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Title: Cronaca di Fra Salimbene parmigiano vol. I (of 2)
Author: Adam, Salimbene de
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Cronaca di Fra Salimbene parmigiano vol. I (of 2)" ***


                                CRONACA
                                   DI
                        FRA SALIMBENE PARMIGIANO

                         DELL'ORDINE DEI MINORI


                            VOLGARIZZATA DA
                            CARLO CANTARELLI

                      SULL'EDIZIONE UNICA DEL 1857
                    CORREDATA DI NOTE E DI UN AMPIO
                           INDICE PER MATERIE



                                 PARMA
                          LUIGI BATTEI EDITORE
                                  1882



                      Parma, Tip. Adorni Michele.



                                   AL
                               NOBILLIMO

                   MAGISTRATO E CONSIGLIO MUNICIPALE

                                DI PARMA

                     CHE PER INCITAMENTO ED ESEMPIO
                         AI FIGLI ED AI NEPOTI
                        VEGLIA CUSTODE E VINDICE
                         DELLE GLORIE DEGLI AVI
                         QUESTO VOLGARIZZAMENTO

                     DELLA CRONACA DI FRA SALIMBENE

                       NARRATORE PRIMO E STUPENDO
                          DELLE VALOROSE GESTA
                ONDE I PARMIGIANI DEL SECOLO DECIMOTERZO
                          FRANCARONO L'ITALIA
                   DALLA SIGNORIA DI FEDERICO SECONDO
                            CARLO CANTARELLI
                  A PICCOLO SEGNO DI MASSIMA RIVERENZA
                      DEVOTAMENTE DEDICA CONSACRA



                 DI FRA SALIMBENE E DELLA SUA CRONACA

                                DISCORSO
                 DI ANTONIO BERTANI VICE-BIBLIOTECARIO
                                DI PARMA

               PREMESSO ALLA EDIZIONE DEL TESTO ORIGINALE


Il decimoterzo secolo che, ricco in Italia del retaggio di S. Tommaso,
di S. Bonaventura e di altri sommi maestri, dava Dante al mondo intero,
era secolo di grande intellettuale entusiasmo fra noi, sì che ognuno,
il quale si avesse da natura sortito fervido lume di mente, era vago
di rovistare nel tesoro trasmessogli da' maggiori e di tramandare a'
futuri tutto quanto ne ritraeva, insieme co' frutti suoi proprii, a
tale che tu, leggendo le scritture di que' dì, ne diresti gli autori
presi da una smania, da una febbre di apprendere e d'insegnare.
Fra questi ardenti spiriti è certo da noverarsi il frate, di cui
pubblichiamo quì l'unico lavoro a nostra certa conoscenza venuto.
Nato egli in Parma, surto appena il quinto lustro di quel secolo,
da padre che fu crociato, ebbe svegliatissimo ingegno, congiunto ad
alto cuore e ribollente animo; basti a darne un sentore la vigoria
con cui, giovinetto ancora, tenne fermo contro l'opposizione, che ben
può dirsi, più che tenace, soldatesca, del padre alla risoluzione sua
di cingere il cordone di S. Francesco. Così deliberato, il narra ei
medesimo, nel suo decimoquinto anno vestì, per intercessione di Fra
Gherardo Boccabadati, l'abito religioso in Fano all'insaputa di Guido
padre suo; venutone questi a conoscenza, dolente che la famiglia sua,
detta _di Adamo_, perdesse così ogni speranza di perpetuazione, giacchè
l'altro, maggiore dei due soli maschi avuti, erasi già reso frate,
corse all'Imperatore, ed implorò ed ottenne ch'ei s'interponesse presso
frate Elia Generale dell'Ordine che fossegli restituito il figlio. Elia
rispose che il renderebbe, ove questi aderisse di ritornare al secolo.
Volò Guido a Salimbene, lo pregò, scongiurollo, fecegli ampie promesse;
invano; vinto dall'ira e quasi fatto demente dal dolore, il maledisse;
il giovinetto piegò la fronte pregando Iddio, e stette saldo. Partì il
meschino genitore; e Salimbene poi nelle sacre ed umane lettere, nella
gentile arte del canto andò liberamente educando e mente ed animo,
onde poi salito in alta stima ebbe agio d'intrattenersi con assaissimi
de' personaggi più cospicui in lettere, scienze ed armi, gradito sino
a' Pontefici ed all'Imperadore medesimo. Giovanil talento indotto
avealo a vagheggiar le dottrine di Gioachino; e veramente quella sua
fantasia, che il sollevava a straordinarie visioni, parea creata a
simili speculazioni; ma più robusto fatto il pensiero, abbandonolle,
e ne rise: amante del nuovo e del grazioso, ai fiori della nascente
poesia italiana volger volle l'ingegno, e dettò versi in copia, ora
perduti. Non pochi paesi viaggiò, notando tutto quel che lesse, vide,
udì, e a tutto aggiugnendo le proprie considerazioni; e moltissimo
appunto e lesse e vide e udì, vissuto essendo dalla fine del 1221
sin oltre il 1287, e fors'anche fin dopo il 1290: però da questo solo
ben potrebbe ognun farsi una sufficiente idea della importanza della
presente sua Cronaca, nella quale sono appunto registrate pressochè
tutte le impressioni in que' varii modi ricevute ne' suoi più belli
anni. Di questa mio primo pensiero era stato di porre qui una specie
di rapido compendio; ma poi due considerazioni me ne distolsero:
l'una, la qualità del suo latino, che (sebben barbaro, ma pur di
elegante barbarie) tanto fluidamente scorre da rendersi di facilissima
intelligenza anche a men pratici della favella del Lazio, sì che da
quest'ultimo lato ben può paragonarsi al divin libro di quel Tommaso
da Kempis, che per ciò appunto non trovò traduttore nell'aureo secolo
di nostra favella; l'altra, la persuasione che male avrei potuto
rendere l'evidenza del suo dire, la quale dalla mia insufficienza
attenuata, n'avrebbe avuti dilavati quei vivi colori con che ne
pinge i più importanti avvenimenti, ne porge i tanti ritratti de'
suoi contemporanei, cui ti sembra vedere nella sua favella risorgere
d'innanzi a te animo e persona.

Ond'è ch'io mi restringo all'accennare per brevità gli altri più
eminenti pregi del suo lavoro, e ciò solo m'induco a fare per eccitar
desiderio di leggerlo tutto tutto in chi fosse ignaro della importanza
sua, e credesse doversi questa Cronaca mettere a paro delle tante
fredde e noiose pei più, le quali furon opera di volgari intelletti.
Della efficacia del suo ritrarre e avvenimenti e uomini ho detto
testè; ma ciò che in questo pure è più maraviglioso aggiungo ora: nella
dipintura de' primi in ciò si distingue egli dagli altri cronisti, che,
mentre questi mai non ravvivano di qualche scintilla il loro racconto,
esso al contrario, oltre al calor generale che intero avviva il suo
lavoro, ti balza fuori all'uopo con uno slancio dell'anima, come là
dove, a cagion d'esempio, dopo aver noverate le irruzioni de' barbari
in Italia, giunto all'ultima, ripiglia: _utinam ultima!_ Quanto a'
ritratti poi è impareggiato; imparziale dispensa e lode e biasimo,
senza macchiarsi della vergogna dell'ire di parte ond'era dilacerata
questa misera nostra terra: frate, s'ei ti ragiona del secondo Federico
di Svevia, il compiange e l'ammira; tutte ne annovera le accuse dei
contemporanei, ma del proprio ne fa sfolgorare le doti grandiose:
frate, applaude alla virtù del guelfo, ma gli rinfaccia ad un tempo e
vizi e colpe, inesorabile sì e solenne, che alla tua immaginazione si
presenta quasi una scena del supremo giudizio. Guai a colui che merita
biasimo, e sia pur anche l'uomo il cui nome sta scritto sulla bandiera
della fazione.

Nè la sua Cronaca si limita a rinserrar soltanto notizie italiane; da'
suoi confrati, che avean visitate altre terre, avidamente suggeva le
novelle, e notava: onde qui trovi sin dovizia per le storie d'Oriente;
ed egli stesso de' suoi viaggi in Francia, ove fu ben affetto, tiene
ricordi minuti in modo da porti sott'occhi e le ricchezze de' vigneti
e le costumanze de' baroni, nell'ora istessa in cui ti descrive la
partenza dalla piaggia natale di Lodovico volto al riscatto del gran
Sepolcro, in maniera talmente esatta, che inutilmente cerchi l'eguale
negli annalisti contemporanei di quella nazione.

Chi tenga dietro allo svolgimento dell'idea filosofico-religiosa,
nelle varie età, troverà qui ampia messe; la dottrina delle vaghe
speculazioni profetiche, tanto fervente a que' giorni, occupa qui
appunto un luogo principale fra esse; nè minori ne coglierà chi vada
in traccia di ricordi letterarii; e talora avrà cagione di fare a
sè stesso strani quesiti, come quando legga il brano ove Salimbene
racconta di quel bizzarro ingegno di Primasso, di cui reca versi non
pochi, e cui si contendono parecchi paesi. Egli il dichiara vivente del
1238 circa: come potrassi por questa data in armonia colla attribuzione
che gli si fa da altri, e dotti assai, di poesie, che rivelansi di per
sè nate ai dì del Barbarossa? e come poi ciò stesso colla novella del
Boccaccio (ripetitor gioioso delle tradizioni ancor troppo recenti
perch'ei fosse indotto in errore), la quale ne fa conoscere come
Primasso appunto capitasse a Cluny al tempo che il famoso monastero
era retto da un abate largo e splendido? questo abate altri non poteva
essere che Guglielmo di Pontoise reggente appunto la cluniacense
famiglia dal 1244 o 1245 al 1257 o 1258; e ciò darebbe la causa vinta
al mio Salimbene; ma dopo quello che intorno a Primasso ha detto
l'illustre Iacopo Grimm, come potrei io osare di sostener le ragioni
del mio compaesano con sì minime forze e sì lieve addentellato?

Giunto al fine di quanto m'ero prefisso, ripeto la manifestazione
del desiderio, che ho vivissimo, che questo mio povero ed inculto
dire metta pungente brama in chi lesse di tutto ponderare il volume,
perchè ho ferma fede che di gran giovamento debbano riuscire lo studio
principalmente alla tutt'ora desiderata storia generale d'Italia.

                                                           A. BERTANI



AVVERTIMENTO


_Parecchi anni passati venuto il Duca di Sermoneta in divisamento
di publicare una continuazione agli_ Scriptores Rerum Italicarum _si
volse al celebre Monsignor Gaetano Marini per ottenere suggerimenti
non solo, ma trascrizioni pur anche de' preziosi codici storici
chiusi nella Vaticana, i quali potessero formar parte di simile nuova
collezione. Aderì di buon grado il Marini, e senza più diedesi a far
trascrivere dall'Abate Amati, siccome importantissima, la Cronaca
che noi ora quì publichiamo, e, compiutane la copia, questa consegnò
all'egregio storiofilo. Gli avvenimenti che gran parte d'Europa posero
a soqquadro alla fine del passato ed al principio del presente secolo,
impedirono a quest'esso di mandare ad effetto il proprio disegno:
venuto egli a morte, fu la sua importante biblioteca venduta a pubblica
auzione, e con questa la copia della Cronaca Salimbeniana e di altre.
Buon per noi che l'acquirente di tale copia fosse un personaggio
dedito all'incremento de' migliori studii: era egli il Commendatore
Gian-Francesco De-Rossi, di onoranda memoria, il quale, saputo come
il mio ottimo ed amatissimo zio Commendatore Pezzana nutrisse gran
desiderio di averne pur copia per collocarla, siccome patrio monumento,
nella Parmense, cortesissimamente volonteroso gliela concedette._

_E questa ultima è quella che ha servito, insieme con alcuni
estratti lasciatici dall'Affò, alla presente edizione, curata per la
massima parte, essendo io da troppe altre occupazioni distratto, dal
valentissimo mio buon amico Cav. Amadio Ronchini insieme all'egregio
Ab. Luigi Barbieri, ai quali m'allieto nel porger quì publico segno
di viva riconoscenza. Ma mentre con ciò dichiarare do sicurezza a'
lettori della fedeltà scrupolosa della edizion medesima, m'è pur
d'uopo avvertirli del come io sia dolente del doverla presentare con
non poche lacune, colpa del manoscritto del Marini: partendo egli da'
principii degli storiografi de' tempi suoi, reputò inutili, e però da
non trascriversi, cose che oggi terrebbersi in gran pregio a seconda
dei meglio vantaggiati metodi dello studiare le fonti storiche. Tali
sarebbero, fra quelle appunto ommesse da lui, alcuni trattatelli, de'
quali la Cronaca ne porge intitolazione, valevoli, a suscitare i nostri
e desiderii e lamenti, parecchie canzoni popolari e satire, ed altro:
il che tutto avrebbe valso almeno a vieppiù dichiarare lo spirito dei
tempi intorno a cui la Cronaca stessa si aggira. Ciò nulla meno, la Dio
mercè, tanto ne rimane da renderla uno stupendo monumento._

                                                           A. BERTANI



AI LETTORI


LA CRONACA DI FRA SALIMBENE, monumento storico tanto celebrato, quanto
lettura per secoli invano desiderata, perchè sepolto prima nelle
librerie dei frati, poscia nella biblioteca del Vaticano, ove si
otteneva il permesso di leggerlo, ma non di copiarlo, fu finalmente
pubblicato in Parma nel 1857, prima, e, finora, unica edizione di non
molti esemplari, e già esaurita. Ma se questa pubblicazione bastò al
vivo desiderio di pochi eruditi, che intendono il latino medioevale
del testo Salimbeniano, era ben lungi dal contentare que' molti, che
pur intendendo il latino classico, non avevano famigliarità colla
lingua latina scritta nei tempi di mezzo, e tutti quegli altri, cui
pungeva la nobil brama di conoscere almeno i più cospicui documenti
della storia patria, ma alla coltura anche non poca che possedevano,
mancava la conoscenza del latino di qualunque fosse tempo. Ora poi
che le crescenti generazioni trovano una larghissima messe di coltura
generale nelle Scuole tecniche, negli Istituti tecnici, militari, di
marina, e nelle Scuole di tanti altri insegnamenti speciali, ne' cui
programmi allo studio delle lingue classiche è sostituito lo studio
delle lingue oggidì parlate in Europa, colla cresciuta coltura generale
è diventato per una parte più vivo il desiderio e il bisogno di cercare
la storia patria nelle scritture di coloro che videro co' propri occhi
le cose narrate, e per l'altra si è notabilmente moltiplicato il numero
di quelli, a cui manca il mezzo d'intenderle. Io perciò ho creduto
fare cosa non inutile traducendo questa celebratissima Cronaca, in cui
quel vivissimo ingegno del Salimbene s'impone ai lettori non tanto
come narratore veridico e critico giudizioso, quanto come scrittore
che avviva sempre il suo racconto e talora lo rende scintillante,
e ti balza fuori collo slancio di un'anima che trascina. _Quanto a'
ritratti poi è impareggiato_, dice l'editore parmense, Cav. Antonio
Bertani Vice-bibliotecario: _imparziale, dispensa lode e biasimo senza
macchiarsi della vergogna delle ire di parte, ond'era dilacerata questa
nostra misera terra: Frate, s'ei ti ragiona del secondo Federico di
Svevia, il compiange e l'ammira; tutte ne annovera le accuse de' suoi
contemporanei, ma del proprio ne fa sfolgorare le doti grandiose;
Frate, applaude alle virtù del guelfo, ma gli rinfaccia ad un tempo
e vizi e colpe, inesorabile sì e solenne, che alla tua immaginazione
si presenta quasi una scena del supremo giudizio. Guai a colui che
merita biasimo, e sia pur anche l'uomo, il cui nome sta scritto sulla
bandiera della fazione._ Nè ho pretesa di aver fatto lavoro letterario,
che non ho arroganza d'allinearmi co' letterati, nè d'aver elaborato
un'opera di critica, nè di illustrazione, chè, foss'anche ne avessi
avuto intelletto, me ne sarebbero mancati assolutamente e tempo e
mezzi; ma ho semplicemente e dimessamente posto cura a volgarizzare
e ridurre a lezione popolare un documento preziosissimo per la nostra
storia nazionale. E se mancherà pregio al volgarizzamento, s'imporrà
e s'aprirà la via da sè il racconto: e nutro fiducia che a me non si
defraudi il merito del buon volere.

                                                     CARLO CANTARELLI



CRONACA

DI FRA SALIMBENE DI ADAMO PARMIGIANO DELL'ORDINE DE' MINORI


D'or innanzi[1] noi ci incontreremo in un linguaggio incolto, rude,
grossolano ed esuberante, che in molte parti non conosce leggi di
grammatica; ma che segue però la storia con ordine appropriato.
E perciò sarà necessario che per opera vostra ora si assesti, si
migliori, si aggiunga, si tolga, e, a seconda del bisogno, si riduca
alle corrette leggi della lingua; come anche sup.... questa stessa
cronaca manifestamente.... è che noi abbiam fatto in molti luoghi ove
abbiamo trovato molte cose false, e molte dette rozzamente, _delle
quali_ alcune sono state introdotte da copisti.... che falsificano
molte cose; altre poi furono inserite dai primi compilatori. Chi poi
dopo loro fece qualche giunta, seguì i primi in buona fede, senza
star a pensare se avevano detto bene, o male; sia che il facesse
a scanso di fatica, sia per ignoranza della storia. E veramente fu
meglio assai che scrivessero qualche cosa, quantunque..... di quello
che nulla facessero. Perchè almeno sappiamo da loro in che anno sono
avvenute le cose di cui parlano; e abbiamo notizia d'alcun che di vero
intorno a geste d'uomini, e intorno ad avvenimenti; notizie che forse
non avremmo, se Dio non ce le avesse volute rivelare come le rivelò a
Mosè, ad Esdra, a Giovanni nell'Apocalisse, a Metodio martire quand'era
chiuso in prigione, e a molti altri, a cui furono predette le cose
future e aperti i secreti del cielo. Perciò il beato Giovanni dice che
al tabernacolo del Signore ciascuno fa l'offerta che può: chi porta
oro, argento, pietre preziose; chi bisso, porpora, cocco, giacinto.
Per noi sarà già gran che, se potremo offrire pelliccie e lana di
capra. Ma l'Apostolo dà più pregio alle nostre umili oblazioni. Onde
tutto quel gran miracolo di bellezza del tabernacolo, che per mezzo di
appropriati simboli è figura della chiesa presente e della futura, è
velato di pelli e di cilizii. Sono le cose più vili quelle che servono
a riparare dagli ardori del sole e dalla molestia delle pioggie. Simile
cosa abbiamo fatto noi in molte altre cronache da noi scritte, edite ed
emendate.


a. 1212

Or dunque l'anno sussegnato (1212) il Re di Francia col conte di
Monforte si ascrisse a' crociati, e, per movere alla guerra insieme
agli altri crociati, preparò quello stesso esercito che s'era
battuto in Ispagna quando l'Imperatore de' Saraceni, che aveva seco
cinquanta Re, fu sconfitto presso Muradal[2] da tre Re di Spagna;
quel di Castiglia, quel di Navarra, e quello di Aragona, aiutati dai
Portoghesi, de' quali undicimila caddero nella prima battaglia. Nel
medesimo anno 1212, entusiasmata dal racconto di tre ragazzi di circa
dodici anni, i quali _dicevano_ d'aver veduto in sogno.... assumer....
il segno della croce.... dalle parti di Colonia.... una moltitudine
innumerevole di poveri d'ambo i sessi e di ragazzi crociati, che
pellegrinavano in Italia.... partì dicendo che avrebbero passato il
mare a piedi asciutti, e col braccio di Dio redenta Terra Santa e
Gerusalemme. Ma la finì che scomparvero quasi tutti. Lo stesso anno
infierì una fame sì grande, specialmente in Puglia e nella Sicilia, che
le madri facevano sin pasto de' loro ragazzi.


a. 1213

L'anno 1213 il giorno santo di Pasqua di Pentecoste, che cadde nella
festa dei santi martiri Marcellino e Pietro cioè ai due di giugno,
i Cremonesi, col solo aiuto di trecento militi Bresciani, accorsero
unanimi col loro carroccio in soccorso dei Pavesi, molti de' quali
erano stati fatti prigionieri dai Milanesi, presso Castelleone[3]
come s'è detto più addietro, quando il Re da Pavia passò a Cremona.
Ed ecco improvviso sorgere un gran rumore, ed erano i Milanesi,
che col loro carroccio venivano volando come saette, e come folgori
irrompevano. E in loro aiuto erano accorsi militi Piacentini, arcieri
Lodigiani, Cremonesi fanti e cavalli, cavalleria Novarese e Comasca, e
de' Bresciani altrettanti o più di quelli che abbiam già detto essere
andati a soccorso de' Cremonesi. Tutta questa gente con unanime furore
e clamore, con coraggio ed impeto, compatta come un sol uomo, urtarono,
respinsero, fugarono, imprigionarono ed annientarono i Cremonesi e la
milizia dei fuorusciti. Ma i Cremonesi riportarono in fine vittoria
sui Milanesi ed alleati loro, e ne trassero il carroccio per m.... con
gran trionfo ed esultanza nella città di Cremona. Lo stesso anno, a'
13 di Giugno, il Comune di Bologna promise giurando di far guerra ai
Modenesi a favore e servigio del Comune di Reggio, nè di far mai pace
coi Modenesi senza il consentimento dei Reggiani.


a. 1214

L'anno 1214 i militi di Reggio in servigio dei Cremonesi e dei
Parmigiani si recarono sulla diocesi di Piacenza per devastare
le possessioni dei Piacentini, e posero gli alloggiamenti presso
_Colomba_,[4] che è un monastero dell'ordine de' Cisterciensi.


a. 1215

L'anno 1215 Papa Innocenzo III celebrò un solenne concilio a
S. Giovanni in Laterano. Egli.... corresse ed ordinò l'ufficio
ecclesiastico im.... e vi aggiunse di suo, e tolse di quel che altri vi
aveva intruso; _ma non_ è ancora bene ordinato secondo il desiderio di
alcuni, _nè_ eziandio secondo la natura della cosa. Perocchè vi sono
molte cose superflue, che inducono più noia che divozione in quelli
che le ascoltano come in quelli, che le recitano. Tale sarebbe la _ora
prima della domenica_, al momento che i sacerdoti dovrebbero dire le
loro messe, e il popolo le aspetta; ma non vi ha chi dica messa, perchè
i sacerdoti sono occupati nella recitazione della prima ora. Così il
recitare diciotto salmi nell'ufficio notturno e della domenica prima di
arrivare al _Te Deum laudamus_, d'estate, quando le pulci molestano,
e le notti son brevi, e il caldo è intenso, e d'inverno per freddo,
non fa che annoiare. Vi sono ancora molte cose da mutare in meglio
nell'ufficio ecclesiastico; e sarebbe bene il farlo, perchè è zeppo di
grossolanità, quantunque non riconosciute da tutti.


a. 1216

L'anno 1216 morì Papa Innocenzo III presso Perugia in Luglio, ed è
sepolto nella chiesa episcopale. Al suo tempo fiorì rigogliosa la
Chiesa, e tenne supremazia sull'Impero romano, e sopra i Re ed i
Principi di tutta la terra. Ma l'Imperatore Federico, da lui esaltato e
chiamato figlio della Chiesa, fu uomo pestifero, maledetto, scismatico,
eretico, epicureo, coruttore di tutto il mondo, perchè seminò nelle
città italiane tanto seme di divisione e di discordia, che dura
tuttora; sicchè i figli, riguardo a' padri loro, possono ripetere
il lamento profetico di Ezechiele 18.º: _I padri hanno mangiato
l'agresto, ed i denti de' figliuoli ne sono allegati._ E parimente
Geremia nell'ultimo de' treni: _I nostri padri hanno peccato, e non
sono più: noi abbiam portate le loro iniquità._ Quindi pare verificata
in Federico la profezia dell'abbate Gioacchino[5] all'Imperatore
Enrico padre di lui, che si lamentava di suo figlio quand'era ancor
giovinetto: _Il figlio tuo sarà perverso_, gli disse: _iniquo sarà
il figlio tuo ed erede, o principe. Perocchè, diventato padrone,
metterà sossopra il mondo, e calpesterà i santi dell'altissimo._
Perciò si attaglia benissimo a Federico ciò che il signore per bocca
di Isaia 10.º disse di Assur, ossia di Senacheribbo: _Penserà nel cuor
suo di distruggere e di sterminare genti non poche._ Tutte queste
cose si avverarono in Federico, come abbiamo veduto noi cogli occhi
nostri, noi, che, ora che scriviamo, siamo nel giorno che è vigilia
della Maddalena del 1283. Tuttavia si può scusare Papa Innocenzo di
aver deposto Ottone ed esaltato Federico, perchè lo fece con buona
intenzione, secondo il detto del salmo: _l'uno umilia, l'altro esalta._
E nota che Innocenzo.... fu uomo generoso e _mag.... dis_. Perocchè
una volta accostò a sè stesso stesa pel lungo la tunica inconsutile del
signore per misurarla coll'altezza della propria persona, e gli parve
che Gesù Cristo fosse di piccola statura; ma poi vestitosene, si trovò
più piccolo di lui. E perciò gli entrò nell'animo una reverenza, che lo
mosse a venerarla come era conveniente. Così quando predicava al popolo
soleva tenersi sempre dinanzi il libro aperto. E quando i cappellani
gli domandavano come mai un uomo, quale egli era, sapiente e letterato
facesse tal cosa, rispondeva: Lo faccio per voi, per dare esempio a
voi, che siete ignoranti e avete rossore di studiare. Ad Innocenzo
successe Onorio III.

L'anno 1216, millesimo già sunnotato, milizie e arcieri andarono in
aiuto de' Bolognesi attorno a S. Arcangelo[6] contro quei di Rimini, e
posero assedio a quel castello, e vi stettero lungo tempo, tanto che fu
poi fatta la pace; e tutti quelli di Cesena, che erano nelle carceri
di quei di Rimini, ed erano settecento, furono prosciolti. Cadde
quell'inverno grandissima quantità di neve, e fece freddo intenso,
sicchè ne furono distrutte le vigne, e il Po gelò e su quel ghiaccio
le donne menavano le danze; e i cavalieri facevano correndo loro
torneamenti; e i campagnuoli passavano il Po co' loro carri, barocci e
treggie. Così durò due mesi. E allora lo staio del frumento si vendeva
nove di quegli imperiali che erano in corso e lo staio della spelta
quattro imperiali. E la Regina, moglie di Federico Imperatore, figlio
del fu Imperatore Enrico, passò per Reggio di ritorno dalle Puglie,
e in viaggio per raggiungere suo marito in Germania. E il Comune di
Reggio le fece le spese per tutto il tempo della sua sosta in città.


a. 1217

L'anno 1217 fu fatto Papa Onorio III, il quale convocò un concilio,
in cui decretò che per virtù di quel solo decreto incorressero la
scomunica tutti quelli che facessero una legge qualunque restrittiva
della libertà della chiesa; e che nessun sacerdote o prelato studiasse
giurisprudenza, nè vi fosse insegnamento di leggi a Parigi; depose un
Vescovo, che non aveva letto il Donato[7]; e ordinò che stesse sempre
acceso un lume davanti all'ostia consacrata, e che il sacerdote nel
portarla agli infermi la tenesse sempre davanti al petto.


a. 1218

L'anno 1218 in Giugno i Reggiani andarono col loro esercito in aiuto
de' Cremonesi e Parmigiani a Zibello[8] contro i Milanesi e loro
alleati; e fu gran combattimento tra loro il giovedì tra le tempora;
e molti d'ambe le parti ne morirono, e molti furono i prigionieri;
e fu giurata un'alleanza tra Reggio e Parma. Guido da Reggio era
allora Podestà di Parma. L'anno stesso i pellegrini cristiani cinsero
d'assedio Damiata.


a. 1220

L'anno 1220 Federico figlio dell'Imperatore Enrico fu incoronato
nella chiesa di S. Pietro in Roma da Papa Onorio III il dì di S.
Cecilia vergine e martire; e sua moglie la Regina Costanza fu coronata
Imperatrice con buona pace de' Romani; il che quasi mai s'è udito di
altro Imperatore. Ed imperò trent'anni ed undici giorni; e morì il
giorno compleanno della sua incoronazione in una piccola città della
Puglia, che si chiama Fiorentino[9] presso Nocera[10] de' Saraceni.
Nel millesimo suddetto da' Reggiani, Parmigiani e Cremonesi fu posto
assedio a Gonzaga[11], che era occupata da' Mantovani e dal conte
Alberto di Casaloddi della diocesi di Brescia. E l'anno stesso si
fece il cavo Tagliata, o Incisa, e vi si immise il Po[12]; fu preso
il castello di Bondeno[13] un martedì 16 di Giugno da' Mantovani,
Veronesi, Ferraresi e Modenesi; e il 10 d'Agosto, giorno di S. Lorenzo,
i Mantovani furono sconfitti, messi in fuga e fatti prigionieri da
quei di Bedullo, che erano venuti da Fabbrico[4] e da Campagnola[4] per
depredare e incendiare Bedullo[14] stesso.


a. 1221

L'anno 1221 morì il beato Domenico ai 6 d'Agosto. Ed io frate Salimbene
di Adamo di Parma nacqui quest'anno stesso ai 9 di Ottobre giorno di
S. Dionigi e Donnino; e Baliano di Sidone, gran barone di Francia,
che d'oltre mare era venuto a conferire con Federico II, mi tenne a
battesimo, come mi dicevano i miei, nel battistero di Parma, che era
accanto a casa mia. E me lo ha detto anche frate Andrea d'oltremare,
della città di S. Giovanni d'Acri, dell'Ordine de' frati Minori, che
vide e se ne ricorda, e si trovava col prenominato barone, come addetto
alla sua famiglia e compagno di viaggio.


a. 1222

L'anno 1222 furono colmate dai Bolognesi e Faentini le fosse della
città di Imola, e ne furon portate le porte a Bologna. E lo stesso
anno, a Reggio si sentì una fortissima scossa di terremoto, mentre
Nicolò Vescovo di Reggio predicava nella chiesa maggiore di S. Maria; e
fu sentito anche per tutta Lombardia e Toscana, e fu detto specialmente
terremoto di Brescia, perchè ivi si fece sentire più terribilmente;
sicchè fuggiti i Bresciani dalla città, se ne stavano all'aperto
sotto padiglioni per non morire sepolti sotto le ruine delle case. E
ne ruinarono molte case, torri e castelli de' Bresciani; i quali poi
si erano tanto addomesticati con quel terremoto, che quando cadeva il
pinacolo d'una torre, o una casa, stavano a guardare e scrosciavano
dalle risa. Onde un tale disse in versi:

    Mille ducentis viginti Christe duobus,
    Postquam sumpsisti carnem, currentibus annis
    Talia fecisti miracula Rex benedicte:
    Stella comis variis augusti fine refulsit;
    Septembris pluvia vites submersit et uvas,
    Destruxitque domos, fluvii de more rapacis;
    Lunaque passa fuit eclypsim mense novembris;
    Christi natalis media quasi luce diei
    Terra dedit gemitus rugiens, tremuitque frequenter;
    Tecta cadunt, urbes quassantur, templa ruerunt;
    Exanimes dominos fecerunt moenia multos;
    Flumina mutarunt cursum repetentia fontes.

      L'anno mille e dugento e venti e due
    Dacchè vestisti le mortali spoglie,
    Queste rifulser maraviglie tue,
    O Re di quanto in terra e in ciel s'accoglie.
      L'arso Lion suo regno al fin volgea
    E il crin chiomata stella all'aura sciolse;
    La vergine dal grembo acque scotea
    E i tralci e l'uve ne percosse e tolse;
      E l'onde in fiume accolte, alto, vorace,
    Del colono atterraro il dolce albergo;
    Vide lo Scorpio la notturna face
    Ritrarsi oscura della terra a tergo;
      E in mezzo al dì che a noi ti fe' palese,
    Scossa tremò fra gemiti la terra,
    Mugghiò, ruggì a lunghe e più riprese
    Come ne fosse ogni elemento in guerra.
      Case crollar, crollar cittadi e tempi;
    Su l'ospite l'ostel di sè fe' monte,
    E i fiumi ancor con inauditi esempi
    Fuggir ritrosi a ricercar lor fonte.

Mia madre era usa a dirmi che quando tirò quel terremoto io era
nella mia cuna: ed essa si pigliò le mie due sorelle, ciascuna sotto
un'ascella, perocchè erano piccine. E, lasciato me nella cuna, corse
a casa di suo padre, sua madre e suoi fratelli, per timore, come essa
diceva, che le cascasse addosso il battistero, che era lì accanto a
casa mia. E perciò io non l'amava tanto caramente perchè doveva curarsi
più di me, come maschio, che delle femmine. Ma essa diceva che le
poteva portar meglio perchè grandicelle.


a. 1223

L'anno 1223 il 1º di Maggio i Mantovani sorpresero i Cremonesi, che
conducevano quasi cento barche onerarie cariche di sale, e le posero a
guasto e a ruba e le colarono in un fondaccio del Bondeno[15].


a. 1224

L'anno 1224 i Mantovani vennero con navi ad assediare la strada
Reggiana nelle paludi e sopra la Tagliata e fecero cataste di legne per
abbruciare i ponti e le navi, che erano in Ranfreda[16]. E fu allora
che morì Giacomo da Palù, il quale fu cagione di gran discordia tra
que' da Palù e[17] que' da Fogliano.


a. 1225

L'anno 1225 si fece una tregua tra' Reggiani e Mantovani per
intromissione di Ravanino Bellotti di Cremona Podestà di Reggio.


a. 1226

L'anno 1226 ai 4 di Ottobre, sabbato a sera, il beato Francesco
istitutore e guida dell'Ordine de' frati Minori passò dal naufragio di
questa vita alle sfere celesti; e fu sepolto la domenica in Assisi,
fregiato delle Stimmate di Gesù Cristo, vent'anni dopo il principio
della sua conversione. Perocchè cominciò l'anno 1207 sotto Innocenzo
III Papa, di cui si canta:

    Coepit sub Innocentio,
    Cu sumque sub Onorio
            Perfecit gloriosum.

    Succedens his Gregorius
    Magnificavit amplius
            Miraculis formosum.

    Raggiar vide Innocenzo l'alma stella,
    Che sotto Onorio il ciclo ognor più bella
                      Compì gloriosa.

    Gregorio a lor successe, e a niun secondo,
    Per opre e per virtù mostrolla al mondo
                      Maravigliosa.

Parimente l'anno stesso morirono nel territorio di Canossa Ugolino da
Fogliano[18] e Guido da Baiso[19].


a. 1227

L'anno 1227 fu gran caristia di biade e di ogni vittovaglia, sicchè lo
staio del frumento si vendeva 12 sino a 15 soldi imperiali correnti; lo
staio della spelta 5, 6 soldi imperiali; lo staio della melica 8 soldi
imperiali, e la libbra di carne di maiale 12 soldi imperiali.


a. 1228

L'anno 1228 i Bolognesi col loro carroccio andarono attorno al castello
di Bazzano[20], e contro loro corsero i Modenesi, i Parmigiani e
i Cremonesi, e misero a fuoco le terre de' Bolognesi, e arrivarono
sino nell'alveo del Reno, ove abbeverarono i loro cavalli. E quando
tornavano indietro passando per Strada, i Bolognesi andarono loro
incontro nella contrada di S. Maria in Strada[21], e s'ingaggiò tra
loro un fierissimo combattimento, onde molti ne furon morti dell'una e
dell'altra parte. Nel detto anno, mentre i Bolognesi stavano attorno
a Bazzano, i Modenesi, Parmigiani e Cremonesi presero e bruciarono
Piumazzo[22]. L'anno stesso, il dì di S. Cristoforo, cominciò a
nevicare smodatamente; e sino a quel giorno era stato un sì bel tempo,
e l'inverno tanto caldo che le strade ne erano polverose. E nel detto
anno fu celebrata la prima messa nella chiesa della S. Trinità di
Campagnola dal Cardinale Ugolino, che era direttore, protettore e
censore dell'Ordine de' frati Minori, e facente funzioni di Legato in
Lombardia. E morì Onorio; e l'anno stesso fu eletto Papa il prenominato
Cardinale Ugolino d'Anagni, e fu chiamato Papa Gregorio IX. Questo
Gregorio distrusse cinque volumi di decretali, e ne serbò materia
per uno solo. Costui fu eziandio lungo tempo in rotta coll'Imperatore
Federico II, che fece tanti danni a quella Chiesa di Dio, che lo aveva
allevato e coronato; sicchè per poco sotto il prenominato Papa la nave
di Pietro non ebbe a naufragare. Questo è quel che disse dei Pontefici
romani l'abbate Gioachino, cioè che alcuni avranno a usar gran forza
per tener testa ai Principi, altri passeranno i loro giorni in pace. Di
fatto Alessandro III, Innocenzo III, Gregorio IX, e Innocenzo IV ebbero
molte e dure lotte coi Principi della terra; Onorio III, Alessandro
IV, e Clemente IV vissero in pace. Così il patrimonio di S. Pietro
fu quasi tutto occupato dall'Imperatore Federico; e per la nequizia
dell'Imperatore stesso molti prelati e Cardinali corsero molti pericoli
in terra e in mare. Anche l'Ungheria in quell'anno fu assai devastata
dai Tartari[23] e dai Cumani[24]. Questo Papa inoltre scomunicò i Greci
perchè hanno un'erronea opinione intorno all'origine dello Spirito
Santo, e perchè non vogliono obbedire al Capo della santa romana
Chiesa. Lo stesso anno ai 16 di Luglio il beato Francesco fu ascritto
all'albo dei Santi e fu canonizzato dallo stesso Papa, che canonizzò
anche la beata Elisabetta, figlia del Re d'Ungheria e moglie del
Langravio di Turingia, la quale, tra altri innumerevoli miracoli......
risuscitò 16 morti e diede la vista ad un cieco nato, e dal suo corpo
sino ad oggi si vede stillare olio. Questa Santa, dopo la morte del
marito, visse sotto l'obbedienza de' frati Minori, dei quali fu sempre
devota.


