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Title: L'origine della Famiglia della Proprietà privata e dello Stato - in relazione alle ricerche di L. H. Morgan
Author: Engels, Friedrich
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'origine della Famiglia della Proprietà privata e dello Stato - in relazione alle ricerche di L. H. Morgan" ***


from Università degli Studi di Torino - Sistema
Bibliotecario d'Ateneo, Scienza dell'antichità, filologico
letterarie storico artistiche)



                    BIBLIOTECA DELLA CRITICA SOCIALE


                            FEDERICO ENGELS


                        L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA
                        della Proprietà Privata
                             E DELLO STATO

               in relazione alle ricerche di L. H. Morgan


                    Versione di PASQUALE MARTIGNETTI

                         II Edizione definitiva
                          con introduzione di
                           EDOARDO BERNSTEIN



                                 MILANO
                      Uffici della CRITICA SOCIALE
                       Portici Galleria V. E., 23
                                  1901



_Dedico questa seconda edizione della versione dell'Engels alla
dolorosa memoria del mio diletto primogenito _Salvatore_, che, il
6 settembre 1900, mentre stava sotto le armi al campo di manovre di
Sparanise, si toglieva la vita, vinto dall'angoscia di una contrastata
passione d'amore. Animo delicatissimo, ardente, inebbriato di un
ideale cui sbarravano il varco le spietate esigenze di una società
che «non lascia fra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse e
l'arido pagamento a pronti»[1], egli trafiggeva, inconscio, di ferita
insanabile, con una medesima arme, il cuore paterno e della povera
madre, insieme col proprio; quasi documentando, col generoso sangue
ribelle, il tragico vero che emana da questo libro: — amore, sogni di
giovinezza, ogni più nobile anelito umano, tutto la ferrea necessità
economica vince ed opprime. — Così affrettino i fati l'avvento di
una società migliore, più benigna agli affetti e alle speranze dei
figli, meno avara di conforti alle cupe desolazioni dei dannati a
sopravvivere, dei genitori orbati, curvi ai sepolcri!_

                                                PASQUALE MARTIGNETTI.

  Benevento, dicembre 1900.



Introduzione critica alla seconda edizione italiana[2]


L'editore della presente traduzione d'uno fra i più notevoli lavori di
Federico Engels, l'amico Turati, mi chiede ch'io l'accompagni con una
prefazione. Accetto di buon grado l'invito, pur non dissimulandomi il
grave cómpito ch'esso m'addossa.

Ciò che il libro offre è detto dal titolo, e il nome dell'autore sta
a guarentigia che l'argomento è trattato da mano maestra. I pregi di
Engels come scrittore sono così universalmente riconosciuti, che è
inutile qui noverarli. Anzichè assicurare il lettore ch'egli ha dinanzi
il lavoro d'un uomo, il cui sapere era altrettanto vasto quanto era
profondo il giudizio e limpido e semplice lo stile, tornerà opportuno
esaminare in quale senso questo mirabile studio potrebbe oggi, per
avventura, completarsi.

Engels, come rileva egli stesso nella prefazione del 1884, nel
comporre questo libro adempì un legato impostogli da Carlo Marx. A chi
scrive venne fatto di gettare un'occhiata entro la fucina, ov'esso fu
elaborato. Sul principio del 1884 io mi trovai per qualche tempo ospite
di Engels, appunto allora intento ad una prima revisione accurata
delle carte postume di Marx. Fra i manoscritti, che in quell'occasione
Engels andava rileggendomi fino a notte inoltrata, eranvi anche i sunti
fatti da Marx dell'_Ancient Society_ di Lewis H. Morgan, corredati
di sue glosse marginali non di rado stringatissime. Non è intaccare
la fama dell'autore del _Capitale_ il soggiungere che le glosse non
contenevano nulla di nuovo e che, quanto ai sunti, se essi offrivano la
prova più convincente della coscienza portata da quel Grande nei suoi
lavori, non erano tuttavia più che marmo greggio, a cui mancava ancora
completamente una mano d'artista che desse loro una forma. Marx aveva
estratto da Morgan soltanto ciò, ch'eragli sembrato degno di speciale
osservazione; la morte gl'impedì d'andare oltre. Il cómpito d'elaborare
quei materiali toccò ad Engels, che l'esaurì in un tempo relativamente
breve, grazie all'essersi egli stesso dedicato altra volta a ricerche
più estese nel campo della storia primitiva dei Germani e dei Celti.

Insieme all'intento puramente oggettivo, di far conoscere al mondo
socialista e, di rimbalzo almeno, al mondo speciale dei dotti, le
scoperte di Morgan relative alla costituzione della _gens_ e alla sua
importanza per la scienza storica, fu anche un desiderio più personale,
che mosse Engels a comporre questo lavoro: il desiderio di porre sotto
miglior luce l'opera, a suo avviso ingiustamente negletta, di Morgan,
contribuendo così al riconoscimento dovuto ai meriti dello scrittore
americano. Forse Engels esagera alquanto, asserendo che il libro di
Morgan fu «sistematicamente sepolto» in Inghilterra (_Prefazione_ del
1891), giacchè il lieve conto che ne fecero gli etnologi inglesi si
spiega anche senza l'ipotesi d'una congiura del silenzio, come pure si
spiega che il suo editore lo trascurasse, dacchè la stampa specialista
l'aveva più criticato che non lodato. È certo nondimeno che i capi
delle scuole etnologiche non gli accordarono il posto che gli spetta
e che alcuni errori di Morgan nei minuti particolari fecero loro
disconoscere il valore delle nuove vedute, ond'egli arricchì la scienza
della storia primitiva dei popoli. Perchè ciò si evitasse ci sarebbero
voluti uomini immuni dalle prevenzioni ond'erano imbevuti gli etnologi
inglesi; uomini insomma che abbracciassero, collo stesso occhio di
Morgan, tutta quanta la sociologia.

In ogni scienza particolare s'annida la tendenza alla micrologia
specialista, la quale, ove trascenda, conduce ad un positivismo o
fenomenalismo pedantesco. Dinanzi alla mole del materiale raccolto
ed alle innumerevoli sue varietà, la fiducia nelle regole generali
svanisce e l'ufficio dell'indagatore sembra esaurirsi nel classificare
e coordinare le cose accettate ed i fatti acquisiti. Così la diffidenza
del legale specialista per tutte le teorie di diritto naturale cresce
in ragione della sua virtuosità nella casistica del diritto positivo;
le costruzioni filosofiche gli appaiono astrazioni fantastiche
o generalità prive di solida base. Sotto egual luce dovettero
manifestarsi alle predisposizioni positiviste degli etnologi le
formule generali, che Morgan presentava come frutto della sua analisi
sulle istituzioni degli Indiani nordamericani. Dovendosi qui ricavare
da un determinato principio fondamentale la genesi dei molteplici
fenomeni, ecco che la classificazione in vigore, tutta poggiata sovra
punti formali, sarebbe caduto in enorme discredito. Niuna meraviglia
che i rappresentanti di questa non s'accorgessero della nuova teoria
se non per rilevarne le lacune, mentre lo stesso Engels ammette che
talune ipotesi di Morgan sono insufficienti o affatto insostenibili.
Pei difensori del sistema antico, l'edificio teoretico di Morgan era
completamente crollato, rimanendone in piedi solo alcune illustrazioni
di singoli fenomeni, che vennero accettate di buon grado. Ma anche
a queste non si dette maggior peso che all'altro materiale empirico,
onde son pieni gli archivî etnologici, e ch'è del resto continuamente
sottoposto a nuove rettifiche in questo o quel particolare.

Engels riconosce in Morgan un nuovo scopritore «a suo modo» della
concezione materialistica della storia trovata da Marx e da lui nel
1844-45. Ma, se non voglia darsi a quell'«a suo modo» un significato
molto largo, tale affermazione parmi non regga; poichè in Morgan manca
appunto il principio caratteristico della concezione materialistica
della storia, cioè la derivazione delle idee giuridiche, morali, ecc.,
dal modo e dalle trasformazioni del sistema di produzione dei mezzi
di sussistenza. Certo egli ha fornito numerosi elementi a conforto
di tale correlazione; egli ha, ciò che più monta, distinto gli stadii
dell'evoluzione generale della civiltà desumendoli dallo stato in cui
trovavansi la conquista e la produzione dei mezzi di sussistenza.
Tuttavia qui si arresta il concetto ch'egli aveva dell'importanza
dell'elemento economico nell'evoluzione della società umana; cosicchè
non può dirsi che, nel campo dei principî, egli abbia superato il
confine, che separa la storia obiettiva della civiltà dal materialismo
storico. In altri termini, Morgan storico sta al materialismo storico
come i socialisti teorici del periodo 1825-1840 stanno al socialismo di
Marx ed Engels.

Non minor dose di materialismo storico che in Morgan si riscontra
nei teorici dell'owenismo, del sansimonismo e del fourierismo;
quest'ultima scuola in ispecie aveva negli Stati-Uniti rappresentanti
intelligentissimi, nè poteva essere ignorata da Morgan. Potrebbe forse
obbiettarsi che, pur non avendo costruito una teoria della storia
corrispondente al materialismo storico, nondimeno, adottandone il
metodo, egli l'avrebbe rafforzata coll'esempio. Anche questo, peraltro,
non è, a senso mio, sostenibile. In Morgan troviamo, è vero, che
si tien conto incidentalmente dell'influenza determinante che ha il
fattore della produzione, ma senza ch'esso sostenga la parte di forza
impellente assolutamente decisiva nell'evoluzione storica. Egli accorda
alle ideologie (alle rappresentazioni religiose, ecc.) una forza
d'impulso ben maggiore che loro non accordi il materialismo storico, e
nella struttura della famiglia — presa questa parola nel senso più lato
— vede un coefficiente d'evoluzione sociale per lo meno equivalente al
sistema di produzione.

Su quest'ultimo punto, Engels trova che Morgan, nello studio ch'egli
ha fatto di certi periodi dell'evoluzione, applicò fedelmente la
teoria materialistica della storia; e ciò inquantochè egli considera
anche la _vita sessuale_ come un _fattore di produzione_, il fattore
dell'origine della vita, della riproduzione della specie. Senonchè,
anche nella scuola di Marx-Engels, siffatta equiparazione della
produzione degli uomini con la produzione dei beni non mancò di
contraddittori. Uno fra i suoi rappresentanti più noti, H. Cunow,
scrivendo delle basi economiche del diritto materno, dimostrò che
ella si riduceva ad una mera analogia di parole, senza alcun sostegno
nei fatti. Sotto l'aspetto storico, non si tratta della materiale
produzione o riproduzione della vita umana, la quale è rimasta
la stessa sin dai tempi primitivi, ma bensì delle forme _della
vita sociale collettiva dei sessi_, dei loro reciproci _rapporti
giuridici_, dell'ordinamento familiare e delle sue mutazioni nella
storia dell'umanità. Ora, tali mutazioni non si sarebbero già svolte
indipendentemente, accanto a quelle del modo di produzione dei
mezzi di sussistenza, ma sarebbero anzi state determinate da queste.
L'ordinamento familiare dipenderebbe dal modo di produzione, ossia
dalla conquista dei mezzi di sussistenza. Chi giungesse a diverse
conclusioni diminuirebbe la portata del materialismo storico.

In quest'obbiezione v'ha ad ogni modo una parte di verità, giacchè
d'un'equivalenza della famiglia, quale fattore di riproduzione degli
esseri, coi fattori della produzione dei mezzi di sussistenza non si
trova traccia in nessuna fra le definizioni del materialismo storico
precedentemente pubblicate da Marx ed Engels. Engels rammenta bensì
nella presente opera che, in un manoscritto composto da Marx e da lui
nel 1846, dicevasi già che la prima divisione del lavoro fu quella fra
l'uomo e la donna per la procreazione dei figli; ma ciò non fa che dare
maggiore rilievo all'equivoco di quest'analogia. Infatti la divisione
delle funzioni nella procreazione e riproduzione non costituisce punto
uno stadio d'evoluzione della storia dell'umanità, ma ci trasporta
molto indietro nella storia dell'evoluzione degli animali e delle
piante e non è se non lo sviluppo ulteriore di altre divisioni di
lavoro o di funzioni. Considerata come produzione, la procreazione è
divisione di lavoro _biologica_, non sociologica.

Ma, se l'obbiezione di Cunow regge quanto alla _giustificazione_
data da Engels dell'equivalenza tra ordinamento familiare e sistema
di produzione, ciò non significa che Engels siasi del pari ingannato
quanto al fatto in sè stesso, nel porre cioè la famiglia e l'unione
dei sessi ad egual livello d'altri fattori della produzione, anzi,
nelle fasi primitive dell'evoluzione, persino talvolta ad un livello
superiore. In coteste fasi, il _modo_ della vita comune dei sessi,
relativamente all'influenza che può esercitare nella creazione e
nel consolidamento di comunità più o meno vaste, è anzitutto esso
medesimo un fattore importantissimo nella produzione o conquista dei
mezzi di sussistenza; in secondo luogo deve riconoscersene l'influenza
attraverso l'evoluzione del sistema di produzione, per ciò ch'è esso
appunto che ne suscita o rafforza le condizioni di progresso. Così
mi sembra, ad esempio, che le osservazioni di Engels sull'importanza
che ha la formazione dell'orda nell'elevamento del primo uomo al
disopra dello stadio d'evoluzione nel quale si arrestarono le scimmie
antropomorfe, pur restando nel regno delle ipotesi (giacchè a quel
progresso possono essere concorse altre cause), hanno tuttavia molti
argomenti in proprio favore. In ogni caso l'obbiezione di Cunow urta
contro lo stesso errore che, allo stesso proposito, riscontriamo
anche in Engels; quello cioè di non aver sufficientemente rilevato
la differenza fra rapporti _causali_ e _condizionali_, o, in altri
termini, fra _causa_ e _condizione_, ch'egli tratta a un dipresso come
sinonimi.

Nell'esposizione materialistica della storia, è questo veramente uno
scoglio fra i meno superabili. I cultori di cotesto metodo incappano
facilmente nell'equivoco di scorgere in coefficienti, che resero
una data evoluzione _possibile_, addirittura _le cause_ e _le forze
impellenti_ ond'essa è sorta. Ora, siffatti coefficienti possono,
è vero, aver agito come propulsori, ma ciò non vuol dire che siano
stati sempre il propulsore decisivo. Infatti v'hanno date condizioni
naturali — come le qualità del suolo, il clima, la preponderanza del
regno vegetale sul regno animale — necessarie allo svolgimento di
talune forme economiche e strutture sociali. Ma ciò non dimostra ancora
che tali forme e strutture siano il necessario prodotto di quelle
condizioni; che queste, cioè, siano _sufficienti_ a produrle anche
senza il sussidio di altri coefficienti. Quanto è agevole intuire in
astratto che tutto ciò che accade è necessario che accada, altrettanto
difficile è dimostrare siffatta necessità nei casi concreti, di
fronte al vario atteggiarsi degli organismi superiori. Esaminate più
davvicino, le pretese prove si riducono sempre a semplici combinazioni
di parziali concause e condizioni, che autorizzano bensì giudizî di
maggiore o minore probabilità, ma non mai di certezza apodittica.

Coloro, ai quali tutto ciò fa l'effetto di scoraggiante scetticismo,
rammentino che qui si tratta d'interpretazioni scientifiche _ex
postea_ e non già di formule di rivendicazioni — si tratta insomma di
_sapere_, non di _volere_. D'altronde l'azione pratica della democrazia
socialista non è ella stessa diretta principalmente a creare le
_condizioni_ d'un ordinamento sociale superiore, la cui struttura è
affare dell'avvenire?

Era troppo naturale che, nel ricercare presso i varî popoli le traccie
della _gens_ imperniata sulla successione materna (determinazione della
parentela secondo la discendenza materna), chi primo l'aveva scoperta,
Morgan, accordasse un'attenzione più intensa ai fatti, che meglio
si prestavano alla sua tesi, anzichè a quelli che se ne scostavano.
Talune sue generalizzazioni esagerate trovano poi una scusante nella
circostanza, che, allorquando egli scriveva la sua opera, le indagini
sulla storia primitiva erano poco sviluppate come scienza; mentre
oggidì s'esporrebbe al ridicolo chi osasse spacciare tutte le sue
proposizioni per altrettante verità apodittiche. Lo stesso dicasi
delle conclusioni che Engels, sulle traccie di Morgan, trasse rapporto
alla _gens_, però che anch'esse non vanno immuni da generalizzazioni
rivelatesi assolutamente eccessive.

Nell'accennato scritto di Cunow è poi data la convincente
dimostrazione, che il diritto materno non è punto un istituto, il quale
si svolga fatalmente dall'originaria famiglia-orda, se così si può
chiamarla, in conseguenza del crescere di questa, ma che si richiedono
sempre determinate condizioni economiche — una limitata agricoltura
coesistente alla caccia e alla pesca, come base della sussistenza —
perchè alla donna sia dato raggiungere, nella collettività domestica
ed eventualmente nella gens, quella posizione, che può definirsi di
diritto materno, nel significato in cui Engels adopera questa parola.
In Engels _diritto materno_, nel senso di posizione sociale più elevata
della donna, e _successione materna_ compaiono a un dipresso come
sinonimi, sebbene in realtà non lo siano affatto e la successione
materna fosse, anzi sia, in molti casi accompagnata ad una posizione
sociale assai bassa della donna. Del pari troviamo la successione
materna in popoli pastori, sebbene, secondo la teoria, la pastorizia
dovrebbe dare origine alla famiglia patriarcale. Fa d'uopo appunto,
come notammo, d'un concorso ininterrotto di differenti circostanze
perchè sorga una determinata istituzione sociale, e già presso i popoli
primitivi s'avverte che non v'ha assolutamente, nella serie delle
evoluzioni delle loro istituzioni sociali, una costante coincidenza
quanto agli stadii percorsi da ciascuno di essi.

Per tale rapporto, Engels si lascia più volte trascinare, nell'attuale
scritto, dalla predilezione per certe forme ed istituzioni del diritto
sociale, a conclusioni che non resistono ad una più accurata disamina.
Per esempio, egli esagera talvolta — non sempre — la portata del così
detto comunismo primitivo, che del resto non era sostanzialmente se
non un comunismo negativo, senza un concetto giuridico determinato, e
che assunse una forma positiva soltanto come collettivismo di gruppi
di parentela. Ciò, a cui mira la democrazia socialista, come partito
dei lavoratori, è, nei suoi presupposti materiali ed ideali, così
fondamentalmente diverso da quel primordiale «diritto di tutti sulla
terra e sui suoi prodotti», che si può dire in diametrale opposizione
con esso. Fra le rivendicazioni socialiste e quel diritto primitivo
non v'è più somiglianza che fra l'animismo dei selvaggi e le teorie
vitaliste dei moderni fisiologi. Osservato più attentamente, il
comunismo primitivo si presenta come una proprietà particolare di
gruppi sovra la terra e sui tesori ch'essa offre spontaneamente,
fondata sull'occupazione o sulla conquista o sulle forme affini
d'acquisto dei mezzi di sussistenza: raccolto e caccia. D'altronde,
anche in questi stadii si rinviene di già la proprietà personale,
sebbene, naturalmente, esercitata soltanto sovra oggetti d'uso
individuale, come armi, ornamenti e simili. Può dirsi, su per giù,
che il comunismo primitivo era un comunismo fondato sul non-lavoro e
che la sua scomparsa coincide col primo apparire della coltivazione
sistematica del suolo, d'onde l'acquisto dei mezzi di sussistenza
ebbe finalmente la vera impronta di _lavoro creatore_. Ovvero può
invece dirsi che il comunismo primitivo corrispondeva a quello stato
d'immediata dipendenza in cui l'uomo trovavasi ancora rapporto ai
doni spontanei della natura, e che cessa appunto non appena l'uomo
incomincia a dominare la natura. A mio avviso, nell'abbandono di
siffatto comunismo primordiale, potrà tutt'al più ravvisarsi una specie
di peccato originale storico: il peccato dell'umanità che s'accosta
all'albero della scienza.

Non dissimile è il giudizio storico, che deve darsi su l'abolizione
o la scomparsa della costituzione gentilizia; costituzione che
Engels medesimo dichiara possibile soltanto in uno stadio assai basso
d'evoluzione sociale — (popolazione scarso e lavoro poco produttivo) —
e destinata a tramontare al primo slancio ulteriore dell'evoluzione.
La forte simpatia di Engels per la società sorta sulle associazioni
gentilizie ed organizzata a loro servigio non gliene dissimula però i
lati oscuri ed il carattere transitorio. Nullameno anche il quadro,
ch'egli ci dà, del modo, con cui dalla costituzione gentilizia si
sarebbe svolto lo Stato, mi sembra di colorito alquanto tendenzioso.
Generalmente egli si raffigura questo trapasso come una specie di
peccato originale, prodotto da influenze degradanti, da interessi
spregevoli e da mezzi ignominiosi — come un abisso di corruzione,
in cui, dal grado di relativa elevatezza morale di già raggiunto,
sarebbe precipitata l'umanità. Qui abbiamo, secondo me, la eccessiva
generalizzazione di alcuni fenomeni accidentali o secondarî, che
risponde a quella pseudo-etica, a quel romanticismo sociale, che
troviamo più spesso nei radicali con tendenze conservatrici, ad
esempio nei democratici piccolo-borghesi, anzichè nei rappresentanti
del socialismo scientifico. Indubbiamente, ove le istituzioni sociali
sono poco evolute e lasciano lieve margine alle tendenze particolari
dell'individuo, minore è la possibilità di corruzione che non in
società più complicate; tuttavia chi vorrebbe perciò asserire in
generale che siano più elevate le condizioni morali delle società più
semplici? Non dovremmo piuttosto confessare che, per quanto ci seduca
a prospettiva del loro contrasto coll'ambiente attuale, il valore
morale non ne è soverchio? L'onestà dovuta ad ignoranza o ad assenza
di tentazioni ha tutt'altro carattere che non quella dei membri di
maggiori e più complicate comunità, dotati d'intelligenza ed esposti
ad ogni sorta di tentazioni. In parecchi passi lo stesso Engels mostra
la spaventosa rapidità con cui, ad esempio, la moralità dei barbari
Germani s'infrange nell'urto della civiltà romana; e lo stesso può
notarsi oggi negli individui che, appartenendo ad ambienti civili più
semplici, sono trascinati nell'orbita di civiltà superiori.

È errore purtroppo comune quello di scorgere una prova di moralità più
elevata della nostra civiltà, nell'assenza di talune immoralità o di
taluni vizi, che non è invece in realtà se non l'indice della rozzezza
di vita e d'ideazione dei popoli, presso i quali l'ammiriamo. Costumi
più semplici e moralità più alta son due termini, come tutti sanno,
sostanzialmente diversi. La sincerità dell'uomo della natura, che a
ciascuno dice ciò che di lui effettivamente pensa, c'impone per il
contrasto colla nostra cortesia di convenzione, la quale ci consente di
dirigere magari parole cortesi a persone che abbiano in dispregio; ma
non perciò pensiamo ad imitarla e ce ne avremmo a male se lo facessero
quelli che ci circondano. La nostro cortesia è ella forse più immorale
della sua sincerità? Oserei negarlo. Infatti la nostra ipocrisia,
appunto perchè convenzionale, non ha origine maligna; ell'è piuttosto
un _dominio sovra sè stessi_, richiesto dalle condizioni e dai rapporti
d'una vita più evoluta, la quale non tollera che s'abbia sempre il
cuore sulla lingua. Ben poteva, cent'anni fa, quando la Germania era
ancora quasi esclusivamente un paese agricolo, cantarsi da Goethe:

    _In tedesco è mentir l'esser cortese._

Oggi, la si direbbe un'esagerazione priva di garbo; ma peggio ancora
il voler dedurre dalla scomparsa delle forme di convivenza primordiali
un abbassamento nel livello morale. È certo che le condizioni morali
dell'attuale Germania sono superiori a quelle del 1800.

Allorquando s'occupa di determinati popoli e della loro evoluzione,
Engels si mostra per lo più immune da romantici entusiasmi per le
civiltà primitive, anzi dileggia volontieri quegli scrittori, pei
quali il selvaggio è l'uomo migliore. Ma, nel riepilogare e nelle
formule generali, accade anche a lui di fermarsi ai lati luminosi
delle più antiche forme sociali, dimenticandone i lati oscuri.
D'altronde, non è semplicemente dalla simpatia, ben concepibile, verso
le istituzioni democratiche dei popoli primitivi ch'egli è spinto a
siffatte unilateralità; nel suo modo di presentare la storia si sente
piuttosto l'influenza di certe vedute fourieriste ed hegeliane. Sulla
fine del libro, è Engels stesso che cita la _Critica della civiltà_ di
Fourier, dove appunto fra le note predominanti emerge l'evoluzione fino
a noi, rappresentata quale un progresso intellettuale accompagnato da
degenerazione morale. Ad eguali conclusioni giunge in Hegel il concetto
della storia, che s'evolve per via di antitesi. Ora, volendo giudicare
il presente sotto questo aspetto, si è fatalmente portati ad esagerare
il valore di determinate istituzioni del passato.

Così, ad esempio, la moderna prostituzione è ben più ripugnante al
nostro senso morale che non la poligamia, quale la rinveniamo anche
in anteriori stadi d'evoluzione. Eppure la prima segna un grande
progresso morale, in quanto riposo sul riconoscimento della libera
personalità. La prostituta moderna dispone ella stessa del proprio
corpo, al contrario di ciò che accadeva generalmente nella poligamia.
Anche vendendosi sotto il pungolo del bisogno, ella esercita un atto
d'indipendenza, che presso varî popoli così detti della natura è alla
donna negato. Certamente la vendita o il baratto di fanciulle adulte,
che si fa nel matrimonio dai loro genitori o dal capo della famiglia ad
un terzo, si concilia colle idee generali di questi popoli assai meglio
che non la prostituzione volontaria colle nostre; ciò tuttavia prova
unicamente che i nostri odierni criterî sono più elevati e non già che
i nostri costumi sono decaduti.

Tale è principalmente il criterio, con cui dobbiamo confrontare e
valutare le condizioni morali d'epoche diverse. Formuliamolo come ci
pare, ma sempre troveremo che questo criterio si risolve nel maggiore
o minor _rispetto della personalità_ e nella posizione che a questa
è fatta nella comunità. S'intende che la libertà puramente formale
della personalità esige, per divenire vera libertà, certe condizioni
economiche e che il rispetto sociale della personalità presuppone il
rispetto e la padronanza di sè stessi.

A Fourier e a Hegel si connettono altresì parecchie deduzioni di Engels
sulla futura forma della famiglia e del vincolo sociale. Nel matrimonio
proletario egli ravvisa uno stadio di monogamia più elevato che non
quello in cui trovasi il matrimonio borghese. Vi mancano, secondo
lui, insieme alla proprietà, l'impulso ed i mezzi ad un predominio
maschile e l'eguaglianza economica dei sessi fa sì che di regola
l'amore sessuale presieda veramente alla loro unione. Passati i mezzi
di produzione in proprietà comune della società, diventati oggetto
di industria pubblica i lavori che prima appartenevano all'economia
domestica, convertita in pubblico servizio l'assistenza e l'educazione
dei fanciulli, diverrebbe generale questa eguaglianza di fatto dei
sessi, rendendo in pari tempo possibili le unioni sessuali fondate
esclusivamente sull'amore sessuale. Nondimeno Engels dubita che,
avverandosi tutto ciò, cadrebbe anche la monogamia, la quale oggi ha la
prostituzione per correlativo, essendo difficile ammettere che questa
possa scomparire senza trascinare nella sua caduta la monogamia.

Anche della verità di taluno di questi presupposti può tuttavolta
dubitarsi. Così la vita coniugale del moderno lavoratore è considerata
da Engels un po' troppo dal punto di vista del concetto tradizionale di
«proletario». Nei paesi meglio progrediti, il matrimonio del lavoratore
tende in fatto assai più ad imborghesirsi che non a svolgersi in una
propria direzione indipendente e, almeno per ora, subisce più del
matrimonio borghese l'influenza della legislazione sociale. Questa,
è vero, toglie ai genitori parte delle cure pei fanciulli, ma, col
divieto del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, colla diminuzione
delle ore di lavoro degli adulti e con altrettali disposizioni,
paralizza una quantità di forze tendenti all'abolizione od alla
decomposizione della famiglia. Oltracciò, nel mondo dei lavoratori è
regola quasi generale che col matrimonio la donna abbandona il lavoro
retribuito o lo limita sensibilmente, dedicandosi sovratutto alla
direzione della casa. Il piede di casa individuale importa senza dubbio
un sensibile spreco di lavoro, ma l'attrattiva d'una casa propria è
talmente forte per la grande maggioranza degli uomini, da far loro
preferire il sovrappiù necessario di lavoro casalingo ai cresciuti
mezzi di godimento, che sarebbero apportati dalla trasformazione della
economia domestica in industrie pubbliche. Si può certamente constatare
una serie di fenomeni, che contribuiscono a rendere _meno gravosa_ ed
a _completare_ la vita domestica individuale — ma non si può punto
constatarne la dissoluzione, almeno nella classe lavoratrice. Il
problema del servizio nella casa borghese, che si agita attualmente nei
paesi progrediti, non minaccia affatto la casa operaia.

È del pari dubbio se noi andiamo incontro ad un'epoca in cui al
matrimonio monogamico saranno tolte le sue basi economiche. La
necessità della coesistenza della prostituzione con questo matrimonio
può sostenersi soltanto da chi al concetto di «monogamia» dà un
significato soverchiamente gretto. Dell'odierno matrimonio dei
lavoratori, Engels afferma che esso è monogamico nel significato
etimologico, ma non affatto nel significato storico della parola.
Tuttavia, che cosa devesi intendere per «monogamico nel significato
storico»? Chi ben guardi, tale espressione è da Engels usata per
indicare quella _forma_, in cui primitivamente la monogamia si svolge
da precedenti forme di connubii (connubio per gruppi o per coppie),
ossia il connubio individuale con predominio quasi assoluto dell'uomo
sulla donna. Egli medesimo, però, ammette che la monogamia non apparve
punto dappertutto nella «rude forma classica» assunta, secondo lui,
presso i Greci, indicando inoltre come essa si distingua nei diversi
paesi con tratti differenti. Se ne dovrebbe concludere che il concetto
di «monogamia» non si esaurisce nel significato connesso alla forma
primordiale; e che siamo quindi autorizzati ad applicarlo a tutti
i connubii fra un solo uomo e una sola donna, il cui intento sia
superiore a quello d'un semplice appaiamento o d'un appaiamento a
durata fissa.

Quell'elemento, già così importante nella conclusione del matrimonio,
ch'è l'armonia spirituale o psichica e quindi il completamento
reciproco dei due, è affatto trascurato da Engels, sebbene col
progredire della civiltà esso divenga nel matrimonio un coefficiente di
sempre maggiore importanza. Ma conviene che cadano non pochi ostacoli,
che scompaiano non pochi pregiudizii, prima che cessi lo stato
d'inferiorità della donna di fronte all'uomo; e quindi il matrimonio,
ch'è quanto dire l'unità della famiglia, ha dinanzi a sè ancora molto
tempo per mantenersi essenzialmente monogamico.

Un discorso analogo può tenersi per quel che riguarda lo Stato.
Anche per quest'istituto vediamo Engels fondarsi su una definizione
che s'attaglia alle sue _particolarità iniziali_ — formazione del
dominio di classe — per predirne la futura scomparsa. Ora, nel corso
dell'evoluzione, lo Stato ha sostanzialmente ampliato le sue forme,
assumendo sempre nuove funzioni. Non ne parla Engels stesso come d'un
organo di divisione del lavoro sociale? E dovrà per questo credersi
che, tolto di mezzo il presupposto or ora menzionato, anche lo
Stato abbia a spegnersi o a paralizzarsi? Ciò mi sembra estremamente
inverosimile. Infatti, l'evoluzione che procede sotto i nostri occhi ci
mostra che, all'opposto, man mano lo Stato cessa d'essere l'organo del
dominio o dell'oppressione di classe, più va estendendosi la sua sfera
d'azione. Ed anche nei suoi primordi esso non è un semplice congegno
di codesta oppressione: il suo sorgere coincide colla formazione
di grandi unità di popoli, entro confini fissi, con sedi stabili e
la cui coesione non è più dovuta esclusivamente alle associazioni
familiari. Esso nasce _dall'aumento numerico_ e dalla _densità_ della
popolazione stabile su un dato territorio; nè potendosi tale aumento
concepire senza una grande _ricchezza economica_ e lunghi _periodi
pace_, ecco che lo Stato nascente, pur essendo un mezzo di dominazione
di classe, è altresì il caposaldo e l'espressione d'un grande
progresso sociale. Il che ci è pure mostrato dallo stesso Engels,
allorquando nella federazione delle razze irocchesi scorge il crollo
di quella costituzione gentilizia, che precorse l'instaurazione dello
Stato e ch'era troppo limitata e gretta per tollerare un sensibile
progresso sovra il tenore di vita degli Indiani in continua guerra
pei territorii di caccia, ecc. Se, adunque, al suo apparire, lo Stato
serviva alla dominazione di classe, o se venne foggiato da classi
dominanti intente a consolidarsi il potere, si tratta d'una faccia del
suo organismo, che non forma se non _una particolarità secondaria_,
radicata non nelle forze che agiscono permanentemente, ma bensì nelle
_transitorie circostanze_ della sua creazione e conservazione. La
scomparsa dello Stato presuppone non solo l'abolizione del dominio
di classe, ma lo spezzarsi altresì delle grandi unità nazionali per
far luogo ad associazioni staccate di piccole corporazioni o gruppi.
Quest'ultimo evento è però più che improbabile. Per quanto il principio
democratico della federazione sia destinato a trionfare e a informare
il rapporto dei gruppi locali e professionali collo Stato — e io penso
che sia questo uno fra i più importanti problemi contemporanei — la
molteplicità e multiformità dei gruppi ed il continuo aumento dei
congegni della società sono tuttavia segni certi che non ne conseguirà
la soppressione dell'organismo che tutti li abbraccia, cioè dello
Stato.

Vero è soltanto che cadrà lo Stato sfruttatore ed oppressore. Ma
questa non è se non una particolare forma di Stato, e non lo Stato in
generale.

Furono, come già si disse, concetti appresi da Fourier e da Hegel
che condussero Engels a identificare sostanza e forma od a prendere
pel tutto un lato particolare della cosa. Anche Fourier abolisce lo
Stato, sostituendogli l'associazione dei falansteri; il concetto poi
che lo Stato scompare insieme al dominio di classe, donde è generato,
corrisponde alla formula hegeliana, per la quale la negazione della
negazione è legge dell'evoluzione. Ma, per quanto in Fourier e
Hegel si ammirino due illustri precursori della moderna dottrina
dell'evoluzione, ciò non toglie l'errore insito nelle loro formule, e
che consiste precisamente nel rilevare trasformazioni assolute o totali
là dove in realtà non si riscontrano se non mutazioni relative.

Ma facciamo punto colle riserve, le quali han di mira soltanto
singole pagine del lavoro di Engels, lasciandone pressochè intatto il
complesso, e le quali non vietano d'apprezzarne l'alto valore. Ogni
esposizione storica, ogni interpretazione di evoluzioni storiche è,
fino a un certo segno, una creazione ed offre un elemento soggettivo
determinato dalla personalità dell'autore. A nessuno è concesso
presentare la verità nella sua pienezza, o per lo meno esprimere
sempre esattamente il rapporto di tutti i fattori di un fenomeno. In
questa materia, poi, si è quasi sempre dinnanzi ad ipotesi, più o meno
verosimili, ma che non sono ancora certezza. Così lo stesso Engels
modificò nella quarta edizione di questo libro taluni passi della prima
ed avrebbe, occorrendo, fatto lo stesso nelle edizioni successive. Il
suo libro non è un catechismo, ma un tentativo di rappresentare le
forze e le circostanze che foggiarono i tre più importanti istituti
giuridico-sociali della società incivilita e ne conservarono le forme a
noi conosciute: proprietà, famiglia, Stato.

Se Engels quà e là può ingannarsi nel valutare l'influenza di talune
fra queste forze in date evoluzioni, ce ne compensa l'ammirabile
finezza, con cui egli ci esibì un quadro vivace, intuitivo, del loro
complesso. Tanto la muta azione degli elementi economici che, quasi
inavvertiti, minano le fondamenta di società o d'istituzioni sociali,
rendendone prima possibile, poi inevitabile, la trasformazione,
quanto l'influenza delle forze soggettive o ideologiche, sono esposte
in modo meraviglioso. Pochi possiedono, al pari di Engels, la dote
d'offrire molto in breve contorno, senza divenir pesanti. Egli è sempre
chiaro e vivo, maestro nell'analisi e nell'arte di scegliere, nella
molteplicità dei fenomeni e delle forze, sempre i fenomeni e le forze
prevalenti. Sono queste qualità che rendono prezioso il suo libro anche
agli etnologi di professione, così esposti al pericolo di perdere
di vista, nelle ricerche speciali, le correlazioni generali delle
cose. Per la democrazia socialista, poi, esso ha il notevole merito
di renderle famigliari i risultati d'una scienza, alla quale la massa
dei socialisti non potè dedicare soverchio tempo e che pure è di non
lieve importanza per intendere l'essenza della società. Si potranno
sottoporre a revisione i particolari di questo libro, ma, come guida
per conoscere i problemi della storia primitiva, esso è insuperabile.

                                                   EDOARDO BERNSTEIN.



AVVERTENZE FILOLOGICHE


Fu durante gli squallidi e non volontarii ozii del reclusorio di
Pallanza che potei dedicare parecchie giornate a una diligente
revisione di questa versione — completata colle notevoli aggiunte
dell'ultima edizione tedesca — dell'amico prof. Martignetti. Dei
ritocchi intesi soltanto a viemmeglio italianizzarne lo stile —
talvolta, per delicato scrupolo di fedeltà, un po' tedescamente duro
— non occorre ch'io m'intrattenga. Debbo invece al traduttore e al
lettore e alla memoria di Engels — il quale, buon conoscitore della
nostra come di quasi tutte le moderne lingue europee, aveva approvato
la prima versione (Benevento, 1885), e che pur troppo non è più là
perchè, nei dubbii, possiamo consultarlo, come solevamo — debbo un po'
anche a me stesso, per la responsabilità che ciascuno deve assumere
dei fatti suoi, un chiarimento su quelle modificazioni, che, toccando
ad alcune parole, se così posso esprimermi, _sostanziali_ potrebbero
essere soggetto di critica.


EINZELEHE. — Questo termine ricorre frequentissimo nel volume
e appartiene a quella che chiamerei la «terminologia tecnica»
dell'autore. Martignetti, e con esso il Sig. Enrico Ravé, che voltò
questo libro in francese[3], lo traducono quasi sempre con _monogamia_,
_matrimonio monogamico_, al pari della parola _Monogamie_, che l'Engels
impiega pure con non minore frequenza. Letteralmente, _Einzelehe_
significa _connubio singolare_ o _di singoli_, cioè connubio di
due sole persone, in contrapposizione alle varie forme di _connubio
plurale_, (poligamia, poliandria, connubio per gruppi, ecc.). Io,
dovunque l'Engels adopera _Einzelehe_, sostituii — ad evitare anche
il doppio senso dell'aggettivo «singolare» — la dizione «connubio (o
unione coniugale) _individuate_».

Invero, finchè si credette che, di connubii plurali, non esistessero
che le forme tradizionalmente note — poligamia e poliandria — e,
viceversa, di connubii singolari, la sola forma monogamica, il
vocabolo _monogamia_ rispondeva e bastava. Ma le scoperte del Morgan,
illustrate dall'Engels, rovesciarono cotesto semplicismo. Questo
volume ci apprende come, da un lato, la poligamia e la poliandria
siano state precedute (a prescindere dall'antichissima e supposta
promiscuità assoluta, che non sarebbe una forma, anzi sarebbe piuttosto
la negazione di ogni forma di vero connubio) da molteplici modi di una
unione coniugale, che ha insieme della poliandria e della poligamia,
senza essere nè l'una, nè l'altra, e che fu chiamata «connubio per
gruppi» (_Gruppenehe_): nel quale tutta una serie di donne erano mogli
di tutta una serie di mariti, e del quale la forma _punalua_ sarebbe
stata il tipo più evoluto e classico. Ci apprende, dall'altro lato,
che, assai prima che trionfasse la rigorosa monogamia dei tempi storici
(_feste Monogamie_), la quale del resto non significa sempre — non
significò mai, secondo Engels — la limitazione del rapporto sessuale
abituale ad una coppia unica; usarono, per quasi tutto il periodo
della Barbarie e per gran parte altresì dell'epoca selvaggia, forme
varie di connubii a tempo, dal vincolo più o meno rilassato (_lockre
Monogamie_), ma fra due sole persone; vere forme dunque di connubio
_singolare_ od _individuale_ (_Einzelehe_). La _Paarungsehe_, connubio
per coppie, o _sindiasmico_, sarebbe stata la forma classica di questi
maritaggi, risolubili per mutuo consenso, o per volontà di una delle
parti, rimanendo i figli alla madre.

Non solo: ma, mentre le varie forme di connubio per gruppi tennero un
larghissimo posto nella evoluzione umana e durarono per millennii,
come unioni perfettamente organizzate, sulle quali imperniavasi un
sistema complicato e ben fisso di parentela e tutta una costituzione
sociale; l'Engels ci dimostra come la poligamia e la poliandria,
queste forme di connubii per gruppo unilaterali, non poterono essere
mai se non l'eccezione e, com'egli si esprime, «un prodotto di lusso
della storia» (pag. 76). Dall'altro canto, la monogamia propriamente
detta, quella che l'Engels chiama preferibilmente _Monogamie_, non si
svolge dalle varie forme di connubio individuale, e in particolare dal
connubio sindiasmico, se non a un dato momento della storia e sotto
la pressione di fattori speciali — fattori economici. — Fu dacchè
l'allevamento sistematizzato degli armenti, devoluto sopratutto al
sesso maschile, permise all'uomo di accumulare ricchezze suscettive di
appropriazione individuale e di scambio, dalla proprietà delle quali la
donna era esclusa: fu soltanto da tale momento, il quale appare nello
stadio più avanzato della Barbarie, già quasi alle soglie dell'epoca
civile, che l'uomo — intendiamo il maschio umano — ebbe possibilità ed
interesse di modificare la forma di famiglia per modo, da assicurare
ai propri figli (la cui paternità doveva, a tal uopo, risultare ben
certa) l'eredità di cotesti suoi beni. Caddero allora (nell'ipotesi
dell'Engels) il diritto materno e la discendenza in linea femminile;
l'uomo diventò, nella famiglia, il despota; si pretese dalla donna (non
si dice che la si ottenesse) la fedeltà più rigorosa, e il connubio non
fu più risolubile per sua iniziativa. La «monogamia» nasce in questo
momento, dopo un lungo periodo di _Einzelehen_ di varia natura; nasce,
col suo corteggio obbligato di infedeltà, specialmente mascolina,
di eterismo, di prostituzione; monogamia, in ogni caso, temperata e
corretta dall'adulterio. E, com'essa è nata da fattori economici, così
con questi si trasforma; ecco l'odierno matrimonio proletario, nel
quale, per la rispettiva indipendenza e quasi parità economica dei due
sessi, i caratteri storici della monogamia, la supremazia del maschio,
l'adulterio ecc., la stessa ferrea indissolubilità, si ottundono; e più
si ottunderanno quanto più (come già sta avvenendo) i lavori domestici
si trasformeranno in servizio sociale. Il matrimonio proletario, dice
l'Engels, è monogamo _nel senso etimologico_, ma non affatto _nel senso
storico_ della parola; il connubio dell'avvenire farà della monogamia
(intendasi qui, dunque, nel senso etimologico) una realtà per la prima
volta anche per l'uomo (pagg. 92 e 97).

Non è dunque un semplice accidente se l'Autore di questo libro adopera
distintamente le due diverse espressioni, _Monogamie_ ed _Einzelehe_;
e generalmente (non manca qualche esempio in contrario, ma in casi
nei quali non è possibile l'equivoco) adotta il termine greco per la
forma _storica_ e il tedesco per la monogamia in senso _etimologico_,
e quindi nel significato più generale. Postochè l'_Einzelehe_
comprende la _Monogamie_, ma non viceversa, e questa è preceduta e
potrà essere susseguita da lunghissimi periodi di _Einzelehen_ che
non sono _Monogamie_, è chiaro che l'adottare un vocabolo solo per
i due concetti non può essere senza confusione. Sovente, infatti,
la confusione si affaccia. Qualche volta il Ravé tenta sfuggirle,
rendendo, per esempio, _Einzelehe_ con «mariage unique»(?) (pag. XIV),
o risolve la difficoltà sopprimendone l'obbietto, come a pag. 13, dove
_Einzelehe_ diventa _Ehe_: «ce genre de mariage.....»; preceduto in
questo spediente dal Martignetti (ediz. 1885, pag. 21). Ma ecco un
brano che mi sembra risolutivo (cfr. più oltre, pag. 105-106; ultima
ediz. tedesca 1894, pagg. 71-72):

«Or poiché — scrive l'Engels — l'amore sessuale è di sua natura
esclusivo,.... il connubio fondato sull'amore sessuale è, di sua
natura, _Einzelehe_. Vedemmo quanta ragione aveva Bachhofen di
considerare il progresso dal connubio per gruppi all'_Einzelehe_
come l'opera sopratutto delle donne; solo il passaggio dal connubio
sindiasmico alla _Monogamie_ è dovuto agli uomini; e, storicamente,....
agevolò la infedeltà degli uomini. Ecc.»

Qui è ben chiaro che _Einzelehe_ e _Monogamie_ sono distinti,
successivi ed in contrapposto fra loro; fra essi, cronologicamente,
sta di mezzo il connubio sindiasmico, forma speciale di _Einzelehe_,
onde si è svolta la _Monogamie_. Martignetti, nelle pagina manoscritte
(il brano è fra gli aggiunti nelle ultime edizioni tedesche), rendeva
_Einzelehe_ nel primo caso con _monogamia_, nel secondo, fatto accorto
della contraddizione, con _matrimonio per coppie_. Ravé si districa
ancor peggio (pag. 108):

«Mais, dès lors que, par sa nature, l'amour sexuel est exclusif,.... le
mariage basé sur l'amour sexuel est, de par sa nature, la _monogamie_.
Nous avons vu combien Bachofen avait raison lorsqu'il considérait le
progrés du mariage par groupe au _mariage par couple_, comme étant
surtout l'oeuvre de la femme; seul le passage du mariage syndiasmique à
la _monogamie_ peut être mis au compte de l'homme; ecc.»

Nel quale testo non solo si sostituisce arbitrariamente «mariage
par couple» — che sarebbe piuttosto la _Paarungsehe_ o connubio
sindiasmico, del quale pure, nel brano, è distintamente fatto cenno —
alla generica _Einzelehe_; ma il vocabolo _Monogamie_ gioca due parti
in commedia, e, che è peggio, due parti contraddittorie: quella di
connubio individuale in genere (compresa la _Paarungsehe_, e tutte
le altre forme antiche e future) e quella di monogamia nel senso
storico, e cioè di quel matrimonio, coevo alla proprietà privata e
contrassegnato dal dominio maschile, al quale si applica l'aforisma di
Fourier: «come nella grammatica due negazioni fanno una affermazione,
così nella morale coniugale due prostituzioni formano una virtù.»

Non giova moltiplicare gli esempi. Le cose dette bastano, spero,
a salvarmi da accusa di stranezza o di temerità se, per rendere
_Einzelehe_, coniai la dicitura «connubio individuale», e sia pur che
la frase non lusinghi l'orecchio: l'importante, ad ogni modo, è di
intenderci sul significato.

Analogamente, _Einzelfamilie_ volli tradotta, anzichè con «famiglia
monogamica», con famiglia _individuale_, o _singola_, od _isolata_,
a seconda dei casi. _Isolirte familie_ usa in qualche caso l'Autore
(ediz. tedesca, pag. 143), che risponde alle _familles incohérentes_
del Fourier, nella nota a pag. 240 di questo volume. — Al vocabolo
_matrimonio_, quando si tratta di forme primitive, ho poi sostituito
_connubio_; non parendomi che alla _Einzelehe_, che fioriva, non
ancora staccata, sul tronco del connubio per gruppi, possa imprimersi
il suggello giuridico e contrattuale, che il sostantivo _matrimonio_,
storicamente e volgarmente, porta con sè.


LEIBLICH. — L'aggettivo (letteralmente: _corporale_) è impiegato
dall'Engels a designare un rapporto di consanguineità reale e diretta.
Nelle famiglie per gruppi, in cui tutta una serie di donne vive in
comunanza coniugale con una serie di uomini, questi sono reputati
altrettanti padri, quelle altrettante madri dei figli di ciascuna di
esse; e tutti i loro figli, anche quelli che nella nomenclatura odierna
chiameremmo cugini, sono reputati fratelli e sorelle fra loro; i cugini
(nel senso moderno) non esistono ancora. Ma vi è pure di ciascun figlio
una madre certa, che lo ha generato, e un padre — il più spesso incerto
— che concorse direttamente al concepimento. Questi genitori, e i
fratelli e sorelle, figli di cotesta coppia, sarebbero reciprocamente
genitori, figli e fratelli e sorelle _leibliche_. Nei rapporti però
della parentela riconosciuta, in coteste famiglie per gruppi, non
erano propriamente _leiblich_ se non la genitrice verso i figli, e,
fra loro, i figli di una stessa genitrice: _leiblichen Geschwister
(das heisst von mütterlichen Seite)_, scrive esplicitamente l'Engels
parlando della famiglia _punalua_ (ediz. tedesca citata, pag. 21). —
Martignetti traduce talvolta _carnale_, tal'altra volta (di fratelli e
sorelle) _germani_. Ravé rende _leiblich_ colle frasi: _la mère propre,
le vrai père_, e, trattandosi di fratelli e sorelle, _germains_, e
una volta (pag. 31) _utérins_; in un luogo (pag. 118) lo sopprime. —
Tutto ciò non solo genera discordanza, ma si risolve (mi sembra) nel
sostituire concetti presi a prestito dalla famiglia moderna a quelli
che regnavano, e soli potevano regnare, nella famiglia per gruppi. — Io
preferii adottare invariabilmente l'aggettivo: _carnale_.


KULTUR, KULTURVÖLKER, KULTURSTUFEN. — Non è facile rendere nelle
lingue latine, con vocabolo unico e costante, il tedesco _Kultur_
e i suoi composti. Martignetti e Ravé traducono: _cultura_,
_civilizzazione_, _popoli civilizzati_; _culture_, _civilisation_,
_peuples civilisés_, _cultivés_. Se _Kultur_ corrispondesse a _civiltà_
o ad _incivilimento_, noi ci troveremmo, sin dal primo capitolo (pag.
23), a intitolare _Stadii preistorici di civiltà (Vorgeschichtliche
Kulturstufen)_ il quadro dello stato selvaggio e della Barbarie!
Il Martignetti, infatti, e con esso il Ravé, ci danno per popoli
inciviliti (_civilizzati_, _civilisés_, _cultivés_) gli _antiken
Kulturvölkern_ nei quali il diritto paterno si è appena sostituito
al diritto materno della _gens_ primitiva, i Greci dei tempi eroici,
i Germani di Tacito, ecc., che appartengono allo stadio superiore
della Barbarie, anzi quegli stessi _Kulturvölker_ (ediz. tedesca,
pag. 41; Martignetti, 1885, pag. 41; Ravé, pag. 63) nei quali cotesta
rivoluzione non si è ancora compiuta.

L'antinomia è tanto più stridente in un libro, in cui le tre grandi
epoche dell'evoluzione umana (_selvaggia_, _barbarica_, _civile_),
e gli stadii di ciascuna di esse, sono tratteggiati colla maggior
precisione, e quegli epiteti acquistano un valore tecnico, che non
ha nulla d'indeterminato. D'altro canto, non potrebbe parlarsi di
_Kulturvölker_, alludendo a popoli che stagnano, senza speranza di
elevamento, nelle bassure sociali dello stato selvaggio od anche
barbarico, quasi sottratti alla legge della evoluzione storica.
Questi riflessi mi suggerirono di significare _Kulturvölker_ con
l'equivalente: «popoli _tendenti_ od _avviati a civiltà_» od anche,
dove il senso lo comporta, «_più o meno inciviliti_», e _Kulturstufen_
con _stadii dell'evoluzione_. «_Coltura_», «_coltivati_», in italiano e
in francese, hanno altro senso preciso.


PREISGEBUNG. — In più luoghi l'Engels ci parla del costume, durato a
lungo fra gli antichi popoli, e tuttora esistente presso popolazioni
barbariche, pel quale le fanciulle, prima di passare al connubio
individuale, o anche le donne durante questo, dovevano, in dati
periodi, _sich preisgeben_ (abbandonarsi, darsi in balia) ad unioni
sessuali più o meno promiscue; avanzo e riconoscimento della tradizione
dei tempi, nei quali le donne appartenevano indistintamente a tutti gli
uomini della tribù, o, in uno stadio successivo, a tutti gli uomini
della tribù che non fossero della loro _gente_; e, insieme, sorta di
sacrificio espiatorio (_Sühnopfer_), col quale acquistavano il diritto
alla relativa castità del connubio individuale già sorto.

A non voler meritare il rimprovero che l'Engels muove al Westermark
(V. più oltre, pag. 43) di «guardare lo stato di cose primitivo
colla lente del lupanare», non mi pare possibile tradurre il concetto
della _Preisgebung_, come fa talora il Ravé (pag. 53, 80, ecc.), coi
vocaboli moderni _prostituirsi_ e _prostituzione_. Simili espressioni
(_Prostitution_, _Prostituirten_) sono a preferenza, se non sempre,
impiegate dall'Engels per indicare il far commercio e lucro di sè,
la moderna prostituzione venale o professionale, figlia dell'epoca
proprietaria e compagna inevitabile del predominio maschile e del
matrimonio monogamico, colla quale l'antica promiscuità nulla aveva
di comune; nè quindi poteva avervi alcunchè di comune quest'altra
promiscuità, rituale o simbolica, avvenisse pure talvolta a prezzo di
denaro (_Hingebung für Geld_), denaro che in origine passava al tesoro
del tempio nel quale celebravasi il rito d'amore (pag. 84). Lo stesso
_eterismo_ dei Greci, comechè le _Etere_ fossero straniere o liberte,
non è ancora la vera prostituzione. Giova rammentare come l'Engels, in
una nota (pag. 45), rimproveri al Goethe di avere, in una sua ballata,
troppo assimilato la _religiöse Frauenpreisbung_ degli antichi alla
prostituzione moderna.

Il Martignetti ben avvertì la differenza e soleva tradurre
_Preisgebung_ con _abbandono_. Questa espressione dovette soltanto
venir completata, perchè non apparisse un pudibondo eufemismo.

  (_Aprile 1901_)

                                                    =Filippo Turati.=



Prefazioni dell'Autore



PREFAZIONI DELL'AUTORE


I. — Alla 1.ª edizione (1884).

I capitoli che seguono sono in certo modo l'esecuzione di un legato. Un
uomo del valore di Carlo Marx si era riservato di esporre i risultati
delle investigazioni di Morgan, in relazione con quelli delle sue — in
certi limiti, oso dire delle nostre — ricerche storiche materialistiche
e di chiarirne quindi tutta l'importanza. Morgan aveva pure scoperto
di nuovo, a modo suo, in America, la concezione materialistica
della storia, scoperta 40 anni prima dal Marx; e, nel suo paragone
della barbarie colla civiltà, era stato condotto da essa, nei punti
principali, ai medesimi risultati del Marx. E come il _Capitale_ fu per
lunghi anni saccheggiato con tanta premura dagli economisti di mestiere
in Germania quanta fu la perfidia con cui si adoperarono a ucciderlo
col silenzio, così, in modo affatto simile, venne trattato il libro di
Morgan _Ancient Society_[4] dai portavoce della scienza «preistorica»
in Inghilterra. Il mio lavoro può supplire assai debolmente quello che
non fu concesso di fare al mio estinto amico.

Mi stanno però dinnanzi — e li riprodurrò per quanto sia possibile — i
commenti critici ond'egli accompagnò i minuziosi estratti dal Morgan.

