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Title: Una giovinezza del secolo XIX
Author: Zuccari, Anna Radius
Language: Italian
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UNA GIOVINEZZA DEL SECOLO XIX


   [Illustrazione: 1877]


                                 NEERA

                             UNA GIOVINEZZA
                             DEL SECOLO XIX


                                 Che gran dono è il sentire!
                                   È l'aver Dio in sè.

                                     (_Dalle lettere di mio Padre
                                       a mia Madre_)

                     PREFAZIONE DI BENEDETTO CROCE



                                 MILANO
                      CASA EDITRICE L. F. COGLIATI
                                  1919



PREFAZIONE


_Il pregio, in cui ho sempre tenuto gli scritti di =Neera=, non ha
trovato, a dir vero, generale consenso nel nostro mondo letterario,
dove a questa scrittrice gentile, austera e nobilissima si assegna
di solito un posto assai inferiore al merito. Di ciò intendo bene la
ragione._

_C'è nello scrivere, e in generale nell'esprimere il proprio sentire,
un momento in cui lo spirito si pone come sopra del sentire stesso, e
lo ferma e chiude in linee sicure e sobrie, quelle che debbono essere
e non altre, godendo di questa sua potenza e facendo di essa godere il
lettore e contemplatore. È il momento proprio dell'arte e della divina
poesia, in cui si unifica l'individuo col tutto, il dramma particolare
e transeunte col dramma eterno del mondo._

_A questo momento non tutti gli scrittori, e quasi non mai le
scrittrici, giungono appieno, o, giunti, vi si tengono con saldezza;
e talvolta quasi si direbbe che ciò avvenga per effetto della stessa
gagliardia di altre loro forze interiori, onde, tutto intenti ad
enunciare il concetto e il sentimento che urge nel loro animo, e
guardando al centro e al motivo fondamentale di esso, trascorrono sui
particolari, si accontentano del press'a poco, accettano espressioni
generiche e disegnano figure convenzionali. "Mi si rimprovera (mi
diceva un giorno =Neera=) che non scrivo bene, che pel pensiero
trascuro la forma. Da che dipende? Da mancanza di studî giovanili?
Come dovrei fare per correggermi?". Ed io le rispondeva: "Non si
tratta di tecnica dello scrivere, di grammatica e di lessico; si
tratta di atteggiamenti dell'animo". Ed ora ella stessa, in queste
memorie autobiografiche (pp. 205-6), con la consueta intelligenza e
schiettezza, definisce quale fosse veramente la manchevolezza che
era in lei, e richiama un detto di suo padre, il quale, un giorno
che ella cantava da sola, la ammonì: "Tu non ti ascolti quando canti:
prova ad ascoltarti". "Mi veniva infatti (ella soggiunge) di cantare
nello stesso modo che scrivevo, badando al pensiero e non alla forma.
Le romanze più sentimentali i duetti più amorosi erano tutto ciò
che comprendevo in materia di musica, e quando avevo messo tutta la
mia passione nella frase: _Ah! forse è lui che l'anima solinga nei
tumulti_, mi pareva che neanche la Patti avrebbe potuto far meglio.
C'era poi quel _Lui_ anonimo che andava subito a posarsi sull'uno
o sull'altro dei miei zufoli di stagno, ed allora addio musica! Mi
colavano sul volto vere lacrime". Non si potrebbe più esattamente
qualificare l'arte che direi femminile, nella sua mollezza e nel suo
incanto.

Ma, in compenso, quanta abbondanza di pensieri e di affetti nei
libri di =Neera!= A lei bastava aprire le chiuse dell'anima perchè ne
prorompesse un'onda copiosa e calda, che non s'inaridiva mai, non mai
aveva bisogno di essere artificialmente eccitata, e, meno che mai,
simulata con espedienti e industrie letterarie. Sentiva e meditava come
respirava, e scriveva allo stesso modo, senza sforzo. Quando considero
le lambiccature che nel mondo letterario passano per cose squisite; le
lussurie di sensazioni e d'immagini che si credono prove di ricchezza
e sono invece d'interiore povertà, di povertà sostanziale; le lodate
raffinatezze e smancerie di ultrasensibilità, che sono rozzezze da
gente molto pettinata e profumata, ma priva di gentile costume e ignara
di meno superficiali eleganze; l'ironia di cattiva lega e la falsa
superiorità con le quali si tenta di fingere l'umanità che manca,
l'umanità che è l'unica superiorità dell'uomo; non so frenare un moto
di sdegno nel veder tenuto in poco conto, e spregiate come "borghesi",
la solidità della mente, la dirittura del giudizio, l'accorata e
grave osservazione sociale, il rispetto alle eterne leggi del reale,
la semplicità del vivere e del godere e del soffrire, la casta nudità
della parola. E mi piace di chiedere e di ottenere la parte mia in quel
dispregio che onora, e di sentirmi "borghese" nella buona compagnia
di molti e grandi scrittori borghesi, e in quella della mia vecchia e
venerata amica =Neera.=_

_Nella quale due tratti erano, che voglio notare fra gli altri, perchè
sono di quelli che più mi hanno legato a lei. Primo l'amore per la
vita, e non già pei diletti e le voluttà che essa talora largisce,
ma per la vita nella sua interezza, come vivere e morire, gioire
e soffrire, amare ed aborrire, sognare e risvegliarsi, per la vita
sublime ed umile, ampia e ristretta, per la piccola ed immensa vita
di ciascuno di noi che, così com'è, è fonte inesausta di palpiti,
di meditazioni, di ricordi, di tenerezze, di amarezze pur dolci, e
che l'uomo forte ed armonico accoglie e fa oggetto di culto come la
divinità, la vera e sola divinità, sempre presente. È questo il buono
e sano, sebbene inconscio e non teorizzato, "misticismo" di =Neera,=
che ella celebrava col bramoso profondarsi in se stessa, col trovarsi
sempre benissimo da sola, non essendosi (come dice) mai annoiata in
vita sua "se non in compagnia d'altre persone". L'altro tratto era
la costante tendenza ad abolire ogni dualismo di materia e spirito,
corpo ed anima, senso e ragione; e anche qui non già con l'abbassare
lo spirito, l'anima e la ragione a materia, corpo e senso, ma piuttosto
con l'elevare questi a quelli, e idealizzarli in quelli, e, in realtà,
con la coscienza, che era in lei vigorosa, dell'unità reale. Così piena
di sentimenti e di sogni, =Neera= non fu "sentimentale"; così alta nel
discernimento morale, non fu moralista rigida e disumana; così pura nei
suoi affetti, non fu asceta. Le sue difese di quel che altri vorrebbe
allontanare come sensualità, di ciò che si vorrebbe reprimere come
irruenza di passione e di volontà, di ciò che si considera come egoismo
dello scienziato e dell'artista, e simili, sono quanto coraggiose
altrettanto vere; e in esse, e in quella sua accettazione della vita
intera, la scrittrice femminile si dimostra pensatore virile._

_Del resto, anche quel che abbiamo di sopra concesso ai censori
letterati circa la forma del suo scrivere, s'intende concesso solo come
osservazione generica, e non come giudizio che valga per tutte le parti
dell'opera sua. Ella ci racconta in questa autobiografia, che tardi,
messa sull'avviso da critici ai quali protesta la sua gratitudine,
comprese "quanta forza l'aggiustatezza del periodo e la scelta della
parola aggiungano all'idea", e venne al punto di prendere un vero
diletto nel vagliare i vocaboli e di sentirsi "quasi felice nello
scoprirne uno nuovo", e nel cercare "la frase giusta, la frase unica".
Ma in tutti i suoi volumi, anche nei suoi più vecchi, e in quest'ultimo
scritto sul letto dei suoi tormenti, con la mano sinistra, avvinto
il braccio destro da atroce male, vi sono pagine sgorganti di vena,
fresche, limpide, musicali, nelle quali assai poco è dato desiderare.
Io non ne dirò altro e non ne recherò esempi, perchè i lettori ne
incontreranno subito, nel volgere le carte di questa prefazione e
imprendere la lettura del volume._

  Napoli, 2 luglio 1919.

                                                   _BENEDETTO CROCE._



Una giovinezza del secolo XIX



Prologo


                                                    _13 Luglio 1917._

È l'alba. La suora di guardia entrando col suo passo leggero dischiude
le finestre della mia camera. Sul rettangolo della finestra, che
costeggia il letto, si disegna un cantuccio del mio terrazzo e nel
biancore perlaceo delle prime luci il roseo dischiudersi di un oleandro
accende piccoli punti di luce più viva. Tutte le mattine io ho questo
angoscioso risveglio dell'anima sana e vibrante, che si riaffaccia al
giornaliero supplizio di trovarsi legata a un corpo infermo. Dai sogni
della notte sempre pieni di immagini leggiadre, di movimento, di vita,
passo senza transazione, con un semplice dischiudersi delle palpebre,
a questo atroce stato di immobilità, che dura già da quindici mesi e
che sarebbe paragonabile a un torpido vegetare di pianta, se non fosse
aggravato da spasmodiche sofferenze.

Il terrazzo, che dal mio letto vedo appena di scorcio, rappresenta
il desiderio di molti anni trasformato in una crudele ironia. Molti
anni desiderai questo asilo di pace al disopra del brulichio della
città, aperto sotto il cielo, diviso dagli uomini per tutti gli
arbusti e i fiori che avrei saputo radunarvi, prodigando le mie ultime
attività al misterioso germogliare della terra che suole attirare chi
è prossimo a entrarvi per sempre. Ma non appena in possesso di questo
modesto desiderio un male, che nessuna scienza di medico sa guarire mi
inchiodò, fra due materassi dai quali guardo il mio terrazzo, come Mosè
guardava la terra promessa, senza potervi entrare.

Pure nell'alba di questo mattino, simile a tutti gli altri da quindici
mesi, un improvviso senso di dolcezza, quasi tenero alitare di gioie
perdute, ecco si impossessa improvvisamente di me in una rapida
ebbrezza del senso che subito dilaga al cuore. Che è questo profumo
che mi viene incontro dagli obliati sentieri della mia infanzia,
della mia giovinezza? Profumo di orti lontani, di piccoli verzieri
sepolti nell'ombra di una fitta vegetazione, un po' umidi, dolcemente
romantici? È la maggiorana colla sua canzone «_Stella Diana quante
foglie ha la vostra maggiorana?_» È il timo? «_Timo t'amo; di giorno ti
vedo, di notte ti bramo?_» È la santoreggia dall'odore acuto, ornamento
dei davanzali contadineschi? È la selvatica menta cara agli amori dei
gatti in fondo ai giardini abbandonati?

Oh! profumi lontani, profumi dei miei giovani anni, io vi affidai alla
terra colla nostalgica fedeltà della mia anima provinciale, e voi mi
ritornate in quest'alba serena col richiamo misterioso del villaggio
nativo che fa voltare indietro il pellegrino giunto alla fine del
sentiero. Mi tendo per quanto lo consentono le membra indolorite,
verso il terrazzo aspirando la brezza che me ne trasporta gli aromi,
inghiottendola con un gusto di ambrosia. E sono felice! Si, per un
istante, guardo in volto questa indescrivibile cosa: la felicità.

                             . . . . . . .

Il cielo si colora a poco a poco, gli uccelli incominciano a
pispigliare, tubano i colombi nell'abbaino sopra il tetto; tra non
molto la campanella medioevale del palazzo Bagatti-Valsecchi farà
sentire i flebili rintocchi che un tempo chiamavano i fraticelli a
mattutino. La suora credendomi addormentata rinchiude delicatamente
vetri e imposte. Io continuo al buio il viaggio retrospettivo delle mie
memorie.

Non ho mai avuto l'abitudine di tenere un giornale. Dando vita ai tanti
personaggi della mia fantasia non pensavo a scrivere di me per me;
molto meno per il pubblico. Tuttavia, qualche volta, rievocando la mia
giovinezza, la trovavo così diversa da quella delle fanciulle d'oggi,
che mi avveniva di riguardarla non più come cosa mia, ma come buon
soggetto di romanzo psicologico cambiando nomi, luoghi, fatti. E però
neanche questo miscuglio di vero e di falso mi accontentava, perchè
il solo pregio di un libro vissuto, soggiungo, la sua sola ragione di
essere, è l'assoluta sincerità. In caso contrario, avviene come per
i romanzi storici, che non sono nè romanzo nè storia. È ben vero che
noi italiani abbiamo in tal genere un capolavoro, ma io non mi chiamo
Manzoni e i capolavori non sono affar mio.

Parlavo una volta di questa tentazione delle memorie con Gustavo
Botta, e chi lo conosce può dire se per ingegno, per coltura, per
specialissimo senso critico fosse facile trovare un interlocutore più
idoneo al consiglio. Manifestandogli le mie titubanze conclusi con una
ragione che mi parve la più convincente di tutte: essere cioè la mia
vita così spoglia di avvenimenti di rilievo che non avrei saputo da
qual parte rifarmi per darle un qualsiasi interesse.

Gustavo Botta rispose: La storia di un'anima è sempre interessante e
per quanto ella sia modesta vorrà credersi meno interessante della sua
_Teresa_?

Lì per lì la ragione mi parve buona. Se _Teresa_, che è la più umile
fra le eroine dei miei romanzi, ottenne forse il maggiore successo,
potevo scendere in lizza anch'io con qualche speranza. Ci pensai un
giorno o due, poi il tempo passò e non ne feci nulla.

È il concorso di diverse circostanze che fa ora risorgere la
tentazione. In primo luogo l'infermità, la quale, privandomi d'ogni
forma di vita e spezzando i miei legami col mondo, mi rigetta più che
mai nella attività interiore, che fu veramente il perno di tutta la mia
esistenza, parte per temperamento, parte in forza delle cose. Che può
mai fare una disgraziata prigioniera di se stessa, se non rigirarsi nel
breve spazio della catena che la configge al letto? Ma questo lavoro
da Sisifo, questo inutile rotolare di pensieri nella gora morta del
rimpianto, non ha nulla di comune col soffio creatore che mi investì
nell'alba di stamane. Io non sono più oggi quella di ieri, la grazia
è discesa sul mio capo. Non penso più se devo scrivere per me o per il
pubblico, non domando consiglio agli amici. Ascolto la voce della mia
zia Margherita nella canzone delle erbe odorose, rivedo il suo sorriso
sarcastico e la sua nera pupilla simile a un granello di pepe sciolto
in una lagrima di pietà. Intorno a questa singolare figura di donna
sorgono tutti i fantasmi del passato; io li sento agitarsi e correre
a nuova vita nel mio cervello. Il dio ignoto mi investe, mi domina, mi
prende in servitù d'amore. Obbedisco.


Che cosa riescirà questo libro nato da un profumo non so, non voglio
saperlo.

    "Quanti da lieve oggetto escon talora
      dolci pensieri all'anima!"

E che sia un profumo, un suono, una combinazione di colori che importa?
Non sempre si può sapere donde un pensiero prende vita, ma quando il
nucleo misterioso del movimento è formato resta in pari tempo acquisito
il suo diritto a vivere.

Qui il lettore pensa: Poichè _Neera_ ha già dichiarato che i suoi
ricordi sono privi di rivelazioni importanti, fatti o avventure che
possano interessare il pubblico non parlerà che di se stessa; dunque un
libro egoista e noioso.

Piego il capo al noioso e confermo l'egoista. Ma che vuol dire egoista?
Se si considera che ognuno di noi fa, potendo, esattamente quello che
vuole, cioè quanto gli consentono i suoi mezzi il suo temperamento
e il suo desiderio, dobbiamo riconoscere che l'uomo dal portafogli
sempre aperto alle miserie del prossimo, la signora che occupa il suo
tempo a scendere e salire le scale del povero, a soccorrere l'ammalato,
sono altruisti nel senso che la natura del loro soddisfacimento assume
direttamente la forma del bene che procura agli altri; ma non lo sono
più dell'artista, del poeta, del pensatore, i quali vuotano la propria
anima, dando ad altre, che ne mancano, il beneficio del calore, della
luce e dove quelli profondono denaro, pazienza, operosità, questi nella
solitudine della meditazione, nella intensità del sentire, nella divina
sofferenza del pensiero struggono i propri nervi e il proprio sangue.
Pensiamo che milioni di uomini conducono una esistenza al di sopra del
bruto solo perchè poche centinaia di grandi anime agitano continuamente
dinanzi a loro la fiaccola dell'ideale. Oh! i santi egoisti!

Il volo mi ha portata lontana; io volevo dire appena che non mi sembra
conforme al vero la taccia di egoismo fatta ad uno scrittore che parla
in persona prima. A ben riguardare è questa la forma d'arte più sincera
di tutte quando lo scrittore è sincero; il resto è maschera, finzione,
artificio. Chiunque sieno i personaggi inventati o resuscitati, essi
non sono che teste di paglia incaricate di presentare al pubblico le
opinioni e i sentimenti dell'autore. Ma quando egli ha pianto lagrime
proprie, quando ha amato e odiato, e toccate le altezze serene della
fede e sceso gli scabri burroni del dubbio, pungendosi ai rovi ed alle
pietre, oh! non dubitate, il suo cuore è simile al cuore di tutti gli
uomini, e parlando di sè sveglierà un'eco nel cuore di tutti.

Dice Anatole France che non si può essere interamente sinceri senza
essere un poco noiosi, ma non gli manca la speranza che parlando del
suo Io quelli che lo ascoltano non penseranno che a se stessi. Tutti i
ricordi, le confessioni, le meditazioni onestamente soggettive, mentre
sono nate dal bisogno di esprimere un certo Io, riescono appunto per
l'intensità della propria commozione a comunicare cogli altri uomini
o, quanto mai, con gruppi e categorie sociali più interessanti di una
vaga e generica umanità. Così, conclude un altro pensatore, i libri
autobiografici, colla forza espressiva delle cose individualmente
vissute, illuminano circoli di vite più ampie, danno la voce a più
vaste ansie che non sanno parlare. Documentano insomma.

È vero che Taine chiama l'Io detestabile, ma per Gian Paolo
Richter l'Io è ciò che la lingua può esprimere di più alto e di
più comprensivo, essendo ogni Io una personalità che significa
una individualità spirituale. Fra l'affermazione di Taine e quella
di Richter sta di mezzo un equivoco subito spiegato dalla parola
_spirituale_. E del resto il grande istoriografo della Francia non è
andato a cercare le origini alle memorie e ai documenti più oscuri?

E sarò io tanto ingrata da dimenticare l'argomento più persuasivo,
l'amore de' miei lettori? Tra le soddisfazioni più vive della mia
carriera letteraria devo pure annoverare la larga onda di simpatia che
mi venne, non dalla critica ufficiale, ma dal mondo ignorato invisibile
e lontano delle anime che mi amarono attraverso l'anima mia.

Sapere che qualcuno dei miei libri ha asciugato delle vere lagrime e
qualche altro diede ala di fede a coscienze turbate, è tale profonda
contentezza da giustificare l'opera e compensarla al di là di ogni
speranza. Ricordo con particolare commozione la preghiera di una
madre, la cui unica figlia consunta da mal sottile non trovava altro
oblio de' suoi dolori che nella corrispondenza del mio spirito, e
la madre, troppo povera per acquistare i miei volumi, me li chiedeva
come si chiede il pane. E un giovane, perfettamente sconosciuto, dopo
aver letto _Senio_ in una crisi particolare del suo cuore, mi scrisse
ringraziandomi del bene che gli aveva fatto quella lettura salvandolo
da un cattivo passo che stava per compiere.

Ora _Senio_ è un romanzo mediocrissimo, del primo periodo della mia
produzione, quando l'idea e la forma non si erano ancora concretate
in sostanza d'arte, e la fanciulla che alleviava il suo male nella
comunione col mio pensiero non era probabilmente un genio, ma ho
scelto a bella posta questi due esempi fra i più umili, perchè da essi
si avvalora la mia tesi, che molta luce può venire alle anime quando
un'anima si apre alle sue sorelle.

Ai nostri giorni è poco probabile avvenga ciò che si narra di una
città della Tracia, la quale da corrottissima e abbietta come era
tutta quanta si convertì per un verso di Euripide che cantava le glorie
d'amore; tuttavia ognuno di noi ricorderà i momenti e le ore di vera
gioia passate sulle pagine dell'autore prediletto, vale a dire colui
che ha maggiori affinità colla nostra psiche, che meglio intende le
nostre passioni e i nostri dolori. Vi è qualcuno, che leggendo quel
mirabile canto d'amore che è la _Nuit d'octobre_ del De Musset, rivive
talmente se stesso, da sentire cadere sul proprio cuore i conforti
della Musa al Poeta; ripetere quei versi in certi momenti è aver vicino
un fratello, è posare la fronte su un cuore che ci comprende. E vi
è chi in alcune pagine delle _Confessioni_ di S. Agostino si trova
portato in alto dal profondo senso di umanità che vi domina, quasi
preso per mano dal grande santo, che conosceva così bene le passioni
degli uomini, e guidato da lui verso sentieri di perfezione.

In seguito a simili esempi è arduo ritornare al mio modesto Io e
tuttavia non mi sento sbigottita. Penso quante volte i miei buoni
lettori desiderarono conoscermi, e quante volte mi chiesero dove sono
nata e chi mi istruì e come mi venne l'idea di scrivere e tante altre
cose. Ebbene, eccomi sono qui! Molti, purtroppo, troveranno una _Neera_
diversa da quella, che il bel nome classico e la loro stessa fantasia,
potrebbe aver suscitato; nè di tale disappunto mi vorrò soverchiamente
dolere, perchè nella mia ansiosa ricerca del vero preferisco essere
conosciuta come sono, anzichè avvantaggiarmi di meriti che non ho.


Chiarite così le intenzioni di questo libro che sarà l'ultimo mio e
quasi una specie di commiato, rammento a' miei lettori con malinconica
rassegnazione che lo scrivo penosamente dal letto, servendomi di
una matita guidata dalla mano sinistra, avendo la destra inferma,
condizione forse unica fra tante Memorie che furono scritte.

Dedico queste pagine d'amore e di dolore a tutti coloro che mi hanno
amata nella vita o nell'arte, un'ora, un giorno o sempre; ai miei morti
diletti; ai vivi che mi amano ancora e che mi circondano dalle loro
cure, ai lontani che non mi sarà più dato di rivedere; a coloro che
non vidi mai e che mi amarono nei miei scritti, infine a coloro che mi
ameranno quando non sarò più. Lasciatemi quest'ultima illusione, cara
fra tutte, di credere che nei tempi che verranno, qualche solitario,
qualche ingenuo sentimentale, qualche innamorato (se ve ne saranno
ancora) trovando sulle bancarelle delle fiere uno sciupato volume di
_Anima sola_ o di _Teresa_, dell'_Indomani_ o di _Vecchia casa_, di
_Duello d'anime_ o di _Rogo d'amore_ sarà tentato di leggere questo
autore sconosciuto e, forse, lo amerà per la misteriosa corrispondenza
delle anime che sopravvivono alla distruzione della materia e si
incontrano nel tempo e nello spazio. Lasciate che io ripeta il motto
ultimo di Giovanni dalle Bande Nere: «_Amatemi quando sarò morta_».



PARTE PRIMA


Viaggi, specialmente negli ultimi vent'anni della mia vita, ne feci
parecchi tanto in Italia che all'estero, ma nessuno fu romantico e
pittoresco come il primo, che compii a mia insaputa sotto il tabarro
di mio zio Bona, attraverso i muriccioli di due o tre giardini, intanto
che le palle dei fucili austriaci fischiavano intorno alla mia culla.

Erano le famose Cinque Giornate del quarantotto. Mio padre e mia madre
abitavano in via Monte di Pietà la casa segnata ora col numero 9 di
rimpetto al palazzo della attuale Cassa di Risparmio sulla cui area
sorgeva allora il palazzo del Genio militare, al quale i cittadini
avevano dato l'assalto, terminato felicemente coll'atto audace di
Pasquale Sottocorno che diede fuoco alla porta, come è noto.

Molte volte, attraversando la contrada così signorilmente tranquilla
dove sono nata, mi figuravo le lotte sanguinose di cui fu teatro
in quei giorni e lo spavento di mia madre per quelle fucilate che
le entravano in camera. Già ad una finestra della medesima casa era
caduto ferito mortalmente l'Anfossi, patriota nizzardo, che armato di
un fucile aveva tenuto testa alle scariche del palazzo del Genio. Fu
allora che un fratello di mia madre, lo zio Bona, pensò di salvarmi
nascondendomi sotto il suo tabarro e col piccolo fardello vivo sulle
braccia scavalcando il muro del giardino, via per altri giardini
consecutivi, mi portava in salvo dalla mia nonna, che abitava in quelle
vicinanze.

Ed ancora molte volte, leggendo le lapidi che in via Monte di Pietà
ricordano i nomi sacri alla patria di Federico Confalonieri, di
Pellico, di Porro Lambertenghi, pensavo che avrebbe potuto trovar posto
anche un ricordo per l'Anfossi e per il Sottocorno in quella via e in
quel quartiere, che è tutto un documento prezioso per la storia del
nostro risorgimento nazionale. Perchè senza uscire dal Monte di Pietà
troviamo la casa dove andò sposa Clara Maffei e nella vicinissima
via Manzoni quella dove morì e tra l'una e l'altra nella stretta,
solitaria, antichissima via Andegari l'ultima dimora di Carlo Tenca,
tutti uomini che devono far balzare di tenerezza e d'orgoglio il cuore
di noi milanesi, e che possiamo riassumere chiudendo la breve elissi
di questo quartiere eroico fermandoci reverenti dinanzi alla targa che
alla estremità di esso fissa per i posteri col nome di Giuseppe Verdi
una delle glorie più pure d'Italia, l'aedo canoro delle aspirazioni di
un popolo.


Sono nata a Milano, ma i miei genitori non erano milanesi. Essi
appartennero alla grande fiumana che dalla provincia accorre
continuamente ad alimentare di sangue nuovo le arterie delle grandi
città. Si erano incontrati, amati e, dopo qualche contrasto da parte
della famiglia di mia madre che si credeva forse superiore per ampiezza
di mezzi e parentele distinte, sposati; ma di quel primo soggiorno
in via Monte di Pietà non ho altre memorie oltre la fuga attraverso i
giardini narratami dallo zio Bona molti anni più tardi. Lo zio Bona si
chiamava Bonaventura, ma essendovi due cugini dello stesso nome per cui
avvenivano malintesi ed equivoci, mia madre aveva sciolta la questione
affidando a suo fratello la prima parte del nome, Bona; a un cugino la
seconda parte, Ventura; all'altro cugino il nome intero, Bonaventura. E
furono contenti tutti e tre.

Nella piazzetta di S. Giuseppe c'è una casa, che ha la porta
nell'angolo, che conta ora tre piani, ma che ne aveva allora solamente
due; del soggiorno a quel secondo piano ho un vago barlume di
ricordanza nel quale non si concreta nessun fatto.

La mia vita, la mia infanzia, la mia giovinezza fino ai vent'anni,
si svolse tutta in una casa del Corso Vittorio Emanuele, in un
appartamento affondato oltre due cortili, lungi dai rumori del Corso,
colle finestre principali aperte sopra una sfilata di giardini in
fondo ai quali si disegnava aerea sull'orizzonte la guglia maggiore
del Duomo. Nei vent'anni colà trascorsi si decise tutto quanto il mio
destino. Dall'andito di quella porta, che ora si vede tagliato a mezzo
da una vetrata, ma che in quel tempo si prolungava come un canocchiale
sullo sfondo verde degli alberi, entrarono i sogni, le illusioni, gli
inganni dell'età prima e da quella porta uscirono le bare dei miei
genitori.

Esiste ancora un dagherotipo dove sono ritratte tre giovani donne, mia
madre e le sue sorelle, sedute in fila una accanto all'altra; sopra
uno sgabello ai loro piedi si vede e non si vede una piccola forma, che
potrebbe essere tanto un bambino quanto una bambina, insaccata in una
lunga e larga pellegrina dalla quale esce in alto una testa rasata (era
allora un'opinione per far crescere i capelli) e in basso due scarpette
ineleganti colle calze a borzacchino. Mi hanno detto che sono io.

Infatti, ripensandomi a quegli anni, devo convenire che il dagherotipo
non può avermi soverchiamente calunniata. A traverso le imperfezioni
di quest'arte, che precedette di poco la fotografia, quel piccolo volto
triste e pensieroso dovette proprio essere il mio; persino la positura,
che mi ingobbisce contro i ginocchi delle persone che mi stanno a
tergo, dà l'immagine perfetta della mia infanzia curva e depressa.
Non ho che a guardare le bambine del giorno d'oggi accarezzate,
vezzeggiate, infronzolite di trine e di nastri, ridenti e spensierate
colle loro chiome date agli omeri sotto il breve ritegno di un nastro
roseo o celeste, petulanti e felici, capricciose e felici udendo
ripetere dai genitori anzitutto, e poi dagli altri, che sono belle,
carine, intelligenti, per sentirmi ancora nelle ossa il freddo della
mia infanzia e, riportando gli sguardi sul vecchio dagherotipo, provare
l'impressione di affondarli in una gora morta piena di ombre.

Chiesi un giorno (non sono moltissimi anni) alla più giovane delle
sorelle di mia madre, la dolce e sorridente zia Carolina: — Dimmi
la verità, da piccola ero molto cattiva? — Oh! — rispose con un
gran gesto d'affetto — eri tanto buona, tanto ubbidiente! — E allora
perchè la mamma mi sgridava sempre? — Chinò la testa la mia dolce zia
sospirando: — Poveretta, devi compatirla, si sentiva sempre così male!
— È con un profondo senso di sollievo che posso scrivere oggi queste
parole a spiegazione di un ingenuo sfogo infantile da me riprodotto
in un tentativo, assai male riuscito, di autobiografia, e che alcuni
critici presero alla lettera senza darsi la pena di interpretarne la
psicologia. Fu certamente quell'ingenuo sfogo di un cuore, che si sente
solo, il mio primo passo verso la consolazione. Ne ho perfetto ricordo;
sento ancora l'impulso irresistibile, mi vedo in punta di piedi, colla
matita alzata a scrivere sul legno di una gelosia «Ho nove anni, sono
brutta, la mamma mi sgrida sempre». Era questo il grido spontaneo della
mia infanzia senza baci, senza giuochi, priva di quelle blandizie che
nei primi albori colorano di rosa ogni oggetto intorno. Probabilmente
sarò stata povera di spirito e di intelligenza; è certo che non sentii
mai vantare da nessuno la mia intelligenza e nessuno citò mai le mie
arguzie. All'età in cui le altre bambine sono già conscie dei propri
meriti ed hanno già maliziette o grazie di donna, io non ero che
un povero bacherozzolo rinchiuso nel proprio guscio. Timida, seria,
incapace, nè di fare, nè di comprendere uno scherzo, il giorno stesso,
che affidai ad una gelosia quel famoso documento del mio essere, ero
rimasta mortificata e inquieta perchè lo zio Cecco, altro fratello di
mia madre, prendendomi il ganascino aveva detto: «Ah! biricchina, hai
gli occhi tinti di carbone!» e, mentre protestavo la mia innocenza,
egli rideva, rideva.


Erano dunque cause interne ed esterne che contribuivano a rendere poco
lieta la mia infanzia; io scontrosa, acerba, non avendo vicina neppure
una bimba della mia età, portata dal temperamento e dalle circostanze
a ripiegarmi su me stessa; la mamma già delicata, resa sempre più
debole dalle frequenti gravidanze, ridotta a quello stato di nervosismo
e di irascibilità, a cui accennava la mia buona zia Carolina, e che
ben conoscono le donne gracili quando hanno assolto il compito di
conservatrici della specie in misura superiore alle loro forze. Ebbi la
fortuna in questi ultimi giorni della mia vita di venire in possesso
di una voluminosa corrispondenza famigliare, che ha rischiarato molti
punti oscuri dei miei ricordi mettendomi in presenza di persone morte
prima che io nascessi, di altre intese appena a nominare, di altre
amatissime e perdute. Attingendo a questa fonte genuina conobbi mia
madre meglio che nei pochi anni vissuti insieme.

Ecco, dapprima, le letterine eleganti su foglietti arabescati che
dal collegio scriveva alla madre in occasione del di lei onomastico;
lettere tenere e rispettose, dove il pronome in terza persona è
rigorosamente conservato; poi quelle alle sorelline, riboccanti
d'affetto; infine la corrispondenza con mio padre durante il lungo
periodo del fidanzamento, inutilmente contrastato da invidiosi e da
maligni (queste lettere sono tra le più pure che mai amanti si sieno
ricambiate); finchè dalla ritenutezza della fanciulla si giunge alla
frase appassionata della sposa felice, che nelle brevi assenze di lui
trova vuoto il mondo. È durante una di queste assenze, che mi vedo
ricordata per la prima volta con queste parole che non dovevo mai udire
dalle sue labbra «l'angioletto nostro, la nostra adorata bambina».
Ma allora io ero ancora presso la nutrice e lei nella pienezza della
gioventù.

Sul cielo grigio e nuvoloso delle mie più antiche memorie si apre uno
sprazzo di luce che compendia tutta la felicità della mia infanzia; è
duopo però che io menzioni prima un'altra delle mie grandi infelicità:
la scuola. Credo che pochi sieno andati a scuola così mal volontieri
come andavo io. Ne conobbi due di scuole: in entrambe la mia esperienza
fu eguale. Regolarmente riuscivo antipatica a tutte le maestre; ai
professori no, nemmeno a quello d'aritmetica, che si accontentava di
guardarmi con benevola compassione quantunque io terminassi i corsi
senza sapere la somma, (come non la so al presente). Fra le compagne
cercavo affetto, ma difficile riusciva l'accordo assoluto, perchè fin
da allora avvertii quell'ostacolo, quella specie di malinteso fra me
e i miei simili che doveva fare di me una solitaria; che se talvolta
l'acceso desiderio potè indurmi a credere realizzato il sogno, troppo
sovente seguì il disinganno, a scuola e poi.

L'insegnamento ai miei tempi era una miseria. Per le famiglie
della borghesia la scuola privata non lasciava altro scampo. Vi si
accumulavano prima inferiore e prima superiore, seconda inferiore
e seconda superiore così fino alla quarta superiore, dalla quale si
usciva a educazione finita senza conoscere un solo verso di Dante.
In compenso, quando il professore si trovava a corto di argomenti
per la sua lezione, ci leggeva una poesia di Arnaldo Fusinato. Il
difetto principale di quelle lezioni era la mancanza assoluta di un
concetto regolatore. Invece di incominciare dal principio e procedere
gradualmente con nozioni chiare, legate da un nesso logico di
continuità, a fanciulle ignoranti, quali noi eravamo, ci scaraventavano
addosso una specie di estratto Liebig indigesto e confuso sull'origine
delle lingue romanze. Un altro giorno erano idee generali sul secolo
XV. Oh, perchè proprio il secolo XV diviso dagli altri secoli e campato
in aria come un cervo volante attaccato ad un filo? Forse per farci
sapere queste notizie da dizionario? «_Cristoforo Colombo_, nato a
Cogoleto sulla riviera di Genova verso la metà del secolo XV, morto a
Valladolid nel 1506. Il solo nome basta alla gloria di un uomo tanto
grande, quanto infelice».

«_Ambrogio Calepino_ da Bergamo moriva nei primi anni del secolo XVI.
A questo dottissimo filologo siamo debitori di un vocabolario tanto
celebrato, onde venne ai dizionari latini il nome di _Calepino_».

Se un ammasso di nomi e di date così arido era il meno atto a fissare
l'attenzione nostra e ad interessarla, non vi riusciva nemmeno il
seguente fioretto di letteratura accademica che ci dettarono:

«Il Poliziano nasceva nell'anno 1452 a Montepulciano. D'ingegno
profondo, versatile, prontissimo, cattivossi giovinetto con alquanti
facili versi la stima e l'affetto di Lorenzo il Magnifico e visse
lautamente la breve sua vita nei ceppi dorati della corte Medicea. Fu
ad una filosofo e filologo, poeta e prosatore di chiarissimo nome,
ed ebbe così facili le lingue del Lazio e della Grecia, che in esse
scriveva colle grazie e le elette forme di Tibullo e di Anacreonte.

«Colla tragedia lirica dell'Orfeo da lui come fama improvvisata
in due giorni pel teatro dei Signori Gonzaga di Mantova, favoriva
efficacemente lo sviluppo della letteratura drammatica in Italia e
coll'epico frammento sulla Giostra di Giuliano dei Medici illeggiadriva
l'ottava ancor stentata del Boccaccio e sgombrava la via all'Ariosto
e al Berni. Moriva quarantenne il giorno stesso in cui Carlo VIII di
Francia entrava in Firenze e lo dissero di carattere invido scostumato
ed attaccabrighe».

Non riusciva, perchè nessuna di noi sapeva nulla di Lorenzo il
Magnifico, meno ancora di Tibullo e di Anacreonte e ignorava affatto
l'entrata di un Carlo VIII in Firenze; e non ce la spiegarono nemmeno
dopo questo dettato.

Non so se oggi i maestri si sono persuasi, che l'insegnamento a base
di nomi propri e di cifre è un corpo morto, il quale entra nel cervello
dell'adolescente come in una tomba e vi si adagia nel sonno eterno. Il
tedio, l'ira, l'odio in me suscitati dallo Skager Rak e dal Kattegat
mi durano tutt'ora mentre, sarebbe stato tanto più interessante
e istruttivo farci conoscere le terre della nostra bella Italia e
condurci come in un viaggio di piacere sulle sponde dei nostri laghi
e dei nostri mari, prima di ingombrarci la mente con nomi ostrogoti.
Occorre bandire la pedanteria dall'istruzione primaria, alleggerirla,
renderla fresca e parlare al cuore, parlare all'immaginazione,
svegliare la sensibilità sana delle giovani creature che devono
svilupparsi nella vita e non ammuffire sui testi. L'educatore che
s'accosta alla fremente anima del fanciullo sbadigliando gli aridi
spunti, che la sua indolenza gli fa ripetere d'anno in anno, senza
che mai vi palpiti l'ala di un pensiero suscitatore, somiglia a colui
che applicando a una cassa di legno un cartone sforacchiato e girando
una manovella crede di fare della musica. Quella del maestro non è una
professione, è una missione; egli è il sacerdote laico dell'umanità che
sorge. Il destino di molti uomini, come ruscello avvelenato alla fonte,
si guasta e si corrompe, sui banchi della scuola; molti dotati delle
migliori attitudini per lo studio se ne svogliarono in causa della
cretineria dell'insegnamento scolastico.

Io a scuola non mi ci potevo vedere; preferivo di gran lunga le
sgridate di mia madre e il desiderio di finirla con quella oppressione
degli studi era tanto che su tutti i miei quaderni scrissi questo
ammonimento a me stessa: «Ricordati, se mai un giorno venissi a
rimpiangere la scuola, che ne hai tu desiderata ardentemente la
liberazione». Ma quel giorno non venne mai.


Oh! soavissimi autunni lontani, quando chiusi tutti i libri e dato un
fervido addio alla scuola andavo a passare le vacanze dai miei nonni
materni, a Caravaggio, che nel trasporto della mia gioia chiamavo
Caro-viaggio. Tutto era letizia per me in quella casa benedetta; le
carezze della nonna, la soave indulgenza della zia Carolina, lo sguardo
benevolo del nonno che mi poneva la mano sulla testa per assicurarsi
che i capelli crescevano. E li rivedo tutti e tre in certe loro
particolari attitudini. Il nonno, quando al calar del giorno tornava
dalla campagna e noi se ne stava ad ascoltare il rumore del calessino
per essere pronti a spalancare il portone, vedere la sterzata sapiente
del vecchio Nicola e l'entrata trionfale del nonno fiancheggiato da
due enormi canestri di frutta. Egli balzava, lindo e lesto, piccolo
vecchietto dai capelli bianchi, vestito di una giubba scura a bottoni
dorati, con un cravattone al collo che partendo dal mento gli girava
sulla nuca e tornava sotto il mento ad allacciarsi in un nodino
minuscolo: in qualunque giorno e in qualunque ora non l'ho mai visto
con altro abito. La nonna invece, che non usciva mai di casa, aveva un
giorno fisso per mettersi in gala; era il giorno del mercato. La si
vedeva allora vestita di seta verde, splendente ne' suoi ori e nella
matronale persona, avviarsi in piazza seguita da un domestico carico
di sporte e, quando ritornava in possesso di ogni ben di Dio, la si
sarebbe detta la figura simbolica dell'abbondanza.

La zia Carolina (oggi si direbbe Carla e pochi anni addietro Carlotta,
ma allora si diceva Carolina: nell'intimo nostro poi io l'avevo
battezzata Tuina) la mia zia Carolina, dunque, io la vedo sopratutto
nella sua cuffietta da notte semplice semplice, una bianca striscia
di percallo, ma che stava tanto bene intorno alla sua faccia rosea; la
vedo china sul mio letto ad aspettare il mio risveglio; la vedo, meglio
ancora, quando seduta dinanzi alla pettiniera si toglieva la cuffietta
e l'onda magnifica della sua chioma corvina scendeva fino a terra. Era
l'ultima dei sei figli della mia nonna e la meno avvenente delle tre
sorelle; la palma della bellezza spettava a mia madre, ma una serenità
dolce ed eguale era, insieme ai capelli, la bellezza sua e sempre,
ripensando a lei, mi appare come l'angelo tutelare della mia infanzia.

