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Title: Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile Author: Wilde, Oscar Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile" *** produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) OSCAR WILDE Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile Prima versione italiana di G. VANNICOLA. con disegni di G. MAZZONI. SECONDA EDIZIONE. A. F. FORMIGGINI EDITORE IN ROMA LA PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA degli ornamenti, delle versioni originali e delle note critiche pubblicate in questa collezione SPETTA ESCLUSIVAMENTE ALL'EDITORE il quale, adempiuti i suoi obblighi verso la Legge e verso gli Autori eserciterà i suoi diritti contro chiunque e dovunque. _Copyright 1920: by A. F. Formiggini, Rome._ INTRODUZIONE Non rifarò la biografia d'Oscar Wilde, ormai cosa pubblica, ahimè, troppo pubblica. Più che per la grandezza e la decadenza della sua vita, più che per la stessa sua opera, Wilde interessa sopratutto per il particolare significato che possiamo trarre dalla sua personalità d'eccezione. «Io non rimpiango — scrive egli nel _De profundis_, che è il migliore commento alla tragedia della sua vita — io non rimpiango un solo istante di aver vissuto per il piacere. Io feci questo appieno, come si dovrebbe fare ogni cosa che si fa. Non ci fu piacere che io non sperimentassi; io gettai la perla della mia anima in una coppa di vino; io scesi pel sentiero fiorito di margherite al suono dei flauti; io vissi di favi di miele. Ma continuare la stessa vita sarebbe stato un errore, perchè sarebbe stata una limitazione. Io dovevo andare innanzi: l'altra metà del giardino aveva anche i suoi segreti per me». E aggiunge, nel suo orgoglio di scrittore che vive, pur nel carcere da cui scriveva, la sua vita letteraria con profonda coscienza: «Naturalmente, tutto ciò è adombrato e prefigurato nei miei libri.». Nè avrebbe potuto essere altrimenti. In ogni singolo istante della propria vita, si è quello che si sarà non meno di quello che si è stati. L'arte è un simbolo, perchè l'uomo è un simbolo. «Io non rimpiango un solo istante di aver vissuto per il piacere!» Non i piaceri, il Piacere. Il Piacere, per quanto raro, è un fatto: i piaceri, quantunque abbondanti e comuni, sono una ricerca e quasi sempre vana. Quando si riesce ad opporre al gigante Tædium l'esercito dei nani piaceri, il gigante soffoca i nani con qualche gesto, e riprende la sua posa stanca. I moralisti non concepiscono la parola «Piacere» se non come un richiamo agli appetiti più umili. Esaltano le idee di dovere, di solidarietà, di sacrificio, mai l'idea di godere, di fare della vita una luce, un infinito, un piacere. Secondo le loro abitudini spirituali, un'idea simile è un'idea che offende e degrada. Una filosofia del piacere! Ma significa mancare d'ideale. Rispondiamo senza timore: il piacere può benissimo essere un ideale e molto favorevole allo sviluppo e alla grandezza dell'umanità. Dal Cristianesimo in quà gli uomini non si sono occupati del piacere se non per condannarlo, e gli stessi poeti, così eloquenti sul dolore, hanno trattato il piacere con un certo disdegno. In questi ultimi anni, veramente, è avvenuta una reazione in favore della vita, e la gioia è stata cantata con fervore religioso, troppo religioso forse, ma non con tale famigliarità da far dimenticare la malinconia baudelairiana: Sois sage ô ma douleur et tiens toi plus tranquille. Il dolore ha sempre ispirato poeti, moralisti, filosofi, e fatto dire, ahimè, molte sciocchezze. La filosofia del piacere è ancora da farsi. Ma il numero degli uomini che comprendono che il piacere è il migliore impiego della vita, è molto aumentato. L'assurda metafisica tedesca, la secca nozione del dovere astratto secondo Kant, ha fatto il suo tempo. Si comincia a comprendere che il primo dovere dell'uomo è di godere. Se no, perchè vivere? «Il mio dovere, diceva Wilde, è di terribilmente godere». E godette terribilmente, con passione, con violenza, quasi con delirio. Ogni istante di vita era per lui un'offerta degli Dei. Non si può immaginare nulla di più pagano, di più anticristiano. Riempì di lirismo la sua vita fino all'orlo, come si riempie fino all'orlo una coppa di vino. Aveva il genio, un nome illustre, un'alta posizione sociale. Pareva vivere con lo spirito di Apollo in una intimità profonda e irradiata. Aveva fatto dell'arte una filosofia, e della filosofia un'arte. I suoi scritti insegnavano un modo di pensare che stupiva, seduceva, incantava, dando alle cose altri colori ed altri profumi, avviluppandole di una veste di bellezza, mettendo una rosa ad ogni chiave della viola e ad ogni corda un colore dell'iride. Dava alla verità ora il vero e ora il mendace come imperi legittimi, mostrando che il vero e il mendace sono semplici modi d'esistenza intellettuale. Faceva della poesia una realtà suprema, della sua vita una realizzazione poetica verso cui convergevano, come per incantesimo, tutti i raggi della gloria mondana... Era deliziosamente chino verso il sorriso. Salice e acqua insieme, un'acqua che diceva: «Ascoltatemi, ascoltatemi!» e poi se n'andava, con un piccolo fremito, a fare dei glu glu di narghilè in una qualche ironica Mongolia. Favoleggiava: «C'era una volta un uomo che la gente del villaggio amava, perchè contava storie. Tutte le mattine egli usciva dal villaggio, e quando vi rientrava alla sera, tutti i lavoratori del villaggio, dopo aver travagliato tutto il giorno, gli si adunavano intorno e dicevano: «Via! racconta: Che hai tu veduto oggi?». Egli raccontava: Ho veduto nella foresta un fauno che suonava il flauto, e faceva ballare una corona di piccoli silvani. — Racconta ancora. Che hai tu veduto? dicevano gli uomini. — Quando sono arrivato sulla spiaggia del mare ho veduto tre sirene a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro verdi capelli. — E gli uomini lo amavano perchè contava storie. Una mattina egli abbandonò come tutte le mattine il suo villaggio. Ma quando arrivò alla spiaggia del mare, ecco che egli scorge tre sirene a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro capelli verdi. E continuando la sua passeggiata, egli vide, giunto presso il bosco, un fauno che suonava il flauto a una corona di silvani... Quella sera, quando egli rientrò nel suo villaggio e gli domandarono come le altre sere: Via! racconta: che hai tu veduto? egli rispose: Non ho veduto nulla». Nell'atteggiamento di Oscar Wilde non si suole vedere generalmente che un esasperato bisogno di stupire, d'irritare la curiosità del pubblico. Egli stesso, conveniamone, invitava ad un giudizio così superficiale, grazie alle spumeggianti qualità del suo spirito aristocratico, tutto trine e gioielleria. Ma dietro il brillante fantasma del dandy, dietro il gentleman prezioso, estremo, superlativo, ecco apparire il vero personaggio di Wilde, il fascinante favoleggiatore, il prestigioso datore di estasi, il Bugiardo, com'egli dice, il cui scopo è di sedurre e d'incantare. Ed ecco che sotto il suo alito musicale l'albero di Delfi rinfiora, e nella foresta si solleva il vento delle danze silvane, e a fior delle onde appaiono le sirene... «E la Società non sarà sola a bene accoglierlo, dice Wilde raccogliendo in qualche parola l'essenza stessa della sua estetica. L'arte, evasa dalla prigione del realismo, s'affretterà innanzi a lui e bacierà le sue belle labbra menzognere, sapendo bene che lui solo possiede il segreto delle sue manifestazioni — il segreto che la Verità è assolutamente e interamente questione di stile. E la Vita, stanca di ripetersi a profitto di Spencer, degli storici scientifici e dei compilatori di statistiche, la Vita lo seguirà umilmente e cercherà di riprodurre nella sua maniera semplice e inalterabile qualcuna delle meraviglie ch'egli narra». Tutte le regioni della sua sensibilità sono illuminate da questo pensiero costante, interamente personale, coesistente alla virtù adunatrice di verbi, onnipresente ad ogni manifestazione della sua individualità fino talvolta ad acuirne il senso sottile. Per Wilde, come per Platone, come per Fichte, il mondo reale non è che pura concezione del nostro spirito, e le cose non sono che apparenze delle nostre idee. Egli andava nella vita esultante, recando nelle mani la sua anima sacra di Poeta. Non era Giacinto che veniva a parlare delle rive del lago di Tiberiade; era l'ombra di Orfeo vittoriosa degl'inferni. Si esprimeva per apologhi, pensava in brevi significazioni narrative bagnate di un'atmosfera magnetica che permetteva allo spirito un prolungamento e una suggestione indefinita. E la voce era di una musicalità fine e dolce, quasi un accompagnamento avviluppante la frase elegante e perfetta. Parole speciose, silenzi enigmatici, suggestioni, musiche... E quando egli taceva, tutti lo ascoltavano ancora, commossi e sorridenti, simili a quei marinai delle navi greche, ai quali la voce insidiosa del mare recava il mormorio sommesso delle sirene. Ma attraverso i più seducenti arabeschi dell'immaginazione e del linguaggio, l'idea era sostenuta ad un'altezza paradossale e logica. Una giuntura sottile e segreta fondeva strettamente l'emozione dell'esteta e l'emozione dell'uomo; e il metallo sortiva puro, lo stilista non aveva che da cesellarlo, gioiello d'arte e di vita, con quella flessibilità intellettuale che può prendere tutte le maschere, insinuarsi in tutti gli atteggiamenti, vivere insieme e volontariamente vite diverse e contradittorie. A questo punto della sua vita Oscar Wilde è completo; personifica la propria vita e la propria leggenda assaporando la voluttà profonda d'associare degli opposti. Il segreto meraviglioso della vita è suo. Egli può veramente dirsi «re della vita»: _The King of the life._ Ma a questo punto comincia una fine e quasi impercettibile deteriorizzazione progressiva. Il soffio del dionisiaco, moderato fin qui come in un concerto il lirismo del solista è sottomesso al bisogno preciso della misura, adesso si fa elemento dominante ed esasperante. L'affermazione della Vita stessa nei suoi problemi più strani e più ardui, la volontà di vita che sacrifica i suoi tipi più elevati a beneficio del proprio carattere inestinguibile, quello insomma che Nietzsche ha chiamato «dionisiaco», sale, si svolge, si diffonde, si esalta. Egli, giustificò Henri De Régnier, credeva vivere in Italia ai tempi del Rinascimento o in Grecia ai tempi di Socrate... Lo spaventoso amore ch'egli provava per la vita e per la bellezza della vita, era come una virtù demoniaca che lo innalzava su tutti i culmini e lo profondava in tutti i baratri. Sottili desiderî, voglie squisite, volontà fosche, aberrazioni incredibili, un fervore epicureo da cui s'alza fatidico e quasi rabido l'antico monito pagano: _coronemus nos rosis, cras enim moriemus._ Per qualche tempo egli fu così il simbolo di un nuovo Edonismo e andò nel mondo ebbro di arte, con la gola arsa di bellezza, con gli occhi bruciati dalla sua visione, con la febbre di squisiti peccati nel sangue, senza lasciar sfuggire un solo istante, cercando sempre sensazioni nuove, sempre, sempre... Ma il ritmo del pathos travolge e precipita. _Incipit tragœdia._ La sventura, come già il piacere, è opera deliberata e necessaria di quel dover _terribilmente godere_. «Io _dovevo_ andare innanzi: l'altra metà del giardino aveva anche i suoi segreti _per me_». Ed egli fa di sè, della sua carne e della sua anima, una belva intelligente e voluttuosa. Gli amici lo descrivono nei tempi immediatamente anteriori alla prigionìa, vagante per l'Europa e per l'Africa Settentrionale, in preda a non so quale inquietudine. Ad Algeri, narrò ad Andrè Gide uno degli ultimi suoi miti delicati e sapienti; egli sfuggiva l'opera d'arte, non voleva più adorare se non il sole; il sole detesta il pensiero, lo fa indietreggiare e rifugiarsi nell'ombra, dall'Egitto alla Grecia, all'Italia, alla Francia, alla Russia, alla Norvegia. L'adorazione del sole era l'adorazione della vita, lirica adorazione che si faceva via più feroce, terribile. Il Gide aggiunge: «Nietzsche mi stupì meno più tardi, perchè avevo inteso Wilde dire: Non la felicità! Sopratutto non la felicità. Il piacere! Bisogna voler sempre il più tragico». E volle il più tragico. La storia è nota. Fu lui che intentò il processo contro il più illustre dei suoi diffamatori, entrò quale accusatore in quella «Camera della giustizia degli uomini...». Fu preso, tonduto, vestito di sacco, ammanettato... Pianse: «A chi è in prigione, egli dice, le lagrime son parte della quotidiana esperienza: un giorno in prigione senza pianto è un giorno in cui si ha il cuore duro, non un giorno in cui si è felici». Ma pur dal profondo dell'abisso egli si inebria delle bellezze che lo attendono oltre la porta della prigione: «Io ho uno strano desiderio delle grandi e semplici cose primeve, come il mare, che m'è non meno materno della terra... Io tremo di piacere quando penso che il giorno stesso in cui lascerò la prigione, insieme il citiso e la glicine fioriranno nei giardini e ch'io vedrò il vento agitare in mobile bellezza l'oro ondeggiante dell'uno, e far che l'altro scuota la pallida porpora delle sue piume, così che tutta l'aria sarà Arabia per me». Come Gautier, egli è sempre uno di coloro _pour qui le monde visible existe_. Pur nel profondo dell'abisso la sua anima rimane pagana e s'inebria di piacere, anche se amaro e pieno di pianto. Quello di cui arrossisce, non è quello che la Società gli rimprovera, il «Peccato», ma di essersi lasciato sorprendere per mancanza d'individualismo: «Naturalmente, confessa Wilde, una volta che misi in moto le forze della società, la società mi si pose contro e disse: Come! tu hai vissuto fin quì sfidando le mie leggi, ed ora vieni ad invocar protezione a queste stesse leggi? Esse ti saranno strettamente applicate. Il risultato è ch'io sono in prigione». Dalla prigione, egli scriveva a Robert Ross: «Troppo lunga è stata la mia tragedia, passata è la sua crisi, meschina la sua catastrofe; ed io sono convinto che quando saremo sul finire io farò ritorno, come un ospite male accolto, nel mondo che mi rifiuta. Sarò un _revenant_, come dicono i francesi, uno dal volto fatto macro per lunga prigionia, affranto per lungo patire. Orribili sono i morti quando si destano dalla loro tomba, ma più orribili i vivi che tornano dalle tombe. Di tutto questo io ho piena coscienza. Ben lo sapeva, egli che essendo in contatto con Ariel come artista, dovette lottare con Calibano. E Calibano lo vinse. «Avevo un'anima, non so cosa ne abbiano fatto», disse egli un giorno ad André Gide, con un tentativo di riso che aveva il suono di un singhiozzo... * * * «Ciò che il paradosso era per me nella sfera del pensiero — dice Wilde nel _De profundis_ — la perversità lo divenne nel dominio della passione». Il «paradosso» non è altro, insomma, che una verità poco familiare e che il tempo attenuerà in verità usuale e, forse, in luogo comune: il nome che gl'imbecilli danno alla verità — diceva Jean Moréas, quando lo accusavano d'esser paradossale. Alcune «verità poco familiari» sono una fra le più notorie caratteristiche dell'opera di Oscar Wilde. Frasi nette, lucide, _boutades_ lanciate col piccolo colpo secco di una tabacchiera che si richiude: — Nessun delitto è volgare. Ma ogni volgarità è delitto. La volgarità è la condotta degli altri. — Si dovrebbe esser sempre un poco inverosimili. — Esser prematuro, significa esser perfetto. — Una verità cessa di esser vera quando più di uno crede in lei. — Soltanto gli dei conoscono la morte. Apollo è scomparso. Ma Giacinto il quale, secondo gli uomini, venne sgozzato da lui, vive ancora: Nerone e Narciso son sempre con noi. — La condizione della perfezione è la pigrizia. Lo scopo della perfezione è la giovinezza. — Evitate gli argomenti di non importa qual genere. Essi sono sempre volgari e spesso convincenti. E questa definizione delle donne: — Sfingi senza segreto. E questo aforisma in difesa dell'egoismo: — Il mezzo sicuro di non conoscer nulla della vita, è quello di cercare d'essere utile. Wilde amava suscitare il riso, sorridendo; ma si compiaceva anche ad una specie di emozione quasi ostile al riso, la cui qualità potrebbe definirsi «opulenza», magnificenza, magistero di arte che ordisce la trama con fila d'oro e la ricama con gemme. Se non precisamente un classico del ridere, Wilde è un classico di quell'_humour_ così particolare agl'inglesi, cui egli aggiunge un sapore di decadenza singolarmente acconcio all'anima pagana che l'invade e lo tormenta: «Quando Gesù volle rientrare in Nazaret, egli narrava, Nazaret era così cambiata che Gesù non riconobbe più la sua città. La Nazaret ove egli aveva vissuto era piena di lamentazioni e di lagrime, questa città era piena di risa e di canti. E Cristo, entrando in città, vide degli schiavi carichi di fiori affrettarsi verso la scalea di una casa di marmo bianco. Cristo entrò nella casa, e in fondo ad una sala di diaspro, coricato sopra un giaciglio, vide un uomo i cui capelli disfatti erano mischiati alle rose rosse e le cui labbra erano rosse di vino. Cristo si avvicinò a lui, gli toccò la spalla e gli disse: — Perchè conduci questa vita? — L'uomo si volse, lo riconobbe e rispose: — Ero lebbroso; tu m'hai guarito. Perchè condurrei un'altra vita? Cristo uscì da quella casa. Ed ecco che nella strada vide una donna il cui viso e le vesti erano dipinti, e i cui piedi erano calzati di perle; e dietro di lei camminava un uomo il cui abito era di due colori e i cui occhi si gravavano di desiderio. E Cristo si avvicinò all'uomo, gli toccò la spalla e gli disse: — Perchè dunque segui questa donna e la guardi così? — L'uomo si volse, lo riconobbe e rispose: — Ero cieco; tu m'hai guarito. Che altro farei della mia vista? E Cristo si avvicinò alla donna: — La strada che tu segui, le disse, è quella del peccato; perchè seguirla? — La donna lo riconobbe e gli disse ridendo: — La strada ch'io seguo è gradevole, e tu hai perdonato tutti i miei peccati. Allora Cristo sentì il suo cuore colmo di tristezza e volle abbandonare questa città. Ma come ne usciva, vide infine, seduto sull'orlo dei fossati della città, un giovine che piangeva. Cristo gli si appressò e toccando le ciocche dei suoi capelli gli disse: — Amico mio, perchè piangi? Il giovine levò gli occhi, lo riconobbe e rispose: — Ero morto e tu m'hai risuscitato; che altro farei della mia vita?» Non è agevole cosa definire la qualità del riso di Wilde. È un ridere leggero, un condurre di prato in prato relegante armento di delicate «fumisteries», immaginate e