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Title: Monotonie Author: Oriani, Alfredo Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Monotonie" *** MONOTONIE VERSI DI OTTONE DE BANZOLE (ALFREDO ORIANI) IN BOLOGNA PRESSO NICOLA ZANICHELLI MDCCCLXXVIII SIGNORA Il vostro nome era una virtù, la vostra vita un capriccio, la vostra morte fu un martirio. Questo libro che mi chiedeste un giorno col più spensierato dei vostri sorrisi lo depongo oggi sulla vostra tomba; non lo leggerete; se foste viva non vi risovverreste più nè del poeta, nè dell'uomo. OTTONE DE BANZOLE. _Là dove altra volta l'artista disperò, là cominciarono la politica e la filosofia; là dove oggi il politico ed il filosofo disperano, là ricomincia l'artista._ RICCARDO WAGNER. LO SCROFOLOSO Vien qui, divina bionda fanciulla dalla fronte pallida: vieni e ti china sull'infelice che t'amava incognito. Dalla finestra non veggo il sol, ma sento che dilegua... Oh! la tua destra mi pon sul capo, ancor morir non voglio; e se tramonta il caldo sole e, qual nella miseria amico, pronta fuggi la giovinezza e sul giaciglio dell'ospedale imputridisco — tu, severa monaca, l'ultimo vale del poeta deliba ed egli un bacio. Lo so, che puro come la neve delle alpine guglie un sacro giuro vuole il tuo corpo dall'amor degli uomini; che uno schifoso male mi cruccia e sul sembiante gonfio e sanguinoso abbuia l'idëal luce dell'anima. Ma sovrumano m'urge il bisogno di un tuo santo bacio: vergin, la mano ponmi sul capo e vuo' parlarti. Splendida una mattina, dalla triste soffitta uscivo all'aria pura; la brina di ricami vestiva i nudi platani del gran viale — ed io sognava una passione incognita, una spirtale beltà di donna qual non era e d'angelo, candida, mesta voluttuosa e alteramente vergine. La bella testa tua m'apparì, disparve in un patrizio cocchio elegante. Ed io t'amai d'immenso amor: quel rapido beato istante fu la mia vita — e qui sul letto incommodo, che la insolente carità dei felici mi elemosina, oh! finalmente qui ti riveggo dall'eccelsa immagine quanto mutata... Di gnomo il corpo con un volto d'angelo: o sciagurata vien qui ed amiamci, che la mia bell'anima val la tua faccia. Santo l'amore che consola il povero; fra le mie braccia, sposa di Cristo, ti rifugia e lagrima! Vuoi tu che il mondo per noi deformi non possegga un gaudio? Lacera al biondo crine le bende e sul guancial discioglilo del tuo morente, inutil vate e ci perdiam nell'estasi muta, fremente d'un insaziato, interminabil bacio. Fuori all'aperto crescan le rose ed armonioso palpiti il gran concerto della vita: per noi brutti, ridicoli nei corridori di un ospedale fra strazianti gemiti, chiusi dolori, di un disperato amor solo il delirio, sol ci rimane. O bella santa! se la tua disgrazia non rese vane degli afflitti le voci alle tue orecchie, e la malata vita sacrasti a consolar; se lagrima unqua asciugata ti fu rugiada all'arso fior dell'anima; e se la fede hai di un divino amor, che dove orribile la sferza fiede della natura ci soccorra un balsamo... m'ama: il tuo Dio certo il consente. Inorridita, trepida mi fugge... Addio! Muori, ti aspetta il sol, poeta inutile! _Casola Valsenio 1876 10 Settembre._ LA VIOLA (PER UNA FANCIULLA) Viola, che mediti fra l'erbe romita, col capo sì languido che sembri assopita? Il sole rifolgora, la vita è una gioia: e il fior primigenio di marzo si annoia?! Perchè? sei pur pallida... T'intendo, bel fiore; te, nata nei palpiti precoci di amore, emblema d'insipida modestia ti volle un volgo d'ignobili — E allor fra le