Secondo la concezione materialistica, il movente essenziale e decisivo,
nella storia, sta nella produzione e nella riproduzione della vita
immediata. Queste, a loro volta, sono di due specie. Da una parte,
la produzione delle sussistenze: alimenti, vesti, abitazioni, e degli
strumenti che le procacciano; dall'altra, la procreazione degli stessi
uomini, la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali, sotto
le quali vivono gli uomini di una data epoca storica e di un dato
paese, sono determinate da entrambi i modi della produzione: per una
parte, dal grado di sviluppo del lavoro; per l'altra, dal grado di
sviluppo della famiglia. Meno sviluppato è il lavoro, più limitata è
la quantità dei suoi prodotti, ossia della ricchezza sociale, e tanto
più l'ordinamento sociale si vede dominato da vincoli di sangue. In
questo assetto sociale, basato su legami di consanguineità, si sviluppa
intanto sempre più la produttività del lavoro; insieme ad essa la
proprietà privata e lo scambio, la differenza di ricchezza, l'impiego
di forza di lavoro estranea, e con ciò la base degli antagonismi di
classe: nuovi elementi sociali che, nel corso delle generazioni,
si sforzano di adattare l'antica costituzione sociale alle nuove
condizioni, sino a che finalmente la loro incompatibilità produce
una completa rivoluzione. La vecchia società, basata su vincoli di
sangue, è frantumata nella collisione colle classi sociali novellamente
sviluppatesi; subentra una nuova società, compendiata nello Stato, le
cui unità costitutive non sono più gruppi consanguinei, ma locali;
una società, nella quale l'ordinamento della famiglia è interamente
dominato dall'ordinamento della proprietà, e nella quale si svolgono
liberamente quegli antagonismi e quelle lotte di classi, in cui
consiste tutta la storia fin ora _scritta_.

Il gran merito di Morgan è di avere scoperta e riprodotta, nelle sue
linee principali, questa base preistorica della nostra storia scritta,
e di aver trovata, nei gruppi consanguinei degl'Indiani dell'America
del nord, la chiave che ci scioglie gli enigmi più importanti, finora
insolubili, delle più antiche storie, greca, romana e germanica. Ma il
suo scritto non è l'opera di un giorno. Egli lottò circa quarant'anni
col suo soggetto, finchè lo ebbe dominato completamente. E perciò il
suo libro è anche una delle opere del nostro tempo, di cui possa dirsi
che «fanno epoca».

Nel complesso dell'esposizione che segue, il lettore distinguerà
facilmente la parte di Morgan dalla mia. Nelle parti storiche sulla
Grecia e su Roma, ai dati di Morgan, ne aggiunsi altri, ond'io potevo
disporre. I capitoli sui Celti e sui Germani sono essenzialmente
miei; Morgan, a questo proposito, disponeva quasi soltanto di fonti
di seconda mano e, per quel che riguarda i Germani, non possedeva,
all'infuori di Tacito, che le cattive adulterazioni liberali del signor
Freeman. Le deduzioni economiche, bastevoli al Morgan pel suo scopo,
ma affatto insufficienti pel mio, sono state tutte da me rimaneggiate.
E s'intende, infine, che io sono responsabile di tutte le conclusioni
nelle quali Morgan non è espressamente citato.


II. — Alla 4.ª edizione (1891).

Le precedenti edizioni di questo lavoro, malgrado la loro grande
tiratura, sono esaurite da circa sei mesi, e già da gran tempo
l'editore mi chiedeva di curare una nuova edizione. Lavori più urgenti
mi tolsero di occuparmene finora. Dalla 1.ª edizione scorsero 7 anni,
durante i quali la conoscenza delle forme primitive di famiglia fece
rilevanti progressi. Diventavano perciò necessarie diligenti rettifiche
ed aggiunte, tanto più che, volendosi fare una edizione stereotipa, è
da tener conto della impossibilità di apportarvi, per qualche tempo,
ulteriori modificazioni.

Sottoposi quindi a un'accurata revisione il testo e vi introdussi una
serie di aggiunte; sperando così di avere fatto opera che risponda
allo stato odierno della scienza. Darò inoltre, nel corso di questa
prefazione, un rapido sguardo allo sviluppo della storia della
famiglia da Bachofen a Morgan; e ciò, sopratutto, perchè la scuola
preistorica inglese, sciovinisticamente ispirata, continua a fare tutto
il possibile per seppellire nel silenzio la rivoluzione portata nei
criteri della preistoria dalle scoperte di Morgan, pur continuando,
senza uno scrupolo al mondo, ad appropriarsi i risultati da lui
ottenuti. E, purtroppo, questo esempio, dato dagli inglesi, è seguito
anche altrove.

Il mio lavoro ebbe diverse traduzioni. La prima fu l'italiana:
_L'origine delia famiglia, della proprietà privata e dello Stato_,
versione di PASQUALE MARTIGNETTI, riveduta dall'autore; Benevento 1885.
Poi la rumena: _Origina familei, proprietatei private si a statului_,
traducere de IOAN NADEJDE, nel periodico _Contemporanul_ di Iassy,
dal settembre 1885 al maggio 1886. In seguito la danese: _Familjens,
Privatejendommens og Siatene Oprindelse_, Dansk, af Forfatteren
gennemgaaet Udgave, besörget af GERSON TRIER; Köbenhavn 1888. Una
traduzione francese di ENRICO RAVÉ, fatta sulla presente edizione
tedesca, è in corso di stampa[5].

                                 —————

Sino al 1860 non si può dire esistesse una storia della famiglia. La
scienza storica stava ancora, per questo riguardo, sotto l'esclusiva
influenza dei cinque libri di Mosè. La famiglia patriarcale, quivi
descritta più minutamente che altrove, non solo era accettata
senz'altro come la forma più antica, ma era anche — astrazion fatta
dalla poligamia — identificata con la odierna famiglia borghese; così
che la famiglia propriamente non avrebbe avuto in generale alcuno
sviluppo storico, ammettendosi tutt'al più che nell'epoca primitiva
potesse esservi stato un periodo di rapporti sessuali sottratti ad ogni
regola.

È vero che, oltre all'unione coniugale individuale[6], si conoscevano
la poligamia orientale e la poliandria indo-tibetana; ma queste tre
forme non si riusciva a ordinarle in una concatenazione storica e
figuravano senza nesso l'una accanto all'altra. Che in alcuni popoli
della storia antica, come in alcuni selvaggi dell'oggi, la discendenza
fosse determinata non dal padre, ma dalla madre, e quindi la linea
femminile fosse considerata come la sola valida; che in molti popoli
odierni il matrimonio fosse vietato entro il limite di certi grandi
gruppi, allora non peranco bene studiati, e che quest'uso si trovi in
tutte le parti del mondo — questi fatti in verità erano noti e se ne
raccoglievano sempre nuovi esempi. Ma non si sapeva che cosa cavarne,
e ancora nelle _Researches into the early history of mankind_ ecc., di
E. B. TYLOR, 1865, essi figurano semplicemente come «strani costumi»,
allato al divieto, in vigore presso alcuni selvaggi, di toccare tizzoni
ardenti con ordigni di ferro, e ad altre analoghe futilità religiose.

La storia della famiglia data dal 1861, dall'apparizione del
«_Mutterrecht_» («_Diritto materno_») di BACHOFEN. L'autore vi afferma:

1.º Che gli uomini da principio vivevano in rapporti sessuali
promiscui, che egli, con espressione impropria, qualifica _eterismo_;

2.º Che tali rapporti sessuali escludono ogni certezza di paternità;
che quindi la genealogia non poteva essere determinata se non in linea
femminile, secondo il diritto materno; e che questo in origine si
verificò presso tutti i popoli dell'antichità;

3.º Che, in conseguenza, le donne, quali madri ed uniche parenti certe
della giovane generazione, godettero un così alto grado di stima e
di considerazione, da ottenere, secondo il concetto di Bachofen, un
predominio assoluto (ginecocrazia);

4.º Che il passaggio al connubio individuale, per cui la donna
appartiene esclusivamente ad un uomo, includeva la violazione di
una legge religiosa primitiva (ossia, in effetti, una violazione
del tradizionale diritto degli altri uomini sulla medesima donna),
violazione che doveva essere espiata, o la cui tolleranza la donna
doveva riscattare, coll'abbandonarsi per un dato periodo ad amori
promiscui.

Bachofen prova queste tesi con passi innumerevoli della letteratura
classica antica, cercati e raccolti con una diligenza straordinaria.
La evoluzione dall'«eterismo» alla monogamia e dal diritto materno al
paterno si effettua, secondo lui, specialmente fra i Greci, in virtù di
un continuo sviluppo dei concetti religiosi, della intrusione di nuove
deità, rappresentanti le nuove idee, nei gruppi degli dei tradizionali,
che rappresentavano le idee antiche; sicchè queste venivano mano mano
soppiantate da quelle. Non è quindi lo sviluppo delle condizioni reali
della vita umana, ma il loro riflesso religioso nelle menti degli
uomini, che, secondo Bachofen, ha operato i cangiamenti storici nella
reciproca posizione sociale dell'uomo e della donna.

Bachofen presenta quindi l'_Oreste_ di Eschilo come la rappresentazione
drammatica della lotta tra l'agonizzante diritto materno e il nascente,
anzi ormai vittorioso, diritto paterno nell'epoca eroica. Clitennestra,
per amore del suo amante Egisto, ha ucciso lo sposo Agamennone, reduce
dalla guerra di Troja: ma Oreste, figlio suo e di Agamennone, vendica
l'assassinio del padre, uccidendo la propria genitrice. Le Erinni, le
demoni protettrici del diritto materno, pel quale l'assassinio della
madre è il più grave ed inespiabile delitto, perseguitano Oreste; ma
Apollo, che, per mezzo del suo oracolo, ha incitato Oreste a vendicare
il padre, e Minerva, chiamata come arbitra — le due deità, che qui
rappresentano il nuovo ordine paterno — lo difendono: Minerva ascolta
le due parti. Tutta la controversia si riassume nel dibattito tra
Oreste e le Erinni. Oreste afferma che Clitennestra ha perpetrato un
doppio misfatto: perchè essa ha ucciso lo sposo di lei e insieme anche
il padre di lui. Perchè dunque le Erinni perseguitano lui e non essa,
che è la più colpevole? La risposta delle Erinni vi colpisce:

    «Essa _non era consanguinea_ dell'uomo che ha ucciso.»

L'assassinio di un uomo non consanguineo, anche se è lo sposo,
è espiabile; non concerne le Erinni; loro solo ufficio è punire
l'assassinio tra consanguinei e, secondo il diritto materno, il più
grave ed inespiabile è l'assassinio della madre. Ma Apollo interviene
come difensore di Oreste, e Minerva fa votare gli Areopagiti, i giudici
ateniesi; i voti sono eguali per l'assoluzione e per la condanna;
allora Minerva, che presiede l'Areopago, dà il suo voto favorevole ad
Oreste e lo assolve. Il diritto paterno ha vinto il diritto materno,
gli «dei di giovane schiatta», come le Erinni li qualificano, vincono
le Erinni, che alla fine si lasciano pur esse persuadere ad assumere un
nuovo ufficio in servizio del nuovo ordine di cose.

Questa interpretazione, nuova ma giusta, dell'_Oreste_, è uno dei
passi migliori e più belli di tutto il libro, ma essa prova altresì
che Bachofen crede alle Erinni, ad Apollo e a Minerva quanto almeno,
a suo tempo, vi credeva lo stesso Eschilo: egli crede cioè che furono
appunto questi miti che nel tempo eroico della Grecia compirono il
miracolo di abbattere il diritto materno e di sostituirlo col diritto
paterno. È chiaro come codesto modo di vedere, secondo il quale la
religione è considerata la leva decisiva della storia del mondo,
debba finalmente riuscire ad un mero misticismo. Gli è perciò che la
fatica spesa intorno al grosso in quarto del Bachofen è assai dura
e ben lungi dall'essere sempre rimuneratrice. Ciò però non menoma il
grande merito di questo pioniere; egli, pel primo, alle frasi vaghe,
con cui si alludeva allo stato primitivo di promiscuità sessuale,
sostituì la prova, emergente da infinite traccie contenute nella
letteratura classica antica, che, prima del connubio individuale, ebbe
vita, presso i Greci e gli Asiatici, uno stato di cose, nel quale,
non solo un uomo aveva rapporto sessuale con parecchie donne, ma una
donna con parecchi uomini, senza che i costumi ne fossero offesi. Egli
ha provato che questo uso non sparì senza lasciar tracce di sè in un
abbandono temporaneo a rapporti sessuali promiscui, col quale le donne
dovevano acquistare il diritto al connubio individuale; che, quindi,
la discendenza, in origine, non poteva essere determinata se non in
linea femminile, da madre a madre; che questa validità esclusiva della
discendenza femminile si conservò a lungo nell'epoca del connubio
individuale, malgrado la paternità assicurata o almeno riconosciuta; e
che, finalmente, questa originaria posizione delle madri, come le sole
progenitrici certe dei loro figli, assicurava ad esse, e quindi alle
donne in generale, una condizione sociale più elevata di quella avuta
in qualsiasi epoca posteriore. Per verità Bachofen non ha espresso
queste tesi così chiaramente, impedito come egli era dal suo concetto
mistico. Ma egli le ha dimostrate, e nel 1861 questo equivaleva a una
rivoluzione completa.

Il grosso in-quarto di Bachofen era scritto in tedesco, ossia nella
lingua della nazione che allora meno s'interessava alla preistoria
della famiglia odierna; rimase perciò sconosciuto. Il suo immediato
successore sullo stesso terreno si presentò nel 1865, senza sapere
nulla di Bachofen.

J. F. MAC LENNAN fu la perfetta antitesi del suo precursore. Invece
del mistico geniale, abbiamo qui l'arido giurista; invece della
esuberante fantasia poetica, le plausibili combinazioni dell'avvocato
patrocinante. Mac Lennan trova, presso molti popoli selvaggi,
barbari ed anche inciviliti dei tempi antichi e moderni, una forma di
matrimonio, nella quale lo sposo, solo o coll'aiuto de' suoi amici,
deve fingere di rapire la sposa ai suoi parenti con la violenza. Questo
costume dev'essere la traccia di un uso anteriore, in cui gli uomini
di una tribù si procuravano le donne togliendole effettivamente colla
forza da altre tribù. Or come nacque questo «matrimonio di rapina»?
Finchè gli uomini poterono trovare donne a sufficienza nella propria
tribù, non vi era per esso alcun motivo. D'altra parte, troviamo
sovente che in popoli poco evoluti esistono certi gruppi (che nel 1865
venivano spesso identificati con le tribù), nell'interno dei quali è
vietato il matrimonio, sicchè gli uomini devono prendere le mogli, e le
donne i mariti, al di fuori del proprio gruppo; mentre in altri popoli
c'è l'uso che gli uomini di un certo gruppo sono obbligati a prendere
le loro mogli soltanto nell'interno del loro proprio gruppo. Mac Lennan
chiama i primi gruppi _esogami_, i secondi _endogami_, e stabilisce
senz'altro un'antitesi netta fra «tribù» esogame ed endogame. E sebbene
le sue stesse ricerche sulla esogamia gli facciano toccare con mano,
che quest'antitesi, in molti casi, se non nella più parte o addirittura
in tutti i casi, non esiste che nella sua imaginazione, egli la pone,
cionullameno, a base di tutta la sua teoria. Le tribù esogame non
possono, secondo lui, prendere le loro donne che dalle altre tribù e,
nello stato di guerra permanente fra le tribù selvagge, questo non può
accadere se non per mezzo del ratto.

Mac Lennan chiede poi: d'onde cotesta esogamia? I concetti di
consanguineità e di incesto, come quelli che si sviluppano assai più
tardi, non possono averci che fare. La causa di quest'uso può ben
essere il costume, molto diffuso tra i selvaggi, di uccidere, tosto
dopo il parto, le neonate. Da ciò un eccesso di maschi, in ogni tribù,
e quindi la necessità che più uomini possiedano una donna in comune:
la poliandria. Ne seguiva ancora che, mentre si conosceva la madre di
un neonato, non se ne conosceva il padre; quindi parentela determinata
solo dalla linea femminile, con esclusione della maschile — diritto
materno. E un'ultima conseguenza della scarsezza di donne nella tribù —
scarsezza mitigata, ma non eliminata, dalla poliandria — era appunto il
ratto sistematico e brutale delle donne dalle tribù straniere. «Poichè
esogamia e poliandria derivano da una medesima causa, dalla mancanza di
equilibrio numerico tra i due sessi, noi dobbiamo _considerare tutte le
razze esogame come primitivamente dedite alla poliandria_.... E avere
perciò come incontestabile, che, presso le razze esogame, il primo
sistema di parentela sia quello che riconosce il vincolo di sangue
soltanto dal lato materno.» (MAC LENNAN, _Studies in ancient history_,
1886. _Primitive marriage_, pag. 124).

Il merito di Mac Lennan è di aver indicato l'uso generale e la grande
importanza di ciò che egli chiama esogamia. Quanto al fatto dei
gruppi esogami, egli non l'ha punto _scoperto_, e non lo ha neanche
ben compreso. Prescindendo da precedenti notizie isolate di molti
studiosi, ai quali appunto egli attinse, quella istituzione era stata
descritta con precisione ed esattezza presso i _Magar_ indiani dal
LATHAM (_Descriptive ethnology_, 1859), il quale avea detto come essa
fosse generalmente diffusa e si trovasse in tutte le parti del mondo
— e questo in un passo citato dello stesso Mac Lennan. E il nostro
MORGAN l'aveva del pari indicata e perfettamente descritta, sin dal
1847, nelle sue lettere sugli Irocchesi, nella _American Review_, e
nel 1851 nel suo _The league of the Iroquois_; mentre, come vedremo, la
curialesca intelligenza di Mac Lennan aveva portato su questo punto una
confusione molto maggiore di quella che la fantasia mistica di Bachofen
abbia portato nel campo del diritto materno.

Un altro merito di Mac Lennan è di aver riconosciuto che l'ordine di
discendenza secondo il diritto materno fu il primitivo; sebbene in ciò
lo abbia preceduto Bachofen, come anch'egli ammise più tardi. Ma anche
qui egli non vede chiaramente le cose: egli parla sempre di «parentela
soltanto in linea femminile» (_Kinship through females only_); e questa
espressione, giusta per il periodo anteriore, continua ad applicarla
a periodi posteriori di sviluppo, quando la discendenza e l'eredità
erano bensì ancora determinate esclusivamente dalla linea femminile, ma
era contemporaneamente anche riconosciuta ed espressa la parentela in
linea maschile. È il limitato criterio del giurista, che si crea una
formula fissa di diritto, e continua ad applicarla invariabilmente ad
istituzioni a cui, coll'andar del tempo, è divenuta inapplicabile.

Malgrado tutta la sua plausibilità, pare che la teoria di Mac Lennan
non sia sembrata molto fondata neppure al suo stesso autore. Egli è
sorpreso, per esempio, dal fatto «notevole, che la forma del ratto
simulato delle donne sia più spiccata ed espressiva precisamente
presso quei popoli, nei quali domina la parentela _maschile_» (ossia la
discendenza in linea maschile). (Pag. 140). E così pure: «È un fatto
strano, che, per quanto ci consta, l'infanticidio non è praticato
sistematicamente in nessuno dei luoghi nei quali l'esogamia e la più
antica forma di parentela coesistevano.» (Pag. 146). Due fatti che
contraddicono direttamente la sua spiegazione, e ai quali egli non sa
contrapporre se non nuove ipotesi, ancora più complicate.

La sua teoria trovò, cionullameno, grande eco e adesione in
Inghilterra, dove Mac Lennan fu generalmente considerato come il
fondatore della storia della famiglia e come la prima autorità in
questa materia. La sua antitesi di «tribù» esogame ed endogame, per
quante eccezioni e modificazioni si constatassero, restò la base
riconosciuta dei concetti dominanti, e impedì di guardare liberamente
su questo campo, intralciando per tal modo ogni serio progresso. Alla
esagerazione delle benemerenze di Mac Lennan, divenuta oggi di moda in
Inghilterra e altrove, è da contrapporre che egli, con la sua antitesi
erronea di «tribù» esogame ed endogame, recò un danno ben maggiore dei
vantaggi derivati dalle sue indagini.

Venivano frattanto in luce fatti che non si potevano adattare nel suo
piccolo quadro. Mac Lennan non conosceva che tre forme di connubio:
poligamia, poliandria e connubio individuale. Ma, una volta diretta
l'attenzione su questo punto, si trovarono prove sempre maggiori
dell'esistenza, presso popoli poco evoluti, di certe forme di connubio,
in cui una serie di uomini possedeva in comune una serie di donne, e
LUBBOCK (_The origin of civilization_, 1870) in questo matrimonio per
gruppi (_communal mariage_) ravvisò un fatto storico.

Subito dopo, nel 1871, venne in iscena MORGAN con materiale nuovo
e, sotto molti rapporti, decisivo. Egli si era convinto che lo
strano sistema di parentela in vigore presso gl'Irocchesi era comune
a tutti gli aborigeni degli Stati Uniti, diffuso, cioè, sopra un
intero continente, quantunque in diretta contraddizione coi gradi di
parentela, quali risultano dal sistema coniugale ivi in vigore. Con
questa convinzione, egli riuscì a determinare il Governo federale
americano a raccogliere notizie intorno ai sistemi di parentela degli
altri popoli, sulla base di questionari e di tavole da lui stesso
redatti. E dalle risposte ottenute gli risultò:

1.º che il sistema di parentela indo-americano era in vigore anche
nell'Asia, e, in forma alquanto modificata, in Africa ed in Australia,
presso numerose tribù;

2.º che questo sistema di parentela si spiegava completamente mercè una
forma di matrimonio per gruppi, che stava appunto allora per sparire in
Hawai e in altre isole dell'Australia;

3.º che in queste stesse isole, allato a codesta forma di connubio, era
in vigore un sistema di parentela, che non poteva spiegarsi se non con
una forma di matrimonio per gruppi ancora più primitiva ed ora estinta.

MORGAN pubblicò le notizie raccolte, e le conclusioni ch'egli ne
traeva, nei suoi _Systems of consanguinity and affinity_ (1871),
portando con ciò la questione sopra un campo immensamente più vasto.
Partendo dai sistemi di parentela, e ricostruendo le forme di famiglia
corrispondenti, apriva un nuovo campo di ricerche e spingeva lo sguardo
assai lontano nella preistoria della umanità. Accettato questo metodo,
doveva cadere la povera costruzione di Mac Lennan.

Questi difese la sua teoria nella nuova edizione del _Primitive
marriage_ (_Studies in ancient history_. 1875). Mentre egli con
artifizî straordinari e su mere ipotesi architetta una storia della
famiglia, esige da Lubbock e da Morgan non solo la prova di ognuna
delle loro affermazioni, ma prove incontrastabilmente precise e
autentiche, come soltanto si suol chiederle in un tribunale scozzese. E
questo è quel medesimo uomo, che dall'intimo rapporto tra il fratello
della madre e il figlio della sorella presso i Germani (TACITO:
_Germania_, cap. 20), basandosi su quanto racconta Cesare, che i
Britanni avevano in comune le loro mogli per gruppi di dieci o dodici,
e fondandosi su tutte le altre relazioni degli antichi scrittori sulla
comunanza delle donne fra i barbari, trae senza esitare l'illazione
che in tutti questi popoli dominava la poliandria! Par di udire un
procuratore del re che, per cucinare la sua tesi, si permette ogni
libertà, ma pretende la prova provata e formale per ogni parola del
difensore.

Egli afferma che il matrimonio per gruppi è una mera invenzione, e con
ciò ricade molto sotto a Bachofen; afferma che i sistemi di parentela
di Morgan non sono che semplici prescrizioni di cortesia sociale,
provate dal fatto che gl'Indiani danno l'epiteto di fratello o di
padre anche a uno straniero bianco. È come se si volesse affermare
che le designazioni di padre, madre, fratello e sorella sono semplici
appellativi senza senso, perchè gli ecclesiastici e le abatesse
cattoliche si salutano coi nomi di padre e madre, e perchè frati e
monache e perfino i framassoni e i membri delle associazioni operaie
inglesi si qualificano, nelle loro solenni sedute, fratelli e sorelle.
Insomma, la difesa di Mac Lennan fu quanto mai debole e meschina.

Rimaneva però ancora un punto, su cui egli non era stato battuto.
Non solo l'antitesi di «tribù» esogame ed endogame, sulla quale si
fondava tutto il suo sistema, non era stata scossa, ma era tuttavia
quasi generalmente considerata come il cardine di tutta la storia della
famiglia. Si ammetteva bensì che il tentativo di Mac Lennan di spiegare
quest'antitesi fosse insufficiente e in contraddizione coi numerosi
fatti da lui medesimo citati: ma l'antitesi stessa, l'esistenza di due
diverse specie di tribù, una delle quali prendeva le sue mogli nella
tribù, mentre ciò era assolutamente vietato all'altra, quest'antitesi
era considerata vangelo incontestabile. Consultinsi per esempio:
_Les origines de la famille_ di GIRAUD-TEULON (1874) e _Origin of
civilization_ di LUBBOCK (4.ª edizione, 1882).

Or qui giunge a buon punto l'opera capitale di MORGAN: _Ancient
society_ (1877), base del presente lavoro. Quello che Morgan nel 1871
presentiva ancora confusamente, è in essa svolto con piena coscienza.
Endogamia ed esogamia non formano punto un'antitesi; l'esistenza di
«tribù» esogame non fu riscontrata in nessun luogo. Ma, mentre ancor
dominava il matrimonio per gruppi, che, secondo ogni probabilità, un
tempo esistì dapertutto, la tribù si scindeva in un numero di gruppi
consanguinei dal lato materno, in _genti_, nel cui interno vigeva
rigoroso il divieto di coniugarsi, sicchè gli uomini di una _gente_
potevano prendere, e ordinariamente prendevano, le loro donne entro
la tribù, ma dovevano prenderle fuori della loro _gente_. Se quindi
la _gente_ era rigorosamente esogama, la tribù, che abbracciava la
totalità delle _genti_, era altrettanto rigorosamente endogama. Con ciò
furono definitivamente stritolate le sottigliezze del Mac Lennan.

Ma Morgan non stette pago a queste conclusioni. La _gente_ degli
Indiani americani gli servi anche per fare il secondo passo decisivo
sul terreno da lui esaminato. In questa _gente_, organizzata secondo
il diritto materno, egli scoprì la forma primitiva, dalla quale si
sviluppò la _gente_ posteriore, organizzata secondo il diritto paterno,
la _gente_ quale noi la troviamo presso i popoli dell'antichità avviati
all'incivilimento. La _gente_ greca e romana, che era rimasta fin qui
un enigma per tutti gli storici, si trovò spiegata col fatto della
_gente_ indiana, e con ciò fu trovata una nuova base per tutta la
storia primitiva.

Questa nuova scoperta della _gente_ primitiva organizzata sul diritto
materno, come stadio che precede la _gente_ organizzata sul diritto
paterno dei popoli avviati a civiltà, ha, per la storia primitiva, la
medesima importanza che la teoria della evoluzione di Darwin ha per la
biologia, e la teoria del plusvalore di Marx per l'economia politica.
Essa diè modo al Morgan di abbozzare, per la prima volta, una storia
della famiglia, in cui, per quanto lo permette il materiale oggi noto,
sono fissati preliminarmente, in linea generale, i periodi classici
dell'evoluzione. Nessuno può disconoscere che con ciò si apre una
nuova èra nello stadio della storia primitiva. La _gente_ del diritto
materno è divenuta il cardine sul quale si aggira tutta questa scienza;
scoperta la gente, si può finalmente sapere in qual senso si debbano
dirigere le indagini e come si debba aggruppare quel che si viene
scoprendo. Gli è perciò che, dopo l'apparizione del libro del Morgan, i
progressi su questo campo sono diventati molto più rapidi.

Le scoperte del Morgan sono ora universalmente riconosciute dai
«preistorici» anche in Inghilterra: o meglio questi se le sono
appropriate. Ma in nessuno di essi, o quasi, si trova francamente
confessato che a Morgan si deve questa rivoluzione di idee. In
Inghilterra il suo libro si tiene occulto per quanto è possibile; si
loda, quasi con degnazione, l'autore per i suoi _precedenti_ lavori:
si spiluzzicano alcuni particolari della sua opera: ma si tacciono
ostinatamente le sue scoperte più importanti. _Ancient society_ è
esaurito nella edizione originale; in America, non c'è uno spaccio
rimuneratore per lavori di questo genere; in Inghilterra, pare che
il libro sia stato sistematicamente sepolto, e la sola edizione in
commercio di quest'opera che fa epoca, è... l'edizione tedesca.

D'onde questo riserbo, nel quale è difficile non scorgere una congiura
del silenzio, massime di fronte alle numerose citazioni di mera
cortesia e alle altre prove di _camaraderie_ di cui spesseggiano gli
scritti dei nostri storici in voga? Forse perchè Morgan è americano, e
perchè riesce duro ai «preistorici» inglesi, nonostante tutta la loro
commendevolissima diligenza nella raccolta del materiale, di dover
ricorrere a due geniali stranieri, Bachofen e Morgan, pei criterî
generali nell'ordinamento e nel raggruppamento di esso, ossia per le
idee? Passi pel tedesco, ma ricorrere a un americano! Di fronte agli
americani ogni inglese è patriota, e io ho veduti esempi curiosissimi
di questo fatto negli Stati Uniti. Si aggiunga che Mac Lennan è stato,
per così dire, il fondatore e il capo ufficialmente riconosciuto
della scuola preistorica inglese; che era, in certo qual modo, di _bon
ton_ nel mondo della letteratura preistorica, di parlare con la più
grande venerazione della sua artificiosa costruzione storica, per cui
dall'infanticidio si passa alla famiglia del diritto materno, traverso
alla poliandria e al ratto; che il menomo dubbio, sulla esistenza di
«tribù» esogame ed endogame escludentisi assolutamente, era considerato
come un'empia eresia: che quindi il Morgan, distruggendo questi dogmi
consacrati, commetteva una specie di sacrilegio. E, per giunta, egli
li distruggeva con argomenti la cui semplice esposizione bastava per
farne saltare immediatamente la verità agli occhi di tutti; sicchè gli
adoratori di Mac Lennan, che sin allora avevano barcollato e brancolato
tra esogamia ed endogamia, si dovevano quasi dar del pugno sulla fronte
esclamando: Come fummo così stupidi da non aver saputo, da noi stessi,
veder queste cose?!

E se tanti delitti non bastassero per vietare alla scuola ufficiale
qualsiasi atteggiamento che non fosse di freddo disdegno, Morgan colmò
la misura, non solo portando la critica sulla civiltà, sulla società
a produzione mercantile — forma fondamentale della nostra odierna
società — con un modo che ricorda il Fourier, ma parlando di una futura
trasformazione di questa società in termini che avrebbero potuto essere
usati anche da Carlo Marx. Ben meritò quindi che Mac Lennan gridasse
sdegnato «che il metodo storico gli era assolutamente antipatico»,
e che il professore Giraud-Teulon lo ripetesse in Ginevra nel 1884.
E tuttavia lo stesso signor Giraud-Teulon nel 1874 (_Origines de la
famille_) brancolava ancora disperato nel dedalo della esogamia Mac
Lenniana, dalla quale soltanto Morgan doveva liberarlo!

Quanto agli altri progressi che la storia primitiva deve al Morgan,
io non ho bisogno di esporli qui minutamente: nel corso del mio lavoro
si troverà quanto è necessario dire in proposito. I quattordici anni,
che passarono dalla pubblicazione della sua opera capitale, hanno
di molto arricchito il nostro materiale per la storia delle società
umane primitive. Agli antropologi, ai viaggiatori, ai «preistorici»
di professione, si sono aggiunti gli studiosi di diritto comparato;
e hanno portato alcuni nuovo materiale, altri nuovi punti di vista.
Perciò qualche ipotesi del Morgan ha vacillato, o è caduta addirittura.
Ma il nuovo materiale raccolto non ha condotto in nessuna parte a
soppiantare le sue grandi idee principali. L'ordine portato da lui
nella storia primitiva permane nei suoi tratti essenziali. Sì, si
può dirlo: quest'ordine viene sempre più universalmente accettato e
riconosciuto, quanto più si vuol celare il merito, che a lui spetta, di
essere l'autore di questo grande progresso scientifico[7].

  _Londra, 16 giugno 1891._

                                                     FEDERICO ENGELS.



                        L'origine della Famiglia

                        della Proprietà privata

                             e dello Stato



I. Stadî dell'evoluzione preistorica[8]


Morgan è il primo, che, con conoscenza di causa, cercò di apportare un
ordine preciso nelle nozioni della preistoria umana, e, sinchè un nuovo
materiale considerevolmente più ricco non costringa a cangiamenti, le
sue classificazioni rimarranno ben salde.

Delle tre epoche principali — stato selvaggio, barbarie, epoca civile
— evidentemente lo occupano soltanto le prime due e la transizione
alla terza. Egli suddivide ognuna delle due prime in tre stadii:
inferiore, medio e superiore, secondo i progressi della produzione
dei mezzi di sussistenza; perciocchè, egli dice, «l'abilità in questa
produzione è decisiva per stabilire il grado della superiorità e del
dominio dell'uomo sulla natura; di tutti gli esseri, solo l'uomo è
giunto a farsi padrone quasi assoluto della produzione degli alimenti.
Tutte le grandi epoche dell'umano progresso coincidono, più o meno
direttamente, con le epoche nelle quali furono arricchite le fonti
della sussistenza.» Lo sviluppo della famiglia procede di pari passo,
ma non offre alcun segno altrettanto caratteristico per la distinzione
dei periodi.


I. STATO SELVAGGIO.

1._ Stadio inferiore_. Infanzia del genere umano che, vivendo, almeno
in parte, sugli alberi (con che soltanto è spiegabile ch'esso abbia
potuto durare di fronte ai grandi animali da preda), dimorava ancora
nelle sue sedi originarie, le selve tropicali o subtropicali. Frutta,
noci, radici gli erano alimento; la elaborazione del linguaggio
articolato è prodotto essenziale di questo periodo. Di tutti i popoli
conosciuti nel periodo storico, nessuno apparteneva più a questo stadio
primitivo. Quantunque possa aver durato molti millennii, non ci è dato
dimostrarlo con prove dirette; ma, ammessa la discendenza dell'uomo dal
regno animale, non si può non ammettere questa transizione.


2. _Stadio medio_. Comincia coll'impiego dei pesci (tra i quali
noveriamo anche i granchi, le conchiglie ed altri animali acquatici)
pel nutrimento, e coll'uso del fuoco. Questi due fatti vanno insieme,
poichè solo il fuoco rende il pesce perfettamente commestibile. Ma, con
questo nuovo alimento, gli uomini divennero indipendenti dal clima e
dalla località; seguendo i fiumi e le coste, essi poterono diffondersi,
ancora nello stato selvaggio, sulla più gran parte della terra. Gli
strumenti di pietra grezza, rozzamente lavorati, della più remota
età della pietra, così detti paleolitici, che appartengono, tutti o
la più parte, a questo periodo e che si trovano diffusi per tutti i
continenti, costituiscono la prova di queste migrazioni. La occupazione
delle nuove zone, l'ininterrotto attivo stimolo di ricerca, insieme
al possesso del fuoco prodotto dalla confricazione, apportarono nuovi
alimenti, come: radici e tuberi fortemente amidacei, cotti nella cenere
calda o in forni scavati nella terra; selvaggina, che, coll'invenzione
delle prime armi, mazze e lance, divenne un eventuale complemento del
vitto. Popoli esclusivamente cacciatori, quali si descrivono nei libri,
viventi cioè di sola caccia, non ve n'ebbe mai, poichè il prodotto
della caccia è troppo malcerto.

Per la continua incertezza delle sussistenze, sembra allignare
in questo periodo l'antropofagia, che durerà poi lungo tempo. Gli
Australiani e molti Polinesiani stanno ancora oggi in questo stadio
medio dello stato selvaggio.


3. _Stadio superiore_. Comincia colla invenzione dell'arco e della
freccia, con che la selvaggina diviene alimento ordinario, e la caccia
uno dei rami normali del lavoro. Arco, corda e freccia formano già
un istrumento molto complesso, la cui invenzione presuppone lunga
esperienza accumulata, spirito acuto e conoscenza simultanea di molte
altre invenzioni. Infatti, se paragoniamo i popoli, che conoscono bensì
l'arco e la freccia, ma non ancora la ceramica (dalla quale Morgan
data il passaggio alla barbarie), noi troviamo qualche principio di
villaggi, un certo dominio sulla produzione delle sussistenze, vasi ed
arredi di legno, tessitura a mano, senza telaio, di fibre di corteccia,
canestri intrecciati di scorze o di vimini, strumenti di pietra
levigata (neolitici). Per lo più il fuoco e l'ascia di pietra han già
foggiato l'albero a piroga, e fornito, qua e là, travi e tavole per la
costruzione di case. Noi troviamo, per esempio, tutti questi progressi
presso gl'Indiani del Nord-ovest dell'America, che conoscono, sì,
l'arco e la freccia, ma non la ceramica. Per lo stato selvaggio l'arco
e la freccia furono quello che fu la spada di ferro per la barbarie, e
l'arme da fuoco per l'epoca civile: l'arme decisiva.


II. BARBARIE.

1. _Stadio inferiore_. Data dalla introduzione della ceramica. Questa,
verosimilmente in molti casi, e probabilmente dapertutto, è sorta dallo
spalmare con argilla i vasi intrecciati, o di legno, per renderli
incombustibili; con che trovossi bentosto, che l'argilla plasmata
rendeva lo stesso servizio anche senza il recipiente interno.

Fin qui, potemmo considerare il processo dell'evoluzione in un modo
affatto generale, come applicabile, per un dato periodo, a tutti
i popoli, senza riguardo alla località. Ma il sopraggiungere della
barbarie segna uno stadio, nel quale la diversa attitudine naturale
dei due grandi continenti acquista valore. Il momento caratteristico
del periodo della barbarie è l'addomesticamento e l'allevamento degli
animali e la coltura delle piante. Ora, il continente orientale, il
così detto vecchio mondo, possedeva tutti gli animali addomesticabili
e tutti i cereali coltivabili, tranne uno; l'occidentale, l'America,
dei mammiferi addomesticabili non aveva che il lama, e anche questo
soltanto in una parte del Sud, e di tutti i cereali coltivabili solo
uno, ma il migliore: il maiz. Queste differenti condizioni naturali
fanno sì che quindinnanzi la popolazione di ciascun emisfero segue il
suo corso particolare, e i diversi periodi vi sono segnati da limiti
speciali.


2. _Stadio medio_. Incomincia, nell'Est, coll'allevamento degli animali
domestici: nell'Ovest, colla coltura delle piante alimentari mercè
l'irrigazione e coll'uso di «adobi» (mattoni disseccati al sole) e di
pietre per costruzione.

Incomincieremo coll'Ovest, poichè quivi questo stadio, fino alla
conquista europea, non era stato varcato in nessun luogo.

Presso gl'Indiani dello stadio inferiore della barbarie, ai quali
appartenevano tutti quelli trovati all'est del Mississipi, esisteva
già al tempo della loro scoperta una certa coltura ortilizia del
maiz, e forse anche di zucche, melloni ed altri ortaggi, che forniva
un elemento molto importante della loro alimentazione; essi abitavano
case di legno, in villaggi cinti di palizzate. Le tribù del Nordovest,
particolarmente quelle della valle della Colombia, trovavansi ancora
allo stadio superiore dello stato selvaggio, e non conoscevano nè
ceramica, nè coltivazione di piante di qualsiasi specie. Invece
gl'Indiani dei così detti _Pueblos_ del Nuovo-Messico, i Messicani, gli
Americani del centro e i Peruviani del tempo della conquista, stavano
nello stadio medio della barbarie; essi abitavano case di «adobi» o di
pietra, costrutte a guisa di fortezze, coltivavano maiz e altre piante
alimentari, diverse secondo la località e il clima, in orti irrigati
industriosamente, che fornivano le sussistenze principali, e avevano
anche addomesticati alcuni animali, i Messicani il tacchino ed altri
volatili, i Peruviani il lama. Conoscevano inoltre la lavorazione dei
metalli ad eccezione del ferro, per lo che non potevano ancora fare
a meno degli strumenti e delle armi di pietra. La conquista spagnuola
troncò qualsiasi ulteriore sviluppo indipendente.

Nell'Est, il periodo medio della barbarie incominciò
coll'addomesticamento degli animali da carne e da latte, mentre la
coltivazione delle piante sembra esser rimasta sconosciuta per molto
tempo di questo periodo. L'addomesticamento e l'allevamento del
bestiame, e la formazione di grandi armenti, è ciò che sembra aver data
l'occasione agli Arii ed ai Semiti di separarsi dalla restante massa
dei barbari. Agli Arii europei ed asiatici sono ancora comuni i nomi
degli animali, ma quasi nessuno di quelli delle piante coltivabili.

La formazione di armenti avea per effetto di condurre i popoli a
scegliere i luoghi atti alla vita pastorale; presso i Semiti le
praterie dell'Eufrate e del Tigri, presso gli Arii quelle dell'India,
dell'Osso e del Iassarte, del Don e del Dnieper. È ai confini di
siffatte regioni ricche di pascoli che dev'essersi incominciato
l'addomesticamento del bestiame. Alle schiatte posteriori, i popoli
pastorali sembrano quindi provenienti da contrade, che, ben lungi
dall'essere la culla del genere umano, erano al contrario inabitabili
pei loro selvaggi antenati, ed anche per uomini dello stadio inferiore
della barbarie. Inversamente, non avrebbe potuto venir mai in mente
a questi barbari dello stadio medio, una volta abituati alla vita
pastorale, di abbandonare le pianure erbose ed irrigue, per tornare
alle selve dei loro antenati. Anzi, allorchè furono spinti più oltre
verso il Nord e l'Ovest, fu impossibile ai Semiti ed agli Arii di
innoltrarsi nelle contrade boscose dell'Europa e dell'Occidente
dell'Asia, prima che, colla coltivazione dei cereali, si fossero posti
in grado di nutrire il loro bestiame e sopratutto di svernare su questo
terreno meno favorevole. È più che probabile che la coltura dei cereali
vi ebbe origine dal bisogno di foraggi pel bestiame, e solo più tardi
divenne importante pel nutrimento umano.

È forse alla doviziosa alimentazione di carne e di latte, e
particolarmente alla sua favorevole azione sullo sviluppo dei bambini,
che è da ascriversi il preponderante sviluppo delle razze Aria e
Semitica. Sta in fatto che gl'Indiani dei _Pueblos_ del Nuovo Messico,
il cui vitto è quasi esclusivamente vegetale, hanno un cervello
più piccolo degl'Indiani dello stadio inferiore della barbarie, che
mangiano più carne e più pesce. Ad ogni modo, a questo stadio sparisce
a poco a poco l'antropofagia, e si conserva solo come cerimonia
religiosa, o, che è quasi lo stesso, come sortilegio.


3. _Stadio superiore_. Comincia colla fusione del minerale di ferro,
e passa nell'epoca civile, colla scoperta della scrittura alfabetica e
colla sua applicazione ad annotazioni letterarie. Questo stadio, che,
come si è detto, vien raggiunto in modo autonomo soltanto nell'emisfero
orientale, sorpassa nei progressi della produzione tutti i precedenti
presi insieme. Appartengono ad essi i Greci dei tempi eroici, le
tribù italiche di poco anteriori alla fondazione di Roma, i Germani di
Tacito, i Normanni del tempo dei Vikinghi.

Anzitutto ci si presenta qui il vomere di ferro tirato da animali,
che rese possibile la coltura in grande della terra, l'_agricoltura_,
e con ciò un incremento di sussistenze praticamente illimitato
per le condizioni di quei tempi; con ciò ancora i diboscamenti e
la trasformazione delle foreste in terreno coltivabile e in prati
— trasformazione impossibile in larga misura, prima che fossero
introdotte l'ascia e la vanga di ferro. Ma ciò produsse anche il rapido
aumento della popolazione, e il suo addensarsi su piccolo spazio. Prima
dell'agricoltura, solo condizioni eccezionalissime potevano fare che
una popolazione di un mezzo milione di uomini si riunisse sotto un
Governo centrale; e probabilmente ciò non era mai avvenuto.

Il maggior fiore dello stadio superiore della barbarie ci si presenta
nelle poesie omeriche, e sopratutto nell'Iliade. Complicati utensili
di ferro; il mantice; il mulino a mano; la ruota del vasaio; la
preparazione dell'olio e del vino; una lavorazione dei metalli
diventata artistica; la carretta e il carro da guerra; la costruzione
delle navi con assi e travi; gli inizii dell'architettura come arte;
città murate con torri e merli; l'epopea omerica e tutta la mitologia
— son questi i principali retaggi che i Greci portarono dalla barbarie
nell'epoca civile. Se confrontiamo con ciò le descrizioni che Cesare ed
anche Tacito fanno di quei Germani, che stavano alla soglia di quello
stesso stadio dell'evoluzione, dal quale i Greci omerici si accingevano
a passare in uno stadio superiore, vedremo quale ricchezza di sviluppo
della produzione contenga in sè lo stadio superiore della barbarie.

Il quadro dell'evoluzione dell'umanità attraverso lo stato selvaggio
e la barbarie sino ai principii dell'epoca civile, quadro che ho
qui abbozzato sulle tracce di Morgan, è già abbastanza ricco di
dati nuovi e, quel che più monta, incontestabili, perchè desunti
immediatamente dalla produzione. Nondimeno esso apparirà pallido e
meschino, paragonato con quello che si svolgerà alla fine della nostra
peregrinazione: soltanto allora sarà possibile porre in piena luce il
passaggio dalla barbarie all'epoca civile e il loro vivo contrasto. Noi
possiamo generalizzare intanto la classificazione di Morgan:

_Stato selvaggio_ — Periodo in cui prevale l'appropriazione dei
prodotti naturali; i prodotti dell'arte umana sono sopratutto utensili
necessari a quest'appropriazione.

_Barbarie_ — Periodo della pastorizia e dell'agricoltura,
dell'introduzione di metodi per l'incremento dei prodotti naturali
mercè l'attività umana.

_Epoca civile_ — Periodo in cui l'uomo apprende la ulteriore
lavorazione dei prodotti naturali, l'industria propriamente detta e
l'arte.



II. La famiglia


Morgan, che passò gran parte della sua vita tra gli Irocchesi che
anche ora hanno sede nello Stato di Nuova-York, e che fu adottato in
una delle loro tribù (quella dei Senecca), trovò in vigore fra essi un
sistema di parentela, che contraddiceva coi loro rapporti di famiglia
effettiva. Regnava tra essi quella specie di connubio individuale,
facilmente dissolubile dalle due parti, che Morgan designò come
_famiglia sindiasmica_ (dal greco συνδιαξω, accoppiarsi). La prole di
un tale connubio era quindi manifesta e riconosciuta da tutti; nissun
dubbio a chi dovessero applicarsi le qualifiche di padre, madre,
figlio, figlia, fratello, sorella. Ma ciò non ha riscontro nell'uso
effettivo di queste espressioni. L'Irocchese chiama suoi figli e sue
figlie non soltanto i suoi proprii figli, ma anche quelli dei suoi
fratelli; ed essi lo chiamano padre. Egli chiama invece nipoti i
figli delle sue sorelle, ed essi lo chiamano zio. Inversamente, la
Irocchese chiama suoi figli e sue figlie i figli proprii e quelli
delle sue sorelle, e questi la chiamano madre. Essa chiama invece suoi
nipoti i figli dei suoi fratelli, ed essi la chiamano zia. I figli dei
fratelli si chiamano quindi tra loro fratelli e sorelle; similmente i
figli delle sorelle. I figli di una donna e quelli dei suoi fratelli
si chiamano invece reciprocamente cugini. E questi non sono semplici
nomi, ma espressioni che racchiudono concetti reali di prossimità e di
lontananza, di eguaglianza e di disuguaglianza della consanguineità, e
servono di base a un sistema di parentela completamente elaborato, che
è in grado di esprimere parecchie centinaia di rapporti di parentela
differenti di un solo individuo. V'ha di più. Questo sistema non è
soltanto in pieno vigore presso tutti gl'Indiani americani (finora non
s'è trovata alcuna eccezione), ma vige anche quasi invariato presso
gli aborigeni dell'India, nelle tribù dravidiane del _Dekan_ e nelle
tribù _Gaura_ dell'Indostan. Le espressioni di parentela dei Tamili
nell'India del Sud, e degl'Irocchesi della tribù Senecca nello Stato
di Nuova-York, concordano ancora oggi per più di duecento diverse
designazioni di parentela. E anche fra queste tribù dell'India, come
fra tutti gl'Indiani americani, le relazioni di parentela, nascenti
dalla forma di famiglia in vigore, stanno in contraddizione col sistema
di parentela.

Come spiegare ciò? Dato il valore grandissimo della parentela
nell'ordinamento sociale di tutti i popoli selvaggi e barbari, non
si può con delle frasi distruggere l'importanza di un sistema tanto
diffuso. Un sistema, che è generalmente in vigore nell'America, che
esiste parimente nell'Asia presso popolazioni di razze affatto diverse,
del quale abbondano forme più o meno modificate dapertutto in Africa e
in Australia, vuol essere spiegato storicamente, non messo da parte con
delle frasi, come tentò per esempio il Mac Lennan. Le designazioni di
padre, figlio, fratello, sorella non sono semplici titoli d'onore, ma
importano doveri reciproci ben determinati e seriissimi, l'insieme dei
quali è parte essenziale della costituzione sociale di quei popoli. E
la spiegazione fu trovata. Alle isole Sandwich (Hawai) esisteva ancora
nella prima metà di questo secolo una forma di famiglia, che presentava
esattamente siffatti padri e madri, fratelli e sorelle, figli e figlie,
zii e nipoti, quali li suppone il sistema di parentela dei primitivi
Indiani dell'America. Ma, cosa strana! il sistema di parentela in
vigore in Hawai non concordava a sua volta colla forma di famiglia
ivi realmente esistente. Là, cioè, tutti i figli dei fratelli e delle
sorelle sono indistintamente fratelli e sorelle, e son ritenuti figli
comuni, non soltanto della loro madre e delle sue sorelle, o del loro
padre e dei suoi fratelli, ma di tutti i fratelli e di tutte le sorelle
dei loro genitori senza distinzione. Se dunque il sistema di parentela
americano presuppone una forma di famiglia primitiva che in America più
non esiste e che noi troviamo ancora realmente esistente nell'Hawai,
il sistema di parentela dell'Hawai ci rinvia, dal canto suo, a una
forma di famiglia ancor più primitiva, di cui certamente non possiamo
dimostrare più l'esistenza in nessun luogo, ma che dev'essere esistita,
poichè in caso diverso non avrebbe potuto nascere il corrispondente
sistema di parentela. «La famiglia — dice il Morgan — è l'elemento
attivo; essa non è mai stazionaria, ma progredisce da una forma
inferiore ad una superiore, a misura che la società si sviluppa da uno
stadio più basso ad uno più alto. I sistemi di parentela al contrario
sono passivi; solo a lunghi intervalli essi registrano i progressi
fatti dalla famiglia nel corso del tempo, e subiscono cangiamenti
radicali solo allorquando la famiglia si è radicalmente cangiata.» —
«E — aggiunge il Marx — questo è vero in generale anche dei sistemi
politici, giuridici, religiosi, filosofici.» Mentre la famiglia
progredisce, il sistema di parentela si ossifica, e mentre questo
si mantiene per consuetudine, la famiglia lo oltrepassa. Ma, colla
stessa sicurezza, colla quale il Cuvier, dalle ossa marsupiali di uno
scheletro di animale, trovate presso Parigi, potè stabilire che esso
era di un marsupiale, e che ivi un tempo erano vissuti dei marsupiali
ora estinti; colla stessa sicurezza noi possiamo indurre, da un sistema
di parentela storicamente pervenutoci, la precedente esistenza della
forma di famiglia estinta, ad esso corrispondente.

I sistemi di parentela e le forme di famiglia testè menzionati
differiscono da quelli ora dominanti in ciò, che ogni figlio ha più
padri e più madri. Nel sistema di parentela americano, al quale
corrisponde la famiglia dell'Hawai, il fratello e la sorella non
possono essere padre e madre dello stesso figliuolo: ma il sistema di
parentela dell'Hawai presuppone una famiglia, nella quale questa era
invece la regola. Eccoci ricondotti a una serie di forme di famiglia,
che contraddicono recisamente a quelle sinora ordinariamente ammesse
come le sole che siano esistite. Le idee correnti conoscono soltanto
il connubio individuale, allato ad esso la poligamia, e tutt'al più la
poliandria, e dissimulano, come si addice al moralista filisteo, che la
pratica, tacitamente ma con tutta disinvoltura, scavalca questi limiti
posti dalla società ufficiale. Lo studio della storia primitiva ci
presenta invece condizioni, nelle quali gli uomini vivono in poligamia,
e le loro mogli contemporaneamente in poliandria, e i figli comuni sono
quindi considerati come comuni a tutti loro; condizioni che percorrono
a loro volta tutta una serie di cangiamenti sino al loro definitivo
risolversi nel connubio individuale. Questi cangiamenti sono tali, che
il circolo del vincolo coniugale comune, larghissimo da principio, si
restringe sempre più, finchè alla fine lascia sussistere soltanto la
coppia unica, che oggi predomina.

Ricostruendo così a ritroso la storia della famiglia, Morgan, d'accordo
in ciò colla più parte dei suoi colleghi, arriva ad uno stato
primitivo, nel quale regnava nella tribù la promiscuità completa,
sicchè ogni donna apparteneva ad ogni uomo, ed ogni uomo egualmente
ad ogni donna. Di un tale stato primitivo già si è parlato fin dal
secolo scorso, ma soltanto con frasi generiche; Bachofen pel primo,
ed è questo uno dei suoi grandi meriti, lo prese sul serio e ne cercò
tracce nelle tradizioni storiche e religiose. Noi sappiamo oggi, che
queste tracce da lui rinvenute non riconducono affatto a un periodo
sociale di illimitata promiscuità sessuale; ma ad una forma molto
posteriore, al matrimonio per gruppi. Quel periodo sociale primitivo,
se effettivamente ha esistito, appartiene ad un'epoca così remota, che
difficilmente possiamo sperare di trovarne prove _dirette_ nei fossili
sociali, presso i selvaggi più arretrati. Il gran merito di Bachofen
sta appunto nel l'aver portato tale questione al primo posto delle
nostre indagini[9].

Venne di moda testè di negare questo periodo iniziale della vita
sessuale dell'uomo. Si vuol risparmiare questa «vergogna» all'umanità.
E per ciò si fa valere non soltanto il difetto di qualsiasi prova
diretta, ma anche l'esempio del rimanente mondo animale. LETOURNEAU
(_Évolution du mariage et de la famille_, 1888) ne ricava numerosi
fatti, secondo i quali una promiscuità sessuale assolutamente
illimitata non apparterrebbe che alle infime specie. Ma da tutti questi
fatti io posso trarre soltanto l'illazione, che essi non provano
assolutamente nulla per l'uomo e per le sue relazioni nella vita
primitiva. I connubii a lungo termine fra i vertebrati si spiegano
sufficientemente con cause fisiologiche; per esempio, negli uccelli,
col bisogno di aiuto che hanno le femmine durante la covatura; nè gli
esempi di fedele monogamia, che si trovano presso gli uccelli, provano
alcunchè per gli uomini, appunto perchè questi non discendono dagli
uccelli. E se la stretta monogamia fosse il culmine di ogni virtù,
la palma ne spetterebbe al tenia, che, in ognuno dei suoi da 50 a
200 proglottidi o sezioni, possiede un completo apparato sessuale
femminile e maschile, e passa tutta la vita ad accoppiarsi con sè
stesso in ognuna di queste sezioni. Ma, se ci limitiamo ai mammiferi,
noi troviamo in essi tutte le forme della vita sessuale; promiscuità,
principi di matrimonio per gruppi, poligamia, connubio individuale; non
manca che la poliandria, la quale non era possibile che agli uomini.
Anche i nostri più prossimi parenti, i quadrumani, ci offrono tutte
le possibili varietà di aggruppamenti di maschi e di femmine; e, se ci
teniamo in limiti ancor più angusti, e consideriamo soltanto le quattro
scimmie antropomorfe, Letourneau ci sa dire soltanto che esse ora sono
monogame, ora poligame, mentre Saussure, citato da Giraud-Teulon, le
dichiara monogame. Anche le affermazioni più recenti, di WESTERMARCK
(_The History of Human Marriage_, London 1891), sulla monogamia delle
scimmie antropomorfe, sono ancora ben lungi dall'essere una prova.
Insomma, i ragguagli sono tali, che Letourneau sinceramente ammette:
«che non vi ha, del resto, tra i mammiferi alcun rigoroso rapporto tra
il grado dello sviluppo intellettuale e la forma dell'unione sessuale».
Ed ESPINAS (_Des sociétés animales_, 1877) dice addirittura: «L'orda
è il gruppo sociale più elevato, che possiamo osservare negli animali.
Essa è, _a quanto sembra_, composta di famiglie, ma sin dal principio
_la famiglia e l'orda stanno in antagonismo_, esse si sviluppano in
rapporto inverso.»

Noi non sappiamo dunque quasi nulla di determinato sugli aggruppamenti
famigliari o altri aggruppamenti sociali delle scimmie antropomorfe;
le notizie che ne abbiamo si contraddicono diametralmente. E non è
meraviglia, quando si consideri come sono contraddittorie e quanto
bisogno hanno del vaglio critico anche le notizie che possediamo sulle
tribù umane allo stato selvaggio; e si rifletta quanto più difficili
da osservarsi siano le società delle scimmie a paragone delle umane.
Sinchè dunque non avremo dati maggiori, ci è forza rinunciare a
qualsiasi conclusione in proposito.