dette su fumo di sigarette. Di questo suo _humour_ personalissimo diamo esempio, in questa raccolta, con la traduzione dei due deliziosi _etchings_ che seguono, racconti di buffoneria, dove Wilde, come sempre, rimane serio. G. VANNICOLA. IL FANTASMA DI CANTERVILLE I. Quando il Ministro d'America, signor Hiram B. Otis, acquistò il castello di Canterville, tutti dissero che faceva una sciocchezza, poichè il castello era abitato dagli spiriti. Lo stesso Lord Canterville, del resto, nella sua scrupolosa onestà, discutendo le condizioni dell'acquisto, si era fatto un dovere di avvertirne il signor Otis: — Noi stessi, — aveva detto Lord Canterville, — non l'abbiamo più abitato dall'epoca in cui la duchessa vedova di Belton svenne per lo spavento, sentendo due mani di scheletro posarsi sulle sue spalle; nè si rimise più in salute, dopo tale paura. La cosa avvenne mentre ella stava vestendosi per il pranzo. Mi sento in dovere di aggiungere, caro signore, che il fantasma fu veduto da molte persone della famiglia ancora viventi, come pure del reverendo Augusto Dampier, rettore della parrocchia e dottore aggregato del Real Collegio di Belford. Dopo il tragico fatto accaduto alla duchessa, nessuna delle nostre giovani domestiche volle più restare presso di noi, e molte notti Lady Canterville non ha potuto dormire per i rumori misteriosi che venivano dal corridoio e dalla biblioteca. — Mylord, — aveva risposto il Ministro, — comprerò i mobili, compreso il fantasma nell'inventario. Io giungo da un paese moderno dove si può acquistare tutto ciò che per denaro si può avere, e con i nostri giovani, vivaci e gagliardi, che ne fanno di tutte nel vostro vecchio mondo, che rapiscono i vostri attori migliori, le vostre prime donne migliori, sono sicuro che se vi fosse ancora un vero fantasma in Europa, non si sarebbe fatto a meno d'impadronirsene per metterlo in uno de' nostri pubblici musei, o farlo passeggiare per le strade più frequentate come un fenomeno. — Il fantasma esiste, — aveva ribattuto Lord Canterville sorridendo, — sebbene non abbia ceduto alle offerte dei vostri impresari, anche fra i più intraprendenti. Sono più di tre secoli che è conosciuto: risale precisamente al 1574; non manca mai di mostrarsi quando deve avvenire una morte nella famiglia. — Bah! il dottore di casa non fa diversamente, Lord Canterville. Ma, mio caro signore, un fantasma oggi non può più esistere ed io credo che le leggi della natura non faranno eccezioni in favore dell'aristocrazia inglese... — Certamente voi siete molto positivi in America, — aveva risposto lord Canterville, senza esser riuscito a capire l'ultima osservazione del signor Otis. — Ma se vi piace di avere un fantasma in casa vostra, tanto meglio: ricordatevi solamente che vi ho preavvisato. Qualche settimana dopo, l'acquisto era concluso e sul finire della stagione il ministro e la sua famiglia si stabilivano a Canterville. La signora Otis, che da ragazza, col nome di signorina Lucrezia R. Tappen, nella 52.ª strada Est, era stata una delle grandi bellezze di Nuova York, era ancora un'avvenente donna di mezza età, dagli occhi superbi ed il profilo regolarissimo. Molte signore americane, quando sono lontane dal loro paese nativo, prendono un aspetto di persone colpite da malattia cronica e si immaginano che questa sia una forma di distinzione in Europa; ma la signora Otis non era mai caduta in tale errore: essa aveva un'ottima costituzione e una straordinaria esuberanza di vitalità. Veramente inglese sotto ogni punto di vista, si sarebbe potuta portare giustamente ad esempio per avvalorare la tesi che gli inglesi hanno tutto in comune con gli americani, tranne la lingua. Il suo primogenito, battezzato Washington dai suoi parenti in un momento di patriottismo, ch'egli non cessava mai di deplorare abbastanza, era un giovanotto biondo, ben fatto, che aveva posto la sua candidatura alla carriera diplomatica dirigendo il _cotillon_ al circolo di Newport per tre stagioni di seguito, ed anche a Londra passava per un ballerino di prima forza. La gardenia era l'unica sua bellezza: tolto ciò, era perfettamente equilibrato. La signora Virginia E. Otis era una giovanetta di quindici anni, svelta e graziosa come una capinera, con una espressione di franchezza nei suoi grandi occhi turchini. Era un'abile amazzone; cavalcando il suo _poney_ aveva battuto in una corsa lord Bilton, facendo due volte il giro del parco e giungendo prima per una lunghezza e mezzo in faccia alla statua di Achille. Ciò aveva provocato l'entusiasmo del giovane duca di Cheshire, che le aveva proposto, seduta stante, di sposarla. E i tutori, di lui, la sera stessa, avevano dovuto inviarlo a Loton tutto disperato. Dopo Virginia venivano due gemelli, conosciuti ordinariamente sotto il nome di Stelle e di Bande, due cari fanciulli che col degno ministro formavano i soli veri repubblicani della famiglia. Siccome la villa Canterville era a sette miglia da Ascot, la stazione più vicina, il signor Otis, aveva telegrafato che si venisse a prenderlo con la vettura scoperta. Era una bella serata di luglio e l'aria era pregna dell'odore resinoso dei pini; di quando in quando si sentiva cantare un uccello colla sua voce più dolce o si vedeva fra le frasche e il folto la coda d'oro brunito d'un fagiano. Qua e là degli scoiattoli spiavano dall'alto delle querce: dei conigli guardavano attraverso i cespugli o al disopra dei rialzi muscosi, drizzando le loro bianche codine. Appena entrarono nel viale del castello di Canterville il cielo si oscurò improvvisamente, uno stormo di cornacchie passò silenzioso sopra le loro teste, e prima del giungere all'abitazione grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere. Furono ricevuti sugli scalini dell'ingresso da una vecchia donna vestita di seta nera, con la cuffia e grembiale bianco: era la signorina Umney, la governante che il signor Otis aveva acconsentito di conservare al suo servizio per le vive insistenze di lady Canterville. Mentre la famiglia scendeva dalla vettura, la signorina Umney fece un profondo inchino e disse con l'accento strano del buon tempo antico: — Ben venuti al castello di Canterville. Tutti s'incamminarono dietro di lei, attraverso un bel vestibolo in stile Tudor e giunsero nella biblioteca, una lunga e larga sala, con un gran finestrone a vetri, dove il _the_ era pronto. Poi che si furono sbarazzati degli indumenti di viaggio, si sedettero, e mentre la governante preparava la colazione volsero lo sguardo intorno. Ad un tratto lo sguardo della signora Otis cadde sopra una macchia rosso scura del pavimento, precisamente accanto al caminetto, e senza rendersi esatto conto di ciò che stava per dire, chiese alla signorina Umney: — Mi pare che sia stato versato qualche cosa in quel punto. — Sì, signora, — rispose la governante. — Vi è stato versato del sangue. — È indecente! — esclamò la signora Otis — Io non voglio macchie di sangue nel salone: bisogna farle togliere al più presto... La vecchia sorrise e a bassa voce, in aria di mistero, soggiunse: — È il sangue di Eleonora di Canterville, che fu uccisa in quel punto da suo marito, Sir Simone di Canterville, nel 1575. Sir Simone le sopravvisse nove anni e disparve ad un tratto in circostanze misteriose: il suo corpo non fu mai ritrovato: ma il suo spirito continua ad abitare questa casa. La macchia di sangue non si è mai potuta togliere... è impossibile. — Tutte queste non sono che sciocchezze — esclamò Washington Otis. — Il rimedio per smacchiare dell'incomparabile Pinkerton farà sparire tutto in un batter d'occhio. E prima che la governante terrorizzata potesse intervenire egli si era posto in ginocchio e fregava il pavimento con un piccolo pezzo di una sostanza che somigliava a cosmetico nero. In pochi minuti la macchia era scomparsa, senza lasciar traccia. — Sapevo bene che il Pinkerton avrebbe rimediato a tutto! — esclamò in tono di trionfo, volgendo lo sguardo intorno sulla famiglia piena, di ammirazione. Ma aveva appena pronunziate queste parole che un lampo illuminò la stanza scura e un rumore di tuono mise in agitazione tutti e in special modo la signorina Umney, che svenne. — Che brutta stagione, — disse con calma il ministro accendendo un sigaro. — Mio caro Hiram, — chiese la signora Otis — cosa potremo fare di una donna che sviene così facilmente? — Le daremo una multa sopra il suo salario e vedrete che non cadrà più in deliqui! La governante non tardò a riaversi; ma, ancora sconvolta, con voce austera, avvertì la signora Otis ch'ella avrebbe avuto delle noie in quella casa. — Ho visto coi miei occhi cose tali da far rizzare i capelli sulla testa ad un cristiano e per notti e notti non ho potuto chiudere occhio per le cose terribili avvenute fra queste mura, — aggiunse essa. Il signore e la signora Otis sorrisero ed affermarono vivamente che essi non avevano affatto paura dei fantasmi. La vecchia governante, dopo aver invocata la benedizione della Provvidenza sui suoi nuovi padroni e domandato un aumento di salario, ritornò zoppicando nella sua stanza. II. La tempesta imperversò tutta la notte. Il giorno dopo, quando la famiglia scese per la colazione, la macchia sul pavimento era riapparsa. — Non credo che sia colpa dell'impareggiabile smacchiatore, — disse Washington — perchè ne ho fatta la prova su ogni genere di macchia. Deve essere stato il fantasma. Quindi tornò a cancellare la macchia con qualche fregamento, ma questa il giorno dopo riapparve, sebbene la biblioteca fosse stata ben chiusa e la signora Otis ne avesse portata seco la chiave. Da quel momento la famiglia cominciò ad interessarsi della cosa, ed il signor Otis fu sul punto di credere di avere troppo teorizzato negando l'esistenza del fantasma. Sua moglie espresse anzi l'intenzione di affiliarsi alla Società spiritica ed egli preparò una lunga lettera ai signori Myers e Podmore, autori del _Phantasms of the liviny_, spiegando loro la persistenza delle macchie di sangue che derivavano da un delitto commesso. Quella notte ogni dubbio sulla esistenza oggettiva del fantasma si dileguò. La giornata era stata calda e il sole splendente: la famiglia aveva approfittato del rinfrescare serotino per fare una passeggiata in carrozza, e non rientrò in casa che alle nove per una leggera cena. La conversazione non si aggirò affatto su fantasmi, cosicchè mancarono le più elementari condizioni di attenzione e di impressione che precedono così spesso i fenomeni spiritici. Parlarono, come seppi in seguito dal signor Otis, semplicemente dell'immensa superiorità di Janny Davenport su Sarah Bernhardt come attrice: delle difficoltà di trovare del granturco verde, dei grappoli d'uva, della polenta anche nelle migliori case inglesi: dell'importanza di Boston sull'espansione dell'anima universale; dei vantaggi del sistema di registrare i bagagli dei viaggiatori; e poi della dolcezza dell'accento nuowyorkese in confronto di quello strascicato di Londra. Non si fece allusione a niente di soprannaturale e neppure indirettamente si parlò di Sir Simone di Canterville; alle ore undici la famiglia andò a coricarsi. Alle undici e mezzo tutti i lumi erano spenti. Qualche tempo dopo il signor Otis fu svegliato da uno strano rumore nel corridoio davanti alla sua camera; pareva un rumore di ferri agitati che si avvicinassero sempre più. Egli si alzò subito, accese un fiammifero e guardò l'ora. Era un'ora precisa. Calmissimo, si tastò il polso e non lo trovò affatto agitato. Il rumore intanto continuava, accresciuto ora da uno scalpiccìo ben distinto di passi. Allora il signor Otis infilò le pantofole, prese dal cassetto della toletta una piccola bottiglia di forma bislunga, aprì la porta, e vide in faccia appunto a lui, sul pallido chiarore della luna, un vecchio dall'aspetto terribile. Oli occhi sembravano accesi carboni; una capigliatura lunga e grigia ricadeva a ciocche sulle spalle; i suoi abiti, di moda antica, erano sporchi e stracciati, e dai suoi polsi e dal collo dei piedi pendevano pesanti catene, attaccate a ceppi arrugginiti. — Mio caro signore — disse il ministro, — vogliate avere almeno la bontà di dare un po' d'olio alle vostre catene: io vi ho portato una piccola bottiglia di _Tamnany-Soleil-Levant_. Si afferma che una sola volta sia sufficiente e sull'etichetta vi sono molti certificati dei più eminenti fra i nostri scienziati che ne fanno fede. La lascio qui vicino ai candelieri e mi farò un piacere di procurarvene ancora, se lo desiderate. Dopo queste parole, il ministro degli Stati Uniti posò la boccetta sopra una tavola di marmo, chiuse la porta e si rimise a letto. Per qualche tempo il fantasma di Canterville restò immobile, stupito dallo sdegno; poi, lanciando rabbiosamente la boccetta sul pavimento incerato, fuggì attraverso il corridoio, mandando rantoli cavernosi e spandendo una singolare luce verde. Ad onta di tutto questo, quando arrivò allo scalone di quercia vide una porta aprirsi ad un tratto, due piccole figure ammantate di bianco mostrarsi nel vano e un pesante guanciale gli sfiorò la testa. Evidentemente non vi era da indugiare, per cui, utilizzando come mezzo di fuga la quarta dimensione dello spazio, svanì attraverso il muro, e la casa ritornò nella calma. Giunto in un piccolo locale segreto dell'ala sinistra del fabbricato, si addossò ad un raggio di luna per riprender fiato e si mise a riflettere onde rendersi conto della situazione. Mai nella sua brillante carriera, che durava da trecento anni, era stato così grossolanamente insultato. Si ricordò della duchessa vedova, cui egli aveva provocato una crisi di paura, mentre si specchiava, coperta di trine e di diamanti; ricordò le quattro fantesche, alle quali aveva fatto venire le convulsioni isteriche solo col far loro dei versacci fra le portiere di una delle camere dei forestieri: pensò al rettore della parrocchia, a cui aveva spento la candela mentre usciva dalla biblioteca e che da quel momento era stato uno dei clienti più assidui di Sir William Gulle, martire di ogni genere di disordini nervosi; gli ritornò alla mente la vecchia signora di Trémonillac che, svegliandosi al mattino, aveva veduto nella poltrona innanzi al fuoco uno scheletro intento a leggere ciò che essa aveva scritto, e da allora aveva dovuto rimanere in letto sei mesi, per un attacco di febbre cerebrale. Guarita, si era riconciliata con la chiesa ed aveva rotto ogni relazione con quel terribile scettico di Voltaire. Si ricordò pure di quella notte terribile nella quale quel briccone di Canterville era stato trovato agonizzante nel suo abbigliatojo col fante di picche cacciato in bocca, e aveva confessato che, per mezzo di quella stessa carta, aveva rubato a Carlo Fox presso Crockford, la somma di diecimila sterline: egli giurava che il fantasma gli aveva fatto ingoiare quella carta da giuoco. Tutte le sue grandi imprese gli tornavano alla mente. Vide sfilare nella sua memoria il cantoniere che si era bruciato le cervella per aver visto una mano verde battere nel vetro della finestra; e la bella lady Steelfield, che era stata obbligata di portare al collo un nastro di velluto nero per nascondere il segno di cinque dita, impresse come un ferro rovente sulla sua pelle bianca, e che aveva finito per annegarsi nel laghetto del Viale del Re. Pieno dell'egoistico entusiasmo del vero artista, il fantasma passò nelle sua mente in rivista le parti più celebri da lui rappresentate, e sorrise amaramente ricordando la sua ultima apparizione nella parte di «Raben il Rosso o il lattante strangolato», il suo debutto in quello di «Gibeone il Vampiro mago della landa di Bexley», e il furore che aveva suscitato in una bella serata di giugno, giuocando alle bocce coi suoi stessi ossi, sulla spianata del _lawn-tennis_. E tutto ciò per giungere a quale resultato? Dei miserabili americani moderni venivano ad offrirgli del grasso alla marca del _Soleil-Levant_, e a gettargli sulla testa dei guanciali; ciò era assolutamente intollerabile; nessun fantasma, secondo quando la storia afferma, era stato mai trattato così. Bisognava prendere una rivincita. Fino all'alba il fantasma rimase in atteggiamento di profonda meditazione. III. L'indomani, quando la colazione riunì la famiglia Otis, si parlò assai lungamente del fantasma. Il ministro degli Stati Uniti era naturalmente un poco irritato perchè la sua offerta non era stata gradita. — Non ho affatto intenzione di recare ingiuria al fantasma, — e riconosco che, visto il lungo tempo del soggiorno nella casa, non è stato gentile gettargli dei cuscini sulla testa... Questa osservazione, tanto giusta, provocò da parte dei gemelli un'esplosione di risa. — Ma d'altra parte — riprese il signor Otis, — se persiste davvero a non adoperare il grasso con la marca _Soleil-Levant_, bisognerà che noi gli togliamo la sua catena; altrimenti sarà impossibile dormire con tutto quel frastuono alla porta delle camere da letto. Per un'intera settimana tutto fu calmo: la sola cosa che attirava un po' d'attenzione era il riapparire continuo della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Era certamente un fatto strano, tanto più che la porta veniva sempre chiusa a chiave la sera e venivano chiuse pure le finestre. Con stupore fu anche osservato che la macchia cambiava di colore frequentemente, come un camaleonte. Certe mattine essa era rossa scura, quasi di un «rosso indiano»: altra volta era vermiglia: poi dell'acceso colore della porpora e una volta, quando discesero per fare la preghiera, secondo il rito della libera chiesa episcopale riformata americana, si trovò la macchia di un bel verde smeraldo. Naturalmente, questi cambiamenti da caleidoscopio divertivano molto tutti ed ogni sera si facevano scommesse sul colore che le macchie avrebbero assunto il giorno dopo. Soltanto la piccola Virginia non prendeva mai parte agli scherzi. Per una ragione ignota, essa rimaneva sempre vivamente impressionata alla vista della macchia di sangue ed era stata sul punto di piangere quando era apparsa del colore verde smeraldo. Il fantasma fece la sua seconda apparizione in una notte di domenica. Poco dopo coricata, la famiglia fu d'un tratto posta in allarme da un enorme fracasso che veniva dal vestibolo. Scesero tutti subito e trovarono che una completa armatura si era staccata dal suo posto ed era caduta sul pavimento. Vicino ad essa, seduto sopra una poltrona dall'alta spalliera, il fantasma di Canterville si fregava i ginocchi con un'espressione di vivo dolore sul volto. I gemelli i quali si erano muniti della loro fionda, gli lanciarono subito due pallottoline con la sicurezza di mira che si può acquistare