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Title: I tre moschettieri, vol. I
Author: Dumas, Alexandre
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "I tre moschettieri, vol. I" ***


                                 I TRE
                              MOSCHETTIERI


                                   DI

                            Alessandro Dumas


                                VERSIONE
                          DI ANGIOLO ORVIETO.

                                VOL. I.



                                Napoli,
                       GIOSUÈ RONDINELLA EDITORE
                     Strada Trinità Maggiore nº 27
                                 1853



                         TIPOGRAFIA DI G. PALMA



CAPITOLO I.

I TRE REGALI DEL SIGNOR D'ARTAGNAN PADRE


Il primo lunedì del mese d'aprile 1625 il borgo di Méung ove nacque
l'autore del _Romanzo della Rosa_, sembrava esser in una così completa
rivoluzione, come se gli ugonotti vi fossero venuti a fare una seconda
Rochelle. Molti borghigiani vedendo correre le donne lungo la strada
maestra, sentendo i fanciulli gridare sul limitare delle porte, si
sollecitavano ad indossare la corazza, equilibrando il loro portamento
alquanto incerto col mezzo di un moschetto o di una partigiana, o
dirigendosi verso l'osteria del _Franc-Meunier_, davanti alla quale
si affrettava ed ingrossava di minuto in minuto, un gruppo compatto,
rumoroso e pieno di curiosità.

In quei tempi i timori panici erano frequenti, e pochi erano quei
giorni che passavansi senza che una città o l'altra non registrasse nei
suoi archivj qualche avvenimento di questo genere. Vi erano i signori
che guerreggiavano fra di loro; v'era il re che faceva la guerra al
suo ministro; vi era la Spagna che faceva la guerra al re. Quindi,
oltre a queste guerre sorde o pubbliche, secrete o patenti vi erano
ancora i ladri, i mendicanti, gli ugonotti, i lupi ed i lacchè che
facevano la guerra a tutti, spesso contro i signori e gli ugonotti,
qualche volta contro il re, ma mai contro il ministro e lo spagnuolo.
Ne resultò dunque da questa presa abitudine, che nel suddetto lunedì
del mese d'aprile 1625, i borghigiani sentendo il rumore, e non vedendo
nè la banderuola gialla e rossa, nè la livrea del duca di Richelieu si
precipitarono dalla parte dell'albergo del Franc-Meunier.

Là giunto, ciascuno potè vedere e riconoscere la causa di questo rumore.

Un giovane... tracciamo il suo ritratto con un colpo di penna:
figuratevi Don Chisciotte di diciotto anni, Don Chisciotte senza
giubba, senza usbergo e senza corazza; Don Chisciotte rivestito con un
sajo di lana, il di cui colore blu si era trasformato in un miscuglio
incomprensibile di fondo di vino e di azzurro celeste. Il viso era
lungo e scuro; gli zigomi delle guance sporgenti, segno d'astuzia; i
muscoli mascellari enormemente sviluppati; contrassegno infallibile dal
quale si riconosce il Guascone anche senza il berretto, ed il nostro
giovane portava un berretto ornato con una specie di piuma. L'occhio
aperto e intelligente, il naso rivolto, ma disegnato con precisione;
troppo grande per essere un fanciullo, troppo piccolo per essere un
uomo, e che un occhio un poco esercitato avrebbe preso per il figlio
di un affittajuolo in viaggio se non avesse avuto una lunga spada,
che appesa ad un pendaglio di pelle, batteva nelle polpe del suo
proprietario quando egli era in piedi, e sul pelo arricciato della sua
cavalcatura quando era a cavallo.

Poichè il nostro giovane aveva una cavalcatura, e questa cavalcatura
era anzi così rimarchevole che venne rimarcata di fatto; era un ronzino
di Béarn, della età di dodici in quattordici anni, colla pelle gialla,
senza crini alla coda, ma non senza vesciconi alle gambe, e che sebbene
camminasse con la testa più bassa dei ginocchi, cosa che rendeva
inutile l'applicazione della martingala, faceva ancora le sue otto
leghe il giorno con tutto il comodo suo. Disgraziatamente le nascoste
qualità di questo cavallo, erano così bene nascoste sotto il suo strano
pelo e sotto la sua incongrua camminata, che in un tempo in cui gli
uomini si distinguevano dai cavalli, l'apparizione del suddetto ronzino
a Méung, ove era entrato da circa un quarto d'ora per la porta del
Beaugency, produsse una sensazione il di cui disfavore giunse fino al
suo cavaliere.

E questa sensazione era riuscita tanto più penosa al giovane d'Artagnan
(così chiamavasi il don Chisciotte di questo altro Rosinante) che
egli non si nascondeva la parte ridicola che gli procurava una simile
cavalcatura, per quanto fosse buon cavaliere. Fu per questo che egli
aveva sospirato molto quando accettò il dono che a lui ne fece il sig.
d'Artagnan padre; egli non ignorava che questa bestia valeva almeno
venti lire. È vero però che le parole con cui fu accompagnato il dono
non avevano prezzo.

«Figlio mio, aveva detto il gentiluomo guascone, in quel puro dialetto
di Béarn di cui Enrico IV non potè mai arrivare a disfarsi, figlio mio,
questo cavallo è nato nella casa di vostro padre, sono oramai tredici
anni, esso vi è sempre rimasto per tutto questo tempo, lasciatelo
morire tranquillamente ed onoratamente di vecchiaja, e se voi fate
qualche campagna con lui, abbiategli quei riguardi che avreste per
un vecchio servitore. Alla corte, continuò il sig. d'Artagnan padre,
se pure avreste l'onore di andarvi, onore al quale la vostra vecchia
nobiltà vi dà del resto non pochi diritti, sostenete degnamente il
vostro nome di gentiluomo, che è stato portato degnamente per più
di cinquecento anni dai vostri antenati, tanto per voi, che per la
vostra famiglia e per i vostri amici. Non sopportate mai niente se
non ciò che viene dal ministro, o dal re. È per il solo suo coraggio,
intendetelo bene, per il solo suo coraggio che un gentiluomo in oggi
può fare la sua carriera. Chiunque trema anche per un secondo, lascia
fuggirsi l'occasione, che precisamente durante questo secondo la
fortuna gli presentava. Voi siete giovane e dovete essere coraggioso
per due ragioni: la prima è perchè siete guascone, la seconda è
perchè voi siete mio figlio. Non schivate le occasioni, e cercate le
avventure. Io vi ho fatto imparare a maneggiare la spada; voi avete
un garetto di ferro, un pugno di acciajo, battetevi, a tutti i conti;
battetevi, tanto più che i duelli sono proibiti, e che per conseguenza
è necessario un doppio coraggio per battersi. Figlio mio, io non ho
a darvi che quindici scudi, il mio cavallo ed i consigli che avete
ascoltati. Vostra madre vi aggiungerà la ricetta di un certo balsamo
che ella ha avuto da una zingara, e che ha una virtù miracolosa per
guarire tutte le ferite che non hanno colpito il cuore. Traete profitto
da tutto, e vivete felice e per lungo tempo.

«Non ho più che una sola parola da aggiungere, ed è un esempio che io
vi propongo; non il mio, poichè io non sono mai comparso alla corte, e
non ho mai fatto che le guerre di religione come volontario: io voglio
parlarvi del signor de Tréville, che era in altri tempi mio vicino, e
che ha avuto l'onore di giuocare col re Luigi XII, che Iddio conservi,
fin da quando era fanciullo. Qualche volta i loro giuochi degeneravano
in battaglie, in queste battaglie il re non era sempre il più forte. I
colpi che egli ne ricevette procacciarono molta stima ed amicizia al
signor de Tréville. In seguito il signor de Tréville si battè ancora
con altri, nel suo primo viaggio a Parigi cinque volte; dopo la morte
del fu re, fino alla maggiorità del giovine, senza contare le guerre
e gli assedi, sette volte; e dopo questa maggiorità fino al giorno
d'oggi, forse cento volte! così ad onta degli editti, delle ordinanze,
dei decreti, eccolo Capitano dei moschettieri, vale a dire capo di
una legione di Cesari di cui il re fa gran conto, e che è temuta dal
ministro che, come ognun sa, non teme molte cose. Di più il signor
de Tréville guadagna dieci mila scudi per anno; egli è dunque un gran
signore. Egli però ha cominciato come voi; andate a fargli visita con
questa lettera, e regolatevi a seconda del suo esempio, per fare come
ha fatto lui.»

Dopo le quali parole il signor d'Artagnan padre cinse a suo figlio la
sua propria spada, lo baciò teneramente sopra ambedue le guance e gli
dette la sua benedizione.

Nel sortire dalla camera paterna, il giovane trovò sua madre che lo
aspettava colla famosa ricetta di cui, pe' consigli che abbiamo testè
riportati, doveva necessariamente avere spesso necessità d'impiegarla.
Gli addii furono da questa parte più lunghi e più teneri di quello che
lo erano stati dall'altra parte, non già perchè il signor d'Artagnan
non amasse suo figlio, che era la sola sua progenitura, ma il sig.
d'Artagnan era un uomo, e avrebbe considerato come indegno di un uomo
il lasciarsi trasportare dalla sua emozione, nel mentre che la signora
d'Artagnan era donna, e di più era madre. Ella pianse abbondantemente,
e, diciamolo a lode del signor d'Artagnan figlio, per quanti sforzi
facesse onde restar saldo come doveva esserlo un futuro moschettiere,
la natura la vinse, e fu sforzato a versare lagrime, di cui egli giunse
con grande stento a nasconderne la metà.

Nello stesso giorno il giovine si mise in viaggio, munito dei tre
regali paterni che si componevano, come dicemmo, di quindici scudi, del
cavallo e della lettera per il sig. de Tréville come si crederà bene, i
consigli erano stati dati per un di più al disopra del mercato.

Con un simile _vade-mecum_, d'Artagnan si ritrovò, tanto pel morale
che per il fisico, una copia esatta dell'eroe di Cervantes, al quale
noi lo abbiamo così felicemente paragonato, allorchè il nostro dovere
di storico ci ha imposto la necessità di delinearne il ritratto. Don
Chisciotte prendeva i molini a vento per giganti, e le mandrie di
montoni per armate; d'Artagnan prese ciascun sorriso per un insulto,
e ciascuno sguardo per una provoca. Ne resultò che egli ebbe sempre
il pugno stretto da Tarbes fino a Méung, e che uno per l'altro portò
la mano al pomo della spada almeno dieci volte il giorno; tuttavolta,
il pugno non discese sulla mascella di alcuno, e la spada non sortì
dal suo fodero, non già che la vista del mal avventurato ronzino
giallo non facesse comparire il sorriso sulla faccia di coloro che
passavano, ma siccome al disopra del ronzino tentennava una spada di
rispettosa lunghezza, e che al disopra di questa brillava un occhio
feroce, piuttosto che superbo, quelli che passavano reprimevano la loro
ilarità, o se la ilarità aveva il sopravvento sulla prudenza, cercavano
almeno di ridere da una parte soltanto, come le maschere antiche,
D'Artagnan dimorò dunque maestoso e intatto nella sua suscettibilità,
fino a quella malaugurata città di Méung.

Ma là, mentre discendeva da cavallo alla porta del _Franc-Meunier_
senza che alcun oste, cameriere o palafreniere venisse a prendere
le redini al montatore, d'Artagnan scôrse da una finestra socchiusa
del pian terreno un gentiluomo di alta statura e di belle sembianze,
quantunque col viso alquanto increspato, il quale parlava con due
persone, che sembravano ascoltarlo con attenzione. D'Artagnan credè
naturalmente, secondo la sua abitudine, di essere l'oggetto della
conversazione, ed ascoltò. Questa volta d'Artagnan non si era sbagliato
che per metà, non si trattava di lui, ma del suo cavallo. Il gentiluomo
sembrava enumerare ai suoi uditori tutte le sue qualità, e poichè,
come si disse, gli uditori sembravano avere una grande attenzione al
narratore, davano in risate ad ogni momento. Ora, siccome bastava un
mezzo sorriso per svegliare l'irascibilità del giovane, si comprenderà
facilmente quale effetto dovesse produrre in lui una ilarità così
rumorosa.

Ciò non ostante d'Artagnan volle sulle prime rendersi conto della
fisonomia dell'impertinente che si burlava di lui. Fissò il suo
sguardo orgoglioso sullo straniero; e riconobbe un uomo dai quaranta
ai quarantacinque anni, con gli occhi neri e penetranti, un colorito
scurito, un naso fortemente accentato, e un pajo di baffi neri tagliati
a perfezione: egli era vestito di un sajo e di un giacco da caccia
violetto colle rivolte dello stesso colore, senz'altro ornamento che
le aperture ordinarie dalle quali usciva la camicia. Questo giaco e
questo sajo, quantunque nuovi, sembravano spiegazzati come gli abiti
di viaggio tenuti lungamente chiusi nel porta-mantello. D'Artagnan
fece tutte queste osservazioni colla rapidità dell'osservatore il più
scrupoloso, e senza dubbio per un sentimento istintivo che gli diceva,
che questo sconosciuto doveva avere una grande influenza sulla sua vita
avvenire.

Ora, siccome al momento in cui d'Artagnan fissava lo sguardo sul
gentiluomo dal sajo violetto, il gentiluomo faceva sul ronzino bearnese
una delle sue più sapienti e profonde dimostrazioni, i suoi uditori
scoppiarono in una risata, ed egli stesso, contro la sua abitudine,
lasciò visibilmente errare, se si può dir così, un pallido sorriso
sulle sue labbra. Questa volta non vi era più alcun dubbio: d'Artagnan
era realmente insultato. Così, pieno di questa convinzione, si calcò
il berretto sugli occhi, e, cercando di copiare qualcuna di quelle
posizioni di corte che aveva osservate in Guascogna presso dei signori
viaggiatori, egli si avanzò con una mano sulla guardia della spada, e
coll'altra appoggiata sul fianco. Disgraziatamente, a misura che egli
si avanzava, la collera lo accecava sempre più, e in luogo del discorso
degno e sostenuto che aveva preparato per formulare la sua provoca,
egli non trovò più all'estremità della sua lingua che una grossolana
personalità, che fu da lui accompagnata con un gesto furioso.

— Che! signore, gridò egli, signore! che vi nascondete dietro lo
sportello? sì, voi, ditemi dunque un poco di che cosa ridete, e noi
rideremo assieme!

Il gentiluomo ricondusse lentamente gli occhi dal cavallo al cavaliere,
come se fosse abbisognato qualche tempo per capire che così strane
parole erano a lui indirizzate; quindi, allorchè non potè più averne
alcun dubbio, i suoi sopraccigli si aggrottavano leggermente, dopo una
sufficiente pausa, con un accento d'ironia e d'insolenza impossibili a
descrivere, egli rispose a d'Artagnan.

— Io non parlo con voi, signore.

— Ma parlo ben io con voi, gridò il giovane esasperato da questo
miscuglio d'insolenza e di buone maniere, di convenienza e di
disprezzo.

Lo sconosciuto lo guardò ancora un istante col suo leggero sorriso;
e, ritirandosi dalla finestra, sortì lentamente dall'osteria per
venirsi a piantare in faccia al cavallo, alla distanza di due passi da
d'Artagnan. Il suo portamento tranquillo, e la sua fisonomia scherzosa
avevano raddoppiato l'ilarità di coloro coi quali parlava, e che erano
rimasti alla finestra.

D'Artagnan, vedendolo arrivare cavò più di un piede della sua spada
fuori del fodero.

— Questo cavallo è decisamente, o piuttosto è stato nella sua gioventù
pomellato in oro, riprese lo sconosciuto, continuando le investigazioni
incominciate e indirizzandosi a' suoi uditori della finestra, senza
sembrare di fare alcuna attenzione alla esasperazione di d'Artagnan,
che pure frapponevasi fra lui ed essi. Questo è un colore conosciuto in
botanica, ma fino adesso molto raro nei cavalli.

— V'ha tale che ride del cavallo che non oserebbe ridere del padrone!
gridò l'emulo furioso di de Tréville.

— Io non rido spesso, signore, riprese lo sconosciuto, come voi potete
persuadervene da voi stesso dall'aspetto del mio viso; ma io voglio
conservare il privilegio di poter ridere quando mi piace.

— Ed io gridò d'Artagnan, io non voglio che si rida quanto mi dispiace.

— Davvero, signore? continuò lo sconosciuto più calmo che mai. Ebbene!
è perfettamente giusto.

E girando su' suoi calcagni si disponeva a rientrare nell'osteria per
la gran porta, sotto la quale d'Artagnan nel giungere aveva rimarcato
un cavallo già insellato.

Ma d'Artagnan non era di tal carattere da lasciare in tal modo un uomo
che aveva avuta l'insolenza di burlarsi di lui. Cavò interamente la sua
spada dal fodero, e si mise a perseguirlo gridando:

— Voltatevi, voltatevi dunque signor motteggiatore, che io non abbia a
battervi per di dietro!

— Batter me! disse l'altro girando sui talloni e guardando il giovane
con tanta meraviglia quanto era il disprezzo. Andiamo dunque, mio caro,
voi siete un pazzo!

Quindi a mezza voce, e come se avesse parlato a se stesso.

— È cosa dispiacente, continuò egli, bella recluta per Sua Maestà, che
cerca da tutte le parti dei bravi per completare i suoi moschettieri!

Terminava appena, che d'Artagnan gli stendeva un così furioso colpo di
punta, che, s'egli non avesse fatto prestamente uno sbalzo in addietro,
è probabile che avrebbe scherzato per l'ultima volta. Lo sconosciuto
vide allora che la cosa oltrepassava lo scherzo, cavò la sua spada,
salutò il suo avversario, e si mise gravemente in guardia. Ma nello
stesso tempo i suoi due uditori, accompagnati dall'oste, piombarono
sopra d'Artagnan con gran colpi di bastone, di paletta e di molle.
Ciò fece una diversione così rapida e così completa all'attacco,
che l'avversario di d'Artagnan, nel mentre che questi si voltava per
far fronte a quella grandine di colpi, rimetteva nel fodero la sua
spada colla massima precisione, e, da attore, ritornava spettatore
del combattimento, parte di cui si disimpegnava colla consueta sua
impassibilità, mentre ciò non ostante brontolava:

— Venga la peste a questi Guasconi! rimettetelo sul suo cavallo color
d'arancio, e ch'egli se ne vada.

— Non prima di averti ucciso! gridò d'Artagnan, mentre faceva fronte il
meglio che poteva, senza rinculare di un passo, ai suoi tre nemici, che
lo maltrattavano di colpi.

— Ancora un'altra Guasconata! mormorò il gentiluomo. Sull'onor mio,
questi Guasconi sono incorreggibili. Continuate dunque la danza, poichè
egli vuole assolutamente ballare. Quando sarà stanco, egli dirà che ne
ha abbastanza.

Ma lo sconosciuto non sapeva ancora con qual genere di testardo aveva
a che fare: d'Artagnan non era l'uomo da domandare mai grazia. Il
combattimento continuò dunque ancora qualche secondo: finalmente,
d'Artagnan spossato lasciò sfuggirsi la spada, che un colpo di bastone
aveva troncata in due pezzi. Un altro gli colpì la fronte, e lo
rovesciò quasi nello stesso tempo tutto insanguinato, e quasi svenuto.

Fu in questo momento che da tutte le parti si accorse al luogo della
scena. L'oste, temendo uno scandalo, trasportò coll'ajuto del suo
servitore il ferito in cucina, ove gli furono usate alcune cure.

In quanto al gentiluomo, egli era ritornato a prendere il suo posto
alla finestra, e guardava con una certa impazienza tutta quella folla,
che sembrava destargli una contrarietà nel rimanere in quel luogo.

— Ebbene come va quell'arrabbiato? riprese egli voltandosi al rumore
che fece la porta nell'aprirsi, indirizzandosi all'oste che veniva ad
informarsi della sua salute.

— È sana e salva vostra Eccellenza? domandò l'oste.

— Sì, perfettamente sano e salvo, mio caro oste, e sono io che vi
domando come va quel giovane.

— Va meglio, disse l'oste, egli è del tutto svenuto.

— Davvero? fece il gentiluomo.

— Ma prima di svenirsi, egli ha radunate tutte le sue forze per
chiamarvi, e per sfidarvi chiamandovi.

— Ma dunque è il diavolo in persona, questo malandrino! gridò lo
sconosciuto.

— Oh! no, Eccellenza; non è il diavolo, riprese l'oste con una
smorfia di disprezzo, perchè durante il suo svenimento noi lo abbiamo
perquisito, e nel suo fagottino non ha che una camicia, e nella sua
borsa non ha che undici scudi, cosa però che non gli ha impedito dire
mentre cadeva in svenimento, che se una simile cosa fosse accaduta a
Parigi voi ve ne sareste pentito sull'atto, nel mentre che qui voi non
ve ne pentirete che più tardi.

— Allora, disse freddamente lo sconosciuto, è qualche principe del
sangue travestito.

— Io vi dico questo, mio gentiluomo, riprese l'oste, affinchè voi
stiate sulle difese.

— Nella sua collera, ha egli nominato nessuno?

— Sì, egli batteva sulla saccoccia, e diceva noi vedremo ciò che il
signore de Tréville penserà di questo insulto fatto al suo protetto.

— Il signor de Tréville? disse lo sconosciuto divenendo attonito;
batteva sulla sua tasca pronunciando il nome del signor de Tréville?...
Vediamo, mio caro oste, mentre che il giovane era svenuto, voi non
sarete stato, ne son ben certo, senza guardare in questa saccoccia. Che
cosa v'era?

— Una lettera indirizzata al signor de Tréville, capitano dei
moschettieri.

— Davvero?

— La cosa è come ho l'onore di dirvela, eccellenza.

L'oste che non era dotato di una grande perspicacia, non notò
l'espressione che le sue parole avevano impresso nella fisonomia
dello sconosciuto. Questi lasciò il parapetto della finestra sul quale
era sempre rimasto appoggiato colla punta del gomito, e aggrottò il
sopracciglio come un uomo inquieto.

— Diavolo! mormorò egli fra' i denti; Tréville mi avrebbe egli inviato
questo Guascone? questi è molto giovane! ma un colpo di spada è un
colpo di spada, qualunque sia l'età di quello che lo dà, e si ha minor
diffidenza in un ragazzo che in tutt'altro, basta molte volte un debole
ostacolo per mandare a terra un gran disegno.

E lo sconosciuto cadde in una riflessione che durò qualche minuto.

— Vediamo, oste, diss'egli, non mi sbarazzerete voi da questo
frenetico? in coscienza, ora non posso ucciderlo, e ciò non ostante
aggiunse egli con una espressione freddamente minacciosa, ciò
nonostante egli m'incomoda. Ov'è egli?

— Nella camera di mia moglie al primo piano, ove è medicato.

— I suoi arredi e il suo sacco sono con lui? ha egli seco il suo sajo?

— Tutto ciò, al contrario, è disotto in cucina. Ma poichè v'incomoda
questo giovane pazzo...

— Senza dubbio. Egli cagiona nella vostra osteria uno scandalo al quale
non saprebbero resistere le persone oneste. Salite nella vostra stanza,
fatemi il conto e avvertite il lacchè.

— Che il signore ci vuole lasciare di già?

— Voi lo sapete bene, poichè vi aveva dato l'ordine di fare insellare
il mio cavallo. Non sono io forse stato obbedito?

— Certamente e, come vostra Eccellenza ha potuto vederlo, il suo
cavallo è sotto la porta grande già apparecchiato per partire.

— Sta bene, allora fate quanto vi ho detto.

— Che! disse a se stesso l'oste avrebbe egli forse paura di quel
ragazzo?

Ma un colpo d'occhio imperativo dello sconosciuto venne a tagliar
corto, egli salutò umilmente e sortì.

— Non bisogna che Milady[1] si accorga di questo furbo, continuò
lo straniero: ella non deve tardare a giungere; ella è già in
ritardo. Decisamente val meglio che io monti a cavallo, e che vada
ad incontrarla... Se potessi soltanto sapere ciò che contiene quella
lettera indirizzata a Tréville!

E lo sconosciuto, borbottando si diresse verso la cucina.

In questo mentre l'oste, che non dubitava che fosse la presenza del
giovane che scacciava lo sconosciuto dalla sua osteria, era risalito
da sua moglie, e aveva ritrovato d'Artagnan padrone finalmente dei
suoi sensi. Allora, facendogli comprendere che la polizia potrebbe
fargli un cattivo partito per aver cercato contesa con un gran signore,
poichè, secondo il parere dell'oste, lo sconosciuto non poteva essere
che un gran signore, egli lo determinò, ad onta della sua debolezza,
ad alzarsi e a continuare il suo viaggio. D'Artagnan mezzo sbalordito,
senza sajo, e colla testa tutta ammaliata di fasce, si alzò adunque, e
sollecitato dall'oste, cominciò a discendere; ma giungendo in cucina,
la prima cosa di cui s'accorse fu del suo provocatore, che parlava
tranquillamente appoggiato allo sportello di una pesante carrozza alla
quale erano attaccati due grossi cavalli normanni.

La sua interlocutrice, la di cui testa compariva incorniciata dalla
portiera, era una donna dai venti ai ventidue anni. Noi abbiamo già
detto con quale rapidità d'investigazione d'Artagnan abbracciava una
intiera fisonomia; egli dunque vide a primo colpo d'occhio che la
donna era giovane e bella. Ora questa bellezza lo colpì tanto più,
inquantochè essa era perfettamente straniera ai paesi meridionali
che fino allora erano stati abitati da d'Artagnan. Era una pallida e
bionda signora, coi capelli arricciati cadenti sulle spalle, con grandi
occhi blu languenti, colle labbra rosee e colle mani d'alabastro; ella
parlava con molta vivacità allo sconosciuto.

— Per tal modo, il ministro m'ordina... diceva la signora.

— Di ritornare sull'istante in Inghilterra, e di prevenirlo
direttamente se il duca lasciasse Londra.

— E in quanto alle mie istruzioni? domandò la bella viaggiatrice.

— Esse sono racchiuse in questo pacco, che voi non aprirete che giunta
all'altra parte della Manica.

— Benissimo; e voi cosa fate?

— Io? io ritorno a Parigi.

— Senza gastigare questo insolente ragazzo? domandò la dama.

Lo sconosciuto stava per rispondere, ma al momento in cui apriva la
bocca, d'Artagnan, che aveva tutto inteso, si slanciò sulla soglia
della porta.

— È questo insolente ragazzo che gastiga gli altri, gridò egli, e spero
bene che questa volta quello che egli deve gastigare non gli scapperà,
come la prima volta.

— Non gli scapperà? riprese lo sconosciuto aggrottando il sopracciglio.

— No, davanti una donna, voi non oserete fuggire, lo presumo.

Pensate, gridò Milady vedendo il gentiluomo portare la mano alla sua
spada, pensate che il più piccolo ritardo può perdere tutto.

— Voi avete ragione, gridò il gentiluomo; partite dunque dalla vostra
parte, io parto dalla mia.

E salutando la dama con un segno di testa, si slanciò sul suo cavallo
nel mentre che il cocchiere della carrozza frustava la sua pariglia. I
due interlocutori partirono dunque al galoppo, allontanandosi ciascuno
da una parte opposta della strada.

— E le vostre spese? vociferò l'oste, in cui l'affezione per il suo
viaggiatore si cambiava in uno sdegno profondo, vedendo ch'egli si
allontanava senza saldare il suo conto.

— Paga gaglioffo, gridò il viaggiatore, sempre galoppando, al suo
lacchè, il quale gettò ai piedi dell'oste due o tre monete d'argento, e
si mise a galoppare dietro al suo padrone.

— Ah! vile, ah! miserabile, ah! falso gentiluomo gridò d'Artagnan
slanciandosi dietro il lacchè.

Ma il ferito era troppo debole ancora per sopportare una simile scossa.
Appena egli ebbe fatto dieci o dodici passi, sentì un tintinnio alle
orecchie, fu preso da un rivolgimento, una nube di sangue passò avanti
i suoi occhi, e andò a cadere nel mezzo della strada gridando sempre:

— Vile! vile! vile!

— Egli di fatti è ben vile, mormorò l'oste avvicinandosi a d'Artagnan,
cercando con questa adulazione di raccomodarsi col povero giovane, come
l'airone della favola colla sua lumaca della sera.

— Sì, ben vile, mormorò d'Artagnan, ma ella, ben bella!

— Chi ella? domandò l'oste.

— Milady, balbettò d'Artagnan.

E si svenne una seconda volta.

E lo stesso, disse l'oste: io ne perdo due, ma mi resta questo, che
almeno son sicuro, di trattenere qualche giorno. Sono sempre undici
scudi guadagnati.

Noi sappiamo che undici scudi formavano precisamente la somma che
restava nella borsa di d'Artagnan.

L'oste aveva contato sopra undici giorni di malattia ad uno scudo il
giorno; ma egli aveva contato senza il viaggiatore; l'indomani, alle
cinque del mattino, d'Artagnan si alzò, discese egli stesso in cucina,
domandò, fra gli altri ingredienti la di cui nota non è giunta fino a
noi, del vino, dell'olio, del ramerino, e, con la ricetta di sua madre
alla mano, si compose un balsamo col quale si unse le sue numerose
ferite rinnovellando le sue compresse da se, e non volendo ammettere
l'intervento di alcun medico. Mercè senza dubbio all'efficacia di
questo balsamo della zingara, e forse anche mercè all'assenza di ogni
medico, d'Artagnan si ritrovò in piedi fin dalla stessa sera, e quasi
guarito l'indomani.

Ma al momento di pagare questo ramerino, questo olio e questo vino,
sole spese del giovane che aveva osservata la dieta la più assoluta;
nel mentre che al contrario il cavallo giallastro, al dire almeno
dell'oste, aveva mangiato tre volte più che non si sarebbe potuto
supporre ragionevolmente dalla sua struttura, d'Artagnan non ritrovò
più nella sua saccoccia che la piccola borsa di velluto rapato,
unitamente agli undici scudi che conteneva; ma in quanto alla lettera
diretta al sig. de Tréville, ella era sparita.

Il giovane cominciò dal cercare questa lettera con una gran pazienza,
girò e rigirò venti volte le sue saccocce, e i suoi saccoccini,
frugò e rifrugò nel suo sacco, aprendo e richiudendo la sua borsa; ma
allorquando egli fu convinto che la lettera non potevasi ritrovare
montò in un terzo accesso di rabbia, che poco mancò non gli facesse
aver bisogno di un nuovo consumo di vino e dell'olio aromatizzati,
poichè, vedendo questa giovane testa riscaldarsi e minacciare di romper
tutto nello stabilimento se non si ritrovava quella lettera, l'oste si
era già provveduto di uno spiedo, sua moglie di un manico di scopa,
e il servitore di uno di quei bastoni che avevano servito così bene
l'antivigilia.

— La mia lettera di raccomandazione, o per bacco, io v'infilo tutti
come tanti ortolani.

Disgraziatamente una circostanza sola si opponeva a ciò che il giovane
potesse compiere la sua minaccia: ed era, come lo abbiamo detto, che la
sua spada era stata spezzata nella sua prima lotta, cosa che egli aveva
del tutto dimenticato. Ne resultò, che allorquando d'Artagnan volle,
in fatti, sguainarla, egli si trovò puramente e semplicemente armato
di un tronco di spada di circa otto o dieci pollici di lunghezza, che
l'oste aveva con ogni cura rimesso dentro al fodero. Quanto al resto
della lama, l'oste l'aveva destramente riposta colla idea di farne un
coltello da cucina.

Questo disinganno non avrebbe però trattenuto probabilmente il nostro
giovane focoso, se l'oste non avesse riflettuto che il reclamo che gli
veniva diretto dal viaggiatore, era perfettamente giusto.

— Ma, al fatto, diss'egli abbassando il suo spiedo, ov'è questa lettera?

— Sì, dov'è questa lettera? grido d'Artagnan. Primieramente io vi
avverto che questa lettera è per il signor de Tréville, e bisogna
ch'ella si trovi, o se non si trova, egli saprà bene farla ritrovare.

Questa minaccia compiè d'intimidire l'oste. Dopo il re ed il ministro,
il signor de Tréville era l'uomo il di cui nome fosse il più spesso
ripetuto dai militari ed anche dai borghesi. Vi era pure il padre
Giuseppe, è vero; ma il suo nome non era mai pronunziato che a bassa
voce, tanto era il terrore che inspirava il frate grigio, come veniva
chiamato il confidente del ministro.

Così, gettando il suo spiedo lungi da se, e ordinando a sua moglie
di fare altrettanto del suo manico di scopa, e ai suoi servitori dei
loro bastoni, egli dette pel primo l'esempio mettendosi egli stesso a
cercare la lettera perduta.

— Questa lettera racchiude forse qualche oggetto prezioso? domandò
l'oste dopo un momento di ricerche inutili.

— Senza dirlo, lo credo bene! gridò il Guascone, che calcolava su
questa lettera per fare il suo cammino per la corte; ella conteneva la
mia fortuna.

— Dei buoni sulla Spagna? domandò l'oste inquieto.

— Dei buoni sulla tesoreria particolare di Sua Maestà, rispose
d'Artagnan, che, contando di entrare al servizio del re mercè quella
raccomandazione credeva poter fare senza mentire questa risposta
quantunque un poco azzardata.

— Diavolo! fece l'oste disperato del tutto.

— Ma non importa, continuò d'Artagnan colla sua indifferenza nazionale,
non importa, il denaro non è niente: questa lettera è il tutto. Avrei
amato meglio perdere mille doppie di quello che perdere la lettera.

Egli non arrischiava di più se avesse detto venti mila, ma un certo
pudore giovanile lo trattenne.

A un tratto un lampo di luce colpì in un subito lo spirito dell'oste,
che si dava al diavolo, non trovando niente.

— Questa lettera non è perduta, gridò egli.

— Ah! fece d'Artagnan.

— No, ella vi è stata presa.

— Presa! e da chi?

— Dal gentiluomo d'ieri, egli discese in cucina dove stava il vostro
sajo. Egli è rimasto solo. Scommetterei che è stato lui che l'ha
rubata.

— Voi credete? riprese d'Artagnan poco convinto, poichè sapeva meglio
di qualunque altro l'importanza del tutto personale di quella lettera,
e non vi vedeva niente che potesse tentare la cupidigia. Il fatto è che
nessuno dei viaggiatori presenti avrebbe guadagnato nel possedere quel
foglio.

— Voi dite dunque, riprese d'Artagnan, che supponete questo
impertinente gentiluomo?...

— Io vi dico che sono sicuro, continuò l'oste; allora quando gli
ho annunziato che vostra signoria era il protetto del signor de
Tréville, che voi avevate una lettera per questo gentiluomo, egli è
sembrato molto inquieto, mi ha domandato ove era questa, ed è disceso
immediatamente in cucina ove sapeva essere il vostro sajo.

— Allora egli è il mio ladro, rispose d'Artagnan; io ne farò le mie
lagnanze col sig. de Tréville, ed il sig. de Tréville farà le sue
dimostrazioni al re. Cavò quindi maestosamente due scudi dalla sua
borsa, li dette all'oste, che l'accompagnò coi cappello in mano fino
alla porta, rimontò sulla sua cavalcatura gialla, che lo condusse
senza alcun accidente alla porta sant'Antonio di Parigi, ove il suo
proprietario lo vendè per tre scudi con che era molto bene pagato,
attesocchè d'Artagnan l'aveva molto stancato nell'ultima tappa. Così il
birocciajo al quale d'Artagnan lo cedè, mercè le nove lire suddette,
non nascose al giovane che gli dava questa somma esorbitante soltanto
per la originalità del colore della pelle.

D'Artagnan entrò dunque in Parigi a piedi, portando il suo piccolo
fagotto sotto il braccio camminando fino a tanto che ebbe ritrovato
una camera ammobiliata che convenisse alla tenuità delle sue risorse.
Questa camera era una specie di mezzanino, ritrovata nella strada
Fossoyeurs, vicino al Luxembourg.

Subito dopo data la caparra, d'Artagnan prese possesso del suo
alloggio, passò il restante della giornata a cucire al suo sajo e a'
suoi calzoni dei passamani, che sua madre aveva staccati da un sajo
quasi nuovo del signor d'Artagnan padre, e che gli aveva regalati sotto
Sigillo; quindi andò alla riviera della Ferraille a far rimettere
la lama della sua spada, poscia ritornò al Louvre per informarsi,
dal primo moschettiere che ritrovò, dove era situato il palazzo del
signor de Tréville, che era nella strada del Vecchio Colombajo, vale
a dire precisamente nelle vicinanze della camera presa in affitto
da d'Artagnan; circostanza che gli parlava di un felice augurio pel
successo del suo viaggio. Dopo di che, contento del modo con cui si era
condotto a Méung, senza rimorsi del passato, confidando nel presente
e pieno di speranze nell'avvenire, andò a letto e dormì il sonno del
bravo.

Questo sonno, ancora tutto provinciale, lo portò fino alle nove del
mattino, ora nella quale si alzò per portarsi da questo famoso signore
de Tréville, il terzo personaggio del regno giusta il giudizio paterno.



CAPITOLO II.

L'ANTICAMERA DEL SIGNOR DE TRÉVILLE


Il signor de Troisville, come si chiamava ancora la sua famiglia
in Guascogna, o il sig. de Tréville, come anch'egli aveva finito
per chiamare se stesso a Parigi, aveva realmente cominciato come
d'Artagnan, vale a dire senza un soldo, ma con quel fondo di audacia,
di spirito e di testardaggine che fa sì, che il più povero gentiluomo
_guascone_ riceve spesso di più nelle sue speranze dall'eredità
paterna, che il più ricco gentiluomo _perigordino_ o _berissone_ non
ne riceve in realtà. Il suo coraggio insolente, la sua fortuna anche
più insolente in tempi in cui i colpi piovevano come la tempesta, lo
avevano tirato alla sommità di quella scala difficile, che si chiama
il favore della corte, e della quale egli aveva montati a quattro a
quattro gli scalini.

Egli era l'amico del re, il quale onorava molto, come ognun sa,
la memoria di suo padre Enrico IV. Il padre del signor de Tréville
lo aveva così fedelmente servito nelle sue guerre contro la lega,
che in mancanza di denaro contante, cosa che mancò in tutta la sua
vita al Bearnese, il quale pagava costantemente i suoi debiti colla
sola cosa che non aveva mai bisogno di comprare, vale a dire collo
spirito: che in mancanza di denaro contante, dicevamo noi, egli lo
aveva autorizzato, dopo la resa di Parigi, a prendere per stemma un
leone d'oro posante sopra una sbarra, con questa divisa: _Fidelis et
fortis_. Era molto per l'onore, ma era poco per viver bene. Per tal
guisa, quando morì l'illustre compagno del grande Enrico, lasciò per
unica eredità al signor figlio la sua spada e la sua divisa. Mercè
questo doppio dono, ed un nome senza macchia che lo accompagnava,
il signor de Tréville fu ammesso nella casa del giovane principe, in
cui si servì tanto bene della sua spada, e fu tanto fedele alla sua
divisa, che Luigi XIII, che era una delle buone spade del suo regno,
aveva l'abitudine di dire che, s'egli avesse un amico che si dovesse
battere, lo consiglierebbe a scegliersi per padrino prima lui, poscia
de Tréville, e forse anche prima di lui.

Luigi XIII aveva dunque un vero attaccamento per de Tréville,
attaccamento regio, attaccamento egoista, è vero, ma che ciò non
pertanto era un vero attaccamento. Fu perchè in quei disgraziati
tempi si aveva gran cura di circondarsi d'uomini della tempra dei
de Tréville. Molti potevano prendere per divisa l'epiteto _di forte_
che formava la seconda parte del motto del suo stemma, ma ben pochi
gentiluomini potevano reclamare l'epiteto di _fedele_ che ne formava la
prima parte. De Tréville era uno di questi ultimi; era una di quelle
rare organizzazioni, colla intelligenza obbediente come quella di un
alunno, con un valore cieco, coll'occhio rapido, la mano pronta, ed a
cui l'occhio non era stato dato che per vedere se il re era malcontento
di qualcuno, e la mano per percuotere questo qualcuno che dispiaceva,
un Besme, un Maurevers, un Poltrot, de Merè, in fine un Vitry. A de
Tréville fino allora non era mancata che un'occasione, ma egli la
appostava, e si riprometteva di afferrarla bene pei suoi tre capelli se
mai fosse passata alla portata della sua mano. Così Luigi XIII fece de
Tréville capitano dei suoi moschettieri, i quali pel loro attaccamento,
o piuttosto per il loro fanatismo, eran a Luigi XIII ciò ch'erano gli
ordinarj ad Enrico III, e ciò che la guardia scozzese era a Luigi XI.

Dal suo lato, e sotto questo rapporto, il ministro non era rimasto
addietro al re. Quando vide la formidabile _scelta_ di cui si
circondava Luigi XIII, questo secondo, o per meglio dire questo primo
re di Francia, aveva anch'egli voluto avere la sua guardia. Egli
ebbe dunque i suoi moschettieri, come Luigi XIII aveva i propri, e
si vedevano queste due potenze rivali scegliere pel loro servigio, da
tutte le parti della Francia ed anche dagli stati stranieri, gli uomini
i più celebri pei loro gran colpi di spada. Così Luigi XIII e Richelieu
quistionavano spesso la sera mentre giuocavano agli scacchi, in
rapporto al merito dei loro servitori. Ciascuno vantava la proprietà ed
il coraggio dei suoi, e mentre decretavano formalmente contro i duelli
e le risse, li eccitavano in secreto a venire alle mani, e provavano un
vero dispiacere, od una gioja immoderata per la vittoria dei loro. Così
almeno raccomandano le memorie di un uomo che si trovò in qualcuna di
queste disfatte e in molte di queste vittorie.

De Tréville aveva preso il lato debole del suo padrone, ed era a
questa destrezza ch'egli doveva il lungo e costante favore di un re,
che non ha lasciato la fama di essere stato troppo fedele alle sue
amicizie. Egli faceva mettere in parata i suoi moschettieri davanti ad
Armando Duplessis, con un'aria beffarda che non faceva che arricciare
per la collera i baffi grigi del ministro. De Tréville intendeva
ammirabilmente la guerra di quell'epoca, in cui; quando non si viveva
alle spese del nemico, si viveva alle spese dei propri compatriotti: i
suoi soldati formavano una legione di diavoli a quattro, indisciplinati
per tutti fuorchè per lui.

Sfrenati, avvinacciati, scorticati, i moschettieri del re, o piuttosto
quelli del signor de Tréville, si spandevano per le osterie, per le
passeggiate, nei giuochi pubblici, gridavano forte, arricciandosi i
baffi, facendo suonare le spade, urtando con voluttà le guardie del
ministro quando le incontravano, e cavando quindi le spade in piena
strada con mille motteggi; uccisi qualche volta, ma sicuri sempre in
questo caso d'essere compianti e vendicati; uccidendo spesso, e sicuri
allora di non ammuffare in prigione, perchè il signor de Tréville
era sempre là per reclamarli. Per tal modo il signor de Tréville era
lodato in tutti i tuoni, cantato per tutte le canzoni da questi uomini
che l'adoravano, e che, per quanto fossero tutti gente da sacco e da
corda, tremavano davanti a lui come altrettanti scolari davanti al loro
maestro, obbedendo alla più piccola parola, e pronti a farsi ammazzare
per lavare il più piccolo rimprovero.

Il signor de Tréville aveva fatto uso di questa leva potente prima
pel re e per gli amici del re, quindi per se stesso e per i suoi
amici. Del resto in nessuna memoria di quel tempo, che ha lasciate
tante memorie, non si vede che questo degno gentiluomo sia mai stato
accusato neppure dai suoi nemici, ed egli ne aveva tanti, sia fra gli
uomini di penna che fra quelli di spada, in nessun luogo si vede,
diciamo noi che questo degno gentiluomo sia stato notato d'essersi
fatto pagare la cooperazione de' suoi. Con un raro ingegno d'intrigo;
che lo rendeva uguale ai più forti intriganti, egli era rimasto
onest'uomo. Più ancora, a dispetto dei grandi ostacoli che sfiancano,
e degli esercizi penosi che affaticano, egli era divenuto uno dei più
galanti scorridori delle stradelle, uno dei più fini damerini, uno
dei più lampiccati parlatori della sua epoca; si parlava delle buone
avventure di de Tréville, come vent'anni prima si era parlato di quelle
di Bassompierre, e non era dir poco. Il capitano dei moschettieri era
dunque ammirato, temuto ed amato, ciò che costituisce l'apice delle
umane fortune.

Luigi XIV assorbì tutti i piccoli astri della sua corte nel suo vasto
splendore; ma suo padre, sole _pluribus impar_ (_non uguale per tutti_)
lasciò il suo splendore personale a ciascuno dei suoi favoriti, il suo
valore individuale a ciascuno dei suoi cortigiani. Oltre l'udienza
mattinale _l'alzata_ del re e quella del ministro, si contavano a
Parigi allora più di duecento piccole _alzate_, quella di de Tréville
era una delle più frequentate.

Il cortile della sua abitazione, posta nella strada del Vecchio
Colombajo, rassomigliava ad un campo, e ciò fin dalle sei ore della
mattina nell'estate, e dalle otto ore nell'inverno. Da cinquanta a
sessanta moschettieri, che sembravano colà radunarsi per offrire un
numero piuttosto imponente, vi passeggiavano sempre, armati come in
istato di guerra, e pronti a tutto. Lungo quelle spaziose scale; sul
solo pianerottolo di una delle quali la nostra moderna civilizzazione
fabbricherebbe una casa intera, ascendevano e discendevano i
sollecitatori di Parigi, che correvano dietro un favore qualunque,
i gentiluomini di provincia, avidi di essere arruolati, ed i lacchè
guerniti di tutti i colori, che venivano a recare al signor de Tréville
i messaggi dei loro padroni. Nell'anticamera sopra lunghi panchetti
circolari riposavano gli eletti, cioè quelli ch'erano stati chiamati.
Il mormorio là era continuo dalla mattina alla sera, nel mentre che il
signor de Tréville, nel suo gabinetto contiguo a questa anticamera,
riceveva le visite, ascoltava le lagnanze, dava i suoi ordini, e,
come il re dalla sua loggia del Louvre, non aveva che a mettersi alla
finestra per passare la rivista degli uomini e delle armi.

Il giorno in cui si presentò d'Artagnan l'assemblea era imponente,
particolarmente per un provinciale che veniva dalla sua provincia:
è vero che questo provinciale era guascone, e che soprattutto in
quell'epoca i compatrioti di d'Artagnan godevano della riputazione di
non lasciarsi facilmente intimorire. In fatti, una volta che erasi
superata la porta massiccia, incavigliata con lunghi chiodi dalla
testa quadrangolare si cadeva in mezzo ad una folla d'uomini d'arme che
s'incrociavano nel cortile interpellandosi, o querelandosi, o giuocando
fra loro. Per aprirsi liberamente un passaggio in mezzo a tutti questi
flutti tempestosi, bisognava essere ufficiale, gran signore o bella
donna.

Fu dunque in mezzo a questa mischia, e a questo disordine che il nostro
giovane si avanzò col cuore palpitante, accomodando la sua lunga
spadaccia parallela alle sue magre gambe, tenendo una mano all'orlo
del suo feltro con quel mezzo sorriso da provinciale imbarazzato che
vuol fare il disinvolto. Appena aveva oltrepassato un gruppo, allora
respirava più liberamente; ma capiva che si rivolgevano per guardarlo,
e per la prima volta in vita sua d'Artagnan, che, fino a quel giorno,
aveva avuta molta buona opinione di se stesso, si riconobbe ridicolo.

Giunto alla scala, fu ancora peggio; sui primi scalini vi erano quattro
moschettieri, che si divertivano al seguente esercizio, nel mentre
che dieci o dodici altri dei loro camerati aspettavano sul piano che
venisse il loro turno per prendere parte attiva alla partita.

Uno di essi situato sullo scalino superiore, colla spada alla mano,
impediva, o meglio, fingeva d'impedire agli altri tre di salire.