a. 1229

L'anno 1229 i Bolognesi assediarono nel mese d'Agosto il castello di
S. Cesario[25], e lo presero sotto gli occhi stessi de' Parmigiani,
Modenesi e Cremonesi, che ivi erano co' loro eserciti. Perocchè i
Bolognesi s'erano fatto un trincieramento, sicchè quelli che erano
di parte contraria, non potevano avvicinarvisi. Vi fu però una notte
gran combattimento tra loro e i Bolognesi. Ma questi avevano sui carri
manganelle, arnesi fino allora inusati ne' combattimenti, e scagliavano
sassi contro il carroccio de' Parmigiani e contro le milizie loro
alleate. Perciò il carroccio restò senza uomini a difenderlo, tranne
Giacomo Boveri, a cui gridando i suoi che discendesse per non restare
ucciso, esso se ne gloriava dicendo di morir volentieri ad onore del
Comune di Parma. Ma l'Ecclesiaste VI dice: _Non essere stolto per non
morire fuori del tuo tempo. — Perocchè è prudenza temere tutto ciò che
può avvenire_, dice S. Girolamo. Tuttavia non restò ucciso, perchè
il carroccio de' Parmigiani fu prontamente soccorso dai Cremonesi;
chè Parmigiani e Cremonesi si amavano allora intimamente. Difatto
in un altro combattimento, quando i Cremonesi ritornando dal Reno
s'incontrarono co' Bolognesi e s'azzuffarono e furono sconfitti presso
S. Maria in Strada, ebbero prontissimo aiuto dai Parmigiani, che pur
essi tornavano dal Reno. Noto che in questa guerra si aveva anche
fanteria, ma al combattimento presso Santa Maria in Strada non prese
parte che la sola cavalleria. Nella battaglia.... a S. Cesario.... morì
Bernardo di Oliviero di Adamo parmigiano, giudice facondo, e valente
guerriero. La sua salma fu trasportata a Parma e posta nel battistero
che era presso casa sua, e vi si lasciò sul feretro sino a che vi si
raccolsero attorno i parenti e gli amici; poscia fu deposta nel suo
monumento davanti alla porta della chiesa di S Agata[26], che è una
cappella contigua alla chiesa Maggiore di Parma sul fianco meridionale.
Questi era cugino di mio padre da parte di fratello; perocchè erano
figli di due fratelli. E mio padre era Guido di Adamo, bell'uomo e
robusto, che una volta, prima che io nascessi, andò oltre mare per la
liberazione di Terra Santa, a tempi di Baldovino conte di Fiandra,
della cui spedizione ho già parlato più sopra. Ed ho saputo da mio
padre che altri lombardi in quelle contrade d'oltremare interrogavano
gli indovini intorno allo stato delle loro famiglie, ma che egli non
volle mai interrogarli; e quando tornò, trovò casa sua in tale stato
che era una consolazione; e gli altri tutto di tristo trovarono, come
avevan detto gli indovini. Da lui ho saputo anche che per bello e per
buono fu lodato assai, sopra quanti ne aveva la sua compagnia, quel suo
destriero, che seco condusse in Terra Santa. Mi raccontava poi anche
che quando si ponevano le fondamenta del battistero, egli di sua mano
vi pose pietre commemorative; e che ove fu edificato il battistero,
ivi erano le casamenta de' miei parenti, i quali, dopo l'atterramento
delle loro case, andarono a Bologna, ove ottennero la cittadinanza,
e vi si chiamavano que' della _Cocca_. Quelli però del mio casato in
antico si chiamavano Grenoni, come ho trovato in vecchie pergamene;
poi sono stati detti di Adamo. Vi furono altri in Parma detti Greloni,
scritto coll'_l_, che abitavano in co' di ponte, sulla strada che va
a Borgo San Donnino, i quali davanti alla porta di casa avevano un
olmo diventato famoso, e si diceva l'olmo di Giovanni Grelone. Quando
dunque si dice che Oliviero Grenoni fondò il consorzio di S. Maria in
Parma, fu Oliviero di Adamo, padre del giudice sunnominato. Imperocchè
Adamo Grenoni ebbe due figli; l'uno detto Oliviero di Adamo; l'altro
Giovanni di Adamo. Di Oliviero di Adamo nacquero due figli, cioè:
Bernardo di Oliviero il sunnominato giudice, e Rolando di Oliviero.
Da Bernardo di Oliviero poi vennero Leonardo, Emblanato, Bonifazio e
Oliviero, quattro maschi; e quattro femmine, cioè: Aica, che è monaca
di S. Paolo, Ricca, e Romagna, che è suora a Bologna nel monastero di
S. Chiara, e Mabilia che morì nubile. Da Rolando di Oliviero nacquero
sei figli: Bartolomeo, Francesco, Oliviero, Guido, Pino e Rolandino; e
due figlie: Mabilia e Alberta. Giovanni di Adamo poi ebbe due figli,
cioè: Adamino, che diventò uomo valente, cortese, splendido, e non
lasciò figli; e Guido di Adamo, che ebbe quattro figli; primo de'
quali fu Guido di Adamo, che stette sino alla morte nell'Ordine de'
frati Minori. Questi ebbe per moglie una nobil donna di nome Adelasia,
figlia di Gerardo Baratti; d'onde ebbe una figlia sola detta suor
Agnese. Ambedue, madre e figlia chiusero lodatamente i loro giorni
nel monastero dell'Ordine di S. Chiara in Parma. Frate Guido poi nel
secolo fu marito, padre e giudice, e nell'Ordine de' frati Minori fu
sacerdote e predicatore. Questi Baratti si recano a gloria la loro
parentela colla Contessa Matilde, e si vantano d'aver quaranta del
loro casato sotto le armi a servizio del Comune di Parma. Il secondo
figlio di Guido di Adamo fu Nicolò, che morì ragazzo, secondo quel
detto: _Fu tronco lo stame di vita mia mentre era ancora in orditura._
Il terzo figlio fu quell'io che scrive, frate Salimbene, che giunto
al bivio della lettera pitagorica[27], cioè al terzo lustro compito,
sendo che tre lustri chiudono il ciclo delle indizioni, mi feci
frate dell'Ordine de' Minori, nel quale vissi molti anni sacerdote e
predicatore, e molte cose vidi, e abitai in molte provincie, e molte
cose imparai. Nel secolo io era chiamato da alcuni Baliano di Saetta,
e volean dire di Sidone, dal nome del prenominato personaggio, che mi
fu padrino al fonte battesimale; ma i compagni mi chiamavano Ognibene;
e con tal nome fui ammesso nell'Ordine per un anno intero. Andando poi
dalla Marca d'Ancona ad abitare in Toscana, e _passando_ per la città
di Castello[28], trovai in un romitaggio un nobile frate, antico e
pieno d'anni e di meriti, che aveva nel secolo quattro figli militari,
ed era stato come mi disse, l'ultimo frate che il beato Francesco
aveva vestito e ricevuto nell'Ordine. Questi all'udire ch'io avevo
nome Ognibene, rimase stupefatto e disse: Figlio, nessuno è buono,
tranne Dio solo. Del resto tuo nome sia frate Salimbene, perchè _tu
bene_ salisti, entrando in religione. E me ne rallegrai, intendendo
che era mosso da ragioni, e vedendo che mi si imponeva il nome da
così santo uomo. Però non ebbi quel nome che mi sarebbe stato tanto
caro. Io avrei voluto esser chiamato Dionigi, non solo per reverenza
a quell'esimio dottore, che fu discepolo dell'Apostolo Paolo, ma anche
perchè nacqui il dì di S. Dionigi. E così ebbi a vedere l'ultimo frate,
che il beato Francesco ricevette nell'Ordine, dopo il quale altri
nessuno ricevette, nè vestì. Vidi anche il primo, cioè frate Bernardo
di Quintavalle, col quale ho coabitato un inverno nel convento di
Siena; e fu mio intimo amico, e raccontava a me e ad altri giovani
molte e grandi meraviglie del beato Francesco: e da lui imparai molte
e buone cose. Mio padre, durante tutta vita sua, si dolse del mio
ingresso nell'Ordine de' frati Minori; nè mai se ne racconsolò, perchè
non aveva altro figlio da lasciare erede. Anzi, venuto a Parma allora
l'Imperatore, a lui sporse querela che i frati Minori gli avessero
rapito il figlio. Perciò l'Imperatore scrisse a frate Elia ministro
Generale dell'Ordine de' Minori che, se tenevasi cara la sua grazia,
lo esaudisse restituendo me a mio padre. Perocchè era stato frate Elia,
che mi aveva ricevuto nell'Ordine, quando l'anno 1238 egli, mandato da
Papa Gregorio IX, andava a Cremona dall'Imperatore. Allora mio padre
corse ad Assisi[29] ove era frate Elia, e gli presentò la lettera
dell'Imperatore, che cominciava così: _Per mitigare il dolore di Guido
di Adamo, nostro fedele_, ecc. E frate Illuminato, che era in quel
tempo segretario di frate Elia, e trascriveva in un quaderno a parte
tutte le lettere più cospicue, che i principi della terra inviavano al
ministro Generale, mi fece vedere una tal lettera, quando in processo
di tempo ebbi ad abitare seco nel convento di Siena. Questo frate
Illuminato fu poi anch'esso ministro della provincia di S. Francesco,
e poi, fatto vescovo di Assisi, ivi morì. Frate Elia, letta la lettera
dell'Imperatore, scrisse subito ai frati del convento di Fano, dove
io abitava, che, se non si violentasse la mia volontà, in virtù di
santa obbedienza, senza frappor tempo in mezzo, mi restituissero tosto
a mio padre; ma che però se io non volessi ritornare con mio padre,
mi tenesser caro come la pupilla del loro occhio. Arrivarono pertanto
con mio padre molti cavalieri vicino al luogo ove era il convento di
Fano per veder la cosa finire. Ai quali io fui fatto spettacolo; ma
per me fu causa della mia salute. Radunati adunque i frati con que'
secolari in capitolo, e dette molte parole dall'una parte e dall'altra,
mio padre tirò fuori la lettera del ministro Generale, e la mostrò
ai frati. E, lettala, frate Geremia custode del convento, a udita di
tutti, rispose a mio padre: Signor Guido, noi non siamo insensibili
alla voce del vostro dolore, e siamo pronti ad obbedire alla lettera
del padre nostro. Or dunque vostro figlio è qui; l'età gli conferisce
il diritto di disporre di se stesso; parli; interrogatenelo. Se vuol
venir vosco, in nome del Signore ei se ne venga; ma se non vuol venire,
noi non possiamo fargliene violenza. Mio padre allora mi domandò se io
volessi ir seco. A cui io risposi; No; perchè il Signore dice in Luca
IX: _Niuno, il quale, messa la mano all'aratro, riguarda indietro, è
atto al regno di Dio._ E mio padre soggiunse: Tu non ti curi di tuo
padre, nè di tua madre, che sono afflitti per te da tanti dolori.
Ed io replicai: Veramente non me ne curo, perchè il Signore dice in
Matteo X: _Chi ama padre e madre più che me, non è degno di me._ E
anche di te dice: _Chi ama figliuolo, o figliuola più di me, non è
degno di me._ Tu devi dunque, o padre mio, dare ascolto alla voce
di colui, che fu appeso alla croce per conquistarci la vita eterna.
Imperocchè è quel desso che dice in Matteo X: _Io son venuto a mettere
in discordia il figliuolo contro al padre, e la figliuola contro alla
madre, e la nuora contro la suocera. Ed i nemici dell'uomo saranno i
suoi famigliari stessi. Ogni uomo adunque, che mi avrà riconosciuto
davanti agli uomini, io altresì lo riconoscerò davanti al padre mio,
che è ne' cieli; ma chiunque mi avrà rinnegato davanti agli uomini,
io altresì lo rinnegherò davanti al padre mio, che è ne' cieli._ E se
ne meravigliavano i frati, e ne godevano ch'io dicessi tali cose a
mio padre. Il quale disse ai frati: Voi feste incantesimo al figlio
mio, e lo traeste in inganno inducendolo a non fidare in me. Moverò
contro voi nuove querele all'Imperatore e al ministro Generale. Del
resto permettetemi di parlare col figlio mio in disparte e senza che
voi siate presenti; e vedrete che incontanente verrà con me. E i frati
acconsentirono ch'io parlassi con mio padre all'infuori della loro
presenza, perchè pel linguaggio già tenuto da me, fidavano sulla mia
fermezza. Ascoltavano però di dietro a una parete i discorsi che tra
noi due si alternavano; e tremavano come giunchi in acqua per timore
che mio padre co' suoi blandimenti mi piegasse. E non solo temevano per
la salute dell'anima mia; ma eziandio perchè il mio ritiro poteva dare
motivo ad altri di non entrare nell'Ordine. Disse adunque mio padre
a me: Figlio mio diletto, non prestar fede a questi pisciintonaca di
frati (cioè che scompisciano le tonache), che ti fecero inganno; ma
vienne meco, e te ne darò ogni mio avere. Ma io risposi: Vanne, vanne,
o padre mio. La sapienza dice ne' Proverbi III: _Non impedire di fare
il bene a chi lo può: se puoi fallo anche tu._ E il padre mio colle
lagrime agli occhi mi rispondeva dicendo: Che avrò dunque a dire alla
madre tua, che è per te in continua afflizione? E gli replicai: Le
dirai da parte mia: _Il padre mio e la madre mia mi abbandonarono; ma
il Signore mi accolse tra le sue braccia._ Ed il Signore dice anche
in Geremia III: _Tu mi chiamerai padre, e non cesserai di venire
dietro a me._ E in Geremia III: _È un bene per quell'uomo, che si sarà
sottomesso a disciplina sino dalla sua adolescenza._ Udendo mio padre
queste risposte, e disperando del mio ritorno a casa, si gettò a terra
al cospetto dei frati e dei secolari, che l'avevano accompagnato, e
disse: Vanne a mille diavoli, maledetto figlio, e teco venga questo
tuo frate, che è qui teco, e t'ha ingannato. La mia maledizione pesi
sopra di voi in perpetuo, e vi getti in potere degli spiriti infernali.
E si partì oltremisura turbato. Ma noi ne restammo assai consolati
ringraziandone Iddio e dicendo: _Quelli ne malediranno, e tu ne
benedirai. Perocchè chi è benedetto sopra la terra, sarà benedetto in
seno a Dio, e così sia._ Si ritirarono pertanto anche i secolari assai
bene edificati della mia costanza. Ma anche i frati se ne rallegrarono
vivamente, perchè il Signore aveva mostrato la sua potenza per mezzo di
me suo fanciullo; e conobbero la verità di quelle parole del Signore,
che dice in Luca XXI: _Mettetevi adunque in cuore di non premeditare
come risponderete a vostra difesa; perciocchè io vi darò bocca e
sapienza, alla quale non potranno mai contrastare, nè contradire
tutti i vostri avversari._ La notte susseguente poi me ne ricompensò
la Vergine Beata. Mi pareva di essere in preghiera chinato a terra
davanti l'altare, e udii la voce della beata Vergine, che mi chiamava.
Alzata la fronte, vidi la beata Vergine seduta sull'altare, nel luogo
appunto in cui si colloca l'ostia e il calice. E aveva il suo bambino
in grembo, e me lo sporgeva dicendo: Accostati e sta sicuro, e bacia
il figlio mio, cui tu ieri riconoscesti al cospetto degli uomini. Ma
standomi io in atteggiamento di timida reverenza, vidi che il bambino
stendeva le braccia festosamente aspettandomi. Fidente allora nella
festevolezza e nella innocenza del bambino, non meno che in tanta
degnazione della madre sua, m'accostai, e lo abbracciai, e lo baciai;
e la madre sua benigna per buon tratto me lo lasciò tra le braccia. Ma
non potendo soddisfare intera l'insaziabilità della mia brama, la beata
Vergine mi benedisse e soggiunse: Vanne, figlio diletto, e riposa,
chè i frati che si alzano pel mattutino non ti trovino qui con noi.
Posai, e la visione disparve; ma nel mio cuore ne rimase una ineffabile
dolcezza; e veramente confesso che non ebbi mai nel secolo a provare
tanta delizia. Il che mi fece riconoscere la verità di quel detto
della scrittura, che dice: _Per chi gusta lo spirito, non han sapore
le cose carnali._ In quel torno, mentre io era ancora in Fano, vidi in
sogno che un figlio di Tommaso Armari parmigiano uccideva un monaco,
e contai il sogno al mio frate. Dopo pochi dì passava da Fano Amizone
Amici, che andava in Puglia a prender dell'oro, e venne al convento de'
frati, e mi fece visita perchè era un noto mio buon amico e vicino.
E allora, girando col discorso alla larga, arrivai a domandare che
fosse di quel tale (si chiamava Gerardo de' Senzanesii), e mi disse:
Gran guaio gli pende sul capo, perchè l'altro dì ha ucciso un monaco.
D'onde conoscemmo che talvolta i sogni sono veridici. Così pure intorno
a quel tempo, quando mio padre passò da Fano per andare ad Assisi, i
frati nascosero me e il mio frate per più giorni in casa di Martino
di Fano, dottore di leggi; ed il suo palazzo era a mare. E talora
veniva da noi, e con noi parlava di Dio e della divina Scrittura, e sua
madre ne serviva il pranzo. Io poi, in processo di tempo, cioè quando
Giacomo de' Penazzi era Podestà di Reggio e di Sesso, avuta autorità
di eleggere un savio di qual paese mi piacesse, che accordasse in una
certa questione Reggiani e Bolognesi, memore del beneficio ricevuto
elessi lui. I Reggiani ne furono ben soddisfatti, ed egli ebbe poi
stipendio da' Modenesi per insegnar leggi in Modena. In seguito,
forse due anni dopo, i Genovesi lo elessero loro Podestà. Compiuto il
tempo di questo suo ufficio, entrò nell'Ordine de' frati Predicatori,
e vi chiuse lodata la sua vita. Perocchè ardeva a que' dì nella sua
terra natale una gran guerra. E mentre viveva ancora nell'Ordine
de' Predicatori, alcuni lo nominarono vescovo della sua città. Ma
i Predicatori non volendolo perdere, non gli permisero di accettare
l'episcopato. Io gli feci visita a Rimini nel convento de' Predicatori;
e congratulandomi secolui e rallegrandomene, dissi: Tu hai fatto ora
quello che una volta disse il Patriarca Giacobbe, cioè: _È giusto che
talvolta io provvegga anche a casa mia._ Ed ebbe molto a grado questa
citazione, e volle notarla. Egli sarebbe entrato nell'ordine de' frati
Minori, se non ne l'avesse dissuaso il nostro confratello Taddeo di
Buoncompagno, il quale essendo vessato dai frati perchè restituisse il
mal tolto, se voleva essere riammesso in convento, disse a Martino:
Tanto faranno anche a te se entrerai nell'Ordine. E così Martino per
timore si diede all'Ordine de' Predicatori; e forse fu meglio per
lui e per noi. A quel tempo stesso frate Elia avendo saputo ch'io
aveva mostrata fortezza di proposito e m'era fermato nell'Ordine, mi
mandava un saluto e un segno della sua grazia, notificandomi che se mi
fosse piaciuto abitare in qualche altra provincia dell'Ordine, glielo
facessi sapere, chè egli avrebbe subito disposto ch'io andassi dove
volessi. E gli feci conoscere che avrei desiderato appartenere alla
provincia di Toscana. Erano allora meco in convento a Fano due frati
Toscani, dal cui consiglio mi lasciai guidare: ed erano frate Vitale da
Volterra, che era ripetitore di frate Umile da Milano nostro lettore;
e frate Mansueto da Castiglione Aretino, che diventarono poi lettori
e uomini di gran valore nell'Ordine. E siccome il convento dei frati
Minori di Fano era fuori di città a mare, e mio padre aveva promesso
denaro ai corsari d'Ancona se mi rapissero, trovandomi a passeggio
sulla spiaggia, come anche n'avea promesso ai famigli del Podestà di
Fano, che erano venuti là da Cremona, io andai per una quaresima ad
abitare nel convento di Jesi, finchè dopo Pasqua arrivò la lettera del
ministro Generale. Jesi è la città, ove è nato l'Imperatore Federico,
il quale, corse fama, che fosse figlio di un beccaio di Jesi; perchè
donna Costanza Imperatrice era molto innanzi negli anni[30] quando
l'Imperatore Enrico la sposò; nè, a quanto si dice, ebbe mai altro
figlio nè figlia che questo. Laonde si diffuse voce che, ricevutolo
dal padre vero dopo una simulata gravidanza, se lo pose sotto per
farlo credere partorito da lei. E tre cose mi persuadono che sia
vero: 1. perchè ricordo d'aver letto che ciò fecero più altre donne;
2. perchè Merlino scrisse di lui: _Federico II di nascita insperata e
miracolosa_; 3. perchè Re Giovanni, che fu Re di Gerusalemme e suocero
dell'Imperatore, un dì con animo irato e ciglia agrottate, in sua
lingua francese, lo chiamò figlio di un beccaio, perchè voleva uccidere
Gualterotto suo consanguineo. E perchè non poteva avvelenarlo, gli era
necessità ucciderlo di spada, quando sedesse a giocare agli scacchi
coll'Imperatore, perchè questi temeva che non avvenisse caso, in cui il
regno di Gerusalemme si devolvesse a Gualterotto. Re Giovanni lo seppe;
e andò, prese per un braccio il nipote, che giocava coll'Imperatore, lo
tirò lungi dal tavolo del gioco, e bruscamente nel suo francese lanciò
all'Imperatore questo rimprovero: _Figlio d'un diavolo di beccaio._
E l'Imperatore s'intimidì, e non osò risponder verbo; perocchè
Re Giovanni era alto di statura e tarchiato, e robusto e destro a
battersi, tanto da essere creduto un altro Carlo figlio di Pipino.
E quando in guerra colla clava ferrata batteva colpi a destra e a
sinistra, fuggivano i Saraceni dal suo cospetto, come se avessero visto
il diavolo, o un leone all'assalto per divorarli. Di fatto a suo tempo
correva voce che non vi fosse soldato migliore di lui. Laonde in lode
sua e di maestro Alessandro, che era il più dotto chierico del mondo,
e apparteneva all'Ordine de' frati Minori, ed insegnava a Parigi, fu
composta una canzone parte in francese e parte in latino, ch'io stesso
cantai molte volte, e incominciava così: _Avent tutt mantenent n....
piz._ Questo Re Giovanni, quando i suoi gli vestivano le armi prima di
andare alla battaglia, tremava come giunco in acqua; ed interrogato
talvolta perchè tremasse, egli che in guerra era robusto e poderoso
combattente, rispondeva che del corpo suo non si pigliava pensiero; ma
temeva che non fossero giusti i conti dell'anima sua con Dio. Questo
è quello che dice la Sapienza ne' Proverbi 28: _Beato l'uomo che si
spaventa del continuo; ma chi indura il suo cuore caderà nel male._
E l'Ecclesiastico 18: _Il sapiente teme sempre._ Anche S. Girolamo
dice: _È prudenza temere tutto ciò che può accadere._ Ma i peccatori
temono quando non c'è ragion di temere; e quando c'è di che temere
(cioè l'offesa di Dio) allora non temono, siccome temeva Giobbe, che
di sè stesso diceva 31: _Perocchè temei sempre Dio come una piena di
acque sospesa sopra di me, e la maestà di Lui non poteva io sostenere._
Tale fu Re Giovanni. Perciò gli accadde ciò che dice l'Ecclesiastico
33: _A chi teme il Signore nulla avverrà di male, ma nella tentazione
Iddio lo salverà e lo libererà dai mali._ E così fu. Perocchè si fece
frate Minore, e sarebbe stato nell'Ordine per tutta vita sua, se la
vita gli avesse data lunga Iddio. Lo ammise all'Ordine, e gli fece
la vestizione il ministro della Grecia frate Benedetto di Arezzo,
santo uomo. Questo Re Giovanni fu avo materno del Re Corrado figlio
dell'Imperatore Federico. Un'altra figlia di Re Giovanni si maritò con
Baldoino Imperatore di Costantinopoli, dopo la cui morte Re Giovanni
fu Balì dell'impero pel nipote ancor minore. Quando questo Re Giovanni
sguainava la spada e nel forte della pugna si infiammava, nessuno
osava star di piè fermo al suo cospetto, ma lo fuggivano vedendo quanto
vigoroso e prode guerriero ei fosse. A cui si può applicare quel che
di Giuda Macabeo leggiamo I. 3: _Egli nel suo fare era simile ad un
leone, e ad un lioncello che rugge veggendo la preda._ Ricevuta adunque
la lettera di frate Elia ministro Generale, partii per la Toscana,
e vi abitai ott'anni; due a Lucca, due a Siena, quattro a Pisa. Nel
primo anno della mia dimora a Lucca scadde da ministro Generale frate
Elia, e fu creato frate Alberto da Pisa. E il sole si ecclissò, come
vidi io co' miei occhi, nel mattino dei 3 Giugno a nona 1239. Quando
io abitava in Pisa era giovinetto, e mi condusse una volta a cerca del
pane un certo frate laico, sporco e d'animo leggero, ed era Pisano, che
poi andato ad abitare nel convento di Fiesole, non so per quale follia
o disperazione si gettò nel pozzo, d'onde lo estrassero i frati; ma
pochi giorni dopo, sparve, e non fu possibile rinvenirlo in nessuna
parte del mondo. Perciò i frati sospettarono che se l'avesse portato
via il diavolo; egli se lo saprà. Essendo io dunque secolui in Pisa,
e andando insieme colle nostre sporte a questua di pane, c'imbattemmo
in un cortile, nel quale entrammo tutt'e due; ed eravi una vite
frondosa, tutta distesa al di sopra, il cui verde era dilettevolissimo
a vedere, e sotto all'ombra era una soavità a riposare. Ivi erano
leopardi e molte altre fiere d'oltremare, che lungamente guardammo,
perchè ogni cosa nuova e bella si guarda volentieri. Eranvi anche
fanciulli e fanciulle di età già idonea, a cui la ricchezza delle
vesti, e l'avvenenza del volto aggiungevano ornamento ed amabilità.
Ed avevano in mano, sì gli uni che le altre, violoni, viole, cetre e
diversi altri strumenti musicali, da cui traevano dolcissimi suoni, e
li accompagnavano con una mimica appropriata. Ivi nessuno si moveva,
nessuno parlava: tutti ascoltavano in silenzio. E il canto era sì nuovo
e delizioso e per le parole, e per la varietà delle voci e il metodo
di cantare, che inondava il cuore di giocondità. Nulla dissero a noi;
nulla noi dicemmo a loro. E la musica tanto vocale che instrumentale
non cessò mai per tutto il tempo che ci fermammo là; e ci stemmo
gran tempo e non sapevamo dipartircene. Non so (sallo Iddio) d'onde
venisse tale apparato di tanta letizia; perocchè nè prima ne avevamo
mai visto un simile, nè dopo ne fu mai dato vederlo. Usciti di là, mi
venne incontro un uomo, ch'io non conosceva, e che si disse parmigiano;
e cominciò a trattenermi, e a sgridarmi acremente, e ad insultarmi,
e a dire: Vanne, vanne, o miserabile. Molti mercenarii in casa di
tuo padre hanno abbondanza di pane e di carne; e tu vai di porta in
porta a mendicare il pane da chi non ne ha, mentre tu potresti darne
di tuo a molti poveri. Sarebbe meglio che tu ora sul tuo destriero
caracollassi per Parma, e rendessi lieti i tristi, con torneamenti, e
fossi spettacolo alle donne e solazzo agl'istrioni. Sappi che tuo padre
è consunto dal dolore, e tua madre, perchè non può più veder te, che
sei il suo amore, quasi più non ispera in Dio. A cui io risposi: Vanne
tu, miserabile che sei, vanne; tu non sai di quelle cose, che sono
di Dio, ma soltanto di quelle che sono degli uomini carnali. Ciò che
dici, la carne e il sangue lo rivelò a te, non già il padre celeste.
Invero consigliando tu tali cose, tu credi dir bene; ma non t'avvedi
che sei misero, e povero, e cieco, e nudo. Perocchè dei peccatori del
mondo dice la divina Scrittura: _Camminarono al seguito della vanità,
e diventarono vani. Vanità di vanità,_ dice la Sapienza, _e tutto
vanità._ E altrove: _Nella vanità s'affrettarono a venir meno i giorni
e gli anni loro._ E soggiunge Giobbe 21: _Essi alzano la voce col
tamburo e con la cetera; e si rallegrano al suon dell'organo; logorano
la loro età in piacere, e poi in un momento scendono nel sepolcro._
Ma perchè l'uomo animale non sente le cose che sono dello spirito di
Dio (perocchè è stolto e non può intendere), udite queste mie parole,
partì confuso per non saper che rispondere. Pertanto terminata la
nostra questua, cominciai la sera a pensare e ripensare nella mia mente
quelle cose che avevo vedute e udite, perchè se avessi avuto a vivere
nell'Ordine cinquant'anni così questuando, non solo sarebbe stato
per me troppo lunga carriera, ma eziandio una fatica che mi avrebbe
fatto diventar rosso di vergogna, e sarebbe stata insopportabile alle
mie forze. E per tali pensieri avendo passato quasi tutta la notte in
veglia, quando piacque a Dio presi un po' di sonno, nel quale Iddio
mi mandò una bellissima visione, che mi diede una consolazione, una
giocondità, una dolcezza ineffabile. E allora conobbi che è necessario
l'aiuto di Dio, quando più non può l'aiuto dell'uomo. E così mi pareva
di andare da porta a porta in cerca del pane, come sogliono fare i
frati; e camminava per via S. Michele di Pisa dalla parte dei Visconti;
perchè dall'altra parte i mercanti parmigiani avevano una casa, ove
ospitavano, detta dai Pisani _Fondaco_, e da quella mi teneva lontano,
in parte per vergogna, non essendo io ancora bene fortificato in
Cristo, e perchè chi teme Dio, nulla trascura; in parte perchè temeva
di udirmi dire, a nome di mio padre, parole, che scuotessero il mio
proponimento. E mio padre, vita sua durante, mi ha sempre tentato,
mi ha sempre tese insidie per togliermi dall'Ordine di S. Francesco;
nè mai s'è riconciliato meco perseverando sempre nella sua durezza.
Scendendo poi dalla parte dell'Arno per borgo S. Michele, ecco che
d'improvviso guardai e vidi il Figlio di Dio, che usciva d'una casa,
e mi portava pane, e me lo poneva nella sporta. Altrettanto faceva
la beata Vergine, altrettanto Giuseppe nutricatore del bambino Gesù,
e che aveva sposata la beata Vergine, seguitando finchè fu terminata
la cerca e piena la sporta. È di uso in quel paese che la sporta
si lascia a pie' delle scale, coperta di un panno e il frate sale a
domandare il pane, e' lo porta giù e lo ripone nella sporta. Quando poi
fu terminata la cerca e piena la sporta, il Figliuol di Dio mi disse
ecc.... La visione adunque or ora raccontata è vera, e nulla ha di
falso; ma qualche osservazione vi si aggiunse relativa al questuare,
quando maestro Guglielmo del Santo Amore fece un opuscolo, cui Papa
Alessandro IV riprovò e distrusse, perchè in quello diceva che tutti i
religiosi e predicatori della parola di Dio, che vivevano di limosina
non potevano salvarsi. Dopo dunque la predetta visione, mi feci così
saldo in Cristo, che quando venivano, mandati da mio padre, o istrioni,
o cavalieri, di que' che si dicono di curia, per distaccare il mio
cuore da Dio, io mi curava tanto di loro, come della quinta ruota del
carro. Un giorno venne uno da me, e disse: Vostro padre vi saluta, e
manda a dire che vostra madre vi vuole un giorno vedere anche a costo
d'aver a morire il giorno dopo. E credette d'aver detto cosa più che
potente a piegarmi. Ma sdegnato risposi: Partiti da me, o miserabile,
perchè io non ti darò più ascolto. Mio padre è Amoreo[31]; mia madre è
Cetea[32]. E ritirossi confuso, nè si vide più. Dopo otto anni passati
in Toscana andai nella provincia di Bologna, ove fui ricevuto e fatto
uno dei loro. E nel tempo che io abitava nel convento di Cremona, e
l'Imperatore Federico, già deposto dall'Impero, si trovava a Torino in
viaggio per Lione allo scopo di imprigionare il Papa coi Cardinali,
come era comune opinione, ed il figlio di lui Enzo era coi Cremonesi
all'assedio di Quinzano[33], castello dei Bresciani, Parma, la mia
città natale, si ribellò all'Impero, e si diede in tutto alla Chiesa,
e fu una domenica 16 Giugno 1247. E allora venni ad abitare a Parma,
dove era Legato Gregorio di Montelungo, che poi resse molti anni la
chiesa di Aquileia. E l'anno stesso essendo la mia città assediata
da Federico Imperatore deposto, partii per Lione e vi arrivai il dì
d'Ognissanti. E subito il Papa mandò cercandomi, e tenne meco in sua
camera famigliare colloquio, poichè dal tempo della mia partenza da
Parma sino a quel momento, nè eragli arrivato alcun messo, nè aveva
ricevuto lettere. E mi fece molte grazie, esaudì cioè le mie suppliche,
perchè era uomo cortese assai e liberale. Or diciamo ciò che resta
della mia parentela. Il quarto figlio di mio padre, natogli da una
concubina, che aveva nome Rechelda, fu chiamato Maestro Giovanni, ed
era bell'uomo e prode guerriero. Questi uscì volontario da Parma,
e fece adesione al partito imperiale. Ma poi pentitosene, fece il
pellegrinaggio di S. Giacomo di Compostella, d'onde ritornando, di
piena e sola sua volontà si fermò a Tolosa; e avutane la cittadinanza,
prese moglie, da cui ebbe figli e figlie. In seguito poi malò, e,
confessatosi dai frati, morì, e fu sepolto nel convento dei frati
Minori di Tolosa. Egli era tanto cortese e liberale, che soccorreva
di assai buon animo tutti gli italiani; li conduceva in casa sua
e dava loro lauti banchetti; specialmente ai conoscenti, ai poveri
ed ai pellegrini, i quali di ritorno poi mi riferivano queste cose.
Inoltre mio padre ebbe tre figlie, belle donne e nobilmente maritate.
La prima avea nome Maria[34]; la seconda Caracosa, che, mortole il
marito, entrò nel monastero dell'Ordine di S. Chiara in Parma; e,
dopo alcuni anni, si associò alcune suore del monastero di Parma, le
condusse a Reggio, dove non erano monache dell'Ordine di S. Chiara, e
fu loro Priora. Finalmente si fece esonerare dall'ufficio, e ritornò
al monastero di Parma, ove finì lodatamente la sua vita. Ella fu donna
amabile, saggia, onesta e cara tanto a Dio che agli uomini: l'anima sua
riposi in pace. La terza mia sorella fu Egidia, dalla quale nacquero
quattro figli, che morirono tutti, eccetto il primo, chiamato Andrea
da Puzulesio, e fu gran legista. La madre di mio padre, mia nonna,
aveva nome Ermengarda, donna saggia e morì centenaria. Con essa abitai
quindici anni in casa di mio padre; e quante volte mi consigliò di
schivare le male compagnie, e di farmene delle buone, e che fossi
savio, morigerato e buono, altrettante essa sia benedetta da Dio; e sì
che spesso lo faceva. Fu deposta nel sepolcro surricordato, comune a
noi e a quelli del nostro casato. Tuttavia mio padre ebbe un monumento
proprio e nuovo, in cui nessuno ancora era stato sepolto, nella piazza
vecchia, davanti alla porta del battistero, essendo il primo già tutto
occupato. La sorella di mio padre aveva nome Gisla, che, maritata, ebbe
due figlie Crisopola e Vilana, espertissime nel canto. Il padre loro
Martino di Ottolino degli Stefani fu uomo solazzevole, soave e giocondo
e passionato di ber vino; abilissimo a cantare con accompagnamento
di strumenti musicali; non però menestrello. Questi una volta gabbò
e canzonò in Cremona maestro Gerardo Patecelo, che fece un libro
intitolato i _Tristi_. E ben gli stette; se lo meritava. La madre di
frate Guido, mio fratello, fu Gisla Marsilii, che furono in antico
gentiluomini e potenti in Parma; e abitavano nella parte inferiore di
piazza vecchia accanto all'episcopio; famiglia numerosa assai, e de'
quali conobbi molti, e alcuni di loro vestivano di colore scarlatto,
specialmente quelli che erano giudici. Io aveva anche parenti da parte
di mia madre, che era figlia di Gerardo da Cassio, bel vecchio, e
morto, credo, centenario, sepolto nella chiesa di S. Pietro. Ed ebbe
tre figli: Gerardo che fece un libro intorno al comporre; perocchè fu
gran maestro di stile nobile; Bernardo uomo senza lettere, ma semplice
e puro; ed Ugo, uomo di lettere, giudice e assessore, solazzevole,
che era sempre in compagnia dei Podestà essendo loro avvocato.
Questi ebbe un figlio, che nell'Ordine de' frati Minori fu sacerdote
e predicatore, letterato, onesto, costumato e buon religioso; e si
chiamava frate Giacomo da Cassio, e morì in Sicilia, credo, a Messina.
Mia madre poi aveva nome Imelda, umile, devota, limosiniera, e che
spesso digiunava. Non fu mai vista in collera, non battè mai alcuna
sua fantesca. D'inverno voleva sempre, per amore di Dio, tener qualche
povera montanara a svernare in casa sua, e le dava vitto e vestito
quantunque avesse sempre altre persone pel servizio della famiglia.
Per lei Papa Innocenzo a Lione mi diede una lettera di ammissione
all'Ordine di S. Chiara. Ne diede un'altra a mio fratello Guido, quando
i Parmigiani lo mandarono inviato al Papa. Essa è sepolta nel monastero
di quelle donne dell'Ordine di S. Chiara; e l'anima sua per grazia
della misericordia di Dio riposi in pace; e così sia. Mia nonna, madre
di mia madre, aveva nome Maria, bella e paffuta, sorella di Aicardo
di Ugo di Aimerico, che furono in Parma giudici, ricchi e potenti, ed
abitano presso la chiesa di S. Giorgio[35]. E rifacendomi più indietro
dirò che Bernardo di Oliviero, e Rolando di Oliviero di Adamo, che
erano due fratelli germani, la cui madre aveva nome Vitella, ch'io ho
veduta centenaria, ebbero due sorelle, belle donne e saggie, ch'io ho
conosciute: e l'una aveva nome Giacoma, che sposò Guido Pecorari, e
non ebbe figli; l'altra Caracosa, che sposò Naimerio Panizzari, e le
nacque un figlio, cui pose nome Gerardo, che fu poi a sua volta padre
di molti figli e figlie. Il primo de' quali fu chiamato frate Giacomo
oltremarino, perchè stette molti anni oltremare. Questi era figlio
d'un mio cugino, e nell'Ordine de' frati Minori fu uomo di gran vaglia,
sacerdote, predicatore, gran letterato, sapeva l'arabo, o saraceno, ed
il francese. Nel ministero della prelatura fu uomo valente, onesto,
buono e santo. Morì a Modena e fu sepolto nel convento de' frati
Minori. Un altro fratello di lui aveva nome Bernardo. Degli altri non
parlo. Prima loro sorella fu Avanza, donna bellissima, da cui nacque
una figlia, che nel monastero dell'Ordine di S. Chiara in Parma, si
chiama Caracosa onesta e devota. Seconda loro sorella fu Gisa, che ebbe
due mariti e figli e figlie. Terza, Maria, bella donna, saggia, onesta,
che morì nel monastero dell'Ordine di S. Chiara in Imola. Inoltre del
mio casato nel monastero di S. Benedetto, tra il Po e il Larione[36],
ove è sepolta la Contessa Matilde, nella diocesi di Mantova, vi fu un
sacerdote, santo uomo e personaggio cospicuo, ch'avea nome Villano.
Nel monastero poi di Brescello vi fu Corrado figlio di Bernardo, figlio
di quel Leonardo giudice, da cui incominciammo, che morì in _guerra_,
la cui donna avvenentissima fu Caracosa, prudentissima e sagacissima
donna, che governò benissimo casa sua dopo la morte del marito, ed era
della famiglia Zampironi. Ma io frate Salimbene e mio fratello Guido
di Adamo, entrando in religione senza figli nè maschi, nè femmine,
spegnemmo il nostro casato per riaccenderlo in cielo. E di renderlo
luminoso si degni concedermelo Colui che vive e regna col Padre e
collo Spirito Santo ne' secoli, de' secoli e così sia. Ecco che senza
volerlo ho descritto la genealogia della mia famiglia; molti però ne
ommisi per brevità sì antichi, che moderni. Ma, avendola cominciata,
mi parve bene compirla per cinque ragioni: 1. perchè suor Agnese, mia
nipote, che è nel monastero di S. Chiara in Parma, ove andò a chiudersi
per amor di Gesù quando era ancora ragazza, mi pregò di tessere questa
genealogia, perchè non aveva mai potuto aver contezza della madre di
suo padre; e così da questa edotta, conoscerà da quali progenitori
discende tanto per padre come per madre. Ed ora dalla suddescritta
genealogia saprà che per padre discende da quelli che si denominavano
di Adamo, e che in antico si appellavano de' Grenoni; per madre
discende dai Baratti, i quali si biforcano in due casati. Perocchè vi
sono i Baratti così detti i Negri, che parteggiarono per l'Impero; e
vi sono i Baratti, chiamati i Rossi, che tennero sempre per la Chiesa,
dai quali discendeva Suor Agnese, come più sopra è detto. E tutti
questi Baratti, i Negri e i Rossi, nati da un sol ceppo, ossia da una
sola radice, erano figli di due donne, l'una a nome Barattina, l'altra
Ghibertina, di cui abbiamo scritto largamente più sopra... La seconda
ragione della suddescritta genealogia è perchè suor Agnese sappia per
chi debba pregare Iddio.... Il che si può dimostrare nei molti, che
la morte rapì a nostri giorni. E tutti quelli, che ho nominati nella
genealogia del mio parentado, li vidi tutti, eccetto pochi, nel breve
giro di sessant'anni. Perocchè non ho visto Adamo de' Grenoni, che fu
padre di mio nonno paterno; nè ho veduto i suoi due figli, Oliviero e
Giovanni di Adamo, il quale ultimo fu mio nonno; nè Adamino figlio di
lui, fratello di mio padre, militare, come anche Emblavato e Rolando
di Oliviero; nè ho visto il monaco di S. Benedetto. Tutti gli altri
che ho nominato, e conobbi, or non son più..... Diciamo ora perchè ho
premesso queste cose. Ho visto a' miei giorni in molte parti del mondo
molti casati spenti. E per non toglierne esempi di lontano, in Parma
il casato di quei da Cassio, d'onde uscì mia madre, non ha più maschi.
Il casato de' Pagani, ch'io conobbi gentiluomini ricchi e potenti, è
spento. Così il legnaggio de' Stefani, famiglia numerosissima, ricca
e potente, è sfumato..... Ora ritorniamo all'Ordine ed al corso della
nostra storia, e ripigliamola là dove lasciammo. Dicemmo di sopra che
nel 1229 nel mese d'Agosto i Bolognesi assediarono il castello di S.
Cesario e lo presero sotto gli occhi stessi dei Modenesi, Parmigiani
e Cremonesi, che ivi erano co' loro eserciti, e che una notte vi fu
gran battaglia tra loro e i Bolognesi. Furono allora portate via ai
Bolognesi moltissime manganelle, ch'io ancor fanciullo vidi nella
piazza vecchia di Parma, tra il battistero, l'episcopio e la facciata
del Duomo. E quella battaglia fu combattuta accanitamente e con
grande strage di fanteria e di cavalleria d'ambe le parti. I Bolognesi
che ne restarono malconci, stanchi e affannati diedero le spalle al
nemico, e fuggirono abbandonando sul campo il carroccio loro e quanto
avevano. I Modenesi vollero torre il carroccio de' Bolognesi e tirarlo
a Modena, ma i Parmigiani non acconsentirono, dicendo che non è bene
fare ai nemici tutto il male che si può; e che tal cosa sarebbe un'onta
incancellabile e provocativa di grandi mali. E i Modenesi accolsero il
consiglio dei Parmigiani come di amici ed alleati; quindi lo mandarono
in Piumazzo, castello de' Bolognesi, e ritornarono alla loro città.
(È da sapere che nell'esercito de' Bolognesi, in detta battaglia, che
fu combattuta contro i Parmigiani, i Modenesi e i Cremonesi, v'erano
anche i Milanesi, i Piacentini, i Bresciani e tutti i Romagnoli). In
questo esercito Pagano di Alberto di Egidio de' Pagani, che era Podestà
di Modena, fece cavaliere suo figlio Enrico, e dissegli: Va, assalta
il nemico, e battiti valorosamente. E così fece; ma sul principio
della battaglia, ferito di lancia, grondava sangue dal suo corpo,
come mosto da un bigoncio, a cui sia stato levato via lo zipolo, e
poco dopo spirò. Saputolo suo padre, disse: D'aver fatto cavaliere
mio figlio non son pentito, essendo morto battendosi da valoroso;
e l'ho udito io dal padre stesso. Nel combattimento di S. Maria in
Strada morì anche Zangaro Sanvitali di Parma, famoso cavaliere e gran
guerriero. Della stessa famiglia morì pure nella battaglia di San
Cesario Guarino gran soldato e dotto nell'armi, ed era cognato di Papa
Innocenzo IV. Perocchè ebbe moglie una sorella di questo Papa, dalla
quale gli nacquero sei figli ed una figlia, ch'io conobbi tutti, ed
erano belli, robusti e paffuti. Il primo ebbe nome Ugo Sanvitali, il
secondo Alberto, che fu molt'anni canonico del Duomo: poi fu molti
anni l'Eletto (vescovo) della chiesa parmense. Non fu sacerdote,
perchè non volle, e morì diacono, nè fu consacrato Vescovo. Fu sepolto
nell'ala del Duomo dove soleva tenersi il carroccio, di dietro al
coro dei Canonici, dalla parte del convento de' frati Minori; e Obizzo
di Lavagna[37], che fu vescovo di Parma e zio di Papa Innocenzo IV è
sepolto inferiormente. Questo Alberto, Eletto della chiesa parmense,
era bell'uomo poco istruito, ma onesto. Fu mio conoscente ed amico, e
mi disse che mio padre sperava di ottenere la mia uscita dall'Ordine
de' frati Minori per mezzo di Papa Innocenzo. Ma la morte troncò ogni
sua speranza. Papa Innocenzo conosceva mio padre, perchè era stato
canonico della Chiesa parmense, ed era uomo di molta memoria; e mio
padre abitava vicino al Duomo. Inoltre aveva maritata sua figlia Maria
con Azzone fratello consanguineo di Guarino cognato del Papa; e perciò
sperava che col mezzo dei nipoti del Papa, e della famigliarità che
aveva col Papa stesso, questi m'avrebbe restituito a lui, specialmente
perchè non aveva altri maschi. La qual cosa il Papa non avrebbe mai
fatta; al più forse per consolare mio padre m'avrebbe conferito un
vescovado, od altra dignità. Perocchè era uomo liberale assai, come
appare nelle dichiarazioni fatte alla Regola de' frati Minori, e in
altre molte cose. Teneva sempre seco gran numero di frati Minori, ai
quali fabbricò anche un convento e una bella chiesa presso Lavagna,
sua terra nativa, dove avrebbe voluto tenere sempre venticinque
frati Minori, e li avrebbe provveduti di libri e d'ogni altra cosa
necessaria; ma i frati Minori non vollero accettare, e il Papa lo diede
ad altri religiosi. Questi a Lione in sua camera mi conferì l'ufficio
di predicatore, mi assolvette da tutti i miei peccati, e mi fece molte
altre grazie l'anno dell'Incarnazione del Signore 1247. Egli spogliò
del vescovado di Parma frate Bernardo da Vizio, che era della famiglia
Scotti, e creò l'Ordine dei frati di Martorano. Detto vescovado frate
Bernardo avealo avuto da Gregorio di Montelungo Legato di Lombardia;
e il Papa lo diede al ridetto Alberto proprio nipote. Papa Innocenzo
IV favoreggiò molto i suoi parenti. Ed ebbe tre sorelle maritate a
Parma, che gli diedero molti nipoti, a cui conferì grasse prebende, e
secondo il grido del profeta: _Hanno fatto Chiesa il loro parentado._
Terzo figlio di Guarino fu Anselmo, bell'uomo, ma quanto all'armi
inettissimo, come quello che era stato allevato nella corte romana in
mezzo ai Cardinali, da cui apprese gli ozii e i costumi dei preti.
Quarto fu Guglielmo, che aveva, quando morì, credo vent'anni. Era
giovane di assai delicata coscienza, e voleva confessarsi almeno una
volta la settimana. Quinto fu Obizzo II, che ora è vescovo di Parma, ma
prima è stato molt'anni vescovo di Tripoli. Costui fu uomo quasi alla
militare, e il suo carattere è come quello che più su abbiam fatto di
Nicolò vescovo di Reggio. Perocchè era chierico coi chierici, religioso
coi religiosi, laico coi laici, cavaliere coi cavalieri, barone coi
baroni; gran barattiere, spenditore largo, liberale e cortese. In
principio abusò di molte terre e possessioni della mensa vescovile, e
le diede ad alcuni truffatori. Perciò fu accusato presso Papa Urbano
da Ghiberto da Gente come barattiere, dissipatore e alienatore de'
beni della mensa vescovile. Ma in processo di tempo ricuperò le terre
alienate e fece molti restauri all'episcopio. Egli fu uomo di molta
dottrina, specialmente nel diritto canonico, ed assai esperto nel
ministero ecclesiastico. Conosceva il gioco degli scacchi, e teneva a
bacchetta il clero secolare; e conferiva le parocchie a quelli, che gli
facevano del bene. Amò i religiosi e specialmente i frati Minori. Fece
però una bruttissima azione; perchè essendo egli vescovo di Tripoli, si
dimise, e coll'aiuto del Cardinale Ottobono, che fu poi Papa Adriano,
spogliò del vescovado di Parma maestro Giovanni di donna Rifida, che
era Arciprete del Duomo, dotto in diritto civile ed ecclesiastico, e
che molt'anni l'aveva insegnato, persona onesta e buona, e che cantava
e predicava bene. Per di più era stato anche suo maestro di diritto
canonico; ed era stato eletto regolarmente e canonicamente dagli altri
canonici a Vescovo di Parma dopo la morte di Alberto suo fratello.
Finalmente sesto ed ultimo figlio di Guarino, cognato di Papa Innocenzo
IV, fu Tedisio, grosso, pingue e robusto. Sorella di tutti questi fu
Cecilia, che stette molt'anni nel monastero di S. Chiara in Parma. Poi,
tolta di qui, fu promossa a Badessa nel convento di Chiavari, fatto
fabbricare a proprie spese presso Lavagna, sua terra, dal Cardinale
Guglielmo, nipote di Papa Innocenzo: monastero ricchissimo ove abitano
frati e suore dell'Ordine de' Minori. Questa Badessa Cecilia, colpita
da Dio per la sua ruvidezza ed avarizia, finì malamente: ed ecco
come. Frate Bonifacio dell'Ordine de' Minori, visitatore dei monasteri
dell'Ordine di S. Chiara della provincia di Lombardia, aveva alcune
donne da collocare nei monasteri; perocchè a Torino, città appartenente
alla provincia di Lombardia, a cagione di guerre non potevano stare. E
dopo averle allegate, eccetto due, in varii monasteri, con quelle due
andò a Genova; ed una la collocò nel monastero di Genova col consenso
delle suore e della Badessa; l'altra nel monastero di Chiavari col
solo dissenso della Badessa. Ed ecco che subito mentre il visitatore
stava a mensa in casa dei frati, che ivi abitavano, la Badessa con
animo infuocato d'ira, e la fronte aggrottata, insorse contro la nuova
ospite, dicendo ed ordinando alle suore di espellerla dal convento,
perchè non voleva che in nessun modo dimorasse nel suo monastero. Ma
le suore pregando la Badessa colle lagrime agli occhi per la nuova
consorella, essa rispose: Ah! vilissime femmine; credete ch'io non
abbia un perchè di ciò fare? Lo faccio per vostro bene, e per bene del
nostro monastero. E presala per una mano, la cacciò fuori, operando
secondo il detto di un poeta;

    Turpius ejicitur, quam non
        admittitur hospes.