solo a forza di lunghi e pazienti esercizi fatti sopra il professore di calligrafia. Frattanto il ministro degli Stati Uniti puntava sul fantasma la sua rivoltella e secondo la usanza dei Californiesi, gli intimava di alzare in aria le braccia. Il fantasma si levò bruscamente, mandando un grido di selvaggio furore e svanì come nebbia, spegnendo la candela di Washington Otis e lasciando tutti nella più completa oscurità. Giunto in cima alle scale riprese possesso di sè e si decise a lanciare il suo scoppio di risa satanico, che in mille occasioni aveva sperimentato essere un procedimento di effetto sicuro. Si racconta che ciò aveva fatto diventare grigia in una sola notte la parrucca di Lord Naker. Certo bastò a decidere le tre governanti francesi a dare le loro dimissioni prima di finire il primo mese di servizio. Ricordando questo lanciò dunque la sua orribile risata, svegliando ad una ad una tutte le eco delle antiche volte: ma appena le terribili risonanze si dispersero, una porta si aprì e apparve in veste da camera celeste la signora Otis. — Temo, — disse ella — che siate indisposto e vi porto una boccetta con tintura del dottore Bobell: se si tratta d'indigestione vi farà molto bene... Il fantasma la guardò con due occhi fiammeggianti di furore e si accinse a cambiarsi in un grosso cane nero: questo era il tiro che gli era valso molta meritata reputazione ed a cui il medico di famiglia aveva sempre attribuito l'idiotismo incurabile dello zio di Lord Canterville, l'onorevole Tommaso Horton. Però, un rumore di passi che gli si avvicinavano gli fece cambiare idea e si contentò di farsi leggermente fosforescente, indi svanì, dopo avere emesso un gemito sepolcrale, proprio mentre i due gemelli stavano per raggiungerlo. Rientrato nel suo rifugio si sentì finito: egli era in preda alla più violenta agitazione. La volgarità dei due gemelli e il materialismo della signora Otis erano certamente irritanti; ma ciò che l'umiliava di più, era di non aver potuto reggere l'armatura di ferro. Aveva pensato d'impressionare anche quegli americani moderni, di farli tremare alla vista d'uno spettro corazzato, almeno per deferenza al loro poeta nazionale Longfellow, l'autore dello «Scheletro nella sua corrazza», di cui le poesie graziose e interessanti l'avevano spesso aiutato a passare il tempo che i Canterville trascorrevano a Londra. Quella, poi, era la sua armatura; egli l'aveva portata con gran successo al torneo di Kentworth e ne era stato complimentato dalla Vergine Regina. Ma quando ora aveva voluto indossarla nuovamente, era quasi rimasto schiacciato dal peso enorme della corazza e dall'elmo d'acciaio, ed era caduto pesantemente sul pavimento, scorticandosi crudelmente i ginocchi e lussandosi il polso destro. Per vari giorni rimase ammalato e fece appena qualche passo; ma a forza di cure finì per rimettersi e si decise a tentare un terzo espediente per spaventare il ministro degli Stati Uniti e la sua famiglia. Scelse per il suo nuovo debutto il venerdì 17 agosto e consacrò una gran parte della giornata a rivedere il suo costume. La sua scelta si posò sopra un cappello a falde rialzato da una parte e abbassato dall'altra con una penna rossa: un manto sfilacciato alle maniche e al colletto, e infine un pugnale arrugginito. Verso sera scoppiò un violento temporale: il vento era così forte che scuoteva tutto il castello e faceva sbattere le porte e le finestre della vecchia dimora: era proprio il tempo che ci voleva. Ecco quello che egli aveva in mente di fare: sarebbe entrato senza far rumore nella camera di Washington Otis, gli avrebbe sussurrato alcune parole tenendosi ai piedi del letto e gli avrebbe piantato tre volte il suo pugnale nella gola al suono tenue di una melodia. Egli sentiva un odio speciale contro Washington, perchè sapeva perfettamente che era lui che aveva l'abitudine costante di pulire la famosa macchia di sangue di Canterville, con l'aiuto dello smacchiatore incomparabile di Pinkerton. Dopo aver ridotto in un profondo stato di terrore lo spensierato giovane, sarebbe entrato nella camera del ministro degli Stati Uniti e di sua moglie, e allora avrebbe posato la mano viscida sulla fronte della signora Otis, e con voce sorda avrebbe mormorato agli orecchi di suo marito tremante i terribili segreti del Carnaio. Contro la piccola Virginia non aveva stabilito ancora niente: ella non l'aveva mai insultato ed era tanto bella, tanto buona! Qualche grugnito che partisse dall'armadio gli sembrava sufficiente e, se non giungeva a svegliarla, sarebbe arrivato a tirare la coperta con le sue dita tremolanti di paralisi. Quanto ai gemelli, era risoluto a dar loro una buona lezione: per prima cosa si sarebbe seduto su di loro in modo da produrre l'effetto della soffocazione in sogno: indi, profittando della vicinanza dei loro letti, si sarebbe rizzato sullo spazio libero, con l'aspetto di un cadavere verde, freddo come il ghiaccio, finchè non fossero paralizzati dal terrore. Poi, gettato via il suo sudario, avrebbe fatto a quattro zampe il giro della stanza sotto forma di scheletro tutto bianco, rotando uno degli occhi nella sua orbita, in modo da rappresentare il «Daniele muto, o lo scheletro del suicida», parte nella quale in mille circostanze aveva suscitato grande effetto. Si riteneva ugualmente abile in questa parte, come in quella di «Martino il pazzo o il mistero mascherato». Alle dieci e mezzo sentì la famiglia che saliva per coricarsi. Per qualche momento fu disturbato dai sonori scoppi di risa dei gemelli, che, evidentemente, con la loro pazza gioia di scolaretti giocavano prima di mettersi a letto. Ma alle undici e un quarto tutto era tornato in silenzio e quando suonò mezzanotte, egli si avviò a compiere la sua vendetta. La civetta volava contro i vetri della finestra; il corvo urlava nella spaccatura d'un vecchio tasso e il vento gemeva, errando intorno alla casa come un'anima in pena; ma la famiglia Otis dormiva tranquilla, senza neppure sospettare la sorte che l'attendeva. Il fantasma sentiva perfettamente il russare regolare del ministro degli Stati Uniti, che dominava il rumore della tempesta. Scivolò allora lungo il muro. Un sorriso cattivo increspava la sua bocca crudele, e la luna nascose la sua faccia dietro una nuvola, quando egli passò davanti alla apertura ogivale ove erano impresse in turchino e oro le sue armi e quelle della sua moglie assassinata. Camminava sempre come un'ombra funesta e pareva quasi che facesse retrocedere le tenebre stesse sul suo passaggio. Ad un certo punto credette sentire una voce che chiamasse. Si fermò; era invece un cane che abbaiava. Si rimise in cammino, mormorando strani giuramenti del sedicesimo secolo e brandendo di quando in quando nella brezza di mezzanotte, il pugnale arrugginito. Arrivato finalmente all'angolo del corridoio che conduceva alla camera dell'infelice Washington, si arrestò. Il vento agitava intorno alla sua testa le lunghe ciocche di capelli grigi, e faceva svolazzare, in pieghe grottesche e fantastiche, l'orrido sudario che recava addosso. L'orologio suonò il quarto ed egli comprese che il momento era giunto. Fece a se stesso un ghigno e svoltò l'angolo; ma aveva appena fatto un passo che indietreggiò emettendo un gemito di terrore. Dinanzi a lui si ergeva un orribile spettro, immobile come una statua, mostruoso come il sogno d'un pazzo. La testa dello spettro era calva e rilucente, la faccia rotonda, grassotta e bianca. Un riso orribile sembrava averne deformato i tratti in una smorfia eterna; dagli occhi usciva a fasci una luce rossa scarlatta. La bocca pareva un gran pozzo di fuoco, e un vestito orrido come quello di Simone stesso, drappeggiava il suo corpo dalle forme titaniche. Sul petto era fissato un foglio con una iscrizione in caratteri strani, antichi; era forse un'epigrafe infamante, dov'erano iscritti tremendi delitti, una terribile lista di misfatti. Finalmente nella mano destra teneva una scimitarra di acciaio luccicante. Non avendo egli veduto fino a quel giorno fantasmi, provò naturalmente una paura terribile e, dopo aver gettato fuggivamente un secondo sguardo sull'orrido spettro, ritornò alla sua camera a grandi passi, inciampando nei lenzuoli in cui era avviluppato. Percorse correndo il corridoio e finì per lasciarsi cader di mano il pugnale arrugginito sugli stivali alla scudiera del ministro, nei quali stivali venne ritrovato l'indomani dal cameriere. Rientrato nel suo recondito asilo, si lasciò abbattere su di un piccolo lettuccio e nascose il viso fra le lenzuola. Ma dopo un momento il coraggio indomabile dei Canterville d'altro tempo, si ridestò in lui, ed egli prese la risoluzione di andare a parlare all'altro fantasma, spuntato il giorno. Per cui, appena l'alba ebbe illuminate le colline, ritornò al posto dove aveva visto per la prima volta l'orrido fantasma. Diceva a se stesso che alla fine due fantasmi valevano più di uno, e con l'aiuto del suo nuovo amico avrebbe potuto combattere vittoriosamente contro i due gemelli. Ma quando fu giunto, si trovò in presenza di uno spettacolo terribile. Certamente doveva essere accaduto qualche cosa allo spettro, perchè la luce era completamente sparita dalle sue orbita; la scimitarra luccicante era caduta dalla sua mano ed egli si teneva appoggiato al muro in un atteggiamento incomodo... Si slanciò in avanti e lo prese fra le sue braccia; ma quale fu il suo orrore, vedendo la testa distaccarsi e ruzzolare per terra, il corpo prendere la posizione di coricato. Allora s'accorse di stringere una tenda di grossa tela bianca e che un manico di granata, un coltello di cucina e una zucca vuota, giacevano ai suoi piedi. Non comprendendo nulla di questa curiosa trasformazione, prese con mano febbrile lo scritto e vi lesse, alla luce grigia del mattino, queste parole terribili: ECCO IL FANTASMA OTIS IL SOLO VERO E AUTENTICO SPIRITO. DIFFIDARE DELLE IMITAZIONI. TUTTI GLI ALTRI SONO CONTRAFFAZIONI. Tutta la verità gli apparve improvvisamente; egli era stato burlato, mistificato, ingannato... L'espressione che caratterizzava lo sguardo del vecchio di Canterville, riapparve nei suoi occhi; serrò le sue mandibole sdentate e alzando le mani corrose sopra la testa, giurò secondo la formula pittoresca della scuola antica, che quando Chanteclair avesse suonato due volte il suo allegro appello di cornetta, sarebbero avvenuti fatti sanguinosi, e che l'assassino dal piede silenzioso sarebbe uscito dal suo ricovero. Aveva appena finito di fare questo tremendo giuramento, che da un cascinale lontano, dal tetto di tegoli rossi, partì il canto di un gallo. Il fantasma emise un riso prolungato, lento, amaro ed attese. Attese un'ora, poi un'altra, ma non si sa per quali misteriose ragioni, il gallo non cantò più. Finalmente, verso le sette e mezzo, l'arrivo delle cameriere lo costrinse a lasciare la sua fazione. Rientrò nel suo asilo con fiero passo, pensando al suo inutile giuramento ed al suo inutile e mancato progetto. Quando vi giunse, consultò varie opere dell'antica cavalleria, la cui lettura l'interessava enormemente, e vi lesse che Chanteclair aveva sempre cantato due volte quando si era ricorso a quel giuramento. — Che il diavolo porti via questo stupidissimo animale — mormorò egli. Nel tempo passato sarei corso su lui con la mia buona lancia e gli avrei passato la gola e l'avrei forzato a cantare un'altra volta per me, avesse anche dovuto crepare... Ciò detto, si ritirò in una comoda bara di piombo e vi rimase sino alla sera. IV. Il giorno seguente il fantasma si sentiva debole e stanchissimo: le terribili agitazioni delle ultime quattro settimane, cominciavano a produrre su di lui il loro effetto. Il suo sistema nervoso era completamente disordinato, e il minimo rumore bastava a farlo trasalire. Non uscì più dalla sua camera per cinque giorni e finì col decidersi di non più curarsi della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Dal momento che la famiglia Otis non la voleva, significava che non la meritava; questo era chiaro. Quella gente apparteneva evidentemente ad una razza inferiore, incapace di apprezzare il valore simbolico di fenomeni sensibili. Le apparizioni dei fantasmi, lo sviluppo di astrali, tuttociò era per essi incomprensibile, non alla portata delle loro intelligenze. Rimaneva quindi suo stretto dovere farsi vedere nel corridoio una volta la settimana, e di gesticolare dalla finestra ogivale, il primo e il terzo mercoledì d'ogni mese: non trovava nessuna ragione plausibile per sottrarsi a tale obbligo. In verità, la sua vita era stata molto colpevole, ma però egli era coscienziosissimo in tutto quello che riguardava il soprannaturale; e così i tre sabati successivi traversò, come al solito, il corridoio, fra mezzanotte e le tre del mattino, prendendo tutte le possibili precauzioni per non essere veduto nè sentito. Si levava gli stivali, camminava il più leggermente che gli fosse possibile sopra le vecchie tavole tarlate, s'involtava in un grande mantello di velluto nero e non dimenticava di ungere col grasso _Soleil Levant_ le sue catene. Solo dopo lunghe esitazioni egli si era deciso ad adottare questo mezzo di protezione. Una sera, mentre la famiglia pranzava, egli si era insinuato nella camera da letto della signora Otis e ne aveva rubato una boccetta. Al primo momento si era sentito umiliato, ma poi aveva dovuto persuadersi che quella invenzione meritava i maggiori elogi e che cooperava in un certo modo a favorire i suoi piani. Non trascuravano frattanto gli Otis di mettere attraverso il corridoio delle corde perchè egli potesse inciampare, nel buio, e una volta infatti, dopo che egli si era vestito per la parte di «Isacco il Nero o il Cacciatore del bosco di Hogsbery», era caduto per aver messo il piede sopra delle tavole insaponate, poste dai due gemelli sulla soglia della camera delle tappezzerie ed al principio della scala di quercia. Quest'ultimo affronto lo mise in furore tale che risolvette di fare uno sforzo supremo per imporre la sua dignità e riaffermare la sua posizione sociale. Si decise quindi di far visita la notte seguente agli insolenti giovani Etoniani nella sua celebre parte di «Ruperto il Temerario o il Conte senza testa». Non si era più mostrato da settanta anni sotto tale travestimento, e cioè dalla volta in cui aveva fatto una tal paura a lady Barbara Modish, che essa aveva ritirata la sua promessa di matrimonio al nonno dell'attuale lord Canterville, ed era fuggita a Gretna-Green con il bel Giacomo Casteltown, giurando che per nessuna cosa al mondo avrebbe più consentito di allearsi ad una famiglia che tollerava ad un orribile fantasma di passeggiare al crepuscolo sulla terrazza del castello. Il povero Giacomo era stato in seguito ucciso in duello da lord Canterville sul prato di Wandsworth, e lady Barbara era morta di dolore a Tunbridge Wells, prima della fine dell'anno. Il suo successo non avrebbe quindi potuto essere più bello e più completo. Se mi è permesso di usare un termine teatrale parlando di uno dei più grandi misteri del mondo soprannaturale, o un termine scientifico parlando del mondo superiore alla natura, devo dire che era una delle sue creazioni più difficili. Gli occorsero tre ore buone per terminare i preparativi. Gli stivaloni alla scudiera, facenti parte del costume, erano invero un po' troppo larghi per lui e delle pistole da arcione non riuscì a trovarne che una; ma insomma fu soddisfattissimo e alle una e un quarto passò attraverso il muro e scese nel corridoio. Giunto presso la camera occupata dai gemelli, che io chiamerò la camera turchina dal colore delle tappezzerie, trovò la porta socchiusa. Per fare un'entrata di grande effetto, spinse con forza l'uscio, e stava per entrare, quando una pesante brocca piena d'acqua si rovesciò su di lui, inzuppandolo fin dentro le ossa; nello stesso tempo scoppi di risa soffocate partirono dal letto su cui sovrastava un grande baldacchino. Il suo sistema nervoso ne rimase così vivamente scosso, ch'egli rientrò ne' suoi appartamenti a gambe levate e l'indomani dovè rimanere a letto per un forte raffreddore. La sola consolazione che provò, fu di non aver portato seco la sua testa, perchè in tal caso le conseguenze sarebbero state assai più gravi. Dimessa ormai ogni speranza di poter terrorizzare quella terribile famiglia americana, si limitò allora a percorrere il corridoio con scarpe di corda, col collo avvolto in una grossa cravatta, per timore delle correnti d'aria e munito sempre di un piccolo archibugio in caso di attacco da parte dei gemelli. Il diciannove settembre ebbe il colpo di grazia. Egli era disceso per la scala, fin nel vestibolo, sicuro che almeno in quel luogo non sarebbe stato tormentato, e si divertiva a fare delle osservazioni satiriche sopra le fotografie del ministro degli Stati Uniti e di sua moglie, fotografie che avevano preso il posto dei ritratti della famiglia dei Canterville. Indossava un costume semplicissimo, ma decente, un lungo sudario cosparso di musco di cimitero, e teneva in mano una piccola lanterna e una vanga da becchino, alla guisa di «Giovanni il dissoterrato o il ladro di cadaveri di Chertsey Barw», una delle parti più famose, di cui i Canterville avevano ragione di ricordarsi maggiormente, perchè era stata la vera causa della loro querela col vicino lord Rufford. E, così travestito, circa le due del mattino, si dirigeva tranquillamente verso la biblioteca, per vedere ciò che ancora rimaneva della macchia di sangue, quando a un tratto vide balzare contro di lui, da un angolo scuro, due figurine che agitavano follemente le braccia sopra la loro testa e gli gridavano negli occhi: — Buum! Preso da panico, — il che era naturale in quella circostanza, — si precipitò allora verso la scala, ma subito fu arrestato dalla vista di Washington Otis che lo attendeva armato di un grande annaffiatoio da giardino; circondato da ogni parte da nemici, e ridotto agli estremi, non gli rimaneva che dileguarsi nella grande stufa di ghisa che, per fortuna, non era accesa, e così fece, aprendosi un passaggio fino al suo ritiro, attraverso i tubi e le cappe dei camini. Vi giunse in uno stato di compassionevole disperazione; e da quel momento non lo si rivide più in spedizione notturna. I due gemelli si misero mille volte in agguato, onde sorprenderlo; seminarono nel corridoio gusci di noce tutte le sere con grande noia dei loro genitori e dei domestici, ma tutto invano. L'amor proprio del fantasma era così profondamente ferito ch'egli non volle più farsi vedere. Dato ciò, il signor Otis, si rimise a lavorare alla sua grande opera sulla storia del