Gli altri tre giuocavano di scherma contro di lui colle loro spade,
e con grandissima agilità. D'Artagnan sulle prime suppose che quello
spade fossero fioretti: egli credè che fossero bottonati: ma riconobbe
ben tosto da certe graffiature, che ciaschedun'arma, al contrario,
era molto bene affilata ed appuntata, e a ciascheduna di queste
graffiature, non solo gli spettatori, ma ancora gli attori ridevano
come matti.

Colui che in quel momento occupava lo scalino teneva in rispetto i
suoi assalitori maravigliosamente. Era stato fatto cerchio intorno ad
esso. La condizione portava che a ciascun colpo il toccato lasciasse
la partita, perdendo il suo giro d'udienza a profitto del toccatore.
In cinque minuti tre furono sfiorati, uno alla mano, l'altro al mento,
l'altro all'orecchia, dal difensore dello scalino, che non fu per
niente toccato, sveltezza che secondo le convenzioni gli valse tre
turni in suo vantaggio.

Per quanto fosse difficile non già ad essere, ma a volersi
maravigliare, questo passatempo però maravigliò il nostro giovane
viaggiatore: egli aveva veduto nella sua provincia, in quella terra ove
si scaldano così prestamente le teste, un poco più di preliminare ai
duelli, e la guasconata di questi quattro giuocatori gli parve la più
forte di tutte quelle che aveva udito fino allora anche in Guascogna.
Egli credette di essere trasportato nei famosi paesi dei giganti, ove
Gulliver andò in seguito, ed ebbe così gran paura; e ciò nonostante non
era ancora al termine, gli rimaneva il pianerottolo e l'anticamera.

Sul pianerottolo non si batteva più; si raccontavano delle storie
di donne, e nell'anticamera delle storie di corte. Sul pianerottolo
d'Artagnan arrossì; nell'anticamera, egli fremette. La sua
immaginazione svegliata e vagabonda, che, in Guascogna lo rendeva
terribile alle giovani cameriere, qualche volta anche alle giovani
padrone, non aveva mai sognato, neppure nei suoi momenti di delirio
la metà di quelle meraviglie amorose, e il quarto di quelle furberie
galanti, rialzate dai nomi i più conosciuti, ed abbellite dai dettagli
i meno velati. Ma se il suo amore per i buoni costumi ricevette in sul
pianerottolo un cozzo, il suo rispetto pel ministro fu scandalizzato
nell'anticamera. Là a sua gran sorpresa, d'Artagnan intese criticare
ad alta voce la politica che faceva tremare l'Europa, e la vita
privata del ministro, che tanti alti personaggi erano stati puniti
di aver solo tentato di approfondare. Questo grand'uomo, riverito dal
signor d'Artagnan padre, serviva di argomento di risa ai moschettieri
del signore de Tréville, chi rideva sulle sue gambe cagnesche, e sul
suo dorso inarcato; qualcun altro contava le novelle sulla signora
d'Aiguillon, sua amica, e la signora di Combalet sua nipote, nel mentre
che gli altri combinavano delle partite contro i paggi e le guardie del
duca-ministro, tutte cose che sembravano a d'Artagnan tante mostruose
impossibilità.

Però, quando il nome del re interveniva qualche volta ad un tratto
e all'improvviso in mezzo a tutti questi motteggi ministeriali, una
specie di mordacchia chiudeva per un momento tutte quelle bocche
derisorie, si guardavano con esitazione intorno, e sembrava temessero
l'indiscrezione della porta del gabinetto del signor de Tréville; ma
ben presto una allusione riconduceva il discorso sul ministro, e allora
le risa si rinnovavano sopra ciascuna delle sue azioni.

— Certamente, ecco qua persone che saranno tutte messe alla Bastiglia,
o impiccate, pensò d'Artagnan con terrore, ed io, senza alcun dubbio,
con loro, poichè dal momento che io gli ho ascoltati ed intesi, sarò
ritenuto per un loro complice. Che direbbe il mio sig. padre, che mi
ha tanto raccomandato il rispetto pel ministro, se egli mi sapesse in
società con simili pagani?

Così come ognuno non ne dubiterà, anche senza che lo dica, d'Artagnan
non osava abbandonarsi alla conversazione; soltanto egli guardava ad
occhi spalancati; ascoltava ad orecchie tese, tendendo avidamente i
suoi cinque sensi per non perder nulla, e malgrado la sua confidenza
nelle raccomandazioni paterne, egli si sentiva portato dai suoi gusti e
trascinato dai suoi istinti a lodare piuttosto che a biasimare le cose
inaudite che colà accadevano.

Frattanto, siccome egli era del tutto estraneo alla folla dei
cortigiani del sig. de Tréville, e che questa era la prima volta che
lo si vedeva in quel luogo, vennero a chiedergli ciò che desiderava.
A questa domanda, d'Artagnan si nominò con molta umiltà, si appoggiò
al titolo di compatriota, e pregò il cameriere che era venuto a fargli
questa interrogazione di domandare per lui al signor de Tréville un
momento d'udienza, domanda che questi promise di fare, con tuono da
protettore, a tempo e luogo.

D'Artagnan, rimessosi alquanto dalla sua prima sorpresa, ebbe dunque il
comodo di studiare un poco i costumi e le fisonomie.

Il centro del gruppo il più animato era un moschettiere di alta
statura, di figura altera, con un bizzarro costume che attirava su
lui l'attenzione generale. Pel momento egli non portava la casacca
d'uniforme, che, del resto, non era assolutamente obbligatoria in
quest'epoca di meno libertà ma d'indipendenza più grande, ma un
giustacuore blu cielo, alquanto scolorito e rapato, e sopra quest'abito
una magnifica bandoliera, ricamata in oro, e che risplendeva come le
scaglie di cui si ricuopre l'acqua ad un gran sole. Un lungo mantello
di velluto cremisi cadeva con grazia dalle sue spalle, scoprendo
soltanto davanti la splendida bandoliera, alla quale era attaccata una
gigantesca spadaccia.

Questo moschettiere montava in quel momento la guardia, si lamentava
di essere raffreddato, e di tempo in tempo tossiva con affettazione.
Per questo egli aveva preso il mantello, a quanto diceva, e nel mentre
che parlava colla testa alta, arricciandosi sdegnosamente i baffi,
ammiravano con entusiasmo la bandoliera ricamata, e d'Artagnan lo
faceva più che alcun altro.

— Che volete! diceva il moschettiere, è di moda; è una pazzia, lo so
bene, ma, è di moda. D'altronde bisogna bene impiegare in qualche cosa
i danari della propria legittima.

— Ah! Porthos! gridò uno degli astanti, non tentare di farci credere
che questa bandoliera ti venga dalla generosità paterna: essa ti sarà
stata regalata da quella dama velata colla quale io t'incontrai l'altra
domenica, verso la porta Sant-Onorato.

— No, sul mio onore, parola da gentiluomo, io l'ho comprata da me
stesso, e coi miei propri denari, rispondeva colui che era stato
indicato sotto il nome di Porthos.

— Sì, come io ho comprato, disse un altro moschettiere, questa borsa
nuova, con ciò che il giorno innanzi vi aveva messo la mia amica.

— In verità, disse Porthos, e la prova ne è che l'ho pagata dodici
doppie.

L'ammirazione raddoppiò, quantunque continuasse ad esistere il dubbio.

— È vero, Aramis? fece Porthos voltandosi verso un altro moschettiere.

Quest'altro moschettiere formava un perfetto contrasto con quello che
lo interrogava, e che lo aveva chiamato col nome di Aramis: era un
giovine di ventidue o ventitre anni appena, colla fisonomia ingenua e
docile, l'occhio nero e dolce, colle guance rosee e vellutate come una
pesca d'autunno; i suoi baffi sottili, si disegnavano sul suo labbro
superiore in linea perfettamente dritta; le sue mani sembravano temere
lo abbassarsi per timore che le vene s'inturgidissero troppo, e di
tratto in tratto si pizzicava l'estremità delle orecchie per mantenerle
di un incarnato tenero e trasparente. Per abitudine egli parlava poco e
lentamente, salutava molto, rideva senza rumore mostrando i suoi denti
che erano bellissimi, e di cui, come di tutto il resto della persona,
sembrava prendere grandissima cura. Egli rispose con un segno di testa
affermativo alla interpellazione del suo amico.

Questa affermativa sembrò aver troncati tutti i dubbi sul conto della
bandoliera, si continuò dunque ad ammirarla, ma non se ne parlò più, e
per una di quelle bordeggiate rapide del pensiero, la conversazione ad
un tratto passò sopra un altro argomento.

— Che pensate voi di ciò che racconta lo scudiero di Chalais? domandò
un altro moschettiere senza interpellare direttamente alcuno, ma
indirizzandosi al contrario a tutti.

— E che cosa racconta egli? domandò Porthos con tuono altero.

— Egli racconta di aver trovato a Brusselle Rochefort, l'anima dannata
del ministro, travestito da cappuccino; questo maledetto Rochefort,
mercè questo travestimento ha infinocchiato il signor Laiques come un
vero imbecille.

— Come un vero imbecille, disse Porthos! Ma la cosa è poi sicura?

— Mi fu raccontata da Aramis, rispose il moschettiere.

— Davvero?

— E voi lo sapete bene, Porthos, disse Aramis, io l'ho raccontato a voi
pure jeri, non ne parliamo dunque più.

— Non ne parliamo più! ecco la vostra opinione disse Porthos. Non
ne parliamo più! Peste, come concludete presto! Come, il ministro fa
spionare un gentiluomo; fa intercettare la sua corrispondenza da un
traditore, un brigante, fa, coll'ajuto di questo spione e mercè questa
corrispondenza, tagliar la testa a Chalais, sotto lo stupido pretesto
ch'egli ha voluto uccidere il re e maritare la regina con Monsieur;
nessuno sapeva una parola di quest'enimma: voi ce lo significaste jeri
con grande stupore di tutti, e quando noi siamo ancora sbalorditi da
questa notizia, voi oggi venite a dirci: non ne parliamo più!

— Parliamone dunque, vediamo, poichè voi lo desiderate, riprese Aramis
con pazienza.

— Questo Rochefort! gridò Porthos, se fosse stato lo scudiero del
povero Chalais, passerebbe con me un brutto momento.

— E voi, voi passereste un tristo quarto d'ora col duca Rosso, riprese
Aramis.

— Ah! il duca Rosso, bravo, bravo, il duca Rosso! rispose Porthos
battendo le mani, ed approvando con la testa. Il duca Rosso al nostro
ministro, è un epiteto grazioso. Io diffonderò la parola, mio caro,
siate tranquillo. Ha molto spirito, questo Aramis! che disgrazia che
voi non abbiate potuto seguire la vostra vocazione, mio caro! che
delizioso abbate sareste diventato!

— Oh non è che un ritardo momentaneo, riprese Aramis, un giorno io lo
sarò; voi sapete bene, Porthos, che io continuo a studiare la teologia
per questo.

— Egli farà come dice, riprese Porthos, egli lo farà o presto o tardi.

— Presto, disse Aramis.

— Egli non aspetta che una cosa per decidersi del tatto, e per
riprendere la sua sottana che è appesa dietro il suo uniforme, riprese
il moschettiere.

— E che cosa aspetta? domandò un altro.

— Egli aspetta che la regina abbia dato un erede alla corona di Francia.

— Non scherziamo su questo argomento, signori, disse Porthos, grazie a
Dio la regina è ancora in età da poterlo dare.

— Si dice che il signor di Buckingham sia in Francia, riprese Aramis
con un sorriso beffardo che dava a questa frase, così semplice in
apparenza, un significato sufficientemente scandaloso.

— Aramis, amico mio, per questa volta voi avete torto, interruppe
Porthos, e la vostra smania di dire cose spiritose vi trascina sempre
al di là dei limiti; se il signor de Tréville, vi sentisse, voi vi
trovereste male di aver parlato così.

— Volete voi darmi una lezione, Porthos? gridò Aramis, nell'occhio
dolce del quale si vide passare un baleno.

— Mio caro, siate moschettiere o abbate; siate o l'uno o l'altro,
ma non l'uno e l'altro, riprese Porthos. Athos ve lo ha detto
ancora l'altro giorno, voi mangiate a tutte le rastelliere. Ah! non
c'inquietiamo, io ve ne prego; ciò sarebbe inutile: voi sapete bene
che questo è convenuto fra voi, Athos e me. Voi andate dalla signora
d'Aiguillon, e le fate la vostra corte; voi andate in casa della
signora di Bois-Tracy, la cugina della signora de Chevreuse, e passate
per essere grandemente nelle buone grazie della dama. Oh! mio Dio, non
confessate la vostra fortuna, non vi si chiede il vostro secreto. Si
conosce la vostra discrezione. Ma poichè possedete questa virtù, che
diavolo! fatene uso sul conto di Sua Maestà. Si occupi chi vorrà del re
e del ministro; ma la regina è sacra, e se qualcuno ne parla, che ciò
sia in bene.

— Porthos, voi siete pieno di pretese come Narciso. Io ve ne prevengo,
rispose Aramis, voi sapete che odio la morale, eccetto che quando ella
è fatta da Athos. In quanto a voi, mio caro, voi avete una troppo
magnifica bandoliera per essere molto versato in morale. Io sarò
abbate quando mi converrà, frattanto io sono moschettiere, e in questa
qualità, io dico ciò che mi piace, e in questo momento mi piace di
dirvi che voi m'impazientite.

— Aramis!

— Porthos!

— Eh! signori! signori! si gridò intorno ad essi.

— Il signor de Tréville aspetta il signor d'Artagnan, interruppe il
lacchè aprendo la porta del gabinetto.

A questo annunzio durante il quale la porta rimase aperta, ciascuno si
tacque, e in mezzo al silenzio generale, il giovane guascone traversò
l'anticamera in una parte della sua lunghezza, ed entrò dal capitano
dei moschettieri, felicitandosi di tutto cuore di sfuggire così a
proposito alla fine di questa bizzarra contesa.



CAPITOLO III.

L'UDIENZA


Il signor de Tréville era sul momento di molto cattivo umore; ciò non
ostante, salutò gentilmente il giovane, che s'inchinò fino a terra, ed
egli sorrise nel ricevere il suo complimento, in cui l'accento bearnese
gli ricordava ad un tempo la sua gioventù ed il suo paese, doppia
rimembranza che fa sorridere l'uomo in tutte l'età. Ma avvicinandosi
quasi subito all'anticamera, e facendo a d'Artagnan un segno con la
mano come per chiedergli il permesso di terminare con gli altri prima
d'incominciare con lui, egli chiamò tre volte, alzando di più la voce a
ciascheduna volta, di modochè egli percorse tutti i suoi intermedj fra
l'accento imperativo e l'accento irritato.

— Athos! Porthos! Aramis!

I due moschettieri coi quali abbiamo già fatta conoscenza, e che
corrispondevano ai due ultimi di questi tre nomi, lasciarono subito il
gruppo di cui facevano parte, e si avanzarono verso il gabinetto, la di
cui porta si richiuse dietro ad essi tosto che ne ebbero oltrepassato
il limitare. Il loro portamento, benchè non fosse del tutto tranquillo,
nonostante eccitò, per la sua disinvoltura piena ad un tempo di
sommissione, l'ammirazione di d'Artagnan che credeva in questi uomini
tanti semidei, e nel loro capo un Giove Olimpico armato di tutti i suoi
fulmini.

Quando i due moschettieri furon entrati, quando la porta fu chiusa,
quando il mormorio ronzante della anticamera fu ricominciato, mormorio
al quale senza dubbio aveva dato nuovo alimento la chiamata che era
stata fatta; quando finalmente il signor de Tréville silenzioso, e
col sopracciglio aggrottato, ebbe per tre o quattro volte misurata
la lunghezza del suo gabinetto, passando ciascheduna volta davanti a
Porthos e Aramis instecchiti e muti come alla parata, si fermò ad un
tratto in faccia a loro, e investendogli dalla testa ai piedi con uno
sguardo irritato:

— Sapete ciò che mi ha detto il re, gridò egli, e ciò niente più tardi
di jeri a sera? lo sapete voi, signori

— No, risposero dopo un momento di silenzio i due moschettieri, no,
signore, noi lo ignoriamo.

— Ma io spero che voi ci farete l'onore di dircelo, aggiunse Aramis,
col tuono il più gentile, e colla più graziosa riverenza.

— Mi ha detto che d'ora in avanti egli recluterà i suoi moschettieri
fra le guardie del ministro.

— Fra le guardie del ministro! e perchè questo? domandò vivamente
Porthos.

— Perchè egli vede bene che il suo vinello ha bisogno di essere
ingagliardito dal miscuglio di un vino buono.

I due moschettieri diventarono rossi fino nel bianco dell'occhio.
D'Artagnan non sapeva più ove si fosse, ed avrebbe voluto essere cento
piedi sotto terra.

— Sì, sì, continuò il sig. de Tréville animandosi sempre più, sì, e
Sua Maestà aveva ragione, perchè egli è vero che i moschettieri fanno
una trista figura alla corte, il ministro raccontava jeri sera al
giuoco del re, con un'aria di condoglianza che mi dispiacque assai,
che il giorno avanti questi dannati moschettieri, questi diavoli a
quattro, ed egli calcava su queste parole con un accento ironico che mi
dispiacque ancor più; questi scialacquatori, aggiunse egli guardandomi
col suo occhio da gatto tigre, avevano fatto tardi sulla strada Ferou,
in un'osteria, e che una pattuglia delle sue guardie, ho creduto che
egli mi andasse a ridere sul naso, era stata costretta di arrestare
i perturbatori, capperi! Voi dovete saperne qualche cosa! arrestare
dei moschettieri! voi vi eravate, voi altri; non vi difendeste, siete
stati riconosciuti, ed il ministro vi ha nominati. Ciò accade per
colpa mia, sì, per colpa mia, poichè sono io che faccio la scelta dei
moschettieri. Vediamo, voi, Aramis, perchè diavolo mi avete domandata
la casacca quando voi sareste stato così bene sotto la sottana?
Vediamo, voi, Porthos, non avete voi una bella bandoliera d'oro
peraltro che per attaccarci una spada di paglia? Athos! io non vedo
Athos: dove è egli?

— Signore, rispose tristamente Aramis, egli è malato, gravemente malato.

— Malato, gravemente malato, voi dite? e di qual malattia?

— Si teme che possa essere il vajuolo, signore, rispose Porthos,
volendo mischiare a sua volta una parola nella conversazione, cosa che
sarà dispiacente, perchè certissimamente gli guasterà il viso.

— Malato del vajuolo! ecco ancora un'altra gloriosa storia che
mi raccontate, Porthos! malato del vajuolo alla sua età! non può
essere!... sarà ferito senza dubbio, fors'anche ucciso... Ah! se io lo
sapeva!... Capperi! signori moschettieri io non intendo che si vadano
ad affollare così i luoghi cattivi, che si facciano delle questioni
sulla strada, che si menino sciabolate nei crociali delle vie. Io non
voglio infine che si dia argomento da ridere alle guardie del ministro
che sono composte di brava gente, tranquilla, destra, che non si
mettono mai nel caso di essere arrestate, e che d'altronde, ne sono
sicuro, essi non si lascerebbero arrestare! essi amerebbero meglio di
morire al loro posto di quello che fare un passo in addietro. Salvarsi,
sbaragliarsi, fuggire, questo è buono per i moschettieri del re!

Porthos e Aramis fremevano di rabbia. Essi avrebbero volentieri
strangolato il sig. de Tréville, se in fondo a tutto ciò non avessero
scorto che era il grande amore che portava loro che lo faceva parlare
in tal guisa. Essi battevano il piede sul tappeto, si mordevano le
labbra fino al sangue, e stringevano con tutta la loro forza la guardia
della loro spada. Al di fuori si era intesa la chiamata, come abbiamo
detto, Athos, Porthos e Aramis, e si era indovinato, dall'accento
della voce del sig. de Tréville, che egli era pienamente in collera.
Dieci teste curiose si erano appoggiate alla porta, e impallidivano
pel furore: perchè le loro orecchie incollate alla porta non perdevano
una sillaba di tutto ciò che si diceva, nel mentre che le loro bocche
ripetevano a peso, ed a misura le parole insultanti del capitano a
tutta la popolazione dell'anticamera. In un istante, dalla porta
del gabinetto fino alla porta di strada, tutto il palazzo fu in
ebollizione.

— Ah! i moschettieri del re si fanno arrestare dalle guardie del
ministro! continuò il sig. de Tréville furioso internamente quanto
i suoi soldati, ma dicendo a scatti le sue parole, e vibrandole una
ad una per così dire come tanti colpi di stiletto nel petto dei suoi
uditori. Ah! sei guardie del ministro arrestano sei moschettieri di Sua
Maestà! Capperi! io ho fatta la mia risoluzione. Io vado di corsa al
Louvre: io domando la mia dimissione di capitano del re, per chiedere
un posto di sottotenente nelle guardie del ministro. E se egli mi
rifiuta, cappita! io vado a farmi frate.

A queste parole il mormorio dell'esterno divenne un'esplosione;
dappertutto non si sentiva che giuramenti e bestemmie. I cappita! le
morti di tutti i diavoli! s'incrociavano per l'aria. D'Artagnan cercava
una tenda dietro la quale potersi nascondere, e si sentiva una volontà
smisurata di cacciarsi sotto la tavola.

— Ebbene! mio capitano, disse Porthos fuori di se, la verità è che
noi eravamo sei contro sei, ma noi siamo stati presi alla traditora, e
primachè noi avessimo avuto il tempo di cavare le nostre spade due dei
nostri erano già morti e Athos gravemente ferito, non valeva niente
di più. Poichè voi lo conoscete, Athos; ebbene! capitano, egli ha
tentato due volte di rialzarsi e due volte è ricaduto. Però noi non
ci siamo arresi, no! ci hanno trascinati a forza. Cammin facendo noi
ci siamo salvati. In quanto ad Athos, fu creduto morto, e fu lasciato
tranquillamente sul campo di battaglia, non credendo che valesse la
pena di trasportarlo. Ecco la storia. Che diavolo! capitano, non si
possono vincere tutte le battaglie. Il gran Pompeo ha perduto quella
di Farsaglia, e il re Francesco I, che, a quanto ho inteso dire, era
coraggioso quanto un altro; però ha perduto quella di Pavia. Ed io
ho l'onore di assicurarvi, che ne ho ammazzato uno colla sua propria
spada, disse Aramis, perchè la mia fu spezzata alla prima parata.
Ucciso o pugnalato, signore, come più vi piace.

— Io non sapeva questo, riprese il signor de Tréville con un tuono
un poco più raddolcito. Il ministro aveva dunque esagerato, a quanto
sembra.

— Ma di grazia, signore, continuò Aramis, che vedendo il suo capitano
rappacificarsi, azzardava una preghiera, di grazia, signore, non dite
che Athos pure è ferito; egli sarebbe alla disperazione se questa cosa
giungesse alle orecchie del re, e siccome la sua ferita è delle più
gravi, attesochè dopo avere attraversata la spalla essa penetra nel
petto, sarebbe a temersi...

Nel medesimo istante la portiera si alzò, e una nobile e bella, ma
spaventosamente pallida testa comparve sotto la frangia.

— Athos! gridarono i due moschettieri.

— Athos! ripetè lo stesso de Tréville.

— Voi mi avete chiamato, signore, disse Athos a de Tréville con una
voce indebolita ma perfettamente calma, voi mi avete chiamato, a quanto
mi hanno detto i nostri camerati, ed io mi affretto di venire a sentire
i vostri ordini: eccomi, signore, che volete da me?

E a queste parole il moschettiere, in tenuta irreprensibile, cinghiato
come era di costume, entrò con passo fermo nel gabinetto. Il sig. de
Tréville commosso fino al fondo del cuore per questa prova di coraggio,
si precipitò a lui incontro:

— Io era in vena di dire a questi signori, aggiunse egli, che io
proibisco ai miei moschettieri di esporre la loro vita senza necessità,
perchè la brava gente è cara al re, e il re sa che i suoi moschettieri
sono la più brava gente della terra. La vostra mano, Athos.

E senza aspettare che il nuovo arrivato rispondesse a questa prova di
affezione, il signor de Tréville afferrò la sua mano destra, e gliela
strinse con tutte le sue forze, senza accorgersi che Athos, per quanto
fosse grande l'impero che aveva su di se stesso, lasciò sfuggirsi un
movimento di dolore, e impallidì ancor più, cosa che si sarebbe potuta
credere impossibile.

La porta era rimasta socchiusa, tanto avea prodotta sensazione l'arrivo
di Athos, di cui, ad onta del segreto, era da tutti conosciuta la
sua ferita. Un urlo di soddisfazione accolse le ultime parole del
capitano, e due o tre teste, trascinate dall'entusiasmo, apparvero
sotto l'apertura della portiera. Senza dubbio, il sig. de Tréville
stava per reprimere con risentite parole questa infrazione alle leggi
dell'etichetta, allorquando sentì ad un tratto la mano di Athos
incresparsi sotto la sua, e fissando gli occhi sul di lui viso si
accorse che stava per svenire. Nel medesimo istante Athos, che aveva
raccolte tutte le sue forze per resistere al dolore, fu vinto da
questo, e cadde sul pavimento come se fosse morto.

— Un chirurgo! gridò il sig. de Tréville. Il mio, quello del re, il
migliore! un chirurgo! oh capperi! il mio bravo Athos muore.

Alle grida del sig. de Tréville tutti si precipitarono nel suo
gabinetto senza che egli pensasse a chiudere la porta ad alcuno,
ciascuno si adoperava intorno al ferito. Ma tutto questo adoprarsi
sarebbe stato inutile se il richiesto dottore non si fosse ritrovato
nello stesso palazzo; egli fendè la folla, si avvicinò ad Athos sempre
svenuto, e siccome questo rumore e questo movimento lo incomodavano
gravemente, egli domandò per prima cosa, e come la più urgente, che
il moschettiere fosse trasportato in una camera vicina. Il sig. de
Tréville aprì tosto una porta mostrando la via a Porthos e ad Aramis,
che trasportarono il loro camerata sulle loro braccia. Dietro a questo
gruppo camminava il chirurgo, e dietro il chirurgo si richiuse la
porta.

Allora il gabinetto del sig. de Tréville, questo luogo ordinariamente
tanto rispettato, divenne momentaneamente una succursale
dell'anticamera. Ciascuno discorreva, perorava, parlava ad alta voce,
giurava, sacramentava, mandava il ministro e le sue guardie a tutti i
diavoli.

Un istante dopo, Porthos e Aramis rientrarono; il chirurgo ed il sig.
de Tréville soltanto erano rimasti presso il ferito. Finalmente il
sig. de Tréville rientrò egli pure. Il ferito aveva ripreso l'uso dei
sensi; il chirurgo dichiarava che lo stato del moschettiere non aveva
niente che potesse allarmare i suoi amici, e che la sua debolezza era
puramente e semplicemente cagionata dalla perdita del sangue.

Quindi il sig. de Tréville fece un segno colla mano, e ciascuno
si ritirò, eccetto d'Artagnan, che non dimenticava di dovere avere
udienza, e che, colla tenacità di Guascogna, era rimasto allo stesso
punto.

Allorquando tutti furono sortiti, e che la porta fu chiusa, il sig.
de Tréville si ritrovò solo in faccia al giovane. L'avvenimento che
era accaduto gli aveva in qualche modo fatto perdere il filo delle
sue idee. Egli s'informò dunque di ciò che voleva da lui l'ostinato
sollecitatore. D'Artagnan pronunziò allora il suo nome, ed il sig. de
Tréville riordinando ad un tratto la memoria del passato col presente,
si ritrovò al corrente della situazione.

— Perdono, diss'egli, sorridendo, perdono, mio caro compratriota, io vi
aveva del tutto dimenticato. Che volete! un capitano non è che un padre
di famiglia sopraccaricato di una maggior responsabilità di quella dei
padri di famiglia ordinarj. I soldati sono figli grandi; ma siccome mi
sta a cuore che gli ordini del re siano eseguiti, e soprattutto quelli
del ministro...

D'Artagnan non potè dissimulare un sorriso. Da questo sorriso il signor
de Tréville giudicò che egli non aveva a che fare con uno stupido, e
venendo direttamente al fatto, cambiando d'improvviso il discorso:

— Io ho amato molto il vostro signor padre, disse egli. Che posso fare
io per suo figlio? fate presto, il mio tempo non è mio.

— Signore, disse d'Artagnan, nel lasciare Tarbes e nel venire qui, io
mi proponeva di domandarvi, in rimembranza di quell'amicizia che voi
non avete perduta di mente, una casacca da moschettiere; ma dopo tutto
ciò che vedo da due ore, capisco che un tal favore sarebbe enorme, e
temo di non meritarlo.

— Questo è un favore di fatto, o giovane, rispose il sig. de Tréville;
ma egli può non essere tanto forte in vostro riguardo quanto voi lo
credete o fate sembianza di crederlo. Tuttavia una decisione di Sua
Maestà ha preveduto questo caso, ed io vi annunzio con dispiacere
che non si riceve più alcuno nei moschettieri senza aver fatto
un'antecedente prova in qualche campagna in certe azioni singolari, o
di due anni di servizio in un reggimento meno favorito del nostro.

D'Artagnan s'inchinò senza risponder parola. Egli si sentiva ancor più
avido d'indossare l'uniforme di moschettiere dappoichè vi erano tante
difficoltà da sormontare.

— Ma, continuò de Tréville, fissando nel suo compatriota uno sguardo
penetrante che si sarebbe detto che egli voleva leggere fino al fondo
del suo cuore, ma, in favore di vostro padre, mio antico compagno, come
vi ho già detto, io voglio fare qualche cosa per voi, giovane. I nostri
cadetti di Bearn non sono ordinariamente ricchi, e io dubito che le
cose sieno grandemente cambiate dopo la mia partenza dalla provincia.
Voi dunque non ne dovete aver troppo, per vivere, del danaro che avete
portato con voi.

D'Artagnan si raddrizzò con aria orgogliosa, che voleva dire che egli
non domandava la elemosina a nessuno.

— Sta bene, giovane, sta bene, continuò de Tréville, io conosco
quell'aria; io sono venuto a Parigi con quattro scudi in saccoccia, e
mi sarei battuto con chiunque mi avesse detto che io non era abbastanza
ricco per comprare il palazzo del Louvre.

D'Artagnan si raddrizzò sempre più: con la vendita del suo cavallo,
egli cominciava la sua carriera con quattro scudi di più che il sig. de
Tréville non aveva incominciata la sua.

— Voi dovete dunque, diceva io, aver bisogno di conservare quello che
avete, per quanto grande ne sia la somma; ma voi dovete aver bisogno
ancora di perfezionarvi negli esercizi che convengono ad un gentiluomo.
Fin d'oggi io scriverò una lettera al direttore dell'Accademia Reale,
e cominciando da domani voi sarete ricevuto senza alcuna retribuzione.
Non rifiutate questo piccolo vantaggio. I nostri gentiluomini i
meglio nati ed i più ricchi qualche volta lo sollecitano senza poterlo
ottenere! Voi imparerete la cavallerizza, la scherma ed il ballo; voi
vi farete delle buone conoscenze, e di tempo in tempo verrete a vedermi
per dirmi a che punto siete, e se io posso fare qualche cosa per voi.

D'Artagnan per quanto fosse estraneo ai costumi della corte, s'accorse
della freddezza di questo ricevimento.

— Ahimè! signore, diss'egli, oggi, m'accorgo bene di qual danno mi sia
la mancanza della lettera di raccomandazione che mio padre mi aveva
data per voi.

— Infatti, rispose il sig. de Tréville, io mi meraviglio che
voi abbiate intrapreso un così lungo viaggio senza questa scorta
necessaria, nostra sola risorsa, a noi altri Bearnesi.

— Io l'aveva, signore, e, grazie a Dio, in buona regola, ma me l'hanno
perfidamente rubata.

Egli raccontò tutta la scena di Méung, dipinse il gentiluomo
sconosciuto con tutti i suoi più piccoli dettagli, e il tutto con un
calore e una verità che si riconciliarono il sig. de Tréville.

— Ecco ciò che è strano, disse quest'ultimo meditando, voi dovete aver
parlato di me ad alta voce?

— Sì, signore, senza dubbio io ho commesso questa imprudenza; ma che
volete! un nome come il vostro doveva servirmi di scudo sulla strada.
Giudicate se io me ne sono servito per mettermi al coperto!

L'adulazione allora era molto in moda, ed il sig. de Tréville amava
l'incenso come un re, o come un ministro; egli non potè dunque,
impedirsi dal sorridere con una visibile soddisfazione; ma questo
sorriso scomparve ben presto, e ritornando a se stesso ed all'avventura
di Méung.

— Ditemi, continuo egli, questo gentiluomo non aveva una leggera
cicatrice sulla tempia?

— Sì, come la fa la sfioratura di una palla.

— Non è egli un uomo di bel portamento?

— Sì.

— Di alta statura?

— Sì.

— Pallido di colorito, e bruno di pelo?

— Sì, sì: è lui. Come accade, signore, che voi conoscete quest'uomo?
Ah! se io lo ritrovo, e lo ritroverò, io vi giuro, fosse ancora
nell'inferno...

— Egli aspettava una donna? continuò de Tréville.

— Egli almeno è partito dopo avere per pochi istanti parlato con la
donna che aspettava.

— Voi sapete qual era l'argomento della loro conversazione?

— Egli le consegnò un pacchetto, dicendole che questo pacchetto
conteneva le istruzioni, e le raccomandava di non aprirlo che a Londra.

— Questa donna era inglese?

— Egli la chiamava Milady.

— È lui, mormorò de Tréville, è lui! io lo credeva ancora a Brusselle.

— Oh! signore: se voi sapete chi è quest'uomo, gridò d'Artagnan,
indicatemelo, ditemi chi è, dove sta, ed allora vi tengo sciolto da
tutto, anche dalla vostra promessa di farmi entrare nei moschettieri,
perchè prima d'ogni altra cosa io voglio vendicarmi.

— Guardatevi bene, giovane! gridò de Tréville; se voi, al contrario, lo
vedete venire da una parte della strada, passate dall'altra; non andate
ad urtare contro un simile scoglio, egli vi tritolerebbe come un vetro.

— Ciò non m'impedisce, disse d'Artagnan, che se io mai lo ritrovo...

— Frattanto, rispose de Tréville, io vi consiglio di non cercarlo:
questo è il consiglio che posso darvi.

Ad un tratto de Tréville si fermò colpito da un subitaneo sospetto.
Questo grand'odio che sì altamente manifestava il giovane viaggiatore
per quest'uomo, che, cosa poco verosimile, gli aveva rubata la lettera
di suo padre, quest'odio non poteva nascondere qualche perfidia? Questo
giovane non potevagli essere stato inviato dal ministro? Non poteva
egli venire per tendergli un qualche laccio! Questo preteso d'Artagnan
non poteva egli essere un qualche emissario del ministro che si cercava
di introdurre in sua casa, e che si voleva porre al di lui fianco per
sorprendere la sua confidenza, e per perderlo più tardi, come ciò era
stato praticato le mille volte? Egli guardò d'Artagnan più fissamente
ancora questa seconda volta di quello che non avesse fatta la prima.
Egli fu mediocremente rassicurato da quella fisonomia sfavillante di
spirito astuto e di umiltà affettata.

— Io so bene che egli è Guascone, pensò egli, ma egli può esserlo tanto
per me che pel ministro. Vediamo, mettiamolo alla prova. Amico mio,
gli disse lentamente, io voglio, come al figlio del mio antico amico,
poichè ritengo vera la storia di questa lettera perduta, io voglio,
diceva, riparare alla freddezza che voi avete rimarcata nella mia
accoglienza, e scuoprirvi i segreti della nostra politica. Il re ed
il ministro sono i migliori amici, tutte le apparenti dissensioni non
sono che per ingannare gli stupidi. Io non pretendo che un compatriota,
un bel cavaliere, un bravo giovane, fatto per gli avanzamenti, sia
ingannato da tutte queste simulazioni e cada come uno stupido sul
vischio, a somiglianza di tanti altri che vi si sono perduti. Pensate
bene che io sono affezionato a questi due padroni che tutto possono,
e che giammai le mie serie dimostrazioni non avranno altro scopo che
quello del servizio del re e del ministro, uno dei più illustri genj
che la Francia abbia prodotti. Ora, giovane, regolatevi su ciò, e se
voi avete, sia per famiglia, sia per relazioni, sia per istinto ancora,
qualcuna di queste inimicizie contro il ministro, tali che noi vediamo
scoppiare nei nostri gentiluomini, ditemi addio, e lasciamoci. Io vi
ajuterò in mille circostanze, ma senza attaccarvi alla mia persona.
Io spero che la mia franchezza, in tutti i casi, vi farà diventare mio
amico, perchè voi siete qui il solo giovane a cui io abbia parlato come
faccio.

De Tréville diceva a se stesso:

— Se il ministro mi ha mandato questo giovine volpe, egli non avrà
certamente mancato, egli che non sa a qual punto lo esecro, di dire al
suo spione che il miglior mezzo di farmi la corte è quello di dirmi
il peggio di lui; così malgrado le mie proteste il furbo compare mi
risponderà certamente ch'egli ha in orrore il ministro.

Accadde però altrimenti di ciò che si aspettava de Tréville; d'Artagnan
rispose colla più grande semplicità.

— Signore, io vengo a Parigi con intenzioni del tutto uguali. Mio padre
mi ha raccomandato di non soffrire niente che dal re, dal ministro e da
voi ch'egli stima i tre primi personaggi della Francia.

D'Artagnan aggiungeva il signor de Tréville agli altri due, come si può
ben conoscere, ma egli pensava che questa aggiunta non doveva guastar
niente.

— Io dunque ho la più gran venerazione pel ministro, ed il più profondo
rispetto per li suoi atti.

— Tanto meglio per me, signore, se voi mi parlate, come voi lo dite,
con franchezza, perchè allora mi farete l'onore di stimare questa
rassomiglianza di gusti; ma se voi avete avuta qualche diffidenza,
altronde ben naturale, io m'accorgo di perdermi nel dire la verità; ma
tanto peggio, voi non per questo lascerete di stimarmi, e questa è la
cosa che più d'ogni altra mi sta a cuore in questo mondo.

Il signor de Tréville fu sorpreso all'ultimo punto. Tanta penetrazione
e tanta franchezza finalmente gli cagionavano ammirazione, ma non gli
toglievano del tutto i suoi dubbi, più questo giovane era superiore
agli altri giovani, più era da temersi s'egli si sbagliava. Non ostante
egli strinse la mano di d'Artagnan dicendogli:

— Voi siete un onesto giovane, ma in questo momento io non posso
fare per voi che quello che or ora vi ho detto. La mia abitazione
vi sarà sempre aperta. Potendo voi chiedere di me ad ogni ora, e per
conseguenza afferrare tutte le occasioni, potrete ancora in seguito
ottenere ciò che ora desiderate.

— Vale a dire, signore, ripreso d'Artagnan, che voi aspetterete ch'io
me ne sia reso degno? Ebbene! siate tranquillo, aggiunse egli colla
familiarità d'un Guascone, voi non aspetterete lunga pezza.

E salutò per ritirarsi come se oramai il restante non lo riguardasse.

— Ma aspettate dunque, disse il sig. de Tréville fermandolo: io vi ho
promesso una lettera pel direttore dell'Accademia. Sarete voi tanto
fiero da non accettarla, mio giovane gentiluomo?

— No, signore, disse d'Artagnan, e vi garantisco che questa non
andrà come l'altra: io la custodirò tanto bene che, ve lo giuro,
essa sarà rimessa al suo indirizzo, e disgraziato colui che tentasse
d'inviolarmela!

Il signor de Tréville sorrise a questa fanfaronata, e lasciando il
suo giovane compatriota nel vano della finestra ove si trovavano, ed
ove avevano parlato assieme, andò a sedersi ad una tavola, e si pose
a scrivere la promessa lettera di raccomandazione. In questo tempo,
d'Artagnan che non aveva niente di meglio da fare, si mise a battere
una marcia contro i cristalli, osservando i moschettieri che se ne
andavano gli uni dopo gli altri, e seguendoli collo sguardo fino a che
fossero scomparsi dai suoi occhi voltando all'angolo della strada.

Il signore de Tréville, dopo avere scritta la lettera, la sigillò, e
alzandosi si avvicinò al giovane per consegnargliela: ma nel momento
stesso in cui d'Artagnan stendeva la mano per riceverla, il signor de
Tréville fu meravigliato di vedere il suo protetto fare un sussulto,
arrossire di collera e slanciarsi dal gabinetto gridando:

— Ah! per tutti i diavoli! egli non mi sfuggirà questa volta.

— E chi è questo? domandò il sig. de Tréville.

— Lui il mio ladro! rispose d'Artagnan. Ah! traditore!.

Ed egli disparve.

— Che diavolo di pazzo! mormorò il sig. de Tréville. A meno che però,
questo non sia un modo furbo di schivarsi, vedendo che gli è mancato il
colpo!



CAPITOLO IV.

LA SPALLA D'ATHOS, LA BANDOLIERA DI PORTHOS, ED IL FAZZOLETTO D'ARAMIS


D'Artagnan furioso aveva traversata l'anticamera in tre salti, e
slanciandosi sulla scala contava di scenderne gli scalini a quattro, a
quattro, allorchè trasportato dalla sua corsa, andò colla testa bassa
ad urtare contro un moschettiere che sortiva dal signor de Tréville per
una porta secreta, e urtandolo di faccia contro una spalla, gli fece
mandare un grido, o piuttosto un urlo.

— Scusatemi, disse d'Artagnan tentando di riprendere la sua corsa,
scusatemi, ma ho fretta.

Appena aveva egli disceso la prima scala, che una mano di ferro lo
prese per la sua sciarpa e lo fermò.

— Voi avete fretta! gridò il moschettiere pallido come un lenzuolo,
sotto questo pretesto voi mi urtate, voi mi dite «scusatemi» e voi
credete che ciò basti? niente affatto, giovane mio. Credete voi,
perchè oggi avete inteso il signor de Tréville parlarci un poco
cavallerescamente, che ci si possa trattare com'egli ci parla?
Disingannatevi, compagno: voi non siete il sig. de Tréville.

— In fede mia replicò d'Artagnan, che riconobbe Athos, che, dopo la
medicatura fatta dal chirurgo, ritornava alla sua stanza: in fede
mia non ho fatto a posta, e non avendolo fatto a posta, ho detto
«scusatemi». Mi sembra dunque che sia abbastanza. Vi ripeto però,
e questa volta forse è troppo, che in parola d'onore: ho fretta,
moltissima fretta. Lasciatemi dunque, io vi prego, e lasciatemi andare
ove ho che fare.

— Signore, disse Athos lasciandolo, voi non siete educato. Si vede che
voi venite di lontano.

D'Artagnan aveva già discesi alcuni scalini, ma all'osservazione di
Athos si fermò sull'atto.

— Per bacco! signore! diss'egli per quanto io venga di lontano, non
sarete certamente voi che mi darete una lezione di educazione ve ne
prevengo.

— Forse sì, disse Athos.

— Ah! se io non avessi tanta fretta, gridò d'Artagnan, a se non
corressi dietro a qualcuno....

— Signor dalla fretta, voi mi troverete senza correre, intendete voi.

— E dove, se vi piace?

— Vicino ai Carmelitani-Scalzi.

— A qual'ora?

— Verso il mezzogiorno.

— Verso il mezzogiorno, sta bene, vi sarò.

— Procurate di non farmi troppo aspettare, poichè vi prevengo che a
mezzogiorno e un quarto sarò io che correrò dietro a voi, e nella corsa
vi taglierò le orecchie.

— Buono disse d'Artagnan, vi sarò dieci minuti prima del mezzogiorno.

— E si rimise a correre come se il diavolo lo trasportasse, sperando
di ritrovare ancora il suo sconosciuto, chè il suo passo tranquillo non
doveva averlo condotto molto lontano.

Ma alla porta di strada Porthos parlava con un soldato di sentinella.
Fra i due parlatori vi era precisamente lo spazio per un uomo.
D'Artagnan credè che questo spazio gli fosse sufficiente, e si slanciò
per passare come una freccia fra loro due. Ma d'Artagnan aveva fatto il
suo conto senza il vento. Mentre stava per passare, il vento s'ingolfò
nel lungo mantello di Porthos, e d'Artagnan venne a dare diritto nel
mantello. Senza dubbio Porthos aveva delle ragioni per non abbandonare
questa parte essenziale del suo vestito, perchè invece di lasciare
andare il lembo che teneva, lo tirò a se, di modo che d'Artagnan, si
avvolse nel velluto per un movimento di rotazione che si spiega per la
resistenza dell'ostinato Porthos.

D'Artagnan, sentendo giurare il moschettiere, volle sortire per
disotto al mantello che lo accecava, e cercò l'uscita fra le pieghe.
Egli soprattutto temeva di avere lesa la freschezza della magnifica
bandoliera che noi conosciamo; ma aprendo timidamente gli occhi,
si ritrovò col naso appoggiato fra le due spalle di Porthos, cioè
precisamente sulla bandoliera. Ahimè! come la maggior parte delle cose
di questo mondo, che non hanno per esso che l'apparenza, la bandoliera
era d'oro davanti, e di semplice pelle di bufalo per di dietro. Porthos
da vero gaudente com'era, non potendo avere una intera bandoliera
d'oro, ne aveva almeno la metà: si comprendeva allora la necessità del
raffreddore, e l'urgenza del mantello.

— Cospetto! gridò Porthos, facendo tutti gli sforzi per sbarazzarsi di
d'Artagnan che gli bulicava nel dorso voi siete dunque arrabbiato per
gettarvi in tal modo sulle persone!

— Scusatemi, disse d'Artagnan ricomparendo sotto la spalla del gigante,
ma io aveva fretta, io corro dietro un tale...

— È forse per caso, che voi vi dimenticate degli occhi quando correte?
domandò Porthos.

— No, rispose d'Artagnan piccato, e mercè i miei occhi, io vedo
eziandio quello che non vedono tutti gli altri.

Porthos, comprendesse o non comprendesse, fatto sta, che si lasciò
trasportare dalla sua collera.

— Signore, vi prevengo che voi vi farete staffilare, se strofinate in
tal guisa i moschettieri.

— Staffilare! signore, disse d'Artagnan, la parola è dura.

— È quella che conviene ad un uomo abituato a guardare in faccia ai
suoi nemici.

— Ah! per bacco, lo so bene io che voi non volterete le spalle ai
vostri.

Ed il giovane incantato della sua malizia, si allontanò ridendo a gola
piena.

Porthos colla schiuma per la rabbia fece un movimento per precipitarsi
sopra d'Artagnan.

— Più tardi, più tardi, gridò questi, quando voi non avrete più il
vostro mantello.

— A un'ora adunque, dietro il Luxembourg.

Ma nè nella strada che aveva percorsa, nè in quella che poteva
scorgere collo sguardo per intero, egli non vide alcuno. Per quando
lo sconosciuto fosse andato lentamente, aveva però sempre guadagnata
strada, o forse ancora poteva essere entrato in qualche casa.
D'Artagnan s'informò di lui da tutti quelli che incontrava; discese
fino al traghetto, rimontò per la strada della Senna, e la Croce-Rossa;
ma niente, assolutamente niente. Ciò non ostante questa corsa gli fu
profittevole in questo senso, cioè che mentre il sudore inondava la sua
fronte, il suo cuore si raffreddava. Egli si mise allora a riflettere
sugli avvenimenti ch'erano accaduti; essi erano numerosi e nefasti;
erano appena undici ore della mattina, e già la mattinata gli aveva
attirata la disgrazia del sig. Tréville, che poteva benissimo ritrovare
non molto cavalleresca la maniera con la quale lo aveva lasciato.
Inoltre, egli aveva accaparrati due buoni duelli con persone capaci
ciascuno di uccidere tre d'Artagnan; con due moschettieri infine, cioè
con due di quegli esseri ch'egli stimava tanto, e ch'egli metteva col
suo pensiero e col cuore, al di sopra di tutti gli altri uomini.

