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Title: Nella nebbia
Author: Sperani, Bruno
Language: Italian
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                             BRUNO SPERANI


                              NELLA NEBBIA



                                 MILANO
                        STABILIMENTO G. CIVELLI
                                 1889.



INUTILE!...


                                                  _10 Febbraio 1880._

Sono partiti, ed io... Oh! io finalmente ho un'ora di pace dopo il
continuo da fare di questi giorni. Nell'abbracciarmi mio figlio mi ha
detto: E tu mamma, riposati che ne hai bisogno!...

Raggiante era, lui! Ho dovuto ritornare con la memoria ai tempi della
sua fanciullezza, allorchè lo portavo con me in vacanza, per trovare
un riscontro alla gioia che gl'illuminava il volto questa mattina. E
ancora, nel confronto, la gioia del fanciullo non mi pareva che una
pallida immagine della suprema felicità dell'uomo.

Povere madri! Quando noi diamo tutto, che poca cosa riceviamo in
ricambio!

Egli l'adora la sua Sofia. E tutto quello che io ho fatto per
allontanarlo da lei, non ha servito che a rendergliela più cara.

E lei... quella bionda ardente, quella creatura dagli istinti così
diversi dai nostri, dimenticherà essa che io ho voluto rapirle la sua
felicità?... Avrà la forza di vincere il suo rancore di donna amante,
come io ho vinto le mie ripugnanze?... Sia pure che l'abbia: il solo
ricordo delle mie ostilità metterà per tutta la vita un senso di freddo
nei rapporti di mio figlio con me. Ci sarà sempre come un intoppo dove
una volta era la perfetta omogeneità. E quanto più lo vedrò felice
tanto più mi sentirò umiliata davanti a lui per avergli contrastata e
ritardata questa felicità.

Il destino è inesorabile. Pazienza. Purchè egli sia veramente felice.
Il mio più grande desiderio fu sempre di sacrificarmi a lui, di dare
la mia vita per il bene suo. Ma non la vita egli mi domanda: non
la vita! Sarebbe troppo poco! Egli mi chiede il sacrificio del mio
amore esclusivo, di quel culto appassionato onde l'ho circondato fin
dall'infanzia: il sacrificio della nostra santa intimità.

Un'altra ha preso il mio posto ed io sono messa da parte. È orribile.

Eppure, in certi momenti — quando ragiono — io stessa condanno questo
mio dolore, e mi sembra di essere una vecchia pazza, una vecchia
egoista.

Quello che mi succede è nell'ordine delle cose: è giusto ed io dovevo
prevederlo da molti anni.

Coraggio! Devo vergognarmi della mia debolezza... poichè è veramente
una debolezza. Devo dominarmi.

Andrò fuori; farò una vita più mossa: cercherò distrazione. Forse non è
che affare di nervi, come dice il dottore.

Andrò al collegio a trovare Giannina che mi chiamerà nonna... Oh! se
fosse veramente mia nipote!... Se potessi educarla, io, a modo mio!...

Sì, tutto è nell'ordine e quello che mi succede è giusto. Ma non era
bisogno che mio figlio sposasse appunto una vedova! Con tante belle
fanciulle che ci sono — e nessuna l'avrebbe rifiutato, poichè il mio
Ernesto è tale uomo che ogni fanciulla sarebbe stata orgogliosa di
sposarlo — con tante fanciulle, la Giulia Indelli per esempio, la Maria
Trabanti che ho veduto nascere... doveva essere una vedova a portarmelo
via!.. Una vedova con una figliuola...

Una bella figliuola, bisogna dire la verità, un amore di bimba... Ma
sempre figliuola di un altro!... e già dotata di un caratterino deciso,
che sarà utile a lei nella vita, non nego, ma che la rende fin d'ora
una creatura assai difficile da maneggiare...

Fortuna che non vengono a stare con me. Non sarei forse capace di
vincermi tutti i giorni e potrei dare qualche dispiacere al mio
Ernesto.

                             . . . . . . .

                                                     _10 Marzo 1880._

Ernesto mi ha scritto oggi una buona lettera annunziandomi il suo
ritorno.

Anche Sofia mi ha scritto.

Pare veramente una buona creatura: affettuosa, espansiva. Non ha
rancori. Il mio Ernesto mi vuol sempre tanto bene. Ella non cerca di
allontanarlo da me.

Forse sono stata un po' ingiusta.

Giannina fu carissima ieri.

Ha ingegno anche lei...

                                                     _1 Giugno 1880._

Sono ingiusta del tutto: egoista... cattiva!... Ma non ne posso più.
Soffro come non ho mai sofferto.

I dolori passati si risvegliano e si acuiscono in questo nuovo dolore.
Li risento tutti. Tutta la mia vita si ripresenta al mio spirito come
un quadro desolante. Le angoscie, i rimpianti, i rancori, che l'amore
materno aveva soffocati, insorgono repente, e mi pungono e mi mordono.

Che vita monotona è stata la mia!... Perchè ho vissuto?...

I miei anni sono passati con una sola gioia: mio figlio. Mio marito può
vantarsi di non avermi dato alcun serio dispiacere; ma neppure alcuna
gioia! La nostra unione è stata arida e fredda, con un solo fiore, un
solo profumo, una sola luce: Ernesto. Se il mio cuore non ha ceduto
alle tentazioni dell'amore, se sono stata una moglie fedele, egli deve
ringraziare suo figlio.... e la delusione che aveva agghiacciato il mio
cuore prima del matrimonio.

L'ho veduto l'altro giorno, quel povero Anselmo! Mi ha fatto pietà.
Anche quel rancore è morto. Ma lei, lei... che vipera! Sempre la
stessa... È forse così che bisogna essere per vincere nella vita?...
Per attaccarci un uomo e disporre di lui come di un fanciullo?... E di
che uomo! Un uomo intelligente, bello, geniale!... Anselmo aveva tutto
per essere felice...

Come si sarebbe stati, bene insieme!

Non ha che cinquant'anni appena compiti. Soli cinque più di me. E li
porta bene. Mentre Antonio ne ha sessant'otto, e li porta male... oh!
malissimo, davvero!

Mah! fui io a volerlo.

Dopo il disinganno che mi aveva dato Anselmo non volevo saperne di un
giovine. Antonio del resto era un bell'uomo allora... simpaticissimo.
Me lo ricordo bene.

I suoi quarant'anni non gli davano altro che un'aria di serietà
dignitosa ed amabile.

Quando mi faceva un complimento, ero superba di quel complimento. Nel
mio ambiente borghese passava per un genio. Io, già, ero, prima di
tutto, una sciocchina; non capivo niente, e tutto quello che si diceva
intorno a me dalle sciocche mie pari mi pareva vangelo.

Del resto, se non avessi avuto un figliuolo come Ernesto, certe cose
non le avrei capite mai. Ernesto, sì, è un vero ingegno; un ingegno
di prim'ordine: un vero uomo superiore. È lui che ha fatto la mia
educazione — l'educazione di una donna nel nostro mondo è quasi sempre
da rifare — fu lui che mi ha insegnato a capire, a pensare.

Da principio, certe volte, mi urtava, mi feriva, col suo disprezzo
per tante cose che io credevo intangibili. Ma poi, che luce!... E che
piacere di essere salita con lui a quelle altezze!

Grazie all'intimità in cui si viveva, egli mi diceva tutto; i problemi
che turbavano il suo spirito; le scoperte che lo entusiasmavano. Se
non capivo subito, andava in collera. Ma subito dopo si metteva a
spiegare con pazienza angelica. E diceva che ciò gli era utile, perchè,
spiegando quelle difficoltà a me e dovendosi servire di parole semplici
e chiare, le capiva meglio egli stesso.

Che bei giorni abbiamo passati così, che begli anni!...

Sventuratamente, man mano che il figlio saliva e mi portava in alto con
sè, il padre scendeva, scendeva, e spariva dal mio orizzonte come un
astro che tramonta. Oh! se avessi saputo quale triste avvenire, quale
gelida solitudine mi apparecchiavo!... Dacchè Ernesto ha conosciuto
Sofia, è toccato a me il discendere.

Se mio marito ha sofferto del mio distacco, può consolarsene ora: suo
figlio l'ha vendicato.

Quanto ho sofferto! Quanto soffro... Sofia ha una cultura quasi
maschile: una intelligenza limpida; un'indole nervosa, a scatti; una
mente solida di pensatrice.

È merito suo, ma anche dell'ambiente in cui è vissuta: degli studi che
ha fatti.

Se fossi stata educata anch'io liberamente, e istruita come lei fin
dall'infanzia...

Oh! i _se_ non contano! Le supposizioni che non si possono verificare
non hanno valore.

La realtà sola conta nella vita: quello che è, non quello che sarebbe
stato. E la realtà è che, dato un uomo come Ernesto, Sofia è forse la
sola donna che potesse renderlo felice.

Ed io sono disperata perchè mio figlio è felice?...

Oh! no!... Non è vero!

La sua felicità è stata sempre l'unica meta de' miei desideri.

Purchè duri però... purchè quella donna superiore sappia, poi, essere
una brava donna di casa, una buona moglie: purchè non lo tormenti con
le sue saccenterie e le sue esigenze. Purchè il mio povero figliuolo,
tanto buono, non si trovi schiacciato dal carattere fiero e maschio
della moglie e dai capricci della figliastra!

                             . . . . . . .

                                                    _30 Giugno 1880._

Io non ho più nulla: nulla da fare nel mondo. La mia parte di creatura
utile è finita. Come moglie... Se mio marito fosse solo, se io fossi
morta, andrebbe a stare con loro, e starebbe meglio. Due uomini possono
sempre vivere in una casa con una donna sola: due donne portano la
discordia, o si consumano secretamente.

Come madre... La verità cruda è che sono un impiccio, un terzo
incomodo. Non accuso nessuno: Sofia è buona; Ernesto mi vuol bene. Ma
la vita di mio figlio non fa più parte della mia: si svolge e si appaga
lontano da me. Di me non ha più bisogno. E se io non gli nascondo tutto
quello che soffro, non sarò per lui che una causa di tormento e di
affanno.

Sono inutile e sto forse per diventare dannosa....

                             . . . . . . .

                                                 _15 Settembre 1880._

Mi sono voluta privare anche di questo sfogo dello scrivere le mie
lamentazioni. Forse è uno sfogo morboso.

Ma oggi ci ricasco. Non posso chiudermi tutto dentro. Questo
scarabocchiare che faccio, mi dà l'illusione di parlare con
qualcheduno. Ritorno bambina... Fossi almeno tanto vecchia da
rimbambire davvero!... Ho paura di me stessa e ho bisogno d'ingannarmi.

Oggi sono stata sul punto di raccontare tutte le mie miserie a un
estraneo... Peggio che a un estraneo, a lui, a Anselmo!

C'incontriamo un po' spesso, mi pare. Mi cercherebbe forse?... Non
credo. Io già vado in volta per le strade come un'anima in pena. Ho
l'irrequietudine addosso.

Oggi ero uscita con l'idea di fare qualche visita. Poi mi è passata
la voglia di entrare in una casa, per ritrovarvi la solita gente,
le solite faccie e i soliti sorrisi stereotipati: per fare i soliti
discorsi... e sentirmi dire, per esempio, dalla Nina Gaggioli — che non
ha mai capito niente —

— Sei stata furba tu a non volere la nuora in casa; diventi sempre più
giovine!... — e altre simili baggianate.

Così, non sentendomi la forza di affrontare le noie di un salotto,
sono andata su e giù per le strade, sempre a piedi, col bisogno di
stancarmi.

In via Montebello ho incontrato Anselmo. Credo che giri anche lui come
me per disperazione. Mi ha salutata e abbiamo scambiate alcune parole.

Quasi senza accorgerci abbiamo continuato a camminare insieme, e,
a poco a poco, non so più come, lui mi ha raccontato la sua grande
miseria. È proprio vero quello che mi avevano detto: sua moglie è
rimasta una villana. Lo tormenta e lo disonora... e lui tace. Tace
perchè ha paura dello scandalo e paura dei parenti di lei, vere
canaglie che son sempre là a spillargli i quattrini e pronti a
minacciarlo. Proprio come quando gliel'hanno fatta sposare. Ma lui non
sa che io conosco la vera storia: me ne sono accorta dai suoi discorsi.

Crede che io sia rimasta alla vecchia versione: la testardaggine di
mio padre. Oh! non l'ho mai creduta quella fandonia. Mio padre non
avrebbe mandato a monte il nostro matrimonio, senza un grave motivo. Mi
ricordo ancora come era triste, povero babbo!... La colpa è stata tutta
di Anselmo... o del destino. Se ci avessero maritati subito, forse non
succedeva. Ma io non avevo che sedici anni ed ero una vera bambina.

Il mio amore era tutto sogni e poesia. E Anselmo che studiava pittura
passava il tempo, troppo lungo, con una modellina bionda...

Una sera, mentre usciva di casa mia, col cuore ebbro d'amore e il
cervello pieno di fantasie celestiali — come diceva lui — due manigoldi
l'assalirono, intimandogli di sposare la loro sorella disonorata,
altrimenti... gli avrebbero messo «_i busecch al coll_». Ed erano
faccie da tener la promessa.

Lui ebbe paura... miserabile paura!

Un vigliacco, in fondo. Non sarei stata felice, no, neppure con lui.

Meglio Antonio; almeno è un gentiluomo! Antonio sarebbe morto piuttosto
che avvilirsi a quel punto. Povero uomo! Se fossi come lui, se potessi
sprofondarmi nell'egoismo senile, contenta di vegetare tranquillamente,
ci si potrebbe ancora intendere. Ma non è possibile. Questi ventitrè
anni che corrono tra lui e me ci hanno separati tutta la vita; e io non
potrò varcarli mai tutti di un colpo!

È desolante. Viviamo insieme e non siamo che due solitari che
s'incontrano a ore fisse, senza uscire dalla reciproca solitudine.
Colui che riempiva talvolta l'immenso vuoto ha altro da fare ora!....

                             . . . . . . .

                                                    _3 Gennaio 1881._

Abbiamo cominciato l'anno insieme nella villa di Sofia, sul lago.
Una bella villa. Abbiamo avuto un tempo incantevole, una giornata
primaverile, senza quel non so che di snervante per cui non ho mai
amata la primavera. Il bel sole invernale dorava i monti; e l'acqua
azzurra e tersa prendeva dei toni caldi, dei riflessi di porpora.

I miei compagni godevano, erano felici tutti; dalla instancabile
Giannina che s'arrampicava da per tutto, a quell'apata di Antonio che
si crogiolava beatamente al sole.

Io sola mettevo un'ombra nel quadro. Mi ero promessa di essere allegra;
di godere quella bella giornata con la mia famigliuola. Inutile.

Il mio viso si oscurava involontariamente, e non riescivo a frenare
certi scatti di nervi.

Ernesto cercava di distrarmi: era buono, carezzoso. Oh! egli la sa fare
bene la carità a sua madre! Ma è sempre una limosina di affetto che non
basta a saziare il mio cuore.

Sono esigente, ma non posso cambiarmi.

Giannina è stata insopportabile, e tanto Sofia che Ernesto erano in
continua ammirazione delle sue gesta.

Come sono pazienti gli uomini quando l'amore li domina! Io però non
sono stata amata così, mai mai. Oh! ma vi sono forse al mondo uomini
capaci di amare come mio figlio?!...

                             . . . . . . .

                                                   _30 Gennaio 1881._

Antonio è ammalato. Molto ammalato.

Quanto ho pianto oggi!...

L'amavo dunque ancora un poco? Povero vecchio!... Mi ha chiamata
accanto a sè, e mi ha dette certe cose... Mi ha commossa, mi ha
sconvolta.

Chi avrebbe creduto ch'egli leggesse così bene in fondo al mio cuore?

Mi ha chiesto perdono di avere vissuto troppo, di non avermi lasciato
un po' di giovinezza libera di consacrare ad un uomo più adattato a
me... ad un uomo che potesse darmi ancora un po' di vita, un po' di
amore.

Io protestai singhiozzando. Sentivo dentro di me uno struggimento, una
tenerezza, che forse non ho mai provato per lui, povero Antonio!...

Accarezzandomi con quel fare paterno, che gli è sempre stato
famigliare, egli prese a dirmi:

— Sei sempre bella, sai. Potresti amare ancora, e, quello che importa,
essere amata!...

E siccome io lo scongiuravo di smettere, di non dirle quelle cose, egli
concluse sorridendo:

— Oh! lo so, lo so, sei troppo virtuosa, troppo saggia... È una
disgrazia!

Finalmente si assopì.

Io mi chinai su lui e lo baciai sulla fronte.

Il medico dice che durerà un pezzo. Dio voglia! Io non mi stancherò di
assisterlo.

                             . . . . . . .

                                                    _26 Luglio 1881._

È morto! Finito anche lui.

Siamo stati ai funerali: l'abbiamo visto cremare... Non c'è più.
L'essere vivo, che pensava, parlava, soffriva, amava, non è più che una
cosa informe: un mucchio di cenere ed ossa. E tiene così poco posto!

Io non mi sono mossa da quella terribile sala. Quattro ore di seguito.
E allorchè l'hanno tolto dal forno per deporlo nell'urna, e le ossa
biancheggianti si scomposero..

Oh! l'atroce spettacolo!... Eppure, io sono stata a guardare con gli
occhi asciutti, mentre Ernesto e Sofia lagrimavano.

Un pensiero fisso dominava la mia angoscia e il terrore. Quando
toccherà a me, quando?... Questo solo pensavo.

Ora sono più inutile che mai. In questi ultimi mesi ho creduto di
rivivere: avevo lui da assistere, da vegliare. Mi sentivo necessaria.
Ora è finita. La mia inutilità è più manifesta che mai, e il suo peso
mi schiaccia.



VECCHIONI INCREDULI.


Una diecina circa di grandi piante ricche di frondi sorgevano nel vasto
cortile, mitigando l'arsura e l'intenso calore che le pietre esalavano
dopo una lunga giornata di sole.

A due, a tre, a frotte, i vecchioni scaturivano dal fondo del portico
che si apriva sul cortile con grandi arcate a tutto sesto.

Venivano, le donne da una parte, coi grembiali bianchi, le pezzuole
bianche incrociate sul petto; gli uomini dall'altra, colle loro giubbe
a coda di rondine e i berrettini a visiera.

Chi strascicava i piedi, chi tossiva, chi pareva piegato in due, chi si
teneva rigido, intirizzito per non perdere l'equilibrio.

Qua e là alcune figure svelte, robuste, non domate dagli anni, nè
dalle sventure, uomini imponenti, di aspetto nobile, dall'espressione
concentrata, come rinchiusi in un pensiero, nella contemplazione di
una imagine interna, lontana, vivi materialmente, e già fuori della
vita con tutta l'anima, — solitari in mezzo alla folla dei rimbambiti,
dei burloni, degli egoisti raffinati o grossolani, degli indifferenti,
degli ebeti....

Le donne parevano assai più uniformi, come se la vecchiaia scendesse
più livellatrice sulle femmine, forse per la vita meno variata, più
chiusa, meno soggetta a grandi travolgimenti: tra esse non si vedeva
quasi nessuna figura eccezionale: tutte piccolette, come raggricchiate,
secche, umili.

Era l'ora della passeggiata dopo l'ultimo pasto.

Venivano a prendere una boccata d'aria, passeggiando sotto alle piante,
o seduti sulle panchette: avevano mangiato e bevuto ed erano nel
miglior momento della loro giornata. Anche la stagione li aiutava.

Chi aveva ancora un po' di sangue e di midollo, si sentiva come un
barlume di gioventù. Le vecchie amicizie rinverdivano, qualche simpatia
si manifestava, con certe timidezze inconscie, certe squisitezze, a cui
non avevano forse mai pensato da giovani.

Si scambiavano dei piccoli doni: il tabacco da naso e da fumare, le
pastiglie per la tosse, le frutta e i dolci che ricevevano in dono dai
parenti o da qualche amico di fuori.

Certe povere donne, avvezze a bere acqua tutta la vita, tiravano fuori
una bottiglietta in cui avevano messo il loro bicchier di vino e la
porgevano al loro miglior amico.

Una di queste, una veccchiettina sottile, dai folti capelli tutti
bianchi, dal viso affilato e gli occhi dolci — una di quelle faccie
che fanno pensare a certe povere caprette malate e spaurite — traversò
lentamente il portico e la corte per avvicinarsi ad un uomo che sedeva
appartato sur un panchettino addossato ad un tronco. Era anche lui
un vecchio asciutto, malaticcio, ma alto, dalla ossatura forte e
ben proporzionata; e negli occhi e nelle linee della bocca aveva una
espressione di intelligenza e di tenacità.

Un'aria di superiorità inconsapevole traspariva da tutta la sua persona.

— Come va, Sandro, oggi? Poco bene mi pare, eh?...

C'era in questa voce di donna vecchia una gran soggezione, appena
mitigata da una espressione di umile affetto, e una gran dolcezza.

Egli non rispose subito. Senza togliersi la pipa di bocca masticò una
bestemmia.

— Sempre questa maledetta ferita che si rifà viva!

Ella sospirò. Lentamente cavò dalla borsa che aveva infilata nel
braccio una piccola bottiglia piena di vino.

— C'è anche quello del desinare — disse con un sorriso.

Egli prese vivamente la bottiglia e tracannò il vino, mentre la vecchia
lo guardava con manifesta soddisfazione.

L'uomo, quand'ebbe bevuto, rese la bottiglia e si rimise a fumare
rispondendo per monosillabi alle domande che lei andava facendogli
senza inquietarsi di quel contegno, nè aversi a male delle tronche
risposte.

Era quello il fare del suo uomo nei giorni torbidi, dopo le tante
disgrazie, le persecuzioni, la morte dell'unico figlio, portatogli via
da una palla austriaca; la brutta miseria, i malanni!...

Erano anche stati separati un bel po' di tempo, ma non per mal volere,
tutt'altro! Non avevano casa, non avevano roba; lei era a padrone;
lui campava facendo dei piccoli servigi... come dovevano fare a stare
insieme?...

Finalmente, quand'era piaciuto a Dio, si erano ritrovati in quella
«casa grande» dei poveri vecchi, e rivivevano in pace, come quarantotto
anni addietro, quando il suo Sandro l'aveva sposata, con tutto che lui
fosse un signore — il signor maestro comunale di Limito — e lei una
povera contadina... niente brutta per altro!...

Ella raccontava queste cose alle sue compagne, ridendo e sospirando,
con una sorta di ironia intenerita, propria di certe vecchiette.

E le compagne che l'ascoltavano con piacere, le dicevano allegramente
di badar a campare ancora quei due anni, che le avrebbero fatto una
gran festa per le sue nozze d'oro.

— Due anni!...

Le parevano molto lunghi due anni: impossibile che loro campassero
tanto tempo ancora... E il viso affilato di capretta malata si faceva
più pallido.

Alessandro Fantini, ex-maestro di scuola, ex-garibaldino, ex-impiegato
in una pubblica amministrazione, era sempre stato un uomo di carattere
ruvido, buon patriota e libero pensatore, un po' troppo franco per i
tempi che correvano. Queste erano le cause delle persecuzioni a cui
alludeva sua moglie.

