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Title: Storia di Milano vol. 2
Author: Verri, Pietro
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia di Milano vol. 2" ***


                                 STORIA
                               DI MILANO


                               DEL CONTE

                              PIETRO VERRI


                          COLLA CONTINUAZIONE


                                TOMO II.



                                 MILANO
                    PRESSO IL LIBRAIO ERNESTO OLIVA
                     Contrada de' Due Muri, N. 1044
                                  1850



CAPITOLO XI.

  _Di Matteo I, di Galeazzo I e d'Azzone Visconti, signori di
  Milano._


La storia d'un paese repubblicano può paragonarsi ad una vasta
pittura che rappresenti un grande ammasso di oggetti variati, sulla
quale scorre lo sguardo, incerto talora quali delle figure meritano
un'attenzione distinta; alcuni oggetti veggonsi appena illuminati,
altri indicati appena in lontananza; e nella memoria non rimane poi
se non un tutt'insieme. Laddove la storia d'un paese soggetto ad un
principe si rassomiglia ad un quadro storiato, di cui le figure tutte
servono al risalto del principale ritratto, che a sè chiama i primi
sguardi dello spettatore, nella mente di cui rimangono le tracce
distinte della fisionomia rappresentata e della disposizione del
quadro. Mutata la forma tumultuosa ed instabile della nostra città;
assoggettata questa alla signoria de' Visconti, i costumi, la felicità,
la pace, la guerra, la povertà o la ricchezza diventarono dipendenti
della buona o cattiva indole del sovrano, sul quale principalmente
convien fissare lo sguardo. (1311) I Torriani vennero per sempre
scacciati, siccome dissi, dalla città. Matteo Visconti collo sborso di
quarantamila fiorini d'oro, l'anno 1311, nel mese di luglio, ottenne
dal re dei Romani, Enrico di Lucemburgo, un diploma col quale lo creò
vicario imperiale nella città e contado di Milano. Diciassette anni
prima, Matteo istesso era stato creato vicario imperiale dall'augusto
Adolfo, non di Milano soltanto, ma di tutta la Lombardia, come mero
e misto imperio. Il re Enrico doveva abbandonare la Lombardia, ed
inoltrarsi verso Roma, ove ricevette la corona imperiale. Egli aveva in
animo di sottomettere il regno di Napoli, ma gli mancavano i danari;
non è quindi meraviglia che, volendo egli trar profitto dalla carica
di vicario dell'Impero, la concedesse un uomo che gli dovea tutto,
cioè Matteo Visconti. (1313) Passò poi quel buon imperatore nella
Toscana, ove, a Buonconvento, morì il 24 agosto 1313. La controversa
cagione della di lui morie non è un oggetto appartenente alla storia di
Milano. L'arcivescovo di Milano era uno della casa della Torre, cioè
Cassone della Torre; e doveva vivere esule dalla sua patria, seguendo
il destino della sua famiglia. Egli dalla Francia, ove stavasene
ricoverato presso del papa, si portò a Pavia, città che allora non
era dominata dai Visconti, e l'anno 1314 da Pavia scrisse a Matteo
Visconti una lettera che comincia così:[1] _Cassonus etc. Viris utinam
providis Mattheo Vicecomiti, vicario et rectori, sive capitaneo,
potestati, sapientibus et antianis, consiliariis, consulibus, consilio,
Communi civitatis Mediolani, et Galeatio, Luchino, etc._; indi espone
i mali fatti ai possessi arcivescovili, e conclude:[2] _ut ideo tu
Mattheus Vicecomes, et ilii ut supra nominati, nisi vos emendavetis
de praedictis, in perpetuum excomunicamus, anathematizamus, omnique
commercio humano ac ecclesiastica sepultura atque sacris ordinibus
privamus_[3]. Pare che questo sia stato il primo annunzio degli anatemi
che vennero scagliati dappoi. Matteo era un uomo acuto e pacato.
Poco a poco stese la sua dominazione su Piacenza, Bergamo, Novara
e qualche altra città. (1215) Pavia era una città forte, nemica di
Milano quasi da trecento anni. Matteo Visconti fece comparire le sue
armi sotto Pavia, le quali intrapresero dalla parte di Milano un finto
attacco, a rispingere il quale incautamente accorsero tutte le forze
del presidio. Frattanto un altro corpo di militi di Matteo, assistito
da' corrispondenti ch'erano nella città, entrò dall'opposta parte in
Pavia, guidato da Stefano Visconti, uno dei figli di Matteo; e così
Pavia diventò dei Visconti l'anno 1315, e si assicurò Matteo che da
quella vicina e forte città l'arcivescovo Cassone della Torre non
gli avrebbe più scritte di tai lettere. I Pavesi, un secolo e mezzo
prima, avevano avuta gran parte nella rovina di Milano. Ne' meschini
tuguri ove stavano appiattati i nostri maggiori a Noceto e Vigentino,
risuonavano ancora i singulti degli avviliti cittadini, che temevano
non incendiassero i Pavesi anche que' tristi ricoveri. Matteo Visconti
risparmiò ogni danno possibile ai Pavesi, fabbricò un castello col
quale assicurarsi quella signoria, e ne confidò il comando a Luchino
suo figlio. Matteo non era punto atroce, e pensava alla stabile
grandezza del suo casato. Le sue armi erano confidate a' suoi figli.
Non sembra ch'egli fosse in conto alcuno uomo da guerreggiare; Marco
Visconti comandava Alessandria e Tortona, Galeazzo comandava Piacenza,
Luchino Pavia, e Lodrisio, cugino di Matteo, comandava Bergamo. I figli
suoi avevano ardor militare e perizia; e l'estensione del dominio n'è
la prova; poichè in breve furono assoggettate Piacenza, Bergamo, Lodi,
Como, Cremona Alessandria, Tortona, Pavia, Vercelli e Novara; e così
Matteo signoreggiava undici città, compresa Milano.

Non poteva piacere al papa la signoria de' Visconti per le ragioni che
altrove ho indicate. Il papa, sebbene rifugiato nella Francia, sempre
aveva in vista l'Italia. Dopo la morte di Enrico di Lucemburgo gli
elettori nella Germania formarono due partiti, e furono incoronati re
di Germania e de' Romani Federico d'Austria e Lodovico di Baviera. Il
papa Clemente V aveva inalberata una pretensione, che fu poi cagione
di una lunga guerra fra l'Impero ed il sacerdozio. Pretendeva quel
papa che il giuramento che solevano gl'imperatori pronunziare nella
incoronazione fatta dal sommo pontefice, fosse un giuramento di fedeltà
e di vassallaggio. (1317) Questa opinione la sosteneva anche il suo
successore Giovanni XVII; e in conseguenza spedì, l'anno 1317, due
frati nella Lombardia, i quali in di lui nome dichiararono invalide le
elezioni di Federico e di Lodovico: pubblicarono vacante l'Impero, e
comandarono che non ardisse alcuno di arrogarsi il titolo di vicario
imperiale. La cosa era chiara che si aveva di mira Matteo Visconti, la
di cui pieghevole politica non urtava mai, e secondava anzi i tempi.
Matteo cessò di chiamarsi vicario imperiale, e assunse il titolo
di _signor generale di Milano e suo distretto_[4]. Forse il papa e
l'arcivescovo Cassone della Torre si aspettavano minore compiacenza; e
quindi speravano un pretesto per venire ad un'aperta rottura. Matteo,
da saggio, abbandonò una parola per non compromettere la dominazione.
L'arcivescovo era esule; ma non sappiamo che potesse darsene colpa a
Matteo; poichè forse non v'era atto di autorità che lo allontanasse
dalla diocesi, in cui non si credeva però sicuro l'arcivescovo, sotto
la signoria de' rivali della sua famiglia. Non vedendo quindi Cassone
della Torre speranza alcuna di ritornare al possesso della sua sede
arcivescovile, cercò del papa il patriarcato di Aquilea, e il papa
glielo conferì. Poichè Matteo Visconti seppe essere vacante la sede
metropolitana, maneggiò la cosa in modo, che gli ordinari passarono
ad eleggere arcivescovo Giovanni Visconti, altro figlio di Matteo.
Cassone della Torre era stato parimenti eletto dagli ordinari l'anno
1308, senza che il papa Clemente V vi facesse opposizione. Questo
era il metodo delle elezioni praticato sempre nella nostra chiesa,
prima che Urbano IV, di propria autorità, eleggesse l'arcivescovo
Ottone Visconti, l'anno 1262. Con tutto ciò il papa non badò punto
alla canonica elezione fatta dagli ordinari, e in Avignone consacrò
arcivescovo di Milano certo frate francescano, per nome Aicardo.
L'elezione che aveva fatta il papa dell'arcivescovo Ottone poteva
comparire in qualche modo giustificata, attesa la discordia degli
ordinari, che da più anni lasciavano sprovveduta dal pastore la chiesa
milanese. Ma questa noncuranza d'una elezione regolare e canonica non
poteva comparire altrimenti che una ostilità. Matteo Visconti era
cauto, moderato; ma non era pusillanime. Non permise mai che frate
Aicardo ponesse il piede ne' suoi Stati.

Matteo Visconti aveva cinque figli: Galeazzo, Luchino, Marco, Stefano
e Giovanni, creato arcivescovo. Sebbene Galeazzo, Luchino e Stefano
abbiano mostrato valor militare in ogni occasione presentandosi ai
nemici, Marco però li superava, e aveva i talenti d'un buon generale.
Fu spedito dal padre a tentare la conquista di Genova; e l'impresa
non riuscì, perchè il re Roberto di Napoli vi trasportò una flotta ed
un'armata in soccorso. Non però abbandonò sì tosto quell'impresa Marco
Visconti, che anzi, avendogli fatto intimare il re che sciogliesse
tosto l'assedio, poichè altrimenti sarebbe venuto ad attaccarlo alle
porte di Milano, Marco gli fece dire per risposta, che non occorreva
andar tanto lontano, giacchè egli era pronto a riceverlo ivi alle
porte di Genova[5]. Il re Roberto era collegato col papa; e, portatosi
egli in Avignone, Matteo Visconti fu uno de' principali oggetti che
si trattarono in tal conferenza. Egli veniva accusato[6] _de pessimis
criminibus, et de haeresi, licet non foret noxius_[7]. Il cardinale
Berengario, vescovo tusculano, fu destinato a formare il processo
a Matteo Visconti, ed ivi in Avignone quel cardinale riferì in
concistoro, che risultava dall'asserzione di testimonii degni di fede,
essere Matteo Visconti gravemente diffamato come reo di sacrilegi,
delitti ed eccessi. La fama di tali accuse giunse a Milano; e Matteo,
per calmare la procella, cominciò a permettere che frate Aicardo fosse
dal clero riconosciuto per arcivescovo; e così rinunziò al dritto
acquistato da Giovanni suo figlio, già canonicamente eletto alla
medesima sede. (1319) Oltre ciò, volendo dare un pubblico attestato
insigne della sua divozione alla Chiesa, ricuperò il rinomatissimo
tesoro di Monza che nei passati guai era stato depositato in pegno
al tempo di Napo Torriano; e colle sue mani, la vigilia del Natale
dell'anno 1319, lo portò in Monza e lo depositò sull'altare di
quella chiesa di San Giovanni. Questo tesoro consisteva in corone e
calici d'oro gemmati; e convien dire che fosse veramente un tesoro,
poichè veniva stimato allora ventiseimila fiorini d'oro[8]. Ma questa
pieghevolezza di Matteo Visconti non bastò a concigliarli l'aderenza
del papa, il quale voleva esclusi i Visconti dalla dominazione,
assoggettato l'Impero, e dipendente l'Italia. Giovanni XXII spedì
nella Lombardia ii cardinale Bertrando del Poggetto in qualità di
legato[9], il quale dichiarò l'Impero vacante; nulla l'elezione di
Lodovico il Bavaro; creò vicario imperiale il re Roberto di Napoli;
comandò a tutto il clero di Lombardia di ubbidire al nuovo vicario
imperiale; e finalmente intimò a Matteo Visconti di doversi presentare
in Avignone al papa per rendergli conto dei delitti che gli erano
imputati. L'affare era serio, perchè era già in marcia alla volta della
Lombardia un'armata di francesi, comandata dal conte del Maine, in
nome del nuovo vicario il re Roberto di Napoli. Matteo, richiamando
Galeazzo da Piacenza, Marco da Genova, e Luchino da Pavia, radunò
tutte le sue forze, le quali consistevano in cinquemila cavalli e
quarantamila fanti[10]. Il comando venne affidato a Galeazzo e non a
Marco, fors'anco perchè non si doveva decidere la questione colle armi.
Marciò l'armata sino verso Sesia nel Piemonte, ove si trovò in faccia i
nemici. Pose le sue tende Galeazzo, indi spedì al conte del Maine due
botti d'argento, che si dicevano piene di generoso vino; facendogli
dire ch'ei provava sommo rincrescimento nel vederselo nemico, sì per
l'ossequio ch'ei professava alla casa di Francia, quanto per essere
stato ei medesimo onorato del cingolo della milizia dal conte di
Valois, di lui padre. I due eserciti non si offesero, anzi i Francesi
dopo due giorni piegarono le tende, e, ripassate le Alpi, tornarono
alla loro patria, lasciando la Lombardia come prima. Si credette da
alcuni che le due botti fossero ripiene di monete, e che Matteo con
quelle armi si fosse difeso. Per quanto miti fossero i ripieghi di
Matteo, il papa non voleva in conto alcuno nè tregua nè pace; anzi da
lui si voleva annientato nell'Italia il potere nascente de' Visconti.
Il papa spedì un breve in cui diceva che, quantunque Matteo Visconti
avesse deposto il titolo di vicario imperiale, nondimeno aveva osato
chiamarsi signore di Milano; e in pena di questo disprezzo della Santa
Sede lo scomunicò. Ordinò che la scomunica si pubblicasse in tutte
le chiese, e citò nuovamente Matteo a comparire in Avignone a dire
le sue discolpe[11]. Il cardinale legato Bertrando del Poggetto, da
Asti, ove si era domiciliato, spedì a Milano certo Ricano di Pietro,
suo cappellano, incaricato di consegnare il breve. Ma appena era
il cappellano disceso nell'albergo, si vide attorniato da un grosso
numero di sgherri, i quali l'obbligarono a rimontare tosto a cavallo, e
partirsene: di che se ne lagnò il cardinal legato in una sua enciclica:
individuando che nemmeno si era voluto permettere che facesse
abbeverare i cavalli, e il cappellano e i suoi seguaci dovettero
lasciare a mezzo il loro pranzo, facendogli persino difficoltà dalla
gran fretta di ripigliare il cappello, che aveva deposto, e scortandoli
direttamente fuori dello Stato senza permetter loro di parlare con
alcuno[12]. Se il cardinal legato trovava biasimevole Matteo, perchè
si riparava da un colpo mortale da esso slanciatogli, doveva almeno
non lagnarsi della moderazione istessa con cui se n'era riparato.
(1320) Il cardinale Bertrando del Poggetto, il giorno 3 settembre
1320, nella chiesa de' Francescani in Asti, nuovamente scomunicò
Matteo, e nuovamente lo citò a comparire in Avignone. Matteo cercava
pure le vie d'un accomodamento; ma le condizioni che si proponevano
erano inammissibili da un uomo che era sovrano, e talmente sovrano,
che veniva considerato come un re della Lombardia, siccome dice il
Villani[13]. Si voleva che rinunciasse al governo di Milano; che
riconoscesse per suo signore Roberto re di Napoli; e che i signori
della Torre ritornassero alla loro patria[14]. Queste proposizioni
non piacquero a Matteo nè alla città di Milano. Il papa continuava a
citare Matteo Visconti; pubblicava incessantemente i monitorii, e in
essi gli rinfacciava i delitti: i quali consistevano in esazioni fatte
sul clero, giurisdizione esercitata sopra persone ecclesiastiche,
autorità adoperata nelle elezioni de' superiori de' conventi. (1321)
Poi nel 1321, il giorno 20 di febbraio, lo stesso papa Giovanni XXII,
con sua bolla, pubblicata dal nostro conte Giulini[15], condannò
Matteo a pagare diecimila marche d'argento; nuovamente lo scomunicò,
e lo dichiarò decaduto da tutt'i beni, feudi, onori, ragioni, ec., e
dice che così lo sentenziava:[16] _Tum quia reatus sacrilegii cognitio
et punitio ad ecclesiasticum forum spectat, tum etiam quia, vacante
Imperio, sicut et nunc vacare dignoscitur, ad nos et apostolicam Sedem
pertinet excedentium hujusmodi in Imperio existentium ausus comprimere,
oppressionem tollere, ac lassis et oppressis justitiam ministrare_.
Poco dopo andò più avanti il papa; scomunicò anche i figli di Matteo,
pose all'interdetto le città possedute dai Visconti, ordinò agli
inquisitori di processarlo, e il breve comincia così:[17] _Profanus
hostis, et impius auctor immanis scelerum et culparum, Mathaeus
Vicecomes de Mediolano, partium Lombardiae radibus populator, etc._[18]
(1322). Gl'inquisitori citarono Matteo a doversi presentare al loro
tribunale il giorno 25 febbraio 1322 in una nominata chiesa, presso
Alessandria. Vi comparve il di lui figlio Marco, con grande comitiva di
cavalli e fanti e bandiere spiegate. Gl'inquisitori si trasportarono
a Valenza, ove condannarono Matteo, come reo di venticinque delitti,
molti de' quali consistevano in avere Matteo imposto carichi anche
al clero, ed avere esercitata giurisdizione sopra i beni, i corpi
e le persone ecclesiastiche. Se gli faceva delitto perchè avesse
impedito che le chiese del milanese pagassero tassa al cardinale
legato ed alla camera apostolica. Altro delitto se gl'imputava d'aver
impedita l'emigrazione per la Crociata. Indi fra le sue colpe due se
ne ricordano le quali meritano riflessione; cioè d'aver posto argine
all'Inquisizione, e d'avere pregato per liberare l'infelice Mainfreda,
che fu, malgrado le sue preghiere, bruciata viva, siccome narrai al
capitolo nono. Concludeva la narrazione de' delitti, asserendo che
Matteo negava la risurrezione de' corpi; aveva da' suoi progenitori
ereditato il veleno dell'eresia, era collegato co' scismatici, sentiva
male de' sacramenti, disprezzava l'autorità delle chiavi, e aveva
fatto lega co' demonii, più volte da lui esecrabilmente invocati.
Quindi si sentenziava Matteo Visconti eretico, i suoi beni mobili
ed immobili confiscati; veniva privato del cingolo della milizia,
dichiarato incapace di nessun ufficio pubblico, degradato da ogni
dignità ed onore, e nominato perpetuamente infame, dando la facoltà a
chiunque di arrestarlo. Inoltre i figli di Matteo, e persino i figli
de' suoi figli vennero dichiarati incapaci perpetuamente di qualunque
ufficio, di qualunque dignità e di qualunque onore. La sentenza è del
giorno 14 marzo 1322, data nella chiesa di Santa Maria di Valenza, e
la pronunziarono frate Aicardo, arcivescovo di Milano, frate Barnaba,
frate Pasio da Vedano, frate Giordano da Montecucco, frate Onesto da
Pavia, domenicani inquisitori, alla presenza del cardinale legato[19].
Il cardinal legato, in Asti, pubblicò una remissione plenaria, non
solamente della pena, ma della colpa de' peccati, a chiunque prendesse
le armi, e marciasse sotto lo stendardo che ivi fece inalberare, alla
distruzione di Matteo Visconti e de' fautori suoi:[20] _Fecit portare
vexillum sanctae Ecclesiae super solarium de domo; praedicatum fuit
ibi, quilibet vir et mulier, qui vellet sequi dictum vexillum ad
destruendum dictum Mathaeum et coadjutores ejus, liber et mundus sit
tam a culpa, quam a poena_[21]; e nella cronaca di Pietro Azario si
legge che le maledizioni furono estese sino alla quarta generazione da
quel cardinale legato:[22] _Sententias excommunicationis proferendo,
thesauris Ecclesiae apertis et undequaque stipendio perquisito contra
praefatum dominum Mathaeum et sequaces, usque in quartum gradum suarum
progeniarum_[23].

In quale misero stato si ritrovasse, dopo tutto ciò, Matteo Visconti,
è facile l'immaginarselo. Molti dei nobili, per la naturale invidia
d'una nascente potenza, aderivano al legato. Altri tremavano per
obbedire ad un eretico scomunicato; e il popolo tutto era inorridito
per l'anatema e l'interdetto pronunziati sopra della città. Il Corio
riferisce quell'epoca, ed io mi servirò delle parole di lui. I nobili
adunque «di continuo interponevano littere al legato, ed in altro non
havevano il pensiere se non excogitare in quale modo Matteo con li
figlioli potessino rimovere dal governo dil milanese imperio. Mattheo
da questa hora avante più non si volse intromettere de veruna cosa
concernente al Stato suo, ma in tutto ne le mano de Galeazzo renuntiò
il dominio, grandemente condolendosi de la lite quale contra la Chiesia
cognosceva moltiplicare, ed anche perchè non altramente da li cittadini
milanesi se haveva a guardare come da pubblici e capitali inimici,
inde tutto il pensiere suo puose, con devotione a visitare li templi,
et ultimamente un giorno avante alo altare de la chiesia maggiore
havendo facto convocare il clero, e pervenuti alla presenzia di quello
con alta voce cominciò a dire _Credo in Deum Patrem_, e disse tutto
lo symbolo, lo quale fornito, levando il capo, cridava che questa era
la sua fede, la quale haveva tenuto tutto il tempo della vita sua, e
che qualunque altra cosa gli era imposto, con falsitate lo accusavano,
e da ciò ne fece conficere un pubblico instrumento[24]». Il Rainaldi
confessa che in quei processi vi è stata della parzialità:[25] _Certe
fidei censores studio partium nimium commotos in percellendis sententia
haereseos Gibillinis aliquibus constat_[26]; e il papa Benedetto XII,
diciannove anni dopo, con sua bolla del 7 maggio 1341, dichiarò e
sentenziò iniqui e nulli i processi fatti nel 1322:[27] _Processus,
et sententias supradictas, ex certis causis legittimis atque justis
repertis in eis, inique factos invenimus existere, atque nullos ipsos
processus et sententias per archiepiscopum, Paxium, Jordanem, Honestum
et Barnabam praefactos, et eorum quemlibet super praemissis, communiter
vel divisim, contra Johannem et Luchinum praedictos_ (erano allora
quei due figli di Matteo signori tranquilli di dodici città) _habitos
atque latos, et quaecumque secuta sunt ex eisdem vel ob eos, de ipsorum
Fratrum nostrorum consilio, et authoritate apostolica, inique facta
ac nulla atque irritata declaramus_[28]. Comunque fossero i processi,
certo è che un séguito di tante angustie oppresse l'animo di Matteo,
già indebolito anche dalla non più vegeta età di sessantadue anni;
e dopo breve malattia, nella canonica di Crescenzago, tre miglia
lontano da Milano, finì i suoi giorni il 24 di giugno dello stesso
anno 1322, poco più di tre mesi dopo della sentenza. I figli tennero
per alcuni giorni occulta la di lui morte; anzi si facevano entrare
medici e cibi nella stanza, come se Matteo tuttora fosse vivo; e ciò
si fece per aver modo almeno di salvare le di lui ceneri, e riporle
certamente in luogo ove alcuno non potesse insultarle «per paura dil
pontifice, che il cadavere non facesse remanere insepulto», dice il
Corio. Qual carattere abbia fatto di Matteo il Fiamma, si è veduto
nel capitolo precedente. La fisonomia di Matteo era piacevole: due
begli occhi cerulei, vivaci, carnagione bianca, tratti del volto fini
e gentili. Egli non si mostrò crudele giammai. Ebbe il raro talento di
sopportare in pace la fortuna contraria, e il talento più raro ancora
di non ubbriacarsi coi favori di lei. Nessuna prova egli diede mai di
valor militare, e tutti i successi felici delle sue armi si debbono
al coraggio ed al talento di Luchino, di Galeazzo, e sopra gli altri
di Marco, suoi figli. Di quest'ultimo l'Azario dice:[29] _qui omnes
alios probitate excedebat_[30], e si vede che credette di significare
prodezza. Per altro in Matteo non si conosce alcuno di que' tratti
sovrani che indicano le anime grandi, capaci d'innalzarsi al sublime.
Egli si limitò sempre a pensieri proporzionali alla sua condizione
presente, e preferì la prudenza all'eroismo. La grandezza della sua
casa singolarmente si deve a lui: ma piuttosto per una combinazione
di circostante, che per un ardito progetto ch'ei ne avesse immaginato.
Matteo è stato un buon uomo, un buon padre, un buon principe, accorto,
giudizioso; ma non l'ho chiamato Matteo Magno, perchè quel titolo è
consacrato per distinguere quelle anime vigorosamente energiche, le
quali, slanciatesi oltre la sfera comune degli uomini, formano un'epoca
della felicità, della coltura e dei progressi della ragione negli
annali del genere umano.

Se la guerra contro di Matteo Visconti fosse stata mossa per motivi
personali, colla di lui morte sarebbe terminata, ed avrebbe Milano
nuovamente goduta la tranquillità; ma l'oggetto della ostilità era
di opprimere una nascente potenza; e perciò Galeazzo I, al quale
Matteo aveva rinunziato avanti di morire il governo dello Stato, si
trovò esposto alle persecuzioni, più animose ancora di quelle che
afflissero gli ultimi anni della vita di suo padre. Già vedemmo che
Galeazzo, coll'inquietudine sua incautamente indisponendo i Milanesi,
era stato cagione della perdita della signoria, del ritorno de'
Torriani e dell'esilio a cui soggiacque la sua casa. La sperienza
di venti anni che erano trascorsi, non aveva reso molto prudente
Galeazzo; il quale, nell'anno medesimo in cui morì Matteo, perdette
il dominio di Piacenza per un'inconsideratezza appena perdonabile nel
primo bollore della gioventù. Il signor Vessuzio Lando era uno dei
primari nobili di Piacenza, distinto per il valore, per i costumi e
per le ricchezze; egli aveva in moglie la signora Bianchina Landi,
bellissima giovine, che amava teneramente il suo sposo. Galeazzo
credette, con poca accortezza, di renderla infedele, ed essa informò
il caro sposo dell'insidie che se gli tessevano; e così il Lando,
unitosi al cardinal legato Bertrando del Poggetto, occupò Piacenza a
nome del papa. In quella sorpresa corse gran rischio d'essere preso il
giovine Azzone, figlio di Galeazzo, il quale trovavasi in Piacenza,
con Beatrice d'Este, di lui madre. Questa virtuosa donna lo salvò,
sottraendolo con poca scorta, al primo avviso ch'ebbe della sorpresa;
indi ebbe la fermezza di rimanere esposta al rischio degl'insulti nel
suo palazzo, acciocchè non si dubitasse della partenza d'Azzone, e
frattanto egli profittasse del tempo per salvarsi; anzi andava ella
gettando delle monete ai vincitori, e così fece perdere più lungo
tempo. Ma quando s'avviddero poi che in nessun ripostiglio si trovava
il giovine principe, troppo tardi s'accorsero del pietoso inganno
della principessa madre, la virtù della quale venne rispettata dai
nemici, i quali onorevolmente la scortarono fuori di Piacenza. Galeazzo
I non aveva insomma le virtù di suo padre, e perciò, quantunque in
Milano avesse un forte partito che lo sosteneva malgrado gli anatemi,
fu egli costretto di fuggirsene il giorno 9 dicembre di quell'anno
1322; sebbene un mese dopo vi rientrò come privato, e prima del
terminar di quell'anno, a grido generale del popolo, venne proclamato
signore di Milano il giorno 29 dicembre. Ma il papa non lo lasciò
tranquillo. Pubblicò una bolla per cui ordinò a tutto il clero di
Milano che immediatamente uscisse dalla città, e non si accostasse
a quella per lo spazio di tre miglia. Ognuno s'immaginerà qual
turbamento doveva nel popolo cagionare questa novità, che toglieva
la possibilità d'assistere ai sacri misteri, privava i moribondi
del soccorso dei ministri dell'altare, ed esiliava dalla patria i
cittadini nei quali stava comunemente collocata la maggiore confidenza
e venerazione. Nè quivi pure ebbe confine la controversia. Fece il papa
predicare nell'Inghilterra, nella Francia e nell'Italia un'indulgenza
generalissima in beneficio di chiunque prendesse le armi contro de'
Visconti; e così venne a formare una Crociata contro di essi, come
si era fatto contro de' Saraceni. L'armata dei crocesignati già
aveva occupato alcuni borghi del milanese. La comandava Raimondo di
Cardona, nipote del cardinal legato Bertrando del Poggetto. Le cose
de' Visconti andavano alla peggio. (1323) Il giorno 13 giugno 1323
l'esercito sacro s'impadronì dei sobborghi di Milano, e singolarmente
quelli di porta Nuova, porta Renza e porta Comacina furono in preda
alla licenza dei crocesignati, che, violando le donne, passando a fil
di spada gli uomini e distruggendo colle fiamme le case, portarono gli
eccessi al colmo[31]. Nella città però essi non poterono entrare. La
città era bloccata, e ci riferisce il Corio che i Fiorentini ch'erano
nell'esercito pontificio, il giorno del loro santo protettore san
Giovanni Battista, fecero correre il palio sotto le mura di Milano[32];
sorta d'insulto che talvolta si usava per dimostrare che non si temeva
in verun conto dell'inimico, non credendosi in lui coraggio nemmeno di
uscire per interrompere i giuochi degli assedianti. Talvolta ancora
si usò di contare moneta sotto le mura nemiche, ponendo una preziosa
officina, che non può sottrarsi con celerità, sotto gli occhi de'
nemici, in segno di disprezzo. Tale era la condizione de' Visconti,
che pareva inevitabile la totale loro rovina. Due cose però concorsero
ad impedirla; il valore, l'attività, la condotta militare di Marco
Visconti, e la riunione degli interessi di Lodovico il Bavaro con quei
de' Visconti. Il papa dichiarava vacante l'impero; pretendeva di far
egli frattanto l'ufficio dell'imperatore; creava vicario imperiale
Roberto, re di Napoli. Lodovico di Baviera, che si considerava
imperatore legittimo, non poteva preservare il regno italico e impedire
l'intrusione di questo preteso vicario imperiale, se non soccorrendo
i Visconti; poichè da solo non aveva forze bastanti per tentare
l'impresa. Infatti Lodovico il Bavaro aveva spedito ai Visconti un
corpo di truppe comandate dal conte di Mährenstädten. L'instancabile
papa Giovanni XXII non bilanciò punto a scomunicare Lodovico di
Baviera, incolpandogli fra le altre cose l'aiuto ch'egli aveva dato
ai Visconti. Il Rainaldi, che ne pubblicò la bolla, così ridette:[33]
_Non deerant tamen Ludovico plures rationes; quae ipsius gesta apud
plerosque excusarent. Controversiam de Imperio cum Federico austriaco
jam direptam ferro. Mediolanum vero defensum non ut Galeatio haeretico
studeret, sed ut assereret, sibi Imperii jura, neque a Roberto Siciliae
rege amplissimam Imperii provinciam nunquam forte recuperandam occupari
pateretur. Non his tamen Johannes a meditato consilio revocatus
est_[34]. Lodovico venne così impegnato più che mai a sostenere i
Visconti. L'armata dei Crociati aveva l'interno vizio d'un'armata
combinata di drappelli di varii principi e di varie nazioni; basta il
tempo per indebolirla colle gelosie, le rivalità e i sospetti. (1324)
Nel giorno 28 di febbraio 1324 a Vaprio venne potentemente battuta.
Il generale Raimondo di Cardona fu preso: egli era nipote, siccome
dissi, del cardinal legato; Simone della Torre restò ucciso sul campo;
Enrico di Fiandra se ne fuggì a piedi; molti rimasero sul campo; molti,
fuggendo, s'affogarono nell'Adda; insomma la vittoria fu compita per
i Visconti. Marco Visconti voleva profittare del momento, e marciare
a sloggiare da Monza i crocesignati che vi avevano trovato ricovero.
Ei conosceva che l'opinione decide nella guerra più che la forza
fisica; che le battaglie non si vincono per aver ridotto l'inimico
all'impossibilità di continuare la contesa, ma per lo spavento che gli
si è potuto imprimere; e che, assalendo una armata nel punto in cui
gli uomini sono sgomentati per una rotta, la vittoria è sicura. Così
pensava Marco; ma il primogenito Galeazzo, forse perchè il progetto
era del fratello, non lo volle secondare. I crocesignati in Monza
si premunirono, ripresero animo, si prepararono una difesa contro
di qualunque insulto; e Marco, deridendo Galeazzo, gli diceva poi:
«Fratello, va a Monza che si vuol rendere». Otto mesi di blocco dovette
spendere Galeazzo per averla. Infine poi, dopo di avere sofferti tutti
i mali della fame e della libidine militare, Monza si rese il giorno 10
dicembre 1324; e così Galeazzo vide terminar la Crociata mossa contro
di lui.

Mentre era Monza bloccata e abbandonata in preda alla violenza che
usavano questi avanzi di un'armata collettizia, i canonici di San
Giovanni di quel borgo avevano somma inquietudine che le rapine non
si estendessero sopra del pregevolissimo tesoro della loro chiesa;
il quale allora, siccome dissi, era valutato ventiseimila fiorini
d'oro, oltre il pregio delle cose sacre antiche. Deputarono quindi
quattro canonici del loro ceto, ai quali commisero di pensare a un
sicuro nascondiglio, ed ivi riporlo. Fecero giurar loro un inviolabile
secreto, da non rivelarsi se non in punto di morte. Poichè da essi fu
eseguita la commissione, e il tesoro collocato, non si sapeva dove,
il capitolo obbligò i quattro depositari del secreto a partirsene, e
separatamente frattanto vivere altrove; acciocchè non potesse colle
minacce, e fors'anco colle torture, costringersi alcun d'essi a
parlare, e in potere di que' licenziosi non rimanesse alcun presso
cui fosse il secreto. Pensare non si poteva più cautamente, eppure
Monza perdette il tesoro. Uno de' quattro canonici, che aveva nome
Aichino da Vercelli, stavasene in Piacenza, ove venne a morte, e
palesò il secreto a frate Aicardo, arcivescovo di Milano. Da esso ne
fu bentosto informato il vigilantissimo cardinale legato, Bertrando
del Poggetto; il quale non perdè tempo, e incaricò Emerico, camerlingo
di santa Chiesa, che trovavasi in Monza, di trasmettergli quel tesoro,
siccome eseguì puntualmente, e indi fu trasportato in Avignone, dove
dimorava il papa, d'onde, venti anni dopo, signoreggiando Luchino,
venne restituito l'anno 1344. Io lascerò al chiarissimo signor canonico
teologo don Antonio Francesco Frisi la cura di verificare se la
restituzione siasi fatta senza alcuna perdita. Il valore dell'oro e
delle gemme che oggidì ivi si mostrano, non giunge fors'anco a duemila
fiorini d'oro. Egli, che con varie dissertazioni ba illustrate le
antichità di Monza, ci renderà istrutti esattamente anche di ciò nella
dissertazione che si è proposto di pubblicare sul tesoro di quella
chiesa.

Poichè Galeazzo ebbe Monza in suo potere, e si vide liberato dalla
Crociata, pensò tosto a rendere quei luogo munito in avvenire contro
simili accidenti. Importava molto il non avere alla distanza di sole
dieci miglia da Milano un borgo facilmente prendibile, e nel quale
i nemici, con molto numero d'armati, potessero sostenersi per alcuni
mesi, siccome poco anzi era accaduto. (1325) Per tal motivo Galeazzo I,
l'anno 1325, fabbricò un castello in Monza, di cui vedesi anche oggidì
la torre rovinosa. Il modo col quale fece quel principe fabbricare
quella torre ci prova sempre più quanto poco ei rassomigliasse al buon
Matteo suo padre. Veggonsi anche al dì d'oggi le prigioni orrende,
destinate a far soffrire l'umanità, calandovi gli uomini come entro
un sepolcro per un buco della vôlta; ove discesi posavano sopra di un
pavimento convesso e scabroso, tanto vicino alla vôlta da non potervisi
reggere in piedi. Così egli aveva immaginato il modo di aggiugnere
all'angustia, alla privazione della libertà, al timore dell'avvenire,
al maligno alimento del cibo e dell'aria, anche il tormento di far
succedere una positura dolorosa ad un'altra dolorosa. Galeazzo I questa
unica memoria ci lasciò come sovrano, poichè la signoria di lui fu
breve, e la cagione la troviamo nella domestica discordia. Marco, che
col suo valore aveva conservato e difeso lo Stato, non poteva soffrire
il fasto di Galeazzo I, a cui il padre aveva lasciata la signoria. La
distanza che passa fra un sovrano ed un suddito, rendeva insopportabile
a Marco la sua condizione. I principi cadetti delle due case sovrane,
sono educati sin dalle fasce a venerare nel primogenito il venturo
signore: ma a ciò non era disposto dall'educazione l'animo di Marco.
La dominazione di Matteo Visconti, loro padre, fu tanto eventuale,
precaria ed incerta, che nessun uomo, per illuminato ch'ei fosse,
avrebbe potuto con ragione antivedere s'egli avrebbe finito come
privato, siccome nacque, ovvero qual principe, siccome avvenne. Perciò
la disparità fra i fratelli sopragiunse come un avvenimento impensato,
il quale doveva eccitare la vampa delle passioni nei cadetti. Giovanni
era di carattere mite, e la condizione sua d'ecclesiastico moderava
l'invidia. Luchino aveva egli pure la prudenza di accomodarsi ai tempi.
Stefano aveva moglie e figli. Marco era quello che più si mostrava
intollerante. Egli s'era fatto conoscere e stimare dagli stipendiati
tedeschi, spediti da Lodovico il Bavaro, onde non gli fu cosa difficile
l'indurre quell'eletto imperatore a venire nell'Italia, per celebrare
le incoronazioni a Milano ed a Roma. Si pretende ch'egli trovasse il
modo d'irritare l'animo di quell'augusto contro de' suoi fratelli,
e contro di Galeazzo I singolarmente, supponendogli dei maneggi col
papa Giovanni XXII, dal quale, siccome ho detto, Lodovico era stato
maltrattato. (1327) Quello che sappiamo di certo si è che, nel giorno
17 di maggio dell'anno 1327, Lodovico il Bavaro entrò solennemente
in Milano, accompagnato da quattromila cavalli. Egli e la regina
Margherita, sua moglie, stavano sotto di un baldacchino. Andarono a
prendere alloggio nel palazzo del Broletto vecchio, cioè dove oggidì
trovasi la corte; e il giorno ultimo di maggio Lodovico fu incoronato
in Sant'Ambrogio. Il giorno 5 di luglio, per ordine del nuovo re
d'Italia, vennero arrestati Galeazzo, Luchino e Giovanni. Azzone,
figlio di Galeazzo, ebbe la medesima sventura. Stefano Visconti, morì
improvvisamente nella notte precedente. Gli arrestati vennero collocati
nelle nuove carceri della torre di Monza, ove Galeazzo fu il primo a
far prova dell'architettura che aveva così malamente raffinata. Il re
ebbe dalla città il dono di cinquantamila fiorini d'oro, e partì da
Milano alla volta di Roma il giorno 5 d'agosto, avendo nel suo séguito
Marco Visconti. Questa serie di fatti, e quello che accadde dappoi, ci
rendono verosimile l'opinione che Marco avesse parte della sciagura
de' fratelli. Galeazzo lo credeva; e andava dicendo: «Marco ferisce
sè medesimo;» e ciò risaputosi da Marco, in contraccambio diceva:
«Galeazzo vuol esser solo, e solo si regga.» Sperava forse Marco di
ottenere dal nuovo augusto la signoria di Milano; ma anche allora si
dovette conoscere che nelle altercazioni domestiche è facile il recare
danno ad altri; ma difficilissimo il trarne bene per noi. Lodovico
formò un consiglio di ventiquattro cittadini, e vi pose a presedere
suo luogotenente il conte Guglielmo Monforte. Così diede nuova forma al
governo della città; mentre i tre fratelli ed un nipote giacevano nello
squallore della torre di Monza, e Marco, confuso, negletto, e forse
disprezzato, languiva nella folla de' cortigiani che accompagnavano
Lodovico a Roma. L'annientamento della sua famiglia di riverbero aveva
abbassato Marco Visconti, il quale, non avendo più speranza alcuna di
rialzarsi col favore di Lodovico, si rivolse a Castruccio Antelminelli,
signore di Lucca, uomo potente e celebre nella storia di que' tempi, ed
Amico de' Visconti; e col di lui mezzo ottenne dall'imperatore, debole
e bisognoso di soccorso, la liberazione dei suoi congiunti, i quali
erano in Monza custoditi da truppe bavaresi. Marco tentò poi di avere
una sovranità sulla città di Pisa, ma gli andò il colpo a vuoto. Egli
ritornossene a Milano, sempre impetuoso ed impaziente di non vedervisi
sovrano; sintanto che, il giorno 8 di settembre dell'anno 1329, cadde
da una delle finestre della corte ducale, alcuni dicono dopo di aver
sofferta una morte violenta, e l'Azario dice:[35] _de cujus morte
certum ignoratur_[36].

Si cerca come siasi fatta l'incoronazione di Lodovico in Milano,
poichè trattavasi di consacrare uno scomunicato in una città posta
all'interdetto. L'arcivescovo Aicardo era assente; e, come aderente
al papa Giovanni XXII, non avrebbe mai osato di venire a Milano nel
tempo in cui vi si trovava il re de' Romani Lodovico. Bonincontro
Morigia, autore che allora vivea, ci dice[37], che Lodovico creò
arcivescovo di Milano Guido Tarlati, vescovo di Arezzo, e che questi
lo incoronò, assistendovi alcuni pochi vescovi, cioè Federico Maggi,
vescovo di Brescia, Arrigo, vescovo di Trento e alcuni altri ben pochi,
essendosi ritirati gli altri vescovi, per non concorrere a incoronare e
riconoscere un principe che dal papa era scomunicato e non riconosciuto
imperatore. Il Muratori non credette che Guido Tarlati facesse le
funzioni d'arcivescovo[38]. Il conte Giulini è dell'opinione del
Muratori. L'autorità di questi due eruditi uomini è presso me di gran
peso; ma nè l'uno nè l'altro dicono la ragione del loro dissenso. Il
Muratori s'accontenta d'asserire che Bonincontro Morigia[39] _a vero
longe abest_; il conte Giulini s'appoggia all'aulorità del Muratori.
Io ingenuamente confesso che le asserzioni loro non mi persuadono
abbastanza, per abbandonare il testimonio d'un autore contemporaneo;
tanto più che, essendo sempre stato lontano della sua sede frate
Aicardo, e dovendosi la consacrazione in Milano fare dall'arcivescovo,
niente vi trovo d'incredibile se Lodovico, che aveva in Trento
deposto il papa come eretico, e che in Roma ne fece creare un nuovo,
altrettanto facesse in Milano creando un arcivescovo; sebbene in
séguito quel posticcio metropolitano non abbia più nemmeno preteso di
conservarsene il titolo.

Della improvvisa morte di Stefano Visconti (dal quale discesero
Barnabò, Galeazzo II e i tre duchi Visconti, siccome vedremo) varie
sono le opinioni degli autori; alcuni attribuendola a veleno, altri
ad eccesso di vino; tutti però sono d'accordo nel riconoscerla
improvvisa[40]. Il mausoleo di Stefano vedesi nella Chiesa di
sant'Eustorgio, nella cappella di san Tommaso d'Aquino; lavoro il
quale probabilmente si fece verso la metà del secolo decimoquarto.
Poichè allora, oltre l'incertezza nella quale trovavasi la signoria
de' Visconti, anche l'interdetto avrà impedito questi onori funebri;
molto più a Stefano Visconti, scomunicato, perchè figlio di Matteo,
quantunque egli non abbia mai avuto parte nel governo dello Stato
e nelle dispute col papa. Quel mausoleo merita d'esser osservato,
per avere idea della magnificenza de' Visconti in que' tempi; e in
quella chiesa medesima merita più d'ogni altra cosa osservazione il
nobilissimo deposito di marmo cui stanno le reliquie di san Pietro
martire; opera che è delle prime e delle più antiche per servire
d'epoca al risorgimento delle arti, e da cui si può conoscere quanto
fossero già onorate e risorte verso la metà del suddetto secolo
decimoquarto. Le figure e i bassorilievi sono di un'artista pisano, che
travagliò con una maestria e grazia affatto insolita a' suoi tempi.

Galeazzo I fu liberato dal _forno_ (che tal nome aveva l'orrido
suo carcere di Monza) il giorno 25 di marzo 1328. Furono parimenti
resi liberi Luchino, Giovanni ed Azzone. Egli per più di otto mesi
aveva dovuto soffrire que' mali istessi che aveva immaginati per gli
altri. S'incamminò nella Toscana per ricoverarsi presso dell'amico e
benefattore Castruccio; ma nella prigionia aveva tanto sofferto, che in
Pescia, nel contado di Luca, morì il giorno 6 d'agosto dell'anno 1328,
all'età d'anni cinquantuno. Cinque anni durò la combattuta signoria di
Galeazzo I; giacchè, dopo il principio di luglio del 1327, da che fu
posto in carcere, nulla gli rimase più che fare nel governo. Il Corio
ce lo descrive di statura mediocre, di bella carnagione, di faccia
rotonda, e robusto della persona; ei lo qualifica liberale, magnifico
coraggioso, prudente, e parco nel parlare, ma eloquente e colto nel
poco che diceva. Il Corio sarebbe un cattivo giudice del colto ed
eloquente modo di parlare. Galeazzo fece perdere lo Stato alla sua casa
colla sua imprudente condotta vivendo suo padre. Perdette Piacenza
per avere imprudentemente tentata la signora Bianchina Landi. Lasciò
per più mesi in preda al saccheggio militare Monza, che avrebbe potuta
liberare al momento, ascoltando un opportuno parere; tutto ciò dimostra
che prudente era ben poco. Il carcere di Monza non lascia luogo a
crederlo sensibile ed umano. Non sappiamo che egli abbia commesse
crudeltà; ma nemmeno ebbe egli mai sicurezza bastante per commetterne;
e forse per la sua gloria è un bene ch'ei non abbia mai posseduto
senza contrasto il sommo potere; onde dobbiamo collocarlo nella classe
numerosa ed oscura de' principi di nessuna fama. Ei venne tumulato
in Lucca, ove il suo amico Castruccio ne fece celebrare la pompa con
magnificenza.

Lodovico il Bavaro, entrato che fu in Roma, intese come nuovamente
papa Giovanni XXII dalla Francia l'avesse scomunicato e dichiarato
illegittimo cesare[41]. Quindi, vedendo anche il popolo di Roma
assai malcontento del papa, che stavasene in Avignone, sentenziò
che il papa Giovanni (ch'ei non altrimenti nominava se non col suo
primo nome, cioè Giacomo da Euse, e come altri dicono, d'Ossa) come
scismatico, profano ed eretico, era cassato, rifiutato; e che non
più alcuno dovesse riconoscerlo per pontefice. Poscia, il giorno 12
maggio 1328, radunatisi in San Pietro il clero e i capi di Roma, venne
proclamato papa frate Pietro di Corvaria, che prese il nome di Nicolò
V, e il popolo lo riconobbe come vero papa. Frate Nicolò da Fabriano
allora recitò una solenne orazione, di cui il tema fu questo:[42]
_Reversus Petrus ad se dixit: venit Angelus Domini et liberavit nos
de manu Herodis, et de omnibus factionibus Judaeorum._ Questo Pietro
di Corvaria era francescano, e i Francescani accusavano il papa
XXII di avere delle opinioni sulla visione beatifica; il che anche
venivagli rimproverato dai teologi di Parigi, censurando tre omelie
da lui pubblicate. Il papa prima di morire ritrattò quelle sue private
opinioni. Di Pietro di Corvaria ne scrivono bene alcuni, qualificandolo
buono, pio e quasi contro sua voglia diventato antipapa[43]. Egli
terminò poi i suoi giorni in Avignone in carcere, dopo di aver chiesto
perdono a Giovanni papa. Ciò avvenne perchè Lodovico ogni giorno di
più s'andava indebolendo; e la ragione era la medesima per cui la
maggior parte de' re de' Romani dalla Germania entrarono fortissimi
nell'Italia, e videro tutto da principio piegarsi; indi poco a poco
svanirono le forze loro. Nelle diete de' principi di Germania molte
volte si pensò a far cadere la dignità cesarea sopra di un principe
che non avesse forze da opprimere. Eletto che egli era, secondo le
leggi dell'Impero, ciascun sovrano della Germania era obbligato a
scortare il nuovo augusto alla spedizione romana colle sue armi.
Quindi il nuovo eletto scendeva le Alpi comandando una rispettabile
armata, e si trovava arbitro dell'Italia. S'innoltrava a Roma. L'armata
cominciava a soffrire un clima infuocato. Le malattie, il tedio della
spedizione, l'amore della patria, la mancanza de' viveri facevano che,
un dopo l'altro, i principi prendessero congedo dal nuovo augusto,
più sollecito degli Stati propri e de' propri sudditi, che d'altro
pensiero. E quindi vediamo molti Cesari costretti a ricorrere ai
maneggi, ai partiti, alle brighe per protrarre la loro dominazione
e soggiornare più a lungo nell'Italia. Così dovette fare Lodovico,
forzato, per non inimicarsi Castruccio, ad accordare la libertà ai
Visconti; laonde (1320), per ottenere sessantamila fiorini d'oro,
che gli erano necessari per pagare lo stipendio alle truppe tedesche
che gli rimanevano, dovette vendere ad Azzone Visconti il vicariato
imperiale; il che avvenne il giorno 15 di gennaio dell'anno 1329.
Indi il falso papa Niccolò V creò cardinale della santa romana chiesa
Giovanni Visconti, zio di Azzone, e lo costituì legato apostolico nella
Lombardia, invece di Bertrando del Poggetto. Quasi tutto il clero e
popolo di Milano si gettò dal partito di papa Niccolò; e molti frati,
francescani singolarmente, declamando nelle prediche, annunziavano
al popolo che Giovanni, ossia Giacomo da Euse, non era altrimenti
pontefice, ma era anzi un eretico, uno scomunicato, un pessimo omicida;
e che il solo vero e legittimo papa era il saggio, il pio, il virtuoso
Niccolò V. Queste grida potevano sedurre la moltitudine, e piaceva
ai Visconti che ella così fosse persuasa; ma gli uomini un poco
informati non potevano dubitare che il legittimo papa era Giovanni XXII
canonicamente eletto e riconosciuto, vivo e sano, focoso e imprudente
bensì, ma non mai eretico, nè legittimamente deposto. L'affare però era
serio per papa Giovanni, e tale ch'ei facilmente perdeva ogni influenza
sull'Italia, se non piegava a tempo siccome fece, riconciliandosi coi
Visconti, e liberando finalmente i Milanesi dagl'interdetti che da
otto anni erano stati pronunziati. La data del breve è del giorno 15
settembre 1329, in Avignone[44]: e il mediatore dì questa pace fu il
marchese d'Este. L'imperatore Lodovico fremeva contro Azzone. Venne
colle sue armi sotto Milano; ma egli era troppo indebolito, e nulla
potè occupare. Il Fiamma ci ha trasmesso la cantilena che i Milanesi
dalle mura ripetevano:[45] _die et nocte clamabant in vituperium
Bavari: O Gabrione, ebrione, bibe, bibe, hò, hò, Babii Babo_[46].
Cosa volessero significare quelle voci ultime, e quel _Gabrione_ non
lo sappiamo. Egli è certo che non si parlava latino, anzi da più di
cinquantanni s'era cominciato anche a scrivere volgare italiano, e
probabilmente il Fiamma ha guastato il senso traducendolo nel suo
barbaro latino. In quell'occasione è probabile che, uscendo i Milanesi
dalla porta Ticinese, abbiano battuti gl'Imperiali; poichè le monache,
le quali sino a quel tempo si chiamavano _le signore bianche sotto il
muro_, cambiarono dappoi il nome, e si chiamarono _Della Vittoria_,
denominazione che attualmente ancora conservano.

Azzone Visconti, unico figlio di Galeazzo I e di Beatrice d'Este, era
diventato, siccome dissi, vicario imperiale, al prezzo di sessantamila
fiorini d'oro. Ma poichè egli fu rappacificato col sommo pontefice
(da cui non era conosciuto Lodovico per imperatore), il titolo di
vicario eragli di nessun uso; perchè dato da chi non poteva più
considerarsi da Azzone come munito della facoltà di concederlo. Perciò
egli ottenne la signoria di Milano dal consiglio generale della città,
il giorno 14 marzo 1330; e così si ritrovò sovrano e principe senza
contrasto alcuno. Azzone veramente meritava d'essere il primo della
sua patria; e già mentre signoreggiava Galeazzo I, di lui padre, s'era
guadagnato un nome distinto nella milizia, avendo egli acquistato
borgo San Donnino[47], aiutato il Bonacossi a battere i Bolognesi, ed
assistito Castruccio Antelminelli a battere i Fiorentini. Azzone in
quest'incontro non dimenticò di far correre il palio sotto le mura di
Firenze, per bilanciare il trattamento che i crocesegnati fiorentini
avevano fatto, due anni prima, ai Milanesi. Allora fu che egli acquistò
la stima e l'amicizia di Castruccio; il che poi fu cagione per cui egli
e il padre e gli zii riacquistarono, siccome dissi, la libertà.

Appena si trovò Azzone alla testa d'uno Stato tranquillo, ch'ei pensò
a circondare di mura la città. Le antiche di Massimiano Erculeo, cioè
quelle che sono parallele al sotterraneo condotto delle acque e delle
chiaviche, erano state demolite al tempo di Federico I. Le mura di
Azzone si fabbricarono al luogo medesimo in cui si formò il terrapieno,
ossia il _fossato_, nell'assedio di Barbarossa, e s'innalzarono nelle
parti della città che ancora oggidì chiamansi _Terraggio_, con vocabolo
che nasce dalla barbara latinità, per indicare un terrapieno, ossia un
rialzamento di terra e di legna, ad oggetto di preservare i cittadini
dalle incursioni e dagl'insulti dei nemici. Celebrò Azzone le sue nozze
con Caterina di Savoia, figlia del conte Lodovico, e magnificamente le
celebrò. Azzone stese la signoria sopra Bergamo, Vercelli, Vigevano,
Treviglio, Pizzighettone, Pavia, Cremona e Borgo San Donnino; e ciò nei
primi due anni del suo principato. Indi diventò signore di Como; prese
Lecco; fabbricò il bel ponte sull'Adda, che anche oggidì vi si ammira;
s'impadronì di Lodi e Crema. A lui premeva anche Piacenza, ma ella
era posseduta dal papa, col quale non conveniva di urtare. Francesco
Scotti ambiva d'avere Piacenza, ed Azzone non lo stornò dall'impresa.
L'ebbe Francesco; e allora il Visconti si pose in campo, la tolse
all'usurpatore del dominio pontificio; e così, colla rispettosa
apparenza di vendicare la Santa Sede, riacquistò Piacenza, che Galeazzo
I, suo padre, aveva imprudentemente perduta. Azzone ebbe pure Brescia
in dominio; e mentre così andava dilatando lo Stato, più per dedizione
e per accordi, che per violenza delle armi, egli introduceva nella
città una pulizia ed un ordine sconosciuto nei tempi rozzi precedenti.
Abbellì egli le strade, e sbratolle dalle sozzure; all'acque di
pioggia, che prima le allagavano, diè sfogo con opportuno scolo
nelle cloache; dettò provvide e moderate leggi per la conservazione
dell'ordine civile: tutto insomma fu rianimato dalla cura indefessa di
quel buon principe.

La gloria e la felicità di Azzone erano un tormento atroce nell'animo
di Lodovico, ossia Lodrisio Visconti, cugino in quarto grado del
principe. Lodrisio era buon soldato; pareva che fosse trasfusa in
lui l'anima orgogliosa e forte di Marco. Già vedemmo come Lodrisio
fosse celato in sua casa da Matteo, nel giorno in cui scoppiò la
sollevazione contro del re Enrico. Veduto pure abbiamo come Matteo
gli avesse dato il comando di Bergamo. Morto che fu Matteo, nessun
caso più si faceva di Lodrisio. Lo Scaligero, signore di Verona,
aveva licenziata una di quelle compagnie militari che prendevano in
quei tempi servizio indifferentemente; e che pronte erano ad uccidere
e devastare dovunque, in favore di chi voleva più pagarle. Lodrisio
assoldò questa truppa, per tentare il colpo di scacciare il cugino,
e collocarsi sul trono. Entrò nel milanese e fece guasto largamente;
e coll'improvvisa intrusione, sbigottì e sorprese. Ma Lodrisio aveva
preso a combattere contro di un principe che era buon soldato e che era
amatissimo da tutti i sudditi. Nobili, popolari, tutti a gara corsero
intorno di Azzone; cercando quanti erano capaci di portare armi, di
combattere volontari per lui. Lodrisio si era attendato a Parabiago, e
la sua armata era composta di duemila e cinquecento militi, ciascuno
de' quali aveva due altri combattenti a cavallo di suo séguito; in
tutto settemila e cinquecento cavalli. Aveva di più un buon numero di
fanti e di balestrieri; il che formava un corpo d'armata poderosa per
quei tempi: uomini tutti veterani e di somma bravura nel mestiero delle
armi. L'armata d'Azzone andò a raggiungere l'inimico, e talmente lo
distrusse, che la giornata 21 febbraio 1339 è notata ancora ai tempi
nostri nei calendari del paese, e se ne celebra la commemorazione.
Dopo lunghissimo conflitto, in cui Luchino Visconti rimase ferito,
più di tremila uomini e settecento cavalli restaron morti sul campo;
duemila e cento cavalli furono presi; e fra i combattenti ben pochi
furono quei che restarono illesi e senza ferita. Tanto ostinata fu la
battaglia in cui, per colmo della vittoria, Lodrisio istesso rimase
prigioniero d'Azzone! Federico I poneva i prigionieri sulla torre
contro Crema, gli faceva impiccare, o per clemenza, loro faceva cavar
gli occhi. Federico II li conduceva nudi, legati a un palo, in trionfo,
poi, trasportandoli nel regno di Napoli, li consegnava al carnefice.
Azzone non incrudelì contro alcuno de' prigionieri; e Lodrisio istesso,
che pure meritava la morte come un suddito ribelle, fu umanamente
trasportato prigioniero a San Colombano. Questa battaglia famosa di
Parabiago viene riferita da due nostri cronisti che allora vivevano;
da Galvaneo Fiamma e da Bonincontro Morigia; i quali, per rendere più
maraviglioso il loro racconto, asserirono d'essersi veduto da molti
sant'Ambrogio che stara in alto, e con una sferza nelle mani andava
combattendo per Azzone Visconti. La chiesa milanese però non adottò
tal visione, e unicamente attribuì alla protezione del santo l'esito
fortunato della vittoria[48]; anzi ora più nemmeno se ne celebra la
messa. Al luogo della battaglia presso Parabiago s'innalzò una chiesa
dedicata a sant'Ambrogio; la quale nel secolo passato fu distrutta,
per edificare la più grandiosa che oggidì vi si osserva. Tutte le
immagini di sant'Ambrogio che hanno la destra armata d'uno staffile,
sono posteriori all'anno 1339, ossia all'epoca della battaglia
di Parabiago. Si cominciò, sulla tradizione di questa visione, a
rappresentare il saggio, prudente e mansuetissimo nostro pastore con
volto furibondo, in atto di sferzare; e si è portata l'indecenza al
segno di rappresentarlo sopra di un cavallo, a corsa sfrenata, colla
mitra e piviale, e la mano armata di flagello in atto di fugare un
esercito, e schiacciare co' piedi del cavallo i soldati caduti a terra.
Il volgo poi favoleggiò e crede tuttavia che ciò significhi la guerra
di sant'Ambrogio cogli Ariani; coi quali il santo pastore non adoperò
mai altre armi che la tolleranza, la carità, l'esempio e le preghiere.
Sarebbe cosa degna de' lumi di questo secolo, se nelle nuove immagini
ritornassimo ad imitare le antiche; togliendo la ferocia colla quale
calunniamo il pio pastore. Nelle monete milanesi da me vedute, le prime
che portano quest'iracondia da pedagogo, sono posteriori di quindici
anni alla battaglia; e le mie di Azzone, di Luchino e di Giovanni hanno
sant'Ambrogio in atto di benedire. Il conte Giulini ne riferisce una
di Luchino collo staffile, ch'ei dice tratta dal museo di Brera[49]:
ora non credo che vi si trovi quella moneta; almeno nel museo di Brera
a me non è accaduto di riscontrarla. Come mai questo fatto d'armi si
rendesse tanto celebre, e come nei giorni fausti siasi tanto distinto
il 21 febbraio, e nessuna menzione trovisi fatta del giorno, ben più
memorando, 29 di maggio, in cui l'anno 1176 venne totalmente battuto
Federico I dai Milanesi; potrebbe essere il soggetto d'un discorso. Nel
primo caso un ribelle che non aveva sovranità o Stati, fu sconfitto da
un principe che dominava dieci città; nel secondo una povera città, che
aveva sofferto i mali estremi, sconfisse un potentissimo imperatore che
avea fatto tremare la Germania, l'Italia e la Polonia. Nel primo caso
si combatte per ubbidire più ad Azzone che a Lodrisio; nel secondo si
combattè per esser liberi, o per essere schiavi. Pare certamente che
meritasse celebrità assai maggiore la giornata 29 di maggio. Ma la
fortuna ha molta parte nel distribuire la celebrità. Ê vero che una
nascente repubblica nel secolo duodecimo non aveva nè l'ambizione nè
i mezzi che poteva avere un gran principe nel secolo decimoquarto, per
tramandare ai posteri un'epoca gloriosa.

Le dieci città sulle quali dominava Azzone Visconti erano Milano,
Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo, Brescia, Vigevano, Vercelli e
Piacenza. Oltre le fabbriche pubbliche, delle mura, de' ponti, delle
strade, questo principe rifabbricò ed ornò, in modo maraviglioso per
que' tempi, il palazzo già innalzato dal di lui avo Matteo I, dove
ora sta la regia ducal corte. Il Fiamma, autore allora vivente, ce
ne dà una magnifica idea. V'era un gran numero di sale e di stanze,
tutte fregiate di assai pregevoli pitture. Il gran salone era sopra
tutto ammirato per le pitture eccellenti; il fondo era d'un bellissimo
azzurro; e le figure e l'architettura erano d'oro. Quel salone
rappresentava il tempio della Gloria, cd è strana la riunione degli
eroi che vi si vedevano dipinti; Ettore ed Attila; Carlomagno ed
Enea; Ercole ed Azzone Visconti. La storia era poco conosciuta in quei
tempi, e le idee della gloria e dell'eroismo non erano chiare. Queste
pitture erano opera del famoso Giotto, che diede vita alla pittura,
giacente da mille anni; e il Vasari ci attesta ch'ei da Firenze venne
a Milano[50], e vi lasciò bellissime opere[51]. È anche probabile che
vi lavorasse Andrino da Edesia, pavese, uno de' più antichi ristoratori
della pittura che viveva in quel secolo[52]. Nè la sola pittura
era premiata e promossa da questo buon principe, tanto più degno di
stima, quanto che allora appena spuntava l'aurora delle belle arti.
Egli invitò e protesse Giovanni Balducci, pisano, esimio scultore per
quei tempi, di cui si può conoscere il valore nell'arca di marmo di
San Pietro martire, poco fa da me ricordata[53]. Col mezzo di questi
artisti, i primi del loro tempo, Azzone abbellì la sua corte, e insegnò
ai nobili un genere di lusso colto ed utilissimo ai progressi delle
belle arti. La torre di San Gottardo è il solo avanzo che ci rimane per
avere un'idea del gusto dell'architettura di Azzone; ed è un pregevole
monumento, singolarmente perchè erano i primi passi che si facevano
dalla somma barbarie al nobile ed elegante modo di fabbricare. Anche
un altro motivo rende quella torre degna d'osservazione; ed è che ivi
Azzone fece collocare un orologio che batteva le ore: macchina allora
affatto nuova e sorprendente, dalla quale prese nome la via delle ore,
come anche in oggi viene chiamata. Anticamente eranvi le guardie per
le strade, le quali colle clepsidre, ovvero cogli oriuoli a polvere,
misurando il tempo, ad ogni ora gridavano, avvisando i cittadini come
ancora si suole nella Germania. Questa macchina ingegnosa, che batte
tanti colpi sulla campana quante sono le ore, fu inventata da un monaco
benedettino, inglese, per nome Wallingford, e posta ad uso pubblico in
Londra l'anno 1325. Ma probabilmente allorchè Azzone la collocò sulla
sua torre, ancora non ve n'era alcuna nell'Italia; poichè il famoso
orologio che fece porre in Padova Giovanni Dondi, per cui la famiglia
acquistò il sopranome Dondi Orologio, vi fu collocato cinque anni dopo
morto Azzone, cioè l'anno 1344; e l'orologio in Bologna si conobbe
dopo che era celebre quello di Padova. Così Azzone aveva rivolto
il lusso e la magnificenza verso gli oggetti che tutti animavano il
paese a illuminarsi, a risorgere, ed avanzarsi al buon gusto ed alla
perfezione. Egli amava le curiosità, e aveva nella corte i serragli
di fiere. Leoni, scimmie, babbuini, struzzi, ec., oggetti tanto allora
più rari, quanto meno in quei tempi era la fratellanza e la sicurezza
tra nazione e nazione. Aveva delle vaste uccelliere, coperte di rame,
come si fa ancora presentemente, e queste popolate da uccelli rari e
di paesi lontani. In mezzo al cortile v'era una magnifica peschiera,
entro della quale dalle fauci di quattro leoni, scolpiti in marmo
con nobile lavoro, sgorgava l'acqua limpidissima ed abbondante; e
quest'acqua, la quale presentemente passa coperta sotto della regia
ducal corte, l'aveva Azzone raccolta da due sorgenti ritrovate fuori di
porta Comasina, nel luogo detto alla Fontana, e per canali sotterranei
l'aveva condotta sino al suo palazzo. S'ingannano coloro che confondono
quest'acquedotto col _Seveso_, colla _Cantarana_ o col _Nirone_. Non
so se presentemente potrebbe quell'acqua sgorgare, come prima, entro di
una peschiera; poichè il suolo, colle ripetute demolizioni e fabbriche
accadute in quel palazzo, si è notabilmente innalzato, come si vide
l'anno 1779, allorquando si abbassò la strada che divide il Duomo
dalla Corte, la quale si era alzata più di tre braccia da che venne
fabbricato il Duomo. Il Fiamma ci racconta che in quella peschiera vi
stavano diversi uccelli acquatici, e che eravi in piccolo formato, da
un canto, il porto di Cartagine, con figurine rappresentanti la guerra
Punica. Ciò basta per dare una idea del gusto di quel buon principe,
il quale terminò i suoi giorni il 16 di agosto dell'anno 1339, senza
lasciare figli. Undici anni soli regnò quell'amabile signore, che
gli autori contemporanei, tutti concordemente ci descrivono di bella
figura, di nobile aspetto, grazioso, buono, giusto, e adorato da'
suoi popoli; che rimasero inconsolabili, dovendo perdere un tanto caro
protettore della patria, nell'età ancor fresca di trentasette anni. Più
di tremila persone vestirono il lutto alla di lui morte. La figura di
questo amato principe si vede nel di lui mausoleo, che trovasi presso
del signor conte Carlo Anguissola, nobilissimo amatore delle belle
arti e dell'antichità della patria. Azzone fu il primo che veramente
fosse sovrano; e laddove nessuno dei Torriani, nè Ottone Visconti,
nè Matteo I, nè Galeazzo I ardirono mai di porre il loro nome nella
moneta; la quale anzi sempre fu coniata o col nome solo di Milano
e di sant'Ambrogio, ovvero coll'aggiunta del nome del re de' Romani
o dell'Imperatore; Azzone pose il suo nome e la biscia nelle monete
milanesi. E in ciò è degna d'osservazione la gradazione tenuta; avendo
io delle monete milanesi di Lodovico il Bavaro coniate sul modello di
quelle di Enrico di Lucemburgo; indi una di Lodovico, la quale ha nel
campo unicamente le due lettere A Z. Fu questo il primo tentativo di
Azzone, in seguito a cui, trascurò poi interamente il nome imperiale, e
sostituì il proprio, apponendovi lo stemma del suo casato.



CAPITOLO XII.

  _Di Luchino, di Giovanni arcivescovo, e dello stato della città
  sino verso la metà del secolo XIV._


Il consiglio generale di Milano, nel giorno 17 agosto 1339, cioè
nel giorno immediatamente dopo la morte di Azzone, che non lasciò
figliuolanza, proclamò signori di Milano Luchino e Giovanni Visconti,
zii paterni di Azzone, e i soli figli ancora viventi di Matteo I.
Sebbene però a tutti due i fratelli fosse data la sovranità, e che
gli atti pubblici per la maggior parte fossero in nome di entrambi,
realmente però Luchino da solo disponeva d'ogni cosa. Giovanni era di
placido e benigno carattere, e non volle mai contrastare col risoluto e
qualche volta violento Luchino, il quale sapeva ben regolare lo Stato.
I fatti mostrarono poi, quando Giovanni rimase a regnar solo, che nel
partito da lui preso nessuna parte vi ebbero la debolezza o i vizi
dell'animo; ma fu guidato dalla sola ragione e dalla virtù. Alle dieci
città che lasciò Azzone, aggiunse Luchino Asti, Bobbio, Parma, Crema,
Tortona, Novara ed Alessandria; e così divenne signore di diciasette
città, la maggior parte sottomesse colle armi; il che gli rese nemici
il conte di Savoia, il marchese di Monferrato, i signori Gonzaghi, i
Genovesi ed altri Stati d'Italia, sbigottiti dalla forza preponderante
collocata in così breve spazio di tempo nella casa Visconti; poichè
ne' primi tre anni del suo governo Luchino estese a tale ampiezza lo
Stato. Oltre al dominio del marchese d'Este, cui Luchino aveva mosso
guerra, le di lui armi eransi innoltrate fino a Pisa, e costrinsero
i Pisani a chiedere pace, pagando a Luchino centomila fiorini
d'oro, ed obbligandosi a presentargli ogni anno un palafreno con due
falconi in segno d'omaggio[54]: ecco ciò che questo principe fece per
l'ingrandimento del suo Stato. Molto fece egli ancora per mantenere e
introdurre l'ordine sociale nel suo dominio. (1348) Ei preservò Milano
dalla peste l'anno 1348. Egli non volle proteggere veruna fazione; e
Guelfi e Ghibellini indistintamente erano difesi dalle stesse leggi,
e ritrovavano egualmente giustizia. Le strade poi, che per l'addietro
erano infestate da' ladri, divennero sicurissime; per ottener la qual
cosa Luchino si appigliò ad un partito singolare. Prese egli al suo
stipendio i masnadieri medesimi che vivevano in prima saccheggiando
i passaggieri, e da costoro le fece custodire, il che mirabilmente
si ottenne. Oltre i masnadieri, erano saccheggiati i viandanti da
cento angherie che loro imponevano i feudatari nelle giurisdizioni
de' quali conveniva loro di passare; il che sembra una prova di più
delle antiche prepotenze de' nobili sopra de' popolari, delle quali
si è superiormente trattato. Luchino promulgò provvide leggi, che
ebbero per oggetto di preservare i poveri dall'oppressione, sollevare
il popolo dai carichi, assoggettarvi i ricchi, e togliere ai nobili
ogni mezzo d'esercitare impunemente estorsioni e violenze. La politica
di Luchino dispensò la plebe dall'obbligo di servire nelle guerre;
e, coll'apparenza d'un pietoso beneficio, allontanò così il popolo
dal maneggio dell'armi, e piantò l'ordine e la sicurezza pubblica
sotto di un'assoluta monarchia. Vegliava egli sulla esecuzione di
tai regolamenti, ed era severamente punita la prepotenza di chiunque.
Stabilì in Milano un supremo giudice che si nominò _sgravatore_, e nel
latino di quella età _exgravator_: magistrato che si rese celebre in
quei tempi per l'autorità, non meno che pel buon uso a cui l'impiegava.
Questo sgravatore doveva sempre essere un forestiere, e non doveva
avere nè moglie, nè figli, nè parenti in Milano. Anzi si portava la
diffidenza al segno, che non era mai permesso allo sgravatore di andare
a cibarsi in casa di alcuno, ma doveva sempre starsene solo in casa
propria. Il ministero dello sgravatore era di decidere sommariamente
e senza appellazione le querele di coloro che si credessero
indebitamente gravati da qualunque altro giudice, e invigilare sulla
retta amministrazione della giustizia. Il sistema delle strade nel
circondario delle dieci miglia dalla città, che continuò sino ai
giorni nostri, era d'istituzione di Luchino. In conseguenza di tali
regolamenti, col favore della sicurezza pubblica, s'introdusse il
commercio e l'industria. S'incominciarono a piantare a quei tempi in
Milano alcune fabbriche d'oro e di seta[55]. L'agricoltura si rianimò,
e se ne cominciarono a conoscere i raffinamenti. Si perfezionò la
coltura della vite, e si principiò a preparare un vino più delicato,
che chiamavasi _vernaccia_. S'introdussero razze di cavalli e di cani.
La popolazione s'andava accrescendo. I costumi s'ingentilivano; e il
Fiamma, deplorando, con poco giudizio, questi cambiamenti, rimproverava
ai Milanesi dei suoi giorni l'eleganza del vestire, la pompa degli
ornamenti, la squisitezza delle mense e lo studio delle lingue
forestiere: studio il quale fa conoscere che il commercio era già
dilatato in paesi oltramontani.

Sin qui ho rappresentato in compendio le buone qualità di Luchino, ora
l'imparzialità storica mi obbliga a dirne ancora i vizi. Francesco
Pusterla, nobile ed onorato cittadino non solo, ma uno dei più
amabili, più ricchi e più splendidi signori di Milano, aveva in
moglie la signora Margherita Visconti, parente del sovrano, donna
di esimia grazia e bellezza. Luchino pensò di sedurla, come aveva
fatto a Piacenza colla signora Bianchina Landi il di lui fratello
Galeazzo I; ma trovò la fedeltà istessa e lo stesso amore verso lo
sposo anche nella virtuosa Margherita. La tela era già ordita per
far soffrire a Luchino il destino medesimo di Galeazzo; se non che il
cauto e sospettoso Luchino fu pronto a scoprirla e lacerarla. Tutto
era disposto per discacciare con una rivoluzione questo principe
dal suo trono, e si dubita che i di lui nipoti Matteo, Barnabò e
Galeazzo fossero complici. Ma Luchino prese talmente le sue misure,
che Francesco Pusterla, fautor principale della congiura, appena ebbe
tempo bastante di salvarsi colla fuga e di ricoverarsi presso del
papa in Avignone. Fin qui si vede un vizio di questo principe; ma
in seguito si manifesta un'iniquità bassa ed atroce. Non risparmiò
spesa o cura Luchino per attorniare in Avignone istesso il Pusterla
d'insidie e di consiglieri, i quali, con simulata amicizia, lo
animassero a ritornare nell'Italia, persuadendogli che presso dei
Pisani avrebbe trovato un sicurissimo asilo, e si sarebbe collocato più
vicino alla patria per rientrarvi ad ogni opportunità. Furono tanto
moltiplicati i consigli, e tanto apparenti le ragioni, che alla fine
il Pusterla si arrese, s'imbarcò, e per mare si trasferì a Pisa; ove
arrestato venne dai Pisani, che temevano le armi di Luchino, e a lui
fu consegnato. Francesco Pusterla, trasportato a Milano, terminò la
sua vita coll'ultimo supplicio. Un gran numero de' suoi amici diedero
al popolo lo stesso spettacolo; e quello che rese ancora più crudele
la tragedia, si fu che la nobile e virtuosa Margherita dovette, al
paro degli altri, finire nelle mani del carnefice. Il luogo in cui
si eseguì la carneficina fu al Broletto Nuovo, cioè alla piazza de'
Mercanti, dalla parte ove alloggiava il podestà, ed ove vedesi la
loggia di marmo delle scuole palatine collo sporto in fuori, da dove
solennemente il giudice pronunziava le sentenze di morte. I nobili
venivano ivi su quella piazza abbandonati all'esecuzione: all'incontro
i plebei erano trasportati fuori di porta Vigentina al luogo del
supplicio. L'industriosa sagacità adoperata da Luchino per cogliere
nell'insidia il Pusterla, potrebbe essere una lode per uno sbirro o un
bargello, ma è una macchia che disonora un sovrano. La crudeltà poi
di far condannare all'orrore del supplicio una donna amata, in pena
della sua virtù, è una macchia ancora più obbrobriosa e vile. Luchino
esiliò dallo Stato i tre suoi nipoti, figli di Stefano, cioè Matteo,
Barnabò e Galeazzo. La ragione di Stato forse giustificava un tal
rigore, singolarmente dopo i sospetti di loro complicità nella congiura
dell'infelice Pusterla. Pretendono alcuni che Galeazzo, il nipote,
fosse anche troppo intimamente unito alla signora Isabella Fieschi,
moglie di Luchino, e che il bambino ch'ella partorì, ebbe il nome di
Luchino Novello, per questa cagione insieme colla madre vedova passasse
poi a Genova, e non entrasse mai nella serie de' nostri principi.
Avrà avute quel sovrano le sue buone ragioni per tenersi lontani i
nipoti; ma le insidie colle quali incessantemente li perseguitava nei
paesi lontani, la miseria e la povertà nella quale gemevano sempre
raminghi, sconosciuti ed erranti (ora nella Francia, ora nella Germania
e persino nella Palestina, ove Galeazzo fu creato cavaliere del Santo
Sepolcro), son prove d'un animo niente generoso, ma anzi vendicativo
e crudele. Il Corio ci dice come Luchino «aveva obtenuto che 'l papa
haveva declarato che Barnabò e Galeazzo suoi nepoti, per lui relegati
ale confine come suspecti de la fede, violatori de la pace, perjuri e
detestandi, non puotessino contrahere matrimonio, e morendo manchassino
de ecclesiastica sepultura, ne che imperatori ne re con epsi
potessino havere confederazione, dil che tri jurisperiti, difendendo
li prenominati fratelli, si appellarono de tanta nephandissima
declaratione alo imperatore[56]». E in fatti era cosa evidente che,
volendosi dividere la signoria d'Azzone, i tre fratelli Matteo, Barnabò
e Galeazzo avrebbero dovuto per giustizia possedere la porzione di
Stefano, loro padre e fratello di Luchino e di Giovanni; e può darsi
che l'ingiustizia che provavano, essendo esclusi nella divisione, fosse
l'origine di questi guai. Gli avvenimenti sono lontani da noi, e non ci
sono noti che per quel poco che alcuni ce ne hanno tramandato. L'indole
di Barnabò e di Galeazzo era perversa, come dimostrarono poi; quindi
Luchino avrà forse avute delle ragioni colle quali giustificarsi.

L'occasione della morte di Luchino la riferirò colle parole istesse
di Pietro Azario.[57] _Voverat autem praedicta domina Elisabeth, ejus
uxor, visitare ecclesiam Sancti Marci in Venetiis, ut dicebat. Cui
itineri dominus Luchinus annuit. Et sociata multis proceribus utriusque
sexus, iter arripuit, et tamquam imperatrix et cum maximis dispendiis
et curia pubblicata, recepta fuit in Verona per dominum Mastinum.
Complevitque iter suum, et dicitur etiam voluntatem suam complevisse
circa coitum; et aliae sociae suae de majoribus Lombardiae fecerunt
illud idem. Propterea multa scandala sequuta sunt. Sed quia amor et
tussis nequeunt celari, nec aliquod tam occultum, quod non reveletur,
quum ipsa rediisset, dominus Luchinus scivit et audivit de gestis.
Sed tamquam sapiens curavit dare ordinem de vendicta. Et quia una die
dixit, quod in brevi facturus erat in Mediolano majorem justitiam, quam
umquam fecisset, cum pulchro igne, praedicta ejus uxor percepit quod
ipsa erat in justitia; illa intellecta, propter commissa cum persona,
non poterat se excusare a praedictis, sicuti alias excusaverat.
Qualiter autem processissent negotia, ignoratur, nec scribitur. Sed
dominus Luchinus vindictam illam facere non potuit propter defectum
vitae_[58]. (1349) Così Luchino Visconti si trovò improvvisamente morto
il giorno 24 di gennaio 1349, all'età di cinquantasette anni, dopo di
avere signoreggiato nove anni ed alcuni mesi. L'Azario non dice che la
moglie lo avesse avvelenato, ma con un verso conclude:

    _Nam nulli tacuisse nocet: nocet esse locutum._[59]

Ei ci descrive Luchino così:[60] _Austerus homo visu et opere erat,
parcus in promittendo, largus in attendendo._ Sotto il principato
di lui in Milano crebbe notabilmente la popolazione, la ricchezza e
l'industria; e non poteva a meno che ciò non accadesse in una metropoli
mantenuta in pace, situata in un fertilissimo terreno, sotto un
sovrano che proteggeva e vegliava su i poveri e popolari, contenendo
i potenti, che manteneva l'ordine pubblico e il facile corso alla
giustizia: essendo la sede d'un principe che dominava diciassette
città del contorno. Il carattere di Luchino è un misto di buone e di
cattive qualità: cuore insensibile e mente illuminata per governare,
unita a forza d'animo e valor personale, il che può formare un fausto
principato, non mai un principe buono o grande; qualità generose, che
hanno sempre per base un cuore buono. Le lacrime sparse alla morte
d'Azzone erano un encomio per il principe trapassato, e un biasimo
preventivo per quello che subentrava; simili desolazioni pubbliche si
voglion sempre dividere per metà. Luchino in fatti fu sommamente temuto
per la sua risolutezza, per la sua implacabile severità e per la sua
profonda dissimulazione

    _Ostendebat de paucis curare et de multis curabat,_[61]

dice l'Azario.

Giovanni Visconti, figlio di Matteo I, fino dall'anno 1317 era stato
canonicamente eletto arcivescovo di Milano; ma il papa, al quale
dava non poco fastidio la rapida fortuna dei Visconti, di propria
autorità nominò e consacrò un altro arcivescovo, e fu, siccome dissi,
il francescano frate Aicardo; il quale visse sempre ramingo ed esule
dalla sua chiesa, dove appena potè ricoverarsi un mese prima della sua
morte, accaduta nel 1339. Allora di bel nuovo gli ordinari elessero
per la seconda volta Giovanni Visconti. I tempi erano mutati, e
quantunque Giovanni avesse accettata la dignità di cardinale della
chiesa romana dall'antipapa Nicolò V (dignità ch'ei però aveva deposta
al riconciliarsi che fecero i Visconti col papa), Clemente VI lo
riconobbe e preconizzò arcivescovo l'anno 1342. Giovanni, il giorno
17 di agosto 1339, era già stato dichiarato signore di Milano dal
consiglio generale, insieme col fratello Luchino; quindi, dopo la
morte di questi, non v'ebbe bisogno di nuova elezione per dargli la
signoria; onde egli, senza altra cerimonia, venne da ognuno obbedito.
Si trova però un decreto memorabilissimo, fatto dal consiglio generale,
verosimilmente in questo tempo; poichè, oltre al confermare il dominio
all'arcivescovo Giovanni, il principato, che sino a quel giorno era
stato elettivo, si stabilì ereditario. Tale decreto leggesi in un
antico codice segnato A, che si conserva nell'archivio del reale
castello, segnato n.º 1, pag. 11. Ecco le di lui parole:[62] _Quod
praefatus magnificus et excelsus dominus Johannes, filius quondam
bonae memoriae domini Matthei de Vicecomitibus et post ejus domini
Johannis decessum, eo modo, quilibet alius masculus descendens per
lineam masculinam et ex legitimo matrimonio ex praefato quondam domino
Matthaeo de Vicecomitibus sit et sint perpetuo verus et legitimus et
naturalis dominus, et veri et legitimi et naturales domini civitatis
et totius districtus et dioecesis et jurisdictionis Mediolani._ Questo
decreto ivi è mancante e del principio e del fine. Forse vi erano
delle condizioni colle quali veniva moderata la perpetua sovranità;
anzi è assai probabile che il consiglio non volesse privarsi del
prezioso diritto dell'elezione, senza una reciproca ricompensa che
assicurasse la immutabile conservazione dei privilegi del consiglio
medesimo. Ma questo archivio, stato custodito dai sovrani che in
séguito signoreggiarono, non poteva essere un sicuro deposito di
simile documento, in quella parte che avrà limitata la sovranità. Il
consiglio, composto di cittadini che non erano stati nominati nei
comizi generali, ma dal principe istesso, ovvero da un podestà che
gli era subordinato, non poteva obbligare la città, la quale non era
rappresentata dal consiglio, se non illegalmente. E quand'anche i
consiglieri poi avessero una legittima rappresentanza, non potevano
conferire ad altri, se non quanto era in dominio della città medesima.
La suprema sovranità dell'Impero, per diritto, sussisteva; e la pace di
Costanza l'aveva definita centosessantasei anni prima. Onde quest'atto
non poteva confidare ai Visconti se non quella porzione della
sovranità che, in vigore di quella pace, era rimasta alla città; cioè
i tributi, l'elezione dei magistrati, la guerra e la pace; ma non mai
toglierci l'appellazione all'imperatore, nè il vassallaggio stabilito
nell'anzidetta pace.

Appena l'arcivescovo Giovanni rimase solo alla testa dello Stato,
ognuno dovette conoscere che la passata sua non curanza del governo
certamente non nasceva da mancanza di talento per governare, nè
da indifferenza per la gloria, nè da insensibilità per il pubblico
bene. Il virtuoso principe cominciò il suo regno col far la pace coi
vicini; col conte di Savoia, coi Gonzaghi, col marchese di Monferrato
e coi Genovesi, posti prima in armi per le invasioni che Luchino
aveva fatte, dilatando lo Stato proprio a danno loro. Assicuratosi
così d'un pacifico dominio, la natura e l'indole sua benefica lo
portarono a terminare la miseria degli esuli nipoti. Matteo, Barnabò
e Galeazzo furono richiamati dall'esilio ed accolti come a principi
si conveniva. Diede Regina della Scala in moglie a Barnabò, e Bianca
di Savoia a Galeazzo; e festeggiò quelle nozze illustri con pompe ed
allegrezze pubbliche; fra le quali vi furono dei tornei d'una nuova
foggia, cioè colle selle alte, usanza che Barnabò aveva insegnata,
seguendo la costumanza da lui imparata nella Francia. Oltre lo stato
signorile e lieto al quale fece passare i nipoti, quel magnanimo
arcivescovo si risovvenne di Lodrisio Visconti, che, dopo la battaglia
di Parabiago, da più di dieci anni languiva in carcere, e lo rese
libero. L'anima grande e generosa di Giovanni non dava luogo a quelle
diffidenze e sospetti che dominavano nel cuore di Luchino. (1350)
Appena un anno era passato da che Giovanni reggeva lo Stato, esteso
sopra diciassette città, quale glielo aveva lasciato Luchino, che
egli, senza umano sangue e senza pericolo, fece un insigne acquisto;
e col mezzo di duecentomila fiorini d'oro sborsati a Giovanni
Pepoli, comprò il dominio della città di Bologna l'anno 1350[63].
Prevedeva però il sovrano arcivescovo che questa importantissima
addizione non poteva accadere senza forti contrasti, singolarmente
per parte del papa, il quale, sebbene domiciliato in Avignone, sempre
stava vigilante sull'Italia; e se tollerava che il Pepoli, piccolo
principe, e che facilmente poteva superarsi, dominasse Bologna, non
così tollerante doveva essere poi, passando quella a incorporarsi
nella potente dominazione dei Visconti. In fatti Clemente VI mandò
un ordine all'arcivescovo Giovanni, acciocchè, entro lo spazio
di quaranta giorni, dovesse restituire Bologna alla Santa Sede;
minacciando in caso di contumacia di volerlo scomunicare, insieme ai
nipoti suoi quanti erano, e porre all'interdetto tutti i popoli del
suo dominio[64]. (1351) Giovanni non si cambiò per questo, nè pensò
di abbandonare Bologna; onde il giorno 21 di maggio dell'anno 1351 il
papa scomunicò l'arcivescovo e i tre nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo,
e pose l'interdetto su tutte le diciotto città dei Visconti[65]. Il
Corio ci racconta come «il pontefice, sdegnato contra di lui per la
presa di Bologna, havendo questa città interdicta, li destinò uno
legato, il quale con somma humanità dal Presule fu ricevuto. Duoppo
li expuose per parte del summo sacerdote che a Santa Chiesia volesse
restituire Bologna, e che anche dil suo dominio una cosa facesse, e
che il spirituale o che il temporale solo administrasse: la qual cosa
intendendo Giovanne respuose che la proxima domenica nel magiore templo
de Milano li darebbe conveniente risposta, dove il deputato giorno
convenendosi ogniuno, Giovanne con grande solennitate celebrò la messa,
la quale essendo finita, in cospecto dil populo, il legato, secundo
l'ordine dato un'altra volta replicò l'ambasciata dil pontefice, onde
dappoi il magnanimo arcivescovo evaginò una lucente spada quale haveva
a lato, e da la mano sinistra pigliò una croce dicendo: questa è il
mio spirituale, e la spada voglio che sia il temporale per la difesa
di tutto il mio imperio; e non con altra risposta il legato tornando
al pontefice referì quanto da lo arcivescovo Giovanne haveva havuto».
Siegue poscia il Corio medesimo a narrarci come, essendo il papa sempre
più irritato ed animoso contro dell'arcivescovo Giovanni, lo citasse
a comparire in Avignone; e che l'arcivescovo Giovanni, preparato già a
comparirvi col séguito di dodicimila cavalli e seimila fanti, venisse
poi dispensato dal papa istesso dall'intraprendere il viaggio, e si
accomodasse in tal guisa pacificamente ogni cosa. Anche il Giovio e
il Ripamonti raccontano questi fatti. Il Muratori ed il conte Giulini
non prestano in ciò fede al Corio. Sono però gli autori d'accordo
nell'asserire che la scomunica e l'interdetto vennero pubblicati, e che
la riconciliazione si fece ben tosto, ritenendo il Visconti Bologna in
qualità di Vicario della Santa Sede. Fra le mie monete patrie una ne
ho d'oro, valore d'un gigliato, di Bologna, colla biscia Visconti, che
credo battuta in questi tempi.

(1353) Bologna erasi acquistata senza pericolo e senza sangue; e
senza sangue o pericolo l'accorto Giovanni acquistò un'altra non
meno cospicua città, cioè Genova, l'anno 1353, ed ecco come. Erano i
Genovesi impegnati sventuratamente a guerreggiare contro de' Veneziani,
collegati col re Pietro di Aragona. Erano stati malamente battuti
da quelle forze preponderanti i Genovesi. Le loro navi erano quasi
distrutte; e Genova si trovava bloccata dalla parte del mare; e per
terra ancora, dalla parte di ponente, custodita dagli Spagnuoli; per
modo che non le rimaneva altra via per ottenere i viveri, che già
mancavano, se non dalle terre possedute da Giovanni arcivescovo. Proibì
questi che nè da Alessandria, nè da Tortona, nè da Piacenza, nè dalla
Lunigiana, nè da veruna altra parte del suo Stato venisse portato alcun
alimento ai Genovesi; e così, anzi che perire o cader nelle mani de'
loro nemici, quei cittadini presero il solo partito che loro rimaneva
offerendo a Giovanni la signoria della loro città. Quest'offerta
venne accettata ben presto, e il nuovo principe, nel mese di ottobre
del 1353, prendendo solennemente possesso di quella illustre città;
v'introdusse al momento l'abbondanza e la gioia. Così aggiunse Giovanni
al suo Stato la decimanona città, e diventò padrone di un porto di
mare. Ciò fatto spedì quel principe a Venezia degli ambasciatori,
acciocchè cessassero i Veneziani di offendere Genova, divenuta cosa
sua. I Veneziani, i quali già dovevano vedere con sospetto la potenza
preponderante del Visconti, non vollero ascoltare discorso di pace.
(1334) Giovanni fece allestire una poderosa armata navale, la quale
lasciò il porto di Genova, spiegando al vento del mare, per la prima
volta, le insegne della vipera; e seppe così bene farsi rispettare,
che bruciò Parenzo, città marittima dell'Istria soggette ai Veneziani,
indi battè la flotta veneziana presso Modone, sulle costiere della
Grecia[66]. Quando, ventisei anni prima, Giovanni Visconti trovavasi
coi fratelli nel carcere orrendo di Monza, chi avrebbe mai potuto
prevedere ch'ei dovesse un giorno rappresentare sul teatro del mondo
il personaggio che vi sostenne poi! Chi mai avrebbe potuto accostarsi
all'orecchio di Matteo, mentre vivea da povero privato in Nogarola,
e dirgli: Tu sarai sovrano, e da qui a quarant'anni i figli tuoi
domineranno un principato che potrà nominarsi un regno: Bologna,
Parma, Piacenza, Cremona, Crema, Bergamo, Brescia, Como, Milano, Lodi,
Pavia, Vigevano, Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Asti, Genova
e Bobbio; dicianove città! L'Ente Supremo regge gli avvenimenti. Il
saggio impara ad adorarne i decreti; si tiene modesto nella prospera, e
fermo nell'avversa fortuna.

Se Azzone aveva invitato, siccome ho detto, i migliori artisti, e gli
aveva condotti a Milano, Giovanni vi accolse e vi onorò sommamente il
più dotto ed elegante letterato di quel secolo, Francesco Petrarca.
Egli venne a Milano l'anno 1353 per vedere la città; e l'arcivescovo
Giovanni, sensibile al merito, lo onorò tanto, che lo indusse a
fissarvi la sua dimora. Il buon principe era magnifico e sociale. La
corte era aperta agli uomini di merito, nazionali o forestieri. Egli
amava la società della mensa; e tanto crebbe presso di lui la stima del
Petrarca, che lo fece sedere nel suo consiglio, e lo spedì a Venezia
suo ambasciatore all'occasione detta poc'anzi. Petrarca, nelle sue
lettere si esprime che egli amava in Milano gli abitanti, le case,
l'aria, i sassi, non che i conoscenti e gli amici. L'unica figlia sua
la maritò in Milano a Francesco Borsano; e la tenerezza che egli aveva
per quella e per il figlio adottivo Borsano, ch'egli poi istituì suo
erede, gli rendevano caro questo soggiorno come una nuova sua patria.
Scrivendo Petrarca della prepotente influenza del clima, oggetto
sviluppato nel nostro secolo dall'immortale Carlo Secondat, ma non
intentato dal Petrarca, ei così dice de' Milanesi:[67] _Totam praeterea
Rheni vallem colonis ab Augusto missis habitatam invenio; verum haec
sedium mutatio non patriam ad quam pergitur, sed pergentes immutat.
Itaque et Galli in Asiam, Asiani, et Itali in Phrygiam profecti,
Phryges, et post Troyae excidium in Italiam reversi, Itali iterum
facti sunt. Sic nostri, in Galliam vel Germaniam traslati, naturam
illarum partium imbiberunt moresque barbaricos, et Mediolanenses, a
Gallis conditi atque olim Galli, nunc mitissimi hominum, nullum servant
vestigium vetustatis; ita vis coelestis humana moderatur ingenia_[68].
Petrarca aveva tanta passione per l'Italia, che potevasegli imputare
a ragione la ingiustizia colla quale detestava i costumi oltramontani;
dal che però ne risultava una lode esimia ai Milanesi. Egli alloggiava
dicontro a Sant'Ambrogio; anzi nel suo testamento, pubblicato nelle
opere sue, ordinò d'essere ivi tumulato, qualora fosse morto in Milano.
Questo testamento lo fece in Padova l'anno 1370. Aveva Petrarca una
piccola villa, poco discosta dalla città, nelle vicinanze della Certosa
di Garignano; e quel casino solitario lo chiamava _Linterno_, col
nome della villa di Scipione Africano; comunemente poscia acquistò
nome _l'Inferno_, parola più nota della prima. Si dice che Giovanni
Boccaccio, per amore del suo amico Petrarca, vivesse qualche tempo con
lui in Milano, e al suo Linterno. Si dice ancora che, dopo la morte
Giovanni arcivescovo, cadendo la signoria di Milano nelle mani de'
tre figli di Stefano, Matteo, Barnabò e Galeazzo, Petrarca recitasse
l'orazione inaugurale nella chiesa maggiore, ove celebravasi la
funzione di consegnar loro il dominio; e che un impudente astrologo,
ad alla voce gridando, lo interrompesse asserendo che in quel momento
i pianeti erano faustamente collocati; e non si doveva perderlo, per
non avventurare la prosperità del nuovo governo. Si pretese anzi,
che, essendosi consegnato il bastone del comando a Matteo fuori
del tempo, da ciò ne accadesse poi il misero e presto suo fine.
La credulità e l'ignoranza erano certamente grandi a quei tempi; e
alcuni pochi uomini illuminati non bastavano a sgombrarla sì tosto dai
popoli, che le avevano ereditate dalla lunga notte de' barbari secoli
precedenti. Petrarca fu da' Visconti spedito ambasciatore al re di
Francia Giovanni, ed all'imperatore Carlo IV, che trovavasi in Praga, e
tanto venne considerato il di lui merito, ch'egli stesso fu trascelto
all'onore di levare al sacro fonte il primogenito che nacque dalle
nozze di Barnabò, e in quella occasione compose il _Genethliacon Marci
Mediolanensium principis_, che così comincia:

    _Magne puer, dilecte Deo, titulisque parentum_
    _Praefulgens, populis olim venerande superbis,_
    _Sit modo vita comes, teneris sit spiritus annis;_
    _Expectate diu nobis, patriaeque patrique,_
    _Laete veni, vitaeque viam foelicibus astris_
    _Ingredere, et rebus gaudens accede secundis;_
    _Te Padus expectat dominum, etc._[69]

poi, dopo di aver descritti i fiumi del vasto di lui Stato, passa a
fargli dono d'una coppa d'oro co' versi seguenti:[70]

    _Quum tamen egregius vivendo adoleverit infans,_
    _Hanc habeat pateram, et roseo bibat ore jubeto:_
    _Parva decent parvos: minimus sum, maximus ille,_
    _Parva sed est aetas, lucis nova limina nuper_
    _Attigit, et coelum trepido suspexit ocello;_
    _Aetati, non fortunae, munuscula dantur_
    _Apta suae, ludet, nitido mulcente metallo;_
    _Spernet idem ex alto fuerit dum plenior aetas,_
    _Et rutilam terre faecem sciet esse profundae._
    _At fortasse sibi tunc carmina nostra placebunt;_
    _Perleget, et secum, sacro dum fonte levabar._
    _Tanto humilem excelsus genitor dignatus honore est_[71].