La congiuntura era trista. Sicuro di essere ucciso da Athos, si capirà
che il giovane non s'inquietava molto di Porthos. Per tanto, siccome la
speranza è l'ultima cosa che si estingue nell'uomo, giunse a sperare
ch'egli potrebbe sopravvivere, con ferite orribili, bene inteso, a
questi due duelli, e, nel caso di sopravvivenza, egli si fece per
l'avvenire i seguenti rimproveri:

— Che testa senza cervello, che uomo stupido, ch'io sono! questo bravo
e disgraziato Athos era ferito precisamente nella spalla contro la
quale io ho battuto la testa a guisa di un becco. La sola cosa che
mi sorprende si è che non m'abbia ucciso sull'atto: egli ne aveva il
diritto, ed il dolore che io gli ho procurato deve essere stato atroce.
In quanto a Porthos, oh! in quanto a Porthos, in fede mia, è più
curiosa.

E suo malgrado il giovane si mise a ridere, guardando ciò nonostante se
questo riso isolato, e senza causa agli occhi di quelli che lo vedevano
ridere, non fosse stato per offendere qualcuno che passava.

— In quanto a Porthos è più curiosa; ma io però, non per questo, sono
un meno miserabile stordito. E dove mai uno si può gettare in tal
guisa sulla gente senza neppur dirgli guardati? no! e si va a guardare
così sotto il mantello per vedervi ciò che non vi è? egli mi avrebbe
perdonato se io non gli avessi parlato di quella maledetta bandoliera,
con parole coperte, è vero, ma coperte molto bene! Ah! maledetto
Guascone ch'io sono! anderò a fare lo spiritoso nella padella da
friggere. Andiamo, d'Artagnan, amico mio, continuò egli parlando a se
stesso con tutta l'amenità che credeva doversi, se tu la scappi, cosa
che è poco probabile, bisognerà in avvenire essere di una gentilezza
perfetta. D'ora innanzi bisognerà che ti ammirino, che ti citino come
un modello. L'essere previdente e gentile non è viltà. Guarda piuttosto
Aramis: è la dolcezza e la grazia in persona. Ebbene! si è mai pensato
nessuno di dire che Aramis è un vile? no, certamente, e d'ora innanzi
io voglio modellarmi su di lui. Ah! eccolo precisamente.

D'Artagnan camminando, e parlando da solo, era giunto a pochi passi
del palazzo d'Aiguillon, e davanti a questo palazzo egli aveva veduto
Aramis parlare allegramente con tre gentiluomini della guardia del
re. Dal suo canto, Aramis aveva veduto d'Artagnan, ma siccome egli non
dimenticava che era stato davanti a questo giovane, che il signore de
Tréville si era lasciato trasportare nella mattina, e che un testimonio
dei rimproveri che i moschettieri avevano ricevuto non gli era in
alcun modo aggradevole, fece sembiante di non vederlo. D'Artagnan,
al contrario, tutto intento ai suoi piani di riconciliazione e di
cortesia, si avvicinò ai quattro giovani facendo loro un gran saluto
accompagnato dal più grazioso sorriso. Aramis inchinò leggermente la
testa, ma non sorrise affatto. Tutti e quattro, del resto, interruppero
nel medesimo istante la loro conversazione.

D'Artagnan non era così stupido da non accorgersi ch'egli v'era di
troppo; ma egli non era ancora assuefatto ai costumi del bel mondo
per sapersi togliere con disinvoltura da una falsa posizione, come
in generale è quella di un uomo che è venuto a mischiarsi con gente
ch'egli conosce appena, e in una conversazione che non gli riguarda.
Egli cercava in se stesso un mezzo di fare la sua ritirata il meno
goffamente che era possibile, allorchè rimarcò che Aramis aveva
lasciato cadere il suo fazzoletto, e per una inavvertenza senza
dubbio, vi aveva messo sopra il piede; il momento gli parve giunto
di riparare alla sua posizione; egli si abbassò, e coll'aria la più
graziosa che potè ritrovare, tirò il fazzoletto dal disotto del piede
del moschettiere, per quanto questi facesse sforzo per ritenerlo, e gli
disse nel consegnarlo:

— Io credo, signore, che questo sia un fazzoletto che avreste
dispiacere a perderlo.

Il fazzoletto era in fatti riccamente orlato, e portava una corona
ed uno stemma in un angolo. Aramis arrossì eccessivamente e strappò
piuttosto che prese il fazzoletto dalle mani del Guascone.

— Ah! ah! gridò una delle guardie; dirai tu ancora, secreto Aramis,
che tu non sei nel favore della signora di Bois-Tracy, quando questa
graziosa dama ha la gentilezza di prestarti i suoi fazzoletti?

Aramis lanciò a d'Artagnan uno di quegli sguardi che fanno comprendere
ad un uomo che egli si è acquistato un nemico mortale; quindi
riprendendo il suo tuono affabile:

— Voi vi sbagliate, signori, diss'egli, questo fazzoletto non è mio,
e non so perchè il signore ha avuto a fantasia di rimetterlo a me
piuttosto che a uno di voi, e per prova di ciò che io lo dico, ecco il
mio nella mia saccoccia.

A queste parole, egli cavò il proprio suo fazzoletto molto elegante
e di fina battista, quantunque fosse molto costosa in quell'epoca, ma
fazzoletto senza ricami, senza arme, e ornato di una sola cifra; quella
del suo proprietario.

Questa volta d'Artagnan non disse parola, egli aveva riconosciuta la
sua goffaggine. Ma gli amici d'Aramis non si lasciarono convincere dal
suo negare; e uno di essi indirizzandosi al giovane moschettiere con
una serietà affettata:

— Se la cosa è così, diss'egli, come tu pretendi, io sarò sforzato, mio
caro Aramis, di domandartelo, perchè, come tu sai, Bois-Tracy è uno dei
miei intimi, ed io non voglio che nessuno abbia a farsi un trofeo cogli
effetti di sua moglie.

— Tu domandi ciò male, rispose Aramis, e mentre riconosco la giustizia
della reclamazione in quanto al fondo, io la rifiuterò in quanto alla
forma.

— Il fatto è, azzardò timidamente d'Artagnan, che io non ho veduto
sortire il fazzoletto dalla tasca del signor Aramis. Egli vi aveva il
piede sopra, ecco tutto; ed ho pensato che avendovi il piede sopra, il
fazzoletto fosse suo.

— E voi vi siete sbagliato, mio caro signore, rispose freddamente
Aramis, poco sensibile alla riparazione.

Poi, volgendosi verso quella guardia che si era dichiarata l'amico di
Bois-Tracy:

— D'altronde, continuò egli, io rifletto, mio caro intimo di
Bois-Tracy, che io sono suo non meno tenero amico di quello che puoi
esserlo tu stesso, di modo che a tutto rigore questo fazzoletto può
essere egualmente sortito dalla tua saccoccia che dalla mia.

— No, sul mio onore, gridò la guardia di Sua Maestà.

— Tu hai giurato sul tuo onore, ed io sulla mia parola, ed allora vi
sarà evidentemente uno di noi due che mentirà. Prendi, facciamo meglio,
Montaran, prendiamone ciascuno una metà.

— Del fazzoletto?

— Sì.

— Perfettamente, gridarono le altre due guardie, il giudizio del re
Salomone. Decisamente, Aramis, tu sei pieno di saggezza.

I due giovani scoppiarono dalle risa e, come si crederà bene,
l'affare non potè avere nessuna conseguenza. In capo ad un istante
la conversazione cessò, e le tre guardie ed il moschettiere, dopo di
essersi cordialmente stretta la mano, voltarono; le tre guardie da una
parte, e Aramis dall'altra:

— Ecco il momento di fare la mia pace con questo galantuomo, sì
disse a se stesso d'Artagnan, che si era tenuto in disparte durante
l'ultima parte di questa conversazione; e, con questo buon sentimento
ravvicinandosi ad Aramis che si allontanava senza fare attenzione a
lui:

— Signore, gli disse, io spero, che voi mi scuserete.

— Ah! signore, interruppe Aramis, permettetemi di farvi osservare che
in questa circostanza voi non avete mai agito come doveva farlo un uomo
galante.

— Che! signore, voi supponete...

— Io suppongo, signore, che voi non siete un imbecille, e che voi
sapete bene, quantunque veniate dalla Guascogna, che non si tiene un
piede sopra un fazzoletto da tasca senza il suo perchè. Che diavolo!
Parigi non è già selciato di battista.

— Signore, voi avete torto di cercare di umiliarmi, disse d'Artagnan,
in cui il naturale litigioso cominciava a parlare più alto che le
risoluzioni pacifiche. Io sono di Guascogna è vero, e, poichè voi
lo sapete, io non avrò bisogno di dirvi che i Guasconi sono un poco
rozzi, dimodochè quando si sono scusati una volta fosse ancora di una
sciocchezza, essi sono convinti che hanno già fatto la metà di più di
quello che non dovevano.

— Signore, ciò che vi ho detto, rispose Aramis, non è per muovervi
contesa. Grazie a Dio! io non sono uno spadaccino, e non essendo
moschettiere che provvisoriamente, io non mi batto che allora quando vi
son costretto, e sempre ancora con una gran ripugnanza. Ma questa volta
l'affare è grave, perchè ecco qui una donna compromessa per cagione
vostra.

— Per causa vostra, dovete dire! gridò d'Artagnan.

— Perchè avete voi avuto la goffaggine di rendermi questo fazzoletto?

— Perchè avete avuto voi quella di lasciarlo cadere?

— Io l'ho detto, e lo ripeto, questo fazzoletto non è sortito dalla mia
tasca.

— Ebbene! voi avete mentito due volte, signore! perchè io ve l'ho
veduto sortire.

— Ah! voi la prendete su questo tuono, signor Guascone? ebbene io vi
insegnerò a vivere!

— Ed io vi rimanderò alla vostra abbazia, signore abate! degnatevi, se
vi piace, e sull'istante.

— No; se vi piace, mio bello amico, no qui almeno: Non vedete voi
che noi siamo dirimpetto al palazzo d'Aiguillon, il quale è pieno di
creature del ministro? chi mi dice che non sia il ministro che vi ha
incaricato di procurargli la mia testa? ora io ho un ridicolo trasporto
per la mia testa, atteso che mi sembra ch'ella sia adattatissima alle
mie spalle. Io voglio dunque uccidervi, siate tranquillo, ma uccidervi
dolcemente, in un luogo chiuso e coperto, là ove voi non possiate
vantarvi con alcuno della vostra morte.

— Io mi vi adatto, ma non vi fidate troppo, e portate con voi il
vostro fazzoletto, che vi appartenga o no; forse avrete l'occasione di
servirvene.

— Il signore è Guascone? domandò Aramis.

— Sì, ma il signore non mi fissa l'appuntamento per prudenza.

— La prudenza, signore, è una virtù molto inutile al moschettiere,
ma indispensabile nelle altre condizioni, e siccome io non sono
moschettiere che provvisoriamente, ho cura di rimanere prudente. A due
ore io avrò l'onore di aspettarvi al palazzo del sig. de Tréville.

— Là io v'indicherò il luogo opportuno.

I due giovani si salutarono, quindi Aramis si allontanò risalendo la
strada che conduceva al Luxembourg, nel mentre che d'Artagnan, vedendo
che l'ora si avanzava, prendeva la strada dei Carmelitani-Scalzi
dicendo fra se stesso:

— Decisamente io non ne posso uscire, ma almeno se io sarò ucciso, lo
sarò da un moschettiere.



CAPITOLO V.

I MOSCHETTIERI DEL RE, E LE GUARDIE DEL MINISTRO


D'Artagnan non conosceva nessuno a Parigi. Egli andò dunque
all'appuntamento d'Athos senza condur seco un padrino, risoluto di
contentarsi di quello che avrebbe scelto il suo avversario. D'altronde
la sua intenzione era formale di fare cioè al bravo moschettiere tutte
le scuse convenienti ma senza debolezza, temendo che resultasse da
questo duello ciò che resulta sempre dispiacente in un affare di questo
genere, quando un uomo giovane, e vigoroso si batte con un avversario
ferito e debole: vinto, egli raddoppia il trionfo del suo antagonista;
vincitore, è accusato di prevaricamento e di facile audacia.

Del resto, o noi abbiamo male esposto il carattere del nostro cercatore
di avventure o il nostro lettore ha già dovuto rimarcare che d'Artagnan
non era un uomo ordinario. Così, mentre ripeteva a se stesso che
la sua morte era inevitabile, egli non si rassegnava punto a morire
dolcemente, come un altro, meno coraggioso e meno moderato di lui,
avrebbe fatto nel suo posto. Egli rifletteva ai diversi caratteri di
quelli coi quali doveva battersi, e cominciò a veder più chiaro nella
sua situazione. Egli sperava, mercè le scuse leali che si riserbava,
di farsi un amico in Athos, la di cui aria di gran signore, e la
fisonomia austera gli erano molto aggradite. Si lusingava di far paura
a Porthos coll'avventura della bandoliera, che poteva, se non era
ucciso sull'atto raccontare a tutti, racconto che, spinto destramente
all'effetto, doveva coprire Porthos di ridicolo; finalmente in quanto
al circospetto Aramis, non aveva una gran paura, e, supponendo che egli
potesse giungere fino a lui, s'incaricava di spedirlo bene e meglio, o
almeno di ferirlo sul viso, come Cesare aveva raccomandato di fare ai
soldati di Pompeo, di guastare cioè per sempre quella bellezza di cui
andavano superbi.

In seguito, vi era in d'Artagnan quel fondo irremovibile di risoluzione
che avevan deposto nel suo cuore i consigli di suo padre, consigli,
la di cui sostanza era: non tollerare niente da nessuno fuorchè dal
re, dal ministro e dal sig. de Tréville. Egli volò dunque piuttostochè
camminò verso il convento dei Carmelitani Scalzi o meglio _Deschaux_,
come si dicevano in quell'epoca, specie di fabbricato senza finestre,
circondato da prati aridi, succorsale del Prato dei Chierici, e che
serviva d'ordinario agli incontri delle persone che non avevano tempo
da perdere.

Allorchè d'Artagnan giunse in vista del piccolo terreno vago, che si
estendeva ai piedi di questo monastero, Athos lo aspettava da cinque
minuti soltanto, e mezzogiorno suonava. Egli dunque era puntuale come
la Samaritana, ed il più rigoroso esigente in rapporto ai duelli non
poteva avere niente da dire.

Athos, che soffriva sempre crudelmente della sua ferita, quantunque
fosse stata medicata di nuovo dal chirurgo del sig. de Tréville, si
era assiso sopra una riva, e aspettava il suo avversario con quel
contegno pacifico, e quell'aria dignitosa che non l'abbandonavano
mai. All'aspetto di d'Artagnan, egli si alzò, e fece gentilmente
qualche passo incontro a lui. Questi, dal suo canto si presentò al suo
avversario con il cappello in mano e la sua piuma trascinante fino a
terra.

— Signore, disse Athos, io ho fatto prevenire due dei miei amici che mi
serviranno da testimonj, ma questi due amici non sono ancora giunti. Io
mi meraviglio ch'essi ritardino: questa non è la loro abitudine.

— Io non ho testimonj, signore, disse d'Artagnan, perchè, giunto da
jeri soltanto a Parigi, non vi conosco altri che il sig. de Tréville,
al quale sono stato raccomandato da mio padre, che ha l'onore di essere
qualche poco fra i suoi amici.

Athos riflettè un istante.

— Voi non conoscete che il sig. de Tréville? domandò egli.

— Sì, signore, non conosco che lui.

— Ma; continuò Athos, parlando metà a se stesso e metà a d'Artagnan, ma
se io vi uccido avrò l'aria di essere un mangiatore di ragazzi!

— Non troppo, signore, rispose d'Artagnan con un saluto che non era
privo di dignità; non troppo, poichè mi fate l'onore di cavare la spada
contro di me con una ferita di cui dovete essere molto incomodato.

— Incomodato moltissimo, sulla mia parola, e voi mi avete fatto un male
del diavolo, io debbo dirlo; ma io adoprerò la mano sinistra, è la mia
abitudine in simili circostanze. Non crediate dunque che io vi faccia
una grazia, io mi batto egualmente con entrambe le mani, anzi voi
avrete lo svantaggio: un mancino è sempre incomodo a quelli che non ne
sono prevenuti. Mi dispiace dunque di non avervi fatto parte prima di
questa circostanza.

— Voi veramente siete, signore, disse d'Artagnan inchinandosi di nuovo,
di una cortesia di cui io vi sono al più alto grado riconoscente.

— Voi mi confondete, rispose Athos con la sua aria da gentiluomo;
parliamo dunque di altra cosa, io vi prego a meno che ciò non vi
dispiaccia. Ah! per bacco, quanto mi avete fatto male! la spalla mi
brucia.

— Se voi vorreste permettermi... disse d'Artagnan con timidezza.

— Che cosa, signore?

— Io ho un balsamo miracoloso per le ferite, un balsamo che mi è stato
dato da mia madre, e del quale io stesso ho fatto la prova.

— Ebbene?

— Ebbene, io sono sicuro che in meno di tre giorni questo balsamo vi
guarirà; e in capo a tre giorni, quando voi sarete guarito, ebbene!
signore, avrò sempre per un grande onore di essere il vostro uomo.

D'Artagnan disse queste parole con una semplicità che faceva onore alla
sua cortesia, senza offendere menomamente il suo coraggio.

— Per bacco! signore, disse Athos, ecco una proposizione che mi piace;
non che io l'accetti, ma essa sa di gentiluomo da una lega. Era in
tal modo che parlavano e facevano i prodi del tempo di Carlomagno, sui
quali ogni cavaliere dovrebbe cercare di modellarsi. Disgraziatamente
non siamo più ai tempi del grande imperatore, noi siamo ai tempi di
un ministro, e di qui a tre giorni si saprebbe, per quanto fosse ben
custodito il segreto, si saprebbe, diceva, che noi dobbiamo batterci,
e si opporrebbero al nostro combattimento. Ma che questi signori non
vengono dunque?

— Se voi avete fretta, signore, disse d'Artagnan ad Athos colla stesso
semplicità che un momento prima gli aveva proposto di differire il
duello a tre giorni, se voi avete fretta, che vi piaccia di spedirmi
subito, voi non vi prendete pena, io ve ne prego.

— Ecco un'altra proposizione che mi piace, disse Athos, facendo un
grazioso segno di testa a d'Artagnan, questa non è da uomo senza
cervello, è un colpo sicuro di un uomo di coraggio. Signore, io amo
la gente della vostra tempra, e io credo che se noi non ci ammazziamo
l'uno con l'altro, ritroverò più tardi un vero piacere nella vostra
conversazione. Aspettiamo questi signori, io vi prego, io ho tutto il
tempo, e ciò sarà più in regola. Ah! eccone qui uno, io credo.

Infatti all'estremità della strada Faugirard cominciava a comparire il
gigantesco Porthos.

— Che! gridò d'Artagnan, il vostro primo testimonio è il sig. Porthos?

— Si; vi dispiacerebbe forse?

— No, menomamente.

— Ecco il secondo.

D'Artagnan si voltò dalla parte indicata da Athos, e riconobbe Aramis.

— Che! gridò egli con un accento ora più maraviglioso della prima
volta, il vostro secondo testimonio è il sig. Aramis?

— Senza dubbio, non sapete voi che giammai ci si vede l'uno senza
l'altro, e che ci chiamano nei moschettieri, nelle guardie, alla corte
e in città, Athos, e Porthos, e Aramis, o i tre inseparabili? dopo ciò,
siccome voi giungete da Dax o da Pau...

— Da Tarbes, disse d'Artagnan.

— Vi è permesso d'ignorare questo dettaglio, disse Athos.

— In fede mia, riprese d'Artagnan, voi siete ben chiamati, signori, e
la mia avventura, se ella farà qualche rumore, proverà almeno che la
vostra unione non è fondata sui contrasti.

In questo mentre, Porthos si era avvicinato, aveva salutato con la mano
Athos; quindi, voltandosi verso d'Artagnan, era rimasto meravigliato.

Diciamolo di passaggio, egli aveva cambiata la bandoliera e lasciato il
suo mantello.

— Ah! ah! fece egli, che cosa è questo?

— È con il signore che io mi batto? disse Athos mostrando con la mano
d'Artagnan, e salutandolo con lo stesso gesto.

— È con lui che io pure mi batto? disse Porthos.

— Ma a un'ora soltanto, rispose d'Artagnan.

— Ed io pure mi batto col signore, disse Aramis, avvicinandosi
anch'egli sul terreno.

— Ma soltanto a due ore, disse d'Artagnan con la medesima calma.

— Ma a proposito di che ti batti tu Athos? domandò Aramis.

— In fede mia non lo so molto bene, egli mi ha fatto male alla spalla;
e tu Porthos?

— In fede mia, io mi batto perchè mi batto, rispose Porthos arrossendo.

Athos che non perdeva niente, vide passare un fino sorriso sulle labbra
del Guascone.

— Noi abbiamo avuto una piccola discussione sulla toletta, disse il
giovane.

— E tu Aramis? domandò Athos.

— Io mi batto per un punto di filosofia, riprese Aramis, facendo un
segno a d'Artagnan col quale lo pregava di tenere segreta la causa del
suo duello.

Athos vide passare un secondo sorriso sulle labbra d'Artagnan.

— Veramente disse Athos.

— Sì, sopra una sentenza di Platone, sulla spiegazione della quale non
ci siamo d'accordo, disse il Guascone.

— Decisamente egli è un uomo di spirito, mormorò Athos.

— Ed ora che voi siete riuniti, signori, disse d'Artagnan, permettetemi
di farvi le mie scuse.

Alla parola _scuse_, una nube passò sulla fronte d'Athos, un sorriso
altero sfiorò sulla labbra di Porthos, e un segno negativo fu la
risposta d'Aramis.

— Voi non mi capite, signori, disse d'Artagnan rialzando la sua testa,
sulla quale cadeva in quel momento un raggio di sole che ne indorava
le linee fine ed ardite; io vi domando scusa nel caso che io non
potessi soddisfare il mio debito con tutti e tre; poichè il sig. Athos
ha il diritto di ammazzarmi per il primo, cosa che toglie molto del
suo valore al vostro credito, sig. Porthos e che rende quasi nullo il
vostro, sig. Aramis. Ed ora, signori, io ve lo ripeto, scusatemi, ma
soltanto di questo, e in guardia!

A queste parole, e col gesto il più cavalleresco che si potesse vedere,
d'Artagnan sfoderò la spada.

Il sangue era salito alla testa di d'Artagnan, e in quel momento
avrebbe cavata la spada contro tutti i moschettieri del regno, come ora
lo faceva contro Athos, Porthos e Aramis.

Era mezzogiorno e un quarto. Il sole era al suo zenit, e la posizione
scelta per essere il teatro del duello si ritrovava esposta a tutto il
suo ardore.

— Fa molto caldo, disse Athos, cavando anch'egli la sua spada, e pure
non mi saprei levare il sajo, perchè, anche poco fa ho sentito che la
mia ferita mandava sangue, e temerei d'incomodare il signore facendogli
vedere del sangue che non fosse cavato da lui.

— È vero, signore, disse d'Artagnan; è cavato da un altro o è cavato da
me: io vi assicuro che vedrò sempre con gran dispiacere il sangue di un
così bravo gentiluomo; io mi batterò dunque col sajo come voi.

— Andiamo, andiamo, disse Porthos, non fate tanti complimenti, e
pensate che noi aspettiamo la nostra volta.

— Parlate per voi solo, Porthos, quando volete dire simili
incongruenze, interruppe Aramis. In quanto a me, io ritengo le cose che
questi signori si dicono per molto ben dette, e affatto degne di due
gentiluomini.

— Quando volete, signore, disse Athos mettendosi in guardia.

— Aspettava i vostri ordini, disse d'Artagnan incrociando il ferro.

Ma le due spadazze erano appena incrociate, che una squadra di guardie
del ministro, comandata dal sig. de Jussac, si mostrò all'angolo del
convento.

— Le guardie del ministro! gridarono ad un tempo Porthos e Aramis. La
spada nel fodero, signori! la spada nel fodero!

Ma era troppo tardi; i due combattenti erano stati veduti in una
posizione che non permetteva di dubitare delle loro intenzioni.

— Olà! gridò Jussac avanzandosi verso di loro e facendo segno ai suoi
uomini di fare altrettanto; olà! moschettieri? e degli editti, che
facciamo?

— Le signore guardie sono molto generose, disse Athos pieno di rancore,
perchè Jussac era stato uno degli aggressori dell'antivigilia. Se noi
vi vedessimo battere, io vi garantisco che noi ci guarderessimo bene
dall'impedirvelo. Lasciateci dunque fare, e voi ci avrete piacere senza
prendervi incomodo.

— Signore, disse Jussac, è con gran dispiacere che io vi dichiaro
che la cosa è impossibile. Il nostro dovere prima di tutto: rimettete
dunque le vostre armi, e seguiteci.

— Signore, disse Aramis, parodiando Jussac, sarebbe con grandissimo
piacere che noi obbediremmo al vostro grazioso invito, se ciò
dipendesse da noi; ma disgraziatamente la cosa è impossibile; il signor
de Tréville lo ha a noi proibito. Continuate dunque la vostra strada,
che è ciò che voi potete fare di meglio.

Questa celia esasperò Jussac.

— Noi dunque vi caricheremo, diss'egli; se voi disobbedite.

— Essi sono cinque, disse Athos a mezza voce, e noi non siamo che tre;
noi saremo anche una volta battuti, e ci abbisognerà morire qui poichè
io dichiaro, che io non tornerò a ricomparire davanti al mio capitano
dopo essere stato vinto.

Questo solo momento bastò a d'Artagnan per prendere il suo partito: era
questo uno di quegli avvenimenti che decidono della vita di un uomo,
era una scelta da farsi fra il re ed il ministro, e fatta la scelta
bisognava perseverare. Battersi, voleva dire disobbedire alla legge,
voleva dire arrischiare la sua testa, voleva dire diventare ad un sol
tratto il nemico di un ministro più potente del re stesso, ecco ciò
che travide il giovine, e diciamolo a sua gloria, egli non esitò un
secondo. Voltandosi adunque verso Athos ed i suoi amici:

— Signori diss'egli, io aggiungerò, se il permettete qualche cosa alle
vostre parole. Voi avete detto che non siete che in tre, ma mi sembra
che noi siamo in quattro.

— Ma voi non siete dei nostri, disse Porthos.

— È vero rispose d'Artagnan, io non ho l'abito, ma ho l'anima. Il mio
cuore è di moschettiere, lo sento bene, signore, e questo mi guida.

— Allontanatevi, giovane, gridò Jussac, che senza dubbio dai gesti
e dalla espressione del suo viso aveva indovinato il disegno di
d'Artagnan. Voi potete ritirarvi, noi vi acconsentiamo, salvate la
vostra pelle, e andate presto.

D'Artagnan non si mosse.

— Decisamente voi siete un bravo giovane, disse Athos, stringendo la
mano a d'Artagnan.

— Andiamo, andiamo, prendiamo un partito, riprese Jussac.

— Vediamo, dissero Porthos e Aramis, facciamo qualche cosa.

— Il signore è pieno di generosità, disse Athos.

Ma tutti e tre pensavano alla gioventù di d'Artagnan, e temevano la sua
inesperienza.

— Noi non saremmo che tre, e fra questi un ferito, più un ragazzo,
riprese Athos, e ciò nonostante si dirà che noi eravamo quattro uomini.

— Sì, ma rinculare! disse Porthos.

— È difficile, riprese Athos.

— È impossibile, disse Aramis.

D'Artagnan comprese la loro irresoluzione.

— Signori, provatemi pure, disse egli, ed io vi giuro sul mio onore,
che non voglio muovermi di qui se noi siamo vinti.

— Come vi chiamano, mio bravo? disse Athos.

— D'Artagnan, signore.

Ebbene! Athos, Porthos, Aramis e d'Artagnan, in avanti! gridò Athos.

— Ebbene! vediamo, signori, vi decidete voi, a battervi? gridò per la
terza volta Jussac.

— È fatto, signori, disse Athos.

— E qual partito prendete? domandò Jussac.

— Noi avremo l'onore di darvi la carica, rispose Aramis alzando con una
mano il suo cappello e cavando con l'altra la spada.

— E voi volete resistere? gridò Jussac.

— Per bacco! ciò vi fa meraviglia.

E i nove combattenti si precipitarono gli uni sugli altri con una
furia, che non escludeva una certa tattica. Athos prese un certo
Cabusac favorito del ministro; Porthos ebbe Biscarrat, e Aramis si vide
in faccia due avversarj.

In quanto a d'Artagnan, egli si trovò lanciato contro lo stesso Jussac.

Il cuore del giovane guascone gli batteva in un modo da rompergli
il petto, non già di paura, grazie a Dio, egli non ne aveva neppur
l'ombra, ma di emulazione; egli si batteva come una tigre in furore,
girando dieci volte intorno al suo avversario, e cambiando venti volte
le sue guardie ed il suo terreno. Jussac era, come si diceva allora,
ingordo di lama ed aveva molta pratica; ciò non ostante aveva tutta la
pena del mondo a difendersi contro un avversario agile e svelto, che
si scartava ad ogni momento dalle regole ricevute, attaccando da tutte
le parti ad un tempo, e con tutto ciò difendendosi e riparando i colpi
come un uomo che porta un gran rispetto alla sua epidermide. Finalmente
questa lotta finì col far perdere la pazienza a Jussac. Furioso di
esser tenuto in scacco da colui che aveva guardato come un ragazzo,
egli si riscaldò e cominciò a far degli sbagli. D'Artagnan, che in
mancanza di pratica aveva una profonda teoria, raddoppiò di agilità.
Jussac, volendo finirla portò un colpo terribile al suo avversario
fendendo al fondo; ma questi parò di prima, e mentre che Jussac si
rialzava, e strisciando come un serpente sul suo ferro, gli passò la
sua spada attraverso al corpo. Jussac cadde come un masso.

D'Artagnan gettò allora un colpo d'occhio inquieto e rapido sul campo
di battaglia.

Aramis aveva già ucciso uno dei suoi avversari, ma l'altro lo stringava
d'appresso. Però Aramis era in buona situazione e poteva ancora
difendersi.

Biscarrat e Porthos si erano dati dei colpi forati. Porthos aveva
ricevuto un colpo di spada attraverso il braccio e Biscarrat uno
attraverso la coscia. Ma siccome nè l'una nè l'altra di queste ferite
erano gravi, non facevano che battersi con maggiore accanimento.

Athos, ferito di nuovo da Cabusac impallidiva a vista d'occhio, ma non
rinculava di un piede; egli aveva soltanto cambiata la mano alla spada
e si batteva con la sinistra.

D'Artagnan secondo le leggi del duello di quell'epoca, poteva
soccorrere qualcuno; e mentre cercava con lo sguardo quale dei suoi
compagni aveva più bisogno del suo ajuto egli si accorse di un colpo
d'occhio di Athos. Questo colpo d'occhio era di una sublime eloquenza.
Athos sarebbe morto piuttosto che domandar soccorso; ma egli poteva
guardare, e con lo sguardo domandava un appoggio. D'Artagnan lo
indovinò, fece uno sbalzo terribile, e piombò sul fianco di Cabusac,
gridando.

— A me, signora guardia, io vi uccido! Cabusac si voltò ed era tempo.
Athos, che si sosteneva solo per il suo gran coraggio, cadde sopra un
ginocchio.

— Per bacco! gridò egli a d'Artagnan, non lo ammazzate, giovane io ve
ne prego: ho un vecchio affare da finire con lui, quando sarò guarito
e starò bene. Disarmatelo soltanto; legategli la spada. Così. Bene!
benissimo!

Questa esclamazione era strappata ad Athos dalla spada di Cabusac che
saltava venti passi da lui lontana. D'Artagnan e Cabusac si slanciarono
assieme, l'uno per riprenderla, l'altro per impadronirsene; ma
d'Artagnan più svelto arrivò il primo, e vi mise un piede sopra.

Cabusac corse a quella guardia ch'era stata uccisa da Aramis,
s'impadronì della sua spadaccia, e volle ritornare sopra d'Artagnan; ma
sul suo cammino si incontrò in Athos che durante la pausa d'un istante,
che gli aveva accordata d'Artagnan, aveva ripreso lena e che, per
timore che d'Artagnan gli uccidesse il suo nemico, voleva ricominciare
il combattimento.

D'Artagnan capì che sarebbe stato un disgustarsi Athos non lo lasciando
fare. In fatti, qualche secondo dopo, Cabusac cadde colla gola
trapassata da un colpo di spada.

Nel medesimo istante Aramis appoggiava la sua spada contro il petto del
suo avversario rovesciato, per costringerlo a domandare mercede.

Restavano Porthos e Biscarrat. Porthos battendosi faceva mille
fanfaronate, domandando a Biscarrat che ora poteva essere, e gli faceva
i suoi complimenti sulla compagnia che aveva ottenuta suo fratello
nel reggimento Navarra: ma sempre sforzando non guadagnava niente.
Biscarrat, era uno di quegli uomini di ferro che non cadono se non che
morti.

Ciò non pertanto bisognava finirla. Poteva sopraggiungere una ronda
e prendere tutti i combattenti feriti e non feriti, realisti e
ministeriali. Athos, Aramis e d'Artagnan, circondarono Biscarrat, e gli
intimarono d'arrendersi. Quantunque solo contro tutti, e con un colpo
di spada che gli traversava una coscia, Biscarrat voleva far fronte: ma
Jussac che si era alzato sul gomito gli gridò d'arrendersi. Biscarrat
era un Guascone come d'Artagnan, egli fece il sordo e si contentò di
ridere, e fra due parate trovare il tempo di fare un segno per terra
colla punta della sua spada:

— Qui, diss'egli, qui morrà Biscarrat, solo di quelli che sono con lui.

— Ma essi sono quattro contro di te: finiscila, io te l'ordino.

— Ah! se tu lo ordini, allora è un'altra cosa, disse Biscarrat, siccome
tu sei il mio brigadiere, io debbo obbedire.

E facendo un salto in addietro, spezzò la spada contro il suo
ginocchio, e per non renderla, ne gettò i pezzi per disopra al muro
del convento, ed incrocio le sue braccia fischiando una canzone
ministeriale.

La bravura è sempre rispettata anche fra nemici: i moschettieri
salutarono Biscarrat colle loro spade, e le rimisero nel fodero.
D'Artagnan fece altrettanto, quindi aiutato da Biscarrat, il solo che
fosse rimasto in piedi, portò sotto il portico del convento Jussac,
Cabusac e quello fra gli avversari d'Aramis che non era che ferito.
Il quarto, come lo abbiamo detto, era morto. Quindi suonarono la
campanella, e portando seco quattro spade su cinque, s'incamminarono
ebbri di gioia verso il palazzo del sig. de Tréville.

Si vedevano intrecciati, occupare tutta la larghezza della strada,
chiamando ciascun moschettiere che incontravano, di modo che alla
fine divenne una marcia trionfale. Il cuore di d'Artagnan nuotava
nell'ebbrezza; egli camminava fra Athos e Porthos stringendoli
teneramente.

— Se io non sono ancora un moschettiere, diss'egli ai suoi nuovi amici
oltrepassando la porta del palazzo del sig. de Tréville, almeno eccomi
ricevuto come alunno, non è vero?



CAPITOLO VI.

SUA MAESTÀ IL RE LUIGI DECIMOTERZO


L'affare fece un gran rumore; il sig. de Tréville sgridò molto ad
alta voce i suoi moschettieri, ma si congratulò con loro sotto voce,
e siccome non vi era tempo da perdere per prevenire il re, il sig. de
Tréville si sollecitò di andare al Louvre. Era già troppo tardi, il re
era racchiuso col ministro, e fu detto al sig. de Tréville, che il re
era occupato e non poteva ricevere in quel momento. La sera il signor
de Tréville, venne al giuoco del re. Il re guadagnava, e siccome Sua
Maestà era molto avara, così era di un eccellente umore, e scoperse di
lontano il sig. de Tréville.

— Venite qui sig. capitano, diss'egli, venite che io vi sgridi; sapete
voi che il ministro è venuto da me a farmi delle lagnanze sui vostri
moschettieri? e ciò con una tale emozione che questa sera il ministro
è malato: e che! ma sono diavoli a quattro, gente da forca i vostri
moschettieri!

— No, sire, rispose de Tréville, che vide al primo colpo come la cosa
andava a piegare, no, tutto al contrario, essi sono buone creature,
docili come gli agnelli, e che non hanno altro desiderio, io me ne
faccio garante, che quello di non cavare la spada dal fodero, che pel
servizio di Vostra Maestà. Ma che volete? le guardie del ministro sono
senza posa a muover loro lite, e anche per l'onore del corpo, quei
poveri giovani sono costretti a difendersi.

Ascoltate il sig. de Tréville! disse il re, ascoltatelo! Non si direbbe
che egli parla di una comunità di frati? In verità, mio capitano, ho
volontà di togliervi il vostro brevetto e di darlo a madamigella de
Chemerault, alla quale ho promesso un abbazia. Ma non crediate già
che io voglia credere così alla vostra parola. Mi si chiama Luigi il
Giusto, sig. de Tréville, e or ora noi lo vedremo.

— Ah! è perchè mi fido a questa giustizia, sire, che io aspetterò
pazientemente e tranquillamente il comodo di Vostra Maestà.

— Aspettate dunque, signore, aspettate dunque, disse il re, io non mi
farò attendere lungamente.

Infatti, la sorte si cambiava, e siccome il re cominciava a perdere
quello che aveva vinto, non era dispiacente di ritrovare un pretesto
per fare, che ci si passi l'espressione da giuocatore di cui, noi lo
confessiamo, non conosciamo l'origine, per fare Carlomagno. Il re si
alzò dunque dopo un istante, e mettendosi in saccoccia il denaro che
era avanti a lui, la maggior parte del quale era vinto al giuoco:

— Vieuville, diss'egli, prendete il mio posto; bisogna che io parli al
sig. de Tréville per un affare di importanza. Ah!... io aveva ottanta
luigi avanti a me. Mettete voi pure la medesima somma, affinchè quelli
che hanno perduto non abbiano a lamentarsi. La giustizia prima di ogni
altra cosa.

Poi rivolgendosi verso il sig. de Tréville, e conducendolo nel vano di
una finestra.

— Ebbene! signore, continuò egli, voi dite che sono state le guardie
del ministro che hanno mosso lite ai vostri moschettieri?

— Sì, come fanno sempre.

— E come è andata la cosa? vediamo: perchè voi lo sapete, mio caro
capitano, bisogna che un giudice ascolti ambedue le parti.

— Ah! mio Dio! nel modo il più semplice ed il più naturale. Tre dei
miei migliori soldati, che Vostra Maestà conosce di nome, e di cui
ella più di una volta ha apprezzato i servigi, e che hanno, io posso
affermarlo al re, molto a cuore il loro servigio; tre dei miei migliori
soldati, diceva, i signori Athos, Porthos e Aramis, avevano combinata
una partita di piacere con un cadetto di Guascogna; che io aveva
loro raccomandato la stessa mattina. La partita doveva aver luogo a
San Germano, io credo, e si erano dati l'appuntamento ai Carmelitani
scalzi, allorchè fu guastata dal sig. Jussac, e dai signori Cabusac,
Biscarrat e altre due guardie, che certamente non si trovavano là così
in numerosa compagnia senza cattive intenzioni contro gli editti.

— Ah! ah! voi mi ci fate pensare, disse il re; senza dubbio essi erano
là per battersi fra di loro stessi.

— Io non accuso nessuno, sire, ma lascio a Vostra Maestà l'apprezzare
ciò che potevano andare a fare cinque uomini armati in un luogo così
deserto come lo sono le vicinanze dei Carmelitani.

— Sì, voi avete ragione, de Tréville, voi avete ragione.

— Allora, quando essi hanno veduto i miei moschettieri, essi hanno
cambiato d'idea, ed hanno dimenticato la loro contesa particolare per
l'odio che portano al mio corpo; perchè Vostra Maestà non ignora che
i moschettieri, che sono tutti pel re, e per nessun altro che pel re,
sono i nemici naturali delle guardie che sono soltanto pel ministro.

— Sì, de Tréville, sì, disse il re, malinconicamente, ed è cosa ben
trista, credetemi, di vedere, in tal modo due partiti in Francia, due
teste al regno; ma tutto ciò finirà, de Tréville, tutto ciò finirà. Voi
dite dunque che le guardie hanno mossa contesa ai moschettieri?

— Io dico che è probabile che le cose siano andate così, ma io non ne
giuro, sire. Voi sapete quanto sia difficile a conoscere la verità,
ammeno chè non si sia dotato di quell'ammirabile istinto che fa
chiamare Luigi XIII il Giusto...

— E avete ragione, de Tréville; ma essi non erano soli i vostri
moschettieri, vi era con loro un ragazzo?

— Sì, sire, e un uomo ferito, dimodochè tre moschettieri del re, fra
i quali un ferito, e un ragazzo, non solo hanno tenuto testa a cinque
delle più terribili guardie del ministro, ma ancora ne hanno messe
quattro a terra.

— Ma questa è una vittoria! gridò il re tutto raggiante, una vittoria
completa!

— Sì, sire, tanto completa quanto quella del ponte di Cè.

— Quattro uomini, fra i quali un ferito e un fanciullo, dite voi?

— Un giovinotto appena. Il quale anzi si è condotto così bene in questa
occasione, che io mi prenderei la libertà di raccomandarlo a Vostra
Maestà.

— Come si chiama?

— D'Artagnan, sire. Questi è figlio di uno dei miei più antichi amici,
il figlio di un uomo che ha fatto col re vostro padre, di gloriosa
memoria, la guerra dei partigiani.

— E voi dite che si è condotto bene questo giovane? raccontatemi
de Tréville; voi sapete che io amo i racconti di guerre e di
combattimenti.

E il re Luigi XIII, rialzò con orgoglio i suoi baffi appoggiandosi
sull'anca.

— Sire, riprese de Tréville, come ve l'ho detto, il sig. d'Artagnan è
quasi un ragazzo; e siccome egli non ha l'onore di essere moschettiere,
era in abito di borghese: le guardie del ministro, riconoscendo la
sua giovinezza, e di più che non apparteneva al corpo, lo invitarono a
ritirarsi prima di dare l'attacco.

— Allora, voi vedete bene, de Tréville, interruppe il re, che sono
stati essi che hanno attaccato.

— È giusto, sire; così non vi è più alcun dubbio; essi a lui intimarono
di ritirarsi, ma egli era moschettiere di cuore, e tutto per Vostra
Maestà: così dunque egli rimase coi sig. moschettieri.

— Bravo il giovane! mormorò il re.

— Infatti, egli dimorò con essi, e Vostra Maestà ha in lui un così
forte campione, che fu egli stesso che dette a Jussac quel terribile
colpo di spada che mette tanto in collera il ministro.

— Fu lui che ferì Jussac? gridò il re; lui, un fanciullo! questo, de
Tréville, è impossibile.

— Eppure è così, come ho l'onore di dire a Vostra Maestà.

— Jussac! una delle migliori lame del regno!

— Ebbene! sire, egli ha ritrovato il suo maestro.

— Io voglio vedere questo giovane, de Tréville, io voglio vederlo, e se
se ne può far qualche cosa, ebbene! noi ce ne occuperemo.

— Quando sarà che Vostra Maestà si degnerà di riceverlo?

— Domani a mezzogiorno, de Tréville.

— Lo condurrò io solo?

— No, conducetemeli tutti quattro assieme. Io voglio ringraziarli tutti
in una volta. Gli uomini affezionati sono rari, de Tréville, e bisogna
ricompensare la devozione.

— A mezzogiorno, sire, noi saremo al Louvre.

— Ma! per la piccola scala, de Tréville, per la piccola scala. È
inutile che il ministro sappia...

— Sì, sire.

— Voi capite, de Tréville, un editto è sempre un editto; in fin dei
conti il battersi è proibito.

— Ma questo incontro, sire, sorte del tutto dallo condizioni ordinarie
del duello; è una rissa, e la prova si è che essi erano cinque guardie
del ministro contro i miei tre moschettieri ed il sig. d'Artagnan.

— È giusto, disse il re, ma non importa, de Tréville. Venite pure per
la piccola scala.

De Tréville sorrise. Ma siccome era già molto l'avere ottenuto che
questo fanciullo si rivoltasse contro il suo maestro, egli salutò
rispettosamente il re, e con pieno contento prese congedo da lui.

Fin dalla stessa sera, i tre moschettieri furono avvisati dell'onore
che loro accordava il re. Siccome essi conoscevano da lungo tempo
il re, non ne furono molto riscaldati, ma d'Artagnan, colla sua
immaginazione guascona, vi vide venir la sua fortuna, e passò la notte
facendo sogni d'oro. Così dall'ott'ore del mattino egli era presso
Athos.

D'Artagnan ritrovò il moschettiere già vestito e pronto a sortire.
Siccome non avevano l'appuntamento dal re che a mezzogiorno, egli aveva
fatto il progetto con Porthos e Aramis di andare a fare una partita
alla palla in un recinto situato vicino alle scuderie del Luxembourg.
Athos invitò d'Artagnan a seguirli, e malgrado la sua ignoranza in
questo giuoco a cui non aveva mai giuocato, questi accettò, non sapendo
che fare del tempo dalle nove ore del mattino, che appena erano, fino
al mezzogiorno.

I due moschettieri erano già arrivati e giuocavano assieme.

Athos, che era molto forte in tutti gli esercizi del corpo passò con
d'Artagnan dalla parte opposta, e li sfidò. Ma al primo movimento
che provò, quantunque giuocasse con la mano sinistra, capì che la sua
ferita era ancora troppo recente per permettergli un simile esercizio.
D'Artagnan rimase dunque solo, e siccome dichiarò ch'egli era inesperto
per sostenere una partita in regola, si continuò soltanto a inviarsi
delle palle senza tener conto del giuoco! Ma una di queste palle
lanciate dal pugno ercolino di Porthos, passò così da vicino al viso di
d'Artagnan, che egli pensò che se invece di passargli da un lato, lo
avesse colto in faccia, la sua udienza era perduta, attesochè sarebbe
stato probabilmente nell'assoluta impossibilità di presentarsi al re.
Ora, siccome da questa udienza, nella sua immaginazione guascona,
dipendeva tutto il suo avvenire, egli salutò gentilmente Porthos e
Aramis, dichiarando, che egli non riprenderebbe la partita, che allora
quando fosse in istato di tener loro testa, e ritornò a prender posto
nella galleria vicino alla corda.

Disgraziatamente per d'Artagnan, fra gli spettatori si ritrovava una
guardia del ministro, il quale tutto riscaldato ancora dalla sconfitta
dei suoi compagni accaduta il giorno innanzi soltanto, si era promesso
di afferrare la prima occasione per vendicarla; egli credè dunque che
questa occasione fosse venuta, e indirizzandosi al suo vicino:

— Non è da maravigliarsi, disse egli, che questo giovinetto abbia paura
di una palla, egli senza dubbio è un alunno dei moschettieri.

D'Artagnan si voltò come se fosse stato morso da un serpente, e guardò
fissamente la guardia che aveva detto una così insolente proposizione.

— Per bacco! riprese questi arricciandosi insolentemente i baffi,
guardatemi quanto volete, mio piccolo signore; io ho detto ciò che ho
detto.

— E siccome quello che voi avete detto è troppo chiaro perchè le vostre
parole abbiano bisogno di una spiegazione, rispose d'Artagnan a bassa
voce, io vi pregherei a seguirmi.

— E quando? domandò la guardia con la stessa insolenza.

— Subito, se vi fa piacere.

— E sapete voi chi sono io?

— Io? Lo ignoro completamente, e non me ne inquieto punto.

— Voi avete torto, perchè se sapeste il mio nome, non avreste forse
tanta fretta.

— Come vi chiamate voi?

— Bernajoux, per servirvi.

— Ebbene! sig. Bernajoux, disse tranquillamente d'Artagnan, io vado ad
aspettarvi sulla porta.

— Andate, signore, io vi seguo.

— Non abbiate troppa fretta, signore, che non si accorgano che noi
sortiamo assieme, voi capirete che, per quello che andiamo a fare,
molta gente c'incomoderebbe.