zolle, dimessa la faccia ti festi romita; e i primi rammemori bei giorni, avvilita. _Bologna, 1876 8 Maggio._ AUTUNNO Vola, fuggiasca rondine, che verrò teco a vol. Tutto è qui morto — o rondine, dove dirizzi il vol? Lontan lontan ceruleo sorride il ciel; sorride più in alto il sole — o rondine, quale più ti sorride? Vola, fuggiasca rondine, fuggiasco volerò: tutto è qui morto — perdermi lontan, lontan io vò. _Casola Valsenio 1876. Agosto._ IL COLTELLO Son lungo, son lucido, la punta sottile; mi appiatto in saccoccia, mi dicono un vile; mi offusco nell'aria, non soffro un vicino, la luce mi è in odio siccome al buon vino. Son tacito, gelido, robusto e leggiero, la lama bianchissima nel manico nero, e quasi somiglio nell'abito bruno la monaca pallida dal santo digiuno. La spada dal fodero è lenta ad uscire; poi romba nell'aria, bastone al colpire. Imita la vipera l'antico fioretto; ha il guizzo ed il sibilo, ma io sol son perfetto. Attendo invisibile in tasca sdraiato, immobil nel rischio mortal nell'agguato e irrompo, fiammeggio, baleno, dileguo nel corpo, nell'anima, divido, proseguo, ritorno, rosseggio scompaio... son muto, fumante, eppur gelido; ho vinto, ho perduto. Ma senza uno scoppio di suon, di scintille. Son chiuso: nel manico mi restan tre stille — domani tre macchie; sarò decorato, saran le medaglie che danno al soldato qual premio di gloria... ovver saran spie. Che importa? non mentono i forti — son mie. Guerriera è la sciabola, patrizio il fioretto, da sbirri o da comici la daga, il stiletto. Io sono del popolo: battendomi attacco, non paro, non simulo; mi dicon: vigliacco! Adoro le tenebre, gli orrori, i secreti: son come le nottole, gli spirti, i poeti. Severo, immutabile tal ier, tal domane; al colpo infallibile, fedel più di un cane. Non latro, non mangio nè polver, nè palle: m'avvento alla faccia al petto alle spalle e mordo insaziabile. Pistole strepenti, o tosse o sbadiglio, vi cascano i denti; e inutili, vacue ad ogni latrato, buon'arma pel vecchio, pel vil, pel soldato. Io sono lo slancio, la forza, il coraggio, violenza di fulmine, fulgore di raggio. D'intorno mi piovono condanne e disprezzo; d'intorno mi semino paura e ribrezzo... Coi vinti, coi poveri, coi servi ribelle: La vita è una insidia?! E pelle per pelle... _Bologna 1878 Aprile 25 Marzo._ IDEALE Pure t'amai, incognita forma, d'immenso amor; ed un sublime tempio t'ersi nel vuoto cor. Là nelle notti assidua venivo a vigilar... spesso la calda guancia premendo al freddo altar. E là sull'arpa trepida la vergine cantò; povera Emilia! l'idolo il velo non alzò. PALINODIA Ah! ridi e arrossi, Emilia! Mi piace il tuo rossor: egli è d'ebbrezza e luccica dei capelli fra l'or. Di lor ti vesti, spregia la cotta del pudor... È nudo il sol — dev'esserlo la voluttà e l'amor. Intorno al seno candido ti verrà il mio pensier battendo l'ali tremole di angoscia e di piacer. E tu lo chiama: docile l'amoroso sparvier vedrai. — Ah, pena inutile! vola il bruno corsier, s'alza la sabbia in nugolo, dilegua il cavalier... Povera Emilia, l'idolo svanisce e il cavalier! _Faenza 1875._ BARCAROLA Soffia il vento nella vela, ride il cielo e ride il mar; la fanciulla ascolta anela la canzon del marinar. Poveretta! canta il vino, canta il mare traditor, la sua pipa, il suo destino, canta tutto e non d'amor. Soffia il vento nella vela, ride il cielo e ride il mar; la fanciulla il volto cela lagrimoso al marinar. Ridi, via! t'asciughi il vento, bella, il pianto del dolor; e all'ingenuo lamento chiuda l'uscio del tuo cuor la speranza