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Title: I tre moschettieri, vol. I Author: Dumas, Alexandre Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "I tre moschettieri, vol. I" *** I TRE MOSCHETTIERI DI Alessandro Dumas VERSIONE DI ANGIOLO ORVIETO. VOL. I. Napoli, GIOSUÈ RONDINELLA EDITORE Strada Trinità Maggiore nº 27 1853 TIPOGRAFIA DI G. PALMA CAPITOLO I. I TRE REGALI DEL SIGNOR D'ARTAGNAN PADRE Il primo lunedì del mese d'aprile 1625 il borgo di Méung ove nacque l'autore del _Romanzo della Rosa_, sembrava esser in una così completa rivoluzione, come se gli ugonotti vi fossero venuti a fare una seconda Rochelle. Molti borghigiani vedendo correre le donne lungo la strada maestra, sentendo i fanciulli gridare sul limitare delle porte, si sollecitavano ad indossare la corazza, equilibrando il loro portamento alquanto incerto col mezzo di un moschetto o di una partigiana, o dirigendosi verso l'osteria del _Franc-Meunier_, davanti alla quale si affrettava ed ingrossava di minuto in minuto, un gruppo compatto, rumoroso e pieno di curiosità. In quei tempi i timori panici erano frequenti, e pochi erano quei giorni che passavansi senza che una città o l'altra non registrasse nei suoi archivj qualche avvenimento di questo genere. Vi erano i signori che guerreggiavano fra di loro; v'era il re che faceva la guerra al suo ministro; vi era la Spagna che faceva la guerra al re. Quindi, oltre a queste guerre sorde o pubbliche, secrete o patenti vi erano ancora i ladri, i mendicanti, gli ugonotti, i lupi ed i lacchè che facevano la guerra a tutti, spesso contro i signori e gli ugonotti, qualche volta contro il re, ma mai contro il ministro e lo spagnuolo. Ne resultò dunque da questa presa abitudine, che nel suddetto lunedì del mese d'aprile 1625, i borghigiani sentendo il rumore, e non vedendo nè la banderuola gialla e rossa, nè la livrea del duca di Richelieu si precipitarono dalla parte dell'albergo del Franc-Meunier. Là giunto, ciascuno potè vedere e riconoscere la causa di questo rumore. Un giovane... tracciamo il suo ritratto con un colpo di penna: figuratevi Don Chisciotte di diciotto anni, Don Chisciotte senza giubba, senza usbergo e senza corazza; Don Chisciotte rivestito con un sajo di lana, il di cui colore blu si era trasformato in un miscuglio incomprensibile di fondo di vino e di azzurro celeste. Il viso era lungo e scuro; gli zigomi delle guance sporgenti, segno d'astuzia; i muscoli mascellari enormemente sviluppati; contrassegno infallibile dal quale si riconosce il Guascone anche senza il berretto, ed il nostro giovane portava un berretto ornato con una specie di piuma. L'occhio aperto e intelligente, il naso rivolto, ma disegnato con precisione; troppo grande per essere un fanciullo, troppo piccolo per essere un uomo, e che un occhio un poco esercitato avrebbe preso per il figlio di un affittajuolo in viaggio se non avesse avuto una lunga spada, che appesa ad un pendaglio di pelle, batteva nelle polpe del suo proprietario quando egli era in piedi, e sul pelo arricciato della sua cavalcatura quando era a cavallo. Poichè il nostro giovane aveva una cavalcatura, e questa cavalcatura era anzi così rimarchevole che venne rimarcata di fatto; era un ronzino di Béarn, della età di dodici in quattordici anni, colla pelle gialla, senza crini alla coda, ma non senza vesciconi alle gambe, e che sebbene camminasse con la testa più bassa dei ginocchi, cosa che rendeva inutile l'applicazione della martingala, faceva ancora le sue otto leghe il giorno con tutto il comodo suo. Disgraziatamente le nascoste qualità di questo cavallo, erano così bene nascoste sotto il suo strano pelo e sotto la sua incongrua camminata, che in un tempo in cui gli uomini si distinguevano dai cavalli, l'apparizione del suddetto ronzino a Méung, ove era entrato da circa un quarto d'ora per la porta del Beaugency, produsse una sensazione il di cui disfavore giunse fino al suo cavaliere. E questa sensazione era riuscita tanto più penosa al giovane d'Artagnan (così chiamavasi il don Chisciotte di questo altro Rosinante) che egli non si nascondeva la parte ridicola che gli procurava una simile cavalcatura, per quanto fosse buon cavaliere. Fu per questo che egli aveva sospirato molto quando accettò il dono che a lui ne fece il sig. d'Artagnan padre; egli non ignorava che questa bestia valeva almeno venti lire. È vero però che le parole con cui fu accompagnato il dono non avevano prezzo. «Figlio mio, aveva detto il gentiluomo guascone, in quel puro dialetto di Béarn di cui Enrico IV non potè mai arrivare a disfarsi, figlio mio, questo cavallo è nato nella casa di vostro padre, sono oramai tredici anni, esso vi è sempre rimasto per tutto questo tempo, lasciatelo morire tranquillamente ed onoratamente di vecchiaja, e se voi fate qualche campagna con lui, abbiategli quei riguardi che avreste per un vecchio servitore. Alla corte, continuò il sig. d'Artagnan padre, se pure avreste l'onore di andarvi, onore al quale la vostra vecchia nobiltà vi dà del resto non pochi diritti, sostenete degnamente il vostro nome di gentiluomo, che è stato portato degnamente per più di cinquecento anni dai vostri antenati, tanto per voi, che per la vostra famiglia e per i vostri amici. Non sopportate mai niente se non ciò che viene dal ministro, o dal re. È per il solo suo coraggio, intendetelo bene, per il solo suo coraggio che un gentiluomo in oggi può fare la sua carriera. Chiunque trema anche per un secondo, lascia fuggirsi l'occasione, che precisamente durante questo secondo la fortuna gli presentava. Voi siete giovane e dovete essere coraggioso per due ragioni: la prima è perchè siete guascone, la seconda è perchè voi siete mio figlio. Non schivate le occasioni, e cercate le avventure. Io vi ho fatto imparare a maneggiare la spada; voi avete un garetto di ferro, un pugno di acciajo, battetevi, a tutti i conti; battetevi, tanto più che i duelli sono proibiti, e che per conseguenza è necessario un doppio coraggio per battersi. Figlio mio, io non ho a darvi che quindici scudi, il mio cavallo ed i consigli che avete ascoltati. Vostra madre vi aggiungerà la ricetta di un certo balsamo che ella ha avuto da una zingara, e che ha una virtù miracolosa per guarire tutte le ferite che non hanno colpito il cuore. Traete profitto da tutto, e vivete felice e per lungo tempo. «Non ho più che una sola parola da aggiungere, ed è un esempio che io vi propongo; non il mio, poichè io non sono mai comparso alla corte, e non ho mai fatto che le guerre di religione come volontario: io voglio parlarvi del signor de Tréville, che era in altri tempi mio vicino, e che ha avuto l'onore di giuocare col re Luigi XII, che Iddio conservi, fin da quando era fanciullo. Qualche volta i loro giuochi degeneravano in battaglie, in queste battaglie il re non era sempre il più forte. I colpi che egli ne ricevette procacciarono molta stima ed amicizia al signor de Tréville. In seguito il signor de Tréville si battè ancora con altri, nel suo primo viaggio a Parigi cinque volte; dopo la morte del fu re, fino alla maggiorità del giovine, senza contare le guerre e gli assedi, sette volte; e dopo questa maggiorità fino al giorno d'oggi, forse cento volte! così ad onta degli editti, delle ordinanze, dei decreti, eccolo Capitano dei moschettieri, vale a dire capo di una legione di Cesari di cui il re fa gran conto, e che è temuta dal ministro che, come ognun sa, non teme molte cose. Di più il signor de Tréville guadagna dieci mila scudi per anno; egli è dunque un gran signore. Egli però ha cominciato come voi; andate a fargli visita con questa lettera, e regolatevi a seconda del suo esempio, per fare come ha fatto lui.» Dopo le quali parole il signor d'Artagnan padre cinse a suo figlio la sua propria spada, lo baciò teneramente sopra ambedue le guance e gli dette la sua benedizione. Nel sortire dalla camera paterna, il giovane trovò sua madre che lo aspettava colla famosa ricetta di cui, pe' consigli che abbiamo testè riportati, doveva necessariamente avere spesso necessità d'impiegarla. Gli addii furono da questa parte più lunghi e più teneri di quello che lo erano stati dall'altra parte, non già perchè il signor d'Artagnan non amasse suo figlio, che era la sola sua progenitura, ma il sig. d'Artagnan era un uomo, e avrebbe considerato come indegno di un uomo il lasciarsi trasportare dalla sua emozione, nel mentre che la signora d'Artagnan era donna, e di più era madre. Ella pianse abbondantemente, e, diciamolo a lode del signor d'Artagnan figlio, per quanti sforzi facesse onde restar saldo come doveva esserlo un futuro moschettiere, la natura la vinse, e fu sforzato a versare lagrime, di cui egli giunse con grande stento a nasconderne la metà. Nello stesso giorno il giovine si mise in viaggio, munito dei tre regali paterni che si componevano, come dicemmo, di quindici scudi, del cavallo e della lettera per il sig. de Tréville come si crederà bene, i consigli erano stati dati per un di più al disopra del mercato. Con un simile _vade-mecum_, d'Artagnan si ritrovò, tanto pel morale che per il fisico, una copia esatta dell'eroe di Cervantes, al quale noi lo abbiamo così felicemente paragonato, allorchè il nostro dovere di storico ci ha imposto la necessità di delinearne il ritratto. Don Chisciotte prendeva i molini a vento per giganti, e le mandrie di montoni per armate; d'Artagnan prese ciascun sorriso per un insulto, e ciascuno sguardo per una provoca. Ne resultò che egli ebbe sempre il pugno stretto da Tarbes fino a Méung, e che uno per l'altro portò la mano al pomo della spada almeno dieci volte il giorno; tuttavolta, il pugno non discese sulla mascella di alcuno, e la spada non sortì dal suo fodero, non già che la vista del mal avventurato ronzino giallo non facesse comparire il sorriso sulla faccia di coloro che passavano, ma siccome al disopra del ronzino tentennava una spada di rispettosa lunghezza, e che al disopra di questa brillava un occhio feroce, piuttosto che superbo, quelli che passavano reprimevano la loro ilarità, o se la ilarità aveva il sopravvento sulla prudenza, cercavano almeno di ridere da una parte soltanto, come le maschere antiche, D'Artagnan dimorò dunque maestoso e intatto nella sua suscettibilità, fino a quella malaugurata città di Méung. Ma là, mentre discendeva da cavallo alla porta del _Franc-Meunier_ senza che alcun oste, cameriere o palafreniere venisse a prendere le redini al montatore, d'Artagnan scôrse da una finestra socchiusa del pian terreno un gentiluomo di alta statura e di belle sembianze, quantunque col viso alquanto increspato, il quale parlava con due persone, che sembravano ascoltarlo con attenzione. D'Artagnan credè naturalmente, secondo la sua abitudine, di essere l'oggetto della conversazione, ed ascoltò. Questa volta d'Artagnan non si era sbagliato che per metà, non si trattava di lui, ma del suo cavallo. Il gentiluomo sembrava enumerare ai suoi uditori tutte le sue qualità, e poichè, come si disse, gli uditori sembravano avere una grande attenzione al narratore, davano in risate ad ogni momento. Ora, siccome bastava un mezzo sorriso per svegliare l'irascibilità del giovane, si comprenderà facilmente quale effetto dovesse produrre in lui una ilarità così rumorosa. Ciò non ostante d'Artagnan volle sulle prime rendersi conto della fisonomia dell'impertinente che si burlava di lui. Fissò il suo sguardo orgoglioso sullo straniero; e riconobbe un uomo dai quaranta ai quarantacinque anni, con gli occhi neri e penetranti, un colorito scurito, un naso fortemente accentato, e un pajo di baffi neri tagliati a perfezione: egli era vestito di un sajo e di un giacco da caccia violetto colle rivolte dello stesso colore, senz'altro ornamento che le aperture ordinarie dalle quali usciva la camicia. Questo giaco e questo sajo, quantunque nuovi, sembravano spiegazzati come gli abiti di viaggio tenuti lungamente chiusi nel porta-mantello. D'Artagnan fece tutte queste osservazioni colla rapidità dell'osservatore il più scrupoloso, e senza dubbio per un sentimento istintivo che gli diceva, che questo sconosciuto doveva avere una grande influenza sulla sua vita avvenire. Ora, siccome al momento in cui d'Artagnan fissava lo sguardo sul gentiluomo dal sajo violetto, il gentiluomo faceva sul ronzino bearnese una delle sue più sapienti e profonde dimostrazioni, i suoi uditori scoppiarono in una risata, ed egli stesso, contro la sua abitudine, lasciò visibilmente errare, se si può dir così, un pallido sorriso sulle sue labbra. Questa volta non vi era più alcun dubbio: d'Artagnan era realmente insultato. Così, pieno di questa convinzione, si calcò il berretto sugli occhi, e, cercando di copiare qualcuna di quelle posizioni di corte che aveva osservate in Guascogna presso dei signori viaggiatori, egli si avanzò con una mano sulla guardia della spada, e coll'altra appoggiata sul fianco. Disgraziatamente, a misura che egli si avanzava, la collera lo accecava sempre più, e in luogo del discorso degno e sostenuto che aveva preparato per formulare la sua provoca, egli non trovò più all'estremità della sua lingua che una grossolana personalità, che fu da lui accompagnata con un gesto furioso. — Che! signore, gridò egli, signore! che vi nascondete dietro lo sportello? sì, voi, ditemi dunque un poco di che cosa ridete, e noi rideremo assieme! Il gentiluomo ricondusse lentamente gli occhi dal cavallo al cavaliere, come se fosse abbisognato qualche tempo per capire che così strane parole erano a lui indirizzate; quindi, allorchè non potè più averne alcun dubbio, i suoi sopraccigli si aggrottavano leggermente, dopo una sufficiente pausa, con un accento d'ironia e d'insolenza impossibili a descrivere, egli rispose a d'Artagnan. — Io non parlo con voi, signore. — Ma parlo ben io con voi, gridò il giovane esasperato da questo miscuglio d'insolenza e di buone maniere, di convenienza e di disprezzo. Lo sconosciuto lo guardò ancora un istante col suo leggero sorriso; e, ritirandosi dalla finestra, sortì lentamente dall'osteria per venirsi a piantare in faccia al cavallo, alla distanza di due passi da d'Artagnan. Il suo portamento tranquillo, e la sua fisonomia scherzosa avevano raddoppiato l'ilarità di coloro coi quali parlava, e che erano rimasti alla finestra. D'Artagnan, vedendolo arrivare cavò più di un piede della sua spada fuori del fodero. — Questo cavallo è decisamente, o piuttosto è stato nella sua gioventù pomellato in oro, riprese lo sconosciuto, continuando le investigazioni incominciate e indirizzandosi a' suoi uditori della finestra, senza sembrare di fare alcuna attenzione alla esasperazione di d'Artagnan, che pure frapponevasi fra lui ed essi. Questo è un colore conosciuto in botanica, ma fino adesso molto raro nei cavalli. — V'ha tale che ride del cavallo che non oserebbe ridere del padrone! gridò l'emulo furioso di de Tréville. — Io non rido spesso, signore, riprese lo sconosciuto, come voi potete persuadervene da voi stesso dall'aspetto del mio viso; ma io voglio conservare il privilegio di poter ridere quando mi piace. — Ed io gridò d'Artagnan, io non voglio che si rida quanto mi dispiace. — Davvero, signore? continuò lo sconosciuto più calmo che mai. Ebbene! è perfettamente giusto. E girando su' suoi calcagni si disponeva a rientrare nell'osteria per la gran porta, sotto la quale d'Artagnan nel giungere aveva rimarcato un cavallo già insellato. Ma d'Artagnan non era di tal carattere da lasciare in tal modo un uomo che aveva avuta l'insolenza di burlarsi di lui. Cavò interamente la sua spada dal fodero, e si mise a perseguirlo gridando: — Voltatevi, voltatevi dunque signor motteggiatore, che io non abbia a battervi per di dietro! — Batter me! disse l'altro girando sui talloni e guardando il giovane con tanta meraviglia quanto era il disprezzo. Andiamo dunque, mio caro, voi siete un pazzo! Quindi a mezza voce, e come se avesse parlato a se stesso. — È cosa dispiacente, continuò egli, bella recluta per Sua Maestà, che cerca da tutte le parti dei bravi per completare i suoi moschettieri! Terminava appena, che d'Artagnan gli stendeva un così furioso colpo di punta, che, s'egli non avesse fatto prestamente uno sbalzo in addietro, è probabile che avrebbe scherzato per l'ultima volta. Lo sconosciuto vide allora che la cosa oltrepassava lo scherzo, cavò la sua spada, salutò il suo avversario, e si mise gravemente in guardia. Ma nello stesso tempo i suoi due uditori, accompagnati dall'oste, piombarono sopra d'Artagnan con gran colpi di bastone, di paletta e di molle. Ciò fece una diversione così rapida e così completa all'attacco, che l'avversario di d'Artagnan, nel mentre che questi si voltava per far fronte a quella grandine di colpi, rimetteva nel fodero la sua spada colla massima precisione, e, da attore, ritornava spettatore del combattimento, parte di cui si disimpegnava colla consueta sua impassibilità, mentre ciò non ostante brontolava: — Venga la peste a questi Guasconi! rimettetelo sul suo cavallo color d'arancio, e ch'egli se ne vada. — Non prima di averti ucciso! gridò d'Artagnan, mentre faceva fronte il meglio che poteva, senza rinculare di un passo, ai suoi tre nemici, che lo maltrattavano di colpi. — Ancora un'altra Guasconata! mormorò il gentiluomo. Sull'onor mio, questi Guasconi sono incorreggibili. Continuate dunque la danza, poichè egli vuole assolutamente ballare. Quando sarà stanco, egli dirà che ne ha abbastanza. Ma lo sconosciuto non sapeva ancora con qual genere di testardo aveva a che fare: d'Artagnan non era l'uomo da domandare mai grazia. Il combattimento continuò dunque ancora qualche secondo: finalmente, d'Artagnan spossato lasciò sfuggirsi la spada, che un colpo di bastone aveva troncata in due pezzi. Un altro gli colpì la fronte, e lo rovesciò quasi nello stesso tempo tutto insanguinato, e quasi svenuto. Fu in questo momento che da tutte le parti si accorse al luogo della scena. L'oste, temendo uno scandalo, trasportò coll'ajuto del suo servitore il ferito in cucina, ove gli furono usate alcune cure. In quanto al gentiluomo, egli era ritornato a prendere il suo posto alla finestra, e guardava con una certa impazienza tutta quella folla, che sembrava destargli una contrarietà nel rimanere in quel luogo. — Ebbene come va quell'arrabbiato? riprese egli voltandosi al rumore che fece la porta nell'aprirsi, indirizzandosi all'oste che veniva ad informarsi della sua salute. — È sana e salva vostra Eccellenza? domandò l'oste. — Sì, perfettamente sano e salvo, mio caro oste, e sono io che vi domando come va quel giovane. — Va meglio, disse l'oste, egli è del tutto svenuto. — Davvero? fece il gentiluomo. — Ma prima di svenirsi, egli ha radunate tutte le sue forze per chiamarvi, e per sfidarvi chiamandovi. — Ma dunque è il diavolo in persona, questo malandrino! gridò lo sconosciuto. — Oh! no, Eccellenza; non è il diavolo, riprese l'oste con una smorfia di disprezzo, perchè durante il suo svenimento noi lo abbiamo perquisito, e nel suo fagottino non ha che una camicia, e nella sua borsa non ha che undici scudi, cosa però che non gli ha impedito dire mentre cadeva in svenimento, che se una simile cosa fosse accaduta a Parigi voi ve ne sareste pentito sull'atto, nel mentre che qui voi non ve ne pentirete che più tardi. — Allora, disse freddamente lo sconosciuto, è qualche principe del sangue travestito. — Io vi dico questo, mio gentiluomo, riprese l'oste, affinchè voi stiate sulle difese. — Nella sua collera, ha egli nominato nessuno? — Sì, egli batteva sulla saccoccia, e diceva noi vedremo ciò che il signore de Tréville penserà di questo insulto fatto al suo protetto. — Il signor de Tréville? disse lo sconosciuto divenendo attonito; batteva sulla sua tasca pronunciando il nome del signor de Tréville?... Vediamo, mio caro oste, mentre che il giovane era svenuto, voi non sarete stato, ne son ben certo, senza guardare in questa saccoccia. Che cosa v'era? — Una lettera indirizzata al signor de Tréville, capitano dei moschettieri. — Davvero? — La cosa è come ho l'onore di dirvela, eccellenza. L'oste che non era dotato di una grande perspicacia, non notò l'espressione che le sue parole avevano impresso nella fisonomia dello sconosciuto. Questi lasciò il parapetto della finestra sul quale era sempre rimasto appoggiato colla punta del gomito, e aggrottò il sopracciglio come un uomo inquieto. — Diavolo! mormorò egli fra' i denti; Tréville mi avrebbe egli inviato questo Guascone? questi è molto giovane! ma un colpo di spada è un colpo di spada, qualunque sia l'età di quello che lo dà, e si ha minor diffidenza in un ragazzo che in tutt'altro, basta molte volte un debole ostacolo per mandare a terra un gran disegno. E lo sconosciuto cadde in una riflessione che durò qualche minuto. — Vediamo, oste, diss'egli, non mi sbarazzerete voi da questo frenetico? in coscienza, ora non posso ucciderlo, e ciò non ostante aggiunse egli con una espressione freddamente minacciosa, ciò nonostante egli m'incomoda. Ov'è egli? — Nella camera di mia moglie al primo piano, ove è medicato. — I suoi arredi e il suo sacco sono con lui? ha egli seco il suo sajo? — Tutto ciò, al contrario, è disotto in cucina. Ma poichè v'incomoda questo giovane pazzo... — Senza dubbio. Egli cagiona nella vostra osteria uno scandalo al quale non saprebbero resistere le persone oneste. Salite nella vostra stanza, fatemi il conto e avvertite il lacchè. — Che il signore ci vuole lasciare di già? — Voi lo sapete bene, poichè vi aveva dato l'ordine di fare insellare il mio cavallo. Non sono io forse stato obbedito? — Certamente e, come vostra Eccellenza ha potuto vederlo, il suo cavallo è sotto la porta grande già apparecchiato per partire. — Sta bene, allora fate quanto vi ho detto. — Che! disse a se stesso l'oste avrebbe egli forse paura di quel ragazzo? Ma un colpo d'occhio imperativo dello sconosciuto venne a tagliar corto, egli salutò umilmente e sortì. — Non bisogna che Milady[1] si accorga di questo furbo, continuò lo straniero: ella non deve tardare a giungere; ella è già in ritardo. Decisamente val meglio che io monti a cavallo, e che vada ad incontrarla... Se potessi soltanto sapere ciò che contiene quella lettera indirizzata a Tréville! E lo sconosciuto, borbottando si diresse verso la cucina. In questo mentre l'oste, che non dubitava che fosse la presenza del giovane che scacciava lo sconosciuto dalla sua osteria, era risalito da sua moglie, e aveva ritrovato d'Artagnan padrone finalmente dei suoi sensi. Allora, facendogli comprendere che la polizia potrebbe fargli un cattivo partito per aver cercato contesa con un gran signore, poichè, secondo il parere dell'oste, lo sconosciuto non poteva essere che un gran signore, egli lo determinò, ad onta della sua debolezza, ad alzarsi e a continuare il suo viaggio. D'Artagnan mezzo sbalordito, senza sajo, e colla testa tutta ammaliata di fasce, si alzò adunque, e sollecitato dall'oste, cominciò a discendere; ma giungendo in cucina, la prima cosa di cui s'accorse fu del suo provocatore, che parlava tranquillamente appoggiato allo sportello di una pesante carrozza alla quale erano attaccati due grossi cavalli normanni. La sua interlocutrice, la di cui testa compariva incorniciata dalla portiera, era una donna dai venti ai ventidue anni. Noi abbiamo già detto con quale rapidità d'investigazione d'Artagnan abbracciava una intiera fisonomia; egli dunque vide a primo colpo d'occhio che la donna era giovane e bella. Ora questa bellezza lo colpì tanto più, inquantochè essa era perfettamente straniera ai paesi meridionali che fino allora erano stati abitati da d'Artagnan. Era una pallida e bionda signora, coi capelli arricciati cadenti sulle spalle, con grandi occhi blu languenti, colle labbra rosee e colle mani d'alabastro; ella parlava con molta vivacità allo sconosciuto. — Per tal modo, il ministro m'ordina... diceva la signora. — Di ritornare sull'istante in Inghilterra, e di prevenirlo direttamente se il duca lasciasse Londra. — E in quanto alle mie istruzioni? domandò la bella viaggiatrice. — Esse sono racchiuse in questo pacco, che voi non aprirete che giunta all'altra parte della Manica. — Benissimo; e voi cosa fate? — Io? io ritorno a Parigi. — Senza gastigare questo insolente ragazzo? domandò la dama. Lo sconosciuto stava per rispondere, ma al momento in cui apriva la bocca, d'Artagnan, che aveva tutto inteso, si slanciò sulla soglia della porta. — È questo insolente ragazzo che gastiga gli altri, gridò egli, e spero bene che questa volta quello che egli deve gastigare non gli scapperà, come la prima volta. — Non gli scapperà? riprese lo sconosciuto aggrottando il sopracciglio. — No, davanti una donna, voi non oserete fuggire, lo presumo. Pensate, gridò Milady vedendo il gentiluomo portare la mano alla sua spada, pensate che il più piccolo ritardo può perdere tutto. — Voi avete ragione, gridò il gentiluomo; partite dunque dalla vostra parte, io parto dalla mia. E salutando la dama con un segno di testa, si slanciò sul suo cavallo nel mentre che il cocchiere della carrozza frustava la sua pariglia. I due interlocutori partirono dunque al galoppo, allontanandosi ciascuno da una parte opposta della strada. — E le vostre spese? vociferò l'oste, in cui l'affezione per il suo viaggiatore si cambiava in uno sdegno profondo, vedendo ch'egli si allontanava senza saldare il suo conto. — Paga gaglioffo, gridò il viaggiatore, sempre galoppando, al suo lacchè, il quale gettò ai piedi dell'oste due o tre monete d'argento, e si mise a galoppare dietro al suo padrone. — Ah! vile, ah! miserabile, ah! falso gentiluomo gridò d'Artagnan slanciandosi dietro il lacchè. Ma il ferito era troppo debole ancora per sopportare una simile scossa. Appena egli ebbe fatto dieci o dodici passi, sentì un tintinnio alle orecchie, fu preso da un rivolgimento, una nube di sangue passò avanti i suoi occhi, e andò a cadere nel mezzo della strada gridando sempre: — Vile! vile! vile! — Egli di fatti è ben vile, mormorò l'oste avvicinandosi a d'Artagnan, cercando con questa adulazione di raccomodarsi col povero giovane, come l'airone della favola colla sua lumaca della sera. — Sì, ben vile, mormorò d'Artagnan, ma ella, ben bella! — Chi ella? domandò l'oste. — Milady, balbettò d'Artagnan. E si svenne una seconda volta. E lo stesso, disse l'oste: io ne perdo due, ma mi resta questo, che almeno son sicuro, di trattenere qualche giorno. Sono sempre undici scudi guadagnati. Noi sappiamo che undici scudi formavano precisamente la somma che restava nella borsa di d'Artagnan. L'oste aveva contato sopra undici giorni di malattia ad uno scudo il giorno; ma egli aveva contato senza il viaggiatore; l'indomani, alle cinque del mattino, d'Artagnan si alzò, discese egli stesso in cucina, domandò, fra gli altri ingredienti la di cui nota non è giunta fino a noi, del vino, dell'olio, del ramerino, e, con la ricetta di sua madre alla mano, si compose un balsamo col quale si unse le sue numerose ferite rinnovellando le sue compresse da se, e non volendo ammettere l'intervento di alcun medico. Mercè senza dubbio all'efficacia di questo balsamo della zingara, e forse anche mercè all'assenza di ogni medico, d'Artagnan si ritrovò in piedi fin dalla stessa sera, e quasi guarito l'indomani. Ma al momento di pagare questo ramerino, questo olio e questo vino, sole spese del giovane che aveva osservata la dieta la più assoluta; nel mentre che al contrario il cavallo giallastro, al dire almeno dell'oste, aveva mangiato tre volte più che non si sarebbe potuto supporre ragionevolmente dalla sua struttura, d'Artagnan non ritrovò più nella sua saccoccia che la piccola borsa di velluto rapato, unitamente agli undici scudi che conteneva; ma in quanto alla lettera diretta al sig. de Tréville, ella era sparita. Il giovane cominciò dal cercare questa lettera con una gran pazienza, girò e rigirò venti volte le sue saccocce, e i suoi saccoccini, frugò e rifrugò nel suo sacco, aprendo e richiudendo la sua borsa; ma allorquando egli fu convinto che la lettera non potevasi ritrovare montò in un terzo accesso di rabbia, che poco mancò non gli facesse aver bisogno di un nuovo consumo di vino e dell'olio aromatizzati, poichè, vedendo questa giovane testa riscaldarsi e minacciare di romper tutto nello stabilimento se non si ritrovava quella lettera, l'oste si era già provveduto di uno spiedo, sua moglie di un manico di scopa, e il servitore di uno di quei bastoni che avevano servito così bene l'antivigilia. — La mia lettera di raccomandazione, o per bacco, io v'infilo tutti come tanti ortolani. Disgraziatamente una circostanza sola si opponeva a ciò che il giovane potesse compiere la sua minaccia: ed era, come lo abbiamo detto, che la sua spada era stata spezzata nella sua prima lotta, cosa che egli aveva del tutto dimenticato. Ne resultò, che allorquando d'Artagnan volle, in fatti, sguainarla, egli si trovò puramente e semplicemente armato di un tronco di spada di circa otto o dieci pollici di lunghezza, che l'oste aveva con ogni cura rimesso dentro al fodero. Quanto al resto della lama, l'oste l'aveva destramente riposta colla idea di farne un coltello da cucina. Questo disinganno non avrebbe però trattenuto probabilmente il nostro giovane focoso, se l'oste non avesse riflettuto che il reclamo che gli veniva diretto dal viaggiatore, era perfettamente giusto. — Ma, al fatto, diss'egli abbassando il suo spiedo, ov'è questa lettera? — Sì, dov'è questa lettera? grido d'Artagnan. Primieramente io vi avverto che questa lettera è per il signor de Tréville, e bisogna ch'ella si trovi, o se non si trova, egli saprà bene farla ritrovare. Questa minaccia compiè d'intimidire l'oste. Dopo il re ed il ministro, il signor de Tréville era l'uomo il di cui nome fosse il più spesso ripetuto dai militari ed anche dai borghesi. Vi era pure il padre Giuseppe, è vero; ma il suo nome non era mai pronunziato che a bassa voce, tanto era il terrore che inspirava il frate grigio, come veniva chiamato il confidente del ministro. Così, gettando il suo spiedo lungi da se, e ordinando a sua moglie di fare altrettanto del suo manico di scopa, e ai suoi servitori dei loro bastoni, egli dette pel primo l'esempio mettendosi egli stesso a cercare la lettera perduta. — Questa lettera racchiude forse qualche oggetto prezioso? domandò l'oste dopo un momento di ricerche inutili. — Senza dirlo, lo credo bene! gridò il Guascone, che calcolava su questa lettera per fare il suo cammino per la corte; ella conteneva la mia fortuna. — Dei buoni sulla Spagna? domandò l'oste inquieto. — Dei buoni sulla tesoreria particolare di Sua Maestà, rispose d'Artagnan, che, contando di entrare al servizio del re mercè quella raccomandazione credeva poter fare senza mentire questa risposta quantunque un poco azzardata. — Diavolo! fece l'oste disperato del tutto. — Ma non importa, continuò d'Artagnan colla sua indifferenza nazionale, non importa, il denaro non è niente: questa lettera è il tutto. Avrei amato meglio perdere mille doppie di quello che perdere la lettera. Egli non arrischiava di più se avesse detto venti mila, ma un certo pudore giovanile lo trattenne. A un tratto un lampo di luce colpì in un subito lo spirito dell'oste, che si dava al diavolo, non trovando niente. — Questa lettera non è perduta, gridò egli. — Ah! fece d'Artagnan. — No, ella vi è stata presa. — Presa! e da chi? — Dal gentiluomo d'ieri, egli discese in cucina dove stava il vostro sajo. Egli è rimasto solo. Scommetterei che è stato lui che l'ha rubata. — Voi credete? riprese d'Artagnan poco convinto, poichè sapeva meglio di qualunque altro l'importanza del tutto personale di quella lettera, e non vi vedeva niente che potesse tentare la cupidigia. Il fatto è che nessuno dei viaggiatori presenti avrebbe guadagnato nel possedere quel foglio. — Voi dite dunque, riprese d'Artagnan, che supponete questo impertinente gentiluomo?... — Io vi dico che sono sicuro, continuò l'oste; allora quando gli ho annunziato che vostra signoria era il protetto del signor de Tréville, che voi avevate una lettera per questo gentiluomo, egli è sembrato molto inquieto, mi ha domandato ove era questa, ed è disceso immediatamente in cucina ove sapeva essere il vostro sajo. — Allora egli è il mio ladro, rispose d'Artagnan; io ne farò le mie lagnanze col sig. de Tréville, ed il sig. de Tréville farà le sue dimostrazioni al re. Cavò quindi maestosamente due scudi dalla sua borsa, li dette all'oste, che l'accompagnò coi cappello in mano fino alla porta, rimontò sulla sua cavalcatura gialla, che lo condusse senza alcun accidente alla porta sant'Antonio di Parigi, ove il suo proprietario lo vendè per tre scudi con che era molto bene pagato, attesocchè d'Artagnan l'aveva molto stancato nell'ultima tappa. Così il birocciajo al quale d'Artagnan lo cedè, mercè le nove lire suddette, non nascose al giovane che gli dava questa somma esorbitante soltanto per la originalità del colore della pelle. D'Artagnan entrò dunque in Parigi a piedi, portando il suo piccolo fagotto sotto il braccio camminando fino a tanto che ebbe ritrovato una camera ammobiliata che convenisse alla tenuità delle sue risorse. Questa camera era una specie di mezzanino, ritrovata nella strada Fossoyeurs, vicino al Luxembourg. Subito dopo data la caparra, d'Artagnan prese possesso del suo alloggio, passò il restante della giornata a cucire al suo sajo e a' suoi calzoni dei passamani, che sua madre aveva staccati da un sajo quasi nuovo del signor d'Artagnan padre, e che gli aveva regalati sotto Sigillo; quindi andò alla riviera della Ferraille a far rimettere la lama della sua spada, poscia ritornò al Louvre per informarsi, dal primo moschettiere che ritrovò, dove era situato il palazzo del signor de Tréville, che era nella strada del Vecchio Colombajo, vale a dire precisamente nelle vicinanze della camera presa in affitto da d'Artagnan; circostanza che gli parlava di un felice augurio pel successo del suo viaggio. Dopo di che, contento del modo con cui si era condotto a Méung, senza rimorsi del passato, confidando nel presente e pieno di speranze nell'avvenire, andò a letto e dormì il sonno del bravo. Questo sonno, ancora tutto provinciale, lo portò fino alle nove del mattino, ora nella quale si alzò per portarsi da questo famoso signore de Tréville, il terzo personaggio del regno giusta il giudizio paterno. CAPITOLO II. L'ANTICAMERA DEL SIGNOR DE TRÉVILLE Il signor de Troisville, come si chiamava ancora la sua famiglia in Guascogna, o il sig. de Tréville, come anch'egli aveva finito per chiamare se stesso a Parigi, aveva realmente cominciato come d'Artagnan, vale a dire senza un soldo, ma con quel fondo di audacia, di spirito e di testardaggine che fa sì, che il più povero gentiluomo _guascone_ riceve spesso di più nelle sue speranze dall'eredità paterna, che il più ricco gentiluomo _perigordino_ o _berissone_ non ne riceve in realtà. Il suo coraggio insolente, la sua fortuna anche più insolente in tempi in cui i colpi piovevano come la tempesta, lo avevano tirato alla sommità di quella scala difficile, che si chiama il favore della corte, e della quale egli aveva montati a quattro a quattro gli scalini. Egli era l'amico del re, il quale onorava molto, come ognun sa, la memoria di suo padre Enrico IV. Il padre del signor de Tréville lo aveva così fedelmente servito nelle sue guerre contro la lega, che in mancanza di denaro contante, cosa che mancò in tutta la sua vita al Bearnese, il quale pagava costantemente i suoi debiti colla sola cosa che non aveva mai bisogno di comprare, vale a dire collo spirito: che in mancanza di denaro contante, dicevamo noi, egli lo aveva autorizzato, dopo la resa di Parigi, a prendere per stemma un leone d'oro posante sopra una sbarra, con questa divisa: _Fidelis et fortis_. Era molto per l'onore, ma era poco per viver bene. Per tal guisa, quando morì l'illustre compagno del grande Enrico, lasciò per unica eredità al signor figlio la sua spada e la sua divisa. Mercè questo doppio dono, ed un nome senza macchia che lo accompagnava, il signor de Tréville fu ammesso nella casa del giovane principe, in cui si servì tanto bene della sua spada, e fu tanto fedele alla sua divisa, che Luigi XIII, che era una delle buone spade del suo regno, aveva l'abitudine di dire che, s'egli avesse un amico che si dovesse battere, lo consiglierebbe a scegliersi per padrino prima lui, poscia de Tréville, e forse anche prima di lui. Luigi XIII aveva dunque un vero attaccamento per de Tréville, attaccamento regio, attaccamento egoista, è vero, ma che ciò non pertanto era un vero attaccamento. Fu perchè in quei disgraziati tempi si aveva gran cura di circondarsi d'uomini della tempra dei de Tréville. Molti potevano prendere per divisa l'epiteto _di forte_ che formava la seconda parte del motto del suo stemma, ma ben pochi gentiluomini potevano reclamare l'epiteto di _fedele_ che ne formava la prima parte. De Tréville era uno di questi ultimi; era una di quelle rare organizzazioni, colla intelligenza obbediente come quella di un alunno, con un valore cieco, coll'occhio rapido, la mano pronta, ed a cui l'occhio non era stato dato che per vedere se il re era malcontento di qualcuno, e la mano per percuotere questo qualcuno che dispiaceva, un Besme, un Maurevers, un Poltrot, de Merè, in fine un Vitry. A de Tréville fino allora non era mancata che un'occasione, ma egli la appostava, e si riprometteva di afferrarla bene pei suoi tre capelli se mai fosse passata alla portata della sua mano. Così Luigi XIII fece de Tréville capitano dei suoi moschettieri, i quali pel loro attaccamento, o piuttosto per il loro fanatismo, eran a Luigi XIII ciò ch'erano gli ordinarj ad Enrico III, e ciò che la guardia scozzese era a Luigi XI. Dal suo lato, e sotto questo rapporto, il ministro non era rimasto addietro al re. Quando vide la formidabile _scelta_ di cui si circondava Luigi XIII, questo secondo, o per meglio dire questo primo re di Francia, aveva anch'egli voluto avere la sua guardia. Egli ebbe dunque i suoi moschettieri, come Luigi XIII aveva i propri, e si vedevano queste due potenze rivali scegliere pel loro servigio, da tutte le parti della Francia ed anche dagli stati stranieri, gli uomini i più celebri pei loro gran colpi di spada. Così Luigi XIII e Richelieu quistionavano spesso la sera mentre giuocavano agli scacchi, in rapporto al merito dei loro servitori. Ciascuno vantava la proprietà ed il coraggio dei suoi, e mentre decretavano formalmente contro i duelli e le risse, li eccitavano in secreto a venire alle mani, e provavano un vero dispiacere, od una gioja immoderata per la vittoria dei loro. Così almeno raccomandano le memorie di un uomo che si trovò in qualcuna di queste disfatte e in molte di queste vittorie. De Tréville aveva preso il lato debole del suo padrone, ed era a questa destrezza ch'egli doveva il lungo e costante favore di un re, che non ha lasciato la fama di essere stato troppo fedele alle sue amicizie. Egli faceva mettere in parata i suoi moschettieri davanti ad Armando Duplessis, con un'aria beffarda che non faceva che arricciare per la collera i baffi grigi del ministro. De Tréville intendeva ammirabilmente la guerra di quell'epoca, in cui; quando non si viveva alle spese del nemico, si viveva alle spese dei propri compatriotti: i suoi soldati formavano una legione di diavoli a quattro, indisciplinati per tutti fuorchè per lui. Sfrenati, avvinacciati, scorticati, i moschettieri del re, o piuttosto quelli del signor de Tréville, si spandevano per le osterie, per le passeggiate, nei giuochi pubblici, gridavano forte, arricciandosi i baffi, facendo suonare le spade, urtando con voluttà le guardie del ministro quando le incontravano, e cavando quindi le spade in piena strada con mille motteggi; uccisi qualche volta, ma sicuri sempre in questo caso d'essere compianti e vendicati; uccidendo spesso, e sicuri allora di non ammuffare in prigione, perchè il signor de Tréville era sempre là per reclamarli. Per tal modo il signor de Tréville era lodato in tutti i tuoni, cantato per tutte le canzoni da questi uomini che l'adoravano, e che, per quanto fossero tutti gente da sacco e da corda, tremavano davanti a lui come altrettanti scolari davanti al loro maestro, obbedendo alla più piccola parola, e pronti a farsi ammazzare per lavare il più piccolo rimprovero. Il signor de Tréville aveva fatto uso di questa leva potente prima pel re e per gli amici del re, quindi per se stesso e per i suoi amici. Del resto in nessuna memoria di quel tempo, che ha lasciate tante memorie, non si vede che questo degno gentiluomo sia mai stato accusato neppure dai suoi nemici, ed egli ne aveva tanti, sia fra gli uomini di penna che fra quelli di spada, in nessun luogo si vede, diciamo noi che questo degno gentiluomo sia stato notato d'essersi fatto pagare la cooperazione de' suoi. Con un raro ingegno d'intrigo; che lo rendeva uguale ai più forti intriganti, egli era rimasto onest'uomo. Più ancora, a dispetto dei grandi ostacoli che sfiancano, e degli esercizi penosi che affaticano, egli era divenuto uno dei più galanti scorridori delle stradelle, uno dei più fini damerini, uno dei più lampiccati parlatori della sua epoca; si parlava delle buone avventure di de Tréville, come vent'anni prima si era parlato di quelle di Bassompierre, e non era dir poco. Il capitano dei moschettieri era dunque ammirato, temuto ed amato, ciò che costituisce l'apice delle umane fortune. Luigi XIV assorbì tutti i piccoli astri della sua corte nel suo vasto splendore; ma suo padre, sole _pluribus impar_ (_non uguale per tutti_) lasciò il suo splendore personale a ciascuno dei suoi favoriti, il suo valore individuale a ciascuno dei suoi cortigiani. Oltre l'udienza mattinale _l'alzata_ del re e quella del ministro, si contavano a Parigi allora più di duecento piccole _alzate_, quella di de Tréville era una delle più frequentate. Il cortile della sua abitazione, posta nella strada del Vecchio Colombajo, rassomigliava ad un campo, e ciò fin dalle sei ore della mattina nell'estate, e dalle otto ore nell'inverno. Da cinquanta a sessanta moschettieri, che sembravano colà radunarsi per offrire un numero piuttosto imponente, vi passeggiavano sempre, armati come in istato di guerra, e pronti a tutto. Lungo quelle spaziose scale; sul solo pianerottolo di una delle quali la nostra moderna civilizzazione fabbricherebbe una casa intera, ascendevano e discendevano i sollecitatori di Parigi, che correvano dietro un favore qualunque, i gentiluomini di provincia, avidi di essere arruolati, ed i lacchè guerniti di tutti i colori, che venivano a recare al signor de Tréville i messaggi dei loro padroni. Nell'anticamera sopra lunghi panchetti circolari riposavano gli eletti, cioè quelli ch'erano stati chiamati. Il mormorio là era continuo dalla mattina alla sera, nel mentre che il signor de Tréville, nel suo gabinetto contiguo a questa anticamera, riceveva le visite, ascoltava le lagnanze, dava i suoi ordini, e, come il re dalla sua loggia del Louvre, non aveva che a mettersi alla finestra per passare la rivista degli uomini e delle armi. Il giorno in cui si presentò d'Artagnan l'assemblea era imponente, particolarmente per un provinciale che veniva dalla sua provincia: è vero che questo provinciale era guascone, e che soprattutto in quell'epoca i compatrioti di d'Artagnan godevano della riputazione di non lasciarsi facilmente intimorire. In fatti, una volta che erasi superata la porta massiccia, incavigliata con lunghi chiodi dalla testa quadrangolare si cadeva in mezzo ad una folla d'uomini d'arme che s'incrociavano nel cortile interpellandosi, o querelandosi, o giuocando fra loro. Per aprirsi liberamente un passaggio in mezzo a tutti questi flutti tempestosi, bisognava essere ufficiale, gran signore o bella donna. Fu dunque in mezzo a questa mischia, e a questo disordine che il nostro giovane si avanzò col cuore palpitante, accomodando la sua lunga spadaccia parallela alle sue magre gambe, tenendo una mano all'orlo del suo feltro con quel mezzo sorriso da provinciale imbarazzato che vuol fare il disinvolto. Appena aveva oltrepassato un gruppo, allora respirava più liberamente; ma capiva che si rivolgevano per guardarlo, e per la prima volta in vita sua d'Artagnan, che, fino a quel giorno, aveva avuta molta buona opinione di se stesso, si riconobbe