partito democratico, opera cui accudiva da oltre tre anni. La signora Otis, da parte sua, organizzò uno straordinario manicaretto americano, il _clan-cake_, che fece epoca in tutto il paese; i ragazzi si dettero al gioco dell'_écarté_, del _poker_ ed altri svaghi americani; e Virginia cominciò a fare lunghe passeggiate a cavallo per i boschi in compagnia del giovane duca di Creshire, venuto a passare l'ultima settimana di vacanze a Canterville. Tutti ormai ritenevano che il fantasma fosse scomparso ed anzi il ministro scrisse a lord Canterville una lettera per informarlo della cosa, e ricevette in risposta un'altra lettera dove questo gli esprimeva tutto il piacere che gli aveva procurato tale notizia e mandava le sue più sincere felicitazioni alla degna consorte del ministro. Ma gli Otis s'ingannavano. Il fantasma era sempre nella casa, e, benchè ridotto male, non si sentiva affatto disposto a farla finita, ora sopratutto che sapeva trovarsi nel numero degli ospiti il giovane duca di Cheshire, un prozio del quale, lord Francesco Silton, aveva una volta scommesso col colonnello Carbury di giuocare ai dadi col fantasma di Canterville e l'indomani era stato trovato sul pavimento della sala da giuoco, paralizzato. L'infelice, malgrado fosse vissuto ancora molti anni, non aveva mai più pronunziato altra frase che questa: — Doppio sei! La storia era molto nota a suo tempo, benchè, in riguardo ai sentimenti che univano le due nobili famiglie, si fosse fatto di tutto per metterla in tacere: anzi, un racconto particolareggiato di essa, si trova nel terzo volume delle «Memorie di lord Tattle sul principe reggente ed i suoi amici». Il fantasma desiderava dunque di provare ch'egli non aveva perduta la sua influenza sui Silton, coi quali del resto era parente per alleanza, avendo una sua cugina germana sposato in seconde nozze il signor di Bulkeley, del quale erano discesi, com'è noto, in linea diretta i duchi di Cheshire. Fece quindi i suoi preparativi per mostrarsi al piccolo innamorato di Virginia, nella famosa parte del «Monaco Vampiro, o il Benedettino svenato». Si trattava di uno spettacolo terribile: infatti la vecchia lady Startuy, quando l'aveva veduto rappresentare, alla vigilia del nuovo anno 1764, si era messa ad urlare perdutamente ed aveva finito per esser colta da un violento attacco di apoplessia, per cui era morta in capo a tre giorni, dopo aver diseredato i Canterville e lasciato tutto il patrimonio al suo farmacista di Londra. Ma, all'ultimo momento, il terrore che gli incutevano i due gemelli, gli impedì di uscire dalla sua stanza, e per quella notte il piccolo duca dormì tranquillo nel gran letto a baldacchino, coperto di piume, sognando Virginia. V. Pochi giorni dopo, Virginia e il suo innamorato dai capelli ricciuti si recarono a fare una passeggiata a cavallo nei prati di Brockley, e Virginia si produsse nel saltare una siepe un tale strappo alla sua Amazzone, che, rientrando in casa, pensò di prendere la scala posteriore per non essere veduta. Mentre passava correndo davanti alla camera delle tappezzerie, la cui porta era aperta, credette vedervi qualcuno e, persuasa che fosse la cameriera di sua madre, la quale era solita ritirarsi ivi a lavorare, si arrestò per pregarla di raccomodare il suo abito; ma, con grande sorpresa, si avvide di trovarsi invece davanti al fantasma di Canterville in persona. Stava questi seduto presso la finestra a contemplare gli alberi che ingiallivano e le foglie arrossate, svolazzanti nel grande viale. Aveva la testa appoggiata alla mano, e tutto il suo atteggiamento rivelava una profonda desolazione. Il poveretto era così abbattuto, così demolito, che la piccola Virginia, anzichè cedere ad un istintivo sentimento di paura e correre a chiudersi nella sua camera, fu presa da compassione e volle provarsi a consolarlo. Si avvicinò a lui in punta di piedi, così lievemente, che egli sprofondato nella sua tristezza, non si accorse della sua presenza se non quando la fanciulla gli volse la parola. — Sono addolorata per voi, — disse; — ma i miei fratelli torneranno domani a Eton; se dunque vi condurrete bene, nessuno vi tormenterà più. — È assurdo domandare di condurmi bene, — rispose il fantasma, guardando con aria stupita la fanciulla che aveva avuto il coraggio di rivolgergli la parola. — È assolutamente assurdo, bisogna che scuota le mie catene, che grugnisca dai buchi delle serrature, che cammini la notte, che faccia tutto ciò che voi chiamate condursi male.... È l'unica mia ragione di essere. — Non è affatto una buona ragione di essere; e siete stato ben cattivo, sapete! Mistress Umney ci ha detto, lo stesso giorno del nostro arrivo, che avete ucciso vostra moglie. — Sì, ne convengo, — rispose storditamente il fantasma, — ma fu un affare di famiglia e non riguarda che me. — È sempre un delitto ammazzare una persona, — sentenziò Virginia che prendeva alle volte una graziosa piccola aria di gravità puritana, ereditata certo da qualche avo venuto dalla Nuova Inghilterra. — Oh, io non posso soffrire la moralità a parole.... Mia moglie era molto brutta, non stirava mai convenientemente i miei polsini e non s'intendeva affatto di cucina. Ascoltate: un giorno avevo ucciso un magnifico cervo maschio di due anni nei boschi di Hogley; non indovinereste mai come lo cucinò!.... Ma lasciamo questo tema: è affare finito, ormai, e trovo che non fu giusto da parte dei suoi fratelli farmi morire di fame perchè l'avevo uccisa. — Farvi morire di fame?... Oh! Signor fantasma.... signor Simone, volevo dire, avreste per caso ancora fame? Ho un sandwich nel mio cestino.... vi piace? — No, grazie, ora non mangio più; ma è molto gentile da parte vostra l'offerta. Voi siete più cortese di tutti gli altri della vostra famiglia, ch'è volgare, rozza, disonesta.... — Basta! — gridò Virginia battendo il piede. — Siete voi ora rozzo, villano e volgare! quanto a disonestà, voi sapete bene di aver rubato i colori della mia scatola per rifare quella ridicola macchia di sangue nella biblioteca. Avete cominciato col prendermi tutti i rossi, compreso il vermiglione, di modo che mi è impossibile ora dipingere i tramonti. Poi avete preso il verde smeraldo e il giallo; infine non mi è restato altro che l'indaco e il bianco di Cina. Non ho potuto più dipingere che chiari di luna, i quali fanno sempre pietà a vederli e sono difficili a dipingersi. Non ho mai detto nulla contro di voi, benchè sia stata molto seccata e tutto questo per una cosa ridicola. Si è mai visto del sangue verde smeraldo? — Vediamo, — disse il fantasma molto cortesemente, — come potevo io fare? È difficile al giorno d'oggi procurarsi del vero sangue, e poichè vostro fratello adoperava lo smacchiatore incomparabile, non vedo perchè non avrei dovuto impiegare i vostri colori per resistere a quello. Quanto alla tinta, è questione di gusto: così i Canterville, per esempio, sono del sangue più turchino che vi sia in Inghilterra.... Ma so che voialtri americani non tenete conto di queste cose.... — Che ne sapete voi? quello che potete fare di meglio ormai è di emigrare: ciò vi formerà lo spirito. Mio padre sarà ben contento di farvi dare un biglietto gratuito e, benchè vi siano dei diritti di dazio molto alti per tutti gli spiriti, non vi saranno fatte difficoltà alla dogana; tutti gli impiegati sono democratici. Giunto a New York, voi potreste avere un grande successo: conosco molta gente che darebbe centomila dollari per avere un avo e che darebbe assai di più per avere un fantasma in famiglia. — Io, invece, sono persuaso, che non mi troverei bene in America. — Forse perchè non abbiamo delle rovine, delle cose strane? — chiese ironicamente Virginia. — Non avete rovine! Non cose strane! Ma avete bene la vostra marina e i vostri modi. — Buona sera, vado a chiedere a mio padre di accordare una settimana di più di vacanze ai miei due fratelli gemelli. — Vi prego, miss Virginia, non ve ne andate, sono così solo, così infelice.... non so più come tirare avanti; vorrei andare a coricarmi e non lo posso. — E perchè no? Non avete che a mettervi a letto e spegnere il lume. Spesso è difficile restare svegli, specialmente in chiesa; ma non è difficile affatto dormire. — Sono trecento anni che non posso dormire! Questa triste esclamazione fece sgranare i begli occhi celesti di Virginia. — Sono trecento anni che non dormo e mi sento tanto, tanto stanco! — ripetè il fantasma. Virginia divenne grave e le sue labbra fini si agitarono come petali di rosa. Si avvicinò, s'inginocchiò accanto a lui e ne contemplò la figura vecchia e grinzosa. — Povero, povero fantasma, — mormorò; — non vi è dunque un posto dove possiate dormire? — Sì, ma lontano, al di là del bosco di pini, rispose egli con un fil di voce, come in sogno. Vi è un piccolo giardino, dove l'erba cresce alta e rigogliosa; colà si vedono le grandi stelle bianche della cicuta; là l'usignolo canta tutta la notte; tutta la notte canta, e la luna di cristallo opaco guarda, e il salcio stende le sue gigantesche braccia sopra i dormienti. Gli occhi di Virginia si velarono di lacrime; dovè nascondere la faccia nelle mani. — Voi intendete parlare del Giardino della Morte, — mormorò essa. — Sì, della Morte. Deve essere così bello riposare nella molle scura terra, mentre le erbe ondeggiano sulla propria testa e ascoltare il silenzio! Non aver più nè ieri, nè domani; scordare il tempo e la vita; esistere nella pace eterna! Voi potreste aiutarmi, potreste aprirmi, spalancarmi le porte della morte, perchè l'amore vi accompagna sempre; l'amore è più forte della morte. Virginia tremò; un fremito ghiacciato percorse il suo corpo; per qualche istante regnò nella stanza un profondo silenzio. Le sembrò di fare un terribile sogno. Allora il fantasma riprese la parola, con una voce che sembrava il sospiro del vento: — Avete mai letta la vecchia profezia scritta sui vetri della biblioteca? — Oh! spesso. La conosco a memoria; essa è dipinta con lettere strane, dorate, difficili a leggersi; non sono che sei versi: «Quando una bionda giovinetta saprà richiamare sulle labbra del peccatore la preghiera; quando il mandorlo sterile fiorirà e un fanciulla piangerà, allora in tutta la casa ritornerà la calma, e la pace rientrerà in Canterville...». Ma non so che significhi.... — Significa che voi dovete piangere con me sopra i miei peccati, perchè io non ho lacrime; che dovete pregare con me per la mia anima, perchè io non ho fede; e allora, se sarete stata sempre dolce, buona e amorevole, l'angelo della Morte avrà pietà di me. Voi vedrete esseri terribili nelle tenebre e voci funeste mormoreranno alle vostre orecchie, ma non potranno farvi nessun male, perchè contro la purezza di una fanciulla le potenze dell'inferno nulla possono. Virginia non rispose e il fantasma si torse le mani nella violenza della sua disperazione, guardando la bionda testa che si inchinava. Ad un tratto, essa si riaddrizzò, pallidissima e con uno strano luccicchio negli occhi: — Non ho paura, — disse con voce ferma, — e domanderò all'angelo di aver pietà di voi. Il fantasma si levò dal suo sedile, mandando un grido di gioia, prese la testa bionda fra le sue mani, con una grazia che ricordava i tempi passati, e la baciò. Le sue dita erano fredde come il ghiaccio e le sue labbra bruciavano come il fuoco; ma Virginia restò forte ed egli le fece traversare la camera scura. Sulla tappezzeria, di un verde sbiadito, erano ricamati piccoli cacciatori che soffiavano nei loro corni ornati di frangie e con le loro piccole mani le facevano segno di retrocedere. — Ritorna sui tuoi passi, piccola Virginia. Vattene! vattene! vattene! — gridavano essi. Ma il fantasma le serrava più forte la mano ed essa chiuse gli occhi per non vederli. Degli orribili animali, con la coda di lucertola, con gli occhi grossi e sporgenti, ammiccavano dagli angoli del camino e le dicevano a voce bassa: — Fa attenzione, piccola Virginia! Guardati! Potremmo anche non più rivederti.... Ma il fantasma affrettò il passo e Virginia non diede ascolto. Quando furono in fondo alla stanza, egli si arrestò e mormorò qualche parola che la fanciulla non comprese. Riaprì gli occhi e vide il muro svanire lentamente, come nebbia, e aprirsi davanti a lei una nera caverna. Un forte vento ghiacciato l'avvolse ed ella sentì che le tiravano la veste. — Presto! presto! gridò il fantasma, — o sarà troppo tardi. Allo stesso tempo, il muro si richiuse dietro di loro e la camera della tappezzeria restò vuota. VI. Trascorsi appena due minuti, la campana suonò per il thè e Virginia non comparve. La signora Otis mandò un domestico a cercarla e questi non tardò a tornare dicendo che non aveva potuto trovare in nessuno posto miss Virginia. La signora Otis, sapendo che la figlia aveva l'abitudine di andare tutte le sere in giardino a cogliere i fiori per il pranzo, non ne fu inquieta; ma quando suonarono le sei e Virginia non comparve, cominciò ad allarmarsi ed inviò i ragazzi a ricercarla, mentre essa e il marito visitarono tutte le camere del castello. Alle sei e mezzo i gemelli tornarono dicendo che non avevano trovata traccia della loro sorella. A tale notizia tutti divennero inquieti; pensavano al da farsi, quando il signor Otis si ricordò ad un tratto che pochi giorni prima egli aveva dato il permesso ad una banda di zingari di accampare nel parco del castello. Partì subito per Blackfell-Holln, accompagnato dal suo primogenito e da due contadini. Il duca di Cheshire, pazzo per l'agitazione, chiese con insistenza di unirsi a lui, ma il signor Otis rifiutò temendo una zuffa. Quando però giunse al posto dell'accampamento, vide che gli zingari erano partiti precipitosamente: il fuoco ardeva ancora e sull'erba restavano delle scodelle. Dopo aver mandato Washington e i due uomini a frugare la campagna circostante, il signor Otis si affrettò a far ritorno alla villa per spedire telegrammi a tutti gli ispettori di polizia della contea, pregandoli di ricercare una giovinetta che era stata rapita da vagabondi o da zingari. Fatto questo, si fece preparare il cavallo e, dopo aver insistito perchè sua moglie e i suoi tre figli si mettessero a tavola, partì col palafreniere per la strada di Ascot. Aveva fatto appena due miglia che sentì galoppare dietro di sè; si voltò e vide il piccolo duca che giungeva sopra un poney, tutto rosso in volto e col capo scoperto. — Ne sono proprio dolente, — disse il giovane con voce ansante, — ma mi è impossibile di mangiare finchè non si sia ritrovata Virginia. Vi prego di non adirarvi con me. Se ci aveste permesso l'anno scorso di sposarci, questo fatto non sarebbe avvenuto. Non mi rimandate indietro, ve ne prego, perchè non lo potrei, nè lo vorrei. Il ministro non potè trattenersi dall'indirizzare un sorriso a quel giovanotto bello e sventato. Come non rimanere commosso per la devozione che egli dimostrava a Virginia! Si curvò quindi sul cavallo, posò una mano sulla spalla del duca, affettuosamente, e disse: — Ebbene, Cecilio, dal momento che ci tenete tanto, bisognerà bene che vi consenta di seguirmi; ma sarà necessario che vi trovi appena giunto ad Ascot un cappello.... — Al diavolo il cappello! È Virginia che io voglio trovare! — esclamò il piccolo duca ridendo. Si rimisero al galoppo e presto ebbero raggiunto la stazione ferroviaria, dove chiesero al capo se era stata vista sulla banchina della partenza una fanciulla che rispondesse ai connotati di Virginia; ma invano. Il capostazione inviò subito telegrammi a tutte le stazioni lungo la linea e promise di esercitare una sorveglianza rigorosa. Dopo ciò, comprato un cappello per il piccolo duca da un mercante di novità che stava per chiudere la sua bottega, il ministro Otis proseguì per Bescbey, villaggio posto quattro miglia più distante, che gli era stato detto essere frequentato dagli zingari. Fatta levare dal letto la guardia campestre, questa non potè dare nessun schiarimento e così, dopo aver traversato la piazza del villaggio, i due cavalieri ripresero la strada di corsa e arrivarono a Canterville alle 11, col corpo spezzato dalla fatica e il cuore dall'inquietudine. Giunti, trovarono Washington e i gemelli che li aspettavano al cancello con delle lanterne, il viale essendo scurissimo. Nessuno aveva trovato traccia di Virginia. Gli zingari erano stati raggiunti nei prati di Brockley, ma la fanciulla non era con loro. Essi avevano spiegato la ragione della loro partenza precipitata dicendo che si erano sbagliati sulla data della fiera di Charton e che la paura di non giungere in tempo li aveva obbligati ad affrettarsi. Inoltre si erano mostrati desolatissimi della scomparsa della figlia del ministro, il quale aveva loro accordato di accampare nel suo parco. Purtroppo Virginia era perduta, almeno per quella notte, e fu con profondo accasciamento che il padre e i giovani rientrarono in casa, seguiti dal palafreniere che conduceva a mano il cavallo e il poney. Nel vestibolo trovarono riuniti tutti i domestici spaventati. La povera signora era stesa su un divano, nella biblioteca, quasi pazza dal dolore, e la vecchia governante le inumidiva la fronte, con acqua di Colonia. Il ministro volle che essa mangiasse qualche cosa e fece servire la cena per tutti: ma tutti erano muti e i gemelli stessi, sempre vivaci, erano tristi e taciturni per la scomparsa dell'adorata sorellina. Finita la cena, nonostante le preghiere del piccolo duca, il signor Otis volle che tutti andassero a coricarsi, affermando che non c'era nulla da fare per quella notte, e che il mattino dopo avrebbe telegrafato a Scotland-jard perchè fosse subito posto a loro disposizione qualche bravo agente. Al momento in cui tutti uscivano dalla stanza da pranzo, l'orologio della torre suonò mezzanotte e appena le vibrazioni dell'ultimo tocco si spensero, fu inteso un rumore seguito da un grido acuto. Un tremendo colpo di tuono scosse la casa; una musica celeste risuonò nell'aria; un pezzo di muro si staccò rumorosamente in cima alle scale, e sul pianerottolo apparve Virginia, pallida, quasi bianca, con una piccola scatola in mano. Tutti si precipitarono verso di lei; la madre se la strinse appassionatamente al cuore; il piccolo duca la soffocò sotto i suoi baci e i gemelli eseguirono un selvaggio ballo di guerra intorno al gruppo. — Gran Dio! figlia mia dove sei stata? — chiese il padre con aria burbera, persuaso che essa avesse voluto fare un brutto scherzo. — Cecilio ed io abbiamo percorso tutta la campagna a cavallo per cercarti e tua madre ha corso pericolo di morire di spavento. Non bisognerà far mai più di tali scherzi! — Meno che col fantasma! — gridarono i gemelli, continuando