Anche la nonna mi voleva molto bene, mi viziava un po'. È vero che un
nonnulla bastava a farmi contenta: un pizzico di semi di popone, (i
poponi specialità di Caravaggio trionfavano alla mensa dei miei nonni
dove se ne tagliavano fin tre o quattro prima di trovarne uno degno
di essere gustato) un nastrino dai bei colori, qualche cencetto per
vestire la bambola; ma il maggior piacere era quello di ammettermi
nelle sue stanze private. Non ricordo di aver visto in altre famiglie
tante guardarobe quante ne aveva la mia nonna. Quelle casette di legno
tutte chiuse eccitavano la mia curiosità; ce n'era un po' dappertutto;
mi tentavano tuttavia maggiormente quelle che si trovavano sotto la
sua diretta sorveglianza, riunite in uno stanzone accanto alla sua
camera da letto. Trotterellando dietro le sue sottane m'era dato di
vedere talvolta, allo schiudersi di una magica porticina, montagne di
lenzuola frammezzate da sacchetti di spigo, che odoravano tanto buono,
coltroncini di seta damascata nelle tinte più vaghe, che mi facevano
pensare ai divani delle sultane nella reggia di Haaron al Rachid ed
alle vesti della bella Shecherazade che lucevano come il sole e come la
luna....

Davvero, col mio pizzico di semi di popone in mano, evocavo i
tesori delle _Mille ed una notti_ che la zia Carolina mi aveva dato
da leggere, e dove capivo, ed anche dove non capivo, mi piacevano
immensamente. Altri due stanzini, dei quali la nonna teneva sempre
le chiavi, servivano il suo istinto raccoglitore e conservatore e il
medesimo istinto in me trasfuso per consanguineità vi trovò il suo
primo sviluppo. Ogni forma antica mi attirava irresistibilmente; io
amavo i cassettoni panciuti, gli scrigni dagli innumerevoli tiretti,
le sedie fuori di moda. Perchè le amassi non appare ben chiaro in
una bambina che ne ignorava affatto il pregio, ma io lo so bene il
perchè, esso è tutto sentimentale. Sono ancora ignorante; non saprei
distinguere un mobile del seicento da uno del settecento, un Brustolon
da un Fantoni, un lavoro d'autore da un nulla di nulla; ma io amo tutte
queste cose che hanno vissuto, dove palpita tanta parte di umanità,
sola sopravvivenza di tanta gente morta. L'uomo colle sue passioni e
colle sue illusioni, colle sue ebbrezze e co' suoi dolori è scomparso,
la cosa è qui; essa racchiude parte della sua anima, del suo pensiero,
della sua volontà; lo strumento ha cessato di lavorare, ma l'opera è
salda nel tempo; l'amore che noi le portiamo è la segreta rispondenza
all'amore che l'ha creata. È certo che il piccolo bacherozzolo
trotterellante dietro alla nonna non faceva queste riflessioni,
ma la mente del fanciullo è pari al vetro di una negativa, dove il
viaggiatore raccoglie le fuggevoli impressioni che incontra sulla sua
strada e che sviluppa più tardi cogli acidi dell'esperienza.

Negli stanzini della nonna attirava particolarmente la mia attenzione
uno di quei cofani ricoperti di velluto con leggiadre applicazioni
di ferro battuto, nei quali le spose di una volta tenevano il loro
corredo. Dolorose circostanze mi privarono per lunghi anni della sua
vista; mi riapparve dopo la morte della nonna nell'ora triste e volgare
della divisione delle spoglie, e siccome nessuno lo voleva, così
tarlato e spelacchiato neppure come cassa da imballaggio, me lo portai
via come una santa reliquia. I segreti delle mie proave vi stanno al
sicuro sotto la custodia rispettosa del mio affetto.

Da quanti anni è incominciata la voga degli oggetti antichi, da
quando abili speculatori percorrendo le nostre provincie, le vallate
profonde dove erasi rifugiata la religione delle memorie se ne vennero
alla città col loro prezioso bottino? La data la troveranno i freddi
compositori di cataloghi. Io penso che tolte dal luogo dove vissero le
cose hanno perduto il loro profumo; conservano ancora le belle forme di
ciò che fu la loro vita, ma la voce è spenta; appoggiate ai muri della
casa straniera, sono lapidi in un cimitero. Oh! come vorrei trovare una
parola energica, che fosse l'opposto di snobismo, per esprimere il mio
vero sentimento, ma non la trovo. Di fronte a questa giostra di snobs,
rincorrentesi su cavallucci di legno per darsi l'aria di cavalieri in
sella guardo, con un misto di sdegno per loro e di un certo orgoglio
per me, il cofano della mia nonna che ho amato quando tutti lo
disprezzavano.

La casa dei miei nonni, ampia e comoda, colle sue sei finestre verso
strada e il solito cortile caratteristico del tempo, fra il pozzo e
la pianta di fico, aveva pure sul tetto quei draghi di ferro che prima
dell'incanalamento delle pioggie le scaricavano sulla via e un grande
piacere mio era di stare a vedere le colonne d'acqua che uscivano da
quelle forme fantastiche battendo il lastrico con un rumore di cascata.

Dolci ore passavo nel salottino accanto allo studio del nonno, dove
la zia Carolina lavorava insegnandomi certe canzonette francesi da lei
imparate nel collegio di Madama Garnier.

    Arlequin tient sa boutique
    Sur les marches d'un palais
    Il enseigne la musique
    À tous ses petits valets:
    À monsieur Pol, à monsieur Li
    À monsieur Chi, à monsieur Nel
    A monsieur Polichinel!

Guardavo anche con interesse la vecchia Teresa incantucciata dentro il
vano di un uscio, sotto il portico, ad agucchiare indefessa intorno
ai bucati trimestrali della famiglia e il piccolo Toni sotto il fico
a spazzolare energicamente le scarpe del nonno e la lunga Francesca
(quanto era lontano il mio viso dal suo) che sciacquava piatti in una
vasca di nitido marmo fra quattro pareti fitte di rame di cui ogni
oggetto splendeva come un sole. Io andavo dall'una all'altra di queste
persone portata da un'aura di simpatia che rendeva il mio passo leggero
come un volo. Nessuno mi sgridava mai. Mi sentivo felice.

E come erano belle le sere d'autunno in casa de' miei nonni! Quando il
nonno tornava dai campi (aveva terre proprie e molte altre in affitto)
si metteva il riso al fuoco e la famiglia vi si riuniva tutta intorno,
il nonno, la nonna, la zia Carolina, la vecchia Teresa, la lunga
Francesca, il piccolo Toni, ultimo Nicola che era andato a mettere
a posto il cavallo. Saliva alta la fiamma sotto la cappa del camino
gettando bagliori rossi sulle facce schierate in giro.

Silenzio. Suona l'_Ave Maria_ della sera.

Ai primi rintocchi tutte le fronti si chinano; la nonna fa il segno
della croce; tutti la imitano e la breve preghiera recitata insieme da
padroni e da domestici si diffonde nell'ampia cucina patriarcale.

La sala da pranzo aveva nel mezzo una grande tavola massiccia
apparecchiata e una più piccola da un lato essa pure ricoperta da una
candida tovaglia, dove la nonna apparecchiava lei stessa le porzioni
per la servitù, in ragione dell'età e dei bisogni di ciascuno, avanzo
questo degli antichi rapporti coi domestici i quali sentivano del
padrone la soggezione e la protezione insieme. Dopo pranzo il nonno
piegava qualche istante il volto pallido e pensoso sull'_Eco della
Borsa_, unico giornale che penetrasse in casa; la nonna allora mi
prendeva sui ginocchi, mi baciava, mi coccolava, mi diceva la storia
del _Mostro turchino_ e quella delle _Due palombe_.

Alla domenica si giuocava a tarocchi intorno alla tavola de' miei
nonni. A fare il quarto veniva generalmente lo zio Germanico, che era
il dottore del paese e aveva sposato la seconda sorella di mia madre.
Se capitava qualcun altro la zia Carolina cedeva il suo posto. Io, dopo
essermi trastullata un poco a osservare le figurine del giuoco: _La
ruota della fortuna, Il pazzo, L'appeso,_ sgaiattolavo dalla mia sedia
giù sul pavimento a intraprendere carponi il giro della sala ignorando
di aver avuto un celebre predecessore e con intenzioni molto meno
filosofiche delle sue. Mi piacevano le pareti rivestite fino a metà da
un alto zoccolo di legno scanalato e verniciato, risalendo le quali,
fino al soffitto, l'occhio mio fanciullesco si beava in una pittorica
esposizione di frutta più grande del vero e di uccelli fantastici;
forse l'uccello Roc il di cui uovo miracoloso pendeva dalla volta del
palazzo di Aladino?

Poi mi fermavo dinanzi al paracamino dove era dipinta una montagna con
un ciuffetto di fumo sulla cima e scritto sotto: _Etna o Mongibello_.
Dall'Etna o Mongibello passavo alla rivista dei ninnoli rinchiusi
dietro i vetri di uno di quei mobili che si chiamano _étagéres_, con un
vocabolo francese che non saprei in qual modo sostituire, e finalmente
prendevo fiato accanto ad un grazioso Arlecchino alto come me — ma
io ero in ginocchio — ricamato a punto croce con una mascherina nera
attraverso i cui fori brillavano gli occhietti di vetro. Vestito di
verde di rosso e di giallo, con una stecca nel dorso che lo teneva
ritto, brandendo la minacciosa spatola di legno, egli faceva la
guardia all'uscio vegliando quando era chiuso e tenendolo aperto quando
occorreva, contro la forza del vento.

Sollevandomi dal mio viaggio terra a terra, contemplavo il più
bell'ornamento di quella sala, i ritratti a olio del nonno e della
nonna, opera del pittore Moriggia che della nostra famiglia era
amicissimo. Giovanni Moriggia, gloria di Caravaggio, che fu già culla
di altri pittori celebri, ebbe l'onore di affrescare la cupola del
grande Santuario coi relativi pennacchi rappresentanti le quattro virtù
cardinali: Giustizia, Fortezza, Prudenza, Temperanza. Nel pennacchio
della temperanza, che ha per soggetto l'incontro del ricco Booz colla
dolce Ruth, la figura della spigolatrice è stata presa da mia madre,
che ne aveva veramente nel volto la dolce bellezza. Un grande quadro
del Moriggia, ideato durante il suo esilio di patriota in Svizzera,
è quello del Guglielmo Tell che riconosce Alberto d'Austria sotto le
spoglie di un frate francescano. Io lo vidi durante tutti gli anni
che andai a Caravaggio appeso nella camera della zia Carolina e mi
rimase negli occhi fra le impressioni più vive della mia infanzia.
Conobbi anche Moriggia negli ultimi anni della sua vita. Era un vecchio
alto e magro cogli occhi scintillanti. Mi colpì una volta che parlava
concitatamente con una mia zia, questa frase «Lo dicevo sempre a Luigi
Napoleone, ma egli ci ha traditi». Chiesi poi alla zia chi fosse quel
Luigi Napoleone che ci aveva traditi e la zia mi fece rimanere di
sasso rispondendo con tutta semplicità: «È l'imperatore dei Francesi».
Mazziniano, affigliato alla _Giovane Italia_, Moriggia conosceva
tutte le persecuzioni del governo austriaco, compresa la prigione,
ed esiliato più di una volta, nell'esilio appunto si era incontrato
col giovane principe cospiratore anch'egli e, come è noto e come
provò in seguito favorevole al movimento liberale italiano. Oltre ai
ritratti del nonno e della nonna, Moriggia ritrasse quasi tutti della
famiglia, ma quei due mi sembrano i più efficaci per finezza di lavoro
e somiglianza perfetta della quale rimango testimonio io sola essendo
tutti gli altri morti. A quei due ritratti di persone, che tanto
sorriso sparsero sulla mia infanzia e che il succedersi delle vicende
condusse nella casa di parenti che non li conobbero, invio da queste
pagine un saluto pieno di commozione.

Sola superstite di un piccolo mondo scomparso! Ripensandoci mi sembra
di aver vissuto due vite. La storia dell'universo è scolpita nella
memoria di ciascuno; ogni generazione la trasmette ad un'altra per
mezzo di piccole evoluzioni quasi invisibili. Sono io la stessa di
ieri?

Oh! l'imprudente fanciulla che avendo abusato dei semi di popone ed
anche dei poponi e delle belle pesche vermiglie che il nonno portava
a casa nel suo calessino, doveva rimanere a letto un giorno o due
invariabilmente tutti gli anni a purgare il suo peccato di gola!
Ma anche quei giorni nella casa benedetta non mancavano di letizia.
Dormivo in una bella camera, detta la camera dei forestieri, attigua a
quella della mia cara zia, e, manco dirlo, fiancheggiata da due grandi
guardarobe. Non mi sono mai annoiata in vita mia se non in compagnia
d'altre persone.

Come si può essere così nemici di se stessi da non saper reggere a
rimanere da soli?

Quando non avevo accanto la zia o la nonna, mi divertivo a contare i
travicelli e i rosoni del soffitto spostandoli a mio talento formando
nella mia mente altre combinazioni; oppure l'occhio, innamorato sin
da allora della bellezza, si sprofondava con intenso diletto sulle
ampie tende che, dall'alto delle finestre, scendevano a toccare il
suolo ed avevano il fondo del colore del cielo cosparso di ghirlande
di rose. Il momento difficile era quello di prendere la medicina.
Mio zio Germanico, il dottore, buon uomo se mai ve ne fu, ma di una
semplicità ruvida di cardo, invece di una graziosa pillola inargentata
o di una bevanda al sciroppo d'arancio, si ostinava ad infliggermi
un bottiglione pieno di un intruglio nerastro al quale dovevo i
soli istanti amari del mio soggiorno a Caravaggio. Ma anche su
questi vegliava l'affetto inesauribile della zia Carolina con dolci
ragionamenti, con promesse, con carezze. Un giorno che doveva recarsi
a Milano mi chiese che cosa mi avesse a portare se prendevo docilmente
la medicina. Espressi il mio desiderio per un nastrino di velluto _à
la reine_ rosa e la vedo ancora partire col suo _cabas_ in mano, la
vedo ritornare traendo da esso il vellutino _à la reine_ che mi aveva
resa felice tutto il giorno nella aspettativa. Il _cabas_ della zia
Carolina, al pari della sua cuffietta da notte, sono nel mio pensiero
indivisibili da lei stessa. Non usavano allora le borse di pelle.
Quando a Milano, rientrando dalla scuola, vedevo sopra una sedia una
specie di sacca ricamata, che presentava da una parte un cagnolino
nero accovacciato sopra uno sgabello rosso e dall'altra su un trapunto
di perline di vetro due grandi cifre C. M. con un contorno di fiori,
spiccavo un salto per la gran gioia. Era il _cabas_ della zia Carolina!

_La liberté, ce seul besoin du sage!_ Non mi era noto allora questo
verso, ma la verità che esso contiene fluttuava inconsciamente nel
mio istinto di bimba solitaria e nel desiderio occulto di uscire di
casa sola. Il mio soggiorno a Caravaggio soddisfaceva anche questo
desiderio; lo consentiva l'uso del paese e la vicinanza delle mete
che mi era permesso di raggiungere. Una fra queste era la mia nutrice
alla quale volevo molto bene. Venivo accolta come una regina; si
alzava subito, deponendo fuso e rocca, se stava filando; mi sorrideva,
chiamava le sue cognate perchè mi venissero a vedermi, per tal modo
erano in tre a farmi festa, tre paia d'occhi benevoli che mi scrutavano
da cima a fondo, approvando con un luccicore umido nelle pupille che
era tutto una tenerezza. Poi la mia balia apriva la sua rozza credenza,
mostrandomi in fondo a una scodella alcuni gamberi in salamoia, che
aveva serbato a bella posta per me; da parte mia, quando l'avevo, le
davo una mezza muta d'argento, che la faceva contenta ed io più di lei.

Qualche volta, di rado, la nonna mi incaricava di portare un cestello
di frutta alle sorelle del nonno, due vecchie zitelle che vivevano
sole; una minutina, magra, svelta, la zia Caterina, si incaricava
di tutte le loro faccenduole in casa e fuori; l'altra, la zia Lucia,
un donnone, corpulenta e grassa, passava le giornate in un salottino
semibuio, sdraiata sopra un piccolo divano giallo, che scompariva sotto
la grossa persona. Si diceva che da giovane fosse stata molto bella
e consapevole di questo suo pregio rifiutasse tutti i pretendenti,
commentando che non si sarebbe mai sposata se lo sposo non veniva a
prenderla con un tiro a quattro. Forse questa frase era una malignità
dei respinti; comunque il tiro a quattro non giunse mai alla sua porta
ed ella certo non lo aspettava più. La cuccuma del caffè, l'antica
cuccuma di rame, stava tutto il giorno sul focolare delle due vecchie.
La zia Caterina magra e svelta la portava a tutte l'ore alla zia Lucia
immobile sul sofà e tutte e due sorbendolo pensavano forse che vi è
ancora qualche dolcezza nel mondo.

Nel breve tratto di strada, che percorrevo per fare le mie visite,
c'era una botteguccia dove una donna vendeva filo, aghi, bottoni d'osso
esposti confusamente in una vetrina polverosa ed appannata, con mezza
dozzina di fazzoletti intorno sempre gli stessi, e due o tre foglietti
di carta da lettera picchiettati dalle mosche. Fra queste povere cose
c'era tuttavia un cartoncino che attirava la mia attenzione per tutti
gli spilli che vi erano infilati dentro l'uno dietro l'altro come
soldatini in parata, colle loro capocchie di vetro assortite nei più
bei colori, verde, rosso, aranciato, viola; nè io badavo che fossero di
vetro, perchè la mia immaginazione le aveva già poste nella gerarchia
delle pietre preziose distinguendole in smeraldi, in rubini, in topazi,
in ametiste: elenco di tesori che la lettura delle _Mille ed una notte_
mi aveva reso famigliari.

Questa agilità della fantasia a muoversi nei campi dell'irreale doveva
procurarmi i momenti forse più belli della mia vita. L'uomo che nel
_Morgante maggiore_ del Pulci, si burla del vicino, che, avendo sognato
i suoi buoi ne pretendeva il possesso e mostrandoglieli riflessi nel
fiume gli dice ironicamente: «Or va laggiù a pigliarli, son tuoi»
afferrando la verità immediata del possesso, trascura il valore della
conquista spirituale. Bisogna lasciare al sogno il largo posto che
esso occupa nella nostra esistenza. Togliendolo all'uomo lo si priva
di uno degli attributi che lo distingue dalla bestia. Coltiviamo il
sogno: esso è l'isola incantata dove il navigante tra l'una e l'altra
tempesta riposa. Il solo ammonimento che ci dà la ragione è quello di
contenerlo entro i limiti di piacere superiore. Dagli spilli che io
ammiravo non potevo ritrarre nessun utile personale, ma il diletto,
che provava la pupilla posandosi sui variopinti colori, metteva in
moto le cellule del mio pensiero e tanto me ne compiacevo da reputarmi
ricca quando riuscivo a comperarne una cartina. Mi divertivo allora a
contarli, a suddividerli col mio criterio fanciullesco secondo l'età
e la condizione del destinatario, come faceva la nonna coi piatti del
desinare, e poi correvo a portarli alla mia balia, alle sue cognate,
alla vecchia Teresa, alla lunga Francesca. Se fossero stati veramente
smeraldi e rubini non avrei potuto sentirmi più fiera del mio dono. E
quanto felice!


Un'altra casa sulla quale si raccolgono i buoni ricordi delle mie
vacanze a Caravaggio, un po' succursale di quella dei nonni, era
la casa della zia Claudia, moglie al dottore. Meno comoda meno
ordinata, meno signorile, questa seconda dimora non mi era perciò meno
gradita. Alla mia fantasia vagabonda una porta un po' sgangherata, un
sottoportico irto di ciottoli come un sentiero di montagna, una catasta
di legna in un canto, non presentavano nulla di sgradevole; nemmeno la
fossa delle immondizie aperta a ciel sereno stonava troppo, poichè un
albero di alloro vi sorgeva dapresso ombreggiandola colle sue lucide
foglie e un bel giorno mi sorpresi a comporre questa osservazione
«Anche nella vita troppe volte l'alloro cresce sulle immondizie».

Il cortile della zia Claudia non presentava esso pure la costruzione
lineare del cortile del nonno, ma aveva, impareggiabile vantaggio,
una spalliera di albicocche dorate, così luminose nel sole che tutta
la casa ne riceveva una specie di sorriso e un tralcio di vite, che
saliva ad abbracciare i pilastri di un loggiato superiore, al quale
dava libero accesso uno scalone di pietra, ben noto ai miei piccoli
passi leggeri. Nel mezzo del cortile poi molte pianticelle di fiori,
senza esclusione del domestico prezzemolo e della salvia aromatica
costituivano uno di quei giardinetti provinciali che, forse in memoria
dei beati tempi, ho sempre preferito alle aiuole lisciate e pettinate
dei giardinieri di professione. C'erano anche intorno al cortile
ripostigli e stambugi adattatissimi per il giuoco di nascondersi che si
faceva insieme ai nipoti dello zio Germanico, ospiti quotidiani al pari
di me.

Lo zio Germanico era l'uomo di compagine più semplice che io abbia
mai conosciuto. Flemmatico oltre ogni dire, quando aveva compiuto il
giro de' suoi ammalati, ospedale e comune, e fatto il debito sonno
del pomeriggio, si metteva a cavalcioni di una delle molte sedie che
popolavano il sottoportico a fumare la sua pipa. Se capitava allora un
cliente, generalmente un contadino o una povera donna, egli nè mutava
posizione, nè si toglieva la pipa di bocca; nemmeno voltava la testa.
«Cosa avete? — Signor dottore mi duole lo stomaco — Che stomaco? dove?
— Signor dottore....». Balzava fuori allora come un diavolino da una
scatola, la zia Claudia e si poneva fra i due «Guardalo dunque, se
non lo guardi come puoi capire? E voi, dite su, dove vi duole? Qui?
qui?...» Usciva un brontolio dalla bocca chiusa del dottore e la zia
Claudia incalzava «Levati la pipa di bocca, come vuoi che capisca?»
«Gru, gru» e la zia a spiegare «Ha detto di mostrare la lingua» Così
fino alla fine della visita. Era la cosa più buffa che si potesse
immaginare: la flemma del marito, il fuoco della moglie.

La zia Claudia aveva veramente l'argento vivo addosso. Seconda
delle tre sorelle, non assomigliava nè a mia madre nè alla zia
Carolina. Faccendiera per temperamento era in piedi tutto il giorno;
una sua particolare fobia di pulitezza gliene dava buon giuoco
trovando necessario di sorvegliare la domestica ad ogni passo,
sostituendosele anche in certe delicate preparazioni del cibo. Era
così schifa su questo capitolo del mangiare che, invitata a pranzo
da un'amica, portò con sè il proprio pane non stimando il fornaio
dell'amica sufficentemente pulito. Di ciò se ne rideva insieme; ma a
me faceva pena quando, non so per quale pio voto, essendosi imposta
la mortificazione di baciare la terra, dopo aver recitate le sue
preghiere, cercava affannosamente presso ai mobili l'angolo che
presumeva più al sicuro delle eventuali sporcizie.

E anche la zia Claudia, quando non fosse occupata a rincorrere
la servetta, (occorrevano sempre a lei serve giovani da poter far
piroettare) eleggeva a suo domicilio il sottoportico, vi riceveva,
vi lavorava, ammesso che lavorasse, perchè io in verità non l'ho mai
vista seduta tranne che nel caso di dover discorrere con qualcuno;
esso era il centro di riunione come l'_hall_ per le case inglesi; è per
questo che tutte le sedie disponibili vi erano raccolte in democratica
fratellanza colla catasta di legna e nessuno vi faceva caso. La vecchia
dimora, dimora avita dello zio, era sempre stata così. Dovevano, però,
i visitatori premunirsi contro le correnti d'aria, perchè l'_hall_
della zia Claudia, posto tra il cortile e la strada colla porta sempre
aperta, faceva una terribile concorrenza alla rosa dei venti. Non
che mancassero i locali; la casa era ampia, ampia ma scomoda: tutti
quegli stambugi, solai, scale e scalette, che formavano la delizia di
noi ragazzi, erano un inutile ingombro al disimpegno delle domestiche
faccende; moltiplicavano le lontananze, interrompevano le unità,
obbligando venti, trenta volte al giorno, ad affrontare l'alpinìsmo dei
sassi sotto il portico per recarsi da una camera all'altra che guai ad
avere calli (ma noi ragazzi non ne avevamo). Si spiega come, muovendosi
sopra un'area abbastanza vasta, lo zio e la zia non disponessero di un
salotto conveniente. C'era bensì un salottino dietro la cucina, ma così
stretto e buio (somigliava a quello della zia Lucia) che non invitava a
rimanervi.

Ma dove lascio la sala d'onore? Perchè esisteva veramente una sala
d'onore e bella. Solo che per accedervi bisognava o attraversare il
famoso acciottolato del portico, una loggetta, il cortile, (bagnandosi
se pioveva); oppure la cucina, il salottino buio, una ripida scaletta
di mattoni, un solaio, lo scalone di pietra e la loggetta come sopra.
Comodo nevvero? Naturalmente era sempre chiusa e invece delle visite
ospitava accanto ai mobili deserti, qualche sacco vuoto, qualche
paniere fuori d'uso, qualche dozzina di pere distese a maturare
per l'inverno. Un particolare curiosissimo di quella sala era la
tapezzeria, rappresentante a larghe linee un paesaggio inverosimile
dove un cacciatore puntava il fucile contro un uccellacelo sospeso a
pochi palmi sopra il suo naso; ma il bello veniva dopo, quando allo
svoltare della tappezzeria nell'angolo l'uccello veniva a trovarsi
dall'altra parte del cacciatore.

Qui dovrei forse fare punto fermo, cestinando un altro particolare
che ai miei giovani anni mi scandalizzava assai. Ma penso che quei
giovani anni, tanto io quanto i miei lettori, li abbiamo sorpassati e
siamo ora d'opinione che qualsiasi documento, anche il più puerile e
apparentemente insignificante, trova il suo posto negli usi e costumi
di un secolo e in questa nostra vita dove tutto si concatena. Dirò
dunque che, mentre il cacciatore se ne stava fisso al suo punto di
mira, anche se il punto sfuggiva al tiro, un altro misterioso individuo
soddisfaceva indisturbato sotto un albero i suoi più intimi bisogni.
Sono scherzi che ai nostri giorni, col nostro gusto raffinato, non
si potrebbero tollerare. Gli avi e bisavi invece ne ridevano, con
quello spirito semplice e primitivo che i nati dopo la rivoluzione
francese relegarono in fondo alla provincia. La burla che tenne tanto
posto nelle cronache dei Comuni e delle piccole Corti italiane, la
burla boccaccesca e rabelasiana, cadde a poco a poco dinanzi a una
coltura più diffusa e ad una maggiore sensibilità di nervi ma un lungo
strascico, spoglio della crudezza di quei tempi, rimase negli usi del
Settecento fino agli albori del secolo decimonono accontentandosi del
sottinteso scurrile.

Ho visto io sotto il Coperto dei Figini esposto in una di quelle
botteguccie, che i vecchi come me ricorderanno, un fermacarte
rappresentante col più crudo verismo una porcheria, che a trovarla per
la strada ci fa scansare rapidamente, e qualche anno dopo mi rallegravo
del progresso civile che aveva fatto scomparire simili pervertimenti
del gusto. Andai poi a Parigi e là, in pieno centro elegante,
sull'angolo della via Coumartin, in un negozio all'insegna — _Au bon
rire gaulois_ — vidi ancora il medesimo scherzo (chiamiamolo così) che
a Milano era scomparso da mezzo secolo.

Per chi ama riflettere sugli atteggiamenti spontanei del popolo
è interessante questo sopravvivere di una tendenza, che sembrava
sorpassata per sempre e sopravvivere nella città che fu detta il
cervello del mondo. Il _bon rire gauloi_s si vede che è rimasto
vitalità tenace della razza, proprio a Parigi dove si trovano ancora la
bettole _Aux armes de Chartre_ come ai tempi del Re Sole. Di un altro
re più moderno, un re di quel secolo decimottavo durante il quale la
burla poco pulita dilagò dovunque, si ha questo aneddotto che prova
la diffusione di un uso al quale non sfuggirono fino all'ultimo le più
alte classi sociali. Beniamino Franklin trionfava nella capitale della
Francia e le sue idee utilitarie formavano il soggetto di tutte le
conversazioni; la contessa di Polignac, grande amica della disgraziata
Maria Antonietta, se ne mostrava entusiasta al punto che Luigi XVIº,
_le roi débonaire_, per prenderla in giro le mandò un magnifico vaso
da notte, espressamente ordinato alle officine di Sèvres, con suvvi
impresso il ritratto dell'uomo alla moda e il motto: _art e utilité_.


In quella casa bizzarra, tra la zia Claudia sempre in moto e lo zio
Germanico taciturno, io m'aggiravo in piena libertà. Trascorsi i
primi anni dell'infanzia mi disinteressai dei giuochi rumorosi dei
miei compagni. Preferivo sedermi sopra un rialzo della loggetta,
che fiancheggiava il giardino e, pur non sdegnando i bei grappoli
d'uva pendenti sul mio capo con certi chicchi lunghi come bozzoli,
mi sorprendevo ad errare collo sguardo sulle aiuole scompigliate
dal gatto, così senza un pensiero fisso, ma col germogliare di tante
sensazioni sposate alla bellezza dei fiori che incominciavo a conoscere
per nome; la diversa colorazione dei gerani, il profumo della vaniglia,
lo strano volto delle viole del pensiero e una pianticella di fiori
chiamati le meraviglie che odoravano solamente al tramontare del sole,
e un'altra che si ingemmava di piccole bacche bianche lucenti rotonde
come perle; e le erbe, le care erbe dai molteplici odori che coglievo
per mettere nel mio fazzoletto. Non conoscevo ancora il delizioso verso
della Cantica «Sia il tuo amore simile a un mazzetto d'erbe odorose
appeso alla tua cintura» e non conoscevo l'amore. In nulla fui precoce,
nemmeno in questo. Ebbi però prestissimo sviluppata l'attitudine
all'osservazione e una intuizione, che contrastava singolarmente con
una ingenuità assoluta, da sembrare qualche volta deficienza. Ero anche
seria più che non comportasse l'età, con una inclinazione a problemi
che raramente interessano le bimbe di nove o dieci anni. Mentre i
nipoti dello zio si erano divertiti a disegnare omini e cavallucci
sulla parete dello scalone, io vi scrissi questa quartina letta chi sa
dove:

    Giovin, che tanto altero
    vai della tua beltade,
    nel fior che presto cade
    contempla il tuo avvenir.

A chi la dirigevo? A nessuno in particolare: al mondo, alla vita, forse
a me stessa.

Staccandomi dai miei coetanei mi accadeva di rimanere più a lungo in
compagnia della zia Claudia e delle persone che venivano a visitarla.
Era difficile che qualcuno passasse dinanzi alla porta aperta, alle
sedie allineate ed alla vigilanza della zia, senza entrare per poco
o per molto a scambiar le reciproche idee sugli ultimi avvenimenti
del paese. La zia Claudia mi voleva anche lei molto bene, mi chiamava
la sua nipote prediletta e mi parlava come ad una persona grande,
privilegio lusinghiero per i miei gusti di fanciulla assennata.

Frequentava la casa anche uno dei nipoti maggiori (ve n'erano di tutte
le età). Questo di cui voglio parlare, un giovinetto, sui sedici anni,
pallido, delicato, di temperamento dolcissimo, mi si era affezionato in
un modo che, data la differenza dell'età, appariva singolare. Diceva
che quando fossi più grande mi avrebbe sposata; lo diceva alla zia,
lo diceva, a me; la zia abbozzava un sorriso, io non rispondevo nulla
perchè era come se mi avesse detto: Fra qualche anno parleremo arabo
insieme. Durante una delle ultime vacanze che passai a Caravaggio
venne fuori una milanese, una ragazza che fece subito impressione
per la disinvoltura piuttosto sguaiata colla quale si accaparrava i
giovinotti. Si osservavano i suoi abiti, i suoi gesti. Aveva trovato
modo di avvicinare i nipoti dello zio Germanico e per questa via la
zia ed io eravamo al corrente dei suoi successi. Un giorno il mio
promesso sposo mi comparve d'innanzi con un anellino di corniola al
dito; siccome non l'avevo mai visto gli chiesi semplicemente da qual
parte gli venisse ed egli con pari semplicità mi rispose: «Me lo ha
dato l'E....» «Come! esclamai, dici che vuoi sposarmi e porti l'anello
di un'altra. Allora è segno che vuoi bene a lei; sposa quella». Il
buon ragazzo si affannò a spiegarmi come glielo avesse posto in dito
di viva forza, ma che era pronto, se questo mi faceva dispiacere a
levarselo. Aveva già compiuto l'atto ma sembrandogli di non avermi
persuasa abbastanza soggiunse: «Vuoi che lo spezzi, che lo schiacci
sotto ai piedi, per mostrarti qual conto faccio dell'E..?». «Ah? no,
dissi sarebbe peccato». Egli ebbe una rapida ispirazione «Lo vuoi tu?
Prendilo, è tuo». Tutto giulivo me lo porse e io fiera del mio trionfo,
non potendo tenerlo su nessuna delle mie dita perchè troppo largo,
lo ravvolsi nella cuffietta della bambola e lo riposi gelosamente in
tasca.

Graziosa corniola lucida rosata, trasparente di quell'anellino! Essa mi
rappresenta il primo passo che feci fuori dell'infanzia. Il giovinetto
morì consunto prima ch'io diventassi una signorina da marito e ancora
non posso vedere una corniola senza provare una dolce commozione. Ma
da quanto tempo questa pietra non si vede più? I giovanissimi non la
conoscono neppure. Essa e le sue compagne, agate, turchesi, granatine,
che le famiglie di quel tempo si trasmettevano di generazione in
generazione, con quelle legature così originali, così veramente belle,
dove trionfava la nobile arte degli orafi antichi nutriti ancora
delle eleganze di Benvenuto Cellini, scomparvero colla diffusione del
brillante.

Il _solitaire_ di dieci o quindici mila lire, che i nuovi arricchiti
mettono in mostra sul petto delle loro donne come vi appunterebbero un
pacchetto di banconote se appena appena brillassero un poco, risponde
meglio alle esigenze del secolo materialista. Allora, negli strascichi
del romanticismo, la corniola impiegata sovente per ciondolo assumeva
le tre forme indivisibili di una croce, un'ancora e un cuore: fede,
speranza, carità. Ora ai polsi e all'orologio si appende il maialetto
d'oro.

La liberazione della scuola, dei compiti da fare, delle lezioni
da studiare non era il minore dei vantaggi delle mie vacanze a
Caravaggio. Continuavo ad essere nemica acerrima dell'insegnamento, pur
crescendomi il gusto della lettura e un particolare piacere di certe
parole, di certe frasi armoniose che mi davano una ebrezza musicale,
mentre la musica mi lasciava fredda o, se mi commoveva, era solo
come accompagnamento e complemento delle parole. L'intuizione, così
superiore in me alla coscienza, mi faceva penetrare in alcuni stati
d'animo, che non avrei diversamente compresi. La dolce malinconia,
il _pathos_ dei seguenti versi dell'_Edmenegarda_ mi rapiva in una
contemplazione che la zia Claudia, ammonendomi di non cogliere l'uva
acerba, non sospettava neppure, quando io, indugiando silenziosa sullo
scalone di pietra li affidai, in mancanza dei quaderni distrutti, alla
solita parete che riceveva gli sfoghi grafici di noi fanciulli.

    O giovinette, gioia vereconda
    della casa materna, a cui dovrebbe
    vergin campo d'amori esser la terra,
    quand'io vi veggo rotear ne' balli,
    di rose e gigli incoronate il crine,
    quand'io v'ascolto ne' giocondi crocchi
    le memori narrarvi ore del chiostro
    o le speranze del futuro amante,
    non vi sorrido, ma pietà mi stringe
    dolorosa di voi che imprenderete
    la dura via fra poco.

Improvvisamente, un giorno? una sera? Non so: un gran buio circonda
quell'ora solenne del mio destino. Ero a Milano; la scuola, secondo
l'orario di quegli anni, mi teneva prigioniera senza interruzione dal
mattino fino alle quattro; alle quattro e mezza si pranzava; alle otto
a letto. La mia vita in casa non era che un passaggio occupato dai
compiti e dalle lezioni. Non so altro, non ricordo altro. Mi fanno
chiudere i libri a un tratto e il papà mi conduce da una famiglia amica
che abitava presso a noi e dove c'erano ragazze e ragazzi della mia
età; vi passai tutta la notte in un lettino improvvisato e la novità,
la compagnia, i giuochi di quei fanciulli, non mi lasciarono agio di
pensare alla singolarità degli avvenimenti.

Il giorno appresso una persona, non rammento chi fosse, venne a
prendermi per ricondurmi non dai miei genitori, ma a Caravaggio. Di
sorpresa in sorpresa! Anche qui la gioia e la presa di possesso dei
miei beni mi impedirono di approfondire ciò che si disse per spiegare
la mia venuta fuori del tempo. Importava assai a me la ragione del
perchè! Ero felice e credevo ancora che la felicità non dovesse finire
mai. Mancava però la nonna e alla mia domanda dove fosse mi si rispose
che era andata alla campagna per sorvegliare certe faccende, ma che
sarebbe tornata subito. Pranzammo soli, il nonno, la zia Carolina ed
io. Il nonno non pronunciò una sola parola, la zia Carolina sospirava
spesso indugiando sui cibi come se le tornassero a gola. Avevo visto
altre volte a quella tavola i volti rabbuiati per la tempesta che
rovinava il raccolto e pensai che si trattasse di una disgrazia del
genere e me ne stetti ben zitta e ben tranquilla per non turbare le
loro preoccupazioni.

Dopo pranzo venne lo zio Germanico, ma non essendo domenica non veniva
per la partita a tarocchi. La zia Carolina gli corse subito incontro
nell'andito e poichè tardava a rientrare, il nonno la raggiunse e
stettero fuori un po' di tempo. Poi sentii il nonno che saliva al
suo studio e la porta di casa sbattere per il dottore che andava via.
Quando la mia cara zietta tornò in sala, aveva gli occhi rossi. Io ero
turbata per quell'ombra di mistero che mi circondava, ma non sapevo che
cosa dire. Ella mi abbracciò strettamente, raccomandandomi di andare
a letto subito, che la mattina seguente sarebbe venuta la balia a
prendermi per condurmi un po' con lei.

Come fu l'ora giunse infatti la buona donna a prendermi. Ci avviammo
verso la chiesa maggiore dedicata a S. Fermo intanto che suonava
la messa. — Entriamo — disse la mia nutrice. Ed entrammo. Io non la
guardavo, abbandonata oramai al mistero che mi trasportava, ma lei
doveva essere molto commossa chinandosi su di me per dirmi — Prega,
prega con fervore, la tua mamma è morta. —

Scoppiai in pianto.



PARTE SECONDA


   [Illustrazione: Acquaforte di LUIGI CONCONI]


La profezia racchiusa nell'ultimo dei versi dell'_Edmenegarda_ da me
scritti sul muro incominciava ad avverarsi. La morte di mia madre volta
una pagina della mia vita. Chiude un periodo della mia umile storia e
la figura più augusta di tutte doveva restare nel mio cervello immaturo
come una forma evanescente, una pallida donna, della quale non ricordo
ne' lo sguardo, ne' la voce.

Tutti la piansero: era così bella, giovane ancora! La settima
gravidanza l'aveva recisa lasciando orfani io e i miei due fratelli. La
contemplo ora nel ritratto che le fece Moriggia; i lineamenti regolari
e fini, lo sguardo dolce, i capelli neri divisi nel mezzo della fronte
e ricadenti in folte bande piatte a ricoprire tutto l'orecchio; di
seta nera il vestito con un risvolto di delicato ricamo, una camelia in
testa, una sciarpa rossa dietro le spalle e una manina nuda, degna di
una duchessa.

Era il tredici luglio quando morì e mancando ancora un mese e mezzo
a terminare la scuola, mio padre mi pose in collegio rimanendo lui
solo col suo dolore nella casa deserta. Mio fratello minore si trovava
già da alcuni mesi presso le zie paterne a Casalmaggiore; l'altro fu
mandato a raggiungerlo.

Casalmaggiore è una piccola città sulla riva sinistra del Po, poco
distante da Cremona e da Mantova su questa riva, da Parma sulla
riva opposta. Al tempo dei ducati, come città di confine, ebbe vita
lucrosa e relativamente brillante. In seguito decadde, al pari di
tanti altri piccoli centri assorbiti dalla continua emigrazione verso
i centri maggiori. Sui registri dello stato civile la nostra famiglia
vi appare da non molte generazioni; lo stesso nome del nostro casato
non è lombardo ne' di alcuna altra provincia dell'alta Italia; si
ritrova invece scendendo verso Roma e verso l'Abruzzo. Comunque,
ramo divelto dal tronco, non abbiamo nessun documento che affermi la
nostra parentela con Taddeo Zuccari, sepolto nel Pantheon di Roma
accanto alla Tomba di Raffaello Sanzio, ne' con Federico fondatore
dell'Accademia di S. Luca e di quel suo _tugurio_ sul Pincio dichiarato
monumento nazionale. Però sappiamo che i due pittori, nati sulla fine
del cinquecento a S. Angelo in Vado, avevano cinque altri fratelli
e sappiamo pure, per averlo scritto lui stesso, che Federico visse
a Parma parecchi mesi. Non è dunque improbabile che, o dal medesimo
Federico, o da qualche fratello chiamato lassù, sia rimasto tra Parma
e Casalmaggiore, che ebbero per l'addietro continui rapporti, un seme
della famiglia.