Probabilmente Petrarca (che non poteva stare in Firenze, sua cara
patria, immersa nelle fazioni), disingannato dai viaggi fatti nella
Francia e nella Germania, non avrebbe mai più abbandonato il nostro
paese, dove vivea ammirato da ognuno e distintamente onorato dai
sovrani, e dove aveva stabilmente collocata la figlia, e creatasi una
famiglia per adozione, se il disastro spietatissimo della pestilenza,
che desolò Milano, non lo avesse costretto a rifugiarsi altrove.[72]
_Mediolanum, urbem Ligurum caput et metropolim,_ dice egli, _usque
ad invidiam hactenus horum nesciam laborum, et coeli salubritate,
et clementia, et populi frequentia gloriantem, sexagesimus primus
annus et vacuam fecit et squallidam_[73]. Galeazzo II molto si regolò
col consiglio del Petrarca e nel formare la biblioteca, che radunò
in Pavia, e nel piantarvi gli studi dell'Università. È celebre la
distinzione che gli venne fatta in Milano, quando, nella pompa delle
nozze di Violanta Visconti, Galeazzo II volle che Petrarca sedesse
commensale, insieme collo sposo Lionetto, figlio di Edoardo III re
d'Inghilterra.

Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano e di altre diciotto
città, fra le quali Genova e Bologna, cessò di vivere il giorno 5
di ottobre dell'anno 1354, dell'età di sessantaquattro anni, dopo
d'aver regnato sei anni appena; poichè il tempo in cui comparve ch'ei
correggesse con Luchino non può contarsi, tanto poco s'immischiò
egli allora negli affari dello Stato. Giovanni fu un principe umano,
benefico, giusto, liberale, fermo e d'animo signorile, e merita un
luogo fra i buoni principi vicino ad Azzone. Il tumulo di lui si vede
nel coro della Metropolitana.

Milano, nei ventiquattr'anni nei quali regnarono Azzone, Luchino e
Giovanni, i primi che apertamente si dichiararono sovrani, battendo
moneta col loro nome, godette la pace, e provò alfine i beni
dell'ordine sociale e della civile sicurezza. I Milanesi abbandonarono
il mestiere dell'armi, e si rivolsero a più miti e più industriosi
pensieri, alla mercatura cioè, alla coltivazione delle arti e delle
terre. La popolazione e la ricchezza crebbero in proporzione, e
qualche coltura appresero gl'ingegni, onde questi oggetti meritano
dilucidazione.

La prima epoca del risorgimento dell'agricoltura milanese io la
trovo nel blocco che Federico I pose intorno della città; allorquando
fece devastare le piante e le campagne, ed atterrare i boschi che ci
stavano intorno. Il bene è sempre figlio del male. Liberati che fummo
da quel nemico terribile, poichè la libertà civile fu cimentata colla
lega lombarda, si dovettero ridurre a coltura i boschi incendiati;
unico mezzo per cui i proprietari, ai quali non rimaneva più legna
spontanea, non ricavassero qualche profitto dal loro fondo. Infatti
verso quei tempi pensarono i Milanesi a promovere l'irrigazione, a
fecondare i loro campi colle acque, e si scavarono il Tisinello e la
Muzza; il primo verso l'anno 1179, e l'altra l'anno 1220[74]. Indi
il Tisinello venne allungato sino a Milano verso la metà del secolo
decimoterzo, cioè l'anno 1257; operazioni tutte le quali non ebbero
allora per oggetto la navigazione, ma bensì la semplice irrigazione
delle terre. Io ho per qualche tempo creduto che i Milanesi, ritornati
dalle crociate, avessero portata dall'Egitto nella loro patria la
coltura del riso, e che questi scavi di canali e questa diramazione
di acqua sulle terre venissero fatti a tal fine. Ma ho poi dovuto
essere convinto che la coltivazione del riso presso di noi è di
molto posteriore a quelle opere pubbliche; e ne serve d'invincibile
prova la tassa che il tribunale di Provvisione faceva delle droghe;
e quella singolarmente che ha pubblicata l'esattissimo nostro conte
Giulini[75], ove scorgesi che il giorno 18 aprile 1386 venne ordinato
che gli speziali e i droghieri non possano vendere il riso più che a
dodici imperiali la libbra. Questo decreto trovasi nell'archivio del
tribunale di Provvisione, d'onde l'ha tratto il chiarissimo autore. Se
il riso fosse stato, come oggidì, un prodotto della nostra agricoltura,
non sarebbesi venduto dagli speziali droghieri. Il prezzo poi di un
soldo per libbra (avuto ragguaglio alla moneta di quei tempi) lo mostra
ancora con maggiore sicurezza, anche paragonandolo alla tassa del mele
sottile e fino, che in quel medesimo decreto viene fissato ad un terzo
meno del riso, cioè ad imperiali otto la libbra. Quest'irrigazione
adunque serviva ai soli prati, e forse allora il clima di Milano era
più salubre di quello che ora non è; da che si è ogni anno sempre
più dilatata l'irrigazione, ed introdotta singolarmente la coltura
dei risi; e perciò il Petrarca, fra le qualità che rendevano allora
pregevole Milano, vi pose _coeli salubritate_, come poco anzi si è
veduto. La nostra agricoltura ci produceva, siccome ho già altrove
indicato, varie sorta di grani, frumento, segale, miglio, seligine,
orzo, scandella. La coltura parimenti del lino e delle viti è
antichissimo presso di noi. I prati si andavano moltiplicando, perchè
s'erano introdotte razze di cavalli, e il lusso aveva dilatato il
bisogno di questi tanto utili e generosi animali. Se poi tanto grano
si raccogliesse quanto occorreva al nutrimento del popolo, non è così
facile il deciderlo; poichè in una concordia che si fece fra i nobili
e i popolari, l'anno 1225, venne pattuito fra gli altri articoli, che
il comune di Milano dovesse ogni anno far venire da paese estero de'
grani, pel valore di seimila lire di terzoli. Il che non saprei se
debbasi considerare come una forzata compiacenza de' nobili terrieri
verso di un error popolare, come inclina a crederlo il nostro conte
Giulini[76]; ovvero come una prudente precauzione, in tempi ne' quali
questo commercio era vincolato. Parmi che se le terre fossero state
bastantemente feraci di grano, si sarebbe dalla plebe domandata, non
l'introduzione del grano estero, ma del più vicino e nazionale, per
assicurare l'alimento alla città. Generalmente si mangiava in Milano
pane di mistura; e l'anno 1355 vi era in tutta la città un forno solo
che fabbricasse il pane bianco di puro frumento; pane che allora era di
lusso; e questo forno privilegiato chiamavasi _il prestino dei Rosti_,
ed era vicino alla piazza dei Mercanti[77]. È bensì vero che l'uso
di servire con pane di frumento puro e bianco, nei pranzi d'invito,
era anche un secolo prima conosciuto presso di noi; e ne fa prova
una sentenza favorevole ai canonici di Varese, pronunziata l'anno
1248, in cui venne condannato un beneficiato a dar loro la domenica
avanti Natale un pranzo composto,[78] _videlicet, panis frumentini
boni et bene cocti et albi, et vini boni, et puri ad sufficentiam
et capponorum, videlicet unum inter duos plenum, et carnium bovis et
porci cum bonis piperatis, videlicet frustum unum, sive petiam bovis
competentem et bonam inter duos; ed aliud frustum seu petiam porci
cum bonis piperatis inter duos, et frustum, sive petiam unam carnis
porcinae assatae, sive rostitae cum paniciis inter duos; et hec omnia
ad sufficientiam, secundum quod decet, praestet singulis annis_. La
carta si conserva nell'archivio della collegiata di Varese, e l'ha
pubblicata l'erudito nostro conte Giulini[79]. Verso la fine dei
capitolo sesto ho ricordato un altro pranzo, preteso un secolo prima,
da altri canonici, i quali chiedevano _lombulos con panitio_; ora si
trattava _cum panitii_. Potevano forse essere pagnotelle più fine, di
mero fiore di farina apprestate sul finir della mensa. _La piperata_
si è veduta nominata in quella carta del 1148, si vede in questa del
1248, si usava ai tempi del Corio; e l'abbiamo anche oggidì scritta
nella tariffa della mercanzia, col tributo di trentasei soldi e mezzo
per ogni rubbio, sebbene ora non sappiamo più cosa ella si fosse. Io la
crederei una salsa stimulante, e in cui entrava singolarmente il pepe,
simile a quella che ora adoperiamo colla senape.

Il Fiamma, che viveva appunto ai tempi di Giovanni arcivescovo, ci
lasciò un'idea della ricchezza e del lusso di quel tempo:[80] _Nunc
vero in praesanti aetati priscis moribus superaddita sunt multa
ad perniciem animarum irritamenta: nam vestis praetiosa, et ornatu
superfluo circumtecta per totum; in ipsis vestibus, tam virorum quam
mulierum, aurum, argentum, perlae inseruntur. Frixa latissima vestibus
superinducuntur. Vina peregrina, et de partibus ultramarinis bibuntur:
cibaria omnia sunt sumptuosa: magistri coquinae in magno praetio
habentur_[81]. Lo stesso Fiamma ci attesta che in Milano al suo tempo
eranvi delle manifatture assai perfette e stimate al di fuori, e fra
le altre vi si lavoravano gli elmi, le corazze e tutte le armature di
ferro,[82] _speculorum claritatem excedentes. Soli enim fabri loricarum
sunt plures centum, exceptis innumerabilibus subjectis operariis_; e di
queste nostre manifatture, dice quell'autore, che ne somministravano a
tutta l'Italia non solo, ma se ne trasportavano per sino ai Tartari ed
ai Saraceni. Questa manifattura, di cui troviamo la materia ne' monti
vicini, si mantenne per molto tempo in Milano, e vediamo nell'estratto
fatto poi, all'occasione del censo, dai libri delle gabelle dell'anno
1580, che si considerarono, dal ragionato dall'estimo Barnaba
Pigliasco, da Milano trasportate agli esteri: armature di cavalli N.
100, a lire 55. 10, lire 5650; armature di fante N. 390, a lire 33.
15, lire 13,162. 10. Il Fiamma pure ci attesta che le nostre razze
de' cavalli erano della maggiore altezza e forza; e tali dovevano
appunto ricercarsi nel secolo in cui dovevano portare alla guerra
gli uomini tutti coperti di ferro, e talvolta gli arnesi istessi del
cavallo erano del metallo medesimo, per assicurarlo dalle ferite. De'
cavalli nostri ne facevano smercio assai nella Francia, a quanto ci
attesta quell'autore contemporaneo; e tale era probabilmente il frutto
dell'irrigazione estesa, e de' nostri prati. Oltre questi due articoli
di commercio, erari già piantata l'industria del lanificio in Milano
ai tempi di Luchino e di Giovanni Visconti; e il Fiamma dice de' nostri
mercanti:[83] _Ipsi enim mercatores discurrunt per Franciam, Flandriam,
Angliam ementes lanam subtilem, ex qua in hac civitate texuntur panni
subtiles in maxima quantitate, qui tinguntur omni genere tincturarum,
qui per totam Italiam deferuntur_. Quest'industria del lavoro de'
pannilani, la quale crebbe dappoi e formò la ricchezza cospicua di
Milano, era già presso di noi conosciuta anche prima del Fiamma, e poco
dopo l'epoca di Federico I. Almeno in Como ed in Monza si lavoravano
de' pannilani fino dal 1216; poichè nell'antico esemplare degli
Statuti di Milano compilati in quell'anno, esemplare che ritrovasi
nella biblioteca Ambrosiana, vedonsi tassati i pannilani di Como e di
Monza a pagare quattro imperiali per ogni pezza, entrando in Milano.
Anche delle tele di cotone e de' lini nostri se ne faceva spaccio,
singolarmente in Levante, col mezzo dei Veneziani e de' Genovesi,
ch'erano diventati assai ricchi e commercianti; avendo, i primi
singolarmente, approfittato moltissimo col trasporto dei crocesignati,
colla somministrazione de' viveri alle Crociate, allorchè prudentemente
tranquilli, in mezzo alla fermentazione universale colsero l'occasione
d'impratichirsi del mare e de' porti del Levante, onde si resero
arbitri del commercio d'Europa coll'Asia; la qual ricchezza si sparse
anche sopra di noi ed animò la nostra industria. Nè i soli cavalli, le
armature, e i pannilani e i pannilini erano i capi del nostro commercio
utile cogli esteri. Sino da' primi anni del secolo decimoquarto eranvi
da noi degli artefici che fabbricavano anche drappi di seta; e Niccolò
Tegrimo, nella vita di Castruccio Antelminelli, ci narra che, avendo
Castruccio ed Uguccione della Fagiuola occupato Lucca l'anno 1314, i
fabbricatori di drappi di seta vennero a rifugiarsi in Milano[84]. La
seta allora era sommamente cara; e un drappo di seta si valutava lire
venti d'allora la libbra; e ognuno sa che la lira d'allora era quasi
due terzi d'un fiorino d'oro, ossia gigliato, che correva per trentadue
soldi; così che la libbra di seta costava dodici gigliati e mezzo.
Facilmente pure ognuno comprende quanto maggior pregio in que' tempi
dovesse aver l'oro, che nei secoli a noi più vicini è diventato assai
più abbondante, per i paesi scoperti, per le nuove miniere scavate,
e per la comunicazione del vasto commercio aperta fra tutti i popoli
conosciuti della terra.

Della popolazione di Milano ce ne ha lasciato memoria Buonvicino
da Ripa verso l'anno 1288. Quell'autore vivente dice che v'erano
tredicimila porte di case, seimila pozzi, quattrocento forni per
cuocere pane, e mille taverne di vino, cento cinquanta alberghi pei
forestieri, tremila ruote da mulino, e seimila giumenti che portavano
la farina nella città; in cui dice ch'eranvi ducentomila abitanti, fra
i quali quarantamila atti alle armi; che si mangiavano ogni giorno
in Milano mille e ducento moggia di farina; che entravano ogni anno
nella città cinquantamila carri di legna, ducentomila carri di fieno
e seimila carri di vino, e si consumavano di sale in Milano staia
seimilacinquecento. Questa descrizione facilmente si conosce che non
merita fede. Seimila giumenti impiegati a portare mille e ducento
moggia di farina al giorno sono incompatibili, mentre un moggio lo
porta sulle spalle un villano robusto. Quarantamila uomini atti alle
armi sono pure una cosa sconnessa. La popolazione di ducentomila
abitanti, suppongasi metà di uomini e metà di donne; dagli uomini
si deducano i bambini, i fanciulli ed i vecchi; non rimarranno
quarantamila uomini atti alle armi. Seimila carri di vino, suppongasi
portar ciascuno dieci brente, saranno sessantamila brente di vino che
entravano in città per uso di ducentomila abitanti: ora centoventimila,
quanti abitano in Milano, consumano più del quadruplo. Anche le staia
seimila e cinquecento di sale sarebbero proporzionate alla popolazione
di ventiseimila abitatori, e non mai di dugentomila. Poca e nessuna
fede merita quella relazione fatta da un uomo che descrive diciotto
laghi e sessanta fiumi abbondantissimi di pesci nel contorno di
Milano. Abbenchè consideriamo ragionevolmente come scritti piuttosto
a caso quei numeri, che per vera cognizione, difficile assai ad
aversi in que' tempi, egli è però assai probabile che fosse numerosa
la popolazione d'una città alla quale dovevano, come a residenza e a
dominante, ricorrere, al tempo di Giovanni arcivescovo, i cittadini
di diciotto città del contorno. Petrarca la qualificò, siccome
vedemmo, _populi frequentia gloriantem_; e Pietro Azario, che viveva
mentre la pestilenza del 1361 devastò Milano, asserisce che in Milano
perirono per quella sciagura settantacinquemila abitatori; il che può
verosimilmente farci credere ch'essi fossero più di centocinquantamila.
Nè è difficile il concepire come una popolazione maggiore dell'attuale
fosse contenuta entro di una città di un recinto più angusto di quanto
ora lo sia: poichè sappiamo che tutte le case nobili e vaste sono
state formate colla incorporazione di più e più case piccole; che
molti monasteri e conventi e chiese sono piantate oggidì in luoghi
che servivano allora all'abitazione del popolo; e che finalmente il
lusso di abitare per pompa uno spazio vasto di luogo, e il conservare
signorilmente un buon numero di stanze, al solo uso che siano trascorse
da chi ci viene a visitare, prima che ci ritrovi, non era il lusso
di quel secolo nè di questa popolata città. Nel principio del secolo
decimoterzo v'erano in tutto in Milano tredici monasteri, sei di frati
e sette di suore[85].

Il governo civile di que' tempi era una vera dominazione di un solo,
con qualche apparenza di repubblica; poichè il consiglio degli
ottocento, che poi a' tempi di Luchino diventò, non saprei come,
di novecento, di tempo in tempo si radunò, sino verso la fine del
secolo decimoquarto. Ma le deliberazioni che si pretendevano, non
erano altro che giuramenti di fedeltà, acclamazioni al nuovo signore,
e convalidazioni del sistema monarchico. Questi consiglieri, che
non erano a vita, ma bensì trascelti per rappresentare la città in
occasioni passeggiere, non erano altrimenti nominati dal popolo; ma
originariamente traevano la loro commissione dalla nomina del principe
o del suo ministro; onde quel consiglio era, siccome anche di sopra
ho accennato, una mera popolare illusione, che rappresentava una
apparente libertà. Verso la metà del secolo decimoquarto si creò il
vicario di provvisione, che presedeva ai dodici. _Vicario_ significava
lo stesso che _vicegerente_, ossia _luogotenente_; un ministro insomma
che teneva il luogo e faceva le parti del sovrano. Quel tribunale
nella sua origine non fu un dicastero civico, ma bensì fu un tribunale
eletto dal sovrano; al quale era commessa la percezione e direzion
de' tributi, la cura dell'abbondanza, e la vigilanza sopra i giudici
della città, per modo che sembra fosse questo allora il solo dicastero
che si radunava in Milano, e avesse riunite le separate cure che
oggidì occupano il senato, il magistrato camerale e il tribunale
di Provvisione medesimo[86]. Ora questo tribunale di Provvisione,
poichè fu consolidata la signoria dei Visconti, eleggeva ei medesimo
i novecento consiglieri, ogniqualvolta occorresse di avvalorare con
questa formalità il volere del sovrano; di che ce ne serve di prova
l'antico registro della città segnato num.º 1, ove, alla pag. 107, si
legge:[87] _MCCCLXXXVIII, die XXII Julii. Per dominos vicarium et XII
Provixionum Comunis Mediolani et sindicos dicti Comunis electi fuerunt
infrascripti cives Mediolani, qui sunt et esse intelliguntur consilium
DCCCC Comunis Mediolani._

La politica de' nuovi principi tendeva ad allontanare, siccome
dissi, il popolo dal mestiero della guerra, la quale sempre più si
andava facendo, per mezzo di stipendiati forestieri. Così nacquero
le compagnie di avventurieri, che si vendeano da' loro capi ora ad un
principe, ora ad un'altro; e così pure alcuni capi di tali sgherri si
resero formidabili ai sovrani medesimi, e giunsero ad acquistare per
loro conto degli Stati, come fra gli altri avvenne alla casa Sforza.
Conseguenza di un tal sistema era l'accrescimento de' tributi per
aver mezzi onde stipendiare quegli estranei, ai quali si commetteva
la difesa dello Stato. Oltre il catasto generale de' fondi (che si
fece, siccome vedemmo, verso la metà del secolo decimoterzo, e sul
quale s'incominciarono a ripartire i carichi pubblici, che prima si
distribuivano per capitazione, ovvero sulla stima annua de' frutti
raccolti) s'instituì la privativa della vendita del sale, di cui la
più antica memoria che abbiamo ce la riferisce il Corio all'anno 1272.
In un trattato fra il re Roberto di Napoli e i fuorusciti milanesi del
partito de' Torriani, promise il re che egli non avrebbe guadagnato
nella vendita del sale se non venti soldi papali per ogni moggio, e
ciò per il sale comune; il bianco però e raffinato era libero a lui il
venderlo come più gli fosse piaciuto. Questo trattato si fece l'anno
1312. Venti soldi papali del secolo decimoquarto valevano, secondo il
calcolo del Muratori, ventiquattro paoli[88]. Il moggio è di staia
settanta; e, ciò posto, la gabella si riduceva a cinque soldi de'
nostri per ogni staio di sale; così che a un dipresso allora prometteva
di venderlo al valore che oggidì corrisponderebbe a soldi quaranta per
ogni staio. Per un trattato di commercio che si fece fra i Milanesi ed
i Veneziani l'anno 1317, segnalo il giorno 30 d'agosto in Venezia, i
Veneziani si obbligarono a dare a quegli il sal marino, e i milanesi
si obbligarono a prenderlo tutto da essi, ed a non spanderlo nè sul
Comasco nè sul Veneto. A noi rimase però la libertà di venderlo poi
agli abitatori delle Alpi. Questo pregievole monumento ritrovasi in un
antico codice MS. presso del signor marchese Giovanni Corrado Olivera,
signore venerabile per l'integrità e beneficenza, più ancora che per
i luminosi titoli e la presidenza del senato. Sono già più di quattro
secoli e mezzo da che prendiamo i sali da Venezia, e li vendiamo agli
Svizzeri e Grigioni. Al tempo di Luchino, la gabella del sale della
città di Milano e del contado gli fruttava tremila fiorini d'oro[89];
presentemente se ne ricava cinquanta volte altrettanto. È vero che
l'oro allora aveva notabilmente più di valore che ora non ha, dopo
l'abbondanza che ne hanno prodotte le nuove miniere e il commercio,
siccome torno a ricordare. Non abbiamo notizie bastanti di quei tempi
per indicare i positivi prezzi ai quali siasi venduto il sale alle
gabelle. Sappiamo però dai registri civici esaminati dall'instancabile
conte Giulini, che verso la fine del secolo decimoquarto si vendeva a
soldi cinquanta lo staio; prezzo veramente gravoso, poichè il fiorino
d'oro correva a soldi trentadue[90]. Il carico poi della macina alle
porte di Milano erasi imposto sino dell'anno 1333, come ce ne fa fede
una carta dell'archivio dello spedal maggiore, esaminata dal conte
Giulini[91]. La gabella della _Dovana_ eravi pure già verso la fine del
medesimo secolo decimoquarto[92]; poichè vi è il decreto che dice:[93]
_cum etiam per datiarios Dovanae bestiarum grossarum et minutarum dicti
vestri comitatus fiant diversimodae extorsiones_: così faceva scrivere
latino il signor di Milano l'anno 1381, dopo il lungo soggiorno fatto
in questa città da Francesco Petrarca! Si vede che sino da quel tempo
s'era introdotta l'usanza d'affittare le regalie, o, per dir meglio,
la pace, la sicurezza e la libertà del popolo ad un impresario:[94]
_volumus bene quod incantatoribus datiorum dicti nostri Comunis
serventur eorum data_[95]. Era riserbato al glorioso regno dell'augusta
Maria Teresa di atterrare quest'obice, che divise i contributori dal
principe per quattro secoli. Il carico _Datium imbottaturae vini_,
cioè l'_imbottato_, eravi già anticamente, ma si pagava soltanto sul
vino raccolto; indi l'anno 1392 vennero assoggettati a questo tributo
anche i grani[96]. Chi ne cercasse più esatte prove, le troverebbe
presso il conte Giulini[97]. Il carico poi sulle merci si andava
proporzionatamente accrescendo; mentre laddove questo era tassato, nel
principio del secolo decimoterzo, in proporzione del valore, a poco più
dell'uno per cento, come si vede nella tariffa annessa agli statuti
compilati nel 1216; nell'anno poi 1333 il carico era asceso a un
soldo per ogni lira di valore, il che monta al cinque per cento, come
leggesi nel codice MS, del nominato signor marchese Corrado Olivera,
presidente onoratissimo del senato. Da un verosimile calcolo preso
in massa, oggidì questo tributo corrisponde circa al sei per cento
del valore. Oltre questi carichi, v'era la tassa de' cavalli, imposta
verosimilmente l'anno 1315, per mantenere le paghe della cavalleria.
V'erano le condanne pecuniarie de' delitti, emanazione ancora vigente
delle leggi longobarde. V'erano altre antiche gabelle sulle case, su
i forni, sopra i mulini, i macelli, i contratti, le misure, i pesi ed
altre delle quali ho fatto menzione al capitolo ottavo.

La grandezza dell'arcivescovo e del clero milanese scomparve colla
soggezione da Roma, e coll'erezione del principato. Non vi è memoria
che, dopo la metà del secolo duodecimo, siansi mai chiamati i nostri
ordinari,[98] _sanctae mediolanensis ecclesiae cardinales_, come
facevano per lo passato. Essi però, sino dal secolo decimoterzo,
portavano la porpora; e questa distinzione, che tuttavia conservano, è
antica per lo meno cinque secoli. In que' tempi però assai liberamente
vestivansi gli ecclesiastici, ed eran ben lontani da quella edificante
uniformità e modestia che ora gli distingue. Manfredo Occhibianchi,
canonico di Sant'Ambrogio, fece un testamento il giorno 18 marzo,
l'anno 1203, che si conserva nell'archivio di quella basilica, e
di cui parla il conte Giulini[99], e lascia[100] _manstrucam unam
conilii, cohopertam de violato, et alias duas..... scilicet unam
volpinam, cohopertam de scalfanio, et aliam de flanchitis, cohopertam
de sagia bruna, et...... capellum meum grisum, cohopertum de sagia
nigra, et cohopertorium meum, et scradam seu diproidam meam... cappam
meam blavetam........ cappam meam de mantellato... quinque coclearia
argenti, et mantellum meum foderatum de zendado..... vestitum violatum
meum._ Da ciò osserviamo che di tutte le vesti, nulla v'era di nero
fuori del cappello, voce che di già si era inventata per dinotare
quelle berrette che allora si ponevano sul capo; ma tutti i vestiti
di quell'ecclesiastico erano di colore violato, ceruleo o bruno. La
parola _blavetam_ sembra nata dal teutonico _blau_ ossia _bleu_,
come noi Lombardi anche oggidì nominiamo quel colore, similmente
ai Francesi. I cucchiai d'argento si vede che già erano in uso. Nè
gli ecclesiastici si vestivano tampoco con colori modesti, poichè,
l'anno 1211, l'arcivescovo Gherardo da Sessa fece un editto in cui
leggesi:[101] _Universis praeterea clericis interdicimus vestes rubeas,
vel diversi, coloris gialdas et virides_[102]; la quale proibizione non
bastò a togliere tale usanza degli ecclesiastici; poichè in un concilio
provinciale tenutosi un secolo dopo di ciò, nuovamente si dovette
stabilire che gli ecclesiastici non portassero[103] _vestes virgulatas,
seu de catabriato dimidiatas, vel listatas, vel frixis, vel maspilis
argenteis, vel de metallo aliquo_, e non dovessero portare cappucci a
modo dei secolari,[104] _ad modum laicorum capucia non habentes_[105].

Nella guerra i militi erano tutti coperti di ferro, e, calata la
visiera, non si potevano conoscere se non dal pennacchio o altra
insegna. Filippone, conte di Langosco, poichè ebbe in suo potere il
cimiero di Marco Visconti, si presentò co' suoi alle porte di Vercelli,
le quali (credendolo Marco i Vercellesi) gli vennero aperte; e con tale
astuzia se ne impadronì l'anno 1312. Nella più antica compilazione
de' nostri Statuti, fatta, come ho detto, nel 1216, vi si legge la
rubrica de' duelli. Si combatteva o in persona, ovvero un campione
si batteva per altrui commissione. Si celebrava la messa in presenza
de' due combattenti, si deponevano le armi presso dell'altare, il
sacerdote le benediceva, indi venivano sigillate e venivano portate al
luogo della lizza, ove sedeva il giudice. Ivi si presentavano i due
combattenti coi loro patrocinatori. Interrogavano questi il giudice
s'egli ivi risedesse affine di giudicare la lite col duello, e il
giudice rispondeva che appunto ivi a tal fine si era collocato. Il
patrocinatore del pretendente ad alta voce chiedeva la cosa per cui
doveva farsi il duello; e ad alta voce il patrocinatore opposto lo
negava. Indi s'accostavano i due combattenti al giudice; e ciascuno
di essi con giuramento affermava essere vero e giusto ciò che dal
suo patrocinatore erasi detto. Il giudice poi faceva che giurassero
entrambi, che non si presentavano al cimento con alcuna forza d'erbe di
parole o di maleficio; il che fatto, davansi loro lo scudo e le armi.
Questa cerimonia a un di presso così facevasi in tutta l'Europa in quel
secolo. V'erano ancora altri giudizj di Dio; quello del ferro rovente
da portarsi nella mano nuda non era permesso in Milano:[106] _illud
autem scire opportet quod ferventis ferri judicium in nostra civitate
non admittitur, licet in quibusdam locis jurisdictionis dominis
archiepiscopi secus obtineat_; così nei nostri Statuti di quei tempi.
Bensì era ammesso il giudizio di Dio coll'acqua fredda, e questo da noi
non era punto crudele; poichè si prendeva un fanciullo, e con una fune,
senza pericolo, si tuffava nell'acqua, e immergendosi il fanciullo, che
tosto s'estraea, il reo era assoluto.

Finalmente vorrei poter dare un'idea della coltura nostra verso
quell'età, ma le notizie non erano copiose in nessuna parte
dell'Europa. Avemmo un medico che compose le pandette della medicina,
dedicate al re di Napoli Roberto. Questi si chiamava Matteo Silvatico,
milanese, che scrisse l'anno 1317. Quel libro si stampò a Venezia
l'anno 1498. Un altro milanese ebbe nome presso dei giusperiti, cioè
Signorollo Omodeo, le opere del quale non sono ignote ai forensi. Ma di
bella letteratura non ne abbiamo vestigio alcuno. Uno dei più antichi
poeti italiani fu Pietro da Bescapè, nostro milanese. Egli scrisse i
suoi versi nell'anno 1264, nel quale pretese di tradurre in poesia la
storia del Vecchio testamento. L'autore così comincia:

    «Como Deo a facto lo mondo,
    E como la terra fo lo homo formo.
    Cum el descendè de cel in terra
    In la Vergine Regal polzella,
    E cum el sostenè passion
    Per nostra grande salvation,
    E cum verà el dì del ira
    La o sarà la grande roina
    Al peccator darà grameza
    Lo justo avrà grande alegreza,
    Ben è raxon ke l'omo intenda
    De que traita sta legenda».

Il fine di questo canto, poema o diceria, qualunque si voglia chiamare,
è ancora più rozzo del principio, e così termina:

    «Petro de Bescapè, ke era un Fanton,
    Si a facto sto sermon,
    Si il compilò e si la scripto.
    Ad onor de Ihu Xpo
    In mille duxento sexanta quattro
    Questo libro si fo facto,
    Et de junio si era lo premier dì
    Quando questo libro se finì,
    Et era in seconda diction
    In un venerdì abbassando lo sol».

L'antico manoscritto trovasi nella scelta libreria del signor conte
Archinto. Non più felice del Bescapè fu il nostro frate Bonvicino da
Ripa, i di cui poveri versi si trovano nella Biblioteca Ambrosiana,
fra i quali vedesi che fino dall'anno 1291 si conoscevano quei versi
che nei tempi a noi vicini si chiamarono Martelliani. Frate Bonvicino
con tal metro compose le _Zinquanta cortesie da Tavola_, le quali così
cominciano:

    «Fra Bon Vexin da Riva, che sta in Borgo Legnano,
    D'le cortexie da descho ne dixette primano:
    D'le cortexie cinquanta che s'de osservare a descho
    Fra Bon Vexin da Riva ne parla mo de frescho.»

Costoro scrissero prima che Francesco Petrarca dimorasse in Milano;
ma certo Galliano scriveva l'anno 1391; e ne conservano l'antico MS. i
monaci di Sant'Ambrogio. Costui non lesse mai le dolci e sensibili rime
del Petrarca; nè pose mai il piede nel suo Linterno; così questo rozzo
scrittore terminò la sua cantilena:

    «E se di chi l'ha facta alcun se lagna
    Digli che sta alla Pietra Cagna
    in Milano
    E facta sotto l'anno MCCCLXXXX.uno
    Indictione quarta decima
    Per man d'uno
    Che non decima denari
    Perchè gli sono sì selvaggi e contrari
    Che non se ponno domesticare
    Ne stare con lui
    A dirlo contra vui
    El se giama dalla Terra che fronteggia Cantu».

Queste sono le sole reliquie che siano da quei tempi trapassate alla
cognizione nostra; e ben a ragione il signor abate Paolo Frisi, che ci
vantiamo d'aver per concittadino, e che mi onora colla sua amicizia,
nell'Elogio del Cavalieri, sul proposito della venuta a Milano del
Petrarca e dello stato delle lettere milanesi in que' tempi, così
s'esprime: «I tempi dell'antica anarchia, le guerre intestine ed
estere del principato, la fiera e bellicosa indole dei nostri principi,
avevano lasciato appena qualche adito tranquillo e libero agli studi
della pace... que' semi esotici non trovando il terreno bastantemente
preparato a riceverli, non allignarono molto sotto del nuovo cielo.
Non vi si videro spuntare per molto tempo che informi compilazioni,
popolari leggende, storie non ragionate, prose snervate e languide,
poesie che di poetico non avevano altro che il metro e la desinenza
delle parole, ec.»



CAPITOLO XIII.

  _Della signoria dei tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo
  Visconti._


Nella successione de' Visconti non si vede seguita una legge costante.
Matteo I aveva quattro figli: dopo la di lui morte restò unico signore
Galeazzo I, a cui successe Azzone di lui figlio. Pareva adunque il
principato ereditarsi dal primogenito. Ma dopo di Azzone, morto senza
figli, la signoria passò a' due fratelli Luchino e Giovanni, senza che
i figli di Stefano vi avessero parte; i quali pure avrebbero dovuto
possedere l'eredità paterna, se lo Stato fosse un bene divisibile. In
fatti, morto Giovanni, i tre soli discendenti di Matteo riconosciuti
legittimi, cioè Matteo, Barnabò e Galeazzo, figli di Stefano,
diventarono padroni e si divisero lo Stato. Non vi erano in que'
tempi idee chiare di gius pubblico. Il principato era un podere, non
una dignità instituita per il bene dello Stato. Tutto il bene che un
sovrano faceva al suo popolo non era considerato allora come il più
sacro dovere adempiuto, ma bensì come un'accidentale beneficenza d'un
animo generoso. Terminata che fu la vita di Giovanni, la divisione
si fece di comune accordo fra i tre fratelli. A Matteo toccarono
le città che s'inoltrano nell'Italia, a Barnabò la provincia che
s'accosta a Venezia, ed a Galeazzo toccarono le terre che ora sono
appartenenti al Piemonte. Milano e Genova rimasero indivise sotto
la comune dominazione. Matteo così ebbe in sua separata porzione
Bobbio, Lodi, Piacenza, Parma e Bologna. Barnabò ebbe Cremona,
Crema, Bergamo e Brescia. Toccarono a Galeazzo Pavia, Alessandria,
Tortona, Novara, Vigevano, Asti, Vercelli; e Como, che rimaneva come
isolata, fa pure assegnata a Galeazzo. Con tal modo altro non mancava
se non la dissensione o diffidenza per distruggere una signoria
ragguardevolissima. Ma nelle cose umane comunemente accade che nè si
ottenga tutto il bene che ragionevolmente si poteva sperare, nè si
soffrano tutt'i mali che con ragione si dovevano prevedere; e talvolta
le più scomposte ed assurde organizzazioni di sistemi, le quali pareva
che dovessero rovinare uno Stato, si sono ridotte ad effetto, senza
che per ciò siane accaduto il danno che compariva inevitabile: poichè
nell'esecuzione, gl'interessi degli uomini che vi si adoperano, essendo
quelli d'evitare la rovina, rimediano e correggono l'imperfezione
del sistema. Così lo Stato si conservò, crebbe anzi, come vedremo, e
potè lusingarsi il successore de' tre fratelli d'essere dichiarato re
d'Italia; e forse lo sarebbe stato, se la morte non troncava il filo
della di lui ambizione.

Lodovico il Bavaro, ossia Lodovico V, quel contrastato imperatore,
avea terminato i suoi giorni, ed era stato eletto legittimamente
imperatore Carlo IV, marchese di Moravia, figlio di Giovanni re di
Boemia, e di Elisabetta, che era figlia di Enrico di Lucemburgo. Carlo
IV era riconosciuto e dai principi della Germania e dal papa e da tutta
l'Europa, come vero re de' Romani. La di lui elezione era accaduta
l'anno 1347, e in quel punto le dispute già da trentanni incominciate
fra il sacerdozio e l'Impero erano terminate. Carlo IV se ne venne
in Italia per ricevere le due corone del regno italico e dell'impero
romano. I principi d'Italia, che temevano la potenza de' Visconti, non
mancarono di profittare dell'occasione, e d'animare quell'augusto ad
abbatterla, promettendogli ogni aiuto e vantaggio. Ma sia che a Carlo
premesse maggiormente l'acquisto del denaro per sè medesimo, anzi che
la difesa di quella autorità che per caso era annessa alla persona
di lui; sia che l'esempio de' suoi antecessori l'avesse istrutto a
non adoperare la forza delle armi ausiliarie, per non correre ei pure
il pericolo di vedersi abbandonato da' suoi, prima di avere ridotti
i progetti a fine; sia che le forze dei Visconti fossero tali da non
lasciargli sperare un buon esito; sia finalmente che il genio mite e
rivolto alle lettere di quel re lo distogliesse da simile briga, certo
è ch'egli allora si mostrò anzi amico dei Visconti. I fratelli Visconti
mandarongli incontro i loro ambasciatori a Mantova, invitandolo a
passare a Milano e ricevervi la corona; e il re accettò l'invito.
Appena Carlo IV si trovò sulle terre dei Visconti, non dovette aver
più pensiero alcuno; poichè ogni cosa eravi magnificamente preparata
per alloggio, ristoro e trasporto di quell'augusto e di tutta la corte
che veniva seco. I Visconti non risparmiarono nè spesa, nè attenzione.
A Lodi se gli presentò Galeazzo, e, resogli omaggio, lo accompagnò
con cinquecento militi alla vòlta di Milano. A Chiaravalle gli andò
incontro Barnabò con altri militi, e fece dono al re di trenta superbi
cavalli, coperti di velluto, di scarlatto e di drappi di seta, tutti in
ricco e magnifico arnese. (1355) Entrò in Milano quel Cesare il giorno
4 di gennaio dell'anno 1355; e venne da tutto il popolo festosamente
accolto con rumore di nacchere, cornamuse, tamburi e trombe, siccome
allora era il costume. Venne splendidamente alloggiato nel palazzo ora
della regia ducal corte, dove avevano presa dimora i suoi antecessori
Enrico VII, che noi diciamo VI, suo avo materno, e il combattuto
Lodovico V. Non vi è dimostrazione di rispetto e di benevolenza che
i Visconti abbiano dimenticata. Protestarono di riconoscere la loro
signoria dall'Impero: e l'imperatore, al quale regalarono duecentomila
fiorini d'oro, dichiarò i tre fratelli vicari imperiali ne' loro Stati.
Si fecero giostre, feste e corti bandite per onorare l'augusto ospite,
fra le pompe che i Visconti immaginarono in quella occasione, una
singolarmente fu significante; e fu quella di passare schierati sotto
le finestre di corte, ove alloggiava l'imperatore, seimila uomini a
cavallo, signorilmente equipaggiati, e diecimila fanti; e i Visconti
dissero a quel monarca che quelle forze e le altre molte che tenevano
nelle altre città del loro Stato, erano tutte pronte per servigio suo.
Per que' tempi erano queste forze di molta considerazione. La cerimonia
della incoronazione si celebrò in Sant'Ambrogio dall'arcivescovo
Roberto Visconti, il giorno 6 di gennaio: e in quell'occasione il
re Carlo creò milite il figlio di Galeazzo, cioè Giovanni Galeazzo,
bambino di due anni. Questo bambino fu poi il primo duca, e diventò un
potentissimo principe, come vedremo. Alcuni giorni dopo partì il re
Carlo, e s'incamminò alla vôlta di Roma. Pretende Matteo Villani che
questo re non fosse stato nelle mani dei Visconti senza inquietudine.
Sarebbe questa una prova della pusillanimità di quel principe, giacchè
non potevano sperare alcun vantaggio i Visconti nè da un affronto, nè
da un tradimento che gli facessero, allorchè era abbandonato nelle loro
mani.

Prima che terminasse l'anno, il triumvirato fu tolto, e colla
improvvisa morte di Matteo II lo Stato si divise in due sole parti
fra Barnabò e Galeazzo II. Matteo II aveva molto vigor fisico e
poca forza di mente. Dopo ch'egli ebbe in sua porzione Bologna,
la perdette, per aver cercato di scemare lo stipendio a quei che
potevano soli conservargliela. Matteo operava in modo da perdere
la signoria, e trascinar seco in rovina anco i fratelli; poichè,
diventato padrone, cercava di possedere per autorità e senza mistero
quello che tutt'al più si carpisce industriosamente fra le tenebre.
Egli giunse a minacciar la morte ad un cittadino ammogliato con una
bellissima donna, perchè contrastava di cedergli i suoi diritti. Questi
presentossi a Barnabò chiedendo giustizia, e dichiarandosi con molto
impeto di esser pronto a morire, anzi che acconsentire a tanta infamia.
Barnabò lo accolse con freddezza ed indifferenza; poichè, trattandosi
del suo maggior fratello, a lui, disse, non toccava il correggerlo:
poi concertato l'affare con Galeazzo II, vedendo che Matteo era
incorreggibile nella scostumatezza, che già serpeggiavano nel popolo
delle sorde e tronche voci, e che correvasi rischio, temporeggiando e
lasciando moltiplicare gl'insulti, di vedere lo Stato in rivoluzione,
per evitare il fatto de' Tarquini, divennero fratricidi come Romolo;
almeno così ci racconta Matteo Villani[107]. Si dice altresì che a
questo timore un altro vi si accoppiasse per unire o indurre a tale
estrema risoluzione i due cadetti Barnabò e Galeazzo, e fu che,
trovandosi i tre fratelli insieme cavalcando, nell'osservare il fecondo
e ridente paese del quale erano signori, uno de' cadetti dicesse che
era pure la bella cosa l'esservi sovrani; e che incautamente allora
al primogenito fuggisse di bocca, che bella cosa era l'esser solo; la
quale risposta (non essendovi stato prima d'allora altro esempio di
signoria promiscua veramente, meno poi di signoria divisa) doveva dar
molto da temere ai due principi minori. Qualunque ne fosse la cagione,
Matteo II morì il giorno 26 di settembre dell'anno 1355; e Barnabò e
Galeazzo si divisero la di lui porzione. Anche Milano venne divisa:
Barnabò ebbe la parte d'oriente e mezzodì; l'aquilone e l'occidente
della città l'ebbe Galeazzo. V'ha chi pretende altresì che nessun
altro motivo vi fosse stato per escludere dalla successione Luchino
Novello, e farlo comparire illegittimo, fuori che le minacce e le
brighe di Barnabò e Galeazzo, colle quali intimorissero la Fieschi,
già colpevole della licenziosa peregrinazione non solo, quant'anche del
veneficio, e la inducessero a dichiarare il figlio macchiato nella sua
origine, e a contentarsi d'uscire illesa dalle loro mani; onde l'essere
vivo il legittimo successore sempre più rendesse sospettosi e Barnabò
e Galeazzo II. Fors'anco la divisione dello Stato mostra ch'essi
piuttosto si divisero una preda. Non sono divisibili le sovranità
passate per legittima successione.

Carlo IV, dopo di essere stato incoronato anche in Roma, se ne ritornò
al suo paese; ma non per questo cessarono gli emuli principi d'Italia
di eccitare per ogni modo l'animo di quell'augusto a deprimere i
Visconti. (1356) I maneggi degli Estensi, dei Gonzaghi e del marchese
di Monferrato indussero Marquardo, vescovo d'Ausburgo, il quale
stavasene in Pisa col carattere di vicario imperiale, a citare i
fratelli Visconti per il giorno 11 di ottobre 1356 a comparire dinanzi
al suo tribunale e discolparsi d'aver conferite con arrogata facoltà le
dignità ecclesiastiche, di aver tessute all'imperatore delle insidie
a Pisa, e di aver fatte chiudere le porte delle città, impedendovi
l'ingresso al medesimo imperatore nel suo ritorno da Roma[108]. I due
fratelli Visconti non pensarono nemmeno a questo viaggio. Il vescovo
Marquardo radunò le forze degli emuli: e si pose alla testa di un
corpo d'armati rispettabile, incamminandosi verso Milano. S'impadronì
di varie città; poichè i Visconti o non avevano preveduta una tale
invasione, ovvero avevano negligentate le difese. La stessa campagna di
Milano venne esposta alle prede ed ai guasti de' nemici. Si postarono
gl'imperiali ne' contorni di Casorate; e i due fratelli finalmente,
radunate le loro forze, ne confidarono il comando al vecchio Lodrisio
Visconti; a quel Lodrisio che, diciasette anni prima, colle armi
alla mano, venne preso a Parabiago, allorchè cercava di togliere la
sovranità ad Azzone. Il valore di Lodrisio e la sua perizia produssero
la vittoria del giorno 14 di novembre l'anno 1356. I nemici vennero
disfatti a Casorate; il vescovo Marquardo d'Ausburgo, loro comandante,
rimase prigioniero, fu condotto decorosamente a Milano, e dai Visconti
fu poi licenziato, onde ritornossene nella Germania. Lodrisio Visconti
ricompensò per tal modo la vita che gli lasciò Azzone, e la libertà
che gli diede Giovanni, principi illuminati, i quali conobbero che un
generoso perdono ci affeziona più di qualunque altro beneficio un'anima
nobilmente energica. I Visconti, signori quasi tutti assai valorosi,
affrontarono intrepidamente i pericoli prima che reggessero lo Stato;
seduti poi che erano sul trono, ben rare volte si esponevano; ma
affidavano anzi ai loro figli o cugini ed altri estranei il comando.
La sconfitta di Casorate però non tolse la speranza ai collegati,
dai quali non si risparmiavano maneggi. Il papa non vedeva punto
con indifferenza il gran potere de' Visconti, e soprattutto da che
Bologna era un oggetto delle loro pretensioni; il che ottenendo essi,
era aperta loro la strada a nuovi acquisti sulla Romagna. Ai Genovesi
non era men gravosa questa estera dominazione sulla loro città, in
prima libera, e già illustre per imprese marittime e per ricchezza. Il
papa, i Genovesi, gli Estensi, il marchese di Monferrato e i Gonzaghi
facevano causa comune. Già Bologna, siccome accennai, si era staccata.
Genova fece lo stesso; e il giorno 17 di novembre 1356 si dichiarò
libera, e creossi un doge, che fu Simone Boccanegra. (1358) Dopo ciò,
seguirono varii piccoli fatti d'armi sul Milanese; ma le cose de'
fratelli Visconti non prendevano buona piega; onde furono costretti,
cedendo Asti e Pavia al marchese di Monferrato, di cercare la pace, la
quale fu stabilita il giorno 8 di giugno dell'anno 1358.

Non era piccol discapito per Barnabò e Galeazzo l'avere, ne'
primi quattro anni del loro regno, perduto Bologna, Genova, Asti
e Pavia. Questa ultima città singolarmente doveva premere a' due
fratelli; poichè a venti miglia di Milano non potevano vedere, senza
inquietudine, domiciliata una guarnigione di nemici. Ma nemmeno
conveniva mancare apertamente alla fede d'una pace appena giurata,
senza una superiorità di forze che ne imponesse alla opinione dei
popoli. Le fazioni interne di Pavia fecero quasi spontaneamente nascere
l'occasione, e Galeazzo Visconti la seppe cogliere. Il fatto ce lo
riferisce l'Azario. Il marchese di Monferrato, nuovo signore di Pavia,
non aveva forza d'armi bastante per esercitarvi una piena sovranità.
La famiglia de' signori Beccaria era assai potente, e disponeva
delle cose della città più che non ne potesse fare il marchese, nuovo
sovrano. Egli cercò pure come abbassare i Beccaria, e toglier loro quel
favore popolare che li faceva prevalere, e gli venne in pensiere che
nessun altro avrebbe meglio potuto ottenergli quest'intento, fuori che
frate Giacomo del Bussolari, agostiniano, predicatore rinomatissimo
in Pavia, dietro del quale, come a santo uomo, correva ciecamente
il popol tutto. Quai mezzi adoperasse il marchese per guadagnarsi
questo frate Giacomo de' Bussolari non lo sappiamo: sappiamo bensì
ch'egli lo guadagnò, e sì fattamente, che il frate fece passare il
popolo pavese, dell'amore passionato che aveva, alla detestazione ed
all'odio contro dei Beccaria, per modo che furono costretti a partire
esuli dalla patria. Cominciò il frate, nelle sue prediche, a indicarli
al popolo, senza però palesemente nominarli:[109] _O frumentarii, o
viri sanguinum populi, non expectatis diem judicii?_ Andava costui
esclamando, e persuadeva che la carezza del pane fosse cagionata dalla
insaziabile avarizia de' fratelli Beccaria:[110] _Ipse praedicando
fertur propalasse occulta illorum de Beccaria, quae sibi narrata
fuerant nomine poenitentiae, et praecipue de domino Castellino talia
dixit, quod universum populum pellexit et animavit ad destructionem
universorum de Beccaria, et eorum prolis, et progeniei, et amicorum
suorum, et ad ruinam, et populationem eorumdem. Et tunc, sine ulla
defensione praecedente, universas illorum ac sequacium domos, aedes et
palatia dirui fecit, et asportari lapides, et vendi, praedicans quod
quisque Papiensis ipsos lapides teneret sub pulvinari, et capite lecti,
ad perpetuam memoriam male gestorum per ipsos de Beccaria_[111]. Gli
esuli Beccaria si rifugiarono a Milano presso Galeazzo, implorando
soccorso. È assai probabile che da Galeazzo medesimo fossero stati
animati i Beccaria, per attraversare le voglie del loro nuovo sovrano
marchese di Monferrato. Galeazzo II spedì Luchino dal Verme, valoroso
comandante, alla testa d'un conveniente numero di armati, con apparenza
di proteggere gli oppressi e di porre l'ordine in una città vicina
tumultuante, sotto un sovrano che non aveva forze bastanti per darle
la pace. Fu così bloccata quella città, in cui frate Giacomo comandava
dispoticamente, creando e cassando a suo arbitrio i magistrati. A tal
proposito io riferirò le stesse parole d'Azario:[112] _Nam a carrocio,
quo saepius vehebatur (et beatus ille qui poterat tangere id carrocium,
pro vehendo palliis cohopertum!) caepit praedicare, et increpare quod
homines, et mulieres debebant a laqueis mundanis declinare, nempe a
vestibus luxuriosis et sumtuosis, ab argenteis, et gemmis praetiosis,
et ornamentis...... et in exequutorem eligi fecit officialem, quem vidi
incidendo maniconos guarnazonorum phrigio opere contextos, vel auro,
et argento ornatos, et incidendo balthea si quid praetiosi inveniebat
circa ea_. Nè tale pure era il limite del potere di questo frate
Giacomo de' Bussolari. Egli giunse al segno che[113] _fecit publicam
justitiam per capitis obtruncationem.... Venditis ergo praedictis
auro, et argento, gemmis, adamantibus, et lapillis praetiosis usque in
Venetiis_, radunò una somma destinata a provvedere i viveri alla città.
Ma non era facile l'introdurveli, e Luchino dal Verme vegliava intorno
da ogni parte. Si cominciò a provare in Pavia la fame, e il frate
scorreva per la città nel suo calessetto, gridando al popolo:[114] _ne
dubitaret de victualibus, quum sciret ipse, ita enim affirmabat, per
orationes.... se impetraturum ut manna similis datas Moysi in deserto
defluxura esset ad sufficientiam_. I Pavesi alla fine, ridotti alla
estremità, si diedero a Galeazzo II, al quale avevano già ubbidito; e
frate Giacomo de' Bussolari ebbe la cura di capitolare, e provvide a
tutto per la città, e nessuna condizione ricercò per sè medesimo:[115]
_curaverat de aliis, non autem de se ipso, prout semper allegabat
praedicando_[116]. Il generale del suo Ordine pregò poscia Galeazzo II,
dal quale ottenne il frate, che terminò i suoi giorni in carcere. Così
Pavia ritornò in potere dei Visconti.

Non così facile riuscì ai Visconti il riavere Bologna; chè anzi,
malgrado l'ostinazione e gli sforzi di Barnabò, questi non potè, sin
che visse, averla in suo dominio. Una signoria divisa non è nel momento
opportuno d'ingrandirsi. Fra Barnabò e Galeazzo II non trovavasi
molta armonia; i vizi loro, la maniera di governare atrocemente, non
disponevano i popoli a bramare il loro impero. I principi italiani,
tanto più attivi e costanti, quanto più speravano di riuscire
contro di uno Stato diviso, non risparmiarono arte e forza in ogni
occasione; per modo che non v'è da maravigliarsi come sotto i due
fratelli non s'ampliasse lo Stato, ma bensì come ei non cadesse in
un totale discioglimento. (1360) Bologna era passata nelle mani del
papa, e Barnabò vi spinse le sue armi l'anno 1360, ma senza frutto;
poichè Innocenzo VI fece venire nell'Italia Lodovico re d'Ungheria,
con buon numero di armati, in soccorso di Bologna, e Barnabò dovette
ritirarsi. Quel sommo pontefice scomunicò Barnabò Visconti; e Urbano
V, che fugli successore, confermò la scomunica con sua bolla[117].
I delitti che s'imputavano in quella bolla a Barnabò Visconti sono:
ch'egli proteggesse gli eretici; ch'egli un giorno, avendo fatto
chiamare avanti di sè l'arcivescovo, torvamente gli avesse comandato
di porsi in ginocchio, il che fattosi dal timido prelato, Barnabò
gli dicesse:[118] _Nescis, poltrone, quod ego sum papa et imperator
ac dominus in omnibus terris meis_; ch'egli sugli ecclesiastici
esercitasse giurisdizione, obbligandoli a pagare i carichi, facendoli
imprigionare, e condannandoli al supplizio, come gli altri cittadini,
e che si arrogasse la collazione de' beneficii e l'amministrazione de'
beni ecclesiastici. Questa era la settima volta in cui il papa prendeva
a scomunicare ed interdire i signori o la città di Milano. Già vedemmo
al capitolo quinto gli anatemi pronunziati, nel secolo undecimo, da
Alessandro II, all'occasione di sottomettere la chiesa milanese alla
giurisdizione di Roma. Vedemmo pure, al capitolo nono, l'interdetto
pubblicato sopra Milano da Innocenzo III, l'anno 1216, per fargli
abbandonare il partito di Ottone IV; e l'altro interdetto di Urbano IV,
di cui ho fatta memoria al capitolo decimo, per abbassare i signori
della Torre, nel 1262; poi le scomuniche pronunziate contro Matteo I
Visconti, nell'anno 1321, allorchè la potenza di lui cominciava a dar
gelosia a Giovanni XXII, di che trattossi al capitolo undecimo. Vedemmo
pure come lo stesso sommo pontefice, non contento della scomunica
e dell'interdetto sulla città, facesse pubblicare contro Galeazzo
I una Crociata, e invadere il di lui Stato. Vedemmo nel capitolo
precedente come il papa Clemente VI ponesse all'interdetto la città,
e scomunicasse Giovanni Visconti, arcivescovo, e i tre suoi nipoti
Matteo, Barnabò e Galeazzo II, perchè aveva l'arcivescovo comprato dal
Pepoli il dominio di Bologna. Ora la scomunica cadde sopra Barnabò,
il quale era stato già due altre volte anatematizzato di riverbero,
come discendente da Matteo e nipote di Giovanni. Il papa, per mezzo
d'un cardinal legato, faceva delle proposizioni di accomodamento
a Barnabò. Bologna era stata comperata da Giovanni arcivescovo per
ducentomila fiorini d'oro. Questo era il solo titolo che poteva Barnabò
legittimamente allegare per sostenerne il dominio; e il legato gli
offeriva di sborsargli la metà di quella somma, cioè centomila fiorini
d'oro, purchè egli abbandonasse le sue pretensioni sopra Bologna. Ma
Barnabò non faceva altra risposta se non questa: _Voglio Bologna_.
Nuove offerte faceva il legato, e Barnabò rispondeva sempre: _Voglio
Bologna_. Per deludere tutte le arti d'un uomo colto, ingegnoso ed
accorto, basta ch'egli abbia a trattare con un uomo ostinato, ignorante
e feroce. Tali erano i dialoghi tra Barnabò ed il legato. Gli Annali
Milanesi e' insegnano che[119] _ipse dominus diebus suis scientificos
laicos, clericos, et praelatos, ac quoslibet virtuosos viros odio
habuit; et idiotas, crudeles, abjectos viros, infames et homicidas
semper sublimavit_[120]. Un principe di tal carattere poteva far
tremare gli uomini di merito che avevano la sventura di trovarsi con
lui, ma non poteva riuscire felicemente ne' suoi progetti. Le sue armi
ritornarono verso del Bolognese l'anno 1361, e più d'una volta vennero
malamente battute, senza ch'ei punto acquistasse.

Due fatti accaduti in quel tempo dimostrano qual principe fosse
Barnabò, e qual rispetto egli avesse pel gius delle genti. Innocenzo
VI gli spedì come nunzii due abati benedettini. Essi erano incaricati
di trattar seco lui, per terminare la controversia di Bologna, ed
avevano le bolle pontificie da presentargli. Ciò accadde nell'anno
1361. Barnabò stavasene nel castello di Marignano, rintanato colà
per allontanarsi dalla ferocissima pestilenza che devastava Milano,
abbandonata dai due fratelli al caso, e senza adoperare alcuna di
quelle precauzioni colle quali Luchino loro zio, nell'anno 1348, cioè
tredici anni prima, aveva saputo preservarla, abbenchè allora quella
sciagura avesse desolata gran parte dell'Italia. Ivi attese i due
nunzi, e concertò la cosa per modo che il primo incontro con essi loro
seguisse al ponte sotto cui scorre il fiume Lambro. Barnabò, scortato
da una buona caterva d'armati su di quel ponte, ricevè i due nunzi, i
quali se gl'inchinarono, e presentarongli le bolle consegnate loro dal
papa. Barnabò seriamente si pose a leggerle, indi biecamente mirando i
due ministri: «Scegliete, disse, una delle due, o mangiare o bere». I
due nunzi, posti in mezzo agli armati, senza scampo, mirando il fiume
che scorreva al disotto, costretti dopo replicate e impazienti istanze
alla scelta, mostrarono che non piaceva loro di bere: «Ebbene, mangiate
dunque», disse il feroce Barnabò; e furono costretti i due venerabili
prelati a mangiare la pergamena tutta quanta, il cordoncino di seta
e la bolla di piombo[121]. Con tale insulto atroce ardi Barnabò di
violare non solamente la riverenza che si deve al sommo sacerdote,
ma i doveri che reciprocamente uniscono i principi e le nazioni fra
di loro; e persino le sacre leggi d'ospitalità, che impongono, anche
agli stessi popoli agresti e selvaggi, di non abusare della condizione
d'uno straniero ricoverato in casa nostra. (1363) Uno di questi due
abati era Guglielmo da Grimoaldo di San Vittore di Marsiglia, il quale,
pochi mesi dopo di quest'obbrobrio, venne creato sommo pontefice, e
chiamossi Urbano V. È facile l'immaginarsi quai sentimenti dovesse poi
avere Urbano V verso di Barnabò, da cui era stato insultato con tanta
soperchieria. Egli, in fatti, con un breve dato di Avignone il giorno
3 di marzo dell'anno 1363, scomunicò solennemente Barnabò; lo dichiarò
eretico, decaduto dall'ordine di cavaliere, spogliato d'ogni onore,
diritto e privilegio; e comandò che alcuno non osasse più di trattare
con lui[122]. Nel breve della scomunica vi eran queste parole:[123]
_Propterea destruet te Deus in finem, evellet te et emigrabit te de
tabernaculo tuo, et radicem tuam de terra viventium_[124]. Inoltre,
agli 11 di luglio dello stesso anno 1363, dal cardinale Egidio
Alburnoz fece pubblicare la Crociata contro Barnabò, come già era
stata pubblicata contro suo zio Galeazzo quarant'anni prima; e tale
e tanto era in ciò l'impegno del papa, che (quantunque egli venisse
istantemente sollecitato e da Pietro re di Cipro, e dal re di Francia
medesimo, ad intimare una Crociata contro de' Saraceni, che sempre
più si rendevano formidabili ai Cristiani del Levante), egli ricusò di
farlo per allora; anzi si protestò ch'ei non avrebbe mai dato mano a
Crociata alcuna, sin tanto che non avesse ottenuto esito felice quella
giù intimata contro di Barnabò. (1364) Allora però questa Crociata
non ebbe effetto; poichè la combinazione degli interessi dei principi
gl'indusse ad accordar la pace l'anno 1364, in cui Barnabò cedette
Bologna al papa, che s'obbligò a pagargliela cinquecentomila fiorini
d'oro[125]. La perdita di Bologna e del Modanese fatta da' Visconti
non fu una riparazione bastante al pontefice; poichè con nuova bolla
dell'anno 1368, in data 30 maggio, lo stesso papa pubblicò una seconda
Crociata contro di Barnabò[126], e fece che lo attaccassero con
formidabile esercito l'imperatore, la regina di Napoli, il marchese
di Monferrato, gli Estensi, i Gonzaghi, i Malatesti, i Carraresi, i
Perugini e i Sanesi collegati insieme coi pontificii. Questo esercito
collegato avrebbe svelta dalle radici la sovranità de' Visconti, se
non avesse portato seco quel principio di lentore e debolezza, che
sono inseparabili dalle armate combinate, ciascuna porzione delle
quali, perchè dipendente da un distinto sovrano, si crede la prima
di ogni altra, o almeno l'eguale, e si disperde nelle rivalità, che
più la tengono occupata di quello non faccia la causa comune. Così
potè Barnabò difendersi, e senza nuove perdite ottenere la pace,
segnata il giorno 11 febbraio 1369. Nè la morte di Urbano V, che
aveva sofferto l'insulto personale, diede costante fine all'odio
pontificio: parve anzi che nel successore Gregorio XI venisse trasfuso
come un'eredità; poichè Gregorio, l'anno 1372, combinò una nuova
lega fra i principi d'Italia, e vedendo che le armi non andavano
prosperamente, scomunicò di bel nuovo Barnabò, e liberò i sudditi
dal giuramento di fedeltà[127]; poi animò l'imperatore Carlo IV;
il quale, con suo diploma dato in Praga il giorno 3 di agosto dello
stesso anno 1372, privò i due fratelli Visconti Barnabò e Galeazzo del
vicariato imperiale e d'ogni dignità, e Barnabò venne persino degradato
dell'ordine equestre[128]. Alle forze degli alleati, per opera del
cardinale di Bourge, legato pontificio, si unirono quelle del duca di
Savoia; e sebbene nemmeno questa volta l'armata combinata giugnesse
a fare conquista sulle terre di Barnabò, ella però potè devastarle,
e porre a saccheggio e in rovina una parte del suo Stato. Così la
rozza e feroce violazione del gius delle genti produsse a Barnabò
delle inquietudini mortali durante il suo regno; e questo è il primo
de' due fatti. L'altro fatto si vede originato dall'animo istesso di
quel sovrano truce ed ignorante. Sino dall'anno 1362 s'era formata
l'alleanza fra il papa, i Carraresi signori di Padova, gli Scaligeri
signori di Verona, gli Estensi signori di Ferrara, e un Gonzaga signore
di Reggio. Questi principi collegati, prima di commettere ostilità,
spedirono i loro ministri a Barnabò, facendogli dire che essi avevano
fatto lega col papa, ma unicamente in difesa dello Stato della Chiesa,
non mai per invadere gli Stati altrui: onde, qualora il signor Barnabò
avesse restituito i luoghi da lui occupati nel Bolognese e nella
Romagna, essi non avrebbero mosse le armi contro di lui. Tale era la
commissione di que' legati. A questo colto e nobile ufficio Barnabò
corrispose nella più villana maniera. Ordinò che i legati venissero a
corte; ivi non si degnò di lasciarsi vedere, ma volle che esponessero
la loro ambasciata avanti di un notaro; e poichè ebbero ciò eseguito,
egli spedì una squadra d'armati e fece attorniare i legati de'
principi; indi furono essi dalla forza obbligati a indossarsi alcune
vesti bianche preparate apposta per esporli alla derisione della plebe.
Vennero poscia costretti, in tal ridicolo arnese, di porsi a cavallo;
e per due buone ore volle che in tal meschina e pazza forma rimanessero
avanti la porta del palazzo di corte: indi li fece girare per la città,
esposti al vilipendio ed alle fischiate della ciurmalia; e con tale
infamia vennero scortati poi sino ai confini. Non è dunque da stupirsi
che i principi italiani sempre gli fossero poi contrarii, e pronti a
secondare contro di lui tutte le proposizioni del papa. Barnabò pensava
come l'imperator Federico I, e sarebbe stato nato a proposito, se fosse
stato suo contemporaneo e suo nemico. In mezzo alle guerre fra le quali
visse, una volta sola Barnabò comparve in campo, e fu l'anno 1363, nel
quale si portò sul Modanese alla testa de' suoi. Egli era intrepido,
e fu ferito; ma questo non basta per essere un buon capitano: venne
sempre battuto. Barnabò era violento, coraggioso e feroce; ma di poco
ingegno. Per richiamare intorno di sè i militi sparsi nello Stato, e
riparare le perdite che faceva, ei mandò loro ordine che immediatamente
si portassero da lui nel Modanese sotto pena della vita. Da questo
modo barbaro di comandare minacciando la morte, si deve concludere,
o che Barnabò non aveva avuto il talento di scegliere i suoi militi
e di formarli, poichè conveniva minacciar loro la morte per indurgli
ad accostarsi al nemico, ovvero che Barnabò non aveva il talento di
comandare la gente d'onore e sensibile alla gloria, la quale si aliena
anzi trattata colle minacce e con viltà. Sempre in quella spedizione
Barnabò fu battuto.

Se riguardiamo adunque Barnabò Visconti come principe e signore
potente, dobbiamo confessare che egli non meritò stima alcuna, poichè
la porzione sulla quale ei regnò venne diminuita colla perdita di
Bologna, delle terre del Bolognese, della Romagna e del Modanese,
ch'egli aveva ereditate dall'arcivescovo Giovanni. Egli con puerili
e feroci insulti animò i suoi nemici, e non ebbe forze abbastanza
per difenderlo. Osserviamolo come legislatore del suo popolo e
conservatore della felicità pubblica. Egli lasciò che la pestilenza
desolasse Milano nel 1361, quella pestilenza alla quale ho attribuita
la partenza del Petrarca, se pure anche l'indole del governo non
isforzò del pari quell'uomo illuminato a tal partito. Quella sciagura
distrusse più di settantamila abitatori di Milano, e fece nelle terre
ancora strage molto maggiore. Dopo sì gran flagello, mentre Barnabò
stava alla guerra nel Modanese, alcune compagnie d'uomini facinorosi
devastavano la città, tormentata dalle violenze, e dalle rapine e da
ogni genere di dissolutezza. Ritornato Barnabò per rimediare a simil
disordine, pubblicò un editto in cui proibì che alcuno in Milano
non potesse andar di notte per le strade, sotto pena del taglio d'un
piede. Tanto ci attesta l'Azario, che allora viveva[129]. Un ammalato
di notte non poteva più avere soccorso in virtù di tal legge feroce.
Barnabò lasciò soffrire ai suoi popoli la carestia negli anni 1364 e
1365, senza trovare modo di soccorrere i suoi sudditi. Questa carestia
nacque da un fenomeno fisico che riferirò poi.[130] _Attendentes
temporum sterilitates, et guerrarum discrimina_, dicesi in un decreto
di Barnabò dell'anno 1369, nel quale introdusse il costume di _mettere
alle gride_ i fondi per assicurare al compratore la proprietà[131].
L'anno 1372, con altro editto comandò Barnabò che nessuno ecclesiastico
potesse allontanarsi dal luogo di suo domicilio, senza suo permesso.
L'ordine poteva essere necessario, attese le scomuniche e l'assoluzione
del giuramento di fedeltà dette di sopra; ma la pena d'essere subito
gittati nel fuoco gli ecclesiastici contravventori, è orrenda. Il
Corio ci assicura che Barnabò, dopo la pestilenza e la carestia e
le perdite dello Stato, «se volse contra de li miseri sudditi che
per quatro anni adietro havevano pigliato porci salvatici, et altre
selvaticine, onde a molti di loro faceva doppuo grande tormento cavare
gli occhi et inde suspendere per la gola, de li quali si riferisce
essere ascesi al numero de cento. Assai magiore summa, de le crudele e
tyranice mano fugendo, li faceva proscrivere, d'inde gli pigliava ogni
suo facultate, et a molti altri habitanti ne le ville, non havendo il
modo di satisfare al fisco per le condemnatione, le case sue faceva
brusare... due frati Minori, andandogli per reprendere de si inaudita
extorsione, sensa alcuno riguardo gli fece brusare, incolpandoli
de nuova heresia[132]». Amava Barnabò la caccia singolarmente dei
cinghiali, e manteneva un grande numero di cani; come ciò facesse
ce lo dice il Corio all'anno medesimo: «teneva cinque milia cani, e
la magiore parte de quelli distribuiva ala custodia de li cittadini
et anche a contadini, li quali niuno altro cane che quegli puotevano
tenere. Questi due volte il mese erano tenuti a fare la mostra, onde
trovandoli macri, in grande summa de pecunia erano condennati, e se
grassi erano, incolpandoli dil troppo, similmente erano mulctati,
se morivano gli pigliava il tutto, e li officiali o caneteri più che
pretori de le terre erano temuti». Pietro Azario, che vivea in quei
tempi, ci lasciò scritto che certo Antoniolo da Orta, ufficiale in
Bergamo, venne accusato presso di Barnabò di avere esatte delle propine
arbitrarie nello spedire certe licenze. L'accusatore era un solo, e
Barnabò[133] _sine alia determinatione et defentione praecedente,
jussit unum suum domicellum cum litteris suis de praesenti ire,
dirigendis Potestati Pergami, ut, visis praesentibus, dictum Antoniolum
per gulam laqueo faceret suspendi sub poena suspensionis ipsius
potestatis. Qui Potestas, licet invite, dictum Antoniolum in palatio
Pergami, nullo alio expectato nisi quod cum sacerdote confiteretur,
suspendi fecit_[134]. Se prestiamo fede agli Annali milanesi, Barnabò
con un editto proibì che alcuno più non ardisse di chiamarsi Guelfo
o Gibellino, sotto pena del taglio della lingua, e furono tagliate
le lingue ad alcuni contravventori[135]. Fece bruciar vivi tre uomini
ragguardevoli, imputati di tradimento[136]. Fece bruciare due monache
del Bocchetto. Due altre monache di Orona miseramente ebbero sorte
uguale. Fece crudelmente torturare Tommaso Brivio, vicario generale
dell'arcivescovo, perchè aveva ricusato di degradare quelle infelici.
Fece bruciare il prete Stefano da Ozena d'Incino, dopo di avergli
fatto soffrire atroci tormenti. Fece impiccare l'abate di San Barnaba
perchè aveva prese delle lepri[137]. Fece cavare un occhio ad un uomo,
perchè trovato a passeggiare in una strada privata di Barnabò. Un
povero contadino fu incontrato da Barnabò, e lo fece ammazzare dal
suo canattiere, perchè egli aveva un cane. Un giovinetto raccontò
d'avere sognato che uccideva un cinghiale, e per questo Barnabò gli
fece cavare un occhio e tagliare una mano. Per un decreto di Barnabò
nessun giusdicente poteva cominciare a ricever il soldo assegnatogli
se prima non aveva fatto tagliar la testa a un uccisore di pernici.
Giovanni Sordo e Antoniolo da Terzago, suoi cancellieri, furono chiusi
in una gabbia di ferro con un feroce cinghiale. Il podestà di Milano
Domenico Alessandrino, a forza di bastonate, fu obbligato a strappare
la lingua ad un uomo colle sue proprie mani... Chiudasi l'atroce scena:
chi ne bramasse più minute circostanze vegga il nostro diligente
conte Giulini[138]. Io suppongo che vi sia della esagerazione in
questi fatti. Mi sento uomo; ed ho piacere di lusingarmi che un uomo
simile a me non possa mai discendere in tale abisso di crudeltà. Credo
esagerati i racconti di Nerone, di Caligola e di simili principi.
Ma togliendo anche la esagerazione, sempre ne rimane abbastanza per
detestarli. I popoli disgraziati che erano sudditi di un tal uomo,
gemevano altresì sotto il peso di gravosissimi tributi. Il Corio ci
dice che Barnabò ogni anno riceveva centomila fiorini d'oro pe' carichi
ordinari, e sessantamila fiorini d'oro pei straordinari; in tutto
incassava centosessantamila annui fiorini d'oro dal suo Stato. Egli
possedeva Cremona, Bergamo, Brescia, Crema, Lodi, Parma e la metà di
Milano, e questo carico contribuito da' suoi popoli allora riusciva
insopportabile. Oggidì il solo Cremonese paga altrettanto senza che il
popolo sia oppresso; il che sempre dimostra quanto ho detto al capitolo
ottavo e ripetuto poi, cioè che il valore dell'oro, reso in questi
tempi più abbondante, si è notabilmente diminuito.

Il fenomeno fisico di cui ho fatto cenno, quello cioè per cui l'anno
1364 venne una funesta carestia nello Stato, è per fortuna nostra così
insolito nel Milanese, che le persone poco istrutte lo potrebbero
collocare fra le favolose invenzioni immaginate per allettare colla
meraviglia. Ma ve ne sono prove tali, che non ci lasciano luogo a
dubitarne. Tre scrittori che allora vivevano, i quali, oscuramente
celati, notavano gli avvenimenti de' loro tempi senza che uno potesse
avere cognizione dell'altro, ce lo hanno tramandato concordemente;
e sono Pietro Azario, l'autore degli Annali milanesi, ed il cronista
di Piacenza. Nell'anno 1364 comparvero nel mese di agosto de' nembi
di locuste. Queste occupavano l'aria, come dense e vaste nubi,
ed offuscavano il sole. Esse volavano con molta forza, e tutte si
dirigevano dalla stessa parte nel volo. Scendevano poi su i campi, e,
a vederle discendere, pareva che cadessero fiocchi di neve. L'Azario
dice che questi animaletti erano verdi, e col capo e collo grossi. Nel
terreno sul quale avevano posato, erbe, foglie, frutta, tutto rimaneva
distrutto; e così questi eserciti funesti di locuste, passando da un
campo all'altro, isterilirono le terre; e durò il flagello da agosto
sino al mese di ottobre[139]. Un simile flagello si dice che l'avesse
provato la Lombardia quattrocentonovantun'anni prima, cioè l'anno 873,
e ce ne tramandò memoria Andrea Prete. Ma se a quell'autor solo si
poteva contrastare un avvenimento maraviglioso, converrebbe rinunziare
alla storia se dubitassimo della verità rapporto all'anno 1364. Questo
fenomeno, stranissimo per noi, è conosciuto in altre regioni verso
il Levante. Carlo XII, re di Svezia, nella Bessarabia ebbe moltissimo
a soffrire per i nembi di locuste; e l'autore della storia _Histoire
militaire de Charle XII de Suède_[140], ci narra un caso simile, ed
eccone le parole: «Une horribile quantitè de sauterelles s'elevoit
ordinairement tous les jours avant midi du còté de la mer, premiérement
à petits flots, ensuite comme des nuages, à qui obscurcissoient l'air,
et le rendeient si sombre, et si épais, que dans cette vaste plaine
le soleil paroissoit s'être éclipsé. Cest insectes ne voloient point
proche de terre, mais à peu près à la même hauteur que l'on voit
voler les hirondelles, jusqu'à ce qu'ils eussent trouvé un champ sur
lequel ils pussent se jetter. Nous en rencontrions souvent sur le
chemin, d'où ils se jettoient sur la même plaine où nous étions et
sans craindre d'être foulés aux pieds des chevaux, ils s'elevoient de
terre, et couvroient le corps et le visage à ne pas voir devant nous,
jusqu'à ce que nous eussions passé l'endroit où ils s'arrêtoient.
Partout où ces sauterelles se reposoient, elles y faisoient un dégât
affreux, en broutant l'herbe jusqu'à la racine; ensorte qu'au lieu de
cette belle verdure dont la champagne étoit auparavant tapissée, on
n'y voyoit qu'une terre aride et sablonneuse». Questi insetti, col
favore d'un vento gagliardo, attraversano persino il mare a volo; e
in conseguenza della sterilità avvenuta nell'Asia, o di una prodigiosa
moltiplicazione accaduta in quell'anno nella specie di quegl'insetti,
o d'un vento straordinariamente violento, che gli abbia trasportati
oltre i consueti loro confini, o alfine di qualche altra cagione che
non posso conoscere, giunsero essi persino a noi l'anno 1364. Se questa
devastazione fosse periodica, sarebbe da temersi da' nostri figli, che
vivranno l'anno 1855. Ma tali avvenimenti o non hanno periodo, ovvero
l'hanno così vasto, che oltrepassa la memoria.

Ritorniamo agli orrori di quel governo, e miriamo l'altra porzione
dello Stato soggetta a Galeazzo II. Dopo che egli ebbe nuovamente
in suo potere Pavia, ivi collocò la sua sede, lasciando che Barnabò
alloggiasse in Milano. Galeazzo non ebbe tante brighe a sostenere
colle armi, quante ne ebbe Barnabò; onde, abbandonando da principio
ai ministri ogni cura dello Stato, egli null'altro ebbe in pensiero,
che di apparentarsi con illustri matrimoni, celebrare regie pompe, e
cercare la fama di protettore delle lettere. Le scuole di Pavia vennero
da lui fomentate e promosse, e nell'anno 1362 sembra che venisse
aperta quell'Università, la quale aveva maestri di leggi canoniche e
civili, di medicina, fisica e logica. Radunò una biblioteca pregevole
per quei tempi, anteriori quasi d'un secolo alla invenzione benefica
della stampa. Per illustrare la sua famiglia, al figlio suo Gian
Galeazzo (che non aveva più di sette anni) diede per moglie Isabella
di Francia, figlia del re Giovanni, bambina essa pure di pochi anni; e
la pompa di quest'illustri sponsali costò ben cinquecentomila fiorini
d'oro, cavati con ogni sorta di mezzi dai sudditi, senza eccezione
alcuna; il che non bastò a togliere la sofferenza in ciascuno d'un
aggravio enorme. Maritò sua figlia Violanta con Lionetto, figlio del re
d'Inghilterra Edoardo III. Galeazzo aveva Bianca di Savoia per moglie;
e così la casa Visconti, in meno di sessant'anni di tempo, dalla
condizione nobile sì ma privata, passò a grandeggiare a segno d'avere
le più strette parentele col re di Francia, col re d'Inghilterra e
col duca di Savoia. Oltre a questi oggetti sproporzionati di spese, ei
si volse a fabbricare senza riguardo. In Pavia si pose ad erigere un
parco di più miglia, cinto di muro; ivi aveva le cacce, i giardini, le
peschiere, che ricevevano l'acqua per un cavo ch'ei fece dal naviglio
di Milano sino colà. Queste spese, e quest'abbandono degli affari
pubblici, in tempi di pestilenza e di carestia, mentre una parte dello
Stato soffriva le invasioni de' nemici, produssero danni così grandi
che, malgrado l'opulenza e l'adulazione che a più giri attorniavano
quel principe, ei si dovette alla fine riscuotere. Aprì gli occhi; e
vide tutte le cariche venali occupate da vilissimi ministri; i popoli
rovinati; le sue milizie mancanti di paghe; il suo erario vuoto; e i
suoi pochi sudditi esausti e languenti. In quel momento fece quello
che sogliono le anime da poco; dalla inerzia passò alla frenesia.
Fece impiccare il suo direttore delle fabbriche in Milano. Fece
impiccare il suo direttore delle fabbriche in Pavia. Il castellano
di Voghera, per essere stato assente quando quegli afflitti abitanti
scossero il giogo della oppressione, fu strascinato a coda d'asino,
poi fu impiccato con un suo figlio. Sessanta stipendiati, perchè
furono un poco lenti nell'eseguire una commissione, furono con una
sola parola condannati tutti alle forche. Indotto a far loro grazia,
se ne rammaricò poi, e fece porre in carcere Ambrosolo Crivello,
suo cancelliere, e lo privò d'un anno di salario, perchè era stato
sollecito nella spedizione della grazia. Questi fatti ci sono attestati
da più autori contemporanei. L'Azario poi ci ha tramandato l'editto
col quale quel principe ordinò a' suoi giudici qual carnificina
dovessero far eseguire contro i rei di Stato. Egli immaginò il modo
per far soffrire atrocissimo strazio per quarantun giorni, riducendo
un uomo sempre all'agonia senza lasciarlo morire. La natura freme,
Busiri e Falaride non lasciarono altrettanto:[141] _Intentio domini
est quod de magistris preditoribus incipiatur paulatim. Prima die
quinque bottas de curlo; secunda die reposetur; tertia die similiter
quinque bottas de curlo; quarta die reposetur; quinta die similiter
quinque bottas de curlo; sexta die reposetur; septima die similiter
quinque bottas de curlo; octava die reposetur; nona die detur eis
bibere acqua, acetum et calcina; decima die reposetur; undecima die
similiter acqua, acetum et calcina; duodecima die reposetur; decima
tertia die serpiantur eis duae corrigiae per spallas, et pergottentur;
decima quarta die reposetur; decima quinta die dessolentur de duobus
pedibus, postea vadant super cicera; decima sexta die reposetur;
decima septima die vadant super cicera; decima octava die reposetur;
decima nona die ponantur super cavalletto; vigesima die reposetur;
vigesima prima die ponantur super cavalletto; vigesima secunda die
reposetur; vigesima tertia die extrahatur eis unus oculus de capite;
vigesima quarta die reposetur; vigesima quinta die truncetur eis nasus;
vigesima sexta die reposetur; vigesima septima die incidatur eis una
manus; vigesima octava die reposetur; vigesima nona die incidatur alia
manus; trigesima die reposetur; trigesima prima die incidatur pes unus;
trigesima secunda die reposetur; trigesima tertia die incidatur alius
pes; trigesima quarta die reposetur; trigesima quinta die incidatur
sibi castronum; trigesima sexta die reposetur; trigesima septima die
incidatur aliud castronum; trigesima octava die reposetur; trigesima
nona die incidatur membrum; quadragesima die reposetur; quadragesima
prima die intenaglientur super plaustro, et postea in rota ponantur_.
Pare impossibile che un sovrano abbia mai dato un comando tanto
infernale; pare impossibile che alcun uomo, soffrendo questi martirii,
potesse sopravvivere sino al quarantesimoprimo giorno! Eppure convien
dire che crudelmente si andassero applicando i rimedii, per prolungare
la vita e il tormento; poichè, ci attesta lo stesso autore, che[142]
_harum poenarum exequutio facta fuit in personas multorum anno 1372 et
1373_[143]. Così pensarono i principi, così furono governati i popoli
di quella città, in cui doveva l'immortale marchese Cesare Beccaria
scrivere il libro dei Delitti e delle Pene; libro sacro all'umanità,
alla ragione ed alla beneficenza. I principii dl sublime filosofia che
l'hanno dettato; la calda e libera eloquenza collo quale ci annunziano;
lo compassionevole sensibilità ai mali degl'infelici, assicurano
all'illustre nostro cittadino, ed all'amico e compagno de' miei studi
una celebrità costante; la onorata tranquillità poi di cui gode, anzi
lo stipendio e le cariche delle quali è stato decorato, serviranno
agli esteri non solo, ma alla posterità, di vera dimostrazione della
felicità e della gloria del governo sotto cui abbiamo la fortuna di
vivere.

Sin qui Galeazzo II poteva esser sedotto da malvagi consiglieri; ma
il fallo seguente lo mostra quale egli era, senza difesa. Aveva quel
principe incorporato nel vastissimo suo parco di Pavia i poderi di
molti, e fra gli altri d'un povero cittadino pavese che aveva nome
Bertolino da Sisti. Questo povero uomo aveva una famiglia numerosa
da alimentare; i figli soffrivano la fame e la miseria, mancando di
quel fondo, che non gli era stato pagato. Egli si prostrò avanti del
suo sovrano, implorando umilmente soccorso, e il pagamento della sua
porzione di terra. Venne accolto da Galeazzo con amarissima derisione
e vilipendio, e non potè ottenere compenso alcuno. Quel disperato
padre di famiglia aspettò poi, nel parco istesso dove Galeazzo soleva
cavalcare, il momento della vendetta, e, il giorno 24 di agosto
dell'anno 1369, lo ferì, mentre passava a cavallo, in un fianco; ma la
fascia cordonata di seta lo difese. Fu arrestato quel suddito; sempre
colpevole, ma degno di commiserazione, e finì, dopo fieri tormenti,
squartato dai cavalli[144]. Coloro che esclamano contro i costumi del
nostro secolo, vedano se in tutta quanta l'Europa vi sia un angolo
solo in cui gli uomini siano trattati come lo erano i nostri maggiori
quattro secoli sono! A che attribuirne il cambiamento? All'ardimento
che alcuni ebbero di pensare e cercare il vero, indipendentemente dalle
opinioni ereditate; al progresso della ragione, all'accrescimento de'
lumi; alla moltiplicazione de' libri; al genio della coltura; a quello
spirito moderato e benefico di filosofia che ha dissipata la ferocia
e il fanatismo, ed ha reso gli uomini benevoli ed umani, sotto di una
santa e pura religione di concordia e di pace. Rendiamo umili azioni
di grazie al Dator di ogni bene, e guardiamoci da coloro che ardiscono
d'insultare a que' felici mezzi co' quali si è operata la consolante
rivoluzione. Galeazzo II aveva la bassezza di voler giuocare ai dadi
co' sudditi che avessero denaro, e godeva di rovinarli. (1377) Quel
principe fece un decreto l'anno 1377 che non ha esempio, a quanto mi
è noto. Egli, con un foglio di carta, annullò, cassò, rivocò tutte
le grazie e dispense che aveva sin allora concesse. Il decreto è del
giorno 13 di ottobre,[145] _Datum in castro nostro Zojoso_, sito nel
Pavese, ora chiamato Belgioioso, nel quale soleva passar qualche tempo
quel principe. Che un successore revochi le grazie di un sovrano che
l'ha preceduto, benchè sia cosa dura assai per chi la soffre, se ne
trovano esempi, ma che un principe cancelli, così in un colpo solo,
tutte le sue beneficenze, non so che sia mai accaduto altra volta[146].

Paragonando i due fratelli, pare che Barnabò avesse l'animo più forte,
e Galeazzo fosse freddamente crudele. Il primo abbandonandosi ad una
collera brutale, era capace di ogni eccesso; l'altro lo era sempre,
con maligna tranquillità. Barnabò dava gl'impieghi a persone che li
sapessero eseguire, e sapeva tenersele affezionate e fedeli; Galeazzo,
per denaro, dava le cariche a' più inetti uomini. Barnabò era veridico
e palesava i suoi sentimenti; Galeazzo non era definibile. Il primo
incuteva spavento, l'altro diffidenza. Barnabò si fece scolpire in
una statua equestre di marmo e la collocò sull'altar maggiore di San
Giovanni in Conca. Essa ivi si vede, ma non più sull'altare. Galeazzo
pazzamente fece distruggere le peschiere, le pitture del Giotto, e
tutte le belle cose ordinate da Azzone nel palazzo di corte,[147] _quae
domus_, diceva l'Azario, _cum ornamentis et picturis et fontibus,
hodie non fieret cum trecentis millibus florenis_[148]. Galeazzo
faceva alzare un gran muro con merita spesa; poi parendogli che stesse
male, lo faceva demolire. Faceva delle vôlte assai grandi in mezzo del
verno, e diroccavano poi; e i mattoni, le travi, la calce si prendevano
per suo cenno, ove trovavansi, senza parlare di pagamento. Galeazzo
fabbricò il castello di Milano e quello di Pavia: Barnabò, quello
di Trezzo. Nessuno di questi due atroci fratelli ebbero commensali,
come solevano averne Azzone, Luchino e Giovanni. Costoro offendevano
un numero sì grande di persone, che non era poi loro fattibile la
scelta di alcuni fra' quali passare giocondamente le ore. Barnabò
pagava esattamente i suoi stipendiati, e non permetteva che facessero
estorsioni; Galeazzo trascurava di pagarli, e non badava alle loro
angherie. Durante tale governo, i due successivi arcivescovi Guglielmo
della Pusterla e Simone da Borsano non posero piede mai nella loro
diocesi; sia che ciò nascesse per le dissensioni col papa; sia che,
per godere le rendite dell'arcivescovato, i principi non volessero
concederne a quei prelati il possesso; sia finalmente che la meschina
vita che sotto a quel governo vi dovette passare l'arcivescovo
Roberto Visconti, fatto porre in ginocchio per ascoltarsi il _nescis,
poltrone_, di Barnabò, avesse fatto perdere il coraggio ai successori
di presentarsi a vivere sotto quei terribili sovrani, animati anche
contro degli ecclesiastici; i quali, con un editto di Barnabò, venivano
obbligati a porsi in ginocchio tosto che l'incontravano per le strade,
e, non solamente dovevano contribuire la porzione d'ogni tributo al
paro di ciascun altro cittadino, ma dovevano portare il più delle tasse
che quei sovrani arbitrariamente imponevano sul clero. (1378) Galeazzo
II mori in Pavia il giorno 4 di agosto dell'anno 1378, dopo di aver
regnato ventiquattro anni; e successe ne' suoi Stati Giovanni Galeazzo,
di lui figlio, che portava nome _il conte di Virtù_, per un feudo che
gli era stato dato nella Francia per dote della principessa Isabella.