Al contrario, il passo citato dell'Espinas ci offre una base migliore.

Orda e famiglia non sono, negli animali superiori, complementi
reciproci, ma sono in antitesi. Espinas dimostra molto bene come
la gelosia dei maschi nel tempo degli amori rallenta o dissolve
temporaneamente ogni orda sociale. «Dove la famiglia è molto
strettamente unita, non si formano le orde se non come rare eccezioni.
Dove invece esiste la promiscuità sessuale e la poligamia, l'orda
nasce quasi da sè.... Perchè nasca un'orda, devono essere rallentati
i vincoli di famiglia e l'individuo deve ridivenir libero. Gli è
perciò che negli uccelli troviamo così raramente orde organizzate...
Nei mammiferi invece troviamo società più o meno organizzate, appunto
perchè qui l'individuo non scompare nella famiglia.... La coscienza
collettiva dell'orda non può quindi avere, al suo nascere, un peggiore
nemico della coscienza collettiva della famiglia. Non esitiamo ad
affermarlo: se si è sviluppata una forma di società più elevata della
famiglia, ciò non può essere avvenuto che incorporando in sè famiglie
già profondamente alterate; il che non esclude che queste famiglie
trovassero in ciò la possibilità di ricostituirsi poi in circostanze
molto più favorevoli.» (ESPINAS, _loco citato_, da GIRAUD-TEULON,
_Origines du mariage et de la famille_, 1884, pag, 518-520).

Noi vediamo dunque, che le società degli animali possono avere, senza
dubbio, un certo valore per le conclusioni da dedurre relativamente
alle società umane, ma solo un valore negativo. Per quanto ci consta,
l'animale vertebrato superiore non conosce che due forme di famiglia:
poligamia o unione di coppie isolate; in ambo i casi non vi è se
non un maschio adulto, _uno_ sposo solo. La gelosia del maschio, che
è insieme legame e limite della famiglia, pone la famiglia animale
in antitesi con l'orda; l'orda, la forma sociale superiore, è qua
resa impossibile, là indebolita o distrutta durante gli amori, nel
migliore dei casi, ostacolata nei suoi ulteriori sviluppi, dalla
gelosia del maschio. Questo già basta a provare che famiglia animale
e società umana primitiva sono cose senza nesso fra loro; che i primi
uomini, che si elevarono dall'animalità, o non conobbero famiglia
di sorta, o tutt'al più ne conobbero una forma che non si rinviene
fra gli animali. Un animale così inerme come il futuro uomo poteva,
a rigore, in piccolo numero cavarsi d'impaccio anche nello stato di
isolamento, quello stato in cui la più elevata forma sociale è la
coppia isolata quale viene attribuita, sulla fede dei cacciatori,
dal Westermarck al gorilla e allo schimpanzé. Ma per elevarsi
dall'animalità, per effettuare il più grande progresso che si vegga in
natura, occorreva un altro elemento: occorreva compensare il difetto
della forza difensiva dell'uomo isolato, con la unione delle forze e
la cooperazione dell'orda. Con rapporti sociali simili a quelli delle
scimmie antropomorfe, non si spiegherebbe la transizione all'umanità;
queste scimmie pajono piuttosto linee collaterali deviate, regredienti
e probabilmente destinate a poco a poco a perire. Questo basta a farci
respingere qualsiasi parallelo tra le loro forme di famiglia e quelle
dell'uomo primitivo. Ma la reciproca tolleranza dei maschi adulti,
l'assenza di gelosia, era la prima condizione perchè si potessero
formare cotesti grandi e stabili gruppi, per mezzo de' quali soltanto
si poteva effettuare il passaggio dall'animalità all'umanità. E,
infatti, qual'è la forma di famiglia più antica e primitiva, di cui
la storia ci mostra inconfutabilmente l'esistenza, e che, quà e là,
possiamo ancora oggi studiare? Il connubio per gruppi, la forma nella
quale interi gruppi di uomini e interi gruppi di donne si posseggono
mutuamente e che lascia ben poco campo alla gelosia. E di più, noi
troviamo, a uno stadio posteriore di sviluppo, la forma eccezionale
della poliandria, che esclude assolutamente qualsiasi senso di gelosia
ed è quindi sconosciuta agli animali. Ma poichè le forme a noi note del
connubio per gruppi sono accompagnate da condizioni così singolarmente
complicate, che ci riconducono di necessità a forme anteriori più
semplici dei rapporti sessuali, e quindi, in ultima analisi, a un
periodo di promiscuità assoluta, corrispondente alla transizione
dall'animalità all'umanità; così il richiamo alle unioni degli
animali non vale che a ricondurci al punto dal quale ci avrebbe dovuto
allontanare per sempre.

Che cosa significa dunque: promiscuità sessuale senza regole? Significa
questo solo: che le regole o limitazioni, in vigore oggi o in un epoca
anteriore, allora non esistevano. Noi abbiamo già veduto cadere le
barriere della gelosia. Se c'è qualche cosa di certo, è che la gelosia
è un sentimento sviluppatosi relativamente tardi. Lo stesso è da dirsi
dell'idea di incesto. Non soltanto, nell'epoca primitiva, fratello e
sorella erano marito e moglie, ma oggi ancora la pratica sessuale tra
genitori e figli è in vigore presso molti popoli. BANCROFT (_The Native
Races of the Pacific Coast of North America_, 1875, vol. I) attesta
questo dei _Caviati_ sulla strada di Behring, dei _Cadiachi_ presso
Alaska, dei _Tinneh_ nell'interno del Nord America inglese; Letourneau
raccoglie ragguagli di questo stesso fatto tra i _Chippeways_ indiani,
i _Cucù_ del Chili, i _Caraibi_, i _Karens_ del fondo dell'India;
senza parlare delle narrazioni degli antichi Greci e Romani sopra i
Parti, i Persiani, gli Sciti, gli Unni, ecc. Prima che si inventasse
l'incesto (poichè esso è una vera invenzione, e delle più preziose) il
rapporto sessuale fra genitori e figli non poteva fare più scandalo del
rapporto sessuale fra persone appartenenti a due diverse generazioni.
Quest'ultimo si dà ancor oggi, nei paesi i più spigolistri, senza
destar grande orrore; zitellone di oltre 60 anni sposano pure, se
abbastanza ricche, giovanotti che rasentano i trenta. Ma se, dalle
forme di famiglia le più primitive che noi conosciamo, stacchiamo le
idee d'incesto che vi sono connesse, idee affatto diverse dalle nostre
e spesso anzi in diretta contraddizione con esse, eccoci ad una forma
di rapporto sessuale che non si può qualificare se non come «senza
regole»; e lo è nel senso che non esistono ancora le restrizioni
imposte poi dall'uso. Ma non è vero che da ciò venga necessariamente,
nella pratica quotidiana, un orribile caos. Le unioni temporanee in
singole coppie non sono punto escluse, tanto che, anche nel connubio
per gruppi, esse formano la maggioranza dei casi. E se colui che più
recentemente ha negato questo stato primitivo di cose, il Westermarck,
designa come matrimonio ogni stato, in cui due esseri di diverso sesso
rimangono uniti sino alla nascita del rampollo, ben è da dirsi che
questa specie di matrimonio poteva benissimo avverarsi nello stadio
della promiscuità senza contraddire ad essa, cioè alla mancanza di
regole fisse imposte dall'uso alle relazioni sessuali, Westermarck
parte senza dubbio dal concetto che «la mancanza di regole (o la
promiscuità) implica la compressione delle inclinazioni individuali»,
talchè «la prostituzione ne è la forma più genuina». A me pare
piuttosto che rimane impossibile ogni intelligenza dello stato di cose
primitivo finchè lo si guardi con la lente del lupanare.

Ma ritorniamo al connubio per gruppi. Secondo il Morgan, da questo
stato primitivo di rapporti sessuali senza regole, si sviluppò
probabilmente molto presto:

1.º _La famiglia consanguinea_ (_Blutsverwandtschaftsfamilie_),
primo stadio della famiglia. Qui i gruppi conjugali sono distinti per
generazioni: tutti i nonni e tutte le nonne, nei limiti della famiglia,
sono tra loro mariti e mogli, così pure i loro figli, cioè i padri e
le madri; i costoro figli formeranno a loro volta un terzo circolo di
sposi comuni, e i figli di questi ultimi, i pronipoti dei primi, un
quarto. In questa forma di famiglia sono quindi reciprocamente esclusi
dai diritti e dai doveri (come diremmo noi) del matrimonio, soltanto
predecessori e successori, genitori e figli. I fratelli e le sorelle,
i cugini e le cugine di 1.º, di 2.º e di qualsiasi altro grado più
lontano sono tutti fratelli e sorelle tra loro e, _appunto perciò_,
sono tutti marito e moglie l'uno dell'altro. Il rapporto di fratello
e sorella implica, per sè stesso in questo stadio, la pratica sessuale
reciproca[10]. La forma tipica di una tale famiglia consisterebbe nella
discendenza di una coppia, nella quale, a loro volta, i discendenti
di ogni singolo grado sono tutti fratelli e sorelle, e appunto perciò
mariti e mogli tra loro.

La famiglia consanguinea è scomparsa. Anche i popoli più rozzi, dei
quali narra la storia, non ne offrono alcun esempio. Ma come essa
debba aver esistito, ci costringe ad ammetterlo il sistema di parentela
dell'Hawai, ancora oggi in vigore in tutta la Polinesia, che esprime
gradi di parentela consanguinea, quali possono nascere soltanto da
cotesta forma di famiglia; ci costringe ad ammetterlo tutto l'ulteriore
sviluppo della famiglia, che presuppone quella forma come primo stadio
necessario.

2.º _La famiglia punalua_. Se il primo progresso dell'organizzazione
consistette nell'escludere dalla pratica sessuale reciproca i
genitori ed i figli, il secondo consistette nell'escluderne le
sorelle e i fratelli. Questo progresso, stante la maggior eguaglianza
d'età degl'interessati, fu infinitamente più importante, ma anche
più difficile; esso si effettuò gradatamente, incominciando colla
esclusione dal rapporto sessuale dei fratelli e delle sorelle
carnali[11] (cioè dal lato materno), dapprima in casi particolari,
divenendo regola a poco a poco (nell'Hawai avvenivano eccezioni ancora
in questo secolo), e terminando col divieto del connubio perfino tra
fratelli e sorelle collaterali, cioè, giusta la nostra designazione,
tra figli, nipoti e pronipoti dei fratelli e delle sorelle; esso forma,
secondo Morgan, «una eccellente illustrazione dell'azione del principio
della selezione naturale». Non v'ha dubbio che le tribù, nelle quali
il matrimonio tra consanguinei (_Inzucht_) venne limitato da questo
progresso, dovettero svilupparsi più rapidamente e più completamente
di quelle, nelle quali il matrimonio tra fratelli e sorelle restava
regola e legge. E quanto fosse sentita l'azione di questo progresso, lo
prova la istituzione della _gente_, che scaturì direttamente da esso
e che, oltrepassando di gran lunga il suo primo scopo, formò la base
dell'ordinamento sociale della maggior parte, se non di tutti, i popoli
barbari della terra, e dalla quale noi entriamo immediatamente, in
Grecia come in Roma, nel periodo della civiltà.

Ogni famiglia primitiva dovette scindersi al più tardi nel corso di due
o tre generazioni. La economia domestica comunistica originaria, che
perdura senza eccezione fino in pieno mezzo della barbarie, stabiliva
una grandezza massima della comunità di famiglia, varia secondo le
circostanze, ma supergiù determinata per ciascuna località. Appena
sorse l'idea della sconvenienza dell'unione sessuale tra figli di
una stessa madre, essa dovette agire sulle divisioni delle antiche
comunità domestiche e sulla fondazione delle nuove (che però non
coincidevano necessariamente coi gruppi di famiglie). Una o più serie
di sorelle divennero il nucleo dell'una, i loro fratelli carnali quello
dell'altra. Così, o analogamente, dalla famiglia consanguinea scaturì
la forma da Morgan denominata «famiglia punalua».

Secondo l'uso dell'Hawai, un dato numero di sorelle, carnali o di
grado più lontano (cioè cugine di 1.º, di 2.º o di qualsiasi altro
grado) erano le mogli comuni dei loro mariti comuni, ma dai quali
venivano esclusi i loro fratelli; ora questi mariti non si chiamavano
più vicendevolmente fratelli, nè in realtà occorreva che lo fossero,
ma punalua, cioè intimi compagni o associati. Così pure una serie
di fratelli carnali o di più lontano grado avevano un dato numero
di mogli, non loro sorelle, in matrimonio comune, e queste mogli
si chiamavano tra loro _punalua_. Questa la forma classica di una
disposizione di famiglie, che comportò posteriormente una serie di
variazioni, e il cui tratto caratteristico essenziale era: comunità
reciproca dei mariti e delle mogli in un determinato circolo di
famiglia, dal quale però erano esclusi i fratelli delle mogli, prima i
fratelli carnali, poi anche quelli più lontani, e inversamente del pari
le sorelle dei mariti.

Questa forma di famiglia ci presenta colla maggior precisione i gradi
di parentela, quali li esprime il sistema americano. I figli delle
sorelle di mia madre sono anche figli di lei, come pure i figli dei
fratelli di mio padre sono altresì suoi figli, ed essi sono tutti miei
fratelli e mie sorelle; ma i figli dei fratelli di mia madre sono suoi
nipoti, i figli delle sorelle di mio padre sono nipoti di mio padre, ed
essi tutti sono miei cugini e mie cugine. Perciocchè, mentre i mariti
delle sorelle di mia madre sono tuttavia suoi mariti, e così pure le
mogli dei fratelli di mio padre sono ancora sue mogli — di diritto, se
non sempre di fatto —; il divieto sociale della pratica sessuale tra
fratelli e sorelle ha diviso in due classi i figli dei fratelli e delle
sorelle, trattati sinora come fratelli e sorelle senza distinzione:
gli uni rimangono, dopo come prima, fratelli e sorelle (più lontani)
tra loro; gli altri, i figli, qui del fratello, là della sorella, non
possono essere più a lungo fratelli e sorelle, non possono più avere
comuni genitori, nè il padre, nè la madre, nè ambidue, e perciò diviene
per la prima volta necessaria la classe dei nipoti e delle nipoti,
dei cugini e delle cugine, che non avrebbe avuto senso nel passato
ordinamento di famiglia. Il sistema di parentela americano, che sembra
affatto assurdo in qualsiasi forma di famiglia basata sul connubio
individuale di qualunque specie, viene spiegato razionalmente e trovasi
naturalmente motivato, sin nelle più piccole particolarità, per mezzo
della famiglia _punalua_. Fin dove si è trovato diffuso questo sistema
di parentela, almeno fino lì dev'essere anche esistita la famiglia
_punalua_, o una forma analoga.

È verosimile che questa forma di famiglia, dimostrata effettivamente
esistente in Hawai, sarebbe stata dimostrata egualmente in tutta la
Polinesia, se i pii missionarii, come un tempo i monaci spagnuoli in
America, avessero saputo vedere in siffatti rapporti anticristiani
qualcosa più di un semplice _abominio_[12]. Quando Cesare ci narra dei
Britanni, che si trovavano allora nello stadio medio della barbarie:
«essi hanno le loro mogli in comune fra dieci o dodici di loro, e
sovente fratelli con fratelli e genitori con figli» — ciò si spiega
nel miglior modo come connubio per gruppi. Quelle madri barbare non
avevano 10 o 12 figli in età da poter tenere mogli in comune, ma
il sistema di parentela americano, che corrisponde alla famiglia
_punalua_, offre molti fratelli, perchè tutti i cugini prossimi e
lontani di un uomo sono suoi fratelli. Il «genitori con figli» può
essere un falso concetto di Cesare; non è però assolutamente escluso,
in questo sistema, che padre e figlio, o madre e figlia, possano
trovarsi nel medesimo gruppo matrimoniale, sibbene è escluso che
possano trovarvisi padre e figlia, o madre e figlio. Questa, od altra
analoga forma di famiglia del connubio per gruppi, presenta del pari
la più ovvia spiegazione dei racconti di Erodoto e di altri antichi
scrittori sulla comunione delle donne presso le popolazioni selvagge
e barbare. Famiglia _punalua_ deve anch'essere quella che _Watson_ e
_Kave_ (_The People of India_) raccontano dei _Tikurs_ dell'_Audh_ (al
nord del Gange): «Essi convivono (intendasi sessualmente) quasi senza
distinzione in grandi comunità, e, se due persone passano come coniugi,
il legame non è che nominale».

Direttamente dalla famiglia _punalua_ sembra uscita, nella grande
generalità dei casi, la istituzione della _gente_. In verità il sistema
di classi australiano ci offre un altro punto di partenza, dal quale
poteva svilupparsi questa istituzione; gli Australiani hanno _genti_,
ma non hanno ancora una famiglia _punalua_, bensì una forma più
grossolana del connubio per gruppi.

In tutte le forme della famiglia per gruppi, è incerto il padre di un
bambino, ma la sua madre è certa. Sebbene chiami suoi figli tutti figli
della famiglia collettiva ed abbia per essi doveri materni, tuttavia
essa distingue i suoi propri figli. È quindi chiaro che, finchè esiste
connubio per gruppi, la discendenza non può dimostrarsi che dal lato
materno, e quindi non è riconosciuta che la linea femminile. È questo
infatti il caso presso tutt'i popoli selvaggi e appartenenti allo
stadio inferiore della barbarie; ed averlo scoperto pel primo, è il
secondo grande merito di Bachofen. Egli designa questo riconoscimento
esclusivo della discendenza materna, e i rapporti ereditarii che col
tempo nascono da esso, col nome di «diritto materno». Per brevità
io conservo questo nome, ma esso è inesatto, poichè, a questo stadio
sociale, non può ancora parlarsi di «diritto» nel senso giuridico.

Se della famiglia _punalua_ prendiamo ora uno dei due gruppi-modello,
cioè quello di una serie di sorelle carnali e di grado più lontano
(cioè a dire discendenti in primo, in secondo o in un grado più
remoto da sorelle carnali) insieme ai loro figli e ai loro fratelli
carnali o di grado più remoto dal lato materno (che, secondo la nostra
presupposizione, non sono loro mariti), noi abbiamo appunto il circolo
delle persone, che appariscono più tardi come membri di una _gente_
nella prima forma di questa istituzione. Essi tutti hanno uno stipite
materno comune, e, in virtù di questa origine, le figlie formano
generazioni di sorelle. Ma i mariti di queste sorelle non possono esser
più i loro fratelli, non possono cioè discendere da questo stipite
materno, e quindi non possono appartenere al gruppo consanguineo, alla
futura _gente_; però i loro figli appartengono a questo gruppo, poichè
la discendenza dal lato materno è la sola decisiva, essendo la sola
certa. Una volta stabilito il divieto dell'unione sessuale fra tutti i
fratelli e tutte le sorelle, compresi i più lontani parenti collaterali
dal lato materno, il suddetto gruppo si è anche trasformato in una
_gente_, si è Costituito cioè come un circolo fisso di consanguinei
di linea femminile, che non possono più sposarsi tra loro, e che
quindinnanzi si consolida sempre più con altre istituzioni comuni
sociali e religiose ed è distinto dalle altre _genti_ della stessa
tribù. Di ciò particolareggiatamente più tardi. Ma quando troviamo, che
necessariamente, spontaneamente, la _gente_ si sviluppa dalla famiglia
_punalua_, noi siamo obbligati ad ammettere la pristina esistenza di
questa forma di famiglia come quasi certa per tutti quei popoli, presso
i quali sono dimostrabili istituzioni gentili, cioè a un di presso per
tutti i barbari e per tutti i popoli avviati a civiltà.

Quando Morgan scrisse il suo libro, le nostre nozioni intorno al
connubio per gruppi erano ancora molto limitate. Avevasi qualche
conoscenza del connubio per gruppi degli Australiani organizzati in
classi; inoltre Morgan, fin dal 1871, aveva pubblicate le notizie
che possedeva sulla famiglia punalua dell'Hawai. La famiglia punalua
forniva, da un lato, la completa spiegazione del sistema di parentela
dominante tra gli Indo-americani, che era stato per Morgan il punto
di partenza di tutte le sue indagini, e dall'altro, il vero punto
di derivazione della gente a diritto materno; essa rappresentava
poi un grado di sviluppo molto più elevato delle classi australiane.
Era quindi comprensibile che Morgan la concepisse come lo stadio di
sviluppo che precede immediatamente quello del connubio sindiasmico
e le attribuisse una generale diffusione nei tempi anteriori. Dopo
d'allora, noi imparammo a conoscere una serie di altre forme di
connubio per gruppi, e sappiamo ora che a questo proposito Morgan
andò troppo oltre. Ma egli ebbe pur sempre la fortuna di trovare nella
sua famiglia punalua la forma più elevata e classica del connubio per
gruppi, quella forma dalla quale si spiega nel modo più semplice la
transizione a una forma superiore.

Il più essenziale contributo alla conoscenza del connubio per gruppi
lo dobbiamo al missionario inglese Lorimer Fison, che per lunghi
anni studiò questa forma di famiglia sul suo terreno classico, in
Australia. Egli rinvenne il più basso grado di sviluppo presso i negri
del monte _Gambier_ nell'Australia meridionale. Qui tutta la tribù è
divisa in due grandi classi, _Kroki_ e _Kumiti_. I rapporti sessuali
in ciascuna di queste classi sono rigorosamente vietati; invece ogni
uomo di una classe è lo sposo nato di ogni donna dell'altra classe, e
reciprocamente. Non gli individui, ma gli interi gruppi son conjugati
tra loro, classe con classe. E, si noti, qui non è fatta in nessun
luogo riserva alcuna per differenze di età o per consanguineità
speciali, salvo quella che risulta dalla separazione in due classi
esogame. Un _Kroki_ ha per sposa legittima ogni donna _Kumite_; e
poichè la sua propria figlia, come figlia di una donna _Kumite_, è,
giusta il diritto materno, anche _Kumite_, essa è con ciò la sposa
nata di ogni _Kroki_, quindi anche del suo proprio padre. Almeno,
l'organizzazione di classe, quale ci si presenta, non pone a ciò alcun
ostacolo. O quindi questa organizzazione è nata in un tempo, in cui,
malgrado il vago istinto di frenare il connubio tra consanguinei, non
si trovava ancora nulla di particolarmente abbominevole nell'unione
sessuale tra genitori e figli; e in questo caso il sistema delle
classi sarebbe nato direttamente da uno stato di assoluta promiscuità
sessuale. Ovvero il rapporto sessuale tra genitori e figli era già
vietato dall'uso quando nacquero le classi; e allora lo stato attuale
richiama la famiglia consanguinea ed è il primo passo per uscirne.
Quest'ultima ipotesi è la più probabile. Per quanto mi consta, non si
hanno dall'Australia esempi di connubio tra genitori e figli, e anche
la posteriore forma della esogamia, la _gente_ a diritto materno,
presuppone di regola il tacito divieto di questa pratica, come vigente
all'epoca della sua fondazione.

Il sistema delle _due_ classi, oltre che al Monte _Gambier_
nell'Australia meridionale, si trova anche sul fiume _Darling_ più
all'est, e, al nord-est, nel _Queensland_; esso è quindi molto diffuso.
Questo sistema esclude soltanto i connubii tra fratelli e sorelle,
tra figli di fratelli e tra figli di sorelle dal lato materno, perchè
questi appartengono alla stessa classe; al contrario, i figli di
sorella e fratello possono sposarsi. Un altro passo diretto a impedire
l'unione fra consanguinei noi lo troviamo presso i _Kamilaroi_ sul
fiume _Darling_ nella Nuova Galles meridionale, dove le due classi
originarie sono suddivise in quattro, e ognuna di queste ultime si
sposa in massa con un'altra. Quelli delle prime due classi sono sposi
nati tra loro; ma, secondo che la madre apparteneva alla prima o alla
seconda, i figli passano alla terza o alla quarta; i figli di queste
due classi, pure conjugate tra loro, appartengono di nuovo alla prima
e alla seconda. Sicchè sempre una generazione appartiene alla prima e
alla seconda classe, la successiva alla terza e alla quarta, quella
che segue ritorna alla prima e alla seconda. E i figli di fratelli
e sorelle (in linea materna) non possono essere marito e moglie, ma
i nipoti di fratelli e sorelle lo possono. Quest'ordinamento così
complicato è reso ancora più complicato dall'innesto, — che avviene
in seguito — delle _genti_ a diritto materno, ma noi non possiamo
addentrarvici. Si vede tuttavia che il bisogno d'impedire l'unione di
consanguinei si fa sentire continuamente, ma si va a tentoni e senza
chiara coscienza dello scopo.

Il connubio per gruppi, che ivi, in Australia, è ancora matrimonio
di classi, un connubio in massa di tutta una classe di uomini, sparsa
sovente sopra l'intero continente, con una classe di donne altrettanto
diffusa — questo connubio per gruppi, visto da vicino, non si presenta
così abbominevole, come se lo immagina la fantasia di un filisteo
abituato al regime dei bordelli; al contrario per lunghi anni se ne
sospettò a malapena l'esistenza, e anche di recente essa venne di nuovo
messa in dubbio. All'osservatore superficiale esso si presenta come un
connubio individuale dal vincolo molto rilassato, con allato, quà e là,
della poligamia e qualche infedeltà occasionale. Bisogna impiegare anni
e anni, come fecero Fison e Howitt, per scoprire in questi rapporti
conjugali — che nella loro pratica ricordano piuttosto agli Europei
ordinarii i patrii costumi — per scoprirvi la legge regolatrice, giusta
la quale il negro australiano straniero, lontano migliaia di chilometri
dalla sua patria, tra persone il cui linguaggio gli è ignoto, trova,
e non di rado da un accampamento a un altro accampamento, da una
ad un'altra tribù, donne che si danno a lui di buon grado e senza
riluttanza; la legge, in omaggio alla quale chi ha più donne ne cede
una all'ospite per la notte. Dove l'Europeo vede assenza di leggi e di
costumi, regna in fatto una legge rigorosa. Le donne appartengono alla
classe conjugale dello straniero e sono perciò sue spose nate; quella
medesima legge consuetudinaria che intreccia i loro destini vieta,
sotto pena d'infamia, qualsiasi rapporto sessuale al di fuori delle
classi coniugali che si appartengono a vicenda. Anche ove impera il
ratto delle donne, che spesso e in molti luoghi è la regola, la legge
delle classi è rigorosamente osservata.

Del resto, nel ratto delle donne si accenna già una traccia del
passaggio al connubio individuale, almeno nella forma del connubio
sindiasmico: quando il giovane, coll'aiuto degli amici, ha rapito e
condotto via la ragazza, essa si dà a tutti per turno, ma è considerata
di poi come la moglie del giovane che ha promosso il ratto. E,
inversamente, se la donna rapita fugge dal marito ed è accolta da un
altro, essa diviene moglie di quest'ultimo e il primo ha perduto il suo
privilegio. Perciò, dentro ed accanto al connubio per gruppi, che pur
continua in generale ad esistere, si formano rapporti di esclusività,
connubii a tempo più o meno lungo, allato alla poligamia[13]; sicchè il
connubio per gruppi anche qui è in decadenza, e si tratta soltanto di
sapere chi, sotto l'influenza europea, sparirà prima dalla scena: se il
connubio per gruppi, o i negri australiani che lo praticano.

Il conjugio fra intere classi, quale esiste in Australia, è in ogni
caso una forma molto bassa e primitiva del connubio per gruppi, mentre
la famiglia _punalua_, per quanto sappiamo, è il suo più alto grado di
sviluppo. Il primo sembra la forma corrispondente allo stato sociale
dei selvaggi erranti, il secondo presuppone già società comunistiche
con sede relativamente stabile e conduce, senza transizione, allo
stadio di sviluppo immediatamente superiore. Tra i due, si troveranno
di certo altri periodi intermedii; è questo un campo d'indagini appena
dischiuso, sul quale non si son fatti che i primi passi.

3.º _La famiglia sindiasmica._ Certi connubi, a tempo più o meno
lungo, si facevano già nel connubio per gruppi, e fors'anche
prima; l'uomo aveva una moglie principale (non si può ancor dire
una moglie prediletta) tra le molte mogli, ed egli era per essa il
principale marito fra tutti. Questa circostanza contribuì non poco
alla confusione fatta dai missionarii, che nel connubio per gruppi
ora vedono la comunanza delle donne senza alcun limite, ed ora
l'adulterio a pieno libito. Ma tali connubi di consuetudine dovettero
consolidarsi semprepiù, man mano che la _gente_ si svolgeva e che
più numerose divenivano le classi dei «fratelli» e delle «sorelle»,
tra le quali il connubio non era più consentito. Il divieto delle
nozze fra consanguinei, effetto del costituirsi della _gente_, si
andò estendendo ancor più. Così fra gli Irocchesi e fra la più parte
degli altri Indiani americani, che si indugiano tuttora nello stadio
inferiore della barbarie, troviamo che il connubio è vietato fra tutti
i parenti, che conta il loro sistema, e che sono parecchie centinaia
di specie. In questo crescente complicarsi dei divieti di connubio,
i connubii per gruppi divenivano sempre meno possibili; essi furono
sostituiti dalla famiglia sindiasmica. In questo stadio un marito
convive con una moglie, in modo però, che la poligamia[14] e, occasione
capitando, l'infedeltà coniugale, rimangono un diritto dei mariti;
quantunque la prima si trovi raramente, e ciò per ragioni economiche;
mentre dalle mogli, durante la convivenza, si esige per lo più la più
rigorosa fedeltà, e il loro adulterio è duramente punito. Ma il vincolo
coniugale è facilmente risolubile dalle due parti, e, dopo come prima,
i figli appartengono soltanto alla madre.

In questa progressiva esclusione dei consanguinei dal vincolo
conjugale continua ad agire la selezione naturale. A dirla con Morgan;
«I matrimonii tra _genti_ non consanguinee producono una razza più
vigorosa, così fisicamente come intellettualmente; quando due tribù
progredite si mischiavano, i nuovi cranii e cervelli si ampliavano
naturalmente, finchè abbracciassero le attitudini di entrambe». Le
tribù, che avevano adottata la costituzione _gentile_, dovettero
acquistare così il predominio su quelle rimaste in arretrato, o trarle
seco col loro esempio.

L'evoluzione della famiglia nella storia primitiva, consiste quindi
nel continuo restringersi della cerchia abbracciante in origine tutta
la tribù, nella quale regna la comunanza del connubio tra i due sessi.
Esclusi a mano a mano, prima i parenti più prossimi, poi i più lontani,
infine anche i semplici parenti per cognazione (affini), qualsiasi
forma di connubio per gruppi finisce per diventare praticamente
impossibile, e la coppia unica, che pel momento è ancora debolmente
unita, rimane la molecola, se si scioglie la quale, cessa lo stesso
connubio. Già di qui si vede quanto poco l'amore sessuale individuale,
nell'odierno significato della parola, abbia da fare colla genesi del
connubio individuale. Ciò è dimostrato ancor meglio dalla pratica di
tutti i popoli che si trovano in questo stadio. Mentre nelle precedenti
forme di famiglia gli uomini non erano mai imbarazzati a trovar
mogli, anzi ne avevano più del bisogno, ora le mogli divenivano rare
e ricercate. Onde, colla famiglia sindiasmica, cominciano il ratto
e la compra delle donne — _sintomi_ questi molto diffusi, ma non più
che sintomi, di un sopravvenuto profondo cangiamento. Questi sintomi,
che non sono poi altro se non semplici metodi di procurarsi mogli, il
pedante scozzese Mac Lennan li ha trasformati in classi distinte di
famiglia, sotto il nome di «matrimonio per _ratto_» e di «matrimonio
per _compra_». Del resto, anche presso gli Indiani americani e altrove
(nello stesso stadio), la conchiusione del connubio non è affare degli
interessati, che spesso non vengono neanche interrogati, ma delle loro
madri. Sovente due persone, affatto sconosciute tra loro, sono così
fidanzate, e ne hanno notizia solo quando è imminente la celebrazione
degli sponsali. Prima delle nozze, lo sposo dà ai parenti _gentili_
della sposa (cioè ai suoi parenti materni, non al padre e alla costui
parentela) dei donativi come prezzo della ragazza ceduta. Il connubio
si scioglie a volontà di ciascuno dei due coniugi; nondimeno, in molte
tribù, per esempio fra gli Irocchesi, si è formata a poco a poco
un'opinione pubblica avversa a siffatte separazioni; nelle contese
intervengono come pacieri i parenti _gentili_ delle due parti, e, solo
se questa mediazione fallisce, ha luogo il divorzio; la moglie tiene
seco i figliuoli e i divorziati sono liberi entrambi di rimaritarsi.

La famiglia sindiasmica, per sè stessa troppo debole e instabile per
creare il bisogno o anche solo il desiderio di una casa propria, non
disfà menomamente l'economia domestica[15] comunistica, tramandata
dall'epoca primitiva. Ma economia domestica comunistica significa il
dominio delle donne nella casa, come pure l'esclusivo riconoscimento
di una madre carnale, derivante dalla impossibilità di conoscere
con certezza un padre carnale; significa grande stima delle donne,
cioè delle madri. Una delle più assurde idee, trasmesse dalle teorie
sociali del secolo XVIII, è che, nei primi tempi della società, la
donna fosse schiava dell'uomo. La donna, presso tutti i selvaggi e
tutti i barbari dello stadio inferiore e medio, e anche in parte del
superiore, ha una condizione non solo libera, ma altamente onorata.
Che cosa sia ancora la donna nella famiglia sindiasmica, può attestarlo
Arturo Wright, che fu missionario per lunghi anni tra gli Irocchesi del
Senecca: «Quanto alle loro famiglie, al tempo nel quale abitavano le
«lunghe case» antiche (economie domestiche comunistiche di parecchie
famiglie), il sistema dominante era sempre quello del _clan_ (_gente_),
pel quale le donne prendevano i loro mariti dagli altri _clans_...
Di solito l'elemento femminile signoreggiava nella casa; le provviste
erano comuni; ma guai all'infelice marito od amante che fosse troppo
pigro od inetto a contribuire la sua parte di provviste. Per quanti
figli o cose proprie avesse nella casa, egli doveva aspettarsi ad ogni
istante l'ordine di far fagotto e di spulezzare. E non gli era lecito
tentare di resistere, la casa gli diveniva insopportabile, non gli
rimaneva che tornare al suo proprio clan, o, più spesso, cercarsi un
nuovo matrimonio in un altro clan. Le mogli erano la vera potenza nei
clans, come dapertutto. All'occasione non esitavano a deporre un duce
e degradarlo a guerriero comune». L'economia domestica comunistica,
nella quale le mogli appartengono per la maggior parte, o tutte, a
una medesima _gente_, mentre i mariti provengono da _genti_ diverse,
è la base reale di quel predominio delle donne, generale nel tempo
primitivo, la cui scoperta è un terzo merito del Bachofen. Noto infine,
che le relazioni dei viaggiatori e dei missionarii, sull'eccessivo
lavoro di cui sono aggravate le donne tra i selvaggi e tra i barbari,
non contraddicono in verun modo a ciò che ora si è detto. La divisione
del lavoro tra i due sessi è determinata da motivi affatto diversi
da quelli che determinano la condizione della donna nella società.
Popoli, presso i quali le donne debbono lavorare molto più che a loro,
secondo il concetto nostro, non convenga, hanno per esse, sovente,
assai più stima vera che i nostri Europei. La dama della civiltà,
circondata di falsi omaggi e dispensata da ogni reale lavoro, ha una
condizione sociale infinitamente più bassa della donna della barbarie,
assoggettata a duro lavoro, ma che nel suo popolo passava per una vera
dama (_lady, frowa, Frau_ = signora) e lo era anche pel suo carattere.

Se la famiglia sindiasmica abbia oggi interamente sostituito in America
il connubio per gruppi, debbono deciderlo ricerche più approfondite
sulle popolazioni del Nord-ovest e più ancora del Sud dell'America,
che si trovano ancora nel periodo superiore dello stato selvaggio. Di
queste ultime si narrano esempi così svariati di licenza sessuale da
far supporre che ancora vi esista il vecchio connubio per gruppi. Ad
ogni modo non ne sono ancora sparite tutte le tracce. Presso almeno
quaranta tribù del Nord dell'America, l'uomo, che sposa una sorella
maggiore, ha il diritto di prendere anche per mogli tutte le sorelle
di lei non appena raggiungano l'età voluta: avanzo della comunanza
dei mariti per tutta la serie delle sorelle. E dei peninsulari della
California (grado superiore dello stato selvaggio) narra Bancroft, che
essi hanno certe festività, nelle quali convengono parecchie tribù, a
scopo di promiscuità sessuale. Evidentemente sono genti, che in queste
feste conservano la vaga reminiscenza del tempo, nel quale le donne
di una gente avevano per mariti comuni tutti gli uomini delle altre,
e viceversa. Lo stesso uso vige ancora in Australia. Avviene presso
alcuni popoli, che gli anziani, i capi e i sacerdoti-magi, sfruttano
per conto proprio la comunanza delle donne e ne monopolizzano la
maggior parte; ma in certe festività e nelle grandi riunioni popolari
essi devono restituire la vecchia comunanza e permettere che le loro
donne si sollazzino coi giovani. Westermark (pag. 28-29) cita tutta
una serie di esempii di siffatti saturnali periodici, in cui l'antica
promiscuità sessuale rivive per breve tempo: presso gli _Hos_, i
_Santali_, i _Pandscha_ e i _Colari_ delle Indie, presso alcuni popoli
australiani, ecc.; ma ne trae la singolare illazione, che ciò sia non
già un avanzo del connubio per gruppi, da lui negato, bensì... del
tempo della fregola, comune all'uomo primitivo e agli altri animali.

Arriviamo con ciò alla quarta grande scoperta di Bachofen, quella cioè
della forma di transizione molto diffusa dal connubio per gruppi alla
famiglia sindiasmica. Ciò che Bachofen presenta come un'espiazione per
la violazione degli antichi precetti divini, come una penitenza con
la quale la donna riscatta il diritto alla castità, non è in realtà se
non l'espressione mistica dell'espiazione, con cui la donna si riscatta
dall'antica comunanza degli uomini e acquista il diritto di non darsi
che a un uomo solo. Questa espiazione consiste in un limitato abbandono
di sè stesse agli amori promiscui: le donne babilonesi dovevano darsi
una volta all'anno nel tempio di Militta; altri popoli dell'Asia Minore
mandavano le loro fanciulle per degli anni nel tempio di Anaiti a
coltivarvi l'amor libero con favoriti di loro scelta, prima di potersi
maritare; usi analoghi, travestiti in riti, sono comuni a quasi tutti
i popoli asiatici, tra il Mediterraneo e il Gange. Il sacrificio
espiatorio pel riscatto diviene nel corso del tempo sempre più breve,
come già osserva Bachofen: «Il darsi ripetute volte nell'anno è
sostituito dall'abbandonarsi una sola volta; all'eterismo delle matrone
succede quello delle fanciulle; lo si pratica prima anzichè durante
il matrimonio; scambio di darsi a tutti senza limite, la donna può
prescegliere certe persone» (_Mutterrecht_, _p. XIX_). Presso altri
popoli manca il travestimento religioso: presso alcuni — come i Traci,
i Celti, ecc., nell'antichità, molti aborigeni dell'India, i popoli
malesi, gli isolani dell'Oceania e molti Indiani americani, ancor oggi
— le fanciulle, sino al matrimonio, godono della più grande libertà
sessuale. Lo stesso avviene quasi dapertutto nell'America del Sud, e
ne è testimonio chiunque vi si sia alquanto addentrato. Così AGASSIZ
(_A journey in Brazil_, Boston and New-York 1880, p. 260) narra quanto
segue di una ricca famiglia, di origine indiana: avendovi egli visto
una fanciulla, chiese di suo padre, supponendo fosse il marito della
madre, che, in qualità di ufficiale, era andato alla guerra contro il
Paraguay; ma la madre rispose sorridendo: _não tem pai, he filha da
fortuna_, essa non ha padre, è figlia del caso. «Così parlano sempre
le donne indiane, o di sangue mescolato, dei loro figli nati fuori
matrimonio, senza esitare, nè arrossire; e nonchè esser ciò una cosa
fuor dell'ordinario, sembra anzi che il contrario sia l'eccezione.
Sovente i figli non conoscono se non la madre, perciocchè tutta la
cura e tutta la responsabilità ricade su di essa; nulla sanno del
padre; sembra anzi che alla donna non baleni neppure che essa o i suoi
figli possano vantare alcun diritto verso di lui». Ciò che qui sembra
strano all'uomo incivilito è semplicemente la regola secondo il diritto
materno e nel connubio per gruppi.

Presso altri popoli, gli amici e i parenti dello sposo o i convitati
esercitano, nell'occasione stessa delle nozze, il tradizionale diritto
sulla sposa, e la volta dello sposo non viene che in ultimo; così alle
Baleari e presso gli _Augili_ africani nell'antichità, e oggi ancora
presso i _Barea_ nell'Abissinia. Presso altri popoli, un personaggio
ufficiale, il capo della tribù o della _gente_, il _cacicco_, lo
_sciamane_, il prete, il principe, o comunque si chiami, rappresenta
la comunità, ed esercita sulla sposa il diritto della prima notte.
Malgrado tutte le pretese riabilitazioni neoromantiche, questo _jus
primae noctis_ esiste ancora, come avanzo del connubio per gruppi, fra
la maggior parte degli abitanti del territorio di _Alaska_ (BANCROFT,
_Native Races_, I, 81), presso i _Tahu_ nel Messico settentrionale
(_ivi_, p. 584) e presso altri popoli; esso ha esistito, per tutto
il Medio evo, almeno nei paesi di origine celtica, tramandatovi dal
connubio per gruppi, per esempio nella provincia di Aragona. Mentre
nella Castiglia il contadino non fu mai servo, in Aragona domina la più
ignominiosa servitù, sino all'arbitrato di Ferdinando il Cattolico, nel
1486. È detto in questo documento; «Noi giudichiamo e dichiariamo, che,
quando il contadino prende moglie, i premenzionati signori (_senyors_,
Baroni) non possono dormire con essa la prima notte, o, dopo che essa
si sia messa a letto, coricarsi con lei ed usarne in segno di dominio,
nè servirsi della figlia o del figlio del contadino, con pagamento
o senza, contro la loro volontà». (Citato nell'originale catalano da
SUGENHEIM, _Leibeigenschaft_, Pietroburgo 1861, p. 35).

Bachofen ha anche perfettamente ragione, quando afferma recisamente,
che il passaggio, da ciò che egli chiama «eterismo» o «generazione di
palude», al connubio individuale, fu essenzialmente opera delle donne.
Quanto più, con lo sviluppo delle condizioni economiche dell'esistenza,
cioè col cessare del vecchio comunismo e con l'addensarsi della
popolazione, i tradizionali rapporti sessuali perdevano il carattere
ingenuo delle foreste primitive, tanto più essi dovevano apparire
umilianti ed oppressivi alle donne, e tanto più queste dovevano
desiderare il diritto alla castità, o al connubio temporaneo o
permanente con un sol uomo, come una liberazione. Questo progresso
non poteva emanare dagli uomini, perchè essi non hanno mai pensato,
e non pensano neanche oggi, a rinunziare in pratica alle attrattive
dei connubio per gruppi. Solo dopo che, mercè le donne, si passò
al connubio sindiasmico, poterono gli uomini introdurre la rigorosa
monogamia, per le sole donne, s'intende.

La famiglia sindiasmica nacque sul limite fra lo stato selvaggio e la
Barbarie, per lo più nel periodo superiore dello stato selvaggio, e
soltanto qua e là in quello inferiore della Barbarie. Essa è la forma
di famiglia caratteristica della Barbarie, come il connubio per gruppi
lo è dello stato selvaggio, e la monogamia dell'epoca civile. Perchè
potesse svilupparsi sino a una vera e salda monogamia, abbisognavano
altre cause da quelle che agirono sin qui. Nella famiglia sindiasmica
il gruppo era già ridotto alla sua ultima unità, alla sua molecola di
due atomi: un uomo e una donna. La selezione naturale aveva compiuto la
sua opera escludendo sempre più la comunanza dei connubii; in questa
direzione non le rimaneva più nulla da fare. Se dunque non emergevano
nuove forze impulsive, forze _sociali_, non vi era ragione perchè dalla
famiglia sindiasmica scaturisse una nuova forma di famiglia. Queste
forze entrarono in gioco.

Lasciamo ora l'America, la terra classica della famiglia sindiasmica.
Nessun indizio autorizza a concludere, che ivi siasi sviluppata una
forma di famiglia più elevata, e che, prima della scoperta e della
conquista, vi sia mai esistita in qualche luogo la stretta monogamia.
Non così nel vecchio mondo.

Quivi l'addomesticamento degli animali e l'allevamento degli armenti
avevano sviluppata una fonte di ricchezza non ancor presentita, e
creato rapporti sociali affatto nuovi. Sino allo stadio inferiore
della barbarie, la ricchezza che poteva conservarsi consisteva quasi
esclusivamente nella casa, nel vestito, in rozzi ornamenti, e negli
ordigni per procurarsi ed allestire gli alimenti: la barca, le armi, le
suppellettili più semplici. Gli alimenti dovevano conquistarsi giorno
per giorno. Ora, invece, cogli armenti di cavalli, cammelli, asini,
buoi, pecore, capre e porci, le inoltrantisi popolazioni nomadi — gli
Arii nella regione indica dei cinque fiumi e nel territorio del Gange,
come nelle steppe dell'Osso e del Jassarte, allora assai più ricche
di acqua; i Semiti sull'Eufrate e sul Tigri — acquistarono beni, che
esigevano solo un po' di vigilanza e le cure le più grossolane, per
moltiplicarsi sempre più, e fornire il più ricco nutrimento di latte e
di carne. Tutti i mezzi anteriori di procacciarsi gli alimenti passano
così in seconda linea; la caccia, già una necessità, diventa ora un
lusso.

Ma a chi apparteneva questa nuova ricchezza? Senza dubbio, in origine,
alla _gente_; senonchè sugli armenti dev'essersi ben presto sviluppata
la proprietà privata. È difficile dire se all'autore del cosiddetto
primo libro di Mosè, il padre Abramo apparisse possessore dei suoi
armenti in virtù di un diritto proprio, come capo di una famiglia, o in
virtù della sua qualità di effettivo capo ereditario di una _gente_.
Certo è soltanto, che non possiamo rappresentarcelo come proprietario
nel senso moderno. E certo è inoltre che, alla soglia della storia
autentica, troviamo gli armenti già dapertutto in proprietà privata dei
singoli capi di famiglia, esattamente come i prodotti dell'arte della
barbarie, gli arnesi di metallo, gli articoli di lusso, finalmente il
bestiame umano, gli schiavi.

Perciocchè a quest'epoca fu inventata anche la schiavitù. Lo schiavo
non aveva valore pei barbari dello stadio inferiore. Gli stessi Indiani
americani si comportavano coi nemici vinti affatto diversamente dai
barbari degli stadii superiori. Gli uomini erano uccisi, o accolti
come fratelli nella tribù dei vincitori; le donne venivano sposate, o
adottate insieme ai loro figli sopravvissuti. La forza di lavoro umano
non offre ancora, in questo stadio, alcun apprezzabile sopravvanzo
sul costo del suo mantenimento. Introdotti l'allevamento del bestiame,
la lavorazione dei metalli, la tessitura, e finalmente l'agricoltura,
tutto questo mutava. Come le spose, nel passato così numerose e così
facili a procurarsi, ora acquistavano un prezzo e venivano comprate,
lo stesso avvenne delle forze di lavoro, massime dacchè gli armenti
passarono definitivamente in proprietà privata. La famiglia non
aumentava così presto come il bestiame. Occorrendo un maggior numero
di persone per custodirlo, si utilizzò il nemico prigioniero di guerra,
che d'altronde si riproduceva come il bestiame.

Tali ricchezze, passate in proprietà privata e rapidamente
accresciute, diedero un terribile colpo alla società fondata sulla
famiglia sindiasmica e sulla _gente_ del diritto materno. Il connubio
sindiasmico aveva introdotto un nuovo elemento nella famiglia: allato
alla madre carnale esso aveva posto il padre carnale, autentico,
probabilmente più autentico di molti «padri» d'oggidì. Giusta la
divisione del lavoro nella famiglia di quel tempo, spettava all'uomo il
procacciare gli alimenti e gli strumenti di lavoro necessarii all'uopo,
e quindi anche gli spettava la proprietà di questi ultimi; separandosi
li portava seco, come la moglie conservava le sue masserizie. Giusta
gli usi di quella società, l'uomo era dunque proprietario delle nuove
fonti di alimentazione, il bestiame, e in seguito dei nuovi strumenti
di lavoro, gli schiavi. Ma, giusta gli usi medesimi, i suoi figli non
ereditavano da lui, poichè l'eredità si regolava come stiamo per dire.

Giusta il diritto materno, cioè finchè la discendenza non si computava
che in linea femminile, e giusta il costume ereditario primitivo
della gente, da principio i parenti _gentili_ ereditavano dai loro
defunti compagni _gentili_. I beni di fortuna dovevano restare nella
_gente_. Stante la sua poca importanza, la successione in pratica sarà
passata ai più prossimi parenti _gentili_, cioè ai consanguinei dal
lato materno. Ma i figli del marito defunto non appartenevano alla
sua _gente_, bensì a quella della madre; essi ereditavano da questa,
dapprincipio insieme cogli altri consanguinei di lei, in seguito forse
in prima linea, ma essi non potevano ereditare dal padre, poichè non
appartenevano alla sua _gente_, alla quale dovevano rimanere i suoi
beni di fortuna. Alla morte, quindi, di un possessore di armenti,
questi sarebbero passati anzitutto ai suoi fratelli e alle sue sorelle
e ai figli delle sue sorelle, o ai discendenti delle sorelle di sua
madre, ma i suoi propri figli rimanevano diseredati.

A misura quindi che le ricchezze aumentavano, da un lato, esse davano
all'uomo nella famiglia una posizione più importante che alla donna e,
d'altro lato, creavano in lui lo stimolo ad utilizzare questa posizione
più importante, per rovesciare, a favore dei propri figli, la vecchia
successione. Ma ciò era impossibile finchè vigeva la discendenza per
diritto materno. Questo diritto doveva dunque essere rovesciato, e lo
fu. Ciò non fu tanto difficile quanto oggi ci sembra, poichè questa
rivoluzione — una delle più importanti, che gli uomini abbiano vedute —
non aveva bisogno di toccare alcuno dei membri viventi di una _gente_.
Tutti questi potevano rimanere, dopo come prima, ciò che erano stati.
Bastò stabilire che, in avvenire, i discendenti dei compagni maschi
resterebbero nella _gente_ e quelli delle femmine ne sarebbero esclusi,
passando nella _gente_ del loro padre. Con ciò si aboliva il computo
della discendenza in linea femminile e il diritto ereditario materno,
e si istituiva la linea di discendenza maschile e il diritto ereditario
paterno. Come si sia fatta questa rivoluzione, nei popoli tendenti alla
civiltà, e quando, non ne sappiamo nulla. Essa appartiene interamente
all'epoca preistorica. Ma che si sia fatta, è dimostrato oltre il
bisogno dalle abbondanti tracce di diritto materno raccolte sopratutto
dal Bachofen, e come facilmente si effettui, lo vediamo in una intera
serie di tribù indiane, dove essa è affatto recente, o si effettua
ancor oggi, in parte sotto l'influenza della crescente ricchezza e
del cangiato modo di vita (passaggio dai boschi alle praterie), e in
parte per l'influsso morale della civiltà e dei missionarii. Di otto
tribù del Missuri, sei hanno introdotto la discendenza e la successione
maschile, due l'hanno ancora femminile. Presso i _Shawnees_, i
_Miamies_ e i _Delawares_ si è introdotto l'uso di trasportare i figli
dalla _gente _della madre in quella del padre, col dar loro un nome
tratto dalla _gente_ del padre, affinchè possano ereditare da questo.
«Innata tendenza casistica dell'uomo, di cangiare le cose mutando i
loro nomi e di trovare ripieghi per abbattere la tradizione avendo
l'aria di rispettarla, quando un interesse diretto ne dà lo stimolo
sufficiente!» (_Marx_). Nacque da ciò un'inestricabile confusione, alla
quale dovevasi ovviare, e venne anche in parte ovviato, col passaggio
al diritto paterno. «In generale sembra questo il passaggio il più
naturale» (_Marx_).

Chi vuol vedere ciò che sanno dirci gli studiosi di Diritto comparato
sul come sarebbesi effettuata questa trasformazione presso i popoli
tendenti a civiltà del vecchio mondo — ipotesi e niente più — consulti
KOVALEVSKY, _Tableau des origines et de l'evolution de la famille et de
la propriété_, Stockholm, 1890.

La caduta del diritto materno fu la _sconfitta storico-mondiale del
sesso femminile_. L'uomo afferrò il timone anche nella casa, la donna
fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e divenne un
semplice strumento di riproduzione. Questa degradata condizione della
donna, che appare evidente sopratutto fra i Greci dei tempi eroici
e più ancora dei tempi classici, venne gradatamente inorpellata e
dissimulata, e qua e là ha assunto anche forme più miti; ma non fu mai
in alcun modo abolita.

Il primo effetto di cotesto nuovo ed esclusivo dominio dell'uomo,
mostrasi nel sorgere di quella forma intermedia che è la famiglia
patriarcale. Ciò che particolarmente la caratterizza non è la
poligamia, di cui parleremo più tardi, ma «l'organizzazione di un certo
numero di persone libere e non libere in una sola famiglia, sotto la
patria potestà del capo di essa. Nella forma semitica, questo capo
di famiglia vive in poligamia, i non liberi hanno moglie e figli, e
lo scopo di tutta l'organizzazione è la custodia degli armenti sopra
uno spazio di terra determinato». L'essenziale è l'incorporazione dei
non liberi e la patria potestà; la famiglia romana è quindi il tipo
completo di questa forma di famiglia. La parola _familia_ non significa
in origine l'ideale dell'odierno filisteo, composto di sentimentalismo
e di discordia domestica; presso i Romani dei primi tempi, essa non si
riferisce nemmeno alla coppia conjugale e ai suoi figli, ma soltanto
agli schiavi. _Famulus_ è lo schiavo domestico, e _familia _è la
collettività degli schiavi appartenenti ad un uomo. Ancora al tempo
di Caio, la _familia, id est patrimonium_ (ossia l'asse ereditario),
veniva legata per testamento. L'espressione fu inventata dai Romani,
per designare un nuovo organismo sociale, il cui capo teneva moglie,
figli e un certo numero di schiavi sotto di sè, giusta la patria
potestà romana, con diritto di vita e di morte su tutti. «La parola non
è dunque più antica del ferreo sistema di famiglia delle tribù latine,
sorto dopo introdotte l'agricoltura e la schiavitù legale e dopo la
scissione degli Arii italici dai Greci». Marx aggiunge: «La famiglia
moderna contiene in germe non solo la schiavitù (_servitus_), ma ben
anche il servaggio, poichè essa in origine si connette con dei servizii
agricoli. Essa compendia _in miniatura_ tutti gli antagonismi che più
tardi si sviluppano ampiamente nella società e nel suo Stato».

Siffatta forma di famiglia segna il passaggio dalla famiglia
sindiasmica alla monogamia. Per guarentire la fedeltà della moglie,
cioè la paternità dei figli, la donna è consegnata incondizionatamente
al potere dell'uomo: se egli la uccide, non esercita che il proprio
diritto.

Con la famiglia patriarcale entriamo nel dominio della storia scritta,
dominio nel quale la scienza del diritto comparato ci reca un notevole
sussidio. Dobbiamo infatti a questa un progresso essenziale su questo
punto. Fu MASSIMO KOVALEVSKY (_Tableau_, ecc., _de la famille e de
la propriété_, Stockholm 1890, pag. 60-100) a fornirci la prova, che
la comunità domestica patriarcale, quale la troviamo ancor oggi fra i
Serbi ed i Bulgari sotto nome di _zadruga_ (traducibile a un dipresso
con _unione d'amicizia_) o di _bratstvo_ (_fratellanza_) ed in forma
modificata presso i popoli orientali, costituì lo stadio di transizione
tra la famiglia del diritto materno, sorta dal connubio per gruppi, e
la famiglia individuale del mondo moderno. Ciò sembra dimostrato almeno
pei popoli tendenti a civiltà del mondo antico, per gli Arii e per i
Semiti.