Mio padre nacque nè primo nè ultimo di sei fratelli, tre maschi e
tre femmine. Due maschietti morirono adolescenti e morì più tardi una
delle femmine, già preceduta dai genitori. Quando io venni al mondo,
della famiglia di mio padre non rimanevano che due sorelle nubili
residenti a Casalmaggiore. E, presso di loro, si trovava già il mio
fratellino Stefano quando nostra madre perdette la vita sopraparto
(e la creaturina la seguì). L'altro mio fratello Luigi fu mandato a
raggiungerlo subito dopo. Essi erano abituati a passare le vacanze con
quelle zie paterne, mentre io andavo a Caravaggio dai nonni materni.
I miei fratelli, poi, stante la lunghezza del viaggio (Casalmaggiore
era a novanta miglia da Milano e senza ferrovia) oltre alle vacanze
passavano laggiù mesi e mesi. Vi ero stata anch'io per un certo tempo,
ma una volta sola, e smorta me ne era rimasta la rimembranza. Trovo
un accenno di questo mio soggiorno a Casalmaggiore in una lettera del
papà alla mamma. Egli era venuto a prendermi evidentemente e le dava
per iscritto le prime notizie. È fortuna che io abbia trovata questa
lettera, nella quale rinasce un momento della mia vita che avevo quasi
dimenticato; riudire dopo più di mezzo secolo la voce di mio padre,
se non il suono, il sentimento di essa, e vedermi descritta colle
sue parole, e sapere che cosa egli pensava di me, è tale commovente
dolcezza che io non so dire. «Ho veduto gli studi fatti dalla nostra
ragazzina e ho dovuto convincermi che ha fatto più progressi qui che
a Milano. Quanto al morale conserva quella sua naturale vivacità,
talvolta smoderata, e si abbandona facilmente ad atti di subitanea
impazienza, di collera e di pianto, specialmente allorchè è ripresa o
corretta con modi di disprezzo; all'incontro si fa dolce e mansueta
ragionandole del mal fatto e ammonendola con parole temperate e di
persuasione. Nell'insieme poi del suo esteriore è tutta quella di
prima; figura slanciata, agile, di movimenti rapidi; è cresciuta in
altezza tre dita».

Un malaugurato strappo nella lettera di mio padre l'ha privata della
data, ma non v'ha dubbio che dovevo essere allora non oltre i sette
anni. La collera e il pianto, di cui si fa menzione e che io non
ricordo, vennero presto sostituite da un muto dolore in tutte quelle
occasioni di rimprovero o di accusa nelle quali intravedevo una
ingiustizia. Avevo anche abbastanza sviluppato il senso della realtà
per adattarmi senza proteste all'inevitabile; così entrai rassegnata e
calma nell'internato della mia scuola a terminare l'anno scolastico,
finchè mio padre avesse sistemato l'ordine della famiglia sconvolto
per l'improvvisa morte della diletta compagna. Il suo era stato un vero
matrimonio d'amore e di stima che nessuna nube aveva alterato mai e la
possibilità di una seconda moglie non deve nemmeno aver sfiorato il suo
pensiero fermo e fedele. Non poteva tuttavia lasciar soli tre figli
ancora adolescenti e fra questo grave dilemma miglior consiglio gli
parve quello di persuadere le sue sorelle, a venire in casa nostra per
tenerci luogo della mamma.


Era una giornata d'autunno avanzato quando rientrai nella casa paterna.
Il mio fratellino Stefano giocava in anticamera col cerchio. Gli
chiesi dove erano le zie ed egli mi rispose indicandomi una camera
in fondo all'appartamento. Mi inoltrai col cuore che batteva verso
il mio nuovo destino, cercando di ricordarmi la faccia di quelle
zie, che trovai (fosse stato ieri non mi sarebbe possibile averne una
visione più precisa) in una stanza di disimpegno brutta e disadorna.
La zia Margherita stava seduta con un rocchetto sulle spalle i pochi
capelli grigi sciolti sugli omeri, un libro di preghiere in mano;
sopra una sedia collocata dinanzi a lei c'era una scatola oblunga di
legno bizzarramente dipinta, nella quale si ammontichiavano spazzole,
forcine, un altro libro di preghiere (che era quello della zia Nina) e
un pezzo di candela di sego. In piedi dietro a lei la zia Nina la stava
pettinando. Al mio apparire la zia Nina ristette qualche minuto col
pettine in mano, la zia Margherita sollevò gli occhi dal libro. Dissero
una o due parole e ripresero la loro occupazione. Involontariamente
rividi come in un barbaglio di luce lontano il dolce sorriso della zia
Carolina e l'onda nera de' suoi magnifici capelli.

Le sorelle di mio padre, pur differendo l'una dall'altra, avevano in
comune un tipo di razza forte. Brune e secche le loro mani e le loro
braccia attraversate da grosse vene a fior di pelle ricordavano un
po' le radici di un albero. Avendo begli occhi e lineamenti regolari,
nella loro gioventù non saranno state brutte; ma una certa mancanza di
femminilità e di gusto, l'impronta della provincia, infine, come era a
quei tempi, le aveva segnate di vecchiaia precoce: la zia Margherita
in ispecie, che era la maggiore e la più assente dal convegno delle
Grazie. Attaccatissime al loro fratello, si erano già piegate a molti
sacrifici per lui quando, vivente ancora il padre, aveva dichiarato la
sua vocazione e il proposito di andare a Roma a studiare architettura.
Andare a Roma quasi un secolo fa e andarvi da un piccolo centro
provinciale, da una modesta famiglia borghese già aggravata di sei
figli, non dovette essere certo facile impresa e si indovina il
sacrificio delle buone sorelle. Ma, non v'ha dubbio, che maggiore
d'ogni altro fu quello di abbandonare, non più giovani, la loro
casetta, le loro abitudini, le amicizie, i dolci ozii, la libertà, per
recarsi in una città sconosciuta a prendersi la doppia responsabilità
di reggere una famiglia, di allevare tre fanciulli. Grande, grande
sacrificio.

Io avevo allora dai dodici ai tredici anni. Una delle prime cose che
mi disse la zia Margherita fu questa: «È tempo di fare giudizio, non
hai più nè otto nè dieci anni». La voce e e il volto ammonendo così
erano di una tale severità che ne rimasi impressionata. Avevo dunque
finito di essere una fanciulla? Non mi sarei data tanta pena se avessi
potuto prevedere che due anni dopo avrebbe ripetuto: «... non hai
più nè dodici nè tredici anni» e ancora sotto i venti agitava sul mio
capo il rimpianto degli anni passati, lo spauracchio dei futuri. Era
una donna austera la zia Margherita; era anche pochissimo donna. Non
l'ho mai vista una volta guardarsi nello specchio; sdegnava tutto ciò
che potesse sembrare eleganza e raffinatezza; dei profumi soleva dire
con grande disprezzo che li portavano solamente le persone affette
da cattivi odori. Nei servizi dei piatti a tavola prendeva sempre la
parte più scadente. Non sdegnava prestarsi ai lavori più pesanti, al
contrario si compiaceva di aiutare in quelli la persona di servizio;
amava cercare i poveri; rappezzando con zelo le vesti della nostra
domestica diceva: "Avrei dovuto nascere povera e sposare un povero;
quante belle pezze avrei rimesse". Trovava piacere dove gli altri
confessavano un fastidio. Colla sua entrata in famiglia, di poveri
non si ebbe più penuria; scomparvero invece le signore eleganti che
venivano a trovare la mia mamma. Non riconoscevo più la mia casa;
vedevo tutte persone nuove; udivo nomi di sconosciuti; molte abitudini
erano cambiate e cambiato il posto di certi mobili. Con una sorpresa,
che non saprei ridire a parole, mi accorsi che qualche volta, quando
la faccia angolosa della zia Margherita era più arcigna del solito e
il puntino nero delle sue pupille mordeva proprio come un granello di
pepe, mi interpellava col pronome di seconda persona: "Noi... vostro
padre". Non diceva mai papà ed anche per lui aveva un tic particolare,
lo chiamava a volte: il padrone.

L'amor del prossimo della zia Margherita non era precisamente quello
predicato da Gesù, dolce e mansueto. Mente fervida, temperamento
impulsivo, facile allo scatto ed alla violenza, se con una mano era
sempre tesa a beneficare, coll'altra non era meno pronta a sciogliere
o, quando mai, a minacciare uno schiaffo; lo si sapeva e si evitava,
molto più che le sue collere come certi temporali di primavera si
disperdevano senza tempesta. Essendo quasi sempre sproporzionati alla
causa, quegli scatti mi facevano tuttavia molto male. Credetti una
volta che crollasse la casa, perchè mi ero servita di refe invece
che di cotone per cucire un non so che ed io, che udivo fare per la
prima volta una differenza fra refe e cotone, mi sentii ferita in
quel sentimento di verità e di giustizia, che era in me profondo e
che doveva farmi tanto soffrire anche in seguito. Era il medesimo
sentimento, osservato da mio padre quando scriveva alla mamma, che mi
acquietavo nelle mie ire infantili solo se corretta con amorevolezza
ragionandomi del mal fatto. L'amorevolezza, che non è possibile negare
a una donna la quale negava tutto a se stessa per dare agli altri, la
zia Margherita l'aveva in fondo al cuore; ma l'adolescente, che io ero
ancora, non sapeva discernerla nell'ammasso di bruscherie e di violenza
che la rendeva ingiusta, ponendola nella luce meno favorevole di
tutte dinanzi alla mia sensibilità, alla mia timidezza, al mio ardente
bisogno d'affetto. Se in certi momenti, nei quali la punta acuta delle
sue pupille sembrava ammorbidirsi in un raggio di benevolenza, osavo
gettarle le braccia al collo chiedendole un bacio, ella voltava subito
la faccia dall'altra parte mormorando nel suo dialetto: "_Sciocchezze,
sciocchezze_".

Dove avrei io trovato un bacio? "Aprile senza fiori, infanzia senza
baci" dice una vecchia canzone malinconica. E come dice vero! Il bacio
è ai fanciulli ciò che la rugiada è al fiore, il pigolio al nido. Non
avevo più nè otto nè dieci anni, ripetendo la frase della zia, ma il
bisogno di tenerezza cresceva insieme agli anni e, in senso inverso
dal bisogno, la mia timidezza mi ricacciava tutta dentro di me. Amavo
molto mio padre, ma era serio anche lui come tutta la nostra famiglia
e di pochissime parole. Il gran lutto, che gravava sul suo cuore, lo
ravvolgeva in una specie di nube attraverso la quale mi appariva come
un essere superiore, tanto lontano da me, dai miei piccoli affanni.
Una ritenutezza, una specie di pudore, quasi uno scrupolo di coscienza
mi impedivano di aprirmi con lui. Mai avrei avuto il coraggio di
confessargli il mio disagio in quel passaggio dall'una all'altra età,
essendo cambiata ogni cosa intorno a me, colla sensazione oscura e
profonda di trovarmi sperduta in una landa deserta, sola.

La zia Nina non sapeva nè leggere nè scrivere. Feci questa
straordinaria scoperta osservandola quando sua sorella la pettinava.
Anche lei stava seduta colla misteriosa cassettina davanti e il
suo libro di preghiere sui ginocchi, ma le pagine non le voltava
mai. Seria, dura, immobile come una statua, un lieve battito delle
palpebre di minuto in minuto la diceva viva. Minore qualche anno
della zia Margherita, conservava con lei un'aria di famiglia, più che
una vera somiglianza. Anche moralmente partecipavano entrambe delle
mancanze, che un secolo fa distinguevano le zitellone di provincia
vissute lontane dal mondo; ma tanto la maggiore sorella era schietta,
aggressiva, impetuosa, di questa non si udiva mai la voce. Parlava
poco e piano, camminava con passo vellutato. Non era nemica dello
specchio e quando si coricava alla sera, aveva un modo tutto suo di
accomodare i capelli sotto la cuffia che, senza nessun altro artificio,
le rimanevano ondulati sulle tempie. La zia Margherita era intelligente
e tanto appassionata per la lettura da leggere persino i foglietti
dispersi che ravvolgevano le droghe o i bottoni. A' suoi tempi
Casalmaggiore non aveva scuole. Un maestro, dal nome melodrammatico
di Zefirino, aveva insegnato in casa a leggere, scrivere e far dei
conti. La zia Nina pur partecipando a questi studi limitati non aveva
imparato nulla. Come però conosceva l'arte di aggiustarsi i capelli,
era sua anche quella di saper tacere quando l'argomento si mostrava al
di sopra della sua intelligenza. Prendeva allora quell'attitudine di
statua che la faceva sembrare così attenta alla lettura del suo libro
di preghiere, anche se talora fosse per avventura capovolto.

Le due sorelle andavano di perfetto accordo. Vissute sempre insieme
avevano, se non proprio gli stessi gusti, le stesse abitudini; le
relazioni di una erano le relazioni dell'altra. Le accomunava una
vita intera di affetti, di impressioni, di ricordi, di gioie, di
dolori ai quali io ero perfettamente estranea; allusioni a fatti che
non conoscevo, ironie di cui mi sfuggiva il significato. Quest'arma
terribile dell'ironia usata contro l'adolescenza esse la adoperavano
nella loro ignoranza di principii educativi; ma è crudele e di una
grande ingiustizia, presupponendo nella costruzione del fanciullo una
mentalità rotta alle rudi prove dell'esperienza. L'ironia è l'albero
amaro del bene e del male che dà frutti di cenere; scuoterlo sul capo
innocente di chi muove i primi passi nella vita, intorbidare la fonte
sacra, quella bella confidenza, quell'abbandono cieco del fanciullo
alla parola dei genitori o di chi ne fa le veci, è quasi un delitto. A
certe frasi pungenti scambiate fra le mie zie con sorrisi di scherno
l'anima mia si raggrinziva tutta. Non reagivo, ma cresceva sempre
più in me l'impressione di vuoto, di freddo, di straniero: e come
il mio temperamento non mi portava alla ribellione, invece di uno
sfogo esterno, scendevo dentro di me. Quante volte dinanzi alla forza
collegata delle mie due zie desiderai una sorella!


Anche i miei fratelli erano in due. Due vicini di età, uniti dai
medesimi studii, distratti nei medesimi giuochi, liberi per il
loro sesso più di quello che io fossi e indipendenti dalle zie. La
scuola d'altronde ci divideva. Nelle poche ore che stavano in casa
si ritiravano a studiare nella loro camera. Io facevo intanto di
malavoglia gli ultimi corsi, fisso lo sguardo in quello che sarebbe
stato l'ultimo giorno di scuola. I miei fratelli erano molto più
diligenti e riportavano trionfi che io ero ben lontana dall'ottenere;
ma avevo la fortuna di scrivere con facilità e a poco a poco mi accorsi
che da questa facilità me ne derivava anche un piacere, per cui presi
l'abitudine di scrivere indipendentemente dai compiti, con meraviglia
delle mie compagne, le quali tutte dal più al meno abborrivano dal
comporre. Pare invece che alla mia scuola questo ramo dell'insegnamento
fosse tenuto in gran conto, perchè si era rinunciato a farmi imparare
l'aritmetica (vista la mia incapacità di giungere in fine ad una somma)
e la calligrafia (verificato che i miei saggi non erano nè inglesi, nè
corsivi, nè rotondi, nè gotici) per conseguenza esonerata da questi due
esami e ad onta di ciò non mi venne meno la benevolenza dei professori,
compreso quello d'aritmetica. Le maestre mi continuavano la loro
antipatia, ma io contavo oramai i giorni che mi avrebbero portata alla
liberazione.

C'era l'abitudine nella mia scuola per le allieve più zelanti che
terminavano gli studi, di preparare in segreto un patetico componimento
che veniva poi declamato il giorno degli esami con accompagnamento di
lagrime e di singhiozzi a edificazione delle maestre e dei genitori
presenti. Lo si chiamava l'_Addio_ e incominciava generalmente così:
"Addio, scuola tanto amata dove ebbi i migliori esempi, ecc. Addio
maestre che ci foste nel medesimo tempo educatrici e madri, addio
compagne, ecc., ecc.". Per nulla al mondo io mi sarei sobbarcata
a recitare una simile commedia; essa era tanto lontana da me, che
nell'ora della ricreazione mentre le altre ragazze riunite in crocchi
discutevano sugli esami del domani e qualcuna ripassava febbrilmente le
lezioni, io senza abbandonare il mio posto, totalmente lontana dalle
preoccupazioni generali, trassi dalla cartella i miei scartafacci
privati e mi posi a continuare un raccontino, che avevo dovuto lasciar
sospeso nel punto culminante di dimostrare il vizio punito e la
virtù ricompensata. Navigavo in quell'oceano beato della concezione
spirituale, dando ascolto al canto che mi inviavano le sirene
dell'immaginazione, quando udii pronunciare il mio nome dalla voce ben
nota della direttrice e questa domanda attraversarmi le orecchie come
un dardo, che entrando dall'una fosse uscito dall'altra sibilando:
Che cosa scrivi? La mia timidezza non seppe suggerirmi altro che un
silenzio assoluto e non so in qual modo la faccenda sarebbe andata a
finire se, pari ad un fluido elettrico, improvvisamente dischiuso un
sorrisetto di intesa non fosse passato tra le mie compagne e qualcuna
mormorò: È l'_Addio_, è l'_Addio_. La direttrice comprese e si degnò
di sorridere anch'essa con sussiego e approvazione, ma la risata più
schietta fu la mia, quantunque interna e mascherata dalla fronte china
sulla penna a terminare le avventure di Osvaldo e Berenice. "Domani a
quest'ora, pensavo, non ci sono più e allora addio scuola per davvero".

Fra le mie condiscepole c'era una trentina, emula mia nei successi
letterari e questo fatto, lungi dal creare fra noi una incresciosa
rivalità a base di invidia, ci unì in una buona e sincera amicizia,
continuata anche dopo scuola per molti anni in regolare corrispondenza.
Poi senza alcun motivo, come accade spesso, la corrispondenza cessò.
Io pensavo molte volte a lei, certo anche ella mi avrà pensata; ma
travolte entrambe nell'onda della vita che ci sospingeva a opposte
rive, complice un po' di pigrizia, il silenzio si stese fra noi come un
velo d'ombra. Non pensavo neanche più alla possibilità di rivederci.
Nella mia singolare ignoranza il Trentino mi appariva fantasticamente
lontano. La Val di Sole, la Valle di Non erano a' miei occhi terre
favolose, irragiungibili e, per dire tutta intera la verità, non mi
avvenne mai di udir pronunciare la parola Trentino fino al giorno che
mandata a Roncegno per salute non scopersi a me stessa la bellezza e
le sventure di quella terra disgraziata. Ma questo è un salto avanti
nella mia vita. Lo accenno ora perchè completa colle parole di chi fu
testimonio quel che io ero al tempo della scuola. Ripiglierò in seguito
le mie memorie al punto dove le ho lasciate.

Non sono molti anni, dunque, che dovendo recarmi nel Trentino pensai
subito alla mia antica amica e le scrissi a caso per sapere se vi
fosse modo di poterci incontrare. Mi rispose subito che sarebbe venuta
lei stessa a Roncegno. Venne infatti con una sua leggiadra figliuola
e appena ella discese dalla vettura dell'albergo ci gettammo nelle
braccia l'una dell'altra prima ancora di guardarci in viso... Il
piacere di tale visita si duplicò quando poche settimane dopo andai
a renderle la visita; un viaggio di sei ore durante il quale ebbi
campo di ammirare la ridente bellezza delle valli trentine, la severa
maestà delle sue montagne. Due giorni passai in quel piccolo paese
sperduto in fondo a una valle, per sei mesi dell'anno sepolto sotto
le nevi; ma allora era di primavera, la casa graziosa e confortevole,
l'ospitalità perfetta, il giardino pieno di fiori con un salice
piangente che si chinava sovr'essi, forse per consolarli di crescere
in un suolo calpestato dallo straniero. Poche sere prima a Trento, in
una famiglia di fervidi patrioti, circondata dai cuori più ardenti,
mentre nel silenzio della via un soldato austriaco passava sotto
le finestre, avevo letto il capitolo VI del _Rogo d'amore_ (ancora
inedito) dove Ariele esala il suo spasimo e i suoi sogni di irredento;
alla mensa dei miei amici, recitai i versi della canzone di d'Annunzio
sequestrati dalla censura e i volti erano pallidi e mute le labbra.
Si, io ebbi questa gioia di far ascoltare la voce della Patria sulla
terra ancora schiava, alle anime che non speravano più. Prima di
partire la mia amica mi disse: Sai? Io scrissi una volta un articolo
per te. — Davvero? — esclamai — Quanto mi piacerebbe conoscerlo!
Gentilissima, l'amica cercò fra le sue vecchie carte e mi diede un
numero del giornale _L'Alto Adige_, 29-30 marzo 1900 (dodici anni
prima di quel nostro incontro vale a dire nel tempo che la nostra
relazione era stata interrotta). L'articolo intitolato _Neera_ portava
un lusinghiero giudizio sull'opera mia che non è il caso di riferire,
ma credo interessante far conoscere un lungo brano, dove sono descritta
io stessa fanciulla nell'obbiettivo di una spettatrice, la quale non
poteva supporre allora che io avrei letto un giorno l'articolo.

"... Nata a Milano, ed ivi sempre domiciliata, sentì fino da fanciulla
potente l'attrattiva dello scrivere, e la foga dell'immaginazione
attirarla nelle regioni gloriose del campo letterario. Adolescente,
scriveva raccontini, che nelle ore della ricreazione scolastica
leggeva alle compagne, in crocchio intorno a lei radunate e pendenti
dalle sue labbra. Inutile dire quanto fosse benevisa dal professore
d'italiano, il quale compiacevasi alla lettura dei suoi componimenti,
che palesavano il non comune ingegno e la rara facilità del concetto.
Ricordo pure come una volta la di lui severità nel frenarle gli
ardimentosi voli della fantasia, i quali rivelavano nella inesperta
scolara la nascente scrittrice ardita e spigliata, attirasse un velo
di lagrime sulle sue pupille di fuoco; ma fu una volta sola: il buon
professore l'amava e si rallegrava al fiorire del bell'ingegno con un
represso sorriso di compiacenza ammorzato fra i baffi e barba allorchè
stava intento alla lettura dei di lei componimenti. E tutte allora,
ella per la prima, comprendevamo la tacita approvazione del professore,
tradita dall'atteggiamento del volto, quand'anche la parola suonasse
contraria.

"Verso i tredici anni perdette la madre, non aveva sorelle e suo padre
la collocò per qualche tempo interna nel collegio, del quale come
alunna esterna frequentava la scuola. Vi fece la sua entrata una sera
ad ora tarda; eravamo tutte coricate quando ella in punta di piedi,
titubante nelle mosse, seguendo la vecchia governante, penetrò nei
dormitori; al passaggio della bruna figura, fatta più oscura dalle
nere gramaglie, più d'un saluto le pervenne sottovoce all'orecchio a
sussurrarle un'espressione di amicizia affettuosa in quella prima ora
di separazione dal tetto paterno.

                             . . . . . . .

"L'avvenimento che scosse maggiormente le sue fibre e schiantò il suo
cuore portato ad amare con tutta la forza degli affetti, fu la morte
dell'ottimo suo genitore, che le spirò quasi improvvisamente nelle
braccia, quando a lei, giovane, avvenente, ammirata arrideva in tutto
lo splendore la primavera della vita. Fu così intenso il doloroso
sentimento della perdita fatta, che promise a sè stessa di perpetuargli
un culto di venerazione e d'amore, di trovare nella memoria dell'uomo
integerrimo esempio, sprone e conforto all'aspra via del dolore....
Giurai a me stessa, così ella scriveva nell'intimità epistolare, di
onorare la sua memoria, di amarlo morto, come non mostrai mai di amarlo
in vita, di perpetuare riproducendole le sue virtù, di farlo rivivere
nell'intatta fama, nella coscienza pura e intemerata ch'egli mi lasciò,
e che io voglio trasmettere ai miei figli".

Dall'apprezzamento della mia amica, pur volendolo accettare intero
nel suo ottimismo, mi è duopo cancellare almeno la parola — ammirata
—. Che lei, vivendo così lontana, potesse suppormi degli ammiratori
e credere, lei esiliata fra i monti, che basta essere giovani e un
po' intelligenti perchè vivendo in una grande città come Milano
arrida in tutto il suo splendore la primavera della vita, si può
anche comprendere. Quando andai a trovarla nell'alpestre romitaggio,
non mi nascose la tristezza del suo destino in opposizione ai sogni
di un'esistenza più ampia, più ricca di bellezza, forse di gloria,
rappresentata a' suoi occhi dal contatto di una grande città. La verità
è che io vivevo a Milano nello stesso modo di tanti canarini in gabbia
e di tanti cani colla museruola.


Le mie zie erano con noi da pochi mesi e gravava ancora sulla casa il
lutto di colei che ne era partita per sempre, quando un avvenimento
che nessuno aveva previsto venne a peggiorare la nostra condizione
in un modo che io allora non potevo valutare ma le di cui conseguenze
provai dolorosamente in seguito. A me direttamente non fu comunicato
nulla, ma nelle poche ore che la scuola mi lasciava passare in famiglia
notavo un silenzio più profondo, una preoccupazione generale, rotta
dagli scatti della zia Margherita più vibranti del solito e quella
sua terribile ironia rivolta con allusioni, che mi trapassavano
il cuore, sulle persone, che dopo mio padre, amavo più di tutte al
mondo, i miei cari parenti di Caravaggio. Un giorno, per un nonnulla,
colla solita sproporzione fra la sua collera e la causa che l'aveva
prodotta, volle umiliarmi pronunciando contro mio nonno una parola
ingiuriosa, che nella sua intenzione doveva coinvolgere anche me in
un medesimo disprezzo. Una cosa sola capivo ed era l'ingiustizia di
un colpo, che feriva nella mia anima vergine una ancora confusa, ma
già potente aspirazione alla rettitudine, alla verità come un'impronta
di sanità morale trasmessami nel sangue e che era tutta la mia forza
in quelle dolorose occasioni. Forza di resistenza, ma forza passiva,
perchè la mia invincibile timidezza mi impediva di reagire e lo stesso
mio carattere meditativo e concentrato, che tendeva alle solitarie
speculazioni del pensiero piuttosto che ai movimenti disordinati della
volontà, mi allontanava con un vero istinto di antipatia da tutto ciò
che fosse rivolta. Offesa, tacevo. Il dolore della ferita attingeva
immediato acchetamento dal sentirmi ingiuriata a torto. Aver ragione,
equivalente a trovarmi nel vero, bastava alla mia intima fierezza.
Quando le mie zie, che non mi hanno mai conosciuta, per ignoranza
educativa, per ristrettezza provinciale, per abitudine del sospetto,
per altre recondite cause, infierivano contro di me, io più che ogni
altra sensazione avevo quella della sorpresa e invece di difendermi
chiedevo mortificata a me stessa: Perchè?

La disgrazia della mia famiglia era stata questa. Mio nonno aveva in
affitto un lotto considerevole di terreni, che nei tempi buoni gli
concedevano una larga agiatezza; ma un seguito di annate disastrose
per i raccolti avendo provocata la crisi agraria, mio nonno non seppe
provvedervi almeno con accorte diminuzioni alle spese, così che, da
un giorno all'altro, si trovò a non possedere più nulla di fronte
a un cumulo di debiti e in questo disastro naufragò la dote di mia
madre, che era stata assegnata in quarantamila lire. Ciò è quanto la
zia Margherita non poteva perdonare a mio nonno e nella sua logica
particolare se la prendeva con me, con una fanciulla di tredici anni!
Dico la zia Margherita perchè era lei che parlava; quanto alla zia
Nina non usciva dalla sua immobilità e dal suo mutismo, tanto che
per molto tempo non mi riuscì di comprendere che cosa si nascondesse
dietro quel contegno impassibile di bonzo indiano. È certo che entrambe
nella caduta di mio nonno dovettero rintuzzare le antiche rivalità e
i sarcasmi della zia Margherita trovare buon gioco contro le abitudini
signorili, che forse qualche volta l'avevano involontariamente umiliata
nella famiglia di mia madre.

Dai miei ricordi della casa del nonno risulta infatti l'impressione
di una comoda agiatezza. L'avere provvisto ai sei figliuoli, tutti in
primarie case di educazione, avviati i maschi alla carriera giudiziaria
e dotate le femmine coll'assegnazione di una somma che per i tempi era
abbastanza vistosa, faceva credere ad una ricchezza molto maggiore
di quello che realmente fosse e certo non fu causa ultima della
disgrazia. Nella rimessa del nonno c'erano tre carrozze, una delle
quali, un vero carrozzone da parata, serviva per andare a prendere
il vescovo di Cremona, quando veniva a Caravaggio per la Cresima,
nella quale occasione l'alto ecclesiastico pranzava e dormiva anche
in casa del nonno. Di altre abitudini ospitali trovo cenno in una
lettera che la mia mamma ancora fanciulla scriveva, non senza una punta
di malizia, alle sue sorelle in collegio. Scusandosi di un ritardo
nella corrispondenza soggiunge: "Ora che grazie al cielo la filanda
è terminata incomincia il passaggio dei militari e voi sapete che la
nostra casa è sempre distinta con un bel numero; di più, avvicinandosi
la nostra festa della Madonna di settembre il signor Canonico ci
favorisce annualmente avendo anche l'avvertenza di condurre con sè
parenti e conoscenti".


Mi trovo ora al punto più difficile di queste confessioni. Avrei voluto
non uscire mai dai dolci ricordi della mia infanzia di Caravaggio.
Tutto era così semplice! Mi parevano tutti così buoni! Ma i ricordi
stessi si allontanavano da me ed io, che ero pure semplice e buona,
fui gettata improvvisamente dal destino a combattere senz'armi e senza
corazza contro la diffidenza ed il sospetto. Per comprendere bene ciò
che ho detto, ciò che dovrò dire ancora sul cambiamento della mia
vita, è necessario separare le impressioni della fanciulla ignara
dagli apprezzamenti che sola l'esperienza può dettare con serietà
di giudizio. Se dunque qualcuno dei mie lettori crede di poter già
formarsi una sua opinione sulle persone che gli vo' presentando lo
prego di sospenderlo, accontentandosi di seguire le fasi della mia vita
nello stesso ordine cronologico che si presentarono a me.

A quattordici anni avendo terminati i corsi lasciai la scuola con
quella specie di freccia del Parto burlesca che fu l'_Addio_ non
dato. Incominciò allora la mia esistenza casalinga, metodica come una
regola di convento; alzata alle otto, rifatta la camera e la sala di
ricevimento (dove non entrava mai nessuno) preso posto verso le dieci
al tavolino da lavoro, dal quale non mi movevo più sino alle quattro,
con una zia da una parte e una zia dall'altra; alle quattro preparavo
la tavola, alle quattro e mezzo si pranzava; alla sera lavoro di
nuovo, generalmente calze, una zia da una parte una zia dall'altra,
sino all'ora di andare a letto. Alla domenica c'era la messa e la
passeggiata: quasi mai uscivo nel corso della settimana e solamente
per uno scopo ben determinato, una compera o una visita a qualche
conoscente: ma questo accadeva di rado. Con tale nuova sistemazione
delle mie giornate me ne venni a passare tutto il tempo in compagnia
delle zie. Neppure la notte ero libera, perchè dal loro arrivo avevo
dovuto abbandonare la mia cameretta che mi piaceva tanto, per dormire
insieme a loro in un vasto stanzone occupato prima dallo studio di mio
padre.

La zia Margherita era una grande lavoratrice, la zia Nina no. Al lavoro
d'ago attendevo anch'io volontieri; cuciture, rappezzature, ricamo,
calze; ero attivissima e la zia Margherita non mancava di riconoscerlo.
Le preparavo qualche volta la sorpresa di terminarle un lavoro che
le dava noia e allora ne' suoi occhi neri e vivaci la pupilla si
ammorbidiva come per improvvisa tenerezza; nulla mi era più gradito di
quel raggio, dolce come una luccioletta che trema nella sera sulla cima
di un ramo. Gli occhi della zia Nina erano neri anch'essi, ma opachi
e immobili sotto il battito regolare delle palpebre, quel battito che
era tutto suo. Lavorava a cose leggere e brevi, attendendo piuttosto
a sorvegliare la domestica in cucina e trovava modo di uscire tutti i
giorni per incombenze o spese inerenti alla famiglia. Quando non c'era
lei intorno al tavolino io mi sentivo sollevata da un gran peso; anche
la zia Margherita doveva provare qualche cosa di simile, perchè la
conversazione da languida che era in presenza della zia Nina si animava
con un sembiante di intimità. Tendevo allora avidamente l'orecchio
a ciò che ella mi andava narrando di storie vecchie, di aneddoti
famigliari. Ella era una specie di archivio conservatore di memorie e
di tradizioni; tutto ciò che ebbi a conoscere sulla nostra famiglia mi
venne da lei. Dotata di parola facile, colorita, franca, intercalava al
suo dire motti e citazioni di una origine così oscura, che non sapeva
lei stessa d'onde le fossero venuti. Quando, per esempio, volendo
avvalorare una dimostrazione qualunque, noi avremmo detto: "in nome
di Dio!" lei esclamava: "dalla parte di quel buon Giocondo!" e sfido a
indovinare a che alludesse. Se avessi potuto presentire in quei giorni
le pagine che scrivo oggi, di quante note potrebbero arricchirsi i miei
ricordi!

Con l'altra zia l'approccio era impossibile. Non mi guardava, non mi
parlava; sembrava ignorare persino la mia esistenza. In qual modo avrei
potuto affrontarla, con quella mia ingenita timidezza, che avrebbe
avuto bisogno di un gran fuoco, di un gran fuoco d'amore per fondersi
e che si trovava innanzi a una sfinge di granito? Mi facevo piccina
piccina, per non urtarla, per diminuirle la noia della mia presenza,
ma a nulla serviva. Nella distribuzione delle domestiche faccende,
che nei primi giorni si erano assegnate tra loro, era rimasto alla
zia Nina come la più esperta del genere l'incarico di pettinarmi;
improvvisamente, senza alcuna spiegazione, dichiarò di non volerlo
più fare e passai dal tocco morbido delle sue mani alle energiche
strigliature della zia Margherita finchè imparai a pettinarmi da me.
Poco tempo dopo, altra esclusione. Era lei che, più giovane della
sorella, più amante del vestirsi e dell'uscire di casa e del veder
gente, mi accompagnava tutte le domeniche alla messa ultima nella
chiesa di S. Carlo e consecutiva passeggiata; e anche questo da un
giorno all'altro cessò, senza ragione, senza spiegazione, come la
prima volta. Sotto l'apparenza di non occuparsi di me, spiava ogni
mio gesto, atto o parola per trovare pretesto di un rimprovero. Mi
accusava di colpe assurde, per esempio di averle servito il caffè in
una tazza sbrecciata, non per distrazione come sarà stato benissimo, ma
di proposito per farle dispetto. In tali circostanze io negavo appena,
perchè sentivo vivamente la dignità di me stessa e quanto sarebbe
stato inutile combattere contro un nemico ignoto, che aveva per se il
vantaggio di essere mio superiore, che poteva sgridarmi e castigarmi,
che io dovevo rispettare e ubbidire.

Ho detto nemico ignoto, perchè in realtà non conoscevo la causa che mi
rendeva così ostile una persona verso la quale sentivo di non avere
alcuna colpa e strano, ma vero, neppure risentimento. Le sue accuse,
le sue ingiustizie erano come frecce che mi fischiavano intorno senza
portare il colpo mortale al cuore. Io compresi fin da allora che
nessuno al mondo ha il potere di offenderci se la nostra coscienza
non ha nulla da rimproverarci e mi sono sempre stupita che vi sia
tanta suscettibilità di vanità offesa, mentre è così valido schermo
alle piccole ferite dell'amor proprio un alto sentimento di ciò che
noi siamo, non di ciò che vuol farci parere l'invidia e la malignità
altrui. Allora a quattordici anni non facevo questi bei ragionamenti,
perchè il ragionamento nasce dalla riflessione e prima ancora abbiamo
la sensazione che ci avverte; ma appunto in quei primi tasteggiamenti
della coscienza, che cerca la sua strada, io mi sentivo sicura, come
in una proprietà tutta mia, una specie di torre inaccessibile. Tale
resistenza passiva inaspriva forse l'avversione di quella donna, ma non
potevo far altro. Ho già esternato la mia ripugnanza per le attitudini
ribelli; le mortificazioni, colle quali sperava di umiliarmi, si
spuntavano contro la muta remissione, che ella chiamava indifferenza.
Oh! come avrei potuto rimanere indifferente? Io soffrivo sin nel
profondo dell'essere di una sofferenza sottile senza lagrime, una
sofferenza che era piuttosto una mite tristezza e questa tristezza si
appendeva da sè a guisa di un velo fra me e il mondo. Suonava la diana
della vita sulla mia primavera al sole, ma gli stessi raggi del sole si
impigliavano nelle maglie di quel velo. Dicono tutti che la gioventù è
un tesoro; la mia, quando mai, fu tesoro sepolto.

Quella cara anima onesta, che fu Edoardo Rod a proposito delle
tristezze della sua infanzia, diceva: "_Oh! ces premières impressions
nous façonnent à jamais! Ce sont elles qui donnent le ton à toute
notre existence, elles peuvent nous rendre à jamais incapables de
bonheur, elles creusent en nous des vides qui ne se comblent pas_".
Sopratutto questo: vuoti che non si colmano più. Come potremo noi
ridere in seguito, se non abbiamo riso nell'età dell'espansione e
della gioia? Se la risata larga, spensierata, trillante e leggera qual
volo d'allodola, la volubile risata che si accende e si spegne senza
causa sulle labbra dell'infanzia felice, fu isterilita dal sospetto,
contaminata dall'ingiustizia? Se nell'età della fiducia completa e del
completo abbandono abbiamo dovuto dubitare? Se quando i nostri cuori si
aprivano all'amore con tutte le boccucce del desiderio, come fanno nel
nido i piccoli nati, un soffio di scetticismo ci raggrinzì nella nostra
nudità, nella nostra povertà, si che un po' di freddo rimase nelle
intime pieghe dell'anima nostra? Il fanciullo, che non si sente padrone
del mondo, non è un fanciullo felice e quando pure la vita gli prepari
altre gioie ed altri sorrisi sempre gli resterà quella piega dolorosa
dei primi anni mancati, cicatrice indelebile di un'anima ferita.


Tutte le simpatie della zia Nina erano riserbate a mio fratello
Stefano. Egli godeva di un'assoluta impunità. Un giorno a proposito
di un bicchiere rotto o altro consimile misfatto mi disse: "Sai?
Ho pensato di confessare alla zia che sono stato io, tanto non mi
sgrida certo". Ma nemmeno la bontà del mio caro fratellino riusciva
a difendermi dalle insinuazioni malevoli. Per avere smarrito un
fazzoletto, che mi era stato regalato dalla zia Margherita, non
dovetti subire l'accusa di averlo distrutto io, di mia mano, per
dispregio del dono e della donatrice? Nulla mi faceva tanto male
quanto la supposizione di simili bassezze, che non riuscivo nemmeno
a comprendere. In quali mondi, in quali cuori potevano nascere? E
perchè supporle in me, nella mia anima così sincera, così innamorata
dell'alto? Mi pareva che tutti dovessero leggermi dentro come
attraverso un cristallo e perchè queste due zie mi leggevano così
diversa da ciò che ero? Perchè? Sempre l'assillante perchè!

Venne finalmente l'ora di una grande rivelazione. Entravo nella mia
camera, che era pure la camera delle zie, quando un alterno e concitato
parlare, in cui era mischiato il mio nome, mi arrestò di botto sulla
soglia. La voce della zia Nina per solito bassa e velata tradiva
una grande irritazione e quella della zia Margherita si piegava a
straordinari sforzi di dolcezza per calmarla, per persuaderla. "È
inutile, io non la posso soffrire, mi è antipatica, la odio". Queste
parole mi fischiarono nell'orecchio come una scudisciata, poi non
udii altro. Ovvero, si, ella ne pronunciò ancora una così orribile
che non ressi più e mi allontanai soffocando in un lungo singhiozzo un
gruppo di lagrime troppo amare per sciogliersi in pianto. Ecco dunque
la risposta ai miei angosciosi perchè, alle accuse, ai sospetti, alle
ripulse: _perchè mi odiava_. Lo aveva detto lei stessa uscendo dal suo
mutismo: non era possibile dubitarne. Ora, qualunque cosa facessi o
dicessi, sapevo che mi odiava. Questa persona, che viveva presso a me,
sangue del sangue di mio padre, chiamata a proteggermi, a guidarmi, a
volermi bene, questa persona mi odiava.

