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Title: Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile
Author: Wilde, Oscar
Language: Italian
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produced from images made available by the HathiTrust
Digital Library)



                              OSCAR WILDE


                       Il fantasma di Canterville
                      e il delitto di Lord Savile


                Prima versione italiana di G. VANNICOLA.
                       con disegni di G. MAZZONI.

                           SECONDA EDIZIONE.



                    A. F. FORMIGGINI EDITORE IN ROMA



                  LA PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA

    degli ornamenti, delle versioni originali e delle note critiche
                    pubblicate in questa collezione

                   SPETTA ESCLUSIVAMENTE ALL'EDITORE

  il quale, adempiuti i suoi obblighi verso la Legge e verso gli Autori
         eserciterà i suoi diritti contro chiunque e dovunque.

              _Copyright 1920: by A. F. Formiggini, Rome._



INTRODUZIONE


Non rifarò la biografia d'Oscar Wilde, ormai cosa pubblica, ahimè,
troppo pubblica. Più che per la grandezza e la decadenza della sua
vita, più che per la stessa sua opera, Wilde interessa sopratutto per
il particolare significato che possiamo trarre dalla sua personalità
d'eccezione.

«Io non rimpiango — scrive egli nel _De profundis_, che è il migliore
commento alla tragedia della sua vita — io non rimpiango un solo
istante di aver vissuto per il piacere. Io feci questo appieno, come
si dovrebbe fare ogni cosa che si fa. Non ci fu piacere che io non
sperimentassi; io gettai la perla della mia anima in una coppa di vino;
io scesi pel sentiero fiorito di margherite al suono dei flauti; io
vissi di favi di miele. Ma continuare la stessa vita sarebbe stato un
errore, perchè sarebbe stata una limitazione. Io dovevo andare innanzi:
l'altra metà del giardino aveva anche i suoi segreti per me».

E aggiunge, nel suo orgoglio di scrittore che vive, pur nel carcere
da cui scriveva, la sua vita letteraria con profonda coscienza:
«Naturalmente, tutto ciò è adombrato e prefigurato nei miei libri.».

Nè avrebbe potuto essere altrimenti. In ogni singolo istante della
propria vita, si è quello che si sarà non meno di quello che si è
stati. L'arte è un simbolo, perchè l'uomo è un simbolo.

«Io non rimpiango un solo istante di aver vissuto per il piacere!»

Non i piaceri, il Piacere. Il Piacere, per quanto raro, è un fatto:
i piaceri, quantunque abbondanti e comuni, sono una ricerca e quasi
sempre vana.

Quando si riesce ad opporre al gigante Tædium l'esercito dei nani
piaceri, il gigante soffoca i nani con qualche gesto, e riprende la sua
posa stanca.

I moralisti non concepiscono la parola «Piacere» se non come un
richiamo agli appetiti più umili. Esaltano le idee di dovere, di
solidarietà, di sacrificio, mai l'idea di godere, di fare della
vita una luce, un infinito, un piacere. Secondo le loro abitudini
spirituali, un'idea simile è un'idea che offende e degrada. Una
filosofia del piacere! Ma significa mancare d'ideale.

Rispondiamo senza timore: il piacere può benissimo essere un ideale e
molto favorevole allo sviluppo e alla grandezza dell'umanità.

Dal Cristianesimo in quà gli uomini non si sono occupati del piacere
se non per condannarlo, e gli stessi poeti, così eloquenti sul dolore,
hanno trattato il piacere con un certo disdegno. In questi ultimi anni,
veramente, è avvenuta una reazione in favore della vita, e la gioia è
stata cantata con fervore religioso, troppo religioso forse, ma non con
tale famigliarità da far dimenticare la malinconia baudelairiana:

    Sois sage ô ma douleur et tiens toi plus tranquille.

Il dolore ha sempre ispirato poeti, moralisti, filosofi, e fatto dire,
ahimè, molte sciocchezze. La filosofia del piacere è ancora da farsi.
Ma il numero degli uomini che comprendono che il piacere è il migliore
impiego della vita, è molto aumentato. L'assurda metafisica tedesca, la
secca nozione del dovere astratto secondo Kant, ha fatto il suo tempo.
Si comincia a comprendere che il primo dovere dell'uomo è di godere.
Se no, perchè vivere? «Il mio dovere, diceva Wilde, è di terribilmente
godere».

E godette terribilmente, con passione, con violenza, quasi con delirio.
Ogni istante di vita era per lui un'offerta degli Dei. Non si può
immaginare nulla di più pagano, di più anticristiano. Riempì di lirismo
la sua vita fino all'orlo, come si riempie fino all'orlo una coppa di
vino.

Aveva il genio, un nome illustre, un'alta posizione sociale.
Pareva vivere con lo spirito di Apollo in una intimità profonda e
irradiata. Aveva fatto dell'arte una filosofia, e della filosofia
un'arte. I suoi scritti insegnavano un modo di pensare che stupiva,
seduceva, incantava, dando alle cose altri colori ed altri profumi,
avviluppandole di una veste di bellezza, mettendo una rosa ad ogni
chiave della viola e ad ogni corda un colore dell'iride.

Dava alla verità ora il vero e ora il mendace come imperi legittimi,
mostrando che il vero e il mendace sono semplici modi d'esistenza
intellettuale. Faceva della poesia una realtà suprema, della sua vita
una realizzazione poetica verso cui convergevano, come per incantesimo,
tutti i raggi della gloria mondana... Era deliziosamente chino verso
il sorriso. Salice e acqua insieme, un'acqua che diceva: «Ascoltatemi,
ascoltatemi!» e poi se n'andava, con un piccolo fremito, a fare dei glu
glu di narghilè in una qualche ironica Mongolia.

Favoleggiava:

«C'era una volta un uomo che la gente del villaggio amava, perchè
contava storie. Tutte le mattine egli usciva dal villaggio, e quando
vi rientrava alla sera, tutti i lavoratori del villaggio, dopo aver
travagliato tutto il giorno, gli si adunavano intorno e dicevano: «Via!
racconta: Che hai tu veduto oggi?». Egli raccontava: Ho veduto nella
foresta un fauno che suonava il flauto, e faceva ballare una corona di
piccoli silvani. — Racconta ancora. Che hai tu veduto? dicevano gli
uomini. — Quando sono arrivato sulla spiaggia del mare ho veduto tre
sirene a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro
verdi capelli. — E gli uomini lo amavano perchè contava storie.

Una mattina egli abbandonò come tutte le mattine il suo villaggio. Ma
quando arrivò alla spiaggia del mare, ecco che egli scorge tre sirene
a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro capelli
verdi. E continuando la sua passeggiata, egli vide, giunto presso il
bosco, un fauno che suonava il flauto a una corona di silvani...

Quella sera, quando egli rientrò nel suo villaggio e gli domandarono
come le altre sere: Via! racconta: che hai tu veduto? egli rispose: Non
ho veduto nulla».

Nell'atteggiamento di Oscar Wilde non si suole vedere generalmente che
un esasperato bisogno di stupire, d'irritare la curiosità del pubblico.
Egli stesso, conveniamone, invitava ad un giudizio così superficiale,
grazie alle spumeggianti qualità del suo spirito aristocratico, tutto
trine e gioielleria. Ma dietro il brillante fantasma del dandy, dietro
il gentleman prezioso, estremo, superlativo, ecco apparire il vero
personaggio di Wilde, il fascinante favoleggiatore, il prestigioso
datore di estasi, il Bugiardo, com'egli dice, il cui scopo è di sedurre
e d'incantare. Ed ecco che sotto il suo alito musicale l'albero
di Delfi rinfiora, e nella foresta si solleva il vento delle danze
silvane, e a fior delle onde appaiono le sirene...

«E la Società non sarà sola a bene accoglierlo, dice Wilde raccogliendo
in qualche parola l'essenza stessa della sua estetica. L'arte, evasa
dalla prigione del realismo, s'affretterà innanzi a lui e bacierà
le sue belle labbra menzognere, sapendo bene che lui solo possiede
il segreto delle sue manifestazioni — il segreto che la Verità è
assolutamente e interamente questione di stile. E la Vita, stanca
di ripetersi a profitto di Spencer, degli storici scientifici e dei
compilatori di statistiche, la Vita lo seguirà umilmente e cercherà
di riprodurre nella sua maniera semplice e inalterabile qualcuna delle
meraviglie ch'egli narra».

Tutte le regioni della sua sensibilità sono illuminate da questo
pensiero costante, interamente personale, coesistente alla virtù
adunatrice di verbi, onnipresente ad ogni manifestazione della sua
individualità fino talvolta ad acuirne il senso sottile. Per Wilde,
come per Platone, come per Fichte, il mondo reale non è che pura
concezione del nostro spirito, e le cose non sono che apparenze delle
nostre idee.

Egli andava nella vita esultante, recando nelle mani la sua anima sacra
di Poeta. Non era Giacinto che veniva a parlare delle rive del lago di
Tiberiade; era l'ombra di Orfeo vittoriosa degl'inferni.

Si esprimeva per apologhi, pensava in brevi significazioni narrative
bagnate di un'atmosfera magnetica che permetteva allo spirito un
prolungamento e una suggestione indefinita. E la voce era di una
musicalità fine e dolce, quasi un accompagnamento avviluppante la frase
elegante e perfetta. Parole speciose, silenzi enigmatici, suggestioni,
musiche...

E quando egli taceva, tutti lo ascoltavano ancora, commossi e
sorridenti, simili a quei marinai delle navi greche, ai quali la voce
insidiosa del mare recava il mormorio sommesso delle sirene.

Ma attraverso i più seducenti arabeschi dell'immaginazione e del
linguaggio, l'idea era sostenuta ad un'altezza paradossale e logica.
Una giuntura sottile e segreta fondeva strettamente l'emozione
dell'esteta e l'emozione dell'uomo; e il metallo sortiva puro, lo
stilista non aveva che da cesellarlo, gioiello d'arte e di vita, con
quella flessibilità intellettuale che può prendere tutte le maschere,
insinuarsi in tutti gli atteggiamenti, vivere insieme e volontariamente
vite diverse e contradittorie.

A questo punto della sua vita Oscar Wilde è completo; personifica la
propria vita e la propria leggenda assaporando la voluttà profonda
d'associare degli opposti. Il segreto meraviglioso della vita è suo.
Egli può veramente dirsi «re della vita»: _The King of the life._

Ma a questo punto comincia una fine e quasi impercettibile
deteriorizzazione progressiva. Il soffio del dionisiaco, moderato fin
qui come in un concerto il lirismo del solista è sottomesso al bisogno
preciso della misura, adesso si fa elemento dominante ed esasperante.
L'affermazione della Vita stessa nei suoi problemi più strani e più
ardui, la volontà di vita che sacrifica i suoi tipi più elevati a
beneficio del proprio carattere inestinguibile, quello insomma che
Nietzsche ha chiamato «dionisiaco», sale, si svolge, si diffonde, si
esalta.

Egli, giustificò Henri De Régnier, credeva vivere in Italia ai tempi
del Rinascimento o in Grecia ai tempi di Socrate...

Lo spaventoso amore ch'egli provava per la vita e per la bellezza della
vita, era come una virtù demoniaca che lo innalzava su tutti i culmini
e lo profondava in tutti i baratri. Sottili desiderî, voglie squisite,
volontà fosche, aberrazioni incredibili, un fervore epicureo da cui
s'alza fatidico e quasi rabido l'antico monito pagano: _coronemus nos
rosis, cras enim moriemus._

Per qualche tempo egli fu così il simbolo di un nuovo Edonismo e
andò nel mondo ebbro di arte, con la gola arsa di bellezza, con gli
occhi bruciati dalla sua visione, con la febbre di squisiti peccati
nel sangue, senza lasciar sfuggire un solo istante, cercando sempre
sensazioni nuove, sempre, sempre... Ma il ritmo del pathos travolge e
precipita. _Incipit tragœdia._

La sventura, come già il piacere, è opera deliberata e necessaria di
quel dover _terribilmente godere_.

«Io _dovevo_ andare innanzi: l'altra metà del giardino aveva anche i
suoi segreti _per me_». Ed egli fa di sè, della sua carne e della sua
anima, una belva intelligente e voluttuosa.

Gli amici lo descrivono nei tempi immediatamente anteriori alla
prigionìa, vagante per l'Europa e per l'Africa Settentrionale, in preda
a non so quale inquietudine.

Ad Algeri, narrò ad Andrè Gide uno degli ultimi suoi miti delicati e
sapienti; egli sfuggiva l'opera d'arte, non voleva più adorare se non
il sole; il sole detesta il pensiero, lo fa indietreggiare e rifugiarsi
nell'ombra, dall'Egitto alla Grecia, all'Italia, alla Francia, alla
Russia, alla Norvegia.

L'adorazione del sole era l'adorazione della vita, lirica adorazione
che si faceva via più feroce, terribile. Il Gide aggiunge: «Nietzsche
mi stupì meno più tardi, perchè avevo inteso Wilde dire: Non la
felicità! Sopratutto non la felicità. Il piacere! Bisogna voler sempre
il più tragico».

E volle il più tragico.

La storia è nota. Fu lui che intentò il processo contro il più illustre
dei suoi diffamatori, entrò quale accusatore in quella «Camera della
giustizia degli uomini...». Fu preso, tonduto, vestito di sacco,
ammanettato...

Pianse:

«A chi è in prigione, egli dice, le lagrime son parte della quotidiana
esperienza: un giorno in prigione senza pianto è un giorno in cui si ha
il cuore duro, non un giorno in cui si è felici».

Ma pur dal profondo dell'abisso egli si inebria delle bellezze che lo
attendono oltre la porta della prigione:

«Io ho uno strano desiderio delle grandi e semplici cose primeve,
come il mare, che m'è non meno materno della terra... Io tremo di
piacere quando penso che il giorno stesso in cui lascerò la prigione,
insieme il citiso e la glicine fioriranno nei giardini e ch'io vedrò
il vento agitare in mobile bellezza l'oro ondeggiante dell'uno, e far
che l'altro scuota la pallida porpora delle sue piume, così che tutta
l'aria sarà Arabia per me».

Come Gautier, egli è sempre uno di coloro _pour qui le monde visible
existe_. Pur nel profondo dell'abisso la sua anima rimane pagana e
s'inebria di piacere, anche se amaro e pieno di pianto. Quello di cui
arrossisce, non è quello che la Società gli rimprovera, il «Peccato»,
ma di essersi lasciato sorprendere per mancanza d'individualismo:

«Naturalmente, confessa Wilde, una volta che misi in moto le forze
della società, la società mi si pose contro e disse: Come! tu hai
vissuto fin quì sfidando le mie leggi, ed ora vieni ad invocar
protezione a queste stesse leggi? Esse ti saranno strettamente
applicate. Il risultato è ch'io sono in prigione».

Dalla prigione, egli scriveva a Robert Ross:

«Troppo lunga è stata la mia tragedia, passata è la sua crisi, meschina
la sua catastrofe; ed io sono convinto che quando saremo sul finire io
farò ritorno, come un ospite male accolto, nel mondo che mi rifiuta.
Sarò un _revenant_, come dicono i francesi, uno dal volto fatto macro
per lunga prigionia, affranto per lungo patire. Orribili sono i morti
quando si destano dalla loro tomba, ma più orribili i vivi che tornano
dalle tombe. Di tutto questo io ho piena coscienza.

Ben lo sapeva, egli che essendo in contatto con Ariel come artista,
dovette lottare con Calibano. E Calibano lo vinse. «Avevo un'anima, non
so cosa ne abbiano fatto», disse egli un giorno ad André Gide, con un
tentativo di riso che aveva il suono di un singhiozzo...

                                   *
                                  * *

«Ciò che il paradosso era per me nella sfera del pensiero — dice
Wilde nel _De profundis_ — la perversità lo divenne nel dominio della
passione».

Il «paradosso» non è altro, insomma, che una verità poco familiare e
che il tempo attenuerà in verità usuale e, forse, in luogo comune: il
nome che gl'imbecilli danno alla verità — diceva Jean Moréas, quando lo
accusavano d'esser paradossale.

Alcune «verità poco familiari» sono una fra le più notorie
caratteristiche dell'opera di Oscar Wilde. Frasi nette, lucide,
_boutades_ lanciate col piccolo colpo secco di una tabacchiera che si
richiude:

— Nessun delitto è volgare. Ma ogni volgarità è delitto. La volgarità è
la condotta degli altri.

— Si dovrebbe esser sempre un poco inverosimili.

— Esser prematuro, significa esser perfetto.

— Una verità cessa di esser vera quando più di uno crede in lei.

— Soltanto gli dei conoscono la morte. Apollo è scomparso. Ma Giacinto
il quale, secondo gli uomini, venne sgozzato da lui, vive ancora:
Nerone e Narciso son sempre con noi.

— La condizione della perfezione è la pigrizia. Lo scopo della
perfezione è la giovinezza.

— Evitate gli argomenti di non importa qual genere. Essi sono sempre
volgari e spesso convincenti.

E questa definizione delle donne:

— Sfingi senza segreto.

E questo aforisma in difesa dell'egoismo:

— Il mezzo sicuro di non conoscer nulla della vita, è quello di cercare
d'essere utile.

Wilde amava suscitare il riso, sorridendo; ma si compiaceva anche ad
una specie di emozione quasi ostile al riso, la cui qualità potrebbe
definirsi «opulenza», magnificenza, magistero di arte che ordisce la
trama con fila d'oro e la ricama con gemme.

Se non precisamente un classico del ridere, Wilde è un classico
di quell'_humour_ così particolare agl'inglesi, cui egli aggiunge
un sapore di decadenza singolarmente acconcio all'anima pagana che
l'invade e lo tormenta:

«Quando Gesù volle rientrare in Nazaret, egli narrava, Nazaret era
così cambiata che Gesù non riconobbe più la sua città. La Nazaret
ove egli aveva vissuto era piena di lamentazioni e di lagrime, questa
città era piena di risa e di canti. E Cristo, entrando in città, vide
degli schiavi carichi di fiori affrettarsi verso la scalea di una
casa di marmo bianco. Cristo entrò nella casa, e in fondo ad una sala
di diaspro, coricato sopra un giaciglio, vide un uomo i cui capelli
disfatti erano mischiati alle rose rosse e le cui labbra erano rosse di
vino.

Cristo si avvicinò a lui, gli toccò la spalla e gli disse: — Perchè
conduci questa vita? — L'uomo si volse, lo riconobbe e rispose: — Ero
lebbroso; tu m'hai guarito. Perchè condurrei un'altra vita?

Cristo uscì da quella casa. Ed ecco che nella strada vide una donna
il cui viso e le vesti erano dipinti, e i cui piedi erano calzati di
perle; e dietro di lei camminava un uomo il cui abito era di due colori
e i cui occhi si gravavano di desiderio. E Cristo si avvicinò all'uomo,
gli toccò la spalla e gli disse: — Perchè dunque segui questa donna e
la guardi così? — L'uomo si volse, lo riconobbe e rispose: — Ero cieco;
tu m'hai guarito. Che altro farei della mia vista?

E Cristo si avvicinò alla donna: — La strada che tu segui, le disse,
è quella del peccato; perchè seguirla? — La donna lo riconobbe e gli
disse ridendo: — La strada ch'io seguo è gradevole, e tu hai perdonato
tutti i miei peccati.

Allora Cristo sentì il suo cuore colmo di tristezza e volle abbandonare
questa città. Ma come ne usciva, vide infine, seduto sull'orlo dei
fossati della città, un giovine che piangeva. Cristo gli si appressò e
toccando le ciocche dei suoi capelli gli disse:

— Amico mio, perchè piangi?

Il giovine levò gli occhi, lo riconobbe e rispose: — Ero morto e tu
m'hai risuscitato; che altro farei della mia vita?»

Non è agevole cosa definire la qualità del riso di Wilde. È un ridere
leggero, un condurre di prato in prato relegante armento di delicate
«fumisteries», immaginate e dette su fumo di sigarette.

