine madre, ripreso il bambino piangente,
non si occupava che di chetarlo con baci e carezze, come s'egli
solo meritasse attenzione da lei. La vecchia, fedele fino all'ultimo
all'uomo del quale aveva divise e servite le passioni con una specie di
devozione selvaggia, pregava inginocchiata al suo letto.

Camminando poi attraverso campi di rigoglioso, lucente granturco,
attraverso prati floridi, lungo filari di grandi ontani allacciati da
festoni di viti dove l'uva già nereggiava, pensavo perchè mai tanta
bellezza innocente di natura, tanto fiore di vita, tanta benedizione di
frutti avessero ad alimentare nel cuore umano le cupidigie più bieche,
gli odii più esecrandi. «Non la intendo — conchiuse l'amico M. — Vi
dev'essere qualche sbaglio nel sistema che gli uomini hanno ideato per
servirsi di tanta grazia di Dio.»

«Lo temo anch'io — dissi. — Temo che vi sia un vizio radicale di
egoismo. Ma lasciamo fare al Padrone della terra e degli uomini che ci
troverà bene il rimedio.»



Il Folletto nello specchio

(_Fiaba per Maria_).


Viveva una volta a Milano, a pochi passi dalla Galleria De Cristoforis,
una vecchia dama, la contessa X. molto ricca e molto brutta, a cui
piaceva assai di tenere società; e siccome aveva un ottimo cuoco, la
società non le mancava mai. Una sera vi erano undici visitatori nel
suo salotto; una giovane vedova, una signora inglese, un consigliere
d'appello, un grosso generale, un sottile tenente del genio, un
zazzeruto maestro di musica e un poeta pelato, celebri ambedue, e
quattro giovinotti eleganti, occupatissimi di far niente.

Caduto il discorso sull'eterno paragone fra la vanità degli uomini
e la vanità delle donne, la maggioranza fu d'avviso che il sesso
più vanitoso fosse il mascolino; ma quando la padrona di casa, per
darne un esempio, sentenziò che non v'era uomo, per quanto vecchio
e serio, capace di passare davanti a uno specchio senza dare almeno
una sbirciatina alla propria seducente immagine, gli uomini celebri,
il consigliere, il grosso generale protestarono che questo non era
vero e che la vanità mascolina si manifestava in altri modi. Tosto
due brevi sottili risatine trillarono in aria. Ciascuno credette che
avesse riso la vedova, e la vedova credette che avesse riso l'inglese,
l'altra signora. Invece chi rise fu un diavolino di quelli che girano
intorno alla gente per far dire bugie e commettere peccati di vanità.
Il discorso morì lì, anche perchè suonava mezzanotte. Le due signore
si alzarono e la padrona di casa invitò molto amabilmente tutta la
compagnia a pranzo per l'indomani alle sei.