ridicolo. Giunto alla scala, fu ancora peggio; sui primi scalini vi erano quattro moschettieri, che si divertivano al seguente esercizio, nel mentre che dieci o dodici altri dei loro camerati aspettavano sul piano che venisse il loro turno per prendere parte attiva alla partita. Uno di essi situato sullo scalino superiore, colla spada alla mano, impediva, o meglio, fingeva d'impedire agli altri tre di salire. Gli altri tre giuocavano di scherma contro di lui colle loro spade, e con grandissima agilità. D'Artagnan sulle prime suppose che quello spade fossero fioretti: egli credè che fossero bottonati: ma riconobbe ben tosto da certe graffiature, che ciaschedun'arma, al contrario, era molto bene affilata ed appuntata, e a ciascheduna di queste graffiature, non solo gli spettatori, ma ancora gli attori ridevano come matti. Colui che in quel momento occupava lo scalino teneva in rispetto i suoi assalitori maravigliosamente. Era stato fatto cerchio intorno ad esso. La condizione portava che a ciascun colpo il toccato lasciasse la partita, perdendo il suo giro d'udienza a profitto del toccatore. In cinque minuti tre furono sfiorati, uno alla mano, l'altro al mento, l'altro all'orecchia, dal difensore dello scalino, che non fu per niente toccato, sveltezza che secondo le convenzioni gli valse tre turni in suo vantaggio. Per quanto fosse difficile non già ad essere, ma a volersi maravigliare, questo passatempo però maravigliò il nostro giovane viaggiatore: egli aveva veduto nella sua provincia, in quella terra ove si scaldano così prestamente le teste, un poco più di preliminare ai duelli, e la guasconata di questi quattro giuocatori gli parve la più forte di tutte quelle che aveva udito fino allora anche in Guascogna. Egli credette di essere trasportato nei famosi paesi dei giganti, ove Gulliver andò in seguito, ed ebbe così gran paura; e ciò nonostante non era ancora al termine, gli rimaneva il pianerottolo e l'anticamera. Sul pianerottolo non si batteva più; si raccontavano delle storie di donne, e nell'anticamera delle storie di corte. Sul pianerottolo d'Artagnan arrossì; nell'anticamera, egli fremette. La sua immaginazione svegliata e vagabonda, che, in Guascogna lo rendeva terribile alle giovani cameriere, qualche volta anche alle giovani padrone, non aveva mai sognato, neppure nei suoi momenti di delirio la metà di quelle meraviglie amorose, e il quarto di quelle furberie galanti, rialzate dai nomi i più conosciuti, ed abbellite dai dettagli i meno velati. Ma se il suo amore per i buoni costumi ricevette in sul pianerottolo un cozzo, il suo rispetto pel ministro fu scandalizzato nell'anticamera. Là a sua gran sorpresa, d'Artagnan intese criticare ad alta voce la politica che faceva tremare l'Europa, e la vita privata del ministro, che tanti alti personaggi erano stati puniti di aver solo tentato di approfondare. Questo grand'uomo, riverito dal signor d'Artagnan padre, serviva di argomento di risa ai moschettieri del signore de Tréville, chi rideva sulle sue gambe cagnesche, e sul suo dorso inarcato; qualcun altro contava le novelle sulla signora d'Aiguillon, sua amica, e la signora di Combalet sua nipote, nel mentre che gli altri combinavano delle partite contro i paggi e le guardie del duca-ministro, tutte cose che sembravano a d'Artagnan tante mostruose impossibilità. Però, quando il nome del re interveniva qualche volta ad un tratto e all'improvviso in mezzo a tutti questi motteggi ministeriali, una specie di mordacchia chiudeva per un momento tutte quelle bocche derisorie, si guardavano con esitazione intorno, e sembrava temessero l'indiscrezione della porta del gabinetto del signor de Tréville; ma ben presto una allusione riconduceva il discorso sul ministro, e allora le risa si rinnovavano sopra ciascuna delle sue azioni. — Certamente, ecco qua persone che saranno tutte messe alla Bastiglia, o impiccate, pensò d'Artagnan con terrore, ed io, senza alcun dubbio, con loro, poichè dal momento che io gli ho ascoltati ed intesi, sarò ritenuto per un loro complice. Che direbbe il mio sig. padre, che mi ha tanto raccomandato il rispetto pel ministro, se egli mi sapesse in società con simili pagani? Così come ognuno non ne dubiterà, anche senza che lo dica, d'Artagnan non osava abbandonarsi alla conversazione; soltanto egli guardava ad occhi spalancati; ascoltava ad orecchie tese, tendendo avidamente i suoi cinque sensi per non perder nulla, e malgrado la sua confidenza nelle raccomandazioni paterne, egli si sentiva portato dai suoi gusti e trascinato dai suoi istinti a lodare piuttosto che a biasimare le cose inaudite che colà accadevano. Frattanto, siccome egli era del tutto estraneo alla folla dei cortigiani del sig. de Tréville, e che questa era la prima volta che lo si vedeva in quel luogo, vennero a chiedergli ciò che desiderava. A questa domanda, d'Artagnan si nominò con molta umiltà, si appoggiò al titolo di compatriota, e pregò il cameriere che era venuto a fargli questa interrogazione di domandare per lui al signor de Tréville un momento d'udienza, domanda che questi promise di fare, con tuono da protettore, a tempo e luogo. D'Artagnan, rimessosi alquanto dalla sua prima sorpresa, ebbe dunque il comodo di studiare un poco i costumi e le fisonomie. Il centro del gruppo il più animato era un moschettiere di alta statura, di figura altera, con un bizzarro costume che attirava su lui l'attenzione generale. Pel momento egli non portava la casacca d'uniforme, che, del resto, non era assolutamente obbligatoria in quest'epoca di meno libertà ma d'indipendenza più grande, ma un giustacuore blu cielo, alquanto scolorito e rapato, e sopra quest'abito una magnifica bandoliera, ricamata in oro, e che risplendeva come le scaglie di cui si ricuopre l'acqua ad un gran sole. Un lungo mantello di velluto cremisi cadeva con grazia dalle sue spalle, scoprendo soltanto davanti la splendida bandoliera, alla quale era attaccata una gigantesca spadaccia. Questo moschettiere montava in quel momento la guardia, si lamentava di essere raffreddato, e di tempo in tempo tossiva con affettazione. Per questo egli aveva preso il mantello, a quanto diceva, e nel mentre che parlava colla testa alta, arricciandosi sdegnosamente i baffi, ammiravano con entusiasmo la bandoliera ricamata, e d'Artagnan lo faceva più che alcun altro. — Che volete! diceva il moschettiere, è di moda; è una pazzia, lo so bene, ma, è di moda. D'altronde bisogna bene impiegare in qualche cosa i danari della propria legittima. — Ah! Porthos! gridò uno degli astanti, non tentare di farci credere che questa bandoliera ti venga dalla generosità paterna: essa ti sarà stata regalata da quella dama velata colla quale io t'incontrai l'altra domenica, verso la porta Sant-Onorato. — No, sul mio onore, parola da gentiluomo, io l'ho comprata da me stesso, e coi miei propri denari, rispondeva colui che era stato indicato sotto il nome di Porthos. — Sì, come io ho comprato, disse un altro moschettiere, questa borsa nuova, con ciò che il giorno innanzi vi aveva messo la mia amica. — In verità, disse Porthos, e la prova ne è che l'ho pagata dodici doppie. L'ammirazione raddoppiò, quantunque continuasse ad esistere il dubbio. — È vero, Aramis? fece Porthos voltandosi verso un altro moschettiere. Quest'altro moschettiere formava un perfetto contrasto con quello che lo interrogava, e che lo aveva chiamato col nome di Aramis: era un giovine di ventidue o ventitre anni appena, colla fisonomia ingenua e docile, l'occhio nero e dolce, colle guance rosee e vellutate come una pesca d'autunno; i suoi baffi sottili, si disegnavano sul suo labbro superiore in linea perfettamente dritta; le sue mani sembravano temere lo abbassarsi per timore che le vene s'inturgidissero troppo, e di tratto in tratto si pizzicava l'estremità delle orecchie per mantenerle di un incarnato tenero e trasparente. Per abitudine egli parlava poco e lentamente, salutava molto, rideva senza rumore mostrando i suoi denti che erano bellissimi, e di cui, come di tutto il resto della persona, sembrava prendere grandissima cura. Egli rispose con un segno di testa affermativo alla interpellazione del suo amico. Questa affermativa sembrò aver troncati tutti i dubbi sul conto della bandoliera, si continuò dunque ad ammirarla, ma non se ne parlò più, e per una di quelle bordeggiate rapide del pensiero, la conversazione ad un tratto passò sopra un altro argomento. — Che pensate voi di ciò che racconta lo scudiero di Chalais? domandò un altro moschettiere senza interpellare direttamente alcuno, ma indirizzandosi al contrario a tutti. — E che cosa racconta egli? domandò Porthos con tuono altero. — Egli racconta di aver trovato a Brusselle Rochefort, l'anima dannata del ministro, travestito da cappuccino; questo maledetto Rochefort, mercè questo travestimento ha infinocchiato il signor Laiques come un vero imbecille. — Come un vero imbecille, disse Porthos! Ma la cosa è poi sicura? — Mi fu raccontata da Aramis, rispose il moschettiere. — Davvero? — E voi lo sapete bene, Porthos, disse Aramis, io l'ho raccontato a voi pure jeri, non ne parliamo dunque più. — Non ne parliamo più! ecco la vostra opinione disse Porthos. Non ne parliamo più! Peste, come concludete presto! Come, il ministro fa spionare un gentiluomo; fa intercettare la sua corrispondenza da un traditore, un brigante, fa, coll'ajuto di questo spione e mercè questa corrispondenza, tagliar la testa a Chalais, sotto lo stupido pretesto ch'egli ha voluto uccidere il re e maritare la regina con Monsieur; nessuno sapeva una parola di quest'enimma: voi ce lo significaste jeri con grande stupore di tutti, e quando noi siamo ancora sbalorditi da questa notizia, voi oggi venite a dirci: non ne parliamo più! — Parliamone dunque, vediamo, poichè voi lo desiderate, riprese Aramis con pazienza. — Questo Rochefort! gridò Porthos, se fosse stato lo scudiero del povero Chalais, passerebbe con me un brutto momento. — E voi, voi passereste un tristo quarto d'ora col duca Rosso, riprese Aramis. — Ah! il duca Rosso, bravo, bravo, il duca Rosso! rispose Porthos battendo le mani, ed approvando con la testa. Il duca Rosso al nostro ministro, è un epiteto grazioso. Io diffonderò la parola, mio caro, siate tranquillo. Ha molto spirito, questo Aramis! che disgrazia che voi non abbiate potuto seguire la vostra vocazione, mio caro! che delizioso abbate sareste diventato! — Oh non è che un ritardo momentaneo, riprese Aramis, un giorno io lo sarò; voi sapete bene, Porthos, che io continuo a studiare la teologia per questo. — Egli farà come dice, riprese Porthos, egli lo farà o presto o tardi. — Presto, disse Aramis. — Egli non aspetta che una cosa per decidersi del tatto, e per riprendere la sua sottana che è appesa dietro il suo uniforme, riprese il moschettiere. — E che cosa aspetta? domandò un altro. — Egli aspetta che la regina abbia dato un erede alla corona di Francia. — Non scherziamo su questo argomento, signori, disse Porthos, grazie a Dio la regina è ancora in età da poterlo dare. — Si dice che il signor di Buckingham sia in Francia, riprese Aramis con un sorriso beffardo che dava a questa frase, così semplice in apparenza, un significato sufficientemente scandaloso. — Aramis, amico mio, per questa volta voi avete torto, interruppe Porthos, e la vostra smania di dire cose spiritose vi trascina sempre al di là dei limiti; se il signor de Tréville, vi sentisse, voi vi trovereste male di aver parlato così. — Volete voi darmi una lezione, Porthos? gridò Aramis, nell'occhio dolce del quale si vide passare un baleno. — Mio caro, siate moschettiere o abbate; siate o l'uno o l'altro, ma non l'uno e l'altro, riprese Porthos. Athos ve lo ha detto ancora l'altro giorno, voi mangiate a tutte le rastelliere. Ah! non c'inquietiamo, io ve ne prego; ciò sarebbe inutile: voi sapete bene che questo è convenuto fra voi, Athos e me. Voi andate dalla signora d'Aiguillon, e le fate la vostra corte; voi andate in casa della signora di Bois-Tracy, la cugina della signora de Chevreuse, e passate per essere grandemente nelle buone grazie della dama. Oh! mio Dio, non confessate la vostra fortuna, non vi si chiede il vostro secreto. Si conosce la vostra discrezione. Ma poichè possedete questa virtù, che diavolo! fatene uso sul conto di Sua Maestà. Si occupi chi vorrà del re e del ministro; ma la regina è sacra, e se qualcuno ne parla, che ciò sia in bene. — Porthos, voi siete pieno di pretese come Narciso. Io ve ne prevengo, rispose Aramis, voi sapete che odio la morale, eccetto che quando ella è fatta da Athos. In quanto a voi, mio caro, voi avete una troppo magnifica bandoliera per essere molto versato in morale. Io sarò abbate quando mi converrà, frattanto io sono moschettiere, e in questa qualità, io dico ciò che mi piace, e in questo momento mi piace di dirvi che voi m'impazientite. — Aramis! — Porthos! — Eh! signori! signori! si gridò intorno ad essi. — Il signor de Tréville aspetta il signor d'Artagnan, interruppe il lacchè aprendo la porta del gabinetto. A questo annunzio durante il quale la porta rimase aperta, ciascuno si tacque, e in mezzo al silenzio generale, il giovane guascone traversò l'anticamera in una parte della sua lunghezza, ed entrò dal capitano dei moschettieri, felicitandosi di tutto cuore di sfuggire così a proposito alla fine di questa bizzarra contesa. CAPITOLO III. L'UDIENZA Il signor de Tréville era sul momento di molto cattivo umore; ciò non ostante, salutò gentilmente il giovane, che s'inchinò fino a terra, ed egli sorrise nel ricevere il suo complimento, in cui l'accento bearnese gli ricordava ad un tempo la sua gioventù ed il suo paese, doppia rimembranza che fa sorridere l'uomo in tutte l'età. Ma avvicinandosi quasi subito all'anticamera, e facendo a d'Artagnan un segno con la mano come per chiedergli il permesso di terminare con gli altri prima d'incominciare con lui, egli chiamò tre volte, alzando di più la voce a ciascheduna volta, di modochè egli percorse tutti i suoi intermedj fra l'accento imperativo e l'accento irritato. — Athos! Porthos! Aramis! I due moschettieri coi quali abbiamo già fatta conoscenza, e che corrispondevano ai due ultimi di questi tre nomi, lasciarono subito il gruppo di cui facevano parte, e si avanzarono verso il gabinetto, la di cui porta si richiuse dietro ad essi tosto che ne ebbero oltrepassato il limitare. Il loro portamento, benchè non fosse del tutto tranquillo, nonostante eccitò, per la sua disinvoltura piena ad un tempo di sommissione, l'ammirazione di d'Artagnan che credeva in questi uomini tanti semidei, e nel loro capo un Giove Olimpico armato di tutti i suoi fulmini. Quando i due moschettieri furon entrati, quando la porta fu chiusa, quando il mormorio ronzante della anticamera fu ricominciato, mormorio al quale senza dubbio aveva dato nuovo alimento la chiamata che era stata fatta; quando finalmente il signor de Tréville silenzioso, e col sopracciglio aggrottato, ebbe per tre o quattro volte misurata la lunghezza del suo gabinetto, passando ciascheduna volta davanti a Porthos e Aramis instecchiti e muti come alla parata, si fermò ad un tratto in faccia a loro, e investendogli dalla testa ai piedi con uno sguardo irritato: — Sapete ciò che mi ha detto il re, gridò egli, e ciò niente più tardi di jeri a sera? lo sapete voi, signori — No, risposero dopo un momento di silenzio i due moschettieri, no, signore, noi lo ignoriamo. — Ma io spero che voi ci farete l'onore di dircelo, aggiunse Aramis, col tuono il più gentile, e colla più graziosa riverenza. — Mi ha detto che d'ora in avanti egli recluterà i suoi moschettieri fra le guardie del ministro. — Fra le guardie del ministro! e perchè questo? domandò vivamente Porthos. — Perchè egli vede bene che il suo vinello ha bisogno di essere ingagliardito dal miscuglio di un vino buono. I due moschettieri diventarono rossi fino nel bianco dell'occhio. D'Artagnan non sapeva più ove si fosse, ed avrebbe voluto essere cento piedi sotto terra. — Sì, sì, continuò il sig. de Tréville animandosi sempre più, sì, e Sua Maestà aveva ragione, perchè egli è vero che i moschettieri fanno una trista figura alla corte, il ministro raccontava jeri sera al giuoco del re, con un'aria di condoglianza che mi dispiacque assai, che il giorno avanti questi dannati moschettieri, questi diavoli a quattro, ed egli calcava su queste parole con un accento ironico che mi dispiacque ancor più; questi scialacquatori, aggiunse egli guardandomi col suo occhio da gatto tigre, avevano fatto tardi sulla strada Ferou, in un'osteria, e che una pattuglia delle sue guardie, ho creduto che egli mi andasse a ridere sul naso, era stata costretta di arrestare i perturbatori, capperi! Voi dovete saperne qualche cosa! arrestare dei moschettieri! voi vi eravate, voi altri; non vi difendeste, siete stati riconosciuti, ed il ministro vi ha nominati. Ciò accade per colpa mia, sì, per colpa mia, poichè sono io che faccio la scelta dei moschettieri. Vediamo, voi, Aramis, perchè diavolo mi avete domandata la casacca quando voi sareste stato così bene sotto la sottana? Vediamo, voi, Porthos, non avete voi una bella bandoliera d'oro peraltro che per attaccarci una spada di paglia? Athos! io non vedo Athos: dove è egli? — Signore, rispose tristamente Aramis, egli è malato, gravemente malato. — Malato, gravemente malato, voi dite? e di qual malattia? — Si teme che possa essere il vajuolo, signore, rispose Porthos, volendo mischiare a sua volta una parola nella conversazione, cosa che sarà dispiacente, perchè certissimamente gli guasterà il viso. — Malato del vajuolo! ecco ancora un'altra gloriosa storia che mi raccontate, Porthos! malato del vajuolo alla sua età! non può essere!... sarà ferito senza dubbio, fors'anche ucciso... Ah! se io lo sapeva!... Capperi! signori moschettieri io non intendo che si vadano ad affollare così i luoghi cattivi, che si facciano delle questioni sulla strada, che si menino sciabolate nei crociali delle vie. Io non voglio infine che si dia argomento da ridere alle guardie del ministro che sono composte di brava gente, tranquilla, destra, che non si mettono mai nel caso di essere arrestate, e che d'altronde, ne sono sicuro, essi non si lascerebbero arrestare! essi amerebbero meglio di morire al loro posto di quello che fare un passo in addietro. Salvarsi, sbaragliarsi, fuggire, questo è buono per i moschettieri del re! Porthos e Aramis fremevano di rabbia. Essi avrebbero volentieri strangolato il sig. de Tréville, se in fondo a tutto ciò non avessero scorto che era il grande amore che portava loro che lo faceva parlare in tal guisa. Essi battevano il piede sul tappeto, si mordevano le labbra fino al sangue, e stringevano con tutta la loro forza la guardia della loro spada. Al di fuori si era intesa la chiamata, come abbiamo detto, Athos, Porthos e Aramis, e si era indovinato, dall'accento della voce del sig. de Tréville, che egli era pienamente in collera. Dieci teste curiose si erano appoggiate alla porta, e impallidivano pel furore: perchè le loro orecchie incollate alla porta non perdevano una sillaba di tutto ciò che si diceva, nel mentre che le loro bocche ripetevano a peso, ed a misura le parole insultanti del capitano a tutta la popolazione dell'anticamera. In un istante, dalla porta del gabinetto fino alla porta di strada, tutto il palazzo fu in ebollizione. — Ah! i moschettieri del re si fanno arrestare dalle guardie del ministro! continuò il sig. de Tréville furioso internamente quanto i suoi soldati, ma dicendo a scatti le sue parole, e vibrandole una ad una per così dire come tanti colpi di stiletto nel petto dei suoi uditori. Ah! sei guardie del ministro arrestano sei moschettieri di Sua Maestà! Capperi! io ho fatta la mia risoluzione. Io vado di corsa al Louvre: io domando la mia dimissione di capitano del re, per chiedere un posto di sottotenente nelle guardie del ministro. E se egli mi rifiuta, cappita! io vado a farmi frate. A queste parole il mormorio dell'esterno divenne un'esplosione; dappertutto non si sentiva che giuramenti e bestemmie. I cappita! le morti di tutti i diavoli! s'incrociavano per l'aria. D'Artagnan cercava una tenda dietro la quale potersi nascondere, e si sentiva una volontà smisurata di cacciarsi sotto la tavola. — Ebbene! mio capitano, disse Porthos fuori di se, la verità è che noi eravamo sei contro sei, ma noi siamo stati presi alla traditora, e primachè noi avessimo avuto il tempo di cavare le nostre spade due dei nostri erano già morti e Athos gravemente ferito, non valeva niente di più. Poichè voi lo conoscete, Athos; ebbene! capitano, egli ha tentato due volte di rialzarsi e due volte è ricaduto. Però noi non ci siamo arresi, no! ci hanno trascinati a forza. Cammin facendo noi ci siamo salvati. In quanto ad Athos, fu creduto morto, e fu lasciato tranquillamente sul campo di battaglia, non credendo che valesse la pena di trasportarlo. Ecco la storia. Che diavolo! capitano, non si possono vincere tutte le battaglie. Il gran Pompeo ha perduto quella di Farsaglia, e il re Francesco I, che, a quanto ho inteso dire, era coraggioso quanto un altro; però ha perduto quella di Pavia. Ed io ho l'onore di assicurarvi, che ne ho ammazzato uno colla sua propria spada, disse Aramis, perchè la mia fu spezzata alla prima parata. Ucciso o pugnalato, signore, come più vi piace. — Io non sapeva questo, riprese il signor de Tréville con un tuono un poco più raddolcito. Il ministro aveva dunque esagerato, a quanto sembra. — Ma di grazia, signore, continuò Aramis, che vedendo il suo capitano rappacificarsi, azzardava una preghiera, di grazia, signore, non dite che Athos pure è ferito; egli sarebbe alla disperazione se questa cosa giungesse alle orecchie del re, e siccome la sua ferita è delle più gravi, attesochè dopo avere attraversata la spalla essa penetra nel petto, sarebbe a temersi... Nel medesimo istante la portiera si alzò, e una nobile e bella, ma spaventosamente pallida testa comparve sotto la frangia. — Athos! gridarono i due moschettieri. — Athos! ripetè lo stesso de Tréville. — Voi mi avete chiamato, signore, disse Athos a de Tréville con una voce indebolita ma perfettamente calma, voi mi avete chiamato, a quanto mi hanno detto i nostri camerati, ed io mi affretto di venire a sentire i vostri ordini: eccomi, signore, che volete da me? E a queste parole il moschettiere, in tenuta irreprensibile, cinghiato come era di costume, entrò con passo fermo nel gabinetto. Il sig. de Tréville commosso fino al fondo del cuore per questa prova di coraggio, si precipitò a lui incontro: — Io era in vena di dire a questi signori, aggiunse egli, che io proibisco ai miei moschettieri di esporre la loro vita senza necessità, perchè la brava gente è cara al re, e il re sa che i suoi moschettieri sono la più brava gente della terra. La vostra mano, Athos. E senza aspettare che il nuovo arrivato rispondesse a questa prova di affezione, il signor de Tréville afferrò la sua mano destra, e gliela strinse con tutte le sue forze, senza accorgersi che Athos, per quanto fosse grande l'impero che aveva su di se stesso, lasciò sfuggirsi un movimento di dolore, e impallidì ancor più, cosa che si sarebbe potuta credere impossibile. La porta era rimasta socchiusa, tanto avea prodotta sensazione l'arrivo di Athos, di cui, ad onta del segreto, era da tutti conosciuta la sua ferita. Un urlo di soddisfazione accolse le ultime parole del capitano, e due o tre teste, trascinate dall'entusiasmo, apparvero sotto l'apertura della portiera. Senza dubbio, il sig. de Tréville stava per reprimere con risentite parole questa infrazione alle leggi dell'etichetta, allorquando sentì ad un tratto la mano di Athos incresparsi sotto la sua, e fissando gli occhi sul di lui viso si accorse che stava per svenire. Nel medesimo istante Athos, che aveva raccolte tutte le sue forze per resistere al dolore, fu vinto da questo, e cadde sul pavimento come se fosse morto. — Un chirurgo! gridò il sig. de Tréville. Il mio, quello del re, il migliore! un chirurgo! oh capperi! il mio bravo Athos muore. Alle grida del sig. de Tréville tutti si precipitarono nel suo gabinetto senza che egli pensasse a chiudere la porta ad alcuno, ciascuno si adoperava intorno al ferito. Ma tutto questo adoprarsi sarebbe stato inutile se il richiesto dottore non si fosse ritrovato nello stesso palazzo; egli fendè la folla, si avvicinò ad Athos sempre svenuto, e siccome questo rumore e questo movimento lo incomodavano gravemente, egli domandò per prima cosa, e come la più urgente, che il moschettiere fosse trasportato in una camera vicina. Il sig. de Tréville aprì tosto una porta mostrando la via a Porthos e ad Aramis, che trasportarono il loro camerata sulle loro braccia. Dietro a questo gruppo camminava il chirurgo, e dietro il chirurgo si richiuse la porta. Allora il gabinetto del sig. de Tréville, questo luogo ordinariamente tanto rispettato, divenne momentaneamente una succursale dell'anticamera. Ciascuno discorreva, perorava, parlava ad alta voce, giurava, sacramentava, mandava il ministro e le sue guardie a tutti i diavoli. Un istante dopo, Porthos e Aramis rientrarono; il chirurgo ed il sig. de Tréville soltanto erano rimasti presso il ferito. Finalmente il sig. de Tréville rientrò egli pure. Il ferito aveva ripreso l'uso dei sensi; il chirurgo dichiarava che lo stato del moschettiere non aveva niente che potesse allarmare i suoi amici, e che la sua debolezza era puramente e semplicemente cagionata dalla perdita del sangue. Quindi il sig. de Tréville fece un segno colla mano, e ciascuno si ritirò, eccetto d'Artagnan, che non dimenticava di dovere avere udienza, e che, colla tenacità di Guascogna, era rimasto allo stesso punto. Allorquando tutti furono sortiti, e che la porta fu chiusa, il sig. de Tréville si ritrovò solo in faccia al giovane. L'avvenimento che era accaduto gli aveva in qualche modo fatto perdere il filo delle sue idee. Egli s'informò dunque di ciò che voleva da lui l'ostinato sollecitatore. D'Artagnan pronunziò allora il suo nome, ed il sig. de Tréville riordinando ad un tratto la memoria del passato col presente, si ritrovò al corrente della situazione. — Perdono, diss'egli, sorridendo, perdono, mio caro compratriota, io vi aveva del tutto dimenticato. Che volete! un capitano non è che un padre di famiglia sopraccaricato di una maggior responsabilità di quella dei padri di famiglia ordinarj. I soldati sono figli grandi; ma siccome mi sta a cuore che gli ordini del re siano eseguiti, e soprattutto quelli del ministro... D'Artagnan non potè dissimulare un sorriso. Da questo sorriso il signor de Tréville giudicò che egli non aveva a che fare con uno stupido, e venendo direttamente al fatto, cambiando d'improvviso il discorso: — Io ho amato molto il vostro signor padre, disse egli. Che posso fare io per suo figlio? fate presto, il mio tempo non è mio. — Signore, disse d'Artagnan, nel lasciare Tarbes e nel venire qui, io mi proponeva di domandarvi, in rimembranza di quell'amicizia che voi non avete perduta di mente, una casacca da moschettiere; ma dopo tutto ciò che vedo da due ore, capisco che un tal favore sarebbe enorme, e temo di non meritarlo. — Questo è un favore di fatto, o giovane, rispose il sig. de Tréville; ma egli può non essere tanto forte in vostro riguardo quanto voi lo credete o fate sembianza di crederlo. Tuttavia una decisione di Sua Maestà ha preveduto questo caso, ed io vi annunzio con dispiacere che non si riceve più alcuno nei moschettieri senza aver fatto un'antecedente prova in qualche campagna in certe azioni singolari, o di due anni di servizio in un reggimento meno favorito del nostro. D'Artagnan s'inchinò senza risponder parola. Egli si sentiva ancor più avido d'indossare l'uniforme di moschettiere dappoichè vi erano tante difficoltà da sormontare. — Ma, continuò de Tréville, fissando nel suo compatriota uno sguardo penetrante che si sarebbe detto che egli voleva leggere fino al fondo del suo cuore, ma, in favore di vostro padre, mio antico compagno, come vi ho già detto, io voglio fare qualche cosa per voi, giovane. I nostri cadetti di Bearn non sono ordinariamente ricchi, e io dubito che le cose sieno grandemente cambiate dopo la mia partenza dalla provincia. Voi dunque non ne dovete aver troppo, per vivere, del danaro che avete portato con voi. D'Artagnan si raddrizzò con aria orgogliosa, che voleva dire che egli non domandava la elemosina a nessuno. — Sta bene, giovane, sta bene, continuò de Tréville, io conosco quell'aria; io sono venuto a Parigi con quattro scudi in saccoccia, e mi sarei battuto con chiunque mi avesse detto che io non era abbastanza ricco per comprare il palazzo del Louvre. D'Artagnan si raddrizzò sempre più: con la vendita del suo cavallo, egli cominciava la sua carriera con quattro scudi di più che il sig. de Tréville non aveva incominciata la sua. — Voi dovete dunque, diceva io, aver bisogno di conservare quello che avete, per quanto grande ne sia la somma; ma voi dovete aver bisogno ancora di perfezionarvi negli esercizi che convengono ad un gentiluomo. Fin d'oggi io scriverò una lettera al direttore dell'Accademia Reale, e cominciando da domani voi sarete ricevuto senza alcuna retribuzione. Non rifiutate questo piccolo vantaggio. I nostri gentiluomini i meglio nati ed i più ricchi qualche volta lo sollecitano senza poterlo ottenere! Voi imparerete la cavallerizza, la scherma ed il ballo; voi vi farete delle buone conoscenze, e di tempo in tempo verrete a vedermi per dirmi a che punto siete, e se io posso fare qualche cosa per voi. D'Artagnan per quanto fosse estraneo ai costumi della corte, s'accorse della freddezza di questo ricevimento. — Ahimè! signore, diss'egli, oggi, m'accorgo bene di qual danno mi sia la mancanza della lettera di raccomandazione che mio padre mi aveva data per voi. — Infatti, rispose il sig. de Tréville, io mi meraviglio che voi abbiate intrapreso un così lungo viaggio senza questa scorta necessaria, nostra sola risorsa, a noi altri Bearnesi. — Io l'aveva, signore, e, grazie a Dio, in buona regola, ma me l'hanno perfidamente rubata. Egli raccontò tutta la scena di Méung, dipinse il gentiluomo sconosciuto con tutti i suoi più piccoli dettagli, e il tutto con un calore e una verità che si riconciliarono il sig. de Tréville. — Ecco ciò che è strano, disse quest'ultimo meditando, voi dovete aver parlato di me ad alta voce? — Sì, signore, senza dubbio io ho commesso questa imprudenza; ma che volete! un nome come il vostro doveva servirmi di scudo sulla strada. Giudicate se io me ne sono servito per mettermi al coperto! L'adulazione allora era molto in moda, ed il sig. de Tréville amava l'incenso come un re, o come un ministro; egli non potè dunque, impedirsi dal sorridere con una visibile soddisfazione; ma questo sorriso scomparve ben presto, e ritornando a se stesso ed all'avventura di Méung. — Ditemi, continuo egli, questo gentiluomo non aveva una leggera cicatrice sulla tempia? — Sì, come la fa la sfioratura di una palla. — Non è egli un uomo di bel portamento? — Sì. — Di alta statura? — Sì. — Pallido di colorito, e bruno di pelo? — Sì, sì: è lui. Come accade, signore, che voi conoscete quest'uomo? Ah! se io lo ritrovo, e lo ritroverò, io vi giuro, fosse ancora nell'inferno... — Egli aspettava una donna? continuò de Tréville. — Egli almeno è partito dopo avere per pochi istanti parlato con la donna che aspettava. — Voi sapete qual era l'argomento della loro conversazione? — Egli le consegnò un pacchetto, dicendole che questo pacchetto conteneva le istruzioni, e le raccomandava di non aprirlo che a Londra. — Questa donna era inglese? — Egli la chiamava Milady. — È lui, mormorò de Tréville, è lui! io lo credeva ancora a Brusselle. — Oh! signore: se voi sapete chi è quest'uomo, gridò d'Artagnan, indicatemelo, ditemi chi è, dove sta, ed allora vi tengo sciolto da tutto, anche dalla vostra promessa di farmi entrare nei moschettieri, perchè prima d'ogni altra cosa io voglio vendicarmi. — Guardatevi bene, giovane! gridò de Tréville; se voi, al contrario, lo vedete venire da una parte della strada, passate dall'altra; non andate ad urtare contro un simile scoglio, egli vi tritolerebbe come un vetro. — Ciò non m'impedisce, disse d'Artagnan, che se io mai lo ritrovo... — Frattanto, rispose de Tréville, io vi consiglio di non cercarlo: questo è il consiglio che posso darvi. Ad un tratto de Tréville si fermò colpito da un subitaneo sospetto. Questo grand'odio che sì altamente manifestava il giovane viaggiatore per quest'uomo, che, cosa poco verosimile, gli aveva rubata la lettera di suo padre, quest'odio non poteva nascondere qualche perfidia? Questo giovane non potevagli essere stato inviato dal ministro? Non poteva egli venire per tendergli un qualche laccio! Questo preteso d'Artagnan non poteva egli essere un qualche emissario del ministro che si cercava di introdurre in sua casa, e che si voleva porre al di lui fianco per sorprendere la sua confidenza, e per perderlo più tardi, come ciò era stato praticato le mille volte? Egli guardò d'Artagnan più fissamente ancora questa seconda volta di quello che non avesse fatta la prima. Egli fu mediocremente rassicurato da quella fisonomia sfavillante di spirito astuto e di umiltà affettata. — Io so bene che egli è Guascone, pensò egli, ma egli può esserlo tanto per me che pel ministro. Vediamo, mettiamolo alla prova. Amico mio, gli disse lentamente, io voglio, come al figlio del mio antico amico, poichè ritengo vera la storia di questa lettera perduta, io voglio, diceva, riparare alla freddezza che voi avete rimarcata nella mia accoglienza, e scuoprirvi i segreti della nostra politica. Il re ed il ministro sono i migliori amici, tutte le apparenti dissensioni non sono che per ingannare gli stupidi. Io non pretendo che un compatriota, un bel cavaliere, un bravo giovane, fatto per gli avanzamenti, sia ingannato da tutte queste simulazioni e cada come uno stupido sul vischio, a somiglianza di tanti altri che vi si sono perduti. Pensate bene che io sono affezionato a questi due padroni che tutto possono, e che giammai le mie serie dimostrazioni non avranno altro scopo che quello del servizio del re e del ministro, uno dei più illustri genj che la Francia abbia prodotti. Ora, giovane, regolatevi su ciò, e se voi avete, sia per famiglia, sia per relazioni, sia per istinto ancora, qualcuna di queste inimicizie contro il ministro, tali che noi vediamo scoppiare nei nostri gentiluomini, ditemi addio, e lasciamoci. Io vi ajuterò in mille circostanze, ma senza attaccarvi alla mia persona. Io spero che la mia franchezza, in tutti i casi, vi farà diventare mio amico, perchè voi siete qui il solo giovane a cui io abbia parlato come faccio. De Tréville diceva a se stesso: — Se il ministro mi ha mandato questo giovine volpe, egli non avrà certamente mancato, egli che non sa a qual punto lo esecro, di dire al suo spione che il miglior mezzo di farmi la corte è quello di dirmi il peggio di lui; così malgrado le mie proteste il furbo compare mi risponderà certamente ch'egli ha in orrore il ministro. Accadde però altrimenti di ciò che si aspettava de Tréville; d'Artagnan rispose colla più grande semplicità. — Signore, io vengo a Parigi con intenzioni del tutto uguali. Mio padre mi ha raccomandato di non soffrire niente che dal re, dal ministro e da voi ch'egli stima i tre primi personaggi della Francia. D'Artagnan aggiungeva il signor de Tréville agli altri due, come si può ben conoscere, ma egli pensava che questa aggiunta non doveva guastar niente. — Io dunque ho la più gran venerazione pel ministro, ed il più profondo rispetto per li suoi atti. — Tanto meglio per me, signore, se voi mi parlate, come voi lo dite, con franchezza, perchè allora mi farete l'onore di stimare questa rassomiglianza di gusti; ma se voi avete avuta qualche diffidenza, altronde ben naturale, io m'accorgo di perdermi nel dire la verità; ma tanto peggio, voi non per questo lascerete di stimarmi, e questa è la cosa che più d'ogni altra mi sta a cuore in questo mondo. Il signor de Tréville fu sorpreso all'ultimo punto. Tanta penetrazione e tanta franchezza finalmente gli cagionavano ammirazione, ma non gli toglievano del tutto i suoi dubbi, più questo giovane era superiore agli altri giovani, più era da temersi s'egli si sbagliava. Non ostante egli strinse la mano di d'Artagnan dicendogli: — Voi siete un onesto giovane, ma in questo momento io non posso fare per voi che quello che or ora vi ho detto. La mia abitazione vi sarà sempre aperta. Potendo voi chiedere di me ad ogni ora, e per conseguenza afferrare tutte le occasioni, potrete ancora in seguito ottenere ciò che ora desiderate. — Vale a dire, signore, ripreso d'Artagnan, che voi aspetterete ch'io me ne sia reso degno? Ebbene! siate tranquillo, aggiunse egli colla familiarità d'un Guascone, voi non aspetterete lunga pezza. E salutò per ritirarsi come se oramai il restante non lo riguardasse. — Ma aspettate dunque, disse il sig. de Tréville fermandolo: io vi ho promesso una lettera pel direttore dell'Accademia. Sarete voi tanto fiero da non accettarla, mio giovane gentiluomo? — No, signore, disse d'Artagnan, e vi garantisco che questa non andrà come l'altra: io la custodirò tanto bene che, ve lo giuro, essa sarà rimessa al suo indirizzo, e disgraziato colui che tentasse d'inviolarmela! Il signor de Tréville sorrise a questa fanfaronata, e lasciando il suo giovane compatriota nel vano della finestra ove si trovavano, ed ove avevano parlato assieme, andò a sedersi ad una tavola, e si pose a scrivere la promessa lettera di raccomandazione. In questo tempo, d'Artagnan che non aveva niente di meglio da fare, si mise a battere una marcia contro i cristalli, osservando i moschettieri che se ne andavano gli uni dopo gli altri, e seguendoli collo sguardo fino a che fossero scomparsi dai suoi occhi voltando all'angolo della strada. Il signore de Tréville, dopo avere scritta la lettera, la sigillò, e alzandosi si avvicinò al giovane per consegnargliela: ma nel momento stesso in cui d'Artagnan stendeva la mano per riceverla, il signor de Tréville fu meravigliato di vedere il suo protetto fare un sussulto, arrossire di collera e slanciarsi dal gabinetto gridando: — Ah! per tutti i diavoli! egli non mi sfuggirà questa volta. — E chi è questo? domandò il sig. de Tréville. — Lui il mio ladro! rispose d'Artagnan. Ah! traditore!. Ed egli disparve. — Che diavolo di pazzo! mormorò il sig. de Tréville. A meno che però, questo non sia un modo furbo di schivarsi, vedendo che gli è mancato il colpo! CAPITOLO IV. LA SPALLA D'ATHOS, LA BANDOLIERA DI PORTHOS, ED IL FAZZOLETTO D'ARAMIS D'Artagnan furioso aveva traversata l'anticamera in tre salti, e slanciandosi sulla scala contava di scenderne gli scalini a quattro, a quattro, allorchè trasportato dalla sua corsa, andò colla testa bassa ad urtare contro un moschettiere che sortiva dal signor de Tréville per una porta secreta, e urtandolo di faccia contro una spalla, gli fece mandare un grido, o piuttosto un urlo. — Scusatemi, disse d'Artagnan tentando di riprendere la sua corsa, scusatemi, ma ho fretta. Appena aveva egli disceso la prima scala, che una mano di ferro lo prese per la sua sciarpa e lo fermò. — Voi avete fretta! gridò il moschettiere pallido come un lenzuolo, sotto questo pretesto voi mi urtate, voi mi dite «scusatemi» e voi credete che ciò basti? niente affatto, giovane mio. Credete voi, perchè oggi avete inteso il signor de Tréville parlarci un poco cavallerescamente, che ci si possa trattare com'egli ci parla? Disingannatevi, compagno: voi non siete il sig. de Tréville. — In fede mia replicò d'Artagnan, che riconobbe Athos, che, dopo la medicatura fatta dal chirurgo, ritornava alla sua stanza: in fede mia non ho fatto a posta, e non avendolo fatto a posta, ho detto «scusatemi». Mi sembra dunque che sia abbastanza. Vi ripeto però, e questa volta forse è troppo, che in parola d'onore: ho fretta, moltissima fretta. Lasciatemi dunque, io vi prego, e lasciatemi andare ove ho che fare. — Signore, disse Athos lasciandolo, voi non siete educato. Si vede che voi venite di lontano. D'Artagnan aveva già discesi alcuni scalini, ma all'osservazione di Athos si fermò sull'atto. — Per bacco! signore! diss'egli per quanto io venga di lontano, non sarete certamente voi che mi darete una lezione di educazione ve ne prevengo. — Forse sì, disse Athos. — Ah! se io non avessi tanta fretta, gridò d'Artagnan, a se non corressi dietro a qualcuno.... — Signor dalla fretta, voi mi troverete senza correre, intendete voi. — E dove, se vi piace? — Vicino ai Carmelitani-Scalzi. — A qual'ora? — Verso il mezzogiorno. — Verso il mezzogiorno, sta bene, vi sarò. — Procurate di non farmi troppo aspettare, poichè vi prevengo che a mezzogiorno e un quarto sarò io che correrò dietro a voi, e nella corsa vi taglierò le orecchie. — Buono disse d'Artagnan, vi sarò dieci minuti prima del mezzogiorno. — E si rimise a correre come se il diavolo lo trasportasse, sperando di ritrovare ancora il suo sconosciuto, chè il suo passo tranquillo non doveva averlo condotto molto lontano. Ma alla porta di strada Porthos parlava con un soldato di sentinella. Fra i due parlatori vi era precisamente lo spazio per un uomo. D'Artagnan credè che questo spazio gli fosse sufficiente, e si slanciò per passare come una freccia fra loro due. Ma d'Artagnan aveva fatto il suo conto senza il vento. Mentre stava per passare, il vento s'ingolfò nel lungo mantello di Porthos, e d'Artagnan venne a dare diritto nel mantello. Senza dubbio Porthos aveva delle ragioni per non abbandonare questa parte essenziale del suo vestito, perchè invece di lasciare andare il lembo che teneva, lo tirò a se, di modo che d'Artagnan, si avvolse nel velluto per un movimento di rotazione che si spiega per la resistenza dell'ostinato Porthos. D'Artagnan, sentendo giurare il moschettiere, volle sortire per disotto al mantello che lo accecava, e cercò l'uscita fra le pieghe. Egli soprattutto temeva di avere lesa la freschezza della magnifica bandoliera che noi conosciamo; ma aprendo timidamente gli occhi, si ritrovò col naso appoggiato fra le due spalle di Porthos, cioè precisamente sulla bandoliera. Ahimè! come la maggior parte delle cose di questo mondo, che non hanno per esso che l'apparenza, la bandoliera era d'oro davanti, e di semplice pelle di bufalo per di dietro. Porthos da vero gaudente com'era, non potendo avere una intera bandoliera d'oro, ne aveva almeno la metà: si comprendeva allora la necessità del raffreddore, e l'urgenza del mantello. — Cospetto! gridò Porthos, facendo tutti gli sforzi per sbarazzarsi di d'Artagnan che gli bulicava nel dorso voi siete dunque arrabbiato per gettarvi in tal modo sulle persone! — Scusatemi, disse d'Artagnan ricomparendo sotto la spalla del gigante, ma io aveva fretta, io corro dietro un tale... — È forse per caso, che voi vi dimenticate degli occhi quando correte? domandò Porthos. — No, rispose d'Artagnan piccato, e mercè i miei occhi, io vedo eziandio quello che non vedono tutti gli altri. Porthos, comprendesse o non comprendesse, fatto sta, che si lasciò trasportare dalla sua collera. — Signore, vi prevengo che voi vi farete staffilare, se strofinate in tal guisa i moschettieri. — Staffilare! signore, disse d'Artagnan, la parola è dura. — È quella che conviene ad un uomo abituato a guardare in faccia ai suoi nemici. — Ah! per bacco, lo so bene io che voi non volterete le spalle ai vostri. Ed il giovane incantato della sua malizia, si allontanò ridendo a gola piena. Porthos colla schiuma per la rabbia fece un movimento per precipitarsi sopra d'Artagnan. — Più tardi, più tardi, gridò questi, quando voi non avrete più il vostro mantello. — A un'ora adunque, dietro il Luxembourg. Ma nè nella strada che aveva percorsa, nè in quella che poteva scorgere collo sguardo per intero, egli non vide alcuno. Per quando lo sconosciuto fosse andato lentamente, aveva però sempre guadagnata strada, o forse ancora poteva essere entrato in qualche casa. D'Artagnan s'informò di lui da tutti quelli che incontrava; discese fino al traghetto, rimontò per la strada della Senna, e la Croce-Rossa; ma niente, assolutamente niente. Ciò non ostante questa corsa gli fu profittevole in questo senso, cioè che mentre il sudore inondava la sua fronte, il suo cuore si raffreddava. Egli