Di questo suo _humour_ personalissimo diamo esempio, in questa
raccolta, con la traduzione dei due deliziosi _etchings_ che seguono,
racconti di buffoneria, dove Wilde, come sempre, rimane serio.

                                                        G. VANNICOLA.



IL FANTASMA DI CANTERVILLE


I.

Quando il Ministro d'America, signor Hiram B. Otis, acquistò il
castello di Canterville, tutti dissero che faceva una sciocchezza,
poichè il castello era abitato dagli spiriti.

Lo stesso Lord Canterville, del resto, nella sua scrupolosa onestà,
discutendo le condizioni dell'acquisto, si era fatto un dovere di
avvertirne il signor Otis:

— Noi stessi, — aveva detto Lord Canterville, — non l'abbiamo più
abitato dall'epoca in cui la duchessa vedova di Belton svenne per lo
spavento, sentendo due mani di scheletro posarsi sulle sue spalle; nè
si rimise più in salute, dopo tale paura.

La cosa avvenne mentre ella stava vestendosi per il pranzo. Mi sento in
dovere di aggiungere, caro signore, che il fantasma fu veduto da molte
persone della famiglia ancora viventi, come pure del reverendo Augusto
Dampier, rettore della parrocchia e dottore aggregato del Real Collegio
di Belford. Dopo il tragico fatto accaduto alla duchessa, nessuna delle
nostre giovani domestiche volle più restare presso di noi, e molte
notti Lady Canterville non ha potuto dormire per i rumori misteriosi
che venivano dal corridoio e dalla biblioteca.

— Mylord, — aveva risposto il Ministro, — comprerò i mobili, compreso
il fantasma nell'inventario.

Io giungo da un paese moderno dove si può acquistare tutto ciò che
per denaro si può avere, e con i nostri giovani, vivaci e gagliardi,
che ne fanno di tutte nel vostro vecchio mondo, che rapiscono i vostri
attori migliori, le vostre prime donne migliori, sono sicuro che se vi
fosse ancora un vero fantasma in Europa, non si sarebbe fatto a meno
d'impadronirsene per metterlo in uno de' nostri pubblici musei, o farlo
passeggiare per le strade più frequentate come un fenomeno.

— Il fantasma esiste, — aveva ribattuto Lord Canterville sorridendo, —
sebbene non abbia ceduto alle offerte dei vostri impresari, anche fra
i più intraprendenti. Sono più di tre secoli che è conosciuto: risale
precisamente al 1574; non manca mai di mostrarsi quando deve avvenire
una morte nella famiglia.

— Bah! il dottore di casa non fa diversamente, Lord Canterville. Ma,
mio caro signore, un fantasma oggi non può più esistere ed io credo che
le leggi della natura non faranno eccezioni in favore dell'aristocrazia
inglese...

— Certamente voi siete molto positivi in America, — aveva risposto
lord Canterville, senza esser riuscito a capire l'ultima osservazione
del signor Otis. — Ma se vi piace di avere un fantasma in casa vostra,
tanto meglio: ricordatevi solamente che vi ho preavvisato.

Qualche settimana dopo, l'acquisto era concluso e sul finire della
stagione il ministro e la sua famiglia si stabilivano a Canterville. La
signora Otis, che da ragazza, col nome di signorina Lucrezia R. Tappen,
nella 52.ª strada Est, era stata una delle grandi bellezze di Nuova
York, era ancora un'avvenente donna di mezza età, dagli occhi superbi
ed il profilo regolarissimo.

Molte signore americane, quando sono lontane dal loro paese nativo,
prendono un aspetto di persone colpite da malattia cronica e si
immaginano che questa sia una forma di distinzione in Europa; ma la
signora Otis non era mai caduta in tale errore: essa aveva un'ottima
costituzione e una straordinaria esuberanza di vitalità.

Veramente inglese sotto ogni punto di vista, si sarebbe potuta portare
giustamente ad esempio per avvalorare la tesi che gli inglesi hanno
tutto in comune con gli americani, tranne la lingua.

Il suo primogenito, battezzato Washington dai suoi parenti in
un momento di patriottismo, ch'egli non cessava mai di deplorare
abbastanza, era un giovanotto biondo, ben fatto, che aveva posto la
sua candidatura alla carriera diplomatica dirigendo il _cotillon_
al circolo di Newport per tre stagioni di seguito, ed anche a Londra
passava per un ballerino di prima forza. La gardenia era l'unica sua
bellezza: tolto ciò, era perfettamente equilibrato.

La signora Virginia E. Otis era una giovanetta di quindici anni, svelta
e graziosa come una capinera, con una espressione di franchezza nei
suoi grandi occhi turchini. Era un'abile amazzone; cavalcando il suo
_poney_ aveva battuto in una corsa lord Bilton, facendo due volte il
giro del parco e giungendo prima per una lunghezza e mezzo in faccia
alla statua di Achille.

Ciò aveva provocato l'entusiasmo del giovane duca di Cheshire, che le
aveva proposto, seduta stante, di sposarla. E i tutori, di lui, la sera
stessa, avevano dovuto inviarlo a Loton tutto disperato.

Dopo Virginia venivano due gemelli, conosciuti ordinariamente sotto il
nome di Stelle e di Bande, due cari fanciulli che col degno ministro
formavano i soli veri repubblicani della famiglia.

Siccome la villa Canterville era a sette miglia da Ascot, la stazione
più vicina, il signor Otis, aveva telegrafato che si venisse a
prenderlo con la vettura scoperta.

Era una bella serata di luglio e l'aria era pregna dell'odore resinoso
dei pini; di quando in quando si sentiva cantare un uccello colla sua
voce più dolce o si vedeva fra le frasche e il folto la coda d'oro
brunito d'un fagiano.

Qua e là degli scoiattoli spiavano dall'alto delle querce: dei conigli
guardavano attraverso i cespugli o al disopra dei rialzi muscosi,
drizzando le loro bianche codine.

Appena entrarono nel viale del castello di Canterville il cielo si
oscurò improvvisamente, uno stormo di cornacchie passò silenzioso sopra
le loro teste, e prima del giungere all'abitazione grosse gocce di
pioggia cominciarono a cadere.

Furono ricevuti sugli scalini dell'ingresso da una vecchia donna
vestita di seta nera, con la cuffia e grembiale bianco: era la
signorina Umney, la governante che il signor Otis aveva acconsentito di
conservare al suo servizio per le vive insistenze di lady Canterville.

Mentre la famiglia scendeva dalla vettura, la signorina Umney fece un
profondo inchino e disse con l'accento strano del buon tempo antico:

— Ben venuti al castello di Canterville.

Tutti s'incamminarono dietro di lei, attraverso un bel vestibolo
in stile Tudor e giunsero nella biblioteca, una lunga e larga sala,
con un gran finestrone a vetri, dove il _the_ era pronto. Poi che si
furono sbarazzati degli indumenti di viaggio, si sedettero, e mentre
la governante preparava la colazione volsero lo sguardo intorno.
Ad un tratto lo sguardo della signora Otis cadde sopra una macchia
rosso scura del pavimento, precisamente accanto al caminetto, e senza
rendersi esatto conto di ciò che stava per dire, chiese alla signorina
Umney:

— Mi pare che sia stato versato qualche cosa in quel punto.

— Sì, signora, — rispose la governante. — Vi è stato versato del sangue.

— È indecente! — esclamò la signora Otis — Io non voglio macchie di
sangue nel salone: bisogna farle togliere al più presto...

La vecchia sorrise e a bassa voce, in aria di mistero, soggiunse:

— È il sangue di Eleonora di Canterville, che fu uccisa in quel
punto da suo marito, Sir Simone di Canterville, nel 1575. Sir Simone
le sopravvisse nove anni e disparve ad un tratto in circostanze
misteriose: il suo corpo non fu mai ritrovato: ma il suo spirito
continua ad abitare questa casa. La macchia di sangue non si è mai
potuta togliere... è impossibile.

— Tutte queste non sono che sciocchezze — esclamò Washington Otis. — Il
rimedio per smacchiare dell'incomparabile Pinkerton farà sparire tutto
in un batter d'occhio.

E prima che la governante terrorizzata potesse intervenire egli si era
posto in ginocchio e fregava il pavimento con un piccolo pezzo di una
sostanza che somigliava a cosmetico nero.

In pochi minuti la macchia era scomparsa, senza lasciar traccia.

— Sapevo bene che il Pinkerton avrebbe rimediato a tutto! — esclamò in
tono di trionfo, volgendo lo sguardo intorno sulla famiglia piena, di
ammirazione.

Ma aveva appena pronunziate queste parole che un lampo illuminò la
stanza scura e un rumore di tuono mise in agitazione tutti e in special
modo la signorina Umney, che svenne.

— Che brutta stagione, — disse con calma il ministro accendendo un
sigaro.

— Mio caro Hiram, — chiese la signora Otis — cosa potremo fare di una
donna che sviene così facilmente?

— Le daremo una multa sopra il suo salario e vedrete che non cadrà più
in deliqui!

La governante non tardò a riaversi; ma, ancora sconvolta, con voce
austera, avvertì la signora Otis ch'ella avrebbe avuto delle noie in
quella casa.

— Ho visto coi miei occhi cose tali da far rizzare i capelli sulla
testa ad un cristiano e per notti e notti non ho potuto chiudere occhio
per le cose terribili avvenute fra queste mura, — aggiunse essa.

Il signore e la signora Otis sorrisero ed affermarono vivamente che
essi non avevano affatto paura dei fantasmi. La vecchia governante,
dopo aver invocata la benedizione della Provvidenza sui suoi nuovi
padroni e domandato un aumento di salario, ritornò zoppicando nella sua
stanza.


II.

La tempesta imperversò tutta la notte. Il giorno dopo, quando
la famiglia scese per la colazione, la macchia sul pavimento era
riapparsa.

— Non credo che sia colpa dell'impareggiabile smacchiatore, — disse
Washington — perchè ne ho fatta la prova su ogni genere di macchia.
Deve essere stato il fantasma.

Quindi tornò a cancellare la macchia con qualche fregamento, ma questa
il giorno dopo riapparve, sebbene la biblioteca fosse stata ben chiusa
e la signora Otis ne avesse portata seco la chiave. Da quel momento
la famiglia cominciò ad interessarsi della cosa, ed il signor Otis fu
sul punto di credere di avere troppo teorizzato negando l'esistenza
del fantasma. Sua moglie espresse anzi l'intenzione di affiliarsi
alla Società spiritica ed egli preparò una lunga lettera ai signori
Myers e Podmore, autori del _Phantasms of the liviny_, spiegando loro
la persistenza delle macchie di sangue che derivavano da un delitto
commesso.

Quella notte ogni dubbio sulla esistenza oggettiva del fantasma si
dileguò.

La giornata era stata calda e il sole splendente: la famiglia aveva
approfittato del rinfrescare serotino per fare una passeggiata in
carrozza, e non rientrò in casa che alle nove per una leggera cena.

La conversazione non si aggirò affatto su fantasmi, cosicchè mancarono
le più elementari condizioni di attenzione e di impressione che
precedono così spesso i fenomeni spiritici. Parlarono, come seppi in
seguito dal signor Otis, semplicemente dell'immensa superiorità di
Janny Davenport su Sarah Bernhardt come attrice: delle difficoltà di
trovare del granturco verde, dei grappoli d'uva, della polenta anche
nelle migliori case inglesi: dell'importanza di Boston sull'espansione
dell'anima universale; dei vantaggi del sistema di registrare i bagagli
dei viaggiatori; e poi della dolcezza dell'accento nuowyorkese in
confronto di quello strascicato di Londra.

Non si fece allusione a niente di soprannaturale e neppure
indirettamente si parlò di Sir Simone di Canterville; alle ore undici
la famiglia andò a coricarsi.

Alle undici e mezzo tutti i lumi erano spenti. Qualche tempo dopo il
signor Otis fu svegliato da uno strano rumore nel corridoio davanti
alla sua camera; pareva un rumore di ferri agitati che si avvicinassero
sempre più. Egli si alzò subito, accese un fiammifero e guardò l'ora.
Era un'ora precisa. Calmissimo, si tastò il polso e non lo trovò
affatto agitato. Il rumore intanto continuava, accresciuto ora da
uno scalpiccìo ben distinto di passi. Allora il signor Otis infilò
le pantofole, prese dal cassetto della toletta una piccola bottiglia
di forma bislunga, aprì la porta, e vide in faccia appunto a lui,
sul pallido chiarore della luna, un vecchio dall'aspetto terribile.
Oli occhi sembravano accesi carboni; una capigliatura lunga e grigia
ricadeva a ciocche sulle spalle; i suoi abiti, di moda antica, erano
sporchi e stracciati, e dai suoi polsi e dal collo dei piedi pendevano
pesanti catene, attaccate a ceppi arrugginiti.

— Mio caro signore — disse il ministro, — vogliate avere almeno la
bontà di dare un po' d'olio alle vostre catene: io vi ho portato una
piccola bottiglia di _Tamnany-Soleil-Levant_. Si afferma che una sola
volta sia sufficiente e sull'etichetta vi sono molti certificati dei
più eminenti fra i nostri scienziati che ne fanno fede. La lascio qui
vicino ai candelieri e mi farò un piacere di procurarvene ancora, se lo
desiderate.

Dopo queste parole, il ministro degli Stati Uniti posò la boccetta
sopra una tavola di marmo, chiuse la porta e si rimise a letto.

Per qualche tempo il fantasma di Canterville restò immobile, stupito
dallo sdegno; poi, lanciando rabbiosamente la boccetta sul pavimento
incerato, fuggì attraverso il corridoio, mandando rantoli cavernosi e
spandendo una singolare luce verde. Ad onta di tutto questo, quando
arrivò allo scalone di quercia vide una porta aprirsi ad un tratto,
due piccole figure ammantate di bianco mostrarsi nel vano e un pesante
guanciale gli sfiorò la testa.

Evidentemente non vi era da indugiare, per cui, utilizzando come mezzo
di fuga la quarta dimensione dello spazio, svanì attraverso il muro, e
la casa ritornò nella calma.

Giunto in un piccolo locale segreto dell'ala sinistra del fabbricato,
si addossò ad un raggio di luna per riprender fiato e si mise a
riflettere onde rendersi conto della situazione.

Mai nella sua brillante carriera, che durava da trecento anni, era
stato così grossolanamente insultato. Si ricordò della duchessa vedova,
cui egli aveva provocato una crisi di paura, mentre si specchiava,
coperta di trine e di diamanti; ricordò le quattro fantesche, alle
quali aveva fatto venire le convulsioni isteriche solo col far loro dei
versacci fra le portiere di una delle camere dei forestieri: pensò al
rettore della parrocchia, a cui aveva spento la candela mentre usciva
dalla biblioteca e che da quel momento era stato uno dei clienti più
assidui di Sir William Gulle, martire di ogni genere di disordini
nervosi; gli ritornò alla mente la vecchia signora di Trémonillac che,
svegliandosi al mattino, aveva veduto nella poltrona innanzi al fuoco
uno scheletro intento a leggere ciò che essa aveva scritto, e da allora
aveva dovuto rimanere in letto sei mesi, per un attacco di febbre
cerebrale. Guarita, si era riconciliata con la chiesa ed aveva rotto
ogni relazione con quel terribile scettico di Voltaire. Si ricordò
pure di quella notte terribile nella quale quel briccone di Canterville
era stato trovato agonizzante nel suo abbigliatojo col fante di picche
cacciato in bocca, e aveva confessato che, per mezzo di quella stessa
carta, aveva rubato a Carlo Fox presso Crockford, la somma di diecimila
sterline: egli giurava che il fantasma gli aveva fatto ingoiare
quella carta da giuoco. Tutte le sue grandi imprese gli tornavano
alla mente. Vide sfilare nella sua memoria il cantoniere che si era
bruciato le cervella per aver visto una mano verde battere nel vetro
della finestra; e la bella lady Steelfield, che era stata obbligata di
portare al collo un nastro di velluto nero per nascondere il segno di
cinque dita, impresse come un ferro rovente sulla sua pelle bianca, e
che aveva finito per annegarsi nel laghetto del Viale del Re.

Pieno dell'egoistico entusiasmo del vero artista, il fantasma passò
nelle sua mente in rivista le parti più celebri da lui rappresentate, e
sorrise amaramente ricordando la sua ultima apparizione nella parte di
«Raben il Rosso o il lattante strangolato», il suo debutto in quello di
«Gibeone il Vampiro mago della landa di Bexley», e il furore che aveva
suscitato in una bella serata di giugno, giuocando alle bocce coi suoi
stessi ossi, sulla spianata del _lawn-tennis_.

E tutto ciò per giungere a quale resultato?

Dei miserabili americani moderni venivano ad offrirgli del grasso alla
marca del _Soleil-Levant_, e a gettargli sulla testa dei guanciali;
ciò era assolutamente intollerabile; nessun fantasma, secondo quando
la storia afferma, era stato mai trattato così. Bisognava prendere
una rivincita. Fino all'alba il fantasma rimase in atteggiamento di
profonda meditazione.


III.

L'indomani, quando la colazione riunì la famiglia Otis, si parlò assai
lungamente del fantasma. Il ministro degli Stati Uniti era naturalmente
un poco irritato perchè la sua offerta non era stata gradita.

— Non ho affatto intenzione di recare ingiuria al fantasma, — e
riconosco che, visto il lungo tempo del soggiorno nella casa, non è
stato gentile gettargli dei cuscini sulla testa...

Questa osservazione, tanto giusta, provocò da parte dei gemelli
un'esplosione di risa.

— Ma d'altra parte — riprese il signor Otis, — se persiste davvero a
non adoperare il grasso con la marca _Soleil-Levant_, bisognerà che
noi gli togliamo la sua catena; altrimenti sarà impossibile dormire con
tutto quel frastuono alla porta delle camere da letto.

Per un'intera settimana tutto fu calmo: la sola cosa che attirava un
po' d'attenzione era il riapparire continuo della macchia di sangue
sul pavimento della biblioteca. Era certamente un fatto strano, tanto
più che la porta veniva sempre chiusa a chiave la sera e venivano
chiuse pure le finestre. Con stupore fu anche osservato che la macchia
cambiava di colore frequentemente, come un camaleonte. Certe mattine
essa era rossa scura, quasi di un «rosso indiano»: altra volta era
vermiglia: poi dell'acceso colore della porpora e una volta, quando
discesero per fare la preghiera, secondo il rito della libera chiesa
episcopale riformata americana, si trovò la macchia di un bel verde
smeraldo.

Naturalmente, questi cambiamenti da caleidoscopio divertivano molto
tutti ed ogni sera si facevano scommesse sul colore che le macchie
avrebbero assunto il giorno dopo.

Soltanto la piccola Virginia non prendeva mai parte agli scherzi. Per
una ragione ignota, essa rimaneva sempre vivamente impressionata alla
vista della macchia di sangue ed era stata sul punto di piangere quando
era apparsa del colore verde smeraldo.

Il fantasma fece la sua seconda apparizione in una notte di domenica.

Poco dopo coricata, la famiglia fu d'un tratto posta in allarme da un
enorme fracasso che veniva dal vestibolo.

Scesero tutti subito e trovarono che una completa armatura si
era staccata dal suo posto ed era caduta sul pavimento. Vicino ad
essa, seduto sopra una poltrona dall'alta spalliera, il fantasma di
Canterville si fregava i ginocchi con un'espressione di vivo dolore
sul volto. I gemelli i quali si erano muniti della loro fionda,
gli lanciarono subito due pallottoline con la sicurezza di mira che
si può acquistare solo a forza di lunghi e pazienti esercizi fatti
sopra il professore di calligrafia. Frattanto il ministro degli Stati
Uniti puntava sul fantasma la sua rivoltella e secondo la usanza dei
Californiesi, gli intimava di alzare in aria le braccia. Il fantasma
si levò bruscamente, mandando un grido di selvaggio furore e svanì come
nebbia, spegnendo la candela di Washington Otis e lasciando tutti nella
più completa oscurità.