All'indomani, che fu una giornata gaia e calda di aprile, gl'invitati
si recarono al pranzo, le signore in carrozza, gli uomini a piedi,
ciascuno per proprio conto. Il consigliere e il generale abitavano in
via Alessandro Manzoni; degli altri chi in via del Monte, chi in via S.
Andrea, chi in Borgo Spesso, chi in Borgo Nuovo. Insomma ciascuno passò
per la Galleria De Cristoforis e benchè vi passassero tutti fra le
cinque e tre quarti e le sei, il caso volle che non si accompagnassero
fra loro, neppure in due. Tu sai che la Galleria De Cristoforis ha
due bracci ad angolo retto e che uno specchio è infitto nel canto
che la gente rade svoltando dall'uno nell'altro braccio, in faccia
alla birraria Trenk. Dietro a questo specchio si insinuò il maligno
spirito e stette aspettando gl'invitati per un suo diabolico scherzo.
Passa, per il primo, il generale, si guarda nello specchio con la coda
dell'occhio, e si vede raccapricciando, una macchia d'inchiostro sulla
guancia sinistra. Mancavano cinque minuti alle sei, non c'era più il
tempo di ritornare a casa. Il generale affretta il passo tenendosi il
fazzoletto sul viso, e appena entrato nell'anticamera della contessa,
chiede al domestico una salvietta e un po' d'acqua. Il domestico lo
introdusse in una camera da letto e stava versandogli l'acqua nel
catino, quando fu da capo suonato all'uscio. Ecco il consigliere che
entra tenendosi il fazzoletto sulla guancia sinistra e dice: — Presto,
per carità, una salvietta e dell'acqua. — Il domestico lo conduce in
un'altra camera da letto e gli versa l'acqua. Si suona; è il tenente
che si tiene una mano sul viso e dice: — Mi rincresce, ho dei guanti
che lasciano il colore; avete dell'acqua? — Il domestico si meraviglia
molto e lo conduce in una terza camera da letto. Quarta scampanellata;
è il maestro di musica, che dice brusco: — Dell'acqua! Conducimi in
camera. — Signore, — risponde duro duro il cameriere — ci sono già
tre signori che si lavano in tre camere e di libera non c'è più che la
camera della contessa. Se crede Le porto qua l'acqua e una salvietta. —
Porta — risponde il maestro. Il cameriere va, ritorna con l'acqua e la
salvietta. Colui si frega il viso, e guarda se la salvietta n'è sudicia
e siccome la salvietta è sempre pulita, frega e guarda, frega e guarda,
rifrega come un disperato. Ancora un colpo di campanello. Ecco il
poeta celebre che vede l'amico stropicciarsi e dice: — Bravo. Oh bella,
occorre anche a me. — Son pulito? — gli chiede l'altro mostrandogli la
faccia. — Perfettamente. Il maestro, felice, entra dalla contessa dove
trova il generale e le altre signore. Poi suonano, uno dopo l'altro,
tre dei giovinotti eleganti e ciascuno vuole acqua salvietta e anche
sapone. Il domestico si trattiene a grande stento dal ridere e non sa
più dove battere il capo. Gli mancano salviette, deve chiederne alla
guardarobiera, corre da lei; la guardarobiera si arrabbia; intanto
suonano all'uscio e nessuno apre; suona anche la contessa perchè vadano
ad aprire, torna a suonare e nessuno si muove; esce lei e chiama la sua
gente. Allora il quarto giovinotto che aspettava fuori dall'uscio con
l'idea egli pure d'avere uno sgorbio sul viso, udendo la voce della
dama, e, temendo incontrarla nell'anticamera, si bagna il fazzoletto
nella saliva e assicuratosi che nessuno gli vede fare questa porcheria,
si frega la guancia sinistra a più potere, come gli altri. Finalmente
tutti gl'invitati si raccolgono in sala e la contessa, che intanto ha
potuto saper qualche cosa dal domestico, dice sorridendo: — Cos'avete
fatto, caro generale, a quella guancia che siete così rosso? — Subito
gli altri personaggi mascolini pensando aver pure una guancia rossa,
si recano per istinto la mano al viso; la contessa ride; ride uno
dei giovinotti, un secondo, un terzo, scoppia una risata generale; la
contessa, poichè il ghiaccio è rotto, racconta il caso alle due signore
e tutte voglion sapere il come di questa epidemia straordinaria.

— Per conto mio — rispose il poeta — convien dire che un'amica
d'infanzia, la duchessa Y. una vera sorella per me, abbia oggi mangiato
del carbone perchè prima di venir qua fui ad incontrarla alla stazione
e mi ha dato un bacio proprio qui sulla guancia sinistra.

— Io invece — disse il consigliere d'appello, — credo di essermi
macchiato con la tintura del ministro B. che oggi è a Milano e mi ha
fatto chiamare per un affare importantissimo. Siamo amiconi, e lui,
scherzando, mi ha preso una guancia fra l'indice e il medio. Siccome si
tinge, è facilissimo che avesse le dita sudicie.

— Quanto a me — disse il tenente, dimenticando la storia dei guanti che
lasciano il colore, — promisi un acquarello a Sarah Bernhardt, e ci ho
lavorato fino all'ultimo perchè le preme assai. Certo mi sarò spruzzato
dell'inchiostro della China sul viso.