si mise allora a riflettere sugli avvenimenti ch'erano accaduti; essi erano numerosi e nefasti; erano appena undici ore della mattina, e già la mattinata gli aveva attirata la disgrazia del sig. Tréville, che poteva benissimo ritrovare non molto cavalleresca la maniera con la quale lo aveva lasciato. Inoltre, egli aveva accaparrati due buoni duelli con persone capaci ciascuno di uccidere tre d'Artagnan; con due moschettieri infine, cioè con due di quegli esseri ch'egli stimava tanto, e ch'egli metteva col suo pensiero e col cuore, al di sopra di tutti gli altri uomini. La congiuntura era trista. Sicuro di essere ucciso da Athos, si capirà che il giovane non s'inquietava molto di Porthos. Per tanto, siccome la speranza è l'ultima cosa che si estingue nell'uomo, giunse a sperare ch'egli potrebbe sopravvivere, con ferite orribili, bene inteso, a questi due duelli, e, nel caso di sopravvivenza, egli si fece per l'avvenire i seguenti rimproveri: — Che testa senza cervello, che uomo stupido, ch'io sono! questo bravo e disgraziato Athos era ferito precisamente nella spalla contro la quale io ho battuto la testa a guisa di un becco. La sola cosa che mi sorprende si è che non m'abbia ucciso sull'atto: egli ne aveva il diritto, ed il dolore che io gli ho procurato deve essere stato atroce. In quanto a Porthos, oh! in quanto a Porthos, in fede mia, è più curiosa. E suo malgrado il giovane si mise a ridere, guardando ciò nonostante se questo riso isolato, e senza causa agli occhi di quelli che lo vedevano ridere, non fosse stato per offendere qualcuno che passava. — In quanto a Porthos è più curiosa; ma io però, non per questo, sono un meno miserabile stordito. E dove mai uno si può gettare in tal guisa sulla gente senza neppur dirgli guardati? no! e si va a guardare così sotto il mantello per vedervi ciò che non vi è? egli mi avrebbe perdonato se io non gli avessi parlato di quella maledetta bandoliera, con parole coperte, è vero, ma coperte molto bene! Ah! maledetto Guascone ch'io sono! anderò a fare lo spiritoso nella padella da friggere. Andiamo, d'Artagnan, amico mio, continuò egli parlando a se stesso con tutta l'amenità che credeva doversi, se tu la scappi, cosa che è poco probabile, bisognerà in avvenire essere di una gentilezza perfetta. D'ora innanzi bisognerà che ti ammirino, che ti citino come un modello. L'essere previdente e gentile non è viltà. Guarda piuttosto Aramis: è la dolcezza e la grazia in persona. Ebbene! si è mai pensato nessuno di dire che Aramis è un vile? no, certamente, e d'ora innanzi io voglio modellarmi su di lui. Ah! eccolo precisamente. D'Artagnan camminando, e parlando da solo, era giunto a pochi passi del palazzo d'Aiguillon, e davanti a questo palazzo egli aveva veduto Aramis parlare allegramente con tre gentiluomini della guardia del re. Dal suo canto, Aramis aveva veduto d'Artagnan, ma siccome egli non dimenticava che era stato davanti a questo giovane, che il signore de Tréville si era lasciato trasportare nella mattina, e che un testimonio dei rimproveri che i moschettieri avevano ricevuto non gli era in alcun modo aggradevole, fece sembiante di non vederlo. D'Artagnan, al contrario, tutto intento ai suoi piani di riconciliazione e di cortesia, si avvicinò ai quattro giovani facendo loro un gran saluto accompagnato dal più grazioso sorriso. Aramis inchinò leggermente la testa, ma non sorrise affatto. Tutti e quattro, del resto, interruppero nel medesimo istante la loro conversazione. D'Artagnan non era così stupido da non accorgersi ch'egli v'era di troppo; ma egli non era ancora assuefatto ai costumi del bel mondo per sapersi togliere con disinvoltura da una falsa posizione, come in generale è quella di un uomo che è venuto a mischiarsi con gente ch'egli conosce appena, e in una conversazione che non gli riguarda. Egli cercava in se stesso un mezzo di fare la sua ritirata il meno goffamente che era possibile, allorchè rimarcò che Aramis aveva lasciato cadere il suo fazzoletto, e per una inavvertenza senza dubbio, vi aveva messo sopra il piede; il momento gli parve giunto di riparare alla sua posizione; egli si abbassò, e coll'aria la più graziosa che potè ritrovare, tirò il fazzoletto dal disotto del piede del moschettiere, per quanto questi facesse sforzo per ritenerlo, e gli disse nel consegnarlo: — Io credo, signore, che questo sia un fazzoletto che avreste dispiacere a perderlo. Il fazzoletto era in fatti riccamente orlato, e portava una corona ed uno stemma in un angolo. Aramis arrossì eccessivamente e strappò piuttosto che prese il fazzoletto dalle mani del Guascone. — Ah! ah! gridò una delle guardie; dirai tu ancora, secreto Aramis, che tu non sei nel favore della signora di Bois-Tracy, quando questa graziosa dama ha la gentilezza di prestarti i suoi fazzoletti? Aramis lanciò a d'Artagnan uno di quegli sguardi che fanno comprendere ad un uomo che egli si è acquistato un nemico mortale; quindi riprendendo il suo tuono affabile: — Voi vi sbagliate, signori, diss'egli, questo fazzoletto non è mio, e non so perchè il signore ha avuto a fantasia di rimetterlo a me piuttosto che a uno di voi, e per prova di ciò che io lo dico, ecco il mio nella mia saccoccia. A queste parole, egli cavò il proprio suo fazzoletto molto elegante e di fina battista, quantunque fosse molto costosa in quell'epoca, ma fazzoletto senza ricami, senza arme, e ornato di una sola cifra; quella del suo proprietario. Questa volta d'Artagnan non disse parola, egli aveva riconosciuta la sua goffaggine. Ma gli amici d'Aramis non si lasciarono convincere dal suo negare; e uno di essi indirizzandosi al giovane moschettiere con una serietà affettata: — Se la cosa è così, diss'egli, come tu pretendi, io sarò sforzato, mio caro Aramis, di domandartelo, perchè, come tu sai, Bois-Tracy è uno dei miei intimi, ed io non voglio che nessuno abbia a farsi un trofeo cogli effetti di sua moglie. — Tu domandi ciò male, rispose Aramis, e mentre riconosco la giustizia della reclamazione in quanto al fondo, io la rifiuterò in quanto alla forma. — Il fatto è, azzardò timidamente d'Artagnan, che io non ho veduto sortire il fazzoletto dalla tasca del signor Aramis. Egli vi aveva il piede sopra, ecco tutto; ed ho pensato che avendovi il piede sopra, il fazzoletto fosse suo. — E voi vi siete sbagliato, mio caro signore, rispose freddamente Aramis, poco sensibile alla riparazione. Poi, volgendosi verso quella guardia che si era dichiarata l'amico di Bois-Tracy: — D'altronde, continuò egli, io rifletto, mio caro intimo di Bois-Tracy, che io sono suo non meno tenero amico di quello che puoi esserlo tu stesso, di modo che a tutto rigore questo fazzoletto può essere egualmente sortito dalla tua saccoccia che dalla mia. — No, sul mio onore, gridò la guardia di Sua Maestà. — Tu hai giurato sul tuo onore, ed io sulla mia parola, ed allora vi sarà evidentemente uno di noi due che mentirà. Prendi, facciamo meglio, Montaran, prendiamone ciascuno una metà. — Del fazzoletto? — Sì. — Perfettamente, gridarono le altre due guardie, il giudizio del re Salomone. Decisamente, Aramis, tu sei pieno di saggezza. I due giovani scoppiarono dalle risa e, come si crederà bene, l'affare non potè avere nessuna conseguenza. In capo ad un istante la conversazione cessò, e le tre guardie ed il moschettiere, dopo di essersi cordialmente stretta la mano, voltarono; le tre guardie da una parte, e Aramis dall'altra: — Ecco il momento di fare la mia pace con questo galantuomo, sì disse a se stesso d'Artagnan, che si era tenuto in disparte durante l'ultima parte di questa conversazione; e, con questo buon sentimento ravvicinandosi ad Aramis che si allontanava senza fare attenzione a lui: — Signore, gli disse, io spero, che voi mi scuserete. — Ah! signore, interruppe Aramis, permettetemi di farvi osservare che in questa circostanza voi non avete mai agito come doveva farlo un uomo galante. — Che! signore, voi supponete... — Io suppongo, signore, che voi non siete un imbecille, e che voi sapete bene, quantunque veniate dalla Guascogna, che non si tiene un piede sopra un fazzoletto da tasca senza il suo perchè. Che diavolo! Parigi non è già selciato di battista. — Signore, voi avete torto di cercare di umiliarmi, disse d'Artagnan, in cui il naturale litigioso cominciava a parlare più alto che le risoluzioni pacifiche. Io sono di Guascogna è vero, e, poichè voi lo sapete, io non avrò bisogno di dirvi che i Guasconi sono un poco rozzi, dimodochè quando si sono scusati una volta fosse ancora di una sciocchezza, essi sono convinti che hanno già fatto la metà di più di quello che non dovevano. — Signore, ciò che vi ho detto, rispose Aramis, non è per muovervi contesa. Grazie a Dio! io non sono uno spadaccino, e non essendo moschettiere che provvisoriamente, io non mi batto che allora quando vi son costretto, e sempre ancora con una gran ripugnanza. Ma questa volta l'affare è grave, perchè ecco qui una donna compromessa per cagione vostra. — Per causa vostra, dovete dire! gridò d'Artagnan. — Perchè avete voi avuto la goffaggine di rendermi questo fazzoletto? — Perchè avete avuto voi quella di lasciarlo cadere? — Io l'ho detto, e lo ripeto, questo fazzoletto non è sortito dalla mia tasca. — Ebbene! voi avete mentito due volte, signore! perchè io ve l'ho veduto sortire. — Ah! voi la prendete su questo tuono, signor Guascone? ebbene io vi insegnerò a vivere! — Ed io vi rimanderò alla vostra abbazia, signore abate! degnatevi, se vi piace, e sull'istante. — No; se vi piace, mio bello amico, no qui almeno: Non vedete voi che noi siamo dirimpetto al palazzo d'Aiguillon, il quale è pieno di creature del ministro? chi mi dice che non sia il ministro che vi ha incaricato di procurargli la mia testa? ora io ho un ridicolo trasporto per la mia testa, atteso che mi sembra ch'ella sia adattatissima alle mie spalle. Io voglio dunque uccidervi, siate tranquillo, ma uccidervi dolcemente, in un luogo chiuso e coperto, là ove voi non possiate vantarvi con alcuno della vostra morte. — Io mi vi adatto, ma non vi fidate troppo, e portate con voi il vostro fazzoletto, che vi appartenga o no; forse avrete l'occasione di servirvene. — Il signore è Guascone? domandò Aramis. — Sì, ma il signore non mi fissa l'appuntamento per prudenza. — La prudenza, signore, è una virtù molto inutile al moschettiere, ma indispensabile nelle altre condizioni, e siccome io non sono moschettiere che provvisoriamente, ho cura di rimanere prudente. A due ore io avrò l'onore di aspettarvi al palazzo del sig. de Tréville. — Là io v'indicherò il luogo opportuno. I due giovani si salutarono, quindi Aramis si allontanò risalendo la strada che conduceva al Luxembourg, nel mentre che d'Artagnan, vedendo che l'ora si avanzava, prendeva la strada dei Carmelitani-Scalzi dicendo fra se stesso: — Decisamente io non ne posso uscire, ma almeno se io sarò ucciso, lo sarò da un moschettiere. CAPITOLO V. I MOSCHETTIERI DEL RE, E LE GUARDIE DEL MINISTRO D'Artagnan non conosceva nessuno a Parigi. Egli andò dunque all'appuntamento d'Athos senza condur seco un padrino, risoluto di contentarsi di quello che avrebbe scelto il suo avversario. D'altronde la sua intenzione era formale di fare cioè al bravo moschettiere tutte le scuse convenienti ma senza debolezza, temendo che resultasse da questo duello ciò che resulta sempre dispiacente in un affare di questo genere, quando un uomo giovane, e vigoroso si batte con un avversario ferito e debole: vinto, egli raddoppia il trionfo del suo antagonista; vincitore, è accusato di prevaricamento e di facile audacia. Del resto, o noi abbiamo male esposto il carattere del nostro cercatore di avventure o il nostro lettore ha già dovuto rimarcare che d'Artagnan non era un uomo ordinario. Così, mentre ripeteva a se stesso che la sua morte era inevitabile, egli non si rassegnava punto a morire dolcemente, come un altro, meno coraggioso e meno moderato di lui, avrebbe fatto nel suo posto. Egli rifletteva ai diversi caratteri di quelli coi quali doveva battersi, e cominciò a veder più chiaro nella sua situazione. Egli sperava, mercè le scuse leali che si riserbava, di farsi un amico in Athos, la di cui aria di gran signore, e la fisonomia austera gli erano molto aggradite. Si lusingava di far paura a Porthos coll'avventura della bandoliera, che poteva, se non era ucciso sull'atto raccontare a tutti, racconto che, spinto destramente all'effetto, doveva coprire Porthos di ridicolo; finalmente in quanto al circospetto Aramis, non aveva una gran paura, e, supponendo che egli potesse giungere fino a lui, s'incaricava di spedirlo bene e meglio, o almeno di ferirlo sul viso, come Cesare aveva raccomandato di fare ai soldati di Pompeo, di guastare cioè per sempre quella bellezza di cui andavano superbi. In seguito, vi era in d'Artagnan quel fondo irremovibile di risoluzione che avevan deposto nel suo cuore i consigli di suo padre, consigli, la di cui sostanza era: non tollerare niente da nessuno fuorchè dal re, dal ministro e dal sig. de Tréville. Egli volò dunque piuttostochè camminò verso il convento dei Carmelitani Scalzi o meglio _Deschaux_, come si dicevano in quell'epoca, specie di fabbricato senza finestre, circondato da prati aridi, succorsale del Prato dei Chierici, e che serviva d'ordinario agli incontri delle persone che non avevano tempo da perdere. Allorchè d'Artagnan giunse in vista del piccolo terreno vago, che si estendeva ai piedi di questo monastero, Athos lo aspettava da cinque minuti soltanto, e mezzogiorno suonava. Egli dunque era puntuale come la Samaritana, ed il più rigoroso esigente in rapporto ai duelli non poteva avere niente da dire. Athos, che soffriva sempre crudelmente della sua ferita, quantunque fosse stata medicata di nuovo dal chirurgo del sig. de Tréville, si era assiso sopra una riva, e aspettava il suo avversario con quel contegno pacifico, e quell'aria dignitosa che non l'abbandonavano mai. All'aspetto di d'Artagnan, egli si alzò, e fece gentilmente qualche passo incontro a lui. Questi, dal suo canto si presentò al suo avversario con il cappello in mano e la sua piuma trascinante fino a terra. — Signore, disse Athos, io ho fatto prevenire due dei miei amici che mi serviranno da testimonj, ma questi due amici non sono ancora giunti. Io mi meraviglio ch'essi ritardino: questa non è la loro abitudine. — Io non ho testimonj, signore, disse d'Artagnan, perchè, giunto da jeri soltanto a Parigi, non vi conosco altri che il sig. de Tréville, al quale sono stato raccomandato da mio padre, che ha l'onore di essere qualche poco fra i suoi amici. Athos riflettè un istante. — Voi non conoscete che il sig. de Tréville? domandò egli. — Sì, signore, non conosco che lui. — Ma; continuò Athos, parlando metà a se stesso e metà a d'Artagnan, ma se io vi uccido avrò l'aria di essere un mangiatore di ragazzi! — Non troppo, signore, rispose d'Artagnan con un saluto che non era privo di dignità; non troppo, poichè mi fate l'onore di cavare la spada contro di me con una ferita di cui dovete essere molto incomodato. — Incomodato moltissimo, sulla mia parola, e voi mi avete fatto un male del diavolo, io debbo dirlo; ma io adoprerò la mano sinistra, è la mia abitudine in simili circostanze. Non crediate dunque che io vi faccia una grazia, io mi batto egualmente con entrambe le mani, anzi voi avrete lo svantaggio: un mancino è sempre incomodo a quelli che non ne sono prevenuti. Mi dispiace dunque di non avervi fatto parte prima di questa circostanza. — Voi veramente siete, signore, disse d'Artagnan inchinandosi di nuovo, di una cortesia di cui io vi sono al più alto grado riconoscente. — Voi mi confondete, rispose Athos con la sua aria da gentiluomo; parliamo dunque di altra cosa, io vi prego a meno che ciò non vi dispiaccia. Ah! per bacco, quanto mi avete fatto male! la spalla mi brucia. — Se voi vorreste permettermi... disse d'Artagnan con timidezza. — Che cosa, signore? — Io ho un balsamo miracoloso per le ferite, un balsamo che mi è stato dato da mia madre, e del quale io stesso ho fatto la prova. — Ebbene? — Ebbene, io sono sicuro che in meno di tre giorni questo balsamo vi guarirà; e in capo a tre giorni, quando voi sarete guarito, ebbene! signore, avrò sempre per un grande onore di essere il vostro uomo. D'Artagnan disse queste parole con una semplicità che faceva onore alla sua cortesia, senza offendere menomamente il suo coraggio. — Per bacco! signore, disse Athos, ecco una proposizione che mi piace; non che io l'accetti, ma essa sa di gentiluomo da una lega. Era in tal modo che parlavano e facevano i prodi del tempo di Carlomagno, sui quali ogni cavaliere dovrebbe cercare di modellarsi. Disgraziatamente non siamo più ai tempi del grande imperatore, noi siamo ai tempi di un ministro, e di qui a tre giorni si saprebbe, per quanto fosse ben custodito il segreto, si saprebbe, diceva, che noi dobbiamo batterci, e si opporrebbero al nostro combattimento. Ma che questi signori non vengono dunque? — Se voi avete fretta, signore, disse d'Artagnan ad Athos colla stesso semplicità che un momento prima gli aveva proposto di differire il duello a tre giorni, se voi avete fretta, che vi piaccia di spedirmi subito, voi non vi prendete pena, io ve ne prego. — Ecco un'altra proposizione che mi piace, disse Athos, facendo un grazioso segno di testa a d'Artagnan, questa non è da uomo senza cervello, è un colpo sicuro di un uomo di coraggio. Signore, io amo la gente della vostra tempra, e io credo che se noi non ci ammazziamo l'uno con l'altro, ritroverò più tardi un vero piacere nella vostra conversazione. Aspettiamo questi signori, io vi prego, io ho tutto il tempo, e ciò sarà più in regola. Ah! eccone qui uno, io credo. Infatti all'estremità della strada Faugirard cominciava a comparire il gigantesco Porthos. — Che! gridò d'Artagnan, il vostro primo testimonio è il sig. Porthos? — Si; vi dispiacerebbe forse? — No, menomamente. — Ecco il secondo. D'Artagnan si voltò dalla parte indicata da Athos, e riconobbe Aramis. — Che! gridò egli con un accento ora più maraviglioso della prima volta, il vostro secondo testimonio è il sig. Aramis? — Senza dubbio, non sapete voi che giammai ci si vede l'uno senza l'altro, e che ci chiamano nei moschettieri, nelle guardie, alla corte e in città, Athos, e Porthos, e Aramis, o i tre inseparabili? dopo ciò, siccome voi giungete da Dax o da Pau... — Da Tarbes, disse d'Artagnan. — Vi è permesso d'ignorare questo dettaglio, disse Athos. — In fede mia, riprese d'Artagnan, voi siete ben chiamati, signori, e la mia avventura, se ella farà qualche rumore, proverà almeno che la vostra unione non è fondata sui contrasti. In questo mentre, Porthos si era avvicinato, aveva salutato con la mano Athos; quindi, voltandosi verso d'Artagnan, era rimasto meravigliato. Diciamolo di passaggio, egli aveva cambiata la bandoliera e lasciato il suo mantello. — Ah! ah! fece egli, che cosa è questo? — È con il signore che io mi batto? disse Athos mostrando con la mano d'Artagnan, e salutandolo con lo stesso gesto. — È con lui che io pure mi batto? disse Porthos. — Ma a un'ora soltanto, rispose d'Artagnan. — Ed io pure mi batto col signore, disse Aramis, avvicinandosi anch'egli sul terreno. — Ma soltanto a due ore, disse d'Artagnan con la medesima calma. — Ma a proposito di che ti batti tu Athos? domandò Aramis. — In fede mia non lo so molto bene, egli mi ha fatto male alla spalla; e tu Porthos? — In fede mia, io mi batto perchè mi batto, rispose Porthos arrossendo. Athos che non perdeva niente, vide passare un fino sorriso sulle labbra del Guascone. — Noi abbiamo avuto una piccola discussione sulla toletta, disse il giovane. — E tu Aramis? domandò Athos. — Io mi batto per un punto di filosofia, riprese Aramis, facendo un segno a d'Artagnan col quale lo pregava di tenere segreta la causa del suo duello. Athos vide passare un secondo sorriso sulle labbra d'Artagnan. — Veramente disse Athos. — Sì, sopra una sentenza di Platone, sulla spiegazione della quale non ci siamo d'accordo, disse il Guascone. — Decisamente egli è un uomo di spirito, mormorò Athos. — Ed ora che voi siete riuniti, signori, disse d'Artagnan, permettetemi di farvi le mie scuse. Alla parola _scuse_, una nube passò sulla fronte d'Athos, un sorriso altero sfiorò sulla labbra di Porthos, e un segno negativo fu la risposta d'Aramis. — Voi non mi capite, signori, disse d'Artagnan rialzando la sua testa, sulla quale cadeva in quel momento un raggio di sole che ne indorava le linee fine ed ardite; io vi domando scusa nel caso che io non potessi soddisfare il mio debito con tutti e tre; poichè il sig. Athos ha il diritto di ammazzarmi per il primo, cosa che toglie molto del suo valore al vostro credito, sig. Porthos e che rende quasi nullo il vostro, sig. Aramis. Ed ora, signori, io ve lo ripeto, scusatemi, ma soltanto di questo, e in guardia! A queste parole, e col gesto il più cavalleresco che si potesse vedere, d'Artagnan sfoderò la spada. Il sangue era salito alla testa di d'Artagnan, e in quel momento avrebbe cavata la spada contro tutti i moschettieri del regno, come ora lo faceva contro Athos, Porthos e Aramis. Era mezzogiorno e un quarto. Il sole era al suo zenit, e la posizione scelta per essere il teatro del duello si ritrovava esposta a tutto il suo ardore. — Fa molto caldo, disse Athos, cavando anch'egli la sua spada, e pure non mi saprei levare il sajo, perchè, anche poco fa ho sentito che la mia ferita mandava sangue, e temerei d'incomodare il signore facendogli vedere del sangue che non fosse cavato da lui. — È vero, signore, disse d'Artagnan; è cavato da un altro o è cavato da me: io vi assicuro che vedrò sempre con gran dispiacere il sangue di un così bravo gentiluomo; io mi batterò dunque col sajo come voi. — Andiamo, andiamo, disse Porthos, non fate tanti complimenti, e pensate che noi aspettiamo la nostra volta. — Parlate per voi solo, Porthos, quando volete dire simili incongruenze, interruppe Aramis. In quanto a me, io ritengo le cose che questi signori si dicono per molto ben dette, e affatto degne di due gentiluomini. — Quando volete, signore, disse Athos mettendosi in guardia. — Aspettava i vostri ordini, disse d'Artagnan incrociando il ferro. Ma le due spadazze erano appena incrociate, che una squadra di guardie del ministro, comandata dal sig. de Jussac, si mostrò all'angolo del convento. — Le guardie del ministro! gridarono ad un tempo Porthos e Aramis. La spada nel fodero, signori! la spada nel fodero! Ma era troppo tardi; i due combattenti erano stati veduti in una posizione che non permetteva di dubitare delle loro intenzioni. — Olà! gridò Jussac avanzandosi verso di loro e facendo segno ai suoi uomini di fare altrettanto; olà! moschettieri? e degli editti, che facciamo? — Le signore guardie sono molto generose, disse Athos pieno di rancore, perchè Jussac era stato uno degli aggressori dell'antivigilia. Se noi vi vedessimo battere, io vi garantisco che noi ci guarderessimo bene dall'impedirvelo. Lasciateci dunque fare, e voi ci avrete piacere senza prendervi incomodo. — Signore, disse Jussac, è con gran dispiacere che io vi dichiaro che la cosa è impossibile. Il nostro dovere prima di tutto: rimettete dunque le vostre armi, e seguiteci. — Signore, disse Aramis, parodiando Jussac, sarebbe con grandissimo piacere che noi obbediremmo al vostro grazioso invito, se ciò dipendesse da noi; ma disgraziatamente la cosa è impossibile; il signor de Tréville lo ha a noi proibito. Continuate dunque la vostra strada, che è ciò che voi potete fare di meglio. Questa celia esasperò Jussac. — Noi dunque vi caricheremo, diss'egli; se voi disobbedite. — Essi sono cinque, disse Athos a mezza voce, e noi non siamo che tre; noi saremo anche una volta battuti, e ci abbisognerà morire qui poichè io dichiaro, che io non tornerò a ricomparire davanti al mio capitano dopo essere stato vinto. Questo solo momento bastò a d'Artagnan per prendere il suo partito: era questo uno di quegli avvenimenti che decidono della vita di un uomo, era una scelta da farsi fra il re ed il ministro, e fatta la scelta bisognava perseverare. Battersi, voleva dire disobbedire alla legge, voleva dire arrischiare la sua testa, voleva dire diventare ad un sol tratto il nemico di un ministro più potente del re stesso, ecco ciò che travide il giovine, e diciamolo a sua gloria, egli non esitò un secondo. Voltandosi adunque verso Athos ed i suoi amici: — Signori diss'egli, io aggiungerò, se il permettete qualche cosa alle vostre parole. Voi avete detto che non siete che in tre, ma mi sembra che noi siamo in quattro. — Ma voi non siete dei nostri, disse Porthos. — È vero rispose d'Artagnan, io non ho l'abito, ma ho l'anima. Il mio cuore è di moschettiere, lo sento bene, signore, e questo mi guida. — Allontanatevi, giovane, gridò Jussac, che senza dubbio dai gesti e dalla espressione del suo viso aveva indovinato il disegno di d'Artagnan. Voi potete ritirarvi, noi vi acconsentiamo, salvate la vostra pelle, e andate presto. D'Artagnan non si mosse. — Decisamente voi siete un bravo giovane, disse Athos, stringendo la mano a d'Artagnan. — Andiamo, andiamo, prendiamo un partito, riprese Jussac. — Vediamo, dissero Porthos e Aramis, facciamo qualche cosa. — Il signore è pieno di generosità, disse Athos. Ma tutti e tre pensavano alla gioventù di d'Artagnan, e temevano la sua inesperienza. — Noi non saremmo che tre, e fra questi un ferito, più un ragazzo, riprese Athos, e ciò nonostante si dirà che noi eravamo quattro uomini. — Sì, ma rinculare! disse Porthos. — È difficile, riprese Athos. — È impossibile, disse Aramis. D'Artagnan comprese la loro irresoluzione. — Signori, provatemi pure, disse egli, ed io vi giuro sul mio onore, che non voglio muovermi di qui se noi siamo vinti. — Come vi chiamano, mio bravo? disse Athos. — D'Artagnan, signore. Ebbene! Athos, Porthos, Aramis e d'Artagnan, in avanti! gridò Athos. — Ebbene! vediamo, signori, vi decidete voi, a battervi? gridò per la terza volta Jussac. — È fatto, signori, disse Athos. — E qual partito prendete? domandò Jussac. — Noi avremo l'onore di darvi la carica, rispose Aramis alzando con una mano il suo cappello e cavando con l'altra la spada. — E voi volete resistere? gridò Jussac. — Per bacco! ciò vi fa meraviglia. E i nove combattenti si precipitarono gli uni sugli altri con una furia, che non escludeva una certa tattica. Athos prese un certo Cabusac favorito del ministro; Porthos ebbe Biscarrat, e Aramis si vide in faccia due avversarj. In quanto a d'Artagnan, egli si trovò lanciato contro lo stesso Jussac. Il cuore del giovane guascone gli batteva in un modo da rompergli il petto, non già di paura, grazie a Dio, egli non ne aveva neppur l'ombra, ma di emulazione; egli si batteva come una tigre in furore, girando dieci volte intorno al suo avversario, e cambiando venti volte le sue guardie ed il suo terreno. Jussac era, come si diceva allora, ingordo di lama ed aveva molta pratica; ciò non ostante aveva tutta la pena del mondo a difendersi contro un avversario agile e svelto, che si scartava ad ogni momento dalle regole ricevute, attaccando da tutte le parti ad un tempo, e con tutto ciò difendendosi e riparando i colpi come un uomo che porta un gran rispetto alla sua epidermide. Finalmente questa lotta finì col far perdere la pazienza a Jussac. Furioso di esser tenuto in scacco da colui che aveva guardato come un ragazzo, egli si riscaldò e cominciò a far degli sbagli. D'Artagnan, che in mancanza di pratica aveva una profonda teoria, raddoppiò di agilità. Jussac, volendo finirla portò un colpo terribile al suo avversario fendendo al fondo; ma questi parò di prima, e mentre che Jussac si rialzava, e strisciando come un serpente sul suo ferro, gli passò la sua spada attraverso al corpo. Jussac cadde come un masso. D'Artagnan gettò allora un colpo d'occhio inquieto e rapido sul campo di battaglia. Aramis aveva già ucciso uno dei suoi avversari, ma l'altro lo stringava d'appresso. Però Aramis era in buona situazione e poteva ancora difendersi. Biscarrat e Porthos si erano dati dei colpi forati. Porthos aveva ricevuto un colpo di spada attraverso il braccio e Biscarrat uno attraverso la coscia. Ma siccome nè l'una nè l'altra di queste ferite erano gravi, non facevano che battersi con maggiore accanimento. Athos, ferito di nuovo da Cabusac impallidiva a vista d'occhio, ma non rinculava di un piede; egli aveva soltanto cambiata la mano alla spada e si batteva con la sinistra. D'Artagnan secondo le leggi del duello di quell'epoca, poteva soccorrere qualcuno; e mentre cercava con lo sguardo quale dei suoi compagni aveva più bisogno del suo ajuto egli si accorse di un colpo d'occhio di Athos. Questo colpo d'occhio era di una sublime eloquenza. Athos sarebbe morto piuttosto che domandar soccorso; ma egli poteva guardare, e con lo sguardo domandava un appoggio. D'Artagnan lo indovinò, fece uno sbalzo terribile, e piombò sul fianco di Cabusac, gridando. — A me, signora guardia, io vi uccido! Cabusac si voltò ed era tempo. Athos, che si sosteneva solo per il suo gran coraggio, cadde sopra un ginocchio. — Per bacco! gridò egli a d'Artagnan, non lo ammazzate, giovane io ve ne prego: ho un vecchio affare da finire con lui, quando sarò guarito e starò bene. Disarmatelo soltanto; legategli la spada. Così. Bene! benissimo! Questa esclamazione era strappata ad Athos dalla spada di Cabusac che saltava venti passi da lui lontana. D'Artagnan e Cabusac si slanciarono assieme, l'uno per riprenderla, l'altro per impadronirsene; ma d'Artagnan più svelto arrivò il primo, e vi mise un piede sopra. Cabusac corse a quella guardia ch'era stata uccisa da Aramis, s'impadronì della sua spadaccia, e volle ritornare sopra d'Artagnan; ma sul suo cammino si incontrò in Athos che durante la pausa d'un istante, che gli aveva accordata d'Artagnan, aveva ripreso lena e che, per timore che d'Artagnan gli uccidesse il suo nemico, voleva ricominciare il combattimento. D'Artagnan capì che sarebbe stato un disgustarsi Athos non lo lasciando fare. In fatti, qualche secondo dopo, Cabusac cadde colla gola trapassata da un colpo di spada. Nel medesimo istante Aramis appoggiava la sua spada contro il petto del suo avversario rovesciato, per costringerlo a domandare mercede. Restavano Porthos e Biscarrat. Porthos battendosi faceva mille fanfaronate, domandando a Biscarrat che ora poteva essere, e gli faceva i suoi complimenti sulla compagnia che aveva ottenuta suo fratello nel reggimento Navarra: ma sempre sforzando non guadagnava niente. Biscarrat, era uno di quegli uomini di ferro che non cadono se non che morti. Ciò non pertanto bisognava finirla. Poteva sopraggiungere una ronda e prendere tutti i combattenti feriti e non feriti, realisti e ministeriali. Athos, Aramis e d'Artagnan, circondarono Biscarrat, e gli intimarono d'arrendersi. Quantunque solo contro tutti, e con un colpo di spada che gli traversava una coscia, Biscarrat voleva far fronte: ma Jussac che si era alzato sul gomito gli gridò d'arrendersi. Biscarrat era un Guascone come d'Artagnan, egli fece il sordo e si contentò di ridere, e fra due parate trovare il tempo di fare un segno per terra colla punta della sua spada: — Qui, diss'egli, qui morrà Biscarrat, solo di quelli che sono con lui. — Ma essi sono quattro contro di te: finiscila, io te l'ordino. — Ah! se tu lo ordini, allora è un'altra cosa, disse Biscarrat, siccome tu sei il mio brigadiere, io debbo obbedire. E facendo un salto in addietro, spezzò la spada contro il suo ginocchio, e per non renderla, ne gettò i pezzi per disopra al muro del convento, ed incrocio le sue braccia fischiando una canzone ministeriale. La bravura è sempre rispettata anche fra nemici: i moschettieri salutarono Biscarrat colle loro spade, e le rimisero nel fodero. D'Artagnan fece altrettanto, quindi aiutato da Biscarrat, il solo che fosse rimasto in piedi, portò sotto il portico del convento Jussac, Cabusac e quello fra gli avversari d'Aramis che non era che ferito. Il quarto, come lo abbiamo detto, era morto. Quindi suonarono la campanella, e portando seco quattro spade su cinque, s'incamminarono ebbri di gioia verso il palazzo del sig. de Tréville. Si vedevano intrecciati, occupare tutta la larghezza della strada, chiamando ciascun moschettiere che incontravano, di modo che alla fine divenne una marcia trionfale. Il cuore di d'Artagnan nuotava nell'ebbrezza; egli camminava fra Athos e Porthos stringendoli teneramente. — Se io non sono ancora un moschettiere, diss'egli ai suoi nuovi amici oltrepassando la porta del palazzo del sig. de Tréville, almeno eccomi ricevuto come alunno, non è vero? CAPITOLO VI. SUA MAESTÀ IL RE LUIGI DECIMOTERZO L'affare fece un gran rumore; il sig. de Tréville sgridò molto ad alta voce i suoi moschettieri, ma si congratulò con loro sotto voce, e siccome non vi era tempo da perdere per prevenire il re, il sig. de Tréville si sollecitò di andare al Louvre. Era già troppo tardi, il re era racchiuso col ministro, e fu detto al sig. de Tréville, che il re era occupato e non poteva ricevere in quel momento. La sera il signor de Tréville, venne al giuoco del re. Il re guadagnava, e siccome Sua Maestà era molto avara, così era di un eccellente umore, e scoperse di lontano il sig. de Tréville. — Venite qui sig. capitano, diss'egli, venite che io vi sgridi; sapete voi che il ministro è venuto da me a farmi delle lagnanze sui vostri moschettieri? e ciò con una tale emozione che questa sera il ministro è malato: e che! ma sono diavoli a quattro, gente da forca i vostri moschettieri! — No, sire, rispose de Tréville, che vide al primo colpo come la cosa andava a piegare, no, tutto al contrario, essi sono buone creature, docili come gli agnelli, e che non hanno altro desiderio, io me ne faccio garante, che quello di non cavare la spada dal fodero, che pel servizio di Vostra Maestà. Ma che volete? le guardie del ministro sono senza posa a muover loro lite, e anche per l'onore del corpo, quei poveri giovani sono costretti a difendersi. Ascoltate il sig. de Tréville! disse il re, ascoltatelo! Non si direbbe che egli parla di una comunità di frati? In verità, mio capitano, ho volontà di togliervi il vostro brevetto e di darlo a madamigella de Chemerault, alla quale ho promesso un abbazia. Ma non crediate già che io voglia credere così alla vostra parola. Mi si chiama Luigi il Giusto, sig. de Tréville, e or ora noi lo vedremo. — Ah! è perchè mi fido a questa giustizia, sire, che io aspetterò pazientemente e tranquillamente il comodo di Vostra Maestà. — Aspettate dunque, signore, aspettate dunque, disse il re, io non mi farò attendere lungamente. Infatti, la sorte si cambiava, e siccome il re cominciava a perdere quello che aveva vinto, non era dispiacente di ritrovare un pretesto per fare, che ci si passi l'espressione da giuocatore di cui, noi lo confessiamo, non conosciamo l'origine, per fare Carlomagno. Il re si alzò dunque dopo un istante, e mettendosi in saccoccia il denaro che era avanti a lui, la maggior parte del quale era vinto al giuoco: — Vieuville, diss'egli, prendete il mio posto; bisogna che io parli al sig. de Tréville per un affare di importanza. Ah!... io aveva ottanta luigi avanti a me. Mettete voi pure la medesima somma, affinchè quelli che hanno perduto non abbiano a lamentarsi. La giustizia prima di ogni altra cosa. Poi rivolgendosi verso il sig. de Tréville, e conducendolo nel vano di una finestra. — Ebbene! signore, continuò egli, voi dite che sono state le guardie del ministro che hanno mosso lite ai vostri moschettieri? — Sì, come fanno sempre. — E come è andata la cosa? vediamo: perchè voi lo sapete, mio caro capitano, bisogna che un giudice ascolti ambedue le parti. — Ah! mio Dio! nel modo il più semplice ed il più naturale. Tre dei miei migliori soldati, che Vostra Maestà conosce di nome, e di cui ella più di una volta ha apprezzato i servigi, e che hanno, io posso affermarlo al re, molto a cuore il loro servigio; tre dei miei migliori soldati, diceva, i signori Athos, Porthos e Aramis, avevano combinata una partita di piacere con un cadetto di Guascogna; che io aveva loro raccomandato la stessa mattina. La partita doveva aver luogo a San Germano, io credo, e si erano dati l'appuntamento ai Carmelitani scalzi, allorchè fu guastata dal sig. Jussac, e dai signori Cabusac, Biscarrat e altre due guardie, che certamente non si trovavano là così in numerosa compagnia senza cattive intenzioni contro gli editti. — Ah! ah! voi mi ci fate pensare, disse il re; senza dubbio essi erano là per battersi fra di loro stessi. — Io non accuso nessuno, sire, ma lascio a Vostra Maestà l'apprezzare ciò che potevano andare a fare cinque uomini armati in un luogo così deserto come lo sono le vicinanze dei Carmelitani. — Sì, voi avete ragione, de Tréville, voi avete ragione. — Allora, quando essi hanno veduto i miei moschettieri, essi hanno cambiato d'idea, ed hanno dimenticato la loro contesa particolare per l'odio che portano al mio corpo; perchè Vostra Maestà non ignora che i moschettieri, che sono tutti pel re, e per nessun altro che pel re, sono i nemici naturali delle guardie che sono soltanto pel ministro. — Sì, de Tréville, sì, disse il re, malinconicamente, ed è cosa ben trista, credetemi, di vedere, in tal modo due partiti in Francia, due teste al regno; ma tutto ciò finirà, de Tréville, tutto ciò finirà. Voi dite dunque che le guardie hanno mossa contesa ai moschettieri? — Io dico che è probabile che le cose siano andate così, ma io non ne giuro, sire. Voi sapete quanto sia difficile a conoscere la verità, ammeno chè non si sia dotato di quell'ammirabile istinto che fa chiamare Luigi XIII il Giusto... — E avete ragione, de Tréville; ma essi non erano soli i vostri moschettieri, vi era con loro un ragazzo? — Sì, sire, e un uomo ferito, dimodochè tre moschettieri del re, fra i quali un ferito, e un ragazzo, non solo hanno tenuto testa a cinque delle più terribili guardie del ministro, ma ancora ne hanno messe quattro a terra. — Ma questa è una vittoria! gridò il re tutto raggiante, una vittoria completa! — Sì, sire, tanto completa quanto quella del ponte di Cè. — Quattro uomini, fra i quali un ferito e un fanciullo, dite voi? — Un giovinotto appena. Il quale anzi si è condotto così bene in questa occasione, che io mi prenderei la libertà di raccomandarlo a Vostra Maestà. — Come si chiama? — D'Artagnan, sire. Questi è figlio di uno dei miei più antichi amici, il figlio di un uomo che ha fatto col re vostro padre, di gloriosa memoria, la guerra dei partigiani. — E voi dite che si è condotto bene questo giovane? raccontatemi de Tréville; voi sapete che io amo i racconti di guerre e di combattimenti. E il re Luigi XIII, rialzò con orgoglio i suoi baffi appoggiandosi sull'anca. — Sire, riprese de Tréville, come ve l'ho detto, il sig. d'Artagnan è quasi un ragazzo; e siccome egli non ha l'onore di essere moschettiere, era in abito di borghese: le guardie del ministro, riconoscendo la sua giovinezza, e di più che non apparteneva al corpo, lo invitarono a ritirarsi prima di dare l'attacco. — Allora, voi vedete bene, de Tréville, interruppe il re, che sono stati essi che hanno attaccato. — È giusto, sire; così non vi è più alcun dubbio; essi a lui intimarono di ritirarsi, ma egli era moschettiere di cuore, e tutto per Vostra Maestà: così dunque egli rimase coi sig. moschettieri. — Bravo il giovane! mormorò il re. — Infatti, egli dimorò con essi, e Vostra Maestà ha in lui un così forte campione, che fu egli stesso che dette a Jussac quel terribile colpo di spada che mette tanto in collera il ministro. — Fu lui che ferì Jussac? gridò il re; lui, un fanciullo! questo, de Tréville, è impossibile. — Eppure è così, come ho l'onore di dire a Vostra Maestà. — Jussac! una delle migliori lame del regno! — Ebbene! sire, egli ha ritrovato il suo maestro. — Io voglio vedere questo giovane, de Tréville, io voglio vederlo, e se se ne può far qualche cosa, ebbene! noi ce ne occuperemo. — Quando sarà che Vostra Maestà si degnerà di riceverlo? — Domani a mezzogiorno, de Tréville. — Lo condurrò io solo? — No, conducetemeli tutti quattro assieme. Io voglio ringraziarli tutti in una volta. Gli uomini affezionati sono rari, de Tréville, e bisogna ricompensare la devozione. — A mezzogiorno, sire, noi saremo al Louvre. — Ma! per la piccola scala, de Tréville, per la piccola scala. È inutile che il ministro sappia... — Sì, sire. — Voi capite, de Tréville, un editto è sempre un editto; in fin dei conti il battersi è proibito. — Ma questo incontro, sire, sorte del tutto dallo condizioni ordinarie del duello; è una rissa, e la prova si è che essi erano cinque guardie del ministro contro i miei tre moschettieri ed il sig. d'Artagnan. — È giusto, disse il re, ma non importa, de Tréville. Venite pure per la piccola scala. De Tréville sorrise. Ma siccome era già molto l'avere ottenuto che questo fanciullo si rivoltasse contro il suo maestro, egli salutò rispettosamente il re, e con pieno contento prese congedo da lui. Fin dalla stessa sera, i tre moschettieri furono avvisati dell'onore che loro accordava il re. Siccome essi conoscevano da lungo tempo il re, non ne furono molto riscaldati, ma d'Artagnan, colla sua immaginazione guascona, vi vide venir la sua fortuna, e passò la notte facendo sogni d'oro. Così dall'ott'ore del mattino egli era presso Athos. D'Artagnan ritrovò il moschettiere già vestito e pronto a sortire. Siccome non avevano l'appuntamento dal re che a mezzogiorno, egli aveva fatto il progetto con Porthos e Aramis di andare a fare una partita alla palla in un recinto situato vicino alle scuderie del Luxembourg. Athos invitò d'Artagnan a seguirli, e malgrado la sua ignoranza in questo giuoco a cui non aveva mai giuocato, questi accettò, non sapendo che fare del tempo dalle nove ore del mattino, che appena erano, fino al mezzogiorno. I due moschettieri erano già arrivati e giuocavano assieme. Athos, che era molto forte in tutti gli esercizi del corpo passò con d'Artagnan dalla parte opposta, e li sfidò. Ma al primo movimento che provò, quantunque giuocasse con la mano sinistra, capì che la sua ferita era ancora troppo recente per permettergli un simile esercizio. D'Artagnan rimase dunque solo, e siccome dichiarò ch'egli era inesperto per sostenere una partita in regola, si continuò soltanto a inviarsi delle palle senza tener conto del giuoco! Ma una di queste palle lanciate dal pugno ercolino di Porthos, passò così da vicino al viso di d'Artagnan, che egli pensò che se invece di passargli da un lato, lo avesse colto in faccia, la sua udienza era perduta, attesochè sarebbe stato probabilmente nell'assoluta impossibilità di presentarsi al re. Ora, siccome da questa udienza, nella sua immaginazione guascona, dipendeva tutto il suo avvenire, egli salutò gentilmente Porthos e Aramis, dichiarando, che egli non riprenderebbe la partita, che allora quando fosse in istato di tener loro testa, e ritornò a prender posto nella galleria vicino alla corda. Disgraziatamente per d'Artagnan, fra gli spettatori si ritrovava una guardia del ministro, il quale tutto riscaldato ancora dalla sconfitta dei suoi compagni accaduta il giorno innanzi soltanto, si era promesso di afferrare la prima occasione per vendicarla; egli credè dunque che questa occasione fosse venuta, e indirizzandosi al suo vicino: — Non è da maravigliarsi, disse egli, che questo giovinetto abbia paura di una palla, egli senza dubbio è un alunno dei moschettieri. D'Artagnan si voltò come se fosse stato morso da un serpente, e guardò fissamente la guardia che aveva detto una così insolente proposizione. — Per bacco! riprese questi arricciandosi insolentemente i baffi, guardatemi quanto volete, mio piccolo signore; io ho detto ciò che ho detto. — E siccome quello che voi avete detto è troppo chiaro perchè le vostre parole abbiano bisogno di una spiegazione, rispose d'Artagnan a bassa voce, io vi pregherei a seguirmi. — E quando? domandò la guardia con la stessa insolenza. — Subito, se vi fa piacere. — E sapete voi chi sono io? — Io? Lo ignoro completamente, e non me ne inquieto punto. — Voi avete torto, perchè se sapeste il mio nome, non avreste forse tanta fretta. — Come vi chiamate voi? — Bernajoux, per servirvi. — Ebbene! sig. Bernajoux, disse tranquillamente d'Artagnan, io vado ad aspettarvi sulla porta. — Andate, signore, io vi