    All'ospite l'onor ben più si toglie
    Se si discaccia, che se non s'accoglie

La suora espulsa si recò dunque e stette al cospetto del visitatore,
che era a mensa in casa dei frati che ivi abitavano; e colle lagrime
agli occhi gli riferì quanto le aveva detto la Badessa. Il visitatore,
udite queste cose, si alzò turbato dalla mensa, andò e scomunicò la
Badessa, perchè perseverando nella sua durezza chiudeva le viscere
della pietà ad una sua consorella, che era stretta da dura necessità.
E prendendo per mano la tribolata suora la consolò, e la ricondusse
seco a Genova, e pregò la Badessa e le suore di quel monastero ad
accoglierla per amore di Dio e suo, avendo già loro prima parlato della
malignità, della durezza, dell'avarizia e della follìa della Badessa
di Chiavari. Tali cose avendo udito le suore del monastero di Genova,
si mossero a compassione della loro consorella, e la abbracciarono
festosamente. In quel monastero poi vi era una suora vecchia molto
e divota e di gran merito presso Dio, a cui dispiacque assai il
contegno di quella Badessa verso una suora tribolata e già collocata
in convento. Ed essendo già di quel dì sera avanzata, e le altre
suore andate a letto, essa s'inginocchiò davanti all'altare, e con
molte lagrime pregò Iddio....... Il visitatore mandò subito un messo
velocissimo a Chiavari per sapere che cosa fosse accaduto a quella
badessa: e la trovò morta, maledetta, scomunicata e senza assoluzione.
Nell'intervallo tra la partenza del visitatore e l'arrivo del messo,
Cecilia, Badessa di Chiavari, cominciò a malare gravemente e svenir
di languore; e soffrendo dolori di più maniere, si pose a letto, si
ridusse agli estremi, e cominciò a gridare: Io muoio. Sorelle correte,
aiutatemi, datemi qualche rimedio. Accorsero le suore incontanente,
e, com'è dovere, ebbero compassione della loro Badessa. Della salute
dell'anima sua non si fe' cenno, di confessione non se ne parlò. Le
si strinse la gola, e appena poteva trar respiro. E quando s'accorse
che moriva, disse alle suore adunate: Andate e ricevete quella suora;
andate e ricevete quella suora; andate e ricevete quella suora. Per lei
Iddio mi percosse; e in così dire spirò........ Ricordo che essendo
io a Lione, ove era anche Papa Innocenzo IV, arrivarono alcuni frati
Minori di Bordeaux a dire al Papa che le suore dell'Ordine di S. Chiara
di Bordeaux avevano eletta suora Cecilia, sua nipote, a loro Badessa.
E il Papa ne diede loro lettera di conferma, dicendo che andassero a
ritrovarla a Parma. Ma l'Eletto di Parma, nipote del Papa, e fratello
della prenominata donna, essendo pur esso a Lione, e avendo saputo la
cosa, si presentò al Papa e fece annullare la data conferma. E forse,
se fosse andata colà, si sarebbe diportata meglio tra forestieri che
in mezzo a parenti e conoscenti. Ora ripigliamo il corso della nostra
storia, e incominciamo là dove la lasciammo. L'anno 1229, segnato
anche più su, Nazario di Ghirardino di Lucca fu Podestà di Reggio, e
fece fare il ponte e le imposte di porta Bernone. Allora si cominciò
a cinger di mura la città di Reggio. E fece fare cento braccia di
muraglia, dalla detta porta in giù verso porta S. Stefano. Così
successivamente ogni anno gli altri Podestà fecero duecento braccia di
muraglia finchè la città tutta fu murata. Però, per la frequenza delle
guerre, qualche anno restò interrotta la continuazione del lavoro.
Questo Nazario ha il suo ritratto in pietra sopra la porta Bernone,[38]
fatto fare da lui stesso, ed ha in Reggio la sua statua a cavallo.
Fu bel cavaliere e ricco assai; mio conoscente ed amico quando io
dimorava a Lucca nell'Ordine de' frati Minori. Donna Fior d'Oliva, sua
moglie, era bella, paffuta e mia famigliare e devota. Era di Trento,
moglie di un notaio, da cui ebbe due bellissime figlie; e Nazario la
rapì al marito suo quando fu Podestà a Trento, e, consentendolo essa,
la condusse a Lucca, e mandò sua moglie, che viveva ancora, in un
certo suo castello, dove stette sino alla morte. Nazario morì senza
figli, e lasciò molte ricchezze a quella donna, che in seguito si
maritò a Reggio, e, come mi disse, fu ingannata. E l'ebbe in moglie
Enrico figlio di Antonio di Musso, e vive ancora oggi, festa di S.
Lorenzo, martedì, 1283, anno in cui scriviamo queste cose. Tutti e due
costoro, cioè Nazario e Fior d'Oliva fecero molto bene ai frati Minori
di Lucca, quando la Badessa di Gattaiola[39] dell'Ordine di S. Chiara
provocò e aizzò tutta Lucca contro i frati, calunniando gli innocenti.
E cagione ne fu che frate Giacomo da Iseo non la voleva assolvere
perchè non si comportava bene nel suo ufficio. Essa era figlia di una
fornaia di Genova, e il suo governo era turpe, crudele e disonesto.
E, per assicurarsi meglio quel ministero, era larga di regaluzzi e
di leccornie a giovani, e a uomini, e a donne secolari, specialmente
a chi aveva qualche parente nel monastero. Ai quali eziandio andava
dicendo: I frati Minori non mi vogliono dare l'assoluzione perchè......
E così, come è detto, calunniava gli innocenti. Ma mentiva apertamente.
Tuttavia essa fu assolta, e i frati ricuperarono il loro onore e la
loro buona fama, e la città la sua calma.


a. 1230

L'anno 1230 si celebrò in Assisi un capitolo generale de' frati Minori,
e si fece il trasporto del corpo del beato Francesco il giorno 25
Maggio, e frate Giacomo da Iseo, che agli inguini e ai genitali era
tutto guasto, riacquistò sanità completa. Molti altri miracoli degni
d'essere narrati fece in quel giorno Iddio per mezzo del suo servo ed
amico Francesco, che potrai conoscere leggendo la sua biografia.


a. 1231

L'anno 1231, ai 14 di Giugno, Venerdì, il beatissimo padre e frate
Antonio spagnuolo, che era nel convento di Padova, nella quale città
l'Altissimo magnificò il suo nome per mezzo di quel Santo, abbandonando
in Arcella[40] il corpo alla dimora di tutte le reliquie mortali
dell'uomo, volò felicemente alla sede degli Spiriti celesti. Questi fu
dell'Ordine de' frati Minori e compagno del beato Francesco, e, se ci
basterà la vita, ne riparleremo e ne tesseremo più ampiamente le lodi
altrove.


a. 1232

L'anno 1232, ai 16 di Ottobre, sabbato, fu rotto e messo in fuga il
Marchese di Cavalcabò da Bonacorso da Palù e da quei di Sesso[41]
presso Mancasale[42].


a. 1233

L'anno 1233 si fabbricò il palazzo del vescovo di Parma, che è rimpetto
alla facciata del Duomo; e allora reggeva la Chiesa di Parma il vescovo
Grazia di Fiorenza, che fece costruire anche molti altri palazzi in
più luoghi della diocesi. E perciò i Parmigiani lo stimavano un buon
vescovo; perchè non dissipava i beni della Chiesa, anzi li conservava e
moltiplicava. Egli era amico di mio padre Guido di Adamo, e stando alla
finestra di casa sua ragionava con lui del suo palazzo, e gli mandava
spesso regali, come ho veduto io co' miei occhi. Amò mio fratello
Guido; ma dopo che entrò nell'Ordine de' frati Minori, non si curò più
di lui. Prima di lui fu vescovo Obizzo di Lavagna genovese, bell'uomo
ed onesto, come dicono, e fu zio di Papa Innocenzo IV; ma non ricordo
d'averlo veduto. Dopo Grazia fu vescovo un certo Gregorio Romano,
che ebbe vita breve, e morì a Mantova eretico e maledetto. E quando
malato gli portarono l'ostia consacrata, non volle riceverla, dicendo
che non credeva nulla di tal fede; e interrogato perchè accettasse il
Vescovado, rispose: per le ricchezze e gli onori; e così spirò senza
comunicarsi. Dopo lui fu vescovo maestro Martino da Colorno,[43]
di famiglia meno che cospicua. Gli successe Bernardo Vizio, di cui
ricordo d'aver già fatta menzione, come anche de' suoi successori. Dopo
Bernardo venne Alberto Sanvitali, nipote di Papa Innocenzo IV. Dopo fu
eletto canonicamente e concordemente maestro Giovanni di donna Rifida,
Arciprete del Duomo; e gli successe Obizzo, vescovo di Tripoli, pur
esso nipote del predetto Papa, e fratello del sunnominato Alberto. Per
frodi fu investito del Vescovado di Parma, e vive ancora e lo tiene.
E come lo tiene oggi, tengaselo pure finchè se ne faccia un'altro. Ed
oggi, che queste cose scriviamo, corre il 1283, giorno di S. Lorenzo,
martedì. Che cosa sia per avvenire d'ora innanzi dei vescovi di Parma,
sallo Iddio. In questo stesso anno 1233 fu Podestà di Reggio Giliolo di
donna Agnese di Parma. In quell'anno Reggio cominciò a coniar moneta;
e Nicolò vescovo di Reggio viveva ancora. Io conobbi quest'Egidiolo,
chè eravamo della stessa città, ed ebbe due cognomi. Fu detto di donna
Agnese, o da parte di madre, o da parte di moglie, perchè fu donna
valente (come un certo ponte, che è in Parma, fu chiamato ponte di
donna Egidia da Palù, perchè essa lo fece fare; ponte che ora rifanno
di muro, invece di legno.) Fu pur detto da Gente, perchè quand'era
oltremare, ogni volta che si parlava d'eserciti, usava dire: La nostra
gente fece così. Questo l'ho saputo da Gherardo Rangone di Modena, che
era frate Minore. Gigliolo da Gente poi ebbe due fratelli. Il primo
fu Tedaldo, e, quand'io era ancora ragazzo, l'ho veduto assai vecchio
e carico d'anni; ed ebbe sette figli, de' quali il quarto, Manfredo,
sposò mia sorella Caracosa, che, mortole il marito, finì lodatamente
la vita nel monastero di S. Chiara in Parma. Il secondo aveva nome
Beretta, bel cavaliere e prode guerriero, forte, e tant'alto di statura
da far la meraviglia degli uomini e delle donne. Giliolo fu anche padre
di Ghiberto da Gente, di cui parleremo a suo luogo. E quando nel detto
anno Giliolo era Podestà di Reggio cominciò l'_alleluia_. E i posteri
chiamarono _alleluia_ un certo periodo di tempo, in cui, posate le
armi, predominò la giocondità, l'allegria, il gaudio, l'esultanza il
giubilo ed ogni dimostrazione d'animo contento. E tutti, cavalieri e
fanti, e cittadini, e campagnuoli, e giovinetti, e giovinette, e vecchi
e giovani ne cantavano inni e lodi a Dio. In tutte le città d'Italia vi
fu questa divozione; e vidi che nella mia città di Parma ogni parocchia
voleva avere il proprio gonfalone da portare nelle processioni, e, sul
gonfalone, dipinto la specie di martirio del santo suo titolare. Così,
p. e. la scorticazione di S. Bartolomeo era ritratta nello stendardo
della parocchia, che da lui si nominava; e così via via delle altre. E
dalle ville venivano in città co' loro confaloni in gran frotte uomini
e donne, ragazzi e ragazze ad ascoltare le prediche ed a lodare Iddio;
e cantavano con voci divine più che umane. E così le genti camminavano
sulla via della salute, tanto che sembrava adempiuto quel detto del
Profeta: _Ricorderanno (la mia parola) e si convertiranno a Dio tutte
le nazioni, e adoreranno davanti a lui tutti i popoli._ E portavano
in mano rami d'alberi e candele accese; E si predicava di mattina,
a mezzodì, verso sera, secondo il Profeta: _Di sera, di mattina, di
mezzodì narrerò e annunzierò, ed esaudirà la mia voce. Redimerà in
pace l'anima mia da coloro che s'avvicinano a me, poichè tra molti era
meco._ E si facevano soste nelle chiese e nelle piazze; e si alzavano
le mani al cielo per lodare Iddio e benedirlo ne' secoli. E non
sapevano intermettere le laudi, tanto erano entusiasmati dall'amor di
Dio; e beato chi poteva far più di bene, e inneggiare a Dio. Nessun'ira
era tra loro, nessun turbamento d'animo, nessun rancore; ogni cosa tra
loro passava in pace ed amore. _Alziamo a Dio, che siede ne' cieli,
i nostri cuori e le nostre mani._ E così realmente facevano, come ho
visto io. E poichè la Sapienza dice ne' Proverbii. II. _Il popolo si
travolgerà in ruina, se non vi sia chi lo governi,_ affinchè non si
creda che queste moltitudini fossero senza guida, parliamo ora di chi
dirigeva queste ragunate. Primo venne a Parma fra Benedetto, che si
chiamava di Cornetta, uomo semplice ed illetterato, di buona innocenza
e di vita onesta, ch'io vidi, ed ebbi seco famigliarità in Parma, e poi
a Pisa; ed era o di Valle spoletana, o di Romagna. Non apparteneva ad
alcun Ordine religioso, viveva a sè, e solo si studiava di piacere a
Dio. Era molto amico de' frati Minori; pareva quasi un altro Giovanni
Battista, che precorresse avanti al Signore a preparargli un popolo
perfetto. Portava in testa un cappello all'Armena, aveva barba lunga e
nera, e teneva una trombetta metallica (cioè di oricalco) colla quale
suonava; e quella sua tromba reboava terribilmente, ma pure non senza
qualche dolcezza; andava cinto di una fascia di vello; vestiva abito
nero, a foggia di sacco tessuto di peli di diversi animali, e lungo
sino ai piedi. La tonaca era fatta a guisa di guascappa, e davanti e di
dietro aveva una croce lunga, larga, e di color rosso, che discendeva
dal collo sino a' piedi, come suole nelle pianete de' sacerdoti.
Così vestito egli andava colla sua tromba, e predicava nelle chiese,
nelle piazze, e lodava Iddio, e aveva sempre seguace una gran turba
di ragazzi con in mano, il più delle volte, rami d'alberi e candele
accese. Ed io stesso stando su una muraglia del palazzo vescovile, che
allora era in costruzione, l'ho veduto più volte a predicare e cantare
le lodi del Signore. E cominciava le sue lodi dicendo in suo volgare:
_Laudato, et benedetto, et glorificato sia lo Patre._ Ed i ragazzi a
voce alta ripetevano quello che egli aveva detto. E poi ripeteva le
stesse parole, e aggiungeva: _Sia lo Fijo._ Ed i ragazzi riassumevano
cantando le stesse parole. Finalmente per la terza volta replicava
le stesse parole e vi aggiungeva: _Sia lo Spiritu Sancto;_ e dopo:
_alleluja, alleluja, alleluja._ Di poi trombettava, e dopo predicava,
dicendo buone parole a lode del Signore. E dopo tutto cantava un saluto
alla beata Vergine così:

      Ave Maria — Clemens et pia,
    Gratia plena — Virgo serena:
    Dominus tecum — Tu mane mecum.
    Tu benedicta in mulieribus,
    Quae peperisti pacem hominibus
                Et angelis gloriam.

      Et benedictus fructus ventris tui,
    Qui coeredes ut essemus sui,
                Nos fecit per gratiam.

      Ave, Maria — Clemente e pia,
    Di grazia piena — Vergin serena:
    Iddio è teco — Tu resta meco.
    In fra le donne — Tu benedetta
    All'uom portasti — Pace perfetta
                E gloria agli Angeli.

      E benedetto — Lo Figlio tuo
    Che di far parte — Del regno suo
                Larginne il merito.

Ora parliamo degli eminenti predicatori, che furono famosi al tempo di
quella divozione: ed anzi tutto di due dell'ordine de' Predicatori,
cioè di frate Giovanni da Bologna, nativo di Vicenza, e di frate
Giacomino da Seggio, oriondo di Parma. Imperocchè il beato Domenico non
era ancora canonizzato, ma era morto e sotterra, come si canta in una
prosa:

      Iacet granum occultatum,
    Sydus latet obumbratum;
              Sed plasmator omnium

      Ossa Ioseph pullulare,
    Sydus iubet radiare
              In salutem gentium.

      Sta un grano ancor sepolto.
    Sta un astro in ombra involto:
              Ma il Dio che suscita

      Or Giuseppe a morte invola,
    Or dell'astro l'ombra assola,
              E salva i popoli.

E veramente si trova che S. Domenico restò dodici anni sepolto senza
che si facesse parola della sua santità; ma per cura di cotesto frate
Giovanni sunnominato, che, al tempo di tale divozione, ebbe facoltà
di predicare in Bologna, ne fu fatta la canonizzazione. Per questa
canonizzazione s'adoperò anche il vescovo di Modena, che era un
Piemontese, il quale, fatto poi Cardinale, prese nome Guglielmo, cui
io vidi predicare e officiare la vigilia di Pasqua nella chiesa de'
frati Minori a Lione, quando ivi si trovava Papa Innocenzo e tutta la
sua corte. Questo frate Giovanni era per verità un uomo di nessuna
coltura, e si voleva porre tra quelli che fanno miracoli. Fece in
quel tempo un gran predicare tra Castel Leone e Castel Franco[44]. Ma
frate Giacomino da Reggio, oriondo però di Parma, fu uomo assai colto,
lettore di teologia, predicatore facondo, copioso e grazioso; uomo
pronto, benigno, caritatevole, affabile, cortese, liberale e largo.
Ed una volta fummo compagni di viaggio di giorno e di notte da Parma
a Modena in un momento di gran guerra; ed era anche meco il frate mio
compagno, ed egli aveva il suo. Questi al tempo di quelle divozioni,
di cui abbiamo parlato più sopra, aveva molta grazia nel predicare,
e fece molto di bene. Nell'anno stesso ebbe principio in Reggio la
costruzione della chiesa del Gesù de' frati Predicatori; e se ne fondò
la prima pietra, consacrata dal vescovo Nicolò, il dì di S. Giacomo. E
ad erigere quel tempio accorrevano i Reggiani, uomini, donne, militi di
cavalleria, di fanteria, campagnuoli, cittadini; e portavano pietre,
sabbia, calce sulle spalle entro varie specie di pelli e di tessuti.
E beato chi più ne poteva portare; e fecero le fondamenta della
chiesa e del caseggiato annesso, e alzarono una parte delle muraglie.
Al terz'anno compirono tutto il lavoro. E allora frate Giacomino ne
dirigeva la buona esecuzione. Questo frate Giacomino fece nella diocesi
di Parma tra Calerno[45] e S. Ilario, al disotto dell'Emilia, una gran
predicazione, alla quale accorse una grandissima folla d'uomini, donne,
ragazzi, da Parma, da Reggio, dal monte, dal piano e da diverse ville.
Ed una donna povera e gravida, ivi partorì un maschio; e per istanze e
preghiere di frate Giacomino molte persone diedero non pochi soccorsi a
quella povera donna. Perocchè tra le donne, chi regalava una sottana,
chi una camicia, chi una veste, chi una benda; sicchè ne raccolse da
caricare un asino. E dagli uomini n'ebbe cento soldi imperiali. E chi
era presente e vide, riferì a me queste cose dopo tempo assai, quando
ebbi a passare con lui per quei luoghi: Cose che ho saputo poi anche da
altri. A questo frate Giacomino, malato a Bologna nell'infermeria de'
frati Predicatori, ritto a sedere sul letto, verso il mezzodì, e desto,
apparve frate Giraldo da Modena dell'Ordine dei frati Minori, quello
stesso giorno in cui morì, dicendo: Io sono alla visione della gloria
di Dio, alla quale Cristo chiamerà presto anche te a ricevere il premio
delle tue fatiche, e soggiornerai sempre presso chi hai devotamente
servito. Ciò detto, frate Giraldo disparve; e frate Giacomino raccontò
a' suoi frati quanto aveva veduto, che se ne rallegrarono. Ed a frate
Giacomino avvenne per punto quanto avevagli predetto frate Giraldo;
poichè pochi giorni dopo s'addormentò nel Signore; e il suo corpo fu
sepolto a Mantova. Frate Giovanni poi da Vicenza, più sopra menzionato,
chiuse i suoi giorni in Puglia. Ebbero anche i frati Predicatori in
Parma, nel tempo di quella divozione, che si chiamò _alleluia_, un
frate Bartolomeo da Vicenza, che fece molto di bene, come ho veduto co'
miei occhi; ed era buon uomo, prudente ed onesto; e dopo molto tempo
fu fatto Vescovo della sua città natale, ove fece fabbricare un bel
convento pe' frati del suo Ordine, che prima ivi non abitavano. I frati
Minori poi ebbero un frate Leone milanese, predicatore famoso, che
perseguitò potentemente, e confutò e confuse gli eretici. Fu molti anni
ministro provinciale nell'Ordine de' frati Minori, e poi Arcivescovo
di Milano. Costui era di tanto singolare coraggio, anzi audacia, che
una volta da solo andò collo stendardo in mano alla testa dell'esercito
Milanese contro l'Imperatore, e passato il ponte d'un fiume, solo,
stette a lungo di piè fermo squassando lo stendardo; mentre i Milanesi
non osavano passare perchè vedevano l'esercito imperiale in ordine di
battaglia. Questo frate Leone confessò un amministratore dell'ospedale
di Milano, uomo che godeva gran nome e fama di santità. E quando esso
fu agli estremi della vita Leone si fece promettere che sarebbe tornato
dopo morte a dargli contezza dello stato in cui si trovava. E promise
di buon grado. Verso sera si sparge in città la voce della sua morte.
Frate Leone invita due frati suoi compagni particolari, ch'egli aveva
come ministro Provinciale, a vegliare seco quella sera in un angolo
dell'orto, nella camera dell'ortolano. Vegliando tutti e tre insieme,
frate Leone fu preso un momento da un lieve sonno; e, volendo dormire,
pregò i compagni che, se qualche cosa sentissero, lo svegliassero.
Ed ecco che subito odono uno venire disperatamente urlando, e lo
videro rotar giù dal cielo come un globo di fuoco, e precipitarsi sul
comignolo della casetta come uno sparviero sull'anitra. Pel rumore,
e scosso dai frati, Leone si svegliò. E continuando colui i lamenti
Ahi! Ahi!. frate Leone gli domandò come si trovasse. Ed egli rispose
dicendo che era dannato, perchè era stato causa che morissero senza
battesimo alcuni bambini nati da unione illeggittima, avendoli egli
con isdegno reietti dall'ospedale, perchè vedeva che per accoglierli
l'Ospizio andava incontro a spese e disagi. E domandandogli frate
Leone perchè non si fosse confessato di questa colpa, rispose: o
perchè me ne sono dimenticato, o perchè non credetti che la fosse
da confessarsene. Quindi frate Leone soggiunse: Giacchè nulla hai a
che fare con noi, partiti da noi, e vanne per la tua strada. Ed egli
gridando e urlando dipartissi. Pertanto questo Frate Leone nel tempo
di quella divozione, che i posteri chiamarono poi l'_alleluia_, molto
s'adoperò, e molto fece di bene. Vi fu anche un cert'altro frate Minore
di Padova che nel tempo di quella divozione fece molto di bene. Questi
predicando una festa a Como, e facendo un usuraio murare una sua torre,
disturbato il frate dal martellare degli operai, disse al popolo,
che l'ascoltava: Vi predico che nel tal tempo quella torre ruinerà,
e sin dalle fondamenta sarà divelta. Ed accadde, e fu giudicato un
gran miracolo. Perciò l'Ecclesiastico dice 37: _L'anima di un uomo
pio scopre talora la verità meglio che sette sentinelle, che stanno
alla vedetta in luogo elevato._ Così ne' Proverbii 17: _Chi molto
alta fa la casa sua, va cercando ruine._ Miracolo eguale a quello
della profezia della torre che doveva ruinare, è quello pel figlio di
Grilla, e delle tre zucche, e del sorcio in una zucca. E tutto diceva
così a casaccio, a sorte, e perciò fu chiamato l'indovino. Vi fu anche
Girardo da Modena dell'Ordine de' frati Minori, che a' tempi della
suddetta divozione, operò cose miracolose e fece molto di bene, come
ho veduto io co' miei occhi. Questi nel secolo si chiamava Girardo
Maletta. Nacque di potente e ricca famiglia, cioè dai Boccabadati. Fu
uno dei primi frati dell'Ordine dei Minori, non però uno dei dodici.
Fu amico ed intimo del beato Francesco, e talvolta compagno: uomo
cortese assai, liberale, splendido, religioso, onesto, di costumi
assai castigato, e misurato nelle parole e nelle opere. Non ebbe che
poca coltura di lettere: Tuttavia fu grande oratore, e predicatore
ottimo e pieno di grazia. Voleva andare in giro per tutto il mondo.
Fu egli che pregò per me frate Elia ministro Generale dell'Ordine
de' frati Minori, che mi ricevesse nell'Ordine; e accolse l'istanza
in Parma l'anno 1238. Fui talvolta suo compagno di viaggio. Al tempo
della detta divozione i Parmigiani affidarono a lui la signoria di
Parma, acclamandolo Podestà, con potere di accordare in pace fra loro
quelli, che per rancori erano in dissidio. E così fece, e, molti che
per discordie erano nemici, ricompose in pace ed amicizia. Tuttavia
in un caso di composta pacificazione, incorse in calunnia, avendo
irritato Bernardo di Rolando Rossi, cognato di Papa Innocenzo IV,
per non aver data sufficiente soddisfazione ad alcuni di lui amici.
Frate Girardo tenea molto dalla parte dell'Impero; ma nulla ostante
egli _camminò al cospetto di Dio in pace ed equità, e molti ritrasse
dalle vie dell'iniquità,_ come disse Malachia II. E qui a proposito
richiamati alla mente la storia di quei tre compagni, de' quali uno
volle pensare a sè solo, e a sè solo vivere, e fare il solitario; il
secondo amò curare i malati; il terzo riamicare i nemici. Del primo
dice S. Girolamo: _La santa selvatichezza_ giova a sè soltanto,
e di quanto vantaggia la Chiesa di Cristo coi meriti della vita,
d'altrettanto le nuoce, se non faccia opera di resistenza a' suoi
demolitori. Perciò ricordati bene di S. Sindonio, a cui un Angelo del
Signore comandò di andare attorno a predicare contro gli eretici.
Del beato Francesco ancora fu scritto che non vuol _vivere per sè
solo, ma giovare gli altri, indottovi da amore di Dio._ Ogni volta
che mi torna a mente frate Girardo da Modena, mi torna a mente anche
quella sentenza dell'Ecclesiastico XIX: _È da preferirsi l'uomo che
manca di sagacità, ed è privo di scienza, ma è timorato, a quello
che abbonda di avvedutezza, e trasgredisce la legge dell'Altissimo._
Io mi trovai malato a Ferrara con frate Girardo di una malattia, di
cui egli morì dopo essere venuto a Modena verso l'anno nuovo; e fu
sepolto in un sarcofago di marmo nella chiesa de' frati Minori. E
Iddio si degnò di operare per mezzo di lui molti miracoli, che per
brevità tralascio di narrare, perchè può esservene occasione altrove.
Una cosa però non vuolsi passare sotto silenzio, ed è che questi
frati, valenti predicatori, al tempo della prenominata divozione, si
adunavano talvolta in qualche luogo, e insieme prestabilivano per le
loro prediche il luogo, il giorno, l'ora e l'argomento. E l'uno diceva
all'altro: Tien fermo ogni cosa dell'accordo preso; sicchè le cose
immanchevolmente accadevano come erano state prefisse. Stava dunque
frate Girardo, come l'ho visto io co' miei occhi, nella piazza del
Comune di Parma, o altrove quando voleva, sopra un palchetto portatile
di legno, fatto a posta per uso delle concioni; e, quando il popolo era
tutto intento, ad un tratto interrompeva la predica, e s'incappucciava,
quasi in atto di pensare a Dio. Poi, dopo lunga pezza, scappucciatosi,
parlava al popolo meravigliato, quasi dicesse coll'Apocalisse I: _Io
era in Ispirito nel giorno della domenica,_ ed ascoltai il dilettissimo
nostro fratello Giovanni da Vicenza, che predicava vicin di Bologna,
nella ghiaia del Reno, ed aveva un affollatissimo uditorio, e queste
furono le prime parole della sua predica: _Beata la gente che per
suo signore ha Dio, beato il popolo eletto da Dio per sua eredità._
Altrettanto diceva di frate Giacomino. E quelli sapevan dire parimente
di lui. Meravigliavano i presenti, e, punti da curiosità, spedivano
messi per sapere se era vero ciò che loro si diceva. E trovando che sì,
vieppiù restavano meravigliati; sicchè molti, abbandonando il secolo,
entravano nell'Ordine de' frati Minori, e de' Predicatori. E in diversi
altri modi, e in molte parti del mondo gran bene si fece a tempo di
quella divozione, come ho visto io co' miei occhi. Vi furono però
anche a que' tempi molti barattieri e gabbamondi, che facevan di tutto
per calunniare gli innocenti. De' quali fu un Boncompagno fiorentino,
rinomato maestro di grammatica in Bologna, che compose libri intitolati
_Del comporre._ Costui, che tra' fiorentini era il più arguto nel
mettere in canzone la gente, compose una rima in derisione di frate
Giovanni da Vicenza, di cui non ricordo nè il principio, nè la fine,
perchè da molto tempo non l'ho letta, e quando la lessi non mi curai
tanto d'impararla bene a memoria. V'erano però questi versi, che mi
ricorrono a mente:

      _Et Johannes johannizat,_
    _Et saltando choreizat,_
    _Modo salta, modo salta_
    _Qui coelorum petis alta:_
    _Saltat iste saltat ille,_
    _Resaltant choortes mille;_
    _Saltat chorus dominarum,_
    _Saltat dux Venetiarum ecc._

      E Giovanni giovanneggia
    E ballando caroleggia,
    Or tu salta, vola, sali,
    Tu ch'al cielo batti l'ali;
    Saltan questi, saltan quelli,
    Saltan pur mille drappelli;
    Danzan donne in giro, in coro
    Danza il Sir del Bucintoro ecc.

Così pure questo maestro Boncompagno vedendo che frate Giovanni s'era
messo in capo di far miracoli, anch'egli volle provarsi a farne, e
annunziò ai Bolognesi che voleva volare sotto i loro occhi. Non ci
volle altro. La notizia corre per Bologna; arriva il giorno prefisso;
si raduna tutta la città, uomini, donne, vecchi, fanciulli, alle
falde d'un colle, che si chiama S. Maria in monte. S'era fatte due
ali, e stava sulla vetta del monte guardando la folla. Ed essendosi
reciprocamente a lungo guardati, proferì queste parole: _Andatevene
colla benedizione di Dio, e vi basti aver veduta la faccia di
Boncompagno._ E ne ritornarono derisi. Questo maestro Boncompagno,
essendo un ottimo scrittore, per consiglio de' suoi amici andò a
Roma, volendo provare se per avventura potesse colla sua abilità
nelle lettere, trovar grazia nella corte romana. Ma non avendo trovato
favore, se ne partì, e divenuto già vecchio, si era ridotto a tanta
miseria, che fu costretto a chiudere i suoi giorni in un ospedale a
Firenze. A frate Giovanni da Vicenza poi più sopra menzionato, gli
onori ricevuti e la grazia nel predicare gli avevano siffattamente
beccato il cervello da avernelo travolto e credere di poter fare veri
miracoli anche senza l'aiuto del braccio di Dio. Il che era somma
stoltezza, perchè il Signore dice in Giovanni 15. _Senza me nulla
potete fare._ Parimente ne' Proverbii 26. _Chi dà gloria allo stolto fa
come chi gittasse una pietra preziosa in una mora di sassi._ Essendo
frate Giovanni rimproverato delle sue fatuità da' suoi confrati,
rispondeva loro, dicendo: Se non la finite, io vi infamerò pubblicando
le vostre azioni. Per ciò lo tollerarono sino che morì, non trovando
modo di contrastargli. Questi essendo venuto un giorno al convento de'
frati Minori, ed avendogli il barbiere rasa la barba, s'ebbe a male
che i frati non ne avessero raccolti i peli da serbare per reliquie.
Ma frate Diotisalvi da Fiorenza dell'Ordine dei Minori, che, secondo
il costume de' Fiorentini era prontissimo a canzonare la gente, a
capello _rispose allo stolto come si conviene alla sua follìa, chè
talora non gli paresse d'esser savio._ Proverbii 26. Perocchè andato un
giorno al convento de' Predicatori, ed essendo stato da loro invitato
a pranzo, disse che in niun modo accetterebbe, se non dessero a lui
un lembo della tonaca di frate Giovanni, che stava in quel convento,
da conservare come reliquia. Promisero e diedero una larga pezza di
tonaca, colla quale, sgravatosi dopo pranzo il ventre, forbissi l'ano,
poi la gittò nello sterco. Poscia, presa una pertica, rimestava lo
sterco gridando e dicendo: Ahi! Ahi! aiutatemi o fratelli, che cerco
la reliquia del santo che ho smarrita nella latrina. E guardando essi
in giù dalle finestre delle celle, egli rimestava più forte perchè
ne sentisser l'odore. Pertanto nauseati da tali esalazioni, ed inteso
che erano stati scherniti da quel canzonatore, ne restarono confusi e
svergognati. Questo frate Diotisalvi una volta fu comandato di andare
per obbedienza ad abitare nella provincia di Penne, in Puglia. Egli
allora andò nell'infermeria, si cavò nudo, e, scucito un materasso,
vi si nascose dentro e vi stette tutto un giorno involto nelle penne.
Cercato da' frati, ivi lo trovarono, e disse che aveva adempiuto
all'obbedienza impostagli. Perciò, a cagione di questa spiritosità,
gli fu condonata l'obbedienza, e non andò. Così un giorno d'inverno
camminando per Firenze scivolò per ghiaccio, e stramazzò disteso sulla
via. Vedendo questa scena i fiorentini, che è gente nata per dar la
beffa, cominciarono a ridere. Ma uno chiese anche al frate se volesse
un cuscino da mettersi sotto. A cui il frate rispose che sì, che sì,
purchè da mettersi sotto gli si desse per cuscino la moglie del suo
interlocutore. I fiorentini udendo questa risposta non ne ebbero
scandalo; anzi lodarono il frate, dicendo: quest'è veramente de'
nostri. (Alcuni attribuirono questa risposta ad un altro fiorentino,
che si chiamava frate Paolo Millemosche dell'Ordine de' Minori). Ma
noi dobbiamo piuttosto domandare a noi stessi, se il frate facesse
bene, o male a rispondere in quel modo: e sosteniamo che per molte
ragioni rispose male..... Però frate Diotisalvi, che diede occasione
a questo racconto, per molte altre ragioni si può anche scusare. La
sua risposta però non deve trarsi ad esempio, che altri la ripeta...
La terza ragione è che parlò tra suoi concittadini, i quali non se ne
scandolezzarono essendo eglino tutti uomini sollazzevoli ed usi alle
beffe. Ma in altro paese avrebbe suonato male quella risposta del
frate. Di questo frate Diotisalvi inoltre io so molte cose, come anche
del conte Guido, di cui da molti molte e varie cose sogliono contarsi,
che, essendo più scandalose che edificanti, io non racconto. Tuttavia
frate Diotisalvi andò oltremare coll'arcivescovo di Ravenna, chiamato
Teodorico, che fu sant'uomo e persona assai onesta. Dopo lui fu
Arcivescovo di Ravenna Filippo di Pistoia, o di Lucca, a cui successe
frate Bonifacio dell'Ordine de' Predicatori, nativo di Parma, che ebbe
l'Arcivescovado da Papa Gregorio X non in grazia dell'Ordine suo, ma
perchè era suo parente; ed ora è Arcivescovo anch'esso, grande oratore,
e tenace sostenitore del partito della Chiesa. Una cosa però non è da
tacere, ed è, che i Fiorentini non si scandalizzano se taluno esce
dell'Ordine dei Minori, ed anzi dicono di far le meraviglie come vi
sia stato tanto tempo, stantechè i frati Minori sono una gente povera,
che si impone mille maniere di penitenze. Questi Fiorentini avendo un
giorno udito che frate Giovanni da Vicenza dell'Ordine dei Predicatori,
di cui è parlato più sopra, voleva andare a Firenze, dissero: Oh! Dio!
non venga quà. Perochè si dice che risusciti i morti, e noi siamo già
tanti che la città non ci potrà contenere. Ed il parlare de' Fiorentini
suona assai grazioso in loro dialetto. Sia benedetto Iddio che abbiam
finita questa parte. Vi fu a questi tempi un canonico Primasso di
Colonia, argutissimo a mettere in canzone e dar la baia alla gente
e versaggiatore facile e potente, che se si fosse dedicato di cuore
a servire Iddio sarebbe stato grande nella letteratura religiosa, e
utile alla Chiesa di Dio. Fece un'Apocalisse, ch'io ho veduto, e molte
altre opere. Costui condotto un giorno dal suo Arcivescovo ai campi,
non a meditare, ma a passeggiare, e avendo veduto i buoi del podere
dell'Arcivescovo, che aravano, belli, forti e grassi, e avendogli detto
l'Arcivescovo: Se, prima che i buoi arrivino quì, saprai far versi
intorno ad un regalo di buoi, io te li donerò: Primasso soggiunse: Sta
fermo ciò che hai detto? Fermissimo, rispose l'Arcivescovo. E allora
subito cantò:

    _Indigeo bobus — ad rura colenda duobus,_
    _Pontificis munus — Veniat bos unus et unus_

    Per arar mio campo bene
    Aggiogar due buoi conviene:
    L'uno in dono dal Prelato,
    Così l'altro mi sia dato.

Altra volta, quand'era alla Corte, volendo fare un presente ad un certo
Cardinale, fece fare dodici pani bianchissimi, grossi e belli, di cui
la fornaia gliene rubò uno. Nullameno mandò gli undici restanti con una
cartolina, che diceva;

    _Ne Spernas munus — si desit apostolus unus;_
    _Ut verbis ludam — rapuit fornaria Iudam._

    No, non sgradir questo mio tenue dono
    Se dodici gli apostoli non sono;
    Chè Giuda, e forse di scherzar s'intese,
    La birba di fornaia se lo prese.

Un'altra volta ancora avendogli l'Arcivescovo mandato un regalo di
pesce senza vino, disse:

    _Mittitur in disco — mihi piscis ab Archiepisco._
    _Me non inclino — quia missio fit sine vino._

    Un piatto l'Arcivescovo m'invia
    Con entro il più bel pesce che si dia.
    No, non l'accetto, se con lui non viene
    Un vin che grilli e fumi per le vene.

Parimenti in altra occasione fece questi versi:

    _His vaccis parcam, — quae sacri foederis arcam_
    _Olim duxerunt — sed aquis comedi meruerunt._

    Queste rispetterò vacche ch'han tratte
    La nave trionfal del sacro patto;
    Ma il mondo reo con un nefando eccesso
    Ingrato al merto lor le mangia a lesso

Un'altra volta gli fu porto del vino molto annacquato. E cominciò a
dire:

    _In cratere meo, — Thetis est sociata Liaeo:_
    _Est Dea juncta Deo, — Sed Dea major eo._
    _Nil valet hic, vel ea — nisi quando sit Pharesea;_
    _Amodo propterea, — sit Deus ubsque Dea._

    In questo nappo mio ch'or or s'empieo
    Misti in amplesso son Teti e Lieo:
    Un Dio con una Dea si mesce e avvince,
    Che maggiore di lui lo slomba e vince.
    Nè l'uno nulla val, nè l'altra un punto,
    Se l'un coll'altra insiem trovi congiunto,
    Frema dunque Lieo nell'inguistare,
    E Teti baci il suo Nettuno in mare.

Parimente in altra occasione improvvisò i seguenti versi intorno al
vino:

    _Fertur in convivio — vinus, vina, vinum;_
    _Masculinum displicet, — atque foemininum:_
    _In neutro genere — ipsum est divinum,_
    _Loquens variis linguis — optimum latinum._

    Vino, vinel, vinella al desco è data;
    Lungi da me sta femmina scempiata:
    Lungi da me l'eunuco suo germano;
    M'innondi il padre lor che è Dio sovrano
    Che pizzica, che morde, ed un latino
    Fa le lingue parlar vivo, divino.

Così pure egli accusato dal suo Arcivescovo di tre colpe, cioè; di
essere donnaiolo, giuocatore e taverniere, fece in versi una sua
giustificazione che diceva;

    Aestuans intrinsecum — ira vehementi
    In amaritudine — loquor meae menti,
    Factus de materia — vilis elementi,
    Folio sum similis — de quo ludunt venti.
    Cum sit enim proprium — viro sapienti
    Super petram ponere — sedem fundamenti,
    Stultus ego comparor — fluvio labenti
    Sub codem aere — nunquam permanenti.
    Feror ego veluti — sine nauta navis,
    Ut per vias aeris — vaga fertur avis.
    Non me tenent vincula — nec me tenet clavis
    Quaero mei similes — et adiungor pravis.
    Mihi cordis gravitas — res videtur gravis;
    Iocus est amabilis — dulciorque favis.
    Quidquid venus imperat — labor es suavis,
    Quae nunquam in cordibus — habitat ignavis
    Via lata gradior, — via iuventutis;
    Implico me vitiis — immemor virtutis
    Mortuus in anima — curam gero cutis,
    Voluptatis avidus — magis quam salutis.
    Praesul discretissime, — veniam te precor:
    Morte bona morior, — dulci nece necor;
    Meum pectus sauciat — puellarum decor,
    Et quas tactu nequeo, — saltem corde mecor.
    Rest est paratissima — vincere naturam?
    In aspectu virginis — menten esse puram?
    Iuvenes non possumus — legem sequi duram,
    Leviumque corporum — non habere curam.
    Quis in igne positus — igne non uratur?
    Quis Papiae commorans — castus habeatur?
    Ubi Venus digito — iuvenes venatur,
    Oculis illaqueat, — facie praedatur.
    Si ponas Ipolitum — hodie Papiae,
    Non erit Ipolitus — in sequenti die.
    Veneris in talamos ducunt omnes viae
    Non est in tot turribus — turris Alachiae.
    Secundo redarguor — etiam de ludo:
    Sed cum ludus corpore — me dimittat nudo,
    Frigidus exterius — mentis aestu sudo.
    Tunc versus et carmina — meliora cudo.
    Tertio capitulo — memoro tabernam;
    Illam nullo tempore — sprevi nec spernam,
    Donec sanctos — veniente cernam angelos
    Cantantes pro mortuis — requiem aeternam.
    Poculis accenditur — animi lucerna;
    Cor imbutum nectare — volat ad superna.
    Mihi sapit dulcius — vinum de taberna
    Quam quod aqua miscuit — Praesulis pincerna.
    Loca vitant pubblica — quidam poetarum
    Et secretas eligunt — sedes latebrarum.
    Student, instant, vigilant — nec laborant parum,
    Et vix tandem reddere — possunt opus clarum.
    Student, instant, vigilant — poetarum chori,
    Vitant rixas pubblicas — et tumultus fori;
    Et ut opus faciant — quod non possit mori
    Moriuntur studio — subditi labori.
    Unicuiqe proprium — dat natura donum;
    Ego versus faciens — bibo vinum bonum,
    Et quod habent purius — dolia cauponum.
    Vinum tale generat — copiam sermonum:
    Unicuique proprium — dat natura munus
    Ego nunquam potui — scribere ieiunus.
    Me ieiunum vincere — posset puer unus.
    Sitim et ieiunium — odi quasi funus.
    Tales versus facio — quale vinum bibo.
    Nihil possum facere — nisi sumpto cibo,
    Nihil valent penitus — quae ieiunus scribo.
    Nasonem post calicem — carmine praeibo.
    Mihi nunquam spiritus — poetriae datur,
    Nisi prius fuerit — venter bene satur.
    Dum in arca cerebri — Baccus dominatur
    In me Foebus irruit — et miranda fatur
    Meum est propositum — in taberna mori
    Ut sint vina proxima — morientis ori.
    Tunc occurrent citius — angelorum cori.
    Sit Deus propitius — mihi peccatori.
    Ecce meae proditor — pravitatis fui,
    De qua me redarguunt inservientes tui.
    Sed eorum nullus — est accusator sui,
    Quamvis velint ludere — saeculoque frui
    Iam nunc in praesentia — praesulis beati
    Mittat in me lapidem — neque parcat vati,
    Cujus non est animus — conscius peccati.
    Sum locutus contra me — quid quid de me novi,
    Et virus evomui — quod tam diu fovi,
    Vetus vita displicet — mores placent novi,
    Homo videt faciem, — sed cor patet Iovi.
    Iam virtutes diligo, — vitiis irascor;
    Quasi modo genitus — novo lacte pascor,
    Ne sit meum amplius — vanitatis vas cor.
    Electe Coloniae — parce poenitenti,
    Et da poenitentiam — culpam confitenti;
    Feram quid quid iusseris — animo libenti.
    Parcit enim subditis — leo rex ferarum
    Et est erga subditos — immemor irarum.
    Et vos idem facite, — Principes terrarum.
    Quod caret dulcedine — nimis est amarum.