— Sta bene, rispose la guardia maravigliata che il suo nome non avesse
prodotto verun effetto sul giovinetto.

Infatti, il nome di Bernajoux era conosciuto da tutto il mondo,
eccettuato il solo d'Artagnan, forse perchè era uno di quelli che
figuravano il più spesso nelle risse giornaliere, che tutti gli editti
del re e del ministro non avevano potuto reprimere.

Porthos e Aramis erano tanto occupati della loro partita, e Athos li
guardava con tanta attenzione che essi non videro neppure sortire
il loro giovane compagno, il quale, come aveva detto alla guardia
del ministro, si fermò sulla porta: un istante dopo questi discese
anch'egli. Siccome d'Artagnan non aveva tempo da perdere per cagione
dell'udienza del re, che era fissata per il mezzogiorno, girò gli occhi
intorno a sè, vedendo che la strada era deserta:

— In fede mia, signore, disse egli al suo avversario, è una fortuna per
voi, quantunque voi vi chiamate Bernajoux, di non avere a fare che con
un alunno dei moschettieri, però siate tranquillo, io farò il meglio
che potrò. In guardia!

— Ma, disse colui che d'Artagnan provocava in tal modo, mi sembra
che il luogo sia mal scelto, e che noi staremmo assai meglio dietro
l'Abbazia S. Germano nel Prato dei Chierici.

— Ciò che voi dite è pieno di buon senso, rispose d'Artagnan;
disgraziatamente io ho poco tempo da perdere, avendo un appuntamento
per il mezzogiorno preciso. In guardia adunque, signore, in guardia!

Bernajoux non era uomo da farsi ripetere due volte un simile
complimento. Nel medesimo istante la sua spada brillò nella sua mano,
e piombò con un fendente sul suo avversario che, mercè la sua gran
giovinezza, egli sperava intimidire.

Ma d'Artagnan avea fatto il suo noviziato nel giorno innanzi, e ancora
tutto fresco della sua vittoria, e gonfio del suo futuro favore, era
risoluto di non dare addietro di un passo: per tal modo i due ferri
si ritrovarono impegnati sino alla guardia, e siccome d'Artagnan si
teneva fermo al suo posto, fu il suo avversario che fece un passo di
ritirata. Ma d'Artagnan approfittò del momento, e in questo movimento,
in cui il ferro di Bernajoux deviava dalla linea, egli disimpegnò
il suo, andò a fondo, e toccò l'avversario in una spalla. Subito
d'Artagnan a sua volta fece un passò in addietro e rialzò la sua spada;
ma Bernajoux gli gridò che non era niente, e andando a fondo ciecamente
su lui, s'infilzò da se stesso. Però, siccome non cadeva, siccome non
si dichiarava vinto, ma rompeva soltanto dalla parte del palazzo del
signor della Trémouille, al servizio del quale egli aveva un parente,
d'Artagnan ignorando egli stesso la gravità dell'ultima ferita che
il suo avversario aveva ricevuta, lo stringeva vivamente dappresso, e
senza dubbio lo avrebbe finito con una terza ferita, allorchè il rumore
che si innalzava dalla strada essendosi esteso fino al giuoco della
palla, due degli amici della guardia che lo avevano inteso cambiare
qualche parola con d'Artagnan, e che lo avevano veduto sortire in
seguito di queste parole, si precipitarono con la spada alla mano fuori
del recinto del giuoco e piombarono sul vincitore. Ma tosto Athos,
Porthos e Aramis comparvero alla lor volta, e al momento in cui le due
guardie attaccarono il giovane camerata li costrinsero a voltarsi.
In questo momento, Bernajoux cadde, e siccome le guardie erano due
soltanto contro quattro, essi si misero a gridare: «a noi, palazzo
della Trémouille»; a queste grida tutti quelli ch'erano nel palazzo
sortirono precipitandosi sui quattro compagni, che dalla loro parte si
posero a gridare: «a noi moschettieri!»

Questo grido era ordinariamente inteso, perchè si sapeva che i
moschettieri erano nemici del ministro, ed erano amati per l'odio
che portavano al ministro. Così le guardie delle altre compagnie
che non appartenevano al Duca Rosso, come lo aveva chiamato Aramis,
prendevano generalmente parte in questa specie di contese per i
moschettieri del re. Di tre guardie della compagnia del signor des
Essarts che passavano, due vennero in aiuto dei quattro compagni, nel
mentre che l'altro corse al palazzo del sig. de Tréville gridando:
«a noi moschettieri! a noi!» Come d'ordinario, il palazzo del signor
de Tréville era pieno di soldati di quest'arma, che accorsero in
soccorso dei loro camerati. La mischia divenne generale, ma la forza
era pei moschettieri. Le guardie del ministro e le genti del sig.
della Trémouille, si ritirarono nel palazzo, di cui chiusero le
porte in tempo appena per impedire che i loro nemici non vi facessero
un'irruzione insieme con loro. In quanto al ferito, fin dal principio
era stato trasportato, e come si disse, in condizioni molto cattive.
L'agitazione era al suo colmo fra i moschettieri ed i loro alleati,
e già si dibatteva se, per punire l'insolenza, che avevano avuta
i domestici dei signor della Trémouille, di fare una sortita sui
moschettieri dei re, si dovesse mettere il fuoco al suo palazzo.
La proposizione sarebbe stata accettata, messa in esecuzione con
entusiasmo se fortunatamente non battevano le undici ore: d'Artagnan
ed i suoi compagni si ricordarono della loro udienza, e siccome loro
avrebbe rincresciuto che si fosse fatto un sì bel colpo senza di loro,
essi giunsero a calmare le teste; si contentarono adunque di gettare
qualche sasso contro le porte, ma le porte resistettero, ed allora
si stancarono. D'altronde, quelli che dovevano essere risguardati
come i capi dell'intrapresa avevano da qualche istante lasciato il
gruppo, e s'incamminavano verso il palazzo del sig. de Tréville, che li
aspettava, ed era già al corrente di questa nuova bravata.

— Presto, al Louvre, diss'egli, al Louvre senza perdere un momento, e
procuriamo di vedere il re prima che egli sia prevenuto dal ministro;
noi gli racconteremo la cosa come una conseguenza dell'affare di jeri,
e le due passeranno insieme.

Il signor de Tréville, accompagnato dai quattro giovani si incamminò
verso il Louvre, ma, a gran sorpresa del capitano dei moschettieri, gli
fu annunziato che il re era andato alla caccia del cervo nella foresta
di S. Germano. Il signor de Tréville si fece ripetere due volte questa
notizia, ed a ciascheduna volta i suoi compagni videro il suo volto
imbruttirsi.

— È forse da jeri, domandò egli, che Sua Maestà aveva il progetto di
fare questa caccia?

— No, Eccellenza, rispose il cameriere, è stato il gran cacciatore
che questa mattina è venuto ad annunziare, che in questa notte si era
relegato un cervo a sua disposizione. Sulle prime ha risposto che non
vi sarebbe andato, quindi non ha potuto resistere al piacere che gli
prometteva questa caccia, e dopo pranzo è partito.

— E il re ha egli veduto il ministro? domandò il sig. de Tréville.

— Sì, secondo tutte le probabilità, rispose il cameriere, perchè questa
mattina ho veduto i cavalli alla carrozza del ministro, ho domandato
dove andava, e mi fu risposto: a S. Germano.

— Noi siamo stati prevenuti, disse il sig. de Tréville. Signori,
io vedrò il re questa sera, ma in quanto a voi non vi consiglio di
azzardarvici.

L'avviso era troppo ragionevole, e soprattutto veniva da un uomo
che conosceva troppo bene il re, perchè i quattro giovani tentassero
di contraddire il signor de Tréville. Gli invitò dunque a rientrare
ciascuno alle loro stanze e di aspettare le sue notizie.

Rientrando nel suo palazzo, il sig. de Tréville pensò che bisognava
prender data portando querela pel primo. Egli inviò uno dei suoi
domestici al signor della Trémouille con una lettera nella quale egli
lo pregava di metter fuori di casa sua le guardie del ministro, e
di rimproverare le sue genti dell'audacia che avevano avuta di fare
una sortita contro i moschettieri. Ma il signor della Trémouille, di
già prevenuto dal suo scudiero, di cui come si sa, Bernajoux era il
parente, gli fece rispondere che non spettava nè al signor de Tréville,
nè ai moschettieri il lamentarsi, ma al contrario a lui, al quale i
moschettieri avevano battuti e feriti i domestici, ed avevano voluto
bruciare il palazzo. Ora siccome la dissensione fra questi due signori
avrebbe potuto durare lungo tempo, dovendo naturalmente sostenere
ciascuno la sua opinione, il signor de Tréville pensò ad un espediente
che aveva per iscopo di finire tutto: ed era di andare egli stesso dal
sig. della Trémouille.

Egli si portò adunque subito al di lui palazzo, e si fece annunziare.

I due signori si salutarono gentilmente, perchè se non v'era amicizia
fra di loro, vi era almeno stima. Entrambi erano uomini di coraggio e
di onore, e siccome il signor della Trémouille, protestante, vedeva
raramente il re, non era di alcun partito, egli in generale non
apportava alcuna prevenzione nelle sue relazioni sociali. Questa volta,
ciò non ostante, il suo ricevimento, quantunque gentile; fu più freddo
dell'ordinario.

— Signore, disse de Tréville, noi crediamo di avere a lamentarci l'uno
dell'altro, e sono venuto io stesso perchè assieme rischiariamo questo
affare.

— Volentieri, rispose della Trémouille; ma vi prevengo che io sono
bene informato, e che tutto il torto sta dalla parte dei vostri
moschettieri.

— Voi siete un uomo troppo giusto e troppo ragionevole, signore, disse
de Tréville, per non accettare la proposizione che vengo a farvi.

— Dite, signore, io ascolto.

— Come sta il signor Bernajoux, il parente del vostro scudiero?

— Male, signore, molto male. Oltre il colpo di spada che egli ha
ricevuto nel braccio, e che non è altrimenti pericoloso, egli ne ha
ancora raccolto uno che gli traversa il polmone, di modo che il medico
ha ben poche speranze.

— Ma il ferito ha conservato l'uso delle sue facoltà?

— Perfettamente.

— Parla egli?

— Con difficoltà, ma parla.

— Ebbene! signore, portiamoci da lui, scongiuriamolo nel nome di quel
Dio davanti al quale egli andrà forse a comparire, di dire la verità,
io lo prendo per giudice nella sua propria causa, signore, e ciò che
dirà io lo crederò.

Il signor della Trémouille riflettè un istante, quindi, siccome era
difficile il poter fare una proposizione più ragionevole, egli accettò.

Entrambi discesero nella camera ove era il ferito. Questi vedendo
entrare i due nobili signori che venivano a fargli visita, tentò di
sollevarsi sul suo letto, ma egli era troppo debole e spossato dallo
sforzo che aveva fatto, ricadde quasi senza conoscenza.

Il signor della Trémouille si avvicinò a lui, e gli fece aspirare dei
sali che lo richiamarono alla vita. Allora il signor de Tréville, non
volendo che si potesse accusare di avere influito sul malato, invitò il
signor della Trémouille a interrogarlo egli stesso.

Ciò che aveva preveduto il de Tréville, accadde. Posto fra la vita e
la morte, come lo era Bernajoux, non ebbe neppure l'idea di tacere un
momento la verità, e raccontò ai due signori esattamente le cose tali
quali erano accadute.

Era tutto ciò che voleva il sig. de Tréville; egli augurò a Bernajoux
una pronta convalescenza: prese congedo dal signore della Trémouille,
rientrò al suo palazzo; e fece tosto avvertire i quattro amici ch'egli
gli aspettava a pranzo.

Il signor de Tréville riceveva sempre una buonissima compagnia,
s'intende tutta anti-ministeriale. Si capirà dunque che la
conversazione si aggirò tutta, durante il pranzo, sulle due sconfitte
che avevano provate le guardie del ministro. Ora, siccome d'Artagnan
era stato l'eroe di queste due giornate, fu sopra di lui che
caddero tutte le congratulazioni, che Athos, Porthos e Aramis gli
abbandonarono, non solo da buoni camerati, ma da uomini che avevano
avuto abbastanza elogi alla loro volta per lasciargli libera la sua.

Verso le sei ore, il signor de Tréville annunciò che egli era obbligato
di andare al Louvre; ma siccome l'ora dell'udienza accordata da Sua
Maestà era passata, in luogo di reclamare l'entrata dalla piccola
scala, egli si pose coi quattro giovani nell'anticamera. Il re non
era ancora ritornato dalla caccia. I nostri giovani aspettavano da una
mezz'ora appena, immischiati alla folla dei cortigiani, allorchè tutte
le porte si aprirono, e fu annunziato il re.

A questo annunzio d'Artagnan si sentì fremere fino alla midolla delle
ossa. L'istante che doveva seguire, secondo tutte le probabilità,
doveva decidere del resto della sua vita. Così i suoi occhi si
fissarono con angoscia sulla porta per la quale doveva entrare Sua
Maestà.

Luigi XIII comparve, camminando pel primo; era in abito da caccia
ancora tutto polveroso, portava due grandi stivali, ed aveva il
frustino in mano. Al primo colpo d'occhio d'Artagnan giudicò che lo
spirito del re era in tempesta.

Per quanto fosse visibile questa disposizione in cui trovavasi Sua
Maestà, essa però non impedì ai cortigiani di porsi in linea sul suo
passaggio, nelle anticamere reali. Meglio vale ancora essere veduto
con occhio sdegnato di quello che non essere veduto dei tutto. I tre
moschettieri non esitarono dunque un momento, e fecero un passo in
avanti, nel mentre che d'Artagnan al contrario restò nascosto dietro
di loro; ma quantunque il re conoscesse personalmente Athos, Porthos,
e Aramis, egli passò davanti a loro senza parlargli, e come se non gli
avesse mai veduti. In quanto al sig. de Tréville, allorchè gli occhi
del re si fermarono un istante su di lui, egli sostenne questo sguardo
con tanta fermezza, che fu il re che dovè pel primo divergere la vista;
dopo ciò, Sua Maestà, brontolando, rientrò nel suo appartamento.

— Gli affari vanno male, disse Athos sorridendo, e noi questa volta non
saremo fatti cavalieri.

— Aspettate dieci minuti, disse il signor de Tréville, e se in capo
a dieci minuti voi non mi vedrete sortire, ritornate al mio palazzo,
perchè sarà inutile che voi aspettiate più lungamente.

I quattro giovani attesero dieci minuti, un quarto d'ora, venti minuti,
e vedendo che il signor de Tréville non ricompariva, essi sortirono
molto inquieti per quello che poteva accadere.

Il signor de Tréville entrato coraggiosamente nel gabinetto del re
aveva ritrovato Sua Maestà di cattivissimo umore, seduto sopra un
sofà, battendosi gli stivali col manico del frustino, cosa che non gli
aveva impedito di domandargli con tutta la più gran flemma del mondo le
notizie della sua salute.

— Cattive, signore, cattive, rispose il re; io mi annoio.

Era infatti la peggiore malattia di Luigi XIII, e sovente prendeva
uno dei suoi cortigiani, lo attirava ad una finestra, e gli diceva: il
signor tale, annojamoci insieme.

— Come! Vostra Maestà si annoja! disse il signor de Tréville. Non si è
preso oggi il divertimento della caccia?

— Bel divertimento, signore! tutto degenera, sull'anima mia, e io non
so se sia il selvaggiume che non ha più aria, o i cani che non hanno
più naso. Noi lanciammo un cervo di dieci anni, noi lo inseguimmo per
sei ore, e quando fu vicino a tenere, quando San Simone metteva già
il corno alla bocca per suonare la presa, crac! tutta la muta volta
di banda, e si trasporta sopra un cerviatto di due anni. Voi vedrete
che io sarò obbligato di renunciare alla caccia di corsa, come ho
già renunciato alla caccia di volo. Ah! sono un re ben disgraziato,
signor de Tréville: io non aveva più che un girifalco, ed è morto jeri
l'altro.

— In fatti, sire, io comprendo la vostra disperazione, e la disgrazia è
grande; ma mi sembra che vi resti ancora un buon numero di falconi, di
sparvieri, e di moscardi.

— E non un uomo per istruirli; i falconieri se ne vanno, non vi son più
che io che conosca l'arte della caccia. Dopo di me tutto sarà finito, e
si anderà a caccia colle trappole, col vischio, coi lacci. Se io avessi
ancora il tempo di fare degli allievi! ma sì, il ministro è là che non
mi lascia un istante di riposo, che mi parla della Spagna, che mi parla
della Germania, che mi parla dell'Inghilterra! ah! a proposito del
ministro, signor de Tréville, io sono malcontento di voi.

Il signor de Tréville aspettava il re a questa caduta. Egli conosceva
il re da lungo tempo: egli aveva compreso che tutti i suoi lamenti non
erano che una prelazione, una specie di eccitazione per incoraggiare se
stesso, e che egli era finalmente giunto al punto dove voleva arrivare.

— E in che sono io tanto disgraziato per dispiacere a Vostra Maestà?
domandò il signor de Tréville fingendo la più alta meraviglia.

— È così che voi disimpegnate la vostra carica, signore? continuò il
re senza rispondere direttamente alla domanda del signor de Tréville: è
forse per questo che io vi ho nominato capitano dei miei moschettieri,
perchè essi assassinassero un uomo, commovessero un quartiere, e
volessero bruciar Parigi senza che voi me ne diceste una parola? ma del
resto, continuò il re, senza dubbio mi affretto troppo ad accusarvi,
senza dubbio, i perturbatori sono in prigione, e voi ora venite ad
annunziarmi che è stata fatta giustizia.

— Sire, rispose tranquillamente il signor de Tréville, io vengo a
domandarvela.

— E contro chi? gridò il re.

— Contro i calunniatori! disse il signor de Tréville.

— Ah! eccone una nuova, riprese il re. Mi direte voi ora che quei tre
dannati di moschettieri, Athos, Porthos, Aramis, e il vostro cadetto
di Bearn, non si sono gettati come tanti furiosi sul povero Bernajoux,
e non l'hanno maltrattato in modo tale che a quest'ora è più che
probabile che sia per rendere l'anima a Dio? mi direte voi ora ch'essi
non hanno fatto l'assedio al palazzo del duca della Trémouille, e
ch'essi non volevano bruciarlo? cosa che non sarebbe stata una gran
disgrazia in tempo di guerra, atteso che quello è un nido di ugonotti,
ma che in tempo di pace è un tristissimo esempio. Dite, vorrete voi
negarmi tutto ciò?

— E chi ha fatto a Vostra Maestà un così bel racconto? domandò
tranquillamente il signor de Tréville.

— Chi mi ha fatto un così bel racconto, signore e chi volete voi che
sia, se non è quello che veglia quando io dormo, che lavora quando io
mi diverto, che guida tutto al di dentro e al di fuori del regno, in
Francia, come in Europa?

— Sua Maestà vorrà parlare di Dio, senza dubbio, disse il signor de
Tréville, perchè io non conosco che Dio, che sia così possente al
disopra di Vostra Maestà.

— No, signore, io voglio parlare del sostegno dello Stato, del mio
servitore, del mio solo amico, del ministro.

— Non vi è che un solo uomo infallibile, a quanto c'impone di credere
la nostra fede, su questa terra, e la sua infallibilità non si può
estendere a nessun altro.

— Dunque voi volete dire ch'egli m'inganna? volete voi dire ch'egli
mi tradisce? allora voi lo accusate. Vediamo, dite confessatelo
francamente, voi lo accusate?

— No, sire, ma io dico che egli inganna se stesso; io dico che è
male informato, io dico che egli ha troppa fretta nell'accusare i
moschettieri di Vostra Maestà, pei quali egli è ingiusto, e che non è
stato ad attignere le sue informazioni da buone sorgenti.

— L'accusa viene dal duca della Trémouille, dal duca stesso: che
risponderete voi a questo?

— Io potrei rispondere, sire, ch'egli è troppo interessato nella
questione per potere essere un testimone imparziale; ma lungi di là,
sire, io conosco il duca per un leale gentiluomo, io me ne riporterò a
lui, ma a una sola condizione, sire.

— Quale?

— Che vostra Maestà lo faccia venire qui, lo interroghi, ma ella stessa
a quattr'occhi, senza testimoni, e che io riveda Vostra Maestà subito
che avrà veduto il duca.

— Sì! fece il re, e voi vi riportate a ciò che dirà il signore della
Trémouille?

— Sì, sire.

— Voi accetterete il suo giudizio?

— Senza dubbio.

— E voi vi sottometterete alle riparazioni che egli esigerà?

— Interamente.

— La Chesnaye! fece il re, la Chesnaye!

Il cameriere di confidenza di Luigi XIII che stava sempre alla sua
porta, entrò.

— La Chesnaye, disse il re, che si mandi sul momento stesso a cercare
il signore della Trémouille; io voglio parlargli questa sera.

— Vostra Maestà mi dà la sua parola ch'ella non vedrà alcuno oltre il
signore della Trémouille e me?

— Non vedrò alcuno, fede da gentiluomo.

— A dimani, sire, adunque.

— A dimani, signore.

— A qual ora, se piace a Vostra Maestà?

— All'ora che voi vorrete.

— Ma venendo troppo presto io temo di svegliare Vostra Maestà.

— Di svegliarmi! forse che dormo io? io non dormo più, signore; qualche
volta sogno, ecco tutto. Venite dunque di buon mattino quando volete, a
sette ore; ma guai a voi, se i vostri moschettieri sono colpevoli?

— Se i miei moschettieri sono colpevoli saranno rimessi nelle mani di
Vostra Maestà che ordinerà di loro, secondo che più le aggrada. Vostra
Maestà esige ella qualche altra cosa di più? comandi, io sono pronto ad
obbedire.

— No, signore, no: non è senza una ragione che mi chiamano Luigi il
Giusto. A dimani dunque, signore, a dimani.

— Che Dio guardi Vostra Maestà!

Per poco che dormisse il re, il signor de Tréville dormì ancor
meno; egli aveva fatto prevenire fin dalla stessa sera i suoi tre
moschettieri ed il loro compagno, di ritrovarsi da lui a sei ore e
mezzo del mattino. Egli li condusse con sè senza affermar loro niente,
senza prometter niente, e non nascondendo che il loro favore, ed anche
il suo dipendeva da un colpo di dadi.

Giunto ai piedi della scala, egli li fece aspettare. Se il re era
sempre irritato contro di loro, essi si allontanerebbero, senza essere
veduti; se il re acconsentiva a riceverli, non vi avrebbe voluto che
farli chiamare.

Giungendo nell'anticamera particolare del re, il signor de Tréville
trovò la Chesnaye, che gli disse che la sera non avevano ritrovato il
duca della Trémouille nel suo palazzo, ch'egli era rientrato troppo
tardi per potersi presentare al Louvre, ch'egli era giunto da pochi
momenti e che allora parlava col re.

Questa circostanza piacque moltissimo al sig. de Tréville, che in
questo modo fu fatto certo che un'intervenzione straniera non si
sarebbe intromessa fra la deposizione del duca della Trémouille e lui.

Infatti dieci minuti erano appena scorsi, che si aprì la porta del
gabinetto del re, e che il sig. de Tréville ne vide sortire il duca
della Trémouille, il quale venendo direttamente a lui gli disse:

— Signor de Tréville, Sua Maestà mi ha mandato a chiamare per sapere
come sono accadute le cose di ieri mattina, al mio palazzo. Io gli ho
detto la verità, cioè che la colpa è stata delle mie genti, e che era
pronto a farvene le mie scuse. Poichè vi trovo, accettatele, e vogliate
tenermi sempre per uno dei vostri amici.

— Signor duca, disse de Tréville, io era così pieno di confidenza sulla
vostra lealtà, che non ho voluto presso Sua Maestà altro difensore che
voi stesso. Io non mi sono ingannato, e vi ringrazio di avermi provato
che esiste ancora un uomo di cui possa dire senza sbagliarmi ciò che ho
detto di voi.

— Sta bene, sta bene! disse il re che aveva ascoltato tutti questi
complimenti stando fra le due porte; soltanto ditegli, de Tréville,
poichè pretende di essere uno dei vostri amici, che io pure vorrei
essere fra i suoi, ma che egli mi trascura, e che sono oramai tre anni
che non l'ho veduto, e che non lo vedo che quando lo mando a chiamare.
Ditegli ciò per parte mia, poichè queste sono cose che un re non può
dire da se stesso.

— Grazie, sire, grazie, disse il duca, ma che Vostra Maestà creda bene
che non sono quelli, io non dico ciò per il sig. de Tréville, che non
sono quelli che ella vede a tutte le ore del giorno, quelli che le sono
i più affezionati.

— Ah! voi avete inteso ciò che ho detto, tanto meglio, duca, meglio!
disse il re avanzandosi sulla porta. Ah! siete voi, de Tréville, dove
sono i vostri moschettieri? io vi ho detto ieri l'altro di condurmeli,
perchè non lo avete fatto?

— Essi sono da basso, sire, e col vostro permesso la Chesnaye anderà a
dir loro di salire.

— Sì, sì, ch'essi vengano subito; sono in breve le otto, ed io a nove
ore aspetto una visita. Andate, signor duca, e ricordatevi sopra tutto
di ritornare. Entrate de Tréville.

Il duca salutò, e sortì. Al momento in cui apriva la porta i tre
moschettieri e d'Artagnan condotti da la Chesnaye, comparvero sull'alto
della scala.

— Venite, miei bravi, disse il re, venite; io ho da sgridarvi.

I moschettieri si avanzarono inchinandosi, d'Artagnan gli seguiva.

— Come diavolo! continuò il re, voi quattro in due giorni avete messo
fuori di combattimento sette guardie del ministro! questo è troppo,
signori, questo è troppo. Con questi conti, il ministro sarà obbligato
di rinnovare la sua compagnia in tre settimane, ed io sarò costretto di
fare applicare gli editti in tutto il loro rigore. Uno per accidente,
pazienza; ma sette in due giorni, io lo ripeto è troppo, grandemente
troppo.

— Perciò, sire, vostra Maestà vede ch'essi vengono, pentiti e contriti
per fare le loro scuse.

— Benchè pentiti e contriti, hum! fece il re, io non mi fido delle loro
facce ipocrite, vi è particolarmente laggiù una figura da Guascone...
venite qui, signore.

D'Artagnan che comprese essere il complimento indirizzato a lui, si
avvicinò prendendo l'aspetto il più disperato.

— Ebbene, che dite voi dunque che questi è un giovane? un ragazzo,
signor de Tréville, un vero ragazzo. Ed è stato lui che ha dato un così
rozzo colpo di spada a Jussac?

— E gli altri due colpi di spada a Bernajoux.

— Davvero?

— Senza contare, disse Athos, che se non mi avesse liberato dalle mani
di Cabusac, io certamente non avrei l'onore di fare in questo momento
le mie umilissime riverenze a Vostra Maestà.

— Ma questo Bearnese è dunque un vero demonio, _ventegris_! sig. de
Tréville, come avrebbe detto mio padre. In questo mestiere si devono
per forza consumare molti sai, e per forza spezzare molte spade. Ora i
Guasconi sono sempre poveri, non è vero?

— Sire, io debbo dire che non sono ancora state ritrovate delle miniere
d'oro nelle loro montagne, quantunque il Signore dovrebbe far questo
miracolo in ricompensa del modo con cui hanno sostenuto le pretese del
re vostro padre.

— Che è quanto dire che sono stati i Guasconi che hanno fatto re me
pure, non è vero de Tréville, perchè io sono figlio di mio padre.
Ebbene alla buon'ora, io non dico di no. La Chesnaye andate a vedere
se, frugando in tutte le mie saccocce, voi trovate quaranta doppie,
e se le trovate portatemele. E ora vediamo, giovane, una mano sulla
coscienza e raccontatemi lo accaduto.

D'Artagnan raccontò l'avventura del giorno innanzi con tutti i suoi
particolari; in che modo non avendo potuto dormire per la gioia che
avrebbe provato nel vedere Sua Maestà, egli era arrivato presso i
suoi amici tre ore prima dell'udienza; in che modo essi erano andati
assieme al giuoco della palla, e come nel timore che aveva manifestato
di ricevere una palla sul viso, egli era stato messo in ridicolo da
Bernajoux, il quale per poco non aveva pagato colla perdita della vita
le sue villanie, e che il sig. della Trémouille non aveva alcuna colpa
per la sortita che fu fatta dal suo palazzo.

— È così mormorò il re; è precisamente così che mi è stata raccontata
la faccenda dallo stesso duca. Povero ministro! sette uomini in due
giorni e dei più cari; ma basta così, signori; voi vi siete presa la
vostra rivincita della strada Ferou, ed anche al di là; voi dovete
esser soddisfatti.

— Se Vostra Maestà lo è, disse de Tréville, noi lo siamo.

— Sì io lo sono, aggiunse il re, prendendo un pugno d'oro dalla mano
di Chesnaye e mettendolo in quella di d'Artagnan; eccovi diss'egli, una
pruova della mia soddisfazione.

A quell'epoca le idee d'orgoglio che sono in uso ai nostri giorni, non
erano ancora alla moda. Un gentiluomo riceveva del denaro dalla mano
del re, e non ne rimaneva menomamente umiliato. D'Artagnan adunque si
mise le quaranta doppie in saccoccia senza fare alcuna osservazione, ed
anzi ringraziò grandemente Sua Maestà.

— Basta! disse il re guardando l'orologio a pendolo basta! perchè sono
le otto e mezza, ritiratevi; io ve l'ho già detto, aspetto qualcuno a
nove ore. Grazie del vostro attaccamento, signori. Io posso contarvi
non è vero?

— Oh! sire, gridarono ad una sola voce i quattro compagni, noi ci
faremo tagliare a pezzi per Vostra Maestà.

— Bene, bene; ma restate intieri, ciò val meglio, e così mi potrete
essere più utili. De Tréville aggiunse il re a mezza voce nel mentre
che gli altri si ritiravano, siccome voi non avete posti vacanti nei
vostri moschettieri, e che d'altronde per entrare in questo corpo noi
abbiamo deciso che sia necessario un noviziato, situate questo giovane
nella compagnia delle guardie del sig. des Essarts, vostro cognato.
Ah per bacco de Tréville, io mi rallegro delle boccacce che farà il
ministro, egli sarà furioso, ma per me è lo stesso; io faccio uso dei
miei diritti.

E il re salutò con la mano de Tréville che sortì, e andò a raggiungere
i suoi moschettieri, che stavano dividendosi con d'Artagnan le sue
quaranta doppie.

E il ministro, come lo aveva detto Sua Maestà, fu effettivamente
furioso che per otto giorni non intervenne al giuoco, cosa che non
impediva al re di fargli la più buona cera del mondo e di chiedergli
con la voce la più accarezzante tutte le volte che lo incontrava:

— Ebbene sig. ministro come va quel povero Bernajoux, e quel povero
Jussac, che sono delle vostre guardie?



CAPITOLO VII.

L'INTERNO DEI MOSCHETTIERI


Allorquando d'Artagnan fu fuori del Louvre e che consultò i suoi
amici sull'uso che dovea fare della sua parte delle quaranta doppie,
Athos gli consigliò di ordinare un buon pranzo alla Pigna, Porthos di
prendere un lacchè, e Aramis di farsi un'amica conveniente.

Il pranzo fu eseguito lo stesso giorno, e il lacchè era stato fornito
da Porthos. Era uno di Piccardia che il glorioso moschettiere aveva
accaparrato il giorno stesso nel mentre che sul ponte della Tournelle
faceva dei cerchi sputando nell'acqua. Porthos aveva preteso che
questa occupazione era la pruova di una organizzazione riflessiva
e contemplativa, e lo aveva condotto senz'altra raccomandazione.
L'imponente aspetto di questo gentiluomo, per conto del quale egli
si credeva impegnato, aveva sedotto Planchet, che tale era il nome
del giovane di Piccardia, e fu in sua casa una leggera contesa quando
vide che il posto era già preso da un altro confratello chiamato
Mousqueton, e allorchè Porthos gli significò il suo stato di famiglia,
quantunque grande, non gli permetteva di tenere due domestici, e che
gli abbisognava di entrare al servizio di d'Artagnan. Però allorchè
assistè al pranzo dato dal suo padrone, e che quando pagava lo vide
cavare un pugno d'oro di saccoccia credè assicurata la sua fortuna, e
ringraziò il cielo di esser caduto nelle mani di un simil Creso, egli
perseverò in questa opinione fin dopo il festino, cogli avanzi del
quale egli riparò a molte e lunghe astinenze. Ma le chimere di Planchet
svanirono nella sera facendo il letto al suo padrone. Il letto era solo
nell'appartamento, che si componeva di un'anticamera e di una camera
da dormire. Planchet dormì nell'anticamera sopra una coperta tolta dal
letto di d'Artagnan, e di cui d'Artagnan fece senza per l'avvenire.

Athos dal canto suo aveva un cameriere che era stato allevato al suo
servizio in un modo tutto particolare, e che si chiamava Grimaud. Egli
era molto silenzioso questo degno signore. Ben inteso, noi parliamo di
Athos.

Da cinque o sei anni che egli viveva nella più profonda intimità con i
suoi compagni, Porthos e Aramis, questi si ricordavano di averlo veduto
sorridere spesso, ma giammai lo avevano inteso ridere. Le sue parole
erano corte ed espressive, dicendo sempre ciò che voleva dire e niente
più; nessuna galanteria, nessun ricamo arabesco. La sua conversazione
era un fatto senza alcun episodio. Quantunque Athos avesse appena
trent'anni e avesse una gran bellezza di corpo e di spirito, nessuno
sapeva se avesse un'amica. Giammai egli parlava di donne. Soltanto non
impediva che se ne parlasse avanti a lui, quantunque fosse facile il
vedere che questo genere di conversazione, al quale egli non prendeva
parte che per dire parole amare e osservazioni misantropiche molto
disaggradevoli. La sua riserva, la sua selvatichezza, il suo mutismo
ne formavano quasi un vecchio: egli dunque aveva abituato Grimaud,
per non derogare alle sue abitudini, ad obbedirlo sopra un semplice
gesto, o sopra un semplice muover di labbra. Non gli parlava che
nelle circostanze le più interessanti: qualche volta Grimaud, che
temeva il suo padrone come il fuoco, nel mentre che mostrava un grande
attaccamento alla sua persona ed una gran venerazione al suo genio,
credeva di aver capito perfettamente ciò che egli desiderava, si
slanciava per eseguire gli ordini ricevuti e faceva precisamente il
contrario. Allora Athos si stringeva nelle spalle, e senza andare in
collera bastonava Grimaud. In quei giorni parlava alcun poco.

Porthos, come si è potuto vedere, aveva un carattere tutto opposto a
quello di Athos: non solo egli parlava molto, ma ad alta voce; poco
gl'importava del resto: bisognava rendergli questa giustizia, che
fosse o no ascoltato, egli parlava per il piacere di parlare, e per
il piacere di sentirsi; parlava sopra tutte le materie eccetto che di
scienze, protestando su questo argomento il suo odio inveterato che
portava fin dall'infanzia agli scienziati. Egli aveva minore aria di
gran signore di Athos, e il sentimento della sua inferiorità su questo
soggetto lo aveva, nel principio della loro amicizia, reso spesse
volte ingiusto contro questo gentiluomo, che allora si era sforzato
di superare col lusso del suo abbigliamento. Ma con la sua semplice
casacca da moschettiere, e nient'altro che pel modo col quale portava
la testa in addietro ed il piede in avanti, Athos prendeva nel medesimo
istante il posto che gli era dovuto e relegava il fastoso Porthos nel
secondo rango. Porthos se ne consolava riempiendo l'anticamera del
sig. de Tréville e i corpi di guardia del Louvre col rumore delle sue
buone fortune, fortune di cui Athos non parlava mai, e nel momento,
dopo esser passato dalla nobiltà di toga alla nobiltà di spada, dalla
cittadina alla baronesca, non si trattava niente meno per Porthos, che
di una principessa straniera che gli voleva un bene enorme.

Un antico proverbio dice: «tale è il padrone tale è il servitore».
Passiamo adunque dal cameriere d'Athos al cameriere di Porthos, da
Grimaud a Mousqueton.

Mousqueton era un Normanno al quale il suo padrone aveva cambiato
il nome pacifico di Bonifazio in quello infinitamente più sonoro e
più bellicoso di Mousqueton. Egli era entrato al servizio di Porthos
colla condizione di essere vestito ed alloggiato soltanto, ma in un
modo magnifico; egli non reclamava che due ore il giorno per andare
ad un'industria che doveva bastare a provvederlo degli altri suoi
bisogni. Porthos aveva accettato il contratto; e la cosa andava a
meraviglia. Egli faceva tagliare a Mousqueton dei saj dai suoi abiti
vecchi, e dai suoi mantelli di rimonta, e consacrarli, mercè un sartore
molto intelligente che rimetteva a nuovo questi vestiti voltandoli, e
la di cui moglie era in sospetto di far discendere Porthos dalle sue
abitudini aristocratiche. Mousqueton faceva un ottima figura andando
dietro al suo padrone.

In quanto ad Aramis, di cui noi crediamo avere sufficientemente esposto
il carattere, carattere del resto che, come quello dei suoi compagni,
noi potremo seguire nel suo sviluppo, il suo lacchè, che si chiamava
Bazin, mercè la speranza che aveva il suo padrone di entrare un giorno
negli ordini, era sempre vestito di nero, come lo esigeva il suo futuro
carattere. Costui era di Berry, di trentacinque ai quaranta anni;
docile, pacifico, che si occupava a leggere opere pietose, distrazione
che gli accordava il suo padrone, facendo un pranzo strettamente per
due, di pochi piatti ma eccellenti. Del rimanente egli era muto, cieco
sordo e di una fedeltà a tutta pruova. Ora che noi conosciamo, almeno
superficialmente i padroni e i servitori, passiamo agli alloggi che
ciascheduno di essi occupava.

Athos abitava Strada Ferou a due passi dal Luxembourg; il suo
appartamento si componeva di due piccole camere ammobiliate con
molta proprietà in una casa guernita, la di cui albergatrice, ancor
giovane e veramente bella, gli faceva inutilmente gli occhi dolci.
Qualche rimasuglio di un grande splendore passato, spiccava qua e
là sui muri di questo modesto alloggio; era per esempio, una spada
riccamente damascata, che rimontava all'epoca di Francesco I, e la
di cui sola impugnatura incrostata di pietre preziose, poteva valere
dugento doppie, e che ciò non ostante nei momenti della più grande
ristrettezza, Athos non aveva mai acconsentito nè ad impegnare, nè a
vendere. Questa spada aveva attirato da lungo tempo la ambizione di
Porthos. Porthos avrebbe dato dieci anni della sua vita per possedere
quella spada.

Un giorno che egli aveva un appuntamento con una duchessa, tentò
eziandio di chiederla in imprestito ad Athos. Athos senza dir niente,
vuotò le sue saccocce, riunì tutti i suoi gioielli, borse, spinette,
catene d'oro, e offrì il tutto a Porthos: ma in quanto alla spada gli
disse, ella era sigillata al suo posto, e non doveva lasciarlo che
allora quando il suo padrone lascerebbe egli stesso il suo alloggio.
Oltre questa spada, vi era ancora un ritratto rappresentante un signore
del tempo di Enrico III, vestito con la più grande eleganza, e che
portava l'ordine dello Spirito Santo, e questo ritratto aveva con
Athos certe rassomiglianze di linee, certe similitudini di famiglia
che indicavano che questo gran signore, cavaliere degli ordini del
re, era un suo antenato. Finalmente un magnifico bauletto colle stesse
armi in oro che portava la spada ed il ritratto formava il centro del
camminetto che faceva orribilmente scomparire tutto il resto della
mobilia. Athos portava sempre la chiave di questo bauletto con se. Ma
un giorno egli l'aveva aperto davanti a Porthos, il quale aveva potuto
assicurarsi che questo bauletto non conteneva che lettere e carte;
lettere senza dubbio amorose, e carte di famiglia.

Porthos abitava un appartamento molto vasto e di una apparenza
sontuosissima. Strada del Vecchio Colombajo. Ciascheduna volta che egli
passava con qualche amico davanti alle sue finestre, a una delle quali
Mousqueton stava sempre in gran-livrea, Porthos alzava la testa e la
mano, e diceva _ecco la mia dimora_. Ma mai si faceva trovare in casa,
mai invitava nessuno a salire, e nessuno poteva farsi un'idea delle
ricchezze reali che racchiudeva quella sontuosa apparenza.

In quanto ad Aramis, egli abitava un piccolo alloggio, composto di
un gabinetto, di un salotto da mangiare e di una camera da dormire,
la qual camera, situata come il resto dell'appartamento al pian
terreno, guardava sopra un piccolo giardino fresco, verde, ombroso e
impenetrabile agli occhi de' vicini.

In quanto a d'Artagnan, noi sappiamo come era alloggiato, ed abbiamo
già fatta conoscenza col suo lacchè, mastro Planchet.

D'Artagnan che era molto curioso di sua natura, come del resto sono
tutte le persone che hanno il genio dell'intrigo, fece tutti gli sforzi
per sapere chi erano al vero, Athos, Porthos e Aramis, perchè sotto
questi nomi di guerra, ciascuno dei giovani nascondeva il suo nome di
gentiluomo; Athos particolarmente, che riconosceva per un gran signore
alla distanza di una lega. Si indirizzò adunque a Porthos per essere
informato sopra Athos e Aramis, e s'indirizzò ad Aramis, per conoscere
Porthos.

Disgraziatamente Porthos stesso nulla sapeva della vita del suo
silenzioso camerata che ciò che ne aveva traspirato. Si diceva che egli
aveva avute gran disgrazie nei suoi affari amorosi, e che un orribile
tradimento aveva avvelenata per sempre la vita di questo galantuomo. In
che consisteva questo tradimento? tutti lo ignoravano.

In quanto a Porthos, eccettuato il suo vero nome che il sig. de
Tréville soltanto sapeva, come pure quello dei due camerati, la sua
vita era facile a conoscersi. Pieno di vanità e di indiscrezione, si
vedeva attraverso a lui come attraverso ed un cristallo, la sola cosa
che avrebbe potuto far sbagliare l'investigatore sarebbe stata che si
fosse creduto tutto quel bene che egli diceva di se stesso.

In quanto ad Aramis, mentre aveva l'aspetto di non avere alcun
secreto, era un giovane tutto ripieno di misteri, poco rispondendo
alle interrogazioni che a lui si facevano su gli altri, e deludendo
quelle che gli si facevano su lui stesso. Un giorno d'Artagnan dopo
averlo lungamente interrogato su Porthos, ed avere saputo il rumore che
correva sulla buona fortuna del suo moschettiere con una principessa,
volle saper pure che cosa doveva credere sulle avventure amorose del
suo interlocutore.

— E voi mio caro compagno, gli disse egli, voi che parlate delle
baronesse, delle contesse e delle principesse degli altri?

— Perdono, interruppe Aramis, io ho parlato perchè Porthos ne parla
egli stesso, perchè egli ha vociferate avanti a me tutte queste belle
cose. Ma credetemi bene, mio caro d'Artagnan, che se io le avessi
da una altra sorgente o me le avesse confidate egli stesso, egli non
avrebbe potuto avere un amico più secreto di me.

— Io non ne dubito, riprese d'Artagnan, ma infine mi sembra che voi
pure siate molto familiare con gli stemmi, testimonio ne sia un certo
fazzoletto orlato, al quale io debbo l'onore della vostra conoscenza.

Aramis questa volta non s'inquietò, ma prese l'aspetto suo più umile, e
rispose affettuosamente.

— Mio caro, non dimenticate lo stato che un giorno voglio abbracciare,
e che io fuggo tutte le occasioni mondane. Questo fazzoletto che voi
avete veduto non mi era stato confidato, ma era stato dimenticato da
uno dei miei amici. Io ho dovuto raccoglierlo per non compromettere lui
e la dama che egli ama. In quanto a me io non ho, e non voglio avere
amiche, seguendo in ciò l'esempio giudiziosissimo di Athos, che non ne
ha più che me.

— Ma che diavolo! voi non siete ancora frate, siete un moschettiere.

— Moschettiere provvisoriamente, come dice il ministro, moschettiere, e
contro mia voglia, ma uomo devoto nel fondo del mio cuore: credetemi.
Athos e Porthos mi hanno incastrato qua dentro per tenermi occupato;
ebbi alcune difficoltà al momento di compiere i miei desiderii, una
piccola difficoltà con... ma ciò non vi può interessare, ed io vi
faccio perdere un tempo prezioso.

— Niente affatto, ciò anzi m'interessa moltissimo, gridò d'Artagnan, e
pel momento non ho cosa alcuna da fare.

— Sì, ma io ho le mie preci da dire, rispose Aramis, quindi alcuni
versi da comporre, che mi ha domandato la signora d'Aiguillon; in
seguito devo passare nella strada S. Onorato, per comprare del rossetto
per la sig. de Chevreuse: voi vedete, mio caro amico, che se voi non
avete fretta, io ne ho moltissima.

E Aramis, stese affettuosamente la mano al suo giovane compagno, e
prese da lui congedo.

D'Artagnan non potè, per quanta pena si desse, saperne di più su i suoi
amici. Egli prese adunque il partito di credere nel presente tutto ciò
che si diceva del passato, sperando rivelazioni più sicure e più estese
dall'avvenire. Frattanto egli considerò Athos come un Achille, Porthos
come un Aiace, e Aramis come un Giuseppe.

Del resto la vita dei quattro giovani era gioconda. Athos giuocava
e sempre disgraziatamente. Però egli non domandava mai in prestito
un soldo ai suoi amici, quantunque la sua borsa fosse sempre a loro
disposizione; e quanto egli aveva giuocato sulla parola, faceva sempre
risvegliare il suo creditore a sei ore del mattino per pagargli il
suo credito della sera innanzi. Porthos aveva delle sfuriate, quei
giorni, se egli guadagnava. Lo si vedeva insolente e splendido; se
egli perdeva, scompariva completamente per alcuni giorni, dopo i quali
ricompariva col viso smunto e la fisonomia allungata, ma con dei denari
in saccoccia. In quanto ad Aramis, egli non giocava mai. Era il più
cattivo moschettiere ed il più insulso convitato che si potesse vedere.
Egli aveva sempre bisogno di travagliare; qualche volta in mezzo ad
un pranzo, quando ciascuno nel trasporto del vino e nel calore della
conversazione, credeva che vi fosse ancora qualche ora da restare a
tavola, Aramis guardava il suo orologio, si alzava con un grazioso
sorriso, e prendeva congedo dalla società, adducendo per scusa di
dovere andare da un professore di filosofia per discutere sul valore
di alcune sentenze. Altre volte egli ritornava al suo alloggio per
scrivere una tesi, e pregava i suoi amici di non distrarlo. Frattanto
Athos sorrideva con quel grazioso sorriso melanconico, che tanto
siedeva bene sulla sua nobile figura, e Porthos beveva e giurava che
Aramis non si sarebbe mai fatto frate.

Planchet, il cameriere di d'Artagnan, sopportò nobilmente la
buona fortuna. Egli riceveva trenta soldi il giorno, e per un mese
egli ritornava all'alloggio gaio come un piccione e affabile col
suo padrone. Quando il vento dell'avversità cominciò a soffiare
nell'economia domestica della strada dei Fossoyeurs, vale a dire
quando le quaranta doppie del re Luigi XIII furono terminate o poco
meno, cominciarono i lamenti che Athos trovava nauseabondi, Porthos
indecenti, e Aramis ridicoli. Athos consigliò dunque a d'Artagnan di
licenziare il mariuolo. Porthos voleva che prima fosse bastonato,
e Aramis pretendeva che un padrone non dovesse ascoltare che i
complimenti a lui diretti.