— Io — disse a sua volta il maestro di musica — uscivo di casa quando
mi è venuta una idea per il preludio del mio quarto atto. Sa, un lampo
elettrico proprio. Lo dico perchè non ne ho merito; le buone idee mi
vengono così, misteriosamente. Sono corso a buttar giù otto battute, e
certo, nella foga dello scrivere, mi sarò sgorbiata la faccia.

— Ecco — disse il generale, che aveva passata la sessantina. —
Io faccio molta ginnastica ogni giorno. Oggi alle cinque ho fatto
parecchie elevazioni con gli anelli. Può essere che uno degli anelli
non fosse pulito e che mi abbia sfiorato il viso.

— Non so davvero come ciò abbia potuto succedermi — disse uno dei
giovinotti eleganti. — Proprio oggi, mezz'ora fa, ho adoperato il
_Shetland-soap_, una novità inglese che ho fatto venire io da Londra e
che forse nessuno a Milano conosce!

— Come, come? — esclamarono due de' suoi colleghi. — Se io l'ho da
ieri! — Se io l'ho da ier l'altro!

— Allora — replicò il primo, — sarà certo un difetto dello
_Shetland-soap_.

— Ma no — esclamò il quarto, quello che aveva fatto pulizia fuori
dell'uscio. — L'ho anch'io e non credo d'esser macchiato, guardatemi.

— Ma, signori — osserva la contessa, — voi altri mi dite: sarà stato
il sapone, sarà stato l'inchiostro di China, sarà stato questo, sarà
stato quello. Vorrei un po' sapere, adesso, come abbiate fatto ad
accorgervene di queste macchie sul viso, e come non ve ne siate accorti
che fuori di casa!

Vi fu un silenzio lunghetto.

— Un amico... — incominciò il poeta con imbarazzo; ma il generale si
decise nello stesso momento, a rispondere francamente:

— Diciamola! Per parte mia Le confesso, contessa, che mi son guardato
nello specchio della Galleria De Cristoforis.

— Oh bella! — Oh diavolo! — Oh perbacco! — esclamarono
involontariamente il maestro di musica, il tenente ed uno dei
giovinotti eleganti.

— Oh, oh! — fecero allora alla loro volta le signore indovinando; e
costrinsero quei tre a confessare che anche loro si erano guardati
nello specchio: poi le signore e i quattro rei confessi diedero addosso
con un gran baccano agli altri per far confessare anche loro, e tutti,
salvo il poeta che si ostinò col suo amico, finirono col metter fuori
quel maledetto specchio della Galleria.

— Dite _benedetto_, signori, — osservò ridendo la contessa — perchè
capisco che se non c'era lui mi capitavate in una bella figura.

— Pur troppo — rispose il generale — lo domandi a Federico.

Federico, il cameriere, entrò in quel punto ad annunciare il pranzo.

— Non è vero, Federico — gli disse il generale, — che avevo il viso
conciato bene? Io e anche gli altri, non è vero?

— Per verità rispose Federico, — del signor generale, del signor
consigliere e del signor tenente non lo posso dire perchè tenevano
la faccia coperta, ma gli altri signori ho veduto benissimo che non
avevano niente.

Tutti protestarono e il cameriere tenne fermo, lasciando intendere che
sospettava la stessa cosa del generale e del tenente.

— Come, come? — esclamò la contessa. — Questa è magìa! Non si va a
pranzo se non si scopre questo mistero!

— Il tavolino, contessa! — disse la signora inglese ch'era spiritista
e faceva spesso delle esperienze con la padrona di casa. — Bisogna
interrogare il tavolino.

Detto fatto, fu portato il piccolo tavolino che si mise subito a
girare, scricchiolando tutto come se ridesse; e interrogato sul dove,
sul come e sul quando delle famose macchie, debitamente rispose:

    _Ogni specchio è casa mia,_
    _Son le macchie mia bugia._
    _Tutte l'altre son bugie_
    _Delle loro signorie._

            IL FOLLETTINO DELLA GALLERIA.

I signori uomini non attesero che finisse e si diedero a schiamazzare:
— A tavola! A tavola! Presto! Presto! Storie! Fandonie! A tavola!
A tavola! — E, portando seco le signore che ridevano come pazze di
loro e sopratutto del poeta, della sua duchessa e del suo amico, si
precipitarono nella sala da pranzo come un uragano.