Prima di terminare questo capitolo, credo di far cosa grata a' miei
lettori, informandoli d'un curioso dialogo che ebbe Barnabò con un
villano, da cui non venne conosciuto. Io lo tradurrò, perchè la storia
della patria può interessare anche persone che non sappiano il latino.
Ho dovuto inserire anche troppi squarci, scritti in tal lingua, o
per contestare l'autenticità dell'asserzione, o per non diventarne io
medesimo responsale, ovvero per non annunziare colle mie parole, cose
che mi sarebbe dispiaciuto di dover dire. Il dialogo si trova nella
Cronaca di Azario[149], e consiglio ai curiosi lettori di vederlo nel
suo originale; perchè, frammezzo a quella trascurata e rozza latinità,
vi è certo lepore ingenuo, e una certa domestichezza di frasi che
piacciono sommamente e dipingono il costume. Barnabò soggiornava parte
dell'anno in Marignano: i contorni erano ancora pieni di boschi ed
opportuni alla caccia, e questo era il motivo per cui Barnabò amava
di trattenervisi. Egli a cavallo ben sovente si allontanava dalla
comitiva, e s'innoltrava solo nel più interno dei boschi. Un giorno fra
gli altri aveva smarrita ogni traccia, nè sapeva più donde uscirne per
ritornare al suo albergo. La stagione era assai fredda; l'ora avanzata,
e rigido il verno. Per caso Barnabò s'avvidde che taluno era in quel
bosco. S'accostò; e riconobbe ch'era un povero contadino, assai lacero,
che s'affaticava a tagliar legna. Ecco il dialogo che con lui tenne
Barnabò: «Il cielo t'aiuti, galantuomo. — _Villano:_ Ne ho bisogno.
Con questo freddo ho potuto far poco. L'estate è ita male, potesse
almeno andar meglio l'inverno! — _Barnabò, scendendo dal suo cavallo
affaticato:_ Amico, tu dici che la state è ita male; e come? L'annata è
stata anzi felice; vi è stato abbondante raccolto di grano, vendemmia
abbondante. E che l'è ito male? — _Villano, mentre continua a tagliar
la legna:_ Oh abbiamo di bel nuovo il diavolo per nostro padrone. Si
sperava che, allorquando venne scacciato il signor Bruzio Visconti, il
diavolo fosse morto, ma ne è comparso un altro peggiore ancora. Costui
ci cava il pane di bocca. Noi poveri lodigiani lavoriamo come cani,
e tutto il profitto colui ce lo carpisce. — _Barnabò:_ Certamente,
quel signore opera male assai.... Ti prego, guidami, amico, fuori del
bosco; l'ora è tarda: la notte è vicina; e m'immagino che tu ancora non
avrai tempo da perdere, se brami ritornartene a casa tua. — _Villano:_
Oh! per andare a casa non ho alcun pensiero. L'imbroglio, padron mio,
sarà a ritrovarvi da cenare; e davvero ho gran paura che non ne faremo
nulla; mia moglie e i miei figli gli ho lasciati a casa con poco pane.
— _Barnabò:_ Ebbene, conducimi fuori del bosco, e guadagnerai qualche
cosa. — _Villano:_ Tu mi vuoi distrarre dal mio lavoro.... saresti
tu mai uno spirito infernale.... i cavalieri non vengono per questi
boschi... Sia tu chiunque ti piaccia, pagami prima, e ti scorterò dove
vuoi. — _Barnabò:_ Ebbene, cosa vuoi ch'io ti dia? — _Villano:_ Un
grosso di Milano. — _Barnabò:_ Fuori che saremo dal bosco ti darò il
grosso, e ancora di più. — _Villano:_ Oh sì domani! Tu sei a cavallo,
e, fuori che tu sia dal bosco, prendi il galoppo, ed io rimango come
un cavolo! Così fanno gli ufficiali di quel diabolico nostro padrone;
vengono scalzi, e ruban poi tanto, che passeggiano come grandi signori
a cavallo. _Barnabò:_ Amico, poichè non mi vuoi credere, eccoti il
pegno», e gli diede la fibbia d'argento che aveva alla cintura. Il
villano se la gettò in seno nella camiscia, e cominciò a precedere
per uscire dal bosco, ma stanco come era, camminava lentamente.
«_Barnabò:_ Galantuomo, monta in groppa sul mio cavallo. — _Villano:_
Credi tu che quella rozza potrà reggere a due! Tu sei tanto grosso!
— _Barnabò:_ O, benissimo; porterà te e porterà me; tanto più che, a
quanto dicesti, non hai mangiato troppo a pranzo. — _Villano:_ Tu dici
il vero.... proviamoci»; e qui si pose a sedere in groppa, e mentre
così proseguivano attraverso del bosco, continuò Barnabò: «Amico, tu
mi hai date delle cattive nuove del tuo padrone: e del signor Barnabò,
che sta in Milano, che se ne dice? — _Villano:_ Di lui se ne parla
meglio. Benchè sia feroce, egli almeno fa osservare l'ordine; e s'egli
non fosse, non avremmo osato nè io, nè gli altri poveri entrar nel
bosco a tagliar legna, per timore degli assassini. Il signor Barnabò fa
osservare esatta giustizia, e quando promette, mantiene. Ma quest'altro
che sta in Lodi, fa tutto al contrario». E così, proseguendo il
discorso, gli riferì come un castellano gli aveva rubato un pezzo di
terra ed alcuni pochi mobili; indi, usciti che furono dal bosco, disse
il villano: «Signore, tenete la campagna da questa banda, la notte
viene, fate presto, perchè altrimenti vi potrete trovare in mezzo
d'una strada. — _Barnabò:_ Amico, mi vorresti gabbare, e con questo
bel modo portarmi via la fibbia». Tremava di freddo il villano, perchè
a piedi almeno si riscaldava, e sedendo era, senza moto, esposto al
rigore della stagione, e disse: «Per Dio! non mi ricordava nemmeno
più della fibbia; prendetela, signore. Se mi volete dar qualche cosa
per amor di Dio, fatelo; se non vi piace, il cielo vi aiuti, e andate
colla vostra fibbia. Correrei pericolo d'essere impiccato, se questa
fibbia si ritrovasse presso di me; si direbbe che l'avessi rubata.
Tenetela. Credo bene che, se mi volete fare la carità, non vi mancano
in tasca denari. — _Barnabò:_ Amico, fa a modo mio; accompagnami
ad un albergo e ti prometto un grosso, e di più un buon camino per
riscaldarti, e poi anco di più una buona cena: e così domattina di
buon'ora tornerai da tua moglie». Il villano si consolò pensando a
questi beni, e come la mattina vegnente con quel grosso avrebbe potuto
comprare dodici pagnotte e darle alla sua povera famiglia. Scese dalla
groppa, e riprese il cammino, calpestando lo stoppie attraverso dei
campi; e Barnabò cavalcava dietro lui. — _Barnabò:_ «E dove anderemo
noi ad albergare? — _Villano:_ Andremo a Marignano: vi sono delle buone
osterie; vi si può entrare giorno e notte, e alloggeremo bene, e noi
ed il cavallo, che mi pare ne abbia bisogno. _Barnabò:_ Dici bene. E
da questo tuo Marignano siamo noi molto discosti? — _Villano:_ Cosa
ti preme? Se non vi giugneremo di giorno, vi giugneremo di notte. Non
t'ho dett'io che ivi non si chiudono le porte? — _Barnabò:_ Va dunque,
sia come tu vuoi». Così proseguendo con tai discorsi il cammino, si
videro da lontano comparire molte e grandi fiaccole, e Barnabò disse:
«Vedi tu quei fanali e tante faci? — _Villano:_ Le vedo. — _Barnabò:_
E che vuol dir questo? — _Villano:_ Vuol dire che vanno cercando il
signor Barnabò, che tante volte s'innoltra nei boschi per amore della
caccia; vuole essere solo, si perde, e i suoi domestici poi vanno la
sera facendo dei fuochi, acciocchè veda per dove possa ritornarsene.
— _Barnabò:_ S'ella è così, fanno bene: è segno che quei domestici
hanno premura pel loro padrone». Discorrendo per tal modo s'andarono
accostando a quei che portavano le faci; e tosto che questi videro
Barnabò, scesero da cavallo; e salutato con riverenza quel sovrano
(_inclinatis capuciis_, dice Azario), e rispettosamente attorniando
lui e il villano, tutti giunsero a Marignano. Allora il povero villano
s'avvide qual fosse l'uomo col quale aveva fatto il dialogo. Desiderava
di essere già morto; tanto timore aveva dei tormenti che s'aspettava
di dover patire nel castello di Marignano! Giunti che vi furono, il
signor Barnabò, scoppiando dalle risa, raccontò a' suoi domestici
tutta l'avventura; e ordinò che il villano, tal quale era, stracciato e
sporco, fosse condotto in una sala, e se gli accendesse un gran fuoco.
Poichè fu ben ristorato dal freddo, fu chiamato il povero villano
a cena, e dovette sedere di contro al signor Barnabò. Essi due soli
sedevano; e volle che il villano venisse in tutto servito come egli
lo era. Il contadino non voleva tanti onori; tremava; e Barnabò: «Son
galantuomo, mantengo la parola. Ti ho promesso un buon fuoco, e te
l'ho dato. Ti ho promessa una cena, e te la mantengo. Ti ho promesso
un grosso di Milano, e domattina l'avrai. — _Villano:_ Ah! signore,
misericordia! io ho parlato da stolido qual sono! sono un povero uomo,
che vive nei boschi solitario, non so quello che convenga di parlare:
per pietà, mi lasciate partire: per carità, perdonatemi». Il villano
combatteva fra lo spavento e la fame, stimolata da' cibi insoliti;
e la fame la vinse; mangiò bene assai. Poscia venne congedato dal
principe e condotto in una bella stanza; lavato con un bagno tepido,
posto a dormire sopra di un magnifico letto; e la vegnente mattina fu
condotto avanti del signor Barnabò, che gli disse: «Ebbene, amico,
coma bai passata la notte? — _Villano:_ Come in paradiso; ma, con
vostra buona grazia, vorrei andarmene. — _Barnabò:_ Se così ti piace,
vi consento»; indi rivolto ad un suo cameriere: «Dagli un grosso»; e
questi immediatamente lo consegnò al villano, poi Barnabò: «La mia
promessa ora è compiuta; pure ti ho lasciato sperare qualche cosa
di più; cercami quella grazia che brami. — _Villano:_ Signore, basta
che mi lasciate partire vivo e sano. — _Barnabò:_ Questo lo accordo;
chiedi qualche altra grazia. — _Villano:_ Se mi faceste restituire
il mio piccolo podere toltomi dal castellano....». Súbito fecegli
dare lettere colle quali il villano riebbe il suo, e tranquillamente
se ne ritornò allo stato di prima. L'Azario, che allora viveva e che
ci ha tramandata la memoria di questa scena, non ci riferisce chi
fosse il governatore di Lodi che era succeduto a Bruzio Visconti.
Questo avvenimento ha tanta verosimiglianza, che lo credo veramente
accaduto; e Barnabò, avendolo súbito raccontato ai suoi cortigiani,
è naturale che venisse poi divulgato come una novella di quel tempo.
Non avranno trascurato alcuni d'interrogarne il villano medesimo, e
così potrà essersi ancora più esattamente risaputo. Il carattere di
Barnabò mi pare che vi sia dipinto al vivo. Non permetteva egli che si
commettessero vessazioni ed ingiustizie; amava la sicurezza e l'ordine;
manteneva la parola data. Ma un buon principe non avrebbe impresso
nel cuore dei sudditi uno spavento generale, a segno che, per qualche
incauta parola, temessero d'essere condannati alla carnificina da lui
medesimo, nel di lui palazzo. Nessun principe oggidì avrebbe piacere
di far soffrire a quel meschino la barbara incertezza che lo tormentò
per laute ore; e la prima parola gli annunzierebbe ilarità e pace.
Poi lo sborso di un grosso, ossia il solo valore di dodici pagnotte,
oggidì sembrerebbe affatto indecente. Il povero villano aveva dovuto
lasciare la moglie ed i figli con poco pane; stanco e mal pasciuto,
aveva camminato per ricondurre il sovrano senza sapere ch'ei fosse
altro che un uomo; meritava adunque qualche cosa di più d'un grosso. Se
il fatto fosse accaduto alla maestà dell'adorabile augusto Giuseppe II,
o ad alcuno dei reali arciduchi, la sera medesima avrebbe la famiglia
del villano avuto di che cenare; e invece di tremare, come avrà fatto,
avrebbe sparse lagrime di tenerezza, benedicendo la sovrana pietosa
munificenza. Non bastava poi alla giustizia la restituzione del podere
rubato dal castellano. Un principe buono non si sarebbe determinato
a cosa alcuna colla esposizione di un solo. Avrebbe disposte le cose
in modo d'essere esattamente informato del fatto, e d'ascoltare anche
il castellano, per dargli campo a giustificarsi; indi, se egli aveva
oppresso una povera famiglia, non bastava disfare il mal fatto. Voleva
il ben pubblico che quel prepotente venisse contenuto per l'avvenire,
e col suo esempio allontanasse i suoi pari dal meditare altrettanto.
Nè avrebbe mancato un principe buono di prendere informazione sul
governatore di Lodi e sugli ufficiali rapaci che l'attorniavano.
Barnabò, anche in questa scena, manifesta un carattere duro,
insensibile, atroce nei momenti istessi della giocondità, ed appare
violento, e niente addottrinato nella scienza di governare.



CAPITOLO XIV.

  _Del conte di Virtù, e della erezione del ducato di Milano._


Per lo spazio di sette anni ancora, dopo la morte di Galeazzo II,
continuò ad essere separato in due parti lo Stato de' Visconti,
reggendo l'eredità del padre il conte di Virtù, e continuando a regnare
Barnabò sulla sua porzione. Il Gazata nella sua Cronaca ci racconta
che Barnabò aveva comprata la città di Reggio da Feltrino Gonzaga,
collo sborso di cinquantamila fiorini d'oro; e che per diventar padrone
di alcune rocche e castelli di quel distretto, egli s'impadronì di
Francesco Fogliano; ed avutolo nelle sue mani, gli fece intimare che o
doveva indurre Guido Fogliano, di lui fratello, a consegnare a Barnabò
le fortezze che egli possedeva, ovvero questi sicuramente lo faceva
impiccare, quantunque tra il Fogliano e Barnabò non vi fosse mai stata
altercazione alcuna. Il povero Francesco Fogliano fece ogni sforzo per
indurre colle sue lettere il fratello a riscattarlo. Guido credette
che non si sarebbe mai imbrattato il Visconti con una così obbrobriosa
macchia; ma s'ingannò, perchè Barnabò fece sospendere Francesco alle
forche, sulle mura di Reggio, il giorno 7 dicembre 1372. Il conte
di Virtù aveva questo terribile collega. Il conte era giovine di
venticinque anni. Egli s'era più volte presentato al nemico con valore,
allorquando i collegati invasero lo Stato; ma non aveva dato saggio
nemmeno d'avere i talenti d'un buon comandante. Aveva egli stretti
vincoli di sangue colla casa di Francia, colla casa di Savoia, colla
casa d'Inghilterra: ma Barnabò non era meno appoggiato ad illustri e
potenti parentele. Barnabò ebbe tanti figli, che (ommettendo i bambini
ed i fanciulli periti) se ne contarono trentadue, de' quali quindici
legittimi, nati dalla signora Beatrice della Scala, da altri chiamata
Regina della Scala. Barnabò aveva date le sue figlie in matrimonio
a potenti signori. La casa d'Austria, la casa di Baviera, il re di
Cipro, la casa di Wirtemberg, la casa di Turingia, i Gonzaghi avevano
delle principesse figlie di Barnabò. La principessa che entrò nella
gloriosissima casa d'Austria si chiamava Verde Visconti. Ella sposò il
duca Leopoldo. Questo principe, giovine di quattordici anni, venne a
Milano l'anno 1365, ed il giorno 23 di febbraio celebrò le sue nozze
nel palazzo del signor Barnabò Visconti, presso San Giovanni in Conca.
Barnabò diede in dote alla figlia centomila fiorini. Indi andarono
gli sposi a Vienna; e da queste nozze discende l'augusto sovrano che
ora, per nostra felicità, domina su questo Stato. Chi bramasse più
minute notizie di queste memorabili nozze (per le quali il sangue de'
Visconti, sublimato a più elavata condizione, e depurato colla virtù e
colla beneficenza di quattro secoli, trovasi attualmente sul trono, dal
quale i Milanesi ricevon legge) vegga il nostro conte Giulini, che ne
ha pubblicati i monumenti sinora inediti.

A fronte d'uno zio terribile, stavasene circospetto ed attentissimo
il conte di Virtù. Milano, siccome dissi, era divisa in due padroni:
Galeazzo II possedeva il castello di Porta Giovia, cioè il castello
che ancora in parte internamente sussiste; e Barnabò possedeva un
altro castello alla torre di porta Romana, di cui veggonsi anco oggidì
le vestigia dalla parte del naviglio. Il conte di Virtù stavasene in
Pavia: era una volpe che adocchiava destramente il vecchio leone.
Mostrava il giovine conte di Virtù d'essere timido, irresoluto,
debole in ogni sua azione. Bramava d'imprimere nell'animo di Barnabò
tale opinione, che, considerandolo egli giovane da nulla ed incapace
d'intraprendere un colpo ardito, nemmeno pensasse a tenersi difeso; e
tanto seppe dissimulare in ogni azione, anche domestica, tanto attento
fu nel rappresentare il meschino personaggio propostosi, che ingannò
supinamente lo zio, quantunque avesse giorno e notte al suo fianco
Caterina Visconti, figlia di Barnabò, da Galeazzo sposata, sebben
cugina, dopo la morte di Isabella di Francia, sua prima moglie. Barnabò
deriderà l'imbecillità del nipote, il quale ne' suoi editti ancora
spirava umanità, beneficenza e moderazione, mentre l'altro continuava
a spaventare i sudditi con inesorabile ferocia. Poteva comparire agli
occhi dello zio un nuovo tratto di pusillanimità la cura che ebbe il
conte di Virtù di procurarsi la grazia del nuovo augusto Venceslao,
succeduto al defunto Carlo IV di lui padre. Ma in fatti egli solo
venne da quel monarca confermato vicario imperiale l'anno 1380, senza
che nel diploma venisse fatta menzione di Barnabò. Così nel silenzio
andava il conte di Virtù preparando la mina che doveva scoppiare un
giorno, e rovinando il collega, riunire la sovranità dello Stato sopra
di lui solo. Barnabò, dal canto suo, senza accorgersi, somministrava
sempre nuove armi al nipote contro di lui; poichè disponeva una nuova
divisione dello Stato suo ne' cinque suoi figli legittimi, e già a
ciascuno di essi aveva assegnato il governo nel distretto che gli aveva
destinato in sovranità dopo di lui. Marco aveva la metà di Milano;
Lodovico aveva Lodi e Cremona; Carlo aveva Parma, Crema e Borgo San
Donino; Rodolfo aveva Bergamo, Soncino e la Ghiara d'Adda; Giovanni
Mastino, ancora bambino, aveva finalmente Brescia colla Riviera e
Valle Canonica. Questo avvenire non poteva essere caro ai popoli, che
diventavano sudditi d'una piccola sovranità, e soggetti ad un principe
debole. Così insensibilmente, e simulando debolezza ed incapacità, Gian
Galeazzo lasciava maturare gli avvenimenti; e andava contrapponendo
l'apparenza di un saggio principe a quella di un capriccioso e crudele
despota. (1385) Giunse il momento, e fu il giorno memorando 6 di
maggio dell'anno 1385; giorno in cui venne tolta a Barnabò ed a' suoi
figli, per sempre, ogni sovranità, e concentrossi nel conte di Virtù
ogni potere. Il caso è noto, ed è il seguente. Il conte fece intendere
al signor Barnabò ch'egli pensava di portarsi alla Madonna del Monte
presso Varese; che sarebbe venuto da Pavia a Milano, la mattina del 6
di maggio, ma non amando di entrare nella città, costeggiandola fuori
dalle mure, sarebbe andato a smontare nel suo castello a porta Giovia;
e che sarebbe stata pure grande la sua consolazione se avesse potuto
abbracciare uno zio che tanto onorava. Si sapeva che il conte voleva
condurre la scorta di quattrocento lance. Un domestico del signor
Barnabò non mancò di fargli osservare che quel corredo era troppo per
portarsi ad un santuario e ad un borgo dello Stato, in tempo di pace.
Questo domestico si chiamava Medicina, e cercò di persuadere al suo
padrone di starsene cauto e non avventurarsi. Ma Barnabò disprezzava
il nipote, e attribuì alla pusillanimità sua questa schiera d'armati.
I due figli maggiori di Barnabò furono spediti incontro al conte due
miglia fuori di porta Ticinese. Questi accolse co' maggiori segni di
cordialità i suoi due cugini e cognati Rodolfo e Lodovico, i quali,
dopo le accoglienze, con apparenza di onore, furono circondati dalle
armi di cui erano comandanti Jacopo dal Verme, Ottone da Mandello e
il marchese Giovanni Malaspina. S'incamminò il conte verso Milano, e
giunto che fu avanti della porta Ticinese (che allora era ove oggidì
sta il ponte del naviglio) prese la sinistra, e per la via che ora
fiancheggia il canale, andò colla sua comitiva cavalcando, sin che alle
ore sedici, ossia verso mezzo giorno, trovatisi vicino al ponte che da
Sant'Ambrogio conduce a San Vittore, per esso videro scendere Barnabò
a cavallo con uno o due domestici di seguito. Il conte, dopo i primi
saluti, diede il segnale concertato; e Jacopo dal Verme il primo spronò
il cavallo, e pose le mani adosso della persona del signor Barnabò,
dicendogli: _Siete prigioniere._ Ben tosto Ottone da Mandello gli levò
dalle mani la briglia; altri gli tagliò il cingolo; e così al momento
Barnabò fu disarmato, togliendogli altri la spada, altri la bacchetta
dalle mani. Contemporaneamente lo stesso venne fatto ai due suoi figli
Rodolfo e Lodovico; e presto presto, in mezzo alle armi, vennero
tradotti nel castello di porta Giovia, poco di là lontano. Barnabò
venne cautamente trasportato poi al castello di Trezzo, ove anco oggidì
vedesi la stanza, in cui sopravvisse sette mesi colla sua o moglie
o amica Donnina de' Porri sin che morì avvelenato, a quanto si dice.
Tanto seppe simulare il conte! Egli aveva trentadue anni.

Appena il colpo era fatto, il conte, alla testa degli armati, entrò
nella città, e senza veruna opposizione se ne impadronì, fra gli evviva
della plebe, alla quale permise tosto di saccheggiare i palazzi di
Barnabò e de' suoi figli, e la plebe di più saccheggiò le dogane e la
gabella del sale, che era alla piazza de' Mercanti. Nella fortezza di
porla Romana vi fu ritrovato tanto argento per caricarne sei carri,
ed in oro vi si contarono settecentomila fiorini. Quindi si radunò un
consiglio generale della città, il quale tosto conferì il dominio al
conte di Virtù, e, dopo lui, a' suoi discendenti maschi legittimi,
in quel modo a lui più fosse piaciuto[150]. Con tal decreto vennero
esclusi i discendenti di Barnabò: e in quel giorno Giovanni Galeazzo
Visconti, conte di Virtù, diventò sovrano di ventuna città, e sono
Reggio, Parma, Piacenza, Cremona, Brescia, Lodi, Bergamo, Crema,
Milano, Como, Vigevano, Pavia, Bobbio, Alessandria, Valenza, Novara,
Tortona, Vercelli, Alba, Asti e Casale. Questo colpo, eseguito con
tanto vigore, e preparato colla più cupa e simulata ipocrisia,
conveniva in qualche modo farlo comparire onesto e suggerito
dall'assoluta necessità; e a tal fine ordinò il conte che si formassero
i processi contro di Barnabò. L'autore degli Annali milanesi ce ne ha
trasmesso l'epilogo. Le atrocità che ivi si leggono imputate a Barnabò,
sono enormi; e dopo una sanguinosa enumerazione di esse, vedesi
incolpato Barnabò d'avere tese insidie alla vita del nipote; d'essere
uno stregone, che colle fattucchierie avesse rese sterili le nozze del
conte di Virtù; e che finalmente Gian Galeazzo fosse stato costretto
a far prigionieri lo zio ed i cognati, perchè essi l'avevano in quel
momento assalito a tradimento. Non saprei se sotto il governo di uomini
di quell'indole vi fosse nelle magistrature un uomo virtuoso; ma se
pur vi era, quello certamente non sarà stato trascelto per formare il
processo. Barnabò era uomo feroce, violento, coraggioso, franco, ma
non dissimulato, nè capace di tradire o di insidiare. Egli era nemico
di ogni arte e di ogni scienza, crudele, sanguinario, d'una religione
inconseguente, poichè, insultando il papa, oltraggiando i vescovi,
calpestando gli ecclesiastici, donava ai conventi generosamente i beni
che rapacemente confiscava ai cittadini. Ma il conte era suo nipote;
il conte era suo genero; giaceva le notti colla sua moglie Caterina
Visconti, nel tempo in cui ordiva di togliere la sovranità alla di lei
famiglia, mentre teneva prigione suo padre, lasciava errare raminghi
e bisognosi i di lei fratelli, che pure avevano tanta ragione per
succedere nella signoria di Barnabò, quanta ne aveva il conte per
essere succeduto nella signoria a Galeazzo. Di tanti figli che aveva
Barnabò, malgrado le potenti e illustri loro aderenze, non ve ne
fu più alcuno che potesse comparir nemmeno a disputare la usurpata
porzione del padre, trattone Estore che era figlio illegittimo, il
quale potè fare ventisette anni dopo un momentaneo contrasto al duca
Filippo Maria, come vedremo. La potenza acquistata in un istante dal
conte di Virtù fiaccò l'animo de' suoi sudditi; l'ardimento della sua
ambizione, spiegata come un improvviso lampo, unita alla profondissima
simulazione, rese attoniti gli altri principi; giacchè gli oggetti
più ne soprafanno, quanto più grandeggiano annebbiati. I popoli,
oppressi dal duro e violento giogo sofferto, accolsero con allegrezza
il cambiamento. La virtù e la giustizia non ebbero parte alcuna in
questa rivoluzione, in cui si vide accadere un avvenimento di cui sono
frequenti gli esempi; cioè che, posti due colleghi di egual condizione
al governo, colui che avrà le passioni più spiegate, dovrà soccombere
a colui che saprà coprire colla timidezza l'ambizione, siccome ancora
accadde dell'impero del mondo fra Ottavio ed Antonio.

All'ambizione artificiosa del conte di Virtù erano poche ventuna città
suddite. Egli pensava a nulla meno che al regno d'Italia: e i primi
sguardi ch'egli gettò furono dalla parte del Veronese e del Padovano,
per estendere sino all'Adriatico il suo Stato. Egli, siccome dissi,
possedeva già Crema, Bergamo e Brescia. Antonio della Scala era signore
di Verona e di Vicenza. Francesco da Carrara era signore di Padova.
Da gran tempo questi due piccoli sovrani avevano delle discordie, e si
facevano delle reciproche ostilità. Il conte di Virtù, simulando zelo
per la concordia e per il bene di que' due principi, entrò mediatore
per accomodare le loro controversie; e mentre l'una parte e l'altra
stavano facendo le loro proposizioni, il conte lusingò il Carrarese,
signore di Padova, proponendogli un'alleanza invece del progettato
accordo. L'alleanza avea per fine la distruzione dello Scaligero. Il
piano era che il Carrara lo dovesse attaccare dalla parte di Vicenza,
mentre il conte di Virtù farebbe lo stesso dalla parte di Brescia.
L'esito non poteva essere dubbio, poichè Antonio della Scala, posto
così di mezzo, non poteva avere scampo. Il frutto era grande, mentre
s'offeriva a Francesco Carrara di lasciargli Vicenza, e il conte
restava pago di prendere per sè Verona. Non poteva essere l'orecchio
del Carrarese adescato da una proposizione più seducente di questa,
e incautamente la accettò. La passione antica che aveva contro lo
Scaligero, lo acciecò a segno di lusingarsi, che il conte (il quale
aveva tradito suo zio, usurpata la sua sovranità, e, coll'apparenza di
officiosa mediazione, proponeva un tradimento contro dello Scaligero)
sarebbe stato un alleato fedele a lui, poichè fosse reso ancora più
forte coll'acquisto del Veronese, e diventato confinante col Padovano!
Appena concertata la cosa, il conte mediatore immediatamente pubblicò
un manifesto diretto allo Scaligero, diffidandolo che tre giorni dopo
quella data veniva a muovergli guerra. (1387) Fu invaso il Veronese
dalla milizia del Visconti da una parte, e del Carrara dall'altra.
Alcuni malcontenti veronesi, che avevano secreta corrispondenza
con Antonio Bevilacqua, comandante delle truppe del conte, aprirono
l'ingresso; e il Bevilacqua, fuoruscito veronese e nemico di Antonio
della Scala, rese Verona suddita del conte di Virtù; alle armi di cui
si sottomisero i borghi e le terre tutte del Veronese non solo, ma
del Vicentino e la stessa città di Vicenza. Così terminò la signoria
degli Scaligeri l'anno 1387. La conquista fatta dal conte, della città
di Vicenza, era una violazione dei patti. Contra di essa reclamava il
signore di Padova Francesco da Carrara. Il conte rispondeva che egli
teneva Vicenza, non come cosa spettante a lui, ma come l'eredità di
Caterina sua moglie, figlia della regina Scaligera, moglie di Barnabò.
Il Gatari, nella Storia di Padova[151], ci dice che il conte di Virtù,
per maneggi secreti, corruppe i favoriti di Francesco da Carrara, e
fece che gli consigliassero di alzar ben bene la voce, e declamare
contro la perfidia del conte, facendogli sperare che, in tal modo, e il
consiglio del conte e la di lui stessa moglie, l'avrebbero certamente
indotto a consegnargli Vicenza, anzi che portare la patente macchia
d'avere violata la fede; supponendosi a ciò indotti dalla lusinga che,
intimorito, il Carrara non avrebbe osato di farne pubblica doglianza.
Anche da tale insidia fu côlto quell'incauto principe; e il conte
ebbe il pretesto di vendicare le ingiurie proferite da Francesco
Carrara; e non solamente ritenne Vicenza, ma invase il Padovano,
s'impadronì di Padova istessa, fece prigioniere l'infelice Francesco
da Carrara, e trasportollo nella torre di Monza, ove terminò i suoi
giorni. Io ho delle monete del conte di Virtù, signore di Padova, e
sono già pubblicate altre monete del medesimo come signore di Verona,
le quali monete vennero coniate probabilmente dalla zecca di Milano o
nell'anno 1387, ovvero poco dopo. Da questi fatti compare chiaramente
il carattere di Giovanni Galeazzo. Gli editti che pubblicava erano
composti con frasi che indicavano religione, pietà, moderazione.
S'invocava Dio; se gli rendeva omaggio di ogni prospero successo; si
fabbricava il Duomo; si fondava la gran Certosa presso Pavia; ma la
morale non era punto rispettata. Le animosità e le contese fra gli
Scaligeri ed i Carraresi ebbero tal fine. E per lo più così accadde
che i piccioli nemici combattono colla chimerica lusinga di soggiogare
i loro emuli; e un terzo si presenta, il quale tranquillamente
profitta delle loro spoglie; giugnendo poi i rivali rovinati a
conoscere, ma tardi, che assai miglior partito è quello di tollerarsi
scambievolmente, e rimanere concordi ed uniti, per ottenere stabilità
di fortuna, e tranquillo e decoroso godimento di essa.

Poichè per tal modo ebbe Gian Galeazzo estesi i suoi confini sino al
mare Adriatico, rivolse le sue cure a dilatarli al lungo dell'Italia,
al di là di Bologna, nella Romagna e nella Toscana. Egli conquistava
per mezzo de' suoi generali. Prese colle armi Bologna. Molto si
stese nella Romagna. Perugia, Spoleti, Nocera, Assisi furono da lui
acquistate. Nella Toscana egli comprò Pisa collo sborso di ducentomila
fiorini, e gliela vendette Gerardo Appiani, che era succeduto al
padre in quel dominio. Egli acquistò Siena, che se gli rese per
dedizione spontanea[152]. La repubblica di Firenze non poteva con
tranquillità rimirarsi in tal modo cinta dai nuovi Stati del conte, la
di cui ambizione non aveva limiti, e si venne alle ostilità. Nel loro
manifesto i Fiorentini dissero:[153] _Sed profecto nosmetipsos, vana
fide delusi, decipiebamus, persuadentes nobis illum esse posse fidelem,
qui tam infidelis extitit nepos et gener et frater, in patruum,
socerum, atque fratres, cujusque toties, et nobis, et aliis, probata
fides erat nihil habere constantiae, nisi solum in hoc ut fidem quam
promiserat non servaret... Nos versa vice tyranno Lombardiae, qui se
regem facere cupit, et inungere, bellum indicimus_[154]. Stimolarono i
Fiorentini il re di Francia, e non si sa con quai mezzi l'indussero,
malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia, un
corpo di diecimila francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene
il duca di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio
di Bianca di Savoia, pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il
comandante conte d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti,
figlio di Barnabò, che viveva miseramente ramingo colla sua moglie
Beatrice d'Armagnac. L'armata francese si portò rapidamente sotto
di Alessandria, città munita di valido presidio, comandato da quel
Jacopo dal Verme che aveva fatto prigioniere Barnabò. I Francesi
si presentarono con insulto, deridendo, provocando, ed invitando se
avevano coraggio di venir fuori que' poltroni Lombardi. Si vide poi
che è più facile l'oltraggiare che il vincere. Uscì Jacopo dal Verme
il giorno 28 di luglio dell'anno 1391, e, per risposta, prese il
conte di Armagnac prigioniere, e tutti que' francesi che non rimasero
sul campo. Così terminossi quella spedizione; e il conte ben presto
si accomodò colla Francia, facendole sperare di sottomettere colle
sue armi Genova, e darla a quel re; il che poi non avvenne. Il conte
per altro sembrava affezionatissimo ai Francesi. Ei si faceva pregio
della contea di Virtù, che era un piccolo feudo della Francia nella
Sciampagna, portatogli in dote dalla prima moglie Isabella, figlia
del re di Francia Giovanni II. L'essere stato sino dalla fanciullezza
unito con una amabile principessa di Francia, gli aveva lasciata quella
propensione. Il conte, nell'anno 1387, maritò Valentina Visconti,
l'unica sua figlia, a Luigi duca di Torrena e conte di Valois, fratello
del re di Francia Carlo VI. Le sborsò quattrocentomila fiorini d'oro
per sua dote, e le assegnò pure in dote Asti, e tutte le terre e
castelli del Piemonte. Di più, volle riservare a lei ed a' suoi figli
la ragione di succedere negli Stati suoi in mancanza di successori
maschi legittimi e naturali; poichè allora non per anco ne aveva: di
che erasene incolpata la stregoneria del signor Barnabò, come dissi.
Questa riserva di successione fu poi cagione funestissima di miseria e
rovina allo Stato, allorchè, centododici anni dopo, il re di Francia
Lodovico XII (che era salito sul trono dopo Carlo VIII, morto senza
figli), venne a far valere le ragioni della sua ava paterna Valentina
Visconti, per essere estinta la linea legittima di Matteo I Visconti.
Se poi il conte di Virtù, che aveva ottenuta la sovranità, per sè e
suoi successori maschi legittimi e naturali, dal consiglio generale due
anni prima, avesse facoltà di trasferirla ai discendenti delle femmine;
e se ciò fosse conforme alla pace di Costanza, all'eminente sovranità
dell'Impero, di cui era vicario, ed al buon diritto, sarebbe facil cosa
il deciderlo, qualora la questione si fosse trattata fra privati avanti
un tribunale. Il conte dava una cosa non sua. Pure, questa incautissima
eventuale sostituzione serve di una dolorosa epoca nella nostra storia,
per le guerre, le invasioni, la scissione che poi ne avvenne del nostro
paese.

Se i Fiorentini erano in armi, e se movevano altri principi contro di
Giangaleazzo conte di Virtù, per porre argine alle conquiste ch'egli
faceva nella Toscana, non avrebbero certamente i papi risparmiato dal
canto loro di adoperare tutti i mezzi ch'erano in loro potere, contro
di un principe invasore del loro Stato, e che occupava Bologna e le
altre città che abbiamo accennate. Ma gl'interessi della Santa Sede
erano turbati interamente. V'erano due, ciascuno de' quali pretendeva
d'essere papa; e questo scisma, incominciato sin dall'anno in cui
morì Galeazzo II, durò da un successore all'altro per lo spazio di
ben quarant'anni. Alcuni paesi decisamente riconoscevano uno de' due
papi per legittimo sommo pontefice. Lo scaltrito conte di Virtù non
volle mai decidersi; ma adescò ed un papa e l'altro, lasciando sperare
a ciascuno di volersi per esso determinare; e frattanto che i due
competitori, con prodiga compiacenza, gareggiavano per guadagnarsi
l'amicizia sua, egli andava togliendo alla Santa Sede lo Stato, ed
operando ne' suoi dominii come s'ei fosse padrone di tutto, disponendo
anche delle cose ecclesiastiche. La politica del conte era tale, che
volle ottenere e da Urbano VI, che stava in Roma, e da Clemente VII,
che risedeva in Avignone, la dispensa per contrarre le nozze con
Caterina Visconti, sua cugina, l'anno 1380; e ciò sotto pretesto di
timorata coscienza, non essendo egli ben certo quale de'due papi fosse
il vero. Con tal mezzo,[155] _Omnes dignitates_, dice l'Annalista
piacentino[156], _et beneficia ecclesiastica terrarum ipsius domini
comitis, quae erant conferenda, dictus dominus comes ipse conferebat
cui volebat, et dictus dominus papa dicta beneficia et dignitates
confirmabat omnibus illis quos dictus dominus comes elegerat_. Ciò
nondimeno i principi minori d'Italia erano collegati contro del
conte; e fra questi eravi il signore di Mantova Francesco Gonzaga,
gli Stati del quale, come più vicini, erano ancora più degli altri in
pericolo; sembrando inevitabile anche per lui il destino dei signori
della Scala e de' signori di Carrara. L'armata del conte, spedita
contro il Mantovano, era comandata da Jacopo dal Verme. I Fiorentini
non potevano soccorrere il Gonzaga, perchè il conte altro corpo di
truppe teneva contro Firenze. Il Po era coperto di navi con armati
dall'una e dall'altra parte; ed il Gonzaga aveva fabbricato su di quel
fiume un ponte, di legno bensì, ma tanto forte e munito, che il dal
Verme non credè di attaccarlo. Sotto di questo ponte si ricoveravano
le navi mantovane ogni volta che dalle nostre venivano minacciate di
offesa, come frequentemente accadeva. (1397) Il dal Verme, che non
poteva innoltrarsi senza essere padrone del fiume, per cui riceveva
la vettovaglia, immaginò uno stratagemma, che fu poi imitato dal re
di Svezia Carlo XII alla Duina, mentre guerreggiava nella Polonia.
Fece disporre un buon numero di barche piccole, e le caricò di paglia
e di legna da ardere. Aspettò un buon vento favorevole; vi accese il
fuoco, e il vento, unito alla corrente, portarono le barche sotto
del ponte, ed immersero quel presidio nel fumo anche prima che il
fuoco lo distruggesse. Ebbe cura che le barche fossero più larghe di
quello che non erano i vani del ponte, per modo che, ivi giunte, vi
rimanessero, e ne seguisse l'incendio, e così avvenne, dato che fu il
fuoco alla paglia, e lasciate le macchine in poter del fiume. Nello
stesso momento egli attaccò per terra la testa del ponte, talchè i
Gonzaghi, sorpresi, e nemmeno potendo conoscere ove occorresse di
portare soccorso, non s'avvidero del fatto se non dopo che fu rovinato
il presidio ed il ponte, e perduta la difesa del Po. Jacopo dal Verme
colse il momento della costernazione dei nemici, de' quali ben mille
si erano sommersi col ponte, attaccò le navi de' Gonzaghi colle sue,
e terminò questa battaglia navale colla presa di tutte le navi del
nemico, il che accadde il giorno 14 di luglio dell'anno 1397. Pareva
dopo ciò inevitabile la presa di Mantova e di tutto lo Stato del
Gonzaga. Ma questi ricorse ad uno stratagemma men nobile e meno eroico,
ma che lo sottrasse dall'imminente destino. Trovò un falsario che seppe
esattamente contraffare una lettera di Giangaleazzo Visconti, e con
questa lettera ordinò al dal Venne di ritirarsi dal Mantovano, come
seguì. L'occasione passò, e il Gonzaga si sottrasse alla rovina[157];
poichè attaccò l'armata priva del suo generale, e nel momento in cui
nessuna disposizione vi era per la difesa, ebbe il campo di batterla.
Il mestiere di falsificare le lettere del principe convien credere che
in que'tempi fosse in uso, poichè il conte di Virtù, l'anno 1393, fece
a tal proposito un editto che decretava a que' falsari un'atrocissima
pena:[158] _Cum catena ferrea alligetur ad unam columnam, cum uno
annulo ferreo revolvente se, et cum quo ipse homo revolvere se possit
circumcirca ipsam columnam, longinqua catenus quatenus plus fieri
poterit, ita ut mortem dolentiorem sustineat; ibidem tamen comburatur
ita quod moriatur._ così leggesi in quel decreto, che pare scritto
dallo stesso secretario che serviva Galeazzo, padre del conte.

Sino dall'anno 1380 il conte di Virtù aveva ottenuto, siccome dissi,
dall'Imperatore Venceslao il diploma di vicario imperiale. Ma questa
dignità personale poteva non essere data a' suoi figli, e la elezione
d'un nuovo imperatore poteva farla perdere al conte medesimo, il quale
non dimenticava i figli di Barnabò e le pretensioni che avrebbon potuto
far valere, sì tosto che le circostanze loro fossero favorevoli. Per
tal cagione egli cercò d'essere formalmente investito da quell'augusto
come vassallo di tutti gli Stati che possedeva, onde per tal modo
rimanesse la successione e la sovranità perpetua ne' suoi discendenti.
La richiesta venne esaudita dall'imperatore Venceslao, col mezzo di
centomila fiorini d'oro che ei ricevette dal conte. Gli Stati del
conte vennero eretti in ducato, e il conte venne dichiarato duca di
Milano, con un diploma segnato il giorno 2 di maggio dell'anno 1395;
e con altro diploma posteriore l'imperatore dichiarò le venticinque
città che intendeva comprese nel ducato concesso, cioè Arezzo, Reggio,
Parma, Piacenza, Cremona, Lodi, Crema, Bergamo, Brescia, Verona,
Vicenza, Feliciano, Feltre, Belluno, Bassano, Bormio, Como, Milano,
Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Pontremoli, Bobbio e Sarzana.
Oltre queste città lo stesso augusto investì il nuovo duca d'una
distinta contea, transitoria pure a' suoi discendenti, nella quale
si comprendevano Pavia, Valenza e Casale. Il diploma è del giorno 13
ottobre 1396. Così quell'augusto venne a staccar dall'Impero ventotto
città, che formavano la maggior parte dell'antico regno italico; e il
duca ne diventò legittimo sovrano. Altre città possedeva Giangaleazzo,
non comprese in quel diploma; poichè, sebbene avesse ceduto Padova e
dato in dote alla principessa Valentina Alba ed Asti, ancora Bologna,
Pisa, Siena, Perugia, Nocera, Spoleti ed Assisi erano sue suddite; per
lo che era egli sovrano di trentacinque città. La solenne funzione di
rivestire delle insegne ducali il nuovo duca si celebrò in Milano sulla
piazza di Sant'Ambrogio, il giorno 8 di settembre dell'anno 1395. In
que' tempi non v'erano altri duchi in questa parte d'Italia; quindi la
funzione fu solennemente celebrata con infinito corso di forestieri,
e come dice il Corio, «al spectaculo de tanta solemnitate vi concorse
quase de tutte le natione de christiani, ed anche infedeli, in modo
che ciaschuno diceva non più potere maggior cosa videre[159]». Io ho un
esemplare manoscritto della orazione che recitò il vescovo di Novara in
mezzo di quella pompa, sulla piazza di Sant'Ambrogio. Essa incomincia
così:[160] _Ecce testem populis dedi eum ducem, et praeceptorem
gentibus. — Venerabiles patres, spectabilesque domini mei, plurimum
merito venerandi, tota Mediolanensium patria potest a me condiligenter
quaerere: — dic, quaeso, Novariensis episcope, quae sacrum moverunt
caesareum animum nostrae comunitati ducatus exhibere fastigium? —
Ad quam ego: — quadruplex rerum conditio; dirigens benignitas Regis
aeternalis; prosequens conformitas actus parentatis; obsequens
fidelitas domus Viperalis; congruens utilitas plebis generalis._ Poi
dopo s'impegna a provare con varii testi della Sacra Scrittura, che
Giangaleazzo era stato dall'imperatore creato duca per volere di Dio;
per inclinazione di quell'augusto, che, sull'esempio de' suoi maggiori,
beneficava la casa Visconti, per rimunerazione della fedeltà colla
quale i Visconti erano sempre stati affezionati all'imperatore, e per
bene generale de' numerosi popoli che obbedivano a Giangaleazzo. Indi
l'oratore passa alle lodi dell'Impero Venceslao, nel quale trova:[161]
_Celebris potentia validi vigoris; nobilis prosapia fulgidi decorit;
hilaris clementia placidi datoris_; e continua a dimostrare queste
asserzioni ritmiche, con fasi e modi singolarissimi. Poi, terminato
l'encomio di Venceslao, passa a tessere quello del nuovo duca, e le
sue lodi sono:[162] _Generis propinquitas, multum radiosa; corporis
formositas, multum speciosa; animi tranquillitas, valde virtuosa._
L'oratore vescovo di Novara era Pietro di Candia, che poi diventò papa
col nome di Alessandro V; e tale sermone fu allora ammirato da tutti
come un capo d'opera della più nobile eloquenza. Eppure trentacinque
anni prima Petrarca era domiciliato presso quella piazza medesima!
Convien dunque dire che le eleganti adunanze che ivi aveva tenute, e
quelle del suo Linterno, non avessero lasciato alcuna traccia[163]. Il
Corio descrive i donativi magnifici che fece il duca di superbi vasi
d'oro e d'argento, collane d'oro, drappi ricchissimi d'oro e seta,
cavalli signorilmente bardati, ed altri generosi regali distribuiti
ai convitati. Il grandioso pranzo lo diede il duca nell'antica corte
dell'Arengo, ossia Broletto Vecchio, dove oggidì sta la regia ducal
corte. Il Corio ce ne dà la descrizione, ed io la riferisco, perchè dà
idea del costume di quei tempi. Si cominciò con presentare a ciascuno
de' convitati «aqua a le mano, stillata con preciosi odori; e puoi
seguitarono le imbandisone, tutte accompagnate con trombe ed altri
diversi suoni; la prima delle quali fu, marzapani e pignocate dorate,
con arme dil serenissimo imperatore e nuovo duca, in taze doro, con
vino bianco; deinde pollastrelli con sapore pavonazzo, cioè uno per
scotella e pane dorato; puoi porci dui grandi dorati e dui vitelli
parimente dorati. Inde vi furono portati grandissimi piatelli dargento,
e per caduno pecti dui de vitello; pezi quattro de castrato; pezi due
de sensali. Capretti dui interi, pollastri quattro, capponi quattro,
persutto uno, somata una, salzici dui, e sapore bianco per minestra, e
vino greco. Doppo furono portati altri piatelli di simile grandezza con
pezi quatro de vitello a rosto; capreti dui interi; lepori dui intere;
pizoni grossi sei; cunelli quattro. Puoi pavoni quattro, cotti et
vestiti; orsi due dorati con sapore citrino. Doppo furono portati altri
grandissimi piatelli dargento con faxani quatro per cadauno, vestiti;
ed a quelli seguitavano conche grande di argento, con uno cervo intero
dorato; daino uno similmente indorato, e caprioli dui con galantina.
Puoi piatelli come di sopra con non puocho numero de qualie e pernice
con sapore verde; puoi furono portate torte di carne dorate con pere
cotte. Doppo fu dato acqua a le mano, facta con delicati odori, ali
quale seguitava pignocate in forma de pessi, inargentate. Puoi pani
inargentati, limoni syropati, inargenti in taze, pesce rostito con
sapore rosso, in scutelle d'argento, pastelli de inguilli, inargentati.
Puoi piatelli grandi de argento furono portati con lamprede e gallatina
inargentata, trute grande con sapore nero, e sturioni dui, inargentati.
Inde fu portato torte grande verde, inargentate, mandole fresche, vino
legiero, malvasia, persiche e diversi confecti a varie fogie[164]».
Pare che l'usanza fosse allora nei conviti pomposi di collocare nel
centro della gran mensa de' pezzi enormi, come maiali, vitelli, orsi,
cervi, daini, sturioni interi o dorati o inargentati, ovvero rivestiti
colla loro pelle naturale e internamente arrostiti. Pare che queste
masse non servissero ad altro che alla vista dei commensali durante il
convito, e che quello finito si concedessero da depredare festosamente
al popolo. Per cibo de' commensali si ponevano loro davanti, all'uso
monastico, dei piatti minori. I sapori bianco, nero, rosso, verde,
citrino e pavonazzo, pare che fossero salse di colori e gusti diversi.
L'usanza di coprire con foglie d'oro e di argento i cibi anche oggi
si conserva in alcune ciambelle di monache: gli speziali lo fanno
altresì per diminuire la nausea alle cattive cose che presentano
da inghiottire; e nella nostra plebe rimane ancora il proverbio di
_mangiare il pan d'oro_ per significare una vita signorile e deliziosa.
In mezzo a questa stomachevole abbondanza, degna di quel tempo, in cui
si ammirava l'accennata eloquenza del vescovo di Novara, confesseremo
che nella eleganza di servire con acque odorose per lavarsi, erano
quegli uomini più colti e raffinati che ora non lo siamo noi.

L'ambizione di Giovanni Galeazzo non era sazia giammai, e voleva
per ogni modo quel principe lasciare ai secoli venturi la fama di sè
medesimo. Felici i suoi popoli s'egli avesse temuto la cattiva fama!
Egli ordinò una compilazione degli statuti di Milano, la quale si
pubblicò il giorno 13 di gennaio dell'anno 1396, ed è la medesima che
venne stampata poi l'anno 1480, in Milano, da Paolo Suardi, con assai
bella edizione. Egli fece immaginare la genealogia del suo casato; e
questa fu compilata nella maniera più grossolanamente fastosa che dir
si potesse. Si creò allora la cronaca de' conti di Angera, celebre
presso di molti fra i nostri autori. Si riascese nulla meno che al
troiano Enea, il nipote di cui, per nome Anglo, si fece fondatore
_d'Angleria_, nome latino d'una rocca del distretto del lago Maggiore
chiamata Angera. Da Anglo se ne fanno discendere molti re, molti
eroi e finalmente Matteo Visconti. Appoggiati in questa genealogia i
successori di Gian Galeazzo ambirono poi di aggiugnere al titolo di
duca di Milano quello ancora di conte d'Angera e talvolta semplicemente
_Anglus_; come fra gli altri ambì di fare Lodovico Sforza, che nella
leggenda delle sue monete per questo si potrebbe credere un inglese.
Anche il titolo distinto di conte di Pavia lo aggiunsero i successori,
per essere quella una contea separatamente infeudata; e per lo più
il principe ereditario chiamavasi conte di Pavia. Vi bisognava nulla
meno che una ignoranza totale della storia, per ispacciare seriamente
la impostura dei conti d'Angera. Eppure il duca fu contentissimo di
quella adulazione; e la cronaca venne accolta con riverenza e con fede.
La stessa ambizione della immortalità portò il duca a fabbricare la
chiesa e la magnifica Certosa presso Pavia, dotandola signorilmente,
in guisa che era uno de' più grandiosi e ricchi monasteri che avesse
quest'ordine. Finalmente allo scopo medesimo mirò colla fabbrica del
Duomo di Milano, immaginato ed innalzato da lui. Allora non v'era
in Roma la superba chiesa di San Pietro, nè in Londra quella di San
Paolo; e il tempio che disegnò Gian Galeazzo ed innalzò in Milano, per
que' tempi, era il più grande, il più ardito e il più magnifico del
mondo, senza eccettuare Santa Sofia di Costantinopoli. Se la fabbrica
siasi cominciata nell'anno 1386, ovvero nel 1387, è un soggetto di
controversia nel quale non entrerò. Nemmeno entrerò io a trattare del
gusto di questa immensa mole, tutta caricata di minutissimi lavori di
marmo, con tanta prodigalità e capriccio, che costano secoli e tesori
gli ornati, le balaustrate, le guglie e i terrazzi che la coprono,
e non sono visibili se non agli uccelli, o a que' pochi che hanno la
curiosità di salire centottanta braccia, quant'è l'altezza dell'ultima
guglia, per rimirarle. Il duca volle fare questo tempio abbandonando
la simmetria degli ordini eleganti di architettura, e seguendo il
gusto di fabbricare della Germania. Io non saprei a tal proposito
esprimermi tanto bene, quanto ha fatto nell'elogio del Cavalieri il
nostro immortale abate Paolo Frisi: «Gli architetti fatti allora venire
dalla Germania, avendo preferita la nativa loro maniera di fabbricare
agli ottimi modelli che sino da quei tempi vedevansi nella Toscana,
ci lasciarono nella gran fabbrica del nostro Duomo un monumento della
rozza opulenza, piuttosto che del buon gusto. Anzi il nuovo modello,
imponendo colla sua stessa grandiosità, e confondendo le idee della
simmetria, dell'euritmia e del bello, servì piuttosto a ritardare fra
di noi i progressi della maestosa e nobile architettura»; così egli.
La lunghezza del Duomo è di braccia duecentoquarantanove e mezzo; la
larghezza massima della croce è braccia centoquarantotto e un ottavo;
e la larghezza della chiesa è braccia novantasette. Il nostro braccio
è l'estensione di un piede e dieci pollici di Parigi, così che sei
braccia si calcolano prossimamente undici piedi reali di Francia[165].
Questo grande edificio è tutto di marmo bianco ed alquanto trasparente,
che si cava da un monte del lago Maggiore, verso Domodossola. Il duca
arricchì questa fabbrica di assai pingue patrimonio; ma per innalzare
la immensa mole vi vollero generose e moltiplicate obblazioni; ed il
Corio ci racconta che, essendo stato nell'anno 1390 pubblicato in Roma
un Giubileo, «dove Lombardi per le continue guerre e turbazione non
essendogli potuto andare, Bonifacio pontefice, ad intercessione de
Giovanne Galeazzo Vesconte, la concesse a Milano ne la medesima forma
che era a Roma, cioè che ciaschuno nel dominio dil Vesconte sì anche
non fusse contrito ne confesso, fusse absoluto di qualunque peccato...
offerendo al primo Tempio due parte de le tre che avrebbino speso ne
lo andare a Roma, de la cui oblatione due parte dovevano essere de
la fabrica dil celeberrimo Tempio, e la tertia parte al pontefice:
a questa indulgentia li ultimi dui mesi gli concorse innumerabile
moltitudine de Lombardi[166]». Si è temuto questo passo del Corio, che
asserisce avere il papa accordata l'assoluzione anche ai non pentiti;
e per ciò nelle più recenti edizioni questo pezzo fu ommesso. Non
vi è però motivo alcuno di temere sinistra impressione, dappoichè
l'instancabile nostro conte Giulini ha pubblicata la bolla medesima
di Bonifacio IX, che ritrovasi nell'archivio Panigaroli, nel registro
A, pag. 169, in cui chiaramente si legge:[167] _Vere penitentibus et
confessis_[168]. Il Corio si è ingannato attribuendo quella opinione
al papa. Ma non credo io ch'egli poi siasi ingannato, asserendo che
tale opinione comunemente sì facesse correre per adescare in gran
numero i donatori. Infatti già vedemmo al capitolo undecimo, come il
cardinal legato Bertrando del Poggetto, sessantanove anni prima, aveva
pubblicata la Crociata per la distruzione di Matteo I, promettendo
a chi vi si arruolava assoluzione intera,[169] _liber et mundus sit
tam a culpa, quam a poena_. Questa opinione erronea e funesta era
dipoi andata serpeggiando per modo, che lo stesso Bonifacio IX, in
un suo breve, scrisse a disinganno di chi si lasciava adescare:[170]
_Non veras, et praetensas facultates hujusmodi mendaciter simulant,
cum etiam pro parva pecuniarum summula, non poenitentes, sed mala
conscientia satagentes iniquitati suae quoddam mentitae absolutionis
velamen praetendere, ab atrocibus delictis nulla vera contritione,
nullaque debita praecedenti forma (ut verbis illorum utamur) absolvant,
mala ablata, certa, et incerta, et nulla satisfactione praevia (quod
omnibus saeculis absurdissimum est) remittant_[171]. V'erano dunque pur
troppo i comodissimi dottori, che, per carpire denaro, addormentavano
gli uomini nel delitto; e non è difficile che questi venissero
adoperati per innalzare il Duomo; nel quale il duca pensò di lasciare
ai secoli un monumento eterno della sua grandezza. Da tali fatti si può
concludere che allora non v'era idea di eloquenza; non si studiava la
storia, cattivo era il gusto di architettura, e poco dissimile quello
della mensa; e quel che è peggio di tutto ciò, correva una morale
infame, per cui si credeva col denaro di cancellare qualunque iniquità,
senza bisogno alcuno di pensare a diventar migliori. I lodatori
de'tempi antichi, torno ancora a ripeterlo, non sanno la storia.

La vendita che aveva fatta l'imperator Venceslao di tutto il regno
longobardo, ossia italico, al nuovo duca, mosse i principi della
Germania a formare un partito per deporre quel sovrano dal trono
augusto, dal quale aveva staccata una parte così importante. Altri
motivi di doglianza avevano ancora contro di lui. (1401) Quindi
dichiararono imperatore Roberto conte Palatino di Baviera, e Venceslao
deposto; il che avvenne l'anno 1401. Il papa, i Veneziani ed i
Fiorentini animarono il nuovo Cesare a comparire nell'Italia, per
rivendicare le terre staccate dall'Impero; e gli promisero tutti i
soccorsi. Il nuovo imperatore, prima di venire, scrisse al duca la
lettera seguente, che ci ha conservata il Corio:[172] _Robertus de
Bavaria, Dei gratia, Romanorum rex, et Rheni comes Palatinus. Tibi
Johanni Galeaz, militi Mediolanensi, praecipiendo mandamus, quatenus
omnes civitates, castra, terras, et loca Romano Imperio et ditioni
nostrae spectantia, quae in Italia occupata indebite detines, Nobis,
quibus Romani Imperii gubernatio, ex electione de nobis imperatore
per Imperii electores canonice facta, ad me spectat et pertinet,
restituere ac resignare debeas, alioquin ut sacri Imperii terrarum, et
jurisdictionum invasorem, et nostrum hostem et rebellem diffidamus._ A
tale intimazione così rispose il duca:[173] _Tibi Roberto de Bavaria
nos Johannes Galeaz Vicecomes, Dei et serenissimi domini Vincislai
Romanorum et Bohemiae regis gratia, dux Mediolani, etc., ac Papiae et
Virtutum comes. Per praesentes respondemus quod quascumque civitates,
castra, terras et loca in Italia possidemus, et a prefato serenissimo
domino Vinceslao, Romanorum rege, et sacri Imperii gubernacola canonice
possidente, tenemus et possidemus, ipsasque a te, Imperii invasore
atque praefacti domini Vincislai et nostri hoste manifesto, defendere
prorsus intendimus, teque, ipsorum Imperii et dominii Vincislai regis
atque Nostrum hostem manifestum, si nostrum territorium invadere
praesumpseris, diffidamus_[174]. L'effetto di queste bravate non fu
altro, se non che il nuovo augusto Roberto passò le Alpi, e dal Tirolo
venne sul Bresciano. L'armata del duca se gli affacciò; e il giorno
21 di ottobre dello stesso anno 1401, battè gl'imperiali per modo che
condusse a Brescia un buon numero di prigionieri, due stendardi e più
di mille cavalli; il che risulta dagli antichi registri della città
sovra memorie contemporanee, consultate e pubblicate dal nostro conte
Giulini[175]. Il conte Alberico di Cunio e di Barbiano ebbe gran parte
dell'onore di questa vittoria[176]. Egli fu molto caro a Barnabò.
Alberico fu istitutore della società militare di San Giorgio, che
liberò l'Italia da masnadieri esteri. La virtù e il nome di questo
illustre italiano vivono ne' nobilissimi suoi discendenti[177]. La
presa di due stendardi significava allora assai più che non farebbe in
questo secolo, nel quale abbiamo moltiplicato le insegne, non saprei a
qual altro uso, fuori di quello di attestare con maggior autenticità
le proprie perdite quando vengon prese da' nemici, stipendiando a
tal fine molti uomini inutili per la battaglia. L'apparizione del re
Roberto fu momentanea, poichè dopo quell'incontro voltò strada, e per
la via di Trento se ne ritornò nella Germania. (1402) A tale stato di
prosperità era giunto Giovanni Galeazzo Visconti nell'anno 1402, che
tutto si piegava sotto la potenza di lui. Altro più non gli restava
se non di sottomettere Firenze, la quale era già cinta d'assedio dal
conte Alberico; e fra poco la Toscana, la Romagna in buona parte, e
la Lombardia non avrebbero avuto altro padrone fuori che lui. Così il
Visconti aveva nuovamente radunato in un sol corpo l'antico dominio
de' re longobardi, nè altro più gli mancava che il solo titolo di
re. Il Corio ci attesta che il manto reale, il diadema, lo scettro
erano già preparati dal duca; e per celebrare la funzione di farsi
consacrare, aspettava soltanto l'avviso della resa di Firenze. I
generali del duca erano i migliori di quei tempi: Jacopo dal Verme,
Ottobuon Terzo, Facino Cane e il conte Alberico di Barbiano. Il
duca contava il quarantanovesimo anno della età sua mentre aveva in
faccia questa ridente e grandiosa scena; quando morì in Marignano, il
giorno 5 di settembre dello stesso anno 1402; e così ogni cosa cambiò
aspetto; e tutte le previdenze umane, e tutt'i lunghi fili tessuti per
un avvenire sempre indipendente dagli uomini, rimasero troncati. Fu
veramente magnifica e reale la pompa funebre che si celebrò in Milano
per Giovanni Galeazzo I duca. Ne abbiamo la descrizione minuta[178].
Intervennero al funerale gli oratori di ciascuna delle città suddite;
gl'inviati di tutti i principi esteri; e quaranta illustri consanguinei
della agnazione Visconti. Le insegne di tutte le città e borghi
principali del dominio, portate da duecentoquaranta uomini a cavallo;
duemila uomini vestiti a bruno, con grosse torce di cera; tutt'i
vescovi sudditi; il feretro, portato dalle cariche di corte, sotto
di un baldacchino di broccato d'oro, foderato d'armellini; le insegne
ducali, portate dagli araldi, il tutto formò uno spettacolo maestoso.

Il carattere di Giangaleazzo si manifesta bastantemente dalle sue
azioni. Sant'Antonio lo ha dipinto con odiosissimi colori. Il nostro
Corio lo dice prudentissimo ed astuto, che sfuggiva il commercio
degli uomini, pigro, timido nell'avversità, e audace nella prospera
fortuna, simulato, vano ed infedele alle promesse. Io dirò che egli
era ambizioso, senza elevazione d'animo, superstizioso, senza vera
religione, mite, senza principio di virtù. Egli non ebbe l'atrocità
del padre e dello zio, ma nemmeno ebbe la franchezza del carattere
del secondo. Tutto in complesso, egli però fu men cattivo principe di
quello ch'essi furono: dal che non risulta gran lode. Nel suo regno
vi sono de' fatti grandi; ma nessuno ve n'ha di nobile e generosa
indole. I sudditi dovettero sopportare pesantissimi aggravii, com'era
necessario di fare per supplire alle grandiose spese che assorbivano
le armate, le pompe, le compre di Stati e di titoli, e tutti i maneggi
che prese il duca a trattare. Il nostro Annalista ci scrive:[179] _Dux
noster imposuit taleas, conventiones, et mutua intra dominium subditis
suis ita magna et continua, quod ipsis oportebat per peregrina loca
vagari, non valentes dicta onera sustinere, et fuit ululatus viduarum,
et orfanorum, et aliorum singulorum, et maximus strepitus inferiorum,
et immensae crudelitates. Et non valentes solvere detinebantur, et bona
sua a stipendiariis usurpabantur_[180]. Questi mali però in Milano
si dovettero sopportar meno che altrove. Una popolata capitale, che
è patria del sovrano, in una recente signoria, sempre è rispettata.
I clamori sarebbero troppo vicini all'orecchio del principe. Milano
infatti, alcuni anni dopo, malgrado il disordine che dovette soffrire
sotto il governo del secondo duca, era popolata, ricca ed animata colla
industria. Allora in questa capitale colava il denaro che dovevano
portarvi gli oratori delle trentaquattro città soggette al duca,
quello che vi spendevano i ministri dei principi esteri, quello che
vi consumava il duca per la sua corte e per le sue pompe, quello che
si raccoglieva per fabbricare il Duomo dalla divozione de' cittadini
delle altre città; e per conseguenza aveva mezzi grandi per i tributi.
Certamente che il duca pose in opera tutti i ripieghi per radunare il
denaro, e fra questi ricorse ad uno di que' metafisici ritrovati che,
colla idea di tener celato il tributo, opprimono i popoli, più ancora
di quello che non faccia un tributo sinceramente richiesto. L'Argellati
ci ha pubblicata la legge monetaria, colla quale comandò quel principe
che tutte le monete si dovessero spendere a maggior numero di lire;
così che, da quel giorno in avanti, la moneta che correva per tre
soldi, dovesse essere spesa ed accettata per quattro soldi; salvo però
il pagamento de' tributi, che eccettuò e volle che venissero pagati a
ragguaglio dell'antica moneta[181]. Con questa operazione quel sovrano
defraudava i suoi creditori e stipendiati d'una quarta parte di quanto
loro competeva. Ma tanti furono gli inconvenienti di questa indiretta
operazione, che poco dopo la dovette rivocare, e restituire le monete
al primiero loro corso; di che ne ha trovati i documenti il conte
Giulini nell'archivio della città[182]. La superiorità che aveva il
Visconti sopra degli altri principi confinanti si conosce dalle frasi
che adoperava nelle lettere ch'egli scriveva; e ciò anche da principio,
avanti che avesse tanto dilatato il suo dominio ed acquistata la
dignità ducale. Il Corio[183] ci trascrive le lettere che Gian Galeazzo
scriveva ad Antonio della Scala, sovrano di Verona e di Vicenza, e le
risposte che da quel principe riceveva. Allo Scaligero il Visconti
scriveva nulla più che _Vir Magnifice_; ed esso, nella risposta al
Visconti, _Illustris et excelse Pater noster praeclarissime_. Nel
corpo della lettera il Visconti scriveva _Nobilitati, vestrae_, e
nulla più; e lo Scaligero, _Excelsa Paternitas vestra_, ovvero _Pater
Excellentissime_. Anche nel carteggio colla repubblica fiorentina
si manifestava il superiore riguardo che avevasi per il Visconti.
Egli scriveva _Magnifici fratres carissimi_; ed essi nelle risposte
dicevano: _Magnifice et Excelse Domine, frater et amice carissime_; e
nel corpo della lettera, _Excellentia vestra_.

Il duca Gian Galeazzo, malgrado la severa pietà che dimostrava sino
alla ipocrisia, lasciò, morendo, un figlio naturale, nato da Agnese
Mantegazza. Questi aveva nome Gabriello Visconti; e il padre, nel
suo testamento, lo fece sovrano di Pisa e di Crema. Nel testamento
medesimo, egli divise a suo arbitrio lo Stato; poichè al cadetto
(de' due figli ch'ei lasciò, nati dalla duchessa Caterina, figlia di
Barnabò), non solamente lasciò la contea di Pavia, che aveva ottenuta
come un feudo separato, ma vi aggiunse Novara, Vercelli, Tortona,
Alessandria, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno e Bassano; città tutte
staccate dal ducato, il quale doveva pure, in virtù del diploma e colla
legge de' feudi, passare interamente nel primogenito, che era Giovanni
Maria. Il primogenito adunque rimase duca di Milano; il cadetto
restò conte di Pavia; s'intitolò il primo: _Johannes Maria Anglus,
dux Mediolani, etc., comes Angleriae ac Bonomie, Pisarum, Senarum ac
Perusii_; e il secondogenito prese a chiamarsi: _Philippus Maria, comes
Papiae, et Veronae dominus._



CAPITOLO XV.

  _Del duca Giovanni Maria, e del terzo ed ultimo duca Visconti,
  Filippo Maria._


Dalla metà del secolo decimoquarto sino alla metà del secolo
decimoquinto, per lo spazio di cento anni, la storia di Milano
presenta come una figura colossale mal connessa, di cui ora si
raccozzano ed ora cadono i pezzi; che però in nessuna parte mostra
vaghezza ed eleganza, ma rappresenta una figura truce e deforme.
Tale fu l'indole di que' tempi e di que' governi, nei quali della
virtù appena si conosceva il nome; sotto a principi che considerarono
gl'interessi loro, non solamente staccati, ma opposti a quelli del
loro popolo, che opprimevano e saccheggiavano anzi che governarlo.
Ad onta però dei vizi de' sovrani, Milano s'andò arricchendo; si
animò l'agricoltura, si aumentò sempre la popolazione, l'industria
si moltiplicò. Perchè la capitale d'un vasto Impero, collocata in
mezzo d'una fertile pianura, e comandata da un sovrano (che, malgrado
l'atrocità, predilige sempre i suoi concittadini), non può a meno che
non cresca. Morto il duca Giovanni Galeazzo, cadde la gran mole dello
Stato sotto il governo di due minori. Giovanni Maria, primogenito e
nuovo duca, aveva appena quattordici anni, e dieci e non più ne aveva
Filippo conte di Pavia, di lui fratello minore. Sarebbe stato difficile
in que' tempi il conservare illesa la dominazione, quand'anche il
ducato di Milano fosse stato un principato antico, consolidato dalla
opinione de' popoli, e la duchessa vedova tutrice fosse stata d'animo
bastantemente elevato ed energico per sostenere il peso del governo.
Ma oltre i mali inseparabili dalla minorità, lo Stato era un recente
aggregato di conquiste, di usurpazioni, di compre; e nessun altro
titolo v'era per convincere i popoli della legittimità della nuova
dominazione, che la forza. Un diploma comprato da un debole e deposto
imperatore, le male arti, le insidie e la più vergognosa mancanza di
fede, questi erano i titoli che doveva far valere la vedova duchessa
Caterina, donna avvilita d'animo; perchè, per lo spazio di ventidue
anni, costretta a soffocare colla dissimulazione il rammarico della
rovina di suo padre e de' suoi fratelli, oppressi da quello stesso
uomo ch'ella vedeasi giacere al suo fianco la notte, e al quale
doveva simulare stima ed affetto. L'orrore del suo misero stato aveva
ridotta la vedova principessa affatto incapace di reggere alla testa
di una tale sovranità; ed all'animo abbattuto dalla lunga ed uniforme
sofferenza de' mali, s'aggiugneva un colpo d'apoplessia già sofferto,
che la rendeva ancora più inetta agli affari. I due giovani principi
non avevano alcun prossimo congiunto che potesse reggere lo Stato;
non un Consiglio appoggiato alla costituzione. La loro rovina era
inevitabile. La reggenza cominciò coll'unione di alcuni generali e di
alcuni cortigiani, i quali pretesero di formare il Consiglio, presso
cui stava la sovranità, sotto il nome del duca Giovanni Maria. Questa
unione d'uomini potenti e mal assortiti, di cui ciascuno null'altro
aveva per fine che la propria fortuna, e null'altro aspettava se non
l'occasione per approfittarsi della gioventù d'un principe per il
quale nessuno aveva alcuno zelo; questa unione, dico, colle interne
rivalità, e col disordine ed interno scompigliamento, diede in certo
qual modo il segnale ai sudditi d'essere giunto il momento opportuno
per liberarsi dal giogo che era stato aggravato da Barnabò, da
Galeazzo, e recentemente dal primo duca; la dispotica dominazione
de' quali non era durata abbastanza per far dimenticare l'antica
libertà, se pure è possibile che si dimentichi mai ogni qualvolta si
soffre l'abuso del potere sovrano. I Rossi fecero ribellare Parma; Ugo
Cavalcabò s'impadronì di Cremona; Giorgio Benzone si fece arbitro di
Crema; Brescia se la prese a reggere Giovanni Bosone; Franchino Rusca
s'eresse sovrano in Como; Giovanni da Vignate si pose a signoreggiare
Lodi; e frattanto i generali del morto duca, che avevano combattuto
per lui, ma non sotto di lui, niente affezionati alla sua memoria,
andavano saccheggiando lo Stato e occupandone le città per proprio
loro conto; come fece Facino Cane, che si rese padrone di Piacenza, di
Tortona, di Alessandria, di Novara e di altre terre. (1403) Le armi
de' collegati scacciarono i Visconti dalla Romagna, e così Bologna,
Perugia ed Assisi vennero cedute al papa il giorno 25 agosto nell'anno
1405. Siena anch'essa scosse il giogo; e poco dopo si dovettero cedere
ai Veneziani Verona, Vicenza, Feltro, Belluno e Bassano l'anno 1404,
frattanto che il marchese di Monferrato s'impadroniva di Casale e di
Vercelli. In tale stato erano le cose, che, due anni dopo la morte del
duca Giovanni Galeazzo (due anni appena dopo la real clamide disposta,
la corona e lo scettro), i suoi figli tremavano, il primo rinchiuso in
Milano colla duchessa sua madre nel palazzo di corte, custodito come
un ostaggio in mezzo di una città che, divisa in partiti, tumultuava
ogni giorno; e l'altro appiattato nel castello di Pavia e mal sicuro,
perchè nella città più di lui potevano i Beccaria: ed ecco il fine di
tanta ipocrisia, di tanti maneggi, di tanta simulazione, e di tante
violazioni di fede!

Il duca Giovanni Maria, mentre stavasene occulto nel palazzo ducale,
nel tempo che i suoi Stati erano ceduti, invasi, saccheggiati, ovvero
oppressi senza di lui saputa in suo nome, s'annoiò della compagnia
della vedova duchessa sua madre, fors'anco per qualche buon ricordo
che ella li desse. Come la cosa andasse non lo sappiamo. La duchessa
Caterina dovette staccarsi dal duca suo figlio, e si ritirò a Monza,
per ivi passare il resto de' tristi giorni suoi, i quali ben presto
terminarono il giorno 17 di ottobre dell'anno 1404. Questa morte si
attribuì, non senza fondamento, allo stesso duca suo figlio; e le
azioni della sua vita ci levano pur troppo l'inquietudine di essere o
maligni o calunniosi nel sospettarlo. I consiglieri di quell'insensato
duca non erano sazii mai della preda, e imponevano tributi, prestazioni
e gabelle, per fare in ogni modo un buon saccheggio; ma non avendo
assoldate truppe bastanti, nè essendo ben organizzata la macchina
politica, non sapevano con qual mezzo forzare i sudditi a pagare i
tributi imposti, e allora ne immaginarono uno che prova l'indole di
quel misero governo. (1406) «E l'anno sexto sopra MCCCC, dice il Corio,
Giovanne Maria in Milano dominante, il dicinove di febraro, in uno
giorno de Venere, ale XII ore, fu per parte del principe cridato che
veruna persona non se odesse in iudicio per infine non fusse satisfacto
ala solutione de le taglie imposte tanto in quello anno quanto dil
preterito, e parimente che veruno notaro non celebrasse istrumento
nel modo come scripto». Cospirava la fisica a rovina del popolo per
una pestilenza che uccideva più di seicento persone al giorno[184].
L'interno disordine in Milano giunse a tal segno, che i generali
saccheggiavano le case de' ricchi cittadini, facevano i corsari,
depredando le mercanzie che navigavano sul Po, e persino, impadronitisi
del castello di Milano, scaricavano l'artiglieria sopra della città,
nella quale pure vi stava lo stesso duca. Bastano questi falli per
concepire una idea precisa della minorità di quel principe; ed io
mi credo lecito di trascurare una immensa serie di azioni cattive,
uniformi e minute, che nulla ci insegnano di più, e inutilmente
renderebbero sempre più meschino il racconto storico di que' tempi. Il
duca Giovanni Maria era un impasto di stranissima ferocia. La crudeltà
in lui sembra che nascesse non da vendetta nè da impetuose passioni,
ma piuttosto da mancanza di riflessione; come si vede ne' fanciulli,
che atrocemente incrudeliscono contro i più deboli e timidi animali,
senza avvedersene, poichè, nulla pensando allo spasimo d'un vivente
sensibile, unicamente si divertono nel fenomeno che producono, e si
consolano della loro superiorità. Tale sembra che fosse il carattere
di Giovanni Maria, il di cui sovrano piacere era quello di vedere
sbranare gli uomini da robusti mastini, ch'egli nodriva per tale
oggetto, nel tempo stesso in cui, timido ed imbecille, obbediva con
sommessione a qualunque de' generali, i quali a vicenda comparendogli
davanti colla forza, lo soggiogavano e lo rendevano pupillo, anche
dopo terminata che fu l'età minore: sorta di principato pessima sopra
tutte le altre, poichè le tirannie si commettevano senza che il vero
autore nemmeno compromettesse il suo nome. Giunto il duca all'età di
vent'anni, il giorno 28 di gennaio dell'anno 1408 fece sbranare da'
suoi cani Giovanni Pusterla, castellano di Monza, calunniandolo per
la morte della duchessa Caterina. Questo innocente e nobile cittadino
spirò satollando colle sue membra la fame di que' mastini nel luogo
istesso ove, sessant'otto anni prima, aveva terminata la vita, con
altro supplizio, Francesco Pusterla, regnando Luchino, siccome vedemmo.
Fu consigliato il duca di scolparsi con tal sacrificio dall'accusa
d'essere parricida. Bertolino del Maino spirò pure squarciato dai denti
di quei mastini. Così cominciò il suo regno il duca Giovanni, terminata
che fu la minorità! Il signor Carlo Malatesta, sovrano di alcune città,
aveva a lui data in moglie Antonia Malatesta, sua nipote. Egli voleva
pure illuminare il genero ed insegnargli i principii per governare lo
Stato, e mostrarsi degno di comandare agli uomini; a tal fine, dovendo
egli partirsene da Milano per reggere i propri Stati, lasciò al duca
alcuni ricordi, i quali tuttora si conservano nell'archivio della
città, e furono pubblicati dal benemerito nostro conte Giulini[185].
La sostanza di questo testamento politico si può epilogare nel modo
seguente: «La crudeltà è sempre indecente, sempre odiosa, e non di
rado funesta. I popoli debbono venerare nel sovrano l'immagine della
Divinità, protettrice della innocenza, e placabile col pentimento. Si
guardi il principe da coloro che cercano di rendergli sospetti i suoi
congiunti o i privati suoi domestici; coloro sono suoi nemici. Risolva
da sè il sovrano, ma negli affari ascolti prima l'opinione de' suoi
consiglieri; così non accaderà una inconsiderata risoluzione. Meglio è
perdonare che distruggere. I tributi s'impongano per vero bisogno, si
ripartano con giustizia, si percepiscano con economia, e i cortigiani
dieno l'esempio agli altri col pagarli. Non s'intraprendano guerre
senza necessità. Non largheggi il principe nel donare superfluamente.
Sia inviolabile nel mantenere la parola data, e imparziale per la
giustizia. Le cariche si dieno al merito, non mai al prezzo. Nella
scelta de' ministri si esamini di quale riputazione godano, e se la
vita loro sia proba; chi non è buon marito, buon padre, buon padrone in
sua casa, non sarà mai buon consigliere del sovrano. Agli stipendiati
si corrisponda fedelmente la paga. Le antiche leggi patrie sieno
venerate ed obbedite. Ai ribelli riconciliati si tenga d'occhio, ai
pertinaci si tolga il potere». Questo è il trasunto di tale memoria.
S'ella fu destinata da Carlo Malatesta per illuminare il duca, non vi
fu mai carta più inutile di questa. Se poi egli aveva null'altro in
veduta che di lasciare una pubblica disapprovazione della condotta del
nipote, non poteva scrivere meglio di così, perchè indicò appunto tutte
le massime dalle quali si allontanava quel principe. Andrea Biglia, nel
libro secondo della sua storia, ci descrive la barbarie di Giovanni
Maria:[186] _Genus illud nefandae necis quae canibus urgebatur,
adversum plures intendit, tam ferme sanguinis sitiens, ut nullum fere
diem per id tempus incruentum sineret_[187]. (1409) Il Corio racconta
che molti inermi popolari avendo gridato _pace, pace_, mentre il duca
passava avanti della chiesa di Santo Stefano, ad istigazione di due
perfidi suoi famigliari, ordinò quel principe alle sue guardie di
scagliarsi colle armi _in quella misera ed inerme compagnia_, il che fu
eseguito; e di quegli infelici «oltra a dugento ne occiseno: ed indi
fece proclamare, che sotto pena de la forcha veruno più non nominasse
pace ne guerra: anchora ordinò che gli sacerdoti ne la missa, in loco
de pacem, dicessino tranquillitatem. Doppuoi essendo al prefato duca
presentato avante uno figliuolo de Giovanne da Pusterla memorato, forse
in età de XII anni, intervenne questa meraviglia anzi miraculo, che,
mettendo li cani addosso al fanciullo per squarciarlo, quello se gittò
a terra chiamando al duca misericordia, il quale, più incrudelendo, se
gli remisse uno ferocissimo cane, chiamato il guerzo, custodito per il
Squarza Giramo, assai più che quello crudele contra il sangue humano,
ed a suggestione dil quale lo principe molte persone per denti de suoi
cani faceva lacerare. Questo cane adunque, per il canetero lassato,
puoi che il fanciullo ebbe nasato, se fece a disparte. Ma il principe
non per questo revocando la innata crudeltate, cominciò minaciar al
Squarza che lo farebbe suspender per la gola; onde remettendo una
crudelissima cagna per nome sibillina, parimente quella non volse
molestar il fanciullo, che di continuo domandava perdono. Ma Giovanne
Maria, più obstinato nel suo furore, comandò al malvagio canatero che
scanasse lo innocente garzono, il che voluntiere exequendo, non ancora
quegli cani volsino gustare dil suo sangue: ed in tal forma ne faceva
morire, ed tanto in questa inaudita crudeltate se delectò, che sino
la nocte andava per la cità con il Giramo, inventore de si inaudita
sceleragine e favoreggiato da lui per tanto horrendo maleficio,
caciando il sangue umano come li cazatori ne boschi le sevissime fere».
Così il Corio[188], il quale nella sua gioventù avrà inteso questi
atrocissimi fatti da' vecchi che n'erano stati dolenti spettatori. Il
Biglia poi scriveva le cose de' suoi tempi, e poteva essere testimonio
di veduta. Ho voluto narrar questi orrori colle parole altrui, per
risparmiare a me stesso la pena di descrivere cose tanto crudeli, e per
togliere ogni sospetto sulla verità dei fatti.

La condotta del duca Giovanni Maria era quella d'un vero pazzo
furioso; poichè, nei mentre ch'egli insultava l'umanità, la giustizia,
la natura istessa coi mastini, compagnia degna di un tal principe,
egli sopportava che Facino Cane a suo pieno arbitro non solamente
dominasse Alessandria, Tortona, Novara ed altre terre, ma disponesse
da sovrano, e in Milano ed in Pavia, ogni cosa a suo piacimento,
per modo che il Biglia ci lasciò scritto:[189] _Nec multo post
Facinus Mediolanum advocatur, ut nihil jam illi ad utriusque dominium
praeter nomen deesset, omnia uni parebant, omnia pro illius imperio
statuebant, ne tanto quidem ad impensas juvenum relicto quod vitae
satisfacerent_[190]. Appena i due giovani principi avevano di che
mangiare. Il duca aveva fatta colla città di Milano una convenzione,
la quale si trova nell'archivio della città, e venne pubblicata dal
conte Giulini[191]. In vigore di tal carta egli si sottopose in molta
parte a que' limiti che presentemente fissa la costituzione della
Gran Brettagna al sovrano, almeno per riguardo al tributo. Le regalie
tutte le cedette alla città, alla quale diede in proprietà ogni sorta
di carico non solo, ma persino gli stessi beni suoi allodiali; e ciò
a condizione che la città gli sborsasse sedicimila fiorini al mese,
ossia centonovantaduemila fiorini all'anno. Il primo duca aveva da
tutto il suo Stato un milione e duecentomila fiorini all'anno[192];
ma ora non rimaneva a questo secondo duca se non Milano, e non era
tenue quella somma per que' tempi. Nè questo fu pure il limite a cui
si tenne il duca. Volle che la città diventasse, in certo modo, anche
amministratrice dei centonovantaduemila fiorini; e stabilì che per la
sua persona se gli sborsassero ogni mese duemilacinquecento fiorini,
per mantenimento della sua corte, cavalli, tavola e vestito: del
rimanente la città doveva pagare ottomila fiorini di stipendio per ogni
mese a cinquecento lance, tremila fiorini al mese per lo stipendio di
mille fanti, mille altri fiorini al mese per la guardia del corpo,
e millecinquecento fiorini al mese per soldo ai consiglieri ed ai
giudici. Questo contratto (che dava esistenza morale al corpo politico,
creandolo legittimo percettore del tributo, e un essere vivente
interposto fra il sovrano ed il suo popolo, avendo un debito fisso col
primo, ed un dritto e una giurisdizione sul secondo) poteva essere una
nobilissima beneficenza verso della patria in tutt'altro principe;
ma era una stolida imbecillità in quel Giovanni Maria, incapace di
governare. Tutto era in combustione e in disordine:[193] _Vulgus
quidem_, dice il Biglia, _annonae copia delinitum; caeteri, quicunque
bonorum civium loco essent intolerandis tributis gravabantur... Multi
vel publica vel privata licentia interfecti._ I mali pubblici, l'odio
contro l'infame duca, il profondo disprezzo che si era egli meritato,
giunsero finalmente al colmo. (1412) I due fratelli Andrea e Paolo
Baggi, ai quali il sovrano aveva fatto ammazzare un fratello chiamato
Giovanni; Giovanni della Pusterla, nipote dell'infelice castellano di
Monza sbranato da' cani, e cugino dell'altro disgraziato fanciullo
scannato; Francesco e Luchino del Maino, cui il duca aveva fatto
decapitare due fratelli, e sbranare da' cani Bertolino, loro parente,
si collegarono, e varii altri ad essi si unirono per togliere dal
mondo quel mostro crudele, pazzo debole, imbecille ferocissimo; e il
giorno 16 di maggio dell'anno 1412 lo colsero, non si sa bene se nella
chiesa di San Gottardo, ovvero in una sala di corte mentre s'inviava
alla chiesa, e lo lasciarono sul momento morto dalle ferite. Il duca
Giovanni Maria così terminò la obbrobriosa sua vita, nell'età giovanile
di ventiquattro anni non per anco compiuti, dopo di aver portato il
nome di duca per quasi dieci anni. La universale detestazione contro di
lui si manifestò con segni inusitati, poichè nemmeno si volle rendere
al di lui cadavere il vano onore della pompa funebre: e una donna
della pubblica prostituzione fu la sola che diede un segno di pietà,
gettandogli sopra un canestro di rose. L'infame Squarcia Giramo fu
dalla plebe colto e strascinato per le strade, indi appeso per la gola
alla sua casa.

Alcuni de' nostri scrittori hanno preteso di farci credere che il
duca Giovanni Maria coltivasse le belle lettere; se ciò mai fosse,
ridonderebbe un tal fatto piuttosto in disonore delle lettere che in
lode di quell'anima perversa; perchè proverebbe che si può anche da
un cuore insensibile gustare la venustà e la grazia del Petrarca, il
che però sembra una contraddizione. So che la filosofia, le lettere,
la musica, la pittura, le arti tutte hanno i loro ipocriti, come gli
ha la virtù, come gli ha la religione; ma un giovine dissoluto che si
diverte a far lacerare gli uomini dai cani, non è sulla strada d'alcuna
ipocrisia.

Sarebbe un problema da esaminarsi tranquillamente da un uomo
ragionevole e non ambizioso, se veramente Matteo Visconti abbia
procurato un bene a sè stesso e alla sua casa innalzandosi al
trono. Lo stesso Matteo I morì di rammarico per gl'interdetti e le
scomuniche; Galeazzo I, suo figlio, cessò di vivere per i lunghi
patimenti sofferti nel carcere; Stefano perì di veleno; Marco venne
gettato da una finestra; Luchino fu avvelenato dalla moglie; Matteo
II fu ucciso violentemente dai fratelli; Barnabò morì in carcere a
Trezzo di veleno; Giovanni Maria fu trucidato. È una gran massa di
sventure cotesta, accadute ad una famiglia in meno di cento anni! Nella
condizione privata è ben difficile che ne accada altrettanto. Azzone e
Giovanni furono i due soli principi felici, perchè sensibili, benefici
e virtuosi, ma fu breve il loro regno. Egli è vero però che questo
seguito di miseri casi nacque per i vizi di que' sovrani; quando nella
serie di cinque secoli dell'augusta casa d'Austria non troveremo veruna
traccia de' mali che in meno d'un secolo sopportarono i Visconti.

Il duca Giovanni Maria non lasciò figli:[194] _Juvenem his monitis
imbuerunt_, dice il Biglia, _ut jam uxorem, si non repudiatam, certe
pro dissociata haberet_; nè della duchessa Antonia, figlia di Malatesta
de' Malatesti, si è inteso più cosa alcuna. Filippo Maria era giunto
all'età di vent'anni. Egli era il solo avanzo che rimanesse nella
discendenza di Gian Galeazzo; ma se ne stava nascosto e pauroso nel
castello di Pavia; solo spazio sicuro che gli restava sulla terra.
Pavia, Milano e tutto il rimanente dello Stato era occupato da piccoli
sovrani. Quasi ogni città si era creato un conte. Il più potente fra
questi nuovi divisori del dominio era, siccome dissi, Facino Cane,
al di cui stipendio viveva una schiera di militi dei migliori di quei
tempi, avvezza a vincere sotto il comando di Facino. Egli in fatti era
il padrone di Milano, di Pavia, di Alessandria, di Novara, di Tortona
e di altre terre; e non gli mancava altro che il titolo di duca. Anzi
vi è tutta l'apparenza di credere che lo sarebbe diventato, e colle
armi avrebbe ricuperato per sè medesimo la successione del primo duca,
poichè fu estinto Giovanni Maria, e nessun altro rimaneva che il timido
Filippo Maria; ostacolo di mera opinione, facile a togliersi colla
fede e colla morale di quel secolo d'orrore. Ma il potere supremo
dispose altrimenti, e decretò che nel medesimo giorno 15 di maggio
dell'anno 1412 Giovanni Maria morisse trucidato in Milano, e Facino
Cane morisse in Pavia di natural malattia. Il momento era giunto al
fine in cui i figli dell'oppresso Barnabò potessero far valere le
loro ragioni. Non v'era forza che potesse far loro valida resistenza;
e il governo civile di Milano era talmente sconnesso ed incerto, che
nulla più doveva costare ad essi per impadronirsene che lo stendervi
la mano. In fatti Estore Visconti, figlio naturale di Barnabò, nato da
Beltramola dei Grassi, negli ultimi anni del regno del duca Giovanni
Maria s'era impadronito di Monza; e pare che da colà aspettasse il
momento per rendersi signore di Milano; e così fece spirato che fu il
duca. Siccome poi l'origine sua poteva dar luogo a chi volesse trovare
illegittima la sua dominazione, così Estore si associò Giovanni Carlo
Visconti, discendente legittimo del signor Barnabò perchè figlio di
Carlo e di Beatrice d'Armagnac. Ebbero questi due (zio e nipote) un
frate domenicano, chiamato Bartolommeo Caccia, che perorò e predicò
tanto, che indusse il popolo di Milano a riconoscere Estore e Giovanni
per sovrani; e tali durarono per un mese di tempo, cioè sino al giorno
16 di giugno dello stesso anno 1412. Questi apocrifi sovrani batterono
moneta, in cui s'intitolarono bensì signori, ma non duchi di Milano;
ed io ne ho nella mia raccolta. Tale era la situazione di Filippo
Maria, che poteva assumere bensì il titolo di duca di Milano, ma non
ne possedeva proprietà alcuna, e mancava d'ogni mezzo per deprimere
gli usurpatori. Una sola via poteva aprirsegli per riascendere. Gli
stipendiati di Facino Cane erano un corpo ragguardevole di bravi
soldati, affezionatissimi al loro generale, e dopo la morte di esso
alla di lui vedova Beatrice Tenda. Se il nuovo duca sposava questa
vedova, da cui dipendevano alcune città e questo corpo di armati, era
da sperarsi che quei militi, fedeli alla vedova, combattessero con
impegno in favore del nuovo di lei marito. Tal consiglio provvidamente
venne suggerito al duca Filippo Maria. Si entrò a trattar quest'affare;
e quantunque la vedova Beatrice avesse l'età d'essere madre dello sposo
che le veniva proposto, aderì all'offerta e sposò il giovine duca.
Con tale atto si trovò il duca immediatamente padrone di Pavia, di
Tortona, di Novara, di Alessandria e dei soldati di Facino. Il primo
passo era quello di scacciare da Milano Estore Visconti. Quindi Filippo
Maria, chiamati intorno di sè i fedeli stipendiati di Facino Cane, si
incamminò da Pavia a Milano. Quei militi intrepidi riguardavano il duca
come un figlio del loro amato padrone, e fecero sì bene, che Estore
dovette abbandonare la città appunto il giorno 16 di giugno, siccome ho
detto; e ritiratosi nel castello di Monza venne ivi assediato, e dopo
alcuni mesi vi rimase ucciso da un colpo di spingarda che gli fracassò
una gamba. Il cadavere di Estore Visconti si conserva incorrotto
e visibile in un cortile di fianco alla chiesa di San Giovanni di
Monza; e si riconosce la rottura della gamba. Appena fu padrone di
Milano Filippo Maria, terzo duca, girò per la città, e mostrò al
popolo umanità ed accoglienza. Ma quanti potè avere dei complici
della morte del duca Giovanni Maria, tanti morirono col supplicio, e
taluni squartati, e le loro membra inchiodate alle porte della città,
e le teste, conficcate in cima di lunghe aste, vennero piantate sul
campanile della piazza de' Mercanti. Le case dei congiurati furono
abbandonate al saccheggio; e così cominciò il suo regno il duca Filippo
Maria. Fra i militi di Facino Cane vi era un soldato di fortuna,
Francesco Carmagnola, uomo di grand'animo, che aveva i talenti di
un buon generale, e che colla superiorità del suo merito aveva dato
persino gelosia al suo antico padrone, che pure era grande uomo di
guerra dei suoi tempi. Il duca non era fatto per comandare in persona:
egli era timido, inerte, superstizioso, amante della solitudine. Egli
fortunatamente ascoltò il consiglio di Beatrice sua moglie, e collocò
nel Carmagnola il comando e la confidenza. Francesco Carmagnola fu
dichiarato conte; innalzato, arricchito e beneficato dal duca. Il conte
Francesco alloggiava in Milano nel palazzo in cui ora si radunano i
Corpi civici. Premeva al duca di riacquistare Lodi, città distante
appena venti miglia da Milano. Giovanni Vignate s'intitolava conte
di Lodi, e ne era il padrone. Una tregua si era sottoscritta fra il
duca e lui; quindi il Vignate, fidandosi al gius delle genti, senza
alcun sospetto veniva qualche volta a Milano. (1416) Egli un dì non
ebbe timore di porre piede nel castello in cui stavasene appiattato
ed invisibile il duca; ed ivi, il giorno 19 di agosto dell'anno 1416,
venne a tradimento arrestato, malgrado la tregua, e trasportato a
Pavia, ove fu riposto in una gabbia di ferro. Contemporaneamente le
truppe ducali sorpresero Lodi e fecero prigioniere Luigi Vignate,
figlio del conte; il padre ed il figlio passarono nelle mani del
carnefice; e con tal mezzo il duca s'impadronì di Lodi. Loterio Rusca,
signore di Como, credette di fare un buon contratto cedendo al duca la
sua sovranità per quindicimila fiorini d'oro. Crema ritornò in potere
del duca, perchè il nipote del conte di Crema, Giorgio Benzone, tradì
suo zio e v'introdusse le armi ducali.

Stavasene il duca Filippo Maria inaccessibile nel castello di Milano,
senza che mai fosse veduto nella città. Le strade di Milano, le mura
istesse diroccavano, e si lasciavano senza riparazioni. Quel principe
credeva all'astrologia; e questa era forse anco la sola norma della sua
morale e di tutte le sue azioni. Quando la luna era in congiunzione col
sole, egli s'intanava in qualche angolo del castello più solitario,
e non voleva mai dare risposta, nè permetteva nemmeno che alcuno la
desse per lui. Aveva una macchina egregiamente lavorata; quest'opera
di orologeria dinotava il movimento dei pianeti, e quest'era l'oggetto
della più frequente osservazione del duca. Se taluno lo interpellava
per aver i suoi ordini nel momento che egli credesse infausto, o
taceva, ovvero rispondeva soltanto: _aspetta un poco._ Egli aveva i
suoi astrologi, i quali erano i più cari di lui consiglieri, e quelli
che influivano più d'ogni altro nel governo dello Stato. Le forze
del duca Filippo Maria ci vengono descritte da Andrea Biglia. Il
conte Francesco Carmagnola era alla testa degli stipendiati ducali.
Settecento cavalieri formavano la guardia del corpo: il Biglia li
chiamava _familiares_. Due squadroni, ciascuno di settecento cavalieri,
formavano due corpi di lance spezzate, _lanceas laceras_. Aveva altra
cavalleria comune, in tutto quattromila cavalli. D'infanteria egli
aveva allo stipendio mille uomini scelti, tutti coperti di lucidissime
armature, _qui totis armis lucerent_; e il rimanente dei fantaccini,
ben corredati, ascendeva a più di quattromila uomini[195]. Tale
armata si preparava a marciare contro del marchese di Monferrato; il
quale, per evitare la guerra, cedette al duca Vigevano. (1418) Così il
duca, da Beatrice Tenda, ottenne la ricuperata sovranità di Milano,
Pavia, Lodi, Como, Vigevano, Alessandria, Tortona e Novara; e da
queste otto città e dall'armata ebbe i mezzi per dilatare nuovamente
i confini dello Stato, siccome fece. Doveva il duca venerare la sua
benefattrice più della stessa sua madre. A lei doveva tutto, persino
l'esistenza, che gli sarebbe sicuramente stata levata, se non aveva il
di lei soccorso. Essa con tutto ciò soffri il trattamento di essere
(malgrado l'età sua e la sua virtù) dal marito incolpata d'avergli
violata la fede per un giovine cavaliere, nominato Michele Orombello,
che era al di lei servizio. Questo giovine era veramente di amabile
aspetto e di pari maniere; e talvolta la duchessa passava qualche
ora con minore noia, facendolo suonare il liuto. Volle il duca che
venisse imprigionata in Binasco l'infelice Beatrice Tenda; e il non
meno disgraziato cavaliere fu parimenti posto nei ferri. Si fecero
soffrire ventiquattro strappate di corda alla duchessa, come ci
narra il Corio[196]. Furono condannati e l'una e l'altro a perdere
la testa sotto la scure; il che si eseguì in Binasco nell'infausta
notte susseguente al giorno 13 di settembre dell'anno 1418. Il Corio
ci attesta che, per liberarsi dagli strazi della tortura, la duchessa
incolpasse sè medesima; ma poi, in presenza degli ecclesiastici che
l'accompagnarono al patibolo, prima di sottoporvi il capo, chiamasse
Iddio in testimonio dell'incolpabile sua innocenza. Ci dice il Biglia
che il giovine Orombello, lusingato di potere sfuggire il supplicio
calunniando la duchessa, preferisse la vita alla virtù, sebbene in fine
perdesse e l'una e l'altra; e che la duchessa, avanti il patibolo, da
donna forte e virtuosa, rimproverasse la vile colpa all'Orombello,
e protestando la innocenza propria, chiamandone testimonio Iddio,
piegasse il capo alla mannaia. Fosse il peso d'un troppo grande
beneficio insopportabile all'anima del duca; fosse ambizione, per cui
si sdegnasse d'aver per moglie una che non era di famiglia sovrana;
fosse noia d'avere una compagna di una età matura; fosse l'amore
ch'egli già nutriva per Agnese del Maino, colla quale visse poi sempre,
ed a cui null'altro mancò se non il nome di moglie; fosse una trama
di qualche abbietto favorito, a cui non tornava bene che il duca
ascoltasse fedeli consigli; fosse perfine ciò prodotto da qualche
astrologica predizione che promettesse al duca felicità da un tal
colpo; qualunque ne fosse il motivo, tale fu la mercede che Filippo
Maria seppe rendere ai beneficii ricevuti da quella sventurata donna.
Trema la mano nello scrivere tali abbominazioni!