Avvenuta la liberazione, partiti gli stranieri, egli si era creduto
a posto. Nel regno della libertà e della giustizia, i galantuomini e
i liberi pensatori dovevano, secondo lui, trovarsi finalmente in casa
propria.

Per disgrazia, queste sue speranze erano state deluse; e i suoi
modi ruvidi e la troppa franchezza nel manifestar le sue idee troppo
radicali, avevano cooperato a suo danno.

Da qui l'amarezza incurabile del suo carattere, da qui il bisogno
irresistibile di diffondere le sue idee pessimiste e ribelli da per
tutto, a costo di tutto: una sorta di manìa, che gli aveva cagionato
sempre nuovi tormenti.

                                   *
                                  * *

Nell'ospizio Trivulzio, Sandro Fantini aveva, oltre che la moglie, un
amico intimo, un correligionario dal quale era amato e venerato come
un profeta, e sebbene costui non fosse altro che un povero vecchio
marionettista, battezzato col nomignolo di «Gerolamo» perchè aveva
sempre fatto parlare la maschera di questo nome, il garibaldino lo
teneva in gran conto.

Erano sempre insieme e esercitavano una certa autorità nel gruppo dei
loro amici e aderenti.

«Gerolamo» però era molto più allegro, molto più amabile e non
disdegnava di interrompere le dispute filosofiche per divertire la
brigata.

In quelle serate tiepide, i vecchioni si mettevano spesso a sedere in
semicerchio, le donne nel centro, gli uomini dalle parti, e chiamavano
«Gerolamo» perchè li facesse un po' stare allegri.

Se «Gerolamo» tardava, si mettevano a batter le mani e a pestare i
piedi come qualunque pubblico civile.

Allora il bravo piemontese, che era ancora un uomo robusto con
un faccione rosso e le spalle larghe, si lasciava condurre sotto
all'albero più alto e centrale — il suo palcoscenico — e cominciava la
recita.

Senonchè invecchiando «Gerolamo» era diventato sentimentale — strana
metamorfosi — e invece delle farse nelle quali la sua maschera
nazionale aveva avuto tanto successo sulle fiere e nei teatrini per
fanciulli, egli si ostinava a recitare squarci lirici della _Francesca
da Rimini_, e di altre tragedie del tempo romantico.

Forse anche lui aveva passata la vita facendo un mestiere che non
era di suo genio, applaudito in un arte che disprezzava: condannato a
far parlare le marionette divertendo i ragazzi e il popolo, mentre si
sentiva capace di recitare come un Modena, commovendo fino alle lagrime
le persone più intelligenti. Ora se ne vendicava come poteva.

Disgraziatamente, il suo uditorio composto di mezzi sordi e di sordi
affatto, gustava poco la lirica, e contentandosi di afferrare la mimica
del declamatore, rideva e si divertiva come se avesse dette le cose più
buffe.

Ad ogni fine di atto «Gerolamo» gridava al macchinista immaginario:
«Giù la tela» e a questo segnale le donne, sempre espansive, sempre
giovani per chi sa divertirle, applaudivano a tutto spiano.

Alla fine però nessuno poteva trattenerle dal gridare insieme agli
uomini:

— La farsa! «Gerolamo», vogliamo la farsa!

— Peccato che sono sordi e che non intendono i versi! — diceva
il marionettista all'amico suo più intimo nei momenti di suprema
confidenza. — Quanto al talento dell'artista lo sanno apprezzare meglio
di tanti!...

— Hanno voglia di ridere — rispondeva l'amico sottolineando la frase
con sottile ironia.

Finita la rappresentazione, mentre la maggioranza dei vecchi in buona
salute recitava il rosario, o l'ufficio dei morti, se vi era un morto
nel deposito; i due amici passeggiavano insieme o sedevano l'uno
accanto all'altro, discorrendo delle cose passate, dei rancori passati,
non dimenticati mai.

Il caustico Alessandro parlava quasi sempre lui; e rinvangando le
ingiustizie, le vigliaccherie, ritornava con accanimento sui fatti più
dolorosi della sua dolorosa esistenza.

Egli stesso non sapeva dire come fosse vissuto negli ultimi anni prima
di entrare nell'ospizio.

Dopo la morte del suo figliuolo, caduto in uno degli ultimi scontri del
quarantanove, aveva cercato di andare in Piemonte, ma non gli era mai
riescito. Aveva passati vent'anni, non sapeva come; sicuro soltanto che
erano stati anni di angoscie e di tormento, di fame e di malattie. Tre
volte era stato all'ospedale, una volta in punto di morte — e se non si
confessava non gli davano da mangiare, e lui aveva detto al prete: «Sa,
mi confesso per questo, ma io non credo niente!»

— Quattro volte in prigione, senza che si potesse capire perchè!....

Poi era venuto finalmente il gran giorno, il giorno della redenzione, e
lui era partito un'altra volta coi volontari, e la sua gioia era stata
così grande che per poco non diventava spiritualista — sì, perchè gli
pareva impossibile, ovvero gli faceva troppo male a pensare che il
suo povero figliuolo, morto per la patria, a diciott'anni, un amore
di figliuolo, non dovesse saper nulla, non dovesse goder nulla di quel
trionfo, di quella gioia suprema!...

Più tardi, si era dato del pazzo, dell'asino. Si era accorto che
i preti comandavano sempre, che quelli che erano stati amici degli
austriaci venivano accarezzati, trattati con riguardo, mentre i poveri
diavoli come lui, che avevano dato il proprio sangue per la libertà,
erano dimenticati, anche disprezzati, come lui!...

Quando Alessandro Fantini si lasciava trascinare a questo punto, dai
suoi ricordi, finiva sempre col levare dall'interno dell'abito, dove
lo teneva posato sul cuore, un lembo di giacchetta forato da una palla
austriaca.

E lo baciava e i suoi occhi si empivano di lagrime. La vecchia madre
piangeva, e le altre donne presenti domandavano il permesso di baciare
anch'esse quella reliquia — la reliquia del libero pensatore.

Ma Sandro s'inteneriva di rado; il suo carattere lo portava a
ribellarsi contro ogni manifestazione di debolezza. Di solito imprecava
agli ipocriti, ai vili e faceva la propaganda delle sue idee, con
l'impeto e l'energia di un giovane apostolo.

Nemmeno a quell'ultima tappa — come egli chiamava il pio albergo — il
suo spirito voleva darsi vinto.

I compagni burloni lo chiamavano l'Anticristo, ma gli volevano bene.

Chi non gli voleva bene certo era il rettore — in quegli anni c'era
ancora un rettore spirituale nella vecchia casa di ricovero — e questo
rettore — dicono le cronache — era prete un po' ficcanaso e non molto
rispettabile, ma molto portato a fare il tiranno. I vecchi in massa non
lo vedevano di buon occhio e spesso si intrattenevano delle marachelle
di don Tinazza; ma in tali occasioni abbassavano la voce e i sordi
erano esclusi dalla conversazione.

Il solo Alessandro osava gridare e proclamare la sua opinione — si
sarebbe vergognato di fare come gli altri.

Quand'egli si metteva in mezzo a un crocchio, con la sua figura da
ispirato, la testa circondata da un'aureola di capelli bianchi, gli
occhi neri, ancora vivi, lampeggianti, la voce penetrante e sonora,
pareva veramente un apostolo dei nuovi tempi.

La folla dei sordi, dei rimbambiti, dei burloni, degl'indifferenti, lo
guardava con piacere. Essi lo ascoltavano con inconscia ammirazione, i
più senza intendere o senza rendersi conto di quello ch'ei diceva.

Scandalezzate, palpitanti, per quella misteriosa e dolce paura che le
donne più semplici hanno cara come una carezza d'amore, le vecchie se
lo mangiavano con gli occhi e lo amavano.

Ma se la sottana di don Tinazza sventolava in lontano, l'oratore
rivoluzionario perdeva immantinente tutto il suo uditorio. Chi non
poteva allontanarsi abbastanza presto, fingeva di dormire.

                                   *
                                  * *

Nell'autunno Alessandro cadde malato, e la moglie gli si mise al fianco
da una parte, «Gerolamo» dall'altra.

Addio gaie recite sotto agli alberi verdi! Addio buone chiacchierate al
sole!

Già coi primi freddi di ottobre molti dei più vecchi se ne erano
andati. Nuovi ospiti arrivavano, nuovi balestrati dall'esistenza, in
cerca di un ultimo rifugio.

«Gerolamo» non si allontanava mai dal letto dell'amico infermo e
l'infermeria era piena di malati spediti, moribondi.

Tossivano, gemevano, rantolavano, infine partivano ad uno ad uno.

I preti stazionavano ora a un letto ora all'altro. E da mattina a
sera si sentiva un continuo biascicamento di preghiere latine fatte da
bocche senza denti.

— Lo sai, io non voglio il prete — disse un giorno Alessandro all'amico
suo.

— Non temere: ci sono io.

La vecchietta che sedeva dall'altra parte tutta tremante, indovinò più
che non intese, e non potè frenarsi.

— Sandro! Sandro! per carità!...

Il morente, per uno sforzo energico della sua volontà sollevò la testa
e ficcò gli occhi ardenti di febbre in quelli della moglie.

— Sono un uomo io! Un soldato!... Sono libero....

Ricadde spossato.

E il povero viso, sempre più scarno, sempre più affilato, sempre più
caprino della infelice vecchia, inondato di lagrime, fu coperto dalle
mani tremanti, ingranchite.

Dovette uscire un momento per singhiozzare liberamente.

Quando ritornò, il marito la guardò sorridendo con dolcezza.

— Ti raccomando la nostra reliquia! Quando vedi che dò di volta,
prendila tu.... E quando verrà il tuo giorno, e sentirai che non puoi
stare in piedi, prima di metterti a letto, bruciala, o falla bruciare,
da «Gerolamo»... Ma se lui non ci fosse più non ti fidare di altri....
Potrebbero avere il capriccio di tenerla.... e io non.... voglio che
profanino....

Ella promise piangendo....

Poco dopo si presentò il prete.

— Non voglio — disse il malato con voce ferma.

Il prete fece un grand'atto di meraviglia e di collera.

— Delira?... — domandò volgendosi verso il marionettista.

— No, non delira: non vuole il prete, e noi siamo qui perchè la sua
volontà sia rispettata.

Il prete guardò la donna.

— E voi che ne dite?...

— È la verità — rispose la misera compiendo l'atto più coraggioso della
sua vita.

Il libero pensatore morì tranquillo, pensando al suo figliuolo così
giovane, così bello, che lo aveva preceduto da tanti anni.

La moglie e l'amico lavarono il cadavere, e lo accompagnarono nel
deposito — uno stanzone sotto il portico, con un gran tavolato
appoggiato al muro, pendente in declivio, su cui giganteggiava un gran
Crocifisso di legno con la barba di lana, brutto lavoro del Seicento.

Altri cinque vecchioni erano morti nella giornata, e giacevano nudi sul
tavolato, coperti a mala pena da vecchie coltri.

L'apostolo ateo fu collocato nel miglior posto.

— Oh! Dio mio! povero il mio Sandro! — esclamò la vecchietta
singhiozzando, vinta da superstizioso terrore.

I becchini prepararono le sei casse, strettissime, di rozzo legno....

                                   *
                                  * *

La domenica seguente, alla solita predica dopo l'evangelo, nell'aria
fredda e grigia della fine di novembre, mentre i poveri vecchioni
stavano tutti intirizziti nei banchi dell'oratorio, mezzi sbalorditi
dalle continue morti, dai continui funerali di quella settimana, Don
Tinazza si mise a inveire tutto a un tratto, con voce tonante, contro
gl'irreligiosi, contro i miscredenti, contro il garibaldino che non
aveva voluto saperne de' suoi sermoni.

Da principio nessuno capiva.

La folla dei sordi che nulla sapeva, che nulla intendeva, si guardava
intorno sbigottita, interrogando i volti dei vicini.... Gli ebeti
sorridevano beatamente divertiti da quel gridìo, da quei gesti
concitati come quando «Gerolamo» recitava la _Francesca da Rimini_, o
l'apostolo ateo imprecava alla ingiustizia e alla ipocrisia.

Ma a poco a poco senza sapere, tutti furono vinti da un vago terrore,
da un'inquietudine tormentosa. E la vedova sconsolata piangeva, e il
suo corpo consunto tremava come tremavano le foglie secche al vento
autunnale.

Seduto presso alla porta, guardando fuori nel vuoto, con gli occhi
arsi, il marionettista invaso dalla collera stringeva i denti per non
scattare.



INTUIZIONI OSCURE.


La carica di maestro di cappella che il Ponchielli aveva nella chiesa
di Santa Maria Maggiore a Bergamo, lo chiamava abbastanza spesso in
quella città, ed anche, tratto tratto, nei paeselli della provincia.
Vi era un organo da collaudare? Un concorso da decidere? Il comune
invocava subito l'aiuto del celebre maestro.

Ritornando da quelle gite, egli aveva sempre qualche cosa da raccontare.

Una volta fra l'altre, essendo stato in Albino, credo per giudicare
di un organo nuovo messo nella chiesa parrocchiale, egli restò molto
impressionato da un suo incontro con quattro donne velate. Era nello
studio di un fabbriciere. Le quattro donne sedevano su quattro sedie
addossate al muro; mute, immobili, vestite di nero, il capo coperto da
fitti veli neri che celavano in parte il viso e scendevano in ricche
pieghe lungo la persona.

Ponchielli entrò, fu fatto sedere presso al fabbriciere e la
conversazione cominciò, abbastanza animata e diffusa. Durò circa
un'ora.

Per tutto quel tempo le quattro donne non si mossero, non alzarono gli
occhi, non pronunciarono sillaba; nè mai il fabbriciere si occupò di
loro, nè le guardò. Parevano quattro cariatidi; così indifferenti, così
morte al mondo, che non valesse la pena di prenderle in considerazione.

Chi erano? Che cosa aspettavano?

Mistero; buio profondo, come i loro abiti, come i loro veli, come i
loro visi.

Il maestro non osò interrogare, convinto che nessuno gli avrebbe
risposto. E partì, non senza avere ben frugato con gli occhi penetranti
quelle quattro sfingi, e portando seco l'immagine incancellabile di
quella scena.

Un anno più tardi, poco prima della sua morte, arrivando a Bergamo
secondo il solito per una grande solennità religiosa, il maestro seppe
che l'amico presso cui albergava in quelle occasioni era casualmente
fuori di città.

Egli si preparava a recarsi all'albergo, allorchè un cospicuo
fabbriciere di Santa Maria Maggiore gli offrì cortesemente la propria
casa, pregandolo di accettare.

Il fabbriciere abitava in Bergamo alta, dalle parti di via Salvecchio,
una di quelle antiche case dall'aspetto medioevale, che serrano il
cuore al solo vederle.

Era la vigilia della festa.

Fatte alcune visite in Bergamo bassa, due o tre giri sul Sentierone, il
maestro salì, verso il tramonto, alla casa del suo ospite.

Ma, fosse l'ora, fossero i nervi, od altre cause fisiologiche o
psicologiche, Ponchielli fu impressionato come in nessuna altra
occasione, dalla tristezza e dalla desolazione dell'antica città.

Egli saliva malinconicamente quelle vie deserte, ascoltando il rumore
dei propri passi, rimbombanti nel silenzio; saliva, avviluppato da
quella tetraggine medioevale che gli penetrava le viscere. Le rare
persone che incontrava gli parevano ombre vagolanti piene di mistero:
ombre di creature scampate miracolosamente alla fiera pestilenza che
doveva aver distrutto quel popolo, deserte quelle case.

Di tratto in tratto egli si fermava a guardare l'erba cresciuta tra
pietra e pietra, in certe piazzette, in certi cortili umidi, freddi; e
gli usci chiusi, le finestre sbarrate.

Qua e là, una bottega sepolta nel sonno e nell'ombra, aspettava invano
un compratore.

E a lui veniva voglia di essere quell'aspettato, di entrare e chiedere
un abito completo del tempo della prima crociata. Dovevano averne di
genuini, ed egli si figurava di girare per Bergamo, in quell'abito
medioevale, assai più intonato con l'ambiente.

Nella casa del fabbriciere, casa vasta, antica e rimbombante, il
pranzo fu succolento grave e lungo. I convitati, due preti ed un altro
fabbriciere, collega del padrone di casa, mangiavano con raccoglimento
e bevevano sodo, da buoni bergamaschi. Di tratto in tratto qualche
frizzo pesante come le vivande, sollevava le grasse risate.

Finalmente, arrivata l'ora di ritirarsi, l'ospite accompagnò il maestro
in una ampia camera, dov'era un letto immenso, e pochi mobili severi.

L'ombra era interrotta da quattro candele di cera, alte, da catafalco,
con effetto funereo.

Inconsciamente il maestro rabbrividì. Si vide morto in quel letto; ebbe
il senso aspro della fine suprema; una intuizione profonda del nulla.

Presto però il suo spirito arguto riprese il sopravento, ribellandosi
alle tetre immagini. Sorrise, pensando come avrebbe raccontata quella
scena agli amici; e, trovato un pezzo di candela stearica dimenticata,
accese quel lume più umano, spegnendo i quattro ceri suscitatori di
incubi.

Poco dopo si coricò con la speranza di riposare e dimenticare le
fastidiose impressioni.

Ma la sua speranza fu vana.

Appena in letto cominciò a voltarsi e rivoltarsi.

Quel letto enorme, quell'aria di camera disabitata, e i colpi di tosse
straziante che venivano dalla casa vicina, non lo lasciavano neppure
appisolare o appena appisolato lo risvegliavano.

Quella tosse era di donna che non ha speranza!

Il maestro l'ascoltava tristamente, pensando a quella esistenza
desolata di donna ignota, che passava nella fantasia di lui quale un
fantasma di dolore e di morte.

Come doveva essere triste di trovarsi inchiodati in un letto, coi
polmoni logorati, intendendo tutto, avendo la piena coscienza del
proprio stato!

Riaccese il lume.

Era inquieto, nervoso. Gli pareva di trovarsi in un monastero e di non
poterne più uscire.

Sepolto vivo!....

Il mozzicone di candela era agli sgoccioli; il lucignolo languiva in
fondo al candelliere, mandando fiochi bagliori.

Ponchielli chiudeva gli occhi, cacciava tutte le immagini, implorava
il sonno; ma un momento dopo li riapriva in sussulto e balzava a sedere
sul letto.

Ora non gli restava altra alternativa che le tenebre o le candele
mortuarie.

Tutto a un tratto gli parve di non essere più solo.

Le quattro donne di Albino erano entrate nella camera coi lunghi abiti
neri, i veli fitti sui visi arcigni.

Egli le vedeva distintamente, sedute ai quattro angoli del letto enorme.

Lo guardavano fisso traverso ai complicati ricami dei loro veli, mute,
immobili, sinistre. Egli li sentiva nelle proprie carni quegli sguardi
ardenti; e il pallore di quelle faccie consumate dall'ascetismo gli
faceva provare un senso d'ignoto terrore.

Invano chiudeva, per la centesima volta gli stanchi occhi; le vedeva
lo stesso traverso le palpebre chiuse; sentiva la loro letale presenza,
nelle folte tenebre.

Avrebbe voluto interrogarle, spinto da un'ardente curiosità; ma non
osava, come quel giorno in Albino. E rimaneva immobile, soggiogato,
ipnotizzato.

A poco a poco, la visione, o sogno, o fantasia, mutò forma.

Le quattro donne cominciarono a ingrandire. Su... su... salivano
vertiginosamente; diventavano gigantesche, immense, indefinite. E gli
ampi veli dalle pieghe pesanti si agitavano intorno ad esse come grandi
ali nere.

Finalmente, le misteriose figure parevano disciogliersi, confondersi
col tenebrore universale, e il maestro aveva la strana sensazione di
essere portato via, avvolto in quei veli, sempre più lontano, sempre
più in alto.

Tutto ciò durò un tempo che a lui sembrò lunghissimo.

Improvvisamente i fantasmi si dileguarono; le grandi ali nere non lo
sostennero più; abbandonato in mezzo allo spazio infinito, egli si
sentì precipitare da un'altezza vertiginosa in un baratro senza fondo.

Svegliatosi di soprassalto, balzò dal letto, si vestì in fretta e andò
a passeggiare sulle mura deserte.



UN DESINARE.


Era la vigilia di Natale; Milano pareva trasformata in un vasto, enorme
mercato. Mai come in questo giorno mi è sembrata vera l'osservazione,
che l'umanità si divide in due grandi schiere, di compratori e di
venditori, le quali s'intrecciano, si confondono, tornano a separarsi
formando sempre nuovi gruppi, come le figure di un caleidoscopio.

Le strade erano piene di gente d'ogni risma: gente allegra —
preoccupata — nervosa.... I bambini passavano cinguettando, con quella
loro aria di beatitudine e d'inquietudine vaga, gli occhi pieni di
sogni e di speranze.

Ci si pigiava davanti alle grandi vetrine e alle piccole mostre,
per entrare nelle botteghe, per arrivare ai banchi, disputando,
contrattando, scegliendo il meglio possibile, ciascuno nel limite delle
proprie forze.... finanziarie — limite sempre ristretto relativamente
ai desideri.

Come di ragione, i migliori affari erano riservati ai venditori di
cose mangereccie — dal macellaio al pasticciere — ed ai venditori di
giocattoli; poichè, Natale è, come si sa, una festa di famiglia, nella
quale si fanno gli onori al ventre e ai figliuoli.

Il tempo essendo discreto, la passeggiata era piacevolissima per
l'osservatore. Sul corso si potevano incontrare le signore eleganti,
a piedi, tutte chiuse nelle loro pelliccie o nei grandi mantelli,
ringiovanite dal piacere di comperare, di spendere, di preparare i doni
gentili, le sorprese, il piacere degli altri che è il grande piacere
femminile.

In via Santa Margherita si potevano vedere i gastronomi più raffinati,
ma non egualmente ricchi, fermi davanti alle vetrine del Testa e del
Rainoldi, studiando l'esposizione sapiente, fantasticando su i nomi
e le forme di certi manicaretti, aspirando gli effluvi eccitanti
ogniqualvolta un ghiottone più fortunato, sicuro di potersi pagare
tutti i capricci, entrava in una di quelle botteghe, o ne usciva, gli
occhi lucidi, il viso contento.

Non è poco interessante, per chi studia le passioni umane, lo
spettacolo di un vero ghiottone nel momento in cui si prepara le
sue voluttà. Ho visto una volta un famoso musicista dall'ampia
circonferenza, scegliere certi salumi, aspirare l'effluvio di certi
formaggi e di certe salse esotiche; e mi ritorna ancora nella memoria
l'espressione singolare della sua fisonomia, di solito arguta.
Bisognava vedere che importanza, che minuziosa attenzione, che serietà!

La mondana più raffinata non mette maggior passione nè studio,
nella scelta delle stoffe, dei fiori, dei gioielli incaricati di far
risaltare la bellezza del suo corpo.