seguo. — Non abbiate troppa fretta, signore, che non si accorgano che noi sortiamo assieme, voi capirete che, per quello che andiamo a fare, molta gente c'incomoderebbe. — Sta bene, rispose la guardia maravigliata che il suo nome non avesse prodotto verun effetto sul giovinetto. Infatti, il nome di Bernajoux era conosciuto da tutto il mondo, eccettuato il solo d'Artagnan, forse perchè era uno di quelli che figuravano il più spesso nelle risse giornaliere, che tutti gli editti del re e del ministro non avevano potuto reprimere. Porthos e Aramis erano tanto occupati della loro partita, e Athos li guardava con tanta attenzione che essi non videro neppure sortire il loro giovane compagno, il quale, come aveva detto alla guardia del ministro, si fermò sulla porta: un istante dopo questi discese anch'egli. Siccome d'Artagnan non aveva tempo da perdere per cagione dell'udienza del re, che era fissata per il mezzogiorno, girò gli occhi intorno a sè, vedendo che la strada era deserta: — In fede mia, signore, disse egli al suo avversario, è una fortuna per voi, quantunque voi vi chiamate Bernajoux, di non avere a fare che con un alunno dei moschettieri, però siate tranquillo, io farò il meglio che potrò. In guardia! — Ma, disse colui che d'Artagnan provocava in tal modo, mi sembra che il luogo sia mal scelto, e che noi staremmo assai meglio dietro l'Abbazia S. Germano nel Prato dei Chierici. — Ciò che voi dite è pieno di buon senso, rispose d'Artagnan; disgraziatamente io ho poco tempo da perdere, avendo un appuntamento per il mezzogiorno preciso. In guardia adunque, signore, in guardia! Bernajoux non era uomo da farsi ripetere due volte un simile complimento. Nel medesimo istante la sua spada brillò nella sua mano, e piombò con un fendente sul suo avversario che, mercè la sua gran giovinezza, egli sperava intimidire. Ma d'Artagnan avea fatto il suo noviziato nel giorno innanzi, e ancora tutto fresco della sua vittoria, e gonfio del suo futuro favore, era risoluto di non dare addietro di un passo: per tal modo i due ferri si ritrovarono impegnati sino alla guardia, e siccome d'Artagnan si teneva fermo al suo posto, fu il suo avversario che fece un passo di ritirata. Ma d'Artagnan approfittò del momento, e in questo movimento, in cui il ferro di Bernajoux deviava dalla linea, egli disimpegnò il suo, andò a fondo, e toccò l'avversario in una spalla. Subito d'Artagnan a sua volta fece un passò in addietro e rialzò la sua spada; ma Bernajoux gli gridò che non era niente, e andando a fondo ciecamente su lui, s'infilzò da se stesso. Però, siccome non cadeva, siccome non si dichiarava vinto, ma rompeva soltanto dalla parte del palazzo del signor della Trémouille, al servizio del quale egli aveva un parente, d'Artagnan ignorando egli stesso la gravità dell'ultima ferita che il suo avversario aveva ricevuta, lo stringeva vivamente dappresso, e senza dubbio lo avrebbe finito con una terza ferita, allorchè il rumore che si innalzava dalla strada essendosi esteso fino al giuoco della palla, due degli amici della guardia che lo avevano inteso cambiare qualche parola con d'Artagnan, e che lo avevano veduto sortire in seguito di queste parole, si precipitarono con la spada alla mano fuori del recinto del giuoco e piombarono sul vincitore. Ma tosto Athos, Porthos e Aramis comparvero alla lor volta, e al momento in cui le due guardie attaccarono il giovane camerata li costrinsero a voltarsi. In questo momento, Bernajoux cadde, e siccome le guardie erano due soltanto contro quattro, essi si misero a gridare: «a noi, palazzo della Trémouille»; a queste grida tutti quelli ch'erano nel palazzo sortirono precipitandosi sui quattro compagni, che dalla loro parte si posero a gridare: «a noi moschettieri!» Questo grido era ordinariamente inteso, perchè si sapeva che i moschettieri erano nemici del ministro, ed erano amati per l'odio che portavano al ministro. Così le guardie delle altre compagnie che non appartenevano al Duca Rosso, come lo aveva chiamato Aramis, prendevano generalmente parte in questa specie di contese per i moschettieri del re. Di tre guardie della compagnia del signor des Essarts che passavano, due vennero in aiuto dei quattro compagni, nel mentre che l'altro corse al palazzo del sig. de Tréville gridando: «a noi moschettieri! a noi!» Come d'ordinario, il palazzo del signor de Tréville era pieno di soldati di quest'arma, che accorsero in soccorso dei loro camerati. La mischia divenne generale, ma la forza era pei moschettieri. Le guardie del ministro e le genti del sig. della Trémouille, si ritirarono nel palazzo, di cui chiusero le porte in tempo appena per impedire che i loro nemici non vi facessero un'irruzione insieme con loro. In quanto al ferito, fin dal principio era stato trasportato, e come si disse, in condizioni molto cattive. L'agitazione era al suo colmo fra i moschettieri ed i loro alleati, e già si dibatteva se, per punire l'insolenza, che avevano avuta i domestici dei signor della Trémouille, di fare una sortita sui moschettieri dei re, si dovesse mettere il fuoco al suo palazzo. La proposizione sarebbe stata accettata, messa in esecuzione con entusiasmo se fortunatamente non battevano le undici ore: d'Artagnan ed i suoi compagni si ricordarono della loro udienza, e siccome loro avrebbe rincresciuto che si fosse fatto un sì bel colpo senza di loro, essi giunsero a calmare le teste; si contentarono adunque di gettare qualche sasso contro le porte, ma le porte resistettero, ed allora si stancarono. D'altronde, quelli che dovevano essere risguardati come i capi dell'intrapresa avevano da qualche istante lasciato il gruppo, e s'incamminavano verso il palazzo del sig. de Tréville, che li aspettava, ed era già al corrente di questa nuova bravata. — Presto, al Louvre, diss'egli, al Louvre senza perdere un momento, e procuriamo di vedere il re prima che egli sia prevenuto dal ministro; noi gli racconteremo la cosa come una conseguenza dell'affare di jeri, e le due passeranno insieme. Il signor de Tréville, accompagnato dai quattro giovani si incamminò verso il Louvre, ma, a gran sorpresa del capitano dei moschettieri, gli fu annunziato che il re era andato alla caccia del cervo nella foresta di S. Germano. Il signor de Tréville si fece ripetere due volte questa notizia, ed a ciascheduna volta i suoi compagni videro il suo volto imbruttirsi. — È forse da jeri, domandò egli, che Sua Maestà aveva il progetto di fare questa caccia? — No, Eccellenza, rispose il cameriere, è stato il gran cacciatore che questa mattina è venuto ad annunziare, che in questa notte si era relegato un cervo a sua disposizione. Sulle prime ha risposto che non vi sarebbe andato, quindi non ha potuto resistere al piacere che gli prometteva questa caccia, e dopo pranzo è partito. — E il re ha egli veduto il ministro? domandò il sig. de Tréville. — Sì, secondo tutte le probabilità, rispose il cameriere, perchè questa mattina ho veduto i cavalli alla carrozza del ministro, ho domandato dove andava, e mi fu risposto: a S. Germano. — Noi siamo stati prevenuti, disse il sig. de Tréville. Signori, io vedrò il re questa sera, ma in quanto a voi non vi consiglio di azzardarvici. L'avviso era troppo ragionevole, e soprattutto veniva da un uomo che conosceva troppo bene il re, perchè i quattro giovani tentassero di contraddire il signor de Tréville. Gli invitò dunque a rientrare ciascuno alle loro stanze e di aspettare le sue notizie. Rientrando nel suo palazzo, il sig. de Tréville pensò che bisognava prender data portando querela pel primo. Egli inviò uno dei suoi domestici al signor della Trémouille con una lettera nella quale egli lo pregava di metter fuori di casa sua le guardie del ministro, e di rimproverare le sue genti dell'audacia che avevano avuta di fare una sortita contro i moschettieri. Ma il signor della Trémouille, di già prevenuto dal suo scudiero, di cui come si sa, Bernajoux era il parente, gli fece rispondere che non spettava nè al signor de Tréville, nè ai moschettieri il lamentarsi, ma al contrario a lui, al quale i moschettieri avevano battuti e feriti i domestici, ed avevano voluto bruciare il palazzo. Ora siccome la dissensione fra questi due signori avrebbe potuto durare lungo tempo, dovendo naturalmente sostenere ciascuno la sua opinione, il signor de Tréville pensò ad un espediente che aveva per iscopo di finire tutto: ed era di andare egli stesso dal sig. della Trémouille. Egli si portò adunque subito al di lui palazzo, e si fece annunziare. I due signori si salutarono gentilmente, perchè se non v'era amicizia fra di loro, vi era almeno stima. Entrambi erano uomini di coraggio e di onore, e siccome il signor della Trémouille, protestante, vedeva raramente il re, non era di alcun partito, egli in generale non apportava alcuna prevenzione nelle sue relazioni sociali. Questa volta, ciò non ostante, il suo ricevimento, quantunque gentile; fu più freddo dell'ordinario. — Signore, disse de Tréville, noi crediamo di avere a lamentarci l'uno dell'altro, e sono venuto io stesso perchè assieme rischiariamo questo affare. — Volentieri, rispose della Trémouille; ma vi prevengo che io sono bene informato, e che tutto il torto sta dalla parte dei vostri moschettieri. — Voi siete un uomo troppo giusto e troppo ragionevole, signore, disse de Tréville, per non accettare la proposizione che vengo a farvi. — Dite, signore, io ascolto. — Come sta il signor Bernajoux, il parente del vostro scudiero? — Male, signore, molto male. Oltre il colpo di spada che egli ha ricevuto nel braccio, e che non è altrimenti pericoloso, egli ne ha ancora raccolto uno che gli traversa il polmone, di modo che il medico ha ben poche speranze. — Ma il ferito ha conservato l'uso delle sue facoltà? — Perfettamente. — Parla egli? — Con difficoltà, ma parla. — Ebbene! signore, portiamoci da lui, scongiuriamolo nel nome di quel Dio davanti al quale egli andrà forse a comparire, di dire la verità, io lo prendo per giudice nella sua propria causa, signore, e ciò che dirà io lo crederò. Il signor della Trémouille riflettè un istante, quindi, siccome era difficile il poter fare una proposizione più ragionevole, egli accettò. Entrambi discesero nella camera ove era il ferito. Questi vedendo entrare i due nobili signori che venivano a fargli visita, tentò di sollevarsi sul suo letto, ma egli era troppo debole e spossato dallo sforzo che aveva fatto, ricadde quasi senza conoscenza. Il signor della Trémouille si avvicinò a lui, e gli fece aspirare dei sali che lo richiamarono alla vita. Allora il signor de Tréville, non volendo che si potesse accusare di avere influito sul malato, invitò il signor della Trémouille a interrogarlo egli stesso. Ciò che aveva preveduto il de Tréville, accadde. Posto fra la vita e la morte, come lo era Bernajoux, non ebbe neppure l'idea di tacere un momento la verità, e raccontò ai due signori esattamente le cose tali quali erano accadute. Era tutto ciò che voleva il sig. de Tréville; egli augurò a Bernajoux una pronta convalescenza: prese congedo dal signore della Trémouille, rientrò al suo palazzo; e fece tosto avvertire i quattro amici ch'egli gli aspettava a pranzo. Il signor de Tréville riceveva sempre una buonissima compagnia, s'intende tutta anti-ministeriale. Si capirà dunque che la conversazione si aggirò tutta, durante il pranzo, sulle due sconfitte che avevano provate le guardie del ministro. Ora, siccome d'Artagnan era stato l'eroe di queste due giornate, fu sopra di lui che caddero tutte le congratulazioni, che Athos, Porthos e Aramis gli abbandonarono, non solo da buoni camerati, ma da uomini che avevano avuto abbastanza elogi alla loro volta per lasciargli libera la sua. Verso le sei ore, il signor de Tréville annunciò che egli era obbligato di andare al Louvre; ma siccome l'ora dell'udienza accordata da Sua Maestà era passata, in luogo di reclamare l'entrata dalla piccola scala, egli si pose coi quattro giovani nell'anticamera. Il re non era ancora ritornato dalla caccia. I nostri giovani aspettavano da una mezz'ora appena, immischiati alla folla dei cortigiani, allorchè tutte le porte si aprirono, e fu annunziato il re. A questo annunzio d'Artagnan si sentì fremere fino alla midolla delle ossa. L'istante che doveva seguire, secondo tutte le probabilità, doveva decidere del resto della sua vita. Così i suoi occhi si fissarono con angoscia sulla porta per la quale doveva entrare Sua Maestà. Luigi XIII comparve, camminando pel primo; era in abito da caccia ancora tutto polveroso, portava due grandi stivali, ed aveva il frustino in mano. Al primo colpo d'occhio d'Artagnan giudicò che lo spirito del re era in tempesta. Per quanto fosse visibile questa disposizione in cui trovavasi Sua Maestà, essa però non impedì ai cortigiani di porsi in linea sul suo passaggio, nelle anticamere reali. Meglio vale ancora essere veduto con occhio sdegnato di quello che non essere veduto dei tutto. I tre moschettieri non esitarono dunque un momento, e fecero un passo in avanti, nel mentre che d'Artagnan al contrario restò nascosto dietro di loro; ma quantunque il re conoscesse personalmente Athos, Porthos, e Aramis, egli passò davanti a loro senza parlargli, e come se non gli avesse mai veduti. In quanto al sig. de Tréville, allorchè gli occhi del re si fermarono un istante su di lui, egli sostenne questo sguardo con tanta fermezza, che fu il re che dovè pel primo divergere la vista; dopo ciò, Sua Maestà, brontolando, rientrò nel suo appartamento. — Gli affari vanno male, disse Athos sorridendo, e noi questa volta non saremo fatti cavalieri. — Aspettate dieci minuti, disse il signor de Tréville, e se in capo a dieci minuti voi non mi vedrete sortire, ritornate al mio palazzo, perchè sarà inutile che voi aspettiate più lungamente. I quattro giovani attesero dieci minuti, un quarto d'ora, venti minuti, e vedendo che il signor de Tréville non ricompariva, essi sortirono molto inquieti per quello che poteva accadere. Il signor de Tréville entrato coraggiosamente nel gabinetto del re aveva ritrovato Sua Maestà di cattivissimo umore, seduto sopra un sofà, battendosi gli stivali col manico del frustino, cosa che non gli aveva impedito di domandargli con tutta la più gran flemma del mondo le notizie della sua salute. — Cattive, signore, cattive, rispose il re; io mi annoio. Era infatti la peggiore malattia di Luigi XIII, e sovente prendeva uno dei suoi cortigiani, lo attirava ad una finestra, e gli diceva: il signor tale, annojamoci insieme. — Come! Vostra Maestà si annoja! disse il signor de Tréville. Non si è preso oggi il divertimento della caccia? — Bel divertimento, signore! tutto degenera, sull'anima mia, e io non so se sia il selvaggiume che non ha più aria, o i cani che non hanno più naso. Noi lanciammo un cervo di dieci anni, noi lo inseguimmo per sei ore, e quando fu vicino a tenere, quando San Simone metteva già il corno alla bocca per suonare la presa, crac! tutta la muta volta di banda, e si trasporta sopra un cerviatto di due anni. Voi vedrete che io sarò obbligato di renunciare alla caccia di corsa, come ho già renunciato alla caccia di volo. Ah! sono un re ben disgraziato, signor de Tréville: io non aveva più che un girifalco, ed è morto jeri l'altro. — In fatti, sire, io comprendo la vostra disperazione, e la disgrazia è grande; ma mi sembra che vi resti ancora un buon numero di falconi, di sparvieri, e di moscardi. — E non un uomo per istruirli; i falconieri se ne vanno, non vi son più che io che conosca l'arte della caccia. Dopo di me tutto sarà finito, e si anderà a caccia colle trappole, col vischio, coi lacci. Se io avessi ancora il tempo di fare degli allievi! ma sì, il ministro è là che non mi lascia un istante di riposo, che mi parla della Spagna, che mi parla della Germania, che mi parla dell'Inghilterra! ah! a proposito del ministro, signor de Tréville, io sono malcontento di voi. Il signor de Tréville aspettava il re a questa caduta. Egli conosceva il re da lungo tempo: egli aveva compreso che tutti i suoi lamenti non erano che una prelazione, una specie di eccitazione per incoraggiare se stesso, e che egli era finalmente giunto al punto dove voleva arrivare. — E in che sono io tanto disgraziato per dispiacere a Vostra Maestà? domandò il signor de Tréville fingendo la più alta meraviglia. — È così che voi disimpegnate la vostra carica, signore? continuò il re senza rispondere direttamente alla domanda del signor de Tréville: è forse per questo che io vi ho nominato capitano dei miei moschettieri, perchè essi assassinassero un uomo, commovessero un quartiere, e volessero bruciar Parigi senza che voi me ne diceste una parola? ma del resto, continuò il re, senza dubbio mi affretto troppo ad accusarvi, senza dubbio, i perturbatori sono in prigione, e voi ora venite ad annunziarmi che è stata fatta giustizia. — Sire, rispose tranquillamente il signor de Tréville, io vengo a domandarvela. — E contro chi? gridò il re. — Contro i calunniatori! disse il signor de Tréville. — Ah! eccone una nuova, riprese il re. Mi direte voi ora che quei tre dannati di moschettieri, Athos, Porthos, Aramis, e il vostro cadetto di Bearn, non si sono gettati come tanti furiosi sul povero Bernajoux, e non l'hanno maltrattato in modo tale che a quest'ora è più che probabile che sia per rendere l'anima a Dio? mi direte voi ora ch'essi non hanno fatto l'assedio al palazzo del duca della Trémouille, e ch'essi non volevano bruciarlo? cosa che non sarebbe stata una gran disgrazia in tempo di guerra, atteso che quello è un nido di ugonotti, ma che in tempo di pace è un tristissimo esempio. Dite, vorrete voi negarmi tutto ciò? — E chi ha fatto a Vostra Maestà un così bel racconto? domandò tranquillamente il signor de Tréville. — Chi mi ha fatto un così bel racconto, signore e chi volete voi che sia, se non è quello che veglia quando io dormo, che lavora quando io mi diverto, che guida tutto al di dentro e al di fuori del regno, in Francia, come in Europa? — Sua Maestà vorrà parlare di Dio, senza dubbio, disse il signor de Tréville, perchè io non conosco che Dio, che sia così possente al disopra di Vostra Maestà. — No, signore, io voglio parlare del sostegno dello Stato, del mio servitore, del mio solo amico, del ministro. — Non vi è che un solo uomo infallibile, a quanto c'impone di credere la nostra fede, su questa terra, e la sua infallibilità non si può estendere a nessun altro. — Dunque voi volete dire ch'egli m'inganna? volete voi dire ch'egli mi tradisce? allora voi lo accusate. Vediamo, dite confessatelo francamente, voi lo accusate? — No, sire, ma io dico che egli inganna se stesso; io dico che è male informato, io dico che egli ha troppa fretta nell'accusare i moschettieri di Vostra Maestà, pei quali egli è ingiusto, e che non è stato ad attignere le sue informazioni da buone sorgenti. — L'accusa viene dal duca della Trémouille, dal duca stesso: che risponderete voi a questo? — Io potrei rispondere, sire, ch'egli è troppo interessato nella questione per potere essere un testimone imparziale; ma lungi di là, sire, io conosco il duca per un leale gentiluomo, io me ne riporterò a lui, ma a una sola condizione, sire. — Quale? — Che vostra Maestà lo faccia venire qui, lo interroghi, ma ella stessa a quattr'occhi, senza testimoni, e che io riveda Vostra Maestà subito che avrà veduto il duca. — Sì! fece il re, e voi vi riportate a ciò che dirà il signore della Trémouille? — Sì, sire. — Voi accetterete il suo giudizio? — Senza dubbio. — E voi vi sottometterete alle riparazioni che egli esigerà? — Interamente. — La Chesnaye! fece il re, la Chesnaye! Il cameriere di confidenza di Luigi XIII che stava sempre alla sua porta, entrò. — La Chesnaye, disse il re, che si mandi sul momento stesso a cercare il signore della Trémouille; io voglio parlargli questa sera. — Vostra Maestà mi dà la sua parola ch'ella non vedrà alcuno oltre il signore della Trémouille e me? — Non vedrò alcuno, fede da gentiluomo. — A dimani, sire, adunque. — A dimani, signore. — A qual ora, se piace a Vostra Maestà? — All'ora che voi vorrete. — Ma venendo troppo presto io temo di svegliare Vostra Maestà. — Di svegliarmi! forse che dormo io? io non dormo più, signore; qualche volta sogno, ecco tutto. Venite dunque di buon mattino quando volete, a sette ore; ma guai a voi, se i vostri moschettieri sono colpevoli? — Se i miei moschettieri sono colpevoli saranno rimessi nelle mani di Vostra Maestà che ordinerà di loro, secondo che più le aggrada. Vostra Maestà esige ella qualche altra cosa di più? comandi, io sono pronto ad obbedire. — No, signore, no: non è senza una ragione che mi chiamano Luigi il Giusto. A dimani dunque, signore, a dimani. — Che Dio guardi Vostra Maestà! Per poco che dormisse il re, il signor de Tréville dormì ancor meno; egli aveva fatto prevenire fin dalla stessa sera i suoi tre moschettieri ed il loro compagno, di ritrovarsi da lui a sei ore e mezzo del mattino. Egli li condusse con sè senza affermar loro niente, senza prometter niente, e non nascondendo che il loro favore, ed anche il suo dipendeva da un colpo di dadi. Giunto ai piedi della scala, egli li fece aspettare. Se il re era sempre irritato contro di loro, essi si allontanerebbero, senza essere veduti; se il re acconsentiva a riceverli, non vi avrebbe voluto che farli chiamare. Giungendo nell'anticamera particolare del re, il signor de Tréville trovò la Chesnaye, che gli disse che la sera non avevano ritrovato il duca della Trémouille nel suo palazzo, ch'egli era rientrato troppo tardi per potersi presentare al Louvre, ch'egli era giunto da pochi momenti e che allora parlava col re. Questa circostanza piacque moltissimo al sig. de Tréville, che in questo modo fu fatto certo che un'intervenzione straniera non si sarebbe intromessa fra la deposizione del duca della Trémouille e lui. Infatti dieci minuti erano appena scorsi, che si aprì la porta del gabinetto del re, e che il sig. de Tréville ne vide sortire il duca della Trémouille, il quale venendo direttamente a lui gli disse: — Signor de Tréville, Sua Maestà mi ha mandato a chiamare per sapere come sono accadute le cose di ieri mattina, al mio palazzo. Io gli ho detto la verità, cioè che la colpa è stata delle mie genti, e che era pronto a farvene le mie scuse. Poichè vi trovo, accettatele, e vogliate tenermi sempre per uno dei vostri amici. — Signor duca, disse de Tréville, io era così pieno di confidenza sulla vostra lealtà, che non ho voluto presso Sua Maestà altro difensore che voi stesso. Io non mi sono ingannato, e vi ringrazio di avermi provato che esiste ancora un uomo di cui possa dire senza sbagliarmi ciò che ho detto di voi. — Sta bene, sta bene! disse il re che aveva ascoltato tutti questi complimenti stando fra le due porte; soltanto ditegli, de Tréville, poichè pretende di essere uno dei vostri amici, che io pure vorrei essere fra i suoi, ma che egli mi trascura, e che sono oramai tre anni che non l'ho veduto, e che non lo vedo che quando lo mando a chiamare. Ditegli ciò per parte mia, poichè queste sono cose che un re non può dire da se stesso. — Grazie, sire, grazie, disse il duca, ma che Vostra Maestà creda bene che non sono quelli, io non dico ciò per il sig. de Tréville, che non sono quelli che ella vede a tutte le ore del giorno, quelli che le sono i più affezionati. — Ah! voi avete inteso ciò che ho detto, tanto meglio, duca, meglio! disse il re avanzandosi sulla porta. Ah! siete voi, de Tréville, dove sono i vostri moschettieri? io vi ho detto ieri l'altro di condurmeli, perchè non lo avete fatto? — Essi sono da basso, sire, e col vostro permesso la Chesnaye anderà a dir loro di salire. — Sì, sì, ch'essi vengano subito; sono in breve le otto, ed io a nove ore aspetto una visita. Andate, signor duca, e ricordatevi sopra tutto di ritornare. Entrate de Tréville. Il duca salutò, e sortì. Al momento in cui apriva la porta i tre moschettieri e d'Artagnan condotti da la Chesnaye, comparvero sull'alto della scala. — Venite, miei bravi, disse il re, venite; io ho da sgridarvi. I moschettieri si avanzarono inchinandosi, d'Artagnan gli seguiva. — Come diavolo! continuò il re, voi quattro in due giorni avete messo fuori di combattimento sette guardie del ministro! questo è troppo, signori, questo è troppo. Con questi conti, il ministro sarà obbligato di rinnovare la sua compagnia in tre settimane, ed io sarò costretto di fare applicare gli editti in tutto il loro rigore. Uno per accidente, pazienza; ma sette in due giorni, io lo ripeto è troppo, grandemente troppo. — Perciò, sire, vostra Maestà vede ch'essi vengono, pentiti e contriti per fare le loro scuse. — Benchè pentiti e contriti, hum! fece il re, io non mi fido delle loro facce ipocrite, vi è particolarmente laggiù una figura da Guascone... venite qui, signore. D'Artagnan che comprese essere il complimento indirizzato a lui, si avvicinò prendendo l'aspetto il più disperato. — Ebbene, che dite voi dunque che questi è un giovane? un ragazzo, signor de Tréville, un vero ragazzo. Ed è stato lui che ha dato un così rozzo colpo di spada a Jussac? — E gli altri due colpi di spada a Bernajoux. — Davvero? — Senza contare, disse Athos, che se non mi avesse liberato dalle mani di Cabusac, io certamente non avrei l'onore di fare in questo momento le mie umilissime riverenze a Vostra Maestà. — Ma questo Bearnese è dunque un vero demonio, _ventegris_! sig. de Tréville, come avrebbe detto mio padre. In questo mestiere si devono per forza consumare molti sai, e per forza spezzare molte spade. Ora i Guasconi sono sempre poveri, non è vero? — Sire, io debbo dire che non sono ancora state ritrovate delle miniere d'oro nelle loro montagne, quantunque il Signore dovrebbe far questo miracolo in ricompensa del modo con cui hanno sostenuto le pretese del re vostro padre. — Che è quanto dire che sono stati i Guasconi che hanno fatto re me pure, non è vero de Tréville, perchè io sono figlio di mio padre. Ebbene alla buon'ora, io non dico di no. La Chesnaye andate a vedere se, frugando in tutte le mie saccocce, voi trovate quaranta doppie, e se le trovate portatemele. E ora vediamo, giovane, una mano sulla coscienza e raccontatemi lo accaduto. D'Artagnan raccontò l'avventura del giorno innanzi con tutti i suoi particolari; in che modo non avendo potuto dormire per la gioia che avrebbe provato nel vedere Sua Maestà, egli era arrivato presso i suoi amici tre ore prima dell'udienza; in che modo essi erano andati assieme al giuoco della palla, e come nel timore che aveva manifestato di ricevere una palla sul viso, egli era stato messo in ridicolo da Bernajoux, il quale per poco non aveva pagato colla perdita della vita le sue villanie, e che il sig. della Trémouille non aveva alcuna colpa per la sortita che fu fatta dal suo palazzo. — È così mormorò il re; è precisamente così che mi è stata raccontata la faccenda dallo stesso duca. Povero ministro! sette uomini in due giorni e dei più cari; ma basta così, signori; voi vi siete presa la vostra rivincita della strada Ferou, ed anche al di là; voi dovete esser soddisfatti. — Se Vostra Maestà lo è, disse de Tréville, noi lo siamo. — Sì io lo sono, aggiunse il re, prendendo un pugno d'oro dalla mano di Chesnaye e mettendolo in quella di d'Artagnan; eccovi diss'egli, una pruova della mia soddisfazione. A quell'epoca le idee d'orgoglio che sono in uso ai nostri giorni, non erano ancora alla moda. Un gentiluomo riceveva del denaro dalla mano del re, e non ne rimaneva menomamente umiliato. D'Artagnan adunque si mise le quaranta doppie in saccoccia senza fare alcuna osservazione, ed anzi ringraziò grandemente Sua Maestà. — Basta! disse il re guardando l'orologio a pendolo basta! perchè sono le otto e mezza, ritiratevi; io ve l'ho già detto, aspetto qualcuno a nove ore. Grazie del vostro attaccamento, signori. Io posso contarvi non è vero? — Oh! sire, gridarono ad una sola voce i quattro compagni, noi ci faremo tagliare a pezzi per Vostra Maestà. — Bene, bene; ma restate intieri, ciò val meglio, e così mi potrete essere più utili. De Tréville aggiunse il re a mezza voce nel mentre che gli altri si ritiravano, siccome voi non avete posti vacanti nei vostri moschettieri, e che d'altronde per entrare in questo corpo noi abbiamo deciso che sia necessario un noviziato, situate questo giovane nella compagnia delle guardie del sig. des Essarts, vostro cognato. Ah per bacco de Tréville, io mi rallegro delle boccacce che farà il ministro, egli sarà furioso, ma per me è lo stesso; io faccio uso dei miei diritti. E il re salutò con la mano de Tréville che sortì, e andò a raggiungere i suoi moschettieri, che stavano dividendosi con d'Artagnan le sue quaranta doppie. E il ministro, come lo aveva detto Sua Maestà, fu effettivamente furioso che per otto giorni non intervenne al giuoco, cosa che non impediva al re di fargli la più buona cera del mondo e di chiedergli con la voce la più accarezzante tutte le volte che lo incontrava: — Ebbene sig. ministro come va quel povero Bernajoux, e quel povero Jussac, che sono delle vostre guardie? CAPITOLO VII. L'INTERNO DEI MOSCHETTIERI Allorquando d'Artagnan fu fuori del Louvre e che consultò i suoi amici sull'uso che dovea fare della sua parte delle quaranta doppie, Athos gli consigliò di ordinare un buon pranzo alla Pigna, Porthos di prendere un lacchè, e Aramis di farsi un'amica conveniente. Il pranzo fu eseguito lo stesso giorno, e il lacchè era stato fornito da Porthos. Era uno di Piccardia che il glorioso moschettiere aveva accaparrato il giorno stesso nel mentre che sul ponte della Tournelle faceva dei cerchi sputando nell'acqua. Porthos aveva preteso che questa occupazione era la pruova di una organizzazione riflessiva e contemplativa, e lo aveva condotto senz'altra raccomandazione. L'imponente aspetto di questo gentiluomo, per conto del quale egli si credeva impegnato, aveva sedotto Planchet, che tale era il nome del giovane di Piccardia, e fu in sua casa una leggera contesa quando vide che il posto era già preso da un altro confratello chiamato Mousqueton, e allorchè Porthos gli significò il suo stato di famiglia, quantunque grande, non gli permetteva di tenere due domestici, e che gli abbisognava di entrare al servizio di d'Artagnan. Però allorchè assistè al pranzo dato dal suo padrone, e che quando pagava lo vide cavare un pugno d'oro di saccoccia credè assicurata la sua fortuna, e ringraziò il cielo di esser caduto nelle mani di un simil Creso, egli perseverò in questa opinione fin dopo il festino, cogli avanzi del quale egli riparò a molte e lunghe astinenze. Ma le chimere di Planchet svanirono nella sera facendo il letto al suo padrone. Il letto era solo nell'appartamento, che si componeva di un'anticamera e di una camera da dormire. Planchet dormì nell'anticamera sopra una coperta tolta dal letto di d'Artagnan, e di cui d'Artagnan fece senza per l'avvenire. Athos dal canto suo aveva un cameriere che era stato allevato al suo servizio in un modo tutto particolare, e che si chiamava Grimaud. Egli era molto silenzioso questo degno signore. Ben inteso, noi parliamo di Athos. Da cinque o sei anni che egli viveva nella più profonda intimità con i suoi compagni, Porthos e Aramis, questi si ricordavano di averlo veduto sorridere spesso, ma giammai lo avevano inteso ridere. Le sue parole erano corte ed espressive, dicendo sempre ciò che voleva dire e niente più; nessuna galanteria, nessun ricamo arabesco. La sua conversazione era un fatto senza alcun episodio. Quantunque Athos avesse appena trent'anni e avesse una gran bellezza di corpo e di spirito, nessuno sapeva se avesse un'amica. Giammai egli parlava di donne. Soltanto non impediva che se ne parlasse avanti a lui, quantunque fosse facile il vedere che questo genere di conversazione, al quale egli non prendeva parte che per dire parole amare e osservazioni misantropiche molto disaggradevoli. La sua riserva, la sua selvatichezza, il suo mutismo ne formavano quasi un vecchio: egli dunque aveva abituato Grimaud, per non derogare alle sue abitudini, ad obbedirlo sopra un semplice gesto, o sopra un semplice muover di labbra. Non gli parlava che nelle circostanze le più interessanti: qualche volta Grimaud, che temeva il suo padrone come il fuoco, nel mentre che mostrava un grande attaccamento alla sua persona ed una gran venerazione al suo genio, credeva di aver capito perfettamente ciò che egli desiderava, si slanciava per eseguire gli ordini ricevuti e faceva precisamente il contrario. Allora Athos si stringeva nelle spalle, e senza andare in collera bastonava Grimaud. In quei giorni parlava alcun poco. Porthos, come si è potuto vedere, aveva un carattere tutto opposto a quello di Athos: non solo egli parlava molto, ma ad alta voce; poco gl'importava del resto: bisognava rendergli questa giustizia, che fosse o no ascoltato, egli parlava per il piacere di parlare, e per il piacere di sentirsi; parlava sopra tutte le materie eccetto che di scienze, protestando su questo argomento il suo odio inveterato che portava fin dall'infanzia agli scienziati. Egli aveva minore aria di gran signore di Athos, e il sentimento della sua inferiorità su questo soggetto lo aveva, nel principio della loro amicizia, reso spesse volte ingiusto contro questo gentiluomo, che allora si era sforzato di superare col lusso del suo abbigliamento. Ma con la sua semplice casacca da moschettiere, e nient'altro che pel modo col quale portava la testa in addietro ed il piede in avanti, Athos prendeva nel medesimo istante il posto che gli era dovuto e relegava il fastoso Porthos nel secondo rango. Porthos se ne consolava riempiendo l'anticamera del sig. de Tréville e i corpi di guardia del Louvre col rumore delle sue buone fortune, fortune di cui Athos non parlava mai, e nel momento, dopo esser passato dalla nobiltà di toga alla nobiltà di spada, dalla cittadina alla baronesca, non si trattava niente meno per Porthos, che di una principessa straniera che gli voleva un bene enorme. Un antico proverbio dice: «tale è il padrone tale è il servitore». Passiamo adunque dal cameriere d'Athos al cameriere di Porthos, da Grimaud a Mousqueton. Mousqueton era un Normanno al quale il suo padrone aveva cambiato il nome pacifico di Bonifazio in quello infinitamente più sonoro e più bellicoso di Mousqueton. Egli era entrato al servizio di Porthos colla condizione di essere vestito ed alloggiato soltanto, ma in un modo magnifico; egli non reclamava che due ore il giorno per andare ad un'industria che doveva bastare a provvederlo degli altri suoi bisogni. Porthos aveva accettato il contratto; e la cosa andava a meraviglia. Egli faceva tagliare a Mousqueton dei saj dai suoi abiti vecchi, e dai suoi mantelli di rimonta, e consacrarli, mercè un sartore molto intelligente che rimetteva a nuovo questi vestiti voltandoli, e la di cui moglie era in sospetto di far discendere Porthos dalle sue abitudini aristocratiche. Mousqueton faceva un ottima figura andando dietro al suo padrone. In quanto ad Aramis, di cui noi crediamo avere sufficientemente esposto il carattere, carattere del resto che, come quello dei suoi compagni, noi potremo seguire nel suo sviluppo, il suo lacchè, che si chiamava Bazin, mercè la speranza che aveva il suo padrone di entrare un giorno negli ordini, era sempre vestito di nero, come lo esigeva il suo futuro carattere. Costui era di Berry, di trentacinque ai quaranta anni; docile, pacifico, che si occupava a leggere opere pietose, distrazione che gli accordava il suo padrone, facendo un pranzo strettamente per due, di pochi piatti ma eccellenti. Del rimanente egli era muto, cieco sordo e di una fedeltà a tutta pruova. Ora che noi conosciamo, almeno superficialmente i padroni e i servitori, passiamo agli alloggi che ciascheduno di essi occupava. Athos abitava Strada Ferou a due passi dal Luxembourg; il suo appartamento si componeva di due piccole camere ammobiliate con molta proprietà in una casa guernita, la di cui albergatrice, ancor giovane e veramente bella, gli faceva inutilmente gli occhi dolci. Qualche rimasuglio di un grande splendore passato, spiccava qua e là sui muri di questo modesto alloggio; era per esempio, una spada riccamente damascata, che rimontava all'epoca di Francesco I, e la di cui sola impugnatura incrostata di pietre preziose, poteva valere dugento doppie, e che ciò non ostante nei momenti della più grande ristrettezza, Athos non aveva mai acconsentito nè ad impegnare, nè a vendere. Questa spada aveva attirato da lungo tempo la ambizione di Porthos. Porthos avrebbe dato dieci anni della sua vita per possedere quella spada. Un giorno che egli aveva un appuntamento con una duchessa, tentò eziandio di chiederla in imprestito ad Athos. Athos senza dir niente, vuotò le sue saccocce, riunì tutti i suoi gioielli, borse, spinette, catene d'oro, e offrì il tutto a Porthos: ma in quanto alla spada gli disse, ella era sigillata al suo posto, e non doveva lasciarlo che allora quando il suo padrone lascerebbe egli stesso il suo alloggio. Oltre questa spada, vi era ancora un ritratto rappresentante un signore del tempo di Enrico III, vestito con la più grande eleganza, e che portava l'ordine dello Spirito Santo, e questo ritratto aveva con Athos certe rassomiglianze di linee, certe similitudini di famiglia che indicavano che questo gran signore, cavaliere degli ordini del re, era un suo antenato. Finalmente un magnifico bauletto colle stesse armi in oro che portava la spada ed il ritratto formava il centro del camminetto che faceva orribilmente scomparire tutto il resto della mobilia. Athos portava sempre la chiave di questo bauletto con se. Ma un giorno egli l'aveva aperto davanti a Porthos, il quale aveva potuto assicurarsi che questo bauletto non conteneva che lettere e carte; lettere senza dubbio amorose, e carte di famiglia. Porthos abitava un appartamento molto vasto e di una apparenza sontuosissima. Strada del Vecchio Colombajo. Ciascheduna volta che egli passava con qualche amico davanti alle sue finestre, a una delle quali Mousqueton stava sempre in gran-livrea, Porthos alzava la testa e la mano, e diceva _ecco la mia dimora_. Ma mai si faceva trovare in casa, mai invitava nessuno a salire, e nessuno poteva farsi un'idea delle ricchezze reali che racchiudeva quella sontuosa apparenza. In quanto ad Aramis, egli abitava un piccolo alloggio, composto di un gabinetto, di un salotto da mangiare e di una camera da dormire, la qual camera, situata come il resto dell'appartamento al pian terreno, guardava sopra un piccolo giardino fresco, verde, ombroso e impenetrabile agli occhi de' vicini. In quanto a d'Artagnan, noi sappiamo come era alloggiato, ed abbiamo già fatta conoscenza col suo lacchè, mastro Planchet. D'Artagnan che era molto curioso di sua natura, come del resto sono tutte le persone che hanno il genio dell'intrigo, fece tutti gli sforzi per sapere chi erano al vero, Athos, Porthos e Aramis, perchè sotto questi nomi di guerra, ciascuno dei giovani nascondeva il suo nome di gentiluomo; Athos particolarmente, che riconosceva per un gran signore alla distanza di una lega. Si indirizzò adunque a Porthos per essere informato sopra Athos e Aramis, e s'indirizzò ad Aramis, per conoscere Porthos. Disgraziatamente Porthos stesso nulla sapeva della vita del suo silenzioso camerata che ciò che ne aveva traspirato. Si diceva che egli aveva avute gran disgrazie nei suoi affari amorosi, e che un orribile tradimento aveva avvelenata per sempre la vita di questo galantuomo. In che consisteva questo tradimento? tutti lo ignoravano. In quanto a Porthos, eccettuato il suo vero nome che il sig. de Tréville soltanto sapeva, come pure quello dei due camerati, la sua vita era facile a conoscersi. Pieno di vanità e di indiscrezione, si vedeva attraverso a lui come attraverso ed un cristallo, la sola cosa che avrebbe potuto far sbagliare l'investigatore sarebbe stata che si fosse creduto tutto quel bene che egli diceva di se stesso. In quanto ad Aramis, mentre aveva l'aspetto di non avere alcun secreto, era un giovane tutto ripieno di misteri, poco rispondendo alle interrogazioni che a lui si facevano su gli altri, e deludendo quelle che gli si facevano su lui stesso. Un giorno d'Artagnan dopo averlo lungamente interrogato su Porthos, ed avere saputo il rumore che correva sulla buona fortuna del suo moschettiere con una principessa, volle saper pure che cosa doveva credere sulle avventure amorose del suo interlocutore. — E voi mio caro compagno, gli disse egli, voi che parlate delle baronesse, delle contesse e delle principesse degli altri? — Perdono, interruppe Aramis, io ho parlato perchè Porthos ne parla egli stesso, perchè egli ha vociferate avanti a me tutte queste belle cose. Ma credetemi bene, mio caro d'Artagnan, che se io le avessi da una altra sorgente o me le avesse confidate egli stesso, egli non avrebbe potuto avere un amico più secreto di me. — Io non ne dubito, riprese d'Artagnan, ma infine mi sembra che voi pure siate molto familiare con gli stemmi, testimonio ne sia un certo fazzoletto orlato, al quale io debbo l'onore della vostra conoscenza. Aramis questa volta non s'inquietò, ma prese l'aspetto suo più umile, e rispose affettuosamente. — Mio caro, non dimenticate lo stato che un giorno voglio abbracciare, e che io fuggo tutte le occasioni mondane. Questo fazzoletto che voi avete veduto non mi era stato confidato, ma era stato dimenticato da uno dei miei amici. Io ho dovuto raccoglierlo per non compromettere lui e la dama che egli ama. In quanto a me io non ho, e non voglio avere amiche, seguendo in ciò l'esempio giudiziosissimo di Athos, che non ne ha più che me. — Ma che diavolo! voi non siete ancora frate, siete un moschettiere. — Moschettiere provvisoriamente, come dice il ministro, moschettiere, e contro mia voglia, ma uomo devoto nel fondo del mio cuore: credetemi. Athos e Porthos mi hanno incastrato qua dentro per tenermi occupato; ebbi alcune difficoltà al momento di compiere i miei desiderii, una piccola difficoltà con... ma ciò non vi può interessare, ed io vi faccio perdere un tempo prezioso. — Niente affatto, ciò anzi m'interessa moltissimo, gridò d'Artagnan, e pel momento non ho cosa alcuna da fare. — Sì, ma io ho le mie preci da dire, rispose Aramis, quindi alcuni versi da comporre, che mi ha domandato la signora d'Aiguillon; in seguito devo passare nella strada S. Onorato, per comprare del rossetto per la sig. de Chevreuse: voi vedete, mio caro amico, che se voi non avete fretta, io ne ho moltissima. E Aramis, stese affettuosamente la mano al suo giovane compagno, e prese da lui congedo. D'Artagnan non potè, per quanta pena si desse, saperne di più su i suoi amici. Egli prese adunque il partito di credere nel presente tutto ciò che si diceva del passato, sperando rivelazioni più sicure e più estese dall'avvenire. Frattanto egli considerò Athos come un Achille, Porthos come un Aiace, e Aramis come un Giuseppe. Del resto la vita dei quattro giovani era gioconda. Athos giuocava e sempre disgraziatamente. Però egli non domandava mai in prestito un soldo ai suoi amici, quantunque la sua borsa fosse sempre a loro disposizione; e quanto egli aveva giuocato sulla parola, faceva sempre risvegliare il suo creditore a sei ore del mattino per pagargli il suo credito della sera innanzi. Porthos aveva delle sfuriate, quei giorni, se egli guadagnava. Lo si vedeva insolente e splendido; se egli perdeva, scompariva completamente per alcuni giorni, dopo i quali ricompariva col viso smunto e la fisonomia allungata, ma con dei denari in saccoccia. In quanto ad Aramis, egli non giocava mai. Era il più cattivo moschettiere ed il più insulso convitato che si potesse vedere. Egli aveva sempre bisogno di travagliare; qualche volta in mezzo ad un pranzo, quando ciascuno nel trasporto del vino e nel calore della conversazione, credeva che vi fosse ancora qualche ora da restare a tavola, Aramis guardava il suo orologio, si alzava con un grazioso sorriso, e prendeva congedo dalla società, adducendo per scusa di dovere andare da un professore di filosofia per discutere sul valore di alcune sentenze. Altre volte egli ritornava al suo alloggio per scrivere una tesi, e pregava i suoi amici di non distrarlo. Frattanto Athos sorrideva con quel grazioso sorriso melanconico, che tanto siedeva bene sulla sua nobile figura, e Porthos beveva e giurava