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Title: Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I
Author: Amari, Michele
Language: Italian
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                                 STORIA
                                  DEI
                               MUSULMANI
                               DI SICILIA


                                SCRITTA

                           DA MICHELE AMARI.


                              VOLUME TERZO
                              Parte Prima.



                                FIRENZE.
                         SUCCESSORI LE MONNIER.
                                 1868.



                         Proprietà letteraria.



AVVERTENZA.


Facendomi a pubblicare questo mio IIIº volume dieci anni dopo il IIº
e non presentandolo pur compiuto, debbo scolparmi di un ritardo che
parrebbe tanto meno perdonabile, quanto egli è noto che da lungo tempo
aveva io, in Parigi, raccolti i materiali tutti e abbozzata l’opera da
un capo all’altro. In fatti, uscito il Iº volume nel 1854, lo segui il
IIº nel 1858; e nello stesso anno erano già composte in caratteri da
stampa 54 pagine del presente volume. Ma ritornato in Italia per causa
de’ grandi avvenimenti del 1859, io non mi chiusi in uno scrittoio.
Qualche ufficio pubblico esercitato, qualche altro lavoro dato alla
luce, mi distoglieano sì fattamente dalla Storia dei Musulmani di
Sicilia, che ho potuto appena, un po’ nel 1862 e un po’ dal 1865 in
qua, scrivere il rimanente del quinto libro; il quale termina con
l’assetto della dominazione normanna, e compone questa prima parte
del IIIº volume. La seconda parte, ossia il sesto libro, toccherà
le vicende dei Musulmani che mano mano si dileguarono dall’isola. Ho
cagione di sperare che cotesta parte finale del volume e dell’opera sia
presto compiuta; sì ch’io possa nel corso dell’anno vegnente dar opera
alla traduzione de’ testi arabici, che stampai a Lipsia il 1857; i
quali sono la fonte principale di queste istorie.

Nè sembri smentita la buona intenzione dal fatto che, dopo avere
differito per dieci anni, io non voglia or aspettare una diecina di
mesi per compiere il presente volume. Io ho richiesto l’editore di
pubblicarne la prima parte senza altro indugio, perchè in oggi i libri
invecchian presto: e già è uscito in Italia e oltremonti qualche lavoro
su periodi istorici confinanti da un lato o da un altro con quello
ch’io presi a trattare. Altri lavori so che si preparano. Ragion vuole
che le mie fatiche, quali che si fossero, non rimangano inutili ad
altrui; e che intanto ciascun s’abbia il merito delle idee proprie e
delle proprie ricerche.

Non ostante il gran tratto che è corso dalla stampa alla pubblicazione
de’ primi capitoli, io non dovrò che aggiugnere o mutar qualche parola
nel testo o nelle note, a pagg. 25, 36, 55, 90; come si vedrà in
un’_errata_ alla fin del volume. Pochissimi altri luoghi sono stati già
corretti rifacendo le pagine, 4, 5, 9, quando si pubblicò nella _Nuova
Antologia_ del maggio 1866 uno squarcio del primo capitolo, ed uno del
sesto.

  _Firenze, aprile 1868._

                                                            M. AMARI.



LIBRO QUINTO.



CAPITOLO I.


A un tempo con le cause che rodeano al di dentro lo stato musulmano in
Sicilia, operarono le cause esteriori ond’ebbe la pinta. Oltre quella
universale reazione dei Cristiani occidentali contro i settatori di
Maometto, s’accese all’entrar dell’undecimo secolo un genio di libertà
nelle popolazioni indigene e oltramontane mescolate da parecchi
secoli nel nostro territorio e fatte il nuovo popolo italiano. Il
qual movimento, come sempre accade, mutò aspetto secondo gli ostacoli
locali: dove fece vendetta di assalti forastieri; dove aspirò alla
emancipazione da reggimento straniero; dove portò ad opere ed ordini
e in ultimo a forme di repubblica; sovente partecipò dell’uno e
dell’altro, e più spesse furono le nimistadi scambievoli dei cittadini.
Ma dalle guerre civili ne allontana per ora l’argomento nostro, e
ne conduce alle due serie di fatti che prelusero al conquisto della
Sicilia: cioè la guerra di Pisa e Genova contro i Musulmani, e la
cacciata dei Bizantini dall’Italia meridionale.

I Pisani, fin dalla seconda metà del decimo secolo, compariscono nella
storia liberi in mare e sudditi in terra: qui reggeansi a nome del
marchese di Toscana e dell’imperatore germanico, sovrano feudale; lì il
commercio, necessariamente armato in mezzo ai Musulmani che solcavano
d’ogni parte il Mediterraneo, portò i cittadini ad autonomia, non che
non sospetta, gratissima ai signori della patria, i quali non avendo
forze navali, volentieri ne accattavano da loro. Certamente i privati
armatori si associarono; certamente deliberarono le imprese navali
e provvidero ai mezzi, nella stessa guisa che avean fatto quand’era
scopo principale il traffico; la preda si spartì come i guadagni; e la
compagnia, qual che ne fosse il nome e la forma in quei primi tempi,
diè nascimento al governo della repubblica. Aveano i Pisani combattuto
la fazione del novecensettanta contro i Musulmani di Sicilia[1] e
forse altre minori contro que’ d’Affrica e di Spagna, e avean già
patito le vicende di lor nuova industria del mille e quattro, quando
un’armata musulmana saccheggiò un quartiere della città.[2] Per farne
vendetta ed assicurare lor commercio, i Pisani metteano in mare il
navilio che sconfisse i Siciliani a Reggio; alla quale impresa molto
inopportunamente si è data sembianza di guerra religiosa, scrivendo
che il dotto monaco francese Gerberto, salito al trono pontificale col
nome di Silvestro secondo, bandì la crociata per liberare Gerusalemme,
e che i Pisani a tal invito corsero alle navi e tagliarono in pezzi i
primi Infedeli in cui s’imbattessero.[3] Il vero è che la potenza surta
allora nel Tirreno dovea venire alle prese coi Musulmani, come gli
antichi popoli che dettero nome a quel mare avean fatto coi Fenicii,
predecessori dei Musulmani in Sicilia, Affrica, Sardegna, Baleari
e Spagna. Uscì dai porti di Spagna il navilio che rinnovò del mille
undici l’assalto e il guasto sopra Pisa;[4] forse dagli stessi porti e
per le medesime genti che a capo di pochi anni occuparono la Sardegna,
infestaron Luni e soggiacquero alle forze unite di Pisa e Genova.

Mentre in Spagna tre usurpatori si contendeano il califato, e i
governatori si prendean le province, trovossi a regger Denia un
Abu-l-Geisc[5] Mogêhid-ibn-Abd-Allah, cristiano d’origine,[6] liberto
della casa del celebre Almansor, indi soprannominato Amiri:[7] uomo
intraprendente, valoroso, educato alle lettere e alle scienze coraniche
in Cordova e mecenate dei dotti.[8] Appo il quale rifuggitosi da
Cordova, con molta mano di partigiani, un Abu-Abd-Allah Mo’aiti,
giurista chiarissimo per sapere e antica nobiltà, chè discendea
di schiatta collaterale agli Omeiadi, Mogêhid, non osando per anco
aspirare al principato, volle mettere su quel regolo di sua fattura;
gli prestò giuramento e rese onori da califo, di giumadi secondo del
quattrocentocinque (dicembre 1014); ed a capo di cinque mesi, allestita
l’armata, andò con Mo’aiti ad occupar le isole Baleari. Non guari dopo,
rimandato il finto principe a Denia, Mogêhid con un migliaio di cavalli
e centoventi navi tra picciole e grandi, fece prora per la Sardegna.[9]

Ormai gli autori arabi chiariscon erroneo il moderno racconto della
dominazione musulmana in Sardegna e confermano i nostri antichi
ricordi, da’ quali si scorgea travagliata sì quell’isola con
depredazioni e guasti, ma non mai occupata innanzi il brevissimo regno
di Mogêhid. È verosimile, anzi direi certo, che i Sardi, abbandonati
dall’impero bizantino, dai re longobardi e dall’impero d’occidente,
fin dall’ottavo secolo si reggessero per loro giudici o re, chè
s’intitolavan l’uno e l’altro. Fiera gente, assecurata dalla povertà,
dal proprio valore e dai luoghi aspri e salvatici, scansò il giogo
dei Musulmani; i quali fatto fardello (710, 752, 813, 816, 817, 935)
dell’oro e argento, ma spaventati insieme dai frequenti naufragi e
dalla resistenza degli isolani nelle scorrerie minori, li lasciarono
tranquilli;[10] tenendoli uomini indomabili, avvezzi a star sempre con
le armi allato,[11] da buscarsi appo di loro più colpi che preda. Gli
annali musulmani ci narrano che dopo la strage fatta in Sardegna da
Abd-er-Rahmân-ibn-Habîb (752) gli abitatori si sottomessero a tributo;
onde per lungo tempo non furono molestati, anzi i Rûm ristorarono le
cose dell’isola.[12] Erronea parmi la fazione dei Musulmani di Spagna
a Cagliari nel mille ed uno, che si legge in un compendio di storia
pisana di tre secoli appresso.[13]

Sbarcato Mogêhid in Sardegna, ruppe gli isolani con molta strage, di
rebi’ primo del quattrocentosei (18 ag. a 16 settem. 1015); uccise
Maloto lor condottiero e fece grandissimo numero di prigioni, donne
e fanciulli.[14] L’armata, com’e’ sembra, si mostrò, prima o dopo, su
la costiera tra Genova e Pisa, approdando a Luni, cui saccheggiò forse
e si ritrasse; ma bastò a provocare i Pisani già possenti in mare, e
i Genovesi, i quali prosperando nel commercio dovean anco adoperarsi
a cacciare il vicin nemico. Par si collegassero le due repubbliche
nell’umile sembianza di compagnie di mercatanti, premurose d’ubbidire
ai comandi del papa e dell’imperatore; e il papa ch’era Benedetto
ottavo, partigiano favorito d’Arrigo secondo e vago di por mano nelle
cose temporali, par s’arrogasse di promulgare la guerra, e di negoziare
con Moghêid. Nondimeno l’importanza dell’impresa stava tutta nelle
forze, interesse e volontà dei Pisani e dei Genovesi; i quali andati
a trovare il navilio musulmano in Sardegna, riportarono una prima
vittoria nello stesso anno mille e quindici.[15] Mogêhid si sfogava
con atroci supplizii sopra i Cristiani di Sardegna,[16] innasprito
forse dalla resistenza che facessero i Sardi qua e là per l’isola;
e sapendo i grossi armamenti che s’apparecchiavano in Terraferma,
diede opera a fabbricare una fortezza.[17] Intanto i suoi, scontenti
del poco acquisto, sbigottiti dal clima malsano e dai travagli della
guerra, mormoravano:[18] tardava alla più parte di tornare in patria,
dove li chiamavano tutte le passioni della guerra civile. Talchè, di
maggio millesedici, venuta grand’oste di Pisani e Genovesi, Mogêhid si
deliberò a sgombrare.[19] Combattuto dagli Italiani mentre s’imbarcava,
in su l’entrar di giugno,[20] fu sconfitto, e atrocemente straziati i
suoi da una tempesta, che ruppe molte navi, altre spinse a terra, ove i
naufraghi erano spacciati dai Cristiani.[21] Campò Mogêhid a Denia con
le reliquie dell’armata, lasciando prigioni un fratello e il proprio
figliuolo Alì che gli succedette nel principato:[22] altri scrive il
figliuolo e una moglie.[23] Con sì lieve fatica i nostri riebbero la
Sardegna.[24]

E tosto voltarono le armi l’un contro l’altro: i Genovesi assalivano i
Pisani; i quali, avutone l’avvantaggio, li cacciarono dall’isola.[25]
Onde i mercatanti di Pisa cominciarono ad esercitare una clientela su
quei giudici, o regoli, bisognosi di lor danaro e di loro forze navali;
tennero fattorie; forse usurparono privilegi commerciali: nelle quali
brighe ebbero sempre a gareggiare coi mercatanti genovesi.[26] Nel
secolo ap- presso, quando le due città si reggeano a comune e Genova
adulta agguagliava la rivale, si contesero la Sardegna con le armi, con
le pratiche appo quei regoli ed a corte di Federigo Barbarossa,[27] e
poscia con falsare la storia, immaginandosi dai Pisani due concessioni
papali (1016 e 1049) e due novelli conquisti del mille diciannove
e mille quarantanove, sopra Mogêhid che alfine fosse caduto in lor
mani.[28] Da ricordi più genuini si ritrae che i Musulmani, dopo la
fuga di Mogêhid a Denia (1016), non assalirono mai più la Sardegna.[29]
Quei si tuffò tutto, scrive Ibn-el-Athîr, nelle guerre civili di
Spagna;[30] molestò la contea di Barcellona; fu costretto alla pace,
dicon anco a pagar tributo (1018), da una man di Normanni ausiliari
della contessa Ermenseda, nella minorità di Berengario,[31] e morì nel
millequarantaquattro.[32] Di certo, i corsali di Denia e delle Baleari
lungo tempo infestarono le parti occidentali del Mediterraneo, poichè
quel nome di Mugeto, supposto re d’Affrica, suonò terribile appo i
Cristiani; chiunque combatteva gli Infedeli spagnuoli o affricani, si
vantava d’aver preso o ammazzato il gran Saracino.[33]

Tolte così le favole che son debole fondamento alla gloria dai
popoli, quella dei Pisani e Genovesi risplende nella liberazione
della Sardegna; nel primo esempio dato in Ponente di grosse
espedizioni contro i Musulmani; nell’acquistata signoria del bacino
occidentale del Mediterraneo. Venuti loro a noia li armamenti
navali di Moezz-ibn-Badîs,[34] i Pisani assaltarono l’Affrica il
milletrentaquattro, presero Bona:[35] strepitosa vittoria che suonò
oltremonti come trionfo della Cristianità sopra l’Islamismo, e probabil
è vi abbiano partecipato i Genovesi e qualche nave provenzale.[36]
Le due repubbliche italiane messero da parte lor odii quand’occorrea
domare il nemico comune: i Pisani uniti di nuovo ai Genovesi
schierarono dinanzi Mehdia (1087) quattrocento navi italiane; e prima
avean assalito soli Palermo (1062), poscia occuparono le Baleari
(1113-4); per tutto il duodecimo secolo i navilii d’Italia, terrore dei
Musulmani, apriron la via agli accordi commerciali e alla fondazione
delle fattorie nelle città marittime d’Affrica e di Levante. Quella
virtù cominciando ad operare, come si è notato, nei principii del
secolo undecimo, diè incentivo ed aiuto al conquisto della Sicilia.

La rivoluzione di Puglia e Calabria contro i Bizantini fu capitanata e
confiscata da poche famiglie novelle in Cristianità. Verso il settimo
secolo, a’ primi albori della storia settentrionale, si scopre in
Danimarca, Norvegia e Svezia una gente la cui lingua al par che la
complessione dei corpi e gli ordini sociali attestavano l’origine
germanica; se non che, sendo lor toccato in sorte un paese inculto e
disabitato o quasi, non ebbero vassalli, e non trovando vitto in terra,
lo cercarono in sul mare con la pesca e la pirateria. Per tali cagioni
si mantenne tra essi l’uguaglianza civile perduta da’ lor fratelli nel
conquisto delle province romane. Serbaron anco l’antica religione. Si
reggeano in piccioli stati, sotto capi (_iarls_) di famiglie nobili
per valore, eletti nelle adunanze (_things_), nelle quali gli uomini
liberi, cioè tutti, deliberavano le pubbliche faccende. Ma nell’ottavo
secolo, i combattimenti e traffichi nel Baltico con altri Germani e con
genti finniche e slave avean già condotto gli Scandinavi a migliorare
lor costruzioni navali, lor armi, e le arti necessarie all’uno e
all’altro: allor fecero più grosse imprese al di fuori, e seguì in casa
l’accentramento sotto regoli (_kong_, _konung_ ec.); s’apparecchiò
quello dei piccioli nei maggiori reami, di Danimarca, Norvegia e
Svezia. I quali rivolgimenti, al par che le spesse carestie in un
paese presso che privo d’agricoltura, portavano all’emigrazione. Gli
uomini più audaci e procaccianti facean compagnia; sceglieano apposta
un capo sperimentato, re marittimo (_soekongar_) come il chiamavano;
varavano frotte di barche, e sì usciano a lor _wicking_, noi diremmo
pirateria, in cerca di bottino e di gloria: chè virtù si tenea presso
di loro l’astuzia e valor nel rubare. I morti per naufragio o di spada
sederanno in eterno allato d’Odin, nel Walhalla, a tracannare cervogia;
i reduci faranno mostra della preda, canteranno lor geste, bevendo a
cerchio nelle romorose brigate l’inverno. Orgoglio dunque, cupidigia,
necessità, costumi, rigoglio di corpi e d’animi, uso alle fatiche
del mare, non curanza della morte, moveano i Normanni (_Northmen_) o
Dani[37] a lontane espedizioni fuori il Baltico.

Nelle quali desolarono (787-885) lungo la marina e le rive dei fiumi,
le isole britanniche, la Germania in su l’Oceano, i Paesi Bassi, e
la Francia; infestarono anco la Spagna: Hastings, lor terribile eroe,
pensando arricchirsi delle spoglie di Roma, s’imbattè in Luni (859),
la saccheggiò;[38] ed egli o altri assaltò anco Pisa (860). Con lor
lievi barche solean costeggiare, entrare nelle foci dei fiumi, risalire
per ventine o centinaia di miglia dentro terra; afforzarsi nelle isole
marittime o fluviali; smontati dar di piglio a quanti cavalli poteano,
e temerarii innoltrarsi nelle province, taglieggiando, depredando,
ardendo, ammazzando; più crudi nei monasteri, sapendoli più ricchi,
o per vanto di calpestare il nume rivale d’Odin. Da Londra e Dublino
ad Utrecht, Aquisgrana, Colonia, Coblentz, Treveri, Parigi, Tours,
Bordeaux, e Tolosa; ed a Lisbona, a Siviglia, ad Arles, a Valenza sul
Rodano, i Barbari addimesticati sentiron la mano dei Barbari freschi
della Scandinavia: i quali dopo la rapina presero come gli altri a
stanziare qua e là; conquistarono l’Inghilterra, e la perdettero; si
posero alla foce della Loira e ne furon cacciati; si posero in su la
Senna e v’allignarono.[39]

Un secolo era corso dall’esaltazione di Carlomagno, e restava appena
a’ successori col titol di reame di Francia la regione che si stende
dalla Loira alla Mosa, toltane a ponente la Bretagna, quando vennero
a scemare il breve territorio gli Scandinavi che l’aveano già guasto,
e saccheggiata Parigi (846), arsi i sobborghi (857), e strettala
nuovamente d’assedio per dieci mesi (885-6). Avvenne nel medesimo
tempo che Aroldo dalla bella chioma (_Harald Haarfager_) soggiogasse
gli altri regoli di Norvegia, e facesse opera ad accentrare ed
assestare il novello reame; onde molti uomini impazienti del giogo
espatriarono o furon cacciati e incalzati per le isolette e pei
mari, dove ripigliavano l’antico mestiere di loro schiatta. Ragunati
in grande frotta, tentarono l’Inghilterra, tentarono la Fiandra, e
alfine s’imboccarono nella Senna; ebbero di queto Rouen;[40] ne fecero
pianta a guerra di conquisto; ruppero (898) un esercito francese che
li assalì; occuparono cittadi e castella. Nelle quali fazioni ebber
dapprima condottieri senza comando politico;[41] poi s’innalzò sopra
tutti per valore e civile prudenza Roll,[42] nobile corsaro norvegio,
bandito per atto di rapina in patria. E già s’erano costoro in sedici
anni assuefatti a vivere nelle nuove stanze coi vinti, quando i
popoli e clero di tutto il reame, vedendo non potere spezzar quel
flagello, costrinsero re Carlo il Semplice a stornarlo con la pace.
Trattò la pace il vescovo di Rouen, amico per necessità dei Normanni;
ed a Saint Clair sull’Epte (912) il re concedette a Roll e sua gente
il paese che occupavano:[43] quei gli prestò omaggio feudale, diè e
compì la promessa di farsi cristiano egli e’ suoi, e di sposare una
figlia naturale del re. Ebbe titol di conte; poi s’addimandò duca; e
il territorio, Normandia; il quale fu esteso da lui e dai successori,
tra le discordie dei grandi vassalli coi re, e tra le guerre civili
che portarono al trono i Capeti. I compagni d’arme di Roll, avuta
ciascun sua parte del territorio e divenuti signori dell’antica
popolazione, presero gusto alla vita di cavalieri francesi; mutarono
il culto d’Odin nel cristianesimo; l’uguaglianza del wicking in
gerarchia feudale; l’incerto frutto del saccheggio in perenne esercizio
d’abusi baroneschi; dimenticarono la patria che li avea cacciati;
ebbero figliuoli la più parte da donne del paese. E però alla seconda
generazione parlarono il linguaggio della Francia settentrionale,
fuorchè nelle parti di Bayeux e di Coutances, dove, per essere
sopravvenuti altri stuoli di Norvegia e Danimarca, si mantenne qualche
anno di più il paganesimo, la favella scandinava oltre un secolo, e
sempre un animo riottoso e contumace. Insieme con la religione e la
lingua, la Francia diè ai nuovi conquistatori fogge, usanze, un po’
di cultura clericale, e tutti gli ordini della feudalità; se non che
i baroni serbarono liberi spiriti in loro soggezione al duca, senza
aggravar manco le infime classi. Il ducato fu più pericoloso vicino che
nessun altro gran feudo, alla corona di Francia; l’odio nazionale arse
per cinque o sei secoli tra gli abitatori dell’uno e dell’altro.[44]
Tanto più che i Normanni, sì agevolmente gallicizzati al di fuori, non
aveano perduta l’indole degli avi: insieme con gran valore, disciplina
e sagacità militare, mostrarono saviezza nelle cose di stato ed
economiche; ebbero sempre odorato fino del guadagno, mente astuta e man
lesta a carpirlo, ira pronta raffrenata sol dall’interesse, amplessi e
zuffe alternati fin tra fratelli, tra padri e figli nel partaggio degli
acquisti; e con ciò un genio avventuroso, procacciante, migratorio,
il quale all’entrar dell’undecimo secolo sfogò in pellegrinaggi al
sepolcro di Cristo, ma non chiuse gli occhi per istrada essendoci da
buscare. Qual cavaliere vivesse a disagio in casa, uscì a nuovo modo
di _wicking_ per terra, ai soldi d’altri stati; ed alla spicciolata
fecero maravigliose prove in Spagna e nell’impero bizantino; raccolti
e rinforzati d’altre genti, conquistarono l’Inghilterra e l’Italia
meridionale.

Al par che il _wicking_ mutò forme in Normandia la _saga_ che il solea
celebrare,[45] della quale se fu tentata alcuna imitazione,[46] la
poesia popolare francese la soverchiò sì tosto, che alla battaglia
d’Hastings (1066) il menestrello di Guglielmo il Conquistatore
appiccava la zuffa recitando la canzone d’Orlando, francese di lingua
e d’argomento. Alla saga che andava in disuso con la favella e modi
del vivere degli Scandinavi, era succeduta la cronica cristiana,
da che Dudone di San Quintino, chierico piccardo, cominciò (994) a
richiesta del secondo conte di Normandia e compiè sotto il terzo, in
prosa latina tramezzata di versi, il racconto dei fasti di quel popolo
e dinastia, seguendo la tradizione orale di Rodolfo conte d’Ivry.[47]
Fu necessariamente la istoria di Dudone, pei tempi innanzi il trattato
d’Epte, mescolala di vero e di romanzo scandinavo, difettosa molto
in cronologia; pei tempi appresso, fu diario di corte con orpelli
di leggenda monastica e frasi di rettorica latina: e sotto gli altri
duchi, altri chierici la copiarono e continuarono chi in prosa latina,
chi in versi francesi, fino allo scorcio del duodecimo secolo.[48]
Ma i principi normanni surti in Italia in questo mezzo, vollero
auch’essi lor croniche ad imitazione della corte di Rouen, compilate
su i racconti dei guerrieri che aveano compiuto que’ gloriosi fatti e
riteneano le tradizioni de’ più antichi; onde raccontatori e scrittori
vi posero ornamenti di discorso a foggia or cavalleresca or claustrale:
e son queste le fonti principali di storia nel periodo che prendiamo a
trattare.

Prima in ordine di tempo la Storia dei Normanni di Amato, campano
e monaco di Monte Cassino, scritta tra il millesettantotto e
l’ottantasei,[49] della quale corre per le mani degli eruditi da
trent’anni in qua un’antica versione francese, interpolata di
annotazioni e forse scorciata e infedele in qualche luogo.[50]
Documento preziosissimo contuttociò; poichè l’autore, italiano di
nascita e di studii, ossequioso a Roberto Guiscardo e Riccardo principe
di Capua, ma assai più devoto al monistero, è testimonio immediato
per la seconda metà dell’undecimo secolo; attinge per la prima metà
a doppia tradizione, cassinese e normanna; e, con monacale prudenza,
pur va dicendo il vero. La dedica all’abate Desiderio e l’andamento
tutto dell’opera, mostran che fu dono fatto dal Monastero ai due
principi protettori, per rimeritarli di loro larghezza con la fama.
Proprio scrittor di corte, Guglielmo detto Appulo, ai conforti di
Ruggiero duca di Puglia e di papa Urbano secondo, compose in su la fine
dell’undecimo secolo[51] una cronica in versi latini, che comincia
dalle prime imprese de’ Normanni in Italia e finisce alla morte di
Roberto Guiscardo: narrazione molto viva, diligente e verace, fuorchè
qualche episodio accattato dai classici, dalle favole scandinave e da’
romanzi francesi;[52] e d’origine francese parmi l’autore.[53] Lo fu di
certo il monaco Goffredo Malaterra, il quale scrisse in prosa latina,
a riscontro di quei fasti di casa Guiscarda, le geste di Ruggier di
Sicilia, ritratte in parte dalla bocca del conte; e finisce, due anni
avanti la costui morte, il millenovantotto. Malaterra avea letto le
croniche di Normandia e qualche classico latino; avea meditato, egli
o il conte Ruggiero, sull’indole degli uomini e vicende degli stati;
onde da storico, anzi che cronista, tratta i primordii di casa di
Hauteville in Italia, i particolari della guerra siciliana; nè parmi
semplice quand’ei v’intreccia i miracoli dei Santi e delle spade
normanne, quando dissimula il numero degli ausiliarii ed esagera
quel dei nemici; quando salta a piè pari le imprese fallite o troppo
scellerate. Dei delitti privati di Roberto e di Ruggiero, furti, rapine
e agguati da masnadieri, truffe e violenze tra fratelli, il Malaterra
è largo raccontatore al par che Guglielmo di Puglia; non tanto per
libertà loro e grandezza d’animo dei principi, quanto per l’opinione
di quelle compagnie di ventura passata nelle corti, dove si tenean
vezzi guerrieri da vantarsene, e peccati veniali prodigalmente pagati
alla Chiesa.[54] Tolto dunque l’orpello mitico nelle prime imprese, un
po’ di reticenza o di esagerazione qua e là nelle altre, gli scritti
di Amato, Guglielmo e Malaterra ci trasmettono le tradizioni normanne
per tre vie dirette, paralelle e non comunicanti. Un buon compendio
che parmi anco palatino e torna al millecentoquarantasei, aggiugne
qualche particolare, secondo tradizioni che il tempo e gli interessi
andavano guastando.[55] Leone d’Ostia, compilando nei principii del
duodecimo secolo la storia generale di Monte Cassino, copia spesso
Amato e vi aggiugne altri fatti con doppia circospezione di monaco e
cardinale. Lupo Protospatario, autor della fine dell’undecimo, ci aiuta
da magro cronista, diligente e imparziale tra Greci e Normanni. Altri
contemporanei italiani e d’oltremonti, che citerò a’ luoghi opportuni,
raddrizzano talvolta le opinioni degli scrittori di parte normanna;
e così anche correggono qualche fatto per lo conquisto di Puglia i
Bizantini, e per quel di Sicilia i Musulmani: frettolosi gli uni e gli
altri e svogliati nel discorrere la caduta di lor dominazioni.

I primi Normanni capitati di qua dalle Alpi il millediciassette per
le pratiche del principe di Salerno,[56] venturieri per bisogno,
cupidigia o persecuzioni nel paese natio,[57] trovarono in Italia una
gran voglia a scuotere il giogo degli imperatori d’Oriente. I quali,
essendo rimasti signori per la seconda fiata della Calabria e della
Puglia, le ressero a lor solito; lasciarono i Musulmani di Sicilia a
correre e taglieggiare quelle province, non frenati da buone armi nè
da prudenti accordi; e con ciò ripigliarono le antiche pretensioni
su i principati di Benevento, Capua e Salerno. Indi que’ signori
longobardi si voltavano ad ora ad ora agli imperatori d’Occidente;
e i popoli della Puglia, maturi a novità per le condizioni generali
dell’Italia, si sollevavano, chiamando in aiuto gli Infedeli di
Sicilia.[58] Dopo Smagardo, patriotta mal noto (997-1000), sorgea
Melo, nobil cittadino di Bari, di schiatta longobarda, del quale la
balba storia dell’undecimo secolo narra le sventure piuttosto che la
virtù, passando sotto silenzio come egli suscitasse o rinnovasse la
ribellione pugliese; come ordinasse tre guerre in dieci anni; come
traesse a cospirar seco i principi longobardi, l’imperatore d’Occidente
ed il papa:[59] Melo, il ribelle italiano, morto in Germania con
onori da principe; uomo di maravigliosa costanza, operosità, arte
politica e valore. Come città longobarda fatta capitale dei dominii
bizantini in Italia, Bari parteggiava in due fazioni,[60] onde la
ribellione dapprima vi trionfò; poi la parte greca rimbaldanzì pei
rinforzi di Costantinopoli, e fu ristorato il governo straniero (1011).
Melo rifuggito alle corti longobarde che l’aiutavano sottomano,[61]
s’abboccò a Capua co’ venturieri arrivati di Normandia, lor diè armi,
cavalli e stipendio (1017), levò altre genti ne’ territorii di Salerno
e Benevento,[62] e mosse con tutta l’oste contro i Greci.

Ruppeli in tre o più scontri (1017-19), tornando ai Normanni i
primi onori del trionfo; ed era libera la Puglia, se non che novello
capitano, mandato di Costantinopoli, tagliò a pezzi l’esercito dei
ribelli sul funesto piano di Canne (ottobre 1019). Ritentò Melo la
fortuna, con altra schiera di Normanni sopraccorsa da Salerno, ove in
tre anni n’era venuto grande numero alla sfilata; e toccò la seconda
strage presso Melfi. Indi i principi longobardi a tentennare; Melo
a correr oltre le Alpi, chiedendo gli aiuti d’Arrigo imperatore, e,
mentre si apprestavano, morì. Dato, compagno di ribellione e fratello
della moglie, andò al supplizio (1021), venduto dal principe di Capua
e dall’abate di Monte Cassino. I popoli tornarono al giogo, resistendo
alcun capo qua e là con aiuti dei Musulmani di Sicilia. I cinquecento
Normanni che rimaneano de’ tremila passati in Italia, s’acconciarono
agli stipendii di Salerno e di Monte Cassino, divisi in sei compagnie,
due con l’abate e quattro col principe; qualche altro militò a Capua ed
a Napoli.[63]

Non oscuri, non potenti, vissero per altri venti anni da soldati di
ventura. Crebbero di riputazione nelle risse tra i piccioli stati,
passando sovente dall’uno all’altro per avarizia ed arte di mantenerli
tutti vivi ed infermi. Secondo i guadagni crebbero un po’ di numero,
per gente di lor sangue che cercava fortuna oltre le Alpi e per uomini
facinorosi arruolati nella Lombardia propria ed Italia inferiore, i
quali prendeano i costumi ed apparavano la lingua dei Normanni. Sopra
ogni altro si avvantaggiò di coteste compagnie il principe di Salerno,
allargando suoi confini. Sopra ogni altro lor giovò il duca di Napoli,
il quale ripreso lo stato mercè una compagnia, donolle il territorio
ove fondarono Aversa (1029), e ’l condottiero Rainolfo funne chiamato
console e poi conte. Arrigo secondo e Corrado il Salico, calando in
questi tempi nei principati per mantenervi la precaria autorità dello
impero occidentale sopra quella del bizantino, guardaron d’occhio
benigno i Normanni come stranieri; e Corrado investì solennemente
Rainolfo della contea d’Aversa (1038), dandogli a mano il gonfalone
imperiale attaccato in cima a una lancia.[64]

La compagnia normanna nella primitiva sua forma sembra squadron
di cavalli, da venticinque ad ottanta, condotto da un capitano
intraprenditore che assoldasse gli uomini e guadagnasse per sè,
ovvero da capitano eletto che amministrasse il peculio sociale, cioè
lo stipendio toccato in comune e il bottino. In battaglia par che le
compagnie dessero comando temporaneo ad un capitano a scelta di tutti,
per quel giorno colonnello, com’or diremmo, d’un reggimento.[65] Due
reggimenti o bande erano in Italia verso il milletrentotto; delle
quali la prima, di veterani e lor aderenti chiamati di Normandia,
stanziati ad Aversa, fatti possidenti e però meno avventurosi, s’andava
rassettando, a mo’ delle istituzioni patrie, sotto un colonnello
perpetuo o si chiami conte privilegiato dall’imperatore; ma più ritenea
del _wicking_ che non avesse preso del feudo. L’altra, vero _wicking_,
di giovani che tentavano la sorte, mescolati a più numero d’Italiani,
lasciò i soldi del principe di Salerno per seguire le insegne bizantine
in Sicilia. Eran circa cinquecento cavalli, condotti da un capitano
amministratore, il milanese Ardoino.[66]

Il savio cavaliere lombardo, ripassato co’ suoi il Faro dopo l’insulto
di Maniace, gittò il dado a un gran disegno. La ribellione di
Puglia male spenta con Melo,[67] si ridestò per opera del figliuolo
Argiro, come prima le soldatesche bizantine sgomberavano il paese,
traendo alla guerra di Sicilia: ma fe’ testa ai ribelli la fazione
costantinopolitana, talchè Bari fu presa e ripresa; e infine Michele
Doceano, tornato di Sicilia, ricominciò i supplizii nella capitale
(nov. 1040). Argiro nondimeno rimase nella provincia, latitante o
in arme.[68] Ardoino, giunto in questo medesimo tempo, praticò coi
malcontenti; e non si fidando, come soldato ch’egli era, nelle forze
tumultuarie, nè in Bari aperta ai Bizantini dalle fazioni e dal mare,
divisò di piantar altra bandiera di rivoluzione a Melfi, addossato
all’Apennino allo sbocco della maggior valle onde si valicava agli
stati del Tirreno, nemici naturali di Costantinopoli; ma sopra tutti
fece assegnamento su i Normanni. Andò pertanto ad Aversa ad esporre
le condizioni delle cose; il fior degli eserciti greci avviluppato
in Sicilia, i popoli della Puglia pronti a ripigliare le armi: «E
perchè ti starai,» disse al conte Rainolfo, «contento a due spanne di
terreno, come il topo nella buca, quando puoi meco signoreggiare quei
ricchi campi, cacciandone le femine vestite da soldati che li hanno
in guardia?»[69] Ristretti i capi a consiglio, deliberano l’impresa;
stipolano federazione con Ardoino, e ch’egli s’abbia metà degli
acquisti. Aversa fornì trecento uomini sotto dodici capitani, che
allora e poi si addimandarono conti, uguali tra loro in grado e con
ugual diritto nel partaggio.[70]

All’entrar del millequarantuno Ardoino una notte conduce chetamente
le compagnie a Melfi; si fa incontro ai cittadini che pigliavano
l’arme, ed «Ecco, lor grida, vi reco la libertà che sospiraste. Io
tengo parola: compite or la parte vostra ed accogliete come compagni
e fratelli cotesti amici miei, mandati proprio da Dio per togliervi
di servitù!»[71] Fermasi il patto che Melfi non abbia signor feudale;
reciprocamente si giura lega e amistà.[72] La dimane i Normanni corron
predando a Venosa; il secondo dì ad Ascoli, poi a Lavello e per tutta
la Puglia senza contrasto.[73] Tra le due bande e i Pugliesi che le
seguirono, sommavan già a tre migliaia d’uomini; settecento soli a
cavallo e pochi tra essi vestiti di corazza.

A’ diciassette marzo, Doceano lor presentava la battaglia su le sponde
dell’Olivento sotto Melfi, con la legione Obsequiana dell’Asia Minore e
gli ausiliarii, russi: cinque o sei contr’uno ed assai meglio armati;
ma furono sconfitti.[74] I Greci toccarono la seconda rotta ancorchè
rinforzati di Traci e d’Italiani a Montemaggiore su l’Ofanto, del mese
di maggio; la terza, di settembre, a Montepeloso, dove i Normanni
non riconobbero al certo il comune legnaggio nei Varangi, schierati
contr’essi con genti greche e slave, sotto il catapano Boioanni. Si
bilanciò la fortuna delle armi nel quarantadue, ripassato in Italia il
fiero Maniace. Poi tornò per sempre ai Normanni.[75]

Tra coteste guerre, le due bande d’Aversa e di Sicilia stanziavano a
Melfi, accomunate, com’ei sembra, e ridivise sotto dodici condottieri,
i quali si reggeano a repubblica, e ciascuno s’acconciò un palagio e
un quartiere nella città:[76] independenti l’un dall’altro e gelosi;
ma gareggiarono sempre di virtù sul campo. Col danaro, le armi e i
cavalli tolti ai nemici, e con promesse di maggiori acquisti, levaron
cavalieri e fanti italiani nei principati longobardi e nella Lombardia
propria;[77] incorporandoli, com’e’ parmi chiaro, in lor compagnie
anzichè formarne delle nuove. Ardoino disparve: morto nei primi
scontri, o messo da canto e sbeffeggiato s’ei volle comandare; rimaso
doge senza soldati dopo l’unione delle due bande.[78] Gli sostituirono
innanzi la battaglia di Montepeloso (1041) Atenolfo, fratello del
principe di Benevento, per guadagnar fede appo i popoli dei quali avean
bisogno;[79] ed a capo di pochi mesi dettero lo scambio ad Atenolfo per
le medesime cagioni, in persona di Argiro, il quale a quel precipizio
de’ Greci era stato gridato duca di Italia a Bari (febbraio 1042),
ed avea ripigliato virtuosamente le armi.[80] Argiro, capo della
rivoluzione, conveniva meno che ogni altro ai Normanni vogliosi non
di liberare la Puglia, ma di sottentrare agli antichi signori. Donde
all’assedio di Trani un condottiere per poco non l’uccise;[81] ed egli
a dirittura praticò con la corte bizantina di riformare lo stato in
Puglia;[82] tentò invano d’adescare i Normanni che uscissero d’Italia
per acquistar nuove palme e nuovi tesori ai soldi dell’impero in
Persia; e finì lor nemico mortale, duca di Puglia per doppia grazia
dei popoli e dell’impero d’Oriente, cospirando col papa e l’imperatore
tedesco allo sterminio dei Normanni.[83]

Ma gli astuti condottieri che s’erano scissi quando lor entrò in
mezzo Argiro, ed alcuno era passato al principe di Salerno,[84] tosto
s’accorsero che nell’unione sola era da sperar salute e trionfo sugli
Italiani. Rifanno pertanto la lega normanna; le prepongono, con titolo
di conte di Puglia, Guglielmo Braccio di Ferro, primo tra loro per
riputazione nell’armi e numero di aderenti; si associano il conte
d’Aversa; e riconoscono signor feudale Guaimario principe di Salerno.
Celebrossi il nuovo patto a Melfi, di settembre millequarantatrè, fatto
insieme il partaggio della terra occupata per forza o per accordo,
talchè il conte d’Aversa e i dodici condottieri, Guglielmo al par degli
altri, ebbero ciascuno una grossa città, rimanendo Melfi in comune come
capitale.[85] Ordinamento misto tra feudale e federale, che presto
volse a pretta feudalità. I condottieri tennero da baroni, com’e’
sembra, ereditarii, le città assegnate, levando tributi, sforzando gli
abitatori a servigi secondo le costumanze longobarde che trovavano nel
paese non cancellate dalla dominazione bizantina; ed anzi che smettere
gli abusi di quella, aggiunsero quanti ne ricordavano di casa loro in
Normandia.[86] Sembianza feudale anche ebbe l’omaggio al principe di
Salerno; credo senz’obbligo di servigio militare, nè altro. Il nuovo
conte di Puglia, elettivo, fu capitano a vita e magistrato federale, ma
ebbe dritto di creare o almen di proporre novelli baroni pei territorii
che mano mano s’acquistassero:[87] dimodochè il senato federale
s’empiva di creature sue, ed a capo di trent’anni il terzo conte
inghiottì e signor feudale e confederati, e regnò con titol di duca su
la più parte dell’Italia meridionale.

La famiglia che si levò a tanta altezza veniva dal Cotentino, provincia
normanna più che nessun’altra di Normandia.[88] Quivi nei principii
dell’undecimo secolo tenne la picciola terra di Hauteville presso
Marigny nella diocesi di Coutances,[89] un Tancredi, gentiluomo di
nobiltà mezzana, di scarso avere, di gran forza e coraggio, non ignoto
a corte dei duchi di Normandia, ma non congiunto loro, come poi si
favoleggiò;[90] il quale fu padre di dodici robusti figliuoli, educati
secondo il secolo e paese, in cacce, armi, cavalli, pietà cristiana
e morale da rubatori di strada. Fatti guerrier di ventura, tre dei
maggiori, per nome Guglielmo, Drogone e Unfredo,[91] capitarono
dopo varie vicende in Italia; militarono a Capua, indi a Salerno, e
passarono con l’esercito di Maniace in Sicilia (1038); dove Guglielmo,
preposto a un drappello o compagnia che fosse,[92] meritò il nome
di Braccio di Ferro. Rifulse al paro la sua virtù nella guerra di
Puglia: co’ brividi della quartana addosso si gittava nella mischia
a Montepeloso (1041) e ristorava la battaglia: prode tra i prodi,
affabile e savio, spalleggiato da due fratelli conti anch’essi
o capitani di compagnie, chi potea contendergli il primato nella
repubblica militare di Melfi? Morto costui a capo di tre anni (1046),
fu rifatto conte di Puglia Drogone, ch’ebbe primo l’investitura dallo
imperatore Arrigo terzo (1047); e ucciso Drogone (1051), i Normanni gli
surrogarono l’altro fratello Unfredo, sotto il quale repressero un gran
tumulto di principi e popoli.[93]

Tumulto legittimo nel popolo che avea cercato libertà e pativa oltraggi
novelli; tumulto suscitato anco dal papa e dagli imperatori d’Occidente
e d’Oriente per interesse proprio, sotto la solita specie di ben
pubblico, morale, giustizia, religione. I Normanni lor davano appicco.
E veramente se mancassero attestati precisi della costoro insolenza
e cupidità in Italia, si argomenterebbe dagli eventi contemporanei
d’Inghilterra, dove gli ospiti normanni di Eduardo primo fecer tanto
che provocarono i Sassoni alla ribellione.[94] Crederemo dunque agli
scrittori tedeschi, italiani e bizantini di quel tempo i soprusi che
narrano delle bande stanziate in Puglia, mescolate d’oltramontani e
Italiani, ai quali era sola patria il campo, sola virtù il disciplinato
valore.[95] I nuovi sudditi, spogliati dai conti e oltraggiati dalle
soldatesche, dettero ascolto ai tre potentati che inopinatamente
stendean loro la mano. Costantinopoli, per estremo rimedio, richiamava
gli esuli a Bari; facea duca d’Italia Argiro figliuol primogenito
della rivoluzione; prometteva alla Puglia l’età dell’oro. L’imperatore
germanico si apprestava a mandare soldati, sollecitato dal papa che in
quella stagione era come suo castaldo in Italia. Più che ad ogni altro
premea l’impresa alla corte di Roma, la quale sorgendo da due secoli
di vergogne, a’ consigli d’Ildebrando monaco e cardinale prendeva
a riformar i costumi del clero e le elezioni ecclesiastiche, per le
quali combattè Ildebrando papa: e con quelle nuove armi di castità e
libertà ritentava gli acquisti nell’Italia meridionale. Leone nono,
uom di religione e virtù private, condusse eserciti per liberare i
popoli, com’ei diceva, dalla tirannide: a difendere i poveri cospirò
coi due imperatori, con Argiro e coi Pugliesi tinti tuttavia del sangue
di Drogone, che fu pugnalato alle spalle alla soglia del tempio. E
tranquillava la coscienza con l’equivoco sacerdotale. «La morte d’alcun
Normanno io non bramo, nè d’alcun uomo,» scrivea Leone pochi anni
appresso a Costantino Monomaco, «ma voglio far pentire col terrore
umano chi non paventa il giudizio di Dio.»[96]

Mentre i nemici si sfogavano senza unità di consiglio nè d’azione, i
Normanni si rassodarono, si estesero nelle Calabrie sopra i Greci;[97]
e vennero d’oltremonti i figliuoli di Tancredi per la seconda moglie
Fredesenda, primo tra essi Roberto Guiscardo (1047); al quale il
fratello Drogone non sapendo come provvedere, mandollo con un pugno
d’uomini ai confini di Calabria; fe’ racconciare un ridotto di legname
in cima a un monte; lo chiamò Rocca di San Martino; disse lì al giovane
di pigliar se potesse quanto scopriva con gli occhi; e volte le spalle
se ne tornò in Puglia.[98] Cominciò Roberto il conquisto della Calabria
da ladrone: rapire bestiame, saccheggiar ville, sequestrare le persone
che paghin riscatto, ardere i cólti a chi ricusa la taglia, ammazzare
cui difende la roba; tantochè un distretto si sobbarcava alla signoria
feudale e i masnadieri passavano a un altro. Nel pessimo tirocinio,
Roberto si fe’ gran capitano; si rimpannucciò con un matrimonio ed
un tradimento; assoldò gente e se ne attirò molta più con promessa di
bottino, con giustizia nel dividerlo, con quel suo sembiante marziale
e risoluto, con piglio da buon compagno, e riputazione di smisurato
coraggio, costanza, astuzia e profondità di consiglio. Un’oste di
Calabresi per tal modo seguiva le fortune di Roberto quando papa Leone
calò in arme a Civita sul Fortore, e i Normanni ragunarono tutte
loro forze per difendersi. Affamati, ributtata dal papa ogni lor
proposizione e preghiera, furono costretti a combattere (18 giugno
1053), capitanando Unfredo l’esercito e la prima schiera, Riccardo
conte d’Aversa la seconda, e Roberto la terza, tutta di Calabresi. Gli
Italiani del papa, senza capitano, fuggirono; i Tedeschi si fecero
tagliare a pezzi; gli Italiani delle compagnie e que’ di Roberto
trionfarono allato ai Normanni.[99]

Lasciata da canto la supposta concessione feudale del papa in questo
tempo,[100] certo è che i vincitori il fecer prigione baciandogli
i piedi, e che Leone benedisse lor vivi e loro morti, lagrimò, fece
lunghe penitenze, dicon anche miracoli, e dopo dieci mesi tornò libero
a Roma, rannodate con Argiro e coi due imperatori sue trame contro i
Normanni;[101] ma la morte le troncò (1054) e prevenne anco Stefano
nono che parlava di ripigliare l’impresa (1058).[102] Unfredo intanto
usando la vittoria di Civita, soggiogava il rimanente della Puglia;
minacciava Bari e qualche altra città da non potersi espugnare di
leggieri; il Guiscardo ripigliava l’opera in Calabria;[103] e con
questo crescea la potenza di casa Hauteville, fatti conti Malgerio
in Capitanata e Guglielmo in Principato, e venuti altri fratelli e
aderenti.[104] Sperò Unfredo lasciare l’oficio in retaggio: in punto di
morte, chiamato a sè Roberto, lo istituì tutore del figliuolo minore;
raccomandò forse entrambi ai capi normanni; e quando ei spirò (1056)
il Guiscardo fu promosso a conte di Puglia.[105] Il quale fe’ sentir
la mano del masnadiere al pupillo ed ai compagni; represse duramente
con forza e frode quei che si ricordavano dell’uguaglianza; e divenne
di fatto signor feudale. Compose agevolmente una sembianza di dritto,
prendendo titol novello e investitura dalla corte di Roma.

Già Ildebrando preludeva per bocca di Niccolò secondo alla guerra del
sacerdozio contro l’impero, ordinando libera la elezione dei pontefici
(1059); già l’idea guelfa lampeggiava nella mente del cardinale toscano
e del papa savojardo vissuto a Firenze: la corte di Roma, volendo
sciogliersi della soggezione ai Tedeschi, dovea farsi puntello delle
forze, quali che si fossero, che trovava in Italia. Niccolò dunque,
tenuto un concilio a Melfi sopra la disciplina ecclesiastica, vi
compì faccenda più grave: abboccatosi con Roberto scomunicato, lo
ribenedisse, l’investì della signoria di Puglia e Calabria, che le
tenesse, con titol di duca, in feudo della Chiesa romana, giurassele
fedeltà, le fornisse servigio militare al bisogno, e pagassele censo
annuale di dodici denari a jugero su i terreni tenuti da lui medesimo
o conceduti a’ Normanni fino a quel dì. Promise inoltre a Roberto
l’investitura della Sicilia.[106] La corte di Roma non aveva dunque
posseduto Puglia, Calabria nè Sicilia, in fatto nè in carta, se non
che nella falsa donazione di Costantino e nelle interpolazioni dei
diplomi di Lodovico il Pio, Otone terzo ed Arrigo secondo; ma avea
nel clero dell’Italia meridionale fautori e clienti; avea nel popolo
riputazione di liberatrice e santa, e spirava religioso terrore nei
feroci venturieri d’oltremonti. La sostanza dunque fu, che il gran
censore della simonia diè in soccio a Roberto que’ suoi partigiani e
un podere d’incerto padrone, per cavarne censo in buona moneta ogni
anno, servigio di buone spade occorrendo, più i guadagni contingenti
della sovranità feudale. Onesto o no tal baratto, la corte di Roma
prestava forze vere in Terraferma; all’incontro nel patto aleatorio
della Sicilia non mettea nulla del suo. Alla quale origine corrisposero
i successi, poichè, conquistata l’isola, niuno domandonne l’investitura
alla corte di Roma; anzi il papa risegnò parte dell’autorità
ecclesiastica al principe che procacciasse un po’ di credito a San
Pietro nell’isola bipartita tra Fozio e Maometto. Nello stesso modo che
a Roberto e per gli stessi motivi, Niccolò secondo largì l’investitura
d’Aversa al conte Riccardo; il quale poco appresso carpiva il
principato di Capua (1062). Così la dominazione normanna mettea radici,
rafforzata dalla parentela e comunanza d’interessi di Riccardo e
Roberto; dal matrimonio di costui (1058) con una sorella del principe
di Salerno, per la quale ripudiò con ippocriti cavilli Alverada, prima
cagione di sua grandezza; e infine dall’acquisto della Calabria che
Roberto e Ruggiero compirono nella state del millesessanta.

Ruggiero, ultimo figlio di Tancredi, passò in Italia verso il
millecinquantasei, giovane di venticinque anni o in quel torno,[107]
grande, ben complesso, di bell’aspetto, facil parola, coraggio a tutta
prova, animo vago di lode, ambizioso per tanti esempii di sua casa e
nazione, turbolento, ma aperto e liberale, scevro dei vizii capitali
di Roberto, suo pari forse in guerra, savio nelle cose di stato, senza
quegli alti voli che sapea spiccare il Guiscardo. Il quale promosso a
conte di Puglia, ricominciata dopo breve spazio l’impresa di Calabria,
e fatta invano una punta infino a Reggio (1056), era tornato in Puglia,
quando gli parve di tentar con poche forze nuovo colpo, tra quelle
popolazioni spicciolate, discordi, disubbidienti all’impero bizantino:
verghette agevoli a spezzare, poichè lor nojava di stringersi in
fascio. Manda Ruggiero con sessanta cavalli (1057) sugli estremi
gioghi meridionali dell’Apennino; e quegli compie da maestro l’usata
fazione normanna, del piantarsi in un ridotto su le alture e dare il
guasto giù nei piani: talchè tutta la val di Saline presso il Capo
dell’Armi si sottomesse alla signoria feudale di Roberto. Con giovanil
probità, Ruggiero gli consegnava il danaro rubato: con sagacità lo
consigliava sopra un nuovo sforzo che s’apprestò contro Reggio; e
andativi entrambi, Ruggiero con audaci scorrerie provvide l’esercito di
vittuaglie; ma resistendo forte i cittadini e sopravvenuto l’inverno,
l’assedio fu sciolto. Allora nacque discordia tra i fratelli,
lagnandosi Ruggiero che Roberto per avarizia e invidia male assai
lo rimeritasse; ond’ei s’accostò all’altro fratello Guglielmo conte
di Principato, fatto anch’egli nimico di Roberto, al quale recarono
molestia con depredazioni e scaramucce; poi rappattumati, Ruggiero
tornava agli stipendii del duca con quaranta cavalli; e tosto non
vedendogli snocciolar moneta, se n’andava e ripigliava le scorrerie.
A Melfi, il giovane incapricciatosi dei cavalli di un vicino, li avea
rubati di notte con un di sua masnada per nome Blettiva, maestro di
furti; e di lì a poco saputo di certi mercatanti che viaggiavano da
Amalfi a Melfi, li appostò, spogliò e taglieggiò, e col danaro accrebbe
la compagnia fino a cento uomini. Ma entrato l’anno millecinquantotto
e straziata la Calabria dalle genti di Roberto, da una pestilenza e
da orribil fame, le popolazioni sottomesse alla signoria normanna si
levarono; trucidarono intere compagnie: onde Roberto si consigliava
di tramutar di Puglia in Calabria, dal campo nemico al suo proprio,
il lioncello ch’avea messo tal giubba in due anni. E gli interessi
raccendeano subitamente l’amore fraterno: Roberto concedeva a Ruggiero
la metà dei territorii acquistati e da acquistarsi nell’estrema
Calabria. Fermata la sede a Mileto, Ruggiero, del millecinquantanove,
soggiogò la più parte del paese; conciò male due vescovi, greci al
certo, che gli vennero incontro armati in Val di Saline; balzò in
Capitanata insieme con Roberto e fece cavar gli occhi a un altro
Normanno che s’era ribellato contro il fratello Goffredo; tornò con
Roberto in Calabria per far una scorreria fino a Reggio (1059) ed
apprestaronsi a maggior guerra. E in vero, del millesessanta, Roberto,
raccolto quasi un esercito e preso con seco Ruggiero, calò a Reggio
nel mese di luglio, e dopo molti combattimenti, nei quali il giovane
si segnalò come in tutta sua vita, i valorosi cittadini furon chiusi
dentro le mura, piantate le macchine a far la breccia; sì che Reggio
esausta s’arrese a patti, riconoscendo signore il duca. Il quale mentre
assestava la città, Ruggiero soggiogò le castella vicine, fuorchè
Squillaci; e anch’essa, dopo qualche mese, aprì le porte.[108]

In venti anni così dalla ribellione d’Ardoino, le compagnie di Normanni
e Italiani s’erano impadronite della vasta provincia bizantina.
Salerno, che fu prima a chiamarle e sempre le favorì, divenuta era
difatto lor tributaria, e i principi imparentati per forza con casa
Hauteville. Non van contati i piccioli stati: Napoli mezza libera;
Benevento carpita dal papa; Monte Cassino badia o feudo, non si sapeva;
Amalfi presa e lasciata da Salerno. La casa di Aversa, congiunta per
matrimonii con gli Hauteville e coi principi di Salerno, stava per dar
di piglio al principato di Capua ed a Gaeta. Della dominazione lombarda
rimaneva a Salerno appena il nome che sparve tra non guari (1077). Con
ciò la compagnia, mutando ordini a poco a poco, da federazione ch’era
di venturieri trapassava a nobiltà territoriale, vassalla la maggior
parte di Roberto di Hauteville, la minore di Riccardo d’Aversa: e
le due novelle dinastie, riconosciuta la sovranità feudale, prima di
Salerno, poi degli imperatori germanici, le aveano disdette entrambe,
acconciandosi in quella del papa. Garbuglio di dritto pubblico, se
dritto si dovesse cercare in quel periodo, tra la fermentazione degli
elementi onde poi s’aggranellò un reame, non conquistato da un popolo
sopra un altro, non riformato per movimento nazionale, nè religioso,
nè sociale, ma per una rivoluzione mista di tutti que’ modi. I soldati
mercenarii che fecero trionfare dopo mezzo secolo la ribellione di
Melo, longobarda, latina ed aristocratica, usurparono la dominazione
coi suoi frutti sopra i Bizantini e sopra gli abitatori ad un paro.
Nella lunga e vana guerra, i venturieri furon costretti a mutar sovente
i patti tra loro stessi, con le popolazioni soggiogate o confederate
e coi principi vicini; e il duca di Puglia che s’innalzò tra quelle
vicende, non venne a capo d’allargarsi in Calabria e quindi in Sicilia,
senza la spada d’un altro condottiere; onde nacquero nuovi piati e
andirivieni, finchè Roberto Guiscardo, correndo ad altre ambizioni,
morì in Grecia (1085), e primeggiò in casa di Hauteville il conte
Ruggiero signor della Sicilia. Infino a quel dì non vi ebbe dritto
pubblico propiamente detto nell’Italia dal Garigliano a Trapani, se
non che patti temporanei, i quali ben si assomiglierebbero a quei del
_wicking_ sotto gli Hastings e i Roll.

E come i compagni di Roll, così i Normanni d’Italia, in lor vita da
masnadieri mostrarono splendidamente le virtù che fondano gli stati.
Virtù di guerra, la quale s’apprese immantinenti agl’Italiani entrati
nelle compagnie; poichè non istà nella forza e nel coraggio, comuni
alla più parte degli uomini, ma negli ordini, nello esercizio, nella
fidanza singolare e collettiva dei combattenti, nell’onor militare,
nella tradizione delle vittorie. Prudenza civile adattata a quegli
umili principii: attirar sotto lor bandiere forti Italiani; accomunarli
d’interessi ai Normanni; trovare partigiani nelle città; vezzeggiare
ed arricchire il clero; divider opportunamente i furti; non sperperare
la parte propria, ma ammontarla col capitale comperando nuovi uomini
e nuove armi; tosare i sudditi senza lasciarli ignudi al tutto;
azzuffarsi tra loro al partaggio e fin venire alle armi, ma rifar
l’amistà e la fratellanza come se nulla fosse stato, quando i popoli si
sollevano incoraggiati da quella discordia. Tali erano i condottieri
normanni. Pieghevoli alle usanze del paese, fermatavi per sempre
la dimora, e pochi di numero, non sembravano reggimento straniero:
l’Italia meridionale godea sotto di loro la independenza e governo men
molesto, da non meritar odio e molto meno disprezzo.



CAPITOLO II.


Arrivati quegli avventurosi uomini a Reggio, non si potea far che non
agognassero al ben di Dio che si stendea sotto gli occhi loro di là
dallo Stretto. Roberto lo vagheggiava tanto che ne avea già accattata
dal papa la concessione eventuale;[109] Ruggiero, al dir del suo
storiografo, ardea della brama di guadagnarvi meriti spirituali e
temporali acquisti.[110] Nè si potea far che i Normanni non fossero
chiamati in Sicilia da Musulmani cui costrignesse cieco furor di parte,
da Cristiani levati a subita speranza del riscatto. Primi dovean essere
i Cristiani di Messina. Le sei miglia di mare che corrono tra le due
rive dello stretto, se contrastano il passaggio qualche dì, lo rendono
nel rimagnente dell’anno, agevole e comodo agli uomini, e sopratutto
alle merci; donde gli è avvenuto da tanti secoli che l’estrema Calabria
e i dintorni di Messina facciano come un sol paese per le relazioni
commerciali, i parentadi, i costumi, le usanze, fin le passioni
politiche degli abitatori: e n’abbiamo esempio nelle rivoluzioni
del milleottocentoquarantotto e del milledugentottantadue. Non fu
meno stretta al certo nel decimo secolo e prima metà dell’undecimo
la fratellanza delle due popolazioni cristiane, l’una soggiogata
e l’altra svaligiata ogni anno: gli stessi Musulmani, quand’e’ non
correano a Reggio con la spada in alto, venian pacifici mercatanti o
rifuggiti. Dopo le disposizioni degli animi, è da ricercare il numero.
A legger Malaterra si direbbe Messina abitata da soli Musulmani nel
millesessantuno; non facendosi parola di Cristiani di Sicilia pria
che i Normanni fossero giunti alla valle che si stende tra l’Etna e
la catena d’Apennino. Amato scrive più espresso che Roberto, entrato
in Messina, la rifornì di suoi cavalieri trovandola abbandonata.[111]
Ma ciò non va inteso in senso litterale, sendo inverosimile e direi
quasi assurdo supporre che i Musulmani avessero cacciato ogni cristiano
dalla città, il che mai non fecero nè in Sicilia nè altrove, nè
loro condizioni sociali ed economiche il comportavano. È da ritenere
pertanto che la popolazione di Messina fosse notabilmente diminuita fin
dal nono secolo,[112] sì che nel millesessantuno, sgombrata la piccola
colonia musulmana, la città si trovasse, per modo di dire, spopolata.
E con tale intendimento va esaminato il solo ricordo che abbiamo di
pratiche tenute dai Cristiani di Messina coi Normanni.

In sul principio del decimottavo secolo, uscì alla luce nelle
Miscellanee del Baluzio,[113] e fu ristampata dal Muratori[114] e da
altri, una _Breve istoria della Liberazione di Messina_, lasciata tra
mille altri documenti manoscritti da Andrea Duchesne, con annotazione
che fosse copia d’antichissimo codice del Senato di Messina.[115]
Spartivasi la Sicilia, al dir di quella cronica, in cinque principati
che si stendessero lungo la costiera da Tindaro a Taormina, a Siracusa,
a Trapani, a Palermo ed a Patti; e li reggean cinque Mori, nimici
l’un dell’altro; dei quali il primo, Raxdis per nome, avea sede in
Messina, dove i Cristiani, in virtù di capitoli fermati al conquisto,
godeano più alto stato che in niuna altra città dell’isola; serbando
lor possessioni e culto e lo stemma della croce d’oro in campo rosso,
conceduto già da Arcadio imperatore in merito di gloriosa gesta de’
Messinesi a Tessalonica. Ma sentendo aggravare ormai la mano degli
Infedeli e vedendo affranti gli altri Siciliani da servaggio assai più
duro, tre nobili uomini della città, Ansaldo di Patti, Niccolò Camulio
e Iacopo Saccano, bramosi di liberare la patria, a dì sei d’agosto
millesessanta, s’adunavano nell’isola di San Giacinto, come un tempo
si chiamò il Braccio del Salvatore. La conchiusione fu d’offrire la
Sicilia al conte Ruggiero e al duca Roberto che soggiornavano col
papa a Mileto. I congiurati fan parte molto cautamente nella città;
colgono il destro della festa in cui i Mori soleano chiudersi in
lor case per dodici giorni; s’imbarcano travestiti in un legnetto,
fingendo veleggiare per Trapani, ed approdano in Calabria. Sopraccorsi
a Mileto, scansano di negoziare col papa; apron gli animi sì a Ruggiero
esortandolo a venire in Sicilia; gli danno per arra il gonfalone
d’Arcadio. Ruggiero consultò dell’impresa col papa e con sei cardinali;
il papa, non perdendo mai di vista le cose di questo mondo, assentì,
a condizione che si dividessero i beni della Sicilia in tre parti,
la prima al clero, la seconda ai cavalieri, l’altra al principe.
Allora il conte giura i patti, e che sarà in arme a Messina a capo
d’una settimana. E al dì detto, cavalca con millesettecento uomini a
Palmi, indi a Reggio: alfine, affidate le navi al fratello Goffredo,
sbarcato ei con le genti a tre miglia da Messina, gli vengono visti
nell’isola di San Giacinto i cadaveri di dodici cristiani impiccati
dai Mori per indizio della congiura. Muove Ruggiero all’assalto; i
Cristiani di dentro piglian le armi, apron le porte, aiutano al macello
degli Infedeli; egli entrato in città chiama i congiurati, rende loro
il gonfalone vittorioso, ch’è riposto nella chiesa di San Niccolò; e
il conquisto cominciato per virtù de’ cittadini di Messina si compie
con la pattuita tripartizione delle terre. Così la cronica. Seguono
due diplomi, l’un di re Ruggiero del millecentoventinove, l’altro di
Guglielmo I del millecensessanta, nei quali leggonsi le larghe e vere
franchigie municipali di Messina, interpolate bensì di favole che
la fan capitale dell’isola sotto i Romani, i Greci e’ Saraceni.[116]
Talchè il lettore, dopo lungo giro nella storia dello undecimo secolo,
riesce in ultimo al gran campo di battaglia dove si travagliarono gli
eruditi siciliani dal decimoquinto al decimottavo, a furia di paradossi
e di falsi documenti. L’autore si vanta da sè medesimo contemporaneo;
ma lo tradiscono gli intenti, le idee e la latinità del secol
decimosesto.[117]

E in vero torna ai primi quarant’anni del secolo seguente la copia più
antica che abbiamo, quella cioè del Duchesne. Risalendo addietro, si
rinviene in altre parole lo stesso racconto nella storia del Maurolico
messinese, il quale non ne cita l’origine, nè par vi presti piena
fede;[118] ed una ventina d’anni avanti Maurolico, si legge breve cenno
della congiura nella storia del Fazzello, il quale par si riferisca
a tradizione orale.[119] Dalla forma volgendoci alla sostanza e
mettendo da canto la tripartizione legale dei beni, il soggiorno del
papa a Mileto, il gonfalone d’Arcadio e il rimanente della macchina
municipale, troviamo due fatti genuini, tolti da altre fonti che il
Malaterra e l’Anonimo, e però inediti infino al tempo di Maurolico:
cioè che un Goffredo fratel di Ruggiero, capitanasse le navi nella
impresa di Messina,[120] e che la Sicilia Musulmana fosse allor tenuta
da parecchi regoli discordi e nemici.[121] Parmi si scopra a cotesti
segni una primitiva e verace tradizione messinese, accresciuta e
guasta dal duodecimo secolo in giù, a misura che crescea l’importanza
ed ambizione della città; distesa in latino forse dal Maurolico
stesso senza intento di frode; e in ultimo rabberciata da non so qual
falsario, che interpolò anche il diploma del millecentoventinove, e
si provò a ingannare il Duchesne. Della tradizione primitiva parmi
si debba accettare i nomi dei tre congiurati o capi d’una congiura di
pochi Messinesi, il viaggio loro a Mileto e le pratiche con Ruggiero;
le quali sono taciute dai cronisti normanni, perchè i padroni le
dimenticavano volentieri. E poteano dimenticarle, perchè non se ne vide
effetto pubblico e flagrante come quello d’Ibn-Thimna. I Cristiani
Messinesi vegliavano di certo sul nemico, svelavano le condizioni e
andamenti di quello, ci rischiavan la vita non men che si fa con le
armi alla mano; ma non arrivarono giammai a prendere le armi. E forse
avvenne una o due volte che lo promettessero e non lo compissero,
poichè le prime fazioni di guerra contro Messina sembrano fondate in su
l’aspettativa di movimento qual che ei fosse dentro la città.

Sia per pratica di tal fatta, sia per esplorare soltanto il terreno
e tastare gli animi, s’arrischiavano i Normanni ad una correria nel
settembre del millesessanta,[122] poco appresso l’occupazione di
Reggio. Non uso a metter tempo in mezzo,[123] Ruggiero togliea seco da
dugento cavalli;[124] traghettato il Faro, entrava nel porto di Messina
discosto alquanto dalle mura in quella età. I Musulmani, all’insulto di
sì picciol drappello, uscirono in furia. Il conte volendo combattere
lungi dalle mura e far disordinare il nemico, s’infinse di fuggire a
briglia sciolta: tornò d’un tratto alla carica, sbaragliò la schiera
sparsa, la inseguì fino alle porte, uccidendo i più tardi; e presi i
cavalli, armi, robe che lasciavano per via, rimbarcatosi prestamente,
tornò a Reggio.[125] Indi mosse con Roberto alla volta di Puglia
ove il duca avea da compier l’usurpazione sopra i capi Normanni e le
città non sottomesse.[126] E pur tra cosifatte brighe i due fratelli
pensavano di portare la guerra in Sicilia alla nuova stagione; quando
Ibn-Thimna affrettolli all’impresa; il quale perduta parte dello stato
ch’aveva usurpato, spinto da timore, sete di vendetta ed inestinguibile
ambizione, saputi i gloriosi fatti de’ Normanni, fors’anco le pratiche
loro coi Cristiani di Sicilia, corse da Catania a chiamarli in aiuto
contro i suoi nemici musulmani. Abboccatosi a Mileto con Ruggiero,
e quindi a Reggio con lui e con Roberto che vennevi a posta,[127]
Ibn-Thimna lor profferiva il partaggio dell’isola.[128] A che
obiettando i Normanni non avere tante forze da combattere le possenti
milizie musulmane della Sicilia, replicava esser quelle divise e
discordi, avervi lui moltissimi partigiani,[129] rimanergli soldati e
castella ubbidienti: tantochè i Normanni acconsentivano, egli giurava
la lega,[130] e dava un figliuolo in ostaggio a Roberto. Ruggiero
s’apprestava allora ad andare in persona con sue genti d’arme; Roberto
forniva i pochi cavalieri e i marinai ch’ei potè avere a Reggio, su i
quali ponea Goffredo Ridelle, sperimentato uomo di guerra; e tornato
prestamente in Puglia, chiamativi a consiglio suoi condottieri,
n’ebbe altre forze,[131] in guisa che s’accozzò uno stuolo di cinque
centinaia d’uomini[132] capitanati da Goffredo Ridelle e da Ruggiero,
accompagnati da Ibn-Thimna come quegli che conosceva i luoghi e vi
tenea pratiche e più se ne vantava.[133]

Negli ultimi di febbraio del millesessantuno, a vespro, sbarcarono i
Normanni in su la lingua del Faro, presso i laghi.[134] Preser la via
di Rametta; di che addatisi i Musulmani di Messina, uscì un drappello
a far la scoperta. Cavalcando dunque Ruggiero la notte su per que’
monti, vide, all’incerto chiaror della luna, appressarsi un Musulmano:
sguainata la spada, senza tor lancia e scudo che gli recava dietro il
valletto, spronò contro il nemico, gli diè d’un rovescio alla cintola,
che lo tagliò netto in due pezzi, scrive il Malaterra con vezzo da
romanzo. L’ucciso era fratello d’Ibn-Meklati già signor di Catania.
Sbrigatisi da costoro, ma scoperti e perduta indi l’occasione d’un
colpo di mano, scorsero predando bestiame nei territorii di Rametta e
Milazzo, e al nuovo dì riduceansi a lor navi; cominciavano a imbarcare
la preda, quando levossi un vento che li ritenne. A Messina intanto,
ch’è presso a nove miglia, si notò la ritirata; si armarono cavalli
e fanti, corsero al Faro per assalire i Normanni mentre fossero chi
in terra chi in nave disordinati. Li trovarono al contrario stretti a
schiera, preparati sì bene al combattimento che Ruggiero avea mandato
Serlone, figliuol del fratello del medesimo nome, a girar di fianco
con una torma di cavalli. Colti tra due schiere, i Musulmani furono
rotti con molta uccisione: e i Normanni a incalzarli fino alla città,
e s’apprestavan anco a darle assalto, quando trovaron le mura difese
perfin dalle donne,[135] e uscì nuova gente con le fiaccole in mano a
combatterli. A lor volta i vincitori erano circondati, ricacciati nelle
alpestri coste dei monti ai quali s’appoggia la città. Raggiornando se
ne strigarono con un impeto che lor aprì la via della pianura;[136]
scesero al Braccio del Salvatore, senz’altra speranza ormai che
d’imbarcarsi per Reggio. La tempesta infuriava. Per tre dì rimasero
su quella lingua di terra,[137] intirizziti dal freddo; aspettandosi
che i Musulmani ingrossati di tutte le milizie dell’isola venissero
a gittarli in mare; confortandosi con far voti al Cielo che se li
cavasse di briga darebbero il bottino per riedificare una chiesa di
Santo Andronico a Reggio.[138] Abbonacciato, come avviene sempre, il
mare, scannavano i buoi predati, non volendo provarsi al tragetto con
tali impedimenti; poi caricarono il carname ai conforti di Goffredo
Ridelle che vergognava di tornare a casa e agli amici con le mani
vote. Messisi, com’e’ pare, i Musulmani a inseguir loro barche, gli
abitatori di Reggio ch’erano Cristiani e Saraceni, dice Amato, e
di Saraceni si deve intendere i mercatanti e rifuggiti, per mostrar
fede a Roberto novello signore della città, armarono navi, uscirono
contro quei di Messina; dopo molto trar di saette, se ne tornarono
con la peggio, uccisi nove uomini cristiani e presa una lor nave dal
nemico.[139] Ibn-Thimna in questo mezzo s’era rifuggito ed afforzato
in Catania.[140] Fallì dunque l’impresa fondata, come il mostrano i
narrati fatti e que’ che narreremo, in su le pratiche d’Ibn-Thimna
in Rametta e di Ruggiero in Messina; e compresero i Normanni che a
rincorare lor partigiani infedeli o battezzati, fosse uopo di maggiori
forze, e sopratutto navali.[141]

Roberto nei mesi di marzo e aprile convocava di nuovo i condottieri
con belle parole di vendicare la offesa di Dio, sterminare i Pagani
della Sicilia, liberare i diletti fratelli in Cristo, e v’aggiunse più
efficaci argomenti, doni e concessioni.[142] Accozzati per tal modo
da mille cavalieri e mille fanti,[143] venne di Puglia in Calabria
nei primi di maggio; postosi a un luogo presso la Catona, il quale
s’addimandava Santa Maria del Faro,[144] ov’adunò barche da traghettare
le genti; ma avea pochi legni da battaglia, tra dromoni e galee,
troppo deboli a fronte dell’armata musulmana.[145] Nella quale si
noveravano ventitrè tra corvette e dromoni ed uno o parecchi navigli
grossi che chiamavan gatti, forniti di macchine da guerra;[146] chè
Ibn-Hawwasci[147] risapendo i preparamenti di Roberto e sollecitandolo
ansiosamente quei di Messina, aveavi mandato da Palermo l’armata,
oltre ottocento cavalieri e vettovaglia.[148] La vera difesa era
l’armata. Poche milizie oltre quelle venute di Palermo potea fornire
la colonia di Messina picciolissima e minore al certo della popolazione
cristiana.[149] Rimasti dubbiosi alquanto di tentare il passaggio,[150]
contro tal navilio, Roberto e Ruggiero montati su due velocissime
galee, s’avvicinavano a Messina per esplorare: avvistati dai Musulmani
e inseguiti, si dileguarono fuggendo dopo avere sopravveduta appieno
la costiera;[151] e tornati al campo fermavano coi più esperti uomini
di guerra, di portare un finto assalto di fianco. Adunarono l’oste;
ogni uomo solennemente si confessò e comunicò; i due fratelli fecer
voto di menar vita più che mai religiosa ed esemplare se arrivassero
al conquisto della Sicilia; con gran fervore s’implorò l’aiuto
divino.[152] Ruggiero andava alla fazione a malgrado di Roberto,
il quale volle ritenerlo, dicono i cronisti, per fraterno amore, e
alfine gli die’ dugentosettant’uomini in luogo di cencinquanta ch’ei
n’avea tolti dapprima. Su tredici legni passarono a Reggio: indi la
notte quetamente traghettato lo Stretto e sbarcati, s’appiattarono in
un luogo detto le Calcare, a sei miglia per mezzogiorno da Messina,
ove poi surse la Badia di Santa Maria di Roccamadore e la terra di
Tremestieri;[153] e Ruggiero rimandò le barche per troncare ogni
speranza di ritirata, scrive con trito concetto il Malaterra; il vero è
che lì svelavan l’agguato, e tornando in Calabria gli poteano riportare
nuove forze. All’alba Ruggiero montato co’ suoi a cavallo s’avviava
a Messina, quand’ecco un kâid che andava, come poi si riseppe, a
pigliare il comando della città, con iscorta di trenta uomini d’arme e
un convoglio di muli carichi di danaro. Svaligiati ed uccisi costoro,
i Normanni avvistano lor proprie barche reduci da Reggio, le quali
misero a terra altri censettanta cavalieri. Fu un abbracciarsi a
vicenda un augurarsi certa la vittoria: e spronarono baldanzosi inver
Messina.[154]

Ed ebberla senza combattere. Dalle navi, dalle mura, i difensori aveano
scorto l’estranie armadure e i muli tolti al kaid; onde tennero già
passato tutto l’esercito normanno, vana ormai la guardia del navilio
in cui più s’affidavano e perduto ogni cosa;[155] tanto più che i
Cristiani della città per pochi e disarmati ch’e’ fossero poteano
levarsi al punto dell’assalto.[156] Percossi di subito terrore, i
Musulmani d’ogni ordine, sesso ed età si danno a fuggire chi quà chi
là, in barca, per la spiaggia, pei monti, per la selva, dice Amato;
i Normanni sopravvenuti non hanno che ad uccidere i sezzai, spartirsi
le donne, i bambini, gli schiavi, la roba.[157] Tra gli altri correa
su per l’erta un gentiluomo traendo seco l’unica sorella sua, bella
giovinetta, gracile, educata tra gli agi nelle stanze della madre.
I Cristiani incalzavano. Le mancava la lena; la paura allacciava le
gambe: e il fratello a sorreggerla, a scongiurarla con lagrime che
facesse animo. Ma rifinita stramazzò a terra e’ nemici eran presso:
il guerriero anzi che lasciarla all’ignominia, alla schiavitù,
all’apostasia, di propria mano la uccise.[158] Il creder vana ogni
difesa facea cader le braccia ai più forti. Anco l’armata salpò non
guari dopo, tornandosi a Palermo, perchè non osava riassaltare i nemici
in città, nè rimanere in mezzo alle due rive tenute da quelli.[159]
Ruggiero mandato aveva intanto al fratello le chiavi di Messina,
invitandolo a prendere possessione della città.[160] E il duca ragunava
in fretta quanti marinai e quanti legni piccoli e grandi si trovassero
a Reggio;[161] chiamati alle armi cavalieri e fanti, rendea grazie a
Dio della vittoria con gran fervore e dimostrazione d’umiltà cristiana.
Comandò poi d’entrare in nave. Corservi tutti con furiosa impazienza
di gioia, sì che il vassallo non si ritenne dal passar dinanzi al suo
signore, il signore non aspettò che lo seguissero i vassalli. Il mare
sorridea lieto e tranquillo; nè tardarono a sbarcare in Messina.[162]

Roberto diede opera incontanente ad assicurare la chiave della Sicilia,
sì agevolmente cadutagli in mano; onde sopravveduto il porto, le mura,
le fortezze, le case, munì Messina di nuove difese, ordinovvi presidio
di suoi cavalieri.[163] A capo d’otto dì, fatta la rassegna dei mille
cavalli e mille fanti ch’avea seco, mosse con Ruggiero e Ibn-Thimna
per la medesima via battuta da quelli pochi mesi innanzi. Precorreano
sparsi i cavalleggieri predando; a volta a volta si raccoglieano,
aspettavano i fanti e ripigliavano la marcia. Giunti alla formidabile
fortezza di Rametta, lor uscì incontro il kâid a chiedere accordo:
narrano i cronisti che in umil atto offrisse presenti, promettesse di
obbedir a Roberto come a suo signore e giurasselo sul sacro libro di
sua setta.[164] Forse ei non fece che disdire l’autorità d’Ibn-Hawwasci
e sottomettersi a Ibn-Thimna col quale pur avesse tenuto pratiche.
Viltà o incostanza, l’esempio di Rametta incoraggiò Roberto a tirare
innanzi per la costa dei monti che corrono lungo il Tirreno. Posò la
prima giornata a Tripi,[165] la seconda a Frazzanò;[166] poi volgendo
a mezzogiorno, valicati i gioghi, scese alla pianura di Maniace e
piantovvi le tende. Quivi accorreano i Cristiani abitatori dei contorni
con vettovaglie e presenti, scusandosi coi signori Musulmani che il
facessero per salvar la vita e la roba da quei predoni. Roberto e
Ruggiero raccolti benignamente i Cristiani, lor dettero sicurtà;[167] e
dopo alquanti dì ripresero il cammino giù per la valle del Simeto, che
par segnasse il confine tra gli stati d’Ibn-Thimna e d’Ibn-Hawwasci.

Primo intoppo lor fece la rocca di Centorbi, celebre nelle antiche
istorie; le cui alte mura e profondi fossi fortemente eran difese
da arcieri e frombolieri; nè vollero ostinarvisi gli assedianti,
portando la fama che Ibn-Hawwasci lor venisse alle spalle con gran
gente. Passato il Simeto, trovate sgombre Paternò ed Emmelesio, grosse
terre al dir d’Amato,[168] dalle quali e da ogni altro luogo dei
dintorni i Musulmani si dileguavano e struggeansi come cera al fuoco,
stette l’esercito a campo ben otto dì nella pianura di Paternò,[169]
capitanato, continua il cronista, da Roberto e da Ibn-Thimna:[170]
ond’è chiaro che non picciola parte fossero Musulmani; e ciò ne aiuta
a comprendere i fatti. Ritraendo poi dagli esploratori d’Ibn-Thimna non
essere nè vicino nè apparecchiato Ibn-Hawwasci, l’esercito, traghettato
di nuovo il Simeto, espugnava con molta uccisione le grotte di San
Felice, s’innoltrava infino ai mulini posti sotto Castrogiovanni in
riva al Dittaino, dove piantava il campo.[171]

S’erano tra coteste fazioni raccolti intorno Castrogiovanni i
Musulmani che sgombravano dalle assaltate province, i quali aveano
ingrossato l’esercito d’Ibn-Hawwasci, sì che la tradizione normanna
lo fece sommare, tra Siciliani ed Affricani, a quindicimila cavalli
e centomila fanti; e lor attelò a fronte, per maggior ornamento della
leggenda, settecento cavalieri soli, tralasciando gli uomini d’arme, i
pedoni, e quel ch’è più, le genti d’Ibn-Thimna.[172] A capo di pochi
dì Ibn-Hawwasci veniva ad assalire i Normanni con l’esercito diviso
in tre schiere. Roberto l’aspettò ordinatosi in due, vanguardia e
battaglia; diè la prima a Ruggiero, capitanò l’altra egli stesso;
arringò tutta l’oste: Non temessero di venire alle mani con tanta
moltitudine, quando il Redentore avea detto: Se hai fede quanta n’entra
in un grano di senapa e comandi alla montagna, la si muoverà:[173]
la montagna che avean dinanzi non esser di pietra no, ma di brutture,
d’eresia, d’iniquità; soffiasservi sopra invocando lo Spirito santo e
si dissiperebbe, sendo Iddio con loro; si confessassero delle peccata,
ricevessero il corpo e il sangue di Cristo, impugnasser bene le lance
e le spade, e non dubitassero della vittoria. Compiuti i sacri riti,
rimontano a cavallo, s’alza il gonfalone, ogni guerriero fa il segno
della croce e sprona innanzi; e ributtano i nemici; li scompigliano, li
inseguono ammazzando infino ai ripari; e accalcandosi i fuggenti alle
porte, molti son fatti prigioni in su l’orlo del fosso: i vincitori
tornano addietro lasciando per tutta la campagna orrendi segni di
strage. Le cronache v’intessono loro prodigi, l’una dice non ucciso
nè ferito nella battaglia nessun cristiano, un’altra pochissimi, e dei
Musulmani caduti diecimila: le quali frasi se non fossero da romanzo,
farebbero tornare a Ibn-Thimna ed a’ suoi l’onor principale della
giornata. Il vero è che la disciplina delle bande normanne e italiane,
il coraggio, la sapienza dei capi, le forti armadure, gli animi
infiammati di religione, d’onor militare e di cupidigia, ragguagliavano
e sorpassavano l’avvantaggio del numero ch’aveano i Musulmani,
ragunaticci senza fiducia nè consiglio. La preda fu tanta che qual
cristiano avesse perduto un cavallo in battaglia ne guadagnò dieci
nel partaggio. I prigionieri fatti schiavi si contarono con l’altro
bestiame.[174]

Non essendo ormai impresa che non paresse da tentare contro così
fatti nemici, Roberto si diè a strignere la città. Il dì appresso la
vittoria si poneano i Normanni in sul lago di Pergusa a mezzogiorno
di Castrogiovanni, donde è men aspra la salita; al secondo
giorno tramutarono il campo a Calascibetta, discosta due miglia a
settentrione, dove fu diviso il bottino; indi scesero al piano detto
delle Fontane,[175] rizzaron castella da quattro parti della città per
chiudere tutti i passi; dettero il guasto alle messi ed agli alberi
fruttiferi.[176] In una delle quali scorrerie Ruggiero con trecento
giovani si spinse presso Girgenti, ardendo e depredando la campagna,
e riportonne ricchissima preda che diè a dividere a Roberto.[177]
Mentre il presidio di Castrogiovanni teneva il fermo contro ogni
offesa, veniano al campo i kâid di parecchie rocche minori con danaro
e presenti chiedendo la tregua, e Roberto l’accordava.[178] In ultimo
giunsero i messaggi di Palermo con sontuosi doni, vesti lavorate a
modo di Spagna, tele di lino, vasellame d’oro e d’argento, muli con
selle ornate d’oro e ricchi morsi; e secondo costumanza saracena,
scrive Amato, recaron anco in un sacco ottantamila tarì.[179] Ci si
narra che Roberto “con sottil trovato”[180] inviasse in Palermo, sotto
specie di render grazie del dono, un esploratore; un diacono Pietro,
che intendeva e parlava l’arabico, ma per comando del duca s’infinse
d’ignorarlo affinchè non si guardassero di lui. Il quale andato alla
capitale musulmana, l’emir tutto lieto d’essersi fatto amico Roberto,
l’accolse onorevolmente, rimandollo con presenti, e quegli avea sì ben
guardato e udito che riportò parergli la città decaduta e sbigottita,
proprio un corpo senz’anima.[181]

Il blocco di Castrogiovanni si travagliava da un mese[182] e due
n’erano scorsi dallo sbarco a Messina,[183] quando Roberto si deliberò
alla ritirata, di mezzo luglio.[184] Onde non può credersi al Malaterra
che ne fosse cagione l’inverno imminente. Poche le genti e scornate
al certo in battaglia e per malattie, raccolte le taglie e il bottino,
Castrogiovanni inespugnabile, che altro restava ai Normanni se non che
tornarsi in Terraferma, tener la via aperta a nuovo passaggio, nutrire
la discordia per mezzo d’Ibn-Thimna e ordinar le popolazioni cristiane
sì che li aiutassero almen di danari? Le popolazioni cristiane del
Valdemone mostratesi un po’ ai Normanni nel campo di Maniace, trassero
tanto più sotto Castrogiovanni ovvero nella ritirata, chiedendo al
duca liberassele dal giogo, offrendogli danari e vettovaglie, dice il
cronista, in tributo:[185] e qui par vero perchè non si può far che
Roberto negli accordi con Ibn-Thimna non abbia stipulato almeno la
cessione di una provincia. Sostò dunque a mezza via su la costiera
settentrionale; bandì mercato com’era uopo a chi volesse vendere o
barattare tanta preda di bestiame; di che molto si rallegrarono i
guerrieri e s’invogliarono a soggiornare nel luogo circondato di
popolazioni Cristiane. Quivi a tre miglia dal mare in territorio
fertile e ameno, presso le antiche rovine di Alunzio o Calacta, chè
ancor ne disputano gli eruditi,[186] Roberto fabbricò o ristorò in
sito fortissimo un castello al quale pose nome di San Marco, come la
fortezza ond’avea principiato il conquisto delle Calabrie, sperando che
il buon augurio e la protezione del santo evangelista gli portassero
pari fortuna in Sicilia. Lasciovvi presidio sotto un Guglielmo de Male;
e continuato il viaggio, fece venir la moglie in Messina,[187] rafforzò
meglio la città d’uomini e vettovaglie; indi tornossi in Puglia e
Ruggiero a Mileto in Calabria. Ibn-Thimna era ito intanto in Catania
per continuare la infestagione sopra i nemici che gli rimanevano in
Sicilia,[188] ch’è a dire gli abitatori delle odierne province di
Caltanissetta e Girgenti. Le province di Catania e Siracusa ubbidivano
a lui;[189] quella di Messina, che a gran pezza risponde al Val Demone,
stava sotto la protezione dei Normanni, i quali a bella posta avean
munito il castel di San Marco.[190] Le province di Palermo e Trapani
avean fatto l’accordo, forse un patto di federazione con l’emir di
Catania. In tali condizioni lasciava la Sicilia Roberto, capitano degli
ausiliari cristiani d’Ibn-Thimna. Vedremo per brev’ora sottentrargli
il fratello Ruggiero, e poi farsi vero capitano dei conquistatori
cristiani della Sicilia; e Roberto venir com’ausiliare in due sole
fazioni di sì lunga guerra.



CAPITOLO III.


La sconfitta d’Ibn-Hawwasci sotto Castrogiovanni portò in Palermo
un mutamento di stato analogo a quello che avea seguita, nel mille
quaranta, la rotta d’Abd-Allah-ibn-Moezz.[191] Narravaci Amato
l’ambasceria dei Palermitani, la tregua ch’egli chiama sommissione,
stipulata con Roberto dalla capitale e da altre città e castella, e
l’occupazione del Valdemone. E Ibn-el-Athîr scrive come il signore
di Castrogiovanni, vinto dai Franchi, riparasse nella fortezza; come
quelli cavalcando per l’isola s’impadronissero di varii luoghi; come
non pochi sapienti e patriotti musulmani si rifuggissero in Affrica
appo Moezz-ibn-Badîs, per chiedergli aiuti, esponendo la misera
condizione di lor popolo, straziato dalla discordia e dalle armi
straniere. Messe insieme le due tradizioni appare dunque l’usata
vicenda delle guerre civili: l’opinione pubblica dannò i vinti; i
partigiani loro nella capitale fuggirono o furono scacciati; nè è
maraviglia che l’oratore di Roberto vi trovasse tanto scompiglio e
squallore, nè che la parte dei nobili, amica d’Ibn-Thimna, mandasse
a rallegrarsi coi Normanni, forse a trattare accordo per dar tutti
insieme la pinta a Ibn-Hawwasci. Nè scarseggiano tra i Musulmani
dell’undecimo e duodecimo secolo cotesti esempi di lega coi Cristiani;
chè oltre i raccontati fatti d’Akhal e d’Ibn-Thimna stesso in Sicilia,
ne son piene le istorie della Spagna. Con men biasimo gli usciti
di Palermo si rivolgeano adesso a Moezz-ibn-Badîs, sollecitandolo a
portare le armi in Sicilia.

La dinastia zîrita, sopraffatta come dicemmo dagli Arabi d’oltre
Nilo, avea perduta la terra, non il mare; le rimaneano nella munita
penisola di Mehdia il navilio, un forte nodo di schiavi stanziali, e
denaro da reggere alla guerra: quegli Arabi medesimi, rapaci e fieri
quanto le belve, tornavano al par di esse inetti a durevole sforzo
comune, inferiori alla virtù dell’ingegno che sapesse adoperarli
agli intenti suoi. Fin dai primi impeti della irruzione, avea Moezz
guadagnati alcuni capi di tribù con doni e parentadi, sposando ad essi
le proprie figliuole; onde quei l’aiutarono alla ritirata da Kairewân
a Mehdia, nel millecinquantasette. A capo di pochi anni, distrutto
ogni industria agraria e cittadinesca nell’Affrica propria, fuorchè le
cittadi marittime, consunto il bottino, quelle masnade, non sapendo
altro mestiere, furono costrette a mendicare stipendio alle porte
di Bugia, Tunis, Mehdia, Sfax, Kabes: fortezze inespugnabili, poi
ch’essi non poteano chiudere il mare e ridurle per fame. Le quali città
dettero ascolto ai barbarici condottieri, avendo a lor volta bisogno
della terra pei commerci e sendo spinte l’una contro l’altra da quella
forza dissolvente della società musulmana, che abbiam notata in tutto
il corso di queste istorie. In Bugia un ramo di zîriti, ribelle al
ceppo della famiglia, agognava ad usurpar tutto lo stato; nelle altre
città le fazioni o i governatori faceano opera a sciogliersi dalla
ubbidienza; e da Mehdia il principe si sforzava a ripigliare l’autorità
dove potesse. Le tribù masnadiere si messero dunque a combattere per
l’uno o per l’altro, talvolta tra loro stesse; mescolaronsi nella
briga i Berberi della campagna e le popolazioni delle città marittime:
Arabi del primo conquisto, Berberi e avanzi d’altri antichi abitatori.
La quale tenzone da pigmei, tanto più rabbiosa, durò ottant’anni,
accompagnata dalla desolazione e dalla fame, ed aprì la via ai
conquisti dei Normanni siciliani (1148) e degli Almohadi (1160).

Onde Moezz impotente contro i ribelli della costiera e tanto più
contro gli Arabi, anzichè consumare le forze che gli rimaneano in vane
imprese contro province perdute, volle tentare la fortuna in Sicilia
con l’aiuto degli stessi nemici ch’egli avea in casa.[192] Allestì
le navi, le fece salpare l’inverno del millesessantuno. Arrivate alla
Pantelleria, una tempesta le disperse; ne affondò la più parte,[193] e
sgomentando i nemici d’Ibn-Thimna delusi nella speranza dell’aiuto, diè
incentivo, com’e’ sembra, a nuova impresa di Ruggiero.