                                   *
                                  * *

La folla più densa, mista e screziata, la trovai al Verziere, ai
mercati di piazza Santo Stefano, dove, in uno spazio relativamente
piccolo, erano esposti i pollami in quantità strabocchevole, le
selvaggine, il pesce, le verdure primaticcie, gli agrumi.

I rivenditori gridavano la loro merce, invitavano i passanti a
comprare, insistendo, bisticciandosi, lanciando epiteti.

E sempre aumentava il frastuono. Pareva che la ressa non dovesse
cessar mai. Frotte di compratori andavano via carichi; a vederli si
sarebbe detto che botteghe e mercati fossero vuoti finalmente; invece,
erano sempre pieni, e nuovi compratori arrivavano, più pressati, più
insistenti.

I gridatori, esausti, non avevano più voce, e gridavano disperatamente
con la voce strozzata.

Sulle cantonate, un uomo ritto in piedi, con la sua merce in spalla,
gesticolando, dimenandosi, lanciava sempre, a regolari intervalli, il
medesimo grido:

— L'unico regalo per fanciulli, signori!... l'unico regalo! Costa due
soldi!...

E agli occhi ammirati dei fanciulli appariva un orologio minuscolo, le
cui lancette si movevano.

Altri uomini misteriosi offrivano altri prodigi a un buon mercato
veramente straordinario: il topo meccanico, il fattorino, la portatrice
di pane....

Il sole tramontava, lontano, dietro alle nuvole dense; il freddo
diveniva più acuto.

Tornavo a casa, la testa intronata dal rumore, sbalordito per le mille
immagini diverse, entrate nel mio cervello, traverso ai miei occhi.

Pensavo involontariamente ad una città che si prepara a sostenere un
assedio e teme la carestia. L'enorme quantità di provviste non poteva
avere altro scopo. Il pranzo di Natale, le cene, i regali.... Pretesti,
grosse burle, per ingannare il nemico!....

Quale nemico?

Chi sa!...

Ma la gente che mi passava daccanto dissipava subito il mio sogno.

Gruppi di donne venivano parlando dei regali, dei piatti che
preparavano, degli invitati....

Dei rivenditori tornavano a casa, avendo esaurita la merce, le mani
vuote, il portamonete pieno; comunicandosi i buoni colpi fatti,
sparlando dei compratori difficili abilmente canzonati.

Altri cantavano a squarciagola, avendo anticipato sulle libazioni della
festa.

In mezzo alla calca qualche figura corretta di gentiluomo affrettava
il passo, apriva nervosamente la porta vetrata di un gioielliere, di un
pasticciere, di un fioraio, di un negoziante di mode, e spariva.

Si accendeva il gaz. Più in alto, sulle nostre teste si imbiancavano i
globi fantastici della luce elettrica, come tante lune staccatesi dal
cielo.

Una nuova allegrezza, una nuova sontuosità, si spandevano. La folla
impediva il passaggio su i marciapiedi.

Il tram di Porta Vittoria stazionava nel solito angolo della
piazza, impudente di grettezza, ai piedi del colosso di marmo, dalle
innumerabili guglie — il colosso che pare più superbo, più fantastico
e maraviglioso, dacchè la parte moderna della piazza, borghesemente
pretenziosa, stona di più col carattere trascendentale della
illuminazione.

Entrai nel carrozzone, ancora completamente vuoto, rassegnato ad
aspettare.

Le redini erano legate, la frusta riposava; forse i cavalli
stiacciavano un sonnellino.

Cercai con gli occhi il cocchiere. Era giù, presso ai cavalli, piantato
sui suoi stivaloni, ampi, rigidi, come due cassette di legno.

Sotto al pastrano si disegnava un corpo di atleta, dalla nuca turgida,
dalla testa forte; un po' tozzo.

Una donna e un fanciullo erano arrivati presso di lui in quel momento,
correndo, leggermente ansanti.

Il fanciullo si attaccò al pastrano paterno sghignazzando; allungò una
manina ardita verso la pancia del cavallo.

La donna aveva tolto una calderina di latta di sotto allo scialetto, e
la porgeva al marito.

— Speriamo sia calda! —

L'uomo non rispose subito tutto occupato a scoprire la calderina.

— Fuma!

Tutti e due sorrisero di compiacenza.

Il cocchiere cominciò a rimestare col cucchiaio una minestra di riso e
verdura, densissima, calcata.

— Ho molta fame! — mormorò — non ho avuto tempo neppure di mangiare una
mezza micca.

— Mangia presto, dunque; che non ti tocchi come l'altro giorno!

Egli scrollò il capo, e cominciò il suo desinare, in piedi, vicino ai
suoi cavalli, in mezzo al rumore e al via vai della gente.

Aveva un modo singolare di empire il cucchiaio e di empirsi la bocca.
Certamente doveva essere il risultato di una lunga abitudine e di uno
studio particolare.

Con meravigliosa sveltezza faceva girare il cucchiaio nella calderina
in modo da raccogliere la maggior quantità possibile di minestra;
poi, invece di portarlo alla bocca come facciamo tutti — il che gli
sarebbe stato impossibile senza impiastricciarsi il naso — appoggiava
delicatamente le labbra sul mucchio della minestra, e alzava il
cucchiaio, girandolo rapidamente, eseguendo insomma una curiosa
manovra, in virtù della quale, a me pareva, non che egli mangiasse,
ma empisse di malta e ghiaia una buca profonda e stretta, con la
preoccupazione di far molto presto e di non imbrattarne gli orli.

A manovra compita, prima di prepararsi una seconda cucchiaiata, egli
alzava la testa e spingeva lo sguardo scrutatore fino in fondo alla
strada, che va diritta da piazza del Duomo a piazza Fontana.

Niente! Un sospiro di sollievo, e un'altra cucchiaiata colma come la
precedente.

Qualche volta, la donna cercava di risparmiargli pena, tenendo lei gli
occhi fissi al punto donde doveva spuntare il tram di ritorno.

— Mangia! non c'è niente!

Ma lui, non si fidava. Un grave timore vegliava su quel formidabile
appetito di lavoratore digiuno: il timore di essere colto in flagrante
ritardo di mezzo minuto....

Ad ogni cucchiaiata, lo sguardo scrutatore andava, sicuro e
pronto, come una palla di fucile, laggiù in fondo alla strada; e
involontariamente, inconsciamente forse, la manovra dell'ingozzamento
si affrettava sempre più, affannosa come un supplizio.

L'uomo aveva il viso rosso, il collo rosso; di tratto in tratto, per
un gesto automatico si asciugava il sudore col rovescio della mano; di
tratto in tratto, come i suoi cavalli batteva un piede in terra, e la
suola grossissima dello stivale produceva un rumore secco, forte, come
lo zoccolo del cavallo.

La donna aveva dei piccoli scatti d'inquietudine repressa.

Con la testina alzata, gli occhioni spalancati, intenti, le manine
attaccate ai lembi del pastrano, il fanciullo non parlava, non si
moveva; guardava il padre mangiare.

Qualche volta l'uomo chinava gli occhi sul bimbo e tentava sorridergli
con le labbra intorpidite, mentre la mano esperta empiva il cucchiaio
senza bisogno di essere sorvegliata.

Allora, il visottolo grasso del piccino s'illuminava di gioia, e
tutto il corpicciuolo si portava in su con uno slancio di tenerezza,
invocando un abbraccio; ma improvvisamente ei si ricordava, girava
cautamente gli occhi verso la madre come per interrogarla e tornava
tranquillo.

Il tram intanto si era quasi empito. Il conduttore stava al suo posto
sulla piattaforma posteriore.

Qualcuno brontolava per la lunga sosta.

— Sempre così su questa linea! — esclamava un omone con un paniere di
arancie sulle ginocchia.

— O cocchiere! Sbrighiamoci!

Il cocchiere, la donna e il fanciullo scrollavano le spalle, gli occhi
fissi al fondo della strada.

Tre o quattro cucchiaiate, più colme delle altre se è possibile, furono
buttate giù alla svelta.

Ora mi pareva che la grande fame dell'uomo fosse ammansata, che si
affrettasse più che altro per abitudine, per terminare la sua porzione
e munirsi bene contro il freddo della serata. Inghiottiva con fatica,
gonfiando il collo.

La moglie gli parlava fitto, e il bimbo si permetteva di cinguettare.

— È qui! — esclamò la donna improvvisamente.

Il cocchiere pronunciò alcune parole con voce strozzata

— Prendimi in braccio, mamma! Prendimi in braccio!

Quando si trovò alzato al livello del petto paterno, il bimbo allungò
le manine verso il fischietto e fece l'atto di soffiarvi dentro, con
una grazia d'amorino.

Ma il cocchiere non aveva tempo d'intenerirsi.

Finì di raspare il fondo della calderina, poi la consegnò alla donna,
e salì al suo posto battendo forte le suole per sgranchirsi; mentre il
bimbo guardava intento, gli occhioni pieni di ammirazione e di una vaga
tristezza.

Al momento di allontanarsi l'uomo fu preso come da un rimorso: si
voltò, allungò la mano e abbozzò una carezza sulla guancia del suo
figliuolo; poi afferrò le redini, e i cavalli si mossero.

— _Ciao!_

— _Ciao papà!_

La donna e il bimbo restarono un momento, poi si voltarono e sparirono
nella nebbia che veniva giù con la notte.

Il carrozzone cominciò a scivolare rapidamente sulle rotaie, e i vetri
dei finestrini intonarono la solita solfa.

— L'unico divertimento per società! — gridava l'uomo dal topo meccanico.

— L'unico regalo per ragazzi! — rispondeva quello dagli orologi a
cinque centesimi.

La folla passava ridendo.



NELLA BUONA SOCIETÀ.


Elegantissimo il salotto.

La signora, sempre bella, sempre festeggiata, non temeva il confronto
di una figliuola ventenne. La natura le aveva accordato il favore di
conservare la grazia e la sveltezza giovanile nella lussureggiante
maturità.

Era l'ora delle ultime visite, delle più care.

L'ombra del crepuscolo si allungava nel salotto.

La signora sedeva presso alla finestra, in mezzo a un circolo di amiche
e di cavalieri.

Inutile dire quale fosse il tema della conversazione. Si sfioravano
naturalmente tutti i soggetti; ma uno tornava sempre a galla, eterno
soggetto di ogni conversazione elegante o volgare: la maldicenza.

Il crocchio intimo passava in rivista le dame e i cavalieri che erano
apparsi in quel medesimo salotto la vigilia.

— Quella povera contessa non si è più riavuta dopo la terribile scossa
— diceva un signore alto, secco, dal viso maligno.

— Gli è perchè sa oramai con certezza che un dolore simile non le
capiterà mai più! — ribattè una biondina delicata che pareva impastata
d'etere e di gelsomini.

Fu una risata. La contessa a cui si alludeva era una donna di
cinquantadue anni, il cui ultimo amante aveva preso moglie. Si
parlava a frasi velate, senza far nomi. Ciò nonostante la padrona
di casa, stava sempre un po' perplessa, volgendo lunghe e frequenti
occhiate verso l'angolo opposto del salotto. E se un imprudente si
lasciava sfuggire una frase troppo trasparente, era pronta a chiamarlo
all'ordine con un cenno rapido e risoluto.

Nell'angolo opposto stava il crocchio gaio, rumoroso, sempre in moto
delle fanciulle: da qui i timori della signora.

Claudina una brunetta secchina, dal naso ricurvo e dalla bocca
affondata, riceveva là, sotto la sorveglianza materna, le sue giovani
amiche.

Ma se nel crocchio degli adulti discorrevano a frasi velate, Claudina
aveva iniziato nel suo una specie di gergo, nel quale raccontava le
storielle più difficili, illustrando con qualche gesto o commento le
allusioni oscure; i passaggi scabrosi.

L'ultimo visitatore arrivò. Era un omino asciutto sui cinquant'anni,
dagli occhietti vivi, dal riso ironico.

— Il dottor Cassinoni! — esclamò Claudina.

Tutti lo chiamarono come uno che si aspetta da lungo tempo.

— Dottore! finalmente si lascia vedere!

— Dottore!... Dottore!...

— Come ha l'aria triste, non pare lei!

Le fanciulle lo circondarono.

— Che notizie della nostra amica?

— Come sta Bianca?...

— Spera di salvarla, vero?...

— Dica, dottore, parli!...

Così insistevano le fanciulle e nelle loro voci era un fremito di
ansietà contenuta.

Il dottore si fece serio, guardò le madri, poi guardò le fanciulle. Il
sorriso ironico si estinse sulle sue labbra; e con una emozione affatto
insolita in lui, disse:

— Morta!... È morta da un'ora!

— Morta?!... Morta?!... gridarono le fanciulle dopo il primo momento di
paralizzante stupore.

— Morta!... sospirarono le signore.

— Povera, povera Bianca!

Un silenzio regnò nel salotto semibuio.

— Perdio! — esclamò un signore grasso: — quell'uomo può dirsi rovinato
per tutta la vita!

— Se fossi in lui mi suiciderei — mormorò un giovine serio — sarebbe il
solo mezzo di farsi perdonare.

Le signore abbassarono gli occhi.

Le fanciulle ascoltavano con gli occhi intenti, pallide e ammutolite.

I domestici portarono i lumi.

— Quello non si suiciderà — disse il medico con voce quasi solenne.
— Sapete invece cosa farà? Da qui a un anno poco più, forse meno,
prenderà una seconda moglie.

Egli fu interrotto da un coro di oh! oh! indignati.

— Scommettiamo?...

— Bisognerà, se mai, che vada molto lontano a cercarsi la sposa! —
esclamò una bella signora che passava per molto ardita.

La padrona di casa le gettò un'occhiata cattiva e mormorò con la sua
vicina.

— Che sfacciata! Non pensa nemmeno che quelle bambine ascoltano.

E la prudente madre fece un cenno al dottore perchè troncasse
quell'argomento.

Ma questi non vide o fece le viste di non vedere. Aveva pronto un
discorsetto crudino, tagliente, e non era uomo da sacrificarlo; si
accontentò di abbassare la voce.

— Perchè dovrebbe andar lontano? Che necessità ci vede lei? Tutti gli
uomini, specialmente gli ammogliati sanno per esperienza che Morandini
non è peggiore degli altri.... È stato imprudente, tanto più si può
credere che sarà prudente un'altra volta. Le signore poi, le madri
sanno benissimo tutto quello che sanno gli uomini, e più ancora sanno
che i buoni partiti sono rari, sempre più rari.... E Morandini è un
buon partito!

— Basta, dottore! — ordinò la padrona di casa. — Basta! — supplicò con
più dolcezza — le bambine taciono!...

— Non taciono — osservò il dottore, — ma io obbedisco egualmente. Del
resto, non abbiano alcuna pena, signore mie, anche se mi hanno inteso,
non mi avranno capito: sono tanto candide!

— Questo dottore è un gran cinico — mormorò il giovine serio che aveva
parlato di suicidio. — Non capisco perchè la signora Margherita gli sia
amica.

— Sarà forse per riconoscenza.... È da molti anni che si conoscono!...
sospirò con adorabile ingenuità la delicata biondina.

— Che vipera! — pensò il giovine, e la guardò fisso in aria
interrogativa; ma ella serbava nel viso, come nella voce, la più
innocente espressione.

Intanto le fanciulle strette in un gruppo discorrevano fra di loro
sommessamente.

Il dottore aveva ragione, non ascoltavano i «grandi»: non ve n'era
bisogno. Claudina conosceva la storia della povera Bianca e la
raccontava.

Avevano la stessa età; erano state in collegio assieme e avevano fatto
il loro ingresso in società l'anno precedente, tutte e due la stessa
sera, vestite uguali come due sorelle.

— Ma Bianca era una bellezza — notò Claudina senza rancore — e aveva
una dote di mezzo milione: perciò fece furore, mentre io passai
inosservata. Camillo Morandini incominciò subito a farle la corte ed
ella fu subito presa. Andando a casa mi disse: o lui, o nessuno. Era
così impetuosa, così ardente.

«Povera Bianca! tutto andò come sapete. Ma noi ci si era fatta una
promessa fin dal collegio: quella che prendeva marito prima, avrebbe
raccontate tutte le sue impressioni all'altra.

«Queste promesse si fanno spesso, ma raramente si mantengono. Quando
la povera Bianca tornò dal suo brevissimo viaggio di nozze, malata a
quel modo, io andai subito a trovarla di nascosto della mamma che non
voleva.

— E che ti disse?... — domandò una bambina di quindici anni che
ascoltava con le orecchie rosse.

— Sta zitta! — impose una giovinotta seria e calma che non mostrava
alcuna curiosità.

— Mi si buttò fra le braccia e si mise a piangere — continuò a
raccontare Claudina. Io piangevo con lei. Finalmente, mi disse che era
avvelenata e che sarebbe morta.

— Avvelenata! — esclamò quasi ad alta voce la quindicenne. — Dunque fu
un assassinio!

La sua vicina le diede uno spintone perchè tacesse: alcune risero.

— «Un assassinio.... involontario, — completò Claudina.

«Vi ricordate che si è parlato molto, sebbene molto sommessamente
davanti a noi, di una gran cena di addio offerta da Morandini ai suoi
amici, come suggello della sua vita di scapolo.

Quasi tutte se ne ricordavano.

— Si disse che vi fossero invitate anche delle donne.... di quelle — vi
ricordate?...

Due o tre accennarono di sì.

— Qualche giornale ne parlò: Bianca seppe qualche cosa; si procurò uno
di quei giornali e lo si lesse insieme. L'articolo pareva scritto da un
nemico di Camillo; e lui deve essersi giustificato con poca fatica. La
stessa sera ella bruciò il giornale e l'indomani fu sposa.

«Ebbene! era tutto vero!

«— Ma lui non ci ha colpa — diceva la povera Bianca piangendo sulla
mia spalla: — lo hanno ubbriacato per fargli una burla.... e poi.... —
ripigliava asciugandosi gli occhi — fanno tutti così, sai! —»

Le ragazze più grandi tacevano atterrite.

— Non capisco bene — disse la bimba quindicenne alla sua vicina.

— Non importa; ci hai tempo!

                                   *
                                  * *

Le signore si alzarono per andarsene: era tardi.

E dame e cavalieri cominciarono i saluti con un chiacchierio affettuoso
e gaio; il doloroso episodio era dimenticato.

Anche le fanciulle si levarono, ma senza rumore, senza gaiezza per
quella sera, pallide e pensose.

Una delle meno acerbe, una ragazza di ventiquattr'anni che si forzava a
parerne diciotto, disse a Claudina baciandola:

— Meglio non maritarsi... ti pare?...

Ma Claudina scrollò il capo e rispose:

— No, cara! Bisogna maritarsi in qualunque modo. Le maritate almeno,
nel peggior caso, quando non hanno altri compensi, sono compiante: le
ragazze che invecchiano nella soggezione, fantasticando e desiderando,
non sono che ridicole nella nostra società!...

— È vero!... È vero!... mormorarono le amiche, mentre si abbracciavano,
sospirando sommessamente.



IL PRIMO INCONTRO COL MOSTRO.


La mamma aveva spento il lume da una mezz'ora con la solita intimazione:

— E ora, basta ciarlare! — fatta a me e a Lina.

Lina si era subito voltata dall'altra parte; io non riescivo a pigliar
sonno. Nella camera buia, i miei occhi spalancati guardavano l'oscurità
e vedevano un mondo d'immagini e di fantasmi. Marino era stato con
noi tutta la sera e la mamma gli aveva dato a leggere la lettera del
babbo che acconsentiva alla sua domanda e fissava il nostro matrimonio
per quest'autunno, quando lui sarebbe tornato a Milano. Era stata una
serata allegra per tutti. Lina aveva suonato benissimo il suo Beethowen
e Marino aveva cantato la romanza del _Trovatore_.

La mamma, che non rideva quasi mai dacchè il babbo aveva dovuto
allontanarsi dalla casa, si era messa di buon umore all'idea del
vicino ritorno di lui, e della mia felicità assicurata. Io sola ero
come oppressa dalla mia gioia: sentivo il bisogno di raccogliermi e
di assaporare tutta la dolcezza di quel momento. Mi pareva che quello
fosse il punto più luminoso, più alto della felicità mia; oltre il
quale non si poteva salire, perchè la via s'allargava in un vasto piano
inondato di sole, sparso d'alberi e di fiori, e tanto vasto che io non
potevo vederne la fine, e mi faceva provare un senso di sacro terrore.
Amavo Marino da quasi due anni, e ne avevo diciotto: vale a dire che mi
pareva di averlo amato sempre.

Da principio il babbo si era opposto, perchè Marino aveva solo tre
anni più di me, e a lui parevano pochini. Ma poi, vedendolo così buono
e costante e studioso, si era lasciato convincere. Io non avevo mai
dubitato che questo dovesse avvenire; eppure, dacchè il mio sogno
prendeva forma di cosa vera, mi pareva inaspettato, insperato: meno
vero di prima. Ripensavo al passato così vicino, vivevo come in
riepilogo le ore d'incertezza e di scoramento vissute lentamente: mi
pareva che la mia felicità fosse stata sospesa ad un filo e soffrivo
con l'immaginazione tutto il male che avrei sofferto, se quel filo si
fosse rotto, se Marino non si fosse messo a posto così presto e bene:
se il babbo avesse continuato a credere che non era un marito per me.
Che cosa avrei fatto?... Che ne sarebbe stato della mia vita?

Con questi pensieri continuavo a voltarmi e rivoltarmi nel letto,
mentre Lina dormiva profondamente. Mi ero appena un po' quietata,
allorchè una grande scampanellata mi fece balzare in aria, con un
grido disperato che non potei frenare. Anche Lina si svegliò subito.
Ma la mamma che forse non aveva dormito, al pari di me, ci disse dalla
sua camera, di star tranquille, che probabilmente era uno sbaglio.
Intanto però, a buon conto, ella scese dal letto ed accese il lume. Il
campanello tornò ad agitarsi e mandò uno squillo recisamente imperioso.
Mi sentii gelare. Lina si strinse al mio braccio. La mamma si era fatta
all'uscio di casa, e, prima di aprire voleva sapere chi era, e cosa
volevano a quell'ora.

Un telegramma!

Io presi la carta presentatami dal fattorino e firmai la ricevuta quasi
come in un sogno. Guardavo il misterioso dispaccio senza romperne
il suggello, trattenuta da quella paura dell'ignoto che assale ogni
cuore di donna dinanzi ad un telegramma non aspettato. Gli uomini ci
sono avvezzi, loro: hanno tutti più o meno affari; ma per noi donne il
dispaccio telegrafico è quasi sempre un visitatore temuto, al quale si
legano impressioni penose, ricordi lugubri.

Finalmente la mamma aprì la busta e lesse le due o tre linee di
stampato.

Ah! il cuore non mi aveva ingannata!

Veniva da Torino quel dispaccio, ma non era del babbo. Un amico di lui
ci annunciava, in quello stile oscuro e brutale ad un tempo, che il
babbo era ammalato, e ci pregava di recarci subito presso di lui.

Ammalato?... Se ci aveva scritto il giorno avanti, se stava bene!

Era possibile?...