Màlgari


Molti e molti secoli fa, un gran vecchio poeta e Re di un paese
lontano, cantò sulla riva del mare un magnifico poema, s'intenerì del
proprio canto sino a piangerne; e le sue lagrime, cadendo nell'Oceano,
vi diventarono perle. Trecento anni or sono fu pescata la più superba
di queste perle, che aveva la forma d'un cuore; e il Doge di Venezia
la regalò a S. E. Contarina Contarini, moglie di un _Cao_ della
Repubblica. La Contarini, bella, ricca, virtuosa, non era felice. Aveva
perduto nel terzo anno del suo matrimonio l'unica bambina; e siccome
quando incomincia questa storia forse più vera che verosimile erano
passati dodici anni dal giorno della sventura, nè lei nè suo marito
osavano più sperare che il buon Dio mandasse loro un'altra creaturina
in luogo della morta.

Un giorno mentre Contarina scendeva dalla sua gondola in campo S.
Zanipolo per andare alla predica, una povera donna che aveva seco due
bambini cenciosi e sparuti le chiese piangendo l'elemosina. Contarina
le diede uno zecchino e la povera donna esclamò piena di gratitudine
«Dio La benedica, Eccellenza, Lei e le sue creature! La Madonna Le
dia allegrezza». La dama si turbò ed entrò a S. Zanipolo dove un frate
predicava sulla educazione e stava raccontando all'uditorio la storia
di Cornelia Romana che disse de' suoi figliuoli «ecco i miei gioielli».
Contarina pensò allora: ah se invece della perla che m'ha donato il
Doge avessi ancora la mia bambina! Dopo la predica, ritornando in
gondola al suo palazzo della Madonna dell'Orto, Contarina si addormentò
e udì in sogno una voce che le disse queste parole incomprensibili
«se non la vuoi perdere, guardati dalla poesia e dalla musica».
Ella si svegliò subito assai meravigliata di un tal sogno, piena
d'inquietudine. Scendendo al suo palazzo udì un gran chiasso, un gran
litigare dei domestici. Le vennero incontro parlando tutti insieme, e
Contarina potè a stento intendere che si accusavano a vicenda di aver
lasciata aperta la porta della calle, poichè qualcuno doveva esser
entrato di furto con una creatura che si era poi udita gemere, e si era
trovata sola soletta proprio nella camera di Sua Eccellenza e proprio
nella culla d'argento vuota da dodici anni. Contarina mise un grido e
respingendo tutti col gesto si slanciò nella sua camera.

                                   *
                                  * *

Trovò infatti nella culla d'argento una bambina bianca come
l'alabastro, con due occhioni color di mare, che subito cessò di gemere
e le stese le sue manine. Contarina corse allo stipo dei gioielli; era
aperto, e la famosa perla del Doge, scomparsa. Ella intese allora che
Dio aveva veduto il suo pensiero di S. Zanipolo ed esaudito il voto
della mendicante. Folle di gioia, vestì subito la piccina con le vesti
della sua dolce morta e mandò a chiamare il marito cui raccontò ogni
cosa, l'augurio, il pensiero e il miracolo. Sua Eccellenza Giovanni
Contarini rispose che probabilmente un ladro aveva rubata la perla e
lasciata la bambina, ma che vedendo lei così felice, egli era contento
di tenersi la piccina per figliuola. Era il giorno di Santa Margherita
e le fu imposto il nome di Margherita che vuol dire perla, ma lei,
quando cominciò a parlare, invece di dire «Margherita» diceva sempre
Màlgari e tutti finirono con chiamarla così.

                                   *
                                  * *

Màlgari crebbe rapidamente e sarebbe stata la più bella bambina di
Venezia senza quel suo pallore straordinario. I domestici di casa
Contarini e le dame invidiose di Venezia volevano per forza che fosse
sangue vile di zingari o di ladri; ma ell'aveva un viso così nobile e
gentile, una voce così soave ch'era ridicolo di affermare tal cosa.