Il quale, nel dicembre, ripassato il Faro con dugencinquanta cavalieri,
tagliava l’isola per lo mezzo, spingendosi fino a Girgenti, quasi
fossevi aspettato; depredava il paese e tornava ratto addietro. Le
popolazioni cristiane gli veniano incontro liete e disposte a dargli
favore senza affidarsi troppo: ma quei di Traina, gente greca,
l’accoglieano in città con grande allegrezza ed ossequio, tanto che
ordinò la terra come ei volle, dice lo storiografo del conte[194] e
l’Anonimo che Traina si sottomesse al suo dominio; ma scrivea questi
ottant’anni dopo. Parrebbe piuttosto che i Troinesi, liberi di fatto
dalla signoria musulmana, aspirando a ripigliare l’ordinamento di
municipio tributario[195] avessero data ospitalità al fortunato
avventuriere cristiano, ascoltati i suoi consigli militari e, se si
voglia, appiccata una pratica di confederazione, come la chiamarono e
stipularono allora i Normanni con alcune città di Calabria, cioè che il
condottiero s’obbligava a difendere il comune, e questo a riconoscerlo
console e pagargli stipendio. E la condotta non sarebbe divenuta
signoria feudale a Traina che dopo la guerra dell’anno seguente, così
come accadde in quel torno a Geraci ed altri luoghi in Calabria, quando
il console afforzò un castello dentro la terra, mutò lo stipendio in
tributo, aggravandolo di soprusi feudali, e gli abitatori o piegarono
il collo, o resistettero e furono soggiogati a pretto vassallaggio.
Veramente non ci si narra che Ruggiero ponesse questa prima volta
presidio in Traina. Passovvi le feste di Natale; poi, per avviso
venutogli di Calabria, frettolosamente partissi.[196]

Era giunta in Calabria una donzella che schiudeva in terra il paradiso
all’ambizioso giovane di trent’anni: Giuditta, figliuola del conte di
Evreux, discendente dei duchi di Normandia. Par che Ruggiero, pochi
anni innanzi, uscendo dal tetto paterno senz’altro retaggio che il
cuore e la spada, si fosse invaghito della giovinetta reclusa nel
Monastero di Saint-Evrault, e che dopo parecchi anni, il fratello
materno di lei, Roberto di Grantemesnil, priore de’ Benedettini a
Saint-Evrault, indi a Santa Eufemia in Calabria, avesse trattato il
matrimonio della Giuditta con Ruggiero, ormai capitano di molta fama,
signore di Mileto e sperava di più. La fidanzata venne con la sorella
Emma, lasciando entrambe il chiostro, si dice anco il velo, per trovare
mariti normanni in Italia. Sposatala a San Martino in Val di Saline,
Ruggiero celebrava solennemente le nozze a Mileto, dissimulando sua
povertà con sfarzo di vesti e di cavalli e strepito di stromenti
musicali. Le dolcezze dell’amore non gli fecero scordare gli sperati
acquisti. A capo di pochi giorni, racchetata la sposa che piangeva e
volea ritenerlo, sopraccorse in Sicilia dove Ibn-Thimna lavorava per
lui credendo far per sè stesso.[197]

Data la posta al musulmano che venissegli incontro da Catania, sbarcò
a Messina con quanti uomini d’arme potè accozzare, e tentando nuova
regione cavalcarono insieme alla volta di Petralia,[198] terra abitata
da cristiani e musulmani. I quali, consultato insieme nell’imminente
pericolo, e mossi forse gli uni dalla riputazione di Ruggiero e gli
altri dalle pratiche d’Ibn-Thimna, deliberarono di rendere il castello
e prestare obbedienza al conte. Munita la fortezza di cavalieri e
di mercenarii, egli si volse a Traina, afforzolla in simil guisa, e
tornossi in Calabria ad abbracciare la sposa ed attaccare briga col
fratello.[199]

Ibn-Thimna proseguì l’opera in Sicilia con ridurre altre terre e
infestare i contadi di quelle che ricusassero.[200] L’odiavano i
Musulmani, ma più il temeano: quest’uomo che tra le prime guerre
civili per poco non rinnalzò il trono dei Kelbiti; questi che rovinato
al gioco d’una battaglia s’è venduto l’anima e pur s’è vendicato; il
signore del Val di Noto, il compagno degli invincibili cavalieri di là
dal mare, ai quali stendono le braccia i nostri vassalli, ed essi nel
cuor dell’isola ci sfidano dalle castella di Traina e di Petralia! Però
approdarono sovente le pratiche del traditore. Il quale movea contro
Entella, fortissima rocca a ponente di Corleone,[201] quand’ebbe un
messaggio di Nichel, così Malaterra scrive il nome,[202] uom potente
in que’ paesi, stretto d’antichi legami ad Ibn-Thimna, quando ubbidiva
a costui la Sicilia. Pretendea Nichel disposti i notabili d’Entella a
trattare la resa: venisse a parlamento a tal luogo, presso la rocca.
Fidandosi nell’amica fortuna, Ibn-Thimna v’andò con poca mano d’armati,
e trovò i terrazzani; quand’ecco uccisogli il cavallo d’un colpo di
lancia; ei casca a terra, gli saltano addosso e l’ammazzano; così
com’avvenne due secoli innanzi ad Eufemio, traditor della Sicilia
cristiana. Il qual gastigo percosse di spavento i partigiani dei
Normanni, e tanto rivoltò le cose, che i presidii di Petralia e di
Traina si ritirarono a Messina, dove in fretta s’apprestarono alla
difesa. È da riferire la morte d’Ibn-Thimna ai primi di marzo del mille
sessantadue.[203]

Caso tanto più grave, quanto Ruggiero stava per venire alle mani con
Roberto. Il giovane, imbaldanzito per lo parentado, cominciò a lagnarsi
altamente: aveano fatto insieme il conquisto di Calabria, pattuito
a Scalea il partaggio del paese metà e metà, e il duca lo differiva
da due anni; sopportò egli finchè fu scapolo, or si vergognava di
far vivere poveramente sposa di sangue principesco; era tempo che il
duca gli tenesse parola. Tai querele moveva a Roberto, sollecitava i
nobili normanni a rincalzarle; e il fratello s’induriva tanto più al
niego. Alfine Ruggiero s’accomiatò da lui forte crucciato, corse al suo
castello, ragunovvi armati e denunziò la guerra se tra quaranta dì non
gli fosse resa ragione.[204] Il duca mosse incontanente sopra Mileto
nella primavera del sessantadue. Si combattè senza furore; e l’assedio
andava in lungo per la imperfetta arte del tempo e soprattutto dei
Normanni alle espugnazioni, quando sforzolli ad accordo un episodio
che ricordava loro non potersi sfogare in guerre civili se voleano
soggiogare l’Italia meridionale. Aveano già i terrazzani di Gerace
in Calabria giurata fedeltà a Roberto, senza consegnargli la città;
e perch’egli studiavasi a por loro il freno in bocca fabbricando un
castello, aveano innanzi l’ossidione di Mileto trattato di darsi a
Ruggiero; il quale eludendo le poste del duca uscì una notte con cento
cavalli e gittossi in Gerace, per trarne gente, com’e’ pare, e piombar
sopra l’oste che minacciavalo in casa. Roberto, lasciata guardia nei
due ridotti con che stringea Mileto, sopraccorre co’ suoi a Gerace;
pria d’impacciarsi in un secondo assedio tenta sue arti: travestito
entra nella città, va difilato a trovare un suo partigiano, per nome
Basilio. E sedea a mensa con esso e la moglie, allorchè un famigliare
lo riconosce; il popolo si leva a romore, trae alla casa, fa in pezzi
l’ospite, impala la donna; già Roberto è minacciato da cento ferri,
i cittadini più savii non bastano a rattenerli. L’animo suo e la
pronta parola lo camparono da morte. Disse con impavida faccia agli
infelloniti che pagherebbero caro il suo sangue; che i guerrieri suoi
proprii e quelli di Ruggiero correrebbero insieme a spiantar la città;
all’incontro se lasciasserlo andar via, concederebbe loro quanto
fossero per domandare. Titubanti lo menarono in carcere. Ma Ruggiero
che non si trovava quel dì in Gerace, torna a precipizio chiamato dai
cavalieri del fratello; fa venire i notabili fuor le mura; prega e
minaccia affinchè gli consegnino il Guiscardo per vendicarsi con le
proprie sue mani: “mi giuraste fedeltà, lor dice, ubbiditemi in questo
o saprò sforzarvi; pendon ormai dai miei cenni le genti di Roberto,
stanche del reo signore; se di presente nol portate qui legato, ecco
io comincio a far tagliar le viti e gli ulivi.” Condussero Roberto,
fattogli pria giurare che mai non edificherebbe castello in Gerace. I
due fratelli s’abbracciarono, scrive Malaterra, come Giuseppe Giusto
e Beniamino, piangendo di tenerezza tutti i guerrieri normanni. Ma
Roberto, asciugate le lagrime, accomiatatosi da Ruggiero, trovò altre
magagne; ci volle il biasimo universale de’ suoi, e il principio
di nuove ostilità perch’ei venisse in Val di Crati a stipolare il
partaggio della Calabria, abboccandosi col fratello sul ponte che
indi si chiamò Guiscardo. Dopo l’accordo, Ruggiero levava tributo su
i novelli dominii per fornire i suoi d’armi, vestimenta e cavalli.
Aggravò la mano su Gerace; dove andato con l’oste, si metteva ad
innalzare un castello fuor le mura; ed ai cittadini che allegavano la
fede data da Roberto, rispondeva: “Egli giurò, non io:” e sforzavali a
grossa taglia.[205]

Armati per tal modo trecento cavalieri nell’agosto o il settembre,[206]
ripassava Ruggiero in Sicilia, menando seco la moglie, paurosa delle
fatiche e rischi ai quali andava incontro, e non se li aspettava
pur sì gravi. All’entrar dello stuolo in Traina, i cittadini fecero
buon viso, assai tepidamente. Lor increbbero tosto quegli ospiti
alloggiati per le case, pronti a far vezzi a loro mogli e figliuole.
Con ciò Ruggiero afforzava sempre più la città e andava osteggiando
le vicine castella dei Musulmani. Sentendosi dunque nuovo giogo sul
collo, i cittadini un dì ch’egli era uscito col grosso delle genti a
depredare i dintorni di Nicosia, piglian le armi a stigazione d’un
Plotino, dei primi del paese; assalgono il poco presidio; non però
sì improvvisi che i Normanni non si accorgessero del movimento e non
si preparassero; talchè infino a notte ributtarono il nemico. Questo
allora, aspettandosi addosso Ruggiero, s’afforzava alla sua volta con
serragli e fosso nella mezza città opposta alla collina che teneano i
Normanni[207] ov’era il palagio del console, scrive una cronica,[208]
dando argomento a supporre che così fatto titolo avesse preso Ruggiero
in Traina, e nota, quasi a ricordare l’indipendenza del Municipio
greco, che sorgesse dall’altra parte la torre della città. Ruggiero,
chiamato per messaggi, sopravveniva in fretta; si metteva a combattere
i sollevati: e intanto risaputo il fatto nelle vicinanze ch’abitavano i
Musulmani, trassero alla città da cinquemila armati, proffersero aiuto
a’ Greci e fu accettato. Ormai, circondati d’ogni banda, i Normanni
pativan la fame; non potendo uscir grossi a predare senza grave
pericolo dei rimagnenti, nè mandar piccole gualdane senza la certezza
di vederle fatte a pezzi. Si stenuavano in vigilie, guardie, continue
avvisaglie e brevi ma disperate sortite, in una delle quali poco mancò
non fosse spacciato lo stesso Ruggiero. Perchè vedendo balenare i suoi,
spinse innanzi il cavallo, gli fu morto; si trovò avviluppato in un
nodo di nemici che sel portavan di peso; se non che gli venne fatto di
trarre la spada, la girò a cerchio, si fe’ larga piazza, restò solo;
e sì fermo cuore serbò, che tolta la sella del destriero, lento e
minaccioso ritraevasi.

Nondimeno s’aggravavano ogni dì più che l’altro le strettezze degli
assediati; pativa il nobile al par del mercenario; la Giuditta
stessa talvolta fu costretta a ingannar la fame bevendo acqua pura
e lagrimando; a lei ed allo sposo non rimase che un sol mantello di
che si copriano a vicenda, qual fosse più intirizzito. Contuttociò
i guerrieri normanni resisteano risoluti, dissimulavano con lieto
aspetto e motteggi. Aprì loro scampo inaspettato l’abbondanza in che
viveano i nemici, provveduti a gara dalle altre città e spensierati
per troppa fidanza; i quali nel rigore del verno, su quelle vette alte
mille e cento metri sul livello del mare, stavano a mala guardia, e
sovente si riscaldavan col vino. Di che addatisi i Normanni, finsero
smetter anch’essi le scolte; ma più attenti spiarono il nemico. Una
notte vistolo spreparato, Ruggiero fa impeto con tutti i suoi alla
barrata; mena al taglio della spada gli ubriachi assonnati; occupa
l’altra mezza città e la torre, e chi fu preso, chi fuggì; i Musulmani
accampati nei dintorni non stettero ad aspettare. Impiccato allora per
la gola Plotino, altri morti con altri supplizii, i vincitori trovavano
gran copia di frumento, olio, vino e d’ogni cosa abbisognevole: con
le fortificazioni e col terrore si assicuravano nella domata città.
Ruggiero andò solo in Terraferma a rifornirsi dei cavalli perduti
nell’assedio: lasciò in Traina la sposa, che a dura scuola avea
appreso a far le veci di capitano; la quale mantenne la disciplina
nel presidio, girando i ripari ogni dì, vegliando su le guardie,
confortando tutti con benigne parole e promesse, e rammentando i
pericoli corsi insieme e che aleggiavano lì intorno; guai a chi li
credesse dileguati.[209]

Tardo, al solito, e fugace balenò pure in questo tempo tra i Musulmani
di Sicilia un raggio che mostrava la via della salvezza: accordarsi
tra loro e con gli Zîriti d’Affrica; ubbidire a questi, anzichè
piegare il collo al giogo cristiano. Morto Moezz l’ultimo d’agosto
del sessantadue, il figliuolo Temîm che gli succedette, usò con
migliore fortuna gli Arabi d’oltre Nilo, i quali per le condizioni
già dette[210] porgeano orecchio ogni dì più che l’altro a’ principi
Zîriti. Veggiam nel primo anno del suo regno, gli Arabi e le milizie di
Temîm ridurre Sfax e Susa e rompere in sanguinosa battaglia l’esercito
di Bugia, accozzato di Berberi delle tribù di Senhagia e Zenata ed
Arabi della tribù di Helâl.[211] È da supporre dunque che paresse
in quel tempo mirabile consiglio nella corte di Mehdia ripigliare
l’impresa di Sicilia, la quale prometteva a un tratto il merito della
guerra sacra, l’acquisto dell’isola e l’allontanamento degli Arabi: di
questi valorosi che aveano vinto, un contro dieci, gli eserciti Zîriti,
guastato il paese e dato mano ai ribelli. Dai susseguenti fatti si vede
che i Musulmani di Sicilia, rincorati dall’uccisione d’Ibn-Thimna,
dalle divisioni de’ cristiani e dalla apparente ristorazione della
potenza zîrida, ne implorassero in questo tempo od accettassero
l’aiuto. Il quale invero, con tutte le novelle vittorie dei Normanni,
arrestò i conquistatori per molti anni; nè tornò vano se non che per
le discordie ripullulate nell’infelice terra, quando gli Affricani
combattuti dal signor di Castrogiovanni e dalla turbolenta aristocrazia
di Palermo, furono costretti a partirsi.

Lo stesso anno mille sessantatrè sbarcarono in Sicilia i feroci
ausiliarii di Temîm, ritraendosi dagli annali musulmani ch’egli
facesse l’impresa dopo la morte del padre, e dalle croniche cristiane
che Ruggiero reduce di Calabria si trovasse a fronte novella milizia
venuta dall’Arabia e dell’Affrica per dar di piglio nella roba altrui,
col pretesto di recar aiuto ai Siciliani; nella quale tradizione
ognuno vede di quali Arabi dicessero i Normanni.[212] Mandava Temîm
un esercito ed un’armata sotto il comando di due suoi figliuoli, Aiûb
ed Alì; de’ quali il primo venne col grosso delle genti in Palermo, il
secondo a Girgenti:[213] e par che l’uno col favor della cittadinanza
della capitale e delle terre che ubbidivano a quella, da Mazara
infino a Cefalù o Tusa, reggesse il paese a nome del padre; l’altro
com’ausiliare d’Ibn-Hawwasci, tenesse presidio in Girgenti;[214] ed
una schiera andò a rinforzare Castrogiovanni. Ma Ruggiero, tornato di
Puglia e di Calabria, com’ape industre, scrive il Malaterra, onusto
d’ogni cosa bisognevole ai suoi, s’affrettò a dispensar loro cavalli
ed armi; e fatti riposare i cavalli alquanti dì, mosse alla volta di
Castrogiovanni, bramoso di provarsi coi cinquecento Arabi ed Africani
giuntivi di fresco. Sostò a due miglia dalla città; con l’usato
stratagemma e l’usato capitano di vanguardia Serlone, spiccò innanzi
trenta militi, o vogliam dire un centinaio di cavalli, che provocassero
il nemico; ed egli s’appiattò in una valle boscosa col resto delle
genti. Scoperto il drappello di Serlone dall’alto di lor bastite, i
Musulmani calavano grossi alla zuffa, incalzavano con tal furia che
due soli cavalieri normanni pervennero salvi infino all’agguato, e gli
altri, presi o scavalcati, mancavano, quando Ruggiero proruppe come
leone ferito: dopo aspra battaglia sgarò i Musulmani, inseguilli più
d’un miglio e tornossi a Traina; facendo tal giubbilo di quel po’ di
preda e della sanguinosa vittoria contro forze uguali, da mostrarci
quanto i Musulmani fossero imbaldanziti per lo nuovo aiuto e sgomentati
i Cristiani.

Usando la riputazione della vittoria, Ruggiero cavalcava audacemente
per l’isola, spintosi presso le sorgenti dell’Imera settentrionale
a Caltavuturo, poscia per la valle dell’Imera meridionale fin sotto
Castrogiovanni, donde i Musulmani non arrischiaronsi ad uscirgli
incontro; e infine corse a Butera, in vista del mare affricano.
D’ogni luogo riportò ricca preda; da Butera gran tratta d’armenti e
di prigioni. Passando per la valle del Simeto, fermossi ad Anattor, e
dopo breve giornata a San Felice,[215] e si ridusse a Traina; perduti
molti cavalli per la rapidità della arrisicata correria, il calor
della stagione e la penuria d’acqua. Il che mostra esser già l’anno
innoltrato almeno al maggio, e rimanda indietro all’aprile o al marzo
il combattimento di Castrogiovanni testè raccontato.[216]

Intanto l’oste zîrita, unita alle milizie musulmane del paese,[217]
movea di Palermo[218] sopra Traina, per calpestare gli Infedeli in
lor nido. Trentamila cavalli e ventimila fanti, al dir di Malaterra
(cioè del conte Ruggiero) veniano addosso a centotrentasei militi,
che tornano a quattro o cinquecento combattenti: ma si scemi pur
di molto il numero de’ Musulmani, e s’aggiunga alla contraria parte
qualche frotta dei cristiani di Sicilia ch’è da supporre accorsa ai
combattimenti,[219] comparirà tuttavia prodigioso il valore normanno, e
credibil solo alla generazione che ha vista l’impresa di Garibaldi in
Sicilia. Valicando gli aspri contrafforti che spiccansi a mezzogiorno
degli Appennini Siculi, l’oste musulmana era giunta alla giogaia di
Capizzi,[220] paralella alla quale corre quella di Traina e la valle
di mezzo è solcata dal fiumicello di Cerami che prende il nome da un
castello fabbricato sovr’alte rupi su la sponda sinistra, ch’è a dire
nel pendio occidentale di Traina, a sei miglia a ponente maestro di
questa città. Entrava, il giugno del mille sessantatrè.[221] Ruggiero,
avuta spia del nemico, deliberassi ad affrontarlo pria che venisse
ad affamar lui in Traina: ond’uscito col piccolo stuolo normanno,
si apprestò a contendere il passaggio della valle; e i Musulmani
schieraronsi sul ciglione opposto. Pur non osando nè questi nè quello
calar giù per lo primo, caduto il giorno, si tornarono gli uni agli
alloggiamenti dietro il monte di Capizzi e l’altro a Traina. Le
quali mosse ripeteano entrambi il secondo e il terzo dì. Al quarto, i
Musulmani vennero a porre il campo su i gioghi dove soleano presentar
la battaglia. Addandosi di tal disposizione alla zuffa, i Normanni
si confessano della peccata, chieggono l’assoluzione a’ sacerdoti, e
muovono verso il nemico.

Ma saputo dagli esploratori che quello volgesse contro Cerami, allor
soggetta o confederata di Ruggiero, e rinforzata di piccolo presidio
normanno,[222] il conte vi manda Serlone con trenta lance, per
difendere la fortezza tanto ch’ei giunga sopra gli assalitori con le
cento che gli rimaneano. E Serlone entrò in Cerami pria del nemico, e
quando questo s’appresentava,[223] senz’aspettare il conte, disserrate
le porte, caricò con trentasei lance tutta la cavalleria musulmana,
o, come e’ sembra, la sola vanguardia; sbaragliolla al primo scontro,
la inseguì con molta uccisione; e trascorrendo fino al campo, fattovi
un po’ di preda, si ridusse a Cerami ov’era sopravvenuto Ruggiero.
Ristretti allora i capi a consiglio, avvisando altri di appiccare
la battaglia lì lì, altri ch’e’ non fosse da sforzare la fortuna con
prove troppo temerarie, Orsello di Baliol diè su la voce ai prudenti,
disse aspramente a Ruggiero non seguirebbe mai più sua bandiera, se
di presente non si combattesse: dalle quali parole confortato anzi il
conte, proruppe anch’egli in rampogne contro i dubbiosi; e messo il
partito, si trovò che nessuno avea paura. Intanto s’erano rattestati
i Musulmani in lor campo; ingrossati di nuova gente, comparvero più
formidabili che prima, ordinati in due corpi e pronti alla zuffa. In
due schiere spartironsi anco i Normanni, capitanata l’una da Serlone,
Orsello e Arisgoto di Pozzuoli, l’altra dal conte. Al punto dello
scontro, la prima schiera nemica, schivando la vanguardia normanna,
giravale di fianco, spronava ad un colle e sperava occuparlo pria
che vi giugnesse Ruggiero; il che le venne fallito. Orsello nell’una
torma, Ruggiero nell’altra, inebriavano in questo i Normanni con
sublimi parole di religione e d’onore; tanto che si tuffarono in quella
moltitudine non più vista; disparvero tra le onde della cavalleria
musulmana. Chi diè loro la vittoria? Racconta il Malaterra che un
cavaliere possente e bello della persona, montato su destrier bianco,
vestito di bianca armadura, armato d’una lancia con pennoncello bianco
e croce vermiglia, entrasse il primo a rompere e stracciare lo stuolo
musulmano là dov’era più fitto. Il cronista dice che raffigurarono
proprio San Giorgio; sì che i Normanni piangendo di tenerezza lo
seguirono nella mischia; lo smarrirono; e già avean vinto. Ma tanto
spesso torna tal visione nelle guerre de’ Crociati, da parere fior di
rettorica del cronista, anzichè allucinazione de’ combattenti. Al conte
Ruggiero anco fu attribuito il favor celeste d’un pennoncello crociato
che gli ornasse la lancia, dov’egli nè altro mortale non l’aveva
attaccato. Più certamente il ferro della sua lancia squarciò una
corazza di stupenda fattura[224] sul petto del kâid di Palermo,[225]
capitano dell’oste o della schiera, uom fortissimo il quale galoppando
innanzi a’ suoi minacciava e imprecava a’ Normanni. Il valore, la
disciplina, l’unita e ferma volontà, la viva fede, trionfarono dopo
lunghissima tenzone sopra la moltitudine ragunaticcia d’Arabi prodi
ma ladroni, schiavi africani, nobili siciliani sospettosi, plebe
feroce nei tumulti e inetta nel campo. Diradossi la calca d’intorno
ai Cristiani: come nubi squarciate dal vento, come stormo d’augelli
se vi piombi il falcone, scrive Malaterra, si sbaragliò la cavalleria
musulmana, lasciando quindicimila morti; ventimila rincalza l’Anonimo.
I vincitori passavan la notte nel campo nemico riposandosi per le
tende, si spartivano la preda; ma al nuovo dì, messisi a dar la caccia
ai ventimila pedoni che s’erano riparati tra le rupi, fecero macello; e
la più parte imprigionati mandarono a vendere in Calabria ed in Puglia,
che fu il maggior lucro della vittoria. Così i cronisti, accumulando
le inverosimiglianze in guisa da far credere ch’e’ favoleggino o
dimentichino in que’ fatti le popolazioni cristiane di Sicilia; e per
colmo della metafora ci narrano che Ruggiero tornasse in Troina per
fuggire il puzzo dei cadaveri.[226] Quinci ei mandava a papa Alessandro
secondo un Meledio per ragguagliarlo della vittoria e presentargli
quattro cameli. I quali il papa ricambiò con indulgenza plenaria
al conte, ed a chiunque avesse combattuto o fosse per combattere in
avvenire i Pagani di Sicilia; ed aggiunse una bandiera sotto la quale
più sicuramente si compisse la santa gesta. Malaterra, nel raccontar
questo fatto, si studia a dargli significato di mera pietà, senz’ombra
d’omaggio feudale nel dono dei cameli, nè d’investitura in quello del
gonfalone.[227]

Poco appresso la battaglia s’offriano a Ruggiero importuni ausiliarii
ad una impresa sopra Palermo. I Pisani conducendo frequenti commerci
nella città, ebbero a risentirsi d’alcuna ingiuria;[228] e maggior
colpa dei Musulmani di Sicilia fu che andavano le cose loro in rovina
e fors’anco che Roberto Guiscardo, nella irrequieta attività della sua
mente, avea pensato di usare contro la Sicilia le forze navali di Pisa,
ed appiccata a questo effetto una pratica che poi si dileguò.[229] I
mercatanti pisani allestivano lor navi pronte al pari al commercio
e alla guerra: popol d’ogni ordine, com’attesta una iscrizione di
quell’epoca, grandi, mezzani ed infimi entrarono nell’armata.[230]
Fatto vela per la Sicilia, sursero in un porto della costiera
settentrionale[231] donde spacciaron oratori in Traina per invitare
Ruggiero che cooperasse coi suoi cavalli. Rispose aspettasserlo un
poco, dovendo dar sesto a certe sue faccende; ma que’ mercatanti,
prosegue sprezzante il cronista, non sapendo come va fatta la guerra,
non usi a sciupare il tempo senza guadagno, amarono meglio andar
soli in Palermo. Il venti settembre del mille sessantatrè, i Pisani,
assalito il porto, spezzata la catena che lo chiudea, preservi con
sanguinoso combattimento sei navi cariche di merci;[232] e ributtati,
com’ei sembra, dal porto, metteano a terra cavalli e fanti presso
la foce dell’Oreto, respingeano i cittadini usciti a combattere;
piantavan le tende in su la riva e scorreano a depredare le deliziose
ville suburbane.[233] Arse poi cinque delle navi che avean predate,
riportarono l’altra a Pisa, con tanto tesoro, che bastò a cominciare
la fabbrica del Duomo, dove una iscrizione contemporanea attesta
l’arrisicata fazione.[234]

Ruggiero intanto, volendo sostare nel sollìone e ristorare sua gente
menomata dalla vittoria di Cerami,[235] pensò di andare in Puglia,
vettovagliata prima Traina. A questo effetto spingeasi con rara audacia
nella valle dell’Imera settentrionale, correva il primo dì a Collesano,
l’altro a Brucato,[236] il terzo infino a Cefalù: tornato a casa
con abbondantissima preda, munì il castello, vi lasciò la moglie e i
compagni, ai quali raccomandò di far buona guardia come se avessero
sempre il nemico alle porte, non dilungandosi dalla città per niuna
occasione propizia. Ito quindi in Terraferma a consultare con Roberto,
n’ebbe cento militi non sappiamo a che patto, ai quali aggiunse cento
de’ suoi: al rinfrescare della stagione, ritornato in Sicilia, irruppe
nelle parti di Girgenti. Parve allora agli Arabi ed agli Affricani di
vendicare la rotta di Cerami: un’eletta di settecento lor cavalli uscì
cheta di Girgenti per appostar i Normanni al ritorno; si pose sopra
un burrone in fondo al quale correa la strada. Frettoloso e guardingo
cavalcava Ruggiero col grosso de’ suoi, mandate innanzi le some del
bottino con una scorta d’armati; la quale come giunse all’agguato,
assalita da forze superiori, sopraffatta dall’alto coi sassi, presa
di subita paura voltò le spalle, perdè qualche uomo ed anelante si
rifuggì ad una balza ch’era inaccessibile fuorchè da un viottolo
aspro e stretto. Al romore accorreva Ruggiero a spron battuto con
l’altra schiera; gridava a que’ della scorta venissero a ristorare la
battaglia, ma gli fu forza di salire egli stesso, chiamar ciascuno per
nome, rinfacciare ch’ei non riconosceva i vincitori di quello stesso
nemico tanto maggior di numero a Cerami. Rattestatili a stento, caricò,
ruppe i Musulmani, ritolse la preda e si ritrasse a Traina; piangendo
sì la morte di Gualtiero di Semoul, il più valoroso giovane della
schiera, il quale fu trafitto spingendosi primo alla riscossa.[237]
Un Malaterra musulmano racconterebbe, credo, altrimenti questa dubbia
fazione, e più altre ne aggiungerebbe favorevoli ai suoi, le quali
è forza supporre nello autunno, e sino allo scorcio dell’inverno,
allorchè il Malaterra normanno ci rappresenta Roberto Guiscardo
costernato dalle nuove che giugneano di Sicilia, risoluto a partecipare
ne’ pericoli come avea fatto negli acquisti; ond’ei venne in aiuto
a Ruggiero che i Saraceni travagliavano e strigneano con frequenti
assalti.[238]



CAPITOLO IV.


Nella primavera dunque del millesessantaquattro Roberto adunò
l’esercito in Puglia e in Calabria; al quale andato incontro Ruggiero a
Cosenza, passarono insieme il Faro con cinquecento militi, non contando
gli altri cavalli nè i fanti;[239] e tirarono dritto a Palermo, senza
che i Musulmani osassero tagliar loro la strada. Posero il campo presso
la città, in un colle infestato da tarantole,[240] il cui morso diceano
cagionasse gravi e sconci sintomi nervosi e fin anco minacciasse la
vita.[241] E sembran fole; poichè quell’insetto in oggi non nuoce; ed a
supporre che particolari condizioni l’abbiano armato di veleno in altri
tempi e luoghi non ci basta l’autorità delle cronache oltramontane,
le quali sempre lo fanno ausiliare degli Infedeli contro i guerrieri
cristiani del Settentrione, sempre l’accagionano d’una pia impresa
fallita.[242] Gittando su l’infausto luogo il nome di Monte delle
Tarantole, che del resto non vi allignò,[243] tramutavansi i Normanni
in migliori alloggiamenti; dai quali per ben tre mesi osteggiavano la
città, ma n’erano sì gagliardamente ributtati, che sciolsero l’assedio
senz’altro pro che di saccheggiare le campagne. In vece di rifar la
strada verso levante, spingeansi per ben ottanta miglia a mezzogiorno;
dove espugnavano Bugamo, castello o forse grossa terra a sei miglia da
Girgenti,[244] e spianavano le case, e fatti schiavi gli abitatori, il
duca Roberto, mandolli a popolare Scribla in Calabria, da lui poc’anzi
desolata; cioè a coltivare come servi suoi i terreni dai quali avea
cacciati gli antichi possessori. Solo fatto d’arme in questa impresa
del sessantaquattro, ci racconta il Malaterra che passando i Normanni
coi prigioni di Bugamo presso Girgenti, que’ cittadini uscirono
alla riscossa, e furono respinti e inseguiti fino a lor mura.[245]
Intanto Amato attesta che Roberto vedendo non poter espugnare Palermo
senza forze navali, si volse ad acquistare altre città marittime in
Terraferma, ond’accozzarvi legni e marinai.[246] Il vero è che il duca
non ristorò la fortuna delle armi cristiane in Sicilia. Il senno nè il
valore non era venuto meno ai Normanni. Chi dunque diè l’avvantaggio
all’islam tra il mille sessantatrè e il sessantotto, tra la battaglia
di Cerami e il combattimento di Misilmeri?

Pochi cenni delle istorie musulmane, limitati su per giù allo stesso
spazio di tempo senza date più precise, ci fan pure intendere la
cagione, se li riscontriamo con le condizioni conosciute d’altronde.
Tengasi a mente che delle tre grandi province o valli della Sicilia,
come furon dette, distinte per la natura de’ luoghi non meno che pei
mutamenti sociali ed etnologici che portò il conquisto musulmano,
apparteneva a’ Normanni, con piccolo divario di confini, il val Demone;
il Val di Noto a’ Musulmani confederati loro; il Val di Mazara a’
Musulmani nemici, divisi in due Stati: di settentrione e mezzogiorno.
Secondo l’odierna circoscrizione, diremo che sgombra da’ signori
musulmani la provincia di Messina, ubbidiano quelle di Catania e di
Siracusa ai successori d’Ibn-Thimna o regoli d’altra schiatta venuti
su dopo la sua morte, e che si riducea la guerra nelle province di
Palermo, Trapani, Caltanissetta e Girgenti; delle quali le due prime
par ubbidissero alla repubblica di Palermo, le seconde a Ibn-Hawwasci.
E già narrammo come l’una e l’altro, sentendosi l’acqua alla gola,
accettavano il soccorso di Temîm; e come i costui figliuoli Aiûb ed
Alì si poneano nelle città più importanti di ciascuno Stato: Palermo
e Girgenti. Accordandosi l’ambizione di casa Zirita con la salute dei
Musulmani di Sicilia e coll’onore dell’islam, ebbero gran seguito i
due principi; alla cui riputazione non potea detrarre la battaglia
di Cerami, più avventurata al certo pe’ Normanni che esiziale a’
Musulmani, nella quale d’altronde se avesse combattuto un figliuolo
di Temîm che di qua dal Mediterraneo potean chiamare re d’Affrica e
d’Arabia, i Normanni non l’avrebbero ignorato al certo, nè passato
sotto silenzio. Che Aiûb governasse prosperamente la guerra, i casi
della quale sono taciuti o dissimulati da’ cronisti normanni, e che gli
venisse fatto per brev’ora di recarsi in mano l’autorità in tutta la
Sicilia occidentale, si ritrae, s’io mal non m’appongo, dal seguente
racconto che Ibn-el-Athîr copiò, ovvero compendiò, dagli scritti
di autore più antico e poselo tra il quattrocencinquantatrè e il
quattrocensessantuno dell’egira (1061-1069).

Ibn-Hawwasci, secondo que’ ricordi, inviava da Castrogiovanni ricchi
presenti ad Aiûb; volea fosse albergato nel suo proprio palazzo
di Girgenti e l’onorava con ogni maniera d’ossequio. Ma poco durò
l’amistade. Accorgendosi che i Girgentini ponessero troppo amore
nell’ospite, il signor di Castrogiovanni per lettere comandava di
cacciarlo: disubbidito, movea contro i Girgentini con l’oste. Ed essi
uscirono sotto le bandiere di Aiûb e s’appiccava la zuffa, quando
una freccia tirata, dicono, a caso, dirimea la lite uccidendo Ibn
Hawwasci: onde Aiûb era gridato signore da ambo i lati, com’e’ sembra,
del campo di battaglia. La discordia spenta per tal modo nel mezzodì,
si raccendea poscia in Palermo; dove i cittadini, mal soffrendo gli
schiavi stanziali di Temîm, vennero alle mani con quelli; e imperversò
tanto la guerra civile, che Aiûb, veduto non poterne venire a capo,
chiamava a sè il fratello Alì: montati su l’armata, ritornavano in
Affrica. Seguitaronli molti notabili musulmani dell’isola; seguitolli
la gente dell’armata siciliana; nè rimase chi potesse far testa
a Normanni. Se ne sbrigano così gli annali; saltano a piè pari
l’occupazione di Catania, l’espugnazione di Palermo, e toccano appena
la resa di Girgenti e di Castrogiovanni, cioè l’ultimo compimento
del conquisto normanno.[247] Cercando di porre qualche data nello
spazio che abbiamo percorso, riferiremmo l’andata di Aiûb in Girgenti
all’anno sessantaquattro, quando la ritirata dell’esercito normanno
da Palermo esaltò di certo il nome di Aiûb e lo scempio di Bugamo fece
desiderare in que’ luoghi l’eroe musulmano della stagione. Sembra anco
che i Normanni allor fossero corsi a mezzogiorno all’odor della guerra
civile e per trame di fazioni che portarono alla chiamata di Aiûb.
Questi poi sembra partito di Sicilia dopo l’infelice combattimento di
Misilmeri, nel quale ei forse non si trovò;[248] ma la parte avversa
gliene dovea pur gittare addosso la colpa. L’esilio, volontario o no,
de’ cittadini che il seguirono, prova che la parte siciliana trionfò
in Palermo, fors’anco in Girgenti, dove la morte d’Ibn-Hawwasci l’avea
fatta andar giù. Palermo continuò o tornò a reggersi per la _gema’_,
che fu poi costretta a rendere la città il millesettantadue. Lo Stato
di Castrogiovanni e Girgenti cadde sotto nuova signoria, della quale
diremo a suo luogo.

La vecchia tattica di casa Hauteville mirabilmente s’era riscontrata
co’ tempi, lasciando consumare dassè quel rigoglio che una effimera
concordia avea dato a’ Musulmani nel millesessantaquattro. Roberto,
dopo l’assedio di Palermo, attese in Puglia a soggiogare municipii
italiani e condottieri normanni indocili al nuovo freno. Ruggiero
non si spiccò dal fratello mai più; anzi gli diè mano in Terraferma
quand’ei potè:[249] e in Sicilia si chiudea quasi nell’arme senza
assalire altrimenti, fidandosi pur nell’indole dei Musulmani che
presto avrebbero ripreso a lacerarsi tra loro. Nè ebbe ad aspettare
gran pezza. Del millesessantasei, si fa innanzi, ben coperto, per
un’altra quarantina di miglia; afforza di torri e bastioni Petralia,
che gli aprì lo sbocco alla valle dell’Imera settentrionale e però a
Termini ed a Palermo, e per più breve e facile cammino gli permise
le scorrerie sopra quel di Castrogiovanni e di Girgenti. Fitto nel
pensiero di conquistar la Sicilia, dice lo storiografo, Ruggiero non
avea posa, non sentiva più la fatica; d’ogni stagione il vedevi alla
testa de’ suoi, dì e notte a cavallo, senza risparmiare questi più che
quell’altro, scorrea per ogni luogo, sì rapido che i nemici lo credeano
presente da per tutto, e sempre, pur entro le città e le case loro, se
lo sentivano addosso. Col senno temperava la ferocità leonina che sortì
da natura; la fortuna giammai non l’abbandonò. Or allettando altrui
co’ guiderdoni, or minacciando con parole e stringendo con assalti e
guasti, si allargò a poco a poco intorno Petralia, tanto che assoggettò
gran parte dell’isola; all’uso, aggiugne il Malaterra, de’ figliuoli
di Tancredi, i quali cupidi d’acquisto non poteano sopportare ch’altri
possedesse terreno nè roba accanto a loro, nè avean pace finchè non li
rendessero tributarii o del tutto non li spogliassero.[250]

A capo di tre anni, correndo il millesessantotto, sì aspra era divenuta
la molestia ai Musulmani di Palermo, che ragunati a consiglio, scrive
il Malaterra, deliberarono di tentare ad ogni costo la fortuna d’una
battaglia. Saputo che Ruggiero cavalcasse alla volta della città con
fortissimo stuolo, gli escono incontro a gran frotte; l’avvistano a
Misilmeri, terra a nove miglia per levante. Ancorchè non si aspettasse
tanta moltitudine, egli si preparò allo scontro fremendo di gioia.
Ordinò le genti in una schiera. Le arringò sorridendo: “La fortuna
amica sempre a’ Normanni condur loro tra’ piedi la preda tanto
desiderata, risparmiar loro la fatica di più lungo cammino; anzi
Iddio stesso porgea questo dono. Prendete, continuò, la roba degli
Infedeli, indegni di possederla: ce la partiremo apostolicamente tra
noi; ciascuno avrà quel che gli abbisogni. Nè temiate il numero de’
nemici tante volte sconfitti. Che s’or ubbidiscono a novello capitano,
gli è pur della nazione, indole e religione loro. E sia mutato anco, il
nostro Dio non muta. Quando a voi non venga meno la fede nè la ferma
speranza, Ei vi concederà sempre vittoria.” Ruppero il nemico con
sì grande strage, che il cronista la viene significando coll’antica
metafora dell’esser mancato chi ritornasse a dar la notizia.
Spartironsi allegramente il bottino. E trovando le gabbie de’ colombi
messaggeri, loro attaccarono al collo schede intrise di sangue, sì che
in Palermo seppesi immediatamente la sconfitta.[251]

Avea principiato Roberto in questo tempo l’assedio di Bari, grossa
città e ricca più che niun’altra dell’Italia meridionale, travagliata
da due parti, le quali per vie contrarie aspiravano a libertà:
chè l’una volea sottrarsi ad ogni patto alla dominazione bizantina
affidandosi perfino a Normanni; l’altra capitanata da Argiro, aborrendo
dal giogo feudale, ormai chiaro e manifesto, dei Normanni, amava
meglio ubbidir di nome a Costantinopoli. Questa parte prevalendo in
Bari, la tenea, sola in Italia, in fede dell’impero bizantino; e si
schermì tanto dalle arti di Roberto, ch’egli deliberossi a far aperta
violenza. Onde oppugnava la città con l’usato perseverante valore e con
mezzi più potenti che fin allora non avessero adoperati i Normanni:
macchine di varie maniere da batter le mura, e ridotti e ponti di
barche; soprattutto forze navali, fornite in parte dal conte Ruggiero.
Al quale par torni la gloria del fatto decisivo; poichè sendo la città
stretta da ogni banda e affamata e sopravvenendo un’armatetta bizantina
con genti e vittuaglie, le navi normanne che la scopriron di notte e
la intrapresero e distrusserla, ubbidivano a Ruggiero, come scrive
il Malaterra; nè monta che tacciano il suo nome Amato e Guglielmo
di Puglia, partigiani di case rivali. La città allora s’arrese a dì
sedici aprile del settantuno, dopo tre anni e parecchi mesi d’assedio.
Roberto usò umanamente co’ Baresi, rendendo loro i possessi occupati
nel territorio e fermando con la città patto di confederazione, il
che in vero significava porre un tributo. Poi dispensò armi a chi ne
volle, anco al presidio bizantino fatto prigione, e se li tirò dietro a
combattere in Sicilia con quante navi potè accozzare nel porto.[252]

Perocchè la vittoria di Bari promettea quella di Palermo; provatisi
già felicemente i Normanni e lor sudditi italiani alle battaglie di
mare, alle ossidioni, e cresciute le forze militari di due fratelli
che ormai teneano il primato di lor gente in Italia. In vece delle
squadre di scorridori con che aveano combattuto in Sicilia, i Normanni
vi recavan ora un esercito ed un’armata. Oltre le genti assoldate,[253]
chiamò Roberto alla impresa i condottieri o conti ch’ei già tirava alla
condizione di grandi vassalli e i due confederati ch’ei si proponeva
d’ingoiare a suo comodo: Riccardo principe normanno di Capua[254] e
Guaimario principe longobardo di Salerno, fratello della moglie.[255]
Sembra che i principi abbiano fornita poca gente. De’ conti ricusò
audacemente Pietro di Trani.[256] Ciò non di meno Roberto a capo di tre
mesi era in punto; soggiornato il giugno e parte di luglio a Otranto,
fece tagliare una roccia per imbarcare più agevolmente i cavalli e
adunò le macchine, e le vittuaglie. Cinquantotto navi partivan indi
per Reggio, dove il duca s’avviò con altri cavalli e fanti. Gli ultimi
giorni di luglio o i primi d’agosto, passò il Faro con tutte le genti:
Normanni, Pugliesi Calabresi e il presidio bizantino di Bari.[257]

Ruggiero che avea per tutta la state messe in punto anch’egli le sue
forze, non prima saputo il passaggio di Roberto, si trovò a Catania
in modo tanto sospetto, che il Malaterra, non osando narrarlo, nè
dir bugia tonda, ci lascia nelle mani il bandolo della magagna,
«Il duca, scrive egli, mandato innanzi il fratello in Sicilia, va
a lui in Catania, _fingendo_ di muovere contro Malta, quasi non si
fidasse d’assalire Palermo; e pur si reca a Palermo _confortato_ dal
fratello.» Ma come e perchè Ruggiero fosse corso a Catania, sede
dei Musulmani ausiliari suoi da tanti anni, e chi signoreggiasse
il paese dopo la uccisione d’Ibn-Thimna, lo tace qui e sempre lo
storiografo del Conte.[258] Amato, che non vivea a corte di lui,
dice che Ruggiero mosse contro Catania quando Roberto passava lo
stretto; che la città gli si arrese a capo di quattro dì; ch’egli fece
acconciare incontanente una chiesa intitolata a San Gregorio ed una
fortezza, nella quale lasciò quaranta uomini di presidio a reprimere
il mal volere de’ cittadini.[259] Donde noi possiamo scrivere ne’
posti lasciati in bianco dai due frati cronisti e dir che Ruggiero,
usando gli antichi accordi con Ibn-Thimna, entrò da amico, forse con
picciolo stuolo in Catania, dando voce d’una impresa sopra Malta, e che
sopravvenuto Roberto con parte dell’armata, sempre per andar a Malta,
insignorironsi della città, dopo breve resistenza o nessuna. Fatto il
colpo, Roberto avvia l’esercito a Palermo per terra; egli, per fuggire
il caldo, segue in una galea, accompagnato da dieci gatti e quaranta
altre navi. Ruggiero, cammin facendo anch’egli alla volta di Palermo,
va a sopravvedere sue genti e sue cose a Traina. Ripigliato indi il
viaggio, non lungi da Palermo gli intervenne che precedendolo i suoi
famigliari per apprestar le vivande, una gualdana di dugento musulmani
rapirono ogni cosa ed uccisero la gente; ma furono non guari dopo
svaligiati e tagliati a pezzi dalla schiera del Conte.[260]

Ci è occorso descrivere il sito di Palermo nel decimo secolo: nel
centro il Cassaro, o città vecchia, bagnata, da maestrale a levante,
dal porto che fendeasi in due lingue; la Khalesa, cittadella tra la
lingua orientale e il mare; i borghi intorno il Cassaro da ogni altra
banda.[261] I particolari dell’assedio che raccogliamo qua e là negli
scritti di Amato, di Malaterra, di Guglielmo e dell’Anonimo e che
tornan pure ad unico e chiaro disegno delle operazioni militari, non
mostrano mutata la topografia nella seconda metà del secolo undecimo;
se non che gli spaziosi borghi di libeccio, mezzodì e scirocco sembrano
decaduti da lungo tempo e abbandonati del tutto all’appressarsi del
nemico. Discosto circa un miglio a levante, al posto dove giugnea
in quel tempo[262] la sponda destra dell’Oreto e la spiaggia del
mare, sorgeva il castello, detto di Giovanni, dal nome forse d’alcun
musulmano (_Jahja_) di che i Normanni fecero San Giovanni[263] e
mutarono l’edifizio in ospedale; onde le odierne fabbriche sovrapposte
a ruderi di varie età si chiamano tuttavia San Giovanni dei Lebbrosi.
Il qual castello, evidentemente posto a difendere da gualdane nemiche
le ricche ville d’ambo i lati del fiume e gli approcci stessi della
città, era stato probabilmente edificato o afforzato durante la guerra
normanna; nè parmi inverosimile che alcun altro ne sorgesse in altri
siti dell’agro palermitano dove poi si notarono chiese, monasteri o
palagi de’ Normanni. Della popolazione palermitana in questo tempo
ignoriamo il numero al tutto; ma dobbiamo supporla menomata di molto,
fin dal decimo secolo, per le vicende politiche, massime le emigrazioni
del millesessantuno e del sessantotto.[264] Il numero degli assedianti
possiamo conghietturar solo dalla estensione del territorio sul quale
dominavano gli Hauteville in Terraferma, da’ soliti loro armamenti in
altre imprese contemporanee, dalla guardia che scortava Roberto entrato
di accordo nella città e dal numero delle sue navi notato dianzi. Un
otto o diecimila uomini, tra cavalli e fanti, parmi il maggiore sforzo
che i Normanni abbian potuto condurre sotto le mura di Palermo.

Si avanzò primo Ruggiero dalla parte di levante per le falde de’ monti,
il dì appresso il raccontato scontro; occupò un sontuoso palagio e le
ville dei contorni; le saccheggiò; fece abbondante caccia di prigioni,
i quali nulla sapeano del nuovo gioco, quando si videro cinti da un
cerchio di cavalli e stretti e presi e venduti.[265] La vanguardia
apparecchiava per tal modo le stanze ai capi dell’oste: «Que’ dilettosi
giardini, scrive Amato, irrigati d’acque, ricchi di frutta; dove
albergarono con agi da principi, fino i cavalieri minori, proprio in
un paradiso terrestre.» Appresentatosi quindi al Castel Giovanni,
e uscitogli incontro il picciolo presidio,[266] uccidea quindici
cavalieri musulmani, ne prendea prigioni trenta, e, insignoritosi
del luogo, vi chiamava Roberto,[267] il quale indi sembra sbarcato lo
stesso dì. Il quartier generale, come or si direbbe, fu posto in quel
castello e ultimato il disegno di assedio. Rimasevi Roberto capitanando
i Pugliesi e i Calabresi dell’oste; Ruggiero con le sue genti stanziò,
com’e’ pare, dove or sorge la chiesa della Vittoria, a settecento metri
dalla odierna porta Nuova, su lo stradone che mena a Morreale.[268]
Talchè stando l’uno a ponente-libeccio l’altro a scirocco-levante e
comunicando insieme, investivano la città, per più d’un terzo del suo
perimetro, dal lato meridionale. A greco l’armata chiudeva il porto.
Le picciole forze navali che rimaneano a’ Palermitani[269] furonvi
ricacciate, perdendo un gatto ed una galea.[270]

Del rimanente s’era la città apparecchiata bene alla difesa; onde i
Musulmani, stretti ch’e’ furono nelle mura, per frequenti sortite, con
varia fortuna sturbavano le opere degli assedianti,[271] con indefessa
vigilanza si guardavano, con valore e ostinazione combatteano.[272] I
particolari non ripeterò, perchè trovansi nella sola cronica ritmica
di Guglielmo: luoghi comuni che forse pareano corredo necessario delle
Muse. Pur non passerò sotto silenzio un episodio narrato dall’Anonimo
del duodecimo secolo: che lasciando spesso i Palermitani le porte della
città aperte, quasi sfida ad entrare, egli avvenne che un terribile
cavaliere musulmano tornando in città dopo avere uccisi parecchi
Normanni, sostasse sotto la porta rivolgendo pur la faccia a’ nemici,
quando un giovane guerriero, parente di casa Hauteville, adontato del
piglio minaccevole, spronò contro costui. E trapassollo fuor fuora con
la lancia. Ma richiusagli la porta dietro le spalle, senza stare un
attimo in forse, spinge innanzi il cavallo in carriera disperata tra
i Musulmani che il saettavano e gli davano addosso ed uscito illeso
da un’altra porta, giugne tra’ suoi mentre il piagnean morto.[273]
La quale avventura da Tavola Rotonda ci parrà meno inverosimile se
la supponghiamo seguita nella Khalesa, piccolo ricinto con quattro
porte che s’aprian tutte nel breve tratto dell’istmo.[274] Grandi
combattimenti non seguirono infino all’inverno, studiandosi invano i
nemici ad offendere la città.[275] Giugnean intanto aiuti d’Affrica,
di forze navali, com’e’ pare, e non molte.[276] Già i principi della
casa di Salerno, tediandosi d’una impresa che lor propria non era,
ritornavano in Terraferma, dove più lieto spettacolo che l’assedio di
Palermo offriva papa Alessandro, consacrando la nuova basilica di Monte
Cassino, il primo ottobre.[277] E Roberto impaziente chiedea rinforzi
in Terraferma; tra gli altri, al rivale principe Riccardo, il quale gli
promesse dugento lance capitanate dal figliuolo Giordano e sì avviolle,
ma le richiamò pria che passassero il Faro. Si disperava tanto della
vittoria, che Riccardo collegatosi con la famiglia de’ conti di Trani
e con altri antichi nemici di Roberto, osò assalire le costui terre in
Calabria ed in Puglia. Il Guiscardo non si spuntò per questo dal suo
proponimento,[278] sapendo bene che egli avrebbe trionfato di tutti in
Palermo.

«In quel medesimo tempo (così Amato), era gran carestia nella città,
mancando le vittuaglie, che non si trovava da comperarne. Era altresì
grande pestilenza e mortalità, per cagione de’ cadaveri insepolti;
ingombra la città di feriti, d’infermi, d’uomini fiaccati dalla
fame, la debile mano dei quali più volentieri stendeasi a chiedere la
limosina che a combattere. E i maliziosi Normanni spezzavan del pane
e lasciavanlo a piè delle mura.[279] I Saraceni a venti ed a trenta
correano a prenderlo. E il secondo giorno que’ posero il pane un po’
più lungi dalla terra e gli altri a correre, a darvi di piglio, ad
assicurarsi e più numero ne veniva. Il terzo dì poi i Normanni messero
l’esca più lungi, e quando i Pagani vennero fuori tutti, furon presi
e tenuti schiavi o venduti in lontani paesi.»[280] Così il cronista,
compiaciuto o indifferente, non so. Pur si commove al narrare come
mancato il vino nel campo di Roberto, ancorchè vi abbondassero carni
squisite, il duca e la moglie di acqua sola si dissetavano; il che,
aggiugne, non potea fare specie a Roberto il cui paese non produce del
vino; «ma considera, o lettore, la nobile sua donna, la quale, a casa
il padre Guaimario, principe di Salerno, solea bere com’acqua fresca
del vin chiaro e schietto!»[281]

Rincorò i Normanni il successo d’un combattimento navale provocato
da’ Palermitani quand’ebbero gli aiuti d’Affrica, disperando tuttavia
di snidare il nemico da’ posti occupati nella pianura. Avvistosi de’
preparamenti, Roberto apprestò anch’egli sue navi; nelle quali fece
tendere intorno intorno le tolde de’ teli di feltro rosso da parare i
sassi e le saette:[282] e quel colore potea tornar a mente a’ Normanni
le imprese dei padri loro, i quali l’aveano reso terribile in sul mare,
che la tradizione nazionale lo serba fin oggi nelle divise militari
d’Inghilterra e di Danimarca. Ancorchè si possa tenere più numeroso
il navilio normanno che il musulmano, par avesse disavvantaggio nella
struttura non adatta alla guerra. Era questo d’altronde, dopo il fatto
di Bari, il primo cimento navale dei dominatori normanni d’Italia;
nè la memoria era spenta di quelle armate che infin dal nono secolo
uscirono dal porto di Palermo a desolare le spiagge meridionali della
Penisola; nè non vedea Roberto che una sconfitta sul mare l’avrebbe
costretto a levare l’assedio per la seconda volta. Donde ai suoi
disse ch’era uopo vincere o morire: li fece confessar delle peccata e
solennemente prendere l’eucaristia. Confortate di tal cibo, continua
Guglielmo di Puglia, le fedeli turbe, Normanni, Calabresi, Baresi
ed Argivi entrano in nave; nè basta a spaventarli il suono degli
strumenti, il tonante grido di guerra de’ Musulmani. Si scontrano
le armate: resistono i Siciliani e gli Affricani, finchè sforzati da
un cenno divino, voltan le prore. Qual nave fu presa, qual sommersa;
la più parte si rifugge nel porto, chiudelo con la catena, e questa
spezzano i vincitori, e fan preda d’altri legni, a parecchi appiccan
fuoco.[283] Altro non dice il cronista; ond’e’ si vede che l’armata
normanna, superate le prime difese del porto, fu costretta a ritirarsi.

Minacciati tuttavia i Musulmani da quest’altra banda,[284] scemati per
le spesse morti, affranti dalla fame, dalla pestilenza, dalle fatiche,
Roberto non differì l’assalto generale. Aveva egli fatte costruire
quattordici scale[285] congegnate con artifizio che parve mirabile
in quel tempo,[286] da innalzarsi a ragguaglio delle mura. Mandate
nottetempo sette delle scale a Ruggiero, va egli stesso a trovarlo;
concertano gli ordini dell’assalto, i segnali e ogni cosa.[287] Lo
sforzo più grave fu affidato a Ruggiero contro la fortezza principale,
cioè la città vecchia, da libeccio; onde passava a quella parte il
grosso dello esercito di Roberto. A greco dovea minacciare, e non
altro, il navilio. Roberto riserbossi uno stratagemma nel caso che
fallisse Ruggiero: un colpo di mano su la Khalesa ch’avea mura più
basse.

Presso a compiersi i cinque mesi d’assedio, il primo o un de’ primi
giorni dell’anno millesettantadue, al far dell’alba,[288] il clamore
che si levò nel campo di Ruggiero facea correre precipitosamente
i Palermitani a quelle mura.[289] I fanti nemici s’avanzano ratti;
con frombole ed archi tiravano ai difensori in su i merli, quando
i cittadini, sortiti con grande impeto, spazzavano la turba nemica,
inseguivano a piè ed a cavallo i fuggenti. Caricò allora la cavalleria
normanna, ruppe a sua volta gli assediati, ricacciolli in città,
stringendoli sì gagliardamente sino alla porta, che già erano per
entrare insieme alla rinfusa. Allo estremo pericolo, i Musulmani
calan giù la saracinesca; serran fuori i loro fratelli, de’ quali i
Normanni, sotto gli occhi loro, tra il grido e il compianto, fecero un
macello.[290] E i Normanni a ripigliar l’assalto delle mura. Adducono
la prima scala; già tocca a’ merli: chi salirà? Si guardavano l’un
l’altro negli occhi. Un Archifredo subitamente fa il segno della croce
e si slancia su pei gradini; due guerrieri il seguono, saltano sul
muro, quand’ecco sfasciata e infranta la scala. Soli incontro a cento,
andati in pezzi gli scudi loro, gittaronsi giù dalle mura, e sani e
salvi rimasero, al dir di Amato. Gli altri ch’eran saliti per altre
scale furon anco respinti. Allenarono i Normanni, si ritrassero.[291]
Avvicinandosi già la sera, parea fallito l’assalto.

Ma alle eloquenti parole di Roberto, dice Guglielmo di Puglia e le
mette in versi, ai conforti, crediam noi, di Ruggiero e secondo il
disegno già ordinato col duca, ritornarono pur i Normanni a piè delle
mura: e i cittadini traeano tutti al posto minacciato; sicuri di
buttar giù ne’ fossi un altra volta gli assalitori, non poneano mente
alla Khalesa dove quel dì non avea romoreggiato la battaglia. Quando
Roberto, a un segno dato da Ruggiero, chetamente con trecento[292]
uomini eletti arriva, tra gli alberi dei giardini, alla Khalesa.
Corrono in fretta con le scale ad un muro difeso da poca gente;
pria che venga aiuto dalla città vecchia, sbarattano i difensori,
saltan dentro, spezzano la porta; ond’entra Roberto col resto de’
suoi.[293] La quale stava dietro l’odierno convento della Gancia, sur
una piazzetta cui è rimaso il titolo della Vittoria, al par che ad
una chiesa ove la tradizione addita, nel primo altare a destra, gli
avanzi della porta sforzata da Roberto ed un’immagine votiva.[294] Ma
accorrendo lì i cittadini quando si seppe entrato il nemico, seguì
disperata zuffa insino a notte; rimase tutto coperto di cadaveri
il suolo; rimaserne padroni i Normanni, rifuggendosi nella città
vecchia i Musulmani che camparono alla strage. I Normanni intanto
saccheggiavano le case, uccideano gli adulti, partivansi tra loro i
fanciulli per venderli schiavi.[295] La notte stessa il conte recò
rinforzi a Roberto, esposto nella Khalesa, con un pugno di gente, alla
vendetta degli abitatori non vinti della città vecchia.[296] Furon indi
messe guardie alle torri che fronteggiavano quelle mura superbe.[297]
Parea che nuova battaglia fosse da combattere la dimane, e forse da
ricominciare l’assedio.

La discordia de’ Palermitani abbreviò le fatiche a’ nemici. Nella lunga
notte che questi passarono afforzandosi nelle mura della Khalesa,
le fazioni della città vecchia disputavan tra loro se fosse da
riprendere la battaglia. Vinse il partito avverso: la notte medesima
mandò a dir a’ Normanni che la città fosse pronta a sottomettersi
e dare ostaggi.[298] Ed aggiornando, due capitani che avean preso
il reggimento della città in luogo del consiglio municipale, si
appresentarono con altri notabili a Ruggiero per trattare i patti.[299]
Fermati i quali, Ruggiero entrava nella città vecchia; guardigno,
accompagnato da valorosi cavalieri, sopravvedeva i luoghi, mettea
guardie ne’ posti più opportuni e ritornava a Roberto. Il quale al
quarto dì, solennemente recossi al duomo, preceduto da mille cavalli,
accompagnato dalla moglie, dal fratello, da’ fratelli della moglie e
da altri baroni. Smontano alle soglie, umili, compunti, lagrimando di
tenerezza. Sgomberati i simboli musulmani,[300] forniti i riti della
nuova consecrazione, l’arcivescovo, il greco Nicodemo, che soleva
uficiare nella povera chiesa di Santa Ciriaca, celebrò la messa dinanzi
a’ vincitori nell’antica chiesa, divenuta _giâmi’_ dell’islam, rifatta
or cattedrale col titolo di Santa Maria: e dotolla Roberto di entrate
e di sacri arredi.[301] Alcuno buon cristiano, scrive il buon Amato,
vi udì la voce degli angioli che cantavano dolcissimi Osanna; e il
tempio talvolta apparve illuminato della luce di Dio, mille volte più
splendente che niun’altra del mondo.

I patti della resa variamente si leggono presso gli storiografi dei
due rami sovrani di casa d’Hauteville. Guglielmo di Puglia verseggia
che i Palermitani s’arresero, salva la vita, e che Roberto non solo
l’accordò, ma anco promesse di non far loro alcun male ancorchè e’
fossero Pagani, e mantenne la parola, nè cacciò alcuno dalla città.
Amato, robertista anch’egli, parla di resa a discrezione.[302] Il
Malaterra, al contrario, afferma stipulato il patto che nessuno fosse
sforzato a rinnegare la fede musulmana, nessuno aggravato con nuove
e ingiuste leggi.[303] Più preciso l’Anonimo, contemporaneo di re
Ruggiero, dice pattuite le medesime condizioni che si osservavano a’
giorni suoi.[304] Delle quali se non abbiamo il testo, puossi tuttavia
tenere per fermo che, oltre la tolleranza religiosa, i Musulmani di
Palermo godessero la libertà e sicurezza delle persone, il mantenimento
delle proprietà, i giudizii tra loro secondo leggi musulmane e da’
loro magistrati: nè egli è punto provato, nè probabile, che fossero
sottoposti alla gezia. Ma di ciò più largamente a suo luogo.[305]

Ritornò per tal modo Palermo, dopo dugenquaranta anni, al nome
cristiano, assai più splendida, vasta, popolosa, ricca, civile, ma
bagnata di sangue e di lagrime; chè “il numero dei Saraceni che furono
uccisi e di quei che furono presi e furono venduti, dice Amato, passò
ogni esempio.” Poco appresso Palermo, si diede a Roberto spontaneamente
la città di Mazara, obbligandosi a pagare tributo.[306]



CAPITOLO V.


Impadronitisi della capitale musulmana, i Normanni che vedeano vinta,
ancorchè non finita, la guerra, posero mano immediatamente al partaggio
dell’isola. Roberto, intraprenditore principale dello armamento,
condottiero dell’oste, e signor feudale, qual si tenea, degli Stati
normanni di Terraferma, eccetto que’ di Capua ed Aversa, Roberto
si prese Palermo, si tenne Messina e il Val Demone. Ruggiero ebbe
dal Duca, assentendolo tutto l’esercito, gli altri paesi di Sicilia
acquistati o da acquistarsi; del quale territorio a lui rimanesse
una metà, e l’altra metà fosse suddivisa tra Serlone nipote di lui
e di Roberto, e Arisgoto di Pozzuoli, uomo di schiatta longobarda,
qual sembra al nome, imparentato con casa di Hauteville. Se le cose
rispondessero ai nomi in quel periodo di formazione dell’Italia
meridionale, si vedrebbe netto l’ordinamento politico della Sicilia: il
Duca di Puglia sovrano feudale, con due province serbate in demanio;
il conte di Sicilia, gran vassallo, con altre province in demanio;
e sotto di lui due principali suffeudatarii e poi tanti baroni
minori dipendenti da costoro e altri direttamente dal conte, altri
direttamente dal Duca. E tal al certo si proponea Roberto di costituire
lo Stato; ma la virtù e fortuna di Ruggiero e de’ suoi successori
guastarongli il disegno.[307]

Orribil nuova afflisse in questo tempo i vincitori. Serlone era stato
ucciso a tradimento. Preposto, non sappiamo se durante l’assedio
di Palermo o dopo l’espugnazione, alle milizie feudali di Cerami,
per vegliare sul presidio di Castrogiovanni che rinforzato di aiuti
affricani non tentasse qualche mal colpo, Serlone tenea spie presso i
nemici; tra le altre un Ibrahim, de’ primi di Castrogiovanni, col quale
sì intimo ei s’era fatto da giurarsi fratelli, dice il Malaterra, con
bizzarro rito di tirarsi l’un l’altro per l’orecchio. La quale usanza
non troviamo appo i Musulmani. Una volta il fratello rapportatore
manda dei presenti al fratello capitano, con avviso che il tal dì
sette cavalieri arabi correrebbero il territorio di Cerami per boria di
andare a far preda in casa sua. E Serlone, ridendosene, non s’apprestò
altrimenti a chiamare le milizie feudali, anzi quel dì stesso uscì
a caccia ne’ boschi di Cerami; quand’ecco un gridare accorr’uomo per
lo contado, e i villani a fuggire dinanzi la gualdana annunziata da
Ibrahim. Serlone a ciò si fa recare l’armadura; con quel pugno di gente
ch’avea seco, sprona contro i ladroni a punirli di loro temerità.
Precipitando su la via di Castrogiovanni, i Musulmani lo conducono
all’agguato, ad otto miglia da Cerami, presso il confluente di due
fiumicelli che scendendo l’un da Nicosia, l’altro da Cerami si gittano
nel Simeto. Quivi l’aspettavano, secondo la tradizione normanna,
settecento cavalli e tremila fanti, che mi paion troppi. Circondarono
il drappello di Serlone, tagliandogli la strada del ritorno a Cerami.
E il magnanimo, vedendo cadere già molti de’ suoi e non dubbia la
morte, sprona a una rupe vicina, smonta, s’addossa alla roccia e
disperatamente mena le mani di fronte e da’ lati. Si chiamò poi la
Pietra di Serlone.[308] Cadde egli per cento ferite; perirono seco
tutti i suoi, fuorchè due lasciati per morti tra i cadaveri battezzati
e i circoncisi. A Serlone strapparono il cuor dal petto: corse anco
la voce tra i Normanni che que’ brutali, tagliato in pezzetti il cuor
dell’eroe, avesserli mangiati a gara per superstizione d’infonder il
suo valore ne’ vili petti loro. Mandarono poi in Affrica a Temîm la
testa di Serlone, la quale confitta a un palo fu condotta in giro per
le strade di Mehdia, con la grida “Ecco il gran campione de’ Normanni,
or ch’egli manca, agevol cosa fia il racquisto della Sicilia.” Nè è a
dir se cordoglio e furore destasse nell’esercito il caso di Serlone,
quando lo si riseppe in Palermo. Ruggiero pianse amaramente il fedele
e valorosissimo compagno delle sue vittorie. Roberto, che in vero non
perdeva quanto lui, nel ripigliò dicendo, star bene i lamenti alle
donne, agli uomini la vendetta.[309] Pur avendo altro da fare che porsi
per un anno o due all’assedio di Castrogiovanni tanto che gli cadessero
nelle mani gli uccisori del nipote, s’apparecchiò a ritornare in
Puglia, aggiustato ben bene il morso ai Musulmani di Palermo.

Costruì o racconciò un castello alla bocca del porto: piccola
fortezza, della quale ritenne il nome, e credo anco il sito, quello che
s’addimandò fino al mille ottocento sessanta il Castellamare. Maggiore
assegnamento fece Roberto sur una cittadella edificata nell’alto della
terra, in quell’area ch’ora occupa il palagio reale aggiuntovi parte
delle due piazze attigue e tutto il quartier militare di San Giacomo.
Quivi era nel nono secolo il palagio degli emiri, e nel decimo il
_Ma’skar_, ossia stanza de soldati,[310] e par ne rimanessero in piè
molte fabbriche e forse un muro di cinta, che fu racconcio a modo
de’ vincitori: donde la nuova cittadella si addimandò volgarmente
_El-Halka_, ossia “La Cerchia” e, negli scrittori latini e greci del
tempo, è detta or Castello di sopra, or Palagio nuovo, e più spesso
Galea, Galga, Galcula, Chalces, Xalces, e in ultimo Alga: che sono
trascrizioni diverse del vocabolo arabico or ora notato. Il nome di
Palagio o di Castello si estendea, com’ognun vede, a tutto il ricinto:
un poligono ad angoli salienti e rientranti, lungo da cinquecento
metri e largo da trecento; il quale a poco a poco s’empì di palazzine,
portici, chiese e case di preti e cortigiani.[311] Ambo le castella
munì Roberto di pozzi e magazzini,[312] credo io fosse da grano per
caso d’assedio; da prevedere al certo in mezzo a sì grossa cittadinanza
musulmana, la quale non si potea tenere altrimenti che con la forza
immediata e continua.[313] Racconta Amato, che sopravvedendo Roberto un
dì i lavori della _Halka_, notò la chiesetta di Santa Maria, sparuta
e sudicia che pareva un forno, in mezzo a tanti splendidi palagi
de’Saraceni; ond’egli mettendo un sospiro, comandò fosse di presente
demolita e nobilmente riedificata di pietre quadrate e di marmi, senza
badare a spesa.[314] Par sia questa la chiesa di Santa Maria della
Grotta, che i ricordi ecclesiastici della Sicilia portano fondata da
Roberto Guiscardo, con un monastero basiliano e con beni nel territorio
di Mazara;[315] la stessa forse che si addimandò poi di Gerusalemme,
cui l’antica struttura e l’ornamento di mosaici non camparono dalla
distruzione a’ tempi del Fazello.[316]

Provvedute le castella d’uomini, d’armi e di vittuaglie,[317]
Roberto lasciò a governare la città un suo cavaliere, con titol di
emiro, conveniente a città musulmana; liberò i prigioni bizantini di
Bari;[318] permesse al fratello di pigliare a’ suoi soldi le genti
dell’esercito che rimaner volessero a cercar ventura in Sicilia:
e furono assai poche, ancorchè Ruggiero donando e promettendo le
allettasse.[319] Pria di partire, il Guiscardo trovò modo di porre una
taglia che non avea pattuita: chiamati a sè i principali della città,
con faccia tosta lagnossi delle grandi spese sostenute nell’assedio,
de’ molti cavalli perduti e di tante altre molestie, ch’e’ durava
per causa de’ Palermitani; donde lor chiedea denari, e quei davano
danari e preziose robe. Cariconne le navi; imbarcò le sue genti e i
figliuoli de’ notabili della città presi in ostaggio, e andò via.[320]
Sappiamo ch’ei recasse a Troja di Puglia delle porte di ferro e delle
colonne co’ loro capitelli tolte in Palermo.[321] La stessa origine
accusano parecchi doni di Roberto, i quali in oggi parrebbero raccolta
d’antiquario o porzione da masnadiere, leggendosi appo Leon d’Ostia
che il Guiscardo una volta presentasse al Monastero di Monte Cassino
secento bizantini d’oro, duemila tarì affricani, tredici muli, tredici
saraceni e un gran tappeto; e poi altra moneta di schifati, bizantini,
tarì, michelati, soldi d’Amalfi, due cortine arabiche, e orcioli di
cristallo, pallii, mantelli; e, con minutaglie così fatte, diplomi
di concessione di terre e castella, delle decime su la pescagione in
Taranto e fin decime del lavoro di certi artigiani.[322] Delle quali
larghezze le più sostanziose segnano le epoche di negoziazioni condotte
dall’Abate di Monte Cassino con utile di Roberto; e quelle spoglie
orientali evidentemente venivano di Palermo. E ben puossi immaginare
qual immensa e bizzarra congerie di ricchezze portasse via l’oste di
Roberto, e con che gioia i frati cantassero le lodi del pio vincitore,
vero strumento della Provvidenza.

L’occupazione di Palermo affrettò la catastrofe di quei grandi
feudatarii di Terraferma i quali, ricordando l’antica uguaglianza de’
condottieri, non sapeano capacitarsi come un titolo di duca ed una
pergamena della cancelleria papale lor avesse dato un padrone e imposto
l’obbligo del servigio militare e della contribuzione ne’ casi feudali.
Roberto risolutamente affrontò i malcontenti, chiamando tutti i conti
in Melfi, l’antica metropoli feudale; dove i soddisfatti convennero
puntualmente a rallegrarsi secolui della vittoria. Ricusarono i tutori
del conte di Trani, che aveano anco negata lor milizia all’impresa.
Contro i quali mosse incontanente Roberto; prese, dopo breve assedio,
Trani ed altre città e terre. La resistenza, ch’ei chiamava ribellione,
rinacque poi più volte secondo i casi, le speranze o i dispetti. Gran
romore si destò quando il duca, maritando una sua figliuola ad Ugo
figlio del Marchese d’Este, richiese l’aiuto de’ vassalli per la dote,
secondo le usanze feudali (1077). Sursero anco (1077-9) i figli di
Unfredo, nipoti e pupilli di Roberto spogliati da lui. Ma Roberto venne
sempre a capo di que’ movimenti spicciolati e incomposti.

Ebbe anco a travagliarsi contro la dinastia normanna di Capua, avendo
il principe Riccardo suscitati i suoi nemici mentr’egli assediava
Palermo; e fu sino alla morte di Riccardo e nel regno del figliuolo
Giordano, un alternare di ostilità, pratiche ed accordi, come tra
due astuti che si conoscono, due forti che s’hanno riguardo, e due
intraprenditori che fanno a metà purchè spoglino il terzo. Se non che
Roberto seppe guadagnare più che il rivale. Pagò lo scotto la dinastia
longobarda di Salerno. Perchè Gisulfo, cognato di Roberto, troppo
fidandosi nel principe di Capua e nel papa, si trovò ad un tratto
abbandonato e solo nel pericolo. Roberto si accordava con Riccardo, al
quale diè aiuti alla impresa di Napoli (1078), che tornò vana per la
virtù di quella repubblica. E in questo mezzo era scomparso l’antico
principato longobardo di Salerno (1077). Sotto specie di difendere i
dritti dell’umanità, il Guiscardo intercedeva appo Gisulfo a favore de’
tiranneggiati Amalfitani; non ascoltato, andava all’assedio di Salerno
con grand’oste, dice Amato,[323] di Latini, Greci e Saraceni; dond’e’
si vede che il vincitore di Palermo non tardò ad usare le armi de’
novelli sudditi suoi. Ebbe Salerno dopo lungo assedio della città, poi
della rôcca; dove preso Gisulfo, gli diè l’eletta di risegnare tutto
lo Stato o andar a finir la vita prigione nella cittadella di Palermo:
ed a persuaderlo meglio già faceva apprestare i ceppi e la nave.[324]
Talchè il principe Gisulfo, deposta la corona e spogliato d’ogni cosa,
cercò asilo e lucro a corte di Gregorio settimo.

Fin da’ primi giorni dell’esaltazione (1073), Ildebrando avea tenute
pratiche con Roberto, al quale ragion volea ch’egli si accostasse,
mentre stava per gittar il dado nella gran lite delle investiture. Pur
sia troppa alterezza e caparbietà del papa e ch’egli mal conoscesse
Roberto e le condizioni del tempo, sia che Roberto pretendesse troppo
anch’egli, andarono a voto le negoziazioni;[325] onde Gregorio,
scomunicato il duca (1074), era corso a suscitare contro di lui
Riccardo e lo sventurato Gisulfo; avea sollecitata anco la fida
contessa Matilde a mandare grosso esercito, che unito a que’ di Capua
e di Salerno schiantasse d’Italia la casa di Hauteville.[326] Lega più
bella a immaginare che a mettere in opera; su la quale se Ildebrando
fece assegnamento, e’ non vedea tanto lungi nelle cose politiche.
Passato dunque in Italia Arrigo IV, egli accadde che mentre il papa
superbamente oltraggiava l’imperatore a Canosa, Roberto accordatosi con
Riccardo, spogliò del tutto, com’accennammo, il principe di Salerno. E
quindi appiccò pratiche con Arrigo stesso; minacciò Benevento che si
tenea pel papa; mostrò a Gregorio in cento guise che delle cose del
mondo ne sapesse molto più di lui. Onde Gregorio, tornando da’ sogni
alla realità delle cose, venne ad abboccamento con Roberto (1080),
lo ribenedisse, accettò l’omaggio pei territorii del duca, gli diè
titolo di cavalier di San Pietro, dicon anco gli promettesse l’impero
d’Occidente.

E favorillo alla occupazione dello impero Orientale, contro il quale
Roberto si volgea; non conoscendo ostacoli che col senno e col valore
non si potesser vincere. L’occupazione di Niceforo Botoniate avea
tramutato dal trono di Costantinopoli in un monistero l’imperatore
Michele Duca; si dicea mutilato il costui figliuolo Costantino, e la
giovane sposa di lui, figlia di Roberto, chiusa in prigione. Spacciò
egli dunque voler vendicare la figliuola e rimettere sul trono il
suocero. Usò opportunamente lo sdegno acceso tra i guerrieri normanni
alla prigionia della sua figliuola, che pareva onta nazionale; passò
in Grecia con un esercito ed un’armata. Battuto dalla tempesta (1081);
sconfitto in mare da’ Veneziani, tenne fermo tuttavia all’assedio di
Durazzo; sbaragliò il novello imperatore bizantino, Alessio Comneno,
che volle assalirlo nel suo campo; ed ebbe alfine Durazzo a tradimento
(1082). Lasciando allora il figliuolo Boemondo a condurre innanzi la
guerra in Grecia, ei tornò in Italia, dove i baroni levavano la testa;
e lo minacciava anco lo imperatore Arrigo, il quale aiutato di danari
dal bizantino, com’ora portava l’interesse comune, era entrato in Roma
(21 marzo 1084), s’era attirati o comperati molti potenti cittadini
e già assediava Ildebrando in Castel Sant’Angelo. Il papa, vistosi
abbandonato da’ cittadini e da parecchi cardinali, consumato l’oro e
l’argento delle chiese, chiamò allora in aiuto il novello cavalier di
San Pietro: e questi corse a gastigare l’imperatore d’Occidente, sì
com’avea testè fatto di quel d’Oriente sotto Durazzo. Ma Arrigo sgombrò
(maggio 1084) tre giorni innanzi l’arrivo dell’oste meridionale:
seimila cavalli e trentamila pedoni, tra Normanni, Pugliesi, Calabresi
e Saraceni di Sicilia, ansiosi tutti, direbbesi, di ristorar l’autorità
del papa nella metropoli del mondo cattolico. Italiani contro Italiani
e stranieri contro stranieri, veniano a lacerarsi tra le rovine
gloriose di Roma per una delle mille quistioni che generò il papato
e prima e allora e dopo; nè la civiltà del decimonono secolo v’ha
trovato rimedio per anco, nè lo troverà finchè non estirpi il germe
del male. I crociati cristiani e musulmani lasciarono in Roma vestigia
che compariscono tuttavia. Entrato Roberto senza sangue, ma non senza
fatica, surse un tumulto contro di lui; corsero i suoi all’armi;
Roberto gridò qui il fuoco, e il fuoco fu appiccato a Roma ed aiutato
dal vento consumò ogni cosa tra il Laterano e il Castello dove era
ristretto il papa. Le soldatesche, seguendo le fiamme, davano addosso
ai cittadini, ammazzavano, saccheggiavano, faceano violenza alle donne,
perfino nei monasteri (29 maggio). Sforzati i Romani con la spada e la
fiaccola di Roberto ad accordarsi col papa, ed uscito Gregorio settimo
dal castello, non osò questi rimanere nell’oltraggiata città: andossene
col suo liberatore normanno a Salerno,[327] dove a capo d’un anno morì
(maggio 1085). Gli tenne dietro Roberto; il quale dopo i fatti di Roma
ritornato era in Grecia con nuovo esercito e armata raccolta in Puglia,
Calabria e Sicilia;[328] avea riportata nelle acque di Corfù una
splendida vittoria navale contro le armate di Costantinopoli e Venezia,
e guerreggiava in Cefalonia, quando una febbre l’ammazzò (17 luglio
1085). Alla cui morte l’esercito e l’armata incontanente ritornavano
in Italia. Pericolò lo stesso suo Stato in Puglia e Calabria, avendo
Roberto lasciata la sovranità ducale al figliuolo Ruggiero, nato dalla
principessa salernitana Sichelgaita; perilchè Boemondo, suo primogenito
dalla prima moglie ipocritamente ripudiata, Boemondo prode quanto il
padre, ma senza cervello, disputò la successione a Ruggiero; e la casa
di Hauteville, forse la dominazione normanna in Italia avrebbe corso
gravi pericoli se non fosse stato per l’altro Ruggiero conte di Sicilia
e di Calabria, che si trovò primo della famiglia per armi, ricchezze e
reputazione.[329]



CAPITOLO VI.


Mentre Roberto allargava e assodava il dominio nell’Italia meridionale,
Ruggiero progredì a piccoli passi in Sicilia. Abbiam testè narrato
com’ei raggranellasse a stento nell’esercito del fratello pochi
venturieri o mercenarii; premendo ai più di ritornare in Terraferma,
per dar sesto ai loro possedimenti feudali e partecipare, da amici
o da avversarii, nelle brighe di Roberto. I dominii di Ruggiero in
Calabria, provincia bizantina non usa alla feudalità, poco aiuto fornir
poteano, d’uomini e di danaro. Que’ di Sicilia anco meno. All’entrar
del millesettantadue, la Sicilia si partiva in tre zone paralelle;
delle quali la prima, stendendosi da Messina a Palermo lungo il pendìo
settentrionale degli Appennini siculi, apparteneva a Roberto;[330] la
seconda, lungo il pendìo meridionale della stessa catena, ubbidiva
a Ruggiero; e la terza, uguale in superficie alle altre due messe
insieme, teneasi dai Musulmani; se nonchè Ruggiero vi occupava Catania
e Mazara, alle estremità di levante e di ponente, ed all’incontro gli
mancavano, ai due capi della propria sua zona, Taormina e Trapani,
validissime fortezze de’ Musulmani. Mal sicura dunque la provincia
di Ruggiero, per quegli estesi confini che richiedeano presidii in
ogni luogo; scarso il frutto che il signor ne potea cavare. Al che
s’aggiunga che, accomunate indissolubilmente le sorti de’ due fratelli,
era uopo talvolta a Ruggiero di combattere in Terraferma pel duca; sì
come gli avvenne nel millesettantasette, quando Roberto lo richiese
di assediare in Sanseverino il nipote Abelardo, fautore del Principe
di Salerno.[331] Le condizioni della Calabria costringeano altresì
Ruggiero a ritornarvi di frequente e dalle fazioni di Sicilia il
distoglieano.[332]

La regione musulmana potea resistere lungamente. Vero egli è che
fin dal millesessantadue la divisione del principato avea tolto di
affrontare i Normanni con tutte le forze dell’isola; avea fatti trovare
al nemico dove ausiliarii e dove lieti spettatori delle sue vittorie:
e ben dice Ibn-Khaldûn[333] che gli occupatori di que’ piccioli Stati
caddero nel fallo di affrontar il conte l’un dopo l’altro; e ch’egli
aizzandoli in loro discordie, li soggiogò spicciolati e loro prese
la Sicilia a fortezza a fortezza. Pur la divisione, mentre fiaccava
irreparabilmente il corpo politico, infondea qua e là vigore morboso
nelle membra: ciascuno di quegli occupatori s’afforzò d’armi e di
castella, fidando in sè solo e in Allah. Al precipizio del suo vicino,
o sorrise o punto sbigottì. Nè sbigottirono all’occupazione di Palermo;
la quale avrebbe dato vinta la guerra a’ Normanni, se la Sicilia
avesse fatto unico Stato. Mazara sola si arrese con la capitale; le
altre città o principati (che incerto è il distinguere le dominazioni
surte e cadute in quel vortice di guerra nazionale e di guerra civile)
continuarono a difendersi, sì come avean fatto per l’addietro, senza
aiuti di Palermo.

Anzi l’occupazione di Catania or destava dal decenne letargo i
Musulmani di Val di Noto, i quali, collegati con Ruggiero, aveano
serbate intere le forze; ed or ne fecero bella prova, condotti da un
Benarvet o Benavert.[334] Tacciono di costui gli annali arabi; tace
il maggior poeta arabo della Sicilia, Ibn-Hamdîs, il quale visse
appunto in quel tempo e ricordava pur sempre con orgoglio il valor de’
cavalieri siracusani: ma forse privata nimistà lo rese ingiusto contro
l’ultimo eroe musulmano della Sicilia.[335] Talchè siam noi costretti
a spillare le geste di Benavert per entro un’artifiziosa cronaca
normanna, solo scritto contemporaneo che ci rimanga su quest’ultimo
periodo della guerra siciliana. Similmente è forza che noi togliamo
dalla medesima cronaca tutti gli altri fatti particolari. Il fatto
generale è che la zona musulmana si trovò tutta in arme; sparsa di
castella, donde i signori sfidavano i cavalli di Ruggiero e metteano
in punto gualdane da insidiare e depredare la regione tenuta da lui.
Ruggiero, capitano di poche squadre mal adatte ad assedii, suppliva al
numero col valore, la costanza, l’attività della mente e della persona;
le quali virtù, afferma lo storiografo di corte, crebbero a tanti
doppi, quand’egli pei nuovi patti fu certo d’affaticarsi oramai per sè
medesimo, senza obbligo di partire gli acquisti con Roberto.[336]

Contuttociò volgea senz’altro evento il primo anno dall’occupazione
di Palermo. Del millesettantatrè sappiam solo che Ruggiero afforzasse
un castello a Mazara, per soggiogare gli abitatori di quelle pianure
e un altro a Paternò, per infestare le falde dell’Etna.[337] Del
millesettantaquattro ei munì di cavalieri, armi e vettovaglie la
rôcca di Calascibetta, di faccia a Castrogiovanni, a fin di battere sì
duramente il contado, che Castrogiovanni gli si arrendesse e cadessero
con quella fortezza le speranze dei Musulmani tutti dell’isola.[338]
Nè furono segnalati altrimenti i due anni appresso, che per due
prospere fazioni de’ Musulmani e per la prontezza e valore con che
Ruggiero seppe ripigliare l’avvantaggio in entrambe. Forse i Musulmani
di Sicilia, incalzati dalla avversa fortuna, s’erano in questo
tempo rivolti nuovamente agli aiuti d’Affrica, e casa Zirita li avea
nuovamente ascoltati; poichè di giugno settantaquattro, l’armata di
Temîm, girato intorno alla Sicilia, s’era improvvisamente gittata sopra
Nicotra di Calabria; fattivi prigioni e bottino, arsa la terra, resi
i prigioni per riscatto, s’era ridotta in Affrica. Ritornava ne’ mari
di Sicilia correndo il settantacinque; sbarcava le genti a Mazara, le
quali assediavano per otto dì il castello con manifesto proposito di
tenere la città, quando Ruggiero, chiamato per messaggi, v’accorse con
forte mano d’armati, entrò di notte nel castello, e al nuovo dì, fatta
una sortita, pugnò con gli Affricani nella piazza sotto il castello e
con molta strage li respinse al mare e molti ne fece prigioni.[339]

Veggiamo dopo questa fazione travagliarsi più grossa la guerra d’ambo
le parti. Benavert, surto com’e’ sembra nella riscossa del Val di
Noto, comandava da Siracusa a tutta la provincia, ne raccogliea le
forze di terra e di mare,[340] e in guisa le adoperava da tenere in
rispetto lo stesso Ruggiero e meritar dallo storiografo normanno la
lode di astutissimo, audace, esperto capitano, maestro d’inganni e di
stratagemmi.[341] Il conte dalla sua parte aveva ordinato un nodo di
milizia stanziale, capitanato da Giordano, figliuol suo non legittimo,
bello ed aitante della persona, prode tra i prodi. Occorrendo adesso
a Ruggiero di ritornare a Mileto in Calabria, ei pose luogotenente in
Sicilia Ugo di Jersey, di nobilissima famiglia del Maine, marito d’una
sua figliuola e feudatario, com’ei pare, di Catania.[342] Al quale
raccomandò che, stando sempre su la difesa, per niuna provocazione non
uscisse a giornata contro Benavert. E quegli, bollente di gioventù e
di militare ambizione, non curando il divieto, volle provarsi: andato a
trovare in Traina Giordano che non era punto men ambizioso di lui, seco
il tirò con gli stanziali. Ma Benavert, risaputi cotai preparamenti,
guadagnò le mosse a’ due giovani normanni. Con forte stuolo andò a
porsi in un bosco presso Catania che chiamavano il Mortelleto; mandò
trenta cavalli a depredare insino alle mura della città, per trar
fuori Ugo di Jersey. Il quale opponendo, com’ei credea, stratagemma a
stratagemma, spinse contro i provocatori musulmani una vanguardia di
trenta cavalli ed egli, con Giordano e il grosso delle genti, seguiva
da lungi. Ma appostosi Benavert al disegno, lascia passar libera la
vanguardia normanna; e quando è giunta la schiera d’Ugo, le piomba
addosso. Il numero, allora, o la tattica de’ Musulmani riportò la
vittoria. Valorosamente combattendo Ugo fu morto, con la più parte de
suoi; Giordano si rifuggì a mala pena, con gli avanzi, in Catania; la
vanguardia, tagliata fuori, cercò asilo nella fortezza normanna di
Paternò. E Benavert recò a trionfo in Siracusa le prime spoglie de’
Normanni.

Ruggiero risaputo il caso, mosse alla volta di Sicilia per fare
strepitosa vendetta e assicurare i suoi che balenavano. Recate seco
sì grosse forze che Benavert non osò affrontarlo all’aperto, nella
state del millesettantasei, occupava dapprima una rôcca in sul monte
Judica, il quale chiude a ponente la ubertosa e vasta Piana di Catania;
demoliva la rôcca; mettea al taglio della spada tutti gli uomini; le
donne e i bambini mandava a vendere in Calabria. Correndo poi le parti
meridionali del Val di Noto, fece grandissima preda; bruciò le mèssi
già segate; cagionò sì orribile guasto, che l’anno appresso la Sicilia
fu desolata dalla fame,[343] aiutandola al certo i guasti che feano i
Musulmani nella provincia di Ruggiero, i quali, come di ragione, son
taciuti dal Malaterra.

Non si ostinando pure a combattere Benavert nelle fortezze del Val
di Noto, Ruggiero l’anno appresso, che fu il millesettantasette, del
mese di maggio, assalì Trapani, a ponente della propria sua zona;
Trablas, come scrive il Malaterra, notando fedelmente la pronunzia
arabica che confondea l’antico nome di Drepanum con quello, più
ovvio, di Tripoli. Andò con forze tanto insolite, che li chiamarono
esercito e armata; armata della quale non allestì mai più bella il
grande Alessandro, sclama qui Malaterra, sfogando la gioia del nuovo
spettacolo in uno squarcio di versi. E così descrive il placido mare,
i zeffiri amici, le spiegate vele, il sorriso dell’auretta e della
fortuna, lo squillo delle trombe, il suono de’ liuti, il batter de’
tamburi; e da un’altra mano la cavalleria che corre per monti e valli
capitanata da Ruggiero in persona, i mille pennoncelli delle lance,
il luccicare degli elmi e degli scudi intarsiati d’oro, il nitrito
de’ cavalli e l’eco che il ripercuote: orribil suono, orribile vista
da far tremare i Musulmani entro le mura di Trabla. Strinsero la
città per mare e per terra; piantaron gli alloggiamenti; ricacciarono
malconci dentro le mura i cittadini usciti a combattere: e contuttociò
l’assedio andava in lungo, quando un colpo di mano fece cader l’animo
a’ Trapanesi. Fuor la città, scrive il Malaterra, stendeasi in mare un
promontorio ricco di pascoli,[344] dove soleano menare il bestiame,
ridotto dalla campagna in città al principio dell’assedio. Di che
addandosi Giordano, senza dir nulla al padre, una sera con cento
soli combattenti si fece traghettare al promontorio; occultò la gente
tra li scogli, finchè la dimane aperte le porte della città e uscito
l’armento, ei salta dall’agguato, rapisce i buoi fin sotto le mura,
li fa cacciare alle sue barche; e sopraccorsi i cittadini in arme,
ferocemente li ributtò, ne fece strage, imbarcò la preda, e tornossene
al campo. Malaterra, o il conte, moltiplicando, all’usanza loro, per
quindici o per venti il numero de’ combattenti musulmani, ne fanno qui
uscire diecimila contro Giordano, quanti forse non ne capiva il luogo,
nè potean essere in Trapani. Il pericolo di nuovo assalto da quella
banda e le vittuaglie che venian meno dopo tal preda, fecero calare
i cittadini agli accordi: i quali par siano stati stipulati negli
stessi termini che già ottennero i Musulmani di Palermo; leggendosi
nella cronica che consegnarono il castello, riconobbero la signorìa
del conte, e si confederarono, secondo il solito; il che ben sappiamo
che significasse pagare tributo. Ruggiero acconciò le fortificazioni a
modo suo, lasciovvi presidio ben provveduto, e si messe a battere la
provincia, sparsa di forti rôcche ed ostinata a difendersi. In breve
tempo, i Normanni vi sottomessero ben dodici importanti castella. Le
quali il conte distribuì in feudo ai suoi condottieri, con le terre
dipendenti da ciascuno e licenziò l’esercito. Acquistò, non guari dopo,
Castronovo, forte e grossa terra; chiamatovi da una mano di servi che
s’erano ribellati al Signore musulmano, Beco, o forse Abu-Bekr, ed
afforzati in una rupe che sovrastava al castello. Dove sopraccorso
il conte da Vicari, con quanta gente potè raccogliere in fretta, i
sollevati fecero i patti con lui, tirarono su con funi i suoi soldati:
ed Abu-Bekr, vista inutile la resistenza, sgombrò; i terrazzani resero
il castello a Ruggiero. Questi immantinente emancipava que’ servi, e
largamente rimunerava un mugnaio, il quale, battuto dal crudel signore,
avea macchinata la rivolta per vendicarsi.[345]

Crescea con gli acquisti la milizia feudale e la riputazione di
Ruggiero sì prestamente, che l’anno appresso l’esercito si vide partito
in quattro corpi, sotto Giordano, Otone, Arisgoto di Pozzuoli ed Elia
Cartomi; dei quali è verosimile che il primo conducesse oltre i proprii
vassalli gli stanziali del padre, Otone ed Arisgoto, italiani entrambi
come suonavano ormai que’ nomi, capitanassero gli uomini di Calabria
e di Sicilia, ed Elia i Musulmani sudditi de’ Normanni: sendo costui
musulmano e forse rinnegato, sicchè quei di Castrogiovanni, cui cadde
tra le mani a capo di pochi anni, lo misero a morte secondo lor legge,
e gli agiografi cristiani di Sicilia l’han fatto martire e beato.[346]
L’armata accompagnava l’esercito. Il conte, non più costretto dalla
pochezza delle forze a rubacchiare ed usare le occasioni, conducea la
guerra a disegno. In primavera dunque si pose all’assedio di Taormina;
la quale sorgendo su ripido monte, a cavaliere del mare, da prendersi
per fame anzi che per battaglia, chiuse egli il mare con l’armata;
circondò le radici del monte con ventidue torri collegate tra loro
per una cintura di palizzate e siepi.[347] E poco mancò ch’egli non
vi lasciasse la vita. Perocchè un giorno, andando in giro per la
circonvallazione con piccola scorta d’armati e inerpicandosi discosto
alquanto dai suoi per viottoli alpestri, una mano di Slavi, che
sembrano schiavi o mercenarii de’ Musulmani, gli saltarono addosso da
un mirteto dove s’erano ascosi. Più ratto di loro, un uom di Bretagna
per nome Evisando, si gittava di mezzo tra i nemici e il conte; li
rattenea nello stretto passo, dando e toccando colpi, tanto che,
sopraccorsa la scorta, rotolò gli assalitori giù per que’ dirupi;
mentre Evisando dalla fatica e dalle ferite spirava. Il conte onorò
di splendidi funerali e pie fondazioni la memoria di questo fedele,
immolatosi per lui. Ma stretto e assicurato in tal modo l’assedio,
Ruggiero con una eletta di fanti battea la costa settentrionale
dell’Etna e la valle che la divide dagli Appennini e soggiogava tutti
i Musulmani sparsi in que’ luoghi, infino a Traina. Ritornato allo
assedio, vide comparire quattordici corvette affricane[348] alle
quali mal avrebbe potuto resistere l’armata sua, scema di gente per
la guardia della circonvallazione. Donde inviato un messaggio agli
Affricani, gli risposero non venir con intendimenti ostili e veramente
poco appresso partironsi; il che darebbe a credere che Roberto per
avventura avesse stipulato accordo co’ principi Ziriti, per pratiche
de’ Pisani o degli Amalfitani e che Ruggiero fosse compreso nella
tregua, ovvero cogliesse or il destro di entrarvi anch’egli, come
di certo il fece a capo di pochi anni.[349] E intanto per l’assidua
vigilanza di Ruggiero e de’ capitani suoi fu chiusa Taormina sì
strettamente che, mancate le vittuaglie, la si arrese nell’agosto dopo
cinque mesi di assedio.[350]

Posarono nel millesettantanove i Musulmani liberi della Sicilia
meridionale, mercè i lor fratelli soggiogati della provincia
palermitana, i quali attiravano sopra di sè le armi del Conte. A
ventidue miglia da Palermo e un miglio e poco più a levante del comune
di San Giuseppe li Mortilli, sorge scosceso monte, inaccessibile
fuorchè da una via aspra e tortuosa: luogo pressochè disabitato al
tempo nostro. Pure il nome topografico non dileguato, gli avanzi di
spaziose cisterne e di qualche edifizio, i vasi d’argilla e le monete
che sovente vi si ritrovano coltivando il suolo, mostrano quivi senza
alcun dubbio il sito dell’antica Jeta o Jato, desolata non da Goti
nè da Saraceni, ma dai monaci ai quali ne fe’ dono Guglielmo II,
con quaranta o più villaggi de’ contorni. Territorio fertilissimo di
circa cento miglia quadrate, abitato in oggi da diciassette o diciotto
mila anime[351] il quale per lo meno ne racchiudea da sessantamila,
leggendosi nel Malaterra che Giato avesse tredicimila famiglie.[352]
Forti nel numero e nella postura, que’ di Giato ricusarono il censo
e il servigio; nè Ruggiero li potè spuntar con preghiere, nè con
minacce. Raccolsero gli armenti nella spaziosa montagna, afforzaronla
di muro e di ridotti là dove parea accessibile, e con vigilanti
guardie si assicurarono; beffandosi della rabbia del conte Ruggiero.
All’esempio si mosse Cinisi, terra di origine arabica, come pare dal
nome, posta a venticinque miglia a ponente di Palermo; contro la quale
andò Ruggiero co’ vassalli di Calabria, lasciando que’ di Sicilia a
stringere Giato, o piuttosto ad infestarne il territorio da’ due lati
confinanti con Corleone e Partinico. Egli poi sopravvedeva or l’una or
l’altra oste e invano si affaticava, rifuggendo, per umanità, dignità
o avarizia, dall’ardere le mèssi. Ma infine gittossi a quel partito,
più degno di masnadiere che di capitano; e Giato e Cinisi calavano agli
accordi.[353]

Ritardò le mosse militari, non gli acquisti, di Ruggiero in Sicilia,
l’impresa orientale di Roberto, cui par che il fratello desse
aiuti d’ogni maniera e rendesse importanti servigi, ond’ei n’ebbe
in merito la provincia del Valdemone. Perocchè del milleottantuno,
il Conte, fatti venire d’ogni banda, scrive il Malaterra, valenti
artefici,[354] con grandissima spesa murava dalle fondamenta le
fortificazioni di Messina: baluardi e torri di mirabile altezza; le
quali in breve tempo furono compiute, per la solerzia di Ruggiero
che aveavi preposti appositi officiali e instava spesso in persona a’
lavori. Sappiamo inoltre che risguardando Messina come chiave della
Sicilia e importantissima tra le città ch’egli possedea, la munì di
forte e fedele presidio; la decorò di novella chiesa del titolo di
San Niccolò, edificata a bella posta, largamente dotata e messa sotto
la giurisdizione del vescovato che il Conte avea testè fondato in
Traina.[355] I quali fatti, e le parole con che li espone il cronista
di corte, dimostran Ruggiero in quel tempo signor di Messina, anzi
che luogotenente di Roberto. E tal sembra l’anno appresso in tutta
la provincia; ritraendosi che Giordano, nella tentata usurpazione
del mille ottantadue, togliesse al padre due terre di Valdemone,
Mistretta, cioè, e quel Castello di San Marco ch’era stata la prima
fortezza munita da Roberto in Sicilia. Certa dunque ci torna, ancorchè
non attestata da diplomi nè litteralmente affermata da scrittori, la
cessione o vendita che dir si voglia del Valdemone; alla quale non
è meraviglia che si venisse, quando Ruggiero tenea molti danari in
serbo,[356] Roberto all’incontro con grandi spese allestiva possente
armata e metteva in piè un esercito. E forse fu principale patto loro
l’armamento di Messina; premendo a Roberto di evitare il pericolo
che un navilio bizantino venisse ad occupare lo Stretto, mentr’egli
assaliva l’impero d’Oriente.