che Aramis non si sarebbe mai fatto frate. Planchet, il cameriere di d'Artagnan, sopportò nobilmente la buona fortuna. Egli riceveva trenta soldi il giorno, e per un mese egli ritornava all'alloggio gaio come un piccione e affabile col suo padrone. Quando il vento dell'avversità cominciò a soffiare nell'economia domestica della strada dei Fossoyeurs, vale a dire quando le quaranta doppie del re Luigi XIII furono terminate o poco meno, cominciarono i lamenti che Athos trovava nauseabondi, Porthos indecenti, e Aramis ridicoli. Athos consigliò dunque a d'Artagnan di licenziare il mariuolo. Porthos voleva che prima fosse bastonato, e Aramis pretendeva che un padrone non dovesse ascoltare che i complimenti a lui diretti. — Ciò vi è ben facile a dire, riprese d'Artagnan, a voi, Athos, che gli proibite di parlare, e che per conseguenza non avete mai degli alterchi con lui: a voi, Porthos, che menate un treno magnifico e che siete un idolo per il vostro cameriere, Mousqueton: a voi finalmente, Aramis, che sempre distratto dai vostri studi filosofici, inspirate un profondo rispetto al vostro servitore Bazin, uomo dolce e affettuoso; ma io che sono senza consistenza e senza risorse, io che non sono ancora nè moschettiere, nè guardia, che dovrò fare per inspirare l'affezione, il terrore o il rispetto a Planchet? — La cosa è grave, risposero i tre amici; è un affare dell'interno; accade dei servitori ciò che accade delle donne, bisogna metterli fin dal primo momento sul piede in cui si desidera che restino. Rifletteteci dunque. D'Artagnan riflettè, e risolse di percuotere Planchet in via di provvisione, cosa che fu eseguita colla coscienza che d'Artagnan metteva in tutti gli affari, poi dopo averlo ben bastonato, gli proibì di lasciare il suo servizio senza il suo permesso! — Perchè, soggiunse, l'avvenire non può mancarmi, io aspetto inevitabilmente tempi migliori. La tua fortuna adunque è fatta se tu resti con me, e io son troppo buon padrone per non lasciarti sfuggire la fortuna accordandoti il congedo che tu mi domandi. Questa maniera d'agire incusse molto rispetto ai moschettieri per la politica di d'Artagnan. Planchet fu egualmente preso dall'ammirazione e non parlò più di andarsene. La vita dei quattro giovani era divenuta comune; d'Artagnan che non aveva alcuna abitudine, che giungeva dalla sua provincia e cadeva in mezzo ad un mondo tutto nuovo per lui, prese tosto le abitudini dei suoi amici. Si alzavano verso le sei ore nell'estate, andavano a prendere la parola d'ordine e l'andamento degli affari dal signore de Tréville. Quantunque d'Artagnan non fosse moschettiere, ne faceva il servizio con una puntualità ammirabile; egli era sempre di guardia, perchè teneva sempre compagnia a quello dei suoi tre amici che la montava. Era conosciuto alla caserma dei moschettieri; e tutti lo ritenevano per un buon camerata. Il sig. de Tréville, che lo aveva apprezzato col primo colpo d'occhio e che gli portava una vera affezione, non cessava di raccomandarlo al re. Dal canto loro i tre moschettieri amavano moltissimo il giovine camerata. L'amicizia che univa questi quattro uomini, e il bisogno di vedersi tre o quattro volte il giorno, sia per affari, sia per un duello, sia per un divertimento li faceva incessantemente correre l'uno dietro l'altro come ombre, e s'incontravano sempre gli inseparabili che si cercavano dal Luxembourg alla piazza S. Sulpicio, o dalla strada del Vecchio-Colombaio al Luxembourg. Frattanto le promesse del sig. de Tréville tenevano la loro strada. Un bel giorno, il re comandò al sig. Capitano des Essarts di prendere d'Artagnan come cadetto nella sua compagnia delle guardie. D'Artagnan indossò sospirando quell'uniforme, che egli avrebbe voluto, a prezzo di dieci anni della sua esistenza, cambiare colla saccoccia di moschettiere. Ma il sig. de Tréville promise questo favore dopo un noviziato di due anni, noviziato che del resto, poteva essere accorciato se l'occasione si presentava per d'Artagnan di rendere qualche importante servigio al re, o di fare qualche azione rumorosa. D'Artagnan si ritirò su questa promessa, e il giorno dopo cominciò il suo servizio. Allora toccò il turno ad Athos, a Porthos ed ad Aramis di montare la guardia con d'Artagnan ogni qual volta egli era di guardia. La compagnia del sig. Cav. des Essarts prese così quattro uomini invece di uno, il giorno che prese d'Artagnan. CAPITOLO VIII. UN INTRIGO DI CORTE Frattanto le quaranta doppie di Luigi XIII, come tutte le cose di questo mondo, dopo avere avuto un principio, avevano avuto un fine, e dopo questo fine i quattro compagni erano caduti in angustie. Sulle prime Athos aveva sostenuto per qualche tempo l'associazione coi suoi proprii denari, Porthos gli tenne dietro, e mercè una di quelle disperazioni alle quali si erano abituati, egli aveva per quasi quindici giorni ancora sovvenuto ai bisogni di tutti, in fine era arrivata la volta d'Aramis che si era disimpegnato di buona grazia, e che era pervenuto, diceva egli, vendendo qualche libro di filosofia a procurarsi alcune doppie. Allora si ebbe ricorso, come d'ordinario, al sig. de Tréville, che fece qualche anticipazione sul soldo, ma queste anticipazioni non potevano condurre molto avanti tre moschettieri, che avevano già dei conti arretrati, e una guardia che non ne aveva ancora. Finalmente, quando si vide che si andava a restar senza del tutto, si riunì con un ultimo sforzo otto o dieci doppie che Porthos giocò. Disgraziatamente egli era in cattiva vena, egli perdè tutto, e più venticinque doppie sulla parola. Allora l'angustia divenne miseria; si videro gli affamati seguiti dai loro lacchè correre le strade ed i corpi di guardia, annasando presso i loro amici del di fuori tutti i pranzi, che potevano ritrovare, poichè, seguendo il consiglio di Aramis, si doveva nella prosperità seminare dei pranzi a dritta e a sinistra, per andarne raccogliendo qualcuno nella disgrazia. Athos fu invitato quattro volte, e ciascheduna volta condusse seco i suoi amici coi lacchè. Porthos ebbe sei occasioni e ne fece egualmente godere ai suoi camerati: Aramis ne ebbe otto. Era un uomo, come si è già potuto scorgere, che faceva poco rumore e molte faccende. In quanto a d'Artagnan, che non conosceva alcuno nella capitale, non trovò che una colazione di cioccolatte in casa di un prete del suo paese e un pranzo da un trombetta delle guardie. Egli condusse la sua armata in casa del prete, al quale venne divorata la sua provvisione di due mesi; e presso il trombetta, e che fece delle meraviglie; ma come diceva Planchet, non si mangia sempre che una volta, anche quando si mangia molto. D'Artagnan dunque si ritrovò umiliato di non aver potuto provvedere che un pasto e mezzo, perchè la colazione del prete non poteva calcolarsi che un mezzo pasto, da offrirsi ai suoi compagni in cambio dei festini che si erano procurati Athos, Porthos ed Aramis. Egli si credeva a carico della società, dimenticando, nella sua buona fede giovanile che egli aveva nudrito questa società per un mese, e il suo spirito preoccupato si mise a travagliare attivamente. Egli riflettè che questa coalizione di quattro uomini, giovani, coraggiosi, intraprendenti e attivi doveva avere un altro scopo che quello delle passeggiate oziose, delle lezioni di scherma e dei lazzi più e meno spiritosi. Infatti, quattro uomini come loro, quattro uomini affezionati gli uni agli altri dalla borsa fino alla vita, quattro uomini che si sostenevano sempre, non rinculando mai, eseguendo isolatamente o collettivamente le risoluzioni prese in comune; quattro bravi che minacciavano i quattro punti cardinali, o che, se si voltavano verso un sol punto, dovevano inevitabilmente, sia sotterraneamente, sia in pieno giorno, sia colla mina, sia colla breccia, sia colla furberia, sia colla forza aprirsi un cammino verso lo scopo che si erano prefissi per quanto ben difeso o per quanto lontano egli si fosse. La sola cosa che meravigliava d'Artagnan era che i suoi compagni non avessero ancora pensato a questo. Egli vi pensava seriamente, crivellandosi il cervello per trovare una direzione a questa forza unica moltiplicata quattro volte, colla quale egli non dubitava che, come la leva che cercava Archimede, non si fosse giunto a sollevare il mondo, allorchè fu dolcemente battuto alla sua porta. D'Artagnan risvegliò Planchet, e gli ordinò di andare ad aprire. Che da questa frase: d'Artagnan risvegliò Planchet, il lettore non vada a pensare che fosse notte, o che il giorno non fosse ancora spuntato: quattro ore dopo il mezzogiorno suonavano in quel momento. Due ore prima, Planchet era venuto a domandare da pranzo al suo padrone, il quale gli aveva risposto col proverbio: «chi dorme pranza». E Planchet pranzava dormendo. Fu introdotto un uomo di aspetto molto semplice e che aveva l'aria d'un borghese. Planchet per frutti, avrebbe voluto sentire la conversazione; ma il borghese dichiarò a d'Artagnan che ciò che aveva a dirgli era importante e confidenziale, e che desiderava rimanere a quattr'occhi con lui. D'Artagnan congedò Planchet, e fece sedere il suo visitatore. Vi fu un momento di silenzio; durante il quale i due uomini si guardarono come per fare una esordiente conoscenza; dopo di che, d'Artagnan s'inchinò in segno che egli ascoltava. — Io ho inteso parlare del sig. d'Artagnan, giovane molto bravo, disse il borghese, e questa riputazione di cui gode a giusto titolo mi ha deciso di confidargli un secreto. — Parlate, signore, parlate, disse d'Artagnan che per istinto annasò qualche cosa di avvantaggioso. Il borghese fece una novella pausa quindi continuò: — Io ho mia moglie che tiene la biancheria della regina, signore, e che non è priva nè di bellezza, nè di saggezza. Mi si fece sposarla, sono ormai dieci anni, quantunque ella non avesse che un piccolo capitale, poichè il sig. de Laporte, il porta-mantello della regina, è suo padrino e la protegge. — Ebbene, signore? domandò d'Artagnan. — Ebbene! riprese il borghese, ebbene! signore, mia moglie mi è stata rapita ieri mattina quanto sortiva dalla camera di lavoro. — E da chi è stata rapita vostra moglie? — Io non ne so niente sicuramente, ma ho sospetto su qualcuno. — E chi è questa persona di cui sospettate? — Un uomo che la perseguitava da lungo tempo. — Diavolo! — Ma volete voi che io ve la dica, signore? continuò il borghese: io sono convinto che vi è meno amore che politica in tutto ciò. — Meno amore che politica! riprese d'Artagnan con un'aria molto riflessiva, e che cosa sospettate voi? — Io non so se debba dirvi ciò che sospetto... — Signore, vi farò osservare che io non vi ho domandato assolutamente niente. Siete voi che siete venuto, siete voi che avete detto che avete un secreto da confidarmi. Fate dunque quello che più vi accomoda, siete ancora in tempo di ritirarvi. — No, signore, no, voi avete la ciera di un onesto giovane, e io avrò confidenza in voi. Io credo adunque che non sia per cagione dei suoi amori che mia moglie è stata arrestata, ma a cagione di quelli di una dama più grande di lei. — Ah! ah! sarebbe forse a cagione degli amori della signora di Bois-Tracy? fece d'Artagnan, che volle aver l'aria, rimpetto al suo borghese, di essere al corrente degli affari della corte. — Più alta, signore, più alta. — Della signora d'Aiguillon? — Più alta ancora. — Della signora de Chevreuse? — Più alta, molto più alta!... — Della? D'Artagnan si fermò. — Sì, signore, rispose tanto sottovoce, che appena si potè intendere, il borghese spaventato. — E con chi? — Con chi può essere, se non è col Duca de?... — Il duca de...? — Sì, signore, rispose il borghese dando alla sua voce un'intonazione ancor più sorda. — Ma voi come sapete tutto ciò? — Ah! come lo so io? — Sì, come lo sapete voi? non fate mezze confidenze, o... voi capite. — Io lo so da mia moglie, signore, da mia moglie stessa. — Che lo sa... da chi? — Dal sig. de Laporte. Non vi ho detto che ella era la figlioccia del sig. de Laporte, l'uomo di confidenza della regina? Ebbene, il sig. de Laporte l'aveva messa vicino a Sua Maestà, perchè la nostra povera regina avesse almeno qualcuno con cui confidarsi, abbandonata come ella è dal re, spiata come ella è dal ministro, tradita come ella è da tutti. — Ah! ah! ecco che si spiega, disse d'Artagnan. — Ora, mia moglie è venuta che sono quattro giorni, signore; una delle condizioni era che ella dovesse venirmi a vedere due volte la settimana; perchè ho avuto l'onore di dirvi, mia moglie mi ama molto; mia moglie è dunque venuta, e mi ha confidato che la regina in questo momento aveva grandi timori. — Veramente? — Sì; il ministro a quanto pare, la incalza e la perseguita più che mai, egli non può perdonarle la storia della _sarabanda_. Voi sapete la storia della sarabanda? — Per bacco se la so! rispose d'Artagnan che non ne sapeva niente affatto, ma che voleva aver l'aria di essere al corrente. — Di modo che ora non è più l'odio, è la vendetta. — Davvero? — E la regina crede? — Ebbene! che cosa crede la regina? — Ella crede che sia stato scritto al sig. duca de Buckingham in nome suo. — In nome della regina? — Sì, per farlo venire a Parigi, e una volta venuto a Parigi, per attirarlo in qualche laccio. — Diavolo! ma vostra moglie, mio caro signore, che cosa ha che fare con tutto questo. — Si conosce la sua affezione per la regina, e si vuole allontanarla dalla sua padrona, o intimorirla per avere i secreti di Sua Maestà, o sedurla per servirsi di lei come di una spia. — È probabile, disse d'Artagnan; ma l'uomo che l'ha rapita, lo conoscete voi? — Vi ho detto che credo di conoscerlo. — Il suo nome? — Non lo so; quello che so soltanto si è che egli è una creatura del ministro, la sua anima dannata. — Ma voi lo avete veduto? — Sì, un giorno mia moglie me lo ha mostrato. — Ha egli nessuna singolarità alla quale si possa riconoscerlo? — Oh certamente; è un signore di alta statura, di pelo nero, di colorito pallido, coll'occhio penetrante, i denti bianchi, ed una cicatrice alla tempia. — Una cicatrice alla tempia! gridò d'Artagnan, e con essa denti bianchi, occhio penetrante, però nero, questi è il mio uomo di Méung. — È il vostro uomo, dite voi? — Sì, sì, ma ciò non fa niente alla cosa. No, io mi sbaglio, ciò anzi semplifica di molto la cosa: se il vostro uomo è pure il mio, farò due vendette con un colpo solo, ecco tutto; ma dove il raggiungerò quest'uomo? — Non ne so niente. — Non avete presa alcuna informazione sulla sua dimora? — Nessuna; un giorno che io riconduceva mia moglie al Louvre, egli sortiva quando essa entrava, e me lo fece vedere. — Diavolo! diavolo! mormorò d'Artagnan tuttociò è bene incerto. Da chi avete saputo il rapimento di vostra moglie? — Dal signor de Laporte. — Vi ha dato qualche dettaglio? — Egli non ne aveva alcuno. — E voi non avete saputo niente altro? — Sì, ho ricevuto... — Che? — Ma io non so se commetta una grande imprudenza... — Voi ritornate ancora come prima; però io vi farò osservare che ora è troppo tardi per ritornare indietro. — Così io non mi ritiro, per bacco! gridò il borghese giurando per riscaldarsi la testa. D'altronde, fede di Bonacieux... — Voi vi chiamate Bonacieux? interruppe d'Artagnan. — Sì, questo è il mio nome. — Voi diceste adunque, fede di Bonacieux! perdonate se io vi ho interrotto, ma mi sembrava che questo nome non mi fosse nuovo. — È possibile, signore. Io sono il vostro padrone di casa. — Ah! ah! fece d'Artagnan sollevandosi per metà, e inchinandosi. Ah! voi siete il signor proprietario della casa? — Sì, signore, sì. E siccome da tre mesi che voi siete in casa mia, e che distratto, senza dubbio dalle vostre grandi occupazioni, avete dimenticato di pagarmi l'affitto, siccome, dico, io non vi ho tormentato un istante, ho pensato che voi avreste riguardo alla mia delicatezza. — Come è; mio caro signore Bonacieux, riprese d'Artagnan, credete che io sono pieno di riconoscenza per un simile procedere, e che, come ve l'ho detto, se posso esservi utile in qualche cosa... — Vi credo, signore, vi credo e come stava per dirvi, in fede di Bonacieux, ho tutta la mia confidenza in voi. Il borghese cavò un foglio di saccoccia, e lo presentò a d'Artagnan. — Una lettera! fece il giovane. — Che ho ricevuta questa mattina. D'Artagnan l'aprì, e siccome il giorno cominciava a declinare, egli s'avvicinò alla finestra. Il borghese lo seguì. «Non cercate affatto vostra moglie» lesse d'Artagnan, «ella vi sarà resa quando non si avrà più bisogno di lei. Se voi fate la più piccola dimostrazione per ritrovarla, siete perduto.» — Ecco ciò che vi è positivo continuò d'Artagnan; ma dopo tutto, questa non è che una minaccia. — Sì, ma questa minaccia mi spaventa, signore; io non sono affatto uomo di spada, ed ho paura della Bastiglia. — Hum! fece d'Artagnan, ma l'affare si è che pure io ho minor desiderio della Bastiglia di voi. Se non si trattasse che di un colpo di spada, vada pure. — Però, signore, io aveva calcolato su voi in questa occasione. — Sì? — Vedendovi incessantemente circondato da moschettieri, con un aspetto molto guerriero, e riconoscendo che questi moschettieri erano quelli del sig. de Tréville, e per conseguenza nemici del ministro, io aveva pensato che voi e i vostri amici, nel rendere giustizia alla nostra povera regina, sarete ben contenti di fare un cattivo giuoco allo stesso ministro. — Senza dubbio. — E poi aveva pensato che, dovendomi voi tre mesi di affitto, di cui io non vi ho mai parlato... — Sì, sì, voi mi avete di già addotta questa ragione, e io la trovo eccellente. — Che più, fino a tanto che voi mi farete l'onore di restare in casa mia, non vi parlerò mai dell'affitto venturo... — Benissimo! — Aggiungete a ciò, sevi fosse bisogno, contava offrirvi una cinquantina di doppie, se contro ogni probabilità, voi vi ritrovaste in questo momento in qualche angustia... — A meraviglia; ma voi dunque siete ricco, mio caro signor Bonacieux? — Ho tutti i miei comodi, signore, questa è la parola; ho riunito qualche cosa, come sarebbero due o tre mila scudi di rendita nel commercio delle mercerie, e soprattutto mettendo qualche fondo sull'ultimo viaggio del celebre navigatore Giovanni Mocquet, di modo che voi capirete, signore... ah! ma... gridò il borghese. — Che? domandò d'Artagnan. — Che vedo io là? — Dove? — Sulla strada, dirimpetto alle vostre finestre, nel vano di quella porta: un uomo inviluppato nel suo mantello. — È lui gridarono ad un tempo d'Artagnan ed il borghese, avendo riconosciuto il loro uomo. — Ah! questa volta, gridò d'Artagnan saltando alla sua spada, questa volta egli non mi fuggirà. E cavando la sua spada dal fodero si precipitò fuori dell'appartamento. Sulla scala egli incontrò Athos e Porthos che venivano a visitarlo. Essi si scostarono; d'Artagnan passò fra di loro come una freccia. — E che! dove corri tu così? gridarono in una volta i due moschettieri. — L'uomo di Méung! riprese d'Artagnan, e disparve. D'Artagnan aveva più di una volta raccontato ai suoi amici la sua avventura con lo sconosciuto come pure l'apparizione della bella viaggiatrice, alla quale questo uomo aveva sembrato confidare una così importante missione. Il parere di Athos era stato che d'Artagnan avesse perduto la sua lettera nell'osteria. Un gentiluomo, secondo lui, e al ritratto che d'Artagnan aveva fatto dello sconosciuto questi non poteva essere che un gentiluomo; un gentiluomo doveva essere incapace di commettere la bassezza di rubare una lettera. Porthos non aveva veduto in tutto ciò che un appuntamento amoroso dato da una dama ad un cavaliere, o da un cavaliere ad una dama, che era stato disturbato dalla presenza di d'Artagnan e del suo cavallo giallo. Aramis aveva detto che questa sorta di cose misteriose, valeva meglio il non approfondirle. Essi compresero dunque dalle poche parole sfuggite a d'Artagnan, di quale affare si trattava, e siccome pensarono che dopo aver raggiunto il suo uomo, o dopo averlo perduto di vista, d'Artagnan avrebbe finito col ritornare in casa, continuarono la loro strada. Allorchè entrarono nella camera di d'Artagnan, la camera era vuota; il proprietario, temendo le conseguenze dell'incontro che senza dubbio avrebbe avuto luogo tra il giovane e lo sconosciuto, aveva, in conseguenza dell'esposizione ch'egli stesso aveva fatta del suo carattere, giudicato che era cosa prudente il ritirarsi. CAPITOLO IX. D'ARTAGNAN SPIEGA CARATTERE Come lo aveva preveduto Athos e Porthos, in capo ad una mezz'ora d'Artagnan rientrò. Questa volta pure egli non aveva ritrovato il suo uomo, che come per incanto era scomparso. D'Artagnan aveva corso colla spada alla mano tutte le strade circonvicine, ma non aveva ritrovato nessuno che rassomigliasse a quello che egli cercava, quindi n'era venuto a ciò da cui doveva forse cominciare, e che era di battere alla porta contro la quale lo sconosciuto stava appoggiato; ma inutilmente egli per dieci o dodici volte di seguito aveva fatto risonare il metallo, nessuno gli aveva risposto; ed i vicini, che attirati dal rumore, erano accorsi sul limitare della loro porta, lo avevano assicurato che quella casa, di cui del resto tutte le aperture erano chiuse, era da sei mesi completamente inabitata. Nel mentre che d'Artagnan correva le strade e batteva alle porte, Aramis aveva raggiunto i suoi due compagni, di modo che ritornando in casa, d'Artagnan aveva ritrovata la riunione al suo completo. — Ebbene? dissero assieme i tre moschettieri, vedendo entrare d'Artagnan col sudore sulla fronte e la figura sconvolta dalla collera. — Ebbene! gridò questi gettando la sua spada sul letto, bisogna che quest'uomo sia il diavolo in persona, egli è scomparso come un fantasma, come un'ombra, come uno spettro. — Credete voi alle apparizioni? domandò Athos a Porthos. — Io? non credo che a ciò che ho veduto, e siccome non ho mai veduto apparizioni, così non vi credo. — In ogni caso, uomo o diavolo, corpo od ombra, illusione o realtà, quest'uomo è nato per la mia dannazione, poichè la sua fuga ci fa andare a vuoto un affare superbo, signori, un affare nel quale vi erano cento doppie da guadagnare, e fors'anche più. — In qual modo? dissero in una volta Porthos e Aramis. In quanto ad Athos, fedele al suo sistema di mutismo, si contentò d'interrogare d'Artagnan con lo sguardo. — Planchet, disse d'Artagnan al suo domestico, che passava in questo momento la testa per la porta non ben chiusa cercando di sorprendere qualche brano della conversazione, discendete dal mio proprietario, sig. Bonacieux, ditegli d'inviarci una mezza dozzina di bottiglie di vino di Beaugency; è quello che io preferisco. — E che! voi avete dunque credito aperto col vostro padrone di casa? domandò Porthos. — Sì rispose d'Artagnan, da oggi in poi, e state tranquilli, se il suo vino è cattivo noi gli manderemo a cercarne dell'altro. — Bisogna usare, e non abusare, disse sentenziosamente Aramis. — Io ho sempre detto che d'Artagnan era la testa forte di noi quattro, fece Athos, che dopo avere emessa questa opinione, alla quale d'Artagnan rispose con un saluto, ricadde subito nel suo consueto silenzio. — Ma in fine vediamo, che cosa c'è? domandò Porthos. — Sì, disse Aramis, confidateci tutto, mio caro amico, a meno che l'onore di qualche dama non si trovi interessato in questa confidenza, nel qual caso farete meglio a conservarla per voi. — Siate tranquilli, rispose d'Artagnan, l'onore di nessuna persona avrà a lamentarsi in ciò che io vi dirò. E allora egli raccontò parola per parola ai suoi amici tutto ciò che era accaduto fra il suo padron di casa e lui, ed in qual modo l'uomo che aveva rapita la moglie del degno proprietario era lo stesso col quale aveva avuto contesa nell'osteria di Francesco Meunier. — Il vostro affare non è cattivo, disse Athos, dopo avere gustato il vino da conoscitore, e indicato con un segno di testa che lo trovava buono, e si potrà ricavare da questo bravo uomo una cinquantina o una sessantina di doppie. Ora, resta a sapersi se cinquanta o sessanta doppie valgano la pena di arrischiare quattro teste. — Ma fate attenzione, gridò d'Artagnan, che vi è una donna in quest'affare, una donna elevata, una donna che si minaccia senza dubbio, che forse si mette a tortura e tutto ciò perchè ella è fedele alla sua padrona. — State in guardia, d'Artagnan, state in guardia, disse Aramis, voi vi riscaldate un poco troppo, a mio avviso, sulla sorte della signora Bonacieux. La donna è stata sempre la rovina degli uomini, ed è da lei che ci vengono tutte le miserie. Athos, a questa sentenza d'Aramis aggrottò il sopracciglio, e si morse le labbra. — Non è punto della signora Bonacieux che m'inquieto, gridò d'Artagnan, ma della regina, che il re abbandona, che il ministro perseguita, e che vede cadere, le une dopo le altre, le teste di tutti i suoi amici. — Perchè ama ella tutto ciò che noi detestiamo di più a questo mondo, gli Spagnuoli e gl'Inglesi? — La Spagna è la sua patria, rispose d'Artagnan, ed è cosa semplicissima che ella ami gli Spagnuoli, che sono figli della stessa sua terra. In quanto al secondo rimprovero che voi le fate, ho inteso dire che ella amava, non già gl'inglesi, ma un Inglese. — Eh in fede mia, disse Athos, bisogna convenire che questo Inglese è ben degno di essere amato. Io non ho mai veduto un aspetto più grande del suo. — Senza contare che nessuno si sa abbigliare come lui, disse Porthos. Io era al Louvre il giorno in cui ha seminate le sue perle, e per bacco! io ne ho raccolte due che ho vendute dieci doppie l'una. E tu, Aramis, lo conosci tu? — Tanto bene quanto voi, signori, perchè io era uno di quelli che lo hanno arrestato nel giardino d'Amiens, ove mi aveva introdotto il sig. de Putange, lo scudiere della regina. Io era al seminario in quell'epoca, e l'avventura mi parve crudele pel re. — Cosa che non m'impedirebbe, disse d'Artagnan, se io sapessi dov'è il duca di Buckingham, di prenderlo per la mano, e di condurlo vicino alla regina, e non fosse altro che per fare arrabbiare il ministro, poichè il nostro vero, il nostro solo, eterno nemico, signori, è il ministro, e se possiamo ritrovare il modo di giuocargli un qualche giuoco crudele, vi confesso che vi impegnerei volentieri la mia testa. — E, riprese Athos, il merciaio vi ha detto, d'Artagnan, che la regina temeva che si fosse fatto venire Buckingham sotto un falso avviso? — Ella ne ha paura. — Aspettate dunque, disse Aramis. — Che cosa? domandò Porthos. — Continuate pure. Io cerco a richiamarmi alcune circostanze. — Ed ora io son convinto, disse d'Artagnan, che il ratto di questa donna della regina si concatena agli avvenimenti di cui parliamo, e fors'anche alla presenza del signor de Buckingham in Parigi. — Il Guascone è pieno d'idee, disse Porthos con ammirazione. — Amo molto sentirlo parlare, disse Athos, il suo dialetto mi diverte. — Signori, riprese Aramis, ascoltate questo. — Ascoltiamo Aramis, dissero i tre amici. — Ieri, io mi trovava presso un dotto filosofo, che ho qualche volta consultato per i miei studii. Athos sorrise. — Egli abita un quartiere deserto, continuò Aramis; i suoi gusti, la sua professione lo esigono. Ora al momento che io sortiva di casa sua... qui Aramis si fermò. — Ebbene! domandarono i suoi uditori al momento che sortivi di casa sua?... Aramis parve fare uno sforzo sopra se stesso, come un uomo che, in pieno corso di una bugia, si vede fermato da un qualche ostacolo imprevisto, ma gli occhi dei suoi tre compagni erano fissi su lui, le loro orecchie erano tese, e non vi era più modo d'indietreggiare. — Questo filosofo ha una nipote, continuò Aramis. — Ah! egli ha una nipote? interruppe Porthos. — Dama molto rispettabile, disse Aramis. I tre amici si posero a ridere. — Ah! se voi ridete, o se voi dubitate, riprese Aramis, voi non ne saprete niente. — Noi siamo credenti come tanti maomettani, e muti come catafalchi, disse Athos. — Dunque continuo, riprese Aramis. Questa nipote qualche volta viene a vedere suo zio; ora, ella ieri vi si trovava nel medesimo tempo che me, per caso, ed io mi offersi per condurla alla sua carrozza. — Ah! la nipote del filosofo ha una carrozza? interruppe Porthos, che aveva per uno dei suoi più gran difetti una grande incontinenza di lingua; bella conoscenza, amico mio! — Porthos, riprese Aramis, vi ho già fatto osservare più d'una volta che voi siete molto indiscreto, e che ciò vi nuoce con le donne. — Signori, signori! gridò d'Artagnan, che intravedeva la fine dell'avventura, la cosa è seria, cerchiamo dunque di non scherzare, se lo possiamo. Continuate, Aramis, continuate. — Ad un tratto un uomo grande, bruno coi modi di gentiluomo... a voi, del genere del vostr'uomo, d'Artagnan. — Forse sarà lo stesso; disse questi. — È possibile.... Aramis continuò, si avvicinò a me, accompagnato da cinque o sei uomini che lo seguivano a dieci passi di distanza, e col tuono il più gentile: — «Signor duca» mi disse egli «e voi, signora,» continuò indirizzandosi alla dama che io aveva sotto il braccio. — La nipote del dottore? — Silenzio dunque Porthos, disse Athos, voi siete insopportabile! — Favorite di salire in questa carrozza, e ciò senza tentare la più piccola resistenza, senza fare il più piccolo rumore. — Egli vi aveva preso per Buckingham! gridò d'Artagnan. — Credo, rispose Aramis. — Ma quella donna? domandò Porthos. — Egli l'aveva presa per la regina! disse d'Artagnan. — Precisamente, rispose Aramis. — Il Guascone è il diavolo! gridò Athos, non gli sfugge niente. — Il fatto è, disse Porthos, che Aramis è della statura; ed ha qualche cosa del portamento del bel duca; ma però mi sembra che l'abito da moschettiere... — Io aveva un enorme mantello, disse Aramis. — Nel mese di luglio? diavolo! fece Porthos; forse che il tuo filosofo teme che tu non sia riconosciuto? — Comprendo ancora, disse Athos, che la spia si sia lasciata illudere dal portamento, ma il viso... — Io aveva un gran cappello, disse Aramis. — Oh! mio Dio, gridò Porthos, quante precauzioni per studiare filosofia! — Signori, signori, disse d'Artagnan, non perdiamo il nostro tempo a celiarla; dividiamoci, e cerchiamo la moglie del merciaio; questa è la chiave dell'intrigo. — Una donna di così infima condizione! voi credete, d'Artagnan? disse Porthos, allungando le labbra con disprezzo. — È la figlioccia di de Laporte, il cameriere di confidenza della regina. Non ve l'ho io detto; signori? e d'altronde questo forse potrebbe essere un calcolo di Sua Maestà di aver cercato i suoi appoggi così in basso. Le alte teste si vedono di lontano, ed il ministro ha buona vista. — Ebbene! disse Porthos, stabilite prima il premio col merciaio, e che sia un buon premio. — È inutile, disse d'Artagnan, poichè io credo che s'egli non ci paga, noi saremo ben pagati da un'altra parte. In questo momento un rumore precipitato di passi rimbombò nelle scale, la porta si aprì con fracasso, e il disgraziato merciaio si slanciò nella camera ove si teneva il consiglio. — Ah! signori, gridò egli, salvatemi in nome del cielo, salvatemi! vi sono là quattro uomini che vengono ad arrestarmi: salvatemi! Porthos e Aramis si alzarono. — Un momento, gridò d'Artagnan, facendo loro segno di rimettere nel fodero le spade per metà cavate: un momento, qui non c'è bisogno di coraggio, ma di prudenza. — Però, gridò Porthos, noi non lasceremo... — Voi lascerete fare a d'Artagnan, disse Athos; egli è, io lo ripeto, la testa forte di tutti noi, ed io, per conto mio, io dichiaro che l'obbedisco. Fa ciò che vuoi d'Artagnan. In questo momento apparvero quattro guardie alla porta dell'anticamera, e vedendo quattro moschettieri in piedi con la spada al fianco, evitarono ad inoltrarsi maggiormente. — Entrate, signori, entrate, gridò d'Artagnan, voi siete qui in casa mia, e noi qui siamo tutti servitori fedeli del re e del ministro. — Allora, signori, voi non vi opporrete alla esecuzione degli ordini che noi abbiamo ricevuti? domandò quello che sembrava il capo della squadra. — Al contrario, signori, noi anzi vi presteremo mano forte se il bisogno lo esige. — E che cosa è dunque questo? brontolò Porthos. — Tu sei uno stupido, disse Athos, silenzio! — Ma voi mi avete promesso... disse a bassa voce il povero merciaio. — Noi non vi possiamo salvare che restando liberi, rispose rapidamente e a bassa voce, d'Artagnan, e se noi facciamo atto di difendervi, noi saremo arrestati con voi. — Mi sembra, però... — Venite, signori, venite, disse ad alta voce d'Artagnan, io non ho nessun motivo per difendere il signore. Io l'ho veduto oggi per la prima volta, e vi dirà ancora egli stesso in quale occasione, per venire a reclamare il prezzo del mio affitto. È vero, sig. Bonacieux? rispondete! — È la verità, gridò il merciaio, ma il sangue non vi dice... — Silenzio su di me e su i miei amici, silenzio sulla regina soprattutto, oppure voi perderete tutti senza neppur salvar voi. Andate, andate, signori, conducete quest'uomo. E d'Artagnan spinse il merciaio tutto stordito fra le mani delle guardie, dicendogli: — Voi siete un briccone, mio caro: voi venite a domandare del danaro a me! a un moschettiere! in prigione! signori, anche una volta, conducetelo in prigione e custoditelo sotto chiave il più lungamente che sia possibile ciò mi darà il tempo per pagarlo. Gli sbirri si confondevano in ringraziamenti e conducevano la loro preda. Al momento che essi discendevano, d'Artagnan battè sulla spalla del capo. — E non berrò alla vostra salute e voi alla mia? disse egli riempiendo due bicchieri di quel vino di Beaugency, che egli aveva dalla liberalità del sig. Bonacieux. — Sarà un onore per me, disse il capo degli sbirri, e io accetto con riconoscenza. — Dunque alla vostra, signore, come vi chiamate? — Bois renard. — Sig. Bois renard! — Alla vostra, mio gentiluomo... come vi chiamate, se vi piace! — D'Artagnan. — Alla vostra salute sig. d'Artagnan! — E sopra tutto questo, gridò d'Artagnan come trasportato dal suo entusiasmo, a quella del re e del ministro. Il capo degli sbirri avrebbe forse dubitato della sincerità di d'Artagnan se il vino fosse stato cattivo; ma il vino era buono, e ne fu convinto. — Ma che diavolo di villania avete voi fatta? disse Porthos allora quando il bargello in capo ebbe raggiunto i suoi compagni, e che i quattro amici si ritrovarono soli. Per bacco! quattro moschettieri lasciarsi arrestare un disgraziato che viene a gettarsi in mezzo a loro gridando aiuto! un gentiluomo bere con uno sbirro! — Porthos, disse Aramis, Athos ti ha prevenuto che tu sei uno stupido, ed io pure sono del suo avviso. D'Artagnan tu sei un grand'uomo, e quando tu sarai nel posto del sig. de Tréville, io ti domanderò la tua protezione per farmi avere un'Abbazia. — Ah! io mi ci perdo, disse Porthos, voi approvate ciò che ha fatto d'Artagnan? — Lo credo bene, per bacco! disse Athos; non solo io approvo ciò che egli ha fatto, ma me ne congratulo. — E ora, signori, disse d'Artagnan senza darsi la pena di spiegare la sua condotta a Porthos, tutti per uno, e uno per tutti; questa è la nostra divisa non è vero? — Però!... disse Porthos. — Stendi la mano e giura! gridarono ad un tempo Athos e Aramis. Vinto dall'esempio e brontolando a bassa voce, Porthos stese la mano, e i quattro amici ripeterono con una sola voce la formula dettata da d'Artagnan: «Tutti per uno, uno per tutti». — Sta bene; che ciascuno ora si ritiri in casa sua, disse d'Artagnan, come se non avesse fatto in vita sua altra cosa che comandare; e attenti, poichè da questo momento eccoci alle prese col ministro. CAPITOLO X. UNA TRAPPOLA DA SORCI DEL SECOLO XVII L'invenzione della trappola non data dai nostri giorni; da che le società, nel costituirsi, ebbero inventata una polizia qualunque, questa polizia a sua volta inventò le trappole. Siccome forse i nostri lettori non si sono ancora famigliarizzati col gergo della strada di Gerusalemme, e che questa è la prima volta, dopo quindici anni, che noi scriviamo, che noi impieghiamo questa parola applicata a questa cosa, spieghiamo loro cosa è una trappola da sorci. Quando, in una casa qualunque, si è arrestato un individuo sospetto di un delitto qualsiasi, si tiene secreto l'arresto; si pongono quattro o cinque uomini in imboscata nella prima camera; si apre la porta a tutti quelli che battono, la si richiude dietro di loro, e si arrestano; in questo modo, in capo a due o tre giorni, si ha nelle mani quasi tutte le persone famigliari dello stabile. Ecco che cosa è una trappola da sorci. Fu dunque fatta una trappola nell'appartamento di mastro Bonacieux, e chiunque vi comparve fu preso e interrogato dagli agenti dei ministro. Va senza dire che, siccome una entrata particolare metteva al primo piano, che abitava d'Artagnan, quelli che venivano da lui erano esenti da ogni visita. D'altronde i tre moschettieri soltanto vi venivano; essi si erano messi sulle ricerche ciascuno dalla sua parte, e non avevano nè ritrovato nè scoperto niente; Athos era stato eziandio a muovere delle interrogazioni al sig. de Tréville, cosa che visto il mutismo abituale del degno moschettiere, aveva molto meravigliato il suo capitano. Ma il sig. de Tréville non sapeva niente, se non che l'ultima volta che aveva veduto il ministro, il re e la regina, il ministro aveva l'aria molto concentrata, che il re era molto inquieto, e che il rosso degli occhi della regina indicava che ella aveva vegliato e pianto. Ma questa ultima circostanza lo aveva ben poco colpito; la regina, dopo il suo matrimonio, vegliava e piangeva molto. Il sig. de Tréville raccomandò in ogni caso ad Athos il servizio del re, e soprattutto quello della regina, pregando di fare la medesima raccomandazione ai suoi camerati. In quanto a d'Artagnan egli non si moveva da casa sua. Egli aveva convertita la sua camera in un osservatorio. Dalle finestre egli vedeva giungere quelli che venivano a farsi prendere; poi, siccome aveva levato un quadrello dal pavimento e forato un buco nel palco, dimodochè una semplice intonacatura lo separava dalla camera di sotto ove si facevano gli interrogatorii, ed egli intendeva tutto ciò che si faceva dagli inquisitori e dagli accusati. Gli interrogatorii erano preceduti da una perquisizione minutissima operata sulla persona arrestata; le domande erano sempre concepite così: «La signora Bonacieux vi ha ella consegnato qualche cosa per suo marito o per qualche altra persona? «Il signor Bonacieux vi ha egli consegnato qualche cosa per sua moglie o per qualche altra persona? «L'uno e l'altro vi hanno essi fatta alcuna confidenza a viva voce?» — Se essi sapessero qualche cosa, essi non interrogherebbero così, disse a se stesso d'Artagnan. Ora che cosa cercano di sapere? se il duca di Buckingham si ritrova a Parigi, se egli ha avuto o se egli deve avere qualche abboccamento con la regina. D'Artagnan si fermò a questa idea, che, dopo tutto ciò che aveva inteso, non mancava di probabilità. Frattanto la trappola era in permanenza, e la vigilanza di d'Artagnan egualmente. La sera dell'indomani dall'arresto del povero Bonacieux, quando Athos aveva lasciato d'Artagnan per portarsi presso il sig. de Tréville, stando per sonare le nove ore, e quando Planchet, che non aveva fatto ancora il letto, cominciava le sue faccende, s'intese battere alla porta della strada; subito dopo questa porta si aprì e si richiuse, qualcuno era venuto a cadere in trappola. D'Artagnan si slanciò verso il luogo in cui avea tolto la pietra, si stese col ventre a terra e ascoltò. Ben presto si sentirono delle strida, quindi dei gemiti che si cercava di soffocare. Non si trattava di interrogatorio. — Diavolo! disse a se stesso d'Artagnan, mi sembra che questa sia una donna; la frugano, ella resiste, le usano violenze. Ah! miserabili! E d'Artagnan, ad onta della sua prudenza, si tratteneva a gran stento per non mischiarsi alla scena che accadeva sotto di lui. — Ma io vi dico che sono la padrona della casa, signori, io vi dico che sono la moglie di Bonacieux, io vi dico che sono al servizio della regina e che appartengo a lei! gridava la disgraziata donna. — La signora Bonacieux! mormorò d'Artagnan, sarei io abbastanza felice per aver ritrovato tutto ciò che altri cercano? — È precisamente voi che noi aspettavamo, ripresero gl'interrogatori. La voce divenne più soffocata. Un movimento tumultuoso si ripercosse sul palco di legno. La vittima resisteva tanto, quanto può resistere una donna a quattro uomini. — Perdono, signore, perdono...! mormorò la voce che non fece più sentire che suoni inarticolati. — Essi la legano, essi forse la trascineranno! gridò d'Artagnan, raddrizzandosi come una molla. La mia spada! buono, essa è al mio fianco. Planchet! — Signore. — Corri a cercare Athos, Porthos e Aramis. L'uno dei tre sarà certamente in casa, forse saranno rientrati tutti e tre. Che essi prendano le armi, che vengano, che accorrano. Ah! ora mi ricordo! Athos è dal signor de Tréville. — Ma dove andate voi signore? dove andate? — Io discendo dalla finestra, gridò d'Artagnan, per fare più presto! tu, rimetti la pietra, accomoda il pavimento, sorti dalla porta, e corri dove io ti ho detto. — Oh! signore, signore, voi vi ucciderete, gridò Planchet. — Taci imbecille! disse d'Artagnan. E, aggrappandosi con la mano allo stipite della finestra, si lasciò cadere dal primo piano, che fortunatamente non era molto alto, senza farsi nemmeno una sgraffiatura. Andò subito dopo a battere alla porta mormorando: — Io pure vado a farmi prendere in trappola, ma disgraziati quei gatti che prenderanno simili sorci. Appena il martello ebbe ripercosso sotto la mano del giovane, che il tumulto cessò, che alcuni passi si avvicinarono, che la porta si aprì, e che d'Artagnan colla spada sguainata si slanciò nell'appartamento di mastro Bonacieux, la di cui porta, senza dubbio mossa dalle suste, si richiuse da se stessa dietro a lui. Allora quelli che abitavano ancora la disgraziata casa di Bonacieux, ed i vicini più prossimi, intesero delle grandi grida, un pestìo, un percuotersi di spade ed uno strepito prolungato di mobili. Quindi, un momento dopo, quelli che, sorpresi da questo rumore, si erano messi dalle finestre per conoscere la causa, poterono vedere la porta aprirsi e quattro uomini vestiti di nero, non sortire, ma slanciarsi come corvi infuriati lasciando per terra e agli angoli dei pezzi di penne delle loro ali, vale a dire dei brani dei loro vestiti, e degli avanzi dei loro mantelli. D'Artagnan era vincitore, bisogna però dirlo, senza molta pena, perchè un solo di quei birri era armato e si difendeva ancora per sola formalità. Egli è però vero che gli altri tre avevano cercato di accoppare il giovane colle sedie, gli scanni e la terraglia; ma due o tre sgraffiature fatte colla spadaccia del Guascone li avevano spaventati. Dieci minuti erano stati sufficienti a questa sconfitta, e d'Artagnan era rimasto padrone del campo di battaglia. I vicini che avevano aperte le loro finestre col sangue freddo particolare agli abitanti di Parigi in quei tempi di sommosse e di risse perpetue, le richiusero dappoichè ebbero veduto fuggire i quattro uomini neri; il loro istinto loro indicava che pel momento tutto era finito. D'altronde si faceva tardi, e, allora come adesso, si andava a letto di buon'ora nel quartiere del Luxembourg. D'Artagnan, rimasto solo con la sig. Bonacieux, si voltò verso di lei. La povera donna era rovesciata sopra un sofà e mezzo svenuta. D'Artagnan l'esaminò con un rapido colpo d'occhio. Era una graziosa donna di venticinque ai ventisei anni, bruna, cogli occhi blu, col naso un tantino rialzato, i denti ammirabili, un colorito marmorizzato di color rosa e opale. Là però si fermavano i segni che potevano farla confondere con una gran dama: le mani erano bianche, ma senza finezza di forme; i piedi non annunziavano la donna di qualità. Fortunatamente d'Artagnan non era ancor giunto a preoccuparsi di questi dettagli. Nel mentre che d'Artagnan esaminava la sig. Bonacieux, e, come abbiam detto non era ancora giunto ai piedi, egli vide in terra un fazzoletto di fina battista, che egli raccolse, secondo la sua abitudine; e ad un angolo del quale riconobbe la stessa cifra che aveva veduta nel fazzoletto che per poco non fu causa che si tagliasse la gola con Aramis. Da quel tempo d'Artagnan non si fidava dei fazzoletti con lo stemma, egli rimise dunque quello che aveva raccolto nella saccoccia della sig. Bonacieux. In questo momento la sig. Bonacieux riprendeva i suoi sensi. Ella aprì gli occhi, guardò con terrore intorno a lei, vide che l'appartamento era