La città di Piacenza era stata occupata da principio da Pacino Cane;
poi se n'era preso il dominio Filippo Arcelli. Il fratello ed il figlio
di questo signore caddero in potere del duca; il quale, memore di
quanto col Fogliano aveva quarantasei anni prima fatto Barnabò, fece
piantare a vista di Piacenza due forche, e fece intimare la resa a
Filippo Arcelli, minacciandogli altrimenti di fare impiccare Bartolomeo
e Giovanni, il fratello ed il figlio. Non credette Filippo che il duca
volesse a tal segno disonorarsi, e ricusò di cedere la sovranità. Que'
due illustri ed innocenti gentiluomini furono ben tosto impiccati, a
vista della madre medesima, che da una finestra s'accorse dell'orribile
sventura, e colle smanie accrebbe talmente l'intima desolazione del
marito, che se ne uscì da Piacenza sconosciuto; e così quella città
ritornò in potere del duca il giorno 13 di giugno dell'anno 1418.
(1419) Bergamo era posseduta dai Malatesta; ma il conte Francesco
Carmagnola la sorprese e la riacquistò al duca il giorno 24 di luglio
l'anno 1419; il che vedutosi da Gabrino Fondulo, signore di Cremona,
stimò di vendere al duca la sua sovranità per trentacinque mila
fiorini, ossia ducati d'oro. Il marchese di Ferrara, Nicolò d'Este,
cedette Parma al duca il giorno 28 di novembre l'anno 1420. Brescia da
Pandolfo Malatesta fu ceduta al duca, il giorno 18 di marzo dell'anno
1421, per il prezzo di trentaquattromila fiorini d'oro. Tanto erano
temute e fortunate le armi ducali sotto il comando dell'intrepido ed
esperto conte Francesco Carmagnola, che portò questi l'assedio sotto
di Genova; città che sessantotto anni prima si era data a Giovanni
arcivescovo, e che, dopo tre anni essendosi sottratta, inutilmente era
sempre stata adocchiata dal primo duca. Il valoroso conte la costrinse
alla resa; e il giorno 2 di novembre dello stesso anno 1421 capitolò
la città e riconobbe per suo signore il duca di Milano. Filippo Maria
prescrisse da buon astrologo l'ora e il momento in cui dovevasi fare
la funzione del possesso di Genova[197]. I Genovesi però quattordici
anni dopo scossero nuovamente il giogo dei Visconti. (Il signor don
Carlo de' marchesi Triulzi, cavaliere di moltissima erudizione, ha
nella sua collezione di monete di fiorini d'oro di Genova regnandovi
il duca Filippo Maria, ed io ho delle monete d'argento pure di Genova
col nome e collo stemma del medesimo duca). Poi dal duca d'Orleans
ebbe il Visconti per cessione Asti: città che da suo padre era stata,
come dote della principessa Valentina, ceduta al conte di Valois
trentacinque anni prima. Fece il duca altri acquisti nella Romagna,
cioè Forlì, Imola, Faenza. (1424) A tale stato di grandezza era
giunto il duca Filippo Maria l'anno 1424, che possedeva venti città
acquistate colle nozze della infelice duchessa, e colla fede e col
valore del conte Francesco. Le città erano Milano, Como, Brescia,
Bergamo, Lodi, Crema, Cremona, Piacenza, Parma, Faenza, Imola, Forlì,
Pavia, Alessandria, Tortona, Genova, Asti, Vercelli, Novara e Vigevano,
tutte acquistate nel breve spazio appena di dodici anni. Avrebbe il
duca sottomesse ancora le altre quindici città che gli mancavano per
ricuperare lo Stato di suo padre; avrebbe fors'anco esteso ancora
più in là i confini; se, tenendosi inaccessibile, invisibile e sempre
attorniato da uomini da nulla, fra i quali il primo era certo Zanino
Riccio, non avesse tagliata a sè medesima la mano destra col diffidare
del conte Carmagnola, dopo le non interrotte prove del di lui animo.
La superiorità dei talenti del conte, e la franchezza colla quale
suggeriva i buoni consigli al suo principe, facevano tremar di paura
gli abbietti uomini che attorniavano il duca. S'avvedevano ben essi che
quel generale non avrebbe mai fatto lega nè cogli astrologhi, nè coi
parassiti che deludevano il sovrano. Formarono quindi il progetto di
alienar l'animo del duca dal conte Carmagnola, e mentre il conte gli
sottometteva le città, facevano malignamente risuonare all'orecchio
di Filippo Maria l'amore dei soldati, la riverenza dei popoli sempre
crescente verso del Carmagnola. Quindi ogni dì più rendevano timido
il duca appiattato, invisibile ad ognuno, fuori che ad essi; a tal
segno ch'ei non usciva dal castello di Milano, se non dalla parte
solitaria dei campi; per di là passando al castello di Abbiategrasso,
ove parimenti stavasene solitario ed occultato. Basta il dire ch'egli
non venne mai in Milano, se non quella prima volta che ho detto.
Bloccato in tal maniera il duca, nulla ei più sapeva degli affari, di
quanto volevano dirgliene quei vili intriganti cortigiani. Costoro
a poco a poco fecero nascere il pensiero nel duca di collocare il
conte stabilmente al governo di Genova, finchè gli tolse il comando
dell'armata. Il conte da Genova andava scrivendo al duca, illuminandolo
sul proposito degl'interessi del suo Stato, e lagnandosi dei torti.
Ma le lettere nemmeno giugnevano al duca. Se ne avvidde il conte, e
lasciando Genova si portò alle porte del castello d'Abbiategrasso,
chiedendo umilmente di essere ascoltato; ma gli venne risposto che
esponesse le sue occorrenze a Zanino Riccio. Il Carmagnola alzò la voce
colla speranza di essere inteso dal duca, e protestò che quel principe
era attorniato da traditori e malvagi cortigiani. Le guardie avevano
militato sotto di lui; sebbene animate ad arrestarlo, non l'osarono.
Il conte allora, rimontato sopra il veloce destriero, su cui erasi ivi
improvvisamente portato, _forse si pentirà_, disse, _in breve il duca
di non avermi ascoltato_; e spronò il cavallo e disparve da un luogo
dove non era stato senza pericolo; quindi per vie sicure se ne andò a
Venezia, ove offrì i suoi servigi a quella repubblica, da cui vennero
accettati con somma onorificenza.

Le avventure del conte Carmagnola sono interessanti. Il momento in cui
sconsigliatamente volle il duca disgustare quel benemerito generale,
fu quello in cui la fortuna dello Stato si cambiò; e laddove sino a
quell'ora sempre la vittoria, le conquiste o le dedizioni avevano
contrassegnati gli anni del suo regno, da quel punto cominciò a
contrassegnarli colle inquietudini, colle sconfitte, colle umiliazioni
e colle perdite. Appena era partito il conte, che il duca stese la mano
confiscatrice su tutti i poderi suoi, e si riprese su tutti i doni
che gli aveva fatti. Tese varie insidie per averlo prigione; ma non
gli riuscirono. Tentò il veleno, e certo Giovanni Liprandi, milanese,
che aveva per moglie una Visconti, provossi a Treviso di avvelenare
il conte: il che verificato, perdè poi la testa a Venezia. A tali
infami azioni s'abbassava il duca per consiglio di Zanino Riccio, e
d'altri vigliacchi ed astrologi, pari a lui, mentre in vece con qualche
onesto partito nulla sarebbe riuscito più facile che l'accomodarsi col
Carmagnola, già affezionatissimo nel suo cuore ai Visconti, siccome
accade sempre di esserlo, quando si sono fatti insigni beneficii, pei
quali amiamo il beneficato come cosa nostra. Il conte, pagato con tanta
ingratitudine, insidiato in così bassa ed atroce maniera, conobbe non
rimanergli più altro partito che l'operare da nemico. Egli adunque
consigliò ai Veneziani di legarsi coi Fiorentini. Temevano i primi di
perdere Verona e Vicenza, occupate recentemente sotto l'infame governo
dell'ultimo duca. I Fiorentini vedevano già nuovamente innoltrata
nella Romagna quella sovranità dei Visconti, che ventiquattro anni
prima aveva esposto all'estremo pericolo la loro repubblica; quindi
si unirono coi Veneziani. (1426) Il re Alfonso di Napoli si unì
colle due repubbliche; ed il conte Francesco Carmagnola, l'anno 1426,
ricevette solennemente dalle mani del doge di Venezia lo stendardo
di San Marco, e venne dalla repubblica dichiarato capitano generale
dell'armata terrestre, coll'assegnamento, cospicuo per quei tempi, di
dodicimila annui fiorini, ossia ducati d'oro. Ciò fatto, il Carmagnola
si portò sul bresciano. Egli conosceva quel paese, poichè sei anni
prima vi aveva guerreggiato per riacquistarlo al duca e scacciarne i
Malatesti. Era celebre la battaglia ch'ei vinse l'anno 1420, il giorno
8 di ottobre; ora si trattava di acquistar Brescia ai Veneziani. Il
conte ne scacciò l'armi del duca. Il comandante che Filippo Maria
aveva posto alla testa delle sue armi invece del Carmagnola, era Guido
Torello; uomo che non pareggiava i talenti del Carmagnola. Sotto del
Torello combattevano Niccolò Piccinino e Francesco Sforza, uomini di
merito; ma il primo di questi due si sdegnava d'essere sotto il comando
d'un generale ch'egli non credeva superiore a sè stesso; l'altro era
ancor giovine, focoso ed inesperto. Oltre ciò, passavano fra tutti e
tre quelle rivalità che, tendendo a farsi reciprocamente scomparire,
rovinavano il sovrano e lo Stato, del quale ad essi era consegnata la
difesa. Presa Brescia, era da temersi che la guerra non s'avanzasse
nel centro del dominio; e perciò dovette il duca richiamare le truppe
dalla Romagna, e abbandonare per sempre Forlì, Imola e Faenza, che
appena da due anni erano sue. (1427) Il conte Francesco Carmagnola
diede una sconfitta ai ducali il giorno 11 ottobre 1427. Quasi tutti i
generali del duca, e quasi tutti i suoi soldati rimasero prigionieri.
Oltre i già nominati erano nell'esercito ducale altri generali, cioè
il conte di Cunio Alberico da Barbiano[198], Cristoforo Lavello, Carlo
Malatesta ed Angelo della Pergola; uomini che tutti avevano buon nome
nella guerra. Conseguenza ne venne che Bergamo passò in potere dei
Veneziani l'anno 1428. Così Zanino Riccio fece perdere al duca ed a'
suoi successori non solo Vicenza e Verona, che si dovevano ricuperare,
ma Brescia e Bergamo, e quasi tutta le terra ferma che possedette
poi ed attualmente possede la repubblica di Venezia. Se il conte
Carmagnola fosse stato d'animo costante, il duca Filippo Maria sarebbe
rimaso con Zanino Riccio; anzi sarebbe stato abbandonato ben presto
da quell'istesso infingardo, che non amava se non la fortuna del duca.
Già Filippo Maria aveva dovuto cedere al duca di Savoia Vercelli, per
contentarlo e non soffrire invasione anche da quella parte. Il marchese
di Monferrato, i Fiorentini, i Veneziani ben presto gli toglievano
il restante de' suoi Stati. Il Carmagnola, dopo la presa insigne
della armata ducale, non aveva più contrasto: e Cremona, Crema, Lodi
rimanevano, se lo voleva, in potere dei Veneziani. Ma quando vide il
conte posto il duca a mal partito, cessò di far la guerra con vigore;
anzi non servì più con buona fede i Veneziani. O foss'egli allontanato,
per una ripugnanza dell'animo, dal portare così la distruzione ad un
principe dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori e sotto del quale
aveva acquistata la celebrità; ovvero fosse egli ancora nella fiducia
che, umiliato il duca, venisse a fargli proposizioni di accomodamento,
e gli sacrificasse i meschini nemici che avevano ardito di nuocergli,
cioè i vilissimi cortigiani suoi, o qualunque ne fosse il motivo,
il conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei procuratori
veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare,
disarmati bensì, ma liberi, al duca tutti i generali ed i soldati
numerosissimi che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11
ottobre 1427. Il duca in pochi giorni armò di nuovo e rimontò questi
militi, ed è molto degno di osservazione questo fatto, cioè che due
soli artefici di Milano in pochi giorni gli diedero le armature per
quattromila cavalli e duemila fanti, sapendosi che in quei tempi gli
uomini si coprivano tutti di ferro; il che prova quanto si è accennato
al capitolo duodecimo sulla grandiosa manifattura d'usberghi, d'elmi
e d'ogni lavoro di ferro che v'era in Milano. Anche i quattromila
cavalli ben tosto li ritrovò il duca dalle razze del suo Stato; e
così il Carmagnola poco dopo ebbe nuovamente di fronte quella stessa
armata che aveva avuta inerme in suo potere. Il séguito delle sue
imprese sempre più fece palese il suo animo poichè trascurò tutte le
occasioni, e, lentamente progredendo, lasciò sempre tempo ai ducali
di sostenersi. (1432) Insomma giunse a tale evidenza la cattiva fede
del conte Francesco Carmagnola, che venne, dopo formale processo,
decapitato in Venezia, il giorno 5 di maggio dell'anno 1432, come reo
di alto tradimento. Tale fu il fine che fece il conte Francesco; uomo
che non aveva i vincoli sacri della patria e della famiglia, i quali
ammorzarono la vendetta nell'animo di Coriolano; uomo che sarebbe
un eroe, se non avesse macchiato l'ultimo atto della sua vita colla
infedeltà.

Più ancora di quelle del Carmagnola interessano la storia di Milano le
vicende di Francesco Sforza. Questi era romagnuolo. La di lui famiglia
era di Cotignola. Il primo che s'era fatto qualche nome, era il di lui
padre Giacomo Attendolo (tale era il vero di lui cognome); poichè,
servendo questi sotto il comando del conte Alberico di Zagonara, da
esso ebbe il soprannome _Sforza_, il quale passò nel di lui figlio
Francesco, e divenne poi nome di casato. Francesco Sforza (che fu poi
il quarto duca di Milano, e il più grand'uomo e il più gran principe
del suo tempo) nacque in San Miniato il giorno 23 luglio dell'anno
1401, ed ebbe per madre Lucia Trezania. Niente ancora vi era d'illustre
in lui, se non l'ardor militare, ed il nome che nella milizia si era
fatto suo padre. Egli aveva ventiquattro anni, allorchè, sulla fama
del valore da lui mostrato nel regno di Napoli, il duca lo invitò al
suo stipendio, disgustato che ebbe il conte Carmagnola. Una delle prime
imprese che Francesco Sforza ebbe in commissione dal duca, fu quella di
soccorrere Genova, attaccata dai nemici; ma ne uscì con poca fortuna,
poichè, innoltratosi imprudentemente e con inconsiderato impeto, fu
malamente battuto e posto in fuga; per lo che il duca lo rilegò per due
anni a Mortara, ove rimase privo di stipendio. Terminato il castigo, i
cortigiani del duca, non saprei per qual motivo, cercarono di fargli
entrare in grazia Francesco Sforza; e la cosa giunse a segno che,
non avendo altri discendenti il duca, fuori che una figlia naturale
chiamata Bianca Maria, pensò di darla a Francesco Sforza. Bianca
Maria era nata da Agnese del Maino, colla quale viveva il duca come se
fosse vera sua moglie. Quella donzella non aveva per anco finiti gli
otto anni, allorchè il duca, l'anno 1432, il giorno 13 di febbraio,
stabilì il contratto di nozze. Considerava in quel momento il duca di
farsi per adozione un figlio, al quale passare il suo Stato, e quindi
interessarlo a difenderlo: figlio tanto più caro, quanto più quel
meschino principe era lacerato nella solitudine da umori che Zanino
Riccio e i suoi pari facevano nascere contro dei generali; i quali
naturalmente non si saranno degnati mai di mostrare deferenza a quella
feccia di uomini da cui era il duca attorniato. Cercavano, innalzando
lo Sforza, di umiliare il Piccinino, il Torello e gli altri. Ma poichè
lo Sforza fu innalzato, la di lui ombra dispiaceva a quei raggiratori,
temendo forse un avvenire cattivo per essi. E perciò si posero colle
arti consuete a gettare il veleno nell'animo del principe, loro
schiavo, e a fargli nascere il pentimento e la diffidenza, a segno che
il duca pose delle insidie persino alla vita del designato suo genero.
Francesco Sforza se ne uscì dalle mani del duca, si ricoverò presso
de' Fiorentini, nemici de' Visconti, e si pose al loro stipendio. Si
collegarono i Fiorentini e i Veneziani a danno del duca, e il generale
comandante delle armi collegate fu lo stesso Francesco Sforza. Anche
il papa aveva acceduto alla lega. Io non descriverò, nemmeno questa
volta, le minute azioni militari. Dirò soltanto che gli affari del duca
piegavano assai male. Il duca era giunto all'età di cinquant'anni.
Egli era mostruosamente pingue, e la sanità sua diventava inferma.
La vita inerte che menava, ed i sospetti continui fra quali veniva
tenuto dagli officiosi nemici che aveva intorno, affrettavano la di
lui morte; egli s'accorgeva della propria decadenza. I generali di
questo invisibile sovrano (che non si era mai presentato una sol volta
in vita al nemico, che dava e toglieva il favore a norma de' pianeti
non solo, il che sarebbe a caso, ma dei maligni interessi di quei
poltroni che gli stavano intorno), cominciarono a fare un accordo fra
di loro per dividersi la sovranità. Il Piccinino divisava d'avere
per sè Piacenza; il Sanseverino, Novara; Luigi dal Verme, Tortona;
il Fogliano, Alessandria; altri, altro distretto. Insomma il duca si
trovò sotto di un cielo coperto da nubi procellose, che minacciavano
da ogni parte. Il solo uomo capace di liberarlo nell'estrema angustia
era Francesco Sforza. Rivolse i trattati a lui, e ben vedendo che
troppo instabile appoggio sarebbe stato l'offerire al genero eletto
il suo pentimento, gli offri la sovranità del Cremonese e di Cremona
sino da quel momento, pronte a dichiararlo conte e sovrano di essa,
e a celebrare lo sposalizio di Bianca Maria. Accettò la proposizione
Francesco Sforza, ma non si fidò di venire a Milano. (1441) Ma poichè
consegnata gli venne la sovranità di Cremona, e poi ch'ivi fu sicuro,
in Cremona stessa sposò Bianca Maria, il giorno 28 di ottobre dell'anno
1441. La sposa aveva diciassette anni, e lo sposo ne aveva quaranta. Il
duca Filippo, sempre divorato da sospetti e dominato dall'astrologia,
tornò a detestare lo Sforza a segno che fece uccidere da' suoi sicari
Eusebio Caimo che aveva maneggiate le nozze di Bianca Maria; (1444) e
quell'infelice cavaliere venne scannato in Duomo mentre pregava avanti
l'altare di Santa Giulitta, il giorno 8 di aprile, l'anno 1444[199].
Tentò poi il duca di rapire colle armi Cremona, quantunque l'avesse
data in dote a sua figlia; e buona parte di quel contado era già
in potere delle sue armi. Il conte Sforza fu costretto d'impetrare
l'aiuto de' Veneziani, i quali mandarono forze tali, che non solamente
liberarono il Cremonese e lo restituirono al suo legittimo nuovo
signore, ma tolsero al duca Treviglio, Caravaggio, Cassano ed altre
terre, e si presentarono persino sotto le mure di Milano l'anno 1446.
Il duca tremava nel suo castello di Milano, invocava persino con vili
sommissioni la pietà del genero, e lo lusingava della eredità dello
Stato. Francesco si mosse; lo difese: ma perdette Casalmaggiore,
Soncino, Romanengo ed altre terre, che i Veneziani tolsero al conte, il
quale loro non era stato fedele. Ogni minuta circostanza è interessante
nel conte Sforza, che fu poi il quarto duca di Milano, non per
testamento di Filippo Maria, ma per altre combinazioni, come vedremo
più avanti, e fu lo stipite della seconda dinastia de' duchi di Milano.

Il Sassi[200] e l'Argellati[201] pretendono che il duca Filippo Maria
amasse e proteggesse le lettere. Il Decembrio, che tanto minutamente
ha scritta la di lui vita, e che fu testimonio delle azioni di lui, ci
assicura diversamente:[202] _Humanitatis ac litterarum studiis imbutos
neque contempsit, neque in honore praetioque habuit, magisque admiratus
est eorum doctrinam, quam coluit_[203]. Ci racconta lo stesso autore
che Antonio Raudense aveva tradotte in italiano a Filippo Maria alcune
vite degli uomini illustri, senza che il duca lo avesse mai nella
sua grazia; sebbene quel traduttore gli rendesse intelligibili quei
monumenti che il primo non poteva capire nella loro lingua originale.
Francesco Barbula, poeta greco di qualche merito, rifugiatosi a Milano,
non potè ottenere dal duca nemmeno il viatico per portarsi altrove.
Ciriaco Anconitano, uomo di lettere, fu scacciato dalla corte del duca.
Tutta la vita di quel principe ci dimostra ch'egli non era capace di
sentire alcuna stima. Questa emozione non la provano se non le anime
che la meritano.

Ci rimane un testimonio autentico della rozza imperizia di quel
principe nelle monete battute durante il suo governo, nelle quali per
lo più è scolpito il nome _Filipus_ con due errori nel suo medesimo
nome. Un altro solenne monumento ne abbiamo nella barbara poesia sotto
la statua di Martino V, giacchè sotto di un principe colto non si
sarebbero posti i versi seguenti:

    _Cerne, viator, ave, hic stat imago simillima papae_
    _Qui bonus Ecclesiam Martinus in ordine quintus_
    _Pastor alit tibi, Roma, etc..._
    _Carminis est Bripius Joseph, ordinarius, auctor,_
    _Doctor canonici juris, sacraeque magister._
    _Teologiae, etc.,_[204]
come più diffusamente può vedersi nel Duomo, ove in segno d'onore venne
collocata sopra la barbara iscrizione la non meno barbara statua, di
cui si legge:

    ... _Ast hic praestantis imaginis auctor_
    _De Tradate fuit Jacobinus, in arte profundus,_
    _Nec Prasitele minor, sed major farier auxim._[205]

Non posso perdonare a taluno dei nostri autori storici, l'aver voluto
paragonare ad Augusto il meschinissimo Filippo Maria, e farlo un
protettore delle lettere e dei letterati. Egli era, convien dirlo,
un principe da nulla. È vero che alcune epoche del regno di questo
duca hanno un aspetto grandioso e brillante, nè sembrano volgari.
Quando le truppe ducali sotto del Carmagnola fecero prigioniere il
comandante istesso nemico, Lodovico Migliorati, fu questi condotto
a Milano, indi accolto dal duca con magnifica generosità; e poi da
lui rilasciato onorevolmente libero e colmo di regali. Più illustre
riuscì il fatto seguente. Il duca aveva preso parte in favore dei
Francesi, che disputavano agli Spagnuoli il regno di Napoli. Ei fece
uscire dal porto di Genova una flotta in aiuto dei Francesi, o, come
allora dicevasi, degli Angioini contro degli Aragonesi. La flotta
genovese fece sì bene, che prese i due re di Navarra e di Aragona;
e con essi rientrò nel porto di Genova, togliendo i competitori
alla casa d'Angiò. Il duca ordinò che questi illustri prigionieri
venissero scortati a Milano, e il giorno 15 di settembre dell'anno
1435 Filippo Maria fu per questo insolito caso visibile, ed ammise
alla sua udienza nel castello di Milano Alfonso, re d'Aragona; indi,
il giorno 23 dello stesso mese, fece lo stesso al re Giovanni di
Navarra. I Genovesi, avendo acquistato quei due preziosi pegni, si
aspettavano un riscatto proporzionato; ma il duca, dopo tre mesi, nei
quali e la corte e i più ricchi signori di Milano gareggiarono per
onorare splendidamente i due monarchi, generosamente, il giorno 8 di
ottobre dello stesso anno, li lasciò partire liberi. Tale atto fu tanto
inaspettato e discaro ai Genovesi, che ben tosto si sottrassero dalla
obbedienza del duca. Questi due fatti sembrano dinotare elevazione
d'animo e generosità verso i vinti. Se mai però i consigli di Zanino
Riccio, comprato da questi prigionieri, avessero cagionato tali
determinazioni, si collocherebbero queste tranquillamente nella classe
delle altre azioni volgari di Filippo Maria. Io credo anzi probabile
che così accadesse; perchè un uomo ed anche un principe può bensì non
avere nel corso della sua vita che una sola occasione per far cose
grandi, ma non può in due sole occasioni mostrare l'anima grande;
la quale, quando v'è, in ogni giorno, in ogni fatto dà indizio di sè
medesima, abbellisce ogni azione, e persino nei vizii istessi porta
un non so che di maestose e di sublime. Parmi probabile ancora che
l'orrore della morte di Beatrice Tenda sia nato, piuttosto che da
animo atroce, dalla solita docilità ai consigli di Zanino Riccio e
de' suoi simili. Il pinguissimo solitario duca non era sanguinario nè
violento; e quei manigoldi astuti che volevano regnare col nome del
duca, dovevano togliergli dintorno una moglie saggia ed avveduta. La
selvatichezza di questo principe giunse a tal segno, che sembra quasi
incredibile. Egli invitò l'imperatore Sigismondo a ricevere la corona
in Milano, dove, il giorno 23 di novembre dell'anno 1431, nella chiesa
di Sant'Ambrogio fece la funzione l'arcivescovo Bartolomeo Capra. La
cerimonia si eseguì tre ore prima dell'aurora, e non saprei per qual
motivo non si celebrasse solennemente di giorno. Il duca destinò venti
cortigiani a servire quell'augusto, e lo fece magnificamente trattare
a spese sue per quasi un mese in cui dimorò in Milano; ma non visitò
mai l'imperatore, nè volle giammai concedere che l'imperatore lo
visitasse, siccome desiderava. Il duca s'era occultato nel castello
di Abbiate, e fu invisibile al solito. Nè ciò può attribuirsi a verun
rancore politico, perchè anzi dell'imperatore istesso aveva il duca
motivo di chiamarsi contento; mentre pochi anni prima, avendogli
spedito Guarnerio Castiglione nell'Ungheria, per impetrare la conferma
del diploma di Venceslao, venne esaudito; e con nuovo diploma, nella
diocesi di Strigonia, in data del primo di luglio dell'anno 1426,
Filippo Maria venne da quell'augusto riconosciuto duca e signore di
tutto il paese concessogli già da Venceslao. Anzi nel tempo medesimo
in cui Sigismondo era in Milano, aveva fatto marciare i suoi Ungheresi
nel Friuli, per fare una diversione in favore del duca, ed ivi
chiamare le forze dei Veneziani. È vero però che nella prima venuta
fatta in Italia da Sigismondo, non v'era fra esso ed il duca buona
corrispondenza; per lo che quell'augusto non s'arrischiò di entrare
in Milano, sebbene avesse tenuta la strada di Bellinzona e di Como
per discendere le Alpi. È celebre il fatto che allora accadde, e fu
l'anno 1414, quando, portatosi l'imperatore a Cremona per abboccarsi
col papa Giovanni XXIII, mentre Gabrino Fondulo era padrone di quel
distretto, ascesero l'imperatore ed il papa sulla rinomata altissima
torre di quella città, e Gabrino poscia si mostrò pentito di non
averli gettati da quella sommità, non per altro, se non per la fama
che ciò gli avrebbe dato nella storia. Fu più umana l'ambizione di
Erostrato, poichè almeno non distrusse che un tempio, ma fu meno
perniciosa quella di Gabrino Fondulo, poichè nulla più cagionò fuori
che un desiderio. Il duca Filippo Maria fece, durante il suo governo,
una operazione di Finanza, a mio parere assai bella, utile e semplice,
e tale che fa maraviglia come siasi in quei tempi immaginata. Abolì un
buon numero di minute gabelle, incomode a percepirsi, e rovinose per
il popolo; svincolò i poveri, sopra dei quali cadevano singolarmente
tai pesi; e per compensare il suo erario, senza apertamente imporre
nuovo carico, accrebbe l'intrinseca bontà delle monete; e così lutti i
tributi essendogli pagati colle nuove monete, venne a incassare tanto
valore quanto bastò a compensargli le abolite gabelle. Il decreto
è del giorno 24 di ottobre dell'anno 1436, e ce lo ba pubblicato il
conte Giulini[206]. Questa operazione ha qualche analogia coll'altra
che quarantacinque anni prima aveva tentata il conte di Virtù,
siccome nel capitolo precedente si è osservato; ma in questa non
si fece ingiustizia ai creditori, nè si trattò d'una mera addizione
sul tributo, ma bensì della sostituzione d'un modo semplice e meno
gravoso di quello che contemporaneamente veniva abolito. Il Decembrio,
che ci ha descritta la vita del duca Filippo Maria, ci racconta,
come un tratto di sublime accortezza, che il duca mischiava ne' suoi
consigli uomini buoni e cattivi.[207] _In eligendis consultoribus,
quos, consiliarios vocant, mira astutia utebatur: Nam viros probos et
scientia praeclaros eligebat, hisque impuros quosdam, et vita turpes
collegas dabat; ut nec illi justitia inniti, nec hi perfidia grassari
possent, sed, continua inter eos dissensione, praesciret omnia_[208].
Se il consiglio ducale fosse un parlamento formato dalla costituzione
per porre un limite alla autorità del duca, allora certamente sarebbe
stata accortezza l'organizzarlo in modo che la interna dissensione lo
distraesse dal travagliare al suo fine: ma il consiglio era formato per
obbedire al duca e servire agli interessi di lui, ed era ben infelice
l'astuzia di comporlo in modo che, gli uni attraversando gli altri,
diventasse inoperoso. Tristo colui che teme la virtù, e crede di
doverla temperare col vizio!

Il regno di Filippo Maria durò per trentacinque anni di guerra quasi
continua. Giammai i trattati di pace furono tanto insignificanti come
allora; poichè il giorno dopo si violavano se conveniva, e la fede
pubblica si considerò una parola senza alcuna idea. Non bo voluto fare
la storia di molte marziali vicende troppo uniformi, la minuta notizia
delle quali sarebbe un peso inutilissimo alla memoria, poichè nessun
lume somministrerebbe, o per meglio conoscere lo stato de' tempi, o per
l'arte militare medesima. Avrei pur bramato di trovare qualche germe
almeno di virtù in que' tempi; ma l'ho cercato invano. Le fisionomie
degli uomini ch'ebbero parte negli affari pubblici, mi si presentarono
tutte bieche ed odiose. La fede e la probità erano celate allora
nell'oscurità di qualche famiglia, e nel magazzino dei negozianti.
La virtù nasconde e copre la sua esistenza nell'asilo della privata
fortuna per essere sicura contro i colpi del vizio, quand'egli è armato
e trionfante come in que' tempi. Non può incolparsi a malignità di
messer Niccolò Macchiavello s'egli ha dato per norma ai principi una
pessima morale. Egli era un pittore che fedelmente ci rappresentava gli
oggetti quali erano allora; la colpa sua è quella di non aver osato di
esaminare la fallacia della politica che generalmente si praticava: io
ne do la colpa alla mente, piuttosto che al cuore di quell'autore. Per
vedere anche in piccolo la fede di que' tempi, aggiungo un fatto solo.
Già dissi che il duca, l'anno 1419, aveva comprato da Gabrino Fondulo
la città di Cremona, collo sborso di trentacinquemila ducati. Gabrino
si era però riservato per sè Castelleone, luogo forte del Cremonese,
ove tranquillamente da sei anni dimorava. Volle il duca possedere
anche quella fortezza, la quale difficilmente avrebbe superata colle
armi. Fu scelto Oldrado Lampugnano, amico di Gabrino, per tradirlo; e
vi si prestò benissimo Oldrado. Si portò egli sul Cremonese con alcuni
armati, mostrando commissione di visitare le terre del duca; e, fatto
posa avanti Castelleone, spedì un uomo entro della fortezza, chiedendo
un maniscalco per ferrare un cavallo, e frattanto lo incaricò di
salutare il suo amico Gabrino, e dirgli che verrebbe ad abbracciarlo,
se la fretta di proseguire il cammino non glielo vietasse. Gabrino
Fondulo, disarmato e senza alcun sospetto, immediatamente uscì per
salutare anche per un momento il creduto amico. Oldrado Lampugnano
lo arrestò e lo tradusse a Milano: la famiglia del Fondulo fu posta
nei ferri; il suo tesoro, nel quale si trovò anche una prodigiosa
quantità di perle, fu confiscato; e Gabrino fu decapitato in Milano il
giorno 21 di febbraio del 1428. Due anni dopo Oldrado Lampugnano, che
aveva sacrificato la virtù e l'onore per ottenere la grazia del duca,
perdette anche quella, e rimase colla esecrazione di sè medesimo.

(1447) Il duca Filippo Maria morì il giorno 13 di agosto l'anno 1447,
nel castello di Milano, dopo una settimana di malattia, nella quale
non permise mai che alcun medico gli toccasse il polso. Egli morì
con molta indifferenza. Corpulento sino alla deformità, da alcuni
anni sentivasi opprimere dal peso proprio. La fortuna, da che aveva
perduto il Carmagnola, eragli stata quasi sempre nemica; s'aggiungeva
a questi mali la cecità, che da più mesi era in lui totale, sebbene
simulasse di vedere:[209] _Caecitatem sie erubuit, ut visum simularet,
cubicularibus clamculum eum admonentibus_, dice il Decembrio[210]:
onde, sebbene non oltrepassasse il cinquantesimoquinto anno, era
ridotto come un vecchio decrepito. Io non ho accennato ancora le
seconde nozze contratte dal duca colla principessa Maria di Savoia;
poichè ella non ottenne se non il nome di duchessa, e l'amica del
duca fu sempre Agnese del Maino, madre di Bianca Maria; e si leggono
in un antico messale che si conserva nella cospicua raccolta del
signor don Carlo dei marchesi Trivulzi, le orazioni che allora si
recitavano nella messa per quella compagna del duca, quasi ella fosse
tale colla sanzione de' sacri riti[211]. Il duca, senza eredi, senza
prossimi parenti, così morì. Fu seppellito tumultuariamente nel Duomo.
Se vivesse allora Zanino Riccio, nol so. L'erario del duca venne
saccheggiato da' suoi famigliari, i quali si divisero diciassettemila
ducati d'oro. Francesco Sforza era nella Romagna, nè poteva allegare
titolo alcuno per il dominio di Milano. Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi,
Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolommeo Moroni furono i
capi dei Milanesi che progettarono di ricusare la signoria d'un solo
come una _pessima pestilentia_, dice il Corio; ed avevano ben ragione
di così risguardarla, poichè avevano provato che in dodici principi,
due soli erano stati buoni, Azzone e Giovanni arcivescovo, tollerabili
quattro, cioè l'arcivescovo Ottone, Matteo I, Galeazzo I e Luchino; e
gli ultimi sei che finalmente erano succeduti, non presentarono che i
vizi e detestabili tirannie. La città adottò quel partito. Si demolì il
castello di Milano, e molte città dello Stato imitarono quell'esempio,
come vedremo nel seguito della storia. Così terminò la sovranità
della casa Visconti e la discendenza di Matteo, la quale ebbe, senza
interruzione, la signoria di Milano pel corso di centotrentasei anni,
ed erano già trentaquattro anni da che grandeggiava per averla, quando
l'ottenne.

Prima di terminar questo capitolo convien dare un'idea dello stato in
cui trovossi Milano ne' tempi ultimi de' quali ho scritto. Le città
possono talvolta crescere ed ingrandirsi anche sotto un odioso e
viziato governo; purchè i vizi di quello direttamente non offendano i
principii e le cagioni della prosperità del popolo. Non furono vessati
i sudditi con eccessivi tributi sotto Filippo Maria; la proprietà
dei cittadini non fu violata; le guerre si fecero al di fuori, e
la città non ebbe a soffrirne; la pestilenza, che andava girando, e
più d'una volta, non lungi da Milano, non vi penetrò. Crebbe quindi
la popolazione; si ammassarono le ricchezze in questa capitale d'un
vasto dominio; si rivolsero i cittadini all'industria del commercio;
giacchè sotto di quel governo nessun uomo di mente poteva ambire altra
carriera; e così Milano diventò una tanto poderosa città, sì che nacque
il proverbio poi, che conveniva distruggere Milano per rinvigorire
l'Italia, come ci annunziò un autore imparziale:[212] _Quid dicam
de Mediolano, potentissima Italiae civitate, Galliaeque Cisalpinae
metropoli; in qua tam multa, tamque diversa artificum genera, tantaque
frequentia, ut inde vulgo sit natum proverbium, qui Italiam reficere
velit, eum destruere Mediolanum debere_[213]. Andrea Biglia, scrittore
di quel tempo, ci dà idea della popolazione di Milano:[214] _Nempe ut
facile existiment posse in ea civitate super triginta hominum millia
armari_[215]; e non sarebbe esagerazione il supporre che il solo dieci
per cento della popolazione fosse atto alla milizia. Immenso fu il
popolo che uscì incontro a papa Martino V, che venne da Costanza a
Milano nell'ottobre del 1418. Il duca Filippo ebbe l'onore di avere a
suoi ospiti in Milano un papa, un imperatore e due re, e questi due
ultimi suoi prigionieri. Lo stesso Biglia ci dà una prova, ancora
più precisa, delle forze della città di Milano in quel tempo. L'anno
1427, il Carmagnola, alla testa delle armi venete, aveva angustiato lo
Stato del duca, il quale pensava ai mezzi per la difesa. Ho già detto
come due soli artefici in pochi giorni somministrarono le armature per
quattromila cavalli e ottomila fanti; ora, appoggiato al Biglia, dirò
che la città di Milano si esibì di mantenere stabilmente diecimila
uomini a cavallo e diecimila uomini a piedi, con questa sola condizione
che il duca lasciasse alla città medesima la percezione di tutte le
gabelle, e tributi di Milano e suo distretto, e che i tributi delle
altre città tutte egli liberamente li percepisse per arricchire sè
stesso, o chi più gli fosse piaciuto. Oggidì, quand'anche si volesse
fare un massimo sforzo, non si troverebbe il modo di mantenere la metà
di quest'armata; e oggidì tanto un cavaliere, quanto un fantaccino
costano meno assai di quello che allor si pagavano. Il Biglia perciò
aggiugne:[216] _Mirum dictu hoc solos Mediolanenses ausos polliceri,
quod Florentia ac Venetiae aegre hac aetate praestarent fecissentque:
tanta est hoc tempore unius urbis gens, tanta domi et apud exteros
negotiandi consuetudo._ Il nostro commercio solo con Venezia era
grandiosissimo in quel torno. Tutto il commercio colle Indie Orientali
si faceva dagl'Italiani in quei tempi, anteriori alla scoperta del
Capo di Buona Speranza. Venezia, Genova, Pisa, Firenze, Amalfi ed
Ancona avevano l'impero de' mari, e quasi esse sole giravano non
solamente il Mediterraneo, ma l'Oceano, e portavano le loro merci
persino al Baltico; così che tutto il commercio dell'Europa era presso
gl'Italiani. Le leggi amalfitane erano la base del gius marittimo.
Venezia sola manteneva trentaseimila marinari[217]; numero sterminato
per quel secolo, nel quale non s'intraprendevano viaggi di lungo
corso, e la nautica non era ridotta alla perfezione attuale. Milano
trasmetteva a Venezia i pannilani che da noi si fabbricavano, e
riceveva da Venezia cotone, lana, drappi d'oro e di seta, droghe,
legni da tingere, sapone, sali ed altre mercanzie. Queste mercanzie,
che ricevevamo da Venezia, in gran parte le spedivamo alla Francia,
agli Svizzeri ed all'Impero, unitamente alle armature ed altri lavori.
Il nerbo principale della nostra industria consisteva nella fabbrica
de' pannilani e degli usberghi, scudi, lance, ec. Abbiamo un prezioso
documento su tal proposito che merita esame, e questo è lo scritto
di Marino Sanuto, che il Muratori nostro maestro, ha tratto dalla
biblioteca Estense e dato in luce[218]. Il Sanuto scrisse le vite di
alcuni dogi di Venezia, e riferisce l'aringa fatta nel gran consiglio
dal doge Tommaso Mocenigo. Quello scrittore era posteriore di poco, ma
asserì di avere trascritto i fatti, «dal libro dell'illustre messer
Tommaso Mocenigo, doge di Venezia, d'alcuni aringhi fatti per dar
risposta agli ambasciatori de' Fiorentini, che richiedevano di far
lega colla signoria contro il duca Filippo Maria di Milano nel 1420».
Il doge opinava che non convenisse ai Veneziani di rompere la pace
col duca; ed in prova dimostrava l'utilità esimia che ridondava al
commercio di Venezia dalla corrispondenza con Milano. Ser Francesco
Foscari, procuratore, opinava l'opposto. Se vi è documento nella storia
che meriti fede, certamente è questo; poichè l'occasione, il luogo,
le persone ci debbono far credere che non avranno allegati che fatti
costanti e sicuri. Asserì il doge che ogni anno da Milano si spedivano
a Venezia quattro mila pezze di panno, del valore di trenta ducati
ciascuna, e di più si spedivano novantamila ducati d'oro, così che la
somma in tutto ascendeva a duecentodiecimila ducati. Ciò appartiene
alla sola città; poichè Monza separatamente ivi è registrata pel valore
di centoquarantaduemila ducati di roba e denari che spediva ogni anno
a Venezia. Allora Milano e Monza, colla sola Venezia facevano la stessa
parte del commercio che ora fanno Milano, il contado e le cinque città
e provincie dello Stato; ed è notabile _colla sola Venezia_, poichè
l'esteso commercio con Genova, colla Francia e colla Germania che
allora avevamo, non entrava in quella somma. Dico la stessa parte,
e dovrei dire molto più, se considerassi che il ducato allora era
un pezzo di metallo assai più raro e più pregevole, come più volte
ho ricordato. Questo basta per conoscere che verosimilmente v'era in
Milano una popolazione di trecentomila abitanti; che v'erano sessanta
fabbriche di lanificio; e che moltissima era tra noi l'industria e la
ricchezza; come ci confermano tutti gli scritti posteriori, ricordando
que' tempi della opulenza.

Non sarà forse discaro a' miei lettori ch'io aggiunga alcune
osservazioni a quel bilancio del commercio fatto dal Sanuto. Da
Venezia ci si trasmettevano i cotoni: il valore de' cotoni allora era
otto volte maggiore che non lo è di presente: le strade del commercio
oggidì sono aperte, e ciascuna nazione procura, per vendere presto,
di contentarsi d'un minor guadagno; allora i pochi che lo possedevano
erano arbitri del prezzo. Ho pure osservato che allora noi prendevamo
appena la metà del cotone che adesso ci spediscono gli esteri;
poichè le fabbriche delle bombagine e fustagni allora non esistevano
presso di noi, e questa manifattura era de' Cremonesi. Questa odierna
manifattura ci porterà più di settantamila gigliati per la vendita di
trentamila pezze, che attualmente ne facciamo agli esteri. La seconda
osservazione cade sul lanificio. La lana ce la vendevano i Veneziani
allora più a buon mercato, cioè circa il sessanta per cento meno che
non vale presentemente. È probabile che molte pecore si alimentassero
su i nostri prati; e che la lana fina non ci venisse da Venezia. Lo
stato intero di Milano spediva allora a Venezia cinquantamila pezze di
panni. Ora le cose sono cambiate. Il lanificio, preso tutto insieme,
costa allo Stato l'uscita di dugentocinquantamila zecchini ogni anno;
i soli pannilani dobbiamo comprarli dagli esteri per settantamila
gigliati. La terza osservazione risguarda la seta e suoi lavori; allora
ne ricevevamo da Venezia di seta e drappi di oro pel valore cospicuo
di ducati duecentocinquantamila; naturalmente una buona porzione si
sarà rivenduta. Oggidì però l'articolo della seta, computato tutto,
darà invece l'utilità d'un milione di ducati, ossia zecchini, ed è
la principale ricchezza delle nostre terre. La quarta osservazione
appartiene alle droghe; e per esempio di pepe e di cannella allora
se ne introduceva assai più che non facciamo al dì d'oggi; e di
questi capi allora nelle mense v'era maggiore consumo, e ciò oltre il
commercio secondario che da noi se ne faceva col rivenderli. Oggidì
consumiamo appena ottantamila libbre di pepe; il che ci fa pagare
agli esteri ottomila ducati, ossia gigliati, ed allora ne compravano
per ducati trecentomila, cioè si spendeva allora in un anno per
questo articolo quanto si spende appena in trentasei anni a' nostri
giorni. Della cannella dico lo stesso; allora spendevasi il quadruplo
in paragone de' tempi nostri, poichè ventimila libbre, che costano
circa sedicimila zecchini, sono presso poco la quantità annua che
oggidì ne consumiamo. In quinto luogo ho osservato che dello zucchero
invece ne abbiamo notabilmente ampliato il consumo, giacchè allora
seimila centinaia ne ricevevamo, ed ora ne consumiamo sedicimila
centinaia. Il prezzo altresì dello zucchero è notabilmente scemato in
paragone di quello ch'era allora, poichè seimila centinaia valevano
ducati novantacinquemila, ed ora sedicimila centinaia si comprano con
settantamila ducati. L'uso del mele era comune in quei tempi, e vi
si è poi sostituito lo zucchero, dappoichè le navigazioni alle Indie
Orientali, e le copiose piantagioni d'America l'hanno reso una droga
più comune. Cade la sesta osservazione sul sapone, per acquistare il
quale allora spendevasi ducentocinquantamila ducati, cioè il decuplo
di quello che ora spendiamo, ricevendone dagli esteri non più di
circa quarantamila rubbi: ma allora ne facevamo rivendita, e forse non
v'erano alcune fabbriche nel paese che ora ne ha. L'ultima osservazione
cade sopra un legno da tintura chiamato verzino, che allora era
enormemente caro, e costava seicento volte più che ora non vale: ne
ricevevamo allora migliaia quattro, valutate ducati centoventimila; ora
ne riceviamo più di venti migliaia, le quali ci costano mille ducati
d'oro; ma il Capo di buona Speranza non fu scoperto se non l'anno 1497
da Vasco de Gama, sotto il re Emanuele IV di Portogallo, e l'America
non fu scoperta dal Colombo che l'anno 1491.



CAPITOLO XVI.

  _Repubblica di Milano, che termina colla dedizione a Francesco
  Sforza._


Prima ch'io narri gli avvenimenti della repubblica di Milano,
vuolsi esaminare brevemente in quale stato trovavansi le potenze che
avrebbero voluto signoreggiare sopra di noi. (1447) Colla morte del
duca Filippo Maria era terminata la discendenza maschile di Giovanni
Galeazzo Visconti, infeudata dall'imperatore Venceslao; e perciò il
ducato (considerandolo come un podere) era devoluto all'imperatore.
Se il destino delle città dipendesse dal solo diritto di proprietà
ereditaria, l'imperatore solo, sulla base della pace di Costanza,
avrebbe dovuto decidere di noi, o creando un nuovo duca, o nominando
un vicario imperiale, ovvero, sotto quella denominazione che più gli
fosse stata in grado, ponendo chi esercitasse la suprema dominazione
dell'Impero su questa parte dell'Impero medesimo. Ma lo scettro
imperiale era nelle deboli mani di Federico III, principe timido,
indolente e minore della sua dignità; il quale nemmeno avrebbe potuto
far valere le sue ragioni sull'Italia, oppresso, come egli era, dalle
armate del re d'Ungheria. Il lungo regno di questo cesare lasciò
dimenticato nel milanese il nome dell'Impero per più di quarant'anni
dopo morto l'ultimo duca. La casa d'Orleans possedeva la città di Asti,
portatale in dote dalla principessa Valentina, figlia del primo duca,
conte di Virtù. V'era un piccolo presidio francese in quella città: ma
la casa d'Orleans non regnava. Cinquantadue anni dopo ella ascese sul
trono di Francia; e colle armi sostenne le sue pretensioni sul ducato
di Milano, appunto come discendente dalla Valentina Visconti. Frattanto
il re di Francia Carlo VII, occupato nel combattere contro gli Inglesi,
che avevano conquistate alcune province del suo regno, non aveva nè
mezzi, nè pensiero di rivolgersi a questa parte d'Italia in favore di
suo cugino. Il papa Niccolò V, di carattere sacerdotale, non conosceva
l'ambizione; e l'antipapa Felice V e il non affatto disciolto concilio
di Basilea occupavano interamente la corte di Roma. Il trono di Napoli
era incerto e disputato. I Veneziani e il duca di Savoia avevano
formato il progetto di profittare dell'occasione; ed erano e finitimi
e potenti e sagaci. La vedova duchessa di Milano, Maria di Savoia,
era in Milano, e cercava di guadagnare un partito al duca di Savoia,
di lei padre. I Veneziani avevano in Milano i loro fautori, e colle
immense ricchezze possedevano i mezzi di sostenerli e secondarli colle
armi. Il conte Francesco Sforza pareva che nemmeno dovesse porre in
vista le insussistenti pretensioni della moglie e del suo primogenito,
esclusi per la investitura imperiale dalla successione nel ducato.
La condizione del conte era anche più degradata di quella del duca
d'Orleans, attesa la viziata origine della Bianca Maria. Egli possedeva
Cremona, recatagli in dote; comandava un possente numero d'armati;
aveva il nome più illustre di ogni altro nella milizia di quei tempi.
Ma un romagnuolo, nato in Samminiato da Lucia Trezania, senza parenti
illustri, e che non ebbe fra suoi antenati un nome degno di memoria,
trattone suo padre (a cui il conte Alberico di Barbiano, sotto del
quale militava, diede il soprannome _Sforza_), non pareva posto in
condizione da disputare con alcuno la signoria di Milano, meno poi di
prevalere. In questa situazione si trovò la città di Milano, quando,
nel 1447, morì l'ultimo duca, ed ella intraprese a governarsi a modo di
repubblica.

Appena aveva cessato di vivere Filippo Maria, che incominciarono
a comparire nuove leggi e regolamenti sotto il nome dei _capitani
e difensori della libertà di Milano_. Il primo proclama col quale
annunziarono la loro dignità e il loro titolo, fu del giorno 14 agosto
1447, cioè il primo dopo la morte del duca. In esso questi _capitani e
difensori della libertà di Milano_ confermano per sei mesi prossimi a
venire il generoso Manfredo da Rivarolo dei conti di San Martino nella
carica di podestà della città e ducato[219]. Questi nuovi magistrati
però non pretesero di invadere tutta l'amministrazione della città;
anzi lasciarono che i maestri delle entrate dirigessero le finanze
e le possessioni che erano state del duca; e lasciarono pure che
il tribunale di Provvisione regolasse la panizzazione, le adunanze
civiche, l'annona e gli altri oggetti di sua pertinenza. I capitani e
difensori, considerandosi investiti della autorità sovrana, riserbate
al loro arbitrio le cose veramente di Stato, col dare, quand'occorreva,
ordini al podestà, al capitano di giustizia, al tribunale di
Provvisione, ec. pei casi straordinarii, lasciarono a ciascun
magistrato la cura di provvedere, secondo i metodi consueti e regolari,
a quanto soleva appartenere alla di lui giurisdizione[220]. Questi
capitani e difensori della libertà non avevano però ragione alcuna per
comandare agli altri cittadini. S'erano immaginato un titolo, creata
una carica, attribuita una autorità, addossata una rappresentanza
tumultuariamente, per usurpazione e sorpresa, non mai per libera
scelta della città. Se un virtuoso entusiasmo di gloria e di libertà
avesse animati coloro ad ascendere alla pericolosa rappresentanza del
sovrano, potevano, annientato ogni privato interesse, primeggiando il
solo pubblico bene, andare cospiranti e unanimi, e adoperare così la
forza pubblica col maggiore effetto per la pubblica salvezza. Ma come
sperare che si accozzasse un collegio di eroi casualmente, in una città
oppressa da una serie di sei pessimi sovrani? Mancava a questo corpo
resosi sovrano e la opinione di chi doveva ubbidire, e la coesione
delle parti di lui medesimo; nè era riserbato nemmeno ai più accorti il
prevedere la poca solidità e durata di un tal sistema, manifestamente
vacillante. Già nel capitolo antecedente nominai i fautori principali
del governo repubblicano, cioè Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi,
Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolomeo Morone. Non era
probabile che le altre città della Lombardia superassero il ribrezzo
di farsi suddite di una città metropoli, governata a caso e senza
una costituzione politica. Infatti due sole città, cioè Alessandria
e Novara, si dichiararono di essere fedeli a Milano; le altre o
progettarono di voler governarsi a modo di repubblica indipendente,
o posero in deliberazione a qual principe sarebbe stato meglio di
offerirsi. In Pavia sola vi erano ben sette partiti: gli uni volevano
Carlo re di Francia; altri, Luigi il Delfino; altri, il duca di Savoia;
altri, Giovanni marchese di Monferrato; altri, Lionello marchese di
Ferrara; altri, i Veneziani; altri, il conte di Cremona Francesco
Sforza. Il Corio, che ciò racconta, non fa menzione dell'ottavo
partito, che sarebbe stato quello di reggersi da sè e collegarsi in
una confederazione di città libere, o meglio ancora unirsi in una sola
massa e formare un governo comune. Nè ciò pure terminava la serie dei
mali del sistema. I banditi ritornavano alle città loro, occupavano i
loro antichi beni, già venduti dal fisco ducale, e ne spogliavano gli
innocenti possessori. La rapina era dilatata per modo, che nessuno
era più sicuro di possedere qualche cosa di proprio; la vita era in
pericolo non meno di quello che lo erano le sostanze; il disordine era
generale e uniforme; il che doveva accadere in una numerosa e ricca
popolazione, rimasta priva del sistema politico, mentre con incerte
mire tentava di accozzarne un nuovo. Il castello di Milano non poteva
torreggiare sopra di una città che voleva essere libera e temeva un
invasore; perciò con pubblico proclama si posero in vendita i materiali
di quella rocca[221].

Il conte Francesco Sforza, appena ebbe l'annunzio della morte del duca,
s'incamminò diligentemente verso Milano, abbandonando la Romagna, ove
si trovava. I Veneziani erano nella circostanza la più favorevole per
impadronirsi del milanese. Lodi, Piacenza ed altre città desideravano
di vivere sotto la repubblica veneta. Francesco Sforza vedeva che
i Veneziani erano i più potenti ad invadere e conquistare questo
ducato, ch'egli aveva in mente di far suo, sebbene le circostanze non
gli fossero per anco favorevoli a segno di palesarlo. Le forze dei
Veneti già si trovavano nel milanese prima che il duca morisse. Il
che accennai nel capitolo antecedente. E come pochi mesi prima s'erano
essi presentati sotto le mura di Milano, e avevano devastato il monte
di Brianza, così v'era ragionevole motivo per cui i Milanesi temessero
l'imminente pericolo. Appena venti giorni erano trascorsi dopo la
morte di Filippo Maria, che la repubblica milanese dovette eleggere un
comandante capace di opporsi alle forze venete e salvarla; e questa
scelta cadde nel conte Francesco Sforza, dichiarato capitano delle
nostre armate[222]. I denari dei Milanesi erano necessari per mantenere
un corpo numeroso di soldati, e ai Milanesi era necessario un gran
capitano, la cui mente e valore, opportunamente dirigendo la forza, li
preservassero dall'invasione dei Veneti. Questi bisogni vicendevolmente
unirono da principio lo Sforza e i repubblicani nascenti, se pure
il nome di repubblica poteva convenire a una illegale adunanza, che
governava senza autorità e senza principii.

Una prova della incertezza di quel governo la leggiamo nel proclama
che i _capitani e difensori della libertà_ pubblicarono in data 21
settembre 1447. Per ordine di questi vennero pubblicamente consegnati
alle fiamme i catastri che servivano alla distribuzione dei carichi,
affine di rallegrare il popolo:[223] _Capitanei et defensores
libertatis illustris et excelsae Comunitatis Mediolani. — Prudentes
concives carissimi nostri. Posteaquam omnipotens Deus noster, per
transmigrationem de praesenti saeculo illustrissimi bonae memoriae
principis ac domini nostri domini Filippi Mariae gratiam libertatis
nobis venditando condonavit quod retinere et conservare omnibus modis
et firma scientia statuimus, deliberavimus comuni consensu in adurendis
libris, extractibus, quaternis, filzis, et scripturis inventariorum,
taxarum, talearum, focorum, buccarum, onerisque salis, et aliorum
quorumvis onerum signum dare, quo populus et plebs intelligant se
post hac futuros immunes et exemptos ab angariis et gravaminibus
ejusmodi. Indegne bonam spem de statu ipsius libertatis et hujus nostre
reipublicae percipientes, gaudeant gratulenturque et debitas gratias
agant proinde ipsi omnipotenti Deo nostro. Nec minus animum firment
et disponant velle, quod olim inviti et coacti fatiebant, nunc sponte
atque perlibenter fatiere, in exponendis videlizet, videlizet et
exhibendis, juxta facultates, pecuniis, tum pro formando et conplendo
thexauro gloriosissimi S. Ambrosii, patroni et protectoris nostri,
tum pro expeditionibus genzium armigerarum Comunitatis praelibitae,
quibus mediantibus non tantum libertatem nostram, ut caepta est,
retinere conservareque valeamus, verum etiam rempublicam confirmares,
locupletari, augere, et in dies melius ampliare atque dilatare,
in confusionem eorum omnium qui satagunt huic inclitae Civitati
omni conato suo, suisque omnibus insidiis aemulari. Volumus igitur
quatenus, facta electione statim duorum ex vobis, ordinetis quod ii
duo simul, cujus infra nominatis, inquirant et sibi exiberi faciant
quoscumque libros, extractus, quaternos, filzas, et scripturas omnes
inventariorum, taxarum, talearum, focorum, oneris salis, et aliorum
onerum cujusvis generis, spetiei, ac materiei fuerint. Et his bene ac
iterum revolutis visisque ac diligentissime examinatis, retinendo eos
dumtaxat duibus videatur aliqua utilitas camerae prefatae Comunitatis,
et territorio et singularium etiam aliquarum personarum, reliquos
omnes ex predictis igni palam et pubblice cremandos dari et committi
faciatis, quo veluti spectaculo populus ipse pariter et plebs,
voluptatem inde assumentes peringentem, exaltare jubilareque possint,
laudesque dare sancto memorato. Qui inclitam hanc urbem in felici et
fausto statu semper servet atque tueatur.

Data Mediolani, die XXI septembris MCCCCXLVII.

Johannes de Mantegaxis — Stefanus de Gambaloytis — Cabriolus de
Comite — Federicus de Comite — Johannes de Fossato — Francius de
Figino — Johannes de Gluxiano — Jacobus de Cambiago Raphael. — A
tergo Nobilibus et prudentibus concivibus carissimis nostris duodecim
Provisionum excelsae comunitatis Mediolani._ Registro civico A, foglio
47. — Si credette fondo bastante per le spese pubbliche la spontanea
generosità di ciascun cittadino. Appena due settimane dopo si dovette
pensare al rimedio; e fu quello che i medesimi capitani e difensori
arbitrariamente tassassero i cittadini a un forzoso imprestito[224].
Si obbligarono poi i sudditi a notificare quanto possedevano, sotto
pena della confisca, invitando gli accusatori col premio; e ciò per
formare nuovi catastri per ripartire i carichi[225]. Cercavano questi
incerti capitani e difensori l'opinione favorevole del popolo con
mezzi rovinosi, e vi rimediavano poi con ingiusti e odiosi ripieghi.
Alcune delle leggi che proclamarono, poichè danno una precisa idea
dello spirito di quel governo e della condizione di quei tempi, non
sarà discaro al lettore ch'io qui trascriva. Nei primi momenti della
inferma repubblica, incerti della loro autorità, privi di legale
sanzione, in una città divisa in partiti, attorniata da città che
non eranle amiche, coll'armata veneta che invadeva le sue terre,
coi Savoiardi e Francesi, che minacciavano d'occuparlene dalla parte
opposta, costretta a confidarsi al pericoloso partito di collocare
nelle mani del conte Sforza il poter militare in così importante e
seria situazione, pubblicarono un ordine il 18 ottobre 1447, rinnovando
irremissibilmente la pena del fuoco ai pederasti:[226] _Capitanei et
defensores libertatis illustris et excelsae communitatis Mediolani.
Dilecte noster. Ad solidandum, angendum, ornandum hujus nostrae caeptae
libertatis optabilem statum, non magis conveniens quam necessarium
arbitramur virtutum coli decentiam, abbominari vitiorum sordes; ita
n. et suscepti a Deo muneris grati videbimur, et accumulatiores
ab ejus omnipotentia gratiarum sperare poterimus largitiones.
Animadvertentes igitur quam foedissimum et detestandum, quam horrendum
sit innominabile Sodomiae crimen, existimantesque quod impunitas
incentivum parit, deliquendique etiam malos efficere deteriores
solet deliberavimus, et mente nostra decreto stabili firmavimus hoc
execrabile exitium nullatenus tollerare. Quamquam igitur ad detrahendos
ab hoc scelestissimo crimine qui in eo maculati sunt, ad faciendum
ne de caetero in tale crimen incidant posse satis et debere sufficere
videntur constituta per sanctissimas leges ac statuta hujus civitatis,
quam ita vulgarissimam ignorare quidem non debent, ignis poena, ut
tamen eorum infamis turpitudo reddatur prorsus inexcusabilis, volumus
et tibi mandamus, quatenus, his receptis, patenter ac pubblice, voce
praeconis, divulgari per solita hujus civitatis loca facias, quod amodo
quisquis cujusvis status et conditionis existat, sive terrigena, sive
forensis, aut stipendiarius vel provisionatus, et generalite, quisquis
se ab eo penitus caveat et abstineat crimine, nec illud committere
audeat quoquomodo; sciens et ex certo tenens, quod si dehinc illud
incidisse comperietur, irremmissibili profecto, juxta legum sanctiones,
punietur ignis poena. Tuque deinde ad investigandum et inquirendum de
hujusmodi sceleratis et diligentiam omnem, studium et curam adhibeas,
et contra quoscumque quos amodo id crimen perpetrasse comperies, debite
procedas, eos; jure justitiaque mediante, puniendo. In qua quidem re,
quo magis vigil magisque diligens fueris, eo magis honori debitoque
servies et nostrae menti vehementissime complacebis. Et ut ab ejusmodi
delictis malefactores se abstineant, volumus quod accusatoribus, seu
denuntiatioribus ipsorum delictorum, cum bonis tamen inditiis, salis
fiat pro qualibet vice, et teneantur secreti, de ducatis decem auri,
ex et de bonis delinquentis, quam satisfactionem volumus per te et
successores tuos fieri debere, omni exceptione et contradictione
cessante. Scribimus etiam super hoc d, Bartolomeo Cacciae, capitaneo
justitiae hujus civitatis, cumquo volumus habeas intelligentiam in
fieri facendis proclamationibus praedictis. — Mediolani, die XVIII oct.
1447._ — Gli uomini nei più pressanti disastri cercano l'aiuto della
Divinità colla maggiore istanza, e a tal uopo credonsi di ottenerlo
persino col sacrificio d'umane vittime. I Greci cercavano i venti
col sangue d'Ifigenia; i Romani placavano il cielo seppellendo uomini
vivi; i nostri, bruciando i peccatori. Le pazzie e le atrocità di un
secolo si assomigliano alle pazzie e atrocità d'un altro, a meno che
la cultura e la ragione, diffondendosi largamente, non indeboliscano
i germi del fanatismo inerente all'uomo; e questa coltura, questa
filosofia, contro la quale ancora v'è chi declama, formano appunto
l'unica superiorità dei tempi presenti. Oggidì un popolo che aspiri
a diventar libero e combatta per sottrarsi dall'imminente giogo,
non pubblicherà certo una legge per proibire ai barbieri di far
la barba nei giorni festivi. Ha ben altro che fare chi si trova al
timone della Repubblica fra la tempesta, che vegliare su di questi
meschini e indifferenti oggetti; eppure allora si proclamò un bando
cosiffatto:[227] _Capitanei et defensores libertatis illustris et
excelsae civitatis Mediolani — Visa requisitione barbitonsorum inclitae
Urbis hujus pro confirmatione cujusdam eorum statuti et ordinis tenoris
infrascripti, videlizet. Magnifici et excelsi domini hujus inclitae
civitatis; barbitonsorus, tum recta conscientia ducti, tum praesertim
a religiosis confessoribus et animarum suarum consultoribus admoniti,
deliberant ad celebrandum festivos dies et vocandam ab opere temporibus
illicitis cum vestrae magnificentiae licentia, et assensu, statutum
ordinem et edictum quod est tenoris infrascripti. Reverenter ideo
supplicantes ut, ad ipsum, quod quidem salutiferum et commendabile
videtur, auctoritatem vestram interponentes, dignemini statutum hoc
et ordinationem patentibus literis confermare, validare, servarique
et excutioni mandari jubere, mandando etiam quibuslibet jusdicenti et
offitialibus Mediolani, ad quos inde recursus habeatur, quatenus ad
omnem requisitionem abatis Paratici dictorum barbitonsorum circa ipsius
statuti observantiam et excutionem, praestent omne juvamen, auxilium
et favorem opportunum. Item statuerunt et ordinarunt quod non liceat
alicui magistro de dicta arte, habitanti in civitate vel suburgiis
Mediolani, laborare, nec laborari facere de arte ipsa nec in apotecha
seu domo habitationis suae nec extra, die aliquo festivo per sanctae
matris ecclesiae tam Romane quam Ambrosianae istitutiones celebrari
ordinato nec etiam in ipsorum festorum vigiliis ubi vigiliae institutae
reperiantur nec diebus sabati post horam vigesimam quartam ipsius
vigiliae vel sabati, sub poena librarum duarum nuperiorum qualibet vice
qua fuerit contrafactum, eamdemque poenam incidat quilibet famulus
seu laborator de dicta arte qui sine licentia et contra voluntatem
magistri sui laboraret contrafatiendo praesenti statuto, talisque,
famulus aut laborator de dicta arte non debeat nec possit de dicta
arte aliqualiter laborare in civitate ipsa nec suburgiis nisi prius
condemnationem ipsam solverit, et ante solutionem hujusmodi non debeat
aliquis magister ipsius artis illi dare aliquod adjutorium nec aliquem
favorem sub eadem poena, si tamen evenerit quod ad horam vigesimam
quartam dicti sabati aut vigiliae ut supra quispiam magister aut
laborator inter manus aliquem haberet ante horam ipsam jam acceptum;
eo casu tali prius accepto possit impune caeptam operam prosequi et
finire, nec pro eo poenam incurrat; harumque omnium poenarum medietas
applicetur fabricae majoris ecclesiae Mediolani et alterius medietati
duae partes dentur Paratico ipsorum barbitonsorum et reliqua tertia
pars accusatori qui talem contrafactionem denuntiaret. Possunt
quoque abbas dictae artis et sui offitiales qui per tempora erunt,
defitientibus in praemissis opportunis probationibus; pro habenda in
hiis veritate artare quemlibet magistrum et laboratorem ad juramentum
si et prout viderit expedire. Et considerata in hoc devota et laudabili
dispositione dictorum barbitonsorum, vum statutum ipsum, quod etiam
per spectabiles dominos consiliarios justitiae prefatae comunitatis
diligenter examinari fecimus et honestum et ad observantiam orthodoxae
fidei nostrae atque mandatorum ecclesiae videatur tendere, ipsorum
requisitioni praedictorum benigne volentes annuere praesentium tenore,
etiam ex certa scientia, statutum ipsum, quod in volumine etiam aliorum
statutorum et ordinamentorum comunis Mediolani inseri et conscribi
mandamus et volumus, gratum habentes, approbamus et confirmamus;
mandantes propterea vicario et XII Provixionum ac aliis offitialibus
antedictae comunitatis praesentibus et futuris, ad quos spectat et
spectare possit et pro dicti statuti observatione recursum fuerit;
quatenus ipsum statutum et ejus dispositionem inviolabiliter observare
fatiant et ad omnem abatis Paratici ipsorum barbitonsorum requisitionem
pro hujus statuti observantia et in contrafatientes debita executione
omne prestent juvamen, auxilium et favorem opportunum, et hoc dummodo
nichil exinde contra aliorum praefacte comunitatis statutorum et
ordinamentorum dispositionem et in eorum detrimentum fiat vel sequatur.
In quorum testimonium praesentes fieri registrarique jussimus,
sigillique praefatae comunitatis munimine roborari. Dat. Mediolani, die
sexto decimo aprilis MCCCCXLVII. Sign. Ambrosius._ Il citato registro
A, foglio 51, tergo.

Anco un'altra legge ho riscontrata in quei tempi, la quale merita
d'essere ricordata, perchè ci fa conoscere alcuni ripieghi politici,
i quali volgarmente si credono d'invenzione di questi ultimi tempi,
non erano punto sconosciuti negli Stati d'Italia alla metà del secolo
decimoquinto, cioè le pubbliche lotterie. Nel capitolo nono accennai
come sino dall'anno 1240 s'era posta in uso da noi la circolazione
della carta in luogo del denaro, e a tal proposito si facessero
leggi assai opportune[228]; ora dall'editto del 9 gennaio 1448 verrà
assicurato il lettore dell'antichità delle lotterie, ossia tontine, di
quei tributi spontanei in somma ai quali si adescano i cittadini colla
lusinga di arricchirli[229]. Colle note potrà il lettore dalla sorgente
istessa conoscere da quai principii fosse regolato quel governo, a qual
grado fosse la coltura, a quale elevazione si trovasse la politica; nè
sulla asserzione mera dello storico dovrà persuadersi della infelicità
di quei tempi.

Ora conviene ch'io ponga sott'occhio una fedele immagine del nuovo
comandante delle armi milanesi Francesco Sforza. Sì tosto che il conte
Francesco fu creato capitano generale della repubblica di Milano, e che
l'armata di esso conte venne allo stipendio de' Milanesi, ei si trovò
alla testa di forze valevoli a preservare lo Stato e dai Veneziani,
e da ogni altro pretendente. Se egli avesse rivoltata allora per
assoggettare a sè il ducato di Milano, avrebbe dovuto superare ad un
tempo medesimo e le forze venete, e le savoiarde, e le francesi, e
l'entusiasmo della nascente libertà de' popoli, non per anco stancati
dai disordini dell'anarchia. I suoi soldati avrebbero ragionato
fors'anco del tradimento che si faceva ai Milanesi, della illegalità
delle pretensioni sue alla successione nel ducato; si doveva temere
o la defezione o la svogliatezza. Il conte conosceva i tempi, gli
uomini e gli affari. Egli era venerato come il più gran generale del
suo tempo. Sapeva farsi adorare da' suoi soldati, che egli, con una
prodigiosa memoria, soleva quasi tutti chiamare col loro nome. Nella
azione si esponeva con mirabile indifferenza e intrepidezza, e con voce
militare animava nella mischia i combattenti. Padrone assoluto dei
propri moti, sapeva celare le cose che gli dispiacevano con mirabile
superiorità d'animo. Accortissimo conoscitore dei pensieri altrui,
antivedeva le risoluzioni de' nemici, che lo trovavano preparato mentre
s'immaginava di sorprenderlo. La reputazione dello Sforza era tale,
che, venendo da' Veneziani attaccato un drappello de' suoi che egli
aveva postati a Montebarro, vi giunse il conte Francesco nel punto in
cui i nemici vincevano pienamente. Al solo avviso della inaspettata
sua presenza si posero in fuga i vincitori; anzi innoltrandosi egli
incautamente ad inseguirli, si trovò come attorniato e preso da
essi; ma invece di farlo prigioniere, i nemici deposero le armi, e
scopertisi il capo, riverentemente lo salutarono, «e qualunque poteva,
con ogni reverentia li tochava la mano perchè lo riputavano patre
de la militia ed ornamento di quella»; così il Corio. Sin dalla sua
gioventù egli ispirava rispetto per la nobile e dignitosa figura, e
più per la saviezza, prudenza, costumatezza ed eleganza nel parlare,
onde l'istesso Filippo Maria[230] _admirabatur enim magis atque magis
guotidie tum illius prudentiam, facundiam egregiosque mores, tum formae
praestantiam, vultus gestusque dignitatem_[231]. Un fatto raccontatoci
dallo storico Giovanni Simonetta, che viveva in que' tempi, mostra
l'indole generosa del conte Francesco, e la singolare di lui prudenza
nel fiore degli anni suoi. Sforza suo padre, mentre guerreggiava
nell'Abruzzo, aveva affidato a Francesco un corpo. Ivi guerreggiavano
i due partiti francesi e spagnuolo, ossia gli Angioini e gli Aragonesi.
Si formò una trama segreta fra i soldati sottoposti a Francesco Sforza;
e improvvisamente una gran parte di essi tradì la fede, e, abbandonando
il giovine Francesco, passò al nemico. Francesco co' pochi rimastigli
fedeli si ricoverò in luogo munito. Appena ottenuto dal padre nuovo
soccorso, si scagliò contro i nemici, e fece prigionieri tutti i
traditori. Ne spedì la novella a Sforza di lui padre, chiedendo i suoi
comandi sul trattamento da farsi a questi prigionieri. Sforza gli mandò
il comando di farli, tutti quanti erano, impiccare. Al ricevere un
tal riscontro rimase pensieroso il giovane Francesco, e dopo qualche
taciturnità interpellò il messaggiero: «Dimmi, con quale aspetto parlò
mio padre, che t'incaricò di quest'ordine?» Il messaggere rispose
ch'egli era assai incollerito. «Non lo comanda adunque mio padre,
disse Francesco: questo è l'impeto di un uomo sdegnato, e mio padre a
quest'ora è pentito di aver detto così»: indi, fatti condurre alla sua
presenza i prigionieri: «Poichè mio padre, diss'egli, vi perdona, io
pure vi perdono. Siete liberi; se volete restare al nostro stipendio,
vi accetto come prima; se volete partire, fatelo». La sorpresa di que'
soldati, che si aspettavano il supplizio, fu tale che, lacrimando
e singhiozzando, giurarono fede alle insegne sforzesche, e in ogni
incontro poi se gli mostrarono affezionatissimi e valorosi. Quando
Sforza intese il fatto, confessò che Francesco era stato più prudente
di sè stesso[232]. Questo avvenimento ci fa risovvenire delle Forche
Caudine: lo Sforza fu assai più avveduto che non si mostrò Ponzio.
Francesco amava e venerava suo padre, e con ragione. Mentre appunto
nel regno di Napoli Francesco stava alle mani coi nemici, vennegli
il crudele annunzio che, poco discosto, Sforza suo padre, volendo
soccorrere un suo paggio, erasi miseramente affogato nel fiume che
stavano passando. Questa era la massima prova che potesse dare della
padronanza di sè medesimo. Francesco, soffocando l'immenso dolore,
e dirigendo la battaglia con mente e faccia serena, come fece[233].
Questi fatti bastano per darci idea di questo illustre italiano, che
diventò poi nostro principe.

Agnese del Maino s'era ricoverata nella rocca di Pavia, dove ella ebbe
influenza bastante per rendere preponderante il partito di coloro che
scelsero per loro principe il conte Francesco genero di lei. Se il
conte avesse accettata questa sovranità mentre era allo stipendio de'
Milanesi, senza l'assenso loro, avrebbe mancato al dovere. Pavia era,
ed è una parte dello Stato di Milano vicina ed importante. Il conte
Francesco però fece conoscere che, attesa l'antica avversione, non
sarebbe stato mai possibile di ottenere una sincera sommessione di
Pavia ai Milanesi, che frattanto ella si offriva al duca di Savoia,
ovvero ai Veneziani; e sarebbe stata impresa difficile lo sloggiarli da
quella città munita, e pericoloso il lasciarveli: che non era possibile
sbrattare il Po dalle navi venete, e sgombrarne lo Stato esposto
alle invasioni, se non possedendo Pavia, ove trovavansi gli attrezzi
per quella navigazione. Insomma persuase che l'interesse di Milano
era dover Pavia cadere piuttosto nelle sue mani che di alcun altro
principe. Per tal modo, coll'assenso dei Milanesi, il conte Francesco
diventò signore di Pavia; e così due città principali del ducato,
Cremona e Pavia, una per dote, l'altra per dedizione, furono del conte
Francesco.

Non sì tosto ebbe il conte acquistata Pavia, che s'innoltrò colle sue
armi sotto Piacenza, occupata da' Veneziani, e se ne impadronì il
giorno 16 dicembre 1447. Così, appena trascorsi quattro mesi dalla
morte del duca, il conte s'era già reso padrone del corso del Po;
padronanza la quale indirettamente lo rendeva arbitro di Milano,
che non ha altro sale per i bisogni della vita, se non di mare, che
conseguentemente deve navigare il Po. Frattanto i Francesi, che stavano
al presidio di Asti, tentarono di occupare Alessandria e Tortona; ma
vennero rispinti da Bartolomeo Coleoni, spedito loro incontro dal conte
Francesco. Così, al terminare dell'anno in cui era morto Filippo Maria,
il conte possedeva già una importante porzione del ducato.

I repubblicani, o, per nominarli con maggior proprietà, gli oligarchi
milanesi conoscevano la loro situazione e il pericolo imminente
di ricadere sotto la dominazione d'un uomo solo, cosa generalmente
detestata; per ciò si rivolse secretamente a fare proposizioni di
accomodamento coi Veneziani: anzi si progettò una confederazione fra le
due repubbliche per la difesa reciproca della loro libertà e signorie,
offerendo a' Veneziani il dominio di Lodi, oltre quei di Bergamo e
Brescia, che le armi venete avevano già conquistato sotto il regno
dell'ultimo duca. Niente poteva accadere di peggio per attraversare
la fortuna del conte. Quindi i partigiani di lui che trovavansi in
Milano, mossero la plebe, rappresentando che non v'era più sicurezza se
a venti miglia di Milano si collocavano i Veneziani; che quanto meno
ce lo saremmo aspettato, una sorpresa rendeva Milano suddita di San
Marco e città provinciale e squallida; che non v'era più una sola notte
tranquilla pe' Milanesi, se una così vergognosa cessione si facesse.
La plebaglia, mossa da ciò, andava per le strade urlando: guerra,
guerra contro de' Veneziani! e così vennero forzati gli usurpatori
del governo, i capitani e difensori a lasciarne ogni pensiero in
disparte. Frattanto il conte Francesco, sempre vittorioso, con molti
e piccoli fatti d'arme avendo fatto sloggiare i Veneti dalle rive del
Po, stava risoluto di movere sotto Brescia, e toglierla ai Veneti, che
da ventidue anni la possedevano per conquista fattane dal Carmagnola,
siccome vedemmo nel capitolo precedente. Presa una volta Brescia, non
potevano più i Veneziani conservare Bergamo nè Lodi, nè altra parte
delle loro conquiste. I nostri repubblicani allora cominciarono più
che mai a temere, forse più de' nemici, il loro capitano generale;
il quale se riusciva, come era probabile, di rendersi padrone di
Brescia, l'avrebbe acquistata per se medesimo, siccome aveva fatto
di Piacenza; e per tal modo cerchiando Milano, l'avrebbe costretta,
non che a rendersi, a impetrare la di lui dominazione. Si spedirono
adunque ordini al conte comandandogli che non altrimenti s'innoltrasse
a Brescia, ma si portasse a Caravaggio e facesse sloggiare i
Veneti da quel borgo. Il conte ubbidì. Nella sua armata eravi il
Piccinino, generale emulo e nemico del conte: le operazioni militari
o s'eseguirono lentamente, ovvero venivano attraversate: si lasciava
penuriare il campo dello Sforza d'ogni sorta di foraggi e di viveri:
l'armata veneziana che stavagli di fronte, era dodicimila e cinquecento
cavalli, oltre i fantaccini. Con tanti disavvantaggi egli venne a
una giornata, che rese memorabile il 14 settembre 1448; poichè nei
contorni di Mozzanica, venne il conte colto dai Veneziani talmente
all'improvviso, che nemmeno ebbe tempo di armarsi compiutamente;
onde si pose a comandare e diresse l'azione mancandogli i bracciali.
L'insidiosa emulazione fu quella che rese inoperosi i drappelli di
osservazione che egli aveva postati verso del nemico, il quale perciò
potè cadere con sorpresa sull'armata del conte. V'erano, siccome dissi,
il Piccinino ed altri sotto i di lui ordini, generale di cattivo
animo. Il conte, mezzo disarmato, espose più volte sè stesso al più
forte della mischia, riconducendo i fuggitivi all'attacco, animando
colla voce e coll'esempio i soldati; insomma tanto gloriosa fu quella
giornata pel conte Francesco, che interamente disfece i Veneti, e tanto
furono i prigionieri che ei fece, che fu costretto a congedargli per
mancanza di vettovaglia. Vennero portate in Milano con una specie di
trionfo le insegne di San Marco tolte ai nemici; e Luigi Bosso e Pietro
Cotta, che erano al campo dello Sforza commissari, entrarono in Milano
colle medesime, conducendo i più illustri prigionieri, fra i quali un
Dandolo ed un Rangone.

Questa vittoria di Mozzanica dava sempre maggior motivo di temere lo
Sforza; e il Piccinino, generale di credito, nemico del conte, cercava
di accrescere il popolar timore, fors'anco sulla speranza di acquistare
per sè medesimo poi quella sovranità che ora faceva comparire esosa ed
esecranda[234]. Giorgio Lampugnano era, fra i più accreditati Milanesi,
quegli che non si stancava di tenere animata la plebe contro del conte,
rammentando i mali sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da'
principi, le violenze esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava
la demolizione del castello di Milano, come un motivo per cui il
conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti vi ebbero parte; anzi
come una cagione di nuovi aggravi, obbligandoci a riedificarlo con
dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci avesse
fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l'impresa
di Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e così
ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s'erano presa; ma non
lo vollero i capitani e difensori della libertà. Tutte le proposizioni
dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d'ogni specie ritardati;
le militari disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava.
Carlo Gonzaga aveva in Milano un poderoso partito, ed adocchiava il
trono. Con Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, primarii fautori della
libertà, si univa Vitaliano Borromeo, signore di somma significazione,
perchè, oltre la grandiosa opulenza del casato, possedeva in dominio
quasi tutte le fortezze del lago Maggiore. Questi tre rivali partiti
si univano contro l'imminente fortuna del conte; il quale, posto in
tale condizione, ascoltò le proposizioni della repubblica veneta, e
segretamente stipulò un trattato per cui egli si obbligò a restituire,
non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano e Bergamasco, ma
Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in compenso, a
fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre città che aveva
possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila cavalli
e duemila fanti, sborsandogli tredicimila fiorini d'oro al mese, sin
tanto ch'egli non si fosse impadronito di Milano. Poichè il trattato
fu concluso, il conte lo pubblicò nel suo esercito. Sì tosto che i
Milanesi ebbero notizia di tale accordo, concluso fra il conte Sforza
e i Veneziani, spedirono al di lui campo alcuni primarii cittadini,
cercando con modi rispettosi di giustificare le cose passate, anzi
offrendo ogni soddisfazione, salva sempre la repubblica. Ma il conte
aveva già presa palesemente la sua determinazione; e, senza mistero
espose ad essi le ragioni ch'egli asseriva competere e a Bianca Maria,
di lui moglie, e a sè medesimo e a' figli suoi, per la successione
nel dominio di Filippo Maria, suo suocero: sè essere determinato a
farle valere ad ogni costo. Che se i Milanesi, deposta la chimerica
pretensione di erigersi in repubblica, di buon grado riconoscevano
lui per sovrano, egli avrebbe avuta cura della salvezza e felicità
di ciascuno; che se all'incontro si fossero ostinati a sostenere una
illusione di libertà, che, in sostanza, era una rovinosa oligarchia,
doveano attribuire a loro stessi i mali che avrebbero sofferti,
obbligandolo, suo malgrado, ad usare contro di essi la forza. Furono
con tal risposta congedati i legali Giacomo Cusano, Giorgio Lampugnano
e Pietro Cotta; e, mentre con tristezza s'incamminavano a recare
questo poco favorevole riscontro alla loro patria, vennero dileggiati
non solo, ma insultati e svaligiati dalla licenza militare di alcuni
soldati sforzeschi. Intese ciò con isdegno il conte, e, prontamente
rintracciati i malvagi soldati, convinti del delitto, immantinente
furono impiccati; la roba al momento venne spedita ai legati, a' quali
di più aggiunse il conte altri regali, per riparare quanto poteva
il danno sofferto da essi. La nobile generosità del conte Francesco
sorprese i legati.

I Veneziani spedirono le loro truppe a servire come ausiliarie al
conte. La repubblica fiorentina, poichè vide svelato il mistero, e
apertamente inalberate le pretensioni del conte, inviogli i suoi
legati, promettendogli amicizia. Il conte Francesco, reso per
tal modo sicuro dalla parte di Venezia, immediatamente si mosse a
circondare sempre più Milano. Da Pavia spinse le forze al castello
d'Abbiategrasso, e lo costrinse ben tosto alla resa. È memorabile
il fatto che, mentre il conte Francesco conteneva i suoi, vietando
loro il sacco della terra, a tradimento dalle mura vennegli scoppiata
un'archibugiata. Gli Sforzeschi correvano per vendicarsi. Il conte
illeso, placidamente impedì che si facesse male a veruno. Fattosi
padrone d'Abbiategrasso, prese a sviare l'acqua del Naviglio, e per
tal modo rese inoperosi i mulini di Milano. S'innoltrò a Novara, e se
ne impadronì[236]. I Tortonesi spontaneamente si diedero al conte.
Vigevano pure spontaneamente lo volle per suo sovrano, discacciando
i Savoiardi che l'occupavano; Alessandria fece lo stesso; Parma si
assoggettò. Mentre le cose erano a tal segno, i Milanesi scelsero per
loro comandante Carlo Gonzaga[237]. Allora il Piccinino, che forse
aveva adocchiata la signoria di Milano, vedendosi preferito il marchese
Gonzaga, anzi che servire sotto di lui, passò ad offrirsi al conte
Francesco Sforza. Egli era stato sempre, siccome dissi, emulo non solo,
ma nemico e atroce nemico del conte; ciò nondimeno il conte lo accettò
per suo generale, e gli accordò un onorevole stipendio. Due uomini
volgarmente zelanti, certo Barile e certo Frasco, andavano animando
il conte perchè lo facesse uccidere, o per lo meno lo imprigionasse
come irreconciliabile nemico, che, per necessità, simulava in quel
momento, e che poi, al primo lampo di speranza di nuocergli, se gli
avrebbe nuovamente avventato contro. Il conte Francesco rispose loro
che vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s'era
abbandonato al suo potere. Infatti il Piccinino desertò poi con tremila
cavalli e mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto,
che una macchia di più alla di lui fama, e un contraposto sempre più
glorioso pel conte Francesco.

Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, grandi fautori dapprincipio per
la libertà, s'erano cambiati ed erano diventati fautori del conte
Sforza, o fosse ciò accaduto perchè l'esperienza gli avesse convinti
della impossibilità di adattare stabilmente alla nazione degradata un
politico sistema, o fosse che la fortuna militare e le virtù grandi del
conte, e le speranze sotto la sovranità di lui avessero mutate le loro
opinioni. Carlo Gonzaga, che, sotto nome di capitano della repubblica,
era animato dalla probabile ambizione di cingere la corona ducale
di Milano, considerava i due primari partigiani dello Sforza come i
primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in cifra, che
Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s'interpretarono;
si conobbe la trama di aprirgli le porte della città, e si destinò di
consegnarli come ribelli al supplizio. La difficoltà consisteva nel
trovare il modo per riuscirvi; poichè i magistrati non avevano forze
tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero
il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all'imperatore, per
implorare il suo aiuto nelle angustie nelle quali la città era posta.
Essi cercavano di procrastinare la partenza per essere mal sicure le
strade; ma Carlo Gonzaga seppe sì bene fingere, che, apprestata loro
una buona scorta di armati, vennero indotti a portarsi a Como, dove
assicurogli che sarebbesi sborzata loro una conveniente somma di danaro
per inoltrarsi nella Germania e fare la commissione. Adescati così,
caddero nell'insidia. Usciti appena dalla città, furono costretti
dai soldati del Gonzaga a passare a Monza, ove Giorgio Lampugnano
venne subito decapitato, e la sua testa, portata a Milano, fu esposta
al pubblico. Indi, a forza di torture, Teodoro Bosso in Monza fu
costretto a nominare i complici, a' quali tutti fu troncata la testa
alla piazza dei Mercanti, e furono Giacomo Bosso, Ambrogio Crivello,
Giovanni Caimo, Marco Stampa, Giobbe Ombrello e Florio da Castelnovato.
Vitaliano Burromeo, il di cui nome pure trovavasi fra i proscritti,
potè uscire dalla città e salvarsi.

Oppressi per tal modo i primari del partito nobile, del quale poco
si fidava il Gonzaga, e sollevata la plebe ad ambire il comando
della repubblica, il disordine e lo scompiglio divennero generali
nell'interno della città. Artigiani, giornalieri, plebaglia la più
sfrenata arrogantemente cominciarono a disporre della vita e delle
fortune altrui a loro piacimento. Giovanni da Ossona e Giovanni da
Appiano si segnalarono colle tirannie, usurpandosi una dittatoria
facoltà e il dominio della repubblica. Il Corio li chiama _uomini
iniquissimi e scellerati_. Saccheggiare i granai de' proprietari
delle terre; sforzare di notte con mano armata l'asilo delle private
famiglie, rubando le gioie, gli argenti, e quanto v'era di meglio;
costringere colla minaccia dell'oppressione i nobili agiati a
manifestare e consegnare i denari che possedevano; quest'era la forma
colla quale costoro percepivano il tributo col pretesto di mantenere
l'armata a salvamento della repubblica. Si pubblicò pena di morte
a chiunque nominasse Francesco Sforza se non per dispregio, e si
andava gridando che, piuttosto che a lui, si darebbero al turco o al
diavolo. I cittadini ragionevoli non ardivano nemmeno di uscire dalle
case loro sotto di un sì atroce governo. Per rimediare al disordine,
Guarnerio Castiglione, Pietro Pusterla e Galeotto Toscano formarono un
triumvirato, e si posero alla testa della città. Chiusero in carcere
l'Ossona e l'Appiano. La plebaglia liberò dal carcere costoro; indi a
furore insurgendo contro i triumviri, Galeotto Toscano venne scannato
sulla piazza del palazzo ducale; i due altri si sottrassero colla
fuga. Altri furono trucidati, uomini di virtù e di merito. Le case
de' migliori cittadini vennero saccheggiate: insomma la misera patria
divenne orrendo teatro di sciagure.

In mezzo alle vicende e alle angustie della città stavasene in
Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di Filippo Maria, la
quale, cogliendo l'opportunità, sparse la speranza che il duca di
Savoia, di lui padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. Infatti
il duca Lodovico di Savoia si affacciò a Novara per discacciarne
gli Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorchè vide
comparire questo nuovo nemico al conte Sforza, abbandonollo, seco
traendo, siccome vedemmo, tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre
occupò, sorprendendone gli Sforzeschi. Il conte allora spedì un suo
inviato a Milano a fine di persuadere i rettori a non avventurare una
città bella, grande e ricca alla inevitabile sciagura d'un assalto;
ma l'inviato non potè parlare se non a quei capi che non volevano
abbandonare la loro chimerica sovranità. Il marchese Gonzaga, vedendo
però le forze del conte, la posizione decisiva di lui, che possedeva
quasi tutte le città del contorno, l'ascendente del valor suo e della
scienza militare, pensò ai casi propri, e a trarre qualche profitto
dalla conciliazione, prima che la necessità lo costringesse a perdere
la carica di capitano dei Milanesi senza verun compenso. Trattò col
conte Francesco; e fu convenuto ch'egli passerebbe allo stipendio del
conte.

I Milanesi, attorniati dallo Sforza, già padrone di Cremona, Parma,
Piacenza, Pavia, Novara, Vigevano, e de' borghi e terre ancora più
vicine, vedendosi abbandonati dal Gonzaga; non potendosi fidare sul
Piccinino; nessuna speranza loro rimanendo nel duca di Savoia; in mezzo
ai disordini, al saccheggio, alla licenza popolare; devastati, oppressi
dai propri magistrati, non avendo un uomo solo di qualche merito nelle
cariche, usurpate da' più violenti, e da cui meno conosceva l'arte di
reggere una città, e meno forse degli altri si curava della felicità
della patria; in tale misero stato si pensò da alcuni a conciliare
la repubblica veneta colla nascente repubblica di Milano: il che,
sebbene recentemente si foss'ella collegata col conte, non mancò, del
suo effetto. Stava domiciliato in Venezia Arrigo Panigarola, milanese,
avendovi casa di negozio: costui venne incaricato d'invocare il senato
veneto, amatore della libertà in favore della patria. Fu ammesso il
Panigarola a trattare. Egli con eloquenza mosse gli animi, descrivendo
lo stato a cui erano ridotti i Milanesi, non per altro, se non perchè
ricusavano essi un giogo ingiusto e illegale, e volevano reggersi da sè
con una libera costituzione. Turpe cosa, diss'egli, che i Veneziani,
illustri difensori della libertà, si colleghino con un usurpatore,
per porre i ceppi agli italiani, loro confratelli. Assicurò che se la
repubblica cessava di far loro guerra, se stendeva una mano adiutrice a
questa nascente repubblica, dopo un tal beneficio, i Milanesi avrebbero
amalo e venerato i Veneziani come loro padri e dei tutelari; che da
una generazione all'altra ne sarebbe passata ai secoli la divozione e
la gratitudine. Il discorso del Panigarola commosse gli animi, ma più
ancora erano commosse le menti del senato dalle lettere che andava
scrivendo il nobil uomo Marcello, il quale, per commissione della
repubblica, stava al fianco del conte. Testimonio della prudenza e del
grand'animo del conte Sforza, ammiratore della imperturbabile fermezza
di lui negli avvenimenti prosperi e avversi, vedendo la benevolenza
somma che avevano per lui i soldati, non meno che i suoi sudditi,
colpito continuamente dalla superiorità dei talenti suoi nel mestiere
dell'armi, andava esso Marcello colle sue lettere intimorendo il
senato, parendogli facil cosa che, poichè lo Sforza avesse acquistato
Milano, pensasse poi a riunire le membra del ducato, e ricuperando
Brescia, Vicenza e fors'anche Padova, ritornasse ad occupare quanto
settantadue anni prima era soggetto al conte di Virtù, primo duca.
Queste circostanze produssero l'effetto che: primieramente, i
Veneziani trascurarono di spedire i convenuti soccorsi al conte, e gli
stipendiari loro, che servivano nell'armata di lui, cambiando costume,
più non volevano concorrere od esporsi: indi, senz'altro abbandonarono
il campo. Non faceva mestieri di tanto, perchè il conte s'avvedesse del
cambiamento de' Veneziani; i quali, per mezzo di Pasquale Malipiero,
fecergli noto avere la loro repubblica fatta la pace coi Milanesi. Le
condizioni erano, che tutto lo spazio compreso fra l'Adda, il Ticino
e il Po rimanesse della repubblica di Milano, trattane Pavia, che si
sarebbe lasciata al conte; e il rimanente dello Stato posseduto dal
duca Filippo Maria passasse al conte Francesco Sforza. I Veneziani
poi, oltre Brescia, Bergamo e Crema, rimanevano padroni di Treviglio,
Caravaggio, Rivolta e altre terre del ducato.

Un tal partito non poteva convenire al conte, giacchè la maggior
parte del ducato e la capitale medesima venivagli sottratta, e se
gli assegnava una sovranità di tante membra quasi staccate, estesa
per lungo spazio, difficile a custodire. Si rivolse egli adunque
ad accomodarsi col duca di Savoia, e colla cessione di alcune terre
sull'Alessandrino e sul Novarese, si assicurò da quella parte. Indi,
rivolgendosi ai Milanesi e Veneti, si pose a disputare con essi il
ducato di Milano. Io non entrerò a descrivere i fatti d'arme; inutile
materia per uno storico, a cui preme di conoscere lo spirito dei tempi,
l'indole degli uomini, lo stato della società, e non di stendere i
materiali per una tattica di poco profitto, atteso il cambiamento
accaduto nella maniera di guerreggiare: basta dire che il conte Sforza
in ogni parte si presentò abilissimo generale nel postare il suo
campo, nel prevenire il nemico, nelle marce giudiziosamente condotte,
nel cogliere il momento per attaccare, nel dirigere la battaglia,
nel provvedere di tutto l'armata propria e impedire la sussistenza al
nemico, nel conservare la militar disciplina, risparmiare quanto era
possibile la miseria dei popoli, e nel tempo stesso conservarsi l'amore
dei soldati, che giugneva sino all'entusiasmo. (1449) Con tai superiori
talenti, con virtù tale ei circondò sì bene la città di Milano, che in
breve tempo si manifestò lo squallore della carestia. Egli non volle
spargere il sangue de' cittadini, nè diroccare con macchine Milano;
ma costringerla per la fame a darsi a lui. Insomma egli concepì quel
progetto medesimo sopra Milano, che il grande Enrico IV fece poi con
Parigi; e molta somiglianza troverebbesi fra l'uno e l'altro di questi
grandi uomini, se venissero al paragone. Le traversie che l'uno e
l'altro dovettero soffrire ne' primi anni; i pericoli della vita che
corsero per le insidie delle corti, nelle quali dovevano regnare poi;
l'umanità, la popolarità, il valore, la perizia militare dell'uno e
dell'altro sono degne di confronto. A Francesco Sforza mancò un più
grande teatro sul quale mostrarsi, e spettatori più illuminati. Enrico
ebbe per campo il regno di Francia, e per testimonio un secolo più
colto[238].