Giunto in cima alle scale riprese possesso di sè e si decise a
lanciare il suo scoppio di risa satanico, che in mille occasioni aveva
sperimentato essere un procedimento di effetto sicuro.

Si racconta che ciò aveva fatto diventare grigia in una sola notte
la parrucca di Lord Naker. Certo bastò a decidere le tre governanti
francesi a dare le loro dimissioni prima di finire il primo mese di
servizio.

Ricordando questo lanciò dunque la sua orribile risata, svegliando ad
una ad una tutte le eco delle antiche volte: ma appena le terribili
risonanze si dispersero, una porta si aprì e apparve in veste da camera
celeste la signora Otis.

— Temo, — disse ella — che siate indisposto e vi porto una boccetta con
tintura del dottore Bobell: se si tratta d'indigestione vi farà molto
bene...

Il fantasma la guardò con due occhi fiammeggianti di furore e si
accinse a cambiarsi in un grosso cane nero: questo era il tiro che gli
era valso molta meritata reputazione ed a cui il medico di famiglia
aveva sempre attribuito l'idiotismo incurabile dello zio di Lord
Canterville, l'onorevole Tommaso Horton. Però, un rumore di passi che
gli si avvicinavano gli fece cambiare idea e si contentò di farsi
leggermente fosforescente, indi svanì, dopo avere emesso un gemito
sepolcrale, proprio mentre i due gemelli stavano per raggiungerlo.

Rientrato nel suo rifugio si sentì finito: egli era in preda alla più
violenta agitazione.

La volgarità dei due gemelli e il materialismo della signora Otis erano
certamente irritanti; ma ciò che l'umiliava di più, era di non aver
potuto reggere l'armatura di ferro.

Aveva pensato d'impressionare anche quegli americani moderni, di farli
tremare alla vista d'uno spettro corazzato, almeno per deferenza al
loro poeta nazionale Longfellow, l'autore dello «Scheletro nella sua
corrazza», di cui le poesie graziose e interessanti l'avevano spesso
aiutato a passare il tempo che i Canterville trascorrevano a Londra.

Quella, poi, era la sua armatura; egli l'aveva portata con gran
successo al torneo di Kentworth e ne era stato complimentato dalla
Vergine Regina.

Ma quando ora aveva voluto indossarla nuovamente, era quasi rimasto
schiacciato dal peso enorme della corazza e dall'elmo d'acciaio, ed era
caduto pesantemente sul pavimento, scorticandosi crudelmente i ginocchi
e lussandosi il polso destro.

Per vari giorni rimase ammalato e fece appena qualche passo; ma a forza
di cure finì per rimettersi e si decise a tentare un terzo espediente
per spaventare il ministro degli Stati Uniti e la sua famiglia.

Scelse per il suo nuovo debutto il venerdì 17 agosto e consacrò una
gran parte della giornata a rivedere il suo costume.

La sua scelta si posò sopra un cappello a falde rialzato da una parte
e abbassato dall'altra con una penna rossa: un manto sfilacciato alle
maniche e al colletto, e infine un pugnale arrugginito.

Verso sera scoppiò un violento temporale: il vento era così forte che
scuoteva tutto il castello e faceva sbattere le porte e le finestre
della vecchia dimora: era proprio il tempo che ci voleva.

Ecco quello che egli aveva in mente di fare: sarebbe entrato senza far
rumore nella camera di Washington Otis, gli avrebbe sussurrato alcune
parole tenendosi ai piedi del letto e gli avrebbe piantato tre volte il
suo pugnale nella gola al suono tenue di una melodia.

Egli sentiva un odio speciale contro Washington, perchè sapeva
perfettamente che era lui che aveva l'abitudine costante di pulire la
famosa macchia di sangue di Canterville, con l'aiuto dello smacchiatore
incomparabile di Pinkerton.

Dopo aver ridotto in un profondo stato di terrore lo spensierato
giovane, sarebbe entrato nella camera del ministro degli Stati Uniti
e di sua moglie, e allora avrebbe posato la mano viscida sulla fronte
della signora Otis, e con voce sorda avrebbe mormorato agli orecchi di
suo marito tremante i terribili segreti del Carnaio.

Contro la piccola Virginia non aveva stabilito ancora niente: ella non
l'aveva mai insultato ed era tanto bella, tanto buona!

Qualche grugnito che partisse dall'armadio gli sembrava sufficiente e,
se non giungeva a svegliarla, sarebbe arrivato a tirare la coperta con
le sue dita tremolanti di paralisi.

Quanto ai gemelli, era risoluto a dar loro una buona lezione: per prima
cosa si sarebbe seduto su di loro in modo da produrre l'effetto della
soffocazione in sogno: indi, profittando della vicinanza dei loro
letti, si sarebbe rizzato sullo spazio libero, con l'aspetto di un
cadavere verde, freddo come il ghiaccio, finchè non fossero paralizzati
dal terrore. Poi, gettato via il suo sudario, avrebbe fatto a quattro
zampe il giro della stanza sotto forma di scheletro tutto bianco,
rotando uno degli occhi nella sua orbita, in modo da rappresentare il
«Daniele muto, o lo scheletro del suicida», parte nella quale in mille
circostanze aveva suscitato grande effetto. Si riteneva ugualmente
abile in questa parte, come in quella di «Martino il pazzo o il mistero
mascherato». Alle dieci e mezzo sentì la famiglia che saliva per
coricarsi.

Per qualche momento fu disturbato dai sonori scoppi di risa dei
gemelli, che, evidentemente, con la loro pazza gioia di scolaretti
giocavano prima di mettersi a letto.

Ma alle undici e un quarto tutto era tornato in silenzio e quando suonò
mezzanotte, egli si avviò a compiere la sua vendetta.

La civetta volava contro i vetri della finestra; il corvo urlava nella
spaccatura d'un vecchio tasso e il vento gemeva, errando intorno alla
casa come un'anima in pena; ma la famiglia Otis dormiva tranquilla,
senza neppure sospettare la sorte che l'attendeva.

Il fantasma sentiva perfettamente il russare regolare del ministro
degli Stati Uniti, che dominava il rumore della tempesta.

Scivolò allora lungo il muro. Un sorriso cattivo increspava la sua
bocca crudele, e la luna nascose la sua faccia dietro una nuvola,
quando egli passò davanti alla apertura ogivale ove erano impresse
in turchino e oro le sue armi e quelle della sua moglie assassinata.
Camminava sempre come un'ombra funesta e pareva quasi che facesse
retrocedere le tenebre stesse sul suo passaggio.

Ad un certo punto credette sentire una voce che chiamasse. Si fermò;
era invece un cane che abbaiava.

Si rimise in cammino, mormorando strani giuramenti del sedicesimo
secolo e brandendo di quando in quando nella brezza di mezzanotte, il
pugnale arrugginito.

Arrivato finalmente all'angolo del corridoio che conduceva alla camera
dell'infelice Washington, si arrestò.

Il vento agitava intorno alla sua testa le lunghe ciocche di capelli
grigi, e faceva svolazzare, in pieghe grottesche e fantastiche,
l'orrido sudario che recava addosso.

L'orologio suonò il quarto ed egli comprese che il momento era giunto.
Fece a se stesso un ghigno e svoltò l'angolo; ma aveva appena fatto un
passo che indietreggiò emettendo un gemito di terrore.

Dinanzi a lui si ergeva un orribile spettro, immobile come una statua,
mostruoso come il sogno d'un pazzo.

La testa dello spettro era calva e rilucente, la faccia rotonda,
grassotta e bianca.

Un riso orribile sembrava averne deformato i tratti in una smorfia
eterna; dagli occhi usciva a fasci una luce rossa scarlatta. La bocca
pareva un gran pozzo di fuoco, e un vestito orrido come quello di
Simone stesso, drappeggiava il suo corpo dalle forme titaniche.

Sul petto era fissato un foglio con una iscrizione in caratteri strani,
antichi; era forse un'epigrafe infamante, dov'erano iscritti tremendi
delitti, una terribile lista di misfatti.

Finalmente nella mano destra teneva una scimitarra di acciaio
luccicante.

Non avendo egli veduto fino a quel giorno fantasmi, provò naturalmente
una paura terribile e, dopo aver gettato fuggivamente un secondo
sguardo sull'orrido spettro, ritornò alla sua camera a grandi passi,
inciampando nei lenzuoli in cui era avviluppato.

Percorse correndo il corridoio e finì per lasciarsi cader di mano il
pugnale arrugginito sugli stivali alla scudiera del ministro, nei quali
stivali venne ritrovato l'indomani dal cameriere.

Rientrato nel suo recondito asilo, si lasciò abbattere su di un piccolo
lettuccio e nascose il viso fra le lenzuola.

Ma dopo un momento il coraggio indomabile dei Canterville d'altro
tempo, si ridestò in lui, ed egli prese la risoluzione di andare a
parlare all'altro fantasma, spuntato il giorno.

Per cui, appena l'alba ebbe illuminate le colline, ritornò al posto
dove aveva visto per la prima volta l'orrido fantasma.

Diceva a se stesso che alla fine due fantasmi valevano più di
uno, e con l'aiuto del suo nuovo amico avrebbe potuto combattere
vittoriosamente contro i due gemelli.

Ma quando fu giunto, si trovò in presenza di uno spettacolo terribile.

Certamente doveva essere accaduto qualche cosa allo spettro, perchè
la luce era completamente sparita dalle sue orbita; la scimitarra
luccicante era caduta dalla sua mano ed egli si teneva appoggiato
al muro in un atteggiamento incomodo... Si slanciò in avanti e lo
prese fra le sue braccia; ma quale fu il suo orrore, vedendo la testa
distaccarsi e ruzzolare per terra, il corpo prendere la posizione di
coricato.

Allora s'accorse di stringere una tenda di grossa tela bianca e che un
manico di granata, un coltello di cucina e una zucca vuota, giacevano
ai suoi piedi.

Non comprendendo nulla di questa curiosa trasformazione, prese con mano
febbrile lo scritto e vi lesse, alla luce grigia del mattino, queste
parole terribili:

                         ECCO IL FANTASMA OTIS
                   IL SOLO VERO E AUTENTICO SPIRITO.
                      DIFFIDARE DELLE IMITAZIONI.
                  TUTTI GLI ALTRI SONO CONTRAFFAZIONI.

Tutta la verità gli apparve improvvisamente; egli era stato burlato,
mistificato, ingannato...

L'espressione che caratterizzava lo sguardo del vecchio di Canterville,
riapparve nei suoi occhi; serrò le sue mandibole sdentate e alzando le
mani corrose sopra la testa, giurò secondo la formula pittoresca della
scuola antica, che quando Chanteclair avesse suonato due volte il suo
allegro appello di cornetta, sarebbero avvenuti fatti sanguinosi, e che
l'assassino dal piede silenzioso sarebbe uscito dal suo ricovero.

Aveva appena finito di fare questo tremendo giuramento, che da un
cascinale lontano, dal tetto di tegoli rossi, partì il canto di un
gallo.

Il fantasma emise un riso prolungato, lento, amaro ed attese.

Attese un'ora, poi un'altra, ma non si sa per quali misteriose ragioni,
il gallo non cantò più.

Finalmente, verso le sette e mezzo, l'arrivo delle cameriere lo
costrinse a lasciare la sua fazione.

Rientrò nel suo asilo con fiero passo, pensando al suo inutile
giuramento ed al suo inutile e mancato progetto.

Quando vi giunse, consultò varie opere dell'antica cavalleria, la cui
lettura l'interessava enormemente, e vi lesse che Chanteclair aveva
sempre cantato due volte quando si era ricorso a quel giuramento.

— Che il diavolo porti via questo stupidissimo animale — mormorò egli.
Nel tempo passato sarei corso su lui con la mia buona lancia e gli
avrei passato la gola e l'avrei forzato a cantare un'altra volta per
me, avesse anche dovuto crepare...

Ciò detto, si ritirò in una comoda bara di piombo e vi rimase sino alla
sera.


IV.

Il giorno seguente il fantasma si sentiva debole e stanchissimo: le
terribili agitazioni delle ultime quattro settimane, cominciavano a
produrre su di lui il loro effetto.

Il suo sistema nervoso era completamente disordinato, e il minimo
rumore bastava a farlo trasalire.

Non uscì più dalla sua camera per cinque giorni e finì col decidersi di
non più curarsi della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca.

Dal momento che la famiglia Otis non la voleva, significava che non la
meritava; questo era chiaro.

Quella gente apparteneva evidentemente ad una razza inferiore, incapace
di apprezzare il valore simbolico di fenomeni sensibili.

Le apparizioni dei fantasmi, lo sviluppo di astrali, tuttociò era per
essi incomprensibile, non alla portata delle loro intelligenze.

Rimaneva quindi suo stretto dovere farsi vedere nel corridoio una volta
la settimana, e di gesticolare dalla finestra ogivale, il primo e il
terzo mercoledì d'ogni mese: non trovava nessuna ragione plausibile per
sottrarsi a tale obbligo.

In verità, la sua vita era stata molto colpevole, ma però egli era
coscienziosissimo in tutto quello che riguardava il soprannaturale; e
così i tre sabati successivi traversò, come al solito, il corridoio,
fra mezzanotte e le tre del mattino, prendendo tutte le possibili
precauzioni per non essere veduto nè sentito.

Si levava gli stivali, camminava il più leggermente che gli fosse
possibile sopra le vecchie tavole tarlate, s'involtava in un grande
mantello di velluto nero e non dimenticava di ungere col grasso _Soleil
Levant_ le sue catene.

Solo dopo lunghe esitazioni egli si era deciso ad adottare questo mezzo
di protezione.

Una sera, mentre la famiglia pranzava, egli si era insinuato nella
camera da letto della signora Otis e ne aveva rubato una boccetta.

Al primo momento si era sentito umiliato, ma poi aveva dovuto
persuadersi che quella invenzione meritava i maggiori elogi e che
cooperava in un certo modo a favorire i suoi piani.

Non trascuravano frattanto gli Otis di mettere attraverso il corridoio
delle corde perchè egli potesse inciampare, nel buio, e una volta
infatti, dopo che egli si era vestito per la parte di «Isacco il Nero
o il Cacciatore del bosco di Hogsbery», era caduto per aver messo il
piede sopra delle tavole insaponate, poste dai due gemelli sulla soglia
della camera delle tappezzerie ed al principio della scala di quercia.

Quest'ultimo affronto lo mise in furore tale che risolvette di fare
uno sforzo supremo per imporre la sua dignità e riaffermare la sua
posizione sociale.

Si decise quindi di far visita la notte seguente agli insolenti giovani
Etoniani nella sua celebre parte di «Ruperto il Temerario o il Conte
senza testa».

Non si era più mostrato da settanta anni sotto tale travestimento,
e cioè dalla volta in cui aveva fatto una tal paura a lady Barbara
Modish, che essa aveva ritirata la sua promessa di matrimonio al nonno
dell'attuale lord Canterville, ed era fuggita a Gretna-Green con il
bel Giacomo Casteltown, giurando che per nessuna cosa al mondo avrebbe
più consentito di allearsi ad una famiglia che tollerava ad un orribile
fantasma di passeggiare al crepuscolo sulla terrazza del castello.

Il povero Giacomo era stato in seguito ucciso in duello da lord
Canterville sul prato di Wandsworth, e lady Barbara era morta di dolore
a Tunbridge Wells, prima della fine dell'anno.

Il suo successo non avrebbe quindi potuto essere più bello e più
completo.

Se mi è permesso di usare un termine teatrale parlando di uno dei
più grandi misteri del mondo soprannaturale, o un termine scientifico
parlando del mondo superiore alla natura, devo dire che era una delle
sue creazioni più difficili. Gli occorsero tre ore buone per terminare
i preparativi.

Gli stivaloni alla scudiera, facenti parte del costume, erano invero
un po' troppo larghi per lui e delle pistole da arcione non riuscì a
trovarne che una; ma insomma fu soddisfattissimo e alle una e un quarto
passò attraverso il muro e scese nel corridoio.

Giunto presso la camera occupata dai gemelli, che io chiamerò la camera
turchina dal colore delle tappezzerie, trovò la porta socchiusa.

Per fare un'entrata di grande effetto, spinse con forza l'uscio, e
stava per entrare, quando una pesante brocca piena d'acqua si rovesciò
su di lui, inzuppandolo fin dentro le ossa; nello stesso tempo scoppi
di risa soffocate partirono dal letto su cui sovrastava un grande
baldacchino.

Il suo sistema nervoso ne rimase così vivamente scosso, ch'egli rientrò
ne' suoi appartamenti a gambe levate e l'indomani dovè rimanere a letto
per un forte raffreddore.

La sola consolazione che provò, fu di non aver portato seco la sua
testa, perchè in tal caso le conseguenze sarebbero state assai più
gravi.

Dimessa ormai ogni speranza di poter terrorizzare quella terribile
famiglia americana, si limitò allora a percorrere il corridoio con
scarpe di corda, col collo avvolto in una grossa cravatta, per timore
delle correnti d'aria e munito sempre di un piccolo archibugio in caso
di attacco da parte dei gemelli.

Il diciannove settembre ebbe il colpo di grazia.

Egli era disceso per la scala, fin nel vestibolo, sicuro che almeno
in quel luogo non sarebbe stato tormentato, e si divertiva a fare
delle osservazioni satiriche sopra le fotografie del ministro degli
Stati Uniti e di sua moglie, fotografie che avevano preso il posto dei
ritratti della famiglia dei Canterville.

Indossava un costume semplicissimo, ma decente, un lungo sudario
cosparso di musco di cimitero, e teneva in mano una piccola lanterna
e una vanga da becchino, alla guisa di «Giovanni il dissoterrato o il
ladro di cadaveri di Chertsey Barw», una delle parti più famose, di cui
i Canterville avevano ragione di ricordarsi maggiormente, perchè era
stata la vera causa della loro querela col vicino lord Rufford.

E, così travestito, circa le due del mattino, si dirigeva
tranquillamente verso la biblioteca, per vedere ciò che ancora rimaneva
della macchia di sangue, quando a un tratto vide balzare contro di lui,
da un angolo scuro, due figurine che agitavano follemente le braccia
sopra la loro testa e gli gridavano negli occhi:

— Buum!

Preso da panico, — il che era naturale in quella circostanza, — si
precipitò allora verso la scala, ma subito fu arrestato dalla vista di
Washington Otis che lo attendeva armato di un grande annaffiatoio da
giardino; circondato da ogni parte da nemici, e ridotto agli estremi,
non gli rimaneva che dileguarsi nella grande stufa di ghisa che, per
fortuna, non era accesa, e così fece, aprendosi un passaggio fino al
suo ritiro, attraverso i tubi e le cappe dei camini.

Vi giunse in uno stato di compassionevole disperazione; e da quel
momento non lo si rivide più in spedizione notturna.

I due gemelli si misero mille volte in agguato, onde sorprenderlo;
seminarono nel corridoio gusci di noce tutte le sere con grande noia
dei loro genitori e dei domestici, ma tutto invano.

L'amor proprio del fantasma era così profondamente ferito ch'egli non
volle più farsi vedere. Dato ciò, il signor Otis, si rimise a lavorare
alla sua grande opera sulla storia del partito democratico, opera cui
accudiva da oltre tre anni.

La signora Otis, da parte sua, organizzò uno straordinario manicaretto
americano, il _clan-cake_, che fece epoca in tutto il paese; i
ragazzi si dettero al gioco dell'_écarté_, del _poker_ ed altri svaghi
americani; e Virginia cominciò a fare lunghe passeggiate a cavallo per
i boschi in compagnia del giovane duca di Creshire, venuto a passare
l'ultima settimana di vacanze a Canterville.

Tutti ormai ritenevano che il fantasma fosse scomparso ed anzi
il ministro scrisse a lord Canterville una lettera per informarlo
della cosa, e ricevette in risposta un'altra lettera dove questo
gli esprimeva tutto il piacere che gli aveva procurato tale notizia
e mandava le sue più sincere felicitazioni alla degna consorte del
ministro.