Vivacissima di sentire, era molto gaia, scherzava, giuocava tutto il
giorno, rideva spesso d'un suo breve riso argentino, a trilli; ma se
udiva una maldicenza, una parola incivile o triviale, se vedeva un
atto malvagio o villano, se le raccontavano dolori o tristizie della
gente; se qualchevolta suo padre e sua madre altercavano insieme, e,
sopratutto, se si accorgeva di una menzogna detta in sua presenza, si
chiudeva tosto in una grave, silenziosa malinconia. Aveva quattro anni
quando, una notte d'estate, passò per il rio della Madonna dell'Orto
qualcuno che cantava accompagnandosi con la chitarra. Màlgari, che
dormiva con sua madre, si svegliò, scivolò dal letto, vi rimase fino
a che potè udire la voce che si perdeva verso S. Alvise, e cadde poi
svenuta sul pavimento.

Quando rinvenne, nel letto di sua madre, la supplicò di lasciarla
ritornare alla finestra, di farle udire ancora quel suono e quel canto.
Poi assalita da una febbre ardente, delirò per tre giorni e tre notti,
tornando sempre a questo punto che la chiamavano, che doveva partire,
che lei non era veneziana, che aveva udito una voce del suo paese;
e abbracciava la povera desolata Contarina dicendole: «Mamma, mamma,
conducimi via!» Allora Contarina, ricordandosi delle parole udite in
sogno e pensando che a Venezia sarebbe stato impossibile tener Màlgari
lontana dalla musica, se non dalla poesia, propose al marito di partir
per la sua isoletta di Syra nell'Arcipelago greco, dove aveva un
palazzo che sorgeva fra boschi di ulivi, di aranci e di lauri a guardar
il mare. L'isola non era abitata che dai coloni e dai giardinieri di
Contarina. Sua Eccellenza Contarini rispose ch'era una pazzia e ch'egli
non poteva spiantarsi da Venezia. Contarina si ostinò e partì sola con
Màlgari.

                                   *
                                  * *

Tutti gli abitanti di Syra ebbero subito assoluto divieto di tenere
strumenti di musica e di cantare. Contarina proibì persino di suonar
le campane della chiesa perchè la sera stessa del suo arrivo all'Ave
Maria, Màlgari si era tutta rimescolata udendole suonare nella
solitudine, tra il fragore del vento e delle onde. Non per questo la
bambina riebbe l'umor lieto di prima. Giuocava di rado, adesso, e non
rideva quasi mai; era però contenta di trovarsi proprio in mezzo al
mare e passava lunghe ore sul lido ad ascoltar la gran voce dell'Egeo.

Avanzando negli anni diventò avida di letture e fece lunghe dimore
nella biblioteca del palazzo, dove una volta sua madre la trovò a
leggere il Tasso, con gli occhi scintillanti, con il polso e il calor
febbrile, ebbra di quella poesia. Perciò Contarina fece togliere dalla
biblioteca e bruciare tutti i libri di versi. Sua Eccellenza Contarini
non veniva a Syra che una o due volte l'anno nè vi si tratteneva più
di tre giorni. Egli era irritato, sulle prime, di ciò che chiamava
la pazzia di sua moglie; poi vi si abituò. Màlgari si affliggeva
segretamente di veder che suo padre e sua madre non si amavano più
e aveva pregato più volte quest'ultima di ricondurla al padre, non
sapendo il segreto della propria origine e della fuga da Venezia che
ella attribuiva a quel suo capriccio infantile di bambina malata. Ma
sua madre l'avea sempre supplicata, prima con baci e carezze, poi con
lagrime, di non insistere.

Màlgari era sui tredici anni quando una cameriera cacciata le disse,
per vendetta, come ella fosse entrata in casa Contarini; per mano dei
ladri e di zingari. Màlgari gelò, diventò ben più bianca d'una perla,
rispose a colei «vi perdono» e andò da sua madre, volle, colla fermezza
severa d'una piccola regina, conoscere da lei la propria storia.
Contarina le raccontò tremando il miracolo, e, il bel viso pallido di
Màlgari si trasfigurò come se vi salisse dentro una luce di alba. «Sì,
mamma» diss'ella «sento che non sono la zingara, che son la perla; ma
non bisogna dirlo nemmanco all'aria che non m'ingiallisca, nemmanco al
mare che non mi prenda. Ora spiegami perchè non vuoi che nessuno qui
suoni nè canti e perchè non mi hai più lasciato leggere quel libro così
dolce.» Contarina si schermì dal rispondere a queste domande, e Màlgari
non insistette. Si accontentò di sussurrar nell'orecchio a sua madre,
abbracciandola: «vorrei ritornare a Venezia».