— Ciò vi è ben facile a dire, riprese d'Artagnan, a voi, Athos, che gli
proibite di parlare, e che per conseguenza non avete mai degli alterchi
con lui: a voi, Porthos, che menate un treno magnifico e che siete un
idolo per il vostro cameriere, Mousqueton: a voi finalmente, Aramis,
che sempre distratto dai vostri studi filosofici, inspirate un profondo
rispetto al vostro servitore Bazin, uomo dolce e affettuoso; ma io
che sono senza consistenza e senza risorse, io che non sono ancora nè
moschettiere, nè guardia, che dovrò fare per inspirare l'affezione, il
terrore o il rispetto a Planchet?

— La cosa è grave, risposero i tre amici; è un affare dell'interno;
accade dei servitori ciò che accade delle donne, bisogna metterli
fin dal primo momento sul piede in cui si desidera che restino.
Rifletteteci dunque.

D'Artagnan riflettè, e risolse di percuotere Planchet in via di
provvisione, cosa che fu eseguita colla coscienza che d'Artagnan
metteva in tutti gli affari, poi dopo averlo ben bastonato, gli proibì
di lasciare il suo servizio senza il suo permesso!

— Perchè, soggiunse, l'avvenire non può mancarmi, io aspetto
inevitabilmente tempi migliori. La tua fortuna adunque è fatta se tu
resti con me, e io son troppo buon padrone per non lasciarti sfuggire
la fortuna accordandoti il congedo che tu mi domandi.

Questa maniera d'agire incusse molto rispetto ai moschettieri per la
politica di d'Artagnan. Planchet fu egualmente preso dall'ammirazione
e non parlò più di andarsene. La vita dei quattro giovani era divenuta
comune; d'Artagnan che non aveva alcuna abitudine, che giungeva dalla
sua provincia e cadeva in mezzo ad un mondo tutto nuovo per lui,
prese tosto le abitudini dei suoi amici. Si alzavano verso le sei
ore nell'estate, andavano a prendere la parola d'ordine e l'andamento
degli affari dal signore de Tréville. Quantunque d'Artagnan non fosse
moschettiere, ne faceva il servizio con una puntualità ammirabile; egli
era sempre di guardia, perchè teneva sempre compagnia a quello dei suoi
tre amici che la montava. Era conosciuto alla caserma dei moschettieri;
e tutti lo ritenevano per un buon camerata. Il sig. de Tréville, che
lo aveva apprezzato col primo colpo d'occhio e che gli portava una vera
affezione, non cessava di raccomandarlo al re.

Dal canto loro i tre moschettieri amavano moltissimo il giovine
camerata. L'amicizia che univa questi quattro uomini, e il bisogno
di vedersi tre o quattro volte il giorno, sia per affari, sia per un
duello, sia per un divertimento li faceva incessantemente correre l'uno
dietro l'altro come ombre, e s'incontravano sempre gli inseparabili che
si cercavano dal Luxembourg alla piazza S. Sulpicio, o dalla strada
del Vecchio-Colombaio al Luxembourg. Frattanto le promesse del sig.
de Tréville tenevano la loro strada. Un bel giorno, il re comandò al
sig. Capitano des Essarts di prendere d'Artagnan come cadetto nella sua
compagnia delle guardie. D'Artagnan indossò sospirando quell'uniforme,
che egli avrebbe voluto, a prezzo di dieci anni della sua esistenza,
cambiare colla saccoccia di moschettiere. Ma il sig. de Tréville
promise questo favore dopo un noviziato di due anni, noviziato che
del resto, poteva essere accorciato se l'occasione si presentava per
d'Artagnan di rendere qualche importante servigio al re, o di fare
qualche azione rumorosa. D'Artagnan si ritirò su questa promessa, e il
giorno dopo cominciò il suo servizio.

Allora toccò il turno ad Athos, a Porthos ed ad Aramis di montare
la guardia con d'Artagnan ogni qual volta egli era di guardia. La
compagnia del sig. Cav. des Essarts prese così quattro uomini invece di
uno, il giorno che prese d'Artagnan.



CAPITOLO VIII.

UN INTRIGO DI CORTE


Frattanto le quaranta doppie di Luigi XIII, come tutte le cose di
questo mondo, dopo avere avuto un principio, avevano avuto un fine, e
dopo questo fine i quattro compagni erano caduti in angustie. Sulle
prime Athos aveva sostenuto per qualche tempo l'associazione coi
suoi proprii denari, Porthos gli tenne dietro, e mercè una di quelle
disperazioni alle quali si erano abituati, egli aveva per quasi
quindici giorni ancora sovvenuto ai bisogni di tutti, in fine era
arrivata la volta d'Aramis che si era disimpegnato di buona grazia, e
che era pervenuto, diceva egli, vendendo qualche libro di filosofia a
procurarsi alcune doppie.

Allora si ebbe ricorso, come d'ordinario, al sig. de Tréville, che fece
qualche anticipazione sul soldo, ma queste anticipazioni non potevano
condurre molto avanti tre moschettieri, che avevano già dei conti
arretrati, e una guardia che non ne aveva ancora.

Finalmente, quando si vide che si andava a restar senza del tutto,
si riunì con un ultimo sforzo otto o dieci doppie che Porthos giocò.
Disgraziatamente egli era in cattiva vena, egli perdè tutto, e più
venticinque doppie sulla parola.

Allora l'angustia divenne miseria; si videro gli affamati seguiti dai
loro lacchè correre le strade ed i corpi di guardia, annasando presso i
loro amici del di fuori tutti i pranzi, che potevano ritrovare, poichè,
seguendo il consiglio di Aramis, si doveva nella prosperità seminare
dei pranzi a dritta e a sinistra, per andarne raccogliendo qualcuno
nella disgrazia.

Athos fu invitato quattro volte, e ciascheduna volta condusse seco i
suoi amici coi lacchè. Porthos ebbe sei occasioni e ne fece egualmente
godere ai suoi camerati: Aramis ne ebbe otto. Era un uomo, come si è
già potuto scorgere, che faceva poco rumore e molte faccende. In quanto
a d'Artagnan, che non conosceva alcuno nella capitale, non trovò che
una colazione di cioccolatte in casa di un prete del suo paese e un
pranzo da un trombetta delle guardie. Egli condusse la sua armata in
casa del prete, al quale venne divorata la sua provvisione di due mesi;
e presso il trombetta, e che fece delle meraviglie; ma come diceva
Planchet, non si mangia sempre che una volta, anche quando si mangia
molto.

D'Artagnan dunque si ritrovò umiliato di non aver potuto provvedere che
un pasto e mezzo, perchè la colazione del prete non poteva calcolarsi
che un mezzo pasto, da offrirsi ai suoi compagni in cambio dei festini
che si erano procurati Athos, Porthos ed Aramis. Egli si credeva a
carico della società, dimenticando, nella sua buona fede giovanile
che egli aveva nudrito questa società per un mese, e il suo spirito
preoccupato si mise a travagliare attivamente. Egli riflettè che questa
coalizione di quattro uomini, giovani, coraggiosi, intraprendenti e
attivi doveva avere un altro scopo che quello delle passeggiate oziose,
delle lezioni di scherma e dei lazzi più e meno spiritosi.

Infatti, quattro uomini come loro, quattro uomini affezionati gli
uni agli altri dalla borsa fino alla vita, quattro uomini che si
sostenevano sempre, non rinculando mai, eseguendo isolatamente o
collettivamente le risoluzioni prese in comune; quattro bravi che
minacciavano i quattro punti cardinali, o che, se si voltavano verso
un sol punto, dovevano inevitabilmente, sia sotterraneamente, sia in
pieno giorno, sia colla mina, sia colla breccia, sia colla furberia,
sia colla forza aprirsi un cammino verso lo scopo che si erano prefissi
per quanto ben difeso o per quanto lontano egli si fosse. La sola cosa
che meravigliava d'Artagnan era che i suoi compagni non avessero ancora
pensato a questo.

Egli vi pensava seriamente, crivellandosi il cervello per trovare una
direzione a questa forza unica moltiplicata quattro volte, colla quale
egli non dubitava che, come la leva che cercava Archimede, non si fosse
giunto a sollevare il mondo, allorchè fu dolcemente battuto alla sua
porta. D'Artagnan risvegliò Planchet, e gli ordinò di andare ad aprire.

Che da questa frase: d'Artagnan risvegliò Planchet, il lettore non vada
a pensare che fosse notte, o che il giorno non fosse ancora spuntato:
quattro ore dopo il mezzogiorno suonavano in quel momento. Due ore
prima, Planchet era venuto a domandare da pranzo al suo padrone, il
quale gli aveva risposto col proverbio: «chi dorme pranza». E Planchet
pranzava dormendo.

Fu introdotto un uomo di aspetto molto semplice e che aveva l'aria d'un
borghese.

Planchet per frutti, avrebbe voluto sentire la conversazione; ma
il borghese dichiarò a d'Artagnan che ciò che aveva a dirgli era
importante e confidenziale, e che desiderava rimanere a quattr'occhi
con lui.

D'Artagnan congedò Planchet, e fece sedere il suo visitatore.

Vi fu un momento di silenzio; durante il quale i due uomini si
guardarono come per fare una esordiente conoscenza; dopo di che,
d'Artagnan s'inchinò in segno che egli ascoltava.

— Io ho inteso parlare del sig. d'Artagnan, giovane molto bravo, disse
il borghese, e questa riputazione di cui gode a giusto titolo mi ha
deciso di confidargli un secreto.

— Parlate, signore, parlate, disse d'Artagnan che per istinto annasò
qualche cosa di avvantaggioso.

Il borghese fece una novella pausa quindi continuò:

— Io ho mia moglie che tiene la biancheria della regina, signore, e che
non è priva nè di bellezza, nè di saggezza. Mi si fece sposarla, sono
ormai dieci anni, quantunque ella non avesse che un piccolo capitale,
poichè il sig. de Laporte, il porta-mantello della regina, è suo
padrino e la protegge.

— Ebbene, signore? domandò d'Artagnan.

— Ebbene! riprese il borghese, ebbene! signore, mia moglie mi è stata
rapita ieri mattina quanto sortiva dalla camera di lavoro.

— E da chi è stata rapita vostra moglie?

— Io non ne so niente sicuramente, ma ho sospetto su qualcuno.

— E chi è questa persona di cui sospettate?

— Un uomo che la perseguitava da lungo tempo.

— Diavolo!

— Ma volete voi che io ve la dica, signore? continuò il borghese: io
sono convinto che vi è meno amore che politica in tutto ciò.

— Meno amore che politica! riprese d'Artagnan con un'aria molto
riflessiva, e che cosa sospettate voi?

— Io non so se debba dirvi ciò che sospetto...

— Signore, vi farò osservare che io non vi ho domandato assolutamente
niente. Siete voi che siete venuto, siete voi che avete detto che avete
un secreto da confidarmi. Fate dunque quello che più vi accomoda, siete
ancora in tempo di ritirarvi.

— No, signore, no, voi avete la ciera di un onesto giovane, e io avrò
confidenza in voi. Io credo adunque che non sia per cagione dei suoi
amori che mia moglie è stata arrestata, ma a cagione di quelli di una
dama più grande di lei.

— Ah! ah! sarebbe forse a cagione degli amori della signora di
Bois-Tracy? fece d'Artagnan, che volle aver l'aria, rimpetto al suo
borghese, di essere al corrente degli affari della corte.

— Più alta, signore, più alta.

— Della signora d'Aiguillon?

— Più alta ancora.

— Della signora de Chevreuse?

— Più alta, molto più alta!...

— Della?

D'Artagnan si fermò.

— Sì, signore, rispose tanto sottovoce, che appena si potè intendere,
il borghese spaventato.

— E con chi?

— Con chi può essere, se non è col Duca de?...

— Il duca de...?

— Sì, signore, rispose il borghese dando alla sua voce un'intonazione
ancor più sorda.

— Ma voi come sapete tutto ciò?

— Ah! come lo so io?

— Sì, come lo sapete voi? non fate mezze confidenze, o... voi capite.

— Io lo so da mia moglie, signore, da mia moglie stessa.

— Che lo sa... da chi?

— Dal sig. de Laporte. Non vi ho detto che ella era la figlioccia del
sig. de Laporte, l'uomo di confidenza della regina? Ebbene, il sig.
de Laporte l'aveva messa vicino a Sua Maestà, perchè la nostra povera
regina avesse almeno qualcuno con cui confidarsi, abbandonata come
ella è dal re, spiata come ella è dal ministro, tradita come ella è da
tutti.

— Ah! ah! ecco che si spiega, disse d'Artagnan.

— Ora, mia moglie è venuta che sono quattro giorni, signore; una
delle condizioni era che ella dovesse venirmi a vedere due volte la
settimana; perchè ho avuto l'onore di dirvi, mia moglie mi ama molto;
mia moglie è dunque venuta, e mi ha confidato che la regina in questo
momento aveva grandi timori.

— Veramente?

— Sì; il ministro a quanto pare, la incalza e la perseguita più che
mai, egli non può perdonarle la storia della _sarabanda_. Voi sapete la
storia della sarabanda?

— Per bacco se la so! rispose d'Artagnan che non ne sapeva niente
affatto, ma che voleva aver l'aria di essere al corrente.

— Di modo che ora non è più l'odio, è la vendetta.

— Davvero?

— E la regina crede?

— Ebbene! che cosa crede la regina?

— Ella crede che sia stato scritto al sig. duca de Buckingham in nome
suo.

— In nome della regina?

— Sì, per farlo venire a Parigi, e una volta venuto a Parigi, per
attirarlo in qualche laccio.

— Diavolo! ma vostra moglie, mio caro signore, che cosa ha che fare con
tutto questo.

— Si conosce la sua affezione per la regina, e si vuole allontanarla
dalla sua padrona, o intimorirla per avere i secreti di Sua Maestà, o
sedurla per servirsi di lei come di una spia.

— È probabile, disse d'Artagnan; ma l'uomo che l'ha rapita, lo
conoscete voi?

— Vi ho detto che credo di conoscerlo.

— Il suo nome?

— Non lo so; quello che so soltanto si è che egli è una creatura del
ministro, la sua anima dannata.

— Ma voi lo avete veduto?

— Sì, un giorno mia moglie me lo ha mostrato.

— Ha egli nessuna singolarità alla quale si possa riconoscerlo?

— Oh certamente; è un signore di alta statura, di pelo nero, di
colorito pallido, coll'occhio penetrante, i denti bianchi, ed una
cicatrice alla tempia.

— Una cicatrice alla tempia! gridò d'Artagnan, e con essa denti
bianchi, occhio penetrante, però nero, questi è il mio uomo di Méung.

— È il vostro uomo, dite voi?

— Sì, sì, ma ciò non fa niente alla cosa. No, io mi sbaglio, ciò anzi
semplifica di molto la cosa: se il vostro uomo è pure il mio, farò
due vendette con un colpo solo, ecco tutto; ma dove il raggiungerò
quest'uomo?

— Non ne so niente.

— Non avete presa alcuna informazione sulla sua dimora?

— Nessuna; un giorno che io riconduceva mia moglie al Louvre, egli
sortiva quando essa entrava, e me lo fece vedere.

— Diavolo! diavolo! mormorò d'Artagnan tuttociò è bene incerto. Da chi
avete saputo il rapimento di vostra moglie?

— Dal signor de Laporte.

— Vi ha dato qualche dettaglio?

— Egli non ne aveva alcuno.

— E voi non avete saputo niente altro?

— Sì, ho ricevuto...

— Che?

— Ma io non so se commetta una grande imprudenza...

— Voi ritornate ancora come prima; però io vi farò osservare che ora è
troppo tardi per ritornare indietro.

— Così io non mi ritiro, per bacco! gridò il borghese giurando per
riscaldarsi la testa. D'altronde, fede di Bonacieux...

— Voi vi chiamate Bonacieux? interruppe d'Artagnan.

— Sì, questo è il mio nome.

— Voi diceste adunque, fede di Bonacieux! perdonate se io vi ho
interrotto, ma mi sembrava che questo nome non mi fosse nuovo.

— È possibile, signore. Io sono il vostro padrone di casa.

— Ah! ah! fece d'Artagnan sollevandosi per metà, e inchinandosi. Ah!
voi siete il signor proprietario della casa?

— Sì, signore, sì. E siccome da tre mesi che voi siete in casa
mia, e che distratto, senza dubbio dalle vostre grandi occupazioni,
avete dimenticato di pagarmi l'affitto, siccome, dico, io non vi ho
tormentato un istante, ho pensato che voi avreste riguardo alla mia
delicatezza.

— Come è; mio caro signore Bonacieux, riprese d'Artagnan, credete che
io sono pieno di riconoscenza per un simile procedere, e che, come ve
l'ho detto, se posso esservi utile in qualche cosa...

— Vi credo, signore, vi credo e come stava per dirvi, in fede di
Bonacieux, ho tutta la mia confidenza in voi.

Il borghese cavò un foglio di saccoccia, e lo presentò a d'Artagnan.

— Una lettera! fece il giovane.

— Che ho ricevuta questa mattina.

D'Artagnan l'aprì, e siccome il giorno cominciava a declinare, egli
s'avvicinò alla finestra. Il borghese lo seguì.

«Non cercate affatto vostra moglie» lesse d'Artagnan, «ella vi sarà
resa quando non si avrà più bisogno di lei. Se voi fate la più piccola
dimostrazione per ritrovarla, siete perduto.»

— Ecco ciò che vi è positivo continuò d'Artagnan; ma dopo tutto, questa
non è che una minaccia.

— Sì, ma questa minaccia mi spaventa, signore; io non sono affatto uomo
di spada, ed ho paura della Bastiglia.

— Hum! fece d'Artagnan, ma l'affare si è che pure io ho minor desiderio
della Bastiglia di voi. Se non si trattasse che di un colpo di spada,
vada pure.

— Però, signore, io aveva calcolato su voi in questa occasione.

— Sì?

— Vedendovi incessantemente circondato da moschettieri, con un aspetto
molto guerriero, e riconoscendo che questi moschettieri erano quelli
del sig. de Tréville, e per conseguenza nemici del ministro, io aveva
pensato che voi e i vostri amici, nel rendere giustizia alla nostra
povera regina, sarete ben contenti di fare un cattivo giuoco allo
stesso ministro.

— Senza dubbio.

— E poi aveva pensato che, dovendomi voi tre mesi di affitto, di cui io
non vi ho mai parlato...

— Sì, sì, voi mi avete di già addotta questa ragione, e io la trovo
eccellente.

— Che più, fino a tanto che voi mi farete l'onore di restare in casa
mia, non vi parlerò mai dell'affitto venturo...

— Benissimo!

— Aggiungete a ciò, sevi fosse bisogno, contava offrirvi una
cinquantina di doppie, se contro ogni probabilità, voi vi ritrovaste in
questo momento in qualche angustia...

— A meraviglia; ma voi dunque siete ricco, mio caro signor Bonacieux?

— Ho tutti i miei comodi, signore, questa è la parola; ho riunito
qualche cosa, come sarebbero due o tre mila scudi di rendita nel
commercio delle mercerie, e soprattutto mettendo qualche fondo
sull'ultimo viaggio del celebre navigatore Giovanni Mocquet, di modo
che voi capirete, signore... ah! ma... gridò il borghese.

— Che? domandò d'Artagnan.

— Che vedo io là?

— Dove?

— Sulla strada, dirimpetto alle vostre finestre, nel vano di quella
porta: un uomo inviluppato nel suo mantello.

— È lui gridarono ad un tempo d'Artagnan ed il borghese, avendo
riconosciuto il loro uomo.

— Ah! questa volta, gridò d'Artagnan saltando alla sua spada, questa
volta egli non mi fuggirà.

E cavando la sua spada dal fodero si precipitò fuori dell'appartamento.

Sulla scala egli incontrò Athos e Porthos che venivano a visitarlo.
Essi si scostarono; d'Artagnan passò fra di loro come una freccia.

— E che! dove corri tu così? gridarono in una volta i due moschettieri.

— L'uomo di Méung! riprese d'Artagnan, e disparve.

D'Artagnan aveva più di una volta raccontato ai suoi amici la sua
avventura con lo sconosciuto come pure l'apparizione della bella
viaggiatrice, alla quale questo uomo aveva sembrato confidare una così
importante missione. Il parere di Athos era stato che d'Artagnan avesse
perduto la sua lettera nell'osteria. Un gentiluomo, secondo lui, e al
ritratto che d'Artagnan aveva fatto dello sconosciuto questi non poteva
essere che un gentiluomo; un gentiluomo doveva essere incapace di
commettere la bassezza di rubare una lettera.

Porthos non aveva veduto in tutto ciò che un appuntamento amoroso dato
da una dama ad un cavaliere, o da un cavaliere ad una dama, che era
stato disturbato dalla presenza di d'Artagnan e del suo cavallo giallo.

Aramis aveva detto che questa sorta di cose misteriose, valeva meglio
il non approfondirle.

Essi compresero dunque dalle poche parole sfuggite a d'Artagnan, di
quale affare si trattava, e siccome pensarono che dopo aver raggiunto
il suo uomo, o dopo averlo perduto di vista, d'Artagnan avrebbe finito
col ritornare in casa, continuarono la loro strada.

Allorchè entrarono nella camera di d'Artagnan, la camera era vuota;
il proprietario, temendo le conseguenze dell'incontro che senza
dubbio avrebbe avuto luogo tra il giovane e lo sconosciuto, aveva,
in conseguenza dell'esposizione ch'egli stesso aveva fatta del suo
carattere, giudicato che era cosa prudente il ritirarsi.



CAPITOLO IX.

D'ARTAGNAN SPIEGA CARATTERE


Come lo aveva preveduto Athos e Porthos, in capo ad una mezz'ora
d'Artagnan rientrò. Questa volta pure egli non aveva ritrovato il suo
uomo, che come per incanto era scomparso. D'Artagnan aveva corso colla
spada alla mano tutte le strade circonvicine, ma non aveva ritrovato
nessuno che rassomigliasse a quello che egli cercava, quindi n'era
venuto a ciò da cui doveva forse cominciare, e che era di battere alla
porta contro la quale lo sconosciuto stava appoggiato; ma inutilmente
egli per dieci o dodici volte di seguito aveva fatto risonare il
metallo, nessuno gli aveva risposto; ed i vicini, che attirati dal
rumore, erano accorsi sul limitare della loro porta, lo avevano
assicurato che quella casa, di cui del resto tutte le aperture erano
chiuse, era da sei mesi completamente inabitata.

Nel mentre che d'Artagnan correva le strade e batteva alle porte,
Aramis aveva raggiunto i suoi due compagni, di modo che ritornando in
casa, d'Artagnan aveva ritrovata la riunione al suo completo.

— Ebbene? dissero assieme i tre moschettieri, vedendo entrare
d'Artagnan col sudore sulla fronte e la figura sconvolta dalla collera.

— Ebbene! gridò questi gettando la sua spada sul letto, bisogna
che quest'uomo sia il diavolo in persona, egli è scomparso come un
fantasma, come un'ombra, come uno spettro.

— Credete voi alle apparizioni? domandò Athos a Porthos.

— Io? non credo che a ciò che ho veduto, e siccome non ho mai veduto
apparizioni, così non vi credo.

— In ogni caso, uomo o diavolo, corpo od ombra, illusione o realtà,
quest'uomo è nato per la mia dannazione, poichè la sua fuga ci fa
andare a vuoto un affare superbo, signori, un affare nel quale vi erano
cento doppie da guadagnare, e fors'anche più.

— In qual modo? dissero in una volta Porthos e Aramis.

In quanto ad Athos, fedele al suo sistema di mutismo, si contentò
d'interrogare d'Artagnan con lo sguardo.

— Planchet, disse d'Artagnan al suo domestico, che passava in questo
momento la testa per la porta non ben chiusa cercando di sorprendere
qualche brano della conversazione, discendete dal mio proprietario,
sig. Bonacieux, ditegli d'inviarci una mezza dozzina di bottiglie di
vino di Beaugency; è quello che io preferisco.

— E che! voi avete dunque credito aperto col vostro padrone di casa?
domandò Porthos.

— Sì rispose d'Artagnan, da oggi in poi, e state tranquilli, se il suo
vino è cattivo noi gli manderemo a cercarne dell'altro.

— Bisogna usare, e non abusare, disse sentenziosamente Aramis.

— Io ho sempre detto che d'Artagnan era la testa forte di noi quattro,
fece Athos, che dopo avere emessa questa opinione, alla quale
d'Artagnan rispose con un saluto, ricadde subito nel suo consueto
silenzio.

— Ma in fine vediamo, che cosa c'è? domandò Porthos.

— Sì, disse Aramis, confidateci tutto, mio caro amico, a meno che
l'onore di qualche dama non si trovi interessato in questa confidenza,
nel qual caso farete meglio a conservarla per voi.

— Siate tranquilli, rispose d'Artagnan, l'onore di nessuna persona avrà
a lamentarsi in ciò che io vi dirò.

E allora egli raccontò parola per parola ai suoi amici tutto ciò che
era accaduto fra il suo padron di casa e lui, ed in qual modo l'uomo
che aveva rapita la moglie del degno proprietario era lo stesso col
quale aveva avuto contesa nell'osteria di Francesco Meunier.

— Il vostro affare non è cattivo, disse Athos, dopo avere gustato il
vino da conoscitore, e indicato con un segno di testa che lo trovava
buono, e si potrà ricavare da questo bravo uomo una cinquantina o una
sessantina di doppie. Ora, resta a sapersi se cinquanta o sessanta
doppie valgano la pena di arrischiare quattro teste.

— Ma fate attenzione, gridò d'Artagnan, che vi è una donna in
quest'affare, una donna elevata, una donna che si minaccia senza
dubbio, che forse si mette a tortura e tutto ciò perchè ella è fedele
alla sua padrona.

— State in guardia, d'Artagnan, state in guardia, disse Aramis, voi
vi riscaldate un poco troppo, a mio avviso, sulla sorte della signora
Bonacieux. La donna è stata sempre la rovina degli uomini, ed è da lei
che ci vengono tutte le miserie.

Athos, a questa sentenza d'Aramis aggrottò il sopracciglio, e si morse
le labbra.

— Non è punto della signora Bonacieux che m'inquieto, gridò d'Artagnan,
ma della regina, che il re abbandona, che il ministro perseguita, e che
vede cadere, le une dopo le altre, le teste di tutti i suoi amici.

— Perchè ama ella tutto ciò che noi detestiamo di più a questo mondo,
gli Spagnuoli e gl'Inglesi?

— La Spagna è la sua patria, rispose d'Artagnan, ed è cosa
semplicissima che ella ami gli Spagnuoli, che sono figli della stessa
sua terra. In quanto al secondo rimprovero che voi le fate, ho inteso
dire che ella amava, non già gl'inglesi, ma un Inglese.

— Eh in fede mia, disse Athos, bisogna convenire che questo Inglese è
ben degno di essere amato. Io non ho mai veduto un aspetto più grande
del suo.

— Senza contare che nessuno si sa abbigliare come lui, disse Porthos.
Io era al Louvre il giorno in cui ha seminate le sue perle, e per
bacco! io ne ho raccolte due che ho vendute dieci doppie l'una. E tu,
Aramis, lo conosci tu?

— Tanto bene quanto voi, signori, perchè io era uno di quelli che
lo hanno arrestato nel giardino d'Amiens, ove mi aveva introdotto
il sig. de Putange, lo scudiere della regina. Io era al seminario in
quell'epoca, e l'avventura mi parve crudele pel re.

— Cosa che non m'impedirebbe, disse d'Artagnan, se io sapessi dov'è il
duca di Buckingham, di prenderlo per la mano, e di condurlo vicino alla
regina, e non fosse altro che per fare arrabbiare il ministro, poichè
il nostro vero, il nostro solo, eterno nemico, signori, è il ministro,
e se possiamo ritrovare il modo di giuocargli un qualche giuoco
crudele, vi confesso che vi impegnerei volentieri la mia testa.

— E, riprese Athos, il merciaio vi ha detto, d'Artagnan, che la regina
temeva che si fosse fatto venire Buckingham sotto un falso avviso?

— Ella ne ha paura.

— Aspettate dunque, disse Aramis.

— Che cosa? domandò Porthos.

— Continuate pure. Io cerco a richiamarmi alcune circostanze.

— Ed ora io son convinto, disse d'Artagnan, che il ratto di questa
donna della regina si concatena agli avvenimenti di cui parliamo, e
fors'anche alla presenza del signor de Buckingham in Parigi.

— Il Guascone è pieno d'idee, disse Porthos con ammirazione.

— Amo molto sentirlo parlare, disse Athos, il suo dialetto mi diverte.

— Signori, riprese Aramis, ascoltate questo.

— Ascoltiamo Aramis, dissero i tre amici.

— Ieri, io mi trovava presso un dotto filosofo, che ho qualche volta
consultato per i miei studii.

Athos sorrise.

— Egli abita un quartiere deserto, continuò Aramis; i suoi gusti,
la sua professione lo esigono. Ora al momento che io sortiva di casa
sua... qui Aramis si fermò.

— Ebbene! domandarono i suoi uditori al momento che sortivi di casa
sua?...

Aramis parve fare uno sforzo sopra se stesso, come un uomo che, in
pieno corso di una bugia, si vede fermato da un qualche ostacolo
imprevisto, ma gli occhi dei suoi tre compagni erano fissi su lui, le
loro orecchie erano tese, e non vi era più modo d'indietreggiare.

— Questo filosofo ha una nipote, continuò Aramis.

— Ah! egli ha una nipote? interruppe Porthos.

— Dama molto rispettabile, disse Aramis.

I tre amici si posero a ridere.

— Ah! se voi ridete, o se voi dubitate, riprese Aramis, voi non ne
saprete niente.

— Noi siamo credenti come tanti maomettani, e muti come catafalchi,
disse Athos.

— Dunque continuo, riprese Aramis. Questa nipote qualche volta viene a
vedere suo zio; ora, ella ieri vi si trovava nel medesimo tempo che me,
per caso, ed io mi offersi per condurla alla sua carrozza.

— Ah! la nipote del filosofo ha una carrozza? interruppe Porthos, che
aveva per uno dei suoi più gran difetti una grande incontinenza di
lingua; bella conoscenza, amico mio!

— Porthos, riprese Aramis, vi ho già fatto osservare più d'una volta
che voi siete molto indiscreto, e che ciò vi nuoce con le donne.

— Signori, signori! gridò d'Artagnan, che intravedeva la fine
dell'avventura, la cosa è seria, cerchiamo dunque di non scherzare, se
lo possiamo. Continuate, Aramis, continuate.

— Ad un tratto un uomo grande, bruno coi modi di gentiluomo... a voi,
del genere del vostr'uomo, d'Artagnan.

— Forse sarà lo stesso; disse questi.

— È possibile.... Aramis continuò, si avvicinò a me, accompagnato da
cinque o sei uomini che lo seguivano a dieci passi di distanza, e col
tuono il più gentile:

— «Signor duca» mi disse egli «e voi, signora,» continuò indirizzandosi
alla dama che io aveva sotto il braccio.

— La nipote del dottore?

— Silenzio dunque Porthos, disse Athos, voi siete insopportabile!

— Favorite di salire in questa carrozza, e ciò senza tentare la più
piccola resistenza, senza fare il più piccolo rumore.

— Egli vi aveva preso per Buckingham! gridò d'Artagnan.

— Credo, rispose Aramis.

— Ma quella donna? domandò Porthos.

— Egli l'aveva presa per la regina! disse d'Artagnan.

— Precisamente, rispose Aramis.

— Il Guascone è il diavolo! gridò Athos, non gli sfugge niente.

— Il fatto è, disse Porthos, che Aramis è della statura; ed ha qualche
cosa del portamento del bel duca; ma però mi sembra che l'abito da
moschettiere...

— Io aveva un enorme mantello, disse Aramis.

— Nel mese di luglio? diavolo! fece Porthos; forse che il tuo filosofo
teme che tu non sia riconosciuto?

— Comprendo ancora, disse Athos, che la spia si sia lasciata illudere
dal portamento, ma il viso...

— Io aveva un gran cappello, disse Aramis.

— Oh! mio Dio, gridò Porthos, quante precauzioni per studiare filosofia!

— Signori, signori, disse d'Artagnan, non perdiamo il nostro tempo a
celiarla; dividiamoci, e cerchiamo la moglie del merciaio; questa è la
chiave dell'intrigo.

— Una donna di così infima condizione! voi credete, d'Artagnan? disse
Porthos, allungando le labbra con disprezzo.

— È la figlioccia di de Laporte, il cameriere di confidenza della
regina. Non ve l'ho io detto; signori? e d'altronde questo forse
potrebbe essere un calcolo di Sua Maestà di aver cercato i suoi appoggi
così in basso. Le alte teste si vedono di lontano, ed il ministro ha
buona vista.

— Ebbene! disse Porthos, stabilite prima il premio col merciaio, e che
sia un buon premio.

— È inutile, disse d'Artagnan, poichè io credo che s'egli non ci paga,
noi saremo ben pagati da un'altra parte.

In questo momento un rumore precipitato di passi rimbombò nelle scale,
la porta si aprì con fracasso, e il disgraziato merciaio si slanciò
nella camera ove si teneva il consiglio.

— Ah! signori, gridò egli, salvatemi in nome del cielo, salvatemi! vi
sono là quattro uomini che vengono ad arrestarmi: salvatemi!

Porthos e Aramis si alzarono.

— Un momento, gridò d'Artagnan, facendo loro segno di rimettere nel
fodero le spade per metà cavate: un momento, qui non c'è bisogno di
coraggio, ma di prudenza.

— Però, gridò Porthos, noi non lasceremo...

— Voi lascerete fare a d'Artagnan, disse Athos; egli è, io lo ripeto,
la testa forte di tutti noi, ed io, per conto mio, io dichiaro che
l'obbedisco. Fa ciò che vuoi d'Artagnan.

In questo momento apparvero quattro guardie alla porta dell'anticamera,
e vedendo quattro moschettieri in piedi con la spada al fianco,
evitarono ad inoltrarsi maggiormente.

— Entrate, signori, entrate, gridò d'Artagnan, voi siete qui in casa
mia, e noi qui siamo tutti servitori fedeli del re e del ministro.

— Allora, signori, voi non vi opporrete alla esecuzione degli ordini
che noi abbiamo ricevuti? domandò quello che sembrava il capo della
squadra.

— Al contrario, signori, noi anzi vi presteremo mano forte se il
bisogno lo esige.

— E che cosa è dunque questo? brontolò Porthos.

— Tu sei uno stupido, disse Athos, silenzio!

— Ma voi mi avete promesso... disse a bassa voce il povero merciaio.

— Noi non vi possiamo salvare che restando liberi, rispose rapidamente
e a bassa voce, d'Artagnan, e se noi facciamo atto di difendervi, noi
saremo arrestati con voi.

— Mi sembra, però...

— Venite, signori, venite, disse ad alta voce d'Artagnan, io non ho
nessun motivo per difendere il signore. Io l'ho veduto oggi per la
prima volta, e vi dirà ancora egli stesso in quale occasione, per
venire a reclamare il prezzo del mio affitto. È vero, sig. Bonacieux?
rispondete!

— È la verità, gridò il merciaio, ma il sangue non vi dice...

— Silenzio su di me e su i miei amici, silenzio sulla regina
soprattutto, oppure voi perderete tutti senza neppur salvar voi.
Andate, andate, signori, conducete quest'uomo.

E d'Artagnan spinse il merciaio tutto stordito fra le mani delle
guardie, dicendogli:

— Voi siete un briccone, mio caro: voi venite a domandare del danaro
a me! a un moschettiere! in prigione! signori, anche una volta,
conducetelo in prigione e custoditelo sotto chiave il più lungamente
che sia possibile ciò mi darà il tempo per pagarlo.

Gli sbirri si confondevano in ringraziamenti e conducevano la loro
preda.

Al momento che essi discendevano, d'Artagnan battè sulla spalla del
capo.

— E non berrò alla vostra salute e voi alla mia? disse egli riempiendo
due bicchieri di quel vino di Beaugency, che egli aveva dalla
liberalità del sig. Bonacieux.

— Sarà un onore per me, disse il capo degli sbirri, e io accetto con
riconoscenza.

— Dunque alla vostra, signore, come vi chiamate?

— Bois renard.

— Sig. Bois renard!

— Alla vostra, mio gentiluomo... come vi chiamate, se vi piace!

— D'Artagnan.

— Alla vostra salute sig. d'Artagnan!

— E sopra tutto questo, gridò d'Artagnan come trasportato dal suo
entusiasmo, a quella del re e del ministro.

Il capo degli sbirri avrebbe forse dubitato della sincerità di
d'Artagnan se il vino fosse stato cattivo; ma il vino era buono, e ne
fu convinto.

— Ma che diavolo di villania avete voi fatta? disse Porthos allora
quando il bargello in capo ebbe raggiunto i suoi compagni, e che i
quattro amici si ritrovarono soli. Per bacco! quattro moschettieri
lasciarsi arrestare un disgraziato che viene a gettarsi in mezzo a loro
gridando aiuto! un gentiluomo bere con uno sbirro!

— Porthos, disse Aramis, Athos ti ha prevenuto che tu sei uno stupido,
ed io pure sono del suo avviso. D'Artagnan tu sei un grand'uomo, e
quando tu sarai nel posto del sig. de Tréville, io ti domanderò la tua
protezione per farmi avere un'Abbazia.

— Ah! io mi ci perdo, disse Porthos, voi approvate ciò che ha fatto
d'Artagnan?

— Lo credo bene, per bacco! disse Athos; non solo io approvo ciò che
egli ha fatto, ma me ne congratulo.

— E ora, signori, disse d'Artagnan senza darsi la pena di spiegare la
sua condotta a Porthos, tutti per uno, e uno per tutti; questa è la
nostra divisa non è vero?

— Però!... disse Porthos.

— Stendi la mano e giura! gridarono ad un tempo Athos e Aramis.

Vinto dall'esempio e brontolando a bassa voce, Porthos stese la mano,
e i quattro amici ripeterono con una sola voce la formula dettata da
d'Artagnan:

«Tutti per uno, uno per tutti».

— Sta bene; che ciascuno ora si ritiri in casa sua, disse d'Artagnan,
come se non avesse fatto in vita sua altra cosa che comandare; e
attenti, poichè da questo momento eccoci alle prese col ministro.



CAPITOLO X.

UNA TRAPPOLA DA SORCI DEL SECOLO XVII


L'invenzione della trappola non data dai nostri giorni; da che le
società, nel costituirsi, ebbero inventata una polizia qualunque,
questa polizia a sua volta inventò le trappole.

Siccome forse i nostri lettori non si sono ancora famigliarizzati col
gergo della strada di Gerusalemme, e che questa è la prima volta, dopo
quindici anni, che noi scriviamo, che noi impieghiamo questa parola
applicata a questa cosa, spieghiamo loro cosa è una trappola da sorci.

Quando, in una casa qualunque, si è arrestato un individuo sospetto di
un delitto qualsiasi, si tiene secreto l'arresto; si pongono quattro o
cinque uomini in imboscata nella prima camera; si apre la porta a tutti
quelli che battono, la si richiude dietro di loro, e si arrestano; in
questo modo, in capo a due o tre giorni, si ha nelle mani quasi tutte
le persone famigliari dello stabile.

Ecco che cosa è una trappola da sorci.

Fu dunque fatta una trappola nell'appartamento di mastro Bonacieux, e
chiunque vi comparve fu preso e interrogato dagli agenti dei ministro.
Va senza dire che, siccome una entrata particolare metteva al primo
piano, che abitava d'Artagnan, quelli che venivano da lui erano esenti
da ogni visita.

D'altronde i tre moschettieri soltanto vi venivano; essi si erano
messi sulle ricerche ciascuno dalla sua parte, e non avevano nè
ritrovato nè scoperto niente; Athos era stato eziandio a muovere delle
interrogazioni al sig. de Tréville, cosa che visto il mutismo abituale
del degno moschettiere, aveva molto meravigliato il suo capitano. Ma
il sig. de Tréville non sapeva niente, se non che l'ultima volta che
aveva veduto il ministro, il re e la regina, il ministro aveva l'aria
molto concentrata, che il re era molto inquieto, e che il rosso degli
occhi della regina indicava che ella aveva vegliato e pianto. Ma questa
ultima circostanza lo aveva ben poco colpito; la regina, dopo il suo
matrimonio, vegliava e piangeva molto.

Il sig. de Tréville raccomandò in ogni caso ad Athos il servizio del
re, e soprattutto quello della regina, pregando di fare la medesima
raccomandazione ai suoi camerati. In quanto a d'Artagnan egli non
si moveva da casa sua. Egli aveva convertita la sua camera in un
osservatorio. Dalle finestre egli vedeva giungere quelli che venivano
a farsi prendere; poi, siccome aveva levato un quadrello dal pavimento
e forato un buco nel palco, dimodochè una semplice intonacatura lo
separava dalla camera di sotto ove si facevano gli interrogatorii,
ed egli intendeva tutto ciò che si faceva dagli inquisitori e dagli
accusati.

Gli interrogatorii erano preceduti da una perquisizione minutissima
operata sulla persona arrestata; le domande erano sempre concepite
così:

«La signora Bonacieux vi ha ella consegnato qualche cosa per suo marito
o per qualche altra persona?

«Il signor Bonacieux vi ha egli consegnato qualche cosa per sua moglie
o per qualche altra persona?

«L'uno e l'altro vi hanno essi fatta alcuna confidenza a viva voce?»

— Se essi sapessero qualche cosa, essi non interrogherebbero così,
disse a se stesso d'Artagnan. Ora che cosa cercano di sapere? se il
duca di Buckingham si ritrova a Parigi, se egli ha avuto o se egli deve
avere qualche abboccamento con la regina.

D'Artagnan si fermò a questa idea, che, dopo tutto ciò che aveva
inteso, non mancava di probabilità.

Frattanto la trappola era in permanenza, e la vigilanza di d'Artagnan
egualmente.

La sera dell'indomani dall'arresto del povero Bonacieux, quando Athos
aveva lasciato d'Artagnan per portarsi presso il sig. de Tréville,
stando per sonare le nove ore, e quando Planchet, che non aveva fatto
ancora il letto, cominciava le sue faccende, s'intese battere alla
porta della strada; subito dopo questa porta si aprì e si richiuse,
qualcuno era venuto a cadere in trappola.

D'Artagnan si slanciò verso il luogo in cui avea tolto la pietra, si
stese col ventre a terra e ascoltò.

Ben presto si sentirono delle strida, quindi dei gemiti che si cercava
di soffocare. Non si trattava di interrogatorio.

— Diavolo! disse a se stesso d'Artagnan, mi sembra che questa sia una
donna; la frugano, ella resiste, le usano violenze. Ah! miserabili!

E d'Artagnan, ad onta della sua prudenza, si tratteneva a gran stento
per non mischiarsi alla scena che accadeva sotto di lui.

— Ma io vi dico che sono la padrona della casa, signori, io vi dico
che sono la moglie di Bonacieux, io vi dico che sono al servizio della
regina e che appartengo a lei! gridava la disgraziata donna.

— La signora Bonacieux! mormorò d'Artagnan, sarei io abbastanza felice
per aver ritrovato tutto ciò che altri cercano?

— È precisamente voi che noi aspettavamo, ripresero gl'interrogatori.

La voce divenne più soffocata. Un movimento tumultuoso si ripercosse
sul palco di legno. La vittima resisteva tanto, quanto può resistere
una donna a quattro uomini.

— Perdono, signore, perdono...! mormorò la voce che non fece più
sentire che suoni inarticolati.

— Essi la legano, essi forse la trascineranno! gridò d'Artagnan,
raddrizzandosi come una molla. La mia spada! buono, essa è al mio
fianco. Planchet!

— Signore.

— Corri a cercare Athos, Porthos e Aramis. L'uno dei tre sarà
certamente in casa, forse saranno rientrati tutti e tre. Che essi
prendano le armi, che vengano, che accorrano. Ah! ora mi ricordo! Athos
è dal signor de Tréville.

— Ma dove andate voi signore? dove andate?

— Io discendo dalla finestra, gridò d'Artagnan, per fare più presto!
tu, rimetti la pietra, accomoda il pavimento, sorti dalla porta, e
corri dove io ti ho detto.

— Oh! signore, signore, voi vi ucciderete, gridò Planchet.

— Taci imbecille! disse d'Artagnan.

E, aggrappandosi con la mano allo stipite della finestra, si lasciò
cadere dal primo piano, che fortunatamente non era molto alto, senza
farsi nemmeno una sgraffiatura. Andò subito dopo a battere alla porta
mormorando:

— Io pure vado a farmi prendere in trappola, ma disgraziati quei gatti
che prenderanno simili sorci.

Appena il martello ebbe ripercosso sotto la mano del giovane, che il
tumulto cessò, che alcuni passi si avvicinarono, che la porta si aprì,
e che d'Artagnan colla spada sguainata si slanciò nell'appartamento di
mastro Bonacieux, la di cui porta, senza dubbio mossa dalle suste, si
richiuse da se stessa dietro a lui.

Allora quelli che abitavano ancora la disgraziata casa di Bonacieux,
ed i vicini più prossimi, intesero delle grandi grida, un pestìo, un
percuotersi di spade ed uno strepito prolungato di mobili. Quindi, un
momento dopo, quelli che, sorpresi da questo rumore, si erano messi
dalle finestre per conoscere la causa, poterono vedere la porta aprirsi
e quattro uomini vestiti di nero, non sortire, ma slanciarsi come corvi
infuriati lasciando per terra e agli angoli dei pezzi di penne delle
loro ali, vale a dire dei brani dei loro vestiti, e degli avanzi dei
loro mantelli.

D'Artagnan era vincitore, bisogna però dirlo, senza molta pena,
perchè un solo di quei birri era armato e si difendeva ancora per
sola formalità. Egli è però vero che gli altri tre avevano cercato
di accoppare il giovane colle sedie, gli scanni e la terraglia; ma
due o tre sgraffiature fatte colla spadaccia del Guascone li avevano
spaventati. Dieci minuti erano stati sufficienti a questa sconfitta, e
d'Artagnan era rimasto padrone del campo di battaglia.

I vicini che avevano aperte le loro finestre col sangue freddo
particolare agli abitanti di Parigi in quei tempi di sommosse e di
risse perpetue, le richiusero dappoichè ebbero veduto fuggire i quattro
uomini neri; il loro istinto loro indicava che pel momento tutto era
finito.

D'altronde si faceva tardi, e, allora come adesso, si andava a letto di
buon'ora nel quartiere del Luxembourg.

D'Artagnan, rimasto solo con la sig. Bonacieux, si voltò verso di
lei. La povera donna era rovesciata sopra un sofà e mezzo svenuta.
D'Artagnan l'esaminò con un rapido colpo d'occhio.

Era una graziosa donna di venticinque ai ventisei anni, bruna, cogli
occhi blu, col naso un tantino rialzato, i denti ammirabili, un
colorito marmorizzato di color rosa e opale. Là però si fermavano
i segni che potevano farla confondere con una gran dama: le mani
erano bianche, ma senza finezza di forme; i piedi non annunziavano
la donna di qualità. Fortunatamente d'Artagnan non era ancor giunto a
preoccuparsi di questi dettagli.

Nel mentre che d'Artagnan esaminava la sig. Bonacieux, e, come abbiam
detto non era ancora giunto ai piedi, egli vide in terra un fazzoletto
di fina battista, che egli raccolse, secondo la sua abitudine; e ad
un angolo del quale riconobbe la stessa cifra che aveva veduta nel
fazzoletto che per poco non fu causa che si tagliasse la gola con
Aramis.

Da quel tempo d'Artagnan non si fidava dei fazzoletti con lo stemma,
egli rimise dunque quello che aveva raccolto nella saccoccia della sig.
Bonacieux.

In questo momento la sig. Bonacieux riprendeva i suoi sensi. Ella aprì
gli occhi, guardò con terrore intorno a lei, vide che l'appartamento
era vuoto, e che ella era sola col suo liberatore. Ella gli stese
subito le mani sorridendo. La sig. Bonacieux aveva il più grazioso
sorriso del mondo.

— Ah! signore, disse ella, siete voi che mi avete salvata? permettetemi
che io vi ringrazii.

— Signora, disse d'Artagnan, io non ho fatto che quello che avrebbe
fatto qualunque altro gentiluomo nel mio posto: voi dunque non mi
dovete alcun ringraziamento.