Ma gli Otis s'ingannavano.

Il fantasma era sempre nella casa, e, benchè ridotto male, non si
sentiva affatto disposto a farla finita, ora sopratutto che sapeva
trovarsi nel numero degli ospiti il giovane duca di Cheshire, un
prozio del quale, lord Francesco Silton, aveva una volta scommesso col
colonnello Carbury di giuocare ai dadi col fantasma di Canterville
e l'indomani era stato trovato sul pavimento della sala da giuoco,
paralizzato.

L'infelice, malgrado fosse vissuto ancora molti anni, non aveva mai più
pronunziato altra frase che questa:

— Doppio sei!

La storia era molto nota a suo tempo, benchè, in riguardo ai sentimenti
che univano le due nobili famiglie, si fosse fatto di tutto per
metterla in tacere: anzi, un racconto particolareggiato di essa, si
trova nel terzo volume delle «Memorie di lord Tattle sul principe
reggente ed i suoi amici».

Il fantasma desiderava dunque di provare ch'egli non aveva perduta la
sua influenza sui Silton, coi quali del resto era parente per alleanza,
avendo una sua cugina germana sposato in seconde nozze il signor di
Bulkeley, del quale erano discesi, com'è noto, in linea diretta i duchi
di Cheshire.

Fece quindi i suoi preparativi per mostrarsi al piccolo innamorato
di Virginia, nella famosa parte del «Monaco Vampiro, o il Benedettino
svenato».

Si trattava di uno spettacolo terribile: infatti la vecchia lady
Startuy, quando l'aveva veduto rappresentare, alla vigilia del nuovo
anno 1764, si era messa ad urlare perdutamente ed aveva finito per
esser colta da un violento attacco di apoplessia, per cui era morta in
capo a tre giorni, dopo aver diseredato i Canterville e lasciato tutto
il patrimonio al suo farmacista di Londra.

Ma, all'ultimo momento, il terrore che gli incutevano i due gemelli,
gli impedì di uscire dalla sua stanza, e per quella notte il piccolo
duca dormì tranquillo nel gran letto a baldacchino, coperto di piume,
sognando Virginia.


V.

Pochi giorni dopo, Virginia e il suo innamorato dai capelli ricciuti
si recarono a fare una passeggiata a cavallo nei prati di Brockley,
e Virginia si produsse nel saltare una siepe un tale strappo alla
sua Amazzone, che, rientrando in casa, pensò di prendere la scala
posteriore per non essere veduta.

Mentre passava correndo davanti alla camera delle tappezzerie, la
cui porta era aperta, credette vedervi qualcuno e, persuasa che
fosse la cameriera di sua madre, la quale era solita ritirarsi ivi a
lavorare, si arrestò per pregarla di raccomodare il suo abito; ma, con
grande sorpresa, si avvide di trovarsi invece davanti al fantasma di
Canterville in persona.

Stava questi seduto presso la finestra a contemplare gli alberi che
ingiallivano e le foglie arrossate, svolazzanti nel grande viale.

Aveva la testa appoggiata alla mano, e tutto il suo atteggiamento
rivelava una profonda desolazione.

Il poveretto era così abbattuto, così demolito, che la piccola
Virginia, anzichè cedere ad un istintivo sentimento di paura e correre
a chiudersi nella sua camera, fu presa da compassione e volle provarsi
a consolarlo. Si avvicinò a lui in punta di piedi, così lievemente, che
egli sprofondato nella sua tristezza, non si accorse della sua presenza
se non quando la fanciulla gli volse la parola.

— Sono addolorata per voi, — disse; — ma i miei fratelli torneranno
domani a Eton; se dunque vi condurrete bene, nessuno vi tormenterà più.

— È assurdo domandare di condurmi bene, — rispose il fantasma,
guardando con aria stupita la fanciulla che aveva avuto il coraggio di
rivolgergli la parola. — È assolutamente assurdo, bisogna che scuota
le mie catene, che grugnisca dai buchi delle serrature, che cammini
la notte, che faccia tutto ciò che voi chiamate condursi male.... È
l'unica mia ragione di essere.

— Non è affatto una buona ragione di essere; e siete stato ben cattivo,
sapete! Mistress Umney ci ha detto, lo stesso giorno del nostro arrivo,
che avete ucciso vostra moglie.

— Sì, ne convengo, — rispose storditamente il fantasma, — ma fu un
affare di famiglia e non riguarda che me.

— È sempre un delitto ammazzare una persona, — sentenziò Virginia che
prendeva alle volte una graziosa piccola aria di gravità puritana,
ereditata certo da qualche avo venuto dalla Nuova Inghilterra.

— Oh, io non posso soffrire la moralità a parole.... Mia moglie era
molto brutta, non stirava mai convenientemente i miei polsini e non
s'intendeva affatto di cucina. Ascoltate: un giorno avevo ucciso
un magnifico cervo maschio di due anni nei boschi di Hogley; non
indovinereste mai come lo cucinò!.... Ma lasciamo questo tema: è affare
finito, ormai, e trovo che non fu giusto da parte dei suoi fratelli
farmi morire di fame perchè l'avevo uccisa.

— Farvi morire di fame?... Oh! Signor fantasma.... signor Simone,
volevo dire, avreste per caso ancora fame? Ho un sandwich nel mio
cestino.... vi piace?

— No, grazie, ora non mangio più; ma è molto gentile da parte vostra
l'offerta. Voi siete più cortese di tutti gli altri della vostra
famiglia, ch'è volgare, rozza, disonesta....

— Basta! — gridò Virginia battendo il piede. — Siete voi ora rozzo,
villano e volgare! quanto a disonestà, voi sapete bene di aver rubato
i colori della mia scatola per rifare quella ridicola macchia di
sangue nella biblioteca. Avete cominciato col prendermi tutti i rossi,
compreso il vermiglione, di modo che mi è impossibile ora dipingere i
tramonti. Poi avete preso il verde smeraldo e il giallo; infine non mi
è restato altro che l'indaco e il bianco di Cina. Non ho potuto più
dipingere che chiari di luna, i quali fanno sempre pietà a vederli
e sono difficili a dipingersi. Non ho mai detto nulla contro di voi,
benchè sia stata molto seccata e tutto questo per una cosa ridicola. Si
è mai visto del sangue verde smeraldo?

— Vediamo, — disse il fantasma molto cortesemente, — come potevo
io fare? È difficile al giorno d'oggi procurarsi del vero sangue, e
poichè vostro fratello adoperava lo smacchiatore incomparabile, non
vedo perchè non avrei dovuto impiegare i vostri colori per resistere
a quello. Quanto alla tinta, è questione di gusto: così i Canterville,
per esempio, sono del sangue più turchino che vi sia in Inghilterra....
Ma so che voialtri americani non tenete conto di queste cose....

— Che ne sapete voi? quello che potete fare di meglio ormai è di
emigrare: ciò vi formerà lo spirito.

Mio padre sarà ben contento di farvi dare un biglietto gratuito e,
benchè vi siano dei diritti di dazio molto alti per tutti gli spiriti,
non vi saranno fatte difficoltà alla dogana; tutti gli impiegati sono
democratici. Giunto a New York, voi potreste avere un grande successo:
conosco molta gente che darebbe centomila dollari per avere un avo e
che darebbe assai di più per avere un fantasma in famiglia.

— Io, invece, sono persuaso, che non mi troverei bene in America.

— Forse perchè non abbiamo delle rovine, delle cose strane? — chiese
ironicamente Virginia.

— Non avete rovine! Non cose strane! Ma avete bene la vostra marina e i
vostri modi.

— Buona sera, vado a chiedere a mio padre di accordare una settimana di
più di vacanze ai miei due fratelli gemelli.

— Vi prego, miss Virginia, non ve ne andate, sono così solo, così
infelice.... non so più come tirare avanti; vorrei andare a coricarmi e
non lo posso.

— E perchè no? Non avete che a mettervi a letto e spegnere il lume.
Spesso è difficile restare svegli, specialmente in chiesa; ma non è
difficile affatto dormire.

— Sono trecento anni che non posso dormire!

Questa triste esclamazione fece sgranare i begli occhi celesti di
Virginia.

— Sono trecento anni che non dormo e mi sento tanto, tanto stanco!
— ripetè il fantasma. Virginia divenne grave e le sue labbra fini si
agitarono come petali di rosa. Si avvicinò, s'inginocchiò accanto a lui
e ne contemplò la figura vecchia e grinzosa.

— Povero, povero fantasma, — mormorò; — non vi è dunque un posto dove
possiate dormire?

— Sì, ma lontano, al di là del bosco di pini, rispose egli con un fil
di voce, come in sogno. Vi è un piccolo giardino, dove l'erba cresce
alta e rigogliosa; colà si vedono le grandi stelle bianche della
cicuta; là l'usignolo canta tutta la notte; tutta la notte canta, e la
luna di cristallo opaco guarda, e il salcio stende le sue gigantesche
braccia sopra i dormienti.

Gli occhi di Virginia si velarono di lacrime; dovè nascondere la faccia
nelle mani.

— Voi intendete parlare del Giardino della Morte, — mormorò essa.

— Sì, della Morte. Deve essere così bello riposare nella molle scura
terra, mentre le erbe ondeggiano sulla propria testa e ascoltare il
silenzio! Non aver più nè ieri, nè domani; scordare il tempo e la vita;
esistere nella pace eterna! Voi potreste aiutarmi, potreste aprirmi,
spalancarmi le porte della morte, perchè l'amore vi accompagna sempre;
l'amore è più forte della morte.

Virginia tremò; un fremito ghiacciato percorse il suo corpo; per
qualche istante regnò nella stanza un profondo silenzio. Le sembrò di
fare un terribile sogno.

Allora il fantasma riprese la parola, con una voce che sembrava il
sospiro del vento:

— Avete mai letta la vecchia profezia scritta sui vetri della
biblioteca?

— Oh! spesso. La conosco a memoria; essa è dipinta con lettere strane,
dorate, difficili a leggersi; non sono che sei versi:

«Quando una bionda giovinetta saprà richiamare sulle labbra del
peccatore la preghiera; quando il mandorlo sterile fiorirà e un
fanciulla piangerà, allora in tutta la casa ritornerà la calma, e la
pace rientrerà in Canterville...».

Ma non so che significhi....

— Significa che voi dovete piangere con me sopra i miei peccati,
perchè io non ho lacrime; che dovete pregare con me per la mia anima,
perchè io non ho fede; e allora, se sarete stata sempre dolce, buona e
amorevole, l'angelo della Morte avrà pietà di me.

Voi vedrete esseri terribili nelle tenebre e voci funeste mormoreranno
alle vostre orecchie, ma non potranno farvi nessun male, perchè contro
la purezza di una fanciulla le potenze dell'inferno nulla possono.

Virginia non rispose e il fantasma si torse le mani nella violenza
della sua disperazione, guardando la bionda testa che si inchinava.

Ad un tratto, essa si riaddrizzò, pallidissima e con uno strano
luccicchio negli occhi:

— Non ho paura, — disse con voce ferma, — e domanderò all'angelo di
aver pietà di voi.

Il fantasma si levò dal suo sedile, mandando un grido di gioia, prese
la testa bionda fra le sue mani, con una grazia che ricordava i tempi
passati, e la baciò. Le sue dita erano fredde come il ghiaccio e le
sue labbra bruciavano come il fuoco; ma Virginia restò forte ed egli le
fece traversare la camera scura.

Sulla tappezzeria, di un verde sbiadito, erano ricamati piccoli
cacciatori che soffiavano nei loro corni ornati di frangie e con le
loro piccole mani le facevano segno di retrocedere.

— Ritorna sui tuoi passi, piccola Virginia. Vattene! vattene! vattene!
— gridavano essi.

Ma il fantasma le serrava più forte la mano ed essa chiuse gli occhi
per non vederli.

Degli orribili animali, con la coda di lucertola, con gli occhi grossi
e sporgenti, ammiccavano dagli angoli del camino e le dicevano a voce
bassa:

— Fa attenzione, piccola Virginia! Guardati! Potremmo anche non più
rivederti....

Ma il fantasma affrettò il passo e Virginia non diede ascolto.

Quando furono in fondo alla stanza, egli si arrestò e mormorò qualche
parola che la fanciulla non comprese.

Riaprì gli occhi e vide il muro svanire lentamente, come nebbia, e
aprirsi davanti a lei una nera caverna. Un forte vento ghiacciato
l'avvolse ed ella sentì che le tiravano la veste.

— Presto! presto! gridò il fantasma, — o sarà troppo tardi.

Allo stesso tempo, il muro si richiuse dietro di loro e la camera della
tappezzeria restò vuota.


VI.

Trascorsi appena due minuti, la campana suonò per il thè e Virginia non
comparve. La signora Otis mandò un domestico a cercarla e questi non
tardò a tornare dicendo che non aveva potuto trovare in nessuno posto
miss Virginia.

La signora Otis, sapendo che la figlia aveva l'abitudine di andare
tutte le sere in giardino a cogliere i fiori per il pranzo, non ne fu
inquieta; ma quando suonarono le sei e Virginia non comparve, cominciò
ad allarmarsi ed inviò i ragazzi a ricercarla, mentre essa e il marito
visitarono tutte le camere del castello.

Alle sei e mezzo i gemelli tornarono dicendo che non avevano trovata
traccia della loro sorella. A tale notizia tutti divennero inquieti;
pensavano al da farsi, quando il signor Otis si ricordò ad un tratto
che pochi giorni prima egli aveva dato il permesso ad una banda di
zingari di accampare nel parco del castello.

Partì subito per Blackfell-Holln, accompagnato dal suo primogenito e
da due contadini. Il duca di Cheshire, pazzo per l'agitazione, chiese
con insistenza di unirsi a lui, ma il signor Otis rifiutò temendo
una zuffa. Quando però giunse al posto dell'accampamento, vide che
gli zingari erano partiti precipitosamente: il fuoco ardeva ancora e
sull'erba restavano delle scodelle.

Dopo aver mandato Washington e i due uomini a frugare la campagna
circostante, il signor Otis si affrettò a far ritorno alla villa per
spedire telegrammi a tutti gli ispettori di polizia della contea,
pregandoli di ricercare una giovinetta che era stata rapita da
vagabondi o da zingari.

Fatto questo, si fece preparare il cavallo e, dopo aver insistito
perchè sua moglie e i suoi tre figli si mettessero a tavola, partì
col palafreniere per la strada di Ascot. Aveva fatto appena due miglia
che sentì galoppare dietro di sè; si voltò e vide il piccolo duca che
giungeva sopra un poney, tutto rosso in volto e col capo scoperto.

— Ne sono proprio dolente, — disse il giovane con voce ansante, — ma
mi è impossibile di mangiare finchè non si sia ritrovata Virginia. Vi
prego di non adirarvi con me. Se ci aveste permesso l'anno scorso di
sposarci, questo fatto non sarebbe avvenuto. Non mi rimandate indietro,
ve ne prego, perchè non lo potrei, nè lo vorrei.

Il ministro non potè trattenersi dall'indirizzare un sorriso a
quel giovanotto bello e sventato. Come non rimanere commosso per la
devozione che egli dimostrava a Virginia! Si curvò quindi sul cavallo,
posò una mano sulla spalla del duca, affettuosamente, e disse:

— Ebbene, Cecilio, dal momento che ci tenete tanto, bisognerà bene che
vi consenta di seguirmi; ma sarà necessario che vi trovi appena giunto
ad Ascot un cappello....

— Al diavolo il cappello! È Virginia che io voglio trovare! — esclamò
il piccolo duca ridendo.

Si rimisero al galoppo e presto ebbero raggiunto la stazione
ferroviaria, dove chiesero al capo se era stata vista sulla banchina
della partenza una fanciulla che rispondesse ai connotati di Virginia;
ma invano. Il capostazione inviò subito telegrammi a tutte le stazioni
lungo la linea e promise di esercitare una sorveglianza rigorosa.

Dopo ciò, comprato un cappello per il piccolo duca da un mercante di
novità che stava per chiudere la sua bottega, il ministro Otis proseguì
per Bescbey, villaggio posto quattro miglia più distante, che gli era
stato detto essere frequentato dagli zingari. Fatta levare dal letto
la guardia campestre, questa non potè dare nessun schiarimento e così,
dopo aver traversato la piazza del villaggio, i due cavalieri ripresero
la strada di corsa e arrivarono a Canterville alle 11, col corpo
spezzato dalla fatica e il cuore dall'inquietudine.

Giunti, trovarono Washington e i gemelli che li aspettavano al cancello
con delle lanterne, il viale essendo scurissimo.

Nessuno aveva trovato traccia di Virginia. Gli zingari erano stati
raggiunti nei prati di Brockley, ma la fanciulla non era con loro. Essi
avevano spiegato la ragione della loro partenza precipitata dicendo
che si erano sbagliati sulla data della fiera di Charton e che la paura
di non giungere in tempo li aveva obbligati ad affrettarsi. Inoltre si
erano mostrati desolatissimi della scomparsa della figlia del ministro,
il quale aveva loro accordato di accampare nel suo parco.

Purtroppo Virginia era perduta, almeno per quella notte, e fu con
profondo accasciamento che il padre e i giovani rientrarono in casa,
seguiti dal palafreniere che conduceva a mano il cavallo e il poney.
Nel vestibolo trovarono riuniti tutti i domestici spaventati.

La povera signora era stesa su un divano, nella biblioteca, quasi pazza
dal dolore, e la vecchia governante le inumidiva la fronte, con acqua
di Colonia.

Il ministro volle che essa mangiasse qualche cosa e fece servire la
cena per tutti: ma tutti erano muti e i gemelli stessi, sempre vivaci,
erano tristi e taciturni per la scomparsa dell'adorata sorellina.

Finita la cena, nonostante le preghiere del piccolo duca, il
signor Otis volle che tutti andassero a coricarsi, affermando che
non c'era nulla da fare per quella notte, e che il mattino dopo
avrebbe telegrafato a Scotland-jard perchè fosse subito posto a loro
disposizione qualche bravo agente.

Al momento in cui tutti uscivano dalla stanza da pranzo, l'orologio
della torre suonò mezzanotte e appena le vibrazioni dell'ultimo tocco
si spensero, fu inteso un rumore seguito da un grido acuto. Un tremendo
colpo di tuono scosse la casa; una musica celeste risuonò nell'aria;
un pezzo di muro si staccò rumorosamente in cima alle scale, e sul
pianerottolo apparve Virginia, pallida, quasi bianca, con una piccola
scatola in mano. Tutti si precipitarono verso di lei; la madre se la
strinse appassionatamente al cuore; il piccolo duca la soffocò sotto i
suoi baci e i gemelli eseguirono un selvaggio ballo di guerra intorno
al gruppo.

— Gran Dio! figlia mia dove sei stata? — chiese il padre con aria
burbera, persuaso che essa avesse voluto fare un brutto scherzo. —
Cecilio ed io abbiamo percorso tutta la campagna a cavallo per cercarti
e tua madre ha corso pericolo di morire di spavento. Non bisognerà far
mai più di tali scherzi!

— Meno che col fantasma! — gridarono i gemelli, continuando le loro
capriole.

— Mia cara, grazia a Dio, eccoti ritrovata; non devi lasciarmi mai
più! — mormorava la madre abbracciando la fanciulla, che tremava, e
lisciando i suoi capelli d'oro sparsi sulle spalle.

— Papà, disse dolcemente Virginia, — sono stata col fantasma; egli è
morto.... Vai a vederlo. È stato molto cattivo, ma si è sinceramente
pentito di tutto il male che ha fatto e, prima di morire, mi ha dato
questa scatola di gioielli.

Tutta la famiglia gettò su lei uno sguardo silenzioso e spaventato;
ma essa aveva il volto grave e serio. Muta si volse e li precedette
attraverso l'apertura fattasi nel muro, e li fece discendere per un
corridoio segreto. Washington seguiva con un candeliere acceso.