le loro capriole. — Mia cara, grazia a Dio, eccoti ritrovata; non devi lasciarmi mai più! — mormorava la madre abbracciando la fanciulla, che tremava, e lisciando i suoi capelli d'oro sparsi sulle spalle. — Papà, disse dolcemente Virginia, — sono stata col fantasma; egli è morto.... Vai a vederlo. È stato molto cattivo, ma si è sinceramente pentito di tutto il male che ha fatto e, prima di morire, mi ha dato questa scatola di gioielli. Tutta la famiglia gettò su lei uno sguardo silenzioso e spaventato; ma essa aveva il volto grave e serio. Muta si volse e li precedette attraverso l'apertura fattasi nel muro, e li fece discendere per un corridoio segreto. Washington seguiva con un candeliere acceso. Giunti ad una gran porta di quercia ferrata con grossi chiodi, Virginia la toccò, e quella girò sui grossi cardini. Apparve una stanza stretta e bassa, col soffitto a volta e con uno spiraglio per finestra. Un grande anello di ferro era attaccato nel muro e a questo anello era incatenato un grande scheletro, steso tutto lungo sul pavimento e che sembrava allungasse le sue scarne dita per arrivare ad un piatto e una brocca di forma antica, posti in modo che egli non li potesse toccare. La brocca doveva essere stata un tempo piena d'acqua, perchè l'interiore era tutto verde di muffa e sul piano non rimaneva che della polvere. Virginia s'inginocchiò presso lo scheletro e giungendo le sue piccole mani si mise pregare in silenzio, mentre la famiglia guardava con stupore la scena terribile. — Oh! Oh! — esclamò ad un tratto uno dei gemelli, che aveva gettato uno sguardo alla finestra per cercare di capire in che parte della casa era posta quella stanza. — Oh! il vecchio mandorlo che era seccato è tutto fiorito. Vedo benissimo i fiori al chiaro della luna.... — Dio gli ha perdonato! — disse gravemente Virginia alzandosi e la sua fisonomia parve rischiarata da un vivo splendore. — Voi siete un angelo — esclamò il duca, cingendola col braccio al collo e baciandola. VII. Quattro giorni dopo questi strani avvenimenti, verso le undici di sera un funebre corteggio usciva dal castello di Canterville. Il carro era tirato da otto cavalli neri con la testa ornata di un grosso pennacchio di penne di struzzo che ondeggiavano mollemente. La bara di piombo era coperta da un ricco drappo scarlatto, sul quale spiccavano, ricamate in oro, le armi dei Canterville. Ai lati del carro camminavano a piedi i domestici, portando torcie accese. Tutta questa processione era grandiosa e produceva profonda impressione. Lord Canterville dirigeva le esequie; egli era venuto appositamente dal paese di Galles per assistere alla sepoltura, e occupava la prima vettura con la piccola Virginia; poi veniva il ministro degli Stati Uniti e sua moglie; quindi Washington e i due ragazzi, nell'ultima vettura stava la vecchia Umney. Tutti avevano riconosciuto a lei il diritto di vedere scomparire per sempre quel fantasma che l'aveva perseguitata per ben cinquant'anni. Una profonda fossa era stata scavata in un angolo del cimitero, precisamente in faccia alla siepe, e le ultime preci furono dette nel modo più patetico dal reverendo Augusto Dampier. Terminata la cerimonia, i domestici uniformandosi a un vecchio costume nella famiglia Canterville spensero le loro torce. Quando la bara fu calata nella fossa, Virginia si avanzò e vi pose sopra una grande croce, fatta di fiori di mandorlo bianchi e rosei. In quell'istante la luna uscì fuori dalle nuvole e inondò della sua luce silenziosa e argentea il cimitero, mentre da un boschetto vicino veniva il canto di un usignolo. Virginia ricordò allora la descrizione che il fantasma aveva fatto del Giardino della Morte, e i suoi occhi si empirono di lacrime. L'indomani mattina, prima che lord Canterville partisse per la città, il ministro s'intrattenne con lui a proposito dei gioielli dati dal fantasma a Virginia, gioielli veramente magnifici, sopratutto una collana di rubini, montati in stile veneziano, mirabile capolavoro del sedicesimo secolo. L'insieme dei gioielli aveva un tale valore che il signor Otis provava scrupolo a permettere che sua figlia li ritenesse. — Mylord, — disse egli, — so che in questo paese il diritto di manomorta vale per i piccoli oggetti come per i terreni, ed è chiaro, chiarissimo per me, che questi gioielli debbano rimanere a voi come proprietà di famiglia. Vi prego quindi di portarli con voi a Londra e di considerarli come parte della vostra eredità, restituitavi sia pure in condizioni eccezionali. Quanto a mia figlia, essa è ancora fanciulla e fino ad ora, sono superbo di dirlo, essa è poco attaccata a questi gingilli di vanità. Ho anche saputo da mia moglie, che è competente in cose artistiche, avendo avuto la fortuna di passare varî inverni a Boston quando era giovinetta, che queste pietre hanno un grande valore e che vendendole frutterebbero una somma vistosa. Quindi, lord Canterville, voi riconoscerete, ne sono sicuro, che è impossibile che io permetta di lasciarle nelle mani di un membro della mia famiglia; d'altronde, poi, tutti questi gingilli, giuocattoli, così appropriati, così necessari alla aristocrazia britannica, sarebbero assolutamente fuori posto in mezzo a persone allevate con severi principî e, posso proclamarlo, con i principî immortali della semplicità repubblicana. Oso confessarvi però che Virginia tiene molto allo scrigno contenente i gioielli; le sarebbe caro conservarlo come ricordo degli errori e della sventura del vostro avo. Questo scrigno essendo antichissimo e per conseguenza molto sciupato, mi sembra non abbia nessun valore. Vi confesso anzi che sono molto stupito di vedere uno dei miei figli mostrare dell'interessamento ad un oggetto dei tempi passati e non saprei trovare altra spiegazione se non nel fatto che Virginia nacque in uno dei vostri sobborghi di Londra, poco dopo il ritorno di mia moglie da una escursione ad Atene. Lord Canterville ascoltò senza interrompere, il discorso del degno ministro, tirandosi di quando in quando i baffi grigi per nascondere un involontario sorriso, e quando questi ebbe finito, gli strinse cordialmente la mano e così rispose: — Mio caro signore, la vostra graziosa fanciulla ha reso all'infelice mio avo un servizio grandissimo. La mia famiglia ed io le siamo riconoscenti per il meraviglioso ardire ed il sangue freddo di cui ella ha dato prova. I gioielli le appartengono ed, in fede mia, sono convinto che se avessi così poca riconoscenza da toglierglieli, il vecchio birbante sortirebbe nuovamente dopo quindici giorni dalla sua tomba e mi renderebbe la vita un'inferno. Quanto ad essere essi gioielli di famiglia, lo sarebbero solo se fossero stati descritti come tali in un testamento, in un atto legale, mentre l'esistenza di quei gioielli fu sempre ignorata. Vi assicuro che sono tanto miei come del servo di casa. Quando madamigella Virginia sarà grande, sarà incantata, oso affermarlo, di essi; inoltre signor Otis, voi dimenticate di aver comprato con la villa, anche il mobilio e il fantasma dietro inventario. Dunque quello che ha appartenuto al fantasma è vostro. Malgrado tutte le prove di attività che sir Simone ha dato di notte nel corridoio, egli è legalmente morto e la vostra compra vi ha reso proprietario di ciò che a lui apparteneva. Il ministro rimase seccato del rifiuto di lord Canterville e lo pregò a riflettere di nuovo sulla sua decisione, ma l'eccellente Pari tenne fermo e finì per decidere il ministro ad accettare il regalo che il fantasma aveva fatto alla figlia sua. Quando nella primavera del 1890 la giovane duchessa di Cheshire fu presentata al ricevimento della regina in occasione del suo matrimonio, i gioielli che recava indosso furono oggetto di generale ammirazione. Gli sposi erano così belli e si amavano tanto che tutti furono incantati del loro matrimonio, eccettuata la vecchia marchesa di Dembleton, che aveva fatto ogni sforzo per accaparrare il duca a fargli sposare una delle sue sette figlie; a tale scopo anzi, aveva dato nientemeno che tre pranzi costosissimi. Cosa strana, il signor Otis aveva per il piccolo duca una viva simpatia personale, malgrado che in teoria fosse nemico della nobiltà e per esprimersi con le sue stesse parole, avesse ragione di temere che in mezzo alle influenze snervanti di una aristocrazia fatta di piaceri, fossero dimenticati i veri principî della semplicità repubblicana. Ma non si tenne alcun conto delle sue osservazioni e quando egli si avanzò, dando il braccio alla propria figlia, nella corsia di San Giorgio in Hannover-Square, appariva l'uomo più fiero di tutta l'Inghilterra. Dopo la luna di miele, il duca e la duchessa tornarono alla villa di Canterville e l'indomani del loro arrivo, nel pomeriggio si recarono a fare una visita nel solitario cimitero presso il bosco di pini. Da prima furono un poco imbarazzati circa l'epigrafe da porsi sulla pietra del sepolcro dì Sir Simone, ma finirono per decidere che si sarebbero limitati a farvi scolpire le iniziali del vecchio gentiluomo e i versi scritti sulla finestra della biblioteca. La duchessa aveva portato seco delle magnifiche rose e le cosparse sulla tomba; poi proseguirono verso le rovine del coro della vecchia abbazia; e infine andarono a sedersi sopra una colonna spezzata. Suo marito, coricato ai suoi piedi, la fissava negli occhi luminosi. Ad un tratto, gettando la sua sigaretta, le prese la mano ed esclamò: — Virginia; una donna non deve avere segreti per suo marito. — Cecilio mio, io non ne ho. — Sì, voi ne avete — rispose egli sorridendo, — non mi avete mai detto ciò che seguì mentre voi eravate rinchiusa col fantasma. — Non l'ho mai detto a nessuno, replicò gravemente Virginia. — Lo so, ma a me potreste dirlo. — Vi prego, Cecilio; non me lo domandate, non posso dirvelo. Povero sir Simone! gli devo molto; sì, Cecilio, non ridete, gli devo veramente molto.... Mi ha mostrato ciò che è la vita; ciò che significa Morte e perchè l'amore è più forte della morte. Il duca si alzò e abbracciò amorosamente sua moglie. — Voi potete conservare il vostro segreto, finchè io possederò il vostro amore — egli disse a voce sommessa. — Voi l'avete sempre avuto, Cecilio. — E voi lo direte un giorno ai nostri figli, non è vero? Virginia arrossì. IL DELITTO DI LORD ARTURO SAVILE I. Era l'ultimo ricevimento che lady Windermere dava avanti che s'iniziasse la primavera. Bentinck House, più del solito, appariva piena di una folla di visitatori, fra cui spiccavano sei membri del gabinetto, venuti direttamente dall'udienza dello speaker, in abito di gala e decorazioni. Le belle signore indossavano costumi elegantissimi, e, all'estremità della galleria dei quadri, la principessa Sofia di Carlrsühe, una grossa dama dal tipo tartaro, con dei piccoli occhi neri e meravigliosamente vellutati, parlava, con voce acuta, un cattivo francese, ridendo sonoramente. C'era in quelle sale uno strano miscuglio di società: delle orgogliose paresse cicalavano cortesemente con dei violenti radicali; dei demagoghi popolari si strisciavano a degli scettici famosi; una brigata di vescovi seguiva una grande prima donna di salone in salone; sulla scala, un gruppo di membri dell'Accademia reale discuteva animatamente, e nella sala da pranzo i geni si spingevano fra loro. Era quella insomma una delle più belle serate di lady Windermere e la principessa vi si trattenne sino alle undici e mezzo passate. Subito dopo la sua partenza, lady Windermere tornò nella galleria dei quadri, dove un famoso economista stava esponendo, ad una virtuosa ungherese, con aria solenne, la teoria scientifica nella musica. Ella si mise a conversare con la duchessa di Paisley. Era meravigliosamente bella, coll'opulento seno di un bianco avorio, ed i grandi occhi azzurri, color miosotys, ed i pesanti fermagli in brillanti de' suoi capelli d'oro; capelli d'oro puro, non di quella tinta paglia pallida che usurpa oggi il bel nome dell'oro; capelli di un oro che pareva tessuto coi raggi del sole, capelli che circondavano il suo volto come d'un nembo di santa, con quel fascino che è proprio della peccatrice. Strano soggetto psicologico! Di buon'ora, nella vita, ella aveva scoperto questa importante verità, che, cioè, niente rassomiglia tanto all'innocenza quanto un'imprudenza e, dopo una serie di avventure, — la metà delle quali avute innocentemente, — era riuscita a conquistarsi tutti i privilegi di una personalità. Essa aveva più volte cambiato marito. Infatti, contava nel suo bilancio tre matrimoni; ma siccome non aveva mai mutato amante, il mondo aveva dopo qualche tempo smesso di sparlare sul suo conto. Ora aveva quarant'anni, niente figli, ed in complesso una passione sfrenata del piacere, passione che è il segreto di quelli che restano sempre giovani. Ad un tratto girò curiosamente lo sguardo per la sala e con la sua limpida voce di contralto disse: — Dov'è il mio chiromante? — Il vostro?... esclamò la duchessa, trasalendo involontariamente. — Il mio chiromante, duchessa. Io ora non posso vivere senza di lui. — Cara Gladys, voi siete molto originale! — mormorò la duchessa, cercando ricordarsi ciò che veramente era un chiromante e sperando non fosse la stessa cosa che un chiropodista. — Viene regolarmente a vedere la mia mano due volte la settimana, — proseguì lady Windermere, — e vi pone molto interesse. — Dio del cielo! deve essere certo qualche manicure. Ecco ciò che è veramente terribile! Spero per lo meno che sia straniero: così riuscirà un po' meno gradito. — Certo, è quì. Io non posso dare un ricevimento senza di lui. Egli mi dice sempre che ho una mano veramente psichica e che se il mio pollice fosse stato appena un poco più corto, sarei stata una pessimista convinta e mi sarei rinchiusa in monastero.... — Oh! comprendo... — disse la duchessa che si sentiva molto più sollevata. — Egli dice la buona ventura, non è così?... — E la cattiva, e molte altre cose di questo genere. L'anno venturo, per esempio, io correrò un grande pericolo, in terra, o in mare. Bisognerà dunque che io viva in pallone e ogni sera faccia salire in un cestino il pranzo. Tutto questo è scritto qui, sul mio dito mignolo, o sul palmo della mano, non so più precisamente. — Ma cara duchessa, coi tempi che corrono, la Provvidenza può senza dubbio resistere alle tentazioni. Io penso che ciascuno, una volta al mese per lo meno, dovrebbe far leggere nella sua mano, per sapere ciò che non deve più fare. Se nessuno non ha la bontà di andare a cercarmi Podgers, andrò io stessa.... — Lasciate fare a me, lady Windermere, — interloquì un giovane piccolo, grazioso, che stava vicino ed aveva seguito la conversazione con un sorriso gioviale. — Se è così singolare come voi dite, lady Windermere, io riuscirò a riconoscerlo: ditemi solo come è ed io ve lo condurrò subito. — Sia. Non ha nulla del chiromante; voglio dire, che non ha nulla di misterioso, di estatico e che neppure ha una figura romantica. È un uomo piccolo, grasso, con una testa comicamente calva e dei grandi occhiali d'oro; è un tipo che sta fra il medico di famiglia ed il pastore di villaggio. Io ne sono desolata, ma la colpa non è mia. Le persone sono così noiose!... Le mie pianiste hanno tutte l'aria di pianiste, e tutti i miei poeti, l'aria di poeti. Io mi ricordo, che, nella stagione scorsa, avevo invitato a pranzo un terribile cospiratore, un uomo che aveva versato il sangue di un'infinità di persone e che portava sempre una cotta di maglia in acciaio e teneva un pugnale celato nella manica della camicia. Ebbene! Quando lo vidi, la sua figura mi sembrò quella di un vecchio e buon pastore. In tutta la serata non fece che lanciare motti di spirito, e se ciò mi divertì, mi deluse anche fortemente. Quando l'interrogai sulla sua cotta di acciaio, si contentò di sorridere e mi disse che era troppo fredda per poterla portare in Inghilterra.... Ah! ecco Podgers. Ebbene, sig. Podgers, desidererei che leggeste nella mano della duchessa di Paisley.... Duchessa, volete voi togliervi il guanto.... non quello della mano destra.... l'altro. — Mia cara Gladys, veramente io non credo che ciò sia conveniente, — disse la duchessa, sbottonando a malincuore il guanto. — Tutto ciò che interessa è sempre conveniente, rispose lady Windermere: — on a fait le monde ainsi. Ma bisogna che io vi presenti, duchessa... Ecco il signor Podgers, il mio chiromante; il signor Podgers, la duchessa di Paisley... e se voi direte che essa ha un monte della luna più sviluppato del mio, io non vi presterò più fede. — Sono sicura, Gladys, che non v'è niente di ciò sulla mia mano, — pronunziò con tono grave la duchessa. — Vostra grazia ha infatti ragione, — replicò Podgers gettando uno sguardo sulla piccola mano grassoccia, dai diti corti e tozzi. — La montagna della luna non v'è sviluppata: però la linea della vita è ottima. Volete avere la bontà di spiegare la giuntura della mano... vi ringrazio... Tre linee distinte sopra la palma... voi vivrete sino a tarda età, duchessa, e sarete grandemente felice... Ambizione moderatissima, linea dell'intelligenza non esagerata, linea del cuore... — Suvvia, siate discreto, signor Podgers! — esclamò lady Windermere. — Niente mi potrebbe esser più caro, — rispose Podgers inchinandosi, — se la duchessa me ne avesse dato motivo; ma io sono dolente di dover dire che nella mano leggo una grande costanza di affetti insieme ad un sentimento fortissimo del dovere. — Volete continuare, signor Podgers? — disse la duchessa con uno sguardo di soddisfazione. — L'economia non è la minore delle virtù di vostra grazia... Lady diede in una forte risata. — L'economia è un'ottima cosa, — osservò con una certa compiacenza la duchessa. — Quando sposai Paisley, egli aveva undici castelli e non una casa che fosse abitabile. — Mentre ora, — terminò lady Windermere, — egli ha dodici case e neppure un castello! — Eh!, mia cara, io amo... — Le comodità, — rispose Podgers, — tutte le comodità dei nostri tempi ed i caloriferi in tutte le stanze... Vostra grazia infatti ha ragione: le comodità sono ancora la sola cosa che la civiltà può darci. — Voi avete mirabilmente decritto il carattere della duchessa, signor Podgers; volete dire quello di lady Flora? E, rispondendo ad un cenno di testa della padrona di casa, una piccola fanciulla, da capelli rossi di scozzese e dalle spalle altissime, si alzò sgarbatamente da un divano e presentò una lunga mano ossuta. — Ah! una pianista suppongo... anzi una eccellente pianista, non è vero? Chi sa, forse una musicista di prim'ordine. Riservatissima, onesta e dotata di un vivo amore per gli animali... È giusto? — Perfettamente! — esclamò la