    Con un rovello in cor d'ira bollente
    Meco ragiono in duol colla mia mente.
    Plasmato d'un vilissimo elemento
    Somiglio a foglia, che sia scherzo al vento.
    Al saggio, è ver, convien saldar sua legge
    Su quella pietra che in eterno regge;
    Ma sovra un fiume che mai posa e guizza
    Lo stolto, che son io, sua sede rizza.
    Nave senza nocchier cui l'onda aggira,
    Augel travolto da Aquilon che spira,
    Non àncora mi tien non chiavistello
    Co' pari miei m'imbranco nel bordello.
    Ogni grave pensier l'alma mi strugge,
    E sol dal gioco sua dolcezza sugge.
    Opra soave sol ne impon Ciprigna,
    Ciprigna a cor gelato ognora arcigna.
    Volo per largo in giovanil furore;
    Guazzo nel male e al bene aduggio il fiore.
    Morto nell'alma, al corpo sol ridotto,
    Più del piacer che di virtù son ghiotto.
    Deh! mi perdona, o mio signor preclaro!
    Ov'è un morir più dolce? Ov'è più caro?
    Fior di fanciulle al cor dardi mi scocca,
    E se 'l tatto non può, desio le tocca.
    Chi può domare il cor? Chi la natura?
    Chi le belle guardar con mente pura?
    La giovanile età la legge rompe,
    E sbriglia il corpo, che qual tauro irrompe.
    Fu paglia in foco mai ch'arsa non sia?
    Fu casto niuno mai dentro Pavia?
    Ove il cinto di Venere t'allaccia,
    E il guardo, il dito, il volto dà la caccia?
    Vada pur oggi Ippolito a Pavia,
    Ippolito diman certo non fia.
    Venere ha nido in ogni via che scorri,
    Niuna è d'Alachia[46] fra tante torri.
    Poi di giocar, su me, l'accusa grava;
    Ma quel troppo giocar nudo mi cava,
    Mi gela fuor, m'infiamma entro la mente,
    E allor so verseggiar divinamente.
    M'accusan d'andar troppo all'osteria
    Fu sempre il mio gran gusto e ognor lo fia
    Sinchè verran l'angeliche coorti
    A cantare per me l'inno dei morti.
    Face dell'alma son del vin le spume,
    Che per volare al ciel danno le piume.
    E a me più piace il vin della taverna
    Che 'l pisciarel di vescovil pincerna.
    Vedi poeta a martellar sull'arte,
    Chiuso, solingo, starsene in disparte,
    E suda, dura, veglia e si martoria
    E in fin ne miete a pena un po' di gloria.
    Suda e s'affanna de' poeti il coro,
    Fugge teatri e strepiti di foro;
    E per comporre un carme imperituro,
    Dorme anzi tempo tra color che furo.
    Ad ogni uom suo don le stelle danno:
    Ed io poeta del miglior tracanno
    Che spilli a me dell'oste la cantina,
    Che da facondia ricca, alta, divina,
    Ad ogni uom suo don le stelle diero;
    Ed io digiun non so trovar pensiero;
    E me digiuno anche un fanciullo atterra;
    Odio sete e digiun più che la guerra.
    Bei versi io detto se il mio nappo è vasto;
    E nulla posso far che dopo il pasto.
    Ciancie da nulla sol, digiuno, io vergo:
    Dopo i bicchier mi lascio i grandi a tergo.
    Poetica scintilla non m'accende
    Se pria buon cibo il ventre non mi stende.
    Quando nel mio cervello è Bacco in trono
    Febo mi fa del suo cantare un dono.
    Morire all'osteria io bramo e voglio,
    Per morire tra 'l vin qual viver soglio.
    Allor verran l'angeliche legioni,
    E Dio mi tocchi il cuore e mi perdoni.
    Ed ecco che di quel son reo confesso
    Che a carico di me le spie han messo:
    Ma nessuna di lor sè stessa accusa;
    Eppur di Bacco e di Ciprigna abusa.
    Ora dunque, o Signore, al tuo cospetto
    Lanci una pietra quì contra 'l mio petto,
    Nè d'un poeta il colga o tema o cura,
    Chi si sente di lor coscienza pura.
    Ecco quanto so dir a danno mio:
    Ecco le colpe che il mio sen nutrio.
    Ora il vecchio si spogli e si rinnove;
    Chè l'uom la faccia, il cor lo vede Giove.
    Già già virtude adoro, e il vizio fuggo;
    Quasi rinato nuovo latte suggo,
    A fin che il cor non serva, or fatto mondo,
    Ad albergar le vanità del mondo.
    Deh! perdona, o Signore, a chi s'emenda;
    Pari all'error su me la pena scenda.
    Sommesso al tuo volere umilemente
    Farò come colui che a pien si pente.
    Una fiera minor non la molesta
    Il biondo imperador della foresta.
    Per voi, o Prenci, ecco un solenne esempio:
    Incrudelir dall'alto, è vile ed empio.

L'anno sopranotato, cioè 1233, nel pontificato di Gregorio IX, di
Maggio, ne' giorni dell'_alleluja_, Federico Imperatore de' Romani,
incarcerò Enrico suo figlio Re di Lamagna, perchè contro la volontà del
padre aveva fatto adesione ai Lombardi, e lo tenne a lungo prigione.
E mentre da Castel S. Felice lo conducevano al carcere di un altro
castello, vinto dal tedio e dalla melanconia, si precipitò da un
burrone, e morì. Si adunarono perciò, in assenza del padre, i principi,
i baroni, i cavalieri e i giudici per dargli sepoltura. E con loro si
trovò presente anche frate Luca pugliese dell'Ordine de' Minori, di
cui è il libro intitolato ==_Sermonum Memoria_==, per farne, secondo
l'uso de' Pugliesi, l'orazione funebre. E dal libro della Genesi capo
22º prese il tema, che dice: _Abraam stese la mano, e prese il coltello
per iscannare il suo figliuolo._ Ed i giudici e le persone colte che
erano presenti dissero: questo frate dice tali cose, che l'Imperatore
gli farà tagliare la testa. Ma se la passò altrimenti; perchè fece
una tanto splendida orazione in lode della giustizia, che l'Imperatore
avendola udita celebrare, volle averne copia.


a. 1234

Nell'anno 1234 si ebbe tanta neve e ghiaccio in tutto il mese di
Gennaio che ne gelarono le vigne e le piante da frutta. E di freddo
morirono anche animali selvatici; e i lupi entravano sino entro la
città di notte, e di giorno ne furono presi, uccisi e sospesi, a
spettacolo, nelle piazze delle città. E per il gelo eccessivo gli
alberi si spaccavano dall'alto al basso, e molte piante perdettero la
forza vegetativa e perirono. E vi fu gran battaglia nella diocesi di
Cremona fra Cremonesi, Parmigiani, Pavesi, Piacentini e Modenesi da una
parte, e dall'altra Milanesi, Bresciani e loro alleati.


a. 1235

L'anno 1235 il giorno 18 Aprile soffiò un vento rigido e cadde una neve
freddissima, e la notte successiva vi fu gran brinata, che distrusse
i vigneti. Il 23 d'Aprile di nuovo altra neve e brina, e le vigne ne
rimasero completamente morte. Lo stesso anno il Po gelò si forte che si
passava a piedi e a cavallo. E questo stesso anno fu ucciso, un lunedì
14 Maggio, _Guidotto_ vescovo di Mantova, figlio del fu _Frugerio_
da Correggio della famiglia degli Avvocati di Mantova. Sua sorella
Sofia moglie di Rainerio degli Adelardi di Modena, fu mia divota.
Ed è notabile che il Collegio de' canonici e de' prelati di Mantova
mandò alla Corte del Papa ad annunziarne la morte uno speciale ed
eloquentissimo messo; il quale, quantunque fosse giovane, parlò tanto
splendidamente al cospetto del Papa e de' Cardinali, che ne restarono
meravigliati. E, finito di parlare, tirò fuori la dalmatica ancora
insanguinata, che il prenominato vescovo di Mantova indossava quando
fu ucciso presso la chiesa di S. Andrea, e la spiegò davanti al Papa,
dicendo: Guarda, o Santo Padre, e osserva e riconosci se questa sia,
o no, la tunica del figlio tuo. Vedutala, piansero inconsolabilmente i
Cardinali e il Papa Gregorio IX, che era uomo molto facile a muoversi
a compassione, e che aveva viscere di pietà. Perciò la famiglia
Avvocati di Mantova, uccisori del loro vescovo furono espulsi dalla
città; nè più furono richiamati, e sino ad oggi vagano quà e là in
esiglio, affinchè i perversi, de' quali come degli stolti è infinito
il numero, ed i malfattori che funestano le città e difficilmente
si correggono, imparino a conoscere che non è facile contrastare ai
voleri di Dio; e sappiano ancora che Dio colpisce più severamente
l'ingiuria fatta a' suoi servi, che quella che è fatta a lui stesso.
Nota quel che i Toscani dicono in loro volgare: _Dohmo alevadizo, et
de pioclo apicadhizo non po lohm gaudere_: cioè da uomo raccattato,
e da pidocchio rivestito non si può aver mai buon costrutto; che è
quanto dire che non avrai mai una consolazione da un meschino, che ti
si mette a' panni, e da uno estraneo che tu alimenti. Il che si fece
palese anche in Federico II, cui la Chiesa allevò come suo pupillo, e
poscia contro la Chiesa levò i calci e la afflisse in molte maniere. Ma
contro se stesso alzò il calcagno. Perocchè fu violentemente deposto,
nè dalla sua malignità trasse alcun vantaggio. Ciò che s'è detto più
sopra si mostra palese anche in colui, che ora è Marchese d'Este, e in
molti altri. Un altro, di cui Dio stesso si fece vindice, fu il beato
Tomaso vescovo di Cantorbery, di cui si legge nella sua biografia:
«La vendetta divina fu tanto severa contro i persecutori del martire
che in breve tolti di mezzo disparvero, e, alcuni furono colpiti di
morte subitanea senza confessione e comunione; altri, lacerandosi
a frusti le dita, o la lingua; altri, grondanti di tabe da tutto il
corpo, dilaniati prima di morire da inauditi tormenti; altri, colti
da paralisi, altri impazziti; altri, spirando furibondi, provarono
luminosamente che pagavano la pena di un'ingiusta persecuzione, e di un
premeditato parricidio. Questo egregio atleta di Dio, Tomaso, soffrì
il martirio il dì 29 Dicembre, martedì sulle undici ore, dell'anno,
secondo Dionisio, 1170, affinchè quel tempo che fu principio della
passione pel Signore, fosse pel martire principio della beatitudine
celeste, alla quale si degni far pervenire anche noi il medesimo Iddio
e Signor nostro Gesù Cristo, che vive e regna col Padre e collo Spirito
santo ne' secoli de' secoli, e così sia. Nel sopradetto anno poi 1235
i Parmigiani, i Cremonesi, i Piacentini ed i Pontremolesi, andarono
ad aiutare i Modenesi che volevano fare un cavo a monte di Bologna,
onde derivare il Panaro e condurlo ad urtare contro Castelfranco
per atterrarlo. E nessuno era esente dal lavoro: Chi scavava, chi
trasportava, nobiltà e popolo insieme. Lo stesso anno l'Imperatore
Federico mandò in Lombardia un elefante con molti dromedarii, camelli,
leopardi, girofalchi e astori, che passarono da Parma, ed io li vidi, e
si fermarono a Cremona.


a. 1236

L'anno 1236 in Settembre arrivò l'Imperatore Federico, ed invase la
Lombardia a malgrado dei Padovani, Vicentini, Trivigiani, Milanesi,
Bresciani, Mantovani, Ferraresi, Bolognesi e Faentini. Ma i Cremonesi,
i Parmigiani ed i Reggiani co' loro eserciti e duecento cavalieri
Modenesi gli andarono incontro. Passò il Mincio e l'Oglio, prese e
distrusse Marcaria[47] mantovana, e poi subito la ricostruì e la affidò
da difendere ai Cremonesi. Poi andò coi detti eserciti alla volta
di Mantova, e la tenne alquanti dì assediata. Prese Moso[48] della
provincia di Brescia, e lo diede anch'esso da difendere ai Cremonesi.
E allora quei di Gonzaga[49] restituirono Gonzaga all'Imperatore. Lo
stesso anno andò a Vicenza, la prese e la distrusse il 1º di novembre,
e fece un concordato con Salinguerra e i Ferraresi. Lo stesso anno la
vigilia di Natale i Mantovani corsero all'improvviso sopra Marcaria
e la ripresero con tutti i Cremonesi che la difendevano, e molti ne
trassero prigionieri a Mantova, molti ne uccisero.


a. 1237

L'anno 1237 Manfredo Cornazzani, cittadino di Parma, fu Podestà di
Reggio, e in settembre andò in aiuto dell'Imperatore Federico coi
Parmigiani e i Cremonesi coi loro carrocci; e passarono da Castel di
Moso, che era in mano dei Cremonesi, e presero Redondesco[50] bresciano
e Vinzolo mantovano e Castel Ghedi.[51] E trovandosi ivi l'Imperatore
fece pace coi Mantovani, sicchè gli mandarono fanti e balestrieri in
aiuto per l'assedio di Montechiaro[52]. E, mentre si recarono alla
volta di Montechiaro, incendiarono Guidizzolo[53]. Ed i Reggiani da
soli, assediato Carpenedolo[54] lo presero il 5 ottobre, come pure due
castelli di Casaloldo[55], uno che era dei Conti, e l'altro era dei
terrazzani di quel luogo; e li misero a fuoco. Parimenti ai 7 Ottobre
l'Imperatore strinse l'assedio di Montechiaro, e fu ospitato insieme
al suo seguito tra Montechiaro e Calcinato sul Chiese più presso
a Calcinato. L'11, giorno di domenica, que' di Montechiaro fecero
una sortita e diedero battaglia, e nel giorno seguente l'Imperatore
completò l'assedio di Montechiaro dall'una e dall'altra parte, e
lo batterono con manganelle e due baliste; e il giorno 22 Ottobre,
un giovedì, quei del castello si arresero all'Imperatore; e furono
tutti condotti via e messi in prigione. L'Imperatore aveva nel suo
esercito molti Saraceni. Così ai 2 di Novembre prese Gambara[56],
Castel Gottolengo, Pralboino e Pavone, e furono messi a ruba, a
ferro e a fuoco. E prima del dì di S. Martino venne coll'esercito a
Pontevico[57]. Allora l'Imperatore ricevette quel suo elefante che
aveva a Cremona, sul cui dorso s'ergeva una torre di legno a foggia del
carroccio dei Lombardi; ed era quadra e ben formata, e aveva quattro
bandiere, una ad ogni angolo, e nel centro un gran confalone, e dentro
chi conduceva la bestia con molti Saraceni. Di questa materia ne parla
abbastanza il 1º libro de' Macabei... L'Etiopia abbonda di questi
animali, la cui natura e le cui proprietà espose a sufficienza frate
Bartolomeo Inglese dell'Ordine dei Minori, in un libro che scrisse
intorno alla natura delle cose, diviso in dicianove capitoli. Fu
chierico grande e spiegò a Parigi in poche lezioni tutta la Bibbia. Nel
millesimo stesso suindicato, mentre l'Imperatore era col suo esercito
a Pontevico,[58] corsero i Milanesi contro di lui coll'esercito loro,
e stettero gran tempo a campo. Allora i bolognesi ai 25 di novembre
presero Castel Leone[59], che era de' Modenesi sulla strada presso
Castel Franco, lo smantellarono, e ne portarono a Castelfranco,
appartenente ai Bolognesi, il legname, le pietre e le altre cose;
e gli uomini che trovarono in Castel Leone li trassero in prigione
a Bologna. A Castel Leone vi era una bellissima torre, che cadendo
sbattè con tanta violenza le acque della fossa, che ne lanciarono
fuori un luccio bianchissimo, grosso e bello; e fu tosto offerto in
regalo al Podestà di Bologna, che era sopra luogo. Ed uno che vide
queste cose le raccontò a me una volta che ebbi occasione di passare
di là in sua compagnia. E mentre tutto ciò avveniva, l'Avvocato del
Comune di Parma cioè il Giudice del Podestà, che era Modenese, andava
su e giù a cavallo, preceduto da un battistrada, piangendo per la Via
di S. Cristina e gridando: Signori Parmigiani, accorrete e aiutate i
Modenesi; e vedutolo ed uditolo, io lo presi ad amare, perchè procurava
di far del bene a' suoi compatrioti. E per essere più facilmente
esaudito ripeteva quelle parole, e aggiungeva: Signori Parmigiani,
correte e soccorrete i Modenesi, amici e fratelli vostri; sicchè
all'udir quelle parole, io ne era commosso sino alle lacrime. Perocchè
io andava pensando che Parma era senza uomini; nè erano rimasti a
casa che i ragazzi, le ragazze, i giovinetti, le donzelle, i vecchi e
le donne. Gli altri erano andati contro i Milanesi, insieme ad altri
eserciti, al seguito dell'Imperatore in aiuto della sua impresa. E lo
stesso anno ai 27 di novembre i Milanesi furono rotti dall'esercito
dell'Imperatore, che ne fece massacro, e perdettero presso
Cortenuova[60] il carroccio, cui poi l'Imperatore mandò a Roma. Ma i
Romani per oltraggio a Federico lo abbruciarono; mentre egli credeva
d'aver fatto cosa loro gradita, e valevole a renderseli favorevoli.
In quel combattimento fu fatta grande strage di Milanesi; ed anche il
figlio del Doge di Venezia, che era allora Podestà di Milano, fu preso
dall'esercito dell'Imperatore, e mandato prigione a Cremona. E così
l'Imperatore conquistò quasi tutta la Lombardia e la Marca Trivigiana.


a. 1238

L'anno 1238 l'Imperatore cinse d'assedio Brescia. E con lui e col suo
esercito erano i Parmigiani, i Cremonesi, i Bergamaschi, i Pavesi,
mille fanti e duecento cavalieri Reggiani, e Saraceni, e Tedeschi ed
altra gente diversa e innumerevole. E vi stettero a campo lungo tempo;
e allora l'Imperatore fece costruire castelli di legno per battere
i Bresciani, e posevi sopra i prigionieri fatti a Montechiaro. I
Bresciani manganarono quei castelli e li distrussero senza far male di
sorta ai prigionieri, che vi erano sopra; ma per rappresaglia appesero
per le braccia all'esterno dello steccato della città i prigionieri
imperiali che avevano tra mani. Nè l'Imperatore potè prendere la detta
città di Brescia, perchè fece validissima difesa. E l'Imperatore si
ritirò confuso con tutti gli alleati che aveva seco nell'esercito.


a. 1239

L'anno 1239 l'Imperatore Federico fu scomunicato da Gregorio IX; i
Francesi oltremare furono sconfitti; fu deposto frate Elia ministro
Generale dell'Ordine dei Minori, e gli fu sostituito frate Alberto
da Pisa; vi fu eclisse di sole con orribile e terribile oscurità,
tanto che si videro le stelle; ed io stesso frate Salimbene da Parma,
che era a Lucca di Toscana, lo vidi co' miei occhi. E già da un'anno
io era nell'Ordine de' frati Minori, e più quel tanto di tempo che
corre dalla festa della Purificazione, sino al giorno in cui si vide
l'eclisse il venerdì tre giugno, a nove ore antimeridiane; e pareva
notte scura, e uomini e donne ebbero grande spavento; e quà e là, come
pazzi, correvano percossi da affanno e da paura. E il gran timore ne
fece correr molti a confessarsi, e far penitenza de' loro peccati; e
molti si rappacificarono che erano tra loro in discordia. E Manfredo
Cornazzani Parmigiano, allora Podestà di Lucca, presa in mano una
croce, andava processionalmente per la città co' frati Minori ed altri
religiosi regolari e secolari; ed il Podestà stesso predicava intorno
alla passione di Cristo, e rimetteva in concordia i nemici. Questa
cosa ho veduto io testimonio presente. E mio fratello, frate Guido di
Adamo, e frate Fasso anch'esso di Parma, erano là con me. E Domafolo
di Miano[61] e Giacomo di Maluso, cugino di mia madre, erano avvocati,
ossia assessori del predetto Manfredo Podestà di Lucca. Questo
Manfredo e donna Auda moglie sua e sorella di Bartolo Tavernieri erano
i principali benefattori dell'Ordine de' Minori. Queste beneficenze
le ho vedute io co' miei proprii occhi nel convento de' frati Minori
di Medesano[62], nel qual castello erano altri nobili cavalieri e
nobili donne che facevano di molto bene ai frati Minori. E Iddio ne li
rimeriti colla retribuzione dei giusti. Nello stesso anno l'Imperatore
Federico coi Parmigiani e i Modenesi e con mille fanti e duecento
cavalieri Reggiani ne' mesi di Luglio, Agosto, Settembre tenne in
assedio Piumazzo e Crevalcore[63], ambidue castelli dei Bolognesi; ed
ambidue furono smantellati: onde i giocatori degli scacchi derivarono
il proverbio; _scacco per Vignola aven_[64] _Plumazo_. E nello stesso
anno mentre l'Imperatore stava assediando Piumazzo e Crevalcore coi
Parmigiani e Modenesi e Reggiani, arrivarono i Bolognesi e incendiarono
borgo S. Pietro[65] fuori porta della città di Modena, e misero a fuoco
anche quanto trovarono tra il detto borgo e la città. Lo stesso anno
i Bolognesi furono sconfitti presso Vignola[66] dai Parmigiani e dai
Modenesi, che ne uccisero molti e li sommersero nel fiume, e molti ne
fecero prigionieri. Vi fu anche ribellione di alcuni Principi e Baroni
nella Marca Trivigiana, principale de' quali fu Azzone Marchese d'Este
con tutti quelli di parte sua e con quei di Treviso.


a. 1240

L'anno 1240 morì frate Alberto da Pisa, ministro Generale dell'Ordine
de' frati Minori, e fu eletto a sostituirlo frate Aimone d'Inghilterra,
poichè frate Elia aveva apostatato e fatta adesione a Federico. In
Gennaio dello stesso anno gelò si forte il Po che si passava dall'una
all'altra parte del fiume a piedi e a cavallo. E nei mesi di Febbraio,
Marzo e Aprile fu assediata Ferrara con grande oste da Azzone Marchese
d'Este, e da Gregorio da Montelungo, Legato in Lombardia, e dal Doge
di Venezia; e ognuno di loro aveva seco grosso esercito. E allora
era Podestà di Ferrara Raimondo da Sesso. E i Ferraresi fecero la
dedizione della loro città, e consegnarono il Salinguerra in mano ai
prenominati Gregorio di Montelungo, Marchese d'Este, e Doge di Venezia.
Il Salinguerra poi e con lui altri nobili suoi partigiani furono
mandati prigionieri a Venezia; ove il Salinguerra stette a confino, e
vi morì, e vi ebbe sepoltura. Egli fu uomo potente e famoso e celebre
e stimato per gran sapienza. Resse benissimo la Signoria di Ferrara,
come una volta l'aveva retta Guglielmo di Marchesella, e l'aveva
data al Marchese d'Este, che prima non aveva avuto mai in Ferrara
nulla che fosse suo. Ma realmente la città di Ferrara è del Papa, ed
è terra della Chiesa; e l'ho udito io dire le cento volte, perchè io
vi ho soggiornato sette anni, e l'ho udito anche da Papa Innocenzo IV
in pubblica predica, stante che, quando egli predicava dal balcone
del palazzo del vescovo di Ferrara, io era sempre al suo fianco.
Tuttavia il Salinguerra usava dire: Il cielo è di Dio, ma la terra è
degli uomini: Quasi con questo intendesse di gloriarsi come potente
sulla terra. Ma nulla ostante egli morì nella laguna di Venezia. Era
sapiente, ma ebbe un figlio stolto, come Salomone ebbe Roboamo. Quel
suo figlio si chiamava Giacomo Torello, e anch'esso usava frequente
un suo proverbio, che diceva: _L'asen dà per la parè; botta dà, botta
receve;_ che vuol dire: L'asino quando tira calci batte sulla muraglia;
dà un colpo, e un colpo riceve, cioè, percuote ed è ripercosso. Ed i
contadini giudicavano sapientissimo quel motto, perchè credevano che
fosse detto a capello del Papa e dell'Imperatore, che allora erano tra
loro discordi. In quel tempo era Papa Gregorio IX e Imperatore Federico
II: dal quale fu presa Ravenna dopo la morte di Paolo Traversari. Qui
è da notare che in antico eranvi a Ravenna quattro nobili casati, come
ho letto più volte nel pontificale di Ravenna, dove ho dimorato cinque
anni. Ed ora tutti que' casati, che erano i più nobili, e primeggiavano
sugli altri, sono spenti; e l'ultimo a venir meno fu quello di Paolo
Traversari, che a' miei giorni si estinse completamente. Questo Paolo
Traversari fu bellissimo cavaliere, gran barone, straricco e ben
voluto da' suoi concittadini; ma tuttavia ebbe in Ravenna un emulo ed
avversario, che fu un certo Anastasio. Paolo ebbe un figlio, che lasciò
una figlia non legittima, detta Traversaria dal nome del casato di lui.
Io l'ho veduta assai volte, ed era bellissima donna ben costumata, di
mezzana statura, cioè nè alta nè bassa. Papa Innocenzo IV la legittimò
affinchè potesse reditare, e la diede per moglie a Tomaso Fogliani
di Reggio, suo parente, cui fece anche conte nelle Romagne, e fu
caro ai Ravennati. Questo Tomaso poi generò di quella un figlio, di
nome Paolo, ch'io ho conosciuto bellissimo fanciullo ed avvenente, il
quale, giunto al bivio della lettera pitagorica, morì lasciando erede
Matteo Fogliani, che ne occupò poi i beni. Dopo la morte di Tomaso, la
moglie sua si rimaritò col nipote del Marchese d'Este, cioè Stefano,
figlio del Re d'Ungheria, fratello di Sant'Elisabetta, ma soltanto da
parte di padre. Di questo matrimonio nacque un bel fanciullo, che in
processo di tempo morì. E la moglie di Stefano morì e fu sepolta nel
sepolcreto di Paolo Traversari nella chiesa di San Vitale in Artica a
Ravenna. Stefano poi andò a Venezia ove chiuse i suoi giorni miserrimo
e poverissimo. E, come disse Giuseppe parlando di Erode Agrippa, non
era veramente uomo, per cui riguardo sia molto da rimproverare di sua
mutabilità la fortuna. E come Giuseppe narra di tre speciali disgrazie
d'Erode Agrippa, così noi possiamo dire di altrettante che colpirono
Stefano. Prima sventura ad incoglierlo fu che sua madre, dopo la
morte di Andrea Re d'Ungheria, fuggì dall'Ungheria incinta per timore
di essere uccisa dagli Ungheresi, come avevano ucciso altra regina,
cioè la madre di Sant'Elisabetta. Secondo, gli fu messo a carico
che la madre lo avesse concepito da un tal Dionisio; epperciò non lo
riconoscevano per figlio del re d'Ungheria, e non lo ammettevano alla
successione. E questa cosa restò per molti anni dubbia nella mente del
re d'Ungheria. E molti frati Minori Ungheresi, passando per Ferrara,
volevano vederlo, e dicevano che si assomigliava perfettamente al re
d'Ungheria suo padre. Terzo, perchè essendo allevato in Ferrara alla
corte del Marchese d'Este, ed essendo tenuto appartato, perchè per
diritto di più prossimo parente doveva essergliene il successore, come
figlio di una nipote, che era figlia del fratello di lui Aldobrandino,
fu portato in frattanto dalla Puglia sopra un asino un bambino, nato
da una certa nobildonna di Napoli e di un certo principe Rainaldo,
figlio di Azzone marchese d'Este già defunto, come si disse allora, ma
in vero l'Imperatore teneva lo stesso Rainaldo in prigione a Napoli,
come ostaggio. Se questo fatto sia fittizio, e inventato a malizia, o
se sia vero, non so. Ma comunque fosse, Stefano fu espulso da Ferrara,
e andò a dimorare a Ravenna: e il fanciulletto ultimo condotto tenne
la signoria del Marchese d'Este....... E fu pessimo uomo...... Questi è
Obizzo Marchese d'Este, che ora signoreggia in Ferrara, e che pe' suoi
peccati..... è guercio. Perocchè caracollando in un torneo la vigilia
di Pasqua, spezzatasi l'asta, si offese l'occhio destro e ne perdette
la vista. E tali caracollamenti faceva perchè era innamorato di una
donna, che era presente. Così pure fu detto di lui che... stuprava in
Ferrara le mogli de' nobili e de' plebei. Alcuni dissero che questo
Obizzo fosse figlio.... Inoltre spogliò la famiglia Fontana, che lo
aveva esaltato e sublimato, e la espulse da Ferrara. Molto male fece,
e molto ne riceverà da Dio, se non si emenda. Con Ottobono, che diventò
poi Papa Adriano, ebbe sì intima amicizia che sposò poi una parente di
lui, d'onde gli nacquero tre figli ed una figlia. Il primogenito fu
Azzone, che prese per moglie una parente di Papa Nicolò III, romano,
che, quand'era Cardinale, si chiamava Giovanni Gaetani; e al posto
di Cardinale subentrò Matteo Rossi, figlio di Orso, fratello germano
del Papa. Questo Matteo Rossi era governatore, protettore e censore
dell'Ordine de' frati Minori a seconda della loro regola. E Papa
Nicolò lo designò e lo diede all'Ordine, quantunque i frati avessero
già prima fatta domanda di avere Girolamo, stato già loro ministro
Generale. Secondo Cardinale parente del Papa fu Giacomo Colonna, che
è favorevolissimo all'Ordine de' Minori. E quando era ancor giovane e
cittadino privato, quando cioè non era ancora stato elevato ad alcuna
dignità, da Bologna ove era a studio, andò a Ravenna a visitare per
divozione le chiese; perchè in Ravenna, tutto il mese di Maggio, vi
sono amplissime indulgenze; e molti vi accorrono dalle diverse parti
del mondo per conseguire colle preghiere quelle indulgenze che sempre
desiderarono. Perciò dunque Giacomo venne a Ravenna, ove io allora
abitava nel convento de' frati Minori della Chiesa di S. Pietro
maggiore, in cui si venera il corpo di S. Liberio, eletto per mezzo di
una colomba, e fui designato ad accompagnarlo, e lo condussi a tutti
i Santuarii dentro e fuori della città. Terzo Cardinale, parente di
Papa Nicolò III fu Latino dell'Ordine de' frati Predicatori. Questi,
in quanto alla fisonomia, a mio giudizio, si assomigliava pienamente
a Pietro Lambertini di Bologna. Papa Nicolò lo fece Legato per la
Lombardia, e con una certa sua ordinanza diede assai su' nervi a tutte
le donne, comandando che le loro vesti fossero sol tanto lunghe da
arrivare a terra, più la giunta di un palmo. Perocchè prima traevano
per terra la coda delle vesti con uno strascico di un braccio e mezzo.
Onde al proposito dice Patecelo:

    _Et drappi longhi ke la polver menna._
      La lunga vesta che la polve innalza.

E lo fece pubblicare nelle chiese, e l'impose alle donne come precetto,
ordinando anche che nessun sacerdote potesse assolvere quelle che non
vi si attenevano; la qual cosa fu alle donne più amara che la morte. Ed
una mi disse in confidenza che si teneva più cara quella coda che tutto
il resto del vestiario. Oltrecciò il Cardinale Latino comandò che tutte
le donne, giovinette, donzelle, maritate, vedove e matrone uscissero di
casa col capo velato. La qual cosa fece loro orrore. Ma pure a questa
vessazione seppero trovare un rimedio, mentre non era possibile averlo
per le code. Perocchè fecero fare veli di bisso e di seta intessuta con
oro, coi quali acquistavano un'apparenza dieci volte più seducente, e
provocavano maggiormente a lascivia coloro che le riguardavano. Quarto
Cardinale parente di Papa Nicolò fu Giordano, suo fratello germano,
uomo di poca dottrina e quasi laico. E creò questi quattro Cardinali
suoi parenti per esaltare que' del suo sangue e della sua carne. E così
fece la Chiesa cosa della sua famiglia, come fecero talvolta alcuni
Pontefici romani, de' quali dice Michea.... Ed io in mia coscienza
credo certissimo che l'Ordine del beato Francesco, del quale io sono
un umile, anzi il minimo fraticello, abbia ben mille frati Minori, che
per ragione di scienza e di santità sarebbero più degni del cardinalato
che molti di quelli, che per parentela ne furono insigniti dai romani
Pontefici. E ve n'è un esempio recente. Papa Urbano IV di Troyes
promosse al cardinalato Angero suo nipote, lo esaltò e lo sublimò,
quanto a ricchezze e ad onori, sopra tutti i Cardinali della corte;
mentre prima non era che un vilissimo scolaretto, tanto che portava a
casa dal macello le carni anche per altri scolari, coi quali studiava.
In seguito poi s'è saputo che era figlio del Papa. Quarta sventura di
Stefano fu la morte di suo figlio e di donna Traversaria sua moglie,
dalla quale aveva avuto in Ravenna e per le Romagne ricchezze, onore e
gloria. Laonde dovette rifuggirsi a Venezia, ove morì nella desolazione
e nella miseria. Dopo questo, cioè dopo la morte di Stefano, venne un
certo Guglielmotto dalla Puglia con una certa donna, che lo seguiva,
e che prima si chiamava _Pasquetta_, e le pose poi nome Aica, e la
diceva sua moglie, e figlia di Paolo Traversari. Ma sta di fatto che
l'Imperatore Federico aveva presa l'Aica figlia di Paolo Traversari, e
l'aveva mandata come ostaggio in Puglia, e poi, sdegnato ardentemente
contro il padre della fanciulla, la fece gettare in una fornace accesa,
e così essa volò al cielo. E vi era presente, e la confessò, un frate
Minore di nome Ubaldino, nobil uomo di Ravenna, fratello di Sigorello,
e che dimorava in Puglia. Era bellissima giovane; nè vi è punto da
meravigliare perchè ebbe un bellissimo padre. Guarda Paolo Traversari,
e guarda Re Giovanni, e giudica, se sai, chi di loro sia più bello. Ma
questa Pasquetta, che si dava per figlia di Paolo, e s'era assunto il
nome di Aica, era brutta donna, deforme, misera e oltremisura avara.
Ed io lo so, chè ho parlato secolei in Ravenna, dove io abitava quando
venne colà, e l'ho vista le centinaia di volte. Essa aveva imparato a
conoscere da una sua donna i costumi di colui, che voleva far credere
suo padre; come anche le condizioni di Ravenna. Inoltre un certo
tale di Ravenna, ch'io ben conosceva, e che andava frequentemente
in Puglia, di dette cose maliziosamente la istrusse, sperando, se la
fortuna la portava in alto, di ottenerne da lei un premio. Costui si
chiamava volgarmente Ugo di Barco, ed io lo conosceva. Giunse pertanto
Guglielmotto con sua moglie; e i Ravennati, avendone avuta notizia,
si rallegrarono e andarono loro incontro per fare a loro una festosa
accoglienza. Uscii anch'io col frate mio compagno sin fuori porta S.
Lorenzo, e stetti sul ponte del fiume aspettando per vedere come la
finisse. E intanto mi venne incontro un giovane correndo, e disse: E
perchè non sono venuti gli altri frati? In verità sin anche il Papa, se
fosse a Ravenna, dovrebbe venire a vedere tanta letizia. Ciò udendo,
lo guardai, e sorrisi, e dissi: Che tu sii benedetto, o figlio; hai
parlato bene. Entrato in Ravenna, si recarono tosto alla Chiesa di
S. Vitale a visitare innanzi tutto la tomba di Paolo Traversari. E
Pasquetta, stando davanti all'arca di Paolo, cominciò a piangere a
udita di tutti, quasi piangesse per Paolo, personaggio nobile, valoroso
e prudente, come se fosse stato suo padre. Spiacque però quel mostrarsi
sdegnosa di vedere che anche Traversaria fosse sepolta nel sepolcro di
suo padre. Poscia andarono agli alberghi già per loro allestiti. Queste
particolarità me le raccontò Giovanni monaco sagrista di S. Vitale,
amico mio, che era presente e vide. Il giorno dopo, Guglielmotto
tenne un'allocuzione davanti al Consiglio de' Ravennati. Egli era bel
cavaliere e magnifico oratore. E, terminata la sua orazione, e fatte
nella concione le sue proposte, i Ravennati gli offrirono e promisero
più di quello che aveva richiesto. Perocchè erano lieti che rivivesse
il casato di Paolo. Gli stessi sensi provò anche Filippo Arcivescovo
di Ravenna, oriondo toscano. E Guglielmotto entrò in possesso di tutti
i beni e di tutte le terre di Paolo con sicurezza maggiore di quella,
colla quale li aveva posseduti Paolo stesso. Ed ebbe abbondanza di
denaro e di rendite; e fabbricò corti, casali, mura e palazzi, e molti
anni, come ho visto io, gli arrise la prospera fortuna. Ma dopo si levò
contro la Chiesa, e perciò fu espulso da Ravenna, e si smantellarono
tutti i suoi palazzi e tutti i suoi edifizii. Quella Pasquetta sua
moglie, che si faceva chiamare Aica, da lui non ebbe figli; però mandò
in Puglia e si fece condurre due ragazzi, uno di cinque e l'altro di
sette anni, che diceva essere suoi figli. Finalmente ne morì uno, e
fattolo seppellire nel sepolcreto di Paolo, cominciò a mandar grida
di dolore, e a dire esclamando: Oh! magnificenze di Paolo, ove vi
abbandono? Oh! magnificenze di Paolo ove vi abbandono? Oh magnificenze
di Paolo, ove vi abbandono? Finalmente, insorgendo molte guerre, chiuse
i suoi giorni a Forlì, e Guglielmotto se ne tornò in Puglia spogliato e
nudo; sicchè gli si potrebbe applicare il detto del poeta;

    _Non eodem cursu respondent ultima primis._
    Non gira sempre egual la cieca Dea;
    Or lieta t'accarezza, ed or t'è rea.

Che poi di queste frodi, di queste simulazioni e di queste corbellature
ne possano avvenire al mondo, non è punto da dubitare, perchè ne
abbiamo molti esempi. Ed anzi tutto il finto Alessandro, ai tempi
di Cesare Augusto, di cui parlano le storie. Così si dica del conte
di Fiandra, che morì oltremare. Dopo molti anni arrivò un tale, che
assomigliava in tutto al conte, e si presentò alla contessa di Fiandra
dicendole ch'egli era suo padre; e sapeva dire cose dalle quali si
poteva congetturare che dicesse la verità. Ma avendogli essa, per
suggerimento dei suoi, chiesto chi lo avesse fatto cavaliere, non
seppe rispondere, e quindi lo fece impiccare. Il terzo caso è di
Federico Imperatore deposto, dopo la cui morte si trovò un eremita,
che era di aspetto somigliantissimo all'Imperatore, e conosceva punto
per punto le cose del regno, dell'impero e della corte Reale. Alcuni
principi e baroni della Puglia, volendo invadere ed occupare il regno,
coll'assenso di lui lo tolsero dal romitaggio, e divulgarono che
l'Imperatore viveva ancora. E l'eremita si prestava col suo assenso a
queste cose, perchè sperava acquistarne ricchezze ed onori. Ma Manfredi
figlio di Federico, che era chiamato principe, lo fece prendere e
ordinò che fosse sottoposto a tormenti e fatto morire. Nota che questa
frode, riguardo a Federico, si presumeva facile a condursi a buon fine,
perchè nella Sibilla si legge: _Si divolgherà in mezzo ai popoli: vive
e non vive._ Laonde anch'io per molto tempo stentava a credere che
fosse morto; se non che l'udii poi co' miei orecchi dalla bocca stessa
di Innocenzo IV, quando nel suo ritorno da Lione egli predicava al
popolo affollato in Ferrara. Perocchè io era sempre al suo fianco, e
disse nella predica: _Quel Signore che una volta fu Imperatore, nostro
nemico, e avverso a Dio e alla Chiesa, è morto, come per sicuro è stato
annunziato a noi._ L'udirlo mi riempì di stupore, e appena ancora potei
crederlo. Perocchè io era Gioachimita, e credeva, e m'aspettava, e
sperava che Federico fosse per fare ancora mali maggiori di quelli che
aveva già fatti, sebbene non fossero pochi. Quarto esempio ne è quello
di un certo, che diceva di essere Manfredi, figlio di Federico, quel
Manfredi che era stato debellato da Re Carlo, fratello di Lodovico re
di Francia. E perciò Re Carlo ordinò che quel finto principe Manfredi,
che gli si era presentato, fosse ucciso. E fece uccidere a que' dì
molti che s'infingevano Manfredi. Ma di ciò basti. Perocchè queste cose
non le ho dette di proposito, ma soltanto trattovi dal caso di Paolo
Traversari. _Perchè lo spirito spira quando vuole,_ e non è in potere
dell'uomo impedirnelo. Ora ritorniamo all'anno di cui si cominciò a
parlare. Nel 1240 adunque l'Imperatore assediò Faenza, che si arrese a
patti, ma, entratovi, ruppe la fede loro data.


a. 1241

L'anno 1241 fu presa Faenza, cioè si arrese di accordo all'Imperatore,
il quale, come si disse, non serbò la fede data. Morì Papa Gregorio IX,
che fu amico e padre e benefattore dell'Ordine de' frati Minori, e a
lui successe Celestino IV milanese, che morì subito; cioè diciasette
giorni dopo. E la sede restò vacante dal 1241 sino al 1243, perchè i
Cardinali erano discordi e dispersi. E Federico aveva chiuse le vie,
tanto che molti ne furono presi; e ciò faceva per timore che alcuno di
quei che passassero, diventasse Papa. Ed io stesso in quel tempo fui
preso più volte. E allora pensai e studiai modo di scrivere lettere
come, in cifra.


a. 1242

L'anno 1242 fu Podestà di Reggio Lambertesco dei Lamberteschi
Fiorentino, che aveva amore a far ragione e giustizia ai cittadini; e
appunto perchè il detto Podestà aveva amore a far ragione e giustizia
alcuni reggiani fecero questi versi:

    Venuto è 'l liòne
    De terra fiorentina
    Per tenire raxone
    In la città regina.