vuoto, e che ella era sola col suo liberatore. Ella gli stese subito le mani sorridendo. La sig. Bonacieux aveva il più grazioso sorriso del mondo. — Ah! signore, disse ella, siete voi che mi avete salvata? permettetemi che io vi ringrazii. — Signora, disse d'Artagnan, io non ho fatto che quello che avrebbe fatto qualunque altro gentiluomo nel mio posto: voi dunque non mi dovete alcun ringraziamento. — Sia pure, signore, sia pure, io spero potervi provare che voi non avete reso servigio ad un'ingrata. Ma che cosa dunque volevano da me quegli uomini, che in sulle prime io presi per ladri? e perchè il sig. Bonacieux non è egli qui? — Signora questi uomini erano molto più pericolosi di quello che potevano essere dei ladri, poichè erano agenti del ministro; e in quanto a vostro marito, signora Bonacieux, egli non si ritrova qui, perchè ieri sono venuti a prenderlo per condurlo alla Bastiglia. — Mio marito alla Bastiglia! gridò la signora Bonacieux; oh! mio Dio, e che cosa ha dunque fatto? povero e caro uomo! egli pure è innocente! E qualche cosa come un sorriso comparve sulla figura ancora spaventata della giovane donna. — Che cosa ha fatto signora? disse d'Artagnan, io credo che il solo suo delitto sia quello di avere la fortuna ad un tempo e la disgrazia di essere vostro marito. — Ma, signore, voi dunque sapete...? — Io so che voi siete stata rapita, signora. — E da chi? lo sapete voi? oh! se voi lo sapete, ditemelo. — Da un uomo dai quaranta ai cinquanta anni, coi capelli neri, colorito fosco e una cicatrice sulla tempia sinistra. — È lui, è lui: ma il suo nome? — Ah! il suo nome? è appunto quello che io non so. — E mio marito sapeva egli che io era stata rapita? — Egli ne era stato avvisato per mezzo di una lettera che gli aveva scritto il vostro stesso rapitore. — Ed egli sospettava, domandò la signora Bonacieux con imbarazzo, la causa di questo rapimento? — Egli l'attribuiva, io credo, ad una causa di politica. — Io ne ho dubitato sulle prime, ed ora la penso come lui. Così adunque questo caro Bonacieux non ha sospettato di me un solo istante? — Ah! ben lontano da questo, signora, egli era troppo orgoglioso della vostra saggezza e soprattutto del vostro amore. Un secondo sorriso quasi impercettibile sfiorò le rosee labbra della bella giovane sposa. — Ma, continuò d'Artagnan, e come avete potuto fuggire? — Io ho profittato di un momento in cui mi hanno lasciata sola, e siccome sapeva fino da questa mattina che cosa pensare del mio rapimento, coll'aiuto dei miei drappi, io sono discesa dalla finestra; allora credendo che mio marito fosse qui, io sono accorsa. — Per mettervi sotto la sua protezione? — Oh! no, povero e caro uomo, io sapeva bene che egli era incapace di difendermi; ma siccome egli poteva servirmi in qualche altra cosa, io voleva prevenirlo. — Di che? — Oh! questo non è mio secreto e perciò non posso dirvelo. — D'altronde, disse d'Artagnan, (perdono, signora, che quantunque semplice guardia, io vi richiami alla prudenza) d'altronde credo che qui non siamo in luogo opportuno per fare delle confidenze. Gli uomini che io ho messi in fuga ritorneranno ben presto con un rinforzo, e, se essi ci ritrovano qui, noi siamo perduti. È vero che io ho fatto avvisare tre dei miei amici, ma chi sa se sono stati ritrovati in casa. — Sì, sì, voi avete ragione, gridò la signora Bonacieux spaventata; fuggiamo, salviamoci! A queste parole ella passò il suo braccio sotto quello di d'Artagnan e lo trascinò vivamente. — Ma dove fuggire? disse d'Artagnan, ove salvarci? — Prima allontaniamoci da questa casa, quindi poi vedremo. E i due giovani, senza darsi la pena di chiudere la porta discesero rapidamente la strada Fossoyeurs, innoltraronsi nella strada Fosser-Monsieur-le-Prince e non si fermarono che alla piazza S. Sulpicio. — E ora, che cosa faremo noi? domandò d'Artagnan, ed ove volete voi che io vi conduca? — Sono molto imbarazzata a rispondervi, io ve lo confesso, disse la signora Bonacieux; la mia intenzione era di far prevenire il sig. Laporte da mio marito, affinchè il signor Laporte potesse dirci precisamente ciò che è accaduto al Louvre in questi tre giorni, e se vi è nessun pericolo per me di presentarmivi? — Ma io, disse d'Artagnan, io posso andare a prevenire il sig. Laporte. — Senza dubbio, soltanto vi è una disgrazia: ed è, che il sig Bonacieux è conosciuto al Louvre, e si lascia passare, nel mentre che voi non siete conosciuto, e vi si chiuderebbe la porta. — Ahi bah! disse d'Artagnan; voi avrete bene una qualche porta secreta del Louvre, un portinaro che vi sia affezionato, e che mercè una parola d'ordine... La sig. Bonacieux guardò fissamente il giovane. — E se io vi dicessi questa parola d'ordine, diss'ella, la dimentichereste voi subito dopo che ve ne siete servito? — Parola d'onore, fede di gentiluomo! disse d'Artagnan con un accento, sulla veracità del quale non v'era da sbagliarsi. — Tenete, io vi credo; voi avete l'aspetto di un bravo giovane. D'altronde la vostra fortuna può forse dipendere dal vostro affezionamento. — Io farò senza promessa e di coscienza tutto ciò che potrò fare per servire il re e per rendermi gradito alla regina, disse d'Artagnan; disponete dunque di me come di un amico. — Ma dove mi metterete in questo tempo? — Non avete voi una persona presso cui il sig. Laporte possa venirvi a prendere? — No, io non voglio fidarmi di nessuno. — Aspettate; disse d'Artagnan, noi siamo alla porta di Athos. Sì, è quella. — Chi è questo Athos? — È uno dei miei amici. — Ma, se egli è in casa sua, e che mi vede?... — Egli non v'è, ed io porterò meco la chiave dopo avervi chiusa nel suo appartamento. — Ma se egli ritorna? — Egli non ritornerà! d'altronde gli verrà detto che io ho condotto una donna, e che questa donna è nelle sue stanze. — Ma ciò mi comprometterà moltissimo, sapete voi? — Che importa! voi non siete conosciuta; d'altronde noi siamo in una situazione da dover passare sopra queste convenienze. — Andiamo adunque da questo vostro amico. Ove sta egli? — Strada Ferou, a due passi di qui. — Andiamo. E tutti e due ripresero la loro corsa. Come lo aveva preveduto d'Artagnan, Athos non era in casa; egli prese la chiave che si aveva l'abitudine di consegnarli come ad un amico di famiglia, salì la scala introdusse la signora Bonacieux nel piccolo appartamento di cui abbiamo già fatta la descrizione. — Voi siete, in casa vostra, diss'egli, aspettate, chiudete la porta per di dentro e non aprite ad alcuno, ammenochè non sentiate batter tre colpi così. Egli battè tre volte, due colpi vicini l'uno all'altro ed abbastanza forti, e un colpo distante e più leggero. — Sta bene, disse la sig. Bonacieux. Ora sta a me il darvi le mie istruzioni. — Ascolto. — Presentatevi alla porta secreta del Louvre dalla parte dalla strada l'Echelle, e domandate di Germano. — Sta bene; e poi? — Egli vi domanderà ciò che volete; voi gli risponderete con queste due parole, _Tours_ e _Brusselle_. Egli, si metterà subito ai vostri ordini. — E cosa dovrò io ordinargli? — Di andare a cercare il signor Laporte, il cameriere della regina. — E quando sarà stato a cercarlo, e che il sig. Laporte sarà venuto? — Voi me lo invierete. — Sta bene; ma dove e come vi rivedrò io? — Avete molta premura a rivedermi? — Certamente. — Ebbene riposate su me di questa cura e siate tranquillo. — Io conto sulla vostra parola. — Contatevi. D'Artagnan salutò la sig. Bonacieux, lanciandole lo sguardo più amoroso che gli fu possibile di concentrare sulla di lei piccola e graziosa persona, e nel mentre che egli discendeva la scala, intese la porta chiudersi dietro a lui a doppio giro. In due salti fu al Louvre, sonavano le dieci ore quando egli giunse alla porta secreta dell'Echelle. Tutti gli avvenimenti che noi abbiamo raccontati erano accaduti in una mezz'ora. Tutto passò come lo aveva annunziato la sig. Bonacieux. Alla parola d'ordine convenuta, Germano s'inchinò; dieci minuti dopo Laporte era nel corridoio; in due parole d'Artagnan lo mise al fatto e gl'indicò ove era la sig. Bonacieux. Laporte si assicurò per due volte dell'esattezza dell'indirizzo e partì correndo. Però, non appena ebbe fatti dieci passi che ritornò addietro. — Giovane, diss'egli a d'Artagnan; un consiglio. — Quale? — Voi potreste essere molestato per ciò che è accaduto. — Voi lo credete? — Sì, avete voi qualche amico che abbia il suo orologio a pendolo che vada tardi? — Ebbene! — Andatelo a ritrovare affinchè egli possa testimoniare che voi eravate da lui a nove ore e mezza. Con termine di tribunale questa si chiama un'_alibi_. D'Artagnan trovò il consiglio prudente; egli si mise le sue gambe in collo, e giunse presso il sig. de Tréville; ma invece di passare nel salotto con tutta la società, egli chiese di entrare nel suo gabinetto. Siccome d'Artagnan era uno fra quelli che più frequentavano il palazzo, non gli si fece alcuna difficoltà di arridere alla sua domanda, e si andò e prevenire il sig. de Tréville che il suo giovane compatriota, avendo qualche cosa d'importante da dirgli, chiedeva un'udienza particolare. Cinque minuti dopo, il sig. de Tréville domandò a d'Artagnan cosa poteva fare per servirlo, e qual cosa gli procurava una sua visita in un'ora così tarda. — Perdono, signore, disse d'Artagnan che aveva approfittato del momento in cui era rimasto solo per mandarne indietro l'orologio di tre quarti d'ora, ma io ho pensato che, non essendo che nove ore e venticinque minuti, fosse ancor tempo di potermi presentare da voi. — Nove ore e venticinque minuti? grido il signor de Tréville guardando il pendolo; ma questo è impossibile. — Guardate, piuttosto, signore, disse d'Artagnan, ecco là chi fa fede. — È giusto, disse il sig. de Tréville, io avrei creduto che fosse più tardi. Ma vediamo cosa volete dirmi? Allora d'Artagnan fece al signor de Tréville una lunga storia sulla regina. Gli espose i timori che egli avea concepiti in riguardo a Sua Maestà, gli raccontò ciò che egli aveva inteso dire dei progetti del ministro sul conto di Buckingham, e tutto ciò con una tranquillità ed una calma di cui il sig. de Tréville ne fu tanto meglio ingannato, in quanto che egli stesso, come abbiamo detto, aveva rimarcato esservi qualche disappunto nuovo fra il ministro, il re e la regina. Quando sonarono le dieci d'Artagnan lasciò il sig. de Tréville, che lo ringraziò delle sue informazioni, e gli raccomandò di aver sempre a cuore il servizio del re e della regina, e rientrò nel salone. Ma quando d'Artagnan si trovò in fondo alle scale si ricordò che aveva dimenticata la sua mazza; in conseguenza egli rimontò precipitosamente, rientrò nel gabinetto, con un giro di dito rimise il pendolo alla sua vera ora, affinchè nell'indomani non avessero ad accorgersi che era stato spostato, e sicuro oramai di avere un testimonio per provare il suo _alibi_, ridiscese la scala e si ritrovò ben presto sulla strada. CAPITOLO XI. L'INTRIGO SI ANNODA Fatta la sua visita al sig. de Tréville, d'Artagnan prese tutto pensieroso la strada più lunga per ritornarsene a casa. A che cosa pensava d'Artagnan, che in tal guisa si allontanava dalla sua strada guardando le stelle del cielo, ora sospirando ora ridendo? Egli pensava alla sig. Bonacieux. Per un alunno moschettiere, la giovane sposa era quasi un amoroso ideale. Bella, misteriosa, iniziata in quasi tutti i secreti della corte che riverberavano tanta graziosa gravità sugli affabili di lei lineamenti, era sospettata di non essere insensibile, cosa che forma un'attrattiva irresistibile per gli amanti novizi; di più, d'Artagnan l'aveva liberata dalle mani dei suoi demoni che volevano frugarla e maltrattarla, e questo importante servizio aveva stabilito fra lei e lui uno di quei sentimenti di riconoscenza che tanto più facilmente prendono un carattere più tenero. D'Artagnan si vedeva già, tanto i sogni camminano presto sulle ali della immaginazione! si vedeva già accostato da un messaggere della giovane sposa che gli rimetteva qualche biglietto di appuntamento, una catena d'oro, un diamante ec. Noi abbiamo detto che i giovani cavalieri ricevevano senza vergognarsi dei danari dai re, aggiungiamo che in quei tempi di corrotta morale, essi non avevano maggior vergogna sul conto delle loro amiche, e queste lasciavano lor sempre dei preziosi e durevoli ricordi, come se esse avessero tentato di conquistare la fragilità dei loro sentimenti colla solidità dei loro regali. Allora si faceva la sua carriera per mezzo delle donne senza arrossire. Quelle che non eran che belle, andavano superbe della loro bellezza, e di là veniva senza dubbio il proverbio: la più bella giovane riporta la palma e domina le volontà; quelle che erano ricche profondevano inoltre una parte del loro danaro, e si potrebbe citare un buon numero di eroi di quell'epoca galante che non avrebbero guadagnato nè i loro speroni in sulle prime, nè le loro battaglie in seguito, senza la borsa più o meno piena che la loro amica attaccava all'arcione della loro sella. D'Artagnan non possedeva niente, l'esitazione del provinciale, vernice leggera, fiore effimero, amo da pesca, si era evaporata al vento dei consigli poco ortodossi che i tre moschettieri davano al loro amico. D'Artagnan seguendo lo strano costume del tempo si riguardava a Parigi come in campagna, e ciò nè più ne meno che nelle Fiandre: lo Spagnuolo laggiù, la donna qui, dappertutto vi è un nemico da combattere, delle contribuzioni da cogliere. Ma diciamolo, in questo momento d'Artagnan era commosso da un sentimento più nobile e disinteressato. Il merciaio gli aveva detto che egli era ricco; il giovane aveva potuto indovinare che con uno sciocco, come il sig. Bonacieux, doveva essere la donna che doveva tenere la chiave della borsa. Ma tutto ciò non aveva influito niente sul sentimento prodotto dalla vista della signora Bonacieux, e l'interesse era rimasto quasi del tutto estraneo a questo principio d'amore che ne era stato la conseguenza. Noi diciamo quasi del tutto, perchè l'idea che una giovane bella, graziosa, spiritosa, e nello stesso tempo ricca, non toglie niente a questo principio di amore, anzi al contrario lo corrobora. Vi è nel bene stare una folla di premure e di capricci aristocratici che vanno d'accordo con la bellezza. Una calza fina e bianca, una veste di seta, uno sciallo di merletti, una bella scarpa al piede, un nastro nuovo sulla testa, non fanno bella una donna brutta, ma fanno più bella una donna bella; senza contare le mani che guadagnano in tutto questo, le mani, particolarmente nelle donne, hanno bisogno di restare oziose per restare belle. Quindi d'Artagnan, come lo sa benissimo il lettore al quale non abbiamo tenuto nascosto lo stato della sua fortuna, d'Artagnan non era milionario; egli sperava bene di divenirlo un giorno, ma il tempo che egli si prefiggeva da se stesso per questo felice cambiamento era molto lontano. Frattanto, quale disperazione di vedere una donna che si ama desiderare quei mille niente di cui le femmine compongono la loro felicità e di non poterle dare questi mille niente! almeno quando la donna è ricca e che l'amante non lo è, ciò che egli non può offrirle, ella se lo offre da se stessa, e quantunque ordinariamente sia col denaro del marito che ella si procura questi godimenti, è difficile che sia a lui che ne venga la riconoscenza. Quindi d'Artagnan, disposto ad essere l'amante più tenero, era frattanto l'amante più affezionato, in mezzo ai suoi progetti amorosi sulla moglie del merciaio, egli non dimenticava i suoi. La bella signora Bonacieux era donna da condurre al passeggio sulla spianata di S. Dionigi, o alla fiera di S. Germano in compagnia d'Athos, Porthos e di Aramis ai quali d'Artagnan sarebbe stato superbo di poter mostrare una tal conquista. Quando uno poi ha camminato lungamente, viene la fame; d'Artagnan da qualche tempo aveva fatto osservazione a questo. Si sarebbero fatti di quei piccoli pranzi graziosi in cui da una parte si tocca la mano all'amico e dall'altra il piede all'amica. Finalmente, nei momenti pressanti, nelle posizioni estreme, d'Artagnan sarebbe il salvatore dei suoi amici. E il signor Bonacieux, che d'Artagnan aveva spinto nelle mani degli sbirri rinnegandolo ad alta voce e promettendogli a bassa voce di salvarlo? noi dobbiamo confessare ai nostri lettori che d'Artagnan non vi pensava in alcun modo; e che se egli vi pensava era per dire che egli stava bene dov'era, qualunque fosse il luogo. L'amore è la più egoista di tutte le passioni. Frattanto i nostri lettori si assicurino che, se d'Artagnan dimentica il suo ospite, o fa sembianza di dimenticarlo sotto il pretesto che non sa ove lo hanno condotto, noi non lo dimentichiamo e noi sappiamo dove egli è. Ma pel momento facciamo come l'amoroso Guascone. In quanto al degno merciaio noi vi ritorneremo più tardi. D'Artagnan riflettendo ai suoi futuri amori ora parlando alla luna, ora sorridendo alle stelle, risaliva la strada di Cerca mezzogiorno o Caccia-mezzogiorno, come si chiamava allora. Quando egli si ritrovò nel quartiere di Aramis, gli venne idea di andare a fare una visita al suo amico per dargli qualche spiegazione sui motivi che gli aveva fatto inviare Planchet con l'invito di portarsi immediatamente alla trappola. Ora, se Aramis si era ritrovato in casa quando Planchet vi era venuto, egli era senza dubbio accorso alla strada Fossoyeurs, non trovandovi forse alcuno se non che i suoi compagni, non avevano dovuto sapere nè l'uno nè gli altri ciò che questo voleva dire. Questo incomodo adunque meritava una spiegazione; ecco ciò che diceva a se stesso d'Artagnan ad alta voce. Poi sotto voce diceva che per lui sarebbe stata una occasione di parlare della piccola e bella Bonacieux, di cui il suo spirito, se non il suo cuore ne era già tutto pieno. Non è sul conto di un primo amore che abbisogni di domandare secretezza. Questo primo amore è accompagnato da una gioia sì grande che bisogna che questa gioia straripi, senza di che ella vi soffocherebbe. Da più di due ore Parigi era tetro e cominciava ad essere deserto; cominciavano a suonare le undici ore a tutti gli orologi del sobborgo S. Germano, faceva un tempo dolce. D'Artagnan seguiva una stradella situata nel luogo ove in oggi passa la strada d'Assas; respirando le emanazioni imbalsamate che venivano col vento dalla strada di Vaugirard e che erano inviate dai giardini rinfrescati dalla rugiada della sera e dalla brezza della notte. Da lungi si risonavano, assorditi però da delle buone invetriate, i canti di alcune bettole, sparse nella pianura. Giunto all'estremità della stradella, d'Artagnan voltò a sinistra. La casa che abitava Aramis era posta fra la strada Cassette e la strada Servandoni. D'Artagnan aveva appena oltrepassata la strada Cassette e riconosceva già la porta della casa del suo amico, nascosta dalle foglie e dalle piante di sicomori e di clematidi che formavano un vasto tendinaggio dinanzi ad essa, allorquando si accorse che qualche cosa a guisa di un'ombra sortiva dalla strada Servandoni. Questo qualche cosa era avviluppata in un mantello, e d'Artagnan credè sulle prime che fosse un uomo; ma alla piccolezza della statura, all'incertezza del portamento, all'imbarazzo dei passi, egli riconobbe ben presto una donna, quasi che non fosse stata ben sicura della casa che cercava, alzava gli occhi per riconoscerla, si fermava, tornava addietro, poi ritornava ancora, D'Artagnan fu intrigato. — Se io andassi a offrire i miei servigi? pensò egli, dal suo andamento si vede che è giovane; forse sarà ancor bella. Oh! sì! Ma una donna che corre le strade a quest'ora, certamente non sorte che per andare a raggiungere il suo amante. Peste! se io andassi a disturbare un appuntamento, questo sarebbe un cattivo modo per entrare in relazione. Frattanto la donna si avanzava sempre, contando le case e le finestre. Che del resto non era cosa nè lunga nè difficile. Non v'erano che tre fabbricati in quella parte di strada e due sole finestre guardavano sulla strada. Una era gialla, di un padiglione parallelo a quello che occupava Aramis, l'altra era quella dello stesso Aramis. — Per bacco! disse a se stesso d'Artagnan, al quale ritornava al pensiero la nipote del filosofo; per bacco! sarebbe bella che questa colomba smarrita cercasse la casa del nostro amico. Ma sull'anima mia quella vi rassomiglia molto. Ah! mio caro Aramis, per questa volta io voglio averne il cuore pulito. E d'Artagnan si faceva più piccolo che poteva, si celava nella parte più oscura della strada, vicino ad un sedile di pietra situato nel fondo di una nicchia. La giovane donna continuò ad avanzarsi, giacchè oltre la leggerezza del suo camminare che l'aveva tradita, ella aveva fatto sentire una tosse leggiera che denunziava una delle voci le più fresche. D'Artagnan pensò che questa tosse fosse un segnale. Frattanto, sia che fosse stato risposto alla tosse con un segnale equivalente che aveva fissato le irresoluzioni della notturna cercatrice, sia che senza soccorso estraneo ella avesse riconosciuto che era giunta alla meta della sua corsa, ella si avvicinò risolutamente alla invetriata d'Aramis, e battè tre volte a intervalli uguali col dito ricurvato. — È precisamente all'alloggio d'Aramis, mormorò d'Artagnan. Ah! sig. ipocrita vi rivoglio a disputare di filosofia! Non appena erano stati dati tre colpi, che gli sportelli interni si aprirono, e che un lume comparve attraverso l'invetriata. — Ah! ah! fece l'osservatore, non per le porte, ma per le finestre, ah! ah! la visita era aspettata. Andiamo, l'invetriata si apre, e la dama entrerà con una scalata. Benissimo. Ma a gran meraviglia di d'Artagnan l'invetriata rimase schiusa. Di più, il lume che aveva rischiarato per un istante, disparve, e tutto rientrò nell'oscurità. D'Artagnan pensò che ciò non poteva durare così lungamente, e continuò a guardare con tutti i suoi occhi e ad ascoltare con tutte le sue orecchie. Egli aveva ragione; in capo a qualche secondo si fecero sentire due colpi nell'interno. La giovine dalla strada rispose con un sol colpo, e l'invetriata si apri d'alquanto. Si giudichi se d'Artagnan guardava ed ascoltava con avidità. Disgraziatamente il lume era stato trasportato in un altro appartamento. Ma gli occhi del giovane si erano abituati alla notte. D'altronde gli occhi dei Guasconi hanno, a quanto si assicura, come quelli dei gatti, la proprietà di vedere durante la notte. D'Artagnan vide adunque che la giovane cavava di saccoccia un oggetto bianco che ella spiegò vivamente e che prese la forma di un fazzoletto spiegato, e di questo oggetto ella ne fece rimarcare un angolo al suo interlocutore. Ciò richiamò al pensiero di d'Artagnan quel fazzoletto che aveva ritrovato ai piedi della signora Bonacieux, il quale gli aveva ricordato quello ai piedi di Aramis. Che diavolo poteva dunque significare quel fazzoletto? Posto dove era, d'Artagnan non poteva vedere il viso d'Aramis, noi diciamo Aramis perchè il giovine non metteva alcun dubbio che non fosse il suo amico che parlava dall'interno colla dama nell'esterno; la curiosità prevalse dunque sulla prudenza, e approfittando della preoccupazione nella quale sembrava che la vista del fazzoletto immergesse i due personaggi che abbiamo messo in scena, egli sortì dal suo nascondiglio, e lesto come il lampo, ma nascondendo il rumore dei suoi passi, egli andò a collocarsi a un angolo del muro, di dove il suo occhio poteva perfettamente penetrare nell'interno dell'appartamento d'Aramis. Giunto là, d'Artagnan per poco non mandò un grido di sorpresa; non era Aramis che parlava con la notturna visitatrice, ma un'altra donna. D'Artagnan ci vedeva abbastanza per riconoscere soltanto le forme dei vestiti, ma non a sufficienza per distinguere i lineamenti. Nel medesimo istante, la donna dell'appartamento cavò un secondo fazzoletto di saccoccia, e lo cambiò con quello che le era stato mostrato. Furono quindi pronunciate alcune parole fra le due donne, finalmente l'invetriata si chiuse, la donna che si trovava nell'esterno della finestra si voltò e venne a quattro passi da d'Artagnan abbassando il cappuccio del suo mantello, ma la precauzione era stata presa troppo tardi: d'Artagnan aveva già riconosciuta la signora Bonacieux. La sig. Bonacieux, il sospetto che avesse potuto essere essa gli era già passato per lo spirito quando si era cavato il fazzoletto di saccoccia; ma quale probabilità che la sig. Bonacieux, che aveva mandato a chiamare il signor Laporte per farsi ricondurre da lui al Louvre, corresse per le strade di Parigi sola a undici ore e mezzo di sera col pericolo di essere rapita una seconda volta? Bisogna adunque che ciò fosse per un affare di molta importanza. E quale affare importante può mai avere una donna di venticinque anni? l'amore. Ma, era per conto suo o per conto di un'altra persona che ella si esponeva in simili pericoli? Ecco ciò che il giovane si domandava a se stesso, chè il demonio della gelosia di già gli mordeva il cuore nè più nè meno, che ad un amante in titolo. Del resto vi era un mezzo ben semplice per assicurarsi ove andava la signora Bonacieux; questo era di seguirla. Questo mezzo era sì semplice, che d'Artagnan lo impiegò naturalmente per istinto. Ma alla vista del giovane che si staccava dal muro, come una statua dal suo nicchio, e al rumore dei passi che ella sentiva dietro di se, la signora Bonacieux gettò un piccolo grido e fuggì. D'Artagnan le corse dietro. Non era per lui una cosa difficile il raggiungere una donna imbarazzata nel suo mantello. Egli la raggiunse adunque a un terzo della strada in cui si era impegnata. La disgraziata era spossata, non dalla fatica, ma dal terrore, e quando d'Artagnan le posò la mano sulla spalla, ella cadde sopra un ginocchio, gridando con voce soffocata: — Uccidetemi se volete, ma voi non saprete niente. D'Artagnan la rialzò passandole un braccio intorno alla vita, ma siccome egli sentiva dal di lei peso che ella era sul punto di svenirsi, si affrettò a rassicurarla con proteste di attaccamento. Queste proteste non erano niente per la sig. Bonacieux, perchè simili proteste potevano ancora esser fatte colle più cattive intenzioni del mondo, ma la voce era il tutto. La giovane sposa credè riconoscere il suono di questa voce; ella riaprì gli occhi gettò uno sguardo sull'uomo che le aveva fatta una sì gran paura, e riconoscendo d'Artagnan, ella mandò un grido di gioia. — Oh! siete voi, siete voi, diss'ella; grazie, mio Dio! — Sì, sono io, disse d'Artagnan, io, che Dio ha inviato per vegliare su voi. — Era con questa intenzione che mi seguivate? domandò con un sorriso pieno di civetteria la giovane il di cui carattere alquanto faceto riprendeva il disopra, e presso la quale erano scomparsi tutti i timori dal momento che avea riconosciuto un amico in quello che ella avea creduto un nemico. — No, disse d'Artagnan; no, io lo confesso, non fu che il caso che mi pose sulla vostra strada; io ho veduto una donna battere alla finestra di uno dei miei amici.... — Di uno dei vostri amici? interruppe la signora Bonacieux. — Senza dubbio, Aramis è uno dei miei migliori amici. — Aramis? e chi è costui? — Andiamo via! ora mi direte che voi non conoscete Aramis? — Questa è la prima volta che sento pronunciare il suo nome. — È dunque la prima volta che voi venite in questa casa? — Senza dubbio. — E voi non sapevate che ella fosse abitata da un giovanotto? — No. — Da un moschettiere? — Nemmeno. — Non siete dunque venuta per cercar lui? — No, menomamente. D'altronde voi lo avete ben veduto: la persona con la quale io ho parlato era una donna. — È vero; ma questa donna è un amica di Aramis? — Io non ne so niente. — Dal momento che alloggia in casa sua! — Ciò non mi riguarda. — Ma chi è ella? — Oh! questo non è mio segreto. — Cara signora Bonacieux, voi siete graziosa, ma nello stesso tempo voi siete la donna più misteriosa... — Forse ci perdo con questo? — No, voi anzi siete adorabile. — Allora datemi il vostro braccio. — Ben volentieri: e ora? — Ora conducetemi. — E dove? — Dove vado. — Ma dove andate voi? — Voi lo vedrete, poichè mi lascerete alla porta.. — Sarà necessario che vi aspetti? — No, sarà inutile. — Voi ritornate dunque sola? — Forse sì forse no. — Ma la persona che vi accompagnerà al ritorno sarà ella un uomo, o una donna? — Io non ne so ancora niente. — Lo saprò ben io! — In che modo? — Io vi aspetterò per vedervi sortire. — In questo caso addio! — Come sarebbe a dire? — Io non ho più bisogno di voi. — Ma voi avevate reclamato... — L'aiuto di un gentiluomo, e non la sorveglianza di una spia. — La parola è un poco dura? — Come si chiamano quelle persone che tengon dietro alla gente loro malgrado? — Indiscreti. — La parola è troppo dolce. — Andiamo, signora, io vedo bene che bisogna fare a modo vostro. — Perchè vi siete privato del merito di farlo subito? — E che! non vi è nessun merito nel pentirsi? — Ma vi pentite realmente? — Non ne so niente io stesso. Ma ciò che io so, si è che vi prometto di fare tutto ciò che vorrete, se voi lasciate che vi accompagni fin dove andate. — E voi dopo mi lascerete? — Sì. — Senza spiare la mia sortita. — No. — Parola d'onore! — Fede da gentiluomo! — Prendete il mio braccio allora e andiamo. D'Artagnan offrì il suo braccio alla signora Bonacieux, che vi si sospese per metà ridente, e per metà tremante, e tutti e due raggiunsero l'estremità della strada Arpa. Giunti là, la giovane parve esitare, come aveva già fatto nella strada Vaugirard. Però a certi segni ella sembrò ravvisare una porta, e avvicinandosi a questa porta: — Ora, signore, diss'ella, è qui, che ho le mie faccende; mille grazie della vostra onorevole compagnia, che mi ha salvato da tutti i pericoli ai quali sarei stata esposta, se fossi stata sola; ora è il momento di mantenere la vostra parola. Io sono arrivata alla mia destinazione. — E voi non avrete più niente a temere al ritorno? — Io non avrò a temere che i ladri. — Questi sono pure qualche cosa. — Che mi potrebbero prendere? non ho meco un soldo. — Voi dimenticate questo bel fazzoletto ricamato con lo stemma... — Quale? — Quello che ho ritrovato ai vostri piedi, e che ho rimesso nella vostra tasca. — Tacete! tacete disgraziato! gridò la giovane; volete voi perdermi? — Voi vedete bene che vi è dunque ancora qualche pericolo per voi, poichè una sola parola vi fa tremare, e che voi confessate che sareste perduta se si sentisse questa parola. Ah! sentite, signora, continuò d'Artagnan afferrandole la mano e cuoprendola con un ardente bacio, sentite, siate più generosa, confidatevi in me; non avete dunque letto che nei miei occhi non vi è che affezione, e nel mio cuore che simpatia? — Sia pure, rispose la signora Bonacieux, così, domandatemi i miei secreti, che io ve li dirò; ma quelli degli altri è un'altra cosa. — Sta bene, disse d'Artagnan gli scoprirò; poichè questi secreti possono avere un'influenza sulla vostra vita, bisogna che questi secreti diventino i miei. — Guardatevene bene! gridò la giovane con una serietà, che fece rabbrividire d'Artagnan suo malgrado. Oh! non vi mischiate in niente di ciò che mi riguarda, non cercate di aiutarmi in ciò che io compio, e questo ve lo domando in nome dell'interesse che v'inspiro in nome del servizio, che mi avete reso, e che io non dimenticherò in tutta la mia vita. Credete bene piuttosto a ciò che io vi dico. Non vi occupate più di me, che io non esista più per voi, e questo sia, come se voi non mi aveste mai veduta. — Aramis dovrà egli fare altrettanto che me, signora? disse d'Artagnan. — Ecco già due o tre volte, che voi avete pronunciato questo nome, signore; eppure vi ho detto che io non lo conosco. — Voi non conoscete l'uomo alla finestra del quale siete andata a battere? su via, signora, non mi crediate poi troppo credulo! — Confessate che è per farmi parlare, che voi inventate questa storia, e che voi create questo personaggio? — Io non ho inventato niente, signora, io non ho detto che la pura verità. — E voi dite che uno dei vostri amici abita in quella casa? — Io lo dico, ed io lo ripeto per la terza volta: quella casa è quella che abita un mio amico, e questo mio amico si chiama Aramis. — Tutto ciò si schiarirà più tardi, mormorò la giovane donna; ora signore, tacete. — Se voi poteste vedere tutto il mio cuore allo scoperto, disse d'Artagnan, voi vi leggereste tanta curiosità, che avreste pietà di me, e tanto amore che voi soddisfareste sull'istante alla mia curiosità. Non vi ha niente da temere da coloro che vi amano. — Voi parlate ben presto d'amore, signore, disse la giovane sposa scuotendo la testa. — Egli è che l'amore mi è venuto presto e per la prima volta, e sì che io non ho ancora vent'anni. La giovane sposa lo guardò di sott'occhio. — Ascoltate, io sono già sulla traccia, riprese d'Artagnan. Sono tre mesi da che poco mancò che non avessi un duello con Aramis per un fazzoletto simile a quello che voi avete mostrato a quella signora che era nella di lui casa, per un fazzoletto marcato nello stesso modo, io ne sono sicuro. — Signore, disse la giovane, voi mi affaticate molto, io ve lo giuro, con queste interrogazioni. — Ma voi, così prudente, signora, pensateci: se voi foste arrestata con questo fazzoletto e che questo fazzoletto vi fosse preso, non sareste voi compromessa? — E perchè? le iniziali non sono le mie? C. B. Costanza Bonacieux? — Ovvero Camilla Tracy. — Silenzio, signore, anche una volta, silenzio! Ah poichè il pericolo che io corro per me stessa non vi trattiene, pensate a quello che voi potreste incorrere. — Io? — Sì voi. Vi è pericolo di prigione, vi è pericolo di vita a conoscermi. — Allora io non vi lascio più. — Signore, disse la giovane sposa supplicante e giungendo le mani, signore, in nome del cielo, in nome dell'onore di un militare, in nome della cortesia di un gentiluomo, allontanatevi; sentite, ecco che suona mezzanotte, questa è l'ora in cui sono aspettata. — Signora, disse il giovane inchinandosi, io non so negar niente quando mi viene chiesto in tal modo; siate contenta, io mi allontano. — Ma voi non mi seguirete, voi non mi spierete? — Io rientro in casa mia sull'istante. — Ah! io lo sapeva bene che voi eravate un bravo giovane, gridò la signora Bonacieux, stendendo a lui una mano e posando l'altra sul martello di una piccola porta nascosta nel muro. D'Artagnan afferrò la mano che gli veniva stesa e la baciò ardentemente. — Ah! io amerei meglio di non avervi mai veduta! gridò d'Artagnan con quell'ingenua brutalità che spesso le donne preferiscono alle affettazioni di galanteria perchè scuoprono il fondo del pensiero, e perchè esse provano che il sentimento supera la ragione. — Ebbene, riprese la signora Bonacieux con una voce quasi accarezzante e stringendo la mano di d'Artagnan che non aveva abbandonata la sua, ebbene io non dirò altrettanto che voi: ciò che oggi è perduto, non è perduto per l'avvenire. Chi sa se quando sarò sciolta un giorno, io non potrò soddisfare la vostra curiosità? — E fate voi la stessa promessa al mio amore? gridò d'Artagnan al colmo della gioia — Oh! per questo lato io non voglio impegnarmi, ciò dipenderà dai sentimenti che voi saprete inspirarmi. — Così ora, signora...? — Ora, signore, non sono ancora se non che riconoscente. — Ah! voi siete troppo graziosa, disse d'Artagnan con tristezza, e voi vi abusate del mio amore. — No, io uso della vostra generosità e nulla più. Ma, credetemi bene, con certa gente tutto è trovato. — Ah! voi mi rendete il più felice dei mortali, non dimenticate questa promessa! — Siate tranquillo, e a tempo e a luogo io mi risovverrò di tutto. Ebbene! partite dunque, partite in nome del Cielo! Mi si aspettava a mezzanotte precisa, ed io sono già in ritardo. — Di cinque minuti. — Sì, ma in alcune circostanze cinque minuti sono cinque secoli. — Quando si ama... — Ebbene! chi vi dice che io non ho a che fare con un innamorato? — È un uomo che vi aspetta! gridò d'Artagnan, un uomo! — Andiamo, ecco la discussione che incomincia, fece la signora Bonacieux con un mezzo sorriso che non era esente da una certa tinta d'impazienza. — No, no, io me ne vado, io parto; io credo in voi, io voglio avere tutto il merito del mio attaccamento, dovesse anche essere questo attaccamento una stupidità. Addio! signora, addio! E come se egli non si fosse sentito la forza di staccarsi dalla mano che sempre riteneva, se non che per mezzo di una scossa, egli si allontanò correndo, nel mentre che la signora Bonacieux batteva al martello tre colpi lenti e regolari; quindi giunto all'angolo della strada si rivoltò, e la porta si era di già aperta e richiusa. La giovane merciaia era scomparsa. D'Artagnan continuò il suo cammino; egli aveva data la sua parola di non spiare la signora Bonacieux, e la sua vita foss'anche dipesa dal luogo ove ella si era portata o dalla persona che doveva accompagnarla, d'Artagnan sarebbe egualmente rientrato in casa sua; e poichè egli aveva detto di ritornarvi, cinque minuti dopo egli era nella strada Fossoyeurs. — Povero Athos, diceva egli, non saprà quello che vuol dir ciò. Egli si sarà addormentato aspettandomi, o sarà ritornato in casa sua, e nel rientrare avrà saputo che vi era stata una donna. Una donna nella camera di Athos! veramente; continuò d'Artagnan, ve n'è ancora una in casa d'Aramis; tutto ciò è molto strano, e io sarei ben curioso di sapere come andrà a finire. — Male, signore, male, rispose una voce che il giovane riconobbe per quella di Planchet, poichè parlando da se solo ad alta voce, e nel modo delle persone molto preoccupate, era entrato nel corridoio, nel fondo del quale era la scala che conduceva nella sua camera. — Come, male! che vuoi tu dire, imbecille? domandò d'Artagnan, e che cosa è dunque accaduto? — Ogni sorta di disgrazie. — Quali? — Prima di tutto il signor Athos è stato arrestato. — Arrestato! Athos arrestato! perchè? — Fu ritrovato qui da voi; e fu preso per voi. — E da chi è stato arrestato? — Dalle guardie che andarono a chiamare gli uomini neri che avete messi in fuga. — E perchè non ha egli detto il suo nome? perchè non ha egli detto di essere estraneo a tutto questo affare? eh? — Egli se ne è ben guardato, signore; anzi egli si è avvicinato a me e mi ha detto: « — Il tuo padrone ha bisogno della sua libertà in questo momento e non io, poichè egli sa tutto, ed io non so niente. Lo si crederà arrestato, e ciò gli darà del tempo; fra tre giorni io dirò chi sono, e bisognerà bene che mi facciano sortire.» — Bravo Athos! cuore nobile, mormorò d'Artagnan, io lo riconosco bene da ciò! e che cosa hanno fatto gli sbirri? — Quattro lo hanno condotto via, non so bene se alla Bastiglia, o al Forte il Vescovo; due sono rimasti con gli uomini neri che hanno frugato da per tutto e che hanno preso tutte le carte. Finalmente li due ultimi, durante questa spedizione, montavano la guardia alla porta, quindi, quando tutto è stato finito, essi sono partiti, lasciando la casa vuota, e tutto aperto. — E Porthos? e Aramis? — Io non li ho trovati, essi non son venuti. — Ma essi possono venire da un momento all'altro, perchè tu gli hai lasciato detto che io li aspettava? — Sì, signore. — Ebbene! non muoverti di qui; se essi vengono previenli di quanto mi è accaduto, e che mi aspettino all'osteria della Pigna; qui vi sarebbe del pericolo a rimanere, la casa può essere spiata. Io corro dal signor de Tréville per metterlo a parte di tutto, quindi li raggiungerò. — Sta bene, signore, disse Planchet. — Ma resterai tu? non avrai paura? disse d'Artagnan ritornando indietro per raccomandare il coraggio al suo lacchè. — Siate tranquillo, signore, disse Planchet, voi non mi conoscete ancora; quando mi ci metto, sono bravo; andate, il tutto sta che io mi ci metta: d'altronde io son Piccardo. — Allora tutto è combinato, disse d'Artagnan; tu ti farai piuttosto uccidere che lasciare il tuo posto. — Sì, signore, non v'è niente che io non sia disposto a fare per provarvi il mio attaccamento. — Buono, disse fra se stesso d'Artagnan; sembra che il metodo che io ho adoprato con questo giovane sia veramente il migliore: io ne userò ogni qualvolta se ne presenti l'occasione. E con tutta la sveltezza delle sue gambe, di già alcun poco affaticate per le corse della giornata, d'Artagnan si diresse verso la strada del Colombaio. Il sig. de Tréville non era nel suo palazzo; la sua compagnia era di guardia al Louvre; egli era al Louvre con la sua compagnia. — Gli abbisognava di giungere fino al Sig. de Tréville; era necessario che fosse prevenuto di tutto ciò che accadeva. D'Artagnan risolvette di tentare l'entrata al Louvre. Il suo uniforme di guardia nella compagnia del sig. des Essarts gli doveva essere il suo passaporto. Discese dunque la strada dei Piccoli-Agostiniani e rimontò la riviera per passare il Ponte-nuovo. Per un momento aveva avuta l'idea di passare con la barca; ma giungendo alla riva del fiume, aveva macchinalmente introdotta la sua mano in saccoccia, e si era accorto di non aver di che pagare il passatore. Mentre giungeva all'altezza della strada Guénégaud, vide sboccare dalla strada Delfino un gruppo composto di due persone il di cui andamento lo colpì. Le due persone che componevano il gruppo erano un uomo ed una donna. La donna aveva la statura della sig. Bonacieux e l'uomo rassomigliava moltissimo al sig. Aramis. Inoltre la donna aveva quel mantello nero che d'Artagnan vedeva ancora disegnarsi davanti alla finestra della strada Vaugirard, e sopra la porta della strada d'Arpa. Di più, l'uomo portava l'uniforme dei moschettieri. Il cappuccio della donna era calato avanti agli occhi, l'uomo teneva il suo fazzoletto avanti il viso; entrambi, questa doppia precauzione lo indicava, entrambi avevano dunque interesse a non essere conosciuti. Essi presero il ponte; questa era la strada di d'Artagnan, e poichè d'Artagnan si portava al Louvre, li seguì. D'Artagnan non aveva fatto venti passi che fu convinto che questa donna era la sig. Bonacieux e che quest'uomo era Aramis. Egli sentì nel medesimo istante tutti i sospetti della gelosia agitarsi nel suo onore. Egli era doppiamente tradito, e dal suo amico, e da quella che egli di già amava come sua amica. La sig. Bonacieux gli aveva giurato formalmente che non conosceva Aramis, e un quarto d'ora dopo che gli avea fatto questo giuramento ella la ritrovava sotto il braccio di Aramis! D'Artagnan non riflettè solamente che egli conosceva la bella da tre ore appena, che egli non gli doveva che un poco di riconoscenza, per averla liberata dagli uomini neri che volevano rapirla, e che ella non aveva promesso niente; Egli si considerò come amante oltraggiato, tradito, deriso; il sangue e la collera gli salirono al viso; egli risolse di schiarire tutto. La coppia che camminava innanzi erasi accorta di esser seguita, ed essi avevano raddoppiato il passo. D'Artagnan prese la corsa al momento che si ritrovarono avanti la Samaritana illuminata da un fanale che proiettava la sua luce sopra tutta questa parte di ponte. D'Artagnan si fermò davanti a loro, essi si fermarono davanti a lui. — Che volete voi, signore? domandò il moschettiere addietrando di un passo e con uno accento straniero che provava a d'Artagnan che egli erasi ingannato in una parte delle sue congetture. — Non è Aramis! gridò egli. — No, signore, non è Aramis, e alla vostra esclamazione io vedo che voi mi avete preso per un altro, e vi perdono. — Voi mi perdonate! gridò d'Artagnan. — Sì, rispose lo sconosciuto. Lasciatemi dunque passare, poichè voi non l'avete meco. — Voi avete ragione, signore, disse d'Artagnan, io non l'ho con voi ma con la signora. — Colla signora! voi non la conoscete, disse lo straniero. — Voi vi sbagliate, signore, io la conosco. — Ah! fece la signora Bonacieux con un tuono di rimprovero; ah! signore io aveva la vostra parola da militare e la vostra fede da gentiluomo: sperava di poterci contar sopra. — Ed io signora.... disse d'Artagnan imbarazzato, voi mi avevate promesso... — Prendete il mio braccio signora, disse lo straniero, e continuiamo la nostra strada. Frattanto d'Artagnan stordito, atterrato, annientato per tutto ciò che gli accadeva, restava ritto colle braccia incrociate davanti al moschettiere ed alla signora Bonacieux. Il moschettiere fece due passi in avanti e allontanò con la mano d'Artagnan. D'Artagnan fece un salto in addietro e cavò fuori la sua spada. Nello stesso tempo, e colla rapidità del lampo, lo sconosciuto cavò fuori la sua. — In nome del cielo! milord, gridò la sig. Bonacieux gettandosi