La _zadruga_ degli Slavi del Sud offre il miglior esempio superstite di
una tale comunità di famiglia. Essa abbraccia parecchie generazioni di
discendenti da uno stesso padre, con le rispettive mogli, che, tutti
coabitando sotto il tetto medesimo, coltivano i loro campi in comune,
hanno comuni provviste di alimenti e di vesti, e possiedono in comune
ogni risparmio. La comunità sta sotto l'amministrazione del padron
di casa (_domácin_); questi la rappresenta nei rapporti esterni, può
alienare oggetti di poco conto, tiene la cassa e ne risponde, come
risponde del corso regolare degli affari. È elettivo; nè occorre che
sia il più vecchio. Le donne e i loro lavori stanno sotto la direzione
della padrona di casa (_domácica_), di solito la moglie del _domácin_.
Questa ha anche un voto importante, sovente decisivo, nella scelta
dello sposo per le ragazze. Ma il potere supremo risiede nel Consiglio
di famiglia, o assemblea di tutti i compagni adulti, donne ed uomini.
A quest'assemblea il padrone di casa rende i conti; è essa che prende
le decisioni definitive, che esercita giurisdizione su tutti i membri
della comunità, che conchiude le compre e le vendite di qualche
importanza, massime se si tratta di terreni o di stabili, ecc.

Non è che da circa un decennio che il perdurare di consimili grandi
comunità domestiche fu dimostrato anche in Russia; oggi è generalmente
riconosciuto che esse sono altrettanto radicate nel costume popolare
russo quanto la _obscina_ o comunità di villaggio. Esse figurano nel
più antico codice russo, il _Pravda_ di _Jaroslav_, sotto lo stesso
nome (_vervj_) che nelle leggi dalmate, e si trovano del pari nelle
fonti storiche polacche e czeche.

Anche fra i Germani, secondo HEUSSLER (_Institutionen des deutschen
Rechts_), l'unità economica in origine non è la famiglia isolata nel
senso moderno, ma la «comunità domestica», che comprende parecchie
famiglie di diverse generazioni, e spesso anche individui non liberi.
Anche la famiglia romana viene ricondotta a questo tipo, e l'assoluta
potestà del padre di famiglia, di fronte all'assenza d'ogni diritto
negli altri membri della famiglia, fu testè vivamente contestata.
Presso i Celti, in Irlanda, devono esservi state analoghe comunità
di famiglia; in Francia esse si conservarono nel Nivernese, sotto il
nome di _parçonneries_, sino alla rivoluzione francese, e nella Franca
Contea non sono ancora interamente estinte. Nei pressi di _Louhans
_(_Saône-et-Loire_) si vedono grandi case di contadini, con una sala
centrale comune alta sino al tetto, e intorno le camere da letto, alle
quali si accede mediante scale di sei a otto scalini, e dove abitano
parecchie generazioni della medesima famiglia.

Nelle Indie la comunità domestica che coltiva la terra in comune è
ricordata fin da Nearco, ai tempi di Alessandro il Grande, e vi esiste
tuttora nel _Pandschàb_ e in tutto il Nord-ovest del paese. Nel Caucaso
la potè dimostrare lo stesso Kovalevsky. In Algeria esiste ancora
presso i _Cabili_. E la si sarebbe rinvenuta anche in America, dove
la si dice scoperta fra i _Calpullis_, descritti da Zurita nel vecchio
Messico; CUNOW (_Ausland_, 1890, N. 42-44) dimostrò invece abbastanza
chiaramente, che nel Perù, al tempo della conquista, vigeva una specie
di regime di _marca_ (il quale, cosa strana, si sarebbe chiamato
propriamente _marca_!), con divisione periodica del terreno coltivato,
e quindi con coltivazione individuale.

In ogni caso, la comunità domestica patriarcale, con la terra posseduta
e coltivata in comune, acquista ormai una importanza ben maggiore che
nel passato. Noi non possiamo più dubitare della parte importante che
essa ha sostenuto, fra i popoli tendenti a civiltà e fra molti altri
popoli del mondo antico, nel determinare il passaggio dalla famiglia
del diritto materno alla famiglia isolata. Più avanti torneremo
all'altra conclusione del Kovalevsky, per cui essa sarebbe anche stata
lo stadio di transizione onde si sviluppa la comunità del villaggio
o della marca, con coltivazione individuale e divisione dapprima
periodica e poi definitiva dei campi e delle praterie.

Quanto alla vita di famiglia in queste comunità domestiche, è da notare
che, in Russia almeno, il capo di casa ha fama di abusare molto della
sua posizione di fronte alle giovani della comunità, specialmente di
fronte alle nuore, e spesso di farsene un _harem_; i canti popolari
russi sono abbastanza eloquenti in proposito.

Prima di passare alla monogamia, che si svolge rapidamente colla
caduta del diritto materno, poche parole ancora sulla poligamia e
sulla poliandria. Ambedue queste forme di connubio non possono essere
che eccezioni, per così dire prodotti di lusso della storia, salvo
che non sorgano in un paese l'una accanto all'altra, ciò che, come è
noto, non è il caso. Poichè dunque gli uomini esclusi dalla poligamia
non si possono consolare con donne lasciate libere dalla poliandria,
e poichè il numero degli uomini e delle donne, indipendentemente dalle
istituzioni sociali, fu sinora supergiù eguale, ciò basta ad escludere
che l'una o l'altra di queste forme di connubio possano divenire la
forma dominante. Nella realtà, la poligamia di un uomo era il prodotto
palese della schiavitù e rimaneva sempre l'eccezione. Nella famiglia
patriarcale semitica, vive in poligamia il solo patriarca, tutt'al
più qualcuno dei suoi figli, gli altri debbono appagarsi di una sola
donna. Lo stesso avviene ancora in tutto l'Oriente; la poligamia è
un privilegio dei ricchi e dei potenti, e si recluta principalmente
colla compra di schiave; la massa del popolo è monogama. Analogamente
è un'eccezione la poliandria nell'India e nel Tibet, la cui origine
dal connubio per gruppi sarebbe certo interessante approfondire. Nella
sua pratica essa sembra del resto ben più larga del geloso regime degli
_harem_ maomettani. Almeno, presso i _Nairi_ dell'India, tre, quattro
o più uomini hanno bensì una moglie in comune, ma ognuno di essi ne può
avere in comune con tre o più altri uomini una seconda, una terza, una
quarta, ecc. È un miracolo, che Mac Lennan in questi clubs conjugali,
di parecchi dei quali si può esser membri contemporaneamente e che egli
stesso descrive, non abbia scoperta la nuova classe del _matrimonio di
club_. Ma questo regime è ben lungi dall'essere vera poliandria; esso
è piuttosto, come già osservò Giraud-Teulon, una forma speciale del
connubio pei gruppi; gli uomini vivono in poligamia, e in poliandria le
donne.

4. _La famiglia monogamica_. Essa nasce dalla famiglia siandiasmica,
come si è dimostrato, nell'epoca in cui lo stadio medio trapassa in
quello superiore della barbarie; il suo definitivo trionfo è uno dei
segni caratteristici dell'epoca civile che incomincia. Essa è fondata
sul dominio del marito coll'espresso scopo di procreare figli la
cui paternità sia incontestata, e tale paternità è richiesta, perchè
questi figli debbono subentrare un giorno come eredi naturali nella
fortuna paterna. Essa si distingue dalla famiglia sindiasmica per una
assai maggiore saldezza del vincolo conjugale, non più risolubile per
semplice consenso. Ordinariamente ora è solo l'uomo che può scioglierlo
e ripudiare la moglie. Il diritto dell'infedeltà gli rimane garantito
almeno dall'uso (il Codice Napoleone glielo attribuisce espressamente,
finchè esso non porti la concubina nella casa conjugale) ed è sempre
più praticato quanto più cresce lo sviluppo sociale; se la moglie si
ricorda dell'antica pratica sessuale e vuol rinnovarla, essa è punita
più duramente che mai per lo innanzi.

La nuova forma di famiglia ci si offre in tutta la sua durezza
presso i Greci. Mentre, come osserva Marx, la posizione delle dee
nella mitologia ci presenta un periodo anteriore, nel quale le donne
avevano ancora una posizione più libera e più stimata, noi troviamo
ai tempi eroici la donna già degradata dal predominio dell'uomo e
dalla concorrenza delle schiave. Si legge nell'Odissea come Telemaco
rimprovera sua madre e la costringe a tacere. In Omero, le giovani
conquistate sono abbandonate alla sensualità dei vincitori; i capi, a
turno e a norma del grado, si scelgono le più belle; tutta l'Iliade,
com'è noto, si aggira sulla contesa tra Achille ed Agamennone per
una di tali schiave. Per ogni eroe omerico di qualche importanza è
menzionata la fanciulla prigioniera di guerra, con la quale egli divide
la tenda ed il letto. Queste fanciulle sono anche condotte in patria e
nella casa conjugale, come Cassandra da Agamennone in Eschilo; i figli
procreati con siffatte schiave ricevono una piccola parte dell'eredità
paterna e sono considerati come uomini liberi; così Teucro è un figlio
di Telamone nato fuori di matrimonio, eppure può portare il nome del
padre. Dalla sposa si esige che tolleri tutto questo, e serbi la più
rigorosa castità e fedeltà coniugale. La donna greca dei tempi eroici
è, ben vero, più stimata di quella del periodo incivilito, ma essa non
è altro, alla fine, per l'uomo che la madre dei suoi figli ed eredi
legittimi, la governante della sua casa e la direttrice delle schiave,
che egli può fare, e fa, a piacere, sue concubine. È l'esistenza
della schiavitù allato alla monogamia, è la presenza di schiave
giovani e belle che appartengono corpo ed anima all'uomo, ciò che sin
dall'origine imprime alla monogamia il suo carattere specifico: essa è
monogamia _soltanto per la donna_, non già per l'uomo. Questo carattere
lo serba anche oggi.

Pei Greci del periodo posteriore, giova distinguere tra Dori ed
Jonî. I primi, il cui esempio classico è Sparta, conservano, per
molti riguardi, rapporti conjugali ancora più antichi di quelli che
ci mostra lo stesso Omero. A Sparta vige un connubio sindiasmico,
modificato secondo i concetti locali dello Stato, che offre ancora
molte reminiscenze del connubio per gruppi. I connubii senza prole
vengono sciolti; il re Anassandrida (verso il 650 avanti la nostra
èra) alla sua moglie sterile ne aggiunse una seconda e aveva così
due famiglie[16]; nella stessa epoca il re Aristone, avendo due mogli
sterili, ne ripudiò una e gliene sostituì una terza. D'altra parte,
più fratelli potevano avere una moglie comune; l'amico, cui piacesse la
moglie dell'amico, poteva dividerla con questo; ed era ritenuto decente
porre la moglie a disposizione di un «vigoroso stallone», come direbbe
Bismarck, anche se questo non fosse cittadino. Da un passo di Plutarco,
secondo il quale una Spartana indirizza a suo marito l'amante che la
incalzava con profferte di amore, pare — secondo Schömann — che vi
fosse una anche più larga libertà di costume. Non esisteva quindi vero
adulterio, o infedeltà della moglie alle spalle del marito. D'altra
parte, la schiavitù domestica era sconosciuta a Sparta almeno nel tempo
migliore, i servi iloti abitavano separati sui fondi de' padroni, era
quindi minore per gli Spartani la tentazione di contaminarne le donne.
Per tutte queste ragioni le donne a Sparta non potevano non avere
una posizione molto più stimata che nel resto della Grecia. Le donne
spartane e la parte eletta delle Etére ateniesi sono le sole donne
greche di cui gli antichi parlino con rispetto, e i cui pensieri essi
stimassero degni di venir rilevati.

Ben altrimenti fra gli Jonî, la cui città caratteristica è Atene. Ivi
le fanciulle non imparavano che a filare, tessere, cucire, tutt'al
più qualche poco a leggere e a scrivere. Vivevano come recluse e
non praticavano se non con altre donne. La camera delle donne era
segregata nel piano superiore o sul di dietro della casa, dove gli
uomini, massime se stranieri, difficilmente penetravano e dove esse
si ritiravano se capitavano visite maschili. Le donne non uscivano
che accompagnate da una schiava; in casa erano strettamente vigilate;
Aristofane parla di molossi, educati a spaventare gli adulteri,
e, almeno nelle città asiatiche, alla sorveglianza delle donne si
impiegavano gli eunuchi, che già al tempo di Erodoto fabbricavansi
in Chio per farne commercio, e, secondo Wachsmuth, non servivano ai
soli barbari. In Euripide, la donna è qualificata come _oikurema_,
ossia come cosa destinata alla cura della casa (la parola è neutra),
e per l'Ateniese essa non era che una macchina per la procreazione e
la principale domestica. L'uomo aveva gli esercizi ginnastici e gli
affari pubblici, dai quali era esclusa la donna; aveva spesso, inoltre,
schiave a sua disposizione, e, nel fiore di Atene, una prostituzione
diffusa e che lo Stato, a dire il vero, favoriva. Fu appunto sulla base
di questa prostituzione che si svilupparono certi speciali caratteri
di donne greche, che per lo spirito e pel gusto artistico si elevavano
tanto sul livello comune delle donne antiche, quanto le Spartane pel
carattere. Ma che per divenire donne bisognasse prima essere Etére, è
questa la più severa condanna della famiglia ateniese.

Questa famiglia ateniese fu, nel corso del tempo, il tipo sul quale
sempre più modellarono i loro rapporti domestici non solo gli altri
Jonî, ma tutti i Greci dell'interno e delle colonie. Ma, ad onta
dell'isolamento e della sorveglianza, le Greche trovavano abbastanza
spesso l'occasione d'ingannare i loro mariti. Questi, che si sarebbero
vergognati di manifestare amore per le loro mogli, si divertivano
amoreggiando colle Etére; ma la degradazione delle donne si vendicò
sugli uomini e degradò anch'essi, finchè caddero nel pervertimento
degli amori coi fanciulli, e degradarono i loro dei, come sè stessi,
col mito di Ganimede.

Tale fu l'origine della monogamia, per quanto, ci è dato rintracciarla
nel popolo più incivilito e più altamente evoluto dell'antichità.
Essa non fu affatto un frutto dell'amore sessuale individuale, con
cui non aveva assolutamente nulla di comune, poichè, dopo come prima,
i connubii restarono connubii di convenienza. Essa fu la prima forma
di famiglia, non basata su rapporti naturali, ma economici, cioè
sulla vittoria della proprietà privata sopra la originaria proprietà
comune naturale. Dominio dell'uomo nella famiglia, e procreazione
di figli, che non potessero essere che suoi e destinati ad ereditare
la sua ricchezza — questi e non altri furono gli scopi del connubio
individuale[17], francamente espressi dai Greci. Del resto esso era per
loro un peso, un dovere verso gli dei, verso lo Stato e verso i proprii
antecessori; un dovere da adempiere e nulla più. In Atene la legge
imponeva all'uomo non solo il matrimonio, ma l'adempimento di un minimo
dei cosiddetti doveri coniugali.

Il connubio individuale non appare quindi affatto nella storia come una
riconciliazione fra l'uomo e la donna, e, meno ancora, come la forma di
connubio più alta.

Al contrario. Esso si presenta come l'assoggettamento di un sesso
all'altro, come la proclamazione di un conflitto dei sessi, sino allora
sconosciuto in tutta la storia primitiva. In un vecchio manoscritto
inedito, elaborato da Marx e da me nel 1846, trovo: «La prima divisione
del lavoro è quella tra l'uomo e la donna per la procreazione.» Oggi
posso aggiungere: Il primo antagonismo di classe, che si presenta nella
storia, coincide collo sviluppo dell'antagonismo fra l'uomo e la donna
nel connubio individuale, e la prima oppressione di classe con quella
del sesso maschile sul femminile. Il connubio individuale fu un grande
progresso storico, ma al tempo stesso esso aprì, accanto alla schiavitù
e alla ricchezza privata, quell'èra, non ancor chiusa, nella quale
ogni progresso è insieme un relativo regresso; nella quale il bene
e lo sviluppo degli uni si compie col male e colla oppressione degli
altri. Esso è la forma cellulare della società incivilita, la forma
nella quale già possiamo studiare la natura degli antagonismi e delle
contraddizioni che in questa società completamente si svolgono.

L'antica libertà relativa dei rapporti sessuali non cessò affatto colla
vittoria della famiglia sindiasmica, e neppure con quella del connubio
individuale. «L'antico sistema coniugale, ridotto a più stretti limiti
dalla graduale estinzione dei gruppi _punalua_, circondò tuttavia la
progrediente famiglia e vi lasciò la sua impronta sino all'albeggiare
dell'epoca civile.... Esso sparì definitivamente nella nuova forma
dell'eterismo, che incalza gli uomini anche in piena civiltà come
un'ombra fosca projettata sulla famiglia.» Morgan intende per eterismo
il rapporto sessuale extraconiugale di uomini con donne non maritate,
esistente _allato al connubio individuale_; rapporto sessuale che,
com'è noto, fiorisce nelle forme più diverse durante tutto il periodo
della Civiltà e si muta sempre più in aperta prostituzione. Questo
eterismo scaturisce direttamente dal connubio per gruppi, dalle unioni
promiscue con le quali le donne acquistavano il diritto alla castità.
Il darsi per danaro fu dapprima un atto religioso che compievasi nel
tempio della dea dell'amore, e in origine il danaro devolvevasi al
tesoro del tempio. Le _Ierodule_ di Anaiti in Armenia, di Afrodite
in Corinto, come le danzatrici religiose dei tempii dell'India, le
cosiddette _Baiadere_ (la parola è una corruzione dal portoghese
_bailadeira_ = ballerina), furono le prime prostitute. Il far copia di
sè, in origine dovere di ogni donna, più tardi fu ufficio esclusivo
di queste sacerdotesse in rappresentanza di tutte le donne. Presso
altri popoli l'eterismo deriva dalla libertà sessuale concessa alle
ragazze avanti il matrimonio, avanzo quindi anch'esso del connubio
per gruppi, ma trasmessoci per altra via. Col sorgere della disparità
delle fortune, cioè nello stadio superiore delle Barbarie, il lavoro
salariato nasce sporadicamente accanto al lavoro dello schiavo, e
contemporaneamente, come suo correlativo necessario, la prostituzione
professionale delle donne libere accanto a quella forzata delle
schiave. Così il retaggio lasciato dal connubio per gruppi all'epoca
civile è a doppia faccia; come è a doppia faccia, ipocrita, incoerente
e contraddittorio tutto ciò che la civiltà produce; qui la monogamia,
là l'eterismo fino alla sua ultima forma, la prostituzione. L'eterismo
è una istituzione sociale come qualsiasi altra; esso conserva l'antica
libertà sessuale a favore degli uomini. Non soltanto tollerato in
pratica, ma praticato palesemente, sopratutto dalle classi dominanti,
esso è condannato a parole. Ma in realtà questa condanna non colpisce
punto gli uomini, che vi partecipano, ma soltanto le donne: queste
sono anatomizzate e reiette, proclamandosi così ancora una volta
l'incondizionata signoria degli uomini sul sesso femminile come legge
fondamentale della società.

Ma con ciò si sviluppa una nuova antitesi nella stessa monogamia.
Da un lato il marito che infiora la sua esistenza coll'eterismo;
dall'altro la moglie lasciata in un canto. E non si può avere un lato
dell'antagonismo senza l'altro, come non si può avere in mano una mela
intera quando se n'è mangiata la metà. Sembrò essere tuttavia questa
l'opinione dei mariti finchè le loro mogli non li disingannarono. Col
connubio individuale nascono due costanti e caratteristiche figure
sociali che il passato non conosce: l'amante fisso della moglie e
il marito cornuto. Gli uomini avevano ottenuta la vittoria sulle
donne, ma la magnanimità delle vinte s'incaricò della incoronazione.
Allato al connubio individuale e all'eterismo, l'adulterio divenne
una istituzione sociale inevitabile — vietato, duramente punito, ma
indistruttibile. La paternità certa del fanciullo si fondò tutt'al
più, dopo come prima, sulla convinzione morale, e, per risolvere la
insolubile contraddizione, il Codice Napoleone decretava all'art. 312:
_L'enfant conçu pendant le mariage a pour père le mari_; il figlio
concepito durante il matrimonio ha per padre.... il marito. È questo
l'ultimo risultato di tremila anni di connubio individuale.

Così noi abbiamo nella famiglia individuale — nei casi che rimangono
fedeli alla sua origine storica e mettono in chiara luce l'antagonismo
tra l'uomo e la donna, espresso nell'esclusivo dominio dell'uomo
— un quadro in piccolo degli stessi antagonismi e contraddizioni,
fra i quali la società, divisa in classi, si muove fin dagli inizii
dell'epoca civile senza poterli risolvere e superare. Io parlo qui
naturalmente solo di quei casi del connubio individuale, nei quali
la vita conjugale si svolge giusta il carattere originario di tutta
l'istituzione, ma nei quali la donna si ribella contro il dominio
dell'uomo. Che non tutti i matrimonii trascorrano così, niuno lo sa
meglio del filisteo tedesco, il quale nella casa non sa mantenersi
meglio il suo dominio che nello Stato, e la cui moglie quindi porta
di pien diritto quei pantaloni, dei quali egli non è degno. Con tutto
ciò egli si reputa superiore al suo compagno di sventura francese, al
quale, più sovente che a lui, accade anche di peggio.

Per altro la famiglia individuale non si presenta dapertutto e in ogni
tempo nella forma classicamente dura che essa ebbe presso i Greci. Fra
i Romani, che, quali futuri conquistatori del mondo, avevano vedute
più ampie, se anche meno perspicaci, la donna era più libera e più
stimata. Il Romano credeva la fedeltà coniugale senz'altro guarentita
col potere di vita e di morte che aveva sulla moglie. Ivi la donna
avea facoltà, come l'uomo, di sciogliere il connubio. Ma il più grande
progresso nello sviluppo del connubio individuale avvenne certamente
coll'entrata dei Germani nella storia; senza dubbio perchè fra di essi,
per effetto della loro povertà, non sembra che la monogamia si fosse
ancora completamente disinvolta dal connubio sindiasmico. Lo desumiamo
da tre circostanze menzionate da Tacito: In primo luogo, accanto a
un religioso rispetto del nodo coniugale — «essi si appagano di una
moglie, le donne vivono in una stretta castità» — vigeva tuttavia la
poligamia per le persone elevate e pei capi delle tribù, condizione
analoga a quella degli Americani, fra i quali dominava la famiglia
sindiasmica. In secondo luogo, il passaggio dal diritto materno al
paterno doveva essere recente, poichè il fratello della madre — il più
prossimo parente _gentile_ maschio, giusta il diritto materno — era
ancora considerato un parente quasi più prossimo dello stesso genitore;
il che corrisponde anche al punto di vista degl'Indiani americani, fra
i quali Marx, com'ei diceva sovente, trovò la chiave per l'intelligenza
della nostra storia primitiva. E, in terzo luogo, le donne erano,
presso i Germani, altamente stimate e molto influenti anche nei
pubblici affari, ciò che sta in diretto contrasto col predominio
monogamico degli uomini. Cose, quasi tutte, nelle quali i Germani
concordano con gli Spartani, i quali, come vedemmo, non avevano ancor
del tutto superato il connubio sindiasmico. Coi Germani quindi, anche
per questo rapporto, un elemento affatto nuovo sorgeva a dominare sul
mondo. La nuova monogamia, che si sviluppava allora dalla miscela dei
popoli sugli avanzi del mondo romano, rivestì il dominio maschile di
forme più miti e lasciò alle donne, almeno esteriormente, una posizione
molto più stimata e più libera di quella che abbia mai conosciuta
la classica antichità. Con ciò solo nacque la possibilità che dalla
monogamia — in essa, allato ad essa e contro di essa, secondo i casi
— si svolgesse il più grande progresso morale che noi le dobbiamo:
l'amore sessuale individuale moderno, ignoto a tutto il mondo passato.

Ma questo progresso si deve certamente al fatto che fra i Germani
regnava ancora la famiglia sindiasmica, e la condizione della donna,
corrispondente a questa forma di famiglia, fu, in quanto possibile,
innestata nella monogamia; non si deve già alla leggenda di un
maraviglioso candore morale, naturale ai Germani; la realtà è che
il connubio sindiasmico non si aggira fra gli stridenti antagonismi
morali dalla monogamia. I Germani, anzi, nelle loro migrazioni,
particolarmente verso il Sud-est, tra i nomadi delle steppe del Mar
Nero, si erano molto depravati, e, oltre l'abilità nell'equitazione,
ne avevano anche appreso dei brutti vizii contro natura, come attestano
esplicitamente Ammiano, dei Thaifali, e Procopio, degli Eruli.

Ma se la monogamia, di tutte le forme di famiglia conosciute,
fu quella, sotto la quale soltanto potè svilupparsi il moderno
amore sessuale, ciò non significa che questo vi si sia sviluppato
esclusivamente, o anche solo prevalentemente, come amore reciproco
dei coniugi. Ciò, anzi, era escluso dalla natura stessa del connubio
individuale stabile sotto il dominio dell'uomo. In tutte le classi
storicamente attive, cioè in tutte le classi dominanti, la conclusione
delle nozze restò ciò che era stata dal connubio sindiasmico in poi,
un affare di convenienza, regolato fra i genitori. E la prima forma
storica dell'amore sessuale come passione, come passione attinente
ad ogni uomo (almeno delle classi dominanti) e come la più elevata
forma dell'istinto sessuale — ciò che ne costituisce appunto il
carattere specifico — codesta sua prima forma, l'amore cavalleresco
del medio-evo, fu tutt'altro che un amore coniugale. Al contrario. Nel
suo aspetto classico, presso i Provenzali, essa naviga a vele spiegate
verso l'adulterio, e i loro poeti lo cantano. Il fiore delle poesie
amorose provenzali sono le _albas_, in tedesco _Tagelieder_ (canzoni
del mattino). Esse descrivono, con vivi colori, come il cavaliere giace
colla sua bella — moglie di altrui — mentre fuori sta la scolta, che
lo chiama, appena sorge l'alba, perchè possa spulezzare inosservato;
la scena della separazione ne forma il punto culminante. I francesi
del Nord ed anche i nostri bravi tedeschi adottarono questa specie di
poesia con relativo amore cavalleresco, e il nostro vecchio Wolfram
von Eschenbach ha lasciato sul piccante argomento tre meravigliosi
_Tagelieder_, ch'io preferisco di gran lunga alle sue tre lunghe
epopee.

Il contratto nuziale borghese, ai nostri giorni, è di due sorta. Nei
paesi cattolici, un tempo come ora, i genitori procurano al giovane
borghese la sposa che gli conviene, e la conseguenza naturale ne è il
più completo sviluppo della contraddizione insita nella monogamia:
florido eterismo da parte dell'uomo, rigoglioso adulterio da parte
della donna. La chiesa cattolica abolì il divorzio, probabilmente
perchè si è convinta che contro l'adulterio, come contro la morte,
non cresce erba negli orti. Nei paesi protestanti è regola invece di
concedere al figlio del borghese di eleggersi, con più o meno libertà,
una donna della propria classe, onde un certo grado di amore può
trovarsi alla base del matrimonio, e, per ragion di decoro, vi è sempre
presupposto, ciò che è del tutto consono all'ipocrisia protestante. Qui
l'eterismo dell'uomo è meno spiccato e l'adulterio della donna è meno
la regola. Ma poichè, in ogni forma di connubio, gli uomini rimangono
ciò che erano prima delle nozze, e poichè i borghesi dei paesi
protestanti sono per lo più filistei, questa monogamia protestante,
nella media dei migliori casi, non conduce che alla comunanza conjugale
di una plumbea noia, che si qualifica col nome di felicità domestica.
Il migliore specchio di questi due metodi di matrimonio è il romanzo,
per la maniera cattolica, il francese, per la protestante, il tedesco.
In entrambi l'eroe del romanzo conquista qualche cosa: nel tedesco, il
giovane, la ragazza; nel francese, il marito, le corna. Non è ancora
risoluto quale dei due stia peggio. Perciò al borghese la noia del
romanzo tedesco desta lo stesso orrore che la immoralità del romanzo
francese al filisteo tedesco; sebbene da poco in quà, dacchè «Berlino
divenne città mondiale», il romanzo tedesco si faccia alquanto meno
timido nel riprodurre l'eterismo e l'adulterio, da lungo tempo ivi ben
noti.

Ma in ambo i casi il matrimonio è subordinato alla classe degli
interessati e, per tal riguardo, è quindi sempre un matrimonio di
convenienza. In ambo i casi tale matrimonio si converte bene spesso
nella più abbietta prostituzione, talvolta delle due parti, più spesso
della moglie soltanto, la quale non si distingue dalla cortigiana
ordinaria se non in quanto essa non dà a nolo il suo corpo volta per
volta come una salariata, ma lo vende una volta per sempre come avviene
alle schiave. E per tutti i matrimoni di convenienza vale il motto di
Fourier: «Come nella grammatica due negazioni fanno un'affermazione,
così nella morale conjugale due prostituzioni formano una virtù.»
È solo tra le classi oppresse, cioè oggidì nel proletariato, che
l'amore sessuale, nelle relazioni colla donna, può diventare e
diventa la regola vera — sia esso o no consacrato ufficialmente. Ma
nel proletariato tutte le basi della monogamia classica vengono meno.
Esso non ha proprietà, per conservare e trasmettere la quale vennero
appunto creati la monogamia e il dominio dell'uomo, e non v'è quindi
stimolo alcuno a far valere questo dominio. Di più ne mancano i mezzi;
il diritto borghese, che difende quel dominio, non esiste che pei
possidenti e per le loro relazioni coi proletarii; esso costa danaro e
quindi, stante la loro povertà, non ha influenza nelle relazioni del
lavoratore con sua moglie. Qui ciò che decide sono rapporti sociali
e personali affatto diversi. Dacchè, inoltre, la grande industria
getta la donna dalla casa nel mercato del lavoro e nella fabbrica,
e spesso ne fa il sostegno della famiglia, ecco mancato il terreno
agli ultimi avanzi del dominio maschile nella casa proletaria — salvo
forse ancora qualche tratto di quella brutalità verso la donna, che
prese piede appunto col sorgere della monogamia. Così la famiglia del
proletario non è più monogamica nello stretto senso, siavi pure l'amore
il più appassionato e la più inviolata fedeltà dei conjugi, e malgrado
qualsiasi benedizione spirituale o temporale. Onde anche gli eterni
compagni della monogamia, l'eterismo e l'adulterio, non sostengono qui
che una parte quasi impercettibile; la donna riacquistò effettivamente
il diritto al divorzio, e, se i coniugi diventano incompatibili, si
separano liberamente. Insomma, il matrimonio proletario è monogamico
nel senso etimologico della parola, ma non lo è assolutamente nel senso
storico.

I nostri giuristi stimano, senza dubbio, che il progresso della
legislazione toglie sempre più alle donne ogni motivo a doglianze,
poichè i moderni sistemi legislativi dei paesi civili sempre più
riconoscono, in primo luogo, che il matrimonio, perchè sia valido,
dev'essere un contratto accettato spontaneamente dalle due parti; e, in
secondo luogo, che anche durante il matrimonio i coniugi hanno eguali
diritti ed eguali doveri. Supposta la logica applicazione di questi due
principii, le nostre donne avrebbero tutto ciò che possono desiderare.

Quest'argomentazione, tutta giuridica, è esattamente quella stessa con
la quale i repubblicani borghesi tappano la bocca ai proletarii. Il
contratto di lavoro dev'essere accettato spontaneamente da entrambe
le parti. Ma esso si ritiene «spontaneamente accettato» non appena la
legge ha dichiarate eguali le due parti _sulla carta_. Il potere che
la diversità di classe sociale conferisce ad una parte, la pressione
che esso esercita sull'altra — la effettiva condizione economica
di entrambe — ciò non riguarda la legge. Nel contratto di lavoro le
parti devono avere eguali diritti, se l'una o l'altra non vi abbia
espressamente rinunziato; ma la legge non può nulla contro il fatto
che la condizione economica costringe l'operaio a rinunziare anche
all'ultima parvenza di cotesta eguaglianza.

Per il matrimonio, la legge, anche la più progredita, è pienamente
soddisfatta, quando gl'interessati hanno espressa formalmente a verbale
la loro spontaneità; quanto a ciò che avviene dietro lo scenario
giuridico, là dove si svolge la vita reale, e come cotesto spontaneo
consenso si ottenga, di tutto ciò nè il giurista, nè la legge possono
curarsi. Eppure una semplice osservazione di diritto comparato
mostrerebbe al giurista il valore di cotesta spontaneità. Nei paesi,
dove ai figli è legalmente assicurata una parte della fortuna paterna,
dove cioè non li si può diseredare — in Germania, nei paesi di diritto
francese, ecc. — si esige, per contrarre matrimonio, il consenso dei
genitori. Nei paesi di diritto inglese, dove il consenso dei genitori
non è legalmente necessario, i genitori hanno piena libertà di disporre
della loro fortuna, e possono a piacere diseredare i loro figli. Ciò
malgrado, o meglio appunto per ciò, in Inghilterra ed in America, la
libertà di contrarre matrimonio, nelle classi nelle quali c'è qualcosa
da ereditare, non è di un pelo più grande (ciò è ben chiaro) che in
Francia ed in Germania.

Così è pure dell'eguaglianza giuridica del marito e della moglie nel
matrimonio. La loro ineguaglianza giuridica, trasmessaci dalle passate
istituzioni sociali, non è la causa, ma l'effetto della soggezione
economica della donna. Nell'antica economia domestica comunistica, che
abbracciava più coppie di coniugi coi loro figli, l'amministrazione
domestica, lasciata alle donne, era un'industria altrettanto pubblica
e socialmente necessaria, quanto il procacciare gli alimenti, che era
di spettanza degli uomini. Con la famiglia patriarcale, e ancora più
con la famiglia monogamica isolata, le cose cangiarono. La direzione
delle faccende domestiche perdette il suo carattere pubblico. Essa non
riguardò più la società; si mutò in un _servizio privato_; e la donna
diventò la prima servente, esclusa dal partecipare alla produzione
sociale. Solo la grande industria moderna riaperse alla donna — e
soltanto alla donna proletaria — l'adito alla produzione sociale,
ma in tal guisa che, quando essa adempie ai suoi doveri nel servizio
privato della famiglia, rimane esclusa dalla produzione pubblica e non
può guadagnar nulla, mentre poi, se vuol partecipare all'industria
pubblica e procacciarsi un guadagno autonomo, non è più in grado di
adempiere ai suoi doveri di famiglia. E come nella fabbrica, così
avviene alla donna in qualsiasi ramo di attività; anche nella medicina,
o nell'avvocatura. La moderna famiglia individuale è fondata sulla
palese o velata schiavitù domestica della donna, e la moderna società è
una massa le cui molecole sono le famiglie isolate. Oggi, nella grande
maggioranza dei casi, è l'uomo che alimenta la famiglia, almeno nelle
classi possidenti, e ciò gli conferisce una posizione di dominatore che
non ha bisogno di altro privilegio giuridico. Nella famiglia egli è il
borghese; la donna il proletario. Ma nel mondo industriale il carattere
specifico della oppressione economica che pesa sul proletariato non
spicca in tutto il suo rilievo, se non dopo eliminati tutti i privilegi
legali della classe capitalistica e raggiunta l'eguaglianza giuridica
delle due classi; la repubblica democratica non elimina l'antagonismo
di queste, essa offre anzi ad esse il terreno pel combattimento
decisivo. Parimente il carattere specifico del dominio dell'uomo sulla
donna nella famiglia moderna, la necessità della loro vera eguaglianza
sociale e la via di pervenirvi, non appariranno in piena luce se non
quando essi saranno pienamente eguali in diritto. Allora si parrà che
la emancipazione della donna ha per condizione prima il ritorno di
tutto il sesso femminile alla industria pubblica, e che ciò richiede
a sua volta che la proprietà della famiglia isolata cessi di essere
l'unità economica della società.


Noi abbiamo quindi tre forme principali di connubio, che corrispondono,
all'ingrosso, ai tre principali stadii dell'evoluzione umana. Allo
stato selvaggio il connubio per gruppi; alla Barbarie il connubio
sindiasmico; all'epoca civile la monogamia, che ha per complementi
l'adulterio e la prostituzione. Tra il connubio sindiasmico e la
monogamia s'insinuano, nel periodo superiore della barbarie, il dominio
degli uomini sulle schiave e la poligamia.

Come lo dimostra quanto abbiamo esposto, il progresso che si rivela
in questa serie è connesso al fatto singolare, che la libertà sessuale
del connubio per gruppi è sempre più sottratta alle donne, ma non agli
uomini, pei quali in realtà il connubio per gruppi perdura. Ciò che
per la donna è un delitto e si trae dietro gravi conseguenze legali
e sociali, passa come onorevole per l'uomo, o, nel peggior caso, come
una lieve macula morale, che si porta con soddisfazione. Ma quanto più
l'eterismo tradizionale è modificato, ai tempi nostri, dalla produzione
capitalistica e ad essa si adatta, quanto più esso si trasforma
in aperta prostituzione, tanto più esso diventa demoralizzante,
e demoralizza gli uomini assai più delle donne. Delle donne la
prostituzione degrada — e ancora non nel senso che comunemente si
crede — soltanto le infelici che ne sono vittime; essa degrada invece
il carattere di tutto quanto il sesso maschile. Così specialmente
un fidanzamento prolungato è, in nove casi su dieci, una vera scuola
preparatoria d'infedeltà coniugale.

Noi moviamo ora a una trasformazione sociale, che demolirà le basi
economiche della monogamia, altrettanto certamente quanto quelle del
suo complemento: la prostituzione. La monogamia nacque dal concentrarsi
di grandi ricchezze in una stessa mano, cioè in quella di un uomo, e
dal bisogno di trasmettere queste ricchezze ai figli di quest'uomo,
ad esclusione di ogni altro. Perciò era necessaria la monogamia
non dell'uomo, ma della donna, ed essa non impedì punto l'aperta o
dissimulata poligamia dell'uomo. Ma la futura rivoluzione sociale, col
trasformare almeno la massima parte della ricchezza stabile ereditaria
— i mezzi di produzione — in proprietà sociale, ridurrà al minimo tutta
questa smania per le eredità. Ora, poichè la monogamia è nata da cause
economiche, sparirà essa collo sparire di queste?

Non senza ragione si potrebbe rispondere: non solo essa non sparirà, ma
comincerà anzi a veramente esistere per la prima volta; perciocchè, con
la trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà sociale, cessa
il lavoro salariato, cessa il proletariato, e quindi anche la necessità
per un certo numero di donne, che si può statisticamente calcolare,
di prestarsi ad altri per denaro. La prostituzione è soppressa, e la
monogamia, scambio di sparire, diverrà alfine una realtà.... anche per
gli uomini.

La condizione degli uomini sarà dunque, in ogni caso, assai modificata;
ma anche quella delle donne, di _tutte_ le donne, subirà importanti
cangiamenti. Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune,
la famiglia isolata cessa di essere l'unità economica della società.
L'economia domestica privata si trasforma in una industria sociale.
La cura e l'educazione dei figli diventa affare pubblico; la società
provvede ugualmente per i figli di tutti, legittimi o naturali, e cessa
con ciò la preoccupazione delle «conseguenze», che forma oggi il più
essenziale motivo sociale — morale ed economico — che impedisce a una
fanciulla di darsi francamente all'uomo che ama.

Ma non sarà questa una ragione sufficiente perchè sorga a poco a
poco una certa libertà dei rapporti sessuali e con essa un'opinione
pubblica meno rigorosa sull'onore verginale e sul pudore della donna? E
finalmente, non abbiamo noi veduto che, nel mondo moderno, monogamia e
prostituzione sono, è vero, un'antitesi, ma un'antitesi inscindibile,
due poli del medesimo stato speciale? Può la prostituzione cessare
senza trascinar seco nell'abisso la monogamia?

Qui entra efficacemente in gioco un nuovo fattore, un fattore, che
esisteva tutt'al più in germe allorchè la monogamia si venne formando:
l'amore sessuale individuale.

Prima del medio-evo non può parlarsi di amore sessuale individuale.
Certo, la bellezza personale, la familiarità, l'affinità di tendenze,
ecc., dovettero sempre destare in persone di diverso sesso il desiderio
di rapporti sessuali, nè, agli uomini come alle donne, potè essere
affatto indifferente con quale persona essi entrassero in tanta
intimità di relazioni. Ma da ciò al nostro amore sessuale v'è di mezzo
un abisso. In tutta l'antichità i connubii sono conchiusi dai genitori
per gl'interessati, che vi si acconciano tranquillamente. Quel briciolo
di amore coniugale, che l'antichità conobbe, non è già un'inclinazione
subiettiva, ma un dovere obiettivo, non la causa, ma il correlativo
del matrimonio. L'antichità non ci offre l'amore, nel senso moderno,
se non al difuori della società ufficiale. I pastori, di cui Teocrito
e Mosco ci cantano le gioie e le pene d'amore, il Dafni e la Cloe di
Longo, sono semplici schiavi, che non hanno parte veruna nello Stato,
la sfera d'azione del cittadino libero. Ma, al difuori degli schiavi,
non troviamo l'amore se non come prodotto di decomposizione del vecchio
mondo in isfacelo, e con donne estranee alla società ufficiale, con
Etére, ossia con straniere o con affrancate; in Atene alla vigilia del
suo tramonto, in Roma al tempo dell'Impero. Se veri amoreggiamenti
avvenivano tra cittadini e cittadine libere, eran sempre degli
adulterii. E al poeta classico dell'amore nell'antichità, al vecchio
Anacreonte, l'amore sessuale nel nostro senso era così indifferente,
che neanche gli importava il sesso della persona amata.

Il nostro amore sessuale è essenzialmente diverso dal semplice
desiderio sessuale, dall'_Eros_ degli antichi. In primo luogo, esso
presuppone il ricambio, e in ciò la donna è eguale all'uomo, mentre
essa, nell'antico _Eros_, non era neppur sempre interrogata. In secondo
luogo, l'amore sessuale ha un'intensità e una durata, per le quali il
non possedersi reciprocamente e la separazione appaiono ad entrambe le
parti come una grande, se non anche come la suprema sventura; per darsi
l'uno all'altro, ogni audacia è ben accetta, anche il rischio della
vita, ciò che nell'antichità non avveniva, tutt'al più, che in caso
d'adulterio. E finalmente, ai rapporti sessuali si applica una nuova
norma morale; non si chiede soltanto se siano legittimi o illegittimi,
ma ancora se sian generati da scambievole amore. Beninteso, anche
questa nuova norma morale, nella pratica feudale o borghese, subisce
il destino di tutte le altre: esser trasgredita. Ma non le avviene di
peggio. Come tutte le altre è riconosciuta in teoria — sulla carta. E
per ora non può pretender di più.

Il medioevo ripiglia l'amore sessuale a quel punto in cui l'ha lasciato
l'antichità; all'adulterio. Già descrivemmo l'amore cavalleresco che
inventò i _Tagelieder_: le canzoni del mattino. Da questo amore, che
tende a violare il matrimonio, sino a quello che deve fondarlo, c'è
un bel tratto che la cavalleria non correrà mai tutto intiero. Se
anche dai frivoli Provenzali passiamo ai virtuosi Tedeschi, troviamo
nel poema dei Nibelungi che, benchè Krimhilda nel suo segreto sia
innamorata di Sigifredo quanto questi di lei, basta che Gunther le
accenni di averla giurata a un cavaliero, che neppure le nomina,
perchè essa risponda: «Non occorre pregarmi; io sarò sempre ciò che
voi comandate; e a quell'uomo, che Voi, Signore, mi darete per marito,
mi fidanzerò volontieri.» Neanche le balena che il suo amore possa
in alcun modo meritare considerazione. Gunther chiede la mano di
Brunechilde, Etzel di Krimhilda, senz'averle mai viste; del pari, nella
_Gutrun_, Sigibante di Irlanda chiede sposa la norvegese Uta, Hetel di
Hegelingen chiede Ilda d'Irlanda, e finalmente Sigifredo di Morland,
Hartmut di Ormania e Herwing di Zelanda chiedono la mano di Gutrun; e
qui solo avviene che questa si decida spontaneamente per l'ultimo. Di
regola, la sposa del giovane principe è scelta dai suoi genitori, se
viventi, se no da lui stesso ma dietro il parere dei grandi feudatari,
che ha sempre un gran peso. Nè può essere altrimenti, dacchè pel
cavaliere o pel barone, come per lo stesso principe, le nozze sono un
atto politico, un occasione d'ingrandirsi il potere con nuove alleanze;
l'interesse della _casa_, non il capriccio dell'individuo, è ciò
che decide. E come mai dunque spetterebbe all'amore di dire l'ultima
parola?

Non diverso era il destino dei cittadini stretti in corporazione
nelle città medioevali. I privilegi stessi che li proteggevano, quei
regolamenti corporativi pieni di clausole, le barriere artificiali che
li dividevano legalmente, quà dalle altre corporazioni, là dai compagni
della stessa corporazione, altrove dai garzoni e dagli apprendisti,
limitavano ancor più la cerchia già abbastanza angusta, entro la quale
essi potevano cercarsi una sposa conveniente. E quale fosse fra tutte
la più conveniente, decideva inappellabilmente, in cotesto complicato
sistema, non già il loro gusto individuale, ma l'interesse della
famiglia.

Così le nozze, dalla loro origine sino alla fine del medio evo,
rimasero sottratte, nella immensa maggioranza dei casi, alla decisione
degl'interessati. Da principio si veniva al mondo già conjugati con un
intero gruppo dell'altro sesso. Nelle forme successive del connubio
per gruppi, probabilmente il sistema rimase quello, ma i gruppi
andarono sempre restringendosi. Nel connubio sindiasmico è regola che
le madri negoziino i maritaggi dei figli; anche allora il criterio è
la ricerca di vincoli di parentela, che procaccino alla giovane coppia
una posizione più forte nella _gente_ e nella tribù. E allorchè,
col prevalere della proprietà privata sulla proprietà comune e cogli
interessi successorii, trionfarono il diritto paterno e la monogamia,
allora per la prima volta le nozze subirono l'imperio assoluto
delle preoccupazioni economiche. Cessò la _forma_ del matrimonio per
compra, ma la cosa rimase sempre più quella stessa, talchè non la sola
donna, ma anche l'uomo ebbe un prezzo — non in ragione delle qualità
personali, ma in ragione de' suoi beni. In pratica e sin dalle origini,
era cosa affatto inaudita fra le classi dominanti che la simpatia mutua
degli interessati potesse essere il motivo prevalente delle nozze: ciò
non avveniva che nei romanzi, oppure fra le classi oppresse che non
contavano affatto.

Tali le condizioni che trovò la produzione capitalistica, allorchè
questa, dall'epoca delle scoperte geografiche, si apparecchiò, col
commercio internazionale e con la manifattura, a conquistare il dominio
del mondo. Si dovette pensare che questa maniera di connubii le fosse
la più conveniente, e realmente lo fu. E tuttavia — oh! imperscrutabile
ironia della storia! — era essa medesima che doveva aprirvi la breccia
decisiva. Tutto trasformando in merci, essa dissolvette tutti i vecchi
rapporti tradizionali, e al costume ereditato, al diritto storico,
sostituì la compra e la vendita, il «libero» contratto. È questa
la constatazione che, credendo d'aver fatta una grande scoperta,
annunciava il giurista inglese H. S. Maine, dicendo che tutto il nostro
progresso sulle epoche passate consiste nell'esserci elevati _from
status to contract_, quanto dire da istituzioni ereditarie a uno stato
di cose liberamente consentito; ma essa, in quanto è vera, si trovava
già nel _Manifesto dei comunisti_.

Senonchè, per contrattare, converrebbe poter disporre liberamente di
sè, delle proprie azioni e de' proprii beni, e godere uguaglianza di
diritto cogli altri contraenti. Creare persone «libere» ed «eguali»,
fu appunto uno dei cómpiti principali della produzione capitalistica.
Benchè da principio ciò avvenisse in modo semicosciente e per giunta
sotto un involucro religioso, pure la riforma luterana e calvinista
fissò la massima, che l'uomo non è del tutto responsabile dei suoi
fatti se non li compie con piena libertà di volere, e che è dovere
morale resistere contro qualsiasi coazione ad azioni immorali. Ma come
porre ciò d'accordo con la pratica delle nozze invalsa fino allora? Le
nozze, nel concetto borghese, erano un contratto, un negozio giuridico,
e il più importante di tutti, perchè disponeva, per tutta la vita,
del corpo e dello spirito di due esseri umani. Formalmente esse erano
libere, esigendosi il consenso degl'interessati; ma si sapeva troppo
bene come questo consenso si otteneva, e quali erano i veri contraenti.
Or se, ad ogni altro contratto, richiedevasi una reale libertà di
decisione, perchè non la si richiedeva per le nozze? Non avevano dunque
i due giovani fidanzati il diritto di disporre liberamente di sè, del
loro corpo e dei suoi organi? Non era forse venuto di moda l'amore
sessuale, grazie alla cavalleria, e, di fronte agli adulteri amori di
questa, non era l'amore coniugale la sua vera forma borghese? Ma, se il
dovere dei coniugi era di amarsi, non era forse con altrettanta ragione
il dovere degli amanti quello di sposarsi fra loro e non con altri? Non
era superiore, questo diritto degli amanti, a quello dei genitori, dei
parenti e degli altri tradizionali paraninfi e mezzani di nozze? Se il
libero esame personale era francamente ammesso come diritto individuale
nella Chiesa e nella religione, come poteva esso venir meno innanzi
all'intollerabile pretesa della vecchia generazione di disporre del
corpo, dell'anima, della fortuna, della felicità e dell'infelicità
della generazione più giovane?

Tali questioni ben dovevano venir poste in un tempo che rallentava
tutti i vecchi vincoli sociali e scuoteva tutti i concetti
tradizionali. Il mondo si era, d'un colpo, decuplicato; non più un
quarto di emisfero, ma l'intero globo terraqueo si spiegava davanti
agli europei occidentali, che si affrettavano a prendere possesso
degli altri sette quarti. E come i vecchi angusti limiti della
patria, così cadevano le frontiere millennarie imposte al pensiero
dal medio evo. All'occhio esterno come all'occhio interno dell'uomo
si apriva un orizzonte infinitamente più vasto. Che importavano il
decoro e l'onorevole privilegio corporativo, trasmesso di generazione
in generazione, al giovane cui allettavano le ricchezze delle Indie,
le miniere d'oro e d'argento del Messico e di Potosi? Fu questo il
tempo dei cavalieri erranti della borghesia; ebbe ancor essa il suo
romanticismo e i suoi delirii amorosi, ma su piede borghese e con fini
essenzialmente borghesi.

Così avvenne che la nascente borghesia, massime dei paesi protestanti,
nei quali fu più scossa la tradizione, riconobbe sempre più anche pel
matrimonio la libertà del contratto, applicandola come si è detto. Il
matrimonio restò matrimonio di classe, ma entro la classe fu concesso
agli interessati un certo grado di libertà di scelta. E sulla carta,
nelle teorie morali come nelle descrizioni poetiche, nulla fu più
inconcusso della tesi, che è immorale ogni matrimonio non fondato
sull'amore sessuale reciproco e sull'accordo veramente libero degli
sposi. Insomma il matrimonio d'amore fu proclamato un diritto umano, e
non solo un _droit de l'homme_, ma anche, per eccezione, un _droit de
la femme_.

Ma v'era un punto nel quale questo diritto umano distinguevasi da
tutti gli altri cosiddetti diritti umani. Mentre questi, in pratica,
erano limitati alla classe dominante, alla borghesia, e direttamente o
indirettamente sequestravansi al proletariato, qui sogghigna un'altra
volta l'ironia della storia. La classe dominante rimane dominata dalle
note influenze economiche e solo in casi eccezionali contrae matrimonii
veramente liberi, mentre questi nella classe soggetta sono, come
vedemmo, la regola.

La completa libertà delle nozze non può quindi, in generale, aver
luogo se non quando l'abolizione della produzione capitalistica e
dei rapporti di proprietà da essa creati, abbia tolte di mezzo tutte
le preoccupazioni economiche che ancor dominano così potentemente
la scelta degli sposi. Solo allora rimarrà, unico motivo, la mutua
simpatia.

Or, poichè l'amore sessuale è di sua natura, esclusivo — sebbene
oggidì questo esclusivismo non si avveri frattanto che nella donna
— il connubio fondato sull'amore sessuale è, di sua natura, connubio
individuale. Vedemmo quanta ragione aveva Bachofen di considerare il
progresso dal connubio per gruppi al connubio individuale come l'opera
sopratutto delle donne; solo il passaggio dal connubio sindiasmico
alla monogamia è dovuto agli uomini; e, storicamente, esso sopratutto
peggiorò la condizione delle donne e agevolò la infedeltà degli uomini.
Se ora cesseranno anche le preoccupazioni economiche, per le quali
le donne devono tollerare quest'abituale infedeltà degli uomini — la
preoccupazione per la propria esistenza e, più ancora, per l'avvenire
dei figli — la conseguente eguaglianza della donna spingerà assai più,
se dobbiamo affidarci a tutta l'esperienza del passato, gli uomini a
diventare realmente monogami, che non le donne a diventare poliandre.

Ma ciò che decisamente sparirà dalla monogamia saranno tutti quei
caratteri che le impresse l'origine ch'essa ebbe dai rapporti di
proprietà, e cioè, in primo luogo, il predominio dell'uomo, e,
in secondo luogo, l'indissolubilità. Il predominio dell'uomo nel
matrimonio non è che la conseguenza del suo predominio economico,
e cade con questo. L'indissolubilità del matrimonio è in parte
effetto della condizione economica onde nacque la monogamia, in parte
tradizione del tempo in cui il nesso di questa condizione economica
con la monogamia era ancora mal compreso e spinto all'estremo dalla
religione. Già oggi essa subì mille strappi. Se è morale soltanto il
matrimonio fondato sull'amore, sarà del pari morale soltanto quello
in cui l'amore persiste. La durata dell'amore sessuale individuale
è molto diversa secondo gli individui, massime negli uomini, e se
esso positivamente vien meno, o una nuova passione gli subentra,
il divorziare diventa un benefizio per entrambe le parti come per
la società. A che prò impantanarsi per questo in un processo di
separazione?

Ciò che noi dunque possiamo oggi congetturare sull'ordinamento
dei rapporti sessuali, che seguirà al non lontano tramonto della
produzione capitalistica, è sopratutto d'indole negativa, e si limita
principalmente a ciò che sarà eliminato. Ma e quello che verrà in
appresso? Ciò sarà deciso dopochè una nuova generazione sarà cresciuta;
una generazione di uomini che mai nella vita non si siano trovati nel
caso di acquistare i favori di una donna per danaro o con altri mezzi
di coazione sociale; e una generazione di donne che mai non si siano
trovate in condizione nè di doversi dare ad un uomo per altri motivi
che di un vero amore, nè di doversi ricusare a colui che amano, per
timore delle conseguenze economiche. E quando tal gente sarà nata,
certo sarà l'ultima delle sue inquietudini quella di sapere che cosa
noi almanaccammo ch'essa avesse da fare; essa si creerà da sè la
propria condotta e un'opinione pubblica foggiata sopra questa per
giudicare la condotta dei singoli. E basti di ciò.

Ritorniamo ora a Morgan, dal quale ci siamo un bel po' dilungati.
L'indagine storica delle istituzioni sociali, sviluppatesi durante
l'epoca civile, esorbita dal quadro del suo libro. Le sorti, quindi,
della monogamia durante questo periodo poco lo preoccupano. Anch'egli,
nell'ulteriore sviluppo della famiglia monogamica, vede un progresso,
un'approssimazione alla completa eguaglianza di diritto dei sessi;
tale scopo non gli sembra raggiunto. Ma, egli dice, «se si riconosce
il fatto che la famiglia ha percorso successivamente quattro forme,
e trovasi ora in una quinta, nasce il problema se questa forma durerà
anche in avvenire. L'unica risposta possibile è questa, che essa deve
progredire come progredisce la società, modificarsi a misura che questa
si modifica, il tutto come sinora. Essa è la figlia del sistema sociale
e deve rifletterne lo stato di civiltà. Poichè la famiglia monogamica
si è migliorata dal principio dell'epoca civile, e sopratutto nei
tempi moderni, si può almeno presumere che essa sia capace di ulteriore
perfezionamento, sino a raggiungere l'eguaglianza dei sessi. Se in un
lontano avvenire la famiglia monogamica non dovesse più corrispondere
alle esigenze della società, è impossibile predire la natura di quella
che verrà in sua vece.»



III. La Gente Irocchese.


Ed eccoci a un'altra scoperta di Morgan, almeno altrettanto importante
quanto la ricostruzione delle antiche forme di famiglia dai sistemi
di parentela. La prova che i gruppi consanguinei, designati nelle
tribù degli Indiani americani con nomi di animali, sono essenzialmente
identici ai _genea_ dei Greci, alle _gentes_ dei Romani; che la forma
americana è la originale, la greco-romana è la posteriore, la derivata;
che tutta l'organizzazione sociale dei Greci e dei Romani primitivi
in _genti, fratrie_ e _tribù_ trova il suo fedele parallelo fra gli
Indiani americani; che la _gente_ è una istituzione comune a tutti
i barbari sino alla loro entrata nell'epoca civile e anche più tardi
(per quanto almeno attestano sinora le nostre fonti) — questa prova
chiarì, d'un colpo, le parti le più difficili delle più antiche storie
greche e romane, e gettò insieme una luce inattesa sui fondamenti della
costituzione sociale dei tempi antichi, anteriori al sorgere dello
Stato. Per quanto la cosa sembri semplice, una volta conosciuta, Morgan
non l'ha scoperta che recentemente; nel suo lavoro del 1871, egli non
aveva ancora penetrato questo segreto, la cui rivelazione rese mogi i
cultori inglesi della preistoria, già così baldanzosi.