Istintivamente ci si stropicciò gli occhi e si tornò a rileggere.
Diceva proprio sempre a quel modo! Bisognava partire subito....
Subito?... Quando subito?... Era suonata la mezza dopo le dodici.

— A che ora parte la prima corsa? — domandò la mamma che pareva
smemorata.

Lina si ricordò di aver letto che per comodo dei viaggiatori era stata
fissata una corsa nuova, alle tre del mattino. Vestendoci subito si
aveva tutto il tempo. E si cominciò a vestirsi, tremando di freddo,
nella casa piena di ombra; perdendo tempo a cercare gli oggetti più
famigliari, urtandoci l'una con l'altra.

La mamma non riesciva ad agganciare le molle del busto causa il tremito
delle sue mani. Lina si era vestita tutta dimenticandosi d'infilare le
calze. E ogni tanto una di noi si fermava domandando con voce rauca:

— Ma che cosa sarà successo?...

— Che cosa pensate voi altre?

— Tu, Laura, che ti dice il cuore?

— Tu, Lina, che sei la più giovane, dì, bimba mia, non sarà mica morto
il babbo?...

— Morto! — esclamò singhiozzando la bimba che non ci aveva pensato
ancora: — Morto! oh! il mio babbo!

Questo grido dell'anima rimbombò come una martellata nelle nostre teste
indolenzite, nel silenzio della notte.

Ci si buttò a piangere, tutte e tre insieme abbracciate. I nostri
nervi si calmarono un poco. Era il tocco e mezzo. Si fecero con più
discernimento gli ultimi preparativi.

Morto, no, non poteva essere! Avrebbero scritto. Forse era caduto; si
era fatto male; voleva vederci. Forse, l'amico esagerava. Finalmente
fummo pronte. Si chiuse la casa. Io depositai un biglietto sul
finestrino della «portineria» per avvertire la donna di servizio. A
Marino avremmo scritto poi, con più pace. La mamma aveva detto che non
era il caso di spaventarlo anche lui che doveva lavorare. La notte era
fredda e piovigginava. Si andò alla prima stazione di vetture e ci si
fece portare alla «Centrale».

Arrivammo più di quaranta minuti prima della partenza, e poichè quello
era il primo treno del mattino, e l'ultimo era partito intorno alla
mezzanotte, la stazione era chiusa; il gran faro della luce elettrica,
spento.

Il vetturino ci lasciò sole nella immensa piazza deserta e buia, piena
di nebbia.

In quel silenzio, che i rumori lontani e confusi rendevano più
opprimente: in quella notte profonda; con l'anima aperta a tutte
le impressioni tristi, a tutte le immagini desolanti, mi pareva
di essere in un deserto, lontanissimo dai miei simili — quasi nel
mondo fantastico delle ombre. Un cupo terrore s'impadroniva del mio
spirito. Ma non pensavo al babbo in quel momento. Pensavo a Marino
che mi credeva a casa tranquilla nel mio letto, mentre io ero là in
quell'angoscia. Mi pungeva che non si fosse potuto avvertirlo. Se fosse
stato là, vicino a noi, quanto avrei sofferto meno!

Lina, stanca, assonnata, si mise a sedere sugli scalini e si appisolò,
con la testina sulle ginocchia.

Vedendola così, raggomitolata, piccina, tutta tremante di freddo, la
mamma ebbe un nuovo scoppio di pianto.

— Povera bimba! — mormorava di tratto in tratto: — povera bimba!...

Finalmente alla stazione si rifecero vivi. Si sentirono delle voci
confuse, dei passi rimbombanti nella sala vuota.

Giù, in fondo, tra gli alberi, apparvero due occhi gialli; poi altri
due; poi una fila. La porta della stazione si spalancò con fracasso:
il gran faro tornò a brillare. Poco dopo cominciò la distribuzione dei
biglietti; e la mamma diede a me i denari per andare a prenderli.

Quando il treno si mise in movimento, Lina ricadde nel suo sonno. La
mamma mi prese le mani e me le strinse forte, accostando la faccia per
vedermi bene negli occhi, al fioco lume della lampada.

— Laura! — mormorò senza articolare: — Laura!... ho paura!...

Volevo dirle che non c'era ragione; ma non trovai parole.

Rimanemmo alcuni istanti così, guardandoci irrigidite, scrutandoci nel
fondo dell'anima.

Eravamo sole nello scompartimento.

A poso a poco la mamma si rianimò, parlandomi di suo marito in un modo
affatto nuovo per me, come avrebbe fatto con un'amica.

Lo aveva amato, lo amava ancora tanto, tanto, di un amore rinchiuso,
forte. S'era sposata giovanissima, prima di avere provata la più
piccola simpatia di fanciulla: un matrimonio combinato dai parenti.
Ma vivendo con lui, imparò a conoscerlo, ad apprezzarlo, e lo amò;
meglio: se ne innamorò pazzamente. Non avrebbe voluto separarsi da
lui un solo istante. Quando pensava alla morte s'augurava sempre di
morire prima lei, per non provare il dolore di perderlo; e lui la
rimproverava dolcemente di essere troppo egoista. Avanzando negli
anni e avendo me già grande, ella aveva cercato di dare al suo affetto
una forma più calma e severa, per rispetto al suo carattere di madre;
per questo aveva condisceso alla partenza di lui, a quel tentativo di
migliorare le condizioni della famiglia: aveva considerato questa cosa
quale un dovere verso di noi figliuole; ma quanto a lei sarebbe morta
piuttosto....

Albeggiava. Le ombre sparivano. Il treno usciva trionfante dalle
tenebre della notte e correva allegramente nella luce argentina.

Io mi sentivo rinascere.

Lina si svegliò: ci guardò: guardò il sole; e sorrise.

— Il babbo sta meglio, eh? — domandò ingenuamente.

— Speriamo! — sospirò la mamma.

La speranza era in noi.

Alla stazione di Torino nessuno ci aspettava. Parve un buon segno.
Erano intorno a lui gli amici! Si prese un legno chiuso. Ci si fece
condurre alla casa dov'egli abitava.

Ah! la prima persona in cui c'imbattemmo — uno scultore nostro amico —
troncò con uno sguardo tutte le nostre speranze.

Gli fummo addosso affannate. Che cosa era successo? Stava meglio, vero?
Dicesse qualche cosa!

Rimase muto: era tanto commosso che non poteva parlare.

La mamma non pronunziò la parola terribile che errava sulle sue labbra,
e schizzava dai suoi occhi. Indovinai che taceva per una sorte di
terrore superstizioso.

A un tratto ci voltò le spalle e si gettò correndo dentro la
casa, nelle stanze a terreno che il babbo occupava. Prima che la
raggiungessimo un urlo disperato ci agghiacciò.

Ah! quell'urlo! Non lo dimenticherò finchè vivo.



LA CRISTINA.


L'ambiente nel quale l'ho vista era perfettamente intonato con questa
vecchia. La via, una delle più antipatiche di Milano, in vicinanza
della esecrata Rotonda, focolare di miasmi, contava tra i suoi edifici
un ospedale di alienati ed un ricovero per le fanciulle pericolanti.
La casa, una decadenza. In origine — nel secolo scorso — doveva essere
stata una villa abbastanza imponente. Ne facevano fede parecchi avanzi
di antica grandezza: un portico ad archi rotondi: le incorniciature
ancora evidenti dei finestroni murati dell'antica sala da ballo: lo
scalone ampio, maestoso, decorato da una bellissima rampa in ferro a
ricchi disegni.

Ma l'unico lato ancora esistente del portico faceva sfondo a una corte
lurida, dai muri scrostati, trasudanti l'umidità, una corte nella
quale il puzzo di stalla e di spazzatura si alternava alle esalazioni
delle verdure andate a male nella bottega dell'inquilino erbivendolo
e a quelle del cattivo petrolio adoperato dal padrone di casa per
rischiarare il superbo scalone e la schifosa portineria. Ma la sala da
ballo era stata divisa in due piani e in piccole camerette. Ma sotto
il portico erano tante piccole tane umide, basse, alcune rischiarate
a mala pena da certe finestrine rotonde formanti parte del vecchio
insieme architettonico. Ma lo stesso scalone, eternamente umido, tanto
che serviva da barometro agli inquilini, si mutava dopo il primo piano
in una scaletta a chiocciola, vero precipizio.

La Cristina abitava appunto in cima alla scaletta in una soffitta
ridotta a tana per bestie umane.

Essa era come la casa, una decadenza. Un poeta avrebbe potuto
fantasticare che erano nate insieme e che insieme deperivano.

Sulla scaletta il tanfo generale mutava carattere.

E se qualcuno ne chiedeva l'origine, le vicine in coro gridavano:

— I gatti della Cristina.... quella vecchiaccia!...

L'avrò sentita a nominare così venti volte prima di averla veduta.

Non era facile vederla; aveva qualcosa di misterioso. Usciva
all'alba per recarsi alla prima messa in San Pietro in Gessate, poi
si rinchiudeva nella sua soffitta; altre volte stava fuori tutto il
giorno: andava a lavorare — così dicevano — da sarta da uomo in certe
case lontane — nessuno sapeva precisamente dove.

Lei proteggeva tutti i gatti in genere, specialmente gli abbandonati;
ma due erano i suoi prediletti; uno rosso ed uno nero, grassi, lucidi,
insolenti.

Non è a dire quante volte i vicini stanchi, attentassero alla vita di
quelle due bestie, col bastone, col laccio e col veleno. Ma avevano
finito col crederli invulnerabili, talmente i due furbi sfuggivano
a tutti i tranelli. E dopo ogni attentato la Cristina appariva più
tragica, più minacciosa.

Un inverno, alcuni anni or sono, essa rimase due giorni e due notti
senza rincasare.

Da principio si scherzò.

La Cristina si era fatta l'amante!...

L'avevano rapita al veglione!

No, era il diavolo che se l'era portata via con tutti i suoi gatti!...

Il gatto rosso diffatti non si vedeva, ma il gatto nero saliva la
scaletta miagolando spaventosamente.

Si tentò di aprire la camera; era chiusa a chiave.

Una donna insinuò lo sguardo nel buco della serratura e credè di vedere
la chiave dalla parte interna.

Dunque la Cristina non era uscita!

Dunque era chiusa dentro insieme al gatto rosso che forse l'aveva
strozzata!

Certo era indisposta — forse morta!

Per tutta la sera e la mattina di poi vi fu una processione di
esploratori alla serratura di quell'uscio.

E tutti se ne ritornavano col viso sconvolto, affermando che la chiave
c'era e che si sentiva un gran puzzo, un puzzo di cadavere!

In quell'occasione, le bocche più timorose si aprirono e le lingue più
restie si sciolsero sul conto della Cristina.

Che cos'era veramente?

Ma!... Una poco di buono certo!

Quell'occhio torvo — quel perpetuo silenzio — quella schiena piegata
ad arco — quella cupa religiosità e quella sfrenata passione pei gatti,
erano brutti indizi!...

Doveva aver commesso qualche nero delitto.

Ammazzato l'amante.... cinquant'anni addietro!...

Strozzato il marito....

Fatto la spia....

Tenuto mano a una associazione di malfattori....

In fondo, non si sapeva nulla, e le immaginazioni si sbrigliavano
inutilmente.

Intanto qualcuno andò a chiamare le guardie. Il fatto della morte parve
sicuro: l'uscio fu atterrato.

Il gatto rosso spaventato saltò dal letto — un lurido mucchio di cenci;
ma la Cristina non apparve nè viva nè morta.

Improvvisamente i monelli che giuocavano nella corte si misero a
gridare:

— È qui!... È qui!...

— Arrivaaa!... Arrivaaa!...

Il gatto rosso le corse incontro: il nero l'aspettava come di solito
sulla finestrella rotonda in fondo allo scalone.

Ella saliva lentamente, raccolta nello scialle, la testa coperta da un
piccolo velo di tulle nero.

Era una figura alta di donna non vecchia ma distrutta dalla malattia e
dai patimenti.... la sua schiena curva la faceva apparire schiacciata
da immane peso. Erano forse i rimorsi che i vicini le attribuivano....

Allorchè pose il piede sull'ultimo brano della scaletta a chiocciola, e
vide la sua camera aperta e la gente curiosa che la guardava, cominciò
a tremare, e sulle sue guancie del color della cera apparve un lieve
rossore, e nei suoi grandi occhi vuoti si accese un pallido lampo.

— Chi è stato?... — mormorò — Perchè?... Ma un singhiozzo le troncò la
parola.

Tornò a chinare la testa — una testa ossuta da uccellaccio
spennacchiato — che aveva drizzata un istante, e ricominciò e salire
lenta e curva, con evidente fatica.

Come sempre, i due gatti camminavano alle sue calcagna, misurando il
passo su quello di lei, fermandosi quand'essa si fermava per pigliar
fiato.

Le guardie la interrogarono.

Era stata a lavorare in casa tale, via tale, e perchè pioveva e perchè
lei non si sentiva bene, l'avevano trattenuta a dormire.

Le guardie se ne andarono.

Rimasta sola la Cristina si levò il velo e lo scialle, aprì un
cartoccio che aveva portato seco, ne trasse un pezzo d'interiora che
tagliò in minuzzoli, mentre i due gatti le facevano festa intorno. Poi
sedette sul letto con un'aria di sfinimento e stette a guardare le sue
bestie che mangiavano ingordamente.

Di tratto in tratto, un lungo tremito la faceva riscuotere e nei suoi
occhi morti brillava una lagrima che inavvertita scendeva sulle scarne
guancie.

                                   *
                                  * *

Quest'inverno, una mattina in cui il freddo imperversava più
crudelmente, le persone che andavano alla prima messa trovarono la
Cristina esanime sui gradini della chiesa.

Fu portata all'Ospedale Maggiore dove spirò poco dopo.

Alcuni giorni appresso, un uomo con una faccia torva, da inveterato
ubbriacone e un puzzo di zozza che appestava, si presentò alla
portinaia per portar via la roba lasciata dalla defunta. — Era il
marito.

Per risparmiare ogni spesa, disse che avrebbe fatto lo sgombero da sè a
poco a poco.

Così le povere masserizie della Cristina furono portate in
processione dall'omaccio avido, per sette giorni di fila; oggi un
tavolino bucherellato, domani due sedie zoppe, dopodomani il vecchio
materasso....

I gatti, pareva che non potessero persuadersi di tale sperpero:
fiutavano i vecchi mobili tanto noti, miagolavano, fiutavano l'uomo,
inquieti. Ma l'ubbriacone li cacciava a pedate.

Quando ebbe portato via ogni cosa frugò tutti gli angoli della
soffitta, alzò alcuni mattoni, visitò le travi....

Inutile! La Cristina non vi aveva nascosto nulla.

Se ne andò bestemmiando e imprecando alla povera morta perchè non gli
aveva lasciato altro che degli stracci.

Intanto, non si sa come, la vera storia della morta cominciò a
circolare di bocca in bocca. No, non aveva ammazzato l'amante, nè
strozzato il marito, nè commessa alcun'altra ribalderia. Era stata
semplicemente una vittima, la vittima di quell'uomo.

Si narrava di dieci figliuoli portati da lui alla ruota, senza un
segno, senza un indizio, perchè la madre non potesse ritirarli.

Si descrivevano i particolari di scene orrende, di mali trattamenti
d'ogni genere.

Nell'ultima gravidanza la sventurata donna si era giurata di salvare
la sua creatura; e per essere più sicura andò a rifugiarsi in casa di
un'amica.

Ma il marito la trovò e la picchiò tanto che le fece mettere al mondo
una bimba morta.

Da quel giorno non si curò più di lei.

Egli stesso confessava di non aver mai più saputo cosa fosse divenuta,
fino al giorno in cui sentì dire che una certa Cristina era stata
trovata morta davanti alla chiesa di San Pietro in Gessate. Allora
gli era venuto in mente di andare a vedere se era veramente «quella
fannullona» e se gli aveva lasciato un poco di roba!...

E rideva, cinicamente, crollando il capo.

                                   *
                                  * *

Dopo queste relazioni i vicini parlavano molto pietosamente della
vecchia Cristina, della Cristina dei gatti; e quelli stessi che le
avevano trovata una faccia di birbona, si vantavano ora di averla
sempre stimata e indovinata buona, per quel non so che di dolce che
aveva nel sorriso, per la pietà verso le povere bestie.

Ma di questo ritorno dell'opinione pubblica, nell'antica villa
decaduta, approfittano soltanto il gatto rosso ed il gatto nero.

Quegli stessi uomini e quelle stesse donne che tante volte attentarono
alla loro vita, ora si sono messi a nutrirli amorosamente in omaggio
alla morta.

Pare però che i due gatti non vogliano più affezionarsi a nessuno e
rimanere indipendenti nel loro naturale egoismo.

Non seguono nessuno, non vanno incontro a nessuno. Si vedono quasi
sempre allo stesso posto, sulla finestrella rotonda in fondo allo
scalone, ritti sulle zampine davanti, quelle di dietro ripiegate sotto
il corpo, immobili, col musino sporgente, nella loro posa di bestie
monumentali. Forse aspettano sempre la vecchia. Forse filosofeggiano
sulla tristezza e la mutabilità delle cose umane.

Sembrano gli dèi lari dell'antica casa.



AL PIANOFORTE.


Si ballava tutti i sabati.

La sala, a terreno, in fondo a una corte, somigliava sempre un poco ad
un magazzino, quantunque i soci avessero fatto sforzi incredibili per
trasformarla e darle un aspetto elegante e gaio.

Tutti giovani, allegri, smaniosi di divertirsi, i soci del _Se sa
minga_; non molto provvisti di denari, ma punto tirati nello spendere.

Avevano fatte le cose per benino; l'impiantito era coperto da un buon
tappeto; l'illuminazione, se non sfarzosa, sufficente; e le nude pareti
dipinte a calce, nascoste e decorate con stoffe, quadri, specchi,
fiori e frondi. La decorazione rivelava la mano e lo spirito di
alcuni artisti — pittori e scultori — sparsi tra i soci, i quali nella
maggioranza erano impiegati governativi o municipali o ferroviarii, od
anche semplici negozianti di stoffe, nastri, colori ed altre cose.

Ma la parte meglio riescita, quella che dava maggiori compiacenze al
direttore del _Se sa minga_, — un buon giovinotto che faceva le prime
armi nella critica teatrale — era la musica. Un eccellente piano, un
_Erard_ dalla voce sonora, pastosa e squillante; e una suonatrice....
oh! una vera artista e una vera signora per di più.... poverina!

L'istrumento era di un socio negoziante di pianoforti, il quale lo
dava a nolo — quasi per niente — contando sulla _réclame_ del direttore
giornalista.

La suonatrice — chi sa come l'avevano trovata — era capace di stare
al piano dalle nove di sera alle cinque del mattino per sole quattro
lire!... È vero che i Cirenei non le mancavano per quella croce. Ad
ogni tratto un dilettante più o meno abile si offriva a sostituirla,
perchè ella potesse riposarsi da quella fatica, e ballare un poco, e
divertirsi anche lei, che diamine!

Un pittore giovanissimo dagli occhi fiammeggianti, dalla fisonomia
espressiva, avrebbe voluto che la bella Noemi ballasse sempre e
lasciasse suonare gli altri.

Ma lei, ligia all'impegno preso, appena fatti alcuni giri, si sottraeva
gentilmente alle amabili insistenze dei danzatori e ritornava al suo
posto.

Chi era?... Che cosa faceva?... E come mai aveva bisogno di un sì
meschino guadagno, con quell'aria così distinta?...

Queste domande circolavano le prime sere. Ma ben presto tutti furono
informati: la signora Noemi era la moglie infelice di un vecchio, già
impiegato alle strade ferrate, ora infermo da parecchi anni, e ridotto
a vivere con una misera pensione, appena di che sfamarsi, se la signora
non avesse lavorato accanitamente.

E tutti l'ammiravano, povera donnina sacrificata; e molti avrebbero
voluto consolarla. Ma lei sapeva frenare gli audaci, senza pedanterie,
col suo calmo sorriso, coi suoi motti arguti.

Quella sera le nove erano suonate da un pezzo, e la pianista sempre
così puntuale, non giungeva ancora.

I giovinotti, tutti presenti, formavano in mezzo alla sala un gruppo
di teste brune, bionde, castagne e di abiti... non tutti neri... Oh!
no, davvero. I soci del _Se sa minga_ si ribellavano alla tirannia
dell'abito nero e dei relativi accessori.

Le signore arrivavano alla spicciolata, a gruppi, a frotte. Un
padre di famiglia conduceva una mezza dozzina di ballerine nei loro
semplici abiti della festa. Un negoziante di chincaglie, magrissimo,
accompagnava la moglie, enorme, ma allegra, simpaticona. Alcuni pittori
introducevano francamente le loro amanti, belle ragazze dal viso
fresco, dagli abiti attillati. E nel medesimo tempo la ex-direttrice
di un collegio in voga, la quale ora teneva in pensione alcune future
maestrine, arrivava tranquillamente con le sue dozzinanti, buone
fanciulle, dai vezzi ingenui, smaniose di ballare.

Tutte entravano allo stesso modo, tra irate e ridenti, gemendo o
scherzando coraggiosamente, come chi viene dall'avere attraversato
un pericolo; e chi si levava le soprascarpe di gomma, chi cercava di
pulirsi in qualche modo gli stivalini.

Gli è che la casa si trovava come in un deserto, in fondo a una via in
costruzione, dove le vetture non potevano passare. Quando la pioggia o
la neve avevano inumidito il terreno, bisognava camminare sulle pietre
sparse in mezzo al fango, facendo salti e sgambetti che non sempre
riescivano bene.

Appena in sala, le signorine guardavano il pianoforte ancora muto e la
sedia vuota della pianista.

— Non si balla stasera?

— Non è arrivata la signora Gili!

— Oh! Oh! Oh!

E il malumore offuscava i visini.

Un dilettante suonò una polca tanto per farle sgranchire. Finalmente
Noemi Gili apparve sulla soglia, e tutti le furono intorno per
acclamarla, mentre lei si scusava dolcemente per quel ritardo.

Era una figurina di media altezza, di proporzioni squisite. Il semplice
abito di casimir bianco, guernito in velluto nero, l'allungava un
po' e dava alle sue forme delicate un rilievo statuario. Nel viso,
non perfettamente regolare, e un po' estenuato, brillavano due grandi
occhi azzurri, profondi, contornati da lunghe ciglia e da sopracciglia
vellutate e abbondanti.

Quella sera, le sue guancie morbide apparivano più pallide del solito;
e la sua bocca, un po' larga ma fornita di denti magnifici, era un po'
stirata da una interna amarezza.

Arturo Dalpì, il giovine pittore dai vividi occhi, la guardava
in silenzio e notava quei segni di sofferenze segrete eroicamente
sopportate.

Ella andò diritta al pianoforte e cominciò un valzer come faceva sempre.

Le coppie si slanciarono. Era una gioia ballare quando suonava la
signora Gili!

E lei suonava anche quella sera; apparentemente tranquilla. Le mani
abili e abituate andavano da sè.

Ma quanto le sarebbe durata quella forza fittizia?