                                   *
                                  * *

Quella sera stessa la giovinetta discese al mare in un recondito seno
chiuso fra due scogli neri dove l'onda si addormenta sulla sabbia fine
e lucente, e grandi pini ad ombrello, levandosi sopra le macchie di
Lauri, cantano ad ogni fiato di vento che passa in alto. Parve Màlgari
non aver mai amato tanto il mare. Si lasciò cader sulla sabbia, si
distese lungo l'umido confine dell'onda, se ne fece lambire dai piedi
ai capelli, e l'onda era così tepida, molle, amorosa, che Màlgari
parlò con lei, piano piano, figurandosi la sua vita antica di perla,
aprendo il suo cuore, domandando all'acque materne quella dolcezza
che aveva sentita una notte a Venezia, che aveva sentita un giorno
nella biblioteca leggendo la storia di Clorinda e di Tancredi. E
l'onda rispondeva piano piano, pareva che avesse in sè qualche cosa
dell'una e dell'altra dolcezza, che promettesse molto più. Il cielo
era oscuro, l'alto mare si confondeva con esso; ma, a poco a poco,
Màlgari, non sapendo bene se fosse desta o no, vide tanti piccoli
chiarori argentei movere da lontano verso di lei; distinse a poco a
poco, in ciascun chiarore, una figurina umana, tante bionde e brune
teste di giovinette che rompeano veloci le acque fosforescenti, tante
picciolette mani che gittavano scherzando a manca, a dritta e in alto
spruzzi di brillanti. Non entrarono nel seno dove era Màlgari, ma gli
passaron davanti rapidamente, così da presso che il bagliore delle
fosforescenze illuminava gli scogli, la riva ed il bosco. Ciascuna
testina si voltava, passando, a guardar Màlgari ma nessuna venne a lei
tranne l'ultima che girò fra gli scogli ed entrò nella rada, fermandosi
a pochi passi dal lido.

— Chi siete? — le chiese Màlgari.

— Nereidi.

— Nereidi? Allora sapete predir l'avvenire?

— Sì.

— Dimmi il mio.

La piccola Nereide la guardò un poco e rispose:

— Di musica e di poesia sei nata, in poesia e musica ritornerai.

La Nereide aveva un delicato viso di bambina; ma gli occhi suoi erano
belli, malinconici e profondi come d'una donna di trent'anni.

— Come sei bella! disse Màlgari. — Vieni a darmi un bacio.

— Non posso. Le Nereidi non toccano il lido.

— Ci ritroveremo mai?

— Io son del mare — rispose la malinconica testolina bruna. — Tu sei
del cielo.

E senza dirle addio girò veloce e disparve dietro lo scoglio, seguendo
le sue sorelle.

Màlgari se ne ritornò a casa, non parlò delle Nereidi e non domandò mai
più a Contarina perchè la tenesse lontana dalla musica e dalla poesia.

                                   *
                                  * *

Ella non rise più, dopo quella sera; e diventò ancora più dolce e pia.
Nessuno soffriva nell'isola senza ch'ella pure soffrisse, senz'avere
da lei pietà, aiuto e conforto. Ella entrava nelle case e nelle anime
della povera gente, e nelle case e nelle anime restava un lume di lei.
Ritornò sovente, la sera, a quel golfo recondito ma non vide più le
Nereidi.