La parola latina _gens_, che Morgan impiega in generale per questi
gruppi consanguinei, come la parola greca _genos_, che ha lo stesso
significato, deriva dalla radice comune aria _gan_ (in tedesco, dove
di regola l'ario _g_ diventa _k, kan_) che significa _generare_.
_Gens, genos_, sanscrito _dschanas_, gotico (giusta la suddetta
regola) _kunî_, vecchio norvegese e anglosassone _kyn_, inglese _kin_,
alto-tedesco del medio-evo _künne_, significano egualmente _stirpe,
origine_. Ma _gens_ in latino, _genos_ in greco, si usa specialmente
per quel gruppo di consanguineità, che vanta comune origine (nel caso
nostro, da un capostipite comune) ed è unito da certe istituzioni
sociali e religiose in una comunità particolare, la cui genesi e la cui
natura, ciò mal grado, rimasero sinora oscure a tutti i nostri storici.

Già vedemmo, trattando della famiglia _punalua_, che cosa sia la
composizione di una _gente_ nella sua forma originaria. Essa consiste
di tutti coloro che, mediante il connubio _punalua_ e i concetti in
esso necessariamente dominanti, formano la prole riconosciuta di una
determinata progenitrice, fondatrice della _gente_. Poichè in questa
forma di famiglia la paternità è incerta, la discendenza non conta che
in linea femminile. Poichè i fratelli non possono sposare le sorelle,
ma solo donne di altra stirpe, così i figli procreati con queste
cadono, giusta il diritto materno, fuori della _gente_. Rimangono
quindi nella cerchia parentale solo i discendenti delle _figlie_ di
ogni generazione; quelli dei figli passano nelle _genti_ delle loro
madri. Che diviene ora questo gruppo di consanguinei, tosto che esso si
costituisce come gruppo particolare, di fronte a gruppi analoghi di una
stessa tribù?

Come forma classica di questa _gente_ primitiva Morgan prende quella
degl'Irocchesi, specialmente della tribù Senecca. Questa si divide in
otto _genti_, designate con nomi di animali: 1.º _Lupo_, 2.º _Orso_,
3.º _Testuggine_, 4.º _Castoro_, 5.º _Cervo_, 6.º _Beccaccia_, 7.º
_Airone_, 8.º _Falco_. In ogni _gente_ regnano i costumi seguenti:

1.º Essa elegge il _Sachem_ (capo in tempo di pace) e il Capitano,
o duce in guerra. Il _Sachem _doveva essere eletto nella _gente_,
e il suo uffizio era in essa ereditario, inquantochè in caso di
vacanza doveva venir ricoperto immediatamente; il Capitano poteva
anche eleggersi fuori della _gente_, e talora mancare affatto. Non
si eleggeva mai _Sachem_ il figlio del predecessore, poichè, regnando
fra gli Irocchesi il diritto materno, il figlio apparteneva a un'altra
_gente_; sì bene, spesso, il fratello, o il figlio della sorella. Nella
elezione votavano tutti, uomini e donne. Ma l'elezione doveva essere
sanzionata dalle altre sette _genti_, e solo allora l'eletto veniva
solennemente insediato dal Consiglio generale di tutta la federazione
irocchese. L'importanza di ciò si vedrà più tardi. Il potere del
_Sachem_ nella _gente_ era paterno, di natura meramente morale; egli
non aveva mezzi coercitivi. Egli era inoltre, per ragione di carica,
membro del Consiglio della tribù dei Senecca, come pure del Consiglio
federale della collettività irocchese. Il Capitano non comandava che
nelle spedizioni guerresche.

2.º Essa depone a suo talento il Sachem e il Capitano. Anche la
deposizione è fatta insieme dagli uomini e dalle donne. I deposti
ridiventano persone private, semplici guerrieri come gli altri. Del
resto il Consiglio della tribù può altresì deporre i _Sachem_, anche
contro il volere della _gente_.

3.º I membri della _gente_ non possono conjugarsi fra loro. È questa
la regola fondamentale della _gente_, il vincolo che la tiene unita;
essa è l'espressione negativa della ben positiva parentela di sangue,
solo in virtù della quale quei dati individui diventano una _gente_.
Colla scoperta di questo semplice fatto, Morgan ha svelato per la prima
volta la natura della _gente_. Quanto poco essa fosse fino allora
stata compresa, lo dimostrano le relazioni anteriori sui selvaggi e
sui barbari, nelle quali i differenti corpi, onde si compone l'ordine
_gentile_, venivano confusi alla cieca sotto nome di _tribù, clan,
thum_, ecc., e dicevasi talora che dentro di essi era vietato il
matrimonio. Di qui la inestricabile confusione, nella quale Mac Lennan,
da vero Napoleone, mise ordine con questo decreto: «Tutte le tribù si
dividono in quelle fra i cui membri è vietato il matrimonio (_esogame_)
e quelle in cui esso è concesso (_endogame_).» E dopo aver così bene
imbrogliata le cose, potè darsi alle più profonde indagini, per sapere
quale delle sue due assurde classi fosse la più vecchia: la esogamica
o la endogamica. Colla scoperta della _gente_ fondata sulla parentela
di sangue, e sulla conseguente impossibilità di connubii tra i suoi
membri, quest'assurdità cadeva da sè. — È sottinteso che, nello stadio
in cui troviamo gli Irocchesi, il divieto delle nozze fra i membri
della _gente_ è ritenuto inviolabile.

4.º I beni dei defunti spettavano ai compagni _gentili_; dovevano
rimanere nella gente. Stante la tenuità degli oggetti, che poteva
lasciare un Irocchese, partecipavano all'eredità i più prossimi parenti
_gentili_; se moriva un uomo, i suoi fratelli e sorelle carnali e
lo zio materno; se una donna, i figli e le sorelle carnali, non i
fratelli. Analogamente non potevano ereditare il marito e la moglie a
vicenda, nè i figli dal padre.

5.º I compagni _gentili_ si dovevano aiuto scambievole, protezione e
sopratutto assistenza nel vendicare le offese ricevute da stranieri.
L'individuo si affidava per la sua sicurezza alla difesa della
_gente_, e lo poteva; chi l'offendeva, offendeva tutta la _gente_.
Di qui, dai vincoli di sangue della _gente_, nacque il dovere della
vendetta, interamente riconosciuto dagli Irocchesi. Se un estraneo
uccideva un compagno _gentile_, tutta la _gente_ dell'ucciso era
obbligata alla vendetta. Tentavasi anzitutto un accomodamento; la
_gente_ dell'uccisore teneva consiglio e presentava al Consiglio della
_gente_ dell'ucciso proposte di pacificazione, offrendo per lo più
espressioni di rammarico e cospicui donativi. Se venivano accettati,
tutto era finito. In caso diverso, la _gente_ offesa nominava uno o più
vendicatori, obbligati a perseguitare l'uccisore ed ucciderlo. Se ciò
avveniva, la _gente_ dell'ucciso non aveva alcun diritto di dolersene;
la contesa era pareggiata.

6.º La _gente_ ha determinati nomi o serie di nomi, che essa sola può
adoperare in tutta la tribù, sicchè il nome di ciascuno dice tosto a
quale _gente _esso appartenga. Un nome _gentile_ porta in sè stesso
diritti _gentili_.

7.º La _gente_ può adottare stranieri e affiliarli così alla tribù. I
prigionieri di guerra, che non venivano uccisi, divenivano, mediante
l'adozione in una _gente_, membri della tribù dei Senecca e ricevevano
con ciò tutti i diritti della _gente_ e della tribù. L'adozione
avveniva su proposta di compagni gentili, uomini, che accoglievano
lo straniero come fratello o sorella, o donne, che lo accoglievano
come figlio; il solenne ricevimento nella _gente_ era necessario come
sanzione. Spesso una _gente_ eccezionalmente ridotta di numero si
rinforzava così coll'adozione in massa di un'altra _gente_, che vi
consentiva. Fra gli Irocchesi il solenne ricevimento nella _gente_
aveva luogo in seduta pubblica del Consiglio della tribù, per lo che
esso diveniva effettivamente una cerimonia religiosa.

8.º È difficile constatare solennità religiose speciali nelle _genti_
indiane, ma le cerimonie religiose degli Indiani coincidono più o
meno con quelle delle _genti_. Nelle sei feste religiose annue degli
Irocchesi i _Sachem_ e i Capitani delle singole _genti_, per ragione
della carica, erano annoverati tra i «custodi della fede» e avevano
funzioni sacerdotali.

9.º La _gente_ ha un cimitero comune. Questo è sparito presso gli
Irocchesi dello Stato di Nuova-York, circondati ora dai bianchi, ma
un tempo esisteva. Presso altri Indiani esso esiste ancora; così i
_Tuscarora_, prossimi parenti agli Irocchesi, hanno nel camposanto,
sebbene cristiani, una fila distinta per ogni _gente_, sicchè la madre
viene seppellita nella stessa fila dei figli, ma non il padre. E anche
presso gli Irocchesi, tutta la _gente_ di un defunto va ai funerali,
provvede alla sepoltura, ai discorsi funebri, ecc.

10.º La _gente_ ha un Consiglio, assemblea democratica di tutti i
_gentili_ adulti, uomini e donne, tutti con eguale diritto di voto.
Questo Consiglio eleggeva _Sachem_ e Capitani e li deponeva; del
pari gli altri «custodi della fede»; decideva circa la composizione
(_guidrigildo_) o la vendetta pei _gentili _uccisi; adottava stranieri
nella _gente_. Insomma era, nella _gente_, il potere sovrano.

Queste sono le attribuzioni di una _gente_ tipica indiana. «Tutti
i suoi membri sono liberi, obbligati a difendere l'uno la libertà
dell'altro; eguali nei diritti personali — nè _Sachem_ nè Capitani
pretendono qualsiasi preferenza; essi formano una fratellanza legata
da vincoli di sangue. Libertà, eguaglianza, fratellanza, sebbene non
mai formulate, erano i principii fondamentali della _gente_, e questa
era, a sua volta, l'unità di tutto un sistema sociale, la base della
società indiana organizzata. Ciò spiega l'inflessibile sentimento
d'indipendenza e la dignità personale dell'incesso, che ognuno
riconosce negli Indiani.»

Al tempo della scoperta, gli Indiani di tutto il Nord dell'America
erano organizzati in _genti_, secondo il diritto materno. Solo in
alcune tribù, come quella dei _Dacotas_, le _genti_ erano sparite, e in
alcune altre, gli _Ojibwas_, gli _Omahas_, erano organizzate secondo il
diritto paterno.

In moltissime tribù indiane composte di più di cinque o sei _genti_,
noi troviamo tre, quattro o più _genti_ riunite in un gruppo
particolare, che Morgan, fedelmente traducendo il nome indiano,
chiama _fratrie_ (fratellanze) giusta il suo corrispondente greco.
Così i Senecca hanno due fratrie; la 1.ª abbraccia le _genti_ 1 a 4,
la 2ª le _genti_ 5 a 8. Un esame più approfondito mostra che queste
fratrie rappresentano per lo più le _genti_ originarie, nelle quali la
tribù si divise in principio; poichè, pel divieto delle nozze entro
la _gente_, ogni tribù doveva abbracciare necessariamente almeno due
genti, per avere un esistenza autonoma. A misura che cresceva la tribù,
ogni _gente_ dividevasi a sua volta in due o più, ognuna delle quali
appariva come una _gente_ speciale, mentre la _gente_ originaria,
che abbraccia tutte le _genti_ figlie, perdurava come fratria. Nei
Senecca e nella maggior parte degli altri Indiani le _genti_ di una
fratria sono _genti_ sorelle, mentre quelle delle altre sono cugine
— designazioni che, come vediamo nel sistema di parentela americana,
hanno un senso molto reale ed espressivo. In origine nessun Senecca
poteva coniugarsi neanche nella sua fratria, ma ciò è da lungo tempo
caduto e fu limitato alla _gente_. Era tradizione dei Senecca, che
l'_Orso_ e il _Cervo_ fossero le due _genti_ originarie, dalle quali
si sarebbero diramate le altre. Codesta nuova istituzione, una volta
radicata, veniva modificata secondo il bisogno; se date _genti_ di una
fratria si estinguevano, intere _genti_ di altre fratrie entravano
in quella, per ricondurre l'equilibrio. Perciò in differenti tribù
troviamo _genti_ di egual nome aggruppate diversamente nelle fratrie.

Le funzioni della fratria fra gli Irocchesi sono in parte sociali, in
parte religiose.

1.º Le fratrie fanno tra loro il giuoco della palla; ciascuna mette
innanzi i suoi migliori giuocatori, gli altri stanno spettatori; ogni
fratria ha un posto speciale, e scommettono l'una contro l'altra sulla
vittoria dei loro.

2. Nel Consiglio della tribù i _Sachem_ e i Capitani di ogni fratria
siedono insieme, i due gruppi l'uno di fronte all'altro; ogni oratore
parla ai rappresentanti di ciascuna fratria come a una corporazione
particolare.

3.º Se era avvenuto un omicidio nella tribù e l'uccisore e l'ucciso non
appartenevano alla medesima fratria, la _gente_ offesa faceva spesso
appello alle sue _genti_ fraterne; queste tenevano un Consiglio di
fratria e si rivolgevano all'altra fratria come collettività, affinchè
questa riunisse del pari un Consiglio per l'accomodamento della cosa.
Qui la fratria ripresentasi quindi come _gente_ originaria, e con
maggiore probabilità di successo della _gente_ isolata e più debole,
sua figlia.

4.º Morendo una persona ragguardevole, la fratria opposta si assumeva i
funerali ed il seppellimento, mentre quella del defunto partecipava al
lutto. Se moriva un _Sachem_, la fratria opposta annunziava la vacanza
dell'uffizio al Consiglio federale degli Irocchesi.

5.º Per la elezione di un _Sachem_ interveniva del pari il Consiglio
delle fratrie. La sanzione delle _genti_ fraterne si aveva pressochè
per sottintesa, ma le _genti_ dell'altra fratria potevano opporsi.
In tal caso si riuniva il Consiglio di questa fratria; se sosteneva
l'opposizione, l'elezione era nulla.

6.º In passato gli Irocchesi avevano particolari misteri religiosi,
chiamati dai bianchi _medicine-lodges_. Questi erano celebrati
fra i Senecca da due Società religiose, aventi regolare diritto
di consacrazione pei nuovi membri; a ciascuna delle due fratrie
apparteneva una di queste Società.

7.º Se, com'è quasi certo, i quattro _linages_ (lignaggi, schiatte),
che abitavano i quattro quartieri del _Tlascalà_ al tempo della
conquista, erano quattro fratrie, è con ciò dimostrato che le fratrie,
come fra i Greci e come le analoghe associazioni di schiatte fra i
Germani, contavano anche come unità militari; questi quattro _linages_
andavano in guerra, ciascuno formando uno speciale drappello, con
uniforme e bandiera propria e sotto proprii condottieri.

Come parecchie _genti_ una fratria, così, nella forma classica,
parecchie fratrie fanno una tribù; in molti casi, nelle tribù molto
indebolite, manca l'anello di congiunzione, la fratria.

Or che cos'è che caratterizza una tribù indiana d'America?

1.º Un territorio proprio e un proprio nome. Ogni tribù, oltre il
luogo di sua vera sede, possedeva un esteso territorio per la caccia
e per la pesca. Al di là, v'era una vasta zona neutra che si estendeva
sino al territorio della tribù più vicina, ed era meno larga fra tribù
di linguaggio affine, più larga fra tribù di linguaggio non affine.
È questa la «foresta limitrofa» dei Germani, il deserto che creano
intorno al loro territorio gli Svevi di Cesare, l'«_îsarnholt_» (danese
_jarnved_, _limes danicus_) tra danesi e alemanni, il _Sachsenwald_
(selva sassone) e il _branibor_ (che vale, in slavo, _selva
protettrice_), donde ha nome il Brandeburgo, fra alemanni e slavi.
Il territorio, così rinchiuso fra incerti confini, era il dominio
comune della tribù, tale riconosciuto dai vicini, e che essa doveva
difendere dalle usurpazioni. Per lo più, in pratica, l'incertezza dei
confini non nuoceva se non quando la popolazione era molto cresciuta.
— I nomi delle tribù sembrano, il più spesso, nati accidentalmente
anzichè scelti a disegno; spesso col tempo avveniva che una tribù
fosse designata dalle vicine con un nome diverso da quello con cui si
chiamava essa stessa; così gli Alemanni ricevettero dai Celti il loro
primo nome storico collettivo di Germani.

2.º Un dialetto speciale, proprio soltanto a quella tribù. Infatti,
tribù e dialetto non fanno che uno; testè ancora in America, tribù e
dialetti nuovi formavansi per scissione; forse se ne formano ancora. Se
due tribù indebolite si fondono in una, avviene, in via di eccezione,
che nella stessa tribù si parlino due dialetti cognati.

La forza media della tribù americana è sulle 2000 teste; i Cerocchesi
però ne contano 26,000, il più gran numero d'indiani negli Stati Uniti
che parlino lo stesso dialetto.

3.º Il diritto d'insediare solennemente _Sachem_ e Capitani eletti
dalle _genti_; e

4.º Il diritto di deporli anche contro il volere della loro _gente_.
_Sachem_ e Capitani essendo membri del Consiglio della tribù, si
spiegano da sè questi diritti della tribù di fronte ad essi. Dove più
tribù federavansi, questi diritti passavano al loro Consiglio federale.

5.º Idee religiose (mitologia) e funzioni del culto comuni. «Gli
Indiani erano, alla loro maniera barbara, un popolo religioso». La
loro mitologia non fu ancora studiata con metodo critico; essi già si
figuravano sotto forme umane l'incarnazione delle loro idee religiose
— spiriti d'ogni sorta — ma lo stadio inferiore della Barbarie, in
cui si trovavano, non conosce ancora le rappresentazioni simboliche,
i cosiddetti idoli. È un culto naturale ed elementare, evolvente al
politeismo. Le differenti tribù avevano le loro feste periodiche, con
determinate forme di culto, sopratutto la danza e i giuochi; le danze
in particolare erano un elemento sostanziale di tutte le solennità
religiose; ogni tribù ne aveva di speciali.

6.º Un Consiglio della tribù per gli affari comuni. Esso era
composto di tutti i _Sachem_ e Capitani delle singole _genti_, loro
rappresentanti reali perchè sempre deponibili; sedeva pubblicamente
circondato dagli altri membri della tribù, che avevano diritto di
interquerire e di esporre la propria opinione; il Consiglio deliberava.
Ordinariamente ogni presente veniva udito a sua richiesta, e anche
le donne potevano esporre le loro idee mediante un oratore di loro
scelta. Fra gli Irocchesi la decisione definitiva doveva essere
presa all'unanimità, ciò che avveniva anche per talune decisioni
delle comunità di _marca_ alemanne. Al Consiglio della tribù spettava
sopratutto disciplinare i rapporti colle tribù straniere; esso inviava
o riceveva ambasciatori, dichiarava la guerra e conchiudeva la pace. Se
scoppiava la guerra, per lo più era fatta da volontarii. Per massima
ogni tribù era considerata in istato di guerra con ogni altra, colla
quale non avesse conchiuso un esplicito trattato di pace. Guerrieri
eminenti organizzavano per lo più tali spedizioni, indicendo una
danza di guerra; chi danzava dichiarava con ciò di partecipare alla
spedizione. La colonna era subito allestita e posta in movimento.
Anche la difesa del territorio di una tribù attaccata era fatta per lo
più con l'appello di volontarii. La partenza e il ritorno di siffatte
colonne davano sempre occasione a pubbliche festività. L'assenso del
Consiglio della tribù a simili spedizioni non era necessario, e non
veniva nè chiesto, nè dato. Sono, in fondo, le spedizioni private
di guerra delle compagnie militari dei Germani, quali ce le descrive
Tacito, colla differenza che, fra i Germani, queste compagnie hanno già
assunto un carattere stabile, formano un nucleo fisso, già organizzato
in tempo di pace, e intorno al quale, allo scoppiar della guerra, si
aggruppano gli altri volontarii. Di rado tali colonne di guerra erano
numerose; le più importanti spedizioni degli Indiani, anche a grandi
distanze, erano eseguite da tenui forze di combattimento. Se parecchie
di siffatte compagnie si riunivano per una grande impresa, ciascuna
non ubbidiva che al suo condottiero; l'unità del piano di campagna era,
bene o male, assicurata da un Consiglio di questi capi. È insomma, il
modo di guerra degli Alemanni nel quarto secolo sull'alto Reno, quale
lo vediamo descritto in Ammiano Marcellino.

7.º In alcune tribù troviamo un capo supremo, le cui attribuzioni sono
però molto limitate. È uno dei _Sachem_ che, nei casi che richiedono
rapida azione, deve prendere misure provvisorie fino a che il Consiglio
possa riunirsi e deliberare definitivamente. Non è che un debole germe,
per lo più destinato a isterilirsi, di un funzionario munito di potere
esecutivo; più spesso, se non sempre, come vedremo, un tale funzionario
si svilupperà dal duce supremo di guerra.

La grande maggioranza degli Indiani americani non oltrepassò la
riunione in tribù. Poco numerose, separate l'una dall'altra da vaste
zone di confine, indebolite da eterne guerre, esse possedevano con
pochi uomini un territorio immenso. Qua e là si formavano alleanze
fra tribù affini per la necessità del momento e cadevano con essa.
Ma in talune contrade, dopo la disgregazione, tribù originariamente
affini eransi riunite di nuovo in federazioni permanenti, primo passo
alla formazione di nazioni. Negli Stati Uniti, la forma più evoluta
di tale federazione la troviamo presso gli Irocchesi. Abbandonate
le loro sedi all'ovest del Mississipì, dove probabilmente formavano
un ramo della grande famiglia dei _Dacota_, essi si stabilirono,
dopo lunghe migrazioni, nell'odierno Stato di Nuova-York, divisi in
cinque tribù: Senecca, Caiuga, Onondoga, Onieda e Mohawks. Vivevano di
pesce, di selvaggina e di grossolani ortaggi; abitavano villaggi cinti
per lo più da palizzate. Senza aver mai superato le 20 mila anime,
avevano parecchie _genti_ comuni in tutte le cinque tribù, parlavano
dialetti affini dello stesso idioma e possedevano una sola distesa
di territorio, divisa fra le cinque tribù. Questo territorio essendo
di recente conquista, l'unione abituale di coteste tribù contro i
cacciati era naturale, e sviluppossi, al più tardi in principio del
secolo XV, in una formale confederazione che, conscia della sua nuova
forza, assunse tosto un carattere aggressivo, e, all'apice del suo
potere, verso il 1675, aveva conquistato nei dintorni vaste contrade,
esiliando parte degli abitatori, rendendo tributaria l'altra parte.
La federazione Irocchese presenta l'organizzazione sociale la più
progredita a cui fossero giunti gli Indiani, finchè non ebbero varcato
lo stadio inferiore della Barbarie (eccettuati quindi i Messicani,
i Neo-Messicani e i Peruviani). Le basi della federazione erano le
seguenti:

1.º Confederazione perpetua, sul principio della completa eguaglianza e
autonomia in tutti gli affari interni delle cinque tribù consanguinee.
Questa consanguineità era il vero fondamento della federazione. Delle
cinque tribù, tre chiamavansi tribù-madri, ed erano sorelle tra loro;
le altre due si chiamavano tribù-figlie, ed erano del pari tra loro
tribù-sorelle. Tre _genti_ — le più antiche — vivevano ancora in tutte
le cinque tribù, tre altre in tre sole tribù; i membri di ognuna di
queste _genti_ erano fratelli in tutte le cinque tribù. Il linguaggio
comune, con differenze solo dialettali, era l'espressione e la prova
della origine comune.

2.º L'organo della federazione era un Consiglio federale di cinquanta
_Sachem_, tutti eguali di grado e di considerazione; questo Consiglio
decideva definitivamente su tutti gli affari della federazione.

3.º Questi cinquanta _Sachem_, al sorgere della federazione, erano
stati distribuiti fra le tribù e le _genti_, come incaricati di nuovi
uffizii, istituiti espressamente per fini federali. Ad ogni vacanza,
essi erano rieletti dalle _genti_ rispettive, che potevano sempre
deporli; ma il diritto di insediarli nell'uffizio spettava al Consiglio
federale.

4.º Questi _Sachem_ federali erano anche _Sachem _delle loro rispettive
tribù ed avevano seggio e voto nel Consiglio della tribù.

5.º Tutte le deliberazioni del Consiglio federale dovevano essere prese
all'unanimità.

6.º La votazione si faceva per tribù, sicchè tutte le tribù, e in ogni
tribù tutti i membri del Consiglio federale, dovevano essere di pieno
accordo perchè la deliberazione fosse valida.

7.º Ciascuno dei cinque Consigli di tribù poteva convocare il Consiglio
federale, ma questo non poteva convocare sè stesso.

8.º Le sedute avevano luogo innanzi al popolo riunito; ogni Irocchese
poteva prendervi la parola; il solo Consiglio decideva.

9.º La federazione non aveva presidente, nè capo del potere esecutivo.

10.º Essa aveva invece due supremi Capitani di guerra, con eguali
attribuzioni ed eguale potere (i due «Re» degli spartani, i due Consoli
di Roma).

Questa fu tutta la costituzione pubblica, sotto la quale gli Irocchesi
vissero oltre quattro secoli, e vivono ancora. Io l'ho minutamente
descritta sulle traccie di Morgan, poichè essa ci offre l'opportunità
di studiare l'organizzazione di una società, nella quale lo _Stato_
non è sorto ancora. Lo Stato presuppone un potere pubblico speciale,
distinto dalla collettività dei cittadini; e Maurer, che con
giusto istinto riconosce la costituzione della _marca_ tedesca come
un'istituzione per sè stessa meramente sociale, essenzialmente diversa
dallo Stato, benchè poi debba in gran parte servirgli di base — Maurer
indaga perciò in tutti i suoi scritti il sorgere graduale del potere
pubblico in seno e accanto alle costituzioni originarie delle marche,
dei villaggi, dei castelli e delle città. Noi vediamo negli Indiani
del Nord-America, come una tribù, originariamente una, si estenda mano
mano sopra un vasto continente; come le tribù, scindendosi, diventino
popoli, interi gruppi di tribù; come i linguaggi si modifichino fino
a che non solo diventano inintelligibili tra loro, ma svanisce anche
quasi ogni traccia dell'unità originaria; come inoltre nelle tribù le
singole _genti_ si scindano in parecchie, le antiche _genti-madri_
si conservino sotto forma di fratrie, e nondimeno i nomi di queste
antichissime genti rimangano inalterati in tribù molto lontane e da
lungo tempo separate — il _Lupo_ e l'_Orso_ sono ancora nomi _gentili_
presso la maggioranza delle tribù indiane. E a tutte queste tribù
si applica in generale la suddescritta costituzione — colla sola
differenza che molte non si sono spinte sino alla federazione delle
tribù parenti fra loro.

Ma vediamo anche, fino a qual segno — posta la _gente_ come unità
sociale — tutta la costituzione delle _genti_, delle fratrie e della
tribù, si sviluppi da questa unità con necessità quasi ineluttabile
— perchè naturale. Sono tre gruppi di differenti gradazioni di
consanguineità, chiuso ciascuno in sè stesso e regolante i suoi
proprii affari, ma integrantisi a vicenda. E la cerchia di affari
loro spettante abbraccia l'insieme degli affari pubblici dei barbari
dello stadio inferiore. Dove quindi troviamo in un popolo la _gente_
come unità sociale, noi potremo cercarvi anche un'organizzazione
della tribù, analoga alla qui descritta; e dove esistono fonti
sufficienti, come presso i Greci ed i Romani, non solo la troveremo,
ma ci convinceremo altresì che, dove le fonti ci lasciano in asso, il
paragone della costituzione sociale americana ci aiuta a risolvere i
dubbii e gli enigmi i più difficili.

Ed è mirabile in tutta la sua infantilità e semplicità questa
costituzione _gentile_! Senza soldati, gendarmi e poliziotti, senza
nobili, re, governatori, prefetti o giudici, senza prigioni, senza
processi, tutto fa il suo corso regolare. Ogni disputa o contesa è
decisa dalla collettività degli interessati, la _gente_ o la tribù o le
singole _genti_ fra loro — solo come estrema risorsa, cui ben di rado
si ricorre, sta la minaccia della vendetta, di cui la nostra pena di
morte non è che la forma incivilita, che reca in sè tutti i vantaggi e
tutti i guai della civiltà. Sebbene vi siano molti più affari comuni
che non oggi — l'economia domestica è comune a tutta una serie di
famiglie ed è comunistica, il terreno è proprietà comune della tribù,
solo gli orti sono temporaneamente assegnati ai particolari — tuttavia
non c'è neanche una traccia del nostro vasto e intricato apparato
amministrativo. Gl'interessati decidono e, nel più dei casi, il costume
secolare ha già tutto regolato. Non vi possono essere nè poveri, nè
indigenti — la famiglia[18] comunistica e la _gente_ conoscono i loro
doveri verso i vecchi, gl'infermi e gli storpiati in guerra. Tutti
uguali e liberi — anche le donne. Non v'ha ancor posto per gli schiavi,
nè, di regola, per la soggiogazione di tribù straniere. Allorchè gli
Irocchesi, intorno al 1651, ebbero vinti gli _Eries_ e la «nazione
neutrale», essi offrirono loro di entrare nella federazione con eguali
diritti; solo quando i vinti ricusarono, vennero espulsi dal loro
territorio. E quali uomini e quali donne produca una siffatta società,
lo dimostra l'ammirazione di tutti i bianchi, che s'imbatterono con
Indiani non degenerati, per la dignità personale, la rettitudine, la
forza di carattere e il valore di questi barbari.

Del valore ebbimo esempii affatto recenti in Africa. I Cafri Zulù,
alcuni anni or sono, come i Nubii, or son pochi mesi — due tribù nelle
quali non sono ancora estinte le istituzioni _gentili_ — hanno fatto
quanto non saprebbe fare alcuna milizia europea. Non muniti che di
lancie e di frecce, senza armi da fuoco, sotto la grandine di palle
dei retrocarica della fanteria inglese — riconosciuta la migliore del
mondo pel combattimento a file serrate, — si spinsero sino alle sue
baionette, e più d'una volta l'hanno scompigliata ed anche respinta,
nonostante la colossale ineguaglianza delle armi e benchè ignorino
il servizio militare e gli esercizii militari. Ciò che sanno fare e
sopportare lo dicono i lamenti degli Inglesi, secondo i quali un Cafro
in 24 ore percorre maggior via di un cavallo — il più piccolo muscolo
scatta fuori, duro e temprato, come corda di sferza, dice un pittore
inglese.

Tali apparivano gli uomini e la società umana prima della separazione
in classi. E se paragoniamo la loro condizione con quella della immensa
maggioranza degli odierni uomini inciviliti, la distanza è enorme tra
il proletario e il piccolo contadino odierni e l'antico libero compagno
di una _gente_.

Questo è un lato della cosa. Ma non dimentichiamo che tale
organizzazione era consacrata allo sfacelo. Essa non andava al di là
della tribù; la federazione delle tribù denota già il principio del
suo tramonto, come si mostrerà, e come già si mostrò nei tentativi di
conquista degli Irocchesi. Ciò che era fuori della tribù, era fuori
del diritto. Ove non esisteva espresso trattato di pace, era guerra da
tribù a tribù, e la guerra era condotta colla crudeltà che distingue
gli uomini dagli altri animali e che soltanto posteriormente venne
mitigata dall'interesse. La costituzione _gentile_ nel suo fiore, quale
la vedemmo in America, presuppone una produzione pochissimo sviluppata,
cioè una popolazione assai rada sopra un esteso territorio; quindi una
dipendenza quasi completa dell'uomo dalla natura esterna, incompresa,
rizzanteglisi di fronte come straniera, dipendenza che si riflette
nelle fanciullesche idee religiose. La tribù restava la frontiera per
l'uomo, tanto di fronte agli estranei quanto a sè stesso: la tribù,
la _gente_ e le loro istituzioni erano sacre ed inviolabili, erano
un potere supremo posto dalla natura, al quale l'individuo rimaneva
assolutamente sottoposto nel sentire, nel pensare e nell'agire.
Quanto le persone di quest'epoca ci appaiono imponenti, altrettanto
sono indifferenziate fra loro, e ancora attaccate, come dice Marx, al
cordone ombellicale della naturale comunità primitiva. Il potere di
questa doveva essere infranto — e lo fu. Ma fu infranto da influenze,
che sin dal principio ci appaiono come una degradazione, come una
caduta dalla semplice altezza morale dell'antica società _gentile_.
Sono i più volgari interessi — la bassa cupidigia, la brutale
sensualità, la sordida avarizia, la egoistica rapina nel possesso
comune — che inaugurano la nuova, la incivilita società di classi;
sono i mezzi i più ignominiosi — il furto, la violenza, la perfidia, il
tradimento — che minano e distruggono l'antica società _gentile_ priva
di classi. E la stessa nuova società, durante i duemila e cinquecento
anni della sua esistenza, non fu altro mai se non lo sviluppo di
una piccola minoranza a spese della grande maggioranza sfruttata ed
oppressa — ed ora lo è più che mai.



IV. La Gente Greca


I Greci, come i Pelasgi ed altri popoli dello stesso stipite, erano già
sin dal tempo preistorico ordinati secondo la stessa serie organica
degli Americani: _gente_, fratria, tribù, federazione di tribù. La
fratria poteva mancare, come fra i Dorii, la federazione di tribù
poteva non essere ancora costituita dapertutto, ma in tutti i casi la
_gente_ rimaneva l'unità. Quando i Greci entrano nella storia, essi si
trovano alla soglia dell'epoca civile; tra essi e le tribù americane,
delle quali fu parlato sopra, intercedono poco meno di due grandi
periodi di sviluppo, di cui i Greci del tempo eroico precedono gli
Irocchesi. Perciò la _gente_ dei Greci non è più affatto la _gente_
arcaica degli Irocchesi, e l'impronta del connubio per gruppi è già in
buona parte sparita. Il diritto materno ha ceduto al diritto paterno;
— con ciò la nascente proprietà privata ha fatto la sua prima breccia
nella costituzione _gentile_. Una seconda breccia fu la naturale
conseguenza della prima: poichè, col diritto paterno, la fortuna di
una ricca ereditiera sarebbe passata colle nozze a suo marito, cioè ad
un'altra _gente_, si sovvertì la base di ogni diritto _gentile_, e non
solo si concesse, ma s'_impose_, in questo caso, che la fanciulla si
maritasse entro la _gente_, per conservare i beni a quest'ultima.

Secondo la storia greca di Grote, ecco da che cosa era mantenuta la
coesione, specialmente nella _gente_ ateniese:

1.º Comuni festività religiose; diritto accordato esclusivamente ai
sacerdoti di rendere onori a una determinata divinità, il supposto
stipite della _gente_, che, in tale qualità, era designato con un
soprannome speciale;

2.º Cimitero comune (confronta le _Eubulidi_ di Demostene);

3.º Diritto di successione reciproco;

4.º Mutuo dovere d'aiuto, di protezione e d'assistenza in caso di
violenze;

5.º Scambievole diritto e dovere di sposarsi entro la _gente_ in certi
casi, particolarmente se trattavasi di un'orfana o di un'ereditiera;

6.º Una proprietà comune, almeno in alcuni casi, con un arconte (capo)
e un tesoriere proprio.

La fratria univa poi parecchie _genti_, però meno strettamente;
ma anche qui troviamo reciprocanza di analoghi diritti e doveri e
specialmente la comunanza di date pratiche religiose e il diritto
della persecuzione se un membro della fratria veniva ucciso. L'insieme
delle fratrie di una tribù aveva a sua volta sacre festività comuni e
periodiche, sotto la presidenza di un _phylobasileus_ (capo di tribù)
eletto fra i nobili (_eupatridi_).

Fin qui Grote. E Marx aggiunge: «Ma attraverso la _gente_ greca fa
ancora immediatamente capolino il selvaggio (l'Irocchese per esempio).»
Tanto più innegabilmente se approfondiamo l'indagine. Nella _gente_
greca infatti si nota inoltre:

7.º Discendenza secondo il diritto paterno;

8.º Divieto di coniugarsi entro la _gente_, salvo nel caso di
ereditiere. Questa eccezione, diventata precetto, dimostra l'antica
regola. Questa risulta del pari dal principio generalmente in vigore,
che la donna, coniugandosi, rinunziava ai riti religiosi della sua
_gente_ e abbracciava quelli della _gente_ del marito, nella cui
fratria veniva anche inscritta. Conforme a ciò e secondo un famoso
passo di Dicearco, le nozze fuori della _gente_ erano la regola;
e Becker nel suo _Charikles_ ammette recisamente che niuno poteva
sposarsi entro la propria _gente_;

9.º Il diritto dell'adozione nella _gente_; esso risultava
dall'adozione nella famiglia, ma con pubbliche formalità e solo
eccezionalmente;

10.º Il diritto di eleggere e di deporre i capi. Sappiamo che la
_gente_ aveva il suo arconte, ma in niun luogo è detto che l'uffizio
fosse ereditario in date famiglie. Sino alla fine della Barbarie
la presunzione è sempre contro la stretta eredità, che è affatto
inconciliabile con uno stato di cose in cui ricchi e poveri avevano
nella _gente_ diritti perfettamente eguali.

Non solo Grote, ma Niebuhr, Mommsen e, fino ad ora, tutti gli altri
storici dell'antichità classica arenarono nella _gente_. Pur avendone
esattamente delineati molti caratteri, essi videro sempre nella _gente_
un _gruppo di famiglie_, ciò che li impediva di intenderne la natura
e l'origine. La famiglia, nella costituzione _gentile_, non fu mai,
nè potè essere, una unità di organizzazione, perchè l'uomo e la donna
appartenevano necessariamente a due _genti _diverse. La _gente_ entrava
interamente nella fratria, la fratria nella tribù; la famiglia si
ripartiva metà nella _gente_ del marito e metà in quella della moglie.
Lo Stato, esso pure, non riconosce, nel diritto pubblico, la famiglia;
essa non esisteva che pel diritto privato. E nondimeno tutta la
storia scritta sinora parte dall'assurda ipotesi, divenuta intangibile
sopratutto nel secolo XVIII, che la famiglia monogamica isolata, la
quale precede a mala pena l'epoca civile, sia stata il nucleo intorno a
cui, mano mano, si formò il cristallo della società e dello Stato.

«È da osservare inoltre al Signor Grote (soggiunge Marx) che, sebbene i
Greci derivassero le loro _genti_ dalla mitologia, quelle _genti_ sono
più antiche della mitologia coi suoi dei e semidei, _da esse stesse_
creata.»

Grote è citato a preferenza da Morgan, perchè testimone reputato e
non sospetto davvero. Egli narra eziandio, che ogni _gente_ ateniese
aveva un nome derivato dal suo supposto stipite; che prima di Solone
in ogni caso, e anche dopo Solone in assenza di testamento, i compagni
_gentili_ (_gennêtes_) del defunto ne ereditavano la fortuna; e che,
in caso di omicidio, prima i parenti, poi i compagni _gentili_, e
finalmente i membri della fratria (_fratores_) dell'ucciso, avevano il
diritto e il dovere di tradurre l'uccisore innanzi ai giudici: «tutto
quello, che ci è trasmesso delle più antiche leggi ateniesi, è fondato
sulla divisione in _genti_ e in fratrie.»

La discendenza delle _genti_ da progenitori comuni fu un vero rompicapo
per i «pedanti filistei» (Marx). Pretendendo che naturalmente questi
progenitori siano affatto mitici, essi non riescono in alcun modo a
spiegarsi l'origine della _gente_ per una semplice giustapposizione
di famiglie prive di ogni originaria parentela; or è appunto ciò che
dovrebbero ben chiarire, se pur vogliono spiegarsi la esistenza della
_gente_. Suppliscono un profluvio di parole, aggirantisi in un circolo
vizioso, senza uscir mai da questa tesi: l'albero genealogico è bensì
una favola, ma la _gente_ è una realtà. E finalmente il Grote scriveva
(diamo anche le interpolazioni di Marx): — «Dell'albero genealogico
ci si parla di rado, poichè esso non era messo in pubblico che in
certe speciali solennità. Ma anche le _genti_ meno importanti hanno le
loro pratiche religiose comuni (_meraviglioso questo, signor Grote!_)
e stipite e genealogia soprannaturale comune, tal quale come le più
rinomate (_ciò è ben strano, signor Grote, per delle_ genti _«meno
importanti»_!); il piano fondamentale e la base ideale (_non ideale,
signor caro, ma proprio carnale_ — fleischlich _per dirla in tedesco!_)
erano identici in tutte».

Marx così riassume la risposta di Morgan su questo punto: «Il sistema
di consanguinità corrispondente alla _gente_ nella sua forma primitiva
— che i Greci avevano posseduta come tutti gli altri mortali —
conservava la conoscenza dei gradi di parentela di tutti i membri della
_gente_ fra loro. Questo, che era per essi d'importanza capitale, essi
rapprendevano per pratica sin dalle fasce. Ciò cadde in oblio colla
famiglia monogamica. Il nome _gentile_ creava una genealogia, appetto
alla quale, quella della famiglia individuale appariva insignificante.
Era quel nome oramai, che doveva conservare il fatto della comune
origine di coloro che lo portavano; ma la genealogia della _gente_
risalì così lontano, che i suoi membri non potevano più dimostrare
la realtà della loro mutua parentela, eccetto in un limitato numero
di casi, in cui fossero più prossimi i predecessori comuni. Il nome
stesso era prova di comune origine, e prova decisiva, astrazion fatta
dai casi d'adozione. Di fronte a ciò, negare in fatto, come il Grote ed
il Niebuhr, qualsiasi parentela tra i compagni _gentili_, trasformando
così la _gente_ in una creazione fantastica e poetica, è degno di
scrittori «ideali», cioè estranei alla vita. Poichè l'intreccio delle
generazioni, sopratutto dacchè è sorta la monogamia, vien respinto in
un lontano passato, e la passata realtà appare riflessa nelle fantasie
mitologiche, questi dabben filistei ne conchiusero e ne conchiudono
ancora che è la genealogia fantastica quella che creò le _genti_
reali.»

La fratria era, come fra gli Americani, una _gente_ madre divisa in
parecchie _genti_ figlie e che le riuniva; spesso anche le faceva
tutte derivare da uno stipite comune. Così, secondo Grote, «tutti i
membri contemporanei della fratria di _Ecateo _avevano una medesima
deità per progenitore comune al sedicesimo grado»; tutte le _genti_ di
questa fratria erano quindi alla lettera _genti_ sorelle. La fratria
si presenta in Omero anche come unità militare, nel famoso passo dove
Nestore consiglia ad Agamennone: Ordina gli uomini per tribù e per
fratrie, acciocchè la fratria assista la fratria, e la tribù la tribù.
— Essa ha altresì il diritto e il dovere della punizione dell'omicidio
commesso sopra un fratore, ciò che indica che nel passato le spettava
il dovere della vendetta. Ha ancora santuarii e feste comuni, essendo
l'elaborazione di tutta la mitologia greca, dal primitivo culto ario
della natura importato seco loro dall'Asia, essenzialmente l'opera
delle _genti_ e delle fratrie.

La fratria aveva inoltre un capo (_phratriarchos_) e, secondo De
Coulanges, anche assemblee e decreti obbligatorii, una giurisdizione ed
un'amministrazione. Anche lo Stato, quando sorse, benchè ignorasse la
_gente_, lasciò alla fratria certe funzioni pubbliche.

La riunione di parecchie fratrie affini forma la tribù. Nell'Attica
c'erano quattro tribù, ognuna di tre fratrie, ciascuna delle quali
numerava trenta _genti_. Siffatta proporzione di gruppi presuppone un
intervento cosciente e metodico nell'ordinamento sorto naturalmente.
Come, quando e perchè ciò sia avvenuto, tace la storia greca, della
quale gli stessi Greci hanno serbata reminiscenza solo dai tempi
eroici.

Le diversità dei dialetti erano meno sviluppate presso i Greci,
concentrati sopra un territorio relativamente piccolo, che nelle vaste
foreste americane; tuttavia anche là troviamo riunite in più grandi
masse soltanto tribù parlanti lo stesso linguaggio principale, e
anche, nella piccola Attica, uno speciale dialetto, che divenne poi il
dominante, come comune linguaggio di prosa.

Nelle poesie omeriche troviamo le tribù greche per lo più già riunite
in piccole nazioni, nelle quali però le _genti_, le fratrie e le tribù
conservavano ancora completa la loro indipendenza. Esse abitavano
già in città fortificate da mura; la cifra della popolazione cresceva
coll'estendersi degli armenti, dell'agricoltura, e coll'esordire del
mestiere; aumentavano con ciò le differenze di ricchezza e con esse
l'elemento aristocratico nella vecchia democrazia naturale. Questi
piccoli popoli guerreggiavano incessantemente pel possesso delle
migliori contrade e anche per bottino; la schiavitù dei prigionieri di
guerra era già istituzione riconosciuta.

La costituzione di queste tribù e di questi piccoli popoli era la
seguente:

1.º Autorità permanente era il Consiglio (_bulê_), composto in origine
dei capi delle _genti_, e più tardi, allorchè il loro numero divenne
troppo grande, di una parte scelta, che offrì l'opportunità allo
sviluppo e al consolidamento dell'elemento aristocratico; ond'è che
Dionisio ci dà il Consiglio dei tempi eroici come composto addirittura
di notabili (_kratistoi_). Il Consiglio decideva definitivamente gli
affari importanti; così, in Eschilo, il Consiglio di Tebe decreta — ciò
che era decisivo in quel caso — di sotterrare onorevolmente Eteocle,
ma di gettare in pascolo ai cani il cadavere di Polinice. Colla
istituzione dello Stato questo Consiglio diventò poi il Senato.

2.º L'assemblea del popolo (_agora_). Fra gli Irocchesi vedemmo il
popolo, uomini e donne, circondare l'assemblea del Consiglio, prendervi
ordinatamente la parola e influenzarne così le decisioni. Fra i
Greci omerici questa «circumambienza», per usare un'espressione del
vecchio gergo giudiziario tedesco (_Umstand_), si è già sviluppata
in una generale assemblea del popolo, come fra i Germani primitivi.
Convocavala il Consiglio per decidere gli affari importanti; ogni uomo
poteva prendervi la parola. La deliberazione seguiva per alzata di mano
(Eschilo nelle _Supplici_) o per acclamazione. L'assemblea era sovrana
in ultima istanza, perciocchè dice Schömann (_Antichità greche_),
«se trattasi di cosa, alla cui esecuzione è necessario il concorso
del popolo, Omero non ci addita alcun mezzo, con cui questo possa
esservi costretto contro il suo volere». In quest'epoca, in cui ogni
uomo adulto della tribù era guerriero, non c'era ancora nessuna forza
pubblica distinta dal popolo, da poterglisi contrapporre. La democrazia
naturale era ancora nel suo pieno fiore, e questo deve essere il punto
di partenza per giudicare del potere e della posizione, tanto del
Consiglio, quanto del basileus.

3.º Il duce dell'esercito (_basileus_). Qui osserva Marx: «I dotti
europei, per la maggior parte servi nati di principi, fanno del
_basileus_ un monarca nel senso moderno. Morgan, _yankee_ repubblicano,
protesta. Egli dice con molta ironia, ma con non minore verità,
dell'untuoso Gladstone e della sua «_Juventus mundi_»: «Il Signor
Gladstone ci presenta i duci degli eserciti greci dei tempi eroici come
re e principi, e _gentlemen_ per giunta; ma egli deve poi confessare
che, in generale, pare che l'uso o la legge della primogenitura fosse
abbastanza, ma non troppo rigorosamente, stabilita.» Ammetterà il
signor Gladstone, che una primogenitura così _abbastanza ma non troppo
rigorosamente _garantita vale supergiù come se non ci fosse.

Vedemmo com'era regolata la successione nelle funzioni di capo fra gli
Irocchesi ed altri Indiani. Tutte le cariche erano elettive, per lo
più in seno alla _gente_, e quindi in questa ereditarie. Nei casi di
vacanza, a poco a poco, si preferì il più prossimo parente _gentile_
— fratello o figlio di sorella — se non v'erano motivi di posporlo.
Se dunque presso i Greci, dominando il diritto paterno, l'uffizio di
_basileus_ passava ordinariamente al figlio o a uno dei figli, ciò
non prova se non che i figli avevano la maggior probabilità d'essere
eletti dal popolo, non già che succedessero di diritto, senza uopo di
elezione popolare. È questo, fra gli Irocchesi e fra i Greci, il primo
germe di famiglie nobili entro le _genti_, e fra i Greci anche di un
futuro principato o monarchia ereditaria. La presunzione è adunque che
fra i Greci il _basileus_, o doveva essere eletto dal popolo, o almeno
confermato dai suoi organi riconosciuti — Consiglio od _agora_ — come
praticavasi pel «re» (_rex_) dei Romani.

Nell'Iliade, il dominatore degli uomini, Agamennone, non appare come
supremo re dei Greci, ma quale comandante supremo di un esercito
confederato dinanzi ad una città assediata. E a questa sua qualità
accenna Ulisse, quando era scoppiata la discordia tra i Greci, nel
famoso passo: non è buona cosa che più persone comandino, uno solo sia
il comandante, ecc. (dopo di che il sempre citato verso che parla di
«scettro», che è un'aggiunta posteriore). «Ulisse non tiene qui una
conferenza sopra una forma di Governo, ma chiede ubbidienza verso il
supremo duce in guerra. Pei Greci, che non appaiono innanzi a Troia
se non come esercito, le cose procedono abbastanza democraticamente
nell'_agora_. Achille, quando parla di doni, cioè della distribuzione
del bottino, non ne fa distributore nè Agamennone, nè un altro
_basileus_, ma sempre «i figli degli Achei», cioè il popolo. I
predicati: «generato da Giove», «nutrito da Giove», non provano
nulla, poichè _ogni gente_ discende da una deità, quelle della tribù
principale poi da una deità più ragguardevole — che in questo caso
è Giove. Anche i personalmente non liberi, come il porcaio Eumeo ed
altri, sono «divini» (_dioi_ e _theioi_), e ciò nell'Odissea, cioè
in un tempo molto posteriore all'Iliade; nella stessa Odissea il nome
di _eroe_ è attribuito anche all'araldo Mulio, come al cieco cantore
Demodoco. Insomma, la parola _basileia_, impiegata dagli scrittori
greci ad indicare la cosiddetta monarchia dei poemi omerici, (perchè
il comando militare è il suo carattere principale), col Consiglio
e coll'assemblea popolare allato, significa soltanto.... democrazia
militare» (_Marx_).

Il _basileus_, oltre alle attribuzioni militari, aveva anche funzioni
sacerdotali e giudiziarie; queste non ben determinate, quelle nella sua
qualità di supremo rappresentante della tribù o della federazione di
tribù. Non è fatta mai parola di attribuzioni civiche, amministrative,
ma esso sembra essere stato, per ragione d'uffizio, membro del
Consiglio. Il tradurre _basileus_ col tedesco _König_ (re) è quindi
etimologicamente esattissimo, perchè _König _(_Kuning_), da _Kuni,
Künne_, significa capo di una _gente_. Ma l'odierno significato della
parola _re_ non corrisponde in niuna guisa al _basileus_ dell'antica
Grecia. Tucidide chiama espressamente l'antica _basileia _una
_patrikê_, cioè derivata da _genti_, e dice che essa ebbe attribuzioni
rigorosamente determinate, quindi limitate. E riferisce Aristotile,
che la _basileia_ dei tempi eroici era un comando sopra uomini liberi,
e il _basileus_, il duce dell'esercito, giudice e sommo sacerdote;
esso non aveva quindi il potere del Governo nel senso posteriore della
parola[19].

Noi vediamo quindi nella costituzione greca dei tempi eroici l'antica
organizzazione _gentile_ ancora in vigore, ma già al principio del
tramonto: diritto paterno con devoluzione della fortuna ai figli,
con che è favorita l'accumulazione della ricchezza nella famiglia e
la famiglia diviene una potenza di fronte alla gente; reazione delle
differenze di ricchezza sulla costituzione, col formare il primo germe
di una nobiltà e di una monarchia ereditarie; schiavitù, da principio
dei soli prigionieri di guerra, ma che apre già la prospettiva alla
riduzione in ischiavitù dei compagni di tribù e perfino dei compagni
_gentili_; l'antica guerra da tribù a tribù, che già degenera in
rapina sistematica per terra e per mare, allo scopo di conquistare
bestiame, schiavi, tesori, e diventa una fonte normale di guadagno;
in breve, la ricchezza apprezzata e stimata come il bene supremo, e
violati gli antichi ordinamenti _gentili_, per giustificare i violenti
bottini. Non mancava più che una cosa: una istituzione, che non solo
assicurasse le ricchezze individuali di recente acquistate contro
le tradizioni comunistiche dell'ordinamento _gentile_, che non solo
consacrasse la proprietà privata sì poco apprezzata nel passato, e di
questa consacrazione facesse lo scopo supremo di ogni umana società;
ma che improntasse eziandio le nuove forme d'acquisto della proprietà,
sviluppantisi l'una dopo l'altra, cioè il sempre accelerato incremento
della ricchezza, col suggello del generale riconoscimento sociale;
una istituzione, che non solo perpetuasse la nascente divisione della
società in classi, ma anche il diritto della classe possidente allo
sfruttamento dei non possidenti, e il dominio di quella su questi.

E questa istituzione venne. Si inventò lo _Stato_.



V. Genesi dello Stato ateniese.


In nessun luogo, meglio che nell'antica Atene, ci è dato seguire almeno
le prime traccie dello svilupparsi dello Stato, che avvenne dopochè gli
organi della costituzione _gentile_, in parte trasformati, in parte
soppiantati dall'intrusione di organi nuovi, finirono per cedere il
posto a vere magistrature di Stato, e il «popolo in armi» che, nelle
sue _genti_, fratrie, tribù, difendeva sè stesso, fu sostituito dalla
«forza pubblica» armata, che obbediva a quelle magistrature e poteva
così essere rivolta anche contro il popolo. I cangiamenti di forma
sono, nei punti essenziali, esposti da Morgan; io devo aggiungere in
gran parte il contenuto economico che li produce.

Ai tempi eroici le quattro tribù ateniesi dimoravano ancora,
nell'Attica, su territorii distinti; pare che anche le dodici fratrie,
che le componevano, avessero avuto sedi separate nelle dodici città
di Cecrope. La costituzione era quella dei tempi eroici: Assemblea
pubblica, Consiglio del popolo, _basileus_. Fin dove risale la storia
scritta, il terreno era già diviso e passato in proprietà privata,
conforme alla produzione mercantile già relativamente sviluppata sullo
scorcio dello stadio superiore della Barbarie, e al commercio che le
corrisponde. Oltre al grano si produsse il vino e l'olio; il commercio
sull'Egèo venne semprepiù sottratto ai Fenici e cadde in gran parte in
mani attiche. Colla compra e colla vendita della proprietà fondiaria,
colla crescente divisione del lavoro fra l'agricoltura e il mestiere,
fra il commercio e la navigazione, i membri delle _genti_, delle
fratrie e delle tribù dovettero bentosto confondersi; nei distretti
della fratria e della tribù vennero abitatori, che, sebbene dello
stesso popolo, tuttavia non appartenevano a quelle corporazioni, ed
erano così stranieri nella loro propria residenza. Perciocchè ogni
fratria ed ogni tribù amministrava essa stessa in tempo di pace i suoi
proprii affari, senza ricorrere al Consiglio popolare o al _basileus
_di Atene. Ma chi abitava nel territorio della fratria e della tribù
senza appartenervi, non poteva, naturalmente, prender parte alcuna a
quest'amministrazione.