in mezzo ai combattenti e prendendo le spade a piene mani. — Milord! gridò d'Artagnan illuminato da una subitanea idea; milord! perdono, signore, ma sapeva io forse che voi eravate...? milord, signora, perdono, cento volte perdono; ma io l'amava, milord, io era geloso; voi sapete che cosa è amare, milord; perdonatemi, e ditemi come posso farmi ammazzare per la vostra grazia. — Voi siete un bravo giovane, disse Buckingham stendendo la mano a d'Artagnan che questi strinse rispettosamente; voi mi offrile i vostri servigi, io gli accetto; seguiteci a venti passi di distanza fino al Louvre e se qualcuno ci spia, uccidetelo! D'Artagnan mise la sua spada sotto il braccio, lasciò prendere alla sig. Bonacieux e al duca il vantaggio di venti passi, e li seguì, pronto ad eseguire alla lettera le istruzioni del nobile ed elegante ministro di Carlo I. Ma fortunatamente il giovane di scorta non ebbe alcuna occasione di dare al duca questa pruova della sua devozione, e la giovine sposa e il moschettiere entrarono al Louvre, per la porta secreta, senza essere inquietati da alcuno. In quanto a d'Artagnan egli si portò subito all'osteria della Pigna, ove trovò subito Porthos e Aramis che lo aspettavano. Ma, senza dar loro spiegazione sull'incomodo che loro aveva cagionato, disse che aveva terminato il suo affare pel quale egli aveva un istante creduto di aver bisogno del loro intervento. E ora, trasportati come noi siamo dal nostro racconto, lasciamo i nostri tre amici ritornare ognuno alle proprie abitazioni, e seguiamo nei laberinti del Louvre il duca di Buckingham e la sua guida. CAPITOLO XII. GIORGIO WILLIERS DUCA DI BUCKINGHAM La signora Bonacieux e il duca entrarono al Louvre senza difficoltà; la sig. Bonacieux era conosciuta per essere al servizio della regina: il duca portava l'uniforme dei moschettieri del sig. de Tréville, che, come abbiamo detto, erano di guardia in quella sera. D'altronde Germano era negli interessi della regina, e se accadeva qualche cosa, la sig. Bonacieux sarebbe stata accusata di avere introdotto il suo amante al Louvre, ecco tutto; ella prendeva sopra di se la colpa, la sua riputazione sarebbe stata perduta è vero; ma di una piccola merciaia? Una volta entrati nell'interno della corte il duca e la giovane seguirono il piede del muro per lo spazio di circa venticinque passi; percorso questo spazio la sig. Bonacieux spinse una piccola porta di servizio, che il giorno stava aperta, ma che ordinariamente si chiudeva nella notte; la porta cedè; entrambi si introdussero e si trovarono nella oscurità, ma la sig. Bonacieux conosceva tutti i giri e rigiri di questa parte del Louvre, destinata alla bassa corte. Ella chiuse le porta dietro di se, prese il duca per la mano, fece qualche passo a tastone afferrò una bronca della scala, toccò con un piede il primo scalino, e cominciò a salire; il duca contò due piani. Allora ella prese a destra, seguì un lungo corridoio, tornò a discendere un piano, fece qualche passo ancora, introdusse una chiave nella serratura, aprì una porta e spinse il duca in un appartamento illuminato soltanto da una lampada da notte, dicendogli: — Restate qui, milord duca, fra poco verrà. Quindi ella sortì per la medesima porta, che chiuse a doppio giro, dimodochè il duca si trovò prigioniero alla lettera. Però, quantunque si trovasse isolato, bisogna dirlo, il duca di Buckingham non provò un'istante di timore; una delle parti caratteristiche del suo naturale era la ricerca delle avventure e l'amore da romanzo. Coraggioso, ardito, intraprendente non era la prima volta che arrischiava la sua vita in simili tentativi; egli avea saputo che questo preteso messaggio della regina, sulla fede del quale egli era venuto a Parigi, era un laccio, e invece di ritornarsene in Inghilterra, abusando della posizione in cui era stato messo, aveva dichiarato alla regina che egli non partirebbe senza averla prima veduta. Sulle prime la regina aveva positivamente ricusato, quindi finalmente aveva temuto che il duca, esasperato, non facesse qualche follia. Ella si era già decisa a riceverlo e a supplicarlo di partire subito, allorchè, la stessa sera della decisione, la signora Bonacieux, che era stata incaricata di andare a cercare il duca e condurlo al Louvre, fu rapita. Per due giorni si ignorò affatto ciò che fosse accaduto di lei, e tutto rimase sospeso. Ma una volta libera, una volta rimessa in rapporto con la corte, le cose avevano preso un altro corso, ed ella eseguiva la perigliosa intrapresa che senza il suo arresto, ella avrebbe compiuta tre giorni prima. Buckingham, rimasto solo, si avvicinò ad uno specchio. Quell'abito da moschettiere gli andava a meraviglia. A trentacinque anni, che egli aveva allora, egli passava a giusto titolo per il più bel gentiluomo e per il più elegante cavaliere di Francia e d'Inghilterra. Favorito da due re, ricco di milioni, che tutto poteva in un regno che egli sconvolgeva a suo capriccio o calmava a sua fantasia, Giorgio Williers, duca di Buckingham aveva intrapresa una di quelle esistenze favolose che rimangono nei corso dei secoli come una meraviglia per la posterità. Così, sicuro di se stesso, convinto della sua possanza, certo che non potevano colpirlo le leggi che reggono gli altri uomini, andava dritto alla meta che si era prefisso, fosse pure stata questa meta così elevata e così risplendente che sarebbe stato follia per un altro il sognarlo soltanto. Fu così che egli giunse ad avvicinarsi diverse volte alla bella ed orgogliosa regina di Francia, a forza d'abbagliare. Giorgio Williers si pose adunque avanti di uno specchio, come lo abbiamo detto, rese alla sua bella capigliatura bionda le ondulazioni che il peso del suo cappello le avevano fatto perdere, arricciò i suoi baffi, e col cuore gonfio di gioia, felice, e sapendo di toccare un momento che egli aveva desiderato sì lungamente sorrise a se stesso d'orgoglio e di speranza. In questo momento una porta nascosta dalla tappezzeria si aprì, e comparve una donna. Buckingham vide questa apparizione nello specchio, gettò un grido; era la regina! La regina aveva allora ventisei o ventisette anni, vale a dire che ella si ritrovava in tutto lo splendore della bellezza. Il suo andamento era veramente quello di una regina, o meglio ancora di una dea; i suoi occhi, che gettavano dei riflessi di smeraldo, erano perfettamente belli e pieni ad un tempo di dolcezza e di maestà; la sua bocca era piccola e vermiglia, e quantunque il suo labbro inferiore avanzasse leggermente sull'altro, ella era eminentemente graziosa nel sorriso ma altrettanto profondamente sdegnosa nel disprezzo. La sua pelle era citata per la sua bianchezza e pel suo vellutato, la sua mano e le sue braccia erano di una bellezza sorprendente, e tutti i poeti dell'epoca le decantavano come incomparabili. Finalmente i suoi capelli, che, di biondi che erano nella sua gioventù, erano diventati castagni, e che ella portava arricciati e aspersi di molta polvere, contornavano ammirabilmente il suo viso, al quale la censura più rigida non avrebbe potuto augurare che un poco meno di rosso, e i più esigenti desiderare un poco più di affilatezza nel naso. Buckingham rimase per un istante abbagliato; giammai la regina gli era sembrata più bella in mezzo ai balli, alle feste ed ai tornei, di quello che gli apparve in quel momento, vestita con una semplice stoffa bianca; e accompagnata da donna Stefania, la sola delle cameriere spagnuole che non fosse stata scacciata dalla gelosia del re, o dalle persecuzioni di Richelieu. Anna fece due passi in avanti: Buckingham si precipitò ai suoi ginocchi, e primachè la regina avesse potuto impedirlo, le baciò l'estremità della sua veste. — Duca, voi sapete di già che non sono stata io che vi ho fatto qui venire. — Oh! sì, signora, sì, Vostra Maestà, gridò il duca; io so che sono stato un pazzo, un insensato a credere che la neve potesse riscaldarsi, che il marmo potesse animarsi; ma che volete! quando si ama, si crede facilmente all'amore, d'altronde io non ho perduto tutto in questo viaggio poichè vi vedo. — Sì, rispose Anna, ma voi sapete perchè e come io vi vedo, milord. Io vi vedo per pietà di voi stesso, io vi vedo perchè, insensibile voi a tutte le mie pene, vi siete ostinato a rimanere in una città ove, rimanendo, correte rischio della vita, e a me fate correr rischio del mio onore; io vi vedo per dirvi che tutto ci separa, la profondità del mare, l'inimicizia dei regni, la santità dei giuramenti. Il lottare contro tante cose è un sacrilegio, milord. Io vi vedo infine per dirvi che è indispensabile che noi non ci vediamo più. — Parlate, signora, parlate regina, disse Buckingham, la dolcezza della vostra voce cuopre la durezza delle vostre parole. — Milord, disse la regina, voi non potete rimproverare il mio modo di parlarvi; voi dimenticate che io non vi ho mai detto che vi amava. — Ma voi non mi avete neppur detto mai che non mi amavate, e veramente il dirmi simili parole, sarebbe stato per parte di Vostra Maestà, una troppo grande ingratitudine. Poichè, ditemi, ove troverete un amore eguale al mio, un amore che nè il tempo nè la lontananza nè la disperazione possono estinguere, un amore che si contenta di un nastro perduto, di uno sguardo smarrito, di una parola sfuggita? Sono tre anni, signora, che vi ho veduta per la prima volta, e dopo tre anni io vi amo egualmente. Volete voi che io vi dica come eravate vestita la prima volta che vi vidi? volete voi che io vi dettagli tutti gli ornamenti della vostra toeletta? Ascoltate; io vi vedo ancora: voi eravate seduta sopra un dado, alla moda di Spagna, avevate una stoffa di seta verde broccata d'oro e d'argento, colle maniche pendenti e riannodate sulle belle vostre braccia, su quelle braccia ammirabili, con grossi diamanti; voi avevate un collare increspato e chiuso, un piccolo _bonetto_ sulla vostra testa, del colore della vostra veste, e sopra questo bonetto una piuma d'airone. Oh sentite, sentite, io chiudo gli occhi e vi vedo tale quale eravate allora; io li riapro e vi vedo tale quale siete adesso, vale a dire cento volte più bella ancora! — Quali follie! mormorò Anna, che non aveva il coraggio di irritarsi col duca per avere così bene conservato il suo ritratto nel di lui cuore; quale follia di nutrire una passione inutile con simili rimembranze. — E con che volete voi dunque che io viva? Io non ho che delle rimembranze. Queste sono la mia felicità, il mio tesoro, la mia speranza. Ciascheduna volta che vi vedo, è un diamante di più che io racchiudo nello scrigno del mio cuore. Questo è il quarto che voi lasciate cadere e che io raccolgo. Poichè in tre anni, signora, non vi ho veduta che quattro volte; questa prima che vi diceva, la seconda in casa della sig. Chevreuse, la terza nei giardini d'Amiens... — Duca, disse la regina arrossendo, non parlate di quella serata. — Oh! parliamone, al contrario, signora, parliamone: è la serata felice e raggiante della mia vita. Vi ricordate voi la bella notte che faceva? come l'aria era dolce e profumata? come il cielo era azzurro e smaltato di stelle? ah! quella volta, signora, potei rimanere un istante con voi; quella volta eravate disposta a dirmi tutto, l'isolamento della vostra vita, le afflizioni del vostro cuore. Voi eravate appoggiata al mio braccio; guardate, a questo qui. Abbassando la mia testa dalla vostra parte, io sentiva i vostri bei capelli sfiorare il mio viso, ed ogni volta che essi lo sfioravano, io rabbrividiva dalla testa ai piedi. Oh! regina! oh! voi non sapete tutto ciò che vi ha di felicità e di gioia racchiuso in un simile supremo momento! I miei beni, la mia fortuna, la mia gloria, tutti i giorni che mi restano a vivere io li darei per un simile istante, per una simile notte; poichè quella notte, signora, quella notte voi mi amavate, io ve lo giuro. — Milord, è possibile, sì, che l'influenza del luogo, che le attrattive di quella bella sera, che l'affascinazione del vostro sguardo, che quelle mille circostanze, in fine, che qualche volta si riuniscono per perdere una donna, si sieno raggruppate intorno a me in quella sera fatale; ma voi lo avete veduto, milord, la regina è venuta in soccorso della donna indebolita; alla prima parola che voi avete osato di dire, alla prima arditezza alla quale io ho dovuto rispondere, io ho chiamato. — Oh! sì, sì, è vero, e un altro amore fuori del mio si sarebbe infranto e questa pruova; ma il mio amore ne è sortito più ardente e più eterno. Voi avete creduto di fuggirmi ritornando a Parigi, voi avete creduto che io non oserei lasciare il tesoro che dal mio sire sono stato incaricato di custodire. Ah! che importano a me tutti i tesori del mondo, e tutti i re della terra! otto giorni dopo io era di ritorno, o signora. Quella volta voi non avevate niente a dirmi: io aveva arrischiato il mio favore, la mia vita per vedervi un secondo, io non ho neppure toccata la vostra mano, e voi mi avete perdonato vedendomi così sottomesso e così pentito. — Sì, ma la calunnia si è impadronita di tutte queste follie, nelle quali io non aveva parte, voi lo sapete bene, milord. Il re, eccitato dal ministro, ha fatto un rumore terribile; la signora di Vernet fu scacciata; Putange fu esiliato; la signora Chevreuse cadde in disfavore; e allorchè voi avete voluto ritornare come ambasciadore in Francia, il re stesso, sovvenitevene milord, il re stesso si è opposto. — Sì, e la Francia pagherà con una guerra il rifiuto del suo re. Io non posso più vedervi, signora? ebbene! io voglio che ciascun giorno voi sentiate a parlare di me. Che scopo credete voi che abbia avuta questa spedizione e questa lega coi protestanti della Rochelle che io progetto? il piacere di vedervi. Io non ho la speranza di penetrare a mano armata fino a Parigi, lo so bene, ma questa guerra potrà fruttare una pace; a questa pace necessiterà un negoziatore; questo negoziatore sarò io. Non si oserà più di rifiutarmi allora, e io ritornerò a Parigi, e vi rivedrò, e sarò felice un istante. Migliaia d'uomini, è vero, avranno pagato la mia felicità colla loro vita, ma che importa a me purchè vi riveda? tutto questo è forse da insensato; ma, ditemi qual donna ha avuto un amante più innamorato? qual regina ha avuto un servitore più ardente? — Milord, milord! voi invocate a vostra difesa cose che ancor più vi accusano; milord tutte queste prove d'amore, che volete darmi, sono altrettanti delitti. — Perchè voi non mi amate, signora; se voi mi amaste, vedreste tutto ciò bene altrimenti; sarebbe per me troppo grande felicità, e io ne diventerei pazzo. Ah! la signora de Chevreuse è stata meno crudele di voi. Halland l'amò, ed ella corrispose al suo amore. — La signora de Chevreuse non era regina, mormorò Anna, vinta a suo malgrado dall'espressione di un amore così profondo. — Voi mi amereste dunque se non la foste, signora? dite, voi mi amereste dunque? posso dunque credere che è la dignità sola del vostro rango che vi fa crudele verso di me? posso adunque credere che se voi foste stata la sig. de Chevreuse, il povero Buckingham avrebbe potuto sperare? grazie di queste dolci parole, oh! mia bella Maestà, cento volte grazie! — Ah! milord, voi avete inteso male, male interpretato, io non ho voluto dire... — Silenzio! silenzio! disse il duca; se io sono felice di un errore, non abbiate la crudeltà di togliermelo. Voi lo avete detto, voi stessa, io sono attirato in un laccio, io vi lascerò forse la vita, poichè, osservate, è strano, da qualche tempo io ho dei presentimenti di dover morire. E il duca sorrise con un sorriso tristo ad un tempo e grazioso. — Oh! mio Dio, gridò Anna con un accento di spavento che provava quale interesse, maggiore di quello che voleva dire, ella portava al duca. — Io non vi dico ciò per spaventarvi, signora, no; ciò che vi dico è anzi ridicolo, e credete che io non mi preoccupo niente di questi sogni; ma questa parola che voi mi avete detta, questa speranza che voi quasi mi avete data, avrà pagato tutto, fosse ancora la mia vita. — Ebbene! disse Anna, io pure duca, io ho dei presentimenti; io pure ho dei sogni. Io ho sognato che vi vedeva steso, insanguinato, atterrato da una ferita. — Alla parte sinistra, non è vero e con un coltello? interruppe Buckingham. — Sì, è così, milord, è così; alla parte sinistra con un coltello. Chi ha potuto dirvi che io aveva fatto questo sogno? io non l'ho che confidato a Dio, e anche nelle mie preghiere. — Io non voglio saperne di più, voi mi amate, signora, sta bene; — Io vi amo? — Sì, voi! il cielo vi manderebbe forse gli stessi sogni che a me, se voi non mi amaste? avremmo noi gli stessi presentimenti, se le nostre due esistenze non si toccassero col cuore? voi mi amate, o regina, e voi mi piangerete! — Oh! mio Dio, mio Dio! gridò Anna, questo è più di quanto io possa sopportare. Sentite, duca, in nome del cielo, partite, ritiratevi; io non so se vi ami o se non vi ami, ma quello che io so si è, che io non sarò mai spergiura. Abbiate dunque pietà di me; e partite. Obi se voi foste colpito in Francia, se voi moriste in Francia, se io potessi supporre che il vostro amore per me fosse causa della vostra morte, io non mi consolerei mai più; io ne diverrei pazza. Partite dunque, partite, io ve ne supplico. — Oh! quanto siete bella così! oh! quanto io v'amo! disse Buckingham. — Partite! partite! io ve ne supplico, e ritornate più tardi; ritornate come ambasciatore, ritornate come ministro, ritornate circondato da guardie che vi difendano, da servitori che veglino su voi, e allora, allora io non temerò più pei vostri giorni, e sarò contenta nel rivedervi. — Oh! ed è vero quanto mi dite? — Sì... — Ebbene! un pegno della vostra indulgenza, un oggetto che venga da voi, e che mi ricordi che io non ho fatto un sogno: qualche cosa che voi abbiate portata, e che possa portare anch'io; un anello, una collana, una catena! — E partirete, partirete, se vi do quanto domandate? — Sì. — Sull'istante medesimo? — Sì. — Lascerete voi la Francia? ritornerete voi in Inghilterra? — Sì, io ve lo giuro! — Aspettate, allora, aspettate. E Anna rientrò nel suo appartamento, e ne sortì quasi subito, tenendo in mano un bauletto di legno di rosa colla sua cifra incrostata d'oro. — Prendete, milord duca, prendete, diss'ella, conservatelo per mia memoria. Buckingham prese il bauletto, e cadde una seconda volta il ginocchio. — Voi mi avete promesso di partire sull'istante, disse la regina. — Ed io vi mantengo la mia parola; la vostra mano, la vostra mano, signora, e io parto. Anna stese la sua mano chiudenda gli occhi, e appoggiandosi con l'altra sopra Stefania, poichè sentiva che le sue forze venivano meno. Buckingham appoggiò con passione le sue labbra su quella bella mano, quindi rialzandosi: — Prima di sei mesi, diss'egli, se io non sono morto, io vi avrò riveduto, signora, dovessi per questo mettere sottosopra il mondo. E, fedele alla promessa che aveva fatta, si slanciò fuori dell'appartamento. Nel corridoio egli incontrò la signora Bonacieux che l'aspettava, e che, colle medesime precauzioni e la medesima fortuna, lo ricondusse fuori del Louvre. CAPITOLO XIII. IL SIGNOR BONACIEUX Vi era in tutto questo come si è potuto rimarcare, un personaggio di cui ad onta della sua posizione precaria, non era sembrato che alcuno se ne inquietasse, se non che molto mediocremente. Questo personaggio era il signor Bonacieux, rispettabile martire degli intrighi politici ed amorosi che si allacciavano così bene gli uni con gli altri in quell'epoca, tanto cavalleresca ad un tempo e tanto galante. Fortunatamente, il lettore se lo ricorda, o non se lo ricorda, fortunatamente noi abbiamo promesso di non perderlo di vista. Gli stallieri che lo avevano arrestato lo condussero direttamente alla Bastiglia, ove lo si fece passare tutto tremante davanti un plotone di soldati che caricavano i loro moschetti. Di là, fu introdotto in una galleria semi-sotterranea: egli fu, per parte di quelli che lo aveano condotto, l'oggetto delle più grossolane ingiurie, e dei più feroci maltrattamenti. Gli sbirri vedevano che non avevano a che fare con un gentiluomo, e lo trattavano come un vero birbone. In capo a mezz'ora circa, uno scrivano venne a metter fine a queste torture, ma non alle sue inquietudini, dando l'ordine di condurre il sig. Bonacieux nella camera degli interrogatorii. Ordinariamente i prigionieri s'interrogavano nel loro carcere, ma con Bonacieux non si facevano tanti complimenti. Due guardie, s'impadronirono del merciaio, gli fecero traversare un cortile, lo fecero entrare in un corridoio, in cui v'erano tre sentinelle, aprirono una porta, e lo spinsero in una camera bassa, ove non v'erano altri mobili che una tavola, una sedia e un commessario. Il commessario era assiso sulla sedia, ed occupato a scrivere sulla tavola. Le due guardie condussero il prigioniero davanti alla tavola, e, ad un segno del commessario, si allontanarono fuori della portata della voce. Il commessario, che fino allora aveva tenuto la sua testa abbassata sulle carte, la rialzò per vedere con chi aveva a che fare. Questo commissario era un uomo di fisonomia dispettosa, col naso puntuto, cogli zigomi gialli e sporgenti, cogli occhi piccoli, ma investigatori e vivi, colla fisonomia che partecipava ad un tempo della faina e della volpe. La sua testa, sopportata da un collo lungo e mobile, sortiva dalla sua larga toga nera, librandosi con un movimento presso a poco simile a quello della tartaruga, quando cava fuori la testa dal suo guscio crostaceo. Egli cominciò dal domandare al signor Bonacieux i suoi nomi, il cognome, l'età, lo stato, il domicilio. L'accusato rispose ch'egli si chiamava Giacomo Michele Bonacieux, che aveva l'età di cinquant'anni, che era merciaio, e che dimorava nella strada Fossoyeur: al n. 11. Il commissario allora, invece di continuare ad interrogarlo, gli fece un lungo discorso sul pericolo che vi è, per un oscuro borghese, nell'immischiarsi di cose politiche. Egli complicò quest'esordio con una esposizione nella quale raccontò la potenza e gli atti del signor ministro, di questo ministro incomparabile, di questo vincitore dei ministri passati, di questo modello dei ministri futuri: atti e potenze ai quali nessuno poteva opporsi impunemente. Dopo questa seconda parte del suo discorso, fissando il suo sguardo da sparviero sul povero Bonacieux, lo invitò a riflettere sulla gravità della sua situazione. Le riflessioni del merciaio erano già tutte fatte; egli mandava al diavolo l'istante in cui il signor de Laporte aveva avuto l'idea di maritarlo con la sua figlioccia, e l'istante soprattutto in cui questa figlioccia era stata ricevuta custode della biancheria presso la regina. Il fondo del carattere di mastro Bonacieux era un profondo egoismo mischiato ad una sordida avarizia, il tutto condito con una estrema poltroneria. L'amore che gli aveva inspirato la sua giovane sposa, era un sentimento del tutto secondario, nè poteva lottare coi sentimenti primitivi che noi abbiamo enumerati. Bonacieux riflettè infatti su ciò che gli era stato detto. — Ma, il signor commessario, diss'egli timidamente, credete bene che io conosco, e che apprezzo più che alcun altro, il merito dell'incomparabile ministro dal quale noi abbiamo l'onore di esser governati. — Davvero? domandò il commessario con un'aria di dubbio, ma se fosse veramente così come sareste voi alla Bastiglia? — Come io vi sono o piuttosto perchè vi sono, replicò Bonacieux, ecco ciò che mi è assolutamente impossibile di dirvi, visto che io stesso l'ignoro; ma, a colpo sicuro, non è per avere disgustato, almeno scientemente, il signor ministro. — Pure bisogna che abbiate commesso un qualche delitto, poichè voi siete accusato di alto tradimento. — Di alto tradimento! gridò Bonacieux spaventato, di alto tradimento! e come volete voi che un povero merciaio, che detesta gli ugonotti e che abborre gli Spagnuoli, sia accusato di alto tradimento? rifletteteci, signore, la cosa è materialmente impossibile. — Signor Bonacieux, disse il commessario guardando l'accusato come se i suoi piccoli occhi avessero avuta la facoltà di leggere nel più profondo dei cuori, signor Bonacieux, voi avete moglie? — Sì, signore, rispose il merciaio tremando, e sentendo che là i suoi affari si andavano a imbrogliare, vale a dire, io ne aveva una. — Come, voi ne avevate una? e che ne avete voi fatto, se non l'avete più? — Mi è stata portata via, signore. — Vi è stata portata via! disse il commessario. Ah! Bonacieux sentì a quell'ah che l'affare si andava sempre più imbrogliando. — Vi è stata portata via! riprese il commessario; e sapete voi chi è l'uomo che ha commesso questo ratto? — Io credo di conoscerlo. — Chi è egli? — Pensate che io non affermo niente, signor commessario, e che io sospetto solamente. — Chi sospettate voi! sentiamo, rispondete francamente. Il signor Bonacieux era nella grande perplessità; doveva egli negar tutto o tutto dire? negando tutto, si poteva credere che egli la sapeva troppo lunga per confessare; dicendo tutto, faceva prova di buona volontà. Egli si decise dunque a dire tutto. — Io sospetto, diss'egli, che sia un uomo grande e bruno, di alta statura, il quale ha tutti i tratti di un gran signore; egli ci ha seguiti molte volte, a quanto mi è sembrato, quando io aspettava mia moglie d'avanti alla porta segreta del Louvre per ricondurla a casa. Il commessario parve provare qualche inquietezza. — E il suo nome? diss'egli. — Oh? in quanto al suo nome io non ne so niente; se io mai lo incontrassi, lo riconoscerei sul momento stesso, ve io garantisco, fosse egli ancora tra mille persone. La fronte del commessario si intorbidì. — Voi lo riconoscereste fra mille, dite voi continuò egli. — Cioè, riprese Bonacieux che si accorse di essere entrato in una falsa strada, cioè... — Voi avete risposto che lo riconoscereste, disse il commessario. Sta bene, per oggi basta. Prima che andiamo più innanzi, bisogna che un tale sappia che voi conoscete il rapitore di vostra moglie. — Ma io non ho detto che lo conosco! gridò Bonacieux alla disperazione. Io vi ho detto al contrario... — Conducete il prigioniere, disse il commessario alle due guardie. — Ove si deve condurre? domandò lo scrivano. — In una prigione. — In quale? — Oh! mio Dio, nella prima che vi capita, purchè sia ben chiusa, rispose il commessario con una indifferenza, che penetrò d'orrore il povero Bonacieux. — Ahimè! Ahimè! disse a sè stesso, la disgrazia è sulla mia testa. Mia moglie avrà commesso qualche orribile delitto; mi si crederà suo complice, e mi si punirà con lei: ella avrà confessato che m'aveva detto tutto; una donna è così debole! Una prigione! la prima che vi capita! ecco qua! una notte presto si passa; e domani, alla ruota, alla tortura! oh! mio Dio! mio Dio! abbiate pietà di me! Senza ascoltare menomamente le lamentazioni di mastro Bonacieux, lamentazioni alle quali d'altronde essi dovevano essere abituati, le due guardie presero il prigioniere per un braccio, e lo condussero via, nel mentre che il commessario scriveva in tutta fretta una lettera che lo scrivano aspettava. Bonacieux non chiuse occhio, non già che la sua prigione fosse troppo cattiva, ma perchè le sue inquietudini erano troppo grandi. Egli rimase tutta la notte sopra il suo sgabello rabbrividendo al più piccolo rumore, e quanto i primi raggi del giorno vennero a penetrare nella sua camera, l'aurora gli parve aver preso tinte funebri. Ad un tratto egli sentì tirare il catenaccio, e provò un terribile sussulto. Egli credeva che lo venissero a prendere per condurlo al patibolo; cosichè allora quando vide comparire puramente e semplicemente il suo commessario ed il suo scrivano della sera innanzi, invece del carnefice, come egli si aspettava, fu sul punto di saltar loro al collo. — Il vostro affare si è molto complicato da ieri sera a questa parte; mio brav'uomo, gli disse il commessario, ed io vi consiglio dire tutta la verità, poichè il solo vostro pentimento può calmare la collera del ministro. — Ma io sono pronto a dir tutto, gridò Bonacieux, almeno tutto quello che io so. Interrogatemi, io ve ne prego. — Primieramente, dov'è vostra moglie? — Ma dappoichè vi ho detto che mi è stata rapita... — Sì ma da ieri alle cinque ore pomeridiane, mercè vostra, è fuggita. — Mia moglie è fuggita? gridò Bonacieux, oh! disgraziata! signore, se ella è fuggita non è per colpa mia, io ve lo giuro. — Che cosa siete dunque andato a fare dal signor d'Artagnan, vostro vicino, col quale aveste una lunga conferenza nella giornata? — Ah! sì, sig. commessario, sì ciò è vero e lo confesso che ho avuto torto. Sì, io sono stato dal sig. d'Artagnan. — Quale era la scopo di questa visita? — Di pregarlo ad aiutarmi per ritrovare mia moglie; io credeva di avere il diritto di reclamarla. Io mi sbagliava, a quanto sembra, e ve ne domando perdono. — E che cosa ha risposto il signor d'Artagnan! — Il signor d'Artagnan mi ha promesso il suo aiuto; ma io mi sono ben presto accorto che egli mi tradiva. — Voi volete eludere la giustizia! il signor d'Artagnan ha fatto un patto con voi, e in virtù di questo patto egli ha messo in fuga gli uomini di polizia, che avevano arrestata vostra moglie, e l'ha sottratta a tutte le ricerche. — Il signor d'Artagnan ha rapita mia moglie? ah! che cosa mi dite mai? — Fortunatamente, il sig. d'Artagnan è nelle nostre mani, e voi sarete confrontato con lui. — Ah! in fede mia, io non domando di meglio, gridò Bonacieux; non sarò malcontento di vedere una figura di mia conoscenza. — Fate entrare il sig. d'Artagnan, disse il commessario alle guardie. Le due guardie fecero entrare Athos. — Signor d'Artagnan, disse il commessario indirizzandosi ad Athos, dichiarate voi a questo signore ciò che è passato fra voi e lui. Gridò Bonacieux, non è il signor d'Artagnan quello che qui mi mostrate! — Come non è il sig. d'Artagnan! gridò il commessario. — Niente affatto, rispose Bonacieux. — E come si chiama il signore? domandò il commessario. — Io non posso dirvelo, perchè non lo conosco. — Come, voi non lo conoscete? — No. — Voi non l'avete mai veduto? — Può darsi; ma io non so come si chiami. — Il vostro nome? domandò il commessario. — Athos, rispose il moschettiere. — Ma questo non è un nome di uomo, questo è un nome di montagna! gridò il povero interrogatore, che cominciava a perdere la testa. — Questo è il mio nome, disse tranquillamente Athos. — Ma voi avete detto che vi chiamavate d'Artagnan. — Io? — Sì, voi. — Cioè, a me che fu detto: «voi siete il sig. d'Artagnan?» io ho risposto «lo credete voi?» le mie guardie hanno gridato che ne erano sicure. Io non ho voluto contrariarle, d'altronde io poteva sbagliarmi. — Signore, voi fate insulto alla maestà della giustizia. — In nessun modo, disse tranquillamente Athos. — Voi siete il sig. d'Artagnan. — Vedete bene, che siete voi che me lo dite. — Ma, gridò a sua volta Bonacieux, io vi dico, sig. commessario, che non vi può essere nessun dubbio. Il sig. d'Artagnan è mio ospite, e quantunque non paghi la sua pigione, è anzi precisamente per questa causa che io debbo conoscerlo. Il signor d'Artagnan è un giovane di diciannove ai vent'anni appena, e questo signore ne ha almeno trenta; il sig. d'Artagnan è nelle guardie del sig. des Essarts, ed il sig. è nella compagnia dei moschettieri dei sig. de Tréville; guardate l'uniforme. — È vero, mormorò il commessario, per bacco! è vero. In questo momento si aprì la porta, e un messaggiere, introdotto dal carceriere della Bastiglia, rimise una lettera al commessario. — Oh! disgraziata! gridò il commessario. — Come! che cosa dite? di chi parlate? non è già di mia moglie io spero? — Al contrario, è precisamente di lei. Il vostro affare va bene, andate avanti! — E che! gridò il merciaio esasperato fatemi il piacere di dirmi, signore, in qual modo il mio affare può peggiorare per ciò che fa mia moglie, mentre io sono in prigione. — Perchè quello che ella fa è la conseguenza di un piano stabilito fra di voi, un piano infernale! — Io vi giuro, sig. commessario, che voi siete nel più grande errore, che io non so niente affatto di ciò che doveva fare mia moglie, che io sono intieramente estraneo a tutto quanto ella ha fatto, e che se ella fa delle pazzie, io la rinego, io la smentisco, io la maledico. — E che! disse Athos al commessario, se voi non avete più bisogno di me, rimandatemi in qualche luogo. Il vostro sig. Bonacieux è noiosissimo. — Riconducete i prigionieri nelle loro secrete, disse il commessario, indicando con un gesto Athos e Bonacieux, e che essi sieno custoditi più severamente che mai. — Però, disse Athos con la solita sua calma, se voi cercate il signor d'Artagnan, non vedo troppo il perchè io debba qui rimpiazzarlo. — Fate ciò che ho detto! gridò il commessario, nella secreta la più ristretta. Intendete voi? Athos seguì le sue guardie stringendosi nelle spalle, e il sig. Bonacieux mandava gemiti da fendere il cuore di una tigre. Il merciaio fu ricondotto nel carcere ove aveva passata la notte, e vi fu lasciato tutto il giorno. Tutto il giorno Bonacieux pianse come un vero merciaio, non essendo un uomo di spada per niente affatto, come ci ha detto egli stesso. La sera verso le nove ore, al momento in cui stava per decidersi di andare in letto, egli intese de' passi nel corridoio. Questi passi si avvicinarono al carcere, la porta si aprì, e comparvero due guardie. — Seguitemi, disse un caporale che veniva dietro le guardie. — Seguirvi! gridò Bonacieux, seguirvi a quest'ora! mio Dio ove mi conducete? — Dove abbiamo l'ordine di condurvi. — Ma questa non è una risposta. — Eppure è la sola che noi possiamo darvi. — Ah! mio Dio! mio Dio! gridò il povero merciaio, questa volta son perduto! E seguì macchinalmente e senza resistenza le guardie che erano venute a prenderlo. Egli ripassò nello stesso corridoio che aveva già percorso, traversò un primo cortile, quindi un secondo corpo di fabbrica; finalmente, alla porta del cortile di entrata, egli trovò una carrozza circondata da quattro guardie a cavallo. Fu fatto salire in questa carrozza, il caporale si pose vicino a lui, fu chiuso lo sportello a chiave, e tutti e due si ritrovarono in una prigione ambulante. La carrozza si mise in movimento, lenta come un carro funebre. Attraverso la persiana chiusa a catenaccio il prigioniere scorgeva le case e il pavimento, e nient'altro; da vero Parigino che egli era, Bonacieux riconosceva tutte le strade dalle insegne, dai riverberi, dai marciapiedi. Al momento di giungere a S. Paolo, luogo ove si fanno le esecuzioni dei condannati della Bastiglia, per poco non si svenne e si segnò due volte. Avea creduto che la carrozza si fosse fermata lì. La carrozza però passò oltre. Più lontano fu preso da gran terrore, e fu costeggiando il cimiterio di S. Giovanni, ove si sepellivano i rei di stato. Una cosa sola lo tranquillizzava un poco, ed era che prima di seppellirli generalmente tagliavano loro la testa, e la sua testa era ancora sulle sue spalle. Ma allorchè vide che la carrozza voltava per la strada Gréve, e che scoperse i tetti acuti del Palazzo di Città, e che la carrozza passava sotto l'arcata, egli credè che tutto fosse finito per lui, volle fare la sua confessione al caporale, e dietro il suo rifiuto mandò grida così commoventi, che il caporale gli annunziò che, se continuava ad assordirlo in tal modo, gli avrebbe messo la mordacchia. Questa minaccia tranquillizzò alcun poco Bonacieux: se avessero dovuto giustiziarlo sulla piazza di Gréve, non meritava la pena di metterglisi la mordacchia, poichè erano quasi arrivati al luogo della esecuzione. Infatti la carrozza traversò la piazza fatale senza fermarsi. Non restava più a temersi che la Croce-del-Trahoir: la carrozza infatti prese quella strada. Questa volta non v'era più alcun dubbio; era alla Croce-dei Trahoir che si giustiziavano i rei subalterni; Bonacieux si era lusingato, credendosi degno della piazza S. Paolo o della piazza di Gréve. Era alla Croce-del-Trahoir che andava a finire il suo viaggio ed il suo destino! egli non poteva ancora vedere questa malaugurata Croce, ma egli la sentiva in qualche modo venirgli incontro. Allorquando egli non fu più che a una ventina di passi, sentì un rumore e la carrozza fermarsi; ciò era più di quanto poteva sopportare il povero Bonacieux, di già annientato dalle emozioni successive che aveva provate, mandò un debole gemito, che si sarebbe potuto prendere per l'ultimo sospiro di un moribondo, e si svenne. CAPITOLO XIV. L'UOMO DI MÉUNG Questo rumore era prodotto da un attruppamento di popolo il quale non era già riunito nell'aspettativa di un uomo che si dovesse impiccare, ma nella contemplazione di uno già impiccato. La carrozza, fermata per un momento, riprese dunque il suo cammino, traversò la folla, continuò la sua strada, e infilò la contrada S. Onorato, voltò per la strada dei Buoni-Fanciulli, e si fermò davanti ad una porta bassa. La porta si aprì, due guardie ricevettero nelle loro braccia Bonacieux, sostenuto dal caporale: fu spinto in un corridoio, gli fu fatta salire una scala e fu deposto in un'anticamera. Tutti questi movimenti furono da lui operati macchinalmente; egli aveva camminato come si cammina in sogno; egli aveva traveduto gli oggetti attraverso una nebbia; le sue orecchie avevano concepito dei suoni senza intenderli; si sarebbe potuto giustiziarlo in quel momento che egli non avrebbe fatto un gesto per intraprendere la sua difesa, che non avrebbe mandato un grido per implorare pietà. Egli rimase dunque così sulla panchetta, col dorso appoggiato al muro e le braccia pendenti, nello stesso luogo ove era stato deposto dalle sue guardie. Però, siccome guardando intorno a se stesso non vedeva alcun oggetto minaccioso, siccome nessuna cosa indicava che egli corresse un reale pericolo, siccome la panchetta era convenientemente imbottita, siccome il muro era ricoperto da un bel cuoio di Cordova, siccome un gran tendinaggio di damasco rosso fluttuava davanti la finestra, sostenuto da belle borchie d'oro, egli comprese a poco a poco che il suo spavento era esagerato, e cominciò a muovere la testa da diritta a sinistra e dal basso in alto. Da questo movimento, che nessun gl'impediva, egli riprese un poco di coraggio, e si arrischiò a smuovere una gamba, poi l'altra; finalmente aiutandosi con le mani, si sollevò sulla panchetta e si trovò in piedi. In questo momento, un ufficiale di buon aspetto alzò una portiera, continuò a scambiate alcune parole con una persona che si trovava nella camera vicina, e rivoltandosi verso il prigioniero: — Siete voi, gli disse, che vi chiamate Bonacieux? — Sì, signor ufficiale, balbettò il merciaio più morto che vivo, per servirvi. — Entrate, disse l'ufficiale. Egli si scansò perchè il merciaio potesse passare, questi obbedì senza replica, entrò nella camera ove sembrava che fosse aspettato. Era un gran gabinetto coi muri guerniti di armi offensive e difensive, con camminetto e stufa, nei quali vi era già fuoco quantunque non si fosse appena che verso la fine del mese di settembre. Una tavola quadrata, coperta di libri e di carte, sui quali era svolta un immensa pianta della città della Rochelle occupava il mezzo dell'ambiente. In piedi davanti al camminetto stava un uomo di mezzana statura, colla fisonomia altera e fiera, cogli occhi scrutatori, con fronte larga, una faccia magrita, allungata da un pizzo alla reale sormontato da un paio di baffi. Quantunque quest'uomo non avesse che trentasei anni appena, capelli, baffi e pizzo andavano imbiancandosi. Quest'uomo, menocchè la spada, avea tutto l'aspetto di un uomo di guerra, e i suoi stivali di bufalo ancora leggermente ricoperti di polvere, indicavano che egli era stato a cavallo durante la giornata. Quest'uomo era Armando-Giovanni Duplessis duca de Richelieu non già come ce lo rappresentano, indebolito, vecchio sofferente come un martire, col corpo ammalato, la voce estinta, sepolto in un gran seggiolone come una tomba anticipata, non vivendo più che per la forza del genio, e non sostenendo più la lotta coll'Europa che per l'eterna applicazione del suo pensiero; ma tale quale egli era realmente in quell'epoca, vale a dire destro e galante cavaliere, già debole di corpo, ma sostenuto da quella potenza morale che ha formato di lui uno degli uomini i più estraordinarii che sieno esistiti, preparandosi infine, dopo aver sostenuto il duca di Nevers nel suo ducato di Mantova, dopo aver preso Nimes, Castres e Uzes, a scacciare gl'inglesi dall'isola del Re e a fare l'assedio della Rochelle. Il povero merciaio dimorò in piedi davanti la porta, nel mentre che gli occhi del personaggio che noi abbiamo descritto, si fissavano su lui, e sembravano voler penetrare fino al profondo del suo pensiero. — È questo qua il signor Bonacieux? domandò egli dopo un momento di silenzio. — Sì, mio signore, riprese l'ufficiale. — Sta bene; datemi quelle carte, lasciateci. L'ufficiale prese sul tavolo le carte indicate, le rimise a quello che le domandava, s'inchinò fino a terra e sortì. Bonacieux riconobbe in quelle carte i suoi interrogatorii della Bastiglia. Di tratto in tratto l'uomo del camminetto alzava gli occhi dal di sopra delle scritture e li immergeva come due pugnali fino al fondo del cuore del povero merciaio. Dopo dieci minuti di lettura e dieci secondi di esame, il ministro avea fissato. — Quella testa là non ha mai cospirato, mormorò egli; ma non importa, vediamo pure. — Voi siete accusato di alto tradimento, disse lentamente il ministro. — È ciò che mi hanno già detto, mio signore, gridò Bonacieux, dando al suo interrogatore il titolo che aveva inteso dargli dall'ufficiale; ma io vi giuro che non ne sapeva niente. Il ministro represse un sorriso. — Voi avete cospirato con vostra moglie, colla signora de Chevreuse, e con milord duca di Buckingham... — Infatti, mio signore, rispose il merciaio, io ho inteso pronunciare tutti questi nomi. — E in quale occasione? — Ella diceva che il ministro duca de Richelieu aveva attirato il duca di Buckingham a Parigi per perderlo, e perdere insieme con lui la regina. — Ella diceva così! gridò il ministro con violenza. — Sì, mio signore, ma io le ho risposto che ella aveva torto a tenere simili propositi, e che il ministro era incapace... — Tacete, voi siete un imbecille, riprese il ministro. — Questo è quanto mi rispondeva precisamente mia moglie. — Sapete voi chi vi ha rapito vostra moglie? — No, mio signore. — Voi però avete de' sospetti? — Sì, mio signore, ma questi sospetti hanno sembrato portar dispiacere al signor commessario, ed io non li ho più. — Vostra moglie è fuggita, lo sapevate voi? — No mio signore, io l'ho saputo mentre ero prigione col mezzo del sig. commessario, che è un uomo molto amabile. Il ministro represse un secondo sorriso. — Allora voi non sapete ciò che è avvenuto di vostra moglie in seguito alla fuga? — No assolutamente, mio signore, ma ella sarà rientrata al Louvre. — A un'ora dopo la mezzanotte non era ancora rientrata al Louvre. — A un'ora dopo mezzanotte non era ancora rientrata! ah! mio Dio! e che cosa è dunque avvenuto di lei? — Si saprà, siate tranquillo, non si tiene nulla nascosto al ministro, il ministro sa tutto — In questo caso, mio signore, credete voi che il ministro acconsentirà a farmi sapere che cosa è avvenuto di mia moglie? — Forse, ma prima di tutto bisogna che confessiate tutto ciò che ne sapete relativamente alle relazioni di vostra moglie colla signora di Chevreuse. — Ma io non ne so niente, non l'ho mai veduta. — Quando andavate a prendere vostra moglie al Louvre, ritornava ella direttamente a casa con voi? — Quasi mai, ella aveva molte faccende da sbrigare con dei mercanti di tela presso i quali io l'accompagnava. — E quanti ne aveva di questi mercanti di tela? — Due, mio signore. — Dove abitavano? — Uno nella strada Vaugirard, l'altro nella strada dell'Arpa. — Voi entravate con lei? — Mai, mio signore, io l'aspettava alla porta. — E di qual pretesto usava per poter entrar sola? — Ella non aveva bisogno di addurmi dei pretesti, ella mi diceva di aspettarla, ed io l'aspettava. — Voi siete un marito molto compiacente, mio caro signor Bonacieux, disse il ministro. — Egli mi ha chiamato, suo caro signore, disse fra se stesso il merciaio; peste! gli affari vanno bene! — Riconoscereste voi queste porte? — Sì. — Nè sapete i numeri? — Sì. — Quali sono? — Il numero 25 della strada Vaugirard, e il n. 75 della strada Arpa. — Sta bene, disse il ministro. A