E allora il Consiglio municipale di Reggio a quasi unanimità di voti
gli concesse facoltà di fare quel che volesse. E nello stesso anno fece
fare la strada di Reggiolo, i ponti sul cavo Tagliata, le fossa attorno
al castello di Reggiolo[67], e trenta braccia della torre.


a. 1243

L'anno 1243, sul finir di Giugno, il dì di S. Pietro, fu eletto
Papa Innocenzo IV, Lombardo, dei conti di Lavagna[68] nella diocesi
di Genova. E governò la Chiesa 11 anni, 5 mesi e 10 giorni. Questi
era stato canonico di Parma, e causa dello smantellamento di questa
città. Per poter adunare un concilio fuggì a Lione, nobile città della
Francia, nella Borgogna, sul Rodano, ove stette molti anni, cioè sino
alla morte di Federico, e vi era andato l'anno 1244. Questi a suo
tempo stipulò un gran trattato con Federico per ricondurre le cose a
pace, e in pendenza della contumacia dell'Imperatore contro la Chiesa,
coll'aiuto de' Genovesi andò in Francia; e celebrando un concilio
a Lione condannò Federico come nemico della Chiesa, e lo depose
dall'Impero, e procurò che fosse eletto re d'Allemagna il Langravio
della Turingia; dopo la cui morte fu eletto Guglielmo d'Olanda. Questo
Papa canonizzò a Lione S. Emondo confessore. Arcivescovo di Cantorbery.
Canonizzò anche a Perugia il beato Pietro[69] dell'Ordine de' frati
Predicatori, Veronese, ucciso dagli eretici tra Como e Milano pel suo
predicare contro di loro. Canonizzò eziandio in Assisi nella chiesa
del beato Francesco, S. Stanislao vescovo di Cracovia, fatto uccidere
dall'iniquo Principe (Federico?). Innocenzo, morto l'Imperatore
Federico, entrò in Puglia con un grande esercito, e poco dopo morì
a Napoli, ove ebbe sepoltura. E queste cose sono dette qui per
anticipazione. A questi tempi fiorì venerabile per vita e per scienza
il Cardinale Ugo, frate dell'Ordine de' Predicatori, che, dottore in
teologia, con dottrina sana e lucidissima commentò tutta la Bibbia. Fu
primo autore delle Concordanze bibliche. Ma in seguito furono fatte
concordanze migliori. Papa Innocenzo lo creò Cardinal prete di santa
Sabina; nella quale dignità si comportò lodevolmente sino alla morte.
Così nel sunnotato millesimo, alla corte dell'Imperatore Federico, morì
Nicolò vescovo di Peggio, a Melfi[70] in Puglia, ove fu anche sepolto.
Nello stesso anno, e contemporaneamente, furono eletti vescovi di
Reggio Guizzolo degli Albiconi, Prevosto di S. Prospero di Castello,
e Guglielmo Fogliani. Perciò nel mese di Settembre vi fu gran contesa
tra gli Albiconi, i Fogliani e il Podestà. Ma fu poi confermato vescovo
di Reggio Guglielmo Fogliani, perchè era parente del Papa Innocenzo
IV, che allora reggeva la Chiesa romana. Così pure il prenominato
Papa spogliò del vescovado di Parma Bernardo Vizio Scotti, che era de'
frati del Martorano, e che già lo possedeva come datogli da Gregorio
di Montelungo Legato in Lombardia, per darlo ad Alberto Sanvitali, suo
nipote di sorella. E Re Enzo figlio dell'Imperatore Federico occupò il
palazzo del vescovo di Reggio, e, in odio del Papa e del partito ostile
non lasciò che il sunnominato Guglielmo vi abitasse.


a. 1244

L'anno 1244 morì frate Aimone Inglese, ministro Generale dell'Ordine
de' frati Minori, e gli succedette frate Crescenzio della Marca
d'Ancona, già molto vecchio. Questi ordinò a frate Tomaso di Cellano
(che fu il primo a scrivere la vita del beato Francesco) che la
scrivesse di nuovo perchè in quella prima erano state ommesse molte
cose. E fece un bellissimo libro dei miracoli e della vita del santo
intitolato: _Memoriale del beato Francesco in mancanza della sua
persona:_ sul quale ne compilò poscia uno eccellente il ministro
Generale frate Bonaventura. E pure vi sono ancora molte cose, che
non sono notate; perchè il Signore tutti i giorni, e in tutte le
parti del mondo, non cessa di operare grandi miracoli per mezzo
del suo servo Francesco. Questi fu invitato al concilio, che si
tenne per la detronizzazione di Federico, da Papa Innocenzo IV con
lettera particolare, ch'io ho veduta; ma egli se ne scusò per la
sua vecchiezza; e in sua vece mandò frate Giovanni da Parma, uomo
santo e letterato; e che gli successe poi nel governo dell'Ordine.
In quest'anno furono inviate da Roberto Patriarca di Gerusalemme a
tutta la cristianità lettere, che portavano gravissime notizie, ed
erano di questo tenore: Io Roberto Patriarca, sebbene indegno, di
Gerusalemme, notifico a tutti quelli che sono inscritti nell'albo de'
cristiani che nell'anno del Signore 1244 ai 17 di Ottobre, cioè la
vigilia di S. Luca Evangelista si fecero quì da noi, cioè in Terra
Santa, molti massacri e molte tradigioni. Un primo massacro avvenne
in Agosto, quando Gerusalemme fu distrutta dai Colisimini. Un secondo,
la vigilia di Santa Lucia, nella pianura di Gadar, cioè sabbia bianca,
ove furono trucidati 312 frati militanti, e 324 difensori delle torri.
Del convento di S. Giovanni furono massacrati 325 frati militanti
e 200 guardie delle torri. Del convento degli Alemanni sopravissero
alla strage soli tre frati; gli altri, ed erano 400, furono passati
a fil di spada. Dell'ospizio di S. Lazzaro furono uccisi tutti i
militi lebbrosi. Caifasso fu ucciso con tutta la sua gente. Il conte
Gualterio di Giaffa restò prigioniero, e di tutti i suoi uomini
fu fatta strage. I militi del Principe d'Antiochia, ch'erano 300,
incontrarono la stessa sorte. Quelli del Re di Cipro, 300 anch'essi,
uccisi. L'Arcivescovo di Tiro con tutti i suoi fu vittima. Parimenti
il vescovo di Rama. Inoltre, e questo è più desolante, 16000 Francesi
versarono il loro sangue per la fede di Cristo, e così tanto numero di
crociati d'altre nazioni da non potersi contare. Ed è da notare che il
Soldano di Damasco, e il Soldano di Camele, e un grande de' Saraceni,
che si chiama Nas, e tutta la milizia del Signore di Allap, che avevano
giurato a noi fedeltà, ed erano più che 25000 Saraceni, sul finire del
combattimento ci tradirono, e i loro nomi saranno maledetti ne' secoli
de' secoli; e così sia.


a. 1245

L'anno 1245 il predetto Imperatore Federico fu detronizzato da Papa
Innocenzo IV in pieno concilio a Lione, città della Francia. Per la
qual cosa Federico esiliò principalmente da Parma e da Reggio tutti
gli amici più stretti del detto Papa, e alcuni li fece prigionieri;
poi raccolse l'esercito su Milano, e non gli tornò bene. Nello stesso
anno Lodovico Re di Francia andò a Cluny da Papa Innocenzo IV: ed
ebbe con lui un famigliare colloquio. Parimenti nello stesso anno,
il primo di Gennaio, giorno di Domenica, nella città di Reggio vi fu
grande stormo intorno alla casa di Scazano; e il lunedì successivo vi
fu armeggiamento tra i Roberti e que' da Sesso; dal qual fatto questi
ritrassero disonore. E fu bruciata la casa dei Calegari; e perciò
vennero espulsi dalla città Giberto de' Tarasconi, Aschiero degli
Aschierì e Viviano Meliorati, che era imputato d'averla incendiata,
o almeno di aver consentito che vi si appiccasse il fuoco. E furono
rigorosamente puniti. Un lunedì poi, 3 Luglio, arrivarono sopra Reggio
Simone di Giovanni di Bonifacio de' Manfredi, e Maravone de' Bonici
con moltissimi fanti e balestrieri, ed incendiarono porta San Pietro
ed entrarono in città per violenza. E quello stesso lunedì e martedì
successivo vi furono di nuovo grossi stormi per città. Quindi furono
espulsi per ordine dell'Imperatore, tutti i Roberti, i Fogliani,
i Lupicini, i figli di Giovanni di Bonifacio, Manfredo da Palù,
i Canini e moltissimi Parmigiani di quel partito. De' Reggiani ne
furono condotti via molti dall'Imperatore. In quello stesso anno Papa
Innocenzo IV era a Lione sul Rodano colla sua Corte e i Cardinali,
e depose l'Imperatore Federico dal trono imperiale, e lo scomunicò;
e l'Imperatore pubblicò un bando contro il Papa, e i Cardinali e i
Legati. E allora in Ottobre l'Imperatore marciò contro i Milanesi sul
Ticino, ed Enzo di lui figlio sulla Tagliata dell'Adda con Parmigiani,
Cremonesi e Reggiani; e presero Gorgonzola[71], nell'assedio della
quale fu fatto prigioniero il Re, che fu poi liberato dai Parmigiani e
dai Reggiani[72].


a. 1246

L'anno 1246 Tebaldo Francesco e molti altri baroni della Puglia si
ribellarono contro il deposto Imperatore Federico. E furono fatti
prigionieri dopo lungo assedio nel castello di Capaccio[73]; e uomini,
donne e fanciulli furono duramente trattati. Lo stesso anno per
intromissione dell'Imperatore Federico fu eletto podestà di Reggio il
Marchese Uberto Pallavicini, che andò all'assedio di Rossena[74] e di
Felina[75] nella diocesi di Reggio; e le ebbe per capitolazione. Il
prenominato Tebaldo Francesco fu poi una volta Podestà di Parma.


a. 1247

L'anno 1247 l'Imperatore Federico già deposto perdette Parma sul finir
di Giugno. Questa è la mia città, quella cioè di cui sono nativo, e la
tenne stretta di assedio dal Luglio al Febbraio successivo. Lo stesso
anno durante l'assedio, io uscii di Parma, e andai a Lione, e avendolo
il Papa saputo, subito il dì d'Ogni Santi mandò cercandomi; perocchè,
dal dì della mia partenza sino a quello del mio arrivo a Lione, il Papa
non aveva saputo nulla di Parma nè per notizie sicure, nè per voci
vaghe; e stava aspettando l'esito della contesa. E avendo io parlato
da solo a solo in camera con lui, molte cose si dissero, e poi egli mi
assolse da tutti i miei peccati e mi diede la facoltà di predicare. Lo
stesso anno in cui Parma si ribellò all'Imperatore, fu fatto ministro
Generale frate Giovanni da Parma in un Capitolo generale tenutosi a
Lione in Agosto, mentre ivi ancora soggiornava Papa Innocenzo IV. Lo
stesso anno Boso di Dovara fu podestà di Reggio; e tenne due mesi i
Reggiani col Re nei pressi di Guastalla. E nello stesso anno il Re
con Ezzelino fecero prigione Ugo de' Roberti da Reggio insieme a molti
altri presso Fano[76]. Fano poi è una piccola terra nella diocesi di
Reggio presso l'Enza; come pure vi è Bibiano, Tortigliano e Cavigliano,
ove sono canali e prati. E distrussero Brescello[77], Berceto[78] e
tutta la diocesi di Parma verso Brescello al di qua dell'Enza[79], e
occuparono il ponte che avevano fatto i Mantovani. E lo stesso anno
fu catturata una squadra di barche dei Mantovani presso Brescello, ed
un'altra presso Gramignazzo[80], e furono uccisi molti Mantovani. Ed
i Mantovani incendiarono quanto apparteneva alla diocesi di Cremona
da Torricella[81] in giù. E i Milanesi, i Bresciani, i Bolognesi e
i Veneziani stettero due mesi a campo presso Luzzara[82]; perocchè
eravi una guerra grossa, intricata e piena di pericoli, essendo che la
Repubblica co' suoi alleati contro la Chiesa, e questa contro quelli,
s'erano con grande ardore levati in armi. E morì a Lione il Patriarca
d'Antiochia, che era de' Roberti di Reggio, ed era stato vescovo di
Brescia a' tempi di un gran terremoto; in occasione del quale essendo
uscito di camera per le grida di un frate Minore, che dimorava nella
corte vescovile, subito dopo per scossa di terremoto rovinò la camera
stessa; d'onde riconobbe da Dio la sua salvezza, e si convertì a lui
pienamente. Perciò fece voto, e promise di fermo, che per tutta la
sua vita avrebbe serbata intatta quella castità che per lo innanzi
non mantenne illibata, e che in vita sua non mangerebbe più carni; e
tenne il voto. Tuttavia colla sua famiglia usava largo trattamento,
secondo il consiglio di Grisostomo ecc. Faceva quel che dice l'Apostolo
ai Romani 12: _Rallegratevi con quelli che sono allegri, e piangete
con quelli che piangono;_ e faceva bene; e sapeva sollazzarsi a tempo
e luogo. Onde, essendo un dì a tavola con tutta la sua corte e molti
altri, vide che un certo giocoliere ascose di furto un cucchiaio
d'argento. Pertanto chiamò il suo servo, e gli disse: Non renderò a
te il mio cucchiaio, se prima ciascuno de' commensali non ti abbia
renduto il suo; giacchè dice l'Apostolo agli Efesii IV: _Chi rubava non
rubi più._ E così con queste parole mise sull'avviso il siniscalco, e
ricuperò il cucchiaio. Questo Patriarca fu uomo di poca dottrina; ma
il molto bene che faceva compensava il difetto della scienza. Perocchè
fu largo limosiniere e recitava ogni dì l'uffizio dei morti con nove
lezioni. Perchè adunque il Patriarca d'Antiochia perdurò in bontà di
vita, dacchè aveva rivolto il cuore all'amor di Dio, Iddio per mezzo
di miracoli mostrò alla sua morte che era stato suo servo ed amico
degno di gloria; de' quali miracoli non parlo per brevità, e perchè
mi affretto a parlar d'altre cose. Col Patriarca poi d'Antiochia visse
molt'anni frate Enrico da Pisa dell'Ordine de' Minori, che tante volte
parlò assai favorevolmente del prenominato Patriarca a me e agli altri
frati. Questo frate Enrico da Pisa fu bell'uomo, di mezzana statura,
largo, cortese, liberale e franco. Sapeva star bene a conversazione
con tutti, acconciandosi al fare d'ognuno, ben accetto ai frati e ai
secolari; il che è di pochi. Così pure fu predicatore rinomatissimo
e grazioso al clero e al popolo. Sapeva scrivere, miniare, o, come
dicono, lumeggiare (perchè col minio il libro si lumeggia), scrivere
musica, comporre bellissime e deliziose cantiche non meno a canto
fermo che a canto modulato, cioè note rotte e doppie. Fu distintissimo
nell'arte del cantare. Aveva voce profonda, sonante, che riempiva tutto
il coro. Aveva poi una doppia nota sottile, altissima, acuta, dolce,
soave, dilettevolissima. Fu mio custode nella custodia di Siena, e mio
maestro di canto a' tempi di Papa Gregorio IX. E allora viveva anche
frate Luca di Puglia, dell'Ordine de' frati Minori, di cui è il libro
intitolato: _Sermonum memoria_. Quest'ecclesiastico fu letterato e
dotto in filosofia scolastica, e in Puglia dottore esimio in teologia,
rinomato, solenne e di gran fama; e l'anima sua per la misericordia
di Dio riposi in pace, e così sia. Frate Enrico da Pisa fu uomo
morigerato, divoto a Dio e a S.ª Maria Maddalena. Nè è da meravigliarsi
perchè questa Santa era la titolare della sua parocchia in Pisa. Nella
città poi di Pisa la beata Vergine è la titolare della chiesa matrice,
nella quale io fui ordinato diacono dall'Arcivescovo di Pisa. Frate
Enrico compose molti inni e molte sequenze. Perocchè fece e musicò per
canto la seguente composizione:

    _Christe Deus — Christe meus,_
      _Christe Rex et Domine._

Per la voce d'una sua divota che andava cantando per la chiesa maggiore
di Pisa musicò:

    _E tu no cure de me; — e no curaro de te._

Così fece l'altra a tre voci:

    _Miser homo — cogita facta Creatoris._

Musicò pure per canto quel componimento di maestro Filippo Cancelliere
di Parigi:

    _Homo quam sit pura — mihi de te cura._

E perchè, quand'era custode, si trovò malato nell'infermeria del
convento di Siena, e non poteva scrivere musica, chiamò me, e fui il
primo a scrivere le note del suo canto, mentre egli cantava. Così mise
in musica per canto quell'altra composizione del cancelliere, cioè:

         _Crux, de te volo conqueri._
    _E... Virgo, tibi respondeo._
    _E... Centrum capit circulus._
    _E... Quisquis cordis et oculi._

E per quella sequenza..... _Iesse virgam humi Davit_ compose un canto
delizioso, che si canta con assai diletto, mentre, prima della sua,
aveva una musica rude e dissonante. La composizione della sequenza
l'aveva fatta Riccardo di S. Vittore, come ne compose tante altre.
Musicò anche deliziosamente per canto gli inni di S.ª Maria Maddalena,
composti dal cancelliere di Parigi, cioè:

    _Pange, lingua Magdalenae._

con altri inni. Parimente intorno alla risurrezione del Signore fece la
sequenza, composizione e musica, cioè:

    _Natus, passus Dominus_
      _Resurexit hodie._

Il secondo canto poi che l'accompagna, ossia il concanto, lo compose
frate Vita Lucchese dell'Ordine de' frati Minori, il miglior cantore
che si conoscesse nell'uno e nell'altro canto, cioè nel canto fermo, e
nel canto a note rotte, o doppie. Aveva voce sottile, ma piacevolissima
a udirsi, nè vi era persona tanto severa che non l'ascoltasse con
diletto. Cantava alla presenza di Vescovi, Arcivescovi, Cardinali e
Papi e l'ascoltavano volentieri. E se alcuno avesse chiacchierato
quando frate Vita cantava, tosto si udiva ripetere il detto
dell'Ecclesiastico XXXII: _Non interrompere la musica_. E se talvolta
un usignuolo cantava in un cespuglio, o in una siepe, taceva se udiva
cantare il frate, e l'ascoltava attentamente, e poi ripigliava il suo
canto, e così alternamente cantando risuonavano per l'aria soavissime
voci. E della sua perizia fu tanto cortese, che invitato a cantare non
se ne scusava mai, nè per voce impedita da infreddatura, nè per altra
cagione. E perciò non si potevano applicare a lui que' versi soliti a
dirsi, cioè:

    _Omnibus hoc vitium est cantoribus, inter amicos_
    _Ut nunquam inducant animum cantare rogati._
      D'ogni cantor brutto difetto è questo
      Di non voler cantar quand'è richiesto.

Anche sua madre e sua sorella furono abilissime nel canto. Egli fece
anche la nota sequenza, composizione e musica:

    _Ave mundi — spes, Maria_

e compose molte cantiche con musica melodica, della quale si
deliziavano assai i chierici secolari. Costui fu mio maestro di canto
in Lucca l'anno 1239, quando avvenne quella orribile oscurità di sole.
E quando Tomaso da Capua Cardinale della corte romana, e il più insigne
scrittore della corte stessa, compose quella sequenza:

    _Virgo parens gaudeat_

e pregò frate Enrico da Pisa di musicarla per canto, e ne fece una
musica bella, dilettevole e soave a udirsi, frate Vita ne compose il
secondo canto, ossia il concanto. Ed ogni volta che trovava qualche
canto semplice di frate Enrico, volentieri vi applicava il concanto.
Perciò Filippo Arcivescovo di Ravenna volle che frate Vita facesse
parte della sua famiglia, quand'era Legato nei Patriarcati di Aquileia,
di Grado, di Ragusa, di Ravenna e delle diocesi e provincie di Milano
e di Genova, e in generale di Lombardia, Romagna e Marca Trivigiana. E
gli piacque averlo, tanto perchè era suo concittadino, quanto perchè
era frate Minore, ed anche perchè sapeva cantare e comporre. Morì
a Milano, e fu sepolto nel convento dei frati Minori. Fu di persona
magro, gracile e di statura maggiore di quella di Frate Enrico; aveva
voce più da camera che da coro. Più volte uscì dall'Ordine, più volte
vi rientrò; e, quando ne usciva, entrava nell'Ordine di S. Benedetto.
E quando poi voleva essere riammesso, il Papa gli usava indulgenza per
amore del beato Francesco, e per la dolcezza del suo cantare. Ed una
volta cantò tanto soavemente che una certa suora, che l'udiva, saltò
giù da una finestra per andare con lui; ma non potè perchè si ruppe una
gamba. Però fu molto bene pesata quella sentenza di frate Egidio, detto
da Perugia non perchè fosse Perugino, ma perchè lungamente ci visse
e vi morì, uomo sempre trasportato da estasi e tutto santo, quarto
frate nell'Ordine de' Minori, compresovi il beato Francesco, quando
disse: _È una grazia grande non aver grazia_. E intendeva parlare non
della grazia di Dio, ma della grazia acquisita a studio, e da natura,
per la quale molti fanno male i fatti loro. In vero frate Enrico da
Pisa fu mio intimo amico, e tale quale la Sapienza descrive l'amico
ne' Proverbi 18. _Un uomo che ha degli amici dee portarsi da amico;
e v'è tale amico che è più congiunto che un fratello_. Imperocchè ed
egli aveva nell'Ordine un fratello mio coetaneo, ed io vi aveva un
fratello coetaneo di lui, e mi amava, disse, come il proprio fratello;
e, fatto ministro Provinciale in Grecia, Provincia di Romanìa, mi diede
una lettera di obbedienza, in virtù della quale io poteva, quando mi
piacesse, recarmi da lui a far parte de' frati della sua provincia con
qualunque compagno mi fosse stato a grado. Inoltre promise di regalarmi
una Bibbia e molti altri libri. Ma non vi andai, perchè lo stesso anno
che arrivò là, vi morì mentre presiedeva un Capitolo provinciale a
Corinto, dove è sepolto e riposa in pace. Profetò, ossia predisse il
futuro, quando a udita de' frati a Capitolo, disse: «Ora dividiamo
i libri dei frati defunti, ma può essere che tra breve s'abbiano
a dividere i nostri» — E s'avverò, poichè nella stessa adunanza
capitolare furono divisi i suoi. Noi non possiamo raccontare le storie
altrimenti da quello che furono di fatto, e come vedemmo le cose cogli
occhi nostri a tempo dell'Impero di Federico e molti anni dopo la
morte di Federico, sino a giorni in cui scriviamo, anno del Signore
1284. Io poi, scrivendo diverse cronache, mi sono valso di stile
semplice e chiaro, acciochè mia nipote, per cui le scriveva, potesse
intendere quel che leggesse; nè curai lo splendore delle parole, ma
la sola verità dei fatti, che io esponeva. Mia nipote poi era suor
Agnese, figlia di mio fratello, la quale giunta alla biforcazione della
lettera pitagorica, entrò nel monastero di Santa Chiara in Parma, e
sino ad oggi, giorno in cui scrivo, anno 1284, continua a restarvi
per servire a Gesù Cristo. Questa mia nipote ebbe elevatissimo lo
spirito d'intelletto della Sacra Scrittura, ingegno buono, memoria, e
un favellare grazioso e facondo. Or dunque essendo stato l'Imperatore
Federico deposto da Papa Innocenzo IV, erane irritatissimo, come orsa
a cui siano rapiti i figli, e inferocisca nel bosco. E s'aggrupparono
intorno a lui tutti quelli che erano spiantati, e, carichi di debiti,
avevano l'animo amareggiato; e divenne loro capo. Ma ascolta ciò che
dice la Sapienza ne' Proverbii 17: _Scontrisi pure un uomo in un'orsa,
a cui sien rapiti i figli, anzi che in un pazzo nella sua pazzia_: qual
fu Federico, che non riconobbe i beneficii ricevuti dalla Chiesa. Ma
non senza punizione. Perocchè dice la Sapienza ne' Proverbii 17: _Il
malanno non si dipartirà mai dalla casa di chi rende il mal per lo
bene_. Il che si è verificato evidentemente in Federico, la cui casa è
totalmente distrutta. L'anno dunque del Signore 1247 pochi cavalieri
di Parma che, banditi dall'Imperatore, soggiornavano a Piacenza, ed
erano di gran cuore, robusti, forti e a trattar le armi esperti, ed
avevano il veleno in petto, tanto perchè le loro case in Parma erano
state smantellate, quanto perchè era duro quel dover ospitare ora in
una casa or in un'altra, (perocchè erano in esiglio e in bando, ed
avevano numerosa famiglia e poco denaro, fuggiti da Parma a miracolo
per non restare prigionieri dell'Imperatore) vennero da Piacenza,
entrarono in Parma ai 15 di Giugno, ed espulsero que' di parte
imperiale. Prima però arrivati da Piacenza a Noceto[83], adunatisi in
un prato, e armati su' loro cavalli, tennero una concione, ed elessero
Ugo Sanvitali loro Capitano e vessillifero, ben sapendo che, quando
non vi è chi governa, il popolo cade a ruina. Ed era quell'Ugo uomo
forte, e saggio ed esperto nell'armi. Tra loro eravi pure Ghiberto da
Gente oratore affascinante, che disse: Assaltiamo ora compatti i nostri
nemici come unanimi abbiamo eletto il nostro capitano. E Gherardo da
Arcile soggiunse. «Sia in noi ardire e prontezza a vivere o a morire
da forti: niuno fugga, niuno tremi di paura; perocchè il Signore
combatterà coi forti, e il suo aiuto verrà su voi dal cielo». Inanimiti
adunque a tali parole, corsero all'assalto e diedero gran battaglia al
Podestà e ai militi Parmigiani a Borghetto di Taro[84]; ed ivi cadde
morto Enrico Testa d'Arezzo Podestà di Parma, mio conoscente ed amico,
che voleva bene a tutti i frati Minori. E parimente restarono sul
campo il suo scudiere, e Manfredo Cornazzani, e Ugo di Magnarotto de'
Visdomini, e molti altri; e Bartolo Tavernieri, ferito, rifuggissi a
Costamezzana[85] con alcuni suoi amici. E allora alcuni tedeschi del
partito imperiale dissero ai fuorusciti: Venite a Parma, e sicuramente
occuperete la città, che noi non faremo resistenza. Ed incontanente i
predetti Cavalieri Parmigiani, banditi dall'Imperatore, mossero sopra
Parma, e la presero, e la tennero. I Parmigiani allora convocarono
un consiglio, ed elessero loro Podestà Gherardo da Correggio. E
questo accadde ai 16 di Giugno, Domenica. E il Lunedì successivo i
Parmigiani mandarono ambasciatori al Comune di Reggio Armanno Scotti
ed un altro in sua compagnia a domandare che si dessero liberi nelle
loro mani que' prigionieri di Parma, che si sostenevano nelle carceri
di Reggio. Ma Buoso Podestà di Reggio negossi di concederli. E questi
fuorusciti riuscirono per molte ragioni ad invadere facilmente ed
occupare Parma, 1º perchè il Re Enzo, a cui il padre aveva commessa la
difesa di Parma, era andato coi Cremonesi ad assediare Quinzano[86]
nella diocesi di Brescia; 2º perchè l'Imperatore era in una città di
Lombardia, che si chiama Torino, per correre a Lione a far prigionieri
il Papa e i Cardinali; chè, come si dice, alcuni avevano promesso
di dargli in mano tutta la Corte Romana. Ma nutrirono propositi, che
non poterono effettuare. Perchè? Perchè Giobbe nel libro V ha detto
che Dio: _Disperde i pensieri degli astuti, e fa che le lor mani non
possono far nulla di bene ordinato_; 3º perchè Bartolo Tavernieri in
quel dì celebrava le nozze di sua figlia Maria con un Bresciano, che
per questo motivo s'era recato a Parma; e quelli che andarono contro ai
Parmigiani fuorusciti, che sopravenivano, erano per le succolentissime
imbandigioni servite al pranzo, intorpiditi, e brilli di vino; e
s'alzarono da tavola colla cieca arroganza di avvilupparli al primo
scontro; ma essendo presso che briachi, tanto al Borghetto quanto nella
ghiaia del Taro n'ebbero la peggio, e molti di loro vi lasciarono la
vita; 4º perchè la città di Parma era da ogni parte aperta, nè aveva
cinta di sorta; 5º perchè que' fuorusciti che si avvicinavano per
entrare, facevano il segno della croce, e a mani giunte gridavano: Per
amore di Dio e della beata Vergine sua madre, che è la nostra patrona
in questa città, vi piaccia lasciarne entrare nella città nostra,
d'onde senza colpa fummo espulsi e cacciati in bando; e del resto il
nostro ritorno non turberà la pace d'alcuno, nè vogliamo ad alcuno fare
ingiuria. Udendo queste cose i Parmigiani di dentro, che per la via,
senza armi, erano andati ad incontrarli, vinti dalla loro umiltà, furon
tocchi da compassione, ed anche riconoscendo che venivano con propositi
di pace, dissero loro: Entrate in città sicuri nel nome del Signore,
ed avrete il nostro aiuto in tutto; 6º perchè quelli che erano in città
non si pigliavano briga di queste contese, nè avevano parteggiato prima
per la fazione di quelli che ritornavano, nè mai avevano impugnate
le armi per l'Imperatore. Ma sia banchieri, sia cambiavalute, sia
artigiani, non smettevano per questo di stare a' loro banchi, o alle
officine, come se nulla accadesse; 7º perchè que' nobili e potenti, che
erano in città partigiani dell'Impero, subito, abbandonata la città,
si sparsero per le diocesi ai loro castelli e al loro fortilizii, per
timore di perderli; 8º perchè anche i tedeschi dell'Imperatore, avendo
saputo che da que' fuorusciti era stato ucciso il Podestà di Parma,
temendo anche per la lor vita, li invitavano a fare pacificamente
della città quello che fosse loro in grado. Fecero altrettanto le
guardie del palazzo e della torre del Comune..... Quasi due Re furono
Enrico Testa Podestà di Parma e Paolo Tavernieri Capitano della parte
imperiale in Parma a favore dello Imperatore. Questi due non poterono
star di piè fermo alla sua presenza venendo con un esercito che era
assai sottile; 9º perchè principalmente speravano di ricevere tra breve
soccorsi da diverse parti. E 1º da Papa Innocenzo IV, che aveva in
Parma molti parenti e affini; e perchè i Parmigiani volevano battere
l'Imperatore nemico di lui, anzi avevano già cominciate le ostilità; 2º
da Gregorio Montelungo Legato per la Lombardia, che era già preparato
in Milano a venire co' milanesi e con Bernardo di Rolando de' Rossi
Parmigiano e cognato di Papa Innocenzo IV...; 3º dai Piacentini; 4º
dal Conte di S. Bonifazio di Verona; 5º dai Bolognesi e dai Ferraresi
e da tutto il partito della Chiesa. Ma qui è da notare, (perchè subito
si conosca quel grande intrico di cose) che i Modenesi partigiani
del Papa erano fuori di città, e i partigiani dell'Imperatore erano
dentro. Così era in Reggio; poco dopo anche in Cremona. E perciò in
quel tempo si ebbe grossa e lunga guerra. Nè i contadini potevano
arare, nè seminare, nè mietere, nè piantar vigne, nè vendemmiare, nè
abitare nelle ville; specialmente nell'agro parmigiano e reggiano,
modenese e cremonese. Tuttavia vicino alle città i contadini lavoravano
difesi dai militi delle città stesse, che si spartivano in quartieri
secondo le porte delle città. Ed i militi armati difendevano tutta la
giornata gli operai che coltivavano i campi. E questo era necessario
a farsi a cagione degli assassini, dei ladroni e dei predoni, che
si erano moltiplicati a dismisura. E facevano prigionieri gli uomini
per costringerli a riscattarsi con denaro; e rapivano, e mangiavano,
e vendevano i bovini. E se i ricattati non pagavano il prezzo del
riscatto, li appendevano per i piedi, o per le mani, e schiantavano
loro i denti, o mettevan loro, per indurli a riscattarsi, rospi in
bocca; la qual cosa era più dolorosa e abborrita di ogni sorta di
supplizio. Ed erano più crudeli che i demonii. E il vedere a que' dì
passare un uomo sconosciuto per la via, era come vedere il diavolo.
Perocchè l'uno sospettava sempre che l'altro il volesse catturare
e incarcerare, perchè, secondo il detto de' Proverbii 13, _fossero
riscatto della vita dell'uomo le sue ricchezze._ E il territorio
era ridotto ad una solitudine, non trovandovisi nè agricoltori, nè
passeggieri. Perocchè ai tempi di Federico, specialmente dopo che fu
deposto dall'Impero, e Parma gli si era ribellata, e avevagli dato
il calcio, le strade maestre erano deserte, ed i viandanti andavano
per sentieri fuori di strada, e si moltiplicarono i mali sulla
terra. E sovrabbondarono gli uccelli e le bestie selvatiche, come
i fagiani, le pernici, le quaglie, le lepri, i cavrioli, i corvi,
i bufali, i cinghiali e i lupi. E i lupi, che non trovavano presso
le ville, secondo il consueto, animali da divorare, come agnelli e
pecore, essendo le terre state messe totalmente a fuoco, in branchi
numerosissimi ululavano per fame fin presso alle fosse delle città,
e sbranavano uomini, donne, ragazzi, che trovavano a dormire sotto i
portici, o sui carri; e talora, rompendo, penetravano attraverso le
muraglie delle case e divoravano i bambini. Nessuno potrebbe credere
senza aver veduto, come ho veduto io, le orribili cose che in quel
tempo si facevano tanto dagli uomini, come dalle fiere d'ogni specie.
Anche le volpi s'erano di tanto moltiplicate, che ne ascesero due
sul tetto dell'infermeria a Faenza, in quaresima, per ghermire due
galline che erano nel solaio. Delle quali ne fu presa una nello stesso
convento de' frati Minori, dove io era, ed ho veduto co' miei occhi.
Ed io ho dimorato cinque anni a Faenza, cinque a Ravenna, e più anni
or quà, or là per la Romagna, un anno a Bagnacavallo[87], ed un'altro
a Montereale[88]. E quella maledetta guerra invase, corse e distrusse
tutta la Romagna nel tempo, in cui io vi dimorava; e quando i Bolognesi
coi Lombardi ed altri, che erano accorsi in loro aiuto, assediarono
Forlì, io era con loro. Ma non la poterono prendere, come piacque a
Dio e al beato Francesco, alla cui vigilia cessò l'assedio. E dimorando
io in villa, un certo secolare mi disse che aveva preso alla trappola
in alcuni villaggi incendiati ventisette gatti grossi e belli, e ne
aveva vendute le pelli a chi le conciava, e non vi ha dubbio alcuno
che una volta in tempo di pace fossero domestici in quelle ville. Il
sesto aiuto poi che ebbero i Parmigiani fuorusciti, che entrarono in
città, fu che non solo l'Imperatore era stato scomunicato e deposto
dall'Impero; ma Papa Innocenzo IV aveva eziandio prosciolti tutti dalla
sudditanza di lui, come appare chiaro sulla fine di quel decreto,
che fu redatto nel Concilio generale, in cui fu proclamata la sua
deposizione, ove si dice: «Prosciogliendo in perpetuo dal giuramento
tutti quelli che per giuramento di fedeltà sono a lui vincolati, e
proibendolo colla nostra autorità apostolica, fermamente comandiamo che
nessuno ubbidisca a lui quale Imperatore e Re; e se alcuno a lui come
Imperatore e Re presterà consiglio, aiuto, o favore, sia per questo
fatto solo scomunicato». E per la sua ingratitudine a tutta ragione
meritò l'Imperatore questa pena. Perocchè aveva osato alzare la fronte
e ricalcitrare contro la Chiesa, che lo aveva allevato, difeso da'
nemici e innalzato al fastigio dell'Impero. E perseguitava la Chiesa,
e le moveva accanita guerra; il che era ingratitudine grandissima.
E tale fu Federico; e perciò a ragione deposto dall'Impero; perocchè
non riconobbe i favori ricevuti. E nota che tutte quelle surricordate
maledizioni di guerre, sterilità di campi, moltitudine di bestie
selvaggie, quantunque io le abbia narrate in anticipazione, a tempo
loro furono vere, cioè dopo che Parma la ruppe coll'Imperatore, e
parteggiò per la Chiesa. Ora ripigliamo il filo della nostra storia.
L'anno adunque 1247 Re Enzo, che era all'assedio di Quinzano coi
Cremonesi, avendo saputo che i banditi da suo padre, che erano a
Piacenza, avevano occupato la città di Parma, si disanimò talmente
che, sciolto l'assedio di Quinzano, s'affrettò a partire marciando
tutta la notte, non con canti, ma muto e gemente, come quando un
esercito si dà alla fuga dopo una rotta. Io soggiornava allora nel
convento de' frati Minori a Cremona, perchè io era frate Minore; e
perciò seppi benissimo queste cose. Sino dalla prim'alba i Cremonesi
si trovarono col Re Enzo ad una conferenza che durò sin a mattina
inoltrata; e dopo in tutta fretta presero cibo, e uscirono insieme col
carroccio in testa. Nessuno atto a portar l'armi e a battersi restò
in Cremona. Ed io credo di fermo che se difilato fossero corsi sopra
Parma, e avessero coraggiosamente combattuto, senza dubbio l'avrebbero
ripresa; sia perchè Parma era d'ogni parte aperta, sia perchè non era
ancor giunto a' Parmigiani alcun aiuto; e molto più perchè la maggior
parte dei cittadini se ne stavano indifferenti; nè parteggiavano per
quelli che di recente erano rientrati, nè per quelli che erano fuggiti,
ma si curavano soltanto de' fatti loro. E se l'uno de' belligeranti
conoscesse lo stato del suo nemico bene spesso potrebbe sconfiggerlo.
Ma per volere di Dio Re Enzo s'attendò coll'esercito Cremonese presso
il Taro morto, e non corse su Parma, aspettando che il Signore la
colpisse colla sua destra. Voleva anche quivi attendere l'arrivo
dell'Imperatore suo padre, che era a Torino, città sui confini della
Lombardia; chè la Lombardia si estende sino a Susa e al Moncenisio. Di
là comincia la signoria del Conte di Savoia, e continuando si entra nel
Ducato di Borgogna, ove è la città di Lione, che è la prima metropoli
della Francia. Ed ivi soggiornava allora Papa Innocenzo IV, co' suoi
Cardinali. Taro morto poi si chiama una massa d'acqua, che esce dal
Taro vivo o corrente allorchè esso ribocca, e forma un bacino d'acque
stagnanti, come di lago, in cui abbondano le scardove, i lucci, le
anguille, e le tinche; e si trova presso il convento dei Cisterciensi,
chiamato da loro Fontevivo[89], che dista sette miglia da Parma. Ma
intanto che ivi Re Enzo aspettava l'arrivo del padre, da ogni parte
ed ogni giorno sopravvenivano aiuti ai Parmigiani fuorusciti, che
erano rientrati in città. E Rizzardo Conte di S. Bonifacio di Verona,
strenuo e prode guerriero, quando Parma si ribellò all'Imperatore, per
primo accorse in aiuto de' Parmigiani; i quali per riconoscenza del
segnalato servizio loro fatto, gli assegnarono per alloggio il palazzo
imperiale, che è all'Arena[90], e gli affidarono la guardia di quella
parte della città che è volta verso Seggio. Il giorno dopo arrivarono
i Piacentini, che erano trecento cavalieri bene equipaggiati d'armi e
di cavalli. Questi ebbero a difendere la città accampati nella ghiaia
del torrente, tenendosi anche di piè fermo lunghe ore in sella, se le
mosse del nemico lo rendevano necessario. E tale servizio era per loro
più un divertimento che una fatica. Talora restavano anche nei loro
alloggiamenti, o se ne ivano per città sollazzandosi a piacere. Tre
giorni dopo l'arrivo del Conte di S. Bonifacio giunsero da Milano con
mille cavalli Gregorio di Montelungo Legato del Papa, e Bernardo di
Rolando Rossi, cognato di Innocenzo IV. E questi facevano la guardia,
quand'era necessario, nella ghiaia del torrente a monte della città.
Ed i Parmigiani col Legato si appostarono fuori Città lungo la strada
che va a Borgo S. Donnino; e per ripararvisi dalle incursioni del
nemico si munirono di fossa e di steccato. Ma l'Imperatore infiammato
d'ira e furibondo per le cose accadutegli, volò verso Parma, e in una
villa, che si chiama Grola (era ricca di vigneti, che producevano
buon vino, chè il vino di quella terra è ottimo) costruì una città
cinta da ampie fosse, e la chiamò Vittoria, come presagio degli
eventi futuri; e le monete coniatevi fece chiamare Vittorini, e la
chiesa maggiore, S. Vittorio. Ivi stanziavano l'Imperatore col suo
esercito e Re Enzo coi Cremonesi. E l'Imperatore mandò pregando i
suoi partigiani di accorrere subito a grandi giornate, in suo aiuto.
Il primo ad arrivare fu Ugo Botteri Parmigiano, nipote, da parte di
sorella, di Innocenzo IV, Podestà allora di Pavia, e condusse tutti
i Pavesi atti a portar l'armi. Nè il Papa potè mai nè con promesse,
nè con preghiere staccare questo suo nipote da Federico; quantunque
dimostrasse sempre maggior predilezione alla madre di lui che alle
altre due sorelle, ch'ella aveva, anch'esse maritate a Parma. Dopo lui
arrivò Ezzelino da Romano[91], Signore allora della Marca Trivigiana,
conducendo seco numerosissimo esercito. Questi incuteva più terrore che
il diavolo; chè per lui era niente uccidere uomini, donne, ragazzi, e
incrudelire atrocemente. Neppur Nerone fu pari a lui nella efferatezza,
nè Domiziano, nè Decio, nè Diocleziano, sebbene fossero stati i più
crudeli tiranni. Perocchè fece bruciare in un sol giorno undici mila
Padovani nella piazza di S. Giorgio a Verona[92], appiccando il fuoco
all'edifizio entro cui erano, e mentre le fiamme li struggevano,
caracollava attorno a loro, e correva torneamenti co' suoi cavalieri.
Sarebbe lunga e miseranda la narrazione di tutte le sue atrocità, e ci
vorrebbe un grosso volume. E credo di fermo che siccome il Figlio di
Dio volle avere uno specialissimo amico e fatto a sua somiglianza, cioè
il beato Francesco; così il diavolo volle Ezzelino. Del beato Francesco
si dice che a lui solo Iddio diede cinque talenti. Perocchè nessuno mai
visse in terra, tranne il beato Francesco, a cui Cristo imprimesse a
sua somiglianza le cinque piaghe. Sicchè, come disse a me frate Leone
suo compagno, che era presente al lavacro del suo corpo fattosi prima
di seppellirlo, pareva appuntino un Crocifisso deposto dalla Croce.
Perciò gli si attaglia benissimo il detto dell'Apocalisse I: _Vidi uno
somigliante ad un figliuol d'uomo._ In che poi fosse simile non ridico,
poichè l'ho già scritto altrove, e mi affretto ad altro. E siccome
sembra suonar male il dire che un uomo è simile a Dio, principalmente
perchè la Scrittura dice in Giobbe XXXII: _Non confronterò Dio ad un
uomo_, sappi che la scrittura dice in altro luogo: _Vi sarà uno simile
a Dio tra i figli di Dio?_ Ma Ezzelino in molte malizie e atrocità fu
pienamente simile al diavolo. Dopo Ezzelino arrivarono a soccorso di
Federico molte genti, cioè i Reggiani e i Modenesi di parte Imperiale,
banditi dalle loro città, e que' di Bergamo e d'altre città della
Lombardia e della Toscana e d'altre parti del mondo, che non erano
del partito della Chiesa. Inoltre a lui ne vennero di Borgogna, di
Calabria, di Puglia, di Sicilia, di Terra di lavoro, di Grecia, e di
Lucera de' Saraceni, e quasi d'ogni nazione, che è sotto il padiglione
del cielo. E così adunò uno smisurato esercito. Con tanta gente però
non gli fu possibile occupare che la strada che va a Borgo S. Donnino:
le altre parti della città non s'accorgevano quasi d'essere assediate.
E perchè l'Imperatore s'avea fatto proposito di distruggere sin dalle
fondamenta la città di Parma, e trasportarne gli abitanti a Vittoria,
e rasa Parma al suolo, in pena di ribellione, e per segno di perpetua
vergogna, e per esempio alle altre città, sullo spianato seminarvi
il sale come simbolo di sterilità, tutte le donne Parmigiane ricche,
nobili e potenti, tutte si recarono a pregare la beata Vergine che
liberasse Parma dall'Imperatore e dagli altri nemici: perocchè i
Parmigiani tenevano in grande reverenza il nome di lei, come titolare
della chiesa matrice. E, per essere più facilmente esaudite, fecero
fare d'argento il modello in rilievo d'una città, e lo offrirono come
dono e voto alla beata Vergine. Tale opera rappresentava in argento,
ed io l'ho vista, tutti i principali edifici di Parma, il duomo, ma
non quale era, il battistero, il palazzo del vescovo, il palazzo del
Comune ed altri molti edifizi, che insieme raffiguravano la città. La
Madre pregò il Figlio; il Figlio esaudì la Madre, a cui per ragione
nulla poteva negare. E avendo la Madre della misericordia pregato il
Figlio di liberare la città da quel nembo di nemici che le soprastava,
e già era sul punto di dar fiato alle trombe per la pugna...... Nel
tempo però che corse tra la cacciata degli imperiali dalla città e
la sconfitta che i Parmigiani inflissero all'Imperatore a Vittoria,
uscivano ogni dì dall'una e dall'altra città i balestrieri, gli arcieri
o saettatori, i frombolieri, e, come ho visto io co' miei occhi,
si battevano accanitamente. Ma anche gli assassini scorrazzavano
quotidianamente per la diocesi, portando in ogni luogo rapina e
incendio; e Parmigiani, Reggiani e Cremonesi reciprocamente si
danneggiavano il più che potevano. Sopragiunsero poi anche i Mantovani,
e li ho visti io co' miei occhi incendiare tutto Casalmaggiore[93]. E
l'Imperatore ogni mattina si recava co' suoi nell'alveo della Parma,
e, sotto gli occhi stessi de' Parmigiani, per disanimarli col terrore,
faceva decapitare tre o quattro, e anche più se ne aveva il maltalento,
de' Parmigiani, o Modenesi, o Reggiani di parte della Chiesa, ch'egli
avea prigioni. E questa decapitazione si eseguiva nell'alveo del
torrente più in su del ponte di Donna Egidia[94], in un luogo detto
Biduzzano[95]. E intanto tutta la milizia dell'Imperatore stava in
armi, per timore che i Parmigiani cogli alleati loro, che erano sempre
coll'armi in mano, irrompessero alla vendetta. Ma è proverbio che dice:

    _Non faciunt anni, quod facit una dies_
      Non fan molt'anni — quanto può fare un giorno.

E questo giorno fu quello in cui i Parmigiani costrinsero l'Imperatore
a fuggire ignominiosamente dalla sua città di Vittoria. E bene lo
meritò, perchè fece subire morte tormentosa a molti innocenti. E ne
sono prova Andrea da Trezzo, nobile cavaliere Cremonese, e Corrado
da Berceto, chierico e prode guerriero, cui in molti e varii modi
tormentò col fuoco, coll'acqua e con altre maniere di supplizii.
Anche duecento militi mandati dai Parmigiani a Modena per guardia di
quella città, prima che Parma la rompesse coll'Imperatore, furono
dai Modenesi di parte imperiale incarcerati, e incatenati tostochè
seppero che Parma s'era ribellata all'Impero. Altrettanto fecero i
Reggiani a que' Parmigiani, che colà per lo stesso motivo si trovavano.
L'Imperatore dunque mandò a prendere que' militi per averli prigionieri
in Vittoria. E quando ne aveva pel capo il bestiale talento, il che
accadeva principalmente quando lanciava insulti alla città di Parma con
ingiuriose parole, o una battaglia gli era riuscita sinistra, sfogava
la sua ira feroce nel sangue di alcuni di que' prigionieri. Perocchè
molte volte tentò di sorprendere ed occupare la città col nerbo delle
sue forze. Talvolta però anche manipoli di soldati della Marca di
Ancona disertarono dal campo dell'Imperatore, e fuggendo entrarono
in Parma, dicendo di volersi unire al partito della Chiesa; e furono
lietamente e festosamente accolti. Ma a dir vero disertavano perchè
l'Imperatore sui primi giorni della ribellione di Parma, temendo che
gli sfuggisse di mano la Marca d'Ancona, aveva fatto mettere sotto
custodia molti militi Anconitani; parte de' quali nelle pubbliche
prigioni, e parte confinati in una zona della città, in cui godevano
qualche maggiore libertà; e questi, che erano sotto più larga custodia,
avevano, sebbene da loro non conosciuto, un marchio d'infamia. Ma un
giorno arrivò un messo dell'Imperatore a comandare che cinque militi
Marchigiani, che erano a Cremona in una certa casa (ed era appunto
il momento in cui si lavavano le mani per pranzare) subito, senza
indugio montassero a cavallo, e insieme col messo si recassero ove era
l'Imperatore. E giunti fuori di città ad una piazza, che si chiama
Mosa[96], li fece condurre ove erano le forche, ed impiccare. Ed i
carnefici andavano ripetendo: così comanda l'Imperatore, perchè siete
traditori. Eppure erano accorsi a sostenerlo. Il giorno dopo, i frati
Minori andarono, li deposero e seppellirono, e a pena potevano tener
lontano i lupi, che non li divorassero ancor pendenti dal patibolo.
Tutte queste cose io le ho vedute, perchè di quel tempo, parte l'ho
passato a Parma, parte a Cremona. Sarebbe lungo raccontare quanta
strage menasse l'Imperatore sopra quelli che tenevano le parti della
Chiesa. Perocchè Gerardo da Canale di Parma lo mandò in Puglia, e lo
fece sommergere in alto mare con al collo legata una mola da macino.
Eppure era stato prima uno de' suoi più intimi, e aveva avuto da lui
molte podesterie, ed era rimasto sempre con lui a campo nei pressi di
Parma. Unico motivo di sospettare di lui ebbe l'Imperatore il vedere
che in Parma non atterravano la torre della casa di lui. Laonde talora
l'Imperatore fingendo scherzare, e ironicamente ridendo, gli diceva: Ci
amano molto, o Gerardo, i Parmigiani, e ne è prova che mentre atterrano
dalle fondamenta i palazzi di quei loro concittadini, che tengon fede
all'Impero, non hanno ancor toccato nè la vostra torre, nè quel mio
palazzo, che ho all'Arena. Ma parlava ironicamente, nè Gerardo lo
intendeva, credendo che ogni tempo corresse sempre eguale. Ma non è
così, anzi:

    _Non eodem cursu respondent ultima primis._
      Non gira sempre egual la cieca Dea;
      Or ride e t'accarezza, ed or t'è rea.