Venuta in possesso di sì crudele verità sentivo però che non era tutto
il vero. Un'altra domanda urgeva alle porte oramai violate della mia
ingenua fede: "_Perchè mi odiava?_". Ma l'ingenuità mia era ancora
troppo salda, troppo resistente, per potermi dare una risposta chiara
e decisiva. Dovevo vivere tutta la mia vita, la vita di osservazione
e di esperienza, di teneri sogni e di brutali risvegli, che ognuno
di noi vive, prima di afferrare la verità tutta intera. Comprendere
è perdonare, si dice, e quante cose, che ci fanno soffrire, ci
lascerebbero indifferenti a poterle comprendere in tempo. Intanto,
quasi a conforto della dolorosa scoperta fatta, mi riusciva a poco a
poco di valutare meglio le intenzioni della zia Margherita, la quale
mi voleva bene alla sua maniera e più me ne avrebbe voluto senza
le continue istigazioni della sorella e i foschi colori sotto cui
ella mi dipingeva, falsando ogni mia azione, facendomi segno alle
calunnie le più assurde, le più lontane dal mio modo di pensare e di
sentire. Il sistema adottato dalla zia Nina nella sua campagna contro
di me era questo: in mia presenza musoneria e mutismo agghiacciante;
dietro le spalle lagnanze, accuse, sfoghi di insopportabilità come
di un gran peso che la opprimesse. Nè deve sembrare troppo singolare
la fede prestata da una sorella alle parole dell'altra; trovo anzi
naturalissimo che quella vivace e impetuosa donna che era la zia
Margherita, usa da più di mezzo secolo a vivere lo stesso pensiero
della zia Nina, ad amare e a disprezzare insieme, sempre unite, sempre
concordi, dovesse scattare sotto il racconto delle pretese sofferenze
da me inflitte alla sua anima gemella e torna a lode di una innata
rettitudine il contrasto, che ella doveva provare, posta così ad
arbitra di un conflitto del quale le mancavano da una parte i dati di
fatto e sull'altra pesava una giustificata ripugnanza a dubitare. Di
tale esitazione io coglievo a volo diverse prove, prima fra tutte la
sua diversità di contegno; una specie di inquietudine e di malessere in
presenza della zia Nina e quando eravamo sole, una subita espansività,
un largo respiro di catena ritolta, specie di oasi nella quale
fiorivano i bei racconti, le memorie antiche. Anche in queste ore buone
non mi permetteva, è vero, di farle un bacio, ma essendomi sfuggita
una volta la storpiatura del suo nome (vezzo mio per tutte le persone
che amo) sopportò sorridendo che la chiamassi Màrgula e sempre poi nei
rari momenti, che dalla mia gioventù compressa balzava irresistibile
un impeto d'affetto e: Màrgula, Margulina! gridavo, tentando di
abbracciarla, ella, pur respingendomi, aveva negli occhi quella
luccioletta luminosa che era il solo indice della sua commozione. Poco
mi importava allora se, quasi parlando sè stessa, tentasse di mitigarne
l'effetto con una delle sue bizzarre frasi dialettali: "_La vola, la
vola!..._".


Arduo mi sarebbe dire se nel lungo corso degli anni e precisamente
quando, erba novella che preme di sotto la terra per venire incontro
al sole, le quindici primavere pulsano tumultuosamente nelle vene, la
zia Margherita abbia volato o no. Certo non le mancavano le ali. Amò
una volta sola un piccolo possidente dei dintorni di Brescia, un uomo
di salda tempra antica, onesto e leale, che avrebbe fatto con lei un
bellissimo paio; ma viveva in famiglia con genitori, sorelle, fratelli,
nuore, nipoti e la prospettiva di dovere andare d'accordo con tanta
gente le parve così oscura, che temporeggiando e rimandando, dal mese
della semina a quello dei raccolti, da Natale a Pasqua, trovaronsi
entrambi coi capelli grigi e si accontentarono di restare buoni
amici. Vi fu anche un tempo in cui ebbe la velleità di farsi monaca;
effimera vocazione che scomparve pur essa riflettendo come, dato il suo
temperamento vulcanico, non potesse prendere su di sè garanzia che un
bel giorno non le venisse in mente di dar fuoco al monastero.

Per conoscere bene le due zie, che tanta influenza ebbero sulla mia
vita, è utile sapere in qual modo si svolse la loro stessa vita, non
essendo l'esistenza umana il fungo che spunta solitario e nel posto
in cui nasce sta, ma piuttosto una densa ramificazione di foresta
dove una fronda abbraccia l'altra, dove nel mistero della terra le
radici si incontrano attraverso spazi infiniti e la furia del vento
trasporta i pollini che vanno a fecondare altre zolle, a far sorgere
nuove foreste. Sui dubbi che trattennero la zia Margherita dall'andar
sposa in una troppo numerosa famiglia influì probabilmente il ricordo
della sua. Mio nonno viveva con un fratello; avevano case e fondi
proprî e commerciavano insieme. Mio nonno mise al mondo sei figliuoli,
suo fratello ventidue. Quando tutti erano riuniti a tavola i due padri
sedevano ai due capi opposti, avendo ognuno a portata di mano una lunga
e flessuosa verga di salice colla quale, attraverso la lunghezza della
mensa, toccava quelli de' suoi ragazzi che mostravansi più irrequieti
intanto che le rispettive madri badavano a scodellare. Di colei, che
sarebbe stata la mia nonna, e che morì ancor giovane dopo il sesto
figlio (come mia madre), zia Margherita non serbava che un ricordo:
ella rivedeva curva sul suo letto, nelle lontane sere infantili, una
dolce e grave figura di donna; era molto bianca in volto, coi capelli
neri e portava un abito di panno bleu; rimboccati i lettini, la dolce
figura sedeva presso l'ultimo nato e al pallido lume di una fiammella
ad olio leggeva nel suo libro di preghiere a fermagli di argento finchè
i bimbi fossero tutti addormentati. Zia Margherita non sapeva altro;
non potè dirmi altro. Era appena passata la soave visione in quella
casa dove l'esistenza dovette essere aspra di quotidiane realtà,
passata colla tenuità di un sogno.

Di una visita fatta all'avolo suo la zia Margherita trovò ancora
memoria. Viveva egli in un paese poco lontano e vi fu una volta che la
maggiore delle sue nipotine (la zia Margherita appunto) gli fu condotta
per rimanere alcuni giorni presso a lui; ma non era trascorsa un'ora,
che ell'aveva già trovato modo di arrampicarsi sopra una pianta di
fico, che sorgeva nel cortile, spezzando il più bel ramo e stracciando
da cima a fondo la vesticciuola, per andare a finire nella vetrata
di una finestra che mandò in mille frantumi. "E che cosa ti disse il
nonno?" — chiesi io alla zia Margherita con una certa inquietudine.
"Nulla a me. Chiamò il domestico e disse a lui col massimo sussiego: —
Attacca il cavallo e riconduci questa ragazza a casa sua".

Mi mancano i dati per precisare quando mio nonno si separò
dal fratello; il fatto avvenne forse in seguito alla crescente
figliuolanza, forse per gli affari che incominciavano ad andar male.
Fra le disgrazie che la zia Margherita raccontava, c'era la perdita di
un mulino sul Po verso la riva parmigiana, dove tratto tratto tutta la
famiglia soleva recarsi in barca propria a festeggiare i gnocchi della
mugnaia e bere il vino bianco. Dovevano essere state assai gioconde
queste imbarcazioni di giovani sul bel fiume dai tramonti dorati,
perchè vivo ancora palpitava il rimpianto nell'anima della zia e quasi
rancore contro il fiume bello e infido, che nelle sue furie terribili,
rosicchiando le rive, aveva a poco poco inghiottito terra e mulino. Ma
prima che in seguito a questa ed altre disgrazie avvenisse la divisione
dei due fratelli la vecchia casa patriarcale ospitava un'altra di
quelle figure di antenati, che la zia Margherita sapeva evocare in
poche parole con un tocco solo di pittura impressionista o con una
breve punta d'acquaforte, come l'episodio della visita da lei fatta a
suo nonno, sì che mentre lei parlava io lo vedevo il vecchio rigido e
freddo dinnanzi al triplice disastro dell'albero, della vetrata e della
vesticciuola; lo vedevo e lo udivo scandere le parole della sentenza:
"Attacca il cavallo e riconduci questa ragazza a casa sua".

L'altro ritratto di famiglia, dirò così, era la madre di mio nonno;
carica d'anni la vecchierella non usciva più dalla sua camera a
secondo piano, dove se ne stava seduta quasi sempre accanto al fuoco
aspettando che i ragazzi venissero a trovarla; ne erano nati ventotto
di ragazzi in quella casa e una mezza dozzina di piccoli c'era in
ogni tempo. Questi entravano coll'impeto di un turbine, gareggiando
a chi arrivava primo e la bisavola, per non far torto a nessuno,
si prendeva fra i ginocchi tutte le loro manine una sopra l'altra
riscaldandole nell'ampio grembiule, quel grembiule che scottava sempre
e il giuoco, che faceva ridere i piccini, dava a lei un risveglio di
orgoglio materno, quasi un fiorire di rose intorno alle piccole rughe
del suo volto. A una data dell'anno l'avola lasciava il suo cantuccio
accanto al camino e, mostrando una certa inquietudine, percorreva
la camera a passettini corti e ineguali, sorretta dal bastoncello,
piantandosi poi risolutamente dinanzi alla finestra, che si apriva sul
cortile interno, come a sorprendere il passaggio di qualcuno: quando
vedeva apparire o l'uno o l'altro de' suoi figli, che appunto quelli
aspettava, raschiandosi in gola, picchiando nei vetri col bastoncello,
se persistevano a non intendere, li obbligava a salire chiamandoli per
nome. La vecchierella divisa dal mondo non dimenticava che, venendo
sposa in quella casa aveva portato in dono uno _spillatico_ sul quale
i suoi figli erano obbligati a passarle una piccola rendita e tutti gli
anni, alla scadenza, avveniva poco su poco giù il seguente dialogo.

— Che cosa volete mamma? — Ricordarvi i vostri obblighi. — Ma voi non
avete bisogno di denaro. Che cosa vi manca qui? — Non state a cercare
quello che mi manca, datemi quello che mi viene. — Voi mamma (tentavano
di volgere la cosa in scherzo) spilli non ne portate più. — Ciò non vi
riguarda, fate il vostro dovere. Narrandomi questi particolari la zia
Margherita si inteneriva e nello stesso tempo era presa da una specie
di orgoglio di famiglia, raddrizzandosi sulle spalle un po' curve,
quasi per mostrare a sè stessa che nell'occasione saprebbe essere
egualmente ferma e fiera.

In seguito a morti e divisioni mio nonno Stefano rimase solo coi suoi
figli, dei quali Margherita era la maggiore, poi veniva mio padre,
Giulia, Nina e credo ultimi i due maschietti morti presto. Mio padre si
chiamava Fermo; non so quali studi avesse fatti nè dove, nè a quale età
ottenne di poter andare a Roma per seguire i corsi di architettura alla
Sapienza. Era ancora giovinetto quando, prendendo parte alle mascherate
carnevalesche che allora usavansi molto a Casalmaggiore, non gli
riusciva mai di conservare l'incognito in causa della sua alta statura.
La scatola arabescata, dove le mie zie conservavano gli oggetti sommari
della loro toeletta, rappresentavano il doloroso insuccesso che egli
ebbe sotto le spoglie di un elegante figaro che tutte le Rosine della
città riconobbero immediatamente, tanto che l'anno appresso volle
escogitare un trucco di nuovo genere. Ripudiando i travestimenti di
lusso, sotto le umili spoglie di un contadino, coperto il volto di
una rozza maschera, spingendo una carrettella di mele, uscì fuori
trionfante in piazza e forse il trionfo lo avrebbe accompagnato
fino all'ultimo se i suoi fratellini correndogli dietro e gridando a
squarciagola: "Fermo dammene una!" non lo avessero subito scoperto. Si
vede che mio padre non era nato per portare maschera.

Mio nonno Stefano, dunque, essendo rimasto solo a governare negozi e
figliuoli, pensò di riammogliarsi e il modo col quale vi si accinse è
abbastanza bizzarro per essere ricordato. C'era nei dintorni una donna
che viveva sola prestando qualche servizio qua e là. Non più giovane,
di costumi austeri, senza pretese, gli parve la persona meglio adatta
al suo scopo, poichè d'amore non era il caso di parlarne, e così
aspettandola un mattino mentre usciva dalla messa la arrestò senz'altro
sul sagrato e lasciando da parte inutili preamboli le disse "Teresa,
volete venire in casa mia a far da madre ai miei figli?" Quella
rispose: "Ci penserò signor Stefano, le darò la risposta domani". E
fu tutto. La donna, che prese il posto della soave creatura vestita
di panno bleu intenta a leggere nel suo libro di preghiere a fermagli
d'argento, era una perfetta massaia, lavoratrice, economa, onesta
fino allo scrupolo, tutta compresa de' suoi doveri, ma era ignorante,
rozza, dura di modi, dalla virtù arcigna. Cambiando stato ella rimase
un'ottima serva, ma le mancò totalmente la grazia della donna. Suo
marito lo chiamava sempre "il padrone". Si comprende come nella mia
famiglia, che già molto morbida non era, la ruvidezza della nuova
venuta dovesse influire in senso peggiorativo. La zia Margherita col
suo carattere ardente, colle sue simpatie democratiche, ammirava quella
ruvidezza, che a lei sembrava forza e se, dopo tanti anni trascorsi, le
accadeva qualche volta di chiamare suo fratello "il padrone" era ancora
una prova dell'influenza esercitata dalla matrigna sul suo spirito così
ben preparato a riceverla.


Una febbre di quelle che chiamavano perniciose condusse mio nonno
al sepolcro in pochi giorni; la seconda moglie era morta anch'essa e
morta la figliola che si chiamava Giulia. La famiglia così numerosa non
esisteva più, si era sciolta; venduta anche la casa, le due superstiti,
Margherita e Nina, si ritirarono in un'altra casa di loro proprietà
dove si iniziò quella che fu, per una trentina d'anni, la loro
rimpianta vita di pace assoluta e di semplice libertà. A questo punto
i miei ricordi tornano ad essere personali. Io la conosco la via fatta
ad arco, larga e deserta come quasi tutte le vie di Casalmaggiore,
chiazzata qua e là da qualche filo d'erba, coi marciapiedi di
mattonelle rosse; vedo il gruppo isolato di abitazioni intorno
all'albergo della _Croce Verde_ che forma in certo qual modo la corda
dell'arco, vedo le case allineate in giro a semicerchio: la seconda a
destra venendo dalla piazza era quella delle mie zie. La zia Nina, che
aveva la passione contemplativa dei fiori, era riuscita a trasformare
il cortile in un vero giardino; i trecento e più vasi che formavano
l'aiuola centrale, curati ad uno ad uno con tenerezze materne,
offrivano un aspetto dei più variati; tutte le gradazioni dei garofani,
dei gerani, delle verbene e le rose muschiate, e le ortiche americane
dal profumo delicato, e quello acuto del geranio d'Africa, e quello
misterioso e inebbriante del geranio notturno che odora solamente
di notte, e la selva imbalsamata della cedrina, che a Casalmaggiore
chiamano erba Luigia in memoria della Duchessa di Parma Maria Luigia, e
tutta la innumerevole famiglia dei fiori che si coltivano in provincia,
lungo gli anditi soleggiati dove all'ombra di una tenda le donne
compiono i loro bei lavori di pazienza, intanto che il gatto sonnecchia
sdraiato con pieno abbandono sul lembo della loro gonna e poco lungi
nel piccolo chiuso cocoreggiano le galline.

Vita di libertà, vita di pace conducevano le due sorelle; la dimora
era modesta, ma perfettamente intonata ai loro bisogni; un salottino
a pian terreno, colle finestre basse verso strada così compiacenti
al saluto, al breve colloquio: una cucina, sul cui muro esterno
rameggiavano le fronde annose di un susino facendo ondeggiare nel
vano della finestra come lampadine d'oro sospese i magnifici frutti
gialli che si arrampicavano fino al terrazzo sovrastante. Le camere
superiori non erano nè così numerose nè così ricche di guardarobe come
quelle della mia nonna di Caravaggio, poichè in casa delle due zitelle
nè alloggiavano vescovi, nè banchettavano canonici. Eranvi tuttavia
bei cassettoni panciuti con riporti di metallo e qualcuna di quelle
deliziose placche settecentesche dove, innanzi ad uno specchietto che
forma il fondo si accendeva nelle occasioni solenni una candela che,
riflettendosi moltiplicata nello specchio, doveva rappresentare il
lusso di una luminaria. Regine nel loro piccolo regno esse avevano,
come tutti i proprietari di quelle terre ubertose, la festa annuale
della vendemmia alla quale non mancavano di assistere in mezzo ai
loro contadini e la soddisfazione di riempire con vino proprio la
cantina e di colmare la legnaia di ceppi tagliati dai propri alberi.
Tutto in misura modesta, ma tutto così facile, così sicuro in un
seguito armonico di tradizioni e di misure che, pur non essendo ricche
fruivano del principale dono della ricchezza, che è l'indipendenza e di
quell'altro pur dolce privilegio di potere, qualche volta, aiutare il
nostro simile nella miseria.

Una specie di solaio coronava la casetta delle mie zie o, piuttosto che
solaio, due piccole camere basse di soffitto che ne facevano le veci.
Lassù, fra diversi oggetti fuori d'uso, la mia fantasia fu colpita
da un busto femminile di grandezza naturale, non ricordo se di legno,
come quelli che usavano un tempo le modiste per allestire le cuffie, o
di terraglia, quali si trovano forse ancora in certi vecchi giardini,
ma così ben dipinto, guancie rosee ed occhi lucenti, da giustificare
l'ammirazione di una fanciulla un po' fantastica; quel busto aveva
anche un nome, si chiamava la signora Tintimillia; non le mancavano
altro che le gambe e la parola. Chi fosse, d'onde venisse, nessuno non
ne sapeva nulla, ma per me fu oggetto di gran fantasticare, molto più
che la signora Tintimillia non era sola lassù. Dal rettangolo di una
cornice bucherellata dal tarlo, proprio dirimpetto a lei, sporgeva la
testa di un frate. Le mie zie dicevano che era il ritratto di un nostro
antenato; quanto al sapere per quale intreccio di eventi lui e la
signora Tintimillia si trovassero riuniti nell'esilio, la mia curiosità
rimase insoddisfatta, ma ai piaceri della fantasia non occorre la
verità, basta il sogno. Io almeno me ne accontentai.

In fondo al semicerchio della via, sull'angolo di un viottolo che
si perde fra giardini e verzieri, c'era la casa dove abitavano
i migliori amici delle mie zie, una amicizia di tre generazioni,
una di quelle rare amicizie su cui è dolce riposare il cuore. Non
dimenticherò l'augusto Collella, altro abitante della contrada, oggetto
di stupefazione per me quando lo vedevo alzare dai trucioli la sua
testa da imperatore romano per rimaneggiare la politica del governo,
che, secondo lui, andava male, ed appoggiandosi sulla pialla come
avrebbe fatto sopra una clava, giudicare di Cavour, del ministero, dei
trattati, quasi fossero legno di noce o di ciliegio. Trinciava giudizi
anche sull'arte drammatica. Aveva conosciuto la Ristori: «Già, è stata
qui colla compagnia de' suoi genitori, contava tre o quattro anni,
l'ho presa in braccio tante volte, le ho date anche le _chisseüle_».
In seguito a tali confidenze si gonfiava, faceva la ruota, convinto
di avere stabilito il suo diritto a parlare d'arte. Questo curioso
personaggio, in aggiunta a' suoi meriti, custodiva tre scorpioni in
un'ampolla d'olio per medicare ogni genere di tagli e di ferite. La
moglie di Collella, un bel donnone fresco e sorridente che metteva
allegria solamente a vederla, era una delle persone che passando sotto
le finestre basse del salottino delle mie zie non mancava, da buona
vicina, di fermarsi ad augurar loro o il buon dì o la buona sera, e
avvenne che una sera, per l'appunto passando in fretta, soggiungesse:
«Non mi indugio perchè vedo forestieri in casa». Le zie che sapevano
di non avere nessuno fecero le meraviglie; ma l'altra assicurò di aver
visto stando sul marciapiedi un uomo nella loro camera la quale, pur
essendo al piano superiore, era molto bassa sulla strada e soggiunse
spaventata: «Allora è un ladro! — Un ladro! — esclamò la zia Margherita
e, come le avessero detto che era fuggito il merlo, salì la scala a due
gradini alla volta mormorando: — Vado io a prenderlo per lo stomaco».
Il bellicoso ardore della zia Margherita non ebbe tempo di tradursi
in atto, perchè il ladro, sentendosi scoperto, aveva spiccato un abile
salto dalla finestra e già fuggiva lontano lasciando dinanzi alla porta
il suo berretto.

L'episodio del ladro fu il solo, io credo, di un certo rilievo che
rompesse la placida esistenza delle due sorelle, quantunque mi sia
rimasta l'impressione che la zia Margherita per suo conto l'avrebbe
voluta più movimentata. Placida e serena esistenza, tutta composta
di piccoli movimenti regolari scelti da loro stesse con un perfetto
accordo, ostacolati da nessun impegno, da nessuna catena; la semina
dei fiori in primavera e lo scambio di sementi colle amiche procurava
loro i dolci ozi nel cortile giardinato sotto i raggi tiepidi del
sole d'aprile, radrizzando steli, spiando attente il gonfiarsi dei
boccioli, sollevando gli occhi al susino di sant'Anna, il quale andava
coprendosi di gemme in attesa dei bei frutti d'oro, che sarebbero
maturati in luglio sotto la protezione della gran Santa. Il non avere
in casa nè uomini nè ragazzi permetteva loro di conservare quell'ordine
e quella regolarità dei quali le donne sole hanno il privilegio; ma
la loro solitudine non era egoismo, perchè il fratello stabilito a
Milano era sempre presente al loro pensiero e non maturavano nell'oblio
le susine di sant'Anna, che tutti gli anni un bel paniere ricolmo
viaggiava verso la capitale, sì che io, prima ancora di conoscere le
zie, conobbi le loro susine. E le belle passeggiate lungo il Po non le
avranno mai rimpiante? La grande inondazione, per la quale si dovettero
demolire tutte le case che fiancheggiavano la riva ne cambiò totalmente
l'aspetto; anche il ponte costrutto per la ferrovia tolse vaghezza e
maestà al corso delle acque; ma al tempo delle mie zie una passeggiata
sull'argine era quanto di meglio Casalmaggiore potesse offrire. In
qualunque giorno, a qualsiasi ora (chi le poteva trattenere dal momento
che esse erano libere come l'aria?) «Il tempo è bello, andiamo a fare
quattro passi sull'argine? — Ma sì, andiamo. — Tolgo dall'armadio
l'abito di seta cangiante o quello _à jardin_? — Come vuoi. — No, di'
tu. — Il cangiante? Benissimo». Vestivano sempre allo stesso modo:
due abiti, due mantiglie, due cappelli identici annunciavano a chi
non lo sapesse il pieno accordo delle loro volontà. Più ancora che la
passeggiata sull'argine era cara al loro cuore la passeggiata della
Fontana. Si chiama della Fontana un modesto Santuario che sorge in
mezzo ai campi a tre chilometri circa fuori della città. Le mie zie
non erano mistiche, ma una dolcezza religiosa si impossessava di loro
mettendo il piede sul lungo viale deserto dove stormivano i pioppi,
alti verso il cielo, in forma di candelabri e con una gioia di anime
semplici si stringevano al petto l'offerta alla Madonna che esse
avevano preparata: una tovaglietta di altare o un festone di teletta
celeste e argento per ornare la cappella nel mese di Maria. Conoscevano
il prete officiante di quella chiesuola ed erano in buoni rapporti
colla Perpetua per cui, dopo una visita alla cripta dove si conserva
la fontana miracolosa, entravano nell'orto del curato pieno di verde e
di frescura colle mente e le maggiorane a ciuffi rigogliosi miste alle
ortensie dalle tinte di madreperla e la Perpetua si piegava a cogliere
i fiori intanto che si scambiavano ricette di botanica e ricette di
cucina. Don Michele, il buon prete, non sdegnava di aggiungere i suoi
consigli. Il tempo scorreva così inavvertito, poichè nessuno aveva
fretta e che fosse trascorsa un'ora o due o tre, il cielo, l'aria, le
piante non avevano mutato; nè scemava la serenità delle due sorelle,
che rientravano nella loro casetta colle mani colme di fiori, coll'orlo
della gonna impregnato dei profumi delle erbe.



PARTE TERZA


Temo che l'insufficienza della mia penna non mi abbia concesso di
esprimere, come io la sento, la dolcezza della vita di provincia,
quando non sia intorbidita dal pettegolezzo o resa manchevole per
speciali aspirazioni dell'intelletto; l'uno e le altre non applicabili
alle mie zie perchè, se la loro condizione apparteneva a quell'aurea
mediocrità lodata dal saggio, non era tal ventura da suscitare
l'invidia, cagione principale di discordia; non era nemmeno il caso
di pettegolezzi galanti. Esse dunque avevano tratto dalla loro vita
ogni possibile bene e potevano legittimamente pensare che avrebbero
continuato fino all'ultimo. Il mio desiderio di far conoscere quanto
fossero libere e felici è per far risaltare in tutta la sua grandezza
il sacrificio d'amor fraterno, da esse compiuto, abbandonando casa,
abitudini, relazioni, indipendenza assoluta, per venire a rinchiudersi
fra i muri di una città ignota, dove non conoscevano nessuno, dove ogni
volto incontrato per via era straniero e solo le cure affannose della
famiglia riempivano i giorni altre volte così lieti del dolce passato.
Il disastro finanziario del nonno di Caravaggio, che aveva inghiottita
la dote di mia madre, contribuì a rendere più difficile il reggimento
domestico gravato di tre figliuoli, per cui le generose donne, che se
ne erano assunto il carico, dovettero sentirne per le prime il disagio
e più cocente il rimpianto della perduta pace.

A consolarle un poco del brusco distacco, mio padre promise loro che
saremmo andati tutti gli anni un paio di mesi a Casalmaggiore. Era
allora un viaggio di non poca importanza. Si partiva alle dieci di
sera colla diligenza Franchetti che stazionava in via Monte Napoleone;
ricordo ancora l'impazienza mia e dei miei fratelli nell'attesa
dell'ultima ora. Seduti tutti intorno alla sala da pranzo, al lume
oscillante di una candela, colle braccia incrociate sul nostro
rispettivo bagaglio, il tempo ci sembrava eterno. Il silenzio era un
abitudine della nostra famiglia, che solo il mio minore fratellino si
permetteva di rompere saltellando intorno alla zia Nina; ma in quella
circostanza speciale arrischiavo anch'io di chiedere di tanto in tanto.
— Sono suonate le nove? — Il gran momento giungeva alfine ed era allora
come un accavallarsi di onde, urtandosi l'un l'altro, a chi faceva più
presto, nel puerile timore di non arrivare in tempo. L'assicurazione di
papà che i posti erano già presi e che la diligenza non sarebbe partita
senza di noi riconduceva la calma. L'illuminazione di Milano non era
mezzo secolo addietro così brillante come oggi e quando si giungeva
dinanzi all'agenzia Franchetti la massa nera della diligenza ferma ad
aspettarci non lasciava scorgere altro. Questa diligenza era composta
qualche volta di due scompartimenti, ma più spesso di tre: il _coupè_ a
due posti, il centro a sei e la rotonda dietro, alla grazia di Dio. Era
tanta la fretta di occupare il nostro posto che non si badava ad altro;
ombre indistinte facevano come noi; entravano, prendevano possesso del
loro cantuccio e scomparivano nelle tenebre; i cavalli scalpitavano,
il mozzo di stalla con una lanterna in mano dava l'ultima occhiata
alle ruote, il postiglione schioccava la frusta e via! Traballando la
grossa mole attraversava la città, ma il bello veniva dopo, in aperta
campagna, quando la diligenza inoltrava per vie maestre completamente
buie colla sola guida dei due fanali, che gettavano fra le ruote un
scialbo raggio giallastro.

Durava ancora il ricordo degli assalti briganteschi alla diligenza
e la zia Margherita, che non conosceva paura, dilungavasi volontieri
a narrare le gesta del celebre Strigelli, intorno al quale aleggiava
una romantica leggenda di amore infelice propria a concigliargli la
benevolenza del sesso gentile; si diceva anche che egli spingesse la
cortesia fino a munirsi nelle sue aggressioni di acqua di Colonia,
per soccorrere le signore che si fossero spaventate. Siccome però non
tutti i briganti somigliavano a Strigelli e fosche storie correvano di
non lontani assalti alla diligenza stessa in cui eravamo, non potevo
impedire alla mia immaginazione di pensarci, e per un gruppo d'alberi,
per un rialzo improvviso di terreno, trasalire quasi vi fosse nascosto
un agguato. E lunga una notte intera trascorsa in un cassone buio
insieme a compagni di viaggio dei quali non si è ancor vista la faccia.
Si tentava di indovinare qualche cosa in un gesto, in una parola;
qualcuno buttato in un angolo come un fagotto non si muoveva durante
tutto il tragitto; qualche altro russava. C'erano invariabilmente delle
donne che soffrivano per dover stare col dorso contro i cavalli: a una
di queste una volta un soldato offerse una presa di tabacco. A tratti
regolari la diligenza si fermava per il cambio; usciva allora da una
osteria un mozzo mezzo assonnato traendosi dietro i cavalli freschi;
due o tre viaggiatori scendevano, gli altri stendevano le gambe con un
largo respiro di sollievo cacciando la testa fuori dello sportello. Si
scambiavano alcune parole: — Dove siamo arrivati? Manca molto? Che ore
sono? — Intanto le bestie staccate dalla diligenza passavano a testa
bassa, col dorso che fumava, avviandosi alla stalla. Il cassone nero
traballando riprendeva la sua corsa nella notte. Quando finalmente
l'alba imbiancava l'orizzonte si sapeva di essere ancora lontani
dalla meta, ma uscendo dalle tenebre ci sembrava di rivivere. Borghi
e paeselli si disegnavano nitidi nel chiarore del sole nascente, si
riconoscevano i luoghi, si salutavano con una tenerezza di vecchi
amici. A mezzogiorno apparivano le torri e le cupole di Casalmaggiore;
battevano i cuori, battevano i piedi impazienti; il postiglione
impettito nella sua divisa a mostre rosse e bottoni dorati schioccava
la frusta ornata di peli di tasso e imboccando la cornetta — _te re
tè, te re tè, teretè_ — con una svolta più sapiente ancora di quella
del vecchio Nicola faceva la sua entrata trionfale nell'albergo della
_Croce Verde_ a due passi da casa nostra.


Uno o due anni, non più, Casalmaggiore fu la nostra villeggiatura; ma
nella prova del tempo gli inconvenienti della lontananza si mostravano
sempre più gravi; spesa di viaggio per sei persone, la casa per una
decina di mesi abbandonata, l'impossibilità di sorvegliare quel po'
di terreno che si aveva, queste e forse altre riflessioni persuasero
mio padre della necessità di vendere e tutto fu venduto; i vigneti
testimoni di tante allegre vendemmie, la casa con tutti i suoi fiori,
coi panciuti cassettoni a riporti di metallo, colle placche civettuole
ancora nei loro platonici amori fra lo specchietto arrugginito e il
candelabro spento. Tutto; anche il susino di S. Anna, anche le belle
incisioni della camera da letto, rappresentanti le scene pietose della
rivoluzione francese e quella povera regina che scontò in un modo così
atroce le leggerezze di una società intera. Il dolore, che deve essere
costato alle mie zie la generosa rinuncia, è segno di una magnanimità
che, vieppiù distanziandosi nel tempo, mi appare in tutta la sua
grandezza. La zia Nina anche in tale eccezionale circostanza non uscì
da quella sua attitudine apparentemente passiva che non la metteva mai
sul primo piano dell'azione, che è in fondo l'istintiva prudenza dei
deboli; anche la zia Margherita, forse per non far pesare su altri il
sacrificio, tentava di mostrarsi rassegnata, ma io la udii nel colmo
della notte la sua voce piena di schianto urlare colla bocca sotto le
coltri: "Non ho più nulla! Non ho più nulla!..." Cara ed eroica donna,
che cosa erano le sue asprezze, le sue collere, i suoi lampi d'ira, se
non l'ombra della gran luce del suo cuore?

Più piccolo cuore, senza dubbio, era al confronto quello della
zia Nina, ma se io, sua vittima appena adolescente, avessi dovuto
giudicarla solo dal male che mi fece mi sarei grossolanamente
ingannata. Io non la giudicai allora, soffersi in stupore e in silenzio
una avversione che non comprendevo. Ora che la scienza della vita mi
ha insegnato a leggere nei cuori, compiango ancora la fanciulla che,
per una fatale deviazione del sentimento, nella persona che doveva
proteggerla ebbe conturbati gli anni primi e sacri della giovinezza,
ma compiango anche colei che il mancato destino aveva trasformata
da creatura d'amore in creatura d'odio. La verità che io imparai è
questa. Ella era nata per l'amore; non l'amore fantastico, nè l'amore
passionale, i quali esigono doti di intelligenza che mancavano a lei,
ma l'amore semplice, l'amore per l'amore. Ho pensato qualche volta
come la sua indole passiva e silenziosa si sarebbe accomodata alle
abitudini della donna orientale, alle lunghe soste su un morbido
divano, seguendo con gli occhi le spire dei profumi accesi nei braceri
d'argento, immobile, senza alcun pensiero tranne quello dell'arrivo del
suo signore. È però quasi certo che la zia Nina non spinse mai la sua
immaginazione così lontano e i suoi sogni d'avvenire non oltrepassarono
il benessere materiale di una comoda casa e di un buon marito. Tale
modesta felicità non le fu concessa; la sognò sempre, la sognò fino
ai limiti della vecchiaia e il sogno aveva un nome. Si era innamorata
di un giovane senza professione e senza beni di fortuna il quale,
lasciandole credere che l'avrebbe sposata quando gli si fosse aperta
una carriera, aveva calcolato bene su quel suo temperamento remissivo,
molle, che non parlava, che non faceva strepito. Ma la vana attesa
di tutta la vita, lavorando inconsapevole dentro di lei, accumulava
acredine, invidia, spasimo di sensi insoddisfatti, di amor proprio
ferito e un sedimento di veleni si era fatto strada nel suo cuore
aspettando una occasione per traboccare. L'occasione sono stata io.

Un semplicismo troppo elementare vorrebbe dividere gli uomini in due
distinte categorie, i buoni e i cattivi; ma non vi è nulla di assoluto
là dove il movimento è continuo e la trasformazione legge di natura.
La zia Nina era buonissima, buona con tutti, pronta sempre a rendere
servizio. Bastava guardarla, quando accarezzava il mio minore fratello
e si scambiavano tra loro a bassa voce paroline e baci, per riconoscere
la donna nel suo istinto primitivo di amante e di madre, l'Eva dal
gesto morbido e consenziente, dal grembo fecondo. Se ella avesse potuto
compiere la sua missione il veleno corruttore non l'avrebbe neppure
intaccata. È con profonda soddisfazione che posso affermare: ella era
buona. Durante gli anni del mio martirio i suoi atti, le sue parole,
i suoi torbidi silenzi cadevano sull'obbiettivo della mia mente non in
modo diverso dei paesaggi che il viaggiatore accumula sugli obbiettivi
della sua kodak ma che sviluppa più tardi. La mia mente, inesperta
allora, accoglieva ciò che solo gli acidi e i reattivi dell'esperienza
mi hanno permesso di classificare secondo il loro valore. Il mio
orecchio udì l'orrenda confessione: — _Non la posso soffrire, la odio_.
— Ma è tutta l'anima mia maturata dal dolore, che mi fa ricordare lo
schianto della sua voce nel pronunciare quelle parole. Era la voce
compressa di una grande sofferenza.

Può a tutta prima non sembrare molto visibile il nesso tra la sua vita
mancata e l'odio per la mia che sorgeva; gli è che questa fanciulla,
sorta improvvisamente al suo fianco, nel momento in cui forse stava
per dimenticare, le rimetteva davanti tutte le sue aspirazioni, i suoi
spasimi, i suoi disinganni. Credendo di odiarmi si ingannava; odiava
confusamente in me la forma derisoria del suo destino, la rivale,
l'usurpatrice giovane, del bene che le era sfuggito. La mia presenza
le sembrava una sfida, la mia supposta felicità un insulto. Se non
poteva più toccare i miei capelli, se non voleva più uscire con me al
suo fianco, era perchè la sua carne martoriata provava al mio contatto
una ripugnanza che doveva farla soffrire nelle sue fibre più profonde.
Povera donna! Vorrei ella sapesse ora, che mai in nessun momento io le
ho voluto male e sono così fiera e sono così felice di aver preso il
suo odio sulle mie braccia portandolo in alto alla luce della verità
che gli ha reso il suo vero nome: dolore.


È in queste lontane impressioni che si deve cercare l'origine delle
molte pagine da me scritte in favore della donna che ha fallita la sua
missione. Certo il caso della mia zia non è dei più comuni, ma come
fondamento della tesi è tipico e il fatto di averlo potuto esaminare
in tutte le sue forme e gradazioni prima, di averlo vagliato poi
attraverso anni ed anni di esperienze, mi dà la piena sicurezza del
mio asserto. Sarebbe giudizio grossolano il credere che dal solo atto
materiale di unirsi ad un uomo dipenda la felicità della donna; essa
dipende da una logica concatenazione di cose, ma è pur vero che il
desiderio del fiore implica la ricerca della semente. Questioni così
delicate vengono purtroppo manomesse da persone superficiali e guaste
di spirito che non sarebbero degne neppure di avvicinarvisi; sono
costoro che gettano una volgare ombra di ridicolo su ciò che avvi in
natura di più santo, di più vicino a Dio. Io dirò ora una cosa che
potrà scandalizzare qualche coscienza austera; prego di rammentare
l'ammonimento di S. Paolo: La lettera uccide e lo spirito vivifica.
Dunque dico che piacere è l'istinto più importante che il fattore
dell'universo ha messo nella donna. Non importa se lungo la corruzione
dei secoli e dei costumi deviò dallo scopo fino a sopprimere lo scopo
stesso; esso è la voce del Creatore che affida con questo mezzo alla
donna l'alto dovere di imporre all'uomo la continuazione della specie,
al quale il suo egoismo lo sottrarrebbe immancabilmente se non vi fosse
l'esca di un diletto. La più frivola delle donne, che si illude di
infiocchettarsi e di civettare per seguire la propria vanità, ubbidisce
senza saperlo a questa legge suprema; ma la donna che sente nobilmente
di sè, che è pronta a tutti i doveri del suo sesso, ne esige pure i
diritti e vuole amare e vuole essere amata, perchè le sue labbra non
devono chiudersi per sempre senza aver conosciuto il bacio dell'uomo,
nè il suo grembo isterilirsi prima di avere comunicato i misteri del
suo essere alle generazioni future. Nessuna vera donna sottoscrive
a questa rinuncia senza soffrire; talvolta la sofferenza è spasimo e
disperazione, tal'altra è profonda mestizia o rassegnazione malinconica
od anche fierezza di silenzio, o vertigine di oblio; ma qualunque sia
il velo pudico che cela la sofferenza, guardatele bene queste vergini
canute e, salvo rare eccezioni, sollevando un lembo di quel velo,
troverete la lagrima, congelata fra ruga e ruga.

Alle eccezioni apparteneva forse la zia Margherita. Temperamento
virile, abbiamo visto con quanta risolutezza si era opposta al
matrimonio con un uomo che pure amava, evidentemente perchè in lei
era scarso l'istinto del sesso e il bisogno sentimentale. Mente agile
ed arguta, procliva alla critica, all'ironia, al sarcasmo (diceva di
leggere volontieri il _Fanfulla_ — il _Fanfulla_ delle prime battaglie
— perchè era sarcastico) tutta scatti e violenza, come avrebbero potuto
trovar posto in lei i divini abbandoni dell'amore? Non riesco nemmeno
a immaginare un tenero bambino sulle braccia della zia Margherita
senza tremare per la sua sicurezza. I fautori estremi del femminismo,
che vorrebbero emancipare la donna dalla casa, dal marito e dai
figli spingendola sulla via delle conquiste maschili col sofistico
pretesto che non tutte possono avere una casa, un marito e dei figli,
dimenticano che la felicità non si trova che nel pieno esercizio delle
proprie attitudini. Le iniezioni di mascolinità, che essi vogliono
fare alla donna, se potranno offrire qualche frutto sporadico alle
poche eccezioni che sono in grado di profittarne, ben maggior danno
recherebbero alla donna e alla società portando il turbamento in
migliaia e milioni di animuccie le quali si persuadono facilmente
di innalzarsi meglio a sgonnellare negli Uffici pubblici, anzichè
raccogliersi vigili e silenziose sopra una culla. Madamigella della
Ramée, nota per diversi racconti pubblicati sotto il pseudonimo di
Ouida, chiese un giorno a un giovinotto, che le si protestava ardente
ammiratore, se la ammirava come scrittrice o come donna. — Oh! come
scrittrice! — disse lui convinto di farle la più gradita delle lodi.
— Quanto avrei preferito — esclamò lei — essere ammirata come donna!
— Sono perfettamente del parere di madamigella della Ramée. E per mio
conto soggiungo che se, nella ipotesi di un rinnovamento di vita, mi
si promettesse la maggior gloria letteraria in cambio dell'amore,
rinuncerei subito, essendo donna, al lauro di Dante, ma non a un
sospiro di Beatrice.