d'altro amor. Oh! ti s'alza il fazzoletto svolazzandoti sul petto... Qual più ride di candor? NEL BAGNO Se nuda sei, se libero il lungo crin t'innonda, non ti guardar, bellissima, non ti guardar nell'onda! Troppo la canda immagine ti parrà bella allor, e nel superbo fremito io ti cadrò dal cor. Bella, nel manto morbido de' tuoi capei ti stringi e la vezzosa lagrima della conchiglia fingi! L'acqua l'ignori — io pallido, io solo t'aprirò: e con un bacio, o lagrima sublime, io ti berrò. BRINDISI Nevica sulla neve — un assassino freddo s'insinua nelle soffitte: allegramente il vino versiam nei calici. Versate, amici, il vino! ormai la testa, fosca nel tacito cimitero del cor, alza e si desta degl'inni il genio e resuscita. Un dì carco di fede, d'amor, di floride speranze mise falsamente il piede, e come un asino per troppa soma cadde. All'infelice passo una femmina fu la cagione e si chiamava Bice. Aristocratica, a me poeta preferì il cocchiere di spalle erculee... Versate vino, empitemi il bicchiere — un inno, Lazzaro! Nevica sulla neve — il freddo sprona la fame ai poveri. La Provvidenza, che all'agnello dona lana bastevole, i ricchi inspiri; nei caldi tinelli tribune s'ergano pei poveri affamati — Siam fratelli: il vangel predica! Mangeranno cogli occhi e colle nari a due ganascie i ricchi: dunque non è il conto pari? Ecco il rimedio. Nevica sulla neve — e noi la tazza vuotiam dell'orgia: la voluttà vuolsi ubbriaca o pazza: voglio il delirio di visïoni belle e forsennate, e risa ciniche, gesti convulsi ed insolenti occhiate, baci che mordano, un amor che s'uccide e sè disprezza... Anch'io son asino, drizzo le orecchie e strappo la capezza: signore, amatemi! ne val la pena e valgo il vostro amante; non ho modestia: in alto levo il merto ed il sembiante, sogghigno e raglio. Nevica sulla neve — e mi divora la gola e l'anima una sete infernale: ancora, ancora la tazza empitemi. Sento una fiamma che sferzando sale dal cuore fumido al cervello e diggià vi abbrucia l'ale alle libellule voluttuose. Mi ribolle il sangue, prorompe l'odio — Tu che strisci pei fior, mortifer'angue, mi presta il tossico della tua bocca e il canto avvelenato lamba le orecchie ed avveleni. Tu, vile affamato, cui la miseria non fa ribelle e sotto un nobil tacco la fronte umilii supplicando: ho fame... ho figli — vigliacco, muori... ti odio! E tu, ricco felice, che assapori gli ardenti gaudii della giovane vita, e gloria, amori, ed arte e studio di sublimi pensier: tu, che imbecille o grande domini in alto sempre sopra mille e mille, che muti soffrono... Ebben più vasto della tua ventura ti porto un odio, che succhiai dal dolore e freme e dura inestinguibile. Bada che presto ci battrem, fratello: a te gli eserciti, i cannoni e le spade — a me il coltello; Viva il petrolio! Nevica sulla neve — Oh qual dolore la vita inutile! Mamma, quell'ora che ti vinse amore era ben meglio di morir: tu, buona mamma, l'ebbrezza della lussuria volesti; adesso la crudel stoltezza paga tuo figlio e tu, mamma, godesti... Maledetta l'ora del nascere, l'ora che piansi, che pensai l'abbietta, nudità livida della vita vestir con illusioni e vaghe e nobili; maledetto l'ingegno e le canzoni, la fede e l'orgia! Maledetto quel sen che mi nutriva, e il sen più tenero delle amanti di un dì — Sento la riva sotto il piè cedere e trascinarmi nel fatal torrente. Mena cadaveri giù negli abissi; nero e silente lungi dilegua... Ebben m'inghiotta — la fangosa sponda scema, precipita: l'onda m'inghiotta, ma vaghi sull'onda la mia bestemmia! _Casola