Noemi si rivolgeva con terrore questa domanda; e rabbrividiva
accorgendosi che tremava tutta di dentro: che le sue dita, di solito
così spedite, s'irrigidivano, che la testa le girava.

Oh! Che cosa aveva fatto!... Dio! Dio!... Che cosa aveva fatto!

Era la morte! la più atroce delle morti che le torceva le viscere a
quel modo!...

No!... Passava ancora... Poteva resistere ancora... Voleva resistere!
Lottava con tutte le sue forze contro il male che la rodeva. E mentre
le sue mani convulse volavano sui tasti, mentre le dolci melodie
del valzer si spandevano nella sala, e le coppie giovani e gaie si
abbandonavano con voluttà al vertiginoso piacere della danza, la povera
pianista rivedeva la scena tetra a cui si era tolta e soffocava i
gemiti che le angoscie della vicina morte strappavano al suo petto.

Il veleno serpeggiava nelle sue vene...

Tutto il giorno aveva girato per le lezioni; per raggranellare un
po' di danaro; perchè a casa non c'era un soldo e mancava la legna,
e mancava il vino vecchio per l'infermo, e bisognava provvedere il
desinare coi piatti fini e i dolci ch'egli esigeva... Tutto il giorno
a correre da una casa all'altra, da un punto all'altro della città,
sotto la pioggia e la neve! Finalmente rientrava recando al marito
la bottiglia di _Medoc_, la pernice ch'egli le aveva chiesta fin dal
mattino e un cartoccio di dolci. E si consolava pensando che il vecchio
sarebbe stato contento e l'avrebbe lasciata tranquilla.

Entrando in cucina vide un gran bagliore, e allora si ricordò che non
aveva ordinata la legna...

Ma che cosa bruciava nel caminetto del salottino?...

Suo marito si riscaldava tranquillamente a una bella fiammata... Due
sedie ardevano, due buone sedie del salottino...

Ella cacciò un urlo... Il vecchio si voltò ridendo.

— Hai la pernice?... Hai il _Medoc_?.. Brava!...

Meccanicamente ella depose ogni cosa sulla tavola e scoppiò in
singhiozzi.

— Perchè... piangi? — balbettò il vecchio levandosi in piedi.

Egli era una grande carcassa di uomo robusto fiaccato dagli acciacchi.
Le mascelle larghe sporgenti, le labbra gonfie, le linee dure,
rivelavano una di quelle tempre di egoisti tenaci, che nei frangenti
della vita pensano sempre alla propria conservazione.

— Ah! Ah! Ah! Piangi perchè ho bruciato le sedie!... Oh bella! se tu
non pensi alla legna... io brucio quello che trovo... Non voglio crepar
di freddo!...

I mobili!... anche quelli!... Mentre lei lavorava come una martire, per
lui, per mantenergli la vita inutile, per accontentargli i vizi, egli
le bruciava i mobili, le distruggeva la casa!...

Non bastava averla ingannata, sposandola, quando lui era già malato,
rifinito; non bastava maltrattarla, avvilirla, perseguitarla in tutte
le sue inclinazioni!...

Così, dal cuore oppresso della infelice erompevano i lamenti insieme ai
singhiozzi.

Ma al vecchio quei lamenti e quei singhiozzi urtavano i nervi.

— Taci... — le andava dicendo — taci, maledetta smorfiosa!... i
tuoi amanti ti ricompreranno la mobilia nuova... io sono un povero
vecchio!... Io ho freddo!...

All'atroce insulto Noemi scattò.

Amanti?... A lui sarebbe forse convenuto, ma a lei no!... Aveva la
pazzia dell'onestà, lei!...

Allora il vecchio brandì il bastone sul quale s'appoggiava nel
camminare e le menò un colpo sulle spalle.

Noemi restò un momento come impietrita. Una disperazione indicibile la
schiacciava. Era giunta al limite della sofferenza umana.

Si scosse. Alzò gli occhi fieri in faccia al marito, gli strappò il
bastone e lo gittò a terra, poi si allontanò.

Un'idea disperata era sorta nel suo cervello; morire, finirla!...

Senza riflettere a quello che faceva, senza interrogarsi, sospinta da
un impeto invincibile, ella afferrò un'ampolla, piena di un liquido
velenoso che serviva all'infermo, se l'appressò alle labbra e la vuotò.

— È fatta! — mormorò con voce roca.

Il vecchio era ricaduto nella poltrona, stanco per lo sforzo insolito.

Noemi uscì dal salotto. Batteva i denti.

Credette morire subito. Rabbrividì pensando che sarebbe morta vicino al
suo tormentatore, senza un conforto, una parola affettuosa.

Andò a rifugiarsi nella sua cameretta. Almeno là sarebbe morta in
pace...

Ma il male orrendo del momento cominciò a calmarsi. Non le restò che un
senso di nausea e di tratto in tratto un principio di vertigine. Allora
intuì la morte lenta, angosciosa, terribile.

Ebbe paura.

Sarebbe morta... morta in mezzo ai tormenti... senza avere gustata
un'ora di amore!...

Ah! almeno non voleva morire là! Voleva fuggire... Voleva morire fra
persone più simpatiche, vedere presso di sè un volto amico... Sentirsi
rimpianta, unica speranza ormai della sua fuggente vita.

Sì vestì, con la febbre, scese le scale barcollando, non dimenticando
però di pregare la solita buona vicina a prender cura del vecchio
durante l'assenza di lei.

— Non ha ancora pranzato. Il brodo è sul fornello.

— Va bene — diceva la donna sorridendo. — Si diverta, signora Noemi! Ci
penserò io alla sua casa!...

— Buon divertimento! — ripetevano i bambini della vicina.

In istrada ella fu presa da spasimi così atroci che dovette fermarsi,
piegarsi in due...

La nebbia fitta mozzava il respiro.

— Dio! Dio! lasciatemi arrivare fin là!... Perdonatemi, Dio santo!
Perdonatemi, e in prova del vostro perdono lasciatemi arrivare fin
là!...

Ed ella era arrivata: Dio le aveva perdonato. Lei stessa non avrebbe
saputo dire in qual modo ci era riescita. Una forza arcana, che era in
lei, nella sua anima, l'aveva sostenuta in mezzo agli spasimi e alle
vertigini. Quella forza la sosteneva ancora.

Ma ahimè, presto sarebbe esaurita! La sua testa si perdeva: sentiva il
sudore diaccio della morte.

Di tratto in tratto alzava gli occhi e incontrava lo sguardo fisso del
giovine pittore. Allora provava una strana sensazione di ritorno alla
vita; le sue forze si rianimavano; gli era come se un'ondata nuova
di sangue fresco e vigoroso fosse entrato nelle sue vene e ne avesse
cacciato il veleno.

Ma dopo brevi istanti, il nemico occulto ritornava all'assalto, e lei
era sempre più debole.

Finito! Finito!

La sua vista si annebbiava; per quanto si sforzasse a guardare, ora non
li vedeva più quegli occhi neri e amorosi fissi nei suoi: non sentiva
più la corrente magnetica di quello sguardo potente, che le ridava la
vita.

Finito! La vertigine aveva vinto.

Il valzer fu interrotto. Le mani appesantite e inerti della pianista
caddero sui tasti producendo un suono lugubre. Ella si piegò in avanti,
e sarebbe caduta se il giovine pittore, che mai aveva cessato di
osservarla, non si fosse trovato presso di lei per sostenerla.

Egli l'alzò di peso e la portò sur un divano, che le donne circondarono.

La festa finiva tragicamente, appena cominciata.

Il terrore imbiancava le faccie arrossite dal ballo.

— Muore!...

— Muore!... Madonna santissima!... Signore Iddio!... Muore!... —
gridavano le danzatrici spaventate.

Sì, essa moriva. Il volto livido, le occhiaie profonde e nere, gli
occhi sbarrati erano segni evidenti di morte.

Alcuni giovani corsero in cerca di un medico alle farmacie più vicine.

Altri tentarono di farle inghiottire dell'acqua calda nella speranza
di provocare il vomito; poichè tutti intuivano la possibilità di un
avvelenamento. Era tanto infelice la povera Noemi!...

Soltanto il pittore non faceva nulla. Inginocchiato ai piedi della
morente, egli la guardava con gli occhi fissi, sbarrati, come quelli di
lei e rimaneva immobile, silenzioso. Pareva fulminato.

Improvvisamente Noemi sembrò destarsi dal pesante torpore; girò intorno
lo sguardo conscio. Vide il giovine inginocchiato e gli sorrise.
L'ultimo sorriso.

La convulsione ritornò più terribile; i dolci occhi si velarono; si
smarrirono.

Nello spasimo atroce, con le mani brancicanti, ella afferrò la testa
del giovine e la strinse appassionatamente, poi cadde all'indietro,
sfinita.

Era morta. E soltanto in quell'estremo istante, l'anima liberata dalla
mortale schiavitù aveva rivelato il suo amore.



UNA BALLERINA.


La nebbia empiva le strade e il breve crepuscolo invernale cadeva nella
notte. I lampioni quasi appena accesi divenivano foschi per la densità
dei vapori. Poca gente, rarissime carrozze; nei quartieri lontani dal
centro un silenzio sinistro.

Nelle case invece, una grande vivacità, poichè era l'ora del desinare e
giorno di festa. Uno di quei momenti in cui la sensualità soddisfatta
assorge quasi a serenità ideale; momenti che spingono gli uomini alle
disposizioni benefiche col fumo appetitoso delle vivande, e il profumo
eccitante dei vini.

Matilde Sozzi aveva forse calcolato sulla particolare disposizione alla
benevolenza che una buona minestra può sviluppare in un cuore umano,
scegliendo appunto quell'ora per la sua questua; o piuttosto ella
seguiva semplicemente lo stimolo della fame, che diveniva più acuto in
lei verso l'ora comune del desinare.

A occhi bassi, senza guardarsi intorno, scivolando quasi lungo la fila
delle case, ella procedeva in mezzo alla nebbia. Veniva dal fondo di
un sobborgo e si dirigeva al centro della città. Non aveva mangiato
dal giorno innanzi, ma in quel momento sentiva più il freddo che la
fame. Provava un grande sbalordimento e mille immagini confuse si
affollavano nella sua mente. Erano memorie lontane di tempi migliori:
una casa agiata; dei visi cari al suo cuore; abiti eleganti e capaci
di ripararla dal freddo; una tavola preparata; una allegra famigliuola
seduta intorno. Altre immagini, più lontane, più vaghe: una scena
sfavillante di colori e di luce, dove lei era ammirata e festeggiata,
bellissima tra le belle.

Ma le quattro lettere che teneva strette in mano, sotto allo scialletto
lacero e leggiero come un ragnatelo, riconducevano i suoi pensieri
all'angoscioso presente. Le rileggeva dentro di sè quelle lettere
scritte con tanta pena e ch'ella sapeva a memoria. La prima era per
l'impresario. Quest'anno anche lui l'aveva abbandonata. Perchè le aveva
rifiutato quel misero posto di figurante dell'ultima fila, che l'anno
scorso le aveva impedito di morir di fame? Era brutta, secca... oh!
lo sapeva benissimo! glielo dicevano per la strada, fino i monelli....
tuttavia, siccome era svelta ancora, con un po' di rossetto, per «frega
scene» le pareva di poter passare.

Alla Canobbiana la gente non ci badava tanto, e fra le coriste ce
n'erano di quelle!... Epperò lo supplicava che non l'abbandonasse. Non
sapeva come andare avanti a campare; se l'avessero scritturata per il
ballo nuovo, avrebbero fatto un'opera di misericordia!..... Intanto
la soccorresse di qualche cosa per quella sera.... Non aveva nulla,
nulla!...

Si fermò. Era arrivata. Restò un momento con gli occhi fissi nella
corrente luminosa che usciva dal portone. L'idea di mettere il suo
profilo miserabile sotto la luce sfacciata la sbigottiva. Ma infine, il
coraggio non le mancava. Si slanciò risoluta e presentò la sua lettera
al portiere: sarebbe ritornata fra un'ora per la risposta. E scappò via
senza badare al sorriso ironico del portiere. La seconda lettera era
per una compagna d'arte, una vecchia amica, ora indifferente.

Non le chiedeva che un piccolo prestito. Sperava di essere scritturata
e avrebbe fatto subito il suo dovere. Questo scriveva, ma in fondo
non sperava di avere del denaro da quella donna, tutt'al più qualche
cencio.

Per consegnare le due ultime lettere doveva recarsi sul corso di Porta
Venezia e in via Monte Napoleone. Sul Corso stava una sua sorella
che spesso la soccorreva, sebbene non vivesse nell'abbondanza nemmeno
lei. Se Matilde fosse salita a quell'ora e avesse detto che non aveva
desinato, non le sarebbe mancata una scodella di minestra e qualche
altra cosa. Ma ella non osava salire quel giorno perchè sapeva di
meritarsi dei rimproveri.

Al principio dell'inverno vedendola così nuda, la Rachele le aveva
regalato una sottana di flanella quasi nuova e pesante, che era una
grazia di Dio. Matilde aveva visto che se l'era levata di dosso in un
momento di tenerezza; e: tienla almeno di conto, le aveva detto.

Ora lei non l'aveva già più. La sua miseria era più grande che non
potesse dire: tanto grande che cercava sempre di nasconderla un poco.
Un giorno che le era ancora balenata la speranza di una scrittura
discreta, aveva impegnata quella sottana — l'unico capo buono che
possedesse — per mangiare un poco, senza cercare la carità. Poi, la
scrittura essendo andata in fumo, aveva venduta la polizza per pochi
soldi. — Tornerò a momenti per la risposta — gridò anche qui, senza
fermarsi per non essere interrogata dalla portinaia che la conosceva.

Affrettò il passo verso l'ultima meta della sua questua. Era la più
penosa: là, in quella casa di un aspetto assai decente, stava suo
marito, con due figliuoli di lei e un'altra donna! Era veramente un
fatto troppo doloroso, chiedere un pezzo di pane a quell'uomo! Eppure
Matilde non era spinta dal solo bisogno a portare in quella casa la sua
miseria. Era una specie di vendetta, di persecuzione impotente, e il
solo mezzo di accostarsi alle sue creature. Pensare che dopo di averla
spogliata di tutto, quell'uomo le aveva portato via anche i bambini,
cacciandola ignominiosamente! E lei doveva tacere.

La ragione legale era per lui: poteva farla andare in prigione se
voleva. Era così la legge che lei non intendeva e chiamava assassina.

La portinaia stava sull'uscio. Vista Matilde non le lasciò il tempo di
entrare dicendole subito: — Quelli che lei cerca, non stanno più qui.
Sono andati via.... fuori di Milano.

Matilde restò sbalordita, poi replicò:

— Andati via?... Dove?... Non per sempre certo?...

La portinaia si strinse nelle spalle: non era affare suo: non sapeva:
ma avevano portato via ogni cosa ed erano andati alla stazione.

Colpita al cuore Matilde restò senza parole. Non sapeva come staccarsi
da quella casa: non poteva persuadersi che la sua disgrazia fosse così
completa.

Non contenti di averla cacciata, dunque, si sottraevano perfino ai suoi
lagni, alla sua vendetta, alle sue preghiere!

Un singhiozzo le sollevò il petto. Per quanto abbrutita, il dolore
poteva in lei ancora più della collera, più della fame. L'assaliva
una corrente di tenerezza retrospettiva che la trasportava. Quelle
due creature che erano sue, nate da lei, nudrite da lei, e che ora
andavano via... lontano... con la ganza di suo marito... Quelle
faccine delicate, quei sorrisi ingenui, quei grandi occhi dolci, che
tanto l'avevano confortata nei primi anni..., quei tepidi baci...
quelle sante carezze... oh! come tornavano alla sua memoria, come la
straziavano!... Se avesse potuto rivederle un momento, baciare quelle
testine ricciute, esalar l'anima ai loro piedi!

La portinaia le aveva voltate le spalle, ed ella rimaneva là, ritta sul
marciapiedi, sotto al becco del gas che metteva in risalto tutta la sua
miseria.... In quel momento non pensava a nascondersi — non sentiva il
freddo acuto... nulla.

Una guardia, che da qualche tempo la sorvegliava per sorprenderla
in delitto flagrante di accattonaggio, visto che non ci riusciva, le
intimò bruscamente di andare avanti, chè disturbava la gente.

Matilde non si scosse, non fece alcun gesto di sorpresa nè di
protesta, si asciugò gli occhi pieni di lagrime e lentamente, quasi
inconsciamente obbedì al comando.

Tornò a camminare, o meglio a scivolare rasentando i muri, come
un'ombra. Così rifece la sua penosa _Via Crucis_, per raccogliere le
risposte ai suoi tre biglietti, pensando a tutt'altro, o non pensando
affatto come una macchina che compie il suo giro.

Tornavano i ricordi ad assalirla e le immagini si cozzavano confuse:
le due bimbe con le braccia tese verso di lei; suo marito a braccetto
di un'altra donna — lei stessa colpevole, vilipesa, scacciata — poi
balestrata di giorno in giorno fino all'ultima miseria: un cencio
sudicio adoperato ai più vili mestieri. E in mezzo a queste lugubri
fantasie tornava, per tormentarla di più, la prima visione luminosa:
una figura di donna raggiante di gioventù e di bellezza, punto di mira
a migliaia di sguardi, desiderata, applaudita da una folla di uomini.
Quella donna era lei stessa, lei stessa, felice di sentirsi bella e
giovine, esaltata da quei trionfi, ma onesta.

Tutti glielo dicevano; era una brava ragazza, non voleva saperne di
raggiri: voleva maritarsi: faceva bene. Proprio così: lei era fidanzata
a un negoziante del suo paese e non aveva raggiri. E si stimava savia
e disprezzava le altre. Chi le avrebbe detto che di là appunto doveva
nascere la sua rovina? Chi le avrebbe detto che, dopo smesso di
ballare per dedicarsi tutta alla famigliuola, le sarebbe toccato di
ricominciare, per far fronte alla miseria, con le gambe rese pesanti
dal riposo, le carni floscie, la faccia scarna, i capelli brizzolati?
e la crudele memoria numerava ad una ad una le infinite amarezze di
quel ricominciamento. Gli antichi ammiratori che affettavano di non
riconoscerla; le faccie dure e fredde degli impresari che le facevano
la limosina di una miserissima scrittura; le faccie maligne delle
rivali atteggiate a beffarda pietà.

Ma si fa il callo a tutto. Ella si era avvezzata a quella vita, come
da giovinetta a ballare mezza nuda sotto al fuoco dei cannocchiali.
Si consolava che almeno poteva dare un pezzo di pane ai suoi bambini,
quando il marito rimaneva lontano le settimane e i mesi senza
ricordarsi della famiglia. Così avvenne che la paga non bastando,
si lasciò trascinare e fu sorpresa e cacciata da lui che aspettava
quel momento per metterla fuori dell'uscio. Quante lagrime, che
disperazione! Ma la sera stessa, con quel peso sul cuore, le toccò
ben di ballare in un costume di follia, col viso impiastricciato di
rossetto e di biacca, la parrucca bionda e gli occhi tinti! Le lagrime
che si sforzava a trattenere per non _disfarsi il viso_, le gonfiavano
le tempie e le serravano la gola. Le persone ridevano a vederla così
goffa e brutta.

Dopo il teatro, uscita nella strada, con un freddo intenso, ella andò
errando per le vie, non sapendo dove dormire. A casa, il marito non
la voleva e lei non aveva un soldo. Girò tutta la notte, così, mezza
pazza, e finalmente accettò l'invito di un suo collega, che in capo di
un mese la pregò poi di andarsene.

O che vita! Che miserabile vita era stata la sua da quel giorno!

Quanta fame aveva patita e che freddo atroce nei lunghi inverni!

Fame e freddo, queste due sensazioni sempre più acute in lei, si
confondevano coi ricordi e assorbivano a poco a poco tutte le sue
facoltà.

La nebbia pesava sulla città come una coltre mortuaria.

Matilde camminava a scatti, sospinta dai brividi.

Arrivata alla porta dell'impresario trovò la sua lettera respinta, con
l'ordine espresso di non portarne altre.

Già dall'amica non aveva trovato nulla e da sua sorella, un biglietto
scritto col lapis e venti centesimi: tutto il denaro che si trovava
in casa in quel momento. L'impresario le dava il colpo di grazia. Un
colpo tanto forte che Matilde non potè sostenerlo. Spezzata in tutte
le membra, con le ginocchia che le si piegavano, si lasciò cadere e si
rannicchiò tutta ridosso al muro. Non ne poteva più.

Le lagrime l'acciecavano, la febbre la faceva sussultare. Così finiva,
disprezzata, rejetta. E i suoi figliuoli non sapevano ch'ella moriva
come un cane, in fondo a una strada. Chi sa cosa facevano in quel
momento?

Le pareva di vederli piangenti, maltrattati.... Oh! la tetra visione!

Un branco di giovinotti, usciti da una vicina osteria videro quella
figura di donna accovacciata nell'ombra, e s'avanzarono verso di lei
per curiosità.

— È briaca fradicia! — esclamò uno.

— È brutta come il peccato! — ribattè un altro. E si allontanarono
sghignazzando.

Più tardi le guardie di città portarono la povera Matilde in Questura;
e di là all'Ospedale.



UNA ISTITUTRICE.


Il vasto collegio rimasto vuoto pareva morto. Le alunne erano volate
via tutte, quella mattina, come uno stuolo d'uccelletti; la direttrice
e le maestre le avevano seguite. Da un momento all'altro, senza
transazione, quelle grandi sale erano passate dalla più viva animazione
al più profondo silenzio.

Gli ultimi giorni tutto era stato messo sotto sopra per gli esami, per
l'accademia finale, per l'esposizione dei lavori. Il bell'ordine, la
vantata tranquilità, di cui la direttrice andava superba, erano messi
in fuga dal via vai dei professori, delle ripulitrici, dei facchini;
più ancora da quell'agitazione nervosa che s'impadronisce verso la fine
dell'anno di tutta la scolaresca, ma specialmente delle fanciulle che
devono abbandonare il collegio per sempre.

La ressa degli invitati poi era stata enorme per l'accademia. Si sapeva
che la Regina avrebbe onorata la festa della sua presenza, e tutte le
signore dell'aristocrazia e della borghesia, alta e grassa, volevano
assolutamente essere della partita.

La direttrice e la sua prima aiutante, la signora Maggi, fecero
miracoli di abilità e di finezza per non offendere nessuno; i più
piccoli ritagli di spazio furono utilizzati nella grande aula, e,
spalancando tutte le porte, fu possibile collocare un certo numero di
sedie anche nelle stanze attigue. Insomma, un avvenimento colossale,
che aveva messo la febbre addosso a tutto il collegio, dalla vecchia
direttrice alla giovane moglie del portiere; e del quale doveva restar
memoria negli annali delle glorie scolastiche.

E le ragazze che da fare davano! C'era da perder la testa a sentirle,
specialmente l'ultimo corso. La povera Ernestina Maggi ci rimetteva
quel po' di forza.