— Sia pure, signore, sia pure, io spero potervi provare che voi non
avete reso servigio ad un'ingrata. Ma che cosa dunque volevano da me
quegli uomini, che in sulle prime io presi per ladri? e perchè il sig.
Bonacieux non è egli qui?

— Signora questi uomini erano molto più pericolosi di quello che
potevano essere dei ladri, poichè erano agenti del ministro; e in
quanto a vostro marito, signora Bonacieux, egli non si ritrova qui,
perchè ieri sono venuti a prenderlo per condurlo alla Bastiglia.

— Mio marito alla Bastiglia! gridò la signora Bonacieux; oh! mio Dio, e
che cosa ha dunque fatto? povero e caro uomo! egli pure è innocente!

E qualche cosa come un sorriso comparve sulla figura ancora spaventata
della giovane donna.

— Che cosa ha fatto signora? disse d'Artagnan, io credo che il solo suo
delitto sia quello di avere la fortuna ad un tempo e la disgrazia di
essere vostro marito.

— Ma, signore, voi dunque sapete...?

— Io so che voi siete stata rapita, signora.

— E da chi? lo sapete voi? oh! se voi lo sapete, ditemelo.

— Da un uomo dai quaranta ai cinquanta anni, coi capelli neri, colorito
fosco e una cicatrice sulla tempia sinistra.

— È lui, è lui: ma il suo nome?

— Ah! il suo nome? è appunto quello che io non so.

— E mio marito sapeva egli che io era stata rapita?

— Egli ne era stato avvisato per mezzo di una lettera che gli aveva
scritto il vostro stesso rapitore.

— Ed egli sospettava, domandò la signora Bonacieux con imbarazzo, la
causa di questo rapimento?

— Egli l'attribuiva, io credo, ad una causa di politica.

— Io ne ho dubitato sulle prime, ed ora la penso come lui. Così adunque
questo caro Bonacieux non ha sospettato di me un solo istante?

— Ah! ben lontano da questo, signora, egli era troppo orgoglioso della
vostra saggezza e soprattutto del vostro amore.

Un secondo sorriso quasi impercettibile sfiorò le rosee labbra della
bella giovane sposa.

— Ma, continuò d'Artagnan, e come avete potuto fuggire?

— Io ho profittato di un momento in cui mi hanno lasciata sola,
e siccome sapeva fino da questa mattina che cosa pensare del mio
rapimento, coll'aiuto dei miei drappi, io sono discesa dalla finestra;
allora credendo che mio marito fosse qui, io sono accorsa.

— Per mettervi sotto la sua protezione?

— Oh! no, povero e caro uomo, io sapeva bene che egli era incapace di
difendermi; ma siccome egli poteva servirmi in qualche altra cosa, io
voleva prevenirlo.

— Di che?

— Oh! questo non è mio secreto e perciò non posso dirvelo.

— D'altronde, disse d'Artagnan, (perdono, signora, che quantunque
semplice guardia, io vi richiami alla prudenza) d'altronde credo che
qui non siamo in luogo opportuno per fare delle confidenze. Gli uomini
che io ho messi in fuga ritorneranno ben presto con un rinforzo, e,
se essi ci ritrovano qui, noi siamo perduti. È vero che io ho fatto
avvisare tre dei miei amici, ma chi sa se sono stati ritrovati in casa.

— Sì, sì, voi avete ragione, gridò la signora Bonacieux spaventata;
fuggiamo, salviamoci!

A queste parole ella passò il suo braccio sotto quello di d'Artagnan e
lo trascinò vivamente.

— Ma dove fuggire? disse d'Artagnan, ove salvarci?

— Prima allontaniamoci da questa casa, quindi poi vedremo.

E i due giovani, senza darsi la pena di chiudere la porta discesero
rapidamente la strada Fossoyeurs, innoltraronsi nella strada
Fosser-Monsieur-le-Prince e non si fermarono che alla piazza S.
Sulpicio.

— E ora, che cosa faremo noi? domandò d'Artagnan, ed ove volete voi che
io vi conduca?

— Sono molto imbarazzata a rispondervi, io ve lo confesso, disse la
signora Bonacieux; la mia intenzione era di far prevenire il sig.
Laporte da mio marito, affinchè il signor Laporte potesse dirci
precisamente ciò che è accaduto al Louvre in questi tre giorni, e se vi
è nessun pericolo per me di presentarmivi?

— Ma io, disse d'Artagnan, io posso andare a prevenire il sig. Laporte.

— Senza dubbio, soltanto vi è una disgrazia: ed è, che il sig Bonacieux
è conosciuto al Louvre, e si lascia passare, nel mentre che voi non
siete conosciuto, e vi si chiuderebbe la porta.

— Ahi bah! disse d'Artagnan; voi avrete bene una qualche porta secreta
del Louvre, un portinaro che vi sia affezionato, e che mercè una parola
d'ordine...

La sig. Bonacieux guardò fissamente il giovane.

— E se io vi dicessi questa parola d'ordine, diss'ella, la
dimentichereste voi subito dopo che ve ne siete servito?

— Parola d'onore, fede di gentiluomo! disse d'Artagnan con un accento,
sulla veracità del quale non v'era da sbagliarsi.

— Tenete, io vi credo; voi avete l'aspetto di un bravo giovane.
D'altronde la vostra fortuna può forse dipendere dal vostro
affezionamento.

— Io farò senza promessa e di coscienza tutto ciò che potrò fare per
servire il re e per rendermi gradito alla regina, disse d'Artagnan;
disponete dunque di me come di un amico.

— Ma dove mi metterete in questo tempo?

— Non avete voi una persona presso cui il sig. Laporte possa venirvi a
prendere?

— No, io non voglio fidarmi di nessuno.

— Aspettate; disse d'Artagnan, noi siamo alla porta di Athos. Sì, è
quella.

— Chi è questo Athos?

— È uno dei miei amici.

— Ma, se egli è in casa sua, e che mi vede?...

— Egli non v'è, ed io porterò meco la chiave dopo avervi chiusa nel suo
appartamento.

— Ma se egli ritorna?

— Egli non ritornerà! d'altronde gli verrà detto che io ho condotto una
donna, e che questa donna è nelle sue stanze.

— Ma ciò mi comprometterà moltissimo, sapete voi?

— Che importa! voi non siete conosciuta; d'altronde noi siamo in una
situazione da dover passare sopra queste convenienze.

— Andiamo adunque da questo vostro amico. Ove sta egli?

— Strada Ferou, a due passi di qui.

— Andiamo.

E tutti e due ripresero la loro corsa. Come lo aveva preveduto
d'Artagnan, Athos non era in casa; egli prese la chiave che si aveva
l'abitudine di consegnarli come ad un amico di famiglia, salì la scala
introdusse la signora Bonacieux nel piccolo appartamento di cui abbiamo
già fatta la descrizione.

— Voi siete, in casa vostra, diss'egli, aspettate, chiudete la porta
per di dentro e non aprite ad alcuno, ammenochè non sentiate batter tre
colpi così.

Egli battè tre volte, due colpi vicini l'uno all'altro ed abbastanza
forti, e un colpo distante e più leggero.

— Sta bene, disse la sig. Bonacieux. Ora sta a me il darvi le mie
istruzioni.

— Ascolto.

— Presentatevi alla porta secreta del Louvre dalla parte dalla strada
l'Echelle, e domandate di Germano.

— Sta bene; e poi?

— Egli vi domanderà ciò che volete; voi gli risponderete con queste
due parole, _Tours_ e _Brusselle_. Egli, si metterà subito ai vostri
ordini.

— E cosa dovrò io ordinargli?

— Di andare a cercare il signor Laporte, il cameriere della regina.

— E quando sarà stato a cercarlo, e che il sig. Laporte sarà venuto?

— Voi me lo invierete.

— Sta bene; ma dove e come vi rivedrò io?

— Avete molta premura a rivedermi?

— Certamente.

— Ebbene riposate su me di questa cura e siate tranquillo.

— Io conto sulla vostra parola.

— Contatevi.

D'Artagnan salutò la sig. Bonacieux, lanciandole lo sguardo più
amoroso che gli fu possibile di concentrare sulla di lei piccola e
graziosa persona, e nel mentre che egli discendeva la scala, intese
la porta chiudersi dietro a lui a doppio giro. In due salti fu al
Louvre, sonavano le dieci ore quando egli giunse alla porta secreta
dell'Echelle. Tutti gli avvenimenti che noi abbiamo raccontati erano
accaduti in una mezz'ora. Tutto passò come lo aveva annunziato la sig.
Bonacieux. Alla parola d'ordine convenuta, Germano s'inchinò; dieci
minuti dopo Laporte era nel corridoio; in due parole d'Artagnan lo mise
al fatto e gl'indicò ove era la sig. Bonacieux. Laporte si assicurò
per due volte dell'esattezza dell'indirizzo e partì correndo. Però, non
appena ebbe fatti dieci passi che ritornò addietro.

— Giovane, diss'egli a d'Artagnan; un consiglio.

— Quale?

— Voi potreste essere molestato per ciò che è accaduto.

— Voi lo credete?

— Sì, avete voi qualche amico che abbia il suo orologio a pendolo che
vada tardi?

— Ebbene!

— Andatelo a ritrovare affinchè egli possa testimoniare che voi eravate
da lui a nove ore e mezza. Con termine di tribunale questa si chiama
un'_alibi_.

D'Artagnan trovò il consiglio prudente; egli si mise le sue gambe
in collo, e giunse presso il sig. de Tréville; ma invece di passare
nel salotto con tutta la società, egli chiese di entrare nel suo
gabinetto. Siccome d'Artagnan era uno fra quelli che più frequentavano
il palazzo, non gli si fece alcuna difficoltà di arridere alla sua
domanda, e si andò e prevenire il sig. de Tréville che il suo giovane
compatriota, avendo qualche cosa d'importante da dirgli, chiedeva
un'udienza particolare. Cinque minuti dopo, il sig. de Tréville domandò
a d'Artagnan cosa poteva fare per servirlo, e qual cosa gli procurava
una sua visita in un'ora così tarda.

— Perdono, signore, disse d'Artagnan che aveva approfittato del momento
in cui era rimasto solo per mandarne indietro l'orologio di tre quarti
d'ora, ma io ho pensato che, non essendo che nove ore e venticinque
minuti, fosse ancor tempo di potermi presentare da voi.

— Nove ore e venticinque minuti? grido il signor de Tréville guardando
il pendolo; ma questo è impossibile.

— Guardate, piuttosto, signore, disse d'Artagnan, ecco là chi fa fede.

— È giusto, disse il sig. de Tréville, io avrei creduto che fosse più
tardi. Ma vediamo cosa volete dirmi?

Allora d'Artagnan fece al signor de Tréville una lunga storia sulla
regina. Gli espose i timori che egli avea concepiti in riguardo a Sua
Maestà, gli raccontò ciò che egli aveva inteso dire dei progetti del
ministro sul conto di Buckingham, e tutto ciò con una tranquillità ed
una calma di cui il sig. de Tréville ne fu tanto meglio ingannato, in
quanto che egli stesso, come abbiamo detto, aveva rimarcato esservi
qualche disappunto nuovo fra il ministro, il re e la regina. Quando
sonarono le dieci d'Artagnan lasciò il sig. de Tréville, che lo
ringraziò delle sue informazioni, e gli raccomandò di aver sempre
a cuore il servizio del re e della regina, e rientrò nel salone. Ma
quando d'Artagnan si trovò in fondo alle scale si ricordò che aveva
dimenticata la sua mazza; in conseguenza egli rimontò precipitosamente,
rientrò nel gabinetto, con un giro di dito rimise il pendolo alla sua
vera ora, affinchè nell'indomani non avessero ad accorgersi che era
stato spostato, e sicuro oramai di avere un testimonio per provare il
suo _alibi_, ridiscese la scala e si ritrovò ben presto sulla strada.



CAPITOLO XI.

L'INTRIGO SI ANNODA


Fatta la sua visita al sig. de Tréville, d'Artagnan prese tutto
pensieroso la strada più lunga per ritornarsene a casa.

A che cosa pensava d'Artagnan, che in tal guisa si allontanava dalla
sua strada guardando le stelle del cielo, ora sospirando ora ridendo?

Egli pensava alla sig. Bonacieux. Per un alunno moschettiere, la
giovane sposa era quasi un amoroso ideale. Bella, misteriosa, iniziata
in quasi tutti i secreti della corte che riverberavano tanta graziosa
gravità sugli affabili di lei lineamenti, era sospettata di non essere
insensibile, cosa che forma un'attrattiva irresistibile per gli amanti
novizi; di più, d'Artagnan l'aveva liberata dalle mani dei suoi demoni
che volevano frugarla e maltrattarla, e questo importante servizio
aveva stabilito fra lei e lui uno di quei sentimenti di riconoscenza
che tanto più facilmente prendono un carattere più tenero.

D'Artagnan si vedeva già, tanto i sogni camminano presto sulle ali
della immaginazione! si vedeva già accostato da un messaggere della
giovane sposa che gli rimetteva qualche biglietto di appuntamento, una
catena d'oro, un diamante ec. Noi abbiamo detto che i giovani cavalieri
ricevevano senza vergognarsi dei danari dai re, aggiungiamo che in
quei tempi di corrotta morale, essi non avevano maggior vergogna sul
conto delle loro amiche, e queste lasciavano lor sempre dei preziosi
e durevoli ricordi, come se esse avessero tentato di conquistare la
fragilità dei loro sentimenti colla solidità dei loro regali.

Allora si faceva la sua carriera per mezzo delle donne senza arrossire.
Quelle che non eran che belle, andavano superbe della loro bellezza, e
di là veniva senza dubbio il proverbio: la più bella giovane riporta la
palma e domina le volontà; quelle che erano ricche profondevano inoltre
una parte del loro danaro, e si potrebbe citare un buon numero di eroi
di quell'epoca galante che non avrebbero guadagnato nè i loro speroni
in sulle prime, nè le loro battaglie in seguito, senza la borsa più o
meno piena che la loro amica attaccava all'arcione della loro sella.

D'Artagnan non possedeva niente, l'esitazione del provinciale, vernice
leggera, fiore effimero, amo da pesca, si era evaporata al vento dei
consigli poco ortodossi che i tre moschettieri davano al loro amico.
D'Artagnan seguendo lo strano costume del tempo si riguardava a Parigi
come in campagna, e ciò nè più ne meno che nelle Fiandre: lo Spagnuolo
laggiù, la donna qui, dappertutto vi è un nemico da combattere, delle
contribuzioni da cogliere.

Ma diciamolo, in questo momento d'Artagnan era commosso da un
sentimento più nobile e disinteressato. Il merciaio gli aveva detto
che egli era ricco; il giovane aveva potuto indovinare che con uno
sciocco, come il sig. Bonacieux, doveva essere la donna che doveva
tenere la chiave della borsa. Ma tutto ciò non aveva influito niente
sul sentimento prodotto dalla vista della signora Bonacieux, e
l'interesse era rimasto quasi del tutto estraneo a questo principio
d'amore che ne era stato la conseguenza. Noi diciamo quasi del tutto,
perchè l'idea che una giovane bella, graziosa, spiritosa, e nello
stesso tempo ricca, non toglie niente a questo principio di amore, anzi
al contrario lo corrobora. Vi è nel bene stare una folla di premure
e di capricci aristocratici che vanno d'accordo con la bellezza. Una
calza fina e bianca, una veste di seta, uno sciallo di merletti, una
bella scarpa al piede, un nastro nuovo sulla testa, non fanno bella una
donna brutta, ma fanno più bella una donna bella; senza contare le mani
che guadagnano in tutto questo, le mani, particolarmente nelle donne,
hanno bisogno di restare oziose per restare belle. Quindi d'Artagnan,
come lo sa benissimo il lettore al quale non abbiamo tenuto nascosto lo
stato della sua fortuna, d'Artagnan non era milionario; egli sperava
bene di divenirlo un giorno, ma il tempo che egli si prefiggeva da
se stesso per questo felice cambiamento era molto lontano. Frattanto,
quale disperazione di vedere una donna che si ama desiderare quei mille
niente di cui le femmine compongono la loro felicità e di non poterle
dare questi mille niente! almeno quando la donna è ricca e che l'amante
non lo è, ciò che egli non può offrirle, ella se lo offre da se stessa,
e quantunque ordinariamente sia col denaro del marito che ella si
procura questi godimenti, è difficile che sia a lui che ne venga la
riconoscenza.

Quindi d'Artagnan, disposto ad essere l'amante più tenero, era
frattanto l'amante più affezionato, in mezzo ai suoi progetti amorosi
sulla moglie del merciaio, egli non dimenticava i suoi. La bella
signora Bonacieux era donna da condurre al passeggio sulla spianata di
S. Dionigi, o alla fiera di S. Germano in compagnia d'Athos, Porthos e
di Aramis ai quali d'Artagnan sarebbe stato superbo di poter mostrare
una tal conquista. Quando uno poi ha camminato lungamente, viene la
fame; d'Artagnan da qualche tempo aveva fatto osservazione a questo. Si
sarebbero fatti di quei piccoli pranzi graziosi in cui da una parte si
tocca la mano all'amico e dall'altra il piede all'amica. Finalmente,
nei momenti pressanti, nelle posizioni estreme, d'Artagnan sarebbe il
salvatore dei suoi amici.

E il signor Bonacieux, che d'Artagnan aveva spinto nelle mani degli
sbirri rinnegandolo ad alta voce e promettendogli a bassa voce di
salvarlo? noi dobbiamo confessare ai nostri lettori che d'Artagnan non
vi pensava in alcun modo; e che se egli vi pensava era per dire che
egli stava bene dov'era, qualunque fosse il luogo. L'amore è la più
egoista di tutte le passioni.

Frattanto i nostri lettori si assicurino che, se d'Artagnan dimentica
il suo ospite, o fa sembianza di dimenticarlo sotto il pretesto che non
sa ove lo hanno condotto, noi non lo dimentichiamo e noi sappiamo dove
egli è. Ma pel momento facciamo come l'amoroso Guascone. In quanto al
degno merciaio noi vi ritorneremo più tardi.

D'Artagnan riflettendo ai suoi futuri amori ora parlando alla luna,
ora sorridendo alle stelle, risaliva la strada di Cerca mezzogiorno
o Caccia-mezzogiorno, come si chiamava allora. Quando egli si ritrovò
nel quartiere di Aramis, gli venne idea di andare a fare una visita al
suo amico per dargli qualche spiegazione sui motivi che gli aveva fatto
inviare Planchet con l'invito di portarsi immediatamente alla trappola.
Ora, se Aramis si era ritrovato in casa quando Planchet vi era venuto,
egli era senza dubbio accorso alla strada Fossoyeurs, non trovandovi
forse alcuno se non che i suoi compagni, non avevano dovuto sapere nè
l'uno nè gli altri ciò che questo voleva dire. Questo incomodo adunque
meritava una spiegazione; ecco ciò che diceva a se stesso d'Artagnan ad
alta voce.

Poi sotto voce diceva che per lui sarebbe stata una occasione di
parlare della piccola e bella Bonacieux, di cui il suo spirito, se
non il suo cuore ne era già tutto pieno. Non è sul conto di un primo
amore che abbisogni di domandare secretezza. Questo primo amore è
accompagnato da una gioia sì grande che bisogna che questa gioia
straripi, senza di che ella vi soffocherebbe.

Da più di due ore Parigi era tetro e cominciava ad essere deserto;
cominciavano a suonare le undici ore a tutti gli orologi del sobborgo
S. Germano, faceva un tempo dolce. D'Artagnan seguiva una stradella
situata nel luogo ove in oggi passa la strada d'Assas; respirando le
emanazioni imbalsamate che venivano col vento dalla strada di Vaugirard
e che erano inviate dai giardini rinfrescati dalla rugiada della sera
e dalla brezza della notte. Da lungi si risonavano, assorditi però
da delle buone invetriate, i canti di alcune bettole, sparse nella
pianura. Giunto all'estremità della stradella, d'Artagnan voltò a
sinistra. La casa che abitava Aramis era posta fra la strada Cassette e
la strada Servandoni.

D'Artagnan aveva appena oltrepassata la strada Cassette e riconosceva
già la porta della casa del suo amico, nascosta dalle foglie e dalle
piante di sicomori e di clematidi che formavano un vasto tendinaggio
dinanzi ad essa, allorquando si accorse che qualche cosa a guisa di
un'ombra sortiva dalla strada Servandoni. Questo qualche cosa era
avviluppata in un mantello, e d'Artagnan credè sulle prime che fosse un
uomo; ma alla piccolezza della statura, all'incertezza del portamento,
all'imbarazzo dei passi, egli riconobbe ben presto una donna, quasi
che non fosse stata ben sicura della casa che cercava, alzava gli occhi
per riconoscerla, si fermava, tornava addietro, poi ritornava ancora,
D'Artagnan fu intrigato.

— Se io andassi a offrire i miei servigi? pensò egli, dal suo andamento
si vede che è giovane; forse sarà ancor bella. Oh! sì! Ma una donna
che corre le strade a quest'ora, certamente non sorte che per andare
a raggiungere il suo amante. Peste! se io andassi a disturbare un
appuntamento, questo sarebbe un cattivo modo per entrare in relazione.

Frattanto la donna si avanzava sempre, contando le case e le finestre.
Che del resto non era cosa nè lunga nè difficile. Non v'erano che tre
fabbricati in quella parte di strada e due sole finestre guardavano
sulla strada. Una era gialla, di un padiglione parallelo a quello che
occupava Aramis, l'altra era quella dello stesso Aramis.

— Per bacco! disse a se stesso d'Artagnan, al quale ritornava al
pensiero la nipote del filosofo; per bacco! sarebbe bella che questa
colomba smarrita cercasse la casa del nostro amico. Ma sull'anima mia
quella vi rassomiglia molto. Ah! mio caro Aramis, per questa volta io
voglio averne il cuore pulito.

E d'Artagnan si faceva più piccolo che poteva, si celava nella parte
più oscura della strada, vicino ad un sedile di pietra situato nel
fondo di una nicchia. La giovane donna continuò ad avanzarsi, giacchè
oltre la leggerezza del suo camminare che l'aveva tradita, ella aveva
fatto sentire una tosse leggiera che denunziava una delle voci le più
fresche. D'Artagnan pensò che questa tosse fosse un segnale.

Frattanto, sia che fosse stato risposto alla tosse con un segnale
equivalente che aveva fissato le irresoluzioni della notturna
cercatrice, sia che senza soccorso estraneo ella avesse riconosciuto
che era giunta alla meta della sua corsa, ella si avvicinò
risolutamente alla invetriata d'Aramis, e battè tre volte a intervalli
uguali col dito ricurvato.

— È precisamente all'alloggio d'Aramis, mormorò d'Artagnan. Ah! sig.
ipocrita vi rivoglio a disputare di filosofia!

Non appena erano stati dati tre colpi, che gli sportelli interni si
aprirono, e che un lume comparve attraverso l'invetriata.

— Ah! ah! fece l'osservatore, non per le porte, ma per le finestre, ah!
ah! la visita era aspettata. Andiamo, l'invetriata si apre, e la dama
entrerà con una scalata. Benissimo.

Ma a gran meraviglia di d'Artagnan l'invetriata rimase schiusa. Di più,
il lume che aveva rischiarato per un istante, disparve, e tutto rientrò
nell'oscurità.

D'Artagnan pensò che ciò non poteva durare così lungamente, e continuò
a guardare con tutti i suoi occhi e ad ascoltare con tutte le sue
orecchie.

Egli aveva ragione; in capo a qualche secondo si fecero sentire due
colpi nell'interno. La giovine dalla strada rispose con un sol colpo, e
l'invetriata si apri d'alquanto.

Si giudichi se d'Artagnan guardava ed ascoltava con avidità.

Disgraziatamente il lume era stato trasportato in un altro
appartamento. Ma gli occhi del giovane si erano abituati alla notte.
D'altronde gli occhi dei Guasconi hanno, a quanto si assicura, come
quelli dei gatti, la proprietà di vedere durante la notte.

D'Artagnan vide adunque che la giovane cavava di saccoccia un oggetto
bianco che ella spiegò vivamente e che prese la forma di un fazzoletto
spiegato, e di questo oggetto ella ne fece rimarcare un angolo al suo
interlocutore.

Ciò richiamò al pensiero di d'Artagnan quel fazzoletto che aveva
ritrovato ai piedi della signora Bonacieux, il quale gli aveva
ricordato quello ai piedi di Aramis.

Che diavolo poteva dunque significare quel fazzoletto?

Posto dove era, d'Artagnan non poteva vedere il viso d'Aramis, noi
diciamo Aramis perchè il giovine non metteva alcun dubbio che non
fosse il suo amico che parlava dall'interno colla dama nell'esterno;
la curiosità prevalse dunque sulla prudenza, e approfittando della
preoccupazione nella quale sembrava che la vista del fazzoletto
immergesse i due personaggi che abbiamo messo in scena, egli sortì dal
suo nascondiglio, e lesto come il lampo, ma nascondendo il rumore dei
suoi passi, egli andò a collocarsi a un angolo del muro, di dove il suo
occhio poteva perfettamente penetrare nell'interno dell'appartamento
d'Aramis.

Giunto là, d'Artagnan per poco non mandò un grido di sorpresa; non
era Aramis che parlava con la notturna visitatrice, ma un'altra donna.
D'Artagnan ci vedeva abbastanza per riconoscere soltanto le forme dei
vestiti, ma non a sufficienza per distinguere i lineamenti.

Nel medesimo istante, la donna dell'appartamento cavò un secondo
fazzoletto di saccoccia, e lo cambiò con quello che le era stato
mostrato. Furono quindi pronunciate alcune parole fra le due donne,
finalmente l'invetriata si chiuse, la donna che si trovava nell'esterno
della finestra si voltò e venne a quattro passi da d'Artagnan
abbassando il cappuccio del suo mantello, ma la precauzione era stata
presa troppo tardi: d'Artagnan aveva già riconosciuta la signora
Bonacieux.

La sig. Bonacieux, il sospetto che avesse potuto essere essa gli
era già passato per lo spirito quando si era cavato il fazzoletto
di saccoccia; ma quale probabilità che la sig. Bonacieux, che aveva
mandato a chiamare il signor Laporte per farsi ricondurre da lui al
Louvre, corresse per le strade di Parigi sola a undici ore e mezzo di
sera col pericolo di essere rapita una seconda volta?

Bisogna adunque che ciò fosse per un affare di molta importanza. E
quale affare importante può mai avere una donna di venticinque anni?
l'amore.

Ma, era per conto suo o per conto di un'altra persona che ella si
esponeva in simili pericoli? Ecco ciò che il giovane si domandava a se
stesso, chè il demonio della gelosia di già gli mordeva il cuore nè più
nè meno, che ad un amante in titolo.

Del resto vi era un mezzo ben semplice per assicurarsi ove andava
la signora Bonacieux; questo era di seguirla. Questo mezzo era sì
semplice, che d'Artagnan lo impiegò naturalmente per istinto.

Ma alla vista del giovane che si staccava dal muro, come una statua dal
suo nicchio, e al rumore dei passi che ella sentiva dietro di se, la
signora Bonacieux gettò un piccolo grido e fuggì.

D'Artagnan le corse dietro. Non era per lui una cosa difficile il
raggiungere una donna imbarazzata nel suo mantello. Egli la raggiunse
adunque a un terzo della strada in cui si era impegnata. La disgraziata
era spossata, non dalla fatica, ma dal terrore, e quando d'Artagnan le
posò la mano sulla spalla, ella cadde sopra un ginocchio, gridando con
voce soffocata:

— Uccidetemi se volete, ma voi non saprete niente.

D'Artagnan la rialzò passandole un braccio intorno alla vita, ma
siccome egli sentiva dal di lei peso che ella era sul punto di
svenirsi, si affrettò a rassicurarla con proteste di attaccamento.
Queste proteste non erano niente per la sig. Bonacieux, perchè simili
proteste potevano ancora esser fatte colle più cattive intenzioni del
mondo, ma la voce era il tutto. La giovane sposa credè riconoscere il
suono di questa voce; ella riaprì gli occhi gettò uno sguardo sull'uomo
che le aveva fatta una sì gran paura, e riconoscendo d'Artagnan, ella
mandò un grido di gioia.

— Oh! siete voi, siete voi, diss'ella; grazie, mio Dio!

— Sì, sono io, disse d'Artagnan, io, che Dio ha inviato per vegliare su
voi.

— Era con questa intenzione che mi seguivate? domandò con un sorriso
pieno di civetteria la giovane il di cui carattere alquanto faceto
riprendeva il disopra, e presso la quale erano scomparsi tutti i timori
dal momento che avea riconosciuto un amico in quello che ella avea
creduto un nemico.

— No, disse d'Artagnan; no, io lo confesso, non fu che il caso che mi
pose sulla vostra strada; io ho veduto una donna battere alla finestra
di uno dei miei amici....

— Di uno dei vostri amici? interruppe la signora Bonacieux.

— Senza dubbio, Aramis è uno dei miei migliori amici.

— Aramis? e chi è costui?

— Andiamo via! ora mi direte che voi non conoscete Aramis?

— Questa è la prima volta che sento pronunciare il suo nome.

— È dunque la prima volta che voi venite in questa casa?

— Senza dubbio.

— E voi non sapevate che ella fosse abitata da un giovanotto?

— No.

— Da un moschettiere?

— Nemmeno.

— Non siete dunque venuta per cercar lui?

— No, menomamente. D'altronde voi lo avete ben veduto: la persona con
la quale io ho parlato era una donna.

— È vero; ma questa donna è un amica di Aramis?

— Io non ne so niente.

— Dal momento che alloggia in casa sua!

— Ciò non mi riguarda.

— Ma chi è ella?

— Oh! questo non è mio segreto.

— Cara signora Bonacieux, voi siete graziosa, ma nello stesso tempo voi
siete la donna più misteriosa...

— Forse ci perdo con questo?

— No, voi anzi siete adorabile.

— Allora datemi il vostro braccio.

— Ben volentieri: e ora?

— Ora conducetemi.

— E dove?

— Dove vado.

— Ma dove andate voi?

— Voi lo vedrete, poichè mi lascerete alla porta..

— Sarà necessario che vi aspetti?

— No, sarà inutile.

— Voi ritornate dunque sola?

— Forse sì forse no.

— Ma la persona che vi accompagnerà al ritorno sarà ella un uomo, o una
donna?

— Io non ne so ancora niente.

— Lo saprò ben io!

— In che modo?

— Io vi aspetterò per vedervi sortire.

— In questo caso addio!

— Come sarebbe a dire?

— Io non ho più bisogno di voi.

— Ma voi avevate reclamato...

— L'aiuto di un gentiluomo, e non la sorveglianza di una spia.

— La parola è un poco dura?

— Come si chiamano quelle persone che tengon dietro alla gente loro
malgrado?

— Indiscreti.

— La parola è troppo dolce.

— Andiamo, signora, io vedo bene che bisogna fare a modo vostro.

— Perchè vi siete privato del merito di farlo subito?

— E che! non vi è nessun merito nel pentirsi?

— Ma vi pentite realmente?

— Non ne so niente io stesso. Ma ciò che io so, si è che vi prometto di
fare tutto ciò che vorrete, se voi lasciate che vi accompagni fin dove
andate.

— E voi dopo mi lascerete?

— Sì.

— Senza spiare la mia sortita.

— No.

— Parola d'onore!

— Fede da gentiluomo!

— Prendete il mio braccio allora e andiamo.

D'Artagnan offrì il suo braccio alla signora Bonacieux, che vi
si sospese per metà ridente, e per metà tremante, e tutti e due
raggiunsero l'estremità della strada Arpa. Giunti là, la giovane parve
esitare, come aveva già fatto nella strada Vaugirard. Però a certi
segni ella sembrò ravvisare una porta, e avvicinandosi a questa porta:

— Ora, signore, diss'ella, è qui, che ho le mie faccende; mille grazie
della vostra onorevole compagnia, che mi ha salvato da tutti i pericoli
ai quali sarei stata esposta, se fossi stata sola; ora è il momento di
mantenere la vostra parola. Io sono arrivata alla mia destinazione.

— E voi non avrete più niente a temere al ritorno?

— Io non avrò a temere che i ladri.

— Questi sono pure qualche cosa.

— Che mi potrebbero prendere? non ho meco un soldo.

— Voi dimenticate questo bel fazzoletto ricamato con lo stemma...

— Quale?

— Quello che ho ritrovato ai vostri piedi, e che ho rimesso nella
vostra tasca.

— Tacete! tacete disgraziato! gridò la giovane; volete voi perdermi?

— Voi vedete bene che vi è dunque ancora qualche pericolo per voi,
poichè una sola parola vi fa tremare, e che voi confessate che sareste
perduta se si sentisse questa parola. Ah! sentite, signora, continuò
d'Artagnan afferrandole la mano e cuoprendola con un ardente bacio,
sentite, siate più generosa, confidatevi in me; non avete dunque
letto che nei miei occhi non vi è che affezione, e nel mio cuore che
simpatia?

— Sia pure, rispose la signora Bonacieux, così, domandatemi i miei
secreti, che io ve li dirò; ma quelli degli altri è un'altra cosa.

— Sta bene, disse d'Artagnan gli scoprirò; poichè questi secreti
possono avere un'influenza sulla vostra vita, bisogna che questi
secreti diventino i miei.

— Guardatevene bene! gridò la giovane con una serietà, che fece
rabbrividire d'Artagnan suo malgrado. Oh! non vi mischiate in niente
di ciò che mi riguarda, non cercate di aiutarmi in ciò che io compio,
e questo ve lo domando in nome dell'interesse che v'inspiro in nome del
servizio, che mi avete reso, e che io non dimenticherò in tutta la mia
vita. Credete bene piuttosto a ciò che io vi dico. Non vi occupate più
di me, che io non esista più per voi, e questo sia, come se voi non mi
aveste mai veduta.

— Aramis dovrà egli fare altrettanto che me, signora? disse d'Artagnan.

— Ecco già due o tre volte, che voi avete pronunciato questo nome,
signore; eppure vi ho detto che io non lo conosco.

— Voi non conoscete l'uomo alla finestra del quale siete andata a
battere? su via, signora, non mi crediate poi troppo credulo!

— Confessate che è per farmi parlare, che voi inventate questa storia,
e che voi create questo personaggio?

— Io non ho inventato niente, signora, io non ho detto che la pura
verità.

— E voi dite che uno dei vostri amici abita in quella casa?

— Io lo dico, ed io lo ripeto per la terza volta: quella casa è quella
che abita un mio amico, e questo mio amico si chiama Aramis.

— Tutto ciò si schiarirà più tardi, mormorò la giovane donna; ora
signore, tacete.

— Se voi poteste vedere tutto il mio cuore allo scoperto, disse
d'Artagnan, voi vi leggereste tanta curiosità, che avreste pietà di me,
e tanto amore che voi soddisfareste sull'istante alla mia curiosità.
Non vi ha niente da temere da coloro che vi amano.

— Voi parlate ben presto d'amore, signore, disse la giovane sposa
scuotendo la testa.

— Egli è che l'amore mi è venuto presto e per la prima volta, e sì che
io non ho ancora vent'anni.

La giovane sposa lo guardò di sott'occhio.

— Ascoltate, io sono già sulla traccia, riprese d'Artagnan. Sono tre
mesi da che poco mancò che non avessi un duello con Aramis per un
fazzoletto simile a quello che voi avete mostrato a quella signora che
era nella di lui casa, per un fazzoletto marcato nello stesso modo, io
ne sono sicuro.

— Signore, disse la giovane, voi mi affaticate molto, io ve lo giuro,
con queste interrogazioni.

— Ma voi, così prudente, signora, pensateci: se voi foste arrestata con
questo fazzoletto e che questo fazzoletto vi fosse preso, non sareste
voi compromessa?

— E perchè? le iniziali non sono le mie? C. B. Costanza Bonacieux?

— Ovvero Camilla Tracy.

— Silenzio, signore, anche una volta, silenzio! Ah poichè il pericolo
che io corro per me stessa non vi trattiene, pensate a quello che voi
potreste incorrere.

— Io?

— Sì voi. Vi è pericolo di prigione, vi è pericolo di vita a conoscermi.

— Allora io non vi lascio più.

— Signore, disse la giovane sposa supplicante e giungendo le mani,
signore, in nome del cielo, in nome dell'onore di un militare, in nome
della cortesia di un gentiluomo, allontanatevi; sentite, ecco che suona
mezzanotte, questa è l'ora in cui sono aspettata.

— Signora, disse il giovane inchinandosi, io non so negar niente quando
mi viene chiesto in tal modo; siate contenta, io mi allontano.

— Ma voi non mi seguirete, voi non mi spierete?

— Io rientro in casa mia sull'istante.

— Ah! io lo sapeva bene che voi eravate un bravo giovane, gridò la
signora Bonacieux, stendendo a lui una mano e posando l'altra sul
martello di una piccola porta nascosta nel muro.

D'Artagnan afferrò la mano che gli veniva stesa e la baciò ardentemente.

— Ah! io amerei meglio di non avervi mai veduta! gridò d'Artagnan
con quell'ingenua brutalità che spesso le donne preferiscono alle
affettazioni di galanteria perchè scuoprono il fondo del pensiero, e
perchè esse provano che il sentimento supera la ragione.

— Ebbene, riprese la signora Bonacieux con una voce quasi accarezzante
e stringendo la mano di d'Artagnan che non aveva abbandonata la sua,
ebbene io non dirò altrettanto che voi: ciò che oggi è perduto, non è
perduto per l'avvenire. Chi sa se quando sarò sciolta un giorno, io non
potrò soddisfare la vostra curiosità?

— E fate voi la stessa promessa al mio amore? gridò d'Artagnan al colmo
della gioia

— Oh! per questo lato io non voglio impegnarmi, ciò dipenderà dai
sentimenti che voi saprete inspirarmi.

— Così ora, signora...?

— Ora, signore, non sono ancora se non che riconoscente.

— Ah! voi siete troppo graziosa, disse d'Artagnan con tristezza, e voi
vi abusate del mio amore.

— No, io uso della vostra generosità e nulla più. Ma, credetemi bene,
con certa gente tutto è trovato.

— Ah! voi mi rendete il più felice dei mortali, non dimenticate questa
promessa!

— Siate tranquillo, e a tempo e a luogo io mi risovverrò di tutto.
Ebbene! partite dunque, partite in nome del Cielo! Mi si aspettava a
mezzanotte precisa, ed io sono già in ritardo.

— Di cinque minuti.

— Sì, ma in alcune circostanze cinque minuti sono cinque secoli.

— Quando si ama...

— Ebbene! chi vi dice che io non ho a che fare con un innamorato?

— È un uomo che vi aspetta! gridò d'Artagnan, un uomo!

— Andiamo, ecco la discussione che incomincia, fece la signora
Bonacieux con un mezzo sorriso che non era esente da una certa tinta
d'impazienza.

— No, no, io me ne vado, io parto; io credo in voi, io voglio avere
tutto il merito del mio attaccamento, dovesse anche essere questo
attaccamento una stupidità. Addio! signora, addio!

E come se egli non si fosse sentito la forza di staccarsi dalla mano
che sempre riteneva, se non che per mezzo di una scossa, egli si
allontanò correndo, nel mentre che la signora Bonacieux batteva al
martello tre colpi lenti e regolari; quindi giunto all'angolo della
strada si rivoltò, e la porta si era di già aperta e richiusa. La
giovane merciaia era scomparsa.

D'Artagnan continuò il suo cammino; egli aveva data la sua parola di
non spiare la signora Bonacieux, e la sua vita foss'anche dipesa dal
luogo ove ella si era portata o dalla persona che doveva accompagnarla,
d'Artagnan sarebbe egualmente rientrato in casa sua; e poichè egli
aveva detto di ritornarvi, cinque minuti dopo egli era nella strada
Fossoyeurs.

— Povero Athos, diceva egli, non saprà quello che vuol dir ciò. Egli
si sarà addormentato aspettandomi, o sarà ritornato in casa sua, e
nel rientrare avrà saputo che vi era stata una donna. Una donna nella
camera di Athos! veramente; continuò d'Artagnan, ve n'è ancora una
in casa d'Aramis; tutto ciò è molto strano, e io sarei ben curioso di
sapere come andrà a finire.

— Male, signore, male, rispose una voce che il giovane riconobbe per
quella di Planchet, poichè parlando da se solo ad alta voce, e nel modo
delle persone molto preoccupate, era entrato nel corridoio, nel fondo
del quale era la scala che conduceva nella sua camera.

— Come, male! che vuoi tu dire, imbecille? domandò d'Artagnan, e che
cosa è dunque accaduto?

— Ogni sorta di disgrazie.

— Quali?

— Prima di tutto il signor Athos è stato arrestato.

— Arrestato! Athos arrestato! perchè?

— Fu ritrovato qui da voi; e fu preso per voi.

— E da chi è stato arrestato?

— Dalle guardie che andarono a chiamare gli uomini neri che avete messi
in fuga.

— E perchè non ha egli detto il suo nome? perchè non ha egli detto di
essere estraneo a tutto questo affare? eh?

— Egli se ne è ben guardato, signore; anzi egli si è avvicinato a me e
mi ha detto:

« — Il tuo padrone ha bisogno della sua libertà in questo momento e non
io, poichè egli sa tutto, ed io non so niente. Lo si crederà arrestato,
e ciò gli darà del tempo; fra tre giorni io dirò chi sono, e bisognerà
bene che mi facciano sortire.»

— Bravo Athos! cuore nobile, mormorò d'Artagnan, io lo riconosco bene
da ciò! e che cosa hanno fatto gli sbirri?

— Quattro lo hanno condotto via, non so bene se alla Bastiglia, o
al Forte il Vescovo; due sono rimasti con gli uomini neri che hanno
frugato da per tutto e che hanno preso tutte le carte. Finalmente li
due ultimi, durante questa spedizione, montavano la guardia alla porta,
quindi, quando tutto è stato finito, essi sono partiti, lasciando la
casa vuota, e tutto aperto.

— E Porthos? e Aramis?

— Io non li ho trovati, essi non son venuti.

— Ma essi possono venire da un momento all'altro, perchè tu gli hai
lasciato detto che io li aspettava?

— Sì, signore.

— Ebbene! non muoverti di qui; se essi vengono previenli di quanto mi
è accaduto, e che mi aspettino all'osteria della Pigna; qui vi sarebbe
del pericolo a rimanere, la casa può essere spiata. Io corro dal signor
de Tréville per metterlo a parte di tutto, quindi li raggiungerò.

— Sta bene, signore, disse Planchet.

— Ma resterai tu? non avrai paura? disse d'Artagnan ritornando indietro
per raccomandare il coraggio al suo lacchè.

— Siate tranquillo, signore, disse Planchet, voi non mi conoscete
ancora; quando mi ci metto, sono bravo; andate, il tutto sta che io mi
ci metta: d'altronde io son Piccardo.

— Allora tutto è combinato, disse d'Artagnan; tu ti farai piuttosto
uccidere che lasciare il tuo posto.

— Sì, signore, non v'è niente che io non sia disposto a fare per
provarvi il mio attaccamento.

— Buono, disse fra se stesso d'Artagnan; sembra che il metodo che io ho
adoprato con questo giovane sia veramente il migliore: io ne userò ogni
qualvolta se ne presenti l'occasione.

E con tutta la sveltezza delle sue gambe, di già alcun poco affaticate
per le corse della giornata, d'Artagnan si diresse verso la strada del
Colombaio.

Il sig. de Tréville non era nel suo palazzo; la sua compagnia era di
guardia al Louvre; egli era al Louvre con la sua compagnia.

— Gli abbisognava di giungere fino al Sig. de Tréville; era necessario
che fosse prevenuto di tutto ciò che accadeva. D'Artagnan risolvette di
tentare l'entrata al Louvre. Il suo uniforme di guardia nella compagnia
del sig. des Essarts gli doveva essere il suo passaporto. Discese
dunque la strada dei Piccoli-Agostiniani e rimontò la riviera per
passare il Ponte-nuovo. Per un momento aveva avuta l'idea di passare
con la barca; ma giungendo alla riva del fiume, aveva macchinalmente
introdotta la sua mano in saccoccia, e si era accorto di non aver di
che pagare il passatore.

Mentre giungeva all'altezza della strada Guénégaud, vide sboccare dalla
strada Delfino un gruppo composto di due persone il di cui andamento
lo colpì. Le due persone che componevano il gruppo erano un uomo ed una
donna.

La donna aveva la statura della sig. Bonacieux e l'uomo rassomigliava
moltissimo al sig. Aramis.

Inoltre la donna aveva quel mantello nero che d'Artagnan vedeva ancora
disegnarsi davanti alla finestra della strada Vaugirard, e sopra la
porta della strada d'Arpa.

Di più, l'uomo portava l'uniforme dei moschettieri.

Il cappuccio della donna era calato avanti agli occhi, l'uomo teneva il
suo fazzoletto avanti il viso; entrambi, questa doppia precauzione lo
indicava, entrambi avevano dunque interesse a non essere conosciuti.

Essi presero il ponte; questa era la strada di d'Artagnan, e poichè
d'Artagnan si portava al Louvre, li seguì.

D'Artagnan non aveva fatto venti passi che fu convinto che questa donna
era la sig. Bonacieux e che quest'uomo era Aramis.

Egli sentì nel medesimo istante tutti i sospetti della gelosia agitarsi
nel suo onore.

Egli era doppiamente tradito, e dal suo amico, e da quella che egli
di già amava come sua amica. La sig. Bonacieux gli aveva giurato
formalmente che non conosceva Aramis, e un quarto d'ora dopo che gli
avea fatto questo giuramento ella la ritrovava sotto il braccio di
Aramis!

D'Artagnan non riflettè solamente che egli conosceva la bella da tre
ore appena, che egli non gli doveva che un poco di riconoscenza, per
averla liberata dagli uomini neri che volevano rapirla, e che ella
non aveva promesso niente; Egli si considerò come amante oltraggiato,
tradito, deriso; il sangue e la collera gli salirono al viso; egli
risolse di schiarire tutto.

La coppia che camminava innanzi erasi accorta di esser seguita, ed essi
avevano raddoppiato il passo.

D'Artagnan prese la corsa al momento che si ritrovarono avanti la
Samaritana illuminata da un fanale che proiettava la sua luce sopra
tutta questa parte di ponte.

D'Artagnan si fermò davanti a loro, essi si fermarono davanti a lui.

— Che volete voi, signore? domandò il moschettiere addietrando di un
passo e con uno accento straniero che provava a d'Artagnan che egli
erasi ingannato in una parte delle sue congetture.

— Non è Aramis! gridò egli.

— No, signore, non è Aramis, e alla vostra esclamazione io vedo che voi
mi avete preso per un altro, e vi perdono.

— Voi mi perdonate! gridò d'Artagnan.

— Sì, rispose lo sconosciuto. Lasciatemi dunque passare, poichè voi non
l'avete meco.

— Voi avete ragione, signore, disse d'Artagnan, io non l'ho con voi ma
con la signora.

— Colla signora! voi non la conoscete, disse lo straniero.

— Voi vi sbagliate, signore, io la conosco.

— Ah! fece la signora Bonacieux con un tuono di rimprovero; ah! signore
io aveva la vostra parola da militare e la vostra fede da gentiluomo:
sperava di poterci contar sopra.

— Ed io signora.... disse d'Artagnan imbarazzato, voi mi avevate
promesso...

— Prendete il mio braccio signora, disse lo straniero, e continuiamo la
nostra strada.

Frattanto d'Artagnan stordito, atterrato, annientato per tutto ciò
che gli accadeva, restava ritto colle braccia incrociate davanti al
moschettiere ed alla signora Bonacieux.

Il moschettiere fece due passi in avanti e allontanò con la mano
d'Artagnan.

D'Artagnan fece un salto in addietro e cavò fuori la sua spada.

Nello stesso tempo, e colla rapidità del lampo, lo sconosciuto cavò
fuori la sua.

— In nome del cielo! milord, gridò la sig. Bonacieux gettandosi in
mezzo ai combattenti e prendendo le spade a piene mani.