Passato Roberto di là dall’Adriatico, e soggiornando sovente Ruggiero
in Puglia e in Calabria per aver cura delle faccende di lui, intervenne
lo stesso anno mille ottantuno, che Benavert s’insignorisse di Catania.
Il quale era divenuto molestissimo a’ Normanni tra cotesti loro
preparamenti alla guerra d’oltremare; ed a lui facean capo tutti i
Musulmani di Sicilia ribelli, come il Malaterra chiama coloro che la
patria e la religione tuttavia difendeano contro i guerrier di ventura
del Nort. Segue a dire il cronista che Benavert comperò con doni e
promesse un Bencimino[357] che reggea Catania per Ruggiero; il qual
nome per avventura sarebbe lo stesso di Ibn-Thimna e se ne potrebbe
inferire che alcun figliuolo o parente di lui servisse tuttavia i
Normanni. Una notte il traditore apriva la città a Benavert ed alle sue
genti: con rabbia ed onta de’ Cristiani, con esultanza de’ Musulmani,
si sparse per tutta l’isola essere tornata Catania in man del nemico.
Moveano alla riscossa, Giordano, Roberto di Sordavalle ed Elia Cartomi,
con centosessanta lance, che tornerebbero a settecento cavalli; ai
quali Benavert uscì incontro, continua il Malaterra, con ventimila
fanti e un forte nodo di cavalli: pose a destra i primi, stette ei
co’ secondi a sinistra un po’ addietro la linea; e con lieti auspicii
appiccò la battaglia, poichè avendo la cavalleria cristiana caricati
i fanti, non le venne fatto d’intaccarli al primo, nè al secondo, nè
al terzo assalto. Audacemente allora i Normanni si serrano addosso a’
cavalli di Benavert, lasciandosi interi al fianco e al dosso i fanti
nemici: ed ostinata e sanguinosa la zuffa si travagliò co’ cavalli,
forse uguali e forse inferiori di numero, finchè i Musulmani, rotti,
fuggironsi alla città e Benavert stesso a mala pena v’entrò, inseguito
da Giordano fino alle porte. I fanti si sparpagliarono dopo la rotta
dei cavalli, fuggendo o correndo all’impazzata addosso ai vincitori, sì
che furono tagliati a pezzi. I Normanni posero l’assedio alla città;
nella quale sendo scarso il presidio e ingrossando già la popolazione
cristiana,[358] Benavert nottetempo se ne andò a Siracusa, dov’ei
condusse il traditore, Bencimino, e in vece de’ promessi premii, gli
diede la morte.[359]

Contenti di questa vittoria i Normanni stettero sempre in su la difesa
infino al milleottantacinque, ordinati, credo, a contenere Benavert
que’ medesimi stanziali che aveano sì virtuosamente ripigliata Catania.
Ruggiero soggiornò in Terraferma, come richiedeano gli interessi
di Roberto e suoi; nè ebbe a venire in Sicilia che per reprimere,
del mille ottantadue, una rivolta del proprio figliuolo Giordano,
luogotenente nell’isola. Il quale par abbia voluto prendere le terre di
Valdemone per sè stesso, e cominciò occupando i castelli di Mistretta
e di San Marco, e tentando di por mano nel tesoro di Ruggiero, serbato
in Traina a guardia d’uomini fidatissimi, da non spuntarsi con promesse
nè con minacce. Indi fallì questo colpo; nè senza vergogna Giordano
si ritrasse dal mal sentiero ov’avea messo il piede. Perchè Ruggiero,
temendo che il figliuolo per disperazione non si gittasse a’ Musulmani,
dapprima s’infinse prenderle per baie giovanili, ed aprì le braccia a
quel valoroso; ma com’ei l’ebbe nelle sue forze con tutti i compagni e’
famigliari, cominciò una stretta inquisizione, fe’ accecare dodici che
gli parvero gli istigatori del figlio, e rimandò poi libero Giordano,
disonorato nel supplizio de’ complici, atterrito dalla minaccia di
perdere il lume degli occhi per comando del proprio suo padre.[360]
Allenava così la guerra, dalla parte de’ Normanni, perchè il nerbo
delle loro forze pugnò in quel tempo con Roberto in Grecia; e dalla
parte de’ Musulmani, perchè forze d’animo non restavano ai soggiogati,
e i liberi par che al solito le spendessero in lor piccole gare. Che se
pronti egli avesse visti a pigliare le armi i correligionarii suoi di
Palermo, di Mazara o di Trapani; se disposti que’ di Castrogiovanni o
di Girgenti a seguirlo ne’ territorii occupati dal nemico, non avrebbe
il prode Benavert messe tutte le sue sorti al gioco d’una disperata
fazione in Calabria.

Tentolla il milleottantacinque, quando la morte di Roberto Guiscardo
avea gittato tanto scompiglio nell’Italia meridionale, quando si
disputava la successione al ducato tra suoi figli Boemondo e Ruggiero,
quando il conte Ruggiero si adoperava in Terraferma all’esaltazione
del secondo tra’ nipoti, il quale glie ne die’ in merito la metà
delle terre di Calabria, riserbata già da Roberto. Benavert assaltò la
Calabria, come uom che a null’altro agogni fuorchè vendicarsi o morire.
Nell’agosto o nel settembre[361] approdò di notte[362] a Nicotra, vinto
pria, com’e’ parrebbe, un combattimento navale e poi uno di cavalleria
co’ Normanni:[363] distrusse quant’ei potè della città, rapinne quanto
ei seppe, menò cattivi uomini e donne. Ritornando, sbarcò presso
Reggio, dove saccheggiò le chiese di San Niccolò e di San Giorgio,
spezzando le immagini, contaminando i vasi sacri e gli arredi. Irruppe
alfine nel munistero di donne della Madre di Dio a Rocca d’Asino;
depredollo e le suore menò negli harem di Siracusa.[364]

Inorridivano, bolliano di sdegno all’annunzio di tal sacrilegio le
milizie cristiane; soprattutti Ruggiero che sperava utilità dalla
vendetta e il destro di volgere a impresa nazionale e religiosa le armi
pronte in Puglia alla guerra civile. “Spirandogli il Cielo maggior
ira che l’usata, scrive il monaco Malaterra, ei surse a vendicare
l’ingiuria di Dio: cominciò il primo ottobre, fornì il venti maggio gli
appresti dell’armata. A piè scalzi allora, andò in giro per le chiese,
recitando litanie, mettendo sospiri e lamenti, dispensando larghe
limosine ai poverelli: si commise indi a’ perigli del mare e drizzò le
prore a Siracusa. “La mostra dell’armata, i riti di propiziazione da
infiammare le moltitudini seguirono, com’egli è evidente, a Messina.
Ruggiero, mandato Giordano co’ cavalli che l’aspettasse al Capo
di Santa Croce,[365] là dove fu poscia edificata Agosta, salpò con
l’armata; la qual senza remi nè vele (nota il Malaterra per dimostrare
il miracolo, ma dimentica le correnti del mare) prosperamente navigò,
sostando la prima notte a Taormina[366] la seconda a Lognina[367]
presso Catania e la terza al Capo di Santa Croce. Dove trovato Giordano
co’ cavalli e messa in punto ogni cosa, il conte mandò a riconoscere le
condizioni del nemico un Filippo di Gregorio[368] patrizio. Il quale,
in una barca montata da Siciliani, com’ei sembra, che al par di lui
intendeano l’arabico e parlavano speditamente, aggirossi nel porto
di Siracusa la notte, contò le navi di Benavert, le seppe disposte ad
affrontare senza dimora i Cristiani e ritornò a Ruggiero. Era giorno
di domenica. Il conte fa celebrare la messa in quel deserto lido,
confessare e comunicare la gente: la notte salpa per Siracusa e mandavi
la cavalleria. Il venticinque maggio mille ottantasei, combatterono
le due armate nel maggior porto, come quelle di Siracusa e d’Atene,
quindici secoli innanzi. Benavert vedendo troppo travagliati i suoi
dagli arcieri e sopratutto da’ balestrieri,[369] che li ferivano stando
fuor del tiro delle saette loro, comandò l’arrembaggio: dritto ei vogò
a dar d’urto alla nave di Ruggiero; spingendolo il demonio, scrive
Malaterra, per accorciargli la vita. Perchè trovato duro riscontro,
ferito gravemente di lanciotto per man d’un Lupino,[370] incalzato
con la spada alla mano dal Conte, cercò scampo in altra nave, spiccò
corto il salto, e annegò, tratto in fondo dalla grave armadura.
La più parte delle navi musulmane allor fu presa; e la città cinta
d’assedio, poichè Giordano, osservando questa volta rigorosamente il
divieto del padre, non tentò d’occuparla d’un colpo di mano, al primo
scompiglio gittatovi dal caso di Benavert. Dice l’Anonimo che Ruggiero,
fatto pescare il cadavere dell’emir, mandasselo a Temîm in Affrica.
Valorosamente poi si difesero i Musulmani di Siracusa dallo scorcio di
maggio fino all’ottobre; e invano speraron placare il conte, rimandando
liberi tutti i prigioni cristiani. Affaticati, scemati da’ tiri delle
macchine, li ridusse la fame. Una notte, la moglie e il figliuolo di
Benavert, coi notabili musulmani, si rifuggirono in Noto su due navi,
trapassando velocissimamente in mezzo all’armata nemica. La città
s’arrese a patti.[371]

Il giusto orgoglio d’una impresa navale de’ nostri e la connessione
del subietto, mi conducono or a toccare l’espugnazione di Mehdia,
interrompendo il racconto della guerra siciliana. Scrive l’istoriografo
di Ruggiero che, stando questi all’assedio di Siracusa, i Pisani per
vendetta d’alcuna ingiuria, avessero osteggiata e occupata la capitale
di Temîm, fuorchè il castello; e che, non fidandosi di prender questo,
nè di tenere la città, avessero profferto lo splendido acquisto loro
al conte Ruggiero, il quale ricusò, per mantener fede a Temîm, cui
lo stringeva un accordo.[372] Lealtà necessaria, come ognun vede, a
chi tuttavia s’affaticava sotto le mura di Siracusa e gli rimaneano
a soggiogare nell’isola tante altre cittadi e province. Ma le genuine
memorie nostrali e musulmane scoprono vieppiù la fallacia del cronista
e provano che, se pur i Pisani richiesero il conte, fu sol di entrare
nella lega quando si apparecchiavano gli armamenti.

Delle condizioni di casa zirita, delle fortificazioni di Mehdia, ci è
occorso dire più volte.[373] Il munitissimo porto era nido di pirati
che tutto infestavano il Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, e
assalivano talvolta le costiere e rapivano gli uomini al par che
la roba, nè rispettavano al certo gli accordi che per avventura
fermò con gli Ziriti or questo or quello Stato italiano.[374] Colma
la misura, mossi i Pisani dalle querele di lor cittadini cattivi
degli Infedeli, proposero lega a Genova, domandarono aiuti a tutti
navigatori italiani e benedizioni al papa, che era allor lo scaltro
abate Desiderio, o vogliam dire Vittore III; il quale, travagliandosi
in dure strette, aiutò di quel che potea: conforti ed esortazioni. Con
gli stessi elementi, gli stessi modi e gli stessi intenti, ma assai
più larga e possente si rifacea così, dopo settant’anni, la lega che
oppresse Mogehid nel millequindici. Apparecchiate lungamente[375]
da Pisani, Genovesi, Amalfitani,[376] sommarono le navi italiane
a tre o quattrocento, gli uomini, comprese al certo le ciurme, a
trentamila;[377] e lor fu dato il ritrovo a Pantellaria. Dove i
Musulmani, provatisi indarno a resistere, mandarono avvisi a Temîm per
dispacci attaccati al collo delle colombe: ma l’annunzio del pericolo
nocque, più che non giovasse, nella città spreparata, nella corte
pusillanime e discorde. Mentre quivi i Musulmani si bisticciano tra
loro, il mare si ricopre delle italiane vele; i palischermi s’avanzano
a branchi; sbarcan lesti i nostri nel borgo di Zawila a mezzodì, e
nella penisola stessa di Mehdia a tramontana: per aspri combattimenti
occupano il borgo, occupano la città fuorchè il cassaro[378] ossia
palagio afforzato; bruciano l’armata musulmana entro il porto; appiccan
fuoco alle case; fan prigioni, saccheggiano e furiosamente stringono
il cassaro, dove s’era rifuggito Temîm. Era il sei agosto del mille
ottantasette. Ma assalito invano il castello per parecchi giorni, Temîm
chiedea la pace, a patto di sborsare trentamila, altri dice ottanta
e altri centomila, dînar d’oro,[379] liberare i prigioni cristiani,
smettere la pirateria contro Cristiani, e accordare franchigie doganali
ai Pisani ed ai Genovesi.[380] E i collegati, conseguito l’intento,
accettarono i patti, caricarono le navi d’oro, argento, pallii, arnesi
di bronzo, prigioni cristiani da liberare o da rivendere, schiavi
musulmani da recare al mercato, e ciascuno se ne andò in quella che
chiamava sua patria, a far mostra della preda, arricchire la chiesa più
favorita; e poi riarmare la nave, ed arrotar l’azza e la spada contro
un’altra città italiana. L’imbarbarita musa arabica dell’Affrica si
fece a descrivere le calamità di Mehdia, cominciando a dire del gran
numero de’ nostri, agguerriti e feroci, che assalirono improvvisamente
un pugno di cittadini, avvezzi a molle vita più che alle armi; ma
sventuratamente ci manca la più parte di questa lunga elegia. Intero
abbiamo lo scritto d’un italiano, il quale provandosi nei principj
del duodecimo secolo a cantare in una lingua ch’ei non parlava, le
geste di una nazione la quale non vedea per anco la sua stella polare,
dettò in versi latini un racconto preciso e fedele nella importanza
de’ fatti, ma lo vestì di goffe metafore da romanzo, facendo allestir
da’ cittadini di Pisa e di Genova mille navi in tre mesi, uccidere
in Mehdia centomila Arabi, liberare centomila Cristiani e simili
baie.[381]

Il cauto normanno avea occupata Girgenti, mentre i marinai italiani
si apparecchiavano tuttavolta all’impresa di Mehdia. Sbrigatosi di
Benavert nell’ottantasei, radunava a dì primo aprile dell’ottantasette
le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza d’acquisto; e
sì conduceale all’assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con
Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della
sacra schiatta di Alì, del ramo degli Edrisiti che aveano regnato un
tempo nell’Affrica occidentale, e della casa de’ Beni-Hamûd, la quale
tenne per poco il califato di Cordova (1015-1027) indi i principati
di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna,
andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di cotesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo
stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono
coi figli di Temîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome
illustre e dalle pazze vicende dell’anarchia. Chamut il suo nome, qual
si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si
trascrive Hamûd.[382] Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse
di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figliuoli si trovavano in
Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor
macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo
anno. Ruggiero v’acconciò fortissimo un castello, munito di torri,
bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera,
Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravanusa; talchè
occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso
ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta, la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutta intera la
provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta.
La moglie ed i figliuoli dell’Hamudita caduti in suo potere, tenne
Ruggiero in sicura ed onorata custodia; pensando, così nota il
Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con serbare la sua famiglia illesa da tutt’oltraggio.[383]

E veramente, Ibn-Hamûd si vedea chiuso d’ogni banda in Castrogiovanni;
occupata da’ Cristiani tutta l’isola, fuorchè Noto e Butera; potersi
differire, non evitar la caduta; nè egli ambiva il martirio, nè i
pericoli della guerra, nè pure i disagi di gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad
abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i
giri di parole che conduceano a due proposte: rendere Castrogiovanni e
farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento
e l’apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato
rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto
lieto a Girgenti. Nè andò guari che il normanno con fortissimo stuolo
chetamente s’avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in un
luogo appostato già col musulmano; e questi, fatti montar in sella suoi
cavalieri, traendosi dietro su i muli quanta altra gente potè, quasi
a tentare impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò
diritto all’agguato. E que’ fur tutti presi; egli accolto a braccia
aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale
priva de’ difensori più forti, si arrende a patti, e Ruggiero vi pone
a suo modo castello e presidio. Ibn-Hamûd poi si battezzò, impetrato
da’ teologi del Conte di ritenere la moglie ch’era sua parente ne’
gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non
tenendosi sicuro de’ Musulmani in Sicilia, nè volendo che Ruggiero pur
sospettasse di lui in caso di cospirazioni o tumulti, il cauto e vile
Ibn-Hamûd chiese di soggiornare in Terraferma; ebbe da Ruggiero certi
poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.[384]

Ultima resistè con le armi la città di Butera; ultima s’arrese Noto.
Fortissima l’una di sito, fertilissima di territorio, prosperò sotto
la dominazione musulmana; incivilita al par che ricca, patria di un
elegante poeta, il quale nella prima metà del secolo seguente ornò la
corte di re Ruggiero in Palermo. Il conte Ruggiero movea con l’esercito
all’assedio di Butera in su l’entrar d’aprile del mille ottantanove;
la strignea da tutti i lati; apprestava le macchine a battere il
castello, quando ebbe avviso che papa Urbano secondo, venuto in Sicilia
a trattare secolui gravissimo negozio, sostava alla corte in Traina.
Donde Ruggiero, lasciata ai suoi capitani la cura della guerra, andava
ad abboccarsi col papa; e quando questi partì, gli offria ricchi doni.
Ritornato al campo sotto Butera, ebbela a patti; messe presidio nel
castello e mandò in Calabria i più potenti cittadini. Nel febbraio
del mille novantuno, stando egli a Mileto, veniano oratori di Noto a
profferire la sottomissione; la quale egli accettò, francando la città
di tributo per due anni e rimandò co’ legati il figliuolo Giordano,
che occupasse il castello. La moglie e il figliuolo di Benavert si
rifuggivano allora in Affrica.[385]

Insignoritisi per tal modo i Normanni dell’isola tutta, Ruggiero
navigò lo stesso anno millenovantuno al conquisto di Malta, dalla
quale cominciar volle, scrive il biografo, a soggiogare novelle
province oltre il mare, per isfogar quella sua brama di acquisti e
quel bisogno ch’egli sentia di muoversi, affaticarsi, guerreggiare.
Mentre apparecchia la spedizione e chiamavi i suoi baroni, gli vien
detto che Mainieri di Acerenza, richiesto da lui d’un abboccamento,
avea risposto al messaggero: io nol rivedrò in viso che quando avrò
da fargli del male. Acceso d’ira a cotesta ingiuria, il conte ripassa
incontanente in Terraferma; Pietro di Mortain lo segue entro otto
dì con un esercito levato in Sicilia, pieno forse di Musulmani; col
quale Ruggiero muove in fretta contro Acerenza, la stringe di assedio,
sì che Mainieri scendea a chiedergli perdono, ed ei lo multava di
mille soldi d’oro. Pria di ritornare in Sicilia, diè il guasto al
territorio di Cosenza che avea disdetta la signorìa del favorito Duca
di Puglia. Poi comanda ch’entro quindici dì si adunino le genti e le
navi al Capo Scalambri[386] che difende da ponente il porto detto di
Longobardo, la Caucana di Tolomeo e di Procopio, donde Belisario era
passato al racquisto di Malta quattro secoli avanti di lui. Del mese
di luglio andovvi il Conte, vigoroso e verde, che non gli pesavano
i sessant’anni ed avea tolta testè la terza moglie. Pregandolo il
figliuolo Giordano che gli concedesse di capitanare l’oste, forte ei se
ne adirò; disse che essendo primo nel partaggio degli acquisti, primo
entrar voleva anco ne’ rischi e ne’ travagli; e comandò al figliuolo
che nell’assenza sua girasse la Sicilia con grosso stuolo, senza posare
mai in città murata o castello. Di che l’ambizioso giovane piangea di
rabbia. Ruggiero, fatto dar nelle trombe e negli strumenti di musica,
de’ quali par avesse composta una banda con valenti suonatori, fatto
salpare le ancore e scior le vele, approdò a Malta, al secondo giorno
di navigazione: prima tra tutte la sua nave, primo egli a sbarcare
co’ tredici cavalieri che soli avea seco: scaramucciando co’ Musulmani
aspettò l’arrivo delle altre navi, e con le genti dormì su la spiaggia.
La dimane, sparge i cavalli per la campagna; muove contro la città
col grosso dell’oste. Ma il _Kaid_ e gli abitatori non usi alle armi,
si affrettavano a venire a parlamento, si sforzavano a raggirarlo; nè
potendo vincerlo d’astuzia più che di forza, pattuivano di liberare
tutti i prigioni cristiani, consegnare armi, cavalli e tutt’arnesi di
guerra, pagare incontanente una grossa taglia e indi tributo annuale,
tenendo la città a nome del conte Ruggiero e prestandogli giuramento
di fedeltà. Ruppero in lagrime i guerrieri cristiani, quando i prigioni
sciolti da’ ceppi lor si fecero incontro, cantando il _Kirie eleison_,
recando in mano le croci, qual di legno, qual di canna, come ciascuno
avea potuto farsene; e gittavansi a’ piè di Ruggiero. Il quale li
scompartì tra tutte le navi quando salparono per tornare in Sicilia,
e temea non calassero al fondo per troppo peso; ma seguì il contrario
effetto, così il Malaterra, chè il nuovo carico le rendea tanto
leggiere da levarsi sul pelo delle acque un cubito più che all’andata.
Cammin facendo, senz’altri miracoli, sbarcarono al Gozzo; la
saccheggiarono, la assoggettarono al dominio di Ruggiero. Questi poi,
toccata la terra di Sicilia, adunava i prigioni cristiani di Malta,
loro accordava la libertà; offria terreni e strumenti di agricoltura
ed esenzione perpetua dalle tasse ed angherie e che lor edificherebbe
una città a bella posta, con nome di Villafranca, s’eglino rimanessero
in Sicilia. Ma amaron meglio di ritornare ciascuno a casa sua. Per
liberalità del conte, erano traghettati gratuitamente oltre il Faro;
sì che andarono spargendo per ogni luogo, il valore e la larghezza
del liberatore.[387] Con questo atto di carità coronava Ruggiero il
conquisto della Sicilia, compiuto a Malta in persona, com’egli in
persona lo avea cominciato a Messina, trent’anni innanzi.



CAPITOLO VII.


Il vincitore, quasi antico e natural principe, resse l’isola
tranquillamente ne’ dieci anni che seguirono, mentre pur la società
dall’imo al sommo si rimescolava; mutandosi la popolazione, le
proprietà, le condizioni civili, i costumi, le usanze, i magistrati
le leggi, la religione. Sola rivolta de’ soggiogati fu quella di
Pantalica: grossa città in quel tempo, fortissima per lo sito in una
roccia tutta stagliata, bagnata dall’Anapo, abitata in età remotissima
da un industre popolo, che incavò quasi un alveare di nicchie nella
parete liscia del masso.[388] I Musulmani di Pantalica nell’anno
millenovantatrè dell’èra volgare, tumultuavano, ebbri di gioia,
sentendo la morte del temuto signor feudale del luogo, Giordano,
figliuolo del Conte. Questi, ch’era sopraccorso a Siracusa all’annunzio
della malattia di Giordano e l’avea trovato estinto, celebrate appena
le esequie, mosse contro i ribelli con gli stanziali della sua guardia;
chiamò al servigio le milizie de’ baroni: superata la difficoltà de’
luoghi e l’ostinazione dei difensori, impiccò per la gola i caporioni;
punì altri con varii tormenti; cavò la pazzia a questa città,
conchiude, brutalmente, il Malaterra. Narrando, con ciò, come alla
morte di Giordano i Cristiani che si trovavano in Siracusa avessero
pianto amaramente per desiderio del prode giovane, e compassione del
misero padre, e come i Musulmani del luogo non avessero saputo frenare
le lacrime, ei nota, maligno, che furono lagrime di convulsione, non
già d’amore.[389]

Matto dunque chi resiste, perfido e vile chi si acconcia: così alla
corte normanna si ragionava. Il signore, operando più savio che non
parlassero i cortigiani, non si affidò al solo terrore. Vedea quella
generazione, decimata dalle guerre e dagli esilii, stanca de’ piccoli
tiranni, non chieder altro che riposo e giustizia. E l’uno e l’altro
ei le diè; e ne ottenne che i Musulmani, se non lo amarono, lo tennero
necessario a loro prosperità; l’ubbidirono, anzi lo secondarono,
procacciando insieme col proprio l’utile di lui. Dell’incivilimento
degli abitatori musulmani, latini e greci, ei raccolse una quantità di
forza, che s’era sterilmente consumata per l’addietro. Ei trasse danari
e soldati dai Musulmani più che dagli altri, perchè erano di gran
lunga più numerosi e più industri, più compatti in lor ordine sociale,
più ubbidienti al principe. Maneggiando tal forza, ei prevalse sugli
altri feudatarii normanni. Con la fama ch’egli avea ben meritata d’uom
di guerra e di Stato, savio, giusto, religioso, con la possanza della
mente e dell’animo suo, tenne il primato nell’Italia a mezzogiorno del
Tevere e contò tra i monarchi d’Europa.[390]

A lui si volsero tutti gli sguardi alla morte di Roberto; quando
chi parteggiò per l’uno chi per l’altro figliuolo, ma ciascuno pensò
veramente ai fatti suoi proprii, e dimostrossi, dice il Malaterra,
la slealtà di molti Pugliesi.[391] Slealtà, nel costui linguaggio,
significava impazienza del giogo normanno, chè giogo egli stesso il
chiama; significava ricusare il tributo e il servigio che il duca,
all’uso normanno,[392] richiedea dalle città, le quali un tempo
elessero console il capo de’ condottieri; richiedea da’ condottieri
che chiamarono un compagno a capitanare tutte le forze in guerra.[393]
Il vero è che cittadini longobardi o calabresi, e baroni normanni e
italici, rivendicavano loro diritti usurpati da Roberto e usavano
la discordia de’ costui figliuoli: donde Ruggiero, novello duca,
dovea ad un tempo difendersi da Boemondo e domare le città e baroni
ricalcitranti, adoperando armi della stessa tempra che le loro,
inefficaci e mal fide.[394] Gli stese allor la mano il conte Ruggiero,
il quale avea promesso, dicono, a Roberto di mantener quell’ordine di
successione,[395] ed era partecipe dell’intento politico che lo dettò:
mostrare, com’io penso, alla Puglia un principe di schiatta longobarda
per via della madre, talchè i soggetti gli ubbidissero più volentieri,
gli estranii di Benevento e Capua lo desiderassero. Si notò, in
vero, la condiscendenza del novello duca verso i Longobardi.[396]
Intanto i fatti rivelano il disegno, forse l’accordo, fermato tra’
due Ruggieri: che il Duca cedesse del tutto al Conte la Sicilia, le
Calabrie e fors’anco lo favorisse nell’acquisto d’altri territori
più settentrionali; e il Conte prestasse a lui le armi per costituire
un sol principato di lì al Garigliano e al Tronto. Combacia con tal
disegno il detto di Malaterra, che alla nascita di Simone (1093)
successore immediato del Conte, fu certo il futuro duca di Sicilia
e di Calabria, per l’assentimento del duca Ruggiero di Puglia.[397]
Dalle quali parole e’ sembra che siasi trattato, se pur non fermato
con carte, di costituire in Ducato i dominii del Conte; il qual disegno
verosimilmente tornò vano per difficoltà della corte papale. Per opera
del conte Ruggiero fu esaltato (1085) al trono ducale il nipote; il
quale gli diè per arra la metà delle castella di Calabria, riserbata
a Roberto nel primo partaggio.[398] Per opera sua Boemondo, a capo
di due anni, posò le armi con magro accordo; e furono oppressi i
baroni che alzavan la testa.[399] Ma cadute in Sicilia le ultime città
musulmane independenti, Ruggiero adoperò, senza tema di ferirsi da
sè medesimo, uno strumento di guerra ch’egli avea sperimentato molto
rispettivamente in Sicilia stessa,[400] e Roberto con men pericolo a
Roma; e che, in mano de’ suoi successori, battè per un secolo e mezzo
i paesi meridionali di Terraferma. Volendo il Duca ridurre la città di
Cosenza, il conte Ruggiero, del millenovantuno, conduce a campo sotto
quella città, insieme con le milizie feudali, parecchie migliaia di
Saraceni di Sicilia; dispone l’assedio a suo modo; e quando i Cosentini
voglion calare agli accordi, lui chiaman arbitro. In merito del quale
aiuto il Duca gli concedea mezza la città di Palermo. Egli, andatovi
immantinenti, afforzato un castello nella sua parte di città, seppe
sì bene ordinare l’amministrazione comune delle pubbliche entrate, o
con tal durezza fiscale aggravare i cittadini, che il Duca incominciò
a ritrarre dalla sua metà maggior frutto che pria non gli avesse reso
l’intero.[401]

Molte altre migliaia di Musulmani veniano col Conte a Castrovillari,
insieme con cavalli e fanti cristiani, a soccorrere il duca Ruggiero
nella pericolosa ribellione di Guglielmo di Grantimesnil (1094):
Musulmani, leggiamo, di Sicilia e di Puglia;[402] ond’e’ sembra che
ne fossero stati tramutati in quella provincia, e allogati in alcun
feudo del conte, sia a dirittura dalla Sicilia, sia dopo una sosta in
Calabria.[403] Ventimila Saraceni, come è scritto in una cronica,[404]
seguivano il Conte all’assedio d’Amalfi (1096) dove chiamollo il Duca,
promettendogli una metà della terra se la espugnassero. Ma accadde una
grande sventura, dice il monaco Malaterra: sparsa voce nel campo che
papa Urbano avesse bandita la guerra de’ Luoghi Santi e che vi corresse
tutta l’Europa, quell’ambizioso di Boemondo, si fe’ attaccare una croce
su le vestimenta; la gioventù per vaghezza di cose nuove gli corse
dietro a gara; e lasciaron lì il Duca e il Conte, con sì poche forze
che furono costretti a levare l’assedio.[405]

Crebbe tanto nel millenovantotto il numero dei Musulmani levati in
Sicilia, che lo storiografo afferma non aver il Conte mai capitanato
più grosso esercito. Quando furono posti gli alloggiamenti a San Marco
di Calabria, pareano innumerevoli le brune tende dei Saraceni;[406]
si vedean le colline coperte di lor buoi, pecore, capre, come se vi
pascolassero insieme le greggi di Laban e di Giacobbe. Capua avea
disdetta l’obbedienza al principe Riccardo, della casa normanna
d’Aversa; il quale, non potendo osteggiarla con le sue proprie forze,
avea chiesti aiuti al Duca, offrendogli omaggio feudale, e al Conte
promettendo di procacciargli, non so in che guisa, l’acquisto di
Napoli. Allettato dalla quale speranza, pregato caldamente dal Duca,
Ruggiero aveva assentito. Condotte le sue genti, quasi tribù nomadi,
in guisa che loro non mancasse mai pastura per le greggi, strinse Capua
con molta arte di guerra; costruì per uso degli assedianti un ponte di
legno sul Volturno; sopravvide ei medesimo assiduamente ogni fazione
di guerra; sì che la città alla fine sottometteasi.[407] Tanto cospicuo
egli apparve in quest’assedio, che la leggenda monastica gli riferì un
miracolo: fe’ calare un angelo sotto le sembianze di San Brunone, ad
avvertirlo in sogno che Sergio, condottiero di dugento soldati greci
del suo esercito, stesse per introdurre il nemico nel campo.[408]

Del rimanente le memorie ecclesiastiche narrano del conte Ruggiero,
nella stessa impresa di Capua, un episodio per nulla edificante.
Sant’Anselmo arcivescovo di Canterbury, fuggendo l’ira di Guglielmo II
d’Inghilterra, venuto era in Italia per faccende non sappiam se della
Chiesa o del mondo; e invitato, dice il suo discepolo Eadmero, dal duca
di Puglia, soggiornava nel campo sotto Capua, quando capitovvi Urbano
secondo. Il dotto arcivescovo, gareggiando di riputazione col papa e
attirando a sè ogni maniera di gente devota o curiosa, non isdegnava
i visitatori Musulmani, li adescava anzi con suoi camangiari;[409]
e tanto con loro si addimesticò, che soleva andare a visitarli negli
alloggiamenti loro, appartati da quelli de’ Cristiani; e v’era accolto
con giubilo e benedizioni e i mansueti Infedeli non potendo tutti
appressarsi, gli si prosternavano da lungi; a loro usanza, scrive
Eadmero, baciavano le proprie mani accennando d’inviare i baci al santo
uomo. Insinuatosi per tal modo a discorsi più gravi, credette Anselmo
che parecchi avrebbero rinnegato l’islam, se non avessero temuta la
crudeltà del Conte, solito a punire severamente chi di loro si facesse
Cristiano. «Perchè il Conte così operasse, nol voglio indagare e se la
vegga egli con Dio» conchiude il frate inglese.[410] Nè potremmo noi
indagarlo, senza sapere appunto se l’arcivescovo abbia ben comprese
o fedelmente riferite le risposte, e se i Musulmani gli abbiano
parlato da senno. Il racconto di Eadmero prova pure che l’aristocrazia
ecclesiastica di quel tempo, sommessamente accusava il conte di troppa
tolleranza e nessuna disposizione a seguire i pregiudizii religiosi,
più tosto che l’utilità dello Stato. E che ben si apponessero, si
scorge da quel dispetto del Malaterra contro Boemondo e’ suoi seguaci
della Crociata. Non altrimenti pensavano i Musulmani, come si vede da
un singolare racconto d’Ibn-el-Athîr.

Il quale, facendosi a dir della presa d’Antiochia, rintraccia, non
senza acume, i primordii delle Crociate nell’occupazione di Toledo
(1086) e altre città di Spagna pe’ Castigliani; nel conquisto
normanno della Sicilia; negli assalti degli Italiani su la costiera
d’Affrica.[411] La sintesi che il guidava nelle tenebre della storia
occidentale, col solo barlume del nome de’ Franchi e dell’impero,
lo porta indi a supporre che un Baldovino, re dei Franchi, vago di
conquisti, avesse invitato il conte Ruggiero a un’impresa in Affrica.
Ma consultando co’ suoi ottimati, e vedendoli plaudire ciecamente
a quel partito, Ruggiero con un atto molto laido e villano,[412]
rispose che il loro consiglio non valea più che tanto. «Tralascio la
molestia, ripigliò, tralascio la spesa del fornir a’ Franchi navi
da trasporto e un grosso di soldati; ma non riflettete voi che, se
tenessimo l’invito, saremmo sempre perdenti, anco vincendo? Vincendo,
ecco stanziati i Franchi in Affrica, ecco rapito da loro alla Sicilia
il commercio ch’essa vi fa: e per lo primo la ricca tratta de’ grani!
Non vincendo, ecco Temîm, che visto venire i Franchi dalla Sicilia e
quivi ritrarsi, ci chiama a ragione sleali, disdice il trattato: ed
ecco tronche le relazioni nostre con l’Affrica, le quali a noi giova
mantenere, finchè non possiamo mettere insieme tante forze da provarci
noi soli al conquisto!» Chiamato indi l’oratore di Baldovino, gli
rispondea Ruggiero non poter dare aiuto, sendo vincolato da trattati
con l’Affrica; che se i Franchi bramavano di mercar lode combattendo
contro i Musulmani, si volgessero più tosto alla liberazione dei
Luoghi Santi.[413] A prima vista quel cenno dei disegni su l’Affrica
e quel nome di Baldovino, darebbero sospetto di un anacronismo del
compilatore, che avesse scambiato il conte Ruggiero col re, e la prima
con la seconda crociata. Ma sendo gli scrittori musulmani molto bene
informati de’ costumi e imprese del re Ruggiero, più verosimile e’ mi
sembra il supposto che la tradizione tornasse veramente a’ tempi del
padre, e che i Musulmani contemporanei del re, senza fingere da capo a
fondo la ripugnanza del conte e l’energia plebea con che l’esprimea,
avesservi aggiunti i particolari ov’è detto dell’Affrica. Può darsi
anco che la tradizione musulmana abbia confusi due rifiuti simili
del vecchio conte: quello a’ Pisani ed a’ Genovesi che l’invitavano
all’impresa di Mehdia[414] e quello a tutta l’Europa quando gridò la
prima volta: Iddio lo vuole!

Comunque giudicasse il volgo dell’undecimo secolo la indifferenza
religiosa di Ruggiero, il sacerdozio era disposto a perdonargli ogni
cosa. Reggeano ormai la Chiesa gli adetti di alcune scuole vescovili
di Francia e di Germania e sopratutto i monaci di pochi ordini
potentissimi per riputazione di santità e dottrina, e non meno per
ricchezze, parentele e séguito appo i grandi; com’era stato poc’anzi
il monastero di Monte Cassino, com’erano tuttavia, prevalendo il genio
ecclesiastico della Francia, quei di Fleury, del Bec e di Cluny: vivai
di papi, prelati, ministri di Stato; centri di maneggi politici, dove
la potenza mondana era il fine, la religione il mezzo, e la corte
di Roma il centro di gravità. Era nata cotesta scuola politica da un
secolo in circa, mentre i laici, nobili e plebei, deliravano tra vani
terrori, pasceansi di superstizioni; e i molti ignoranti del clero
accoppiavano la credulità all’impostura. Scuola di savii che voleano
usare l’altrui semplicità ad effetto grande e santo a prima vista:
far comandare l’intelletto alla forza; guidare con unità di consiglio,
nella via della Fede, della morale, del ben pubblico, quella società
feudale eterogenea e disgregata che fermentava per tutta Europa.
La quale scuola, trascinata dagli interessi, divenne setta; e, come
disarmata, adoperò necessariamente l’ambito e le astuzie; preferì gli
effetti alle teorie, accomodò la morale ai propri intenti, si insinuò
nelle corti, trattò matrimonii, intavolò negoziati politici, promosse
l’uno, rovinò l’altro, stese un paretaio da chiappare donazioni d’ogni
maniera: lo Stato della contessa Matilde, come il bottino di Roberto
Guiscardo.

I precursori de’ Gesuiti, nell’undecimo secolo, non erano uomini da
accendersi d’intempestivo zelo contro Ruggiero, mentr’egli in Sicilia
rifabbricava chiese, fondava monasteri e vescovadi, arricchiva il
clero, lo adoperava nelle faccende civili; mentre in Terraferma ei
veramente ereditava la potenza di Roberto. Urbano II, rampollo di
Cluny, discepolo d’Ildebrando, salito alla cattedra di S. Pietro
(settembre 1087) tra le minacce d’Arrigo IV e d’un antipapa, si mostrò
osservantissimo verso il conte; ancorchè questi, com’e’ parmi, ambisse
più che il papa non voleva o non potea concedergli.[415] E prima Urbano
andava appo lui in Sicilia (1089) per trattare, scrive il Malaterra,
d’un accordo con la Chiesa Costantinopolitana;[416] ma piuttosto, credo
io, de’ riti della Chiesa greca di Sicilia e di Calabria e in generale
dell’ordinamento ecclesiastico nell’isola; o più che tutto questo,
degli interessi della corte romana in Terraferma.[417] Il silenzio
serbato dal cronista per parecchi anni su le cose della corte di Roma,
fa supporre che Ruggiero non si lasciò menare dal papa, finchè ei non
vide il destro di guadagnar potenza e splendore. Perchè il papa lo
sollecitò (1095) a dar una sua figliuola a Corrado, figlio d’Arrigo IV,
ribellatosi dal padre ed ajutato dalla Chiesa; il quale, per diffalta
di danari, mal reggeasi contro la parte imperiale in Italia. Ma il
cauto normanno, vedendo che si volea soprattutto la dote, non assentì
di leggieri: il persuasero bensì i suoi ottimati, massime Roberto
vescovo di Traina, il quale com’italiano, dice il Malaterra, ben sapea
le condizioni delle cose nell’Italia di sopra e quale assegnamento
far si potesse in Corrado.[418] E Roberto o sapea poco, o ingannò il
suo signore. Par che altri denari si sperassero dopo la dote: e forse
Ruggiero ne diè allora in sussidio alla corte pontificale, come poscia
nel 1100 quand’egli somministrava mille once d’oro a Pasquale II,[419]
poichè Urbano con ogni maniera di ossequio cercò quasi la grazia di
Ruggiero, non ostante l’avversione di lui alla Crociata. All’assedio
di Capua (1098) arrivò il papa a pregarlo non esponesse la sua vita,
tanto necessaria a Roma e all’Italia, perchè egli era il terrore de’
tristi.[420]

Ritornato il Conte dopo l’impresa di Capua a Salerno, Urbano l’andò a
trovare per trattare secolui gravi negozii, pria ch’e’ ripartisse alla
volta di Sicilia; e tanta premura ebbe di antivenire la sua visita,
ch’ei lasciò aspettare gli Arcivescovi apparecchiati col clero a
condurlo in processione alla chiesa di San Matteo. Il dì appresso egli
accordava alla corona di Sicilia il privilegio dell’Apostolica Legazia,
del quale diremo nel capitolo nono, trattando la costituzione dello
Stato. Vuolsi qui notar solamente che il papa avea nominato Legato in
Sicilia, senza saputa del Conte, quel Roberto vescovo di Traina, del
quale si è fatta parola poc’anzi: e che Ruggiero mal soffriva l’atto
della romana corte, fors’anco la persona di Roberto, e minacciava di
non accettarlo: onde il papa, per gratificare colui che con tanto zelo
avea servito alla fede cristiana, cassò la elezione e istituì Legato
perpetuo il Conte stesso e i suoi successori. Così il Malaterra.[421]
Urbano nella bolla di concessione, ricorda con somiglianti parole,
la grazia divina avere accordato trionfi ed onori alla saviezza di
Ruggiero; il suo valore aver ampliata la santa Chiesa sopra i Saraceni;
e la sua virtù essersi mostrata in molte guise devota all’apostolica
sede. Pur non è chi non vegga come quel singolare privilegio fosse
dovuto non meno ai meriti religiosi del conte, che alla sua potenza
politica, al bisogno che avea il papa di lui, e al saldo proponimento
con che seppe serbar interi i diritti del principato, o meglio
direbbesi della società laica, ch’egli avea appresi da Cristiani di
Calabria e di Sicilia seguaci della Chiesa greca; e poi li sostenne col
coraggio di una religione virile, di un sano intelletto, liberatosi di
molte ubbie settentrionali nei quarant’anni ch’egli avea praticato co’
Musulmani, co’ Bizantini e co’ gesuiti di quella età.

Su l’apice della fortuna, la morte il colse a dì ventidue giugno
del millecentuno, nel settantesim’anno dell’età sua;[422] felice
anco in questo, ch’ei vedeva assicurata la successione del dominio
a’ suoi proprii figliuoli. Molte figliuole ebbe Ruggiero, maritate
altre a feudatarii altre a principi: Busilla a Coloman re d’Ungheria
(1097);[423] Costanza a Corrado re d’Italia figliuolo d’imperatore
(1093);[424] Matilde a Raimondo conte di Tolosa e di Provenza
(1080);[425] Emma a Roberto conte, di Clermont, dopo che l’avea chiesta
Filippo I di Francia per cupidigia della dote.[426] Ma dei maschi
legittimi par che il solo Goffredo vivesse nel milleottantanove,
quando, perduta la seconda moglie Eremberga, il conte sposava Adelasia;
dava a una costei sorella Giordano, all’altra promettea Goffredo,
fanciullo e infermiccio, tal che ebbe ad entrare piuttosto in un
chiostro.[427] La morte di Giordano pertanto metteva in forse la
successione, allorchè Adelaide partorì (1093) Simone[428] e quindi
(1095) Ruggiero.[429] Trapassava così il vecchio conte con la speranza
di lasciare alla sua schiatta la Sicilia e la Calabria costituite
in ducato; nè presagiva egli al certo che, a capo di trent’anni, vi
sarebbe aggiunto il retaggio di Roberto Guiscardo, quel della casa
d’Aversa, la repubblica di Napoli, la costiera d’Affrica e una corona
reale.

Or diremo particolarmente di quest’Adelaide, il governo della quale e
la sua gente stanziata in Sicilia rassodarono l’opera del fondatore.
Secondo il Malaterra, ell’era figliuola d’un fratello di Bonifazio,
famosissimo marchese degli Italiani.[430] Con le medesime parole
è designata in certi versacci latini attribuiti al contemporaneo
frate Maraldo;[431] l’Anonimo, contemporaneo del re Ruggiero, la
chiama Adele marchesa, nata nelle parti di Lombardia del nobilissimo
sangue di Carlomagno, educata con singolar cura e informata a nobili
costumi;[432] e Odorico Vitale, della età stessa dello Anonimo, la
dice Adele, figliuola di Bonifazio ligure.[433] Donde il Pirro e il
Muratori tennero verosimile che quel Bonifazio fosse il supposto
marchese di Monferrato di tal nome:[434] e, s’e’ non toccarono
il segno, se ne scostarono di poco, perocchè liguri e lombardi si
chiamarono allora indistintamente gli abitatori di quella provincia.
Veramente le vicende del Monferrato dal mezzo del duodecimo secolo in
su, duravano oscurissime infino a questi dì nostri e favolose in parte
le genealogie.[435] Rischiarò il campo, or son pochi anni, Giulio de
Conti di San Quintino, mettendo da canto le moderne tradizioni locali
e affidandosi a’ soli diplomi;[436] se non che la critica troppo
meticolosa lo condusse al grave errore di far due famiglie diverse di
una che compariva in carte diverse con nomi e condizioni pressocchè
identiche. Ma è giudicato oramai cotesto errore. E due uomini
eruditissimi nelle storie italiane del Medio evo, il nostro Cornelio
De’ Simoni, dico, e Teodoro Wüstenfeld da Gottinga, hanno ricostruite
felicemente le serie dinastiche e il diritto pubblico di quel paese,
fondando l’edifizio su dotte e savie supposizioni, là dove mancano gli
attestati positivi e seguendo il metodo che adoperò il Muratori per
illustrare la Marca contigua, la quale racchiudea Genova, Tortona e
Milano. I lavori pubblicati dal De Simoni, e le lettere scrittemi dal
Wüstenfeld forniscono le seguenti notizie su la famiglia dell’Adelaide
madre di re Ruggiero.[437]

Misurando una ventina di miglia su la riviera di Ponente in guisa
che Savona si ritrovi nel mezzo, e prendendo sulla sponda dritta del
Po quel tratto che dal confluente del Tanaro risalisce fino a Verrua
sopra Casal Monferrato, avremmo i due lati minori del trapezio, che
al tempo di Otone primo, costituì una delle Marche d’Italia.[438]
Reggeala Aleramo, conte e poi marchese, uom di legge salica; talchè
potremmo supporlo di nazione franca e trovar qui l’origine della
tradizione che in Sicilia il vantò nipote di Carlomagno. I discendenti
di Aleramo, usurpata, com’accadeva allora in tutta Europa, la proprietà
dell’ufficio di marchese, lo esercitarono in comune per parecchie
generazioni: e da ciò, mi par nato per avventura, l’uso che nelle
province settentrionali d’Italia si dia per urbanità il titolo della
famiglia a tutti i figliuoli; mentre ne’ paesi meridionali, sì come
oltremonti lo si riserba al primogenito. E veramente nei giudizii
e negli atti di dominio di quella Marca anteriori al millecento,
intervengono insieme parecchi marchesi: poi, nel duodecimo secolo,
si veggono divisi e suddivisi i territorii tra’ varii rami del ceppo
aleramico e chiamati finalmente marchesati, ancorchè ormai tornassero
a mere contee, le quali talvolta non oltrepassarono l’ordinario
territorio giurisdizionale d’un visconte. Così nacquero i marchesati
del Vasto, Incisa, Busca, del Carreto, del Bosco, Ponzone, Monferrato,
Occimiano, Albenga, Ceva, Clavesana, Cortemiglia, Loreto.

Già a mezzo dell’undecimo secolo, separate le due parti estreme
della Marca, veggiam tre fratelli, Otone, Manfredo e Anselmo, giurare
insieme e con uguale titolo, un patto con Savona; la quale tendendo
al reggimento municipale, svincolavasi come potea da’ Signori. Ma
succeduto ad Otone il figliuolo Bonifazio detto del Vasto, e morti
innanzi il 1079 Anselmo e Manfredo,[439] fratelli o figliuoli di Otone,
Bonifazio accrebbe il territorio a scapito della Marca occidentale
che abbracciava Torino, Asti ed altri luoghi. Disputando l’eredità di
Adelaide di Susa a Corrado figliuolo di Arrigo IV, a Umberto di Savoja
e al conte di Mombeliard, Bonifazio fu segno all’ira di Gregorio VII;
parteggiò sempre per gli imperatori contro i papi; guerreggiò con
cittadi che s’emancipavano; e imprigionato una volta, osteggiato dal
proprio figliuolo per nome anch’egli Bonifazio, marchese d’Incisa,
arrivò pure a scompartire un vasto dominio agli altri figliuoli. Non è
meraviglia dunque che Malaterra il vanti famosissimo marchese d’Italia.
Nè torna inverosimile la nobile educazione data, secondo l’Anonimo,
all’Adelaide, figliuola orfana di Manfredo. Un fratello di Adelaide per
nome Arrigo, ricordato ne’ diplomi siciliani al par che nei piemontesi,
ebbe poscia alto stato in Sicilia; e forse altri rampolli di Casa
aleramica eran venuti quivi a combattere sotto le insegne de’ Normanni:
di certo molti nobili uomini della Marca aleramica vi tennero feudi,
siccome più largamente sarà detto nei capitoli che seguono.



CAPITOLO VIII.


Convien ora esporre le condizioni politiche e sociali che i Musulmani
sortirono nel conquisto e con essi i precedenti e novelli abitatori
dell’isola; alla quale investigazione spianò la strada il maestro
del Diritto pubblico siciliano, il sagace e dotto Rosario Gregorio,
nella «Introduzione» e nei primi libri delle “Considerazioni.” Dal
suo tempo in qua le fonti di quel tratto di storia non sono cresciute
gran fatto. Mancano tuttavia le antiche leggi, da qualche incerto
brano all’infuori. Tace tuttavia la cronica della corte e del campo,
da Malaterra all’abate di Telese; cioè tra la morte del conquistatore
e la gioventù del secondo Ruggiero: pressochè un quarto di secolo, che
racchiude la reggenza della contessa Adelaide e forse l’assetto delle
nuove colonie. Pur si raccatta qualche cenno nei ricordi d’altre età
o d’altri paesi; e un po’ di luce si prende dai diplomi pubblicati o
inediti. In grazia poi degli strumenti di critica storica, perfezionati
nel corso di questo secolo, si cava miglior costrutto da’ materiali:
talchè per tutti i versi dobbiamo a’ nostri tempi di potere più
dirittamente giudicare e più liberamente scrivere, che non osasse
il cauto prelato siciliano sotto i Borboni di Napoli, aizzati dalla
rivoluzione francese. Or non sembri prosunzione se noi ci proviamo a
correggere qualche parte del disegno che il Gregorio delineò, son or
sessant’anni.

Il quale avendo lavorato principalmente su’ diplomi, e sendo noi
costretti a far lo stesso, premettiamo alcune avvertenze intorno la
diplomatica siciliana dell’undecimo e duodecimo secolo. In primo luogo
è da eliminare un documento accolto alcuni anni addietro nell’Archivio
di Napoli e presentato il 1845 al congresso degli Scienziati
d’Italia: niente meno che un editto del vecchio conte Ruggiero,
dato il quattrocensettantaquattro dell’egira (1081), promulgato in
pien _divano_ a Messina, per notificare ai presenti ed ai posteri
la istituzione dei sette grandi uficii della Corona siciliana e il
ceremoniale di corte. Il tempo, il luogo e il titolo dell’adunanza,
la natura stessa e i termini dello statuto, ripugnan tanto ai fatti
fondamentali della storia siciliana, da potersi rigettare quella
scrittura senza pure guardarla. Per lo contrario, ad occhi pratici
basterebbe guardarla senza badare al contenuto; scorgendosi una
rozza mano moderna che si prova per la prima volta a imitare la
scrittura arabica, o piuttosto una confusione di caratteri cufici,
neskhi e affricani, or da carteggio plebeo, or da stile numismatico o
monumentale; e un terzo forse de’ vocaboli, contraffatti a ghirigori;
e ne’ luoghi leggibili tanti errori d’ortografia, di grammatica o di
lingua, quante parole. Ai quali segni e allo stile e tendenza dello
scritto, ben si riconosce la fattura dell’ignorante e temerario abate
Vella, del quale facemmo parola nel primo volume.[440]

Ancorchè non occorrano di tali brutture nelle carte siciliane
pubblicate innanzi o dopo il Gregorio, egli è da usare con precauzione
tutte quelle scritte originalmente in arabico o in greco; sendo
la più parte pieni di errori i testi, e sbagliate o stranamente
scontorte le versioni. Il qual vizio notai già particolarmente pei
diplomi arabici.[441] Poco minor guasto hanno patito i greci, presi a
deciferare da ellenisti digiuni della erudizione storica della Sicilia,
come il Lascari, ovvero da eruditi siciliani, come il Pasqualino ed
altri, i quali non sapeano per bene la lingua, nè la paleografia
greca de’ bassi tempi: e il peggio è che perdutesi molte delle
pergamene, altro non ci avanza che le infelici traduzioni stampate
dal Pirro, dal Mongitore e da alcun altro. Nè sfugge del tutto a
tal biasimo, il diligentissimo Tardia;[442] nè quanti han dato alla
luce alla spicciolata de’ diplomi greci nella prima metà del secolo
che corre.[443] Con migliori auspicii Giuseppe Spata da Palermo n’ha
pubblicati in questi ultimi tempi una sessantina.[444] Ed è ormai
da sperare la collezione compiuta delle carte greche e arabiche
dell’Archivio regio di Palermo, forse di tutte quelle dell’isola;
poichè il professor Salvatore Cusa va preparando il lavoro, e il
Ministero della pubblica istruzione ha promesso di sovvenire alle spese
della stampa. Userò io intanto le copie dei diplomi arabici serbati
in Palermo, le quali debbo alla cortesia del Cusa; e le bastano già a
mostrare il recente progresso degli studii orientali in Italia.[445]
Oltre i materiali testè citati, v’ha qualche altro diploma greco del
principato normanno di Sicilia e di Calabria nell’ampia ed accurata
raccolta napoletana, data non è guari dal Trinchera.[446] Quanto ai
diplomi latini dell’epoca stessa, pochi ne sono venuti alla luce dopo
i tempi del Gregorio[447] e gran numero dorme tuttavia negli archivi
pubblici o ecclesiastici dell’isola: del che mi duole, ma non temo sia
per tonarne gran danno, poichè le memorie latine de’ principi normanni
furono sempre studio prediletto in Sicilia e il Gregorio adoperò molto
le inedite.

Allo scorcio dell’undecimo secolo rimaneano al certo nell’isola,
non piccola parte della popolazione, gli antichi abitatori italici
ed ellenici[448] ai quali par che accenni il Malaterra con le
denominazioni di _cristiani_ e _cristiani greci_;[449] e meglio li
distingue l’Amato con quelle di _cristiani_ e _cattolici_, che hanno
appo lui significato contrario all’odierno, designando la prima
i popoli italici e oltramontani seguaci della Chiesa romana, e il
vocabolo _cattolici_ i Greci di lingua o di setta.[450] La scarsezza,
in vero, dei ricordi, la somiglianza de’ nomi proprii tra i Bizantini
e i Siciliani e tra questi e gli abitatori di Terraferma infino al
Garigliano, la promiscuità di soggiorno delle genti diverse nelle
medesime città e talvolta negli stessi villaggi, rendono difficile
a confermare con altre prove la durata di quelle due schiatte; la
quale sarebbe sempre da supporre, quand’anche non l’attestassero i
cronisti. Pur si ritrovano indizii dell’origine, ne’ nomi di quelle
poche centinaia di villani di Aci, Catania, Cefalù e di qualche terra
in provincia di Palermo, de’ quali ci avanzano, per caso rarissimo,
le platee, ossiano ruoli, distesi allo scorcio dell’undecimo secolo
e nella prima metà del duodecimo. Quivi tra i molti Mohammed, Alì,
Abd-Allah e altri nomi musulmani; tra i Basilii, Teodori, Nicola-ibn
Leo, Nicola Nomothetis e simili di forma greca, occorrono de’ nomi
più comuni in Italia: Pietri, Filippi, Gennari e de’ casali di conio
latino, Campalla, Donas o Donus, Bambace, Diosallo, Subula, Lancias,
Pitittu,[451] Zotico e Zotica,[452] Currucani,[453] Mesciti, Notari,
Luce, La Luce e un Pietro Saputi. Cotesti servi della gleba non erano
venuti di certo dalla Terraferma co’ vincitori. Notisi inoltre che il
nome patronimico, latino o greco, è accompagnato spesso da nome proprio
arabico: Jéisc-ibn-Gelasia, Ahmed-ibn-Roma, o Romea, Jûsuf-ibn-Caru,
Jusuf-ibn-Gennaro, Omar-ibn-Crisobolli, Mohammed-Gebasili,
’Isa-ibn-Giorgir, Abd-er-Rahman-ibn-Francu, Hosein-ibn-Sentir; e
veggiam perfino de’ soprannomi, Alì-ibn Fartutto, Ali Strambo, Mohammed
Pacione. Dond’e’ si argomenta che parecchi villani musulmani fossero
d’origine greca e italica. La mescolanza delle schiatte comparisce anco
da’ nomi di cittadini e villani in altri luoghi.[454]

Sappiam ora come si debba intendere l’affermazione d’Ugone Falcando
che i villani di Sicilia fosser tutti Greci o Saraceni.[455] Corso un
secolo dalla età dell’Amato e del Malaterra, s’era dileguata, parmi, la
distinzione degli indigeni in cristiani e cattolici, ossiano italici e
greci. Dileguata per lo scarso numero de’ primi e perchè l’ignoranza,
i pregiudizi e l’orgoglio della dominazione portavano gli abitatori
novelli, oltramontani e italiani di Terraferma, a chiamar tutti insieme
Greci gli antichi abitatori che non fossero musulmani. E scarseggiavano
gli indigeni d’origine italica, perchè la più parte, fatti musulmani,
come già notammo,[456] contavano tra’ Saraceni. L’è verosimile poi
che, tra i due segni apparenti della nazionalità greca, il rito cioè
e la lingua, la comune degli uomini s’appigliasse piuttosto al rito;
donde si perdonava la lingua d’Omero a’ Greci uniti alla Chiesa di
Roma, quei per esempio delle regioni dove il conte Ruggiero fondò i
suoi monasteri basiliani: e lasciavasi l’ingrato nome di Greci a’ soli
scismatici, e però ai contadini, i Pagani del linguaggio cristiano,
che furono sempre sì tardi a seguire i mutamenti religiosi delle città.
L’error popolare del duodecimo secolo ingenerò un altro errore appo gli
eruditi, quando rinacquero in Europa gli studii storici, senza che si
potesse approfondire per anco l’etnologia: nel qual tempo coincise appo
i dotti italiani che l’amor patrio vaneggiasse in speculazioni puerili.
Non è maraviglia se allora gli scrittori dell’isola si compiacquer
tanto nel supposto d’una nazione siciliana, ben diversa da que’ Greci
i quali era vezzo comune di vilipendere: nazione ortodossa, numerosa,
civile, e cara a’ suoi liberatori, o, secondo altri, meri ausiliari,
i Normanni.[457] Cadde con gli altri nell’errore il Gregorio; il
quale, dando significato legale alle frasi ascetiche o rettoriche
dell’undecimo secolo, e confondendo Roberto Guiscardo e il conte
Ruggiero col pio Buglione dell’epopea, scrisse: avere i conquistatori
accordata libertà civile e franchige a’ Cristiani siciliani.[458] Ma di
ciò tratteremo più largamente a suo luogo.

I diplomi che ci avanzano, millesima parte di que’ distrutti,
rischiarano pur la distribuzione geografica delle schiatte, non
solamente co’ nomi proprii, ma sì col mero fatto della lingua e
delle note cronologiche; rispondendo l’una e le altre alla nazione
preponderante nel luogo: il latino e l’èra volgare appo le genti
italiane ovvero oltramontane; il greco e l’èra costantinopolitana per
le greche; l’arabico e l’egira pei Musulmani. Confermano le scritture
per tal modo la frequenza dei Greci nel Val Demone o meglio diremmo su
la costiera orientale e di tramontana infino a Cefalù[459] e mostrano
che se ne trovasse un po’ per ogni luogo[460] e che nel corso del
duodecimo secolo ingrossassero anco in Palermo, rifatta capitale.[461]

Brevemente dirò delle genti semitiche. Gli Ebrei, pochi e spregiati
da’ seguaci delle due religioni che si fondavano in su i loro libri
sacri, non comparvero nelle vicende del conquisto, nè della dominazione
normanna; lasciarono bensì in Sicilia, dall’undecimo al decimo quinto
secolo, molti ricordi dell’operosità loro industriale e commerciale,
dello zelo scientifico e della furberia che spesso lo deturpò.[462] I
Musulmani, tra i quali sono da noverare alcuni orientali di schiatte
ariane,[463] i Berberi[464] e perfino degli indigeni di Sicilia,
come ricordammo or ora, erano sparsi per la più parte dell’isola. I
ricordi storici e diplomatici, che troppo lungo sarebbe a citar qui, li
mostrano frequentissimi in Val di Mazara, numerosi abbastanza in Val
di Noto, radi in Val Demone,[465] e si sa che nella seconda metà del
secolo XII furono cacciati con la forza dalle regioni interne della
Sicilia. Non mi proverò adesso a suddividere le varie generazioni
dei Musulmani nelle regioni dell’isola, perchè manca ogni attestato
di scrittori, e i nomi proprii corrono per lo più senza soprannome
etnico; oltrechè non ce ne avanzano che poche centinaia, spigolate in
una trentina di carte arabiche, tra atti privati e platee di villani,
e coteste carte si riferiscono a quattro soli territorii. Ci basterà
di ritrovare tuttavia in que’ luoghi la mescolanza di schiatte, che
notammo sotto la dominazione musulmana.[466]

Tra i cittadini di Palermo, possidenti e testimonii in atti pubblici,
ci occorrono Arabi delle tribù del Jemen: Azd, Kinda, Lakhm, Ma’âfir,
e di Medina, e dell’Hadhramaut; Arabi delle tribù modharite: Kais,
Koreisc, Temîm; e Berberi delle tribù di Howara, Lewata, Zegawa,[467]
Zenata; non contando alcuni nomi etnici dubbii.[468] Una iscrizione
sepolcrale del millesettantaquattro, ricorda inoltre un oriundo del
Kairewân.[469] De’ nomi proprii, come Badîs e Tarakût, e gli etnici
di Kotama e Howara, attestano che gente berbera vivesse in Cefalù;
se non che i due primi sono villani nel contado, insieme con de’
Giodsami del Jemen, Barrani di Bokhara o d’Ispahan, Sciami di Siria,
Burgi o Bergi forse di Spagna, Begiawi, ossia di Bugia e Righi, anco
d’Affrica.[470] Oltre a quelli veggiamo in Cefalù musulmani del paese
stesso: Corleone, Sciacca, Termini e Trapani. De’ pochissimi nomi che
si possano determinare tra’ pochi che abbiamo de’ villani in Corleone,
tornerebbero Ibn-Abi-Ifren e un Lewati alla schiatta berbera, Dsimari
al Jemen, Barrani a Bokhara come innanzi dicemmo; e un Melfi potrebbe
essere italiano della città di quel nome o anco di Amalfi: inoltre vi
ha de’ Siciliani di Girgenti e di Giato.

Ma tra i numerosi villani del vescovo di Catania in quella città e
in Aci, i nomi da potersi riconoscere, che in vero non son molti,
darebbero il vantaggio alle schiatte affricane. Iften e Iknizi
mi sembrano nomi proprii di Berberi; e tali di certo tre famiglie
soprannominate _Barbari_ e gli oriundi delle note tribù berbere di
Bargawata, Meklata, Nefzawa, Mesrata, Agisa, Urdin e Werru;[471] ed
affricani, ancorchè non sappiamo di quale schiatta, gli oriundi delle
città di Barca, Bona, Tunis, Susa, Msila, Melila, Solûk, del Sâhel,
ossia costiera, e dell’isoletta di Aragigun.[472] Tra gli schiavi
è un Malati, oriundo com’e’ pare di Melitene. Sei nomi di schiatte
arabiche scorgonsi nei villani, Mesudi, Hegiazi, Gafiki, ch’è ramo
della tribù di Azd, e quei della tribù di Kais nominata di sopra e
di Zogba testè passata d’Egitto in Affrica e una donna coreiscita
ed una egiziana. Legiati si riferisce a una terra in Siria; Ainuni
a villaggio presso Gerusalemme; Turungi al Taberistan, e Kirmani ad
altra notissima provincia d’Asia. Un casato Castellani e un Fakri
sembra vengano di Spagna, come di certo un Andalusi. Nabili, che
ve n’ha parecchie famiglie, rimane di origine dubbia tra la Napoli
italiana e quella d’Affrica. Nè mancano i siciliani: Medini e Sikilli
che significano entrambi di Palermo, e di Aci e Catania stesse, di
Cammarata, Sementara, Burkad, Ragusa, Sant’Anastasia, Tawi, Trapani,
Mismar,[473] Malta; un Bekkari che par si riferisca a Vicari[474] e un
Sid-es-Sarkusi, schiavo. Il bel marmo sepolcrale del museo di Malta
fa fede che nel duodecimo secolo stanziasse in quell’isola un’agiata
famiglia, venuta com’e’ pare da Susa in Affrica e discendente della
tribù modharita di Hodseil.[475] Son questi gli scarsi dati etnologici
che m’è venuto fatto di mettere insieme, dopo molte ricerche.

Delle nuove schiatte, occorrono primi i Normanni. Questi in Sicilia
allo scorcio dell’undecimo secolo, non erano gente venuta in frotte a
stanziare nel paese occupato, come due secoli addietro il _wicking_
di Roll in Normandia; non esercito ordinato che simmetricamente
s’adagiasse in casa de’ vinti, come pochi anni innanzi i seguaci di
Guglielmo in Inghilterra; fattovi re il duca, duchi i feudatarii e
così via innalzandosi ciascun altro. Anzi il conquisto dell’isola
britannica, contemporaneo alla guerra che si travagliava giù a
duemila miglia verso mezzogiorno, escluderebbe il supposto d’una
grossa emigrazione dalla Normandia e da altre province della Francia
settentrionale in Sicilia, se a noi fosse uopo ricorrere alle
verosimiglianze, e non sapessimo appunto che le compagnie normanne
di Puglia componeansi in parte di venturieri raccolti per tutta la
penisola italiana[476] e che il conte Ruggiero, il quale n’avea del
suo qualche drappello, racimolò a stento, dopo l’espugnazione di
Palermo qualch’altro poco di gente nell’esercito di Roberto.[477] Le
costui guerre civili, quella di Grecia e la discordia ch’ei lasciò per
testamento ai figliuoli, riteneano poscia nelle province meridionali
della Terraferma gli oltramontani quivi stanziati e vi attiravano i
venturieri che tuttavia venissero alla sfilata di là dalle Alpi; finchè
il vortice delle Crociate non li trasportò tutti in Levante.

Alle quali presunzioni rispondono i fatti. I ricordi storici d’ogni
maniera non accennano ad emigrazioni francesi nell’Italia meridionale
dopo il millesessanta, se non che di spicciolati, chierici e monaci
piuttosto che guerrieri. I nomi francesi poi che veggiamo nei diplomi
e nelle croniche di Sicilia sono di coloro che occupavano i più alti
gradi della società: feudatarii, prelati e officiali pubblici;[478] ed
erano, se non i soli, gran parte degli uomini di cotesto linguaggio
dimoranti in Sicilia. Di popolazioni propriamente dette d’una città,
d’un villaggio o pur d’un quartiere, non rimane alcuna notizia in
carte, monumenti nè tradizioni municipali; non ne rimane vestigia ne’
nomi topografici.[479] Che se più profonde si è creduto scoprirne nel
dialetto siciliano, i vocaboli e le forme che si supponeano francesi
vanno attribuiti la più parte alle popolazioni dell’Italia di sopra; e
in ogni modo non arrivano al segno che toccherebbero, se la influenza
delle case dominanti fosse stata rincalzata da un grosso di popolazione
del medesimo linguaggio. A ciò si aggiunga che le famiglie francesi
spariscono da’ ricordi della Sicilia con l’ultimo principe normanno
che vi regnò. Nè l’è maraviglia, quand’esse veggonsi appena sotto il
forte governo del secondo Ruggiero e poco sotto i successori. Che se
allora alcun barone di quelle schiatte entra nelle brighe politiche,
pure il favor della corte e il poter dello Stato, è disputato sempre
tra italiani, musulmani, e qualche prelato oltramontano; ed egli avvien
sempre che costoro si rimangano senza amici nel paese. Quello Stefano
de’ conti di Perche, che fu chiamato dalla regina per governare lo
Stato nella fanciullezza di Guglielmo secondo, non trovò in Sicilia
altri fautori che i Lombardi, de’ quali innanzi diremo. Due egregi
ospiti della Sicilia nel duodecimo secolo, scrittori entrambi, chierici
e francesi, il Falcando, cioè, che tanto amava il paese, e Pietro
di Blois, che lo ingiuriò com’avventuriere deluso, non fanno motto
di abitatori francesi dell’isola, nè d’antico baronaggio normanno;
e il primo, in particolare, toccando i tumulti surti in Messina per
cagione di Stefano, non ricorda altri francesi che i costui seguaci
venuti di fresco e nota come i Latini della città stigassero contro
quegli stranieri i Greci, che è a dire il grosso della popolazione
messinese.[480] Accenna in vero, il Falcando, al parlar francese nella
corte di Palermo; ma l’attestato suo non esclude l’uso di altre lingue,
sia il greco, l’arabico o l’italiano; nè porta punto che il francese
fosse parlato nella città e nelle province.[481] Cade così la prova
principale che allegava il Gregorio nella favorita sua tesi delle
origini normanne.[482] Nè regge meglio quella della liturgia gallicana
seguita nelle chiese di Sicilia, perchè la proverebbe sol quello che da
nessuno si nega, cioè che il conte Ruggiero e molti suoi baroni fossero
normanni e conducessero sacerdoti francesi per dir la messa all’usanza
di casa loro.[483]

Gli è bene replicarlo: alla fine dell’undecimo secolo stanziavano in
Sicilia parecchi feudatari e suffeudatari e parecchi prelati e frati,
nati nella Francia settentrionale. Nella seconda metà del secolo
duodecimo la corte assoldava compagnie di mercenarii oltramontani,
verisimilmente francesi.[484] Non pochi chierici e frati venivan anco,
mandati dalle sètte fratesche di Francia a far parte per la Chiesa
romana e fortuna per sè medesimi nella corte di Palermo; a disputare il
favor de’ principi, il reggimento dello Stato, i vescovadi, le abbadie
e gli uffici pubblici a Italiani, Bizantini e Musulmani. Abbiam noi
notata[485] la tendenza di coteste sètte e la forza, ch’era mezzo il
raggiro, mezzo la dottrina di che s’avvantaggiavano que’ frati, sì
come il guercio nella terra de’ ciechi. Del rimanente, surse tra loro
qualche uomo erudito che promosse, secondo i tempi, l’incivilimento
della nuova nazione: e francese fu il cronista del conte Ruggiero,
francese lo storico de’ due Guglielmi; talchè la Sicilia e l’Italia
tutta debbono render merito alla schiatta scandinava ed alle altre
della Francia settentrionale, per l’opera prestata nell’epoca normanna
con l’ingegno non meno che con la spada. Ma popolazioni francesi
propriamente dette non ebbe la Sicilia; le famiglie spicciolate
s’estinsero entro un secolo, gli ecclesiastici in una generazione.

Basterebbe il fatto della lingua che fiorì in Sicilia in su lo scorcio
del duodecimo secolo a provare la venuta di grosse colonie dalla
Terraferma; poichè le antichissime popolazioni italiche dell’isola,
dopo cinque secoli di dominazione bizantina e musulmana, nè avrebbero
potuto parlare idioma sì vicino a que’ dell’Italia di mezzo, nè
imporlo agli altri abitatori di favella greca e arabica. Molti indizii
confermano tal supposto; ancorchè il biografo del conte Ruggiero
dissimuli la partecipazione della schiatta italiana nel conquisto
dell’isola, sì com’ei tace l’opera d’Ardoino nella sollevazione contro
i Bizantini, e gli aiuti d’Ibn-Thimna al principio della guerra di
Sicilia. Gli scrittori arabi espressamente affermano che Ruggiero
fece stanziare nell’isola, insieme co’ Musulmani, i Franchi e i Rûm;
che qui vuol dir chiaramente Francesi e Italiani.[486] Aggiungansi
parecchie denominazioni etniche di luoghi: la torre Pisana e il
vico degli Amalfitani in Palermo;[487] la rua de’ Fiorentini in
Messina,[488] dove anco occorre un Console di Amalfitani,[489] il
poder del Genovese (_Rab’ el Genuwi_, Cultura Januensis) in provincia
di Palermo,[490] il quartiere de’ Cosentini a Lentini,[491] e i nomi
di una trentina di comuni in Sicilia che si riscontrano con identici
o simili in Terraferma;[492] dal qual confronto abbiamo esclusi, come
troppo ovvii a tutte genti latine, i nomi di santi cristiani e le
denominazioni composte con le voci casale, castello, castro, massa,
monte, rocca, serra, torre, valle e simili; ed esclusi anco, per la
difficoltà che avvi finora a ricercarli, i nomi di campagne, poderi,
spiagge, acque. Ora si aggiungano i nomi etnici delle persone. Tra
cinque canonici di Girgenti notati in un diploma del 1127, troviam un
romano, un policastrino, un lucchese, un bresciano e un francese, oltre
un genovese ed un di Bisignano, soscritti tra’ testimoni.[493] In un
diploma dato il 1094 di Messina o di Patti, veggiamo tra’ testimonii,
con pochi nomi francesi e alcuno greco o arabico, Ildebrandus
lombardus, Rogerius de Torceto Acquinus, Ugo de Putheolis, Gualterius
de Canna; oltre i casati di Maledocto, Ruffo, Strato, Minoartino,
Astari, Bonelli, Marchisi.[494] Un altro diploma del 1095 presenta
tra’ testimonii, con qualche nome francese o dubbio, que’ di Arrigo
fratello di Adelaide, Odone Bono marchese, Roberto Borello Aquino,
Riccardo Bonnella, e Ruggiero Bonello.[495] L’onorato nome d’Alfieri
si legge tra’ notabili della terra di San Marco, in un diploma del
1136.[496] Uno della Chiesa di Patti, dato il 1133, risguardante la
composizione d’una lite surta tra i cittadini e il vescovo, ha tra’
testimonii un genovese, un parmigiano, un di Potenza e parecchi uomini
di Patti, con nomi tutti di conio italico; e quel ch’è più, un atto
inseritovi, che torna allo scorcio dell’undecimo secolo, attesta
che il vescovo Ambrogio avesse allor bandita concessione di beni a
qualunque uomo di linguaggio latino che venisse ad abitare il paese:
il quale linguaggio latino che cosa significhi lo spiega il medesimo
diploma del 1133, aggiugnendo che quello statuto d’Ambrogio era stato
poc’anzi «esposto in volgare» ai cittadini che sostenean la lite.[497]
Del resto non abbiamo, nè sperar possiamo, ragguagli particolareggiati
su le immigrazioni spicciolate dalla Terraferma in questa o quella
città dell’isola; ancorchè le si debbano supporre numerose, e più
dall’Italia di sopra che dalla inferiore. Il reggimento feudale che i
Normanni istituiron quivi in alcune province e in altre rinnovarono,
impediva le emigrazioni da terra a terra, non che oltre il mare.[498]
Nell’Italia di sopra, al contrario, la feudalità si disfaceva appunto
in quel tempo, senza che fossero per anco assettati i Comuni: donde
i membri infermi dell’uno e dell’altro ordine sociale, agitati
da mille rivolgimenti di indole identica e di apparenze diverse,
volentieri tentavano la fortuna in paesi nuovi, e senza ostacolo vi si
trasferivano.

Da ciò le grosse colonie che si addimandarono lombarde, su le
quali non ci mancano buone testimonianze storiche. Ognun sa il vago
significato ch’ebbe un tempo la denominazione di Lombardia, che gli
stranieri estesero talvolta a tutta la penisola.[499] Ma perchè molti
eruditi, e tra quelli il Gregorio, han supposto i Lombardi di Sicilia
venuti dall’Italia meridionale non men che dalle sponde del Pò, debbo
ricordare che tal confusione non fecero gli scrittori nostrali,
nè gli stranieri, de’ tempi normanni. Pietro Diacono scrive delle
moltitudini di Lombardi e Longobardi che seguirono Pier l’Eremita[500]
e il dottissimo arcivescovo di Tessalonica narra le avanìe che avean
patite Pisani, Genovesi, Toscani, Longobardi e Lombardi, da Andronico
Comneno.[501] Longobardi si chiamavano que’ dell’Italia meridionale,
dove i Bizantini, ripigliata parte de’ Ducati, n’avean fatto un
_tema_, detto Longobardia.[502] E così il Falcando pone i Longobardi e
i Lombardi come genti affatto diverse; gli uni abitatori di province
continentali, gli altri della Sicilia.[503] Il primo ricordo che ci
rimanga di coteste colonie, oltre i nomi testè riferiti di Ildebrando
e Ruggiero di Torceto da Acqui, (1094), torna alla metà del duodecimo
secolo: preciso e importantissimo documento, per lo quale re Ruggiero
dichiarava appartenere ai Lombardi di Santa Lucia le stesse franchige
de’ Lombardi di Randazzo.[504] Da’ cronisti ritraggiamo poi che
gli uomini di Butera, Piazza ed altre città di Lombardi, mossi da
un Ruggiero Schiavo, nobil uomo del quale or si dirà, pigliavano
le armi contro re Guglielmo primo e contro i Saraceni; che il re
distrusse Piazza, e ruppe i Lombardi; e che, rifuggitosi lo Schiavo in
Butera, Guglielmo ebbe alfine (1161) la città, pattuito che i ribelli
Lombardi e il loro condottiere andassero via di Sicilia.[505] A capo
di alcuni anni, ripiglia il Falcando, agitati sempre da congiure e
sedizioni, sospettavasi a corte essere rimasi molti traditori, ricchi
e possenti, nelle città lombarde. Poi morto il re (1166) e promosso
Stefano di Rotrou de’ conti di Perche a gran cancelliere, i Lombardi
più caldamente che tutt’altre popolazioni di Sicilia parteggiarono
per lui; e ingrossando la tempesta (1168) gli uomini di “Randazzo,
Vicari, Capizzi, Nicosia, Maniaci ed altri Lombardi” gli proffersero un
esercito di ventimila combattenti.[506] Il Fazzello aggiugne al novero
delle colonie lombarde di questa età, Aidone e San Fratello:[507]
e le contrade che s’addimandavano Lombardia in San Filippo d’Argirò
e in Castrogiovanni, dànno argomento a supporre che parte almeno di
quelle città, fosse stata occupata dalla medesima gente.[508] Altre
popolazioni vennero dall’Italia di sopra in Corleone e Scopello, ne’
principii del secolo decimoterzo[509] e ben si potrebbe supporre,
con un dotto tedesco, che i medesimi luoghi fossero stati una volta
occupati dalle colonie lombarde del duodecimo secolo.[510] Checchè
ne sia, nel decimoterzo segnalossi quella schiatta in Sicilia per
altissimi spiriti. Nicosia tra le prime gridava la repubblica dopo
Palermo, Patti e Caltagirone, alla morte di re Corrado (1254); Piazza,
Aidone e Castrogiovanni erano le ultime a deporre le armi in quel
movimento.[511] Nel Vespro Siciliano i Lombardi di Corleone, scrive
Saba Malaspina, seguirono primi la rivoluzione di Palermo.[512] E sì
omogenee duravano quelle colonie, che tra i capi dei circoli nati ne’
primi impeti del Vespro, noi troviamo un Simone di Calatafimi, eletto
capitan di popolo ne’ monti dei Lombardi.[513]

Vuolsi qui ricordare ciò che è detto in su la fine del capitolo
precedente su la Marca aleramica e la nobil gente quinci venuta in
Sicilia.[514] Non è ch’io pensi con alcuni scrittori, aver Arrigo e i
suoi compatriotti seguita in Sicilia (1089) l’Adelaide, ultima moglie
di Ruggiero; parendomi più verosimile, al contrario, che i parentadi
del conte e de’ due suoi figli fossero stati consigliati dalla
riputazione della casa Aleramica nell’esercito di Ruggiero; una parte
del quale noi veggiamo capitanata (1078) da un Otone o Oddone,[515]
nome frequente nell’Italia di sopra e in ispecie nella famiglia di
que’ marchesi.[516] Arrigo sposò poi una figliuola del conte; ei tenne
le vaste contee di Butera e Paternò,[517] promosse la esaltazione del
secondo Ruggiero alla dignità regia:[518] e potentissimo fu in Sicilia
e nel Napoletano il conte Simone suo figliuolo;[519] il cui figlio
illegittimo Ruggiero Schiavo si fe’ caporione dei Lombardi ribellati
contro Guglielmo primo, sì come abbiamo accennato poc’anzi.[520] Da
ciò ben puossi argomentare che cotesto ramo della casa aleramica abbia
condotti in Sicilia molti suoi partigiani. Tra i nobili Siciliani del
secolo decimoterzo occorrono anco gli Incisa, casato aleramide, per lo
quale noteremo, a rafforzare l’indizio della parentela, che gli stessi
nomi cristiani occorrono nel ramo piemontese e nel siciliano:[521] e
par che un terzo ne sia fiorito anco in Puglia.[522]

Alle testimonianze scritte su coteste origini risponde la pertinace e
viva testimonianza del linguaggio, notata già dal Fazello; il quale
non ne richiese altra, e ben s’appose, per annoverare tra le città
lombarde Aidone e Sanfratello.[523] Dieci anni or sono lo zelante
signor Lionardo Vigo d’Acireale discorse di quei Lombardi, nella
prefazione alla sua raccolta di “Canti popolari siciliani,”[524] e
pubblicò alcune poesie e pochi vocaboli del dialetto loro. Ma in oggi
i felici avvenimenti politici che stringono i legami e moltiplicano i
commerci di tutti i popoli italiani, e i progrediti studii linguistici
in Europa, ci danno abilità a cavare conseguenze assai più precise.
Un dotto professore di sanscrito, nato nelle province piemontesi, ha
notata la stretta parentela del dialetto monferrino con que’ di Piazza,
Nicosia, Sanfratello e Aidone, nei quali comuni di Sicilia al dire
del Vigo è ristretto oggi il parlare lombardo.[525] È da sperare che
perfezionati vieppiù i metodi della linguistica, promosso lo studio
de’ dialetti in Italia, esaminati in più larghe proporzioni i nomi
proprii e topografici, e pubblicata, con ciò, maggior copia di antichi
documenti, si arrivi a determinare esattamente i tempi e i luoghi della
emigrazione di cui trattiamo; i quali rimarranno vaghi per ora, cioè:
gli ultimi venticinque anni dell’undecimo secolo e i primi venticinque
del duodecimo; la Marca aleramica dalla quale moveano a mano a mano
le colonie, e le regioni interiori della metà orientale dell’isola,
dove, qua e là, venivano a stanziare, dileguandosi innanzi a loro le
popolazioni de’ Greci e de’ Musulmani.

Primaria città di quelle regioni, anzi di tutta la montagna in Sicilia,
Caltagirone, non fu mai noverata tra le colonie lombarde, non ne
parla il dialetto, non ne dimostrò gli umori nel duodecimo secolo;
eppure l’origine sua non sembra molto diversa. Su la quale mancano
testimonianze di diplomi; nè possiamo aspettarcene dal Malaterra, nè
dagli altri cronisti. Volgendoci pertanto alle prove indirette, occorre
in primo luogo il patrimonio territoriale di Caltagirone, il quale
avanza di gran lunga, sì per la ricchezza[526] e sì per l’antichità,
que’ delle più grosse e potenti città dell’isola, risalendo per lo
meno alla prima metà del duodecimo secolo.[527] Or coteste condizioni
designano un municipio nato nel conquisto o ne’ primordii del nuovo
stato. E veramente la terza città dell’isola, per quantità di possessi
stabili, contando Caltagirone ed escludendo Palermo e Messina, è
Nicosia, città lombarda già nominata. E se altre colonie lombarde han
pochi beni di tal sorta, agevolmente si ritrova la cagione: alcune
feudali fin dal principio; Piazza distrutta da Guglielmo I; e poi le
usurpazioni dei baroni al decimoquarto secolo, la continua vicenda
di concessioni e riscatti sotto la dominazione spagnuola; i sùbiti
guadagni o le perdite che ha portati il caso nella abolizione della
feudalità e in fine le dilapidazioni di tutti i tempi.[528] Ma Palermo,
Messina, Catania e la più parte delle altre grosse terre antiche, o non
ebbero municipio in que’ primi tempi per le cagioni che a luogo proprio
discorreremo, o serbarono scarsissimo patrimonio, prese da Ruggiero per
battaglia o per avari accordi; se non che con l’andar del tempo, nato o
ristorato il municipio, acquistò terreni per donazioni e coltivò que’
già lasciati ad usi comuni. Pertanto riman poco dubbio in qual tempo
sorgesse Caltagirone. Ignoriamo solo la gente e il modo: se colonia di
soldati ausiliari o di uomini spicciolati, allettati dalle franchigie.

Al primo dei quali supposti porterebbe l’antica tradizione locale che
vuol fondata Caltagirone, verso il mille, da Genovesi sbarcati con
l’armata a Camerina, arrischiatisi dentro terra; dove si mantennero,
dedicarono una chiesa a san Giorgio, rizzarono l’insegna della madre
patria; e i loro nepoti aprivan poi le porte al conte Ruggiero,[529] e
i figliuoli di quelli occupavano, regnando il figlio del conquistatore,
l’inespugnabile rôcca di Judica.[530] Da’ quali racconti stralciando
l’anno mille, l’armata di Camerina e le altre inverosimiglianze,
si potrebbe ammettere che uomini di Savona, città principale della
Marca aleramica nell’undecimo secolo, insieme con altri abitatori
della riviera di Ponente (chè spesso chiamavansi tutti Genovesi e
da Genova apprendeano a riscattarsi dai feudatarii) fossero venuti a
militare sotto il Conte, poco appresso la espugnazione di Palermo e
nelle guerre di Benavert; e che, stanziati in Caltagirone, cresciuti
a mano a mano per nuovi coloni delle province natìe e per savia
amministrazione della cosa pubblica, dato avessero in Sicilia un de’
primi esempi di libertà e prosperità municipale; e poi, venuti in
voga gli stemmi e in fama i Genovesi, avessero levata la croce rossa
in campo bianco, al par di Genova, studiando a vantarsi oriundi da
quella. In vero il doppio nome che dà Edrisi (1154) a questo paese,
_Hisn-el-Genûn_ e _Kala’t-el-Khinzâria_, ossia «Castello de’ Genii» e
“Rocca della Cinghialeria,”[531] torna bene al caso di novella colonia
venuta a porsi in luogo già abitato; e la si direbbe recente assai,
vedendola per lo primo nella descrizione della diocesi di Siracusa
data il mille censessantanove, quand’ella manca nella descrizione del
millenovanta.[532] L’origine dopo il novanta converrebbe piuttosto a
colonia industriale che militare, ma non ismentirebbe punto la mossa
dalle vicinanze di Genova.

Son queste le notizie ch’io ho potuto mettere insieme su i mutamenti
di popolazione cagionati dal conquisto. Si tenga a mente la rarità dei
diplomi degli archivii regii e municipali della Sicilia, anteriori al
decimo quarto secolo; e che i documenti genealogici delle famiglie
siciliane non sono nè copiosi nè ordinati, da poter aiutare le
presenti nostre ricerche. Dobbiam noi dunque contentarci di lontane
conghietture su le colonie mosse dalle regioni centrali e meridionali
della penisola. E in primo luogo che le città marittime dell’isola poco
frequenti di popolo, sì com’erano allora Messina e Patti, o scarse
di popolazioni cristiane, come Palermo, Cefalù, Catania, Girgenti,
Mazara, Trapani, si rifornirono, nel corso del duodecimo secolo, di
uomini delle città marittime di Terraferma. Oltre Genova e le sue
riviere, delle quali si è detto, ne vennero al certo da Pisa, Amalfi,
Salerno, Bari ed altri porti dell’Adriatico. Alle medesime regioni son
da riferire altre colonie che sembra siano passate a un tratto, come
le lombarde, non già alla spicciolata e in lungo tempo; ed abbiano
fatto stanza in luoghi abbandonati e desolati, non ingrossate città
che fiorivano. Tali credo io gli abitatori di Mistretta e Caccamo,
feudi della famiglia Bonello,[533] la quale comparisce in alto stato
ne’ più antichi documenti normanni;[534] e fu potentissima alla
metà del duodecimo secolo. Mistretta, la cui bella e forte schiatta
primeggia tuttavia in Sicilia per ardita saviezza di condotte agrarie,
va noverata tra le città più ricche di beni patrimoniali.[535] Caccamo
rivendicò, ai tempi di Guglielmo il Buono, le franchige de’ Siciliani,
contro novelli feudatarii francesi. Matteo Bonello, giovane di gran
cuore, accarezzato da Majone per le parentele e il seguito ch’egli
avea in Calabria, eroe popolare de’ Cristiani di Palermo, levò ne’
suoi feudi gente che potea dirsi un esercito, e trattò coi sollevati
Lombardi dell’isola, ch’egli poi abbandonò, irresoluto e leggiero;
non sapendo usar nemmeno l’omicidio di Majone e lasciandosi pigliar
come un fanciullo dai partigiani del re.[536] Dal nome dunque e da’
fatti, i Bonelli sembrano commilitoni di Ruggiero, non francesi però,
nè lombardi, nè greci: e direbbersi piuttosto siciliani di schiatta
italica, o calabresi. Ma nessun indizio abbiamo che uomini siciliani
appartenessero al baronaggio; nè par cosa verosimile, poichè quegli
antichi abitatori, ancorchè più numerosi che tutte le nuove schiatte,
non poteano ne’ primi tempi levarsi a importanza politica, se non
che in Messina o altre città del Valdemone. All’incontro sappiam che
la popolazione cristiana di Palermo s’accrebbe di quella delle città
marittime di Calabria e di Puglia:[537] e però a quelle province si
dovrebbe riferire l’origine de’ Bonelli ed anco de’ loro vassalli di
Mistretta e Caccamo.



CAPITOLO IX.


La condizione legale de’ vinti, non essendo descritta precisamente in
croniche o leggi, si dee raccapezzare da’ cenni che ne facciano le une
o le altre, e sopratutto dai diplomi: dond’è alquanto oscura questa
parte fondamentale del diritto pubblico siciliano ne’ tempi normanni.

E in primo luogo non fu ignota, sì come pensava il Gregorio,[538]
la schiavitù. Il Malaterra e l’Amato ci narrano di prigioni che
i Normanni mandavano a vendere in Terraferma;[539] anzi si ritrae
che fosse questo de’ più belli e spediti guadagni de’ combattenti.
Le Costituzioni inoltre del regno e le Assise dei re di Sicilia,
mantengono espressamente la schiavitù.[540] Nè manca la cosa nè il nome
nei diplomi, quando la platea arabo-greca degli uomini della chiesa
di Catania, distesa nel 1094, dopo i villani, e pria de’ Giudei, dà i
nomi di ventitrè Musulmani, _’abîd_, che vuol dire in arabico schiavi,
e propriamente schiavi negri.[541] Un diploma greco del secondo conte
Ruggiero, dato il 1109, rinnovando le donazioni del padre in favor
del monastero di san Barbaro di Demenna, gli assegna come schiavo (εὶς
δουλίαν) un Leone figlio di Malacrino, co’ suoi discendenti.[542] Per
un altro del febbraio 1134, del quale non abbiamo che la traduzione
latina, lo stesso principe, già coronato re, concedendo largamente
al monastero del Salvatore di Messina de’ poderi con pascoli, alberi
e villani, tra agareni e cristiani, gli donava inoltre gran copia
di animali e dieci servi.[543] Il testamento del prete Scholaro,
vissuto alla fine dell’undecimo e principio dei duodecimo secolo,
fa menzione di schiavi e schiave ch’egli aveva comperati con la loro
progenie.[544] Si potrebbero anche addurre, se fossero scevri d’ogni
sospetto, due diplomi del 1098 e 1102 relativi alla Calabria, pei
quali il conquistatore della Sicilia, concedeva a san Brunone ed al
suo monastero presso Stilo, centoventi _linee di servi e villani_,
avanzo d’un drappello di Greci traditori, ai quali ei perdonò la
vita in grazia del sant’uomo.[545] Alla esaltazione di Guglielmo il
Buono, la regina reggente emancipava molti schiavi.[546] Un diploma
arabico del duodecimo secolo prova anco che le usanze commerciali
permettessero all’uomo di vendersi schiavo; poichè, stipolando parecchi
marinai musulmani di trasportare da Cefalù a Messina della moneta
d’oro d’un sire Guglielmo, e dando ogni altro la sicurtà sui proprii
beni, un pellegrino Othman che nulla possedea, vendè sè stesso al
banchiere, a patto di riscattarsi con la consegna della moneta.[547]
Non vedendosi, contuttociò, frequenti gli schiavi nel XII secolo,
viene alla mente di ognuno il supposto che i Musulmani presi nella
guerra, scompartiti come l’altro bottino e venduti dai più, tenuti
schiavi dai grandi possessori, fossero stati messi da tutti a lavorare
il suolo.[548] Occorrono difatti, nei diplomi siciliani dell’XI e XII
secolo, donazioni di villani senza terreno: sopra tutti è notevole
un diploma del 1094 il quale rassomiglia alle odierne soscrizioni di
beneficenza, poichè, fondato il novello Monastero di Patti, mentre il
conte Ruggiero e i feudatarii maggiori lo dotavano di castella, terre
e villani a centinaia, molti baroni o militi gli donavano chi uno
chi due, chi parecchi villani sparsi in varie terre della Sicilia; e
Guglielmo Malo Spatario aggiugnea perfino un giudeo.[549] Or cotesti
uomini raccolti da tanti luoghi diversi per coltivare i poderi del
vescovo, hanno sembianza di schiavi, anzichè servi della gleba.
Similmente occorre un atto di vendita di quattro villani nelle campagne
di Palermo per dugento tarì e un cavallo.[550] Il nome di villani
sembra dato in cotesti casi per eufemismo cristiano e perchè realmente
quegli infelici prestavano ne’ campi gli stessi servigi che i villani,
ancorch’ei fossero di condizione diversa. Si legge espressamente
nelle Costituzioni che dei villani altri fosse tenuto per cagion di
persona, altri per cagion di roba; onde questi si potea svincolar
dal signore lasciandogli quanto tenesse di lui, quegli non poteva in
alcun modo.[551] Ognun vede che questa ultima, se la non era perfetta
schiavitù al tempo delle Costituzioni, era stata una volta. E l’era
divenuta servitù della gleba senza legge, senz’atto del padrone, senza
merito di alcuno, per mera necessità delle cose.

Que’ che comunemente nell’Europa feudale si diceano servi della gleba,
sono denominati _villani_ nei diplomi latini della Sicilia[552] e
di parecchi luoghi di Puglia e di Calabria dall’undecimo secolo in
giù.[553] Al quale vocabolo nelle carte greche di Sicilia risponde
ordinariamente ῶαροίκοι[554] e nelle arabiche _Ahl-el-Gerâid_, ovvero
_Rigiâl-el-Gerâid_:[555] come noi diremmo _gente_, ovvero _uomini
de’ ruoli_; e l’è vera traduzione arabica di _adscriptitii_ e di
ὲναῶόγραφοι. Talvolta è sostituita l’appellazione generica di _uomini_,
(homines, ἄνθρωποι, _rigiâl_) che nel medio evo significava ogni
maniera di vassalli.[556] Quando avvenìa che tra quelli non fosse alcun
cristiano, si usava l’erronea appellazione etnica di agareni.[557]
Nei diplomi greci occorre poi la voce latina villani trascritta
senz’altro[558] e in uno di Calabria anco σιγιλλάτοι, cioè inscritti
ne’ sigilli, ossia diplomi.[559] Negli arabici è adoperata con lo
stesso significato una voce che han creduta _harsc_ o _kharsc_, e che
io leggerei più tosto _harithîn_, ossia agricoltori.[560]

Parmi poi che la medesima classe e non altra sia designata con la voce
_rustici_, in due diplomi latini del 1086 e 1114: il che è sì evidente
nel primo, che gli stessi uomini chiamati in principio rustici si
dicono in sul fine villani.[561] Non altrimenti suonava quella voce nel
rimanente dell’Europa feudale.[562] Nelle Costituzioni, la voce rustici
denota genericamente i villani, gli angarii, gli ascrittizi, i servi
della gleba ed altre classi vili, come allor si pensava:[563] nè questa
voce significò mai una classe superiore a’ villani e inferiore ai
borghesi, come suppone il Gregorio, seguendo fallaci induzioni.[564] Nè
meglio ei s’appose quando considerò gli _angarii_ come classe inferiore
ai villani: che sarebbe stata cosa contraria alle consuetudini generali
della feudalità:[565] nè v’ha alcun motivo di supporla anomalia del
dritto pubblico siciliano.[566]

La diversità, profonda in diritto, forse lieve in fatto e citata per
incidenza nelle Costituzioni, onde si distingueano i villani obbligati
per ragion della persona da que’ tenuti per cagion della roba, non è
determinata da apposite denominazioni, fuorchè nei diplomi arabici o
greco-arabici di Sicilia: pochissimi diplomi, perchè l’ignoranza, la
trascuraggine e i furori civili ne distrussero la più parte. I diplomi
latini, scritti per comodo de’ vincitori, guerrieri o preti, notano
il numero de’ villani, i confini dei poderi e nulla più: perch’erano
compendii delle concessioni, cautele di concessionarii, non curanti
delle minuzie amministrative e legali, quando l’istinto della feudalità
li portava a sciogliere ogni dubbio con la violenza. All’incontro,
i diplomi greci ed arabici su le concessioni di persone o poderi,
tornano ad estratti dei registri pubblici. Non poteva essere altrimenti
per gli arabici, e l’è molto verosimile pei greci; perocchè l’idioma
greco si parlava o intendea dalla più parte della popolazione al tempo
del conquisto musulmano; e poscia i Musulmani non aveano al certo
distrutti i catasti nè gli altri atti della pubblica amministrazione
bizantina, scritti in greco; nè questo linguaggio era caduto in disuso
allo scorcio dell’undecimo secolo, quando moltissimi Siciliani doveano
parlarlo, o intenderlo, e i preti o i notai doveano averlo studiato
bene o male.[567] Gli atti dunque arabici o greci, corretti col
riscontro continuo de’ vassalli interessati, conteneano la guarentigia
de’ diritti delle persone e robe loro. Nè l’è da maravigliare che si
trovi in quelli soltanto un’appellazione di classe ignota nelle fonti
latine.