Giunti ad una gran porta di quercia ferrata con grossi chiodi, Virginia
la toccò, e quella girò sui grossi cardini. Apparve una stanza stretta
e bassa, col soffitto a volta e con uno spiraglio per finestra. Un
grande anello di ferro era attaccato nel muro e a questo anello era
incatenato un grande scheletro, steso tutto lungo sul pavimento e
che sembrava allungasse le sue scarne dita per arrivare ad un piatto
e una brocca di forma antica, posti in modo che egli non li potesse
toccare. La brocca doveva essere stata un tempo piena d'acqua, perchè
l'interiore era tutto verde di muffa e sul piano non rimaneva che della
polvere.

Virginia s'inginocchiò presso lo scheletro e giungendo le sue piccole
mani si mise pregare in silenzio, mentre la famiglia guardava con
stupore la scena terribile.

— Oh! Oh! — esclamò ad un tratto uno dei gemelli, che aveva gettato uno
sguardo alla finestra per cercare di capire in che parte della casa era
posta quella stanza. — Oh! il vecchio mandorlo che era seccato è tutto
fiorito. Vedo benissimo i fiori al chiaro della luna....

— Dio gli ha perdonato! — disse gravemente Virginia alzandosi e la sua
fisonomia parve rischiarata da un vivo splendore.

— Voi siete un angelo — esclamò il duca, cingendola col braccio al
collo e baciandola.


VII.

Quattro giorni dopo questi strani avvenimenti, verso le undici di sera
un funebre corteggio usciva dal castello di Canterville.

Il carro era tirato da otto cavalli neri con la testa ornata di un
grosso pennacchio di penne di struzzo che ondeggiavano mollemente. La
bara di piombo era coperta da un ricco drappo scarlatto, sul quale
spiccavano, ricamate in oro, le armi dei Canterville. Ai lati del
carro camminavano a piedi i domestici, portando torcie accese. Tutta
questa processione era grandiosa e produceva profonda impressione.
Lord Canterville dirigeva le esequie; egli era venuto appositamente
dal paese di Galles per assistere alla sepoltura, e occupava la prima
vettura con la piccola Virginia; poi veniva il ministro degli Stati
Uniti e sua moglie; quindi Washington e i due ragazzi, nell'ultima
vettura stava la vecchia Umney.

Tutti avevano riconosciuto a lei il diritto di vedere scomparire per
sempre quel fantasma che l'aveva perseguitata per ben cinquant'anni.
Una profonda fossa era stata scavata in un angolo del cimitero,
precisamente in faccia alla siepe, e le ultime preci furono dette nel
modo più patetico dal reverendo Augusto Dampier.

Terminata la cerimonia, i domestici uniformandosi a un vecchio costume
nella famiglia Canterville spensero le loro torce.

Quando la bara fu calata nella fossa, Virginia si avanzò e vi pose
sopra una grande croce, fatta di fiori di mandorlo bianchi e rosei.
In quell'istante la luna uscì fuori dalle nuvole e inondò della sua
luce silenziosa e argentea il cimitero, mentre da un boschetto vicino
veniva il canto di un usignolo. Virginia ricordò allora la descrizione
che il fantasma aveva fatto del Giardino della Morte, e i suoi occhi si
empirono di lacrime.

L'indomani mattina, prima che lord Canterville partisse per la città,
il ministro s'intrattenne con lui a proposito dei gioielli dati dal
fantasma a Virginia, gioielli veramente magnifici, sopratutto una
collana di rubini, montati in stile veneziano, mirabile capolavoro del
sedicesimo secolo. L'insieme dei gioielli aveva un tale valore che il
signor Otis provava scrupolo a permettere che sua figlia li ritenesse.

— Mylord, — disse egli, — so che in questo paese il diritto di
manomorta vale per i piccoli oggetti come per i terreni, ed è chiaro,
chiarissimo per me, che questi gioielli debbano rimanere a voi come
proprietà di famiglia. Vi prego quindi di portarli con voi a Londra e
di considerarli come parte della vostra eredità, restituitavi sia pure
in condizioni eccezionali. Quanto a mia figlia, essa è ancora fanciulla
e fino ad ora, sono superbo di dirlo, essa è poco attaccata a questi
gingilli di vanità.

Ho anche saputo da mia moglie, che è competente in cose artistiche,
avendo avuto la fortuna di passare varî inverni a Boston quando era
giovinetta, che queste pietre hanno un grande valore e che vendendole
frutterebbero una somma vistosa. Quindi, lord Canterville, voi
riconoscerete, ne sono sicuro, che è impossibile che io permetta di
lasciarle nelle mani di un membro della mia famiglia; d'altronde, poi,
tutti questi gingilli, giuocattoli, così appropriati, così necessari
alla aristocrazia britannica, sarebbero assolutamente fuori posto in
mezzo a persone allevate con severi principî e, posso proclamarlo, con
i principî immortali della semplicità repubblicana.

Oso confessarvi però che Virginia tiene molto allo scrigno contenente i
gioielli; le sarebbe caro conservarlo come ricordo degli errori e della
sventura del vostro avo.

Questo scrigno essendo antichissimo e per conseguenza molto sciupato,
mi sembra non abbia nessun valore.

Vi confesso anzi che sono molto stupito di vedere uno dei miei figli
mostrare dell'interessamento ad un oggetto dei tempi passati e non
saprei trovare altra spiegazione se non nel fatto che Virginia nacque
in uno dei vostri sobborghi di Londra, poco dopo il ritorno di mia
moglie da una escursione ad Atene.

Lord Canterville ascoltò senza interrompere, il discorso del degno
ministro, tirandosi di quando in quando i baffi grigi per nascondere
un involontario sorriso, e quando questi ebbe finito, gli strinse
cordialmente la mano e così rispose:

— Mio caro signore, la vostra graziosa fanciulla ha reso all'infelice
mio avo un servizio grandissimo.

La mia famiglia ed io le siamo riconoscenti per il meraviglioso ardire
ed il sangue freddo di cui ella ha dato prova.

I gioielli le appartengono ed, in fede mia, sono convinto che se avessi
così poca riconoscenza da toglierglieli, il vecchio birbante sortirebbe
nuovamente dopo quindici giorni dalla sua tomba e mi renderebbe la vita
un'inferno. Quanto ad essere essi gioielli di famiglia, lo sarebbero
solo se fossero stati descritti come tali in un testamento, in un atto
legale, mentre l'esistenza di quei gioielli fu sempre ignorata. Vi
assicuro che sono tanto miei come del servo di casa.

Quando madamigella Virginia sarà grande, sarà incantata, oso
affermarlo, di essi; inoltre signor Otis, voi dimenticate di
aver comprato con la villa, anche il mobilio e il fantasma dietro
inventario. Dunque quello che ha appartenuto al fantasma è vostro.
Malgrado tutte le prove di attività che sir Simone ha dato di notte
nel corridoio, egli è legalmente morto e la vostra compra vi ha reso
proprietario di ciò che a lui apparteneva.

Il ministro rimase seccato del rifiuto di lord Canterville e lo pregò
a riflettere di nuovo sulla sua decisione, ma l'eccellente Pari tenne
fermo e finì per decidere il ministro ad accettare il regalo che il
fantasma aveva fatto alla figlia sua.

Quando nella primavera del 1890 la giovane duchessa di Cheshire fu
presentata al ricevimento della regina in occasione del suo matrimonio,
i gioielli che recava indosso furono oggetto di generale ammirazione.

Gli sposi erano così belli e si amavano tanto che tutti furono
incantati del loro matrimonio, eccettuata la vecchia marchesa di
Dembleton, che aveva fatto ogni sforzo per accaparrare il duca a fargli
sposare una delle sue sette figlie; a tale scopo anzi, aveva dato
nientemeno che tre pranzi costosissimi.

Cosa strana, il signor Otis aveva per il piccolo duca una viva simpatia
personale, malgrado che in teoria fosse nemico della nobiltà e per
esprimersi con le sue stesse parole, avesse ragione di temere che in
mezzo alle influenze snervanti di una aristocrazia fatta di piaceri,
fossero dimenticati i veri principî della semplicità repubblicana.

Ma non si tenne alcun conto delle sue osservazioni e quando egli
si avanzò, dando il braccio alla propria figlia, nella corsia di
San Giorgio in Hannover-Square, appariva l'uomo più fiero di tutta
l'Inghilterra.

Dopo la luna di miele, il duca e la duchessa tornarono alla villa di
Canterville e l'indomani del loro arrivo, nel pomeriggio si recarono a
fare una visita nel solitario cimitero presso il bosco di pini.

Da prima furono un poco imbarazzati circa l'epigrafe da porsi sulla
pietra del sepolcro dì Sir Simone, ma finirono per decidere che si
sarebbero limitati a farvi scolpire le iniziali del vecchio gentiluomo
e i versi scritti sulla finestra della biblioteca.

La duchessa aveva portato seco delle magnifiche rose e le cosparse
sulla tomba; poi proseguirono verso le rovine del coro della vecchia
abbazia; e infine andarono a sedersi sopra una colonna spezzata.

Suo marito, coricato ai suoi piedi, la fissava negli occhi luminosi. Ad
un tratto, gettando la sua sigaretta, le prese la mano ed esclamò:

— Virginia; una donna non deve avere segreti per suo marito.

— Cecilio mio, io non ne ho.

— Sì, voi ne avete — rispose egli sorridendo, — non mi avete mai detto
ciò che seguì mentre voi eravate rinchiusa col fantasma.

— Non l'ho mai detto a nessuno, replicò gravemente Virginia.

— Lo so, ma a me potreste dirlo.

— Vi prego, Cecilio; non me lo domandate, non posso dirvelo. Povero
sir Simone! gli devo molto; sì, Cecilio, non ridete, gli devo veramente
molto.... Mi ha mostrato ciò che è la vita; ciò che significa Morte e
perchè l'amore è più forte della morte.

Il duca si alzò e abbracciò amorosamente sua moglie.

— Voi potete conservare il vostro segreto, finchè io possederò il
vostro amore — egli disse a voce sommessa.

— Voi l'avete sempre avuto, Cecilio.

— E voi lo direte un giorno ai nostri figli, non è vero?

Virginia arrossì.



IL DELITTO DI LORD ARTURO SAVILE


I.

Era l'ultimo ricevimento che lady Windermere dava avanti che
s'iniziasse la primavera.

Bentinck House, più del solito, appariva piena di una folla di
visitatori, fra cui spiccavano sei membri del gabinetto, venuti
direttamente dall'udienza dello speaker, in abito di gala e
decorazioni.

Le belle signore indossavano costumi elegantissimi, e, all'estremità
della galleria dei quadri, la principessa Sofia di Carlrsühe,
una grossa dama dal tipo tartaro, con dei piccoli occhi neri e
meravigliosamente vellutati, parlava, con voce acuta, un cattivo
francese, ridendo sonoramente.

C'era in quelle sale uno strano miscuglio di società: delle orgogliose
paresse cicalavano cortesemente con dei violenti radicali; dei
demagoghi popolari si strisciavano a degli scettici famosi; una brigata
di vescovi seguiva una grande prima donna di salone in salone; sulla
scala, un gruppo di membri dell'Accademia reale discuteva animatamente,
e nella sala da pranzo i geni si spingevano fra loro.

Era quella insomma una delle più belle serate di lady Windermere e la
principessa vi si trattenne sino alle undici e mezzo passate.

Subito dopo la sua partenza, lady Windermere tornò nella galleria dei
quadri, dove un famoso economista stava esponendo, ad una virtuosa
ungherese, con aria solenne, la teoria scientifica nella musica.

Ella si mise a conversare con la duchessa di Paisley.

Era meravigliosamente bella, coll'opulento seno di un bianco avorio,
ed i grandi occhi azzurri, color miosotys, ed i pesanti fermagli in
brillanti de' suoi capelli d'oro; capelli d'oro puro, non di quella
tinta paglia pallida che usurpa oggi il bel nome dell'oro; capelli di
un oro che pareva tessuto coi raggi del sole, capelli che circondavano
il suo volto come d'un nembo di santa, con quel fascino che è proprio
della peccatrice.

Strano soggetto psicologico!

Di buon'ora, nella vita, ella aveva scoperto questa importante verità,
che, cioè, niente rassomiglia tanto all'innocenza quanto un'imprudenza
e, dopo una serie di avventure, — la metà delle quali avute
innocentemente, — era riuscita a conquistarsi tutti i privilegi di una
personalità.

Essa aveva più volte cambiato marito. Infatti, contava nel suo bilancio
tre matrimoni; ma siccome non aveva mai mutato amante, il mondo aveva
dopo qualche tempo smesso di sparlare sul suo conto.

Ora aveva quarant'anni, niente figli, ed in complesso una passione
sfrenata del piacere, passione che è il segreto di quelli che restano
sempre giovani.

Ad un tratto girò curiosamente lo sguardo per la sala e con la sua
limpida voce di contralto disse:

— Dov'è il mio chiromante?

— Il vostro?... esclamò la duchessa, trasalendo involontariamente.

— Il mio chiromante, duchessa. Io ora non posso vivere senza di lui.

— Cara Gladys, voi siete molto originale! — mormorò la duchessa,
cercando ricordarsi ciò che veramente era un chiromante e sperando non
fosse la stessa cosa che un chiropodista.

— Viene regolarmente a vedere la mia mano due volte la settimana, —
proseguì lady Windermere, — e vi pone molto interesse.

— Dio del cielo! deve essere certo qualche manicure. Ecco ciò che è
veramente terribile! Spero per lo meno che sia straniero: così riuscirà
un po' meno gradito.

— Certo, è quì. Io non posso dare un ricevimento senza di lui. Egli mi
dice sempre che ho una mano veramente psichica e che se il mio pollice
fosse stato appena un poco più corto, sarei stata una pessimista
convinta e mi sarei rinchiusa in monastero....

— Oh! comprendo... — disse la duchessa che si sentiva molto più
sollevata. — Egli dice la buona ventura, non è così?...

— E la cattiva, e molte altre cose di questo genere.

L'anno venturo, per esempio, io correrò un grande pericolo, in terra,
o in mare. Bisognerà dunque che io viva in pallone e ogni sera faccia
salire in un cestino il pranzo. Tutto questo è scritto qui, sul mio
dito mignolo, o sul palmo della mano, non so più precisamente.

— Ma cara duchessa, coi tempi che corrono, la Provvidenza può senza
dubbio resistere alle tentazioni. Io penso che ciascuno, una volta al
mese per lo meno, dovrebbe far leggere nella sua mano, per sapere ciò
che non deve più fare. Se nessuno non ha la bontà di andare a cercarmi
Podgers, andrò io stessa....

— Lasciate fare a me, lady Windermere, — interloquì un giovane piccolo,
grazioso, che stava vicino ed aveva seguito la conversazione con un
sorriso gioviale. — Se è così singolare come voi dite, lady Windermere,
io riuscirò a riconoscerlo: ditemi solo come è ed io ve lo condurrò
subito.

— Sia. Non ha nulla del chiromante; voglio dire, che non ha nulla di
misterioso, di estatico e che neppure ha una figura romantica. È un
uomo piccolo, grasso, con una testa comicamente calva e dei grandi
occhiali d'oro; è un tipo che sta fra il medico di famiglia ed il
pastore di villaggio. Io ne sono desolata, ma la colpa non è mia. Le
persone sono così noiose!... Le mie pianiste hanno tutte l'aria di
pianiste, e tutti i miei poeti, l'aria di poeti.

Io mi ricordo, che, nella stagione scorsa, avevo invitato a pranzo
un terribile cospiratore, un uomo che aveva versato il sangue di
un'infinità di persone e che portava sempre una cotta di maglia in
acciaio e teneva un pugnale celato nella manica della camicia. Ebbene!
Quando lo vidi, la sua figura mi sembrò quella di un vecchio e buon
pastore. In tutta la serata non fece che lanciare motti di spirito,
e se ciò mi divertì, mi deluse anche fortemente. Quando l'interrogai
sulla sua cotta di acciaio, si contentò di sorridere e mi disse che era
troppo fredda per poterla portare in Inghilterra.... Ah! ecco Podgers.
Ebbene, sig. Podgers, desidererei che leggeste nella mano della
duchessa di Paisley.... Duchessa, volete voi togliervi il guanto....
non quello della mano destra.... l'altro.

— Mia cara Gladys, veramente io non credo che ciò sia conveniente, —
disse la duchessa, sbottonando a malincuore il guanto.

— Tutto ciò che interessa è sempre conveniente, rispose lady
Windermere: — on a fait le monde ainsi. Ma bisogna che io vi presenti,
duchessa... Ecco il signor Podgers, il mio chiromante; il signor
Podgers, la duchessa di Paisley... e se voi direte che essa ha un monte
della luna più sviluppato del mio, io non vi presterò più fede.

— Sono sicura, Gladys, che non v'è niente di ciò sulla mia mano, —
pronunziò con tono grave la duchessa.

— Vostra grazia ha infatti ragione, — replicò Podgers gettando uno
sguardo sulla piccola mano grassoccia, dai diti corti e tozzi. — La
montagna della luna non v'è sviluppata: però la linea della vita è
ottima. Volete avere la bontà di spiegare la giuntura della mano...
vi ringrazio... Tre linee distinte sopra la palma... voi vivrete
sino a tarda età, duchessa, e sarete grandemente felice... Ambizione
moderatissima, linea dell'intelligenza non esagerata, linea del
cuore...

— Suvvia, siate discreto, signor Podgers! — esclamò lady Windermere.

— Niente mi potrebbe esser più caro, — rispose Podgers inchinandosi,
— se la duchessa me ne avesse dato motivo; ma io sono dolente di dover
dire che nella mano leggo una grande costanza di affetti insieme ad un
sentimento fortissimo del dovere.

— Volete continuare, signor Podgers? — disse la duchessa con uno
sguardo di soddisfazione.

— L'economia non è la minore delle virtù di vostra grazia...

Lady diede in una forte risata.

— L'economia è un'ottima cosa, — osservò con una certa compiacenza la
duchessa. — Quando sposai Paisley, egli aveva undici castelli e non una
casa che fosse abitabile.

— Mentre ora, — terminò lady Windermere, — egli ha dodici case e
neppure un castello!

— Eh!, mia cara, io amo...

— Le comodità, — rispose Podgers, — tutte le comodità dei nostri tempi
ed i caloriferi in tutte le stanze... Vostra grazia infatti ha ragione:
le comodità sono ancora la sola cosa che la civiltà può darci.

— Voi avete mirabilmente decritto il carattere della duchessa, signor
Podgers; volete dire quello di lady Flora?

E, rispondendo ad un cenno di testa della padrona di casa, una piccola
fanciulla, da capelli rossi di scozzese e dalle spalle altissime, si
alzò sgarbatamente da un divano e presentò una lunga mano ossuta.

— Ah! una pianista suppongo... anzi una eccellente pianista, non è
vero? Chi sa, forse una musicista di prim'ordine. Riservatissima,
onesta e dotata di un vivo amore per gli animali... È giusto?

— Perfettamente! — esclamò la duchessa, volgendosi a lady Windermere. —
Assolutamente esatto.

Flora alleva infatti due dozzine di gatti a Maclosckie e sarebbe capace
di riempire la nostra casa di città di un vero serraglio di bestie se
suo padre glielo permettesse.

— Bene! ma è appunto ciò che io faccio ogni giovedì sera in casa mia!
— rispose ridendo lady Windermere. Solamente io preferisco i leoni ai
gatti.

— È questo il vostro solo errore, lady Windermere, — pronunziò Podgers
con un saluto cerimonioso.

— Se una donna non può rendere incantevoli i suoi errori, non è che
una femmina qualunque... — rispose essa, — Podgers, esaminate ancora
qualche mano... Venite sir Thomas, mostrate la vostra al signor
Podgers.

Un vecchio signore, dal portamento distinto, si avanzò e tese al
chiromante una mano grassa e tozza, con un lunghissimo dito medio.