Quando poi al tempo dell'assedio partii da Parma per andare in Francia,
io passai da Fontanellato[97], ove allora soggiornava Gerardo da
Canale; e mi vide, e mi confidò che procurava di rendersi utile ai
Parmigiani assediati. Ed io gli risposi: Or che il vostro Imperatore
assedia Parma, o siate tutto suo, o tutto nostro. Questa fede divisa
non vi gioverà. Perocchè la Scrittura dice ecc. Ma non badò a me, e non
fece quello ch'io gli aveva consigliato. Quindi con una mola da macino
appesa al collo fu sommerso in alto mare, come più sopra è detto. Ma
Bernardo di Rolando Bossi Parmigiano, cognato di Papa Innocenzo IV,
come marito di una sorella del Papa, intese il valore di un'allegoria
dell'Imperatore meglio che non ne avesse compresa l'altra Gerardo da
Canale. Cavalcando un dì in compagnia dell'Imperatore, ed avendo il
suo cavallo incespicato, l'Imperatore gli disse: Bernardo, avete un
cattivo cavallo; ma spero e prometto di darvene tra pochi giorni un
migliore, che non incespicherà di sicuro. Ma Bernardo intese subito
il senso nascosto di quel linguaggio, e che si alludeva alla forca;
e infiammato di sdegno contro l'Imperatore, l'abbandonò. E raccolti
alcuni militi di...... tra i quali era Gerardo da Correggio.... vidi,
e Ghiberto da Gente...... E tanta rottura avvenne, quantunque il
detto Bernardo fosse stato compare dell'Imperatore ed amicissimo e da
lui amatissimo. Sicchè quando voleva parlare coll'Imperatore nessuna
porta era chiusa. Ma Federigo non sapeva tenersi amico alcuno. Che
anzi stoltamente si vantava di non aver mai nutrito alcun maiale, di
cui non avesse poi avuto la sugna. E voleva dire che non aveva mai
porta occasione ad alcuno di straricchire senza avergliene poscia
arraffato il marsupio, o il tesoro. La qual vanteria era da vile e
da folle. Ma ciò apparve chiaro in Pier delle Vigne, che nella Corte
dell'Imperatore fu primo consigliere e segretario e gran tesoriere.
L'avea tratto dal nulla, e al nulla lo volle ridurre. E a questo fine
studiò modo di poter seco lui attaccar briga e di apporgli un'accusa.
Ed ecco come. Federico inviò a Lione presso Papa Innocenzo IV il
Giudice Taddeo e Pier delle Vigne, come suo affezionatissimo, e tenuto
in più conto d'ogni altro alla Corte, e, con questi alcuni altri,
perchè rattenessero il Papa dall'affrettar troppo l'esecuzione del
proposito che aveva di deporlo. Perocchè aveva saputo che appunto per
questo era stato convocato un concilio. Ed aveva comandato che nessuno
degli inviati conferisse col Papa senza che ve ne fosse presente
almeno un altro, o senza l'intervento di tutti insieme. Ma, dopo il
ritorno, i colleghi calunniarono Pier delle Vigne di aver avuto più
volte colloquii confidenziali col Papa senza che alcuno di loro fosse
presente. Perciò l'Imperatore mandò a prenderlo, lo fece incarcerare
e uccidere. E, come a giustificazione, Federico andava dicendo con
Giobbe XIX: _Tutti i miei consiglieri segreti mi abbominano; e quelli
ch'io amava si sono rivolti contro di me._ L'Imperatore in quel
tempo era facile a turbarsi, perchè era stato deposto dall'Impero,
e Parma gli si era ribellata, ed egli colle sue soperchierie e colle
ingannevoli promesse credeva di soppiantare la Chiesa, e rattenerla
dal procedere contro di lui. Ma vedendo che l'evento non riesciva a
seconda della malizia del suo cuore, nessuna meraviglia se anche una
cosa da nulla lo facea uscir di cervello. Giacchè secondo il detto
de' Proverbii 29º _L'uomo iracondo move contese, e l'uomo collerico
commette molti misfatti._ Diffatto mandava a morte Principi, Baroni e
Consiglieri suoi, incolpandoli di tradimento. Ed a Federico, che molti
uccise e molti fece uccidere, si può giustamente applicare ciò che
dice dell'Anticristo Daniele 8º: _E' sarà rotto senza opera di mano._
(E qui l'abbate Gioachimo parlando di Federico aggiunge: sottintendi
_umana_.) _E la visione de' giorni di sera, e di mattina, che è stata
detta, è verità. Or tu serra la visione, perciocchè è di cose che
avverranno di quì a molto tempo._ Parimenti si deve sapere che Federico
non potè trarre in inganno la Chiesa, perchè è detto ne' Proverbii
28º: _La sua malignità sarà palesata in piena adunanza._ Il che ebbe
pieno adempimento nel concilio di Lione, che lo depose dall'Impero; e
ne divulgò per tutto il mondo la malignità. È vero però che non vidi
mai uomo che meglio di lui avesse le qualità di gran Principe; e ne
aveva l'apparenza e la sostanza. Perocchè quando brandiva la spada in
battaglia, o colla clava ferrata calava fendenti a destra e a sinistra,
i nemici lo schivavano e lo fuggivano come un diavolo. E quando mi
voglio raffigurare alla mente la sua persona, mi si presenta l'immagine
di Carlo Magno, quale ce l'hanno descritta i suoi contemporanei, e la
sua, quale la ho vista io co' miei occhi. Dice il Poeta:

    _Obsequio quoniam dulces retinentur amici._
      Amico tuo sarà chi tu rispetti.

La qual cosa Federico non sapeva fare, o non voleva, a cagione della
sua grettezza ed avarizia. Anzi finiva per avvilirli tutti, gettar loro
sul viso il fango della vergogna ed ucciderli per carpire, e avere
per sè, e per i proprii figli i loro tesori, le loro sostanze e le
loro possessioni. Perciò al bisogno trovò pochi amici. Ora ritorniamo
a Federico, che dal 1247 sul terminar del Giugno sino al Martedì 16
Febbraio del 1248, giorno in cui fu presa Vittoria, andò sfogando
contro Parma la maledetta ira che tutto l'infiammava.

Nel detto giorno i Parmigiani tutti, militi e popolani, pronti in
armi per la battaglia uscirono dalla città, e con loro le donne,
i ragazzi, le fanciulle, i giovani, le donzelle, i vecchi e gli
imberbi; e cacciarono, virilmente pugnando, l'Imperatore da Vittoria,
e sconfissero l'innumerevole sua fanteria e cavalleria; e grande
fu la strage che se ne fece, e il numero de' prigionieri che se ne
condusse a Parma; liberarono i Parmigiani che l'Imperatore aveva
prigionieri a Vittoria; trassero a Parma il carroccio de' Cremonesi,
che era pure a Vittoria, e lo posero a trionfo nel Battistero. E
quelli che avevano in uggia i Cremonesi per offese da loro ricevute,
come i Milanesi, i Mantovani e non pochi altri, quando venivano a
visitare il nostro Battistero, e vedevano il carroccio de' loro nemici,
strappavano e portavan seco per isfregio e per ricordo le tappezzerie
che ornavano Berta, chè tal era il nome del detto carroccio; sicchè
col tempo rimasero solo le ruote e il letto del carro sul pavimento,
e l'asta dello stendardo ritta e appoggiata al muro. Così pure i
Parmigiani fecero bottino e preda di tutto il tesoro dell'Imperatore,
che era ricco d'oro, argento, pietre preziose, vasi e indumenti; e
s'impossessarono di tutti i suoi ornamenti, di tutta la suppellettile
e sino della corona imperiale, che era di gran peso e valore, tutta
d'oro, tempestata di pietre preziose, cesellata e con figure a
rilievo....... Era grande come un'olla; tenevala più a simbolo, a pompa
e come tesoro, che quale ornamento del capo; perchè, messa sul capo
senza adatti limbelli trasversali fermi sul cerchio, avrebbe chiusa
dentro di sè tutta la testa appoggiandosi sulle spalle. Ed io lo so,
chè la ho avuta in mano, quando si custodiva nel Duomo di Parma. Questa
corona la trovò un ometto di piccola statura, chiamato a derisione
Passocorto, perchè era piccino, e la portava per le pubbliche vie in
mano, come si porta un vaso, per mostrarla a chi la voleva vedere,
come trionfo della riportata vittoria, ed a sempiterna ignominia
di Federico. Perchè tutto ciò che uno poterà trovare era suo; nè
alcuno osava toglierlo a lui. E, cosa singolare, in tanta avidità di
ricerca, non si ebbe a deplorare alcuna contesa, nè fu udita parola
offensiva. Quella corona la comprarono poi i Parmigiani da quel loro
concittadino, e gliela pagarono duecento lire imperiali, colla giunta
di un caseggiato presso la chiesa di S. Cristina, ove era in antico
la guazzatoia de' cavalli. E fecero poi legge che chiunque possedesse
alcun che de' tesori di Vittoria, metà fosse sua, e metà del Comune.
Ed i poveri si arricchirono molto delle spoglie di un Principe tanto
dovizioso. Gli oggetti personali dell'Imperatore, e d'uso della guerra,
come il padiglione e simili, li ebbe il Legato Gregorio di Montelungo.
Le immagini e le reliquie, che l'Imperatore aveva, furono collocate
a custodia nella sacristia della chiesa maggiore dedicata alla beata
Vergine. Perocchè, quantunque vi fossero altri guerrieri a debellare e
cacciar in fuga l'Imperatore, pure dessa fu che col suo braccio operò
come quella donna Ebrea, che scatenò lo scompiglio nella magione di
Re Nabuccodonosor. Duci dell'esercito furono il Legato Gregorio di
Montelungo, uomo saggio ed esperto in molte cose; e Filippo Visdomini
Piacentino, personaggio di probità distinta e di valore, allora Podestà
di Parma, come ho detto in altra cronaca, in cui parlai delle dodici
scelleratezze dell'Imperatore Federico. E sappiano i posteri, che dei
tesori, che si trovarono a Vittoria, pochi ne rimasero a Parma; atteso
che mercanti accorsi da diverse parti li comprarono e li ebbero a buon
mercato e li esportarono; cioè vasi d'oro e d'argento, gemme, perle,
margherite, pietre preziose, indumenti di porpora e di seta, ed ogni
sorta di roba che serve ad uso e ad ornamento delle persone. E si sa
che molti altri tesori in oro, argento e pietre preziose sotterrati
in orci, cassette e sepolcri restarono nel luogo ove sorgeva la città
di Vittoria, ma non si conosce ove sieno sepolti. Ed è notabile che
quando i mercanti comprarono il ricco bottino che i Parmigiani fecero a
Vittoria, si adempì quel detto de' Proverbi ecc. E noto per giunta che
dopo lo smantellamento di Vittoria, tutti i proprietarii riconobbero
sì chiaro il luogo ove ciascuno aveva la sua vigna, che non ebbe a
sorgere tra loro contesa o lite di sorta. Così quando Federico fu
cacciato in fuga dai Parmigiani si verificò la sentenza biblica dei
Proverbii 10º.: _Come il turbine passa via di subito, così l'empio non
è più_. E perchè? _Perchè l'empio è espulso dalla sua malignità_. Di
fatto in pieno concilio a Lione lo depose dall'Impero Papa Innocenzo IV
l'anno 1245. Inoltre è da sapere di Federico che dopo la distruzione
di Vittoria, e dopo ch'egli ebbe fatte tutte quelle altre cose ch'io
narrai in altra cronaca, ritornossene in Puglia, d'onde meglio per lui
se non fosse tornato indietro, e non avesse mosso guerra ai Lombardi.
Daniele IIº...... questo si può appropriare a Corrado figlio di
Federico, che sopravisse pochi giorni al padre, e morì di un clistere
avvelenato. Quello poi che segue: _E starà in luogo di lui lo sprezzo_,
può applicarsi a Manfredi, che nacque illegittimo da una figlia d'una
sorella del Marchese Lancia e dall'Imperatore, che poi la sposò in
punto di morte. E quel che si aggiunge: _Non gli saran fatti onori
da Re_ ebbe suo adempimento quando Re Carlo lo uccise in battaglia.
Ciò poi che, più sopra, Daniele disse di Federico: _E farà cessare il
principe del suo vitupero_, si può attribuire a Papa Innocenzo IV,
che per timore di Federico lasciò Roma e pose sua stanza a Lione. E
fu veramente il Principe del suo vitupero, perchè in pieno concilio a
Lione lo spodestò dell'Impero. Quello poi che segue: _E il suo vitupero
si rivolgerà contro lui stesso_, questo lo vedemmo verificato noi
co' nostri occhi. Or mi ricorda di quelle cose, che ho ommesse nella
rubrica dell'anno passato, perchè l'animo mio era tutto e solo intento
a scrivere di quanto riguardava Federico. Ma meritando di essere
raccontate, e avendo promesso di farlo ai molti, che me ne fanno ressa,
non è bene ch'io manchi alla mia parola, e per cagione mia rimangano
ignorate. L'anno dunque 1247 partii da Parma e andai a Lione, ove
parlai in famigliarità con Papa Innocenzo IV in sua camera. Dopo la
festa d'Ogni Santi poi incominciai il mio viaggio per la Francia[98],
e lo stesso dì in cui giunsi al primo convento di frati Minori che
s'incontra dopo Lione, arrivò colà frate Giovanni da Magione[99],
reduce dalla Tartaria, ove era andato per missione di Papa Innocenzo
IV. Frate Giovanni era uomo socievole, letterato, oratore facondo,
destro in molte cose, ed una volta fu ministro Provinciale nell'Ordine.
Egli mostrò a me e ad altri frati una coppa di legno, che aveva portata
da regalare al Papa, nel fondo della quale eravi il ritratto di una
bellissima regina, non dipintovi, o impressovi con altro artificio, ma
formatovisi per influenza di una costellazione. E se anche cento volte
la si fosse segata a sottilissimi strati, avrebbe pur sempre mostrato
lo stesso ritratto. E perchè a taluno non paia questa cosa incredibile,
lo possiamo assicurare con un altro fatto, e provarne la credibilità.
Infatti l'Imperatore Federico donò in Puglia ai frati Minori una
chiesa vetustissima, diroccata e da tutti abbondanata; e nell'area,
dove prima era l'altare, era cresciuto un noce di smisurata grossezza
che, segato longitudinalmente, presentava in ogni tavola la figura
di nostro Signor Gesù Cristo; e se cento volte tu l'avessi risegato,
cento volte avrebbe ripresentato tale figura. Il che in vero è avvenuto
per miracolo, essendo cresciuto il noce in quel luogo, nel quale si
rinnovava la passione dell'immacolato Agnello nell'ostia salutare, e
nel venerabile sacrifizio; tuttavia alcuni sono di fermo parere che
ciò possa anche essere effetto dell'influenza di una costellazione.
Inoltre lo stesso frate Giovanni ci disse che portava a regalare al
Papa una bellissima cappella, e per cappella intendeva il complesso
degli indumenti pontificali, che occorrono a celebrare la messa nelle
solennità. Disse pure a noi frate Giovanni, che, per arrivare sino
alla residenza del gran Signore dei Tartari, aveva durato gran fatica,
e aveva patito di fame, di freddo, e di caldo. Disse finalmente che
que' popoli si chiamano Tattari, non Tartari; che mangiano carne di
cavallo, e bevono latte di asina; che vide colà gente d'ogni nazione
che è sotto il padiglione del cielo, eccetto che di due; che non gli fu
permesso presentarsi all'udienza del gran Signore dei Tattari, se non
vestito di porpora; che fu accolto da lui e trattato onorificamente,
con gentilezza e cortesia; e che gli domandò quanti erano i dominatori
dell'Occidente. Al che rispose che due: cioè il Papa e l'Imperatore, e
che tutti gli altri ricevevano i loro poteri da questi due. Poi volle
sapere quale dei due fosse il più potente. E frate Giovanni, detto che
il Papa, tirò fuori una lettera credenziale del Papa stesso, e gliela
diede. Dopo averla fatta leggere, disse che avrebbe scritta anch'egli
una lettera di risposta al Papa, e la darebbe a lui da consegnare:
come poi fece. Questo frate Giovanni scrisse un grosso libro sui
costumi dei Tartari, e intorno a tante altre mirabili cose del mondo,
che co' proprii occhi aveva vedute. Ed, ogni volta che gli gravava
riparlare delle costumanze dei Tartari, faceva leggere quel libro, come
molte volte ho udito io e veduto. E quando gli uditori ne restavano
meravigliati, o non intendevano, esso faceva l'esposizione e la
spiegazione d'ogni cosa non intesa, o poco creduta. Da quel libro non
trassi copia di nulla, tranne che della lettera suaccennata, perchè io
non aveva tempo di scrivere. E la lettera era del tenore seguente:

  =Lettera del Signore dei Tattari a Papa Innocenzo IV.=

  _La Fortezza di Dio, l'Imperatore di tutti gli uomini manda al Gran
  Papa questa lettera autentica e vera. Tenuto consiglio intorno
  al modo di aver pace con Noi, Tu Papa, e Voi tutti, o Cristiani,
  mandaste a Noi un Vostro ambasciatore, siccome da lui stesso
  sapemmo, e stava scritto nella Vostra lettera. Se dunque desiderate
  vivere in pace con Noi, Tu, Papa, e Voi tutti, Re e Monarchi, non
  tralasciate per nulla di recarvi da Me, per definire i patti della
  pace, e allora udirete la Nostra risposta, e nello stesso tempo
  conoscerete la Nostra volontà. Tra l'altre cose la Tua lettera dice
  che Noi dobbiamo ricevere il battesimo e farci cristiani. A che con
  poche parole rispondiamo di non intendere perchè dobbiamo abiurare
  la Nostra fede. Ad un'altra cosa, che si legge nella Tua lettera,
  cioè che Ti meravigli di tanta strage d'uomini specialmente
  cristiani, e principalmente di Polacchi, di Moravi e di Ungheresi,
  parimente rispondiamo di non intendere neppur questo. Tuttavia
  perchè non paia che non si voglia neppure parlare di questa accusa,
  per risposta Ti diciamo che non obbedirono nè alla parola scritta
  di Dio, nè agli ordini di Cuinis-Kan e Kan; che anzi, consigliatisi
  in una numerosa assemblea, ne uccisero i rappresentanti. Perciò
  Iddio comandò di sterminarli, e li pose nelle Nostre mani.
  Altrimenti se ciò non avesse comandato Iddio, che avrebbe potuto
  fare un uomo ad un altro uomo? Ma Voi, uomini d'Occidente, Voi
  credete d'essere i soli cristiani e tenete in dispregio gli altri
  Ma come mai potete conoscere a chi Iddio siasi degnato di conferire
  la sua grazia? Noi adorando Dio, colla fortezza di Dio sterminammo
  ogni terra dall'oriente sino all'occidente, e se questa forza
  non ci venisse da Dio, che mai avrebbero potuto fare gli uomini?
  Però se Voi deponete le armi, e volete consegnare a Noi le Vostre
  fortezze, Tu, o Papa, insieme con tutti i Re del cristianesimo,
  affrettatevi di venire da Me, chè tratteremo di pace; e allora
  conosceremo che effettivamente volete pace con Noi. Se poi non
  darete ascolto nè alla parola di Dio, nè alla Nostra lettera, nè
  ai Nostri consigli, allora si mostrerà chiaro che con Noi volete
  guerra. Che cosa sia per avvenire poi dopo, Noi non lo sappiamo:
  Iddio solo lo sa. — Cuinis-Kan[100] primo Imperatore — secondo
  Thaday-Kan — Terzo Tujuk-Kan(?)_

Nulla più era scritto nella lettera del signore dei Tattari mandata
al Papa. E qui si noti che questa infelice Italia prima la invasero i
Vandali, che vennero dall'Africa e trassero seco prigioniero Paolino
vescovo di Nola, di cui parla ampiamente il beato Gregorio nel
principio del 3º libro _Dei dialoghi_. Secondi le piombarono sopra
gli Unni, il cui Re era Attila flagello di Dio, che venne nell'anno
medesimo del pontificato di Leone I. Papa, e distrusse Acquileia, la
prima città che incontrasse in Italia. E tutta l'Italia e Roma avrebbe
messo a sacco e a fuoco, se Papa Leone non avesse osato corrergli
contro, e coll'aiuto della destra di Dio non avesse ottenuto di
fiaccarne l'orgoglio e ricacciarlo in Ungheria. Tale era Leone I, il
quale a giudizio dell'abbate Gioachimo, si rassomiglia a Giosafatte Re
di Giuda (Vedi libro _Delle Figure_, e il libro _Delle Concordanze_ di
Gioachimo). Terzi a invadere e devastare l'Italia furono i Goti, de'
quali parla in un dialogo il beato Gregorio. E molti Re Goti regnarono
in Italia, tra' quali fu grandissimo Teodorico in Ravenna; tanto che,
quando insorgevano discordie per l'elezione del Papa, sin da Roma si
veniva a Ravenna per domandarne a lui consiglio ed aiuto. Egli fece
erigere a Ravenna la chiesa dei Goti; e si vede ancor oggi in quella
città la torre del suo palazzo[101]. Fece fabbricare anche la chiesa
di S. Martino in cielo d'oro[102], che ora si chiama di S. Apollinare
nuovo, perchè vi fu trasportato dalla città di Chiassi[103] il corpo
del ridetto Santo. Fondò anche fuori di Ravenna la chiesa di S. Maria
Rotonda, che è coperta da una pietra di un sul pezzo. Ivi egli fu
sepolto in un'arca di porfido, che anche oggi si vede, ma vuota, perchè
il beato Gregorio Papa, quando andò a Ravenna, fece levarne le ceneri e
gettarle in una fogna. E ciò fece fare per quattro ragioni: 1º perchè
sebbene quegli fosse cristiano, era però Ariano; 2º perchè condannò a
morire tre grandi uomini, cioè Boezio, Simmaco e Giovanni Papa......
4º perchè fu sepolto dai demonii in un'urna di colore del fuoco,
come dice il beato Gregorio nel quarto libro dei dialoghi. Quarti
a saccheggiare e disertare l'Italia furono i Longobardi, de' quali
parla Paolo istoriografo nel primo libro della loro istoria: «Spesso
innumerevoli torme di schiavi condotti via dalla Germania sono or quà
or là dai popoli meridionali comprate a prezzo. Spesso anche molta
gente emigra da quella regione, perchè è tanto prolifica da non poterli
tutti alimentare, e quindi innondano e disertano l'Asia, e specialmente
la vicina Europa. E ad ogni passo ne fanno testimonianza le smantellate
città dell'Illirio e della Gallia, principalmente dell'infelice Italia,
che ebbe a provare la ferocia di quasi tutte quelle orde. Anche i
Goti, i Vandali i Rugi, gli Eruli, i Turcilingi ed altre barbariche
genti sbucarono dalla Germania. Parimenti dalla Germania derivano la
loro origine i Vinuli, o Longobardi, che poi regnarono felicemente
in Italia; però si assicura che furono diverse le cause della loro
emigrazione. Anche dall'isola che si chiama Scandinavia ne vennero ad
assalirci; della quale isola ne parla anche Plinio il Giovane ne' libri
_intorno alla natura delle cose_.» Fin qui Paolo. Quinti ed ultimi (e
voglia il cielo che siano gli ultimi!) si preparano a venire i Tattari,
come racconta frate Giovanni da Magione, il quale ha avuto famigliari
colloquii col gran Signore dei Tattari. Magione poi.....: e nella
provincia di Perugia. E si noti che queste vaghe voci d'invasioni dei
Tattari cominciarono a correre la prima volta a' tempi di Papa Gregorio
IX. Poi Papa Innocenzo IV mandò in ambasciata al loro Imperatore frate
Giovanni da Magione. — Finalmente Papa Giovanni XXI di nuovo mandò a
loro un'ambasciata composta di sei frati Minori; due della provincia di
Bologna, de' quali uno era lettore, frate Antonio da Parma, l'altro suo
compagno e confidente, frate Giovanni da S. Agata; due della provincia
della Marca d'Ancona, e due della provincia di Toscana, tutti frati
lettori, accompagnati da tre frati di confidenza. Uno de' lettori
della Toscana, che andò in Tattaria, fu frate Gerardo da Prato, col
quale io aveva coabitato nel convento di Pisa, quando eravamo giovani.
Questi era fratello di frate Arlotto, che si dottorò a Parigi ed ebbe
una cattedra. Ritornarono poi questi frati Minori dalla Tattaria in
buonissima salute, e dicevano meraviglie di quel paese, come ho udito
io co' miei orecchi. Quando frate Giovanni da Magione, reduce dalla
Tattaria, giunse a Lione da Papa Innocenzo IV, e fece la relazione
delle sua missione, e presentò la lettera e i doni di quell'Imperatore,
il Papa gliene dimostrò la sua riconoscenza in cinque modi: 1º lo
trattò con molta cortesia, dolcezza e famigliarità; 2º lo tenne
presso di sè in Corte tre mesi, (fino a che fu dai Parmigiani presa e
distrutta la città di Vittoria, e l'Imperatore Federico ne fu sloggiato
e cacciato in fuga) perocchè aveva sempre seco sei frati Minori, e li
volle avere fin che visse, come io ho visto co' miei occhi; 3º il Papa
commendò l'opera e la fedeltà di lui, e gli disse; Sia tu benedetto,
o figlio, da nostro Signor Gesù Cristo e da me suo Vicario, perchè
veggo in te adempiuto il detto di Salomone ne' Proverbii 25.º che
dice: ecc.; 4º gli conferì l'Arcivescovado di Antivari, secondo quel
che dice Matteo 25º: ecc; 5º lo spedì di nuovo come suo Legato presso
Lodovico Re di Francia. A che fare fosse poi inviato al Re di Francia,
frate Giovanni interrogatone non volle mai dirlo, ma è opinione comune
che la causa della sua legazione fosse la seguente. Papa Innocenzo
aveva deposto Federico dall'Impero, e i Parmigiani s'erano ribellati
all'Imperatore e per soprassello l'avevano sconfitto e cacciato in fuga
ignominiosa, e gli avevano così rasa al suolo la città di Vittoria,
che esso aveva fatto costruire vicino a Parma, che non ne restava
traccia. E perciò era irritatissimo, e come orsa che inferocisce al
bosco se le sono rapiti i figli, fiammava d'ira e di furore. E ridotto
a fuggire si ritrasse a Cremona, poi corse sopra Torricella[104], e
scorrazzava sul parmigiano, e faceva ogni maggior danno che poteva;
quel che non poteva, minacciava di farlo. E prima di ritornare al
suo regno ne fece di gravissimi, come diremo tra breve, e come già
narrammo in altra cronaca. Il Papa dunque riconoscendo Federico come
il terribile persecutore della Chiesa, e pronto a seminare veleno ove
potesse, e temendo non poco per la propria persona, mandò pregando il
Re di Francia a differire la sua crociata in Terra Santa, fino a che si
riconoscesse che cosa finalmente avesse Iddio decretato per Federico.
Allegava anche che in Italia scorrazzavano masnade d'uomini infedeli,
perversi, pessimi, pestiferi, rapinanti, nudi di tutto e oppressi
dai debiti, che, raggruppatisi intorno a Federico, lo seguivano come
loro principe, e portavano la devastazione sui beni della Chiesa. Che
si poteva dire di più? Ma pure il Papa fece pregare invano, nè potè
distogliere il Re dal proposito di andar oltremare, essendo già pronti
i crociati e i denari per l'impresa. E mandò rispondendo che il Papa
abbandonasse Federico al giudizio di Dio, perchè Dio solo può atterrare
i superbi. Lodovico dunque Re di Francia con animo saldo, proponimento
irrevocabile, e mente pronta e divota si disponeva al viaggio e a
soccorrere, quanto più presto potesse, Terra Santa. Quando adunque
vidi la prima volta frate Giovanni da Magione, reduce dalla Tattaria,
il dì successivo andò a Lione da Papa Innocenzo, che lo aveva mandato,
ed io mi posi in viaggio per la Francia. E mi fermai a Briançon, che
è nella Sciampagna, poi a Troyes quindici giorni, ove trovai molti
mercanti Lombardi e Toscani; perocchè, come anche a Provins, vi si
fa una fiera che dura due mesi. Troyes poi è la città natale di Papa
Urbano IV, e di maestro Pietro, prete, storiografo. Poscia mi recai
a Provins, ove soggiornai dal giorno di santa Lucia sino al giorno
della Purificazione. Il giorno della Purificazione arrivai a Parigi,
e vi stetti otto giorni, e vidi molte cose che mi piacquero. Dopo ne
partii per fermarmi nel convento di Sens, perchè i frati Francesi mi
tenevano volentieri in loro compagnia, essendo io giovane, pacifico,
vivace, e facile a lodare i fatti loro. E trovandomi io nell'infermeria
per infreddatura, alcuni frati Francesi di quel convento corsero
festosamente da me con una lettera in mano e dissero: Ottime notizie
da Parma; i Parmigiani cacciarono l'Imperatore Federico dalla città di
Vittoria, lo costrinsero a precipitosa e vergognosa fuga, distrussero
la sua Vittoria dalle fondamenta, fecero bottino di tutto il tesoro
dell'Imperatore, appresero il carroccio dei Cremonesi e lo tirarono
in Parma; e questa è una copia della lettera mandata in Lione al Papa
dai Parmigiani. E mi interrogavano a che serviva quel carroccio. Ed io
risposi che i Lombardi chiamano carroccio quel carro, su cui in tempo
di guerra innalzano lo stendardo; e, se una città perde in battaglia
il suo carroccio, se lo reca ad onta tanto, quanto farebbero i
Francesi e il loro Re, se in battaglia fosse strappato loro dalle mani
l'orifiamma. Questa cosa suscitò nell'animo loro sorpresa e maraviglia,
ed esclamarono: Oh Dio! quale mirabile parola abbiamo udito! Questa
notizia mi fece star subito meglio di salute. Ed in quel punto ecco
presentarsi frate Giovanni da Magione, reduce dal Re di Francia,
presso il quale l'aveva mandato il Papa in missione. Ed aveva seco
un libro da lui composto intorno al paese e ai costumi e al carattere
dei Tattari; e i frati lo leggevano in sua presenza avidamente ed egli
spiegava e chiariva quelle cose, che s'incontravano oscure, difficili
ad intendersi e a credersi. Io fui commensale di frate Giovanni tanto
nella casa dei frati Minori, che altrove più volte nelle abbazie e ne'
principali monasteri. Perocchè egli era spesso invitato a pranzi e a
cene, sia perchè Legato del Papa, sia perchè inviato al Re di Francia,
e perchè reduce dai Tattari, ed anche perchè era dell'Ordine de'
Minori e tenuto in riputazione di sant'uomo. E quando andai a Clugny,
dissero a me i monaci di quel paese: Dio volesse che i Papi avessero
mandato sempre Legati quale era quel frate Giovanni, che tornò dalla
Tattaria. Perocchè di questi Legati ve me sono, che, se vi riescono,
spogliano le Chiese, e portano via tutto quello che possono. Ma frate
Giovanni, quando passò da qui, non volle accettar nulla, tranne quanto
panno occorreva per fare una tonaca al suo compagno. E tu che leggi,
sappi che quello di Clugny è un nobilissimo monastero dei monaci neri
di S. Benedetto in Borgogna. In questo chiostro vi sono più Priori,
e vi ha tanto numero di stanze da potervi ospitare il Papa co' suoi
Cardinali e tutta la sua Corte, e contemporaneamente l'Imperatore
colla sua, senza disagio de' monaci; chè non sarebbe perciò necessario
che nessun frate dovesse lasciare la sua cella, nè sopportare altro
disturbo. E nota che la Regola di S. Benedetto, quanto ai monaci neri,
è meglio osservata nelle provincie d'oltremonte, che in Italia. Nota
inoltre che l'Ordine di S. Benedetto, quanto ai Monaci neri, ha quattro
cospicui monasteri, uno in Borgogna, a Clugny, uno in Allemagna, a
S. Gallo[105]; un altro in Lombardia nella diocesi di Mantova a S.
Benedetto di Polirone, dove è sepolta la Contessa Metilde in un arca di
marmo; finalmente il quarto, che è capo di tutti, a Montecassino[106].
Dal convento di Sens poi, ove io mi trovava quando la città di Vittoria
fu presa e distrutta dai Parmigiani e l'Imperatore ne fu cacciato in
vergognosa fuga, passai ad Auxerre, ed ivi fermai mia stanza, perchè il
ministro Provinciale di Francia mi aveva addetto specialmente a quel
convento. Questa città poi fu detta in latino _Altisiodorum_, quasi
volesse significare alta sede degli Dei, o alta stella, perchè molti
vi subirono il martirio. Qui evvi anche il monastero e il corpo di S.
Germano, Vescovo della città, che fu chiarissimo astro di gloria, ed
iride fulgida dipinta sulle nubi, come ben sanno coloro che hanno letto
la sua biografia. Fu oriondo di Auxerre anche maestro Guglielmo, che
scrisse la _Somma_, poi compose un'altra _Somma_, intorno agli uffici
della Chiesa, ed io frequentai casa sua. Questo maestro Guglielmo, come
mi dicevano molti sacerdoti della diocesi di Auxerre, disputava con
molta grazia; e quando sosteneva dispute a Parigi, nessuno lo superava,
poichè era logico stringentissimo, e dottissimo teologo. Ma quando
voleva predicare, non sapeva quello che si dicesse; eppure nella sua
_Somma_ aveva saputo dare molti e buoni avviamenti al comporre......
Esempio dell'abbate Giovachino, che dice di aver ricevuto da Dio la
virtù d'intendere la Bibbia, e la conoscenza delle cose future. Maestro
Guglielmo di Auxerre adunque ebbe la grazia di disputare, ma non quella
di predicare al popolo. Così ogni uomo ha suo dono da Dio, come p. e.
quel ciabattino, che nel paese de' Saraceni traslocò un monte, e liberò
i cristiani. Ricercalo in quel sermone di frate Luca, che incomincia:
_Aspettiamo il Salvatore........_ Cosa diversa è l'interpretazione de'
sermoni. E nota che l'interpretazione de' sermoni può essere di due
maniere. L'una è quella degli interpreti o traduttori, che trasportano
i libri da una in altra lingua, de' quali ho detto quanto basta
allorchè scrissi la storia dell'Imperatore Adriano, essendosene offerta
l'occasione, perchè a' tempi di lui visse Aquila, che fu il primo
che facesse traduzioni. Di che cercane in una cronaca che comincia:
_Ottaviano Cesare Augusto:_ ch'io compilai nel convento di Ferrara
l'anno che Lodovico Re di Francia fu fatto prigioniero oltremare dai
Saraceni, cioè nel 1250; cronaca, che io, spigolando da parecchie
memorie scritte, condussi avanti sino alla dominazione dei Longobardi.
Dopo deposi la penna, e la troncai lì, perchè io era tanto povero che
mi mancava sin la carta o la pergamena. Ed ora volge l'anno 1284. Non
tralasciai però di ritoccare altre cronache, che, a mio giudicio, mi
erano riuscite ben composte, e procurai di migliorarle risecandone le
superfluità, riducendone a maggiore proprietà la dizione, appurando i
fatti, e levandone le contradizioni. Non potei però purgare al tutto
la dizione, perchè alcune parole, che si scrivono, sono tanto radicate
nell'uso, che nessuno potrebbe cancellarle dall'animo del popolo, che
così le ha imparate. Delle quali potrei citare molti esempi. Ma agli
zotici ed ignoranti non vale alcun esempio; perchè _chi ammaestra uno
stolto fa come chi volesse rimettere insieme un vaso di terra rotto_,
Ecclesiastico XXII. Perocchè _chi fa parole con uno che non ascolta,_
cioè che non intende, _fa come chi vuole svegliare il dormiente dal
suo letargo. Chi collo stolto ragiona di sapienza, parla con uno che
dorme, il quale in fine del ragionamento dice: Chi è costui?_ Perciò
ad un cotale, canzonandolo, si potrebbe dire: _Erla ke le farina(?)_
Ora ritorniamo ad Auxerre. Mi ricorda che, quando io era nel convento
di Cremona, l'anno in cui Parma mia città nativa si ribellò al deposto
Imperatore Federico, frate Gabriele da Cremona dell'Ordine de' frati
Minori, che era un celebre lettore ed uomo di santissima vita, disse a
me che Auxerre aveva maggiore quantità di vigne e di vino che Cremona
e Parma e Reggio e Modena insieme. All'udirlo rifuggì l'animo mio
dal prestarvi fede; non mi pareva credibile: Ma quando poi fui di
stanza ad Auxerre, mi persuasi che egli non aveva esagerato, perchè
quella diocesi comprende un largo territorio, e i colli, i monti e
le pianure sono tutti a viti. Essendo che i coloni di quel paese non
seminano grani, non mietono, nè colmano i granai, ma invece mandano i
loro vini a Parigi giù pel vicino fiume[107], che entra nella Senna,
ove li vendono ad alto prezzo, e ne ricavano quanto loro bisogna pel
vitto e pel vestiario. Ed io tre volte uscendo dalla città ho girato
tutta la Diocesi di Auxerre; una volta con un frate che andava qua
e là predicando, e fregiava della croce quelli che erano per andare
in Terra Santa al seguito del Re di Francia. Un'altra volta con un
altro frate, che predicò nel Giovedì Santo ai monaci Cistercensi in
un magnifico monastero. E si fece pasqua in casa di una contessa, che
ci servì, cioè fece servire a tutti i commensali, dodici pietanze;
e se il conte suo marito fosse stato a casa, l'imbandigione sarebbe
stata più lauta. Questo frate mi fece vedere il monastero di Pontigny,
ove Papa Alessandro III, che soggiornava a Sens, mandò con speciale
raccomandazione il beato Tomaso Arcivescovo di Cantorbery, quando Re
Artaldo lo espulse dall'Inghilterra. La terza volta la visitai con
frate Stefano, e vidi e imparai molte cose degnissime di storia; ma
per brevità le tralascio e mi affretto a dirne altre. E sappi che nella
provincia di Francia, parlo per quel che ha attinenza coi frati Minori,
vi sono otto conventi, in quattro de' quali si beve birra, negli altri
quattro bevono vino. Sappi anche che sono tre le regioni francesi
che abbondano di vino, cioè la Rochelle, Beaune[108], ed Auxerre. Ad
Auxerre però i vini rossi sono poco pregiati, perchè non sono così
buoni come i vini rossi italiani. Perciò coltivano per lo più le uve
bianche e talora color d'oro, che danno un vino aromatico, confortante
e di squisito sapore, e chi ne beve diventa allegro e franco; sicchè
del vino d'Auxerre si può dire benissimo quel de' Proverbii 21.º ecc.
ed è così forte che, se lo lasci alcun tempo nel fiasco, trasuda. E
sappi finalmente che i Francesi usano dire con un lor gioco di parole
che il vino buono deve avere tre _t_, e sette _f_ il buonissimo.
Perocchè dicono scherzando:

    El vin bon et bel sel dance
    Forte et fer et fin et france
    Froist et fras et fromijant

    Buono e bello è 'l vin che grilla,
    Bello e buon quel che si spilla
    Forte, fin, fresco, frizzante,
    Fiero, fervido, fragrante.

E Maestro Morando, che insegnò grammatica a Padova, fece, a seconda del
suo gusto, il panegirico del vino cantando:

    Vinum dulce gloriosum
    Pingue facit et carnosum
        Atque pectas aperit.
    Et maturum gustu plenum
    Valde nobis est amoenum
        Quia sensus acuit.
    Vinum forte vinum purum
    Reddit hominem securum
        Et depellit frigora.
    Sed acerbum linguas mordet,
    Intestina cuncta sordet,
        Corrumpendo corpora.
    Vinum vero quod est glaucum
    Potatorem facit raucum
        Et frequenter mingere.
    Vinum vero turbolentum
    Solet dare corpus lentum
        Et colorem tingere.
    Vinum rubeum subtile
    Non est reputandum vile
        Nam colorem generat.
    Auro simile citrinum
    Valde fovet intestinum
        Et languores suffocat.

    Il vin dolce, onor del mondo,
    Mi fa tondo, rubicondo,
        E cuor contento.
    Quel severo a gusto piano
    Fa sereno, rende ameno,
        E dà talento.
    Un vin forte, un vino puro
    Fa sicuro, imperituro,
        E 'l sen m'avvampa.
    Ne corrode quell'agresto,
    N'è molesto, greve, infesto,
        E non si campa.
    Chi 'l vin beve verde mare
    A me pare gracidare,
        E piscia ognora.
    Quel pisciancio turbolento
    Rende lento, sonnolento
        E ne scolora.
    Il rubino non è vile,
    È sottile, è gentile
        E fa bel sangue.
    Quello poi ch'al sol s'indora
    Fiero incuora, fier ristora
        L'uomo che langue.

I Francesi per tanto sono avidi del buon vino. Nè è da meravigliare,
perchè il vino _rallegra Dio e gli uomini_, è detto nel 21º dei
Giudici........ Senza punto esagerare i Francesi e gli Inglesi vanno
pazzi per vuotar calici. Quindi è che i Francesi patiscono flussione
d'occhi, e il troppo bere fa loro gli occhi arrovesciati, rossi,
cisposi e scerpellati. E la mattina per tempissimo, snebbiata la mente
dai fumi del vino, con quegli occhi siffatti vanno da un sacerdote,
che abbia detto messa, e lo pregano di far cadere sui loro occhi stille
di quell'acqua, che gli ha servito per il _lavabo_. Ai quali diceva a
Provins frate Bartolomeo Guiscolo da Parma, come ho udito io stesso più
volte: _Alè ke maletta ve don Dè; metti del aighe in les vin, non in
les ocli: Andate che Dio vi mandi alla malora; mettete acqua nel vino,
non negli occhi._ Anche gli Inglesi sono avidi di quei vini di Francia,
e ne tracannano a iosa. Perocchè uno prende una coppa, e la ingolla
tutta, poi dice: _Ge bui; a vu._ Che è come dire; Berrete anche voi
quanto berrò io; e se n'ha molto per male se l'altro fa diversamente
da quello ch'egli insegnò colla parola e suggellò coll'esempio. Ma
così operando si contravviene a quello che dice la Sacra Scrittura nel
libro 1º di Ester, ecc. Però bisogna perdonarlo agli Inglesi se nuotano
nel buon vino, quando possono, perchè a casa loro di vino ne hanno
poco. Sono meno scusabili i Francesi, che ne abbondano, se per iscusa
non tengasi la sentenza: _È difficile abbandonare le cose a cui siamo
avvezzi._ Nota che in una poesia si legge:

    Det vobis piscem Normandia terra marinum;
    Anglia frumentum, lac Scotia, Francia vinum;
    Silva feras, aer volucres, armenta butirum;
    Hortus delitias, nemus umbra, stagna papyrum.

    Tutto per voi feconda e vi matura
    Il chimico fornel della natura.
    Il mar di Normandia vi pesca il pesce;
    L'Inghilterra per voi le spiche cresce;
    Pingue la Scozia il latte a voi distilla;
    Ricca la Francia a fiumi il vin vi spilla;
    Moltiplica la preda a' vostri strali
    Quanto la selva ormeggia o va sull'ali;
    L'orto frutta vi fa, l'ovil butiro,
    Lo stagno e 'l bosco danno ombra e papiro.