Valsenio 1876 Agosto._ BIANCA! Pallida come il raggio dell'alba sulle eternamente nivee cime dei monti la tua gota, o Silvia, e come il ciel di maggio la cerula pupilla. Quieto splendor, quasi velata e tremola profondità — incanta, non affascina; riluce e non scintilla, Eppur sei bella! Spesso inavvertito d'ostinato ed avido sguardo ti stringo, e sul tuo bianco gelido erro, erro perplesso al par del vïatore per le balze scoscese e le voragini mentite dalle nevi — arcani brividi scuotono mente e cuore. E sul tuo freddo bianco, sotto lo sguardo immensamente cerulo de' tuoi begli occhi il febbril desiderio cade gelato e stanco. LA VESTIZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prega il tuo vecchio Dio; da lunghi secoli alla tua casa si mantenne amico; . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e tu lo supplica, che dal libro tremendo della storia il tuo nome cancelli. Una miseria, frate, è la gloria: una miseria di peccato, un orrido rossor d'incendio la sua luce, un grido spaventato di poveri lo strepito confuso, infido de' suoi trionfi — e tu lo sai, che, estranio, di Carlo quinto risalisti il trono e lo scendesti di un tumulto civico al primo tuono. Va, fàtti frate — per cento battaglie, per ogni terra ogni nemico infranto, con due mondi prostesi alle ginocchia stette; ed il manto imperïal gittando, nel silenzio di tutti scese pallido severo di uno sprezzo sublime e in sulla soglia del monastero fra i mendichi aspettò mendico — principe di poco nome, re fuggiasco, vinto guerrier d'Italia vuoi la doppia gloria di Carlo quinto? Va, fàtti frate: del titano l'epiche orme ricalca in umiltà mentita, ripeti al mondo la vasta tragedia della sua vita. Il mondo applauda nel convulso gaudio di spettacolo insano al nuovo attore: della tomba nel pensoso silenzio l'imperatore ti sorrida — Va, fàtti frate, umilia la tua testa di re: di Dio sei degno; tu sulla terra, ne' svelati empirei ei senza regno! Noi procediamo, i lombi di coraggio cinti, dell'avvenir sulla collina, il baleno negli occhi, ai piedi il sangue per la ruina di cento mondi, e nella densa marcia principi e grandi cadon soffocati... urla la plebe indomita e si slancia pei dirupati sentieri all'ardua vetta — il sol purpureo ride agli sforzi giganteschi, esulta la natura e ci guarda lusinghevole la storia adulta. Avanti, avanti, nella irremeabile tenebra fuggendo Dio s'è ritratto: è la scienza con noi, con noi la gioia di un nuovo patto. Avanti, avanti, sulla fosca traccia di Dio fuggiaschi vanno i privilegi dell'avaro lavor, dell'ozio nobile, e preti e regi. Avanti, audaci pionieri, martiri fatali, eterni di un pensier negato, alte le scuri, nudo il braccio e l'animo insazïato! è l'estrema battaglia di uno splendido novello mondo sulle sante porte: È nostra la vittoria, il vinto muoia... Viva la morte! _Casola Valsenio Agosto 1877._ DOPO Oh! ti ricordi quella bianca stella lontanamente splendida che guardammo una notte? Eri pur bella, pallida, seria e meditavi. Lente in alto si curvavano le cime dei cipressi e nel fremente silenzio lussuriose moribonde parlavan le gardenie pur cogli odori: dalle treccie bionde il tuo profumo mi salia pel volto, e l'anima fantastica d'una ignota passion da te, dal folto giardin rapiva, come il vento invola alla rosa le foglie, in alto in alto; e in quel viaggio sola col tuo profumo nel languor sveniva d'una indistinta, gracile, misteriosa carezza. In sulla riva di quella canda stella ancor più canda radïavi sul limpido oceàn dell'azzurro; un'aura blanda tradia d'un bacio le