duchessa, volgendosi a lady Windermere. — Assolutamente esatto. Flora alleva infatti due dozzine di gatti a Maclosckie e sarebbe capace di riempire la nostra casa di città di un vero serraglio di bestie se suo padre glielo permettesse. — Bene! ma è appunto ciò che io faccio ogni giovedì sera in casa mia! — rispose ridendo lady Windermere. Solamente io preferisco i leoni ai gatti. — È questo il vostro solo errore, lady Windermere, — pronunziò Podgers con un saluto cerimonioso. — Se una donna non può rendere incantevoli i suoi errori, non è che una femmina qualunque... — rispose essa, — Podgers, esaminate ancora qualche mano... Venite sir Thomas, mostrate la vostra al signor Podgers. Un vecchio signore, dal portamento distinto, si avanzò e tese al chiromante una mano grassa e tozza, con un lunghissimo dito medio. — Natura avventurosa; nel passato quattro lunghi viaggi ed uno nell'avvenire... Naufragato tre volte... No, due soltanto, una in pericolo di naufragare nel prossimo viaggio. Conservatore furibondo; puntuale; appassionato per le collezioni di curiosità... Una malattia pericolosa fra i sedici e diciotto anni... Erede di una grossa fortuna verso i parenti... Grande avversione per i gatti ed i radicali. — Straordinario! — esclamò sir Thomas. — Dovreste leggere la mano di mia moglie. — Della seconda moglie? — chiese tranquillamente Podgers, che teneva ancora la mano del vecchio fra le sue. Ma lady Marvel, donna di aspetto malinconico, con capelli neri e ciglia sentimentali, rifiutò recisamente di lasciarsi rivelare il suo passato e il suo avvenire. Gli sforzi di lady Windermere non valsero neppure a far togliere i guanti al signor di Koloff, ambasciatore russo. Veramente molte persone esitavano ad affrontare quello strano piccolo uomo, dal sorriso stereotipato, dagli occhiali d'oro e gli occhi che brillavano come rubini; e quando egli ebbe detto alla povera lady Fermor, ad alta voce e dinanzi a tutti, che ella s'intendeva molto poco di musica, ma che in compenso prendeva delle folli passioni per i musicisti, divenne opinione generale che la chiromanzia era una scienza e che bisognava incoraggiarla, ma a tête-à-tête. Lord Arturo Savile, che non sapeva niente della disgraziata storia di lady Fermor, e che aveva seguito Podgers con grande interesse, provò una viva curiosità di far leggere nella sua mano. Siccome, però, sentiva un po' di timidezza a farsi avanti, si avvicinò a lady Windermere e, tutto rosso in viso, le disse se Podgers avrebbe voluto occuparsi di lui. — Ma certo, egli si occuperà di voi, mio buon amico... Appunto per questo egli è qui. Tutti i miei leoni, lord Arturo, sono dei leoni che prendono parte alla rappresentazione. Tutti saltano attraverso i cerchi, quando io comando loro... Ma devo prevenirvi che dirò tutto a Sibilla... Ella verrà domani da me a prendere il the, e se il signor Podgers troverà che avete un cattivo carattere, o qualche tendenza alla gotta, o un'amante a Bayswater, io non glielo nasconderò. Lord Arturo sorrise e scosse la testa. — Io non ho paura; Sibilla ed io ci conosciamo così bene! — A dire il vero sono un po' contrariata di sentirvi dir questo... La migliore divisa del matrimonio è uno scambievole malinteso... no, io sono completamente unica. Ho solo dell'esperienza, il che, frattanto, è quasi la stessa cosa... Signor Podgers, lord Arturo Savile muore d'impazienza che voi gli leggiate nella mano. Non gli dite, però, che è fidanzato ad una delle più belle fanciulle di Londra; è già un mese che il Morning Post ne ha dato l'annunzio... — Cara lady Windermere, — esclamò la marchesa di Jedburgh, — abbiate la bontà di lasciarmi trattenere ancora un minuto il signor Podgers; egli sta dicendomi che monterò sulle tavole del palcoscenico, e ciò m'interessa assai. — Se vi ha detto ciò, lady Jedburgh, io non esito a togliervelo... Venite qua subito, signor Podgers e leggete nella mano di lord Arturo. Bene! — esclamò la marchesa facendo una piccola mossa ed alzandosi dal divano — se non mi è permesso di montare sulle tavole del palcoscenico, mi sarà lecito almeno di assistere allo spettacolo, spero... — Naturalmente. Assistiamo tutti alla sentenza soggiunse lady Windermere. — Ed ora, signor Podgers, diteci qualche cosa di bello, perchè lord Arturo è uno dei miei più cari amici. Podgers prese la mano del giovane, la osservò, divenne stranamente pallido e non fece parola. Un brivido sembrò passare per il suo corpo. Le sue grandi e folte sopracciglia furono assalite da un tremito convulso, da un tic bizzarro, irritante. Delle grosse goccie di sudore imperlarono la sua fronte e le sue dita grassoccie divennero fredde ed umide. A lord Arturo non sfuggirono questi strani segni di agitazione e per la prima volta in vita sua ebbe paura. Il suo istinto naturale fu il fuggire dalla sala, ma si contenne. Era meglio conoscere il pericolo, qualunque fosse, che restare in quella angosciosa incertezza. — Attendo, signor Podgers. — Attendiamo tutti, — soggiunse lady Windermere, con il suo tono vivace, impaziente. Il chiromante non rispose. — Io credo che lord Arturo debba montare sulle tavole del palcoscenico — esclamò lady Jedburgh — e che dopo la vostra sortita il signor Podgers abbia paura di dirglielo. Ad un tratto l'ometto lasciò andare la mano destra del giovane, afferrò vivacemente la sinistra e si curvò tanto su questa, che la montatura in oro dei suoi occhiali sfiorò quasi la pelle. Rapidamente il suo volto divenne bianco d'orrore; ma egli riuscì a ricuperare il suo sangue freddo e rivolgendosi a lady Windermere, le disse con un sorriso forzato: — È la mano di un bel giovane. — Certo, ma sarà egli un buon marito? Ecco quello che bisogna sapere. — Io credo che un marito non debba essere troppo seducente — mormorò lady Jedburgh, con aria grave. — È così pericoloso.... — Mia cara fanciulla, non sono mai troppo seducenti gli uomini — ribattè lady Windermere. — Ma ciò che mi occorre sono i particolari: non vi sono che i particolari che interessano. Che deve dunque accadere a lord Arturo? — Ebbene, fra qualche giorno lord Arturo dovrà fare un viaggio. — Sì, quello di nozze, naturalmente. — E perderà un parente. — Non sua sorella, spero, — disse lady Jedburgh, con tono ipocrita. — No, certo, non sua sorella: un semplice, lontano parente. — Ah!... Sono crudelmente delusa, — disse lady Windermere. Non ho assolutamente nulla da raccontare domani a Sibilla. Chi si preoccupa ormai dei parenti lontani? Ora non è più moda. Però io credo che essa farà bene a comperare un abito di seta nera: serve sempre per la chiesa... Ed ora andiamo a cena. Forse non resterà più nulla: speriamo almeno di trovare ancora del brodo caldo. Francesco una volta faceva del brodo eccellente, ma ora egli è sempre occupato dalla politica e non sono mai più sicura di nulla con lui. Vorrei proprio che il generale Boulanger rimanesse un po' tranquillo... Duchessa, voi sarete stanca... — Affatto, mia cara Glady, — rispose la duchessa avviandosi verso la porta — io mi sono molto divertita ed il vostro chiromante è stato piacevolissimo. II. Dieci minuti dopo, col volto bianco di terrore, gli occhi pieni di tristezza, lord Arturo Savile si precipitava fuori di Beusinck House. Si fece largo attraverso i valletti impellicciati, che attendevano i loro padroni sotto la tettoia. Sembrava non vedesse e non sentisse più nulla. La notte era rigida ed i becchi del gas, lungo il viale, scintillavano ed oscillavano sotto le folate di vento; ma le sue mani avevano il calore della febbre e le sue tempie parevano infuocate. Egli andava qua e là, a caso, come un ebbro. Un agente di polizia lo guardò curiosamente mentre gli passava accanto, ed un mendicante, che si era staccato da una porta per chiedergli l'elemosina, indietreggiò spaventato nel vedere un volto che appariva più sventurato del suo. Una volta lord Arturo si arrestò sotto un lampione e guardò le sue mani: credette vedervi traccie di sangue ed un debole grido uscì dalle sue labbra tremanti. — Assassino! Questo aveva letto il chiromante nel palmo della sua mano. — Assassino! La notte stessa pareva lo sapesse ed il vento ripeteva alle sue orecchie il grido orribile. Ogni angolo nero era pieno di questa parola. Egli la vedeva ghignare perfino dai tetti delle case. Entrò nel Parco, il cui bosco pareva affascinarlo: s'appoggiò ad una ringhiera, esausto di forze, e calmò l'ardore delle sue tempie sul ferro umido, rimanendo assorto nel silenzio misterioso delle piante. — Assassino! Assassino! — gridò come se ripetendo l'accusa il significato della parola fosse scemato. Il suono della sua voce lo fece rabbrividire e tuttavia desiderò quasi che l'eco lo sentisse e svegliasse da' suoi sogni la città addormentata. Avrebbe voluto fermare il primo passante per raccontargli tutto. Poi errò per _Oxford-Street_, in vie strette e brutte; due donne, dal volto dipinto, passando, lo schernirono. Da un tetro palazzo arrivò a lui uno strepito di bestemmie e di schiaffi, seguito da acute grida; e confusamente, sotto una porta umida e fredda vide delle schiene piegate, dei corpi rifiniti dalla miseria e dalla vecchiaia. Una strana pietà s'impadronì di lui. Quei figli del peccato e della miseria erano essi predestinati alla loro sorte, come egli alla sua? Non erano forse, essi pure, marionette di un mostruoso burattinaio? Ma non fu il mistero, ma la commedia della sofferenza che lo colpì, la sua assoluta inutilità, la sua grottesca mancanza di senso comune. Tutto gli parve incoerente, privo d'armonia. Egli si sentiva stupito dalla discordanza esistente fra l'ottimismo superficiale del nostro tempo e la realtà dell'esistenza. Poco dopo si trovò di fronte a Marylebone Church. L'argine silenzioso sembrava un lungo nastro d'argento pallido, macchiate qua e là da mobili ombre. Tutto intorno si stendeva la linea dei becchi di gas, vacillanti, e dinanzi ad una piccola casa, circondata da un muro, stava una vettura solitaria, di cui il cocchiere dormiva saporitamente a cassetta. Lord Arturo si avviò a passo rapido verso _Portland-Place_, volgendosi ad ogni momento, come se temesse d'essere seguito. In cima a _Rich-Street_ due uomini erano intenti a leggere un piccolo avviso su di una palizzata. Uno strano sentimento di curiosità lo punse, ed egli attraversò la strada in quella direzione. Avvicinandosi, la parola _assassino_, scritta in lettere nere lo colpì. Si arrestò ed una vampa di fuoco gli salì al volto. Era un avviso ufficiale, che offriva una ricompensa a chi avesse fornito delle informazioni per l'arresto di un uomo di mezza taglia, sui trenta o quaranta anni, portante un cappello a cencio con gli orli rialzati, un abito nero e dei pantaloni in tela, di cotone rigato. Quest'uomo aveva una cicatrice sulla gota destra. Lord Arturo lesse l'avviso, poi lo rilesse ancora. Si chiese se l'uomo sarebbe stato arrestato e come avesse riportato quella cicatrice. Forse un giorno, anche il suo nome sarebbe stato sulle mura di Londra. Un giorno, forse anche la sua testa, sarebbe stata messa a prezzo.... Questo pensiero lo riempì d'orrore. Tornò sui suoi passi e fuggì nella notte. Appena sapeva dove si trovasse. Aveva un vago ricordo d'avere errato in un laberinto di sordide case, d'essersi smarrito in un dedalo gigantesco di nere vie, e l'aurora cominciava a spuntare quando finalmente si accorse di essere nel _Picadilly-Circus_. Siccome seguiva _Belgrave-Square_, s'imbattè sui grandi carri da spedizione che si avviavano verso _Covent-Garden_. I carrettieri, nei loro bianchi grembiali, col volto abbronzato dal sole, i capelli incolti, camminavano a lunghi passi, facendo schioccare di tanto in tanto la frusta e scambiandosi gli uni con gli altri qualche parola. Sopra un enorme cavallo grigio, il primo di un tiro a sei, stava un giovane paffuto, con un mazzo di fiori infilato sul cappello. Attaccato fortemente alla criniera della sua cavalcatura, rideva clamorosamente. Nella luce mattinale, le grandi ceste di legumi si staccano come dei blocchi di diaspro verde sui petali pallidi di alcune rose meravigliose. Lord Arturo provò un sentimento di viva curiosità, senza sapere perchè. V'era qualcosa su quella delicata gaiezza dell'alba che gli sembrava fonte di un'inesprimibile commozione: ed egli pensò a tutti quei giorni che incominciano belli, ridenti e terminano cupi, tempestosi. Quegli esseri rozzi, con la loro rude voce, il loro spirito triviale, il loro andamento trascurato, quale strana Londra essi vedevano! Una Londra liberata dai delitti della notte e dal fumo del giorno, una città pallida, fantastica, paurosa, una città cosparsa di tombe. Si domandò quello che essi ne pensavano e se sapevano qualche cosa dei suoi splendori e delle sue vergogne, dei suoi superbi piaceri e della sua orribile fame, di tuttociò che vi fermenta e che vi ruina dalla mattina alla sera. Probabilmente non rappresentava per essi che una mèta di commercio, un mercato dove recavano i loro prodotti per venderli e dove non rimanevano che qualche ora, lasciando forse alla loro partenza le strade ancora silenziose e le case sempre addormentate. Provò uno strano godimento a vederli passare. Per quanto volgari fossero, con le loro grosse scarpe a chiodi, avevano in essi qualcosa di arcadico. Lord Arturo sentì che quelli erano i veri figli della natura e che questa aveva loro insegnato la pace: ed invidiò tutta la loro ignoranza. Quando lasciò _Belgrave-Square_, il cielo aveva preso la tinta di un turchino evanescente e gli uccelli cominciavano a cinguettare nei giardini. III. Quando lord Arturo si ridestò, era già mezzodì ed il sole filtrava attraverso la serica cortina color d'avorio. Si levò dal letto e andò a guardare dalla finestra. Una vaga nebbia era sospesa sulla città, ed i tetti delle case sembravano d'argento appannato. Nel verde tremulo del viale alcuni fanciulli s'inseguivano, simiglianti a farfalle bianche, e i marciapiedi erano ingombri di gente diretta verso il Parco. Mai gli era sembrata così bella la vita; e mai il male gli parve così lontano. Entrò un domestico, recando un vassoio con il cioccolato. Egli bevve il cioccolato, quindi, sollevata una pesante portiera, passò nella stanza da bagno. La luce scendeva dolcemente attraverso sottili lastre di onice trasparente, e l'acqua, nella vasca di marmo, aveva lo splendore della luna. Lord Arturo s'immerse fino al collo, poi cacciò bruscamente la testa nell'acqua, come per purificarsi di qualche vergognoso ricordo. Uscito dal bagno si sentiva quasi calmo. Dopo colazione, si distese sopra un divano ed accese una sigaretta. Sopra il caminetto, coperto da un bellissimo broccato antico, stava un grande ritratto di Sibilla Merton, com'egli l'aveva veduta la prima volta al ballo di lady Noël. La graziosa testa era leggermente piegata a sinistra, come se il collo, sottile e fragile, durasse fatica a sopportare tanta bellezza. Le labbra, leggermente dischiuse, sembravano bozzate per una musica assai dolce, e dai suoi occhi, immersi nel sogno, traluceva la più tenera purezza verginale. Modellata nel morbido abito di crespo di Cina, col grande ventaglio di piume nella mano, si sarebbe detto ch'ella fosse una di quelle delicate figurine, quali se ne vedono nei boschi di ulivi, presso Tanagra, e nella sua attitudine aveva qualcosa della grazia greca. Nondimeno ella non era piccola. Era perfettamente proporzionata, cosa rarissima in un'età in cui la maggior parte delle donne sono generalmente più grandi del naturale oppure insignificanti. Contemplandola, in quell'istante, lord Arturo si sentì invaso da quella terribile pietà che nasce dall'amore. Sentì che sposandola col _fatum_ di morte che gravava su lui, sarebbe stato un tradimento simile a quello di Giuda, un delitto peggiore di tutti quelli che immaginarono i Borgia. Quale felicità avrebbe potuto essere fra loro quando, ad un tratto, egli poteva essere chiamato a compiere la spaventosa profezia scritta nella sua mano? Quale esistenza avrebbe egli potuto condurre, giacchè il destino portava una tale sventura nella sua bilancia? Necessitava ritardare a qualunque costo le nozze. Egli vi era risoluto. Sebbene amasse ardentemente quella fanciulla e il solo contatto delle dita di lei bastasse a farlo trasalire in un godimento squisito, egli riconobbe chiaramente quale era il suo dovere e vide che non aveva il diritto di unirla a sè prima di avere commesso il delitto. Soltanto dopo commesso il delitto egli avrebbe potuto recarsi all'altare con Sibilla Merton, e riporre la sua vita nelle mani della donna amata, senza timore di agire malamente. Solo allora egli avrebbe potuto stringerla fra le braccia, senza ch'ella dovesse mai curvare la fronte sotto la sua onta. Prima occorreva _compiere questo_ e, per il bene di entrambi, nel più breve tempo possibile. Molti altri, al suo posto, avrebbero preferito il sentiero infiorato del piacere alle ascese del dovere; ma lord Arturo era troppo coscienzioso per anteporre il piacere ai principî. Per un poco egli provò una naturale ripugnanza per l'opera ch'era destinato a compiere; ma poi si convinse che non era un delitto, ma un sacrificio: e la sua ragione gli rammentò che nessun'altra via gli era possibile. Bisognava scegliere fra il vivere per sè e il vivere per gli altri, e, per quanto il suo compito fosse terribile, egli sapeva di non dover lasciar trionfare l'egoismo su l'amore, perchè, presto o tardi, ciascuno di noi è chiamato a risolvere lo stesso problema. A lord Arturo esso veniva presentato assai presto nella vita, prima che il cinismo avesse corroso il suo cuore e l'egoismo intaccato il suo carattere; per cui egli non esitò a fare il suo dovere. Fortunatamente egli non era un sognatore, nè uno sfacendato dilettante. Se fosse stato tale, egli avrebbe, come Amleto, esitato lasciando con la sua esitazione rovinare il piano. Egli era invece essenzialmente pratico; la vita, per lui, era azione più che pensiero. Egli possedeva il più raro dei doni, il senso comune. I crudeli sentimenti della sera innanzi si erano completamente dileguati, ed egli provava quasi vergogna ripensando alla pazza fuga per le vie della città ed alla terribile agonia della notte. Egli si domandava ora come avesse potuto esser così dissennato da dare in escandescenza contro l'inevitabile. L'unica questione che ancora lo turbava era come avrebbe egli potuto compiere la sua missione, poichè l'omicidio, come i riti del paganesimo, esige una vittima ed un sacerdote. Non essendo un genio, non aveva nemici, nè era il caso di soddisfare qualche personale rancore; la sua missione conteneva una grave solennità. Fece una lista dei nomi dei suoi