— Milord! gridò d'Artagnan illuminato da una subitanea idea; milord!
perdono, signore, ma sapeva io forse che voi eravate...? milord,
signora, perdono, cento volte perdono; ma io l'amava, milord, io era
geloso; voi sapete che cosa è amare, milord; perdonatemi, e ditemi come
posso farmi ammazzare per la vostra grazia.

— Voi siete un bravo giovane, disse Buckingham stendendo la mano a
d'Artagnan che questi strinse rispettosamente; voi mi offrile i vostri
servigi, io gli accetto; seguiteci a venti passi di distanza fino al
Louvre e se qualcuno ci spia, uccidetelo!

D'Artagnan mise la sua spada sotto il braccio, lasciò prendere alla
sig. Bonacieux e al duca il vantaggio di venti passi, e li seguì,
pronto ad eseguire alla lettera le istruzioni del nobile ed elegante
ministro di Carlo I.

Ma fortunatamente il giovane di scorta non ebbe alcuna occasione di
dare al duca questa pruova della sua devozione, e la giovine sposa e
il moschettiere entrarono al Louvre, per la porta secreta, senza essere
inquietati da alcuno.

In quanto a d'Artagnan egli si portò subito all'osteria della Pigna,
ove trovò subito Porthos e Aramis che lo aspettavano.

Ma, senza dar loro spiegazione sull'incomodo che loro aveva cagionato,
disse che aveva terminato il suo affare pel quale egli aveva un istante
creduto di aver bisogno del loro intervento.

E ora, trasportati come noi siamo dal nostro racconto, lasciamo i
nostri tre amici ritornare ognuno alle proprie abitazioni, e seguiamo
nei laberinti del Louvre il duca di Buckingham e la sua guida.



CAPITOLO XII.

GIORGIO WILLIERS DUCA DI BUCKINGHAM


La signora Bonacieux e il duca entrarono al Louvre senza difficoltà;
la sig. Bonacieux era conosciuta per essere al servizio della regina:
il duca portava l'uniforme dei moschettieri del sig. de Tréville, che,
come abbiamo detto, erano di guardia in quella sera. D'altronde Germano
era negli interessi della regina, e se accadeva qualche cosa, la sig.
Bonacieux sarebbe stata accusata di avere introdotto il suo amante
al Louvre, ecco tutto; ella prendeva sopra di se la colpa, la sua
riputazione sarebbe stata perduta è vero; ma di una piccola merciaia?

Una volta entrati nell'interno della corte il duca e la giovane
seguirono il piede del muro per lo spazio di circa venticinque passi;
percorso questo spazio la sig. Bonacieux spinse una piccola porta di
servizio, che il giorno stava aperta, ma che ordinariamente si chiudeva
nella notte; la porta cedè; entrambi si introdussero e si trovarono
nella oscurità, ma la sig. Bonacieux conosceva tutti i giri e rigiri
di questa parte del Louvre, destinata alla bassa corte. Ella chiuse
le porta dietro di se, prese il duca per la mano, fece qualche passo
a tastone afferrò una bronca della scala, toccò con un piede il primo
scalino, e cominciò a salire; il duca contò due piani. Allora ella
prese a destra, seguì un lungo corridoio, tornò a discendere un piano,
fece qualche passo ancora, introdusse una chiave nella serratura, aprì
una porta e spinse il duca in un appartamento illuminato soltanto da
una lampada da notte, dicendogli:

— Restate qui, milord duca, fra poco verrà.

Quindi ella sortì per la medesima porta, che chiuse a doppio giro,
dimodochè il duca si trovò prigioniero alla lettera.

Però, quantunque si trovasse isolato, bisogna dirlo, il duca
di Buckingham non provò un'istante di timore; una delle parti
caratteristiche del suo naturale era la ricerca delle avventure e
l'amore da romanzo. Coraggioso, ardito, intraprendente non era la
prima volta che arrischiava la sua vita in simili tentativi; egli avea
saputo che questo preteso messaggio della regina, sulla fede del quale
egli era venuto a Parigi, era un laccio, e invece di ritornarsene in
Inghilterra, abusando della posizione in cui era stato messo, aveva
dichiarato alla regina che egli non partirebbe senza averla prima
veduta. Sulle prime la regina aveva positivamente ricusato, quindi
finalmente aveva temuto che il duca, esasperato, non facesse qualche
follia. Ella si era già decisa a riceverlo e a supplicarlo di partire
subito, allorchè, la stessa sera della decisione, la signora Bonacieux,
che era stata incaricata di andare a cercare il duca e condurlo al
Louvre, fu rapita. Per due giorni si ignorò affatto ciò che fosse
accaduto di lei, e tutto rimase sospeso. Ma una volta libera, una volta
rimessa in rapporto con la corte, le cose avevano preso un altro corso,
ed ella eseguiva la perigliosa intrapresa che senza il suo arresto,
ella avrebbe compiuta tre giorni prima.

Buckingham, rimasto solo, si avvicinò ad uno specchio. Quell'abito da
moschettiere gli andava a meraviglia. A trentacinque anni, che egli
aveva allora, egli passava a giusto titolo per il più bel gentiluomo
e per il più elegante cavaliere di Francia e d'Inghilterra. Favorito
da due re, ricco di milioni, che tutto poteva in un regno che
egli sconvolgeva a suo capriccio o calmava a sua fantasia, Giorgio
Williers, duca di Buckingham aveva intrapresa una di quelle esistenze
favolose che rimangono nei corso dei secoli come una meraviglia per
la posterità. Così, sicuro di se stesso, convinto della sua possanza,
certo che non potevano colpirlo le leggi che reggono gli altri uomini,
andava dritto alla meta che si era prefisso, fosse pure stata questa
meta così elevata e così risplendente che sarebbe stato follia per un
altro il sognarlo soltanto. Fu così che egli giunse ad avvicinarsi
diverse volte alla bella ed orgogliosa regina di Francia, a forza
d'abbagliare.

Giorgio Williers si pose adunque avanti di uno specchio, come lo
abbiamo detto, rese alla sua bella capigliatura bionda le ondulazioni
che il peso del suo cappello le avevano fatto perdere, arricciò i suoi
baffi, e col cuore gonfio di gioia, felice, e sapendo di toccare un
momento che egli aveva desiderato sì lungamente sorrise a se stesso
d'orgoglio e di speranza.

In questo momento una porta nascosta dalla tappezzeria si aprì, e
comparve una donna. Buckingham vide questa apparizione nello specchio,
gettò un grido; era la regina!

La regina aveva allora ventisei o ventisette anni, vale a dire che ella
si ritrovava in tutto lo splendore della bellezza. Il suo andamento
era veramente quello di una regina, o meglio ancora di una dea; i suoi
occhi, che gettavano dei riflessi di smeraldo, erano perfettamente
belli e pieni ad un tempo di dolcezza e di maestà; la sua bocca era
piccola e vermiglia, e quantunque il suo labbro inferiore avanzasse
leggermente sull'altro, ella era eminentemente graziosa nel sorriso
ma altrettanto profondamente sdegnosa nel disprezzo. La sua pelle era
citata per la sua bianchezza e pel suo vellutato, la sua mano e le sue
braccia erano di una bellezza sorprendente, e tutti i poeti dell'epoca
le decantavano come incomparabili. Finalmente i suoi capelli, che,
di biondi che erano nella sua gioventù, erano diventati castagni, e
che ella portava arricciati e aspersi di molta polvere, contornavano
ammirabilmente il suo viso, al quale la censura più rigida non avrebbe
potuto augurare che un poco meno di rosso, e i più esigenti desiderare
un poco più di affilatezza nel naso.

Buckingham rimase per un istante abbagliato; giammai la regina gli
era sembrata più bella in mezzo ai balli, alle feste ed ai tornei, di
quello che gli apparve in quel momento, vestita con una semplice stoffa
bianca; e accompagnata da donna Stefania, la sola delle cameriere
spagnuole che non fosse stata scacciata dalla gelosia del re, o dalle
persecuzioni di Richelieu.

Anna fece due passi in avanti: Buckingham si precipitò ai suoi
ginocchi, e primachè la regina avesse potuto impedirlo, le baciò
l'estremità della sua veste.

— Duca, voi sapete di già che non sono stata io che vi ho fatto qui
venire.

— Oh! sì, signora, sì, Vostra Maestà, gridò il duca; io so che sono
stato un pazzo, un insensato a credere che la neve potesse riscaldarsi,
che il marmo potesse animarsi; ma che volete! quando si ama, si crede
facilmente all'amore, d'altronde io non ho perduto tutto in questo
viaggio poichè vi vedo.

— Sì, rispose Anna, ma voi sapete perchè e come io vi vedo, milord. Io
vi vedo per pietà di voi stesso, io vi vedo perchè, insensibile voi
a tutte le mie pene, vi siete ostinato a rimanere in una città ove,
rimanendo, correte rischio della vita, e a me fate correr rischio del
mio onore; io vi vedo per dirvi che tutto ci separa, la profondità del
mare, l'inimicizia dei regni, la santità dei giuramenti. Il lottare
contro tante cose è un sacrilegio, milord. Io vi vedo infine per dirvi
che è indispensabile che noi non ci vediamo più.

— Parlate, signora, parlate regina, disse Buckingham, la dolcezza della
vostra voce cuopre la durezza delle vostre parole.

— Milord, disse la regina, voi non potete rimproverare il mio modo di
parlarvi; voi dimenticate che io non vi ho mai detto che vi amava.

— Ma voi non mi avete neppur detto mai che non mi amavate, e veramente
il dirmi simili parole, sarebbe stato per parte di Vostra Maestà,
una troppo grande ingratitudine. Poichè, ditemi, ove troverete un
amore eguale al mio, un amore che nè il tempo nè la lontananza nè la
disperazione possono estinguere, un amore che si contenta di un nastro
perduto, di uno sguardo smarrito, di una parola sfuggita? Sono tre
anni, signora, che vi ho veduta per la prima volta, e dopo tre anni
io vi amo egualmente. Volete voi che io vi dica come eravate vestita
la prima volta che vi vidi? volete voi che io vi dettagli tutti gli
ornamenti della vostra toeletta? Ascoltate; io vi vedo ancora: voi
eravate seduta sopra un dado, alla moda di Spagna, avevate una stoffa
di seta verde broccata d'oro e d'argento, colle maniche pendenti e
riannodate sulle belle vostre braccia, su quelle braccia ammirabili,
con grossi diamanti; voi avevate un collare increspato e chiuso, un
piccolo _bonetto_ sulla vostra testa, del colore della vostra veste, e
sopra questo bonetto una piuma d'airone. Oh sentite, sentite, io chiudo
gli occhi e vi vedo tale quale eravate allora; io li riapro e vi vedo
tale quale siete adesso, vale a dire cento volte più bella ancora!

— Quali follie! mormorò Anna, che non aveva il coraggio di irritarsi
col duca per avere così bene conservato il suo ritratto nel di
lui cuore; quale follia di nutrire una passione inutile con simili
rimembranze.

— E con che volete voi dunque che io viva? Io non ho che delle
rimembranze. Queste sono la mia felicità, il mio tesoro, la mia
speranza. Ciascheduna volta che vi vedo, è un diamante di più che
io racchiudo nello scrigno del mio cuore. Questo è il quarto che voi
lasciate cadere e che io raccolgo. Poichè in tre anni, signora, non vi
ho veduta che quattro volte; questa prima che vi diceva, la seconda in
casa della sig. Chevreuse, la terza nei giardini d'Amiens...

— Duca, disse la regina arrossendo, non parlate di quella serata.

— Oh! parliamone, al contrario, signora, parliamone: è la serata felice
e raggiante della mia vita. Vi ricordate voi la bella notte che faceva?
come l'aria era dolce e profumata? come il cielo era azzurro e smaltato
di stelle? ah! quella volta, signora, potei rimanere un istante con
voi; quella volta eravate disposta a dirmi tutto, l'isolamento della
vostra vita, le afflizioni del vostro cuore. Voi eravate appoggiata
al mio braccio; guardate, a questo qui. Abbassando la mia testa dalla
vostra parte, io sentiva i vostri bei capelli sfiorare il mio viso,
ed ogni volta che essi lo sfioravano, io rabbrividiva dalla testa ai
piedi. Oh! regina! oh! voi non sapete tutto ciò che vi ha di felicità
e di gioia racchiuso in un simile supremo momento! I miei beni, la mia
fortuna, la mia gloria, tutti i giorni che mi restano a vivere io li
darei per un simile istante, per una simile notte; poichè quella notte,
signora, quella notte voi mi amavate, io ve lo giuro.

— Milord, è possibile, sì, che l'influenza del luogo, che le attrattive
di quella bella sera, che l'affascinazione del vostro sguardo, che
quelle mille circostanze, in fine, che qualche volta si riuniscono
per perdere una donna, si sieno raggruppate intorno a me in quella
sera fatale; ma voi lo avete veduto, milord, la regina è venuta in
soccorso della donna indebolita; alla prima parola che voi avete osato
di dire, alla prima arditezza alla quale io ho dovuto rispondere, io ho
chiamato.

— Oh! sì, sì, è vero, e un altro amore fuori del mio si sarebbe
infranto e questa pruova; ma il mio amore ne è sortito più ardente
e più eterno. Voi avete creduto di fuggirmi ritornando a Parigi, voi
avete creduto che io non oserei lasciare il tesoro che dal mio sire
sono stato incaricato di custodire. Ah! che importano a me tutti i
tesori del mondo, e tutti i re della terra! otto giorni dopo io era di
ritorno, o signora. Quella volta voi non avevate niente a dirmi: io
aveva arrischiato il mio favore, la mia vita per vedervi un secondo,
io non ho neppure toccata la vostra mano, e voi mi avete perdonato
vedendomi così sottomesso e così pentito.

— Sì, ma la calunnia si è impadronita di tutte queste follie, nelle
quali io non aveva parte, voi lo sapete bene, milord. Il re, eccitato
dal ministro, ha fatto un rumore terribile; la signora di Vernet
fu scacciata; Putange fu esiliato; la signora Chevreuse cadde in
disfavore; e allorchè voi avete voluto ritornare come ambasciadore in
Francia, il re stesso, sovvenitevene milord, il re stesso si è opposto.

— Sì, e la Francia pagherà con una guerra il rifiuto del suo re. Io
non posso più vedervi, signora? ebbene! io voglio che ciascun giorno
voi sentiate a parlare di me. Che scopo credete voi che abbia avuta
questa spedizione e questa lega coi protestanti della Rochelle che io
progetto? il piacere di vedervi. Io non ho la speranza di penetrare a
mano armata fino a Parigi, lo so bene, ma questa guerra potrà fruttare
una pace; a questa pace necessiterà un negoziatore; questo negoziatore
sarò io. Non si oserà più di rifiutarmi allora, e io ritornerò a
Parigi, e vi rivedrò, e sarò felice un istante. Migliaia d'uomini, è
vero, avranno pagato la mia felicità colla loro vita, ma che importa
a me purchè vi riveda? tutto questo è forse da insensato; ma, ditemi
qual donna ha avuto un amante più innamorato? qual regina ha avuto un
servitore più ardente?

— Milord, milord! voi invocate a vostra difesa cose che ancor più vi
accusano; milord tutte queste prove d'amore, che volete darmi, sono
altrettanti delitti.

— Perchè voi non mi amate, signora; se voi mi amaste, vedreste tutto
ciò bene altrimenti; sarebbe per me troppo grande felicità, e io ne
diventerei pazzo. Ah! la signora de Chevreuse è stata meno crudele di
voi. Halland l'amò, ed ella corrispose al suo amore.

— La signora de Chevreuse non era regina, mormorò Anna, vinta a suo
malgrado dall'espressione di un amore così profondo.

— Voi mi amereste dunque se non la foste, signora? dite, voi mi
amereste dunque? posso dunque credere che è la dignità sola del vostro
rango che vi fa crudele verso di me? posso adunque credere che se voi
foste stata la sig. de Chevreuse, il povero Buckingham avrebbe potuto
sperare? grazie di queste dolci parole, oh! mia bella Maestà, cento
volte grazie!

— Ah! milord, voi avete inteso male, male interpretato, io non ho
voluto dire...

— Silenzio! silenzio! disse il duca; se io sono felice di un errore,
non abbiate la crudeltà di togliermelo. Voi lo avete detto, voi stessa,
io sono attirato in un laccio, io vi lascerò forse la vita, poichè,
osservate, è strano, da qualche tempo io ho dei presentimenti di dover
morire.

E il duca sorrise con un sorriso tristo ad un tempo e grazioso.

— Oh! mio Dio, gridò Anna con un accento di spavento che provava quale
interesse, maggiore di quello che voleva dire, ella portava al duca.

— Io non vi dico ciò per spaventarvi, signora, no; ciò che vi dico
è anzi ridicolo, e credete che io non mi preoccupo niente di questi
sogni; ma questa parola che voi mi avete detta, questa speranza che voi
quasi mi avete data, avrà pagato tutto, fosse ancora la mia vita.

— Ebbene! disse Anna, io pure duca, io ho dei presentimenti; io pure ho
dei sogni. Io ho sognato che vi vedeva steso, insanguinato, atterrato
da una ferita.

— Alla parte sinistra, non è vero e con un coltello? interruppe
Buckingham.

— Sì, è così, milord, è così; alla parte sinistra con un coltello.
Chi ha potuto dirvi che io aveva fatto questo sogno? io non l'ho che
confidato a Dio, e anche nelle mie preghiere.

— Io non voglio saperne di più, voi mi amate, signora, sta bene;

— Io vi amo?

— Sì, voi! il cielo vi manderebbe forse gli stessi sogni che a me, se
voi non mi amaste? avremmo noi gli stessi presentimenti, se le nostre
due esistenze non si toccassero col cuore? voi mi amate, o regina, e
voi mi piangerete!

— Oh! mio Dio, mio Dio! gridò Anna, questo è più di quanto io possa
sopportare. Sentite, duca, in nome del cielo, partite, ritiratevi; io
non so se vi ami o se non vi ami, ma quello che io so si è, che io non
sarò mai spergiura. Abbiate dunque pietà di me; e partite. Obi se voi
foste colpito in Francia, se voi moriste in Francia, se io potessi
supporre che il vostro amore per me fosse causa della vostra morte,
io non mi consolerei mai più; io ne diverrei pazza. Partite dunque,
partite, io ve ne supplico.

— Oh! quanto siete bella così! oh! quanto io v'amo! disse Buckingham.

— Partite! partite! io ve ne supplico, e ritornate più tardi; ritornate
come ambasciatore, ritornate come ministro, ritornate circondato da
guardie che vi difendano, da servitori che veglino su voi, e allora,
allora io non temerò più pei vostri giorni, e sarò contenta nel
rivedervi.

— Oh! ed è vero quanto mi dite?

— Sì...

— Ebbene! un pegno della vostra indulgenza, un oggetto che venga
da voi, e che mi ricordi che io non ho fatto un sogno: qualche cosa
che voi abbiate portata, e che possa portare anch'io; un anello, una
collana, una catena!

— E partirete, partirete, se vi do quanto domandate?

— Sì.

— Sull'istante medesimo?

— Sì.

— Lascerete voi la Francia? ritornerete voi in Inghilterra?

— Sì, io ve lo giuro!

— Aspettate, allora, aspettate.

E Anna rientrò nel suo appartamento, e ne sortì quasi subito, tenendo
in mano un bauletto di legno di rosa colla sua cifra incrostata d'oro.

— Prendete, milord duca, prendete, diss'ella, conservatelo per mia
memoria.

Buckingham prese il bauletto, e cadde una seconda volta il ginocchio.

— Voi mi avete promesso di partire sull'istante, disse la regina.

— Ed io vi mantengo la mia parola; la vostra mano, la vostra mano,
signora, e io parto.

Anna stese la sua mano chiudenda gli occhi, e appoggiandosi con l'altra
sopra Stefania, poichè sentiva che le sue forze venivano meno.

Buckingham appoggiò con passione le sue labbra su quella bella mano,
quindi rialzandosi:

— Prima di sei mesi, diss'egli, se io non sono morto, io vi avrò
riveduto, signora, dovessi per questo mettere sottosopra il mondo.

E, fedele alla promessa che aveva fatta, si slanciò fuori
dell'appartamento.

Nel corridoio egli incontrò la signora Bonacieux che l'aspettava, e
che, colle medesime precauzioni e la medesima fortuna, lo ricondusse
fuori del Louvre.



CAPITOLO XIII.

IL SIGNOR BONACIEUX


Vi era in tutto questo come si è potuto rimarcare, un personaggio di
cui ad onta della sua posizione precaria, non era sembrato che alcuno
se ne inquietasse, se non che molto mediocremente. Questo personaggio
era il signor Bonacieux, rispettabile martire degli intrighi politici
ed amorosi che si allacciavano così bene gli uni con gli altri in
quell'epoca, tanto cavalleresca ad un tempo e tanto galante.

Fortunatamente, il lettore se lo ricorda, o non se lo ricorda,
fortunatamente noi abbiamo promesso di non perderlo di vista.

Gli stallieri che lo avevano arrestato lo condussero direttamente alla
Bastiglia, ove lo si fece passare tutto tremante davanti un plotone di
soldati che caricavano i loro moschetti.

Di là, fu introdotto in una galleria semi-sotterranea: egli fu, per
parte di quelli che lo aveano condotto, l'oggetto delle più grossolane
ingiurie, e dei più feroci maltrattamenti. Gli sbirri vedevano che
non avevano a che fare con un gentiluomo, e lo trattavano come un vero
birbone.

In capo a mezz'ora circa, uno scrivano venne a metter fine a queste
torture, ma non alle sue inquietudini, dando l'ordine di condurre il
sig. Bonacieux nella camera degli interrogatorii. Ordinariamente i
prigionieri s'interrogavano nel loro carcere, ma con Bonacieux non si
facevano tanti complimenti.

Due guardie, s'impadronirono del merciaio, gli fecero traversare
un cortile, lo fecero entrare in un corridoio, in cui v'erano tre
sentinelle, aprirono una porta, e lo spinsero in una camera bassa, ove
non v'erano altri mobili che una tavola, una sedia e un commessario.
Il commessario era assiso sulla sedia, ed occupato a scrivere sulla
tavola.

Le due guardie condussero il prigioniero davanti alla tavola, e, ad un
segno del commessario, si allontanarono fuori della portata della voce.

Il commessario, che fino allora aveva tenuto la sua testa abbassata
sulle carte, la rialzò per vedere con chi aveva a che fare. Questo
commissario era un uomo di fisonomia dispettosa, col naso puntuto,
cogli zigomi gialli e sporgenti, cogli occhi piccoli, ma investigatori
e vivi, colla fisonomia che partecipava ad un tempo della faina e della
volpe. La sua testa, sopportata da un collo lungo e mobile, sortiva
dalla sua larga toga nera, librandosi con un movimento presso a poco
simile a quello della tartaruga, quando cava fuori la testa dal suo
guscio crostaceo.

Egli cominciò dal domandare al signor Bonacieux i suoi nomi, il
cognome, l'età, lo stato, il domicilio.

L'accusato rispose ch'egli si chiamava Giacomo Michele Bonacieux, che
aveva l'età di cinquant'anni, che era merciaio, e che dimorava nella
strada Fossoyeur: al n. 11.

Il commissario allora, invece di continuare ad interrogarlo, gli
fece un lungo discorso sul pericolo che vi è, per un oscuro borghese,
nell'immischiarsi di cose politiche.

Egli complicò quest'esordio con una esposizione nella quale raccontò
la potenza e gli atti del signor ministro, di questo ministro
incomparabile, di questo vincitore dei ministri passati, di questo
modello dei ministri futuri: atti e potenze ai quali nessuno poteva
opporsi impunemente.

Dopo questa seconda parte del suo discorso, fissando il suo sguardo da
sparviero sul povero Bonacieux, lo invitò a riflettere sulla gravità
della sua situazione.

Le riflessioni del merciaio erano già tutte fatte; egli mandava al
diavolo l'istante in cui il signor de Laporte aveva avuto l'idea di
maritarlo con la sua figlioccia, e l'istante soprattutto in cui questa
figlioccia era stata ricevuta custode della biancheria presso la
regina.

Il fondo del carattere di mastro Bonacieux era un profondo egoismo
mischiato ad una sordida avarizia, il tutto condito con una estrema
poltroneria. L'amore che gli aveva inspirato la sua giovane sposa, era
un sentimento del tutto secondario, nè poteva lottare coi sentimenti
primitivi che noi abbiamo enumerati.

Bonacieux riflettè infatti su ciò che gli era stato detto.

— Ma, il signor commessario, diss'egli timidamente, credete bene
che io conosco, e che apprezzo più che alcun altro, il merito
dell'incomparabile ministro dal quale noi abbiamo l'onore di esser
governati.

— Davvero? domandò il commessario con un'aria di dubbio, ma se fosse
veramente così come sareste voi alla Bastiglia?

— Come io vi sono o piuttosto perchè vi sono, replicò Bonacieux, ecco
ciò che mi è assolutamente impossibile di dirvi, visto che io stesso
l'ignoro; ma, a colpo sicuro, non è per avere disgustato, almeno
scientemente, il signor ministro.

— Pure bisogna che abbiate commesso un qualche delitto, poichè voi
siete accusato di alto tradimento.

— Di alto tradimento! gridò Bonacieux spaventato, di alto tradimento! e
come volete voi che un povero merciaio, che detesta gli ugonotti e che
abborre gli Spagnuoli, sia accusato di alto tradimento? rifletteteci,
signore, la cosa è materialmente impossibile.

— Signor Bonacieux, disse il commessario guardando l'accusato come
se i suoi piccoli occhi avessero avuta la facoltà di leggere nel più
profondo dei cuori, signor Bonacieux, voi avete moglie?

— Sì, signore, rispose il merciaio tremando, e sentendo che là i suoi
affari si andavano a imbrogliare, vale a dire, io ne aveva una.

— Come, voi ne avevate una? e che ne avete voi fatto, se non l'avete
più?

— Mi è stata portata via, signore.

— Vi è stata portata via! disse il commessario. Ah! Bonacieux sentì a
quell'ah che l'affare si andava sempre più imbrogliando.

— Vi è stata portata via! riprese il commessario; e sapete voi chi è
l'uomo che ha commesso questo ratto?

— Io credo di conoscerlo.

— Chi è egli?

— Pensate che io non affermo niente, signor commessario, e che io
sospetto solamente.

— Chi sospettate voi! sentiamo, rispondete francamente.

Il signor Bonacieux era nella grande perplessità; doveva egli negar
tutto o tutto dire? negando tutto, si poteva credere che egli la sapeva
troppo lunga per confessare; dicendo tutto, faceva prova di buona
volontà. Egli si decise dunque a dire tutto.

— Io sospetto, diss'egli, che sia un uomo grande e bruno, di alta
statura, il quale ha tutti i tratti di un gran signore; egli ci ha
seguiti molte volte, a quanto mi è sembrato, quando io aspettava mia
moglie d'avanti alla porta segreta del Louvre per ricondurla a casa.

Il commessario parve provare qualche inquietezza.

— E il suo nome? diss'egli.

— Oh? in quanto al suo nome io non ne so niente; se io mai lo
incontrassi, lo riconoscerei sul momento stesso, ve io garantisco,
fosse egli ancora tra mille persone.

La fronte del commessario si intorbidì.

— Voi lo riconoscereste fra mille, dite voi continuò egli.

— Cioè, riprese Bonacieux che si accorse di essere entrato in una falsa
strada, cioè...

— Voi avete risposto che lo riconoscereste, disse il commessario. Sta
bene, per oggi basta. Prima che andiamo più innanzi, bisogna che un
tale sappia che voi conoscete il rapitore di vostra moglie.

— Ma io non ho detto che lo conosco! gridò Bonacieux alla disperazione.
Io vi ho detto al contrario...

— Conducete il prigioniere, disse il commessario alle due guardie.

— Ove si deve condurre? domandò lo scrivano.

— In una prigione.

— In quale?

— Oh! mio Dio, nella prima che vi capita, purchè sia ben chiusa,
rispose il commessario con una indifferenza, che penetrò d'orrore il
povero Bonacieux.

— Ahimè! Ahimè! disse a sè stesso, la disgrazia è sulla mia testa.
Mia moglie avrà commesso qualche orribile delitto; mi si crederà suo
complice, e mi si punirà con lei: ella avrà confessato che m'aveva
detto tutto; una donna è così debole! Una prigione! la prima che vi
capita! ecco qua! una notte presto si passa; e domani, alla ruota, alla
tortura! oh! mio Dio! mio Dio! abbiate pietà di me!

Senza ascoltare menomamente le lamentazioni di mastro Bonacieux,
lamentazioni alle quali d'altronde essi dovevano essere abituati, le
due guardie presero il prigioniere per un braccio, e lo condussero via,
nel mentre che il commessario scriveva in tutta fretta una lettera che
lo scrivano aspettava.

Bonacieux non chiuse occhio, non già che la sua prigione fosse troppo
cattiva, ma perchè le sue inquietudini erano troppo grandi. Egli rimase
tutta la notte sopra il suo sgabello rabbrividendo al più piccolo
rumore, e quanto i primi raggi del giorno vennero a penetrare nella sua
camera, l'aurora gli parve aver preso tinte funebri.

Ad un tratto egli sentì tirare il catenaccio, e provò un terribile
sussulto. Egli credeva che lo venissero a prendere per condurlo
al patibolo; cosichè allora quando vide comparire puramente e
semplicemente il suo commessario ed il suo scrivano della sera innanzi,
invece del carnefice, come egli si aspettava, fu sul punto di saltar
loro al collo.

— Il vostro affare si è molto complicato da ieri sera a questa parte;
mio brav'uomo, gli disse il commessario, ed io vi consiglio dire tutta
la verità, poichè il solo vostro pentimento può calmare la collera del
ministro.

— Ma io sono pronto a dir tutto, gridò Bonacieux, almeno tutto quello
che io so. Interrogatemi, io ve ne prego.

— Primieramente, dov'è vostra moglie?

— Ma dappoichè vi ho detto che mi è stata rapita...

— Sì ma da ieri alle cinque ore pomeridiane, mercè vostra, è fuggita.

— Mia moglie è fuggita? gridò Bonacieux, oh! disgraziata! signore, se
ella è fuggita non è per colpa mia, io ve lo giuro.

— Che cosa siete dunque andato a fare dal signor d'Artagnan, vostro
vicino, col quale aveste una lunga conferenza nella giornata?

— Ah! sì, sig. commessario, sì ciò è vero e lo confesso che ho avuto
torto. Sì, io sono stato dal sig. d'Artagnan.

— Quale era la scopo di questa visita?

— Di pregarlo ad aiutarmi per ritrovare mia moglie; io credeva di avere
il diritto di reclamarla. Io mi sbagliava, a quanto sembra, e ve ne
domando perdono.

— E che cosa ha risposto il signor d'Artagnan!

— Il signor d'Artagnan mi ha promesso il suo aiuto; ma io mi sono ben
presto accorto che egli mi tradiva.

— Voi volete eludere la giustizia! il signor d'Artagnan ha fatto
un patto con voi, e in virtù di questo patto egli ha messo in fuga
gli uomini di polizia, che avevano arrestata vostra moglie, e l'ha
sottratta a tutte le ricerche.

— Il signor d'Artagnan ha rapita mia moglie? ah! che cosa mi dite mai?

— Fortunatamente, il sig. d'Artagnan è nelle nostre mani, e voi sarete
confrontato con lui.

— Ah! in fede mia, io non domando di meglio, gridò Bonacieux; non sarò
malcontento di vedere una figura di mia conoscenza.

— Fate entrare il sig. d'Artagnan, disse il commessario alle guardie.

Le due guardie fecero entrare Athos.

— Signor d'Artagnan, disse il commessario indirizzandosi ad Athos,
dichiarate voi a questo signore ciò che è passato fra voi e lui.

Gridò Bonacieux, non è il signor d'Artagnan quello che qui mi mostrate!

— Come non è il sig. d'Artagnan! gridò il commessario.

— Niente affatto, rispose Bonacieux.

— E come si chiama il signore? domandò il commessario.

— Io non posso dirvelo, perchè non lo conosco.

— Come, voi non lo conoscete?

— No.

— Voi non l'avete mai veduto?

— Può darsi; ma io non so come si chiami.

— Il vostro nome? domandò il commessario.

— Athos, rispose il moschettiere.

— Ma questo non è un nome di uomo, questo è un nome di montagna! gridò
il povero interrogatore, che cominciava a perdere la testa.

— Questo è il mio nome, disse tranquillamente Athos.

— Ma voi avete detto che vi chiamavate d'Artagnan.

— Io?

— Sì, voi.

— Cioè, a me che fu detto: «voi siete il sig. d'Artagnan?» io ho
risposto «lo credete voi?» le mie guardie hanno gridato che ne erano
sicure. Io non ho voluto contrariarle, d'altronde io poteva sbagliarmi.

— Signore, voi fate insulto alla maestà della giustizia.

— In nessun modo, disse tranquillamente Athos.

— Voi siete il sig. d'Artagnan.

— Vedete bene, che siete voi che me lo dite.

— Ma, gridò a sua volta Bonacieux, io vi dico, sig. commessario, che
non vi può essere nessun dubbio. Il sig. d'Artagnan è mio ospite, e
quantunque non paghi la sua pigione, è anzi precisamente per questa
causa che io debbo conoscerlo. Il signor d'Artagnan è un giovane di
diciannove ai vent'anni appena, e questo signore ne ha almeno trenta;
il sig. d'Artagnan è nelle guardie del sig. des Essarts, ed il sig.
è nella compagnia dei moschettieri dei sig. de Tréville; guardate
l'uniforme.

— È vero, mormorò il commessario, per bacco! è vero.

In questo momento si aprì la porta, e un messaggiere, introdotto dal
carceriere della Bastiglia, rimise una lettera al commessario.

— Oh! disgraziata! gridò il commessario.

— Come! che cosa dite? di chi parlate? non è già di mia moglie io spero?

— Al contrario, è precisamente di lei. Il vostro affare va bene, andate
avanti!

— E che! gridò il merciaio esasperato fatemi il piacere di dirmi,
signore, in qual modo il mio affare può peggiorare per ciò che fa mia
moglie, mentre io sono in prigione.

— Perchè quello che ella fa è la conseguenza di un piano stabilito fra
di voi, un piano infernale!

— Io vi giuro, sig. commessario, che voi siete nel più grande errore,
che io non so niente affatto di ciò che doveva fare mia moglie, che io
sono intieramente estraneo a tutto quanto ella ha fatto, e che se ella
fa delle pazzie, io la rinego, io la smentisco, io la maledico.

— E che! disse Athos al commessario, se voi non avete più bisogno
di me, rimandatemi in qualche luogo. Il vostro sig. Bonacieux è
noiosissimo.

— Riconducete i prigionieri nelle loro secrete, disse il commessario,
indicando con un gesto Athos e Bonacieux, e che essi sieno custoditi
più severamente che mai.

— Però, disse Athos con la solita sua calma, se voi cercate il signor
d'Artagnan, non vedo troppo il perchè io debba qui rimpiazzarlo.

— Fate ciò che ho detto! gridò il commessario, nella secreta la più
ristretta. Intendete voi?

Athos seguì le sue guardie stringendosi nelle spalle, e il sig.
Bonacieux mandava gemiti da fendere il cuore di una tigre.

Il merciaio fu ricondotto nel carcere ove aveva passata la notte, e vi
fu lasciato tutto il giorno. Tutto il giorno Bonacieux pianse come un
vero merciaio, non essendo un uomo di spada per niente affatto, come ci
ha detto egli stesso.

La sera verso le nove ore, al momento in cui stava per decidersi di
andare in letto, egli intese de' passi nel corridoio. Questi passi si
avvicinarono al carcere, la porta si aprì, e comparvero due guardie.

— Seguitemi, disse un caporale che veniva dietro le guardie.

— Seguirvi! gridò Bonacieux, seguirvi a quest'ora! mio Dio ove mi
conducete?

— Dove abbiamo l'ordine di condurvi.

— Ma questa non è una risposta.

— Eppure è la sola che noi possiamo darvi.

— Ah! mio Dio! mio Dio! gridò il povero merciaio, questa volta son
perduto!

E seguì macchinalmente e senza resistenza le guardie che erano venute a
prenderlo.

Egli ripassò nello stesso corridoio che aveva già percorso, traversò
un primo cortile, quindi un secondo corpo di fabbrica; finalmente,
alla porta del cortile di entrata, egli trovò una carrozza circondata
da quattro guardie a cavallo. Fu fatto salire in questa carrozza, il
caporale si pose vicino a lui, fu chiuso lo sportello a chiave, e tutti
e due si ritrovarono in una prigione ambulante.

La carrozza si mise in movimento, lenta come un carro funebre.
Attraverso la persiana chiusa a catenaccio il prigioniere scorgeva
le case e il pavimento, e nient'altro; da vero Parigino che egli era,
Bonacieux riconosceva tutte le strade dalle insegne, dai riverberi, dai
marciapiedi. Al momento di giungere a S. Paolo, luogo ove si fanno le
esecuzioni dei condannati della Bastiglia, per poco non si svenne e si
segnò due volte. Avea creduto che la carrozza si fosse fermata lì. La
carrozza però passò oltre. Più lontano fu preso da gran terrore, e fu
costeggiando il cimiterio di S. Giovanni, ove si sepellivano i rei di
stato. Una cosa sola lo tranquillizzava un poco, ed era che prima di
seppellirli generalmente tagliavano loro la testa, e la sua testa era
ancora sulle sue spalle.

Ma allorchè vide che la carrozza voltava per la strada Gréve, e che
scoperse i tetti acuti del Palazzo di Città, e che la carrozza passava
sotto l'arcata, egli credè che tutto fosse finito per lui, volle fare
la sua confessione al caporale, e dietro il suo rifiuto mandò grida
così commoventi, che il caporale gli annunziò che, se continuava
ad assordirlo in tal modo, gli avrebbe messo la mordacchia. Questa
minaccia tranquillizzò alcun poco Bonacieux: se avessero dovuto
giustiziarlo sulla piazza di Gréve, non meritava la pena di metterglisi
la mordacchia, poichè erano quasi arrivati al luogo della esecuzione.
Infatti la carrozza traversò la piazza fatale senza fermarsi. Non
restava più a temersi che la Croce-del-Trahoir: la carrozza infatti
prese quella strada.

Questa volta non v'era più alcun dubbio; era alla Croce-dei Trahoir
che si giustiziavano i rei subalterni; Bonacieux si era lusingato,
credendosi degno della piazza S. Paolo o della piazza di Gréve. Era
alla Croce-del-Trahoir che andava a finire il suo viaggio ed il suo
destino! egli non poteva ancora vedere questa malaugurata Croce, ma
egli la sentiva in qualche modo venirgli incontro. Allorquando egli
non fu più che a una ventina di passi, sentì un rumore e la carrozza
fermarsi; ciò era più di quanto poteva sopportare il povero Bonacieux,
di già annientato dalle emozioni successive che aveva provate, mandò un
debole gemito, che si sarebbe potuto prendere per l'ultimo sospiro di
un moribondo, e si svenne.



CAPITOLO XIV.

L'UOMO DI MÉUNG


Questo rumore era prodotto da un attruppamento di popolo il quale non
era già riunito nell'aspettativa di un uomo che si dovesse impiccare,
ma nella contemplazione di uno già impiccato. La carrozza, fermata per
un momento, riprese dunque il suo cammino, traversò la folla, continuò
la sua strada, e infilò la contrada S. Onorato, voltò per la strada dei
Buoni-Fanciulli, e si fermò davanti ad una porta bassa.

La porta si aprì, due guardie ricevettero nelle loro braccia Bonacieux,
sostenuto dal caporale: fu spinto in un corridoio, gli fu fatta salire
una scala e fu deposto in un'anticamera. Tutti questi movimenti furono
da lui operati macchinalmente; egli aveva camminato come si cammina
in sogno; egli aveva traveduto gli oggetti attraverso una nebbia; le
sue orecchie avevano concepito dei suoni senza intenderli; si sarebbe
potuto giustiziarlo in quel momento che egli non avrebbe fatto un gesto
per intraprendere la sua difesa, che non avrebbe mandato un grido per
implorare pietà.

Egli rimase dunque così sulla panchetta, col dorso appoggiato al muro e
le braccia pendenti, nello stesso luogo ove era stato deposto dalle sue
guardie.

Però, siccome guardando intorno a se stesso non vedeva alcun oggetto
minaccioso, siccome nessuna cosa indicava che egli corresse un reale
pericolo, siccome la panchetta era convenientemente imbottita, siccome
il muro era ricoperto da un bel cuoio di Cordova, siccome un gran
tendinaggio di damasco rosso fluttuava davanti la finestra, sostenuto
da belle borchie d'oro, egli comprese a poco a poco che il suo spavento
era esagerato, e cominciò a muovere la testa da diritta a sinistra e
dal basso in alto. Da questo movimento, che nessun gl'impediva, egli
riprese un poco di coraggio, e si arrischiò a smuovere una gamba, poi
l'altra; finalmente aiutandosi con le mani, si sollevò sulla panchetta
e si trovò in piedi.

In questo momento, un ufficiale di buon aspetto alzò una portiera,
continuò a scambiate alcune parole con una persona che si trovava nella
camera vicina, e rivoltandosi verso il prigioniero:

— Siete voi, gli disse, che vi chiamate Bonacieux?

— Sì, signor ufficiale, balbettò il merciaio più morto che vivo, per
servirvi.

— Entrate, disse l'ufficiale.

Egli si scansò perchè il merciaio potesse passare, questi obbedì senza
replica, entrò nella camera ove sembrava che fosse aspettato.

Era un gran gabinetto coi muri guerniti di armi offensive e difensive,
con camminetto e stufa, nei quali vi era già fuoco quantunque non
si fosse appena che verso la fine del mese di settembre. Una tavola
quadrata, coperta di libri e di carte, sui quali era svolta un immensa
pianta della città della Rochelle occupava il mezzo dell'ambiente. In
piedi davanti al camminetto stava un uomo di mezzana statura, colla
fisonomia altera e fiera, cogli occhi scrutatori, con fronte larga, una
faccia magrita, allungata da un pizzo alla reale sormontato da un paio
di baffi. Quantunque quest'uomo non avesse che trentasei anni appena,
capelli, baffi e pizzo andavano imbiancandosi. Quest'uomo, menocchè la
spada, avea tutto l'aspetto di un uomo di guerra, e i suoi stivali di
bufalo ancora leggermente ricoperti di polvere, indicavano che egli era
stato a cavallo durante la giornata.

Quest'uomo era Armando-Giovanni Duplessis duca de Richelieu non già
come ce lo rappresentano, indebolito, vecchio sofferente come un
martire, col corpo ammalato, la voce estinta, sepolto in un gran
seggiolone come una tomba anticipata, non vivendo più che per la forza
del genio, e non sostenendo più la lotta coll'Europa che per l'eterna
applicazione del suo pensiero; ma tale quale egli era realmente in
quell'epoca, vale a dire destro e galante cavaliere, già debole di
corpo, ma sostenuto da quella potenza morale che ha formato di lui uno
degli uomini i più estraordinarii che sieno esistiti, preparandosi
infine, dopo aver sostenuto il duca di Nevers nel suo ducato di
Mantova, dopo aver preso Nimes, Castres e Uzes, a scacciare gl'inglesi
dall'isola del Re e a fare l'assedio della Rochelle.

Il povero merciaio dimorò in piedi davanti la porta, nel mentre che gli
occhi del personaggio che noi abbiamo descritto, si fissavano su lui, e
sembravano voler penetrare fino al profondo del suo pensiero.

— È questo qua il signor Bonacieux? domandò egli dopo un momento di
silenzio.

— Sì, mio signore, riprese l'ufficiale.

— Sta bene; datemi quelle carte, lasciateci.

L'ufficiale prese sul tavolo le carte indicate, le rimise a quello che
le domandava, s'inchinò fino a terra e sortì.

Bonacieux riconobbe in quelle carte i suoi interrogatorii della
Bastiglia. Di tratto in tratto l'uomo del camminetto alzava gli occhi
dal di sopra delle scritture e li immergeva come due pugnali fino al
fondo del cuore del povero merciaio.

Dopo dieci minuti di lettura e dieci secondi di esame, il ministro avea
fissato.

— Quella testa là non ha mai cospirato, mormorò egli; ma non importa,
vediamo pure.

— Voi siete accusato di alto tradimento, disse lentamente il ministro.

— È ciò che mi hanno già detto, mio signore, gridò Bonacieux, dando al
suo interrogatore il titolo che aveva inteso dargli dall'ufficiale; ma
io vi giuro che non ne sapeva niente.

Il ministro represse un sorriso.

— Voi avete cospirato con vostra moglie, colla signora de Chevreuse, e
con milord duca di Buckingham...

— Infatti, mio signore, rispose il merciaio, io ho inteso pronunciare
tutti questi nomi.

— E in quale occasione?

— Ella diceva che il ministro duca de Richelieu aveva attirato il
duca di Buckingham a Parigi per perderlo, e perdere insieme con lui la
regina.

— Ella diceva così! gridò il ministro con violenza.

— Sì, mio signore, ma io le ho risposto che ella aveva torto a tenere
simili propositi, e che il ministro era incapace...

— Tacete, voi siete un imbecille, riprese il ministro.

— Questo è quanto mi rispondeva precisamente mia moglie.

— Sapete voi chi vi ha rapito vostra moglie?

— No, mio signore.

— Voi però avete de' sospetti?

— Sì, mio signore, ma questi sospetti hanno sembrato portar dispiacere
al signor commessario, ed io non li ho più.

— Vostra moglie è fuggita, lo sapevate voi?

— No mio signore, io l'ho saputo mentre ero prigione col mezzo del sig.
commessario, che è un uomo molto amabile.

Il ministro represse un secondo sorriso.

— Allora voi non sapete ciò che è avvenuto di vostra moglie in seguito
alla fuga?

— No assolutamente, mio signore, ma ella sarà rientrata al Louvre.

— A un'ora dopo la mezzanotte non era ancora rientrata al Louvre.

— A un'ora dopo mezzanotte non era ancora rientrata! ah! mio Dio! e che
cosa è dunque avvenuto di lei?

— Si saprà, siate tranquillo, non si tiene nulla nascosto al ministro,
il ministro sa tutto

— In questo caso, mio signore, credete voi che il ministro acconsentirà
a farmi sapere che cosa è avvenuto di mia moglie?

— Forse, ma prima di tutto bisogna che confessiate tutto ciò che ne
sapete relativamente alle relazioni di vostra moglie colla signora di
Chevreuse.

— Ma io non ne so niente, non l'ho mai veduta.

— Quando andavate a prendere vostra moglie al Louvre, ritornava ella
direttamente a casa con voi?

— Quasi mai, ella aveva molte faccende da sbrigare con dei mercanti di
tela presso i quali io l'accompagnava.

— E quanti ne aveva di questi mercanti di tela?

— Due, mio signore.

— Dove abitavano?

— Uno nella strada Vaugirard, l'altro nella strada dell'Arpa.

— Voi entravate con lei?

— Mai, mio signore, io l'aspettava alla porta.

— E di qual pretesto usava per poter entrar sola?

— Ella non aveva bisogno di addurmi dei pretesti, ella mi diceva di
aspettarla, ed io l'aspettava.

— Voi siete un marito molto compiacente, mio caro signor Bonacieux,
disse il ministro.

— Egli mi ha chiamato, suo caro signore, disse fra se stesso il
merciaio; peste! gli affari vanno bene!

— Riconoscereste voi queste porte?

— Sì.

— Nè sapete i numeri?

— Sì.

— Quali sono?

— Il numero 25 della strada Vaugirard, e il n. 75 della strada Arpa.

— Sta bene, disse il ministro.

A queste parole prese un campanello d'argento, lo suonò e l'ufficiale
entrò

— Andate, gli disse sottovoce, andate a cercarmi Rochefort, e che egli
venga sull'istante introdotto.

— Il conte è di là, disse l'ufficiale, e chiede istantemente di parlare
con Vostra Eccellenza.