tue molli forme: l'immenso mar ceruleo morìati a' piedi ed i pianeti a torme vi navigavan — Naufrago morente, a un vago desiderio aggrappato, lontan, lontanamente io ti vedevo bella bella bella... e invan le stanche braccia agitavo nuotando inver la stella lontanamente splendida. Sfinito in quell'immenso, inconscio desiderio, nel placido infinito, fra gli astri innumerabili, nel vasto luminoso silenzio, del tuo bel volto nel pallido fasto io mi perdea, e, del tuo biondo odore nelle carezze tenui, dell'ignoto naufragio il mio dolore consolavo e consolo — E tu la stella lontanamente splendida di quella notte li ricordi, o bella?... _Casola Valsenio. Agosto 1877._ A GIOSUÈ CARDUCCI (ODI BARBARE) RISPOSTA DI UN BARBARO I. Sprona il tuo sauro dalle nari ardenti e la lunga criniera, e via pel cielo corri siccome una fatal cometa orribilmente bella, sola: le stelle fremano curiose al furiar della corsa e le saette rispondano lontane agli anelanti nitriti del corsiero; mentre le genti dalle grasse valli alzin gli sguardi e a te meraviglianti accennino con trepido sussurro di fede e di speranza. Sprona: la soglia d'ignorati mondi batti colla sonora unghia ferrata, quindi improvviso delle reggie avvalla a scalpitar sui tetti, bianco di spuma, il morso insanguinato, l'occhio di fuoco e la criniera al nembo... e tu, poeta, calmo nel pallore d'invincibil veggente. Bello! le turbe leveranno il grido della tempesta a salutarti, e lungi l'arcangelo di dio ritto sul tempio fiammante di baleni sentirà della destra un dì possente cadere il brando arrugginito, mentre il re si cerchi con convulsa mano la corona sul capo. A che pei colli ove la magra capra bruca i cespugli incarogniti e ignaro d'ogni passato ed avvenir fischiando il capraro si svaga; o per deserta via nota al mercante di selvagge vaccine, o nella calva prateria che i ruscelli apron fetenti, verdi, brevi ed immoti; perchè sul collo del bel sauro lente le redini trapassi e l'occhio al suolo cercando le vestigia di una strada trionfale di Roma? È morta Roma: l'edificio immane del suo impero crollò, che il sol vitale ai popoli rapiva, invan sparuti nell'odio e nella fame: Roma patrizia che la immonda plebe, siccome una gragnuola di locuste, scagliava alle provincie, e nei teatri di marmi istoriati, dei vinti regi al calice prezioso beveva il sangue di un venduto eroe, barbaro lo chiamando e la sua gente lontana all'orizzonte, con un sorriso di pensier superbo. Roma pagana dalle dotte leggi, schiava regina d'infiniti schiavi, parassita del mondo, cadde. Lo sguardo dalle vette alpine abbassa intorno e làgnati, poeta, del rovinato imperio e delle tante vaste nazioni sôrte dalle macerie. Primo fior la croce sui rottami del tempio apollinèo bruna s'aderse e ignoto nazareno v'apparve nuovo Dio. Quindi i selvaggi vincitor di Roma piegâr le fronti; una tepente brezza aleggiò sulla terra e i conculcati sorrisero di fede, invano sempre! Il martire giudeo, nella corrotta aura del tempio antico, risorgeva tiranno al par di Giove dai tristi sacerdoti: ed ei più triste di dolor demente l'anime invase, maledisse al mondo, l'immortale terror in sul confine chiamando della vita a precluder lo scampo. I dì passaro del cristiano impero. Un freddo vento boreal dalla croce il secco Dio, qual foglia inaridita, dall'albero divelse. Indarno i bronzi tuonan festosi dalle sacre torri richiamando le turbe nella vasta chiesa parata a festa... Un lungo lagno sepolcral s'eleva dall'organo: l'altar divenne bara; bruciano i ceri, olezzano le rose funebri — è morto