amici e parenti sopra un foglietto del taccuino, e dopo un rigoroso esame, si decise per lady Clementina Beauchamp, una cara vecchia che abitava in Curzon-Street, sua cugina in secondo grado, per parte di madre. Lord Arturo aveva sempre amato lady Clem — così la chiamavano tutti, — e siccome egli era ricco, in seguito all'eredità lasciatagli da lord Rugby, nessun avrebbe potuto vedere in quella morte un fine pecuniario. Veramente, più egli rifletteva e più lady Clem gli pareva la persona da scegliersi e, persuaso che ogni indugio era una cattiva azione verso Sibilla, dicise di occuparsi subito dei preparativi. La prima cosa da farsi era, indubbiamente, regolare il conto del chiromante. Si sedette dunque al tavolo e riempì uno _chèque_ di cento ghinee, pagabile all'ordine del signor Septimus Podgers. Quindi telefonò al suo cocchiere di attaccare la vettura e si vestì per uscire. Nel lasciare la stanza, gettò uno sguardo sul ritratto di Sibilla Merton e giurò che qualunque cosa accadesse, le avrebbe sempre lasciato ignorare ciò ch'egli compiva per amor suo e che avrebbe sempre conservato il segreto del suo sacrificio nel più profondo del cuore. Recandosi al club Buckingham, si fermò da una fioraia ed inviò a Sibilla una bella cesta di narcisi, dai petali bianchi e dai pistilli simili agli occhi del fagiano. Giunto al club, si recò direttamente alla biblioteca, ordinò al cameriere un bicchiere di citrato di soda, e chiese un libro di tossicologia. Per la sua triste opera, il veleno era il mezzo migliore, assolutamente migliore. Nulla gli ripugnava più della violenza, e del resto era ben costretto a trovare, per uccidere lady Clem, un mezzo che non attirasse l'attenzione pubblica, poichè gli faceva orrore l'idea di diventare la curiosità del giorno in casa di lady Windermere, o di vedere il suo nome sui giornali, in pasto al pubblico. Egli doveva, inoltre tener conto del padre e della madre di Sibilla, i quali, appartenendo ad un secolo puritano avrebbero potuto opporsi al matrimonio, in caso di scandalo; — per quanto egli fosse persuaso che se avesse fatto loro conoscere le causa della cosa, sarebbero stati i primi ad apprezzare la sua condotta. Aveva dunque tutte le ragioni per decidersi in favore del veleno, sicuro negli effetti e scevro di rumore. Il veleno avrebbe agito senza bisogno di ricorrere ad atti brutali, per i quali, come la maggior parte degli inglesi, provava una profonda avversione. Però non conosceva nulla della scienza dei veleni, e siccome il cameriere non sembrava capace di trovare nella biblioteca altro che la _Guida di Ruff_ ed il _Baily's Magazine_, cercò egli stesso negli scaffali e finì per scoprire un'edizione della _Farmacopea_ ed un esemplare della _Toxicologia_ di Erskine, edita da Mathew Reid, presidente del Collegio reale dei medici ed uno dei più antichi membri del club Buckingham, dove era stato eletto per sbaglio, confuso con un altro candidato. Lord Arturo rimase molto sconcertato dai termini tecnici impiegati nei due libri, e si pentì di non aver fatto maggiore attenzione alle lezioni di Oxford; ma finalmente nel secondo volume di Erskine, trovò una narrazione interessantissima e completa delle proprietà dell'acconito, scritta in modo semplice e chiaro. Questo era proprio il veleno che gli abbisognava. I suoi effetti, diceva il libro, sono quasi immediati; non dà spasimi, e preso sotto forma di un globulo di gelatina, secondo il modo raccomandato da sir Matkew, non ha nulla di sgradevole. Lord Arturo prese nota sul suo taccuino della dose necessaria per produrre la morte, ripose il volume nello scaffale, e risalì la via di S. Giacomo fino a Pestle e Humbey, la grande farmacia di Londra. Pestle, che serviva sempre personalmente i suoi clienti dell'aristocrazia, rimase sorpreso alla richiesta del giovane, e molto deferentemente gli mormorò qualche parola sulla necessità di una ricetta medica. Ma appena lord Arturo gli ebbe spiegato che il veleno doveva servire per un grosso cane di Norvegia, del quale era costretto disfarsi, perchè mostrava sintomi d'idrofobia, parve pienamente soddisfatto e si congratulò col suo cliente della meravigliosa conoscenza ch'egli aveva della tossicologia. Lord Arturo, avuta la capsula, la mise in una bella bomboniera d'argento, veduta e comprata in una oreficeria in Bond-Street, e quindi si avviò verso la dimora di lady Clementina. — Ebbene! cattivo ragazzo, — esclamò la vecchia dama vedendolo entrare nel suo salotto, — perchè non sei più venuto a trovarmi da tanto tempo? — Cara lady Clem, — rispose sorridendo lord Arturo, — non ho mai un momento libero.... — Vuoi dire che trascorri tutto il giorno con miss Sibilla Merton a comprare trine e a dire sciocchezze.... Io non so comprendere perchè la gente si affanni tanto per sposarsi. Ai miei tempi non si sarebbe neppure sognato di far tanti preparativi, in pubblico e in privato, per una cosa simile! — Vi assicuro che non ho veduto Sibilla da più di ventiquattro ore, lady Clem. A quel che so, ella appartiene ora tutta alle sue sarte. — Ah bene! Ed è questa l'unica ragione che ti conduce presso una vecchia brutta e noiosa come me? Io mi stupisco che voi uomini non sappiate congedarvi dalle donne quando hanno raggiunto la mia età. E dire che si son commesse della pazzie per me, ed eccomi ora un povero essere reumatizzato, con una parrucca ed una salute pessima! Se non fosse quella cara lady Gansen, che m'invia i peggiori romanzi francesi che si pubblichino, io non saprei veramente come passare le giornate. I medici non servono più che a prender danari ai clienti.... Non riescono neppure a guarirmi lo stomaco.... — Vi ho portato io un rimedio per questo, — interruppe gravemente lord Arturo. — È una cosa sorprendente, scoperta da un americano.... — Io non amo le invenzioni americane. Ho letto qualche tempo fa alcuni romanzi di quei paesi e li ho trovati pieni di stupida vanità. — Non è tutto così lady Clem. Vi assicuro che questo è un rimedio radicale. Dovete promettermi di provarlo. E lord Arturo trasse dalla tasca la piccola bomboneria e la porse a lady Clementina. — Questa bomboniera è un delizioso gioiello, Arturo. È veramente gentile da parte tua.... E questo è il portentoso rimedio?.... Ha l'aria di un dolce. Voglio prenderlo subito. — Dio del cielo, lady Clem! — esclamò lord Arturo, trattenendole il braccio. — Non lo fate. È una medicina omeopatica: se voi la prendete senza aver male allo stomaco, non vi farà nulla. Aspettate di avere una crisi ed allora ingoiatela: rimarrete sorpresa del risultato. — Avrei voluto prenderla subito, — disse lady Clementina, guardando contro luce la piccola capsula trasparente. — Sono certa che è deliziosa.... Ti confesso ch'io detesto i medici, ma adoro le medicine.... Tuttavia ti prometto di conservarla fino alla mia prossima crisi. — E quando sopravverrà questa crisi? Molto presto? — Spero non prima di una settimana. Ieri ho passato una cattivissima giornata. — Siete dunque sicura di avere una crisi avanti la fine del mese, lady Clem? — Lo temo; ma come sei premuroso con me, Arturo! L'influenza di Sibilla ha veramente un effetto benefico. Ed ora bisogna salutarci. Io ho a pranzo delle persone avvizzite, persone che non sono gaie, e sento che se non faccio una dormitina adesso, mi sarà impossibile tenere gli occhi aperti durante il pranzo. Addio Arturo. Dì a Sibilla che le voglio molto bene; e mille grazie a te per il prodigioso rimedio americano. — Non dimenticherete di prenderlo, non è vero? — Sta sicuro, non lo dimenticherò, birbantello.... Ti scriverò per dirti se mi abbisognano altri globuli. Lord Arturo lasciò la casa di lady Clementina più sollevato. La sera ebbe un colloquio con Sibilla e le disse di trovarsi in una posizione terribilmente difficile e che il suo onore e il suo dovere gli imponevano di procrastinare le nozze. La supplicò di aver fiducia in lui e di non dubitare dell'avvenire. La scena ebbe luogo nella serra del palazzo Merton, dove lord Arturo aveva pranzato, come di consueto. Sibilla non gli era mai apparsa più felice, ed egli per un momento era stato tentato di agire vilmente, di scrivere a lady Clem che non prendesse il rimedio e di lasciare che le nozze si compissero, come se al mondo non esistesse un Podgers. Ma il suo carattere vinse e anche quando Sibilla si lasciò cadere nelle sue braccia, piangendo, egli non perdette la sua calma. La bellezza che faceva vibrare i suoi nervi, aveva anche toccato la sua coscienza. Egli sentì che per far naufragare una vita così bella, per solo qualche mese di piacere, sarebbe stata veramente una volgarità, e più che mai si fece ferma la sua risoluzione. Rimase con Sibilla fin quasi a mezzanotte, cercando di confortarla, e, confortato egli stesso, l'indomani mattina partì per Venezia, dopo aver scritto al signor Merton una lettera seria ed esplicita sulla necessità di aggiornare le nozze. IV. A Venezia lord Arturo trovò suo fratello, lord Surbiton, reduce col suo _Yacht_ da Corfù. I due giovani trascorsero insieme una quindicina di giorni deliziosi. Di mattina passeggiavano sul Lido, oppure vagavano quà e là per i verdi canali, nella loro lunga gondola nera. Nel pomeriggio usavano ricevere sullo _Yacht_ delle visite e la sera cenavano al Florian e fumavano un infinito numero di sigarette. Malgrado ciò, lord Arturo non era felice. Ogni giorno percorreva attentamente nel _Times_ la «colonna dei decessi», in attesa di vedervi la notizia della morte di lady Clementina; ma ad ogni giorno aveva una delusione. Cominciò a temere che qualche incidente fosse intervenuto e maledì più volte il momento in cui le aveva impedito di prendere l'aconito lo stesso giorno in cui ella si era mostrata così desiderosa di provarne gli effetti. Le lettere di Sibilla, sebbene piene di passione e di fede, erano talvolta profondamente tristi, talmente che egli pensava che fra loro tutto fosse finito. Dopo una quindicina di giorni, lord Surbiton si sentì stanco di Venezia e decise di percorrere la costa fino a Ravenna, avendo sentito dire che vi era una grande caccia nella famosa pineta. Lord Arturo voleva assolutamente rifiutarsi di accompagnarlo, ma Surbiton, ch'egli amava molto, lo persuase, affermandogli che ove avesse continuato a rimanere all'albergo Danieli, sarebbe morto di noia. Per cui, il quindicesimo giorno, essi fecero vela con un forte vento nord-est ed un mare agitatissimo. La traversata fu piacevole. La vita all'aria libera colorì nuovamente le gote di lord Arturo ma dopo il ventiduesimo giorno egli fu di nuovo assalito dal pensiero di lady Clem e, malgrado le rimostranze di Surbiton, prese il treno per Venezia. Quando fu sbarcato dalla gondola all'ingresso dell'albergo, il proprietario gli consegnò, con un inchino, alcuni telegrammi. Egli li aprì bruscamente. Tutto era riuscito: lady Clementina era morta improvvisamente, di notte, cinque giorni innanzi. Il primo pensiero di lord Arturo fu per Sibilla: le inviò un telegramma, annunziandole il suo immediato ritorno a Londra. Quindi ordinò al cameriere di preparargli i bauli per poter prendere il direttissimo della sera, pagò cinque volte più dello stabilito i suoi gondolieri e con passo leggiero e l'animo allegro salì nella sua stanza. Tre lettere lo attendevano. Una di Sibilla, piena di affetto e condoglianza; le altre due di sua madre e dell'avvocato di lady Clementina. Lady Clementina, diceva la lettera, aveva cenato con la duchessa la sera precedente alla sua morte. Aveva anzi entusiasmato tutti i parenti con il suo spirito; ma poi si era ritirata nelle sue stanze molto presto, lamentando dei dolori allo stomaco. La mattina seguente era stata trovata morta nel proprio letto: il suo volto non mostrava nessun segno di sofferenza. Sir Mathew Reid, chiamato d'urgenza, non aveva potuto far nulla ed il cadavere era stato seppellito a Beauchamp Chalest. Pochi giorni prima la vecchia dama aveva fatto il suo testamento, lasciando a lord Arturo la sua piccola casa di Curzon-Street, tutto il mobilio, i suo effetti personali e la sua galleria di quadri, eccettuata la collezione di miniature ch'ella donava a sua sorella, lady Margaret Rufford, e il suo braccialetto di ametiste, che lasciava in dono a Sibilla Merton. Gl'immobili non avevano alcun valore, ma l'avvocato Mansfield desiderava che lord Arturo tornasse al più presto possibile perchè vi erano molti conti da saldare, non avendo lady Clementina tenuto mai conti in regola. Lord Arturo rimase commosso del buon ricordo di lady Clementina e pensò che Podgers aveva veramente una grande responsabilità in quella faccenda. Il suo amore per Sibilla dominava però ogni altro sentimento e la coscienza di aver fatto il proprio dovere gli procurava pace e conforto. Giunto a Charing-Cross, si sentì completamente felice. I Merton l'accolsero con grande effusione: Sibilla gli disse che non poteva sopportare altri ostacoli fra di loro, — e le nozze furono stabilite per il sette giugno. La vita gli si presentava ancor bella e seducente. Un giorno, egli stava facendo l'inventario della sua nuova casa di Curzon-Street insieme all'avvocato di lady Clementina e a Sibilla, e bruciava dei pacchetti di lettere giovanili, quando la fanciulla emise ad un tratto un piccolo grido di gioia. — Cosa avete trovato, Sibilla? chiese lord Arturo, levando la testa dal suo lavoro, e sorridendo. — Questa graziosissima bomboniera d'argento. È un lavoro molto delicato, certamente olandese.... Volete darmela? Le ametiste non mi staranno bene fin quando non avrò quarant'anni, ne son certa. E la fanciulla mostrò la bomboniera che aveva contenuto l'aconito. Lord Arturo trasalì e un vivo rossore gl'imporporò il volto. Egli aveva quasi dimenticato, e gli sembrò una coincidenza ben strana che Sibilla, per l'amore della quale egli aveva attraversato tante angoscie, fosse la prima a rammentarglielo. — Certamente, Sibilla, prendetela. — Grazie, Arturo, grazie. Ed avrò anche il _bonbon_?.... Io non sapevo che lady Clementina fosse amante dei dolci.... la credevo molto più intellettuale. Lord Arturo divenne terribilmente pallido e un'orribile idea gli attraversò la mente. — Un _bonbon_, Sibilla! Che volete dire? — chiese con voce rauca e bassa. — Ne contiene uno solo. Sembra vecchio e sporco, ed io non ho alcun desiderio di mangiarlo.... Ma cosa vi accade, Arturo?.... Come siete pallido! Lord Arturo fece un salto attraverso la sala ed afferrò la bomboniera. In essa era contenuta la capsula color ambra con entro il liquido velenoso. Lady Clem era dunque spirata di morte naturale! Lord Arturo sentì quasi mancarsi le forze; gettò la capsula nel fuoco e si lasciò cadere sul divano, con un grido disperato. V. Il signor Merton rimase ben addolorato quando lord Arturo gli annunziò che le nozze dovevano essere rimandate una seconda volta, e lady Giulia, che già aveva ordinato il corredo, fece di tutto per indurre Sibilla ad una rottura. Però, per quanto Sibilla amasse teneramente sua madre, ella aveva fatto dono di tutta la sua vita al giovane fidanzato, e le parole della madre non valsero a farla mancare alla sua fede. Quanto a lord Arturo, trascorsero parecchi giorni prima ch'egli avesse potuto riaversi dalla crudele delusione. Ma il suo buon senso trionfò di nuovo e la sua mente sana e pratica non gli permise di esitare più a lungo sulla condotta da tenere. Poichè il veleno aveva fallito, ciò che conveniva ormai usare era la dinamite o qualsiasi altro esplosivo. Passò quindi di nuovo in rassegna i nomi degli amici e parenti e, dopo serie riflessioni, si decise a far saltare in aria suo zio, il pastore di Chichester. Il pastore, uomo di savia cultura, aveva una passione straordinaria per gli orologi. Ne possedeva una splendida collezione, che andava dal secolo XV ai nostri giorni. Parve a lord Arturo che questa mania del buon pastore fornisse una ottima occasione alla realizzazione dei suoi piani. Un grave problema però era quello di procurarsi una macchina esplosiva. Il _London Directory_ non gli forniva nessuna notizia su ciò, ed egli pensò che non gli sarebbe stato di grande utilità recarsi all'ufficio di polizia di Scotland Yard, giacchè ivi non si era informati delle gesta dei dinamitardi se non quando un'esplosione era già avvenuta. Ad un tratto si ricordò del suo amico Rouvaloff, un giovane russo dalle tendenze rivoluzionarie, conosciuto l'anno precedente in casa di lady Windermere. Il conte Rouvaloff passava per scrittore, e si diceva ch'egli attendesse alla storia di Pietro il Grande e fosse anzi venuto in Inghilterra appunto per studiare i documenti relativi al soggiorno dello Czar in questo paese. Ma era poi voce generale che fosse un agente nichilista, e non bene visto dall'ambasciata russa a Londra. Lord Arturo pensò che quello era proprio l'uomo che gli abbisognava, ed un mattino si recò al suo appartamento a Bloomsbury. — Volete dunque occuparvi seriamente di politica? — chiese il conte Rouvaloff, quando lord Arturo gli ebbe esposto lo scopo della sua visita. Ma lord Arturo odiava qualsiasi menzogna, e si credette in dovere di spiegargli che le questioni sociali non l'interessavano affatto, che aveva bisogno di un esplosivo famigliare, il quale non riguardava che lui soltanto. Il conte Rouvaloff lo fissò per qualche istante con sorpresa. Poi, vedendo che egli aveva parlato seriamente scrisse sopra un biglietto di carta un indirizzo, lo firmò con le sue iniziali e lo porse a lord Arturo a traverso il tavolo. — A Scotland Yard darebbero chi sa che cosa per conoscere questo indirizzo, caro amico. — Ma non lo avranno! — esclamò lord Arturo ridendo. E dopo aver calorosamente stretta la mano al giovane russo, scese precipitoso le scale, guardò di nuovo il foglietto e ordinò al suo cocchiere di condurlo a Soho-Square. Là, lo congedò e seguì a piedi la via Greek fino a piazza Bayle. Passò sotto il viadotto e si trovò in un curioso vicolo cieco, occupato da una lavanderia francese. Da un muro all'altro si stendevano numerose corde con appese delle tele bianche ondeggianti sotto l'aria mattutina. Lord Arturo attraversò la corte e picchiò alla porta di una piccola casa verde. Dopo qualche minuto, la porta si aprì ed apparve sulla soglia uno straniero, dall'aspetto rozzo, che gli chiese in un cattivo inglese cosa desiderasse. Lord Arturo gli tese il biglietto del conte Rouvanoff. Appena lo ebbe scorso l'uomo si inchinò ed invitò il giovane ad entrare in una piccola stanza. Pochi momenti dopo, Herr Wincnel-Kopp, come veniva chiamato in Inghilterra, entrò nella stanza, con una salvietta, macchiata di vino, intorno al collo ed una forchetta in mano. — Il conte