— Natura avventurosa; nel passato quattro lunghi viaggi ed uno
nell'avvenire... Naufragato tre volte... No, due soltanto, una in
pericolo di naufragare nel prossimo viaggio. Conservatore furibondo;
puntuale; appassionato per le collezioni di curiosità... Una malattia
pericolosa fra i sedici e diciotto anni... Erede di una grossa fortuna
verso i parenti... Grande avversione per i gatti ed i radicali.

— Straordinario! — esclamò sir Thomas. — Dovreste leggere la mano di
mia moglie.

— Della seconda moglie? — chiese tranquillamente Podgers, che teneva
ancora la mano del vecchio fra le sue.

Ma lady Marvel, donna di aspetto malinconico, con capelli neri e ciglia
sentimentali, rifiutò recisamente di lasciarsi rivelare il suo passato
e il suo avvenire.

Gli sforzi di lady Windermere non valsero neppure a far togliere i
guanti al signor di Koloff, ambasciatore russo.

Veramente molte persone esitavano ad affrontare quello strano piccolo
uomo, dal sorriso stereotipato, dagli occhiali d'oro e gli occhi che
brillavano come rubini; e quando egli ebbe detto alla povera lady
Fermor, ad alta voce e dinanzi a tutti, che ella s'intendeva molto
poco di musica, ma che in compenso prendeva delle folli passioni per i
musicisti, divenne opinione generale che la chiromanzia era una scienza
e che bisognava incoraggiarla, ma a tête-à-tête.

Lord Arturo Savile, che non sapeva niente della disgraziata storia
di lady Fermor, e che aveva seguito Podgers con grande interesse,
provò una viva curiosità di far leggere nella sua mano. Siccome,
però, sentiva un po' di timidezza a farsi avanti, si avvicinò a lady
Windermere e, tutto rosso in viso, le disse se Podgers avrebbe voluto
occuparsi di lui.

— Ma certo, egli si occuperà di voi, mio buon amico... Appunto per
questo egli è qui. Tutti i miei leoni, lord Arturo, sono dei leoni
che prendono parte alla rappresentazione. Tutti saltano attraverso i
cerchi, quando io comando loro... Ma devo prevenirvi che dirò tutto a
Sibilla... Ella verrà domani da me a prendere il the, e se il signor
Podgers troverà che avete un cattivo carattere, o qualche tendenza alla
gotta, o un'amante a Bayswater, io non glielo nasconderò.

Lord Arturo sorrise e scosse la testa.

— Io non ho paura; Sibilla ed io ci conosciamo così bene!

— A dire il vero sono un po' contrariata di sentirvi dir questo... La
migliore divisa del matrimonio è uno scambievole malinteso... no, io
sono completamente unica. Ho solo dell'esperienza, il che, frattanto,
è quasi la stessa cosa... Signor Podgers, lord Arturo Savile muore
d'impazienza che voi gli leggiate nella mano. Non gli dite, però, che è
fidanzato ad una delle più belle fanciulle di Londra; è già un mese che
il Morning Post ne ha dato l'annunzio...

— Cara lady Windermere, — esclamò la marchesa di Jedburgh, — abbiate
la bontà di lasciarmi trattenere ancora un minuto il signor Podgers;
egli sta dicendomi che monterò sulle tavole del palcoscenico, e ciò
m'interessa assai.

— Se vi ha detto ciò, lady Jedburgh, io non esito a togliervelo...
Venite qua subito, signor Podgers e leggete nella mano di lord Arturo.

Bene! — esclamò la marchesa facendo una piccola mossa ed alzandosi dal
divano — se non mi è permesso di montare sulle tavole del palcoscenico,
mi sarà lecito almeno di assistere allo spettacolo, spero...

— Naturalmente. Assistiamo tutti alla sentenza soggiunse lady
Windermere.

— Ed ora, signor Podgers, diteci qualche cosa di bello, perchè lord
Arturo è uno dei miei più cari amici.

Podgers prese la mano del giovane, la osservò, divenne stranamente
pallido e non fece parola. Un brivido sembrò passare per il suo corpo.
Le sue grandi e folte sopracciglia furono assalite da un tremito
convulso, da un tic bizzarro, irritante. Delle grosse goccie di sudore
imperlarono la sua fronte e le sue dita grassoccie divennero fredde ed
umide.

A lord Arturo non sfuggirono questi strani segni di agitazione e per
la prima volta in vita sua ebbe paura. Il suo istinto naturale fu il
fuggire dalla sala, ma si contenne. Era meglio conoscere il pericolo,
qualunque fosse, che restare in quella angosciosa incertezza.

— Attendo, signor Podgers.

— Attendiamo tutti, — soggiunse lady Windermere, con il suo tono
vivace, impaziente.

Il chiromante non rispose.

— Io credo che lord Arturo debba montare sulle tavole del palcoscenico
— esclamò lady Jedburgh — e che dopo la vostra sortita il signor
Podgers abbia paura di dirglielo.

Ad un tratto l'ometto lasciò andare la mano destra del giovane, afferrò
vivacemente la sinistra e si curvò tanto su questa, che la montatura in
oro dei suoi occhiali sfiorò quasi la pelle.

Rapidamente il suo volto divenne bianco d'orrore; ma egli riuscì a
ricuperare il suo sangue freddo e rivolgendosi a lady Windermere, le
disse con un sorriso forzato:

— È la mano di un bel giovane.

— Certo, ma sarà egli un buon marito? Ecco quello che bisogna sapere.

— Io credo che un marito non debba essere troppo seducente — mormorò
lady Jedburgh, con aria grave. — È così pericoloso....

— Mia cara fanciulla, non sono mai troppo seducenti gli uomini —
ribattè lady Windermere. — Ma ciò che mi occorre sono i particolari:
non vi sono che i particolari che interessano. Che deve dunque accadere
a lord Arturo?

— Ebbene, fra qualche giorno lord Arturo dovrà fare un viaggio.

— Sì, quello di nozze, naturalmente.

— E perderà un parente.

— Non sua sorella, spero, — disse lady Jedburgh, con tono ipocrita.

— No, certo, non sua sorella: un semplice, lontano parente.

— Ah!... Sono crudelmente delusa, — disse lady Windermere. Non ho
assolutamente nulla da raccontare domani a Sibilla. Chi si preoccupa
ormai dei parenti lontani? Ora non è più moda. Però io credo che
essa farà bene a comperare un abito di seta nera: serve sempre per la
chiesa... Ed ora andiamo a cena. Forse non resterà più nulla: speriamo
almeno di trovare ancora del brodo caldo. Francesco una volta faceva
del brodo eccellente, ma ora egli è sempre occupato dalla politica
e non sono mai più sicura di nulla con lui. Vorrei proprio che il
generale Boulanger rimanesse un po' tranquillo... Duchessa, voi sarete
stanca...

— Affatto, mia cara Glady, — rispose la duchessa avviandosi verso la
porta — io mi sono molto divertita ed il vostro chiromante è stato
piacevolissimo.


II.

Dieci minuti dopo, col volto bianco di terrore, gli occhi pieni di
tristezza, lord Arturo Savile si precipitava fuori di Beusinck House.

Si fece largo attraverso i valletti impellicciati, che attendevano i
loro padroni sotto la tettoia. Sembrava non vedesse e non sentisse più
nulla.

La notte era rigida ed i becchi del gas, lungo il viale, scintillavano
ed oscillavano sotto le folate di vento; ma le sue mani avevano il
calore della febbre e le sue tempie parevano infuocate. Egli andava
qua e là, a caso, come un ebbro. Un agente di polizia lo guardò
curiosamente mentre gli passava accanto, ed un mendicante, che si
era staccato da una porta per chiedergli l'elemosina, indietreggiò
spaventato nel vedere un volto che appariva più sventurato del suo.

Una volta lord Arturo si arrestò sotto un lampione e guardò le sue
mani: credette vedervi traccie di sangue ed un debole grido uscì dalle
sue labbra tremanti.

— Assassino! Questo aveva letto il chiromante nel palmo della sua mano.

— Assassino! La notte stessa pareva lo sapesse ed il vento ripeteva
alle sue orecchie il grido orribile. Ogni angolo nero era pieno di
questa parola.

Egli la vedeva ghignare perfino dai tetti delle case.

Entrò nel Parco, il cui bosco pareva affascinarlo: s'appoggiò ad una
ringhiera, esausto di forze, e calmò l'ardore delle sue tempie sul
ferro umido, rimanendo assorto nel silenzio misterioso delle piante.

— Assassino! Assassino! — gridò come se ripetendo l'accusa il
significato della parola fosse scemato.

Il suono della sua voce lo fece rabbrividire e tuttavia desiderò
quasi che l'eco lo sentisse e svegliasse da' suoi sogni la città
addormentata. Avrebbe voluto fermare il primo passante per raccontargli
tutto.

Poi errò per _Oxford-Street_, in vie strette e brutte; due donne, dal
volto dipinto, passando, lo schernirono.

Da un tetro palazzo arrivò a lui uno strepito di bestemmie e di
schiaffi, seguito da acute grida; e confusamente, sotto una porta umida
e fredda vide delle schiene piegate, dei corpi rifiniti dalla miseria e
dalla vecchiaia.

Una strana pietà s'impadronì di lui.

Quei figli del peccato e della miseria erano essi predestinati alla
loro sorte, come egli alla sua? Non erano forse, essi pure, marionette
di un mostruoso burattinaio?

Ma non fu il mistero, ma la commedia della sofferenza che lo colpì,
la sua assoluta inutilità, la sua grottesca mancanza di senso comune.
Tutto gli parve incoerente, privo d'armonia. Egli si sentiva stupito
dalla discordanza esistente fra l'ottimismo superficiale del nostro
tempo e la realtà dell'esistenza.

Poco dopo si trovò di fronte a Marylebone Church. L'argine silenzioso
sembrava un lungo nastro d'argento pallido, macchiate qua e là da
mobili ombre.

Tutto intorno si stendeva la linea dei becchi di gas, vacillanti, e
dinanzi ad una piccola casa, circondata da un muro, stava una vettura
solitaria, di cui il cocchiere dormiva saporitamente a cassetta.

Lord Arturo si avviò a passo rapido verso _Portland-Place_, volgendosi
ad ogni momento, come se temesse d'essere seguito.

In cima a _Rich-Street_ due uomini erano intenti a leggere un piccolo
avviso su di una palizzata. Uno strano sentimento di curiosità lo
punse, ed egli attraversò la strada in quella direzione. Avvicinandosi,
la parola _assassino_, scritta in lettere nere lo colpì.

Si arrestò ed una vampa di fuoco gli salì al volto.

Era un avviso ufficiale, che offriva una ricompensa a chi avesse
fornito delle informazioni per l'arresto di un uomo di mezza taglia,
sui trenta o quaranta anni, portante un cappello a cencio con gli orli
rialzati, un abito nero e dei pantaloni in tela, di cotone rigato.
Quest'uomo aveva una cicatrice sulla gota destra.

Lord Arturo lesse l'avviso, poi lo rilesse ancora. Si chiese se l'uomo
sarebbe stato arrestato e come avesse riportato quella cicatrice. Forse
un giorno, anche il suo nome sarebbe stato sulle mura di Londra. Un
giorno, forse anche la sua testa, sarebbe stata messa a prezzo....
Questo pensiero lo riempì d'orrore.

Tornò sui suoi passi e fuggì nella notte.

Appena sapeva dove si trovasse. Aveva un vago ricordo d'avere errato
in un laberinto di sordide case, d'essersi smarrito in un dedalo
gigantesco di nere vie, e l'aurora cominciava a spuntare quando
finalmente si accorse di essere nel _Picadilly-Circus_.

Siccome seguiva _Belgrave-Square_, s'imbattè sui grandi carri da
spedizione che si avviavano verso _Covent-Garden_.

I carrettieri, nei loro bianchi grembiali, col volto abbronzato dal
sole, i capelli incolti, camminavano a lunghi passi, facendo schioccare
di tanto in tanto la frusta e scambiandosi gli uni con gli altri
qualche parola.

Sopra un enorme cavallo grigio, il primo di un tiro a sei, stava un
giovane paffuto, con un mazzo di fiori infilato sul cappello. Attaccato
fortemente alla criniera della sua cavalcatura, rideva clamorosamente.

Nella luce mattinale, le grandi ceste di legumi si staccano come
dei blocchi di diaspro verde sui petali pallidi di alcune rose
meravigliose.

Lord Arturo provò un sentimento di viva curiosità, senza sapere perchè.
V'era qualcosa su quella delicata gaiezza dell'alba che gli sembrava
fonte di un'inesprimibile commozione: ed egli pensò a tutti quei giorni
che incominciano belli, ridenti e terminano cupi, tempestosi.

Quegli esseri rozzi, con la loro rude voce, il loro spirito triviale,
il loro andamento trascurato, quale strana Londra essi vedevano! Una
Londra liberata dai delitti della notte e dal fumo del giorno, una
città pallida, fantastica, paurosa, una città cosparsa di tombe.

Si domandò quello che essi ne pensavano e se sapevano qualche cosa dei
suoi splendori e delle sue vergogne, dei suoi superbi piaceri e della
sua orribile fame, di tuttociò che vi fermenta e che vi ruina dalla
mattina alla sera.

Probabilmente non rappresentava per essi che una mèta di commercio,
un mercato dove recavano i loro prodotti per venderli e dove non
rimanevano che qualche ora, lasciando forse alla loro partenza le
strade ancora silenziose e le case sempre addormentate.

Provò uno strano godimento a vederli passare. Per quanto volgari
fossero, con le loro grosse scarpe a chiodi, avevano in essi qualcosa
di arcadico. Lord Arturo sentì che quelli erano i veri figli della
natura e che questa aveva loro insegnato la pace: ed invidiò tutta la
loro ignoranza.

Quando lasciò _Belgrave-Square_, il cielo aveva preso la tinta di
un turchino evanescente e gli uccelli cominciavano a cinguettare nei
giardini.


III.

Quando lord Arturo si ridestò, era già mezzodì ed il sole filtrava
attraverso la serica cortina color d'avorio. Si levò dal letto e andò a
guardare dalla finestra. Una vaga nebbia era sospesa sulla città, ed i
tetti delle case sembravano d'argento appannato. Nel verde tremulo del
viale alcuni fanciulli s'inseguivano, simiglianti a farfalle bianche, e
i marciapiedi erano ingombri di gente diretta verso il Parco.

Mai gli era sembrata così bella la vita; e mai il male gli parve così
lontano. Entrò un domestico, recando un vassoio con il cioccolato.

Egli bevve il cioccolato, quindi, sollevata una pesante portiera, passò
nella stanza da bagno.

La luce scendeva dolcemente attraverso sottili lastre di onice
trasparente, e l'acqua, nella vasca di marmo, aveva lo splendore della
luna.

Lord Arturo s'immerse fino al collo, poi cacciò bruscamente la testa
nell'acqua, come per purificarsi di qualche vergognoso ricordo.

Uscito dal bagno si sentiva quasi calmo. Dopo colazione, si distese
sopra un divano ed accese una sigaretta.

Sopra il caminetto, coperto da un bellissimo broccato antico, stava
un grande ritratto di Sibilla Merton, com'egli l'aveva veduta la prima
volta al ballo di lady Noël.

La graziosa testa era leggermente piegata a sinistra, come se il collo,
sottile e fragile, durasse fatica a sopportare tanta bellezza. Le
labbra, leggermente dischiuse, sembravano bozzate per una musica assai
dolce, e dai suoi occhi, immersi nel sogno, traluceva la più tenera
purezza verginale.

Modellata nel morbido abito di crespo di Cina, col grande ventaglio di
piume nella mano, si sarebbe detto ch'ella fosse una di quelle delicate
figurine, quali se ne vedono nei boschi di ulivi, presso Tanagra, e
nella sua attitudine aveva qualcosa della grazia greca.

Nondimeno ella non era piccola. Era perfettamente proporzionata,
cosa rarissima in un'età in cui la maggior parte delle donne
sono generalmente più grandi del naturale oppure insignificanti.
Contemplandola, in quell'istante, lord Arturo si sentì invaso da quella
terribile pietà che nasce dall'amore. Sentì che sposandola col _fatum_
di morte che gravava su lui, sarebbe stato un tradimento simile a
quello di Giuda, un delitto peggiore di tutti quelli che immaginarono i
Borgia.

Quale felicità avrebbe potuto essere fra loro quando, ad un tratto,
egli poteva essere chiamato a compiere la spaventosa profezia scritta
nella sua mano? Quale esistenza avrebbe egli potuto condurre, giacchè
il destino portava una tale sventura nella sua bilancia? Necessitava
ritardare a qualunque costo le nozze. Egli vi era risoluto. Sebbene
amasse ardentemente quella fanciulla e il solo contatto delle dita di
lei bastasse a farlo trasalire in un godimento squisito, egli riconobbe
chiaramente quale era il suo dovere e vide che non aveva il diritto di
unirla a sè prima di avere commesso il delitto.

Soltanto dopo commesso il delitto egli avrebbe potuto recarsi
all'altare con Sibilla Merton, e riporre la sua vita nelle mani della
donna amata, senza timore di agire malamente. Solo allora egli avrebbe
potuto stringerla fra le braccia, senza ch'ella dovesse mai curvare la
fronte sotto la sua onta. Prima occorreva _compiere questo_ e, per il
bene di entrambi, nel più breve tempo possibile.

Molti altri, al suo posto, avrebbero preferito il sentiero infiorato
del piacere alle ascese del dovere; ma lord Arturo era troppo
coscienzioso per anteporre il piacere ai principî.

Per un poco egli provò una naturale ripugnanza per l'opera ch'era
destinato a compiere; ma poi si convinse che non era un delitto, ma un
sacrificio: e la sua ragione gli rammentò che nessun'altra via gli era
possibile. Bisognava scegliere fra il vivere per sè e il vivere per
gli altri, e, per quanto il suo compito fosse terribile, egli sapeva
di non dover lasciar trionfare l'egoismo su l'amore, perchè, presto
o tardi, ciascuno di noi è chiamato a risolvere lo stesso problema. A
lord Arturo esso veniva presentato assai presto nella vita, prima che
il cinismo avesse corroso il suo cuore e l'egoismo intaccato il suo
carattere; per cui egli non esitò a fare il suo dovere.

Fortunatamente egli non era un sognatore, nè uno sfacendato dilettante.
Se fosse stato tale, egli avrebbe, come Amleto, esitato lasciando con
la sua esitazione rovinare il piano. Egli era invece essenzialmente
pratico; la vita, per lui, era azione più che pensiero. Egli possedeva
il più raro dei doni, il senso comune.

I crudeli sentimenti della sera innanzi si erano completamente
dileguati, ed egli provava quasi vergogna ripensando alla pazza fuga
per le vie della città ed alla terribile agonia della notte. Egli
si domandava ora come avesse potuto esser così dissennato da dare in
escandescenza contro l'inevitabile.

L'unica questione che ancora lo turbava era come avrebbe egli
potuto compiere la sua missione, poichè l'omicidio, come i riti del
paganesimo, esige una vittima ed un sacerdote.

Non essendo un genio, non aveva nemici, nè era il caso di soddisfare
qualche personale rancore; la sua missione conteneva una grave
solennità.

Fece una lista dei nomi dei suoi amici e parenti sopra un foglietto
del taccuino, e dopo un rigoroso esame, si decise per lady Clementina
Beauchamp, una cara vecchia che abitava in Curzon-Street, sua cugina in
secondo grado, per parte di madre.

Lord Arturo aveva sempre amato lady Clem — così la chiamavano tutti,
— e siccome egli era ricco, in seguito all'eredità lasciatagli da lord
Rugby, nessun avrebbe potuto vedere in quella morte un fine pecuniario.

Veramente, più egli rifletteva e più lady Clem gli pareva la persona da
scegliersi e, persuaso che ogni indugio era una cattiva azione verso
Sibilla, dicise di occuparsi subito dei preparativi. La prima cosa da
farsi era, indubbiamente, regolare il conto del chiromante.