Il regolare andamento della costituzione _gentile _ne ebbe tale
dissesto, che già ai tempi eroici si dovette porvi riparo. Si
introdusse la costituzione attribuita a Teseo. Il cangiamento
consistette specialmente nell'istituire un'amministrazione centrale
in Atene, per cui una parte degli affari, fin allora indipendentemente
amministrati dalle tribù, vennero dichiarati affari comuni e passarono
al Consiglio generale sedente in Atene. Con ciò gli Ateniesi fecero un
passo più lungo, che mai qualsiasi popolo indigeno in America: alla
semplice federazione di tribù finitime subentrò la loro fusione in
un unico popolo. Con ciò nacque un diritto popolare comune ateniese,
che stava al disopra dei diritti consuetudinarii delle tribù e delle
_genti_; il cittadino ateniese ebbe, come tale, determinati diritti
e nuova protezione giuridica, anche sul territorio dov'era estraneo
alla tribù. Ma era questo anche il primo passo allo sfacelo della
costituzione _gentile_; perchè era l'adito aperto all'ammissione
di cittadini estranei a tutte le tribù dell'Attica, e che pertanto
erano e rimasero affatto fuori della costituzione _gentile_ ateniese.
Una seconda istituzione attribuita a Teseo fu la divisione di tutto
il popolo, senza riguardo a _gente_, a fratria o tribù, in tre
classi: _eupatridi_ o nobili, _geomori_ o agricoltori, e _demiurghi_
o artigiani, e l'attribuzione ai nobili dell'esclusivo diritto ai
pubblici uffici. All'infuori di quest'ultimo privilegio, tale divisione
restò senza effetti, non fondando fra le tre classi alcuna differenza
di diritti. Ma essa è importante, perchè ci presenta i nuovi elementi
sociali che silenziosamente si erano sviluppati. Essa mostra, che la
consuetudine degli uffici _gentili_ in certe famiglie era già divenuta
per esse un titolo alle cariche poco contestato; che queste famiglie,
già potenti per ricchezza, cominciavano a comporsi, fuori delle loro
_genti_, in classe distinta privilegiata; e che lo Stato, che sorgeva
appunto allora, consacrò queste usurpazioni. Essa mostra altresì che la
divisione del lavoro tra agricoltori ed artigiani era già abbastanza
forte per emulare, in importanza sociale, l'antica divisione per
_genti_ e per tribù. Essa proclama finalmente l'inconciliabile antitesi
tra società _gentile_ e Stato; il primo conato di formazione d'uno
Stato consiste nello smembrare le _genti_, dividendole in privilegiati
e posposti, e questi ultimi separando pure in due classi di lavoratori,
l'una contrapposta all'altra.

La ulteriore storia politica di Atene sino a Solone non è che
imperfettamente conosciuta. L'uffizio di _basileus_ cadde in disuso;
alla testa dello Stato si posero arconti, scelti fra la nobiltà. Il
dominio dei nobili crebbe semprepiù, sino a che, verso il 600 dell'era
nostra, divenne intollerabile. E i mezzi principali per sopprimere la
libertà comune furono il danaro e l'usura. La principale sede della
nobiltà era Atene co' suoi dintorni, dove il commercio marittimo,
aiutato spesso dalla pirateria, l'arricchiva, e concentrava il denaro
nelle sue mani. Da ciò la sorgente economia a denaro penetrò come un
corrosivo nel costume tradizionale delle comunità rurali, fondate
sulla primitiva economia in natura. La costituzione _gentile_ è
assolutamente incompatibile coll'economia a denaro; la rovina dei
piccoli contadini dell'Attica coincise col rallentarsi dei vecchi
legami _gentili_ che, avvincendoli, li proteggevano. La dichiarazione
di debito e il pignoramento (gli Ateniesi avevano già inventata anche
l'ipoteca) non rispettavano nè la _gente_ nè la fratria. E l'antica
costituzione _gentile_ non conosceva nè il denaro, nè i prestiti
e i debiti in denaro. Onde il dominio finanziario della nobiltà,
sempre più rigoglioso, elaborò anche un nuovo diritto consuetudinario
per garantire il creditore contro il debitore e per consacrare lo
sfruttamento fatto dal possessore di denaro sul contadino. Intere
distese di terreno nell'Attica erano irte di colonne ipotecarie. sulle
quali stava scritto che il fondo che le portava era impegnato a questo
od a quello per tanto o tanto denaro. I campi, che non erano così
designati, erano in gran parte già venduti per la avvenuta scadenza
dell'ipoteca o degli interessi e passati in proprietà del nobile
strozzino; il contadino poteva esser lieto, se gli veniva concesso di
continuarvi a restare come fittaiuolo e di vivere di _un sesto_ del
prodotto del suo lavoro, pagando gli altri _cinque sesti_ come fitto
al nuovo signore. C'è di più. Se il ricavo della vendita del fondo
non copriva il debito, o se questo era stato contratto senza ipoteca,
il debitore doveva vendere schiavi i suoi figli all'estero per pagare
il creditore. Il padre che vende i figli — ecco il primo frutto del
diritto paterno e della monogamia! E se il vampiro non era ancor sazio,
poteva vendere come schiavo lo stesso debitore. Fu questa la dolce
aurora dell'epoca civile presso il popolo ateniese.

Nel passato, allorchè la condizione del popolo corrispondeva ancora
alla costituzione _gentile_, un tale sconvolgimento non sarebbe stato
possibile; e ora era avvenuto, non sapevasi come. Ritorniamo un istante
ai nostri Irocchesi. Là sarebbe stata inconcepibile una situazione,
quale agli Ateniesi si era imposta, per così dire, senza il loro
concorso e certo contro il loro volere. Là i metodi di produzione
delle sussistenze, rimanendo d'anno in anno supergiù invariati, non
potevano generare nè siffatti conflitti, che apparivano come imposti
dal di fuori, nè alcuna antitesi di ricchi e di poveri, di sfruttatori
e di sfruttati. Gli Irocchesi erano ancora ben lontani dal dominare
la natura, ma, nei limiti naturali loro imposti, essi dominavano la
loro propria produzione. A parte il caso, di un cattivo raccolto dei
loro orti, o l'esaurimento della provvista dei pesci dei loro laghi e
fiumi e della selvaggina dei loro boschi, essi sapevano quanto potevano
trarre dalla loro maniera di procurarsi le sussistenze. Potevano
trarne un sostentamento più o meno abbondante o scarso; ma non mai
sconvolgimenti sociali imprevisti, non mai la dissoluzione dei vincoli
_gentili_, la scissione dei compagni della _gente_ o della tribù in
classi antagoniste e reciprocamente combattentisi. La produzione si
muoveva nei più angusti limiti; ma i produttori dominavano il loro
proprio prodotto. Era questo l'immenso vantaggio della produzione
barbarica, che andò perduto coll'avvento della civiltà, e riconquistare
il quale è il compito della prossima generazione, ma sulla base del
potente dominio ormai raggiunto dagli uomini sulla natura, e della
libera associazione che oggi è possibile.

Non così fra i Greci. La proprietà privata degli armenti e delle
suppellettili di lusso condusse allo scambio tra gl'individui, alla
trasformazione dei prodotti in merci. Questo il germe di tutta la
trasformazione successiva. Tostochè i produttori non consumarono
più essi stessi direttamente il loro prodotto, ma se lo lasciarono
uscir di mano cogli scambî, essi cessarono di esserne i padroni. Essi
non sapevano più ciò che ne accadeva, e sorgeva la possibilità che
un giorno il prodotto venisse impiegato contro il produttore, per
sfruttarlo ed opprimerlo. Perciò nessuna società, che non abolisca lo
scambio tra gl'individui, può conservare a lungo il dominio sulla sua
propria produzione e il controllo sugli effetti sociali del suo sistema
di produzione.

Ma gli Ateniesi dovevano imparare quanto rapidamente, sorto lo scambio
tra gli individui e trasformatisi i prodotti in merci, il prodotto
padroneggia i produttori. Colla produzione mercantile, apparve la
coltivazione del terreno fatta dagli individui per proprio conto, e
con ciò bentosto la proprietà fondiaria individuale. Sorse inoltre
il denaro, la merce universale, con la quale tutte le altre potevano
scambiarsi; ma, inventando il denaro, gli uomini non sapevano di creare
una nuova forza sociale, l'unica forza universale, dinanzi alla quale
tutta la società avrebbe dovuto inchinarsi. E questa nuova forza, sorta
improvvisamente all'insaputa e a malgrado de' suoi proprii creatori,
fece sentire agli Ateniesi il suo dominio con tutta la brutalità della
sua giovinezza.

Che fare? L'antica costituzione _gentile_ non solo si era dimostrata
impotente contro la marcia trionfale del denaro; essa era inoltre
assolutamente incapace di trovar posto in sè stessa per qualcosa
come il denaro, i creditori e i debitori, la riscossione coattiva dei
crediti. Ma la nuova forza sociale era omai là, e nè pii desiderii,
nè aneliti al ritorno del buon tempo antico cacciavano dal mondo il
denaro e l'usura. Per giunta una serie di altre breccie minori doveva
subire la costituzione _gentile_. Il frammischiarsi dei compagni delle
_genti_ e delle fratrie su tutto il territorio attico, particolarmente
in Atene medesima, era aumentato di generazione in generazione,
benchè l'Ateniese potesse bensì vendere fuori della propria _gente_
il suo fondo, ma non ancora la sua casa di abitazione. La divisione
del lavoro tra i diversi rami della produzione, l'agricoltura e il
mestiere, e nel mestiere stesso le innumerevoli suddivisioni, il
commercio, la navigazione, ecc., si erano sviluppate sempre più coi
progressi dell'industria e del traffico; la popolazione si divideva
ormai, secondo l'occupazione, in gruppi quasi fissi, ciascun dei quali
aveva una serie di nuovi interessi comuni, che non trovavano posto
nella _gente_ o nella fratria, e la cui tutela esigeva quindi nuove
cariche. Il numero degli schiavi si era considerevolmente accresciuto,
e già allora deve aver superato di molto quello degli Ateniesi liberi;
in origine la costituzione _gentile_ ignorava la schiavitù, e quindi
i mezzi di tener a freno questa massa di non liberi. E finalmente il
commercio aveva attirata in Atene una moltitudine di stranieri, che vi
si stabilivano per far denaro più facilmente, che l'antica costituzione
lasciava privi di diritti e di difesa, e che, malgrado la tradizionale
tolleranza, rimanevano nel popolo come un elemento estraneo e
perturbatore.

In breve, la costituzione _gentile_ volgeva al suo termine. La società
ne traripava ogni giorno più, e quella costituzione non poteva nè
arrestare, nè rimuovere neanche i mali più funesti, nati sotto i suoi
occhi. Lo Stato, frattanto, s'era sviluppato in silenzio. I nuovi
gruppi, nati dalla divisione del lavoro, dapprima fra città e campagna,
poi fra i varî rami del lavoro urbano, avevano generato nuovi organi
per la tutela dei loro interessi; cariche d'ogni sorta erano state
istituite. E allora il giovine Stato abbisognò sopratutto di una
forza propria, che, presso gli Ateniesi navigatori, doveva essere da
principio soltanto una forza marittima per le piccole guerre e per la
protezione delle navi mercantili. In un tempo imprecisato, prima di
Solone, vennero istituite le _naucrarie_, piccoli distretti, dodici
per ciascuna tribù; ogni _naucraria_ doveva allestire, armare ed
equipaggiare un vascello da guerra e fornire inoltre due cavalieri.
Questa istituzione intaccava doppiamente la costituzione _gentile_;
in primo luogo, creando una forza pubblica, che non coincideva più
senz'altro coll'insieme del popolo armato, e, in secondo luogo,
dividendo per la prima volta il popolo a pubblici fini, non più per
gruppi di parentela, ma a norma dell'_abitazione locale._ E di ciò si
vedrà poi l'importanza.

Non potendo la costituzione _gentile_ recare alcun aiuto al popolo
sfruttato, non rimaneva che lo Stato nascente. E questo lo aiutò
colla costituzione di Solone, mentre esso si rafforzava sempre più
a spese dell'antica costituzione. Solone — qui non c'interessa come
fu introdotta la sua riforma, nell'anno 594 avanti la nostra êra —
Solone aprì la serie delle cosiddette rivoluzioni politiche, e lo
fece con un attacco alla proprietà. Tutte le rivoluzioni avvenute
fino ad oggi furono rivoluzioni per la difesa di una forma della
proprietà contro un'altra. Esse non possono proteggere l'una senza
danneggiare l'altra. Nella grande rivoluzione francese la proprietà
feudale fu sacrificata per salvare la borghese; in quella di Solone
fu la proprietà del creditore che dovette soffrire a vantaggio di
quella del debitore. I debiti furono semplicemente dichiarati nulli.
Le particolarità non ci sono esattamente note, ma Solone si vanta
nelle sue poesie di aver rimosse le colonne ipotecarie dai terreni
indebitati, e di aver ricondotti in patria i cittadini venduti o
fuggiti all'estero per debiti. Questo non era possibile che coll'aperta
violazione della proprietà. E infatti, tutte, dalla prima all'ultima,
le cosiddette rivoluzioni politiche si fecero a vantaggio di _una
forma_ di proprietà, colla confisca, chiamata anche furto, _di un'altra
forma_. Tanto egli è vero, che, da duemila e cinquecento anni in poi,
la proprietà non potè esser conservata se non colla violazione continua
della proprietà.

Ma ora trattavasi d'impedire il ritorno di un siffatto asservimento
dei liberi Ateniesi. Ciò avvenne anzitutto con misure generali, per
esempio colla inibizione dei contratti di debito nei quali fosse
pegno la persona del debitore. Fu inoltre stabilito un limite massimo
della proprietà fondiaria che un individuo potesse possedere, per
porre almeno qualche freno alla bulimia della nobiltà pel terreno dei
contadini. Si introdussero poi cangiamenti nella costituzione; i più
importanti per noi sono questi:

Il Consiglio fu portato a quattrocento membri, cento per ogni tribù;
quì la base era ancora la tribù. Ma questo era anche l'unico lato,
pel quale l'antica costituzione riappariva nel nuovo corpo dello
Stato. Giacchè, pel resto, Solone divise i cittadini in quattro classi
secondo la loro proprietà fondiaria e il suo reddito; 500, 300 e 150
_medimni _di grano (un _medimno_ vale circa 41 litri) erano i ricavi
minimi per le prime tre classi; chi aveva una proprietà fondiaria
minore o non ne aveva punto cadeva nella quarta classe. Le cariche
pubbliche potevano essere coperte soltanto dalle tre prime; le più
elevate, solo dalla prima classe; la quarta classe non aveva che il
diritto di parlare e di votare nell'assemblea popolare; la quale però
eleggeva tutti i funzionarii; a questa essi dovevano rendere i conti;
era essa che faceva tutte le leggi, e in essa la quarta classe formava
la maggioranza. I privilegi aristocratici furono in parte rinnovati
sotto forma di privilegi della ricchezza, ma il popolo conservò il
potere sovrano. Le quattro classi formarono inoltre la base di una
nuova organizzazione dell'esercito. Le due prime classi fornivano la
cavalleria; la terza doveva servire come fanteria pesante; la quarta
come fanteria leggiera, senza corazza, o sulla flotta, e probabilmente
veniva anche stipendiata.

Qui è dunque introdotto nella costituzione un elemento affatto nuovo:
la proprietà privata. I diritti e i doveri dei cittadini dello Stato
vengono misurati dalla grandezza della loro proprietà fondiaria, e
di quanto guadagnano influenza le classi facoltose, di altrettanto si
rattrappiscono le antiche corporazioni consanguinee; la costituzione
_gentile _aveva sofferto un nuovo strazio.

L'attribuzione dei diritti politici a seconda dei beni non era però una
di quelle istituzioni, senza cui lo Stato non può esistere. Sebbene
essa abbia rappresentato una parte importante nella storia della
costituzione degli Stati, nondimeno moltissimi Stati, e precisamente
quelli più completamente evoluti, non ne ebbero bisogno. Anche in Atene
essa non fu che transitoria; dopo Aristide, tutti gli uffizi erano
accessibili a tutti i cittadini.

Durante i successivi ottant'anni, la società ateniese assunse a mano a
mano l'indirizzo, che più poi sviluppò nei secoli successivi. All'usura
sui terreni, così fiorente prima di Solone, fu posto fine, come pure
all'eccessivo accentramento della proprietà fondiaria. Il commercio, il
mestiere esercitato sempre più in grande coll'opera degli schiavi, e il
lavoro degli artigiani, divennero i principali rami di produzione. Si
divenne più illuminati. Scambio di sfruttare i concittadini brutalmente
come da principio, si sfruttarono piuttosto gli schiavi e la clientela
extra-ateniese. La proprietà mobile, la ricchezza finanziaria, il
numero degli schiavi e dei vascelli cresceva sempre più, ma non erano
più un semplice mezzo di acquistare proprietà fondiaria, come nella
malaccorta epoca precedente; divennero uno scopo essi stessi. Con ciò,
da una parte, fu creata una vittoriosa concorrenza all'antica potenza
della nobiltà colla nuova classe di ricchi industriali e commercianti,
ma, dall'altra, fu anche tolto l'ultimo terreno agli avanzi dell'antica
costituzione _gentile_. I membri delle _genti_, delle fratrie e delle
tribù, sparpagliati per tutta l'Attica e completamente mescolati,
non potevano più formare corporazioni politiche; una moltitudine di
cittadini ateniesi non apparteneva ad alcuna _gente_; erano immigrati,
ammessi bensì nel diritto civico, ma non in alcuno degli antichi gruppi
consanguinei; accanto ad essi vi era poi il sempre crescente numero
degl'immigrati stranieri, semplici clienti.

Nel frattempo le lotte di partito proseguivano; la nobiltà tentava
riconquistare i suoi passati privilegi, e per un istante riottenne il
predominio, finchè la rivoluzione di Cleistene (509 avanti la nostra
êra) l'abbattè definitivamente; ma con essa abbattè pure l'ultimo
residuo della costituzione _gentile_.

Cleistene, nella sua nuova costituzione, disconobbe le quattro antiche
tribù fondate sulle _genti _e sulle fratrie. Subentrò un'organizzazione
affatto nuova, sulla base della divisione dei cittadini secondo la
residenza, come si era fatto per le _naucrarie_. L'essenziale non era
più l'appartenere a gruppi consanguinei, ma il luogo dell'abitazione;
non veniva diviso il popolo, ma il territorio, e gli abitanti divennero
politicamente una semplice appendice del territorio.

Tutta l'Attica fu divisa in cento distretti comunali, o _demi_, ciascun
dei quali si amministrava da sè. I cittadini residenti in ogni _demo_
(_demoti_) eleggevano il loro capo (_demarco_) e il loro tesoriere, più
trenta giudici con giurisdizione sulle piccole controversie. Avevano
ancora un proprio tempio e un dio protettore, o eroe, di cui eleggevano
i sacerdoti. Nel _demo_ il supremo potere era l'assemblea dei _demoti_.
È, come ben osserva Morgan, il tipo dei Comuni urbani d'America, che
si governano da sè stessi. Il nascente Stato ateniese partiva da quella
stessa unità, con la quale finisce lo Stato moderno nel suo più elevato
sviluppo.

Dieci di queste unità, _demi_, formavano una tribù, che ora, a
differenza dalle antiche tribù consanguinee, piglia nome di tribù
locale. La tribù locale non era solo una tribù politica autonoma, era
anche una corporazione militare; eleggeva il _filarco_, o capo della
tribù, che comandava la cavalleria, il _tassiarco_ per la fanteria, e
lo _stratega_ che comandava tutta la milizia reclutata nel territorio
della tribù. Forniva inoltre cinque navi da guerra con rispettivi
equipaggi e comandanti, e aveva per sacro patrono un eroe attico, dal
cui nome si intitolava. Finalmente eleggeva cinquanta consiglieri nel
Consiglio ateniese.

La somma di tutto ciò era lo Stato ateniese, retto dal Consiglio
composto dei cinquecento eletti delle dieci tribù, e in ultima istanza
dall'Assemblea del popolo, dove ogni cittadino ateniese aveva accesso
e diritto di voto; allato, arconti ed altri funzionari curavano i
differenti rami amministrativi e giudiziarii. Un funzionario supremo
del potere esecutivo non esisteva in Atene.

Con questa nuova costituzione e coll'ammissione di un grandissimo
numero di clienti, in parte immigrati, in parte schiavi affrancati,
gli organi della costituzione _gentile_ erano stati scacciati dagli
affari pubblici; essi discesero al grado di riunioni private e di
confraternite religiose. Ma l'influenza morale, il tradizionale modo
di concepire e di pensare dell'antica epoca _gentile_, continuarono ad
ereditarsi per lungo tempo e non svanirono che a poco a poco. Ciò si
vide in una ulteriore istituzione dello Stato.

Vedemmo che una delle essenziali caratteristiche dello Stato consiste
in una forza pubblica distinta dalla massa del popolo. Atene non aveva
allora che l'esercito popolare e una flotta fornita immediatamente dal
popolo; quello e questa la difendevano dall'estero e tenevano a freno
gli schiavi, che già formavano la grande maggioranza della popolazione.
Di fronte ai cittadini la forza pubblica non esistì da principio che
come polizia, la quale è vecchia quanto lo Stato, per lo che gl'ingenui
francesi del secolo XVIII non parlavano di popoli inciviliti, ma di
_nations policées_. Gli Ateniesi, insieme al loro Stato, istituirono
quindi anche una polizia, una vera gendarmeria di arcieri a piedi e
a cavallo. Ma questa gendarmeria era formata... di schiavi. Sembrava
così degradante questo mestiere di birro al libero ateniese, che egli
si lasciava piuttosto arrestare da schiavi armati, anzi che prestarsi
esso stesso a tale ignominia. Questo era ancora l'antico sentimento
_gentile_. Lo Stato non poteva sussistere senza polizia, ma esso era
ancora giovane, e non godeva ancora sufficiente autorità morale, per
rendere stimabile un mestiere, che agli antichi compagni _gentili_
appariva necessariamente infame.

Quanto lo Stato, organato omai nei suoi tratti essenziali, fosse
adatto alla nuova condizione sociale degli Ateniesi, lo mostra il
rapido fiorire della ricchezza, del commercio e dell'industria.
L'antagonismo di classi, sul quale riposavano le istituzioni politiche
e sociali, non era più fra nobiltà e popolo comune, ma fra schiavi e
liberi, fra clienti e cittadini. Al tempo del massimo fiore l'intera
cittadinanza ateniese libera, donne e fanciulli compresi, consisteva
di circa 90,000 individui, accanto ai quali si contavano 365,000
schiavi di ambo i sessi e 45,000 clienti — stranieri ed affrancati.
Per ogni cittadino maschio adulto v'erano quindi almeno 18 schiavi,
e più di due clienti. Il gran numero di schiavi proveniva dal fatto,
che molti di essi lavoravano insieme nelle manifatture, grandi
officine, sotto la sorveglianza d'ispettori. Ma, collo sviluppo del
commercio e dell'industria, vennero l'accumulazione e la concentrazione
delle ricchezze in poche mani, l'impoverimento della massa dei
liberi cittadini, ai quali non rimaneva altra scelta, che, o di far
concorrenza al lavoro schiavo col proprio lavoro manuale — ciò che
passava per disonorevole, «_banauso_», e prometteva anche poco profitto
— o diventare dei parassiti. Per necessità, date le circostanze,
abbracciarono il secondo partito, ed essendo essi la massa, portarono
con ciò lo sfacelo in tutto lo Stato ateniese. Non la democrazia rovinò
Atene, come pretendono i pedanti piaggiatori dei principi europei, ma
la schiavitù, che proscriveva il lavoro del cittadino libero.

La genesi dello Stato presso gli Ateniesi è un modello particolarmente
tipico della formazione dello Stato in generale, perchè, da un lato,
ha luogo senza perturbazioni, senza influsso di violenze interne od
esterne — la usurpazione di Pisistrato non lasciò traccia della sua
breve durata — e perchè, d'altro lato, fa scaturire direttamente dalla
società _gentile_ una forma di Stato già assai evoluta, la repubblica
democratica; e, finalmente, perchè conosciamo sufficientemente tutte le
sue particolarità essenziali.



VI. Gente e Stato in Roma.


Secondo la leggenda della fondazione di Roma, la prima colonia nacque
da un dato numero di _genti_ latine (la leggenda dice cento) riunite
in una tribù, alle quali si unì bentosto una tribù sabellica, e infine
una terza, composta di elementi diversi, anche queste, vuolsi, di
cento _genti_ ciascuna. Da tutto il racconto salta agli occhi che di
primitivo non v'era quasi altro che la _gente_, e anche questa in
molti casi non era che la propaggine di una _gente_ madre rimasta
nell'antica patria. Le tribù portano in fronte il suggello della
composizione artificiale, benchè composte per lo più di elementi
congiunti da parentela e modellate sul tipo dell'antica tribù cresciuta
spontaneamente, non artificialmente combinata; non è dunque escluso,
che il nucleo di ognuna delle tre tribù possa essere effettivamente
stato una tribù antica. L'anello di congiunzione, la fratria,
consisteva di dieci _genti_ e chiamavasi _curia_; le curie quindi erano
trenta.

È ammesso che la _gente_ romana era la medesima istituzione della
greca; se la greca non è che uno sviluppo di quella unità sociale, la
cui forma primitiva ci è dato dai Pellirosse americani, lo stesso dovrà
dirsi della romana. Possiamo quindi andar per le corte.

La _gente_ romana aveva, almeno nei primi tempi della Città, la
costituzione seguente:

1.º Diritto ereditario reciproco fra i compagni _gentili_; i beni
di fortuna restavano nella _gente_. Poichè nella _gente_ romana,
come nella greca, regnava già il diritto paterno, erano esclusi i
discendenti della linea femminile. Secondo la «legge delle dodici
tavole», il più antico diritto romano scritto che ci sia conosciuto,
ereditavano prima i figli come eredi naturali; in loro difetto, gli
agnati (congiunti in linea _maschile_); e, nell'assenza di questi, i
compagni _gentili_. In tutti i casi la fortuna rimaneva nella _gente_.
Noi vediamo qui il graduale insinuarsi, nel costume _gentile_, di nuove
disposizioni di diritto, prodotte dall'accresciuta ricchezza e dalla
monogamia; l'originaria eguaglianza di diritto successorio dei compagni
_gentili_ è dapprima — e ciò assai di buon'ora, come accennammo più
sopra — limitato in pratica agli agnati, finalmente ai figli e ai
loro discendenti in linea maschile; si capisce da sè che nelle «dodici
tavole» ciò appare in ordine inverso.

2.º Cimitero comune. Alla patrizia gente Claudia, quando migrò da
Regilli a Roma, fu assegnato un pezzo di terreno per suo uso, e inoltre
un luogo di sepoltura comune nella città. Ancora, sotto Augusto, la
testa di Varo, caduto nella foresta di Teutoburgo, fu riportata a
Roma e collocata nel _gentilitius tumulus_; la _gente_ Quintilia aveva
dunque anche un sepolcro speciale.

3.º Feste religiose comuni; le ben note _sacra gentilitia_.

4.º Obbligo di non sposarsi nella _gente_. Ciò non pare che in Roma
sia mai stato sancito da una legge scritta, ma il costume rimaneva.
Della enorme quantità di coppie coniugali romane, i cui nomi ci son
tramandati, non c'è un solo nome _gentile_ comune al marito e alla
moglie. Il diritto successorio conferma questa regola. La donna perde
con le nozze i suoi diritti agnatizî, esce dalla sua _gente_, e nè
essa, nè i suoi figli, possono ereditare da suo padre o dai fratelli di
questo, perchè diversamente l'eredità sarebbe perduta per la _gente_
paterna. Questo non ha senso se non si presuppone che la donna non
possa sposare alcun membro della propria _gente_.

5.º Una proprietà fondiaria comune. Questa vi era anche nel tempo
primitivo, dacchè il terreno della tribù cominciò ad essere ripartito.
Nelle tribù latine troviamo il terreno, parte in possesso della tribù,
parte della _gente_, parte delle comunità o gruppi domestici, che in
quel tempo difficilmente potevano essere famiglie individuali. Si dice
che Romolo abbia fatta la prima distribuzione di terreno agl'individui,
circa un ettaro (due jugeri) per ciascheduno. Tuttavia noi troviamo
anche di poi possessi fondiari in mano alle _genti_, pur astraendo dal
terreno dello Stato, intorno al quale si aggira tutta la storia interna
della Repubblica.

6.º Dovere di mutua difesa ed assistenza fra compagni _gentili_.
Di ciò la storia scritta non ci mostra che pochi avanzi; lo Stato
romano assunse subito tale predominio, chè passò ad esso il diritto
di protezione contro le offese. Quando Appio Claudio fu imprigionato,
tutta la sua _gente_ mise il lutto, anche i suoi nemici personali.
Alla seconda guerra punica, le genti si unirono per la liberazione dei
compagni _gentili_ prigionieri di guerra; il Senato glielo _vietò_.

7.º Diritto di portare nomi _gentili_. Perdurò sino al tempo
dell'Impero; agli affrancati si permetteva di assumere il nome
_gentile_ dei loro ex-signori, ma senza diritti _gentili_.

8.º Diritto di adottare stranieri nella _gente_. Esplicavasi
coll'adozione in una famiglia (come presso gli Indiani), che traeva
seco l'ammissione nella _gente_.

9.º Il diritto di eleggere e di deporre capi non è menzionato in nessun
luogo. Ma, poichè nei primi tempi di Roma tutti gli uffizii tenevansi
per elezione o per acclamazione, dal re elettivo in giù, e anche i
preti delle _curie_ venivano eletti da queste, noi possiamo ammettere
lo stesso pei capi (_principes_) delle _genti_ — comunque l'elezione da
una medesima famiglia potesse essere già diventata la regola.

Queste erano le attribuzioni di una _gente_ romana. Ad eccezione del
passaggio, già compiutosi, al diritto paterno, esse sono lo specchio
fedele dei diritti e dei doveri di una _gente_ Irocchese; anche qui «fa
manifestamente capolino l'Irocchese».

A mostrare quale confusione regni ancor oggi, anche tra i nostri
storici più reputati, sull'ordinamento _gentile_ romano, basterà un
esempio. Nel lavoro di Mommsen sui nomi proprî romani dell'epoca
repubblicana e di Augusto (_Römische Forschungen_, Berlino, 1864,
1.º volume) sta scritto: «Oltre a tutti i maschi della stessa stirpe,
esclusi naturalmente gli schiavi, ma inclusi i famigliari e i clienti,
il nome della stirpe compete anche alle donne.... La tribù (così
Mommsen traduce qui la parola _gens_) è.... una comunità, discendente
da uno stipite comune (reale o presunto, o anche immaginario),
tenuta assieme dalla comunanza delle feste, della sepoltura e della
eredità, e alla quale possono e devono appartenere tutti gl'individui
personalmente liberi, quindi anche le donne. Ma il difficile è
stabilire il nome di stirpe delle donne maritate. La difficoltà non
esisteva, finchè la donna non poteva sposare se non un compagno della
sua _gente_; e probabilmente per molto tempo le donne incontrarono
maggiori difficoltà a maritarsi fuori che dentro la _gente_; talchè
poi quel diritto, la _gentis enuptio_, ancora nel sesto secolo veniva
dato in ricompensa come privilegio personale... Ma dove avvenivano
siffatti matrimonî fuori della _gente_, la donna, nei primi tempi,
doveva passare nella tribù del marito. Nulla è più certo del fatto,
che la donna, coll'antico matrimonio religioso, entrava nella comunità
giuridica e religiosa del marito, e lasciava la propria. Chi non sa
che la donna maritata perde il diritto ereditario, attivo e passivo,
nella propria _gente_, e lo acquista invece verso suo marito, i suoi
figli e tutti in generale i membri della _gente_ di questi? e se essa
diventa come figlia del marito ed entra nella costui famiglia, come può
rimanere al di fuori dalla sua stirpe?» (_pag. 9 a 11_).

Mommsen afferma dunque, che le donne romane, che appartenevano
ad una _gente_, non potevano maritarsi in origine se non _nella_
propria _gente_; la _gente_ romana sarebbe quindi stata endogama,
e non esogama. Questa opinione, che contraddice a tutto quanto
si è riscontrato presso altri popoli, si fonda principalmente, se
non esclusivamente, sopra un solo passo di Livio, oggetto di molte
controversie (_Libro XXXIX, cap. 19_), secondo il quale il Senato,
nell'anno di Roma 568, ossia nel 186 avanti la nostra êra, decise,
_uti Feceniæ Hispallæ datio, deminutio, gentis enuptio, tutoris optio
item esset quasi ei vir testamento dedisset; utique ei ingenuo nubere
liceret, neu quid ei qui eam duxisset, ob id fraudi ignominiaeve
esset_ — che Fecenia Hispalla avrebbe il diritto di disporre della
sua fortuna, di diminuirla, di maritarsi fuori della _gente_, e
di scegliersi un tutore, come se il suo (defunto) marito le avesse
conferito questi diritti per testamento; che essa potrebbe sposare un
cittadino libero, senza che a colui che la torrà in moglie possa ciò
essere ascritto come un'ignominia od una mala azione.

Senz'alcun dubbio è qui conferito a Fecenia, ad un'affrancata, il
diritto di maritarsi fuori della _gente_. E da questo passo risulta
con eguale certezza che il marito poteva conferire per testamento a sua
moglie il diritto di maritarsi, dopo la sua morte, fuori della _gente_.
Ma fuori di _quale gente_?

Se la donna doveva maritarsi nella propria _gente_, come ritiene
Mommsen, essa rimaneva in questa _gente_ anche dopo il matrimonio.
Ma, in primo luogo, questa pretesa endogamia della _gente_ è appunto
ciò che si dovrebbe dimostrare. E in secondo luogo, se la donna doveva
sposarsi nella _gente_, lo doveva naturalmente anche l'uomo, altrimenti
sarebbe rimasto senza moglie. Ne verrebbe che l'uomo poteva legare per
testamento a sua moglie un diritto, che non possedeva per sè; assurdo
giuridico. Mommsen lo sente e congettura quindi che «per sposarsi fuori
della _gente_ occorreva, in diritto, non solo il consenso del marito
sotto la cui potestà la donna si trovava, ma quello eziandio di tutti i
compagni _gentili_» (_pag. 10, Nota_). Or questa è anzitutto un'ipotesi
molto ardita; e inoltre contraddice al chiaro tenore del passo citato;
il Senato le dà questo diritto _in luogo e vece del marito_, esso le dà
espressamente nulla più e nulla meno di ciò che il marito poteva darle,
ma ciò che le dà è un diritto _assoluto_, non dipendente da alcun'altra
limitazione; sicchè, se essa ne fa uso, non dovrà soffrirne neanche
il suo nuovo marito; il Senato incarica anzi i consoli e i pretori
presenti e futuri di provvedere perchè non le derivi alcun danno.
L'ipotesi di Mommsen sembra quindi affatto inammissibile.

Ovvero: la donna sposava un uomo di un'altra _gente_, ma essa rimaneva
nella propria _gente_ nativa. Allora, giusta il suddetto passo, il
marito avrebbe avuto il diritto di permettere alla moglie di maritarsi
fuori della _gente_ di lei. Cioè avrebbe avuto il diritto di disporre
negli affari di una _gente_ alla quale egli non apparteneva. La cosa è
così assurda, che non è il caso di spendervi altre parole.

Rimane quindi la sola ipotesi, che la donna abbia sposato in prime
nozze un uomo di altra _gente_, passando senz'altro in quella del
marito, come effettivamente ammette anche Mommsen per casi simili.
Allora tutto il viluppo è subito spiegato. La donna, sciolta colle
nozze dalla sua antica _gente_ e entrata in quella del marito, ha in
questa una posizione affatto speciale. Essa è compagna _gentile_ sì,
ma non consanguinea; la maniera della sua adozione la esclude sin dal
principio da qualsiasi divieto di matrimonio nella _gente_, nella quale
appunto si è già maritata; essa è ammessa nell'unione matrimoniale
della _gente_, alla morte di suo marito eredita della sua fortuna,
eredita cioè la fortuna di un compagno _gentile_. Che di più naturale,
affinchè questa fortuna rimanga nella _gente_, che essa sia obbligata
a sposare un compagno _gentile_ del suo primo marito e nessun altro?
E se un'eccezione deve farsi, chi sarà competente ad autorizzarvela,
se non colui che le ha legata questa fortuna, il suo primo marito? Nel
momento in cui egli le lascia i suoi beni e le permette insieme di
trasferirli col matrimonio, o in conseguenza del matrimonio, in una
_gente_ estranea, questi beni gli appartengono ancora, egli dispone
quindi letteralmente della roba sua. Quanto alla donna e ai suoi
rapporti colla _gente_ del marito, è questi che ve l'ha introdotta con
un libero atto della sua volontà: il matrimonio; sembra quindi anche
naturale, che egli sia la persona più idonea ad autorizzarla ad uscirne
con un secondo matrimonio. Insomma la cosa appare semplice ed evidente,
tostochè noi eliminiamo lo strano concetto di una _gente_ romana
endogama e la concepiamo con Morgan come esogama fin dalle origini.

Rimane ancora un'ultima ipotesi, che ha pure trovato i suoi
sostenitori, e sono anzi i più numerosi. Il passo di Livio
significherebbe soltanto, «che le fanciulle affrancate (_libertae_) non
potevano senza particolare autorizzazione maritarsi fuori della _gente_
(_e gente enubere_) o fare qualsiasi altro atto, che, collegato con la
_capitis deminutio minima_, potesse aver per effetto l'uscita della
_liberta_ dalla unione _gentile_.» (LANGE, _Römische Alterthümer_,
Berlino 1856, I, pag. 195, dove, quanto al passo di Livio, si fa
riferimento a Duschke). Se questa ipotesi è giusta, il passo non prova
più nulla quanto ai rapporti delle Romane pienamente libere; e di un
costoro obbligo di maritarsi nella _gente_ non può più esser questione.

L'espressione _enuptio gentis_ non si trova che in questo passo, in
tutta la letteratura romana; la parola _enubere_, «sposarsi fuori»,
solo tre volte appunto in Livio, ma senza alcun rapporto colla
_gente_. L'ipotesi fantastica che le romane potessero maritarsi
solo nella _gente_, si deve a quest'unico passo. Ma essa non regge
affatto, perchè, o il passo si riferisce a restrizioni speciali per
le affrancate, e non prova nulla per le donne di condizione libera
(_ingenuae_); o si riferisce anche a queste, e allora esso prova
piuttosto, che di regola la donna si maritava fuori della sua _gente_,
ma col matrimonio passava nella _gente_ del marito; prova cioè contro
Mommsen e a favore di Morgan.

Ancora quasi tre secoli dopo la fondazione di Roma, i vincoli _gentili_
erano così forti, che una _gente_ patrizia, quella dei Fabii, potè
intraprendere di propria iniziativa, col consenso del Senato, una
spedizione di guerra contro la vicina città di Veio. Trecentosei
Fabii sarebbero usciti e stati uccisi tutti in una imboscata; solo un
ragazzo, sopravvissuto, ripropagò la _gente_.

Dieci _genti_ formavano, come si è detto, una fratria, che chiamavasi
_curia_ ed aveva attribuzioni pubbliche più importanti della fratria
greca. Ogni _curia_ aveva le sue pratiche religiose, i suoi santuari
e i suoi preti speciali; l'insieme di questi ultimi formava uno dei
Collegi del sacerdozio romano. Dieci _curie_ formavano una tribù, che
probabilmente, come le altre tribù latine, aveva in origine un capo
eletto, duce dell'esercito e sommo sacerdote. Le tribù formavano il
_populus romanus_.

Al popolo romano poteva quindi soltanto appartenere chi era membro
di una _gente_, e con essa di una _curia_ e di una tribù. La prima
costituzione di questo popolo fu la seguente: Degli affari pubblici
la immediata gestione spettava al Senato, il quale, come il Niebuhr
ben notò per il primo, era composto dei capi delle trecento _genti_;
appunto perchè gli anziani delle _genti_, essi si chiamavano «padri»,
_patres_, e la loro riunione «Senato» (Consiglio degli anziani, da
_senex_, vecchio). La consuetudine di eleggerli sempre nella stessa
famiglia di ogni _gente_, originò anche qui la prima nobiltà della
tribù; queste famiglie si chiamarono patrizie e pretesero un esclusivo
diritto al Senato e a tutte le altre cariche. Che col tempo il popolo
abbia subita questa pretesa lasciandola così trasformarsi in un
vero diritto, lo adombra la leggenda di Romolo attribuente ai primi
senatori e ai loro discendenti il patriziato coi suoi privilegi. Il
Senato, come la _bulè_ ateniese, decideva su molti affari e aveva
facoltà di proposta pei più importanti, sopratutto per le nuove
leggi. Queste erano deliberate dall'assemblea popolare, cioè dai
_comitia curiata_ (assemblea delle _curie_). Il popolo si riuniva
per _curie_, ogni _curia_ probabilmente per _genti_; nella decisione,
ciascuna della trenta _curie_ disponeva di un voto. L'assemblea delle
_curie_ accettava o rigettava tutte le leggi, eleggeva tutti i più
alti funzionarii, compreso il _rex_ (il cosiddetto re), dichiarava la
guerra (ma il Senato conchiudeva la pace) e decideva come tribunale
supremo, su appello degl'interessati, quante volte si trattava della
pena di morte contro un cittadino romano. — Infine, allato al Senato e
all'assemblea popolare, stava il _rex_, che corrispondeva esattamente
al _basileus_ greco, e non era affatto quel re quasi assoluto, che
Mommsen ci rappresenta[20]. Esso era anche duce dell'esercito, sommo
sacerdote e presidente di certi tribunali. Egli non aveva alcuna
competenza civile, alcun potere sulla vita, sulla libertà e sulla
proprietà dei cittadini, salvo non lo derivasse dal potere disciplinare
di capo dell'esercito, o da quello di far eseguire come presidente
le sentenze del tribunale. L'uffizio di _rex_ non era ereditario;
all'opposto, egli era prima eletto dai Comizi delle _curie_,
probabilmente sopra proposta del suo predecessore in carica, e poi, in
una seconda assemblea, solennemente insediato. Che potesse anche venir
deposto, lo dimostra la sorte di Tarquinio il superbo.

Come i Greci dei tempi eroici, così i Romani dell'epoca dei cosiddetti
re, vivevano dunque in una democrazia militare, basata su _genti_,
fratrie e tribù, e da esse sviluppatasi. Se anche le _curie_ e le
tribù erano in parte creazioni artificiali, esse erano però foggiate
sui genuini primitivi tipi della società dalla quale scaturivano e che
le circondava ancora da tutti i lati. E se anche la primitiva nobiltà
patrizia aveva già guadagnato terreno e i _reges_ tentavano di ampliare
gradatamente le loro attribuzioni — ciò non cangia il carattere
fondamentale originario della costituzione, ed è di questo solo che si
tratta.

Intanto la popolazione di Roma, e del territorio romano ampliato
colla conquista, aumentava, parte coll'immigrazione, parte cogli
abitanti delle regioni assoggettate, per lo più latine. Tutti questi
nuovi appartenenti allo Stato (noi lasciamo qui da banda la questione
dei clienti) stavano fuori delle antiche _genti_, _curie_ e tribù,
non formavano quindi affatto parte del popolo romano propriamente
detto. Erano personalmente liberi, potevano possedere fondi, dovevano
pagare tributi e prestar servizio militare. Ma non potevano rivestire
alcuna carica, non partecipavano all'assemblea delle _curie_, nè alla
distribuzione dei terreni conquistati dallo Stato. Formavano la plebe,
esclusa da tutti i diritti pubblici. Col loro numero sempre crescente,
colla loro istruzione militare e col loro armamento, essi divennero una
potenza minacciosa di fronte all'antico _populus_, ormai rigorosamente
precluso ad ogni incremento dal di fuori. Si aggiungeva che la
proprietà fondiaria era stata ripartita, pare, supergiù egualmente
tra popolo e plebe, mentre la ricchezza commerciale e industriale, che
certamente non era ancora molto sviluppata, apparteneva per la massima
parte alla plebe.

Nella grande oscurità, in cui è avvolta tutta la tradizionale storia
delle origini di Roma — oscurità fatta ancora molto più densa dai
racconti e dai tentativi di spiegazione prammatico-razionalisti di
successivi indagatori delle fonti educati al criterio giuridico — nulla
si può precisare nè sul tempo, nè sul processo, nè sull'occasione della
rivoluzione che pose fine all'antica costituzione _gentile_. Certo è
solo, che ne furono causa le lotte tra plebe e popolo.

La nuova costituzione, attribuita al re Servio Tullio, tracciata su
modelli greci, sopratutto su quella di Solone, creò una nuova assemblea
popolare, che includeva o escludeva popolo e plebei indistintamente,
secondo che prestassero o no servizio militare. Tutti gli uomini
soggetti alle armi furono distribuiti, secondo la loro fortuna, in
cinque classi. La proprietà _minimum_ per ciascuna di queste classi
era: 1.ª 100,000 assi; II.ª, 75,000; III.ª 50,000; IV.ª 25,000; V.ª
11,000 assi; pari, secondo Dureau de la Malie, a circa L. 17,500,
13,125, 8750, 4500 e 1962. La sesta classe, quella dei proletarii,
consisteva dei meno fortunati, esenti da servizio militare e da tasse.
Nella nuova assemblea popolare delle centurie (_Comitia centuriata_)
i cittadini si schieravano militarmente nelle loro centurie, per
compagnie di 100 uomini, e ogni centuria aveva un voto. Ma la prima
classe dava 80 centurie; la seconda 22; la terza 20; la quarta 22; la
quinta 30; la sesta non ne dava che una, per decenza. Venivano poi i
cavalieri, comprendenti i più ricchi, con 18 centurie. In totale 193;
maggioranza dei voti 97. Ora i cavalieri e la prima classe avevano
insieme, solo essi, 98 voti, cioè la maggioranza; se costoro erano
d'accordo, la decisione definitiva era presa, senza che gli altri
venissero neanche interrogati.

A questa nuova assemblea delle centurie passarono tutti i diritti
politici dell'antica assemblea delle _curie_ (eccetto alcuni puramente
nominali); le _curie_ e le _genti_ che le componevano furono con ciò
degradate, come in Atene, a semplici società private e religiose, e
come tali vegetarono ancora a lungo, mentre l'assemblea delle _curie_
anneghittì ben tosto completamente. Per cacciare dallo Stato anche le
antiche tre tribù di famiglie, vennero introdotte quattro tribù locali,
con una serie di diritti politici, ciascuna delle quali abitava un
quartiere della Città.

Così anche in Roma, prima ancora dell'abolizione della cosiddetta
monarchia, l'antico ordinamento sociale fondato su vincoli personali
di sangue fu distrutto e gli subentrò una vera costituzione di Stato,
basata sulla divisione del territorio e sulla differenza delle fortune.
Il potere pubblico risiedette nella cittadinanza soggetta al servizio
militare, di fronte non solo agli schiavi, ma altresì ai cosiddetti
proletarii, esclusi dal servizio militare e dal maneggio delle armi.

Entro questa nuova costituzione — cui la cacciata dell'ultimo re,
Tarquinio il superbo, che aveva usurpato un vero potere reale, e la
sua sostituzione con due duci di eserciti (Consoli) muniti di eguale
potere (come fra gli Irocchesi), non diede che un maggiore sviluppo
— entro questa costituzione si muove tutta la storia della Repubblica
romana, con tutte le sue lotte dei patrizii e dei plebei per l'accesso
alle cariche e per la partecipazione all'agro pubblico, e col
definitivo sparire della nobiltà patrizia nella nuova classe dei grandi
proprietari terrieri e finanziarii, che mano mano assorbirono tutta
la proprietà fondiaria dei contadini rovinati dal servizio militare,
fecero coltivare dagli schiavi gli enormi latifondi così formati,
spopolarono l'Italia, e aprirono con ciò le porte non solo all'Impero,
ma ben anche ai suoi successori, i barbari Germani.



VII. La Gente presso i Celti e presso i Germani.


Lo spazio non ci consente di addentrarci nelle istituzioni _gentili_
tuttora esistenti, in forma più o meno schietta, fra le più diverse
popolazioni selvaggie e barbare, nè di seguirne le traccie nelle storie
primitive dei più o meno inciviliti popoli dell'Asia. Le une o le altre
si trovano dappertutto. Eccone due soli esempi: Prima ancora che fosse
ben conosciuta la _gente_, l'uomo che più si sforzò di fraintenderla,
Mac Lennan, l'ha dimostrata e l'ha descritta esattamente presso i
Calmucchi, i Circassi, i Samoiedi, e presso tre popoli dell'India:
i Warali, i Magari e i Munnipuri. Recentemente M. Kovalevsky l'ha
scoperta e descritta presso gli Psciavi, gli Scevsuri, gli Svaneti ed
altre tribù del Caucaso. Qui non diamo che alcune brevi notizie sulla
_gente_, quale la troviamo fra i Celti ed i Germani.

Le più antiche leggi celte di cui abbiamo notizia ci mostrano la
_gente_ ancora in pieno vigore; nella Irlanda essa vive, almeno
istintivamente, nella coscienza popolare ancor oggi, dopo che
gl'inglesi l'hanno violentemente distrutta; nella Scozia essa era
ancora in tutto il suo fiore alla metà del secolo scorso, e anche là
non soggiacque che alle armi, alla legislazione e ai tribunali inglesi.

Le leggi dell'antica Galles, scritte parecchi secoli prima della
conquista inglese e al più tardi nell'undecimo secolo, mostrano ancora
l'agricoltura comune in interi villaggi, benchè solo come avanzo
eccezionale di un costume generale del passato; ciascuna famiglia aveva
cinque acri per sè, oltre a ciò un campo veniva coltivato in comune
e se ne ripartiva il prodotto. L'analogia coll'Irlanda e colla Scozia
non lascia dubbio che queste comunità di villaggio rappresentavano o
_genti_ o suddivisioni di _genti_, quand'anche un nuovo esame delle
leggi del paese di Galles, pel quale mi manca il tempo (i miei estratti
sono del 1869), non dovesse provarlo più esattamente. Ma ciò che le
fonti della Galles, e con esse le irlandesi, provano direttamente, è
che fra i Celti la famiglia sindiasmica, nell'undecimo secolo, non
era ancora stata affatto soppiantata dalla monogamia. Nella Galles
un matrimonio non diveniva indissolubile, o tale, per dir meglio, che
non si potesse più disdire, se non dopo sette anni. Se mancavano tre
sole notti ai sette anni, gli sposi potevano divorziare. Allora si
spartiva la roba; la donna divideva, l'uomo sceglieva la sua parte. I
mobili venivano ripartiti giusta certe regole molto umoristiche. Se era
l'uomo che scioglieva il matrimonio, egli doveva rendere alla donna la
sua dote e qualcosa in più; se era la donna, essa riceveva meno. Dei
figli, due restavano all'uomo, uno, quello di età mediana, alla donna.
Se la donna, dopo la separazione, prendeva un altro uomo, e il primo
marito la reclamava di nuovo, essa doveva seguirlo, anche se avesse
già un piede nel nuovo talamo. Ma se i due avevano convissuto sette
anni, erano marito e moglie anche senza la formalità delle nozze. La
castità delle ragazze prima del matrimonio non era punto rigorosamente
custodita o richiesta; le norme vigenti in proposito erano estremamente
frivole e punto rispondenti alla morale borghese. Se una moglie
commetteva adulterio, il marito poteva bastonarla (era questo uno dei
tre casi, nei quali ciò gli era concesso; negli altri casi incorreva in
una pena), ma non gli era permesso poi di chiedere altro risarcimento,
perciocchè «per lo stesso fallo vi deve essere o espiazione o vendetta,
ma non le due cose insieme». I motivi pei quali la donna poteva
chiedere il divorzio, senza perdere con ciò alcuno dei suoi diritti,
erano molto larghi: bastava che il marito avesse l'alito cattivo. Il
riscatto in denaro da pagarsi al capo o re della tribù pel diritto
della prima notte (_gobr merch_, donde il nome medioevale _marcheta_,
in francese _marquette_), tiene una gran parte nel libro delle leggi.
Se aggiungeremo, che è dimostrata in Irlanda l'esistenza di rapporti
analoghi; che anche ivi erano molto in uso i matrimonii temporanei,
e che alla donna, in caso di separazione, erano guarentiti grandi
vantaggi, e regolati nel modo più coscienzioso, perfino un indennizzo
pei servigi domestici resi, che ivi a una «prima moglie» se ne trovano
accanto delle altre, e nella ripartizione delle eredità non è fatta
differenza tra figli legittimi ed illegittimi — noi avremo del connubio
sindiasmico un quadro, di fronte al quale appare severa la forma di
connubio in vigore nell'America del Nord, ma tale che non può recar
meraviglia nell'undecimo secolo in un popolo, che al tempo di Cesare
viveva ancora col connubio per gruppi.

La _gente_ irlandese (_sept_; la tribù chiamavasi _clainne_, clan) non
è solo constatata e descritta dagli antichi libri di diritto, ma anche
dai giuristi inglesi del secolo XVII inviati colà per la trasformazione
del territorio dei _clans_ in demanio del re inglese. Il suolo era
rimasto sino allora proprietà comune del _clan_ o della _gente_,
in quanto non fosse stato già trasformato dai capi in loro demanio
privato. Se moriva un compagno _gentile_, e per conseguenza cessava una
economia domestica, il capo (i giuristi inglesi lo chiamavano _caput
cognationis_) faceva una nuova distribuzione di tutto il territorio
fra le restanti famiglie. In generale questa distribuzione dev'essersi
fatta giusta le norme vigenti in Germania. Ancor oggi le campagne di
alcuni villaggi — che quaranta o cinquant'anni fa erano molto numerosi
— formano il cosiddetto _rundale_. I contadini, fittaiuoli particolari
del terreno, che una volta era comune alla _gente_ e che poi fu
rubato dal conquistatore inglese, pagano ciascuno il proprio fitto, ma
riuniscono tutti i lotti di campo e di prato e, secondo la posizione e
la qualità, li ridividono in _Gewanne_, come si dice sulla Mosella, e
danno a ciascuno la sua parte in ogni _Gewann_; il terreno paludoso e
i pascoli sono sfruttati in comune. Ancora cinque anni fa si rifaceva
il riparto di tempo in tempo, e in molti luoghi annualmente. La carta
topografica di un villaggio-_rundale_ rispecchia quelle delle borgate
tedesche della Mosella o dell'_Hochwald_. La _gente_ sopravvive anche
nelle «fazioni». I contadini irlandesi si dividono spesso in partiti
che, sembrando fondati sopra divergenze assurde o prive di senso,
sono affatto inesplicabili per gli Inglesi, e pare non abbiano altro
scopo che le popolari solenni zuffe di una fazione contro l'altra.
Sono artificiali reviviscenze, sostitutivi postumi delle _genti_
distrutte, che mostrano a modo loro la persistenza degli istinti
_gentili_ ereditati. Per altro in molte contrade i compagni _gentili_
stanno ancora insieme a un dipresso sull'antico territorio; così, ancor
dopo il 1830, la grande maggioranza degli abitanti della contea di
_Monaghan_ non aveva che quattro nomi di famiglie, discendeva cioè da
quattro _genti_ o _clans_[21].

Nella Scozia il tramonto dell'ordinamento _gentile_ data
dalla sconfitta della sollevazione del 1745. Quale anello di
quest'ordinamento rappresenti specialmente il _clan_ scozzese, è ancora
da indagare; ma che esso ne sia uno, è indubitato. Nei romanzi di
Walter Scott noi ci vediamo dinanzi vivente questo _clan_ dell'alta
Scozia. Esso è, dice Morgan, «un perfetto modello della _gente_
nella sua organizzazione e nel suo spirito, un esempio evidente della
dominazione della vita gentilizia sui _gentili_... Nelle loro guerre
e nelle loro vendette, nella distribuzione del territorio per _clans_,
nello sfruttamento in comune del terreno, nella fedeltà dei membri del
_clan_ verso il capo e tra loro, noi ritroviamo dappertutto i tratti
della società _gentile_... La discendenza seguiva il diritto paterno,
sicchè i figli degli uomini rimanevano nel _clan_, quelli delle donne
passavano al _clan_ del padre». Ma che nella Scozia regnasse un tempo
il diritto materno, lo prova il fatto che, nella famiglia reale dei
Picti, secondo Beda, vigeva la successione in linea femminile. Anzi, un
tratto della famiglia _punalua_ erasi conservato, come negli abitanti
del paese di Galles, così anche fra gli Scozzesi, sin nel medio-evo, ed
era il diritto della prima notte, che il capo del _clan_ o il re, quale
ultimo rappresentante dei mariti comuni d'un tempo, era autorizzato ad
esercitare su ogni sposa, se quel diritto non veniva riscattato con una
somma di denaro.

                                 —————

È cosa certa che i Germani, sino alla invasione dell'Impero romano,
erano organizzati in _genti_. Essi debbono aver occupato il territorio
tra il Danubio, il Reno, la Vistola e il mare del Nord solo pochi
secoli prima della nostra êra; i Cimbri e i Teutoni erano ancora in
piena migrazione e gli Svevi non trovarono sedi fisse che al tempo
di Cesare. Di essi Cesare dice esplicitamente che si erano stabiliti
per _genti_ e per parentele (_gentibus cognationibusque_), e in
bocca di un Romano della _gente_ Giulia questa parola «_gentibus_»
ha un significato preciso che non si cancella coi sofismi. Ciò
poteva dirsi di tutti i Germani; perfino la colonizzazione nelle
provincie romane conquistate pare siasi fatta per _genti_. Nel diritto
nazionale alemanno è confermato che il popolo si stabilì per _genti_
(_genealogiae_), sul terreno conquistato al sud del Danubio, e la
parola _genealogia_ viene adoperata nell'identico senso, come più
tardi comunità di _marca_ o di villaggio[22]. Kovalevsky sostenne di
recente che queste _genealogiae_ fossero le grandi comunità domestiche,
tra le quali era distribuito il terreno, e dalle quali svilupparonsi
poi le comunità di villaggio. Lo stesso potrebbe dirsi della _fara_,
con che i Burgundi e i Longobardi — cioè una stirpe gotica e una
stirpe _erminonica_ o alto-tedesca — designavano a un dipresso, se non
precisamente, quello stesso che il libro delle leggi alemanne con la
parola _genealogia_. È il caso d'indagare più da vicino di che cosa —
se _gente_ o comunità domestica — effettivamente si tratti.