Le alunne di canto, le musiciste che studiavano il loro pezzo da
quattro mesi, man mano che s'avvicinava il momento di farsi sentire
in pubblico, lo suonavano peggio: parevano malate. Non mangiavano,
avevano dei tremiti, dei capogiri. Senza l'esperienza di tutti gli
anni ci sarebbe stato di che disperarsi. Ma quando arrivò il gran
giorno, accadde quello che accadeva tutti gli anni: all'ora precisa,
si trovarono tutte al loro posto, vispe, gaie, eccitate, con gli
occhi lucenti, avide di trionfi, di occhiate; piene di curiosità e di
civetteria.

La signora Maggi che prima aveva creduto necessario di incoraggiarle,
di spingerle, ora non sapeva come fare a tenerle in freno. Del resto,
ne aveva appena il tempo, poichè ogni cosa metteva capo a lei e tutti
la chiamavano.

Lei accorreva dappertutto; cercava di bastare all'enorme bisogna:
perchè era l'ultimo anno, anche per lei che se ne andava da quel
collegio. Ad ogni cosa che le richiedevano, le maestrine sue compagne e
la direttrice stessa, non mancavano di farle osservare ch'era l'ultima
volta, che tanto lei le abbandonava per sempre e non l'avrebbero più
seccata.

Le giovinette sue alunne uscivano tutte per entrare nel mondo, e lei
partiva per andare a Napoli, a dirigere la scuola normale.

Le sue compagne la invidiavano. La Margheritina, una brunetta
adorabile, che insegnava calligrafia, e aveva in consegna il primo
corso, quello delle piccine, diceva arrovesciando leggermente il
labbro inferiore: — Eh! lei va a far fortuna! Entra nel mondo come le
signorine!

Finalmente anche quel giorno venne a sera; e poi spuntò il giorno
ultimo, quello degli addii. Il collegio fu pieno di singhiozzi e di
frasi appassionate. Le amiche intime, le indivisibili, forzate alla
separazione, si abbracciavano disperatamente. Si serravano petto contro
petto, piangendo come Maddalene, mandando gridi strazianti di dolore
passeggiero, trovando un piacere nuovo, inebbriante, in quella forte
scossa dei nervi.

Anche a lei, alla maestra che se ne andava, toccò la sua porzione di
carezze rumorose, di lagrime senza conseguenze. Alcune si lagnarono
ch'era fredda e che non rispondeva con espansione ai loro trasporti.

Dopo partite le grandi, gli altri cinque corsi uscirono tutti insieme
con le loro maestre e presero posto in tre grandi omnibus, per andare
alla stazione e di là col vapore alla Spezia, a fare i bagni di mare.

L'ultimo grido argentino morì sulla soglia dell'antico palazzo, e gli
omnibus partirono allegramente.

Ernestina Maggi rimase sola, con la famiglia del portiere e il
domestico incaricato di custodire gli appartamenti. Sola sul limitare
di un altro periodo scuro della sua vita malinconica. Domani sarebbe
partita anche lei; partita alla volta di una nuova scuola, dove altre
alunne l'aspettavano, mutabili e obliose come quelle che lasciava.

Avendo dinanzi a sè alcune ore di libertà, ne approfittò per recarsi da
una sua parente, presso la quale rimase a pranzo.

Quando ritornò, era già notte. La portinaia le rimise un biglietto
scritto col lapis che una delle maestre le aveva mandato dalla
stazione. Ernestina lo aprì lentamente; era della Margherita, la
maestrina del primo corso, e conteneva una preghiera vivissima per
alcuni pizzi dimenticati in fondo a un cassetto, in uno dei dormitorii:
ne facesse un pacco postale e glielo mandasse alla Spezia. Poi, con
indifferenza, come se la cosa le premesse meno, le diceva di mandarle
anche una scatola di fiori fatti seccare nella bambagia, che aveva
lasciati nel banco di scuola. Ernestina sorrise, si fece dare un lume,
salì, si levò il velo, e cominciò a girare gli appartamenti per vedere
se non ci lasciava anche lei qualche cosa.

Lentamente, fermandosi ad ogni istante, pensando ch'era per l'ultima
volta, e facendosi suo malgrado sempre più triste, quantunque in
fondo non gliene importasse tanto, ella andava su e giù per le sale,
attraversava gli anditi, frugava i dormitori. Il lume con cui ella si
rischiarava, faceva apparir più vaste le sale abbandonate, più cupi
e misteriosi i fondi lontani, gettando sprazzi di luce viva su alcuni
punti vicini.

Ella guardava intorno a sè come sorpresa di quel silenzio; posava il
candeliere sur una mensola o un cassettone, si chinava a raccattare
un nastro polveroso, un fiore gualcito, un foglio caduto da un
vecchio libro di scuola, strappato. Poi apriva i cassetti, vi metteva
le mani allungandole fino in fondo con un fare astratto, tirandone
sempre qualche cencio, qualche gingillo, un brindello di stoffa,
qualche brano di lettera; qua e là qualche accenno al principio di
un idillio interrotto, di una visione di peccato, che avrebbe potuto
interessarla, se in quel momento ella avesse avuto voglia di indagare
gli affari delle altre, e se la partenza dal collegio non avesse come
sospesa la sua responsabilità. Benefica sospensione, di cui le giovava
approfittare completamente per rifarsi le forze.

Quando aveva ben frugato, sicura di non aver dimenticato nulla di ciò
che cercava, s'abbandonava un momento con fare stanco e abbattuto, per
riposarsi e fantasticare.

Si sentiva come più vicina a sè stessa, al suo passato, alle
sue memorie, nella vasta solitudine silenziosa in cui si trovava
improvvisamente come in un sogno. Da un pezzo non era stata così
completamente padrona di sè. Ne provava un sollievo. Realmente, era
sola nel mondo da molti anni. Ma la vita nella comunità ha questo di
particolarmente increscioso, che l'anima vi si sente sola, senza la
libertà della solitudine, senza il suo benefico raccoglimento.

Ora pensava con più abbandono; riandava sugli avvenimenti del passato;
e le immagini l'assalivano a frotte. Le reminiscenze s'ingrossavano,
si chiarivano; in quella penombra delle cose presenti, il suo cervello
s'illuminava di una luce retrospettiva. Vedeva la sua vita svolgersi
lentamente dinanzi ai suoi occhi, come una larga fascia dai toni
sbiaditi e uniformi. Era proprio una esistenza monotona la sua, senza
tempeste e senza sole; somigliava a un lungo autunno nebbioso.

Suo padre aveva fatto il segretario comunale in una piccola borgata,
sua madre la maestra inferiore nella scuola rurale. Riesciti
faticosamente a riunire queste due occupazioni nello stesso Comune,
non s'erano più mossi, non avevano tentato alcun miglioramento, per
timore del peggio. Vivevano rassegnati nella loro miseria; ma senza
gioie. Si amavano?... Ella interrogava le sue memorie più lontane,
e non sapeva decidere; propendeva per il no. Si tolleravano con una
certa tranquillità apatica dalla parte di lui; mentre la donna pareva
sostenuta dal sentimento religioso. Forse non avevano mai trovato il
buon momento per intendersi più profondamente, trascinati com'erano
dalle preoccupazioni materiali!

Comunque fosse, avevano fatto tutti e due sforzi indicibili per darle
una educazione che le aprisse una carriera meno meschina della loro.

Ella si rivedeva piccina alla scuola comunale; rivedeva le faccie
rosee delle compagne più care, delle maestre che la pigliavano a
proteggere; una bambina, la figlia del medico, con dei bei vestitini
a colori vivi, che le aveva fatto tanta pena non volendola per amica.
Questi particolari prendevano nuovo interesse nella sua memoria. Ci si
perdeva a ricostruirli. Ma tutto a un tratto si rammentava di quello
che doveva fare e del tempo che perdeva, e s'alzava con premura per
rimettersi in cammino. Il suo passo produceva un rumore particolare sui
pavimenti lucidi nel silenzio delle stanze vuote; ed essa lo ascoltava
involontariamente, seguendo col pensiero le nuove immagini che per
analogia si destavano nella sua mente. Erano anticamere fredde, lunghi
corridoi di uffici, dove i passi risuonavano appunto in quel dato modo;
portieri allampanati e musoni, alti personaggi dall'aria falsamente
aristocratica; qua e là qualche rara faccia simpatica di anima buona.

La prima volta, allorchè sua madre la condusse in città per fare il
corso superiore, tutta quella fantasmagoria, nuova per lei, di persone
e di cose, l'aveva come intontita.

Quelle lunghe gite a piedi per le strade interminabili della
grande città; quelle uggiosissime ore di anticamera, cui dovevano
sottomettersi tutti i giorni, la eccitavano e la sgominavano volta
a volta. La mamma le diceva di portarsi sempre un libro con sè, per
ripassare una delle materie su cui dovevano interrogarla agli esami;
così il tempo le sarebbe parso meno lungo quando c'era da aspettare.

Lei si sforzava di obbedire, ma non ci riesciva. Era distratta,
inquieta.

Aveva allora sedici anni, e il suo cuoricino cominciava a risvegliarsi,
come le farfalle che si preparano a uscire dal bozzolo al principio di
primavera.

E il suo briciolo di poesia l'aveva letto anche lei!

La vita elegante e lussuosa della città le faceva impressione; i
suoi occhietti vispi, lucenti, si fermavano con molto piacere sulle
meraviglie delle vetrine e s'imbattevano con altri occhi giovani e
avidi di piacere.

Le anticamere fredde, scure, con quella impronta di noia ch'è la
caratteristica degli uffici, le mettevano l'uggia addosso. Pensava
alle sartine, alle modiste eleganti che vedeva girare liberamente
per le vie affollate, entrare nei grandi negozi, scegliere le belle
stoffe, i ricchi ornamenti, chiacchierando, ridendo, senza sopraccapi
di studi; e le invidiava nel suo segreto. Ma non avrebbe osato palesare
quest'invidia alla mamma, che parlava con disprezzo di quella gente.

Una mattina s'erano alzate presto per recarsi dal Direttore della
Normale, cui erano specialmente raccomandate, e poter discorrere con
lui solo prima che arrivassero i professori, le altre concorrenti con
le loro mamme, le maestre, i bidelli, che formavano l'interminabile
processione di tutti i giorni.

Rivedeva distintamente la saletta dove il bidello le aveva introdotte
perchè aspettassero. Fra le due finestre, una larga tavola nera; lungo
le pareti, un fila di sedie fitte fitte; in alto, per ornamento,
tanti piccoli quadri dalle cornici nere, coi disegni delle alunne
più distinte, e diplomi d'onore ottenuti dalla Scuola stessa nelle
esposizioni didattiche nazionali. Molto tempo ella s'era fermata a
guardare le rose pavonazze dai contorni duri, le frutta di gesso,
le foglie cincischiate, dove l'impazienza e l'incapacità artistica
delle allieve e degli insegnanti erano rimaste impresse in una maniera
indelebile.

Ma il Direttore tardò tanto che quelle glorie scolastiche finirono col
nausearla, e non la fece sorridere nemmeno un certo diploma dove c'era
un genietto che minacciava uno schiaffo ad ogni spettatore.

Intanto la saletta si era popolata di altre persone. Una signora
grassa, molto espansiva, raccontava ad alta voce che lei aveva avuto
l'onore di presentare a S. M. il Re Vittorio Emanuele un lavoro delle
sue mani, cioè un ritratto del Re stesso ricamato a punto di litografia
sopra gros bianco. Non faceva per vantarsi, ma gl'intelligenti avevano
attribuito a quel lavoro un valore di diecimila lire. Sua Maestà le
aveva mandato in cambio un piccolo brillante, di cui ella non aveva mai
cercato il prezzo: che le importava? era per l'onore!

Nessuno rispondeva a questi discorsi, poichè ciascuno pensava a sè,
come accade ordinariamente in simili luoghi. Solo due buone donne
della campagna l'ascoltavano a bocca aperta: Ernestina e sua madre.
E la madre, forse ancora più ingenua della figliuola, guardava la
sua diletta con un sorriso beato, che parea dirle: sii brava, studia,
così ti farai onore anche tu, non si sa mai: è dolce poter dire: io ho
scambiato un dono con Sua Maestà.

— Povera mamma! — mormorò Ernestina, sorridendo malinconicamente a
questo ricordo, mentre i suoi occhi si inumidivano.

Tre anni dopo quando ottenne la patente superiore, con tutti dieci
in media, invidiata dalle compagne, festeggiata dai parenti, ella si
credeva già molto esperta. Da lungo tempo aveva capito che le ragazze
più belle od agiate si davano poco pensiero di studiare, e parlavano
con molto più interesse degli amici dei loro fratelli, o dei loro
cugini. Alcune raccontavano di essere fidanzate, e che aspettavano
di compiere i diciotto anni per maritarsi. Ella non aveva fratelli e
quindi neanche amici dei medesimi. I suoi cugini erano uomini maturi
con moglie: e mai un giovane aspirante o sospirante s'era presentato
nella povera casa di suo padre. Non era bella, ahimè! e le compagne
glielo dicevano abbastanza chiaro. Era forse una rappresaglia a cui
s'abbandonavano volentieri per umiliarla un poco, quando i professori
la lodavano, citandola ad esempio, come un modello di diligenza.

Lei non sapeva vestirsi; lei faceva l'eccentrica; la donna superiore.
Queste cose dicevano le ragazze per farla soffrire. E non era punto
vero. Ella amava ingenuamente le fanciulle più belle; quelle che
sapevano parere in gala con dei cencetti agghindati alla persona, le
ispiravano una sincera ammirazione.

Ma non sapeva imitarle. Le sarebbe occorso troppo tempo; e nella sua
coscienza di figliuola onesta, sapeva che il tempo non le apparteneva,
che lo doveva ai suoi genitori, vale a dire allo studio.

Aveva fatto il suo dovere... almeno così le pareva. Ma dov'era andata
la ricompensa su cui le avevano insegnato a sperare?

I suoi genitori erano morti con la convinzione di avere fatto, loro,
tutti i sacrifizi possibili per la felicità di lei, e vedendola sempre
seria e triste, l'avevano accusata d'ingratitudine.

— E forse avevano ragione! — sospirò chinando la fronte.

Ma che colpa ne aveva lei se il peso della sua esistenza le pareva
troppo grave per mostrarsi lieta?

Ora era arrivata nel dormitorio delle grandi: nel noto stanzone
dov'ella aveva dormito per ben sette anni, laggiù in fondo; in quel
lettino nascosto dalle tendine bianche. Ella rimase un momento immobile
con gli occhi fissi, senza deporre il lume. Quanta parte di sè lasciava
fra quelle pareti, dove un'altra, probabilmente una infelice come lei,
sarebbe venuta a prendere il suo posto. Quante volte aveva pianto
dietro a quelle tende, nascondendo la faccia sotto il lenzuolo, per
non essere intesa da qualche educanda curiosa e di sonno leggiero.
I primi anni specialmente, quando non poteva abituarsi a dormire in
mezzo alle alunne, quante volte era stata sul punto di dare le sue
dimissioni. L'aveva trattenuta una sorda paura dell'ignoto. Suo padre
— la madre se n'era già andata da alcuni anni! — era morto allora
allora; perciò, non avendo più da pensare altro che per sè, ella aveva
lasciato la direzione di una scuola mista, in una città della Calabria,
dove guadagnava assai più, ma dove le sue forze si consumavano in una
eccessiva fatica.

Il nuovo posto, quantunque meno lucroso, era più signorile per
l'importanza del collegio e per le comodità materiali di cui erano
circondate le maestre, o meglio, le istitutrici, poichè questo era il
titolo che qui avevano. Ed era appunto ciò di cui ella sentiva maggior
bisogno, con la sua salute delicata. Così si rassegnò; e a poco a poco
finì con l'abituarsi alla nuova vita, e si fece benvolere da tutti,
perfino dal cappellano, quantunque i suoi principii, ch'ella non
sapeva nascondere, fossero poco favorevoli alle pratiche esteriori del
cattolicismo.

E ora... trach!... nella sua vita si faceva un nuovo strappo, mille
tenui legami si frangevano; ella doveva cominciare un nuovo tirocinio
per approdare — chi sa! — forse a meglio, forse a peggio!

Uscì dal dormitorio, dove non sarebbe più ritornata, mandando ancora
un saluto al suo lettuccio bianco, immerso nell'ombra; poi traversò il
corridoio per arrivare allo scalone che conduceva alle stanze di scuola
e alle grandi sale di ricevimento.

Nel corridoio riscontrò il domestico, che si presentava in una maniera
molto curiosa sul fondo buio dello scalone, con un materasso in
ispalla, un lumino in mano, e il grosso cane bastardo dal pelo lungo
che camminava gravemente dietro le sue gambe.

— Oh, Pietro! — esclamò — m'avete quasi fatto paura! dove andate con
quel materasso?

Allora l'uomo alzò il viso sotto al suo carico e le spiegò, che per
maggior sicurezza non dormiva mai nella stessa stanza, e nessuno doveva
mai sapere dove egli dormisse.

— Di questo passo, vado a scegliere la mia reggia! — soggiunse,
scoppiando in una risata sonora da uomo contento e ben nudrito, che
rumoreggiò allegramente sotto l'ampia vôlta dello scalone.

Ernestina gli rammentò che partiva col diretto della mattina, e che
lui doveva farle trovar pronta una vettura per le cinque e mezzo, e
aiutarla a discendere le valigie. Poi si salutarono e si allontanarono
in direzione opposta, e sprofondarono coi loro lumini nella vasta
oscurità del corridoio e dello scalone.

Entrando nelle scuole, Ernestina non potè frenare un gesto di
meraviglia davanti a quell'enorme disordine. Le ragazze, per far più
presto a prendere i loro libri, i loro quaderni e le mille bazzecole
di cui le collegiali fanno gran conto, avevano arrovesciati i loro
cassetti sui banchi e buttati tutti i fogli inutili per terra,
sparpagliandoli poi coi loro piedini inquieti e saltellanti.

Più tardi qualcuno dei servi doveva essere entrato, poichè gli scanni
si trovavano tutti ammonticchiati in fondo a ciascuna sala, come esempi
di barricate; ma nessuno s'era sentito l'animo di dare una spazzata
e portar via quel grosso tappeto di carta, forse per la paura di
rimetterci troppo tempo e accorciar la vacanza di qualche giorno.

Ernestina camminava lenta in punta di piedi, guardando attentamente se
scorgeva qualche oggetto dimenticato.

Nella sala delle piccine andò diritta al tavolino della maestra, aprì
il cassetto che chiudeva a molla, vi frugò dentro e in fondo, sotto
a un arruffio di fogli, trovò la scatola coi fiori conservati nella
bambagia. Una impercettibile curiosità gliela fece aprire. Vi era una
bella rosa rossa, alcune gaggie, un mazzetto di viole ancora olezzanti,
e in fondo, sotto all'ultimo strato di bambagia, un biglietto di
visita con un nome d'uomo: Carlo Metelli. In terra, presso al tavolino,
giaceva un abecedario che s'era aperto da sè al posto più tormentato,
e mostrava una quantità di fregacci fatti colla matita da una manina
nervosa.

Ernestina lo raccattò, lo chiuse, lo pose sul banco, e, presa con sè
la scatola che doveva essere spedita, ritornò indietro per la medesima
strada, riattraversando ancora una volta tutte le sale di scuola. Nel
sesto corso, dove ella aveva passate tante ore tutti i giorni per sette
anni di fila, il suo passo si rifece lento, mentre il suo sguardo si
andava fermando qua e là, come per rianimare certe memorie impallidite,
e riassorbire le emanazioni ancora distinte della vita, della gioventù,
che aveva consumata là dentro.

Quando uscì nel corridoio pareva più pallida, e un sorriso amaro errava
intorno alla sua bocca.

Non le restava che attraversare le sale di parlatorio, le sale di
ricevimento, e la grand'aula dei concerti, ancora in pieno addobbo
per la recente solennità. La sua cameretta era dall'altra parte,
nell'angolo estremo dell'edificio.

Il parlatorio non le destò alcun ricordo interessante. Osservò per la
millesima volta che le mobilie moderne addossate ai muri, stonavano
maledettamente col carattere grandioso della decorazione, così poco
adatta per un collegio; e tirò innanzi verso le altre sale, egualmente
mancanti d'insieme, egualmente desolate del loro lusso freddo e senza
carattere.

Involontariamente, ella pensò al tempo in cui quel palazzo non era
ancora trasformato in collegio, ma abitato dalla nobile famiglia di cui
portava tuttora il nome.

Le tappezzerie delle pareti, gli affreschi dei soffitti, i grandi
specchi saldati nel muro, le statue innalzate sui loro piedestalli nel
dolce riposo delle nicchie, tutto parlava dell'antica magnificenza e
dell'uso cui quelle sale erano destinate.

A poco a poco la sua fantasia, eccitata dalla solitudine e dalla
veglia, si popolò d'immagini fantastiche, e cercò di delineare a
grandi tratti qualcuno dei quadri smaglianti e pieni di vita ch'erano
stati chiusi in quelle cornici. Dalle ampie finestre, dagli splendidi
affreschi, dalle ombre dei muri, uscivano voci che raccontavano di
feste colossali, di banchetti, di avventure dolci e terribili. Chi
sa quante coppie innamorate avevano sostato davanti a quel grande
specchio, ora un po' annerito! Chi sa quante belle ambiziose vi avevano
ammirato il trionfo delle loro forme! Che cosa indefinibile è un ballo
di signori!...

Ernestina, non aveva mai ballato; non sapeva ballare. Ma qualche volta,
come spettatrice, aveva veduto, osservato e indovinato una quantità di
cose. Si ricordava una certa coppia formata da due giovani, belli, che
si tenevano stretti e volavano via come il vento. Ella aveva chiesto
ingenuamente chi erano quei due sposi che si volevano tanto bene, e la
gente intorno a lei s'era messa a ridere e a bisbigliare. Più tardi
aveva saputo che non erano sposi, ma cugini, e che la signora era
maritata con un altro e già madre.

Eppure, se certe cose non le avesse vedute, avrebbe potuto credere che
fossero immaginazioni, fandonie da romanzieri, tanto a lei non era mai
capitato nulla.

Nulla! Che vita noiosa!

Il solo romanzo della sua giovinezza non valeva la pena di essere
raccontato, ed era rimasto in tronco ai primo capitolo, come certi
abbozzi malavviati, di cui il romanziere si disgusta fin dalle prime
pagine.

Ella aveva allora vent'anni e stava aspettando l'esito di un concorso,
poichè, malgrado il diploma superiore, non aveva trovato ancora da
collocarsi, e viveva in casa sua aiutando la mamma. Una posizione assai
penosa, con quel po' po' di miseria.

Un giovine del paese, metà possidente, metà contadino, s'era insinuato
nell'amicizia del vecchio Maggi e frequentava la casa tutte le
domeniche dopo pranzo. Non era un'aquila, ma nemmeno uno sciocco; e
poi, un bel giovine. Le dimostrava una simpatia piena di rispetto,
che la faceva sorridere molte volte in una serata. Allora era lui che
arrossiva invece di lei, perchè era timido e un po' in soggezione.
Specialmente quando babbo Maggi parlava in lungo ed in largo della
splendida educazione che aveva dato alla sua figliuola, del concorso
che avrebbe vinto, della carriera lucrosa che si sarebbe aperta, il
povero Giovanni Tortoli rimaneva come soffocato.