Si sedette dunque al tavolo e riempì uno _chèque_ di cento ghinee,
pagabile all'ordine del signor Septimus Podgers. Quindi telefonò al suo
cocchiere di attaccare la vettura e si vestì per uscire.

Nel lasciare la stanza, gettò uno sguardo sul ritratto di Sibilla
Merton e giurò che qualunque cosa accadesse, le avrebbe sempre
lasciato ignorare ciò ch'egli compiva per amor suo e che avrebbe sempre
conservato il segreto del suo sacrificio nel più profondo del cuore.

Recandosi al club Buckingham, si fermò da una fioraia ed inviò a
Sibilla una bella cesta di narcisi, dai petali bianchi e dai pistilli
simili agli occhi del fagiano.

Giunto al club, si recò direttamente alla biblioteca, ordinò al
cameriere un bicchiere di citrato di soda, e chiese un libro di
tossicologia.

Per la sua triste opera, il veleno era il mezzo migliore, assolutamente
migliore. Nulla gli ripugnava più della violenza, e del resto era ben
costretto a trovare, per uccidere lady Clem, un mezzo che non attirasse
l'attenzione pubblica, poichè gli faceva orrore l'idea di diventare
la curiosità del giorno in casa di lady Windermere, o di vedere il suo
nome sui giornali, in pasto al pubblico.

Egli doveva, inoltre tener conto del padre e della madre di Sibilla, i
quali, appartenendo ad un secolo puritano avrebbero potuto opporsi al
matrimonio, in caso di scandalo; — per quanto egli fosse persuaso che
se avesse fatto loro conoscere le causa della cosa, sarebbero stati i
primi ad apprezzare la sua condotta.

Aveva dunque tutte le ragioni per decidersi in favore del veleno,
sicuro negli effetti e scevro di rumore. Il veleno avrebbe agito senza
bisogno di ricorrere ad atti brutali, per i quali, come la maggior
parte degli inglesi, provava una profonda avversione.

Però non conosceva nulla della scienza dei veleni, e siccome il
cameriere non sembrava capace di trovare nella biblioteca altro
che la _Guida di Ruff_ ed il _Baily's Magazine_, cercò egli stesso
negli scaffali e finì per scoprire un'edizione della _Farmacopea_ ed
un esemplare della _Toxicologia_ di Erskine, edita da Mathew Reid,
presidente del Collegio reale dei medici ed uno dei più antichi membri
del club Buckingham, dove era stato eletto per sbaglio, confuso con un
altro candidato.

Lord Arturo rimase molto sconcertato dai termini tecnici impiegati
nei due libri, e si pentì di non aver fatto maggiore attenzione alle
lezioni di Oxford; ma finalmente nel secondo volume di Erskine,
trovò una narrazione interessantissima e completa delle proprietà
dell'acconito, scritta in modo semplice e chiaro.

Questo era proprio il veleno che gli abbisognava. I suoi effetti,
diceva il libro, sono quasi immediati; non dà spasimi, e preso sotto
forma di un globulo di gelatina, secondo il modo raccomandato da sir
Matkew, non ha nulla di sgradevole.

Lord Arturo prese nota sul suo taccuino della dose necessaria per
produrre la morte, ripose il volume nello scaffale, e risalì la via di
S. Giacomo fino a Pestle e Humbey, la grande farmacia di Londra.

Pestle, che serviva sempre personalmente i suoi clienti
dell'aristocrazia, rimase sorpreso alla richiesta del giovane, e
molto deferentemente gli mormorò qualche parola sulla necessità di una
ricetta medica. Ma appena lord Arturo gli ebbe spiegato che il veleno
doveva servire per un grosso cane di Norvegia, del quale era costretto
disfarsi, perchè mostrava sintomi d'idrofobia, parve pienamente
soddisfatto e si congratulò col suo cliente della meravigliosa
conoscenza ch'egli aveva della tossicologia.

Lord Arturo, avuta la capsula, la mise in una bella bomboniera
d'argento, veduta e comprata in una oreficeria in Bond-Street, e quindi
si avviò verso la dimora di lady Clementina.

— Ebbene! cattivo ragazzo, — esclamò la vecchia dama vedendolo entrare
nel suo salotto, — perchè non sei più venuto a trovarmi da tanto tempo?

— Cara lady Clem, — rispose sorridendo lord Arturo, — non ho mai un
momento libero....

— Vuoi dire che trascorri tutto il giorno con miss Sibilla Merton a
comprare trine e a dire sciocchezze.... Io non so comprendere perchè
la gente si affanni tanto per sposarsi. Ai miei tempi non si sarebbe
neppure sognato di far tanti preparativi, in pubblico e in privato, per
una cosa simile!

— Vi assicuro che non ho veduto Sibilla da più di ventiquattro ore,
lady Clem.

A quel che so, ella appartiene ora tutta alle sue sarte.

— Ah bene! Ed è questa l'unica ragione che ti conduce presso una
vecchia brutta e noiosa come me? Io mi stupisco che voi uomini non
sappiate congedarvi dalle donne quando hanno raggiunto la mia età. E
dire che si son commesse della pazzie per me, ed eccomi ora un povero
essere reumatizzato, con una parrucca ed una salute pessima! Se non
fosse quella cara lady Gansen, che m'invia i peggiori romanzi francesi
che si pubblichino, io non saprei veramente come passare le giornate. I
medici non servono più che a prender danari ai clienti.... Non riescono
neppure a guarirmi lo stomaco....

— Vi ho portato io un rimedio per questo, — interruppe gravemente lord
Arturo. — È una cosa sorprendente, scoperta da un americano....

— Io non amo le invenzioni americane. Ho letto qualche tempo fa alcuni
romanzi di quei paesi e li ho trovati pieni di stupida vanità.

— Non è tutto così lady Clem. Vi assicuro che questo è un rimedio
radicale. Dovete promettermi di provarlo.

E lord Arturo trasse dalla tasca la piccola bomboneria e la porse a
lady Clementina.

— Questa bomboniera è un delizioso gioiello, Arturo. È veramente
gentile da parte tua.... E questo è il portentoso rimedio?.... Ha
l'aria di un dolce. Voglio prenderlo subito.

— Dio del cielo, lady Clem! — esclamò lord Arturo, trattenendole il
braccio. — Non lo fate. È una medicina omeopatica: se voi la prendete
senza aver male allo stomaco, non vi farà nulla. Aspettate di avere una
crisi ed allora ingoiatela: rimarrete sorpresa del risultato.

— Avrei voluto prenderla subito, — disse lady Clementina, guardando
contro luce la piccola capsula trasparente. — Sono certa che è
deliziosa.... Ti confesso ch'io detesto i medici, ma adoro le
medicine.... Tuttavia ti prometto di conservarla fino alla mia prossima
crisi.

— E quando sopravverrà questa crisi? Molto presto?

— Spero non prima di una settimana. Ieri ho passato una cattivissima
giornata.

— Siete dunque sicura di avere una crisi avanti la fine del mese, lady
Clem?

— Lo temo; ma come sei premuroso con me, Arturo! L'influenza di Sibilla
ha veramente un effetto benefico. Ed ora bisogna salutarci. Io ho a
pranzo delle persone avvizzite, persone che non sono gaie, e sento
che se non faccio una dormitina adesso, mi sarà impossibile tenere
gli occhi aperti durante il pranzo. Addio Arturo. Dì a Sibilla che
le voglio molto bene; e mille grazie a te per il prodigioso rimedio
americano.

— Non dimenticherete di prenderlo, non è vero?

— Sta sicuro, non lo dimenticherò, birbantello.... Ti scriverò per
dirti se mi abbisognano altri globuli.

Lord Arturo lasciò la casa di lady Clementina più sollevato.

La sera ebbe un colloquio con Sibilla e le disse di trovarsi in una
posizione terribilmente difficile e che il suo onore e il suo dovere
gli imponevano di procrastinare le nozze. La supplicò di aver fiducia
in lui e di non dubitare dell'avvenire.

La scena ebbe luogo nella serra del palazzo Merton, dove lord Arturo
aveva pranzato, come di consueto.

Sibilla non gli era mai apparsa più felice, ed egli per un momento
era stato tentato di agire vilmente, di scrivere a lady Clem che non
prendesse il rimedio e di lasciare che le nozze si compissero, come se
al mondo non esistesse un Podgers. Ma il suo carattere vinse e anche
quando Sibilla si lasciò cadere nelle sue braccia, piangendo, egli non
perdette la sua calma.

La bellezza che faceva vibrare i suoi nervi, aveva anche toccato la sua
coscienza. Egli sentì che per far naufragare una vita così bella, per
solo qualche mese di piacere, sarebbe stata veramente una volgarità, e
più che mai si fece ferma la sua risoluzione.

Rimase con Sibilla fin quasi a mezzanotte, cercando di confortarla, e,
confortato egli stesso, l'indomani mattina partì per Venezia, dopo aver
scritto al signor Merton una lettera seria ed esplicita sulla necessità
di aggiornare le nozze.


IV.

A Venezia lord Arturo trovò suo fratello, lord Surbiton, reduce col suo
_Yacht_ da Corfù.

I due giovani trascorsero insieme una quindicina di giorni deliziosi.
Di mattina passeggiavano sul Lido, oppure vagavano quà e là per i verdi
canali, nella loro lunga gondola nera. Nel pomeriggio usavano ricevere
sullo _Yacht_ delle visite e la sera cenavano al Florian e fumavano un
infinito numero di sigarette.

Malgrado ciò, lord Arturo non era felice. Ogni giorno percorreva
attentamente nel _Times_ la «colonna dei decessi», in attesa di vedervi
la notizia della morte di lady Clementina; ma ad ogni giorno aveva una
delusione.

Cominciò a temere che qualche incidente fosse intervenuto e maledì
più volte il momento in cui le aveva impedito di prendere l'aconito lo
stesso giorno in cui ella si era mostrata così desiderosa di provarne
gli effetti.

Le lettere di Sibilla, sebbene piene di passione e di fede, erano
talvolta profondamente tristi, talmente che egli pensava che fra loro
tutto fosse finito.

Dopo una quindicina di giorni, lord Surbiton si sentì stanco di Venezia
e decise di percorrere la costa fino a Ravenna, avendo sentito dire che
vi era una grande caccia nella famosa pineta.

Lord Arturo voleva assolutamente rifiutarsi di accompagnarlo, ma
Surbiton, ch'egli amava molto, lo persuase, affermandogli che ove
avesse continuato a rimanere all'albergo Danieli, sarebbe morto di
noia. Per cui, il quindicesimo giorno, essi fecero vela con un forte
vento nord-est ed un mare agitatissimo.

La traversata fu piacevole. La vita all'aria libera colorì nuovamente
le gote di lord Arturo ma dopo il ventiduesimo giorno egli fu di
nuovo assalito dal pensiero di lady Clem e, malgrado le rimostranze di
Surbiton, prese il treno per Venezia.

Quando fu sbarcato dalla gondola all'ingresso dell'albergo, il
proprietario gli consegnò, con un inchino, alcuni telegrammi. Egli li
aprì bruscamente.

Tutto era riuscito: lady Clementina era morta improvvisamente, di
notte, cinque giorni innanzi.

Il primo pensiero di lord Arturo fu per Sibilla: le inviò un
telegramma, annunziandole il suo immediato ritorno a Londra. Quindi
ordinò al cameriere di preparargli i bauli per poter prendere il
direttissimo della sera, pagò cinque volte più dello stabilito i
suoi gondolieri e con passo leggiero e l'animo allegro salì nella sua
stanza.

Tre lettere lo attendevano. Una di Sibilla, piena di affetto e
condoglianza; le altre due di sua madre e dell'avvocato di lady
Clementina.

Lady Clementina, diceva la lettera, aveva cenato con la duchessa la
sera precedente alla sua morte. Aveva anzi entusiasmato tutti i parenti
con il suo spirito; ma poi si era ritirata nelle sue stanze molto
presto, lamentando dei dolori allo stomaco.

La mattina seguente era stata trovata morta nel proprio letto: il
suo volto non mostrava nessun segno di sofferenza. Sir Mathew Reid,
chiamato d'urgenza, non aveva potuto far nulla ed il cadavere era stato
seppellito a Beauchamp Chalest. Pochi giorni prima la vecchia dama
aveva fatto il suo testamento, lasciando a lord Arturo la sua piccola
casa di Curzon-Street, tutto il mobilio, i suo effetti personali e la
sua galleria di quadri, eccettuata la collezione di miniature ch'ella
donava a sua sorella, lady Margaret Rufford, e il suo braccialetto di
ametiste, che lasciava in dono a Sibilla Merton.

Gl'immobili non avevano alcun valore, ma l'avvocato Mansfield
desiderava che lord Arturo tornasse al più presto possibile perchè vi
erano molti conti da saldare, non avendo lady Clementina tenuto mai
conti in regola.

Lord Arturo rimase commosso del buon ricordo di lady Clementina e
pensò che Podgers aveva veramente una grande responsabilità in quella
faccenda.

Il suo amore per Sibilla dominava però ogni altro sentimento e
la coscienza di aver fatto il proprio dovere gli procurava pace e
conforto.

Giunto a Charing-Cross, si sentì completamente felice.

I Merton l'accolsero con grande effusione: Sibilla gli disse che non
poteva sopportare altri ostacoli fra di loro, — e le nozze furono
stabilite per il sette giugno.

La vita gli si presentava ancor bella e seducente.

Un giorno, egli stava facendo l'inventario della sua nuova casa di
Curzon-Street insieme all'avvocato di lady Clementina e a Sibilla, e
bruciava dei pacchetti di lettere giovanili, quando la fanciulla emise
ad un tratto un piccolo grido di gioia.

— Cosa avete trovato, Sibilla? chiese lord Arturo, levando la testa dal
suo lavoro, e sorridendo.

— Questa graziosissima bomboniera d'argento. È un lavoro molto
delicato, certamente olandese.... Volete darmela? Le ametiste non mi
staranno bene fin quando non avrò quarant'anni, ne son certa.

E la fanciulla mostrò la bomboniera che aveva contenuto l'aconito.

Lord Arturo trasalì e un vivo rossore gl'imporporò il volto.

Egli aveva quasi dimenticato, e gli sembrò una coincidenza ben strana
che Sibilla, per l'amore della quale egli aveva attraversato tante
angoscie, fosse la prima a rammentarglielo.

— Certamente, Sibilla, prendetela.

— Grazie, Arturo, grazie. Ed avrò anche il _bonbon_?.... Io non sapevo
che lady Clementina fosse amante dei dolci.... la credevo molto più
intellettuale.

Lord Arturo divenne terribilmente pallido e un'orribile idea gli
attraversò la mente.

— Un _bonbon_, Sibilla! Che volete dire? — chiese con voce rauca e
bassa.

— Ne contiene uno solo. Sembra vecchio e sporco, ed io non ho alcun
desiderio di mangiarlo.... Ma cosa vi accade, Arturo?.... Come siete
pallido!

Lord Arturo fece un salto attraverso la sala ed afferrò la bomboniera.

In essa era contenuta la capsula color ambra con entro il liquido
velenoso.

Lady Clem era dunque spirata di morte naturale!

Lord Arturo sentì quasi mancarsi le forze; gettò la capsula nel fuoco e
si lasciò cadere sul divano, con un grido disperato.


V.

Il signor Merton rimase ben addolorato quando lord Arturo gli annunziò
che le nozze dovevano essere rimandate una seconda volta, e lady
Giulia, che già aveva ordinato il corredo, fece di tutto per indurre
Sibilla ad una rottura.

Però, per quanto Sibilla amasse teneramente sua madre, ella aveva fatto
dono di tutta la sua vita al giovane fidanzato, e le parole della madre
non valsero a farla mancare alla sua fede.

Quanto a lord Arturo, trascorsero parecchi giorni prima ch'egli avesse
potuto riaversi dalla crudele delusione.

Ma il suo buon senso trionfò di nuovo e la sua mente sana e pratica non
gli permise di esitare più a lungo sulla condotta da tenere.

Poichè il veleno aveva fallito, ciò che conveniva ormai usare era la
dinamite o qualsiasi altro esplosivo. Passò quindi di nuovo in rassegna
i nomi degli amici e parenti e, dopo serie riflessioni, si decise a far
saltare in aria suo zio, il pastore di Chichester.

Il pastore, uomo di savia cultura, aveva una passione straordinaria
per gli orologi. Ne possedeva una splendida collezione, che andava dal
secolo XV ai nostri giorni. Parve a lord Arturo che questa mania del
buon pastore fornisse una ottima occasione alla realizzazione dei suoi
piani.

Un grave problema però era quello di procurarsi una macchina esplosiva.

Il _London Directory_ non gli forniva nessuna notizia su ciò, ed egli
pensò che non gli sarebbe stato di grande utilità recarsi all'ufficio
di polizia di Scotland Yard, giacchè ivi non si era informati delle
gesta dei dinamitardi se non quando un'esplosione era già avvenuta. Ad
un tratto si ricordò del suo amico Rouvaloff, un giovane russo dalle
tendenze rivoluzionarie, conosciuto l'anno precedente in casa di lady
Windermere.

Il conte Rouvaloff passava per scrittore, e si diceva ch'egli
attendesse alla storia di Pietro il Grande e fosse anzi venuto in
Inghilterra appunto per studiare i documenti relativi al soggiorno
dello Czar in questo paese. Ma era poi voce generale che fosse un
agente nichilista, e non bene visto dall'ambasciata russa a Londra.

Lord Arturo pensò che quello era proprio l'uomo che gli abbisognava, ed
un mattino si recò al suo appartamento a Bloomsbury.

— Volete dunque occuparvi seriamente di politica? — chiese il conte
Rouvaloff, quando lord Arturo gli ebbe esposto lo scopo della sua
visita.

Ma lord Arturo odiava qualsiasi menzogna, e si credette in dovere di
spiegargli che le questioni sociali non l'interessavano affatto, che
aveva bisogno di un esplosivo famigliare, il quale non riguardava che
lui soltanto.

Il conte Rouvaloff lo fissò per qualche istante con sorpresa.

Poi, vedendo che egli aveva parlato seriamente scrisse sopra un
biglietto di carta un indirizzo, lo firmò con le sue iniziali e lo
porse a lord Arturo a traverso il tavolo.

— A Scotland Yard darebbero chi sa che cosa per conoscere questo
indirizzo, caro amico.

— Ma non lo avranno! — esclamò lord Arturo ridendo.

E dopo aver calorosamente stretta la mano al giovane russo, scese
precipitoso le scale, guardò di nuovo il foglietto e ordinò al suo
cocchiere di condurlo a Soho-Square. Là, lo congedò e seguì a piedi la
via Greek fino a piazza Bayle. Passò sotto il viadotto e si trovò in un
curioso vicolo cieco, occupato da una lavanderia francese. Da un muro
all'altro si stendevano numerose corde con appese delle tele bianche
ondeggianti sotto l'aria mattutina.

Lord Arturo attraversò la corte e picchiò alla porta di una piccola
casa verde.

Dopo qualche minuto, la porta si aprì ed apparve sulla soglia uno
straniero, dall'aspetto rozzo, che gli chiese in un cattivo inglese
cosa desiderasse.

Lord Arturo gli tese il biglietto del conte Rouvanoff.

Appena lo ebbe scorso l'uomo si inchinò ed invitò il giovane ad entrare
in una piccola stanza.

Pochi momenti dopo, Herr Wincnel-Kopp, come veniva chiamato in
Inghilterra, entrò nella stanza, con una salvietta, macchiata di vino,
intorno al collo ed una forchetta in mano.

— Il conte Rouvanoff, — disse lord Arturo inchinandosi, — si è offerto
di presentarmi a voi, ed io spero che vorrete concedermi un colloquio
per una questione di affari. Io mi chiamo Smith... Roberto Smith, ed ho
bisogno di un orologio esplosivo.