..... E qui è da notare che in certi mesi la parte del giorno
illuminata dal sole è più lunga in Francia che in Italia, come sarebbe
nel mese di maggio; e nell'inverno è più breve, e n'ho fatto io
l'esperienza in persona. Ritorniamo ora sulla nostra via, e continuiamo
a parlare del Re di Francia.


a. 1248

L'anno dunque 1248, poco dopo la Pentecoste, da Auxerre passai
al convento di Sens, perchè quivi si doveva adunare il capitolo
provinciale a discutere gli interessi dell'Amministrazione della
provincia di Francia, e stava anche per arrivare Lodovico Re de'
Francesi. Adunatosi pertanto il capitolo, il ministro della provincia
di Francia coi definitori si avvicinò al cospetto di frate Giovanni
da Parma ministro Generale, che era in quel convento; e disse: Padre,
noi abbiamo esaminati ed approvati quaranta frati venuti al capitolo
per ottenere la facoltà di predicare, e l'abbiamo loro conferita, e li
abbiamo rinviati ai loro conventi, perchè questo nostro, ove si tiene
il capitolo, non risenta disagio da troppa agglomerazione di frati.
E il ministro Generale rispose loro che avevano operato male, senza
conoscere la Regola, che prescrive non potersi conferire la facoltà
di predicare dai ministri provinciali quand'è presente il ministro
Generale. «E aggiunse: L'esame fatto l'approvo; ma comando che siano
richiamati, e ricevano da me la chiesta facoltà a norma della nostra
Regola. Così fu fatto» e si fermarono poi a Sens finchè fu terminato il
capitolo. Partito il Re di Francia da Parigi per onorare il capitolo
di sua presenza, quando si seppe che era poco lunge dal convento,
uscirono tutti i frati Minori ad incontrarlo, e fare a lui onorifico
ricevimento. E frate Rigaldo dell'Ordine de' Minori, maestro cattedrato
a Parigi, e Arcivescovo di Rouen, vestito pontificalmente uscì dal
convento, ed in fretta andava incontro al Re interrogando ad alta voce:
Ov'è il Re? Ov'è il Re? Ed io gli tenea dietro, perchè solo e smarrito
errava colla mitra in capo e il pastorale in mano. Aveva egli perduto
tempo nell'appararsi, sicchè gli altri frati erano già usciti e stavano
allineati a destra e a sinistra sui ciglioni della strada colle spalle
volte alla città, volendo vedere il primo spuntare del corteggio reale.
Ed io vidi spettacolo che mi fece vivissimamente meravigliare, e meco
stesso andava ragionando: Ho pur letto non una, nè due volte sole, che
i Galli Senoni furono un popolo nobile e potente, e che, capitanati da
Re Brenno, entrarono di forza in Roma; ma veramente ora le loro donne,
per la più parte, somigliano a tante fantesche. E sì che se il Re di
Francia passasse per Pisa e per Bologna tutto il fiore delle nostre
matrone gli correrebbe incontro. Ma in quel punto mi tornò a mente
d'aver udito dire d'un uso dei Francesi, e lo riconobbi vero. Ed è che
in Francia i cavalieri e le loro nobili dame abitano le castella delle
loro ville; in città soggiorna soltanto la borghesia. Il Re poi era
mingherlino, gracile, macilente, e di statura in proporzione troppo
alta, di volto angelico e raggiante di grazia. E veniva alla chiesa
de' frati Minori non in pompa reale, non a cavallo, ma a piedi, ed
in abito da pellegrino, col bordone e la bisaccia al collo, che dava
decoro agli omeri reali; e colla stessa umiltà e conforme vestiario lo
seguivano i suoi tre fratelli germani: primo de' quali era Roberto,
e l'ultimo si chiamava Carlo, che fece poi meravigliose prodezze
degnissime di storia. Il Re non si prendeva cura del corteo de' nobili,
ma piuttosto delle orazioni e de' voti de' poveri; ed era di fatto
più monaco nelle divozioni, che soldato nell'armi. Entrato pertanto
nella chiesa de' frati, e fatta una devotissima genuflessione, pregò
davanti all'altare. E mentre usciva di chiesa, giunto sulla soglia
della porta, io mi gli trovai vicino. Quand'ecco gli fu offerto, e, per
mezzo del tesoriere della chiesa di Sens, presentato un grosso luccio
ancor vivo in acqua, dentro una conca d'abete, che i Toscani chiamano
bigoncio, e che serve loro per bagni e per lavacro ai fanciulli, che
sono ancora in culla. Per vero in Francia il luccio è un pesce, che
si paga caro e si giudica squisito. Il Re ringraziò il donatore e
il presentatore del dono; poi disse ad alta voce, da tutti intesa,
che nessuno entrerebbe nell'aula capitolare, tranne i cavalieri e i
frati, ai quali voleva parlare nell'adunanza. Radunato il capitolo,
il Re cominciò a fare la sua confessione, a raccomandare a Dio sè
stesso, i suoi fratelli, la Regina sua madre, tutto il suo seguito,
e inginocchiatosi divotissimamente invocò le orazioni ed i suffragi
de' frati. E alcuni frati francesi che mi stavano a fianco, ammirando
tanta pietà e divozione, piangevano dirottamente di consolazione.
Dopo il Re, sorse a parlare il Cardinale della Corte romana, Oddone,
che era stato una volta gran Cancelliere di Parigi, e voleva andare
col Re in Terra Santa, e in poche parole si sbrigò. Terzo a parlare
s'alzò frate Giovanni da Parma, ministro Generale, a cui per ufficio
toccava rispondere, e disse: L'ecclesiastico 32º dice: _Parla tu con
eletto discorso, tu che in grado avanzi gli altri, poichè a te spetta
la prima parola._ Il Re, padre e benefattore, che si degnò di parlare
affabilmente ad un'adunanza di poveri, venne in mezzo a noi umile e
benigno. E come ben conveniva parlò primo tra noi; nè ci domandò oro,
nè argento, di cui, la Dio mercè, il suo tesoro abbonda; ma desidera
vivamente le nostre orazioni ed i nostri suffragi per uno scopo che è
lodevolissimo. Di fatto il Re nostro imprese questo pellegrinaggio e
questa crociata a gloria di nostro Signor Gesù Cristo, a soccorso di
Terra Santa, a sterminio de' nemici della fede e della croce di Cristo,
ad onore di tutta la Chiesa Cattolica e di tutto il Cristianesimo, a
salute dell'anima sua e di tutti coloro che seco lui vanno oltremare.
Laonde, sia perchè fu il nostro principale benefattore e sostenitore
non solo a Parigi, ma eziandio in tutto il suo regno; sia perchè
volle degnarsi di venire tra noi tanto umilmente e con tanto nobile
corteo, e chiede a noi di pregare per un santo fine, è doveroso e
conveniente che noi ricambiamo a lui, almeno per quanto possiamo, i
segnalati benefici, e l'alto onore che abbiamo ricevuto. E siccome i
frati Francesi sono lieti e prontissimi di fare tutto il possibile a
questo scopo, anzi sono d'animo disposti a più di quello ch'io sapessi
decretare, perciò non impongo loro comandamenti di sorta. Avendo
però io incominciato a visitare tutti i conventi dell'Ordine, mi sono
proposto nell'animo di prescrivere a ciascun sacerdote di celebrare
quattro messe pel Re e pel suo corteggio: Una dello Spirito Santo;
un'altra della Croce; la terza della beata Vergine; la quarta della
Trinità. E se fatalmente accadesse che il Figlio di Dio lo richiamasse
al seno del Padre eterno, altri più fervidi suffragi aggiungeranno i
frati. E se per parte mia non ho abbastanza soddisfatto al desiderio
del re, il Re comandi; chè tra noi non manca chi obbedisca; può solo
mancare chi comandi. Udite il Re queste parole, ringraziò il ministro
Generale, ed accolse con tanto gradimento quelle disposizioni che
le volle scritte in una lettera autografa del Generale stesso e
autenticate col suo sigillo. Così fu fatto. E le spese di quel dì le
fece il Re e pranzò coi frati in refettorio. Al pranzo intervennero
i tre fratelli, del Re, il Cardinale della Corte romana, il ministro
Generale dell'Ordine de' Minori, frate Rigaldo Arcivescovo di Rouen, il
ministro Provinciale di Francia, i Custodi, i Definitori, i frati di
fiducia, tutti quelli che erano ammessi al capitolo, e i frati nostri
ospiti, che chiamiamo forestieri. Riconoscendo pertanto il ministro
Generale la nobiltà e dignità del reale corteggio, cioè tre Conti, il
Cardinale Legato della Chiesa romana e Arcivescovo di Rouen, non volle
arrogarsi gli onori di preminenza dovuti alla sua dignità, quantunque
il Re lo invitasse a sedergli a fianco; ma volle piuttosto dimostrare
col fatto quella cortesia e quella umiltà, che il Signore predicò colla
parola e coll'esempio; e prese posto alla mensa de' poveri, la quale
dalla sua presenza acquistò splendore, e tutti ne restarono edificati,
e ne ebbero buon insegnamento. E in quel dì il Re fece quel che
insegna la Sacra scrittura, Ecclesiastico IV; _Renditi affabile nella
conversazione de' poveri._ La prima imbandigione servita in quel dì a
mensa furono le ciliegie; poi pane bianchissimo, e vino abbondante e di
qualità veramente degna della magnificenza reale. E, secondo l'usanza
de' Francesi, eranvi molti che invitavano, in modo da costringere a
bere, anche chi non voleva. Poi si portarono innanzi le fave fresche
cotte nel latte, pesci, granchi, pasticci d'anguille, riso con latte
di mandorle e polvere di cinamomo, anguille rosolate con squisitissima
salsa, torte giuncate e frutta in abbondanza e bellissima. Ed ogni
cosa fu servita con molto garbo, e molta compitezza. Il dì successivo
poi il Re intraprese il suo viaggio; ed io, chiuso il capitolo, lo
seguii, poichè io aveva ricevuta dal ministro Generale l'obbedienza
di andare a dimorare nella Provenza. E mi riescì agevole trovarmi
dove era il Re, perchè spesso egli deviava dalla strada diretta per
andare ai romitaggi dei frati Minori e di altri religiosi, di quà di
là vagando a destra a sinistra, per raccomandarsi alle loro orazioni.
E così andò facendo sinchè giunto al mare s'imbarcò per Terra Santa.
E facendo io una visita ai frati di Auxerre al cui convento io aveva
appartenuto, un dì mi recai a Vezellay[109], nobile castello della
Borgogna, ove in quei tempi si credeva che vi fosse il corpo della
Maddalena. L'indomani era domenica. E la mattina per tempissimo il Re
si recò al convento de' frati per raccomandarsi alle loro preghiere, ed
aveva lasciato il suo corteo nel castello, che era vicino al convento.
Condusse seco soltanto i suoi tre fratelli ed alcuni staffieri a
custodire i cavalli; e fatta una reverente genuflessione davanti
all'altare, i frati teneano gli occhi volti agli scanni su' quali
sedere; ma il Re sedette in terra e nella polvere, come ho visto io
co' miei occhi, perocchè quella chiesa non aveva un piano lastricato.
E ne chiamò presso di sè dicendo: Avvicinatevi a me, frati miei
carissimi, e ascoltate le mie parole. Allora facemmo corona intorno
a lui, e come lui sedemmo in terra, e fecero altrettanto i suoi tre
fratelli germani. E si raccomandò ai frati, invocò le loro orazioni e
li pregò de' loro suffragi. All'uscire di chiesa gli fu detto che suo
fratello Carlo pregava ancora con fervore, e il Re se ne compiacque,
e, per aspettarlo, non montò a cavallo; e gli altri due fratelli in sua
compagnia parimente aspettavano fuori della porta della chiesa col Re.
Carlo era il fratello minore, Conte di Provenza, marito d'una sorella
della Regina; e faceva molte genuflessioni davanti ad un altare che
era su un fianco della chiesa vicino alla porta. Ed io mi trovava in un
punto da poter osservare tanto Carlo che pregava fervidamente, quanto
il Re che fuori aspettava pazientemente; e ne rimasi molto edificato.
Dopo continuò il Re la sua via, e dato sesto alle sue cose, si affrettò
al naviglio, che era pronto. Io poi andai a Lione, ove trovai ancora
Papa Innocenzo IV co' suoi Cardinali. In seguito discesi sino ad Arles,
distante cinque miglia dal mare, ed era la festa del beato Pietro
Apostolo. In que' giorni arrivò a quel convento anche frate Raimondo
ministro della Provenza, che poi fu fatto Vescovo, e mi ricevette
onorificamente, ed era con lui il lettore di Mompellier. Di lì passai
per mare a Marsiglia, e da Marsiglia andai a Jeres[110] per fare visita
a frate Ugo da Digne[111] o da Bariols[112], cui i Lombardi chiamano
frate Ugo da Mompellier. Egli era uno de' più illustri chierici del
mondo, predicatore affascinante, gradito dal clero e dal popolo, forte
a disputare e pronto a discutere di ogni cosa. Tutti gli avversarii
inviluppava, e, stringendo gli argomenti, conchiudeva in proprio
senso; aveva parola facondissima, e voce sonante come di tromba, o di
tuono, o di gonfio torrente in cascata: non mai indietreggiava, non
mai s'intricava, era sempre pronto a rispondere a tutto. Erano come
il sole fiammeggianti le sue parole, se parlava della corte celeste e
della gloria del paradiso, erano terribili, se discorreva delle pene
infernali. Nativo della Provenza, aveva statura mediocre, e tinta
bruna, ma non era brutto. Era uomo acceso in sommo grado delle cose
spirituali, sicchè ti pareva di vedere e di ascoltare un altro Paolo,
un secondo Eliseo; ed ognuno sentivasi il tremito quando predicava.
Ed ecco le parole che ardiva pronunciare al cospetto del Papa o de'
Cardinali in concistoro, nè solo a Lione, ma anche molto prima quando
la Corte pontificia era a Roma: «..... Papa Innocenzo IV, vi ha dato
il cappello rosso affinchè, come ragion vuole, abbiate una distinzione
tra gli altri cappellani. Ma in passato non eravate chiamati Cardinali,
sibbene diaconi della Corte romana, e i preti si ritenevano vostri
pari, e vostri predecessori..... Frate Ugo era solito dire che aveva
quattro amici, ch'egli amava sopra tutti gli altri; primo de' quali
era frate Giovanni da Parma ministro Generale (ed era naturale, perchè
furono ambedue illustri chierici, cultori dello spirito, e caldissimi
Gioachimiti); e per l'amicizia di frate Giovanni da Parma, e poi,
perchè s'accorse ch'io aveva fede nella dottrina di Gioachimo Abbate
dell'Ordine che è a Flora,[113] ebbe anche per me molta deferenza ed
intrinsichezza. Il secondo amico era l'Arcivescovo di Vienna[114],
uomo santo, letterato, onesto, che amava assai l'Ordine del beato
Francesco. Perciò in servigio dei frati Minori fece costruire un ponte
di pietra sul Rodano, perchè aveva dato nella sua diocesi un convento
da abitare ai frati, che stavano al di là del fiume. E trovandomi io
una volta a Vienna, venne da Lione, per confessare e predicare, frate
Guglielmo dell'Ordine dei Predicatori, autore della _Somma dei vizii
e delle virtù;_ ed ospitò presso i frati Minori, perchè i Predicatori
in quella città non avevano convento. E piacque al Guardiano ch'io gli
fossi compagno, e ci trattammo con reciproca famigliarità, perchè era
uomo umile e cortese, sebbene di piccola statura[115]. Io gli domandai
com'era che i frati Predicatori non avessero convento a Vienna; ed
egli rispose che, piuttosto che due o tre conventi, amavano averne
uno solo, ma buono, a Lione. E pregato da me di predicare ai frati
nell'imminente giorno della Annunciazione della beata Vergine, perchè
io desiderava vivamente di udirlo, avendo egli oltre la _Somma_ scritto
anche un trattato _De' Sermoni_, rispose che volentieri, purchè lo
invitasse il Guardiano. E lo invitò, e fece una bellissima orazione
intorno all'Annunziazione della beata Vergine, il cui tema, od esordio
era: _Missus est Angelus: È stato inviato un Angelo._ Un altro giorno,
mentre io soggiornava ancora a Vienna, giunse frate Guglielmo Britto
dell'Ordine de' Minori, autore del libro _Della memoria_, e per
piccolezza di statura si assomigliava all'altro Guglielmo, di cui ho
fatto menzione più su, ma non in quanto al carattere, che pareva più
impaziente e impastato di furia, come di solito i piccoli. D'onde quel
detto:

    Vix humilis parvus. Vix longus cum ratione.
    Vix reperitur homo ruffus sine proditione.

    L'uom piccino di statura
        È superbo di natura.
    L'uomo lungo di persona
        Egli è raro se ragiona.
    Chi di rosso ha tinto il pelo
        Tradirà la terra e il cielo.

Nel convento di Lione io l'ho udito aver la prontezza di fare il
correttore a tavola in presenza di frate Giovanni ministro Generale
e di Papa Innocenzo IV; e allora non aveva ancora composto quel suo
libro, che da lui s'intitola. Il terzo amico poi che diceva d'avere
frate Ugo era Roberto Grossatesta vescovo di Lincoln, uno dei più
eminenti chierici del mondo. Questi, dopo che li aveva già volgarizzati
Borgondione giudice Pisano, tradusse di nuovo il Damasceno ed i
testamenti dei dodici patriarchi, e molte altre opere. Il quarto amico
di Ugo era frate Adamo da Marisco[116] dell'Ordine dei Minori, uno
dei più illustri chierici del mondo. Fu chiarissimo in Inghilterra e
scrisse di molte cose, come quello di Lincoln.[117] Ambedue Inglesi,
e, compagni in vita, furono ambedue sepolti nella chiesa episcopale.
Terzo compagno di questi due fu maestro Alessandro dell'Ordine de'
frati Minori Inglese, e maestro con cattedra a Parigi, che compose
molte opere, e, come dicevano quelli che lo conoscevano a fondo, non
ebbe al suo tempo uno pari a lui sulla terra. Io ricordo che, quando
io era ancor giovane ed abitava nel convento di Siena in Toscana,
frate Ugo che era di ritorno dalla Corte romana, parlò mirabilmente
intorno alla gloria del paradiso e al disprezzo del mondo al cospetto
de' frati Minori e Predicatori, che erano accorsi ad ascoltarlo; e di
qualunque cosa fosse interrogato, subito, senza por tempo in mezzo,
aveva in pronto la risposta. E chi l'udiva si meravigliava di tanta
sapienza e prontezza. Trovandosi egli a Pistoja nel tempo in cui era
imminente la convocazione di un concilio a Lucca nel giorno delle
Ceneri, nè avendo i frati di Lucca chi predicasse, ricorsero a frate
Ugo pregandolo di favorirli in quella ricorrenza. Egli lo promise e
attenne. Arrivò pertanto a Lucca per la via di Pescia appunto in quel
momento, in cui doveva egli andare alla chiesa episcopale. E tutta
radunanza gli andò incontro per accompagnarlo, per fargli onore, e
per desiderio di ascoltarlo. Ma vedendo que' frati fuori di porta,
meravigliato disse: Ah! Dio dove vanno costoro? E dettogli che i frati
gli facevano quel ricevimento per onorarlo, e perchè desideravano di
udirlo, rispose: Non pretendo tanto onore, perchè non sono Papa; se
poi vogliono udirmi, vengano quando io sarò alla chiesa. Ora io anderò
avanti con un compagno solo, chè non voglio trovarmi in mezzo a tanta
caterva di gente. E, quando giunse alla chiesa, li trovò tutti raccolti
e pronti ad udirlo. Sermocinò adunque frate Ugo, e disse tante mirabili
cose e tanto mirabilmente ad edificazione e consolazione del clero,
che tutti rimasero stupefatti della sua graziosa e calda orazione. Ed
i chierici della diocesi di Lucca sino a molti anni dopo hanno sempre
ripetuto di non aver mai udito uomo parlare tanto eloquentemente.
Perocchè altri oratori avevano declamato il loro sermone come un salmo
che avessero imparato a memoria. E per lungo tempo suonarono le lodi
di frate Ugo e della sua predica, e, in grazia di lui, crebbe la buona
opinione e la reverenza per tutto l'ordine de' Minori. Io l'ho udito
predicare un'altra volta al popolo nella Provenza, vicino al Rodano,
a Tarascon[118], e a quella predicazione vi fu immenso concorso di
nomini e donne di Tarascon e di Beaucaire[119], che sono due bellissimi
castelli l'uno di fronte all'altro sulle due opposte rive del Rodano.
In ciascuno de' due castelli vi è un convento di frati Minori. A quella
predicazione vi ebbe anche numerosa affluenza d'uomini e donne sin di
Avignone e di Arles. E parlò loro, come ho udito io coi miei orecchi,
non vuote ciancie, ma parole piene di utili insegnamenti, che, per
la dolcezza dell'animo e il calore e la forza del convincimento che
le inspirava, scendevano a toccare il cuore. Egli era stimato come
un profeta........ Sarebbe ridicolo assai ch'io non volessi credere
che altri non sia Vescovo, o Papa, perchè nol sono io... Vi era anche
alla Corte del Conte di Provenza un maestro Rainero da Pisa, che si
spacciava per filosofo universale, e confondeva per modo i notai, i
medici, e i giudici della Corte che nessuno poteva ivi più salvare la
propria riputazione. Esposta dunque a frate Ugo la loro inquietudine,
lo pregarono di andare in loro soccorso, e difenderli da quel molesto
avversario. Ai quali frate Ugo rispose: Fissate col Conte un giorno per
una disputa in palazzo, e insieme col Conte vi si trovino cavalieri,
cittadini cospicui, giudici, notai e fisici; e disputate secolui, e
il Conte mandi in cerca di me; e mostrerò e proverò a quel maestro
ch'egli è un asino, e che il cielo è una padella. Tutto fu pronto; e lo
inviluppò così, e così gli chiuse la bocca, che si vergognò di essere
nella Corte del Conte, e, senza salutare alcuno, scappò via, nè osò più
mai ivi dimorare, non che presentarsi. Perocchè null'altro era che un
acuto sofista, e credeva di intricare tutti co' suoi sofismi. Liberò
pertanto frate Ugo da un soverchiatore quei meschini che non avevano
alcun aiuto, e perciò baciavano mani e piedi al loro liberatore. E
qui conviene si noti che questo Conte di Provenza è chiamato Raimondo
di Berengario; ed era bell'uomo, benevolo ai frati Minori, e padre
della Regina d'Inghilterra e della Regina di Francia, ed una terza sua
figlia era moglie del fratello del Re d'Inghilterra, ed una quarta era
moglie di Carlo fratello del Re di Francia, dalla quale ricevette la
Contea di Provenza. Nella Provenza poi vi è un castello molto popolato
tra Marsiglia e Ventimiglia, ossia Nizza a mare, lungo la strada che
mena a Genova, dove si trovano aie per fare il sale, e quindi prende
nome da queste aie. Ivi abita gran numero d'uomini e di donne che
fanno penitenza nelle loro case in abito secolare, e sono devoti assai
ai frati Minori, e ascoltano volentieri le loro prediche. I frati
Predicatori, ivi non hanno convento, perchè si dilettano e vogliono
la consolazione di stare soltanto in monasteri grandiosi, e non ne'
piccoli. In questo castello il più del tempo abitava frate Ugo. Ivi
erano molti notai e giudici, e medici e letterati che ne' giorni di
solennità avevano loro comvegno alla cella di frate Ugo per udirlo
parlare della dottrina dell'Abbate Gioachimo, ed insegnare e spiegare
i misteri della Sacra Scrittura, e predire il futuro. Perocchè era
un tenacissimo Gioachimita, e possedeva tutti i libri dell'Abbate
Gioachimo. Ed anch'io una volta vi intervenni per udire come frate Ugo
esponeva quella dottrina, di cui anche prima, quando io era a Pisa,
aveva udito già un'altra esposizione fatta da un Abbate dell'Ordine
di Flora, che era un vecchietto e santo uomo, il quale per timore che
l'Imperatore desse alle fiamme il convento ov'egli abitava, che era
tra Lucca e Pisa, sulla strada che va a Luni[120], aveva collocato,
come in luogo sicuro nel convento di Pisa, tutti i libri pubblicati da
Gioachimo, e che egli possedeva. Poichè egli credeva che in Federico
a quel tempo si dovessero adempire tutti i misteri, perchè era in
discordia vivissima colla Chiesa. Anche frate Rodolfo di Sassonia,
lettore a Pisa, che era un logico stringente, un insigne teologo ed
un impareggiabile disputatore, smesso lo studio della teologia per
meditare su que' libri dell'Abbate Gioachimo, che erano depositati
nel nostro convento, divenne passionatissimo Gioachimita. Ed anche
quando il Re di Francia era sulle mosse per andare in Terra Santa,
ed io mi trovava nel convento di Provins[121], erano ivi due frati,
che professavano tutte le dottrine di Gioachimo, e che con ogni loro
potere tentavano di farmele abbracciare. Uno era di Parma e si chiamava
frate Bartolomeo Guiscolo; uomo cortese, dedito onninamente alle cose
dello spirito, oratore eminente, Gioachimita, e di parte imperiale.
Fu una volta guardiano del convento di Capua. In ogni sua cosa era
spigliatissimo; e morì in un capitolo generale convocato a Roma. Da
secolare insegnò grammatica; frate, scrisse, miniò, insegnò e fece
tante altre cose. In vita sua fece prodigi, ed in morte operò miracoli
ancor maggiori. E di vero quando l'anima sua si sciolse dal corpo, i
frati che erano presenti, videro meraviglie da restarne stupefatti.
L'altro era Gherardino da Borgo S. Donnino[122], che fu allevato in
Sicilia, e insegnava grammatica; giovane morigerato, onesto e buono,
eccessivo soltanto nella tenacità con cui seguiva irremovibilmente le
opinioni e gli insegnamenti di Gioachimo. Questi due mi sollecitavano
ad aver fede nelle scritture dell'Abbate Gioachimo, e a studiarle, e ne
possedevano l'esposizione su Geremia ed altre opere. E stando appunto
allora il Re di Francia in fare i preparativi per andar oltremare
con un esercito di crociati, eglino lo motteggiavano e lo deridevano
dicendo che la impresa gli sarebbe andata male, come poi dimostrò
l'evento; e mi facevano vedere così star scritto nell'esposizione di
Gioachimo sopra Geremia, e perciò doversi aspettare che s'adempisse.
E, leggendosi per tutta la Francia nella messa conventuale d'ogni dì
il salmo: _Oh! Dio le nazioni sono entrate nella tua eredità_ ecc.
eglino parimente mettevano questa sentenza in beffa, e dicevano:
È necessità che si effettui ciò che dice la Scrittura, che ha ne'
Treni 3º: _Tu hai distesa una nuvola attorno a te perchè l'orazione
non passasse_; perocchè il Re di Francia sarà fatto prigioniero, e i
Francesi saranno disfatti, e molti periranno di pestilenza. E perciò
questi due vennero in odio ai frati Francesi, i quali rispondevano
che queste cose si erano verificate nelle crociate precedenti. Eravi
anche contemporaneamente a noi nel convento di Provins frate Maurizio
lettore, bell'uomo, nobile e letterato distinto, che da scolare aveva
fatto studi a Parigi, e da frate aveva fatto un corso di studi di otto
anni. Costui era del territorio di Provins, essendochè in Francia i
nobili dimorano nelle loro ville e castella, e i borghesi nelle città.
Provins poi è nobile castello della Sciampagna distante da Parigi
venticinque leghe. Questo frate Maurizio adunque, che da poco era
diventato mio amico, m'andava dicendo: Frate Salimbene, non aggiustar
fede a questi Gioachimiti, perchè essi turbano la coscienza dei loro
confratelli colle loro dottrine; piuttosto aiutami a scrivere, ch'io
voglio provarmi a fare un buon libro di precetti che sia utile a
predicare. Allora i Gioachimiti si separarono spontaneamente; ed io
andai ad Auxerre[123]; frate Gherardino al convento di Sens[124]; frate
Ghirardino fu mandato a Parigi a studiare per missione della provincia
di Sicilia, alla quale era stato destinato. A Parigi dunque studiò
quattr'anni, e commise una follia, componendo un libello, divulgandolo
e distribuendolo ai frati più ignoranti. Di questo libello parlerò
di nuovo, quando scriverò di Papa Alessandro 4º, che lo proibì. E
siccome per quel libello furono mossi rimproveri all'Ordine sì a
Parigi che altrove, il prenominato Bartolomeo, che ne era l'autore,
fu sospeso dall'ufficio di lettore, di predicatore, di confessore
e da ogni altra incombenza che poteva legittimamente esercitare
nell'Ordine. E perchè non volle venire a rescipiscenza e riconoscere
la sua colpa, ma perdurò ostinato e procace nella sua pertinacia
e contumacia, i frati Minori lo misero in prigione ai ceppi, e lo
sostentavano del pane della tribolazione e dell'acqua dell'angustia.
Quel miserabile neppur per questo volle rimuoversi dal proposito
della sua ostinazione, e morì piuttosto in carcere, e fu privato dalla
sepoltura ecclesiastica, sotterrato in un angolo dell'Orto. Sappiano
dunque tutti che nell'Ordine de' frati Minori si applica il rigore
della legge contro i trasgressori della Regola; nè si deve imputare a
tutto l'Ordine la stoltizia di uno solo. L'anno poi 1248 trovandomi
a Ieres[125] con frate Ugo, ed accortosi egli ch'io lo interrogava
con viva passione intorno alle dottrine dell'Abbate Gioachimo, e che
avidamente io ne udiva parlare, e ne aveva piacere, un dì mi disse: Ne
sei tu infatuato di queste dottrine, come altri che ne sono seguaci?
E in realtà da molti sono stimate follie. Perocchè quantunque l'Abbate
Gioachimo fosse un sant'uomo, tuttavia ha tre cose, nelle quali bisogna
contrastargli. Primo fu la proibizione del suo opuscolo, che pubblicò
contro il maestro Pietro Lombardo, nel quale lo chiamò eretico e
pazzo, come ho scritto in altra cronaca. All'Abbate Gioachimo pareva
che Pietro Lombardo ammettesse la quaternità nella Trinità, dove dice:
_Poichè è un tutt'insieme il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo,
e quell'insieme non è nè generante, nè generato, nè procedente._
Onde l'Abbate Gioachimo deduce che Pietro Lombardo trovava in Dio
non solo una Trinità, ma una quaternità, cioè tre persone distinte,
e di più quella essenza di tutte tre le persone unite, che quasi ne
formavano una quarta. Ma di questa quistione ne ho parlato in un'altra
cronaca più breve, come sta ne' Decretali, nella quale notai anche
otto punti, ne' quali il maestro Pietro Lombardo nelle sue sentenze è
caduto in errore. Guarda nella cronaca «_Delle similitudini e degli
esempi, dei simboli e delle figure, e dei misteri del vecchio e del
nuovo testamento._» Seconda cosa per cui non si doveva aggiustar fede
all'Abbate Gioachimo, fu la predizione delle tribolazioni future....
La quale fu cagione che i Giudici uccidessero i profeti. Perocchè gli
uomini carnali non ascoltano volontieri chi parla delle tribolazioni
future. Ed è perciò che l'Abbate Gioachimo quando tenne parola delle
tribolazioni, soggiunse: «Queste cose non le credono coloro a cui
l'ambizione ha ottuso il cuore; non vogliono che perisca il regno del
mondo quelli a cui rifugge l'animo dal sopportare il giogo, che conduce
al regno del cielo; nè che finisca l'impero degli Egiziani, coloro che
non si affrattellano cogli abitatori di Gerusalemme.» Terza cagione,
per cui non si possono condividere tutte le opinioni dell'Abbate
Gioachimo, furono i suoi seguaci, i quali vollero anticipare i termini
da lui indicati. E di loro disse: Ho timore che mi accada quello per
cui il Patriarca Giacobbe si lamentava de' suoi figli, dicendo Genesi
34º ecc. Nè l'Abbate Gioachimo fissò alcun termine certo, quantunque a
taluno paia che sì; ma accennò soltanto più termini, dicendo: «Iddio
può mostrare ancora più chiaramente i suoi misteri; e lo vedranno
coloro che sopravviveranno a noi.» Quando poi vidi che nella cella di
frate Ugo si univano giudici e notai, fisici e letterati per udirlo
esporre le dottrine dell'Abbate Gioachimo, mi ricorse alla memoria
il fatto di Eliseo, di cui si legge nel libro dei Re 6.º _Eliseo
sedeva nella sua casa, e i vecchi sedevano con lui_. In que' giorni
giunsero due Gioachimiti dal convento di Napoli; l'un de' quali si
chiamava frate Giovanni di Francia; l'altro frate Giovannino Pigolino
di Parma, cantore napoletano. Eglino vennero a Jeres per vedere frate
Ugo e udirlo parlare di queste dottrine. Sopravvennero anche due frati
Predicatori reduci da un loro capitolo generale celebratosi a Parigi,
chiamati l'uno frate Pietro di Puglia, lettore nel convento del loro
Ordine a Napoli, uomo di lettere ed oratore esimio, ed aspettava il
momento di imbarcarsi, perchè non avevano in quel paese un convento
del loro Ordine. A costui un dì dopo il pranzo disse frate Giovannino
cantore napoletano, che lo conosceva davvicino: Frate Pietro, che ve
ne pare della dottrina dell'Abbate Gioachimo? A cui rispose: Mi curo
tanto di Gioachimo e della sua dottrina, come della quinta ruota del
carro. (Anche Gregorio in un'omelia sopra Gioachimo al luogo che dice:
_Vi saranno segnali nel sole, nella luna e nelle stelle_, credette che
fosse imminente la fine del mondo, perchè al suo tempo erano arrivati
i Longobardi, e distruggevano ogni cosa). Andò dunque subito frate
Giovannino alla cella di frate Ugo, e alla presenza del più volte
nominato uditorio, gli disse: È qui un certo frate Predicatore, che
non crede nulla di questa vostra dottrina. A cui frate Ugo rispose: Che
importa a me se non crede? Disgrazia sua: Egli se ne accorgerà quando
la discussione aprirà l'intelletto a chi ascolta: tuttavia chiamatelo
a disputare con me, e vedremo di che dubiti. Invitato adunque andò,
ma a malincuore, tanto perchè stimava poco Gioachimo, quanto perchè
giudicava che in quel convegno nessuno potesse stare al pari di lui in
letteratura e nella scienza delle Sacre Scritture. Vedendolo pertanto
frate Ugo, gli rivolse subito la parola dicendo: Se' tu colui che ha
dubbii intorno alla dottrina di Gioachimo? Quell'io, rispose frate
Pietro. A cui frate Ugo domandò: Leggestu mai Gioachimo? E frate
Pietro: L'ho letto, e letto bene. E frate Ugo di rimando: Credo che tu
l'abbia letto come una donnetta legge il salterio, che giunta al fine
ignora, o non ricorda ciò che abbia letto in principio. Così molti
leggono e non intendono, o perchè non tengono in pregio le cose che
leggono, o perchè s'è indurato il loro cuore insipiente. Or dimmi che
cosa ti piaccia udire intorno agli insegnamenti di Gioachimo, affinchè
io sappia di che vai dubbiando. E frate Pietro disse: Vorrei che tu
mi provassi con Isaia alla mano, come pretende insegnar Gioachimo,
che la vita di Federico debba terminare a settant'anni, mentre vive
ancora; e come non possa morire che per mano di Dio, cioè di morte
naturale, e non violenta. A cui rispose frate Ugo: Volentieri il farò;
ma ascolta con pazienza, e non con esclamazioni e cavilli; perocchè
in questa dottrina è necessario che colui, che le si inizia, abbia
fede. L'Abbate Gioachimo fu un sant'uomo, e dice che le cose da lui
predette gli furono rivelate da Dio a vantaggio degli uomini, secondo
il verbo che è scritto ecc. Della santità poi di Gioachimo, oltre
ciò che si legge nella sua biografia, te ne posso recare innanzi una
splendida prova, la quale dimostra la sua somma pazienza. Prima di
essere Abbate, quando era ancora un infimo fraticello, sdegnato il
refettoriere contro di lui, per un anno intero mise nel fiaschetto di
lui a tavola acqua per vino da bere, volendolo sostentare col pane
della tribolazione e coll'acqua delle angustie; e questa punizione
tollerò pazientemente sebbene ingiusta, e non reclamò. Sedendo sulla
fine dell'anno a mensa presso l'Abbate, questi gli disse: Perchè bevi
vino bianco, e non me ne dai? È questa la tua cortesia? A cui il santo
Gioachimo rispose: Io, o Padre, aveva vergogna a profferirvene, perchè
_il mio secreto sta in me_. Allora l'Abbate prese la coppa di lui
e assaggiò, ma s'accorse che era un cattivo cambio. E avendo bevuto
acqua, e non convertita in vino, disse: Che è l'acqua, se non acqua?
E dimandogli: E col permesso di chi, usi tu questa bevanda? Padre,
rispose Gioachimo, l'acqua è bevanda sobria, che non lega la lingua,
che non dà il capogiro, nè la parlantina. Avendo poi l'Abbate saputo
in capitolo che questa era un'ingiusta punizione ed una vendetta
impostagli dalla malignità e da rancore del refettoriere, voleva
espellerlo dall'Ordine, ma Gioachimo si prostrò ai piedi dell'abbate
e tanto ne lo pregò, che risparmiò a quel converso l'espulsione.
Tuttavia lo biasimò e lo rimbrottò acremente e duramente, dicendo:
Perchè tu non hai fatto nel servizio ciò che è di regola, ti do in
penitenza di non bere per tutto un anno intero che acqua, come tu hai
fatto ingiustamente bere al tuo prossimo e confratello. Che poi la
vita dell'Imperatore Federico termini, secondo Isaia, come tu trovi ove
parla della ruina di Tiro, nota che in queste parole l'Abbate Gioachimo
per la terra de' Caldei prende ed intende l'Impero Romano; per Assur,
lo stesso Imperatore Federico; per Tiro, la Sicilia; per i giorni
di un sol Re, tutta la vita di Federico: per i settant'anni, intende
il periodo della vita fissato da Merlino. Che poi Federico non debba
morire per mano d'uomo, ma soltanto per opera di Dio, così dice Isaia
31º ecc. E, aggiunse frate Ugo, queste cose ebbero il loro adempimento
in Federico, specialmente presso Parma, quando fu messo in rotta e
fuga dai Parmigiani, e la sua città di Vittoria fu rasa al suolo; e i
Principi e i Baroni del suo Impero, più volte hanno voluto ucciderlo
ma non hanno potuto. Udendo frate Pietro queste cose, sorrise e disse:
queste cose puoi contarle a chi ti crede, ma non potrai indurre me
a crederle. E frate Ugo soggiunse: E perchè? Non credi ai profeti? E
frate Pietro: veramente ai profeti io credo: ma dimmi se questo che
tu di',sia il concetto principale del profeta, o il secondario, o se
sia un concetto estorto dal principale e tradotto ad altro senso, e in
qualche modo applicato all'Imperatore. A cui frate Ugo rispose: Ottime
osservazioni; epperciò ti dico che se n'è fatta applicazione, come
quando nel giorno dei Santi Gervaso e Protaso si canta l'introito: _Il
Signore parla la pace in mezzo al suo popolo_ ecc. perchè nella festa
di questi Santi fu conchiusa la pace tra la Chiesa e i Longobardi.....
A quanto s'è detto possiamo ancora aggiungere: Noi vediamo che della
mano sinistra, oltre al comune uso, conosciuto anche dagli idioti e
illetterati, se ne fa un uso moltiplice. Perocchè essa serve a notare
il numero, e al numerare, all'arte musicale, al calendario, al numero
d'oro, e alla determinazione del giorno di Pasqua. Similmente nella
divina Scrittura, oltre il senso letterale e storico, si trova anche
un concetto allegorico, anagogico, tropologico, morale e mistico; e
perciò è stimata più feconda e più nobile che se fosse ristretta ad un
solo senso, e servisse ad un solo concetto. Lo credi vero tutto questo,
disse Ugo, o dubiti ancora? E frate Pietro: Credo, e queste stesse cose
ho insegnate più volte, perchè sono dette dai dottori; ma vorrei che
con più convincenti ragioni mi argomentassi dei settant'anni, che Isaia
indica sotto la figura di Tiro. Frate Ugo rispose: Quelle cose che
Merlino, indovino Inglese, predisse di Federico I., di Enrico figlio
di lui, e di Federico II. figlio dell'Imperatore Enrico, hanno tutta
l'apparenza del vero. Ma smettiamo di andar divagando, e ritorniamo là
d'onde mosse a principio la nostra disputa. Pognamo dunque i quattro
termini di numeri fissati da Merlino[126] parlando di Federico II. Il
primo de' quali lo fissa, dicendo: _In trentadue anni cadrà._ Il che
si può intendere a partire dalla sua incoronazione sino alla morte,
perchè fu imperatore trent'anni e undici giorni, e non si credeva ancor
morto; e doveva essere così affinchè si verificasse il vaticinio della
Sibilla, che dice: _Volerà fama tra le nazioni: vive e non vive._ Il
secondo termine di Merlino è: _Vivrà nella sua prosperità settantadue
anni_; il che come sia per verificarsi, vedranno i posteri ed i
superstiti, poichè Federico vive tutt'ora. Il terzo termine di Merlino
è: _E due volte quinquagenario sarà trattato con ogni deferenza._ Il
che non si deve intendere per due volte cinquanta, sicchè arrivi al
centinaio, ma per cinquanta più due, cioè cinquantadue anni. Il qual
numero si verifica a partire dal giorno delle nozze di sua madre sino
al diciottesimo anno del suo Impero, che fanno cinquantadue anni a
punto. Intorno a che si ha: L'imperatore Federico I diede moglie a suo
figlio Enrico, Costanza figlia del Re di Sicilia, che, ancor nubile,
aveva trent'anni d'età, ed Enrico ne aveva ventuno. E le nozze si
celebrarono a Milano l'anno 1185, diciasettesimo del suo regno. E nota
che diventò Re a quattro anni d'età, e fu coronato Imperatore il 1191.
E Federico figlio di Enrico fu coronato Imperatore nel 1220. Il quarto
termine di Merlino intorno a Federico è: _E diciott'anni dopo la sua
incoronazione terrà la Monarchia vincendo l'invidia._ Questo ha avuto
il suo adempimento in Papa Gregorio 9º, col quale si ruppe al segno
che questi lo scomunicò, e, dopo, contro la volontà del Papa e de'
Cardinali, e de' Principi del regno, fu Imperatore. Udendo queste cose,
frate Pietro cominciò a parlare ambiguo, dicendo: _Molti cibi vi sono
nel campo de' Padri; ed un cibo è migliore dell'altro._ A cui frate
Ugo rispose: Non alterare la Scrittura, ma le autorità riportale come
stanno nel testo. Perocchè tu ommettesti l'ultima parte del versetto
incominciato e la prima del susseguente. Ripetila dunque come la disse
il Savio ne' Proverbii 13.º Udendo ciò, frate Pietro fece come usano
alcuni, i quali allora che in una disputa non si reggono, passano agli
insulti, e disse: Sarebbe da eretico addurre come argomento la parola
degli infedeli; e parlo di Merlino, della cui autorità ti servisti.
Frate Ugo sentissi provocato, e di rimando rispose: Tu menti; e proverò
che hai più volte mentito. Ciò che sta scritto di Balaam e di Elia, e
di Caifa, e della Sibilla, e di Merlino, e di Metodio non è appuntato
dalla Chiesa. A ciò si può applicare ciò che dice il poeta:

    _Non rosa da spinas, quamvis sit filia spinæ;_
    _Nec violæ pungunt; nec paradisus obest_

    Figlia di spin la rosa
    Spine giammai non rende;
    Nè la violetta ascosa
    In modo alcuno offende,
    Nè mai del paradiso
    Dolor conturba il riso.

Vuol dire il Signore, ed anche il poeta, che il buono, il vero,
l'utile non è da disgradare, sia pure che venga insegnato da un cattivo
dottore..... Così comincia un poeta volendo lodare un suo opuscolo:

    _Utilis est rudibus præsentis cura libelli,_
    _Et facilem pueris præbet in arte viam,_

    Questo libretto, a chi non sa, dimostra
    La via che mena dritto all'arte nostra.