Cristo. E tu, poeta dall'acuto sguardo, che fóra l'avvenir, fascio di luce, onde balena ai popoli la strada dell'incognita meta, tu vedi ancor Cristo ed Apollo in lotta mortal ferocemente abbrancolati come atleti nel circo, e buon pagano scommetti per Apollo? Ancor republicano il Campidoglio di Roma antica fantasioso sali, aspettando la candida quadriga del console vincente; che in cor ti freme il lubrico sorriso di Lidia bianca dalle rosee braccia, cura d'Orazio? È morta Roma, il biondo Apollo è morto, è morto Cristo, l'estremo degli Dei: lo sdegno cesse e la beffa sui caduti — è morta Lidia, cura d'Orazio; e la tua bianca Lidia è di bianco marmo. II. Lascia, poeta, l'aere muffoso della scuola e gli antichi oscuri libri; fremon le vie, sorride il ciel, sorride il sol, la vita è fuori. S'urtano le passioni; dagli sguardi balzan rosse scintille, dalle labbra rosse parole e nel clamor la nota s'ode di un fresco bacio, che lungi il vento gitta alla sonora chioma della foresta ed ai narcisi ripetono le rose coll'olente sussurro delle foglie. Ama: vezzosa popolana ride nel logoro corsetto: imbaccuccata nello scialle fiorito, a brevi passi, in pugno le sottane, s'affretta la sartina e par sul prato allodola che salti e al sol nascente mandi un vispo saluto. Altera e bella di negletta eleganza, nel gemmeo pallor gli occhi languenti, odorosa di sete e di un febbrile mister di voluttà, passa la dama, novissima pagana. Ama: di puro, di lascivo amore, mesto, giocondo; alla menzogna credi, menti tu stesso e la ragion correggi nel senno del demente. Vita è follia ed il dolor peccato, virtù la gioia... Oh se fatale il giorno della luce ti fu, se in cor ti rugge l'ira della sventura, lascia le strade popolose, ai neri borghi ti cala e le soffitte cerca note alla fame, tu feroce ignoto fra incogniti feroci. Odi, interroga, scruta — ogni soffitta ha la sua storia di dolori, antica storia dei vinti di ogni dì, dei morti, di color che morranno nella battaglia della vita inermi. Anime e corpi scruta: ai sozzi cenci delle speranze e delle vesti ardito poni la mano: origlia alle coscienze e sentirai compressa, profondamente con sordo rimbombo, ribollir di vulcani insospettati l'irosa onnipotenza... ed esci — Invano con convulse dita tenti la cetra del tuo biondo Apollo a tal canto di morte — o mio poeta, è d'avorio la cetra! L'unghie ti caccia in cuore e il cuor ti sbrana ferocemente e col zampil di sangue ti prorompa la nota, unico e primo urlo di un altro mondo. Canta la fame dei poppanti, orrenda fame di vecchi e di malati, orrenda fame di luce, di saper, d'amore, la fame della vita: canta, risali i secoli, divaga per ogni terra, ogni nazione illustre od umile di storia; e ovunque l'eco il canto ti ripeta e tu coll'eco addoppia il tristo canto. Canta, poeta, la leggenda arcana dei vinti eterni, dei vincenti presso al giorno della morte; belli nel manto del trionfo, il capo inghirlandato e nello sguardo il riso di un vasto mondo di pensier di gloria, sonnambuli felici; mentre tremoto sotto i monti e sovra nube infinita di procella nera freme l'odio immortale e vittorioso, sola virtù dei vinti. _Casola Valsenio Ottobre 1877._ NINA — NANNA Fuma presso la cesta una candela lercia di sego e sgocciola; fuori la notte sonnecchiando gela ravvolta nelle tenebre. È freddo: il vento dalla chiusa imposta brontola come un povero ed allo spento focolar s'accosta soffiando nella cenere, che s'alza: la candela alle pareti sbatte l'ombre fantastiche, mentre i bambini dormono quïeti nel cesto della paglia. Affagottati