Incominciando a scrivere questi ricordi della mia giovinezza ero
molto preoccupata dalla necessità di dire quanto le mie zie fraterne
l'abbiano resa triste e quanto al confronto dei nonni e delle zie
materne, tutti così buoni con me. Ma accanto a questa necessità di
fatto si ergeva pure dalla mia coscienza il dovere imprescindibile
di difenderle contro i fatti stessi; esempio singolare di una verità
non da tutti riconosciuta, quelle mie zie, che per cuore e per amore
di famiglia non erano inferiori a nessuno, riuscirono a rendermi
infelice perchè, se il male fosse un esclusivo prodotto di coloro che
deliberatamente lo vogliono fare, assai meno ve ne sarebbe al mondo,
ed infinito invece è il male che si fa senza saperlo, senza volerlo.
Se ognuno di noi si esaminasse a fondo troverebbe una quantità di
circostanze che lo indussero a fare questo male involontario, molte
volte credendo di far bene. Nel caso delle mie zie, la poca conoscenza
della vita e la nessuna attitudine educatrice non le rendeva adatte
certamente al difficile impegno che era loro caduto sulle spalle,
quando, già vecchie, avevano da tempo inquadrata la loro esistenza
in forme e modi che non si potevano spezzare impunemente. Lasciate
nella loro casetta, con le loro abitudini, le loro amicizie e la
santa libertà di due esseri che vanno perfettamente d'accordo, nessun
lievito avrebbe fermentato nei cuori che non indietreggiarono davanti
al sacrificio. Le forze non furono pari allo slancio, ma il naufrago,
che è stato salvato dal maggior pericolo, farà colpa al salvatore di
avergli lasciato qualche unghiata sulla pelle?

Io ero una fanciulla un po' diversa dalle altre, bisogna dirlo; diversa
nelle qualità, diversa nei difetti. A parte le ragioni di antipatia che
poteva avere per me la zia Nina, mancavami affatto quella festevole
leggerezza della gioventù che si fa perdonare tutto. Quando penso
che io non ridevo mai, che anche nei divertimenti la serietà non mi
abbandonava; seria e timida e tutta rivolta dentro di me a cercare la
ragione di ogni cosa, devo convenire di essere stata una adolescente,
priva delle seduzioni naturali di quell'età. Non ero nè graziosa, nè
spiritosa, nè amabile; in una parola non _davo_ ciò che normalmente
si poteva pretendere da me. Se la mia estrema sensibilità avesse
avuto pascolo di carezze e di buone parole come hanno quasi tutte le
fanciulle, anche la grande timidezza che mi paralizzava si sarebbe
sciolta; ma tra l'ironia della zia Margherita e l'odio della zia Nina,
senza altri parenti vicini, senza sorelle, senza amiche, conducendo una
vita rinchiusa, in un ambiente contrario a tutte le mie aspirazioni
non ancora sviluppate, ma latenti in tutto il mio essere, che mai
potevo fare se non rinchiudermi in me stessa, asilo sempre pronto ad
accogliermi? Questa mia solitudine spirituale, questa astrazione da
fatti e detti e persone che non mi interessavano venne chiamata a volte
aristocrazia, a volte egoismo. È singolare la deviazione di significato
che queste due parole assumono nelle menti incolte. Io non so perchè si
debba chiamare egoista la persona che vive delle proprie risorse e non
quella che povera d'animo e di intelletto va mendicando con graziette
e sorrisi l'alimento che non trova in sè. Questo santo, sacro, divino
egoismo è l'economia di forze che il poeta, il pensatore, il veggente
tengono in serbo per l'opera loro, ben più proficua agli uomini che non
la vana dispersione di sorrisi e di grazie fatta da coloro che hanno
la testa vuota e il cuore freddo. Non discuto qui dell'ingegno; molti
sono i chiamati che non potranno sedere fra gli eletti; ma è certo che
quando una vocazione si presenta imperiosa allo spirito, il dovere è
di staccarsi dalla strada maestra nella quale si cammina in drappelli,
per inoltrare, sia pure povero e nudo e solo, sul sentiero dove la
voce misteriosa chiama. Io non sapevo ancora che cosa avrei fatto e
dove volevo andare, ma un contrasto inesplicabile fra me e gli altri
si accentuava ogni giorno più profondo; mi sentivo isolata, separata,
con una sensazione di imbarazzo e di fuori posto che doveva rendermi
abbastanza goffa. Era questo che chiamavano la mia aristocrazia?

Un rettangolo di carta lungo sette centimetri che bacio e ribacio
con accorata tenerezza è il biglietto da visita di mio padre: _Arch.
Fermo Zuccari_. Egli era anche consigliere e assessore comunale e
socio onorario della Accademia di Brera. Nella semplicità di questo
biglietto, in cui nemmeno la sua professione era scritta per intero,
ritrovo tutta la sua semplice e modesta vita; eppure è con un
sentimento di ammirazione che mi fa tremare la mano che mi accingo a
parlare di lui, a condurre la sua nobile personalità sulla scena di
piccoli avvenimenti e di piccole persone fra le quali sono cresciuta.
Nell'articolo di quella mia amica trentina che io venni a conoscere
qualche anno dopo che fu stampato, ritrovo con gioia le parole che a
proposito di mio padre scrivevo in una lettera privata; esse sono là a
testimoniare della sincerità della mia ammirazione. Tuttavia in quegli
anni di nebbia per il mio intelletto e di sovrumana tristezza, ricevevo
di lui, come ricevevo dalle mie zie, il solo obbiettivo fotografico.
Esse mi facevano soffrire, lui no. Dolce, malinconico, distinto in ogni
suo gesto, sobrio di parole, io lo veneravo, ma lo sentivo lontano.
Sulla mia timidezza agiva anche la sua superiorità. Ne avevo un grande
rispetto, alimentato dall'opinione e dal rispetto che ne avevano
tutti quelli che lo avvicinavano; ma l'ottuso bacherozzolo, che io ero
sempre, non lo conosceva ancora. Furono tutti gli uomini incontrati
lungo i sentieri della vita che mi rivelarono veramente chi fosse mio
padre, il suo valore morale, la purezza de' suoi sentimenti, la tempra
adamantina della sua coscienza. Non è che manchino uomini di incorrotta
moralità, sentimenti puri e coscienze oneste; quello che non ho trovato
più dopo mio padre (o in numero di sola eccezione) è l'uomo intero,
l'armonia assoluta fra ingegno e costumi, in una parola l'_esemplare_.
Io vidi, e ancora il cuore ne soffre, talenti insigni guasti dalla
vanità, dall'invidia o dalla sete dell'oro o dalla tabe del vizio; vidi
in anime gentili incredibili leggerezze; in promettenti intelligenze
assenza di ideali; e sempre e dovunque nei curatori delle vergini anime
infantili, padri e maestri, l'insufficenza di ogni criterio educativo
soffocato nella volgarità, nel materialismo, nel non saper dominare le
proprie passioni.

Mio padre era un silenzioso, ma nelle poche parole che profferiva
non perdeva mai di vista i figliuoli che udivano, per cui posso dire
che la nostra educazione morale, mia e dei miei fratelli, venne fatta
non a mezzo di prediche, ma con pochi assiomi saldamente imperniati
sull'esempio. È appunto questo esempio, non mai in difetto, che lo
solleva al di sopra della folla e tanto alto nel mio cuore. Le vere
qualità di un uomo meglio che in pubblico si giudicano fra le pareti
domestiche. Quanti appaiono educati in società che in famiglia si
abbandonano ai loro istinti volgari! Le conosciamo tutti, io credo,
le famiglie danarose che, fra le eleganti suppellettili dei loro
appartamenti, si abbandonano a discorsi da trivio e dinanzi ai
figliuoli, che hanno già la loro fortuna assicurata, non sanno parlar
d'altro che del modo di accumulare ricchezze e tengono in gran conto
A. perchè ha molti soldi e disprezzano B. che è povero. Ah! vivaddio,
noi non eravamo ricchi, ma di denari non si parlava mai e quelle celie
di cattivo gusto e quei bassi intercalari di gente che porta addosso
un patrimonio in brillanti non varcarono mai la soglia di casa nostra.
E questo non solo per la innata signorilità di mio padre; anche le sue
sorelle erano provinciali, erano ignoranti, ma volgari no; neppure
la zia Margherita nei suoi impeti di collera; e non lo erano i miei
fratelli, eredi delle migliori qualità del nostro genitore.

Potrebbe per avventura chiedere qualcuno de' miei lettori come mai un
uomo simile non avesse influito meglio sulla felicità dei miei giovani
anni. Qui si dimostra l'alta missione della donna in famiglia, che
solo i miopi di intelletto credono esaurita nello sferruzzare calze
e quindi inutile agli evoluti tempi moderni, mentre essa è di tale
ed elevata importanza che il migliore degli uomini, ove ella fosse da
meno al compito, non potrebbe surrogarla. Ne fanno fede nella cronaca
giudiziaria di tutti i giorni il fatto delle matrigne che seviziano i
figliastri senza che il padre se ne accorga o sia in grado di porvi
rimedio, mentre assai raramente o quasi mai ciò avviene per colpa
dei patrigni. Egli è che i figliuoli e specialmente le ragazze stanno
colla madre, non col padre; nella casa la vera padrona è la donna. La
donna saggia — dice la Bibbia — edifica la propria casa, la stolta la
distrugge. E dell'uomo non si parla. Solo il matrimonio ideale, che
fonde due anime in una, può dare il risultato di una volontà unica.
Chi può dire che cosa sarebbe stato di me se mia madre non fosse
morta? Nella condizione dolorosa in cui tutti noi fummo posti per
tale perdita, mancava l'elemento primo della felicità, che è l'intesa
perfetta. Ognuno di noi faceva soffrire gli altri senza volerlo, ed a
sua volta soffriva, ma le zie erano due, i miei fratelli due; mio padre
ed io soli alle due estremità della vita.

Non mi sarei accinta a questo esame retrospettivo delle cause che, più
o meno, influirono sullo sviluppo della mia mentalità, se non vi avessi
scorto una situazione psicologica meritevole di studio, non per quanto
riflette la mia piccola persona, ma per gli anelli che la congiungono a
problemi di generale interesse. È questa anche una delle ragioni che mi
distolsero dal farne soggetto di un romanzo a fine di non alterarne la
rigorosa verità. L'intima unione di marito e moglie non poteva esistere
fra mio padre e le sue sorelle, è evidente. Egli rimaneva durante il
giorno nel suo studio, abbastanza lontano dalle altre stanze, per non
sapere nulla di quanto vi accadeva. Se veniva tratto tratto a farci
una visitina, ci trovava intente alle nostre occupazioni; se anche
un momento prima vi fosse stato un diverbio, al suo apparire tutti
tacevano. Per parte mia non so che cosa avrei sofferto piuttosto
che portare a lui le mie recriminazioni; e questo, non solo per la
soggezione che ne avevo, ma anche e più per un sentimento di dignità
superiore ai miei anni e per quell'istintivo abborrimento delle azioni
volgari che mi valse tante accuse di aristocrazia. Sotto questo aspetto
anche mio padre era aristocratico e lo attestano i suoi modi educativi.
Avendo io una volta negato, era la verità, di avere commesso non so
più che fallo, stavo per dargliene la prova quando egli mi arrestò di
botto dicendomi: "La tua parola mi basta, non aggiungere altro". Ah!
che largo respiro! Perchè non ho avuto allora il coraggio di gettargli
le braccia al collo? Che delicatezza di tocco! Quale profondo intuito
delle anime!


Un ritratto a olio di mio padre, che nel nostro salotto faceva di
riscontro a quello della mamma dipinto da Moriggia, lo rappresenta
nel costume da _atelier_ dei giovani allievi delle scuole artistiche
romane: blusa sciolta, largo risvolto della camicia, berretto di
velluto nero detto alla Raffaella. Sotto l'ombra che tale berretto
getta sulla fronte, gli occhi di mio padre appaiono bellissimi, pieni
di fuoco e di pensiero e bello il volto improntato a grande nobiltà.
Gli ultimi dolori della sua vita però avevano spento il fuoco delle
pupille; egli è rimasto nella mia memoria come il superstite di se
stesso, malinconico, abbattuto, vinto. Il silenzio, velo pudico della
sua tristezza, doveva certo popolarsi per lui delle tante immagini del
passato. Quando veniva ad appoggiare la persona stanca sul divanuccio
della nostra sala da pranzo, sembrava che una nuvola lo sottraesse
alla indiscrezione degli altrui sguardi. Che cosa pensava allora? Che
cosa vedeva nella folla dei ricordi? È abitudine dei giovani il non
occuparsi della gioventù dei propri genitori; così come li vediamo
ci pare che siano sempre stati. Brevi frasi, vaghe allusioni, mi
guidarono più tardi a comprendere quanto deve essere stata interessante
la gioventù di mio padre. Egli non ne fece mai il minimo accenno,
non parlava mai di sè; ma là, su quel piccolo divano, nella penombra
della stanza poco illuminata, somigliava alla statua del dolore china
sull'urna delle illusioni perdute. Troppo tardi io andai cercando
nella vecchia Roma le traccie del giovane studente, soffermandomi con
intensa commozione nei luoghi dove immaginavo egli avesse maggiormente
fermato l'attimo fuggitivo della felicità. E una volta, prima che si
vendesse la casa di Casalmaggiore, da certe vecchie carte discese
dal solaio dove regnava la signora Tintimillia, sfuggì un piccolo
brano sul quale riconobbi subito la calligrafia minuta e regolare
di mio padre; era evidentemente l'ultimo foglio rimasto di un diario
che egli teneva quando studiava disegno a Roma e vi lessi: "_L'oste
vedendo i neri nostri barbigi e i nostri cappellacci ci prese per
briganti_". Sul foglietto la frase spezzata non aveva seguito e invano
lo cercai altrove. La perdita di quel diario, scritto da lui nella
antica Roma papale, la narrazione di quella gita fatta coi compagni
nella vasta e maestosa campagna del Lazio dove era ancora possibile
incontrare dei briganti, forse la relazione di un idillio in alte
sfere, romanticamente troncato dal potere di un cardinale zio, (che
questo ci fosse stato sapevo dalla solita archivista della famiglia)
furono in tutti questi anni ed oggi più che mai oggetto per me di
grande rammarico. È così dolce ritessere su documenti autentici la vita
di coloro che abbiamo amato! Non è quasi un vivere ancora insieme? E
vivrei colla mia anima d'oggi tanto vicino alla sua che non lo fosse
nei giorni della ignara giovinezza.

   [Illustrazione: 1913]

Eravamo due tristezze vicine, ma egli era la tristezza del tramonto, io
quella dell'alba e tuttochè vicini i nostri dolori ci dividevano. Ho
pensato tante volte, quando mi guardava in silenzio, ed alla mestizia
della sua pupilla saliva un'ansia inquieta, che egli pure sentisse
vagamente il malessere della mia posizione di fronte alle zie; ma
poichè nessun fatto positivo lo confermava ed egli aveva ben a ragione
piena fiducia nelle sue sorelle, la mestizia rimaneva fluttuante nel
cerchio grigio della fatalità che era piombata su tutti noi colla morte
della mamma. Una sera eravamo rimasti soli nel tinello ed era quell'ora
della mezza stagione in cui il giorno muore e non è ancor scesa la
notte. Mi trovavo seduta, non so come, in un angolo del piccolo divano;
papà venne a sedermi vicino ed a me, che nel turbamento di aver preso
il suo posto stavo per alzarmi, appoggiò dolcemente la fronte sulla
spalla. Io non so che cosa avvenne nel mio cuore rinchiuso e dolorante
cinto da una corazza di spine. Trasalii smarrita nella mia nullità.
Erano così straordinari quel gesto e quelle parole che tremai tutta,
presa da umiliazione per la mia spalla tanto magra, con la paura e la
vergogna di pungerlo, di fargli male, si che mi ritrassi lentamente
nell'angolo del divano, rattenendo il fiato. Egli allora disse: —
Non ami il tuo papà? — Oh! — feci — e non mi fu possibile aggiungere
altro, e non compresi che anch'egli, povero d'amore come me, era venuto
al buio a cercare la mia carezza!... Vi è cosa più triste dì questo
dramma di due anime? Sorvegliata, spiata, oggetto continuo di un mal
volere che svisava ogni mio atto e incapace di reazione, le qualità
di slancio e di ardore, che erano in me, giacevano soffocate al punto
di non sapere io stessa decretarmi qual fosse il mio valore. Andavo
avanti ad occhi chiusi, barcollante, impacciata, timorosa sempre
dell'ironia che mi feriva con veri colpi di pugnale e in tale contrasto
l'affetto per mio padre si rattrappiva in una forma di tenerezza che
portava l'abito del mio dolore. Povero vecchio, lo vedevo aggirarsi
con passo di fantasma in quelle stanze dove era solo, accanto a me,
sola. E me ne veniva uno struggimento, una malinconia piena di rimorsi
impotenti. Come il riso era straniero alle mie labbra, anche il pianto
non era facile in me. Pure una volta che avevo il cuore gonfio di
tutti questi sentimenti in lotta, fermando lo sguardo su di lui che più
accasciato del solito giaceva sul divano, rigido e pallidissimo, fui
presa da tanto affanno che fuggii in camera, dove la zia Margherita,
venuta a raggiungermi, mi trovò immersa in una crisi di lagrime. Alle
sue domande risposi schiettamente che piangevo pensando al giorno in
cui papà sarebbe morto. Uno scricchiolio di mobili mossi nel salotto
attiguo e l'ombra di papà fra uscio e uscio mi fecero capire che
anch'egli mi aveva seguita.

Lagrime invece di baci?... Ahimè! se scrivessi il mio panegirico dovrei
mostrare la fanciulla intelligente e amorosa, la forte Antigone che
sorregge il padre cadente, ma scrivo pagine di assoluta sincerità
e per disgrazia non ero nulla di tutto ciò, allora. Poche persone
rimasero lungamente acerbe quanto me. Avrei l'aria di mancare a questa
dichiarazione di sincerità, se volessi sottrarmi al merito di una certa
intelligenza e di una forza nelle battaglie posteriori della mia vita;
ma allora, ripeto, ero una povera creatura embrionale. Le sciocchezze,
che feci e che dissi nel lunghissimo tempo della mia formazione, sono
incredibili. Quel po' di strada, che mi sono fatta nel mondo, me la
sono scavata da me graffiandomi ai rovi e lacerandomi ai sassi. Tutte
le mie facoltà, anche quello del sentimento, si temprarono nel dolore.
È solo dolorando che ho potuto amare mio padre quando era con me; è
ancora con un doloroso rimpianto che penso a lui, che vi ho sempre
pensato dal dì che lo perdetti. Una o due volte all'anno andavamo
insieme a far visita a qualche signora che era stata amica della mamma.
Erano brevi oasi di piacere, anche dalle quali non sapevo trarre tutti
i vantaggi che avrei potuto nel libero abbandono di me stessa, poichè
il mio spirito non era mai libero dalla ossessione delle zie. Un po'
di colpa era mia? Me lo domando almeno. Perchè non ho saputo uscire
dalle strettoie nelle quali avevano inceppato ogni mio movimento
paralizzandomi al punto che non osavo abbracciare mio padre? Perchè non
sono stata superiore agli avvenimenti? Mi sa male credere che tutto il
male mi sia venuto dagli altri. Conosco una quantità di fanciulle che
poste nel mio caso ne sarebbero uscite con una risata. Io invece non
avevo nessuna delle grazie dell'età; mancavo anche di quella elasticità
di spirito che sa capovolgere una situazione. Ero tutta di un pezzo.
Troppo seria, prendevo tutto sul serio. Anche in età inoltrata, anche
adesso, il primo che capita può farmi credere qualunque cosa. Una di
quelle amiche di mia madre che vedevo a rari intervalli, mi trattenne
un giorno a pranzo. Abitava nella casa di Luciano Manara in via S.
Andrea e dopo pranzo un fratello di Luciano, Achille Manara, venne a
far visita alla signora. Io stavo a un tavolino appartato sfogliando un
libro quando udii la signora che parlava di me accennando alla morte
prematura della mia mamma. Manara mi guardò un momento e abbassando
la voce disse: "_Elle a les yeux assassins_". Evidentemente la sua
intenzione era di non farsi intendere da me, ma io che non ero sorda e
che sapevo il mio francese rimasi grandemente conturbata. Rammentando
che alcuni anni prima uno zio mi aveva detto che i miei occhi erano
tinti di carbone, non dubitai più di essere una creatura assai
disgraziata. Ad onta di questo stato di mortificazione perpetua non
posso dire che mi sentissi infelice; di che natura fosse la forza che
mi sosteneva lo ignoravo affatto, ma è certo che non conobbi mai quegli
accasciamenti, sotto i quali confessano di essersi abbattuti tanti
uomini di ingegno e uomini di cuore.

Giovanni Segantini, che ebbe una infanzia tristissima, mi diceva di
avere provato questa stessa sensazione. Io non conoscevo il poema di
Dante, che nessun professore non mi ha mai spiegato e che ero troppo
ignorante per comprendere da me, ma essendomi venuti sott'occhio due
versi mi piacquero tanto che li scrissi sopra un mio quaderno e sempre
rileggendoli poi mi sentivo invasa da una gran forza e da una sicurezza
come se qualcuno mi portasse. I versi sono questi:

    «Sta come torre fermo che non crolla
    giammai la cima per soffiar di venti».

E mi compiacevo tutta a notare che Fermo era il nome di mio padre.

Non parmi esagerata l'applicazione a mio padre dei versi danteschi.
Egli era veramente la torre incrollabile, la torre d'avorio
significazione di ogni altezza. Tutti i parenti lo riconoscevano;
alla sua morte si disse che anche gli avversari rendevano giustizia
alla nobiltà della sua vita, alla saldezza de' suoi principi. Tale
saldezza appunto lo rendeva intransigente, poco atto a seguire le vie
comuni che conducono alla fortuna. Gli ultimi anni gli furono forse
amareggiati anche dalla ingiustizia della sorte la quale preferisce
gli intriganti ossequiosi e pieghevoli, all'uomo onesto che non
discende a patti servili. Il maggior lavoro di mio padre fu il disegno,
scelto fra molti concorrenti, e la messa in opera della grande chiesa
abaziale di Casalmaggiore dedicata a S. Stefano titolare della città.
Eretto sull'area di una antichissima chiesa distrutta, ampliato per la
generosa cessione di località limitrofe, il nuovo tempio si presenta
isolato e imponente su tredici gradini di elevazione; un pronao ad
archi introduce all'interno che ha forma di croce greca, decorato per
ogni lato da un ordine di colonne corinzie. Somiglia un poco, fatte le
debite proporzioni, alla chiesa di S. Alessandro in Milano; non ha,
per esempio, di questa i numerosi e ricchi affreschi, quantunque ne
fosse fatto invito ai giovani pittori concittadini allievi del Diotti.
In complesso manca a questo tempio troppo giovane la suggestione delle
preghiere salite per anni e per secoli al trono di Dio insieme agli
aromi dell'incenso ed ai singhiozzi ed alle lagrime sparse ai piedi
dell'altare, o soffocate nell'ombra dei confessionali, che tanto
fascino di mistero dànno a certe vecchie chiese. Ma invecchieranno
le pietre, i marmi, gli argenti; il tempo stenderà il suo mantello
bruno sulla rosea nudità delle pareti; nuovi peccati e nuove lagrime
deporrà l'uomo bisognoso di fede e altre generazioni cogli stessi
amori, cogli stessi dolori, verranno qui a cercare il fascino del
mistero. Un curioso episodio sconosciuto e che mi piace di conservare
a giustificazione del coro e dell'abside giudicati da qualcuno troppo
ristretti in confronto alla mole del tempio, è che sul disegno di mio
padre le proporzioni erano più ampie, appunto per conservare l'armonia
dell'insieme, e che dovette cedere con grande malavoglia alle pretese
di Monsignore Abate, al quale faceva comodo lo spazio per transitare i
carri che al tempo della vendemmia portavano le tinozze cariche d'uva
nelle sue cantine. Per tal modo la ragione superiore del tempio la
vinse sulla ragione meschina dell'uva di Monsignore ed i cittadini,
che avevano ceduto con slancio i propri stabili pur che il monumento
religioso usufruisse della maggiore ampiezza, dovettero accontentarsi
di sapere che le vendemmie prelatizie non sarebbero disturbate.

In Milano, oltre a lavori secondari per diverse case, mio padre eresse
il teatro Fossati, ben diverso però dall'attuale che venne ampliato
e modificato in seguito. Era un teatrino popolare, senza pretese
architettoniche, con una vivace decorazione floreale ricorrente lungo
i palchi e una abbondanza di tappi di gazose che andavano alle stelle.
Fu inaugurato, mi pare, dalla compagnia Moro-Lin con _Angelo, tiranno
di Padova_. Il teatro era gremito fino al soffitto. Grandi piene
vi fece anche il Preda, l'ultimo dei Meneghini, e vi recitarono il
Bellotti Bon, la Marini, la Celestina Paladini esordiente nelle parti
di ingenua. Anche Tommaso Salvini fece una comparsa nei _Masnadieri_.
Quella sera noi eravamo in un palco di proscenio e proprio lì venne
a fermarsi il Salvini con una faccia truce e minacciosa. Come non
bastasse, gli viene in mente di chiedermi a un palmo di distanza: "Ha
paura lei di un colpo di pistola?" Mi affrettai ad accennare di no col
capo, perchè di voce non ne avevo neppure un filo; ma che grossa bugia
avevo detta! Le fortunate vicende del cinquantanove, che liberarono
Milano dalla dominazione austriaca, portarono sul palcoscenico
del Fossati le rappresentazioni patriottiche e il direttore
dell'orchestrina, un tipico vecchietto, che tra un atto e l'altro
teneva a bada il pubblico coll'inno di Garibaldi era ben preparato
a sentirselo chiedere tre, quattro, cinque volte. Appena taceva,
dalla platea e dalle gallerie era un grido solo: L'Innoo! L'Innooo!
Pareva il finimondo. Il vecchietto sorrideva e, dimenando il capo
da destra a sinistra con un'aria di contentezza come se gli applausi
fossero per lui, alzava la bacchetta del comando. Avendo narrato più
su l'episodio di Monsignore a proposito della chiesa di S. Stefano
non voglio tacere quest'altro relativo al teatro Fossati. Chiunque
passa da corso Garibaldi può osservare sul portone del suddetto teatro
una statua rappresentante l'eroe di Caprera sul punto di sfoderare
una scimitarra sollevata in alto con gesto bellicoso; orbene, quel
Garibaldi, comperato a prezzo d'occasione, teneva originariamente una
spada; ma al momento di metterlo in opera i proprietari si accorsero
che la spada non entrava nella nicchia del frontone. Che fare? Non era
possibile privare un soldato della spada lasciandolo colla mano vuota
ad acchiappare mosche nell'aria. Si tenne consiglio di famiglia e il
più furbo propose di cambiare l'arma a lama diritta colla scimitarra,
la cui lama curva segue a puntino la cornice della nicchia. Ed ecco in
qual modo Garibaldi divenne turco.

Pochi de' miei lettori ricorderanno il Circo Ciniselli eretto al posto
dove ora vediamo il teatro dal Verme; esso ebbe un'esistenza breve
ma brillantissima. Destinato ad un uso di pochi anni, perchè l'area
era già accaparrata dal teatro attuale, il Circo Ciniselli presentava
nel suo genere una semplicità elegante che piacque subito; tutto in
legno, fresco, leggero, coi palchi scoperti che pieni di belle signore
somigliavano a canestri di fiori, fiancheggiati da un corridoio che
permetteva agli eleganti di vedere e di essere veduti, fu trovato
nuovo, geniale. Gli spettacoli equestri erano allora in gran voga;
i signori dell'aristocrazia vi andavano ad esaminare da vicino il
cavallo regalato dal Re, e un poco, io penso, la figlia e la nuora di
Ciniselli, bellissime entrambe — la figlia, amazzone impeccabile di
puro stile inglese; la nuora, audace volteggiatrice sul destriero in
corsa. Eseguìvano poi col concorso di tutta la compagnia quadriglie
e caccie presentate con molto lusso di vestiari. Il gusto per questi
spettacoli mi sembra assolutamente tramontato, nè io me ne dolgo certo,
chè non sono mai riuscita a farmeli piacere, specie quando veniva il
turno dei pagliacci e, peggio ancora, quello dei ginnasti che sopra
una corda tesa o sopra un trapezio arrischiavano ogni sera la vita.
C'era un'altra compagnia rivale di questa, la Guillaume, che ebbe due
celebrità: il moro _Muller_, il quale cavalcava a bisdosso senza sella
e senza redini, sicuro come se fosse nella più comoda delle poltrone
e miss Ella, da molti supposta un uomo per la forza straordinaria de'
suoi garretti; saltava senza interruzione trecento cerchi sfondandone
la carta a corsa del cavallo e poi dal medesimo cavallo balzava sovra
un palco eretto all'altezza della prima loggia. Una specialità di _miss
Ella_ era il breve abito di velo semplicissimo invariabilmente bianco
e la sorella, che non la lasciava mai standosene in mezzo al circo con
una lunga frusta in mano a dirigere il passo del corridore, ufficio
riservato abitualmente agli uomini. In complesso la compagnia Ciniselli
era più elegante e giustificava le preferenze dell'alta società. Negli
ultimi anni cambiarono gli spettacoli e il piccolo teatro decadde,
ma a' suoi tempi buoni fu durante l'estate un ritrovo scelto. Opera
anche questo di mio padre, vi si andava qualche volta ed era per me
come uno spiraglio aperto sul mondo. Le signore dell'aristocrazia, gli
uomini politici, i giornalisti, vi si davano convegno. Naturalmente non
conoscevo nessuno, ma una volta che mio padre mi mostrò Leone Fortis
in colloquio con Paolo Ferrari apersi tanto d'occhi a rimirarli. Due
scrittori?! Nemmeno il Re mi avrebbe fatto battere il cuore a quel
modo.


L'idea di pubblicare non mi era venuta ancora, non pensavo affatto a
divenire scrittrice, ma i libri e coloro che li scrivevano esercitavano
sulla mia mente un fascino singolare. Un opuscolo che trovai nella
libreria di mio padre con questa dedica: _Al carissimo amico Fermo
Zuccari, Tullio Dandolo_, mi sorprese come se avessi scoperto un
titolo di nobiltà nella mia famiglia; e in casa della signora Cirilla
Cambiasi, una delle superstiti amiche della mamma, mi accadde di vedere
il manoscritto di una poesia che Giovanni Prati aveva scritta per
lei; ricordo i due primi versi: "_Dal molle serto delle tue chiome —
Sull'arpa, o bella, gettami un fior_" e me ne venne tanta esaltazione
per cui quella signora mi pareva un essere straordinario. Ispiratrice
di un poeta! Vi poteva essere fortuna maggiore? Noto anche una sera in
cui mi avvenne di parlare con un vecchio avvocato e la conversazione,
innalzandosi dal campo ristretto dei fatti quotidiani al volo delle
idee, mi lasciò in un tale stato di orgasmo che per molte ore non
potei prender sonno. Conobbi più tardi altre estasi, ma posso dire
che la commossa impressione di quella sera non ne rimase offuscata;
prima ancora che all'amore il mio cuore si aperse a questo bisogno di
intellettualità, che contribuì per molta parte all'isolamento in cui
dovevo trovarmi per tutta la vita. Nella modestia delle aspirazioni che
già parte della mia naturale timidezza si faceva sempre più ritrosa
per la mancanza di incoraggiamenti e dalla ironia e dallo scherno
spesso, nei migliori dei casi da un silenzio indifferente, non mi
sono mai creduta un solo istante superiore agli altri; ma che fossi
diversa tutto me lo diceva, ad ogni passo, ad ogni parola. E perchè
ero diversa mi trovavo sola. E perchè essendo sola mi nutrivo di me
stessa, non cadevo nel languore che a taluni fa ricercare evidentemente
un sostegno nella compagnia altrui. Questo fatto di bastare a me
stessa era la forza che mi impediva di essere infelice fino in fondo.
In fondo del mio pensiero, in fondo della mia coscienza, una flora
misteriosa ed occulta, come quella che si forma negli abissi del mare,
dava fosforescenze di luce e incanti di forme all'anima rinchiusa. Non
odiavo, non mi vendicavo, non facevo nè volevo male ad alcuno; mancando
intorno a me l'ossigeno di vita vivevo altrove, nell'ideale, nel sogno
che erano per me la sola verità, la sola felicità, qualche cosa di
indivisibile dalla mia carne e dal mio sangue.

Il nostro appartamento era ampio e per buona metà aperto sulla vista di
tre o quattro giardini soleggiati; lo studio di mio padre si trovava da
questa parte e la camera da letto anche; ma la mia giornata si svolgeva
tutta intera nella sala da pranzo che era la più brutta, angusta, con
una sola finestra a tramontana, col parato dei muri di un colore fosco
che aiutava a renderla tetra e malinconica: essa fu per me il carcere
di quelli che chiamano i più begli anni della vita. Seduta fin dal
mattino, agucchiavo senza posa, tenendo qualche volta un libro sui
ginocchi, nascosto dietro il cuscinetto che, a quei tempi ignoti alla
macchina da cucire, serviva per appuntare orli e sopragitti. Oh! le
giornate d'inverno trascorse in quel salottino dalla tappezzeria cupa,
davanti al tavolinetto dove ammucchiavo i miei cuciti, i rammendi che
non finivano mai.... Quanta neve ho visto cadere, un'ora, due ore,
tante ore di seguito, da quella sedia dove avevo sempre freddo. La
stufa era accesa, portavo due paia di guanti, i piedi ravvolti in una
sciarpa di lana, ma avevo freddo, sempre freddo, incommensurabilmente
freddo. E l'anima ardente volava!... Aveva ragione la zia Margherita.

Quando qualcuno vuol sapere gli studi preparatori che feci per scrivere
la trentina di volumi da me pubblicati, rispondo: calze e camicie,
camicie e calze. Questa vita sedentaria e rinchiusa non favoriva certo
il mio sviluppo fisico; lo peggiorava la mia repulsione per qualsiasi
esercizio dei muscoli, fosse pure scopare una stanza o saltare una
sbarra; anche la passeggiata domenicale, la sola in tutta la settimana,
mi riusciva di peso; se si aggiunge che parlavo pochissimo, è presto
concluso che la mia esistenza si riassumeva nel pensiero e nessun
igienista ha mai detto che sia questo la cura di una fanciulla sul
crescere. Certe ore del giorno e dell'anno le ricordo anche oggi con un
brivido. In febbraio, passato S. Antonio, nel qual tempo al dire delle
mie zie, il giorno si allunga di un'ora, non si accendeva la lucerna
a pranzo e dopo pranzo non la si accendeva ancora perchè, dicevano le
zie, non era necessario vederci.

Era l'ora in cui mio padre stava più a lungo sul divano, immerso in
quel suo riposo melanconico che nessuno di noi osava disturbare. Pareva
che dormisse; e non dormiva, perchè tra il chiaro e lo scuro i suoi
sguardi cadevano su di me; io li vedevo bene ed erano sguardi inquieti
e soavi dove la tenerezza si mesceva a qualche cosa di accorato, come
un dubbio. Le zie, sedute l'una di fianco all'altra, ritte contro il
muro a guisa di due marmoree cariatidi, recitavano mentalmente le loro
orazioni. La luce moriva a poco a poco, fuggendo prima dagli angoli,
lambendo gli ottoni della stufa, le cornici dei quadri, le bullette del
divano, fermandosi un istante tra le pieghe bianche delle tendine, alle
quali dava una flessuosità vaga di fantasmi, finchè le tenebre cadevano
improvvisamente sul nostro silenzio. Non si scorgeva più nulla, nè
mobili, nè persone, ma al posto delle zie si accendeva un piccolo punto
luminoso, come un occhio di fuoco. Era il sigaro della zia Nina che
passava poi alla zia Margherita. Ora la brutta moda delle donne che
fumano è purtroppo entrata nei nostri costumi; non così allora, si che
questa abitudine delle mie zie, faceva parte della loro originalità, ed
era esente da qualsiasi civetteria, molto più che non si trattava di
eleganti sigarette, ma di veri virginia, aspri e forti. Esse però non
fumavano in pubblico; è una attenuante.

Dolce è il crepuscolo della sera ai vaneggiamenti delle anime felici;
ma io, nonchè felice, non ero nemmeno libera. Per la soggezione che
mi dominava sempre non avrei ardito di accendere un lume e rimanevo
così, àpata, nella tristezza snervante delle tenebre, immobile anch'io
e silenziosa. S'avrebbero potuto udire i nostri quattro respiri. Mi
domando ora che cosa sarebbe avvenuto, se non fossi stata supinamente
ligia a quella specie di regola conventuale che strozzava in germe
ogni mia volontà e sono convinta che non sarebbe avvenuto nulla, come
non avvenne nulla ai miei fratelli che, più o meno, facevano quello
che volevano. Ma io avevo già preso l'abitudine di ripiegarmi su me
stessa, avversa per istinto alla lotta, che mi avrebbe sottratto tempo
ed energia. Da quando abitai la mia anima come si abita una fortezza, e
ciò avvenne prestissimo, il piano della mia resistenza si tracciava da
sè e non mi accorgevo che uscendo da una prigione entravo in un'altra,
tagliando i ponti che dovevano congiungermi alla vita.

Altre ore ricordo. D'estate, nei tramonti afosi di luglio e di agosto,
spalancavo le finestre verso i giardini e là, accoccolata accanto ai
ferri del balconcino, lasciavo errare lo sguardo sulle sale aperte
di un appartamento signorile, dove uno sciame di fanciulle ridenti
scherzavano con alcuni giovani amici sotto gli occhi carezzevoli delle
madri, con quella sicurezza di gesti e di parole, colla libertà di
movimenti e la fede in sè e la gioia di vivere, quale hanno solamente
le fanciulle che si sentono amate. In altre stanze vedevo persone che
si adornavano per il passeggio, donne davanti allo specchio, uomini
che leggevano il giornale sdraiati nelle poltroncine, fumando. Poco
a poco le abitazioni si facevano deserte, la frescura della sera
attirava fuori, al largo, ai concerti delle piazze; la vita notturna
si sovrapponeva alla vita giornaliera. Alle finestre apparivano e
sparivano lumi, vagolavano ombre incerte, ondeggiavano ventagli,
fluttuavano gonne. La brezza faceva dondolare nappe di coltroncini,
veli di culla e nella penombra luccicava la sponda nitida di un letto,
la maiolica fiorata di un lavabo; dolci intimità di alcova che si
abbandonavano alle tenebre nascenti diffondendo nell'aria un profumo
sottile di voluttà. Oltre i tetti, tra le sagome dei fumaioli, altri
bagliori di lucerne invisibili, note di cembalo, trilli di canzoni,
un nome, un grido, allargavano la cerchia del brulichio umano, tutto
quel mondo di passioni che si agitava intorno a me, così vicino, così
lontano!...


Tra me e i miei fratelli non vi fu mai il menomo screzio. Ma essi
vivevano la loro libera esistenza di maschi; non erano obbligati
come me a stare giorno e notte sotto la sorveglianza delle zie.
Avevano in comune gli studi, i giuochi, le tendenze. Appena usciti
dall'adolescenza si trasferivano all'università; quando venivano a
casa erano accolti in festa. Nostro padre si occupava di loro con
grandissima cura e sempre con quel suo sistema di pedagogia elevata,
che mirava a sviluppare i più nobili sentimenti, innalzando la dignità
della coscienza a mezzo della fiducia, anzichè deprimerla con sospetti
ingiuriosi o ferirla con grossolani castighi. Ed anche verso di loro
covava quell'ansia inquieta, quella preoccupazione dell'avvenire
che tanta ombra spargeva sul malinconico tramonto della sua vita.
Presentiva forse di doverci lasciare prima che si compisse il giro dei
nostri destini. Per questo i suoi sguardi erano sempre carichi della
tristezza del suo cuore; e non ebbe, povero padre, la soddisfazione
così meritata, di vedere in qual modo i miei fratelli continuarono la
tradizione della nostra famiglia mostrandosi degni del suo esempio.