Cioè gli uomini del _Maks_, s’io ben leggo questa voce, in luogo di
_M..l..s_, nei diplomi arabici del 1150, 1154, 1169 e 1183; l’ultimo
de’ quali dà indizii che bastano a determinare la condizione.
Richiamati alle terre dal demanio, come sempre si faceva, ancorchè
con pochissimo frutto, gli uomini che se ne fossero allontanati
per rifuggirsi nelle terre del monastero di Morreale, Guglielmo
II, per quel diploma, rilasciò a’ frati gli uomini di _Maks_ e
que’ delle _Mehallet_, de’ quali tratteremo tantosto; ma ritenne
rigorosamente i _rigiâl-el-gerâid_, ossia villani, quasi parte
integrale della proprietà. Son diversi pertanto que’ del _Maks_,
dagli _uomini delle platee_, ossia villani; perchè questi vengono
eccettuati dalla concessione, e quelli vi sono compresi. Diversi
anco per la denominazione loro attribuita in greco: ἐξώγραφοι,
come noi diremmo “que’ fuori scritto;” il cui significato torna più
evidente per l’opposizione al noto vocabolo ἐναῶόγραφοι “trascritti,”
_adscriptitii_, cioè, i _villani_, i veri servi della gleba.[568]
_Maks_ ha in arabico lo stesso vago significato che appo noi taglia
o balzello; vuol dir tassa illegale e vessatoria;[569] talchè “gente
di _Maks_” tornerebbe litteralmente al _taillables_ del linguaggio
feudale francese; e parmi espressione appropriata a designare gli
uomini passibili di balzelli, ancorchè non inscritti nelle fatali
carte che li rendeano, essi e la progenie loro, materia di proprietà.
Tornano dunque ai villani tenuti al signore per cagion di roba, come
dicono le Costituzioni, ed alla classe superiore dei _ceorls_ sassoni
in Inghilterra. Il diploma del 1169 pone allo stesso grado degli
uomini di _Maks_ i _Ghorebâ_, che suona “stranieri;” e rispondono ai
commendati, raccomandati, affidati, ospiti, che solea il feudatario
ricettare, anzi adescare, nel proprio territorio per coltivarlo: uomini
liberi, o supposti tali perchè era loro venuto fatto di sottrarsi alle
persecuzioni del signore, i quali lavoravano per aver tetto e pane,
o godeano i frutti delle terre pagando il signore con danari, derrate
o giornate di lavoro in altri poderi.[570] Nè egli è inverosimile che
molti musulmani, ed anco cristiani, fossero nella medesima condizione
con origine diversa, per esempio gli artigiani delle piccole terre, non
fatti schiavi, nè dichiarati borghesi.

Il vincolo indissolubile dei villani tenuti per ragion personale,
dimostravasi co’ ruoli, o _platee_, come chiamaronle, nelle quali
scriveansi i nomi degli uomini conceduti dal principe, per lo più
con lor poderi e beni mobili:[571] chè sendo nuova la signoria e
nuovo l’ordinamento sociale, nuovi furon anco tutti i titoli di
possedimento feudale. Par che la descrizione generale dei villani sia
stata compiuta insieme col conquisto, e rilasciata nel millenovantatrè
a ciascun signore la _platea_ de’ suoi: e che cotesti ruoli si
correggessero in ogni nuova concessione, sostituendo ai morti le
vedove che rappresentavano la famiglia e aggiugnendo i novelli
ammogliati che ne costituivano delle altre.[572] I principi normanni
rispettarono scrupolosamente questa maniera di possesso; poichè
nelle nuove concessioni di villani appartenenti al demanio si ponea
sempre la clausola che s’intendessero esclusi gli uomini iscritti
nelle platee precedenti de’ feudatarii.[573] Illustra mirabilmente
il diritto e il fatto, l’or citato diploma arabico di Guglielmo II a
favor del monastero di Morreale. Come si scorge da questa e da cento
altre carte del XII secolo, siciliane, calabresi e pugliesi, e come
abbiam noi testè notato, i signori studiavansi a tenere i vassalli
a dritto ed a torto, e quelli si rifuggivano quando il poteano, in
altre terre.[574] È da supporre che i signori, abusando il potere,
sovente ritenessero de’ villani non soggetti a vincolo personale; e
che i soggetti pur tentassero di sciogliersi, quando la buona fortuna,
massime la proprietà acquistata fuori il territorio del signore, lor
dessero i mezzi di rivendicare in giudizio la libertà, o venire a
componimento.[575]

Qualunque si fosse il vincolo, personale o reale, i rustici o villani
di Sicilia ebbero persona legale[576] e libera proprietà fuor delle
terre ch’e’ tenessero dal signore:[577] i quali due diritti li
rendeano di gran lunga superiori a’ servi della gleba di molti altri
paesi. Inoltre soddisfacean essi a pesi e servigi determinati; la
quale certezza veniva dal recente conquisto normanno e da’ diligenti
ordini amministrativi de’ musulmani: ed anco rendea la condizione di
quell’infima classe d’uomini assai migliore che nei paesi occupati
dai barbari del settentrione; dove la remota origine della servitù
della gleba, confuse i limiti d’ogni dritto e dovere, e il feudatario
li allargò a sua posta. E sta bene quanto scrisse il Gregorio su
le contribuzioni e i servigi dovuti da’ villani;[578] se non che si
ritrae da’ diplomi che talvolta e’ non fossero obbligati a servigio
personale di sorta, bensì a tributi di danaro e derrate, in tempi e
in quantità fisse.[579] Questa anzi mi sembra la condizione primitiva
delle concessioni; e la si riscontra con l’autorevole testimonianza
d’Ibn-Giobair, viaggiatore spagnuolo, il quale percorrendo la
Sicilia settentrionale nell’inverno del millecentottantaquattro
e ottantacinque, investigò con sollecitudine l’essere de’ suoi
correligionarii. «Sendo ormai piena, scrive costui, la Sicilia di
adoratori delle croci, i Musulmani dimorano insieme con essi nelle
proprie possessioni e ville. I Cristiani dapprima li trattaron bene per
fruire di lor opera e industria e posero sovr’essi un tributo che si
paga in due stagioni dell’anno: nel qual modo si cacciaron di mezzo tra
i Musulmani e la ricchezza, su la terra che lor venne tra i piè.... I
cittadini musulmani, dice egli altrove, frequentissimi soggiornano in
Palermo, in lor proprii quartieri, con lor moschee e mercati, e un cadi
giudice di lor liti: ed avvene anco in altre città, oltre le campagne
e i villaggi. Ma que’ di Palermo, la più parte, sdegnano i fratelli
caduti nella_ dsimma_ degli Infedeli.» Cotesta voce ch’Ibn-Giobair
replica in altro luogo accennando in generale ai Musulmani di
Sicilia,[580] significa vassallaggio, quello propriamente de’
Cristiani e Giudei sottoposti alla _gezia_ ne’ paesi musulmani.[581]
Ed appunto _gezia_ si chiama il tributo di danaro dovuto da un
villano musulmano nel diploma arabico del 1177 che ho citato poc’anzi
e _canone_ il tributo di grani.[582] Che se potesse argomentarsi la
ragione generale di cotesti tributi dai soli due documenti nei quali
n’è espressa la quantità, la si direbbe diversa secondo i luoghi;
poichè dal diploma del 1095 torna a venti tarì, o _robái_, e da
quello del 1177 a dieci.[583] Nè parlo io del tributo di frumento
e d’orzo, il quale dovea necessariamente variare secondo la qualità
ed estensione dei poderi. Il lavoro obbligatorio non è prescritto o
almeno non è particolareggiato nelle carte più antiche, in alcuna delle
quali i villani o uomini sono donati “per servire” o donati insieme
con lor poderi, nè altro si aggiugne.[584] Parmi verosimile che i
novelli signori, portando seco in Sicilia le usanze della feudalità
continentale, abbiano talvolta, per necessità o condiscendenza,
commutato in giorni di lavoro tutto il tributo di danaro e grano o
parte di esso, e talvolta aggiunto per abuso l’obbligo del lavoro,
l’_angaria_ come la si chiamava, e i munuscoli di vivande.[585]

Occorre nel solo diploma dianzi citato del 1183[586] l’appellazione di
_Ahl-el-Mehallêt_, ossia «gente dei villaggi;” i quali entrano nella
donazione a favor del monastero di Morreale, insieme con gli uomini
di _Maks_; e da ciò si scorge ch’essi non fossero tenuti da vincolo
personale. Il significato del nome risponde, non meno che la libera
condizione, a’ Βουργισίοι e _burgenses_ dei diplomi greci e latini;
poichè _mehalla_, singolare di _mehallêt_, suona borgo o villaggio.
Nè rechi maraviglia quella donazione di uomini liberi, nè quella
iscrizione dei nomi loro in un ruolo; quando noi veggiamo accordato
al vescovo di Cefalù il dominio di alcuni borghesi;[587] dichiarato
per sentenza che alcuni borghesi appartenessero ad un feudatario di
Calabria;[588] e pagato dai borghesi di Sinagra in Sicilia tributo
annuale e compensi di lavoro obbligato.[589] Poichè i feudatari
cavavano entrate dirette da questa classe di vassalli, ben s’intende
ch’e’ ne volessero i ruoli. Si leggano nell’opera del Gregorio le
condizioni de’ borghesi,[590] con l’avvertenza che tal nome si dava
tanto agli abitatori delle città quanto a que’ delle piccole terre, i
quali il Gregorio chiama rustici erroneamente.[591]

Più grave menda del pubblicista siciliano fu il supporre legittime
esazioni gli aggravi che i feudatarii faceano sopportare ai borghesi
dal mezzo del duodecimo secolo in giù, e il farsi beffe del Falcando
che ricordava fedelmente i diritti vantati da quelli, quando alcuni
francesi, venuti a corte di Guglielmo II verso il 1169, si provarono
ad usurpazioni. Narrato come il francese Giovanni di Lavardino
pretendesse, all’uso del suo paese, la metà d’ogni entrata dai
terrazzani di Caccamo, «costoro, prosegue lo storico, allegando la
libertà de’ cittadini e borghesi di Sicilia, sosteneano non dovere
tributi nè balzelli di sorta, ma occasionalmente, quando il signore
si travagliasse in gran bisogno, l’offerta volontaria di quella somma
che loro paresse: perocchè in Sicilia, dicean essi, nessuno soggiace
a tributi e prestazioni annuali, fuorchè i Saraceni e i Greci, sendo i
soli ai quali si adatti il nome di villani.» Poco appresso, come que’
richiami furono spregiati dal gran cancelliere, così dice il Falcando,
che i costui nemici suscitarono l’odio pubblico, opponendogli il
disegno di assoggettare tutti i popoli di Sicilia a tributi e balzelli,
all’uso della Francia che non ha liberi cittadini.»[592] Io non so in
vero come il Gregorio non siasi accorto delle successive usurpazioni
de’ feudatarii laici ed ecclesiastici a danno dei borghesi, nè com’egli
venga dimenticando gli antichi esempii di franchige[593] per fare
assegnamento su i moderni di soprusi.[594]

L’attestato positivo del Falcando, a fronte di qualche fatto contrario
cavato dai diplomi, porterebbe anco alla conghiettura che la condizione
dei borghesi non fosse stata la medesima in tutti i luoghi: la quale
diversità si dovrebbe supporre d’altronde, perchè in varii modi furono
occupate le terre, e varie schiatte v’ebbero stanza. E tra questo e le
usurpazioni de’ feudatari le quali necessariamente succedeano in ragion
diretta dalla forza loro e inversa dallo spirito e numero dei borghesi,
ognun comprende la disuguaglianza delle condizioni che per avventura
si fosse accumulata nella seconda metà del duodecimo secolo. Al certo
i borghesi lombardi mantennero loro immunità meglio che i greci e i
musulmani; que’ della città meglio che que’ delle terre; e meglio che
tutti, i Musulmani di Palermo, infino alla morte del re Guglielmo il
Buono.

Su le condizioni degli abitatori delle città può seguirsi la
esposizione del Gregorio, il quale accenna alle proprietà allodiali
loro, alla diversa legge sotto la quale vissero secondo loro origine,
e largamente descrive i pesi loro imposti, le gabelle, cioè, che
poi si chiamarono antiche, su la consumazione di alcune derrate, su
la produzione di altre, su i pedaggi e su l’uso di alcuni diritti
dominicali; la tassa detta di marineria e i servigi personali, come
la milizia in terra e in mare, gli alberghi militari, l’opera nelle
pubbliche costruzioni: a che si aggiugneano le multe di giustizia
e le collette ne’ quattro casi feudali, se pur erano fissate ne’
primi tempi del conquisto.[595] Bel quadro, lavorato a mosaico di
frammenti siciliani e talvolta stranieri, ben aggiustati alle linee del
disegno; ma v’ha sbaglio, com’io notava poc’anzi,[596] nell’atto di
giustizia alla carlona che il Gregorio attribuisce ai conquistatori;
cioè che abbiano sottoposti alla _gezia_ tutti i Musulmani,[597] e
liberati da quella tutti i Cristiani. Del primo assunto ei dà due
sole prove: che i Normanni riscoteano la _gezia_ sopra i Giudei, e
che l’imperator Federigo il milledugentrentanove la fe’ pagare a due
musulmani di Lucera. Ma appunto perchè abbiam ricordi della _gezia_
su i Giudei[598] e non su i Musulmani, dovea il Gregorio dubitare del
proprio concetto. Non andava poi misurata la condizione dei Musulmani
di Sicilia del duodecimo secolo, numerosi, liberi, ricchi e potenti,
su quella d’un pugno di ribelli vinti, deportati a Lucera nel secolo
tredicesimo. E quanto alla _gezia_ de’ Cristiani, il Gregorio non si
accorge che la fosse durata sotto il nome di _dono_ o qualsivoglia
altro, a carico de’ villani, ch’erano in gran parte Greci, ossia
discendenti delle popolazioni greche e italiche ond’era popolata la
Sicilia nel nono secolo;[599] e che camparono da quella gravezza, se
pur tutti camparono, i borghesi. Il vero è che la _gezia_ col suo
odioso nome rimase addosso a’ soli Giudei, aborriti dai Cristiani,
per lo meno, quant’erano da’ Musulmani. Ebbero i villani l’aggravio
senza l’ingiuria. I borghesi di molte terre o di tutte, e di certo
que’ di Palermo e delle città grosse, pagarono sotto forma per lo
più di gabelle. E veramente il contemporaneo musulmano che prestò le
parole ad Ibn-el-Athîr, compendia gli effetti del conquisto in questa
sentenza: che Ruggiero fece stanziare in Sicilia i Rûm e i Franchi
insieme co’ Musulmani e che a nissuno lasciò bagno, nè canova, nè
molino, nè forno.[600] E pur la maraviglia e la querimonia si rimangono
a quelle complicate esazioni della feudalità, sì strane agli occhi dei
Musulmani civili; nè l’autore tocca quell’enormità maggiore di tutte
che sarebbe stata la gezia posta su i Credenti! Non voglio allegar
qui uno scrittore della corte del re Ruggiero, il geografo Edrisi,
il quale, come suol dirsi, prova troppo, scrivendo che il Conte,
insignoritosi di tutta l’isola e fermatovi il seggio dell’impero suo,
bandì giustizia ai popoli, concesse a ciascuno lo esercizio della
propria credenza e legge, e diede piena sicurtà alle persone, robe,
famiglie e discendenti.[601] Ma se Edrisi, non risguardando come uomini
nè fratelli in Islam i servi della gleba, volle dir de’ soli cittadini
coi quali egli usava nella capitale (1154), stan bene le sue parole, e
le sono confermate poco appresso (1184) da Ibn-Giobair.[602] Non parmi
inopportuno di aggiugnere alle ricordate conclusioni del Gregorio,
che le carte ritrovate dopo lui, risguardanti passaggi di proprietà,
provin tutte esserne stato esercitato liberissimamente il diritto
da’ Musulmani di Palermo, uomini e donne, sotto l’impero della legge
musulmana e la giurisdizione del cadì.[603] Al ragguaglio de’ Musulmani
compariscono i borghesi delle antiche schiatte cristiane, liberi
possessori di proprietà allodiali.[604]

La cittadinanza greca di Sicilia alla fine dell’undecimo secolo può
personificarsi nel prete Scholaro del quale ci avanza il testamento:
uomo, tra tutti i Siciliani, graditissimo al conquistatore per
importanti servigi nell’azienda pubblica e nella famiglia. Di casato
Graffeo, nacque costui o dimorò in Messina, dove possedette, insieme
co’ suoi fratelli, de’ beni urbani e n’ebbe anco dei dotali; fu
cappellano del palazzo del Conte a Reggio ed accrebbe a dismisura
il patrimonio, comperando stabili, animali, villani e schiavi nei
territorii di Messina, Palermo, Castrogiovanni, Traina, Maniace,
Castello e di là dello Stretto a Reggio, Massa, Seminara, Nicotera,
Briatico, Gerace, Cosenza e Rossano: in fine il conte Ruggiero volendo
“rimeritarlo con piccol dono delle sue immense ed onestissime fatiche”
per diploma del 1099 concedeva a lui “ed ai suoi successori sino alla
fine del mondo” i territorii di Fragalà e di Ferla. Divisi i beni
paterni co’ fratelli, e scompartita poscia tra i proprii figliuoli
gran parte del suo avere, egli usò il rimanente a fondare non lungi da
Messina un monastero; largamente dotollo di edifizii, poderi, arredi
sacri comperati in Grecia, bellissime dipinture rifulgenti d’oro e
trecento codici greci; e vi si fè monaco, prendendo il nome di Saba.
Il suo testamento dato dal millecenquattordici, dal quale ricaviamo
cotesti particolari, mostra ch’ei non fosse allora pervenuto ad estrema
vecchiezza, poichè vivea tuttavia il padre suo. Un fratello avea
fondato un altro cenobio e vi s’era chiuso. Sperava Saba che alcuno de’
suoi figliuoli seguisse l’esempio; poichè per fondazione lasciò a loro
ed a qual dei congiunti e successori il volesse, il grado di abate,
ch’egli, senza tanta umiltà cristiana, ritenne in sua vita.[605]

Non pochi oltramontani venuti coi guerrieri di casa d’Hauteville
vissero a quel tempo ne’ chiostri di Calabria, donde salirono ad alte
dignità ecclesiastiche e civili; e pur nessun uomo di quelle schiatte,
nè delle italiche, affaticatosi nella guerra e nei governi, finì la sua
vita negli ozii del chiostro. Perchè dunque entrava quest’ubbia nella
famiglia Graffeo, partigiana del conte, data agli affari mondani ed a’
grossi guadagni dei faccendieri che seguirono l’esercito conquistatore?
Era, s’io mal non m’appongo, quella fiaccona che il cristianesimo portò
nella gente greca in tutte le regioni e per tutto il corso del medio
evo; la perfezione monastica sostituita alla virtù cittadina, e in ogni
cosa preferito il martirio al combattimento. Il ricchissimo Graffeo,
si sentia da meno d’ogni piccolo feudatario francese o lombardo; si
vedea messo da canto dopo la morte del suo signore; nè trovava altra
via aperta alla fama ed all’autorità, che di farsi, co’ suoi propri
danari, dignitario della Chiesa. Lo stesso genio di lui comparisce
nell’universale de’ borghesi greci di Sicilia: alieni dalla milizia
ancorchè, di certo, non tremassero loro le braccia quando pigliavano
le armi; solerti e astuti ne’ privati guadagni, e tiepidi nelle cose
pubbliche.

La ripugnanza dalla vita militare, in quell’età e in quel principato
surto di fresco dalla guerra, fu cagione che i Greci di Sicilia
rimanessero inferiori agli Oltramontani, agli Italiani di Terraferma e
agli stessi Musulmani in una parte dell’ordine sociale, essenzialissima
nel medio evo. Nessun di loro si vede investito di feudi; nessuno
primeggia nella nobiltà del paese, ancorchè molti esercitassero uficii
pubblici fin da’ primi tempi del conquisto normanno. Così nelle carte
del tempo leggiam nomi di Greci _strateghi_ o _vicecomiti_ ch’erano
uficiali dello Stato, di _arconti_ e _geronti,_ denominazioni d’ufici
municipali di che discorreremo nel capitol che segue, dove direm
anco del vocabolo arconte, attribuito, come titol d’onore, ai grandi
uficiali della corte normanna. Se esso mai dinotò in Sicilia, oltre
il magistrato, una particolare classe sociale, parmi sia stata quella
dei possessori nel territorio, ossia la nobiltà municipale, sedente
per antichissima usanza nel consiglio; onde la stessa parola indicava
il ceto e l’uficio. Gran divario correa dunque tra questi gentiluomini
terrazzani e i cavalieri dell’Italia o della Francia.

Ma tra i Musulmani, oltre gli _sceikh_, notabili municipali, gli
_hâkim_ e i _cadi_, giudici e gli _’âmil_ uficiali del governo, si vede
fin dal principio della dominazione normanna e scomparisce a mezzo il
decimoterzo secolo, insieme con la schiatta araba e berbera, il titolo
di _kâid_; il quale, mi par che risponda talvolta a grado di nobiltà.
_Kâid_ significa propriamente “condottiero;” e come per ragione
d’etimologia, così anco per forza dell’uso, porta ordinariamente
autorità minore dell’_emir_ ch’è “comandante.” Abbiamo notato altrove
le parole di due croniche, secondo la prima delle quali il califfo
fatemita Kâim, a reprimere una ribellione (975) mandava in Sicilia
“un esercito e parecchi _kâid_;” e secondo l’altra il segretario di
Stato d’un emir kelbita rovinò (1019) il suo signore aggravando il
paese e maltrattando i _kâid_ e gli sceikhi.[606] Esempio alquanto
diverso abbiamo allo scorcio del decimo secolo, quand’era chiamato
_kâid_ quel Giawher, liberto siciliano che conquistò a’ Fatemiti tanta
parte dell’Affrica occidentale e dell’Egitto.[607] Nel decimoterzo e
decimoquarto ebbero il medesimo titolo, i condottieri di mercenarii
cristiani in Tunis.[608] Nelle traduzioni spagnuole di atti arabici
del decimoquarto secolo occorre un alcade della dogana nell’Affrica
settentrionale.[609] Ognun poi sa come lo stesso vocabolo in Ispagna
significò castellano e, in ultimo, capo dell’autorità municipale.

Accostandoci vie più al caso nostro, è da ricordare come i regoli
surti in Sicilia dopo la dinastia kelbita, non altrimenti negli annali
arabici s’intitolassero che _kâid_;[610] ed anco Amato e il Malaterra
chiamano _cayt_ e _arcadius_, i varii capitani e castellani dell’isola
e infine i due condottieri palermitani che trattarono la resa della
capitale.[611] Di lì a venti anni compariscono dei _kâid_ a capo lista
dei vassalli del vescovo di Catania in Aci ed in Catania stessa:[612]
e gli è da presumere che le medesime persone o i padri, avessero
portato quel titolo fin dal principio della guerra; leggendosi che
il Conte concedette al vescovo la città e i cittadini musulmani come
stavano prima del conquisto, con diritto di richiamare le persone o
i discendenti di coloro che, presa allor la fuga, aveano riparato in
altri luoghi dell’isola.[613] Leggiamo in data del 1123 il nome di un
kâid che il feudatario di Pitirrana avea mandato in Palermo per sue
faccende;[614] in data del 1132, di tre kâid i quali, con molti altri
Musulmani e Cristiani, assistettero alla descrizione dei confini de’
poderi donati dal re Ruggiero al vescovo di Cefalù.[615] Ma dati da
questo Ruggiero nuovi ordini al governo del reame, e cresciuta sotto
i due Guglielmi la riputazione de’ cortigiani musulmani, spesseggiano
nelle croniche latine e ne’ diplomi arabi, greci e latini, i _kâid_,
καΐτοι e _gaiti_ o _cayti_, or citati o soscritti come testimonii in
atti pubblici, or esercenti pubblici ufici ed or celebri nei raggiri
della corte. In cotesti scritti la voce _kâid_, talvolta evidentemente
vuol dire condottieri di pretoriani;[616] più spesso torna a mero
titolo di onorificenza dato ad oficiali della corte;[617] ma in molti
altri casi a noi sembra denominazione d’un ordine sociale. Che i
titoli militari degenerino facilmente in nobiliari, ognun lo sa dalla
voce _dux_ e da tante altre che occorrono in tutti i paesi e in tutti
i tempi. Similmente sembra grado di nobiltà, la qualità di _kâid_,
data dal Falcando ad Abu-l-Kasim-ibn-Hammûd e al suo rivale Sedictus
(Siddik?) ai tempi di Guglielmo il Buono[618] perocchè quello stesso
Ibn-Hammûd, ricchissimo uomo della schiatta di Alì, è chiamato _kâid_
dal contemporaneo Ibn-Giobair, e detto “il primo _za’îm_ e signore
dell’isola, un di que’ nobili ne’ quali la signoria scende ereditaria
in linea di primogenitura.”[619] Potremmo noverar nella medesima
classe tutti i gaiti che compariscono senza livrea di corte nella
seconda metà del duodecimo secolo; i quali se pur vogliano supporsi
condottieri di milizie, nol furono di pretoriani, vedendosi sparsi
per tutta l’isola[620] e tornerebbero quindi a capitani ereditarii,
ossia a nobili; quando gli ordini delle tribù arabiche e gli usi del
_giund_ concordavano in questo coi costumi feudali dell’Europa, che il
capo della famiglia vera o fittizia, conducesse in guerra le proprie
genti. Nè altri esser poteano che _kâid_ nobili, i cinque regoli
saraceni surti in arme ne’ monti del val di Mazara, dopo la morte di
Guglielmo il Buono.[621] Certo egli è che avendo Roberto Guiscardo,
e poi il conte Ruggiero, adoperate grosse schiere di musulmani
siciliani, coteste milizie doveano obbedire a capitani di lor gente;
e che i capitani, se pur non erano nobili di nascita, lo diveniano di
fatto, secondo le idee del medio evo e un po’ di tutti i tempi. Io
penso che i _kâid_ in Sicilia ragunassero le milizie musulmane a un
di presso come i baroni le feudali e costituissero nella prima metà
del duodecimo secolo una vera nobiltà. Rimase questa in piè sino alla
morte di Guglielmo II, ancorchè il numero delle milizie musulmane
negli eserciti regii scemasse di molto e si amassero meglio i Musulmani
stanziali de’ quali si è fatta parola, capitanati da _kâid_ cristiani
o convertiti in apparenza.[622] Ma or col pretesto di capitanare una
compagnia pretoriana ed or senza alcuno, i paggi della corte, eunuchi
la più parte addetti al servigio delle persone reali o ad ufici
pubblici, presero a poco a poco quel titolo di nobiltà.[623] Il quale
nello scompiglio politico ed amministrativo che precedette al regno
di Federigo, divenne, com’e’ parmi, titolo d’un uficio d’azienda,
quella forse di beni demaniali, nella città e territorio di Palermo,
tenuta prima da un de’ paggi di corte. Uficio d’azienda fu certo nella
prima metà del secolo decimoterzo.[624] Ma proprio ne’ primi anni
(1206) papa Innocenzo III avea scritto “al cadi _con tutti i gaiti_ di
Entella, Platani, Giato, Celso ed a tutti gli altri gaiti e Saraceni
di Sicilia” augurando loro “di comprendere ed amare la verità ch’è Dio
stesso;” lodandoli della fede serbata a Federigo re loro ed esortandoli
a perseverare in quella.[625] Erano dunque i gaiti di quel tempo capi
politici e militari nel bel centro del Val di Mazara.

Se bastin le cose qui dette a dimostrare che dopo il conquisto normanno
non mancò un ordine di nobili tra i Musulmani di Sicilia, si ammirerà
la felice intuizione che condusse il Gregorio a concluder lo stesso,
ancorchè le due prove ch’ei ne allegava non reggessero punto nè poco.
Perocch’egli, seguendo alcune incerte parole del Malaterra, suppose
feudatario del conte Ruggiero lo sciagurato Ibn-Thimna che fu alleato
di lui e di Roberto Guiscardo; e accettando un anacronismo di Leone
Affricano, suppose lasciato dal Conte il dominio d’un castello, al
musulmano da lui chiamato Esseriph, rinomato scrittore di geografia;
il quale non è altri che Edrisi, e visse nelle generazioni seguenti,
poichè egli presentava il suo libro al re Ruggiero, ottant’anni
appresso l’entrata del Conte in Palermo![626]

Dei fatti rassegnati in questo e nel capitolo precedente si ritrova
la causa nelle vicende del conquisto. Il quale, messe da canto le
operazioni spicciolate e la caduta delle ultime fortezze, va diviso
in quattro periodi: cacciata dei Musulmani dalla punta settentrionale
del Valdemone (1061); occupazione della zona settentrionale del Val
di Mazara (1072); guerra di Benavert (1073-86) e sottomissione del Val
di Noto (1086-9). Or nei primi due periodi e nell’ultimo fu sì rapido
il trionfo, che il grosso della popolazione rimase là dov’era: nel
Valdemone i Greci e altri antichi abitatori, e nelle altre province
nominate, gli antichi abitatori cristiani o rinnegati e i Musulmani di
sangue arabico o berbero. È da notar pure questo divario che nel primo
periodo i vincitori lasciarono appena qualche debole presidio; ma nel
secondo e nel quarto, sendo assai più numerosi e dividendo gli acquisti
tra loro, stanziarono nel paese: e però il Valdemone estremo ebbe meno
stranieri che il rimanente dell’isola. Ma combattuto a lungo il terzo
periodo; nel quale variò la fortuna più che nol confessi il Malaterra,
e furono costretti i Normanni, a cercare nuovi ausiliari, ch’egli
dissimula invano. In questo tempo parmi seguissero le maggiori perdite
de’ vincitori, il condottiero de’ quali, alla fine dell’impresa,
confessava essergli stato ucciso tanto numero di cavalieri che Dio solo
e i Santi il sapeano.[627] In questo tempo veggiamo afforzata, come
base di operazioni a sinistra della frontiera normanna, Paternò, il
cui nome occorre nell’Italia di sopra, e la città, dopo la morte del
conte Ruggiero, divenne feudo di Arrigo de’ marchesi Aleramidi.[628]
Gli indizii su l’origine di Caltagirone, le prove su le popolazioni di
Piazza, Nicosia ed altre città delle catene di monti che girano intorno
all’Etna da tramontana a ponente, ci portano a credere cacciata o
sterminata nel terzo periodo del conquisto gran parte dell’antica gente
cristiana o musulmana di quella regione, e sottentrate a quella colonie
di Terraferma, le quali poi crebbero per emigrazioni spicciolate,
incominciando dagli ultimi anni del conte Ruggiero e continuando per
tutta la reggenza di Adelaide e forse nei primi anni di governo del
figliuolo che poi fu re. Il quale supposto si conferma riscontrando
i nomi delle città principali della diocesi di Catania secondo il
diploma del Conte, dato il 1091, con que’ che si leggono ne’ paragrafi
di Edrisi (1154) risguardanti la stessa regione; poichè mancano tra
i primi Piazza, San Filippo d’Argirò, Aidone, colonie lombarde; le
quali città al certo non sarebbero state messe da canto, se verso la
fine della guerra le fossero state così grosse e importanti come le si
veggono nel XII secolo.[629] E l’è appunto il caso di Caltagirone che
notammo dianzi.[630]

Gli annali del conquisto ci conducono anco a supposti non privi di
fondamento su l’origine delle condizioni personali. Abbiam noi narrato
come le città principali s’arrendessero a patti, Catania, Palermo,
Mazara, Trapani, Taormina, Siracusa, Castrogiovanni, Butera, Noto,
Malta; fuorchè Messina dove i Musulmani furono sterminati applaudendo
tutta la città; Traina pria confederata, poi soggiogata; Girgenti
espugnata quando giovava ai vincitori la magnanimità. Che se veggiamo
Catania data in feudo al vescovo e gli abitatori musulmani scritti nel
ruolo de’ villani, incominciando da due kâid, è da ricordare che la fu
ripresa per battaglia dopo che avea chiamato Benavert. Del rimanente
non è verosimile che tutte le altre città musulmane ottenuti avessero
i medesimi patti ch’ebbe Palermo potendo tuttavia difendersi: forse
furono patti comuni, la libertà religiosa e il possesso de’ beni
privati; variarono bensì le condizioni de’ tributi e alcuni ordini
pubblici. Il vincitore non era uomo da innovare senza perchè: ond’è da
supporre in generale ch’ei mantenesse le consuetudini e, tra le altre,
la nobiltà tra i Musulmani, come, tra i Greci, la uguaglianza sotto il
potere assoluto.

Al contrario delle città, le terre aperte e i villaggi cadeano senza
difesa in man del vincitore, quand’egli movea contro la capitale della
provincia o poco appresso la riduzione di quella; nè era luogo a patti
che per qualche importante castello. L’esempio di Bugamo ci mostra
che in tali casi i condottieri normanni trattassero i prigioni come
schiavi:[631] e quella necessaria conseguenza ch’era l’appropriazione
de’ beni, si scorge da cento diplomi; tra i quali notevolissimo è un
giudizio del millecentoventitrè, attestando il passaggio di proprietà
di un mulino che due musulmani aveano comperato pria del conquisto
e che indi appartenne al feudatario, signor loro.[632] I prigioni
poi non venduti, rimaneano servi della gleba; non esclusi al certo i
Cristiani che vivessero da coloni o da schiavi, poichè li veggiamo
scritti al par che i Musulmani nelle platee de’ villani. Cotesta
popolazione rurale presa insieme col suolo, evidentemente è la classe
di villani tenuta al signore per cagion di persona. I tenuti per
cagion della roba sembrano abitatori de’ luoghi che s’arrendeano a
patti, o uomini avventizii ricettati poscia nelle terre del signore.
Il diritto di proprietà di che godeano i villani su i beni acquistati
con la propria industria, soddisfatto che avessero a’ servigi debiti
al signore, parmi consuetudine risultante dalle leggi musulmane sopra
gli schiavi. In fine il grado di _kâid_ serbato ad alcuni nobili,
procedè manifestamente da patti stipulati nella resa delle castella,
o da necessità più forte che i patti; cioè che volendo menare in
guerra le genti, era forza anco di mantenere i capi ai quali solean
esse ubbidire. E forse l’era ordine da non potersi smettere nè anco
in pace, se volessi far vivere in sicurtà i popoli vicini, cristiani o
musulmani, e guarentire efficacemente le persone e la roba.



CAPITOLO X.


All’origine della monarchia siciliana s’affaccia la quistione se
i conti di Sicilia fossero stati vassalli dei duchi di Puglia. Le
testimonianze si contraddicono. Il monaco inglese Eadmer, contemporaneo
del conte Ruggiero, lo chiama _uom_ del duca di Puglia; il Malaterra,
suo famigliare, dice concedutagli la Sicilia in feudo da Roberto
Guiscardo; Leone d’Ostia e Romualdo Salernitano, autori più moderni,
scrissero le medesime cose.[633] Roberto poi e il figlio Ruggiero,
in alcuni diplomi s’intitolarono duchi di Puglia, o d’Italia, di
Calabria e di Sicilia[634] e il conte Ruggiero disse talvolta Roberto
suo signore.[635] All’incontro, la storia tutta dei tempi fa fede che
il conte, nè i figliuoli giammai non prestarono omaggio nè servizio
ai duchi di Puglia;[636] e v’ha dei diplomi ne’ quali il conte non
chiama Roberto altrimenti che fratello; nè il costui figliuolo Ruggiero
altrimenti che duca di Puglia e di Calabria.[637] Il Gregorio accettò
quasi la soggezione;[638] il Palmieri negolla con ira;[639] degli altri
scrittori taccio per brevità. Ma non può spiegare la contraddizione
dei documenti, chi si ostini ad immaginare un Roberto Guiscardo, pio,
felice, augusto, seduto sul trono degli avi, tra baroni ossequiosi, e
inteso tranquillamente a reggere lo Stato con quelle che poco appresso
furono chiamate le Assise di Gerusalemme.

Da’ cenni che noi abbiam fatti qua e là in questo quinto libro,
l’eroe comparisce in ben altra sembianza infino al milleottanta.[640]
I baroni normanni, un tempo condottieri, lo teneano lor pari; le
città lor soldato di ventura, cui per forza pagar dovessero una
taglia: i papi stessi che gli avean dato animo con la ricognizione
feudale e col titolo di duca, il più spesso tiravano a scacciarlo
d’Italia. Il fratello Ruggiero, tenendo dapprima da lui il solo feudo
di Mileto, cavalcò tra le sue masnade, capitano di ventura con una
compagnia propria; ma nata una briga tra’ fratelli per guiderdoni non
soddisfatti, vennero alle armi; Ruggiero passò al servizio di feudatari
ostili, o fece patti con città ricalcitranti: alfine stipularono un
partaggio di entrate in Calabria: piuttosto assegnamento fisso di
stipendio, che vera concessione feudale. In Terraferma dunque occorrono
tra due fratelli patti mutabili e temporanei; diversi secondo le forze
che l’uno o l’altro contribuiva in ciascuna impresa.

Lo stesso apparisce in Sicilia, dove alla prima passata, Roberto,
non concede terreno a Ruggiero; e questi, ritornato co’ suoi uomini
d’arme, fa patto co’ trainesi e acquista parecchie castella senza
partecipazione di Roberto.[641] La seconda impresa d’entrambi fallì.
Nella terza seguì una vera concessione feudale com’abbiam detto;[642]
ma a capo di pochi anni, apprestandosi la guerra di Grecia, mutavansi
gli accordi del settantadue; poichè il conte signoreggiò allora
Messina e tutto il Valdemone.[643] La morte di Roberto, le necessità
del figliuolo Ruggiero e la potenza e fama dello zio, fruttarono
a questo l’altra metà della Calabria: cioè a dire che si rifece il
patto per la seconda volta in quattordici anni; e sappiamo anco che si
trattò di dare al conte Ruggiero il titolo di duca, ossia cancellare
solennemente la dipendenza feudale che di fatto era ita.[644] Di fatto
e anco di dritto, se risguardisi che Urbano II, sovrano feudale del
duca di Puglia, nella famosa bolla del millenovantotto non fa menzione
di costui, nè vanta signoria di sorta sul conte Ruggiero, nè su la
Sicilia. La corte di Salerno ricordava, ciò non ostante, la concessione
del settantadue, tanto più volentieri quanto erano scambiate le sorti
de’ due rami di casa Hauteville: indi l’opinione di Eadmero e di
Romualdo e i titoli de’ diplomi. Che se i cancellieri del conte nello
stesso tempo ricordavano o trasandavano la dipendenza feudale dal
fratello, ciò prova che la fosse rimasa nelle formole e ormai non ci
si badasse. In ogni modo, non si può ammettere nel diritto pubblico
siciliano una sovranità surta e scomparsa entro pochi anni, mentre
l’edifizio de’ principati normanni non era nè compiuto nè assodato, ma
lo si innalzava, demoliva e rifaceva ogni dì.

Chiarito questo e lasciato da canto il dubbio di qualsivoglia nesso
feudale con Roma,[645] che mai ne fu detto da senno infino alla prima
metà del XIII secolo, si vedrà illimitata in teoria la potestà del
conte Ruggiero in Sicilia. E la fu larghissima in fatto, ancorchè
la Sicilia e la Calabria abbiano avuto in que’ primi tempi, come
tutti gli stati feudali, loro parlamenti, così appunto chiamati, di
ottimati laici ed ecclesiastici. Il Gregorio ha allegato in esempio «i
principi, conti, baroni ed altri uomini di nota» convocati in Salerno,
i quali decretavano la corona reale, al secondo Ruggiero (1129) «e
i dignitarii, potenti ed onorandi uomini indi chiamati in Palermo
(1130) da tutte le province e terre per assistere alla incoronazione;
i quali tutti, insieme co’ popolani grandi e piccoli, messo il partito
ed esaminatolo, concordi l’approvavano:[646]» ma cotesto ha sembianza
di plebiscito meglio che di parlamento; e la nuova dominazione surse
in condizioni politiche e sociali molto diverse da quelle tra le
quali regnava il primo conte. È allegato nella medesima opera, più
vicino al tempo e più opportuno, un Parlamento tenuto in Messina il
1113 dalla reggente contessa Adelaide, per faccende del vescovado di
Squillaci; pur la sembra solenne cerimonia, più tosto che politica
adunanza.[647] A cotesto esempio possiamo aggiugnere i privilegi
della Chiesa di Palermo confermati il 1112 dalla contessa e dal suo
figliuolo Ruggiero «ormai cavaliere e conte», sedenti nelle aule
del castello della città, con l’arcivescovo Gualtiero e molti altri
chierici, baroni e cavalieri.[648] Chiamato il 1130 nel parlagio[649]
della medesima reggia palermitana l’arcivescovo della città con molti
altri vescovi e baroni, fermavasi la divisione delle decime di Termini
tra l’arcivescovo e l’abate di Lipari.[650] Ma, quel che tronca ogni
dubbio, un documento citato in altro luogo dal Gregorio e dimenticato
poi nel trattare de’ parlamenti, prova che pretendendosi da’ vescovi
le decime ecclesiastiche sulle entrate tutte dell’isola e negandole i
Terrieri, come sono appellati genericamente i feudatarii nelle carte
latine, greche ed arabiche de’ Normanni di Sicilia, il primo conte
Ruggiero convocò gli uni e gli altri in Mazara e definì la contesa in
questo modo: ch’ei medesimo pagasse la decima a’ vescovi su i beni
proprii; che i Terrieri pagasserne due terzi, usando dassè l’altra
terza parte al servigio delle cappelle di lor castelli; e che del
rimanente e’ fossero giudicati dai sinodi per loro colpe spirituali
e ne pagassero ammenda a tenor delle consuetudini vescovili.[651]
Ancorchè promulgata come decisione del principe, cotesta legge mi par
delle più gravi che mai fosse stata deliberata in Parlamento moderno
d’Europa: e prova gli ordini costituzionali della Sicilia fin dal primo
principio della monarchia.

Per distinguersi da’ conti di Terraferma, padroni di minore territorio
e soggetti al duca di Puglia, Ruggiero prese talvolta il titolo
di Gran Conte.[652] Ma i suoi successori immediati più volentieri
s’intitolarono consoli; la quale classica denominazione venne in tanta
voga a corte di Palermo entrando il duodecimo secolo, che cancellieri e
cronisti, non solamente la usavano nel presente, ma anco riportavanla
allo stesso conquistatore.[653] Per vero le tradizioni del consolato
non s’erano mai dileguate nel mondo: e specialmente nell’Italia
meridionale, i reggitori di Napoli, Gaeta, Amalfi, emancipati dal
governo bizantino, s’erano chiamati duchi e consoli;[654] e console
Rainolfo conte d’Aversa, che fu il primo feudatario normanno in
Italia.[655] Dopo mezzo secolo, quando già quel titolo a Pisa, Genova,
Asti, San Remo e senza dubbio in altre città italiane, designava capi
politici costituiti senza volontà d’imperatori nè di papi, assunserlo
i principi della Sicilia, che aveano a noia di chiamarsi conti, ma non
osavano prendere alcun altro dei titoli consueti nell’ordine feudale,
o lo sdegnavano. Non succedean essi in Sicilia ai _basilei_ bizantini
ed ai califi fatemiti, gli uni e gli altri principi independenti e
pontefici, per arrota? Ma non andò guari che, allargato il dominio, e’
smessero le appellazioni di conti e di consoli, per chiamarsi re.

Passando alle altre parti dell’ordinamento politico, seguiamo l’ordine
de’ tempi con dir la prima cosa de’ municipii, poichè parte erano in
piè innanzi il conquisto. Contuttociò il Gregorio li vide e non vide
ne’ tempi normanni; e conchiuse che allora «ebbero le popolazioni
siciliane quasi una forma di corpo municipale.[656]» Sapea pure il
Gregorio che, nella prima metà del duodecimo secolo, Caltagirone
possedette vasti fondi e comperonne dallo Stato;[657] che Nicosia,
colonia lombarda, tenne la terra di Migeti; che ambo le città fornivano
all’armata grande numero di marinai, e legname da costruzione;[658] che
altre colonie lombarde furono soggette agli stessi pesi, contrassegno
di proprietà.[659] Vedeasi in ciò la persona legale del comune. Vedeasi
agli atti, perfino nelle terre feudali: gli uomini di Patti muover lite
contro il vescovo; i lor procuratori accettare una transazione;[660]
quei di Cefalù proporre ordinariamente al vescovo feudatario tre
persone per la scelta del bajulo.[661] Il Gregorio dunque si avviluppò
in quel suo giro di parole, un poco per paura dell’assurdo e tirannico
governo de’ Borboni in Sicilia, un poco per non aver bene studiata
la materia e soprattutto perch’ei rabbrividiva a quel nome di comune,
quasi ne fosse stata unica forma la repubblica italiana del medio evo,
o quella di Francia che suonava sì tremenda nell’età sua.

Avendo toccato dei municipii, sì degli antichi abitatori cristiani
e sì dei musulmani,[662] ne ricercheremo noi le vestigie durante la
guerra e sotto la dominazione normanna. Avvertiamo intanto, a proposito
dei municipii cristiani, avanzo dal tempo bizantino, che nella stessa
Grecia gli ordini municipali rimasero o rinacquero, non ostante la
dichiarazione di Leone il Sapiente, della quale s’è detto a suo luogo;
che, dopo quella, le leggi bizantine riconobbero nelle città e nelle
campagne alcune corporazioni di mestiere e associazioni d’interessi, le
quali, se non abbracciavano l’universale de’ cittadini, aveano forme
più democratiche dell’antico municipio e gittavan le basi del nuovo;
e che al tempo della dominazione latina e poi della turca, vennero su
nella Terraferma al par che nelle isole della Grecia, veri magistrati
o rappresentanti municipali, di nomi diversi secondo i luoghi,
_proesti, demogeronti, arconti, epitropi_, i quali ufizi per certo non
erano stati stampati di fresco nel XIII o nel XV secolo.[663] Nelle
province bizantine della Terraferma d’Italia, le frequenti mutazioni
di signoria avean dato occasione alle maggiori città di costituirsi in
corpi politici, come si ritrae dagli esempii di Bari e di Salerno che
cita lo stesso Gregorio[664] e dagli accordi che altre città fermavano
coi capitani normanni:[665] e perfin si legge in un diploma greco
dell’undecimo secolo, che villani dimoranti nelle terre d’un Monastero
e d’un feudatario, pagassero tributo personale al comune di Geraci
in Calabria.[666] La quale tendenza generale della schiatta greca,
non solamente non trovò ostacoli in Sicilia, ma fu promossa dalla
dominazione musulmana. Le città, sciolte da’ fastidii degli ufiziali
bizantini e costrette a far dassè sotto il giogo degli Infedeli,
aveano dovuto rinforzare lor ordini municipali nel IX e X secolo,
per provvedere all’amministrazione della giustizia, soddisfare a lor
obblighi verso i nuovi signori e difendersi civilmente dai soprusi.

Che se il nome delle città torna raro ed incerto nelle memorie della
guerra, non ne maraviglierà chi conosca la tiepidezza de’ Greci in quel
grande avvenimento e il laconismo delle croniche normanne quand’esse
non raccontino il valore e la pietà de’ protagonisti. Pertanto abbiam
due soli ricordi: che que’ di Traina fermarono patti con Ruggiero e,
quando sollevaronsi e l’assediarono nel suo palagio, aveano, al par
delle città di Calabria, una torre afforzata in altra parte della
terra; e che in Petralia i Cristiani e i Musulmani, tenuto consiglio,
deliberavano di darsi al condottiero normanno.[667] Ma cotesti atti
possono riferirsi tanto a magistrati costituiti, quanto al popolo che
nei casi estremi ripigli l’esercizio di tutti i suoi diritti. Le carte
delle generazioni seguenti ci danno assai più precise notizie sugli
ufizii municipali.

Il sonante vocabolo _Arcon_ comparisce in que’ diplomi, com’abbiam
noi detto nel capitolo precedente, con due significati diversi, de’
quali il primo tornava genericamente a signore, e lo s’attribuì in
particolare a’ grandi ufiziali dello Stato, a un dipresso come or si
fa dell’eccellenza.[668] L’altro significato specificava un ufizio.
Basilio Tricari, arconte di Demenna, è noverato (1090) tra i testimoni
d’una donazione del conte Ruggiero a favore di quel monastero di San
Filippo.[669] Gli arconti di Galati, convocati dal feudatario (1116)
assistono all’atto per lo quale ei donava un villano al monastero di
Mueli.[670] Lo stratego di Demenna aduna (1136) i capi de’ monasteri,
i sacerdoti e gli arconti della terra di San Marco per appurare un
titolo di proprietà.[671] Mezzo secolo appresso (1182) son chiamati
da’ giudici regii a somigliante effetto in San Marco, insieme
co’ Buoni uomini e con gli Anziani, gli arconti di Naso, Fitalia,
Mirto, San Marco ed un arconte di Traina.[672] Que’ di Capizzi,
insieme con gli Anziani han carico (1168) di descrivere i limiti di
un piccol podere che la regina vuol donare ad una chiesa.[673] In
Oppido di Calabria, dove i Buoni uomini e gli Anziani aveano già
(1138) assistito gli ufiziali dello Stato a determinare i diritti
del feudatario, nata quistione il 1188 per alcuni poderi, era decisa
dal Gran giudice di Calabria secondo l’avviso degli arconti.[674]
Eran questi dunque assessori o giurati in cause civili. Nell’impero
bizantino il vocabolo arconte avea seguito cammino diverso, e pur
non troppo discosto. Serbando l’antica significazione di magistrato
giudiziale, prese in particolare quella di presidente d’un tribunale
e talvolta di governatore di provincia; poichè questo presedeva ai
giudizii: e indi l’_arcontia_ comparisce tra le divisioni territoriali.
Da un altra mano il mal vezzo dei titoli e la ripugnanza a tutta
aristocrazia ereditaria, portarono la corte bizantina a chiamare
arconti gli uomini cospicui per merito, ricchezza, o favore: anco il
clero appellò _arcontichia_ il corpo de’ suoi dignitarii; e, venuta la
feudalità con le genti occidentali, s’appiccicò quella denominazione
ai baroni. Si ritrae infine ch’essa era rimasa come occulta, chi
sa per quanti secoli, nei corpi municipali; poichè squarciato il
velo dell’amministrazione bizantina, nel conquisto de’ Latini e poi
de’ Turchi, si veggono venire alla luce, insieme con le istituzioni
comunali, gli arconti e le altre denominazioni che ci accadde citare
poc’anzi; le quali in luoghi diversi denotavano ufizii identici o molto
somiglianti.[675] A cotesti ufizi municipali, s’io mal non mi appongo,
fu dato in alcune terre il titolo di arconti, per cagion di quella
parte del podere giudiziale che tennero i municipii dell’antichità
e la trasmisero a que’ del medio evo. L’ufizio municipale poi,
sendo ereditario tra’ possessori, come nella curia romana, potea
divenire qua e là nelle province, denominazione volgare d’un ceto di
gentiluomini; denominazione non legale, che pur insinuossi nell’aula
di Costantinopoli. In Sicilia, come ognun vede, venne alla luce nel
XII secolo l’ufizio municipale, e possiam anco dire l’appellazione
di classe; la grande magistratura d’arconte non esistè; ma, tra gli
altri orpelli che i principi normanni tolsero in prestito dalla corte
bizantina, foggiarono questo titolo di arconti pei grandi ufiziali
dello Stato, a suggestione, com’egli è manifesto, de’ valentuomini
stranieri di schiatta greca, i quali nella prima metà del duodecimo
secolo collaborarono col secondo Ruggiero all’assetto del reame.

L’ufizio di giurati nelle cause di confini e di proprietà rurali si
vede anco esercitato in Sicilia dagli _Anziani_ (Γέροντες), or soli,
come (1142) a Traina, Cerami, San Filippo d’Argirò[676] e, quel ch’è
più, nominati a mo’ di corporazione, come (1123) a Ciminna;[677]
or insieme coi Buoni uomini, come (1095) a Rametta,[678] (1182) a
San Marco, Naso, Fitalia, Mirto,[679] e (1183) a Centorbi[680] ed
occorre anco il caso (1138) in Oppido di Calabria;[681] or insieme
con gli arconti come (1168) a Capizzi.[682] Quand’egli avvenia che
soggiornassero Cristiani e Musulmani nella medesima terra o in quelle
attorno un podere di cui fossero contesi i confini, si chiamavano gli
anziani degli uni e degli altri, col titolo comune di _sceikh_ ovvero
di _geronti_, secondo la lingua del diploma. Così (1134) a Giattini e
Mertu[683] e poscia (1172) a Misilmeri[684] e poco appresso (1183) a
Vicari, Petralia, Caltavuturo, Polizzi, Ciminna, Cammarata, Cuscasin
Michiken, Casba, Cassaro, Gurfa, Iali.[685] I geronti e il maestro
de’ borghesi di Traina, i geronti, cristiani e musulmani di Gagliano,
i geronti e gli uomini, (che di certo significa i «Buoni uomini») di
Centorbi, eran chiamati (1142) al par che quelli di Castrogiovanni e di
Adernò, cristiani e musulmani, a definire insieme con un protonotaro
delegato dal re i confini di Regalbuto, pei quali disputava il
feudatario di Argira contro il vescovo di Messina.[686] Per un altro
diploma (1149) gli sceikh musulmani e cristiani di Giato avean carico
di assister lo stratego a designare su i luoghi una quantità di terreno
donato dal re su i beni demaniali.[687] In parecchi atti pubblici,
greci, inoltre, del XII e XIII secolo, si veggono de’ testimonii
soscritti col medesimo titolo nelle terre di Mistretta, Naso, Mirto e
nuovamente in San Marco e in Centorbi.[688]

Erano convocati dai giudici del re i _Buoni uomini_ (Καλοὶ ἀνδρώποι),
di San Marco (1109), que’ di Traina, Gagliano e Milga (1154) e insieme
con gli Anziani, i Buoni uomini di Naso, Fitalia, Mirto e San Marco
(1182) e infine, que’ di Centorbi (1183) per determinare i confini di
territorii sui quali si contendea.[689] I Buoni uomini, di Ἀχάρων,
ch’io credo torni ad Alcara di Val Demone, chiamati dal vescovo di
Messina, lor signore, per far testimonianza sul diritto di proprietà
di certi pascoli tenuti da un monastero (1125), rispondeano aver essi
medesimi conceduto quel fondo al monastero, in grazia di alcuni loro
concittadini che vollero farsi frati.[690] Ottant’anni dopo, que’ di
Nicosia, insieme con due commissarii del re «e con tutto il popolo»
disponeano della chiesa del Salvatore, fondata un tempo dallo stesso
municipio.[691] Nel primo caso tornano dunque i Buoni uomini ad
assessori, o giurati: quello ufizio appunto che lor veggiamo esercitare
nel IX o X secolo, secondo la _Lex romana_ del manoscritto di Udine, la
quale li mostra allo stesso tempo rappresentanti di comuni in giudizio
ed esercenti altri atti d’amministrazione.[692] Nel caso d’Alcara e
di Nicosia evidentemente rappresentan essi il comune, come il nostro
odierno Consiglio municipale. Tali appunto i _Boni homines_ di Savona,
secondo i diplomi latini del 1056, 1062, 1080, 1125 pubblicati dal
San Quintino.[693] Nè l’è maraviglia di trovar lo stesso nome ed
ufizio in Sicilia, quando tanta parte delle nuove colonie venne dalla
Marca aleramica; e d’altronde quella appellazione durava qua e là
in tutta Italia, per esempio al principio dell’undecimo secolo in
Benevento;[694] e lungo tempo appresso ricomparve nella repubblica
fiorentina.

Pongo in ultimo, tra gli ufiziali dei comuni cristiani, i _Maestri
de’ borghesi_, che il Gregorio notava in Collesano (1141) e in Traina
(1142) e prendeane animo a confessare le «quasi forme» di municipio,
aggiugnendo, senza prova nè indizio altro che il nome, che «il maestro
dei borghesi intimava e dirigea come capo» il consiglio comunale.[695]
Senza riandar l’antico significato militare del vocabolo _Magister_,
nè il militare e civile che prese passando nell’impero bizantino, lo
veggiamo noi nell’Europa, centrale e occidentale, per tutto il medio
evo, rispondere a prefetto, o preposto ad una classe di impiegati o
di cittadini,[696] e ci occorre in Messina nel duodecimo secolo il
maestro degli Amalfitani;[697] ma non troviamo esempio da mostrare,
certo nè verosimile, che _Magister_ tanto valesse allora nel linguaggio
legale di Sicilia, quanto _Major_ e che quest’ultima voce denotasse
lo stesso ufizio in Sicilia che nella Francia settentrionale e
nell’Inghilterra.[698] All’incontro, il solo documento dal quale
intender si possa la natura dell’ufizio, lo mostra pari in grado agli
anziani[699] e ci conduce a supporlo capo elettivo d’un consorzio di
coloni i quali, stanziando in mezzo a popolo diverso di condizioni o
di origine, avessero interessi lor proprii da curare; come le scholae
del Medio evo, le corporazioni d’arti di tutti i tempi e, nei primi
principii loro, le _compagne_ di Genova e d’altre città italiane. Un
piccol numero di borghesi italiani, ovvero oltramontani, stanziati in
Collesano, feudo degli Avenel,[700] avrebbe potuto richiedere questa
maniera di consolato, com’or si direbbe: e lo stesso valga per Traina,
prima possessione del conte Ruggiero, nella quale si veggono alla metà
del XII secolo abitatori greci, italici e francesi.[701]

Di simili consorzii legalmente riconosciuti ci danno esempio le
_università_, come allor chiamavansi, degli Israeliti in Sicilia.
Senza argomentare dalle loro istituzioni congeneri in altri paesi,
abbiamo del XV secolo i Capitoli concessi da re Alfonso alle università
dei Giudei del regno di Sicilia;[702] abbiamo del secolo XIV memorie
del loro Proto, de’ loro anziani e delle loro università in Mazara
e in Messina:[703] e le medesime istituzioni risalgono senza dubbio
al duodecimo secolo, quando il vescovo di Cefalù, possessore della
Chiesa di Santa Lucia in Siracusa, concedeva in enfiteusi alla _gemâ’_
de’ Giudei in quella città un pezzo di terreno per ampliare lor
cimitero.[704]

La voce _gemâ’_ usata in quello scritto arabico per designare la
corporazione de’ Giudei di Siracusa, prova che così anco fossero
chiamate in Sicilia le università de’ Musulmani, le quali, per lo
grande numero e il soggiorno separato, tornavano spesso a veri comuni.
Gli è impossibile d’altronde immaginare il soggiorno di sì grosse
popolazioni musulmane senza i loro magistrati municipali: e, se ciò non
bastasse, noi potremmo allegare gli _antique_, ossia sceikh, de’ quali
fa menzione Amato nella resa di Palermo;[705] gli accordi di Mazara e
di tutte le altre città che sembrano fermati dalla _gemâ’_ di ciascuna;
e, sotto il principato normanno, gli sceikh di Giattini, Misilmeri,
Giato, Vicari e d’altre terre, chiamati geronti in greco, e incaricati
come gli arconti, gli Anziani e i Buoni uomini, di determinare i
confini delle possessioni rurali.[706]

Veramente e’ mi par di vedere sotto quelle denominazioni, che variano
secondo le genti, unico uficio di rappresentanti dei municipii; salvo
il divario che nascea, nell’ordinamento e ne’ limiti dell’autorità,
dalle condizioni e consuetudini locali di ciascuna terra, di ciascuna
gente e di ciascun consorzio; perocchè trattando del Medio evo erra
sempre chi suppone uniformità. Anzi mi farebbe maraviglia a veder sì
frequente quel titolo di anziani col medesimo significato in greco e
in arabico, se l’autorità de’ padri di famiglia, e però dei vecchi,
non occorresse nelle forme primitive d’ogni umano consorzio; e se non
potessimo supporre con verosimiglianza che le municipalità cristiane
di Sicilia si fossero spontaneamente riformate nel IX o X secolo,
ad esempio delle musulmane, per provvedere ai bisogni prodotti nella
società loro dalla nuova dominazione.[707] E’ non occorre dimostrare
che gli sceikh appartennero ai Musulmani; i geronti e gli arconti a’
Greci e credo io, agli altri antichi abitatori; e i Buoni uomini alle
nuove colonie italiche. Evidente anco parmi che ciascuna gente ritenne
o portò seco la propria forma di municipio; poichè il principato
normanno non potea distruggere, nè fondare, nè pur modificare
profondamente istituzioni di tal fatta. Gli arconti, come ho detto,
sembrano in Sicilia anziani che ritenessero quel titolo, per antica
consuetudine, come possessori; non altrimenti che i kaid, nobili
e condottieri, entravano nelle faccende municipali come ogni altro
notabile; ma nè i primi nè i secondi io tengo ufiziali esecutivi,
come sarebbero podestà, sindaci, giurati, giunte municipali. Nè tali
mi sembrano i maestri de’ borghesi, meri capi di consorzii minori.
Necessario fatto egli era poi, e l’attestano i diplomi, che nelle
terre abitate insieme da due o più genti diverse, ciascuna avesse i
suoi proprii rappresentanti, come abbiamo visto a San Marco, Capizzi,
Giattini e in molti altri luoghi.

Ho detto rappresentanti dei comuni per usar locuzione moderna ed
esprimere un fatto simile nato da diritto diverso; poichè non è da
supporre elezione popolare nè regia, in cotesti corpi municipali
composti di uomini privilegiati in virtù di antichissime consuetudini,
gli uni delle città italiche o elleniche, gli altri della tribù nomade
e de’ primi tempi dell’islam: possidenti, capi di alcune arti, scribi,
chierici cristiani, giuristi musulmani ed altri notabili. I quali in
che modi e tempi si ragunassero, e se nominassero delegati appositi
per ciascun negozio, lo ignoriamo; nè abbiamo vestigie di magistrati
incaricati ordinariamente del potere esecutivo del Municipio. Pure
il diploma inedito di Nicosia che abbiam dato poc’anzi, solo e tardo
com’esso è, gitta molta luce su l’ordinamento municipale de’ tempi
normanni; dovendo supporsi che le costituzioni delle colonie lombarde
fossero le più larghe dell’isola e che le tornassero al principio del
duodecimo secolo, non già alla fanciullezza di Federigo secondo, nè
al breve regno d’Arrigo. Or il diritto di proprietà è esercitato in
quell’atto «da due commissari regii, da’ Buoni uomini e dal popolo» e
tra i Buoni uomini sono soscritti due giudici giurati e due bajuli.
Compariscono dunque due ordini di rappresentanti municipali, il
Consiglio grande, cioè, dov’era chiamato tutto il popolo a suon di
campana, come si usò in Sicilia fin sotto la dominazione spagnuola;
e i Buoni uomini che par componessero un Consiglio ristretto, nel
quale intervenivano i bajuli, oficiali amministrativi e giudici
regii, istituiti da re Ruggiero in luogo de’ vicecomiti e strateghi
dei primi tempi normanni: risulta poi evidente che la presidenza
del gran Consiglio era affidata ad appositi delegati del principe.
Possiamo dunque supporre con fondamento che tutti i corpi municipali
fossero stati convocati e preseduti da commissarii regii, per generale
provvedimento promulgato fin dai principii della dominazione normanna;
poichè sembra impossibile che Ruggiero avesse ristrette con tal
freno le colonie lombarde e lasciate senza alcuno le terre greche o
musulmane; e d’altronde si è visto,[708] senza eccezione chiamare
dal feudatario i Buoni uomini di Alcara, e dai commissarii regii
que’ di Nicosia, terra demaniale, per esercitare atti di dominio; e
similmente da giudici regii o altri ufiziali gli sceikhi, anziani,
arconti o Buoni uomini di tante altre terre, per far le veci di
giurati in cause civili. Il consiglio generale poi, aperto a tutto
il popolo, cioè a tutti i borghesi, sembra privilegio delle colonie
lombarde; nè può ammettersi nelle altre città, se nol provino nuovi
documenti. E i due giudici giurati di Nicosia soscritti nel diploma
del 1204, sembrano veramente ufiziali esecutivi del municipio, come
que’ di Messina, soscritti in una carta del 1172; ma non si potrà su
questo solo indizio determinar la giurisdizione loro.[709] Nè potrassi
definire precisamente quella degli stessi municipii; la quale se la
ci torna oscura in oggi, fu dubbia e mutabile e diversa nell’undecimo
e duodecimo secolo, e sol ritraggiamo la personalità del municipio,
la magistratura affidata a’ suoi rappresentanti e che fors’anco erano
richiesti que’ notabili di cooperare nell’azienda dello Stato.[710]

L’istituzione de’ municipii è provata anco dalle franchige, le quali
non furono mai disgiunte dall’ordinamento della società chiamata a
goderle. Che il principe e i feudatarii, costretti a rifornire la
Sicilia di coloni cristiani, li avessero invitati con ogni maniera di
concessioni, si ritrae da testimonianze concordi. Ruggiero, liberati
i prigioni di Malta, profferia di fabbricar loro a proprie spese un
villaggio, là dove lor paresse; di fornire i capitali fissi bisognevoli
a loro industrie e di francare la terra perpetuamente da gravezze
ed angarie.[711] Similmente era accordato ai borghesi di Catania,
Patti e Cefalù,[712] lo esercizio di diritti promiscui nelle terre
del signore, la immunità da certe gravezze e impedimenti feudali, la
guarentigia della libertà personale e, nella prima di quelle città, che
Latini, Greci, Saraceni ed Ebrei fossero giudicati ciascuno secondo sua
legge. Abbiamo noi accennato alle immunità delle colonie lombarde di
Randazzo e di Santa Lucia:[713] i diritti e le buone consuetudini di
Caltagirone, attestati da un diploma di Arrigo VI, tornavano parimenti
ai tempi di re Ruggiero[714] e son da supporre le une e le altre
più antiche. Inoltre, dovendosi tener generale il bisogno di colonie
cristiane, possiam noi dire che quasi tutta la Sicilia ottenne, in
breve e di queto, franchigie municipali non dissimili da quelle che
tante popolazioni italiane e straniere, nella stessa età, strapparon di
mano ai feudatarii con ostinati sforzi e sanguinosi.

Or è da spiegare perchè il municipio non si vegga distintamente, pria
dello scorcio del duodecimo secolo, nelle primarie città dell’isola,
le quali pur godettero larghissime franchige personali e reali fin da’
primi anni della dominazione normanna.[715] Il difetto non va apposto
a casi fortuiti che avessero distrutto ogni avanzo di loro carte nei
frequenti disastri della diplomatica siciliana: ma più plausibile
supposto e’ sembra che nessuna di quelle città abbia avuto municipio
di momento in que’ primi tempi. Lasciate da canto Siracusa e Catania,
soggette a feudatarii, diremo sol di Palermo e di Messina, tenute
sempre in demanio e importanti sette secoli addietro, così come le son
oggi.

Palermo che agguagliava o vincea per frequenza di abitatori ogni
altra città d’Italia, racchiudea forse, verso il 1150, una diecina
di _università_, come allor si chiamavano: Musulmani, Greci, Ebrei,
Lombardi, Amalfitani, Genovesi, Baresi ed antichi abitatori cristiani;
e i Musulmani e qualche altra gente suddivisi, com’egli è verosimile,
per quartieri, Cassaro, Khalesa, Halka, Schiavoni:[716] tra i quali
corpi e’ non è possibile d’immaginare alcuna comunanza di vita
municipale. Fu mestieri che si dissipassero i Musulmani, e che la
lingua, i costumi e le violenze dei feudatari e poi de’ Tedeschi,
accomunassero i cittadini cristiani, cioè che volgesse più d’un secolo,
per mettere insieme quel grosso di borghesia, il cui municipio prevalse
su tutte le università minori e rappresentò la cittadinanza della
capitale che proteggea Federigo lo Svevo nella sua fanciullezza. Chi
ricordava allora la _gemâ’_ musulmana o l’israelita, o i magistrati de
piccoli consorzi cristiani, e chi ne serbava gli archivi?

Sembrano diverse a prima vista le condizioni di Messina, la città
cristiana, la testa di ponte, direbbe un militare, per la quale i
conquistatori soleano sboccare contro i Musulmani dell’isola. Ma
secondo la testimonianza d’Amato, rincalzata da fatti anteriori,
Messina, al primo assalto dei Normanni, era quasi vota d’abitatori
battezzati.[717] Nè al certo valsero a ripopolarla in breve tratto le
poche centinaia di uomini che vi facea passare di quando in quando
il conte Ruggiero; nè gli stuoli più grossi che recovvi tre fiate
Roberto Guiscardo. Greci di Sicilia e di Calabria vi si raccolsero,
com’e’ pare, a poco a poco, e genti italiche di varii paesi, finchè
il tramestìo delle Crociate e le guerre marittime de’ Normanni non
riempirono di navi il porto e non accelerarono la ristorazione della
terra.[718] La diversità delle genti che l’abitavano, attestata
dagli scrittori del duodecimo secolo,[719] portò necessariamente
molti consorzii e ritardò, sì come in Palermo, la formazione del vero
municipio.

Le conghietture alle quali io sono stato troppo spesso necessitato,
provano la scarsezza de’ documenti e il poco zelo che s’è messo fin qui
a rintracciarli. Or v’ha cagione di sperare che il generale movimento
degli studii storici conduca gli eruditi ad approfondire la istituzione
delle municipalità siciliane. Ce ne danno arra i lavori di Isidoro La
Lumìa e di Ottone Hartwig, l’un de’ quali nella Storia di Guglielmo il
Buono e l’altro nell’Introduzione alle consuetudini municipali della
Sicilia, hanno toccato con dottrina, ancorchè di passaggio, questo
grave argomento.

Della feudalità non tratteremo a lungo, sendo stati gli ordini di
quella descritti largamente dal Gregorio,[720] e qualche minuzia che
questi lasciò addietro, spigolata con diligenza dal professore Diego
Orlando.[721] La somma è che, istituita per lo primo allo scorcio
dell’undecimo secolo, da un conquistatore che sapea comandare a’ suoi
seguaci, la feudalità siciliana nacque ubbidiente e moderata; che
il principe trasferì a ciascun barone, tanto o quanto determinati,
que’ ch’egli credea suoi diritti su le cose e sulle persone; ch’e’
riserbossi il più delle volte la suprema giurisdizione criminale, e
mantenne rigorosamente le regalie. Non men che il diritto costituito,
raffrenava i baroni un contrappeso materiale: i molti beni ritenuti
in demanio, i molti allodii lasciati agli antichi abitatori ed a’
Musulmani, e forse un po’ più tardi i fondi conceduti a’ municipii col
peso del servigio navale, e fin dal principio l’accorta distribuzione
de’ feudi.

Da’ pochi ricordi che abbiamo di questo gran fatto sociale, si ritrae
che seguì negli ultimi tempi della guerra. Tra fortuna ed arte, il
conte eliminò i grandi feudi divisati da Roberto;[722] cominciò poi
concedendo piccole terre (1077); e quando il fratello fu morto, il
nipote avvinto a lui da obblighi e speranze, e abbattuta l’ultima
insegna musulmana in Sicilia (1091), allora «chiamati i suoi cavalieri
e reso lor grazie, scrive il Malaterra, li rimeritò delle fatiche,
qual con terreni e vasti possessi e qual con altri premii.»[723] In
quell’anno sembra in vero seguìta la gran lotteria feudale della
Sicilia. Le platee de’ villani della Chiesa di Catania portan la
clausola di tenere come cancellati quelli che fossero stati scritti
per avventura nelle platee de’ baroni del millenovantatrè,[724] ch’è
a dire due anni dopo l’epoca notata dal Malaterra; i quali due anni in
vero non sembrano troppi per ispedire i diplomi con le descrizioni dei
territorii e i ruoli de vassalli.

La breve lista che può accozzarsi dei feudatarii alla fine
dell’undecimo secolo, basta a mostrare il fine politico al quale
mirava il conte Ruggiero. Sappiam noi tenuto da un nobil uomo il val
di Milazzo, vasto territorio ch’è da credere conceduto ai tempi di
Roberto; sappiam tenute anco da nobili San Filippo d’Argirò, Geraci,
Castronovo, Caccamo, Brucato, Carini, Partinico, piccole terre; tenute
da principi del sangue o stretti congiunti della dinastia, Siracusa,
Noto, Ragusa, Butera, Paternò,[725] Sciacca, grosse città[726] e da
vescovi o prelati molte città e terre: e di certo i feudi ecclesiastici
e i principeschi, messi insieme co’ paesi demaniali, presero tal parte
dell’isola che passava di gran lunga il cumulo di tutti gli altri
feudi. Da’ nomi topografici si argomenta anco che il conte abbia date
ai piccoli condottieri le terre minori della Sicilia settentrionale,
occupata infino al mille ottanta o in quel torno, ed oltre a ciò grande
numero di piccoli poderi sparsi per tutta l’isola,[727] e ch’egli
abbia serbati alla propria casa, alle Chiese e al demanio i più vasti
e ricchi paesi conquistati nell’ultimo decennio, nelle regioni del
centro, di mezzodì e di levante; tra i quali la contea di Butera,
conceduta al marchese Arrigo perch’egli era fratello d’Adelaide,
se pure il conte non isposò la principessa aleramica perch’ella era
sorella di Arrigo. La poca importanza dei feudi privati a riscontro
degli altri, collima co’ ricordi del Malaterra intorno gli stanziali
tenuti dal conte e i guiderdoni di beni mobili; sendo evidente che il
capitano supremo dovette rimeritare con feudi, non già i mercenarii,
ma i condottieri che lo seguirono col patto aleatorio di partire
all’apostolica, com’egli avea promesso innanzi il combattimento di
Misilmeri,[728] il bottino e gli acquisti stabili. Quanto fossero
pericolosi que’ cavalieri intraprenditori, l’avea fatto sperimentare ei
medesimo a Roberto; l’avean provato entrambi in Puglia e in Calabria,
per tutta la loro vita.

Le concessioni alle Chiese mi conducono a trattare il capolavoro che
fu di piantare in Sicilia, a comodo e sostegno del principato, quella
pericolosa macchina del sacerdozio cattolico. Quanto fosse disposto
il conte Ruggiero ad anteporre gl’interessi politici alla pietà, lo
sappiamo noi molto particolarmente[729] e ch’egli e Roberto e i loro
predecessori, giocando co’ papi, fossero soliti a guadagnare più che
a perdere. Vissuto per mezzo secolo in sì alto stato in Calabria o in
Sicilia, e necessitato poscia a consultare i savii del paese intorno
la ristorazione del cristianesimo nell’isola, Ruggiero non potè
ignorare le dottrine canoniche di Costantinopoli, le quali attribuivano
al principe una suprema giurisdizione su la Chiesa e l’autorità
d’istituire sedi vescovili, nominare, tramutare e deporre vescovi,
metropolitani e patriarchi.[730] Intanto la lite delle investiture
che ferveva in Ponente, ammonìa Ruggiero del pericolo che corresse
ogni principe in grembo della Chiesa latina. La sua casa stessa avea
testè provata la nimistà d’Ildebrando. Evidentissimo, ciò non ostante,
scorgeasi il bisogno di instaurare fortemente in Sicilia una Chiesa
che convertisse i Musulmani al cristianesimo,[731] i Greci alla
credenza latina, e assicurasse l’esercizio del patrio culto ai coloni
di Terraferma, agli Oltramontani, ed ai Siciliani di schiatta italica:
se no, un rivolgimento di fortuna avrebbe potuto di leggieri rendere
l’isola agli antichi signori d’Affrica o di Costantinopoli. Scansò
Ruggiero l’uno e l’altro pericolo, prendendo il partito d’istituire
una Chiesa cattolica apostolica e romana, dipendente da Roma il meno,
e dal principe il più che si potesse. Ne venne egli a capo, perchè
la ristaurazione ecclesiastica premea al papa non meno di lui, e
pur dipendea da lui solo che aveva in mano i tesori da spendere in
fabbriche e arredi e sì le entrate da dotare le chiese, i monasteri e
i vescovadi. Par ch’egli abbia tentata la prova come prima Ildebrando
accostossi a casa Hauteville; ritraendosi che il conte fondò nel 1081
il vescovato di Traina ed elesse il vescovo, non atteso alcun legato,
nè chiesta licenza di sorta al papa, e che questi brontolando, ma
senza rabbia, promise di consacrare l’eletto.[732] Morto Gregorio VII,
venuto Urbano II a Traina e compiuto il conquisto, Ruggiero non tardò
a fondare le altre sedi: assegnò i limiti alle diocesi ed elesse i
vescovi, con decreti nei quali ei parla come chi eserciti diritto suo
proprio; e cita per mero rispetto filiale gli accordi fatti verbalmente
col papa, il quale poi sempre consacrò gli eletti.[733] Eccettuato
l’arcivescovo di Palermo, anteriore al conquisto, la cui diocesi pur
sembra determinata dal conte Ruggiero, tutte le altre sedi debbono
a lui la fondazione: Traina il 1081, com’abbiam detto, trasferita a
Messina il 1096; Catania il 1091; Siracusa, Girgenti e Mazara il 1093,
alle quali fu aggiunto il 1094 il monastero di Patti, dandosi all’Abate
dignità e funzioni vescovili;[734] oltrechè il conte, per licenza del
papa e, com’ei dice una volta, ad esempio del papa, sciolse parecchi
monasteri dalla giurisdizione de’ vescovi.[735] Spicca vie più il
diritto inaugurato da Ruggiero nell’esempio contrario di Lipari; la
quale sendo stata abbandonata da’ Musulmani, e avendovi certi frati
fondato un monastero e raccolti de’ coloni, papa Urbano die’ all’abate
la giurisdizione vescovile, vantandosi padrone di quell’isoletta in
virtù della falsa donazione di Costantino.[736] Ma anco in questo
caso Ruggiero seppe stender la mano sopra l’Abate, con donargli Patti
e non poche altre possessioni.[737] In vero ei messe un tesoro per
comperare le regalie ecclesiastiche bizantine, le quali esercitò,
com’abbiam detto, nella fondazione de’ vescovadi; anzi trascorse oltre
a quelle, fattasi anco dar dal papa l’autorità di scomunicare in certi
casi.[738] Ruggiero vivea sicuro» della parola del papa, che tutto gli
aveva assentito senza scrivere un rigo, quando Urbano, con apostolica
ingenuità, mandava a fascio ogni cosa, nominando un legato appo di
lui. Ma egli nol soffrì. Dopo la vittoria di Capua, si fece rendere,
quasi a forza, una parte di que’ privilegi, nella notissima bolla del
millenovantotto, quando Urbano avea da sperar molto e da temer qualcosa
da lui.

Lo storiografo del conte, il quale narra quello scandalo schiettamente
anzi che no,[739] riferisce pur tutta a pietà cristiana la fondazione
de’ vescovati. «Impadronitosi, egli dice, della Sicilia intera, fuorchè
Butera e Noto, Ruggiero non volle mostrarsi ingrato a Dio: cominciò
a vivere devoto, ad amare i giudizii giusti, seguire il diritto,
abbracciare la verità, frequentare le chiese, assistere al canto degli
inni sacri, soddisfare al clero le decime d’ogni entrata sua, consolar
le vedove, gli orfanelli e gli afflitti. Ei racconcia i templi per
tutta l’isola; in molti luoghi dà del suo, perchè sieno edificati più
presto. Innalza in Girgenti una Cattedra con infule pontificali; per
suoi chirografi la dota a perpetuità di terreni, decime e varie altre
entrate che bastino a mantenere il pontefice e il clero; fornitala
largamente, oltre a ciò, di ornamenti e arredi sacri: alla quale chiesa
ei prepone ed ordina vescovo un certo Gerlando, di nazione allobrogo,
uomo, come si dice, di molta carità e nelle ecclesiastiche discipline
erudito.»[740] Era dunque del Delfinato, o savojardo, questo vescovo,
del quale il Malaterra non volle affermare le virtù, come il facea
pe’ francesi: Stefano da Rouen nominato a Mazara, Ruggiero provenzale
a Siracusa, e un bretone Ansgerio, come si ritrae da’ documenti, a
Catania. Il quale sendo abate di Sant’Eufemia in Calabria e ricusando
di abbandonare i monaci, ed essi lui, Ruggiero trovò modo di vincerlo.
«Gli concede perpetuamente, ripiglia il Malaterra, la città di Catania
e sue dipendenze. Egli, trovando inculta la Chiesa, come quella che
di fresco era stata strappata di gola al popolo infedele, la prima
cosa die’ mano ai lavori di Marta, tanto che in breve provvide la
Chiesa di quanto le abbisognasse; e poi, alternando con gli studii di
Marta que’ di Maria, adunò non piccolo stuolo di monaci e, come buon
pastore, con la parola e con l’esempio, li sottomise al giogo di regola
rigorosa.»[741]

Marta, in vero, meglio che Maria inaugurò la Chiesa siciliana; meglio
che la vita contemplativa, l’opera civile: la propaganda cattolica,
necessario stromento di governo nelle condizioni della Sicilia,
musulmana più che mezza, e bizantina quasi tutto il resto; l’invito a
coloni di Terraferma; il contrappeso alla feudalità laica. Ancorchè
allo scorcio dell’undecimo secolo il periodo vescovile fosse quasi
finito nell’Italia di sopra, par sia giovata la consuetudine di quella
autorità ad attirare coloni ne’ feudi ecclesiastici della Sicilia
con promessa di franchige, com’abbiamo notato dicendo di Catania e di
Patti. E che la prova non fosse fallita, lo dimostra la concessione
di Cefalù al vescovo, fatta il 1145 da re Ruggiero, insieme con una
vera carta di franchige municipali. Ma il vescovo di Catania, l’abate
di Patti, l’arcivescovo di Messina e gli altri vescovi e gli abati
di monasteri liberi da giurisdizione vescovile, possedendo feudi
da ragguagliarsi ai baroni e taluno a’ primarii del regno,[742] e
dipendendo per molti rispetti dal re e per nessuno dall’aristocrazia
militare, aggiugnean forza al principato di Ruggiero. Il quale,
dovendo affidar loro sì vitali interessi dello Stato, chiamò alle
sedi vescovili i suoi fidati, li fece entrare ne’ Consigli dello
Stato[743]: ne’ quali rimasero pur troppo fino alla continua minorità
di Guglielmo II. Le sette diocesi coincidono a un dipresso con le
divisioni politiche nate tra i Musulmani verso la metà dell’undecimo
secolo;[744] e le tornano esattamente per numero e con poco divario per
circoscrizione, alle province odierne dell’isola: dove il numero de’
vescovi è ormai triplicato per la vanità di alcuni municipii e la cieca
devozione de’ Borboni di Napoli, i quali procacciarono la istituzione
di otto sedi novelle in ventotto anni.[745] Ma tornando addietro
all’XI secolo, è da notare come la diocesi di Palermo fu di gran
lunga più piccola che ogni altra: un trapezio da Corleone a Vicari,
foce del fiume Torto e Capo di Gallo. E ciò si comprende, poichè
Palermo ubbidiva al duca di Puglia quando il conte Ruggiero costituì
le finitime diocesi di Traina, Mazarae Girgenti.[746] Fors’anco non
si stendea più oltre la giurisdizione politica della città innanzi il
conquisto.

Su la circoscrizione territoriale dell’isola abbiam detto altrove
ritrarsi sotto la dinastia fatemita l’ordinamento dell’isola in
_iklîm_, i quali sembrano distretti militari.[747] Or si ritrovano
gli iklîm sotto i Normanni. Non ne cerchiam noi la prova ne’ passi
d’Edrisi dove si fa menzione di parecchi iklîm della Sicilia; perocchè
il geografo di re Ruggiero usa quel vocabolo genericamente; anzi,
amando i giuochi di parole come ogni altro scrittore arabico de’ suoi
tempi, loda l’ampiezza o la feracità dei territorii con dare talvolta
allo stesso luogo le appellazioni di _’aml_ e di _iklîm_.[748] Ma
quest’ultima voce occorre appunto in qualche diploma del XII secolo,
estratto dai registri degli ufizi pubblici, che risalivano a’ principii
della dominazione normanna.[749] Inoltre gli è da sapere che in quelle
quattro circoscrizioni diocesane del conte Ruggiero nelle quali si
leggono i nomi de luoghi,[750] scarsissimo n’è il numero al confronto
di quello che dà Edrisi a capo di mezzo secolo, avvertendo pure ch’ei
ricordi le città e terre principali e lasci addietro quelle di minor
conto.[751] E per vero i diplomi ci ragguagliano di moltissimi villaggi
taciuti dal geografo; talchè in qualche tratto di paese il numero
cavato dai diplomi sta a quello di Edrisi, come il numero di Edrisi a
quello della circoscrizione ecclesiastica. Il divario poi che corre tra
questa e la descrizione geografica or or citata, nasce in alcuni casi
dalla fondazione di nuove colonie; ma il più delle volte evidentemente
vien da ciò, che la cancelleria del Conte notava nelle diocesi i soli
capoluoghi, invece delle terre sottoposte alla giurisdizione politica
e militare di ciascuno, ch’era, a creder mio, l’iklîm. Così nella
vasta diocesi di Catania, descritta il 1091, si notano solamente Aci,
Paternò, Adernò, Sant’Anastasia, Centorbi e Castrogiovanni, ciascuna
delle quali è assegnata «con tutte le appartenenze sue:» e si vede
che le appartenenze di Castrogiovanni stendeansi da una parte sino ai
confini di Traina e dall’altra sino al fiume Salso;[752] ond’eranvi
comprese Caltanissetta e Pietraperzia, taciute qui, ma nominate ben
da Edrisi, con questa particolarità ch’egli attribuisce a ciascuna
parecchi iklîm. Darò anco in esempio la diocesi di Palermo, alla quale
il primo attestato di circoscrizione (1122) attribuisce soltanto
Palermo, Misilmeri, Corleone, Vicari e Termini;[753] ma al dire
d’Edrisi erano cospicue nella medesima regione Trabia, Cefalà, Marineo,
Godrano, Margana, Menzil Iusuf, Caccamo, Brucato, Raia, Prizzi,
Pitirrana e Abragia, terre anteriori, la più parte, al conquisto;[754]
e, una trentina d’anni dopo Edrisi, i diplomi ci mostrano nell’iklîm
di Corleone quattro villaggi,[755] e tra Palermo e Termini Ibn-Giobair
vide il bel paesello di Kasr Sa’d,[756] le carte fanno ricordo di
Ain-Liel[757] e di Rahl Esscia’rani.[758] Così anco nella diocesi di
Mazara il diploma del conte Ruggiero ha dieci nomi[759] e sedici la
geografia d’Edrisi. Si ritrae da’ diplomi inoltre che il territorio
della città di Mazara prendea quasi tutto l’odierno circondario di
tal nome e metà di quello d’Alcamo.[760] Vasto territorio anco sembra
il val di Milazzo tenuto in feudo da Goffredo Borello ne’ primi tempi
del conquisto.[761] Il conte Ruggiero ritenne dunque, chè altrimenti
far non potea, gli iklîm de’ Musulmani, chiamandoli «appartenenze» del
capoluogo;[762] i quali territorii, per la estensione loro, variavano
tra il «mandamento» e il «circondario» della presente circoscrizione
dell’Italia. Erano _contadi_, talvolta sì vasti, che alcuno, come
Adernò, Paterno o Siracusa, divenne _contea_.

Pur se alcuni iklîm in Sicilia, come in altri paesi musulmani,
eccedeano le proporzioni ordinarie, non si veggono a’ tempi del conte
Ruggiero grandi circoscrizioni civili o militari che ne comprendessero
tanti da potersi chiamare province. Se Edrisi dice che Sciacca era
divenuta la città primaria[763] degli iklîm d’intorno, in luogo di
Caltabellotta la cui popolazione s’era quasi tutta tramutata in quella
città marittima, questo sembra fatto economico non amministrativo:
d’altronde torna alla metà del XII secolo. Sola eccezione mi pare il
Val Demone, citato qual nome di regione da due scrittori cristiani
contemporanei al conquisto,[764] e come tale anco usato nella geografia
di Edrisi[765] e in molti diplomi della fine dell’undecimo e prima metà
del duodecimo secolo;[766] ancorchè per noi s’ignori se allo scorcio
dell’undecimo, rispondesse all’antico nome un vero compartimento
amministrativo. Io nol credo, perchè ne’ ricordi del conquistatore non
rimane vestigio di altra autorità provinciale che i vescovi; perchè un
ordinamento provinciale non è verosimile in quella prima applicazione
della feudalità, dove i magistrati provinciali sarebbero stati i Conti;
e perchè le province non avrebbero potuto differire, per numero nè per
confini, dagli Stati musulmani distrutti. Pertanto rimanderei ai tempi
di re Ruggiero la tripartizione in valli, o piuttosto la ristorazione
di tal ordinamento, che si potrebbe riferire, sì come ho già detto, ai
Musulmani.[767]

E tanto meno verosimile sarebbe un ordinamento di province sotto il
primo Ruggiero, quanto risulta dalle croniche e da’ documenti ch’egli
non ebbe mai capitale propriamente detta. Povero venturiere, si fece
il primo nido in Mileto che sola possedea; levato a maggiori speranze
in Sicilia, ne usurpò un altro in Traina; ma divenuto principe e
potentato, alternò sempre tra Mileto e Traina quel che potrebbe
chiamarsi il soggiorno suo, poche settimane, cioè, ch’ei posava in
casa, correndo da impresa ad impresa, tra il Lilibeo e il Garigliano.
Ei volle essere sepolto in Mileto;[768] fece comporre le ossa del
figliuolo Giordano in Traina;[769] e quivi tenea il tesoro, quivi per
qualche tempo la famiglia, ritraendosi che una sua figliuola, andando
sposa in Ungheria, entrò in nave a Termini e quindi a Palermo, donde
fece vela per la Dalmazia.[770]

La triplice origine degli abitatori della Sicilia portò seco tre
denominazioni di magistrati, che a nome del principe reggessero
le terre demaniali e del barone le feudali; rendessero ragione e
riscuotessero le entrate. E veramente occorrono in moltissime carte del
tempo i nomi di strateghi e vicecomiti; e due diplomi arabici del 1149
e 1154 danno entrambi il doppio titolo di _’Amil_ e _Stratego_ di Giato
ad un Abu Taib, il quale, insieme con gli sceikh cristiani e musulmani
di Partinico, N»zh»r»d, Desisa e di Giato medesima, designava il sito e
i confini di un terreno conceduto dal demanio regio.[771] Similmente in
un atto notarile greco del 1156, appartenente a un comune dell’attuale
provincia di Palermo, è citato un kâid Hosein, stratego.[772] Parve
al Gregorio, se non certa, verosimil cosa che gli strateghi avessero
avuta autorità maggiore e giurisdizione territoriale più vasta che i
vicecomiti e che i primi fossero stati magistrati criminali, i secondi
civili e d’azienda.[773] Ma novelli documenti e que’ medesimi dati
alla luce infino al secol passato, dimostrano la competenza civile e
amministrativa degli strateghi.[774] Che se veggonsi ad un tempo nello
stesso luogo lo stratego e il vicecomite, come a Stilo di Calabria
e in Siracusa,[775] ciò non prova esclusivamente la differenza del
grado; ma il doppio uficio ben adattasi a terra abitata da due genti
diverse, sì come in Palermo sedeva il cadì e il magistrato cristiano,
e in Giato lo stesso uomo era _’âmil_ e stratego. Il fondamento
del diritto pubblico della Sicilia in quel tempo, cioè che ciascuna
gente fosse giudicata secondo sua legge, richiedea che a ciascuna si
desse il proprio magistrato; e la primitiva semplicità ed economia
dell’amministrazione portava che il giudice fosse incaricato di ogni
altra faccenda del principe o del barone. Lo stratego, governatore di
provincia nel IX secolo, era rimaso, com’io penso, supremo magistrato
politico quando, caduta la dominazione bizantina, ciascuna città
independente, tributaria o anche soggetta a’ Musulmani, si resse
più o meno largamente da se medesima: e ciò non solo in Sicilia, ma
avvenir dovea in varii luoghi della Calabria. Era dunque naturale
che il conte normanno lasciasse il medesimo titolo al governatore
ch’ei mandava nelle città greche e chiamasse vicecomite quello delle
nuove colonie, come solean dirlo in casa loro.[776] Per la medesima
ragione veggiamo l’_’âmil_ nelle terre musulmane; se non ch’egli era
privo di autorità giudiziaria, appartenendo questa ai _cadi_ e agli
_hâkim_.[777] Come portava lor civiltà superiore, ebbero i Musulmani,
oltre gli appositi magistrati, anco leggi, se non buone, almen certe e
coordinate da sottile giurisprudenza; mentre il codice dell’umanità,
la legge romana, facea capo qua e là nelle consuetudini delle città
cristiane, traendo seco qualche innovazione bizantina e lottando contro
le barbariche usanze dei Longobardi e de’ Franchi.[778] Per vizio
comune alle legislazioni europee, riserbossi il principe gli appelli
nelle cause civili, facendole decidere da ottimati delegati a volta
a volta. Ritenne egli inoltre i giudizii capitali nella più parte de’
feudi.[779]

Or toccheremo delle entrate pubbliche nei primi tempi normanni;
nella quale ricerca e’ convien adoprare con maggior cautela, e quasi
con diffidenza, i ricordi dell’ultima metà del XII secolo; sendo, i
fatti in materia di azienda, assai più mutabili che quelli discorsi
fin qui, verbigrazia le condizioni sociali o i municipii, e mancando
pertanto quella presunzione d’un’origine più antica, che sovente ci
ha confortati a riferire a’ principii della dinastia gli ordini che
si ritraeano in su la fine. Intraprendiamo ricerca di fatti ch’ebbero
grande conseguenza nella storia dell’Italia meridionale, perocchè il
conte Ruggiero negli ultimi venticinque anni dell’undecimo secolo,
salì a tanta potenza mercè l’oro, non meno che il ferro. Quella
ricchezza ond’ei fu rinomato in tutta Cristianità, non potea venir dal
solo bottino; non dal frutto de’ possessi demaniali, necessariamente
scarso tra le fazioni di guerra e lo sconvolgimento sociale. E pur
allora veggiamo il conte stipendiare grosse schiere di stanziali,
largire doti regie a tante figliuole, porgere sussidii ai papi e,
quel ch’era più grave, aiutar di danari il fratello nell’impresa di
Grecia; e poi innalzare per ogni luogo chiese e monasteri. Donde venian
cotesti tesori? E’ si direbbe che il conte avesse appresa l’alchimia
dagli Arabi, o scoperto dassè il gran segreto: quel medesimo con che
raddoppiossi d’un tratto il reddito della città di Palermo, come prima
ei vi messe le mani.