Tuttavia, qualche volta trovava il coraggio di osservare, che il posto
era buono davvero con 1800 lire di stipendio, vale a dire più del
pretore del capoluogo che ne aveva sole 1500; senza contare di più
l'alloggio che la maestra avrebbe avuto gratis, ma che però c'erano
degli inconvenienti: un paese di briganti e un da fare da cani, basti
dire, otto ore di scuola tutti i santi giorni, a maschi e femmine e poi
la sorveglianza di tutta la scuola e la responsabilità, laggiù, in quei
paesi!...

Il vecchio rispondeva trionfalmente, che ci sarebbero andati anche
loro, genitori, e che la sua figliuola nessuno l'avrebbe toccata.

Dopo ciò il giovine non osava replicare; ma incontrandosi con gli occhi
di Ernestina, i suoi occhi esprimevano la speranza vivissima che il
famoso posto, nel paese dei briganti, non toccasse a lei....

Invece le toccò proprio. L'annunzio della nomina le arrivò per
telegrafo, accompagnato dall'ordine di presentarsi entro otto giorni
alla scuola.

Bisognò fare subito i bagagli, e mettersi in viaggio. Quanto a
Giovanni, udita la nuova, non si lasciò più vedere.

— L'unico uomo che abbia pensato a me! — mormorò Ernestina, che intanto
era arrivata nella sua camera, dove tutto annunziava i preparativi
della prossima partenza. La sua vita era tutta un patire!

— L'unico?... Mah! In ogni modo bisogna dire che si consolò presto
— continuò mentalmente, sorridendo a metà del suo intenerimento
retrospettivo.

Difatti, Giovanni aveva sposato poco dopo una ragazza di campagna, ed
era ormai padre di sei o sette figliuoli.

— Pover'uomo! chi sa che miseria! — pensò involontariamente, mentre
i suoi sguardi si riposavano sui mobili eleganti della sua cameretta,
sugli abiti che doveva mettere nella valigia. Tutti gli oggetti che le
appartenevano annunziavano una modesta agiatezza e un gusto severo e
delicato. Ora aveva imparato anche a vestirsi; peccato che era troppo
tardi! La lunga abitudine della scuola, l'assenza assoluta di amore
avevano dato a tutto il suo aspetto quel carattere indefinibile, fra
d'istitutrice e di monaca, che in certe donne fa quasi sparire il
sesso.

Il pensiero della sua agiatezza le suggerì un conforto, ed ella, che in
quel momento si sentiva discendere verso l'abbattimento, vi si attaccò
col coraggio di chi è nato per la lotta. Era sola, lei, ma almeno
non aveva il tormento di veder soffrire delle creature amate, non era
condannata a domandare continui sacrifizi a delle creature giovani,
vibranti di allegria, di espansione, come i suoi genitori avevano
sempre dovuto fare con lei.

Risalendo la corrente della sua vita passata, ella si domandava quello
che sarebbe accaduto se quel concorso fosse andato a vuoto; e si vedeva
al fianco di Giovanni, in mezzo a un mucchio di figliuoli affamati,
ch'ella doveva abituare al lavoro più affaticante, alle privazioni;
e vedeva i visini smorti, come il suo, gli occhietti pesti, i sorrisi
malinconici di quelle giovinezze stentate, come la sua.

Un profondo sospiro di soddisfazione sollevò il suo petto; la sua
testa si drizzò, i suoi occhi s'illuminarono. — Meglio così! — ripetè
orgogliosamente in uno slancio di egoismo sentimentale — il dolore è
tutto per me.

Ora si sentiva piena di forza e di resistenza. Aveva i pomelli delle
guance accesi, gli occhi sfavillanti. Febbrilmente si mise a preparare
le sue valigie.

Ripiegava i vestiti, involgeva accuratamente gli oggetti piccoli
e delicati nella carta velina; legava i libri in pacchi; chiudeva
i manoscritti nelle grandi buste di marocchino. Poi venivano le
fotografie; i grandi album pieni; i fasci di lettere, che non
finivano più. Chi poteva averle scritto tanto?... Certe calligrafie
le riescivano incomprensibili. Apriva le lettere, guardava le firme.
Appartenevano alle innumerevoli amiche, alle compagne di collegio,
ai professori, alle allieve.... Non una lettera d'amore fra tutte!
Doveva portarsele ancora dietro?... Non osava distruggerle. Era, così,
un'abitudine di sentimentalità collegiale di cui non aveva saputo
liberarsi, pur sentendone la vanità.

Una fotografia, che aveva staccata dalla parete, fermò lungamente i
suoi sguardi. Rappresentava una bella giovane sui ventiquattro anni,
nel pieno sviluppo delle sue forme.

Era stata la sua più cara amica.

Con lei aveva imparato a pensare, a discorrere liberamente senza
quell'eterna affettazione di falsa innocenza, che il galateo
sociale impone alle non maritate. Tutti i tristi problemi, tutte le
ingiustizie, tutte le angoscie della vita femminile, tutti i pregiudizi
di cui si sentivano schiave, furono passati in rivista, analizzati,
discussi dalle loro intelligenze risvegliate e che si ribellavano, in
quelle ore di confidenza morbida, di espansione prorompente, in cui
si consuma l'esuberanza delle forze d'un cuore giovane e vigoroso,
condannato all'inerzia.

Ma adesso, la bella Erminia, non era più quella d'allora.

Aveva ispirato un sincero amore ad un giovane medico, che se l'era
sposata, portata via con sè, in un altro paese, lontano dalla povera
Ernesta.

Per qualche tempo una corrispondenza epistolare, ben nudrita,
aveva ancora tenuta viva l'amicizia e recato qualche conforto
all'abbandonata. Ma a poco a poco le lettere si erano fatte più rade,
più fredde. Erminia era amata e amava; tutta la sua eloquenza naturale
prorompeva in un inno all'amore, alla gioia di vivere. Un ottimismo
intangibile si insinuava in tutti i suoi giudizi, in tutti i suoi
pensieri. A poco, a poco Ernestina che non poteva seguirla su questo
nuovo terreno, preferì il silenzio alle contestazioni, cui la sua fibra
delicata non poteva reggere. E l'amicizia morì.

Eppure ora, ricontemplando quella fotografia, ch'ella credeva di avere
dimenticata, si sentiva intenerire e penetrare come da un intendimento
nuovo, che cancellava l'ultimo rimasuglio della sua collera.

— È giusto! — mormorò a fior di labbra: — se fossi amata anch'io!
— E a questo pensiero, il cui fascino misterioso la investiva quasi
improvvisamente, la commozione interna, ch'ella si forzava a frenare da
tante ore, si manifestò finalmente in uno scoppio di lagrime.

Con la testa arrovesciata sulla poltrona, con le braccia penzoloni,
provava la voluttà del piangere senza ritegno, tanto somigliante alla
più acuta voluttà dell'amore.

— Amare! amare! — diceva con voce rotta in mezzo alle lagrime. — Avere
una creatura che ci accarezzi, che ci compatisca!... Un bambino! Oh! se
avessi almeno un bambino da stringermi al cuore!...

Quando finalmente si calmò, le sovvenne che alcuni momenti prima
s'era sentita fiera della sua vita coraggiosa e solitaria, soddisfatta
di essere sola e sterile, piuttosto che causa di dolore ad altri; e
sospirò profondamente, coprendosi il viso con le mani convulse.


Le valigie erano pronte. Sorgeva l'alba. Dalla finestra aperta entrava
l'aria fresca e umida del giardino.

L'istitutrice, che si era finalmente assopita nella sua poltrona,
dove stava rannicchiata, coi ginocchi alzati, i gomiti appoggiati sui
ginocchi, e tutto l'alto del corpo abbandonato sopra le braccia in
un accasciamento supremo, sentì il saluto frizzante dell'aurora e si
svegliò con un brivido.

Si alzò a fatica: le pareva di avere tutte le ossa rotte. Guardò
l'orologio. Erano le quattro e mezzo.

Il giardino, uscito dall'ombra della notte, pareva come velato da una
nebbiolina sottile e diafana.

Ella finì di svegliarsi, e provando un gran bisogno di movimento,
chiuse le sue valigie, poi cominciò a trascinarle, una a una, fuori
della camera, lungo il corridoio e fin giù a piè della scala di
servizio che metteva direttamente in porteria.

Qui tutto dormiva ancora. Il gattone nero, svegliato in sussulto,
distese le membra intorpidite, allungando le zampette davanti e
appuntandole sul pavimento, rientrando la testina e abbassando il
collo, mentre le reni inarcate si spingevano indietro, si gonfiavano
graziosamente, con una morbidezza voluttuosa, che mostrava tutto il
dispiacere del bel micio, per quella interruzione del suo dolcissimo
sonno.

Ernestina risalì e ridiscese parecchie volte, finchè tutte le sue
valigie si trovarono riunite nell'atrio; intanto che il gatto la
guardava con una cert'aria di stupore.

Questa ginnastica la rinvigorì. Il rossore della fatica cancellò dal
suo viso le traccie del pianto e della veglia. Quando il portiere e sua
moglie furono alzati, si congratularono con lei del suo buon aspetto.
Aveva almeno dormito bene per l'ultima notte?

Suonava la prima messa alla chiesa vicina, quando il domestico arrivò
insieme alla vettura.

Ernestina infilò il suo _ulster_ grigio, s'allacciò il cappellino di
paglia, salutò un'ultima volta il portiere e la sua famiglia, compreso
il micio, poi montò nella vettura.

Ma in quel momento arrivava don Antonio, il curato della parrocchia,
cappellano e confessore del collegio, che andava a dire la sua messa.

Era un uomo alto e forte, che camminava col busto diritto, curvando
la testa di tratto in tratto come sotto a un gran peso. Il suo viso
scarno, pallido, con la fronte devastata, aveva una espressione penosa,
gradevolmente modificata però dal suo buon sorriso, dagli occhi dolci
e dai capelli bianchi finissimi, che gli s'inanellavano intorno alle
tempie.

Egli andò diritto a lei e la salutò. Ernestina gli porse la mano. Erano
buoni amici, quantunque nessuna maestra del collegio fosse meno devota
di lei. Ma tutti e due s'erano incontrati nel sentimento di una grande
rettitudine e di una profonda infelicità. E questa specie di gente
finisce sempre con l'intendersi per quanto grande sia la diversità
delle opinioni da cui sono divisi.

Il vecchio prete e la povera istitutrice ancora giovane, ma già
invecchiata, scambiarono poche parole, pochi augurii; l'augurio più
gradito, quello di esser presto liberati dalla loro catena, non avevano
bisogno di esprimerlo, se lo leggevano negli occhi.

— Addio, — disse il prete quando la campana finì di suonare. — Si
mantenga sempre così coraggiosa.

— E lei pure! — rispose Ernestina sommessamente. — Addio!

Il prete scomparve dietro la porta nera della sua chiesa; il vetturino
frustò la sua bestia, che per cominciar bene la giornata si slanciò di
gran trotto.

Ernestina Maggi incrociò le braccia sul suo abito grigio, e volse gli
occhi incontro al sole, che appariva in quel momento in fondo alla
lunga strada diritta, come un gran disco di fuoco.



DUE CASE.


Quando penso alla campagna dove passavo gli autunni e le primavere
della mia fanciullezza, mi pare che tutte le altre abbino qualche cosa
di falso, di artefatto, che siano, dirò così, un po' teatrali.

Quando penso ai tre vecchi presso ai quali vivevo allora, mi pare che i
vecchi di adesso siano dei giovani andati a male e che de' veri vecchi
non se ne trovino più.

Già se in quel tempo qualcuno mi avesse interrogato sull'età dei miei
tre prozii — io li chiamavo zii, naturalmente — avrei risposto che li
credevo nati col mondo, o almeno con la casa, chè la differenza tra il
mondo e la casa, in quanto a vecchiezza, sembrava a me di poco momento.

La possessione del marchese Giorgio Cravenna si stendeva sopra una
lingua di terra sporgente nell'Adriatico, ultimo lembo di un versante
alpino. Non era molto vasta e rendeva poco. Il terreno serbava la sua
natura alpestre, poca terra arida frammischiata a una enorme quantità
di sassi, sopra un fondo di roccia.

Un proverbio locale dice: Seminate frumento per raccogliere sassi.
Oltre a ciò il flagello dei venti marini che bruciavano tutto; la
scarsezza della pioggia e la frequenza della grandine.

Quante notti di temporale passate ai piedi della Madonna dei sette
dolori, facendo bruciare l'olivo benedetto, ho nelle mie memorie
infantili! E quante imprecazioni contro il cielo implacabile e il mare
maledetto ho sentito fin dalla culla!

Ma che piovesse o grandinasse, che i gelidi venti di tramontana, o
quelli molli del sud — ai quali la squallida punta era ugualmente
esposta — ci dilaniassero; o che il sole splendesse ferocemente nel
cielo di un cupo azzurro; il paese era sempre bello, di una bellezza
pittoresca che io bambina inconsciamente sentivo e ammiravo: bello
per quel suo carattere variabile, ora aspro e selvaggio, ora dolce e
esuberante; grandioso sempre, per l'ampia distesa dell'acqua, solcata
da navi, barche e battelli; per l'azzurra catena dei monti lontani; per
le grandi foreste di roveri intercalate da spazi erbosi e da roccie; e
sempre ricco di colore nel bello come nell'orrido.

Per miglia e miglia non s'incontrava un villaggio: appena un gruppo di
sei o sette casupole, con una unica bottega, nel punto più centrale
della costa. Del resto, niente altro che piccole case coloniche
confinate in fondo ai poderi; soltanto di tratto in tratto una casa
padronale, abitata nei pochi mesi della villeggiatura. Per tutto questo
popolo sparso un'unica chiesetta sorgeva solitaria all'estremità di
una frazione della punta, a destra del piccolo porto. A sinistra
sulla punta maggiore, dove le secche erano più pericolose per la
sicurezza de' naviganti, si drizzava la grossa torre della lanterna.
E che divertimento per noi ragazzi, salire in cima al faro, penetrare
nell'immenso fanale e stare a vedere come il vecchio Giacomo — un
marinaio più nero e più ruvido di un tronco d'olivo — accendeva
tutti quei lumi ad olio, il cui puzzo di moccolaia mi dà ora, al solo
pensarvi, un senso di mal di mare!...

La casa dei miei prozii era una delle migliori, e la meno lontana dalla
chiesa, non più di due o tre chilometri.

Era un edifizio solido, senza pretese architettoniche e si stendeva
tutta in larghezza, da levante a ponente, con una profondità di appena
due stanze medie, per cui, realmente, aveva l'aspetto di un'ala di casa
più che di una casa completa. Difatti il progetto antico era stato
assai più grandioso; ma i denari erano mancati all'esecuzione. Forse
questo contribuiva a darle quell'aria di vecchia casa decaduta; mentre,
osservandola bene, si capiva che doveva essere una costruzione del
principio del secolo.

Sopra il piano terreno, occupato quasi interamente da un grande
vestibolo, sproporzionato, s'innalzavano due soli piani: il primo
destinato all'abitazione della famiglia; il secondo fatto per uso di
granaio, con l'aggiunta di due o tre camerette per la servitù.

Il piano destinato alla famiglia si componeva di otto o dieci camere,
tutte infilate, di una sala, di uno studiolo, di un _tinello_ e di una
grande cucina con terrazza.

Tutto ciò avrebbe potuto essere allegro: invece, io avevo l'impressione
che quei muri mi schiacciassero, e che da tutti i vani si sprigionasse
un senso di noia, di pesantezza: un non so che di torbido che irritava
i miei nervi. Allora io non cercavo donde provenisse quella tristezza,
nè dove si accumulasse quella insopportabile noia. Ma pure cercando non
avrei trovato.

Forse erano nei muri grossi, rozzamente dipinti; forse nei pavimenti
a lastre di macigno tirate a lucido come il marmo; forse nella severa
bellezza del mare che penetrava tutta la parte di tramontana e ne' suoi
eterni lamenti. O le portava con sè l'urlo del vento, o le emanavano
quei tre vecchi disaffezionati, che da tanti anni inutilmente lottavano
contro lo sfasciamento della famiglia e la perdita dell'antica
agiatezza.

Io non sapevo.

Ma uno spirito indomito di ribellione mi spingeva fuori, lontano;
mi dava il coraggio di affrontare le sgridate e le punizioni che
m'aspettavano al ritorno da troppo lunghe escursioni.

La mia passione era di correre alla spiaggia; una spiaggia a picco,
alta sei o sette metri, che il mare minava di sotto cagionando
frequenti frane.

In alcuni punti, antiche frane avevano formato dei promontori, e
quindi delle insenature, nelle quali s'incavavano tortuosi viottoli che
menavano sugli scogli denudati, irti, taglienti, contro ai quali quasi
ogni anno qualche imprudente battello si fracassava.

Era appunto là che io non avrei dovuto andare secondo l'ordine dei
superiori! Ma nè Cesare, nè Fiume, incaricati di custodirmi, nè le mie
cuginette un poco più piccole di me, erano capaci di resistere alla mia
volontà, quand'io li trascinavo a quelle scorribande.

Queste cose ed alcune altre mi avevano creato in tutto il parentado una
fama di figliuola cattiva, perfida.

Zia Teresa, la moglie del marchese Giorgio, e sorella di zia Elena, una
vedova questa di due mariti, mi perseguitava sempre perchè non avevo
alcuna inclinazione religiosa. Abbandonata da Dio ero, secondo lei;
indegna di camminare sulla terra perchè svegliandomi il mattino, il mio
primo pensiero era di correr fuori; l'ultimo, di ringraziare il Signore
che mi aveva protetta durante il sonno.

Disgraziatamente, tali argomenti terribili avevano poca presa sul mio
temperamento. Peggio ancora: agivano a rovescio. Crollavo le spalle,
forse per cacciare dal mio cuore l'inconscia amarezza, e poichè non
potevo reagire altro che scappando, approfittavo largamente di questo
unico mezzo.

Fuori di là ero padrona io. E prima che quelle vecchie mi
raggiungessero, ce ne voleva!

Quando scappavo mi voltavo a guardare la casa antipatica, la corte
noiosamente monotona colla sua forma rettangolare, i muri alti e
massicci, il pesante cancello; e quella vista rinforzava nel mio
cuore il desiderio di fuggire. La salutavo con un gesto birichino, e,
via, a gambe levate. Il mondo si trasformava improvvisamente davanti
ai miei occhi. Mi sentivo libera, signora e padrona. I lunghi viali
ombreggiati; i filari carichi d'uva o i gelsi carichi di more; i prati
di un verde intenso smaltato di fiori; i rossi tappeti del trifoglio;
gli stagni dove s'abbeveravano le mandre; i nidi degli uccelli; le
bacche rosse dei ginepri; e, sopra ogni cosa cari, i boschi ed il mare:
il mare con la sua spiaggia scoscesa, ricca di migliaia e migliaia di
conchiglie, tutto era mio, di tutto io potevo godere!...

E quando pioveva e bisognava rincasare prima di notte, mi insinuavo
nel cortile per la piccola porta posteriore, e col grembialino carico
di spighe di granoturco immaturo entravo nella cucina dei coloni,
per farle cuocere sulla brace ardente e mangiarle insieme ai piccoli
contadini miei fidi amici.

Intanto le due vecchie rimaste a casa si bisticciavano rivangando
immancabilmente il passato. Zia Teresa, la sorella maggiore, che aveva
sempre una certa autorità sul carattere debole della minore, brontolava
sarcasticamente.

— Ecco il bel frutto di quello che avete fatto voi! Se non aveste dato
nostra nipote (mia madre) a quello zingaro eretico (mio padre) di quel
dalmatino, non avreste questo flagello (io stessa) che ci farà dannar
l'anima a tutte e due!..

Debolmente zia Elena si difendeva. La ragazza, figlia del loro comune
fratello, era stata affidata a lei, perchè non aveva figliuoli
propri, e lei non aveva pensato altro che alla felicità di quella
sua prediletta. Sapendo per esperienza a quanto male approdassero i
matrimoni senza amore, aveva creduto bene di lasciarle sposare l'uomo
che amava!...

Ma la marchesa crollava il capo in aria di compassione sprezzante.

— Bell'amore, sì; l'amore di un barbaro, di un miscredente che l'ha
fatta morire!...

Quando rientravo in casa, se la bega era stata molto forte, zia Elena,
che non aveva potuto sfogarsi con nessuno, si sfogava sopra di me,
ed io potevo misurare l'intensità della sua collera concentrata,
sull'intensità dei pizzicotti che mi regalava.

Le sole ore in cui la casa non mi dispiacesse erano quelle della
siesta, dalle due alle cinque.

Appena finito il desinare (si desinava verso il tocco) i tre vecchi si
ritiravano nelle rispettive stanze; le finestre si chiudevano. Le due
sorelle dormivano in due camere vicine; il marchese, che da lungo tempo
non se la intendeva troppo con la moglie, si era ritirato, fra i granai
e la servitù, in uno stanzino, dicendo che lassù l'aria era più pura,
la vista più aperta e ricreante.

La cameriera li accompagnava uno ad uno. Alle quattro e mezzo,
finita la siesta, i tre campanelli squillavano uno dopo l'altro, e
la cameriera accorreva col caffè; e poi andava a vestirli, sempre uno
dopo l'altro; poichè, la povertà che già li rodeva, li aveva ridotti a
tenere una cameriera sola per tutti e tre, ma non peranco addestrati a
vestirsi da sè medesimi.

Per tutte quelle ore ero libera; e, specialmente nelle giornate
calde mi piaceva restare in casa, nella sala di tramontana o giù nel
vestibolo, in una vecchia carrozza lasciata là in un cantone. Vi si
entrava dentro tutti. Vale a dire, io in prima linea con le mie due
cuginette, due diavoletti ancora immaturi; poi, Cesare, il biondo
figliuolo del primo colono, che la marchesa aveva tenuto a battesimo.
Lo tiravano su per domestico; ma lui non c'era tagliato; e alcuni anni
dopo — mentre io ero in collegio — scomparve e non se ne seppe più
nulla.

Ultimo, _Fiume_, il vecchio cane da caccia in riposo, che si stendeva
ai miei piedi. Natura di martire questo cane. Quanto più lo si
tormentava, tanto più si ficcava in mezzo a noi.

E poichè non vedendoci ululava malinconicamente, la servitù, che
l'aveva in uggia, lo cacciava via a pedate, gridandogli:

— Va a farti martirizzare, va!...

Cesare e Fiume erano forse le due creature che m'ispiravano maggior
simpatia in quella casa; certo erano quelli che mi amavano di più. Io
li trovavo sempre pronti a eseguire i miei ordini, a darmi aiuto nelle
cento difficoltà che avrei potuto incontrare nelle mie spedizioni.

Nella vecchia carrozza ci si sdraiava con voluttà sui guanciali
sdrusciti, sulle molle sfondate, ma ancora abbastanza buone per
cullarci sotto a un forte impulso di ondulazione.