La carestia fece nascere un generale disordine. Non vi era più chi
volesse ubbidire. Quei che si erano arrogate le magistrature e il
comando della città, erano considerati come buffoni del popolo.
Il consiglio generale era stato composto da essi, scegliendo
maliziosamente ad arte uomini inetti o del partito. Per dare apparenza
al popolo che si vegliava al bene della città, i rettori fecero
radunare il consiglio generale nella demolita chiesa di Santa Maria
della Scala. Pietro Cotta e Cristoforo Pagani erano sulla strada in
quel contorno: cominciarono questi a mormorare cogli astanti sulla
spensierata condotta de' rettori e sulla dappoccaggine de' consiglieri.
A misura che passavano i cittadini, si trattenevano; e cominciò a
formarsi un'unione di popolari malcontenti. Ben tosto corse il grido
per i quartieri della città, come vicino alla Scala vi fosse unione
di malcontenti, e da ogni parte concorsero nuovi popolari, in modo che
i rettori e consiglieri si trovavano assai inquieti. Laonde spedirono
Lampugnino da Birago, loro collega, per aringare il popolo, e, colle
buone, pacificarlo, promettendo ogni bene. Ma Lampugnino ebbe pena
a salvarsi. Comparve il capitano di giustizia Domenico da Pesaro,
scortato da buon numero di cavalleria, e facendo mostrare al popolo
i capestri; ma il popolo li pose tutti in fuga. La moltitudine de'
malcontenti si creò due capi: Gasparo da Vimercato e il soprannominato
Pietro Cotta. Altri signori spalleggiarono i malcontenti, come
Giovanni Stampa, Francesco da Trivulzio, Cristoforo Pagano suddetto,
Marchionne da Marliano. Vi fu del sangue sparso; vennero espulsi i
magistrati, occupato il palazzo, e distrutta l'organizzazione civile;
se ne formò una tumultuariamente. I primarii cittadini, il giorno
seguente, si radunarono nella stessa chiesa della Scala per deliberare
qual partito si dovesse prendere. Alcuni volevano rimaner liberi e
non ubbidire a verun principe. Altri, conoscendo l'impossibilità di
formare una repubblica in mezzo a tanti e sì appassionati partiti, in
una città nella quale le voci di patria e di ben pubblico non bastavano
ad ammorzare le private mire, volevano un principe. Tutti però
concordemente ricusavano i Veneziani. Si proponeva dagli uni il papa;
da altri il re Alfonso; altri suggeriva il duca di Savoia; Gasparo
da Vimercato propose il conte Francese Sforza. Egli nel suo discorso
fece vedere che la fame minacciava a giorni la morte; che nè il papa
nè il re Alfonso nè il duca di Savoia avevano mezzi per salvarci
al momento, come chiedeva l'urgente necessità; che non rimaneva
altro partito da scegliere che o i Veneziani o il conte. Sudditi de'
Veneziani, non potevamo aspettarci se non che il destino d'una città
secondaria e provinciale, sotto una dominazione che avrebbe temuta la
nostra prosperità. Sotto del conte, valoroso, umano, benefico, nostro
concittadino per la moglie, non dovevamo aspettarci un signore, ma un
padre saggio, provvido, amoroso, da cui sarebbe posto rimedio a' nostri
mali. (1450) Il partito per il conte prevalse per acclamazione, e si
spedì tosto ad avvisarlo[239]. Due mesi prima che la città si rendesse
allo Sforza, si pubblicò in Milano un proclama col premio di diecimila
zecchini a chi avesse ammazzato il conte Sforza, o mortalmente
ferito[241]. Così gl'imbecilli nostri legislatori si mostravano
insensibili alla virtù, ignoranti della ragion delle genti, indegni per
ogni modo di comandare agli uomini. Il conte Francesco Sforza teneva in
tanta disciplina le sue truppe che vietò loro di non offendere per niun
modo le terre o le persone de' Milanesi, come si scorge dagli archivi
di città[242]. Ma i nostri capitani e difensori, l'istesse armi che
avean rivolte contro dello Sforza le adoperavano ancora verso altri.
Leggesi ne' registri di città la taglia di duemila ducati d'oro a chi
condurrà a Milano Antonio e Ugolino fratelli Crivelli, i quali avevan
ceduta la fortezza di Pizzighettone al conte Sforza[243]. Leggesi la
taglia di mille ducati a chi consegnerà Francesco Borro, che aveva
ceduta allo Sforza la fortezza di Lodi.

Era circondata la città di Milano dai soldati dello Sforza, e custodita
con tanta esattezza che egli era impossibile di vere alimento veruno.
Un moggio di grano si vendeva a venti zecchini. S'eran vendute
pubblicamente e mangiate le carni dei cavalli, degli asini, de' cani,
de' gatti e persino de' sorci. Morivano sulle pubbliche strade alcuni
cittadini di fame. In queste estremità, cioè tre giorni prima che
Francesco Sforza diventasse padrone di Milano, i capitani e difensori
della libertà pubblicarono un editto per la pudicizia e morigeratezza
pubblica[244].

Oltre il Corio, che minutamente descrive la desolazione di que' tempi,
e la miseria di quel governo, anche il Decembrio ce ne dà un'idea colle
parole seguenti:[245] _Mediolanensium res in deterius labi caepere.
Nam duce destituti, dissidentibus inter se civibus, deteriora prioribus
in dias pullulabant. Non pubblica munera a populo rite gubernari; non
divites onera conferre; non jussa quisquam exsequi poterat; sed veluti
tempestate disjecta classis, inundante pelago, inc inde ferebatur.
Si qua in residuis militibus spes affulserat, Caroli Gonzagae
ambitione turbabatur, qui ad populi dominatum improbe aspirans, longa
suspicione cuncta detinebat. Qua ex desperatione et pavore squallebant
omnia. Conjurationes ad haec a quibusdam perpetratae majorem adhuc
sollicitudinem singulis injecerant. Capti siquidem plerique nobilissimi
Cives, et supplicio affecti sunt: Sed nec ullorum caede mali atrocitas
leniri poterat... Boni praeterea, officiis exuti, nec sibi aut aliis
prodesse utiles, silentio languebant; plebs vero, inter spem metunque
conjecta, onus tolerabat, dominatus dumtaxat nomine exsultans_[246].
Questo veramente è uno de' tratti più compassionevoli e umilianti della
nostra storia: vorrei poterla nobilitare esponendola, ma lo storico
consecrato all'augusta verità, benchè contro sua voglia, la scrive.
Qual differenza mai fra Milano assediata dall'imperator Federico,
e Milano bloccata da Francesco Sforza! Contro l'imperatore e contro
tutt'i principi della Germania Milano si difende. Escono con valore
i Milanesi dalle loro mura; si cimentano; piegano alfin traditi,
soverchiati; e terminano con gloria, assicurando lo Stato della loro
limitata libertà. Contro lo Sforza non v'è un tratto solo di vigore,
non un lampo di civile prudenza. Uno spirito, ora cenobitico, ora
insidiosamente timido e atroce, detta le leggi, dirige le azioni. Erano
i nostri, tre secoli prima, agresti, rozzi, ma generosi, guerrieri e
affezionati alla patria. I loro discendenti, degradati nella servitù
di cattivi principi, sembrano un'altra nazione; e perciò il Secretario
fiorentino ebbe a dire: «Per tanto dico che nessuno accidente (benchè
grave e violento) potrebbe ridurre mai Milano o Napoli libere per
essere quelle membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di
Filippo Visconti, che volendosi ridurre Milano alla libertà non potette
e non seppe mantenerla[247]». La città, colla mediazione di Gaspare
da Vimercato, si rese a Francesco Sforza dopo trenta mesi e mezzo di
anarchia, ossia d'un atroce disordine chiamato _Repubblica_. Le monete
d'oro e d'argento battute in Milano in que' tempi hanno da una parte
sant'Ambrogio, e dall'altra la Croce e la lettera M, colla leggenda
_Comunitas Mediolani_, e lo stemma della città. Francesco Sforza entrò
in Milano il giorno 26 di febbraio del 1450[248]. Coloro che si lagnano
de' tempi presenti, ed esaltano la felicità de' maggiori, torno a dirlo
e lo dirò pure altra volta, non sanno la storia.



CAPITOLO XVII.

  _Francesco I Sforza, duca di Milano._


Appena il conte ebbe notizia che per quasi unanime voto degli affamati
cittadini milanesi egli veniva proclamato signor loro e duca, volle
cogliere il momento e senza dimora alcuna entrare nella città; giacchè
l'indugio non poteva essere di utilità se non ai Veneziani, ai quali
fors'anco, per l'instabilità della moltitudine, avrebbero potuto
ricorrere, qualora avesse egli tardato a soccorrerli di vittovaglia
nella estremità della fame a cui erano ridotti. Postò egli adunque di
contro alle schiere venete un corpo di armati valevole a contenerle,
e immediatamente egli da Vimercato incamminossi a Milano alla testa
d'un altro corpo di fedeli soldati, i quali, oltre le solite armi,
vennero caricati sulle spalle e nelle tasche di quanto pane ciascuno
poteva portare, con ordine di lasciarsi saccheggiare allegramente
dalle affamate turbe milanesi. La strada da Vimercato a Milano era
popolata da _infinita turba_, dice il Corio, singolarmente nelle
dieci miglia vicine alla città. Fu uno spettacolo degno di un cuore
sensibile quella pompa, nella quale non già primeggiava il fasto o
l'alterigia d'un irritato vincitore, ma bensì l'affabile umanità di
Francesco Sforza, che amichevolmente accoglieva le grida di allegrezza
del popolo, nominava e salutava le conoscenze che aveva fatto sino
da' suoi primi anni in questa quasi sua patria, ordinava ai valorosi
soldati suoi di abbandonare ogni contegno militare e imponente, e fatti
concittadini, di lasciarsi svaligiare dall'affamata moltitudine, che
avidamente si satollava col loro pane; e fra le consolanti risa che
faceva nascere l'inusitata mischia, fra le grida gioiose de' popoli che
andavano esclamando:[249] _haec est dies quam fecit Dominus, exultemus
et laetemur in ea_, andò accostandosi alla città e vi entrò per porta
Nuova. Malgrado lo sterminato numero de' cittadini uscitogli incontro,
dice il Corio, «benchè grande era stata la moltitudine che di fuori
l'haveva salutato, molto maggiore era quella di dentro l'aspettava».
Ognuno procurava di giungere a toccar la mano al conte nuovo duca;
e tanta e tanto strettamente la moltitudine lo circondava, che il
cavallo di lui parve portato sulle spalle de' cittadini. Andossene egli
direttamente al Duomo per rendere alla Divinità il primo omaggio d'un
avvenimento sì fausto per lui; ma non fu possibile ch'egli scendesse
dal cavallo, e dovette così entrarvi e così orare: tanto era la
immensità della turba e tanto era l'entusiasmo de' nuovi suoi sudditi!
Dispose poscia il nuovo duca che da Pavia, da Cremona e da altri
luoghi venisse portato quanto occorreva al vitto e ai comodi, e in
tre giorni l'abbondanza comparve nella città. Tutto venne ordinato dal
duca con paterna previdenza: pose al governo della città uomini probi e
illuminati; intimò la pace, la sicurezza, il gaudio a ciascun milanese;
distribuì ai poveri larghi soccorsi di frumento; poi tornò al campo
contro i Veneziani, i quali si ritirarono a quartiere, e così fece egli
pure de' suoi. Ricevette l'omaggio di Bellinzona, Como e Monza, suddite
de' Milanesi. Spedì i suoi ministri alle corti estere per dar loro
avviso della nuova sua condizione. L'imperatore Federico III e Carlo
re di Francia ricusarono di trattarlo qual duca, perchè il primo non
doveva riconoscere rivestito di quella dignità se non un discendente
maschio legittimo de' Visconti investiti; e l'altro pretendeva dovuto
il ducato ai discendenti della principessa Valentina. Gli altri
principi lo riconobbero. Gli uomini più turbolenti e sediziosi, quei
che avevano tiranneggiato il popolo nel tempo dell'interregno, vennero
con umanità relegati nelle città vicine.

Non voleva il nuovo duca sgomentare i sudditi dominando sopra di
essi con un potere illimitato, nè che essi lo considerassero come un
dispotico conquistatore. Sarebbe stato troppo repentino il passaggio
dalla licenza alla servitù, e questo violento cambiamento avrebbe
potuto facilmente cagionar poi de' pentimenti e de' moti nel popolo,
nel qual caso un principe vi perde sempre, quand'anche giunga colla
forza a reprimere ed a punire. Ciò conosceva ottimamente il saggio
duca; e perciò volle che alla nuova dominazione di lui servisse di base
un contratto, e che i sudditi lo considerassero sovrano e non despota.
Questa prudente politica diresse il solenne contratto di dedizione,
celebrato il giorno 3 di marzo 1450, nella villa del conte Giovanni
Corio in Vimercato, essendone rogato il notaio Damiano Marliano; in
vigore del qual atto venne concordato che le gabelle sarebbero state
moderato, riducendosi la macina a soldi 12, il dazio del vino a soldi
4, e stabilendosi che non s'imporrebbero in avvenire nuove gabelle,
anzi si abolirebbe quella del fieno; che il nuovo duca avrebbe fatto
residenza in Milano, almeno per due terze parti dell'anno; che i
tribunali avrebbero sempre in Milano la loro sede; che il prezzo del
sale sarebbe stato lire tre per ogni staio, che non si sarebbe imposto
verun carico straordinario, eccetto quello di somministrar carri e
guastatori per gli usi militari; che il solo podestà di Milano sarebbe
stato forestiere, ma tutti gli altri uffici sarebbero confidati a'
Milanesi; e alla vacanza di ogni carica la città avrebbe presentata la
nomina di sei, fra i quali il duca avrebbe fatto la scelta, salvo però
l'arbitrio a lui, in casi speciali, di scegliere anche altrimenti; che
il duca avrebbe mantenuta la fede ai creditori di Filippo Maria; che si
osserverebbero gli statuti civili e criminali e quei de' mercanti; che
non si sarebbero impetrati privilegi dal papa nè dall'imperatore senza
il beneplacito del duca; che i soldati a piedi, a cavallo, saccomanni,
uomini d'armi sarebbero partiti dalla città, dovendo essa restare
immune dall'alloggiamento militare, eccettuati i contestabili alle
porte; il duca però in casi speciali potrà deviare da questa regola.
Questi sono i più importanti articoli del solenne contratto[250]:
indi il nuovo duca fece il pubblico ingresso dalla porta Ticinese,
il giorno 25 di marzo 1450[251]. Il nuovo duca era colla sua sposa
Bianca Maria e col primogenito Galeazzo Maria. Un numero grande di
matrone andarongli incontro pomposamente. Gli oratori delle città
suddite, i nobili milanesi tutti sfoggiarono per rendere magnifico
quell'ingresso. Erasi preparato un maestoso carro e un baldacchino; ma
un tal fasto non piacque a Francesco Sforza, che amava la gloria e non
le apparenze teatrali; e, ricusandolo, disse: ch'egli in quell'ingresso
s'incamminava al tempio per rendere omaggio al padrone dell'universo,
avanti del quale gli uomini sono tutti eguali. Cavalcò egli adunque.
La folla immensa del popolo, i ricchi arredi de' nobili, la magnifica
parata degli uomini d'armi che precedevano, tutti coperti d'usberghi
lucidissimi, il lusso de' loro illustri condottieri, tutto ciò formò
uno spettacolo sorprendente. La cerimonia si fece al Duomo, ove
smontato, il duca si pose una candida sopraveste: indi colle solennità
de' sacri riti la duchessa e il duca vennero ornati col manto ducale
fra gli applausi e i viva del popolo. Poi dagli eletti di ciascun
quartiere ricevette il giuramento di fedeltà. Essi a lui consegnarono
lo scettro, la spada, il vessillo, il sigillo ducale e le chiavi della
città. Fatto ciò, il duca fece proclamare conte di Pavia il primogenito
Galeazzo. Terminossi per tal modo la funzione in Duomo, seguendosi il
rito de' duchi antecessori. Indi per cinque giorni volle il duca che
la città vivesse in mezzo alle feste ed alle allegrie. Danze, giostre,
tornei di varie sorta, musica, spettacoli teatrali, lautissimi pranzi,
tutto venne così giudiziosamente distribuito e con tal previdenza ed
ordine eseguito, che si mostrò il duca la delizia della buona società
e l'anima dei divertimenti. Egli creò molti cavalieri, scegliendo quei
che più meritavano quest'onore, e tutti li regalò nobilmente. Insomma
Francesco Sforza, invincibile alla testa di un'armata, si mostrò il più
giudizioso direttore delle feste, come si fece conoscere il principe
più umano, giusto e benefico, reggendo in pace lo Stato.

Il papa Nicolò V, i Fiorentini, i Genovesi, i Lucchesi, gli Anconitani,
i Sanesi, e varii altri Stati e principi d'Italia spedirono tosto i
loro ministri per una onorevole ricognizione al nuovo duca. Il primo
pensiero di questo principe fu di rialzare il castello di porta Giovia,
demolito due anni prima, siccome dissi. Questa fortezza, fabbricata da
Galeazzo II, era necessaria per la sicurezza del duca, il quale in una
città piena di partiti, recentemente riscaldata dal nome di libertà,
rendeva sempre pericolosa la residenza del nuovo principe, sprovveduto
infatti di legali fondamenti per succedere nel ducato. Ma nemmeno
conveniva alla prudente accortezza del nuovo signore di palesare
la inquietudine sua, nè di lasciar conoscere al popolo apertamente
una tale diffidenza; essendo cosa naturale alla moltitudine il non
accorgersi delle forze proprie, se non pel timore altrui. Propose egli
adunque alla città, come ostinandosi tuttavia i Veneziani nella guerra
contro di lui e contro lo Stato, trovandosi Milano allora mal difesa
dalle mura della circonvallazione, non convenendo di acquartierare
l'armata nella città, resa esente dall'alloggio militare, non eravi
modo alcuno di preservare la metropoli dai pericoli d'un assalto, se
non ricoverando in luogo munito e forte un corpo di armati, in guisa
da allontanare il nemico da simili tentativi. Propose quindi alla
deliberazione della città medesima il determinare, se dovesse per
tutela di lei riedificarsi il castello, assicurando nel tempo medesimo
la città che vi sarebbe stato collocato per castellano non mai altri
che un nobile milanese per tutti i tempi avvenire. Questa moderazione
di cercare l'assenso per una cosa ch'egli avrebbe potuto da sè medesimo
fare immediatamente; le maniere umanissime e nobilissime del duca;
tante virtù militari e civili riunite in questo grand'uomo impegnarono
i primari cittadini ad ottenergli la pubblica acclamazione per rialzare
la demolita fortezza. Si fecero le adunanze del popolo in ciascuna
parrocchia per deliberare su tale inchiesta. La storia ci ha conservato
un discorso tenuto in tale occasione da Giorgio Piatto allora celebre
giureconsulto. Egli era nell'adunanza della parrocchia di San Giorgio
al Palazzo[252]. Questi parlò così: «Se il virtuosissimo principe
Francesco Sforza fosse immortale, come immortale ne sarà la sua gloria;
io, il primo fra i cittadini milanesi, vorrei caricare sulle mie spalle
le pietre e portarle al sito ove si propone d'innalzare il castello.
Una fortezza sotto il felice governo d'un così provvido sovrano serve
a ornamento della città, a tutela e sicurezza di ciascuno di noi. Ma,
cittadini miei, verrà quel giorno in cui il nobilissimo duca Francesco
piegherà sotto la universal condizione. I sovrani sono soggetti al
destino dell'umanità; muoiono, e dopo un principe umano, benefico,
provvido, siamo noi certi che vi succeda un altro principe erede di sue
virtù? Una rocca inespugnabile, che, torreggiando sulle case nostre,
può incendiarle e distruggerle, in potere di un malvagio principe,
lo rende arbitro assoluto di noi, di tutto il nostro. Appiattato in
quel forte, qual limite aver potranno le violenze, le estorsioni, la
tirannia? Se innalziamo quella fortezza, noi imponiamo al collo dei
nostri discendenti, come a tanti buoi, il giogo della servitù. I nostri
figli malediranno un giorno noi, la nostra spensieratezza, la cecità
nostra. Noi decretiamo la sciagura della patria, e rendiamo i nomi
nostri esecrandi a nostri discendenti. Che bisogno ha mai Francesco
Sforza di una fortezza? I nostri cuori, i nostri petti gli offrono
una più grande, più solida munizione di qualunque altra. Egli non ha
bisogno di castelli per difendere la signoria. Infin che un solo di noi
sarà in vita, combatterà contro chi tentasse di frastornarla. Cittadini
miei, badatemi, parlo per me, parlo per ciascuno di voi; uniformatevi
al mio suggerimento, e siate certi che per tal modo avremo sempre una
delle due buone, o un principe retto o la libertà. I nostri nipoti ci
benediranno, e vivranno lieti e felici, siccome lo siamo ora noi sotto
il governo del clementissimo duca». così parlò Giorgio Piatto, e non
persuase veruno. Egli era uno dei pochi cittadini che avrebbero potuto
reggere lo Stato nel tempo della repubblica, e che giacquero oscuri e
inoperosi. L'unanime consenso della città concluse di pregare il duca
di voler riedificare il castello, quale internamente scorgesi anco
oggidì, cioè un vasto edificio quadrato con quattro poderose torri,
ossia torrioni agli angoli[253]; fortissimi ripari che, sostenendo
grossi pezzi di artiglieria, possono far volare le palle al disopra
della città. Questo rialzamento della fortezza costò più d'un milione
di ducati, ossia di zecchini.

Il regno di Francesco Sforza fu breve, poichè durò sedici anni e non
più. Egli non visse mai in pace, nè potè pienamente rivolger l'animo
alla parte del legislatore ed alla riforma politica della nazione.
Sarebbe troppo noioso il racconto delle minute azioni di queste guerre.
Sopra tutto i Veneziani continuarono a muover le armi contro del
nuovo duca. (1481) Pretendeva egli Bergamo e Brescia, possedute dai
Visconti, e per solo diritto di conquista usurpate durante il dominio
di Filippo Maria. Pretendeva Verona e Vicenza, come il retaggio della
casa Scaligera, terminata nell'ava di sua moglie, cioè nella duchessa
Caterina. Per lo contrario i Veneziani pretendevano di portare il
loro confine all'Adda. Sedicimila cavalieri stavano in campo per
la repubblica di Venezia, e diciottomila ne presentava all'opposto
il duca Francesco. (1482) I Fiorentini erano collegati col duca, i
Savoiardi colla repubblica veneta. Le ostilità non cessarono ancora
per quattro anni da quella parte. (1453) Finalmente, innoltrandosi i
Turchi, padroni di Costantinopoli, verso la Grecia e verso la Dalmazia,
i Veneziani ricorsero alla mediazione di papa Nicolò V, affine di
ottenere la pace col duca, onde poter rivolgere tutte le forze in loro
difesa contro del Turco; (1454) il duca piegossi ai paterni uffici
del sommo sacerdote, e, coll'opera del nobil uomo Paolo Balbo, ai 9
d'aprile del 1454, fu sottoscritta la pace di Lodi, celebre per noi,
poichè oltre le ragioni della casa della Scala, alle quali rinunziò il
duca, cedette pure i suoi diritti sopra Brescia e sopra Bergamo, anzi
abdicò dal ducato la città di Crema e suo territorio, trasferendone
il dominio nella repubblica veneta, che la possedette dappoi. Alle
guerre in séguito che il duca ebbe coi Savoiardi, si pose termine con
una pace che fissò il fiume Sesia per limite ai due Stati. Le città
che formarono lo Stato sotto il dominio del conte Francesco primo duca
Sforza, e quarto duca di Milano, furono quindici, cioè Milano, Pavia,
Cremona, Lodi, Como, Novara, Alessandria, Tortona, Valenza, Bobbio,
Piacenza, Parma, Vigevano, Genova e Savona. Queste due ultime città le
acquistò lo Sforza nel 1464 per la cessione che gliene fece Lodovico
re di Francia; il che non bastando, colle armi sottomise Genova al
suo potere. Come poi il re di Francia, Lodovico XI, avesse fatta
questa cessione, dopo che il di lui padre Carlo VII aveva ricusato di
riconoscerlo per duca, e come a questo segno pregiasse egli l'aiuto e
l'amicizia dello Sforza, ce lo insegnano più autori. La Francia era
immersa nella guerra civile; il re aveva collegati contro di lui il
duca di Calabria, il duca di Borbone, il duca di Bretagna, il duca
di Bari, il duca di Namur, i conti di Charolois, Dunois, Armagnac,
Dammartin; e questa lega, formata contro del re cristianissimo, si
qualificava la _Lega del ben pubblico_. Il re Luigi sommamente onorava
Francesco Sforza, a tale che interamente si reggeva a norma dei
consigli di lui. Il signor Gaillard, uno dei più accreditati scrittori
francesi, dice a tal proposito. — _Les talens politiques de Sforce
égaloient ses vertus guerrières. Louis XI, qui se connoissoit en hommes
habiles, le consultoit comme un sage. Ce fut François Sforce qui lui
traça le plan qu'il suivit pour dissiper la ligue du bien public: aussi
Louis XI ne souffrit-il jamais que la maison d'Orléans, qu'il haïssot,
troubiât Sforce dans la possession du Milanez_[254]. Il Corio dice
che «il re pregò Francesco Sforza, duca di Milano, che gli sporgesse
adiuto»; per lo che il duca preparò un valido esercito, e lo spedì
nella Francia sotto il comando di Galeazzo Maria, conte di Pavia,
di lui primogenito. In quell'esercito servivano da generali Gaspare
Vimercato, Giovanni Pallavicino, Pier Francesco Visconti e Donato da
Milano. Il duca di Savoia accordò il passaggio a quest'armata; la quale
dal Delfinato passò nel Lionese, s'impadronì di Pierancisa, vi pose
comandante Vercellino Visconti, indi, passato il Rodano, postossi sul
Borbonese e servì il re con tanta fermezza e valore che «Sforzeschi
più che huomini erano extimati», dice il Corio, e vennero costretti
i collegati a sottomettersi al re; per lo che quel monarca, l'anno
1466, mandò al duca una solenne ambasciata _per ringraziarlo di tanto
beneficio_: sono parole del Corio. Per tai motivi il re di Francia
cedette al duca tutti i diritti suoi sopra Genova e Savona.

Ma Genova, siccome dissi, fu di mestieri sottometterla colle armi
comandate dallo stesso Gaspare Vimercato che introdusse lo Sforza in
Milano e fu nella spedizione di Francia. I Genovesi, assoggettati,
spedirono a Milano ventiquattro oratori, accompagnati da più di
dugento loro cittadini, e il duca accolse onorevolmente l'omaggio loro,
spesandoli e alloggiandoli signorilmente[255].

Nè soltanto co' Veneti, co' Savoiardi, colla Lega e co' Genovesi fu
costretto a guerreggiare per mezzo de' suoi generali il nuovo duca;
ma ben anco nel regno di Napoli, come ausiliario di Renato d'Angiò,
mantenne le sue schiere. Renato pretendeva quel regno come figlio
adottivo della regina Giovanna II, ed aveva seduto sul trono di Napoli,
come re, sintanto che il più fortunato di lui, Alfonso d'Aragona, ne
lo scacciò, e si pose in suo luogo. Venne a Milano il re Renato, e lo
accolsero il duca e la duchessa Bianca Maria colla dovuta magnificenza.
Egli condusse una squadra di francesi, i quali si unirono cogli
sforzeschi. Il padre della duchessa, diciotto anni prima aveva pure in
Milano alloggiato il re Alfonso d'Aragona, rivale di lui; ma Alfonso
vi dimorò come prigioniero, Renato come amico ed alleato. (1455) Le
avventure poi del regno di Napoli terminarono facendo lo Sforza la
pace col re Alfonso; e questa pace fu convalidata con due nodi di
parentela. Alfonso duca di Calabria, nipote del re Alfonso e figlio di
Ferdinando, sposò la principessa Ippolita, figlia del duca Francesco; e
la principessa Leonora, figlia pure di Ferdinando, fu data in moglie a
Sforza Maria, terzogenito del duca.

Frammezzo a' pensieri militari per difendere lo Stato, rivendicarne
le usurpate membra, il duca Francesco non dimenticò mai le cure d'un
padre benefico de' suoi popoli. Abbellì, ristorò e rese più vasto
il palazzo ducale, fabbricato da Matteo I, ornato poscia da Azzone,
rifabbricato da Galeazzo II, e cadente e quasi abbandonato allorchè
il duca Francesco divenne signore di Milano; poichè Filippo Maria,
come vedemmo, non mai vi alloggiò. Riedificò maestosamente il castello
di porta Giovia, che tuttora è in piedi, sebbene cinto al di fuori
di fortificazioni fattevi durante il governo della Spagna. (1456)
Intraprese e condusse a fine la fabbrica dell'Ospedal maggiore, aperto
indistintamente a sollievo dell'egra umanità, senza risguardo a patria
nè a religione. Il turco, l'ebreo, il cattolico, l'acattolico, purchè
siano ammalati e poveri, ivi trovano ricetto e assistenza. Intraprese
infine e condusse pure al suo termine la grand'opera del canale,
ossia _Navilio_, che da Trezzo conduce a Milano le acque dell'Adda.
Il Decembrio così ci assicura: —[256]_Conversus deinde ad excolendam
urbem, vicis arena latereque constratis, Arcem Portae Jovis; populi
tumultu antea disjectam, e fundamentis erigi magnificentissime
curavit. Curiam etiam priscorum Ducum, vetustate fatiscentem, non solam
restituit, sed ampliavit, ornavitque. Acquaeductum quoque ex Abdua,
defosso solo, per viginti milliaria deduci jussit, quo agri finitimi
irrigarentur, populo que necessariae copiae suppeterent_[257]. (1457)
Questo canale, che chiamasi tra noi _Naviglio della Martesana_[258], fu
progettato l'anno 1457. Bertola da Novate fu l'ingegnere cui Francesco
Sforza trascelse per quest'opera: egli era nostro cittadino milanese.
Fu condotto a termine l'anno 1460[259]. «Le principali difficoltà del
progetto erano di derivare un ramo perenne d'acqua dall'Adda in un
luogo di corso assai rapido, di continuare per alcune miglia il nuovo
cavo in una costa sassosa, e di attraversare con esso il torrente
Molgora e il fiume Lambro[261]». Questo canale è sostenuto dapprincipio
da un argine grandioso di pietra sino all'altezza di 40 braccia sopra
il fondo dell'Adda. La lunghezza del canale è circa di 24 miglia. Il
torrente Molgora vi passa sotto con un ponte di tre archi di pietra.
Il Lambro vi sbocca dentro ad angolo retto, ed a foce aperta con
tutte le piene, e si scarica dalla parte opposta. Il canale, quale fu
fatto dal duca Francesco, era più ristretto di quello che ora noi lo
veggiamo, e venne adattato a questa più comoda guisa l'anno 1573. Il
naviglio sfogavasi per l'alveo del torrente Seveso, nè entrava allora
nella fossa della città, siccome per opera di Lionardo da Vinci si
eseguì con somma maestria l'anno 1497, introducendovi sei sostegni,
ossia _conche_, invenzione allora nuovissima, e per mezzo di cui le
barche ebbero il passaggio dal nuovo canale all'antico[262]. Nondimeno,
porzione dell'acqua cavata dall'Adda e condotta nel nuovo canale,
entrava in Milano ad altri usi, come si prova da memorie conservate
ne' registri della città[263]. Così nello spazio di sedici anni, in
mezzo a guerre continue, malgrado la devastatrice pestilenza, la quale
cominciò appunto colla di lui signoria l'anno 1450, e in Milano estinse
trentamila abitatori, Francesco Sforza ci lasciò un canale navigabile,
un grandioso e ricco spedale, due magnifiche fabbriche, il castello e
la corte ducale, e le vie della città riattate.

Questi sono i pubblici monumenti che ci rimangono del nostro buon
duca Francesco Sforza; ma la storia ci ha conservato de' tratti di
lui che più intimamente ancora ci palesano la di lui anima. Il Corio
ce lo rappresenta così: «Fu questo principe liberalissimo, pieno
de humanitate, e mai veruno di mala voglia se partiva da lui; e
singolarmente honorava li homini virtuosi e docti: contra gli homini
semplici non exercitava alcuna inimicizia. Ma haveva in summo hodio
li versuti e maliciosi. In nissuno fu maggiore observantia di fede:
amò sempre la justizia e fu amatore de la religione: Ebbe eloquenza
naturale, e nulla extimava gli astrologhi». La figura del duca era
sommamente dignitosa. Negli atteggiamenti era elegante e nobile senza
studio alcuno. La statura era più grande della comune degli uomini,
e guardandolo alla fisonomia sola del volto, ognuno ravvisava in lui
un uomo nato per comandare. Non vi fu chi lo superasse, mentre fu
giovine, nella robustezza, ovvero nella agilità. Fu pazientissimo
d'ogni disagio, caldo, freddo, fame, sete: tutto sopportava con
volto sereno. In faccia al nemico non palesò mai, non che timore,
ma nemmeno inquietudine; nè mai si mostrò dolente per le ferite che
riportò. Abitualmente visse sobrio in ogni cosa, moderato alla mensa,
sempre semplice e frugale. Amava di pranzare in compagnia, ed oltre
ai commensali, lasciava a moltissimi la libertà di visitarlo mentre
era a mensa, ed ascoltava quanto ciascuno voleva esporgli con pazienza
e bontà. Poco dormiva, ma quel poco non mai lo perdè, nè per animo
turbato, nè per rumore alcuno: dormiva in mezzo a qualunque strepito.
Egli era dotato di un ingegno penetrante e di una esimia prudenza, per
modo che niente intraprendeva se prima diligentemente non l'avesse
esaminato, ma poich'era deciso, con mirabile magnanimità e celerità
incredibile l'eseguiva. Malgrado la scostumatezza di quei tempi egli
fu sempre alieno dal disordine, nè si lasciò sedurre alla lascivia.
La virtù signoreggiollo per modo, che negli avversi casi non s'avvilì
giammai, e quanto più gli venne prospera la fortuna, tanto più modesto
mostrossi ed incapace di usar contumelia ai nemici, anzi nel corso
intero di sua vita non si vendicò mai[264]. Testimonio ne fu il conte
Onofrio Anguissola, piacentino, il quale, capo della sedizione di
Piacenza, colle armi del duca fu preso. Il duca lo fece custodire
bensì, come era necessario, ma la custodia fu il solo male ch'ei
dovette soffrire. Il Simonetta diffusamente ci informa del suo militare
talento e della mirabile provvisione di lui anche nei dubbi eventi
della guerra, e de' ritrovati impensati e opportuni che venivangli in
mente per superare le difficoltà, e della liberalità e beneficenza sua
abituale e quasi organica e di temperamento. Umano e clemente fu sempre
questo grand'uomo: pronto alla collera, tosto si conteneva, siccome
è l'indole dei generosi, e colui al quale avesse fatto danno o con
parole o altrimenti, non occorreva che chiedesse cosa alcuna, che il
buon principe coi beneficii lo risarciva spontaneamente. Non amava i
lodatori, e conosceva che questa è la maschera seducente colla quale il
vizio insidiosamente si accosta al soglio. Non vi era cosa più sicura
che la fede e la parola di Francesco. Così ce lo descrive il citato
Simonetta, che termina con queste parole:[266] _Sed illud certe ausim
affirmare, post Cajum Julium Caesarem neminem fere habuisse Italiam
reperies, quem jure possis cum uno Francisco Sfortia conferre. Qui
quidem, cum vicisset semper, et victus fuisset numquam, ita diem obiit
ut omnibus de se non minus desiderium, quam fletum relinqueret_[267].

Già da due anni era stato idropico il duca, e sebbene ei nell'aspetto
sembrasse ristabilito, soffriva nelle gambe, le quali anche talora si
gonfiavano. Egli tentò qualche rimedio per ridurle alla loro figura
di prima; e v'è chi attribuisce a tal cagione la quasi improvvisa di
lui morte, accaduta con due soli giorni di malattia. (1466) Il giorno
8 di marzo dell'anno 1466, all'età di sessantacinque anni, dopo sedici
anni di signoria, morì il duca Francesco Sforza. Tutta la città rimase
squallida e desolata a tale inaspettata disgrazia: «Stimando ogniuno,
dice il Corio, non solo havere perduto uno duca, ma uno colendissimo
patre». La duchessa Bianca Maria, sebben colpita da questo impensato
fulmine, s'era addottrinata coll'esempio del marito ad affrontare e
sostenere l'avversa fortuna. Il figlio primogenito, Galeazzo Maria,
in quel punto era nella Francia. Se la duchessa si abbandonava al
femminil dolore, la casa Sforza perdeva la sovranità, alla quale
mancava la sanzione imperiale. Ella si mostrò degna di essere stata
moglie amatissima di Francesco Sforza: compresse il dolore; pensò a
salvare i figli. Con animo virile, la notte medesima, appena spirato il
duca, convocò un consiglio dei primari signori milanesi. Con poche, ma
gravi e accomodate parole raccomandò loro l'ordine pubblico, la fede
verso il sangue del duca. Scrisse immediatamente a tutti i principi
d'Italia la perdita fatta, e richiese il favore di ciascun d'essi a
pro del conte di Pavia, Galeazzo, suo primogenito. Poichè ebbe così
adempiuti con magnanimità i doveri di sovrana e di madre, si pose ad
eseguire quei di moglie, secondo l'usanza di que' tempi. Il cadavere
del duca nel palazzo ducale si espose; e la vedova mai non si dipartì
dal suo fianco, dando segni, come dice il Corio, _d'incredibile amore_.
Il terzo giorno poi, ornato con tutte le insegne ducali, _e cinto
di quella spada la quale fortissimamente in tutte le victorie aveva
usato_[268], venne con magnifica pompa tumulato in Duomo.

Mentre l'imperatore Federico III venne di qua dall'Alpi, e si fece
incoronare in Roma dal papa, egli non toccò nemmeno le terre soggette
allo Sforza, non volendo pregiudicare alle ragioni dell'Impero col
riconoscere per legittimo sovrano e duca l'usurpatore d'un feudo
imperiale, ch'ei non aveva forze per difendere. Era questo un oggetto
importante assai per la dominazione della casa sforzesca, di cui
era mancato il sostegno e lo splendore. Galeazzo Maria, in marzo del
1466, allorchè morì suo padre, era, siccome già dissi, nella Francia,
comandando nel Delfinato l'armata che il duca aveva allestita in
soccorso del re contro la Lega. Appena ricevè l'avviso che spedigli
la madre Bianca Maria, del cambiamento accaduto nella famiglia,
confidò tosto il comando a Giovanni Scipione; e, travestitosi come un
famigliare di Antonio da Piacenza mercatante, s'incamminò per la Savoia
alla volta di Milano. Il giovine Galeazzo aveva ventidue anni; temeva
le insidie del duca di Savoia, il quale sulla dominazione della casa
Sforza pensava di ampliare il suo Stato. Se riusciva di acquistare
Galeazzo Maria per ostaggio, potevasegli far comperare la libertà e
il ducato con qualche notabile sacrificio. Malgrado il cambiamento
del vestito e della condizione, convien credere che egli venisse
riconosciuto, poichè, attorniato da una turba di persone, appena ei
potè ricoverarsi nell'asilo di una chiesa, ed ivi dovette starsene
tre giorni interi; e la seguente notte poi, mercè la cura di un fedele
suo domestico, potè sottrarsi colla fuga, e proseguendo il suo cammino
per dirupi e balze non frequentate, potè finalmente ridursi in salvo.
Pare impossibile che, malgrado il ritardo de' tre giorni dell'asilo,
Galeazzo Maria fosse in Milano dodici giorni dopo la morte del duca: ma
io credo che sino d'allora vi fossero stazioni regolate pel cambio de'
cavalli; tanto più che non si sarebbero potuti altrimenti trasmettere
sollecitamente gli avvisi dell'armata che era nel Delfinato. Il nuovo
duca Galeazzo Maria fece la solenne entrata per porta Ticinese il
giorno 20 di marzo del 1466. Tutto lo Stato di Francesco Sforza,
composto di quindici città nominate disopra, passò al nuovo duca
Galeazzo Maria Sforza. (1467) I sovrani lo riconobbero. Il duca di
Savoia, poichè vide il duca Galeazzo assicurato sul trono, pensò a
stringere non solamente amicizia, ma parentela con esso lui. (1468)
Si conchiusero le nozze; e il duca Galeazzo Maria sposò la principessa
Bona di Savoia, il giorno 6 di luglio dell'anno 1468. Una sorella della
duchessa Bona era sul trono di Francia; e per tal guisa Galeazzo Maria
Sforza, nato in Fermo nella Romagna, il di cui avo cinquant'anni prima
era un avventuriere, divenne cognato del re di Francia.



CAPITOLO XVIII.

  _Del governo del quinto duca Galeazzo Maria Sforza, e della
  minorità del duca Giovanni Galeazzo Maria, sesto duca._


Quando uno Stato, anche vasto, sia accozzato insieme con male arti,
con sorprese, con insidie, con tradimento, al morire del sovrano cessa
il timore ne' sudditi e ne' vicini; e per poco che il successore sia
debole o mancante d'artificio, si scompone, siccome avvenne della
signoria che radunò il primo duca Giovanni Galeazzo. Ma quando per
lo contrario la dominazione s'acquisti col valore personale, e si
innalzi colla generosità della virtù del sovrano, e siavi stato tempo
bastante per imprimere nel cuore degli uomini la riverenza e l'amore
che l'eroismo fa nascere, ancora dopo spento l'eroe, l'ammirazione
e l'affezione dei popoli aiutano il figlio, come parte viva di lui,
e malgrado i difetti e la poca somiglianza che egli abbia col padre,
lo coprono colla di lui gloria. Così accadde al nuovo duca Galeazzo
Maria, il quale poco imitò il magnanimo suo padre. Uno de' primi fatti
di Galeazzo lo svela. La duchessa Bianca Maria, di lui madre, si era
sempre dimostrata ottima moglie, ottima madre, donna di senno, di
cuore e di mente non comune. Il duca Francesco perciò l'aveva onorata
ed amata sommamente. Galeazzo doveva doppiamente il ducato di Milano
a lei, e per nascita, e per l'accorgimento col quale aveva dirette le
cose alla morte del duca Francesco; giacchè, qualora non vi fosse stata
alla testa della signoria una donna del merito di lei, difficilmente
Galeazzo Sforza, assente, avrebbe trovata aperta la via del trono,
dove potè placidamente collocarsi. La Bianca Maria co' saggi consigli
e colla autorità regolava lo Stato unitamente al duca, quasi come
correggente[269]. L'ambizione, la seduzione di consiglieri malvagi
fecero nascere la gelosia del comando; indi la visibile freddezza,
finalmente la discordia palese tra il figlio ed una madre tanto
benemerita. La vedova duchessa preferì la pace e il riposo ad ogni
altra cosa, e divisò di portarsi a Cremona, città sua, perchè recata da
lei in dote, siccome vedemmo; ed ivi, lontana dalle contese, passare
il rimanente de' giorni suoi, non avendo ella allora che quarantadue
anni. Abbandonò la corte burrascosa di Milano; ma a Marignano con breve
malattia terminò di vivere il giorno 23 ottobre 1468; e il Corio a tal
passo soggiugne: «se disse più de veneno che de naturale egritudine».
Temeva il duca che, collocatasi a Cremona, ella potesse collegarsi
co' Veneziani a danno di lui. Simili orrori non sogliono avere molti
testimonii, e lo scrittore contemporaneo non può trasmettere ai posteri
se non la pubblica opinione. Talvolta una maligna voglia di penetrare
ne' misteri della politica segreta forma imputazioni calunniose alla
fama altrui. Egli è però certo che tali nere vociferazioni non si
spargono se non sopra di un principe di carattere non buono. Assolvasi
Galeazzo dal parricidio, egli è sempre un ingrato verso di sua madre.
Appena un anno dopo cessò di vivere Agnese del Maino, di lei madre ed
ava del duca[270].

(1469-1470) Il duca Galeazzo amava la pubblica magnificenza, e a tal
fine comandò che si lastricassero le vie di Milano: «il che non fu
puoca gravezza, ma quasi intollerabile danno», dice il Corio[271].
Francesco di lui padre le fece riattare. Sarà stata una saggia
provvidenza quella di lastricarle solidamente: ma tal riforme di
lusso si fanno giudiziosamente e per gradi. (1471) La pompa del
duca si palesò singolarmente nel maestoso viaggio ch'ei fece colla
duchessa a Firenze l'anno 1471. Condusse egli un tal corredo, che
oggidì nessuno de' monarchi d'Europa penserebbe nemmeno a simile
teatrale rappresentazione. Il Corio ce la descrive minutamente; ed io
la racconterò, perchè simili oggetti danno idea del modo di pensare
di quei tempi. I principali feudatari del duca ed i consiglieri
gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi
d'oro e d'argento; ciascun di essi aveva un buon numero di domestici
splendidamente ornati. Gli stipendiari ducali tutti erano coperti di
velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro.
Altri camerieri aveano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca
avevano la livrea di seta, ornata d'argento. Cinquanta corsieri con
selle di drappo d'oro e stalle dorate; cento uomini di armi, ciascuno
con tale magnificenza, come se fosse capitano; cinquecento soldati a
piedi, scelti; cento mule coperte di ricchissimi drappi d'oro ricamati;
cinquanta paggi pomposamente vestiti; dodici carri coperti di superbi
drappi di oro e d'argento; duemila altri cavalli e duecento muli
coperti uniformemente di damasco per l'equipaggio de' cortigiani.
Tutta questa strabocchevole pompa andava in seguito del duca; ed
acciocchè non rimanesse nulla da bramare, v'erano persino cinquecento
paia di cani da caccia, v'erano sparvieri, falconi, trombettieri,
musici, istrioni. Tale fu il fasto di quel memorando viaggio, che
doveva recare incomodo ed ai sudditi del viaggiatore, ed agli ospiti.
Questa superba comitiva nell'accostarsi a Firenze venne accolta con
somma festa e onore da quel senato. I nobili e i primari della città
si affacciarono i primi: indi molte compagnie di giovani in varie
foggie uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi
le giovani pulcelle, «cantando versi in laude de lo excellentissimo
principe», dice il Corio. Indi, accostandosi alla città, ricevettero
gli ossequi de' magistrati, finalmente gli accolse il senato, che
presentò al duca le chiavi della città. Entrò il duca con una sorta di
trionfo, e venne collocato nel palazzo di Pietro dei Medici, figlio
di Cosimo. Non accadde altra cosa degna d'essere raccontata; basti
osservare che non poteva verun altro monarca essere onorato di più di
quello che furono Galeazzo e la Bona in Firenze. Da Firenze passarono
questi principi a Lucca; ore pure vennero accolti con somma pompa:
anzi vollero i Lucchesi perfino aprire una nuova porta nelle mura
della loro città, onde trasmettere ai tempi a venire memoria di questo
magnifico ingresso. Da Genova poi ritornarono Galeazzo e la Bona a
Milano. Oggidì, che i sovrani hanno nelle mani il potere per mezzo
della milizia stabilmente stipendiata, non si curano più di abbagliare
i popoli.

(1472) Poichè ritornò dal viaggio, il duca pensò a dare una moglie al
di lui figlio primogenito Giovanni Galeazzo, bambino ancora di quattro
anni. Questa fu Isabella d'Aragona, figlia del duca di Calabria Alfonso
e d'Ippolita Sforza, conseguentemente germana cugina dello sposo.
Queste nozze si pubblicarono l'anno 1472. Il duca era strettamente
collegato col cardinale di San Sisto, nipote ed assoluto padrone di
papa Sisto IV: l'oggetto della reciproca unione era la loro fortuna.
Il duca doveva adoperarsi per fare papa il cardinale colla rinunzia
dello zio. Il cardinale, asceso al sommo pontificato, doveva innalzare
lo Sforza incoronandolo re d'Italia, ed aiutandolo a ricuperare tutte
le città già possedute dal primo duca. I Veneziani non potevano essere
contenti di un tal progetto che loro toglieva tutta la terra ferma.
Malgrado lo studio di celare questa trama politica, convien credere
ch'essi ne avessero qualche contezza. Il cardinale, ch'era stato
magnificamente accolto in Milano, bramò di vedere Venezia; e quantunque
cercasse di dissuadernelo il duca, egli volle insistere e passarvi.
(1473) A tale proposito dice il Corio: «Da quello senato fu grandemente
honorato, e per la intrinseca amicizia quale enteseno Veneziani avere
lui con Galeazzo Sforza fu affirmato havergli dato il veneno; impero
che in termine de puochi giorni, pervenuto a Roma, abbandonò la
vita[272]». Io non sono mallevadore de' sospetti di quei tempi: bastano
però per far conoscere qual fede e quanta umanità regnassero, se così
si giudicava dei governi. (1474) In mezzo ai sospetti di veleno, in
mezzo alle asiatiche pompe, in mezzo ai gemiti de' popoli, oppressi
dalla mole di tributi corrispondenti a quelle, l'anno 1474, il 15
marzo, venne a Milano il re d'Ungheria e di Boemia, Mattia I. Egli
s'era reso padrone dell'Ungheria, scacciandone Casimiro, figlio del
re di Polonia, e s'era impadronito della Boemia, scacciandone Giorgio
Podiebrad. Egli era stato in pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia, e
passava di ritorno a Milano. Galeazzo, che stipendiava cento cortigiani
e cento camerieri, e pomposamente vestivagli, alloggiò l'ospite nel
palazzo ducale colla magnificenza e profusione degna di lui. Mostrò
a quel re il suo tesoro, valutato due milioni d'oro, oltre le gioie,
le quali valevano circa un altro milione. Il re Mattia chiese un
prestito dal duca: ed egli gli fe' consegnare diecimila ducati, ossia
zecchini. Dopo lautissimo ed onorevolissimo trattamento prese commiato
il re, e poi ch'egli fu nell'Ungheria, si lusingò il duca ch'egli
avrebbegli concesso di comprarvi dei cavalli. (1475) A tal fine spedì
nell'Ungheria Bernardino Missaglia, suo famigliare, con molta somma
di denaro. Il re fece imprigionare il Missaglia, e tolsegli i denari
confidategli dal duca; a stento finalmente gli permise di ritornarsene
a Milano: così narra il Corio[273]. (1476) La fama della casa Sforza
era giunta a segno, che persino il soldano d'Egitto spedì al duca
ambasciatori; e questi vennero a Milano nell'ottobre del 1476, accolti,
alloggiati, regalati splendidamente dal duca. Il duca Carlo di Borgogna
tentava d'impadronirsi della Savoia. Nè alla Francia piaceva questo, nè
al duca Galeazzo; una bellicosa e potente nazione vicina non conveniva;
e Galeazzo aveva di più per moglie Bona, principessa di Savoia. Il
duca Galeazzo si collegò col re di Francia, indi spinse l'armata
contro de' Borghignoni; e felicemente gli sforzeschi fecero ritirare
i nemici fino alle Alpi. Il rigido inverno non permise di portare più
oltre l'impresa; onde il duca Galeazzo ridusse a quartiere i soldati,
aspettando la primavera per ripigliare la guerra e discacciare affatto
dall'usurpato paese i Borgognoni, e ritornossene a Milano, ove di lì a
poco morì.

Le circostanze della morte del duca Galeazzo Maria Sforza ci sono
minutamente trasmesse dagli scrittori di quel tempo; e siccome sono
feconde nelle loro conseguenze, io non le ometterò. Gli storici di
quel tempo ci hanno lasciata memoria degli auguri sinistri pe' quali
credettero presagita la sciagura di quel sovrano. Mentre il duca
Galeazzo Maria trovavasi in Abbiategrasso, comparve una cometa, e
questo è il primo infausto presagio. Il secondo fu che in Milano
il fuoco prese nella stanza in cui egli soleva abitare. Ciò inteso,
Galeazzo quasi più non voleva riveder Milano; pure vi s'incamminò,
e mentre da Abbiategrasso cavalcava verso la città, tre corvi
lentamente passarongli sul capo gracchiando, il che cagionogli tanto
ribrezzo, che, poste le mani sull'arcione, rimase fermo; poi volle
superarsi, e proseguendo venne a Milano. Così allora si pensava; e
tali pusillanimità cadevano anche in uomini di coraggio militare, come
era il duca. Conciossiachè l'uomo ardisce di affrontare un pericolo
conosciuto, e cimentarsi contro altri uomini; ma contro potenze
invisibili ed invulnerabili il sentimento delle proprie forze lo
abbandona. Ai soli progressi della ragione siamo debitori noi viventi
della superiorità nostra. Per lei siamo liberati da una inesauribile
sorgente d'inquietudini; per lei finalmente sappiamo che la nebbia
impenetrabile entro cui sta celato il nostro avvenire, è un benefizio
della Divinità; e sappiamo per lei che la sommissione rispettosa
ai decreti della Provvidenza, è il più saggio ed utile sentimento
dell'uomo.

La vigilia di Natale, verso sera, il duca, secondo l'usanza, scese
nella gran sala inferiore del castello, dove stava d'alloggio; ed a
suono di trombe e con stupendissimo apparato vi scese colla duchessa
Bona e co' suoi figli. I due fratelli del duca, Filippo ed Ottaviano,
portarono il così detto _zocco_ e lo collocarono sul fuoco. Gli altri
tre fratelli del duca erano assenti. Ascanio in Roma; e Lodovico e
Sforza, duca di Bari, erano rilegati da Galeazzo nella Francia. Così si
soleva in que' tempi radunare la famiglia al Natale. Il giorno vegnente
poi nuovamente radunossi con varii cortigiani, e il duca in circolo
parlò della casa Sforza; e noverando i fratelli suoi, i cugini, i figli
in numero di dieciotto, tutti di età fresca, osservò che per secoli non
sarebbe finita. Pranzò in pubblico. Il giorno poi di santo Stefano dal
castello s'incamminò a cavallo con tutto il corteggio per ascoltare
la messa nella chiesa collegiata di detto santo, ove, giunto, da tre
nobili giovani venne con più pugnalate ucciso al momento. I congiurati
furono Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti.
I due primi erano cortigiani del duca. Giovanni Andrea finse di volere
far largo al duca; ed avventandosegli pel primo, lo ferì nel ventre,
e gl'immerse nuovamente il coltello nella gola. Frattanto Girolamo lo
trafisse alla mammella sinistra, poi nella gola, indi nelle tempie.
Carlo, nel tempo stesso, nella schiena e nella spalla lo colpì con due
ferite pure mortali. Il duca appena potè esclamare: _Oh nostra Donna!_
e cadde all'istante là nella chiesa. Così terminò la sua vita il duca
Giovanni Galeazzo il giorno 29 dicembre del 1476, dopo dieci anni di
sovranità, all'età di trentadue anni. La serie di questa congiura è
nota, e si è anche più conosciuta col dramma: la _Congiura contro di
Galeazzo Sforza_; tragedia di sentimenti grandi, arditi, liberi; piena
di lezioni utili ai principi, utili ai sudditi; che ci rappresenta
la tirannia co' suoi tratti odiosi, il fanatismo pericoloso, quando
anche nasca da nobili principii; che interessa e sviluppa un'azione
che è la sola della nostra storia posta sul teatro, e la presenta col
costume de' tempi; tragedia che sgomenta le anime gracili, e scuote
deliziosamente le energiche. La storia è adunque che in Milano eravi
un uomo d'ingegno, erudito, eloquente e di sentimenti arditi, che
aveva nome _Cola Montano_: si dice ch'ei fosse bolognese[274]. Egli
viveva col mestiere delle lettere, ed era un rinomato maestro, alla
scuola di cui varii giovani nobili andavano per istruirsi. Taluno,
assai versato negli aneddoti, mi asserì che questo Colo Montano fosse
stato dileggiato dal duca Galeazzo Maria. Concordemente la storia
c'insegna che Montano ne' suoi precetti sempre instillava nel cuore de'
suoi nobili alunni l'odio contro la tirannia, la gloria delle azioni
ardite, la immortalità che ottiene chi rompe i ferri alla patria, e
la rende libera e felice. Egli animava gli alunni suoi a mostrare una
virile fermezza, ad amare la vigorosa virtù, a cercar fama con fatti
preclari. Poichè co' discorsi e cogli esempi della virtù romana ebbe
trasfuso il fanatismo nelle vene bollenti degli scolari, egli coglieva
l'occasione che il duca colla pompa accostumata passasse davanti la
scuola; e trascegliendo i più ardenti ed audaci, mostrava loro un
Tarquinio nel duca ed una mandra di schiavi, buffoni effeminati ne'
suoi magnifici cortigiani, veri sostegni della tirannia e pubblici
nemici. Confrontavali co' Cartaginesi, co' Greci, co' Metelli, co'
Scipioni romani. Giunti al grado del fervore al quale cercò di ridarli,
collocò alcuni di essi al mestiere delle armi sotto Bartolomeo Coleoni,
acciocchè imparassero a conoscere i pericoli, ad affrontarli, a
ravvisare le proprie loro forze[275]. Condotta la trama al suo termine,
finalmente furono trascelti quei che egli giudicò più adattati; e
furono appunto Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo
Visconti. Si pensò con un colpo ardito di liberare la patria, mostrando
quanto sarebbe facile l'impresa, purchè i cittadini si ricordassero
soltanto d'essere uomini. Avanti la statua di sant'Ambrogio venne
congiurata la morte del tiranno Galeazzo Maria, usurpatore del trono,
oppressore della libertà che pur godevasi ventisei anni prima, nimico
della patria, impoverita colle enormi gabelle ed insultata col lusso
di un principe malvagio. Così formossi segretamente la trama, che
scoppiò prima che alcuno ne sospettasse. Giovanni Andrea Lampugnano,
appena fatto il colpo, cadde poco lontano dal duca, ucciso da un
domestico ducale. Girolamo Olgiato, che aveva ventitre anni, si
sottrasse col favore della confusione, e ricoveratosi presso di un buon
prete, aspettava di ascoltar per le vie della città gli applausi per
l'ottenuta libertà, ed impaziente attendeva il momento per mostrarsi
come liberatore della patria. Ma udendo invece gli urli e lo schiamazzo
della plebe che ignominiosamente strascinava per le strade il cadavere
del Lampugnano, s'avvide troppo tardi dell'error suo, perdè ogni
lusinga, e venne imprigionato. Dal processo che se gli fece, si seppe
la trama. Non mi è noto qual fosse il fine di Cola Montano. L'Olgiato
morì nelle mani del carnefice con sommo coraggio. Il ferro che colui
adoperava era poco tagliente; ma egli animò il carnefice, e lo s'intese
pronunziare queste parole:[276] _Stabit vetus memoria facti._ Bruto,
Cromwel, Olgiato hanno fatto a un dipresso la stessa azione. Il primo
viene spacciato per un modello di virtù gentilesca: il secondo ha la
celebrità di un atroce ambizioso: il terzo non ha nome nella storia. Le
circostanze decidono della fama, singolarmente nelle azioni violente,
le quali si biasimano, ovvero si lodano a misura del male, o del bene
che produssero poi. Il Corio, che ci lasciò descritto il fatto, era
testimonio di veduta; e come cameriere ducale, era nel séguito del
suo sovrano, quando venne ucciso. Ei ci racconta i vizj del duca,
anzi i suoi delitti. Galeazzo interpellò un povero prete che faceva
l'astrologo, per sapere quanto tempo avrebbe regnato. Il prete diedegli
in riscontro ch'ei non sarebbe giunto all'anno undecimo. Galeazzo lo
condannò a morir di fame. Egli per gelosia fece tagliare le mani a
Pietro da Castello, calunniandolo come falsificatore di lettere. Egli
fece inchiodare vivo entro di una cassa Pietro Drego, che così venne
seppellito. Egli scherzava con un giovine veronese, suo favorito, e
lo scherzo giunse a tale di farlo mutilare. Un contadino che aveva
ucciso un lepre contro il divieto della caccia, venne costretto ad
inghiottirlo crudo colla pelle, onde miseramente morì. Travaglino,
barbiere del duca, soffrì quattro tratti di corda per di lui comando,
e dopo continuò quel principe a farsi radere dal medesimo. Egli avea
un orrendo piacere rimirando ne' sepolcri i cadaveri. Univa a tutte
queste atrocità una sfrenata libidine, anzi una professione palese
di scostumatezza, costringendo a prostituirsi anche a' suoi favoriti
quelle che cedevano alle brame di lui. Avidissimo di smungere danaro
ai sudditi, gli opprimeva colle gabelle, non mai bastanti alle
profusioni del di lui fasto. Oltre la splendidissima corte, teneva il
duca Galeazzo Maria duemila lance e quattromila fanti stabilmente al
di lui soldo. Il Corio dice ch'egli amasse gli uomini probi e colti,
e fosse sensibile alle belle arti: io non trovo che tali inclinazioni
sieno combinabili colle antecedenti, e sicuramente nessun vestigio
ne è rimasto del suo regno. Egli fu ben diverso dal buon Francesco
di lui padre! I fratelli Baggi, Pusterla e del Maino aveano ucciso
Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, in San Gottardo, e vennero
applauditi. Il destino del Lampugnano e dell'Olgiato fu opposto. Credo
che la gloria del duca Francesco, la prudenza della duchessa Bianca
Maria, l'eccesso del fasto di Galeazzo, e la memoria delle miserie
sofferte nell'interregno della repubblica sieno state le cagioni della
diversità. Sì l'uno che l'altro attentato furono commessi nella chiesa;
come nella chiesa, anzi nel più sacro momento del rito, un anno dopo a
Firenze, Giuliano de' Medici ebbe il medesimo destino.

Il merito principale nell'aver conservata la città tranquilla in mezzo
a tale scossa improvvisa, l'ebbe Francesco Simonetta, che si chiamava
_Cicho_ Simonetta. Egli era stato il primo ministro e l'amico del
duca Francesco; uomo di Stato e di molta virtù, e tale che, allorchè
Gaspare Vimercato, a cui Francesco in parte doveva e Milano e Genova,
ardì parlargliene svantaggiosamente, il duca freddamente risposegli:
essere tanto necessario a lui ed allo Stato Cicho, che s'ei morisse, ne
avrebbe fatto fabbricare uno di cera. La vedova duchessa Bona lasciò
che Cicho disponesse ogni cosa. Egli si servì del conte Giovanni
Borromeo per tenere in calma la città. Il Borromeo possedeva la
fiducia di ognuno, e il Corio dice che questo _perhumanissimo conte_
era tanto abituato alla buona fede, che il pretendere da lui cosa
alcuna contro la ragione, o contro la virtù, sarebbe stato lo stesso
che volere strappar dalle mani d'Ercole la clava, suo malgrado. Fu
tumulato Galeazzo Maria coll'ordinaria pompa ducale. La vedova lo fe'
vestire col manto d'oro; e fece chiudere nel sarcofago tre preziose
gemme. Il figlio primogenito Giovanni Galeazzo venne proclamato duca,
sebbene nell'età di sei anni. Simonetta abolì tutte le gabelle imposte
recentemente. Confermò gli stipendiati. Fece compra di grano, e ne fece
largizioni alla plebe, che penuriava; e ciò sotto nome della duchessa
Bona, dichiarata tutrice del nuovo duca. Simonetta reggeva tutto come
segretario di Stato.

V'erano due supremi consigli. Quello di Stato si radunava nel castello
avanti al sovrano o la tutrice; quello di giustizia si radunava nella
corte ducale di Milano. Lodovico e Sforza, fratelli del defunto duca,
immediatamente dalla Francia, ove tenevali rilegati il fratello
Galeazzo, volarono a Milano; lusingandosi, come zii del duca, di
prendere le redini del comando. Simonetta li destinò con onore a
presedere al consiglio supremo di giustizia. Fremevano vedendosi così
delusi; ma il marchese di Mantova e il legato pontificio, venuti per
ufficio alla corte di Milano, tentarono di calmare i loro animi; e
restò concluso che si pagassero ogni anno dodicimila e cinquecento
ducati a ciascuno degli zii del duca, e che si assegnasse a ciascuno
un palazzo in Milano, e così uscissero dal castello. I fratelli del
duca Galeazzo, zii del vivente, erano cinque, cioè Sforza, Filippo,
Lodovico, Ascanio e Ottaviano.

(1477) Genova si ribellò. Dodicimila uomini vennero spediti per
sottometterla. Se ne confidò il comando a Lodovico ed Ottaviano,
fors'anco per allontanarli. L'impresa riuscì bene, poichè, malgrado la
vigorosa resistenza de' Genovesi, gli sforzeschi se ne impadronirono;
e il giorno 9 di maggio 1477 resero i Genovesi nuovamente omaggio al
duca[277], ritornarono a Milano Lodovico ed Ottaviano colla benemerenza
di tale vittoria. Simonetta teneva l'occhio sopra di essi. Venne
imprigionato un confidente di questi due principi, da cui seppe le
trame che ordivano contro lo Stato. I due fratelli pretesero che il
loro confidente venisse liberato; e ciò non ottenendo, posero mani
all'armi, e sollevarono più di seimila persone in Milano. La duchessa
e Simonetta stavansene nel castello; e in esso, dalla parte esterna,
fecero entrare tutte le genti d'armi vicino a Milano, il che bastò
per far deporre le spade. Ottaviano non volle fidarsi del promesso
perdono, e se ne fuggì; e, giunto a Spino, vicino a Lodi, temendo
di essere arrestato, si avventurò a passar l'Adda, e vi si affogò
cadendo da cavallo, il che avvenne l'anno 1477. Egli aveva 18 anni; il
di lui cadavere si ritrovò poi, e venne tumulato in Duomo. Simonetta
fece formare un processo della sedizione, e risultò che gli zii del
duca aveano tramato di togliergli lo Stato. Indi vennero relegati,
Sforza, duca di Bari, nel regno di Napoli, Lodovico a Pisa ed Ascanio a
Perugia.

Sforza, trovandosi nel regno di Napoli, mosse il re Ferdinando in favor
suo e de' fratelli; e naturalmente la principessa Ippolita, sorella
de' relegati, vi avrà contribuito. Il re Ferdinando di Napoli animò
i Genovesi a sottrarsi e prendere il partito degli esuli fratelli;
animò gli Svizzeri a fare delle incursioni nel milanese; Sforza, duca
di Bari, malgrado la relegazione, da Napoli passò nel Genovesato, ed
ivi morì. (1479) Il ducato di Bari dal re di Napoli venne infeudato
a Lodovico Sforza, detto il _Moro_, il quale con ottomila combattenti
da Genova s'innoltrò nel milanese, ed occuponne tutta la porzione sino
al Po. Ciò accadde l'anno 1479. Lodovico però faceva dovunque gridare:
_Viva il duca Giovanni Galeazzo_, e protestava di aver mosse le armi in
soccorso del nipote per liberarlo dalla tirannia del Simonetta e da'
cattivi consiglieri. Il duca era fanciullo di dieci anni. La duchessa
Bona era una bella principessa, e non per anco avea passata l'età
della debolezza, ed era più donna che sovrana. Eravi alla corte certo
Antonio Trassino, ferrarese, uomo di bassi natali, e stipendiato come
scalco; giovane però di ornata ed elegante figura, al quale la duchessa
senza riserva confidava tutto ciò che si faceva dal Simonetta e nel
consiglio. Il Simonetta, sendosene avveduto, trascurava quell'indegno
favorito; ma non osava di più. Trassino, che si vedeva rispettato da
ognuno e dal solo Simonetta disprezzato, lo abborriva. Questo Trassino
fu il mezzo per cui Lodovico segretamente si riconciliò colla duchessa.
Improvvisamente Lodovico staccossi dal suo esercito, e comparve nel
castello di Milano il giorno 7 di settembre 1479; il che sorprese il
Simonetta. La duchessa e il duca lo accolsero come un cognato ed uno
zio amico, e venne alloggiato nel castello. Cicho Simonetta venne
accolto da Lodovico con apparente amicizia e stima, come un vecchio
ministro benemerito; ma egli non si lasciò ingannare, e nel momento
in cui potè abboccarsi colla duchessa, le disse: _Signora, io perderò
la testa e voi lo Stato._ (1480) E infatti il giorno 30 di ottobre del
1480, a Pavia, gli venne troncata la testa all'età di settant'anni; al
quale destino, sebbene ingiusto, si piegò colla costanza e magnanimità
che doveva coronare la virtuosa di lui vita. Cicho era fratello di
Giovanni Simonetta, autore della storia sforzesca, e in vita e in morte
Cicho si mostrò degno di essere stato l'amico di Francesco Sforza. Si
fecero allora i quattro versi seguenti:

    _Dum fidus servare volo patriamque ducemque,_
      _Multorum insidiis proditus, interii._
    _Ille sed immensa celebrari laude meretur,_
      _Qui mavult vita, quam caruisse fide._[278]

Come poi venisse abbandonato a così indegno destino un ministro tanto
illibato ed illustre, ce lo dice il Corio; cioè per la fazione de'
nemici, i quali giunsero a prendere le armi contra lo stesso Lodovico,
avendo alla testa Federico marchese di Mantova, Guglielmo marchese di
Monferrato, Giovanni Bentivoglio ed altri illustri personaggi, i quali
obbligarono Lodovico a far imprigionare il Simonetta, che, malgrado
la protezione e gli uffici di altri principi, venne abbandonato alla
vendetta de' nemici che gli avea conciliati la passata fortuna, e
fors'anco la stessa sua virtù.

Poco tardò a verificarsi il rimanente del vaticinio del Simonetta.
(1481) Il favorito della duchessa Trassino, accecato, siccome avviene
alle anime basse, dalla prospera fortuna, mancando ai riguardi ch'egli
dovea verso Lodovico, venne scacciato nel 1481, e portò seco a Venezia
un tesoro di gioie e di denaro. La duchessa si avvilì talmente, che
rinunziò a Lodovico la tutela con un atto solenne[279], sperando con
ciò di rimaner libera, ed uscendo dallo Stato rivedere il favorito: ma
il primo uso che Lodovico fece del potere confidatogli, fu d'impedirle
l'uscita dello Stato, e ad Abbiategrasso venne arrestata. Così
Antonio Trassino, senza saperlo, fu quegli per cui la casa Sforza poi
perdette lo Stato: i Francesi occuparono il ducato, gl'Imperiali gli
scacciarono; e si formò un nuovo ordine di cose per tutta l'Italia,
come in appresso vedremo. Le debolezze di una donna, e la bella figura
di uno scalco fecero maggior rivoluzione nel destino d'Italia, di
quello che non avrebbe fatto un gran monarca od un conquistatore.

(1482) L'Italia si pose in armi l'anno 1482, e per due anni ne sopportò
i mali. Il re di Napoli Ferdinando e i Fiorentini erano collegati
cogli Spagnuoli. I Veneziani, il Papa e i Genovesi erano riuniti nel
contrario partito. Il Papa abbandonò poscia i Veneziani e si unì agli
sforzeschi. Non nuoce punto l'ignoranza di questi minuti avvenimenti
guerreschi; anzi la scienza di essi è atta soltanto a caricare
confusamente la memoria, a scapito degli avvenimenti degni della nostra
attenzione. V'era in Milano un partito contrario a Lodovico il Moro;
alcuni per compassione della duchessa Bona, altri per avversione al
carattere ambizioso di Lodovico, altri per vendicare le ceneri del
virtuoso Simonetta, altri infine per la naturale lusinga di viver
meglio. (1485) Venne cospirato di togliere dal mondo Lodovico Sforza;
e fu concertato che il giorno 7 di dicembre l'anno 1485, venendo
egli, secondo il costume, alla chiesa di Sant'Ambrogio, quivi fosse
trucidato. Il colpo andò a vuoto; atteso ch'egli vi fu bensì, ma
entrovvi per una porta alla quale non eranvi le insidie. Se ciò non
accadeva, egli spirava trafitto come il fratello, come il duca Giovanni
Maria, come Giuliano, fratello di Lorenzo de' Medici. Non credo che i
Gentili abusassero a tal segno de' sacri tempii.

(1489) Il duca di Bari, Lodovico il Moro, poichè Giovanni Galeazzo, suo
nipote, duca di Milano, giunse all'età di venti anni nel 1489, pensò
di accompagnarlo colla principessa Isabella di Aragona, a cui era già
stato promesso dal defunto duca. Ermes Sforza e il conte Gian Francesco
Sanseverino furono destinati ambasciatori alla corte di Napoli per tal
solenne inchiesta. Il Calco ce ne rappresenta la pompa. Erano questi
accompagnati da trentasei giovani nobili milanesi. Fra essi vi fu una
gara maravigliosa nel cambiare vestiti magnifici; chi dieci, chi dodici
e chi sedici domestici conduceva seco, nobilmente vestiti di seta,
con gemme e perle all'armilla del braccio sinistro. L'usanza di queste
armille, ossia braccialetti gemmati, costava assai; poichè i padroni
ne avevano al loro braccio del valore di settemila fiorini d'oro,
ossia zecchini. Il Calco dice che veramente sembravano tanti sovrani,
e portavano collane pesantissime d'oro della grossezza di un pollice.
Questa comitiva giunse a Napoli, ed era composta di circa quattrocento
persone. Tutto ciò che mostra il costume dei rispettivi tempi, debbe
aver luogo nella storia[280]. Perciò riferirò il magnifico pranzo che
si presentò in Tortona alla sposa, a guisa di un'accademia poetica.
Ogni piatto era presentato da una persona vestita poeticamente, e
l'abito era relativo alla cosa che presentava. Giasone compariva
portando il velo d'oro rapito in Colco. Febo offeriva il vitello rapito
dalla mandra di Admeto. Diana poneva sulla mensa Atteone trasformato
in cervo; e come la dea avea cambiato un uomo in un animale, augurava
che questi si trasformasse in un uomo nel seno d'Isabella. Orfeo
presentò diversi uccelli, ch'ei diceva essergli volati intorno per
l'armonia della sua cetra or ora, mentre sull'Appennino cantava le
divine sue nozze. Atalanta portava il cignale caledonio, da tanti
secoli custodito, offrendo volentieri a sì illustre principessa quel
trionfo, riportato in faccia di tutta la gioventù della Grecia. Iride
venne poi offrendo un pavone tolto dal carro di Giunone, e rammentò
il destino di Argo. Ebe, figlia di Giove e ministra di néttare ed
ambrosia tolta dalla cena de' Numi, porse i vini più pregiati. Apicio
dagli Elisii portò i raffinamenti del gusto, formati di zucchero. I
pastori d'Arcadia presentarono varie cose di latte, giuncate, ricotte,
caci, ec. Vertuno e Pomona posero sulla mensa frutti rarissimi, e
perchè era inverno. Poi le Najadi, dee dei fonti, portarono pesci.
Glauco portò frutti e pesci marini. Il Po, l'Adda, Silvano offerirono
i pesci dei fiumi e laghi maggiori. Terminata la mensa, proseguì
uno spettacolo composto degli attori medesimi, allusivo alle nozze.
I costumi erano allora, come si scorge, ingentiliti e quasi troppo
ricercati e rimoti dalla natura. Però si conosce che generalmente
doveva essere colta la nobiltà del paese, e sapere la favola e
gustare la poesia. La maggior parte di questi personaggi presentò le
vivande cantando versi appropriati. Ciò basti dal Calco. La sposa da
Vigevano venne al castello di Abbiategrasso; d'onde sul canale detto
_Naviglio grande_ passò a Milano il giorno primo di febbraio del 1489,
accompagnata dalla duchessa Bona, dal duca di Bari Lodovico, da don
Fernando d'Este e da molti altri signori e matrone della più illustre
nascita, e dagli oratori di quasi tutt'i principi d'Italia. Il giorno
2 febbraio uscirono gli sposi dal castello in abito bianco; ed alle
staffe eranvi il conte Giovanni Borromeo e Gianfrancesco Pallavicino,
primari vassalli. Lodovico il Moro cavalcava in séguito alla testa
dei principali ministri. Le vie erano tutte coperte dal castello al
Duomo di parati magnifici. Così celebraronsi le nozze del sesto duca
Giovanni Galeazzo Sforza. Queste nozze ci fanno dubitare che allora
forse Lodovico non avesse in mente il progetto di usurparsi il ducato
di Milano.

Lodovico reggeva lo Stato come governatore a nome del duca, e nelle
monete eravi da una parte l'immagine del duca: _Johannes Galeaz Maria
Sfortia Vicecomes Dux Mediolani Sextus_, e dall'altra l'immagine
di Lodovico colla leggenda: _Ludovico Patruo gubernante_. Ma questo
governatore sotto varii pretesti rimosse dalle fortezze i castellani
affezionati al duca, e sostituì uomini interamente dipendenti da
esso Lodovico. (1491) Poi pensò ad ammogliarsi: e l'anno 1491,
al 31 gennaio, condusse a Milano la sua sposa, la principessa
Beatrice d'Este. Ella aveva diecisette anni, Ludovico contava il
quarantesimo[281]. Si fecero pompe grandissime per queste nozze, e
il Calco le descrive. Allora l'abito de' dottori collegiati era più
allegro di quello che ora lo sia:[282] _Purpureis vel coccineis togis
fulgentes_ comparvero in quelle feste; e gli abiti delle matrone
erano[283] _falcatis infra ubera pectoribus, ac pallio, ritu gabino,
dextro ab humero laevum in latus subducto_. Avevano le matrone un lungo
strascico, ed era pomposo, elegante e grave il loro vestito, in guisa
che ballavano con graziosa lentezza:[284] _Modicè et venuste_, dice
il Calco. Per questi sponsali si fecero pure magnifiche giostre: «ed
il pretio de sì illustrata giostra per egregia virtute hebbe Galeazzo
Sanseverino e Giberto Borromeo».

Poste a convivere insieme le due principesse, cioè la duchessa Isabella
e la principessa Beatrice, duchessa di Bari, nacquero de' dissapori.
Isabella, come moglie del duca regnante, pretendeva d'essere sola
sovrana; e che Beatrice fosse considerata suddita. Isabella era
figlia di un re. Beatrice, moglie del tutore del duca, considerava
la duchessa come la pupilla. L'avo d'Isabella era Ferdinando nato da
illegittima unione. Le meschine vicende della casa di Aragona nel regno
di Napoli erano argomenti di cronologia contraposti all'illustre sangue
estense[285]. (1492) Il fatto di tai domestici partiti fu che Lodovico
il Moro si rese padrone dell'erario, e passò a disporre il tutto da sè.
Promoveva alle cariche, faceva le grazie, appena lasciava al nipote
il nome di duca. Il duca Giovanni Galeazzo e la duchessa Isabella
scarsamente erano alimentati e penuriavano d'ogni cosa, sebbene fosse
già feconda la duchessa d'un bambino, nato in febbraio 1491. Posta in
tale angustia la Isabella, trovò modo di renderne informato Alfonso,
di lei padre. Il re di Napoli spedì a Lodovico il Moro i suoi oratori,
i quali, con somme lodi innalzando quanto come tutore aveva fatto,
conclusero chiedendogli che abbandonasse il governo dello Stato al duca
Giovanni Galeazzo, che già contava il vigesimo terzo anno dell'età
sua. Lodovico trattò con onorificenza gli oratori del re Ferdinando,
avo della duchessa; ma sul proposito di rinunziare al governo non diè
risposta alcuna.

(1493) Dopo di ciò Lodovico il Moro attentamente osservava i movimenti
del re di Napoli. Seppe che si allestiva un'armata contro di lui, e
si preparava una flotta a cui doveva comandare Alfonso, padre della
duchessa, principe valoroso e prudente. A un tal nembo avrebbe potuto
resistere Lodovico colle forze proprie, se avesse potuto fidarsi de'
sudditi che governava. In ogni governo vi è sempre un buon numero di
malcontenti, essendo le voglie de' popoli sempre maggiori del potere
sovrano; e questi malcontenti avrebbero abbracciato il partito del loro
sovrano, l'oppresso duca Giovanni Galeazzo, di cui la condizione moveva
a pietà, sì tosto che si fosse avvicinata un'armata a sostenerlo.
Conveniva suscitare un potente nemico all'aragonese re di Napoli, e
distoglierlo così dal pensiero degli Stati altrui, per difendere il
proprio. Carlo VIII, re cristianissimo, era nel bollore dell'età; aveva
ventiquattro anni; amava le imprese grandi; era capace di riscaldarsi
l'animo. Lodovico, che aveva vissuto alcuni anni nella Francia e
conosceva la nazione, formò il progetto di far prendere le armi al re
Carlo, per ricuperare il regno di Napoli. Spedigli come ambasciadore
Carlo Barbiano, conte di Belgioioso, il quale lo animò a scacciare da
Napoli gli usurpatori aragonesi, e rivendicando le ragioni della casa
d'Angiò, unire quel regno alla corona di Francia. Il re aveva già in
mente di frenare i Turchi, che minacciavano la cristianità; e nessun
paese era a ciò più vantaggioso, quanto il napoletano. Oltre a ciò si
rappresentò al re Carlo, che il denaro di Lodovico, le sue milizie
erano agli ordini suoi, i desiderii de' Napoletani erano per lui; i
principi d'Italia, il papa, i Fiorentini, i Veneziani, tutti avrebbero
favorita la impresa. Così offerivasi a Carlo VIII di rinnovare
nell'Italia la memoria di Carlo Magno. Già i Turchi minacciavano la
Dalmazia e l'Ungheria. La gloria di salvare i regni cristiani era
riserbata al primogenito fra i cristiani, il re di Francia. In tal
guisa il conte di Belgioioso destramente persuase il re. Vinse colle
maniere accorte e col denaro di Lodovico alcuni primari favoriti.
L'impresa venne decisa, e il re, convocati gli Stati a Tours, pubblicò
la guerra pel regno di Napoli; ed ivi anticipatamente distribuì i
feudi di quel regno, e si appropriò il titolo di re di Gerusalemme e
di Sicilia, oltre quello di re di Francia. Alcuni ministri francesi,
per comandare più liberamente colla lontananza del re, applaudirono. Vi
era chi conosceva non essere facile l'impresa; essere il re Ferdinando
avveduto; essere valoroso Alfonso di lui figlio; aver essi il fiore
della milizia al loro stipendio; essere tuttora dubbioso qual partito
prenderebbero il papa, i Fiorentini e i Veneziani; doversi temere
l'imperatore Massimiliano e il re di Spagna Ferdinando, pronti forse ad
invadere la Francia, se ella rimaneva sprovveduta.

Lodovico si adoperò per togliere le dissensioni fra Massimiliano
imperatore e Carlo VIII. Senza di ciò poteva il re cristianissimo
venir costretto a retrocedere per difendere la Francia. Massimiliano
era animato contro il re Carlo, che gli aveva ripudiata la figlia,
e tolta la sposa ed una provincia. Lodovico cominciò a dar timore
a Massimiliano, che Carlo VIII in Roma non si facesse incoronar
dal papa imperatore; giacchè quell'augusto non per anco avea fatta
cotesta cerimonia. Indusse il re Carlo ad usare tutti gli ossequi
all'imperatore. Finalmente Lodovico coll'imperator Massimiliano
concluse di dargli in moglie la principessa Bianca Maria di lui nipote,
figlia del duca Galeazzo. Concertò, coll'imperatore di essere egli
dichiarato duca di Milano; e quattrocentomila fiorini d'oro, ossia
zecchini, vennero pagati all'imperatore. Le nozze della Bianca Maria
seguirono nel Duomo di Milano il giorno 1º dicembre 1493, avendo
qua spediti i suoi procuratori Massimiliano. Così Lodovico liberò
il re Carlo dal timore di una sorpresa dei cesarei. Colla Spagna
pure segui l'accordo; per cui si cedettero a Ferdinando ed Isabella
Perpignano e Roncilione. Assicuratosi per tal modo Carlo VIII la
quiete interna, si dispose a passar le Alpi. Lodovico il Moro era
un usurpatore, ma lo era grandiosamente. Egli si era sottratto alla
morale, ed erasi scelta per giudice quella funesta ragion di Stato,
che suol preferire i misfatti illustri alla oscura virtù. Arbitro fra
l'imperatore e il re di Francia, dà una nipote per moglie al primo; fa
passare il re nell'Italia. La scena ch'ei rappresentò sul teatro di
Europa, è da monarca assai superiore alla condizione di un semplice
duca di Milano. Poichè il re Ferdinando di Napoli vide il fulmine
che stavagli imminente, spedì a Lodovico il Moro Camillo Pandone,
pregandolo acciocchè volesse allontanare il re Carlo dalla impresa, e
promettendogli di essere pronto dal canto suo a guarentire a Lodovico
tutto quello che più gli fosse piaciuto pel Milanese. Il conte Carlo di
Belgioioso da Parigi volò in cinque soli giorni nella Lombardia[286],
e a nome del re di Francia venne a proporre a Lodovico una perpetua
confederazione, offerendogli anche il principato di Taranto. Ma il
saggio conte, da ministro fedele, cercò di sconsigliare Lodovico,
mostrandogli l'incertezza della impresa e il pericolo dell'Italia e
suo, qualora mai riuscisse. Lodovico, accettando i consigli del conte
e le offerte del re Ferdinando, avrebbe potuto gloriosamente usurpare
il dominio; egli volle nondimeno persistere nel primo impegno. Perchè
poi ricusasse quell'ottimo partito e preferisse una guerra pericolosa
al godimento tranquillo dello Stato, non lo dice la storia. Forse
egli non si fidò del re Ferdinando, nè dalle forzate offerte di lui;
finchè, passato il timore, non dovesse nuovamente vederselo nemico.
Forse egli ascoltò le personali passioni più che non si conviene
ad un sovrano; e l'odio contro la casa di Aragona, o la benevolenza
verso gli amabili francesi, presso i quali era vissuto, prevalsero ai
sentimenti che doveva adottare come uomo di Stato. Il vero motivo non
si sa: unicamente ci è noto che Lodovico promise al re Carlo di Francia
cinquecento uomini d'armi, quattro navi, dodici galere, il suo erario e
la sua persona. (1494) Inutilmente il papa Alessandro VI spedì emissari
nella Francia per frastornare la venuta del re. Lodovico se ne avvide,
ed animò il re Carlo a non differire, acciocchè i Napoletani, il papa
ed Fiorentini non avessero tempo di radunare un'armata e disputargli i
difficili passi degli Appennini. Il re Carlo VIII si ritrovò in Asti
il giorno 11 settembre 1494. Poi, il giorno 14 ottobre, nel castello
di Pavia, venne magnificamente accolto da Lodovico il Moro. Ivi il re
visitò il duca Giovanni Galeazzo, ammalato di consunzione, _e non senza
qualche suspecto_, dice il Corio; l'infermo raccomandò alla pietà del
re Francesco suo figlio e la duchessa sua moglie; e fra pochi giorni
terminò la sua vita al 22 ottobre nella età di venticinque anni[287].
Il di lui figlio Francesco poi visse nella Francia e fu abate di
Marmoutiers. Lodovico somministrò al re non poca somma di denaro. Corio
dice della morte del duca, che parve ad ognuno «crudele cosa che non
attingendo anche il vigesimo quinto anno di sua etate, come immaculato
agnello, senza veruna causa fusse spinto dal numero de' viventi». Il re
di Francia si mostrò sensibile a tal morte. Volle in Piacenza, ove lo
seppe, onorare il defunto con funerali, e vestì gran numero di poveri
col danaro suo; il che fu forse cagione onde fosse da Lodovico fatto
trasportare in Milano e tumulare in Duomo colle cerimonie consuete
l'infelice nipote, che fu il sesto duca di Milano, non perchè abbiavi
comandato giammai, ma perchè ne portò il titolo; e le monete coniate ed
i diplomi spediti furono in di lui nome e colla di lui effige.



CAPITOLO XIX.

  _Di Lodovico il Moro, settimo duca di Milano, e della venuta del re
  di Francia Lodovico XII._


Lodovico aveva il diploma imperiale che lo dichiarava duca di Milano;
ma lo teneva nascosto. Già vedemmo che l'imperatore Federigo non
concesse mai il ducato di Milano nè a Francesco Sforza, nè a Galeazzo
Maria. Giunto alla suprema dignità dell'Impero Massimiliano I, ei ne
conferì il ducato non già al primogenito dell'ucciso Galeazzo, ma al
tutore di esso, Lodovico il Moro. Il diploma venne spedito in Anversa
il giorno 5 settembre 1494. In esso diploma dichiara quell'augusto che
preferiva Lodovico, perchè esso fu generato da Francesco Sforza mentre
possedeva il ducato; il che non poteva dirsi di Galeazzo. Pare che
avrebbe dovuto l'estensore del diploma omettere questa cavillazione,
superflua presso l'imperatore, che non riconosceva altri duchi di
Milano, se non i nominati ne' cesarei diplomi. Con altro diploma 8
ottobre 1494, dato pure in Anversa, l'imperatore dichiara che Lodovico
gli facesse istanza per ottenere l'investitura del ducato in favore di
Giovanni Galeazzo; ma che l'imperatore Federigo, suo padre, ed egli lo
aveano ricusato, perchè[288] _praefactus Joannes Galeaz ipsum ducatum
et comitatum a populo Mediolanensi recognovit, quod quidem fuit in
maximum Imperii praejudicium; et quia est de consuetudine sacri Romani
Imperii neminem unquam investire de aliquo statu sibi subjecto, si eum
de facto sibi usurpavit, vel ab alio recognoverit_[289]. Lodovico,
mentre in segreto possedeva questi diplomi imperiali, convocò nel
castello i primari dello Stato; e notificando la morte seguita del
duca Giovanni Galeazzo, propose loro d'acclamare per duca Francesco,
bambino primogenito del defunto. Il presidente della camera, Antonio
Landriano, vi si oppose, attesa l'età del fanciullo: e ricordando le
inquietudini della minorità passata, lo stato d'Italia col re Carlo
alla testa d'un'armata, i pericoli imminenti, propose che Lodovico
medesimo fosse da riconoscersi duca, come quel solo che nelle procelle
attuali poteva difendere lo Stato. Nessuno ardì di uniformarsi alla
proposta di Lodovico; e il voto del Landriano venne secondato da tutti.
Ben tosto, uscendo dal consiglio, lo proclamarono duca nel mentre
appunto che nel Duomo, allo spettacolo dell'estinto Giovanni Galeazzo,
esposto colla pompa funebre allo sguardo di ognuno, si versavano
lagrime di compassione sul misero di lui fato. La vedova duchessa
Isabella, coi poveri bambini suoi, stavasene in Pavia, rinchiusa entro
una stanza, ricusando la luce del giorno, giacendo per tristezza sulla
nuda terra, in mezzo a lugubri abbigliamenti, ivi inteso una tale
proclamazione, che toglieva la sovranità anche ai meschini avanzi del
giovane suo sposo, e poneva il colmo al trionfo della rivale duchessa
Beatrice. (1495) Quando il popolo invidia la condizione de' signori
grandi, ha egli sempre ragione? Due ministri imperiali vennero a Milano
per conferire la dignità ducale a Lodovico; ed era appunto allora che
si compieva il secolo in cui la stessa cerimonia erasi fatta per il
primo duca. Il giorno 26 di maggio del 1495, alla porta del Duomo,
_con stupende cerimonie_, dice il Corio, ornarono Lodovico del manto,
berretta e scettro ducale, sopra un eminente trono. Giassone del Maino,
celebre legista, pronunziò l'orazione; poscia si andò a Sant'Ambrogio;
«d'unde in castello, dove furono celebrati li stupendi triumphi quanto
a nostro secolo fussino d'altri»; così il Corio.

Stacchiamo lo sguardo, almen per poco, dai tristi avvenimenti della
politica, e rimiriamo oggetti più ameni, cioè i progressi che la
coltura fece presso di noi sotto il governo di Lodovico il Moro.
Lodovico dapprincipio fabbricò il vastissimo claustro del Lazzaretto
secondo l'uso di quei tempi; ma in appresso egli pose all'architettura
per maestro il Bramante da Urbino, alla pittura Leonardo da Vinci.
Questi grandi uomini erano cari a Lodovico. Sotto la scuola di
quest'ultimo si formarono Polidoro da Caravaggio, Cesaro da Sesto,
Bernardo Luino, Paolo Lomazzi, Antonio Boltrasio ed altri, dai quali
ebbe vita ed onore la scuola milanese. L'architettura era ne' primi
anni sotto Lodovico resa elegante bensì, ma conservava capricciosi
ornamenti, siccome scorgevasi nella facciata della casa de' signori
conti Marliani[290]. Poi s'innalzò il magnifico tempio della Madonna di
San Celso; si eresse la facciata del palazzo arcivescovile; si fabbricò
il chiostro, veramente nobile e grandioso, dell'imperial monastero di
Sant'Ambrogio[291]; e così si esposero allo sguardo pubblico modelli
di bella architettura. Lodovico grandiosamente stipendiava gli abili
artisti e gli uomini d'ingegno; accordava loro piena immunità da
ogni carico; animava i progressi della coltura. Demetrio Calcondita,
Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Giulio Emilio erano fra noi gli
illustri letterati protetti e beneficati dal Moro. Bartolomeo Calco,
segretario di Stato ed uomo colto, per secondare il genio del suo
principe, instituì le scuole pubbliche, le quali sino ai giorni nostri
ne portano il nome. Tommaso Grassi eresse e dottò altre scuole per
gratuita istituzione della gioventù; e queste pure conservano il nome
del loro fondatore. Tommaso Piatti, che sommamente era in favore presso
Lodovico, instituì pubbliche cattedre di astronomia, geometria, logica,
lingua greca ed aritmetica. Con tali beneficenze pubbliche si otteneva
l'amicizia di Lodovico; il che certamente fa sommo onore alla memoria
di lui. Non è dunque da meravigliarsi se di que' tempi le belle lettere
venissero in fiore, e se da quella scuola uscissero poi Girolamo
Morone, di cui accaderà in breve ch'io parli, Andrea Alciato e Girolamo
Cardano. Scrivevano allora la storia patria Tristano Calco, memorabile
per l'elegante suo stile latino, e per la molta accuratezza; Bernardino
Corio, inelegante scrittore bensì, e creduto compilatore delle antiche
favole, ma accurato e fedele espositore delle cose de' tempi più
vicini. Allora la poesia, la musica, tutte le belle arti ebbero vita e
onore. Il cavaliere Gaspare Visconti in quella età scriveva rime degne
di leggersi[292]. Ecco quasi per saggio tre sonetti di lui fra i molti
che ho esaminati. Il primo, singolarmente nei due quaderni, mi pare
assai robusto e poetico.

    «Rotta è l'aspra catena e il fiero nodo
      Che l'alma iniquamente già mi avvinse;
      Rotto è il gruppo crudel che il cor mi strinse,
      Onde mia sorte ne ringrazio e lodo.

    Fuor del pensiero ho l'amoroso chiodo,
      Che poco meno a morir mi sospinse;
      E il volto che nel petto amor mi pinse,
      Lì dentro è casso, e senza affanni or godo.
    Ringrazio il cielo, il qual m'ha liberato
      Dalla cieca prigion, piena d'orrore,
      Dove gran tempo vissi disperato.
    E quando a sè pur mi rivolgi amore,
      Me leghi a un cuor che sia fedele e grato,
      Ch'io servirò per fino all'ultim'ore».

L'altro sonetto seguente parmi assai leggiadro, e ci fa vedere che
l'allegria e la sociabilità erano conosciute da que' nostri antenati.
Anco un'altra osservazione sul costume ci si presenta; ed è che, usando
allora le gentildonne abiti pesantissimi di broccato, non potevano
altrimenti ballare vivacemente come ora si costuma; ma unicamente
potevano moversi con graziosa lentezza, _modice et venuste_, siccome
nel capitolo precedente vedemmo[293]: perciò Gaspare Visconti nel
seguente sonetto, fra i pregi delle ballerine, annovera il mover _lenti
lenti_ i piedi. Ecco il sonetto:

    «Io vidi belle, adorne e gentil dame
      Al suon di soavissimi concenti
      Co' loro amanti mover lenti lenti
      I piedi snelli, accese in dolci brame.
    E vidi mormorar sotto velame
      Alcun degli amorosi suoi tormenti,
      Dividersi, e tornare al suono intenti,
      E cibar d'occhi l'avida sua fame;
    Vidi stringer le mani, e lasciar l'orme
      Dolcemente stampate in lor non poco,
      E trovarsi in due cor desio conforme.
    Nè mirar posso così lieto giuoco,
      Ch'a pensier lieto alcun possa disporme
      Senza colei che notte e giorno invoco».

D'un altro genere, men elevato sì, ma pregevole per la facilità, è il
sonetto seguente ch'ei scrisse a messer Antoniotto Fregoso, da cui
veniva avvisato che una indiscreta vecchia non cessava d'infamarlo.
Così rispose:

    «Omai, Fregoso, io son come il cavallo
      Che porta il tuon delle pannonie schiere,
      O come quel qual usa il schioppettere,
      Che al bombo del schioppetto ha fatto il callo.
    Riprenda pur la plebe ogni mio fallo,
      Che tanto fa il suo dir quanto il tacere,
      Qual son l'opere mie, quale il volere,
      Chi il vero intende, apertamente sallo.
    Che diavol sarà poi con questa femmina,
      La qual non altra cosa che zizania
      Nel steril orto del rio volgo semina!
    Sola sè stessa infin, non altri lania;
      E quanto più suo pazzo error s'ingemina,
      Tanto a chi sa, dimostra più sua insania.»

Dal fine d'un sonetto ch'egli scrisse alla Beatrice d'Este, si conosce
qual ascendente quella principessa avesse sull'animo di Lodovico:

    «Donna beata, e spirito pudico,
      Deh, fa benigna a questa mia richiesta
      La voglia del tuo sposo Lodovico.
        Io so ben quel che dico:
      Tanta è la tua virtù, che ciò che vuoi
      Dello invitto suo cor disponer puoi[294]».