La savia amministrazione, fondamento del gran segreto, sembra retaggio
de’ tempi musulmani, ben usato dal vincitore. Avendo sotto gli occhi
i ruderi, noi possiamo ricomporre in parte quell’antico edifizio. E
prima scorgiamo un censimento universale di beni demaniali e feudali,
chè gli uni e gli altri furono in origine la stessa cosa, possessi,
cioè, dello Stato, de’ quali altri si concedeano in feudo, altri
ricadeano al fisco e questo ne riconcedeva o ritenea. Provan cotesto
censimento le _platee_ de’ villani appartenenti a ciascun feudatario
dell’isola, promulgate in Mazara, come già notammo, il 1093, che è a
dir due anni dopo il compimento del conquisto;[780] poichè tanto valea
concedere i villani, quanto la terra assegnata a ciascun di loro, detta
_rab’_ ne’ documenti arabici, e _cultura_ ne’ latini.[781] Nè mancano,
nell’undecimo secolo, le vestigie di un’antecedente descrizione
de’ territorii; sapendosi essere stato il casale di Regalbuto
concesso il 1090 alla chiesa di Messina «con tutto il suo contado ed
appartenenze, secondo le antiche circoscrizioni de’ Saraceni.»[782]
Più precise notizie ci danno di cosiffatta descrizione le carte del
duodecimo secolo, dalle quali si scorge che quel censimento, s’ei non
raffigurava, come i nostri d’oggidì, una selva di righi e colonnini
terminati col reddito di ciascun podere in lire e centesimi, che son
pur cifre d’approssimazione e talvolta direbbonsi d’allontanamento,
racchiudea, sì, la descrizione sommaria de’ confini noti a tutti in
ciascun contado, la misura della superficie, il numero e i nomi de’
villani, e, alla grossa, la qualità del suolo.[783]

Le medesime carte ci fanno conoscere il titolo dell’ufizio che serbava
cotesto censimento; ed era, in arabico, _Diwân-el-Tahkîk-el-Ma’mûr_,
ossia «Ufizio di riscontro della tesoreria,» se non ci inganna
l’analogia con gli ordinamenti dell’azienda pubblica, posti in Egitto
da que’ medesimi califi Fatemiti che furon legislatori dell’azienda
in Sicilia:[784] il quale ufizio in latino barbaro fu detto _Dohana
de Secretis_[785] per la medesima ragione che altrove fece chiamare
segretarii gli scrittori del carteggio ufiziale. L’origine musulmana è
provata dalla denominazione dell’ufizio e da quella de suoi strumenti,
i _defetarii_, de’ quali fa menzione il Falcando, e se n’ha riscontro
ne’ documenti; ma si è molto disputato su quel ch’e’ contenessero
e donde venisse quella voce.[786] _Defêtir_ è plurale arabico di
_difter_, e questo, mera trascrizione di διφθέρα «pelle» e «codice di
cartapecora:»[787] un di que’ vocaboli che gli Arabi necessariamente
tolsero in prestito da’ Greci, sia in Levante o sia in Sicilia, e
andandosene dall’isola, ce li riconsegnarono storpiati a loro modo. I
defetarii erano dunque i libri, i registri, degli ufizii d’azienda.
Ancorchè non mi sia occorsa altra appellazione speciale che del
_difter-el-hodûd_, ossia «registro de’ confini,»[788] egli è verosimile
che ve ne fossero stati di varie maniere, come appunto soleano averli
i Musulmani, e che in una serie di que’ registri fossero pur notati
i diritti dello Stato su ciascuna classe di abitatori in ogni terra;
i quali diritti si riscuoteano dal Fisco quando la terra era ritenuta
in demanio e si trasferivano ai baroni quando la si concedea. Possiam
anco supporre con fondamento che non mancassero i catasti de’ beni
allodiali.[789] L’ordinamento de’ catasti risultante dalle carte del
XII secolo fu ristorato forse e perfezionato ai tempi di re Ruggiero;
ma questi di certo non imitollo dal “Doomsday book” di Guglielmo il
Conquistatore, come si è immaginato:[790] l’ebbe in retaggio dal primo
Conte, dal governo musulmano e fors’anco dal bizantino.

Par che il Conte abbia rivendicati al demanio tutti i possessi e i
diritti usurpati da lunghissimo tempo; leggendosi nella concessione
feudale della città di Catania (1092), esser data quella al vescovo
«con tutte le sue appartenenze, possessioni ed entrate,.... sì come
la teneano i Saraceni quando i Normanni passarono la prima volta in
Sicilia»[791] e dati anco «i Saraceni che dimoravano in Catania a quel
tempo, e i figliuoli dei Saraceni di Catania stessa e di Aci, nati in
altre parti della Sicilia, dove i genitori si fossero rifuggiti per
timore de’ Normanni.» L’interpretazione più ovvia di coteste parole
farebbe risalire la rivendicazione a trent’anni innanzi (1061); se non
che mal si comprende qual principio di gius pubblico o quale utilità
avrebbe potuto suggerir termine così fatto al conquistatore. Avea
forse Ibn-Thimna prestato omaggio feudale a Ruggiero o a Roberto il
sessantuno? Ovvero si pattuì quel termine nella dedizione di Catania
ai Normanni? Il primo supposto parmi privo di fondamento; l’altro
gratuito affatto e credo più plausibile un terzo: cioè che la passata
alla quale si alludea, fosse quella della compagnia normanna che seguì
la bandiera di Maniace il milletrentotto. Allora, occupata da Cristiani
tutta la Sicilia orientale, moltissime famiglie emigrarono senza dubbio
nelle regioni occidentali. A capo di due anni, lacerata la Sicilia
dall’anarchia e surti i regoli, erano stati di certo occupati da questo
e da quello i beneficii militari, parte principalissima dell’entrata
pubblica e pomo della discordia nell’isola, come in tutt’altro Stato
musulmano. Gli è verosimile dunque che il vincitore, potendolo fare con
buon diritto, abbia messa la scure alla radice, in luogo di tollerare
le concessioni de’ regoli ch’egli avea combattuti e vinti ad uno ad
uno. Nè era da temere maggior odio per lo spogliamento degli ingiusti
occupanti dopo cinquant’anni che dopo trenta; e molto minore difficoltà
si sarebbe incontrata a scoprire i poderi notati nei registri dei diwân
kelbiti della capitale, che a rintracciare la condizione del patrimonio
militare al principio della guerra in ciascun centro di governo:
Palermo, Castrogiovanni, Girgenti, Siracusa e Catania. D’altronde la
rivendicazione si può con fondamento supporre estesa a tutta l’isola,
perocchè la non toccava al certo le proprietà, ne’ luoghi dove per
accordo o necessità rispettolle il vincitore.

De’ possedimenti demaniali fruiva il Conte, come ciascun feudatario
de’ suoi proprii, riscotendo da’ villani ed altri coloni il tributo in
danari e grani, e il servigio d’opere manuali; e da’ borghesi delle
terre e città le gabelle, tasse o guadagni di vendita privativa: dei
quali pesi abbiam toccato nel trattar le condizioni del popolo e ci
siamo riferiti al Gregorio.[792] E conviene rimanerci alle generalità;
perchè le prove che dà il Gregorio non bastano in tutti i particolari.
Egli argomentò il sistema de’ primi tempi normanni dalle liste di
que’ che alla metà del XIII secolo si chiamavano diritti antichi, per
opposizione ai nuovi ordinati da Federigo imperatore; ma non possiamo
non supporre che grandissime innovazioni fossero seguite nella prima
metà del XII secolo. Si affidò inoltre il Gregorio alla descrizione
dei detti pesi per Andrea da Isernia, senza considerare che questo
dotto giureconsulto del XIII secolo avesse lavorato su le memorie del
Napoletano al par che della Sicilia. In fine ei fece assegnamento su
certi documenti del XIII secolo, ne’ quali si noveravano le entrate
pubbliche soggette a decima ecclesiastica; ma non s’accorse che il
clero per lo meno esagerava i proprii diritti.[793] Occorrono quindi
novelli studii su i documenti, stampati o no, per appurare ciascun capo
di entrata pubblica ne’ tempi di cui si ragiona. Ma tutto insieme si
vede il fatto che dovea nascere, l’innesto della ragione feudale su la
fiscalità musulmana: da una parte, nuovi diritti dominicali e angherie
feudali; dall’altra alcune maniere di testatico, e da entrambe,
gabelle di consumo e di produzione. Sappiamo, per testimonianze di
contemporanei, recata in Sicilia da’ Normanni la privativa de’ bagni,
de’ molini, de’ forni e delle canove.[794] I diritti di erbatico,
legnatico e simili, nacquero dalla nuova forma della proprietà; i
proventi giudiziali, dal potere politico attribuito a proprietarii
privati. Continuò la capitazione su i Giudei, trovato musulmano.
Scendeano da tempo più antico, modificate da’ Musulmani ed accresciute
al certo da’ Normanni, le gabelle alla entrata o uscita delle merci, le
tasse su i movimenti delle navi mercantesche, i diritti su le industrie
e i mestieri. Dalle denominazioni si può talvolta conghietturare
l’origine; per esempio, la _cabella bucherie_ sembra normanna tanto
certamente, quanto il diritto di rahaba e quello di _cangemia_
musulmani.[795] Non è poi da dimenticare che coteste gravezze variavano
forse da terra a terra in quantità e in qualità e che, se in teoria le
appartenean tutte al principe, sì come i terreni non allodiali, pure
ei non ne fruiva se non che ne’ paesi del demanio, ma nelle città e
terre concedute le andavano a beneficio dei feudatarii. Il supposto
del Gregorio che, per lo meno, quelli che or diciam diritti doganali si
riscuotessero dal principe per ogni luogo[796] non mi pare avvalorato
da alcun fatto, nè consentaneo al diritto pubblico de’ tempi.

Tributo generale bensì, la colletta, si poneva anco su i feudatarii
ne’ noti quattro casi feudali; della quale ancorchè non abbiam ricordi
al tempo del primo conte, la si dee supporre, quando e’ si ritrae
che Roberto Guiscardo levolla in Terraferma e in Palermo[797] e poi
i re normanni in tutta la Sicilia.[798] Generale anco il diritto di
marineria, col quale si manteneva il navilio; se non che, com’e pare,
i municipii vi contribuivano, più che i feudatarii, e ciò in compenso
del servigio militare.[799] Ed ancorchè non risulti da alcun documento
di quella età, credo fermamente sia da aggiugnere alle sopradette e
da tener principalissima entrata del conte Ruggiero, come la fu de’
successori, la tratta de’ grani. Sappiam noi dagli annali musulmani le
spaventevoli carestie che patì l’Affrica propria in quella età,[800]
sendo permanente la causa principale: gli Arabi ladroni d’Egitto i
quali desolarono tutta la campagna e corserla in guisa da impedirvi per
tanti secoli ogni maniera di coltivazione.[801] Sappiamo dal raccontato
aneddoto del conte Ruggiero quanto assegnamento facesse il governo
di Sicilia in sul traffico de’ grani con l’Affrica; il qual fatto non
rimarrebbe men vero, se il racconto si riferisse alla prima metà del
XII secolo, anzichè alla seconda dell’XI.[802] E veramente la reciproca
pazienza degli Ziriti e della casa di Hauteville a mantenere la pace
negli ultimi diciotto anni della sanguinosa lotta che il cristianesimo
combatteva contro l’islamismo in Sicilia,[803] non si potrebbe credere,
quand’anco si supponesse in ambo le parti inalterabile saviezza e
freddo giudizio degli interessi politici; ma la parrà naturale e
necessaria, supponendo che il conte Ruggiero mandasse a vendere i grani
dell’azienda in Mehdia, in Tunis e nelle altre città della costiera,
sì come fece il figliuolo Ruggiero quindici o venti anni dopo la morte
di lui: e questo commercio di grani aprì la via alle imprese del re
sopra l’Affrica, e rese per due secoli i principi di Tunis tributarii a
que’ di Sicilia, come si dirà nel libro seguente. Con ciò la tratta de’
grani comparisce fin dalla prima metà del XIII secolo ricchissimo capo
d’entrata del tesoro siciliano e se ne scorge vestigia al principio del
XII.[804] Tutte le ragioni conducono al supposto che il conte Ruggiero
l’abbia istituita o forse continuata in ciascuna città marittima della
Sicilia, come prima egli se ne insignorisse: ed è verosimile ch’ei
v’abbia fatto doppio guadagno; cioè levare grossa contribuzione in
denaro o in genere all’uscita de’ grani altrui, e intanto, aumentato
così il prezzo della merce, mandar a vendere in altri paesi i grani
ch’ei possedea, raccolti da’ canoni in derrata ne’ suoi proprii demanii
o ritratti dalla medesima tassa d’uscita. Ammessa questa sorgente, non
farà maraviglia l’inesauribile ricchezza del conquistatore.

Dopo i tributi verrebbero i servigi, ch’erano sì gran parte de’
pubblici pesi negli stati feudali; e possono dividersi in servigi di
pace e di guerra. Dei primi, cioè le giornate di lavoro ne’ campi,
i trasporti, l’opera manuale nelle edificazioni e simili fatiche,
abbiam già toccato; nè occorre altro aggiugnere, sendo simili coteste
obbligazioni nelle terre demaniali e nelle feudali.[805] Il servigio
militare di terra era prestato da’ baroni in Sicilia al par che in
ogni altro stato feudale, come si legge nel Gregorio.[806] Notiamo
tuttavia che i feudi ecclesiastici non andarono esenti per generalità
dal servigio militare, sì com’ei dice; ma alcuni ne furono eccettuati
e similmente alcune città. Inoltre i fatti narrati da noi provano come
il Conte chiamasse talvolta alla guerra i Musulmani di Sicilia;[807]
il quale esempio fu seguìto dai re suoi discendenti e dalla dinastia
sveva. Verosimile egli è che i Musulmani facesser oste capitanati
dai loro kâid,[808] nutriti a spese del principe durante l’impresa
e gratificati col bottino. È da ricordare infine che il Conte ebbe
schiere di stanziali stipendiati, e che i suoi successori ne tenner
anco di Cristiani e di Musulmani.

Del navilio siciliano allo scorcio dell’undecimo secolo non avanza
alcuna memoria. Si potrebbe anzi supporre, se non distrutto,
decaduto di molto; ritraendosi che verso il millesessantotto la gente
dell’armata, per cagion delle guerre civili, riparò in Affrica,[809]
e che le forze navali operaron poco nella difesa di Palermo il
1071, ancorchè quello fosse stato sempre il gran porto militare de’
Musulmani di Sicilia.[810] Ciò nondimeno, s’egli è vero che a metter
su un navilio di guerra si richiegga tempo e spesa e grandissima cura,
convien che il conte Ruggiero abbia adoperato a ristorare il navilio
siciliano i buoni elementi del pugliese e del calabrese già messi
alla prova negli assedii di Bari e di Palermo e usati da Roberto nella
guerra di Grecia; e ch’ei gli abbia felicemente innestati con que’ del
navilio musulmano. Perchè i Normanni di Sicilia rivaleggiaron in sul
mare con le repubbliche marittime nella prima metà del XII secolo;
e, fin dal 1113, l’Adelaide, vedova del Conte, andando in Ascalona
per rimaritarsi a Baldovino re di Gerusalemme, era scortata da nove
legni da guerra siciliani, due de’ quali portavano cinquecento uomini
ciascuno; e gli altri rifulgean d’oro, argento, porpora, e i guerrieri
di preziose vestimenta e ricche armadure, senza contare i tesori
profusi nella galea dell’Adelaide, nè una schiera di arcieri saraceni
splendidamente vestiti, ch’ella recava in dono allo sposo.[811] La
mole de’ legni e il lusso, provano che la Sicilia avea già di nuovo
un’armata possente.

Della quale noi possiamo figurarci la costituzione, rannodando le
notizie che n’abbiamo ne’ tempi appresso, con quelle che si ritraggono
ne’ tempi innanzi, del navilio bizantino e de’ musulmani.[812] Or
del primo sappiam noi ch’era di due maniere, il regio cioè e il
provinciale, ch’è a dire fornito e armato a carico delle città di certe
province. Così leggiamo nella Tattica dell’imperatore Leone.[813] Il
tumulto di Rossano al quale noi accennammo, dimostra qual fastidio
recasse ai popoli così fatto armamento:[814] e n’abbiamo anco
riscontro da Ibn-Haukal, il noto viaggiatore del X secolo, il quale,
descrivendo i paesi marittimi dell’Asia minore e le varie maniere di
legni da guerra che vi armava l’impero bizantino, dice che la spesa
era levata su i villaggi vicini al mare «a tanto per fumajolo, ossia
tanto per casa.»[815] Ma come i Musulmani, venuti in sul Mediterraneo,
necessariamente messer su forze navali, e necessariamente usarono
gli ordini e gli uomini che le avevano mantenute appo i popoli
vinti,[816] così veggiamo nelle armate loro i legni mandati dalle
varie città. Un antico scrittore citato da Makrizi, ci narra che in
Egitto, al tempo dei califi fatemiti, la più parte del navilio era
fornita da’ governatori delle province e pagati gli stipendi dal “diwân
dell’armamento navale” insieme con quelli de legni regii; e che inoltre
ciascuna provincia avea la sua armatetta.[817] Sappiamo da Ibn-Khaldûn
che il navilio de’ califi omeiadi di Spagna, il quale arrivò talvolta
a dugento legni, era raccolto da tutti i porti del reame, ciascun de’
quali forniva i suoi.[818] Ora in Sicilia ricomparisce una sembianza
di cotesto ordinamento, insieme con l’armata che soggiogò la costiera
d’Affrica e infestò le isole della Grecia (1123-54): la _marineria_
dovuta dalle popolazioni lombarde;[819] i dugencinquanta marinai
che dovea fornire il Municipio di Caltagirone; i dugento novantasei
richiesti a quel di Nicosia, che giace tra i monti come quell’altra
città; i venti marinai dovuti dal vescovo di Patti.[820] Le galee
delle varie città si veggono combattere contro il navilio angioino
allo scorcio del decimoterzo secolo.[821] Quanta parte poi prendessero
durante il duodecimo i Musulmani nelle armate di Sicilia, si vedrà nel
libro seguente.

E quivi sarà discorso di que’ fatti d’incivilimento che riferir si
potrebbero al tempo del primo conte, ancorch’e’ compariscano nei
regni de’ suoi successori. Breve e sanguinoso, il periodo che abbiamo
studiato in questo libro non lasciò campo alle arti della pace; non
permesse di ricordar quelle che, per necessità dell’umana natura e
della convivenza sociale, si esercitavano pure in mezzo alle stragi e
alla distruzione. Pertanto abbiamo raccolti nel libro precedente[822]
que’ bricioli di storia letteraria de’ Musulmani che riferir si
poteano al tempo della guerra. Della storia letteraria de’ Cristiani
di Sicilia altre reliquie non abbiamo che i codici, le immagini e le
minuterìe del Prete Scholaro.[823] Le chiese e i monasteri che Roberto
e Ruggiero edificarono, in luogo de’ sontuosi palagi distrutti, sono
state consumate dal tempo, come i loro diplomi in carta bombicina che
fu mestieri di rinnovare entro mezzo secolo; o, se qualche pietra
n’avanza, la non si riconosce tra le costruzioni eleganti di re
Ruggiero e de’ Guglielmi. Ma abbiam citati a lor luogo i ricordi che ne
fanno i cronisti o i documenti.

Ci è occorso altresì di rammentare le opere di fortificazione, che
a’ vincitori premeano al men quanto gli edifizii ecclesiastici: la
cittadella e il castel di Roberto in Palermo,[824] i baluardi di
Ruggiero in Messina,[825] e quelli che si affrettò a costruire San
Gerlando con le pietre de’ tempii agrigentini.[826] Edrisi fa un cenno
della ristorazione di Marsala, mostrando non ignorare che la fosse
surta su le rovine di Lilibeo e attestandoci una seconda distruzione
seguìta nella guerra de’ Normanni o poco innanzi. «_Marsa Alì_, egli
scrive, antica, anzi primitiva città, delle più notabili della Sicilia,
era abbandonata, che ne rimaneano appena le vestigie, quando il conte
Ruggiero primo la ripopolò e cinsela di mura. Indi la s’è riempita di
case, mercati e magazzini.»[827]

Oltre le fortificazioni, sono da attribuire a’ primi tempi normanni
alcune strade militari. Tale al certo fu quella ch’è chiamata «lo
Stradale[828] francese di Castronovo» in un diploma di Ruggiero, dato
del 1096, secondo il quale i confini assegnati dal Conte alla diocesi
di Messina risalgono lungo il Fiume Torto insino alla sorgente, e
indi ripiegano sul detto stradale e di là al Monte di San Pietro
e continuano verso Levante.[829] Par sia questa la medesima strada
che da Palermo, com’attesta un diploma del 1132, menava a Vicari,
Castronovo e Petralia;[830] continuava alla volta di Traina, dove
la versione d’un diploma greco del 1094 ricorda una “via regia;” e
forse, valicati i monti a Sant’Elia d’Ambola,[831] ripigliava essa
il corso lungo la costiera settentrionale, poichè il medesimo nome
di “via regia” ricomparisce il 1143 presso Patti,[832] e molto prima
presso Milazzo.[833] Il predicato di basilica, chè così dicea senza
dubbio il testo, dato a cotesta strada nel diploma del 1094, la fa
supporre bizantina: e sarebbe per avventura quella che tennero i
Normanni addentrandosi nel cuor dell’isola e ch’essi prolungarono
o racconciarono dopo Petralia o Castronovo, per farsene linea
d’operazione sopra Palermo. Si potrebbe riferire anco ai tempi del
primo conte l’altra via detta precisamente militare, in un diploma
della Chiesa di Monreale del 1182, la quale par sia corsa ne’ dintorni
della Ficuzza, tra Palermo e Corleone;[834] ma non si ritrae se
mettesse capo nella via di Castronovo, che ne sarebbe stata discosta in
linea retta una ventina di miglia a scirocco. Può solo argomentarsi che
la qualità, o almeno l’origine di questa via militare, differisse da
quella delle grandi vie del commercio interno, che menavano da Palermo
a Mazara, da Palermo a Sciacca, ed altre nominate vie pubbliche o
stradali nel medesimo diploma della Chiesa di Monreale,[835] le quali
erano forse aperte molto tempo innanzi la guerra normanna.

Diciamo in ultimo della sola manifattura che ci possiamo aspettare
dal novello principato, dopo le chiese e le opere militari. Si
rinvengono in tutti i musei d’Europa tante monete battute dai re
normanni di Sicilia ed anco dagli svevi, con leggende arabiche e
formole musulmane, che si è supposto con fondamento essere incominciato
così fatto conio ne’ primi anni della dominazione. Il Tychsen, che
dissodò la numismatica orientale e inciampò sovente in quel novello
terreno, pubblicò, sul disegno mandatogli di Sicilia, una moneta d’oro
attribuita da lui a Roberto Guiscardo, da altri all’abate Vella; nella
quale, se i caratteri non son mutati del tutto dopo tre o quattro
copie del disegno, leggesi in sul diritto il nome di re Tancredi, e
però torna alla coda anzichè alla testa della serie normanna.[836]
L’Adler poi die’ fuori alcuni quartigli, o diciamo _roba’i_, o tarì
d’oro, nei quali è chiarissimo il nome di Ruggiero e in alcuni il
titolo di re; ma in altri parve all’Adler di veder la voce _emîr_,
talchè potea cadere dubbio se al padre appartenessero ovvero al
figliuolo, com’egli suppone dal tipo.[837] Seguillo il Castiglioni,
aggiugnendo alla lezione di _emir_ quella di _Sicilia_[838] e tiraronsi
dietro, riluttante, il Marsden.[839] Altra via batteva il principe di
San Giorgio Spinelli quando, avute alle mani in Napoli ricchissime
collezioni, compilò un’opera di gran mole, corredata di tavole e in
molte parti degna di lode. Quel gentiluomo napoletano, molto erudito ma
conoscitor mediocrissimo dell’arabico, riferì al gran Conte diciassette
tarì d’oro che pesano un grammo o poco meno ed hanno da una faccia il
simbolo musulmano, dall’altra il nome di Ruggiero, preceduto, come
crede l’autore, dal titolo or di conte or di duca, e su i margini
qualche residuo di leggenda, dove lo Spinelli rintracciava date di
tempo e di luogo.[840] Coteste monete ha accettate il Mortillaro,
con alcune correzioni che non risguardano il nome del principe.[841]
Mi rincresce che il lavoro tutto dello Spinelli non dia guarentigia
di quella erudizione e di quella sicurezza d’occhio in fatto di
numismatica musulmana, che ci potrebbero indurre a prestar fede alla
lezione di codeste diciassette monete; duolmi altresì non poter fare
assegnamento su le figure incise, le quali, sia difetto delle monete
fruste o sia del disegno, bastano talvolta a conoscere erronea la
lezione dello Spinelli, ma non aiutano punto a rifarla. Si aggiunga
che, a giudicar dalle tavole, il titolo di _duca_ letto dallo Spinelli
in una moneta[842] somiglia perfettamente al vocabolo che in altra egli
trascrive _conte_; e che, ammettendo il primo, si tornerebbe a Ruggiero
duca di Puglia che fu signore pria di tutta la città di Palermo e poi
della metà. Or a noi non piace andar così a tentoni. Aspetteremo che
le collezioni le quali servirono allo Spinelli, cioè la sua propria e
quelle di Fusco, Tafuri, Santangelo e Capialbi siano riviste da occhi
più esperti; sì che le monete del XII secolo si scemano da quelle che
per avventura avesse battute il primo conte. E in questo mezzo rimarrà
in sospeso la piccola lite, se i roba’i siciliani fossero stati coniati
senza interruzione da’ tempi dei califi fatemiti[843] a quelli di
re Ruggiero e dei successori; e intanto rimarranno al primo conte di
Sicilia le sole monete di rame con effigie e lettere latine, che a lui
sogliono attribuirsi.[844]



SOMMARIO DELLE MATERIE CONTENUTE NEL TERZO VOLUME.


LIBRO QUINTO.

  Capitolo I.

      an.
   970-1011. Cagioni esteriori della caduta della
               dominazione musulmana in Sicilia. Movimento
               nazionale nella Terraferma italiana. Imprese
               navali dei Pisani contro i
               Musulmani                                     Pag. 1
     1015.   Mogêhid usurpatore di Denia                          4
       »     La Sardegna infestata precedentemente                5
       »     Mogêhid a Luni e in Sardegna                         7
     1016.   È sconfitto e ricacciato in Spagna                   9
       »     Contese de’ Pisani co’ Genovesi                     10
  1016-1114. Altre fazioni contro i Musulmani                    13
       »     I Normanni                                          14
       »     Loro tradizioni                                     20
  1078-1086. Croniche de’ Normanni d’Italia. Amato               21
       »     Guglielmo di Puglia                                 22
       »     Malaterra                                           23
       »     Leone d’Ostia e Lupo                                24
       »     I Normanni a Salerno                                25
  1017-1021. Melo                                                26
       »     Compagnia Normanna                                  29
  1040-1041. Argiro e Ardoino                                    30
       »     Battaglia dell’Olivento ed altre vicende            33
     1043.   Nuovo ordinamento della Compagnia                   37
       »     La casa di Hauteville                               38
     1051.   Rivolta contro i Normanni                           40
  1055-1058. Roberto Guiscardo                                   42
     1059.   Ruggiero. Espugnazione di Reggio                    49
       »     Condizioni della Compagnia Normanna                 52

  Capitolo II.

     1060.   Disposizioni de’ Cristiani messinesi                55
       »     Supposta congiura                                   56
       »     Correria sopra Messina                              61
       »     Ibn-Thimna                                          62
     1061.   Nuova fazione                                       63
       »     Presa Messina                                       66
       »     Rametta                                             70
       »     Tripi, Frazzanò, Maniace, Centorbi                  71
       »     Paternò, Emmelesio, Sanfelice; battaglia di
               Castrogiovanni                                    72
       »     Scorreria a Girgenti. Tregua con Palermo            75
       »     Ritirata                                            76
       »     Castel di San Marco. Dominazioni diverse nelle
               province                                          78

  Capitolo III.

       »     Rivolgimento in Palermo                             79
       »     Condizioni degli Ziriti                             80
       »     Aiuti di Mo’ezz                                     81
       »     Scorreria di Ruggiero sopra Girgenti                82
       »     Patti co’ Trainesi                                  83
     1062.   Ruggiero sposa Giuditta di Evreux                   84
       »     Correrie in Sicilia. Morte d’Ibn-Thimna             85
       »     Brighe di Ruggiero con Roberto                      87
       »     Rivolta di Traina                                   89
       »     Vittoria di Ruggiero                                91
     1063.   Nuova spedizione affricana                          92
       »     Scorrerie di Ruggiero                               94
       »     Battaglia di Cerami                                 96
       »     Fazione de’ Pisani in Palermo                      101
       »     Fazioni de’ Normanni a Collesano, Brucato, Cefalù.
               Combattimento presso Girgenti                    105

  Capitolo IV.

     1064.   Vano assedio di Palermo                            106
       »     Bugamo presa: scontro presso Girgenti              107
  1064-1068. Aiûb ed Ali, figliuoli di Temim, occupano la
               Sicilia occidentale                              108
       »     Guerra civile; partenza degli Affricani ed
               emigrazione                                      110
     1066.   Ruggiero a Petralia                                111
     1068.   Battaglia di Misilmeri                             113
  1068-1071. Assedio di Bari                                    114
       »     Armamento contro Palermo                           115
       »     Presa Catania                                      116
       »     Assedio di Palermo                                 118
       »     Assalti                                            124
     1072.   Resa della città                                   130
       »     E di Mazara                                        133

  Capitolo V.

       »     Distribuzione de’ conquisti                        ivi
       »     Morte di Serlone                                   134
       »     Roberto ordina il governo in Palermo               136
  1072-1085. Ritorna in Terraferma. Suoi doni alla Badia di
               Montecassino                                     139
       »     Contrasta co’ suoi baroni                          141
  1072-1085. E co’ principi di Salerno e Capua                  142
       »     Roberto e Gregorio VII                             143
       »     Imprese di Grecia e di Roma                        144
       »     Morte di Roberto                                   146

  Capitolo VI.

     1072.   Condizioni de’ Normanni in Sicilia                 147
       »     E dei Musulmani                                    148
       »     Benavert                                           149
  1073-1075. Progressi lenti di Ruggiero                        150
       »     Vittoria di Benavert                               151
     1076.   Ruggiero dà il guasto al Val di Noto               153
     1077.   Prende Trapani ed altri paesi                      154
     1078.   E Taormina                                         156
     1079.   Rivolta di Cinisi e Giato                          159
     1081.   Ruggiero padrone di Messina                        161
       »     Catania presa da Benavert e racquistata            162
     1082.   Rivolta di Giordano                                163
     1085.   Scorreria di Benavert in Calabria                  164
     1086.   Ruggiero prende Siracusa                           165
     1087.   Impresa navale degli Italiani sopra Mehdia         168
       »     Ruggiero occupa Girgenti e la provincia            172
       »     Ibn Hammûd gli dà Castrogiovanni                   173
  1089-1091. Prese Butera e Noto. Urbano II a Traina            176
       »     Conquisto di Malta                                 177

  Capitolo VII.

     1093.   Morte di Giordano e rivolta di
               Pantalica                                        180
  1085-1093. Cresciuta potenza del conte Ruggiero               181
       »     Aiuta il nuovo duca di Puglia, il quale gli
               concede metà di Palermo                          182
  1091-1094. Imprese di Cosenza e Castrovillari                 184
     1096.   Assedio di Amalfi. La prima Crociata               185
     1098.   Ruggiero assedia Capua co’ Musulmani               186
       »     E impedisce la loro conversione                    187
       »     Aneddoto attribuitogli da Ibn-el-Athîr             188
       »     Scuola di monaci statisti                          190
       »     Relazioni del conte con Urbano II                  191
       »     Privilegio dell’Apostolica legazione               193
     1101.   Morte del conte                                    194
       »     Famiglia della contessa Adelaide                   196
       »     La Marca aleramica                                 198
       »     Bonifazio del Vasto                                199

  Capitolo VIII.

       »     Condizioni dell’isola dopo il conquisto  200
       »     Diplomatica siciliana dell’XI e XII secolo.
               Falsa pergamena arabica dell’archivio di
               Napoli                                           201
     1101.   Diplomi arabici e greci                            202
       »     Diplomi latini                                     204
       »     Varie schiatte. Antichi abitatori                  206
       »     Distribuzione geografica delle nuove schiatte      207
       »     Ebrei                                              209
       »     Tribù arabe e berbere                              210
       »     Normanni e altri Francesi                          213
       »     Colonie della Terraferma italiana                  218
       »     Lombardi                                           222
       »     Baroni aleramidi                                   225
       »     Dialetto de’ Lombardi di Sicilia                   227
       »     Caltagirone                                        228
       »     Origini di altre città                             231
       »     Della famiglia Bonello                             232

  Capitolo IX.

       »     Condizioni de’ vinti. Schiavi                      233
       »     Villani                                            237
       »     Sinonimo di Rustici                                238
       »     Due maniere di villani                             242
       »     Domini di Maks                                     243
       »     Platee                                             245
       »     Doveri e diritti de’ villani                       246
       »     Borghesi                                           250
       »     Non soggetti alla _gezia_                          253
       »     Borghesi delle antiche schiatte                    256
       »     Prete Scholaro                                     257
       »     I Greci non hanno titoli di nobiltà                259
       »     Musulmani. _Kaid_, titolo di nobiltà,
               d’Ufficio o meramente onorifico                  260
       »     Origine di tutte queste condizioni                 267

  Capitolo X.

       »     Se il conte di Sicilia sia stato vassallo del
               duca di Puglia                                   271
       »     Costituzione politica                              274
       »     Ruggiero prende il titolo di Gran Conte e poi
               di Console                                       277
       »     Istituzioni municipali messe in forse dal
               Gregorio                                         278
       »     Memorie delle municipalità cristiane nella
               guerra normanna                                  280
       »     E sotto il principato. Arconti                     281
       »     Anziani                                            284
       »     Buoni Uomini                                       286
       »     Maestri de’ Borghesi                               289
       »     Municipalità diverse nella stessa città.
               Anche de’ Giudei. _Gema’_                        291
       »     Forma generale de’ comuni siciliani                292
       »     Franchige                                          296
       »     Municipii di Palermo e di Messina                  297
       »     Ricerche da farsi. Feudalità                       299
       »     Feudi ecclesiastici                                301
       »     Autorità di Ruggiero nella gerarchia               302
       »     Legazia apostolica                                 306
       »     Rifatte le diocesi dal principe                    ivi
       »     Circoscrizione territoriale politica.
               _Iklîm_                                          309
       »     Ufiziali del principe. _’Amil_, Stratego
               e Vicecomite                                     315
       »     Magistrati giudiziali                              318
       »     Entrate pubbliche                                  319
       »     Platee                                             320
       »     _Diwâni_                                           322
       »     _Defetarii_                                        324
       »     Rivendicazione de’ beni demaniali                  326
       »     Dazii e gabelle                                    327
       »     Colletta; diritto di marineria; tratta de’ grani   331
       »     Servigio militare e navale                         333
       »     Costituzione dell’armata                           335
       »     Avanzi d’incivilimento. Chiese e fortezze          338
       »     Strade militari                                    339
       »     Monete del conte Ruggiero                          342



Correzioni ed Aggiunte.


  Pag.  lin.

   12    3  n. 5. della stessa        dello stesso volume
                   opera
   25    »  n. 1. volume              volume. Contuttociò si vegga
                                      il De Meo, nell'_Apparato
                                      cronologico agli Annali del
                                      regno di Napoli_, Napoli,
                                      1785, pag. 385, segg. ed una
                                      nota posta ne' _Regii
                                      Neapolitani archivii
                                      Monumenta_, vol. IV, pag.
                                      VI, nella quale è citato un
                                      diploma del 1008.

   36    7  n. 2. potessero           potessero. Si riscontri presso
                                      Trinchera, _Syllabus graecorum
                                      membranarum_, etc., Napoli,
                                      1865, pag. 53, un diploma del
                                      1054, nel quale Argiro
                                      s'intitola: _Magister Vestis
                                      et dux Italiae, Calabriae,
                                      Siciliae, Paphlagoniae_,
                                      etc.

   48   27   n.   al principio        alla fine

   56   11        e del               del milledugentottantadue e del
              milledugentottantadue   milleottocensessanta.

   63    4   n. 5. aprile. Malaterra  aprile. Edrîsi, nella
                                      descrizione della Sicilia,
                                      _Bibl. arabo-sicula_,
                                      testo pag. 26, fa cominciare
                                      il conquisto nel 463
                                      dell'egira, cioè dal 26 gennaio
                                      1061 al 15 gennaio 1062.
                                      Malaterra

   75    5         discosta           discosto

  102    8   n. 2. dell'autore        del traduttore

   »    10     »   1603               1063

  133    2         tributo.           tributo annuale.

  136   25         s'addimandò fino   s'addimanda ancora
                   al 1860

  169    1   n. 1. vol. II, p. 139,   vol. II, pag. 139, 355, segg.
                   367                e 547

   »     2     »   vol. III, p. 80,   vol. III, pag. 80, 81, 158.
                   81

  173  9-10  n.    figliuolo o        nipote o bisnipote
                   nipote

  181    4   »     612.               618.

  206    8         Pacione. Dond'e'   Pacione, Mohammed-Ibn-Coco.
                                      Dond'e'

  219    3         Lentini e i nomi   Lentini e Ragusa, e i nomi

   »     2   n. 3. secolo.            secolo. Per Ragusa si vegga
                                      Amico, _Dizionario
                                      topografico_, sotto quel
                                      nome.

  220   12   n.    Firenze.           Firenze alle radici di Monte
                                      Morello ed un'altra presso
                                      Bagno a Ripoli. V'ha anco un
                                      _Paterno_ in provincia
                                      di Roma, presso Albano

  305    5         1093, alle quali   1093 e Malta nello stesso
                                      tempo, com'e' pare, alle quali



NOTE:


[1] Si vegga il Libro IV, cap. VI, pag. 311, del vol. II.

[2] _Chronicon Pisanum_, presso Muratori, _Rerum Italicarum
Scriptores_, tomo VI, p. 101, e _Breviarium pisanæ historiæ_ a p. 167;
e Marangone, nell’_Archivio Storico Italiano_, tomo VI, parte II, pag.
4, tutti nell’anno pisano 1005. Il _Breviarium_, compilato alla fine
del XIII secolo, aggiugne che i Saraceni avevano minacciato Roma, fatto
poco probabile, finto com’io credo per vantare i meriti dei Pisani appo
la corte papale e rincalzare la supposta concessione della Sardegna.
I compilatori pisani più moderni mano mano confusero la narrazione,
ponendo questo assalto lo stesso anno della battaglia di Reggio, e
proprio nell’assenza dell’armata; poi la scena si ravvivò con Mogêhid
(Musetto), con la Chinzica eroina, con le esortazioni del Papa, le
arringhe dei consoli pisani, i quali furono supposti con date, nomi e
cognomi ec. Si veggano cotesti romanzi nel Sardo, _Cronaca Pisana_;
e nel Roncioni, _Storie Pisane_, nell’_Archivio Storico Italiano_,
tomo VI, parte II, pag. 76, e parte I, pag. 49, 51, e si riscontri il
Muratori, _Annali d’Italia_, 1005, il quale con sana critica rigetta
tutti quegli episodii. Quanto all’origine arabica del nome _Chinzica_,
supposta dal Muratori, mi accordo col Wenrich che la mette in forse.
_Rerum ab Arabibus_ ec., lib. I, cap. XIII, § 115. In ogni modo quella
voce non ha che fare coll’avvenimento del 1004, poichè le carte pisane
innanzi il mille fanno menzione d’un quartiere di tal nome. Si vegga
l’avvertenza dei dotti editori del Roncioni, op. cit., pag. 63, nota 1.

[3] Quel che si sa della battaglia di Reggio è stato riferito da
noi nel Libro IV, cap. VII, pag. 341, del vol. II. La supposizione
della pia gesta dei Pisani è nata in questo modo. I Benedettini
della congregazione di Saint Maur pubblicarono tra le epistole di
Gerberto (_Recueil des Historiens des Gaules_, tomo X, pag. 426, nº.
CVII) una del 999, indirizzata non si sa a chi e molto oscura, nella
quale il Papa, lamentando Gerusalemme profanata dai Pagani, esorta lo
sconosciuto cristiano: «Enitere ergo, miles Christi, esto signifer et
compugnator, et quod armis nequis, consilii et opum auxilio subveni;»
nelle quali parole in vero si trova l’idea immatura d’una crociata e la
domanda di oblazioni per la santa impresa. I dotti editori aggiungono
in nota che i Pisani subito si messero in mare e andarono a combattere.
Si cita per questo, Muratori, _Rerum Italicarum Scriptores_, III,
400, ma in fondo non si trova altra fonte che un moderno panegirico
municipale dei più avventati, voglio dir le lunghissime note di
Costantino Gaietani alle vite dei papi di Pandolfo Pisano, pubblicate
a Roma il 1638, e ristampate dal Muratori nel detto volume. Torniamo
dunque al Tronci e peggio, e si spezza il legame tra l’epistola di
Gerberto del 999 e la battaglia di Reggio del 1005, si dilegua la
crociata, e resta ai Pisani la industria, la civil prudenza, e la virtù
di guerra navale.

[4] _Chronicon Pisanum_; e Marangone, II. cc., anno 1012.

[5] Ne’ Mss. d’Ibn-el-Athîr si legge erroneamente Abu-Hosein, per uno
scambio di lettere e punti diacritici molto facile ad avvenire nelle
copie. Abu-l-Geisc (Padre dell’esercito) significa il soldato per
antonomasia.

[6] Rumi. Così il chiama Marrekosci, _The history of the Almohades_,
testo arabico, pag. 52. Può significare schiavo greco o italiano, e, in
Spagna, uom delle schiatte sottomesse dai Musulmani.

[7] Almansor si chiamava Ibn-abi-Amir.

[8] Dhobbi, Ms. della Soc. Asiat. di Parigi e Ibn-Bassâm, Ms. della
Bibl. di Gotha, entrambi all’articolo _Mogêhid_. Debbo questi estratti
alla cortesia, l’uno del Prof. Dozy di Leyda, e l’altro del Dottor
Weil di Heidelberg. Ibn-el-Athîr dice che Mogêhid e il figliuolo Alì,
suo successore, furono entrambi «uomini di dottrina, amicissimi e
benefici verso i dotti, cui ricercavano nei paesi vicini e lontani.»
Marrekosci fa le stesse lodi del solo figlio. La voce ch’essi usano
(_’ilm_) è in generale, scienza, ma più specialmente il diritto con
sue vaste ramificazioni. Dell’articolo di Dhobbi ho data una versione
italiana nella _Nuova Antologia_ di Firenze, maggio 1866, vol. II, p.
61. Si vegga anco Ibn-Khaldûn, _Prolegomeni_, testo arabico, Parte II,
nelle _Notices et Extraits_, tomo XVIII, p. 389, e Makkari, _Analectes
de l’histoire de l’Espagne_, testo arabico stampato a Leyda, Vol. I,
p. 280, 523, 524 e vol. II, 117, 129, 415, 433, 511, 526, dove sono
narrati alcuni aneddoti, della generosità di Mogêhid verso illustri
filologi.

[9] Ibn-el-Athir, ediz. Tornberg, tomo IX, p. 205, anno 407, nel cenno
su i piccioli Stati che nacquero in Spagna. Ho data la traduzione
italiana nella _Nuova Antologia_ di Firenze, vol. II, p. 60,
maggio 1866. Uno squarcio del testo si legge nella mia _Biblioteca
Arabo-Sicula_, pag. 271. Questo Capitolo con poche varianti è
trascritto da Nowairi, Ms. di Parigi, A. F., 647, fog. 108 recto; il
quale chiama Mo’aiti Abu-Mohammed-Abd-Allah. Quanto ai principii della
signoria di Mogêhid a Denia, seguo piuttosto il racconto verosimile
dell’annalista musulmano, che quello del Conde, _Dominacion de los
Arabes en España_, cap. CIX, il quale del nome proprio Mogêhid, fece
un titolo _Mogêhid-ed-din_ “Guerrier della Fede:” ma ciò non si adatta
alle usanze di Spagna in quel tempo. Marrekosci, loc. cit., dà appena
il nome e pochissimi cenni di Mogêhid. Egli attribuisce al costui
figlio Alì, successore suo nel principato di Denia e Majorca, il titolo
di _Mowaffek_ “Favorito (da Dio)” che Ibn-el-Athîr, Dhobbi, Nowairi e
Conde danno a Mogêhid stesso, e ch’egli forse prese quando restò solo
signore, dopo la morte di Mo’aiti.

[10] Si vegga il Libro I, cap. VII, e X, nel vol. I, pag. 170, 175, 227
e il Libro III, cap. VIII, vol. II, pag. 180. Le scorrerie dell’816,
e 817, si ritraggono da Ibn-el-Athîr nella _Bibl. Arabo-Sicula_, pag.
221, 228, del testo. Entrambe mossero d’Affrica. Nella prima non pochi
Musulmani, dopo aver fatto preda, si perdettero per fortuna di mare.
Quegli andati alla seconda impresa «or vinsero, or furono vinti, e se
ne tornarono.»

[11] Così leggiamo in Edrisi, autore del XII secolo, nella _Biblioteca
Arabo-Sicula_, testo, pag. 20 e 21, e presso Di Gregorio, _Rerum
Arabic_., p. 112. Il passo relativo ai Sardi, ch’è mutilato nella
_Geographia Nubiensis_, seguita dal Di Gregorio, corre così: «Gli
abitatori della Sardegna sono di origine Rûm-Afarika, berberizzati,
nemici di ogni altro ramo della schiatta dei Rûm: uomini prodi e di
saldo proponimento che non lascian mai l’armi.» L’appellazione Rûm,
nota ai nostri lettori, qui significa evidentemente gente italiana.
Gli Afarika erano le popolazioni cristiane dell’Affrica, di schiatta
fenicia, come accennammo nel Libro I, cap. V, tomo I, pag. 105.
Berberizzati non può qui significar altro che misti coi Berberi; e
ci ricorda i notissimi _Barbaricini_ dei tempi di San Gregorio in
Sardegna.

[12] Ibn-el-Athîr sotto l’anno 92 (710-11) raccoglie la storia di
tutte le scorrerie dei Musulmani in Sardegna, in unico capitolo,
del quale io ho pubblicato il testo nella _Biblioteca Arabo-Sicula_.
Quivi si legge a pag. 217 «L’anno 135 (752-3) osteggiò quest’isola
Abd-er-Rahmân-ibn-Habib-ibn-abi-’Obeida-el-Fihri, il quale vi fe’
grande strage. Ma poi fermò pace con gli abitatori, a patto che
pagassero la gezia; la quale fu riscossa e durò. Nè altri dopo
Abd-er-Rahmân molestò quest’isola; talchè i Rûm ristorarono le cose di
quella.» Accennato poi alla scorreria del 935 e in ultimo all’impresa
di Mogêhid del 1016, avverte in fine: «nè fu mai più combattuta
la Sardegna (dai Musulmani) dopo questo tempo.» In questo capitolo
Ibn-el-Athîr dimentica le fazioni dell’816 e 817 ch’ei narra altrove
come si è accennato. La menzione che si fa dei Giudici di Sardegna
nell’865 (veggasi Muratori, _Dissertat. Antiq. Ital. medii ævi_, II,
p. 1077, Diss. XXXII) si attaglia, come dicemmo, alla testimonianza
d’Ibn-el-Athîr. Si vegga anco Manno, _Storia di Sardegna_, lib. VII,
pag. 333 e seg. dell’ediz. di Capolago, 1840, vol. I, e Wenrich, _Rerum
ab Arabibus_ etc., lib. I, cap. XIII, § 112, 113. Questi due diligenti
compilatori avrebbero smesso ogni dubbio, leggendo il citato capitolo
d’Ibn-el-Athîr.

[13] _Breviarum_, ec., presso Muratori, _Rerum Italicarum Scriptores_,
tomo VI, pag. 167, anno pisano 1002. Marangone nè l’altra cronica non
ne fanno menzione, e la data mal si accorda con quella, sì precisa,
degli autori arabi.

[14] Si riscontrino: Ibn-el-Athîr nei citati due capitoli del 92, e del
407, nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag. 218, e 271; Ibn-Khaldûn,
_Prolegomeni_, testo, nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag. 461, e
nelle _Notices et Extraits des MSS_., tomo XVII, parte I, pag. 36;
Makkari, _Mohammedan Dynasties in Spain_, versione inglese del prof.
Gayangos, tomo II, pag. 258; Conde, l. c.

[15] Si riscontrino: Ditmar, _Chronicon_, lib. VII, cap. 31, presso
Pertz; Scriptores, tomo III, pag. 830; Marangone, nell’_Archivio
Storico Italiano_, tomo VI, parte II, pag. 4; _Chronicon Pisanum_ e
_Breviarium_ presso Muratori, R. I. S., tomo VI, pag. 107, 167, sotto
l’anno pisano 1016; e il poema di Lorenzo Vernese, presso Muratori,
stesso volume, pag. 124, dove si accenna che Mugeto l’anno innanzi
la sconfitta finale (cioè 1016, del conto comune) s’era dato alla
fuga vedendo venire l’armata pisana. Le croniche pisane laconicamente
portano che i Pisani e Genovesi, fatta guerra in Sardegna con Mugeto,
il vinsero. Ditmar vescovo di Mersebourg, morto il 1018, scrisse in fin
della sua cronica in luogo che risponde al 1016, come i Saraceni venuti
con l’armata in Longobardia occupavano «Lunam civitatem;» cacciatone il
vescovo s’impadronivano delle case e mogli de’ terrazzani; come papa
Benedetto chiamava alle armi i rettori e difensori della Chiesa; come
il grande navilio ch’egli adunò stringeva i Saraceni nel porto. Il re
allor fugge in barchetta; i suoi assaliti da’ Cristiani, per tre dì
hanno l’avvantaggio; poi sono rotti e passati a fil di spade; presa
la regina e troncatole il capo, il papa vuol per sè la di lei corona
d’oro gemmato, e manda all’imperatore mille libbre d’oro per parte del
bottino. Ma il re saraceno facea dono al papa d’un sacco di castagne
minacciando di tornare con altrettanti uomini; Benedetto gli rimandava
il sacco pieno di miglio aggiungendo: tanti uomini e più troverai
vestiti di corazze per accoglierti. E il cronista, come scandalezzato
di così fatta risposta, conchiude: Iddio giudica gli uomini; e noi
preghiamolo che allontani tal flagello da quel paese, e gli accordi la
pace.

Or ognun vede che si tratti d’unico fatto, di cui Ditmar scrisse
le novelle che correano in Germania, cioè l’insulto degli Infedeli
sopra una città imperiale, e la vendetta che n’avean presa i sudditi
dell’imperatore; e i cronisti pisani notarono quel che loro premea,
cioè la vittoria del navilio italiano. E però il primo ristringe
il fatto a Luni; i secondi lo pongono in Sardegna; ai quali dobbiam
credere come meglio informati, ancorchè non contemporanei. Tanto più
che Ditmar, con quella fuga del re, prigionia della moglie, e data
del 1016, ci mostra aver confuso le fazioni di questo e del 1015,
come or or si vedrà nei racconto della fuga secondo gli autori arabi.
Da un’altra mano non si può supporre che Ditmar abbia sbagliato il
nome della città e provincia assalita. Dunque i Musulmani al tempo
dell’impresa di Sardegna fecero una scorreria a Luni, prima o dopo
la vittoria sopra Malôt, credo piuttosto prima che dopo; i Pisani e
Genovesi gli diedero una rotta navale nello stesso anno 1015 e un’altra
nella state del 1016.

[16] Marangone e le altre Croniche Pisane, dicono «homines Sardos vivos
in cruce murare.» Lo spiega Lorenzo Vernese, narrando che Mogêhid, nel
fabbricare una sua fortezza, adoperava i Sardi da manovali, e poi li
facea seppellir vivi dentro le mura.

[17] Marangone e _Croniche Pisane_. Dhobbi nella biografia citata
di sopra dice che Mogêhid “occupò la maggior parte della Sardegna ed
espugnò le fortezze.”

[18] Dhobbi, Conde.

[19] Conde e le _Croniche Pisane_.

[20] La data si ritrae da Ibn-el-Athîr, che nota Mogêhid _scacciato_
dalla Sardegna in su la fine del quattrocentosei (8 giugno 1016).
Lo stesso autore in altro luogo lo dice _combattuto e sconfitto_. Le
croniche Pisane accennan solo alla fuga, ma Lorenzo Vernese afferma:
«Rex fugisse (_fugæ sese_?) datur, multis jam marte peremptis; Barbarus
abscessit, capto cum coniuge nato»

[21] Dhobbi, loc. cit. e Conde, il quale lo copia inesattamente.

[22] Ibn-el-Athîr.

[23] Lorenzo Vernese, il quale aggiunge un lungo racconto sul riscatto
del figliuolo.

[24] Si riscontrino i due citati capitoli d’Ibn-el-Athîr, anni 92 e
407, nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag. 218 e 271; Dhobbi, l. c.
il quale narra alcuni particolari della sconfitta con le parole di un
testimonio oculare; Nowairi, _Storia di Spagna_, l. c.; Ibn-Khaldûn,
loc. cit., il quale dice che i Cristiani «ripigliarono _immantinenti_
la Sardegna;» Conde, _Dominacion_ ec., parte II, cap. 110; Marangone
nell’_Archivio Storico_, vol. cit., p. 4; e il _Chronicon Pisanum_, e
il _Breviarium_ ec. presso Muratori, _Rerum Ital_., tomo VI, pag. 107 e
167, sotto l’anno pisano 1017. Lorenzo Vernese, autore del XII secolo,
nel poema su la impresa di Majorca del 1114, presso Muratori, _Rer.
Ital_. S. VI, 124, racconta in versi la guerra di Sardegna come l’avea
intesa da’ vecchi della sua città, e s’accorda bene con gli annalisti
arabi. «Mugelus rex Baleæ et Dianæ» (Denia e le Baleari; gli altri
Pisani, anche Marangone, lo suppongono Africano) occupa la Sardegna.
Vengono i Pisani con l’armata ed egli fugge (probabilmente nelle parti
occidentali dell’isola). Torna l’anno appresso nel regno Calaritano con
suoi Mori e fabbrica una fortezza. Incrudelisce nei Cristiani. Assalito
dalle armi di Pisa, fugge di nuovo lasciando prigioni il figlio e la
moglie; e i principi dell’isola rimangon sudditi dei Pisani.

[25] Marangone,_ Chronicon Pisanum_, e _Breviarium_ ec., ll. cc.

[26] A tal concetto mi portano i pochi fatti che abbiamo della _Storia
di Sardegna_ nell’XI e XII secolo, i quali si leggono nel Manno, op.
cit., lib. VII. Lorenzo Vernese nel luogo citato del suo poema scrive:

    _Erepti Sardi jugulis, tutique fuerunt;_
    _Indeque tota manent Pisanis subdita regno._
    _Sardiniæ: docuere senet quæcumque retexo;_
    _Quæsitis Sardis, non hæc tibi vera negabunt._

Le quali parole, con le testimonianze non richieste che allega
il poeta, mostrano che nella prima metà del XII secolo i Pisani
non pretendeano per anco la piena signoria della Sardegna, ma un
protettorato con gli abusi che ne seguitano. D’altronde non si
comprenderebbe in qual altro modo avrebbero potuto signoreggiare in
Sardegna i nobili e mercatanti che non governavano per anco Pisa.
E si veggono molto più antichi della fuga di Mogêhid, i giudici che
Benvenuto da Imola, presso Muratori, _Antiq. Ital. Medii Ævi_, tomo
I, p. 1089, secondo le idee del XIV secolo, supponeva istituiti dai
Pisani. La concessione dell’isola per Benedetto VIII è invenzione del
XIII secolo, quando la corte di Roma avea dato lo scandalo di infeudare
a questo ed a quello la Sicilia e la Sardegna stessa; nè alcuno ha
prodotto mai il testo di quel privilegio; nè lo si allegò mai nelle
contese fra i Genovesi e i Pisani presso Federigo Barbarossa, le quali
si leggono distintamente nella continuazione di Caffari, anno 1164,
presso Muratori, _Rerum Italicarum Scriptores_, tomo VI, p. 294, 295.

È da avvertire che il Saint Marc, _Abrégé chronologique de l’histoire
d’Italie_, anni 1017 e 1021, tenendo per guida il Muratori, nega la
concessione papale e la dominazione pisana, senza particolareggiare gli
argomenti.

Il Manno (tomo I, p. 381, dell’edizione di Capolago) non osa troncare
la difficoltà nè rigettare apertamente la narrazione riferita dal
Gaietani nelle annotazioni alle vite dei Papi (Muratori, _Rerum
Italicarum Scriptores_, tomo III, p. 401); il quale, nel 1638,
affermava averla tolto da Lorenzo Bonincontro da San Miniato che
scrisse, dice egli, _più di dugent’anni addietro_. Bonincontro o
Gaietani, dava con nomi e cognomi, la divisione della Sardegna tra
Pisani, Genovesi e _Spagnuoli_ dopo la sconfitta e prigionia di
Musetto. Basterebbe la menzione delli Spagnuoli, per dimostrarla
fattura del XV secolo.

[27] Caffari, _Annales Januenses_; e continuazione presso Muratori,
_Rerum Italicarum Scriptores_, tomo VI, anni 1162 e 1164; Marangone
nell’_Archivio Storico Italiano_, tomo VI, Parte II, p. 38, anno 1165.
Su le guerre tra quelle due città si vegga Marangone, op. cit., p.
8 e segg., fin dal 1119 (1118). Si vegga anche il Manno, _Storia di
Sardegna_, lib. VII.

[28] Cotesta falsa tradizione nacque nel XIII secolo, trovandosi nel
_Breviarium_ ec., presso Muratori, _Rerum Italicarum Scriptores_, tomo
VI, p. 167, anni 1017, 1020, 1050, non già nelle due croniche del XII
secolo, cioè l’anonima del Muratori e quella di Marangone. I Genovesi
a lor volta nella lite del 1164 affermavano audacemente dinanzi il
Barbarossa che i lor maggiori avessero preso il Muzaito e il vescovo di
Genova lo avesse mandato all’imperatore.

[29] Ibn-el-Athîr, capitolo dell’anno 92, nella _Biblioteca
Arabo-Sicula_, testo, p. 218. Ibn-Khaldûn riferisce altre scorrerie
degli Ziriti d’Affrica nel regno di Iehia-ibn-Temîm (1108 a 1116),
_Biblioteca Arabo-Sicula_, testo, p. 482, e _Histoire des Berbères_,
versione di M. de Slane, tomo II, p. 25.

[30] Ibn-el-Athîr, ediz. Tornberg, tomo IX, p. 205, anno 407.

[31] Ademari Cabanensis _Chr._, nel _Rec. des Hist. des Gaules_, X, 156.

[32] Gayangos, _The Moham. dynasties in Spain_, tomo II, p. LXXXVIII.
Dozy, _Hist. des Musulmans d’Espagne_, tomo IV, p. 290, 304, Cf. p. 21
della stessa opera e Dozy medesimo, _Recherches_, 2ª ediz. I, 245.

[33] Così nell’impresa del 1035 che si ritrae da Rodolfo Glabro e che
or si narrerà. Si è veduto che i Genovesi nel 1164 davano lo stesso
vanto ai lor maggiori. Le supposte imprese del 1019 e 1049 nella
compilazione pisana del XIII secolo provano che durasse la terribile
leggenda di Mogêhid. È da notare che, all’infuori del poeta Lorenzo
Vernese, tutti supponeano Mugeto re d’Affrica. Quest’errore è durato
fino al Manno. Il Wernich, _Rerum ab Arabibus in Italia_ ec., lib.
I, cap. XIII, § 113 a 119, rattoppa col supposto che Mogêhid fosse
il principale dei regoli musulmani di Sardegna e che avesse chiesto
aiuti in Affrica. Del resto ei segue la tradizione pisana; se non
che riconosce l’identità del fatto di Luni e della prima vittoria dei
Pisani e Genovesi.

[34] Si vegga il Libro IV, cap. VIII, pag. 364 del vol. II.

[35] Marangone, nell’_Archivio Storico Italiano_, vol. cit., p. 5,
anno pisano 1035; _Chronicon Pisanum_, stesso anno, presso Muratori,
_Rerum Italicarum Scriptores_, tomo VI, p. 108. Il _Breviarium_, nello
stesso volume del Muratori, p. 167, finge la occupazione di Cartagine
e le corone dei due re, di Bona e Cartagine, mandate in dono dai Pisani
all’imperatore.

[36] Rodolfo Glabro, _Historiarum_, lib. I, cap. VII, nel _Recueil
des Historiens des Gaules_ ec., tomo X, p. 52, narra che i Saraceni
d’Affrica perseguitavano i Cristiani per terra e per mare; che entrambi
si accordarono di combattere giuste battaglie; che i Cristiani vinsero
con grande strage, dicendosi anche ucciso il principe saraceno Motget;
e che ragunate le preziose armadure nemiche del prezzo di parecchi
_talenti d’argento_, le dettero per voto a Odilone abate di Cluny,
il quale investì il valsente in arredi sacri e limosine. Rodolfo era
contemporaneo e famigliare degli abati di Cluny; ma testa bislacca e
gran contatore di favole. L’offerta votiva al monastero mi fece pensare
dapprima a un’impresa di Provenzali, ma fattone parola al savio autore
delle _Invasions des Sarrazins en France_, mi ha convinto che questa
fazione, di certo navale, non potè compiersi se non che da armate
italiane. Però suppongo il voto di qualche ausiliare provenzale ed una
delle solite esagerazioni di Rodolfo Glabro. Si tratta probabilmente
dell’assalto di Bona, e vi risponde la data, poichè Rodolfo non
osservando l’ordine cronologico, pone questo fatto tra la morte di
Roberto duca di Normandia (22 luglio 1035) e la ecclissi solare del
29 giugno 1033. Nelle _Invasions des Sarrazins en France_, p. 221, il
dotto autore, M. Reinaud, accettò che Mogêhid fosse il condottiero
dell’armata vinta; ma so ch’egli sarà per considerare il fatto
altrimenti sulla nuova edizione che apparecchia.

[37] Par che la prima denominazione indicasse particolarmente gli
uomini di Norvegia, e la seconda quei di Danimarca. Ma spesso si
confondeano gli uni con gli altri. Come ognun sa, in Francia si
chiamarono Normanni, e in Inghilterra Dani, tutti gli occupatori
scandinavi.

[38] Questa impresa intessuta di moltissime favole si legge in Dudone
di Saint Quentin, _De Moribus Normannorum_, cap. I, presso Duchesne,
_Historiæ Normannorum Scriptores_, p. 64, 65; Guglielmo di Jumièges,
_Historia Normandiæ_, lib. I, cap. X, XI, ib., p. 220, 221; Benoit,
_Chroniques des ducs de Normandie_, in versi francesi, tomo I, p. 47
a 69; Wace, _Roman du Rou_, versi 472 a 732. Si vegga anche Muratori,
_Antiquitates Ital. Medii Ævi_, tomo I, p. 25, e si riscontri la
critica del fatto in Depping, _Histoire des Expéditions maritimes des
Normands_, edizione del 1843, p. 140, segg.

[39] Non occorrendo citazioni distinte dei luoghi d’opere moderne dai
quali ho cavati i primordii dei Normanni, indicherò quelle che mi sono
riuscite più utili. Nel sentimento storico ho avuto a sicura guida la
_Conquête de l’Angleterre par les Normands_, di Augustin Thierry, alla
cui memoria debbo d’altronde amore, riverenza e gratitudine. Le minuzie
dei fatti sono fornite in abbondanza dalla citata opera di Depping;
e molte critiche avvertenze si rinvengono in Lappenberg, _A history
of England under the Norman kings_, versione inglese con aggiunte del
traduttore Benjamin Thorpe. Importanti e novelli fatti su la società
primitiva degli Scandinavi si ritraggono dalla prefazione di Samuele
Laing alla _Heimskringla_ di Snorro Sturleson, versione inglese.

[40] Gli storici francesi pongono vagamente la data tra l’896 e
l’898, non trovandola precisa nei cronisti, e dovendo tenere questa
occupazione come diversa da quella che i cronisti riferiscono al
17 novembre 876, cioè avanti l’assedio di Parigi. Si riscontrino le
opere citate di Depping, lib. III, cap. III; di Thierry, lib. II; e di
Lappenberg, versione inglese, p. 7, segg. I cronisti normanni in prosa
e in versi confusero le tradizioni, volendo dare a Roll, nello assedio
di Parigi e nella prima occupazione di Rouen, la parte principale che
di certo non v’ebbe.

[41] Al messaggero di Carlo il Semplice, che innanzi la battaglia
dell’898 domandava il capo loro, i Normanni risposero: «Non n’abbiamo;
siam tutti eguali».

[42] _Hrôlfr_, con le mutazioni eufoniche di Rolf, Roll, Rou.

[43] Rispondeva, secondo Depping, all’odierno dipartimento della Bassa
Senna e parte di quello dell’Eure.

[44] Wace, _Roman du Rou_, passim. I Francesi vendicavansi con un
_calembourg_, più antico al certo del XII secolo quando visse l’autore:
_Francheis dient ke Normandie Ço est la gent de North mendie_, versi
119, 120.

[45] Si vegga il Libro IV della presente Storia, cap. X, p. 580 del
secondo volume.

[46] Wace, op. cit., verso 2108, accenna le tradizioni ritmiche, le
quali in sua fanciullezza avea inteso cantare a’ giullari (_jugléors_,
oggi _jongleurs_).

[47] _Dudonis super Congregationem Sancti Quintini decani, De Moribus
Normannorum_, presso Duchesne, _Historiæ Normannorum Scriptores_, p.
56 a 59. Si vegga la critica di Lappenberg, _A history of England under
the Norman Kings_, versione del Thorpe, p. XX.

[48] Guglielmo di Jumièges (_Wilelmus Gemmeticensis_), detto _Calculus_
(1137); Odorico Vitalis (1141); Wace di Jersey, _Roman du Rou_ (1184),
e molti altri che si veggano in Lappenberg, op. cit., p. XXI a XXVIII.

[49] _L’Ystoire de li Normant et la Chronique de Robert Viscard par
Aimé moine du Mont-Cassin_, pubblicata da M. Champollion-Figeac, Paris,
1835. L’editore con molta sagacità ha provato irrefragabilmente il
nome e nazionalità dell’autore e la data dell’opera. _Prolégomènes_,
p. XXXIII, segg. M. Gauttier d’Arc aveva usato fino dal 1830 un MS.
imperfetto di Amato nella _Histoire des Conquêtes des Normands en
Italie_ ec.

[50] Le interpolazioni che non cadono in dubbio furon messe tra
parentesi dal dotto editore. Se ne può supporre delle altre, come
parmi; ed anche qua e là qualche taglio, per esempio nell’infelice
fine di Dato, lib. I, cap. XXV. Nella Cronica di Roberto Guiscardo,
della quale abbiamo il testo latino, il traduttore frantende alcune
frasi, fin dai primi righi, dove leggendo d’una dama _nec minus facie
quam vitæ integritate formosa_, squadernò: _belle de face et de touts
membres entière_. Similmente parmi che nella battaglia di Canne del
1019 Amato abbia messo il nome del luogo, là dove il traduttore scrive:
_et sont veues les lances estroites come les canes sont en lo lieu où
il croissent_.

[51] Urbano secondo, francese, fu papa dal 1088 al 1099; Ruggiero,
figlio di Roberto Guiscardo, regnò in Puglia dal 1085 al 1111.

[52] L’incontro fortuito di Melo e dei Normanni al Monte Gargano mi
pare episodio classico posto a capo del poema. I fendenti di Roberto
Guiscardo alla battaglia di Civitella, vengono a dirittura dalla Tavola
Rotonda. Lo stratagemma di Roberto, infintosi morto e messosi nella
bara per occupare un castello in Calabria del quale non si dà il nome,
è copia della fazione di Hastings a Luni, favola scandinava ripetuta
da Dadone di San Quintino alla fine del X secolo (presso Duchesne,
op. cit., p. 64, 65) e replicata nella saga di Aroldo il Severo, come
accennammo nel Libro IV, cap. X, p. 385, 386 del secondo volume.

[53] Tiraboschi, _Storia della Letteratura Italiana_, lib. IV, cap.
III, § 8, si voltò con gran collera contro i Benedettini di Saint-Maur,
i quali nella _Histoire Littéraire de la France_, tomo VIII, p. 488,
ci rapivano questo Guglielmo di Puglia. Il signor Ruggiero Wilmans,
tedesco, fa opera a rendercelo per varie ragioni accennate nella
prefazione alla detta cronaca presso Pertz, _Scriptores_, tomo IX, p.
239, e più largamente discorse nell’_Archivio Storico di Pertz_, tomo
X, p. 93, segg. Contuttociò Guglielmo, al nome ed alla parzialità sua
contro i Longobardi, i Greci e gli abitatori della Puglia, mi sembra
chierico venuto di Francia o nato in Italia in casa francese. Quel che
parrebbe in bocca sua biasimo de’ Normanni, si trova a tanti doppii nel
francese Malaterra, e suonava lode a usanza loro.

[54] Il Malaterra, lib. I, cap. XXV, nota che in Calabria una volta il
conte Ruggiero con quaranta suoi fedeli masnadieri _plurimum penuriarum
passus est, sed latrocinio armigerorum suorum in multis sustentabatur;
quod quidem ad ejus ignominiam non dicimus, sed ipso ita præcipiente,
adhuc viliora et reprehensibiliora de ipso scripturi sumus, ut pluribus
patescat quam laboriose et cum quanta angustia a profunda paupertate
ad summum culmen divitiarum vel honoris attingerit_. In fondo dunque il
vecchio conte Ruggiero se ne vantava.

[55] Questa è la cronica che il Caruso pubblicò nella _Bibliotheca
Sicula_, p. 827, segg., col titolo di _Anonymi Historia Sicula_; indi
il Muratori, _Rerum Italicarum Scriptores_, tomo VIII, p. 740, segg.,
col titolo di _Anonymi Vaticani Historia Sicula_. La versione in antico
francese che se ne trovava nello stesso MS. di Amato, è stata data alla
luce da M. Champollion, op. cit., col titolo di _Chronique de Robert
Viscard_. Non si può affatto assentire al dotto editor francese che
l’autore sia Amato stesso. Se ne dee togliere in vero, come notava
M. Champollion, tutta la parte che corre dal 1101 al 1283. Ma ciò
che precede è compilazione scritta verso il 1146, come lo mostran le
parole (presso Caruso, p. 856) _Huic successit ille hominum maximus....
Rogerius.... rex Siciliæ, Tripolis Africæ_.... le cui lodi l’autore,
com’ei dice, non osava intraprendere. La continuazione comincia
immediatamente dopo questo passo con le parole: _Post mortem comitis
Rogerii, prout confitetur in chronica, successit Rogerius_ ec.

Pongo la data del 1146, poichè vi si accenna il conquisto di Tripoli,
non quel di Mehdia e di tutta la costiera che seguì il 1149.
La diversità degli autori ch’io sostengo, è provata anche dalla
incompatibilità di alcuni racconti, per esempio la diserzione di
Ardoino, il tempo in cui Guglielmo Braccio di Ferro ebbe il comando di
tutta la banda a Melfi ec.

[56] Si vegga il Libro IV, cap. VII, p. 343, segg., del secondo volume.

[57] Tale Gilberto Drengot, o Buatère, coi fratelli Rainolfo, Rodolfo,
Anquetil ed Ormondo, su i quali si veggano: Amato, op. cit., lib. I,
cap. XX; Rodolfo Glabro, _Historiarum_, lib. III, cap. I, nel _Recueil
des Historiens de la Gaule_, tomo X, p. 25; e Guglielmo di Jumièges,
lib. VII, cap. 30, presso Duchesne, _Historiæ Normannorum Scriptores_,
p. 284. Gilberto aveva ucciso un Guglielmo Repostel che si vantava
d’avergli sedotta una figliuola. I nomi son dati diversamente dai tre
cronisti. Debbo avvertire che Amato qui dice regnante il duca Roberto
di Normandia, onde il fatto andrebbe posposto al decennio 1026-35. Ma è
da supporre sbagliato il nome anzichè il tempo.

[58] Si vegga il Libro IV, cap. VII, p. 340 e 342 del secondo volume.

[59] Secondo il biografo di Arrigo II, _Acta Sanctorum_, 14 luglio,
p. 760, l’imperatore elesse Melo duca di Puglia, il quale morì a
Bamberg. Lupo Protospatario, anno 1020, fa ricordo di Melo col titolo
di duca di Puglia, che probabilmente gli era stato dato dai popoli o
da’ suoi partigiani in Italia. Il monaco Ademaro della nobile casa di
Chabanois, nella cronaca terminata verso il 1029, scrive che al tempo
di Riccardo II duca di Normandia un Rodolfo con molti altri Normanni
andavano armati a Roma, e, connivente papa Benedetto, assaltavano e
guastavan la Puglia, vincean tre battaglie; poi sconfitti dai Russi e
altri soldati dell’impero bizantino, molti n’erano condotti prigioni a
Costantinopoli; e che per tre anni i Bizantini, per rancore o sospetto
de’ Normanni, vietarono ai pellegrini occidentali il passaggio di
Gerusalemme, senza dubbio per l’Italia meridionale. Nel _Recueil
des Historiens des Gaules_, ec., tomo X, p. 156, Rodolfo Glabro, che
scrisse verso il 1044, narra le prime imprese dei Normanni in Italia
in questo modo: che il guerriero Rodolfo perseguitato da Riccardo
di Normandia, andava a Roma; si appresentava a papa Benedetto; era
confortato da lui a combattere i Greci nell’Italia meridionale;
cominciava gli assalti; era rinforzato di innumerevoli Normanni
vegnenti alla spicciolata con piacere del conte Riccardo; guadagnava
due battaglie; ma dopo la terza, vedendo scemati i suoi, andava a
chiedere aiuti all’imperatore ch’indi passò in Italia (1022). Dunque
in Francia, una ventina d’anni dopo, si attribuiva al papa l’origine
di questa guerra. Si vegga la storia di Glabro, lib. III, cap. I,
nel _Recueil des Historiens des Gaules_ ec., tomo X, p. 25, 26. Il
guerriero Rodolfo è un de’ fratelli di Gilberto, di cui dicono Amato e
Leone d’Ostia.

[60] I cronisti non dicono espressamente di due fazioni a Bari, se non
che nella guerra del 1051 e nell’assedio del 1071, quando l’occuparono
i Normanni. Ma i casi di Melo, seguito dai Baresi, poi abbandonato,
costretto a fuggire, e la moglie e il figliuolo di lui mandati dai
cittadini a Costantinopoli, mostrano incominciate fin dal principio del
secolo quelle fazioni che pur erano inevitabili. La plebe doveva essere
amica dei Bizantini, e i nobili nemici.

[61] Amato, lib. I, cap. XX, e Leone d’Ostia che lo copia, lib. II,
cap. 37, dicono con molta brevità che i Normanni, invitati già a venire
in Italia dal principe di Salerno, incontraron Melo a Capua, e che
_les coses necessaires de mengier el de boire lor furent données, de li
seignor et bone gent de Ytalie_. Il velo è molto trasparente. Guglielmo
di Puglia, sia per render omaggio alle Muse, sia perchè la corte di
Guiscardo dopo la iniqua occupazione di Salerno non amava a sentirsi
ripetere che i principi di Salerno avessero chiamato i primi Normanni,
esordisce dall’incontro fortuito dei pellegrini al santuario di Monte
Gargano con uno straniero vestito di strane fogge, il quale scopre sè
esser Melo, e agevolmente li persuade a far venire lor compatriotti
ai suoi stipendii. Questo par di tutto punto un episodio poetico,
contrario alla tradizione di Amato.

[62] Leon d’Ostia, lib. II, cap. 37.

[63] Si riscontrino: Amato, lib. I, cap. XXI, segg.; Guglielmo
di Puglia, lib. I; Lupo Protospatario, anni 1017 a 1019; _Annales
Beneventani_, 1017, presso Pertz, _Scriptores_, tomo III, p. 178; Leone
d’Ostia, lib,. II, cap. 37, 38. I cronisti non si accordano sul numero
delle battaglie vinte dai Normanni, e Amato solo narra la seconda
sconfitta. Il traduttore di Amato, non comprendendo bene il testo, nel
cap. XXII, suppone che tremila Normanni fossero venuti di Salerno dopo
la battaglia di Canne; ma parmi inverosimile, e da correggersi come ho
fatto.

[64] Si riscontrino: Amato, lib. I, cap. XXIV, segg., e lib. II, cap.
I a VII; Guglielmo di Puglia, lib. I; Lupo Protospatario, anno 1021,
segg. Il Malaterra, tacendo le imprese dei Normanni prima della venuta
di Guglielmo di Hauteville, spiega pur molto precisamente nel lib. I,
cap. VI, l’indole delle compagnie normanne innanzi il 1040.

[65] Dopo la battaglia di Canne (1019) scrive Amato: _Et de li Normant
non remainstrent se non cinc cent et vj grant home de li Normant
remainstrent, de liquel ij remainstrent avec Athenulfe_ ec., lib.
I, cap. XXII. L’Imperatore Arrigo I, nel 1022, avea lasciato in un
castello dei nipoti di Melo ventiquattro cavalieri normanni capitanati
da un Trostaino. Amato, lib. I, cap. XXIX e XXXII. Nel 1040 i 300
Normanni venuti d’Aversa in aiuto d’Ardoino, ubbidivano come innanzi
diremo a dodici condottieri uguali tra loro. Dunque nel primo caso una
compagnia somma ad 80 cavalli, e nei due secondi a 25.

[66] Libro IV, cap. X, p. 380 e 389, segg., del secondo volume.

[67] Si ricordino le fazioni di Rayca accennate da noi nel Libro IV,
cap. VII, p. 345 del secondo volume.

[68] Si veggano gli _Annali di Bari_, e Lupo Protospatario, anni 1039,
1040 e 1041, in Pertz, _Scriptores_, tomo V, p. 56, 57.

[69] _Et vous i habitez comme la sorice qui est en lo pertus.... que
sachiez que je vous menerai à homes feminines, c’est à homes comme
fames, liquel demorent en moult riche et espaciouse terre._ Amato, lib.
II, cap. XVII, p. 43.

              _Cum terra sit utilitatis,_
    _Fœmineis Græcis cur permittatur haberi?_
                                  Guglielmo di Puglia, lib. I.

[70] Amato: _Et estut li conte_ (il conte) _xij pare à liquel_ ec.
Cap. XVIII, p. 43. Guglielmo di Puglia... _comitatus nomen honoris Quo
donantur erat_.

[71] Amato, lib. II, cap. XIX, p. 44.

[72] _Et quant il oïrent ensi parler Arduyne, se consentirent à lui
et font sacrement de fidelité de chascune part de paiz_ se la terre
non avoit autre seignor que ou à cui face tribut se clame tributaire.
_Et en ceste regne se clame terre de demainne et se a autre seignorie
se clame colonie come sont en ceste regne la terre qui a autre
seignorie. Et sanz lo roy estoit seignor Arduyne et en celle part se
clament colone._ Amato, lib. II, cap. XIX, p. 44, 45. Il passo che ho
notato in caratteri tondi è guasto al certo, e ciò che segue è nota
interpolata dal traduttore, spiegando a suo modo il diritto pubblico
napoletano del XIII secolo; poichè Amato non potea scrivere nell’XI le
voci regno e re. Leone d’Ostia tralascia questo importantissimo fatto,
e però non possiamo ristabilire il testo d’Amato. Ma il significato
necessariamente è che i Melfitani non ubbidissero a feudatario e non
prestassero servigi feudali, nè pagassero tributo se non che allo
stato: il che dopo il conquisto normanno si chiamò in Sicilia e in
Puglia: stare in demanio.

[73] Gli avvenimenti che ristringo in questo paragrafo, dal ritorno
di Ardoino in terraferma sino all’occupazione di Melfi, son tratti
da Amato, lib. II, cap. XIV, segg.; Guglielmo di Puglia, lib. I,
_Aversam subito venit Hardoinus_; Malaterra, lib. I, cap. VIII; Leone
d’Ostia, lib. II, cap. LXVI; Cedreno, tomo II, p. 545 della edizione
di Bonn; Annali (ossia anonimo) di Bari e Lupo Protospatario, anni
1040, 1041. Oltre le discrepanze di minor momento, se ne scorge una che
occorre di notare. Amato, seguendolo Leone d’Ostia, dice che Ardoino
dopo l’ingiuria di Maniace rimase al servigio bizantino, suscitò
occultamente i Pugliesi, e andò ad Aversa pretestando un viaggio di
devozione a Roma. Guglielmo di Puglia lo fa insultare e rivoltare a
Reggio, e correr di lì dritto ad Aversa. Malaterra, con poco divario,
reca l’ingiuria in Sicilia, l’aperta ribellione appena ripassato il
Faro, e non parla punto degli aiuti d’Aversa. Nelle due tradizioni
dunque, la prima d’Amato e Leone, la seconda di Guglielmo e Malaterra,
si dà essenzialmente diverso il modo e tempo dell’ammutinamento di
Ardoino con la banda normanna. Or covaron essi l’onta parecchi giorni,
o parecchi mesi? Chiarironsi disertori nel novembre 1040 in Calabria,
ovvero nei principii del 1041 a Melfi? Guglielmo di Puglia fin dà il
numero di cinquanta soldati uccisi dai Normanni alla schiera bizantina
mandata a inseguirli, quando lasciarono il campo a Reggio. Amato,
all’incontro, particolareggia la dissimulazione di Ardoino: com’ei
corruppe Doceano con molt’oro; come fu preposto al governo di parecchie
terre in Puglia; come incominciò ad accarezzare e convitare i maggiori
cittadini, a compiangere gli aggravii della dominazione greca, a
promettere che farebbe opera a liberarli; come infine tolse commiato,
sotto specie d’andare alle perdonanze a Roma, e andò ad Aversa.

Or dovendosi necessariamente tacciare di bugia l’una o l’altra
tradizione, ammettendo anche la sincerità di chi la scrivea, le
condizioni dei due cronisti e l’indole di loro opere accusano
Guglielmo, anzi che Amato. Del Malaterra non parlo, il quale in questo
periodo ripeteva un romanzo di casa Hauteville, tacea gli aiuti di
Aversa, facea capitano dei Normanni Guglielmo Braccio di Ferro, che
lo fu tre anni dopo. Quella fuga inoltre con le armi alla mano dal
centro della Sicilia secondo Malaterra, e da Reggio secondo Guglielmo
di Puglia, infino a Melfi, è molto men credibile che la prolungata
simulazione dei Normanni e che il favor di Doceano ad Ardoino, non
disertore ma guerriero ingiuriato ingiustamente da Maniace. Infine il
fatto riferito da Lupo e dagli _Annali Baresi_, che Doceano tornava di
Sicilia di novembre 1040 per domare i sollevati di Puglia, dà luogo al
supposto che i Normanni passassero con le forze di Doceano e fossero
da lui posti a presidio in qualche terra non lontana da Melfi. Qual
maraviglia che a capo di cinquanta o sessant’anni questo cambiamento di
guarnigione, com’or diremmo, si raffazzonò nelle brigate dei principi e
nobili normanni alla foggia che ci rappresentano Guglielmo di Puglia, e
Malaterra, esagerando il valore ed attenuando la perfidia della passata
generazione?

Pertanto mi appiglio alla tradizione d’Amato e cancello quel che
scrissi in contrario nel Libro IV, cap. X, p. 389 del secondo volume,
seguendo Guglielmo e Malaterra e tutti gli istorici moderni che loro
credettero, i quali non aveano sotto gli occhi Amato. Che se altri
mi tacci di leggerezza per questo, mi spiacerà meno del ricusar
testimonianza al vero una volta ch’io ne sia convinto.

[74] Gli _Annali di Bari_ col privilegio del «si dice» fanno
montare i Greci a 18,000 e portano poco più di 2000 i Normanni; Lupo
Protospatario li dice 3000. Senza esitare accetto cotesti numeri
anzichè quelli dei due cronisti normanni, cioè Guglielmo di Puglia
che dà 700 cavalli e 500 fanti, e Malaterra che dice tondo 500 militi
da una parte e 60,000 Greci dall’altra. Al par che nelle guerre di
Sicilia, convien dividere per sei la cifra dell’esercito nemico, e
moltiplicare per sei quella del Normanno, quando si legga il Malaterra.

Quanto alla data, la più parte degli storici, annalisti, compilatori
ed eruditi editori, non esclusi il Muratori e il De Meo, han messo
l’occupazione di Melfi e la prima battaglia nel 1040. Il riscontro con
fatti vicini e di data certa nella storia bizantina, ci mostra che
si debba seguire piuttosto gli _Annali di Bari_ e il Protospatario,
i quali scrivono 1041. Leone d’Ostia ne fa anche espresso attestato,
dicendo occupata Melfi anno _Dominicæ Nativitatis MLXI, quo videlicet
anno dies paschalis Sabbati ipso die festivitatis Sancti Benedicti_ (21
marzo) _venit_: e in vero la Pasqua cadde il 22 marzo nel 1041, non già
nel 1040. Il _Chronicon Breve Northmannicum_, presso Muratori, _Rerum
Italicarum Scriptores_, tomo V, p. 871, porta anche nel 1041 la prima
occupazione della Puglia pei Normanni _capitanati da Ardoino_, e in
marzo e maggio 1042 (dalla Incarnazione, ossia 1041 del conto comune)
le due prime vittorie sopra i Greci.

[75] Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXI, segg.; Guglielmo di
Puglia, lib. I, _Audito reditu Michælis_, sino alla fine del Libro;
Malaterra, cap. IX, X; Lupo Protospatario, ed _Annali di Bari_,
anni 1041, 1042; Leone d’Ostia, lib. II, cap. LXVI. L’ordine degli
avvenimenti è uguale in tutti; le date si trovan solo in Lupo e
negli _Annali di Bari_. Contandosi da Lupo gli anni dell’èra volgare,
talvolta al modo salernitano dal 25 dicembre (Vedi Pertz, _Scriptores_,
tomo V, p. 51), ma più sovente col periodo costantinopolitano, cioè
dal 1º settembre dell’anno precedente, il settembre 1042 risponde al
nostro settembre 1041, e così fino a decembre. Che in questa epoca
Lupo segua tal cronologia lo provano le esaltazioni degli imperatori
di Costantinopoli, le quali noi possiamo riscontrare con le date di
Cedreno e degli altri Bizantini.

[76]

    _Pro numero comitum bit sex statuere plateas,_
    _Atque domus comitum totidem fabricantur in urbe._
                               Guglielmo di Puglia, Lib. I.

[77] Cedreno dice espressamente: Italiani delle province tra il Po e
le Alpi; Amato: _Et li Normant d’autre part non cessoient de querre li
confin de principal pour home fort et soffisant de combatre_ ec. Lib.
II, cap. XXIII, p. 50.

[78] Amato, ricordata l’occupazione di Melfi nel lib. II, cap. XIX,
narra nel cap. XXX il partaggio dei conquisti al conte d’Aversa
e dodici altri capi normanni dei quali dà i nomi ed i territorii
assegnati a ciascuno, aggiugnendo: _et_ (à) _Arduyne secont lo
sacrement donnerent sa part c’est la moitié de toutes choses si come
fa la covenance_; il qual fatto torna al 1043. Leone d’Ostia copia
Amato nel lib. II, cap. 67, con le parole: _Arduino autem juxta quod
sibi juraverant parte sua contradita_. I nomi dei dodici oltre il conte
d’Aversa son tutti normanni. I territorii assegnati son quasi tutte
città vescovili in un triangolo curvilineo dal Gargano a Frigento e di
lì a Monopoli, nel quale spazio rimane in vero un’altra metà di luoghi
importanti da potersi supporre assegnati ad Ardoino se si conoscesse
che i Normanni li aveano occupati in quel tempo.

Ma l’illustre capo non è nominato da nessun altro cronista dopo il
patto di Melfi; non da Amato nè da Leone dopo quel partaggio, nè alcuno
dice che gli altri territorii di Puglia, caduti poi tutti in potere dei
Normanni, fossero stati tolti sia ad Ardoino sia a feudatarii italiani
della sua compagnia. Il modo più plausibile di spiegar cotesto silenzio
mi par di supporre la immatura morte di Ardoino e la incorporazione de’
suoi nelle compagnie normanne. Guglielmo Braccio di Ferro che veniva
di Sicilia con Ardoino, è il primo dei dodici nominati nel partaggio, e
nello stesso anno fu creato conte di Puglia, come or si vedrà.

[79] Guglielmo di Puglia, Lib. I, appone questa scelta d’uno straniero
a corruzione e invidia dei Normanni: _Sed quia terrigenis, terreni
semper honores, Invidiam pariunt_ ec.; ma Amato, italiano ancorchè
monaco, dice: _Et à ce qu’il donassent ferme cuer à li colone de la
terre lo prince de Bonivent_ ec.

[80] Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXVII; Guglielmo di Puglia,
lib. I, _Nam reliqui Galli_ ec.; Lupo Protospatario anno 1042. Secondo
Guglielmo, vi fu un principio di divisione tra i Normanni dopo la
deposizione di Atenolfo, volendo alcuni ubbidire a Guaimario principe
di Salerno, ed altri ad Argiro. Ei narra la esaltazione di Argiro
in Bari, richiesto dal popolo, ricusante questa dignità innanzi i
primarii cittadini che avea convocati nella chiesa di Sant’Apollinare,
sforzato dal comun voto ed eletto principe. Sembra che il poeta voglia
descrivere in qual modo fosse stato fatto duca di Puglia il cittadino
al quale i Normanni aggiunsero l’autorità di capo o protettore di lor
banda. Ad una elezione simultanea e comune dei Baresi e dei Normanni,
ci sarebbero gravi difficoltà.

Lupo scrive: _et mense februarii factus est Argyrus Barensis princeps
et dux Italiæ_; ma non dice da chi. Il certo è che Bari in questo tempo
era ribelle, nè tornò all’ubbidienza dei Greci se non che il 1043.

[81] Amato, lib. II, cap. XXVII. Secondo il Protospatario questo
assedio cominciò in agosto 1042, e durò un mese.

[82] Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXVII, XXVIII; Guglielmo
di Puglia in fine del primo e in principio del secondo libro; Leone
d’Ostia, lib. II, cap. 66; Lupo Protospatario, anni 1042, 1043 e 1046,
nell’ultimo dei quali si nota che Argiro andò a Costantinopoli e quella
corte richiamò a Bari tutti gli esuli. Non potendo dunque strappare
la Puglia ai Normanni con la forza, gli imperatori d’Oriente cedeano
ai voti dei popoli, salvo ad aggravar di nuovo la mano quando lo
potessero.

[83] Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXVII, segg.; Guglielmo di
Puglia, lib. II dal principio; Lupo Protospatario, anni 1042 a 1053;
Leone d’Ostia, lib. II, cap. 66.

[84] Guglielmo di Puglia, lib. I: _Multa per hoc tempus sibi
promittente Salerni_, e segg.

[85] Amato, lib. II, cap. XXVIII a XXX; Leone d’Ostia, lib. II,
cap. 66. Le tredici città assegnate, in Capitanata, Terra di Bari e
Principato ulteriore, son oggi tutte vescovili, e metà l’era anche
avanti l’XI secolo. Si ricordi ciò che avvertii su questo partaggio
nella nota 2, p. 34.

[86] Così dovea seguire necessariamente, ancorchè poche vestigia
rimangano di quel primo abbozzo della feudalità normanna. Di certo si
vede che nei principii alcune terre furono soggiogate per forza o per
accordi; altre, quasi confederate, ritennero governo municipale pagando
soltanto un tributo o contribuzione federale, che forse rimase in
comune per supplire al mantenimento dell’esercito. In fatti Guglielmo
di Puglia, supponendo bene o male un partaggio avanti la occupazione di
Melfi, scrive, lib. I:

    ...... _undique terras_
    _Divisere sibi ni sors inimica repugnet._
    _Singula proponunt loca quæ contingere sorte_
    _Cuique duci debent et quæque tributa locorum._

Amato accenna in questo modo, lib. II, cap. XXVII, gli acquisti dei
Normanni sotto la condotta di Argiro, cioè nel 1042: _et toutes les
cités d’eluec entor constreigneient qui estoient al lo commandement
et à la rayson et statute que estoient; ensi alcun voluntairement se
soumettoient et alcun de force et alcun paioient tribut de denaviers
chascun an_.

[87] Così le concessioni del conte Unfredo a’ fratelli germani Roberto,
Maugerio e Guglielmo, e infine di Roberto a Ruggiero.

[88] Si vegga qui sopra, p. 18.

[89] Il luogo è determinato da Gauttier d’Arc, _Histoire des conquêtes
des Normands en Italie_ ec., Paris 1830, lib. I, cap. IV, p. 64, segg.

[90] Su le condizioni di Tancredi di Hauteville si riscontrino:
Malaterra, lib. I, cap. IV e XL: _Cronica di Roberto Guiscardo_,
traduzione francese, lib. I, cap. I, p. 263; e testo latino presso
Caruso, p. 829; _Cronica di San Massenzio_, detta _Chronicon
Malleacense_, nel _Recueil des Historiens des Gaules_ etc., tomo XI, p.
644; Guglielmo di Malmesbury, lib. III, nella stessa raccolta, tomo IX,
p. 187; Odorico Vitale, lib. V, presso Duchesne, _Historiæ Normannorum
Scriptores_, p. 584.

La cronica di San Massenzio dice la famiglia poco nota e povera;
Guglielmo di Malmesbury, _Mediocri parentela ortus_ ec. Il Malaterra
e la cronica di Roberto Guiscardo rincalzano la nobiltà di Tancredi:
_præclari admodum generis — genere nobilis_.

La parentela coi duchi di Normandia, affermata per lo primo da sbadati
compilatori del XIII e XIV secolo, non è ammessa ormai da alcun
critico. Si vegga un’apposita dissertazione di E. F. Mooyer stampata
a Minden nel 1830 in-4, secondo la quale il supposto si riduce a due
fila debolissime, 1º che il padre di Tancredi fosse stato un dei figli
di Riccardo I, dei quali non si conoscono i nomi; 2º ovvero che Muriel
figliuola bastarda di esso Riccardo fosse la Moriella prima moglie
di Tancredi. Questa opinione par che corresse a corte di Palermo nel
1140, perchè la cronica di Roberto Guiscardo scrive _uxor nobilissima
Muriella nomine_.

Inaspettatamente ci verrebbe un lume dagli autori arabi, se potessimo
fidarci a loro scrittura ed erudizione. Ibn-Kaldûn in due luoghi della
storia (_Biblioteca Arabo-Sicula_, testo, p. 484 e 497) dà il nome
del primo conte di Sicilia, Rogiar-ibn-Tankred-ibn-Khaira, o secondo
alcuni MSS. ibn-H»w»h, che par nome di donna e indicherebbe che la casa
di Hauteville vantasse la nobiltà della madre di Tancredi. Supponendo
maschile tal nome, com’anche si può, si leggerebbe Hugo, o anche Geir
(chè la prima lettera mutando il punto diacritico suona _kh_, _h_,
ovvero _g_), e sarebbero nomi usati in Norvegia e in Francia. Debbo
questa conghiettura all’erudito orientalista norvegio signor Broch; il
quale crede suscettivo quel vocabolo della terza lezione Haby (o forse
_Habwu_) che rappresenterebbe, con errore facile a supporre, il nome
del feudo Hauteville.

[91] Wilhelm, Drogo, Humfried, e secondo la pronunzia francese
Guillaume, Dreux, Humfroy.

[92] Amato, Malaterra e Leone d’Ostia, lo dicono condottiero della
compagnia; ma parmi errore volontario dei principi di casa Hauteville.
Si vegga a questo proposito il Libro IV, cap. X della presente opera,
volume secondo, p. 380, nota 3, e 389, nota 1.

[93] Si riscontrino Amato, Guglielmo di Puglia e gli altri
contemporanei citati di sopra. M. Gauttier d’Arc, op. cit., lib. I,
cap. V, p. 141, sostiene che Drogone ebbe da Arrigo III titol di duca;
ma il passo ch’egli allega di Ermanno Contratto è dubbio, e il diploma
a nome di Drogone per lo meno è erroneo, come dato il 1053. Drogone era
stato pugnalato in agosto 1051.

[94] Si veggano le autorità citate da Augustin Thierry, _Hist. de la
Conquéte d’Angleterre_, lib. III, anni 1048 a 1065.

[95] Si riscontri Ermanno Contratto presso Pertz, _Scriptores_, tomo
V, p. 132: _Indigentes bello premere, injustum dominatum invadere,
hæredibus legitimis castella, prædia, villas, domus, uxores etiam
quibus libuit vi auferre, res ecclesiasticas diripere_ ec. Arnolfo,
_Gesta episcoporum Mediolan._, presso Pertz, _Scriptores_, tomo X,
p. 10, 11, similmente dice i Normanni a poco a poco ingrossati in
Puglia, divenuti più crudeli dei Greci e più feroci dei Saraceni. Anche
ad Amato scappa di bocca qualche lagnanza quando si tratta di Monte
Cassino, lib. II, cap. XLI. E lo stesso Guglielmo di Puglia, accennando
alle pratiche con papa Leone, accerta che Argiro _Veris commiscens
fallacia mittit_ ec. Tralascio tante altre testimonianze, perchè
superflue, ovvero sospette, come per esempio quella d’Anna Comnena.

Ferrari nostro, nella _Histoire des Révolutions d’Italie_, tomo I, p.
344, segg., crede calunniati i Normanni dall’umor di reazione unitaria
che allor si scatenò contro la rivoluzione federale dei vescovi.
Ancorchè io non osi, senza più lungo studio, negar nè accettare le
nuove spiegazioni della storia patria che vien proponendo quell’alto
ingegno, parmi pure di prestar fede alle precise affermazioni dei
cronisti, che d’altronde si accordano con lo esempio di tutti i
conquistatori o dominatori stranieri. Il fatto dei soprusi e quel della
reazione non sono per altro incompatibili; e certo è che i Normanni,
se servirono una rivoluzione italiana, la voltarono ad utile e comodo
proprio.

[96] Epistola di Leone IX a Costantino Monomaco, presso Labbe,
_Concilia_, tomo IX, p. 983. Il papa dice a chiare note voler
recuperare il patrimonio della Chiesa romana, voler porre accordo tra
i due imperatori che son le due braccia della Chiesa ec. Non occorrono
citazioni per gli altri fatti che sono notissimi, e dei miei giudizii
può giudicare il lettore senza altre autorità. Ho tolto il pretesto
della difesa dei poveri da Amato, il quale, lib. III, cap. XVI, XVII,
tra le rimostranze di Leone IX ai Normanni, scrive: _Et quant cil de
Bonivent oïrent tant de perfetion et de sanctitè de lo pape, chacerent
lo prince et soumistrent soi à la fidelitè soe, eaux et la citè_. Come
ognun sa, Leone avea già scroccata Benevento al devoto Arrigo II, in
cambio dei diritti su la Chiesa di Bamberg.

[97] _Chronicon Breve Northmannicum_, presso Muratori, _Rerum
Italicarum Scriptores_, tomo V, p. 278, anni 1045 a 1052.

[98] Amato, lib. II, cap. XLV; e III, cap. VII. Si confronti con gli
altri cronisti ch’è inutile citare partitamente. Secondo Malaterra il
castello fu quel di Scrible in Val di Crati.