Rouvanoff, — disse lord Arturo inchinandosi, — si è offerto di presentarmi a voi, ed io spero che vorrete concedermi un colloquio per una questione di affari. Io mi chiamo Smith... Roberto Smith, ed ho bisogno di un orologio esplosivo. — Sono molto lieto di servirvi, lord Arturo, — replicò maliziosamente il piccolo tedesco dando in una risata. — Non mi guardate con aria così spaventata... È mio dovere di conoscere tutti: Mi rammento di avervi incontrato una sera nella casa di lady Windermere. Spero che Vostra grazia stia bene... Volete venire a sedervi vicino a me, finchè non abbia terminato di cenare? Ho un eccellente pasticcio ed i miei amici, che sono buoni conoscitori, affermano che il mio vino del Reno è migliore di quello che si può bere all'Ambasciata di Germania. E, prima che lord Arturo avesse avuto il tempo di riaversi dalla sorpresa, si trovò seduto in un'altra saletta, dinanzi a del delizioso Marcobrünner in una coppa di cristallo ornata col monogramma imperiale. — Gli orologi esplosivi, — disse Herr Winckelkopp, — non sono un buon articolo di esportazione per l'estero, anche se si riesce a farli passare in dogana. Il servizio dei treni è così irregolare che, abitualmente, gli orologi finiscono con l'esplodere prima d'essere giunta a destinazione. Se però vi è necessario uno di questi congegni, posso offrirvi un articolo eccellente e vi garantisco che rimarrete soddisfatto del risultato. Posso chiedervi a quale uso lo destinate? Se è per la polizia, mi spiace di non poter far nulla per voi. I poliziotti inglesi sono davvero i nostri migliori amici. Io ho sempre constatato che, tenendo conto della loro stupidità, si può fare assolutamente tutto ciò che si vuole; non vorrei dunque torcere neppure un capello ad uno di essi. — Vi assicuro che non ho niente che fare con la polizia. Per dirvi il vero, l'orologio è destinato al pastore di Chichester. — Per Bacco!... Non vi supponevo talmente nemico della religione, lord Arturo. I giovani di oggi non si occupano in genere di simili cose. — Credo che voi mi stimiate più di quello che io meriti, Herr Winckelkopp, — soggiunse lord Arturo arrossendo. — Io sono completamente ignorante in teologia. — Allora si tratta di un affare personale? — Appunto. Herr Winckelkopp alzò le spalle ed uscì dalla saletta. Cinque minuti dopo riapparve con un piccolo rotolo di dinamite ed un orologio francese, sormontato da una figurina della Libertà che calpesta l'idra del dispotismo. Il volto di lord Arturo s'illuminò. — Ecco ciò che mi occorre. Ed ora ditemi come esplode. — Ah! questo è il mio segreto, — rispose Herr Winckelkopp, contemplando con orgoglio la sua invenzione. — Ditemi solo quando vi occorre che esploda ed io regolerò il meccanismo per l'ora indicata. — Sta bene! Oggi è martedì e potete prepararmelo subito.... — Impossibile. Ho molto lavoro, un lavoro urgentissimo per alcuni amici di Mosca. — Sarete sempre in tempo, rimettendo questo lavoro a domani sera o a giovedì mattina.... Quanto al momento dell'esplosivo, sia per venerdì a mezzogiorno. A quell'ora il pastore è sempre in casa. — Venerdì, a mezzogiorno, — ripetè il tedesco, e l'annotò sopra un grande registro aperto su di una scrivania. — Ed ora ditemi quanto vi debbo, — chiese lord Arturo alzandosi. — Poca cosa, lord Arturo. La dinamite costa sette scellini e mezzo; il movimento d'orologeria tredici scellini e la cassa cinque scellini. Sono troppo felice di poter servire un amico del conte Rouvaloff.... — Ma il vostro incomodo, Herr Winckel-Kopf? — Oh! nulla. È un piacere per me. Io non lavoro per il danaro: vivo interamente per la mia arte. Lord Arturo pose il danaro sul tavolo, ringraziò il piccolo tedesco della sua cortesia e lasciò in fretta la casa. Per due giorni lord Arturo rimase in preda ad una grande eccitazione. Il venerdì, a mezzogiorno, si recò al _club_ Buckingham per attendere notizie. Per tutto il pomeriggio lo stupido servitore recò telegrammi da ogni parte dello stato, col resoconto delle corse di cavalli, i verdetti delle cause di divorzio, il resoconto della seduta notturna alla Camera dei Comuni e del piccolo panico scoppiato in borsa a Londra. Alle quattro, finalmente, comparvero i giornali della sera e lord Arturo si rifugiò nella sala di lettura con il _Pall Mall Gazzette_ con la _James's Gazzette_, col _Globe_ e l'_Echo_, lasciando indignato il colonnello Goodchild, che desiderava ardentemente leggere il resoconto di un discorso da lui pronunziato la mattina in casa del _Lord-Maire_ sopra le missioni sud-africane e sulla convenienza di avere in ogni provincia vescovi negri. Scorse impaziente i vari giornali, ma neppure in uno trovò il nome di Chichester: l'attentato non era dunque riuscito! Rimase per qualche istante completamente affranto. Il signor Winckelkopf, ch'egli andò a trovare l'indomani, si sprofondò in grandi scuse e si offrì di dargli gratuitamente un altro orologio o una cassa di bombe di nitro-glicerina, a prezzo di costo; ma lord Arturo, che aveva ormai perduto ogni fiducia negli esplosivi del piccolo tedesco, dovette persuadersi che a questo mondo tutto è falsificato e che era assurdo attendersi qualche cosa dalla dinamite germanica. Herr Winckelkopf, pur ammettendo che il movimento di orologeria fosse in qualche punto difettoso, lo assicurò che l'orologio poteva esplodere ancora e citò, ad esempio della sua tesi, il caso di un barometro ch'egli aveva inviato una volta al governatore militare di Odessa, barometro che doveva esplodere il decimo giorno. Per tre anni questo barometro era invece rimasto intatto, ma un bel giorno aveva esploso, facendo in tanti pezzi solo la serva del governatore, perchè questi aveva lasciata la città sei settimane prima. Se l'effetto non era stato proprio quello voluto, ciò provava però che la dinamite, come forza distruttrice, sotto l'impero di un movimento di orologeria, era un mezzo possente, anche se inesatto. Lord Arturo rimase alquanto sollevato da queste informazioni: ma doveva aver presto un nuovo disinganno. Due giorni dopo, mentre saliva le scale, la duchessa lo chiamò nel suo salottino e gli fece vedere una lettera ricevuta in quel punto. — Giovanna mi scrive lettere graziosissime: leggi quest'ultima; è interessante come i romanzi che ci manda Maudie. Lord Arturo prese vivamente la lettera e lesse: 27 maggio. _Carissima zia_, Ti ringrazio tanto per la flanella che mi hai mandato per la società Dorcas, e anche per le trine. Hai ragione quando dici assurdo il bisogno di portare delle cose graziose; ma oggi sono tutti così radicali, così irreligiosi che è difficile far loro capire che non devono avere i gusti e l'eleganza delle classi elevate. Non so davvero dove finiremo! Come dice papà nei suoi sermoni, noi viviamo in un secolo d'incredulità. Noi abbiamo avuto un bel caso per un piccolo orologio a pendolo, inviato da un ammiratore ignoto a papà, giovedì scorso. Ci è arrivato da Londra, porto franco, in una cassettina di legno e papà crede che gli sia stato mandato da qualche lettore del suo sermone «La licenza e la libertà», essendo l'orologio sormontato da una figura di donna, con un berretto frigio in testa. Partier spacchettò l'oggetto e papà lo mise sul caminetto della biblioteca. Eravamo venerdì mattina tutti seduti in questa stanza, quando, al momento in cui l'orologio a pendolo suonava mezzogiorno, udimmo come uno sbattere d'ali; un buffo di fumo uscì dal piedistallo della Dea della Libertà e questa cadde e si ruppe il naso sul parafuoco. Maria ebbe un po' di paura, ma la cosa era così ridicola che Giacomo ed io ne ridemmo sonoramente ed anche papà ci fece coro. Quando esaminammo l'orologio, ci avvedemmo che, mettendo la lancetta sopra una data ora, dopo aver posto della polvere e una capsula fulminante sotto un piccolo martello, si poteva produrre a piacere lo scoppio. Papà disse che era una pendola troppo rumorosa per la biblioteca. Credi tu che Arturo gradirebbe un dono di nozze come questo? Io suppongo che a Londra debba esser di moda. Papà dice anzi che questi orologi sono atti a far del bene, perchè fanno vedere che la libertà non è duratura e che il suo regno deve finire con una caduta. Papà dice pure che la Libertà è stata inventata al tempo della rivoluzione francese. Vado subito dai Docars e leggerò loro la tua lettera così istruttiva. Quanto hai ragione, zia mia, dicendo che, malgrado la loro condizione, essi non hanno altro desiderio se non quello di portare ciò che loro non conviene. Tale eccesiva preoccupazione del vestire è assurda; mentre ben più gravi preoccupazioni dovrebbero avere in questo mondo e nell'altro! Sono contenta che la tua stoffa di lana a fiori vada bene e la tua trina non sia lacerata. Mercoledì porterò al Vescovo la seta gialla che mi hai regalata e credo che farà grande effetto. Hai dei nastri? Giannina dice che oggi tutti ne portano. L'orologio donatoci ha ancora esploso e papà ha ordinato di portarlo in scuderia. Non credo che gli piaccia come quando lo ricevette, sebbene sia contento di un regalo così grazioso e ingegnoso: Ciò prova che si leggono i suoi sermoni e se ne trae profitto. Papà ti saluta, e Giacomo, Reggie e Maria si uniscono a lui sperando che la gotta dello zio Cecilio vada meglio. Credimi, cara zia, tua nipote affezionata GIOVANNA PERCY». «P. S. — Rispondimi circa i nastri. Giannina sostiene che sono di moda». Lord Arturo guardò la lettera con una ciera così seria e così infelice, che la duchessa scoppiò a ridere: — Arturo mio, non ti farò più vedere una lettera di una fanciulla, se fai un viso simile!... Ma cosa pensi di quella pendola? Mi sembra un'invenzione veramente curiosa e vorrei averne una anch'io. — Non ho molta fiducia in simili orologi, — rispose lord Arturo con un sorriso malinconico, ed abbracciò sua madre. Salite le scale, si gettò su di una poltrona, e gli occhi gli si empirono di lagrime. Aveva fatto quanto poteva per compiere un delitto, e per due volte i suoi tentativi avevano fallito, e non per colpa sua. Aveva cercato di fare il suo dovere, ma sembrava che il destino lo tradisse... Si sentiva ormai accasciato dal sentimento della sterilità delle sue buone intenzioni, dall'inutilità dei suoi sforzi per una bella azione. Era forse meglio compiere il matrimonio. Sibilla ne avrebbe sofferto, è vero; ma il dolore non avrebbe guastato un carattere nobile come il suo. In quanto a lui, egli sarebbe partito! Vi sono sempre delle guerre dove un uomo può farsi uccidere, esiste sempre qualche causa cui un uomo può fare olocausto della propria vita; e giacchè la vita non aveva gioie per lui, la morte non lo spaventava. Seguisse il destino il fatale suo cammino! Egli non avrebbe fatto nulla per arrestarlo. Alle sette e mezzo passate si vestì e si recò al circolo. Surbiton vi era con un gruppo di giovani eleganti, e lord Arturo fu costretto a cenare insieme ad essi. La loro conversazione banale, i loro scherzi oziosi non l'interessavano, e appena servito il caffè se ne andò, sotto il pretesto di un convegno. Mentre usciva dal circolo, il portiere gli consegnò una lettera. Era del signor Wickelkop che l'invitava per la sera dopo a vedere un ombrello esplosivo; era l'ultima invenzione: veniva da Ginevra. Lord Arturo stracciò la lettera in mille pezzi. Era deciso a non ricorrere più a nuovi tentativi. Errò lungo il Tamigi, e per delle ore rimase seduto presso il fiume. La luna apparve attraverso un velo di nubi fulve, come l'occhio di un leone dietro una criniera, e innumerevoli stelle smaltarono l'abisso dei cieli, come polvere d'oro seminata sopra una cupola rossa. Sul fiume torbido passava, di quando in quando, un battello che seguiva la strada dondolandosi a seconda della corrente. I segnali della ferrovia, da verdi si fecero rossi, e i treni traversarono il ponte fischiando acutamente. Dopo mezzanotte risuonò un rumore sordo sulla piccola torre di Westminster e ad ogni colpo della campana sembrava che la notte tremasse. Poi, i lumi della ferrovia si spensero, e solo una lampada solitaria seguitò a brillare come un grosso rubino sull'albero gigantesco di una barca; ed ogni rumore della città cessò. Alle due, lord Arturo si alzò avviandosi dalla parte di Blackfriars. Come ogni cosa sembrava fantastica, simile ad un strano sogno! Dall'altra parte del fiume le case erano avvolte nelle tenebre; si sarebbe detto che l'argento e l'ombra avessero modellato un mondo tutto nuovo. L'enorme cupola di S. Paolo si disegnava come un globo attraverso la nerastra atmosfera. Avvicinandosi alla colonna di Cleopatra, lord Arturo scorse un uomo appoggiato al parapetto, ed alla luce del lampione lo riconobbe: era Podgers. Lord Arturo, vedendo il volto grasso e floscio, gli occhiali d'oro, il sorriso malato, la bocca sensuale del chiromante, si fermò. Un'idea gli era balenata nella mente. Scivolò leggermente presso Podgers e in un attimo lo afferrò per le gambe e lo precipitò nel Tamigi. Un'imprecazione, un gorgoglio d'acqua, e nulla più. Lord Arturo guardò ansiosamente la superficie del fiume; non vide che un piccolo cappello che girava in un gorgo d'acqua argentata dal chiaro di luna. Dopo qualche minuto anche il cappello scomparve. Per un momento, egli credette di vedere una grande ombra informe che si slanciava per la scaletta del ponte, e temette di non essere riuscito. Presto però si avvide che questa immagine era un riflesso, e, quando la luna brillò nuovamente fuori dalle nuvole, anche il riflesso si dileguò. I decreti del destino si erano dunque realizzati! Egli emise un profondo sospiro di sollievo e il nome di Sibilla salì alle sue labbra. — Vi è caduto qualcosa nell'acqua? — chiese ad un tratto una voce dietro di lui. Si voltò bruscamente e vide una guardia che teneva in mano una lanterna cieca. — Oh! niente che valga la pena di occuparsene, — rispose egli sorridendo. E, chiamata una carrozza che passava, vi saltò dentro e disse al cocchiere di condurlo in via Belgrave. I giorni che seguirono, lord Arturo fu ora allegro, ora inquieto. Vi erano dei momenti in cui si aspettava quasi di vedere entrare Podgers nella sua camera e altre volte pensava che la fortuna non poteva essere ingiusta verso di lui. Due volte si recò sino alla casa del chiromante in via West Moon, ma non osò suonare. Era ansioso e temeva di aver la certezza. Alla fine questa venne. Stava seduto nella sala da fumare del circolo prendendo il _Thè_ e ascoltando annoiato Surbiton, che gli dava il resoconto dell'ultima operetta alla _Gaité_, quando il servo portò i giornali della sera. Prese la Gazzetta di Saint James e ne sfogliò le pagine distrattamente, allorchè i suoi occhi furono colpiti da questo strano titolo: «_Suicidio di un chiromante_» Divenne pallido dall'emozione e lesse il brano. «Ieri mattina alle 7 il corpo di Settimio R. Podgers, il celebre chiromante, è stato rigettato sulla sponda a Greenwich, innanzi allo Ship-Hotel. «Il disgraziato era scomparso da qualche giorno e i circoli chiromanti erano molto inquieti per lui: si suppone che siasi suicidato per una momentanea alterazione delle sue facoltà mentali, causate forse dal troppo lavoro, e così il giudice ha oggi concluso. Podgers aveva terminato appena un trattato completo sulla mano umana. Quest'opera sarà pubblicata quanto prima, ed ecciterà indubbiamente molta curiosità. Il suicida aveva 65 anni: sembra che non lasci parenti». Lord Arturo si slanciò fuori del circolo col giornale in mano, con grande stupore del portiere: corse diretto a Parklane. Sibilla che era alla finestra lo vide giungere e pensò che recasse buone notizie; gli corse incontro, e appena lo ebbe guardato comprese che tutto andava bene. — Mia cara Sibilla, domani ci sposeremo. — Pazzo! E la torta nuziale che non è ordinata? — rispose Sibilla lagrimando di gioia. VI. Alla cerimonia delle nozze, circa tre settimane dopo, la chiesa di San Paolo fu invasa da una folla di persone della migliore società. Il discorso religioso fu detto in modo commovente dal pastore di Chichester e tutti furono concordi nell'affermare che mai si era vista una coppia più bella e più felice. Mai lord Arturo rimpianse ciò che aveva sofferto per amore di Sibilla, mentre ella da parte sua dava a lui tutto quello che donna può dare di meglio ad un uomo, cioè il rispetto, la tenerezza e l'amore. Per essi la realtà non uccise il sogno. Conservarono sempre la freschezza dei loro sentimenti e quando, qualche anno dopo, lady Windermere si recò a visitarli a Alton-Priory, nell'antico castello che il vecchio duca aveva dato a suo figlio come regalo di nozze, trovò, in un bel pomeriggio, Sibilla seduta sotto un tiglio del giardino, intenta a seguire con occhio amoroso un bambino ed un bambina che giocavano tra le rose. Ad un tratto lady Windermere, prese la mani dell'amica fra le sue, e le chiese: — Siete dunque felice, Sibilla? — Cara lady Windermere, io sono la donna più felice di questo mondo; e voi? — Non ho tempo di esserlo. Ho sempre amato l'ultimo uomo presentatomi, ma appena ho imparato a conoscerlo me ne sono sentita stanca. Oh! mia cara; i leoni non sono buoni che per una stagione! Appena si è tagliata loro la criniera, diventano le creature più noiose della terra. Di più, se si è gentili con loro, essi finiscono col portarsi male. Vi ricordate di quell'orribile Podgers? Era uno sfrontato impostore. Naturalmente non me ne sono accorta subito: quando aveva bisogno di danaro gliene davo, ma non potevo soffrire che mi facesse la corte. Mi ha proprio fatto odiare la chiromanzia. Ora è la telepatia che m'incanta. È molto più divertente. — Non bisogna dir nulla contro la chiromanzia, lady Windermere. È il solo tema di cui Arturo non ami che si rida: vi assicuro che su ciò egli ha idee veramente irremovibili. — Volete dire che ci crede, Sibilla? — Domandatelo a lui stesso, lady Windermere. Eccolo. Lord Arturo attraversava infatti il giardino, con un grosso mazzo di rose in mano, facendosi largo fra i due ragazzi che gli ballavano intorno. — Lord Arturo? — Ai vostri ordini! lady Windermere. — Vorreste dirmi se credete veramente nella chiromanzia? — Certamente, — rispose il giovane sorridendo. — E perchè? — Perchè le devo tutta la felicità della mia vita — mormorò sdraiandosi in una poltrona di vimini. — Che volete dire con ciò, lord Arturo? — Le debbo Sibilla, — rispose egli, porgendo le mani a sua moglie e guardandola intensamente negli occhi ceruli. — Che sciocchezze! — esclamò lady Windermere. — In vita mia non ho mai udito una sciocchezza simile! INDICE INTRODUZIONE pag. VII Il fantasma di Canterville » 1 Il delitto di lord Arturo Savile » 67 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.