Di questo magnifico e generoso cavaliere aurato, Gaspare Visconti,
consigliere ducale, evvi pure un poema stampato _per magistro Philippo
Mantegatio dicto et Cassano, in la excellentissima cittade de Milano,
nell'anno_ MCCCCLXXXXV, _a dì primo de aprile_. Questo poema ha per
titolo: _Paulo e Daria amanti_. Non v'è traccia che meriti di seguirne
la lettura. Vi sono però alcune ottave passabili, come:

    «Messer Luchino in segno di letizia
      Fece ordinar un bel torneamento,
      E de' compagni della sua milizia
      Ne scelse appunto al numero duecento;
      Ciascun de' quali ha forza e gran divizia;
      Milanese ciascun, pien d'ardimento;
      Che allor Milano al marzial negozio
      Molto era intento e non marciava in ozio.
    Giunto era il giorno al tornear proposto
      Da Luchin di Milan, signor e padre,
      Qual credo fosse a' quindici d'agosto.
      Quando vennero in campo ambe le squadre
      Ognun quanto più può, fa del disposto,
      Con sopraveste e fogge alte e leggiadre,
      All'uso pur di quel buon tempo prisco,
      Ch'ogni ornamento suo pagava el fisco.
    La compagnia d'Éstor tutta ross'era;
      L'altra di Dario candida si vede,
      Che de' Visconti la divisa vera
      Bianca e rossa è, se al ver si presta fede, ec.
                                 Canto II[295]».

Il Corio ci descrive l'urbanità, l'opulenza, il raffinamento e il
lusso della corte di Lodovico, prima che sventuratamente promovesse
l'invasione dei Francesi. Spettacoli, giostre, tornei, occupavano
l'ozio felice di que' tempi, ne' quali quel signore compariva il più
rispettato principe d'Italia. L'ambasciator veneto Ermolao Barbaro,
spettatore di que' tornei, compose i seguenti versi conservatici dal
Corio:

    _Cum modo constratos armato milite campos_
      _Cerneret, expavit pax, Ludovice, tua._
    _Et mihi: surge inquit, circum sonat undique ferrum._
      _Me meus ejecta Conditor arma parat._
    _Te rogo per Veneti sanctissima jura Senatus,_
      _Occurre ingenti, si potes, exitio._
    _Tunc ego: pone metum, Dea; te Lodovicus adorat._
      _Numine plus gaudet, quam Jovis, ille tuo._
    _Nec tu bella time, simulacra et ludrica sunt haec;_
      _Misceri hoc tantum convenit arma loco._
    _I nunc, et coelo terras cote, Diva, relicto;_
      _Sin minus, hic pro te sufficit, alta pete,_
    _Sforciadasque tuos terra defende marique,_
      _Et belli et pacis artibus egregios._[296]

Frutto di questa universale coltura promossa dal duca e dalla
giudiziosa scelta ch'egli sapeva fare degli uomini di merito, fu
la riunione del canale della Martesana con l'altro antico cavato
del Tesino. Lionardo da Vinci, siccome ho accennato al capitolo
decimosettimo, con sei sostegni superò la differenza del livello di
circa tredici braccia, e rese la navigazione comunicante dal Tesino
all'Adda. «L'invenzione dei sostegni a gradino era appunto di quel
tempo; e i primi modelli in questo genere si sono veduti nei navigli di
Bologna e di Milano». Così dice il sullodato Paolo Frisi[297].

Il sistema del governo allora era questo. Lodovico aveva quattro
segretari. Bartolomeo Calco era alla testa degli affari di Stato;
egli apriva le lettere dei principi esteri; disponeva le risposte;
dirigeva il carteggio co' ministri alle corti estere; trattava coi
ministri forestieri residenti in Milano. Aveva sotto di sè varii
cancellieri, uno per Francia, uno per Germania, uno per Venezia,
e così dicendo. Il reverendo Jacopo Antiquario era segretario per
le cose ecclesiastiche, per le spedizioni de' benefizii e cause
dipendenti. Giovanni da Bellinzona era segretario per gli affari di
giustizia, e singolarmente criminali. Giovanni Jacopo Terufio aveva
gli affari della camera, e fissava la lista delle spese de' salariati
ed altre costanti, spedendole ai _Magistri delle entrate_, ossia a
quel corpo che oggidì chiamasi _Magistrato_, acciocchè ne facesse
seguire alle scadenze i pagamenti. Questi quattro segretari avevano
i loro dipartimenti nel castello, ordinaria residenza del duca[298].
Le entrate del duca ascendevano, tutto compreso, a seicentomila
annui zecchini[299]. Delle gioie da monarca che Lodovico il Moro
possedeva, le quali diede in pegno per averne danari, quattro pezzi sol
bastano per darcene idea. Da un manoscritto antico conservato nella
grandiosa collezione del signor principe di Belgioioso d'Este[300],
ciò ho rilevato. La carta si intitola: «Zoye impegnate che erino
dell'illustrissimo signor Lodovico Sforza — El balasso chiamato el
spino, estimato ducati venticinquemille. El rubino grosso con la
insegna del caduceo, de carati 22, con una perla de carati 29, estimati
ducati venticinquemille. La punta grossa di diamante, estimata ducati
venticinquemille. La perla grossa pesa con l'oro den. 6, gra. 9, vale
ducati diecimille». Il Corio ci descrive Lodovico Sforza come uomo
di molto ingegno, d'aspetto veramente maestoso, di contegno nobile, e
singolarmente pacato mai sempre, anche nelle occasioni nelle quali è
più difficile il conservarsi tale. Le immagini che ci rimangono di lui,
ci rappresentano appunto una fisonomia corrispondente, ed anche nel
conio delle monete di allora si conosce la eleganza e maestria d'ogni
bell'arte.

Ripigliamo il filo della storia. I Francesi, entrati nell'Italia
sotto il loro re Carlo VIII, la trascorsero come un fulmine
dalle Alpi sino al regno di Napoli, di cui quasi senza contrasto
s'impadronirono. Nessun riguardo usarono sulle terre del duca; anzi
a Pontremoli uccisero varii del paese, ed alcuni degli stipendiati
del duca. Cominciò allora, ma tardo, ad accorgersi Lodovico del
vortice pericoloso in cui si era voluto immergere. Il duca d'Orleans
in Asti non dissimulava punto d'essere quella l'occasione opportuna
per far valere le ragioni della principessa Valentina, di lui ava,
sul ducato di Milano. Il re Carlo si presenta a Firenze, e senza
ostacolo se gli aprono le porte. Passa a Roma; indi, in tredici giorni,
scaccia da Napoli e dal regno gli Aragonesi, ai quali appena erano
rimaste alcune città marittime. Questo fatto veramente memorando e
romanzesco, benchè verissimo, sbigottì tutti gli Stati d'Italia. Ma
il tempo lasciò loro ripigliar animo. L'armata francese, insolentita
per tanta fortuna, disprezzava troppo gli abitatori del paese. Non
avevano limite alcuno le violenze di ogni genere. La rapina era
senza nemmeno un velo di pudore. La virtù e la bellezza si credevano
un prezzo giusto della conquista. Nessun asilo era sicuro contro
della scostumatezza del vincitore. Il nome francese in pochi giorni
divenne odioso a tutto il regno; ed il re Carlo trovossi mal sicuro
e incerto di avere la comunicazione libera colla Francia. Il duca
di Orleans mosse le sue genti dalla città di Asti verso Novara, e
inaspettatamente la occupò, spiegandosi senza mistero di prendere
egli per sè il milanese, come discendente dalla Valentina. Lodovico
Sforza, costernato per tal rovescio, mal sicuro dei sudditi (presso i
quali la morte dell'innocente duca Giovanni Galeazzo, la depressione
della misera duchessa Isabella, il supplizio del Simonetta, l'usurpato
dominio e la comperata investitura erano argomenti di avversione,
malgrado le altre molte sue eccellenti qualità), Lodovico Sforza
adunque in tal condizione si abbandonò d'animo a segno, che divisò
di ricoverarsi in Aragona, ed ivi privatamente finire i giorni suoi,
di che tenne discorso col ministro di Spagna residente in Milano. Ma
Beatrice d'Este lo rianimò, s'intromise e lo costrinse a pensar da
sovrano. Si formò una nuova lega fra il papa, i Veneziani e il duca di
Milano. Sollecitamente riunirono le loro milizie per la comune salvezza
dell'Italia. Le forze si postarono verso gli Appennini, attraverso
dei quali dovevano passare i Francesi. Il re immediatamente partì
da Napoli, lasciando in quel regno varii presidii nelle fortezze,
e conducendo seco circa quindicimila uomini. Il papa si ricoverò in
Ancona. Passò il re dalla Romagna e dalla Toscana, e giunto fralle
angustie de' monti a Val di Taro, ivi ritrovò circa dodicimila soldati
della nuova lega. Per un araldo il re fece significare ai collegati di
maravigliarsi, trovando impedito il passaggio, non cercando egli se non
di ritornarsene in Francia, pagando col suo denaro i viveri. Risposero
i collegati che non lo avrebbero permesso, se prima non si restituiva
Novara, indebitamente sorpresa. Ritornò l'araldo dicendo, che il re
intendeva di passare senza condizione veruna; e che in caso di rifiuto
ei si sarebbe fatta la strada sopra i cadaveri degl'Italiani. Questi
risposero al re Carlo, che non si sarebbe egli spianata la via così
facilmente, come gli era accaduto a Napoli e che lo aspettavano alla
prova. Seguì poscia un'azione sanguinosa da ambe le parti, in cui però
nessuna ebbe compiuta vittoria. Il re non si aprì l'uscita, nè rimase
oppresso. Conobbe però il re Carlo che l'impresa non era sì facile,
quanto se l'era immaginato. Spedì un araldo chiedendo tregua per
tre giorni, onde seppellire i cadaveri, e i collegati l'accordarono
soltanto per un giorno e mezzo. In sì fatto labirinto trovavasi il
re cristianissimo, donde ne uscì il giorno 8 di luglio del 1495,
fingendo di attaccare l'armata della lega, e frattanto ponendosi in
marcia per uno stretto mal custodito dalla parte della Trebbia, e così
ritornossene nel suo regno con poca gloria: poichè il re aragonese
di Napoli, il quale erasi ricoverato nell'isola d'Ischia, ben tosto
ricomparve nella sua capitale, dove fu con applauso e festa ricevuto;
ed i presidii francesi, mancando di soccorso, attorniati da un popolo
nemico, dovettero un dopo l'altro abbassar le armi e rendersi. Lo
storico Voltaire si è lasciato sedurre dall'amor nazionale a segno di
essere ingiusto cogl'Italiani in raccontando questa spedizione del suo
re; quasi che, effeminati, molli, degradati, non vi fosse più fra di
noi nè coraggio nè valor militare. Gli storici contemporanei d'Italia
sono una manifesta prova dei traviamenti dell'autore francese nella
decantata sua opera sulla storia generale; traviamenti che io appunto
ho notati, perchè in moltissimi altri luoghi, riscontrandolo, hollo
trovato tanto vero ed esatto, quanto elegante pensatore.

(1496) Il duca Lodovico, quantunque liberato dall'imminente pericolo,
non avea peranco riacquistato quel robusto vigor d'animo, senza di
cui non si preserva lo Stato negli eventi contrari. Fortunatamente la
duchessa Beatrice potè far le sue veci. Si raccolsero i confederati a
scacciare il duca d'Orleans da Novara. Ivi la Beatrice d'Este vedeva
schierarsi gli armati _al suo conspecto_, dice il Corio. Novara ritornò
al duca. I Francesi abbandonarono il paese. La pace venne sottoscritta.
Così in un anno cominciò e finì la rapidissima spedizione di Carlo
VIII, senza verun frutto pei Francesi, anzi con loro danno e con
danno dell'Italia. Cessato appena il pericolo dei Francesi, nacquero
le solite rivalità fra gli Stati d'Italia. I Fiorentini volevano
assoggettar Pisa. I Pisani si offersero al duca Lodovico, il quale per
non offendere i Fiorentini, non volle accettarli. I Pisani si esibirono
ai Veneziani, e questi, sebbene formalmente non li accettassero,
destramente posero in Pisa un presidio. Lodovico, signore di Genova, e
dell'isola di Corsica, da Genova dipendente, non mirò con indifferenza
tal fatto, per cui le forze marittime venete potevano acquistare nuovi
appoggi nel mar Tirreno. Pisa era considerata città imperiale. Il
duca spedì all'imperatore Massimiliano Marchesino Stanga, animandolo
a passare nell'Italia e soccorrere Pisa. Poi, nell'anno medesimo
1496, egli e la duchessa Beatrice sua moglie per Bormio si portarono
incontro a quell'augusto a Malsio, e seco lungamente concertarono
la spedizione. Per lo che l'imperatore per la Valtelina sen venne a
Como; indi a Meda venne accolto dal duca e dalla duchessa Beatrice con
pompa conveniente. Ivi concorsero gli oratori di quasi tutt'i principi
d'Italia. Perchè l'imperatore non volesse veder Milano non lo so.
Egli per Abbiategrasso, Vigevano e Tortona passò a Genova, d'onde per
mare passò a Pisa, e festosamente vi fu accolto. Nessun altro frutto
nacque da tale comparsa. L'imperatore ritornossene in Germania. Così il
duca Lodovico fece comparire inutilmente nell'Italia il re di Francia
prima, poi l'imperatore. (1497) Al cominciar dell'anno 1497 accadde al
duca Lodovico Sforza la maggior disgrazia; e fu che li 2 di gennaio
la duchessa Beatrice d'Este morì di parto, lasciandogli due figli,
Massimiliano di cinque anni, e Francesco di quattro. La duchessa morì
nell'età di 23 anni. Donna di animo virile; l'ascendente di cui reggeva
la volontà del marito. Lodovico, dopo un caso sì funesto, non visse
che in mezzo alle disgrazie, siccome vedremo, e non ne dimenticò mai
la memoria. Vennero celebrate le solenni pompe funebri alla duchessa
nella chiesa delle Grazie, dove fu tumulata: «et quivi fine al septimo
giorno con la nocte, senza interposizione pur de un quarto d'hora,
si celebrarono messe e divini officii, il che veramente fu cosa di
non puocha admirazione», dice il Corio. Il mausoleo di marmo colla
statua di lei costò più di quindici mila ducati d'oro. Quella statua
giacente scorgesi oggidì nella chiesa della Certosa presso Pavia, a
canto ad una simile del di lei marito Lodovico, come si è accennato
più sopra. L'anno del lutto fu tristissimo per l'infelice vedovo
duca, privato della cara amica, unica confidente e reggitrice de' suoi
pensieri. L'uso sin d'allora era di stendere i parati neri su tutti
gli addobbi di corte. Terminato appena l'anno, l'inaspettata morte del
re di Francia Carlo VIII, che non lasciava figli maschi, fe' passar
la corona sul capo del duca d'Orleans Lodovico XII, primo principe
del sangue, discendente del re Carlo V. L'ava di Lodovico XII fu
appunto la Valentina Visconti, figlia del primo duca di Milano Giovanni
Galeazzo. Il re nuovo di Francia pretendeva que' diritti che non poteva
allegare Carlo VIII, che da lei non discendeva; ed il nuovo re aveva
chiaramente già palesata co' fatti la volontà di farli valere. Il re
aveva trentasei anni; e come duca d'Orleans assumeva il titolo di duca
di Milano.

I Veneziani, il papa Alessandro VI e il nuovo re di Francia Lodovico
XII si collegarono. I Veneziani pretendevano il Cremonese e la Gera
d'Adda; per modo che i confini loro si stabilissero quaranta braccia
lontani dalla sponda sinistra dell'Adda, rimanendo il fiume colle
due sponde al ducato di Milano. Il papa pretendeva Imola, Forlì,
Pesaro e Faenza, per formare uno Stato al duca di Valentinois Cesare
Borgia, suo figlio. Il re di Francia pretendeva il regno di Napoli
e il milanese. (1498) Si collegarono promettendosi vicendevole
assistenza; ed il trattato si sottoscrisse in Blois il giorno 25 di
marzo dell'anno 1498[301]. Il re di Francia aveva ottenuto dal papa
Alessandro VI di ripudiare Giovanna, duchessa di Berrì, figlia di
Luigi XI, re di Francia, che da ventitre anni eragli moglie; e così
potè sposare la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, che gli recava
la Bretagna in dote. Per tal benemerenza Cesare Borgia fu creato
duca di Valentinois, e furongli promesse le città della Romagna,
che possedevansi dai signori della Rovere. Soprastava un tal nembo
sul capo del già abbattuto duca Lodovico, quando per parte del re di
Francia gli venne fatta proposizione di lasciargli godere il ducato
sin ch'ei fosse vissuto, e per due anni ancora lo godessero dopo
sua morte i di lui figli, a condizione che frattanto egli sborsasse
ducentomila ducati d'oro al re di Francia. V'era di più la condizione
che qualora Lodovico XII non avesse figli, non si turbasse il dominio
dei successori dello Sforza. L'affare venne proposto nel consiglio del
duca. Il tesoriere ducale Landriano[302] altamente opinò, che mai non
si dovesse accettare un tale progetto, poichè con ducentomila ducati
ve n'era abbastanza, a parer suo, per far la guerra per ducent'anni
al re di Francia. La bravata era senza fondamento; pure il duca vi si
uniformò. Quando poscia ne venne in seguito la eversione totale dello
Stato, un gentiluomo milanese, che nominavasi Simone Rigoni, affrontò
l'adulatore Landriano, per cui lo Stato e la patria erano in rovina,
e lo uccise[303]. (1451) I francesi aveano un punto di appoggio di qua
dalle Alpi nella città di Asti; ed ivi il re Lodovico XII fece passare
un grosso esercito, e ne diede il comando a Gian Giacomo Trivulzio,
valoroso soldato, illustre milanese, nemico personale del duca Lodovico
Sforza, da cui gli erano stati confiscati i beni. Questo comandante
aveva la cognizione del paese, un partito, una passione sua propria per
abbattere il duca; avea servito già nella spedizione di Carlo VIII;
era insomma il più opportuno generale che il re di Francia potesse
scegliere a questa impresa. Il duca non poteva fidarsi nè delle forze
proprie, nè della volontà dei sudditi, per le ragioni già accennate. I
soccorsi da Napoli o da Firenze erano incerti e remoti. L'imperatore
Massimiliano, nipote del duca, era di buona fede e impegnato per
lui; ma il pericolo sovrastava a giorni. Il duca scelse il partito di
abbandonare lo Stato e seco condurre nel Tirolo i figli, ricorrendo
a quell'augusto. I Veneziani s'avanzavano dalla parte d'Oriente;
dall'opposta s'innoltravano i Francesi sotto del Trivulzio: non v'era
tempo a consigli. In quel punto venne presentata al duca una lista
di quindici primari signori del paese che tramavano contro di lui, e
tenevano segreta corrispondenza col nemico. I fatti erano avverati. Il
duca non volle far male alcuno a coloro che avea beneficati ed amava.
Prima di abbandonare Milano egli portossi dalla duchessa Isabella,
le cedette il ducato di Bari, le chiese il di lei figlio Francesco
per salvarlo e condurlo seco nella Germania; ma la duchessa no 'l
consentì. Pensò Lodovico il Moro di confidare il castello di Milano
ad un uomo di provata fede, giacchè dalla difesa di esso dipendeva
la sovranità. Nel castello era riposto l'archivio ducale, vi erano
tutte le preziose suppellettili della duchessa Beatrice e degli
antecessori, valutate centocinquantamila ducati. V'era un presidio
di duemila ottocento fanti, mille ottocento pezzi d'artiglieria, e
abbondantissime vittovaglie e munizioni da guerra. Lodovico divisò
di affidarne il comando a Bernardino da Corte. Il cardinale Ascanio
Sforza, fratello, e il Sanseverino l'avvertirono di non fidarsi di
colui. (1499) Ma il duca non badò loro, e fattolo a sè chiamare, lo
dichiarò castellano; indi, umanissimamente abbracciandolo, gli disse:
Io vi confido la più preziosa fortezza del mio Stato, difendetela
per soli tre mesi, e se dentro questo spazio non vi manderò soccorso,
disponetene come giudicherete a proposito; il che accadde nel giorno
memorabile 2 settembre 1499. Ciò fatto, il duca verso sera uscissene
dal castello, e diè congedo ai molti signori ch'erano disposti ad
accompagnarlo. Altra cura aveva nell'animo, suggerita dall'intimo
del cuore, la quale non poteva essere che frastornata dai vani omaggi
de' sudditi. Non poteva allontanarsi da Milano senza sentire che si
allontanava dall'amata spoglia della Beatrice, a cui destinò l'ultima
visita. Cavalcò alle Grazie; volle rivedere la tomba e l'effigie della
perduta sposa. I sentimenti di natura si rinvigoriscono a proporzione
che dileguansi le larve della fortuna. Non poteva staccarsene, e
costretto pure a partirsene, più volte si rivolse a mirare il monumento
della sua tenerezza e del dolor suo. Immediatamente di là s'incamminò
a Como, d'onde pel lago passò nella Valtellina, indi per Morbegno,
Sondrio, Tirano, Bormio, Bolzano e Brixen passò ad Inspruck, residenza
dell'imperatore Massimiliano. Prima però d'imbarcarsi sul lago di
Como, il duca, da una loggia in Como, si presentò al popolo, e fece
da quel luogo pubblicamente noti i sentimenti suoi, dicendo: «Che
la fortuna avversa l'aveva ridotto a quel duro passo di abbandonare
lo Stato, senza ch'egli avesse luogo a rimproverarsi imprudenza o
spiensieratezza alcuna. Che l'unico motivo di tale ingrato destino egli
doveva riconoscerlo dalla perfidia di coloro ne' quali sventuratamente
aveva riposta la più sincera fidanza. Egli confessava di essersi
ingannato nella scelta, e di essersi con troppo buona fede lasciato
sedurre da que' visi mascherati i quali attorniano i sovrani. Il male
era fatto. In quel punto egli andava co' suoi figli a ricovrarsi presso
dell'augusto Massimiliano; giacchè s'egli avesse preteso in quel punto
di opporsi alla prepotente armata de' Francesi invasori, avrebbe fatto
versare il sangue umano senza probabilità veruna di preservare lo Stato
dalla inevitabile occupazione. Ch'egli dall'imperatore si prometteva
ogni soccorso, e pei stretti vincoli di sangue che lo univano a quel
monarca, e per la giustizia della sua causa, che interessava l'Impero
in favore di sè, come feudatario del medesimo. Che gli onori già
concessigli dalla cesarea maestà erano una caparra del buon successo;
sicchè sperava fra poco di rivedere la patria con una armata bastante a
liberarla dall'usurpazione del re di Francia. Raccomandò ai sudditi di
accomodarsi ai tempi, di non eccitare con intempestivo zelo la vendetta
de' Francesi, onde al suo ritorno potessero accoglierlo come loro
padre, giacchè egli li considerava tutti come suoi figli». La presenza
di spirito di parlare in pubblico, e di parlarvi in tanto angustiosa
occasione, e sì acconciamente, fanno conoscere che l'amore di Lodovico
per le lettere e le belle arti non era una principesca vanità, ma
sentimento di un uomo colto e d'ingegno. Mentre ancora stava il duca
parlando dalla loggia ai Comaschi, erano già penetrati i Francesi nei
sobborghi di Como, con animo di farlo prigioniero; ma per buona sorte
avvisato, appena ebbe il tempo di balzare in una barca e recarsi a
Bellagio.

Gian Giacomo Trivulzi, che da alcuni anni era esule dalla patria,
entrò in Milano come generalissimo dell'armata francese il giorno 6
di settembre, quattro giorni dopo che il duca l'aveva abbandonata.
Egli si portò solennemente al Duomo a ringraziare l'Arbitro delle
cose, di un avvenimento gloriosissimo per esso lui. Tre giorni dopo
l'armata francese venne in Milano; e furono collocate le truppe a San
Francesco, a Sant'Ambrogio, all'Incoronata. La licenza militare de'
giovani soldati francesi era somma in ogni genere; e il Trivulzio
pensò di contenerla con fermo rigore nella disciplina. Il Corio ci
racconta che per un pane violentemente rapito, due soldati guasconi
vennero tosto appiccati a due piante fuori della porta Ticinese; che
un altro francese, per aver rubata una gallina, venne immediatamente
appeso; che al Pontevetro sul momento venne appeso un francese che
aveva rubato un mantello; e che ivi pure, senza riguardo nè indugio,
fu fatto appiccare un cavalier francese, monsieur Valgis, che aveva
poste le mani violentemente sopra di una zitella. Ciò serviva ad
impedire quei disordini che avevan reso odioso il nome francese nel
regno di Napoli quattr'anni prima; e serviva pure a conciliare la
benevolenza de' nazionali verso del comandante. Ma il posseder Milano,
mentre una fortezza, quale era il castello, era presidiata validamente
dagli sforzeschi, era un pericolo anzi che un vantaggio. Una vigorosa
uscita degli sforzeschi poteva essere funesta ai Francesi sparsi ne'
conventi. Pensò dunque il Trivulzio di corrompere Bernardino da Corte,
castellano, giacchè la strada di un formale assedio doveva esser lunga,
di evento dubbioso, di molto dispendio e diminuzione delle forze
francesi. Il vilissimo Bernardino da Corte, senza nemmeno aspettare
un apparente assedio cominciato, pattuì il prezzo del suo tradimento,
e si divisero le ricchezze depositate nel castello fra il Trivulzio,
il Corte e varii altri complici. Il Corio ci racconta che tal novella
arrivasse all'orecchio dell'infelice duca mentre egli cavalcava fra
i Grigioni prima di giungere nel Tirolo; ma siccome il tradimento si
eseguì e manifestò il giorno diecisette di settembre del 1499, cioè
quattordici giorni dopo che Lodovico era già partito da Como, mi pare
più verisimile la cronaca del Grumello che dice: «Et ritrovandosi
epso Ludovico in la cita di Insprucho in sua camera, assentato sopra
il suo lecto, parlando co' suoi gentilhomini di riacquistar el stato
suo di Milano, hebe nuova del perduto castello suo di porta Giobia.
Leggendo le lettere recepute, intendendo nuova pessima, stando sopra
di sè, non parlando come fusse muto, alciando gli occhi al cielo, disse
queste poche parole: Da Juda in qua non fu mai il maggior traditore de
Bernardino Curzio; et per quello giorno non mosse altre parole[304]».

Resasi per tal modo l'armata francese padrona in un baleno del ducato
di Milano, il re Lodovico XII immediatamente scese dalle Alpi; il 21
settembre fu a Vercelli, il 23 a Novara, il 26 a Vigevano, che egli
eresse in marchesato e lo conferì al Trivulzio, che assunse il titolo
di marchese di Vigevano, e vi battè moneta. Questo marchesato gli fu
dal re dato in compenso dell'artiglieria del castello di Milano, che
doveva essere per metà del Trivulzio. Lodovico XII entrò solennemente
in Pavia il giorno 2 di ottobre, e il giorno 6 dello stesso mese fece
il suo pomposo ingresso in Milano per porta Ticinese. Gli ambasciatori
dei Veneziani, Fiorentini, Bolognesi, di Siena, di Pisa e di Genova
conducevano seco loro un séguito di seicento cavalli, e andarono
incontro al re. Il re aveva seco il duca di Savoia, il marchese di
Monferrato, il cardinale di San Pietro in Vincola. Tutto il clero in
abiti pontificali precedeva. Poi venivano i carriaggi, riccamente
coperti, trenta del duca di Savoia, quarantadue del cardinale
anzidetto, sessantaquattro del re. Moltissimi altri carriaggi, coperti
d'oro e di seta, di altri distinti personaggi. Poi cento suonatori
di trombe con altri musici. Quindi venivano i paggi, otto di Savoia,
quattro del duca di Valentinois, dodici del re, magnificamente
corredati, con arnesi d'argento anche sotto i piedi de' cavalli.
Poi quattrocento fanti reali, in uniforme giallo e rosso, armati di
picche. Poscia il capitano della guardia a cavallo, alla testa di mille
e venti cavalieri, che avevano tutti uniforme verde e rosso, e sul
petto ricamato l'_Istrice_, divisa che Lodovico aveva assunta. Questi
mille e venti uomini a cavallo erano tutti di statura stragrande.
Appresso venivano ducento gentiluomini a cavallo, armati e vestiti
superbissimamente. Da ultimo veniva il re sopra di un bellissimo
destriero. Il re era vestito di bianco, coi contorni di pelliccia,
e portava in capo la berretta ducale di Milano. Egli marciava sotto
di un baldacchino di broccato d'oro e bianco, preceduto dal generale
Gian Giacomo Trivulzio col bastone dorato in mano. Il baldacchino era
portato da otto dottori e fisici di collegio, vestiti di scarlatto,
col bavero di pelli di vaio. Giunto il re al ponte vicino alle colonne
di San Lorenzo, dove era in allora la porta della città, ricevette
le chiavi che gli presentò il contestabile di quella porta. Il
contestabile s'inginocchiò; ed il re, toccandolo sopra le spalle collo
scettro che avea nella destra, lo creò cavaliere. Il contestabile baciò
lo scettro, e continuò il re il suo cammino processionalmente sino al
Duomo. Seguivano il re i cardinali di Burges, San Pietro in Vincula e
di Rohan, e gli ambasciatori di Napoli, Savoia, Estensi, Mantovani, e i
disopra nominati. Il giorno seguente, cioè al 7 di ottobre, il re volle
assistere ad una solenne messa dello Spirito Santo in Sant'Ambrogio;
indi si pose a conversare co' nobili milanesi più da gentile signor
forestiere, che da monarca. Lodovico XII allora viveva come farebbe un
buon sovrano ai tempi nostri. Egli fu a godere di balli e pranzi presso
molti de' nostri. Il giorno 15 ottobre fu ad una magnifica festa di
ballo e cena da messer Francesco Bernardino Visconte in porta Romana.
Il giorno 18, messer Francesco Trivulzio, commendatore di Sant'Antonio,
gli diede un pranzo[305]. Il giorno 20, a nome della città di Milano,
fugli imbandito un pranzo nella corte vicina al Duomo. Le pareti della
gran sala erano coperte di drappo celeste, ricamato a gigli d'oro; vi
si trovarono convitate quaranta damigelle[306]; v'intervennero molti
ambasciatori, illustri personaggi e principi, fra i quali il duca di
Valentinois e il duca di Savoia, i marchesi di Monferrato e di Saluzzo,
il cardinale Orsini. Una festa di ballo terminò quella giornata. Il re,
sempre cortese ed affabile, accettò di levare al sacro fonte un bambino
del conte Lodovico Borromeo; andò a visitare la contessa Bona Borromeo,
partoriente, al di lei giardino fuori di porta Tosa; volle darle in
dono una collana d'oro del prezzo di cinquecento ducati, e volle cenare
da lei. Lodovico XII alloggiò nel castello, e si trattenne per tal modo
in Milano ventisette giorni, essendone partito il 3 di novembre del
1499[307].

Giunto a Vigevano, il re Lodovico, prima di ripassar le Alpi e
rivedere il suo regno, volle piantare un nuovo sistema politico nel
milanese. Quindi, in data del giorno 11 novembre 1499, in Vigevano,
volle pubblicare un editto perpetuo[308]. Primieramente stabilisce che
nella città di Milano risieda un governatore suo luogotenente, nobile,
cospicuo e militare, da cui dipenda tutto ciò che concerne la guerra,
e che abbia la plenaria podestà sulle città, borghi e terre, per la
loro conservazione, come se fosse il re. Secondariamente stabilì che vi
fosse un gran cancelliere forastiero e custode del sigillo, e nel tempo
stesso presidente del senato. In terzo luogo che non vi fossero più
due consigli, uno di Stato, l'altro di giustizia; ma un solo supremo
consiglio col nome di _Senato_, sotto la presidenza dell'anzidetto
gran cancelliere. Volle che i senatori fossero di professioni diverse,
cioè due prelati, quattro militari, e il rimanente dottori, de' quali
alcuni volle che fossero forestieri. Queste cariche furono dichiarate
perpetue e indipendenti dal governatore; anzi stabilì il re che il
solo senato dovesse giudicare de' casi ne' quali un senatore avesse
meritato il congedo. Concesse al senato la facoltà di confermare o
infirmare i decreti del re; di accordare ogni dispensa; e che tutte le
grazie, donativi, privilegi o editti di giustizia e di polizia emanati
dal trono, fossero di nessun valore, se non venivano _interinati_ dal
senato. Comandò che qualunque sentenza del senato si eseguisse, e che
gli atti fossero in nome del re[309]. Al senato medesimo affidò la
scelta de' professori dell'università di Pavia. Finalmente creò due
nuove cariche, un avvocato fiscale e un procurator fiscale. Nominò
poi governatore e suo luogotenente Gian Giacomo Trivulzio, marchese
di Vigevano e maresciallo di Francia; gran cancelliere il vescovo
di Luçon, Pietro di Saverges; senatori, Antonio Trivulzio, vescovo
di Como, Girolamo Pallavicino, vescovo di Novara; i militi Pietro
Gallarate, Francesco Bernardino Visconte, conte Giberto Borromeo ed
Erasmo Trivulzio; i dottori Claudio Leistel, consigliere del parlamento
di Tolosa, Gian Francesco Marliano, Michele Riccio, Gian Francesco
Corte, Gioffredo Caroli, consigliere del parlamento del Delfinato,
Giovanni Stefano Castiglione, Girolamo Cusano, Antonio Caccia.
L'avvocato fiscale fu Girolamo Morone, uomo di cui più volte avrò in
seguito a far menzione; ed il procurator fiscale fu Giovanni Birago.
Ciò fatto, il re ripassò le Alpi conducendo seco il conte Francesco
Sforza, figlio dell'estinto duca, fanciullo di otto anni, il quale
dappoi sempre visse in Francia tranquillamente ed agiatamente come
un ricco gentiluomo, godendo l'abbazia di Marmontiers. La duchessa
Isabella si staccò in tal guisa per sempre dal figlio; ed ella
pure partissene da Milano, e visse a Bari nel regno di Napoli, seco
conducendo le due figlie Bona ed Ippolita; la prima delle quali poi
fu sposata da Sigismondo re di Polonia, l'anno 1518. Così terminò la
discendenza dell'infelice sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza.

La condotta del re Lodovico XII non poteva essere più giudiziosa per
rendersi affezionati i nuovi sudditi. Egli affidò la suprema autorità
alle mani di un nazionale. Visse colla maggior affabilità, quasi da
privato conversando. Stabilì un senato colle facoltà da me ricordate.
Con tal sistema la forza militare rimase unicamente in potere del
luogotenente, e così sciolta e pronta senza alcuna formalità alla
difesa dello Stato. La vita e la libertà e le sostanze dei sudditi
rimasero all'ombra di una moderata monarchia, dipendenti da quel
senato, composto di molti senatori, di stato differente; per modo
che non era da temersi che la violenza entrasse a prendere giammai
il nome della giustizia. La pietà degli ecclesiastici, l'onore dei
militari, l'accurata ponderatezza dei dottori, vicendevolmente doveano
contenere i privati affetti. Il gran cancelliere, senza il sigillo
del quale non valeva alcun decreto, poteva riferire nel senato,
indipendentemente dal governatore, que' tentativi che per avventura il
governatore proponesse a danno della civile libertà di alcuno, e così
eluderli. Il governatore, non potendo da sè punire i senatori, dovea
però vegliare sopra di essi, e col diretto carteggio alla corte dovea
prevenire l'abuso che mai o il senato o gli individui di esso facessero
della autorità. Per una provincia rimota, alla testa di cui si voglia
porre un suddito, non pare possibile l'architettare un sistema più
ragionevole di questo, e convien dire che tale ei fosse, se malgrado
le variazioni che vi si fecero guastandolo, pure, anche sotto diverse
dominazioni, si sostenne poi per secoli.



CAPITOLO XX.

  _Breve ritorno del duca Sforza, fatto prigioniere; e governo del re
  di Francia Lodovico XII, fino alla lega di Cambrai._


(1500) Poichè il re Lodovico XII ebbe abbandonato Milano per
ritornarsene nel suo regno, una porzione dell'armata francese
s'incamminò verso della Romagna per togliere Imola e le altre città
promesse al duca di Valentinois, dalle mani del conte Girolamo
della Rovere. Il duca di Valentinois era figlio di Alessandro VI, il
conte Girolamo era figlio di Sisto IV. È facile l'immaginarsi quai
dovessero essere i costami di quei tempi, se tali esempi diedero anche
i poscia graduati al sommo sacerdozio. Doveva quindi quel corpo di
francesi innoltrarsi ad occupare il regno di Napoli. Divenne così
meno imponente nella Lombardia la nuova forza conquistatrice. Il
governatore maresciallo Trivulzio stabilì la sua residenza nella corte
vicino al Duomo, avendovi una guardia di trecento tedeschi. Malgrado
la severità della disciplina usata dal Trivulzio, siccome accennai,
non era possibile il prevenire ogni disordine. Un francese pose
violentemente le mani sopra di una contadina che portava il pane a
cuocere al pubblico forno in Lardirago, terra lontana da Pavia cinque
miglia. La contadina si difese robustamente. Il francese non voleva
desistere. Accorse il di lei padre con un bastone. Il francese lo
stese morto. Varii contadini si scagliarono sull'uccisore, che dovette
soccombere. Un corpo di francesi postato nel contorno sopravenne;
saccheggiò la terra, bruciò le case, impiccò varii. In Milano pure si
cominciarono a vedere delle tumultuarie adunanze di malcontenti. La
plebe in porta Ticinese si attruppò e gettò a terra i banchi ai quali
si riscuotevano le gabelle. Il governatore Trivulzio vi si recò; e dopo
di avere inutilmente procurato che badassero alle di lui parole, diè
mano alla spada, e, secondato da' suoi domestici, uccise alcuni e molti
altri rimasero assai mal conci. L'affare non terminava così, se messer
Francesco Bernardino Visconte, signore sommamente autorevole, non vi
accorreva. Si abolirono alcune gabelle, venne sedato quel disordine;
ma non perciò rimase quieta la città. Frate Girolamo Landriano,
generale degli Umiliati, messer Leonardo Visconte, e messer Alessandro
Crivello, proposto di San Pietro all'Olmo, animavano la plebe contro
del nuovo governatore Trivulzio. Lodovico il Moro, accostatosi a
Como, col favore dei cittadini v'era rientrato, ed eransi espulsi i
Francesi. Ivi s'andavano radunando Tedeschi e Svizzeri allo stipendio
sforzesco. Il giorno 27 di gennaio 1500 si cominciò a conoscere nella
città un'inquietudine che minacciava la sedizione. Il Trivulzio pose
dell'artiglieria sulla torre che allora sosteneva le campane del
Duomo, e si premunì in corte; ma trovandosi ivi mal collocato, e nel
centro di una città mal contenta, pensò di ricoverarsi nel castello. Il
popolo violentemente se gli oppose; giacchè temevasi che, giuntovi, non
adoperasse quell'artiglieria sulla città. Il Trivulzio parlò al popolo,
lagnandosi di non essere profeta nella sua patria. Mostrò essere pazzia
l'ostinarsi a voler essere piuttosto sudditi di un piccolo principe,
ramingo, bisognoso, e che smunga i popoli colle gabelle, anzi che
ubbidire ad un monarca generoso, potente, ricco.... Le grida insultanti
del popolo non gli permisero di continuare il discorso, e non senza
pericolo; sicchè appena gli riuscì di ricoverarsi nuovamente in corte.
Poco dopo il popolo pose le barricate alle imboccature delle strade,
e tutte le finestre ebbero provvisioni di sassi ed altre materie, per
offendere i Francesi. Fra le lettere di Girolamo Morone una ve n'è del
4 marzo 1500, in cui, descrivendo a Girolamo Varadeo quest'incontro,
dice del Trivulzio: che[310] _in tanto prorupit iracundiam, ut
prudentiam omnem abjecisse videretur.... seroque cognovit humanitatem
et mansuetudinem, saeviente populo, magis quam vim et arrogantiam
proficere._ Vi fu chi rimproverogli di aver tre faccie, come ne
portava lo stemma[311]; fugli rinfacciato di essere egli ribelle al suo
sovrano[312], subdolo, traditor della patria, e dovette soffrire tutto
ciò da una moltitudine di seimila persone armate, il che si scorge
nella citata lettera. A tale stato si ridussero gli affari dei Francesi
poco dopo partito il re.

Frattanto Lodovico il Moro (che in Inspruck era stato accolto
umanamente e con sensibilità dall'imperator Massimiliano) non avea
omessa cosa alcuna affine di accelerare il suo ritorno nella patria.
Vero è che nell'avversa fortuna quel principe non seppe mostrare
quel vigor d'animo e quella serenità di mente, che solo possono farci
reggere fralle sventure e superarle. Egli da Inspruck spedì Ambrogio
Bugiardo per Bari, e Martino Casale per Pesaro, colle istruzioni a
ciascuno di portarsi a Costantinopoli. Questa commissione In data
a due, e per vie separate, acciocchè uno almeno potesse eseguirla.
Voleva che a di lui nome animassero il Turco a passare nell'Italia
ed aiutarlo a ricuperare Genova, promettendo di unirglisi per far la
guerra ai Veneziani. Parrebbe incredibile questo partito, se il Corio
non ci avesse stampate le istruzioni dalle quali furono accompagnati
que' due ministri[313]. Ma la protezione dell'imperatore procurò
allo Sforza soccorsi più reali e solleciti; essendosi per ordine
suo radunato un valente corpo di Svizzeri e di Tedeschi. Questi
l'aspettavano ne' confini; e trovandosi, siccome accennai, diminuite
le forze dei Francesi, pel corpo di milizia spedito all'impresa
d'Imola sotto il comando dell'Allegre, riuscì facil cosa al duca
di nuovamente presentarsi, e le inquietudini del popolo ne furono
opportuna occasione. Messer Sanseverino comandava quattromila fanti
svizzeri. All'accostarsi di questi, il Trivulzio abbandonò Milano. Il
giorno 4 di febbraio 1500 il duca Lodovico rientrò in Milano per porta
Nuova, cinque mesi e due giorni dopo che l'ebbe abbandonata. Tutti i
corpi politici gli andarono incontro. Mentre il duca Lodovico passava
verso la Scala, dove oggidì è il teatro, venne avvisato che i Francesi,
padroni del castello, facevano una sortita; il che alquanto lo
sconcertò. Nulladimeno vi si pose ordine, ed egli proseguì l'intrapreso
cammino al Duomo, d'onde passò ad alloggiare nella corte, su cui
l'artiglieria del castello, sebbene operasse, non potè far danno, per
esserne premuniti i tetti. Un giorno solo rimase Lodovico in Milano:
egli passò a Pavia, lasciando al governo di Milano il cardinale Ascanio
suo fratello.

Gli sforzeschi saccheggiarono le case del castellano traditore
Bernardino Corte e de' Trivulzi[314]. Messer Erasmo Trivulzio si
avventurò di presentarsi al duca, chiedendogli perdono. Il duca,
inasprito dalle vicende, lo condannò ad esser chiuso nel forno di
Monza, cioè nel carcere orrendo fabbricato e sofferto da Galeazzo
I[315]. Ma il cardinale Ascanio, più saggio, persuase al duca di non
usare la vendetta. Il tempo era quello che più che mai di acquistarsi
gli animi colla benignità e col perdono.

Dee cagionar meraviglia il vedere come senza spargersi quasi sangue
umano, ritornassero gli sforzeschi ad impadronirsi di Milano, e ne
scacciassero i Francesi. Vero è, com'è notato più sopra, che l'armata
francese erasi indebolita per la spedizione dell'Allegre; vero
pure è che sedicimila svizzeri e mille corazzieri tedeschi s'erano
uniti allo stipendio del duca Lodovico; che non mancava il duca
nè d'artiglieria, nè di corrispondenti munizioni: ma pure potevasi
disporre colle truppe francesi un campo e disputare almeno l'ingresso
nel milanese allo Sforza. Ciò non si fece per le rivalità consuete
fra i primi generali e ministri. Gian Giacomo Trivulzio era, come si è
detto, luogotenente del re e governatore. Ma i primari francesi, mal
sofferendolo, attraversavanlo in ogni cosa. Il conte di Lignì, uomo
di somma autorità nella guerra, disponeva le cose per modo che appena
lasciava al Trivulzio il titolo di governatore. Il vescovo di Luçon,
gran cancelliere e presidente del senato, bramava non meno dell'altro
la rovina del Trivulzio. Si voleva che gli affari andassero male a
segno che il re fosse costretto di togliere al Trivulzio la dignità.
Di ciò scrive minutamente Girolamo Morone a Girolamo Varadeo, in data
del 31 dicembre 1499[316]. Questo illustre nostro cittadino Morone in
seguito ebbe molta parte negli avvenimenti pubblici del Milanese e
dell'Italia, come vedremo. Fu veramente uomo grande, di un giudizio
esatto, di penetrante ingegno, e tale che in ogni secolo, e presso
qualunque nazione avrebbe potuto primeggiare; il che non si può dire di
molti. Lodovico XII nel nuovo piano politico aveva creato un avvocato
fiscale, il quale per ufficio avesse cura e tutela delle ragioni del
principe, sì per gl'interessi camerali, che per la giurisdizione
rispetto a' feudi, alla corte di Roma e ad ogni altra competenza.
Questo avvocato del principe aveva la facoltà d'intervenire a qualunque
adunanza in cui potesse avere interesse la giurisdizione sovrana; nè
potevasi dai tribunali determinare, se prima su tai punti non avesse
esposte le sue ragioni l'avvocato del re. A questa carica volle
Lodovico XII promovere un nobile milanese che ne avesse il talento; e
scelse il giovane Girolamo Morone, mosso dalla buona fama che correva
di lui, senza ch'ei lo sognasse nemmeno. Tant'egli era alieno dal
pensarlo, che vennegli l'annunzio per parte del re, mentre egli,
ritirato in una villa, stavasene lontano dalla tumultuosa rivoluzione
che cagionava nella città la venuta de' Francesi. Morone nelle sue
lettere descrive il fatto. Egli eseguì assai bene il proprio ufficio
finchè dominarono i Francesi. Partiti questi, egli rimase in Milano
senza inquietudine, perchè senza colpa. Il duca Lodovico lo chiamò, e
lo accolse con somma cortesia. Gli propose di volerlo spedire a Roma
ed a Napoli per ricercare soccorsi contro de' Francesi; e lo avvisò di
prepararsi ad eseguire questa commissione. Il Morone ringraziò il duca
dell'onore che voleva fargli; ma considerandosi ancora assai giovine
ed imperito per affari di Stato, supplicò per essere dispensato da
una commissione che difficilmente sarebbe riuscita con buon servigio
del duca e con onore di lei. Il duca Lodovico graziosamente replicò
che il senno del Moroni era virile se l'età era fresca, e che sperava
sarebbe ottimamente riuscito. Il Moroni soggiunse al duca che nè il
papa, nè il re di Napoli si sarebbero fidati di lui attesochè dai
Francesi era stato beneficato, e che questo solo bastava a renderlo un
negoziatore infelice. Nemmeno a ciò s'arrese il duca, replicando che
la confidenza ch'egli mostrava di avere in esso lui, avrebbe convinti
e il papa e il re per modo che avrebbero liberamente trattato seco.
Vedendo il Morone deluso ogni sotterfugio, con sommessione dichiarò
ch'egli avrebbe data la vita pel servigio del suo natural principe; ma
che egli sentiva una ripugnanza invincibile a far cosa alcuna in danno
de' Francesi, dai quali era stato favorito. Lodovico lodò la virtù del
Morone, lo congedò, ma si conobbe che non ne rimase contento:[317]
_Profecto rationis efficacia victus, manum dedit; attamen, dum ne
dimisit, eum mihi subiratum dignovi, quoniam, ut scis, principes quod
volunt, nimium velle solent, et ut plurimum quod juvat magis, quam
quod decet, cogitant_[318]. Le lettere del nostro Moroni si trovano
nella biblioteca del fu conte di Firmian, e meriterebbero di veder la
luce, poichè sono l'opera di un uomo di Stato che ebbe fralle mani i
principali affari d'Italia de' tempi suoi; e conseguentemente servono
di molto aiuto per la storia.

Lodovico il Moro stette per due settimane a Pavia per ivi radunare
le sue soldatesche, le quali s'andavano ogni dì aumentando, mercè
gli Svizzeri e Tedeschi che scendevano dalle Alpi e si ponevano allo
stipendio di lui. Milano frattanto era inquietata dalle scorrerie che
tentavano i Francesi acquartierati nel castello, malgrado la custodia
del cardinale Ascanio; volavano di tempo in tempo le palle sulla città:
avvenimento che cinquant'anni prima avea preveduto il buon Giorgio
Piatto. Il duca, avendo più di sedicimila svizzeri, mille corazzieri
tedeschi e molta cavalleria italiana, forz'era che tentasse qualche
azione. Egli mancava di denaro, nè potea lungamente mantenere al suo
stipendio quest'armata. I Francesi dell'Allegre da Imola ritornarono
per unirsi ai compagni. Dalla Francia era spedito nuovo rinforzo
sotto il comando del duca della Tremouille; non v'era speranza pel
Moro, se non nella rapidità di approfittare dell'occasione favorevole.
Dispose adunque d'impadronirsi di Vigevano, e da Pavia partitosi ai
20 di febbraio 1500, il giorno 25 se ne rese padrone. Per animare i
suoi egli aveva loro promesso il saccheggio di quella città, e gli
Svizzeri avevano raddoppiati con tal mercede i loro sforzi. Ma il duca
amava quel luogo, e non ebbe cuore di vedere eseguita la rovina di
que' cittadini. Fece distribuire a ciascun soldato un ducato d'oro, di
che rimasero tutti assai malcontenti. Poi Lodovico Sforza co' suoi si
inoltrò verso Mortara, otto miglia distante da Vigevano, e collocò le
tende in faccia del Trivulzio. I Francesi erano alquanto sbigottiti dai
prosperi eventi dello Sforza; gli sforzeschi per questi medesimi erano
animosi. Francesco Sanseverino, uomo che avea un nome nella milizia,
animava il duca a cogliere l'occasione e venire tosto a giornata,
prima che un nuovo corpo di Svizzeri e il duca de la Tremouille
rendessero formidabile il nemico; ma il duca, sempre incerto e mancante
di energia, rispondeva esser meglio il vincere temporeggiando, che
tentare l'incerta fortuna di una battaglia; la qual massima non
poteva essere più fuori di luogo che in bocca di un principe gli
Stati di cui sieno occupati da un nemico potente, e che non avea per
liberarsene altro mezzo che una momentanea armata, senza un erario
con cui tenerla quanto occorresse allo stipendio; giacchè il cardinale
Ascanio, per raccogliere danaro, era ridotto a far coniare moneta cogli
argenti delle chiese di Chiaravalle, del Duomo, di Sant'Eustorgio,
di San Francesco e di San Marco. Ma il duca Lodovico non aveva
ereditati i talenti militari del duca Francesco suo padre. Egli era
un principe colto bensì, ma non un eroe; principe di vaste idee anzi
che di grandi e solide, snervato dall'avversa fortuna, privato della
duchessa, abbandonato a consigli vacillanti. Avrebbe dovuto cimentarsi
coll'armata francese; ma invece levò le tende e trasportò il suo
campo sotto Novara, che era in poter de' Francesi sotto il comando del
conte di Musocco, figlio del maresciallo Trivulzio. Il duca promise
il sacco di Novara; il che era in que' tempi un diritto militare,
allorchè per assalto e senza capitolazione veniva presa una città.
Alcuni cittadini novaresi segretamente intrapresero a concertare col
Moro per introdurlo nella città. Novara era assai ben munita, nè facil
cosa era l'impadronirsene. La prima condizione che i cittadini vollero,
fu quella di aver salve le cose loro. Il duca, contentissimo per sì
inaspettato mezzo, che spianava ogni ostacolo, a tal condizione aderì,
e così entrarono gli sforzeschi in Novara, sicchè a stento potè appena
per la porta opposta correre a salvamento quel presidio. Ciò accadde
il giorno 20 di marzo 1500. I soldati si posero a saccheggiare a norma
della parola datane loro dal duca; ma egli nuovamente lo proibì; il che
sempre più alienò da lui l'animo di quell'armata, composta di soldati
che non aveano legame veruno col duca; gente collettizia, radunata
allora allora per la speranza di far bottino, e che vedevasi delusa e
quasi schernita dal duca, malgrado la sua parola, e malgrado anche i
loro diritti militari.

Mentre Lodovico Sforza stavasene co' suoi entro Novara, il di cui
castello tuttavia era in mano dei Francesi, il ministro del re di
Francia alla dieta del corpo elvetico, Antonio Brissey, maneggiava
il colpo decisivo, per cui il suo re, senza contrasto, rimanesse duca
di Milano. Gli scrittori sinora hanno rappresentata la prigionia del
Moro come un tradimento degli Svizzeri; ed hanno offeso con ciò, non
solamente il carattere de' fedeli ed onorati Elvezii, ma la verità e
il buon senso, che non permetterebbe mai di credere che sedicimila
uomini si unissero per tradire chi li paga[319]. Le lettere del
Morone ci svelano come seguisse il fatto[320]. Poichè fu Lodovico in
Novara, i Francesi s'accrebbero; e molta gente venne dalla Svizzera
sotto le loro bandiere. S'avvide allora il duca del male che avea
fatto non ascoltando i consigli del Sanseverino; e, come dice il
Morone[321]: _Se ipsum arguere, propriamque vecordiam accusare non
cessabat, nec quid consilii caperet satis intelligebat._ Galeazzo
Visconti era il ministro del duca alla dieta elvetica, ed ivi non
cessava di animare quella sovranità a cogliere l'onorevole occasione
di far la pace alla Lombardia. Solo che la dieta lo volesse, doveano
cessare al momento le ostilità; giacchè le forze principali dei due
eserciti consistevano negli Svizzeri, che avevano bensì la libertà di
vendere i loro militari servigi alla potenza che più era in grado a
ciascuno; ma conservavano sempre il carattere di sudditi della dieta,
alla quale non avrebbero potuto mancare, se non sacrificando l'onore,
la patria, i parenti e i loro poderi. Bastava un ordine supremo agli
Svizzeri dei due eserciti, per cui si vietasse loro di combattere,
che la sospensione d'armi era al momento fatta. Bastava spedire
abili negoziatori che, a nome della sovranità elvetica frapponendosi,
conciliassero la pace; e per necessità doveano l'una e l'altra parte
piegarsi e ricevere in certo modo la legge. Il progetto era nobile,
umano e grande. Fu aggradito. Si spedirono gli ordini sovrani per due
corrieri alle due armate. Si trascelsero dodici deputati, i quali
venissero a dar la pace. Assicurato di ciò il duca, si collocò in
Novara. Ma il destrissimo Antonio Brissey corruppe il corriere che
portava il decreto all'armata francese, per modo ch'ei si appiattò in
un villaggio per più giorni, mentre l'altro corriere spedito al Moro
diligentemente accelerava il suo cammino. Così doveva accadere che
gli Svizzeri sforzeschi ricevessero il comando di non combattere, ed
i Francesi non lo ricevessero. Di ciò venne sollecitamente avvisato
il Trivulzio. Qualche notizia ne ebbe anche il Moro, leggendosi nella
cronaca del Grumello: «Essendo una sera Ludovico Sforcia in camera
sua, _in Novara, poco prima di essere preso_, giocando a scacho con
Fracasso Sanseverino; et essendo in epsa camera Almodoro, suo favorito
astrologo, et Jo. Stephano Grimello co' suoi fratelli, giunse una
spia a lui, quale li parlò in le orechie uno poco di tempo, che niuno
intendere poteva. Giochando epso Ludovico Sforcia alzando gli occhi
a lo Almodoro astrologo, disse queste parole: — Almodoro, Johane
Jacobo Trivulcio ha dicto che, avanti passino giorni quindici, sero
prigione del gallico re; che dicesi da voi? Dette risposta Almodoro
che il Trivulcio non diceva vero, perchè non si ritrovava alcuno
pianeto per il qual si potesse coniecturar tal cosa che sua Signoria
havesse ad esser prigione, anzi victoriosissimo». Giunse agli Svizzeri
sforzeschi il divieto sovrano che proibiva loro il battersi. L'armata
francese, il giorno 4 di aprile, si pose in marcia e si collocò un
miglio distante da Novara, in modo da impedire al duca ogni soccorso
di viveri. I francesi gli presentarono la battaglia; e il duca non
sapeva comprendere come ciò fosse, poichè, dal decreto recato agli
Svizzeri suoi, vedevasi che un consimile ordine contemporaneamente si
spediva agli Svizzeri nemici. Tentò varie strade per far notificare
agli Svizzeri della Francia l'ordine dei loro sovrani, ma la vigilanza
de' Francesi lo impedì. Non aveva provvisione di viveri in Novara;
e forza era sloggiare i Francesi, per non perirvi di fame. Invano il
duca chiese agli Svizzeri il loro aiuto, che no 'l potevano prestare
senza fellonia. Essi soltanto si offersero a schierarsi bensì in
ordine di battaglia, acciocchè egli co' Tedeschi e cogli Italiani
che aveva staccato, si potesse, volendolo, aprirsi vigorosamente una
strada e ricoverarsi in Milano, dove il cardinale Ascanio teneva cinto
il castello con dodici mila uomini, ed erano vicini nuovi soccorsi
dell'imperatore. I Tedeschi e gl'Italiani, che il Moro seco aveva in
Novara, erano ottomila uomini, picciolo corpo bensì a fronte della
armata francese, ma bastante per una impetuosa incursione che lo
ponesse in salvamento. Così venne stabilito. Ma usciti appena gli
Svizzeri da Novara e trovatisi a fronte dei nemici, nemmeno sostennero
quell'apparenza; ed improvvisamente piegando le loro bandiere e
riponendole nel sacco, abbandonarono il posto; il che pose il tal
disordine gli ottomila Tedeschi e Italiani, che, sorpresi, volsero le
spalle, e, disordinatamente fuggendo, si ricovrarono di bel nuovo entro
le mura di Novara, dove fu costretto di ricoverarsi frettolosamente
il duca. Mancavano i viveri pel giorno seguente. La notte si trattò
fra il Ligny e il duca, e si concertò una capitolazione. Il giorno
vegnente, cioè il memorando giorno 10 aprile 1500, il Trivulzio la
disdisse e dichiarò nulla, pretendendo che mancasse nel generale
francese la facoltà di concertarla. Un onorato capitano albanese,
che trovavasi nell'armata del duca, lo consigliò di montare sul di
lui cavallo barbero, di prodigiosa fortezza e velocità, sul quale
sicuramente si sarebbe portato a Milano; ma il duca, timido, avvilito,
non seppe risolversi. Si rivolse invece a pregar gli Svizzeri che
lo vestissero come uno de' loro fantaccini, acciocchè sconosciuto,
potesse evitare la prigionia. Capitolarono gli Svizzeri sforzeschi co'
nemici, ed ottennero di liberamente tornarsene al loro paese. Mentre
uscivano da Novara gli Svizzeri, e con essi il duca travestito, un
araldo a nome del duca uscì da Novara, e si portò dal generale Ligny
per confermare la capitolazione. Sperava il Moro con tale astuzia di
occupare frattanto i generali francesi e distorgli dal sospettare la
fuga di lui. Lodovico, attorniato da sedicimila Svizzeri, era già
fuori della città, e consolavasi credendosi in salvo, senza avere
con veruna capitolazione abdicate le sue ragioni. Il cardinale di
Rohan comandò all'armata francese di porsi in ordine di battaglia,
acciocchè gli Svizzeri dovessero sfilare due a due attraverso. V'è
chi crede che lo stesso comandante svizzero sforzesco avesse tradito
il duca, avvisandone il cardinale. La faccia dei sovrani è nota, e
corre sulle loro monete. Il Moro venne scoperto, tanto più facilmente,
quanto che egli per la statura eccedeva la comune, e pel fosco colore
del volto ebbe per sopranome _il Moro_. Nella lettera il Moroni
dice:[322] _Infelix Ludovicus, qui non oris, non majestatis quam in
vultu semper habuit, non proceritatis habitum mutare potuerat, licet
vestes commutasset, agnitus apprehensusque fuit_. Quel drappello di
cavalleria sforzesca che trovavasi in Novara, còlto il momento in cui i
Francesi ebbero preso il duca[323], _facta statim eruptione_, si salvò
attraversando l'armata francese; il che mostra qual fosse il partito
che avrebbe dovuto prendere il duca.

Appena fu il duca nelle mani de' Francesi, che, in quel medesimo
umiliante arnese da fanticcino svizzero, fu condotto alla presenza
del comandante Gian Giacomo Trivulzio. Pareva che la presenza di
quel principe, già suo sovrano, ora suo prigioniero, dovesse eccitare
nell'animo del Trivulzio, non già la collera, ma la compassione. La
perduta sovranità, e l'abbiezione presente, la prigionia dovevano
eccitar in un cuor generoso la brama di alleggerire i mali del
suo avverso destino, non di aggravarli. Convien dire che non fosse
mosso da questi principii l'animo del maresciallo Trivulzio, poichè
duramente allora gli rinfacciò il bando che gli aveva dato. Passò il
duca in custodia del duca de la Tremouille, il quale, rispettando la
sventura di lui, lo provvide di abiti e di quanto conveniva alla di
lui condizione[324]. Il giorno 17 aprile, che fu un venerdì Santo,
partì da Novara per la Francia, abbandonando per sempre l'Italia. Il
duca de la Tremouille con trecento cavalli lo scortava. Passando per
Asti, lo sventurato Lodovico dovette ascoltare mille ingiurie dal
popolaccio affollato, che gli avrebbe fatto insulti anche maggiori,
se la nobile generosità francese non l'avesse impedito. Arrossiva
il disgraziato principe, cadevangli amare ed inutili lagrime,
scoppiavagli il cuore, onde a Susa cadde in tal languore, che convenne
sospendere per qualche giorno il cammino, che poi ripigliossi. Onde,
passate le Alpi e condotto in Francia, fu dapprima collocato nella
torre dei Gigli di San Giorgio nel Berry. Ivi potè corrompere poi
i custodi, e, nascosto sotto il fieno d'un carro, usci dalla ròcca:
ma, al suo solito, mancando pure di ardimento in quella occasione,
si smarrì ne' boschi vicini, e fu nuovamente raggiunto. Quindi in
più stretta custodia collocato nel castello di Loches, finì i suoi
giorni nel 1508, ai 27 di maggio, nell'anno cinquantesimosettimo
di sua vita. Principe a cui furono rimproverate le morti del duca
Giovanni Galeazzo, e dell'onorato e venerato Cicho Simonetta; ma
che nel rimanente fu un sovrano sincero, generoso, liberale, amico
del merito, conoscitore dei talenti, promotore della coltura in ogni
genere, tenero marito, padre affettuoso, principe capace di amicizia
e di benevolenza, e tale insomma che probabilmente venne spinto dal
predominio altrui a macchiarsi contro sua voglia. Come politico poi,
o come militare, convien confessare ch'ei mancava intieramente di
talento, e che non mostrò nemmeno di aver condotta alcuna. Fluttuante,
incerto, pare che i soli casi momentanei determinassero le sue azioni,
senza aver un costante principio; il che rese gli ultimi fatti suoi
meschini agli occhi di ognuno. Così terminò lo splendore della casa
Sforza, che durò cinquant'anni e non più; giacchè, come vedremo,
assai breve e povera comparsa fecero dappoi i due figli di Lodovico,
Massimiliano e Francesco, ch'ei lasciò ricoverati nella Germania presso
dell'imperatore. Il cardinale Ascanio fu preso e condotto parimenti
nella Francia. Gli stipendiati sforzeschi che rimanevano in Milano, si
sbandarono. Sulla prigionia del duca Lodovico si coniò la medaglia in
cui, al rovescio della testa del maresciallo Trivulzio, leggesi[325]:
_Expugnata Alexandria, delecto exercitu, Ludovicum Sfortiam ducem
expellit, reversam apud Novariam sternit, capit_[326]. Il maresciallo
Trivulzio aveva, siccome vedemmo, molti nemici. Il tumulto accaduto
in Milano sotto il governo di lui doveva condurre il re Lodovico XII a
confidare in altra mano la suprema dignità, siccome fece, dichiarando
suo luogotenente e governatore il cardinale di Rohan, che si chiamava
il cardinale d'Amboise. Nemmeno per tre mesi il Trivulzio durò
governatore. Per pochi mesi pure tenne questa carica il cardinale, a
cui fu successore, nell'anno medesimo 1500, il signore du Benin. Entrò
in Milano il Trivulzio il giorno 15 aprile, e andossene ad alloggiare
in sua casa[327], non più in corte. Il cardinale, il giorno 17 di
aprile, entrò come governatore. È facile l'immaginarci quale fosse
l'inquietudine dei Milanesi in tale rivoluzione, disperando di più
rivedere il loro natural principe, e temendo la vendetta de' Francesi,
offesi nell'ultima rivoluzione. In fatti, il cardinale pretendeva
dalla città ottocentomila scudi, ossia dodici mila marche d'oro,
in rifacimento delle spese fattesi per ricuperare lo Stato. La pena
fu poi ridotta a soli trecentomila scudi, e nemmeno di quest'ultima
somma se ne portò tutto il carico, poichè, trattine centosettantamila
scudi effettivamente pagati, mercè di un regalo di gioie del valore di
ottomila scudi d'oro fatto alla regina Anna di Bretagna, moglie del re
Lodovico XII, ella impetrò dal sovrano suo sposo il dono del rimanente.

Dalla presa del duca Lodovico sino al 1507, poco o nulla accadde
nel milanese che meriti luogo nella storia, fuori che gli Svizzeri
si resero padroni di Bellinzona, ed il re di Francia accondiscese a
lasciarne loro il dominio. Negli anni 1502 e 1503 la pestilenza venne
a Milano da Roma e fece strage. Quest'era la undicesima volta, dal
nono secolo in poi, in cui Milano fu esposta a tal miseria; avendo io
osservate memorie di pestilenza negli anni 883, 964, 1005, 1244, 1259,
1361, 1373, 1400, 1406 e 1485. Nel secolo XVI, del quale ora scrivo,
più volte vi penetrò, come vedremo. (1507) L'anno 1507, il giorno 24
di maggio, Lodovico XII, per la seconda volta, venne in Milano. Egli
si era impadronito di Genova, e fece il solenne ingresso, andandogli
incontro, oltre il clero e i corpi pubblici, ducento giovani vestiti
di drappo di seta celeste, ricamato in gigli d'oro. Il re entrò per
porta Ticinese sotto diversi archi trionfali, essendo le vie tutte
coperte di tela, magnificamente parate. Così erano le vie sino al
castello, dove terminò l'entrata. Erano in seguito de' carri dorati, a
foggia de' trionfi dei Romani antichi. Il re stava sotto a baldacchino
di drappo d'oro, con corteggio immenso di principi, marchesi, conti,
sei cardinali, e quattro altri ne vennero il giorno seguente, in
tutto dieci cardinali. Il re visse in Milano coll'affabilità istessa
dell'altra volta; andava ai pranzi, e fu da Galeazzo Visconti, da
messer Antonio Maria Pallavicino; e sopra ogni altro si ricorda il
festino veramente magnifico che diede Gian Giacomo Trivulzio al re
ed alla corte, in cui sedettero più di ducento gentiluomini, cinque
cardinali e centoventi damigelle milanesi. Inoltre vi furono tavole
imbandite per quattrocento arcieri reali, ed altrettanti domestici
e cortigiani; onde più di mille convitati sedettero alle mense del
Trivulzio: e ciò, essendo la stagione favorevole, seguì il 27 di
maggio, sotto sale posticcie, piantate lungo il corso di porta Romana.
Indi vi si ballò e s'ebbe il divertimento delle maschere. Al re
singolarmente piacque una bellissima giovine, Caterina di San Celso,
che cantava, suonava e ballava sorprendentemente, ed aveva somma
grazia, ingegno e vanità di conquiste.

Fra i varii spettacoli che in quella occasione si videro, uno ve
n'ebbe il quale minacciò di cagionare degli inconvenienti. Il giorno
14 giugno 1507 fu destinato ad una rappresentazione militare. Il
giorno precedente cadeva la solennità del Corpus Domini, ed il re,
con sette cardinali, col duca di Savoia, e i marchesi di Monferrato
e Mantova, e una schiera di ministri esteri, aveva decorata la
solita processione. La comparsa militare consisteva nel mostrare
l'attacco di una fortezza. Erasi accomodato a foggia di una ròcca, a
quest'oggetto, il palazzo dove soleva dimorare il governatore, ch'era
Carlo, gran maestro d'Amboise, succeduto al cardinale di Rohan[328]. A
difendere il forte, stavano esso governatore, il marchese di Mantova
e il maresciallo Trivulzio, con cento uomini d'armi. L'attacco si
faceva con forti bastoni, e tanto fu l'ardore, che alcuni vi rimasero
morti, molti feriti; e la cosa era talmente impegnata, non volendo
alcuna delle due parti cedere, che, per evitare una funesta scena,
dovette il re in persona porsi di mezzo. Un mese e mezzo dimorò il re
Lodovico questa seconda volta in Milano, d'onde partissene il giorno
11 luglio alla volta di Savona, per abboccarsi al re di Spagna, e
concertar il matrimonio della sorella del duca di Nemours con quel
re. I Veneziani, vedendo che il re Lodovico XII si era con facilità
impadronito di Genova, cominciarono a temere questo potentissimo
vicino, che aveano incautamente invitato ed assistito. Mossero delle
pratiche per animare l'imperator Massimiliano, il quale avea alla
sua corte i due esuli principi Massimiliano e Francesco, figli del
duca prigioniero. Non poteva il capo dell'Impero considerare mai come
legittima invasione fatta dal re di Francia nel milanese. Il feudo
non passava nelle femmine, e quindi era viziato il titolo su cui
fondavasi il re. Veramente ancora più viziato era quello che poteva
mostrare Francesco Sforza; poichè la Bianca Maria, nella sua origine,
aveva una macchia, della quale era immune la Valentina. Ma appunto per
questo, quell'augusto avea, con nuova investitura, costituito Lodovico
secondogenito, acciocchè l'investitura mostrasse l'arbitrio cesareo
nella scelta. Oltre poi l'augusta maestà dell'Impero, nel cuore di
Massimiliano parlavano i moti del sangue in favore dei due giovani
principi oppressi. (1508) Lusingato adunque Massimiliano del favore de'
Veneziani, si presentò ai difficili passi dell'Adige per discendere dal
Tirolo nella Lombardia; e, col pretesto di passar poi a Roma per farsi
incoronare, scacciar prima i Francesi dal ducato di Milano. Ma trovò
opposizione tale de' Veneziani, che dovette tornarsene. Egli mosse le
armi contro i Veneti, ed essi occuparono le terre imperiali di Gorizia
e Trieste. Questi furono gli ultimi motivi che determinarono la famosa
lega di Cambrai l'anno 1509; lega in cui il papa, l'imperatore, il re
di Francia, il re di Spagna e varii altri minori principi Gonzaghi,
Estensi, ec., si unirono a danno della prepotente repubblica veneta
lega, per cui Venezia fu nel punto di perire, e per cui ricevette un
colpo siffatto, che più non le fu possibile riascendere alla primiera
grandezza. Era meglio per Venezia l'avere per confinante un principe
di forze moderate, come lo Sforza, ovvero un re di Francia? Sulla
casa Sforza essa acquistò Brescia, Bergamo e Cremona. Il tempo cambia
i principi, e le repubbliche immortali seguitano sempre la stessa
politica. Un successore debole sul trono di Milano accresceva nuove
spoglie ai Veneti; Cremona, la Gera d'Adda terminarono in mano de'
Veneti.... Quantunque, era forse un bene per Venezia l'accrescere tanto
lo Stato suo? E se, invece di farsi delle città suddite, ella ne avesse
fatte altrettante alleate e partecipi della veneta libertà, dando la
cittadinanza veneta ai vinti, come i Romani.... forse rinasceva Roma
nel seno dell'Adriatico. Mi si perdoni questa digressione. Facil cosa è
giudicare dagli effetti, siccome fa lo storico; ma gli uomini di Stato,
costretti ad antivedere, sono dalle apparenze sedotti facilmente.
L'oggetto di questa unione si era che il papa togliesse alla repubblica
le città marittime della Romagna; l'imperatore acquistasse Verona,
Vicenza e Padova; il re di Francia riunisse al milanese Crema, Bergamo
e Brescia. Gli altri principi tutti avevano concertata la porzione che
lor dovea appartenere dello spoglio del Veneziani.

I Veneziani radunarono un esercito di sessantamila uomini; e ne
confidarono il comando al conte Bartolomeo d'Alviano. Si presentarono
i Veneti all'Adda. Di contro comparve il governatore di Milano,
gran maestro Carlo d'Amboise, con una men forte armata. I Veneziani
posero il fuoco a Treviglio; il loro comandante voleva prendere Lodi
e Milano, od almeno tentarlo prima che giugnesse il re di Francia, il
quale con nuovi armati passava le Alpi; ma i provveditori veneti no
'l permisero. (1509) Comparve Lodovico XII in Milano il giorno 1.º di
maggio del 1509, e fu questa la terza volta. Vi dimorò otto giorni;
indi co' suoi s'incamminò alla volta di Cassano. Egli avea al suo
seguito da cento de' primi gentiluomini milanesi, che seco conducevano
più di mille cavalli corredati con maravigliosa magnificenza; e questi
combattevano a proprie spese senza stipendio; su di che il Prato: «al
vedere quelle cavalcanti compagnie sì di francesi come di milanesi, con
i saioni quasi tutti di broccato d'oro sopra le fulgenti armi, avendo
il re, vestito di bianco, nel mezzo, era veramente uno obstupescere
l'occhio del risguardante». Giunse il re a Cassano; si pose di fronte
ai marcheseschi. I Veneziani erano vantaggiosamente accampati alla
sinistra riva dell'Adda, e scorreva avanti al lor campo. Voleva il
re arditamente passare il fiume ed attaccarli, ma Giovan Giacomo
Trivulzio lo sconsigliò da questo temerario partito a fronte di una
numerosa armata, provveduta di molta artiglieria. Il re fece dei
ponti, e su di essi passarono i Francesi; ciò accadde il 10 maggio
1509. V'erano il Trivulzio, La Palisse, il duca di Courbon. Il conte
Bartolomeo d'Alviano voleva attaccare i Francesi al momento in cui
stavano passando il fiume; e si lagnò de' provveditori veneti, che gli
strappavano dalle mani la vittoria e lo esponevano poi alla rovina. Non
permisero i provveditori che scendesse dal suo campo trincerato. Il re
pose il suo accampamento sul fiume alle spalle e fece rompere i ponti,
acciocchè i soldati sapessero che non rimaneva scampo alcuno colla
fuga. I Veneziani si ritirarono verso Caravaggio. Il 14 maggio 1509
si posero in marcia i Francesi. I Veneziani avevano circa ventimila
fanti e mille uomini d'armi. Fra i primi nell'attaccare furono i nostri
milanesi. Il fatto seguì fra Agnadello e Mirabello. Rimasero sul campo
sedicimila persone. Alcuni dissero persino ventimila. L'Alviano fu
ferito. Ventitre pezzi di grossa artiglieria vennero in potere de'
Francesi. Molti veneziani rimasero prigionieri. Il poco che rimase
dell'armata marchesesca fuggì verso Brescia. Dopo questa insigne
sconfitta d'Agnadello, del 14 maggio, i Francesi presero Caravaggio
il 16; il giorno 18 maggio Bergamo si sottomise al re; e il giorno 23
maggio Brescia pure conobbe il re di Francia per suo signore. Crema nel
mese istesso si sottomise. Tale fu l'impressione che fece la vittoria
di Agnadello, che Verona, Vicenza e Padova portarono al re le chiavi,
e il re le fece consegnare agli ambasciatori del re de' Romani, come
città a lui appartenenti.

Dopo un così rapido corso di vittorie il re Lodovico XII, il giorno
1.º di luglio, entrò in Milano con una sorta di trionfo. Girò da San
Dionigi dietro la fossa per entrare solennemente da porta Romana,
che allora era al ponte; e da porta Romana al castello erano le case
coperte _di panni di razza, con li padiglioni sopra_; come dice il
Prato, che descrive la pompa essere stata tale, che ardiva paragonarla
ai trionfi de' Romani antichi. Vi erano quattro archi trionfali, e
l'ultimo sulla piazza del castello, «il quale, fra gli altri belli,
era bellissimo, d'altezza di più di cinquanta braccia, disopra avendo
di rilievo la imagine del re, sopra un cavallo tutto messo a oro, di
maravigliosa grandezza, con due giganti a canto, e tutte le commesse
battaglie intagliate e dipinte, che era una bellezza a vedere, e più
superba cosa saria stato, se la súbita venuta del re non avesse il
mezzo dell'opera intercisa»; così il Prato. Il re era preceduto da
carri dorati, e rappresentavano le città sottomesse, alla foggia de'
trionfi romani. S'era preparato un magnifico carro trionfale, tutto
dorato e condotto da quattro cavalli bianchi, coperti superbamente di
ricamo, e scortato da ventiquattro pomposi custodi; ma il re non volle
ascendervi e rimase a cavallo, corteggiato da gran numero di principi,
conti e marchesi, ducento gentiluomini francesi, e molti gentiluomini
milanesi _sì superbamente vestiti che il domestico abito era semplice
broccato_; così il Prato. Il re poco dopo tornò in Francia[329].

Mentre i Francesi riunivano al ducato di Milano, Brescia, Bergamo
e Como, l'imperatore possedeva Verona, Vicenza e Padova; e il papa
s'era reso padrone di Ravenna, Cervia, Imola, Faenza, Forlì, Rimini e
Cesena. Ma, come accadde sempre alle forze collegate, che i separati
interessi de' soci le scompongono ben tosto, così riuscì ai Veneziani
di riprendere Padova. Poco dopo, segretamente il papa fece la pace co'
Veneziani, ed ottenne la signoria delle città che aveva conquistate
nella Romagna, con di più il patto che la repubblica non mai occupasse
Ferrara. Così mancando il papa di fede alla Lega, questa cessò, e
ciascuno si rivolse a provvedere a' casi suoi.



CAPITOLO XXI.

  _Lodovico XII, re di Francia, perde il Milanese, ove è riconosciuto
  Massimiliano Sforza, ottavo duca._


Dopo la vittoria di Agnadello, il re di Francia Lodovico XII aveva
ottenuta dall'imperatore Massimiliano l'investitura del ducato di
Milano collo sborso di centocinquantacinquemila scudi d'oro[330].
Così quell'augusto parve che sagrificasse i due suoi cugini germani,
Massimiliano e Francesco Sforza, spogliandoli di quel diritto ch'ei
medesimo aveva dato ad essi nell'investitura di Lodovico il Moro,
loro padre. Ma se le circostanze momentanee consigliarono un tal
partito, in forza della lega di Cambray, considerata per un mostro
politico; cambiate queste, ben tosto gl'interessi di ciascun potentato
ripigliarono il loro vigore; e nello Sforza preferì cesare un principe
stretto parente e protetto da lui, ad un rivale formidabile, quale
era il re di Francia. (1510) Il papa Giulio II, staccatosi dalla lega,
unitosi co' Veneziani, teneva segrete pratiche cogli Svizzeri, a fine
di scacciare dal Milanese i Francesi, o d'inquietarli per lo meno.
Quella nazione bellicosa e confinante, cinta da montagne altissime,
poteva con improvvise incursioni sorprendere, e, rispinta, ancora
ricoverarsi fralle rupi native fuori da ogni pericolo di offesa. Dopo
di avere gli Svizzeri occupata Bellinzona nella rivoluzione in cui
Lodovico il Moro fu preso, resi padroni di quella rôcca, in addietro
posseduta dai duchi di Milano, non solamente si videro arbitri di
invadere la sottoposta pianura del Milanese, ma formarono disegno
di occuparne una porzione. Il papa, che aveva già l'animo rivolto
a Parma e Piacenza, città state sempre unite al ducato di Milano, a
fine di staccarle ed appropriarsele come città comprese anticamente
nell'esarcato di Ravenna, e nella donazione che la contessa Matilde
aveva fatta alla Santa Sede, adescò gli Svizzeri a staccare altresì
dal ducato medesimo Lugano, Locarno e Mendrisio, tre distretti i più
vicini alle Alpi. Animò i Grigioni ad acquistar Bormio e la Valtellina.
Il principal motore presso gli Svizzeri fu Matteo Scheiner, uomo
di nascita plebea, dapprincipio maestro di scuola, indi curato, poi
canonico di Sion, piccola città del Vallese, uomo di una impetuosa
eloquenza e di un carattere violento, ostinato ed appassionatamente
nemico dei Francesi, fatto per le armate più che pel sacerdozio, il
quale, per testimonianza di Varilas, sforzò col ferro alla mano il suo
capitolo a nominarlo coadiutore; e fatto indi vescovo di Sion, rese
celebre il suo nome per le imprese militari e per la somma influenza
che ebbe presso gli Svizzeri, e conseguentemente negli affari di que'
tempi, nei quali gli Svizzeri avevano moltissima parte; uomo perfine,
che dal papa, per sempre più rendersi amici gli Svizzeri, fu creato
cardinale, e dagli scrittori chiamasi _il cardinale di Sion_. Nel
mese di settembre del 1510 gli Svizzeri fecero una incursione dal
ponte della Tresa a Varese. I Francesi erano sparsi nei presidii di
Brescia, Peschiera e altre fortezze, che ora sono dello Stato veneto.
Cinquecento lance stavano a fronte dell'esercito veneziano. Altre
cento lance francesi erano passate ausiliarie del duca di Ferrara,
minacciato dal papa, il quale aveva accordato co' Veneziani ch'essi
non gl'impedirebbero d'impadronirsi di quella città, togliendola
agli Estensi. Il qual progetto non riuscì allora a Giulio II; ma
ottantasette anni dopo, cioè nel 1597, Clemente VIII Aldobrandino
lo ridusse a compimento. I Francesi non aveano quindi forze bastanti
per impedire simili scorrerie degli Svizzeri; i quali, dopo di avere
saccheggiate le terre, si ricoverarono prima dell'inverno sulle loro
Alpi. (1511) Ma l'anno seguente, cioè 1511, sedicimila, secondo il
Guicciardini, o venticinquemila Svizzeri, secondo il Prato, scesero
dalle loro montagne, occuparono di bel nuovo Varese, s'innoltrarono
a Gallarate, a Rho, e si presentarono fin sotto le mura di Milano
il giorno 14 dicembre 1511. Ma non avendo costoro artiglieria,
non passarono più oltre; anzi, incamminatisi verso la loro patria,
lasciarono devastate od arse le terre di Bresso, Affori, Niguarda,
Cinisello, Desio, Barlassina, Meda ed altre. Queste incursioni
rendevano sempre più deboli le intraprese de' Francesi contro i
Veneziani e contro del papa, che già consideravasi come aperto nemico
del re di Francia. Quai fossero i pensieri di papa Giulio II in
quest'affare, si vede nel Guicciardini[331]. «Aveva il pontefice, dice
egli, propostosi nell'animo, e in questo fermati ostinatamente tutti
i pensieri suoi non solo di reintegrare la Chiesa di molti Stati, i
quali pretendeva appartenersegli, ma oltre a questo, di cacciare il re
di Francia di tutto quello possedeva in Italia, movendolo la occulta
ed antica inimicizia che avesse contro lui, o perchè il sospetto avuto
tanti anni si fosse convertito in odio potentissimo, o la cupidità
della gloria di essere stato, come diceva poi, liberatore d'Italia dai
barbari». I Francesi non aveano nell'Italia se non mille e trecento
lance e ducento gentiluomini[332], parte a Brescia, parte a Bologna,
parte a Faenza.

Il governatore di Milano e comandante delle armate francesi nell'Italia
era il gran maestro Carlo d'Amboise di Chaumont, il quale, nel 1505,
era succeduto al signore Du Benin; e questi aveva avuti due altri
prima di lui, il maresciallo Trivulzio o il cardinale di Rohan. Questo
quarto governatore morì di malattia in Coreggio il 10 marzo 1511, e
venne trasportato solennemente in Milano il 31 di esso mese. Il Prato
ci descrive quel corredo funebre. Due cavalli coperti di velluto nero,
ricamato d'oro, portavano il sarcofago, similmente coperto, con sopra
la collana d'oro di San Michele. Precedevano cinque cavalli coperti
sino a terra di velluto nero. Sul primo eravi un paggio con in mano
la lancia: sul secondo, altro paggio portando un bastone dorato; sul
terzo, un simile con mazza dorata; sul quarto il paggio aveva sul capo
l'elmo dorato, e nella mano lo stocco; il quinto cavallo era a sella
vuota, collo stocco pendente dall'arcione, ed era condotto a mano.
Veniva poi la cassa di piombo, portata e coperta come ho scritto;
seguitavanla i soldati e cortigiani, tutti in lutto con abiti sino
a terra, e con certi cappucci in capo, con cui _quasi elefanti mi
sembravano_, dice il Prato. Indi seguivano quattromila poveri, vestiti
di nuovo, con torce nere in mano; poi quanti preti e frati v'erano in
Milano, venivangli dietro con torce in mano. Il Duomo, ove la pompa
finì, era tutto coperto di panni funebri, ed ornato di torce in sì
gran numero, che una non era più di due braccia discosta dalle altre.
Stavano alle porte alcuni che gettavano denaro ai poveri. La funzione
fu magnifica. Il cadavere poi privatamente fa trasportato in Francia.
Tali singolarità meritano luogo nella storia, perchè ci rappresentano
i costumi ed il lusso dei tempi. L'onorare le ceneri de' trapassati
sembra cosa quasi naturale all'uomo, poichè sino da' più rimoti secoli
se ne scorgono lo tracce; e le nazioni selvagge eziandio ne hanno dato
esempio; l'estinguere questo pietoso sentimento sarebbe difficilissimo
e forse un cattivo progetto. Il limitare la profusione di tai pompe
sembra conforme ad una saggia legislazione. Se questo affetto poi
di preservare la spoglia e perpetuar la memoria delle persone che
ci furono care, si rivolga in favor delle belle arti, animando la
scultura, merita incoraggiamento e lode. Nel secolo XVI cominciò tra
noi una severa e poca avveduta vigilanza contra siffatti monumenti, e
se ciò non fosse stato, avremmo assai più ornati i nostri sacri templi
di riconoscenti memorie dei cittadini e del progresso delle belle arti,
che non abbiamo.

Poichè Giulio II ebbe mancato di fede al re di Francia, staccandosi
dalla lega ed unendosi coi Veneziani, movendo gli Svizzeri, ed
accostandosi agli Spagnuoli, alcuni cardinali, o partitanti della
Francia, o malcontenti per la vita assai più militare che ecclesiastica
del sommo pontefice, si radunarono in Pisa, ove si andava formando un
concilio per deporlo, e dichiarar vacante la Santa Sede. In Pisa non
si credendo eglino bastevolmente sicuri, passarono alcuni cardinali
a Milano colla idea di quivi congregare il concilio. Come fossero
accolti, lo scrive il Guicciardini[333]. «Ma a Milano i cardinali,
seguitandoli per tutto il dispregio e l'odio dei popoli, avrebbero
avute le medesime o maggiori difficoltà; perchè il clero milanese, come
se in quella città fossero entrati, non cardinali della chiesa romana,
soliti a essere onorati e quasi adorati per tutto, ma persone profane
ed esecrabili, si astenne subitamente da sè stesso dal celebrare gli
uffizi divini, e la moltitudine, quando apparivano in pubblico, gli
malediceva, gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi,
e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce, riputato autore di
questa cosa». Il cardinale Santa Croce, spagnuolo, era uno dei primi
autori di tale scisma. I nostri ecclesiastici, immediatamente dopo la
loro venuta, cessarono di celebrare le sacre funzioni, considerando
come soggetta all'interdetto la terra ove abitavano questi prelati.
Il governo comandò loro di continuare nel solito ministero, ed il
Prato ci avvisa che i monaci Benedettini, Cisterciensi e Lateranesi,
per non aver voluto ubbidire, ebbero i militari posti ad alloggiare
sulle loro terre. (1512) Il giorno 4 gennaio 1512 si radunò nel
Duomo questo concilio. Il cardinale di Santa Croce cantò la messa
pontificale: il cardinale Sanseverino ed un altro cardinal francese
servivano da diacono e suddiacono; v'erano altri due cardinali
assistenti, e ventisette colle mitre bianche in testa, altri vescovi,
ed altri abbati. Trattossi di portare giudizio su papa Giulio; ed eravi
per notaio, che scriveva gli atti del concilio, un messer Ambrogio
Bolfraffo. Tenne varie sessioni questo concilio, ed in una del giorno
21 d'aprile venne dichiarato il sommo pontefice sospeso dalla sua
dignità papale. Di tutto ciò fa menzione il Prato.

Nè già i pericoli che stavano d'intorno a Giulio II limitavansi a
questa scarsa e dispregiata congregazione, già dal papa scomunicata
e resa obbrobriosa o ridicola ai popoli. Il pericolo assai maggiore
stava risposto nel valor militare del duca di Nemours Gastone di
Foix, nipote per parte di madre del re Luigi XII, fatto governatore e
capitano generale dopo la morte del gran maestro di Amboise. Questo
giovine eroe, all'età di soli ventidue anni, mostrò i talenti di un
gran generale. Dal Milanese vola a soccorrere Bologna, assediata da don
Pietro di Navarra e la sorprende prima ch'egli abbia nemmeno notizia
ch'ei marciasse a quella vòlta; lo pone in fuga, batte la retroguardia
di lui; rende libera Bologna. Coglie il momento di questa impresa
il conte Luigi Avogadro, e, profittando della assenza dei Francesi,
apre le porte di Brescia a' Veneziani, i quali occupano Bergamo e
s'innoltrano sino al Mincio. Al momento parte Gastone dal Bolognese,
si affronta al Mincio coi nemici, che gliene disputano il passo, e li
disperde; si presenta a Bergamo e la prende; si presenta a Brescia,
e se ne rende padrone; e tutta questa maravigliosa serie di fatti si
eseguisce in pochi giorni. Il 29 febbraio prese Bergamo, il 1.º di
marzo prese Brescia; al qual proposito il Guicciardini scrive[334]. «Fu
celebrato per queste cose per tutta la Cristianità con somma gloria
il nome di Fois che con la ferocia e celerità sua avesse in tempo di
quindici dì costretto l'esercito ecclesiastico e spagnuolo a partirsi
dalle mura di Bologna, rotto alla campagna Giampagolo Baglione con
parte delle genti dei Veneziani, ricuperata Brescia con tanta strage
de' soldati e del popolo, di maniera che, per universale giudizio,
si confermava non avere già parecchi secoli veduta Italia nelle opere
militari una cosa somigliante».

Questa presa di Brescia servì di argomento al signor di Belloy per
la tragedia che intitolò: _Gaston et Bayard_, nella quale l'Avogadro
apparisce come un ribelle del suo legittimo sovrano e traditore della
patria, e gl'italiani vi figurano miseramente il personaggio di gente
senza virtù alcuna. I Bresciani da ottantatre anni vivevano sudditi
della repubblica veneta: quando nel 1509, furono assoggettati alla
forza dell'armi francesi. Il conte Avogadro tentò di liberare sè
stesso e la patria da un giogo straniero, e riconsegnarsi al nativo
suo principe. Il governo poi che i Francesi facevano della di lui
patria, suggeriva di liberarla da quella infelicità[335]. Il grado
di longitudine sotto cui siamo nati su questa sferoide, non dovrebbe
cagionare diversità di partiti: l'uomo virtuoso e dabbene è patriota
de' suoi simili sparsi per ogni clima, ed è forestiere al suo vicino
malvagio e vizioso. L'infelice conte Avogadro terminò miseramente i
suoi giorni sul patibolo, ed i suoi figli, tradotti a Milano, per mano
del carnefice finirono pure la vita. V'è chi incolpa Gastone di Foix
di avere voluto contemplare la morte di questi infelici che avrebbero
un nome glorioso, qualora avessero avuta la fortuna delle armi, e
sarebbero stati coronati da quella gloria medesima che ottennero di
que' tempi alcuni Francesi scacciando gl'Inglesi che avevano occupate
le province della Francia. Il saccheggio di Brescia recò poi a Milano
la pestilenza, che per due anni vi restò.

Dopo ch'ebbe di volo sottomesse le città di Bergamo e Brescia, il duca
di Nemours Gastone di Foix passò per Milano; indi rapidamente marciò
a Ravenna. È celebre la battaglia che vi si diè il 11 d'aprile, che in
quell'anno fu il giorno di Pasqua, cioè quaranta giorni dopo la presa
di Brescia; ed è notissima non meno la morte che vi trovò Gastone, dopo
di avere riportata una compiuta vittoria; nè appartiene alla storia
ch'io mi son limitato a scrivere, la precisa narrazione di tai fatti.
Marc'Antonio Colonna comandava nella città di Ravenna; il vicerè di
Napoli Pietro di Navarra aveva il comando degli Spagnuoli; sotto di lui
serviva Fabrizio Colonna. I collegati pontificii erano millesettecento
uomini di armi e quattordicimila fanti. Usarono allora i pontificii de'
carri falcati[336]. I Francesi avevano, sotto il comando del duca di
Nemours, il marchese di Ferrara e il cardinale Sanseverino. Oltre il
duca di Foix, che vi fu ucciso, rimasero sul campo il signor d'Allegre
con suo figlio, il signor Molard, sei capitani tedeschi, il capitano
Maugiron, il barone di Grammont, e più di duecento gentiluomini di
nascita distinta. Se tale sciagura non veniva a rovesciare tutt'i
disegni de' Francesi, il papa Giulio II correva rischio grande di
perdere lo Stato, e di ubbidire al sinodo tenutosi in Milano. Ma una
giornata cambiò totalmente l'aspetto degli affari, e il languente
comando de' Francesi passò nelle mani del signor De la Palisse, che può
essere collocato nella serie de' governatori di Milano, ed è il sesto.
La spoglia del duca di Nemours venne trasportata a Milano e sospesa
entro di un sarcofago di piombo fra una colonna e l'altra nel Duomo,
siccome eranlo i duchi di Milano. La cassa venne coperta come lo erano
le altre pure, con uno strato magnifico di broccato soprarizzo, dice
il Prato: eranvi ricamati i gigli d'oro; pendeva la spada pontificia
col fodero d'oro acquistata a Ravenna; v'erano collocati all'intorno il
vessillo del papa e quindici altre bandiere prese in quella battaglia.
Ma lo spirito feroce di partito e la superstizione non lasciarono
tranquille le ceneri di questo giovine eroe; gli Svizzeri, i quali,
come or ora vedremo, s'impadronirono in breve di Milano, entrati
nel Duomo, sormontandosi l'un l'altro, scomposero, rovesciarono quel
monumento, e le spoglie vennero disperse. Cambiatasi poi nuovamente la
fortuna, e ritornati i Francesi, fu innalzato un mausoleo magnifico di
marmo alla memoria di questo principe, e collocato nella chiesa delle
monache di Santa Marta. Di questo mausoleo ora non ne rimane che la
statua, sotto della quale si legge l'iscrizione seguente:

                       SIMVLACRVM GASTONIS FOXII
                      GALLICARVM COPIARVM DVCTORI
                 QVI IN RAVENNATE PRAELIO CECIDIT ANNO
                                 MDXII
                     CVM IN AEDE MARTAE RESTITVENDA
                        EIVS TVMVLVS DIRVTVS SIT
                       HVIVSCE COENOBII VIRGINES
                     AD TANTI DVCIS IMMORTALITATEM
                    HOC IN LOCO COLLOCANDVM CVRAVERE
                           ANNO MDLXXIV[337]

I bassirilievi che adornavano la tomba, vennero, non saprei per qual
destino, rotti e divisi; alcuni se ne veggono nella deliziosa villa di
Castellazzo, altri sono presso alcuni privati. Sempre più si conosce
che un buon libro è il solo monumento durevole, col quale un uomo sia
sicuro di tramandare ai secoli venturi la memoria di sè medesimo:
i marmi, gli edifizi, le pubbliche fondazioni, tutto si scompone e
disperde; ma Orazio aveva ragione di scrivere, ch'egli s'innalzava un
monumento co' versi suoi più durevole de' bronzi[338].