I monumenti linguistici non risolvono il dubbio se tutti i Germani
avessero un'espressione comune per designare la _gente_, e quale essa
fosse. Etimologicamente la parola corrisponde al greco _genos_, al
latino _gens_, al gotico _kuni_, all'alto-tedesco mediano _künne_,
ed è anche usata nel medesimo senso. Ciò che ci richiama ai tempi
del diritto materno, è che il nome, che serve a indicare la donna,
proviene dalla stessa radice: greco _gyne_, slavo _zena_, gotico
_qvino_, vecchio norvegese _kona_, _kuna_. Presso i Longobardi e i
Burgundi troviamo, come si è detto, _fara_, che Grimm deriva da una
radice ipotetica, _fisan_, _generare_. A me parrebbe più evidente
la derivazione da _faran_, _migrare, viaggiare_, come designazione
di una sezione fissa di emigranti, la quale, è quasi sottinteso,
si componeva di parenti; tale designazione, nel corso di parecchi
secoli di migrazione, prima verso l'Est, poi verso l'Ovest, sarebbe
venuta naturalmente e a poco a poco a indicare tutta una comunità del
medesimo ceppo. Vi è inoltre il gotico _sibja_, in anglosassone _sib_,
nel vecchio alto-tedesco _sippia_, _sippa_: _parente_. Nell'antico
norvegese non se ne trova che il plurale _sifjar_, _i parenti_; il
singolare non si usava che come nome di una dea, _Sif_. — E finalmente
troviamo un'altra espressione nella canzone d'Ildebrando, dove
Ildebrando chiede ad Adubrando «quale fra gli uomini di quel popolo
fosse suo padre.... o di quale schiatta sei tu» (_eddo huêlihhes
cnuosles du sis_). Finchè vi fu un nome alemanno comune per la _gente_,
questo dev'essere stato il gotico _kuni_, e ciò non solo per l'identità
con la corrispondente espressione delle lingue sorelle, ma anche
pel fatto che da esso deriva la parola _kuning_, re, che in origine
significa il capo d'una _gente_ o d'una tribù. La parola _sibja_,
_parente_, non sembra che c'entri: almeno perchè _sifjar_ nel vecchio
norvegese significa non solo consanguinei ma anche cognati, e abbraccia
quindi i membri di almeno _due genti_; _sif_ non può quindi essere
stato l'equivalente di _gente_.

Come fra i Messicani e fra i Greci, anche fra i Germani l'ordine di
battaglia, tanto dello squadrone di cavalleria quanto della colonna
a cuneo della fanteria, veniva disposto per corporazioni _gentili_.
Se Tacito dice: _per famiglie e per parentele_, questa espressione
indeterminata si spiega col fatto che, all'epoca sua, la _gente_ aveva
cessato da un pezzo di essere in Roma un'associazione vivente.

È decisivo un passo di Tacito nel quale è detto: il fratello della
madre considera i suoi nipoti come suoi figli, anzi alcuni ritengono
il vincolo di sangue tra zio materno e nipote ancora più sacro e più
stretto che quello tra padre e figlio, sicchè, quando richiedonsi
ostaggi, il figlio della sorella è tenuto per una garenzia maggiore che
non il proprio figlio di colui che si vuol vincolare. — Qui noi abbiamo
un tratto vivente della _gente_ organizzata giusta il diritto materno,
cioè primitiva, e ci è dato come qualche cosa di particolarmente
caratteristico ai Germani[23]. Se un compagno di una tale _gente_
dava il proprio figlio in pegno di una promessa e lo lasciava cader
vittima della violazione del patto, egli non dovea risponderne che
a sè stesso. Ma se il sacrificato era il figlio della sorella, era
violato il più sacro dei diritti _gentili_; il più prossimo parente
_gentile_, cui spettava prima che ad ogni altro la difesa del fanciullo
o dell'adolescente, era colpevole della sua morte; egli o non doveva
darlo come ostaggio o doveva osservare il contratto. Se non avessimo
alcun'altra traccia di costituzione _gentile_ presso i Germani, questo
solo passo basterebbe.

Ma ancor più decisivo, perchè posteriore di circa otto secoli, è un
passo del canto vecchio-norvegese sul crepuscolo degli dei e sulla fine
del mondo, la _Völuspâ_. In questa «visione della profetessa», in cui,
com'è ora dimostrato da Bang e Bugge, sono intrecciati anche elementi
cristiani, si dice, descrivendo il tempo della corruzione e della
depravazione generale che prepara la grande catastrofe:

    _Broedhr munu berjask ok at bönum verdask_
    _munu_ SYSTRUNGAR _sifjum spilla._

«I fratelli si combatteranno e si assassineranno a vicenda, e
_i figli delle sorelle_ romperanno la parentela». _Systrungar_
sono i figli della sorella della madre, e che questi rinneghino
la loro consanguineità appare al poeta un delitto ancora più
grave dell'assassinio del fratello. La maggior gravità deriva dal
_systrungar_, che indica la parentela dal lato materno; se invece
di questa parola, vi fosse _syskina-börn_ o _syskina synir_, figli
di fratelli e sorelle (cugini in genere)[24], la seconda linea di
fronte alla prima non significherebbe aggravamento, ma attenuazione
del delitto. Quindi, anche al tempo dei _Vikinghi_, quando nacque la
_Völuspâ_, non era ancora cancellato in Scandinavia il ricordo del
diritto materno.

Del resto, il diritto materno, al tempo di Tacito, almeno fra quei
Germani che gli erano più noti, aveva ceduto il posto al diritto
paterno; i figli ereditavano dal padre; se non c'erano figli,
ereditavano i fratelli e gli zii paterni e materni. L'ammissione
del fratello della madre all'eredità si connette col perdurare del
costume testè ricordato e prova essa pure quanto fosse di origine
recente il diritto paterno fra i Germani. Sino in pieno medioevo si
ritrovano traccie di diritto materno. Pare che anche allora non vi
fosse ancora molta fiducia nella paternità, sopratutto fra i servi;
così, se un signore feudale d'una città reclamava un servo fuggito,
la qualità di servo nel fuggitivo, per esempio ad Augusta, a Basilea
e a Kaiserslautern, doveva venir giurata da sei dei suoi più prossimi
consanguinei, e questi esclusivamente dal lato materno. (MAURER,
_Städteverfassung_, I.º, pag. 381).

Un altro avanzo del diritto materno appena estinto, ce lo mostra il
rispetto dei Germani pel sesso femminile, quasi incomprensibile ai
Romani. Donzelle di nobile famiglia erano, nei trattati coi Germani, i
più sicuri ostaggi; il pensiero che le loro mogli e figliuole potessero
cadere in prigionia o in ischiavitù era terribile per essi e stimolava
più di ogni altro il loro coraggio in battaglia; essi vedevano nella
donna qualche cosa di sacro e di profetico, ne ascoltavano il consiglio
anche nei frangenti più gravi; così Veleda, la sacerdotessa dei
Brutteri sul fiume Lippe, fu l'anima di tutta quella sollevazione dei
Batavi, nella quale Civile, alla testa dei Germani e dei Belgi, scosse
tutta la dominazione romana nelle Gallie. In casa, la supremazia delle
donne sembra incontestata; esse, i vecchi e i fanciulli, debbono,
è vero, attendere ad ogni lavoro; l'uomo caccia, beve o poltrisce.
Lo dice Tacito, ma poichè egli non dice chi coltivasse il campo,
e dichiara formalmente che gli schiavi non prestavano altro che un
tributo, senza lavori servili, la massa degli uomini adulti avrà ben
dovuto fare almeno il poco lavoro, che l'agricoltura richiedeva.

La forma del matrimonio era, come già si è detto, un connubio
sindiasmico che mano mano si avvicinava alla monogamia. Non era
ancora la stretta monogamia, perchè la poligamia era permessa ai
notabili. In generale si teneva severamente alla castità delle
fanciulle (all'opposto dei Celti) e Tacito parla altresì con un
calore particolare della inviolabilità del vincolo coniugale fra i
Germani. Solo l'adulterio della donna egli indica quale motivo di
divorzio. Ma il suo racconto lascia qui molte lacune e tradisce troppo
l'intenzione di proporre un esempio di virtù ai dissoluti Romani.
Invero: se i Germani erano, nelle loro foreste, così eccezionali
cavalieri di onestà, come mai bastò il più piccolo contatto col mondo
esteriore per farli scendere al livello medio della restante umanità
europea? L'ultima traccia della loro severità di costumi svanì, tra
i Romani, ancor più presto del loro linguaggio. Leggasi solo Gregorio
di Tours. Che nelle antiche foreste germaniche non potesse esistere il
raffinato eccesso di sensualità che regnava in Roma, s'intende da sè,
e così resta ai Germani, anche sotto questo rapporto, un sufficiente
vantaggio in confronto al mondo romano, senza bisogno di attribuir loro
un'astinenza sessuale, che non esistì mai, in verun luogo, presso un
intero popolo.

Dalla costituzione _gentile_ provenne il dovere di ereditare le
inimicizie come le amicizie del padre o dei parenti; così pure la
«composizione», sostituita alla vendetta, per l'omicidio o per le
offese. Questa «composizione», che, soltanto una generazione fa,
era ancora considerata come una specifica istituzione germanica, la
si ritrova ora presso centinaia di popoli come una forma mitigata
ed universale della vendetta, derivante dall'ordinamento _gentile_.
La troviamo, al pari dell'obbligo della ospitalità, tra gli altri,
presso gli Indiani dell'America; la descrizione del come era praticata
l'ospitalità, secondo Tacito (_Germania_, cap. 21), è quasi la stessa,
sino nei minuti particolari, che Morgan ci dà dei suoi Indiani.

La disputa calorosa ed interminabile, se i Germani di Tacito avessero
già definitivamente distribuito l'agro lavorato, e come debbansi
interpretare i relativi passi, appartiene ora al passato. Dacchè presso
tutti i popoli fu dimostrata la coltivazione in comune dei campi fatta
dalla _gente_, e in seguito da comunistiche associazioni di famiglie,
che Cesare constata ancora fra gli Svevi, e più tardi l'assegnazione
dei campi a famiglie particolari con redistribuzioni periodiche; dacchè
fu stabilito che queste redistribuzioni periodiche dell'agro lavorato
si conservarono quà e là fino ai nostri giorni nella stessa Germania,
non è il caso di spendervi intorno altre parole. Se dall'agricoltura
in comune, che Cesare attribuisce esplicitamente agli Svevi (presso di
essi, dice egli, non vi erano terreni ripartiti o terreni privati),
i Germani, nei 150 anni corsi sino a Tacito, erano passati alla
coltivazione particolare con redistribuzione annua del terreno, è
questo in verità progresso sufficiente; il passaggio da quello stadio
alla piena proprietà privata dei terreni, in così breve intervallo e
senza estranee ingerenze, implicherebbe semplicemente l'impossibile.
Per conseguenza, io leggo in Tacito solo quello che egli seccamente
dice: essi si scambiano (o redistribuiscono) ogni anno il terreno
coltivato, e sopravvanza ancora un vasto spazio di terreno comune.
È lo stadio dell'agricoltura e dell'appropriazione del terreno, che
corrisponde esattamente alla costituzione dei Germani d'allora.

Lascio inalterato il brano precedente, quale sta nelle precedenti
edizioni, sebbene la questione nel frattempo abbia assunto un altro
aspetto. Dopochè Kovalevsky ha dimostrato (veggasi più sopra a pag.
73) l'esistenza di una comunità domestica patriarcale, molto se non
universalmente diffusa, che avrebbe formato lo stadio intermedio tra la
famiglia comunistica a diritto materno e la famiglia isolata moderna,
non si tratta più di discutere, come fanno ancora il Maurer e il
Waitz, se la proprietà della terra fosse comune o privata, bensì qual
fosse la _forma_ della proprietà comune. Non vi è alcun dubbio che al
tempo di Cesare, fra gli Svevi, non solo la proprietà era comune, ma
anche la coltivazione si faceva in comune e per conto comune. Si potrà
invece ancora discutere a lungo se l'unità economica fosse la _gente_
o la comunità domestica, o un gruppo comunistico di parenti intermedio
fra le due; o se pure i tre gruppi coesistessero, a seconda delle
condizioni del terreno. Ma ora Kovalevsky sostiene che lo stato di
cose descritto da Tacito presuppone non già la società della _marca_ o
del villaggio, ma la comunità domestica; e che solo da quest'ultima si
sarebbe poi più tardi sviluppata la comunità di villaggio, per effetto
dell'incremento della popolazione.

Posto ciò, le colonie dei Germani sul territorio da essi occupato al
tempo dei Romani, come su quello tolto più tardi ai Romani stessi,
sarebbero state composte non di villaggi, ma di grandi comunità
domestiche, abbraccianti parecchie generazioni, e le quali prendevano
a coltivare proporzionate distese di territorio, e del terreno
incolto circostante giovavansi come di _marca_ in comune coi vicini.
Se così è, il passo di Tacito sul cangiamento del terreno coltivato
dovrebbesi intendere effettivamente in senso agronomico: che cioè la
comunità coltivava ogni anno una distesa diversa, lasciando a maggese
o addirittura lasciando di nuovo inselvatichire il campo lavorato
nell'anno antecedente. Stante la scarsezza della popolazione, rimaneva
allora sempre abbastanza terreno incolto, per rendere inutile ogni
contesa pel possesso terriero. Solo dopo secoli, allorchè il numero
dei membri della comunità domestica fu tanto aumentato, che diventò
impossibile, nelle condizioni della produzione di quel tempo, la
economia in comune, essi si sarebbero sciolti, e i campi e i prati
già comuni sarebbero stati ripartiti, nei noti modi, fra le economie
domestiche individuali, che oramai si venivano formando, dapprima
temporaneamente, e poi definitivamente, mentre i boschi, i pascoli e le
acque rimasero comuni.

Questo processo evolutivo sembra essere storicamente dimostrato per
la Russia. Per quanto riguarda l'Allemagna e, in seconda linea, gli
altri paesi germanici, è innegabile che questa ipotesi spiega meglio
le fonti sotto molti rapporti, e risolve le difficoltà più facilmente
che non l'altra finora adottata, che faceva risalire fino a Tacito le
comunità di villaggio. I più antichi documenti, quelli, ad esempio,
del _Codex Laureshamensis_, si spiegano in complesso assai meglio
mercè la comunità domestica che non colla comunità di _marca_ e di
villaggio. La nuova ipotesi, d'altro canto, schiude, a sua volta,
il varco a nuove difficoltà e a nuove questioni, che dovranno venir
risolute. Solo nuove indagini potranno essere decisive; ma io non posso
contestare che lo stadio intermedio della comunità domestica ha per sè
moltissima probabilità anche per la Germania, per la Scandinavia e per
l'Inghilterra.

Mentre ai tempi di Cesare i Germani hanno appena fissato stabili
residenze e in parte ne vanno ancora in traccia, ai tempi di Tacito
essi hanno già dietro di sè un intero secolo di stabilità; ed è
innegabile un corrispondente progresso nella produzione dei mezzi
di sussistenza. Abitano in case di tronchi; le loro vesti tengono
ancora assai della primitiva selvatichezza boschereccia; un grossolano
manto di lana, pelli di animali, e, per le donne e le persone più
ragguardevoli, sottovesti di lino. Son loro alimenti latte, carne,
frutti selvatici, e, aggiunge Plinio, polenta di avena (ch'è ancora
oggi il piatto nazionale celtico nell'Irlanda e nella Scozia). La
loro ricchezza consiste in bestiame, ma questo è di cattiva razza;
i buoi, piccoli, miseri, senza corna; i cavalli, piccoli _poneys_ e
non da corsa. Il denaro era raro e poco usato, e soltanto romano. Non
lavoravano nè apprezzavano l'oro e l'argento; il ferro era raro, e,
almeno nelle tribù sul Reno e sul Danubio, quasi soltanto, a quanto
pare, importato, non procurato da loro. La scrittura runica (imitata
da caratteri greci o latini) esisteva soltanto come scrittura segreta
e non veniva adoperata che a magie religiose. I sacrifizii umani
erano ancora in uso. Insomma, abbiamo qui un popolo elevatosi allora
allora dallo stadio medio al superiore della barbarie. Ma, mentre alle
tribù confinanti immediatamente coi Romani la facile importazione dei
prodotti dell'industria romana impediva lo sviluppo di una industria
tessile e metallurgica indipendente, se ne formava una indubbiamente al
nord-est, sul Baltico. I pezzi di armatura trovati nelle paludi dello
Schleswig — lunga spada di ferro, giaco di maglie, elmo d'argento,
ecc., con monete romane della fine del secondo secolo — e gli oggetti
in metallo di fabbricazione germanica diffusi colla migrazione dei
popoli, rivelano un tipo affatto proprio e già assai sviluppato, anche
dove si accostano a modelli originariamente romani. L'immigrazione
nell'Impero romano incivilito pose termine dappertutto a questa
industria indigena, eccetto in Inghilterra. Con quanta unità di tipo
si fosse formata e avesse progredito questa industria, lo mostrano, ad
esempio, i fermagli di bronzo; quelli trovati in Borgogna, in Romania
e sul mar d'Azof, potrebbero essere usciti dalla stessa officina che
allestì gli inglesi e gli svedesi e sono tutti senza dubbio d'origine
germanica.

Anche la costituzione corrisponde allo stadio superiore della
Barbarie. In generale esisteva, secondo Tacito, il Consiglio dei
capi (_principes_) che decideva negli affari di minor conto, ma
apparecchiava i più importanti per la decisione dell'assemblea del
popolo; questa esiste anche nello stadio inferiore della Barbarie,
almeno là dove noi la conosciamo, fra gli Americani, ma solo per la
_gente_, non ancora per la tribù o per la federazione di tribù. I
capi (_principes_) si distinguono ancora nettamente dai duci di guerra
(_duces_), precisamente come fra gli Irocchesi. I primi vivono già in
gran parte dei donativi d'onore, in bestiame, grano, ecc., recati dai
compagni della tribù; essi vengono eletti, come in America, per lo
più dal seno della stessa famiglia; il passaggio al diritto paterno
favorisce, come in Grecia ed in Roma, la graduale trasformazione
dell'elezione in eredità e con ciò la formazione di una famiglia di
nobili in ogni _gente_. Questa antica cosiddetta nobiltà di tribù
si perdette per la maggior parte durante la migrazione dei popoli o
subito dopo. I duci degli eserciti venivano eletti, senza riguardo
all'origine, solo per idoneità. Essi avevano poco potere e dovevano
influire coll'esempio; lo speciale potere disciplinare dell'esercito
è da Tacito chiaramente attribuito ai sacerdoti. L'effettivo potere
risiedeva nell'assemblea del popolo. Il re o il capo della tribù
presiede; il popolo decide — no: col mormorio; si: coll'acclamazione
e con lo strepito delle armi. Essa è insieme assemblea giudiziaria;
in essa si presentano e si giudicano le querele, essa pronunzia le
sentenze di morte, e la morte è comminata solo per la codardia, pel
tradimento del popolo e pei vizi contro natura. Anche nelle _genti_ e
in altre suddivisioni, la collettività giudica sotto la presidenza del
capo, che, come in tutti i tribunali primitivi germanici, non poteva
essere che il direttore del dibattito e l'interrogatore; arbitra fin
dal principio e dappertutto era sempre, fra i Germani, la collettività.

Sin dal tempo di Cesare si erano formate federazioni di tribù; in
alcune c'era già il re; il supremo condottiero dell'esercito, come
presso i Greci ed i Romani, aspirava già alla tirannide e talvolta
l'otteneva. Tali fortunati usurpatori non erano punto padroni assoluti;
nondimeno, cominciavano già a spezzare i vincoli della costituzione
_gentile_. Mentre un tempo gli schiavi affrancati occupavano una
posizione subordinata, perchè non potevano appartenere a nessuna
_gente_, presso i nuovi monarchi tali favoriti pervenivano spesso ai
gradi, alla ricchezza e agli onori. Lo stesso avvenne dopo la conquista
dell'Impero romano fatta dai duci dell'esercito, divenuti allora re di
vaste contrade. Presso i Franchi, gli schiavi e gli affrancati del re
sostennero una gran parte, prima alla Corte, poi nello Stato; in gran
parte la nuova nobiltà discese da essi.

Una istituzione favorì il sorgere della monarchia: le compagnie
militari (_comitati_ di Tacito). Già fra i Pellirosse americani
vedemmo, come accanto alla costituzione _gentile_ si formino di proprio
moto associazioni private per fare la guerra. Queste associazioni
private, presso i Germani, erano già divenute associazioni permanenti.
Duci di eserciti, che si erano procacciata una fama, raccoglievano
a sè d'intorno una schiera di giovani avidi di bottino, obbligati
a personale fedeltà verso il duce, come egli verso di loro. Il duce
li manteneva, faceva loro donativi, li ordinava gerarchicamente: una
guardia del corpo e una schiera agguerrita per le piccole spedizioni,
un corpo completo di uffiziali per le grandi. Per deboli che dovessero
essere queste compagnie, quali anche ci appaiono più tardi, per esempio
in Italia con Odoacre, nondimeno esse formavano già il germe della
rovina dell'antica libertà popolare e si dimostrarono tali durante e
dopo le migrazioni. Poichè, in primo luogo esse favorirono il sorgere
del potere regio. E, in secondo luogo, esse non potevano essere tenute
assieme, come già nota Tacito, che dalle incessanti guerre e dalla
continua rapina. Il bottino divenne scopo. Se il capo della compagnia
non aveva da far nulla nelle vicinanze, egli traeva colla sua milizia
presso altre popolazioni, dove eravi guerra e speranza di bottino; le
truppe ausiliarie germaniche, che in gran copia combatterono sotto
bandiere romane perfino contro Germani, erano in parte composte di
siffatte compagnie. Era il primo embrione dei lanzichenecchi, onta e
maledizione dei tedeschi. Dopo la conquista dell'Impero romano, queste
compagnie del re, insieme ai servi e ai valletti di Corte romani,
formarono il secondo principale elemento della futura nobiltà.

In generale, quindi, le tribù la cui federazione formava il popolo
dei Germani, avevano la stessa costituzione che si era già sviluppata
presso i Greci dei tempi eroici e presso i Romani della cosiddetta
epoca dei re: l'assemblea del popolo, il Consiglio dei capi _gentili_,
il duce dell'esercito, che già anelava a un effettivo potere reale. Era
questa la costituzione più evoluta che potesse in generale scaturire
dall'ordinamento _gentile_; e fu anche la costituzione modello dello
stadio superiore della Barbarie. Quando la società varcò i limiti,
entro i quali bastava questa costituzione, l'ordinamento _gentile_ ebbe
fine: esso fu distrutto, e lo Stato lo sostituì.



VIII. La formazione dello Stato dei Germani.


Secondo Tacito, i Germani erano un popolo molto numeroso. In Cesare
troviamo un ragguaglio approssimativo della forza dei singoli popoli
tedeschi; egli fa ascendere gli Usipeti e i Tencteri, apparsi sulla
riva sinistra del Reno, a 180,000, comprese le donne e i fanciulli.
Quindi, per ciascun popolo, circa 100,000[25], che è già assai più
degli Irocchesi, ad esempio, i quali, nel loro fiore, non superavano
i 20,000, e furono il terrore dell'intera regione dai grandi laghi
sino all'Ohio e al Potomac. Ciascuno di questi popoli, se noi ci
proviamo ad aggruppare quelli stabilitisi nei pressi del Reno e che,
per le relazioni pervenuteci, ci sono più noti, occupa sulla carta,
all'incirca ed in media, lo spazio di una provincia della Prussia,
a un dipresso 10,000 chilometri quadrati o 182 miglia quadrate
geografiche. Ma la _Germania Magna_ dei Romani, sino alla Vistola,
abbracciava in cifre tonde 500,000 chilometri quadrati. Data una media
di 100,000 individui per ciascun popolo, il totale per la _Germania
Magna_ ammonterebbe a cinque milioni; il che è già molto per un gruppo
di popoli barbari, mentre sarebbe pochissimo per popoli odierni,
che contano 10 teste per chilometro quadrato, o 550 per ogni miglio
quadrato geografico. Ma i Germani non finivano lì. Lungo i Carpazii,
sino alle foci del Danubio, abitavano popoli tedeschi di stirpe gotica,
i Bastarni, i Peukini ed altri, così numerosi che Plinio ne fa la
quinta tribù principale dei Germani, e che, dopo aver servito, 180
anni avanti la nostra êra, quali mercenarii del re macedone Perseo, si
spinsero, nei primi anni di Augusto, sino nella regione di Adrianopoli.
Fossero solo un milione, avremmo, al principio della nostra era, un
totale probabile di almeno sei milioni di Germani.

Presa dimora in Germania, la popolazione dovette crescere con rapidità
accelerata: basterebbero a provarlo i progressi industriali testè
menzionati. Gli oggetti trovati nelle paludi dello Schleswig, come
si desume dalle monete romane che li accompagnavano, sono del terzo
secolo. In quell'epoca esistevano quindi già sul Baltico un'industria
tessile e un'industria metallurgica assai sviluppate, un attivo
commercio coll'Impero romano e un certo lusso nei ricchi — tutte
traccie di popolazione alquanto densa. Ma alla stessa epoca incomincia
anche la guerra generale di aggressione dei Germani su tutta la linea
del Reno, sulla frontiera fortificata dei Romani e sul Danubio, dal
Mare del Nord sino al Mar Nero — prova diretta d'una popolazione sempre
crescente e che tende ad espandersi. Trecento anni durò la lotta,
durante la quale tutta la tribù principale delle popolazioni gotiche
(eccetto i Goti Scandinavi ed i Burgundi) trasse verso il Sud-est e
formò l'ala sinistra della grande linea d'attacco, al centro della
quale gli Alto-tedeschi (Erminoni) sul Danubio superiore, e alla cui
ala destra gli Iskevoni (oggi Franchi) si spingevano sul Reno; agli
Inghevoni toccò la conquista della Britannia. Alla fine del quinto
secolo l'Impero romano giaceva snervato, dissanguato e impotente,
aperto agli invasori Germani.

Eravamo pur dianzi alla culla dell'antica civiltà greca e romana.
Eccoci al suo funerale. Su tutti i paesi del bacino del Mediterraneo
era passata la pialla livellatrice della mondiale dominazione romana,
e ciò per lunghi secoli. Dove non faceva resistenza il greco, tutti
i linguaggi nazionali avevano dovuto cedere a un latino corrotto; non
v'erano più differenze di nazionalità; non v'erano più Galli, Iberi,
Liguri, Norici; tutti eran divenuti Romani. L'amministrazione romana e
il diritto romano avevano sciolti dappertutto gli antichi aggruppamenti
di schiatta, e distrutto con ciò l'ultimo avanzo di indipendenza locale
e nazionale. La qualità di Romano conferita a tutti non offriva un
compenso; essa non esprimeva una nazionalità, ma solo la mancanza di
ogni nazionalità. Gli elementi di nuove nazioni esistevano dappertutto;
i dialetti latini delle diverse provincie si differenziavano sempre
più; i confini naturali, che in passato avevano fatto territorii
indipendenti l'Italia, la Gallia, la Spagna, l'Africa, esistevano e si
sentivano ancora. Ma in nessun luogo esisteva la forza di aggruppare
questi elementi in nuove nazioni; in niun luogo restava traccia di
capacità di sviluppo, di forza di resistenza, e, meno ancora, di una
forza creativa. L'immensa massa umana di quell'immenso dominio non
aveva che un vincolo: lo Stato romano, e questo era divenuto col tempo
il suo peggior nemico ed oppressore. Le provincie avevano annientata
Roma; Roma stessa era divenuta una città di provincia come le altre —
privilegiata, ma non più signora, non più centro dell'Impero mondiale,
non più neppure sede degli imperatori e dei sotto-imperatori, che
risiedevano a Costantinopoli, a Treviri, a Milano. La Stato romano era
divenuto una gigantesca e complicata macchina, non ad altro diretta
che a dissanguare i sudditi. Tributi, requisizioni e prestazioni
forzate di lavoro riducevano la massa della popolazione in una povertà
sempre più desolante; l'oppressione raggiunse l'insopportabile colle
estorsioni dei governatori, dei percettori delle imposte, dei soldati.
A questo era riuscito lo Stato romano col suo dominio universale: esso
fondava il suo diritto all'esistenza sulla conservazione dell'ordine
all'interno e sulla protezione contro i barbari all'estero; ma il suo
ordine era peggiore del più tristo disordine, e i barbari, contro
i quali esso pretendeva difendere i cittadini, venivano da questi
invocati quali salvatori.

La situazione sociale non era meno disperata. Già dagli ultimi tempi
della Repubblica la dominazione romana era riuscita allo sfruttamento
inconsiderato delle provincie conquistate; l'Impero non aveva abolito
questo sfruttamento, al contrario lo aveva disciplinato. Quanto più
l'Impero decadeva, tanto più crescevano tributi e prestazioni, tanto
più spudoratamente i funzionari rubavano ed angariavano. Il commercio
e l'industria non erano state mai il forte dei Romani, dominatori dei
popoli; solo nell'usura essi hanno superato tutto ciò che si fece
prima e dopo di loro. Quel tanto di commercio, che si era trovato
e conservato, andò in rovina sotto le estorsioni dei funzionarii;
quello che perdurò, riguardava la parte greca, orientale dell'Impero,
che esorbita dal nostro quadro. Impoverimento generale, regresso del
commercio, del mestiere, dell'arte, decremento della popolazione,
decadenza delle città, ritorno dell'agricoltura ad uno stadio inferiore
— questo fu il risultato finale della dominazione mondiale romana.

L'agricoltura, il principale ramo di produzione in tutto il mondo
antico, era tale più che mai. In Italia gli immensi latifondi, sin
dalla fine della Repubblica occupanti quasi tutto il territorio, erano
stati utilizzati in due modi: o come pascoli, nei quali la popolazione
era sostituita da pecore e da buoi, la cui custodia non richiedeva
che pochi schiavi; o come ville, dove masse di schiavi esercitavano
l'orticoltura in grande, in parte pel lusso del proprietario, in parte
per lo smercio sui mercati delle città. I grandi pascoli si erano
conservati ed anche estesi; le ville e la loro orticoltura erano
rovinate coll'impoverimento dei loro possessori e colla decadenza
delle città. La coltura dei latifondi, fondata sul lavoro schiavo,
non dava più profitto, ma essa era allora l'unica forma possibile
di grande agricoltura. La piccola coltura era ridivenuta la sola
forma rimuneratrice. Le ville furono frazionate, l'una dopo l'altra,
in piccole parcelle, e concesse ad enfiteuti, che pagavano una data
somma, o a _parziarii_, più fattori che fittaiuoli, che ricevevano il
sesto o appena la nona parte dal prodotto annuo pel loro lavoro. Ma a
preferenza questi piccoli spezzoni di campi erano concessi a coloni,
che pagavano una data somma annua, che erano legati alla gleba e che
potevano essere venduti con questa; essi non erano veri schiavi, ma
neanche liberi, non potevano contrarre matrimonio con liberi, e i
matrimonii tra loro non erano considerati come pienamente validi,
ma, a guisa di quelli degli schiavi, come un semplice concubinato
(_contubernium_). Erano i precursori dei servi del medio-evo.

L'antica schiavitù aveva fatto il suo tempo. Nè in campagna nella
grande agricoltura, nè nelle manifatture delle città essa dava più
un profitto rimuneratore — il mercato pei suoi prodotti non esisteva
più. E la piccola agricoltura e il piccolo mestiere, a cui erasi
ristretta la gigantesca produzione dei tempi floridi dell'Impero, non
aveva posto per numerosi schiavi. Soltanto per gli schiavi domestici
e di lusso dei ricchi c'era ancora posto nella società. Ma la morente
schiavitù bastava ancora tuttavia a far apparire ogni lavoro produttivo
un compito da schiavi, indegno di un libero Romano — e chi non lo
era oramai? Quindi, da un lato, aumentavano le affrancazioni degli
schiavi superflui, divenuti un peso; dall'altro si moltiplicavano
quà i coloni, là i liberi pezzenti (analoghi ai _poor whites_ degli
ex-Stati schiavisti d'America). Il Cristianesimo è affatto innocente
del graduale estinguersi dell'antica schiavitù. Esso ha secondata
la schiavitù per lunghi secoli nell'Impero romano, e in seguito non
ha mai impedito ai cristiani il commercio degli schiavi, nè quello
degli Alemanni nel Nord, nè quello dei Veneziani sul Mediterraneo,
nè più tardi, la tratta dei negri[26]. La schiavitù cessò, perchè
non dava più profitto. Ma la morente schiavitù lasciò dietro il suo
venefico pungiglione, nella proscrizione del lavoro produttivo dei
liberi. Questo il cul di sacco in cui s'era ficcato il mondo romano:
la schiavitù era economicamente impossibile, il lavoro dei liberi era
moralmente bandito. L'una non poteva più essere, l'altro non poteva
essere ancora, la base della produzione sociale. Unico scampo, in
simile caso, una rivoluzione completa.

La situazione non appariva migliore nelle provincie. A questo proposito
è sulle Gallie che abbiamo i maggiori ragguagli. Ivi, allato ai
coloni, c'erano ancora piccoli contadini liberi. Per guarentirsi
dagli arbitrii dei funzionarii, dei giudici e degli usurai, essi si
ponevano sovente sotto la protezione o il patronato di un potente; nè
soltanto gli individui, ma intiere comunità, talchè gli Imperatori,
nel quarto secolo, emanarono in proposito parecchi divieti. Ma che
giovava mai a coloro che cercavano protezione? Il padrone poneva loro
la condizione di trasferire in testa sua la proprietà del loro fondo, e
in ricambio glie ne assicurava l'usufrutto vita durante — gherminella
che ben avvertì la santa Chiesa e che imitò bravamente, nel IX e nel
X secolo, per l'incremento del regno di Dio e della proprietà terrena
sua propria. Vero è che allora, verso l'anno 475, il vescovo Salviano
di Marsiglia inveiva ancora contro simili ladronecci e narrava che
l'oppressione dei funzionarii e dei grandi proprietarii terrieri romani
era divenuta così grave, che molti «Romani» fuggivano nelle contrade
già occupate dai Barbari, mentre i cittadini romani, che vi dimoravano,
nulla temevano di più che di ritornare sotto il dominio romano. Che, in
quel tempo, sovente, per povertà, dei genitori vendessero i loro figli
come schiavi, lo dimostra una legge diretta ad infrenare quest'uso.

Per avere i barbari Germani liberato i Romani dal loro proprio Stato,
tolsero loro due terzi di tutto il territorio e se lo divisero fra
loro. La divisione si fece secondo la costituzione _gentile_; stante
il numero relativamente piccolo dei conquistatori, grandissime zone
rimasero indivise, e proprietà in parte di tutto il popolo, in parte
delle singole tribù e _genti_. In ogni _gente_ i campi e le praterie
erano divisi in parti eguali e sorteggiati tra le singole famiglie;
ignoriamo se, nei primi tempi avessero luogo divisioni periodiche;
comunque, questo costume cessò bentosto nelle provincie romane, e le
parti di ciascuno divennero proprietà privata alienabile, _allodio_.
Il bosco e il pascolo restò indiviso per l'uso comune; quest'uso, come
il modo di coltivazione della campagna divisa, era regolato conforme
all'antico costume e alle deliberazioni della collettività. Come più
la _gente_ stava fissa nel suo villaggio, e i Germani e i Romani a
poco a poco si fondevano, tanto più il vincolo di parentela cedeva a
quello meramente territoriale; la _gente_ si perdeva nella associazione
della _marca_, nella quale tuttavia si ritrovano bene spesso le traccie
della originaria consanguineità dei compagni. Così la costituzione
_gentile_, almeno nei paesi dove conservossi la comunità della _marca_
— il Nord della Francia, l'Inghilterra, la Germania, la Scandinavia
— si trasformò insensibilmente in una costituzione locale, diventando
con ciò atta ad essere assorbita nello Stato. Ma essa serbò tuttavia
il carattere democratico primitivo, proprio a tutta la costituzione
_gentile_, e questo carattere, sopravvissuto anche nelle degenerazioni
successive, fu un arme in mano degli oppressi, che li francheggiò
insino ai tempi moderni.

Se dunque il vincolo del sangue si smarrì presto nella _gente_, ciò
avvenne perchè, anche nella tribù e in tutto il popolo, i suoi organi
degenerarono per effetto della conquista. Sudditanza e costituzione
_gentile_ sappiamo che sono incompatibili. Qui lo vediamo confermato
su vasta scala. I popoli Germani, signori delle provincie romane,
dovevano organizzare questa loro conquista. Ma nè si potevano
accogliere le masse romane nei corpi _gentili_, nè dominarle col
mezzo di questi. Alla testa dei corpi amministrativi locali romani,
la più parte ancor vivi, conveniva porre qualcosa che sostituisse
lo Stato romano, e questo non poteva essere che un altro Stato. Gli
organi della costituzione _gentile_ dovevano quindi trasformarsi
in organi di Stato, e ciò assai rapidamente, poichè le circostanze
urgevano. Ma il rappresentante immediato del popolo conquistatore era
il duce dell'esercito. La sicurezza interna ed esterna del territorio
conquistato richiedeva il consolidamento del suo potere. Il momento era
giunto per la trasformazione del comando militare in monarchia: essa si
compì.

Prendiamo l'Impero dei Franchi. Quivi al popolo vittorioso dei Salii
toccarono in pieno possesso non solo i vasti dominii dello Stato
romano, ma altresì tutte le vastissime zone che, nelle maggiori e
minori società di _marca_ e di distretto, erano rimaste indivise,
massime tutti i grandi territorii boscosi. La prima cosa che fece il
re franco, di semplice comandante supremo divenuto un vero regnante,
fu di tramutare questa proprietà pubblica in proprietà regia, rubarla
al popolo e donarla o concederla al suo seguito. Questo seguito,
originariamente composto della sua scorta personale da guerra e degli
altri sotto-capi dell'esercito, si rafforzò presto non solo con Romani,
cioè con Galli romanizzati, che, per la loro arte dello scrivere, per
la loro coltura, per la loro conoscenza della lingua volgare romana e
dell'idioma scritto latino, come pure del diritto del paese, bentosto
gli divennero indispensabili, ma altresì con schiavi e con affrancati,
che formavano la sua Corte e tra i quali egli sceglieva i suoi
favoriti. A tutti costoro furono dapprima per lo più donati lotti di
territorio pubblico, poi furono loro concessi sotto forma di benefizî,
che da principio per lo più duravano quanto la vita del re; fu così
creata la base di una nuova nobiltà a spese del popolo.

Non basta. La vasta estensione dell'Impero non poteva governarsi coi
mezzi dell'antica costituzione _gentile_; il Consiglio dei capi, se
anche non fosse da lungo tempo cessato, non sarebbesi potuto riunire, e
fu presto sostituito dal seguito permanente del re; l'antica assemblea
del popolo si mantenne in apparenza, ma anch'essa divenne sempre più
nient'altro che la riunione dei sotto-capi dell'esercito e dei grandi
recentemente sorti. I contadini, liberi proprietarii del suolo, la
massa del popolo franco, furono stremati e rovinati dalle eterne guerre
civili e di conquista — queste ultime specialmente sotto Carlo Magno
— quanto lo erano stati i contadini romani negli ultimi tempi della
Repubblica. Essi, che avevano formato in origine tutto l'esercito,
e dopo la conquista della Francia il nucleo di esso, in principio
del nono secolo erano così impoveriti, che appena il quinto degli
uomini poteva ancora servire. Alle leve di liberi contadini, bandite
direttamente dal re, subentrò un esercito composto dei vassalli dei
nuovi grandi, tra i quali anche contadini asserviti, discendenti di
quelli, che prima non avevano conosciuto altro signore che il re, e
ancor prima nessun signore affatto, neanche il re. Sotto i successori
di Carlo, la rovina dei contadini franchi fu consumata dalle guerre
interne, dall'indebolimento del potere regio e dalle corrispondenti
usurpazioni dei grandi, ai quali si aggiunsero allora anche i Conti
di distretto, istituiti da Carlo e aspiranti all'ereditarietà della
carica; finalmente dalle invasioni dei Normanni. Cinquant'anni dopo
la morte di Carlo Magno l'Impero franco giaceva spossato ai piedi dei
Normanni, così come, quattro secoli prima, l'Impero romano ai piedi dei
Franchi.

E non solo l'impotenza all'estero, ma anche l'ordine o piuttosto il
disordine sociale interno era quasi il medesimo. I liberi contadini
franchi nulla ebbero da invidiare ai loro predecessori, i coloni
romani. Rovinati dalle guerre e dai saccheggi, essi avevano dovuto
porsi sotto la protezione dei nuovi grandi o della Chiesa, poichè il
potere regio era troppo debole per proteggerli; ma questa protezione
dovettero pagarla a caro prezzo. Come un tempo i contadini Galli,
essi dovevano trasferire al protettore la proprietà del loro fondo e
tornarlo a ricevere da lui come bene livellario, sotto forme diverse
e mutevoli, ma sempre contro prestazione di servizii e pagamento
di canoni; ridotti a questa forma di dipendenza, essi perdettero
a poco a poco anche la libertà personale; dopo poche generazioni,
la più parte erano già servi. Come presto tramontasse la libertà
del contadino, lo dimostra il catasto di Irminone dell'abbazia di
_Saint-Germain-des-Près_, allora presso ed ora entro Parigi. Sui vasti
tenimenti di questa badìa, sparpagliati nei dintorni, risiedevano
ancora, ai tempi di Carlo Magno, 2788 economie domestiche, quasi tutte
franche con nomi tedeschi. Vi si contavano 2080 coloni, 35 liti, 220
schiavi e solo 8 liberi fittaiuoli! La pratica, dichiarata empia da
Salviano, per la quale il protettore trasferiva in sua proprietà il
fondo del contadino, e non glielo riconcedeva che in usufrutto, e solo
sua vita durante, veniva ora generalmente esercitata coi contadini
dalla Chiesa. Le prestazioni obbligatorie di lavoro, che venivano
sempre più in uso, avevano avuto il loro modello così nelle _angarie_
romane, servizii coattivi per lo Stato, come nei lavori dei compagni di
_marca_ Germani per la costruzione di ponti e strade e per altri scopi
di comune interesse. La massa della popolazione sembra dunque, dopo
quattro secoli, tornata al suo punto di partenza.

Ma ciò non prova che due cose: primieramente, che il congegno sociale
e la distribuzione della proprietà nel crollante Impero romano
avevano pienamente corrisposto allo stadio della produzione d'allora
nell'agricoltura e nell'industria, ossia erano stati inevitabili; e in
secondo luogo, che cotesto stadio della produzione, durante i quattro
secoli seguenti non avendo essenzialmente nè progredito nè regredito,
aveva fatalmente riprodotta la stessa ripartizione della proprietà
e le medesime classi della popolazione. La città, negli ultimi
secoli dell'Impero romano, aveva perduta la sua antica dominazione
sulla campagna, e non l'aveva riacquistata nei primi secoli della
signoria germanica. Ciò presuppone un basso grado di sviluppo tanto
dell'agricoltura quanto dell'industria. Questo insieme di condizioni
produce necessariamente grandi proprietarii fondiarii dominanti e
piccoli contadini dipendenti. Quanto fosse impossibile innestare in una
tale società, da un lato, la romana cultura a schiavi dei latifondi,
dall'altro, la più recente grande cultura con prestazioni obbligatorie
di lavoro, lo provano i giganteschi esperimenti di Carlo Magno, colle
famose ville imperiali, sparite senza quasi lasciar traccia. Essi non
furono continuati che da chiostri, e solo per questi furono fecondi;
ma i chiostri erano corpi di società anormali, basati sul celibato;
essi potevano bensì fare cose eccezionali, ma appunto perciò dovevano
restare eccezioni.

Eppure del cammino se n'era fatto in questi quattro secoli. Se in
principio e in fine troviamo su per giù le stesse classi principali,
cangiati erano però gli uomini che le formavano. Sparita era l'antica
schiavitù, spariti i liberi poveri cenciosi, che disprezzavano il
lavoro come cosa da schiavi. Tra il colono romano e il nuovo servo,
c'era stato il libero contadino franco. Il «vano ricordo e la sterile
lotta» della romanità agonizzante erano morti e sotterrati. Le classi
sociali del nono secolo si erano formate, non già nel pantano di una
civiltà che si dissolve, ma nei dolori del parto di una nuova. La
nuova generazione, così i signori come i servi, era una generazione
di uomini, in paragone dei suoi predecessori romani. Il rapporto fra
potenti signori fondiarii e contadini dipendenti, che era stato per
questi la ineluttabile forma di rovina dell'antico mondo, fu ora
per quelli il punto di partenza di una novella evoluzione. E poi,
per improduttivi che sembrino, questi quattro secoli si lasciarono
dietro un grande prodotto: le moderne nazionalità, la trasformazione
e il nuovo assetto dell'umanità dell'Europa occidentale per la storia
futura. I Germani avevano infatti rivivificata l'Europa, e perciò
la dissoluzione degli Stati del periodo germanico non terminò colla
soggiogazione normanno-saracena, bensì collo svolgersi dei beneficii
e del vassallaggio per ottenere protezione (_Kommendation_) sino al
feudalismo, e con un così grande incremento della popolazione, che
permise, due secoli dopo, di sopportare senza danno i forti salassi
delle crociate.

Ma qual fu la misteriosa magìa con la quale i Germani infusero nuovo
vigore alla morente Europa? Fu forse una innata malìa della razza
germanica, come favoleggiano i nostri storici «sciovinisti?» Niente
affatto. I Germani erano, particolarmente allora, una razza ariana
fornita di alte doti, e in pieno sviluppo di vita. Ma non furono le
loro qualità nazionali specifiche che hanno ringiovanito l'Europa,
bensì semplicemente la loro barbarie: la loro costituzione _gentile_.

La loro capacità e il loro coraggio personale, il loro sentimento di
libertà e il loro istinto democratico, pei quali in tutti gli affari
pubblici ravvisavano un affare proprio, in breve, tutte le qualità che
i Romani avevano perdute e che sole potevano dal fango del mondo romano
modellar nuovi Stati e far crescere nuove nazionalità — che altro erano
se non i tratti caratteristici del barbaro dello stadio superiore —
frutti della sua costituzione _gentile_?

Se essi trasfigurarono l'antica forma della monogamia, se mitigarono il
dominio dell'uomo nella famiglia, se diedero alla donna una posizione
più elevata, ignota al mondo classico, che cosa mai ve li rese idonei,
se non la loro barbarie, le loro consuetudini _gentili_, le loro
qualità ancora vive, retaggio dei tempi del diritto materno?

Se, almeno in tre delle più importanti contrade, Germania, Nord della
Francia e Inghilterra, salvarono un tratto di schietta costituzione
_gentile_ sotto forma di comunità della _marca_ nello Stato feudale,
e diedero con ciò alla classe oppressa, ai contadini, anche nella più
dura servitù medioevale, un appoggio locale e un mezzo di resistenza,
quale non trovarono nè gli antichi schiavi, nè i moderni proletarii
— a che si è dovuto, se non alla loro barbarie, al loro sistema
esclusivamente barbarico di colonizzazione per stirpi?

E finalmente, se poterono sviluppare ed elevare a regola la forma
più mite della servitù già praticata nella patria e nella quale si
trasformò di più in più la stessa schiavitù dell'Impero romano; una
forma, che, come primo notava il Fourier, dà agli asserviti i mezzi per
una graduale emancipazione _come classe_ (_fournit aux cultivateurs
des moyens d'affranchissement_ COLLECTIF _et_ PROGRESSIF); una forma
che perciò si eleva molto più alto della schiavitù, nella quale ultima
non era possibile che la immediata liberazione dell'individuo senza
transizione (l'antichità non offre esempî di abolizione della schiavitù
per mezzo di ribellioni vittoriose) — mentre infatti i servi del
medio-evo riuscirono a poco a poco alla loro emancipazione come classe
— a che lo dobbiamo, se non alla loro barbarie, mercè la quale essi non
erano ancora giunti a una schiavitù completa, nè all'antica schiavitù
del lavoro, nè alla schiavitù domestica orientale?

Tutto quello, che i Germani infusero al mondo romano di robustezza
e di vitalità, era barbarie. Infatti solo dei barbari sono capaci di
ringiovanire un mondo travagliato da un'agonia di civiltà. E lo stadio
superiore della Barbarie, al quale e nel quale i Germani avevano
cercato di elevarsi prima della migrazione dei popoli, era il più
favorevole per siffatto processo. Ciò spiega tutto.



IX. Barbarie ed Epoca civile.


Abbiamo seguito il dissolversi della costituzione _gentile_ nei
tre grandi esempii particolari dei Greci, dei Romani e dei Germani.
Esaminiamo ora, per concludere, le condizioni economiche generali
che minavano già l'organamento _gentile_ della società nello
stadio superiore della Barbarie, e che la distrussero completamente
coll'avvento dell'Epoca civile. Qui il _Capitale_ di Marx ci è tanto
necessario quanto il libro di Morgan.

Sorta nello stadio medio e sviluppatasi nello stadio superiore dello
stato selvaggio, la _gente_, per quanto le fonti ci permettono di
giudicarne, raggiunse il suo fiore nello stadio inferiore della
Barbarie. Cominciamo quindi da questo stadio di sviluppo.

Qui, dove i Pellirosse d'America devono servirci come esempio, la
costituzione _gentile_ è completamente elaborata. Una tribù si è
scissa in parecchie _genti_, almeno in due; queste _genti_ primitive,
col crescere della popolazione, si suddividono ciascuna in parecchie
_genti_ figlie, di fronte alle quali la _gente_ madre appare come
fratria; la stessa tribù si divide in parecchie tribù, in ciascuna
delle quali ritroviamo in gran parte le antiche _genti_; talora
le tribù parenti sono federate. Questo semplice organamento basta
perfettamente alle condizioni sociali onde è derivato. Esso non è altro
che il loro proprio aggruppamento naturale, ed è in grado di dirimere
tutti i conflitti, che possono sorgere in una società così organata.
All'estero li dirime la guerra; essa può terminare colla distruzione
della tribù, giammai colla sua soggiogazione. Il grandioso, ma anche
il lato debole della costituzione _gentile_, è che essa non ha posto
per signoria e per servitù. All'interno non c'è alcuna differenza
fra diritti e doveri; il problema, se la partecipazione agli affari
pubblici, la vendetta o la «composizione» siano un diritto o un dovere,
non esiste per l'Indiano; esso gli sembrerebbe tanto assurdo quanto il
chiedere se il mangiare, il dormire, il far la caccia siano un diritto
o un dovere. Non meno inconcepibile è una divisione della tribù e della
_gente_ in differenti classi. E ciò ne conduce all'esame della base
economica di tale stato di cose.

La popolazione è estremamente rada; addensata solo alla residenza
della tribù, intorno alla quale si stende in vasto cerchio prima il
territorio di caccia, poi la zona neutra della foresta protettrice,
che la separa dalle altre tribù. La divisione del lavoro è affatto
primitiva: non esiste che tra i due sessi. L'uomo fa la guerra,
la caccia, la pesca, procura la materia prima pel nutrimento e gli
strumenti necessarii a tutto questo. La donna accudisce alla casa
e prepara il vitto e le vesti, cucina, tesse, cuce. Ciascuno dei
due è signore nel suo àmbito: l'uomo nel bosco, la donna in casa.
Ognuno è proprietario degli istrumenti da lui fabbricati e adoperati:
l'uomo delle armi, degli ordegni da caccia e da pesca, la donna delle
masserizie. L'economia domestica è comunistica per parecchie, spesso
per molte famiglie[27]. Quello, che è fatto ed utilizzato in comune,
è proprietà comune: la casa, il giardino, la barca. Qui dunque, e
soltanto qui, regge la «proprietà del prodotto del proprio lavoro»,
dai giuristi e dagli economisti falsamente attribuita alla società
incivilita; ultimo sotterfugio giuridico, sul quale si puntella ancora
l'odierna proprietà capitalistica.

Ma gli uomini non rimasero dappertutto a questo stadio. In Asia
trovarono animali che si lasciarono addomesticare, e poi allevare.
La bufala selvatica doveva esser presa alla caccia; addomesticata,
forniva annualmente un vitello, e latte per giunta. Certe tribù più
progredite — arii, semiti, forse anche già dei turanici — fecero
dell'addomesticamento, e più tardi anche dell'allevamento del bestiame,
la loro principale occupazione. Tribù di pastori si staccarono dal
resto della massa dei barbari: _prima grande divisione sociale del
lavoro_. Le tribù di pastori producevano sussistenze, non solo più
copiose, ma diverse da quelle degli altri barbari. Essi non solo
avevano latte, latticinii e carne in maggior copia, ma anche pelli,
lana, pelo di capra, e filati e tessuti moltiplicantisi colla massa
della materia prima. Ciò rendeva uno scambio normale per la prima
volta possibile. Nei periodi precedenti non potevano aver luogo che
scambii occasionali; una particolare abilità nella fabbricazione di
armi e di utensili poteva condurre, è ben vero, a una transitoria
divisione del lavoro. Così si rinvennero, in molti luoghi, indubbii
avanzi di officine da strumenti di pietra, dello scorcio dell'età della
pietra; gli artefici, che qui spiegavano la loro abilità, lavoravano
probabilmente, come ancora oggi gli artigiani delle comunità _gentili_
dell'India, per conto della collettività. Ad ogni modo, in questo
stadio, lo scambio non poteva aver luogo che nell'interno della tribù,
e anche questo in via eccezionale. Ora invece, dopo la separazione
delle tribù di pastori, troviamo tutte le condizioni per lo scambio
tra membri delle differenti tribù, e perchè esso si organizzi e si
consolidi come istituzione normale. In origine una tribù scambiava
coll'altra, per mezzo dei rispettivi capi _gentili_; ma quando gli
armenti cominciarono a passare in proprietà privata, prevalse di più
in più lo scambio individuale, e divenne finalmente l'unica forma. Il
principale articolo, che le tribù di pastori davano in iscambio ai loro
vicini, fu il bestiame; il bestiame divenne così la merce, in confronto
alla quale furono valutate tutte le altre e che dappertutto fu
accettata volentieri nello scambio contro queste — insomma il bestiame,
già a questo stadio, acquistò funzione e rese servizio di moneta:
tanto e così presto, già in principio dello scambio delle merci, faceva
sentirsi il bisogno di una merce-moneta.

L'orticoltura, probabilmente ignota ai barbari asiatici dello stadio
inferiore, sorse tra loro al più tardi nello stadio medio, come foriera
dell'agricoltura. Il clima degli altipiani turanici non permette
vita pastorale se manchino provviste di foraggi pei lunghi e rigidi
inverni; qui dunque la cultura dei prati e delle biade era condizione
necessaria. Deve dirsi lo stesso per le steppe al nord del Mar Nero. Ma
se il frumento si produsse prima pel bestiame, divenne bentosto anche
un alimento per l'uomo. Il terreno coltivato restò ancora proprietà
della tribù, assegnato in usufrutto da principio alla _gente_, più
tardi concesso da questa alle comunità domestiche, a finalmente agli
individui; essi potevano avervi alcuni diritti di possesso, ma nulla
più.

Fra le scoperte industriali di questo stadio, due sono particolarmente
importanti. La prima è il telaio, la seconda la fusione dei minerali
e la lavorazione dei metalli. Il rame e lo stagno, e il bronzo che è
un composto dei due, furono di gran lunga i più importanti; il bronzo
forniva strumenti utili ed armi, ma non poteva sostituire gli strumenti
di pietra; ciò non era possibile che al ferro, e il ferro non lo si
sapeva ancora ottenere. L'oro e l'argento cominciavano a usarsi in
gioielli ed ornamenti e dovevano già tenersi in gran pregio di fronte
al rame e al bronzo.

L'incremento della produzione in tutti i rami — allevamento del
bestiame, agricoltura, mestieri domestici — diede alla forza di lavoro
umano la facoltà di generare un prodotto più grande di quello che
occorreva a sostentarla. Esso accrebbe insieme la quantità di lavoro
giornaliero, che spettava ad ogni membro della _gente_, della comunità
domestica o delle singole famiglie. Nuove forze di lavoro divenivano
desiderabili. La guerra le offriva; i prigionieri di guerra furono
trasformati in ischiavi. Accrescendo la produttività del lavoro, e per
conseguenza la ricchezza, e ampliando il campo della produzione, la
prima grande divisione sociale del lavoro doveva, dato quel complesso
di condizioni storiche, produrre necessariamente la schiavitù. Dalla
prima grande divisione sociale del lavoro nacque la prima grande
divisione della società in due classi: signori e schiavi, sfruttatori e
sfruttati.