— Sono molto lieto di servirvi, lord Arturo, — replicò maliziosamente
il piccolo tedesco dando in una risata. — Non mi guardate con aria così
spaventata... È mio dovere di conoscere tutti: Mi rammento di avervi
incontrato una sera nella casa di lady Windermere. Spero che Vostra
grazia stia bene... Volete venire a sedervi vicino a me, finchè non
abbia terminato di cenare?

Ho un eccellente pasticcio ed i miei amici, che sono buoni conoscitori,
affermano che il mio vino del Reno è migliore di quello che si può bere
all'Ambasciata di Germania.

E, prima che lord Arturo avesse avuto il tempo di riaversi dalla
sorpresa, si trovò seduto in un'altra saletta, dinanzi a del delizioso
Marcobrünner in una coppa di cristallo ornata col monogramma imperiale.

— Gli orologi esplosivi, — disse Herr Winckelkopp, — non sono un
buon articolo di esportazione per l'estero, anche se si riesce a
farli passare in dogana. Il servizio dei treni è così irregolare che,
abitualmente, gli orologi finiscono con l'esplodere prima d'essere
giunta a destinazione. Se però vi è necessario uno di questi congegni,
posso offrirvi un articolo eccellente e vi garantisco che rimarrete
soddisfatto del risultato. Posso chiedervi a quale uso lo destinate?
Se è per la polizia, mi spiace di non poter far nulla per voi. I
poliziotti inglesi sono davvero i nostri migliori amici. Io ho sempre
constatato che, tenendo conto della loro stupidità, si può fare
assolutamente tutto ciò che si vuole; non vorrei dunque torcere neppure
un capello ad uno di essi.

— Vi assicuro che non ho niente che fare con la polizia. Per dirvi il
vero, l'orologio è destinato al pastore di Chichester.

— Per Bacco!... Non vi supponevo talmente nemico della religione, lord
Arturo. I giovani di oggi non si occupano in genere di simili cose.

— Credo che voi mi stimiate più di quello che io meriti, Herr
Winckelkopp, — soggiunse lord Arturo arrossendo. — Io sono
completamente ignorante in teologia.

— Allora si tratta di un affare personale?

— Appunto.

Herr Winckelkopp alzò le spalle ed uscì dalla saletta. Cinque minuti
dopo riapparve con un piccolo rotolo di dinamite ed un orologio
francese, sormontato da una figurina della Libertà che calpesta l'idra
del dispotismo.

Il volto di lord Arturo s'illuminò.

— Ecco ciò che mi occorre. Ed ora ditemi come esplode.

— Ah! questo è il mio segreto, — rispose Herr Winckelkopp, contemplando
con orgoglio la sua invenzione. — Ditemi solo quando vi occorre che
esploda ed io regolerò il meccanismo per l'ora indicata.

— Sta bene! Oggi è martedì e potete prepararmelo subito....

— Impossibile. Ho molto lavoro, un lavoro urgentissimo per alcuni amici
di Mosca.

— Sarete sempre in tempo, rimettendo questo lavoro a domani sera o a
giovedì mattina.... Quanto al momento dell'esplosivo, sia per venerdì a
mezzogiorno. A quell'ora il pastore è sempre in casa.

— Venerdì, a mezzogiorno, — ripetè il tedesco, e l'annotò sopra un
grande registro aperto su di una scrivania.

— Ed ora ditemi quanto vi debbo, — chiese lord Arturo alzandosi.

— Poca cosa, lord Arturo. La dinamite costa sette scellini e mezzo; il
movimento d'orologeria tredici scellini e la cassa cinque scellini.

Sono troppo felice di poter servire un amico del conte Rouvaloff....

— Ma il vostro incomodo, Herr Winckel-Kopf?

— Oh! nulla. È un piacere per me. Io non lavoro per il danaro: vivo
interamente per la mia arte.

Lord Arturo pose il danaro sul tavolo, ringraziò il piccolo tedesco
della sua cortesia e lasciò in fretta la casa.

Per due giorni lord Arturo rimase in preda ad una grande eccitazione.

Il venerdì, a mezzogiorno, si recò al _club_ Buckingham per attendere
notizie.

Per tutto il pomeriggio lo stupido servitore recò telegrammi da ogni
parte dello stato, col resoconto delle corse di cavalli, i verdetti
delle cause di divorzio, il resoconto della seduta notturna alla Camera
dei Comuni e del piccolo panico scoppiato in borsa a Londra.

Alle quattro, finalmente, comparvero i giornali della sera e lord
Arturo si rifugiò nella sala di lettura con il _Pall Mall Gazzette_ con
la _James's Gazzette_, col _Globe_ e l'_Echo_, lasciando indignato il
colonnello Goodchild, che desiderava ardentemente leggere il resoconto
di un discorso da lui pronunziato la mattina in casa del _Lord-Maire_
sopra le missioni sud-africane e sulla convenienza di avere in ogni
provincia vescovi negri.

Scorse impaziente i vari giornali, ma neppure in uno trovò il nome di
Chichester: l'attentato non era dunque riuscito! Rimase per qualche
istante completamente affranto.

Il signor Winckelkopf, ch'egli andò a trovare l'indomani, si sprofondò
in grandi scuse e si offrì di dargli gratuitamente un altro orologio
o una cassa di bombe di nitro-glicerina, a prezzo di costo; ma lord
Arturo, che aveva ormai perduto ogni fiducia negli esplosivi del
piccolo tedesco, dovette persuadersi che a questo mondo tutto è
falsificato e che era assurdo attendersi qualche cosa dalla dinamite
germanica.

Herr Winckelkopf, pur ammettendo che il movimento di orologeria fosse
in qualche punto difettoso, lo assicurò che l'orologio poteva esplodere
ancora e citò, ad esempio della sua tesi, il caso di un barometro
ch'egli aveva inviato una volta al governatore militare di Odessa,
barometro che doveva esplodere il decimo giorno.

Per tre anni questo barometro era invece rimasto intatto, ma un
bel giorno aveva esploso, facendo in tanti pezzi solo la serva del
governatore, perchè questi aveva lasciata la città sei settimane prima.
Se l'effetto non era stato proprio quello voluto, ciò provava però che
la dinamite, come forza distruttrice, sotto l'impero di un movimento di
orologeria, era un mezzo possente, anche se inesatto.

Lord Arturo rimase alquanto sollevato da queste informazioni: ma doveva
aver presto un nuovo disinganno.

Due giorni dopo, mentre saliva le scale, la duchessa lo chiamò nel suo
salottino e gli fece vedere una lettera ricevuta in quel punto.

— Giovanna mi scrive lettere graziosissime: leggi quest'ultima; è
interessante come i romanzi che ci manda Maudie.

Lord Arturo prese vivamente la lettera e lesse:

                                                           27 maggio.

  _Carissima zia_,

Ti ringrazio tanto per la flanella che mi hai mandato per la società
Dorcas, e anche per le trine.

Hai ragione quando dici assurdo il bisogno di portare delle cose
graziose; ma oggi sono tutti così radicali, così irreligiosi che è
difficile far loro capire che non devono avere i gusti e l'eleganza
delle classi elevate.

Non so davvero dove finiremo! Come dice papà nei suoi sermoni, noi
viviamo in un secolo d'incredulità. Noi abbiamo avuto un bel caso
per un piccolo orologio a pendolo, inviato da un ammiratore ignoto a
papà, giovedì scorso. Ci è arrivato da Londra, porto franco, in una
cassettina di legno e papà crede che gli sia stato mandato da qualche
lettore del suo sermone «La licenza e la libertà», essendo l'orologio
sormontato da una figura di donna, con un berretto frigio in testa.

Partier spacchettò l'oggetto e papà lo mise sul caminetto della
biblioteca.

Eravamo venerdì mattina tutti seduti in questa stanza, quando, al
momento in cui l'orologio a pendolo suonava mezzogiorno, udimmo come
uno sbattere d'ali; un buffo di fumo uscì dal piedistallo della Dea
della Libertà e questa cadde e si ruppe il naso sul parafuoco.

Maria ebbe un po' di paura, ma la cosa era così ridicola che Giacomo ed
io ne ridemmo sonoramente ed anche papà ci fece coro.

Quando esaminammo l'orologio, ci avvedemmo che, mettendo la lancetta
sopra una data ora, dopo aver posto della polvere e una capsula
fulminante sotto un piccolo martello, si poteva produrre a piacere
lo scoppio. Papà disse che era una pendola troppo rumorosa per la
biblioteca. Credi tu che Arturo gradirebbe un dono di nozze come
questo? Io suppongo che a Londra debba esser di moda. Papà dice anzi
che questi orologi sono atti a far del bene, perchè fanno vedere
che la libertà non è duratura e che il suo regno deve finire con una
caduta. Papà dice pure che la Libertà è stata inventata al tempo della
rivoluzione francese.

Vado subito dai Docars e leggerò loro la tua lettera così istruttiva.
Quanto hai ragione, zia mia, dicendo che, malgrado la loro condizione,
essi non hanno altro desiderio se non quello di portare ciò che loro
non conviene. Tale eccesiva preoccupazione del vestire è assurda;
mentre ben più gravi preoccupazioni dovrebbero avere in questo mondo e
nell'altro!

Sono contenta che la tua stoffa di lana a fiori vada bene e la tua
trina non sia lacerata. Mercoledì porterò al Vescovo la seta gialla che
mi hai regalata e credo che farà grande effetto.

Hai dei nastri? Giannina dice che oggi tutti ne portano.

L'orologio donatoci ha ancora esploso e papà ha ordinato di portarlo in
scuderia. Non credo che gli piaccia come quando lo ricevette, sebbene
sia contento di un regalo così grazioso e ingegnoso: Ciò prova che
si leggono i suoi sermoni e se ne trae profitto. Papà ti saluta, e
Giacomo, Reggie e Maria si uniscono a lui sperando che la gotta dello
zio Cecilio vada meglio.

Credimi, cara zia, tua nipote affezionata

                                                     GIOVANNA PERCY».

«P. S. — Rispondimi circa i nastri. Giannina sostiene che sono di moda».

Lord Arturo guardò la lettera con una ciera così seria e così infelice,
che la duchessa scoppiò a ridere:

— Arturo mio, non ti farò più vedere una lettera di una fanciulla,
se fai un viso simile!... Ma cosa pensi di quella pendola? Mi sembra
un'invenzione veramente curiosa e vorrei averne una anch'io.

— Non ho molta fiducia in simili orologi, — rispose lord Arturo con un
sorriso malinconico, ed abbracciò sua madre.

Salite le scale, si gettò su di una poltrona, e gli occhi gli si
empirono di lagrime.

Aveva fatto quanto poteva per compiere un delitto, e per due volte i
suoi tentativi avevano fallito, e non per colpa sua. Aveva cercato di
fare il suo dovere, ma sembrava che il destino lo tradisse...

Si sentiva ormai accasciato dal sentimento della sterilità delle sue
buone intenzioni, dall'inutilità dei suoi sforzi per una bella azione.
Era forse meglio compiere il matrimonio. Sibilla ne avrebbe sofferto,
è vero; ma il dolore non avrebbe guastato un carattere nobile come il
suo.

In quanto a lui, egli sarebbe partito! Vi sono sempre delle guerre dove
un uomo può farsi uccidere, esiste sempre qualche causa cui un uomo può
fare olocausto della propria vita; e giacchè la vita non aveva gioie
per lui, la morte non lo spaventava. Seguisse il destino il fatale suo
cammino! Egli non avrebbe fatto nulla per arrestarlo.

Alle sette e mezzo passate si vestì e si recò al circolo.

Surbiton vi era con un gruppo di giovani eleganti, e lord Arturo fu
costretto a cenare insieme ad essi. La loro conversazione banale, i
loro scherzi oziosi non l'interessavano, e appena servito il caffè se
ne andò, sotto il pretesto di un convegno.

Mentre usciva dal circolo, il portiere gli consegnò una lettera.
Era del signor Wickelkop che l'invitava per la sera dopo a vedere un
ombrello esplosivo; era l'ultima invenzione: veniva da Ginevra.

Lord Arturo stracciò la lettera in mille pezzi. Era deciso a non
ricorrere più a nuovi tentativi.

Errò lungo il Tamigi, e per delle ore rimase seduto presso il fiume.
La luna apparve attraverso un velo di nubi fulve, come l'occhio di un
leone dietro una criniera, e innumerevoli stelle smaltarono l'abisso
dei cieli, come polvere d'oro seminata sopra una cupola rossa.

Sul fiume torbido passava, di quando in quando, un battello che seguiva
la strada dondolandosi a seconda della corrente. I segnali della
ferrovia, da verdi si fecero rossi, e i treni traversarono il ponte
fischiando acutamente.

Dopo mezzanotte risuonò un rumore sordo sulla piccola torre di
Westminster e ad ogni colpo della campana sembrava che la notte
tremasse.

Poi, i lumi della ferrovia si spensero, e solo una lampada solitaria
seguitò a brillare come un grosso rubino sull'albero gigantesco di una
barca; ed ogni rumore della città cessò.

Alle due, lord Arturo si alzò avviandosi dalla parte di Blackfriars.
Come ogni cosa sembrava fantastica, simile ad un strano sogno!

Dall'altra parte del fiume le case erano avvolte nelle tenebre; si
sarebbe detto che l'argento e l'ombra avessero modellato un mondo tutto
nuovo.

L'enorme cupola di S. Paolo si disegnava come un globo attraverso la
nerastra atmosfera. Avvicinandosi alla colonna di Cleopatra, lord
Arturo scorse un uomo appoggiato al parapetto, ed alla luce del
lampione lo riconobbe: era Podgers.

Lord Arturo, vedendo il volto grasso e floscio, gli occhiali d'oro, il
sorriso malato, la bocca sensuale del chiromante, si fermò.

Un'idea gli era balenata nella mente. Scivolò leggermente presso
Podgers e in un attimo lo afferrò per le gambe e lo precipitò nel
Tamigi. Un'imprecazione, un gorgoglio d'acqua, e nulla più. Lord Arturo
guardò ansiosamente la superficie del fiume; non vide che un piccolo
cappello che girava in un gorgo d'acqua argentata dal chiaro di luna.
Dopo qualche minuto anche il cappello scomparve.

Per un momento, egli credette di vedere una grande ombra informe che si
slanciava per la scaletta del ponte, e temette di non essere riuscito.
Presto però si avvide che questa immagine era un riflesso, e, quando
la luna brillò nuovamente fuori dalle nuvole, anche il riflesso si
dileguò.

I decreti del destino si erano dunque realizzati! Egli emise un
profondo sospiro di sollievo e il nome di Sibilla salì alle sue labbra.

— Vi è caduto qualcosa nell'acqua? — chiese ad un tratto una voce
dietro di lui.

Si voltò bruscamente e vide una guardia che teneva in mano una lanterna
cieca.

— Oh! niente che valga la pena di occuparsene, — rispose egli
sorridendo. E, chiamata una carrozza che passava, vi saltò dentro e
disse al cocchiere di condurlo in via Belgrave.

I giorni che seguirono, lord Arturo fu ora allegro, ora inquieto. Vi
erano dei momenti in cui si aspettava quasi di vedere entrare Podgers
nella sua camera e altre volte pensava che la fortuna non poteva essere
ingiusta verso di lui.

Due volte si recò sino alla casa del chiromante in via West Moon, ma
non osò suonare. Era ansioso e temeva di aver la certezza. Alla fine
questa venne.

Stava seduto nella sala da fumare del circolo prendendo il _Thè_ e
ascoltando annoiato Surbiton, che gli dava il resoconto dell'ultima
operetta alla _Gaité_, quando il servo portò i giornali della sera.

Prese la Gazzetta di Saint James e ne sfogliò le pagine distrattamente,
allorchè i suoi occhi furono colpiti da questo strano titolo:

                     «_Suicidio di un chiromante_»

Divenne pallido dall'emozione e lesse il brano.

«Ieri mattina alle 7 il corpo di Settimio R. Podgers, il celebre
chiromante, è stato rigettato sulla sponda a Greenwich, innanzi allo
Ship-Hotel.

«Il disgraziato era scomparso da qualche giorno e i circoli chiromanti
erano molto inquieti per lui: si suppone che siasi suicidato per
una momentanea alterazione delle sue facoltà mentali, causate forse
dal troppo lavoro, e così il giudice ha oggi concluso. Podgers aveva
terminato appena un trattato completo sulla mano umana. Quest'opera
sarà pubblicata quanto prima, ed ecciterà indubbiamente molta
curiosità. Il suicida aveva 65 anni: sembra che non lasci parenti».

Lord Arturo si slanciò fuori del circolo col giornale in mano, con
grande stupore del portiere: corse diretto a Parklane. Sibilla che era
alla finestra lo vide giungere e pensò che recasse buone notizie; gli
corse incontro, e appena lo ebbe guardato comprese che tutto andava
bene.

— Mia cara Sibilla, domani ci sposeremo.

— Pazzo! E la torta nuziale che non è ordinata? — rispose Sibilla
lagrimando di gioia.


VI.

Alla cerimonia delle nozze, circa tre settimane dopo, la chiesa di San
Paolo fu invasa da una folla di persone della migliore società.

Il discorso religioso fu detto in modo commovente dal pastore di
Chichester e tutti furono concordi nell'affermare che mai si era vista
una coppia più bella e più felice.

Mai lord Arturo rimpianse ciò che aveva sofferto per amore di Sibilla,
mentre ella da parte sua dava a lui tutto quello che donna può dare di
meglio ad un uomo, cioè il rispetto, la tenerezza e l'amore.

Per essi la realtà non uccise il sogno. Conservarono sempre la
freschezza dei loro sentimenti e quando, qualche anno dopo, lady
Windermere si recò a visitarli a Alton-Priory, nell'antico castello che
il vecchio duca aveva dato a suo figlio come regalo di nozze, trovò, in
un bel pomeriggio, Sibilla seduta sotto un tiglio del giardino, intenta
a seguire con occhio amoroso un bambino ed un bambina che giocavano tra
le rose.

Ad un tratto lady Windermere, prese la mani dell'amica fra le sue, e le
chiese:

— Siete dunque felice, Sibilla?

— Cara lady Windermere, io sono la donna più felice di questo mondo; e
voi?

— Non ho tempo di esserlo. Ho sempre amato l'ultimo uomo presentatomi,
ma appena ho imparato a conoscerlo me ne sono sentita stanca. Oh! mia
cara; i leoni non sono buoni che per una stagione! Appena si è tagliata
loro la criniera, diventano le creature più noiose della terra. Di
più, se si è gentili con loro, essi finiscono col portarsi male. Vi
ricordate di quell'orribile Podgers? Era uno sfrontato impostore.
Naturalmente non me ne sono accorta subito: quando aveva bisogno di
danaro gliene davo, ma non potevo soffrire che mi facesse la corte.
Mi ha proprio fatto odiare la chiromanzia. Ora è la telepatia che
m'incanta. È molto più divertente.

— Non bisogna dir nulla contro la chiromanzia, lady Windermere. È il
solo tema di cui Arturo non ami che si rida: vi assicuro che su ciò
egli ha idee veramente irremovibili.

— Volete dire che ci crede, Sibilla?

— Domandatelo a lui stesso, lady Windermere. Eccolo.

Lord Arturo attraversava infatti il giardino, con un grosso mazzo
di rose in mano, facendosi largo fra i due ragazzi che gli ballavano
intorno.

— Lord Arturo?

— Ai vostri ordini! lady Windermere.

— Vorreste dirmi se credete veramente nella chiromanzia?

— Certamente, — rispose il giovane sorridendo.

— E perchè?

— Perchè le devo tutta la felicità della mia vita — mormorò sdraiandosi
in una poltrona di vimini.

— Che volete dire con ciò, lord Arturo?

— Le debbo Sibilla, — rispose egli, porgendo le mani a sua moglie e
guardandola intensamente negli occhi ceruli.

— Che sciocchezze! — esclamò lady Windermere. — In vita mia non ho mai
udito una sciocchezza simile!



INDICE


  INTRODUZIONE                      pag. VII
  Il fantasma di Canterville          »    1
  Il delitto di lord Arturo Savile    »   67



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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