Allora io sognavo di viaggiare e la fantasia mi portava lontano, in
paesi nuovi, sconosciuti, dove diventavo l'eroina di straordinarie
avventure.

Qualche volta io raccontavo questi sogni ad alta voce e il mio uditorio
si divertiva.

Ma un altro asilo piacevole per quelle ore era la stanzetta di Dorotea,
la guardarobiera.

Un giorno, verso la fine della villeggiatura autunnale che fu l'ultima
della mia infanzia, accadde che io avessi estremo bisogno di ricorrere
alla sapienza e alla bontà di Dorotea. Avevo passato la mattinata con
le raccoglitrici d'olive, trascinandomi in terra, arrampicandomi su gli
olivi, scavalcando muri. A tali prove la mia gonnella di lana sottile
non aveva resistito: uno strappo enorme l'aveva aperta dall'alto al
basso.

Per andare a desinare l'avevo appuntata con gli spilli; ma guai a me se
arrivavo a sera senza che il danno fosse riparato!

Si andò tutti da Dorotea.

La buona donna non era malcontenta di quelle visite che rompevano con
un po' di chiasso la monotonia della sua esistenza.

Era sui quaranta. Piccolina, tozza, aveva gli occhi neri e scintillanti
come due chicchi di _jais_; i capelli crespi; la pelle bruciata.
Apparteneva anche lei alla famiglia; era nata marchesa Cravenna, ma da
un ramo completamente decaduto prima che il suo povero bocciuolo vi
germogliasse. Nata per amare, il marchese Giorgio l'aveva condannata
alla solitudine mandandole a male tutte le occasioni di pigliar
marito, per non metter fuori il salario mai pagato e che in capo a
vent'anni di servizio doveva costituire un capitaletto. La povera
creatura se ne lagnava qualche volta a bassa voce, miagolando come
una gattina maltrattata; ma davanti al vecchio non osava neppur
fiatare. In complesso non aveva ancora perduta la speranza di trovare
un galantuomo che la sposasse per lei sola, rinunziando a que' pochi
soldi. Gliel'aveva messa in testa il marchese, ripetendole ad ogni
nuova occasione: — Vuole i tuoi danari?... Vuol dire che non ti ama!
È un birbante!... E intanto nella casa tutti ridevano delle speranze
romantiche di Dorotea. I servitori la tormentavano con burle grossolane
che divertivano i padroni, e la cameriera — una prepotentaccia,
favorita dal vecchio — non le risparmiava le mortificazioni.

Inconsciamente, ma appunto per questo, certo, noi altri ragazzi le
volevamo tanto bene.

Quel giorno ella stava cucendo al mio corredo di collegio.

— Dunque, tu vai proprio in collegio? — esclamavano le care cuginette
mettendosi a piangere. Cesare sospirava.

E Fiume capiva benissimo che si trattava di una cosa tremenda.

Quand'io gli dicevo: — Non mi vedrai più — alzava la testa inquieto
e mi guardava malinconicamente con gli occhi grandi, velati dalla
vecchiaia, che sembravano pieni di dolore.

— Dispiace anche a me! — diceva Dorotea — davvero mi dispiace! Ma,
santo Dio! è colpa sua; dicono ch'è tanto cattiva!...

Cesare asciugava le sue lagrime alla manica della giacchetta, e
protestava che io non era cattiva.

In verità io era molto indifferente, e ogni cambiamento, compreso il
collegio, mi sorrideva. La mia affettività aveva avuto poco campo di
svilupparsi; ma avevo gusto che gli altri fossero dispiacenti della mia
probabile partenza.

Mi venne un'idea romanzesca.

Erano là in una scatoletta, alcuni anellini di ottone di quelli che
servono per le tendine. Ne presi uno e nel medesimo tempo presi la mano
di Cesare che mi guardò tutto illuminato.

— Con questo anello — gli dissi mentre lo facevo passare con un po' di
sforzo nel suo anulare, ti farai riconoscere da me quando saremo grandi
e io ti vorrò bene. Ma se te lo levi, niente del tutto: vorrò più bene
a Fiume!

Fatto rosso di commozione, il biondo fanciullo giurò che quell'anello
non l'avrebbe lasciato mai.

Anche quel giorno come tutti i giorni, venne l'ora del rosario.

E come tutti i giorni, io cercai una scappatoia, dicendo che mi
doleva la testa. Avevo poca immaginazione! Le due vecchie mi fissarono
ironicamente: la marchesa mi dichiarò una volta di più «una creatura
precocemente perversa» e si fece il segno della croce; mentre l'altra
vecchia, che in fondo soffriva, mi trasse dolcemente per le braccia
fino al posto del mio tormento.

Mi lasciai condurre senza far scene; era inutile.

Il tempo del rosario, lo dedicavo solitamente all'esame della compagnia.

Le due sorelle portavano tutte e due la parrucca. La marchesa, la
portava nera coi bandò molto bassi sulla fronte; e sulla parrucca
portava una cuffietta ugualmente nera con nastri pavonazzi o violetti.
Quest'acconciatura stava veramente male al suo viso duro e poderoso di
vecchia energica; nè meglio s'adattava al corpo da corazziere sostenuto
da piedi lunghi e larghi, calzati alla moda dell'_Empire_.

L'altra vecchia portava una parrucca color castano chiaro con due
grossi riccioli appuntati sulle tempie; sulla nuca, una grossa treccia,
avvoltolata intorno ad un pettine; e niente cuffia. Anche lei era
alta, diritta, imponente; anche a lei la natura aveva fatto il dono
poco invidiato di due grandi piedi e di due mani larghe. Malgrado
ciò e malgrado il naso superbamente greco che l'uso del tabacco
aveva allungato, ella sarebbe stata ancora una bella donna, senza
quell'abbominevole parrucca e i suoi cavaturaccioli.

Un altro personaggio obbligatorio del rosario era la cameriera; una
creatura livida, secca, dai grandi occhi neri pieni di fiamme. Tutte e
due le mie vecchie stavano in soggezione davanti a lei; ma zia Elena
lasciava vedere questa soggezione, forse la esagerava per quella
invincibile timidezza e sottomissione che era nel suo carattere; la
marchesa invece non lasciava trasparir nulla; sempre altera, sempre
nobile; dal momento che il marchese non la curava aveva l'aria di non
ricordarsi neppure ch'egli era stato suo marito e che quella donna ne
godeva i favori.

Questa dignità di signora, quest'orgoglio di donna, che ella non era
mai riuscita a domare, dovevano essere, per Lucia, i maggiori castighi.
Avrebbe avuto bisogno di litigare, di fare scandalo, di trascinare la
padrona al livello di lei. Invece doveva sopportarne la schiacciante
superiorità e quella bonaria alterezza che non trascendeva mai, neppure
nelle correzioni, e non permetteva mai a lei di trascendere.

La popolana mordeva il freno, consumandosi nella bile. E la servitù
che l'odiava, ne parlava davanti a me. Per questo era così magra! Per
questo era così gialla! Per questo non aveva che occhi!

Ma io non capivo che a metà, capivo che si odiavano e le avvolgevo
nella stessa corrente antipatica.

Il rosario veniva recitato nella camera della marchesa, ai piedi
di una madonna che era a capo del letto. Noi ci s'inginocchiava
intorno al letto enorme, dove la vecchia dormiva sola da tanti anni,
cambiando posto ogni notte per mantenerlo uguale; ella stessa intonava
il rosario, recitando i _misteri_ dolorosi, o gaudiosi, o gloriosi,
secondo il giorno della settimana; e tutti gli altri rispondevano. E io
che divagavo sempre e mi davo all'osservazione per passare il tempo,
sentivo lo sdegno contenuto, l'amara rassegnazione della marchesa nel
suo modo di dire «_Ave Maria, gratia plena_»; e la petulanza della
cameriera mi si rivelava tutta intera nella voce di falsetto con cui
ripigliava: «_Santa Maria_», la prima di tutti.

Alcune volte questo duo strano era così aspro, le parole sante
esprimevano tanto rancore, tanto dispetto, che io rimanevo col cuore
sospeso, trattenendo il fiato, nell'attesa di uno scoppio.

Ma lo scoppio non avveniva mai; a poco a poco la voce di zia Teresa
s'illanguidiva nella rassegnazione dolorosa, e la cameriera, seccata e
stanca dell'inutilità dei suoi attacchi, brontolava le risposte a voce
bassa smozzicando le parole. Allora dominava la voce di zia Elena, voce
nasale e monotona per l'abuso del tabacco.

A questo punto, di solito, io mi addormentavo.

Ma quella sera Cesare era venuto a inginocchiarsi vicino a me; ed
io lo vedevo pregare con fervore, le mani giunte, la fronte piegata
sull'anello che gli avevo dato. Tale devozione mi fece effetto; provai
un vago senso di tenerezza, un desiderio nuovo di pregare come lui, di
essere devota anch'io. Mi ci misi con tale ardore, che le due vecchie,
stupite, pensarono che io facessi per chiasso, e alla fin fine m'ebbi
la stessa strapazzata di quando dormivo o facevo la cattiva.

La mattina dopo Cesare non si presentò al servizio alla solita ora.

Capitò invece un poco più tardi il colono.

Al ragazzo gli s'era gonfiato un dito durante la notte e spasimava,
causa un anelluccio che lui non voleva assolutamente gli si rompesse.

— C'entrerà quella birbona! — esclamò la marchesa, fissandomi coi suoi
occhi duri.

Io scappai.

Quando il colono ritornò da suo figlio, lo trovò rassegnato al taglio
del famoso anello. Io ero là, tutta compresa dell'importanza della mia
persona, infondendo coraggio e buone speranze al paziente.

Ma quando lo vidi col dito gonfio e l'anello tagliato mi ricordai le
parole che gli avevo dette, e mi parve tanto buffo, che me ne andai
ridendo seguita da _Fiume_.

La mia allegria durò poco. Avevo appena rimesso piede in casa, che la
cameriera mi venne incontro, e col suo fare dispettoso mi disse:

— Stasera si torna in città, la signorina deve essere alla scuola
domani.

                                   *
                                  * *

Non meno grave della casa di campagna, nè meno triste, era la casa
di città; anzi era più cupa, e molto più brutta per certe pretese
architettoniche e certe eleganze ridicole. La parte anteriore posava
sopra un sottopassaggio, o portico ad archi tondi, sostenuto da grossi
pilastri quadrangolari.

Di sotto al portico era la porta massiccia, sempre chiusa. Si tirava
il campanello, si aspettava un poco e si entrava in un vestibolo
oscuro, dov'era una lunga fila di pile per l'olio, in macigno giallo,
con pesanti coperchi di legno nero a spranghe di ferro. In mezzo allo
spazio non grande di quella entrata si drizzava la scala tutta in
macigno, ampia e non priva di una certa solennità: quattro pilastri
dello stesso macigno giallastro, di forma squadrata e lavorati in
rustico, la sostenevano dal terreno all'ultimo piano; e un lucernario
la rischiarava dall'alto, con poco effetto, poichè le prime branche
rimanevano quasi buie nell'ombra livida dei grossi pilastri. Sui
pianerottoli, in cucina, nel tinello, i pavimenti erano dello stesso
macigno, quindi freddi, umidi, tristi. Ma nelle camere e nelle sale si
notavano certe velleità di lusso e di vita comoda, intesi in un senso
più moderno: p. es. pavimento di legno — in alcune sale tirato a lucido
— soffitti dipinti con cura a finti stucchi, e abbondanza di dorature;
grandi stufe bianche a porcellana (che raramente si accendevano); usci
a doppie imposte, fornite di cristalli, ecc., ecc.

Insieme a tutto questo, mobili sciatti e incompleti, eccetto quelli
di un salottino — tutto nello stile del primo impero — assai elegante
davvero, dove la marchesa riceveva gli amici e le amiche tutti i sabati
e tutti i giovedì.

Il marchese Giorgio non si lasciava quasi mai vedere in quel salottino;
preferendo ad ogni altro luogo, il suo brutto scrittoio, con una sola
finestra sopra una corticella buia, con pochi mobili tarlati e le
pareti annerite dal fumo.

Là egli passava i giorni e le sere, scrivendo e fumando in compagnia
di un suo _factotum_, che gli procurava certi lavori avvocateschi,
nei quali, la laurea di legge e la firma d'avvocato, prese dal nobile
signore in gioventù per semplice lusso, potevano ancora tornare utili
procurando al vecchio impoverito qualche piccolo guadagno.

Del resto egli non usciva mai, dacchè la decadenza della sua casa non
si poteva più nascondere e certi debiti erano portati in piazza. La
città gli era odiosa, e quando arrivava dalla campagna aveva cura di
arrivare a notte; quando poi ripartiva, si metteva in viaggio prima
dell'alba.

Zia Elena stava anche lei chiusa nella sua camera al secondo piano,
dove ella pure riceveva alcuni suoi amici semisecolari.

Così questi tre vecchi, la cui esistenza acquistava in campagna un
certo grado di comunanza, qui non si vedevano altro che a pranzo e a
cena.

Anche i rosarî erano sospesi; ovvero li recitavano a parte. Zia Elena
per conto suo, li recitava alla finestra, in sull'imbrunire, guardando
le signore che andavano a spasso e interrompendo le sue _Avemmarie_,
con delle osservazioni di questo genere: «Maria Venieri s'è fatto un
mantello nuovo! guarda come sta bene!» — oppure: «ah! il povero conte
Furegoni come si trascina con quel bastone! Vecchio finito anche
lui!» — Altre volte erano saluti scambiati vivacemente con quelli
che passavano e piccoli dialoghi gettati traverso l'aria. Poi ella si
ripigliava tranquillamente: «_Nel quinto mistero doloroso si contempla_
ecc.,» per interrompersi presto da capo.

Io intanto giuocavo o facevo le mie lezioni, libera di non pregare,
come lei era libera di pregare a suo modo, giacchè la sorella maggiore
non interveniva con la sua devozione imperiosa.

Malgrado ciò, io ero molto più infelice in città che in campagna. Non
potevo scappare: il portone era sempre chiuso, e quand'anche non fosse
stato chiuso, io non avrei osato uscire sola, senza cappello, vestita
da casa. Ero già schiava delle abitudini e della vanità borghese.

Le ore del pranzo e della cena erano le più tristi.

Quei pasti consumati nel freddo tinello, erano troppo spesso turbati
dalle parole dure del vecchio e dalle lagrime mal represse della
marchesa.

Strana cosa: quella vecchia così severa e che io avevo considerata
tante volte come la mia persecutrice, era non soltanto una
sventuratissima moglie, una madre orbata dell'unico figlio, ma ben
anche un'anima estremamente sensibile, di una tenerezza quasi morbosa.

Quel tinello freddo, umido, scuro, dalle pareti mangiate dal salmastro,
le dava sui nervi. Forse le rammentava più fortemente la perdita
irreparabile del suo diletto figliuolo.

Le parole dure del vecchio erano sempre provocate dalla tristezza di
lei. Vero tiranno egli avrebbe voluto che la sua vittima sorridesse e
dimenticasse: quella tenacità di rimpianti lo irritava come un continuo
rimprovero.

Difatti era un rimprovero. Poichè in quel tinello appunto si era
compiuta la domestica tragedia. Dopo una lotta di opinioni, un giorno,
mangiando la minestra, il marchese aveva annunziato alla moglie ed al
figlio, che questi doveva prepararsi a partire per l'America fra pochi
giorni. A Rio Janeiro lo aspettava una magnifica esistenza, quale
principale impiegato in una grandiosa casa di commercio: una vera
fortuna!

Tutto era stabilito; l'impegno preso; i denari del viaggio anticipati;
non rimaneva che partire, obbedire e ringraziare il buon padre.

E il giovine era partito. Ma per ritornare in capo a sei o sette mesi,
rovinato di salute, morente, appena in tempo per esalare l'ultimo
sospiro sul travagliato cuore della madre.

Vent'anni erano trascorsi, e la piaga sanguinava ancora; la madre non
poteva dimenticare, e l'abisso scavato tra marito e moglie non poteva
essere colmato neppure dalla religione.

Quando appresi questa storia guardai la marchesa con altri occhi e le
perdonai molte cose, nella mia infantile giustizia.

Ma la pietà dei mali altrui non poteva ancora impedire che io mi
ribellassi alla noia, all'oppressione di quella vita.

Invocavo il collegio e mi rammaricavo di non esservi rinchiusa. Non
avevo amici: Fiume, Cesare, Dorotea, le cuginette, lontani tutti! Erano
in campagna loro, i felici! E io dovevo andare dalla maestra di cucito
e ricevere le lezioni noiose, insopportabili, di un vecchio prete!

La sera, due o tre volte la settimana, arrivava l'uomo del battello
recante dalla campagna grandi ceste piene di legumi, di verdure, di
polli, di cacciagione, di frutte.

Io spiavo quell'arrivo. Ad ogni grande scampanellata correvo io a
tirare la molla, poi, spenzolandomi sulla rampa della scala, domandavo,
come era l'uso:

— Chi è?

E che gioia quando alla mia domanda, fatta con voce argentina, una voce
grossa e rozza rispondeva arditamente:

— Il battello!

Allora correvo giù saltando, cercavo di scoprire quello che contenevano
le ceste, ne aspiravo i profumi. Qualche volta, sull'orlo di una cesta
di cavoli, di broccoli, o di fagiuoli, sotto al panno che la copriva
era stato posato un mazzolino di violette, di gerani, o di garofani,
riccamente guernito di erbe odorose. Era mio, e io me ne impossessavo
con trasporto. Quei fiori erano le lettere de' miei amici; vi sentivo
dentro le loro ingenue risate, i giocosi latrati del mio cane, il dolce
rezzo de' miei boschi e l'arcana gioia della libertà.

Era così viva quella impressione, le mie sensazioni erano così acute
che, oggi ancora, se chiudo gli occhi e mi concentro un momento,
risento il profumo di quei fiori, e nel mio cuore si ridesta come
un'eco lontana di quello spasimo delizioso.

Nelle ore di minor sorveglianza, quando tutti erano occupati e mi
dimenticavano, o mi credevano nella mia camera a far i compiti, io mi
rifugiavo volentieri in una vasta soffitta.

Là trovavo molti oggetti curiosi che mi divertivano: mobili rotti di
ogni genere; ritratti a olio rosicchiati dai topi; uno specialmente
notevole per la ricchezza del costume — il ritratto della madre del
marchese Giorgio, a cui egli non perdonava di avere compromesso il
patrimonio di casa Cravenna durante la vedovanza, mentr'egli era tenuto
lontano a studiare. Vi erano, in certe casse, brani di costumi ricamati
in oro; trine ingiallite; grandi fisciù di tulle alla Maria Antonietta;
spadini ruggini e, sopratutto, libri condannati all'oblìo — forse alle
fiamme — dallo spirito religioso di zia Teresa: libri d'ogni genere, ma
per lo più romanzi, drammi, poemi, che destarono in me il primo amore
della lettura: _Siroe_, _Attilio Regolo_, _Ivanhoe_, _La Fattucchiera
delle acque_, _La bella pellegrina_, _Ossian_, _Leopardi_.... tutto
alla rinfusa. Quante ore ho passate là, e come dolci!

In un angolo della soffitta era un cassone nero, assai grande, che mi
respingeva.

M'inspirava un vago terrore. Ma a poco a poco, come accade tante
volte nella vita, quel terrore, quella ripugnanza, fermarono il mio
pensiero e divennero un incentivo di curiosità. Infine un giorno mi
sentii attirata verso quell'angolo misterioso da tutta la forza del mio
terrore e della mia repugnanza.

Esaminando da vicino il cassone nero, m'accorsi che non era tarlato e
in disordine come gli altri. Non aveva serratura. M'accinsi ad alzare
il coperchio che mi parve pesantissimo. Finalmente riescii, e mentre lo
tenevo sospeso con le mie braccette sottili, ficcai dentro la testa.

Uno strano odore mi salì al cervello. Odore di chiesa vuota, quando
gli scaccini spengono le candele dopo una grande funzione. Rimasi
sbalordita e chiusi gli occhi.

Quando li riaprii vidi, traverso a un velo nero che avvolgeva tutto,
una corona di rose bianche con largo nastro di raso bianco ingiallito.

Il mio primo movimento fu di ammirazione e di contentezza. Che bella
scoperta avevo fatta!

Staccai la mano destra dal coperchio, forzandomi a sostenerlo con la
sola sinistra, e mi spenzolai per raccogliere la bella ghirlanda che
era sul fondo del cassone. Alzai il velo.... una zaffata dell'acre
odore mi punse più vivamente; un brivido di freddo mi passò nelle
spalle. Restai immobile, attonita, trattenendo il fiato; gli occhi
fissi sul drappo di velluto nero attraversato da una grande croce
bianca, su cui posavano le rose. Più in là, mezzo nascosti tra le
pieghe del drappo intravidi alcuni ceri, un Cristo d'argento e altri
oggetti confusi.

Lasciai ricadere la corona che avevo già afferrata. Tremavo e un'acuta
angoscia mi stringeva la gola. Che avevo visto io mai?

La morte! La terribile immagine mi si era appalesata improvvisamente.
Ignoravo ancora le cupe tristezze della natura. Tante volte ero corsa
alla finestra per vedere «il bel funerale»; tante volte mi avevano
detto che il mio babbo e la mia mamma erano in paradiso. Ma queste cose
non avevano che sfiorato il mio spirito, senza rattristarlo.

Dal fondo di quel cassone usciva per me la sfinge fatale, mi atterriva,
mi conquideva.

Lentamente mi raddrizzai, ritirai la testa, e, adagio adagio,
sostenendolo con tutta la mia forza perchè non facesse colpo — sentivo
che quel colpo mi avrebbe strappato un grido — feci ridiscendere il
grave coperchio.

Mi parve la lapide di una tomba.

Tremavo sempre un poco, ma non avevo alcuna paura. Sentivo e pensavo
come non avevo ancora sentito, nè pensato. Il mio cuore si apriva al
dolore. Era finita l'infanzia, distrutta la benedetta ignoranza!

In un istante ebbi l'intuizione confusa, ma profonda, della vita e
delle sue più terribili fatalità.

Uscii dalla soffitta e chiusi l'uscio. Mi pareva di essere forte e
tranquilla. Ma tutto a un tratto la mia sicurezza si franse; mi sentii
vacillare e m'abbandonai sull'alto della scala nel sole che veniva dal
lucernario.

Piansi lungamente pensando al mio babbo e alla mia mamma come se
fossero morti allora; e pensando a me stessa come a una creatura cara
e perduta da gran tempo, che ritrovavo e riconoscevo nella più profonda
miseria.



INDICE


  _Inutile!_                         Pag.   3
  _Vecchioni increduli_               »    17
  _Intuizioni oscure_                 »    31
  _Un desinare_                       »    39
  _Nella buona Società_               »    49
  _Il primo incontro col Mostro_      »    59
  _La Cristina_                       »    69
  _Al Pianoforte_                     »    79
  _Una ballerina_                     »    91
  _Una istitutrice_                   »   101
  _Due Case_                          »   125



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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