Come e quando siano passati gli armenti dalla proprietà comune
della tribù o della _gente_ in quella dei singoli capi di famiglia,
finora è affatto ignoto. Ma essenzialmente è in questo stadio che il
passaggio dev'essere avvenuto. Ora, cogli armenti e colle altre nuove
ricchezze, vi fu una rivoluzione nella famiglia. Il guadagno era stato
sempre affare dell'uomo, e i mezzi all'uopo erano prodotti da lui e
sua proprietà. Gli armenti erano i nuovi mezzi di guadagno, il loro
addomesticamento prima, e poi la loro sorveglianza, furono opera sua.
A lui, quindi, apparteneva il bestiame, a lui le merci e gli schiavi
scambiati contro il bestiame. Tutto il profitto, che offriva ora
l'industria, spettava all'uomo; la donna ne godeva con lui, ma non
aveva alcuna parte nella proprietà di esso. Il guerriero e cacciatore
«selvaggio» si era accontentato, nella casa, del secondo posto dopo
la donna; il pastore «più mite», imbaldanzito della sua ricchezza, si
spinse al primo posto e cacciò la donna al secondo. Nè questa se ne
poteva dolere. La divisione del lavoro nella famiglia aveva regolata
la divisione della proprietà tra l'uomo e la donna; essa era rimasta la
medesima; e nondimeno capovolgeva ora i rapporti domestici, unicamente
perchè era cambiata la divisione del lavoro fuori della famiglia. La
stessa causa che, nel passato, aveva assicurato alla donna il dominio
nella casa: il suo impiego esclusivo al lavoro domestico; questa
stessa causa assicurava ora, nella casa, il dominio dell'uomo; il
lavoro domestico della donna spariva, di fronte al lavoro produttivo
dell'uomo; questo fu tutto, quello un insignificante accessorio. Onde
già si vede che l'emancipazione della donna, la sua parificazione di
condizioni all'uomo, è e resta un'impossibilità, finchè la donna rimane
esclusa dal lavoro produttivo sociale e sequestrata nel lavoro privato
domestico. L'emancipazione della donna allora solo diviene possibile,
quando questa possa partecipare su vasta scala alla produzione
sociale e il lavoro domestico non la occupi più che in una misura
insignificante. E ciò non divenne possibile che colla grande industria
moderna, la quale non solo permette il lavoro della donna in grande
proporzione, ma formalmente lo esige, e tende a sempre più trasformare
in una industria pubblica il lavoro domestico privato.

Colla effettiva prevalenza dell'uomo nella casa cadeva l'ultimo freno
al suo esclusivo dominio. Questo esclusivo dominio fu consolidato e
perpetuato colla caduta del diritto materno, colla introduzione del
diritto paterno, col passaggio graduale dalla famiglia sindiasmica
alla monogamica. Ma con ciò fu dato uno strappo all'antico ordinamento
_gentile_: la famiglia isolata divenne una potenza e si elevò
minacciosa di fronte alla _gente_.

Ancora un passo, e siamo allo stadio superiore della Barbarie, al
periodo, nel quale tutti i popoli destinati a civiltà hanno la loro
epoca eroica; l'età della spada, ma anche dell'aratro e dell'ascia di
ferro. Col ferro l'uomo ebbe acquistata l'ultima e la più importante
di tutte le materie prime, che compirono una rivoluzione nella storia,
l'ultima.... fino alla patata. È al ferro che si deve l'agricoltura
su grandi superfici e il dissodamento di estese boscaglie; esso diede
all'artiere strumenti di una durezza e di un taglio, cui nessuna
pietra, nessun altro metallo conosciuto poteva resistere. Tutto ciò
a poco a poco; il primo ferro era spesso più molle del bronzo. Così
l'arme di pietra non dileguò che lentamente; non solo nel canto
d'Ildebrando, ma altresì presso Hastings nel 1066, c'erano ancora asce
di pietra in battaglia. Ma ormai il progresso procedeva irresistibile,
meno interrotto e più rapido. La città, le cui mura, le cui torri, i
cui merli di pietra circondavano case di pietra o di mattoni, divenne
la sede centrale della tribù o della federazione di tribù; progresso
notevolissimo nell'architettura, ma segno insieme di un cresciuto
pericolo e del bisogno di difesa. La ricchezza cresceva rapidamente,
ma come ricchezza individuale; la tessitura, la metallurgia e gli
altri mestieri di più in più specializzati, facevano la produzione
più varia e più perfezionata; accanto al grano, ai legumi e alle
frutta, l'agricoltura fornì l'olio e il vino, di cui fu appresa la
preparazione. Sì molteplice attività non poteva più esercitarsi da uno
stesso individuo; ed ecco _la seconda grande divisione del lavoro_:
il mestiere si separò dall'agricoltura. Il continuo incremento della
produzione, e con esso della produttività del lavoro, elevò il valore
della forza di lavoro umana; la schiavitù, che nello stadio antecedente
era ancora nascente e sporadica, diviene ora elemento essenziale del
sistema sociale; gli schiavi cessano di essere semplici aiuti, essi
vengono spinti a dozzine al lavoro sul campo e nell'officina. Collo
scindersi della produzione nei due grandi rami principali, agricoltura
e mestiere, nasce la produzione diretta per lo scambio, la produzione
delle merci; con essa il commercio, non solo nell'interno e ai confini
della tribù, ma già anche per mare. Tutto ciò però ancora ben poco
sviluppato; i metalli nobili cominciano a diventare la merce-moneta,
dominante ed universale, ma non ancora coniati, e si scambiano tali e
quali, in ragione di peso.

La differenza fra ricchi e poveri si aggiunge a quella fra liberi e
schiavi — la nuova divisione del lavoro genera una nuova divisione
di classi nella società. Le differenze di ricchezza fra i varii
capi di famiglia distruggono dappertutto l'antica comunità domestica
comunistica, dove ancor perdurava, e la coltivazione in comune del
terreno per conto di quella. La campagna è assegnata in usufrutto alle
singole famiglie, dapprima a tempo, più tardi in via definitiva; il
passaggio alla piena proprietà privata si effettua a poco a poco e
parallelamente al passaggio dal connubio sindiasmico alla monogamia. La
famiglia isolata comincia a divenire l'unità economica della società.

La popolazione più densa impone vincoli più stretti all'interno come
all'esterno. La federazione di tribù consanguinee diviene dappertutto
una necessità; presto lo diviene anche la loro fusione, e con ciò la
fusione dei territorii separati delle tribù in un territorio collettivo
della nazione. Il capo militare del popolo — _rex_, _basileus_,
_thiudans_ — diventa un funzionario indispensabile, permanente. Sorge,
dove ancora non esisteva, l'assemblea del popolo. Capo militare,
Consiglio, assemblea del popolo, formano gli organi della società
_gentile_, evolutasi a democrazia militare. Militare — perciocchè
la guerra e l'organizzazione per la guerra sono ora funzioni normali
della vita del popolo. Le ricchezze dei vicini stimolano la cupidigia
dei popoli, nei quali l'acquisto della ricchezza è già uno dei primi
scopi della vita. Sono barbari: predare pare loro più facile e anche
più onorevole che piegarsi al lavoro. La guerra, che prima si faceva
soltanto per vendicare usurpazioni, o per espandere un territorio
divenuto insufficiente, si fa ora unicamente pel bottino e diventa
un'industria permanente. Non invano mura minacciose cingono le
nuove città fortificate; nei loro fossati si spalanca la tomba della
costituzione _gentile_, e le loro torri si slanciano fin dentro l'epoca
civile. Non altrimenti all'interno. Le guerre di bottino aumentano la
potenza del supremo comandante, come dei sotto-duci dell'esercito;
la consuetudinaria elezione dei successori nelle stesse famiglie si
trasforma a mano a mano, sopratutto dopo la introduzione del diritto
paterno, in ereditarietà, dapprima tollerata, poi pretesa, finalmente
usurpata; la base è posta della monarchia e della nobiltà ereditaria.
Così gli organi della costituzione _gentile_ si svellono a poco a
poco dalle loro radici nel popolo, nella _gente_, nella fratria e
nella tribù, e tutta la costituzione _gentile_ si converte nel suo
contrario: da un'organizzazione di tribù pel libero ordinamento dei
loro proprii affari, essa diviene un'organizzazione pel saccheggio e
per la oppressione dei vicini, e, correlativamente, i loro organi, da
strumenti della volontà popolare, si convertono in organi indipendenti
di dominio e di oppressione di fronte al proprio popolo. Ma questo non
era possibile, se l'avidità della ricchezza non scindeva i compagni
_gentili_ in ricchi ed in poveri, se «la differenza di proprietà nella
stessa _gente_ non mutava l'unità degli interessi in antagonismo dei
compagni _gentili_» (Marx), e se l'estendersi della schiavitù non
cominciava a far considerare il lavoro per guadagnarsi la vita come
degno solo degli schiavi, e più disonorevole della rapina.

                                 —————

Eccoci dunque alla soglia dell'epoca civile. Essa è aperta da un nuovo
progresso della divisione del lavoro. Negli stadii primitivi gli uomini
producevano solo direttamente pel proprio bisogno; gli scambi eventuali
erano atti isolati, e non riguardavano che l'accidentale superfluo.
Allo stadio medio della Barbarie troviamo già, nei popoli pastori,
sotto forma di bestiame, una proprietà la quale, tostochè gli armenti
han raggiunto una certa importanza, lascia normalmente un avanzo sopra
i bisogni; v'è inoltre una divisione del lavoro tra i popoli pastori e
le tribù rimaste in arretrato e prive di armenti; d'onde due stadii di
produzione diversi e coesistenti, e quindi le condizioni di uno scambio
permanente. Lo stadio superiore della Barbarie ci presenta un'altra
divisione del lavoro, quella fra l'agricoltura ed il mestiere; cresce
con ciò la quantità dei prodotti creati direttamente per lo scambio,
e lo scambio tra i varii produttori diventa una necessità di vita
della società. L'epoca civile consolida ed accresce tutte queste già
esistenti divisioni del lavoro, sopratutto coll'acuire l'antagonismo
tra città e campagna (con che la città può dominare economicamente
la campagna, come nell'antichità, o la campagna dominare la città,
come nel medioevo), e vi aggiunge una terza divisione del lavoro
caratteristica ad essa e d'importanza decisiva: produce cioè una
classe, che non si occupa più della produzione, ma solo dello scambio
dei prodotti — i _negozianti_.

Sinora ogni nuova formazione di classi era stata l'opera esclusiva
della produzione; le persone occupate nella produzione dividevansi in
dirigenti ed esecutori, ovvero in produttori su più grande o su più
piccola scala. Qui entra per la prima volta in iscena una classe che,
senza prendere una parte qualsiasi nella produzione, sa conquistarne
la direzione generale e assoggettarsi economicamente i produttori; una
classe che si fa indispensabile intermediario tra due produttori e li
sfrutta entrambi. Sotto il pretesto di evitare ai produttori la pena
e il risico dello scambio, di estendere lo spaccio dei loro prodotti
ai più lontani mercati, di essere quindi la classe la più utile della
popolazione, si forma una classe di veri parassiti sociali, che, come
guiderdone di ben meschini effettivi servizii, screma, per dir così,
tanto la produzione indigena quanto la straniera, acquista rapidamente
enormi ricchezze e una corrispondente influenza sociale, e appunto
perciò, durante l'epoca civile, è chiamata a sempre nuovi onori e
a sempre maggior dominio sulla produzione, sino a che anch'essa,
alla fine, mette al mondo un proprio prodotto — le crisi commerciali
periodiche.

Allo stadio di evoluzione al quale siam giunti, certo il giovine ceto
dei negozianti non presente ancora i grandi destini che lo attendono.
Ma esso si forma e si rende indispensabile, e questo basta. E con
esso si sviluppa il _denaro metallico_, la moneta coniata, e con
questa un nuovo mezzo pel non produttore di dominare il produttore e
la sua produzione. Era scoperta la merce delle merci, che contiene
in sè celate tutte le merci; il talismano, che può trasformarsi a
volontà in qualsiasi cosa desiderabile e desiderata. Chi lo possedeva
dominava il mondo della produzione; e chi lo possedeva più di tutti?
Il negoziante. In sue mani il culto del denaro era assicurato. Egli
provvide a far manifesto fino a qual punto tutte le merci, quindi tutti
i produttori di merci, dovessero prostrarsi supplici nella polvere
innanzi al denaro. Egli provò praticamente, come tutte le altre forme
della ricchezza non sono che semplice apparenza di fronte a questa
incarnazione della ricchezza come tale. Giammai la potenza del denaro
si presentò con tanta brutalità, con tanta violenza primitiva, come
in questo suo periodo di giovinezza. Dopo la compra delle merci col
denaro venne il prestito del denaro; con esso l'interesse e l'usura. E
nessuna legislazione posteriore lanciò il debitore così spietatamente
ed irremissibilmente ai piedi dell'usuraio creditore, come le
legislazioni dell'antica Atene e dell'antica Roma — e ambedue nacquero
spontaneamente, come diritti consuetudinarii, senz'altra coazione che
la economica.

Allato alla ricchezza in merci e in ischiavi, allato alla ricchezza
in denaro, ecco ora sorgere anche la ricchezza fondiaria. Il diritto
di possesso degli individui sulle parcelle di terreno, ad essi
primitivamente concesse dalla _gente_ o dalla tribù, erasi ora tanto
consolidato, che esse appartenevano loro ereditariamente. Ciò che essi,
sopratutto negli ultimi tempi, avevano invocato, era la liberazione dai
diritti della società _gentile_ sulle parcelle, diritti che diventavano
per essi una catena. Furono liberati dalla catena — ma bentosto
anche dalla nuova proprietà fondiaria. La piena proprietà, la libera
proprietà del terreno, non significava solo la facoltà di possederlo
in modo assoluto e senza restrizioni — significava anche la facoltà
di alienarlo. Finchè il terreno era proprietà della _gente_, questa
facoltà non esisteva. Ma quando il nuovo proprietario della terra
spezzò definitivamente le pastoie della suprema proprietà della _gente_
e della tribù, egli spezzò anche il vincolo, che sino allora lo aveva
legato indissolubilmente al terreno. Che cosa ciò significasse gli fu
palese mercè il denaro, inventato contemporaneamente alla proprietà
fondiaria. Il terreno poteva ora diventare una merce, che si vende e
che si dà in pegno. Non appena fu introdotta la proprietà fondiaria,
immediatamente fu inventata anche l'ipoteca (vedi Atene). Come
l'eterismo e la prostituzione stanno alle calcagna della monogamia,
così l'ipoteca si mette alle calcagna della proprietà fondiaria. Avete
voluto la piena, libera, alienabile proprietà della terra; ebbene, voi
l'avete — _tu l'as voulu, Georges Dandin!_

Così, coll'espandersi del commercio, col denaro e coll'usura, colla
proprietà fondiaria e coll'ipoteca, progredirono rapidamente la
concentrazione e l'accentramento della ricchezza nelle mani di una
classe poco numerosa, accanto al crescente impoverimento della massa e
alla crescente massa dei poveri. La nuova aristocrazia della ricchezza,
dove già non coincideva colla vecchia nobiltà della tribù, la eclissò
definitivamente (in Atene, in Roma, fra i Germani). E accanto a questa
divisione dei liberi in classi, fondata sulla ricchezza, si ebbe,
specialmente in Grecia, un immenso aumento degli schiavi[28], il cui
lavoro forzato formò la base, sulla quale si elevò tutto l'edificio
sociale.

Guardiamoci ora d'intorno, per vedere che era avvenuto della
costituzione _gentile_ in questa trasformazione sociale. Essa era là
impotente, di fronte ai nuovi elementi sorti senza il suo concorso.
Il suo presupposto era che i membri di una _gente_, od anche di una
tribù, risiedessero uniti sullo stesso territorio, lo abitassero
esclusivamente. Ciò era cessato da lungo tempo. Dappertutto s'eran
mescolate le _genti_ e le tribù, dappertutto abitavano schiavi,
clienti, stranieri, in mezzo ai cittadini. La stabilità, raggiunta
soltanto verso la fine dello stadio medio della Barbarie, era di nuovo
e continuamente turbata dalla mobilità e variabilità del domicilio,
conseguenza dei commerci, dei cangiamenti delle industrie, delle
vicende della proprietà fondiaria. I compagni delle corporazioni
_gentili_ non potevano più riunirsi per la salvaguardia dei proprii
affari comuni; a malapena sopravvivevano le cose meno importanti,
come le festività religiose. Accanto ai bisogni e agli interessi,
per provvedere ai quali i corpi _gentili_ avevano veste e capacità,
erano sorti, dalla trasformazione dei rapporti industriali e dal
consecutivo cangiamento dell'assetto sociale, bisogni ed interessi
nuovi, non solo estranei all'antico ordinamento _gentile_, ma che lo
attraversavano in ogni guisa. Gli interessi dei gruppi d'artigiani,
nati dalla divisione del lavoro, i bisogni particolari della città
in opposizione alla campagna, richiedevano nuovi organi; ma ognuno
di questi gruppi era composto di individui appartenenti a _genti_,
fratrie e tribù le più diverse, e conteneva financo stranieri;
cotesti organi si dovevano quindi formare fuori della costituzione
_gentile_, accanto ad essa, e quindi contro di essa. — E in ogni
corporazione _gentile_ si faceva sentire a sua volta questo conflitto
di interessi, che raggiungeva il suo culmine nella riunione di ricchi
e di poveri, di usurai e di debitori, nella stessa _gente_ e nella
stessa tribù. — A ciò si aggiungeva la massa della nuova popolazione
estranea alle società _gentili_, che, come in Roma, poteva divenire
una forza nel paese, e che era troppo numerosa per venire accolta
mano mano nelle schiatte e tribù consanguinee. Di fronte a questa
massa, le associazioni _gentili_ stavano quali corporazioni chiuse,
privilegiate; la originaria democrazia naturale si era cangiata in una
odiosa aristocrazia. — In una parola, la costituzione _gentile_, nata
da una società che non conosceva antagonismi interni, non era adatta
che a una cosiffatta società. Essa non aveva alcun mezzo coercitivo
all'infuori dell'opinione pubblica. Ma qui era nata una società, che
tutte le condizioni della sua vita economica dividevano in liberi
e schiavi, in ricchi sfruttatori e poveri sfruttati, e che non solo
non poteva conciliare questi antagonismi, ma doveva anzi sempre più
spingerli all'estremo. Una tale società poteva soltanto sussistere, o
in una continua ed aperta lotta di queste classi tra loro, ovvero sotto
la dominazione di un terzo potere, che, stando apparentemente al di
sopra delle classi contendenti, reprimesse il loro aperto conflitto,
e lasciasse tutt'al più spiegarsi la lotta di classi sul solo terreno
economico, nella cosiddetta forma legale. La costituzione _gentile_
aveva vissuto. Essa fu distrutta dalla divisione del lavoro, che divise
la società in classi, e fu sostituita dallo Stato.

                                 —————

Studiammo di sopra partitamente le tre forme principali, nelle quali
lo Stato si eleva sulle rovine della costituzione _gentile_. Atene
presenta la forma più pura e più classica: ivi lo Stato scaturisce
direttamente e principalmente dagli antagonismi di classi, che si
sviluppano entro la stessa società _gentile_. In Roma, la società
_gentile_ diviene un'aristocrazia chiusa, in mezzo ad una plebe
numerosa, che sta fuori di essa, priva di diritti, ma carica di doveri;
la vittoria della plebe demolisce l'antica costituzione _gentile_,
e sui suoi rottami fonda lo Stato, in cui aristocrazia _gentile_
e plebe bentosto si confondono del tutto. Infine, presso i Germani
conquistatori dell'Impero romano, lo Stato nasce direttamente dalla
conquista di un grande territorio straniero, a dominare il quale la
costituzione _gentile_ non offriva mezzo veruno. Ma poichè a questa
conquista non si connette nè una seria lotta coll'antica popolazione,
nè una più progredita divisione del lavoro; poichè lo stadio di
sviluppo economico dei conquistati e quello dei conquistatori sono
supergiù gli stessi, e la base economica della società rimane quindi
l'antica; perciò la costituzione _gentile_ può perdurare lunghi
secoli nella nuova forma territoriale di costituzione di _marca_,
e ringiovanire anche per un certo tempo in forma affievolita nelle
successive schiatte nobili e patrizie, ed anche nelle schiatte
contadinesche, come fra i _Dithmarsci_[29].

Lo Stato non è quindi affatto un potere imposto alla società dal
di fuori; altrettanto poco esso è «l'attuazione dell'idea morale»,
«l'imagine e la realtà della ragione», come pretende Hegel. Esso
è invece un prodotto della società ad un determinato stadio di
evoluzione; è la confessione che questa società si avviluppa in
una insolubile contraddizione con sè stessa, scissa in antagonismi
inconciliabili, che è impotente a bandire. Ma affinchè questi
antagonismi, cioè queste classi con interessi economici contendenti,
non distruggano sè stesse e la società in lotte infeconde, diventò
necessario un potere che stesse apparentemente al di sopra della
società, per attutire il conflitto e tenerlo nei limiti dell'«ordine»;
e questo potere, sorto dalla società, ma che si colloca al di sopra di
essa, e le si rende di più in più estraneo, è lo Stato.

Di fronte all'antica organizzazione _gentile_, ciò che caratterizza
lo Stato è, in primo luogo, la divisione dei cittadini _secondo
il territorio_. Le antiche associazioni _gentili_, formate e
tenute insieme da vincoli di sangue, erano, come vedemmo, divenute
insufficienti, in gran parte perchè presupponevano compagni vincolati
ad un determinato territorio, il che era già cessato da un pezzo.
Il territorio era rimasto, ma gli uomini erano divenuti mobili. Si
prese quindi la divisione del territorio come punto di partenza,
e i cittadini dovettero adempiere i loro diritti e doveri pubblici
là dove essi si stabilivano, senza riguardo a _gente_ ed a tribù.
Questo organamento dei membri dello Stato, secondo la località cui
appartengono, è comune a tutti gli Stati. Esso quindi ci sembra
naturale; ma vedemmo sopra, quali dure e lunghe lotte furono
necessarie, prima che esso potesse, in Atene e in Roma, prendere il
posto dell'antico organamento per _genti_.

Il secondo carattere è la istituzione di una _forza pubblica_, che non
coincide più immediatamente colla popolazione organantesi da sè come
forza armata. Questa forza pubblica speciale è necessaria, poichè uno
spontaneo organamento armato della popolazione è fatto impossibile
dalla divisione in classi. Gli schiavi appartengono anch'essi alla
popolazione; i 90,000 cittadini ateniesi, non formano, di fronte ai
365,000 schiavi, che una classe privilegiata. Il popolo armato della
democrazia ateniese era una forza pubblica aristocratica di fronte
agli schiavi, e li teneva in freno; ma per tenere a freno anche i
cittadini, fu necessaria una gendarmeria, come si è sopra narrato.
Questa forza pubblica esiste in ogni Stato; essa non consiste soltanto
di uomini armati, ma anche di accessorii materiali, prigioni e apparati
coercitivi di ogni sorta, affatto ignoti alla società _gentile_.
Essa può essere di poco conto, quasi impercettibile, in società nella
quale gli antagonismi di classi non si sieno ancora sviluppati, e su
territorii isolati, come, in certi tempi e luoghi, negli Stati-Uniti
d'America. Ma essa s'accresce a misura che gli antagonismi di classi si
acuiscono nello Stato, e che gli Stati limitrofi divengono più grandi
e più popolosi — si consideri solo la nostra odierna Europa, dove la
lotta di classi e la concorrenza della conquista hanno elevato la forza
pubblica a un'altezza, dalla quale essa minaccia di ingoiare tutta la
società e lo Stato medesimo.

Per mantenere in piedi questa forza pubblica, sono necessarie le
contribuzioni dei cittadini dello Stato — le _imposte_. Queste erano
affatto sconosciute alla società _gentile_. Oggi ne sappiamo qualche
cosa. Ma col crescere dell'incivilimento esse non bastano già più;
lo Stato trae cambiali sull'avvenire, contrae prestiti, _debiti dello
Stato_. Anche di questi la vecchia Europa ne conosce una litania.

In possesso della forza pubblica e del diritto di riscuotere le tasse,
ecco ora i funzionarii, organi della società _sopra_ la società.
La deferenza libera, spontanea, che veniva tributata ai magistrati
della costituzione _gentile_, non basta loro quand'anche potessero
averla; strumenti di un potere divenuto estraneo alla società, essi
debbono ottenere il rispetto con leggi eccezionali, mercè le quali
acquistano una santità ed una inviolabilità particolare. Il più
miserabile poliziotto dello Stato incivilito ha più «autorità» che
non tutti i magistrati della società _gentile_ presi insieme; ma il
principe più potente e il più grande uomo di Stato o Generale della
civiltà può invidiare il più meschino capo _gentile_ per la spontanea
e incontestata stima che gli vien tributata. L'uno sta in mezzo alla
società; l'altro è obbligato a voler rappresentare qualche cosa al di
fuori e al di sopra di essa.

Lo Stato è adunque nato dal bisogno di frenare gli antagonismi di
classe; ma, poichè al tempo stesso esso è nato in mezzo al conflitto
di queste classi, ordinariamente è lo Stato della classe la più
potente, di quella che ha il dominio economico e che, mercè questo,
acquista anche il dominio politico, e con ciò un nuovo mezzo per la
soggiogazione e per lo sfruttamento delle classi oppresse. Così lo
Stato antico era sopratutto lo Stato dei possessori di schiavi per la
oppressione degli schiavi, come lo Stato feudale era l'organo della
nobiltà per la soggiogazione dei contadini servi e vassalli, e il
moderno Stato rappresentativo è lo strumento del capitale che sfrutta
il lavoro salariato. Eccezionalmente però avvengono periodi, in cui
le classi contendenti si equilibrano talmente, che il potere dello
Stato, quale apparente mediatore, acquista momentaneamente una certa
indipendenza di fronte a ciascuna di esse. Così la monarchia assoluta
dei secoli XVII e XVIII tiene in bilancia la nobiltà e la borghesia;
così il bonapartismo del primo e sopratutto del secondo Impero francese
si serviva del proletariato contro la borghesia e della borghesia
contro il proletariato. La più recente produzione del genere, nella
quale dominatori e dominati appaiono egualmente comici, è il nuovo
Impero tedesco bismarckiano; quivi capitalisti e lavoratori sono tenuti
in equilibrio e canzonati egualmente, a profitto dei rovinati nobiluzzi
campagnuoli prussiani.

Nella più parte, inoltre, degli Stati storici, i diritti spettanti
ai cittadini sono graduati in ragione dei beni posseduti, il che
fa direttamente palese che lo Stato è un'organizzazione a favore
della classe possidente contro i non possidenti. Così già nelle
classi a base di censo, ateniesi e romane. Così nello Stato feudale
del medio-evo, dove il grado di potere politico corrispondeva alla
proprietà fondiaria. Così nel censo elettorale dei moderni Stati
rappresentativi. Questo riconoscimento politico delle differenze di
proprietà non è però affatto essenziale. Al contrario, esso denota uno
stadio inferiore nella evoluzione dello Stato. La più alta forma dello
Stato, la repubblica democratica — che nei nostri moderni rapporti
sociali diviene una necessità di più in più ineluttabile, ed è la
sola forma di Stato, nella quale possa combattersi l'ultima lotta
decisiva tra proletariato e borghesia — la repubblica democratica non
tiene più ufficialmente alcun conto delle differenze di proprietà.
In essa la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma tanto
più sicuramente. Da un lato, sotto la forma di corruzione diretta
dei funzionarii, di cui l'America è l'esempio classico; dall'altro,
sotto la forma dell'alleanza tra il Governo e la Borsa, alleanza che
si effettua tanto più facilmente, quanto più crescono i debiti dello
Stato, e quanto più le Società per azioni concentrano nelle loro
mani, non solo i mezzi di trasporto, ma anche la produzione stessa,
per ritrovar poi nella Borsa il loro centro. Di ciò, oltre l'America,
è un esempio palmare l'attuale Repubblica francese, e anche la
onesta Svizzera ha offerto il suo su questo terreno. Ma che a questa
fraterna alleanza del Governo colla Borsa non sia affatto necessaria
la repubblica democratica, lo prova, oltre l'Inghilterra, il nuovo
Impero tedesco, dove non è facile dire, se il suffragio universale
abbia portato più in alto Bismarck o Bleichröder. E infine la classe
possidente domina direttamente a mezzo del suffragio universale.
Finchè la classe oppressa, cioè nel caso nostro il proletariato, non
è ancora matura per la propria emancipazione, essa riconoscerà, nella
sua maggioranza, l'ordine sociale esistente come l'unico possibile
e starà politicamente in coda alla classe capitalistica, sarà la
sua più estrema ala sinistra. Ma a misura che essa si avvicina alla
propria emancipazione, essa si costituisce come partito a sè, ed
elegge rappresentanti suoi proprii, non quelli dei capitalisti. Il
suffragio universale è quindi il gradimetro della maturità della
classe lavoratrice. Di più esso non può essere e non sarà mai nello
Stato odierno; ma ciò anche basta. Il giorno in cui il termometro del
suffragio universale segnerà pei lavoratori il punto di ebollizione,
essi sapranno altrettanto bene quanto i capitalisti che cosa ciò vorrà
dire.

Lo Stato non esiste dunque _ab eterno_. Vi furono società che fecero
senza di esso i loro affari, e che non ebbero alcuna idea dello Stato
e del potere dello Stato. A un dato stadio dell'evoluzione economica,
stadio necessariamente connesso colla scissione della società in
classi, questa scissione rese necessario lo Stato. Noi ci avviciniamo
ora a gran passi a uno stadio di sviluppo della produzione, nel
quale la esistenza di queste classi, non solo cessò di essere una
necessità, ma diventa un'ostacolo positivo alla produzione. Esse
cadranno, colla stessa ineluttabilità colla quale già son sorte. Con
esse, inevitabilmente, cade lo Stato. La società, che riorganizza
la produzione sulla base dell'associazione libera ed eguale dei
produttori, trasporterà tutta la macchina dello Stato a quello che sarà
allora il suo posto: al museo delle antichità, accanto al mulinello a
mano e all'ascia di bronzo.

                                 —————

L'epoca civile è dunque, da quel che s'è detto, quello stadio
dell'evoluzione della società, nel quale la divisione del lavoro, il
conseguente scambio tra gli individui, e la produzione delle merci che
abbraccia questo e quella, giungono al pieno sviluppo e sconvolgono
tutta la società precedente.

La produzione di tutti gli stadi anteriori della società era
essenzialmente produzione in comune, come del pari il consumo
aveva luogo mercè la diretta distribuzione dei prodotti in economie
comunistiche più o meno vaste. Questa comunanza della produzione si
svolgeva nei più stretti limiti, ma con essa i produttori dominavano
il loro processo di produzione e il loro prodotto. Essi sapevano ciò
che il prodotto diviene: essi lo consumavano, non sfuggiva loro di
mano; e finchè la produzione si fa su questa base, essa non può essere
più forte dei produttori, non può generare alcun potere estraneo che
si rizzi lor di fronte a guisa di spetro, come avviene normalmente e
inevitabilmente nell'epoca civile.

Ma in cotesto processo di produzione s'insinua lentamente la
divisione del lavoro. Essa mina la comunanza della produzione e
dell'appropriazione, essa fa dell'appropriazione individuale la regola
prevalente, e genera con ciò lo scambio tra gli individui, quale lo
abbiamo esaminato più sopra. A poco a poco la produzione di merci
diviene la forma dominante.

Colla produzione mercantile, colla produzione non più pel consumo
personale, ma per lo scambio, i prodotti cangiano necessariamente di
mano. Il produttore aliena nello scambio il suo prodotto e non sa più
che avvenga di esso. Mano mano che interviene il denaro, e col denaro
il negoziante quale intermediario tra i produttori, il processo di
scambio si fa ancor più intricato, la sorte finale dei prodotti ancora
più incerta. I negozianti sono molti e nessuno di essi sa quello che
fa l'altro. Le merci non passano soltanto di mano in mano, esse vanno
anche di mercato in mercato; i produttori hanno perduto il dominio
sull'insieme della produzione del loro ambiente, senza che i negozianti
l'abbiano acquistato. Prodotti e produzione sono in balìa del caso.

Ma il caso non è che un polo di una concatenazione di cose, il cui
polo opposto ha nome necessità. Nella natura, dove ugualmente sembra
dominare il caso, abbiamo da lungo tempo dimostrata in ogni campo la
intima necessità, la legge inesorabile, nella quale il supposto «caso»
si traduce. Ciò che è vero della natura, lo è del pari della società.
Quanto più un'attività sociale, una serie di processi sociali sfugge
al cosciente controllo degli uomini e li domina, quanto più essa
sembra abbandonata al puro caso, tanto più questo _caso_ non è che
l'espressione di leggi proprie e fatali in essa immanenti. Siffatte
leggi dominano anche le accidentalità della produzione e dello scambio
delle merci; al singolo produttore o negoziante esse appaiono quali
forze estranee, da principio affatto sconosciute, la cui natura non
può che a grande stento essere indagata ed approfondita. Queste leggi
economiche della produzione delle merci si modificano coi differenti
stadî di sviluppo di questa forma di produzione; ma in generale
tutta l'epoca civile è dominata da esse. Ancor oggi il prodotto
domina i produttori; ancor oggi la produzione totale della società
non è regolata da un piano ponderato in comune, ma da cieche leggi,
che s'impongono con la brutalità degli elementi e, alla fine, colle
burrasche delle crisi commerciali periodiche.

Vedemmo sopra, come, a uno stadio abbastanza primitivo dello sviluppo
della produzione, la forza di lavoro umana diviene capace di fornire
un prodotto considerevolmente più grande di quanto è necessario al
mantenimento dei produttori, e come questo stadio di sviluppo è in
sostanza quello stesso in cui sorgono la divisione del lavoro e lo
scambio tra gli individui. A quel punto non ci voleva molto a scoprire
la grande «verità» che anche l'uomo può essere una merce; che la forza
di lavoro umana può essere scambiata e sfruttata, trasformando l'uomo
in uno schiavo. Appena gli uomini avevano cominciato a scambiare,
che essi stessi furono scambiati. L'attivo si mutò nel passivo, lo
volessero o no.

Colla schiavitù, che nell'epoca civile trovò il suo più completo
sviluppo, si produsse la prima grande divisione della società in una
classe sfruttatrice ed una sfruttata. Questa divisione durò per tutto
il periodo civile. La schiavitù è la prima forma dello sfruttamento,
ed è propria al mondo antico; le succedono la servitù nel medio-evo,
il lavoro salariato nei tempi moderni. Sono queste le tre grandi forme
di servaggio caratteristiche alle tre grandi epoche della Civiltà;
dapprima palese, di poi camuffata, la schiavitù le sta sempre alle
costole.

Lo stadio della produzione mercantile, col quale l'epoca civile
comincia, è economicamente designato dalla introduzione 1.º della
moneta metallica, e con ciò del capitale in denaro, dell'interesse
e dell'usura; 2.º dei negozianti come classe intermediaria tra i
produttori; 3.º della proprietà fondiaria privata e dell'ipoteca; 4.º
del lavoro schiavo come forma di produzione dominante. La forma di
famiglia, corrispondente alla Civiltà e che trionfa definitivamente con
essa, è la monogamia, il dominio dell'uomo sulla donna, e la famiglia
individuale quale unità economica della società. Il compendio della
società incivilita è lo Stato, che in tutti i periodi tipici è senza
eccezione lo Stato della classe dominante, e in tutti i casi rimane
essenzialmente una macchina per tener in freno la classe oppressa e
sfruttata. Sono pure note caratteristiche della Civiltà: da un lato,
il fissarsi dell'antagonismo fra città e campagna, quale fondamento di
tutta la divisione sociale del lavoro; dall'altro, la introduzione dei
testamenti, con che il proprietario può disporre della sua proprietà
altresì dopo la morte. Questa istituzione, che schiaffeggia in pieno
viso l'antica costituzione _gentile_, fu sconosciuta in Atene fino a
Solone; in Roma fu introdotta di buon'ora, ma ignoriamo il quando[30];
fra gli Alemanni la introdussero i preti, affinchè il buon tedesco
potesse legare il suo retaggio liberamente alla Chiesa.

Con questa costituzione per base, l'epoca civile ha compiuto cose,
delle quali l'antica società _gentile_ era ben lungi dall'essere
capace. Ma essa le compì, ponendo in moto le passioni e gli appetiti
più sordidi degli uomini, che sviluppò a spese di tutte le altre loro
disposizioni. La bassa cupidigia fu l'anima della Civiltà dal suo primo
giorno fino ad oggi; la ricchezza e ancora la ricchezza, e sempre la
ricchezza, e non già la ricchezza della società, ma di questo o quel
miserabile individuo, fu il suo unico scopo finale. Se poi le cadde in
grembo il crescente sviluppo della scienza, e a più riprese il massimo
fiore dell'arte, ciò fu solo perchè, senza queste, non era possibile la
piena conquista dell'odierna ricchezza.

Essendo base della Civiltà lo sfruttamento di una classe ad opera
di un'altra, tutta la sua evoluzione si muove in una contraddizione
perenne. Ogni progresso della produzione è contemporaneamente un
regresso nella condizione delle classi oppresse, cioè della grande
maggioranza. Ogni benefizio per gli uni è necessariamente un male
per gli altri; ogni passo di una classe verso l'emancipazione, è
per un'altra un passo a ritroso verso l'oppressione. La prova la più
evidente ce la offre la introduzione delle macchine, i cui effetti sono
oggi noti a tutti. E se fra i barbari, come vedemmo, a mala pena poteva
farsi la differenza fra diritti e doveri, la civiltà ne rende chiara la
differenza e l'antitesi anche all'intelletto più ottuso, assegnando a
una classe quasi tutti i diritti, all'altra quasi tutti i doveri.

Ma ciò non dev'essere. Quello, che è bene per la classe dominante,
dev'essere bene per tutta la società, colla quale la classe dominante
s'identifica. Onde, più progredisce la Civiltà, più essa è costretta
a coprire col manto della carità i mali da essa necessariamente
prodotti, a palliarli o a negarli, a introdurre insomma una ipocrisia
convenzionale, ignota alle prime forme della società ed anco ai
primi stadii della Civiltà stessa, e che tocca il colmo nell'assunto:
che lo sfruttamento della classe oppressa è esercitato dalla classe
sfruttatrice unicamente nell'interesse della stessa classe sfruttata;
e se questa non lo riconosce, anzi si ribella, ciò costituisce la più
nera ingratitudine contro i suoi benefattori, gli sfruttatori[31].

E ora, per finire, il giudizio di Morgan sulla Civiltà:

«Dall'avvento della Civiltà l'incremento della ricchezza divenne così
immenso, le sue forme così svariate, la sua applicazione così estesa, e
la sua amministrazione così abile nell'interesse dei proprietarii, che
questa ricchezza, di fronte al popolo, _è divenuta una potenza ch'esso
non può vincere. La mente umana si trova sconcertata e interdetta
dinanzi alla sua propria creazione._ Verrà tuttavia il tempo, in cui
la ragione umana sarà tanto forte da dominare la ricchezza, e in
cui essa stabilirà tanto il rapporto dello Stato colla proprietà,
che esso difende, quanto i limiti dei diritti dei proprietarii.
Gli interessi della società vincono assolutamente in importanza gli
interessi degli individui, e gli uni e gli altri debbono essere messi
in un rapporto equo ed armonico. La semplice caccia alla ricchezza
non è il destino finale dell'umanità, se tuttavia il progresso rimane
la legge dell'avvenire, come lo fu del passato. Il tempo decorso
dallo spuntare della Civiltà non è che un'esigua frazione della vita
trascorsa dall'umanità; un'esigua frazione di quella che ancora le
sovrasta. La dissoluzione della società ci sta minacciosa dinanzi
come conclusione dì una lizza storica, il cui unico scopo finale è la
ricchezza; perciocchè una tale lizza contiene gli elementi della sua
propria distruzione. Democrazia nell'amministrazione, fratellanza nella
società, eguaglianza di diritti, educazione universale, inaugureranno
l'imminente periodo superiore della società, pel quale lavorano
costantemente l'esperienza, la ragione e la scienza. _Esso sarà una
reviviscenza — ma in più alta forma — della libertà, dell'eguaglianza
e della fratellanza delle antiche_ genti». (MORGAN, _Ancient Society_,
pag. 552).



INDICE


  _Dedica_ (P. MARTIGNETTI)                       _Pag._    III
  _Introduzione critica alla seconda edizione
     italiana_ (E. BERNSTEIN)                       »         V
  _Avvertenze filologiche_ (F. TURATI)              »    XXVIII
  _Prefazioni dell'Autore:_
     I alla prima edizione (1884)                   »         3
     II alla quarta edizione (1891)                 »         6
  L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA, DELLA PROPRIETÀ
    PRIVATA E DELLO STATO:
      I. Stadii dell'evoluzione preistorica         »        23
           1. Stato selvaggio                       »        24
           2. Barbarie                              »        26
      II. La Famiglia                               »        32
      III. La «Gente» Irocchese                     »       109
      IV. La «Gente» Greca                          »       130
      V. Genesi dello Stato Ateniese                »       143
      VI. «Gente» e Stato in Roma                   »       159
      VII. La «Gente» presso i Celti e presso
             i Germani                              »       174
      VIII. La formazione dello Stato dei
             Germani                                »       195
      IX. Barbarie ed Epoca civile                  »       211



NOTE:


[1] _Manifesto dei Comunisti_.

[2] Ringraziamo Edoardo Bernstein di questa Introduzione critica,
della quale egli consentì a fregiare la presente edizione del libro di
Engels, e l'amico Carlo Tanzi che ce ne allestì la versione. — Quanto
alla biografia e alla bibliografia di Engels, della quale Pasquale
Martignetti aveva dato nella 1.ª edizione (1885) qualche rapido cenno,
che oggi riuscirebbe necessariamente incompleto, preferiamo rinviare
il lettore alle copiose notizie che raccogliemmo nell'Introduzione al
primo saggio dell'Engels, da noi tradotto e pubblicato in occasione
della sua morte (5 agosto 1895): L'ECONOMIA POLITICA; con introduzione
e notizie bio-bibliografiche di _Filippo Turati_, _Vittorio Adler_
e _Carlo Kautsky_; e con appendice (Milano, _Critica Sociale_, 1895;
cent. 50).

_(Nota degli Editori italiani)._

[3] Paris, George Carrés, 1893.

[4] _Ancient society, or researches in the times of human progress from
savagery, through barbarism, to civilisation._ By _Lewis H. Morgan._
London, Macmillan e C. 1877. Il libro fu stampato in America, ed è
molto difficile trovarlo in Londra. L'autore è morto da pochi anni.

[5] Pubblicata poi a Parigi, nel 1896, Georges Oarré editore; 58, Rue
S. André-des-Arts.

_(Nota degli Editori Italiani)._

[6] Il tedesco testualmente dice: «oltre all'_Einzelehe_». Veggansi in
proposito più addietro le _Avvertenze filologiche_.

_(Nota degli Editori Italiani)._

[7] Ritornando da New York nel settembre 1838, mi imbattei in un
ex deputato al Congresso pel distretto elettorale di Rochester,
il quale aveva conosciuto Lewis Morgan. Egli però non seppe,
malavventuratamente, dirmi molto di lui. Morgan aveva vissuto in
Rochester come uomo privato, assorbito esclusivamente nei suoi studi.
Mercè l'interposizione di un suo fratello, colonnello, applicato al
Ministero della guerra in Washington, egli era riuscito ad interessare
il Governo delle sue ricerche e a pubblicare, a spese pubbliche, molte
delle sue opere. A quest'uopo anche il mio interlocutore si era spesso
adoperato, quando veniva alla capitale per prender parte al Congresso.

[8] Il titolo di questo 1º capitolo è nel testo tedesco:
_Vorgeschichtliche Culturstufen_ — Veggansi più addietro le _Avvertenze
filologiche_ che seguono all'introduzione.

(_Nota degli Editori italiani_).

[9] Quanto poco il Bachofen comprendesse quello che egli aveva
scoperto, o piuttosto indovinato, lo prova egli stesso designando
questo stato primitivo col nome di _eterismo_. L'eterismo denotava
presso i Greci, allorchè essi introdussero questa parola, il rapporto
sessuale degli uomini celibi, o viventi in unione individuale, con
donne non maritate; esso presuppone sempre una determinata forma di
matrimonio, fuori del quale ha luogo questo rapporto, e include già la
prostituzione, almeno come possibilità. In un altro significato questa
parola non fu mai adoperata, e in questo senso io l'adopero col Morgan.
Le scoperte più importanti del Bachofen vengono sempre snaturate dal
concetto mistico, che i rapporti di famiglia fra l'uomo e la donna,
variabili secondo le diverse epoche e nati storicamente, abbiano la
loro sorgente nelle idee religiose degli uomini del tempo, non già nei
loro reali rapporti di vita.

[10] In una lettera della primavera 1882, Marx si esprime nei termini
più vivi contro la completa falsificazione della storia primitiva,
dominante nel testo dei _Niebelungen_ di Wagner. «Fu egli mai udito che
il fratello abbracciasse come sposa la sorella?» A questi «Dei della
lascivia» di Wagner, che rendono più piccanti i loro intrighi amorosi,
in modo affatto moderno, con un zinzino d'incesto, Marx risponde:
«Nell'epoca primitiva la sorella era la moglie, _e questo era morale_.»

— (_Alla IV edizione_) — Un amico francese, adoratore di Wagner, non
approva questa nota ed osserva, che, già nella vecchia _Edda_, che
ha servito di base a Wagner, Loki, nella _Egisdrecca_, rimprovera a
Freyja: «Tu abbracci il tuo proprio fratello innanzi agli dei»; volendo
provare con ciò che il matrimonio tra fratelli e sorelle era già
allora vilipeso. L'_Egisdrecca_ è espressione di un tempo, in cui era
completamente distrutta la fede nei vecchi miti; essa è una semplice
satira, alla maniera di Luciano, contro gli dei. Il rimprovero, che
Loki, facendo la parte di Mefistofele, muove ivi a Freyja, è piuttosto
un argomento contro Wagner. Loki dice anche, alcuni versi dopo, a
Niördh: «Tu generasti un (tale) figlio con tua sorella» (_vidh systur
thinni gaztu slikan mög_). Niördhr non è un _Ase_, ma un _Vane_, e
nella saga degli _Ynglinga_ dice che i matrimoni tra fratelli e sorelle
erano comuni nel paese dei _Vani_, e non presso gli _Asi_. Questo
indicherebbe che i _Vani_ erano deità più antiche degli _Asi_. In ogni
caso Niördh vive tra gli Asi come loro pari, e quindi l'_Egisdrecca_
è piuttosto una prova che, alle origini della mitologia norvegese,
il matrimonio tra fratelli e sorelle non suscitava ancora orrore,
almeno fra gli dei. A difesa di Wagner, meglio dell'_Edda_, potrebbe
forse citarsi il Goethe, che, nella ballata del dio e della bajadera,
commette un errore analogo circa alla pratica religiosa per la quale le
donne facean copia di sè: pratica che egli assimila troppo alla moderna
prostituzione.

[11] Tedesco: _Leiblichen Geschwister_. Veggansi le Avvertente
filologiche che fanno seguito all'Introduzione. (_Nota degli Editori
Italiani_).

[12] Le tracce della promiscuità sessuale indistinta, di quella ch'egli
chiamava «generazione di palude» (_Sumpfseugung_), che Bachofen crede
aver trovate, si riportano, ormai non si può più dubitarne, al connubio
per gruppi. «Se Bachofen, trova «senza legge» questi connubii-punalua,
un uomo di quel periodo troverebbe la maggior parte degli attuali
matrimonii tra cugini prossimi e lontani, paterni o materni,
altrettanto incestuosi quanto i matrimonii tra fratelli e sorelle
consanguinei» (_Marx_).

[13] Nel testo: _Vielweiberei_.

[14] _Vielweiberei_.

[15] _Haushalt; Haushaltung_: l'italiano non ha alcuna parola che, al
pari del francese _ménage_, renda in breve e completamente la stessa
idea. (_Nota degli Editori Italiani_).

[16] _Haushaltungen_. Vedi la nota a pag. 60 (Nota degli editori).

[17] Nel testo: _Einzelehe_. In questo caso speciale Engels avrebbe
impiegato _Einzelehe_ come equivalente di _Monogamie_. — Veggansi le
_Avvertenze filologiche_ che fanno seguito alla _Introduzione_, (_Nota
degli editori italiani_).

[18] _Haushaltung_: Vedi nota a pag. 60

[19] Come nel _basileus_ greco, così nel duce dell'esercito azteco si
volle a forza vedere un principe nel senso moderno. Morgan sottopone
per la prima volta alla critica storica le relazioni degli spagnuoli,
prima fraintese ed esagerate, poi direttamente menzognere, e prova,
che i Messicani si trovavano nello stadio medio della Barbarie,
tuttavia più elevati degl'Indiani-Pueblos del Nuovo-Messico, e che
la loro costituzione, per quanto può dedursi da informi relazioni,
corrispondeva a ciò: una federazione di tre tribù, che se ne era rese
tributarie un certo numero di altre, e che era retta da un Consiglio
federale e da un comandante dell'esercito della federazione, del quale
ultimo gli spagnuoli fecero un «imperatore».

[20] Il _rex_ latino è il celto-irlandese _righ_ (capo della tribù)
e il _reiks_ gotico; che questo, come in origine anche il tedesco
_fürst_, principe (cioè, come in inglese _first_, in danese _först_,
il primo), significasse capo della tribù o della _gente_, risulta dal
fatto che i Goti possedevano giù nel quarto secolo una parola speciale
per indicare quel che fu poi detto _re_, cioè il duce di tutto un
popolo in armi: _thiudans_. Artaserse ed Erode, nella traduzione della
bibbia di Ulfila, non si chiamano mai _reiks_, ma _thiudans_, e il
regno dell'imperatore Tiberio non _reiki_, ma _thiudinassus_. Nel nome
del goto _thiudans_, o, come noi traduciamo inesattamente, del goto
re _Thiudareiks_, Teodorico, cioè _Dietrich_, le due denominazioni si
confondono in una.

[21] Avendo passati alcuni giorni in Irlanda, mi riconvinsi vieppiù
di quanto ancora i concetti dell'epoca _gentile_ dominino quelle
popolazioni campestri. Ivi il proprietario di terreno, il cui
fittaiuolo è il contadino, è tuttora considerato da questo come una
specie di capo di _clan_, che deve amministrare i fondi nell'interesse
di tutti, al quale il contadino paga il tributo sotto forma di affitto,
ma dal quale egli deve anche ricevere appoggio in caso di bisogno. E
del pari ogni benestante è considerato in dovere di fornire appoggio
ai suoi vicini più poveri, se questi cadono in miseria. Siffatto aiuto
non è un'elemosina, ma è ciò che è dovuto di diritto al compagno più
povero dal compagno più ricco o dal capo di un _clan_. Si comprendono
le lamentele degli economisti e dei giuristi sulla impossibilità
d'inculcare al contadino irlandese il concetto della moderna proprietà
borghese; una proprietà, che ha soltanto diritti e non doveri, è cosa
che non entra affatto nelle teste irlandesi. Ma si comprende anche come
degli Irlandesi, trabalzati improvvisamente, con tali ingenui concetti
_gentili_, nelle grandi città inglesi ed americane, fra una popolazione
che ha idee giuridiche e morali affatto diverse, perdano ogni concetto
di morale e di diritto ed ogni ritegno, e sovente si demoralizzino in
massa.

[22] _Marca_, in tedesco, significa il terreno appartenente
originariamente in comune agli abitanti di un villaggio o di un
distretto. I campi e i prati erano divisi fra i capi di famiglia, ma
nei primi tempi erano soggetti a nuove divisioni periodiche (il che
perdura ancora in parecchi villaggi sulla Mosella); più tardi la parte
di ciascuno divenne proprietà sua, ma sempre soggetta al regolamento
della coltura per la comunità. I pascoli, le selve e altri terreni
incolti restarono, e sono ancora oggi in molti casi, proprietà comune.
La collettività degli interessati determina e il modo di coltura dei
campi e l'uso del terreno comune. La costituzione della marca è la più
antica costituzione dei Germani e la base su cui sono estrutte tutte le
loro istituzioni del medio-evo.

_(Nota aggiunta dall'autore pel lettore italiano, qui riprodotta dalla
edizione di Benevento, 1885)._

[23] I Greci non conoscono più, se non per la mitologia dei tempi
eroici, la stretta natura del vincolo tra zii materni e nipoti,
proveniente dal tempo del diritto materno e comune a tanti altri
popoli. Secondo Diodoro (IV, 34), Meleagro uccide i figli di Testio
fratelli di sua madre Altea. Costei vede in tal fatto un delitto tanto
inespiabile, che maledice l'uccisore, suo proprio figlio, e gli augura
la morte. «Gli Dei esaudirono, come narrasi, i suoi voti, e posero
fine alla vita di Meleagro». Secondo lo stesso Diodoro (IV, 41), gli
Argonauti sbarcano sotto Ercole in Tracia e ivi trovano che Fineo, ad
istigazione della sua nuova consorte, maltratta ignominiosamente i suoi
due figli procreati colla moglie ripudiata, la Boreade Cleopatra. Ma
tra gli Argonauti vi sono anche dei Boreadi, fratelli di Cleopatra,
fratelli quindi della madre dei maltrattati. Essi prendono tosto le
difese dei nipoti, e li liberano uccidendo le guardie.

[24] Il testo tedesco traduce i due termini scandinavi rispettivamente
con _Geschwisterkinder_ e _Geschwistersöhne_. — _Kind_, _Söhn_
è _fanciullo_, _figlio_. _Geschwister_ equivale a _fratelli_, ma
indifferentemente maschi o femmine. La parola corrispondente, che
renderebbe più chiaramente il concetto, manca in italiano.

_(Nota degli editori italiani)_

[25] Questa cifra è confermata da un passo di Diodoro sui Celti
gallici: «Nella Gallia abitano molte popolazioni di forze disuguali. Le
più grandi ammontano a circa 200,000 individui, le più piccole a circa
50,000». (_Diodoro Siculo_, V. 25). Ossia 125,000 in media. I popoli
Galli, stante il loro più alto sviluppo, dovevano essere più numerosi
dei Germani.

[26] Secondo il vescovo Liutprando di Cremona, il ramo principale
dell'industria nel X secolo in Verdun, cioè nel Sacro Impero tedesco,
era la fabbricazione degli eunuchi, che con gran profitto venivano
esportati nella Spagna per gli _harem_ dei Mori.

[27] Particolarmente sulle coste nord-ovest dell'America (vedi
Bancroft). Presso gli _Haidahs_, nell'isola della regina Carlotta, si
trovano economie domestiche persino di 700 persone sotto un solo tetto.
Presso i _Nootaks_ vivevano sotto uno stesso tetto intere tribù.

[28] Circa il numero degli schiavi in Atene, veggasi sopra a pag. 157.
A Corinto, ai tempi prosperi della Città, esso ammontava a 460,000;
a Egina a 470,000; in ambo i casi, il decuplo della popolazione dei
liberi.

[29] Il primo storico, che avesse un'idea almeno approssimativa della
_gente_, fu Niebuhr, e lo deve — insieme agli errori che accettò
senz'altro — alla sua conoscenza delle schiatte _dithmarscie_.

[30] Il «_System der erworbenen Rechte_» (Sistema dei diritti
acquisiti) di Lassalle si aggira, nella seconda parte, principalmente
intorno alla tesi, che il testamento romano è vecchio quanto Roma,
che nella storia romana non vi fu mai «un'epoca senza testamento»,
che il testamento nacque, anzi, in un'epoca anteriore alla romana,
dal culto dei defunti. Lassalle, quale vecchio-hegeliano ortodosso, fa
derivare le disposizioni del diritto romano, non dai rapporti sociali
dei Romani, ma dal «concetto speculativo» del volere, e giunge così
a quell'affermazione totalmente contraria alla storia. Ciò non può
destar meraviglia in un libro che, in grazia dello stesso concetto
speculativo, riesce a questo risultato, che nell'eredità romana la
trasmissione dei beni sarebbe stata un mero accessorio. Lassalle non
solo crede alle illusioni dei giuristi romani, particolarmente dei
primi tempi; egli li supera.

[31] Io avevo da principio l'intensione di porre la brillante critica
della Civiltà, che si trova sparsa nelle opere di Carlo Fourier,
accanto a quella di Morgan e alla mia. Pur troppo me ne manca il tempo.
Noto solo, che già in Fourier la monogamia e la proprietà della terra
sono le caratteristiche essenziali della Civiltà, e che egli la chiama
una guerra del ricco contro il povero. In lui si trova già anche
l'intuizione profonda, che in tutte le società difettose, scisse da
antagonismi, le famiglie isolate (_les familles incohérentes_) sono le
unità economiche.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "L'origine della Famiglia della Proprietà privata e dello Stato - in relazione alle ricerche di L. H. Morgan" ***

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