[99] Si confrontino: Amato, lib. III; Guglielmo di Puglia, lib. II;
Lupo Protospatario, anno 1053; Malaterra, lib. I, cap. XII a XV;
Leone d’Ostia, lib. II, cap. 84; Ermanno Contratto presso Pertz,
_Scriptores_, tomo V, p. 132.

[100] Nè Amato, nè Guglielmo di Puglia, nè Leone d’Ostia, nè alcun
altro cronista narrano questa concessione, fuorchè il Malaterra
nel quale leggiamo: _Quorum (Normannorum) legitimam benevolentiam
Apostolicus gratanter suscipiens, de offensis indulgentiam et
benedictionem contulit et omnem terram quam pervaserant et quam
ulterius versus Calabriam et Siciliam lucrari possent, de Sancto Petro
hæreditati feudo sibi et hæredibus suis possidendam concessit, circa
annos_ 1052. È anacronismo col 1059, e sbaglio di nome di Leone IX con
Niccolò II; o il conte Ruggiero, autor vero della tradizione, sapendo
dai fratelli le proposizioni che fecero allora i Normanni e qualche
vaga promessa del papa prigione, le costruiva dopo mezzo secolo, a
disegno o per incerta memoria, in espresso atto d’investitura. Si
avverta che Amato, lib. III, cap. XXXVI, fa menzione della profferta
dei Normanni avanti la battaglia di ricevere l’investitura e pagar
censo: come avrebbe dunque passato sotto silenzio che il papa prigione
l’assentiva? Non fo caso qui della _Cronica di Roberto Guiscardo_, ch’è
opera della metà del XII secolo. E mi par che la epistola di Leone
IX che citerò nella nota seguente distrugga al tutto il racconto di
Malaterra.

[101] Epistola di Leone IX a Costantino Monomaco presso Labbe,
_Concilia_, tomo IX, p. 981, segg. Ancorchè non vi sia data, si dee
porre tra il 18 giugno 1053 e il 19 aprile 1054, giorno della morte del
papa; perchè la battaglia di Civita vi è indicata in modo non equivoco;
nè si può ammettere l’opinione del Saint-Marc, _Abrégé chronologique_,
tomo III, Parte I, p. 170, segg., che riferisce questo scritto al 1051,
supponendo gratuitamente un’altra zuffa dei Normanni con soldatesche
del papa. Tronca ogni dubbio Wiberto arcidiacono di Toul, il quale
nell’agiografia di Leone IX, lib. II, cap. VI, presso i Bollandisti,
19 aprile, tomo II di quel mese, p. 663, inserisce uno squarcio della
stessa epistola per narrare, com’egli dice, con le propie parole
del papa, lo scontro di _Civitatula_. Aggiugne del suo i fatti che
conosciamo dopo la battaglia: l’andata a Benevento e indi a Roma, fino
alla morte di Leone. Amato, lib. III, cap. XXXIX, scrive: _Et o la
favor de li Normant torna à Rome à li X mois puis que avoit esté la
bataille_.

[102] Amato, lib. III, cap. XLVI e XLVII. Stefano IX esaltato il 2
agosto 1057, morì il 29 marzo 1058. Amato narra ch’egli avea gettato le
mani sul tesoro di Monte Cassino, per far guerra ai Normanni.

[103] Guglielmo di Puglia, lib. II; Malaterra, lib. I, cap. XV. Da un
altro canto Amato, lib. III, cap. XLII, segg., racconta le molestie
che recavano nel principato di Salerno Unfredo, il fratello Guglielmo e
Riccardo d’Aversa.

[104] Malaterra, l. c. Amato, che in questo periodo tocca più
brevemente le cose di Puglia, accenna verso il 1054 la venuta di
Malgerio, Goffredo, Guglielmo e Ruggiero fratelli del conte Unfredo.
Questo Guglielmo era figliuolo di Tancredi per la seconda moglie
Fredesenda.

[105] I contemporanei riferiscon questo fatto a pezzi; ciascuno il suo.
Amato, lib. IV, cap. II, scrive che alla morte d’Unfredo: _Robert son
frere rechut l’onor de la conté et la cure de estre conte_. Guglielmo
di Puglia, lib. II, accenna l’oficio lasciato a Roberto come tutore del
figliuolo coi versi: _Rector terrarum sit eo moriente_ ec. Malaterra
non parla di tutela, ma precisamente dice, lib. I, cap. XVIII, che
Roberto _susceptusque a patria primatibus, omnium dominus et comes in
loco fratris efficitur_.

[106] I due fatti della mutazione del titolo di conte in duca e
dell’omaggio feudale a Roma si cavano da queste autorità:

Amato, lib. IV, cap. III, narrata la occupazione di Reggio, continua:
_Et pour ce Robert sailli en plus grand estat qu’il non se clame plus
conte, més se clamoit duc._ Non fa motto del concilio di Melfi nè
dell’investitura.

Malaterra che attribuì, come dicemmo, p. 43 in nota, la concessione
feudale a Leone IX in favor di Unfredo, non tocca nè punto nè poco
l’abboccamento di Melfi, ma nel lib. I, cap. XXXV, dopo la occupazione
di Reggio il 1060, aggiugne: _Igitur Robertus Guiscardus, accepta
urbe, diuturni sui desiderii compos effectus, cum triumphali gloria dux
efficitur._

Lupo Protospatario confonde i due fatti nel 1056 scrivendo: _Et Unfredo
obiit et Robertus frater ejus factus est dux_; sul qual passo notava
l’erudito Camillo Pellegrino che anche Drogone e Unfredo s’erano
intitolati in lor diplomi or _comes_ or _dux_.

La _Cronica di Roberto Wiscardo_ (_Anonimo_ del Caruso e _Anonimo
Vaticano_ del Muratori) tace i patti di Melfi e l’assunzione al ducato,
riferendosi come Malaterra alla concessione di Leone IX che limita e
particolareggia così: _Discrete ac subtiliter utilitati Sanctæ Ecclesiæ
prævidens, totam Apuliam atque Calabriam a finibus Guarnerii usque
ad Farum comiti Humfredo et suis successoribus, nequaquam coactus in
aliquo sed sola spontanea voluntate et suorum consilio Cardinalium,
regendas semperque possidendas permisit_. Si confronti la traduzione
francese nello stesso volume di Amato, pag. 275, 276.

Guglielmo di Puglia, lib. II, narrato il Concilio di Melfi, ripiglia:

    _Finita Synodo, multorum Papa rogatu_
    _Robertum donat Nicolaus honore ducali._
    _Hic comitum solus concesso jure ducatus_
    _Est Papa factus jurando jure fidelis;_
    _Unde sibi Calaber concessus et Appulus omnis_
    _Est, locus et Latio, patriæ dominatio gentis._

La Cronica breve normanna presso Muratori, _Rerum Italicarum
Scriptores_, tomo V, p. 278 (V) ha sotto il 1059:

_Robertus Comes Apuliæ factus est Dux Apuliæ, Calabriæ et Siciliæ a
papa Nicolao in civitate Melphis, et fecit ei homintum de omni terra._

Leone d’Ostia, lib. III, cap. 15 (ovvero 16), scostandosi questa
volta da Amato, scrive: _Eisdem quoque diebus et Richardo principatum
capuanum et Robberto ducatum Apuliæ, Calabriæ atque Siciliæ (Nicolaus
II) confirmavit cum sacramento; et fidelitate Romanæ Ecclesiæ ab
eis primo recepta, nec non investitione census totius terræ ipsorum,
singulis videlicet annis per singula boum paria denarios duodecim._
Poscia torna alla tradizione di Amato e alla presa di Reggio,
conchiudendo che Roberto _ex tunc cæpit dux appellari_. Dunque abbiamo
quattro diverse tradizioni:

  1ª Investitura di Leone IX ad Unfredo il 1053. La sostengono il
  cronista e il compilatore di parte siciliana. Il primo con oscurità
  studiata aggiugne le terre che si acquistassero _alla volta_ di
  Calabria e di Sicilia. Il secondo, cinquant’anni dopo Malaterra,
  vi cancella la Sicilia e muta la concessione feudale in mera
  donazione.

  2ª Investitura di Niccolò II a Roberto per la Puglia e Calabria,
  con titol di duca. Dal solo Guglielmo di Puglia, amico delle due
  dinastie normanne d’Aversa e di Puglia.

  3ª Lo stesso aggiuntavi la Sicilia. In Leone d’Ostia e nel
  _Chronicon Breve_, entrambi dei principii del XII secolo. Leone era
  cardinale.

  4ª Silenzio su l’investitura nei due contemporanei, Amato e
  Protospatario, i quali non ignorano il preso titolo di duca.

Dal silenzio degli uni e dalla discrepanza degli altri è da argomentare
che la investitura non fosse stata mai promulgata nel paese. E
veramente era tal atto d’usurpazione della potestà imperiale, tal
preparamento di guerra contro l’impero, da occultarsi con ogni
studio. Ma dell’atto non v’ha luogo a dubitare. Di tutti i ricordi
che ne abbiamo, quel che più par s’avvicini al tenor dell’originale
è l’obbligazione scritta di Roberto, copiata non sappiam quando nel
_Liber censuum_ della corte di Roma, pubblicata dal Baronio, _Annales
ecclesiastici_, 1059, § 70, e data il 1059 stesso.

_Ego Robertus Dei gratia et Sancti Petri Dux Apuliæ et Calabriæ et
utroque subveniente futurus Siciliæ, ad confirmationem traditionis
et ad recognitionem fidelitatis, de omni terra quam ego proprie sub
dominio meo teneo et quam adhuc ulli Ultramuntanorum unquam concessi
ut teneat, promitto me annualiter pro unoquoque jugo boum pensionem
scilicet duodecim denarios papiensis monetæ persoluturum Beato Petro_
ec.

Quest’atto, tenuto forse segreto per molti anni, mi par genuino, e
limita, come ognun vede, a poche terre in Puglia e in Calabria il
novello tributo da pagarsi al papa.

Di più se ne scorge la natura della concessione della Sicilia, cioè di
atto non compiuto, anzi di mera promessa. Guglielmo di Puglia tacque
la promessa appunto perchè il signor della più parte della Sicilia,
che non era mica Roberto ma Ruggiero, avea schivato l’investitura.
Leone d’Ostia affermò la concessione della Sicilia e la ragguagliò a
quella di Puglia e Calabria, perchè era cardinale e scrivea dopo quel
terribile pontificato d’Ildebrando. Malaterra ne uscì con l’equivoco:
_alla volta di Calabria e di Sicilia_, e con l’anacronismo del 1033.
Del resto l’assentimento dei successori di Roberto, la ricusa dei
successori di Ruggiero e i termini della _Cronica di Roberto Wiscardo_,
compilazione storica della corte di re Ruggiero, provano la diversità
del dritto riconosciuto al principio dell’undecimo secolo, di che
riparleremo a suo luogo.

Quanto alla mutazione del titolo di Roberto, si è notato che i
predecessori chiamaronsi talvolta duchi; prendendo, come ben riflette
il Pellegrino, il titolo che la corte bizantina avea dato ad Argiro,
luogotenente nella provincia ormai occupata dai Normanni. Forse
Drogone e Unfredo bramavan così distinguersi dai conti subordinati al
capo della federazione. In ogni modo è provato dalle testimonianze di
Amato, Malaterra, Guglielmo di Puglia e Leone d’Ostia, che Roberto
prese definitivamente il novello titolo all’occupazione di Cariati
o di Reggio, cioè il 1059 o 1060; e in ogni modo dopo la concessione
di Niccolò II. Ciò non esclude ch’egli richiedesse l’assentimento dei
conti normanni, come suppongono a ragione gli storici napoletani e come
si legge nell’Anonimo (_Recueil des Historiens des Gaules_ ec., tomo X,
p. 210); ma ormai chi gli potea ricusare il suffragio?

[107] Ruggiero alla sua morte (1101) avea 70 anni, al dir del Fazello
che non cita autorità. V’hanno tradizioni diverse, delle quali tratterò
a suo luogo.

[108] Malaterra, lib. I, cap. XIX, segg. Per la investitura del conte
di Aversa si riscontri Leone d’Ostia, lib. III, cap. 15, (16). Per gli
altri fatti i medesimi cronisti, Amato e Guglielmo di Puglia _passim._

[109] Si vegga il Capitolo precedente, p. 46.

[110] Malaterra, lib. II, cap. I.

[111] _Et que la cité estoit vacante des homes liquel i habitoient
avant, il (Robèrt) la forni de ses cavaliers._ Amato, lib. V, cap. XIX.

[112] Si vegga sopra il Libro II, cap. X, p. 426 del 1º volume, e
si ricordino le guerre di Manuele Foca e di Maniace e la difesa di
Catacalone.

[113] Tomo VI, p. 174, Parigi 1715. L’editore non dice altro su
l’origine della cronica, se non d’esser tolta dai Mss. del Duchesne.
Or si può domandare perchè il Baluzio non citò il codice di Messina;
e perchè il Duchesne non avea prima stampata la cronica nella
raccolta degli scrittori di cose Normanne? Sembra che l’uno e l’altro
dubitassero della antichità di quel documento.

[114] _Rerum Italic. Script._ tomo VI, p. 614. Il Muratori nel
breve avvertimento che pone innanzi a questo scritto, lo giudica
contemporaneo «_multam enim vetustatem sapit_.» Ma parmi che i sospetti
debbano cominciare dalla lingua e dallo stile.

[115] Ms. della Bibl. Imp. di Parigi segnato: _Baluze, armoire 2,
paquet 5_, nº 2, al fog. 428, segg. Tutto il volume son copie di
mano del Duchesne. Questi sotto il titolo della cronica notò: «_Ex
codice Ms. perantiquo Bibliothecæ Senatus Messanensis, summa fide
transcripta_». Ma egli, non essendo mai stato in Messina, avea copiato
di certo sopra una copia, senza vedere il vantato testo antichissimo.

[116] Di Gregorio, nella Introduzione al dritto pubblico Siciliano
toccando le consuetudini delle città, sagacemente notava essere il
diploma del 1129, _sospetto, ma non tutto_. Della cronica ei tratta
nelle _Considerazioni su la Storia di Sicilia_, lib. I, cap. II, e nota
47, e ben si appone che la copia pubblicata dal Baluzio fosse venuta da
Messina. Se non che sbaglia il tempo. Sendo la copia di mano d’Andrea
Duchesne che morì il 1640; non potea trovarsi, come suppone il Di
Gregorio, tra i Mss. recati a Parigi dagli esuli Messinesi del 1675.

[117] Tra le idee moderne è da notarsi la diffidenza contro il papa
che non era nata in Sicilia nell’XI secolo, ma fioriva pienamente dal
XIII in poi. Nel linguaggio s’incontra la classica denominazione di
città Mamertina e quella di Mori adoprata genericamente per dinotare i
Musulmani.

[118] _Rerum Sicanicarum compendium_, lib. III. Quel grande ingegno,
in suo stile breve ed un po’ frettoloso, fornito il racconto ripiglia
«Alibi lego» ec. e dà senza citar nome d’autore, il racconto
del Malaterra. Non dice qual de’ due gli sembri il vero o il più
verosimile.

[119] _De rebus Siculis_, Deca II, lib. VII, cap. I. Il Fazello, ch’era
pure stato in Messina ed avea frugato quelle Biblioteche, si riferisce
a tradizione orale (_ducta per manus fama_) pei nomi dei congiurati.
Non accenna l’origine della narrazione, e la intreccia, senza
citazioni, con quella di Malaterra.

[120] Questo fatto si trova per lo primo nella _Ystoire de li Normant_
pubblicata il 1835, se non che M. Gauttier d’Arc l’avea accennata fin
dal 1830 nella sua compilazione, p. 219. Si avverta intanto che Amato
parla qui e altrove (p. 148, 153, 159, 194) di un Goffredo Ridelle o
Rindelle, mentre M. Gauttier d’Arc, l. c., seguito da M. Champollion
(p. 342, nota) suppon che si tratti di un Goffredo fratello di Roberto
e soprannominato Ridelle. Ma questa identità dei due Goffredi sembra
supposta senza fondamento. Il Malaterra, lib. I, cap. IV, e quel
ch’è più Amato stesso p. 94, dicono di Goffredo fratel di Ruggiero,
senza far cenno del soprannome; e il Goffredo Rindelle quante
fiate comparisce nella storia d’Amato, sembra piuttosto condottiero
fidatissimo, che fratello di Roberto, il quale diffidava sopratutto dei
fratelli.

[121] Il Malaterra non fa menzione che di due regoli. La divisione
della Sicilia musulmana in quattro stati si seppe per lo primo dagli
estratti di Nowairi pubblicati il 1790; e di tre stati si facea
menzione negli estratti di Abulfeda e Scehab-ed-din-Omari, noti in
Sicilia per opera di D’Amico nei principii del XVII secolo, cioè una
cinquantina d’anni dopo la pubblicazione della Storia di Maurolico.
Pertanto i cinque regoli mori e i confini che loro assegna la cronica
si debbono riferire a tradizione genuina in fondo, corrotta nei
particolari. Nulla si oppone a ciò che un _Raxdis_ (Rascid) fosse stato
governatore di Messina.

[122] Roberto andò all’assedio di Reggio quando si cominciava la mèsse,
e se ne tornò a svernare in Puglia con Ruggiero dopo la scorreria in
Sicilia. Malaterra, lib. I cap. XXXV; e lib. II, cap. II. Contando
circa due mesi per l’assedio di Reggio si viene al settembre. La _Breve
istoria_, facendo cominciar la congiura il 6 agosto, ci conduce alla
stessa data.

[123] «_Hæc secum animo revolvens, eorum ad quæ animum intendebat, non
tardus executor_,» scrive il Malaterra. La quale fretta si riscontra
bene con la promessa di venire a Messina entro una settimana, che
leggiamo nella _Breve istoria_. Questa, come ognun vede, confonde
in uno solo i tre assalti di Ruggiero; il che è naturalissimo in una
tradizione orale.

[124] Sessanta _militi_, scrive il Malaterra. Il numero si dee
moltiplicare almeno per tre; poichè ogni _cavaliere_, nel medio evo
avea seco ordinariamente due o più uomini armati e montati a cavallo.

[125] Conf. Malaterra, lib. II, cap. I, e Anonimo, versione francese
(_Chronique de Robert Viscart_), lib. I, cap. XIII, e testo presso il
Caruso, _Bibliotheca Sicula_ p. 837.

[126] Malaterra, lib. II, cap. II, il quale, per mancanza di ragguagli
precisi o per dissimulazione, parla vagamente di _faccende_ che dovesse
compiere il duca in Puglia durante l’inverno 1060-1061. Noi le sappiamo
da Amato, lib. IV, cap. III, e lib. V, cap. IV, VI, VII, ed anche un
po’ da Guglielmo di Puglia, lib. II, «_Morti tradendum_ ec.» Preso
da Roberto il titolo di duca, e cominciato a mutare l’autorità di
capo federale in signor feudale, cospirarono contr’esso Balalardo suo
nipote, Gazolin de la Blace, Ami figlio d’un Gualtiero, e un Goffredo,
sovvenuti di danari dall’imperatore bizantino, al quale prometteano
rendere il paese. Roberto tornato da Reggio li oppresse con le armi;
indi assediò ed ebbe a patti Troia, municipio bizantino. Amato pone
appunto dopo la resa di Troia la pratica del duca con Ibn-Thimna.

[127] I cronisti arabi che citammo nel Libro IV, cap. XV, p. 552 del
2º volume affermano avere Ibn-Thimna condotta la pratica con Ruggiero
a Mileto, nè parlan d’altri; Amato lib. V, cap. VIII, dice col solo
Roberto a Reggio; Malaterra, lib. II, cap. III, IV, nella stessa città
col solo Ruggiero. Parmi evidente che v’ebbero almeno due abboccamenti:
Roberto non venne a Reggio che per ultimare la cosa con Ibn-Thimna; ma
questi s’era rivolto dapprima a Ruggiero, il quale non soggiornava per
certo a Reggio, città del fratello, tra il quale e lui i sospetti non
posavano giammai. D’altronde il nome di Mileto dato dai soli Arabi è di
moltissimo peso, accennando il fatto più notevole di lor tradizione,
sì notevole che diè origine ad un errore retrospettivo che facea
Mileto capitale del re franco Baldovino, conquistatore dell’Italia
meridionale, cioè Otone II. Si vegga il Libro IV, cap. VI di questa
istoria, vol. 2º, p. 328, nota 1. E Mileto appunto è nominata nella
_Breve istoria della liberazione di Messina_ che citammo poc’anzi.

[128] Tutta l’isola, dicono gli annalisti arabi.

[129] Annalisti arabi citati dianzi.

[130] Anonimo.

[131] Amato, lib. V, cap. VIII, IX, X, il quale fa supporre capitano
di tutte le genti Goffredo Ridelle, ma lascia trasparire il comando
indipendente di Ruggiero. Malaterra dà l’impresa come ordinata e
capitanata dal solo Ruggiero.

[132] Censessanta militi, dice Malaterra, il solo che dia il numero. Al
solito è da contare tre armati o più per ciascun milite.

[133] Amato.

[134] L’ultima settimana di carnovale del 1060, scrive il Malaterra,
contando l’anno dal 25 marzo all’uso di Firenze, Puglia e Sicilia.
Però torna al 1061 del conto comune ed agli ultimi di febbraio, sendo
occorsa la Pasqua a’ 15 aprile. Malaterra chiama il luogo _Praroli e
Tre Laghi_, e aggiugne che v’erano le tegolaie. Similmente l’Anonimo
dice tre Laghi. È senza dubbio la punta del Faro, ond’errava il
Fazzello supponendo lo sbarco a Furno o Furnari tra Tindaro e Milazzo,
perchè gli parea di trovare la versione del nome topografico nel
_clibana tegularum_ del Malaterra.

[135] Malaterra.

[136] Amato.

[137] Amato e Malaterra.

[138] Malaterra.

[139] Amato.

[140] _Anonymi Chronicon Siculum._

[141] La narrazione si cava da Amato, lib. V, cap. X; Malaterra, lib.
II, cap. IV, V, VI, e _Anonymi Chronicon Siculum_, lib. I, cap. XIII,
presso Caruso, op. cit., p. 837, e nella traduzione francese, p. 279.
Come si vede dalle note precedenti, i particolari differiscono nei due
primi cronisti, e scarseggiano nel terzo, ma non sono contraddittorii.

[142] Amato.

[143] Amato. Il Malaterra dice vagamente: «_cum maximo exercitu_.»

[144] Amato. Secondo il Malaterra il campo sarebbe stato a Reggio.

[145] Malaterra scrive _Germundos et galeas_. La prima di queste voci,
che che ne disputi il Ducange, par lezione erronea di _Dermudos_ che è
alla sua volta corruzione di _Dromone_.

[146] Amato dà il numero, Malaterra le dominazioni «Cattos, Golafros
et Dormundos;» se non che il primo aggiugne «lo artifice liquel se
clamoit _Gath_.» La voce _Gatto_ con lo stesso significato di nave,
si trova anche nella _Chronica Varia Pisana_, presso Muratori, _Rerum
Italic._, tomo VI, p. 112, e in Caffari, _Annales Genuenses_ presso
Muratori _Rerum Ital._ tomo VI, p. 254. Forse quella nota appellazione
dell’ordegno di guerra passò alla nave che lo portava: parendomi
meno naturale l’etimologia dall’arabico _Kula’a_, nome generico, nel
significato che noi diamo a «legni» o «vele.» La voce _Golafros_, che
altrove si legge (V. Ducange) _Golabros_ e _Golabos_, e nella _Chronica
Varia Pisana_ presso Muratori, _Rerum Italic._, VI, 112. _Garabi_,
è l’arabico nome di legno _Ghorâb_ (corvo), donde la nostra voce
«Corvetta.»

[147] Malaterra lo chiama _Belcamuer_, ch’è una delle tante lezioni
in che i Mss. guastano il nome d’Ibn-Hawwasci; l’Amato scrive invece
_Sausane_, e sembra corruzione di Simsam-ed-dawla. Forse i raccontatori
normanni dai quali egli attinse i fatti, confondeano il capo dei
Musulmani di Sicilia al 1061, con l’ultimo principe Kelbita di cui
abbiam detto nel Libro IV, capitolo XII, p. 419 segg. del 2º volume,
sembrando inverosimile che Ibn-Hawwasci avesse preso appunto il
medesimo titolo.

[148] Amato.

[149] Si vegga il Libro IV, capitolo X, XI, p. 393, 396, del 2º volume.

[150] Malaterra.

[151] Amato.

[152] Malaterra.

[153] Il nome di Calcare si legge in Amato; un Ms. di Malaterra dice
_Trium Monasterium_. E Tremestieri è corruzione di tal voce; Edrisi nel
cenno su questo luogo ha «tre Chiese».

[154] Amato.

[155] Conf. Amato e Malaterra.

[156] Di questo non fanno parola i cronisti normanni: si veggano qui
sopra le pag. 56 a 60.

[157] Amato.

[158] Malaterra.

[159] Conf. Amato e Malaterra.

[160] Malaterra dice mandate le chiavi; Amato, che significarono a
Roberto la vittoria _que de Dieu avoient reçue par Goffrède Ridelle, et
lui prierent qu’il vinst prendre la cité_. Il cronista scordava aver
detto poco innanzi che la schiera passata in Sicilia fosse capitanata
da Ruggiero, senza far motto di Goffredo Ridelle, il quale al più
potrebbe supporsi condottiere dei 170 cavalieri che venner dopo.
Coteste discrepanze mostrano la gelosia che s’era accesa verso la fine
dell’XI secolo tra i Normanni di Puglia e di Sicilia, dei quali i primi
metteano da canto a tutta possa Ruggiero, e i secondi Roberto.

[161] _Diverse manière de navie et de mariniers.... et particulierement
devissent aler les nez._

[162] Amato. La presa di Messina è narrata da Amato, libro V, capitolo
XII a XVIII; e Malaterra, libro II, capitolo VIII a XII; ne fan cenno
Leone d’Ostia, libro III, capitolo XVI, e XLV, e l’Anonimo, presso
Caruso p. 837, e traduzione francese, libro I, capitolo XIV.

[163] Conf. Amato, libro V, capitolo XIX, e Malaterra, libro II,
capitolo XIII. Il primo scrive qui le parole che Roberto trovò Messina
vota di abitatori, le quali, com’abbiam detto, si debbono prendere in
senso figurato, se pur è fedele la traduzione. Malaterra afferma che i
due fratelli lasciassero in città la cavalleria, il che deve intendersi
di parte, non del tutto.

[164] Conf. Amato, libro V, capitolo XX; Malaterra l. c., tra i
quali è il solito divario che il primo riferisce la dedizione al solo
Roberto, il secondo ad ambo i fratelli. La tradizione d’Amato è la
più verosimile in questi principii della guerra siciliana. D’altronde
non è provato da cosifatte testimonianze che i Musulmani di Rametta
prestassero omaggio feudale. Non poteva esser altro che un accordo
temporaneo e propriamente l’_amân_. Leone d’Ostia, libro III, capitolo
XLV, dice fatta tributaria Rametta.

[165] _Scabatripolis_ nel Malaterra. Scaba o Scava, voce della bassa
latinità che suona fosso, è premessa evidentemente al nome di Trabilis
che si legge in due diplomi latini del 1134 e 1408. Edrisi ha, per
trasposizione dei punti diacritici nel testo arabico, B-r-b-l-s e
Bub-l-s che va corretto T-r-b-l-s e risponde esattamente all’odierno
comune di Tripi. Dall’itinerario del detto geografo, _Biblioteca
Arabo-Sicula_ p. 66, si vede che da Rametta a Monteforte correva (alla
metà del XII secolo) una strada di 4 e da Monteforte a Tripi di 20
miglia. Amato tralascia questa prima stazione.

[166] _Fraxinetum_ in Malaterra, _Lo False_ in Amato; l’uno e l’altro
si riconoscono agevolmente nel _Fraynit_ d’un diploma del 1188,
Frazzanò, come or si chiama; dal qual comune muove un sentiero che
riesce a Maniace. Edrisi nota la strada da Tripi a Montalbano, e
Galati, terra vicinissima a Frazzanò. La traduzione d’Amato confonde
Lo False con la pianura di Maniace, che indica chiaramente senza
nominarla: _a lo piè de lo grant mount et menachant moult de Gilbert_
(corr. Gibel).

[167] Conf. Amato, libro V, capit. XXI; e Malaterra libro II, capit.
XIV. I Cristiani di Val-Demone scrive Malaterra; più correttamente
Amato quei _qui estoient là entor_, e parla dei Cristiani di _tutto_ il
Val-Demone quando i vincitori tornarono dall’assedio di Castrogiovanni
a San Marco e Messina.

[168] Amato, lib. V, capitolo XXI e XXII. Malaterra, lib. II capitolo
XV. Emmelesio, di cui si ignora il sito nè se ne trova cenno in altro
scrittore cristiano o musulmano, è nominata da Amato.

[169] Malaterra, libro II, capitolo XVI.

[170] Amato, lib. V, capitolo XXII.

[171] Malaterra, libro II, capitolo XVI, _Guedeta_, dice il cronista, e
aggiugne che significhi _flumen paludis_. Il nome arabico _Wadi-el-tin_
il quale si trova scritto _Lo dictaino_ in un privilegio del conte
Ruggiero, dato il 1004 presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1011,
precisamente suona: _il fiume del Fango_. S’ignora il sito di queste
grotte di San Felice, le quali potrebbero per avventura esser le
«Quaranta Grotte» espugnate dai Musulmani nell’841, le quali sembran
parimenti vicine a Castrogiovanni, abitate e difendevoli. Si vegga il
nostro Libro II, capitolo V, pag. 310 del 1º volume.

[172] Malaterra, libro II, capitolo XVII, si contenta di dare ai
Normanni 700 uomini, ed ai nemici 13,000; e l’Anonimo presso Caruso
p. 838 e nella traduzione francese, libro I, capitolo XIV, copia tali
cifre aggiugnendo che nell’una come nell’altra si comprendessero i
fanti. Amato, libro V, capitolo XXIII, copiato da Leone d’Ostia, libro
III, capitolo XLV, scocca l’iperbole dei 13,000 cavalli e 100,000
fanti Musulmani; ma lascia a Roberto i 1000 cavalli e 1000 fanti
ch’avea rassegnati in Messina. È notevole che Ibn-Khaldûn, traduzione
francese di M. Des Vergers, p. 183, trascrivendo quasi da Ibn-el-Athir
il brevissimo cenno di questa battaglia, vi aggiugne che Ruggiero
avesse 700 uomini: e potrebbe essere appunto la tradizione normanna,
intesa in Palermo nel XII secolo da Ibn-Sceddâd, la cui compilazione ci
manca. Per altro non sembra inverosimile che le mille lance noverate
da Roberto a Messina, fossero ridotte dinanzi Castrogiovanni a 700,
per malattie, morti e presidii, lasciati di certo per assicurare la
ritirata sopra cento e più miglia da Castrogiovanni a Paternò, Maniace,
Frazzanò e Messina. I 700 poi potrebbero essere i soli militi senza
contarvi gli uomini d’arme di ciascuno. In ultimo la critica ci conduce
a rigettare con le altre fole le schiere _affricane_ dell’esercito.
L’Affrica propria a quel tempo si travagliava nella irruzione degli
Arabi d’oltre Nilo. E forse i narratori cristiani riportavano indietro
al 1061, gli aiuti dei principi Ziriti del 1063, o contavano come
«aiuti d’Affrica» qualche drappello di schiavi negri, di Berberi ec. al
servigio dei Musulmani di Sicilia.

[173] S. Matteo, XVII. 20.

[174] Conf. Amato, libro V, capitolo XXIII; Malaterra, libro II,
capitolo XVII; Anonimo presso Caruso p. 838 e nella traduzione
francese, libro I, capitolo XIV, Leone d’Ostia, libro III, capitolo
XLV, Fra Corrado presso Caruso, tomo I, p. 47. Ibn-al-Athir nella
_Biblioteca Arabo Sicula_ p. 276; Nowairi, presso Di Gregorio, _Rerum
Arabicarum_, p. 25; Ibn-Khaldûn, traduzione di M. de Vergers, p. 183. I
quali annalisti arabi fan cenno appena della sconfitta.

[175] Conf. Malaterra e l’Anonimo, l. c.

[176] Amato, l. c.

[177] Conf. Malaterra e l’Anonimo, l. c.

[178] _O les bras ploies et la teste enclinée de toutes pars venent li
Cayte et aportent domps et ferment pais avec lo duc et se soumetent à
lui et lor cités._ Amato, l. c. Questo fatto che non si legge punto in
Malaterra, va ridotto ai termini di tregue chieste per una stagione
ed accordate a prezzo. A creder pienamente il cronista, la Sicilia
si sarebbe arresa a Roberto, nè allor si comprenderebbe perch’egli
se ne tornasse in Calabria lasciando presidio appena a San Marco ed a
Messina.

[179] _C’est paille copertez à ovre d’Espaigne_ ec. Forse ricamati.
In ogni modo mi sembra doversi intendere piuttosto lavorali a modo
spagnuolo, che fabbricati proprio in Ispagna. La voce tarin indica al
certo non il dirhem arabo, ma i tarì d’oro dei quali abbiamo fatto
parola nel Libro IV, capitolo XIII, p. 439, del 2º volume; onde la
somma tornerebbe a più di 300,000 lire italiane.

[180] _Et lo duc pensa une grant soutillesce_.

[181] Amato, libro V, capitolo XXIV, dicendo mandato il messaggio dallo
_amirail de Palerme_. Secondo lo stesso autore, libro V, capitolo VIII,
il ribelle che cacciò Ibn-Thimna di Palermo e se ne fece emiro, avea
nome Belcho (Ibn-Hawwasci). Poi al capitolo XIII, chiama l’emir di
Palermo, in maggio 1061, Sausane. Balchaot (Ibn-Hawwasci) ricomparisce
alla testa dell’esercito a Castrogiovanni nel capitolo XXIII, e
nel XXIV l’emir di Palermo non ha nome. Da un’altra mano Malaterra,
com’abbiamo notato alla p. 66, dà emir di Palermo, in maggio 1061,
Belcamuer, cioè lo stesso Ibn-Hawwasci.

[182] Malaterra, l. c.

[183] Amato, libro V, capitolo XXIII, narrato il principio dell’assedio
di Castrogiovanni continua: «_Et puis dui mois le victorious duc
s’en torna a Messine._» E in vero dallo sbarco alla battaglia sotto
Castrogiovanni era corso un mese incirca, come si argomenta dalla
narrazione del Malaterra.

[184] Malaterra, l. c. Si ricordi che l’esercito si adunò su lo Stretto
_nei primi di maggio_. Messina fu presa verso la metà dello stesso
mese.

[185] Amato, libro V, capitolo XXV. È da notare che Malaterra fa
menzione soltanto de’ Cristiani venuti al campo di Maniace; e Amato nel
capitolo XXI accenna il medesimo fatto parlando dei soli Cristiani de’
contorni e della sicurtà lor conceduta da Roberto, poi nel capitolo XXV
dice venuti al duca sotto Castrogiovanni, ovvero nella ritirata di lì a
San Marco, quei del _Val de Manne.... por estre aidié de lo duc et que
desirroient de non estre subjette a li païen lui firent tribut de or et
habondance de cose de vivre._

[186] Si veggano Fazzello, Cluverio, Amico _Dizionario topografico_ ec.
Sono state trovate a San Marco iscrizioni latine di Alunzio. Edrisi
nella Bibl. Arabo-Sic., testo p. 32, e presso di Gregorio _Rerum
Arabicarum_, p. 115, fa cenno delle antichità che si notavano in San
Marco e ci descrive la importanza della città, centro d’industria
agricola e navale.

[187] Amato, libro V, capitolo XXV. Ancorchè il cronista narri la
fondazione del castel di San Marco dopo avere accennato nel capitolo
XXIII il ritorno di Roberto a Messina, replica pure questo ritorno nel
capitolo XXV, nè può rimaner dubbio che lo esercito si fosse fermato
a San Marco durante la ritirata. Si conf. l’Anonimo presso Caruso, p.
838, e la traduzione francese, libro I, capitolo XIV, e Leone d’Ostia,
libro III, capitolo XLV.

[188] Conf. Malaterra, libro II, capitolo XVIII; e Anonimo, l. c.

[189] «Mandato Bettumeno, _in sua fidelitate_, a Catania, che gli
apparteneva ec.» scrive Malaterra, l. c. Con Catania andava di certo
Siracusa, antico stato d’Ibn-Thimna, e i distretti.

[190] Amato, libro V, capitolo XXV, lo dice espressamente. Sembra mero
patto di difesa da una parte e tributo dall’altra; patto fors’anco
temporaneo senza indole nè forma di omaggio feudale.

[191] Veggasi il Libro IV, capitolo XII, p. 419, del 2º volume.

[192] Si vegga il nostro Lib. IV, cap. XV, p. 547, 548, del 2º volume.
I fatti qui accennati si ritraggono da Ibn-el-Athir, testo, anni
442, 448, 453, 455, 457, tomo IX e X, della edizione di Tornberg;
_Baiân-el-Moghrib_, testo, tomo I, p. 308 a 312; Nowairi, _Storia
d’Affrica_, MS. arabo di Parigi, ancien fonds 702, fol. 39, verso a 42
verso; Tigiani, _Rehela_, traduzione di M. Alph. Rousseau, nel _Journal
Asiatique_ d’agosto 1852, p. 109, febbraio 1853, p. 185 segg.

[193] Ecco le parole d’Ibn-el-Athir, _Biblioteca Arabo-Sicula_,
testo, p. 276, copiate con poco divario da Abulfeda, anno 484,
Nowairi e Ibn-Abi-Dinâr, op. cit., p. 414, 447, 534. «Assediato in
Castrogiovanni, Ibn-Hawwasci uscì a combattere; ma rotto dai Franchi
si ritrasse nella fortezza: quelli cavalcarono per la Sicilia e
s’impadronirono di molti luoghi. Allora lasciavan l’isola non pochi
dotti e onesti uomini. Alcuni dei quali andarono appo Moezz-ibn-Badis
esponendogli la condizione del paese, le discordie del popolo
musulmano, il territorio in parte occupato dai Franchi; onde Moezz
allestita una grossa armata e imbarcati fanti e munizioni, la fece
salpare ch’era d’inverno. Alla Pantellaria, surta una tempesta,
la più parte annegò; pochissimi si salvarono; la perdita del
quale navilio indebolì molto Moezz, e rincorò gli Arabi sì che gli
tolsero l’Affrica.» Sendo morto Moezz il 24 sciàban 454 (_Bayan el
Maghrib_, tomo I, p. 308) ossia il 31 agosto 1062, la spedizione va
posta nell’inverno precedente, cioè pochi mesi dopo la battaglia di
Castrogiovanni della quale sappiamo la data dagli scrittori cristiani,
sì che possiamo così correggere i musulmani citati di sopra a p.
74, i quali la pongono nel 444 (1053). Gli autori arabi, per effetto
dell’anacronismo loro di otto anni, noverano questo naufragio tra le
cause del facile conquisto degli Arabi d’oltre Nilo sopra l’Affrica, il
quale era compiuto innanzi il 1061, come s’è notato in altro luogo.

[194] _Cristiani vero provinciarum, sibi cum maxima lætitia occurrentes
in multis obsecuti sunt._ Malaterra. La designazione geografica è vaga
quanto la misura dell’obbedienza, e l’una e l’altra torna al concetto
ch’io esprimo nel testo. Si tenga anco a mente che _provincia_ nella
latinità del medio evo spesso ha il mero significato di _campagna_ o
_contado_.

[195] Veggasi il lib. III, cap. III. e lib. V, cap. XI, vol. II, pag.
255 e 397.

[196] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XVIII, e l’Anonimo presso
Caruso, _Bibliotheca Sicula_, p. 838 e lib. I, cap. XV, della versione
francese. Ho tolto dal primo il numero dei militi di Ruggiero. Il testo
latino dell’anonimo ha 50, e la versione francese 200.

Il Fazzello, deca I, lib. X, cap. 1, scrive che il contado di Traina
fosse popolato di cristiani, tenendo la città i Saraceni; che Ruggiero
si fosse consigliato coi primi ed avesse ai conforti loro espugnata la
città e fondata nei dintorni la badia di Sant’Elia, la quale addimandò
d’_Eubulo_ dal buon consiglio che gli venne in quel luogo. Ei cita
in principio un privilegio greco del conte, senza indicarne la data;
ma evidentemente gli è quello del 6602 (1094 dell’èra volgare) di
cui Rocco Pirro, pag. 1011, dà una pessima versione latina, nella
quale il nome è scritto _De Ambula_, nè si fa allusione a consiglio
di sorta de’ Cristiani, nè a voto del conte, anzi questi non esercita
altra liberalità che di concedere al Logoteta Giovanni il terreno per
fondare un monastero. La citazione dunque del Fazzello va ristretta
al fatto del contado abitato da cristiani, ed in questi limiti bene
sta, occorrendo nomi greci e latini tra i villani donati dal conte al
monastero. Il rimanente della tradizione non ha documento che il provi,
nè se ne scorge vestigio nelle cronache. Donde sembra che il Fazzello
l’abbia supposto dalla significazione ch’egli credea trovar nel nome
d’Ambola, Embula, Eboli, e secondo lui Eubulo, e dal sapere vicine
alcune popolazioni musulmane, come si vedrà nel seguito di questo
capitolo. L’espressa testimonianza del Malaterra non permette così
fatto supposto.

Nè ha origine contemporanea la favola (Pirro l. c.; De Ciocchis,
_Sacrae Regiae Visitationis_, tom. II, p 642) che il Profeta Elia,
comparso a Ruggiero, con una spada in mano, lo confortasse all’impresa.

[197] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XIX, XX, il quale dà alla sposa il
nome di Delicia; e l’Anonimo, l. c., che la chiama Iucta (Iudicta). I
fatti anteriori all’arrivo di costei in Calabria si ricavano da Odorico
Vitale e Guglielmo di Gembloux, citati da M. Gaultier d’Arc. _Histoire
des Conquétes des Normands en Italie_ ec., p. 228 segg. L’autore a p.
236 in nota, sostiene che la donzella uscendo del chiostro, mutò nome
in Eremberga, supposta da altri seconda moglie di Ruggiero. Si vegga
anche un estratto del trattato di Ducange su le famiglie normanne, in
appendice all’_Ystoire de li Normant_, p. 354.

[198] In oggi due comuni distanti un miglio l’un dall’altro si
addomandano Petralia Soprana, e Petralia Sottana. Secondo il D’Amico,
_Dizionario Topografico_, questo è più recente; ma Edrisi dà una sola
Petralia con la qualità di _Hisn_, ossia fortezza in pianura.

[199] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XX; ed Anonimo, l. c.

[200] Malaterra, lib. II, cap. XX e XXII.

[201] _Antulium_ presso Malaterra, con la variante _Antelium_ e
_Antileon_ nell’Anonimo; la cronaca di fra Corrado, presso Caruso,
_Bibliotheca Sicula_, tom. I, p. 47, ha: «Antellæ quod castrum erat in
Sicilia juxta Corleonum.» Però non è dubbia la identità con Entella, il
cui nome si trova in altri ricordi da me citati nella _Carte comparée
de la Sicile_ ec., index topographique. Il Fazzello, deca I., lib.
I, cap. 6, dà un cenno topografico su l’antica città e sul castello,
dove si difesero ostinatamente gli ultimi Musulmani di Sicilia contro
Federigo imperatore. Un dotto amico mio che visitava questo castello
nel 1858, mi ha gentilmente comunicate le note e la pianta ch’egli
abbozzò, dalle quali si vede la maravigliosa fortezza del sito, la
estensione della città antica, provveduta di cisterne e fosse da grano,
e la postura di quello che a ragione si crede il castello saracenico;
gli avanzi del quale al par che quelli della città, scompariscono a
poco a poco, rubati per adoperarli da materiali di costruzione ne’
paesi all’intorno. Il sito, a cavaliere del fiume Belici sinistro, è
notato nella mia carta comparata.

[202] _Nikl_, o _Nicl_, che sarebbero soprannomi (stivale vecchio,
ovvero ceppo, ritorta, guerriero valoroso), o _Nakhli_ nome etnico.

[203] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXII; Anonimo presso Caruso,
_Bibl. Sic._, tomo II, p. 839 e nella traduzione francese lib. I, cap.
XV; ed Epistola di fra Corrado, l. c. Il Malaterra narra l’uccisione
d’Ibn-Thimna tra la dichiarazione di guerra di Ruggiero a Roberto e
l’assedio di Mileto che seguì, al suo dire, al principio (25 marzo)
dell’anno 1062. Con queste scorte ho fissata a un di presso la data.

[204] Malaterra, lib. II, cap. XXI; Anonimo presso Caruso, _Bibl.
Sicula_, tomo II, p. 838, 839, e lib. I, cap. XV della versione
francese.

[205] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXIII a XXVIII; Anonimo presso
Caruso, _Bibl. Sic._, tom. II, p. 839 ad 841; e nella versione
francese, lib. I, cap. XV, XVI. L’Anonimo suppone, con manifesto
errore, l’imprigionamento di Roberto in Geraci di Sicilia; ed è questa
tra le prove che la compilazione fu scritta nel secolo appresso e
nell’isola.

[206] Malaterra. Forse si deve intendere di militi, o diremmo lance, ed
accrescere il numero de’ cavalli a mille in circa. La data si ritrae
da ciò che Ruggiero liberavasi da’ suoi nemici in Traina, nel cuor
dell’inverno, dopo quattro mesi d’assedio. Vanno dedotte inoltre due o
più settimane corse dall’arrivo al principio della sollevazione.

[207] Malaterra.

[208] L’Anonimo, il quale ancorchè compilasse da ottant’anni dopo il
fatto, par abbia attinto ad altre memorie oltre quelle di Malaterra, e
potea per avventura conoscere il titolo preso da Ruggiero in quei primi
tempi del conquisto.

[209] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXIX e XXXI; Anonimo presso
Caruso, _Bibl. Sic._, tomo II, p. 841; e nella traduz. francese, lib.
I, cap. XVI. Il nome di Plotino è scritto Glotino nel testo latino
dell’Anonimo, e Porino o Polarino in quel di Malaterra. È da avvertire
che, secondo il Malaterra, i Trainesi bevvero tanto in quel freddissimo
inverno perchè la state soleano patire intollerabili calori per la
vicinanza dell’Etna(!!) donde _balnearum æstuationibus æstuari assueti_
etc. Mi par chiaro qui il significato di “avvezzi ad un caldo da
stufa,” e che queste parole non attestino l’uso dei bagni a Traina nel
1062, ma piuttosto in Palermo verso la fine del secolo, quando scrivea
Malaterra. La testimonianza di questo scrittore che le campagne di
Traina fossero abitate anco da Musulmani, si conferma per un diploma
del 1085 presso Di Chiara, _Opuscoli_ ec., Palermo, 1855, in-8, pag.
167. I nomi dei villani conceduti alla Chiesa di Traina nei dintorni
della città son tutti musulmani.

[210] Si vegga qui sopra la pag. 80.

[211] La morte di Moezz è recata nel 453 da Ibn-el-Athir, testo,
anno 484, nella _Biblioteca arabo-sicula_, p. 277, e dal Nowairi,
op. cit. fol. 40 recto. Ibn-es-Scerf, citato nel _Baiân_, p. 308, la
riferisce al 453, ma Abu-s-Salt, ibid., porta la data del 24 sciaban
454; e Tigiani, l. c., conferma l’anno, al pari che Ibn-Abbâr,
nell’_Hollet-es-Siarâ_, MS. della Società Asiatica di Parigi, fol. 108
verso. Mi attengo a questi tre ultimi scrittori, come autorevoli sopra
ogni altro nelle cose dell’Affrica.

La condizione di Tamîm al principio del regno è così definita da
Tigiani, MS. di Parigi, sup. 911 bis, fol. 135 recto, e trad. di M^r
Rousseau: «E gli Arabi gli tolsero ogni cosa, non rimanendogli se non
che il perimetro delle mura di Mehdia. Ma talvolta, confederandosi con
alcuna tribù d’Arabi, trovò modo d’uscire in campo contro cui veniva ad
assalirlo, e di assediare alcuna delle città ribellatesi da lui.»

[212] «_Comperto quod Arabici et Africani, qui Arabia et Africa,
quasi auxilium laturi Siciliensibus, causa lucrandi advenerant_ etc.»
Malaterra. Gli Affricani son forse quegli schiavi ziriti dei quali fa
menzione Ibn-el-Athîr.

[213] Ibn-el-Athîr, anno 484, testo, nella Biblioteca arabo-sicula, p.
277; e Nowairi, op. cit., p. 447, e presso Di Gregorio, p. 26. Entrambi
recano il fatto, senz’altra data, dopo la esaltazione di Tamîm, e
seguono a raccontare, con la transizione d’un _indi_, il passaggio
d’Aiûb a Girgenti ed altri gravi successi infino al 461 (1068-69).
L’_indi_ mi par che qui valga dopo tre o quattro anni. Si avverta che
il nome Aiûb è la forma arabica di Giobbe.

[214] Questi particolari si traggono dal seguito della storia. Credo
venuta prima la schiera di Castrogiovanni per induzione della parola
con che Malaterra incomincia il cap. XXXIII del lib. II. I limiti
che ho immaginati alla regione in cui comandò Aiûb, sono da un canto
lo stato di Girgenti tenuto da Ibn-Hawwasci, dall’altro il castel di
San Marco che suppongo in man dei Normanni. A qual principe musulmano
ubbidisse la parte dell’isola tra Licata e Taormina, non si può
argomentare da alcun dato certo nè dubbio.

[215] Le fonti latine non danno alcun nome che si possa ridurre ad
Anattor; e la variante di Malaterra, Avator, è da escludersi come
quella che riporterebbe a Caltavuturo, terra troppo lontana. Ma la
Geografia d’Edrisi nota, senza vocali, un _A. n. t. r. N. s. t. ri_
sul Simeto, a mezzogiorno di Adernò. Come il sito accennato qui dal
cronista giace poco lungi da San Felice, ove si narra che la gualdana
riposò per avere perduti assai cavalli; e come noi troviamo nella
impresa del 1061, San Felice vicina a quel tratto del Simeto (veggasi
qui innanzi la pag. 72), così è probabilissima l’identità de’ due
luoghi citati da Malaterra e da Edrisi.

[216] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXII, e l’Anonimo presso Caruso,
_Bibl. sicula_, tomo II, pag. 811, e nella traduzione francese, lib. I,
cap. XVII.

Il Malaterra racconta questi fatti prima di notare, com’ei suole,
il principio del nuovo anno, che, secondo il suo conto, correa
dal 25 marzo. L’avvenimento più importante, cioè l’avvisaglia di
Castrogiovanni, si dovrebbe dunque porre innanzi il 25 marzo 1063,
ma le altre circostanze ci sforzano a differire la correría di
Caltavuturo e Butera allo scorcio della primavera, quando in Sicilia
si patisce talvolta il gran caldo e la siccità notati da Malaterra. Da
un’altra mano gli avvenimenti che seguono non permettono di supporre
cotesta scorrería in giugno o luglio. Non è superfluo avvertire che il
Malaterra dà soltanto i nomi delle città e castella, e che son aggiunte
da me le indicazioni del corso dei fiumi che i Normanni manifestamente
seguirono.

[217] «_Africani ergo et Arabici cum Siciliensibus plurimo exercitu
congregati ut bellum comiti inferant_ etc.» — _Sicilienses_ non può
significare altro che Musulmani di Sicilia. Così anche nei cap. XVII e
XXXIII dello stesso lib. II del Malaterra. Non accadde mai in alcuno
Stato musulmano che si armassero gli _dsimmi_. Va errato dunque il
Palmieri, _Somma della Storia di Sicilia_, cap. XVIII, nel supporre, su
la dubbia interpretazione d’una variante del Malaterra, che i Cristiani
di Sicilia facessero parte dell’oste musulmana a Cerami.

[218] Si argomenta 1º dagli annali arabi che portano andato l’esercito
in Palermo; e 2º dalla morte del kaid di Palermo nella giornata di
Cerami.

[219] Tal supposto, molto probabile a priori, è rinforzato dal fatto
che il bottino fu mandato al papa per un Meledio, di nome greco e però
calabrese o siciliano. D’altronde è da considerare che i Musulmani
non si sarebbero trattenuti per tre giorni in ordine di battaglia su
l’altura opposta a Traina, se non avessero viste forze maggiori di
quelle che la cronica normanna attribuisce al conte Ruggero.

[220] Ho posto il nome del paese il quale non si trova in Malaterra.

[221] Questa data non si legge nelle cronache. La deduco da quella
precedente scorreria a Butera determinata approssimativamente nella
nota 1 a pag. 96 e dalla impresa de’ Pisani in Palermo che seguì poco
appresso.

[222] Serlone v’entrò con 30 militi e n’uscì con 36. Del resto
Malaterra non parla nè punto nè poco degli abitatori di Cerami.

[223] Anonimo.

[224] «_Et splendenti clamucio, quo pro lorica utimur (utuntur?)
armatum... et clamucium quo indutus erat nullis armis poterat violari,
nisi ab imo in superius impingendo, inter duo ferrea quæ per juncturas
cumcatenata sunt, ingenio potius quam vi vitiaretur_.» Così Malaterra,
il quale par che avesse avuta sotto gli occhi l’armatura conservata
forse dal conte Ruggiero. Il Ducange, Glossario, citando questo passo,
suppone il vocabolo corruzione di _Camicium, chemise de maille_. E in
vero la descrizione mostra un giaco di maglia orientale col petto e il
dorso coperti di laminette a mo’ di squame, come se ne vede ne’ nostri
musei.

[225] _Arcadius_. Di certo Kâid non Kâdi, come s’è supposto.

[226] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXII; e l’Anonimo presso Caruso,
_Bibliotheca Sicula_, tomo II, pag. 841-843 e nella traduz. francese,
lib. I, cap. XVIII; e l’_Epistola di Frà Corrado_, presso Caruso, op.
cit., tomo I, p. 48.

L’Anonimo ebbe sotto gli occhi di certo il Malaterra ed altre memorie;
poichè riferisce alcuni particolari diversi. Il più importante è
che Ruggiero avesse mandato Serlone a Cerami due giorni innanzi la
grande battaglia; che il dimani dell’arrivo, Serlone fosse uscito a
combattere; che Ruggiero fosse ito a trovarlo la sera col grosso della
gente e che tutti insieme si fossero avanzati contro il nemico il dì
seguente, verso le sette. Il racconto di Malaterra, al contrario, fa
supporre avvenuti tutti i combattimenti in un sol giorno.

Forse questa battaglia fu ricordata da alcun cronista musulmano,
i cui scritti non sono pervenuti infino a noi, poichè Soiutl nella
biografia di Mohammed-ibn-Ali-ibn-Hasan-ibn-Abi-l-Berr (_Biblioteca
Arabo-Sicula_, testo, cap. LXXVI, p. 672) riferisce il conquisto
cristiano della Sicilia al 455 dell’egira (1063), la quale data non si
trova negli altri ricordi musulmani.

[227] Malaterra, l. c. «_Comes, Deo et S. Petro cujus patrocinio
tantam victoriam se adeptum recognoscebat, de collato sibi beneficio
non ingratum existens, in testimonium victoriæ suæ, per quendam
suorum...... Apostolicus vero, plus de victoria..... mandat:
vexillumque a Romana sede, Apostolica auctoritate consignatum; quo
prœmio, de Beati Petri fisi præsidio, tutius in Saracenos debellaturi
insurgerent_.»

Questo è lo stendardo che il Giannone, lib. X, cap. II, dice mandato
da Alessandro II al conte Ruggiero mentre accingeasi all’impresa di
Sicilia. L’illustre storico napoletano, il quale cita qui il Baronio,
anno 1066, n. 2, non si guardò questa volta dalle insidie del cardinale
annalista.

[228] Malaterra.

[229] Argomento cotesta pratica dal confuso ed erroneo cenno che ne fa
Amato, _Ystoire de li Normant_, lib. V, cap. XXVIII: Roberto, durante
l’assedio di Bari (1068-1071), affinchè i Saraceni non potessero
munirsi e provvedersi, domandò l’aiuto dei Pisani, i quali apprestate
lor navi e compagnie di cavalieri e balestrieri, vennero dritto alla
città, spezzarono la catena del porto, e messero a terra parte di loro
forze: dopo la vittoria del duca in Puglia ebber da lui grandissimi
doni, e se ne tornarono a Pisa. Ognun vede che il racconto di Amato,
per vizio di copista o dell’autore, non regge. Si tratta al certo
di Palermo, non di Bari dov’erano Greci e non Musulmani; e del fatto
del 1063, non della espugnazione di Palermo del 1072, nella quale non
compariscono i Pisani. Da ciò argomento una pratica di Roberto nel 1063
rimasta senza effetto, e scontraffatta nella traduzione francese che
noi abbiamo. Non posso supporre che l’autore, vivente e adulto in quel
tempo, abbia commesso un anacronismo di dieci anni e scambiato il nome
della città; nè che i Pisani fossero venuti una seconda volta a spezzar
le catene del porto di Palermo, senza che ne facciano parola i loro
annali.

[230] Iscrizione del Duomo di Pisa nell’_Archivio Storico Italiano_,
tom. VI. Parte II pag. 5.

[231] _In portu vallis Deminæ_, scrive Malaterra. Per antonomasia
significherebbe Messina, ma il cronista suol sempre indicare quella
famosa città col suo nome, nè è da supporre abbia usata in questo
luogo solo una perifrasi. Secondo Edrisi, i porti del Valdemone su
la costiera settentrionale erano cominciando di ponente: Caronia in
sul confine di quella provincia, Oliveri e Milazzo; e in mezzo a’ due
primi si ricorda la spiaggia di San Marco ove si costruivano navi. Nei
novant’anni che corsero dal 1063 alla compilazione di Edrisi, non si
scavarono di certo novelli porti, e forse non ne fu distrutto alcuno.
Dunque dobbiamo ristringerci ai quattro nominati.

[232] Iscrizione del Duomo di Pisa.

[233] Iscrizione stessa, la quale accenna vagamente alla preda nelle
campagne. Noi sappiamo da Ibn-Haukal che lungo l’Oreto giaceano gli
orti di delizia dei Palermitani.

[234] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXIV; Marangone, anno MLXIII,
nell’_Archivio Storico italiano_, tomo VI, par. II, p. 5, 6; e la
_Chronica varia_ Pisana nel Muratori, _Rerum Italic. Script._, tomo
VI, p. 167. La data precisa che dobbiamo al Marangone, è il giorno di
Sant’Agapito, ossia il 20 settembre; ma stando all’ordine cronologico
del Malaterra, risalirebbe agli ultimi di giugno o primi di luglio,
poich’ei riferisce il fatto innanzi le scorrerie di Collesano, Brucato
e Cefalù che seguirono, al dir suo, nei principii della state. Credo
meriti maggior fede il Marangone, e sia da supporre qui men rigorosa
la successione di fatti notata dal cronista normanno. Notisi che
la iscrizione del duomo di Pisa porta qui l’anno comune in vece del
pisano: _Anno quo Christus de Virgine natus, ab illo Transierant Mille
etc_.

[235] Malaterra tace questa precipua cagione che apparisce dai fatti.

[236] Vecchio castello presso la spiaggia da Termini a Cefalù; nella
prima metà del XII secolo era terra assai ricca e fortificata, come si
scorge da Edrisi e da parecchi diplomi.

[237] Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXIV e XXXV; e l’Anonimo presso
Caruso, _Bibl. Sicula_, tomo II, p. 843; e nella versione francese,
lib. I, cap. XIX. Il testo di Malaterra ha il nome di Gualtiero de
Simula (var. de Simila) l’Anonimo de Cullejo (var. de Simelio) e la
versione da Similico.

[238] Lib. II, Cap. XXXVI.

[239] Malaterra, l. c. Senza ciò sarebbe falso il _plurimo exercitu_
che leggiamo pochi righi innanzi il _quingentis tantummodo militibus_.
Si vede sempre più chiaramente che per milite sia da intendere un
cavaliere seguito da due o parecchi uomini d’arme.

[240] _Tarentula, lycosa tarentula, aranea tarentula_ ec., abitatrice
de’ luoghi aridi e inculti nella Spagna, Francia meridionale, Puglia
ec., e vuolsi abbia preso il nome dalla città di Taranto e datolo alla
danza _tarantella_.

[241] “Taranta quidem vermis est araneæ speciem habens, sed aculeum
veneni feræ punctionis, omnesque quos punxerit multa venefica
ventositate replet, in tantumque angustiatur ut ipsam ventositatem
quæ per anum inhoneste crepitando emergit, nullo modo restinguere
prævaleant et nisi clibanica vel alia quævis ferventior æstuatio citius
adhibita fuerit, vitæ periculum incurrere dicuntur.” Malaterra, l. c.
Secondo i cronisti delle Crociate il morso portava grande enfiagione e
dolori; nè si potea curare se non col fuoco, con la triaca, o, secondo
Alberto d’Aix, commettendo un certo peccato.

[242] Si vegga la ritirata dell’imperatore Lodovico, andato nell’867
contro il Sultano di Bari (Lib. II, cap. VIII, p. 377 del Iº volume.)

Alberto d’Aix, Gauthier e Vinisauf, citati da Michaud, Histoire des
Croisades, tomo I, p. 297 della ediz. del 1825, raccontano somiglianti
disastri de’ Crociati a Beirut, Sidone e Tiro nel 1099.

[243] Non rimane oggi, nè si trova in alcun diploma. Il buon Di Blasi,
_Storia di Sicilia_, libro VII, cap. 8, si sforza a difendere l’onor
dell’agro palermitano da questa grave accusa; e il Palmieri, _Somma
della Storia di Sicilia_, tomo II, p. 44 e 324, si fa beffe del
Malaterra, non senza collera.

[244] Bugamo presso il Malaterra, Burgamo nella Epistola di fra
Corrado, il quale aggiugne che a’ suoi tempi, cioè allo scorcio del
XIII secolo, questa terra lontana sei miglia da Girgenti, si chiamasse
Buagimo e appartenesse in feudo alla famiglia Montaperto. È in que’
dintorni l’odierno comune di Montaperto. Il soprannome d’uomo che
passò al castello, sembra _Abu-’l-Giami’, Abu-’l-Gema’_, ovvero
_Abu-el-’Agemi_.

[245] Malaterra, lib. II, cap. XXXVI, presso Caruso, _Bibl. Sic_., p.
195, Epistola di Fra Corrado nell’op. cit. p. 48. Si riscontri Lupo
Protospatario, an. 1065, ediz. di Pertz, il quale dice che Roberto
uccise molti Saraceni e riportò statichi di Palermo. Così i Normanni
doveano raccontare il fatto ritornando in Puglia.

[246] Libro V, cap. XXVI, p. 150. Nel cap. XXVIII dello stesso lib., p.
164, è da leggere Palermo in vece di Bar, la quale lezione è confermata
dal sommario dell’indice che non risponde al testo. Si vegga anco Bar,
posta in luogo di Palermo, a p. 293.

_Et quant lo duc sapientissime vit la disposition et lo siege de
Palerme et que des terres voisines estoit aportee la marchandite, et
se alcuns negassent la grace par terre, lui seroit aportee par mer,
apareilla soi a prendre altre cite a ce que assemblast autre multitude
de navie pour restreindre Palerme.... premerement asseia Otrante_ etc.

Roberto non s’era avvicinato a Palermo nel 1061 quand’ei venne la prima
volta in Sicilia. Il passo che citiamo non si può riferire dunque che
al suo ritorno in Calabria dopo l’assedio del 1064, come lo conferma la
occupazione d’Otranto che segue immediata. Manca almeno un capitolo tra
il XXV e il XXVI, il che non farà meraviglia a niuno che abbia letta
attentamente questa traduzione francese di Amato.

[247] Ibn-el-Alhir sotto l’anno 481, nella _Bibl. ar. sic._, testo, p.
278; Nowairi, op. cit. p. 448, e presso il Di Gregorio, _Rerum. Arab._,
p. 26.

[248] Il Malaterra porta l’anno di questo combattimento, e Ibn-el-Athir
quello del ritorno d’Aiûb in Affrica, i quali coincidono in cinque mesi
(31 ottobre 1068 principio del 461 dell’egira, a 24 marzo 1069 fine
dell’an. 1068 dell’incarnazione). Sembra dunque che Aiûb fosse tuttavia
in Sicilia e forse in Palermo al tempo del combattimento, e che a
lui abbia fatta allusione il conte Ruggiero con le parole riferite
dal Malaterra: _Si ducem mutaverunt, ejusdem nationis, qualitatis et
religionis est cujus et cæteri sunt._

Sembra da coteste parole che il nuovo duce non fosse stato vinto per
anco da’ Normanni, il che ben s’adatterebbe ad Aiûb. Se poi non si
vanta la sconfitta del re d’Affrica e d’Arabia, può spiegarsi in questo
modo che Aiûb, quantunque emir de’ Palermitani in quel tempo, non si
fosse trovato alla testa della gente che uscì a combattere.

[249] Malaterra, lib. II, cap. XXXVII e XXXIX.

[250] Malaterra, lib. II, cap. XXXVIII, XLI, XLIII.

[251] Cf. Malaterra, lib. II, cap. XLI e XLII presso Caruso, _Bibl.
Sic._, p 197, L’Anonimo, presso Caruso, op. cit., p. 843, e nella
traduzione francese, lib. I, cap. XX, p. 291, pone questa battaglia
dopo lo scontro del 1063 che abbiamo riferito a p. 104. Manca forse
qualche squarcio in cui si trattasse anco dell’assedio di Palermo del
1064.

Il Malaterra descrive con evidente meraviglia il modo che si teneva a
mandare dispacci pe’ colombi. Chi voglia saperne più largamente, potrà
consultare La Colombe Messagère di Michele Sabbâg, tradotto da S. de
Sacy, Paris, 1805, in 8º; Reinaud, Extraits des auteurs arabes etc.,
relatifs aux Croisades, p. 150, Quatrémère, Hist. des Sultans Mamlouks;
par Makrizi, tomo II, parte II, p. 115 e segg.

[252] Cf. Amato, lib. V, cap. XXVII, p. 159 a 164; Malaterra, lib.
II, cap. 40, 43, presso Caruso, _Bibl. Sic._, tomo I, p. 198, 199;
Guglielmo di Puglia, libro II e III, presso Caruso, op. cit., 112, p.
117, 118; Anonimo, presso Caruso, op. cit., p. 844, 845, e traduzione
francese, lib. I. cap. XXII, p. 224; Lupo Protospatario, anni 1069,
1071; Romualdo Salernitano, anno 1070; _Cronica Amalfitana_, presso
Muratori _Antiq. Ital._, tomo I, p. 213.

Seguo per la data del principiato assedio e della resa, Amato, la
cui testimonianza conferma le correzioni cronologiche del Muratori,
_Annali_.

[253] Non ne parlano qui i cronisti, ma si vede che Ruggiero ne prese
a’suoi stipendii dopo la occupazione di Palermo.

[254] Amato, lib. VI, cap. XIII; lib. VII, cap. I e II.

[255] Amato, lib. VI, cap. XVI e XIX, parla dei _principi_ che
accompagnavano Roberto al cominciare dell’assedio e che, espugnata la
città, egli andò alla Chiesa _avec la moiller et ses frere et avec lo
frere de la moiller et avec ses princes_. Si tratta dunque de’ principi
di Salerno; nè è possibile che andando in persona non avessero condotte
soldatesche di sorta.

[256] Guglielmo di Puglia, lib. III, presso Caruso, _Bibl. Sic._; p.
122. Amato, lib. VII, cap. II.

[257] Cf. Malaterra, Amato e Leone d’Ostia ne’ luoghi indicati qui
appresso.

[258] Malaterra, lib. II, cap. XLV, p. 200.

[259] Amato, lib. VI, cap. XIV, pag. 178. Cf. Leone d’Ostia, lib. III,
cap. XVI e XLV.

[260] Amato, lib. VI, cap. XV, pag. 178.

[261] Si vegga il vol. II, p. 68, 157, 189, 296 e segg.

[262] La foce d’Oreto ne’ principii del XII secolo s’apriva
più discosto che in oggi dalla città, come il mostra il ponte
dell’Ammiraglio, il quale rimane a levante dell’alveo attuale del
fiume.

Il mare poi senza dubbio s’è ritirato in questo punto, come nell’antico
porto (la Cala).

[263] «_Castel Iehan mes maintenant se clame lo chaste Saint Iehan
etc._» Questo torna senza alcun dubbio all’Ospizio de’ Lebbrosi, poi
manicomio ed ora opificio di cuoia. La tradizione ricordava fino al
XIV secolo, (Veggasi _Anonymi Chronicon Siculum_, presso Di Gregorio,
_Rerum aragonensium_, tomo II, p. 124) che Roberto vi avesse fatto
stanza durante l’assedio. Ne fa parola anco il Fazello, Deca Iª, lib.
VIII, cap. I, allegando un diploma del 1209; ma questo è in vero
del febbraio 1219 ed attesta soltanto quel che non è mai caduto in
dubbio, cioè essere stato fondato l’ospizio da’ principi normanni della
Sicilia. Si vegga presso Mongitore, _Mans. S. Trin. Mon. hist._, p. 21,
e nella _Historia Diplomatica Friderici II_, tomo I, p. 590.

[264] Si veggano i Cap. III, e IV, di questo libro pagine 70, 110, del
volume.

[265] _Et quant li Sarrazin issoient virent novelle chevalerie et li
Normant les orent atornoies et let prisrent et vendirent pour vils
prison._

[266] _Et clama li Sarrazin a combatre._

[267] Amato. Il palagio occupato alla prima giunta, par quello che nel
XII secolo Ibn-Giobair chiama Kasr-Gia’far e gli scrittori cristiani
Favara, di che ho fatta parola nel lib. IV, cap. VII, vol. II, p.
350. Fu villa di delizia del re Ruggiero, come innanzi era stata
probabilmente degli emiri di Palermo; sia che parte degli edifizii loro
fosse stata conservata da’ Normanni, o tutto rinnovato.

[268] Una chiesetta diroccata il 1598 quando si fabbricò in quel sito
il noviziato de’ Minimi di San Francesco di Paola, si chiamava della
Vittoria e vi si leggea questa iscrizione: «Roberto Panormi duce et
Siciliæ Rogerio Comite imperantibus, Panormitani cives ob Victoriam
habitam, hanc ædem B. Mariæ sub Victoriæ nomine sacrarunt. An. Dom.
1071.» (Inveges, _Pal. nob. Er._, 7, an. 1071, nº 9; Mongitore,
_Palermo Divoto di M. V._, lib. I, cap. V; Giardina, _Le antiche porte
di Palermo_, (Palermo, 1732) p. 11, 12).

La iscrizione data il 1071 è falsa senza alcun dubbio, come lo
provano la latinità, le formole e il titolo di _Panormitani Cives_,
che allor sarebbero stati i Musulmani. Pure questa iscrizione attesta
infallibilmente un’antica tradizione, che non v’ha ragione di mettere
in forse. Errarono poi gli eruditi Palermitani ponendo all’assedio da
quel lato Roberto piuttosto che Ruggiero. Il titolo della Vittoria
rimase alla Chiesa e al Convento de’ Paolotti, il quale fu occupato
per lunghissimo tempo da uno o due squadroni di cavalleria, ed or v’ha
stanza l’artiglieria.

È da ricordare che al tempo d’Ibn-Haukal (veggasi il nostro Libro IV,
pag. 297, del II vol.) sorgea da quella parte il _Me’sker_, ricinto
fortificato senza dubbio, che i Normanni appena entrati in Palermo,
mutarono in cittadella, come sarà detto largamente alle pag. 137-138
di questo terzo volume. Si dee dunque supporre che il ricinto stesse
tuttavia in piedi al tempo dell’assedio. Ma in qual modo allor fosse
separato dalla città vecchia, e se compreso nell’àmbito delle sue mura,
non si ritrae: e però non possiamo determinare se durante l’assedio il
tenessero i Musulmani ovvero i Normanni. De’ quali due supposti credo
più verosimile il primo, e che lo alloggiamento del conte Ruggiero
fosse posto appunto rimpetto il _Ma’skar_, alla distanza di sei o
settecento metri; poichè il _Ma’skar_ par si stendesse fino all’odierno
sito di Porta nuova o un po’ più alto.

[269] Si vegga qui innanzi la p. 110.

[270] Amato, il quale narra ciò al bel principio dell’assedio,
senza poi far parola della battaglia navale dinanzi il porto, che fu
combattuta alla fine. Non credo si possa riferire a questa la presura
delle due sole navi che cita il cronista.

[271] Guglielmo di Puglia e l’Anonimo.

[272] Malaterra.

[273] Anonimo, testo latino e traduzione francese in parte.

[274] Si vegga il vol. II, p. 304.

[275] Malaterra.

[276] Di questi aiuti tace il Malaterra. Guglielmo ne parla
precisamente innanzi la battaglia del porto. Amato ne fa menzione
dopo la resa della città (Lib VII, cap. I, p. 103), quando ripiglia a
raccontare le ostilità del principe Riccardo in Terraferma... _venoient
sur la cite de Palermo li Arabi et li Barbare et faisoient empediment a
la victoriose bataille de lo duc Robert et pource il requist et chercha
l’ajutoire de lo prince Richart etc._

[277] Muratori, Annali, 1071.

[278] Amato, l. c.

[279] Il traduttore francese saltò senza dubbio la voce _mura_.

[280] Amato, lib. VI, cap. XVII, p. 179.

[281] Id. id., cap. XVIII, p. 180.

[282] Guglielmo di Puglia.

[283] Guglielmo di Puglia.

[284] Nessuno de’ cronisti ha notata la importanza di questa
diversione; Guglielmo, il solo d’altronde che narri il combattimento
navale, ripiglia _Dat validas animo ducis hæc victoria vires_, e dice
dell’assalto dalla parte di terra, senza notare nè far supporre il
tempo scorso tra l’uno e l’altro. Il Malaterra fa menzione appena del
navilio normanno, dicendo che si trovava dal lato di Roberto il giorno
dell’assalto.

Ne conchiudo che la vittoria navale non fu piena nè splendida, ma
utilissima, come quella che obbligava i Musulmani a difendersi anco nel
porto, cioè, a dividere in tre le scarse loro forze, invece di opporle
in due sole parti a Ruggiero ed a Roberto.

[285] Amato.

[286] Malaterra, _Machinamentis itaque et scalis ad trascendendos muros
artificiosissime compaginatis_. Gli è vero che la più parte si ruppe
o non servì all’opera. La grande altezza del muro richiedea si desse
larga base a coteste scale e però le doveano essere montate su ruote.

[287] Amato.

[288] Amato dice _en la nativite de Jshu Christ_ (Cap. XXII) e _en
l’aurore de jor_ (Cap. XVIII); l’Anonimo Barese, il 10 _gennaio_, e
Romualdo Salernitano, _di gennaio_. Si noti la festa celebrata nella
chiesetta della Vittoria alla Kalsa il 2 gennaio, della quale diremo or
ora.

[289] Malaterra.

[290] Guglielmo.

[291] Amato.

[292] Malaterra.

[293] Amato, Cf. Guglielmo, Malaterra e l’Anonimo. La più parte dei
compilatori siciliani ha fatto entrare nella Khalesa Ruggiero.

[294] Non fa mestieri notare che questa chiesa della Vittoria sia
diversa da quella fuor la Porta Nuova di cui si è detto di sopra.
Giace propriamente in un vicolo “chiamato oggi della Salvezza” il quale
aprendosi tra la Chiesa della Gancia e il monastero della Pietà, mette
capo al bastione dello Spasimo.

Le prime memorie in cui sia scritta la tradizione di questa Porta
della Vittoria, tornano alla fine del XV secolo: dalle quali si scorge
ch’eravi dipinta una Madonna molto celebre tra i devoti della città;
che si ottenne dal governo il permesso di fabbricarvi una chiesa; che
questa fu murata nel 1489; e che nel 1497, l’arcivescovo di Palermo,
assentendegli il Senato della città, decretò di celebrarvi una festa
annuale il 2 gennaio. Nel XVI secolo poi vi fu messa la seguente
iscrizione latina, ch’è riferita del Giardina (_Le Porte di Palermo_,
Palermo 1732, pag. 11) e che or si vede dipinta sur un’asse dopo il
secondo altare a destra:

“Porta hæc, in quam Rogerius invictissimus Siciliæ comes irrumpens,
aditura exercitui christiano ad urbem hanc Panormum ab iniqua
Saracenorum servitute emancipandam patefecit, victoria cognomento ab eo
devictorum hostium summo cum honore ob insignem reportatam victoriam,
Deiparæ Virginis cultu victoris ejusdem principi ardenti ac pio
desiderio consecrata est, quintilio mense dom. incarnationis MLXXI.”

Altra iscrizione poi attesta una novella ristorazione delle fabbriche
seguita il 1701. Oggidì si veggono: 1º Gli avanzi d’una porta nel
posto che ho indicato; 2º Una Madonna col Bambino e una bandiera,
immagine ritoccata o ridipinta, il cui stile par non possa riferirsi
all’XI secolo. Cotesta dipintura rappresenta senza dubbio la favola
raccontata del P. Ottavio Gaetani, cioè che la Madonna comparve lassù
a Ruggiero con la bandiera in mano, chiamandolo ad entrare in città.
Quanto all’iscrizione di cui ho dato il tenore e ch’è opera di Antonio
Veneziano, ognun vede che renda la tradizione qual correa presso
gli eruditi nel XVI secolo; poichè vi è nominato Ruggiero in luogo
di Roberto e messa la data di luglio 1071 in vece di gennaio 1072.
Rimondata de’ miracoli e delle invenzioni degli eruditi, la tradizione
torna al mero fatto che i Normanni entrarono da quella porta: e ciò
sta benissimo col racconto de’ cronisti contemporanei. Quando poi vi
fosse dipinta per la prima volta l’immagine della Madonna, e se fossevi
stata fabbricata una cappella nell’XI secolo o nel XII, o dopo, non mi
preme ora investigarlo, nè sarebbe agevol cosa. Si vegga il Giardina
l. c; Mongitore, _Palermo Devoto di Maria Vergine_, I, 31 segg., 250
segg.; Inveges, _Palermo Nobile_, 1071; Di Marzo Ferro, _Guida di
Palermo_, 1858, pag. 360-361. Debbo le notizie locali e il confronto
del Mongitore, al dotto giovane, il professore Antonio Salinas, ch’io
ne richiesi, non essendomi accaduto mai d’entrare in questa chiesetta
della Vittoria.

[295] Amato.

[296] Anonimo.

[297] Amato. _Et lo duc, a ceus qui sont remez liquel habitent en la
cite a liquet avoit donne mort de li parent et fame_ il fist garder
les tors. _Mes pource que Palerme estoit faite plus grant qu elle
non fu commende premerement dont de celle part estoit plus forte dont
premerement avoit este commencie la cite se clamoit la antique Palerme.
Il commencerent contre celle antique Palerme contrester cil de la cite.
Et puiz quant la bataille penserent que il devoient faire et en celle
nuit se esmurent o tout li ostage et manderent certains messages liquel
doient dire coment la terre s’est rendue._

Le parole che ho lasciate in carattere tondo sono al certo sbagliate
nella traduzione. Anzi nel primo periodo è saltato evidentemente
qualche brano del testo latino, il quale dovea dire che Roberto
aspettandosi l’assalto di coloro ec., fece guardar bene dai suoi le
torri della Khalesa.

La voce “contre” va corretta di certo, _entre_, senza che il periodo
non darebbe significato. Que’ della città (antica) non poteano
contendere con la città antica.

[298] Si vegga la nota precedente con la correzione che ho fatta alla
voce “contre.”

[299] Amato. _Et puis quant il fut jor dui Cayte alerent devant loquel
avoient l’ofice laquelle avoient li antique avec autres gentilhome
liquel prierent lo conte_ ec.

Credo non si possa interpretare altrimenti di quel che io ho fatto.
Gli _antique_ sono senza alcun dubbio gli _sceikh_, i componenti la
_gemâ’_, di che ho fatto parola nel Lib. IV, cap. XII, vol. II, p. 426,
ossia i magistrati della repubblica. I due Kâid, ossia capitani, aveano
dunque preso l’oficio della _gemâ’_, ch’era, nel presente caso, il
governo politico. Il magistrato avea risegnato l’uficio, forse la notte
stessa, forse con la spada alla gola, forse con spargimento di sangue.
I due Kâid eran proprio i capi Palleschi dell’assedio di Firenze.

[300] Amato, _o grand reverance plorant_.

[301] Cf. Amato, Guglielmo, Malaterra e l’Anonimo. Si vegga il lib. IV,
cap. V di quest’opera, vol. II, p. 301. Il nome di Nicodemo è aggiunto
con buona autorità dal Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 53 e segg.

[302] _Que sans nulle autre condition ne convenance doie recevoir la
cite a son commendement_.

[303] Lib. II, cap. XLV.

[304] Presso Caruso, _Bibl. Sic._, p. 846, e traduz. franc, lib. I,
cap. XXII, p. 295, _sur certene loy et covenances qui encore sont
gardees_. Qui i dotti editori hanno aggiunto tra parentesi _janvier_
1072, epoca della resa. Va corretto, anno 1146, quando fu scritta
quella parte di cronica com’io ho provato qui innanzi. Cap. I, p. 24.

[305] L’espugnazione di Palermo si ritrae da:

Amato, lib. VI, cap. XII a XXII.

Malaterra, lib. II, cap. XLIII, XLIV, XLV.

Guglielmo di Puglia, lib. III.

Anonimo presso Caruso, op. cit., e la traduzione francese, ll. cc.

Leone d’Ostia, lib. III, cap. XVI, e XLV.

Lupo Protospatario e Anonimo Barese, 1072, presso Pertz, dov’è la
necessaria correzione _januarii_ in luogo di _junii_.

Cronica della Cava, anni 1070, 1072.

Cronica Amalfitana, presso Muratori, _Antiq. Ital._, tomo I, p. 213.

Romualdo Salernitano, anni 1070 e 1073.

Cron. di Santa Sofia di Benevento, presso Muratori, _Antiq. Ital._,
tomo I, p. 259.

Fra Corrado presso Caruso, _Bibl. Sic._, p. 48.

Per la data, ho seguìta col Muratori (Annali, 1072), la testimonianza
dell’Anonimo barese, la quale si accorda con quella di Amato, che
l’assedio cominciasse in agosto e durasse cinque mesi. Il Malaterra
attribuisce la stessa data all’assedio e pone la resa nel 1071, poichè
egli cominciava il nuovo anno a’ dì 25 marzo.

Il Fazello, Deca IIª, lib. VII, cap. I, contro le testimonianze
contemporanee, senza allegare nè anco una tradizione, dice aperta la
città da’ prigionieri cristiani. È proprio il caso della occupazione di
Tunis successa a’ suoi tempi. D’altronde avendo fatta consegnar Messina
da’ Cristiani, il Fazello non seppe negare un onore somigliante alla
città di Palermo.

[306] Amato, lib. VI, cap. XXI, p. 182. Ibn-Khaldûn pone l’anno 464,
(28 settembre 1071-15 settembre 1072), come fine della dominazione
musulmana in Sicilia, notandovi la dedizione di Mazara, ed erroneamente
quella di Trapani, _Bibl. Arabo-Sicula_, testo, cap. L, § 19, p. 497,
498.

[307] _Dux eam_ (Palermo) _in suam proprietatem retinens et vallem
Deminæ, cæteramque omnem Siciliam adquisitam et suo adjutorio,
ut promittebat, nec falso, adquirendam, fratri de se habendam
concessit...... Nam et medietas totius Siciliæ, ex consensu Ducis et
Comitis, suæ sorti_ (di Serlone) _Arisgotique de Poteolis inter se
dividenda cesserat, eo quod hic consanguineus eorum erat, uterque autem
consilio et armis probissimi viri erant_. — Malaterra, lib. II, cap.
XLV, XLVI.

Dopo questo attestato d’un partigiano sì caldo del conte Ruggiero,
d’un vero storiografo di corte (_Quoniam ex ædicto principis tempus
scribendi imminet._ Lib. III, preambolo), non occorre esaminare quello
di Amato, lib. VI, cap. XXI, il quale, seguìto da Leone d’Ostia, lib.
II, cap. XVI, dice ritenuta da Roberto la sola metà di Palermo e del
Valdemone e ceduto il rimanente dell’isola a Ruggiero. In ciò è un
anacronismo dal 1072 al 1091, quando Ruggiero duca di Puglia cedette
una metà di Palermo a Ruggiero di Sicilia suo zio. Contuttociò non ho
esitato di scrivere su la testimonianza del solo Amato l’assentimento
dell’esercito alla concessione in favor di Ruggiero. _Et lo comanda que
vieingue tout lo excercit et loa lo excercit qu’il lo devisse doner a
lo frere. Et adont lo duc donna a son frere_ ec.

[308] Il sito, non indicato precisamente dai cronisti, è senza
alcun dubbio quello che Edrisi chiama _Hagiar-Serlu_, “la Pietra di
Serlone,”_ Bibl. Arabo-Sicula_, testo p. 60, e presso Di Gregorio,
_Rerum Arabic._, p. 122. Io l’ho notato nella carta comparata della
Sicilia.

Il Fazello, Deca Iª, lib. X, cap. I, e Deca IIª lib. VII, cap. I,
sbaglia il sito e dà due forme diverse del nome di quella rupe a’ suoi
tempi.

[309] Malaterra, lib. II, cap. XLVI; Anonimo presso Caruso, _Bibl.
Sic._ p. 846, e nella traduzione francese, lib. I, cap. XXIII.

[310] Si vegga il lib. III, cap. IX, e il lib. IV, cap. V, di
quest’opera, Vol. II, p. 180 e 297.

[311] Degli scrittori contemporanei, Amato, ossia il suo traduttore
francese, dice una _forte roche_, Malaterra, _castellum_, Guglielmo di
Puglia e l’Anonimo della metà del XII secolo, _castrum_.

Il Falcando, verso la fine dello stesso secolo, chiamava cotesta
cittadella _Palatium novum_, descrivendone il muro, _mira ex quadris
lapidibus diligentia, miro labore constructum, exterius quidem_
spaciosis _murorum anfractibus circumclusum etc._ (presso Caruso,
_Bibl. Sic._, p. 406), e altrove nomina una porta _Galculæ_, e dice
serrate tutte le porte _Galculæ_, trattando senza il menomo dubbio
della medesima cittadella (op. cit. p. 432 e 441).

L’altro Anonimo Siciliano (Muratori, _Rer. Ital._, tomo X, e Di
Gregorio, _Rerum Aragon._, tomo II), narrando nel cap. IV, secondo
le guaste tradizioni del XIV secolo, il conquisto di Palermo e la
edificazione della cittadella, aggiugne _qui locus dicitur hodie Galea_
(corr. _Galca_) _in quo nunc est palatium_. Il Pirro infine, (_Sicilia
Sacra_, p. 293), citando un diploma del XII secolo ov’è nominata la
porta _Xalces_, aggiugne che ai tempi suoi, cioè nella prima metà del
XVII secolo, la regione dov’era stata innalzata la _Porta Nuova_ si
chiamava _Xalces_ o _Alga_.

Nè mancano i diplomi. Uno dell’Arcivescovo di Palermo dato il
1132,(_Tabularium regiae ac imperialis capellæ etc_. Panormi, 1835,
p. 7), chiama questo luogo _castellum superius panormitanum_; e il
dotto editore, con la scorta del Fazello e dei diplomi, accenna il
perimetro che movendo a mezzodì dal convento di San Giovanni degli
Eremiti, passava a ponente per un giardino dove surse una chiesa
di Sant’Andrea, indi a tramontana pel luogo detto il Papireto, ed a
levante per la piazza del Palagio Reale il quale rimanea chiuso nel
mezzo. Un contratto del 1167 (op. cit., p. 24) riguarda una casa _quae
est intus Chalca_; un altro del 1258 (op cit., p. 68) concerne altro
stabile _situm in Galcam Panormi prope palacium Caseri_; e fino al 1309
(op. cit., p. 94) sappiamo d’altra casa _sita in Galca Panormi in ruga_
(rue, strada) _Sanctæ Mariæ Magdalenæ de Galca_. Così anche un diploma
greco del 6662 (1153) presso Morso, _Palermo antico_, p. 334, dice
della Porta Γάλκας ed il transunto siciliano a p. 342, della “porta di
Xalcas”.

Senza il menomo dubbio, ancorchè manchi ogni documento arabico, il nome
era _El-Halka_, trascritto nel modo che ciascun credea più conforme
alla pronunzia; il quale vocabolo, passando per bocche non arabiche,
perdè a poco a poco la prima lettera aspirata e si ridusse in ultimo
ad Alga. Il Fazello, Deca Iª, lib. VIII, cap. I, ritrasse dalle antiche
carte il sito, il nome, e fin anco il significato ch’ei dà esattamente,
ancorchè trascriva a suo modo Yhalca ed applichi erroneamente questo
medesimo nome alla Khalsa o Khalesa. Il Cascini e quindi il Morso,
_Palermo antico_, p. 228, 230, con errore diverso, fecero derivare
Chalca ec. dallo aggettivo arabico che significa _alto_.

[312] Guglielmo di Puglia e Amato.

[313] Verso il 1832 rispianandosi il suolo della Piazza del palazzo
reale, furono scoperte tre o quattro fosse da grano spaziose molto e
profonde, costruite in forma d’una pera.

[314] Lib. VI, cap. XXIII. — Ecco ora le autorità contemporanee
risguardanti la costruzione dei due fortilizii dell’_Halka_ e del mare.

Guglielmo di Puglia, lib. III.

    _Munia castrorum fecit robusta parari,_
    _Tuta quibus contra Siculos sua turba maneret,_
    _Addidit et puteos, alimentaque commoda castris._
    _Obsidibus sumptis aliquot, castris due paratis._

Malaterra, lib. II. cap. XLV. Amato, lib. VI, cap, XXIII; Anonimo _Duo
fortissima castra, alterum juxta mare, alterum in loco qui dicitur
Galea_ (corr. Galca), presso Caruso, _Bibl. Sic._, p. 846. e nella
traduzione francese, lib. I, cap. XXII. Amato e il Malaterra dicono
d’una sola fortezza, senza dubbio l’_Halka_ che era la più importante.

[315] Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 69 e 1369.

Nel primo de’ citati luoghi il Pirro fa menzione anco della chiesa
di San Pietro e Paolo accanto il Castellamare di Palermo, fabbricata
per ordine di Roberto e compiuta il 6589 (1081) come l’attestava una
iscrizione greca. Ecco dunque le due cappelle destinate a’ presidii
delle due fortezze.

La citata concessione di beni nel territorio di Mazara fu fatta senza
dubbio avanti il partaggio definitivo dell’isola, nella quale Mazara
toccò al conte Ruggiero.

[316] Fazello, Deca Iª, lib. VIII, cap. I, e Deca IIª, lib. VII, cap. I.

La Cronaca Amalfitana, presso Muratori, _Antiq. ital._, tomo I, p.
214, e Romualdo Salernitano, anno 1076, dicono finita in quel torno da
Roberto la chiesa di Santa Maria Vergine in Palermo.

[317] Amato, Malaterra, Guglielmo di Puglia, ll. cc.

[318] Guglielmo di Puglia, lib. III.

    _Reginam remeat Robertus victor ad urbem;_
    _Nominis ejusdem quodam remanente Panormi_
    _Milite, qui Siculis datur Amiratus haberi._

La voce _amiratus_ qui non sembra posta per cattivo scherzo; perchè
stanziata in Palermo la Corte normanna, il primo ministro e capitan
generale ebbe appunto questo titolo come diremo a suo luogo.

[319] Malaterra, lib. III, cap. I.

[320] Amato, lib. VI, cap. XXIII, p. 184. Cf. Guglielmo di Puglia, lib.
III.

[321] _Chronic. Amalph._, presso Muratori, _Antiq. Ital._, tomo I, p.
213. Romualdo Salernitano, anno 1071.

[322] Leone d’Ostia, lib. III, cap. LIII. Si confronti Amato, lib.
VIII, cap. XXXV.

[323] Lib. VIII, cap. XIII.

[324] Questo fatto è riferito da Amato, lib. VIII, cap. XXIX.

[325] Le prime pratiche di Gregorio VII con Roberto si ritraggono da
Amato, lib. VII, cap. IX; ancorchè il cronista, che ben potea saperlo,
non dica il soggetto delle negoziazioni e le supponga spezzate per
una quistione di cerimonia, il che non è niente verosimile. Il papa,
dice Amato, andato a Benevento volea che Roberto venisse a trattare in
città; il duca amava meglio discorrere all’aria aperta nel suo campo.
Amato segna con molta precisione la data, dicendo che all’esaltazione
d’Ildebrando, trovandosi Roberto gravemente infermo a Bari, si era
sparsa in Roma la sua morte, onde il papa avea mandato a condolersene
con la moglie e poi a rallegrarsi con lui della salute ricuperata e che
indi si cominciò a negoziare (Libro VII, cap. VII, VIII).

[326] Amato, lib. VII, cap. X, XII, XIII.

[327] Si confronti particolarmente con le altre autorità contemporanee
Landolfo, _Histor. Mediol_., edizione di Pertz. — _Scriptor_., tomo
VIII, p. 100.

[328] Questo particolare è riferito da Malaterra, lib. III, cap. XXXIX.

[329] I fatti riportati senza speciale citazione dopo il ritorno di
Roberto dalla Sicilia in Terraferma, si ritraggono da Malaterra, lib.
III, Guglielmo di Puglia, lib. III, IV, V, Anonimo, presso Caruso,
_Bibl. Sic_., p. 846 e segg. Amato non arriva che alla morte di
Riccardo principe di Capua. Si confronti per la Cronologia, Muratori,
_Annali_, dal 1072 al 1085, e Gibbon, _Decline and Fall_, cap. LVI.

[330] Credo se ne debba eccettuare quel tratto di costiera che da
Caronìa, confine occidentale del Valdemone, si stende al fiume detto
di San Leonardo o di Termini che veggiamo confine orientale del
territorio palermitano nel 1093. Perocchè i cronisti ci narrano che
Roberto ritenne per sè il Valdemone e Palermo; nè egli è verosimile
che Ruggiero abbia ceduto il territorio di Cefalù, e di tutta quella
regione la quale, non appartenente al Val Demone nè a Palermo, egli
avea corsa per molti anni, irrompendo nella costiera settentrionale per
la valle dell’Imera.

[331] Malaterra, lib. III, cap. IV, V.

[332] Malaterra, lib. III, cap. X.

[333] Nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, testo, p. 497.

[334] Il Reiske, _Annali di Abulfeda_, tom. III, nota 260, credè
trovare in questa corrotta lezione delle cronache cristiane il nome
d’Ibn-el-Wardi; nel che l’ha seguito il Wenrich. Ma la correzione non
mi pare niente certa.

[335] Si vegga il lib. IV, cap. XIV, pag. 526, 527 del secondo volume.

[336] Malaterra, lib. III, cap. I.

[337] Malaterra, lib. III, cap. I, scrive _ad infestandam Catanam_.
Ritraendosi ch’egli avesse occupata Catania il 1071 e che la si tenesse
per lui il 1076, parmi si debba intendere l’infestagione del contado.

[338] Malaterra, lib. III, cap. VII.

[339] Malaterra, lib. III, cap. VIII, IX. Si confronti l’Anonimo,
presso Caruso, _Bibl. Sic._, pag. 847; Fra Corrado, anno 1075; Lupo
Protospatario, 1076, il quale dice preso a Mazara il nipote del re
di Affrica con 150 navi: ma cotesta tradizione ripugna a quella più
autorevole del Malaterra.

[340] Si vegga qui appresso la fazione marittima del 1085 sopra Nicotra.

[341] Malaterra, lib. III, cap. X, e XXX.

[342] Malaterra lo chiama _Hugo de Gircaea praeclari generis a
Cenomanensi provincia_; l’Anonimo _Hugo de Brachia_, presso Caruso,
Bibl. Sic. p. 847 e la trad. francese, pag. 298, _Hugue de Brechie_,
e lo dice genero del Conte. Si confronti Ducange, _Les familles
normandes_, nella edizione di Amato, per Champollion, pag. 357. Le
parole dell’Anonimo _quem dominum Cathaniae praefecerat_, fan supporre
Ugo feudatario di Catania.

[343] Malaterra, lib. III, cap. X; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic.,
pag. 848; Fra Corrado, anno 1076.

Una tradizione locale, confrontata con una scrittura del XVI secolo,
la quale non sappiamo se sia fondata esclusivamente sulla medesima
tradizione, porterebbe a credere distrutta la fortezza di Judica
o Zotica, dal popolo di Caltagirone, colonia genovese che avesse
prestate sue forze al conte Ruggiero. Tratterò a suo luogo della
probabile origine genovese di Caltagirone. La tradizione, in vero, e
la citata scrittura del secolo XVI la quale è trascritta nel Ms. dei
privilegii della città di Caltagirone, fog. 602, a 609, col titolo di
_Chronica Pheudorum Hamopetri_, dicono occupata Judica dagli uomini
di Caltagirone al tempo di re Ruggiero, dal quale s’erano ribellati
que’ Musulmani; onde il re, non sapendo altrimenti domarli, promise il
territorio a chi espugnasse la rôcca. I Caltagironesi vi riuscirono
per tradimento di una loro concittadina, tenuta a forza dal signor
musulmano; la quale ordinò coi propri fratelli di aprire una notte
le porte del castello; talchè andativi gli armati di Caltagirone,
entrarono, distrussero ogni cosa e s’ebbero dal re il territorio.
Questo fatto, sotto il regno di Ruggiero il re, non può ammettersi;
tanto più che il feudo di Judica e quello di Fatanasino che v’era
congiunto, compariscono in un diploma del 1160, venduti dal fisco regio
al Comune, non già donati. Più verosimile sarebbe che i Caltagironesi,
per pratica della donna, avessero occupato il castello com’ausiliarii
del Conte Ruggiero nel 1076, e che la tradizione avesse poi confuso il
conte e il re dello stesso nome, e guasta la data al par che il titolo
d’acquisto del territorio. Ma non registrerò al certo un fatto storico
sopra simili supposti. Certo egli è che alla metà del XII secolo la
rôcca era distrutta; poichè Edrisi non ne fa parola, mentr’egli pur
nota il mensil, o diremmo noi villaggio, di Judica. Della fortezza
rimasero spaziose cisterne e pochi ruderi; e l’asprezza del monte
mostra il sito inespugnabile. Su queste condizioni topografiche e su
le tradizioni, si vegga Amico, _Dizionario topografico della Sicilia_,
articolo _Judica_: e Aprile, _Cronologia Universale della Sicilia_,
pag. 64 segg., 91 seg. Ne fa cenno anche il Fazello, Deca I, lib. X,
cap. II, trattando di Caltagirone.