La parola aristocrazia è troppo di sovente usata in senso contrario
al suo vero significato; mi si permetta di ricondurla alle sue vere
origini fissando il motto che ne riassume tutto lo spirito: _Nobiltà
obbliga_. Che cosa vuol dire in fondo aristocratico, se non uomo
superiore, uomo migliore? E far suo l'obbligo degli avi per conservarsi
superiori, per diventare migliori, non è raccogliere un ideale di
bellezza e diffonderlo nel mondo? Solamente un cervello ben meschino
può credere che il prestigio dell'aristocrazia consista in un titolo
sonoro o in uno stemma variopinto, mentre questi non sono che segni
esterni privi di valore e di significato, ove manchi il principio
conservatore dei caratteri di una razza. Tutte le supremazie che,
abbiamo visto decadere, religiose, politiche o aristocratiche che
fossero, decaddero per abuso di potere non per difetto del principio.
Al principio di ognuna di esse sta una verità immortale che solo
passando attraverso le mani impure degli uomini, degenera in colpa.
Il bel cavaliere che moveva incontro alla morte, professando fedeltà a
Dio, alla sua donna, al suo re, creava un codice dei doveri dell'uomo
del quale possono alla lunga cambiare i nomi, non l'essenza vitale. La
borghesia, raccogliendo il potere sfuggito alla classe aristocratica,
fece suo l'obbligo e, se volle vincere, dovette ripristinare in tutto
il loro vigore le virtù dell'avversario, traversando fiumi di sangue,
perchè il dovere, la famiglia, la Patria, tornassero a splendere fra le
idealità umane. Ed è giusto riconoscere i meriti della borghesia in un
tempo in cui il senso di questa parola è stato svisato e corrotto per
farne arma sleale di combattimento. Ognuno di noi che abbia la fortuna
di una tradizione risalga il corso degli anni e saluti con rispetto,
con riconoscenza, la memoria dei precursori che primi scrissero
sullo stemma simbolico della loro famiglia la parola =dovere= che nel
probo esercizio delle loro cariche, custodirono religiosamente quel
tesoro di fede che donò all'Italia gli uomini del suo risorgimento.
La tradizione, questa specie di sanità morale che imprime un passato
dolcemente radioso alle generazioni uscite dal suo grembo, non è
un sentimento fittizio ideato per il vantaggio di una casta; noi
la vediamo continuata in certe famiglie di montanari, di semplici
contadini vissuti lungi dai centri corruttori; tradizione rudimentale
di ricordi, di abitudini, di pensieri successivamente sovrapposti,
pari agli strati di terreni preistorici insaldati nella roccia. È fra
queste persone modeste e fiere che noi troveremo l'attitudine severa e
religiosa del patriarca, il gesto umile e pur dignitoso, rivestito di
intima nobiltà, che certe vecchie donne conservano ancora come riflesso
di una antica corona.

Se io cerco sul dizionario il significato della parola aristocrazia,
trovo: "forma di politico reggimento nella quale il potere è in
mano dei nobili". E sarà benissimo detto. Io però penso ad un'altra
missione dell'aristocrazia, quella, che avendo creato il motto _nobiltà
obbliga_, creò in pari tempo una tradizione conservatrice di bellezza.
Coll'affievolirsi della tradizione molte forme di bellezza scompaiono;
nè serve il dire che altre nascono. Noi siamo attaccati da secoli alla
bellezza degli astri e dei fiori e se scomparissero, non credo che gli
aeroplani e le macchine agrarie ci compenserebbero; l'uomo assetato di
bellezza rimpiangerebbe pur sempre le stelle e le rose.

Vi è inoltre un genere di bellezza, che non si improvvisa, nata da
millenni di civiltà, che nessuna scoperta per quanto intelligente
può sostituire. I ritratti del patriziato antico sono una guida
interessante per studiare i segni delle razze che si sono conservate
pure; quelle donne dal collo lungo e sottile, dalla fronte liscia,
dalle mani perfette, hanno nell'espressione del volto e nella dignità
del portamento, nel fine sorriso e nello sguardo dominatore, un non
so che di sovrano, che si impone anche ad un esame superficiale. E
come si comprende che esse sole possano adornarsi di quelle trine, di
quegli abiti sontuosi, di quei broccati, di quegli ermellini sui quali
poggiano i gioielli fantasiosi degli orafi del cinquecento! Par di
vedere lo stuolo delle ancelle intente al complicato edificio di quelle
chiome divise a ricci, a onde, a treccioline, con giri di perle, con
svolazzo di nastri e di nodi da richiedere parecchie ore di lavoro.
Perfino le bimbe di cinque anni in abito scollato e guardinfante
rivelano la principessa educata per tempo al contegno nobile, al
gesto e al riserbo delle corti. Produzione artificiale, lungamente
elaborata attraverso filtri di raffinatezza e di gusto, questo tipo
della gran dama agì da fulcro elevatore e ispiratore in tempi lontani
ma non dimenticati. Anche oggi subiamo il fascino di queste creature
d'eccezione, che ci guardano dalle vecchie cornici colle loro pupille
estatiche e sentiamo la malinconia di una bellezza che muore, che forse
è già morta.

Infatti torna inutile cercarla questa bellezza nelle generazioni sorte
ieri, portate in alto dai rapidi guadagni, sotto le quali piegarono
vinte le antiche famiglie, ma che non riusciranno neppure coll'aiuto
del tempo a formare la misteriosa catena della tradizione, poichè
non esiste più il sentimento di essa. Il progresso per sua natura
distruttore, ha bisogno di abbattere per edificare; la sua marcia
trionfale procede fra mucchi di rottami. L'altera principessa che si
faceva dipingere dal Van-Dyk o da Leonardo era conscia di affidare la
propria bellezza ai secoli futuri in un esemplare unico; la milionaria
d'oggi non sdegna di posare, magari in veste da camera, davanti
all'obbiettivo fotografico che la riprodurrà in dozzine di copie per la
soddisfazione delle sue cameriere. Ho qui un giornale quotidiano, uno
dei più diffusi, dove è riprodotto il gruppo fotografico più recente
della famiglia imperiale germanica; e mi domando se mai, invece di una
fotografia autentica e legalizzata, non sarebbe questa una caricatura
immaginata dal più feroce nemico degli Hoenzollern; tanto la volgare
espressione dei personaggi armonizza colla sciatteria della posa. Sono
sei i campioni, tre principi e tre principesse, che si presentano
di fronte infilati tutti e sei a braccetto l'uno dell'altro, quasi
per sorreggersi a vicenda, come operai che ritornano alticci dalla
fiera; gli uomini insaccati in certi panni che sembrano lo spoglio del
basso personale di una compagnia equestre; le donne spettinate, senza
busto... Oh! ritratto di Beatrice d'Este così severamente agghindata
in una rete di perle; gemme sfolgoranti e trine meravigliose di Maria
de' Medici; pettinatura da dea che sorreggi le chiome fluenti di
Lucrezia Tornabuoni, che figura faranno accanto a voi nelle pinacoteche
dell'avvenire le sembianze ultra democratiche di questi ultimi
rappresentanti dell'imperialismo ad oltranza?


Una delle buone qualità antiche era anche il giusto senso del
risparmio praticato serenamente come un dovere, non solo, ma anche
con quell'amore della tradizione che ci affezionava alle argenterie
di famiglia, ai mobili, ai ritratti come a un tenero e sacro ricordo.
"La spada di mio padre, la croce di mia madre" è una frase che ora
fa sorridere; ma si ha torto, poichè essa conteneva un principio di
felicità e di sicurezza che le famiglie moderne non conoscono. Nata
alla metà di un secolo, che divise nettamente due società e cresciuta
in un ambiente di provincia, il quale arretrava il progresso di venti
o trent'anni almeno, sono certo un ben raro testimonio sopravissuto
al morire di usi e costumi che, se avevano dei difetti, nutrivano
pure forti virtù. La mia famiglia, composta di sei persone con un
reddito modesto e il solo lavoro di un uomo declinante, viveva su un
piede di economia, sto per dire, naturale, in cui non vi era nessuna
privazione, perchè i nostri desideri oltrepassavano difficilmente la
possibilità di soddisfarli. Inoltre mancava in casa mia, parmi averlo
detto, quell'assillo della ricchezza, quel continuo parlar di denaro,
giudicare una persona su quanto denaro possiede, scegliere moglie
e carriera in base al maggior denaro che rappresentano e col denaro
pesare la considerazione e riporre nel denaro la somma del bene, cose
tutte che, a mio giudizio, oltre la volgarità insopportabile per uno
spirito delicato, conducono all'invidia al malcontento, al pessimismo,
veleno dell'anima. Per il fatto di avere minori bisogni non v'ha
dubbio che si era allora più felici o, per lo meno, era maggiore il
numero dei felici, potendolo estendere anche a coloro che non avevano
grandi fortune; nè si giudicava minore il piacere di stare insieme
bevendo un bicchiere di vino bianco o un siroppo di lamponi perchè
non si usavano tovagliette di pizzo e rinforzo di _marrons glacés_.
L'esempio della semplicità veniva dall'alto e da tutti i paesi. Lady
Giorgiana Fullerton, nota filantropa e una delle più grandi dame
dall'aristocrazia inglese, lasciò scritto che lei e i suoi fratelli non
avevano mai a colazione più di una tazza di latte con pane raffermo;
pane raffermo era pure il sistema generale delle nostre famiglie e dei
nostri collegi; in molte case poi, alle persone di servizio veniva
misurata anche la quantità, sì che per dimostrare l'agiatezza di
una casa, dicevano che il pane vi era libero. In alcune città della
Francia famiglie milionarie offrivano ai visitatori serali un piatto
di mele delle loro campagne; e a Venezia, dalla contessa Albrizzi, che
riceveva le più alte personalità d'Europa, il trattamento usuale era
una guantiera di ciambelle fatte in casa. Il conte Alessandro Verri
da Roma esortava il fratello, rimasto a Milano, a non risparmiare
passi affinchè il sarto gli restituisse le pezze avanzate da un certo
draghetto consegnatogli per fare un vestito e soggiunge ad avvalorare
la raccomandazione: "Così vuole la buona economia delle nostre
entrate".

Voglio dire qualche cosa di più. L'economia praticata per tradizione e
con piacere era un elemento di forza e di serenità. Io l'ho conosciuto
largamente il piacere di ridurre a nuovo una vecchia gonna e di
ammucchiare nel cassettone tante e tante paia di calze fatte da me
punto per punto. C'è in questi umili lavori un orgoglio di creazione,
di lotta superata, di tempo bene speso, che è per sè stesso un premio
e un incitamento. Gusto ancora, dopo tanto tempo trascorso e tante
vicende, la soddisfazione di avere composto e cucito io stessa gli
abiti di mio figlio fino ai dieci anni e compiango (non disprezzo
forse anche un poco?) le giovani madri di mezzi limitati che non sanno
preparare neppure il camicino per il pargolo che deve nascere. Non si
dica che questo è un argomento di nessun conto. Non è vero! La donna,
che ama i lavori femminili e li applica all'economia della famiglia,
trova in casa tanto da occuparsi che non sente il bisogno di fondare
comitati e associazioni per ingannare la noia e illudersi di fare
qualche cosa. E anche questa tradizione di lavoro rimonta alle classi
aristocratiche. Ai ricevimenti della duchessa di Chartres le dame,
imitando la duchessa, portavano con sè un lavoro; Maria Luisa, seconda
moglie di Napoleone I, quando era ancora fanciulla si sferruzzava
allegramente da sè una maglia di lana per star calda, e c'è un ritratto
poco noto della marchesa di Pompadour che la rappresenta mentre sta
ricamando con un telaio sui ginocchi.

Non ci sarebbe che da regolare la vita un po' troppo rinchiusa delle
donne di una volta, col frenetico sgonnellare fuori di casa delle
modernissime, per trovarsi nella giusta via di mezzo; ma purtroppo
indietro non si torna. La vecchia borghesia saggia, econonoma, dalle
abitudini semplici ha disertato i provinciali palazzi aviti, le pingui
fattorie dove la vita era comoda e dolce; attratta dal miraggio delle
grandi città, ruppe il contatto immediato colla terra, i rapporti
giornalieri coi contadini e, giunta nei grandi centri dell'industria,
si trovò in mezzo alla nuova borghesia dei rifatti privi di tradizione,
di esempi, di memorie, frettolosi di distruggere fino il ricordo del
loro passato, avidi di lusso e di gioia, intenti solo ad arricchire. I
figli delle grandi rivoluzioni, coloro che avevano conservato intatto
il patrimonio di secoli, si trovarono improvvisamente accerchiati e per
forza delle cose travolti nel turbine della democrazia distruggitrice
di tutto ciò che fu. Alcune famiglie resistono ancora, ma non sarà
per molto tempo. Le donne si mostrano particolarmente accanite alla
distruzione dei domestici lari, perchè non so chiamare in altro
modo quella specie di orrore per la casa che le spinge nel cuore
dell'inverno a prendere il treno per l'una o per l'altra città, per
un paese, per un monte, per un lago, o anche per un ghiacciaio, pur
di non passare in casa propria, anzi per annientarla, la dolce e
pensosa poesia del Natale. Anche le nozze, questa festa intima fra
tutte, è ora di moda esibirla alla triviale curiosità dei servitori
d'albergo..........


A nuova conferma della mia teoria sul valore della tradizione, abbiamo
un detto popolare che ne mette in rilievo la grande importanza per
l'individuo e la Società, ed è quello di colui che ad una cattiva
azione risponde: "Il figlio di mio padre non farà mai ciò". Posso
citare per controprova il fatto di una di quelle disgraziate orfane
di parenti vivi, abbandonata alla carità cittadina, una esposta. Io la
esortavo a crearsi indipendente col suo lavoro per mantenersi onesta;
ella mi ascoltò un poco, e poi disse crollando il capo con un cinismo
quasi ingenuo, tanto era sentito: "È inutile sa, noi siamo figli della
colpa, come ha fatto nostra madre faremo anche noi". Questi problemi
educativi e sociali mi hanno sempre interessata moltissimo, ed essi
e altri, a cui diedi la mia attenzione, più che sui libri mi piacque
studiarli alla viva fonte dell'umanità. Se poi trovavo in un libro gli
argomenti in appoggio alle mie osservazioni, amavo quel libro come
un amico, e tanto più lo amavo in quanto non avevo materialmente nè
amici nè amiche; ovvero qualche amica potevo contarla, ma tutte fuori
di Milano, e anche le poche volte che ci riusciva di stare insieme, i
nostri cuori erano vicini, i nostri pensieri no. Esse pensavano come
tutti, ma io non so come chiamare quel tarlo che lavorava nel mio
cervello assorbendo ogni mia attività, rendendomi sempre più incapace
di contatto cogli altri, fuggendo ciò che gli altri ricercavano.

Chi non ama le passeggiate campestri in lieta compagnia? Io non le
potevo soffrire; sia per la passeggiata che mi riusciva di fatica,
sia per la compagnia, allo spirito della quale non sapevo unire il
mio. Vagheggiavo allora di trovarmi con una persona di mia fantasia,
triste e selvaggia come me, al pari di me sola e andarcene insieme sul
sentiero più appartato e dirci tutto quello che non avevamo mai detto
a nessuno, e ridere e piangere e cogliere fiori e ringraziare Dio di
essere nati.... ma quella persona non l'ho trovata mai. Mi condussero
invece un giorno a visitare un'officina di non so che cosa, e non lo
so perchè appena posto piede sulla soglia di un camerone dove stavano
allineate macchine e uomini e donne tra un assordante rumore di manubri
e di pulegge, presa da una repulsione istintiva come se avessi visto
un mostro, mi aggrappai disperatamente ad una ringhiera che dava verso
il verde dei prati, scongiurando che mi lasciassero a quel posto. Ero
allora poco più che adolescente, ma la mia particolare sensibilità,
anticipando l'intuizione, mi dava nel quadro che avevo dinanzi agli
occhi la sensazione materiale dell'idea per la quale dovevo più tardi
combattere non poche battaglie. Null'altro che una sensazione, ma,
come sempre, una sensazione che mi appartava dagli altri; che non
andò tuttavia perduta se a tanti anni di distanza la ritrovo intatta
alla base delle mie idee sulla santità della tradizione famigliare
violentemente minata dal crescere delle officine, progresso forse
necessario ma pauroso, che strappa la donna dalla casa e distrugge
brutalmente le care intimità del focolare.


La disgressione mi è riuscita più lunga che non volessi e sopratutto
che il lettore desiderasse; ma è pur necessario che tenti di spiegare,
e non sono sicura di riuscirvi, il lavoro caotico della mia mente, non
secondato e non guidato da chi mi stava intorno; nessuno dei quali
poteva immaginare neanche lontanamente le aspirazioni che giacevano
soffocate in me, che non conoscevo io stessa.

Uscita dalla scuola poco meno che ignorante, la volontà di studiare non
mi venne neppure dopo. Tanto il pensiero mi attirava colle sue divine
libertà, altrettanto detestavo la meccanica dell'insegnamento freddo,
pedante, ammalato di miopia cronica, vecchio corpo disfatto che deve la
sua resistenza all'appoggio che gli danno tutte le mediocrità. Leggevo
con passione, ma pur che fossero libri divertenti e romanzi e poesie
d'amore. Mio padre si allarmava qualche volta di questa mia passione,
esortandomi a scegliere bene e di abbandonare i romanzi, ma non ebbe
il gesto assoluto di indicarmi lui i libri che dovevo leggere, forse
in omaggio al suo grande rispetto della libertà individuale od anche
perchè sapeva che il miglior mezzo per ottenere buoni risultati da
figliuoli moralmente sani è quello di mostrare fiducia in essi. Libri
cattivi in verità non ne leggevo, ma inutili quasi tutti e nocivi in
rapporto a quelli che dovevo poi scrivere io stessa perchè, presi a
casaccio, mi traviarono nella lingua, nello stile, in tutto ciò che
dovrebbe formare il buon scrittore. Ma di ciò allora non mi curavo
affatto, paga di poter dare attraverso alle pagine di quei volumi uno
sguardo nel mondo che non conoscevo.

Desideravo anche molto di avvicinarlo questo mondo pieno di belle cose
a me ignote, desideravo specialmente con ardore soffocato di poter
andare ad una festicciuola da ballo. Amavo il ballo con passione,
ma dove battere il capo se non avevamo relazioni? E andare con chi?
Non certo colle vecchie zie di provincia che non avevano mai visto
un ballo. Il mio buon padre si sacrificò accettando l'offerta di un
conoscente che ci avrebbe presentati in una famiglia; ma sorse subito
una grossa questione. — Che vestito metterai? — mi chiese papà con una
certa inquietudine. Io che temevo di perdere l'occasione, che non avevo
alcuna idea di abiti da sera, mi affrettai ad assicurarlo che non mi
mancava nulla. E i guanti? — soggiunse mio padre. — Ho anche i guanti.
Allora, felice, combinai la mia toeletta colla zia Margherita.

Premetto che manco di buon gusto naturale. Se sono riuscita, molto
tardi, a vestirmi press'a poco convenientemente, mi ci vollero grandi
sforzi; nè le mie zie attempate non avrebbero potuto in capitolo moda
aiutarmi di consigli. Incominciai dunque a stringere i miei lunghi e
folti capelli in due trecce fitte fitte che me li ridussero a metà;
indossai poi un abito di mussolina bianco e celeste, accollato come
il soggiolo di una monaca, che era stato della mia mamma e che lasciai
tale e quale benchè non avessimo la stessa corporatura; ma a me, poichè
era stato della mia mamma, sembrava una meraviglia. Per la stessa
ragione mi piantai in testa una camelia bianca che aveva servito alla
mamma nel ritratto che le fece Moriggia e che riposava da anni in una
scatola di cartone fiancheggiata di carta velina. Infine pescai alla
stessa fonte un paio di guanti nuovissimi, mai messi, che portavano a
farlo apposta il mio numero e che erano di un bel color giallo zampa
d'oca. La zia Margherita mi ammirò e strinse un po' più le mie trecce,
così, diceva, non c'era pericolo che si sciogliessero danzando. Volevo
farmi vedere da papà, ma la solita vergogna mi trattenne e mi ravvolsi
subito nel mantello. Appena entrata nell'appartamento di quella
famiglia, che non conoscevamo, ci passò davanti, attraverso gli usci
aperti, in uno sfolgorio di lumi, una eterea apparizione vestita di
bianco colle bionde anella incipriate sparse sull'omero nudo. — Oh!
oh! — fece mio padre al quale avevano assicurato che si trattava di
quattro salti alla buona. Io non dissi nulla, ma inoltrandomi nelle
sale osservai che nessuna delle signore presenti era pettinata come me,
nessuna aveva fiori in testa e tutte portavano guanti candidissimi.
Verificata così la mia zotica figura, senza impressionarmene troppo,
andai tranquillamente a sedermi nell'angolo meno in vista aspettando
gli eventi. Dico subito che essi non furono all'altezza di quelli che
leggevo nei romanzi, ma ballai tutta notte, quantunque non conoscessi
alcuno, e per una ragazza così mal vestita ce n'era d'avanzo.


Le occasioni di trovarmi in società continuavano ad essere molto rare,
e dicendo società abuso un poco dell'elasticità del vocabolo. Dovunque
però il malinteso fra me e il mio prossimo mi isolava. La titubanza,
che irrigidiva i miei movimenti, toglieva ad essi la grazia della
gioventù; non ero più una bimba e non ero ancora una giovane donna;
l'abitudine quotidiana dei colloqui con me stessa mi rendeva inetta
alla conversazione; mancavo poi in modo assoluto dello spirito di
società, della risposta pronta, del motto che fa ridere, di quello
che provoca e che istiga. Il terribile dono dell'osservazione non mi
permetteva di restare indifferente; vedevo bene con quali poveri mezzi
le reginette mondane ottenevano i loro trionfi; e mentre esse avranno
disprezzata in me l'insulsa creatura che non sapeva nè vestirsi, nè
muoversi, nè parlare, io, dal mio posto isolato, studiavo sul vero il
loro piccolo cuore. Era questo il solo piacere che ricavassi quando mi
trovavo in compagnia: piacere acre, ma non privo di moderato orgoglio
sotto la modestia del mio aspetto. Non affrettiamoci a denigrare
l'orgoglio, sentimento di natura elevata pur che sia circoscritto
entro i limiti di una giusta conoscenza di noi stessi. Non si può
ammettere che la modestia, doverosa verso il prossimo e più ancora
verso l'ideale, debba giungere al punto di una completa ignoranza
quando si tratta di riconoscere le nostre forze. Se non fosse così,
chi si metterebbe a capo delle grandi imprese che rivoluzionarono il
mondo? Ed anche non bisogna confondere il nobile orgoglio di colui che
tende a una meta superiore colla vanità dello sciocco e colla superbia
del farabutto. Tacceremo l'aquila di orgoglio perchè fende i più alti
cieli, mentre il passerotto si limita a svolazzare sui tetti? Chi salta
un fosso ha sentito prima la forza di poterlo saltare.

Tutti questi paragoni, da prendersi colle debite distanze, li trovo
ora per spiegare il meglio che mi sia possibile quella singolare
resistenza, quella specie di corazza che mi permetteva di rimanere
impassibile e ferma, quantunque non indifferente, nella mia solitudine
e perchè certi stati di accasciamento, di avvilimento, di prostrazione
morale io non li ho provati mai. Ho pensato tante volte in qual modo
mi si potrebbe avvilire ed ho concluso che nessuno lo potrà perchè non
mi sono mai avvilita io stessa. Posso ingannarmi, ma credo che difetti
e qualità procedano in gruppi e chi ha una qualità ha pure la qualità
sorella e lo stesso dicasi dei difetti. La mia unilateralità, chiamata
qualche volta egoismo, faceva il paio colla mia pretesa aristocrazia,
un sentimento tutto ideale che meglio delle parole spiegano le perle
della mia nonna. La mia nonna materna aveva tre collane di perle delle
quali, per disgrazie della mia famiglia, non una sola giunse fino a
me. Ebbene, io non mi fregerei a nessun patto di uno stemma comperato,
ma le tre collane di perle della mia nonna me le sono sentite tutta la
vita intorno al collo.


Non ho ancora finito di enumerare le doti negative delle quali
ero provvista per brillare in società. Erano tante e tante, che
probabilmente ne dimenticherò qualcuna, e qualcuna anche può essermi
sfuggita, se è vero quel che affermano i saggi sulla difficoltà di
conoscere se stessi. Mi felicito intanto di aver scelto per queste
memorie il sistema di una semplice e veritiera esposizione dei fatti,
per tal modo il lettore perspicace potrà fare da giudice nel caso che
io mi dipinga troppo in bello, chiamando complici gli altri della
mia manchevolezza, quando forse la causa va ricercata solamente in
me. Comunque noto che ero di una straordinaria distrazione la quale,
congiunta a una smania di verità assolutamente puerile, mi faceva
apparire a volte leggerina, a volte impertinente, a volte, e più
spesso, sciocca. È certo che una condizione indispensabile al vivere
sociale è quella piccola, ma importante, qualità che si chiama tatto;
io ne avevo quanto un negro della Zululandia.

Peccato che mio padre, dal quale vivevo troppo separata, non fosse
testimonio dei miei sfarfalloni che li avrebbe, così fine com'era,
immediatamente repressi, come una volta fece con un semplice corruscar
delle ciglia. E un'altra bella, quantunque indiretta, lezione di
tatto, mi diede a proposito di un vecchio signore suo cliente che
veniva per affari in casa nostra. Non avendomi veduta da molto tempo
mi disse un giorno che mi trovava ingrassata; e siccome dall'accento
e dall'espressione del suo viso traspariva l'intenzione di avermi
fatto un complimento, appena si fu allontanato papà ebbe a notare che
si era espresso male; perchè non poteva sapere se quella osservazione
potesse piacermi e che ad ogni modo non era delicata. — Doveva allora
tacere? — chiesi io. — Non è questo — rispose mio padre — ma se proprio
voleva fare un complimento doveva limitarsi a dire: La trovo bene.
— Egli possedeva in sommo grado quest'arte delle sfumature, delle
critiche sottili e profonde; ma io compresi subito che l'appunto
non era stato fatto per criticare l'amico, bensì per insegnare a
me. Era d'altronde il suo sistema educativo; poche parole quando si
presentava l'occasione, ma tali che non si dimenticavano. Un'altra
volta la lezione fu più diretta. Qualcuno, non ricordo più chi, ebbe
a dire che ero simpatica, e quella specie di elogio, a me che non ne
ricevevo mai, fece una così lieta impressione da indurmi ingenuamente
a riferirglielo, persuasa, per il bene che mi voleva, di far piacere
anche a lui. Sorrise il mio buon padre alla innocente fanciullaggine, e
volendo nello stesso tempo frenare il possibile sorgere di una vanità
intempestiva: "Quando — ammonì dolcemente — non si può dire ad una
donna che è bella, la si conforta chiamandola simpatica".


Quale scuola di perfezione avrei avuto, se mi fosse stato possibile di
vivere sempre insieme a mio padre! Tutto invece concorreva a dividerci;
il sistema della famiglia, le sue e le mie occupazioni, i suoi e i
miei dolori non consentirono mai l'intimità dell'abbandono. Forse, è un
dubbio che mi venne qualche volta, che sta ora mutandosi in certezza,
sentiva anche lui l'ostacolo che, alla libera espansione dei nostri
sentimenti, poneva la presenza delle due sorelle. Forse era anch'egli
un timido come me e sarebbe bastato che uno di noi due non lo fosse,
per rompere la barriera, per cadere nelle braccia l'uno dell'altro. Se
quella sera in cui venne, tacito e lieve, ad appoggiare la sua fronte
sulla mia spalla avesse detto: — Sono infelice! — Se lo avessi detto io
a lui?...

Ma le due donne esuli dalla dolce casa, esse che avevano abbandonato
tutto per lui, per noi, che ci davano il loro rustico, ma sincero
cuore, la loro opera maldestra, ma così generosa, così disinteressata,
non potevano venire anch'esse colle loro mani vuote dei beni che ci
avevano sacrificati, coi loro occhi che solo alla notte conoscevano
il pianto a ripetere: Anche noi siamo infelici? Situazione veramente
crudele questa di persone tutte buone che senza volerlo, senza saperlo,
si facevano reciprocamente soffrire. E ancora le mie zie, avendo il
vantaggio di sorreggersi a vicenda e di rievocare in due un medesimo
passato, sfuggivano al pericolo dell'isolamento che anche mio padre
poteva nella sua professione e nella libertà de' suoi atti per qualche
ora almeno evitare.

Io diventavo invece sempre più distratta, estranea a quanto mi
circondava, estranea alla vita. Delle mie balordaggini segnerò qui un
esempio che potrà difficilmente trovare un riscontro altrove. Una delle
ultime volte che andammo a passare le vacanze a Casalmaggiore, fui
invitata a festeggiare Santa Teresa da una cara vecchietta amica delle
mie zie, che abitava quasi tutto l'anno un suo podere in vicinanza
del Santuario della Fontana. Buon pranzo, semplicità antica, visita
al giardino colmo di frutta nonchè di fiori, e da ultimo, poichè
la compagnia era in maggioranza composta di nipoti, tutti giovani,
si ballò sull'aia al suono di un organetto e al blando lume di una
lanterna sospesa a un palo. C'era anche un dilettante di chitarra
che variava il trattenimento con alcune romanze sentimentali. La
padrona di casa ebbe un successone ballando una danza de' suoi tempi
detta la furlana, avendo per accompagnarla il più attempato de' suoi
domestici, che solo tra i presenti, ne ricordava i passi arcaici. A
mezzanotte prendemmo tutti la via del ritorno, un po' sbandati sulle
prime, indi mettendoci in fila a due a due. Per parte mia fui lieta
nel riconoscere nel compagno che mi si pose al fianco, quello fra i
danzatori che mi aveva maggiormente interessata. La notte era serena,
piena di stelle; dagli alberi del viale, dove ci eravamo inoltrati,
gli arabeschi d'argento della luna disegnavano sulla terra asciutta un
tappeto fantastico. In simile cornice la mia immaginazione quindicenne
stava fabbricando un romanzo in azione, quando alla luce improvvisa
di una radura tra i rami, mi accorsi di un grosso involto che il mio
cavaliere teneva sotto il braccio. — E che diamine ha lì? — Che ho? la
mia chitarra. — Un'altra chitarra?! — Non un'altra, la mia. — Ma allora
lei non è X.! — Certamente, sono Y. E tutto ciò che le dissi fin'ora lo
credette di X.?!... — lo penso ora le risposte che avrei potuto dare,
spiritose, gentili, ingegnose, vaghe, sfuggenti per mettere un rimedio
alla mia balordaggine e le trovo. In quel momento però, fedele alla mia
smania di verità e al mio puerile semplicismo, fui tanto sciocca da non
saper rispondere nulla. Nessuno, fuor che le stelle e la luna di quella
notte, seppe questo incredibile caso di distrazione, che rivelo oggi
a' miei lettori, perdendo forse un poco nel concetto che essi potevano
avere della mia intelligenza, ma rendendoli sicuri almeno della mia
sincerità. Avevo parlato più di un'ora con una persona senza accorgermi
che era un'altra!



PARTE QUARTA


Ricompare la zia Carolina, la mia cara Tuina. Poco tempo dopo il crollo
de' suoi affari il mio povero nonno era morto e la casa fu venduta
per conto dei creditori; allora la zia Carolina insieme alla nonna
andarono ad abitare presso lo zio Cecco. Lo zio Cecco, al pari de'
suoi fratelli, era la bontà e la dolcezza personificate; copriva in
quel tempo la carica di vice pretore a Caprino Bergamasco e scriveva
segretamente alcune commedie non mai rappresentate. Suo fratello
Bona, che percorreva pur esso la carriera giudiziaria, occupava i
suoi ozî nel compilare un dizionario dei vocaboli a radice greca.
Miti e semplici anime di galantuomini dalla vita intemerata, anche
voi, o buoni zii, contribuiste a creare in me il rispetto della
tradizione. Lo zio Bona andava a messa, lo zio Cecco era abbonato
al _Libero pensiero_; avevano in proposito vivaci discussioni che
naturalmente lasciavano ognuno nel proprio punto di vista e amici come
prima. Io non dispero di rivederli lungo la valle di Giosafat, l'uno
accanto all'altro, nella tribuna dei giusti. La nonna aveva pure un
fratello consigliere alla Corte d'Appello di Milano, ma quello io
non l'ho conosciuto; vidi appena il ritratto che gli fece il solito
ritrattista della famiglia, Giovanni Moriggia, serio e imponente
nei larghi risvolti della pelliccia di martora. Dove sarà andato a
finire quel ritratto? Guarda esso forse dalla bottega di un antiquario
gl'inconsapevoli pronipoti che passano?

Le due care donne, che in seguito alla perdita della bella casa
di Caravaggio si erano ritirate nel piccolo paesello delle prealpi
bergamasche, non tardarono a trovarvisi bene e ad invitarmi a passare
un mese con loro. Fu un'oasi benedetta. È ben vero che, non essendo
io più una bambina, la nonna non poteva prendermi come una volta sui
ginocchi, nè io stessa compiere carponi attraverso le sedie del salotto
quel viaggio le cui stazioni erano l'Etna o Mongibello e l'arlecchino
ferma-usci cogli occhietti di vetro; l'arlecchino anzi non c'era più.
Ma la zia Carolina era sempre così dolce, così sorridente, e allora
più che mai, portando nel cuore la gioia del suo fidanzamento con un
nobile piemontese, ufficiale nell'esercito liberatore. Oasi di pace
Caprino, che lasciò nella mia mente un ricordo indelebile! Fu a Caprino
che vidi per la prima volta le montagne, e fu là che incontrai la
più cara, la più fedele delle amiche. Io vi godevo inoltre un poco di
quella libertà, che fu in ogni tempo uno de' miei bisogni più ardenti,
così male soddisfatto in casa mia, dove non ero libera neppure alla
notte. In fondo alla vallicella che sottostà al paese, scorre un
torrente detto la Sonna, nelle cui acque la servetta della nonna andava
a sciacquare i panni. Quando ella infilava il braccio nel paniere
della biancheria e la zia Carolina mi diceva: — Vuoi andare anche
tu? — esultavo. Si capisce che insieme a quella ragazza era come se
fossi sola. Correvo, cantavo (falso), recitavo versi, coglievo erbette
sconosciute; una fronda, un sasso, un movimento delle acque, il salto
di una cavalletta, l'iridescenza di una farfalla, l'andare religioso
delle formiche in fila, silenziose monachine brune, mi riempivano di
sensazioni nuove. Non ero mai stata come allora in diretto contatto
colla natura; ad ogni passo facevo qualche scoperta; e la gioia di
sentirmi libera in mezzo all'aria, libera sotto il cielo, conferiva
alle mie membra una leggerezza alata che mi portava in alto; sollevavo
le braccia come per un volo e gridavo forte: — Dio! Dio! — per udire
il suono della mia voce, per fissarlo nell'eco della valle. Tempo di
primavera e quindici anni.... I sentieri laggiù erano sempre deserti,
ma già l'amoroso fantasma dei sogni giovanili batteva alla porta
suggellata del mio cuore; esso mi seguiva ancora senza volto e senza
nome, col misterioso potere del profumo che annuncia la vicinanza del
fiore. Non amavo; eppure pensieri d'amore mi attraversavano la mente e
mi turbava in modo dolcissimo il sapere che a poca distanza dalla Sonna
scorreva parallelo un altro torrente chiamato Sonno e che entrambi dopo
quella corserella «in vicinanza coraggiosa e monda» si riunivano sotto
l'arco di un ponte, altare e talamo, per uscire dall'altra parte, fusi
in un torrente solo. — Come tutto ciò è bello, nevvero? — chiedevo
alla zia Carolina, e la zia Carolina con una sua intima letizia
rispondeva di sì. È passato mezzo secolo e tanti dolori insieme e tanti
disinganni; ma se chiudo gli occhi rivedo Caprino in un raggio di sole.

A Caprino ebbi anche la rivelazione di fiori che non conoscevo. I
primi fiori che ricordo li avevo visti nel giardinetto della zia
Claudia a Caravaggio; una raccolta più ampia e più varia la trovai a
Casalmaggiore colla sua salvia cocinia, le ortiche d'America, le quali
non pungono affatto e vestono graziosamente di rosa e di giallino, poi
il geranio d'Africa, il geranio notturno, le fucsie, i nasturzi dorati,
la madrevite che sostiene sulle esili braccia pensili cuori e quanti,
quanti altri! Appena entrata nel cortile dello zio Cecco a Caprino fui
investita dalla chioma fluente di una serenella che per le vie degli
occhi e dell'odorato prese intero possesso di me. Ah! forse l'albero è
disseccato, l'albero mortale del cortile, non quello che verdeggia in
me ad ogni primavera, e che depongo oggi, fior di memoria, tra queste
pagine. E le peonie fastose che se avessero profumo contenderebbero il
primato alla rosa! E quelle anfore carnose di inebbriante aroma che
sono i piccoli fiori dell'olea fragrans! E i gelsomini, stelle della
siepe! E le tuberose, labbra d'amanti congiunte in un bacio! Ora la
moda dei fiori è entrata in tutte le case, imperversa fin sulle tavole
delle più modeste trattorie; sono fiori stereotipati a seconda della
convenienza di chi li vende, resi volgari dall'abuso e dal carattere
commerciale, privi d'odore, profanati dal filo di ferro che squarcia
i loro teneri seni; così quando parlo di fiori intendo sempre i fiori
coltivati in provincia da mani delicate e amorose, che ne conservano
intatto la freschezza e il profumo. Povera è quella donna che non sa
trovare nei fiori una delle più delicate gioie di questa vita.

Si allaccia pure a Caprino l'impressione più complessa che mi rimane
del nostro nazionale riscatto. A Milano ero andata una volta, da
piccina, col papà e colla mamma, in una famiglia di nostra conoscenza,
che aveva le finestre sul Corso dedicato allora a Francesco
Giuseppe, ma chiamato da tutti solamente Corso, per vedere l'entrata
dell'imperatore e dell'imperatrice, e con mia grande delusione
le finestre erano ermeticamente chiuse, le tendine rigorosamente
abbassate, sì che al momento buono, rizzandomi in punta di piedi, mi
fu dato di scorgere appena la cappottina bianca dell'imperatrice e
il suo abito di seta nera rameggiato di verde. Intorno alla carrozza
imperiale, deserto! Era poi venuto il giorno dell'allegrezza, quando
si rise perfino in casa mia, e mio fratello Luigi si diede a preparare
coccarde per tutti. Ma fu a Caprino tutto imbandierato per la festa
dello Statuto, con ghirlande di sempreverdi erette ad arco di trionfo
sulla contrada principale, con musica, con fuochi, con luminarie,
coll'intero paese rovesciato fuori, che sentii per la prima volta
palpitare, in mezzo al popolo entusiasmato, l'anima della patria.


Da Caprino lo zio Cecco fu trasferito a Bergamo. Altra rivelazione di
bellezza e di quel respiro antico, respiro delle cose che vissero prima
di noi, verso le quali l'anima mia volava fin da quando i miei sguardi
indagavano curiosi e soggiogati le forme fuori moda del baule della
nonna. Si intende che la mia ammirazione per Bergamo fin dalla stazione
sorvola la gaia leggiadria del borgo per salire ratta al fastigio della
città medioevale, così fieramente rizzata a vedetta delle Alpi. Amo le
sue porte, le sue chiese, i suoi palazzi e le viuzze sassose in mezzo
al verde delle mura dove battè un giorno la zampa ferrata il destriero
del Colleoni. Amo gli orticelli sospesi tra casa e casa, come panieri
di fresche verdure, che si allietano in primavera di cento e cento
rose. Lo zio Cecco andò ad abitare proprio nel centro della vecchia
città, in via _Porta dipinta_, caro nome arcaico che mi faceva andare
in estasi e fu quella una delle mie ultime oasi felici. Da quel punto
la mia dolce Tuina spiccò il volo per seguire il marito nelle diverse
destinazioni della sua carriera militare e da allora il vederci e, più,
lo stare assieme divenne un piacere raro.

Io intanto continuavo a scrivere nei pochi momenti in cui mi era
concesso di occuparmi a modo mio; vale a dire quell'oretta dopo pranzo
durante la quale le zie o fumavano o dicevano le orazioni. Dopo le
zie prendevano in mano la calza e la prendevo anch'io, perchè mai mi
sarebbe venuto in mente di fare diverso da ciò che esse mi indicavano.
L'obbedienza era talmente radicata in me, che se fossi rimasta
zitellona in casa, avrei continuato a obbedire fino ai quaranta e ai
cinquant'anni, insoddisfatta, rodendo il mio freno, ma incapace di
pensare nemmeno un atto di ribellione. Dando la parte più vitale di
me alla fantasia, che per essa viveva in un suo meraviglioso mondo
e per tutto ciò che era materia e zavorra accettando l'adattamento,
mi ero fatta dell'abitudine un guanciale di riposo, che sotto certi
aspetti, era quasi un piacere. Dirò una cosa straordinaria, dalla quale
risulterà meglio quel complesso di serietà ordinata e di grottesco
candore che fecero della mia giovinezza un organismo a parte, diverso
da tutte le altre giovinezze. Sappiano le mie lettrici che allorquando
mi feci sposa, nella valigetta destinata a raccogliere sommariamente
gli oggetti indispensabili a un breve viaggio di nozze, collocai fra
questi il mio lavoro di calza.