A quindici anni ne mostrava nel viso e nell'alta graziosa persona,
dieciotto; e Contarina andava già pensando se le cercherebbe marito o
no. Giovanni Contarini non veniva da due anni e scriveva di rado, non
più di una volta ogni due mesi, quando la nave dei Borsari, mercanti
a Rialto, andando a Smirne, toccava l'isola. Una volta la nave non
portò lettere, portò invece la notizia che una terribile pestilenza era
scoppiata in Venezia. Contarina ne fu atterrita pensando al pericolo
del marito, al rimorso proprio s'egli venisse colto dal morbo e lei
non fosse ad assisterlo; ma molto più rimase atterrita quando Màlgari
le dichiarò con i suoi modi miti e risoluti che il loro dovere era
di ritornare a Venezia e che bisognava compierlo. Contarina piegò il
capo come lo avrebbe piegato davanti a Dio e quindici giorni dopo le
due signore entravano nel loro palazzo della Madonna dell'Orto dove
Giovanni Contarini era morto di peste il giorno innanzi. Contarina
si disperò, pianse molto e propose a Màlgari di partire subito; ma
la fanciulla che non aveva strillato nè pianto, le rispose che se
Contarini era morto nell'abbandono, la colpa ne pesava sopra di loro
e bisognava espiarla. Ella stessa, per sua parte, intendeva farsi
infermiera degli appestati. Contarina si sentì morire ma non ardì
opporsi perchè Màlgari aveva parlato con un'aria di regina e anche di
Santa.

                                   *
                                  * *

Questa si pose subito all'opera. I poveri infermi erano spesso
abbandonati, per paura, dai loro parenti, si trascinavano spesso a
morire sulla pubblica via. Màlgari, con quella sua bellezza mistica,
con la voce soave, con le delicate mani abili a tutto e di nulla
sdegnose, fu invocata e benedetta da ricchi e da poveri, che la
chiamavano la _Madonna dell'Orto_. Ella assistette, fra gli altri, un
giovine musicista straniero, venuto dal Nord in Italia per l'arte sua;
un povero bello e gentile giovane, che, guarendo, si innamorò forte di
lei e non glielo potè dire perchè ella, sentendo pure confusamente che
l'avrebbe amato e che quello non era il tempo di amare, lasciò a un
tratto di visitarlo. Cessata la morìa, pensò ancora a lui, e molto; ma
non lo vide più.

Il Senato la onorò grandemente, il Doge fece ancor più: la domandò in
isposa. Contarina, malgrado mille trepidazioni sue proprie e la fredda
renitenza di Màlgari, fu di avviso che non si potesse rifiutare il
Doge. Tuttavia Màlgari lo rifiutò, e solo per ischerzo soggiunse che
s'egli dotasse tutte le donzelle povere e ricoverasse tutti i pezzenti
di Venezia ci ripenserebbe; se poi levasse dalla piazza di S. Marco
il Campanile cui non poteva soffrire, si risolverebbe addirittura di
sposarlo. Il Doge rispose che le due prime condizioni erano accettate
e che eseguirebbe anche l'ultima nel terzo anno dalle nozze. Màlgari si
rattristò assai perchè se diceva di no toglieva pane, tetto, allegrezza
a tante migliaia di creature umane e il sì le ripugnava oltremodo. Le
parve che il bene fosse dalla parte del sacrificio e si sacrificò.

                                   *
                                  * *

Per ritardare le nozze, pregò all'ultimo momento che si celebrassero
nell'isola di Syra. Il Doge acconsentì e i due fidanzati partirono
sopra due navi della Repubblica, accompagnati dai loro parenti, da un
gran numero d'amici, di clienti e di servi. Era il plenilunio di agosto
e la seconda notte del viaggio, una notte splendida, Màlgari salì sola
verso il tocco in coperta a goder la luna ed il fresco. Sedette a prora
contemplando il mare e dopo qualche tempo s'avvide di un marinaio che
voleva accostarsi a lei e non ardiva. Gli domandò affabilmente che
desiderasse ed egli si scoperse per il giovane musicista straniero
guarito dalla peste. Màlgari si turbò profondamente, non gli chiese
perchè si trovasse a bordo in quel travestimento; e il giovane le
disse solo che il suo repentino abbandono l'aveva accorato e che ora
era felice di poterle almeno dire «grazie». Per la prima volta un
lieve color di rosa passò non veduto sul viso della fanciulla che
lasciò cadere questo discorso. Pregato da lei, il giovane straniero
parlò del suo paese. Era un paese lontano lontano verso il nord, cinto
a mezzogiorno e a ponente da un mare tempestoso d'estate, gelato
d'inverno, un triste, povero paese tutto scogli, laghi, boschi di
betulle che negli anni di carestia si scorticano per farne pane; un
paese di gente buona e semplice, di pescatori che errano sui laghi
nei tronchi incavati degli abeti, che cercan la trota sotto le cascate
spumanti, di cacciatori che inseguono l'anitra selvatica e l'_eider_
fin sulle onde del mare, che volano sulle slitte veloci in traccia
della volpe, del lupo e dell'orso; un paese povero d'oro, conchiuse
il giovane, ma ricco delle due più belle cose che il mondo abbia, la
musica e la poesia. Màlgari trasalì. «Come mai?» esclamò. «Come può dir
questo?»