Dopo la battaglia di Ravenna, in cui si disse che rimanessero morti
sul campo ottomila fanti e mille cavalieri pontificii, e prigionieri
il vicerè di Napoli don Pietro di Navarra, il cardinale dei Medici,
il marchese di Pescara, Fabrizio Colonna, il marchese di Padule, il
figlio del principe di Melfi, don Giovanni Cardona ed altri; l'armata
francese, sebbene vincitrice, si trovò totalmente rovinata, che il
cavaliere Bayard, nella lettera citata, assicura[339] che in cento anni
di tempo la Francia non poteva risarcire la perdita che aveva fatta.
Dopo questa tal battaglia, il papa Giulio II sempre più si strinse
co' Veneziani per discacciare i Francesi, i quali a nome del concilio
avevano cercato di occupar la Romagna. L'interesse dei Veneziani
consigliavali a dar mano alla rovina dei Francesi per ricuperare
Brescia e il restante della terra-ferma, e collocar sul trono di
Milano un principe da cui non dovessero temere invasione. Innoltrò
il papa i suoi maneggi coll'imperatore Massimiliano per restituire
il ducato di Milano a Massimiliano Sforza, cugino dell'imperatore
medesimo. L'imperatore, con un proclama, richiamò alla patria tutti i
Tedeschi che militavano nell'armata francese; e questi abbandonando
i loro stipendi, resi poco sicuri, e sempre più s'indebolirono le
forze comandate dal signor De la Palisse. Dall'attività di papa Giulio
II gli Svizzeri, incessantemente animati, scesero questi nuovamente
in Italia; e profittando della confusione e debolezza de' Francesi,
occuparono i tre baliaggi di Lugano, Locarno e Mendrisio, i quali
continuarono a possedere gli Svizzeri dappoi, come al presente. I
Grigioni s'impadronirono di Chiavenna, Bormio e della Valtellina,
attualmente possedute da essi. Il papa occupò Parma e Piacenza[340].
In questo stato di cose il signor De la Palisse si ricoverò a Pavia,
città forte, e abbandonò Milano. Il consiglio generale de' novecento
si radunò per dare le ordinarie provvidenze alla città, e porre qualche
riparo alla pestilenza che l'affliggeva. Gli Svizzeri, sotto il comando
del cardinale di Sion, invadono lo Stato in nome della _Santa Lega_:
occupano Cremona, indi Lodi: si unisce al cardinale svizzero il vescovo
di Lodi Ottaviano Sforza, cugino di Massimiliano. Milano riconosce la
Santa Lega il giorno 16 giugno: il giorno 20 giugno entra il vescovo di
Lodi in Milano come luogotenente del duca Massimiliano. Il papa libera
la città di Milano dall'interdetto, in cui la considerava incorsa per
esservisi ricoverati i cardinali suoi nemici. L'assoluzione venne il
giorno 6 di luglio, e quella fu l'ottava volta in cui Milano si trovò
in siffatta circostanza[341]. I Francesi, non essendo numerosi a segno
di custodire Pavia, l'abbandonarono, e per la fine del 1512 non ve ne
rimasero se non ne' castelli di Milano e di Cremona.

Massimiliano Sforza dall'età di nove anni sino al vigesimoprimo
era stato esule dalla patria e ricoverato sotto la protezione
dell'imperator Massimiliano, suo cugino. Egli, scortato dal cardinale
di Sion e dagli Svizzeri, entrò solennemente in Milano il giorno 29
dicembre 1512. L'ingresso si fece al solito da porta Ticinese con
più di cento gentiluomini che lo precedevano, usciti ad incontrarlo
con un abito uniforme, composto dei colori medesimi che il duca aveva
scelti per sue livree, cioè pavonazzo, giallo e bianco. I gentiluomini
però, oltre l'essere vestiti di seta, erano altresì ricamati d'oro;
per lo che non si potevano confondere coi domestici del duca. Il
duca cavalcava vestito di raso bianco trinato d'oro; portavangli il
baldacchino i dottori di collegio. Cesare Sforza, fratello naturale del
duca, portava immediatamente avanti di esso la spada ducale sguainata.
Lo seguitavano il vescovo Valese cardinale di Sion, e i legati del re
de' Romani, del re di Spagna e di altri sovrani. Non mancarono a tal
funzione i soliti archi trionfali. Egli finalmente andò a risedere
nella corte ducale; giacchè il castello, nel quale solevano alloggiare
i duchi, era in potere de' Francesi. Il potere ducale Massimiliano lo
ricevette dagli Svizzeri; e, come dice Guicciardini[342]. «Il cardinale
(Sedunense lo chiama il Guicciardini, ed è il vescovo di Sion), in nome
pubblico degli Svizzeri gli pose in mano le chiavi ed esercitò quel
dì, che fu degli ultimi di dicembre, tutti gli atti che dimostravano
Massimiliano ricevere la possessione da loro; il quale fu ricevuto con
incredibile allegrezza di tutti i popoli per il desiderio ardentissimo
di avere un principe proprio, e perchè speravano avesse a essere
simile all'avolo o al padre, la memoria dell'uno dei quali per sue
eccellentissime virtù era chiarissima in quello Stato, nell'altro il
tedio degli imperi forestieri aveva convertito l'odio in benevolenza».

(1513) Giulio II, il primo motore degli avvenimenti dei tempi suoi,
quel papa che, coll'usbergo sul petto e l'elmo in capo, diresse
l'assedio della Mirandola, e vi entrò per la breccia, terminò la sua
vita la notte dal 20 al 21 di febbraio del 1513. Questo colpo cambiò
nuovamente le combinazioni politiche di Europa. I Veneziani, che tre
anni prima, per ricuperare la terra ferma occupata da' Francesi,
uniti coll'imperatore, avevano cedute al papa le città marittime
della Romagna, ascoltarono le proposizioni che fece loro la Francia,
la quale prometteva ad essi la terraferma, Verona, Vicenza, Brescia,
Bergamo e Crema, e con tali condizioni si collegarono con Lodovico XII
nel trattato di Blois 13 marzo[343]. Con tale nuova confederazione si
obbligavano i Veneziani ad assistere il re per ricuperare il Milanese;
ed il re obbligavasi ad aiutare la repubblica per riacquistare le terre
della Romagna perdute colla lega di Cambray[344]. Contro del papa si
mossero parimenti gli Spagnuoli; ed il vicerè di Napoli s'impadronì
di Parma e di Piacenza, sebbene per poco, costretto a restituirle
al papa[345]. Mentre si andava disponendo nella Francia una nuova
invasione nel Milanese, a respingere la quale forza era rivolgere
le spalle a' Veneziani collegati colla Francia, il duca Massimiliano
Sforza si abbandonava alla molle lascivia, che appena si perdona ai
principi sicuri nel loro Stato. Per festeggiare il soggiorno che la
marchesa di Mantova faceva in corte col nostro duca, ad altro non
pensava egli che a giuochi ed a pompe, quasi ch'ei fosse nel seno della
pace. Fece fare, fra le altre cose, un torneamento; il che accadde
il giorno 13 febbraio 1513, dimenticandosi che nel castello stavano
i Francesi. Il duca vide, per le palle di cannone ch'essi gli fecero
piovere sulla corte, che aveva inopportunamente scelto il tempo ed il
luogo[346]. Questo principe non sembra che avesse alcuna energia nè
elevazione d'animo; egli spensieratamente portava il titolo di duca, e
in mezzo all'umiliazione propria ed alla miseria de' sudditi pensava
a passar giocondamente il suo tempo. Donava feudi, donava regalie,
regalava denaro, roba a tutti i suoi favoriti con profusione, in guisa
che aveva sempre l'erario esausto. Donò a Girolamo Morone la contea di
Lecco: la città di Vigevano al cardinale di Sion; Rivolta e la Ghiara
d'Adda ad Oldrado Lampugnano. Coteste sue profusioni facevansi da
esso lui, «come se nulla fossero» dice il Prato, il quale si esprime
a tal proposito così: «ma poco delle dicte cose curandosi il duca
nostro, facea, como dice il proverbio, manco roba, manco affanni;
et solo attendeva a piaceri; unde essendo venuto a Milano la moglie
del marchese di Mantova con alquante sue zitelle, o per meglio dire
ministre di Venere, tanto piacere de conviti e de balli e de altri che
io non scrivo, se prendeva assieme con lo effeminato vicerè di Spagna,
che era una cosa a ogni sano judicio biasimevole, et non so se me dica
una parola, tuttavia, essendo dicta da Salomone, nella Cantica, la
posso dire anch'io».[347] _Veh tibi terra cuius rex est puer_; così il
Prato. Ma chi è fanciullo a ventun'anni, non è giunto mai a diventar
uomo. Questa scioperatezza dovea ricadere a danno dei sudditi, ai quali
forza era d'imporre maggiori aggravii; e non osandolo fare da sè, il
duca Massimiliano, prima di accrescere la gabella del sale di trenta
soldi ogni staio, ne impetrò dal papa il permesso; della qual supplica
ho letta io stesso una copia scritta di quei tempi e conservata nella
signorile raccolta dei manoscritti nell'insigne archivio Belgioioso
d'Este, e dice così:[348] _Beatissime Pater: — Manifesta est et satis
nota apud S. V. immoderata nimium longe lateque dominandi ambitio, et
aliena indebite usurpandi cupiditas Gallorum regis, adeo ut non modo
principatum Mediolanensem, verum et universae Italiae subjugandae
omnibus votis aspirare videatur_; e conclude alla fine: _quare ad
B. V. confugere cogor pro re quae (sic) in evidentem totius Italiae
commodum cedet et mihi et tam immensae pubblicae necessitati consulet;
etiam supplicando quatenus, in praemissis opportune providendo, B. V.
auctoritate Apostolica qua fungitur, motu proprio, ex certa scientia
et de plenitudine potestatis etiam absolutae, licentiam potestatem et
auctoritatem indulgere dignetur in universa ditione ducatus Mediolani
imponendi praedictas additiones solidorum triginta pro stario salis
etc._[349]. Nè ciò bastando, delegò il duca Bernardino ed Enea Crivelli
per esigere dai feudatarii uno straordinario tributo[350]. Vendè
persino i due canali navigabili, il Naviglio grande e quello della
Martesana alla città di Milano[351]. In un sol mese vendette tante
regalie, che ne incassò dugentomila ducati; alienazioni tutte fatte in
ragione del sette per cento[352]. Impose nuovi aggravi sopra le terre
irrigate[353]. I sudditi, al paragone del governo francese, conobbero
quanto avessero peggiorato sotto di questo sventato principe naturale.
Lodovico XII, re di Francia, ne' tredici anni che signoreggiò nel
Milanese non impose alcuna taglia nè tributo straordinario. Fu un buon
principe, moderato nelle spese, popolare, amante dell'ordine e della
giustizia. Egli piantò nel Milanese quel sistema di governo che durò
sino a' tempi nostri. Questo monarca, prima di regnare, era dominato
dall'amore; la gioventù, la grazia, la bellezza lo seducevano: poichè
salì sul trono, seppe frenarsi, e nobilmente signoreggiare sopra di sè
medesimo. Ei meritò dai posteri il glorioso nome di _Padre del popolo_.
Il paragone colla spensierata condotta del duca Massimiliano era
svantaggioso pel successore.

Non sarà discaro a' miei lettori, s'io sottopongo al loro sguardo lo
specchio delle spese fisse che si facevano sotto il duca Massimiliano
dall'erario ducale. Questo prezioso aneddoto, siccome molt'altri, fu da
me tratto dall'insigne collezione poc'anzi ricordata[354].

        _Spese dello stato di Milano sotto il duca
                  Massimiliano Sforza._

  Pensioni agli Svizzeri                              ducati 100,000
  Alle guardie de' castelli di Milano, Cremona, Novara,
    guardia della corte, e capitano di giustizia           »  72,000
  Alla gente d'armi                                        »  74,600
  Alla compagnia del Bregheto, computata la provvisione
    sua                                                    »   3,000
  Al signor Manfredo da Coreggio, per esso e cavalli cento »   6,800
  Alla casa ducale, computata la stalla                    »  26,000
  Spese delli cavallari                                    »   8,000
  Agli oratori e famigli cavallanti                        »  12,000
  Alla munizione e lavoreri ducali                         »  12,000
  Alle guardie delle fortezze, oltre le dette disopra      »   6,000
  Spese straordinarie                                      »  25,000
  Officiali salariati                                      »  25,000
  Vestiario del duca                                       »  30,000
  Spese di sanità                                          »   4,000
  Elemosine ducali                                         »   2,000
  Staffieri del duca                                       »     660
  Trombetti                                                »     540
  Interessi passivi di debiti                              »  10,000
  Ristauri per guerra e peste                              »   6,000
  Lettere e bollettini di esenzione                        »   2,000
  Beneplacito del duca                                     »   5,000
  A conto del signor duca di Bari                          »   3,350
  Legna e altro per la cancelleria ducale e camera         »   2,000
  Al signor Giovanni e a Maddalena Lucrezia per suo vivere »   1,700
  Annuali ed obblazioni                                    »     500
                                                             ———————
                                                      Ducati 438,150

Le rendite poi del duca a quel tempo veggonsi nel codice medesimo[355]
ascendenti a scudi d'oro del sole 499,660, soldi 64, denari 8. Ora
computati gli scudi del sole come erano, una mezza doppia, e i ducati
in valore di un gigliato, apparisce che il duca aveva ogni anno una
spesa eccedente di più di ventiquattromila ducati, quand'anche nelle
spese di capriccio ei non avesse ecceduto.

I Francesi adunque, nel numero di dugento uomini d'armi e ventimila
fanti, sotto il comando di Luigi De la Trémouille e del maresciallo
Trivulzio, superate le Alpi, scesero verso lo stato di Milano. A tal
nuova i Veneziani si accostarono e si resero padroni di Pizzighettone,
di Martinengo e di Cremona. Molti fra i sudditi del duca, malcontenti
del governo di un tal principe, bramavano di ritornare sotto il
dominio del re Lodovico XII. Un tumulto popolare si eccitò in Pavia,
un simile contemporaneamente comparve in Alessandria. Già queste due
città non avevano aspettato l'arrivo dei Francesi per considerarsi
suddite della Francia. Messer Sacramoro Visconti, che aveva il comando
degli sforzeschi posti a bloccare il castello di Milano, lasciava
segretamente che entrassero di notte le vettovaglie ai Francesi del
presidio; il che scoperto, egli si ricoverò nella Francia, ed ebbe
dal re la collana, pregevolissima allora, dell'ordine di San Michele.
Insomma le cose andavano come forz'era pure che andassero sotto di un
principe sfornito di mente e di cuore che lo innalzassero sugli uomini
volgari, e lo mostrassero degno di comandare agli altri uomini. Gli
Svizzeri però vollero sostenere questo duca, e con ciò conservarsi non
solamente i baliaggi che avevano occupati, ma il dominio del Milanese,
che realmente esercitavano già sotto il nome del duca Massimiliano. Si
radunarono ne' contorni di Novara nel numero di diecimila, a quanto
scrive il Guicciardini[356], o settemila, come scrive il Prato; e il
giorno 6 di giugno del 1513 assalirono l'armata francese con tanto
impeto e sì impensatamente, che, quasi per sorpresa, impadronitisi
dell'artiglieria de' nemici, la rivoltarono contro dei Francesi
medesimi; e questo arditissimo impeto sgomentò talmente i Francesi (i
quali s'immaginarono essere sopraggiunta una nuova armata di patriotti
svizzeri), che senza consiglio si abbandonarono alla fuga; e da un
drappello di fantaccini, senza cavalleria, senza artiglieria, venne
siffattamenie distrutto un corpo di armata, che si contarono rimasti
sul campo ben diecimila de' Francesi, ed il rimanente con somma
sollecitudine ripassò le Alpi. Così gli svizzeri in quel luogo medesimo
ove tredici anni prima erano stati accusati di aver tradito il padre,
avendo a fronte lo stesso Trivulzio, in quello stesso luogo, e contro
del generale medesimo, col loro valore mantennero lo Stato al figlio
Massimiliano Sforza, ripararono l'onore delle loro armi e della fedeltà
loro. Il Prato attribuisce quella sciagura de' Francesi al disprezzo
che imprudentemente essi fecero de' loro nemici; non supponendo
possibile ch'essi ardissero di provocar l'armata francese. Attribuisce
però singolarmente allo sbigottimento che ebbe colla sorpresa il
comandante supremo La Trémouille, il poco onore che in quella giornata
si fecero le armi francesi; e il Trivulzio, costretto a fuggire cogli
altri, andava ripetendo, a quanto il Prato scrive: «Noi fuggiamo et
la victoria è nostra». Nella Francia La Trémouille vide, «non senza
carico di vituperio», cassato il suo nome dalla lista dei stipendiati,
«la qual cosa non avvenne al Trivulzio; ma sia come si voglia, la fuga
fu vituperosa»[357]. Gli svizzeri raccolsero in quella giornata un
prezioso bottino, avendo perduti i Francesi tutti i loro attrezzi. Dopo
un tal fatto i Veneziani sgombrarono il paese; ritornarono le cose come
se nulla fosse accaduto; e il duca, acceso d'una passione degna del suo
animo, si recò a stanziare nei contorni di Pavia per vagheggiare una
mugnaia che vi stava domiciliata[358].

La gloria delle armi francesi non poteva essere riparata nell'Italia
con nuovo esercito, poichè gl'Inglesi, avendo allora appunto mossa la
guerra a Lodovico XII, ei doveva adoperare le sue forze per impedire
i progressi di trentamila Inglesi e ventitremila Tedeschi, i quali
erano spediti nella Francia da Enrico VIII e Massimiliano Cesare
collegati. Quindi i pochi Francesi che stavano al presidio dei castelli
di Milano e di Cremona, esausti di munizioni e di viveri, oppressi
da miserie, disperando soccorso, cedettero le fortezze ed uscirono,
salve le persone e robe loro. Il castello di Milano per tal modo venne
in potere dello Sforza il giorno 19 novembre 1513, e da quel giorno
non rimase più dominazione alcuna nell'Italia al re Lodovico XII.
(1514) Ma lo Sforza altro di duca non conservò che il titolo; vivendo
egli meschinamente come un ostaggio sotto la tutela degli Svizzeri,
e sopra tutto del terribile Cardinale di Sion, il quale col nome del
duca adoperava ogni mezzo per cavar danaro dai popoli, abbandonati ad
un'anarchia militare; e così senza alcun memorabile avvenimento passò
l'anno 1514. (1515) L'anno seguente 1515 incominciò colla morte del re
Lodovico XII senza figli, e colla incoronazione di Francesco I, l'avo
paterno del quale era zio paterno del defunto, anche egli discendente
dalla principessa Valentina Visconti. Il nuovo re era nel ventesimo
primo anno dell'età sua. Trovò la Francia in pace pel trattato seguito
poco prima della morte di Lodovico XII. Il suo primo pensiero fu
di ricuperare il milanese; ed a fine di radunare nell'erario quanto
bastasse alla spedizione, pose, con esempio infausto, in vendita le
cariche della giudicatura della Francia. Si collegò nuovamente co'
Veneziani. Dichiarò reggente del governo la duchessa d'Angouleme
sua madre; e si dispose a venire egli stesso alla testa della sua
armata nel Milanese. Il duca prese al suo stipendio, in qualità di
capitano delle genti d'armi, Prospero Colonna. E come tutto ciò che
dà idea de' costumi di quei tempi deve aver luogo nella mia storia,
così io non ometterò un magnifico convito che il Colonnese imbandì in
quella occasione, e di cui ci lasciò memoria il Prato. Ciò seguì il
giorno 20 di febbraio 1515. Il duca e i cortigiani furono invitati,
ed inoltre trentasei _damiselle milanesi_, dice il Prato. Fabbricò
apposta un superbo salone di legno, riccamente dorato e dipinto, e
dagli architetti fu stimato _cosa notandissima_, come dice il nostro
scrittore. Quattro ore durò la mensa. Si continuava il costume di
servire in piatti separati ciascuno degli invitati. Ognuno avea una
pernice, un fagiano, un pavone, un pesce, ec.; contemporaneamente
dinanzi a ciascuno si riponeva una finta pernice, un fagiano, un
pavone, un pesce finti, o di marzapane, o d'altra materia, dorati,
inargentati, ec., e vi furono abbondanti e deliziose pastiglie ed acque
odorose. In fine della cena comparve un finto gioielliere che recava
collane, braccialetti ed altri vezzi di gemme e d'oro; presentò le sue
preziose merci alle damigelle, come se cercasse venderle; ed allora il
Colonnese s'intromise quasi volesse rendersi mediatore dei contratti, e
con generosa urbanità regalò ciascuno delle convitate senza far mostra
di regalarle. Ciò veramente fu materia di non picciolo valore, e dice
il Prato che venisse fatto al solo fine «per potere la sua amata senza
biasimo d'infamia con le proprie mani presentare». Il che dimostra
quanto venissero rispettate le damigelle e il costume. Cose siffatte
sembrano romanzesche; ma contemplate saggiamente dimostrano una nazione
ingentilita e generosa. La mattina vegnente ciascuna delle invitate
ricevette un canestro inargentato con entro la colazione. Al duca fece
egli recare venticinque carichi di selvaggiume.

Poco giovava alla difesa dello Stato la scelta di un magnifico
e galante generale; conveniva avere un'armata; e gli Svizzeri
s'impegnarono a difenderlo colla paga di trecentomila ducati.
Comparvero in Milano dodici commissari per ricevere anticipatamente
la promessa paga. Il duca pubblicò una imposizione per riscuotere
dai sudditi questa eccessiva tassa. Sotto il regno di Lodovico XII
non s'era mai pagato, se non i tributi costituzionali. Un'arbitraria
tassazione, per tal modo dispoticamente comandata, commosse gli animi
de' cittadini. L'editto si pubblicò il giorno 8 di giugno del 1515.
Sembrò questa una vera oppressione. La città fece presentare le sue
preghiere al cardinal di Sion, precipuo motore di simili risoluzioni;
ma l'inflessibile prelato non diè orecchio a verun moderato partito.
La città si pose in tumulto; alcuni Svizzeri furono uccisi; alcuni
milanesi pure rimasero morti in una zuffa alla sala della piazza
de' Mercanti. E come si avvicinavano i Francesi, ed il partito de'
malcontenti con tale notizia si rianimava, così il duca fu costretto
con nuovo proclama a disdire l'imposta taglia. Si entrò a trattare.
La città di Milano comprò dal duca il Vicariato di provvisione, la
giudicatura delle strade e quella delle vettovaglie collo sborso di
cinquantamila ducati, di che stesero pubblico documento il giorno 11
di luglio 1515 i notai Stefano da Cremona e Paolo da Balsamo. Da quel
contratto ebbe origine poi la nomina che la città di Milano presentava
al principe od al suo luogotenente, di alcuni cittadini, dai quali
esso trasceglieva che gli era in grado alle accennate cariche, che
cominciarono allora ad essere privativamente appoggiate ai così detti
patrizi milanesi. Con questi cinquantamila ducati, cioè colla sesta
parte soltanto della somma loro promessa, ritornarono i commissari
svizzeri al loro paese. Nella dieta nazionale si pose in deliberazione,
se meglio convenisse l'accettare le pensioni che offeriva con molta
istanza il re Francesco, ovvero proseguire all'impegno di mantenere
Massimiliano Sforza duca di Milano; ed il secondo prevalse, avendo gli
Svizzeri profittato più de' Francesi nemici colla recente sconfitta
data loro presso Novara, di quanto ne avrebbero ottenuto se fossero
stati loro alleati. A ciò s'aggiunse poi la considerazione, che, fin
tanto che Massimiliano Sforza rappresentava il personaggio di duca di
Milano, non sarebbe mancata occasione e mezzo di costringere la città
allo sborso della promessa paga, e di maggiori ancora. In pochi giorni
quarantamila Svizzeri scesero dai loro monti, e si radunarono verso
Novara. Il cardinale di Sion tanto dispoticamente e con tanta atrocità
comandava in Milano, che, sospettando egli di Ottaviano Sforza, cugino
del duca e vescovo di Lodi, che avesse delle pratiche co' nemici,
nulla rispettando il carattere di consanguinità col sovrano, nè la
persona del vescovo, crudelmente per mero sospetto lo fece torturare
con quattordici tratti di corda; il che narrato viene dal Prato, e
dalla cronaca manoscritta di Antonio Grumello, pavese[359]. Il Prato
nota persino il giorno in cui ciò avvenne, che fu il 21 di maggio
1515, e racconta che il vescovo spontaneamente veniva al castello per
corteggiare il duca, quando quivi fu arrestato, rinchiuso nella ròcca,
ed aspramente torturato a fine di chiarirsi se egli mai avesse tramato
contro lo Stato. Dopo due settimane, non risultando dai processi altro
che la innocenza del vescovo cugino del duca, fu il vescovo tradotto
nella Germania, d'onde l'infelice prelato passò a Roma. Tali erano i
costumi e le opinioni d'allora; tali i pensieri di un cardinale, di
un vescovo di Sion, verso d'un figlio d'un sovrano, di un vescovo, di
un innocente. Gli uomini presso a poco son sempre stati gli stessi;
ma questo presso a poco è il vantaggio della generazione vivente.
Invidii chi non sa la storia i tempi antichi. Benediciamo Dio, noi,
di vivere in un secolo in cui le passioni e i vizi degli uomini sono
(almeno in apparenta) meno atroci, e meno sfacciatamente insultano la
virtù. Racconta il Prato che il duca Massimiliano, vedendo il duca
di Bari Francesco (questi era fratello minore del duca, che regnò
dopo lui; ed il titolo di duca di Bari alla casa Sforza era proprio
del secondogenito) starsene pensieroso, appoggiato ad una finestra,
improvvisamente se gli avventò dicendogli: «Monsignore, io so che voi
mirate a farvi duca di Milano; ma cavatevelo dalla fantasia, che io
vi prometto da leale signore che io vi farò morire». A tale minaccia,
senza dubbio non meritata, rispose il fratello colla riverenza ch'ei
doveva al suo signore; ma il duca, sospettoso, ingiusto, depresso,
timido, violento, non meritava certo di essere sovrano.



CAPITOLO XXII.

  _Di Francesco I, re di Francia, e suo governo nel ducato di
  Milano._


Il buon re di Francia Francesco I radunò un'armata formidabile, e
si preparò a discendere egli stesso nell'Italia. Accrebbe sino a
millecinquecento il corpo delle sue lance, numero per que' tempi
esorbitante; allestì un imponente corredo d'artiglieria; prese al
suo stipendio diecimila lanschinetti, seimila fanti della Gheldria;
radunò diecimila Guasconi[360]: insomma, formò una terribile armata
con quindicimila uomini d'armi, quarantamila fantaccini, tremila
_pioneri_, ossia guastatori[361], e nell'esercito si contarono più di
ottomila persone[362]. Il contestabile di Bourbon aveva il comando
della vanguardia. Il re s'era riserbato il comando del corpo di
battaglia; al duca d'Alençon aveva affidata la retroguardia; Lautrech,
Navarra, Gian Giacomo Trivulzio, la Palisse, Chabanne, d'Aubignì,
Bayard, d'Imbercourt, Montmorenci, i più illustri che militavano sotto
le insegne di Francia, tutti gareggiavano per combattere sotto del
giovine e coraggioso loro re. Reso istrutto il duca di tai preparativi,
e di forze di gran lunga superiori alle sue, le quali senza dimora
s'andavano innoltrando, mentre egli aveva alle spalle i Veneziani,
combinati a di lui danno, affidò a Prospero Colonna dugento uomini
d'armi e quarantamila Svizzeri. Non conveniva aspettare nella pianura
della Lombardia un esercito fortissimo, animato dalla presenza del re;
ed era sperabile l'arrestarlo colle forze affidate al Colonna. Quindi,
da saggio comandante, ei s'innoltrò nelle difficili strette delle
Alpi, nei contorni di Susa; ed ivi, impadronitosi de' luoghi eminenti,
si dispose a disputare con molto vantaggio il passo all'armata
nemica. Egli era acquartierato a Villafranca, vivendo sicuro che i
Francesi dovessero presentarsi a Susa. In fatti, due strade sole erano
conosciute allora onde passare dal Delfinato nell'Italia; una pel
monte di Ginevra, l'altra pel monte Cenis; e tutte due si univano a
Susa. L'esercito francese, avvisato come in quelle angustie de' monti
l'aspettassero i nemici, disperando di superarli, era in procinto di
abbandonare l'impresa: ma il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, che
già una volta aveva conquistato alla Francia il Milanese, ebbe il
merito di farglielo acquistare anco in quella seconda occasione. Egli
divisò una nuova strada affatto impensata; e, coll'aiuto di alcuni
cacciatori nazionali, trovò il modo d'evitare il passo di Susa, e di
guidare l'armata per Saluzzo. Così entrò in Italia l'armata francese: e
Prospero Colonna, mal servito dagli esploratori, venne sorpreso e fatto
prigioniero da que' Francesi ch'egli supponeva di là dai monti. Così,
scesa nella pianura senza contrasto, si avvicinò l'armata francese
quasi alla vista di Milano. Il duca si ricoverò nel castello. La città
spedì i suoi deputati al re Francesco I, che gli accolse umanamente. La
città di Milano non era disposta a ricevere presidio; ed il maresciallo
Trivulzio, avendo procurato impensatamente d'introdurvene di porta
Ticinese, la plebe si pose in armi. Il duca, consigliato da Girolamo
Morone a giovarsi di quel movimento popolare, uscì con parte del
presidio per sostenere il popolo; per lo che, conoscendo il Trivulzio
che l'impresa non era tanto facile quanto l'aveva sperata, con qualche
uccisione de' suoi, si ritirò all'armata ch'era accampata a Boffalora.
Il duca, per sempre più animar la plebe, fece proclamare ch'egli voleva
affidar le chiavi della città al suo popolo; che in avvenire voleva
rendere immuni i cittadini da ogni aggravio, e che i pesi dello Stato
dovevano portarli i ricchi e i nobili. Contemporaneamente vennero
cacciati i nobili dalle magistrature municipali, e collocate persone
le più accette alla plebe. L'odio ereditario contro de' nobili si
manifestò con eccessi d'ogni sorte. La plebe, sensibile alle prepotenze
ed al fasto orgoglioso de' magnati, non ebbe limite, dappoi che venne
sciolta ad agire, anzi animata. La roba, la vita de' nobili non rimase
più sicura; e il duca, arbitrariamente, esigeva esorbitanti sussidii
dai facoltosi, usando ridire spesse fiate: _Essere meglio rovinare
ch'essere rovinato._ Così procurò egli d'impegnare in sua difesa il
numero maggiore e i più determinati sudditi, come quelli che poco hanno
da perdere.

Se dall'una parte questa imponente e vigorosa comparsa del re in
Italia cagionava molta inquietudine al partito dello Sforza, non
lasciava dall'altra di valutarsi il numero e la risolutezza degli
Svizzeri, pronti a discendere, e l'animo de' popolani del paese che
già s'era manifestato. Quindi in Gallarate s'erano introdotti da
ambe le parti discorsi d'accomodamento[363]; anzi erasi al punto di
stabilire la pace, collo sborso di grosse pensioni del re di Francia
agli Svizzeri; e gli articoli principali che già sembravano accordati,
erano: Che il Milanese fosse del re di Francia; che gli Svizzeri e i
Grigioni restituissero al ducato le valli che avevano occupate, cioè
Lugano, Mendrisio, Locarno, Valtellina, ec.; che il re assegnasse
a Massimiliano Sforza il ducato di Nemours, ed un'annua pensione di
dodicimila franchi; che gli concedesse una principessa del sangue reale
in moglie, e gli desse la condotta di cinquanta lance al servigio
della Francia[364]. Ma il cardinale di Sion troncò i discorsi di
accomodamento. Egli condusse in Milano, il giorno 10 di settembre
del 1515, un corpo di Svizzeri numeroso. Cotesto cardinale' compariva
militarmente _in habito de bruno seculare_, come dice il Prato; e gli
Svizzeri vennero eccitati a combattere colla grandiosa promessa di
ottocentomila ducati d'oro, se vincevano. Della qual somma il ministro
del re di Spagna, residente a Milano, ne promise dugentomila a nome del
suo monarca, ed a nome del papa Leone X altri mila ne furono promessi;
cosicchè al duca rimaneva il peso di quattrocento mila ducati. Gli
Svizzeri, gloriosi per la sconfitta data due anni prima a Novara
ai Francesi sotto il comando De la Trémouille, si consideravano _il
terrore de' monarchi_, e tenevansi la vittoria sicura. Il re, vedendo
inevitabile il tentar la fortuna delle armi, avendo consumati i viveri
de' contorni di Magenta, Corbetta e Boffalora, marciò coll'armata
prima a Binasco, indi passò a Pavia; finalmente pose in settembre il
suo campo a Marignano. Le scorrerie de' Francesi venivano sotto le
mura della città, e, non solamente da quella parte che risguardava la
loro armata, ma persino sulla strada di Monza, per lo che non eravi
sicurezza nell'uscire da Milano.

Il giorno 14 di settembre 1515 divenne famoso nella storia per la
_battaglia di Marignano_, da alcuni anche detta _di San Donato_. Il
Prato ci racconta, come «venuta la chiarezza del dì, cominciarono essi
(Svizzeri) ad uscire per porta Romana; et durò il loro passaggio sino
alle ventidue ore, _il che prova il loro numero_, con animo tale, che
non pareva già che a guerra, ma più presto a certi segni di vittoria
andassero, et con essi era il cardinale». Il re di Francia aveva seco
lui sei ambasciatori svizzeri, i quali stavano trattando della pace;
per lo che l'attacco fu una vera sorpresa pei Francesi, e potrebbe
chiamarsi anche un'insidia oltraggiosa al gius delle genti, se il corpo
elvetico non fosse un aggregato di più distinte sovranità. I cantoni
di Uri, Swit e Undervald, i quali privatamente possedevano Bellinzona
e le province acquistate sul ducato di Milano, dovevano preferire
il rischio della battaglia, anzi che cedere le loro conquiste: gli
altri cantoni, dai quali non si cercava nella pace sagrifizio alcuno,
non avendo che l'utilità delle pensioni della Francia promesse,
dovevano preferire la pace ai pericoli di una giornata. In fatti, gli
svizzeri di Berna, Soletta e Basilea ricusarono di marciare contro
de' Francesi; ma, destramente ingannati coll'avviso che la vittoria
era già decisa pe' loro compatriotti, essi, per non ritornare alle
case loro colla vergogna di non aver partecipato alla gloria degli
altri, e per non perdere la porzion loro del bottino, che già si
tenevano sicuro, sull'esempio di quanto era loro toccato a Novara col
La Trémouille, si unirono e marciarono a San Donato. Il progetto era
di vincere con impeto la prima resistenza de' Francesi: impadronirsi,
come era seguíto a Novara, dell'artiglieria, e adoperarla contro del
re. Guicciardini, Gaillard, Prato vanno concordi nella descrizione
di quanto v'è di essenziale in questo fatto, che decise totalmente in
favore del re, e che fu una delle più ostinate e sanguinose battaglie
che si sieno date. Cominciò la mischia il giorno 14 settembre, due ore
prima del tramontar del sole[365]. Durò ferocemente sino alle quattro
ore della notte, non volendo nè cedere i Francesi, nè ritirarsi gli
Svizzeri. Le tenebre si accrebbero al segno, che fu indispensabile
il cessare, poichè non si distinguevano più gli amici dai nemici. Il
re profittò di quell'intervallo, spedì ordine all'Alviano, comandante
de' Veneti, acciocchè si presentasse tra Milano e San Donato. Passò il
re il rimanente della notte, animando e disponendo i suoi, e giacque
in riposo sopra un cannone. Al comparire dell'aurora, più accaniti
che mai, ritornarono al loro impeto gli Svizzeri, ed i Francesi con
fermezza lo sostennero e respinsero. Si sparse voce fra gli Svizzeri
che l'Alviano marciava per coglierli alle spalle. Laonde, spossati
dalla enorme fatica, disperando di superare i Francesi comandati
dal loro re, vedendosi in pericolo di ritrovarsi fra due fuochi,
piegarono alla vòlta di Milano. «Affermava il consentimento comune,
dice il Guicciardini[366], di tutti gli uomini, non essere stata per
moltissimi anni in Italia battaglia più feroce... Il re medesimo,
stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla
virtù propria e dal caso, che dall'aiuto de' suoi... in maniera che
il Triulzio, capitano che aveva vedute tante cose, affermava questa
essere stata battaglia, non di uomini, ma di giganti; e che diciotto
battaglie alle quali era intervenuto, erano state, a comparazione
di questa, battaglie fanciullesche». Vi si contarono sul campo più
di quindicimila Svizzeri e seimila Francesi. Il Trivulzio vi corse
pericolo: ei s'era impegnato fra le alabarde e le aste nemiche per
salvare un suo alfiere, già circondato dagli Svizzeri; ebbe ferito il
cavallo, il suo elmo privato de' pennacchi; era ridotto al punto di
essere oppresso dal numero, se non veniva un drappello de' suoi, che
lo trasse a salvamento. Il re ebbe il cavallo ferito, e nella persona
ricevè molte contusioni, e vi combattè come ogni altro soldato: vi si
distinsero il contestabile di Bourbon, il conte di San Pol. Il conte
di Guise ricevette molte ferite; rimase sul campo Francesco di Bourbon,
fratello del contestabile, che aveva il titolo di duca di Castellerand;
vi rimasero morti parimenti Bertrando di Bourbon Carenci, un fratello
del duca di Lorena e del conte di Guise, il principe di Talmont, i
conti di Sancerre, di Bussi, d'Amboise, di Roye ed altri[367]. Il
cavaliere Bayard, quegli che aveva e meritava il titolo di _cavaliere
senza tema e senza macchia_, in quella memorabile azione fece prodigi
di valore, per modo che il re di Francia medesimo, Francesco I, dopo
ottenuta la vittoria, volle ivi sul campo essere creato cavaliere
per mano del valoroso Bayard. Gli Svizzeri mal conci, sopravissuti a
quella carneficina, ritornarono a Milano; ed io li rappresenterò colle
volgari, ma ingenue parole adoperate da un merciaio che allora aveva
bottega aperta in Milano, e si chiamava Gian Marco Burigozzo: «Tanto
che fu la rotta a questi poveri Sviceri, et se comenzorono a voltare,
et vennero a Milano quelli pochi che erano avanzati, et tutti avevano
bagnate le gambe, et questo era perchè il signor Giovan Jacopo, come
astuto capitano, venendo gli Sviceri in campo su un certo prato, et lui
li dette l'acqua, per modo che la fu una gran ruina a quelli poveri
Svisceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non ammalati
et homeni maltrattati, in modo che pareva che costoro fusseno stati in
campo dieci anni, tutti polverenti dal mezzo in suso, et dal mezzo in
giuxo bagnati, tanto che li homeni de Milano, vedento tanta desgrazia,
tutti si miseno sulle porte ovver botteghe, chi con pane et chi con
vino, a letificar li cori di questi poveri homini, et questo facevano
a honor di Dio, et per tutto questo dì non cesorno de venire poveri
Sviceri, tutti malsani, et il più sano durava fatica a star su in
piedi[368].

Dopo la battaglia di Marignano il duca si ricoverò nel castello
di Milano con bastante presidio. Il cardinale di Sion prese seco
il duca di Bari Francesco, e lo condusse alla corte imperiale,
dove era stato educato, riserbandolo a tempi migliori pel caso che
Massimiliano rimanesse in potere de' Francesi, che il cardinale
odiava irreconciliabilmente. Gli avanzi di Marignano si ricoverarono
nelle loro montagne svizzere, e così il Milanese rimase sgombrato ed
aperto al dominio del re, tranne i castelli di Milano e di Cremona.
Si vociferava non per tanto della disposizione di cinquanta altri
mila Svizzeri a venire in soccorso del duca. Era recente la memoria
di quanto aveva saputo fare Giulio II; e non era da fidarsi di Leone
X, che gli era succeduto nel sommo sacerdozio. Un regolare assedio al
castello di Milano, ben provveduto di viveri e di munizioni, portava
molti mesi di tempo, ne' quali i maneggi della politica potevano
annientare i vantaggi dal valore e dal sangue francese ottenuti
nella recente segnalatissima vittoria. Voleva la ragione di Stato
che il re offerisse a Massimiliano Sforza i compensi che egli aveva
saputo chiedere, purchè cedesse il castello di Milano, rinunziasse
alle pretensioni sul ducato, e riconoscesse il re Francesco per duca
di Milano. Girolamo Morone, che stavasene nel castello col duca, fu
mediatore di quest'accordo. Massimiliano Sforza rinunciò al re di
Francia il ducato di Milano, gli consegnò il castello, passò a terminar
da privato i suoi giorni nella Francia con trentaseimila scudi di
pensione, che assegnogli il re, il quale, oltre a ciò, s'obbligò di
pagargli i debiti. Al Morone il re promise di farlo senatore e regio
auditore. Il giorno 8 di ottobre del 1515 venne ceduto il castello
ai Francesi; e non erano ancora compiuti i due anni da che n'erano
usciti. E così terminò la sovranità di Massimiliano Sforza, il quale
per poco più di tre anni rappresentò la figura dell'ottavo duca di
Milano; principe che venne definito assai bene dal Gaillard nella vita
di Francesco I re di Francia colle seguenti parole: «à juger de lui par
sa conduite, il paroit que c'étoit un prince foible, fait pour être
gouvernè. Nil politique, ni belliqueux, on ne l'avoit vu ni préparer
sa defense par les intrigues du cabinet, ni commander les armées qui
combattoient pour lui. Il sombloit que la querelle du Milanés lui fût
étrangère. Mais il eut du moins le mérite d'avoir renoncé de lui même
à un rang au quel il n'étoit point propre, et de ne l'avoir jamais
regretté dans la suite». Egli passò nella Francia, dove sette anni
prima era morto Lodovico suo padre; vi campò quindici anni, essendo
poi morto a Parigi il giorno 10 di giugno del 1530. Il re Francesco I
volle mantener la promessa data per Girolamo Morone, il quale forse
s'aspettava d'essere fatto senatore del senato di Milano: ma il re
temeva il talento di quest'uomo, e non doveva dimenticare che Francesco
Sforza era salvo: perciò lo destinò a risedere nel parlamento della
provincia di Bresse, la quale forma una porzione del regno di Francia
fralla Borgogna, la Franca Contea, la Savoia e il Viennese: alla
quale onorevole destinazione mostrò di ubbidire il Moroni, e fingendo
d'incamminarsi al nuovo suo destino, strada facendo, sviò e ricoverossi
nel Modonese[369].

Nel tempo stesso in cui si assicurò il re di Massimiliano Sforza,
e s'impadronì delle fortezze del Milanese, mosse colla maggiore
sollecitudine i suoi maneggi per concertarsi col papa Leone X, detto
prima il cardinal Giovanni de' Medici, che combattè a Ravenna contro
dei Francesi. Sommamente stava a cuore al pontefice rassicurare alla
sua casa in Firenze quella sovranità che effettivamente godeva, sebbene
sotto apparenza di repubblica, e sempre per sè medesima precaria. Il
re si fece garante di mantenere il governo di Firenze nel sistema in
cui si trovava. La città di Bologna, e per la sua grandezza e per
la situazione vantaggiosa, premeva al papa di possederla assai più
di quello che dovessero interessarlo Parma e Piacenza. I Francesi
avevano mantenuti i Bentivogli nella signoria di quella città, anche
cogli ultimi fatti del duca di Nemours, che ne aveva discacciati
i pontificii, i quali l'assediavano. Il re si mostrò disposto ad
abbandonare i Bentivogli, e guarentire Bologna alla Santa Sede. In
compenso il papa doveva riconoscere il re come sovrano del ducato di
Milano e restituirgli Parma e Piacenza, come due città dipendenti dal
ducato. Così venne concertato ed il trattato venne sottoscritto in
Viterbo il giorno 13 di ottobre 1515.

Quantunque i Francesi possedessero Milano sino dal giorno 17 settembre,
il re, sin che non ebbe la dedizione del castello, volle risedere a
Pavia ed in Milano dimorava il contestabile di Bourbon, luogotenente
e governatore a nome del re. Resosi poi padrone del castello, il re
fece la sua solenne entrata in Milano il giorno 11 d'ottobre 1515.
Lo corteggiavano il duca di Savoia, il duca di Lorena, il marchese
di Monferrato, il marchese di Saluzzo, e varii altri signori, tutti
partecipi della battaglia di San Donato. Alla porta Ticinese gli
si presentarono i delegati della città, i quali gli offersero lo
scettro ducale, la spada e le chiavi della città. Il re era a cavallo,
vestito di ferro, con un manto di velluto celeste a gigli ricamati
d'oro. Avanti se gli portava una spada sguainata; dodici gentiluomini
milanesi lo fiancheggiavano. Dugento gentiluomini francesi, coperti
di ferro e con ricchissimi manti, venivangli in séguito. Poi mille
fantaccini tedeschi armati condotti dai loro capitani riccamente
ornati, venivangli in seguito. Chiudeva la marcia un corpo di
cavalleria. Giunti alla notizia dell'imperator Massimiliano questi
avvenimenti, egli spedì a Milano un suo ambasciatore al re di Francia
per interpellarlo con qual titolo egli occupasse il ducato di Milano.
Il re indicogli la sua spada; giacchè non essendo egli discendente
dell'ultimo investito, cioè Lodovico XII, non aveva alcun altro titolo
da addurre fuori che l'essere discendente ei pure dalla Valentina,
madre del di lui avo Giovanni conte d'Angoulème; il qual titolo non era
adattato ai principii dell'Impero, nè alle leggi del feudo instituito
da Venceslao, siccome transitorio nei soli discendenti maschi. Se
l'interpellazione fatta da cesare aveva l'apparenza di un feciale
spedito a intimare la guerra, la risposta del re aveva il significato
della disposizione sua per difendersi. Il re, per rassodare sempre più
la buona corrispondenza col pontefice, concertò d'abboccarsi con esso a
Bologna; partì da Milano, dopo di esservi dimorato cinquantatre giorni,
il 3 del mese di dicembre e il giorno 14 dello stesso mese e dello
stesso anno 1515, in Bologna, col papa Leone X si stabilì il concordato
famoso, per cui, abolita nella Francia la prammatica sanzione, venne
spogliato il corpo della chiesa Gallicana de' suoi immemorabili
possessi, e si regalarono il re e il papa vicendevolmente la roba
altrui. Non mai per addietro gli ecclesiastici francesi avevano pagate
a Roma le annate, ed il re donò al papa il dritto di farsele pagare.
Le nomine ed elezioni de' vescovadi erano di competenza dei rispettivi
capitoli delle cattedrali per diritto stabilito dai canoni conciliari;
ed il papa invece donò al re di Francia queste nomine. Inutilmente
i parlamenti del regno fecero le loro rimostranze; inutilmente le
fece il clero gallicano in corpo: poichè si volle ad ogni modo che il
concordato fosse posto in esecuzione. (1516) Dopo ciò, ne' primi giorni
di gennaio, il re partì dall'Italia, ove lasciava per la forza delle
sue armi, per la fama della sua vittoria, e per i negoziati col papa
e co' Veneziani una dominazione apparentemente sicura e tranquilla.
Lasciò il duca di Bourbon suo governatore e luogotenente in Milano.

Frattanto però l'ostinatissimo cardinal di Sion moveva ogni mezzo alla
corte imperiale per determinare cesare a scendere nell'Italia. Varii
Milanesi, avversi alla dominazion francese, dimoravano negli Svizzeri,
e procuravano di promovere gl'interessi della casa Sforza, tuttora
intatti nella persona del duca di Bari Francesco, il quale non aveva
abdicato, come aveva fatto il maggior fratello Massimiliano, la ragione
sua alla successione nel ducato di Milano. La fiera risposta data dal
re alla intimazione imperiale, sembrava che obbligasse quell'augusto
a prendere il partito suggerito dal cardinale. Così appunto seguì,
e nel 1516 l'imperatore Massimiliano scese in persona dal Trentino
alla testa di sedicimila lanschinetti, quattordicimila Svizzeri, e
un nerbo poderoso di cavalleria. Il maresciallo di Lautrec abbandonò
Brescia, ch'ei teneva bloccata. I Francesi, vedendo l'imperatore che si
accostava per impadronirsi di Milano, nè potendo difendere i borghi,
presero il partito terribile di porvi il fuoco. Furano inceneriti i
sobborghi di porta Romana, porta Tosa e porta Orientale. L'imperatore,
il giorno 3 di aprile 1516, minacciò un assalto a Milano, ne intimò la
resa, vantossi di voler rinnovare la memoria di Federico Barbarossa; ma
il contestabile di Bourbon prese sì bene le sue misure temporeggiando,
che l'imperatore, mancando di denaro, gli Svizzeri minacciarono di
abbandonarlo. Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, informato di ciò e
della inquietudine che ne provava l'imperatore, scrisse al colonnello
Staffer, comandante degli Svizzeri imperiali, una lettera da cui
risultava un concerto di tradire Massimiliano cesare e consegnarlo
al contestabile; e questa carta venne confidata ad uno, il quale
appostatamente si lasciò prendere. Poiché ebbe letto un tal foglio,
l'imperatore talmente gli prestò fede, che, sotto apparenza di andare
a prender denaro a Trento, se ne partì; e la sua armata, mancando
di comandante, e, ciò che per essa era ancora peggio, di danaro, si
sbandò a saccheggiare Lodi e Sant'Angelo, e da' Francesi venne poi
discacciata. Così terminò con poca gloria una impresa incominciata in
guisa di doversene aspettare tutt'altro fine. Brescia fu da' Francesi
tolta agl'imperiali. I Francesi operavano come ausiliari de' Veneziani;
ma non ci fu modo di prendere Verona, difesa valorosamente da
Marc'Antonio Colonna, degno nipote di Prospero. Lautrec la assediava. I
Veneziani, collo sborso di centomila scudi, ottennero dall'imperatore
che abbandonasse Verona; e fra l'imperatore, i Veneziani e i
Francesi venne segnata la pace. Così i Veneziani riacquistarono
la terra-ferma[370]. Si fece la pace fra il re e gli Svizzeri. Si
accordò un perdono generale, acciocchè tutt'i Milanesi che avevano
preso partito contro della Francia, ed erano esuli e confiscati,
ritornassero pacificamente ne' loro diritti nella patria. Si impose una
tassa straordinaria per pagare le somme promesse agli Svizzeri; ed il
maresciallo Trivulzio obbligava i cittadini ricchi ad imprestar danaro
al regio erario, carcerandoli se ricusavano. Tali conseguenze portava
la mancanza di un catastro, sul quale ripartire i carichi delle terre.
I nostri vecchi credevano che quella oscurità fosse un bene; quasi che
meglio fosse un tributo arbitrariamente estorto colla forza militare,
esercitata odiosamente sopra alcuni cittadini più accreditati, anzi
che un proporzionato riparto sulle facoltà di ciascuno; e, quasi che
la influenza che la difficoltà di riscuoterlo può avere onde evitarlo,
sia paragonabile col disordine di tal forma di riscossione, inevitabile
quando le urgenze pubbliche lo esigono.

Il principio del regno di Francesco I, poi che fu in pace, promise
un ridente avvenire ai Milanesi, e il duca di Bourbon, generoso e
magnanimo principe, governatore e luogotenente del re, procurò di
rendersi affezionati gli animi di questi nuovi sudditi e far loro
dimenticare con un felice governo e i suoi naturali principi, e i mali
sofferti. Il senato di Milano, «che tanto a dire quanto esso re» (dice
il Prato), ordinò che venissero stimati i danni sofferti dai cittadini
per le case incenerite ne' borghi, e sulla relazione degl'ingegneri
commise ai tesorieri del re di risarcirli. Ma le angustie dell'erario
non permisero che interamente fossero indennizzati. In oltre il
contestabile di Bourbon donò alla città il dazio della macina, che
si valutava allora diecinovemila ducati di annua entrata; e donò pure
il dazio del vino minuto, d'annua rendita di settemila ducati. Nacque
disparere fra i ventiquattro rettori della città. Alcuni proposero di
abolire questi due aggravi, perchè venisse sollevato il popolo, e non
si accumulasse denaro nella cassa pubblica, d'onde sovente, col titolo
di prestito, i rettori medesimi lo sviavano per non più restituirlo,
abolendo così il nome di un molesto aggravio. Tal proposizione era
di pochi; i più si opponevano; la disputa era impegnata, ostentando
l'uno e l'altro partito il nome di patria e di pubblico bene, siccome
è l'uso. Nè accadde allora ciò che pure succede, cioè che, mentre due
partiti cozzano e guerreggiano, entri una più scaltra o più potente
persona di mezzo ad usurparsi la cosa disputata. Venne ordine in
nome del re alla città di non disporre di tai regalie, intendendo
il sovrano di conservare intiera la corona ducale. Invece però di
que' due tributi il re assegnò diecimila ducati annui alla città,
da convertirsi in opere di pubblico beneficio. L'ordine del re è in
data del 7 luglio 1516, e contiene:[371] _Christianissimus rex, animo
revolvens fidelitatem et integritatem quam cives Mediolanenses erga
Suam Majestatem habuerunt, et damna intolerabilia, quae passi fuerunt,
libere praedictae civitati donat atque concedit summam ducatorum
decem milium annui et perpetui redditus, per manus receptoris civium
recipiendos a mercaturae datiariis, quae quidem summa in commodum et
utilitatem praedictae civitatis tantummodo et non aliter convertatur_.
Poi passa a stabilire che la metà di questa somma s'impieghi ogni
anno per formare un canale sotto la direzione del vicario e dei
Dodici di Provvisione; ducento annui ducati si lasciano da distribuire
all'arbitrio del vicario e Dodici suddetti, e quattromila e ottocento
si distribuiranno chiamando col vicario e Dodici anche quattro
dottori di collegio de' fisici, quattro negozianti e quattro nobili
deputati dello spedale. Ogni anno il ricettore renderà i suoi conti
al magistrato camerale, chiamandovi il vicario ed i fiscali[372]. Era
vicario di provvisione Bernardo Crivelli[373]. Gli architetti idraulici
che s'impiegarono furono Bartolomeo della Valle e Benedetto Missaglia.
Si cercò di fare un canale che ci rendesse comoda la navigazione
col lago di Como. Primieramente si esaminò la valle di Malgrate,
e risultò impossibile, perchè conveniva scavare un canale profondo
trenta braccia per più d'un miglio, e ciò sotto il fondo del lago di
Civate, e protraendo il canale sino al lago di Pusiano per imboccare
il Lambro, che ne esce, conveniva sprofondare il Lambro cento braccia
e dieci once. Perciò abbandonarono quella idea, e si rivolsero ad
esaminare se meglio convenisse cominciare il canale sotto Airuno, e
trovando che ivi dovevasi sprofondare centosessantadue braccia per
attraversare quella costa, ne lasciarono pure anche tale idea. (1517)
Poi, l'anno seguente, esso Missaglia con altri ingegneri, Giovanni
Simone della Porta e Giovanni Balestrieri, si posero ad osservare la
Valle del Seveso, che comincia a Cavallasca, o passa per Lentate, e
viene a Milano. Trovarono che per essa non era sperabile di condurre un
canale per l'angustia e le alte rive che in più luoghi s'incontrano;
e ciò quando anche vi fosse stato modo d'introdurvi le acque del
lago di Como, cosa assai difficile e pel livello, e per le montagne
frapposte; ed anche questo pensiero per tai motivi fu giudicato
inutile. Visitarono una valle presso Chiasso, e non trovarono modo di
aprirvi un emissario che ricevesse le acque del lago di Como. A Como
presso a Sant'Agostino si argomentarono di potervi aprire un emissario,
imboccando la valle del fiume Aperto e dell'Acqua Negra, ma calcolate
le molti emergenti difficoltà, senza fare alcuna livellazione,
riconobbero ineseguibile anche questo progetto. Tentarono poscia se da
Porlezza a Menaggio si potessero unire i laghi di Lugano e di Como;
la distanza è di sei miglia, ma conveniva discendere dal primo cento
braccia per entrare nel lago di Como, e lo trovarono impossibile. La
Tresa, emissario del lago di Lugano, che sfogasi nel lago Maggiore,
fu trovata povera di acque e di caduta impetuosa, e giudicata perciò
indomabile. Esaminarono a Porto ed a Cò di Lago se potessero estraersi
le acque ed incanalarle per la Lura verso Seregno, d'indi poi a Milano;
e ciò pure non trovarono espediente. Ritornarono a tentare di fare
un emissario nell'Adda, visitarono se mai per Oggionno e Valmadrera
si potesse incanalare l'acqua verso Rovagnate, ovvero nel Lambro; ma
senza profitto, nè speranza, rinunciarono a quel partito. Ripigliarono
l'esame sotto Airuno, e passata la costa, alta, come dissi, braccia
centosessantadue, videro che si sarebbe potuto condurre un canale per
Cernusco Lombardone, indi Usmate, poi ad Arcore: ma tutto con sommo
dispendio. Questo fu il progresso per cui si determinarono il Missaglia
e il della Valle a progettare per rendere navigabile l'Adda da Brivio
a Trezzo. La città supplicò perchè s'impiegassero i cinquemila zecchini
nel rendere navigabile l'Adda, invece di scavare di nuovo un emissario,
e da ciò si prometteva abbondanza di calce, legna e carbone. Era
riserbata quest'opera ai nostri giorni, mercè la protezione ed attività
del passato governo.

Queste beneficenze del re animarono la città di Milano a spedire
a Parigi alcuni deputati con una supplica al re in cui proposero
alcuni stabilimenti. Essa distesamente vien riferita nel manoscritto
del Prato. Io ne esporrò quanto vi è di più importante. Si chiedeva
dalla città di Milano che il governatore e luogotenente non avesse nè
direttamente nè indirettamente ingerenza alcuna nelle cose di giustizia
tanto civile quanto criminale; che nessuna autorità egli avesse negli
affari delle regalie, e nemmeno facoltà di proclamare editti; ciò che
il re non volle accordare. Accordò egli bensì che nessun comandante
militare potesse nelle città di presidio o nei castelli esercitare
giurisdizione sopra i cittadini. Si conosce da quanto trovasi in
quella supplica, che di que' giorni i questori, i quali dovevano
giudicare delle questioni fra gl'impresari e il popolo, non erano di
rado soci secreti degl'impresari medesimi; onde essendo costoro ad un
tempo giudici e parte, non vi era più modo agli oppressi di trovare
giustizia, su di che la città implorò la sovrana provvidenza. Essi
poi, come ministri camerali, all'occasione di confische (le quali
in quella età di frequente cambiamento di dominazione, col pretesto
di fellonia non erano rare) occupavano indistintamente tutto il
patrimonio e del reo e de' consanguinei che vivessero indivisi con
lui, e quindi gl'innocenti si trovavano costretti a dispendiosissime
liti, dalle quali erano prima rovinati che ottenessero la loro porzione
devastata. Fa poi ribrezzo maggiore il conoscere da quella supplica
quanto ingiusta e crudele fosse la procedura criminale esercitata in
quell'epoca da coloro che avevano una carica di capitano di giustizia.
Questo supremo giudice, assistito dal suo vicario e da quattro fiscali,
procedeva[374] _servato et non servato jure comuni_. Vi fosse o non vi
fosse il corpo del delitto, questo non arrestava la procedura. Il primo
atto del processo era citare formalmente il tal cittadino, acciocchè si
presentasse all'esame. In questo esame non di rado veniva il cittadino
posto ai tormenti, e quindi[375] _cum terrori sit omnibus officium
illud_ (dice il Prato), molti chiamati all'esame, per sottrarsi
fuggivano, e poi si condannavano come contumaci anche gl'innocenti. Da
questi aggravi chiesero i deputati che venisse liberata in avvenire
la città; ed il re comandò al senato di proporre i rimedii. Se colle
livellazioni fatte sulla pianura del ducato, alcuni uomini di quel
secolo acquistarono diritto alla stima e riconoscenza de' loro nipoti
e successori, i togati di quei tempi cominciarono a farci conoscere
che quella loro arte cui definiscono:[376] _ars boni et aequi, justi
atque injusti scientia_, è un'arte affatto staccata dal senso morale.
Da quella carta istessa impariamo che allora più non si univa il
consiglio dei novecento, ma era di centocinquanta il consiglio generale
della città di Milano; e que'centocinquanla nobili rappresentavano
veramente la loro patria, poichè da quella erano eletti a parlare e ad
agire per essa. Il metodo della elezione era questo. Ogni parrocchia
si radunava e nominava due sindaci. Tutti i sindaci poi di ogni porta
si radunavano ed eleggevano quattro. Questi quattro eletti da ciascuna
delle sei porte, ossia de' sei rioni o quartieri della città, si
univano e formavano i ventiquattro elettori. Da questi poi nominavansi
venticinque nobili per ciascuna porta, i quali formavano il consiglio
della città, a cui era concessa la nomina dal vicario di provvisione,
scelto dal collegio de' giureconsulti, la nomina de' due assessori,
scelti pure dal collegio medesimo, e quella degli altri nobili per
le giudicature della città e pel tribunale di provvisione. Essi
tuttavia formavano la terna, e la scelta facevasi dal luogotenente e
governatore dello Stato. Ma quella forma di elezione terminò due anni
dopo; e per un fatto dispotico del governatore Lautrec, vennero da
esso lui nominati sessanta nobili, ai quali commise di rappresentare
il consiglio generale della città[377]; e così continuarono dappoi i
successori nel governo a nominare, senza opera della città, a misura
che vacavano; ed il ceto dei sessanta decurioni (l'adunanza de'
quali dicevasi la _Cameretta_), durò fino all'epoca della repubblica
Cisalpina.

La plebe era superstiziosa e violenta oltremodo; e ne fecero la prova
i monaci di San Simpliciano, i quali, nell'anno 1517, avendo scoperte
alcune urne, ed esposti i corpi creduti di San Simpliciano, di San
Martino, di San Siro ed altri santi; ed essendo per disgrazia caduta
in que' dì una grandine dalla quale vennero flagellate e devastate le
nostre campagne; col modo di ragionar volgare attribuendosi il fenomeno
fisico allo sdegno dei santi, i quali bramassero riposo ed oscurità,
anzi che luce e movimento; e traducendosi i Benedettini siccome rei
di sacrilegio e di pubblica sciagura; non furono essi più sicuri non
solamente nelle piazze e per le vie della città, ma nemmeno nel loro
monastero; e dice il Prato ch'essi furono «sì sconciamente battuti,
che tal fu di loro, che vi lasciò non solamente la cappa, ma et la
forma di quella». Nè la supposta empietà di cavare dalla tomba i santi
bastava a spiegare allora la cagion della grandine. La inquisizione
non volle starsene oziosa; volle trovar delle streghe colpevoli di
quel turbine, e volendolo efficacemente, se ne trovano sempre. Alcune
infelici donnicciuole avevano dei segni, quai fossero non lo sappiamo;
bastarono però a farle splendidamente gettar nel fuoco. Si ascolti
il Prato: «Anche da li segni le quali, judicate dalla inquisizione
per strie, furono in quelli medesimi dì a Ornago et a Lampugnano sul
monte di Brianza a gran splendore arse». Convien dire che anche nel
ceto ecclesiastico allora l'ignoranza fosse grande; e merita di essere
riferito a tal proposito un fatto singolare che ci vien raccontato
e dal Prato e dal Burigozzo. Un uomo sen venne a Milano grande,
sottilissimo per l'estrema magrezza, che, andando scalzo, vestito di
rozzo panno, a capo scoperto, non portando camicia, vivea con pane
di miglio, erbaggi ed acqua, e dormiva sulla nuda terra. Costui,
presentatosi alla curia arcivescovile, chiese il permesso di predicare;
ma siccome egli era laico e non fregiato di alcun ordine ecclesiastico,
gli venne ciò negato. Malgrado ciò egli cominciò nel Duomo a parlare al
popolo, e continuò per un mese a farlo ogni giorno _con tanta grazia
di lingua, che tutto Milano vi concorreva_[378]. Egli prese un tal
ascendente col favor del popolo, che nessuno poteva fargli contrasto;
e nella chiesa del Duomo disponeva come se ne avesse titolo. Le costui
prediche versavano singolarmente nel rimproverare la corruttela degli
ecclesiastici; i quali, indifferenti per la religione, col di lei manto
altro non bramavano se non ricchezza, autorità e comodi; non mai sazi
di onori, di latifondi, di voluttà, nimici delle sante regole de' lori
istitutori, alieni dalla carità, dallo studio de' libri sacri, dalla
cura del bene altrui, dalla pazienza, dalla umiltà, dai travagli;
cose tutte che pure sono di obbligo dello stato a cui sono sublimati,
e quindi invece di animare i laici alla virtù col loro esempio, sono
la cagione della corruttela universale de' costumi. Così con veemente
eloquenza questo uomo laico cercava di scuotere gli ecclesiastici. I
preti non si mossero; ma i frati non furono tanto pazienti; e que' di
Sant'Angelo l'accusarono come sedizioso, fautore segreto de' nimici
del re. Egli, interrogato dal maresciallo Trivulzio e dal presidente
del senato, fu trovato un uomo semplice, pio, ed affatto diverso da
quello che era stato rappresentato. Insensibilmente poi questo amor
popolare, prodotto dalla eloquenza e dalla austerità, sempre imponente,
della vita, svanì; ed il romito, dopo sei mesi, senza alcun romore,
se ne partì. Era costui dell'età di trent'anni, toscano; aveva nome
Girolamo; dotto assai nelle sacre pagine. Tutto ciò il Prato. Di costui
il Burigozzo dice che era di Siena, di bella persona, e nobile: «era
vestito de panno tanè, haveva le brazza discoperte et le gambe nude
senza niente in testa, con la barba lunga, ed haveva dissopra un certo
mantelletto a modo de sancto Giovanni Battista». Se mi si permette una
conghiettura, parmi che questa straordinaria missione fosse un avviso
salutare degli imminenti torbidi luttuosi che nacquero pochi mesi dopo
nella Germania contro degli ecclesiastici, e che riuscirono, come ognun
sa, all'infausto dissidio dei protestanti e dei pretesi riformati.

Il contestabile duca di Bourbon, governatore e luogotenente del re,
venne richiamato per uno di quegl'intrighi, i quali non son rari
nelle corti, quando il monarca non giudichi co' suoi principii, ma si
lasci indurre ad abbracciare i partiti che destramente gl'insinuano le
persone che se gli accostano più da vicino. La duchessa di Angoulême
aveva molto ascendente sull'animo del re suo figlio. Non minor potere
aveva nel cuore di quel giovine e vivace sovrano la contessa di
Chateau-Briant, che era nel fiore dell'età, il fiore della bellezza e
della grazia; ed era amata dal re[379]. La duchessa favoriva il duca
di Bourbon, senza ch'egli se ne avvedesse, per inclinazione naturale;
la contessa bramava che si desse a Lautrec, di lei fratello germano,
il comando nell'Italia delle armi francesi. Perciò nel 1517 egli
venne a Milano governatore, e fu il settimo. Odetto di Foix, signore
di Lautrec, maresciallo di Francia, era cugino e compagno d'armi del
celebre Gastone di Foix. Alla battaglia di Ravenna egli fu de' pochi
che non l'abbandonò, quando, per uno sconsigliato ardimento si scagliò
incontro alla sua morte. Si battè, lo difese quanto un uomo solo lo
poteva contro di una folla di armati. Lautrec gridava agli Spagnuoli,
mentre combatteva, avvisandoli che Gastone era il fratello della regina
loro. Ferito egli pure in più guise, giacque creduto morto a canto
a Gastone. Riconosciuto poi ed assistito, ripigliò Lautrec il suo
vigore, e sotto del contestabile continuò a dar saggi del suo valor
militare. Le ferite che Lautrec aveva ricevute sul viso nella battaglia
di Ravenna, l'avevano reso di aspetto truce e deforme, nè il di lui
carattere contrastava colla fisonomia[380]. (1518) Lautrec, governatore
di Milano, mal sofferiva il maresciallo Trivulzio, il quale viveva con
una magnificenza reale, ed era più considerato nella città, che non
lo fosse Lautrec. Trivulzio era maresciallo, era stato governatore,
aveva acquistato alla Francia il milanese, viveva indipendente. Il
perchè venne accusato e indicato per sospetto, per essere egli il capo
della potente fazione de' Guelfi, e per essersi fatto ascrivere alla
naturalizzazione elvetica, e perchè il di lui nipote serviva i Veneti.
Queste accuse del Lautrec vennero nell'animo del re malignamente
rinforzate dalla contessa di Chateau-Briant, la favorita di quel
monarca. Trivulzio, franco e sensibile, informato dell'attentato, al
momento partì, e quantunque avesse ottant'anni, nel cuore dell'inverno,
superate le Alpi, si presentò alla corte di Francia, dove però non
potè avere udienza dal re. Questo rispettabile vecchio si fe' condurre
in luogo per cui doveva passare il monarca; e poichè fu alla distanza
di essere ascoltato, disse: «Sire, degnatevi di accordare un momento
d'udienza ad un uomo che s'è trovato in diciotto battaglie al servigio
vostro e dei vostri antenati». Il re, sorpreso, lo guarda, lo ravvisa,
e passa oltre senza far motto. Tale fu la mercede di quarant'anni
di servigi resi alla Francia. Trivulzio si ammalò gravemente. Il
re gli fece fare delle scuse; ed il Trivulzio gli rispose che era
sensibile alla bontà del re, ma che lo era stato pure ai rigori, ed
il rimedio era tardo[381]. Frattanto il Lautrec profittò dell'assenza
del Trivulzio per arrestare a Vigevano la vedova ed i figli del conte
di Musocco, nuora e nipoti del Trivulzio. Il maresciallo fu sepolto a
_Bourg de Chartres_, sotto _Montlehery_, dove aveva trovata la corte,
e dove morì[382]. Burigozzo dice che ei morì il giorno 4 di dicembre
del 1518. Nel vestibolo di San Nazaro Maggiore della nostra città
avvi un tempio di assai grandiosa e nobile architettura, intorno al
cui architrave veggonsi collocate in alto le tombe della famiglia
Trivulzio; il qual edifizio credesi fatto fabbricare dal maresciallo,
la tomba del quale sta nel mezzo, colle due sue mogli poste ai lati;
e sta scolpito:[383] QVI NVNQVAM QVIEVIT HIC QVIESCIT. TACE. Della
sconoscenza ed ingratitudine del re Francesco I ne scrive anche il
Prato; «havendo non una, ma due et tre volte, dic'egli, con tanta
fatica et arte in bona parte dato il stato di Milano a Francesi, et
hora ne ha pagato di sì meritevole guiderdone». Il Trivulzio fu un gran
soldato, un signore magnifico, e d'animo reale. L'ambizione sua però
fu rivolta più a soggiogare i nemici viventi, ed a vendicarsene, che a
procacciarsi una fama generosa presso la posterità. Ei non temette la
voce imparziale della storia. È tristo quel popolo che è dominato da
un ambizioso che non la teme! Trivulzio, con la sua ambizione, rovinò
la patria, scaccionne i naturali suoi duchi, e la immerse nelle miserie
che l'afflissero per più di un secolo. Egli non ha diritto veruno alla
nostra riconoscenza.

Dell'atrocità di que' tempi, o degli effetti dell'ignoranza e delle
torture può esserne pure chiara testimonianza il fatto orribile di
Isabella da Lampugnano, la quale, il giorno 22 di luglio del 1519,
sulla piazza del castello, fu arruotata viva ed abbruciata. Si credette
che per _sola crudeltà_ ella colle lusinghe si facesse venir in sua
casa i bambini, e loro togliendo il sangue, gli salasse e divorasse
poi. Si asserì che la cosa venisse a sapersi, perchè una gatta di
lei fu osservata avere in bocca la mano d'un bambino: «Fu subito
detenuta, dice il Prato, et stata per alcun tempo perseverante ne'
tormenti horribili, negando sempre il vero, finalmente confessò il
tutto». La logica non permette di credere che si commettano siffatti
orrori _per sola crudeltà_ e senza un fine. La cognizione del cuore
umano nemmeno consente di crederne preferibilmente capace una donna,
più sensibile alla compassione che non è l'uomo. La ragione e la
sperienza ci dimostrano che questa è una prova di più, che coll'uso dei
tormenti _horribili_, finalmente si costringe un innocente ad accusarsi
di qualunque più chimerico delitto. Ci accaderà di trattarne più
diffusamente, mi lusingo, in avanti, proseguendo la storia.

La condizione de' Milanesi era assai infelice sotto il duro e dispotico
governo del maresciallo Lautrec: aggravi indiscreti, indiscretamente
percepiti; patiboli, confische, proscrizioni; quest'era l'arte colla
quale colui governava. Io non riferirò quanto ne scrivevano gl'Italiani
di quel tempo, che potrebbe forse anco credersi dettato dallo spirito
di partito nazionale. Brantome così parla nella vita di Lautrec. «On
dit qu'avant qu'il fust chassé de Milan, venoient au roy plusieurs
nouvelles et plaintes de luy, et qu'il estoit trop sévère et mal propre
pour un tel gouvernement.... mais pour gouverner un état il n'y estoit
bon. Madame de Chasteaubriant, soeur de mons. de Lautrec.... en rebatit
tous les coups, et le remettoit tousjours en grace». E lo storico
Gaillard, nella vita di Francesco I re di Francia, dice: «Le maréchal
de Lautrec gouvernoit depuis lon tems le Milanés avec une rigueur
bien contraire à la clemence de son maître. Les proscriptions avoient
depeuplé Milan. Les bannis étoient en si grand nombre qu'on les voit
jouer un rôle dans l'histoire, se rassembler, former des entreprises,
et susciter beaucoup d'affaires aux François. On remarqua que la plus
part de ces bannis étoient les plus riches citoyens da Milanés[384]».
Fu ben diverso il regno di Lodovico XII da quello di Francesco I,
non già per cattiva indole di quest'ultimo, ma perchè, sotto il nome
suo spensieratamente lasciava in balía d'un favorito il destino dei
sudditi. In quel torno morì il nostro celebre Bernardino Corio[385],
d'anni sessanta, e fu l'anno 1519. Quattro anni prima lo storico
Tristano Calco lo avea preceduto.


  FINE DEL TOMO SECONDO.



INDICE DI QUESTO TOMO


  CAPITOLO XI.
  _Di Matteo I, di Galeazzo I e d'Azzone Visconti, signori
    di Milano_                                               Pag. 5

  CAPITOLO XII.
  _Di Luchino, di Giovanni arcivescovo, e dello stato della
    città sino verso la metà del secolo XIV_                  »  37

  CAPITOLO XIII.
  _Della signoria dei tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo
    Visconti_                                                 »  70

  CAPITOLO XIV.
  _Del conte di Virtù, e della erezione del ducato di
     Milano_                                                  » 104

  CAPITOLO XV.
  _Del duca Giovanni Maria, e del terzo ed ultimo duca
    Visconti, Filippo Maria_                                  » 132

  CAPITOLO XVI.
  _Repubblica di Milano, che termina colla dedizione a
    Francesco Sforza_                                         » 170

  CAPITOLO XVII.
  _Francesco I Sforza, duca di Milano                         » 211

  CAPITOLO XVIII.
  _Del governo del quinto duca Galeazzo Maria Sforza, e
    della minorità del duca Giovanni Galeazzo Maria, sesto
    duca_                                                     » 229

  CAPITOLO XIX.
  _Di Lodovico il Moro, settimo duca di Milano, e della venuta
    del re di Francia Lodovico XII_                           » 251

  CAPITOLO XX.
  _Breve ritorno del duca Sforza, fatto prigioniere; e
    governo del re di Francia Lodovico XII, fino alla lega
    di Cambrai_                                               » 275

  CAPITOLO XXI.
  _Lodovico XII, re di Francia, perde il Milanese, ove è
    riconosciuto Massimiliano Sforza, ottavo duca_            » 297

  CAPITOLO XXII.
  _Di Francesco I re di Francia, e suo governo nel ducato di
    Milano_                                                   » 319



NOTE:


[1] Cassone ecc. Agli uomini, così fossero prudenti! Matteo Visconti,
vicario e rettore, o sia capitano, al podestà, ai sapienti ed anziani,
ai consiglieri, ai consoli, al consiglio, al comune della città di
Milano, e a Galeazzo, Luchino, ec.

[2] E per questo tu, Matteo Visconti, e voi altri come sopra nominati,
se non vi emenderete delle predette cose, scomunichiamo in perpetuo,
anatematizziamo, e priviamo di qualunque commercio umano, della
ecclesiastica sepoltura e dei sacri ordini.

[3] Corio all'anno 1314.

[4] _Flamma, Manipul. Fior., et Annales Mediolan. ad ann. 1317._

[5] _Flamma, Manipul. Flor., ad annum. 1313._

[6] Di pessimi delitti e di eresia, benchè non fosse colpevole.

[7] _Bonincontrus Morigia_, lib. 3, cap. 2.

[8] Villani, Ughelli e Buonincontro Morigia.

[9] _Raynaldus, ad an._ 1317, n. 8.

[10] _Bonincont. Morigia_, lib. 2, cap. 27.

[11] _Raynald., num. XI, ad annum._ 1320.

[12] _Idem, num. X, ad an._ 1320.

[13] Lib. IX, cap. 108.

[14] _Flamma, Manipul. flor._

[15] Tom. X, pag. 547.

[16] Tanto perchè il giudizio o la punizione del reato di sacrilegio
spettano al foro ecclesiastico, quanto ancora perchè, nella vacanza
dell'Imperio, come ancora al presente si riconosce vacante, a
noi ed alla apostolica sede appartiene il reprimere l'ardire di
questi facinorosi che nell'Imperio si trovano, il togliere di mezzo
l'oppressione, e l'amministrare la giustizia agli offesi ed agli
oppressi.

[17] Il profano ed empio autore di grandi sceleratezze e di delitti,
Matteo Visconti di Milano, rabbioso devastatore delle parti della
Lombardia, ec.

[18] _Ughelli, Ital. Sacr._, tom. IV.

[19] Ughelli, col. 206.

[20] Fece portare il vessillo della Chiesa sopra il tetto della casa,
e colà fu proclamato che qualunque uomo o donna seguitare volesse quel
vessillo, affine di distruggerò il detto Matteo e i di lui fautori,
libero e mondo sarebbe tanto da colpa quanto da pena.

[21] _Chronic. Astens._, cap. 103.

[22] Pronunziando sentenza di scomunica, coi tesori della Chiesa
aperti, e da qualunque parte arruolando soldati agli stipendi contra il
predetto signor Matteo e i suoi seguaci e quelli della sua stirpe fino
al quarto grado.

[23] Edizione in quarto. Milano, 1771, pag. 29.

[24] All'anno 1332.

[25] Certamente consta che i censori della fede, nel condannare per
titolo di eresia alcuni Ghibellini, indotti furono oltremodo dallo
spirito di partito.

[26] _Raynald. ad annum_ 1341.

[27] Trovato abbiamo essere iniquamente fatti i processi e le sentenze
suddette, per certe ragioni legittime e giuste che in essi abbiamo
ravvisate, e col consiglio del fratelli nostri e coll'autorità
apostolica, dichiariamo iniquamente fatti e nulli ed irriti gli stessi
processi e i giudizi, fatti e pronunziati dai prefati arcivescovo,
Pasio, Giordano, Onesto e Barnaba, e da ciascuno di essi intorno alle
predette cose, in comunione o separatamente, contra i predetti Giovanni
e Luchino (_erano allora que' due figli di Matteo signori tranquilli
di dodici città_) e tutte le cose che sono seguite in forza di que'
giudizi o per cagione di quelli.

[28] Ughelli, tom. IV, in _Archiep. Mediol., ubi de Johanne Vicecomit._

[29] Che gli altri tutti in probità superava.

[30] Pag. 36.

[31] _Bonincontr. Morigia_, lib. III. cap. 21.

[32] All'anno 1323.

[33] Non mancavano tuttavia a Lodovico molti argomenti di ragione coi
quali, presso il maggior numero delle persone, scusare si potessero
le cose da esso fatte; la controversia con Federico austriaco intorno
all'Imperio, già decisa colla spada: Milano poi difesa, non affine di
assistere l'eretico Galeazzo, ma di rivendicare a sè stesso i diritti
dell'Imperio, e di impedire che occupata fosse da Roberto re di Sicilia
un'amplissima provincia dell'Imperio, che non mai forse si sarebbe
ricuperata. Non però da que' motivi di ragione fu Giovanni rimosso dal
meditato disegno.

[34] _Raynald. ad ann._ 1323, cap. 29 et 30.

[35] Intorno alla di cui morte nulla si sa di certo.

[36] Pag. 70.

[37] Lib. III, cap. 37.

[38] _Anecdot._, tom. II, pag. 301.

[39] Molto dal vero si allontana.

[40] _Bonincontr. Morigia, R. I._, tom. XII, col. 1750 D; — e la
cronaca d'Azario, pag. 54.

[41] _R. I._, tom. X, col. 901 B. — _Martene, Thesaur. nov. Anecdot._,
tom. II. — _Cod. Italic. Lunig._

[42] Pietro tornato in sè, disse: Venne l'angelo del Signore, e ci
liberò dalle mani di Erode e di tutte le fazioni de' giudei.

[43] Gio. Villani, Storia, lib. X, cap. 71. — Albertino Mussato, _R.
I._, tom. X, col. 774 C.

[44] _Med. Æv._, tom. VI, col. 186.

[45] Giorno e notte gridavano a vitupero del Bavaro: O Gabrione,
ebrione, bevi, bevi, ho, ho, Babii, Babo.

[46] _R. I._, tom. XII, col. 1001.

[47] Villani, cap. 289.

[48] Messale ambrosiano, stampato l'anno 1475 in Milano da Antonio
Zarotto; e Breviario, stampato dal medesimo, l'anno 1490.

[49] Tom. X, pag. 482.

[50] Vita di Giotto, tom. I, pag. 95.

[51] _Ivi_, pag. 46.

[52] Lomazzi, Arte della pittura, pag. 35.

[53] Giulini, tom. X, pag. 332.

[54] Gio. Villani, lib. XII, cap. 37.

[55] Giulini, tom. X, pag. 410.

[56] All'anno 1348.

[57] Aveva la predetta signora Elisabetta, di lui moglie, fatto voto
di visitare la chiesa di San Marco in Venezia, come essa diceva. Al
quale viaggio acconsentì il signor Luchino. E, fatta una comitiva di
molti grandi dell'uno e dell'altro sesso, si pose in cammino, e come
una imperatrice, e con grandissime spese e corte bandita, fu ricevuta
dal signor _Mastino_ in Verona. E compiè il suo viaggio, e si narra
che anche la sua volontà compiesse intorno a carnale congiungimento,
e le altre di lei compagne delle primarie della Lombardia fecero la
cosa stessa. Per questo nacquero di molti scandali. Ma perchè l'amore
e la tosse non si possono nascondere, nè tanto è occulta alcuna cosa
che non si riveli, tornata essendo la medesima, il signor _Luchino_
seppe ed udì quello che avvenuto era. Pure, siccome sapiente, pensò
a dare le disposizioni per la vendetta. E perchè disse un giorno, che
in breve era per fare in Milano la giustizia più grande che mai fatta
avesse, con bellissimo rogo, la predetta di lui moglie ben si avvide
che essa era l'oggetto di quella giustizia. Essa altronde, che ben
conosceva il commesso delitto con tale persona, scusare non potevasi
delle cose predette, siccome altra volta erasi scusata. In qual modo
andasse quella faccenda si ignora, nè viene agli scritti confidato. Ma
il signor _Luchino_ non potè compiere quella vendetta per essere egli
stesso mancato di vita.

[58] _Petri Azarii, Notarii Novariensis, Syncroni author. Chronicon...
Mediolani_, 1771, pag 93.

[59]

    «Non nuoce aver taciuto, ma parlato».

[60] Uomo era austero nell'aspetto e nell'opere, parco nel promettere,
largo nell'attendere.

[61] Mostrava prendersi cura di poche cose, ma di molte curavasi.

[62] Che il prefato magnifico ed eccelso signor _Giovanni_, figliuolo
del fu signor _Matteo de' Visconti_ di buona memoria, e dopo la
morte di quel signor _Giovanni_, nello stesso modo, qualunque altro
maschio discendente per linea mascolina e di legittimo matrimonio dal
prefato fu signor _Matteo de' Visconti_, sia e sieno a perpetuità
vero e legittimo e naturale padrone, e veri e legittimi e naturali
padroni della città e di tutto il distretto e della diocesi e della
giurisdizione di Milano.

[63] Matteo Villani, lib. I, all'anno 1350.

[64] _Raynald. ad ann._ 1330, n. VII.

[65] Matteo Villani, lib. I, all'anno 1351.

[66] _Georg. Stellae Ann. Genuens., ad ann. 1354._

[67] Tutta poi trovo la valle del Reno abitata da coloni mandati da
_Augusto_; questa mutazione però di sedi non cambia punto la patria
alla quale si va, ma coloro che vanno. Adunque e i Galli andati
nell'Asia, Asiani, e gli Italiani andati nella Frigia, Frigii,
e questi, dopo l'eccidio di Troia tornati nell'Italia, di nuovo
diventarono Italiani. Così i nostri, trasportati nella Gallia o nella
Germania, s'imbevettero della natura di quelle parti e de' costumi
barbarici, e i Milanesi, stabiliti dai Galli, e Galli una volta, ora
come uomini dolcissimi, non serbano alcun vestigio della vetusta loro
origine; così da forza celeste sono modificati gli umani ingegni.

[68] _Francisci Petrarchae V. C. contra cujusdam Anonymi Galli
calumnias, ad Ugutionem de Thienis Apologia_, tom. II, pag. 1083.

[69]

    «O caro al cielo, e per illustre schiatta
    Venerato dai popoli superbi,
    Almo fanciullo, a te dolce la vita,
    E sia vivace nell'infanzia il brio!
    Lieto t'innoltra, o lungamente atteso,
    Dono alla patria, ai padri ed a noi tutti;
    E di vita il cammino astri felici
    T'additin certo tra secondi eventi!
    Te il Po signore attende...»

[70]

    «Ma all'egregio garzon, già grandicello,
    Questa coppa si doni, e ad essa accosti
    Le rosee labbra; a' piccioli conviene
    Picciolo dono: minimo son io;
    Ei massimo; ma ancor l'etade è scarsa;
    Appena egli apre a nuova luce gli occhi,
    E trepido lo sguardo al ciel rivolge.
    All'età s'offron, non al grado, i doni.
    Giuoco or farà del nitido metallo,
    Che altero sprezzerà d'anni più grave,
    Qualora ei sappia che lucente feccia
    Dalle profonde viscere si tragge
    D'alpestre terra; ma a lui forse grati
    Saranno allor miei carmi, e, rileggendo,
    Rammenterà ch'io lo levai dal fonte.
    Tanto onor mi concesse il genitore».

[71] _Francisci Petrarchae Florentini V. C. operum_, tom. III, pag. 113.

[72] La città di Milano, capitale dei Liguri e metropoli, sin quasi
all'invidia ignara tuttora di queste calamità, e per la salubrità e
dolcezza dell'aere, e per la frequenza del popolo gloriosa, nell'anno
sessantesimoprimo deserta rimase e squallida.

[73] _De Rebus Senilibus Epistolar._, lib. III, epist. I _ad Johannem
Bocatium._

[74] Benaglia, Del magistrato straordinario, cap. 12.

[75] Tom. XI, pag. 426.

[76] Tom. VII, pag. 392.

[77] Giulini, tom. XI, pag. 32.

[78] Cioè, di pane di frumento buono e ben cotto e bianco, e di vino
buono e puro in quantità sufficiente; e di capponi, uno cioè intero per
ogni due persone, e di carne di bue e di porco con buone salse di pepe,
cioè un frammento o un pezzo di carne di bue, competente e buona per
ogni due; ed un altro frammento o un pezzo di porco con buone salse di
pepe per ogni due; ed un frammento o un pezzo di carne porcina fritta
o arrostita col pane gratuggiato per ogni due; e tutte queste cose,
secondo che è convenevole, appresti in ciascun anno a sufficienza.

[79] Tom. VIII, pag. 653.

[80] Ora però nell'età presente, agli antichi costumi molte cose si
sono aggiunte, come irritamenti a danno delle anime; perciocchè le
vesti preziose sono da ogni parte coperte di superflui ornamenti: nelle
stesse vesti, tanto degli uomini, quanto delle donne, si inseriscono
l'oro, l'argento, le perle. Larghissimi fregi si sovrappongono alle
vesti. Bevonsi vini forastieri e delle parti oltramarine; tutte le
vivande sono sontuose, ed in grandissimo prezzo si tengono i maestri
dell'arte della cucina.

[81] _R. I._, tom. XII, col. 1034.

[82] Che il luccicare degli specchi superavano. Perciocchè i soli
fabbri delle corazze montano a parecchie centinaia, senza contare
innumerabili operai ad essi subordinati.

[83] Perciocchè gli stessi mercatanti scorrono la Francia, la Fiandra,
l'Inghilterra, comperando lana fina, colla quale in questa città si
tessono panni fini in grandissima quantità, che si tingono in qualunque
sorta di colore e che si portano per tutta Italia.

[84] _R. I._, tom. XI, col. 1320.

[85] Giulini, tom. VII, pag. 65.

[86] Giulini, tom. XI, pag. 149, 167, 475, 497 e 502.

[87] MCCCLXXXVIII nel giorno XXII di luglio. Dai signori vicario
e XII di Provvisione del comune di Milano, e dai sindaci del detto
comune eletti furono gli infrascritti cittadini di Milano, che sono e
s'intendono di essere il consiglio dei DCCCC del comune di Milano.

[88] _Med. Æv. Dissert._ 38, pag. 815.

[89] _Signorol. Omodeus, Cons. XXII._

[90] Giulini, tom. XI, pag. 514.

[91] Il detto, tom. XI, pag. 119.

[92] _Decreta antiqua_, pag. 51.

[93] Siccome ancora si fanno estorsioni di diversi modi dai gabellieri
della dogana delle bestie grosse e minute del detto vostro contado.

[94] Vogliamo bensì che agli impresari dei dazi del detto nostro comune
si mantengano i loro patti.

[95] _Decreta antiqua_, pag. 50.

[96] _Ibid._, pag. 173.

[97] Giulini, tom. XI, pag. 118 e 557.

[98] Cardinali della santa chiesa milanese.

[99] Giulini, tom. VII, pag. 196.

[100] Una pelliccia di coniglio, coperta di violato, ed altre due...
cioè una di volpe, coperta di _scalfanio (specie di panno)_, ed altra
di fianchetti, coperta di saglia bruna, e... il mio cappello grigio,
coperto di saglia nera, ed il mio _copertorio_ e la _sorada_ o la mia
veste doppia... la mia cappa turchina, la mia cappa di _mantellato_...
cinque cucchiai d'argento, e il mio mantello foderato di zendado... il
mio vestito violato.

— _Mastruca_, come porta l'originale, è veramente pelliccia, e non
solamente quella de' Sardi, come opina il _Du Cange_. Trovansi nei
codici del medio evo altre vesti e pelliccie di fianchetti, fatte forse
di pelle dei fianchi. Il _mantellato_ era pure una specie di veste e di
panno.

[101] A tutti poscia i cherici proibiamo le vesti rosse o di diverso
colore, gialle e verdi.

[102] Sormani, Gloria de' santi milanesi, pag. 211.

[103] Vesti vergate, o bianche e nere per metà, o listate, o con fregi,
o con bottoni d'argento o di alcun altro metallo.

[104] Non portanti cappucci alla maniera dei laici.

[105] Giulini tom. VIII, pag. 642 e 644.

[106] Conviene però sapere che il giudizio del ferro rovente nella
città nostra non si ammette, sebbene altrimente si osserva in alcuni
luoghi posti sotto la giurisdizione del signor arcivescovo.

[107] Lib. V, cap. 81.

[108] _Raynald. ad annum_ 1356, num. 30.

[109] O monopolisti delle granaglie, o uomini nutriti del sangue del
popolo, non aspettate il giorno del giudizio?

[110] Predicando egli, dicesi che propalasse i peccati occulti di
quelli della famiglia Beccaria, che ad esso erano stati narrati nel
sacramento della penitenza, e specialmente del signor Castellino disse
tali cose, che tutto il popolo sedusse ed animò all'esterminio di tutti
i Beccaria, e della prole e discendenza loro e de' loro amici, e alla
ruina e al saccheggio delle loro case. Ed allora tosto, sena premettere
alcun avviso, tutte le case, abitazioni e palagi di essi e dei seguaci
loro fece atterrare, e portar via le pietre e venderle, promulgando che
ciascun Pavese tenere dovesse quelle pietre sotto il capezzale e a capo
del letto, a perpetua memoria, delle furfanterie commesse dai Beccaria.

[111] _Petri Azarii Chronic._, pag. 237.

[112] Perciocchè dal carroccio, nel quale spesso era portato (e beato
colui che poteva toccare quel carroccio, coperto di panni per il di lui
uso!) cominciò a predicare ed a sgridare gli uomini e le donne, perchè
dovevano evitare i lacci mondani, cioè le vesti lussuriose e sontuose,
le masserizie d'argento e le gemme preziose, e gli ornamenti... e per
esecutore fece eleggere un ufficiale, che io vidi a tagliare le grandi
maniche dello guarnaccie, tessute con lavoro frigio, od ornate d'oro e
d'argento, e a tagliare le cinture, se qualche cosa preziosa intorno ad
esse trovavasi.

[113] Fece pubblica giustizia col taglio della testa... Vendute avendo
adunque le cose predette, l'oro, l'argento, le gemme, i diamanti e le
pietre preziose fino a Venezia.

[114] Che non dubitasse della mancanza delle vettovaglie, sapendo esso
(perciocchè così asseriva) per mezzo della orazione... che avrebbe
impetrato che la manna simile a quella data a _Mosè_ nel deserto,
sarebbe caduta in sufficiente quantità.

[115] Erasi pigliata cura degli altri, non di si stesso, siccome sempre
allegava nel predicare.

[116] Veggasi l'Azario, dalla pag. 235 sino alla pag. 241.

[117] _Raynald. ad ann._ 1362, num. 12.

[118] Non sai, poltrone, che io sono papa ed imperatore, e signore in
tutte le mie terre.

[119] Esso signor _Barnabò_ ai suoi giorni ebbe in odio gli uomini
scienziati, laici, cherici e prelati, e qualunque uomo virtuoso; e
sempre elevò sublimemente gli idioti, i crudeli, gli uomini vili,
infami ed omicidi.

[120] _Annal. Mediol._, pag. 799.

[121] _Annal. Mediol._, cap. 147 in fine. — Gattari, Storia padovana,
_R. I._, tom. XVII.

[122] Matteo Villani, lib. XI, cap. 41.

[123] Perciò il Signore ti distruggerà finalmente, ti svellerà e
farà esule te dal tuo tabernacolo, e la progenie tua dalla terra dei
viventi.

[124] _Annal. Mediolanens._, cap. 147 in fine.

[125] _Raynald. ad ann._ 1364, § 3.

[126] _Idem_, A. 1368, § 2.

[127] _Raynald. ad ann._ 1372, num. I.

[128] Codice A, MS., nell'archivio del R. castello di Milano.

[129] Azario, pag. 282.

[130] Considerando noi i tempi di sterilità e le calamità delle guerre.

[131] _Decreta. Antiqu. Mediol. Docum._, pag. 54.

[132] Corio all'anno 1374.

[133] Senza altra determinazione nè difesa antecedente, comandò che
un suo famigliare partisse per espresso colle sue lettere, dirette al
podestà di Bergamo, affinchè egli, quelle vedendo, facesse impiccare
per la gola il detto _Antoniolo_, sotto pena di essere impiccato
il podestà medesimo. Il quale podestà, sebbene di malavoglia, fece
impiccare il detto _Antoniolo_ nel palazzo di Bergamo, senza frapporre
alcuna dilazione, se non finchè confessato si fosse al sacerdote.

[134] Azario, pag. 275.

[135] _Annales Mediol., ad ann._ 1366.

[136] _Idem_, ad ann. 1370.

[137] _Ibidem_, ad ann. 1381.

[138] Tom. XI, pag. 360 e 376. — Anche Matteo Villani nelle istorie
_R. I._, tom. XIV, pag. 370, scrisse _Come i Visconti fecione contro
i prelati de Santa Chiesa. Avvenne in questi dì_ (cioè verso il
maggio del 1357) _che il papa mandò un valente prete in Lombardia
a predicare la croce, guardandosi i maggiori prelati di non volere
la grazia di quell'uffizio, e la croce si bandiva e si predicava,
come è detto, contro al capitano di Forlì e al signore di Faenza; il
valente sacerdote se ne andò a Milano, e, ivi favoreggiato dal vescovo
di Parma, cominciò sollecitamente a fare l'ufficio che commesso gli
era dalla Santa Chiesa. Come metter Barnabò ebbe notizia di questo
servigio, senza vietarglielo o ammonirlo che questo fosse contro alla
sua volontà, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di
ferro, tonda, a modo di una botte, con manichi da voltarla, dentro vi
fece mettere il sacerdote, e accesovi sotto il fuoco, come si fa a un
arrosto, e facendolo volgere, crudelmente il fece morire_.

[139] L'Azario, pag. 310. — _Annal. Mediol. R. I._, tom. XVI, col. 740.
— _Chron. Placent., R. I._, tom. eod., col. 510, E. — Veggasi anche la
Cronaca di Bologna.

[140] Tom. IV, pag. 100.