dentro una sottana non han più freddo, e ridono sognando chi sa cosa nell'arcana vacuïtà dell'anima. Ma la vecchia rimasta col corsetto e la corta camicia, strette le mani nello scarno petto e il petto alle ginocchia invano si rannicchia e sui piccini fisa l'occhio sonnambulo — È troppo freddo, i due biricchini han spogliato la vecchia; e tepidi abbracciati in una gioia senza pensier l'uccidono; ieri s'urlava in piazza: morte al boia... Ed i bambini ridono. È freddo, nina-nanna: per coperta non ho che la camicia e il letto m'è la scranna. Il vento come un cane nelle gambe mi sfrega e si rannicchia cercando le sottane... O cane, va in malora: apposta per istrada la pelliccia di una vecchia signora e vi ti caccia, e s'ella non ti vuol dispettosa, tu la morsica di sotto la mammella. È freddo, nina-nanna; Il vento fischia e brontola lo stomaco, la fame non s'inganna. Nè pane, nè minestra da ieri; in casa una polenta candida di neve alla finestra, che pare il primo fiore del grano — è stata l'ultima elemosina... anche Dio è un signore! Mezzanotte suonata. È tardi: quando l'alba strizza il ghiaccio, strizza, sarò ghiacciata. È freddo, nina — nanna: La mamma e il babbo sotto terra scordano, dormendo, la condanna. Che neve quella sera! Il sangue aveva macchiato giù la manica... babbo morì in galera. la mamma era di latte: portava le sottane alle ginocchia, battendo le ciabatte, che la gente guardava, e più d'un bel signor le diede un bacio Allora si mangiava... È freddo, nina — nanna i baci sulla becca le marcirono, la vita di una spanna... è morta all'ospedale. Io v'ho raccolti e adesso manca l'olio al lume e manca il sale. Buona notte! persino mi son cavata la camicia e muoio nuda come il mattino. Ma, bimba, tienti a mente che finirai come la mamma, marcia dai baci della gente. e tu da galeotto... Per noi poveri in terra si sta peggio di sopra che disotto. Si dorme almen, la neve fa da lenzuolo bianco che abbarbaglia al letto e non è breve che scappin fuori i piedi. Dormiamo in pace, i nostri conti tornano; ci penseran gli eredi. Siamo morti del male di stomaco digiuno o del rimedio, galera ed ospedale: È freddo, nina — nanna; con Dio, col mondo ci rimane un credito, scontata la condanna... _Casola Valsenio Novembre 1877._ CURIOSITÀ Dove mel credi, o bionda indifferente, il tentator mistero che ti affascina; nel cuore o nella mente? nella faccia o nell'anima? Come il riso del tuo occhio sereno e l'oro caldo dei capelli morbidi, bianca come il tuo seno ti fu la vita inconscia. Musica e fiori, eterna primavera, continuo oblio di un continuo bacio, la mattina e la sera confuse nel crepuscolo di un solo amor come profumo solo di un vario mazzo: sempre fiori e musica, api e farfalle a stuolo, oblii, capricci e gioie. Ed or curiosa sul mio bruno viso, inchina coi lunghi ricci l'interroghi, lo sguardo ed il sorriso tentando colla ingenua ansia del cuore che la vita ignora. Non vi badar, se quando l'occhio umido ti accarezza e t'implora, improvviso mi striscii un ghigno sulla bocca. All'alte vette delle montagne inabitate mesconsi nubi, aquila, saette, fior sulla neve, mobili scheggie di sole, turbini dementi, bianchi silenzi ed ululanti dialoghi... guardan raro le genti giù dalla valle e fremono. Ama sempre, fanciulla — il tentatore mister non dimandar che in me ti affascina, non origliarmi al cuore, non m'obliarti in faccia. Musica e fiori, eterna primavera, baci odorosi, ebbrezze mute, spasimi, capricci di pantera, canti di balli scenici... Ecco l'amore, o bionda indifferente: ama scherzando coll'oblio nell'animo — forse il mister ti mente un poeta maniaco. _Bologna Aprile 1878._ SILENTIUM Musa, silenzio; muor la sera, rade, semispente le stelle nell'azzurro guardan lungi sul mondo un'altra stella muta ed inutile; mentre per l'infinita ombra un deserto infinito si allaga e non par moto, nè voce s'alza di tranquilla vita o di naufragio. Forse le stelle si annegar, che smorte galleggiano sul cielo: onde, tempeste, lidi svanir, inanime deserto... Musa, silenzio! MEMENTO (11 MAGGIO. 