[344] _Ab hac eadem urbe strictior sinus terrae ab utroque latere mari
urguente, longius in mare porrigitur, pascuis uberrimis abundans_.
Convien che il sito della città sia mutato alquanto, o piuttosto
modificati gli anfratti della spiaggia, per alcuna delle note cagioni.

[345] Malaterra, lib. III, cap. XI, XII; Anonimo, presso Caruso, Bibl.
Sic., pag. 848.

[346] _Elias Cartomensis_ (variante _Crotomensis_) presso il Malaterra,
lib. III, cap. XVIII e XXX. Il nome cristiano fu dato al battesimo, se
pur quello che leggiamo ne’ cronisti, non è alterazione di Alì, Eliâs,
o Eliseo. L’altro nome, etnico o patronimico, non si può stabilire con
certezza su la trascrizione latina. Cartami significherebbe oriundo
di Cartama di Spagna, vedi _Merâsid-el-Ittila’_, tom. II, pag. 399,
400. Si potrebbe anco leggere secondo il _Lob-el-Lobâb_, pag. 205.
_Kardami_, e _Kirtimi_ o _Kortomi_ (venditore di Zafferanone), o
finalmente si potrebbe supporre un’alterazione più grave e ridurre il
nome etnico a _Kotami_, ossia berbero della tribù di Kotama, ch’ebbe
tanta parte nella fondazione della dinastia Fatemita e lasciò tante
radici in Sicilia, come abbiamo accennato nel libro III, cap. I, V, VI,
pag. 35 segg. 122, 157. etc. del II volume.

[347] _Sepibus et siropibus claudens_, Malaterra. _Stropus_ non si
trova con questo significato nel Dizionario di Ducange, ma bene il
derivato _Strupatura_ e _Stropatura_.

[348] _Golafros_ nel Malaterra. Si vegga il Capitolo II di questo libro
pag. 66, nota 5.

Debbo avvertire che nella edizione del Malaterra va corretta _Temîm_:
la parola _Tunicii_, sì in questo luogo e sì nel lib. IV, cap. 3. Tunis
non divenne capitale dell’_Africa propria_ se non che dopo la caduta
della dinastia zirita e dopo il conquisto del paese per gli Almohadi,
nella seconda metà del XII secolo. Egli è evidente che un copista o
forse il primo editore del Malaterra, ignorando questo nome di _Temîm_,
principe zirita, credè buona lezione _Tunisii_ che tanto somiglia a
quell’altra nella scrittura. Se prova occorresse di questo, si potrebbe
vedere il lib. IV, cap. 3 del Malaterra nella edizione del Caruso,
dove è notata due volte la variante _Thumin_ che si avvicina alla vera
lezione e pur gli eruditi del XVI, XVII e XVIII secolo, la messero da
parte come erronea, perchè lo Stato di Temîm si era fatto pur troppo
celebre in Europa dal XIII secolo in poi, sotto il nome di Regno di
Tunis.

[349] Si noti che Roberto, chiamato dagli Amalfitani, assediava Salerno
in questo tempo; che i Pisani ebbero talvolta pratiche con Roberto;
come racconta Amato, lib. V. cap. XXVIII, pag. 164, e che Ruggiero,
chiamato il 1086 da’ Pisani e da’ Genovesi all’impresa di Mehdia,
ricusò, allegando i patti ch’egli avea con gli Ziriti.

[350] Malaterra, lib. III, cap. XV a XVIII; Anonimo, presso Caruso.
_Bibl. Sic._, pag. 853, il quale chiama il liberatore di Ruggiero,
Casaldus con la variante _Ansadus, Anraldus, e Cansaldus_ e nella
traduzione francese, pagina 310, _Ansalarde_.

[351] I diplomi di concessione e la carta topografica dei poderi che
ha data, ancorchè poco esattamente, Don Michele del Giudice (Lella)
in appendice alla _Descrizione del Real tempio ec. di Morreale_,
Palermo, 1702, in fol., ci abilitano a misurare sopra una buona carta
il territorio continuo conceduto intorno a Giato; senza contare gli
altri beni che la sciocca pietà di Guglielmo II largì in molti altri
luoghi. Il detto territorio, posto la più parte in provincia di
Palermo, torna a un triangolo curvilineo il cui vertice settentrionale
sia posto a Giardinello, l’orientale tocchi i boschi di Ficuzza, ed
un lato, inarcandosi verso mezzogiorno, venga a formare l’angolo di
ponente, non lungi da Alcamo in provincia di Trapani. Or in quest’area
sono adesso tre soli comuni: Piana de’ Greci, 7270, San Giuseppe li
Mortilli, 6412, Camporeale, 3157. Le cagioni di questo gravissimo fatto
dello spopolamento della Sicilia dall’XI al XVI secolo, toccate nella
_Notice_ che accompagna la mia _Carte Comparée de la Sicile_, Paris,
1859, saranno da noi trattate nel VI libro.

[352] _Jacenses_ (l. Jatenses) _natura montis quo habitabant,
numerosa multitudine suorum fisi, erant enim usque ad tredecim
millia familiarum_. È probabile che in questo numero sia compresa la
popolazione di molti villaggi tra quelli accennati poc’anzi nel testo.
E però ho detto doversi ragionare gli abitatori di tutto il territorio
per lo meno a 60,000.

[353] Malaterra, lib. III, cap. 20, 21, dove si legge: _Statutum
servitium et censum persolvere renuntiant._ Malaterra non dice da
chi fosse stata determinata la quantità del servigio e la somma del
censo. Il nome _Jacenses_ va corretto _Jatenses_. Un altro che va letto
senza alcun dubbio Corleone, è stampato _Cortitum_ con la variante
_Cornilium_.

[354] _Undecumque terrarum artificiosis cæmentariis conductis_.

[355] Malaterra, lib. III, cap. XXXII.

[356] Malaterra, lib. III, cap. XXXVI dice de’ tesori del conte
Ruggiero guardati strettamente a Troina del 1082.

[357] Il testo ha la variante Betchumne. Si veggano le strane lezioni
del nome d’Ibn-Thimna nel lib. IV di questa istoria, cap. XV, pag.
552 del vol. II. La somiglianza della _t_ con la _c_ ne’ Mss. latini
del XII e XIII secolo mi farebbe leggere volentieri Bentimino, ossia
Ibn-Thimna.

[358] Il vescovado di Catania fu ristorato il 1091.

[359] Malaterra, lib. III. cap. XXX; Anonimo, presso Caruso, _Bibl.
Sic._, pag. 853, 854 e traduzione francese pag. 310, 311, dove Roberto
di Sordavalle è detto _de Quinteval_.

[360] Malaterra, lib. III, cap. XXXVI.

[361] Notisi che il Conte Ruggiero cominciò il primo ottobre ad
allestire l’armata che dovea vendicare questo atroce insulto. È da
supporre ch’ei battesse il ferro mentre gli era caldo.

[362] Così il solo Anonimo.

[363] Si vegga lo squarcio di una _Kasida_ d’Ibn-Hamdts, che ho
riportato nel lib. IV, cap. XIV a pag. 532 del II volume. Quivi il
poeta, contemporaneo e siracusano, si vanta de’ “nemici della fede
percossi ne’ loro focolari, delle navi piene di leoni e lancianti
nafta, che vengono a saccheggiare le città de’ Barbari, de’ guerrieri
dalle luccicanti maglie di ferro, i quali se ne tornan con l’armadure
squarciate dalle sciabole musulmane ec.” Cotesti particolari si
adattano a capello alla fazione di cui trattiamo; nè alcun’altra ne
ritroviamo negli annali del tempo, alla quale convengano.

[364] Malaterra, lib. IV, cap. 2.

[365] _Resesalix_ nel Malaterra per errore al certo de’ Mss. dove si
dovea trovare la trascrizione del nome Arabico _Ras-es-saliba_, ossia
Capo della Crocifissa, che leggiamo in Edrisi.

[366] _Turonem_. Edrisi nella _Bibl. Arabo-Sicula_, testo, pag. 34, fa
menzione del monte _Tur_ o _Taur_ a Taormina, celebre per le divozioni
che vi si praticavano e pei miracoli.

[367] Il porto di Lognina è designato in Edrisi con lo stesso nome.

[368] Malaterra. Variante: di Giorgio.

[369] La superiorità de’ balestrieri cristiani è notata dal solo
Anonimo.

[370] Così il Malaterra. L’Anonimo dà al Conte l’onore di aver ferito
l’emiro.

[371] Conf. Malaterra, lib. IV, cap. I, II; Anonimo, presso Caruso,
_Bibl. Sic._, pag. 854, 855; Lupo Protospatario, anno 1088; Romualdo
Salernitano, anno 1088, il quale dice che gli assediati per la fame
arrivarono a mangiare i bambini. Ancorchè questi due cronisti pongano
la dedizione di Siracusa nel 1088 e il Malaterra nel 1085, non è dubbia
la data dell’ottobre 1086, poichè il Malaterra dice incominciati gli
appresti del navilio cristiano nell’ottobre 1085, l’assedio nel maggio
seguente e finito nell’ottobre. Una nota ms. contemporanea, citata dal
Pagi, Annali di Baronio 1087, N. II, porta questo anno la occupazione
di Siracusa per Ruggiero e il guasto d’Africa (Mehdia) pei Pisani. E
ciò ben torna contando l’anno dal settembre all’agosto.

[372] Malaterra, lib. IV. cap. III.

Il primo errore, volontario o no, di questo autore o di chi gli dettava
lo scritto, sta nella cronologia. Posto l’assedio di Siracusa nel 1086,
i Pisani non gli poteano offrir allora la città di Mehdia, la quale fu
presa nel 1087. Si trattava dunque della lega e de’ preparamenti alla
spedizione.

[373] Veggansi i libri III, cap. VI; IV, cap. IX; V, cap. III, vol. II,
p. 139-367; vol. III, pag. 80, 81.

[374] Si vegga la Introduzione ai Diplomi Arabi dell’Archivio
fiorentino § XVI, pag. XXVI

[375] Ibn-el-Athir dice per quattro anni; Guido per tre mesi. Mi
accosto anzi al primo che al secondo.

[376] Oltre i Pisani e i Genovesi, Guido cita un _Pantaleo Amalfitanus,
inter Graecos, Sipantus_. Gli Arabi dicono Pisani, Genovesi e tutti gli
altri _Rûm_ ossia, qui, Italiani.

[377] Così tutti gli scrittori arabi.

[378] Guido.

[379] A un di presso 435,000, ovvero 1,160,000 o infine 1,450,000 di
lire nostre. La prima cifra si legge in Ibn-el-Athir, la seconda in
Nowairi e la terza in Ibn Khaldûn. E questa è la più verosimile, posto
il poco valore dell’oro nell’Affrica propria nell’XI secolo, di che
ho toccato nel lib. IV, cap. VIII, pag. 362 del Vol. II, ed anco nella
Introduzione ai Diplomi arabi dell’Archivio fiorentino, § XII, pag. XVI
e seguenti. Guido dice vagamente “prezzo infinito d’oro e di argento.”

[380] Questi due altri patti si leggono nel solo poema di Guido e
mi sembrano verosimili. Non così l’ultimo che egli aggiugne, cioè di
tenere come suoi signori i Pisani e i Genovesi, di riconoscere l’alto
dominio del Papa e pagargli tributo annuale.

[381] Marangone, nell’_Archivio storico italiano_, tom. VI. parte II,
pag. 6; _Chronica Pisana_, presso Muratori _Rerum Italic_., tom. VI,
pag. 109 e 168; Caffaro, nello stesso vol. del Muratori, pag. 253:
Anno 1088, _In exercitu Africæ; Chronic. Mon. S. Sophiae Beneventi_,
presso Muratori, _Antiq. Ital_., tom. I, pag. 259; _Chronica Fussenavæ_
Anno 1087, presso Muratori, _Rer. Ital_., tom. VII; Poesia latina
di Guido, nel _Bulletin de l’Académie de Bruxelles_, tom. X, parte
I. pag. 524 segg. ripubblicata da M. Du Méril, _Poesies populaires
latines de Moyen-âge_, Paris, 1847, in-8, pag. 239 segg.; _Chronica_
di Leone d’Ostia, continuata da Pietro Diacono, Lib. III, cap. 71,
presso Muratori, _Rer. Ital._ tom. IV, la quale dà tutto il merito
dell’impresa al papa e vi fa perire centomila Saraceni; Bernoldi,
_Cronic_., presso Pertz, _Script_., tom. V, pag. 447. Si vegga un’altra
autorità contemporanea citata dal Pagi, _Annali del Baronio_, anno
1087, N. II (§ VIII del Baronio.)

_El-Bayân-el-Moghrib_, testo arabico, edizione Dozy, tom I, pag.
309, 310; Ibn-el-Athir, anno 481.,ediz. Tornberg, tom. X, pag. 109,
110; Nowairi, nella _Bibl. Arabo-Sicula_, testo, pag. 434; Tigiani,
nella Bibl. Arabo-Sicula, testo, pag. 390, 391 e traduzione francese
di M. Rousseau nel _Journal Asiatique_ di febbrajo 1853, pag. 72,
leggendosi per manifesto errore del Ms. il riscatto di 1000 dinar;
Ibn-Khaldûn, _Histoire des Berbères_, traduzione di M. De Slane,
tom. II, pag. 24,; infine Ibn-Abi-Dinâr (El Kaireuani) testo, nella
_Bibl. Arabo-Sicula_, pag. 530 e traduzione francese, pag. 146, dove i
traduttori han letto Veneziani in luogo di Pisani. Secondo Ibn-el-Athir
e Nowairi fu pattuita la restituzione dei prigioni Musulmani. Tigiani
dice positivamente il contrario. I versi che ci rimangono dell’elegia
arabica sono stati tradotti nella _Nuova Antologia_ di Firenze, vol.
II, fasc. V, pag. 62, maggio 1866.

La data esatta, che si legge nel _Bayân_, e ch’è seguita da Tigiani e
da Ibn-Khaldûn, torna al 480 dell’egira (8 aprile 1087-26 marzo 1088).
La conferma la ecclisse solare del 1 agosto 1087; poichè Abu-s-Salt,
citato dal Tigiani, dice seguìto il caso di Mehdia immediatamente dopo
la ecclisse totale del sole nella costellazione del Lione, sotto la
quale erano state gittate le fondamenta di quella città. Ibn-el-Athîr,
Nowairi e Ibn-Abi-Dinâr riferiscono il fatto al 481. Marangone dà il
giorno di San Sisto del 1088 (1087 dell’anno comune), e la cronica di
Santa Sofia il 1089. Ricordisi che, se si dovesse credere al Malaterra,
sarebbe stata presa Mehdia il 1086.

Su la citata poesia latina è da notare la esattezza de’ nomi geografici
e di molti fatti che si ritraggono da fonti musulmane. Per esempio
veggiamo _Madia_ (Mehdia) mirabile e vasto porto e _Sibilia_ (Zawila)
città attigua a quella; _Pantalorea_ (Pantellaria) _Timimus_ (Temîm)
gli _Arrabites_ (Arabi) nemici di Temîm, _macris equis insidentes,
corporibus ductiles_ ec. In generale si può dire che, tagliando un paio
di zeri nelle cifre numerali, la narrazione corra esattissima.

Si riscontri il Muratori, _Annali_, 1088, il quale, non avendo alle
mani le memorie arabiche, nè il poema di Guido, cammina con troppo
sospetto; suppone esagerata troppo la importanza del fatto; si adombra
di quella espugnazione contemporanea di due città, Almadia e Siviglia
(El-Mehdia e Zawila) la seconda delle quali gli pare la nota città di
Spagna; e conchiude erroneamente “che lo sforzo de’ Pisani fu contro
Tunisi.” A cotesto sbaglio lo condusse per avventura la lezione del
Malaterra: _urbem regiam regis Tunicii_, dove, senza dubbio, è da
leggere _regis Temimi_, sì come ho notato in questo medesimo capitolo
pag. 158, nota 1.

[382] L’_ha_, sesta lettera dell’alfabeto arabico, fu resa per lo
più, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine _ch_;
e il _dal_, ottava lettera, più spesso con una _t_ che con una _d_.
L’Anonimo ha _Hamus_.

Sapendosi dalla storia che _Chamut_, fatto cristiano con tutta
la famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo
ben identificare il casato con quello del Ruggiero _Hamutus_, già
proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla
chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 142) e
dell’Ibu-Hamûd, ricchissimo signore che Ibn-Giobair vide in Sicilia nel
1185. Questo nobil uomo poteva esser figliuolo o nipote del regolo di
Castrogiovanni. Sapendosi ch’ei portasse il soprannome d’Abul-I-Kâsim,
sembra anco il _Bulcassimus_, celebre per brighe alla corte di Palermo,
ne’ primordii del regno di Guglielmo il Buono; l’Abu-I-Kâsim al quale
Ibn-Kalakis intitolava il suo _Ez-Zahr-el-Basim_; e l’Ibn-Abi-I-Kâsim,
al quale Ibn-Zafer, venuto in Palermo, dedicava, una diecina di anni
innanzi, l’_Asalib-el-Gaiah_, il _Mosanni_, il _Dorer-el-Ghorer_, e
la seconda edizione del _Solwân-el-Motha’_, sì come io ho notato nella
Introduzione al _Solwân_ (Firenze, 1851) pag. XXIV a XXVII. Si avverta
che il nome di Kâsim e il soprannome di Abu-I-Kâsim tornano assai
frequenti tra i Beni-Hamûd. Le genealogie di costoro si rinvengono
nel Ms. di Parigi, intitolato _Ansâb-el-Arab_, Supplem. Arabe,
467, fog. 90, verso, e in quello della stessa Biblioteca intitolato
_’Omdet-et-Talib_, Ancien Fonds, 636 fog. 93, verso e segg. nelle
quali opere non si fa parola dei Beni-Hamûd di Sicilia. Della casa
spagnuola di questo nome dicono tutte le istorie di Spagna e d’Affrica
dell’XI secolo; per esempio _Marrekosci_, testo, pag. 30 segg., 43
segg.; il _Bayân_, tom. I, pag. 308; Ibn-Khaldûn, _Storia de’ Berberi_,
traduzione francese, tom. II, p. 152 segg.; Dozy, _Histoire des
Musulmans d’Espagne_, tom. III, p. 316 segg. e passim, tom. IV, p. 13 e
segg.

Non merita alcuna fede il libro di Nicasio di Burgio, conte palatino
XXIII, intitolato _La Discendenza di Achmet_, ec. Trapani 1786,
in-fol., nel quale si sostiene che la famiglia Burgio discenda da
questo Hamudita.

[383] Malaterra, lib. IV, cap. 5; Anonimo, presso Caruso, _Bibl. Sic._,
pag. 855; Fra Corrado, op. cit., pag. 48.

Il Malaterra pone questo fatto nel 1086; ma al certo sbaglia d’un
anno, com’è manifesto dalla correzione che abbiam fatta alla sua
testimonianza su la espugnazione di Siracusa e di Mehdia, qui
innanzi pag. 168 e 172, in nota. Ibn-el-Athir, Abulfeda, Nowairi,
Ibn-Abi-Dinâr, nella _Bibl. Arabo-Sicula_, pag. 278, 414, 448, 534
portan la data del 481 (1088-89).

I nomi delle castella prese nella provincia di Girgenti, sono tolti dal
Malaterra, correggendo alcun evidente errore del testo. Rimane dubbio
il suo _Racel_, che ho trascritto sicuramente _Rahl_ (stazione), ma
vi manca il nome che dee seguire per determinare quella appellazione
generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi
Rahl di quella provincia. Credo avere ben letto _Ravanusa_ il Remise,
(variante Remunisse) del testo, poichè Micolufa sorgea presso Ravanusa.
Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò
Malaterra, nel suo libro “_La conquista di Sicilia_” recentemente
uscito alla luce (Collezione d’opere inedite o rare, Bologna, 1865,
in-8) dà otto soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovati
gli altri ne’ testi; ed un Ms. della stessa opera, appartenente
alla _Bibliothèque de l’Arsenal_ in Parigi (Ital. N. 68) ne dà
sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi,
Mocofe, Cyaxo “e li altri, aggiugne, non so chi si fussiru e nun si
canuxirianu, ec.”

Intorno i nomi che non si trovano nella lista odierna de’ Comuni di
Sicilia, si vegga il _Dizionario Topografico_ del D’Amico e l’Indice
che io ho messo in fine della _Carte comparée de la Sicile, Notice_.

[384] Malaterra, lib. IV, cap. 6; Anonimo, presso Caruso, Bibl.
Sic., p. 855. Secondo Fra Corrado, op. cit., pag. 48, Castrogiovanni
e Girgenti furono occupate nello stesso anno. Ma ciò non è detto
precisamente da Malaterra; nè citato l’anno dell’avvenimento, il quale,
secondo la serie dei fatti narrati dallo stesso cronista, tornerebbe
al 1087, ovvero ai primi mesi del 1088. Gli Arabi pongono la resa di
Castrogiovanni nel 484, tre anni dopo quella di Girgenti (1088-89) e le
fanno cedere entrambe agli orrori della fame: Ibn-el-Athir, Abulfeda,
Nowairi e Ibn-Abi-Dinar, nella _Bibl. Arabo-Sicula_, testo, p. 278,
414, 448, 534.

A Sciacca si crede, o almeno si credeva un tempo di possedere proprio
il fonte battesimale nel quale fu reso cristiano il degenere nipote
d’Alì. Si vegga una Memoria di Vincenzo Venuti, con corredo di diplomi
che puzzano di falso, negli _Opuscoli di Autori siciliani_, Tom. VII,
pag. 16. (Palermo, 1762).

[385] Malaterra lib. IV, cap. XII, XIII, XV; Anonimo presso Caruso,
_Bibl. Sicula_, p. 855; Fra Corrado, op. cit., p. 48. Per la venuta
di Urbano II in Sicilia e l’assedio di Butera, seguo la cronologia del
Pagi, Annali di Baronio, 1089, § IX. Gli annalisti Musulmani, citati di
sopra, differiscono dai cristiani; tacendo di Noto e Butera e ponendo
ultima città occupata Castrogiovanni, ma concordano nel designare
il 484 (22 febbraio 1091 a 11 febbrajo 1092) come l’anno in cui fu
compiuto il conquisto normanno.

[386] _Resacrambam_, Malaterra.

[387] Malaterra, lib. IV, cap. XVI. Il tempo che durò la guerra di
conquisto è confermato da Edrisi, il quale lo dice appunto trent’anni,
contando dal 453 (26 genn. 1061 a 14 genn. 1062). Testo nella
_Biblioteca Arabo-Sicula_, pag. 26.

[388] Di questo sito han trattato Fazello, Deca 1, lib. 4, cap.
I; Amico, _Dizionario topografico_, traduzione italiana, tom. II,
Appendice, alla voce Pantalica; Massa, _Sicilia in prospettiva_,
tom. II, pag. 126; Ferrara, _Guida di Sicilia_, pag. 151; Bourquelot,
_Voyage en Sicile_, Paris, 1848, pag. 491 segg.

L’importanza di Pantalica nel 1093 si scorge dal diploma trascritto
dal Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 618, dove il nome è scritto Pantegra,
mentre si legge Pantargo in altro diploma del 1151, op. cit. p. 993;
e l’Edrisi, testo, nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag. 56, 57 lo dà
Bentarga. Ei chiama l’Anapo _Nahr-Bentargha_, ossia fiume di Pantalica.

[389] Malaterra, lib. IV, cap. XVIII; Cf. _Anonymi Chronicon Siculum_,
presso il Caruso, pag. 856 e nella traduzione francese, p. 312.
Ancorchè il testo del Malaterra porti questi fatti nel 1092, mi è parso
di seguire più tosto la data notata dal Pirro, _Sicilia Sacra_, pag.
XI e 612, secondo una inscrizione sepolcrale oggi, a quanto e’ pare,
perduta.

[390] Oltre che questo risulta chiaramente dai fatti, sel sapeano
ben Ruggiero e i suoi contemporanei. «Comes ergo totius progeniei
suæ sustentator, citra Romam versus Siciliam, sicuti maria ab undique
cingunt, abundantia rerum et industria callentis, sapientis consilii
præcellebat; unde et omnes sua negotia ad ipsum conferebant.» Malaterra
lib. IV, cap. XXVI Cf. cap. XVII, XX ec.

[391] Lib. III, cap. XLI.

[392] Così espressamente nel lib. IV, cap. XXIV, trattando di quella
ch’ei chiama ribellione d’Amalfi, del 1096.

[393] Si veggano i cap. I e V del presente libro, pag. 31, 37 segg. e
141 del volume.

[394] «Maxime quia Apuli, expeditionibus aliquo annorum curriculo
desueti, corpus nullis plagis et diutinis laboribus fatigando,
quin recreando sibi potius indulgere, quam expeditionibus iterum
assuescendo, insudare nitebantur.» Malaterra lib. IV, cap. XXVI.

[395] Malaterra, lib. III, cap. XLI.

[396] Malaterra, lib. IV, cap. XXIV.

[397] /P «Simon fonte, pictus fronte inunctione chrismatis, Heredatur:
solidatur Dux futurus Siculus: Calabrenses suos enses sibi optant
adjici: Pater totum implet votum: Dux concessit fieri.» Malaterra, lib.
IV, cap. XIX. P/


[398] Malaterra, lib. III, cap. XLI. Sul primo partaggio si vegga il
cap. I del presente libro, pag. 51 del volume.

[399] Malaterra, lib. IV, cap. IX segg.

[400] Si vegga il capitolo VI, pag. 156, dove si dice delle soldatesche
capitanate da Elia Cartomi, le quali sembrano di certo musulmane.

[401] Malaterra, lib. IV, cap. XVII.

[402] Malaterra, lib. IV, cap. XXII.

[403] Si veggano i cap. IV e VI del presente libro, pag. 107, 176 del
volume.

[404] Lupo Protospatario, anno 1096; _Annales Cavenses_, sotto lo
stesso anno, presso Pertz, _Scriptores_, tom. III, pag. 190; Pietro
Diacono, lib. IV, cap. XII; Romualdo Salernitano anno 1096. Alcuni
compilatori hanno notato che, se i Musulmani fossero stati 20,000, si
sarebbe continuato l’assedio. All’incontro è da considerare che il
Conte e gli altri capitani cristiani non amavan di certo a rimanere
in balìa de’ Musulmani, appunto in quella spaventevole eruzione di
passioni religiose.

[405] Malaterra, lib. IV, cap. XXIV. Si confronti Guiberto Abate,
_Historia Hierosolim.,_ lib. III, cap. I.

[406] Mi par che il Malaterra, col suo _tentoria bitumine palliata_,
alluda soltanto al colore; siccome in un altro luogo (lib. III, cap.
XIX), descrivendo la costruzione della Chiesa di Traina, ei dice:
_Parietes depinguntur diverso bitumine_. Pure potrebbe significar tende
di tele incatramate, poichè la voce _bitumen_ si adoperava nella bassa
latinità per designare ogni sorta di materia resinosa. Veggasi Ducange
alla voce _bituminare_. Quanto al verbo _palliare_, credo che qui sia
usato nel senso di colorare, non di addogare, dipingere a forma di
pali, o strisce.

[407] Malaterra, lib. IV, cap. XXVI a XXVIII.

[408] Vita di San Brunone, negli _Acta Sanctorum_, ottobre, tomo
III, pag. 662 segg., 719 segg. e il diploma del conte Ruggiero, dato
il 1098; su l’autenticità del quale ho molti dubbii, non ostante i
lunghissimi comenti degli eruditi editori. Cotesto diploma e parecchi
altri relativi al Monastero di San Brunone si leggono ne’ _Regii
Neapolitani Archivii Monumenta_, vol. V, n^i 450, 466, 477, segg. 494,
segg. 510; pag. 129, 171, 203, 204, 205, 208, 245, 246, 249, 278.

[409] «Et sumptis ab Anselmo corporalibus cibis, gratiosi
revertebantur.»

[410] Eadmeri, _Vita S. Anselmi_, estratto, presso Caruso, _Bibliotheca
Sicula_, pag. 974, 975.

[411] «E (i Franchi) infestarono qua e là l’Affrica (propria)
occupandone qualche luogo, che poi perdettero.» Mi par che queste
parole accennino chiaramente ai fatti di Bona e Mehdia da noi testè
raccontati (cap. I e VI, pag. 13 e 168, del presente volume) e forse ad
altri che ignoriamo.

[412] Letteralmente sarebbe in latino: _Femure sublato, pepedit crepito
magno._

[413] Ibn-el-Athîri _Chronicon_, testo, anno 491 (1097-8), ediz.
Tornberg, tomo X, pag. 185 segg. e nella mia _Biblioteca Arabo Sicula_,
testo, pag. 278, 279. È da notare che lo stesso nome di Barduil
(Baldovino) è dato dagli annali musulmani all’imperatore Ottone II
(Veggasi il nostro lib. IV, cap. VII, pag. 328 del secondo volume).
Sembrerebbe che, sotto uno dei primi Baldovini di Gerusalemme, fosse
passata dai Cristiani a’ Musulmani qualche falsa tradizione su l’impero
de’ Franchi, pervenuto in linea retta da Carlomagno alla casa di
Bouillon.

[414] Si vegga il Capitolo precedente, pag. 168 di questo volume.

[415] Si noti che il Conte, conducendo i suoi Saraceni all’assedio
di Capua, era corso fino a Benevento, alla quale città avea messa una
taglia. Malaterra, lib. IV, cap. XXVI.

[416] Si vegga il Capitolo precedente, pag. 176.

[417] Ruggiero assediava Butera, come si è notato al luogo citato,
nell’aprile del 1089. Il papa venne a trovarlo nella stessa primavera
o nella state; e poi nel settembre fu celebrato il Concilio di
Melfi, dove si proclamò la tregua di Dio, e il duca Ruggiero ebbe
l’investitura dal papa.

[418] Malaterra, lib. IV, cap. XXIII, il quale dice del vescovo di
Traina: _nam Italus erat et illorum partium gnarus_. Questa espressa
testimonianza porta a correggere i luoghi di Pirro del Fazello e
di tutti i compilatori, che credono fatto vescovo di Traina, e poi
di Messina, Roberto di Grantemesnil fratello della prima moglie di
Ruggiero, ch’era abate di Sant’Eufemia in Calabria fin dal 1062.

[419] Pandolfo Pisano presso Muratori _Rerum Italic. Script._, tom.
III. parte I, p. 353.

[420] Malaterra, lib. IV, cap. XXVII.

[421] Op. cit., lib. IV, cap. XXIX.

[422] Lupo Protospatario e Romualdo Salernitano, entrambi sotto l’anno
1101. Il giorno è determinato dal registro mortuario cassinese, presso
Caruso, _Biblioth. Sicula_, pag. 523. Lasciando da canto gli altri
scrittori Arabi che vagamente dicono morto Ruggiero avanti il 494,
ci basti ricordare Edrisi e Ibn-Khaldûn, i quali pongono la morte
del conte precisamente in quell’anno, cioè dal 6 novembre 1100 al 26
ottobre 1101. Si veggano i due testi nella _Biblioteca Arabo-Sicula_,
pag. 26, 485 e 498, e la versione del secondo per M. de Vergers, pag.
183.

[423] Malaterra, lib. IV, cap. XXV.

[424] Si vegga qui innanzi, pag. 192.

[425] Malaterra, lib. III, cap. XXII.

[426] Id., lib. IV, cap. VIII.

[427] Id., lib. IV, cap. XIV, Cf. _Anon. Chron. Sic._, presso Caruso,
_Bibl. Sic._, pag. 856, e nella traduzione francese, p. 312. Su la
figliuolanza del Conte Ruggiero, si vegga il Pirro, _Chronologia Regum
Siciliæ_, pag. X segg., e Ducange, _Familles Normandes_, in Appendice
ad Amato, pag. 354 segg. Il Pirro nel detto capitolo, pag. XI, novera
anco tra i figliuoli del conte Ruggiero un Malgerio, il cui nome
si cava da’ Diplomi della sua raccolta ed anco è soscritto in altri
dell’Archivio di Napoli, due de’ quali dati il 1094 uno il 1098, uno
il 1102 ed uno il 1096 pubblicati nel _Regii Neapolitani Archivii
Monumenta_, vol. V, pag. 205, 208, 249, 278 e vol. VI, pag. 164. Il
diploma del 1098 è stato pubblicato anco dai Bollandisti (Vita di San
Brunone, ottobre, tomo III, pag. 662 segg.). Credo illegittimo questo
Malgerio, perchè il Malaterra tace di lui, non essendo sforzalo dagli
avvenimenti a nominarlo, e non pensandosi, forse, a lui in corte quando
si trattava della successione.

[428] Malaterra, lib. IV, cap. XIX.

[429] Sapendosi con esattezza il giorno della morte dei re Ruggiero a
dì 26 febbrajo 1154 e ch’egli avesse allora 58 anni, 2 mesi e 5 giorni,
la sua nascita torna al 22 dicembre 1093. Su questa data si sono fatte
molte controversie da chi voleva a forza far nascere il bambino dopo
l’assedio di Capua, per le parole del Malaterra: _ibi se impregnavit
Comitissa Adelasia de comite Rogerio_. Ma non si è riflettuto che
questo Ruggiero è appunto il padre! I Bollandisti non avean dunque
bisogno di supporre un’interpolazione del testo di Malaterra, per
provar seguìto l’assedio di Capua il 1098, come il fanno nella vita di
San Brunone, tom. III di ottobre, pag. 655 segg.

[430] Malaterra, lib. IV, cap. XIV.

[431] /P Marchionis, Militonis, Bonifacii itali, Neptis ornat, quod
exornat Uxor Adelasia Brutiorum Siculorum Comitem Rogerium etc. P/

Questi versi latini di metro italiano, attribuiti a Maraldo, monaco di
Calabria contemporaneo del primo conte Ruggiero, celebrano la nascita
del costui figliuolo per nome anco Ruggiero e il battesimo datogli
da San Brunone. Li pubblicò per lo primo il Bulini, nel Prospetto
della Storia de’ Certosini, come ritraggo dagli _Acta Santorum_,
mese d’ottobre, vol. III, pag. 656 segg. dove i dotti editori li
ristamparono a proposito di San Brunone. Ma l’appellazione classica
di Bruzii data a’ Calabresi odora di erudizione troppo più moderna.
Inoltre i primi quattro versetti sembrano copiati dalla prosa del
Malaterra che dinanzi citammo. Perciò non mi fido troppo all’attestato
di frate Maraldo.

[432] _Anonymi hist. sicula_, presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 856,
e nella traduzione francese, pag. 312.

[433] _Historia Ecclesiastica_, lib. XIII, presso Duchesne, _Histor.
Norman. Scrip._, pag 897.

[434] Pirro, _Chronologia Regum Siciliæ_, pag. XII e XIII; Muratori
_Annali d’Italia_, an. 1090.

[435] Fin anco gli Autori dell’_Art de verifier les Dates_ (ediz. del
1777 vol. III, pag. 630), e il diligentissimo Saint-Marc (_Abregé
de l’Histoire d’Italie_, tom. II, pag. 1039) danno un Bonifazio I,
Marchese di Monferrato dal 1060 al 1100.

[436] _Osservazioni critiche sopra alcuni particolari delle Storie del
Piemonte e della Liguria_, tra le _Memorie della Reale Accademia delle
Scienze di Torino_, Serie seconda, tomi XIII, XIV, XV.

[437] De’ Simoni, negli _Atti della Società ligure di Storia Patria_,
vol. I, pag. 141, 142, 647, 648; e il medesimo, _Lettera a M. Amari_,
nella _Nuova Antologia_, vol. III, pag. 193 segg. Firenze, settembre
1866.

[438] Si veggano più precisamente i confini, nella _Nuova Antologia_,
l. c.

[439] Breve di Gregorio VII, del 3 novembre 1079, da Labbe, _Concilia_,
presso San Quintino, op. cit. _Memorie dell’Accademia di Torino_, tom.
XIII, p. 53.

[440] _Introduzione_, pag. X a XIII. Tra gli altri errori familiari
all’impostore maltese replicati in questa pergamena, è la lettera _aín_
aggiunta nel nome di Messina. Ecco intanto la storia del diploma.

L’Archivio di Napoli comperò questa ed altre pergamene da privati
nel 1844, com’io ritraggo dall’erudito signor Giuseppe Del Giudice.
Il professore Lettieri che sapea benino la grammatica arabica ma
non avea tanta pratica della lingua e molto meno della paleografia,
credè tener nelle mani un gioiello; onde, tutto lieto, lo presentò al
Congresso, come si scorge dagli _Atti della settima adunanza degli
Scienziati italiani_, Napoli, 1846, pag. 641. Quivi si legge che
l’accademico signor De Ritis mise in forse l’autenticità del Diploma
e che disputatone un poco, si passò ad altri argomenti e sollazzi.
Il Congresso non s’era adunato di certo per giudicare cartapecore
arabiche, nè trattar di cose letterarie. Mi sia lecito aggiugnere che,
vivendo io allora in Parigi, informato della scoperta, dichiarai _a
priori_ falso cotesto documento; e che dopo il 1849, procacciatomi
per favore del dottissimo Duca di Laynes, il _fac-simile_, che n’era
stato inciso in rame, mi confermai nel giudizio e confermollo anco
il mio maestro M. Reinaud. Morto intanto il Lettieri mentr’egli si
apparecchiava a pubblicare la traduzione e il comento, rimasene il
manoscritto ai suoi eredi; ma il diploma fu messo in mostra con una
bella cornice nella sala dell’Archivio di Napoli, il cui Direttore,
principe di Belmonte, nell’opera intitolata _Legislazione positiva
degli Archivii del Regno_, Napoli, 1855, pag. 86, lo noverava tra “i
più curiosi dell’Archivio” quantunque avvertisse “bisogna andar cauti
e vedere se sia autentico.” Il fatto è che la cornice e il diploma
sono rimasti per tanti anni e rimangono forse anch’oggi, esposti
all’ammirazione del colto pubblico.

[441] Si vegga l’_Introduzione_, nel volume I della presente opera,
pag. XXXIII, XXXIV.

[442] Su i diplomi di Sicilia venuti in luce innanzi il XIX secolo,
si vegga il Gregorio, _Introduzione al Diritto pubblico siciliano_,
pag. 33 segg.; 87 segg. della prima edizione, e in varii luoghi delle
_Considerazioni_. Anco il Gregorio diffidò delle versioni de’ diplomi
greci, come si scorge dalle Considerazioni, lib. I, cap. vj, nota 12.

[443] Si rinvengono, insieme con documenti d’altro idioma, nelle
seguenti opere:

Morso (Salvatore), _Palermo antico_, 2ª ediz. Palermo, 1827, in-8.

Buscemi (Niccolò), nella _Biblioteca Sacra per la Sicilia_, ossia
_Giornale Lett. Scient. Ecclesiastico_, Tom. I, II. Palermo, 1832,
1834.

Martorana (Carmelo), _Risposta_ al Buscemi, nel _Giornale di Scienze e
Lettere per la Sicilia_, Palermo, 1834, in-8.

Garofalo (Luigi), _Tabularium Capellæ Collegiata in r. panormitano
palatio_, Panormi, 1835, in foglio.

Mortillaro (Vincenzo), _Catalogo de’ Diplomi.... della Cattedrale di
Palermo_. Palermo, 1842, in-8.

» _Elenco cronologico delle antiche pergamene della Magione_ Palermo,
1859, in-4.

» _Opere_, tomo IV. Palermo, 1848.

[444] Spata (Giuseppe), _Le Pergamene greche esistenti nel grande
Archivio di Palermo, tradotte ed illustrate_, Palermo, 1861, in-8
(uscito il 1865).

» _Sul cimelio diplomatico del Duomo di Monreale_, Palermo, 1865, in-12.

[445] Avverto che per brevità saranno da me citati senz’altra
qualificazione che di inediti, tutti i diplomi arabici di Sicilia de’
quali mi ha cortesemente mandate copie il Prof. Cusa.

[446] Trinchera, _Syllabus membranarum_, etc. Napoli, 1865, in-4.

[447] Ve n’ha alquanti nelle collezioni poc’anzi citate, a pag 203,
nota 2.

Inoltre si vegga il Di Chiara, _Opuscoli editi, inediti e rari sul
Diritto pubblico eccl. della Sicilia_, Palermo, 1855, in-8.

[448] Si vegga i nostri libri III, cap. xj, e IV, cap. xj, pag. 216,
217, 396 a 399 e 414 del vol. II.

[449] Malaterra, lib. IV, cap. xviij, xx, xxix.

[450] _L’Ystoire de li Normant_, lib. V, cap. xij, xxj, xxv; lib. VI,
cap. xix. Si noti anco il titolo di _Cristianissimo_ ch’ei dà a Roberto
Guiscardo, nel lib. V, cap. xxv.

[451] Forma siciliana della voce _appetito_.

[452] Non è da confondere questo vocabolo col derivativo dalla terra di
Giudica (Judica) che alcuni scrissero Zotica.

[453] Corre il cane. Sicil.

[454] Si veggano i diplomi citati qui appresso a pag. 208 per San
Marco, Rametta, Librizzi, San Filippo di Fragalà.

[455] Presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 475.

[456] Lib. IV, cap. xj, a pag. 399 del secondo volume.

[457] Così gli ignoti autori della _Breve istoria della liberatione
di Messina_, di cui abbiamo già detto nel lib. V, cap. II, pag. 56 di
questo volume; il Fazzello con la sua fola de’ prigioni che aprirono
la porta di Palermo, e tutti quanti. Il Martorana, _Notizie, ec._, lib
II, cap. ij, pag. 43, accortosi di cotesto errore, corse ad un altro,
supponendo spento il Cristianesimo in Sicilia: del che abbiamo trattato
nel libro IV, cap. xj, pag. 414 del vol. II.

[458] _Considerazioni_, vol. I, Prefazione, pag. xx segg. lib. I, cap.
ij, pag. 43-44.

[459] Non occorre citare le molte carte greche di MESSINA, nè le poche
che si conoscono di TRAINA, quando abbiamo tante testimonianze dirette
su quelle popolazioni. Ne fan fede per le altre i diplomi seguenti:

RAMETTA, 1096, traduzione dal greco, presso Gregorio, _Considerazioni_,
tomo I, pag. xxvj delle note; ch’è sentenza con giudici e testimonii
greci e alcuno forse latino: Giovanni Melo, Pietro Ricato, Niccolò
Tisita, ec.

SAN MARCO, 1110, testo greco, edito dal Buscemi nella _Biblioteca
Sacra_, Palermo, 1832, vol. I, pag. 375 segg. donazione al Monastero di
San Barbaro. La traduzione latina, con la data del 1097, fu pubblicata
dal Martorana, nella sua _Risposta_ al Buscemi, pag. 48, estratto dal
_Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia_ del 1831. Cf. Spata,
_Pergamene_, pag. 215.

LIBRIZZI, 1117, traduzione dal greco, presso Gregorio,
_Considerazioni_, lib. I, pag. lvj, lvij delle note, con nomi di frati,
di Lipari e di Patti, alcuno dei quali francese e un Filippo arabo,
monaco. V’ha dei nomi di notabili del paese, manifestamente greci e
alcuno italico: come Niccolò di Filippo, Niceta Gallo, Niccolò Gala,
Filippo Manca, Giovanni Gaitane, Andrea Police.

Monastero di San Filippo di Fragalà presso il Comune di MIRTO,
molti diplomi greci dati dal 1090 al 1145, pei quali furono donati
a questo celebre monastero greco di Sicilia de’ villani, tra i cui
nomi patronimici notansi; _Bruno_, _Corte_, _Niccolò Faber_, _Claudus
Stephanus_, _Galatano de Flavanu_, Teodoro _Accomodato_, ec. presso
Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1027, 102; ignorandosi pure se que’
vocaboli di Faber e Claudus fossero stati tradotti dal greco o si
trovassero trascritti nel testo.

Ἀχάρων (ALCARA LI FUSI?) 1118 (?) greco, pubblicato non felicemente dal
Buscemi, op. cit., pag. 365. Cf. Spata, op. cit., pag. 291.

CEFALÙ, 1131, traduzione latina dal greco, presso il Pirro, op. cit.,
pag. 799; e platea greco-arabica dei villani, citata poc’anzi a pag.
205.

SIRACUSA, 1104, diploma latino, nel quale si fa espressa menzione del
clero greco e clero latino, presso Pirro, op. cit., pag. 619.

ACI e CATANIA, 1095, 1144, platee de’ villani arabo-greche,
nell’Archivio della Cattedrale di Catania. Si vegga inoltre per Catania
la carta di franchigia del 1168, presso Gregorio, _Considerazioni_,
lib. I, cap. IV, nota 21, nella quale si legge: _Latini, Græci, Judæi
et Saraceni unusquisque juxta suam legem judicetur_.

[460] Per esempio in VICARI, 1098, diploma greco in favore d’un
monastero, al quale furono donati de’ villani di varii paesi, con
nomi musulmani, greci e fors’anco italici: Niccolò figlio di Vitale,
Basilio, Sabato, Goffredo, Ziero ec. Traduzione latina presso il Pirro,
op. cit., pag. 295. Notinsi anco i nomi greci tramezzati a italiani e
francesi di Vicari e Cammarata nel diploma del 1175, presso Gregorio,
_De supputandis_, ec., pag. 55, ripubblicato da Spata, _Pergamene_,
pag. 451 segg.

[461] Ricordisi l’arcivescovo greco che trovarono i Normanni entrando
in Palermo. Quivi era nel 1138 un protopapa greco, secondo il diploma
pubblicato nel _Tabulario_ della Cappella Palatina a pag. 8. La stessa
raccolta racchiude molte altre carte greche dal 1141 sino a tutto
il secolo XIII. Lo stesso attestano non poche iscrizioni bilingui e
trilingui.

[462] Di Giovanni, _Ebraismo in Sicilia_, passim; Gregorio,
_Considerazioni_, lib. I, cap. j, pag. 7, 15; Zunz, _Zur Geschichte und
Literatur_, Berlino, 1845, vol. I, pag. 487. Ognun sa che nel viaggio,
vero o finto, di Beniamino da Tudela, compilato in ogni modo con ottime
notizie verso il 1170, sono annoverati 200 giudei in Messina e 1500
in Palermo: traduzione inglese di Asher, Londra, 1840, pag. 159 segg.
Si vegga intorno questo viaggio il Lelewel, _Géographie du moyen-âge_,
tomo IV, pag. 37 segg.

Nella platea di Catania data del 1144, dopo gli schiavi, leggonsi i
nomi di 25 famiglie di Giudei. Ve n’era anco (1120?) in Siracusa.

[463] Lib. III, cap. I, pag. 32 segg. del secondo volume.

[464] Cap. citato, pag. 35 segg. dello stesso volume.

[465] Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. j, pag. 5 segg. 10, 17.

In Girgenti la popolazione musulmana vincea tanto di numero la
cristiana, che San Gerlando, il 1096, fece fabbricare un immenso
castello a rifugio de’ suoi frati, e che il vescovo Gualtiero, il
1141, edificò novelle fortificazioni; usando per tre anni, come cava di
pietre, i monumenti Agrigentini. Ch’ei non riposi in pace! Cronichetta
de’ Vescovi di Girgenti, presso il Gregorio, op. cit., lib. I, cap. I,
nota 14.

Si ricordino anco le varie narrazioni d’Ibn-Giobaîr, _Journal
Asiatique_ di dicembre 1845 e gennaio 1846, ed _Archivio Storico
Italiano_, vol. IV, Appendice, N. 16, dove si dice delle popolazioni
musulmane di tutti i villaggi tra Palermo e Trapani, della gelosia con
che i Cristiani guardavano la ròcca di Monte San Giuliano, ec.

[466] Libro III, cap. I, pag. 32, segg. del 2º volume. I nomi etnici
che seguono son cavati dai diplomi e riscontrati col _Lobb-el-Lobâb_,
con Ibn-Kaisarani, Dsehebi, il _Merasid-el-Ittilâ_ e le altre opere che
citerò ne’ singoli casi.

[467] La copia del diploma ha Zagari, che non torna a nome etnico
noto. Ritenendo la grande somiglianza della _r_ col _w_ nella scrittura
affricana, leggo _Zegawi_; su la qual voce si vegga De Slane, traduz.
francese d’Ibn-Khaldoun, _Berbères_, tomo IV, pag. 31.

[468] Hamdi, o Giamadi; Halbasi, o Giolaisi, ec. dove mancano le vocali
e le trascrizioni greche. Altri non trovo affatto, come Arkhi, Baruki,
Betresen (_pitrusinu_? ossia prezzemolo) ec.

[469] Inedita dell’Università di Palermo.
Abu-Tâhir-Abd-er-Rahman-ibn-Abd-Allah-ibn-Zeidun-el-karawi.

[470] Righa è nome di tribù berbera e anco di luoghi in Affrica, De
Slane, op. cit., tom. I, pag. 294. Si avverta che le stesse lettere,
mutativi i punti diacritici, porterebbero _Reba’i_, che torna alla
tribù arabica di Rebi’a, una di quelle che occuparono l’Affrica nell’XI
secolo, venendo dall’Egitto: (De Slane, op. cit., tom. I, pag. 32);
oppure a quella di Reb’a, ramo di Azd. (Ibn-Kaisarani, _Homonyma_,
Leyda, 1865, pag. 194.)

[471] Su questi ultimi tre nomi si vegga De Slane, op. cit., tomo I,
pag. 171, 282 e 285, e tomo III, 273, 279. Del resto, Verro potrebbe
esser nome latino.

[472] Il testo arabico avrebbe Argiâknû, e la trascrizione greca dà
ερτζυκνου. Aragigun è isoletta alla foce della Muluia, secondo Edrisi,
_Description de l’Afrique et de l’Espagne_, Leyda, 1866, pag. 206 della
traduzione.

[473] Mismar si chiamava la Penisola di Magnisi, tra Siracusa e Agosta.
La trascrizione greca di questo nome, che portavano due famiglie di
villani d’Aci, dà μεσίμερη. Se il copista greco avesse presa una _w_
per una _r_, sbaglio assai frequente nei manoscritti affricani, sarebbe
questo il notissimo casato de’ _Ma-es-samâ_ «Acqua del Cielo.»

[474] Quantunque Edrisi scriva il nome di Vicari _Biku_, la voce
Bekkara potea rappresentare questa o altra terra di Sicilia. Si vegga
il nostro lib. II, cap. X, pag. 418 del primo volume, nota 3.

[475] Questa iscrizione, edita dapprima nelle _Mines de l’Orient_, tomo
I, fu ripubblicata, sopra l’originale, da M. De Fresnel, nel _Journal
Asiatique_ di dicembre 1847, con una buona traduzione inglese di Farâs
Schidiâk. La data è del 569 (1174), il nome della sepolta, Maimuna
figlia di Hasan, figlio di Alì Hodseilita. Se non che dopo questo
nome, la versione portava «an attendant _of Ibn-es-Soosee_.» Parendomi
strana per più rispetti cotesta qualificazione, io domandai da Parigi
al mio compagno di esilio Francesco Crispi, allora in Malta, un lucido
di quelle parole e avutolo in dicembre 1853, non tardai a leggervi
«soprannominato Ibn-es-Susi.»

[476] Si vegga il lib. V, cap. I, pag. 27, 28, 30, 34 di questo volume.

[477] Lib. V, cap. V, pag. 140 di questo volume.

[478] Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. I, note 25, 26 ec. È
inutile citare i diplomi antichi che contengono nomi francesi. Noterò
in vece che in uno del 1175, pubblicato dal Gregorio, _De supputandis_,
ec., pag. 52 e segg., indi da Spata, _Pergamene_, ec., pag. 451 segg.,
traduzione latina del XIII secolo dall’arabico e dal greco, si leggono
i nomi di Sir Bonom de Custasin, Sir Ricalinus de Calatabutur ec. In un
diploma arabico inedito della Chiesa di Cefalù, serbato nell’Archivio
di Palermo, si legge il nome di un Sir Gulielm, banchiere o non so che
in Cefalù. Par che i francesi, nobili o no, nel XII secolo amassero in
Sicilia di fregiarsi col titolo di _Sire_.

[479] Esaminati diligentemente i nomi di tutti i comuni attuali e de’
villaggi abbandonati, che sono pur molti, i quali io già pubblicava
nel 1859 con la _Carte Comparée de la Sicile_, ne occorre pochi, di
pochissima importanza e origine dubbia: _Castelnormando_ si chiamava
nel XVII secolo, al dire dell’Amico, _Dizionario topografico_,
l’attuale Comune di Valledolmo, ma non ve n’ha notizie anteriori;
_Ciambra_ un villaggio presso Monreale; _Merhela Gulielm_ (la stazione
di Guglielmo) un luogo presso Monreale, che parrebbe stazione di caccia
d’uno dei re di quel nome. Tralascio _Francavilla_, comune, e Monpileri
villaggio distrutto su l’Etna, poichè Pila, Piliere sono nella nostra
favella, come nella francese. Metto anco da canto i nomi composti
con la voce _burg_,i quali possono riferirsi tanto al francese quanto
all’italiano e all’arabico.

[480] Presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 477.

[481] Falcando presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 466. Lo sciocco
Arrigo de’ principi di Navarra, fratello della Regina, era stigato
da’ cortigiani a prender la somma degli affari in luogo di Stefano
de’ conti di Perche. E schivando il peso superiore alle sue forze,
allegava tra le altre cose: _francorum se linguam ignorare, que maxime
necessaria esset in_ CURIA. Si trattava dunque, non del paese, ma
della corte; dove il principe fanciullo, bisnipote del conte Ruggiero,
e discepolo di Pietro di Blois, parlava com’e’ pare il francese; e
i cortigiani italiani ed arabi si adattavano. Si ricordi con ciò
l’attestato di Ibn-Giobair, che lo stesso Guglielmo II parlasse
l’arabico. Infine è da notare che delle lingue usate nella corte
poliglotta di Palermo, la men difficile al Navarrese doveva esser
quella della Francia.

[482] _Considerazioni_, lib. I, cap. I, nota 27.

[483] Cap. cit., nota 28.

[484] _Strenuos bello milites Longobardos_ (del Napoletano) _ac
Transmontanos.... sibi largitionibus alliciens_, dice il Falcando del
ministro Majone, presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 419. Poi ve n’ebbe
degli Spagnuoli, op. cit., pag. 439 e sempre de’ Musulmani.

[485] In questo medesimo libro, cap. VII, pag. 191 del volume.

Sappiamo da Pietro di Blois (_Epistolæ_, nº 66), che dopo la morte di
Guglielmo il Malo, l’Arcivescovo di Rouen mandò alla corte di Palermo
trentasette giovani francesi dotti o di nobil sangue. Si veggano le
epistole di San Tommaso di Canterbury e dell’abate di Cluni alla regina
reggente in Sicilia e al ministro di lei Riccardo Palmer, nel cui
epitaffio mi pare compendiata la biografia degli avventurieri di cui
trattiamo:

    _Anglia me genuit, instruxit Gallia, fovit_
    _Trinacris._

[486] Ibn-el-Athir, testo nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag.
278, Novairi nella stessa opera, pag. 448, e presso Gregorio, _Rerum
Arabicarum_, pag. 26.

[487] Ugo Falcando presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 406-407.

[488] Diploma del 1193, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1288.
La voce _rua_ o _ruga_ di certo non prova l’origine francese della
popolazione. Oltrechè Messina era essenzialmente greca, leggiamo quella
voce in un diploma del Barbarossa, il quale prometteva ai Genovesi
_rugam unam cum ecclesia, balneo, fundico et furno_ in ogni città che
lo impero fosse per acquistare nel regno di Sicilia. _Liber Jurium
Reipub. Genuensis_, tomo I, pag. 207, diploma del giugno 1162.

[489] _Ravellus magister Amalphitanorum Messane_, è soscritto in un
diploma greco del 6680 (1172), traduzione latina presso Gregorio,
_Considerazioni_, lib. II, cap. II, nota 32.

[490] Diploma arabico del Monastero di Monreale dato il 1182, e
traduzione latina presso Del Giudice, _Descrizione del Tempio.... di
Morreale_, pag. 12, in fine della divisa di Summini.

[491] Michele da Piazza, presso Gregorio, _Biblioteca Aragonese_, tomo
II, pag. 77. La quale notizia si riferisce al XIV secolo.

[492]

  _Acquaviva_ (Caltanissetta).      _Acquaviva_ (Molise [due] Terra di
                                      Bari, Ascoli).
  _Altavilla_ (Palermo).            _Altavilla_ (Principato Ulteriore,
                                      id. Citeriore, Alessandria,
                                      Monferrato).
  _Bivona_ (Girgenti).              _Bibbona_ (Pisa).
  _Vicari_ (Palermo).               _Biccari_ (Capitanata).
  _Briga_ [S. Stefano di]           _Briga_ (Novara, Cuneo).
    (Messina).
  _Brolo_ (Messina).                _Brolpasino_ (Cremona). Si ricordi
                                      anco _Broglio_.
  _Burgio_ (Girgenti).              _Borgio_ (Genova).
  _Cammarata_ (Girgenti).           _Camerata_ (Bergamo, Ancona).
  _Caronia_ (Messina).              _Corona_ (Bergamo).
  _Castania_ (Messina).             _Castana_ (Pavia); _Castano_
                                      (Milano).
  _Chiaramonte_ (Siracusa).         _Chiaramonti_ (Sassari);
                                      _Chiaromonte_ (Basilicata).
  _Cinisi_ (Palermo).               _Cinisello_ (Milano).
  _Corleone_, anticamente           _Coreglia_ (Lucca, Genova);
    Coriglione, (Palermo).             _Corigliano_ (Calabria,
                                       Otranto).
  _Gagliano_ (Catania).             _Gagliano_ (Abruzzo, Otranto).
  _Geraci_ (Palermo).               _Gerace_ (Calabria).
  _Gravina_ (Catania).              _Gravina_ (Bari).
  _Gualtieri_ (Messina).            _Gualtieri_ (Reggio d’Emilia).
  _Mirabella_ (Catania).            _Mirabella_ (Principato);
                                      _Mirabello_ (Cremona, Pavia,
                                      Alessandria, Monferrato, Milano,
                                      Molise).
  _Motta_ [due] (Messina,           _Motta_ (Calabria Ulteriore 1ª e
    Catania).                         2ª, Cremona, Novara [due],
                                      Capitanata, Pavia, Milano) [due].
  _Novara_ (Messina).               _Novara_ (Novara) [Piemonte].
  _Palazzolo_ (Noto).               _Palazzolo_ (Terra di Lavoro,
                                      Milano, Brescia, Novara);
                                      _Palazzuolo_ (Firenze).
  _Paternò_ (Catania).              _Paterno_ (Principato, Calabria,
                                      Ancona). _Paderna_ (Alessandria).
                                      _Padernello_ (Brescia). _Paderno_
                                      (Como, Cremona, Brescia, Milano).
                                      _Paterno_, villa e chiesa presso
                                      Firenze.
  _Pettineo_ (Messina).             _Pettinengo_ (Novara).
  _Piazza_ (Caltanissetta).         _Piazza_ (Massa e Carrara, Bergamo,
                                      Como). _Piazzatorre_ (Bergamo).
                                      _Piazzo_ (Torino, Bergamo [due]).
                                      _Piazzolo_ (Bergamo).
  _Sala_ [Paruta] (Trapani).        _Sala_ (Como, Parma, Novara,
    _Sala_ [di Partinico]             Bologna, Alessandria [due],
    (Palermo). _Sala_, antico          Como, Principato).
    casale presso Sciacca.
  _Sambuca_ (Girgenti).             _Sambuco_ (Firenze, Cuneo).
                                    _Sambughetto_ (Novara).
  _Saponara_ (Messina).             _Saponara_ (Basilicata).
  _Scaletta_ (Messina).             _Scaletta_ (Cuneo).
  _Scopello_ [Tonnara di].          _Scopello_ e _Scopa_ (Novara).

[493] Presso Gregorio, _Considerazioni_. lib. I, cap. III, nota
46. Il Francese è di _Limeuil_, nel Dipartimento della Dordogne
(_Limoliensis_). Ho detto bresciano un Herbertus Braosensis
(_Bressensis_?).

[494] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 771, 772. Tolceto era villa
nel territorio dell’attuale comune di Nè, in provincia di Genova, come
si vede dagli _Atti della Società Ligure di Storia patria_, vol. II,
parte II, pag. 769. V’ha anco tra’ testimonii un Roberto di Sardevalle
(o Surdavalle come si legge nel Malaterra, libro III, cap. XXX),
il qual nome potrebbe tornare a Sordivolo in provincia di Novara.
Guglielmo de Surdavalle è soscritto in un diploma del 1090, presso
Spata, _Pergamene_, pag. 248.

[495] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 76.

[496] Presso Spata, _Pergamene_, pag. 266.

[497] Presso Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. V, nota 3, pag.
LI, LII.

[498] I diplomi siciliani e napoletani del XII secolo e le Costituzioni
di Federigo imperatore, provvedono severamente affinchè non solo i
servi della gleba e i villani, ma anco i borghesi, non si partano dalla
terra del signore.

[499] _Merûsid-el-Ittila’_, testo, all’articolo _Ankabord_. Ma Edrisi,
_Géographie_, trad, di Jaubert, vol. II, pag. 118, 120, 261, 262,
ristringe i limiti dalla parte di mezzogiorno; e Abulfeda conosce già
le divisioni politiche dell’Italia, _Géographie_, trad. di M. Reinaud,
pag. 36, 37 ec.

[500] Presso Muratori, _Rer. Ital. Script_., tom. IV, pag. 498.

[501] Eustathii Metropolitae Thessalonicensis, _De Capta Tessalonica_,
edizione di Bonn, pag. 415. Eustazio scrive λαμῶαρδικοί e λογγιθάρδοι.

[502] Pietro Diacono, presso Muratori, _Rerum, Italicarum Scriptores,_
tom. IV, 518. Si vegga poi Costantino Porfirogenito, _De Themathibus_,
p. 1462, e Muratori, _Annali d’Italia_, anno 1008.

[503] Presso Caruso, _Bibl. Sic_., de’ primi a p. 419, 444, 450, e
de’ secondi a’ luoghi citati qui appresso. Si vegga anco Romualdo
Salernitano, presso Caruso, op. cit., pag. 868.

[504] Presso Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. IV, nota 25. Il
Gregorio non porta la data; ma la non può essere posteriore al 1153.

[505] Falcando e Romualdo Salernitano, presso Caruso, op. cit., pag.
440, 442, 443, 868.

[506] Falcando, presso Caruso, op. cit., p. 448, 462, 480, 481.

[507] Deca I, libro I, cap. VI, e libro X, cap. I e II, per Aidone;
e per San Fratello, Deca I, libro IX, cap. IV, dove si legge _et
Longobardorum, ut ex incolarum idiomate colligitur, oppidum_. E ciò
conferma l’Amico, nel _Dizionario topografico_.

[508] Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 582, 588.

[509] Diploma dell’imperator Federigo, dato di Cremona il 20 febbraio
1248, (_Historia Diplomatica Friderici II_, tom. VI, p. 695) dal quale
si vede che Corleone era stata conceduta molto innanzi a’ lombardi
Oddone e Bonifacio de Camerano, e Scopello anche prima di Corleone.

[510] Questa opinione del dottissimo Tedoro Wüstenfeld, è sostenuta
dal fatto che il nome di _Scopello_, non arabico al certo nè greco,
si trova nella provincia di Novara in Piemonte e comparisce in Sicilia
allo scorcio dell’XI secolo.

[511] Ho citate le sorgenti nella mia _Storia del Vespro Siciliano_,
cap. II, edizione del 1866, vol. I. p. 18, 22.

[512] Continuazione di Saba Malaspina, presso Gregorio, _Biblioteca
Aragonese_, tomo II, pag. 356.

[513] Op. cit., p. 358.

[514] Pag. 196 segg.

[515] Veggasi il cap. VI di questo Libro, p. 156 del volume.

[516] Si vegga l’albero genealogico pubblicato dal De’ Simoni,
nella _Nuova Antologia_ di Firenze, settembre 1866. Un Oddone Bono,
_marchese_, è segnato tra’ testimoni nel citato diploma del 1095,
presso Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 76; e Bono, marchese, feudatario
nelle vicinanze di Corleone, è nominato nello stesso diploma.
Probabilmente un Oddone de’ marchesi di casa aleramica, soprannominato
il Buono.

[517] Si scorge da’ diplomi del 1094, 1114 e 1136, presso Pirro,
_Sicilia Sacra_, p. 75. 1177 e 1156, e del 1113, presso Gregorio,
_Considerazioni_, libro I, cap. V, nota 20.

[518] Alessandro Abate di Telese, Libro II e III, presso Caruso, _Bibl.
Sic._, p. 266, 293.

[519] Alessandro Abate di Telese, loc. cit. Falcando, presso Caruso,
op. cit., p. 413, 417, 418. Si vegga anche un diploma di questo conte
Simone, dato il 1147, nel quale sono testimonii due di Piazza, presso
Lünig, _Cod. Ital. Dipl_., tomo II, pag. 1639.

[520] Pagina 223.

[521] Bonifazio d’Incisa, cugino carnale di Arrigo e di Adelaide
contessa di Sicilia, come si scorge dall’albero aleramide pubblicato
dal De’ Simoni, _Nuova Antologia_, settembre 1866; e Arrigo d’Incisa
nominato il 1186, presso Moriondi, _Monumenta Aquensia_, vol. II, p.
348. Arrigo d’Incisa combattente nella battaglia di Ponza, secondo
Speciale citato da me nel _Vespro Siciliano_, cap. XVIII, tomo II, p.
160 dell’edizione 1866. Giovanni ed Aloisio d’Incisa, feudatarii al
principio del XIV secolo, presso Gregorio, _Biblioteca Aragonese_, tomo
II, pag. 468; e Simone d’Incisa nominato in documenti del 1309, 1317,
1319, nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 97, 103,
109, 113.

[522] Un diploma del 1157, presso De Meo, _Annali del Regno di Napoli_,
sotto quell’anno, è dato da “_Albertus, Dei et Regis gratia Comes de
Gravina, filius et heres Bonifacii, marchionis_“. Debbo al dottissimo
Teodoro Wüstenfeld, lodato di sopra, questa ed altre citazioni fatte
sugli Aleramidi e molte altre che tralascio, come non necessarie al mio
argomento.

[523] Si confronti ciò ch’egli dice di Nicosia e di Aidone e San
Fratello ne’ luoghi citati di sopra.

[524] Catania 1857, in 8º. Si vegga la Prefazione, p. 47 e seg., e i
canti di San Fratello e Piazza, p. 332 seg.

[525] Lettera indirizzatami dal professore Angelo De Gubernatis,
pubblicata nel _Politecnico_ di Milano, giugno 1867, pag. 609, segg.

[526] Secondo i quadri delle entrate e spese de’ Comuni italiani
nel 1858, pubblicati il 1863 nella Rivista dei Comuni, Caltagirone
possedea, tra fitti di terre e canoni, con una popolazione di

                    24,417  anime,  L.  313,558
  Palermo          194,463    »     »   236,215
  Messina          103,324    »     »    95,609
  Catania           68,810    »     »    38,523

Notisi esser compresi in cotesti patrimonii i beni urbani, che
sono molto maggiori nelle grandi città che nelle piccole, e che non
risalgono di certo all’XI e XII secolo.

[527] Un diploma di Guglielmo I, dato il 1 maggio 1160, attesta che i
fedeli uomini di Calatagerun avessero comperate dal re Ruggiero e da
Guglielmo stesso, le terre dette di Fatanasino e di Iudica per 40,000
tarì di Sicilia, Pergamena del Municipio di Caltagirone, della quale
io ho una copia. È citato anco ne’ ricordi municipali un diploma del 1
settembre 1143, il quale, da quanto ne so, or è perduto.

[528] Secondo i quadri ch’io ho testè citati, vien dopo Caltagirone e
Palermo, la città di Mistretta, con una popolazione di 10,638, ed un
patrimonio territoriale di L. 102,926, e immediatamente dopo Messina,
occorre Nicosia, popolazione 14,731, e patrimonio L. 89,783.

[529] Fazzello, Deca I, libro X, cap. 2; Amico, _Dizionario topografico
della Sicilia_, alla voce Caltagirone; Aprile, _Cronologia universale
della Sicilia_ p. 64 seg., 91 seg. A rincalzare la tradizione, era
citato un diploma che non si ritrova, e una lapide del campanile di San
Giorgio, che più non esiste.

[530] Si vegga il cap. VI di questo libro, p. 153 del volume, nota 1.
Debbo le notizie locali, le copie e fac-simile del diploma del 1160,
e d’un altro del 1201 e quella della _Cronica di Camopetro_, al signor
avv. La Rosa di Caltagirone, che mandolle nel 1847 in Parigi al barone
Friddani, il quale le avea richieste per me.

[531] Testo, nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, p. 55, e presso Gregorio,
_Rerum Arabicarum_, p. 120.

Una montagna che sta di faccia a Caltagirone a tre o quattro miglia,
si chiama tuttora _Cansaria_ e l’è nominata Ganzaria, Chanzaria, e
Cancheria, ne’ diplomi dal XIII al XV secolo. Lo scambio di _Hisn_
in _Kala’t_ non fa specie. La seconda parte del nome topografico,
_gerun_, come la si legge nel diploma del 1160, senza la declinazione
latina, esclude com’e’ parmi l’etimologia di _girone_ o altro vocabolo
nostrale, e porta piuttosto a credere che i coloni italiani venuti a
porsi presso la Kala’t-el-Khinzarla, abbiano mantenuto il nome arabico
di qualche antico castello, ritrovo de’ _ginn_ (demonii) mutando la _n_
in _r_. Può darsi anco che gli Arabi a lor volta, avessero trasformato
in quel vocabolo qualche derivato di Gela, come Gelonum (castrum). Gela
sorgea, com’e’ pare, a poche miglia di distanza.

[532] Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 618 e 622, dove è stampato: _Ecclesias
Calatageronis et quae sunt in territorio ejusdem cum pertinentiis
suis._

[533] L’Inveges, nella _Carthago Sicula_, non ne dà notizie degne di
fede.

[534] Si veggano i diplomi del 1094 e 1095, citati poc’anzi a p. 221.

[535] Si vegga la nota a p. 220.

[536] Falcando, presso Caruso, _Bibl. Sicula_, p. 423 seg. infino a 442.

[537] Falcando, op. cit., p. 415, dice de’ Baresi frequenti in Palermo.

[538] _Considerazioni_, libro II, cap. vij, p. 165. Il professor Diego
Orlando nell’opera intitolata _Il Feudalismo in Sicilia_, Palermo,
1847, in-8, cap. XIV, nota 43, pag. 282, ha dimostrato questo errore
del Gregorio con alcune delle autorità ch’io verrò citando.

[539] Si veggano in questo stesso libro i cap. II, III, VI, p. 69,
74, 95, 100, 153, del presente volume, e soprattutto le narrazioni di
Amato, citate nel nostro, cap. IV, pag. 119, 120, 121, 129, 132.

[540] Una legge attribuita a Guglielmo, Libro III, titolo xxxiv
(_Historia Diplomatica Friderici II_, tomo IV, p. 142), prescrive che
gli schiavi (_servos et ancillas_) fuggitivi fossero resi ai padroni
loro o consegnati al bajulo; e un’altra di Federigo, libro III, titolo
xxxvj, p. 143, li chiama _mancipia_, spiegando più particolarmente
il detto provvedimento. Per una legge delle _Assisae_, nello stesso
volume, p. 227, è vietato tra le altre cose che alcun giudeo o pagano
(cioè musulmano), comperi _servum christianum_, o lo tenga sotto
qualsivoglia pretesto. Si veggano anche i _Fragmenta juris siculi_,
pubblicati dal Merkel, _Commentatio_, Halis, 1856, pag. 18, 20, 34.

[541] Diploma inedito della Chiesa di Catania.

[542] Il testo greco di questo diploma, serbato oggi nello Archivio
regio di Palermo, è stato pubblicato dal sig. Spata, _Pergamene_, p.
215 seg.

[543] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 976 e 1008.

[544] Diploma del 1114, presso Pirro, op. cit., p. 1004.

[545] _Regii Neapolitani Archivii Monumenta_, volume V, nº 497 e 510,
p. 249, 278, i quali si leggono anco nella vita di S. Brunone, Acta
Sanctorum, tomo III di ottobre, come abbiamo accennato nel cap. VII del
presente libro, p. 487, nota 2 di questo volume.

Gli editori laici di Napoli non mettono in forse l’autenticità di
cotesti diplomi; gli ecclesiastici di Anversa la sostengono con gran
calore; ed io non avendo sotto gli occhi quelle scritture, non posso,
così senz’altro esame, dichiararle false. Pure ho gravi sospetti.
Il fatto principale è un sogno miracoloso, raccontato con troppi
particolari; e lo scioglimento del nodo, una larghissima donazione al
monastero di San Brunone. Oltre a ciò il primo di cotesti diplomi dà il
titolo del conte Ruggiero con formole insolite, e il secondo è dato di
giugno, Xª indizione 1102, in Mileto “nella camera dove giaceva infermo
il conte,” quando si sa ch’egli era morto il 22 giugno IX indizione
1101. Quella stessa qualità mista di _servi_ e _villani_, della quale
non si conosce altro esempio, accresce i dubbii.

In ogni modo, i diplomi se non falsi, sono di certo anomali, scritti da
cappellani del conte fuor dagli usi cancellereschi e non fanno grande
autorità in una quistione di Dritto pubblico.

[546] Falcando, presso Caruso, _Bibl. Sic._, pag. 458.

[547] Diploma arabico, inedito e senza data, della Chiesa di Cefalù.
Facendovisi menzione dei _dinâr_ di Abd-el-Mumen e dei _roba’i_ ducali
di Sicilia, par che torni alla metà del XII secolo.

[548] Si vegga il cap. IV di questo libro, p. 107, del volume, intorno
i prigioni di Bugamo.

[549] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 771.

[550] Morso, _Palermo Antico_, documento nº VI, p. 344, diploma della
prima metà del XII secolo.

[551] _Constitutiones Regni_ ec., libro III, titolo ij, iij, p. 162,
163, e più esplicitamente nelle _Assisae_, stesso volume, p. 232,
_Rescriptum pro Clericis_. Era vietato in generale ai vescovi di
ordinare sacerdoti de’ _villani_, senza permesso dei Signore; ma si
spiegava così, che il divieto fosse assoluto (tolto il caso di estremo
bisogno) pei villani obbligati a servire, _intuitu personæ, ut sunt
adscriptitii et servi glebæ et alii hujusmodi_, ma che i vincolati
_respectu tenimentorum vel aliquorum beneficiorum_, poteano rinunziare
a que’ beni e farsi chierici.

[552] Diplomi presso Pirro, _Sicilia Sacra_: del 1091, p. 521, del
1093, p. 695, del 1094, p. 771, del 1134, p. 976, oltre quelli citati
di sopra e moltissimi altri. In uno del 1083, a p. 1016, si legge
_villicos_.

[553] Diplomi, ne’ _Regii Neapolitani Archivii Monumenta_, tomo V: del
1087, p. 117; del 1092, p. 140; del 1126, p. 521 ec.

[554] Diplomi greci dell’archivio di Palermo, pubblicati dal sig.
Spata, _Pergamene_, ec.: del 1101, p. 192; del 1112, p. 234; del
1116, p. 242; del 1136, p. 265; diploma del 1143, nel Tabulario
della Cappella Palatina di Palermo, p. 14; e un altro arabo-greco del
Monistero di Morreale, inedito, dato il 1151. La stessa voce occorre
in parecchi diplomi greci del Napoletano, pubblicati dal Trinchera,
_Syllabus_, ec. del 1130, a p. 139; del 1154, a p. 199, del 1165, a p.
219, risguardanti alcuni monasteri di Calabria.

[555] Diplomi arabi inediti del 1145 (Chiesa di Morreale); 1177?
(Chiesa della Magione in Palermo); 1178 e 1183 (Chiesa di Morreale).

[556] Diplomi greci, presso Spata, _Pergamene_, ec., del 1099,
rinnovato il 1114, p. 237; del 1101, p. 192; del 1116, p. 242; del
1123, p. 409. Occorre anco lo stesso nome generico in un diploma
greco del 1098, pubblicato dal Buscemi, nella _Biblioteca Sacra_, vol.
I, Palermo, 1832, in 8º, p. 212, la cui traduzione latina si ha dal
Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 293; e nel diploma arabo-greco del 1151,
citato nella pag. prec., nota 4. E similmente nei diplomi greci del
Napoletano, per esempio uno del 1145, presso Trinchera, _Syllabus_, p.
182, ed un altro dello stesso XII secolo, op. cit., p. 557. Non occorre
citare i diplomi latini.

[557] Diploma greco-arabico inedito, del 1095, appartenente alla Chiesa
di Catania, nel quale il ruolo dell’_Ahl-Liagi_ (gente di Aci), è
tradotto Πλάτια τῶν αγαρηνῶν τοῦ Γιάκιου (Ruolo degli agareni di Aci);
ed un altro anche greco-arabico della medesima data, appartenente alla
Chiesa di Palermo e contenente una donazione di uomini, buoi e terre,
fattale dal conte Ruggiero, dove al vocabolo αγαρήνοι risponde anco
l’arabico _rigiâl_, ed in una spedizione latina, presso Pirro, _Sicilia
Sacra_, p. 76, il vocabolo _villani_. Il nome _agareni_ occorre in
molti diplomi latini.

[558] Si veggano le rubriche de’ diplomi del 1143 e 1149, presso
Mortillaro, _Tabulario della Cattedrale di Palermo_, p. 23 e 30.
Occorre tal voce sovente nei diplomi greci del Napoletano, pubblicati
dal Trinchera, _Syllabus_: del 1136, p. 155 (relativo alla Sicilia);
del 1145, p. 182, con la variante υελλάνοι; del 1188, p. 297 idem;
ed un altro senza data, ma del XII secolo anch’esso, con lo errore
υιλλάνη. Veggasi anche Ducange, _Glossario greco_, il quale alla voce
Βελλάνος cita un diploma del conte Ruggiero.

[559] Presso Trinchera, _Syllabus_, p. 557, nº XVI dell’appendice.

[560] Diplomi arabici del 1150 e 1154, appartenenti alla cattedrale di
Palermo, dei quali ho avuta copia dal professor Cusa, e il secondo fu
pubblicato mediocremente dal Gregorio, _De Supputandis_, ec., p. 34
seg. e dal Caruso, nella _Biblioteca Sacra_, vol. II, Palermo, 1834,
p. 46. Diploma arabico del 1169, appartenente alla stessa cattedrale
di Palermo, del quale ho copia per cortesia del lodato prof. Cusa. In
quest’ultima copia veggo la lezione _Kh.. r.. sc_ in luogo di _H..
r.. sc_ (lettere 7, 10, 13, in luogo delle 6, 10, 13, dell’alfabeto
arabico). Non par verosimile che fosse stata adoperata una traduzione
della voce _rusticus_ (_heresc_ significherebbe ruvidezza). Chi voglia
vedere le conghietture del Gregorio e del Tychsen su questa e su la
voce _mils_ o _mels_ del medesimo diploma, legga la nota a alla pag. 36
del _De supputandis_.

[561] Diploma latino del duca Ruggiero figlio di Roberto, dato di
agosto 1086, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, p. 74, 75; Diploma del
vescovo di Catania, dato di settembre 1114, il quale rilasciava al
monastero di Santa Maria in Josaphat di Paternò la decima sopra i
_rustici Saraceni_, donati a quello dal conte Arrigo.

[562] Ducange, _Gloss. lat._: Rustici, Coloni, Glebæ adscriptitii ec.,
Rustis.

[563] Secondo la Costituzione, libro III, titolo 60, era vietato di
far giudice o notaio _qui vilis conditionis sit, villanus aut angarius
forsitan, filii clericorum spurii, aut modo quolibet naturales_.

[564] _Considerazioni_, libro II, cap. vij, p. 168. Più evidentemente
dimostrasi il significato generico della voce _rustico_ nelle Assise
del regno di Sicilia, pubblicate dal Merkel, Halis, 1856; dove a pag.
17, titolo III, si raccomanda a tutti i signori di usare umanamente
co’ loro soggetti: _cives, burgenses, rusticos, sive cujuscumque
professionis homines_; e non si fa motto di villani, angarii ec.
Contro il suo solito, il Gregorio non cita alcun diploma in questa
delicata investigazione; contentandosi di porre in nota parecchi luoghi
delle Costituzioni, dove occorrono i vocaboli _rustico_ e _villano_,
nei quali luoghi ei credette ritrovare «le classi tutte in cui fu
distribuita la nazione siciliana e quale differenza tra esse passasse».
(_Considerazioni_, vol. II, p. 70. Nota 8 del cap. vij.)

Ma le Costituzioni, in primo luogo, promulgate in Melfi il 1231, non
furono dettate esclusivamente per la Sicilia. Sendo comuni a tutte le
province che ubbidivano a Federigo nell’Italia meridionale, ricordano
varie denominazioni di classi inferiori che usavansi qua e là in luoghi
usciti, qualche secolo o due secoli innanzi, da dominazioni molto
diverse.

In secondo luogo, le Costituzioni non sono mica un codice sistematico e
compiuto, nel quale tutti i diritti si trovino esposti in bell’ordine;
ma bensì una raccolta di alcune leggi; confusa raccolta di leggi, di
principi diversi, e tempi diversi dello stesso principe. Non vi sì può
dunque supporre _a priori_, nè in fatto vi si nota, una tale precisione
di linguaggio che le stesse cose sieno sempre designate con gli stessi
vocaboli.

Or questo appunto presuppose il Gregorio, quand’ei conchiuse che in
Sicilia i rustici fossero diversi dai villani; perchè gli uni erano
nominati nelle leggi, libro I, titoli x, xxxiij; II, titolo iij; III,
titolo xiiij e gli altri nelle leggi lib. II, xxxij; III, titoli ij,
vj. Nè egli considerò che il titolo xxxij del libro II rassegnava per
vero ogni classe di persone; onde se vi mancano i _rustici_, son da
tenere designati dalle altre classi che vi si leggono, cioè _angarii_ e
_villani_; o, per dir meglio, che _rustici_ significasse genericamente
i villani, gli ascrittizii e i servi della gleba, più particolarmente
nominati nei titoli ij e iij dello stesso lib. II. In vero non poteano
essere trascurati i villani nella legge contro l’asportazione delle
armi, lib. I, titolo x; nè i rustici trascurati nel novero delle classi
ammesse alle testimonianze contro baroni, ovvero escluse, lib. II,
titolo xxxij; oppure dimenticati nella legge che ammettea i villani
alla successione ne’ beni tenuti in demanio, lib. II, titolo x.

Nè regge l’altro ragionamento dell’illustre pubblicista siciliano,
che i rustici fossero diversi da’ villani, perchè le costituzioni
stabilivano una _composizione_, come diceasi nelle leggi barbariche,
per gli uni e non per gli altri: onde gli tornava che i villani non
avessero persona, giuridicamente parlando. Perocchè _composizione_
era il prezzo del sangue, maggiore secondo il grado, e favoriva quindi
gli uomini in ragion diretta della altezza del grado loro; ma di ciò
non tratta alcuna delle Costituzioni di Federigo. Queste al contrario
ammettono la gradazione delle persone per aggravare la pena secondo
l’altezza: onde il borghese dovea pagare più che il rustico, il milite
più che il borghese, il barone che il milite, e il conte che il barone.
La ragione stessa è seguita nel fissare la taglia per la cattura
dei fuorusciti; dove sono nominati i rustici e non i villani: nè può
presumersi che il legislatore abbia voluto assicurare l’impunità a’
banditi servi della gleba, sopprimendo la taglia per loro.

Io non so poi dove il Gregorio abbia letto che le testimonianze de’
villani fossero ammesse contro rustici e borghesi. La costituzione
ch’egli cita non ne fa menzione, nè allude a questo; nè alcun’aura io
ne trovo che prevegga il caso; ond’è probabile sia corso qualche errore
di stampa, sia nel testo del Gregorio, sia nella nota.

Finalmente è da considerare che il Gregorio stesso, ponendo i
rustici in condizione diversa dai villani, non era ben certo in che
differissero dai borghesi; e, per dir pure qualcosa, proponeva il
supposto che il medesimo ordine sociale si chiamasse dei borghesi nelle
città e de’ rustici nelle campagne. Distinzione al tutto arbitraria;
la quale in ogni modo non proverebbe la esistenza d’una classe di mezzo
tra i borghesi e i villani.

Il professor Diego Orlando, fin dal 1847, dimostrava l’errore del
Gregorio col mero confronto delle Costituzioni, nell’opera intitolata
_Il Feudalismo in Sicilia_, Palermo, in-8, cap. XIV, nota 32, pag. 275.

Non tacerò che in due diplomi dello Archivio di Napoli, la voce
_rustico_ sembra perfetto sinonimo di _borghese_. Si leggono entrambi
nel quinto volume dei _Regii Neapolitani Archivii monumenta_, (Napoli,
1857) sotto i numeri 477 e 494, pag. 203 e 245. Nel primo de’ quali,
dato del 1091, si vieta di molestare il monastero di San Brunone presso
Stilo, a chiunque, stratigoto o vicecomite, _rusticus aut miles, servus
aut liber_: e nell’altro dato il 1098, accennando a certi richiami
dei _Veterani Squillacenses_ relativamente ai limiti del territorio
conceduto a San Brunone, si conchiude che vedendo, _rusticorum causam
contra fratres nil juris obtinere_, è data la decisione a favor del
monastero. Ma questo solo esempio non varrebbe contro il ritratto
delle Costituzioni. Quand’anco non cadessero su i primi documenti del
monastero di San Brunone que’ gravi dubbi che abbiamo notati di sopra,
si potrebbe supporre idiotismo locale quel significato della voce
rustici, ovvero neologismo del cappellano del conte Ruggiero, uomo
probabilmente straniero, che scrisse i diplomi, se autentici; o del
monaco, anch’egli straniero, che li fabbricò dopo, se falsi.

[565] Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap. vij, pag. 167. Si
veggano in Ducange, _Glossar. lat._, le voci Angaralis, Angarea,
Angariae, Angariales, Angariarius, Angarii.

[566] Gli Angarii citati nelle _Costituzioni_, lib. II, titolo xxxij;
III, x, ix; sono ragguagliati a’ villani. Ne’ diplomi napoletani si
dice di angaria dovuta da villani (Trinchera, _Syllabus_, pag. 300,
334, 558, 559, dipl. 1188, 1198.) E nei siciliani si veggon chiese
e monasteri liberati da prestazioni ed angarie (Spata, _Pergamene
greche_, dipl. 1117, pag. 247; dipl. 1171, pag. 273, 275); ma non
comparisce in Sicilia alcuna classe denominata _angarii_.

[567] Si vegga il lib. IV, cap. xj, pag. 398, 399 del secondo volume.

[568] Dei tre primi diplomi ho le copie mandatemi dal prof. Cusa; ed
uno fu pubblicato, in parte e male, dal Gregorio, _De supputandis_,
ec., pag. 34. Il quarto è stato stampato da M. Des Vergers, con
traduzione francese e comento, nel _Journal Asiatique_, ottobre 1845,
pag. 313 segg.; ed io ne detti una versione nell’_Archivio Storico
Italiano_, tomo IV, appendice, pag. 49 segg. L’eruditissimo editore
sbagliò supponendo _ascrittizii_ gli uomini di cui si tratta; e
sbagliai anch’io seguendolo in questa interpretazione e nella lezione
_Mils_ in luogo di _Maks._

[569] Oltre la spiegazione che troviamo nel _Kamûs_, tradotta in
parte nel Dizionario di Freytag, il significato della voce _Maks_ si
scorge nei seguenti testi arabi: _The Travels of Ibn-Jubair_, ediz.
Wright, pag. 52, 53, 66; _Ibn-el-Athiri, Chronicon_, ediz. Tornberg,
tomo XII, anno 604, pag. 183; _Annales Regum Mauritaniæ_, ediz.
Tornberg, pag. 88; Makrizi, _Mewâ’is_, ediz. di Bulâk, tomo II, pag.
121; Abu-l-Mehâsin, _Annales_, ediz. _Juynboll_, tomo II, pag. 286. Si
vegga anche Sacy, _Memoires sur le droit de proprieté en Egypte_, nelle
_Mémoires de l’Académie des Inscriptions_, tomo V, pag. 64; lo stesso,
_Chrèstomathie Arabe_, 2ª ediz., tomo I, pag. 172; tomo II, pag. 60,
84, 168; e Quatremère, _Sultans Mamlouks_, di Makrizi, tomo II, parte
ij, pag. 97. In cotesti passi _Maks_ talvolta significa contribuzioni
indirette.

[570] Si veggano quelle diverse voci nel Ducange,_ Gloss. latino_.
Molti esempii forniscono di questa classe di uomini, i diplomi latini e
greci del Napoletano; quelli, per esempio, degli anni 932, 975, 1054,
1080, 1082, 1096, nei _Regii Neapolitani Archivii Monumenta_, tomo
I, pag. 63, 239; tomo V, pag. 8, 97, 114, 165; e presso Trinchera,
_Syllabus_, diplomi del 1097, 1145, 11... pag. 81, 182 segg. 559, _et
passim_. Gli stessi provvedimenti delle Costituzioni che richiamavano
i fuggitivi dalle terre del demanio, e il citato diploma di Morreale
del 1183, confermano la frequentissima fuga dei villani che andavano a
stanziare, da commendati, in altri luoghi.

[571] Sono sì frequenti coteste concessioni de’ villani co’ beni loro,
che non occorrerebbe quasi di citarne i testi. Per accennarne alcuno,
noterò i diplomi greci del 1098, da Buscemi, nella _Biblioteca Sacra_,
vol. I, Palermo, 1832, pag. 212; del 1101, 1112 e 1146, presso Spata,
_Pergamene_, ec. pag. 192, 234, 242; del 1143, nel _Tabulario_ della
cappella Palatina di Palermo, pag. 14; del 1136, presso Trinchera,
_Syllabus_, pag. 155; la traduzione latina d’un diploma greco del
1096, presso Pirro,_ Sicilia Sacra_, pag. 382, per lo quale il conte
Ruggiero donava, con molti altri beni, al novello vescovo di Messina:
_in Oliverio villanos centum et terras et tenimenta quæ ibi habitantes
prius tenebant_.

[572] Diploma arabico-greco, inedito, del 20 febbraio 1095,
appartenente alla chiesa di Catania, il quale contiene la platea dei
villani di Aci. Si vegga anche in Trinchera, _Syllabus_, pag. 182,
segg. il diploma, che contiene la dotazione del vescovado di Squillaci.
Il conte Ruggiero concedea al vescovo tra le altre cose, di ricettare
ne’ suoi poderi de’ villani estranei “purchè non fossero ne’ privilegi
di lui, nè de’ suoi baroni.”

[573] Diploma del 1095, due del 1144 e due del 1145; tutti arabo-greci
appartenenti alle chiese di Catania e di Morreale e all’Archivio regio
di Palermo, citati di sopra.

[574] Si vegga la pagina 244, e si confronti il tit. III, lib. vij,
delle Costituzioni ec.

[575] Il Gregorio pubblicò, _Considerazioni_, lib. II, cap. vij, nota
4, l’atto di riconoscimento di un villano di Collesano in data del
1279, scritto in latino. Uno simile ed assai più importante, scritto
in arabico e com’io credo nel 1177 (v’ha l’_’alama_ di Guglielmo il
Buono e il riscontro del mese di Rebi 1º con agosto, perciò un de’
tre anni 1177-8-9) si conserva nel reale Archivio di Palermo. I figli
di Musa Santagat, da Menzil Jusuf (Mezzojuso) confessano sè essere
_uomini di Gerâid_ dell’abate Tabat, e promettono di star sempre nella
obbedienza della chiesa; e l’Abate loro perdona, pone sopr’essi la
_gezia_ di trenta _rob’ai_ all’anno e il canone di 20 _Modd_ di grano
e 10 di orzo. Essi infine pregano l’Abate di permettere che soggiornino
dovunque loro aggradi.

[576] Abbiamo dimostrato poco fa, pag. 239, che si debba anco intendere
de’ villani ciò che il Gregorio dice de’ rustici.

[577] _Costituzioni_, lib. III, tit. X. Cf Gregorio, _Considerazioni_,
lib. II, cap. vij, pag. 167.

[578] _Considerazioni_, lib. II, cap. vj, pag. 140, 141, 142, e cap.
vij, pag. 166-167.

[579] Un diploma del conte Ruggiero, dato, com’e’ pare, del 12 febbraio
1095, e scritto in greco, se non che i nomi degli uomini (_rigiâi_)
sono in arabico, concedeva alla chiesa di Palermo settantacinque
_agareni,_ undici buoi, e dei poderi ne’ territori di Giato, Corleone
e Limona; dovendo gli Agareni pagare alla chiesa, per_ doma_, in
inverno 750 tarì e altrettanti in agosto, con 150, _mudd_ di frumento
e 150 d’orzo. Ogni villano così dava in ogni anno 20 tarì, due salme
di frumento e due d’orzo e nulla più. Si avverta che la spedizione
latina del medesimo diploma presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 76,
non contiene i particolari delle prestazioni. Una pessima traduzione
latina del testo greco, si legge presso il Mongitore, _Bullae_, ec.
_Panormitanæ Ecclesiæ_, pag. 13, opera del gesuita Giustiniani da
Scio, il quale, tra le altre cose, tradusse _laudemium_ la frase λογοῦ
δόματος. Pieno anco di errori il testo pubblicato dal Mortillaro, nel
_Tabulario della cattedrale di Palermo_, pag. 8 segg.

Non cito qui il diploma del 1093, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag.
695, per il quale furono conceduti al vescovo di Girgenti 400 villani
col casale, _Cathal. in quo frumenta_, etc., poichè il testo iui par sì
corrotto da non potervi far assegnamento; nè ha chiarita quella dubbia
lezione il Gaglio, negli _Opuscoli di Autori siciliani_, tom. IX.

La voce δόμα occorre anco in un diploma greco di Sicilia del 1192,
presso Spata, _Pergamene_, pag. 306, e in tre diplomi greci della
estrema Calabria del 1188, 1198 e 11.., presso Trinchera, _Syllabus_,
pag. 300, 334 e 557, col significato di tributo principale, diverso
dalle angarie e dagli altri pesi che sopportavano i villani: tributo
personale, senza dubbio, poichè talvolta si pagava ad altro signore
che quello del luogo ove attualmente soggiornasse il villano. Il sig.
Spata ha tradotto vagamente _esazione_, e il sig. Trinchera, con troppa
precisione, _jus hospitii_. Ma quella voce nel greco dei bassi tempi
valea _dono_; come si scorge da’ luoghi del Nuovo Testamento, delle
Basiliche e di altri scritti del medio evo, citati nel_ Thesaurus_,
edizione Hase, Parigi, 1833, tomo I, col. 1642. Non sarebbe stato vezzo
nuovo di chiamar così un’odiosa imposizione.

[580] _The Travels of Ibn-Jubair_, testo edito dal Wright, pag. 328,
336, 344. Il testo di questo squarcio si vegga anco nel _Journal
Asiatique_, dicembre 1845, p. 509, 520, 531; la versione francese
ivi a p. 538 e in gennaio 1846 pag. 81, 202, e la versione italiana
nell’_Archivio Storico Italiano_, vol IV, Appendice nº 16, pag. 34, 40,
46.

[581] Si vegga il lib. II, cap. 12, pag. 475 del 1º volume.

[582] Qui innanzi a pag. 246, nota 3, e il diploma del 1095 a pag. 247,
nota 3.

[583] In questo atto del 1177 i tre villani venuti a riconoscere
l’autorità del signore, sono tassati di trenta _roba’i_ in ciascun anno
solare, per _gezie_, 20 _modd_ di frumento e 10 d’orzo.

La moneta d’oro detta in arabico _roba’i_ e in greco e latino _tarì_,
pesava poco più di un grammo, donde tornava in valor di metallo a tre
franchi e mezzo in circa. Si vegga il lib. III, cap. xiij, pag. 457 a
460 del secondo volume.

[584] Veggansi tutti i diplomi latini e greci, nel Pirro _Sicilia
Sacra_; Spata, _Pergamene,_ ec. e gli inediti che è occorso di citare
nel presente capitolo.

[585] Nel diploma greco del 1188, presso Trinchera, _Syllabus_, p. 300,
i pesi de’ villani sono specificati: δόματα καὶ ᾶγγαρὶας καὶ καννίσκια,
_doni_ (ossia il tributo) _angarie e regalucci_; e lo stesso notasi con
poco divario nei diplomi del 1198 e 11..., pag. 334, 557.

[586] Si vegga qui innanzi pag. 213.

[587] Diploma del 1150, di Lucia di Cammarata, presso Pirro, _Sicilia
Sacra_, pag. 801.

[588] Diploma del 1188, presso Trinchera, _Syllabus_, pag. 297.

[589] Diploma del 1262, presso Gregorio, _Considerazioni_, lib. II,
cap. vj, nota 19.

[590] _Considerazioni_, lib. II, cap. vj, pag. 135 segg.; cap. vij,
pag. 169.