Un articolo di Matilde Serao per la morte di Vittoria Aganoor,
incomincia con queste parole rievocatrici della propria felice
gioventù: "O inobliabili, o inobliati giorni di nostra gioventù in cui
fremeva ed ardeva, nella nostra anima nuova, non una immensa speranza,
ma un'immensa certezza! O primavera della nostra età, in cui nulla
ancora sapevamo esprimere, ma tutto sapevamo comprendere; o primavera
del nostro spirito, in cui potevamo soddisfare la nostra gaia fame
intellettuale e placare la nostra sete inestinguibile intellettuale,
al nutrimento più saporoso e alle sorgenti più cristalline! Sapete,
allora, come vivevamo in Napoli? In continuo contatto spirituale con
Francesco de Sanctis e con Ruggero Bonghi, di cui ogni pensiero e ogni
parola erano nostro soave e forte pascolo; in continuo contatto con
giovani già fervidi di talento e di dottrina come Giorgio Arcoleo,
come Giustino Fortunato; in quotidiano contatto con pubblicisti come
Rocco de Zerbi e Martino Cafiero. Conferenze, discorsi, articoli,
volumi, giornali, in tutto ciò palpitava di una vita indicibile l'anima
nostra, estatica, attraversata da violenti gioie, abbattute da profonde
malinconie, ma capace di tutte le esaltazioni, ma risorgente dai suoi
accasciamenti, come in una costante resurrezione". Non potrei trovare
un'antitesi più stridente con quella che fu la gioventù mia. Quanta
gioia in quell'anima librata a spirituale commercio cogli ingegni
più eletti che placavano la sua sete di intellettualità, cui ogni
parola, ogni pensiero eran forte e soave pascolo! Come si comprende
il palpito indicibile di quella vita in cui fremeva ed ardeva, non
una immensa speranza, ma una _immensa certezza_! Trascrivendo queste
parole rabbrividisco ancora. Sento ancora il freddo invincibile delle
mie giornate d'inverno trascorse nel grigiore del malinconico salottino
a cucire, a cucire, a cucire, coi ginocchi ravvolti in uno scialle,
sulle mani due paia di guanti; e i vesperi desolati del luglio e
dell'agosto, quando abbrancata ai ferri della finestra, nell'abbandono
della rassegnazione, scrutavo sulle finestre lontane il ritmo di altre
vite, poi che alla mia mancava anche la più lieve speranza. Io non so
che sarebbe avvenuto di me se la mia intelligenza si fosse sviluppata
in circostanze di serra calda, di coltivazione intensa, di luminosa
fioritura, di omogeneità infine e di felicità. Non lo so. Forse
sarebbe stato meglio, forse peggio. Al pari dell'albero l'uomo nasce
con una struttura propria, direi un temperamento, a cui il terreno più
o meno favorevole, concede il più o il meno sviluppo. Anima ardente,
ma pensosa e incline alla meditazione, una esistenza di gioia avrebbe
probabilmente isterilita la mia attitudine al raccoglimento; obbligata
invece a cercare in me stessa quella ragione di vivere che è il diritto
di ogni creatura, obbligata a reggermi da sola, a parlare con me
sola, ad alimentarmi da me, feci come uno che esiliato su un palmo di
terra, non potendo espandersi in ampiezza, scava in profondità. Questo
confronto me ne suggerisce un altro; somigliavo anche per molti versi
al palombaro che, lasciandosi dietro lo splendore del sole e il tumulto
della vita, scende silenzioso con una maschera sul volto verso ignorati
abissi.

La mia maschera era tutto quello che si vedeva di me, e giudico mi
coprisse molto bene perchè nessuno, nel breve cerchio delle nostre
relazioni, sospettò neppure lontanamente, che io potessi divenire una
scrittrice; anzi, molti anni dopo, allorchè si conobbe il mio nome, io
lessi su alcuni volti una sorpresa non scevra di incredulità. Veramente
non lo sapevo neppure io, non ci pensavo. Il grande romanziere
Balzac, a cui la gloria arrivò tardi, scriveva a sua sorella; "Laura,
Laura, i miei due soli e immensi desideri, essere celebre ed essere
amato, saranno essi mai soddisfatti?" Io non ero tanto impaziente.
È giusto dire che ero anche più giovane. Ad ogni modo scrivevo per
mio sfogo, per mio piacere, per non so che cosa, non certo in vista
della celebrità. Mi ritrovo meglio nelle Confessioni di S. Agostino a
proposito de' suoi anni giovanili: "Quello ch'io volevo, quello che io
bramavo era d'amare e d'essere amato". Il bisogno di scrivere era bensì
nato in me prima del bisogno di amare, ma quando fui giunta a quella
stagione che fa cantare l'usignolo nella selva, le parole dell'ardente
vescovo africano mi apparvero come il vero specchio dell'anima mia.
Ero anche affascinata dallo stile di S. Agostino, così caldo, così
appassionato, così moderno appena che si allontani dalla disputa coi
Manichei per aggirarsi intorno ai delicati problemi della psiche. E per
il loro calore, per la loro passione, mi entusiasmai successivamente
di Foscolo, di Byron, di tutti coloro che avevano fortemente amato
e scritto d'amore. Se i libri e la penna mi confortavano nel tedio
monotono della mia esistenza, non è tuttavia su di essi che fissavo
lo sguardo per l'avvenire. Scrivevo non pensando a scrivere; all'amore
invece pensavo sempre, senza struggimento e senz'ansia, vestendo qua e
là coi colori della mia immaginazione qualche fantasma stentatello, che
non valeva più dello zufolo di Franklin pagato per argento e che era di
stagno. Ma chi non ha nei propri ricordi uno zufolo di stagno creduto
argento?

Dei classici trovati nella libreria di mio padre non ne lessi neppure
uno; li giudicavo noiosi e freddi. Data la mia ignoranza la questione
della forma non esisteva per me. Era, per disgrazia, anche il tempo
in cui gli autori dei libri più in voga non si mostravano reverenti
alla purezza della lingua; mi mancavano gli esempi nella vita come mi
era mancato l'ammaestramento nella scuola. Molto tardi e per opera di
alcuni pochi critici, che non finirò mai di ringraziare, incominciai
a preoccuparmi della forma. Non studiai ancora, perchè la sola parola
studio mi accapponava la pelle, ma mi guardai intorno, osservai,
cercando di formarmi un gusto più fine, più esigente; compresi a poco
a poco quanto l'aggiustatezza del periodo e la scelta delle parole
aggiungano forza all'idea e sono arrivata al punto di prendere un vero
diletto a vagliare i vocaboli e sentirmi quasi felice quando ne scopro
uno nuovo. Che se talvolta l'antica pigrizia mi arresta sopra una frase
fatta, tentando persuadermi dell'impossibilità di uscirne in altro
modo, allora dò a me stessa questa strigliatina: "Manzoni, D'Annunzio,
tutti coloro che sanno scrivere la troverebbero la frase giusta, la
frase unica; dunque c'è, e se c'è, bisogna cercarla!". Lenti progressi
i miei e sempre tardivi. Mi basta tuttavia una parola, un leggerissimo
colpo di sprone per andare avanti.

Mio padre, udendomi una volta cantare nel corridoio interno del nostro
appartamento, ammonì con quella sua dolce voce che anche nel rimprovero
faceva sentire la carezza: "Tu non ti ascolti quando canti; prova
ad ascoltarti". Non si poteva dirmi più garbatamente che stonavo. Mi
veniva infatti di cantare nello stesso modo che scrivevo, badando al
pensiero e non alla forma. Le romanze più sentimentali, i duetti più
amorosi erano tutto ciò che io comprendevo in materia di musica, e
quando avevo messo tutta la mia passione nella frase: _Ah! forse è
lui che l'anima — Solinga nei tumulti_ mi pareva che neanche la Patti
avrebbe potuto far meglio. C'era poi quel _Lui_ anonimo che andava
subito a posarsi sull'uno o sull'altro de' miei zufoli di stagno e
allora addio musica! Mi colavano sul volto vere lagrime.

Io sono anche disposta a sorridere ora su queste fanciullaggini della
verde età, nella quale siamo, chi più, chi meno, un po' tutti cavalieri
dell'ideale e corriamo colla lancia in resta ad espugnare mulini a
vento. Sorridiamo pure dei lunghi sospiri e delle veglie e dei primi
fiori dell'anima dedicati a persone che si conoscevano appena; uno
sguardo ricambiato, una mano che s'indugia alla stretta, tanto bastava,
e meno ancora, a immobilizzare il nostro cuore per mesi, per anni.
Il mio fratellino minore, quando smise i calzoncini corti, si prese
di una grande simpatia per una fanciulletta che vedeva qualche volta
all'uscire di chiesa, alla quale non solo non aveva mai parlato, ma che
paventava di accostare. "Il mio unico desiderio — mi disse un giorno in
grande confidenza — è di possedere un fazzolettino, un bel fazzolettino
ricamato, toccare con quello il lembo della sua veste e conservarlo
per sempre". Sorridiamo, ma dolcemente, con riguardosa tenerezza,
per non disperdere la nuvola lieve che ravvolge il bel sogno.
Quanto sarebbe brutta la vita se l'uomo affacciatosi appena dovesse
incontrare l'esperienza già fatta, con tutti i suoi compromessi, il
male già pronto con tutte le sue armi, la laidezza matura con tutti
i suoi orrori! Oh, sia benedetta l'illusione che ci lascia credere,
che ci permette di amare! Dove troveremmo la deliziosa freschezza di
quell'istante in cui, mentre ogni cosa intorno a noi è tranquilla e noi
stessi ci sentiamo tranquilli, un campanello che scatta, un uscio che
si apre, ci dà la sensazione improvvisa di avere al posto del cuore
un uccello che batte le ali? E se la camera nella quale ci troviamo
è buia, tosto si riempie di raggi, e se la percuote il sole noi vi
vediamo danzare miriadi di stelle? Che importa se tutto ciò non ha la
matematica certezza dell'abbaco? Il solo vero è dentro di noi. Quale
afferrabile bellezza sarà più bella del nostro sogno?

Ricordo l'impressione disgustosa che mi diede una bimba di quattro
anni; era il giorno di Natale e, trovandola che giocava con diversi
balocchi degni di ammirazione, uscii ingenuamente a domandare: "Sono
i doni del Bambino, nevvero?" — "Che sciocchezze! — rispose — Io non
credo a queste grullerie; li ha comperati papà". Conosco una quantità
di persone, oh Dio, quante! che in simile circostanza avrebbero
riso; io invece trasalii con quel senso di angoscia che ci prende
quando si spezza improvvisamente una cosa fragile e bella, goccia
di cristallo o candore d'innocenza. Ricordo per antitesi un caldo
meriggio d'estate, ed io in una traballante carrozzella accecata dal
sole e dalla polvere della strada maestra. Avevo quattro volte quattro
anni, buona vista e nessuna tara nel cervello, tuttavia un filo d'oro,
volteggiando nell'aria, mi turbò improvvisamente. Una ninfa, una dea,
forse, avevano nell'alba di quel giorno sciolte in quel posto le auree
chiome ed un capello, conteso dagli zefiri, ondeggiava ancora da un
albero all'altro, dall'uno all'altro cespuglio. Tutta presa dalla
visione gentile, mi esaltavo poetando, senza più sentire la molestia
del polverone e del caldo. Non pensai neanche per un attimo alla
possibilità che un filo, strappato alla frusta del vetturino e indorato
dal sole, avesse potuto creare il mirifico inganno.

Un libro che ebbe una grande influenza sul mio pensiero fu il _Viaggio
sentimentale_ di Lorenzo Sterne. Non avevo mai letto nulla di simile;
mi parve quasi di trovarmi improvvisamente dinanzi a uno specchio che
riflettesse una parte ignota di me. Come mai quel pastore evangelico
conosceva così bene una piega riposta dell'anima mia celata a me
stessa? Erano tutti i miei parenti quel viaggiatore, quel frate,
quella dama della _désobligence_; avrei voluto non staccarmene mai;
proseguire insieme ad essi il giro della terra; e non compresi allora
la psicologia ironica e profonda che spezza nel punto culminante quel
libro unico al mondo. Ma già la verga magica della rivelazione aveva
percosso la roccia chiusa; più tardi, molto tardi al solito, quando
da vent'anni non leggevo più il _Viaggio sentimentale_, lo ritrovai in
certe attitudini del mio spirito, in certi modi di contemplare la vita:
ciò senza mancare di fede alla mia appassionata ammirazione per Foscolo
e per Byron, e leggendo pure con interesse la Bibbia, il dizionario
delle Favole mitologiche e i versi di Guadagnoli. Eccomi assai lontana
dai classici e priva di orientamento, in mezzo a letture disparate.

Continuavo a scrivere, perchè erano questi i momenti più belli della
mia giornata, una valvola per mezzo della quale sfogavo pensieri,
desideri, rimpianti; ed era anche una base di conversazione perchè
tenevo circolo tutte le sere coi personaggi delle mie novelle, de'
miei romanzi e vivevo insieme ad essi come se fossero persone reali.
I piaceri della fantasia hanno sui piaceri del senso questo grande
vantaggio di non trovare ostacoli alla libera espansione; la fantasia
non conosce limiti nè leggi; il suo dominio oltrepassa lo spazio,
stringe in un solo amplesso il passato e l'avvenire, forza i cancelli
del regno della Morte. Un risveglio crudele era quando, in certe
sere di feste solenni, le mie zie si mettevano in mente di giuocare
a tombola; supplizio indescrivibile per me che detestavo ogni sorta
di giuochi e che vedevo portarmi via i pochi istanti preziosi della
mia libertà per allineare fagioli in un rettangolo di cartone. Ma
poteva l'estrattore gridare tutti i novanta numeri del giuoco, ed
altri ancora, che i numeri della mia cartella restavano sempre vuoti,
suscitando l'indignazione della zia Nina, la quale non mancava di
chiamarmi egoista, mentre io, incorreggibile ragionatrice, andavo
almanaccando perchè il mio desiderio di scrivere, che non chiedeva
sacrifici ad alcuno, fosse egoismo, e non lo fosse l'imposizione fatta
a me di sacrificare il mio unico svago per unirmi a giuocatori che non
avevano alcun bisogno dell'opera mia.


Avevo, ed ho ancora, l'abitudine di disinteressarmi de' miei scritti
appena vi abbia posta la parola fine; la sola differenza sta nel
fatto che ora li pubblico e allora li distruggevo. Non essendo per
temperamento collettrice, tutta quella carta scritta mi dava noia.
Sono d'altronde convinta di non aver disperso nessun capolavoro; vorrei
anche poter distruggere, e sarebbe meglio buona parte delle mie prime
pubblicazioni, ma spero che il tempo lo avrà già fatto. Al modo col
quale mi sono formata, studiando a vanvera, leggendo a sorte, priva di
consigli e di direttiva, dovevo necessariamente procedere a tentoni, a
urti, a sbalzi, a cantonate, arrivando tardi a quella meta dove altri
giungono di primo acchito. È bensì vero che alcuni critici troppo
indulgenti credettero di scorgere una buona promessa in quei primi
lavori abboracciati, superficiali, intinti nella pece delle cattive
letture, e il pubblico, sorpreso forse di trovare nelle mie novelle
la nota di un umorismo assolutamente raro nelle donne che scrivono,
se ne divertì senza badare alla scorrettezza della forma e mi accolse
con grande simpatia; ma io ebbi la fortuna di non inebbriarmi alle
prime lodi. Riconosco in ciò una vera fortuna che auguro e raccomando
vivamente a tutti i principianti. Non la quantità della lode soddisfa
un solido criterio, ma la qualità. Senza fissare propriamente una
meta, c'era latente in me il desiderio della qualità; sentivo di
meritarmi una stima superiore a quella di semplice novellatrice, e se
tanta sicurezza bastava per sorreggermi nella prova, devo confessare
che solamente in seguito alla pubblicazione di _Teresa_ si incominciò
a prendermi sul serio. Ero già maritata e mamma quando scrissi quel
romanzo, raccogliendo elementi psicologici che giacevano da molto tempo
nel mio pensiero; da molto tempo conoscevo la vita di provincia e il
mio spirito di osservazione si era lungamente indugiato sul problema
della donna che rimane nubile.

Tante fanciulle posarono inconsapevoli per la mia _Teresa_, ed una
che si chiamava veramente Teresa mi bastò vederla una volta sola.
Pallida e mesta, seduta in disparte dalle sue sorelle, che giovani
ed allegre scherzavano tra loro, cuciva una camicia per il fidanzato
lontano, fidanzato già da dieci anni, il quale non veniva mai, ed
al quale ella pensava sempre. Queste due antitesi, l'indifferenza di
lui, la costanza di lei: ecco il romanzo sorto in un attimo intero e
vitale. Gli altri personaggi, l'ambiente, l'intreccio, si formarono
da sè; ma il rapido sbocciare di esso, fu come il fiore del pesco che
sforza in un mattino d'aprile la corteccia del ramo nudo, coronando
nell'improvviso sbocciare dei petali il paziente lavoro delle linfe.
Non altrimenti la patetica storia della donna a cui manca l'amore
germinava da lunghi anni nel segreto delle mie sofferenze, nelle
ingiustizie di cui ero stata vittima, nella persecuzione che aveva
attossicato fin dalle sorgenti la mia ingenua giovinezza. Era il dramma
di tante anime femminili che si era ripercosso attraverso la deviazione
di un'anima sulla speciale sensibilità dell'anima mia; e che avessi
colpito nel segno me lo dissero innumerevoli lettere di ignote, e la
loro commozione e le loro lagrime e il melanconico e pur dolce conforto
di sentirsi comprese.

Non mi dilungherò a parlare dei libri che io scrissi, rammentando
opportunamente il consiglio di Jacopo Todi: _Dove è chiara la lettera
non fare oscura glosa_. Inoltre preparando queste _Memorie_ la mia
intenzione era solamente quella di far conoscere le circostanze
un po' eccezionali in cui si svolsero i primi anni della mia vita,
quegli anni che sono per lo sviluppo dell'uomo ciò che il sole e la
rugiada sono per la pianta. Poche volte nella storia si avvertirono
cambiamenti così radicali come dalla metà del secolo scorso ai nostri
giorni, e se considero ciò che erano di arretrato, fin da allora,
gli usi e le abitudini delle zie venute dalla provincia a dirigere
la mia educazione, posso credere di non essermi ingannata troppo a
giudicare che un parallelo sarebbe interessante a farsi fra quel che
ero io e quel che sono le fanciulle moderne. Ma non è di ciò che devo
occuparmi, giunta oramai alla fine de' miei ricordi, oltre i quali
la mia personalità scompare entrando in una vita nuova, con un altro
nome, in un'altra famiglia. Questa seconda vita non ho il diritto di
rivelarla al pubblico; essa d'altronde aggiungerebbe ben poco alla
veridica esposizione, che già feci, del come si andò raffinando fra
elementi contrari quella sensibilità che non esito porre alla base del
mio ingegno, qualunque esso sia. È certo che, meno sensibile, non avrei
avvertito le offese fatte alla mia coscienza e ai miei sentimenti, non
mi sarei rinchiusa in me a meditare, forse non avrei scritto o avrei
scritto in modo diverso. Ora è proprio a questo _modo_ che tengo più
che ai maggiori elogi. Non so quanti punti mi darà in definitiva la
critica; ma so che i miei lettori mi amano, so che ho fatto del bene
a molti cuori titubanti, a molte anime in pena, ed è una così grande
dolcezza quando la penso! Dovrei forse giustificare qualcuno de' mie
primi lavori impulsivi, superficiali, sciatti nella forma e acerbi
nel pensiero, ma dopo di avere qui descritta la lunga Via Crucis, che
dovetti percorrere senza aiuto di Cirenei nè pietà di Marie, che cosa
potrei aggiungere che non sia oscura glosa di chiara lettera? La mia
opera parla per me; disuguale, come forse nessun'altra, è nelle sue
stesse imperfezioni la prova migliore dello sforzo continuo verso
un'ideale più alto, e in questo sforzo sta la mia giustificazione.
_De claritate in claritatem_ è la gloria dei grandi; sia il dovere dei
piccoli: _A tenebris in lucem_.


Io fo ora come uno che, avendo colto tutti i fiori della propria
aiuola, fruga ancora le zolle cogli occhi e colle dita per vedere
se ne sia rimasto indietro qualcuno. Eccomi alla fine della mia vita
di fanciulla, Neera non è ancor nata, quantunque il bellissimo nome
scorto in un libro scolastico delle Odi di Orazio mi avesse già
colpita in modo straordinario e così tenace che allorquando, più
tardi, volli scegliere uno pseudonimo non tentai neppure di cercarne
un altro; per il momento solo l'armonico congiungimento delle sillabe
mi attrasse, stringendomi nel fascino di una nota musicale, ben lungi
dal sospettare che una nota personalità fosse già sorta in me. Gli anni
erano passati senza portare nessun cambiamento nella mia esistenza. Mi
vedo sempre nel melanconico salottino dalla tappezzeria cupa, china
sul lavoro, le membra intorpidite, tesa la mente nel vacuo e penoso
sforzo dell'aspettativa che logora l'ingegno e rammollisce la fibra;
etisia morale di tutte le giovinezze rinchiuse. E mi vedo alla sera a
leggere a voce alta il giornale che in quei primi anni di libertà stava
prendendo un grande sviluppo. Dapprima fu il _Pungolo_; naturalmente
gli articoli di politica non mi interessavano, ma fioriva allora una
volta alla settimana l'appendice letteraria e questa me la sorbivo
con compunzione. Vi si parlava di Iginio Tarchetti, di Barrili, di De
Amicis. Scriveva un certo Giulio Pinchetti, giovane di promettente
ingegno che morì suicida e io piansi come se lo avessi conosciuto.
Uscì in quei giorni _Una capinera_ di Giovanni Verga. Chi era Giovanni
Verga? Uno nuovo, un siciliano, non si sapeva altro. Ebbi occasione di
leggere il piccolo volume e ne provai una intima schietta gioia. Ecco,
dissi fra me, uno che si farà strada! Ed era contenta del piacere che
mi immaginavo avrebbe avuto lui. Gli è che sentivo un alito di vita
venirmi incontro, quella che doveva essere la mia vera vita. Perchè
invece erano tutti così lontani coloro che avrebbero calmata la sete
ardente dell'anima mia? Leone Fortis teneva lancia in resta nelle
cronache mondane. Indimenticabile quella che scrisse a proposito di
una magnifica festa da ballo in costume offerta alla cittadinanza
milanese dal Prefetto conte Pasolini. C'era la _Quadriglia delle carte
da giuoco_ colle dame nei quattro diversi costumi di regina di cuori,
regina di quadri, regina di fiori, regina di picche, e i quattro re
in costumi analoghi. C'era una _Notte_ impressionante di brividi e di
mistero; un _Fuoco_ da far desiderar il supplizio di Savonarola ecc.
ecc. Il colmo del successo fu l'entrata nella gran sala del ballo di
due elegantissime slitte russe nelle quali stavano adagiate, in nivee
vesti e pelliccie d'ermellino, due delle più belle signore della nostra
aristocrazia. Il mattino appresso, rimestando sul fuoco il latte della
mia colazione, ripensavo a tutti quegli splendori sembrandomi che il
mondo fosse più bello quando le vecchie fatine regalavano alle piccole
Cenerentole la nocciuola coll'abito di stelle per assistere alla festa
del Principe. Tutto quel fermento di vita, che aveva portato seco la
liberazione del giogo austriaco, pulsava intorno a me. Era il risveglio
di una città che, oppressa da secoli, si riscuote con un prepotente
bisogno di gioia, e i rapporti della vita cittadina, allora più intimi
e più ristretti, me ne lasciavano giungere l'eco tentatrice. Erano
le feste, erano i corsi sul bastione di porta orientale animati dalla
presenza dell'aristocrazia che vi concorreva con bellissimi equipaggi;
i ricchi borghesi facevano altrettanto, e chi non poteva andare in
carrozza, seguiva egualmente a piedi il giro del Corso. La ristrettezza
relativa della città e il buon accordo delle classi, non ancora corrose
dal veleno dell'odio, metteva il piacere alla portata di tutti e
facilitava le relazioni.


Non dico questo per me, immobilizzata nel mio angolo d'ombra e nella
mia parte di spettatrice, specola modesta dalla quale mi fu dato
seguire il sorgere e l'ingrandire di una figura femminile, che la
fortuna del nostro paese ha chiamato alla missione storica di prima
regina d'Italia. Nessun titolo più glorioso cinse nei secoli una
fronte di donna, nessuna donna accorse all'appello del destino, che
le conferiva l'altissimo compito, con mani più colme di grazie. Ella
apparve, nell'ora che l'Italia per opera de' suoi uomini migliori
assurgeva alla dignità di nazione, figlia del nostro sangue, fiore
della nostra stirpe, Margherita di Savoia, l'unica, la predestinata.
Quando entrò diciassettenne in Milano, sposa da pochi giorni,
sembrava una bambina. Seduta per la prima volta al posto d'onore nella
carrozza, coi lunghi capelli biondi fluenti sull'abito di mussolina
rosa, terminando di calzare sulla mano il piccolo guanto, sorrideva
al pubblico con amabile candore. Piacque subito, quantunque per
l'età immatura non si potesse chiamare bella, piacque e si attese;
nè l'attesa fu delusione. Di volta in volta che veniva a Milano, e
veniva spesso, il pubblico si mostrava sempre più conquistato; la
gentilezza, il tatto, l'intelligenza colla quale rappresentava la sua
parte di futura regina erano davvero sorprendenti. La maternità le
portò anche il dono della bellezza, una bellezza tutta sua che sfuggiva
all'analisi, bellezza di luce e di colori come una fiamma accesa
improvvisamente dietro la trasparenza di una immagine. Mi indugio
a proposito in questa descrizione sperando di lasciare un ritratto
veritiero di Margherita di Savoia che la fotografia si è affaticata a
riprodurre in centinaia di pose invano, sempre invano; che i pittori
in possesso della tavolozza credettero di rendere accumulando l'oro
e la madreperla, le più tenere rose e l'azzurro più delicato senza
avere maggior fortuna. Solo un poeta ci diede di lei la nota giusta,
Carducci. Già nei primi versi dell'Ode, in quella magnifica invocazione
così travolgente di entusiasmo:

    Onde venisti? quali a noi secoli —
    Sì mite e bella — ti tramandarono?

sentiamo di trovarci dinanzi a una donna non comune. Quali a noi
secoli ti tramandarono? Che lunga schiera di eroi, di guerrieri, di
re, composero la psiche di costei che ha lo sguardo d'aquila e di
colomba? Tale era veramente lo sguardo di Margherita quando nella prima
floridezza dei vent'anni passava in mezzo alla folla dominandola.
Ella aveva un modo speciale di guardare e di salutare in pubblico,
per cui ognuno restava convinto di avere avuto individualmente quel
saluto e quello sguardo. La sua presenza dava la gioia, e di questa
gioia era prodiga uscendo tutti i giorni per le vie più frequentate,
esercitando colla sua fine intelligenza, colla sua femminilità sempre
vigile, l'arte difficilissima di farsi amare dal popolo. Aveva a tal
uopo delle trovate geniali. Comparve una volta al corso estivo sui
bastioni portando, invece del cappello, un velo nero alla lombarda,
capricciosamente rialzato, coi cinque grossi spilloni d'argento
delle contadine brianzole. Fu un ardimento e fu un successo. Ella era
d'altronde una di quelle rare donne a cui tutto sta bene; le tinte
più arrischiate impallidivano al confronto della sua carnagione di una
freschezza meravigliosa. Ma mi accorgo di accumulare anch'io parole su
parole e non riesco a far comprendere che cosa sia stata per l'Italia
nuova questa regina fanciulla, come senza eccezionalità di mente,
senza bellezza assoluta, senza ambizione di dominio, per la sua sola
grazia, per la luce della sua anima, traesse a sè tutti i cuori. Opera
profonda di politica compresa con geniale intuizione del momento, vero
trionfo di femminilità regale accanto ai trionfi del re guerriero.
L'Italia non deve dimenticare quanto contribuì Margherita di Savoia
a rendere cordiali i legami fra reggia e popolo. Dopo il delitto di
Monza non venne quasi più a Milano. La incontrai poco tempo appresso
in una via solitaria della Roma moderna. Nella carrozza abbrunata che
avanzava lentamente, una forma indistinta si intravedeva appena sotto
il fittissimo velo di lutto; celato il dolce sguardo tra d'aquila e di
colomba; assente il sorriso che aveva dominato le folle; ermeticamente
chiuso il bel volto sul mistero della sua luce. Pure attraverso un
movimento quasi impercettibile del velo riconobbi la linea elegante
del suo saluto, quel chinare del capo così grazioso, come non vidi
in altra donna mai. L'ultima visione che me ne era rimasta portava la
data inaugurante la prima Esposizione di belle Arti in Venezia, dove
Ella apparve nella maturità della sua avvenenza, circonfusa ancora dal
duplice fascino femminile e regale che la faceva sovrana per diritto
di natura e, a ritrovarla in quella via deserta della Roma moderna
tanto mutata d'animo e d'aspetto, mi si strinse il cuore. Lesse Ella
forse il rispettoso compianto nel breve inchino della sconosciuta,
poi che con tanta grazia rispose; e se mai questa pagina dovesse per
singolare fortuna cadere sotto gli occhi della Augusta Donna, voglia
Ella accogliere con pari grazia l'omaggio di una suddita, che non brigò
mai l'onore di esserle presentata, ma che ammirò sempre in Margherita
di Savoia l'ideale realizzato della prima regina d'Italia.


Tra le molte esperienze che mancarono alla mia giovinezza, devo tener
conto anche delle malattie. Io non avevo ancor visto un ammalato,
quando mio padre si lagnò di un malessere per il quale fu chiamato il
medico. Bassotto, tarchiato, rosso in viso, cogli occhi che sprizzavano
salute, questo giudizioso seguace di Esculapio (che seppe vivere quasi
novant'anni) formava un contrasto perfetto col mio povero padre, sempre
triste e malinconico, alto, sottile e pallido come un cero. Il dottore
tuttavia non tenne conto di questi sintomi e non ordinò medicine.
Disse appena: "Su, su, non si lasci abbattere, non è il caso, lei
è sanissimo, stia allegro, mangi dei buoni risotti e non pensi agli
anni. Ne abbiamo sessanta? Ebbene siamo uomini, uomini capisce? non
vecchi!" Se ne andò lasciandoci nel cuore una sicurezza che ci rese
tutti ciechi; così all'indomani mentre egli si lagnava ancora di essere
stanco e le sue sorelle gli ripetevano le parole del dottore, io,
chinandomi per baciarlo, sentii che diventava freddo. Al contatto delle
mie labbra mormorò una sola parola: "Mi raccomando" e mi guardò; ma la
pupilla era già spenta, il suo sguardo veniva dall'al di là.

                             . . . . . . .

Che dolore fu quello, non di parole nè di soverchie lagrime! Ma, come
vuole il mio temperamento, discesi più profondamente in me, scavai
nell'anima mia il sepolcro per quel padre adorato e da allora, non più
divisa da ostacoli, soli noi due, vivemmo sempre insieme. Già fin dalla
prima notte che me lo portarono via andai nella sua camera; le finestre
erano aperte e vi entrava la luna. Subito fui presa da una grande
dolcezza come se egli fosse ancora presente e mi dicesse "Vedi? non
ti abbandono". Perchè non sarebbe vero? Io intanto lo sentivo vicino a
me e mi pareva che mi guardasse. Il raggio della luna si era adagiato
sul letto fluido e molle a guisa di fantasma. Mi avvicinai, tesi le
braccia... "Oh! se egli potesse vedermi davvero, vedere una volta
almeno quanto lo amo!" La vita ci aveva divisi, la morte ci univa in
uno sposalizio d'anime. Nessuno ci avrebbe disgiunto mai più. Da quella
notte il mio dolore divenne la mia forza. Incominciai allora veramente
a vivere con mio padre, a interrogarlo e in ogni circostanza difficile
a pensare in qual modo si sarebbe comportato lui stesso. Tenendolo così
sempre presente mi sembrava di prolungare il suo soggiorno sulla terra
e, poichè era entrato a far parte della mia vita interiore, non avevo
quasi bisogno di parlargli: lo sentivo respirare nel respiro della mia
coscienza. Pochi giorni prima di morire mi aveva detto che gli piacevo
con un certo nastro rosso intorno al collo, ed io _per fargli piacere_
lo misi ancora un giorno. La zia Nina dichiarò che ero senza cuore.

   [Illustrazione: Bassorilievo di LINA ARPESANI]

Se lasciando la sua forma terrena, lo spirito di mio padre non fosse
rimasto così tenacemente avvinto al mio proprio spirito, se non mi
fossi sentita io stessi la continuatrice, la mia solitudine non avrebbe
avuto conforti. Nutrivo per il maggiore de' miei fratelli, Luigi, una
ammirazione appassionata che poteva sfogarsi solamente nelle lettere
di famiglia essendo lui quasi sempre assente, prima per l'Università
alla quale si iscrisse giovanissimo, poi per la campagna garibaldina,
poi per la scuola alla Veneria di Torino, uscendone ufficiale
d'artiglieria e dando nello stesso tempo gli esami al Valentino per
la laurea di ingegnere. Egli aveva ricevuto dalla natura tutti i doni
del corpo e della mente, per cui un alto problema di matematica gli
riusciva altrettanto facile quanto un esercizio di equitazione, di
nautica o di ballo. Di esame in esame, passò allo Stato Maggiore, alla
direzione della scuola di guerra, alle Ambasciate; mai una volta gli
venne assegnata in sede la sua città nativa, e per quanto il nostro
reciproco affetto non ne subisse menomazione di sorta, la vita ci
tenne lontani non solo, ma divisi da tutto un ordine di fatti e di
idee; lui brillante ufficiale della nuova Italia a contatto colle
lusinghiere realtà de' suoi vent'anni, io meschina Cenerentola nutrita
di magre fantasie. L'altro fratello era più giovane di noi, e il
candore, la semplicità dell'animo suo me lo facevano considerare un
eterno fanciullo. Aveva delle manie innocenti: per un po' di tempo
si pose a fabbricare scatole e scatolini; in seguito furono libri e
libriccini, detronizzati da una raccolta multicolore di bastoncini
di ceralacca. Studiava anch'egli matematiche e basta l'evocazione di
questa parola per comprendere la differenza intellettuale che esisteva
tra me e i miei fratelli; erano orizzonti inesplorati di idee, campi
di osservazione sui quali non potevamo incontrarci. Io restavo sempre
prigioniera della esuberante mia attività interna. Essi discutevano del
calcolo integrale e differenziale, mentre a me cantavano nelle orecchie
i versi di Byron e per contrapposto gridavo al vento: "No, no, Ossian
non mi piace! È noioso".


Gli ultimi avvenimenti della mia famiglia paterna corrono al loro
fine. La povera zia Nina morì di vaiolo nero in due o tre giorni e
Stefano, poichè io ero già accasata, rimase solo colla zia Margherita;
l'anziana e il più giovane rampollo. Stefano si era appena laureato
ingegnere e dal Politecnico stesso gli fu proposta la direzione di un
grande stabilimento industriale a Rivarolo Ligure. Mi ero immaginata
qualche volta il mio ingenuo fratellino curato di villaggio o medico
condotto ad ascoltare con paziente benevolenza i peccatucci de' suoi
parrocchiani, od apparire sulla soglia dei miseri casolari apportatore
di sollievo a chi soffre, od anche, poichè egli era di spiriti gai e
festevoli ed incline alla onesta allegria, seduto sotto una pergola
brindare alla festa della vendemmia. Tutto questo sì. Ma il bamboccione
che scherzava sui ginocchi della zia Nina, il timido giovinetto
che sognava di toccare con una pezzuola aerea il bianco lembo di un
abito verginale, il neo ingegnere che non aveva mai passato una sera
fuori di casa, lanciato così di punto in bianco nel bailamme di una
officina genovese, capeggiando trecento operai di modi risoluti e
d'ostica favella, era una cosa che non mi persuadeva. Egli invece partì
tranquillo e sereno come per una partita di pesca, portando seco la
nostra cara vecchietta, o _vecchiorla_, secondo il mio vizio inveterato
di storpiare i nomi delle persone care.

I fatti, con mio felice scorno, diedero ragione a Stefano.

Accolto sulle prime con un po' di diffidenza, quel _foresto_
mingherlino dalla gentilezza di fanciulla, la sua franca condotta, la
lealtà del suo procedere, gli conquistarono a poco a poco fabbrica e
paese; i vecchi lo approvavano, lo stimavano i giovani, e le matrone
con figlie da marito non gli lesinavano i loro complimenti. C'era
però sempre la massa imponente di trecento operai da tenere in freno.
Mio fratello si era fatto amare anche da loro sul principio di una
giustizia al pari per tutti; ma della giustizia, al pari di tante
altre belle cose, si possono fare almeno due versioni: una che serve
per chi ha ragione e l'altra per chi ha torto. Avvenne per ciò che
un bracciante, ribelle a qualsiasi persuasione di dovere, si fosse
creato centro di un tale focolaio di discordia e di cattivo esempio da
decidere mio fratello a licenziarlo. Il fatto in sè stesso non usciva
dalle regole di una giusta disciplina, ma pare che l'operaio stesse
meditando quella tale versione della giustizia a modo suo, perchè
qualcuno avvertì mio fratello di stare in guardia, avendo colui giurato
la sua vendetta. "Dite a colui — rispose l'anima blanda del mio Stefano
— che vado tutte le sere a trovare la mia fidanzata a *** e che ritorno
a buio fitto per un dedalo di viuzze tortuose dove non penetra raggio
neppure nelle notti di luna, e che non porto armi".


Il 18 febbraio 1881 fui svegliata da un telegramma di Stefano che mi
annunciava essere la nostra zia Margherita agli estremi. La sapevo da
qualche tempo indisposta, ma ero ben lungi dall'immaginare la gravità
del male. Senza pôr tempo in mezzo corsi a prendere il primo treno
per Genova. Era forse la peggiore giornata di quell'inverno; freddo
intenso e neve a tutto scendere; tuttavia l'impressione più violenta
del maltempo l'ebbi quando, lasciandosi dietro la pianura lombarda,
il treno entrò sbuffando fra le due pareti di roccia che formano la
vallata della Scrivia.

Avevo avuto fino allora l'abitudine di fare quel viaggio nella stagione
dei bagni, per cui uscendo dalla estiva fornace milanese tendevo
ansiosa la gola riarsa al primo apparire della Scrivia, balzante di
sasso in sasso, con una gaia promessa di frescura, e mi trovai invece
in un deserto di neve, così triste e melanconico e desolatamente
freddo, da agghiacciarmi quel po' di calore che mi restava ancora nel
sangue. Oh! come può la condizione del tempo cambiare siffattamente
la fisionomia di un paesaggio? Dove erano più nei villaggi liguri
le piccole case dipinte di rosa colle foglie di basilico messe ad
asciugare sul tetto e le ghirlande di pomodoro appese ai balconi? La
neve copriva, sfondava, inabissava tutto; e insieme alla neve un vento
di burrasca schiantava gli alberi ululando.

Il peggio fu quando, discesa alla stazione di San Pier d'Arena, il
controllore mi strappò di mano il biglietto spingendomi fuori con
grande premura di serrare le vetrate, ed io, per prima cosa, mi trovai
a non vederci più, perchè una folata di vento mi aveva rovesciato
il cappello sugli occhi; nè fu breve impresa districare il cappello
dalla veletta avendo le mani occupate da una valigia, un ombrello, uno
scialle, e il vento che soffiando proprio verso di me, mi cacciava
negli occhi turbini di nevischio e mi sbatteva le sottane contro le
gambe, impedendomi di fare un passo. "Un facchino! almeno un facchino
per portarmi la valigia!" Cacciavo questo grido di disperazione tra i
ghiacciuoli del mio fiato, ma non c'era intorno anima viva. Le poche
persone giunte insieme a me, si erano squagliate in un battibaleno;
attraverso le vetrate chiuse della stazione non scorgevo altro che usci
chiusi. Da quella parte non c'era speranza di aiuto. Mi ingegnai allora
a discendere sola la scarpata che conduce al paese, trascinandomi
dietro il mio bagaglio, aguzzando gli occhi verso lo stradale per il
quale doveva passare il modesto tram che conduce a Rivarolo.

Ma non si vedeva che neve. San Pier d'Arena era trasformato; case,
botteghe e finestre tutte sbarrate ne avevano trasformato l'aspetto; e
la solitudine e il profondo silenzio di quei luoghi così pieni di vita
e la necessità di combattere ad ogni passo col vento che mi spingeva
indietro incominciavano a confondere la mia abilità topografica, che
non è mai stata forte, finchè vidi un sacco che scivolava lungo il
muro, e sotto il sacco due gambe d'uomo. "Per carità, mi dica dove
posso trovare il tram di Rivarolo!" implorai con tanto impeto che per
miracolo non caddi nella neve io, la valigia, lo scialle e l'ombrello.
Il sacco non si fermò, non si volse neppure dalla mia parte, solo
una voce sgarbata rispose: "Eh! sì, vada a pigliare il tram oggi!"
Scomparso rapidamente l'uomo dal sacco, non si scorgeva alla lettera
più nessuno, nè un cane, nè un gatto, nulla. L'effetto che mi fece
allora la misera vetrina di un mercantuccio, priva di imposte, col
vetro sconquassato, dalle cui fessure il vento penetrava furioso
facendo roteare e ballonzolare tre cuffiette da bimbo appese ad una
funicella! Ma che nascono ancora bimbi in questa fine del mondo?!

Intirizzita, abbattuta dalla cattiva piega degli avvenimenti, pensando
che ogni minuto di ritardo poteva essere fatale per lo scopo del mio
viaggio, mi trovai dinanzi a una porticina vetrata che una tendina
rossa indicava essere una osteria. Non era il caso di starci a
discutere sopra; picchiai risolutamente. Una donna grassa e lenta venne
ad aprirmi, guardandomi con indifferenza, ma alla mia domanda dove
avrei potuto trovare il tram di Rivarolo, disse subito che non c'era
nemmeno da pensarci, con quel tempo, un tempo mai visto! Replicai se
fosse possibile trovare una carrozza. "Ma chi vuol mai che metta fuori
una carrozza con quest'ira di Dio?" soggiunse l'ostessa, e concluse
suggerendomi di dormire la notte a S. Pier d'Arena, che l'indomani si
sarebbe provveduto.