queste parole prese un campanello d'argento, lo suonò e l'ufficiale entrò — Andate, gli disse sottovoce, andate a cercarmi Rochefort, e che egli venga sull'istante introdotto. — Il conte è di là, disse l'ufficiale, e chiede istantemente di parlare con Vostra Eccellenza. — Vostra Eccellenza! mormorò Bonacieux risovvenendosi che questo era il titolo che d'ordinario si dava al ministro; Vostra Eccellenza! — Allora che venga, che venga! disse prestamente Richelieu. L'ufficiale sì slanciò fuori dell'appartamento con quella rapidità che d'ordinario impiegavano tutti i servitori del ministro nell'obbedire ai suoi ordini. — Ah! Vostra Eccellenza! continuava a mormorare Bonacieux, spalancando due occhi stravolti, e rimproverandosi di non averci pensato prima. Cinque minuti dopo la scomparizione dell'ufficiale, si aprì la porta, ed entrò un nuovo personaggio. — È lui! gridò Bonacieux — Chi lui? domandò il ministro. — Quegli che mi ha rapito mia moglie. Il ministro suonò una seconda volta. L'ufficiale ricomparve. — Riconducete quest'uomo nelle mani delle sue due guardie, e che egli aspetti che lo richiami davanti a me. — No, Eccellenza, no, non è lui! gridò Bonacieux; no io mi sono sbagliato, è un altro che non gli rassomigliava niente affatto; questo signore è un galantuomo. — Conducete via questo imbecille, disse il ministro. L'ufficiale prese Bonacieux sotto il braccio; e lo ricondusse nell'anticamera, ove egli ritrovò le sue due guardie. Il nuovo personaggio che era stato introdotto, seguì con occhi impazienti Bonacieux, fino a tanto che fu sortito, e quando la porta si richiuse dietro a lui: — Essi si sono veduti, diss'egli avvicinandosi vivamente al ministro. — Chi? domandò Sua Eccellenza. — Ella ed egli. — La regina e il duca! gridò Richelieu. — Sì. — E dove? — Al Louvre. — Ne siete voi sicuro? — Perfettamente sicuro. — Chi ve lo ha detto? — La signora di Lannoy, che è tutta dedicata a Vostra Eccellenza, come voi ben sapete. — E perchè non lo ha detto più presto? — Sia combinazione, sia diffidenza, la regina ha fatto dormire la signora de Surgis nella sua camera, e l'ha tenuta presso di se tutta la giornata. — Sta bene, noi siamo stati battuti. Cerchiamo di prendere la rivincita. — Io vi aiuterò con tutta l'anima, Eccellenza, siate tranquillo. — E come è andata la faccenda? — A mezzanotte e mezzo, la regina era con le sue damigelle. — Dove? — Nella sua camera da dormire. — Bene. — Allorquando sono venuti a portarle un fazzoletto per parte della guarda-robiera. — E dopo? — La regina ha subito manifestato una grande emozione, e ad onta del rosso di cui aveva tutto il viso coperto, ella impallidì. — E dopo, dopo? — In questo mentre la regina si è alzata, e con voce alterata ha detto: «mie signore, aspettatemi qui dieci minuti, che quindi sarò di ritorno»; ed ella ha aperto la porta della sua alcova ed è sortita. — Ed in che modo la signora de Lannoy non è venuta nell'istesso istante a prevenirvi? — Non vi era ancora niente di positivo; d'altronde la regina aveva detto: «mie signore, aspettatemi» ed ella non ha osato disobbedire alla regina. — E quanto tempo la regina è rimasta fuori della sua camera? — Tre quarti d'ora. — Nessuna delle sue cameriere l'accompagnava? — Donna Stefania soltanto. — Ed in seguito è ella ritornata? — Sì, ma per prendere un piccolo bauletto di legno rosa colla sua cifra, ed è subito partita. — E quando ella è rientrata più tardi ha riportato il bauletto? — No. — La sig. de Lannoy sa ella che cosa conteneva questo bauletto? — Sì: i puntali in diamanti che Sua Maestà regalò alla regina. — L'opinione della sig. Lannoy è che ella li abbia regalati a Buckingham? — Ella ne è sicura — In che modo? — Durante tutta la giornata, la sig. de Lannoy, nella sua qualità di dama che tiene in custodia le gioie, ha cercato questo bauletto, ha finto di essere inquieta per non poterlo ritrovare, e ha finito per domandarne contezza alla regina. — E la regina allora...? — La regina è divenuta molto rossa, ed ha risposto che, essendosele rotto il giorno innanzi uno di questi puntali, lo aveva mandato ad accomodare dal suo gioielliere. — Bisogna passarvi per assicurarsi se la cosa è vera o no. — Vi sono già passato. — Ebbene! il gioielliere...? — Il gioielliere non ne ha neppure inteso parlare. — Bene! bene! Rochefort, tutto non è ancor perduto, e forse... forse, tutto è per lo meglio! — Il fatto è che io non dubito punto che il genio di Vostra Eccellenza:.. — Non ripari alle bestialità del mio agente, non è vero? — È giusto ciò che io diceva, se Vostra Eccellenza mi lasciava terminare la frase. — Ora sapete ove si nascondeva la duchessa de Chevreuse e il duca de Buckingham? — No, Eccellenza; i miei agenti non hanno potuto dirmi niente di positivo su questo argomento. — Lo so io. — Voi? Eccellenza? — Sì, o almeno ne dubito. Essi si nascondevano, l'uno nella strada Vaugirard n. 25, e l'altro nella strada dell'Arpa n. 75. — Vostra Eccellenza vuol ella che io li faccia arrestare tutti e due? — Sarà troppo tardi, essi saranno partiti. — Non importa ce ne possiamo assicurare. — Prendete dieci uomini della mia guardia, e perquisite le due case. — Vado, Eccellenza. E Rochefort si slanciò fuori dell'appartamento. Il ministro, rimasto solo, riflettè un istante, e suonò per la terza volta il campanello. Ricomparve lo stesso ufficiale. — Fate entrare il prigioniere, disse il ministro. Mastro Bonacieux fu di nuovo introdotto, e dietro un segno del ministro l'ufficiale si ritirò. — Voi mi avete ingannato, disse severamente il ministro. — Io! gridò Bonacieux, io ingannare Vostra Eccellenza? — Vostra moglie andando nella strada Vaugirard e nella strada dell'Arpa non andava da dei mercanti di tele. — E dove andava ella, giusto Dio? — Ella andava dalla duchessa de Chevreuse, e dal duca de Buckingham. — Sì, disse Bonacieux richiamando tutte le sue rimembranze, sì, è così, Vostra Eccellenza ha ragione. Io più di una volta ho detto a mia moglie, che era sorprendente, che dei mercanti di tela abitassero in simili abitazioni e in case che non avevano insegne. Ah! Eccellenza, continuò Bonacieux gettandosi ai piedi del ministro, ah! voi realmente siete il ministro, il gran ministro, l'uomo di genio che tutto il mondo riconosce. Il ministro, per quanto fosse mediocre il trionfo che riportava sopra un essere così volgare, quanto lo era Bonacieux, non ne godè però meno un istante; quindi, quasi subito, come se gli si fosse presentato un nuovo pensiero allo spirito, un sorriso increspò il suo labbro, e stendendo la mano al merciaio: — Rialzatevi, amico mio, gli disse, voi siete un bravo uomo. — Il ministro mi ha toccata la mano! io ho toccata la mano del grand'uomo! gridò Bonacieux: il grande uomo mi ha chiamato suo amico. — Sì, amico mio, sì, disse il ministro con quel tuono paterno, che qualche volta sapeva assumere, ma che non ingannava altri che le persone che non lo conoscevano; e siccome noi abbiamo sospettato su voi ingiustamente, ebbene! noi vi dobbiamo una indennizzazione. Prendete questo sacchetto di cento doppie, e perdonatemi. — Che io vi perdoni, Eccellenza! disse Bonacieux, esitando a prendere il sacchetto, temendo senza dubbio che questo preteso regalo non fosse che uno scherzo. Ma voi siete padrone di farmi arrestare, di farmi torturare, di farmi impiccare. Voi siete il padrone di tutti, ed io non avrei avuto neppur una parola da opporre. Io perdonare, Eccellenza? su via, voi non ci pensavate nemmeno! — Ah mio caro sig. Bonacieux, voi vi ponete della generosità; io lo vedo, ed io ve ne ringrazio. Così dunque prendete questo sacchetto, e voi ve ne andate senza esser troppo malcontento? — Io me ne vado incantato, Eccellenza. — Addio adunque, o piuttosto a rivederci, poichè spero che noi ci rivedremo. — Quando vorrà Vostra Eccellenza, poichè io sono agli ordini di Vostra Eccellenza. — Ciò sarà spesso, siate tranquillo, poichè io ho ritrovato un piacere estremo nella vostra conversazione. — Oh! Eccellenza! — A rivederci, signor Bonacieux, a rivederci. Ed il ministro gli fece un segno con la mano, al quale Bonacieux rispose inchinandosi fino a terra, quindi sortì andando all'indietro, e quando fu nella anticamera, il ministro lo intese che, nel suo entusiasmo, gridava a tutta testa; «Viva Sua Eccellenza! viva il mio padrone! viva il gran ministro!» Il ministro ascoltò sorridendo questa rumorosa manifestazione dei sentimenti entusiastici di Mastro Bonacieux; quindi, quando le grida di Bonacieux si furono perdute nella lontananza: — Bene, diss'egli, ecco d'ora in avanti un uomo che si farà uccidere per me. E il ministro si mise ad esaminare colla più grande attenzione la carta della Rochelle, che, come abbiamo detto, era stesa sul suo tavolino, segnando con la matita la linea per dove doveva passare la diga che, diciotto mesi dopo, chiudeva il porto della città assediata. Allorquando egli era nel più profondo delle sue meditazioni le più strategiche, si riaprì la porta, e Rochefort rientrò. — Ebbene? disse prestamente il ministro alzandosi con una sveltezza che provava il grado d'importanza che egli attaccava alla commissione di cui aveva incaricato il conte. — Ebbene? disse questi, una donna di ventisei anni circa ed un uomo dai trentacinque ai quaranta hanno effettivamente alloggiato nelle due case indicate dall'Eccellenza Vostra; ma la donna è partita questa notte e l'uomo è partito questa mattina. — Erano essi! gridò il duca, che guardava al pendolo; ed ora, continuò egli, è troppo tardi per far loro correr dietro; la duchessa è a Tours, e il duca a Boulogne. Bisogna dunque raggiungerlo a Londra. — Eccellenza, quali sono i vostri ordini? — Non si dica una parola sul passato, che la regina resti nella più perfetta sicurezza; che ella ignori che noi sappiamo il suo segreto; che ella creda che noi siamo in traccia di una cospirazione qualunque. Inviatemi il mio guarda-sigilli Seguier. — E di quest'uomo, che cosa ne fa l'Eccellenza Vostra? — Di qual uomo? domandò il ministro. — Di Bonacieux. — Io ne ho fatto tutto quello che se ne poteva fare, vale a dire una spia di sua moglie. Il conte de Rochefort s'inchinò come uomo che riconosce la grande superiorità del padrone, e si ritirò. Rimasto solo, il ministro si assise di nuovo, scrisse una lettera che egli chiuse con un sigillo particolare; quindi suonò. Il solito ufficiale ricomparve per la quarta volta. — Fatemi venire Vitray, diss'egli, e ditegli di prepararsi per un viaggio. Un istante dopo, l'uomo che aveva fatto chiamare era in piede davanti a lui, portando già gli speroni e gli stivali alla cavaliera. — Vitray, gli disse, voi dovete partire di tutta corsa per Londra. Voi non dovete fermarvi un istante sulla strada; rimetterete questa lettera a Milady. Eccovi un buono di duegento doppie; passate dal mio tesoriere e fatevelo pagare. Ve ne saranno altrettante che vi saranno sborsate se voi sarete di ritorno qui fra sei giorni, e se voi avete seguita bene la commissione. Il messaggiere senza rispondere una sola parola, si inchinò, prese la lettera, il bono per dugento doppie, e sortì. Ecco ciò che conteneva la lettera. «Milady, «Trovatevi al primo ballo in cui interverrà il duca di Buckingham. Egli porterà al suo saio dodici puntali di diamanti, avvicinatevi a lui e tagliatene due. «Subito che questi puntali saranno nelle vostre mani, datemene avviso.» CAPITOLO XV. LA GENTE DI TOGA, E LA GENTE DI SPADA L'indomani del giorno in cui erano accaduti questi avvenimenti, non essendo ricomparso Athos, d'Artagnan e Porthos avvisarono il signor de Tréville della di lui disparizione. In quanto ad Aramis, egli aveva domandato un concedo di cinque giorni, egli era a Rouen, dicevasi per affari di famiglia. Il signor de Tréville era il padre dei suoi soldati. Il più sconosciuto tra di loro, dal momento che portava l'uniforme della compagnia era certo del suo aiuto e del suo appoggio, quanto lo avrebbe potuto essere un suo fratello stesso. Egli si rese adunque sull'istante presso il luogo-tenente criminale. Fu fatto venire l'ufficiale che comandava il posto della Croce-Rossa, e le successive informazioni fecero conoscere che Athos era momentaneamente alloggiato nel Forte il Vescovo. Athos aveva subite tutte le prove che noi abbiamo veduto subire a Bonacieux. Noi abbiamo assistito alla scena di confronto fra i due prigionieri. Athos, che non aveva detto niente fino allora, per timore che d'Artagnan, venendo anche egli molestato, non avesse avuto il tempo che gli abbisognava. Athos da quel momento dichiarò che egli si chiamava Athos e non d'Artagnan. Aggiunse che non conosceva nè il signore nè la signora Bonacieux, che non aveva mai parlato nè all'uno nè all'altra; che era andato verso le dieci di sera per fare una visita al suo amico signor d'Artagnan, ma che sino a quell'ora egli era rimasto dal signor de Tréville con cui avea pranzato; venti testimoni, aggiunse egli, potevano attestare il fatto, e nominò molti gentiluomini distinti, e fra gli altri il duca della Trémouille. Il secondo commissario rimase stordito non meno del primo per la dichiarazione semplice e asseverante di questo moschettiere sul quale si sarebbe presa volentieri la rivincita che le genti di toga amano tanto di prendersi sulle genti di spada; ma il nome del sig. de Tréville, e quello del signor duca della Trémouille meritavano qualche riflessione. Athos fu parimente inviato al ministro, ma disgraziatamente il ministro era al Louvre presso il re. Era precisamente il momento in cui il sig. de Tréville, sortendo dal luogo-tenente criminale e dal governatore del Forte il Vescovo, senza aver potuto trovare Athos, giunse da Sua Maestà. Come capitano dei moschettieri, il sig. de Tréville aveva ingresso al re a tutte l'ore. Si sa quali erano le prevenzioni del re contro la regina, prevenzioni giuocate abilmente dal ministro, che in fatto d'intrighi diffidavasi infinitamente più delle donne che degli uomini. Una delle grandi cause, soprattutto di prevenzioni, era l'amicizia della regina per la sig. de Chevreuse. Queste due donne lo tenevano inquieto assai più che le guerre con lo Spagnuolo, le dissenzioni con l'Inghilterra e gl'imbarazzi delle finanze. Ai suoi occhi e nella sua convinzione la signora de Chevreuse, non solo serviva la regina nei suoi intrighi politici, ma, ciò che lo tormentava anche molto di più, nei suoi intrighi amorosi. Alla prima parola che disse il ministro, che la sig. de Chevreuse, esiliata a Tours e che si supponeva in quella città, era stata a Parigi e vi era rimasta per cinque giorni eludendo la polizia, il re era entrato in una collera furiosa. Capriccioso ed infedele, il re voleva esser chiamato _Luigi il Giusto_, e _Luigi il Casto_. La posterità comprenderà difficilmente questo carattere, che la storia non spiega che con i fatti e mai con i ragionamenti. Ma, allorchè il ministro aggiunse che, non solamente la sig. de Chevreuse era venuta a Parigi, ma ancora, che la regina aveva riannodato con lei per mezzo di quelle corrispondenze misteriose, che in quell'epoca si chiamavano cabale, allorchè egli affermò che lui, il ministro, stava per sciogliere le fila oscure di questo intrigo, quando al momento di arrestare sul fatto, in flagrante delitto, corredato di tutte le pruove l'emissaria della regina presso l'esiliata, un moschettiere aveva osato interrompere violentemente il corso della giustizia, piombando con la spada alla mano sulle oneste persone di legge, incaricate di esaminare con imparzialità tutto l'affare per metterlo sotto gli occhi del re: Luigi XIII non seppe più contenersi; fece due passi verso l'appartamento della regina, con quella pallida e muta indignazione che, quando scoppiava, conduceva questo principe fino alla più fredda crudeltà. E ciò non ostante, in tutto questo, il ministro non aveva detto ancora una parola del duca di Buckingham. Fu allora che il sig. de Tréville entrò freddo, gentile, e in una tenuta irreprensibile. Avvertito di ciò che accadeva dalla presenza del ministro e dalla alterazione della fisonomia del re, il sig. de Tréville si sentì forte come Sansone davanti ai Filistei. Luigi XIII metteva già la mano sulla maniglia della porta. Al rumore che fece il signor de Tréville entrando, il re si voltò. — Voi giungete a proposito, signore, disse il re, che, allorquando le passioni erano giunte ad un certo punto, non sapeva più dissimulare, ed io ne sento delle belle sul conto dei vostri moschettieri. — Ed io, disse freddamente il sig. de Tréville, io ne ho delle belle da far sentire a Vostra Maestà sul conto delle sue genti di toga. — Come sarebbe a dire? disse il re con alterezza. — Io ho l'onore di far sapere a Vostra Maestà, continuò de Tréville sul medesimo tuono, che un partito di procuratori, di commessarii e di agenti di polizia, gente molto stimabile, ma molto accanita, a quanto sembra contro l'uniforme, si è permesso di arrestare in una casa, di trascinare in piena strada, e di gettare nel Forte il Vescovo, e tutto ciò dietro un ordine che si è ricusato di farmi vedere, uno dei miei moschettieri o piuttosto dei vostri, di una condotta irreprovevole, di una riputazione quasi illustre, che Vostra Maestà conosce favorevolmente, il sig. Athos. — Athos, disse il re macchinalmente; sì, di fatti, io conosco questo nome. — Che Vostra Maestà se lo ricordi, disse il sig. de Tréville; il sig. Athos è quel moschettiere che, nel dispiacente duello che voi sapete, ha avuto la disgrazia di ferire gravemente il sig. de Cahussac. A proposito, Eccellenza, continuò de Tréville indirizzandosi al ministro, il sig. de Cahussac è ristabilito del tutto, non è vero? — Grazie! disse il ministro mordendosi le labbra per collera. — Il signor Athos era adunque andato a fare una visita a uno dei suoi amici in allora assente, continuò il sig. de Tréville, ad un giovane bearnese, cadetto nelle guardie di Vostra Maestà, compagnia des Essarts; ma appena egli fu entrato, e prendeva un libro per aspettare il suo amico; una nube di sbirri e di soldati mischiati assieme venne a fare l'assedio della casa, sfondò diverse porte. Il ministro fece al re un segno, che voleva dire: — È per l'affare di cui vi ho parlato. — Noi sappiamo; tutto, replicò il re, perchè tutto questo fu fatto per il nostro servizio. — Allora, disse da Tréville, fu pure pel servizio di Vostra Maestà che si afferrò uno dei miei moschettieri innocente, che si pose questo fra due guardie come un malfattore, e che si condusse in mezzo ad un popolaccio insolente questo galantuomo, che ha sparso dieci volte il sangue per servizio di Vostra Maestà e che è pronto a spargerlo di nuovo. — Bah! disse il re corrucciato, le cose dunque sono avvenute così? — Il sig. de Tréville non dice, riprese il ministro con flemma, che questo moschettiere innocente, che questo galantuomo, era venuto un'ora avanti a percuotere a colpi di spada quattro commessarii istruttori, delegati da me per istituire un processo della più alta importanza. — Io sfido Vostra Eccellenza a provarlo, gridò il sig. de Tréville colla sua freddezza tutta guascona e colla sua rozzezza militare; poichè, un'ora prima il sig. Athos, che io lo confiderò a Vostra Maestà, è un uomo delle più alte qualità, mi faceva l'onore, dopo aver pranzato meco, di parlare nel salotto del mio palazzo col sig. duca della Trémouille e col sig. conte de Chalus che vi si trovavano. Il re guardò il ministro. — Fu fatto un processo verbale, disse il ministro rispondendo ad alta voce alla muta interrogazione di Sua Maestà, e le genti maltrattate hanno redatto il seguente, che io ho l'onore di presentare a Vostra Maestà! — Un processo verbale delle persone di toga, rispose fieramente de Tréville, val forse la parola d'onore di un uomo di spada? — Andiamo, andiamo; de Tréville, tacete, disse il re. — Se Sua Eccellenza ha qualche sospetto contro uno dei miei moschettieri, disse de Tréville, la giustizia del ministro è abbastanza conosciuta perchè abbia io stesso a domandare un processo. — Nella casa in cui fu fatta questa discesa della giustizia, continuò il ministro impassibile, alloggia, io credo, un Bearnese amico del moschettiere. — Vostra Eccellenza vuol parlare del sig. d'Artagnan. — Io voglio parlare di un giovane che voi proteggete, sig. de Tréville. — Sì, Eccellenza, è lo stesso. — Non sospettate voi che questo giovane abbia dato dei cattivi consigli?... — Al sig. Athos, a un uomo che ha il doppio della sua età? interruppe il sig. de Tréville; no, Eccellenza. D'altronde il sig. d'Artagnan ha passato la sera in casa mia. — E che! disse il ministro, hanno dunque tutti passata la sera in casa vostra? — Sua Eccellenza dubiterebbe forse della mia parola, disse de Tréville, col rossore della collera salito alla fronte. — No, e Dio me ne guardi, disse il ministro; ma soltanto a che ora era egli da voi? — Oh! questo poi posso dirlo scientemente all'Eccellenza Vostra, perchè quando entrò io osservai l'orologio a pendolo che segnava nove ore e mezza, quantunque io credessi che fosse più tardi. — E a che ora è egli sortito dal vostro palazzo? — A dieci ore e mezza, un'ora giusta dopo l'avvenimento. — Ma finalmente, riprese il ministro che non sospettava un'istante sulla lealtà di de Tréville, e che sentiva la vittoria sfuggirgli di mano; ma finalmente, Athos fu preso in questa casa della strada Fossoyeurs. — È egli forse proibito ad un amico di visitare un amico, ad un moschettiere della mia compagnia di fraternizzare con una guardia della compagnia del sig. des Essarts. — Sì, quando la casa ove egli fraternizza con questo amico è sospetta. — E perchè questa casa è sospetta, de Tréville, disse il re, non lo sapete voi forse? — Infatti, sire, io lo ignorava. In ogni caso, ella può essere sospetta dappertutto, ma nego che possa essere sospetta la parte che abita il sig. d'Artagnan, perchè io posso affermarvi, o sire, che se io presto fede a quanto egli ha detto, non esiste un più affezionato servitore di Vostra Maestà, un ammiratore più profondo del sig. ministro. — Non è quel d'Artagnan che un giorno ha finito Jussac in quel disgraziato incontro che ebbe luogo vicino al convento dei Carmelitani Scalzi? domandò il re, guardando il ministro che arrossiva di dispetto. — E il giorno dopo ferì Bernajoux. Sì sire, sì, è precisamente quello, e Vostra Maestà ha buona memoria. — Andiamo, che cosa risolviamo noi? disse il re. — Ciò spetta a Vostra Maestà più che a me, disse il ministro. Io affermo la reità. — Ed io la nego, disse de Tréville. Ma Vostra Maestà ha dei giudici, e questi giudici decideranno. — Va bene così disse il re, rimandiamo la causa davanti ai giudici, il giudicare è il loro ufficio, ed essi giudicheranno. — Solamente, riprese de Tréville, è una cosa ben trista che, in questi disgraziati tempi in cui siamo, la vita più pura, la virtù più incontrastabile non esima un uomo dalla infamia e dalla persecuzione. In tal modo l'armata non sarà contenta, io posso risponderne, di essere in balìa dei trattamenti rigorosi a proposito di affari di polizia. La parola era imprudente, ma de Tréville, l'aveva lanciata con conoscenza di causa. Egli voleva una esplosione, perchè in questo caso la mina fa fuoco ed il fuoco rischiara. — Affari di polizia! gridò il re, ripetendo le parole del sig. de Tréville, affari di polizia! e che ne sapete voi, signore! mischiatevi dei vostri moschettieri, e non mi rompete la testa. Sembra a sentirvi, che se per disgrazia si arresta un moschettiere, la Francia sia in pericolo. Ehi quanto rumore per un moschettiere! io ne farò arrestare dieci, cospetto! anche cento, tutta la compagnia! e non voglio che se ne dica una parola. — Dal momento in cui sono sospetti a Vostra Maestà, disse de Tréville, i moschettieri sono colpevoli; così voi mi vedrete, sire, disposto a cedere la mia spada, perchè, il sig. ministro, non dubito punto, dopo avere accusato i miei soldati, finirà con l'accusare anche me stesso; così, val meglio, che io mi costituisca prigioniere col sig. Athos, che già è stato arrestato, e col sig. d'Artagnan che in breve sarà senza dubbio arrestato. — Testa guascona, non la finirete voi mai? disse il re. — Sire, rispose de Tréville senza abbassare menomamente la voce, ordinate che mi sia reso il mio moschettiere, o che sia giudicato. — Sarà giudicato, disse il ministro. — Ebbene! tanto meglio, perchè, in questo caso, io domanderò a Sua Maestà il permesso di perorare per lui. Il re temeva uno scoppio. — Se, Sua eccellenza, disse egli, non aveva personalmente qualche motivo... Il ministro vide venire il re, e andò all'avvantaggio: — Perdono, disse egli, ma dal momento che Vostra Maestà vede in me un giudice prevenuto, mi ritiro. — Vediamo, disse il re, mi giurate voi per mio padre, che il sig. Athos era in casa vostra durante l'avvenimento, e che egli non vi ha preso parte. — Per il glorioso vostro padre, e per voi stesso, che siete quanto io amo e venero di più su questa terra, io ve lo giuro. — Vogliate riflettere, sire, disse il ministro, che se noi rilasciamo così il prigioniere, non si potrà più conoscere la verità. — Il sig. Athos sarà sempre qui, riprese il signor de Tréville, pronto a rispondere quando parrà alle vostre genti di toga d'interrogarlo. Egli non diserterà, sig. ministro: siate tranquillo, io rispondo di lui. — Veniamo al fatto: egli non diserterà, disse il re; si ritroverà sempre, come dice il sig. de Tréville. Da altronde, aggiunse egli abbassando la voce e guardando con occhio supplichevole Sua Eccellenza, concediamo loro la sicurezza: questo sta in politica. Questa politica di Luigi XIII fece sorridere Richelieu. — Ordinate, sire, diss'egli; voi avete il dritto di grazia. — Il dritto di grazia non si applica che ai colpevoli, disse de Tréville, che voleva dire l'ultima parola, e il mio moschettiere è innocente. Non è dunque una grazia quella che farete, sire; è una giustizia. — Ed egli, è al forte il Vescovo? disse il re. — Sì, sire, è in una secreta, in una prigione come l'ultimo dei malfattori. — Diavolo! diavolo! mormorò il re, e che si ha a fare? — Sottoscrivere l'ordine che sia messo in libertà, e tutto sarà fatto, riprese il ministro; io credo, come Vostra Maestà, che la garanzia del sig. de Tréville sia più che sufficiente. De Tréville s'inchinò rispettosamente con una gioia non scevra di timore; egli avrebbe preferito una resistenza ostinata del ministro a questa improvvisa facilità. Il re sottoscrisse l'ordine, e de Tréville se ne impossessò senza ritardo. Al momento in cui stava per sortire, il ministro gli fece un sorriso amichevole, e disse al re: — Regna una buona armonia fra il capo ed i soldati dei vostri moschettieri, sire: ecco ciò che è profittevole al servizio, ed onorevole per tutti. Egli mi prepara senza dubbio un qualche cattivo giuoco, diceva de Tréville; non si ha mai l'ultima parola con un uomo simile. Ma affrettiamoci, poichè il re può cambiare d'avviso in un momento; e in fin del conto, è molto più difficile il rimettere alla Bastiglia o al Forte il Vescovo un uomo che ne è sortito, di quello che conservarvi un prigioniero che vi è già. Il sig. de Tréville fece trionfalmente la sua entrata nel Forte il Vescovo, di dove liberò il moschettiere, che non aveva abbandonato la sua pacifica indifferenza. Quindi, la prima volta che rivide d'Artagnan: — Voi l'avete scappata bella, diss'egli; ecco pagato il vostro colpo di spada a Jussac. Resta ancora a pagarsi quello dato a Bernajoux, ma non bisogna fidarvisi. Del resto il sig. de Tréville aveva ragione di diffidare del ministro, e di tenere che tutto non era ancor finito, poichè appena il capitano dei moschettieri ebbe chiusa la porta dietro a se, Sua Eccellenza disse al re. — Ora che non siamo più che noi due, parleremo seriamente, se piace a Vostra Maestà. Sire, il sig. de Buckingham era a Parigi da cinque giorni, e non è partito che questa mattina. CAPITOLO XVI. IN CUI IL GUARDA-SIGILLI SEGUIER CERCA ANCHE UNA VOLTA LA CAMPANA PER SUONARLA, COME HA FATTO ALTRE VOLTE È impossibile di farsi un'idea dell'impressione che produssero sopra il re Luigi XIII queste sole parole; egli arrossì ed impallidì successivamente, ed il ministro si accorse fin dal principio che egli aveva riconquistato con un sol colpo tutto il terreno che prima aveva perduto. — Il sig. de Buckingham a Parigi! gridò egli, e che cosa vi è venuto a fare? — Senza dubbio per cospirare assieme ai vostri nemici, gli ugonotti e gli Spagnuoli. — No, per bacco! no! a cospirare contro il mio onore colla signora de Chevreuse, la signora de Longueville, e il Condè. — Oh! sire, quale idea! la regina è troppo saggia, e soprattutto ama troppo Vostra Maestà. — La donna è debole, signor ministro, disse il re; e in quanto ad amarmi molto, io ho già stabilita la mia opinione su questo amore. — Non mantengo però meno, disse il ministro, che il duca de Buckingham è venuto a Parigi per un progetto del tutto politico. — Ed io son sicuro che egli è venuto per tutt'altra cosa; ma se la regina è colpevole, che ella tremi! — Veniamo al folto, disse il ministro, per quanta ripugnanza io provi a fermare il mio spirito sopra un simile tradimento, Vostra Maestà mi vi fa pensare: la signora de Lannoy, che, dietro gli ordini di Vostra Maestà, io ho interrogata più volte, questa mattina mi ha detto che la notte passata Sua Maestà aveva vegliato fin molto al tardi; che questa mattina ella aveva molto pianto, e che tutta la giornata aveva scritto. — È così, disse il re; a lui senza dubbio. Ministro, mi abbisognano le carte della regina. — Ma in che modo si potranno prendere, sire? Mi sembra che nè io, nè Vostra Maestà ci possiamo incaricare di una simile missione. — E in qual modo si agì adunque con la marescialla d'Ancre? gridò il re al più alto grado della sua collera; che si frughino i suoi armadii, e che in fine si frughi ella stessa. — La marescialla d'Ancre, una avventuriera fiorentina, sire, ecco tutto; nel mentre che l'augusta sposa di Vostra Maestà è Anna regina di Francia, vale a dire una delle più grandi principesse del mondo. — Ella non è che la più colpevole, signor duca! più ella ha dimenticato l'alta posizione in cui è stata posta, più ella è discesa in basso. È già lungo tempo, altronde, che io sono deciso di finirla con tutti questi piccoli intrighi di politica e di amore. Ella ha pure presso di se un certo Laporte... — Che io credo che sia la maniglia che apre tutto l'intrigo, io lo confesso, disse il ministro. — Voi pensate dunque come me, che ella m'inganni? disse il re. — Io credo, e lo ripeto a Vostra Maestà, che la regina cospira contro la potenza del suo re, ma io non ho detto contro il suo onore. — Ed io vi dico contro tutti e due: io vi dico che la regina non mi ama; che ella ama quell'infame duca de Buckingham! perchè non lo avete fatto arrestare mentre egli era a Parigi? — Arrestare il duca! arrestare il primo ministro di Carlo II ci pensate voi, sire? quale scandalo! e se allora i sospetti di Vostra Maestà, quelli di cui io continuo a dubitare, avessero mostrata qualche consistenza, quale terribile pubblicità! quale scandalo inaudito! — Ma poichè si esponeva come un vagabondo o come un ladroncello, bisognava... Luigi XIII si fermò da se stesso spaventato di ciò che stava per dire, nel mentre che Richelieu, allungando il collo, aspettava inutilmente la parola che era rimasta sulle labbra del re. — Abbisognava...? — Niente, disse il re, niente. Ma durante tutto il tempo che egli è stato a Parigi, voi non lo avrete perduto di vista. — No, sire. — Ove alloggiava egli? — Strada dell'Arpa N. 75. — E dove rimane? — A lato del Luxembourg. — E voi siete sicuro che la regina e lui non si sono veduti? — Io credo la regina troppo ligia ai suoi doveri, sire. — Ma essi avranno corrisposto, è a lui che la regina ha scritto in quest'oggi; signor duca, mi abbisogna questa lettera! — Sire, frattanto... — Sig. duca a qualunque prezzo si sia, io la voglio. — Io farò osservare però a Vostra Maestà... — Mi tradite dunque anche voi, sig. ministro, per opporvi sempre così alla mia volontà? siete voi pure d'accordo con lo Spagnuolo, e con l'Inglese, colla sig. de Chevreuse e colla regina? — Sire, rispose sorridendo il duca, io credeva di essere al coperto di un simile sospetto. — Signor ministro, voi avete inteso; io voglio queste lettere. — Non vi sarebbe che un mezzo. — E quale? — Quello d'incaricare di questa missione il sig. guarda-sigilli Seguier. La cosa si comprende interamente fra i doveri della sua carica. — Che si mandi a chiamare subito in questo medesimo istante. — Egli dev'essere in casa mia, sire; io lo aveva fatto pregare di passare da me, e allorquando sono venuto al Louvre ho lasciato l'ordine, se si presentava, di farlo aspettare. — Che si mandi subito a cercarlo. — Gli ordini di Vostra Maestà saranno eseguiti, ma... — Ma che? — Ma la regina ricuserà forse di obbedire. — Ai miei ordini! — Sì, se ella non sa che questi ordini vengono dal re. — Ebbene! perchè ella non ne dubiti, io stesso vado a prevenirla. — Vostra Maestà non dimenticherà che io ho fatto tutto quello che ho potuto per prevenire una rottura. — Sì, duca, sì, io so che siete molto indulgente; e noi avremo, ve ne prevengo, a parlar di ciò più tardi. — Quando piacerà a Vostra Maestà, ma io sarò sempre felice e superbo, sire, di sagrificarmi alla buona armonia che io desidero veder regnare fra il re e la regina di Francia. — Bene, ministro, bene; ma, frattanto, inviate a cercare il signor guarda-sigilli; io entro dalla regina. E Luigi XIII, aprendo la porta di comunicazione, s'introdusse nel corridoio che conduceva dal suo appartamento a quello della regina. Anna era in mezzo alle sue damigelle, la signora de Guitaut, la sig. de Sablé, la sig. de Montebazon e la signora de Guémené. In un angolo era quella camerista spagnuola, donna Stefania, che l'aveva seguita da Madrid. La sig. de Guémené faceva la lettura, e tutte le altre ascoltavano colla più grande attenzione la leggitrice, ad eccezione della regina che, al contrario, aveva proposta questa lettura affine di potere fingendo di ascoltare, seguire il filo dei suoi propri pensieri. Questi pensieri per quanto fossero abbelliti da un ultimo riflesso dell'amore non erano però men tristi. Anna, privata della confidenza di suo marito, perseguitata dall'odio del ministro, che non poteva perdonarle di avere respinto un sentimento più dolce, avendo sotto gli occhi l'esempio della regina madre che era stata tormentata da quest'odio per tutta la sua vita; Anna aveva veduto cadere intorno a se i suoi servitori più affezionati, i suoi confidenti più intimi, i suoi favoriti più cari. Come quei disgraziati dotati di un dono funesto ella portava disgrazia a tutto ciò che toccava, la sua amicizia, era un segno fatale che chiamava persecuzione. La sig. de Chevreuse e la sig. de Vernel erano esiliate; e in fine Laporte, non nascondeva alla sua padrona che si aspettava di essere arrestato da un momento all'altro. Fu nel momento che ella era immersa nel più profondo e nel più tetro di queste riflessioni che la porta della camera si aprì, e che il re entrò. La leggitrice si tacque all'istante, tutte le dame si alzarono, e successe un profondo silenzio. In quanto al re non fece alcuna dimostrazione di gentilezza, fermandosi soltanto davanti alla regina: — Signora, diss'egli con voce alterata, voi siete per ricevere la visita del signor cancelliere che vi comunicherà di un certo affare di cui io l'ho incaricato. La disgraziata regina, che veniva incessantemente minacciata di divorzio, di esilio ed anche di processo, impallidì sotto il rosso, e non potè trattenersi. — Ma perchè questa visita, sire? che cosa potrà dirmi il signor cancelliere che non possa dirmi la Vostra stessa Maestà? Il re girò sui talloni senza rispondere, e quasi nel medesimo istante il capitano delle guardie, signor de Guitaud, annunciò la visita del signor cancelliere. Quando il cancelliere comparve, il re era già sortito da un'altra porta. Il cancelliere entrò per metà sorridendo e per metà arrossendo. Siccome noi lo ritroveremo probabilmente nel corso di questa storia, non sarà male che i nostri lettori facciano fin d'ora conoscenza con lui. Il sig. cancelliere era un uomo scherzoso. Fu il sig. de Roches le Masle, che in altri tempi era cameriere del ministro, che lo propose a sua Eccellenza come un uomo affezionato. Il ministro si fidò di lui, e se ne trovò contento. Dopo una gioventù tempestosa, si era ritirato in una piccola comunità di persone pie, che aveva per principal regola quella di suonare una campana ogni qualvolta uno cadeva in tentazione affinchè tutti pregassero il cielo a superarlo e per espiare almeno per qualche tempo le follie della sua gioventù. La vita pacifica però dei suoi compagni, le continue meditazioni e le incessanti preghiere non si confacevano punto al suo carattere. Non si sa se fosse egli che ne sortisse, o se fosse il superiore della comunità che lo rimandasse; fatto sta che dopo tre mesi, il penitente ricomparve nel gran mondo dopo aver suonato infinite volte la campana colla reputazione del più terribile ossesso che fosse mai esistito. Sortendo dal suo ritiro, entrò nella magistratura, divenne presidente, nel posto di suo zio, abbracciò il partito del ministro, cosa che non provava poco la sua sagacità, fu fatto cancelliere, servì con zelo Sua Eccellenza nel suo odio contro la regina madre e nella sua vendetta contro la regina Anna. Stimolò i giudici nell'affare di Chalais, incoraggiò i tentativi del sig. de Laffemas, gran-cacciatore di Francia, quindi finalmente, investito di tutta la confidenza del ministro, confidenza che egli aveva saputo guadagnarsi tanto bene, arrivò a ricevere la singolare commissione per la esecuzione della quale si presentava alla regina. La regina era ancora in piedi quando egli entrò, ma non appena lo ebbe scôrto, che ella si riassise sul suo seggio, e fece segno alle sue dame di riassidersi sui loro cuscini e sui loro scanni, e con un tuono di suprema alterezza: — Che cosa desiderate voi, signore? domandò Anna, e con quale scopo vi presentate voi qui. — Per farvi, in nome del re, signora e salvo tutto il rispetto ch'io ho l'onore di dovere a Vostra Maestà, una perquisizione esatta in tutte le vostre carte. — Come! signore, una perquisizione nelle mie carte... a me! ma questa è una cosa indegna! — Vogliate perdonarmi, signora, ma in questa circostanza io non sono che un istrumento di cui si serve il re. Sua Maestà non sorte essa di qui, e non vi ha essa invitata colla sua viva voce a sottoporvi a questa visita? — Frugate, dunque, signore; io sono una colpevole a quando sembra. Stefania, consegnategli le chiavi dei miei portafogli e dei miei segreter. Il cancelliere fece per pura formalità una visita nei mobili, ma egli sapeva bene che la regina non poteva aver nascosto in un mobile la lettera importante che ella aveva scritta in quel giorno. Quando il cancelliere ebbe aperto e richiuso venti volte i segreti del segreter, bisognava bene, per quanta fosse l'esitazione che provava, bisognava bene, dico io, venire alla conclusione dell'affare, vale a dire a frugare la regina stessa. Il cancelliere si avanzò adunque verso Anna, e con un tuono molto perplesso, e con un'aria molto imbarazzata: — Ed ora diss'egli, mi resta a fare la perquisizione principale. — Quale? domandò la regina; che non comprendeva, o che piuttosto non voleva comprendere. — Sua Maestà è certa che nella giornata, voi avete scritto una lettera; sa che questa lettera non è stata ancora inviata al suo indirizzo. Questa lettera non si ritrova nè dentro ai vostri portafogli, nè dentro al vostro segreter, eppure questa lettera deve essere in qualche luogo. — Osereste voi portare la vostra mano sulla regina? disse Anna raddrizzandosi su tutta l'altezza della sua persona, e fissando sul cancelliere i suoi occhi, la di cui espressione era quasi divenuta minacciosa. — Io sono un suddito fedele del re, e tutto ciò che mi ordinerà Sua Maestà io lo farò. — Ebbene! è vero, disse Anna, e le spie del ministro lo hanno servito bene. Io oggi ho scritto una lettera; questa lettera non è partita. La lettera è qui. E la regina portò la sua bella mano sul suo busto. — Allora, datemi questa lettera, signora, disse il cancelliere. — Io non la darò che al re, signore, disse Anna. — Se il re avesse voluto che questa lettera gli fosse rimessa, signora, ve l'avrebbe domandata egli stesso. Ma ve lo ripeto, sono io che egli ha incaricato di reclamarvela, e se voi non me la rendete... — Ebbene? — Sono io stesso incaricato di prendermela. — Come! che intendete di dire? — Che i miei ordini vanno molto avanti, signora, e che io sono autorizzato a cercare il foglio sospetto, anche sulla persona stessa di Vostra Maestà. — Quale orrore! gridò la regina. — Vogliate dunque, signora, agire con maggior facilità. — Questa condotta è di una violenza infame, sapete questo signore? — Il re comanda, signora! scusatemi. — Io non lo soffrirò, no, no, piuttosto morire! gridò la regina, nella quale si rimescolava il sangue imperiale della sua stirpe. Il cancelliere fece una profonda riverenza, quindi con la manifesta intenzione di non dare addietro di un passo nel compimento della commissione di cui si era incaricato, e come avrebbe potuto fare l'aiutante di un boia nella camera della tortura, si avvicinò ad Anna, dagli occhi della quale si videro nell'istante sgorgare lagrime di rabbia. La regina era, come lo abbiam detto, di una grande bellezza. La commissione adunque poteva passare per delicata, e il re a forza di gelosia contro Buckingham era giunto al punto di non esser più geloso d'alcuno. Senza dubbio il cancelliere Seguier cercò cogli occhi in quel momento il cordone della famosa campana, che suonava nel suo ritiro, ma non trovandolo, egli prese il suo partito e stese la mano nella direzione in cui la regina aveva confessato che si trovava il foglio. Anna fece un passo in addietro, tanto pallida, che si sarebbe detto che stava per morire, e appoggiandosi con la mano sinistra per non cadere, contro una tavola che si trovava dietro a lei, cavò colla destra un foglio dal suo petto e lo stese al guarda-sigilli. — Prendete, signore, eccola, quella lettera, gridò la regina con voce interrotta e fremente, prendetela, ma liberatemi subito dalla vostra odiosa presenza. Il cancelliere che dal suo canto tremava per una emozione facile a concepirsi, prese la lettera salutò fino a terra, e si ritirò. Appena fu chiusa la porta dietro a lui, la regina cadde svenuta fra le braccia delle sue donzelle. Il cancelliere andò a portar la lettera al re senza averne letta una parola. Il re la prese con una mano tremante, cercò l'indirizzo che non vi era, diventò pallidissimo, l'aprì lentamente, poi, vedendo che le prime parole erano indirizzate al re di Spagna, la lesse rapidamente. Era un piano di attacco contro il ministro. La regina invitava suo fratello e l'imperatore di Austria, a far sembiante, feriti come erano dalla politica di Richelieu la di cui eterna preoccupazione era l'abbassamento della casa di Austria, di dichiarare la guerra alla Francia ed imporre come condizione della pace, la dimissione del ministro; ma d'amore, non vi era una sola parola in tutta la lettera. FINE DEL PRIMO VOLUME. INDICE DELLE MATERIE. (VOL. I.) CAP. I. _I tre regali del signor d'Artagnan padre._ 5 CAP. II. _L'anticamera del signor de Tréville._ 24 CAP. III. _L'udienza._ 38 CAP. IV. _La spalla d'Athos, la bandoliera di Porthos, ed il fazzoletto d'Aramis._ 52 CAP. V. _I Moschettieri del Re, e le guardie del ministro._ 62 CAP. VI. _Sua Maestà il Re Luigi Decimoterzo._ 75 CAP. VII. _L'interno dei Moschettieri._ 99 CAP. VIII. _Un intrigo di corte._ 110 CAP. IX. _D'Artagnan spiega carattere._ 120 CAP. X. _Una trappola da sorci del secolo XVII._ 130 CAP. XI. _L'intrigo si annoda._ 142 CAP. XII. _Giorgio Williers duca di Buckingham._ 164 CAP. XIII. _Il signor Bonacieux._ 174 CAP. XIV. _L'uomo di Méung._ 184 CAP. XV. _La gente di toga, e la gente di spada._ 197 CAP. XVI. _In cui il guarda sigilli Seguier cerca anche una volta la campana per suonarla, come ha fatto altre volte._ 207 NOTE: [1] Noi sappiamo che questa locuzione di _Milady_ non è usata che quando è susseguita dal nome di famiglia. Ma noi la troviamo così nel manoscritto, e non vogliamo prenderci l'incarico di cambiarla (A.). Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "I tre moschettieri, vol. I" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.