— Vostra Eccellenza! mormorò Bonacieux risovvenendosi che questo era il
titolo che d'ordinario si dava al ministro; Vostra Eccellenza!

— Allora che venga, che venga! disse prestamente Richelieu.

L'ufficiale sì slanciò fuori dell'appartamento con quella rapidità che
d'ordinario impiegavano tutti i servitori del ministro nell'obbedire ai
suoi ordini.

— Ah! Vostra Eccellenza! continuava a mormorare Bonacieux, spalancando
due occhi stravolti, e rimproverandosi di non averci pensato prima.

Cinque minuti dopo la scomparizione dell'ufficiale, si aprì la porta,
ed entrò un nuovo personaggio.

— È lui! gridò Bonacieux

— Chi lui? domandò il ministro.

— Quegli che mi ha rapito mia moglie.

Il ministro suonò una seconda volta. L'ufficiale ricomparve.

— Riconducete quest'uomo nelle mani delle sue due guardie, e che egli
aspetti che lo richiami davanti a me.

— No, Eccellenza, no, non è lui! gridò Bonacieux; no io mi sono
sbagliato, è un altro che non gli rassomigliava niente affatto; questo
signore è un galantuomo.

— Conducete via questo imbecille, disse il ministro.

L'ufficiale prese Bonacieux sotto il braccio; e lo ricondusse
nell'anticamera, ove egli ritrovò le sue due guardie.

Il nuovo personaggio che era stato introdotto, seguì con occhi
impazienti Bonacieux, fino a tanto che fu sortito, e quando la porta si
richiuse dietro a lui:

— Essi si sono veduti, diss'egli avvicinandosi vivamente al ministro.

— Chi? domandò Sua Eccellenza.

— Ella ed egli.

— La regina e il duca! gridò Richelieu.

— Sì.

— E dove?

— Al Louvre.

— Ne siete voi sicuro?

— Perfettamente sicuro.

— Chi ve lo ha detto?

— La signora di Lannoy, che è tutta dedicata a Vostra Eccellenza, come
voi ben sapete.

— E perchè non lo ha detto più presto?

— Sia combinazione, sia diffidenza, la regina ha fatto dormire la
signora de Surgis nella sua camera, e l'ha tenuta presso di se tutta la
giornata.

— Sta bene, noi siamo stati battuti. Cerchiamo di prendere la rivincita.

— Io vi aiuterò con tutta l'anima, Eccellenza, siate tranquillo.

— E come è andata la faccenda?

— A mezzanotte e mezzo, la regina era con le sue damigelle.

— Dove?

— Nella sua camera da dormire.

— Bene.

— Allorquando sono venuti a portarle un fazzoletto per parte della
guarda-robiera.

— E dopo?

— La regina ha subito manifestato una grande emozione, e ad onta del
rosso di cui aveva tutto il viso coperto, ella impallidì.

— E dopo, dopo?

— In questo mentre la regina si è alzata, e con voce alterata ha
detto: «mie signore, aspettatemi qui dieci minuti, che quindi sarò di
ritorno»; ed ella ha aperto la porta della sua alcova ed è sortita.

— Ed in che modo la signora de Lannoy non è venuta nell'istesso istante
a prevenirvi?

— Non vi era ancora niente di positivo; d'altronde la regina aveva
detto: «mie signore, aspettatemi» ed ella non ha osato disobbedire alla
regina.

— E quanto tempo la regina è rimasta fuori della sua camera?

— Tre quarti d'ora.

— Nessuna delle sue cameriere l'accompagnava?

— Donna Stefania soltanto.

— Ed in seguito è ella ritornata?

— Sì, ma per prendere un piccolo bauletto di legno rosa colla sua
cifra, ed è subito partita.

— E quando ella è rientrata più tardi ha riportato il bauletto?

— No.

— La sig. de Lannoy sa ella che cosa conteneva questo bauletto?

— Sì: i puntali in diamanti che Sua Maestà regalò alla regina.

— L'opinione della sig. Lannoy è che ella li abbia regalati a
Buckingham?

— Ella ne è sicura

— In che modo?

— Durante tutta la giornata, la sig. de Lannoy, nella sua qualità di
dama che tiene in custodia le gioie, ha cercato questo bauletto, ha
finto di essere inquieta per non poterlo ritrovare, e ha finito per
domandarne contezza alla regina.

— E la regina allora...?

— La regina è divenuta molto rossa, ed ha risposto che, essendosele
rotto il giorno innanzi uno di questi puntali, lo aveva mandato ad
accomodare dal suo gioielliere.

— Bisogna passarvi per assicurarsi se la cosa è vera o no.

— Vi sono già passato.

— Ebbene! il gioielliere...?

— Il gioielliere non ne ha neppure inteso parlare.

— Bene! bene! Rochefort, tutto non è ancor perduto, e forse... forse,
tutto è per lo meglio!

— Il fatto è che io non dubito punto che il genio di Vostra
Eccellenza:..

— Non ripari alle bestialità del mio agente, non è vero?

— È giusto ciò che io diceva, se Vostra Eccellenza mi lasciava
terminare la frase.

— Ora sapete ove si nascondeva la duchessa de Chevreuse e il duca de
Buckingham?

— No, Eccellenza; i miei agenti non hanno potuto dirmi niente di
positivo su questo argomento.

— Lo so io.

— Voi? Eccellenza?

— Sì, o almeno ne dubito. Essi si nascondevano, l'uno nella strada
Vaugirard n. 25, e l'altro nella strada dell'Arpa n. 75.

— Vostra Eccellenza vuol ella che io li faccia arrestare tutti e due?

— Sarà troppo tardi, essi saranno partiti.

— Non importa ce ne possiamo assicurare.

— Prendete dieci uomini della mia guardia, e perquisite le due case.

— Vado, Eccellenza.

E Rochefort si slanciò fuori dell'appartamento.

Il ministro, rimasto solo, riflettè un istante, e suonò per la terza
volta il campanello.

Ricomparve lo stesso ufficiale.

— Fate entrare il prigioniere, disse il ministro.

Mastro Bonacieux fu di nuovo introdotto, e dietro un segno del ministro
l'ufficiale si ritirò.

— Voi mi avete ingannato, disse severamente il ministro.

— Io! gridò Bonacieux, io ingannare Vostra Eccellenza?

— Vostra moglie andando nella strada Vaugirard e nella strada dell'Arpa
non andava da dei mercanti di tele.

— E dove andava ella, giusto Dio?

— Ella andava dalla duchessa de Chevreuse, e dal duca de Buckingham.

— Sì, disse Bonacieux richiamando tutte le sue rimembranze, sì, è
così, Vostra Eccellenza ha ragione. Io più di una volta ho detto a mia
moglie, che era sorprendente, che dei mercanti di tela abitassero in
simili abitazioni e in case che non avevano insegne. Ah! Eccellenza,
continuò Bonacieux gettandosi ai piedi del ministro, ah! voi realmente
siete il ministro, il gran ministro, l'uomo di genio che tutto il mondo
riconosce.

Il ministro, per quanto fosse mediocre il trionfo che riportava sopra
un essere così volgare, quanto lo era Bonacieux, non ne godè però
meno un istante; quindi, quasi subito, come se gli si fosse presentato
un nuovo pensiero allo spirito, un sorriso increspò il suo labbro, e
stendendo la mano al merciaio:

— Rialzatevi, amico mio, gli disse, voi siete un bravo uomo.

— Il ministro mi ha toccata la mano! io ho toccata la mano del
grand'uomo! gridò Bonacieux: il grande uomo mi ha chiamato suo amico.

— Sì, amico mio, sì, disse il ministro con quel tuono paterno, che
qualche volta sapeva assumere, ma che non ingannava altri che le
persone che non lo conoscevano; e siccome noi abbiamo sospettato su voi
ingiustamente, ebbene! noi vi dobbiamo una indennizzazione. Prendete
questo sacchetto di cento doppie, e perdonatemi.

— Che io vi perdoni, Eccellenza! disse Bonacieux, esitando a prendere
il sacchetto, temendo senza dubbio che questo preteso regalo non fosse
che uno scherzo. Ma voi siete padrone di farmi arrestare, di farmi
torturare, di farmi impiccare. Voi siete il padrone di tutti, ed io non
avrei avuto neppur una parola da opporre. Io perdonare, Eccellenza? su
via, voi non ci pensavate nemmeno!

— Ah mio caro sig. Bonacieux, voi vi ponete della generosità; io lo
vedo, ed io ve ne ringrazio. Così dunque prendete questo sacchetto, e
voi ve ne andate senza esser troppo malcontento?

— Io me ne vado incantato, Eccellenza.

— Addio adunque, o piuttosto a rivederci, poichè spero che noi ci
rivedremo.

— Quando vorrà Vostra Eccellenza, poichè io sono agli ordini di Vostra
Eccellenza.

— Ciò sarà spesso, siate tranquillo, poichè io ho ritrovato un piacere
estremo nella vostra conversazione.

— Oh! Eccellenza!

— A rivederci, signor Bonacieux, a rivederci.

Ed il ministro gli fece un segno con la mano, al quale Bonacieux
rispose inchinandosi fino a terra, quindi sortì andando all'indietro,
e quando fu nella anticamera, il ministro lo intese che, nel suo
entusiasmo, gridava a tutta testa; «Viva Sua Eccellenza! viva il mio
padrone! viva il gran ministro!»

Il ministro ascoltò sorridendo questa rumorosa manifestazione dei
sentimenti entusiastici di Mastro Bonacieux; quindi, quando le grida di
Bonacieux si furono perdute nella lontananza:

— Bene, diss'egli, ecco d'ora in avanti un uomo che si farà uccidere
per me.

E il ministro si mise ad esaminare colla più grande attenzione la carta
della Rochelle, che, come abbiamo detto, era stesa sul suo tavolino,
segnando con la matita la linea per dove doveva passare la diga che,
diciotto mesi dopo, chiudeva il porto della città assediata.

Allorquando egli era nel più profondo delle sue meditazioni le più
strategiche, si riaprì la porta, e Rochefort rientrò.

— Ebbene? disse prestamente il ministro alzandosi con una sveltezza che
provava il grado d'importanza che egli attaccava alla commissione di
cui aveva incaricato il conte.

— Ebbene? disse questi, una donna di ventisei anni circa ed un uomo dai
trentacinque ai quaranta hanno effettivamente alloggiato nelle due case
indicate dall'Eccellenza Vostra; ma la donna è partita questa notte e
l'uomo è partito questa mattina.

— Erano essi! gridò il duca, che guardava al pendolo; ed ora, continuò
egli, è troppo tardi per far loro correr dietro; la duchessa è a Tours,
e il duca a Boulogne. Bisogna dunque raggiungerlo a Londra.

— Eccellenza, quali sono i vostri ordini?

— Non si dica una parola sul passato, che la regina resti nella più
perfetta sicurezza; che ella ignori che noi sappiamo il suo segreto;
che ella creda che noi siamo in traccia di una cospirazione qualunque.
Inviatemi il mio guarda-sigilli Seguier.

— E di quest'uomo, che cosa ne fa l'Eccellenza Vostra?

— Di qual uomo? domandò il ministro.

— Di Bonacieux.

— Io ne ho fatto tutto quello che se ne poteva fare, vale a dire una
spia di sua moglie.

Il conte de Rochefort s'inchinò come uomo che riconosce la grande
superiorità del padrone, e si ritirò.

Rimasto solo, il ministro si assise di nuovo, scrisse una lettera
che egli chiuse con un sigillo particolare; quindi suonò. Il solito
ufficiale ricomparve per la quarta volta.

— Fatemi venire Vitray, diss'egli, e ditegli di prepararsi per un
viaggio.

Un istante dopo, l'uomo che aveva fatto chiamare era in piede davanti a
lui, portando già gli speroni e gli stivali alla cavaliera.

— Vitray, gli disse, voi dovete partire di tutta corsa per Londra. Voi
non dovete fermarvi un istante sulla strada; rimetterete questa lettera
a Milady. Eccovi un buono di duegento doppie; passate dal mio tesoriere
e fatevelo pagare. Ve ne saranno altrettante che vi saranno sborsate se
voi sarete di ritorno qui fra sei giorni, e se voi avete seguita bene
la commissione.

Il messaggiere senza rispondere una sola parola, si inchinò, prese la
lettera, il bono per dugento doppie, e sortì.

Ecco ciò che conteneva la lettera.

      «Milady,

  «Trovatevi al primo ballo in cui interverrà il duca di Buckingham.
  Egli porterà al suo saio dodici puntali di diamanti, avvicinatevi a
  lui e tagliatene due.

  «Subito che questi puntali saranno nelle vostre mani, datemene
  avviso.»



CAPITOLO XV.

LA GENTE DI TOGA, E LA GENTE DI SPADA


L'indomani del giorno in cui erano accaduti questi avvenimenti, non
essendo ricomparso Athos, d'Artagnan e Porthos avvisarono il signor de
Tréville della di lui disparizione.

In quanto ad Aramis, egli aveva domandato un concedo di cinque giorni,
egli era a Rouen, dicevasi per affari di famiglia.

Il signor de Tréville era il padre dei suoi soldati. Il più sconosciuto
tra di loro, dal momento che portava l'uniforme della compagnia era
certo del suo aiuto e del suo appoggio, quanto lo avrebbe potuto essere
un suo fratello stesso.

Egli si rese adunque sull'istante presso il luogo-tenente criminale. Fu
fatto venire l'ufficiale che comandava il posto della Croce-Rossa, e le
successive informazioni fecero conoscere che Athos era momentaneamente
alloggiato nel Forte il Vescovo.

Athos aveva subite tutte le prove che noi abbiamo veduto subire a
Bonacieux.

Noi abbiamo assistito alla scena di confronto fra i due prigionieri.
Athos, che non aveva detto niente fino allora, per timore che
d'Artagnan, venendo anche egli molestato, non avesse avuto il tempo che
gli abbisognava. Athos da quel momento dichiarò che egli si chiamava
Athos e non d'Artagnan.

Aggiunse che non conosceva nè il signore nè la signora Bonacieux, che
non aveva mai parlato nè all'uno nè all'altra; che era andato verso le
dieci di sera per fare una visita al suo amico signor d'Artagnan, ma
che sino a quell'ora egli era rimasto dal signor de Tréville con cui
avea pranzato; venti testimoni, aggiunse egli, potevano attestare il
fatto, e nominò molti gentiluomini distinti, e fra gli altri il duca
della Trémouille.

Il secondo commissario rimase stordito non meno del primo per la
dichiarazione semplice e asseverante di questo moschettiere sul
quale si sarebbe presa volentieri la rivincita che le genti di toga
amano tanto di prendersi sulle genti di spada; ma il nome del sig. de
Tréville, e quello del signor duca della Trémouille meritavano qualche
riflessione.

Athos fu parimente inviato al ministro, ma disgraziatamente il ministro
era al Louvre presso il re.

Era precisamente il momento in cui il sig. de Tréville, sortendo dal
luogo-tenente criminale e dal governatore del Forte il Vescovo, senza
aver potuto trovare Athos, giunse da Sua Maestà.

Come capitano dei moschettieri, il sig. de Tréville aveva ingresso al
re a tutte l'ore.

Si sa quali erano le prevenzioni del re contro la regina, prevenzioni
giuocate abilmente dal ministro, che in fatto d'intrighi diffidavasi
infinitamente più delle donne che degli uomini. Una delle grandi
cause, soprattutto di prevenzioni, era l'amicizia della regina per la
sig. de Chevreuse. Queste due donne lo tenevano inquieto assai più
che le guerre con lo Spagnuolo, le dissenzioni con l'Inghilterra e
gl'imbarazzi delle finanze. Ai suoi occhi e nella sua convinzione la
signora de Chevreuse, non solo serviva la regina nei suoi intrighi
politici, ma, ciò che lo tormentava anche molto di più, nei suoi
intrighi amorosi.

Alla prima parola che disse il ministro, che la sig. de Chevreuse,
esiliata a Tours e che si supponeva in quella città, era stata a Parigi
e vi era rimasta per cinque giorni eludendo la polizia, il re era
entrato in una collera furiosa. Capriccioso ed infedele, il re voleva
esser chiamato _Luigi il Giusto_, e _Luigi il Casto_. La posterità
comprenderà difficilmente questo carattere, che la storia non spiega
che con i fatti e mai con i ragionamenti.

Ma, allorchè il ministro aggiunse che, non solamente la sig. de
Chevreuse era venuta a Parigi, ma ancora, che la regina aveva
riannodato con lei per mezzo di quelle corrispondenze misteriose, che
in quell'epoca si chiamavano cabale, allorchè egli affermò che lui, il
ministro, stava per sciogliere le fila oscure di questo intrigo, quando
al momento di arrestare sul fatto, in flagrante delitto, corredato
di tutte le pruove l'emissaria della regina presso l'esiliata, un
moschettiere aveva osato interrompere violentemente il corso della
giustizia, piombando con la spada alla mano sulle oneste persone di
legge, incaricate di esaminare con imparzialità tutto l'affare per
metterlo sotto gli occhi del re: Luigi XIII non seppe più contenersi;
fece due passi verso l'appartamento della regina, con quella pallida e
muta indignazione che, quando scoppiava, conduceva questo principe fino
alla più fredda crudeltà.

E ciò non ostante, in tutto questo, il ministro non aveva detto ancora
una parola del duca di Buckingham.

Fu allora che il sig. de Tréville entrò freddo, gentile, e in una
tenuta irreprensibile.

Avvertito di ciò che accadeva dalla presenza del ministro e dalla
alterazione della fisonomia del re, il sig. de Tréville si sentì forte
come Sansone davanti ai Filistei.

Luigi XIII metteva già la mano sulla maniglia della porta. Al rumore
che fece il signor de Tréville entrando, il re si voltò.

— Voi giungete a proposito, signore, disse il re, che, allorquando le
passioni erano giunte ad un certo punto, non sapeva più dissimulare, ed
io ne sento delle belle sul conto dei vostri moschettieri.

— Ed io, disse freddamente il sig. de Tréville, io ne ho delle belle da
far sentire a Vostra Maestà sul conto delle sue genti di toga.

— Come sarebbe a dire? disse il re con alterezza.

— Io ho l'onore di far sapere a Vostra Maestà, continuò de Tréville
sul medesimo tuono, che un partito di procuratori, di commessarii e di
agenti di polizia, gente molto stimabile, ma molto accanita, a quanto
sembra contro l'uniforme, si è permesso di arrestare in una casa, di
trascinare in piena strada, e di gettare nel Forte il Vescovo, e tutto
ciò dietro un ordine che si è ricusato di farmi vedere, uno dei miei
moschettieri o piuttosto dei vostri, di una condotta irreprovevole,
di una riputazione quasi illustre, che Vostra Maestà conosce
favorevolmente, il sig. Athos.

— Athos, disse il re macchinalmente; sì, di fatti, io conosco questo
nome.

— Che Vostra Maestà se lo ricordi, disse il sig. de Tréville; il sig.
Athos è quel moschettiere che, nel dispiacente duello che voi sapete,
ha avuto la disgrazia di ferire gravemente il sig. de Cahussac. A
proposito, Eccellenza, continuò de Tréville indirizzandosi al ministro,
il sig. de Cahussac è ristabilito del tutto, non è vero?

— Grazie! disse il ministro mordendosi le labbra per collera.

— Il signor Athos era adunque andato a fare una visita a uno dei suoi
amici in allora assente, continuò il sig. de Tréville, ad un giovane
bearnese, cadetto nelle guardie di Vostra Maestà, compagnia des
Essarts; ma appena egli fu entrato, e prendeva un libro per aspettare
il suo amico; una nube di sbirri e di soldati mischiati assieme venne a
fare l'assedio della casa, sfondò diverse porte.

Il ministro fece al re un segno, che voleva dire:

— È per l'affare di cui vi ho parlato.

— Noi sappiamo; tutto, replicò il re, perchè tutto questo fu fatto per
il nostro servizio.

— Allora, disse da Tréville, fu pure pel servizio di Vostra Maestà
che si afferrò uno dei miei moschettieri innocente, che si pose questo
fra due guardie come un malfattore, e che si condusse in mezzo ad un
popolaccio insolente questo galantuomo, che ha sparso dieci volte il
sangue per servizio di Vostra Maestà e che è pronto a spargerlo di
nuovo.

— Bah! disse il re corrucciato, le cose dunque sono avvenute così?

— Il sig. de Tréville non dice, riprese il ministro con flemma, che
questo moschettiere innocente, che questo galantuomo, era venuto un'ora
avanti a percuotere a colpi di spada quattro commessarii istruttori,
delegati da me per istituire un processo della più alta importanza.

— Io sfido Vostra Eccellenza a provarlo, gridò il sig. de Tréville
colla sua freddezza tutta guascona e colla sua rozzezza militare;
poichè, un'ora prima il sig. Athos, che io lo confiderò a Vostra
Maestà, è un uomo delle più alte qualità, mi faceva l'onore, dopo aver
pranzato meco, di parlare nel salotto del mio palazzo col sig. duca
della Trémouille e col sig. conte de Chalus che vi si trovavano.

Il re guardò il ministro.

— Fu fatto un processo verbale, disse il ministro rispondendo ad alta
voce alla muta interrogazione di Sua Maestà, e le genti maltrattate
hanno redatto il seguente, che io ho l'onore di presentare a Vostra
Maestà!

— Un processo verbale delle persone di toga, rispose fieramente de
Tréville, val forse la parola d'onore di un uomo di spada?

— Andiamo, andiamo; de Tréville, tacete, disse il re.

— Se Sua Eccellenza ha qualche sospetto contro uno dei miei
moschettieri, disse de Tréville, la giustizia del ministro è abbastanza
conosciuta perchè abbia io stesso a domandare un processo.

— Nella casa in cui fu fatta questa discesa della giustizia, continuò
il ministro impassibile, alloggia, io credo, un Bearnese amico del
moschettiere.

— Vostra Eccellenza vuol parlare del sig. d'Artagnan.

— Io voglio parlare di un giovane che voi proteggete, sig. de Tréville.

— Sì, Eccellenza, è lo stesso.

— Non sospettate voi che questo giovane abbia dato dei cattivi
consigli?...

— Al sig. Athos, a un uomo che ha il doppio della sua età? interruppe
il sig. de Tréville; no, Eccellenza. D'altronde il sig. d'Artagnan ha
passato la sera in casa mia.

— E che! disse il ministro, hanno dunque tutti passata la sera in casa
vostra?

— Sua Eccellenza dubiterebbe forse della mia parola, disse de Tréville,
col rossore della collera salito alla fronte.

— No, e Dio me ne guardi, disse il ministro; ma soltanto a che ora era
egli da voi?

— Oh! questo poi posso dirlo scientemente all'Eccellenza Vostra, perchè
quando entrò io osservai l'orologio a pendolo che segnava nove ore e
mezza, quantunque io credessi che fosse più tardi.

— E a che ora è egli sortito dal vostro palazzo?

— A dieci ore e mezza, un'ora giusta dopo l'avvenimento.

— Ma finalmente, riprese il ministro che non sospettava un'istante
sulla lealtà di de Tréville, e che sentiva la vittoria sfuggirgli
di mano; ma finalmente, Athos fu preso in questa casa della strada
Fossoyeurs.

— È egli forse proibito ad un amico di visitare un amico, ad un
moschettiere della mia compagnia di fraternizzare con una guardia della
compagnia del sig. des Essarts.

— Sì, quando la casa ove egli fraternizza con questo amico è sospetta.

— E perchè questa casa è sospetta, de Tréville, disse il re, non lo
sapete voi forse?

— Infatti, sire, io lo ignorava. In ogni caso, ella può essere sospetta
dappertutto, ma nego che possa essere sospetta la parte che abita il
sig. d'Artagnan, perchè io posso affermarvi, o sire, che se io presto
fede a quanto egli ha detto, non esiste un più affezionato servitore di
Vostra Maestà, un ammiratore più profondo del sig. ministro.

— Non è quel d'Artagnan che un giorno ha finito Jussac in quel
disgraziato incontro che ebbe luogo vicino al convento dei Carmelitani
Scalzi? domandò il re, guardando il ministro che arrossiva di dispetto.

— E il giorno dopo ferì Bernajoux. Sì sire, sì, è precisamente quello,
e Vostra Maestà ha buona memoria.

— Andiamo, che cosa risolviamo noi? disse il re.

— Ciò spetta a Vostra Maestà più che a me, disse il ministro. Io
affermo la reità.

— Ed io la nego, disse de Tréville. Ma Vostra Maestà ha dei giudici, e
questi giudici decideranno.

— Va bene così disse il re, rimandiamo la causa davanti ai giudici, il
giudicare è il loro ufficio, ed essi giudicheranno.

— Solamente, riprese de Tréville, è una cosa ben trista che, in
questi disgraziati tempi in cui siamo, la vita più pura, la virtù più
incontrastabile non esima un uomo dalla infamia e dalla persecuzione.
In tal modo l'armata non sarà contenta, io posso risponderne, di essere
in balìa dei trattamenti rigorosi a proposito di affari di polizia.

La parola era imprudente, ma de Tréville, l'aveva lanciata con
conoscenza di causa. Egli voleva una esplosione, perchè in questo caso
la mina fa fuoco ed il fuoco rischiara.

— Affari di polizia! gridò il re, ripetendo le parole del sig. de
Tréville, affari di polizia! e che ne sapete voi, signore! mischiatevi
dei vostri moschettieri, e non mi rompete la testa. Sembra a sentirvi,
che se per disgrazia si arresta un moschettiere, la Francia sia in
pericolo. Ehi quanto rumore per un moschettiere! io ne farò arrestare
dieci, cospetto! anche cento, tutta la compagnia! e non voglio che se
ne dica una parola.

— Dal momento in cui sono sospetti a Vostra Maestà, disse de Tréville,
i moschettieri sono colpevoli; così voi mi vedrete, sire, disposto a
cedere la mia spada, perchè, il sig. ministro, non dubito punto, dopo
avere accusato i miei soldati, finirà con l'accusare anche me stesso;
così, val meglio, che io mi costituisca prigioniere col sig. Athos, che
già è stato arrestato, e col sig. d'Artagnan che in breve sarà senza
dubbio arrestato.

— Testa guascona, non la finirete voi mai? disse il re.

— Sire, rispose de Tréville senza abbassare menomamente la voce,
ordinate che mi sia reso il mio moschettiere, o che sia giudicato.

— Sarà giudicato, disse il ministro.

— Ebbene! tanto meglio, perchè, in questo caso, io domanderò a Sua
Maestà il permesso di perorare per lui.

Il re temeva uno scoppio.

— Se, Sua eccellenza, disse egli, non aveva personalmente qualche
motivo...

Il ministro vide venire il re, e andò all'avvantaggio:

— Perdono, disse egli, ma dal momento che Vostra Maestà vede in me un
giudice prevenuto, mi ritiro.

— Vediamo, disse il re, mi giurate voi per mio padre, che il sig. Athos
era in casa vostra durante l'avvenimento, e che egli non vi ha preso
parte.

— Per il glorioso vostro padre, e per voi stesso, che siete quanto io
amo e venero di più su questa terra, io ve lo giuro.

— Vogliate riflettere, sire, disse il ministro, che se noi rilasciamo
così il prigioniere, non si potrà più conoscere la verità.

— Il sig. Athos sarà sempre qui, riprese il signor de Tréville, pronto
a rispondere quando parrà alle vostre genti di toga d'interrogarlo.
Egli non diserterà, sig. ministro: siate tranquillo, io rispondo di
lui.

— Veniamo al fatto: egli non diserterà, disse il re; si ritroverà
sempre, come dice il sig. de Tréville. Da altronde, aggiunse egli
abbassando la voce e guardando con occhio supplichevole Sua Eccellenza,
concediamo loro la sicurezza: questo sta in politica.

Questa politica di Luigi XIII fece sorridere Richelieu.

— Ordinate, sire, diss'egli; voi avete il dritto di grazia.

— Il dritto di grazia non si applica che ai colpevoli, disse de
Tréville, che voleva dire l'ultima parola, e il mio moschettiere è
innocente. Non è dunque una grazia quella che farete, sire; è una
giustizia.

— Ed egli, è al forte il Vescovo? disse il re.

— Sì, sire, è in una secreta, in una prigione come l'ultimo dei
malfattori.

— Diavolo! diavolo! mormorò il re, e che si ha a fare?

— Sottoscrivere l'ordine che sia messo in libertà, e tutto sarà fatto,
riprese il ministro; io credo, come Vostra Maestà, che la garanzia del
sig. de Tréville sia più che sufficiente.

De Tréville s'inchinò rispettosamente con una gioia non scevra di
timore; egli avrebbe preferito una resistenza ostinata del ministro a
questa improvvisa facilità.

Il re sottoscrisse l'ordine, e de Tréville se ne impossessò senza
ritardo.

Al momento in cui stava per sortire, il ministro gli fece un sorriso
amichevole, e disse al re:

— Regna una buona armonia fra il capo ed i soldati dei vostri
moschettieri, sire: ecco ciò che è profittevole al servizio, ed
onorevole per tutti.

Egli mi prepara senza dubbio un qualche cattivo giuoco, diceva
de Tréville; non si ha mai l'ultima parola con un uomo simile. Ma
affrettiamoci, poichè il re può cambiare d'avviso in un momento; e in
fin del conto, è molto più difficile il rimettere alla Bastiglia o al
Forte il Vescovo un uomo che ne è sortito, di quello che conservarvi un
prigioniero che vi è già.

Il sig. de Tréville fece trionfalmente la sua entrata nel Forte il
Vescovo, di dove liberò il moschettiere, che non aveva abbandonato la
sua pacifica indifferenza.

Quindi, la prima volta che rivide d'Artagnan:

— Voi l'avete scappata bella, diss'egli; ecco pagato il vostro colpo di
spada a Jussac. Resta ancora a pagarsi quello dato a Bernajoux, ma non
bisogna fidarvisi.

Del resto il sig. de Tréville aveva ragione di diffidare del ministro,
e di tenere che tutto non era ancor finito, poichè appena il capitano
dei moschettieri ebbe chiusa la porta dietro a se, Sua Eccellenza disse
al re.

— Ora che non siamo più che noi due, parleremo seriamente, se piace
a Vostra Maestà. Sire, il sig. de Buckingham era a Parigi da cinque
giorni, e non è partito che questa mattina.



CAPITOLO XVI.

IN CUI IL GUARDA-SIGILLI SEGUIER CERCA ANCHE UNA VOLTA LA CAMPANA PER
SUONARLA, COME HA FATTO ALTRE VOLTE


È impossibile di farsi un'idea dell'impressione che produssero
sopra il re Luigi XIII queste sole parole; egli arrossì ed impallidì
successivamente, ed il ministro si accorse fin dal principio che egli
aveva riconquistato con un sol colpo tutto il terreno che prima aveva
perduto.

— Il sig. de Buckingham a Parigi! gridò egli, e che cosa vi è venuto a
fare?

— Senza dubbio per cospirare assieme ai vostri nemici, gli ugonotti e
gli Spagnuoli.

— No, per bacco! no! a cospirare contro il mio onore colla signora de
Chevreuse, la signora de Longueville, e il Condè.

— Oh! sire, quale idea! la regina è troppo saggia, e soprattutto ama
troppo Vostra Maestà.

— La donna è debole, signor ministro, disse il re; e in quanto ad
amarmi molto, io ho già stabilita la mia opinione su questo amore.

— Non mantengo però meno, disse il ministro, che il duca de Buckingham
è venuto a Parigi per un progetto del tutto politico.

— Ed io son sicuro che egli è venuto per tutt'altra cosa; ma se la
regina è colpevole, che ella tremi!

— Veniamo al folto, disse il ministro, per quanta ripugnanza io provi
a fermare il mio spirito sopra un simile tradimento, Vostra Maestà mi
vi fa pensare: la signora de Lannoy, che, dietro gli ordini di Vostra
Maestà, io ho interrogata più volte, questa mattina mi ha detto che la
notte passata Sua Maestà aveva vegliato fin molto al tardi; che questa
mattina ella aveva molto pianto, e che tutta la giornata aveva scritto.

— È così, disse il re; a lui senza dubbio. Ministro, mi abbisognano le
carte della regina.

— Ma in che modo si potranno prendere, sire? Mi sembra che nè io, nè
Vostra Maestà ci possiamo incaricare di una simile missione.

— E in qual modo si agì adunque con la marescialla d'Ancre? gridò il re
al più alto grado della sua collera; che si frughino i suoi armadii, e
che in fine si frughi ella stessa.

— La marescialla d'Ancre, una avventuriera fiorentina, sire, ecco
tutto; nel mentre che l'augusta sposa di Vostra Maestà è Anna regina di
Francia, vale a dire una delle più grandi principesse del mondo.

— Ella non è che la più colpevole, signor duca! più ella ha dimenticato
l'alta posizione in cui è stata posta, più ella è discesa in basso.
È già lungo tempo, altronde, che io sono deciso di finirla con tutti
questi piccoli intrighi di politica e di amore. Ella ha pure presso di
se un certo Laporte...

— Che io credo che sia la maniglia che apre tutto l'intrigo, io lo
confesso, disse il ministro.

— Voi pensate dunque come me, che ella m'inganni? disse il re.

— Io credo, e lo ripeto a Vostra Maestà, che la regina cospira contro
la potenza del suo re, ma io non ho detto contro il suo onore.

— Ed io vi dico contro tutti e due: io vi dico che la regina non mi
ama; che ella ama quell'infame duca de Buckingham! perchè non lo avete
fatto arrestare mentre egli era a Parigi?

— Arrestare il duca! arrestare il primo ministro di Carlo II ci
pensate voi, sire? quale scandalo! e se allora i sospetti di Vostra
Maestà, quelli di cui io continuo a dubitare, avessero mostrata qualche
consistenza, quale terribile pubblicità! quale scandalo inaudito!

— Ma poichè si esponeva come un vagabondo o come un ladroncello,
bisognava...

Luigi XIII si fermò da se stesso spaventato di ciò che stava per dire,
nel mentre che Richelieu, allungando il collo, aspettava inutilmente la
parola che era rimasta sulle labbra del re.

— Abbisognava...?

— Niente, disse il re, niente. Ma durante tutto il tempo che egli è
stato a Parigi, voi non lo avrete perduto di vista.

— No, sire.

— Ove alloggiava egli?

— Strada dell'Arpa N. 75.

— E dove rimane?

— A lato del Luxembourg.

— E voi siete sicuro che la regina e lui non si sono veduti?

— Io credo la regina troppo ligia ai suoi doveri, sire.

— Ma essi avranno corrisposto, è a lui che la regina ha scritto in
quest'oggi; signor duca, mi abbisogna questa lettera!

— Sire, frattanto...

— Sig. duca a qualunque prezzo si sia, io la voglio.

— Io farò osservare però a Vostra Maestà...

— Mi tradite dunque anche voi, sig. ministro, per opporvi sempre così
alla mia volontà? siete voi pure d'accordo con lo Spagnuolo, e con
l'Inglese, colla sig. de Chevreuse e colla regina?

— Sire, rispose sorridendo il duca, io credeva di essere al coperto di
un simile sospetto.

— Signor ministro, voi avete inteso; io voglio queste lettere.

— Non vi sarebbe che un mezzo.

— E quale?

— Quello d'incaricare di questa missione il sig. guarda-sigilli
Seguier. La cosa si comprende interamente fra i doveri della sua
carica.

— Che si mandi a chiamare subito in questo medesimo istante.

— Egli dev'essere in casa mia, sire; io lo aveva fatto pregare
di passare da me, e allorquando sono venuto al Louvre ho lasciato
l'ordine, se si presentava, di farlo aspettare.

— Che si mandi subito a cercarlo.

— Gli ordini di Vostra Maestà saranno eseguiti, ma...

— Ma che?

— Ma la regina ricuserà forse di obbedire.

— Ai miei ordini!

— Sì, se ella non sa che questi ordini vengono dal re.

— Ebbene! perchè ella non ne dubiti, io stesso vado a prevenirla.

— Vostra Maestà non dimenticherà che io ho fatto tutto quello che ho
potuto per prevenire una rottura.

— Sì, duca, sì, io so che siete molto indulgente; e noi avremo, ve ne
prevengo, a parlar di ciò più tardi.

— Quando piacerà a Vostra Maestà, ma io sarò sempre felice e superbo,
sire, di sagrificarmi alla buona armonia che io desidero veder regnare
fra il re e la regina di Francia.

— Bene, ministro, bene; ma, frattanto, inviate a cercare il signor
guarda-sigilli; io entro dalla regina.

E Luigi XIII, aprendo la porta di comunicazione, s'introdusse nel
corridoio che conduceva dal suo appartamento a quello della regina.

Anna era in mezzo alle sue damigelle, la signora de Guitaut, la sig.
de Sablé, la sig. de Montebazon e la signora de Guémené. In un angolo
era quella camerista spagnuola, donna Stefania, che l'aveva seguita
da Madrid. La sig. de Guémené faceva la lettura, e tutte le altre
ascoltavano colla più grande attenzione la leggitrice, ad eccezione
della regina che, al contrario, aveva proposta questa lettura affine di
potere fingendo di ascoltare, seguire il filo dei suoi propri pensieri.

Questi pensieri per quanto fossero abbelliti da un ultimo riflesso
dell'amore non erano però men tristi. Anna, privata della confidenza
di suo marito, perseguitata dall'odio del ministro, che non poteva
perdonarle di avere respinto un sentimento più dolce, avendo sotto
gli occhi l'esempio della regina madre che era stata tormentata da
quest'odio per tutta la sua vita; Anna aveva veduto cadere intorno a
se i suoi servitori più affezionati, i suoi confidenti più intimi, i
suoi favoriti più cari. Come quei disgraziati dotati di un dono funesto
ella portava disgrazia a tutto ciò che toccava, la sua amicizia, era un
segno fatale che chiamava persecuzione. La sig. de Chevreuse e la sig.
de Vernel erano esiliate; e in fine Laporte, non nascondeva alla sua
padrona che si aspettava di essere arrestato da un momento all'altro.
Fu nel momento che ella era immersa nel più profondo e nel più tetro
di queste riflessioni che la porta della camera si aprì, e che il re
entrò.

La leggitrice si tacque all'istante, tutte le dame si alzarono, e
successe un profondo silenzio.

In quanto al re non fece alcuna dimostrazione di gentilezza, fermandosi
soltanto davanti alla regina:

— Signora, diss'egli con voce alterata, voi siete per ricevere la
visita del signor cancelliere che vi comunicherà di un certo affare di
cui io l'ho incaricato.

La disgraziata regina, che veniva incessantemente minacciata di
divorzio, di esilio ed anche di processo, impallidì sotto il rosso, e
non potè trattenersi.

— Ma perchè questa visita, sire? che cosa potrà dirmi il signor
cancelliere che non possa dirmi la Vostra stessa Maestà?

Il re girò sui talloni senza rispondere, e quasi nel medesimo istante
il capitano delle guardie, signor de Guitaud, annunciò la visita del
signor cancelliere.

Quando il cancelliere comparve, il re era già sortito da un'altra porta.

Il cancelliere entrò per metà sorridendo e per metà arrossendo. Siccome
noi lo ritroveremo probabilmente nel corso di questa storia, non sarà
male che i nostri lettori facciano fin d'ora conoscenza con lui.

Il sig. cancelliere era un uomo scherzoso. Fu il sig. de Roches le
Masle, che in altri tempi era cameriere del ministro, che lo propose a
sua Eccellenza come un uomo affezionato. Il ministro si fidò di lui, e
se ne trovò contento.

Dopo una gioventù tempestosa, si era ritirato in una piccola comunità
di persone pie, che aveva per principal regola quella di suonare
una campana ogni qualvolta uno cadeva in tentazione affinchè tutti
pregassero il cielo a superarlo e per espiare almeno per qualche tempo
le follie della sua gioventù.

La vita pacifica però dei suoi compagni, le continue meditazioni e le
incessanti preghiere non si confacevano punto al suo carattere. Non
si sa se fosse egli che ne sortisse, o se fosse il superiore della
comunità che lo rimandasse; fatto sta che dopo tre mesi, il penitente
ricomparve nel gran mondo dopo aver suonato infinite volte la campana
colla reputazione del più terribile ossesso che fosse mai esistito.

Sortendo dal suo ritiro, entrò nella magistratura, divenne presidente,
nel posto di suo zio, abbracciò il partito del ministro, cosa che
non provava poco la sua sagacità, fu fatto cancelliere, servì con
zelo Sua Eccellenza nel suo odio contro la regina madre e nella sua
vendetta contro la regina Anna. Stimolò i giudici nell'affare di
Chalais, incoraggiò i tentativi del sig. de Laffemas, gran-cacciatore
di Francia, quindi finalmente, investito di tutta la confidenza del
ministro, confidenza che egli aveva saputo guadagnarsi tanto bene,
arrivò a ricevere la singolare commissione per la esecuzione della
quale si presentava alla regina.

La regina era ancora in piedi quando egli entrò, ma non appena lo ebbe
scôrto, che ella si riassise sul suo seggio, e fece segno alle sue dame
di riassidersi sui loro cuscini e sui loro scanni, e con un tuono di
suprema alterezza:

— Che cosa desiderate voi, signore? domandò Anna, e con quale scopo vi
presentate voi qui.

— Per farvi, in nome del re, signora e salvo tutto il rispetto ch'io ho
l'onore di dovere a Vostra Maestà, una perquisizione esatta in tutte le
vostre carte.

— Come! signore, una perquisizione nelle mie carte... a me! ma questa è
una cosa indegna!

— Vogliate perdonarmi, signora, ma in questa circostanza io non sono
che un istrumento di cui si serve il re. Sua Maestà non sorte essa
di qui, e non vi ha essa invitata colla sua viva voce a sottoporvi a
questa visita?

— Frugate, dunque, signore; io sono una colpevole a quando sembra.
Stefania, consegnategli le chiavi dei miei portafogli e dei miei
segreter.

Il cancelliere fece per pura formalità una visita nei mobili, ma egli
sapeva bene che la regina non poteva aver nascosto in un mobile la
lettera importante che ella aveva scritta in quel giorno.

Quando il cancelliere ebbe aperto e richiuso venti volte i segreti del
segreter, bisognava bene, per quanta fosse l'esitazione che provava,
bisognava bene, dico io, venire alla conclusione dell'affare, vale a
dire a frugare la regina stessa. Il cancelliere si avanzò adunque verso
Anna, e con un tuono molto perplesso, e con un'aria molto imbarazzata:

— Ed ora diss'egli, mi resta a fare la perquisizione principale.

— Quale? domandò la regina; che non comprendeva, o che piuttosto non
voleva comprendere.

— Sua Maestà è certa che nella giornata, voi avete scritto una lettera;
sa che questa lettera non è stata ancora inviata al suo indirizzo.
Questa lettera non si ritrova nè dentro ai vostri portafogli, nè dentro
al vostro segreter, eppure questa lettera deve essere in qualche luogo.

— Osereste voi portare la vostra mano sulla regina? disse Anna
raddrizzandosi su tutta l'altezza della sua persona, e fissando sul
cancelliere i suoi occhi, la di cui espressione era quasi divenuta
minacciosa.

— Io sono un suddito fedele del re, e tutto ciò che mi ordinerà Sua
Maestà io lo farò.

— Ebbene! è vero, disse Anna, e le spie del ministro lo hanno servito
bene. Io oggi ho scritto una lettera; questa lettera non è partita. La
lettera è qui.

E la regina portò la sua bella mano sul suo busto.

— Allora, datemi questa lettera, signora, disse il cancelliere.

— Io non la darò che al re, signore, disse Anna.

— Se il re avesse voluto che questa lettera gli fosse rimessa, signora,
ve l'avrebbe domandata egli stesso. Ma ve lo ripeto, sono io che egli
ha incaricato di reclamarvela, e se voi non me la rendete...

— Ebbene?

— Sono io stesso incaricato di prendermela.

— Come! che intendete di dire?

— Che i miei ordini vanno molto avanti, signora, e che io sono
autorizzato a cercare il foglio sospetto, anche sulla persona stessa di
Vostra Maestà.

— Quale orrore! gridò la regina.

— Vogliate dunque, signora, agire con maggior facilità.

— Questa condotta è di una violenza infame, sapete questo signore?

— Il re comanda, signora! scusatemi.

— Io non lo soffrirò, no, no, piuttosto morire! gridò la regina, nella
quale si rimescolava il sangue imperiale della sua stirpe.

Il cancelliere fece una profonda riverenza, quindi con la manifesta
intenzione di non dare addietro di un passo nel compimento della
commissione di cui si era incaricato, e come avrebbe potuto fare
l'aiutante di un boia nella camera della tortura, si avvicinò ad Anna,
dagli occhi della quale si videro nell'istante sgorgare lagrime di
rabbia.

La regina era, come lo abbiam detto, di una grande bellezza. La
commissione adunque poteva passare per delicata, e il re a forza di
gelosia contro Buckingham era giunto al punto di non esser più geloso
d'alcuno.

Senza dubbio il cancelliere Seguier cercò cogli occhi in quel momento
il cordone della famosa campana, che suonava nel suo ritiro, ma non
trovandolo, egli prese il suo partito e stese la mano nella direzione
in cui la regina aveva confessato che si trovava il foglio.

Anna fece un passo in addietro, tanto pallida, che si sarebbe detto che
stava per morire, e appoggiandosi con la mano sinistra per non cadere,
contro una tavola che si trovava dietro a lei, cavò colla destra un
foglio dal suo petto e lo stese al guarda-sigilli.

— Prendete, signore, eccola, quella lettera, gridò la regina con voce
interrotta e fremente, prendetela, ma liberatemi subito dalla vostra
odiosa presenza.

Il cancelliere che dal suo canto tremava per una emozione facile a
concepirsi, prese la lettera salutò fino a terra, e si ritirò.

Appena fu chiusa la porta dietro a lui, la regina cadde svenuta fra le
braccia delle sue donzelle.

Il cancelliere andò a portar la lettera al re senza averne letta una
parola. Il re la prese con una mano tremante, cercò l'indirizzo che non
vi era, diventò pallidissimo, l'aprì lentamente, poi, vedendo che le
prime parole erano indirizzate al re di Spagna, la lesse rapidamente.

Era un piano di attacco contro il ministro. La regina invitava suo
fratello e l'imperatore di Austria, a far sembiante, feriti come
erano dalla politica di Richelieu la di cui eterna preoccupazione
era l'abbassamento della casa di Austria, di dichiarare la guerra
alla Francia ed imporre come condizione della pace, la dimissione del
ministro; ma d'amore, non vi era una sola parola in tutta la lettera.


  FINE DEL PRIMO VOLUME.



INDICE DELLE MATERIE.

(VOL. I.)


  CAP. I.     _I tre regali del signor d'Artagnan padre._         5
  CAP. II.    _L'anticamera del signor de Tréville._             24
  CAP. III.   _L'udienza._                                       38
  CAP. IV.    _La spalla d'Athos, la bandoliera di Porthos,
                ed il fazzoletto d'Aramis._                      52
  CAP. V.     _I Moschettieri del Re, e le guardie
                del ministro._                                   62
  CAP. VI.    _Sua Maestà il Re Luigi Decimoterzo._              75
  CAP. VII.   _L'interno dei Moschettieri._                      99
  CAP. VIII.  _Un intrigo di corte._                            110
  CAP. IX.    _D'Artagnan spiega carattere._                    120
  CAP. X.     _Una trappola da sorci del secolo XVII._          130
  CAP. XI.    _L'intrigo si annoda._                            142
  CAP. XII.   _Giorgio Williers duca di Buckingham._            164
  CAP. XIII.  _Il signor Bonacieux._                            174
  CAP. XIV.   _L'uomo di Méung._                                184
  CAP. XV.    _La gente di toga, e la gente di spada._          197
  CAP. XVI.   _In cui il guarda sigilli Seguier cerca anche
                una volta la campana per suonarla, come ha
                fatto altre volte._                             207



NOTE:


[1] Noi sappiamo che questa locuzione di _Milady_ non è usata che
quando è susseguita dal nome di famiglia. Ma noi la troviamo così nel
manoscritto, e non vogliamo prenderci l'incarico di cambiarla (A.).



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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