Ma la mia insistenza a voler partire dovette essere stata ben tenace,
perchè mezz'ora dopo salivo in un trabiccolo che giaceva abbandonato
nel cortile, uno di quegli antichi omnibus chiamati in paese scimmie,
non so perchè; una vera carcassa spelacchiata che aveva perduto
l'imbottitura, sulla quale dal soffitto sforacchiato nevicava come in
piazza e vi nevicava certo da parecchie ore essendosi già formato una
specie di rivoletto che dovetti saltare alla meno peggio per prender
posto sullo stretto sedile dove rimasi appollaiata: rassegnata oramai
alla mia sorte apersi l'ombrello. "Cara zia Margherita, in quale stato
l'avrei trovata?" Questo era il pensiero dominante, il pensiero unico,
mentre lo strano veicolo a trabalzi e a scossoni mi portava attraverso
un deserto di neve verso la tristissima meta. Ma prima ancora di
giungervi dovetti abbandonare la mia arca, per il fatto della sua
mole antiquata, che non le permetteva di passare negli stretti vicoli
che precedevano la casa di mio fratello, nella quale potei finalmente
entrare solo dopo di avere sfangato un mezzo metro di neve per
praticarmi un passaggio.

C'erano tutti e due i miei fratelli, e dall'espressione dei loro visi,
compresi che tutto era finito. Mi confermarono che era morta nella
notte e prima di entrare in altri particolari, vedendo che gocciolavo
da ogni parte, mi trassero dinanzi al caminetto acceso e lì stettimo
noi tre, soli superstiti della nostra famiglia, a ragionare di tante
piccole cose lontane che in quel posto e in quell'ora acquistavamo una
trasparenza di rivelazione. A un tratto Luigi mi disse: "Vuoi vederla?"
"Certamente" risposi, ma le forze non erano con pari prontezza sicure e
il cuore mi palpitava di pietà. Tuttavia volli rimanere sola colla mia
cara morta.

Volli che ella mi vedesse in quell'attimo di suprema verità. Giaceva
bianca e morbida nella cassa aperta. Un leggero gonfiore intorno alle
guancie le aveva raddolcito i contorni, rischiarata la carnagione.
Il suo volto asciutto, tormentato dall'ardore, si era composto nella
divinità della morte. Nessuna traccia più delle sue collere violente,
nè de' suoi sarcasmi. O mia Màrgula cara, Dio, che non ti aveva
concesso le ali dell'angelo, in premio delle tue virtù ti aveva dato la
spada del guerriero, e quella brandendo combattesti le tue battaglie
per il bene. Come riposi ora tranquilla, Màrgula, Margulina mia! Le
parlavo a voce alta, non so se colla speranza che avesse da intendermi,
o per il semplice bisogno di intrattenermi ancora una volta con lei,
sotto la protezione del mistero di cui sentivo l'augusta presenza; nè
mi accorsi del tempo che fuggiva, nè mi fu breve l'indugio. La voce
sommessa dei miei fratelli dalla saletta mi chiamò ripetutamente.
Allora mi chinai per l'ultimo addio sul feretro che tra poco avrebbe
risuonato dei colpi, sinistri del martello: Addio per sempre! Una
lagrima cadde da' miei occhi su un ramicello di camelie regalatomi
poc'anzi dalla moglie del dottore e che mi era rimasto fra le dita. Con
movimento istintivo posai fiore e lagrima sul petto della cara estinta,
mormorando: "Lo sai, ora, che ti voglio bene?..."


Uno dopo l'altro tutti i miei vecchi sparivano così, lasciandomi
un gran vuoto nel cuore. La zia Carolina si era abbattuta
sull'inginocchiatoio, un mattino, mentre recitava le orazioni,
chiudendo senza malattia la serena vecchiaia trascorsa nella pace degli
affetti domestici, nella casa avita eretta sulle rocce del castello che
aveva appartenuto alla famiglia di suo marito, serbando fino all'ultimo
il suo dolce e composto sorriso, la sua tenera affezione per me, tanto
ricambiata, ricordata sempre.

Ultima rimaneva la zia Claudia, trascinando quella sopravvivenza a
sè stessa che è la forma più malinconica dell'invecchiare. Il corpo
che si trasfigura perdendo le linee e i colori, il brio di vita che
si ottenebra a poco a poco, anticipando nella mente il buio dell'al
di là, accompagnano la dipartita dell'essere caro di uno sconforto,
quasi una umiliazione che nessuno se non l'ha provata può intendere.
Oh! bello trasvolare, come la zia Carolina, dall'uno all'altro mondo
prima che la malattia ci afferri, che la decadenza ci scomponga,
trasvolare, puri d'anima e di corpo, in una elevazione dello spirito
a Dio! Già da qualche anno la povera zia Claudia era entrata in quella
trasformazione di tutta la persona che fa dire con una frase popolare,
ma efficacissima: "Non è più lei!" E intorno a lei, nell'isolamento
pieno di tristezza e di rimpianti in cui viveva, ogni cosa era
cambiata, logora, sfasciata, morta innanzi ancora che lei morisse. Un
peggioramento improvviso, del quale non fui avvertita, pose fine alle
sue sofferenze.

Nel treno, che mi conduceva a Caravaggio il giorno del funerale,
pensai che vedevo questo paese per l'ultima volta, e nel mettere piede
sull'ampio viale del Santuario, mi sentii battere il cuore. Tutta la
mia vita risorgeva da quell'oasi, dove avevo passato i più bei giorni
della mia infanzia e dove sapevo di dover trovare solo una nuda bara.
A passi lenti, con una esitazione sacra per tutte le memorie che si
ridestavano in me, mi avviai verso il paese, fermando gli occhi su
ognuna di quelle fronde, su ognuno di quei muricciuoli o di quelle
panchine tra albero e albero come per fissarne il disegno nella mia
mente. Entrai nella piccola chiesa di San Bernardino, alquanto profana
nel suo barocco voluttuoso e nelle pieghe delle cortine che abbracciano
gli altari con morbidezza di alcova, ma tanto cara alla mia visione
fanciullesca per i bei colori dell'ornamentazione e per quell'aria
vecchiotta che in ogni tempo mi tenne sotto il suo fascino. Dinanzi
all'arco a tre porte che mette al paese, colla statua della Madonna
campeggiante nel mezzo, fiancheggiata da due angeli che imboccano la
tromba, una attrazione magnetica mi fece volgere gli sguardi sullo
squallido fabbricato, a destra entrando, così squallido e repulsivo,
ma che si illuminava a' miei occhi di ridenti e splendenti immagini
perchè, appena voltato l'angolo, sapevo di trovare quella reggia di
tutti i sogni, che era la casa dei miei nonni. "Dopo, dopo — dissi per
calmare la mia impazienza — anzitutto il dovere"; e voltai a sinistra
dove per viuzze secondarie delle quali improvvisavo il ricordo passo a
passo, giunsi a quella che era stata la dimora della zia Claudia.

Nelle rare ed affrettate visite, che le facevo durante gli ultimi anni,
per non perdere un solo istante della di lei compagnia, non uscivo
nemmeno dal salottino angusto in cui si spegneva la sua attività,
che era stata così grande, così prodiga di sè stessa. Questa volta
invece, sapendo di non tornare più, volli compiere un giro pietoso
nelle stanze deserte, sotto il portico, attraverso il giardino, un
giorno così lieto di fiori, di frutta e di fanciulli. Ad ogni passo
era una desolazione; del giardino non restava più nulla; alberi e
fiori divelti, appena qualche erbaccia, pestata dai gatti, macchiava
qua e là il terreno di chiazze giallastre fra le quali razzolavano
tre o quattro galline, sollevando mucchietti di terriccio. Filosofo e
prigioniero, solo l'alloro rimaneva appoggiato al muro, curve le rame
sulla fossa dell'immondezzaio. Mi sovvenni allora che egli mi aveva
ispirato una delle mie prime riflessioni sui rapporti fra la natura
e l'uomo. Dovunque girassi lo sguardo i ricordi sorgevano. Riconobbi
la sedia sulla quale la zia Claudia faceva sedere le povere donne che
venivano a farsi strappare un dente o a prendere consiglio dal dottore;
non serviva mai per nessun altro e giaceva ancora sotto il portico,
quantunque il dottore fosse morto da molti anni; giaceva rudero
abbandonato in mezzo alle altre rovine, ai muri che si scrostavano, ai
parati stinti, ai mobili appannati, agli specchi opachi; vecchiaia e
distruzione di tutte le cose intorno a una povera vecchia, che si era
sentita morire ogni giorno un poco, insieme alla sua casa che moriva.
Salii, da ultimo, la breve rampa dello scalone, dove volava un tempo
il mio piede leggero per andare a beccuzzare i chicchi oblunghi d'uva
galletta, che dal giardino saliva a vestire il terrazzo di grappoli
biondi, dei quali rimaneva, unico ricordo, un macabro intreccio
di ceppi arsicci e contorti. Posava sovr'essi in quel momento una
cocciniglia rossa che mi parve l'anima sopravissuta della mia prima
gioventù. E sulla parete dello scalone — oh! sorpresa dolcissima — ecco
intatti i versi dell'_Edmenegarda_ quali io ve li scrissi:

    «O giovinette, gioia vereconda....».

Ed ora l'ultimo pellegrinaggio, il più tenero, il più doloroso.
Da molti anni non attraversavo il paese, dall'infanzia forse.
Affacciandomi alla piazza mi parve di sognare. Fra me e le cose intorno
si interponeva uno spazio confuso, come se il tempo trascorso vi avesse
sospesi veli di nebbia a rendere i contorni meno materiali. Qualche
indizio di tale stato d'animo dovette trapelare dalla mia persona,
perchè dalla soglia delle botteguccie, dinanzi ai canestri delle
ortolane, alcuni curiosi stavano a guardare questa incognita con una
certa meraviglia per il fatto che se un forestiero va a Caravaggio,
ci va per il Santuario e non per vedere il paese. Avevo una gran
voglia di gridare: "Badate, non sono forestiera, ho conosciuto questo
paese prima di voi, vi ho succhiato il primo latte...". Fantasticava:
"se incontrassi la mia nutrice? o i suoi figli? o la mercantina che
mi vendeva gli spilli dai variati colori? ma no, vaneggio, tutti
sono morti!...". Improvvisamente mi trovai dinanzi ad un ammasso di
calce mostruosamente tormentata e sforacchiata che mi diede l'esatta
impressione di un pugno negli occhi. Oh! Dio, cos'è questo? Una casa in
stil novo, in stile _liberty_? E ciò a Caravaggio!

Una malinconia sottile si impossessò del mio spirito; mi sentii
straniera, atomo disperso di una generazione lontana. Il senso della
morte non mi era mai apparso così generale e profondo negli uomini,
nelle cose, nel pensiero, nel sentimento. Ma quando la vidi, essa,
l'arca santa dei miei anni migliori, la casa benedetta dei miei
nonni, non ebbi più alcun pensiero, nè di morte, nè di vita. Dovetti
appoggiarmi alla casa di contro, perchè mi si piegavano i ginocchi, e
di là guardai attraverso le palpebre umide, le sei finestre della bella
facciata semplice e la finestretta dell'ammezzato dove la zia Carolina
mi insegnava:

    «Arlequin tient sa boutique».

Vedevo pure di scorcio la chiesetta di S. Giovanni dove mio padre e
mia madre si erano sposati, e una grande tenerezza mi disfaceva il
cuore. A passi guardinghi, come se stessi per commettere un delitto,
traversai la strada e mi avvicinai alla porta. Era chiusa. Trattenendo
il respiro mi posi in ascolto. Nessuna voce, nessun rumore. Tremavo in
tutte le vene. Quel piccolo ordigno di ferro sul quale le mie pupille
si fissavano ipnotizzate era il saliscendi che la mano piccoletta
aveva premuto tante volte.... La mia commozione è al colmo, non posso
resistere, il desiderio è più forte di me. Appoggio un dito e la porta
si apre scampanellando. Che momento!

Al suono improvviso accorse una servetta chiedendomi chi cercavo.
Non avendo alcun piano prestabilito, dissi a caso il primo nome che
mi passò per la mente, intanto che i miei occhi frugavano ansiosi
l'andito, delusa di trovarlo non più quale era rimasto nella mia
memoria, ma scialbo, triste e muto, imbiancato da cima a fondo come un
sanatorio, in luogo della calda tinta ambrata d'un tempo che sembrava
trattenere sulle pareti il palpito della vita. Avrei voluto andare
avanti, penetrare nelle stanze, nella cucina sonora di voci, splendente
di terse stoviglie, vedere se qualche vestigio rimanesse ancora dei
tempi felici; chiudere gli occhi e trovare al buio la bella sala colle
paradisee e lo spicchio di cocomero dipinto sul soffitto, l'angoluccio
dova la vecchia Teresa preparava il corredo della mia bambola, la
camera ridente dei miei sonni infantili colle ampie tende azzurre
a ghirlande di rose che palliavano sulle finestre i primi raggi del
mattino; ma la servetta teneva aperta la porta con un tacito invito.
Per guadagnar tempo le chiesi a chi apparteneva ora la casa; mi disse
che vi abitava il direttore dell'ospedale, e questo fu l'ultimo colpo
della realtà che disperse i dolci fantasmi del passato. Un istante
ancora, un ultimo sguardo, ferma sulla soglia ad invocare l'impossibile
miracolo, poi uno scroscio di pianto ricacciato in gola e la fuga.



EPILOGO


Eccomi alla fine di queste memorie scritte fra gli spasimi della carne
e i tormenti dello spirito, costretta a tutte le rinuncie, inchiodata
sulla mia croce, mentre intorno a me imperversa l'orribile guerra
facendomi sentire crudelmente l'umiliazione della mia impotenza.
Incominciate senza sapere neppure se il male che mi distrugge avrebbe
consentito di condurle a termine, compie oramai l'anno da quando vergai
le prime parole in una chiara alba di luglio; ed oggi, come allora,
dal breve angolo del mio terrazzo, che mi è consentito vedere, il
caprifoglio spande la sua fragranza, la glicine che non ha più fiore
agita sullo sfondo del cielo le rame vaporose, maggiorana e menta
esalano la canzone silvestre dei giardini primitivi.

Quando, acerba fanciulla, in certi mattini d'inverno indugiavo sola
presso il focolare scrivendo con un fuscello un nome nella cenere,
la vita mi stava davanti ed i miei sguardi vi si figgevano ansiosi,
ma tutto era buio e mistero. Ora che mi sta alle spalle la contemplo
nella sua interezza e mi chiedo se la vita, questa vita che edificai
io stessa colle mie passioni e colle mie illusioni, mi ha dato tutto
quello che io cercavo. Pensando alla infinità dei beni che mi furono
negati, agli ingiusti apprezzamenti, all'infanzia compressa che mi
lasciò per sempre l'incertezza, l'impaccio, la timidità sofferente di
coloro che portarono a lungo una catena al piede, dovrei concludere che
la vita mi fu matrigna e tiranna. Eppure trassi da essa le maggiori
gioie che io abbia mai desiderate: amare e pensare e avere nelle mie
mani un istrumento per esprimere tutto ciò. Poichè non mi prese mai
desiderio di lusso e di ricchezze, e l'ambizione e la vanità mi furono
del tutto ignote; abitai l'anima mia; come i califfi delle novelle
orientali abitavano i loro palazzi, lungi dai rumori della folla,
chiusi tra giardini meravigliosi dove saliva il canto delle fontane
in zampilli d'argento e la sabbia dei viali era cosparsa di pietre
preziose. O meglio, sì, meglio ancora, uno di quei conventi sospesi tra
cielo e mare, sovra un picco inaccessibile, laggiù nell'Asia profonda,
cinti dal misterioso silenzio delle solitudini.

Dovrei lagnarmi della vita se, ad onta dei limiti ristretti tracciatimi
dal destino, ebbi tutto il possibile di ciò che mi piacque? Non ho
io conosciuto gli slanci dell'anima verso la bellezza infinita e le
divine estasi del pensiero, accostandomi riverente alla comunione
dei grandi? Quale rovescio di fortuna, fra quelli che da un giorno
all'altro distruggono la felicità di una famiglia, potrebbe togliermi
la inenarrabile dolcezza delle ore trascorse nell'estasi di un sogno?
Ed anche oggi, che tutto è finito, che i miei giorni si chiudono nel
dolore e nello spasimo, ti benedico mille volte o vita, poi che tu mi
donasti i due grandi beni spirituali di poter pensare e di saper amare.
Nata idealista muoio nella fede ideale. Tutte le colpe del mondo non
riescono a provare che la virtù non esiste; il solo desiderio che noi
abbiamo di essa è un segno della sua presenza fra gli uomini.

Vedere solamente il male è una manchevolezza di chi guarda, non un
errore della natura. Noi possiamo essere tanto sfortunati da non
incontrare, nel corso della nostra esistenza, un solo campione che ci
faccia credere nel bene; ma come avremmo noi coscienza di questo bene
se non lo sentissimo nei più profondi abissi del nostro io? Dobbiamo
credere più agli altri che a noi stessi? Sarebbe come disconoscere
il più alto suggello della divinità posto sulla nostra fronte. Sono
convinta che la forza, dalla quale trassi il modo di resistere alle
scoraggianti esperienze della mia giovinezza, fosse appunto questa
attitudine sicura della mia coscienza, la stessa per la quale ad
onta della mia triste infanzia non mi sono mai sentita interamente
infelice. Citare in proposito un verso di Dante può sembrare soverchia
presunzione ma, è pur vero che l'uomo, pari alla «_fronda che flette
la cima_» non resiste contro i disinganni se non opponendo la propria
virtù.

Siate interni, dice l'Apostolo; queste due parole dischiudono un
mondo. I beni esterni vengono e vanno; solo ciò che noi abbiamo
nell'anima rimane. Rimane immortale quando il genio di Marco Aurelio,
di Leonardo o di Dante ne imprima la vasta orma nei secoli; ma filtra
pure modestamente di generazione in generazione, sorretto dalle piccole
virtù quotidiane, che formano la dignità della famiglia e una non
spregevole forza delle nazioni.


Più avanzavo negli anni e più sentivo svilupparsi in me la pensosa
anima di mio padre. A mezzo secolo dalla sua morte io lo interrogo
ancora e più che mai mi rammarico di non aver prese maggiori notizie
su di lui da quel vivente archivio della famiglia che era stata la zia
Margherita. Ebbi, però, recentemente la fortuna di trovare un grosso
volume di lettere dove figurano quasi tutti i miei parenti e la gioia
della scoperta fu tale che dura tutt'ora, mettendomi nella comunione
così intima della corrispondenza epistolare, non solo con quelli
fra essi che conobbi ed amai, ma anche con altri morti prima che io
nascessi.

Che fascino sottile hanno le lettere dei morti? Si pensa al momento in
cui le scrissero, lo si rivive insieme, si dice: "Mai più immaginava
che io dovessi leggerla!" Ci prende uno scrupolo, un tremore riverente
di fedele in presenza di una reliquia. Come si aprono adagio per timore
di sciuparle! E si fanno delle scoperte, troviamo delle sorprese; un
nome, una data, un accenno che ci rischiarano su tante cose passate;
sorrisi e lagrime di vita vissuta, cuori dei nostri vecchi che si
aprono a noi dai loro sepolcri.

Lettere intorno al 1830-40 della mia mamma in collegio alla mamma
sua ed alle sorelline; foglietti rosei od azzurri e nelle grandi
circostanze incorniciati di arabeschi d'oro; frasette scolastiche
riboccanti di gentilezza e di tenerezza, pari al grazioso cinguettare
di uccelletti da un albero all'altro. Di un interesse più serio, e
per me quasi sacro, è la corrispondenza dei miei genitori prima del
matrimonio. La loro unione ostacolata da gente invidiosa e maligna
che tentava con basse calunnie di staccare i fidanzati è il motivo
dominante di queste lettere, nelle quali l'amore sincero, appassionato
e impaziente di mio padre non si disgiunge mai da una grande elevatezza
di sentimento e di rispetto, a cui la fanciulla risponde con dolce
ritegno, colla riservatezza del pudore femminile e di un affetto al
quale non osa abbandonarsi, finchè non fosse caduta ogni vergognosa
insinuazione e dileguati i sospetti che rendevano esitante il padre a
dare il consenso per le nozze.

È in questa corrispondenza che rintracciai la frase di mio padre posta
per epigrafe alle presenti memorie: «_Che gran dono è il sentire! È
aver Dio in noi_». Si può trovare una definizione più bella, più vera,
più profonda? Essa spiega e completa il motto dell'Apostolo citato più
sopra. Io, quando la lessi la prima volta, ne ebbi un barbaglio come di
rivelazione. Conobbi mio padre e mi riconobbi in lui.

A tutti coloro che lodano il mio talento rispondo sempre con perfetta
buona fede, che ciò che essi chiamano talento non è altro che una
sensibilità superiore alla quota comune. Ognuno crede di averla questa
sensibilità e invero una sensibilità l'hanno, ma non questa. Rammento
che da bambina salii un giorno sul palco altissimo che serviva al
pittore Moriggia per affrescare la volta del Santuario di Caravaggio:
(forse il medesimo dove mia madre prestò la sua delicata bellezza a
impersonare la dolce figura di Ruth, ma più probabilmente in quello
dove campeggia matronale Giuditta reggendo con una mano la testa
di Oloferne) La zia Carolina, che era con me, osservò come alcune
parti delle figure le sembrassero esagerate e Moriggia; a spiegarle
che per ottenere un effetto di naturalezza sullo spettatore che le
avrebbe osservate dal basso della chiesa era necessario tener calcolo
della distanza e dipingerle più grandi del vero. Manco dire che, se
io parlavo poco, ascoltavo però molto e quelle parole di Moriggia,
confermate da osservazioni mie particolari, non mi uscirono più dalla
mente; mi sembra di poter spiegare colla medesima legge delle distanze
la differenza che passa tra la sensibilità dell'artista nell'atto
della concezione e quella del pubblico che la comprende e la gusta.
Perchè una statua, un quadro, una partitura di musica, un libro,
giungano a dare il fremito della vita a quelle fredde cose che sono la
creta, la tela, una cassa di violino o un foglio di carta è evidente
che l'artista deve aver sentito in un modo sovrumano. L'affermazione
magnifica di mio padre «_È aver Dio in noi_» riconosce in Dio la sola
forza creatrice. Dio, il mistero; Dio, la vita. L'ingegno poi è altra
cosa; è quella che unita al profondo sentire crea l'opera d'eccezione,
il capolavoro. Fuori dal campo dell'arte vi è pure la sensibilità dello
scienziato, quella acutezza intuitiva che fa scoprire a Newton e a
Galileo in due fatti di ordine comune due forze nuove della natura.

Ma per tornare alla sensibilità psichica e nervosa, sulla quale si
è imperniata tutta la mia esistenza e che impresse il mio carattere
all'opera mia, rammenterò brevemente in qual modo si manifestasse fin
dai più teneri anni nella sensazione di isolamento, che mi faceva
così spesso straniera in mezzo alla gente, nell'urto quotidiano di
asprezze di stonature, di offese alla bellezza ed alla verità, che
gli altri non avvertivano neppure. Per esempio io non posso soffrire
le bestie, di nessun genere; nè grosse nè piccole, intelligenti o
meno. Ho pensato qualche volta che se fossi obbligata, pena la vita,
a tenere in casa una bestiolina metterei un pesce in un boccale di
vetro sul mobile più alto del mio appartamento. Questo per dimostrare
la mia avversione al genere. Tuttavia mi è accaduto infinite volte
di rinunciare a sedermi in un posto che mi faceva comodo, perchè vi
si era già insediato un gatto o un cane che la mia sola sensibilità
mi impediva di smuovere, non il mio amore; e vedevo invece, chi
dell'amore per le bestie si faceva vanto, cacciarnelo allegramente con
una pedata. Comprendo la delicatezza di Maometto che tagliò la manica
della propria zimarra, anzichè disturbare il suo gatto prediletto che
vi si era addormentato sopra; ma si trattava del gatto prediletto e
il fondatore dell'Islamismo aveva senza dubbio molte zimarre. Io fui
prossima a svenire una volta che, scolara disattenta, sforbiciavo
nell'aria con un bel paio di cesoie nuove e una imprudente libellula,
entrata dal giardino per la finestra aperta, guizzò fra le due lame
così repentinamente che, prima ancora di vederla, sentii nelle mie
dita il _crac_ del corpicciolo tagliato in mezzo. Positivamente venni
meno; e ricordo che essendo in piedi dovetti appoggiarmi al muro per
non cadere. Ricordo anche che le mie compagne ridevano. E sempre,
quando narrai questo episodio della mia infanzia, trovai persone che ne
risero.

Sono questi malintesi, in apparenza puerili, ma turbatori delle
coscienze profonde, che alimentano lo sdegno muto dei solitari. Io
compresi a poco a poco il silenzio rassegnato di mio padre, la sua
nobile malinconia che non pesava mai sugli altri, il suo ritiro nelle
arche del passato dove egli trovava ancora imbalsamati tra gli aromi
della memoria i cari fantasmi della sua giovinezza, che dovette essere
ardente e misteriosa. Con quale desiderio di sprofondarmi in lui,
nella sua vita, sperai di trovare il seguito del diario incominciato
a Roma! Ma, come egli non parlava mai degli anni trascorsi, così non
si curò nemmeno di conservarne le traccie. Solo rimane questo fascio
di lettere che io vado sfogliando e interrogando con ansia amorosa,
tutte interessanti, sebbene in diverso modo. Sono letterine brevi,
ma appassionate e piene di nostalgia, che la mamma, sciolta dal
suo ritegno di fanciulla severamente educata, scrive a papà dopo il
matrimonio e durante le assenze di lui (per sorvegliare la fabbrica
della grande Abbazziale di Casalmaggiore). Sono ancora le lettere delle
sorelle, della mamma, specie la Carolina, zeppe di incarichi per la
città. Risorge in questa corrispondenza di giovani donne la Milano
ristretta di quei tempi...

                             . . . . . . .

_E qui sospese; interrotta nel mesto conforto di riandare gli anni
della giovinezza sul finire della vita, o da un più acuto spasimo del
male che le annientava ogni energia, o dal sollevarsi della portiera
(ricamata da lei con tralci fioriti) di contro al letto ove giaceva,
per l'entrar di qualcuno, forse io stessa. Avrà allora deposta la
matita, riuniti i fogli del manoscritto nella cartella rossa colla
sola mano sinistra, e voleva fare da sè. Avrà pensato di riprendere in
un altro momento _buono_ in cui fosse stata sola; ma non venne più!
Io l'avrò incitata a proseguire, desolata di turbare quel risveglio
dei pensieri di giovinezza, poichè la sua voce era prossima a tacere
per sempre. Ella voleva rivedere, riordinare poi questi cari ricordi
che sbocciavano fra i suoi tormenti, quali fiori pietosi fra le spine
dell'ultimo sentiero; ma non potè nemmeno rileggerli.

Diceva allorchè era interrotta: "Riprenderò" diceva pure: "Se farò in
tempo a finire" e altre volte: "Non potrò terminare le mie Memorie".
Rimasero infatti a questo punto quattro o cinque giorni prima che
morisse; lasciò nel mistero, che le era caro, altre pagine. A quel
filo troncato mi avvinco per seguire il suo pensiero non detto in una
eternità di affetti e chiamo i cuori che Ella ha amato, che l'hanno
amata, quelli che si sentono compresi nella sua appassionata dedica, a
salire in una elevazione ardente di sentimento e d'amore a Lei!_

                                                               MARIA.



APPENDICE


  Una bibliografia completa degli scritti di Neera è — si può dire
  — impossibile a farsi. La compianta Scrittrice collaborò ad un
  numero grandissimo di giornali e periodici e non si curò affatto di
  tenerne una raccolta o quanto meno un indice. Nella sua libreria
  mancano perfino parecchi dei primi volumi; ed alcuni, come _Un
  romanzo_, _Vecchie Catene_, si debbono considerare come perduti,
  non essendo possibile trovarli neppure alla Biblioteca Nazionale
  di Brera, dove da molto tempo non si catalogano più i romanzi (e
  romanzi sono stati ritenuti, di Neera, _Il libro di mio figlio_,
  _Battaglie per un'Idea_, _Le idee d'una donna_!). Ci limitiamo
  quindi, oltre a dare l'elenco dei volumi pubblicati dalla morta
  Scrittrice, e ad indicare sommariamente in quali periodici figurano
  bozzetti, poesie, articoli di arte, di critica, di polemica,
  d'attualità, ecc.

  La prima novella firmata Neera comparve sul giornale _Il Pungolo_,
  di Milano, diretto da L. Fortis, nel 1876. D'allora scrisse nel
  _Fanfulla_, nel _Bersagliere_, nel _Corriere del mattino_, nel
  _Corriere di Napoli_, nel _Fanfulla della Domenica_, nella _Scena
  Illustrata_, nella _Cronaca d'Arte_, nella _Vita Intima_ (anche
  con altri pseudonimi: Vanessa Atalanta, ecc.), nel _Risveglio
  Educativo_, nell'_Idea Liberale_ (anche con altri pseudonimi:
  Alto, ecc.) nell'_Emporium_, nell'_Arte Illustrata_, nel
  _Marzocco_, nella _Revue bleue_, nel _Journal des Débats_, nella
  _Vita Internazionale_, nel _Giorno_, nel _Corriere della Sera_,
  nell'_Illustrazione Italiana_, nella _Lettura_, nella _Gazzetta
  del Popolo_, nell'_Alto Adige_, ecc. ecc. ed in vari numeri unici.
  Contribuì con _Allodola mattutina_ e _La prima lettera d'amore_,
  al Vol _Nell'azzurro, racconti di sei signori_ — a beneficio degli
  orfani di Roberto Sacchetti (Milano, Treves, 1881).


Romanzi e novelle:

   1. _Un romanzo_, Milano, Brigola, 1876.
   2. _Addio!_, ivi, 1877.
        Undicesima Edizione. Milano, Baldini e Castoldi, 1904.
   3. _Vecchie catene_, ivi, 1878.
   4. _Novelle gaie_, ivi, 1879.
   5. _Un nido_, romanzo, ivi, 1880.
   6. _Iride_, nuove novelle, Milano, Ottino, 1881.
        Nuova Edizione, Milano, Baldini-Castoldi, 1903.
   7. _Il castigo_, romanzo, ivi, 1881.
        Nuova Edizione. Torino, Roux, 1891.
   8. _La freccia del Parto_, racconto, ivi, 1883.
        Nuova edizione: La freccia del Parto ed altre novelle,
        Milano, Baldini, Castoldi, 1901.
   9. _La Regaldina_, romanzo, Milano, Dumolard, 1884.
        Fu già pubblicata nella Nuova Antologia, giugno-luglio,
        1883.
  10. _Il marito dell'amica_, romanzo. Milano, Galli, 1885.
        Nuova Edizione nel 1891.
  11. _Teresa_, romanzo, ivi, 1886.
        Ottava edizione illustrata da G. Mentessi, L. Conconi,
        G. Buffa, etc., Milano, Chiesa e Guindani, 1898.
  12. _Lydia_, romanzo, ivi, 1887.
        Pubbl. nella _Nuova Antologia_ dall'aprile al luglio,
        1887. Seconda edizione, Roma, Voghera, 1898.
  13. _L'indomani_, romanzo, Milano, Galli, 1890.
        Fu già edito nella _Nuova Antologia_ dal febbraio
        al maggio 1890. Nuova Edizione F.lli Treves 1909
        (illustrazioni di U. Valeri).
  14. _Senio_, romanzo, ivi, 1892.
        Nella Nuova Antologia settembre-novembre 1891.
  15. _Nel sogno_, ivi, 1893.
        Con un disegno di Giovanni Segantini.
        Doveva recare per epigrafe queste parole di S. Agostino,
        omesse per isbaglio, e che valgono a chiarire il concetto
        dell'A.: «Meliu enim iudicavit de malis bene facere quam
        mala nulla esse permittere.» Pubbl. prima nella
        _Perseveranza_ 1892 col titolo: _Sulle vette_.
  16. _Voci della notte_, novelle, Napoli, Pierro, 1893.
  17. _Anima sola_, Milano, Chiesa e Guindani, 1894.
        Nella _Nuova Antologia_ maggio-giugno, 1894.
        Ristampa, Baldini e Castoldi, 1919.
  18. _L'Amuleto_, romanzo, Milano, Cogliati, 1897.
        Ristampa, ivi, 1912.
  19. _Fotografie matrimoniali_, Catania, Giannotta, 1898.
        Pubbl. prima nel _Pungolo della domenica_, 1885.
  20. _La vecchia casa_, romanzo, Milano, Baldini-Castoldi,
        1900.
        Nuova Edizione, F.lli Treves, 1909.
  21. _La villa incantata_, Livorno, Belforte, 1901.
        Pubbl. prima nella _Rivista d'Italia_, ottobre 1900.
  22. Una passione, romanzo, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1903.
        Nella _Nuova Antologia_, 1902.
        Nuova Edizione, F.lli Treves, 1910.
  23. _Conchiglie_, Roma-Voghera, 1905 (nella _Piccola
        collezione Margherita_).
  24. _Il romanzo della fortuna_, 1905. Milano, Lib. Ed.
        Lombarda, 1906.
        Nella _Nuova Antologia_ 1905.
        Nuova Ediz. Casa Ed. L. F. Cogliati, 1909.
  25. _Crevalcore_, romanzo, Milano, Treves, 1906.
  26. _Duello d'anime_, romanzo, ivi, 1911.
  27. _La sottana del diavolo_, novelle, ivi, 1912.
  28. _Rogo d'amore_, romanzo, ivi, 1914.
  29. _Crepuscoli di libertà_, romanzo, ivi, 1917.
        Pubbl. prima nella _Lettura_, 1916.
  30. _Novelle_ (?) Firenze, Salani. Tredici novelle non
        ancora pubblicate in volume.

Studii morali:

  31. _Il libro di mio figlio_, Milano, Galli, 1891.
        Nuova Edizione, Milano, Cogliati, 1909.
  32. _L'amor platonico_, Napoli, Pierro, 1897.
        Pubbl. prima nell'_Idea Liberale_, 1896.
  33. _Battaglie per un'idea_, Milano, Baldini-Castoldi,
        1898.
        Serie di articoli pubblicati già nell'_Idea Liberale_.
  34. _Un idealista_, (Alberto Sormani) Milano, Galli e
        Raimondi, 1898.
  35. _Il secolo galante_, Firenze, Barbera, 1900.
        Introduzione ad uno studio sopra alcune donne francesi
        del secolo decimottavo. M.lla Aissè — M.lla Lespinasse — La
        march. Du Deffant — La sig.ra Geoffrin — La sig.ra D'Epinay
        e la contessa d'Houdetot — La contessa di Genlis.
        Nuova Edizione: Milano, A. De Mohr, 1909.
  36. _Le idee di una donna_, Milano, Libreria editrice
        nazionale, 1903.
  37. _La coscienza del fanciullo_, Roma, Nuova Antologia,
        1908.
  38. _Profili, impressioni e ricordi_. Milano, Cogliati, 1919.
        Edizione postuma.

Autobiografia:

  39. _Autobiografia_, Torino-Roma, Roux, 1891.
        Precede la 2ª ediz. del _Castigo_ pp. 5-60 ed è
        in forma di lettera a L. Capuana, recante la data di
        Milano, marzo 1891.
  40. _Una giovinezza del secolo XIX_, Milano, Cogliati,
        1919.
        Edizione postuma, con prefazione di Benedetto Croce.
        Queste memorie furono troncate dalla morte il 19 luglio
        1918.

Varia:

  41. _Il Canzoniere della Nonna_; illustrazioni di Aldo
        Mazza. Milano, Cogliati, 1908.
  42. _Poesie_, Milano, Cogliati, 1919. Ediz. Postuma.
  43. (in collaboraz. con P. Mantegazza): _Dizionario
        d'igiene per le famiglie_, Milano, Brigola, 1881.
  44. _Maura_, commedia rappresentata al Teatro Manzoni
        in Milano, 1886. Compagnia Torelli.

Principali traduzioni:

   1. _Im traum_ (con altre novelle), trad. HELENE KATZ,
         Erfurt, Ed. Moor, 1897.
   2. _Teresa_, trad. HELENE KATZ, Leipzig, Ed. Philipp
         Reclam.
   3. _Thérèse_, trad. HUDRY MENOS, Paris, Ed. Hachette,
         1899.
   4. _Tereza_, trad. MARIA KALASOVA, Praga, 1890.
   5. _Teresa_, trad. D. E. EPKEMA, Amsterdam. Ed.
         M. Olivier, 1889.
   6. _Lydia_, trad. HANNA VAN BRIELEN, ivi 1889.
   7. _Een Eenzame_ (Anima sola) trad. C. W. W. VAN
         ENSCHEDE; Amesfoort, P. Dz Veen, 1908.
   8. _Einsame Seele_, trad. LOTHAR SCHMIDT, Berlin,
         Schuster e Loeffler, 1896.
   9. _Osamela Duse_ (Anima sola) trad. MARIA KALASOVA,
         Praga, J. Ottz, 1898.
  10. _The soul of an artist_, trad. E. L. MURISON;
        introd. L. D. VENTURA; S. Francisco, Paul
        Elder and C., 1905.
  11. _Addio_, und andere Novellen, Stuttgart, _Deutsche
        Verlags_, Anstalt, 1894.
  12. _Farväl!_ trad. E. af D., Stockolm, Looströn e
        Komps, 1887.
  13. _Waarwel!_ trad. E. EPKEMA, Amsterdam, M.
        M. Olivier, 1888.
  14. _Hnizdècko_ (Un Nido) trad. FRANT. NOVOTNY,
        Praga, Ios. R. Vilimek.
  15. _Der Pather's Pfeil_, Messina, Buchdruckerei,
        Extra Moenia, 1894.
  16. _Nazitri_ (Indomani) e _Teta Severina_, trad. M.
        KALASOVA, Praga, F. Simacek, 1895.
  17. _Nach der Hochzeit_. Stuttgart, _Deutsche Verlags_,
        Anstalt, 1893.
  18. _Eine Leidenschaft_, Wien, _Neue Freie Presse_, 1902.
  19. _El amuleto_, trad, y prologo ANGEL GUERRA,
        Madrid, Officina Paseo del Prado, 1902.
  20. _Crevalcore_, trad. VACLAVA JIRINY, Praga, F.
        Simaceck, 1908.
  21. _Das Schweigende haus_, trad. ELISE SCHWELLER,
        Leipzig, Philipp Reclam.
  22. _Das Galante Fahrhundert_, trad. Dr. VON BERTHOF,
        Dresden, Carl Reikner, 1903.
  23. _Les idées d'une femme sur le féminisme_, trad. H.
        DOÜESNEL, preface de TH. JORAN, Paris, V.
        Jiard et F. Briére, 1908.
  24. _Das buch meines sohnes_, trad. CATHARINA BRENNING,
        Dresden, Karl Reikner, 1897.
  25. _Il libro di mio figlio_ in serbo da J. V. POPOVIC,
        Saraievo, 1901.

Scritti critici intorno a Neera:

   1. _Neera et son oeuvre littéraire_: scritto firmato
        _Didymus_, che precede (pp. VII XXVIII) la trad.
        ted.: _Des Parther's Pfeil_, Messina 1891.
   2. GUIDO MENASCI, _Neera_, nella _Nuova Antol._
        del 16 settembre 1901.
   3. Sulle _Novelle gaie_ e _Un nido_, L. CAPUANA,
        _Studi di lett. contemp._, 2ª serie, pp. 145-157.
   4. Su _Senio_, CAPUANA, _Gli ismi contemporanei_,
        pp. 113-129; ed. E. A. BUTTI, _Nè odî ne amori_,
        Milano, Dumolard, 1893, pp. 120-7.
   5. Intorno a _Nel sogno_, art. di Severus (A. Sormani)
        nella _Idea Liberale_ del 1893.
   6. ERNEST TISSOT, _La romancière italienne Neera_,
        nella _Revue bleue_, del 16 gennaio 1897; dello
        stesso, nella _Bibl. universelle_, dicembre 1897 e
        gennaio 1898.
   7. IVAN STRAUNIK, nella _Revue bleue_ del 1902.
   8. Su _La vecchia casa_, A. ORVIETO, nel _Marzocco_
        del 1899.
   9. A proposito delle _Battaglie per un'idea_, E. TISSOT,
        _La croisade antiféministe de M.me Neera_,
        nel _Journal des Débats_, del 28 agosto 1899.
  10. Su _Le idee di una donna_, G. RENSI, nell'_Avanti!_
        del 6 luglio 1904.
  11. BENEDETTO CROCE, _Neera_ in _Letteratura della
        Nuova Italia_, cap. XLVII.
  12. THÈODORE JORAN, _Les idées d'une femme_
        (Neera) _sur le feminismes_ nell'_Université Catholique_
        (Lyon, 15 Marzo 1908).
  13. In generale sull'opera di N., G. SPENCER KENNARD,
        _Romanzi e romanzieri_ cit. II, 99-130;
        _Marzocco_ del 28 luglio 1919.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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