2 GIUGNO 1878) Lo sai tu, santo imperator, qual mano t'abbia raggiunto? Dalle cime fulgide della tua gloria non volgesti il guardo giù nella valle, dove ferve del popolo la vita intensa e oscura? Quel perenne fumo di vulcano passandoti sul volto, nera carezza, l'anima vecchia e sul sepolcro curva l'infinito a spiar dell'indomani mai non ti cinse e la irritò col torbo ondar? Scintille rosse, guizzanti quasi d'occhi accesi e schiacciati ad un punto, in fuga, in folla vi salian turbinando e al ciel svaniano per entro il fumo, come inutil dilegua e inascoltata nel voto immane la bestemmia. O vecchio vittorioso guerrier, sull'elmo acuta porti una punta, che sorride col ciel, riso d'acciaro al sorriso fiammante della folgore; bada alla terra — le saette irrompono su dagli abissi! E tu chi sei? Qual dalla bieca fronte, greve di allori e di corona, orrendo stranier nel mondo e re, qual ti somiglia, o imperatore? Come la donna dal lascivo cuore e i dotti sensi, te fanciullo vide la fortuna ed amò: con improvvisa viltà l'antico pallido amante di fatali giorni e di notti fatali empia tradendo, fra gli ululati, il cozzo, il vespro, il buio, lo scroscio pazzo, d'una battaglia e di un imper più vasto d'un sogno e bello più del sol, fanciullo principe, a' piedi ti gittò sfinito Napoleone e col vento furial della vittoria la imberbe guancia ti lambia perversa di molli baci. Nel deserto livido dell'oceàno misterïoso e solitario sparve una sera col sol lo smisurato vinto Titano. Dai cadenti azzurri dell'orizzonte sprizzâr baleni, e un mormorio dall'acque sommesso ascese, che svanì nel soffio d'un lamento infinito — Hai vinto, hai vinto ovunque e sempre Paride imbelle e Priamo tremante. Hai vinto: bada, l'oceàn talvolta schianta lo scoglio: ti vacilla il capo sotto l'elmetto e sotto i piedi il trono, altar maggiore della tua chiesa. Con delirio arcano vi si sfracella una tempesta: bada, re sacerdote, che in cor l'orgoglio degli aviti regi e dei percossi ammicchi in ciel con Dio — sulle tempeste della terra ghigna ateo il sole! E preme il vento e l'uragano; l'aria fosca s'aggreva: pei silenzi sacri ignorati dell'alte cattedrali, dei monumenti, l'alme grandi dei morti erran fremendo di un'altra morte e fin sul regio letto a notte intendi sibilar tremanti le tue bandiere. È notte, è caldo: delle scolte il grido lungi si tocca e si allontana: forse domani all'alba ti battranno; vigila, imperatore... _Bologna 18 Giugno anniversario di Waterloo._ INDICE Lo scrofoloso pag. 3 La viola (per una fanciulla) » 11 Autunno » 15 Il coltello » 19 Ideale » 27 Palinodia » 31 Barcarola » 35 Nel bagno » 39 Brindisi » 43 Bianca! » 53 La vestizione » 57 Dopo » 65 A Giosuè Carducci (Odi barbare) risposta di un Barbaro » 71 Nina — Nanna » 87 Curiosità » 97 Silentium » 103 Memento (11 maggio, 12 giugno 1878) » 107 _Finito di stampare il dì 15 ottobre MDCCCLXXVIII nella tipografia Zanichelli e soci in Modena_ Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Monotonie" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.