Allora il giovane straniero le parlò di un magnifico poema della sua
patria, che ancora si cantava dal popolo, nella fredda stagione intorno
al focolare domestico e nell'estate all'aperto, sulle praterie, sulle
sponde fiorite dei laghi, sui lidi del mare. E le raccontò le parti più
belle del poema, storie d'amore, storie d'odio, storie di pace, storie
di guerra. In ultimo le raccontò la storia di un gran vecchio glorioso,
poeta e Re, che cantando sul lido s'intenerì del proprio canto, e
pianse, e le lagrime cadendo nel mare, vi diventarono perle. Màlgari
voltava le spalle alla luna che battea sul viso dello straniero;
seguiva il racconto con gli occhi spalancati, intenti, stringendosi le
mani di ghiaccio sul petto pieno d'amore e di dolor mortale.

«Perchè» susurrò poi ch'egli tacque «perchè non vi ho riveduto prima?»
E subito si pentì di queste parole, si voltò a guardare il mare in
silenzio. Ed ecco non tanto lontano i correnti chiarori argentei, le
testine bionde e brune delle Nereidi. Màlgari credette ravvisar la sua,
la sola che si voltasse a guardar il bastimento; credette incontrare e
intendere quello sguardo.

«Mi suoni» diss'ella subito al giovane «mi suoni il canto del vecchio
poeta».

                                   *
                                  * *

Il giovane andò e tolse il suo strumento, un violino italiano, «Grazie»
disse Màlgari al suo ritorno. «Aspetti, non voglio esser veduta se mi
cercano.» Sedette fra il cannone di prora e il parapetto della nave.

Lo strumento suonò, con tutta l'anima sua di patriota, di artista, e
di amante, una musica sublime. I delfini innamorati seguivano la nave,
i marinai e gli ufficiali, i servi e signori accorsero, si affollarono
sul ponte ad ascoltare il magico suono senza che il suonatore se
ne avvedesse. Quando se ne avvide s'interruppe, volle congedarsi da
Màlgari; ma di lei non trovò più che un fazzoletto bagnato di lagrime.

La gente stupida credette che si fosse gittata dalla nave per non
andare sposa del Doge. Contarina Contarini morì di crepacuore vedendola
tornata in perla sul fondo dell'Adriatico, ma noi non abbiamo queste
idee sciocche e tristi. Se di lei solo rimase un fazzoletto bagnato
di lagrime, noi sappiam che la perla era fatta di lagrime appunto e
dell'anima d'un poeta; noi sappiamo cos'ha detto la piccola Nereide
malinconica dell'Egeo:

«Io sono del mare, tu sei del cielo».



INDICE


  Idillii spezzati                      Pag.   1
  Il Crocifisso d'argento                »    43
  La visita di Sua Maestà                »    65
  L'orologio di Lisa                     »    81
  La lira del poeta                      »   101
  La stria                               »   115
  Per una foglia di rosa                 »   147
  Il testamento dell'orbo da Rettorgole  »   171
  Il folletto nello specchio             »   183
  Màlgari                                »   197



NOTE:


[1] Scrittoio.

[2] La balia.

[3] La storia del sior Intento è uno scherzo che si fa ai bambini per
pigliarsi giuoco della loro curiosità.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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