[141] L'intenzione del signore è che dei capi traditori si incominci
il castigo a poco a poco. Il primo dì, cinque tratti di _curlo_
(_probabilmente di corda_); il secondo si riposi; il terzo dì,
similmente cinque colpi di _curlo_; il quarto si riposi; il quinto
giorno, similmente cinque colpi di _curlo_; il sesto si riposi; il
settimo, similmente cinque colpi di _curlo_; l'ottavo si riposi; il
nono si dia loro a bere acqua, aceto e calcina; il decimo si riposi;
l'undecimo dì, similmente acqua, aceto e calcina; il duodecimo si
riposi; il decimoterzo giorno si taglino due correggie di pelle sulle
spalle, e si lasci sgocciolare sopra (_forse acqua od olio bollente_);
il decimoquarto si riposi; il decimoquinto giorno si levi loro la pelle
della pianta di ciascun piede, poi si facciano camminare sopra i ceci;
il decimosesto si riposi; il decimosettimo camminino sopra i ceci; il
decimottavo si riposi; il decimonono si pongano sopra il cavalletto;
il vigesimo si riposi; il vigesimoprimo si pongano sul cavalletto;
il vigesimosecondo si riposi; il vigesimoterzo giorno si tragga loro
un occhio dal capo; il vigesimoquarto si riposi; il vigesimoquinto
si tronchi loro il naso; il giorno vigesimosesto si riposi; il
vigesimosettimo si recida loro una mano; il ventesimottavo si riposi;
il ventesimonono si tagli loro l'altra mano; il trentesimo giorno si
riposi; il trentesimoprimo si tagli loro un piede; il trentesimosecondo
si riposi; il trentesimoterzo si tagli loro l'altro piede; il
trentesimoquarto si riposi; il trentesimoquinto si recida loro un
testicolo; il trentesimosesto giorno si riposi; il trentesimosettimo
si recida loro l'altro testicolo; il trentottesimo si riposi; il dì
trentesimonono si tagli loro il membro virile; il quarantesimo si
riposi; il quarantesimoprimo siano attanagliati su di un carro, e
poscia si pongano sulla ruota.

[142] L'esecuzione di quelle pene fu compiuta riguardo a molte persone
negli anni 1372 e 1373.

[143] _Petri Azarii Chronicon_, pag. 301.

[144] Corio, all'anno 1369.

[145] Dato nel castello nostro Zoloso.

[146] Giulini, tom. XI, pag. 294.

[147] La quale casa (dice Azario), cogli ornamenti e le pitture e le
fontane, oggi non si farebbe con trecentomila florini.

[148] Pag. 283.

[149] Pag. 269.

[150] _Siton. Monum. Vicecomit._, pag. 21.

[151] _R. I._, tom. XVII.

[152] Di questi tempi è un ducato d'oro di Siena colla biscia, che
possedo nella mia collezione.

[153] Ma certamente con vana credenza noi stessi deludendo, ci
ingannavamo, persuadendoci che quello potesse esser fedele, che stato
era tanto sleale nepote e genero e fratello, verso lo zio, il suocero
e i fratelli, e del quale tante volte ed a noi e ad altri era stato
provato non avere la fede alcuna costanza, se non che in questo solo
che le cose promesse mai non manteneva... Noi però, cambiando la sorte
delle cose, dichiariamo la guerra al tiranno della Lombardia, che cerca
di farsi re, e di farsi ungere come tale.

[154] Lettere de' principi, stampate in Venezia, 1374.

[155] Il detto signor conte, egli stesso a chi gli piaceva, conferiva
tutte le dignità e i benefizi ecclesiastici dei paesi di dominio dello
stesso signor conte che conferire dovevansi, e il detto signor papa
confermava i detti benefizi e le dette dignità a tutti coloro che il
detto signor conte aveva eletti.

[156] _Ad annum 1381._

[157] _Annal. Mediol. ad ann. 1398._

[158] Si leghi con catena di ferro ad una colonna, con un anello di
ferro che giri all'intorno, e col quale possa girarsi all'intorno
l'uomo medesimo, la quale catena sia quanto più potrà farsi lunga,
cosicchè soffra una morte più dolorosa; colà tuttavia sia abbruciato in
modo che muoia.

[159] _Ad an._ 1395 in fine.

[160] Ecco, testimonio ai popoli e precettore alle genti, io ho dato
lo stesso duce. — Venerabili padri e spettabili signori miei, assai
giustamente venerabili, tutta la patria dei Milanesi può domandarmi
con eguale premura. — Di', te ne prego, o vescovo novarese, quali
motivi indussero il sacro cesareo animo ad accordare al nostro comune
l'onore sublime del ducato? — Alla quale io rispondo: — la quadruplice
situazione delle cose; la provvida benignità del Re Eterno; la
conformità cortese di un atto degno di un congiunto; la obbediente
fedeltà della casa Viperea; la congruente utilità di tutta la plebe.

[161] Celebre potenza di valido vigore; nobile prosapia di fulgido
decoro; ilare clemenza del placido donatore.

[162] La prosapia della famigia, molto raggiante; la bellezza del
corpo, molto speciosa; la tranquillità dell'animo, assai virtuosa.

[163] L'orazione può leggersi nella biblioteca Ambrosiana, nel codice
MS segnato B. N., pag. 116.

[164] Corio, all'anno 1395.

[165] Le misure che io assegno al Duomo sono diverse da quelle che si
leggono presso gli autori. Io le ho fatte verificare. Il Morigia, il
Lattuada e il Sormani danno la lunghezza di braccia 300, ed errano di
cinquanta braccia. Il Morigia lo fa largo braccia 145; il Sormani 150;
il Lattuada 151. Il Torri dà la lunghezza di braccia 260, ed erra di
braccia 10-1/2. Il Bugati s'accosta più degli altri alla verità ed
assegna lunghezza braccia 250, col piccolo errore di mezzo braccio;
e larghezza braccia 130, la qual misura è prossimamente quella della
croce, se si voglia ommettere lo sfondato delle cappelle. L'autore del
_Distinto ragguaglio dell'ottava maraviglia del mondo, ossia della gran
metropolitana dell'Insubria, volgarmente detta il Duomo di Milano_,
malgrado l'ampollosità del frontispizio, fa la lunghezza minore della
vera, fissandola a braccia 248, e la larghezza braccia 128, misura
parimenti minore del vero. Nella pianta pubblicatasene coi funerali di
Carlo VI augusto, risulta ancor più erronea la lunghezza stabilitavi di
braccia 243; la quale comunemente, e per tradizione, si crede la vera
misura, anche da chi ha ingerenza nella fabbrica del Duomo, sebbene
manchi dal vero braccia quattro e mezzo. Questa nota può dare un'idea
della poca esattezza dei nostri scrittori, e del tedio che ho dovuto
soffrire per rintracciare il vero in quest'opera. Non sarà, credo,
spiacevole ai lettori il paragone fra le misure del Duomo e quelle di
San Paolo di Londra e di San Pietro di Roma. Le misure di San Paolo
di Londra le ho estratte del _The Foreigner's guide, or a necessary
and instructive companion Both, for the Foreigner and native in Their
Tour through the Cityes of London and Westminster — London — the fourth
edition 1763, pag. 73_. Le misure di San Pietro le ho ottenute da Roma,
e sono fatte dall'attuale architetto di quella basilica, il signor
Simonetti.

San Paolo è lungo 500 piedi d'Inghilterra, largo piedi 249; e la cupola
è d'altezza piedi 340; alla sommità della quale evvi la croce di altri
10 piedi; onde l'altezza somma è piedi 350.

San Pietro è lungo 829-1/2 palmi romani; alla croce è largo palmi 615;
e dal pavimento sino alla sommità della croce sopra il lanternino, è la
somma altezza palmi 593.

Il piede inglese è once sei, punti uno, atomi otto e 4/5 d'atomo del
braccio nostro. Il palmo romano è quattr'once, sei punti 33/100 d'un
atomo del nostro braccio.

_Ridotto il paragone a braccio milanese_

                 Altezza   Lunghezza   Larghezza

  Duomo           180  —     249-1/2     148-1/8
  San Paolo       174  —     236  —      127-1/2
  San Pietro      222-1/2    311-1/3     230-3/4

Il Duomo di Milano supera San Paolo di Londra nell'altezza e nella
larghezza; ma è 42 braccia meno alto, 61-5/6 braccia meno lungo, e
82-5/8 braccia meno largo di San Pietro.

[166] Corio, all'anno 1391.

[167] A coloro che veramente saranno penitenti e che fatta avranno la
loro confessione.

[168] Giulini, tom. XI, pag. 651.

[169] Libero e mondo sia tanto dalla colpa, quanto dalla pena.

[170] Mendacemente simulano queste facoltà non vere da essi pretese,
mentre ancora per picciolissima somma di danaro (per servirci delle
loro parole) non già i penitenti, ma coloro che il velo di una mentita
assoluzione studiansi di apporre con trista coscienza alla loro
iniquità, ed egualmente assolvono dagli atroci delitti senza alcuna
vera contrizione, e non precedendo alcuna debita forma, o condonano le
cose mal tolte, certe ed incerte, non esigendo (il che assurdissimo fu
in tutti i secoli) alcuna previa soddisfazione.

[171] _Raynald., ad ann. 1390_, num. I.

[172] _Roberto_ di Baviera, per la grazia di Dio re dei Romani e
conte Palatino del Reno. A te, _Giovanni Galeazzo_, milite milanese,
comandiamo in via di precetto, che tu debba restituire e riconsegnare
a noi, cui spetta il governo dell'Imperio, per elezione canonicamente
fatta nella persona nostra in imperatore dagli elettori dell'Imperio,
tutte le città, i castelli, le terre e i luoghi appartenenti al Romano
imperio ed alla nostra giurisdizione, che indebitamente occupati
ritieni nell'Italia; altrmente ti diffidiamo come invasore delle terre
e della giurisdizione del sacro Imperio, e nostro nemico e ribelle.

[173] A te, _Roberto_ di Baviera, noi _Giovanni Galeazzo Visconte_, per
la grazia di Dio, e del serenissimo signor _Venceslao_ re dei Romani e
di Boemia, duca di Milano, ec., e conto di Pavia e delle Virtù, colle
presenti rispondiamo che qualunque città, castello, terra o luogo
possediamo in Italia, lo riteniamo e lo possediamo per autorità del
prefato serenissimo signor _Venceslao_ re dei Romani, e canonicamente
investito del governo del sacro Imperio, e tutti quei luoghi intendiamo
certamente difendere contra di te, invasore dell'Imperio, e manifesto
nemico del predetto signor _Venceslao_ e di noi, e te, manifesto nemico
dello stesso Imperio e del signor re _Venceslao_ e nostro, diffidiamo,
se mai tu presumesti di invadere il nostro territorio.

[174] Corio, all'anno 1401.

[175] Tom. XII, pag. 54.

[176] Briani, Storia d'Italia, tom. II, pag. 475, ediz. Venet. 1623. —
Morigia, Storia dell'antichità di Milano, pag. 644, ediz. Venet. 1392.

[177] Veggasi il Poema del P. Enrico Barelli, _De Alberico VII_, in
Milano presso Marelli, 1782.

[178] _Rer. Ital._, tom. XVI, _colum. 1021 et sequ._

[179] Il nostro duca impose taglie, convenzioni e prestiti così grandi
e continui ai sudditi suoi entro il suo dominio, che forzati erano essi
ad andare vagando in terre straniere, capaci non essendo a sostenere
quei pesi, e si udirono gli urli delle vedove e degli orfani e degli
altri singoli, e grande strepito degli inferiori, ed immense crudeltà.
E coloro che pagare non potevano, ritenevansi prigioni, e i loro beni
usurpati erano dagli stipendiati.

[180] _Annal. Mediol., ad ann. 1401._

[181] _De Monet. Ital._, tom. III, pag. 59.

[182] Giulini, tom. XI, pag. 521.

[183] All'anno 1387.

[184] Andrea Biglia, lib. 2, col. 29. — Corio, all'anno 1406.

[185] Tom. VII, pag. 612.

[186] Contra di molti adoperò quel genere di nefanda strage che si
eseguiva aizzando ai cani, tanto sitibondo di sangue, che, senza
spargerlo, non lasciava un solo giorno passare.

[187] _R. I._, tom. XIX, col. 32 E.

[188] All'anno 1409.

[189] E non molto dopo _Facino_ viene chiamato a Milano, cosicchè nulla
più ad esso mancava al dominio dell'una e dell'altra città se non che
il solo nome; tutti obbedivano ad un solo, le cose tutte a norma del
di lui comando stabilivano, non lasciandoci nè pure per le spese dei
giovani quanto bastasse al sostentamento della vita.

[190] _Rer. Ital._, tom. XIX, col. 34 E., 33 A.

[191] Giulini, tom. XII, pag. 611.

[192] Corio, all'anno 1397.

[193] Il volgo veramente (dice il Biglia) allettato era dall'abbondanza
delle vettovaglie; ma gli altri tutti che passare potevano per buoni
cittadini, aggravati erano da tributi intollerabili... Molti uccisi
furono per effetto di pubblica e di privata licenza.

[194] Al giovane diedero questi avvertimenti (dice il Biglia), che
la moglie, se non pure repudiata, tenesse certamente come già da esso
separata.

[195] _Rer. Ital._, tom. XIX, col. 44 e sequ.

[196] All'anno 1418.

[197] Decembrio, cap. 68; e Stella.

[198] Quest'Alberico aveva per suo avo l'altro del quale ai fece
menzione alla pag. 127. Si era confederato col duca; e siccome con
ciò egli esponeva le proprie terre della Romagna (come in fatti
vennero poi conquistate dalle armi pontificie), così Filippo Maria gli
diede la signoria e contea di Belgioioso col castello, _pro aliquali
rependio_, come leggesi nel diploma. Per assicurarsi poi che i Barbiani
non ricuperassero i loro Stati, il papa investì della contea di Lugo
la casa d'Este, già dipendente pel marchesato di Ferrara. Chi ha
considerata la concessione di Belgioioso come una beneficenza del duca
Filippo Maria, non ha posto mente a questo fatto. Pur troppo è vero che
il duca non beneficò mai costantemente un uomo di merito.

[199] Donato Bosso, all'anno 1444.

[200] _De studiis Mediol._, cap. VIII, pag. 34.

[201] _Biblioth. Script. Mediol., ubi de Philippo Maria Vicecomite._

[202] Nè sprezzò egli, nè tenne in onore e in pregio gli uomini
addottrinati negli studi delle lettere e delle scienze, e maggiormente
ammirò, di quello che ei coltivasse la loro dottrina.

[203] Decembrio, cap. 42 et seg.

[204] Salve, o viaggiatore, vedi, qui sta l'imagine somigliantissima di
quel papa _Martino_, quinto nelle serie, che, buon pastore per indole,
resse la Chiesa a te Roma, ec... Autore di questo carme è _Giuseppe
Brivio_, ordinario, dottore di gius canonico e maestro di sacra
teologia, ec.

[205] Ma l'autore di questa insigne immagine fu _Giacobino_ di Tradate,
profondo nell'arte che io ardirei dire non minore, ma bensì maggiore di
_Prassitele_.

[206] Tom. XII, pag. 438.

[207] Di mirabile furberia faceva uso nello scegliere i consultori che
nominati sono consiglieri; perciocchè eleggeva uomini probi ed illustri
per sapere; ed a questi dava per colleghi uomini scandalosi, affinchè
nè quelli potessero appoggiarsi alla giustizia, nè questi sviluppare
la loro perfidia, ma egli prevenuto fosse di tutto, per la continua
discordia che tra di essi regnava.

[208] Decembrio, cap. 34.

[209] Tanto arrossì della sua cecità, che fingeva di vedere chiaro,
avvertendolo segretamente i suoi camerieri.

[210] Cap. 36.

[211] _Oratio super populum — Praetende, quaesumus, Domine, famulabus
tuis Blanchae Mariae et Agneti dexteram coelestis auxilii ut te toto
corde perquirant, et quod digni postulant, assequantur. Per etc...
— Super Syndonem — Fac, quaesumus, Domine, famulas tuus Blancham
Mariam et Agnetem toto corde semper ad te accurrere, et tibi subdita
mente servire, tuamque misericordiam suppliciter implorare, et tuis
jugiter beneficiis gratulari. Per etc... — Super Oblata — Propitiare,
Domine, supplicationibus nostris et has oblationes famularumque tuarum
Blanchae Mariae et Agnetis, quas tibi pro incolumitate earum offerimus,
benignus assume, et ut nullum sit irritum votum, nullius vacua
postulatio, praesta, quaesumus ut quod fideliter petimus, efficaciter
consequamur. Per Dominum, etc... — Praefatio — Aeterne Deus, in te
sperantium consolator, et subditorum tibi mentium custos, inclina aures
misericordiae tuae ad praeces humilitatis nostrae, et famulabus tuis
Blanchae Mariae et Agneti propitius adesse dignare. Veniat super eas
spiritualis a te benedictionis ubertas, ut pietatis tuae repletae,
muneribus in tua gratia, et in tuo nomine laete semper exultent. Per
Christum, etc... — Post Comunionem — Da, quaesumus, Domine, famulabus
tuis Blanchae Mariae et Agneti in tua fide, et sinceritate constantiam,
ut in charitate divina firmatae, nullis tentationibus ab earum
integritate evellantur. Per etc..._

(Orazione sopra il popolo. — Stendi, o Signore, te ne preghiamo, la
destra del celeste aiuto alle tue ancelle _Bianca Maria_ ed _Agnese_,
affinchè a te con tutto il loro cuore aderiscano ed ottengano quello
che degnamente ricercano; per, ec. — Sopra la Sindone. — Fa, o Signore,
te ne preghiamo, che le tue ancelle _Bianca Maria_ ed _Agnese_ sempre
con tutto il cuore loro a te ricorrano e a te servano con mente devota,
e la tua misericordia supplichevolmente implorino, e possano un giorno
mostrarsi grate coi cuore ai tuoi benefizi; per, ec. — All'Offertorio.
— Mostrati, o Signore, propizio alle nostre suppliche, e benigno ricevi
queste obblazioni delle tue ancelle _Bianca Maria_ ed _Agnese_, che a
te offeriamo per la loro salvezza; ed affinchè irrito non sia alcun
voto, nè vana la preghiera di alcuno, concedi, te ne preghiamo, che
quello che fedelmente chiediamo, efficacemente possiamo ottenere; per
il Signore, ec. — Prefazio. — Eterno Dio, consolatore di coloro che
in te sperano, e custode delle menti a te devote, piega le orecchie
della tua misericordia alle preghiere della nostra umiltà, e degna di
mostrarti propizio alle tue ancelle _Bianca Maria_ ed _Agnese_. Venga
sopra di esse la dovizia della spirituale tua benedizione, affinchè,
colmate dei doni della tua pietà, liete sempre esultino nella tua
grazia e nel tuo nome; per Cristo, ec. — Dopo la comunione. — Accorda,
o Signore, te ne preghiamo, alle ancelle tue _Bianca Maria_ ed _Agnese_
la costanza nella tua fede e nel sincero tuo servigio, affinchè,
confermate esse nell'amore divino, smosse non sieno giammai per alcuna
tentazione dall'integrità di que' proponimenti, per, ec.)

[212] Che dirò di Milano, potentissima città d'Italia e metropoli della
Gallia Cisalpina, nella quale tanto numerosi sono, e tanto diversi i
generi degli artefici, tanto grande è la frequenza del popolo, che di
là ebbe origine il volgare proverbio: Chi volesse ricomporre l'Italia,
dovrebbe distruggere Milano.

[213] _Kloch, de Ærario_, lib. 2, cap. 36, pag. 598. _Norimbergae_,
1671.

[214] Cosicchè facilmente si reputa che in quella città possano armarsi
più di trentamila uomini.

[215] _R. I._, tom. XIX, pag. 105.

[216] Meraviglioso è a dirsi che quello i soli Milanesi osarono
promettere, che a stento in que' tempi fornito o fatto avrebbono
Firenze e Venezia. Sì grande è in questa età la popolazione di una
città sola, sì grande la consuetudine di trafficare nel paese e nelle
straniere regioni.

[217] _Rer. Ital._, tom. XXII, col. 939.

[218] _Rer. Ital._, tom. XXII, col. 956.

[219] Archivio di città, registro A, foglio 40.

[220] Nell'archivio di città al registro B leggonsi: 17 agosto
1447, ordine dei signori vicario e XII di Provvisione per adunare il
consiglio dei novecento, onde prestino il giuramento i consiglieri che
non aveano giurato. Foglio I, tergo. Altro dei medesimi vicario e XII,
perchè niuno ardisca di rompere le conche sopra i navigli o lo steccato
di Cusago, del 23 agosto 1447. Registro B, foglio 10, e sotto la data
medesima, v'è altro editto de' suddetti sulla macina del grano, che
proibisce a' mugnai la compra: pure il 24 agosto, altro simile editto
del vicario e XII proibisce ai fornai di vendere a staio il pane di
mistura; registro suddetto, foglio 2. Esso registro B è pieno di editti
del tribunale di Provvisione, l'ultimo dei quali è al foglio 408,
contenente una proibizione di ascendere sopra il tetto del Broletto,
in data 10 febbraio 1450, sedici giorni prima che Francesco Sforza si
rendesse padrone di Milano; dal che si conosce che la giurisdizione
ordinaria del tribunale di Provvisione in quel tempo di repubblica, o
anarchia che ella si fosse, rimase intatta e continuata. Lo stesso io
trovo essere accaduto al magistrato Camerale, ossia ai _Maestri delle
entrate_, che conservarono la loro giurisdizione; ed uno dei primi
editti di quell'interregno è del 20 agosto 1447, col quale si comanda
che ciascuno paghi il tributo sulle merci alle porte della città.
Veggasi registro B, foglio 6. Altro del 22 detto per la propalazione
dei beni del defunto duca. Veggasi registro B, foglio 8, tergo. Ne è
pieno quel registro sino al giorno 7 gennaio 1450, in cui il magistrato
Camerale ordinò che si pagasse il tributo della dogana, come dal citato
registro al foglio 402.

[221] Registro civico B, foglio 14, tergo, ove leggesi questa grida del
30 agosto 1447 per la demolizione e vendita del castello e delle gioie
del duca.

[222] Registro civico B, foglio 16, tergo, ove leggesi il proclama
dei capitani e difensori della libertà, acciocchè ogni persona atta a
portare le armi si presenti a servire sotto il comando del signor conte
Francesco, capitano generale, in data 3 settembre 1447.

[223] I capitani e difensori della liberti dell'illustre ed eccelsa
comunità di Milano. — Prudenti concittadini nostri carissimi. Poichè
l'Onnipotente Iddio nostro, per il passaggio da questa ad altra vita
dell'illustrisssimo principe e signor nostro _Filippo Maria_, di buona
memoria, la grazia della libertà a noi liberalmente accordò, che
noi stabilito abbiamo di ritenere e conservare in tutte le maniere
e con fermo intendimento, di comune consenso abbiamo deliberato di
abbruciare i libri, gli estratti, i quaderni, le filze e le scritture
dell'inventari, delle tasse, delle taglie, dei fuochi, delle bocche
e dell'aggravio del sale e di qualsivoglia altro aggravio, e di dare
così un segno per cui il popolo e la plebe intendano che quind'innanzi
saranno immuni ed esenti da simili angherie e gravezze. E quindi
concependo buona speranza dello stato della libertà medesima, e
di questa nostra repubblica, si rallegrino e si congratulino, e le
dovute grazie rendano per questo allo stesso Dio Onnipotente Signor
nostro. Nè meno rafforzino l'animo loro, e dispongasi a volere in
oggi spontaneamente e di buona voglia fare quello che altre volte
loro malgrado e forzati facevano, cioè nel dar fuori, secondo le
loro facoltà, il danaro, tanto per formare e compiere il tesoro del
gloriosissimo _sant'Ambrogio_, patrono e protettore nostro, quanto
per le spedizioni delle compagnie di armigeri della comunità predetta,
per mezzo delle quali non solo la libertà nostra ritenere conservare
possiamo, come è incominciata, ma ancora confermare, arricchire ed
aumentare la repubblica, e sempre giornalmente in meglio ingrandirla
e dilatarla, a confusione di tutti coloro i quali si studiano con
ogni loro sforzo e con tutte le loro insidie di rivalizzare con
questa inclita città. Vogliamo adunque che, fatta la elezione, a
due dei vostri subito ordiniate che essi due insieme, dei quali si
inseriranno più abbasso i nomi, ricerchino e si facciano consegnare
tutti i libri, gli estratti, i quaderni, le filze e tutte le scritture
degli inventari, delle tasse, delle taglie, dei fuochi, della gravezza
del sale e di tutte le altre gravezze di qualunque genere, specie e
materia esse fossero. E questi documenti, bene rivoltati una e due
volte, e visti e diligentemente esaminati, con ritenere quelli soltanto
nei quali si riconosca qualche utilità della camera della predetta
comunità e del territorio, ed anche di alcune singole persone; tutti
gli altri predetti documenti facciano palesemente e pubblicamente dare
ed abbandonare al fuoco, perchè siano abbruciati, colla quale specie di
spettacolo il popolo stesso parimente e la plebe pigliandone gratissimo
piacere, possano esultare e giubilare e tributare lodi al santo
rammemorato, il quale quest'inclita città in felice e fausto stato
sempre conservi e difenda.

Data a Milano, il giorno XXI settembre MCCCCXLVII. — _Giovanni dei
Mantegazii_ — _Stefano dei Gambaloiti_ — _Cabriolo del Conte_ —
_Federico del Conte_ — _Giovanni di Fossato_ — _Francio di Figino_ —
_Giovanni Giussano_ — _Giacomo di Cambiago Rafaele_. — Su la coperta.
Ai nobili e prudenti cittadini carissimi nostri, i dodici delle
Provvisioni dell'eccelsa comunità di Milano.

[224] Registro civico A, foglio 44, editto del 5 ottobre 1447.

[225] Registro delle gride dal 1447 al 1450, nell'archivio civico,
volume B, foglio 142, 212 e altrove, come dalle gride 30 agosto 1448
e 21 gennaro 1449, nella seconda delle quali si ricorre a ripartire i
carichi per focolare.

[226] I capitani e difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa
comunità di Milano. Diletto nostro. Affine di consolidare, aumentare,
condecorare questo desiderabile stato della libertà che abbiamo
ricevuta, reputiamo non tanto convenevole, quanto necessario, il
coltivare il decoro delle virtù, l'abbominare le brutture dei vizi;
perciocchè in questo modo e grati ci mostreremo a Dio del ricevuto
donativo, e della di lui onnipotenza sperare potremo più liberale
accumulamento di grazie. Riflettendo noi adunque quanto sporco e
detestabile, quanto orrendo sia il delitto da non nominarsi della
sodomia, e reputando che la impunità genera un incentivo, e i già
infetti di quel vizio suole rendere peggiori, deliberammo e confermammo
di nostro avviso con durevole decreto, di non volere più in alcun modo
tollerare questo esecrabile e rovinoso eccesso. Sebbene adunque sembri
che a ritrarre da questo sceleratissimo delitto coloro che macchiati
ne sono, ed a fare che più in avvenire non cadano in simile delitto,
bastare dovrebbe la pena del fuoco stabilita dalle leggi santissime e
dagli statuti di questa città, che come cosa divulgatissima ignorare
certamente non debbono; tuttavia, affinchè la loro infame turpitudine
si renda totalmente inescusabile, vogliamo, e a te espressamente
comandiamo, che, alla ricevuta delle presenti lettere, patentemente e
pubblicamente colla voce del banditore tu faccia divulgare per i luoghi
consueti di questa città: che quind'innanzi qualunque persona, di
qualunque stato e condizione essa sia, o del territorio, o forestiera,
o stipendiata, o godente alcuna provvigione, ed in generale chiunque
sia, si guardi e si astenga totalmente da quel delitto, nè ardisca
commetterlo in qualunque modo, sapendo e tenendo per certo che se si
scoprirà che in quel delitto sia caduto, irremissibilmente sarà punito
colla pena del fuoco, a tutto rigore di legge. E tu poscia dovrai
adoperare ogni studio e diligenza e cura ad investigare e ricercare
questi scelerati, e dovrai procedere contra qualunque tu scoprissi in
avvenire avere commesso questo delitto: punendolo a tenore di diritto
e col mezzo dello giustizia. Nella qual cosa quanto maggiormente sarai
vigilante ed accurato, tanto più avrai servito al dovere ed all'onore,
e meglio avrai secondato la nostra intenzione. Ed affinchè gl'inclinati
al male da questi delitti si astengano, o vogliamo che agli accusatori
o denunziatori di quegli stessi delitti, però con di buoni indizii,
si accordi un premio per ciascuna volta, e si tengano segreti, il
quale premio sarà di dieci ducati d'oro da levarsi su le facoltà del
delinquente, la quale prestazione vogliamo che debba farsi da te e
da' tuoi successori, rimossa qualunque eccezione e contraddizione.
Scriviamo pure intorno a questo al signor _Bartolommeo Caccia_,
capitano di giustizia di questa città, col quale vogliamo che tu
proceda d'intelligenza nel fare eseguire le predette proclamazioni. —
Milano, il giorno XVIII di ottobre, MCCCCXLVII.

[227] I capitani e difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa
città di Milano. — Veduta la richiesta dei barbieri di quest'inclita
città, perchè sia confermato certo loro statuto ed ordine; la quale
petizione è del tenore seguente: Magnifici ed eccelsi signori di
quest'inclita città; i barbieri tanto guidati dalla retta coscienza,
quanto ammoniti principalmente dai religiosi confessori e consultori
delle loro animi, deliberarono di celebrare i giorni festivi, e di
astenersi dalle opere nei tempi illeciti, proponendo, con licenza e
consenso della vostra magnificenza, l'ordine stabilito e l'editto,
che è dell'infrascritto tenore. Riverentemente adunque supplicano
che ad esso, siccome salutifero e commendevole, come sembra, vi
degniate d'interporre l'autorità vostra, e di confermare, convalidare
e comandare che osservato sia e messo ad esecuzione, con lettere
patenti questo statuto, e la relativa ordinazione, comandando altresì a
qualunque giusdicente e agli ufficiali di Milano, ai quali in appresso
si ricorresse, che a qualunque richiesta dell'abate del Paratico dei
detti barbieri intorno all'osservanza ed all'esecuzione di quello
statuto, prestino qualunque giovamento, aiuto e favore opportuno. Così
adunque stabilirono ed ordinarono che lecito non sia ad alcun maestro
della detta arte, abitante nella città o nei sobborghi di Milano,
lavorare nè far lavorare di quell'arte, nè nella bottega o nella casa
di sua abitazione, nè al di fuori, in alcun giorno festivo, ordinato
da celebrarsi dalle istituzioni della Santa Madre Chiesa, tanto
Romana, quanto Ambrosiana, e nè pure nelle vigilie di quelle feste,
qualora le vigilie trovinsi stabilite nei giorni di sabbato dopo l'ora
vigesimaquarta di quella vigilia o del sabbato, sotto pena di lire due
delle nuovissime (il testo dice _nuperiorum_, ma forse dee leggersi
_imperialum_), per ciascuna volta in cui si contrafacesse, e nella pena
medesima incorra qualunque domestico o lavoratore della detta arte,
il quale, senza licenza e contra la volontà del suo maestro, lavorasse
in contravvenzione a questo statuto, e che tale domestico o lavoratore
della detta arte non debba nè possa in alcun modo esercitare la detta
arte nella città stessa e nei sobborghi, se prima non avrà pagata
la stessa multa, ed avanti quel pagamento non debba alcun maestro
della stessa arte accordargli alcun aiuto, nè alcun favore sotto la
medesima pena; se però avvenisse che alle ore ventiquattro del detto
sabbato o di una vigilia come sopra, alcun maestro o lavoratore avesse
tra le mani alcuno già ricevuto nella bottega avanti quell'ora, in
quel caso possa proseguire sopra quell'individuo che avesse da prima
ricevuto impunemente l'opera sua e finirla senza incorrere in alcuna
pena; e di tutte quelle pene la metà si applichi alla fabbrica della
chiesa maggiore di Milano, e dell'altra metà due parti se ne dieno al
Paratico degli stessi barbieri, e l'altra terza parte all'accusatore
che denunziata avesse la contravvenzione. Possono altresì l'abate della
detta arte ed i suoi ufficiali che saranno a quel tempo, mancando
nelle premesse cose le opportune prove, affine di far emergere
nelle medesime la verità, forzare qualunque maestro e lavoratore al
giuramento, se e come sembrerà convenevole. E avendo noi considerata
in questo la devota e lodevole disposizione dei detti _barbieri_, ed
avendo considerato lo statuto stesso che ancora facemmo diligentemente
esaminare degli spettabili signori consiglieri di giustizia della
predetta comunità, e vedendo che la richiesta dei petenti sembra
tendere a cosa onesta ed alla osservanza della fede ortodossa nostra
e dei comandamenti della Chiesa, volendo annuire benignamente alla
richiesta dei predetti, col tenore delle presenti, anche per certa
scienza, quello statuto, che comandiamo e vogliamo sia inserito e
scritto anche nel volume degli altri statuti ed ordini del comune
di Milano, come grato a noi riconoscendo, approviamo e confermiamo,
comandando per questo ai vicari e ai XII delle provvisioni, e agli
altri ufficiali della predetta comunità presenti e futuri, ai quali
spetta o potrà spettare che, qualora per l'osservanza del detto statuto
ad essi si ricorresse, facciano inviolabilmente osservare lo statuto
medesimo e le sue disposizioni, e a qualunque richiesta dell'abate del
Paratico degli stessi barbieri, prestino qualunque giovamento, aiuto e
favore opportuno per l'osservanza di questo statuto, e per la dovuta
esecuzione verso i contravventori; e questo purchè nulla si faccia o
avvenga in conseguenza contro la disposizione degli altri statuti ed
ordini della predetta comunità e in detrimento dei medesimi. In fede di
che abbiamo comandato che si facessero e si registrassero le lettere
presenti, e si confermassero col munirle del sigillo della predetta
comunità. Dato in Milano, il giorno decimosesto di aprile MCCCCXLVII.
Sottoscritto — _Ambrogio._

[228] Tomo I, pag. 234.

[229] _1448 die martis nono Januarii._ — Notitia sia a ciascuna persona
como li illustri capitanei et difensori della illustre ed eccelsa
nostra libertà vogliano dare via le borse de la ventura, le quale
borse sono septe, della quale la prima harrà dentro ducati trecento
contanti, la seconda ducati cento, la terza settantacinque, la quarta
cinquanta, la quinta trenta, la sesta venticinque, la settima venti, e
vogliono darle via a la ventura in questa forma, cioè: ciascuna persona
de qual conditione, stato e grado voglia se sia, tanto forestiero
come cittadino o contadino, et tanto clerico come layco, et maschi et
femine, possono portare quelli ducati che loro parirà o uno o due,
come loro vorranno al banco de Xphôro figliuolo di messere Stefano
Taverna banchero, quale è stato lo inventore di questa cossa, el qual
banco è per mezzo li ratti fuori del Broletto, lui ne farà nota nel suo
libro fatto solo per questo, cioè a dì tale, la tal persona ha portati
tanti ducati, uno o duy quelli che saranno, per volere guadagnare per
ciascuno ducato una delle sopra scritte borse, secondo che Dio li darà
buona ventura, e così farà nota de tutti quelli che portaranno infina
alla prima domenica di febraro prossimo, quale è il dì deputato a dare
via le borse, in quello dì serano domandati tutti quelli averanno messi
li denari per guadagnare le borse, et si serà fatto tanti scritti per
ciascuno quanti ducati haranno messo, li quali scritti haranno suso
il nome loro, e questi tal scritti serano messi in una corba suso una
baltresca la quale sara posta su la piazza di Sancto Ambrosio onde è
usato stare el banco di frate Alberto, acciocchè ciascuno persona possa
vedere mettere li scritti tutti in la corba, e vederli voltare tutti
sotto sopra per lo dicto Xphôro thesaurario, deputato a questo, ovvero
per persona fidata electa per li illustri capitanei, poi sarà tolto
una altra corba, nella quale corba saranno messi altrettanti scritti
bianchi senza scrittura alcuna, salvi che in quelli sara sette scritti,
che l'uno harrà scritto suxo la borsa trecento, l'altro la borsa de
li ducati cento, e l'altro de la borsa de' ducati settantacinque,
l'altro la borsa de li ducati cinquanta, l'altro la borsa e li ducati
trenta, l'altro la borsa de li ducati venticinque, e l'altro la borsa
de li ducati venti. Et questi scritti serano voltati molto bene sotto
sopra tutti cum quelli non serano scritti. Poi el dicto Xphôro ovvero
li deputati per l'illustri capitanei stando di sopra la baltresca,
vedando ogni persona, domanderà un qualche bono homo, metterà la
corba ne la quale haverà dentro li scritti de li huomini che harranno
messi li denari de la mane dritta, e l'altra corba ne la quale serano
gli altretanti scritti bianchi, et quelli sette de le borse metterà
da la mane sinistra. E poi quello bono homo torrà suso alla ventura
duy scritti, cioè l'uno fora de una corba con una mane, e uno fora
dell'altra corba cum l'altra mane, tutti duy li scritti ad un tratto,
e drieto a questo bono homo seranno due altre fidate persone electe
da li illustri capitanei e non suspecte a persona alcuna l'uno de la
mane dritta, l'altro da la inane sinistra, li quali torranno quelli
duy scritti quali quello bono homo harà tolto suxo ogniuno da la sua
parte, e il lezeranno, odando ogni persona quelli tali scritti, verbi
grazia l'uno scritto dirà Gioanni da Como, e l'altro nagotta, o vero
bianco, quello tale Gioanni da Como per quello scritto serà fora di
ventura da havere le borse, et serà infilzato, quello scritto che non
avrà suxo nagotta, che sera bianco, sera scarpato; poi quello bono homo
ne torrà suxo duy altri scritti in quella medesima forma, et quelli
duy leveranno verbi gratia l'uno scritto dirà Antonio da Pavia, l'altro
serà bianco, similmente sera facto de questi duy, cioè l'uno infilzato
e l'altro scarpato. Et così andara quello bono homo tollendo suxo duy
scritti per volta, tanto che torrà suso uno de li scritti de le borse;
verbi gratia avrà tolto uno scritto che dirà Petro da Lecco farè,
l'altro dirà lo borsa di trecento ducati, quello Petro da Lecco avrà
guadagnato quella borsa de li ducati trecento, la qual borsa subito in
presentia de tutti sarà data per lo dicto Xphôro Taverna al dicto Petro
da Lecco. Poi quello bono homo anderà tolendo suxo le scritte a duy
a duy in fino che saranno tolti fora tutti quelli sette scritti delle
borse et a chi toccarà la ventura, si sarà date le borse, come è dicto
de la prima.

E pertanto anche pare che a chi sia possibile da mettere uno ducato
fuosse poco savio a non metterlo, peroche una persona ricca a mettere
uno ducato o duy o dece poco li serà sebene no avesse la ventura,
avendola tanto migliora una persona mezzana, el simile a una persona
povera che in estremo non fusse miserabile seria piuttosto da mettere
che li altri, perochè per uno ducato che metta serbandolo in capo
dell'anno non se ne accorgerà, a tanto in za come in la li bisogna
stentare et lavorare, et se per ventura Dio li presentasse la grazia
che avesse una de quelle borse, massime la magiore, non stentereve mai
più, si che chi è savio porterà dinari, avisando tutti che li denari
che avanzeranno et che se haveranno saranno della comunità nostra, si
che quelli che non avranno la ventura delle borse, potranno far rasone
averne donati a la comunitate uno ducato, el quale se po appellare
averlo donato a se medesimo.

Et se fosse alcuna persona che non intenda bene vada al banco del
dicto Xphôro Taverna tesaurario a questo, che in breve gliel darà ad
intendere a bocca. — Innocentius Cotta Prior — fu pubblicato questo
avviso da Antonio di Areno tubatore. — Gride dal 1447 al 1450, volume
B, foglio 65 tergo.

[230] Giornalmente sempre più ammirava tanto la di lui prudenza, la
facondia e gli egregi costumi, quanto la bellezza della persona e la
maestà del volto e del portamento.

[231] Simonetta, lib. 2, colonna 202. R. I. tom. XXI.

[232] Vedi Simonetta, Vita di Francesco Sforza, _Rer. ital._, tom. XXI,
lib. I, col. 183.

[233] Il citato Simonetta, lib. I, col. 187, dice: _Quo nuntio
Franciscus gravissime affectus, dolorem immensum per summam constantiam
supprimit, seque a lachrymis singultibusque continet. Sed quod maxime
expediebat, suos a pugna, rejectis hostibus, revocat._ (Dal quale
avviso gravemente afflitto _Francesco_, con somma costanza l'immenso
dolore comprime, e dalle lagrime e dai singhiozzi si rattiene. Ma i
suoi soldati, il che era la cosa più importante, respinti essendo i
nemici dalla pugna richiama.)

[234] Di quei disordini così parla il Decembrio: — [235]_Interea
Mediolanenses varie inter se fluctuabant. Quidam, victoria elati,
Franciscum ad astra praecipuis laudibus ferebant; alii verbis dumtaxat
libertatem praedicabant, veram impense onus curamque detrectabant.
Erant quibus servitus libertate potior videretur esse... Quibus autem
vivendi cum principe consuetudo inerat, quo in numero vir insignis
Petrus Pusterla et alii fuere, Franciscum, veluti Philippi filium et
afflictis rebus succurrere potentem, magnopere laudabant. E contra,
quibus mercatorum familiaritas et usus aderat, quorum minima pars fuit,
Venetos, ut divinos quosdam homines, praeponendos dictitabant. Nihil in
medium consulebatur; sed, ut vulgo mos est, studia in contraria incerte
scindebantur. Sic, confusis civium voluntatibus, plebs omnium ignorans,
libertatis dumtaxat nomen sibi adsciverat, et nullo salubri consilio
perducta, in optimum quemquam ferebatur, etc. — Rer. Italic. Script._,
tom. XX, _column._ 1040, cap. XXXV. _Decemb. Vita Franc. Sfortiae._

[235] Intanto i Milanesi variamente nei loro avvisi ondeggiavano.
Alcuni, gonfi per la vittoria, con grandissime lodi _Francesco_ agli
astri sollevavano; altri con parole soltanto la libertà proclamavano,
ma qualunque peso e cura avevano sommamente a schifo. Eranvi di quelli
ai quali la servitù migliore sembrava della libertà... Coloro poi
che consueti erano a vivere famigliarmente col principe, nel di cui
numero erano l'insigne uomo _Pietro Pusterla_ ed altri, _Francesco_
grandemente esaltavano, siccome figliuolo di _Filippo_, ii solo che
soccorso prestare potesse in mezzo al disordine delle cose pubbliche.
All'incontro coloro che famigliare consuetudine ed uso avevano coi
mercadanti, i quali formavano la minima parte, andavano dicendo che i
Veneti, come uomini in qualche modo divini, preferire dovevansi. Non
si trattavano gli affari in adunato consiglio, ma come à costume del
volgo, incerti i cittadini dividevansi in partiti gli uni agli altri
contrari. Per tal modo, confuse essendo la volontà dei cittadini, la
plebe, che tutto ignorava, il nome solo della libertà adottato aveva
e non guidata da alcun salutare consiglio, portavasi contro qualunque
ottimo, ec.

[236] _Novariam, Parmam, Dertonam, Alexandriam, aliasque urbes ditioni
suae subdit. — Decembr. Vita Franc. Sfortiae, Rer. Ital._, tom. XX,
_column._ 1041, cap. XXXVI.

(Alla sua giurisdizione assoggettò Novara, Parma, Tortona, Alessandria
ed altre città).

[237] Il proclama è il seguente — _1448 dies XVI novembris._ (1448, il
giorno XVI novembre.) — Li illustri signori capitanei et difensori de
la libertà de la illustre ed excelsa comunità di Milano. Considerate
le summe et excelse virtute, probitate et magnanimitate et firma
constantia d'animo, la experimentata et inconcussa fede et la longa
experentia de le cose bellice et mestiero de arme, et lo braxado amore
et admirabile devotione che porta et ha portato et demonstrato con
admirabile opere et experientia infinite a questa illustre et excelsa
comunità de Milano lo illustre et magnifico messere Carlo da Conzaga
cavallero et marchese etc. degnamente l'anno constituto deputato, et
electo capitano del popolo de questa illustre città, e de la libertate
nostra gloriosa, acciocchè possa provvedere et ordinare tutte quelle
cose che siano a salute, tutela e conservazione del dicto populo et de
la sancta libertà nostra. Il perchè si ha facta publica crida per parte
de li prefacti signori capitani per notitia et mandamento a ciascheduno
de quale grado, stato et conditione voglia se sia in la dicta città
et borghi in li lochi consueti debia obedire a li commandamenti
del prefacto messere Carlo in tutte quelle cose che concernano il
bene, l'honore, conservazione, tutella et augumento de la dicta
comunità de Milano, et libertà, sotto pena pecuniaria et personale
_usque ad ultimum suplitium inclusive_ (fino all'ultimo supplizio
inclusivamente), secondo si contiene ne la lettera del dicto capitaneo
ad esso messere Carlo concessa per li prefati signori, _ed ulterius_
(ed ulteriormente), sotto pena all'arbitrio de li prefacti signori
capitanei a chi contrafarà a questa soa crida et intenzione — _Joannes
de Meltio prior — Raphael — Cridata ad scalus palatii et per loca
solita civitatis per Bertolium de Forlivio trombettam, die Jovis 14
novembris, sono tubarum et pifferorum praemisso._ (_Giovanni di Melzo_
priore — _Raffaele_ — Promulgata alle scale del palazzo, e per i soliti
luoghi della città, da _Bertolio_ da Forlì, trombetta, il giorno di
giovedì 14 di novembre, premesso il suono delle trombe e dei pifferi.)
Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 151 nell'archivio della città.

[238] In Milano le cose erano in cattivo stato. Non si può meglio
conoscerle che dalle carte autentiche di quei tempi; e tale è la
lettera di Giovanni Teruffino ai signori Rafaele e Barnaba Adorni,
genovesi, che ritrovasi nell'archivio di città — Codice C, fogl. 69. —
Essa così dice: _Magnifici Majores honorandissimi._ (Magnifici maggiori
onorevolissimi.) — Quamvis altro di nuovo non me occorra, tamen acciò
non vi maravigliate che niente scriva, scriverò poco da poi le altre
lettere a voi scritte. Io non sono andato dalla excellentia del conte,
tum perochè essa se lungo da qui, tum per la novitate de Francesco
Piccinino occorse, ma avuto Maragnano, che spero con la gratia de Dio
sera in fra pochi dì, delibero di andare a la excellentia sua, tam
per lo compromesso de Zenovesi ad Galeotto, quam per altro, e sono
certo che la disposizione sua sia eadem. Io desidero che si manda ad
executione lo facto de Bosco, secundo che altra volta ne dicesti.
Li facti di Milano breviter hanno questa conditione. Frumento ghe
pochissimo et hanno vetato quelli signori che pane di frumento non
se ne venda, perciocchè quello poco frumento lo quale gli è restato
voleno per li soldati, ma non gli può bastare per dexe; di segale
e di miglio hanno per tutto il mese che viene. Dapoi sette di che
Francesco Piccinino e lo fratello andero a Milano non gli hanno dato
dinari, eccetto che due mila ducati de molti promissi. Appropinquandosi
apresso Milano la excellentia del conte come se bene, havuto Marliano,
verosimile è che Milano non se tegnerà quindici dì per mancamento
e de victuaglie, et de dinari, et de strame, e per infinita gente
malcontenta. Dio governa la cosa in modo che questa nostra provincia
habbia quiete. Bene valete — _Dat. Papiae, die XXVIII aprilis 1449. —
Vester famulus Teruffinus — a tergo: Magnificis Majoribus honorandis
Domini Raphaeli et Barnabae Adornis et Petro Spinulae etc._ (Dato in
Pavia, il giorno XXVIII di aprile 1449. — Vostro servo _Teruffino_.
Su la coperta: Ai magnifici maggiori onorevoli i signori _Rafaele e
Barnaba Adorni_ e _Pietro Spinola_, ec.)

[239] Sei giorni prima che Milano accogliesse Francesco Sforza, Gaspare
Vimercato uscissene dalla città con apparenza di volersi abboccare con
Pandolfo Malatesta, comandante delle truppe di Venezia, e probabilmente
concertò in vece la dedizione al conte. Il passaporto che gli consegnò
trovasi nel codice C, foglio 135 tergo, nell'archivio di città, e
dice:[240] _Per illustres dominos Capitaneos et defensores libertatis
Illustris et Excelsae Comunitatis Mediolani concessa est licentia
strenuo Gaspari de Vimercato exeundi hanc Civitatem cum famulis suis
ad numerum usque octo, suisque valixiis, bulgis, rebus et bonis, et
hoc tute, libere et impune, omnique reali et personali impedimento
prorsus amoto, dummodo se non conferat ad partes hostiles, et vadat ad
illustrem dominum Sigismundum Pandulphum de Malatestis Ariminensem ac
illustrissimi dominii Venetorum, etc. Capitaneum Generalem. Ambrosius
Prior — Antonius, MCCCCL, die XX februarii._

[240] Dagli illustri signori capitani e difensori della libertà della
illustre ed eccelsa comunità di Milano viene conceduta licenza al
valoroso _Gasparo di Vimercato_ di uscire da questa città con i suoi
domestici fino al numero di otto, e con sue valigie, bolge, cose
e beni, e questo sicuramente, liberamente ed impunemente, rimosso
qualunque impedimento reale e personale, purchè egli non si rechi alle
parti dei nostri nemici, e vada dell'illustre signore _Pandolfo_ dei
_Malatesta_ riminese, e capitano generale dell'illustrissimo dominio
dei Veneti, ec. _Ambrogio_ Priore. — _Antonio_, MCCCCL, il dì X
febbraio.

[241] _1449, die 27 mensis decembris._ (1449, il dì 27 del mese di
dicembre.) Al nome del Omnipotente et Eterno Dio et del gloriosissimo
nostro patrone sancto Ambrosio deliberando li illustri signori
capitanei et difensori della libertate che ciascuno quale metta la
persona sua a pericolo per farne uno relevato servitio a tutta questa
nostra patria, la quale è indegnamente afflicta da li nostri nemici,
ne abbia merito e premio qual sia certo grande et honorevole, fanno
noto a ciascuna persona di qualunque stato, grado et conditione se
sia, che chi ammazzerà il perfido conte Francesco Sforza, overo ferirà
mortalmente, guadagnerà ducati dece millia d'oro, e dece millia in
possessione, quali instantemente gli serano numerati cotanti, et dati;
et se quella persona sera rebelle o bandezata sarà cavata de ribellione
et de bando, et restituiti il soy beni, et havere li dicti premii,
et se quella persona sera squadrero o conductero de gente d'arme o
di majore conditione, ultra li dicti premii, gli sera duplicata la
conducta. Et sel serà soldato di menore conditione, ultra li dicti
premii, gli sere duplicata la conducta ut supra. Et appresso a questo
se la cadesse alcuno mandare ad executione alcuni de li sopradicti
partiti et per quello venisse ad esser morto, serano dati li dicti
premii a suoi filioli o a suoi heredi indubitatamente, li quali seranno
sempre ben veduti et ben tractati da questa prefata comunitate. Et sel
fosse persona alcuna quale dubitasse de conseguire li dicti premii,
o venga, o manda uno suo fidato secretamente da li prefati signori
capitanei, gli sera facta tal chiarezza et segurezza chel sera ben
certo e securo de conseguire li dicti premii, rimossa ogni minima
dubitazione — _Petrus Prior — Cridata ad scalas palatii et super platea
arenghi per Antonium de Arezio Tubetam, die sabbati 27 suprascripti
mensis decembris, sono tubarum praemisso._ (_Pietro_ Priore. —
Promulgata alle scale del palazzo, e sopra la piazza dell'arringa da
_Antonio_ di Arezzo trombetta, il giorno di sabbato 27 del soprascritto
mese di dicembre, premesso il suono delle trombe.) Gride dal 1447 al
1450, vol. C, foglio 121, archivio civico.

[242] Vol. C, gride dal 1447 al 1450, foglio 107.

[243] Codice C, foglio 113.

[244] _1450, die 23 febbruarii._ (1450, il dì 23 febbraio.) — Se
in ogni tempo debbe cadauno voglia essere chiamato fidele e devoto
cristiano guardarse da fare contro li comandamenti del nostro
Signore Dio, molto più è necessario emendare la vita nel tempo della
tribulazione et afflictione per impetrare gratia et misericordia da
la divina bontà. Intendando aduncha li illustri signori capitanei et
deffensori de la libertà nostra prohibire quanto sia possibile, etiam
mediante le pene et punitione temporale, la disonestà et detestabile
vita de quelli tengano femine a soa posta, et etiandio alcuni quali non
temendo il juditio divino, presumano biastemare Dio e la sua gloriosa
Madre et li suoi sancti et sancte, li quali duy gravissimi peccati
grandemente et pubblicamente si commettono in questa città et in li
borghi soi, non senza evidentissimo pericolo de provocare majore ira
de Dio contra de noi tutti, denno fare crida et bando che niuno de
qualuncha stato, grado, o conditione voglia se sia dal majore al più
minimo ardisca ne presuma in questa città borghi et jurisdictione soa
tenire in casa sua ne fora de casa femine o sia concubina a soa posta
per qualuncha modo se sia, imo cadauno l'havesse o tenesse fra tri
dì proximi li debbia avere cazate da se, et esse femine et concubine
debiano levarsi et aut spazare la città, aut redurse in loco honesto
et tale se intenda che facciano bona, et correcta vita, sotto pena
irremissibile de fiorini venticinque a cadun uomo quale sera trovato
contrafare, tante volte da essere pagati, quante volte contrafarà, et
a cadauna femina contrafaciente, da essere scovata pubblicamente per
tutta la città, e poi reducta al publico loco, o cazata fora de la
città. Et similmente niuno, come è dicto, ardisca o presuma biastemare
Dio, ne la sua gloriosissima Madre, ni etiandio sancto Ambrosio,
nostro protectore et patrone, ni alcuno sancto o sancta sotto pena
irremissibile, ultra le altre imposte altre volte, de fiorini vinti
per cadauna volta a chi contrafarà, et a chi non potrà pagare o non
pagarà la dicta pena infra tre dì sotto pena di sguasi tri di corda,
vollero ancora et chiarisseno li prefati signori capitanei che cadauno
non solo possa, ma etiandio debba accusare qualunque contrafarà li
predicti duy casi; accusando, guadagni il quarto della dicta pena
pecuniaria, l'altro quarto sia delli poveri de Cristo et la mità sia
della comunità, ma chi non accuserà, et sappia chi abbia contrafacto
in tenire et biastemare come è dicto, cada in pena per cadauna volta de
fiorini cinque et cadauno possa questi altri accusare et della pena si
faccia come è dicto, di sopra. Ancora perchè li prefati signori hanno
ordinato et comandato che niuno debba zugare a zugo de dadi, tavole et
cartexelle, ne lassare zugare in casa sua sotto la pena che contengono
le cride fatte sopra di ciò; Adesso chiariscono et volleno che cadauno
non solo possa, ma sia obbligato ad accusare qualunca contrafarà, ed
accusando guadagni il quarto della dicta pena pecuniaria et de li altri
tri quarti se dispona et faccia come è dicto di sopra; ma non accusando
et sappiando chi vi abbia contrafacto, cada in pena caduna volta del
quarto quale devria guadagnare, et cadauno possa questi altri accusare
et della pena se faccia ut supra — _Ambrosius Prior — Marcolinus —
Cridata ad scalas palatii et per loca solita civitatis per Matteum de
Arezio tubetam, die lunae XXIII febbruarii suprascripti_ (_Ambrogio
Priore — Marcolino_ — Promulgata alle scale del palazzo, e per i luoghi
soliti della città da _Matteo_ di Arezzo trombetta, il giorno di lunedì
XXIII di febbraio soprascritto.) — Gride dal 1447 al 1450, vol. C.,
foglio 136, archivio civico.

[245] Le cose dei Milanesi incominciarono ad andare al peggio.
Perciocchè privi di duci, discordi essendo tra di loro i cittadini,
giornalmente ripullulavano consigli peggiori dei primi. Non potevano le
pubbliche gravezze del popolo convenevolmente governarsi; non potevano
i ricchi sostenere i pesi; non poteva alcuno eseguire i comandi: ma
come una flotta dispersa dalla procella, qua e là la plebe era portata
dalle onde accavallate. Se alcun raggio di speranza splendeva tuttora
nei soldati che rimanevano, turbato era dall'ambizione di _Carlo
Gonzaga_, il quale dominio del popolo ingiustamente aspirando, tutte
le cose con lungo sospettare intralciava. Per la qual cosa tutto era
squallido per il timore e per la disperazione. Inoltre le congiure
da alcuni tramate maggiori angustia ai singoli cagionata avevano.
Conciossiachè presi furono ed al supplizio condotti molti nobilissimi
cittadini. Ma nè pure colla morte loro raddolcire potevansi l'atrocità
della sciagura... I buoni inoltre, privati degli uffizi, incapaci a
recare giovamento a sè stessi e agli altri, languivano nel silenzio;
la plebe poi, situata tra la speranza ed il timore, il peso tollerava,
esultando per il nome solo di dominio.

[246] _Vita Franc. Sfortiae_, cap. XXXVII; _Rer. Ital._, tom. XX, col.
1041.

[247] Macchiavelli, sulla prima Deca di Tit. Liv., libr. I, cap. XVII,
pag. 87.

[248] Nel fabbricar la casa de' signori Delfinoni vicino alla colonna
di porta Nuova scavossi nel 1774 un sasso, su cui leggesi: _Franciscus
Sfortia Vicecomes, dux, et animo invictus et corpore, anno MCCCCL
a IIII Calend. Martias hora XX dominio urbis Mediolani potitus._
(Francesco Sforza Visconti, duca, invitto d'animo e di corpo, l'anno
MCCCCL il giorno IV avanti le calende di marzo all'ora vigesima
s'impadronì del dominio di Milano.)

[249] Questo è il giorno che il Signore ci ha dato; esultiamo e
rallegriamoci in esso.

[250] All'archivio pubblico può esaminarsene da chi lo voglia
l'originale.

[251] Osservando come tutti i solenni ingressi e dei duchi e dei
governatori e degli arcivescovi si fecero sempre dalla porta Ticinese,
mi sembra probabile che quest'usanza discenda sino dai tempi de'
Longobardi, quando Pavia fu la capitale e la città regia; e forse
l'arcivescovo, dopo d'essere stato riconosciuto dal sovrano o suo
luogotenente in Pavia, di là spiccavasi per la pubblica cerimonia.
Quando s'assoggettò la chiesa milanese a Roma, e l'elezione e
consacrazione si trasferirono in Roma, tutto cambiossi, fuori che
questa avvertenza non s'ebbe di farlo entrare per la porta Romana.

[252] In quei contorni trovasi una via che oggidì pure conserva il nome
de' Piatti.

[253] I due soli però imminenti alla città furono perfezionati.

[254] _Histoire de François I, roi de France, dit le grand roi et le
père des lettres. Par M. Galliard de l'Accadémie des Inscriptions et
Belles lettres. — A Paris, chez Saillant et Nyon, tome I, page 105._

[255] Alloggiarono nel palano altre volte del conte Carmagnola, ora
detto il Broletto, in cui si radunano i corpi municipali.

[256] Rivolto essendosi quindi all'ornato pubblico della città,
e con arena e mattoni riparate avendo le strade, volle con somma
magnificenza che dai fondamenti si erigesse il castello della porta di
Giove, atterrato da prima per popolare tumulto. La corte altresì dei
primi duchi, già cadente per vecchiezza, non solo ristabilì, ampliò
ed arricchì di ornamenti. Comandò ancora che, scavandosi il terreno,
dall'Adda si derivasse per venti miglia un acquedotto, per mezzo del
quale i campi vicini fossero irrigati, e al popolo non mancassero le
derrate necessarie.

[257] _Decembrius, Vita Franc. Sfortiae_, cap. XL; _Rer. Ital._, tom.
XX, colonn. 1046.

[258] Dalla provincia della Martesana, per cui passa, detta forse anco
dal dio Marte.

[259] Veggasi il Benaglio, Relazione istorica del magistrato,
che riferisce il decreto del duca Francesco, che è il seguente:
— [260]_Franciscus Sfortia Vicecomes, dux Mediolani etc. Papiae
Angleriaeque comes ac Cremonae dominus. Cum pro beneplacitis nostris
et subditorum nostrorum comoditate fieri debere ordinaverimus Navigium
discensarum ex Abdua ad anc inclitam Civitatem nostram Mediolani,
deputaverimusque nobilem virum Ruffinum de Prioris, aulicum nostrum
praeclarissimum Commissarium, qui cum avisamentis ac partecipatione
Bertolae de Novate, dilecti Civis nostri Mediolani, habeat omnia
expedire et expediri facere quod ad dicti Navigii perfectionem
attineat, eligendum duximus._ Indi destina un tesoriere separato per
quest'opera, a cui dalla ducal Camera debbasi sforzare illimitatamente
qualunque somma. _Dat. Mediolani, die primo julii 1457._ (Date in
Milano, il dì primo di luglio 1457.) Veggasi pure il Settala, Relazione
sul navilio della Martesana, ediz. del 1603, pag. 59.

[260] _Francesco Sforza Visconti_, duca di Milano, ec., conte di Pavia
e di Angera, e signore di Cremona. Siccome per il nostro buon piacere
e per il comodo dei nostri sudditi avevamo ordinato che si dovesse
fare un naviglio che discendesse dall'Adda fino a quest'inclita città
nostra di Milano, ed avevamo deputato il nobile _Ruffino dei Priori_,
nostro illustrissimo commissario di corte, che col consiglio e colla
partecipazione di _Bertola_ di Novate, diletto nostro cittadino
milanese, debba spedire e fare tutto quello che appartiene alla
perfezione del detto naviglio, abbiamo giudicato di dover eleggere, ec.

[261] Così Paolo Frisi, nel secondo tomo delle sue opere stampato in
Milano dal Galeazzi 1783, pag. 465. L'immatura perdita che abbiamo
fatto di qust'illustre nostro concittadino, mentre era nel pieno vigore
della sua mente, ha privato noi e i posteri di maggiori ammaestramenti
ch'egli ci avrebbe lasciati. Cessò di vivere il giorno 22 novembre 1784
per una cancrena procuratagli da un taglio, al quale sconsigliatamente
venne sottoposto. Morì colla tranquillità d'un'anima virtuosa, e
presentò all'avversa fortuna, come in vita così in morte, una virile
costanza. L'uomo e l'autore in lui furono allo stesso livello. _Il
chiarissimo autore fece erigere a sue spese all'illustre matematico
e filosofo _Frisi_, suo amico, un elegante monumento in marmo
carrarese con iscrizione latina, nella chiesa di Sant'Alessandro
de' cherici Reg. di San Paolo di questa città; valendosi a questo
effetto dell'opera del celebre scultore _Franchi_._ (_Nota del
Continuatore_).

[262] Tutto ciò più esattamente può leggersi nell'opera del citato
Frisi, libro terzo, capo terzo de' canali navigabili.

[263] Nei registri civici delle lettere ducali del secolo XV, foglio
223, leggesi la concessione fatta dal ducal magistrato il 10 decembre
1471 di una bocca d'acqua del naviglio della Martesana da estraersi
vicino al Redefosso, in benificio dell'Ospedal grande e dei consorti
Ghiringhelli, Bossi e Rebecchi, essendo commissario del naviglio
l'ingegnere Pietro da Faino del Malpaga. Altre concessioni poi si
trovano nei libri dell'ufficio Panigarola, registro E, foglio 265.
Vedesi accordata di più l'acqua al convento de' frati di Santa Maria
degli Angioli, l'anno 1468, per ducal concessione. Il che mostra come
sin d'allora entrasse l'acqua del naviglio in Milano. Nell'ufficio
degli statuti Panigarola trovasi pure il decreto di Bianca Maria,
vedova duchessa e tutrice del duca Gio. Galeazzo, fatto il settembre
1467, che invita ad acquistare dalla ducal camera l'acqua del naviglio
della Martesana.

[264] Simonetta, nella vita di Francesco Sforza, lib. XXXI, _Rer.
Ital._, tom. XXI, col. 778, così dice:[265] _Ea autem utebatur ingenii
acrimonia, ac gravitate, prudentia, atque consilio, ut nihil neque in
urbanis rebus iniret umquam quod minus fuisset diligentissime antea
metitus, omnemque prospexisset eventum, et quod decreverat innata,
quadam animi magnitudine et incredibili celeritate conficiebat. Mirum
dictu est quam abstineret illecebris, humanisque voluptatibus, atque
cupiditatibus: et quod rarissimum in aliis invenies, cum neque in rebus
adversis, si qua iniquitate fortunae acciderunt, deprimebatur animo,
ita ne secundis quidem efferebatur. Quin potius, sicuti in adversis non
frangebatur, ita etiam in prospera fortuna modestissimus semper fuit;
et alios ab omni contumelia injuriaque continebat. Et ne id quidem
mirum, cum omnibus de se praestaret exemplum, qui cum maxime vinceret,
ultione non utebatur._

[265] Era poi dotato di tale penetrazione d'ingegno, di tale gravità,
prudenza e avvedutezza, che nulla intraprendeva giammai nelle cose
tanto militari, quanto civili, che diligentissimamente, benchè fosse
piccola cosa, non avesse da prima considerato, e tutto ne avesse
pronosticato l'evento; quelle cose poi che determinato erasi di fare,
compieva con una certa innata grandezza d'animo e con incredibile
celerità. Mirabile è a dirsi quanto lontano si tenesse dalle seduzioni
e dalle umane voluttà e cupidigie, a quello che rarissimo troverassi
in altri siccome nelle avversità, se mai alcuna per iniquità di sorte
ne incontrava, non perdevasi di spirito, così nè pure nelle prospere
punto non insuperbivasi. Che anzi, siccome nelle cose avverse non si
avviliva, così ancora nella prospera fortuna fu sempre modestissimo, e
gli altri tratteneva da qualunque ingiuria o contumelia. Nè questo in
vero è estrano, mentre a tutti egli stesso porgeva l'esempio, e avendo
questo grandissima forza, d'uopo non era che facesse uso di gastighi.

[266] Ma oserei certamente affermare che, dopo _Giulio Cesare_, nissun
uomo troverassi avere avuto l'Italia, che a buon diritto si potesse col
solo _Francesco Sforza_ paragonare. Il quale per verità, vinto avendo
sempre, nè mai essendo stato vinto, finì i suoi giorni in modo che a
tutti non meno lasciò un vivo desiderio, che un retaggio di lagrime.

[267] _Rer. Italic. Script._, tom. XXI, col. 779.

[268] Corio.

[269] Nella mia raccolta ho alcune monete di Milano che portano il nome
d'entrambi.

[270] _Francisci Cicerei Epistolar._, vol. II, pag. 174, _Mediol._
1782, stampa dell'Imp. Monast. di sant'Ambrogio.

[271] All'anno 1469.

[272] All'anno 1473.

[273] Gli scrittori oltramontani conservano una memoria favorevole
del re Mattia I. È da essi risguardato come un principe generoso,
guerriero, politico, religioso, amico delle belle arti, uomo colto;
ed a lui si attribuisce la biblioteca di Buda, corredata dei migliori
libri greci e latini. Il Corio però narra avvenimenti accaduti ai suoi
tempi e pubblici.

[274] Di questo Cola Montano si trova nell'archivio pubblico un
contratto ch'ei fece l'anno 1473 il 6 d'agosto, rogato dal notaro
Antonio Zunico. Il contratto è con uno stampatore tedesco di Ratisbona
chiamato _Cristoforo_, ed ha per oggetto una società per istampare.
Si vede che Cola Montano era figlio di Giacomo, ed abitava sotto la
parrocchia di San Rafaello; ma non si dice che fosse bolognese.

[275] La duchessa Bianca Maria prudentemente gli richiamò.

[276] Eterna vivrà la fama di sì gloriosa impresa.

[277] L'anno seguente si ribellarono di nuovo; poi un'altra volta nel
1488 si assoggettarono.

[278]

    Mentre bramo salvar la patria e il duce,
    Da scaltri traditor son tratto a morte.
    Ma celebrar lui debbe immensa lode,
    Che, per serbar la fe, sprezzò la vita.

[279] Rogato dai notai Francesco Bolla e Candido Porro.

[280] Vedi Apostolo Zeno, _Dissertazioni Vossiane_, vol. II, art.
_Bernardino Corio_. (_Il Continuatore_).

[281] Queste nozze erano già state concertate undici anni prima, cioè
nel 1480, mentre la sposa, figlia d'Ercole d'Este, aveva sei anni.

[282] Risplendenti di toghe purpuree e di scarlatto.

[283] Coi petti ritagliati al disotto delle mammelle, e col pallio alla
maniera gabina, scendendo dall'omero destro al lato sinistro.

[284] Con moderazione e venustà.

[285] Il Corio dice: _Lodovico Sforza, già inducto da Hercule Estense
e da la mugliere, in tutto cominciò aspirare alo intero governo dil
Stato_; all'anno 1489. Rispetto poi alle rivalità dice, all'anno
1491, _Quivi tra Isabella mogliere dil duca e Beatrice, per volere
ciascuna de loro prevalere al altra tanto di loco et ornamento quanto
in altra cosa, una tanta emulazione e sdegno cominciò tra ambe due, che
finalmente, come sarà demostrato nella parte seguente, sono state causa
de la totale eversione dil suo imperio_.

[286] Il Corio lo attesta all'anno 1493; il che conferma quanto
antecedentemente accennai sullo venuta di Galeazzo Maria dalla Francia
a Milano, cioè che vi fossero stazioni regolate pel cambiamento de'
cavalli.

[287] Antonio Grumello, nella cronaca MS. che ritrovasi presso il
signor principe Alberigo di Belgioioso d'Este al foglio II, disse:
_Ritrovandosi il gallico re in la città de Pavia et intexo Jo. Galeaz.
Sforzia, ducha di Milano, esser gravemente inferma di una febbre
tossichata, vuolse sua maestà vederlo: et prelibato ducha umanamente
salutando sua maestà, et re gallico confortandolo a la salute, et
che sua maestà mai hera per mancharli. Vedendo Jo. Gz. Sfortia esser
al fine di sua vita, ricomandato el suo unigenito figliolo Francesco
Sfortia, conte di Pavia, al gallico re, pregando sua maestà lo voglia
aceptare per suo figliolo et con humanissime parole fu acceptato
da esso re gallico, et non dubitasse che mai hera per mancarli et
mantenerlo in stato felicissimo._

[288] Il prefato _Giovanni Galeazzo_ riconobbe dal popolo milanese
il ducato stesso e la contea, il che tornò in grandissimo pregiudizio
dell'Impero, e perchè è di consuetudine del sacro romano Impero di non
mai investire alcuno di qualche Stato da esso dipendente, se questo
egli usurpò col fatto, e da altri lo abbia riconosciuto.

[289] Il Corio gli dà per extensum all'anno 1494.

[290] Cambiata, l'anno 1783, per servire al monte di Santa Teresa,
recentemente collocatovi. _E qui vuolsi notare che gli scudi in bianco
marmo rappresentanti i duchi di Milano, che servivano di ornato alla
facciata di questa casa, furono preservati dal nostro storico, e
collocati in ordine nel primo cortile della sua casa paterna, ivi
dicontro_. (_Il Continuatore_).

[291] La chiesa della Madonna di San Celso è veramente il primo
monumento e il più antico di esatta architettura. La facciata
dell'arcivescovado e il palazzo dell'arcivescovo si formarono
dall'arcivescovo Guido Antonio Arcimboldi. Il claustro di Sant'Ambrogio
si fabbricò dal cardinale Ascanio Sforza. Veggasi il Lattuada,
_Descrizione di Milano_, tom. IV, pag. 308. Due altre chiese si
fabbricarono in que' tempi, cioè la Rosa e la Passione, meritevoli di
essere osservate. Anche la cupola delle Grazie è di quei tempi, e si
assomiglia alla prima maniera della casa Marliani.

[292] Vedi _Raccolta milanese stampata presso Antonio Anelli 1756,
2 vol. in 4.º Nel primo volume, dal foglio 2 fino al 22, trovansi
parecchi sonetti di messer Gaspare Visconti, con alcune notizie intorno
all'autore_. (_Il Continuatore_).

[293] Di questi broccati pesantissimi se ne veggono tuttora in un
vecchio paramento che conservasi presso i Domenicani delle Grazie. La
statua di Beatrice d'Este, che è nella Certosa di Pavia, ci mostra la
ricchezza e il peso di quei vestiti di allora. L'immagine di Beatrice
vedesi pure in un quadro della scuola di Lionardo a Sant'Ambrogio
Ad nemus. Ella vi è in ginocchio coi due suoi figli Massimiliano e
Francesco, e collo sposo Lodovico il Moro.

[294] Queste poesie furono da me copiate da un antico codice
manoscritto originale dell'autore medesimo, il quale si custodisce fra
molti altri manoscritti nella pregievolissima collezione del signor
principe Alberico di Belgioioso d'Este. In esso leggonsi più centinaia
di sonetti ad imitazione del Petrarca. Leggesi pure una commedia in
ottava rima dello stesso Visconti; poesie, a dir vero, di poco valore.

[295] L'autore Gaspare Visconti mori all'età d'anni 38, il giorno 8 di
marzo l'anno 1499. Vedi _Argelati, Biblioth. Scriptor. Mediolan._, tom.
II, parte prima, col. 1604.

[296]

    «Sparsi i campi al veder d'armi e d'armati,
    Scossa, tremò tua pace, o Lodovico,
    Sorgi, a me disse, tutt'intorno suona
    Il ferro ostil, e me cacciata in bando:
    L'armi dispon chi mi ripose in seggio.
    Pei santissimi dritti ora te invoco
    Del veneto senato, e me del sommo,
    Se il puoi, periglio a liberar t'appresta.
    Risposi allor: No, non temere, o Diva,
    Lodovico t'adora, e del tuo Nume,
    Più ancor di quel di Giove, egli gioisce.
    Nè già guerre temer, che ne son queste
    Sol le sembianze e i simulati giuochi:
    Nè qui armeggiar, se non a pompa, lece.
    Or dunque vanne, e abbandonando il cielo,
    Orna la terra, o almen, poichè tue veci
    Compier questi sol può, se in l'alte sedi
    Ami recarti, in terra e in mar difendi
    Gli Sforza fidi, in guerra e in pace egregi».

[297] Tomo II, delle Opere. Milano, presso Galeazzi 1783, pag. 468.

[298] Tutte queste notizie sono tratte dal vol. I, num. 17 della
collezione illustre del signor principe Belgioioso d'Este. Quell'antico
MS. contemporaneo dice di quest'ultimo segretario camerale: _se faceva
per esso secretario uno quaterneto de tutti li salariati, quale se
faceva sottoscrivere da l'excelentia del duca, insieme con un rotulo,
che se domandava la lista grande de li salariati, in la quale, per
via de summario, era descripto tutta la spesa del Stato, la quale se
mandava inclusa in una lettera ducale expedita per el dicto secretario
alli magistri de le intrate ordinarie et thesaurero, commettendoli che
facesseno fare la expeditione de li pagamenti secundo era annotato in
esso quaterneto et lista alli tempi debiti et secundo l'ordine de la
corte; e così si faceva._

[299] Il Prato asserisce che le entrate ducali ascendessero, nel
1499, a ducati ossia zecchini settecento ottantamila. Il Corio,
all'anno 1492, dice seicentomila. Da un MS. gentilmente mostratomi dal
chiarissimo signor presidente conte Carli, le ducali entrate allora
erano zecchini 424,472; io mi sono attenuto al Corio, supponendo che
il minor calcolo comprenda le sole entrate ordinarie. Paragonata
poi l'estensione dello Stato d'allora, le opere grandiose che si
intraprendevano, con seicentomila ducati, se ne dedurrà una nuova
conferma di quello che in più luoghi ho indicato, cioè sul valore de'
metalli nobili maggiore assai in que' tempi che non lo è ai giorni
nostri. Un uomo con cent'once d'oro oggidì è meno ricco di quello che
lo fosse allora uno che ne possedesse cinquanta.

[300] Vol. I, Miscellanea, num. 14.

[301] Oltre il Corio, veggasi Gaillard, Histoire de François Premier. —
Edizione seconda di Parigi, presso Saillant et Nyron 1769, tom. I, pag.
137.

[302] Il tesoriere era allora il presidente della camera, e cotesto
Landriano, che adulò il duca, fu il medesimo che nel consiglio ducale
lo fece acclamare, ad esclusione del legittimo successore.

[303] Veggasi la Cronaca di Antonio Grumello pavese. MS. del signor
principe di Belgioioso d'Este, foglio 19, tergo, e foglio 20.

[304] MS. di Antonio Grumello, pavese, presso il signor principe di
Belgioioso, fogli 22 tergo.

[305] Dove oggidì stanno i Teatini.

[306] _Quaranta damiselle milanesi, non già dell'inferiore:_ così il
Prato.

[307] Giovanni Andrea da Prato è l'autore che io scelgo per guida,
or che il Corio cessa di raccontare. Da esso Prato, che conservo
manoscritto, ho tratti i minuti avvenimenti che ho creduto di non
omettere, poichè mostrano il carattere di quel buon principe.

[308] _Perpetuo edicto et inviolabili decreto... statuimus, ordinamus,
et lege perpetuo valitura stabilimus_.

(Con perpetuo editto e decreto inviolabile... stabiliamo, ordiniamo e
vogliamo, con legge che debba valere in perpetuo.)

[309] _Damus et concedimus per praesentes potestatem seu auctoritatem
decreta nostra ducalia confirmandi, et infirmandi, dandi omnes
quascumque dispensationes, Statutorum et ordinatorum confirmationes_,
ec. E rispetto alle concessioni del re medesimo dice: _Nisi prius
fuerint in dicto senatus nostro praesentatae, interitanae, et
verificatae, nullius firmitatis, effectus vel momenti esse poterunt;
easque, tam concessas quam concedendas, decerminus per praesentes
irritas et inanes_.

(Diamo e concediamo, colle presenti, podestà o sia autorità di
confermare e di annullare i nostri decreti ducali, di concedere
ogni qualunque dispensa, di confermare gli statuti e le ordinazioni,
ec...... Se da prima non saranno nel detto senato nostro presentate,
_interinate_ e verificate, non potranno essere di alcuna forza, effetto
e conseguenza; e colle presenti dichiariamo irrite e nulle, tanto le
già concedute, come quelle che potessero concedersi.)

[310] Proruppe in ira così grande, che sembrava avere perduta tutta la
prudenza... E tardi conobbe che, tumultuando il popolo, più vantaggiosa
riesce l'umanità e la mansuetudine, che l'arroganza.

[311] _Tres vultus Trivultio._ — (Tre volti ha il Trivulzio).

[312] Egli era al servigio degli Aragonesi in Napoli, mentre essi
minacciavano Lodovico Sforza: quando poi Carlo VIII conquistò quel
regno, il Trivulzio si pose allo stipendio della Francia, e molta parte
ebbe nell'aprire il varco al re nei passi di Fornuovo alla Val di Taro.

[313] Corio, all'anno 1499.

[314] Del Corte così scrive il Guicciardini al lib. IV, raccontando
il prezzo ch'egli ottenne; _ma con tanta infamia, e con tanto odio,
eziandio appresso ai Francesi, che, rifiutato da ognuno come di fiera
pestifiera, e abominevole il suo commercio, e schernito per tutte dove
arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla vergogna e dalla
coscienza, potentissimo e certissimo flagello di chi fa male, passò non
molto poi per dolore all'altra vita._

[315] Tom. II, pag. 22.

[316] _Quod ad Rempublicam attinet, jam licet omnibus intueri quod
in magno omnia ancipiti, seu potius praecipiti pendent. Sfortianos
constat sexdecim milium peditum delectum ex Elvetiis fecisse, milla
cataphractos ex Germania Burgandiaque contraxisse, tormenta aenea,
machinas, pilas, pulveresque coemisse, atque comunis opinio est quod
medio januario superatis Alpibus Gallos invadent, atque eos pellere
aut profligare conabuntur. E contra comes Lignyaci, cujus in ire
bellica auctoritas suprema est (licet proregie nomen Jo. Jacobo
Trivultio datum sit) omnes cataphractos apud Comum cogit_.... E
continua a spiegare le disposizioni per la difesa che facevasi dai
Francesi; _cuius exitum utinam Mediolanenses (quae foret insolita eorum
prudentia) expectarent! At plurimi sunt, maxime ex Gibellina factione,
qui, more impatientes, jamjam civitatem scindere, amicos, affinesque
unire, armaque capere non dubitant, quod dicant memoratum Trivultium
statuisse capita ipsius Gibellinae factionis perdere, alios obsides
in Galliam mittendo, alios proscribendo, alios in custodiis habendo;
dicentes propterea se, armatos, vim vi repellere velle, hujusmodique
armis non in regis perniciem aut damnum, sed tuitionem et salutem,
si expediat, se usuros jactantes. Huic quasi seditioni fomentum non
exiguum praestant memoratus Lignyaci comes et Lucionensis episcopus,
Senatus Cancellarius et justitiae, ut ajunt, caput; qui ambo, ut sunt
Trivultii aemuli, aegre ferunt quod apud eum remaneat illud nudum
proregis nomen; sperantque hac ratione Regem coactum iri ut Trivultium
deponat, cum intelliget, eo etiam solam sceptri imaginem retinente,
seditionem extingui minime posse: iique ambo, quasi fatentes eam
esse pravam et subdolam Trivultii mentem in Gibellinos, quam ipsi
verentur, nec affirmantes longe alienam esse regis voluntatem, qui
nullo discrimine omnes Gibellinos Guelfosque habet, non reprehendunt,
sed quadam taciturnitate probant, Gibellinosque armari, ac stipari,
seditionem in dies magis et magis augeri; quum et Trivultius et omnes
fere Guelfi partes ejus secuti, non minus quam Gibellini, se muniant
clientibus et armis, et vim nedum repellere, sed etiam inferre parent._
Prosiegue antivedendo i mali, che ne nacquero in fatti, e conclude la
lettera così: _tunc, inquam, cognosceremus quanto subjectir populis
salubrius sit contendendibus de imperio principibus, spectatores, quam
auxiliatores esse._

(Per quello che spetta alla repubblica, si può ora da tutti
riconoscere, che tutte le cose pendono in uno stato dubbioso o
piuttosto precipitoso. Egli è certo che gli sforzeschi hanno arruolato
sedicimila fanti tra gli Svizzeri raccolti, mille cavalli, grave
armatura dalla Germania e dalla Borgogna, comperati cannoni di
bronzo, macchine, palle polvere, e la comune opinione è che alla
metà di gennaio, superate avendo le Alpi, assaliranno i Francesi, e
si studieranno di cacciarli o di sconfiggerli. All'opposto il conte
di _Ligny_, che ha il supremo comando nelle cose militari (benchè il
nome di vice-re sia dato a _Giovan Giacomo Trivulzio_), tutti i suoi
cavalli di pesante armatura riunisce presso Como...... Il di cui esito
volesse il cielo che i Milanesi (il che sarebbe una prudenza in essi
insolita), aspettassero! Ma moltissimi sono, massime della fazione
ghibellina, che, impazienti di ritardo, non dubitano già a quest'ora di
dividere la città, di riunire i loro amici e congiunti, e di pigliare
le armi, perchè dicono che il memorato _Trivulzio_ abbia stabilito
di rovinare i capi della stessa fazione ghibellina, mandandone altri
ostaggi in Francia, altri proscrivendo, altri ritenendo nelle prigioni;
soggiungendo per questo che essi, armati, respingere vogliono la
forza colla forza, e vantandosi che di queste armi si serviranno non
già a discapito o danno del re, ma qualora occorra alla loro difesa e
salvezza. A questa specie di sedizione prestano non piccolo fomento il
già nominato conte di _Ligny_ ed il vescovo di _Luçon_, cancelliere
del senato, e capo, come dicono, della giustizia, i quali, essendo
l'uno e l'altro emuli del _Trivulzio_, mal soffrono che presso di esso
rimanga quel nome nudo di vicerè, e sperono che per questa ragione
il re sarebbe forzato a deporre il _Trivulzio_, qualora venisse a
sapere che, ritenendo la sola immagine dello scettro, la sedizione non
potrebbe estinguersi, ad essi, quasi confessando ambidue essere quella
intenzione trista e subdola del _Trivulzio_ contra i Ghibellini, la
cosa che essi temono, nè asserendo molto lontana da quello la volontà
del re, che tutti i Ghibellini e i Guelfi riguarda senza alcuna
differenza; non riprendono, ma anzi con un certo silenzio quelle mosse
approvano, e che i Ghibellini si armino e si rafforzino, e che la
sedizione giornalmente a maggior grado si accresca; mentre anche il
_Trivulzio_ e tutti quasi i Guelfi seguaci del di lui partito, non meno
che i Ghibellini, si muniscono di partigiani e di armi, e non solo si
preparano a respignere la forza, ma anche ad adoperarla....... Allora
dissi, conosceremmo quanto più salutare sia ai popoli suggetti l'essere
spettatori che non ausiliari dei principi che dell'imperio contendono).

[317] Vinto certamente dall'efficacia dell'argomento, prestò la mano;
tuttavia, mentre mi congedò, conobbi che egli era quasi sdegnato;
giacchè come tu sai, i principi quello che essi vogliono, sogliono
volerlo di troppo, e ben sovente pongono mente piuttosto a quello che
giova, che non a quello che conviene.

[318] Così nella lettera 28 febbraio 1500, a Giovannangelo Selvatico.

[319] Fra questi deve esser pure compreso l'illustre Guicciardini, lib.
IV.

[320] Veggasi lettera 30 aprile 1500 a Girolamo Varadeo.

[321] Sè stesso non cessava di rimproverare, e di accusare la propria
pusillanimità, nè ben sapeva a quale consiglio si appigliasse.

[322] L'infelice _Lodovico_, che non aveva potuto cangiare i lineamenti
del viso, nè l'aspetto della maestà che sempre ebbe nel volto, nè la
sua figura principesca, benchè le vesti mutate avesse, conosciuto fu e
preso.

[323] Fatta all'istante un'irruzione.

[324] Gli presentò sei vestiti, due di stoffa d'oro, due d'argento,
due di seta con altrettanti giubboni, e paia sei calze di scarlatto,
e dodici camisce di renso, con scarpe e berrette similmente d'oro.
Queste minuzie, riferite dal _Prato_, danno idea del vestire di quei
tempi, e fors'anco della cura maggiore che si aveva per l'apparenza,
che per la mondezza, non frequentemente allora cambiandosi le vesti che
immediatamente ci toccano.

[325] Espugnata avendo Alessandria, distrutto l'esercito, caccia il
duca _Lodovico Sforza_, e tornato presso Novara, lo sconfigge e lo fa
prigioniero.

[326] Avendo io fatte molte ricerche, anni sono, sulle regalie alienate
dai sovrani di questo Stato, o donate ai sudditi, ho osservato che al
tempo del duca Filippo Maria si cominciò a staccarle, ed ho trovate
cinque vendite e quattordici donazioni. Quel principe, non avendo
eredi, cominciò a largheggiare. Poi, sotto Francesco I, fu il più gran
colpo di distacco, contandosi sedici vendite, e ben quarantaquattro
donazioni di regalie. Anche sotto Francesco s'introdusse il patto
di abdicare in alcune vendite di regalie, la ragione fiscale di
ricuperarle al prezzo medesimo. Le donazioni non furono mai tante poi,
quanto sotto Francesco, che doveva rendere accetta la signoria, che
mancava in lui di legittima ragione; ma sotto Lodovico il Moro in vece
grandiose furono le vendite, delle quali ne ho contate settantaquattro.
Tutto il secolo XVI fu più moderato. Non è da maravigliarsi che il
duca Filippo Maria, ultimo di sua casa, donasse largamente regalie
annesse alla sovranità o destinate a sostenerla. Oltre quelle che, pel
terminare delle famiglie, nel corso di tre secoli saranno rientrate
nel ducale patrimonio, ne rimanevano tuttora in mano di privati
quattordici, dieci anni sono. Nè vi è pure da maravigliarsi se dieci
anni fa rimanessero ben quarantaquattro donazioni di regalie fatte
da Francesco Sforza, che voleva appoggiare la sua donazione alla
benevolenza ed al consenso de' popoli.

[327] In porta Romana nella contrada della Ruga Bella.

[328] Questo palazzo era dove ora trovasi la casa del marchese Litta in
porta Vercellina.

[329] Nella cinta del muro intorno alla chiesa di San Dionigi vi
si pose una lapida con queste parole: _Lodovicus, Galliarum rex
et Mediolani dux, parta de Venetis victoria, hic equum ascendit, ut
in urbe triumpharet._ (_Lodovico_, re di Francia e duca di Milano,
ottenuta avendo la vittoria su i Veneti, qui montò a cavallo onde nella
città trionfasse.)

[330] Murat. Annali d'Italia, A. 1509. — Du-Mont, Corp. Diplomatique.

[331] Lib. IX.

[332] Guicciard., lib. X.

[333] Lib. X.

[334] Lib. X.

[335] Leggasi l'Apologia che ne ha fatta l'abate Francesco Murocchi
nella tragedia intitolata: L'_Avogadro_.

[336] Lettera del Cavalier Bayard a Lorenzo Aleman, suo zio, stampata
in fine della tragedia del signor Belloy citata.

[337]

                      SIMULACRO DI GASTONE DI FOIX
                  CONDOTTIERO DEGLI ESERCITI FRANCESI
              CADUTO NELLA BATTAGLIA DI RAVENNA NELL'ANNO
                                 MDXII
          ESSENDO NELLA RESTAURAZIONE DELLA CHIESA DI S. MARTA
                       DISTRUTTA LA DI LUI TOMBA
                     LE VERGINI DI QUESTO MONASTERO
                ALLA IMMORTALITÀ DI SÌ GRANDE CAPITANO,
                  IN QUESTO LUOGO LO FECERO COLLOCARE
                           NELL'ANNO MDLXXIV.

[338] Mathieu Skeiner, cardinal de Sion, _le boute-feu de la Sainte
Ligue_, lui qui joua dans toutes ces guerres le véritable rôle
de l'Alecto de Virgile; ce Prêtre sanguinaire eut la lâcheté de
faire exhumer le Héros de la France, sous pretexte de l'absurde
excommunication lancée contre les ennemis du pape. Les François et
beaucoup d'Italiens, souhaitoient alors à Jules II et au cardinal
Skeiner autant de droitur, de justice, d'honneur et de bonté, qu'en
avoit eu le Prince, dont ils osoient ainsi damner l'ame et outrages les
cendres. _Belloy_.

[339] Et vous assure que de cent ans le royaum de France ne recouvrera
la perte qu'il a faite.

[340] Veggasi Guicciardini, lib. 4. — Muratori, Annali, all'anno 1512.
— Istoria del dominio temporale della Chiesa sopra Parma e Piacenza,
ediz. rom. pag. 122. — Du Mont, Code Diplomat., T. IV, P. I, pag. 137 e
173. — Angeli, Ist. di Parma, lib. V. — Alberti, Descriz. d'Ital., pag.
369.

[341] Siccome può vedersi nel tomo II, Cap. XIII.

[342] Lib. XI.

[343] Gaillard, Vie de François Premier, roi de France, tomo I, pag.
140.

[344] Guicciard., lib. XI.

[345] Guicciard., lib. XI.

[346] Prato.

[347] Misero il paese il cui re è un fanciullo!

[348] Beatissimo Padre. — Manifesta ed abbastanza nota è presso la
Santità Vostra la smoderata ed eccessiva ambizione di dominare in
lungo e in largo, e la cupidigia di usurpare indebitamente l'altrui
del re de' Francesi, cosicchè non solo sembra aspirare con tutti i
suoi desiderii al principato milanese, ma anche al soggiogamento di
tutta l'Italia; (e conclude alfine) per la qual cosa io sono forzato
di ricorrere alla Beatitudine Vostra, per cosa che caderà ad evidente
vantaggio di tutta l'Italia, e a me provvederà in una così grande
pubblica calamità; supplicando altresì affinchè, provvedendo alle
premesse cose, la Beatitudine Vostra, coll'autorità apostolica della
quale è investita, di moto proprio, per certa scienza e per pienezza
della podestà anche assoluta, si degni di accordare licenza, podestà ed
autorità di imporre in tutta la giurisdizione del ducato di Milano le
predette aggiunte di trenta soldi per ogni staio di sale, ec.

[349] Miscellanea MS., vol. I, num. 9.

[350] Miscellan. vol. I, num. 3.

[351] Il contratto di questa vendita, fatto il giorno 11 luglio 1515,
trovasi nell'Archivio Civico, e si scorge che il reddito del Naviglio
grande si considerò di non più che annue lire 1200.

[352] Vedi Prato.

[353] _Ibid_.

[354] Miscellan., vol. I, num. 12.

[355] MS. Miscellanea, tom. I, num. 12.

[356] Lib. XI.

[357] Prato.

[358] Lo stesso Prato.

[359] _Havuto nova Maximiliano Sforza ducha di Milano, ed il cardinale
elveticho del preparato exercito gallico et del preparato esercito
veneto_ (dopo morto Lodovico XII) _per la impresa de lo imperio
Mediolanense; facto suo consulto de resistere a tanto impeto unito
contra esso imperio, il cardinale, per levar ogni suspecto qual
haveva a lo epischopo laudense Sforzescho, qual gubernava lo imperio
Mediolanense, fece prendere esso epischopo et condurlo prigione nel
castello di porta Giobia, dove subito posto alla tortura li fu dato
squassi quattordici di corda et altro non poteno havere da esso
epischopo._ M. S. Belgioioso, fol. 79, tergo, e 80.

[360] Gaillard, Vie de François Premier, tom. I, pag. 214.

[361] _Idem, ibidem_, pag. 224.

[362] Prato.

[363] Prato.

[364] Guicciard., lib. XII.

[365] Guicciard., lib. XII.

[366] Lib. XII.

[367] Veggasi Gaillard, tom. I, alle pag. 270, 274.

[368] Lib. I, f. 6. L'ingenuità di questa Cronaca appare dalla
semplicità e barbarie medesima colla quale è scritta. L'autore era un
merciaio, che, avendo bottega in Milano, si compiaceva di registrare
gli avvenimenti del suo tempo. Corre manoscritta questa Cronaca di
Gian Marco Burigozzo, e comprende gli avvenimenti nel 1500 al 1544. E
curiosa la maniera colla quale termina: _come vedrete nella Cronica
de mio filiolo, imperciocchè per la morte che mi è sopragiunta non
posso più scrivere._ Queste parole verosimilmente vennero aggiunte dal
figlio, il quale o non compose poscia la continuazione della Cronaca,
ovvero se la compose ella non è giunta a mia notizia; di questa Cronaca
mi accadrà più volle in séguito di servirmene.

[369] _Hyeronimo Morono dette zanze al gallico re d'andar in la citate
de Brixio senatore, secondo la mente dil re, et stato alquanti giorni
in la città Mediolanense, fa significato ad esso Morono dovesse pigliar
il cammino de la Gallia transalpina ed andar al suo offitio, dove esso
Morono, charichato sei cariaggi de le sue tutte bone robe, pigliò il
cammino di lo Apenino. Gionto appresso allo Apenino pigliò il cammino
de le montagne de Genovese et poi di Modena, et in quella fece dimora
per alquanti anni, et il gallico re fu piantato dal Morono._ Cronaca di
Antonio Crumello, pavese. MS. Belgioioso, fogl. 83, tergo.

[370] Veggasi Giovio, lib. VI, Storia. — Gaillard, Storia di Francesco
I re di Francia, tom. I, cap. III. — Veggasi Prato.

[371] Il re cristianissimo, volgendo nell'animo la fedeltà e la
integrità che i cittadini milanesi mostrarono verso sua maestà, e i
danni intollerabili che essi sopportarono, liberamente dona e concede
alla predetta città la somma di diecimila ducati di rendita annua e
perpetua, esigibili per mano del ricevitore della città dai gabellieri
delle mercatanzie, la quale somma sia convertita soltanto ad utilità
della città predetta, e non altrimenti.

[372] Così nel libro di Carlo Pagano, stampato in Milano da Agostino
Vimercato l'anno 1520, pag. 6.

[373] Vedi Pagano suddetto.

[374] Osservando e non osservando il diritto comune.

[375] Essendo quell'uffizio cagione a tutti di terrore.

[376] Arte del buono e del retto, e scienza del giusto e dell'ingiusto.

[377] Questo accadde per disposizione data il giorno primo di luglio
del 1518, come scorgesi alla pag. 30 della relazione MS. che l'erudito
ed esatto abate Lualdi, prefetto dell'Archivio della città, ha
presentata l'anno 1784 al Consiglio Generale.

[378] Prato. — Burigozzo, lib. I, foglio 9 e 10.

[379] _Une très-belle et honeste dame que le roy aimoit, et faisoit son
mary cocu_, di lei dice Brantome nel discorso sopra il maresciallo di
Lautrec.

[380] Vedi Gaillard, tom. I, pag. 352.

[381] Così Gaillard, tom. I, pag. 360.

[382] Gaillard, tom. I, pag. 361.

[383] CHI MAI NON RIPOSÒ, QUI RIPOSA. TACI.

[384] Tom. II, pag. 202.

[385] È da vedersi _Apostolo Zeno_, nelle sue dissertazioni
Vossiane, tomo II, sul merito della storia del Corio, da molti a
torto disprezzata. Così pure _Justi Vicecomitis pro Bernardino Corio
Dissertatio_. Giusto Visconte è il finto nome del P. _Mazzucchelli_ C.
R. Somasco, il cui elogio trovasi nel Giornale de' Letterati di Italia.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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