[591] Si vegga su la significazione del vocabolo _rustici_ la pag. 239
del presente capitolo.

Borghesi eran detti i cittadini di Palermo, (Gregorio,
_Considerazioni_, lib. II, cap. vij, nota 10) di Morreale, (Gregorio,
op. cit., lib. I, cap. iv, nota 19) del casale di Sinagra, (Gregorio,
op. cit., lib. II, cap. vj, note 18, 19) di Siracusa, (Diploma del
1172, presso Spata, _Pergamene_, pag. 442) del territorio di Santa
Maria in Cammarata, (Diploma del 1150 presso Pirro, _Sicilia Sacra_,
pag. 801) e di Oppido in Calabria (Diploma del 1188 presso Trinchera,
_Syllabus_, pag. 297).

[592] Presso Caruso, _Bibl. Sic._, pag. 475.

[593] Re Ruggiero vietava a’ bajuli di molestare gli abitatori Lombardi
di Santa Lucia che avessero pagato il diritto di marineria, di esigere
da loro angarie, ajutorii e fin anco l’erbatico per le loro greggi; e
prescrivea fossero liberi come i Lombardi di Randazzo: presso Gregorio,
_Considerazioni_, lib. I, cap. iv, nota 25. Nello stesso capitolo
quarto sono particolareggiati gli antichi diritti del fisco, e non si
trova alcuna tassa diretta su i borghesi se non la _gezia_ ai Giudei.
Nel cap. v, nota 4, è pubblicata una sentenza di magistrati del 1113
sugli abusi che commetteva il vescovo feudatario contro gli abitatori
di Patti.

[594] _Considerazioni_, lib. II, cap. vj, vij, e in particolare la nota
19 del cap. vj, ch’è squarcio d’un diploma del 1262.

[595] _Considerazioni_, lib. I, cap. ij, iij, iv e v.

[596] Cap. VIII di questo libro, pag. 207 del volume.

[597] _Considerazioni_, lib. I, cap. iv, pag. 77. Quivi nella nota 22
il Gregorio allega una sua propria nota al Novairi, nella quale spiega
che cosa fosse la gezia presso i Musulmani, e cita poi alcuni diplomi
di Sicilia su la gezia che pagavano i Giudei, ed un luogo del registro
di Federigo II imperatore, relativo a due musulmani di Lucera. E nulla
più!

[598] Si veggano nelle _Considerazioni_, lib. I, cap. iv, note 18, 19,
20, 21, le citazioni su i _diritti antichi_, nelle quali occorre la
_sisia_ de’ Giudei e non mai dei Musulmani.

[599] Si riscontrino le _Considerazioni_, lib. I, cap. ij, pag. 44, e
la nota 45 che non prova nulla. La voce gezia occorre una sola volta
ne’ diplomi che io conosca relativi alla condizione delle persone,
latini, greci e arabi: appunto nel diploma arabico ch’io credo del
1177, citato dianzi pag. 216 nota 3, per lo quale tre musulmani si
riconosceano villani di un abate e questi loro imponea canone e gezia.
I greci portano l’appellazione di σόμα, appunto come pei villani
cristiani di Terraferma (pag. 250, nota 1). È degno di molta attenzione
un diploma latino del Conte dato il 1091, presso Pirro, _Sicilia
Sacra_, pag. 521, per lo quale Ruggiero rammenta aver già donato al
Monastero di Sant’Agata di Catania varii poderi e animali e quattro
villani co’ loro figliuoli nella città di Messina, due de’ quali
cristiani e due saraceni. Se pur non occorressero tanti nomi cristiani
nelle platee di villani che ci rimangono, basterebbe questo sol diploma
a mostrare che i Normanni non liberarono mica i loro correligionari
dalla servitù della gleba.

[600] Ibn-el-Athîr, Annali, testo nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag.
278. È replicato questo luogo dal Nowairi, op. cit., pag. 448 e presso
Gregorio, _Rerum Arabicarum_, pag. 26.

[601] _Geografia_, squarcio su la Sicilia, nella _Biblioteca
Arabo-Sicula_, testo, pag. 26.

[602] Si vegga qui sopra a pag. 248.

[603] Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. I, nota 11 e i seguenti
diplomi, dei quali gli arabici inediti son citati secondo le copie che
me ne ha mandate il professor Cusa.

XII secolo. Omar-ibn-Hosein-et-Tamimi vende un pezzo di terra al
monastero di Bardhali (?). Diploma arabico dell’Archivio di Palermo,
inedito.

1132. Permuta di acque tra Abd-er-Rahman-el-Lewati ed Hosein-ibn-Ali-el
— Kindi, squarcio arabico, presso Gregorio, _De supputandis_, p. 44.

1137. Ibn-Baruki vende una casa all’Arcivescovo di Messina. Diploma
arabico della Cappella Palatina di Palermo, inedito.

1157. Il Gaito Abd-el-Malek vende degli stabili al vescovo di Girgenti.
Diploma latino, Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 698.

1161. Abu-Bekr e Ahmed, conciatori di pelli, e altri vendono una casa
in Palermo al prete Raoul. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo,
inedito.

1164. Sittelkiul, figlia del Kaid-Se’ûd e un figliuolo di lei, vendono
alla figliuola d’un Giovanni Romeo una casa nel sobborgo di Palermo.
Diploma greco, presso Trinchera, _Syllabus_, ec., pag. 218.

1176. Othman-ibn-Jusuf-el-Howari vende al prete Pietro ec. una casa in
Palermo. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1180. Abu-l-Abbas-Ahmed-et-Tamimi e l’Haggi-Abu-l-Fadhl vendono un
podere nel territorio di Palermo all’Arcivescovo Gualtiero Offamilio.
Diploma arabico della Cattedrale di Palermo, inedito.

1183. Mes’ud-Koresci e un suo figlio vendono una casa in Palermo alla
dama Margherita. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1190. Zeinab-bent-Abd-Allah-Ansari vende a Niccolò Askar una casa in
Palermo. Diploma arabico della Cattedrale di Palermo. Gregorio, _De
supputandis_, pag. 40.

1192. Hosein e Meimun suo figlio vendono al monastero del Cancelliere
una loro casa in Palermo. Diploma greco, presso Trinchera, _Syllabus_,
ec., pag. 315.

1193. Ibrahim-ibn-Mohammed-Koresci vende al cristiano Giulio una casa
in Castrogiovanni. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1196. Costanza figliuola di Abu-l-Fadhl vende de’ beni urbani. Diploma
greco, presso Morso, _Palermo Antico_, pag. 368.

[604] Oltre i diplomi, lo provano le _Consuetudini di Palermo_, citate
dal Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. I, nota 11.

[605] Le notizie che do sul prete Scholaro son cavate dalle traduzioni
latine di tre diplomi greci del 1099, 1114, e 1128 (o 1130) pubblicate
dal Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1003 segg., e da’ comenti del Pirro;
il quale argomenta il nome di famiglia da quello che porta in due
altri diplomi del 1162 e 1184, Ula figlia del figliuolo primogenito
del fondatore (op. cit., pag. 1009). Mi par che Scholaro non si debba
tenere col Pirro nome proprio, ma soprannome tolto dalle σχόλαι,
ossia guardie del corpo degli imperatori bizantini, nelle quali
avesse incominciata la sua avventurosa vita il futuro abate Saba. Le
traduzioni, come opera del celebre Costantino Lascari, meritano fiducia
in questi diplomi, perchè non vi occorrono quelle parole tecniche di
gius pubblico Siciliano che il dotto ellenico mal conoscea. Qualche
difficoltà che occorre, come il titolo di re dato a Ruggiero II, il
1114 e il 1128 (pag. 1005), potrebbe nascere da errori sulla copia
della versione, della quale il Pirro ebbe alle mani parecchi esemplari
diversi l’un dall’altro.

Il diploma del primo conte Ruggiero attesta così i meriti del Prete
Scholaro: _Igitur, quoniam et tu prædictus Scholarius perfectam erga
nos habuisti et optimam intentionem, promptitudinem et conscientiam;
fidelissimus existens in omnibus rebus nostris, et summa exercens
ministeria, et servitia nobis, restituere tibi voluimus parva munera
pro tuis maximis et honestissimis ministeriis ac servitiis: pro quibus
donamus,_ ec.

[606] Si vegga il lib. III, cap. ix, e lib. IV, cap. viij, pag. 187,
nota 3, e pag. 353 nota 1, del 2º volume. I luoghi d’Ibn-el-Athîr e del
Nowairi quivi citati si trovano nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag.
284 e 437.

[607] Si vegga il lib. IV, cap. iv, pag,. 282 segg. del 2º volume.
Giawher è detto il kâid da Makrizi, _Mewâ’iz_, ediz. di Bulâk, tomo II,
pag. 273, e nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pag. 669.

[608] Erano la più parte Spagnuoli e vi occorre anco de’ Genovesi e de’
Veneziani. _Presentibus archaido Lodovico Alvares, archaido Andreuccio
Cibo, conestabilibus stipendiariorum christianorum_ ec., leggesi
nella traduzione contemporanea del trattato di commercio stipulato
tra Pisa e Tunis il 1353, ch’io ho pubblicata nei _Diplomi Arabi
dell’Archivio fiorentino_, pag. 308. Si vegga anco la Prefazione mia a
quella raccolta, pag. xxij e xliv e nota 7 della pag. 175. Occorre il
nome dell’Alcayt-Ferrau-Iove in un diploma del 1315, presso Capmany,
_Memorias historicas.... de Barcelona_, Docum. XXXI, pag. 62.

[609] Diploma catalano del 1313, presso Capmany, _Memorias historicas_,
ec. tomo IV, Docum. XXVI, art. 6, e Dipl. del 1323, Docum. XLII, art.
5, e 16.

[610] Lib. IV, cap. xij, pag. 420, 421 del 2º volume.

[611] Lib. V, cap. ij, iij, iv, pag. 68, 70, 75, 99, 130 del presente
volume. Notisi che Amato, nel luogo citato da me alla pag. 75, con
molta precisione chiama _amirail_ il capo del governo musulmano in
Palermo, mentre egli ha dato a’ condottieri e castellani il titolo di
_cayt_.

[612] Platee greco-arabiche de’ vassalli del vescovo in Catania e in
Aci, delle quali la seconda data del 1095 e la prima, rinnovata molti
anni appresso, va riferita senza dubbio allo stesso tempo.

[613] Diploma latino del 9 dicembre 1092 presso Pirro, _Sicilia Sacra_,
pag. 522, 523.

[614] Diploma greco del 1123, presso Spata, _Pergamene_, ec., pag. 410.

[615] Diploma greco-latino del 1132, presso Spata, op. cit., pag. 426.

[616] Diploma arabo-greco del 1172, nel _Tabulario_, ec. della
Cappella Palatina di Palermo, pag. 30 e seg. Quivi tra i testimonii
della delimitazione di un podere, sono nominati Giovanni figlio dello
ammiraglio Giorgio, Niccolò Logoteta, Abu Tâib e Mukhlûf, detti nel
testo greco οι καΐτοι τῶν τοξότων e nella parafrasi arabica _kaix
degli Arcieri_ ed un γέρον καΐτος Chapzis (leggesi Hamza), il quale
nell’arabico è detto _sceikh_ e _kâid_ senz’altro. Nel testo greco
inoltre è data la qualità di kaid a un Niccolò che nell’arabico è detto
_Farrâse_ (gli editori lesser male Carasc) che significa propriamente
cameriere, colui che bada a’ tappeti, ai letti, ec.

Così questo diploma cita dei _kâid_ delle tre classi poste da noi, cioè
i primi quattro condottieri, il quinto nobile, e il sesto cameriere di
corte.

Ritornando alla prima classe, si rammenti che Ibn-Giobair fa menzione
di una schiera di schiavi negri musulmani, i quali servivano
Guglielmo II sotto un kâid della stessa lor gente: nel _Journal
Asiatique,_ dicembre 1815, pag, 509, e traduzione francese pag. 540; e
nell’_Archivio Storico Italiano_ Appendice al vol. IV, pag. 33.

[617] _Kâid_ Barûn, direttore, diremmo noi, del Demanio; diploma
dell’aprile 1150, mal pubblicato dal Caruso nella _Biblioteca Sacra_,
ec. Palermo, 1834, pag. 28, del quale ho miglior copia per cortesia
del professore Cusa. Pare sia lo stesso paggio (_fatâ_) Barun, il cui
nome si legge in un frammento d’iscrizione monumentale nella casa
del Municipio di Termini. Imâd-Eddin, nella _Kharida_ (_Biblioteca
Arabo-Sicula_, testo, pag. 581,) novera tra i poeti siciliani un
Giâfar-ibn-Barûn.

_Gaitus Ricon_ (?)_ domini regis Magister Camerarius et familiaris, e
Gaytus Maranus, domini regis magister et familiaris,_ soscritti in un
diploma del 1167, nel _Tabulario_ della Cappella Palatina di Palermo,
pag. 25.

Καΐτος Βονλκατάχ, uno degli Arconti della corte, diploma greco del
1168, presso Spata, op. cit., pag. 440.

_Caitus Riccardus_, capo dei Segreti, diploma di origine greca, dato
il 1169, traduzione latina, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1017, e
il medesimo in un diploma greco del 1183, presso Spata, op. cit., pag.
291.

_Gaitus Martinus,_ già morto, camerario del re. Diploma latino del
1172, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 454.

_Gaytus Johannes_, camerario del re. Diploma latino-arabico del 1187,
nel _Tabulario_ della Cappella Palatina di Palermo, pag. 37, 38. Quivi
è citato nel lesto latino il _Gaytus Riccardus_ di cui si è detto
poc’anzi, e lo si vede soscritto in arabico tra i testimonii col titolo
di _Kâid_. Al contrario il _Gaytus_ Giovanni è pria nominato e poi
sottoscritto nel testo arabico _Fatâ_, cioè paggio della corte e _Fatâ_
anco un Ammâr testimonio. Il Morso, il quale trascrisse e tradusse
cotesto diploma, lesse erroneamente in luogo di _Fatâ_ la voce _Kata_
che non significa nulla, e identificò questa con Gaytus, cioè _Kâid._

[618] Presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 463.

[619] Testo nel _Journal Asiatique_, dicembre 1845, pag. 552, e nella
edizione di Wright, pag. 315; traduzione francese nel detto _Journal_,
gennaio 1846, pag. 203; e traduzione italiana nell’_Archivio Storico
italiano_, vol. IV, Appendice nº 16, pag. 46.

Lo stesso autore, edizione del Wright, pag. 146, denota con la voce
_Za’im_ il capo d’una tribù araba ch’ei vide cavalcare allato a
Self-el-islam, fratello di Saladino, quando quegli entrava solennemente
alla Mecca. Il _Kamûs_ le dà lo stesso significato di capo d’una gente
e signore; colui che ha dritto di parlare a nome della gente o se
ne fa mallevadore. Mawerdi, scrittore di Baghdad al X secolo, chiama
_Zâim_ il capo supremo d’un esercito, testo, edizione Enger, pag. 67;
e Makrizi, narrando la morte del Sultano mamluko Khalil che seguì allo
scorcio del XIII secolo, gli mette in bocca le parole ch’ei non si
tenesse principe, ma solo _Za’im_ dell’esercito: _Histoire des Sultans
Mamlouks_, traduzione di Quatrémère, tomo II, parte I, pag. 153. Si
vegga anche il _Lobb-el-Lobâb_, pag. 108, 109 del Supplemento. Da ciò
si ritrae come, non ostante i significati particolari presi in varie
circostanze, questo vocabolo torni sempre a capo elettivo o ereditario,
e di fatto si avvicini di molto al barone del medio evo cristiano.

[620] _Gaytus Micheret de Jatino_, testimonio in un diploma latino del
1133 presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 774.

_Gaitus Abdi Malach_, venditor di un podere al Vescovo di Girgenti tra
il 1157 e il 1171, presso Pirro; op. cit., pag. 698.

_Gaitus Maimon_ e καϊτ ἀυδερραχμεν, de’ Saraceni di Siracusa; _Gaitus
Hamar_, e _Gaitus Brahim_ di que’ del vicino casale di Aguglia,
testimonii in un diploma greco latino del 1172, presso Spata,
_Pergamene_, ec., pag. 414.

_Gaytus Ramun_ di Michiken.... _Gaytus Humur_ dello stesso luogo,
_Gaytus Aly-el-Bonifati_ di Gurfa.... _Gaytus Abdelguaiti_, id...
_Gaytus Aly Petruliti_ di Yhale.... _Gaytus Husein_ di Cassaro (in
val di Mazara) testiinonii con altri molti, in un atto greco-arabico
del 1175, del quale una traduzione latina del XIII secolo si legge
presso Gregorio, _De supputandis_, etc., pag. 52 segg., e presso Spata,
_Pergamene_, pag. 453. Alcun di costoro è intitolato anche Sceikh, come
il Kâid Hamza, di cui nel diploma del 1172 citato qui innanzi, pag. 262
nota 3.

[621] Riccardo da San Germano, _Chronicon_, presso Caruso, _Bibl.
Sicula_, pag. 547, anno 1190.

[622] Si veggano i nomi di quattro kaid di Arcieri nel Diploma del
1172, citato di sopra e l’attestato d’Ibn-Giobair.

[623] Si veggano i molti Gayti citati dal Falcando presso Caruso,
_Bibl. Sicula_, passim, e gli altri nomi cavati da’ diplomi che abbiam
tutti citati a pag. 263. Leggiamo un _Arabicus miles,_ soscritto da
testimone in un diploma latino dei 1151 presso Pirro, _Sicilia Sacra_,
pag. 933. Probabilmente precedea l’iniziale del nome che non si potè
leggere o fu saltata nella stampa. Il testimonio parmi un _kâid_ che
traduceva il suo titolo di nobiltà nel linguaggio latino del tempo.

[624] Diplomi dell’imperatore Federigo, dati il 16 dicembre 1239, 12
marzo e 15 aprile 1240, nella _Historia diplomatica Friderici II_, tomo
V, pag. 596, 820, 902. Diploma del 1274, nel _Tabularium_ ec. della
Cappella Palatina di Palermo, pag. 82, segg.

Da questi si scorge che il _gaito_ di Palermo fosse l’amministratore
diretto dei beni demaniali nella città e territorio di Palermo, sotto
l’autorità del Segreto della Provincia. Il diploma del 1274 mostra che
quell’uficio non durò oltre il regno di Manfredi e ch’era annuale e
forse dato in appalto.

[625] _Innocentii III Epistolæ_, Libro IX, ep. 158, edizione di Parigi
1791, in-fol. nei _Diplomata Chartæ_, etc. di Brequigny, Part. II,
tomo I. Archadio et universis Gaietanis, etc. Si corregga Jati il nome
topografico Jaci.

[626] _Considerazioni_, lib. I, cap. I, pag. 6, nota 40. Lo squarcio
di Leone Affricano che indusse in errore il Gregorio, è dato da lui
medesimo in nota, nel _Rerum Arabicarum_, pag. 238. Si vegga ciò che
noi abbiam detto di quell’erudito musulmano nel lib. I, cap. X, pag.
236 del 1º volume.

[627] Diploma latino del 1091; presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag.
521.... _et ego cum exercitibus militum meorum fortiter laboravi....
patiundo diversa pericula in terra et in mari et immensam famem et
nimiam sitim ad invicem: numerus autem illorum meorum militum qui
in acquisitione terre Sicilie mortui sunt, soli Deo et Sanctis ejus
cognitus est; mihi vero, cum omnibus aliis hominibus incognitus_.

[628] Si vegga un Diploma del 1114, presso Pirro, _Sic. Sacra_, pag.
1177.

[629] Il diploma si legge nel Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 520. Diremo
nel capitolo seguente la ragione per la quale le terre di minor conto
mancano nelle prime circoscrizioni delle Diocesi. Non facciamo il
medesimo confronto per Randazzo, nè per le altre colonie lombarde della
diocesi di Messina, perchè ci è sospetto d’interpolazione il primo
documento, dato il 1082, che il Pirro pubblicò, op. cit., pag. 495,
sopra una copia del XVI secolo.

[630] Cap. VIII, pag. 231 di questo volume.

[631] Si vegga il cap. IV di questo libro, pag. 107 del presente vol.

[632] Diploma greco, presso Spata, _Pergamene_, pag. 409 segg.

Ha sbagliato il signore Spata supponendo _mariti_ entrambi della
Moriella, normanna, come si argomenta dal nome, e signora del villaggio
di Pitirrana, i due musulmani _vassalli_ di lei, che avean già
posseduto il molino. La voce ἄνθρωπος nel medio evo ebbe anche questo
significato, e qui l’è evidente.

[633] Malaterra, libro II, cap. xlv; Leone d’Ostia, libro III,
cap. xvj, presso Caruso, _Bibl. Sicula_, pag. 201, 280. I luoghi
di Eadmero e di Romualdo Salernitano sono trascritti dal Gregorio,
_Considerazioni_, libro I, cap. vij, note 16, 17. Non può allegarsi
l’Amato nè pro nè contro, poichè il traduttore francese, accennando
(libro VI, cap. xxj, pag. 182), al fatto stesso narrato dal Malaterra,
dice che Roberto: _donna... toute la Sycille_, senza definire
altrimenti la natura della concessione.

[634] Diplomi del 1082, 1091 e 1099, il primo dei quali ne’ _Regii
Neapolitani Archivii Monumenta_, tomo V, pag. 97, e gli altri due
presso Trinchera, _Syllabus graecarum membranarum_, etc., pag. 68,
85; diploma del 1094, citato dal Gregorio, _Considerazioni_, libro I,
cap. vij, nota 19; diplomi di Roberto e del suo successore, dati il
1079, 1083, 1084, 1092, e suggelli di piombo, presso Buchon, _Nouvelles
Recherches sur la principauté française de Morée_, volume II, parte I.
Paris, 1843, pag. 360, 361.

[635] Diplomi del 1081 e 1094, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1016
e 771.

[636] Si vegga il Gregorio, _Considerazioni_, libro I, cap. vij, pag.
151.

[637] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 770, 842. Diplomi del 1091 e
del 1093.

[638] Gregorio, loc. cit.

[639] _Somma della Storia di Sicilia_, cap. XIX, pag. 84, segg. del
vol. II.

[640] Si vegga questo libro V, cap. j, iij, v, vij, pag. 28 segg., 43,
a 54, 87 ad 89, 141 segg. 182, 183.

[641] Si vegga il cap. ij, di questo libro, pag. 77 segg., e il cap.
iij, pag. 82 segg., 94 segg.

Roberto die’ soltanto 100 uomini d’arme nel 1068. Veggasi la p. 104.

[642] Cap. v, pag. 133.

[643] Cap. vj, pag. 161.

[644] Cap. viij, pag. 183, 184 segg.

[645] Si vegga a questo proposito il Gregorio, _Considerazioni_, libro
I, cap. vij, pag. 142.

[646] Op. cit., libro I, cap. vij, citando nelle note 17 e 18, il
contemporaneo Abate di Telese.

[647] Loc. cit., nota 16, da un diploma.

[648] Diploma, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 80, 81.

[649] In _Prolocutorio panormitani palatii_. A fin di evitare la voce
parlatorio, che mal suonerebbe, mi è parso di usare quella antica
dizione fiorentina.

[650] Diploma presso Pirro, op. cit., pag. 84, 85. In questa carta
l’arcivescovo Pietro, papalino de’ suoi tempi, non curando il
plebiscito, chiama tuttavia duca il re Ruggiero.

[651] Diploma senza data, presso Pirro, op. cit., pag. 696, citato dal
Gregorio, libro I, cap. vj, nota 7. Quivi la parola _etiam_ (partem)
va corretta _tertiam_; come risulta d’altronde da un diploma del 1142,
presso Pirro, op. cit., pag. 698, nel quale re Ruggiero confermava il
provvedimento del padre.

[652] Diploma del 1093, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1016, che
mi sembra traduzione dal greco.

[653] Diploma del 1105, ed un altro senza data da riferirsi anco
ai primi principii del XII secolo, citato in uno del 1133, presso
Gregorio, _Considerazioni_, libro I, nota 30 al cap. ij, e nota 4 al
cap. v. Squarcio di un diploma del 1108, e citazioni di altri, presso
Pirro, _Sicilia Sacra, Chronologia_, pag. xiii.

I primi conti di Terraferma e il primo Ruggiero di Sicilia son
intitolati sovente consoli nell’Anonimo, contemporaneo di re Ruggiero,
presso Caruso, _Bibliotheca Sicula_, pag. 834, 836, 843, 844, 854, 855,
856, e nella traduzione francese, edizione di Champollion, pag. 276,
277, 290, 312.

[654] Oltre i molti e notissimi attestati degli scrittori ch’e’ sarebbe
superfluo a citare, veggansi i diplomi del 1028, 965 e 1036, ne’ _Regii
Neapolitani Archivii Monumenta_, tomo IV, pag. 206, e tomo VI, p. 147,
150, ec. e le monete, presso San Giorgio Spinelli, _Monete Cufiche_,
pag. 4, 140, 145, 146, 248.

[655] Guglielmo di Puglia, libro I.

    _........ Gallorum exercitus urbem_
    _Condidit Aversam, Rannulfo consule tutus_

[656] _Considerazioni_, libro II, cap. vij, pag. 174 segg.

[657] Si riscontri il cap. viij del presente libro, pag. 228.

[658] Presso Gregorio, _Considerazioni_, libro II, cap. iv, nota 15.

[659] Op. cit., libro I, cap. iv, nota 23.

[660] Op. cit., libro I, cap. v, nota 3.

[661] Op. cit., libro II, cap. vij, nota 23.

[662] Libro I, cap. ix, e libro II, cap. xij, pag. 208 segg. e 472
segg. del Iº vol., libro III, cap. i e iij, e libro IV, cap. xj, pag.
10 segg., 397 segg. del 2º volume.

[663] Questo argomento è trattato, con molta critica ed autorità di
citazioni, dal Mortreuil, _Histoire du Droit byzantin_, Paris, 1843-6,
volume III, pagg. 49, 75 ad 82.

[664] _Considerazioni_, libro II, cap. vij, nota 21.

[665] Si veggano i fatti di varie città dell’Italia Meridionale,
ricordati nel presente libro, cap. i e ij, pagg. 31, 37, 38, 51, 52, 87
a 89.

[666] Diploma senza data, da riferirsi all’XI secolo, presso Trinchera,
Syllabus, Appendice, pag. 557. I detti uomini pagavano εὶς τὸ πλεμικόν.

[667] Si vegga il cap. ij di questo nostro libro, pag. 82, 85, 90 del
volume.

[668] Diplomi greci del 1094, 1105, 1136, 1182, 1168, 1171, 1217, 1225,
presso Spata, _Pergamene_, pagg. 180, 188, 203, 266, 293, 437, 274,
309 e 312, 327 e 330; e diploma greco del 1140 nel _Tabularium_ della
Cappella Palatina di Palermo, pag. 28, col transunto arabico, nel quale
cotesti Arconti della Corte son detti vizir, ch’era il nome arabico
dell’ufizio. All’incontro è adoperato il mero titolo in tre diplomi
arabici di Sicilia inediti del 1144 e 1145, poichè quivi il vocabolo
ἄρχον è esattamente trascritto, non tradotto e, come voce straniera,
prende al plurale la forma arâkinah, secondo le regole grammaticali.
Non cito gli altri diplomi greci, ne’ quali l’emir degli emiri, primo
ministro dei re di Sicilia, è intitolato Arconte degli Arconti.

[669] Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 247. Il Lascari in
una traduzione latina quivi stampata a pag. 253, traduce lo stesso
vocabolo dominus.

[670] Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 244.

[671] Diploma greco, op. cit., pag. 266.

[672] Diploma greco, op. cit., pag. 286, 288.

[673] Diploma greco, op. cit., pag. 438, 439. Nello stesso atto, pag.
437, sono nominati gli Arconti del Segreto, cioè i Direttori di Finanza
della Corte.

[674] Diploma citato del 1188, presso Trinchera, Syllabus, pag. 297.

[675] Il _Thesaurus_ di Henri Etienne, ediz. di Hase, etc. dà alla voce
Ἄρχων i soli significati antichi; ma spiega Ἀρχοντία, etc., prefettura
del basso impero. Il Glossario greco del Ducange cita invece il
significato più moderno, cioè nobili e baroni ed anco l’Arconte degli
Arconti di Costantino Porfirogenito. Ma le compilazioni di dritto alle
quali si riferisce il Mortreuil, _Histoire du Droit byzantin_, vol.
II, pag. 375 e 421, e vol. III, pag. 95, mostrano mantenuto nel X, XI
e XII secolo il significato di supremo magistrato giudiziale. Nella
stessa opera, vol. III, pag. 68, veggo che i corpi de’ dignitarii della
Chiesa si chiamassero anco Ἀρχοντικία, e le citazioni delle pagg. 81-82
provano dato quel titolo ad alcun ufizio municipale.

[676] Traduzione d’un diploma greco, presso Pirro, _Sicilia Sacra_,
pag. 300. Vi si leggon anco i senes Noti e i senes Rosati; ma questi
nomi topografici sembrano sbagliati, perchè Noto giace in altra regione
e Rosato non si ritrova in altre carte.

[677] Γέρουσία. Diploma greco, presso Spata, _Pergamene_, pag. 410.

[678] Traduzione latina d’un diploma greco di novembre 1104, presso
Gregorio, _Considerazioni_, libro I, cap. iij, nota 10. Quivi si fa
cenno di sacerdoti, _simul considentibus_, con gli Anziani e poi di
testimonianza di molti Buoni uomini. Ma il testo forse metteva questi
insieme con gli Anziani e la traduzione, che il Gregorio confessa
inesatta, alterò il senso.

[679] Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 285 segg.

[680] Idem, ibid., pag. 293 segg.

[681] Diploma greco del 1138, inserito in uno del 1188, presso
Trinchera, _Syllabus_, pag. 297. I Buoni uomini e gli Anziani doveano
determinare tutte le appartenenze d’un feudo recentemente conceduto:
boschi, vigne, ec., fino a’ villani ed a’ borghesi.

[682] Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 438.

[683] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 774. Invece di Catinae, si
dee legger quivi Jatinae, della qual terra si tratta e non di Catania.
Gli Anziani in questo diploma, scritto originariamente in latino,
sono detti majores natu, traduzione literale di sceikh. L’altra terra
nominata è Mertu, villaggio or distrutto in provincia di Palermo.

[684] Diploma greco-arabico, nel _Tabularium_ della Cappella Palatina
di Palermo, pag. 29.

[685] Traduzione latina del XIII secolo, dal greco e dallo arabico,
pubblicata dal Gregorio, _De Supputandis_, pag. 34 e segg. e meglio
dallo Spata, _Pergamene_, pag. 451 seg. È da notare che la traduzione
dall’arabico ha il solo vocabolo _senes_ che risponde a sceikh;
ma nella traduzione dal greco si legge _senes de regimine terrarum
adiacentium_. Dond’ei sembra che la voce γέροντες fosse seguita da
qualche altra che la specificava o che il traduttore avesse aggiunto
_de regimine_, per mostrare che si trattasse di Anziani e non di
vecchi.

[686] Diploma greco del distrutto archivio Capitolare di Messina. Una
copia procacciatane dal canonico Schiavo, serbasi nella Biblioteca
comunale di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 321; dalla quale il Tardia e il
Morso trasser quelle che si ritrovano nella stessa Biblioteca, Q. q.
F. 143 e Q. q. E. 172, fog. 427. Avvene di più una traduzione latina,
Q. q. G. 12, fog. 55. 56. E questa è la stessa, di cui die’ un pezzo
il Gregorio, a proposito de’ maestri de’ borghesi, come or or diremo.
Avvertasi che il Ms. è citato dal Gregorio con l’antico posto, Q. q. H.
15. Debbo la copia greca e latina di questi diplomi al dotto mio amico
Isidoro La Lumia.

[687] Diploma arabico della cattedrale di Palermo e nuova spedizione
del medesimo nel 1154, mai pubblicati dal Gregorio e poi dal professor
Caruso nella _Biblioteca Sacra_, Palermo, 1834, vol. II, pag. 46 segg.

[688] Diplomi del 1122, 1217, 1223, 1224 e 1225. presso Spata, op.
cit., pag. 256, 313, 314, 315, 317, 322, 323, 329, 330.

[689] Il primo è diploma greco, presso Spata, _Pergamene_, pag. 216;
il secondo, squarcio di traduzione latina d’un diploma greco, presso
Gregorio, _Considerazioni_, libro II, cap. II, nota 25; e gli ultimi
due diplomi greci, presso Spata, op. cit., pag. 286, 293 segg. I nomi
proprii mi sembrano mescolati greci e italici.

[690] Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 261, ed a pag. 263,
un transunto latino contemporaneo dove si legge la traduzione litterale
_Boni homines_. Ancorchè l’editore non abbia avuta sotto gli occhi la
pergamena originale, pure l’atto è da tenersi autentico, pei motivi
ch’egli discorre nelle annotazioni. Ed ancorchè il testo greco sembri
guasto in qualche luogo, pur non è in quello che ci importa; cioè
dove i Buoni uomini dicono chiaramente: Noi abbiamo conceduti i beni.
E _noi_ significa il comune piuttosto che le persone, poichè erano
trascorsi necessariamente moltissimi anni dalla concessione. De’ nomi
proprii di cotesti Buoni uomini, laici o chierici, la più parte mi
sembrano greci o latini e due soli oltramontani.

[691] Diploma d’ottobre 1204, del quale v’ha copia tra i Mss. della
Biblioteca comunale di Palermo, Q. q. G. 12. fog 114, citato per la
prima volta dal La Lumia, per provare la esistenza de’ giurati in quel
tempo, quando il Gregorio li trovava per la prima volta dal 1222 al
1231. Si vegga l’opera di quel mio dotto amico, _Storia della Sicilia
sotto Guglielmo il Buono_, Firenze, 1867, in 12º, pag. 200. Avuta copia
di questo documento dallo stesso La Lumia, mi par di pubblicarlo, come
quel che rivela la forma del municipio lombardo di Sicilia ai tempi
normanni, ai quali va riferita manifestamente la istituzione.

_In nomine Dei Eterni Salvatoris omnium, Jesu Christi, Amen. Anno
felicis suæ Incarnationis Millesimo Ducentesimo quarto, mense octobris
Nonæ Indictionis. — Quoniam acceptum est illi per quem salus venit
in mundum, et interest opera civitatis haud minimum judicare, fundare
Ecclesias, et fundatas pia sollicitudine promovere; inde est quod Nos
Rogerius de Drusiana et Joseph de Ytalia, de regio mandato instituimus
una cum cæteris Bonis hominibus, et universo populo Nicosino; cum in
honore et titulo Salvatoris fundassemus Ecclesiam in montem appellatam
Sancti Salvatoris in terra Nicosini, ut in eadem Ecclesia acceptum Deo
et sollemnius serviatur quantum vestra interest, et licet laicis de
Ecclesiis ordinare, eamdem Ecclesiam ad jurisdictionem transferimus
Sanctæ Ecclesiæ Latinensis cum omnibus possessionibus, et cæteris
bonis, quae ipsa hodie habet, et in futurum est, Deo propitio,
habitura. Salvo jure Sanctæ Messanensis Ecclesiæ cui ipsa tenetur
persolvere tarenum annuum pro incenso._

_Ad hujus autem nostræ concessionis memoriam, et robur in perpetuum
valiturum, per manus Magistri Johannis Rocté (?) presens scripta est
pagina et subscriptarum personarum testimonio roborata. Anno, mense
et Indictione præscriptis. Regnante Domino nostro serenissimo Rege
Frederico, anno (Dei gratia) octavo._

  ✠ _Ego Rogerius De Drusiana hoc concedo._
  ✠ _Ego Joseph de mandato regio Institucionem hanc confirmo._
  ✠ _Ego Robertus de Castello Bajulus hoc confirmo._
  ✠ _Ego Adam de Capicio hoc confirmo._
  ✠ _Ego Rogerius de la Nore Judex Juratus hoc confirmo._
  ✠ _Ego Nicolaus Maracava Judex Juratus hoc concedo._
  ✠ _Ego Robaldus Novus Bajulus eamdem confirmo._
  ✠ _Ego Robertus de Falco concedo._
  ✠ _Ego Nicolaus Botayctor concedo._
  ✠ _Ego Vivianus de Trohina concedo._
  ✠ _Ego Bartolomeus de Ansruna concedo._
  ✠ _Ego Guillelmus Ruffus concedo._
  ✠ _Ego Baribavayra Tuscus concedo._
  ✠ _Ego Alvarus concedo._
  ✠ _Ego Vitalis de Pistona concedo._
  ✠ _Ego Brunus fornator concedo._

_Ex scripturis existentibus in Archivio Sanctissimæ Collegiata
Capitularis Insignis Matris Ecclesia Sancti Patris Nicolai, Præcipui et
Principalis Patroni hujus Urbis Nicosiæ, extracta est præsens copia —
Collatione salva._

_Notarius Dominus Petrus Franciscus Paulus de Gugliotta Archivarius._

[692] Si veggano gli articoli di cotesta antica compilazione di
diritto, citati da Hegel, _Storia della Costituzione de’ Municipii
italiani_, Appendice pag. 419 segg. della traduzione italiana.

[693] Nelle _Memorie della R. Accademia delle Scienze in Torino_, 2ª
serie vol. XIII, pagg. 32, 50, 57, 99.

[694] Ducange, Glossario latino, ultima edizione, alla voce _Boni
homines_.

[695] _Considerazioni_, lib. II, cap. vij, pag. 182, 183.

[696] Ducange, Glossario latino alla voce _Magister_, e Glossario
greco, alla voce Μαγίστερ. Nella lunghissima lista, che prende sedici
colonne dell’ultima edizione del glossario latino, una sola fiata
questo vocabolo pare scambiato con _major_ nei _magistri communiae_ o
_magistri civium_; ma l’esempio è posteriore al XII secolo.

[697] Si vegga la citazione che abbiamo fatta in questo medesimo libro
cap. viij, pag. 219.

[698] Oltre il supposto del Gregorio, così pensa anco l’Hartwig,
_Codex Juris municipalis Siciliae_, Parte I, Cassel, 1865, pagg. 40,
41. Al ragionamento del dotto giureconsulto alemanno io oppongo che i
_majores civium_ di Messina nel XII secolo e que’ di Palermo in tempo
indeterminato, ch’egli cita, i quali tornano secondo me al XIV secolo,
significano evidentemente i rappresentanti del municipio, Buoni uomini,
Anziani, o comunque si chiamassero nelle due città primarie dell’isola,
non già i capi del mnnicipio, sindaci o giurati. Perciò gli ufizi non
sono meno diversi l’un dall’altro che i significati de’ due titoli.

[699] De’ due documenti citati dal Gregorio, de’ quali ho avuta testè
la copia per favore del dotto mio amico Isidoro La Lumia, quel di
Collesano non offre se non che una soscrizione in mezzo a molte altre
di testimonii, dalla quale si può argomentare solamente che il maestro
di borghesi fosse ammesso nelle grandi solennità a corte del feudatario
di Collesano. L’altro è la sentenza della quale abbiamo fatta menzione
testè a pag. 285. Da cotesto atto si ritrae che Ruggiero, _maestro
della Borghesia di Traina_, e Meles _figlio del maestro dei Borghesi_,
erano stati chiamati come assessori in un giudizio di confini, con
molti altri anziani di quella città ed anziani e Buoni uomini di
altre terre vicine. Ma questo Ruggiero è nominato dopo tre persone,
il Cantore cioè del Capitolo, un Canonico ed un Roberto Galabeta. Non
sembra egli dunque il capo del municipio. Il figlio è soscritto dopo
altre sei persone.

[700] Nel diploma dianzi citato è soscritto, dopo Adelicia nipote di re
Ruggiero, il figliuolo di lei Adamo Avenel.

[701] Nel diploma del 1142 citato dianzi, abbiamo i seguenti nomi degli
Anziani di Traina, ch’io divido secondo che mi sembra la loro nazione:
_francesi_ signor Josfré (Jeoffroi) cantore (della cattedrale), signor
Renò (Reinault?) canonico; _italici_ Guglielmo Maleditto, Giovanni
Longobardo, il monaco Filadelfo Oca; _greci_ Roberto Galabeta, Riccardo
Gambro, Giovanni Catrobarba, Notaio Leone Cutzaniti, Meles, figlio del
maestro de’ Borghesi e altri. I francesi, come si vede anco da altri
diplomi, richiedeano sempre il titolo di _sieur_, κύριος. Il maestro
della borghesia avea per nome Ruggiero.

[702] Dati del 1421 e pubblicati da Orlando, _Un Codice di Leggi e
Diplomi Siciliani_, Palermo, 1857, in-8, pag. 139 segg.

[703] Diplomi del 1340 e 1392, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pagg.
410, 849.

[704] Diploma inedito del Regio Archivio di Palermo, dato il 1140,
scritto in lingua arabica con caratteri ebraici.

[705] Si vegga il passo di questo scrittore, nel presente nostro libro
V, cap. iv, pag. 130 del volume.

[706] Si veggano le citazioni qui sopra a pag. 284 a 286.

[707] Quantunque cotesta mi sembri l’origine più probabile de’ geronti
di Sicilia, non debbo tacere che i _Boni homines_ della Terraferma
italiana fossero anco detti nel medio evo _Seniores civitatis_. Veggasi
la _Lex_ romana del manoscritto di Udine citata poc’anzi a pag. 288,
nota 1. Ma quella voce di origine romana non occorre sovente nella
schiatta greca, se non che nella Sicilia del Medio evo.

[708] Qui sopra a pag. 286, 287.

[709] A buon diritto il La Lumia, _Storia della Sicilia sotto Guglielmo
il Buono_, pag. 200, ha notati questi giurati di Nicosia del 1204, come
ufiziali proprii del municipio. Ma parmi ch’egli erri ammettendo un
«Capo municipale» di Centuripe su la fede della versione d’un diploma
greco del 1183, presso Spata, _Pergamene_, pag. 293, dove ἐξουσιαστῆς è
reso podestà. Potestà etimologicamente sta bene, ma non ha che fare col
magistrato delle repubbliche italiane così chiamato, e probabilmente
non accenna ad altro che al bajulo.

Il citato diploma del 1172 si legge presso il Gregorio,
_Considerazioni_, lib. II, cap. ij, nota 32.

[710] Diploma del 1168, citato di sopra, presso Spata, _Pergamene_,
pag. 438, 439.

[711] Malaterra, lib. IV, cap. xvj.

[712] Diploma latino del 1168, presso Gregorio, _Considerazioni_, lib.
I, cap. iv, nota 4; diploma latino del 1133, op. cit., lib. I, cap.
v, nota 4; diploma latino del 1145 presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag.
800.

[713] Si vegga il capitolo precedente, pag. 223, nota 5.

[714] Diploma del 1197, presso Aprile, _Cronologia universale della
Sicilia_, pag. 109. A pag. 111 è un diploma analogo di Federigo, dato
il 1210.

[715] Su i privilegi e consuetudini di Palermo e Messina, mi riferisco
ai citati lavori del La Lumia, pag. 199, segg. e dell’Hartwig, op. cit.
Di que’ di Catania abbiam fatta menzione poc’anzi.

[716] Ho detto de’ quartieri di Palermo nel cap. iv del presente libro,
pag. 118 del volume, e in altri luoghi quivi citati. Si vegga anco
per l’Halka il cap. v, pag. 137. Il quartiere detto ne’ diplomi latini
Seralcadi, risponde a quello chiamato degli Schiavoni nel X secolo.

[717] Si vegga il cap. I, del presente libro, pag. 55, 56. La poca
popolazione spiega il detto dell’Anonimo presso Caruso, _Bibl. Sic._,
pag. 837, che Roberto, presa la città, _ordinolla_ a suo piacimento;
se pur quel verbo non si riferisce al sistema di difesa, più che al
governo civile.

[718] Ciò ha notato con molta sagacità l’Hartwig, _Codex Juris munic.
Siciliæ_, pag. 14, e certissima io tengo la importanza della città
verso la metà del XII secolo; non così al 1060, come par che supponga
il signor Hartwig. Non occorre aggiugnere ch’io consento appieno con
lui sul valore dei diplomi messinesi del XII secolo.

[719] Falcando, presso Caruso, _Bibliotheca Sicula_, pag. 404, 405,
458, 469 e 477.

[720] _Considerazioni_, lib. I, cap. ij, v, vj.

[721] _Il Feudalismo in Sicilia_, Palermo, 1847, in-8.

[722] Non si può attribuire che a Roberto capitano del l’esercito, il
disegno di che fa parola il Malaterra dopo la occupazione di Palermo,
cioè dividere tra Serlone e Arisgoto di Pozzuoli metà della Sicilia, o
metà di quel ch’era dato a Ruggiero.

[723] Lib. IV, cap. XV, presso Caruso, _Bibl. Sic._, pag. 235.

[724] Diploma arabo-greco, inedito, della Chiesa di Catania, dato il
1095.

[725] Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. ij, pag. 20, 21; e
confrontisi il diploma del 1094, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag.
771. Si avverta che la Contea di Paternò fu conceduta al marchese
Arrigo sotto la reggenza di Adelaide sua sorella.

[726] Si legga il diploma, presso Fazzello, _Historia Sicula_, Deca I,
lib. vj cap. 5.

[727] Questo ultimo fatto è stato osservato sagacemente dal Gregorio,
_Considerazioni_, lib. I. cap. ij, pag. 23.

[728] _Utamur ea_ (praeda) _dividentes Apostolico more, prout cuique
opus est_. Così lo fa parlare il Malaterra, lib. II, cap. xlij, presso
Caruso, _Bibl. Sic._, pag. 197.

[729] Si vegga il cap. vij del presente libro, pag. 187, e 192.

[730] Mortreuil, _Histoire du Droit byzantin_, vol. I, pag. 297, vol.
III, pagg. 58, 59.

[731] Il fatto ricordato da noi nel cap. vij di questo libro, pag. 187,
188, se pur lo s’abbia a credere, va ristretto alla conversione de’
Musulmani dell’esercito, o degli schiavi. Non occorre dimostrare la
utilità di convertire al cristianesimo l’universale della popolazione
musulmana, massime delle grandi città. E Ruggiero di certo lo
comprendea.

[732] Si confronti l’epistola 24 del libro IX, di Gregorio VII, con le
parole del Malaterra e con le date dei diplomi relativi alla Chiesa di
Traina, riferiti dal Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 495. Si vegga anche
Dichiara, _Opuscoli_, Palermo, 1855, in-8, pag. 134 segg.

[733] _Proposui in Tragina construere episcopatum... tradidimus tibi
gubernationem ejusdem episcopatus... Monasteria quoque habebis sub
potestate. — Urbanus secundus mihi, ore suo sanctissimo et venerando,
præcepit, nipote pater spiritualis... ecclesias ædificavi jussu summi
Pontificis et Episcopos ibidem collocavi, ipso laudante et concedente
et ipsos Episcopos consecrante. — Ecclesias ordinavi.... cui in
Parochiam assigno quidquid infra fines subscriptos continetur. —
Stephanus, cui in parochiam assigno_ e altre simili parole leggonsi nei
diplomi del Conte, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 382, 520, 695,
842. Urbano II stesso, nella bolla per la quale conferma il vescovo
di Siracusa, op. cit., pag. 618, dice del conte Ruggiero: _Syracusanam
itaque ecclesiam novissime restaurans.... Pontificem Syracusanæ elegit
ecclesiæ.... a prodicto Rogerio concessa sunt infra hos terminos
adjacentia_, etc. Si riscontri del resto il Gregorio, _Considerazioni_,
lib. I, cap. vij.

[734] Si vegga il Pirro, _Sicilia Sacra_, nella notizia di ciascun
vescovato.

[735] Diploma del 1090, pel monastero di San Filippo di Fragalà; del
1092 per quel di Santa Maria di Mili; del 1093 per que’ di San Michele
Arcangelo di Traina, di Sant’Angelo di Brolo e di San Pietro e Paolo
d’Itala; del 1098 per quel di Santa Maria di Vicari, ec. presso Pirro,
op. cit., pag. 1027, 1025, 1021, 1016, 1034, 294, ec.

[736] Bolla del 1091, presso Pirro, op. cit., pag. 952, data di Mileto
e però, com’e’ sembra, scritta d’accordo con Ruggiero.

[737] Diploma del conte Ruggiero, dato il 1094, op. cit., pag. 771,
772. L’abate di Lipari e di Patti ebbe poi titolo di vescovo il 1131.

[738] Nel diploma di Ruggiero a favor del monastero d’Itala, citato
poc’anzi, si legge che coloro che contravvenissero agli ordinamenti
da lui dati per questo monistero, _auctoritate apostolica nobis
tributa, sint et esse debeant anathemisati, jussu et prætextu Domini
Summi Pontificis Urbani et omnium successorum Patrum_. E ciò oltre la
sanzione dell’anatema che si solea porre nelle donazioni a chiese, la
quale si legge in fine del medesimo diploma: che chiunque violasse la
donazione _sit et esse debeat maledictus a consubstantiali Trinitate_,
ec. Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1035.

[739] Malaterra, lib. IV, cap. xxix, presso Caruso, _Bibl. Sicula_, p.
247.

[740] Malaterra, lib. IV, cap. vij, op. cit., pag. 231.

[741] Malaterra, l. c.

[742] Per abbreviare, mi riferisco al Gregorio, _Considerazioni_,
lib. I, cap. ij, nota 13 e 15, su le concessioni feudali ch’ebbero i
prelati.

[743] Gregorio, op. cit., lib. I, cap. vj, pag. 130.

[744] Gli stati di Ibn-Menkut, Ibn-Hawasci, Ibn-Meklati e della
repubblica di Palermo, e quello d’Ibn-Thimna, surto più tardi,
rispondono, su per giù, alle diocesi di Mazara, Girgenti, Catania,
Palermo e Siracusa. Il Val Demone che die’ le diocesi di Messina e di
Patti, era distinto d’altronde per la popolazione cristiana. Si vegga
il nostro libro IV, cap. xij e xv, pag. 420 e 549 del 2º volume.

[745] Le prime sei furono Palermo, Messina, Catania, Siracusa,
Girgenti, Mazara, già nominate, 7. Patti e Lipari vescovo (1131) 8.
Archimandrita di Messina, 9. Cefalù (1145), 10. Morreale (1182), 11.
Lipari sola (1399), 12. Nicosia (1816), 13. Caltagirone (1816), 14.
Piazza (1817), 15. Noto (1844), 16. Trapani (1844), 17. Caltanissetta
(1844), 18. Vescovo di rito greco in Palermo: senza contare il vescovo
di Malta (1089), nè la giurisdizione eccezionale dell’Abate di Santa
Lucia, nè la sede d’Acireale, decretata il 1844 e poi non istituita.

[746] Sendo stato quel di Palermo il solo vescovo che rimase in Sicilia
poco innanzi il conquisto normanno, il conte Ruggiero fissò la diocesi
per esclusione, descrivendo, tra il 1082 e il 1093, le tre che la
circondavano. E però il primo atto che contenga la lista delle terre
della diocesi palermitana scende fino al 1122.

[747] Lib. IV, cap. iv, pag. 274 segg. del 2º volume.

[748] Edrisi, testo, nella _Biblioteca Arabo-Sicula_, pagg. 32, 36,
37, 39, 40, 41, 42, 44, 50, 52, 55. Lo stesso autore parla degli iklîm
nella descrizione d’altri paesi, per esempio dell’Affrica e della
Spagna, come può vedersi nella traduzione francese de’ sigg. Dozy e De
Goeje, a’ luoghi citati nel loro glossario sotto la voce iklîm.

_’Aml_, è governo, anche nel significato di territorio assegnato al
governatore _’Amil_.

[749] Un diploma arabico della Chiesa di Palermo, dato il 1149, presso
Gregorio, _De Supputandis_, pag. 34, cita l’iklîm di Giato. Uno greco
arabico, inedito, del Monastero di Morreale, dato di maggio 1151, cita
que’ di Corleone e Sciacca; un altro, anche inedito e greco-arabico
della cattedrale di Palermo, dato del 1169, cita quel di Termini.

[750] Sono le diocesi di Palermo, Mazara, Siracusa e Catania, presso
Pirro, _Sicilia Sacra_, pagg. 82, 842, 618 e 520. Di quella di
Girgenti, op. cit., pag. 695, abbiam solo i confini. Lasciamo addietro
quella di Cefalù perchè la torna al XII secolo. E quella di Messina,
op. cit., pag. 583, per sospetto che il testo sia stato alterato, come
tanti altri diplomi messinesi.

[751] Testo, nella _Bibl. Arabo-Sicula_, pag. 27.

[752] Diploma del 1091, presso Pirro, op. cit., pag. 520.

[753] Bolla di Callisto II, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 82.

[754] Si confronti Edrisi con questi nomi e si vegga la _Carte Comparée
de la Sicile_, etc., ch’io pubblicai a Parigi, insieme con M. Dufour,
il 1859.

[755] Diploma del Monastero di Morreale, arabico latino, dato il 15
maggio 1182. La versione latina contemporanea si vegga presso del
Giudice, _Descrizione del real Tempio ec. di Morreale_, appendice, pag.
8 segg. Lo stesso documento pone 42 tra villaggi e ville nel territorio
di Giato, che appartenne alla diocesi di Mazara e poi a quella di
Morreale.

[756] _Journal Asiatique_ di gennaio 1840, pag. 73, e nell’_Archivio
Storico italiano_, Appendice N. 46 (1847), pag. 30.

[757] Diploma arabico inedito della Cattedrale di Palermo, dato il
1169, citato nella _Biblioteca Sacra per la Sicilia_, vol. II, Palermo,
1834, pag. 45.

[758] Diplomi greco-arabici del 1143 e 1172, nel Tabulario della
Cappella Palatina di Palermo, pag. 13, 28.

[759] Diploma del 1093 presso Pirro, op. cit., pag. 842.

[760] Si vegga la citazione nel nostro lib. IV, vol. 2º, pag. 277, nota
3. Mutati in oggi i nomi ufiziali, chiamo circondario quel che nel 1858
dissi distretto.

[761] Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. ij, pag. 23 e nota 14,
nella quale la citazione del Pirro si corregga: pag. 771.

[762] Si veggano le concessioni di Regalbuto e di Catania, a pag. 321,
nota 2, e a pag. 326, nota 2.

[763] Literalmente _Omm_, ossia «madre», testo nella _Bibl.
Arabo-sicula_, pag. 39, 40. L’autore parla del gran traffico che
faceasi a Sciacca e dell’abbandono di Caltabellotta, ove non rimanea
che il presidio del castello.

[764] Amato e Malaterra, citati nel cap. ij di questo lib. V, pag. 74 e
77.

[765] Op. cit., pag. 32. Quivi si dice esser Caronia il principio
dell’iklîm di Demona. Non si tratta dunque di territorio di una città,
come ne’ luoghi da noi citati poc’anzi, a pag. 310, nota 2.

[766] Son citati nel nostro lib. II, cap. xij, pagg. 469, 470 del Iº
volume, che uscì alla luce il 1854. Or abbiamo i testi greci pubblicati
dallo Spata, _Pergamene_, pag. 163 a 344, ne’ quali i due Monasteri di
San Filippo e di San Barbaro son chiamati Τῶν δεμέννων, ἐν δεμέννοις e
più spesso δεμέννων senz’altro e una volta (pag. 274) δαιμέννων, e il
territorio di cotesti demenni è detto in un diploma del 1101 (pag. 191)
χώρα, in uno del 1117 (pag. 245) διακρατήσις (equivalente d’iklîm in un
diploma greco del 1151 presso Spata, _Cimelio diplomatico di Morreale_,
pag. 60, del cui testo arabico io ho una copia) e finalmente, ne’
diplomi del 1182 e 1192 (pagg. 292, e 305) diviene Βαθεία, cieca
traduzione di _vallis_ che già prevalea nel latinismo volgare del
paese.

Si noti che il Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap. ij, non potè
provare con certezza in qual tempo il vocabolo _valle_ fosse divenuto
denominazione amministrativa. D’altronde alcuna delle citazioni ch’ei
fa nella nota 24 di quel capitolo, non tornano; e quelle fondate in sul
Pirro han poco valore quando si riferiscono a traduzioni dal greco.

[767] Si vegga il nostro lib. II, cap. xij, pag. 465 segg. del 1º
volume.

Il Malaterra, lib. II, cap. x, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 208,
fa menzione della provincia di Noto, durante la guerra del Conte e in
particolare verso il 1076. Ma oltrechè questo fatto non implicherebbe
che il Conte, insignoritosi dell’isola, avesse mantenuta quella
provincia, la narrazione porta più tosto a credere che si trattasse
del territorio della città, o forse del distretto o iklîm. Si vegga il
cap. vj del presente nostro libro, pag. 153, del volume, dove abbiamo
nominato il Val di Noto per indicare il luogo, non per attribuire
all’XI secolo questa denominazione di geografia politica.

[768] _Anonymi historia sicula_, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 856.

[769] Malaterra, lib. IV, cap. xviij.

[770] Malaterra, lib. IV, cap. xxv. Il testo porta che del 1079 la
principessa, accompagnata da un vescovo e da parecchi altri cortigiani,
con una scorta di 500 lance, andò a Termini; ch’ella proseguì il
viaggio per mare _usque Pannoniam_; e che indi, apparecchiatele navi e
date le vele a’ venti, arrivò, per prospero viaggio, al porto d’Alba
(_Alba maris, Blandona, Biograd_, _Zara vecchia_) appartenente al
re d’Ungheria. Senza dubbio quell’_«usque Pannoniam»_ è erroneo e
va corretto _usque Panormum_, come si legge in una variante data dal
Caruso, pag. 344 (Muratori, V, 599). Noi possiamo riconoscere in parte
la strada che tenne il cortèo fino a Termini, e conchiudere che movea
da Traina. I documenti che citeremo qui innanzi, pag. 340, nota 3, ci
mostrano che nel 1094 una «strada regia» passava per Traina; che nel
1096 una «strada francese» dalla sorgente del fiume Torto, ossia da’
dintorni di Vicari, andava a Levante, cioè verso Traina; e che nel 1132
una strada correa da Palermo a Vicari, Castronovo, Petralia. Senza
dubbio il corteo della sposa battè quello stradale militare. Perchè
poi fosse ito a Termini piuttosto che a Palermo, si può ben ritrovare,
senza il supposto che la strada del 1132 non fosse aperta il 1097.
Palermo appartenne tutta a’ Duchi di Puglia, fino al 1091; quando ne
fu ceduta una metà al conte Ruggiero. Or egli è verosimile, per non
dir necessario, che, tra parenti così sospettosi, e non senza ragione,
i patti della cessione vietassero l’entrata di nuove forze militari
dell’uno o dell’altro nel territorio comune: e forza considerevolissima
erano 300 militi, ossia circa 1000 cavalli. Sembra dunque che la scorta
abbia lasciata la principessa alla frontiera del territorio proprio
del Conte, ch’era Termini, e ch’ella, accompagnata da’ grandi della
Corte, sia andata per mare nel gran porto di Palermo, dove si allestì
l’armatetta che poi la recò nell’Adriatico.

[771] Diplomi arabici della Cattedrale di Palermo, il primo de’ quali
fu citato e il secondo pubblicato dal Gregorio, _De Supputandis_,
pag. 34, a 39. Tra gli altri errori, il Gregorio prese per nome
proprio la trascrizione arabica della voce Stratego. Un po’ meno
infelicemente, il professore Caruso ristampò l’uno e pubblicò l’altro
nella _Biblioteca Sacra_, Tomo II, Palermo, 1834, pag. 46, segg.,
55, segg. Io ne ho avute, per cortesia del professor Cusa, due buone
copie cavate dall’originale. Alla fine del primo, in luogo dell’_era
barbara_, che suppose il Gregorio e il Caruso copiò, va letto: «_con
la data di marzo_». Questo Abu-Taib, figliuolo, come dicono i diplomi,
dello sceikh Stefano, sembra di famiglia musulmana convertita e forse
di quelle indigene che, dopo avere abbracciato I’islam, ritornarono
al cristianesimo. Ei mi pare identico con l’Eugenio detto il Bello
(Τοῦ καλοῦ e l’è traduzione letterale di Abu-Taib) segreto della
corte, secondo un diploma del 1183, presso Spata, _Pergamene_, pag.
293; lo stesso che nella traduzione latina d’un diploma greco, presso
Gregorio, _De Supputandis_, pag. 54 segg. e presso Spata, op. cit.,
pag. 452 segg. è detto Eugenio de Cales. La voce Biccari, a pag. 57
del Gregorio, e Biccaib, a pag. 454 dello Spata, va corretta _Bittaib_,
ch’è il nome Abu-Taib, pronunziato volgarmente e messo al genitivo. Ho
scritte le lettere N-zh-r-d come le veggo nelle copie, e le suppongo
nome topografico, non casato sì come parve al Gregorio e al Caruso. Ma
non trovo riscontro ne’ nomi topografici di quel contorno de’ quali
sappiamo pur molti. La forma de’ caratteri, mutati i punti, mi fa
pensare a Battelari, il quale luogo si vegga nella mia _Carte Comparée
de la Sicile_, pag. 29.

[772] Presso Spata, _Pergamene_, pag. 434. Il nome del comune manca; ma
il diploma appartenea al vescovato di Cefalù.

[773] _Considerazioni_, lib. I, cap. iij.

[774] Il Gregorio stesso, dopo avere sostenuto nel lib. I, la esclusiva
competenza criminale, pubblicava nel lib. II, cap. ij, nota 32, la
traduzione d’un diploma greco del 1172, dal quale risulta che in
quell’anno medesimo e al tempo dell’arcivescovo Roberto (1090-1108),
lo stratego di Messina esercitava giurisdizione civile. Si vegga
d’altronde su la competenza di quel magistrato, l’Hartwig, _Codex juris
municipalis Siciliæ_, Parte I, pag. 32 segg.

Inoltre lo stratego di Demenna esercitava giurisdizione civile, secondo
un diploma greco del 1136, presso Spata, _Pergamene_, pag. 265; e
così anco lo stratego di Centorbi, secondo un diploma del 1183. op.
cit., pag. 293. Operano gli strateghi come agenti del Demanio regio in
Giattini (così va letto, non Catinae, e sparisce indi lo stratego di
Catania supposto dal Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. iij, nota
6) secondo un diploma latino del 1133, presso Pirro, _Sicilia Sacra_,
pag. 774; e in Siracusa secondo un diploma greco-latino del 1172,
presso Spata, _Pergamene_, pag. 443, 444.

[775] Gregorio, op. cit., lib. I, cap. iij, nota 20. Nel Diploma
del 1172, citato poc’anzi, è nominato, oltre lo stratego, anche il
vicecomite di Siracusa.

[776] Intorno i vicecomiti in Italia si vegga Hegel, _Storia de’
Municipi italiani_, versione italiana, pagg. 128, 441, 473.

[777] Ibn-Giobair, nel _Journal Asiatique_, genn. 1846, pag. 80, e
nell’_Archivio Storico Italiano_, Appendice, nº 16. pag. 32, dice
del cadì di Palermo che giudicava le liti tra i Musulmani, sotto
Guglielmo II. Il nome dell’uficio comparisce in un diploma greco, del
1143, presso Morso, _Palermo antico_, pag. 306; la giurisdizione poi
nelle seguenti carte: 1123, greca, presso Spata, _Pergamene_, pag.
410; 1137, arabica inedita della Cappella palatina di Palermo; 1161,
arabica inedita della Commenda della Magione di Palermo, oggi nel regio
Archivio; 1202 latina, presso Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap.
vij, nota 7.

Si avverta che la prima e l’ultima mostrano funzioni di giudice e le
due altre quel che noi chiamiamo pubblico ministero, a tutela delle
donne e de’ minori. Molti altri contratti di vendita sono stipulati,
come di ragione, dinanzi testimonii, senza intervento del cadi.

Il cadi di Lucera, dopo la deportazione dei Musulmani di Sicilia in
Terraferma, è citato in un diploma dell’imperator Federigo, dato il
25 dicembre 1239, nella edizione Carcani, pag. 30, e nell’_Historia
Diplomatica Friderici II_, tomo V, pag. 627-628.

Ibn Giobair, op. cit., pag. 87, e traduzione italiana, pag. 35,
dice dello _Hakim_ di Trapani, innanzi il quale era stata attestata
l’apparizione della nuova luna, per determinare legalmente i giorni
del digiuno di ramadhan. Il titolo di Hakim dato al primo magistrato di
Malta, viene evidentemente da’ tempi musulmani, passando pei normanni.

[778] Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. iij; Hartwig, _Codex
Juris municipalis Siciliæ_, Parte I.

[779] Gregorio, _Considerazioni_. lib. I, v e vj.

[780] Si vegga il capitolo precedente, pag. 245, nota 2. In fin del
ruolo di Aci, quivi citato, ch’è dato di Messina il 6603 (1095) si
dice che tutte le platee del paese del Conte e di quelli de’ suoi
_terrieri_, erano state scrìtte in Mazara il 6601; e quindi si ordina
che se alcuno degli Agareni notato nel presente ruolo si trovasse in
quegli altri, ei fosse immediatamente reso dal vescovo di Catania a chi
di dritto. Lo stesso si scorge dal preambolo di un ruolo arabo-greco
dei villani di Catania, dato il 1144.

[781] La voce _rab’_, al plurale _ribâ’_ fu studiata da Mr. De
Sacy e, con buone autorità, tradotta _casa_, nella _Rélation de
l’Egypte par Abdallatif_, pag. 303, nota. Ma in cotesto significato
la sembra idiotismo dell’Egitto. Il significato di _podere_, che ha
evidentemente questa voce ne’ diplomi di Sicilia e nella geografia di
Edrisi, ritrovasi anco in Azraki, _Storia della Mecca_, e l’è tolto
probabilmente da scritture de’ primi tempi dell’islamismo. Senza citare
tutti i diplomi arabici della Sicilia ne’ quali occorre questa voce,
ricorderò quelli del 1149 e 1154, il primo de’ quali presso Gregorio,
_De Supputandis_, pag. 34, e l’altro nella Biblioteca Sacra per la
Sicilia, tom. II, pag. 46. Nelle traduzioni ufiziali di Sicilia del
XII secolo, _rab’_ è reso in latino _cultura_, _terræ laboratoriæ_,
al collettivo, e _terræ_ senz’altro (diploma del 1182, testo arabico
inedito; la traduzione latina pubblicata da Del Giudice, _Descrizione
del real tempio_, ec. in una delle appendici, nella quale i luoghi
ch’io cito si ritrovano a pagg. 10, 12 e 18) e altrove in greco
τετραμέρως, che pare scambio con la voce _rub’_ «quarta parte» derivata
dalla stessa radice (diploma del 1172, greco-arabo, nel Tabulario della
Cappella palatina di Palermo, pag. 29, 30).

La voce _cultura_, determinata dalle parole _ad duo paria bovium_,
si legge anco in un diploma latino del 1094, presso Pirro, _Sicilia
Sacra_, pag. 521. E risponde senza dubbio al _rab’_, il quale, come si
scorge da’ citati diplomi del 1149 e 1154, si misurava a _zeug_, cioè
paia di buoi, _paricla_, come scriveano latinamente nel medio evo:
quella stessa misura di superficie della quale ci è occorso di trattare
nel lib. I, cap. vj, e lib. IV, cap. viij, pag. 153 del 1º volume e
352, del 2º.

[782] Diploma presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 384, dove si legge:
_cum omni lenimento et pertinentiis suis, secundum anticas divisiones
Saracenorum_.

[783] Si veggano i diplomi arabici del 1149, 1174, 1172, e sopratutto
quello del 1182, citati nelle note precedenti.

[784] Cotesto titolo ai trova ne’ diplomi arabici del 1149 e 1154,
citati poc’anzi nella pag. 316, nota 1; in uno greco arabico del 1172,
pubblicato nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 30,
31; in uno arabico del 1182, inedito che apparteneva al Monastero de’
Benedettini di Morreale, ec.

Mettendo da parte la traduzione del Gregorio: «Duana veracis conservata
a Deo» (_De Supputandis_, pag. 35) e quella del XIII. secolo «Doana
Veritatis» (presso Gregorio, op. cit., pag. 57) la quale servì di
guida all’illustre pubblicista e mediocrissimo arabizzante siciliano,
noi diremo della versione «Bureau de vérification du domaine.» data
da M. Noël Des Vergers (_Journal Asiatique_ di ottobre 1845, p.
340) trascrivendo un brano del detto diploma del 1149 per comento
a quello del 1182, ch’egli pubblicava. L’autorità di questo erudito
francese, di cui abbiamo deplorata non è guari la morte, è di molto
peso, perch’egli sapea per benino l’arabico; e molto meglio di lui e
di noi tutti lo sa M. Caussin De Perceval, ch’egli consultò in quel
suo studio sul diploma arabico di Morreale del 1182. Evidentemente
que’ due dotti uomini dettero all’aggettivo passivo _Ma’mûr_ il
significato del sostantivo _côlto_, come appunto l’ha preso questa
voce in italiano; e, trattandosi evidentemente di beni demaniali, lo
tradussero _domaine_. Quanto all’articolo del sostantivo _tahkik_ essi
lo considerarono «appositivo», come dicono i grammatici. E così la
traduzione starebbe benissimo: «Uficio della verificazione de’ côlti»
o meglio «dell’appuramento degli Stabili,» perocchè la voce _ma’mûr_
può applicarsi a qualsivoglia terreno reso profittevole dall’industria
dell’uomo, con lavori agrarii o fabbriche.

Se non che i ragguagli dell’amministrazione pubblica d’Egitto nel medio
evo, i quali m’è occorso di studiare, conducono a interpretazione
diversa. E primo, nella Storia de’ Patriarchi d’Alessandria, opera
del XIII secolo, Ms. arabico di Parigi, Ancien fonds 140, è citato,
a pag. 400, il _Diwan-el-Khazânat-el-Ma’mûrah_, ossia “ufizio de’
forzieri,” _ma’murah_, e, pag. 407, il _Beit-el-Mâl-el-Ma’mûr_,
ossia il Tesoro (col significato di cassa dello Stato) _ma’mur_; nei
quali due casi quest’ultima voce, messa, sia al mascolino, sia, come
plurale irregolare, al femminino, è evidentemente aggettivo passivo,
come noi diremmo “ben fornito, pieno:” e si diceva a mo’ di formola
parlando delle entrate pubbliche, nel pio supposto che le fossero
sempre abbondanti, ovvero a mo’ d’invocazione ad Allah che sempre le
accrescesse. Lo stesso Ms. de’ Patriarchi d’Alessandria, a pag. 224,
dice del _Diwân-et-Tahkîk_ senz’altro predicato e senza spiegar che
maniera d’ufizio e’ fosse. Ma ben lo sappiamo da Makrizi, il quale nel
_Kitâb-el-Mewâ’iz_ (Descrizione dell’Egitto) testo arabico di Bulak,
1270 (1853) vol. I, dando ragguaglio de’ varii ufizi istituiti da’
califi fatemiti, dice, pag. 401 che il “carico del _Diwan-et-Tahkîk_
era di tenere il riscontro a tutti gli altri diwani.” _Tahkîk_, dunque,
va tradotto verificazione o riscontro; e _ma’mûr_ torna a “regio,
pubblico” e nulla più. Quell’ufizio in Palermo era la Tesoreria reale,
la _Controleria_, come si disse un tempo con voce francese, e teneva in
compendio, o forse in duplicato, i registri che noi conosciamo di tutti
i beni pubblici, feudali o demaniali che fossero, e senza dubbio quelli
di ogni altra entrata e di tutte le spese, de’ quali non ci è pervenuto
alcun ragguaglio.

Avvertasi che nel citato diploma di Morreale del 1182, (_Journal
Asiatique_ d’ottobre 1845, pag. 318) il medesimo ufizio è detto
brevemente _Ed-Diwan-el-Ma’mûr_ ossia “l’ufizio ricco, pieno,”
e però il regio Tesoro. Lo stesso si nota nel diploma del 1172,
presso Gregorio, _De Supputandis_, pag. 56, e in un ruolo di villani
arabo-greco e inedito della Chiesa di Catania, soscritto da re
Ruggiero, del quale ho copia. In un diploma arabico inedito dell’opera
della Magione di Palermo, dato il 1161, la cittadella dell’Halka in
Palermo stessa è detta _Kasr Ma’mur_; e in un trattato di pace di
Kelaûn col re di Sicilia, nella mia _Biblioteca Arabo-sicula_, pag.
349, gli ufizi delle gabelle del Sultano son chiamati _Diwan Ma’mûr_.

[785] Si leggano presso Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap.
iv, note 4, 5, 6 e 7 gli antichi esempii di questo titolo latino
ai quali si aggiunga _Doana Secretie_, secondo il diploma del 1172,
nel _De Supputandis_, pag. 56, il qual nome talvolta si compendiava,
per antonomasia, nella sola voce _doana, dogana_, ec. Non occorre
poi notare che questo vocabolo, usato con significato ristretto in
Europa, sia prettamente l’arabico o meglio persiano _diwân_. Mentre in
Sicilia lo si applicava, arabicamente, a tutto ufizio pubblico, gli
Italiani di Terraferma lo ristrinsero a ciò che oggi diciamo dogana,
perchè l’ufizio delle gabelle d’entrata delle merci era il solo, o
il principale, col quale praticassero i nostri mercatanti negli Stati
musulmani del Mediterraneo.

[786] Si riscontri il Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap. iv.
nota 33, il quale non si accorse dell’origine greca, e pur si rise de’
suoi predecessori. Inoltre, ragionando esclusivamente su l’episodio
del notaio Matteo, egli negò che i _difter_ della corte siciliana
contenessero i catasti; la qual cosa era provata ad evidenza dalle
autorità ch’egli avea citate nella nota 4 del medesimo capitolo.

[787] _Thesaurus_ di Errico Etienne, edizione Hase, alla voce διφθέρα.

[788] Nel diploma arabico del 544 (1449-50) in favore del Monistero
di Santa Maria de Gurguro, oggi detto della Grazia, presso Palermo,
si legge che i confini di certi poderetti assegnati a’ villani della
detta Chiesa da un delegato del governo, erano stati registrati nel
_difter-el-hodûd_ del Diwan di Riscontro della Tesoreria. Questo
diploma, citato dal Gregorio _De Supputandis_, pag. 38, nota a, fu poi
pubblicato dal professor Caruso nella _Biblioteca Sacra_, vol. II, pag.
58. Un diploma del 1169, presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1017, nel
quale fu trascritto il _sigillo_ (diploma) del conte Ruggiero a favor
del Monastero di San Michele Arcangelo in Traina, aggiugne: _Solam
enim divisionem prædictam casalis Busceniæ in fine sigilli denotatam,
quoniam totaliter literæ deletæ erant et non poterant clare legi,
transcripsit ex quinternis magni secreti in quo (sic) continentur
confines Siciliæ, ut certe habeas in futurum_, etc. Prova anco il mio
assunto il diploma di Morreale del 1182, del quale il testo è inedito,
e la versione latina, contemporanea ed ufiziale, fu pubblicata da Del
Giudice. Questa ha in fine: _Has autem divisas predictas a deptariis
nostris de saracenico in latinum transferri precipimus_; mentre nel
testo arabico si legge essere stato trascritto il diploma dai _difter_
del _Diwan-et-Tahkik-el-Ma’mûr_. Si noti che un diploma arabo-greco
del 1151, del quale la parte arabica è inedita e la greca è stata
pubblicata dallo Spata, _Cimelio del Monastero di Morreale_, Palermo,
1865, in-12, pag. 59, segg. si contengono al paro i nomi de’ villani e
i confini del podere. Similmente in un altro diploma arabico inedito
di Morreale dato il 1178, per lo quale furon donati alla Chiesa
di Morreale de’ poderi in Corleone e Calatrasi, il re ordinava al
_Diwan-et-Tahkik-el-Ma’mûr_ di cavare dai _difter_ del diwano e dalle
antiche _giarâid_ (platee o ruoli) la descrizione de’ poderi e i nomi
de’ villani.

[789] Un diploma arabico della Chiesa di Palermo fa supporre che i
beni allodiali fossero anch’essi registrati nel catasto dello Ufizio di
Riscontro della Tesoreria. Niccolò Askar, famiglio del _Kasr-el-Ma’mûr_
(la cittadella regia, l’Halka) di Palermo comperava una casa di
proprietà di Zeinab figlia di Abd-Allah-el-Ansari, posta nel Cassaro
antico della città, presso la Bab-es-Sudân (Porta de’ Negri). Metto
io da parte, perchè dubito delle lezioni del testo arabico, il
nome del magistrato e il titolo del diwan che aveano autorizzata
cotesta vendita, accertati che il danaro servisse a quella donna per
riscattarsi dalle mani di certi stranieri Rûm che l’avean presa (se
fossero stati i Lombardi?). E venendo al presente nostro argomento,
noto che il passaggio di proprietà fu registrato nei _difter_ del
_Diwan-el-Ma’mûr_, come si legge in piè del diploma. L’atto di vendita
è dato «il 7 settembre, corrispondente al mese arabico di scia’ban del
587» (1191) e la registrazione nell’uficio di riscontro del tesoro, il
10 ottobre (così io leggo) della IXª indizione.

Ognun vede che _Ma’mûr_, ne’ due luoghi citati, torna a _regio_
precisamente, come abbiam detto poc’anzi, pag. 322. nota 2. Di questo
diploma la più parte fu pubblicata, con molti errori, dal Gregorio, _De
Supputandis_, pag. 40. seg. Ne ho avuta dal Prof. Cusa una buona copia,
cavata dal testo originale.

Debbo intanto avvertire che gli atti più antichi di vendita, de’
quali abbiamo il testo arabico, non sembrano registrati all’ufizio di
riscontro. Era dunque innovazione degli ultimi anni di Guglielmo II,
ovvero formalità che solea trascurarsi, quando l’atto non capitava,
come questo, nelle mani del pubblico ministero?

In ogni modo i _defetir-el-hodûd_, ossia _quinterni magni Secreti_,
sembrano veri catasti dove fossero descritti i confini di ciascun
podere, non già que’ del solo territorio di ciascun paese o _iklîm_.

[790] Con tal supposto il Gregorio comincia il citato cap. iv del lib.
II, delle _Considerazioni_.

[791] Diploma presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 522. Notisi che
questo diploma è scritto originalmente in latino, onde il termine che
occorre due volte, quando _Northmanni primum transierunt in Siciliam_,
non può venir da errore di traduzione.

[792] Si vegga questo medesimo libro, cap. viij, pag. 247 segg., 253
segg. del presente volume.

[793] Si vegga il Gregorio, _Considerazioni_, lib. 1, cap. iv, e
particolarmente la nota 21. Ma gli squarci di carte siciliane del XII,
XIII e XIV secolo quivi trascritti, fanno sospettare qualche errore
di copia. Ed errore o bugia dee sospettarsi nel diploma del 1274,
dove descrivendo le decime _solite_ a riscuotersi dalla cattedrale di
Palermo su le _gabelle antiche_ del fisco, si la salire la _decima_ a
ventidue tarì d’oro e grani due sopra ogni cento tarì entrati nelle
casse regie. Sarebbe stata una bella decima: poco men che la quarta
parte!

[794] Si vegga il capitolo precedente, pag. 255 nota 1. Mi par bene
di spiegare qui perchè io renda con l’italiano “canova” il vocabolo
arabico _dokkân_.

Che questo abbia avuto ed abbia tuttavia in Egitto ed Oriente il
significato generico di bottega, si vede da’ dizionarii arabi, non
esclusi que’ sì moderni di Bochtor e di Lane, nè i dizionarietti
italiani ed arabici stampati a Bulâk. Si vede anco dagli autori che
cita il Sacy (_Chréstomathie arabe_, tomo I, pag. 252, e traduzione di
Abdallatif, pag. 303); dai proverbii arabi moderni (Freytag, I, 141);
da Lane stesso (_Modern Egyptians_, cap. XIV) il quale dà perfino un
disegno di _dokkân_ del Cairo: e la torna sempre a stanza terrena dove
si vendano commestibili e altre merci. Fu chiamato anche così lo studio
de’ notai musulmani, secondo un luogo d’Ibn-Khaldûn, trascritto in nota
da Sacy (_Chréstom_., tom. I, pag. 39, 41).

Contuttociò, nel caso nostro quella voce va tradotta “canova;” non
parendo possibile che il conte Ruggiero e i suoi feudatarii abbian
preso il monopolio di tutte le merci. Si deve intendere, a creder mio,
delle grasce soltanto, e forse di quelle che si vendessero a minuto.

La nostra voce “canova” potrebbe per avventura venir dall’arabico
e tornare ad _hanût_, ch’è dato come sinonimo di _dokkân_, ma si
dice particolarmente delle botteghe dove si vende il vino. Secondo i
lessicografi (Lane, Dizionario, vol. I, pag. 661, 1ª colonna) quella
voce suonava in origine _hânuwa_. Or gli Italiani doveano pronunziarla
“canova”, come _kammâl_, “camálo” e _harrâka_, carácca.

[795] Lasciando da canto la lista de’ _diritti antichi_ secondo Andrea
da Isernia, che si legge nella nota 18, del capitolo or citato delle
Considerazioni, ed anco i diritti rilasciati e i soprusi vietati dal
vescovo di Catania a favore di que’ cittadini nel 1168, come si legge
in principio della nota 21, faremo qualche osservazione su i diritti
antichi di Palermo, Messina, Girgenti, Sciacca e Licata, citati in
diplomi del 1274, 1270, 1266, 1280, 1309.

Primi son ricordati in Palermo i diritti di Rahadina e di Rahaba; e le
sembran voci arabiche, l’una delle quali alterata nella trascrizione
(_rahâin_ plurale vuol dir pegni) e l’altra significa piazza (Makrizi,
_Mewd’is_, testo arabico tom. II, pag. 47, segg. nomina una cinquantina
di luoghi del Cairo e Cairo vecchio così chiamati). Seguon le dogane
della carne, del pesce, ec., che ognuno intende; la tintoria; il
dazio de’ vasai, de’ sellai, della seta, del filetto del cotone,
dell’orpello, la catena del porto; la tassa del fumo (così chiamavasi
nel Basso impero una tassa personale scompartita per case, fuochi, come
si disse poi in Sicilia) i bagni di Giawher, della Guidda e i mulini di
Kalbi, Malfiteri, del Cadi, ec.

In Messina non troviamo altre denominazioni arabiche se non che la
gabella del cafiso dell’olio (nota misura di Sicilia ed è il _cafiz_
degli Arabi) e la gabella _itriarum seu tinctorum_; dove leggerei ac in
luogo di seu, poichè _itria_ in arabico vuol dire vermicelli o simili
paste e in Sicilia dura la espressione di vermicelli _di tria_. V’ha
inoltre la _gesia_ de’ Giudei e alcuna delle denominazioni non arabiche
notate in Palermo.

In Girgenti poi e nelle altre due città della stessa provincia
nominate di sopra, oltre la _gesia_ de’ Giudei e alcune altre tasse già
accennate in Palermo e in Messina, scorgiamo quella su lo zucchero, sul
sale e sul ferro e quella della _cangemia_. Di cotesta voce non credo
sia stata rintracciata l’origine; nè potrebbesi, senza aver visti i
nomi arabici trascritti in greco nelle platee de’ villani di Sicilia.
In quelle mi è occorso il vocabolo _Haggiâm_ “colui che mette le
coppette e che esercita la bassa chirurgia” (secondo gli usi di Sicilia
salassatore e barbiere;) il quale, trascritto esattamente χαγγέμη, ma
pronunziato alla greca _cangemi_, è casato frequente in Palermo; dove
rimanevano al principio di questo secolo alcuni farmacisti di tal nome
e ve n’ha tuttavia. La gabella della Cangemia in Girgenti e Sciacca
sembra dunque un dazio su i salassatori; la quale classe poteva essere
numerosa poichè nel medio evo si facea molto uso delle coppette per
cavar sangue.

S’abbia il detto fin qui come un saggio delle ricerche che si
potrebbero fare sul sistema daziario ed anco su le industrie e i fatti
economici in generale della Sicilia nell’XI e XII secolo: lievissimo
saggio poichè l’è fondato principalmente su i pochi brani che die’ il
Gregorio, dove d’altronde è dubbia la lezione di molte parole.

Non debbo tacere che il sig. Lodovico Bianchini trattò anche questo
argomento nella sua _Storia Economico-civile_ di Sicilia, Palermo,
1841, in-8, parte III, cap. i; ma egli non aggiunse gran cosa a ciò che
si sapea dal Gregorio.

[796] _Considerazioni_, lib. I, cap. iv. Il Gregorio crede eccezioni
quelle di Catania e di Patti, ch’ei cita nelle note 11 e 12; ma sembra
appunto il contrario.

[797] Si vegga ciò che ne abbiamo raccontato in questo libro V, cap. v,
pag. 140, 141, del presente volume.

[798] Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap. v.

[799] Op. cit., lib. II, cap. iv.

[800] Tra le altre una nel 1098, alla quale accenna Ibn-el-Athîr, an.
491, testo, edizione del Tornberg, tomo X, pag. 191.

[801] Si vegga il nostro libro IV, cap. xv, pag. 548, del 2º volume, e
il lib. V, cap. iii, pag. 80, di questo volume.

[802] Si vegga qui sopra il cap. vij, pag. 188, 189.

[803] Si veggano i fatti narrati nel cap. vj, di questo lib. V, p.
158, 168. L’ultimo fatto d’armi tra Ruggiero e gli Ziriti era stato
combattuto il 1075, come si legge nello stesso cap. vj, pag. 451.

[804] Si ritrae che montava alla _terza_ parte del grano esportato
e che l’imperator Federigo la ridusse alla quinta. Diploma citato
dal Gregorio, _Considerazioni_, lib. III, cap. vj, nota 31. Per un
diploma greco del 1117, il secondo conte Ruggiero, tra le altre cose,
accordò al console genovese in Messina la franchigia della estrazione
delle merci infino a 60 tari. Traduzione latina presso Gregorio,
_Considerazioni_, lib. II, cap. ix, nota 3. Questo, se non altro,
prova l’uso dei dazii di esportazione e può riferirsi con molta
verosimiglianza a quel su i grani.

[805] Se n’è detto nel cap. ix di questo libro, pag. 247. Si riscontri
il Gregorio, _Considerazioni_, lib. I, cap. v.

[806] Considerazioni, lib. I, cap. ij.

[807] In questo lib. V, cap. vij, pag. 184, segg.

[808] Cap. ix, pag. 263, 265 di questo volume.

[809] Lib. V, cap. iv, pag. 110 e 111, di questo volume.

[810] Lib. V, cap. iv, pag. 124 del volume.

[811] Alberto d’Aix, _Historia Hierosolymitana_, lib. XIII, cap. xiij,
presso Caruso, _Bibliotheca Sicula_, pag. 921.

[812] Il Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap. iv, vede
l’imitazione dall’inglese anco nella costituzione dell’armata siciliana
del XII secolo.

[813] _Leonis Tactica_, cap. XIX. Si vegga anche la traduzione francese
di Maizeroi, Paris, 1778, pag. 146. Occorrono cotesti navilii de’ varii
temi, ossia province, in molti fatti delle istorie bizantine ch’e’
sarebbe lungo a citare.

[814] Lib. IV, cap. vj, pag. 313, del 2º volume.

[815] Ms. arabico di Parigi, _Supplément arabe_, 885, fog. 94 verso.
Ho reso “villaggi” la voce dhia’ che significa propriamente: “podere
demaniale, beneficio militare” (Si vegga il nostro lib. III, cap. j,
pag. 22, del 2º volume). Ma la tassa sopra ogni _fumo_, così il testo,
ossia casa, conduce al significato che do io. Abbiam testè fatta
menzione della gabella detta del fumo in Sicilia nel XII secolo. Si
vegga Ducange, _Glossario latino_, alla voce _fumagium_ e simili, il
_Glossario greco_ alla voce καπνικὸν, e il Cedreno, edizione di Bonn,
tomo II, pag. 831.

[816] Ibn-Khaldoun, _Prolégomènes_, traduzione francese del baron De
Slane, parte II, pag. 39.

[817] Makrizi, _Kitâb-el-Mewâ’iz_, (Descrizione dell’Egitto) testo
arabico, tomo I, pagg. 482 e 483.

[818] Ancorchè io risguardi M. De Slane come mio maestro in arabico,
non posso accettare la traduzione ch’egli dà di questo passo,
_Prolégomènes_, parte II, pag. 40. «Elle se composait de navires qu’on
faisait venir de tous les royaumes où l’on construisait des bâtiments.
Chaque navire était sous les ordres d’un marin portant le titre de
_caïd_, qui s’occupait uniquement de ce qui concernait l’armement, les
combattants et la guerre; un autre officier, appelé le _raïs_, faisait
marcher le vaisseau, etc.»

Secondo il testo arabico, edizione di Parigi, parte II, pag. 35, e
di Rulâk, pag. 123, io tradurrei. “L’armata (spagnuola) era raccolta
da tutto il reame. Di ciascun paese dato alla navigazione veniva
un’armatetta, capitanata da un _kâid_, uomo di mare che badava alle
cose della guerra, alle armi ed ai combattenti e da un _rais_ (pilota)
che avea cura della navigazione, ec.”

La differenza tra le due versioni è che io intendo “province” della
Spagna la voce che M. de Slane rende “royaumes” e che alla voce _ostûl_
(στόλος) do il significato ordinario di armatetta, quando M. de Slane
la traduce «navire». E veramente, la voce _Mamlaka_, il cui plurale è
usato qui dallo autore, significa “reame” ed anco “parte d’un reame:”
e in ogni modo, al tempo d’Ibn-Khaldûn, erano ben ridivenute reami
quelle che furono mere province sotto gli Omeiadi. D’altronde non si
comprenderebbe come il califo di Spagna armasse i suoi legni «in tutti
i reami» del Mediterraneo e dell’Oceano, che erano tutti nemici; nè
com’egli accozzasse un’armata di dugento vele, prendendo «una nave»
da ciascun paese della Spagna dato alla navigazione. Aggiungo che
Ibn-Khaldûn, in moltissimi luoghi delle sue opere, dà alla voce _ostul_
il significato ordinario di “armata” e non di “una nave.” Così negli
stessi Prolegomeni, parte II, pag. 37, del testo di Parigi e in altri
squarci del medesimo autore, raccolti da me nella _Bibl. Arabo-Sicula_,
pag. 486, 487, 488 ec.

[819] Si vegga qui sopra a pag. 278, note 2 e 3, e il cap. viij, a
pag. 223, nota 5. Nel diploma per l’Archimandrita di Messina, dato il
1130, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 973, prima colonna, leggiamo
di un podere conceduto all’Archimandrita, _cum terris, preeminentiis
et datium marinariorum qui cum eo habitant_. L’è traduzione dal
greco, nella quale non veggo se si tratti del dazio pe’ marinai dovuto
dagli abitatori, o del dazio su i marinai che soggiornavano in quel
territorio. Un diploma del 1197, op. cit., p. 1289 fa supporre il primo
caso anzi che il secondo.

[820] Diplomi presso il Gregorio, _Considerazioni_, lib. II, cap. iv,
nota 15.

[821] Si veggano i cap. X e XIII della mia _Guerra del vespro
Siciliano_, dove sono ricordate nella battaglia del golfo di Napoli del
1287, le galee di Milazzo, Lipari, Trapani, Siracusa, Catania, Agosta,
Taormina, Cefalù, Eraclea, Licata, Sciacca.

[822] Cap. xiij, pag. 428, segg. del 2º volume.

[823] Si vegga il cap. ix, del presente libro, pag. 257.

[824] Cap. v di questo medesimo libro, pagg. 136 a 139 del volume.

[825] Cap. vi, pag. 161.

[826] Cap. viij, pag. 210.

[827] Testo, nella _Biblioteca Arabo-sicula_, pag. 41. Rendo con la
voce _primitivo_ il vocabolo _Azali_, che significa propriamente «senza
principio, eterno quanto al principio, ec.» ciò che parlando de’ popoli
noi diciamo impropriamente «aborigene.»

[828] Mi si permetta questo vocabolo, che non è nella Crusca, ma
nell’uso generale d’oggi, ed evita una anfibologia.

[829] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 383. Quivi leggiamo _ad
magnam viam francigenam Castrinovi_. Probabilmente l’è traduzione dal
greco, portando l’anno costantinopolitano e leggendovisi la espressione
_Papæ veteris Romæ_, che sa di bizantino. Tuttavia la lingua e lo stile
la fanno supporre versione molto antica.

[830] Un diploma greco-latino del 1132, presso Spata, _Pergamene_,
pag. 424, fa menzione di una strada che dal podere di Mutata (ignoro
il sito) conduceva a Petralia, Castronovo, Vicari e Palermo. Ancorchè
nel latino si legga soltanto _via_, e manchi in questo passo il testo
greco, mi sembra che si tratti del medesimo stradale francese.

[831] Presso Pirro, _Sicilia Sacra_, pag. 1012.

[832] Diploma presso Pirro, op. cit., pag. 773.

[833] Diploma del 6594 (1086) XIIª indizione, pubblicato dal Sig.
Piaggia, _Nuovi studii su la città di Milazzo_, Palermo 1866, in-8
grande, pag. 68, nota 6. Goffredo Burrello, feudatario di Milazzo,
descrivendo in questo diploma i limiti del podere detto Bucello nel
territorio di quella città, li fa correre _usque ad viam quae vadit a
Sancto Philippo in villam Milatii, deinde constringendo per viam viam
ad aliam frangigenam quae conjungitur prope mare ante villam Milatii,
deinde revertetur per eamdem viam frangigenam usque ad mare, etc._ Non
debbo tacere che questo documento, copiato dai Mss. della Biblioteca
comunale di Palermo, e voltato già dal greco, come apparisce dall’èra
costantinopolitana, fu alterato senza dubbio, sia nell’originale, sia
nella traduzione. E veramente, oltrechè la XII indizione non torna
nel 1086, noi troviamo il titolo di “Chiese messinese e trainese” e
del “primo vescovo di esse Roberto”; ed egli è evidente che coteste
parole non furono scritte nel detto anno, poichè allora non si potea
dir che del Vescovato di Traina; sendo notissimo che il tramutamento
della sede e la giunta di Chiesa messinese nella denominazione della
diocesi, seguirono nel 1091. Ciò nondimeno non v’ha ragione di supporre
inventata da qualche erudito del XVII o XVIII secolo la denominazione
di _via francese_; e però io accetto questa testimonianza di un fatto
materiale, la quale risalisce in qualunque modo al XII secolo.

[834] Diploma arabico-latino del 15, maggio 1182, di cui la parte
latina fu pubblicata da Del Giudice, _Descrizione del Tempio di
Morreale_, Appendice, pag. 8 segg. e il testo arabico è inedito. Il
luogo ch’io cito si trova a p. 11, della _Descrizione_, in fin della
divisa di Bufurera, dove si legge _viam exercitus_, e ciò risponde
perfettamente al testo arabico: _tarik-el-’askar_.

[835] Del Giudice, op. cit., pag. 16, 19, 21, ec. Il diploma latino
qui ha _via pubblica_, e l’arabico _mehaggia_ e talvolta anche _tarik_,
come sopra nella «Strada dell’esercito.»

[836] Tychsen, _Introductio in rem nummariam_, ec., pag. 146. Lo
Spinelli, _Monete Cufiche battute da Principi longobardi, normanni e
svevi_, Napoli, 1844, in-4, pag. 16 e 232, suppone, che il disegno di
questa moneta fosse stato inventato dall’Abate Vella. Il Mortillaro,
che avea ben riconosciuto (_Opere_, tomo III, pag. 339), appartener la
moneta a re Tancredi, lo dimentica adesso (_Medagliere arabo-siculo_,
pag. 35) per seguire il supposto dello Spinelli. E pure nel disegno
che questi dà, Tavola II, nº 1 (io non ho sotto gli occhi quello di
Tychsen) si legge benissimo _el-Malik-Tan-rid_.

[837] Adler, _Museum Cuficum Borgianum_, pag. 80, seg. n^i lxiv a lxxv.

[838] _Monete Cufiche_, pag. 329, 330, nº cclxxix.

[839] _The Oriental coins_, tomo I, pag. 299, 300. nº cccviij.

[840] _Monete Cufiche_, ec., in-4, pag. 16 a 19, n^i lxv a lxxij, lxxv,
dcxlix a dclvij.

[841] Il _Medagliere Arabo-Siculo della Biblioteca Comunale di Palermo,
coordinato e illustrato dal Marchese Vincenzo Mortillaro_, Palermo
1861, in-8, pag. 36-39. Io non so perchè il Mortillaro, pag. 36, nº
1, identifichi col nº lxvj, dello Spinelli la moneta che diè Adler,
op. cit., al nº lxix; e, pentendosi d’averla già attribuita a re
Ruggiero (Mortillaro, _Opere_, tomo III, pag. 405) accetti adesso la
lezione dello Spinelli, che la rimanda al primo conte. Da quanto si può
giudicare sopra disegni grossolani, Adler non lesse tutto, Mortillaro
supplì male, e la lezione _K*m*t_, sostituita da Spinelli, non si
raccapezza nella figura (tavola II, nº 2). Men dubbio mi sembra in
questa e nelle seguenti, il nome di Ruggiero; ma questo conviene al
figliuolo, come al padre, ed anche al Duca di Puglia dello stesso nome.

[842] N. lxxij, pag. 19, tavola II, nº 23, il quale si confronti col
24, ed anche col 4 ec.

[843] Si vegga il nostro Libro IV, cap. xiij, pagg. 456-8, del 2º
volume.

[844] Paruta, presso il Burmanno, _Thesaurus Antiquitatum Siciliae_,
ec. tomo VII, pag. 1223, e tomo VIII, tavola clxxxvj. Credo che i n^i
3 e 4, di quella tavola, i quali hanno da una faccia il T in luogo del
cavaliero armato, appartengano al secondo conte Ruggiero.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Sia il Sommario sia
le Correzioni e Aggiunte relativi alla Parte Prima, raggruppati in
originale al termine della Parte Seconda, sono stati riportati a fine
libro.





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