Queste cose udendo, frate Pietro si appigliò ai testi originali dei
santi scrittori e alle sentenze dei filosofi. E su questo campo, frate
Ugo, che era dottissimo, subito lo intricò e gli chiuse la bocca.
Vedendo questo il compagno di frate Pietro, che era sacerdote e vecchio
e buon uomo, cominciò ad inframmettersi per cavarlo di malefitte. Ma
frate Pietro gli disse: taci, taci. Se non che, riconosciutosi vinto,
si volse a commendare la vastissima dottrina del suo avversario. Finita
la disputa, ecco subito arrivare un messo del capitano della nave
a cercare i Predicatori per avvisarli di andar presto al porto. E,
partiti, frate Ugo disse ai dotti che erano presenti, e avevano udita
la disputa: Non scandalizzatevi se qualche cosa dicemmo di meno che
conveniente; perocchè quelli, che disputano con audacia già montata
nell'animo, sogliono trascorrere facilmente nel campo della licenza. E
aggiunse: Questi buoni uomini di irati Predicatori si gloriano sempre
della loro scienza, e si millantano che nell'ordine loro è la fontana
della sapienza, come dice l'Ecclesiastico I: _La fonte della Sapienza
è la parola di Dio in cielo._ Quando poi alloggiano nei conventi de'
frati Minori, ne' quali trovano sempre carità, premure e cortesie,
dicono d'aver albergato in casa d'uomini idioti. Ma la Dio mercè,
ora non potranno dire d'aver ospitato presso uomini idioti, perchè
ho fatto come insegna il savio ne' Proverbi 24.º ecc. Poi ch'ebbe
finito di dire, l'uditorio secolare se ne dipartì molto edificato e
consolato, dicendo: Oggi abbiamo udito mirabili cose; ma domenica
ventura abbiamo desiderio d'udir parlare della dottrina di nostro
Signor Gesù Cristo. A cui frate Ugo rispose: Se voglia il cielo ch'io
stia bene, vi contenterò di buon grado; venite pure. Poco dopo, i due
frati Predicatori ritornarono, perchè il tempo non permetteva alla nave
di prendere il mare, e stettero con noi in buona compagnia. Dopo cena
frate Ugo trattò con loro cordialmente e famigliarmente. E frate Pietro
sedette in terra a' piedi di frate Ugo, nè vi fu nessuno che riuscisse
a farlo alzare, e sedere nello stesso sedile a fianco di frate Ugo;
neppur frate Ugo stesso, quantunque ne lo pregasse vivamente. Frate
Pietro adunque non più disputatore nè contradditore, ma umile e attento
ascoltava le dolci e in una schiaccianti argomentazioni di frate Ugo,
che sarebbero veramente degne di essere riferite; ma per brevità le
tralascio, per affrettarmi a dir d'altro. Fu in quella sera che il
compagno di frate Pietro in disparte mi disse: Per amor di Dio, frate
Salimbene, favorite dirmi chi sia questo frate, se Prelato, Guardiano,
Custode, o Ministro. Non ha alcun ufficio, risposi, chè non ne vuole;
fu una volta Ministro Provinciale, ora è semplice frate, ma uno de'
più dotti chierici del mondo, e per tale è giudicato da tutti quelli
che lo conoscono. Ed egli rispose: Lo credo ben vero, perchè io non
ho mai udito uomo al mondo argomentare sì forte e sì diritto, e così
dotto in ogni scienza; e resto meravigliato come non sia addetto ad
uno de' più cospicui conventi. Ed io risposi: La sua umiltà e la sua
santità si consolano di albergare nell'oscurità de' piccoli luoghi. E
soggiunse: Sia egli benedetto, che pare in tutto uno de' cittadini del
cielo. Stettero pertanto fra noi que' frati Predicatori a Jeres fino a
che il mare permise di sciogliere la vela. E al momento della partenza
frate Pietro disse a frate Ugo: In verità vi assicuro che starei sempre
volentieri con voi per discutere intorno alla divina Scrittura. E dopo
il ricambio di molti e molti complimenti, i frati Predicatori partirono
consolati ed edificati. La domenica successiva alla loro partenza tutti
gli uomini di lettere di Jeres convennero alla cella di frate Ugo per
ascoltare i suoi ammaestramenti. E, finita la conferenza, un secolare
del paese stesso, ch'io vidi e conosceva, e che era stato presente
durante la conferenza, si levò e pregò frate Ugo che si degnasse di
riceverlo nell'Ordine de' frati Minori. È da sapere che frate Ugo per
essere persona spettabilissima, chierico tanto stimato, uomo dottissimo
nelle cose dello spirito, e già altra volta esso stesso Ministro, aveva
dal Provinciale facoltà di ammettere persone nell'Ordine. Quest'uomo
che domandava di farsi frate, fu poi il fondatore dei Saccati; ed
aveva un compagno che anch'esso voleva entrare, e furono inspirati
da Dio a farsi monaci all'udire la predicazione di frate Ugo. Ai
quali frate Ugo rispose: _Andate ai boschi, e imparate a vivere di
radici, perocchè il tempo delle tribolazioni è vicino._ Andarono, si
fecero mantelli brizzolati, come anticamente usavano portare i frati
di servizio dell'Ordine di S. Chiara. E cominciarono a mendicare il
pane per quel paese, nel quale avevano convento i frati Minori, e ne
raccattavano in abbondanza; perchè noi e i frati Predicatori demmo a
tutti l'esempio del mendicare; sicchè ognuno che prende il cappuccio,
vuol anche istituire un'Ordine di mendicanti. Questi si moltiplicarono
prestissimo; e dai frati Minori della Provenza erano chiamati
ironicamente e per beffa i Boscaioli. Ma frate Ugo aveva molti nemici e
detrattori nel suo Ordine, e particolarmente in Provenza, sia in causa
della dottrina dell'Abbate Gioachimo, ch'egli professava, sia perchè
gli si attribuiva la fondazione dell'Ordine de' Boscaiuoli. Ma non
l'aveva altrimenti fondato, soltanto ne aveva data occasione, dicendo:
_Andate ai boschi, e imparate a campar di radici, perchè il tempo
delle tribolazioni è vicino_; finalmente perchè non volle ammetterli
nell'Ordine del beato Francesco, quantunque ne avesse facoltà. In
seguito poi vestirono una cocolla a sacco non di tutta lana, anzi
di quasi tutto lino, e, sotto, vestivano buonissime tuniche a sacco
anch'esse, onde furono poi detti frati Saccati; e calzarono i sandali,
come li hanno i frati Minori.

E chiunque ora voglia fondare una nuova Regola, toglie sempre qualcosa
dai frati Minori, chi i sandali, chi il cordone, chi anche il vestiario
completo. Ma finalmente l'Ordine de' Minori ha ottenuto dal Papa un
privilegio, per cui nessuno può arrogarsi di vestire in modo da poter
essere scambiato con un frate Minore. E quest'ordinanza fu promossa dal
fatto che i frati detti Britti nella Marca d'Ancona, solevano portare
un abito in tutto somigliante a quello dei Minori. E Papa Alessandro
IV li unì in una congregazione sola cogli altri Eremiti, mentre prima
gli Eremiti erano divisi in cinque varie comunioni; e vi erano Eremiti
detti di S. Agostino, Eremiti di S. Guglielmo, quelli di Favale, i
Britti e i Giambonitani, denominati da un Giovanni Buono, vivente
a' tempi del beato Francesco, sepolto a mia ricordanza in Mantova,
e che aveva istituita una congregazione di Eremiti; ed io ho veduto
e conosciuto un suo figlio, che era molto pingue e si chiamava frate
Matteo da Modena. Tutte le altre congregazioni furono incorporate in
quella di quest'ultimo, che fu poi capo di tutte quelle corporazioni
unite. E così si avverò la scrittura che dice in Geremia XV:
_Potrebbesi rompere il ferro, il ferro d'aquilone e 'l rame?_ Perocchè:

    _Quod nova testa capit,_
    _Inveterata sapit._

    Invecchi pur se sa invecchiar la botte:
    Ognor saprà di quel che nuova inghiotte.

Questi Saccati, appena costituiti, si erano diffusi rapidamente per le
città d'Italia, ove comperavano case per abitarvi, e nel predicare,
nel confessare, nel questuare usavano que' modi stessi, che solevano
i frati Minori ed i Predicatori; perchè, come già dissi, sì noi che
i Predicatori abbiamo sempre insegnato che tutti gli uomini debbono
mendicare. D'onde i secolari si sentivano non poco gravati; e un giorno
donna Giuditta degli Adelardi di Modena, che era una divota de' frati
Minori, avendo veduti que' nuovi frati andare di porta in porta alla
cerca del pane, disse ai frati Minori: In verità n'avevamo già tante
delle bisaccie e dei sacchi, che ci vuotavano i granai, che non c'era
punto bisogno dell'Ordine dei Saccati. Ma in processo di tempo Papa
Gregorio X, Piacentino, inspirato da Dio, in pieno concilio di Lione
ne soppresse l'Ordine, volendo che non esistessero tanti Ordini di
mendicanti a carico del popolo cristiano, e che quelli che predicano
il Vangelo vivessero del Vangelo, come l'Apostolo Paolo dice aver
comandato Iddio, 1.ª ai Corinzii 9.º Volle anche sopprimere, anzi far
perdere sino la memoria degli Eremiti, ma si astenne dal farlo per
intromissione di Riccardo Cardinale della Chiesa romana, che presiedeva
al loro governo. Disse però che si riservava di dare in proposito
quelle disposizioni che avrebbe giudicate migliori. Ma sorpreso dalla
morte, il suo progetto non effettuossi. [Il primo dell'Ordine dei
Saccati fu Raimondo di Atanulfo, oriondo provenzale, del castello
di Jeres ove presso il mare si fa il sale. Nel secolo fu soldato
ed entrò nell'Ordine de' frati Minori, ma durante il noviziato fu
dimesso dall'Ordine, perchè malaticcio. Ebbe un figlio nell'Ordine de'
Saccati, che fu poi Arcivescovo di Arles. Frate Bertrando da Manara
fu il primo compagno del suddetto Raimondo. E Manara è una contrada
presso il summentovato castello, dove era un monastero delle Bianche,
che erano devote dei frati Minori, e le sono tutt'ora un giorno più
che l'altro]. Soppresse anche quella congrega di ribaldi e di porcai
stolti ed abbietti, che chiamano sè stessi apostoli e non li sono,
ma sono piuttosto una famiglia di Satana: _Perocchè essi non erano
del seme di quegli uomini, pe' quali è stata operata la redenzione in
Israello_, I. Macabei V. Poichè non sono utili nè a predicare, nè a
confessare, nè a dir messa, nè a cantare l'ufficio ecclesiastico, nè
a fare i maestri, nè per dar consigli, e nemmeno a pregare pe' loro
benefattori; perchè tutto il dì vanno su e giù per le strade delle
città a guardare le donne. In che dunque servano la Chiesa di Dio e
siano utili al popolo cristiano, non so vedere. Tutto il giorno oziosi
e vagabondi non lavorano nè pregano. La prima loro istituzione fu in
Parma. E fu appunto quando io soggiornava nel convento de' frati Minori
di Parma, e che io era già sacerdote e predicatore, che si presentò
un giovine parmigiano di bassi natali, illetterato, laico, idiota e
sciocco, per nome Gherardino Segalello, e domandò d'essere ricevuto
nell'Ordine de' frati Minori. Il quale, non essendo esaudito, tutto
il giorno, quando poteva, stava nella chiesa de' frati, e pensava a
cosa, che poscia pazzamente eseguì. Sopra la coperta della lampada
della congregazione e frateria del beato Francesco erano in giro
dipinti gli apostoli co' sandali ai piedi e co' mantelli avvolti
attorno alle spalle, secondo la tradizione de' pittori, raccolta dagli
antichi e arrivata sino a noi. Attorno a questa lampada, egli stava in
contemplazione, e, preso il suo partito, si lasciò crescere la barba
ed i capelli, calzò i sandali de' frati Minori, e ne cinse il cordone;
perchè, come già dissi, tutti coloro che si propongono di fondare
un nuovo Ordine di Regolari, prendon sempre qualcosa dall'ordine de'
Minori. E si fece una tonaca di bigietto e un mantello di grosso filo
bianco, che portava avvolto attorno alle spalle, credendo di imitare
il vestire degli apostoli. E, venduta una sua casetta, e riscossone
il prezzo, si pose su una tavola di pietra, sopra la quale solevano
in antico tenere le loro concioni i Podestà di Parma, e tenendosi il
sacchetto dei danari in mano, non li distribuì ai poverelli, nè con
loro si accomunò; ma, chiamati que' ribaldi che lì vicino stavano a
giocare in piazza, li gittò in mezzo a loro, gridando: Chi ne vuole,
se ne prenda, e se li tenga. Raccolsero pertanto molto lesti que'
ribaldi le monete, e andarono a giocarle ai dadi, e a udita di chi le
aveva date, bestemmiavano il Dio vivente. Egli credette di adempiere
rigorosamente il consiglio del Signore, Matteo XIX. ecc. Ma nota bene
che dice: _Dà ai poveri_, non ai ribaldi. Quest'uomo dunque cominciò
male, continuò peggio, e finì pessimamente, poichè la sua congregazione
fu riprovata in pieno concilio di Lione da Papa Gregorio X. Ed a
ragione, e secondo il merito loro; perchè i Gabaoniti, che colle loro
astuzie ingannarono i figli d'Israele, furono giudicati e condannati
a perpetua schiavitù. Così questi guardiani di porci e di vacche
tentarono di soppiantare i frati Minori e i Predicatori, campando, in
un beato ozio e senza fatica, delle limosine di coloro, cui i Minori e
i Predicatori avevano educato colle lunghe fatiche e coll'esempio. Di
Gherardino Segalello pertanto, che fu il loro fondatore, è da sapere
che voleva somigliare al figlio di Dio. Perciò si fece circoncidere
contro l'insegnamento dell'Apostolo, che dice, ai Galati V. ecc. Così
volle giacere in una culla avvolto tra le fasce, e suggere il latte
dalle mammelle di una donna. Dopo si recò ad un castello, sulla via
che da Parma va a Fornovo, chiamato Collecchio o Collecchiello, perchè
appunto là, dopo la pianura, cominciano i colli; e di questo castello
parleremo ancora a tempo opportuno. E stando in mezzo alla strada,
colla sua semplicezza andava dicendo a chiare note a chi passava:
Andate anche voi nella mia vigna. Chi lo conosceva lo giudicava pazzo,
sapendo che ivi non aveva alcuna vigna; ma i montanari, che non lo
conoscevano, entravano in una gran vigna, ch'egli additava colla mano
stesa, e mangiavano uve che non erano di lui, credendo che l'invito
venisse dal vero padrone della vigna. Un giorno avendo ricevuto
ospitalità da una donnetta vedova, che aveva una bella ragazza nubile,
diedele a credere che Dio gli avesse rivelato di dormire quella notte
nudo con quella ragazza nuda, per far prova se avesse, o no, virtù
bastante a mantenere il voto di castità. La madre acconsentì, e se
ne tenne beata, e la ragazza non si rifiutò. Questo non insegnò il
beato Giobbe, che dice nel 31.º ecc. Questo Gherardino Segalello
rimase molti giorni solo per Parma senza trovar compagno. E portava il
suo mantello avvolto attorno alle spalle, non parlava a nessuno, non
salutava nessuno, credendo di adempire la parola di Dio, Luca X. ecc.
E spesso pronunciava ad alta voce quella parola del Signore, dicendo:
_Penitenzagite_, cioè fate penitenza, nè la sapeva dire come veramente
suona: _Poenitentiam agite_. E così la pronunziarono in seguito molto
tempo i suoi seguaci, che erano tutti campagnuoli e idioti. Se talvolta
era invitato a pranzo, a cena, o ad ospitare presso alcuno, rispondeva
sempre ambiguamente: O verrò, o non verrò. Il che era contrario a
quella parola del Signore, Mattia V. ecc. Perciò quando egli veniva
al convento de' frati Minori cercando se il tal frate fosse in casa,
o no, il portinaio canzonando e sberteggiandolo, rispondeva: o c'è
in convento, o non c'è. Questo modo di parlare non è conforme agli
insegnamenti della grammatica, la quale vuole che la risposta si faccia
precisa come richiede la domanda. Quando queste cose accadevano, i
frati Minori di Parma avevano un inserviente di nome Roberto, che era
un giovane disobbediente e protervo. E a proposito di tali qualità
disse benissimo un tiranno: Questa genia di servi non si corregge
che col supplizio. Quel Roberto pertanto, famiglio de' frati Minori,
come vedremo in seguito, fu in qualche modo simile a Giuda Iscariota,
che consegnò Cristo ai Giudei. Gherardino Segalello lo indusse ad
abbandonare i frati Minori, e farsi suo compagno. Accettò il partito,
e fu una fortuna per noi, chè, dopo, avemmo un famiglio assai buono.
Ma, partendo dai frati Minori, portò via la coppa, il coltello e la
tovaglia, che per uso suo aveva ricevuta dai frati. Andavano pertanto
ambedue tutta la giornata co' loro mantelli girovagando per la città,
ed i Parmigiani ne facevano le meraviglie. Quand'ecco che quasi tutto
ad un tratto si moltiplicarono sino a trenta, e convenivano in una
certa casa a mangiare e a dormire; e frate Roberto, che era stato
famiglio de' frati Minori, era il loro provveditore. Ed i Parmigiani
miei concittadini, uomini e donne, elargivano di buon grado e in
maggior copia a loro che ai frati Minori e ai Predicatori, quantunque
quelli non pregassero pe' loro benefattori, nè dicessero messa, nè
predicassero, nè confessassero, nè dessero buoni consigli e buoni
esempi; perchè erano ignoranti affatto, a tutto inetti, non avvezzi
alle lotte dello spirito colla carne, e, per mancanza di abitudine,
non potevano mostrare, camminando, quel dignitoso contegno d'incesso
che hanno sempre i frati Minori e i Predicatori; ma erano puri e
semplici guardiani di porci e di vacche. Si distinguevano soltanto per
il loro girovagare in città a guardare le donne; il resto del tempo
poltrivano senza far nulla, come dice l'Apostolo ecc. Colle quali
parole l'Apostolo stesso dipinge la vita e il fare di coloro, che
si spacciano per apostoli, e non sono che congreghe di Satana. Frate
Roberto adunque era un ladro, e aveva ripostigli, ove, rubate le cose
che si mandavano al convento, le riponeva. Dopo qualche tempo io ebbi
a soggiornare a Faenza, ove egli pure abitava in casa di un certo
frate della Penitenza, chiamato Glutto; e, il venerdì santo, all'ora
in cui il figlio di Dio fu crocifisso, apostatò, si fece tagliare i
capelli, radere la barba, e sposò una eremitessa. Queste cose io le
aveva già udite raccontare, ma non le aveva volute credere prima di
parlar seco. Interrogatonelo adunque, Roberto non negò d'aver fatto
quanto s'andava dicendo. Io allora ne lo rimproverai fortemente; ed
egli, scusandosene, cominciò a rivelare le colpe di quelli che si
spacciavano per Apostoli. E prima di tutto disse che frate Gherardino
Segalello, primo loro istitutore, non aveva mai voluto saperne del
governo della loro congregazione, sebbene ne lo pregassero; e diceva
loro che ciascuno operasse bene da sè; che chi lavora, lavora per sè,
e ognuno riceverà mercede commisurata all'opera sua, ciascuno porterà
il proprio fardello, e ciascuno darà ragione di se stesso a Dio. Perciò
quella società, non avendo un capo, andò dispersa. In secondo luogo
mi disse che, intorno al modo di regolarsi allo scopo di eleggersi
un rettore, avevano consultato maestro Alberto da Parma, che era uno
dei sette notai della Corte romana e che egli aveva rimessa la cosa
all'Abbate del monastero de' Cisterciensi di Fontevivo nella diocesi
di Parma; il quale se la sbrigò alla spiccia dicendo loro: Non fate
conventi, non assembratevi in case, ma, come avevate cominciato, andate
vagando pel mondo, portate i capelli lunghi, la barba intonsa, la
testa nuda, mantello avvolto attorno le spalle, e cercate ospitalità
giornaliera per le case. Il che fu causa della loro dispersione.
In terzo luogo mi raccontò che Guido Putagio, mio concittadino,
compagno ed amico, entrato nel loro Ordine, e veduto che Gherardino
Segalello non voleva saperne del regime della comunità, ne assunse egli
coraggiosamente l'incarico, e lo tenne molti anni........ Ma siccome
in viaggio faceva sfoggio di troppa pompa, di molte cavalcature, di
largo spendere e di lauti banchetti, come usano i Legati e Cardinali
della Corte romana, dispiacque a suoi, e nominarono un altro Superiore,
che fu frate Matteo, nella Marca d'Ancona. D'onde nacque rottura e
lotta fra loro, perchè ognuno voleva presiedere a quelli di parte sua.
Frate Guido Putagio diceva; Io ho assunto l'incarico del governo della
comunità perchè mi è stato dato; e perciò non debbo abbandonarla. Si
tenne pertanto tra loro una lunga discussione, e la finì che a Faenza
si bastonarono reciprocamente gli apostoli di frate Matteo e gli
apostoli di frate Guido Putagio, e fu uno scandalo per Faenza. Ivi io
pure soggiornava allora, e posso quindi fare testimonianza di quanto
accadde. E la causa di questo conflitto e delle bastonature fu questa.
Frate Guido Putagio a Faenza dimorava presso una chiesuola limitrofa
al giardino degli Albrighetti e degli Acarisii, e con lui erano
pochissimi altri frati, e tra loro Gherardino Segalello. Pareva adunque
ai frati della Marca che se avessero potuto avere tra loro Gherardino
Segalello, primo loro fondatore, avrebbero avuto il sopravento, e
perciò, sebbene non vi riuscissero, tentarono di rapirlo e trarlo nella
Marca, d'onde avvenne che si bastonarono scambievolmente. Subito dopo
venne da me frate Guido Putagio, e, gettandosi costernato a miei piedi,
mi riferì il fatto, ed egli, che la conosceva, perchè l'aveva vista
sino dalle origini, mi rifece la storia e mi espose la condizione del
suo Ordine. E mi pregò di aiutarlo a svignarsela da Faenza, perchè
temeva che i Faentini, gonfi di sdegno, d'un subito insorgessero e
gli mettessero le mani addosso, sia pel tafferuglio suesposto, sia
perchè aveva nel suo Ordine dei nemici e degli accusatori mordenti,
sia finalmente perchè Rolando Putagio suo fratello consanguineo era
Podestà di Bologna, e i Bolognesi erano già in marcia per avvicinarsi
a Faenza ed assediarla; e mi disse che, se poteva uscirne incolume,
aveva intenzione di entrare nell'Ordine dei Templari, perchè Gregorio
10.º in pieno Concilio a Lione aveva soppresso l'Ordine degli Apostoli.
E ciò che promise, mantenne. Quel frate Roberto poi, che era stato
famiglio dei Minori, per iscusare la sua uscita dal convento, il
suo fallo e la sua apostasia, aggiungeva che non s'era mai vincolato
nè all'obbedienza nè alla castità; e perciò, a suo modo di vedere,
era libero di prender moglie. Ed avendogli io osservato che non gli
era lecito per nulla sposare un'eremitessa dedicatasi a Dio, che
aveva molti anni vestito pubblicamente l'abito religioso, ed alle
ragioni, per arrota, unendo esempi e pareri di autorevoli scrittori
per convincerlo della sua follia e malignità........ Poi gli citai
il fatto del Re Irtaco, che volle prender moglie Ifigenia, figlia del
suo predecessore, nulla ostante che dall'Apostolo Matteo fosse stata
dedicata al Signore, e fosse stata Badessa di più che duecento vergini;
del qual fallo essa ne scontò la pena vendicatrice. Perocchè il Re
fece uccidere l'Apostolo, che non gli aveva consentito il matrimonio
con Ifigenia, e fece accendere un alto fuoco attorno al monastero,
perchè essa colle altre vergini vi rimanesse dentro incenerita........
In sesto luogo finalmente dimostrai a Roberto che tutti gli apostati,
allontanandosi da Dio, finiscono di mala morte; e glielo provai tanto
coll'esperienza, che, con fede non cieca, io ne ho veduta in altri,
e da altri udito, quanto coll'autorità della Scrittura. Roberto,
udendo tutte queste cose cominciò a dar segno di non tenere in niun
conto...... Ma ritorniamo a Gherardino Segalello, che fu il fondatore
dell'Ordine di cotestoro, che si spacciano per apostoli e non li sono,
e paiono piuttosto una congrega di ribaldi stolti e bestiali, che
vogliono papparsi il frutto della fatica e del sudore altrui senza
essere utili in nulla a chi fa loro elemosina. Di fatti adunatisi da
diverse parti vennero a far visita a frate Gherardino Segalello, come
primo loro istitutore; e lo alzarono a cielo con tanti elogi, che egli
stesso si ebbe a meravigliare di tanto plauso. E raccolti attorno a
lui, null'altro dicevano se non che ben cento volte l'acclamarono ad
alta voce: Padre, Padre, Padre. E dopo breve tempo di nuovo ripeterono:
Padre, Padre, Padre; come que' fanciulli che vanno a lezione nelle
scuole di grammatica, che ad intervalli ripetono, simultaneamente
gridando, ciò che è stato insegnato dal maestro. Ed egli di tanto
onore li ricambiò col cavarsi nudo, e far cavar nudi tutti loro......
e perchè folleggiò in loro presenza, e feceli folleggiare anch'essi...
Dopo ciò li mandò a mostrarsi al mondo; ed alcuni si avviarono verso
la sede della Corte romana; altri a S. Giacomo; altri a S. Michele
Arcangiolo; e taluni oltremare. Egli restò a Parma, d'onde era nativo,
e vi fece molte mattezze. Perocchè svestì e gettò via il mantello, in
cui s'avvolgeva, e si fece fare una sopraveste bianca, senza maniche,
di filo grossolano, di cui vestitosi, pareva un ciarlatano anzi che
un religioso. Aveva poi ai piedi le scarpe e alle mani i guanti. —
Il suo parlare era scurrile, turpe, vacuo, osceno, futile e degno di
scherno, più per fatuità che per malizia. Per la sua fatuità adunque
e pel suo parlare osceno e insulso, pel suo giacere a letto nudo con
donne nude per mettere a prova la resistenza della sua castità, Obizzo
Vescovo di Parma, che fu nipote da parte di sorella di Papa Innocenzo
IV, lo fece prendere, incarcerare e mettere a ceppi. Ma poi ne lo
liberò e lo tenne seco in palazzo. E quando pranzava il vescovo, aveva
anch'esso suo pranzo in una sala del palazzo alla bassa tavola, alla
quale altri pure mangiavano a vista del Vescovo, e voleva buon vino
e cibi delicati. E quando il Vescovo beveva vino nobile, esso gridava
che ne voleva di quello; ed il Vescovo subito gliene mandava. Quando
poi era pieno di buon vino e cibi delicati, faceva le pazzie. E il
Vescovo di Parma, che era un uomo amante del sollazzo, per gli atti
ed i motti di quello stolto rideva, chè lo reputava più un giocoliere
fatuo ed insensato che un religioso. In questo tempo eravi anche un
frate Minore, che aveva un nipote, che non era ancor giunto all'età
della biforcazione della lettera pitagorica; e lo faceva istruire
perchè entrasse poscia nell'Ordine de' Minori. Frattanto egli copiava
per lo zio frate dei sermoni, de' quali quattro o cinque ne imparò
a memoria sino alle virgole; ma non essendo stato ammesso subito
all'Ordine, come desiderava, si fece inscrivere alla congregazione
o piuttosto alla dispersione di coloro che si vantano apostoli e non
li sono. E lo facevano predicare anche nelle chiese cattedrali que'
sermoni che aveva imparato; e molti di quegli apostoli imponevano
il silenzio mentre il giovanetto parlava al popolo accorso. In quel
frattempo accadde che frate Bonaventura d'Iseo, che predicava a Ferrara
nel convento dei Minori, vide una parte del suo uditorio alzarsi
d'improvviso e correr via in fretta; e ne restò meravigliato; perocchè
era un predicatore famoso e tutto grazia, onde di solito lo ascoltavano
tanto volentieri che nessuno si moveva se non era terminata la predica.
Onde egli domandò ad uno de' pochi rimasti, come mai gli altri si
fossero affrettati a partire; e gli fu risposto che un giovinetto
degli apostoli stava per fare una predica nella chiesa madre del beato
Giorgio, ove il popolo ora si raguna, e perciò ognuno s'affretta per
trovar posto. A cui rispose frate Bonaventura: «Veggo che avete l'animo
in agitazione e preoccupato d'altro, perciò vi lascio subito tutti in
libertà, chè predicherei invano se continuassi, dicendo la Scrittura
ecc. Ma questo insegnare che fanno quegli apostoli cose che non sanno,
e che per giunta non sanno nemmeno di non saperle, urta i nervi, e sono
scempiaggini simili a quelle dei ciarlatani. Sarebbe ora veramente
grande disgrazia se comparisse sulla terra l'Anticristo, perchè tra
il popolo cristiano avrebbe troppi seguaci.» Ed aggiunse: «Il beato
Giovanni nell'Apocalisse 11.º dice in persona del Signore: _Ed io
darò a' miei due testimonii di profetizzare; e profetizzeranno 1260
giorni, vestiti di sacchi._ Il che quantunque in primo e principale
luogo si debba applicare ad Enoc e ad Elia, pure non ne pare disadatta
l'interpretazione dell'Abbate Gioachimo, il quale con esuberanza
di argomenti l'applicò a due Ordini di frati, cioè ai Minori e ai
Predicatori, contro i quali, come egli dice, al tempo dell'Anticristo,
insorgerà il popolo cristiano, e de' quali dice: «E gli abitanti della
terra goderanno, e si gioconderanno, e si scambieranno reciprocamente
i doni, perchè questi due profeti seminarono l'afflizione sopra
coloro che abitano sulla terra.» La qual cosa l'Abbate Gioachimo,
riferisce ai due Ordini prenominati, e aggiunge che deve avere suo
adempimento all'epoca dell'Anticristo» E inoltre frate Bonaventura
disse: «Veramente in voi si verifica quello che scrisse Seneca (?):
Le mosche volano al miele, i lupi si gettano sui cadaveri, e le
formiche corrono al frumento: Questa turba va in cerca della preda,
non dell'uomo. L'Ecclesiastico 10º dice: _Guai alla terra che ha un
fanciullo per Re._ Andate pur dunque da quel vostro fanciullo che
desiderate d'ascoltare, e vi confessi de' vostri peccati.» Allora,
licenziati da lui, se ne partirono subito a rapidi passi senza che
l'uno aspettasse l'altro. Altra volta, soggiornava io allora a Ravenna,
fecero predicare il sunnominato ragazzo nella Chiesa Orsiana[127], che
è la chiesa arcivescovile di Ravenna, e fu sì affollato il concorso
e la fretta d'arrivarvi de' cittadini d'ambo i sessi, che l'uno non
aspettava l'altro. E una nobile matrona di quella terra, che era una
devota dei frati Minori, donna Giulietta moglie di Guido Rizzuti da
Polenta[128], si lamentò co' frati, perchè a pena aveva potuto trovare
una compaesana, colla quale andare in compagnia; e la Chiesa Orsiana,
quando vi giunse, era così piena zeppa, che dovette starsene fuori
della porta. Eppure la chiesa cattedrale è tanto vasta, che ha quattro
navate, oltre la maggiore in mezzo. Questi che si chiamano apostoli,
conducevano anche attorno per le città questo fanciullo, e lo facevano
predicare nelle chiese vescovili; e vi accorreva sempre gran folla di
popolo d'ambo i sessi, e ne restavano altamente meravigliati, perchè i
moderni si piacciono molto delle novità. Epperciò non è senza mistero
che la chiesa tolleri che l'eletto de' fanciulli segga nel trono del
Vescovo il dì degli Innocenti. L'Abbate Gioachimo....... Ma queste
cose si addicono all'Ordine de' Minori e dei Predicatori, ne' quali
entrano fanciulli iniziati alle lettere, nobili e di onesti costumi.
Che poi cotesti apostoli non si trovino in istato di salute, possiamo
provarlo con esuberanza di argomenti: Perchè dovrebbero obbedire
al Papa..... Ma Papa Gregorio X, Piacentino, in pieno Concilio a
Lione, soppresse, disperse e sradicò completamente la congregazione e
l'Ordine, che costoro avevano cominciato a fondare, come anche quello
de' Saccati, non volendo che stessero a carico del popolo cristiano
tanti Ordini di mendicanti; trovando solo ragionevole che quelli, a
cui ordinò Iddio di vivere del Vangelo, perchè annunziano il Vangelo,
abbiano a vivere del Vangelo stesso. I Saccati veramente obbedirono
al Sommo Pontefice; e perciò vanno lodati e commendati, perchè possono
benissimo cercare la salute dell'anime loro entrando in altri Ordini,
od anche permanendo nell'Ordine loro, purchè, attenendosi puramente
a quanto è loro permesso, non facciano nuove vestizioni, e così
gradatamente si riducano al nulla, e vengano meno da sè stessi. Ma
quegli stolti, bestiali e idioti, che si chiamano apostoli, non sono
punto disposti ad obbedire. Anzi preparano vestiari conformi al loro
abito, e li stendono in mostra, in disparte, ma sotto gli occhi di
coloro che vorrebbero essere ammessi all'Ordine, e dicono loro: Noi
non osiamo invitarvi perchè ne è proibito, ma non è proibito a voi
d'entrare, e perciò fate pur quel che vi aggrada. E così crebbero e si
moltiplicarono innumerevolmente; nè quietano, nè si ristaranno dalla
loro stoltizia, finchè non sorga qualche Pontefice, che, fiammante di
sdegno contro di loro, non cancelli perfino la loro memoria di sotto
il cielo. Perocchè si deve obbedire ai Sommi Pontefici della Corte
romana, perchè il Signore dice in Luca X. ecc. La seconda ragione è
che alcuni di loro non mantengono la castità, a cui sono tenuti tutti
i religiosi. Fidenti nell'autorità degli Apostoli, e credendo di
essere Apostoli anch'essi menavano seco donna Tripia, sorella di frate
Guido Putagio, che fu molti anni loro Prefettessa, e così molte altre
donne, che furono la causa della ruina del loro Ordine. Terza ragione
è che eglino, o almeno alcuni di loro, vendono le casette, gli orti,
i campi, la vigna, e ne portano seco i fiorini d'oro........ Sono
acefali; e alcuni di loro vanno isolati, senza disciplina, senza guida.
(Però in un certo castello di Puglia, ove i contadini s'arrogarono di
proclamarsi tutti capitani e buona gente, furono poi messi in fuga
da un barone di Francia, che si recava alla Corte dell'Imperatore.
Essi volevano che pagasse un pedaggio, e l'avrebbe anche pagato se
avesse trovato il loro capo.) Poichè lasciano il mestiere, a cui sono
adatti, quello cioè di guardiani delle vacche e de' porci, e il lavoro
della terra. Debbono adunque ridar di piglio alla vanga e voltare la
terra, la quale è vasta e manca di braccia a coltivarla..... Io era
già arrivato al punto di biforcazione della lettera pitagorica, e
aveva già compiuto il terzo lustro, cioè aveva percorso il circolo di
un'indizione, e già sin dalla culla avevan cominciato ad insegnarmi
e a pestarmi in capo la grammatica, quando entrai nell'Ordine de'
frati Minori, e subito nel mio noviziato, nella Marca d'Ancona, nel
convento di Fano, ebbi maestro di Teologia frate Umile da Milano, che
aveva studiato alla scuola di frate Aimone a Bologna. Il quale frate
Aimone poi, che era Inglese, già vecchio, fu fatto Ministro Generale
dell'Ordine de' Minori e lo restò sino alla morte, cioè tre anni. E, il
primo anno ch'io entrai nell'Ordine, ho udito spiegare nella scuola di
teologia i libri di Isaia e di Matteo, e l'interprete ne era il detto
frate Umile; e d'allora in poi non desistetti mai dallo studiare ed
essere uditore nelle scuole. E come i Giudei dissero a Cristo, Giovanni
2.º. In quarantasei anni è stato edificato questo tempio, così posso
dir io, che oggi venerdì, giorno di S. Gilberto, in cui scrivo queste
cose, sono appunto quarantasei anni che sono entrato nell'Ordine de'
frati Minori, e corre l'anno 1284. E non cessai più di studiare; eppure
nemmen così ho potuto raggiungere la scienza de' miei maggiori......
Dell'ignoranza de' sapienti di questo mondo...... Una prova ne hai
in Gherardo Rozzi, il quale predisse che avrebbero avuto prospera la
fortuna quelli che erano andati a Colorno, perchè vi erano entrati
sotto il segno dello Scorpione. Ma era in errore, perchè vi entrarono
il giorno di S. Domenico, quando il sole non è in iscorpione; e poi
ne furono subito espulsi. Che se poi si riferisca non al sole, ma alla
luna, allora disse vero che entrarono in Colorno sotto il segno dello
Scorpione; perchè la luna due giorni e più per mese si trova sotto
ciascun segno dello zodiaco. Tuttavia si potrebbe ancor sostenere che
ha errato per tre ragioni: La prima è, come lo prova il fatto, che
ne furono subito espulsi; la seconda è che lo scorpione è un animale
retrogrado, e quindi doveva segnare un pronostico sinistro; la terza
perchè il Signore dice in Isaia 44º: _Io sono il Signore ec. che
annullo i segni de' bugiardi, e fo impazzare gli indovini_............
Il che intendeva di fare Papa Gregorio 10.º che in pieno Concilio a
Lione soppresse e riprovò la congrega degli apostoli; ma la debolezza
e la pigrizia dei Vescovi li lascia vagare pel mondo senza che portino
alcun frutto a nessuno. Così, non perchè esista ancora la corporazione
di Gherardino Segalello, ma anche dopo che è stata dispersa, vi sono
tali che si danno a predicare, i quali se appartenessero all'Ordine
dei frati Minori, appena si permetterebbe che servissero a tavola, e
lavassero le stoviglie, o andassero per pane da porta a porta........
Perocchè non è ragionevole il loro ossequio, accontentandosi di una
sola tonaca, e credendo che ciò sia loro comandato da Dio. Ma realmente
sbagliano quegli apostoli, perchè quando il Signore dice: _Nè abbiate
due tonache_, condanna il superfluo, non proibisce il necessario, nè
ce ne priva. È chiaro dunque da quanto s'è detto, che quando il Signore
disse ecc. non volle inteso letteralmente che l'uomo, che n'ha bisogno,
non potesse averne più d'una, sia per il bucato, sia per ripararsi dal
freddo....... Si dice, ed è vero, anzi è cosa onnimamente superflua,
che il patriarca di Aquileia, il primo dì di quaresima, fa servire
alla sua mensa quaranta pietanze, cioè qualità diverse di camangiari, e
così via via, giorno per giorno, sino al sabbato santo, ne fa diminuire
l'imbandigione di una ogni giorno, e dice che lo fa per onore e gloria
del suo patriarcato. È chiaro dunque che gli apostoli di Gherardino
Segalello sono stolti, contentandosi di una sola tonaca, ed esponendosi
a pericolo di freddo, di malattie, ed anche di morte. Così pure con una
sola tonaca, che usano, si insudiciano per immondizie, o di pidocchi,
che non possono scuotere, o di sudore, o di polvere, e mandano fetore,
non potendola nè lavare, nè sbattere senza restar nudi. Onde un giorno
disse, scherzando, una donnetta a due frati Minori: Sappiate che ho
un apostolo nudo nel mio letto, e vi starà fino a che sia asciutta la
tonaca che gli ho lavata. Udendo ciò i frati Minori si risero della
leggerezza della donna, e della stoltezza dell'apostolo. L'Apostolo
dice ai Galati 6.º: _Colui che è ammaestrato nella parola, faccia
parte d'ogni suo bene a colui che l'ammaestra._ E significa che, chi è
ammaestrato deve mettere il mastro a parte di tutti i suoi beni.

La qual cosa si fa in Francia, ove, quando io vi era, i preti mi
dissero che di tutti i beni dei loro parocchiani riscuotono la decima,
sin anche degli agnelli e dei polli. Tuttavia saviamente agiva frate
Boncompagno da Prato dell'Ordine dei Minori, che era sacerdote,
predicatore, buon chierico e letterato e uomo dedito alle cose
spirituali. Quando io seco abitai nel convento di Pisa, ove ogni anno
ciascun frate riceveva due tonache nuove di panno di garbo[129], egli
non volevano che una, e quella vecchia. Ed avendolo io interrogato,
perchè così facesse, mi rispose: Frate Salimbene, l'Apostolo dice ecc;
e appena per questa io potrò ricambiarne Iddio. Ma tra gli apostoli
di Gherardino Segalello si trovano ribaldi, seduttori, ingannatori,
ladroni, fornicatori, che fanno turpissime cose colle donne e sin co'
fanciulli, poi ritornano al loro covile di ribaldi. Quale giudizio
adunque cadrà su alcuni chierici del nostro tempo che non predicano
il vangelo, e vivono oziosi del pane dell'altare? Non faticano come
i campagnuoli, non si battono come i militari, non annunziano il
Vangelo, come debbono fare i chierici, e, siccome non serbano ordine
alcuno, andranno là _ove nessun ordine_ ecc. Il Segalello pertanto
non deve osare di intromettersi nelle cose che spettano ai due Ordini,
dei Minori cioè e dei Predicatori, i quali sono adombrati da Geremia
sotto il titolo di pescatori e di cacciatori....... Salva l'esposizione
dell'Abbate Gioachimo, ch'io da molti anni non ho letta. Cacciatori
sono i Predicatori, principalmente oltremare, quantunque altrettanto
faccia anche l'altro Ordine. Essendo che in Italia se ne escusano se
non escono dalle città, ove abitano i cavalieri, i nobili, i potenti,
mentre nelle ville e per le castella hanno romitaggi, ove dimorano
frati Minori e possono bastare al bisogno de' secolari. L'Ordine del
beato Francesco è simboleggiato dai parvoli, che quando si avvicinavano
a Gesù Cristo, i discepoli li sgridavano. Così ne' primi tempi alcuni
Cardinali non erano favorevoli alla istituzione di quest'Ordine. Ma
come Gesù aveva detto ai discepoli, il Sommo Pontefice Innocenzo III
disse ai Cardinali: _Lasciateli venire da me questi parvoli, e non
vogliate impedirneli; di loro è il regno de' cieli._ Queste parole
pronunciò Innocenzo III, dopo che ebbe avuta una visione mostratagli
da Dio, nella quale vedeva la chiesa di Laterano minacciare ruina
per vetustà, e che, un poverello umile e spregiato, miracolosamente
la puntellava che non ruinasse. E la Scrittura nel Nuovo Testamento
aggiunge: _Poi che ebbe su loro stese le mani, partì._ E fu perciò che
allora Innocenzo III ordinò chierici que' dodici che il beato Francesco
aveva condotti seco al cospetto del Papa, il quale ne confermò la
Regola e l'Ordine, e conferì loro il ministero della predicazione
(correva l'anno 1207); dopo di che tanto i Cardinali della Corte
romana, quanto i Sommi Pontefici predilessero sempre l'Ordine del
beato Francesco, riconoscendo e vedendo a prova che i frati Minori
erano utili alla Chiesa e alla salvezza del mondo ......... Intorno
al peccato di superbia del primo padre Adamo....... Parimente un tale
disse:

    O lasso me, ke fu' temptato,
      Com fo Adam nel paradhiso,
      Chi volse plu ke nò i fo dato,
      Perdè lo bene o' era miso.
    Perzò ne prego ogne amadhore,
      Ke no alze tanto lo core
      Ke cadha interra e sia damnato ecc.

Altri ancora disse:

    Boni suno li spareci e li funze,
      E mejo sun le pècor ki le munze.
      Ki ponze troppo ad alto e no' li zunze,
      Kade in terra, e tutto se dezunze.

Nè alcunchè di buono so vedere negli apostoli di Segalello tranne
la foggia esteriore dell'abito, che sembrano portare uniforme a
quello degli Apostoli, secondo la tradizione che i pittori, da
Cristo sino a noi, hanno mantenuta viva, rappresentando sempre
gli Apostoli del Nazareno co' capelli lunghi, con barba intonsa,
e mantello avvolto attorno alle spalle. Poi di buono si può notare
in loro che cominciarono a comparire circa l'anno 1260, quando in
Italia ebbe luogo la divozione delle flagellazioni, anno, in cui,
al dire de' Gioachimiti, cominciò il regno dello Spirito Santo, che
nel terzo stadio del mondo, per mezzo de' monaci, doveva raffigurare
una specie particolare di mistero, come in seguito spiegheremo più
diffusamente[130]. Mi fa meraviglia però che l'Abbate Gioachimo non
abbia fatta, da quanto pare, menzione alcuna di questi apostoli ne'
suoi scritti, come fece dell'Ordine de' frati Minori e de' Predicatori,
che, deducendolo da molti simboli del Vecchio Testamento, predisse,
molto prima che sorgesse, la istituzione de' loro Ordini; come più
volte, e chiaramente, dimostrai in questa cronaca, e in un'altra, e in
una terza, e in una quarta, non che in un trattato che scrissi sopra
Eliseo. Laonde la istituzione di questi apostoli mi diventa molto
sospetta e spregevole; chè se fossero stati mandati da Dio, l'Abbate
Gioachimo ne avrebbe sicuramente parlato. Perocchè nel libro _Delle
figure_, come ho letto assai volte, designa come futuri sette Ordini
dopo la venuta dell'Anticristo, de' quali niuno è apparso ancora
al mondo; e si riconoscerebbe facilmente, perchè egli ce ne dipinge
il modo di vestire, di conversare, e di digiunare. Ma ritorniamo a
frate Ugo Provenzale dell'Ordine dei Minori, uno dei più illustri
chierici del mondo, tutto dedito alle cose dello spirito, predicatore
famoso, Gioachimita fanatico, e così seguitiamo quello che resta da
dirne. L'anno 1248 trovandomi io in Provenza a Castel Jeres, ove i
Saccati esordirono la loro costituzione, e dove soggiornava frate Ugo,
imparai da lui tutto quello che egli sapeva dell'interpretazione fatta
dall'Abbate Gioachimo sui quattro Evangelisti, e dopo andai ad Aix,
ove dimorai nel convento de' frati Minori, e scrissi coll'aiuto del
mio compagno l'esposizione della dottrina dell'Abbate Gioachimo per
il Ministro Generale frate Giovanni da Parma, Gioachimita anch'esso
passionatissimo. Aix è città arcivescovile, sanissima, molto fertile di
frumento, a quindici miglia da Marsiglia, ove fu primo Arcivescovo S.
Massimino, uno de' settantadue discepoli di Cristo. Qui condusse seco
Marta e Maria Maddalena e Lazzaro, quando fu di ritorno da oltremare
espulso dai Giudei in odio a Cristo, e posto su d'una nave senza vele
e senza remi. Ma per volere divino approdarono a Marsiglia, dove in
seguito, Lazzaro, ch'era risuscitato da morte per miracolo di Dio, fu
fatto Vescovo, e scrisse un libro intorno alle _Pene dell'inferno_,
quali egli le aveva vedute coi propri occhi; ma quando io andai a
Marsiglia e cercai di quel libro, seppi che per incuria del custode
della chiesa era restato preda di un incendio. Parimente S. Massimino
aveva condotto seco il beato Cedonico, che era un cieco nato, a cui
Iddio aveva dato la vista, onde i discepoli dissero a Gesù Cristo:
_Maestro, chi peccò, costui o i suoi genitori, onde nacque cieco?_
Aveva anche Massimino in sua compagnia Marcella, fantesca di Marta,
che fu la donna, che quando Gesù predicava, sclamò in mezzo al popolo
affollato: _Beato il ventre_ ecc. Questa Marcella, fantesca di Marta,
ne scrisse poi la vita, e andata a Vienna, vi predicò il Vangelo
di Cristo, e volò alla pace eterna dieci anni dopo che Marta s'era
addormentata nel Signore. Nella città di Aix ebbe sede, il più del
suo tempo, il Conte di Provenza, padre della Regina d'Inghilterra, e
della Regina di Francia, moglie di Lodovico, che andò oltremare due
volte; e vi dimorava, tanto perchè la città era sanissima, quanto per
devozione a San Massimino, che n'era stato il primo Arcivescovo. Quivi
il Conte morì, e fu sepolto fuori di città in una piccola chiesetta,
e deposto in un bellissimo e magnifico sarcofago, ch'io ho visto co'
miei occhi, fatto fare da sua figlia la Regina di Francia. Desiderava
vivamente d'essere sepolto nella chiesa de' frati Minori; ma i frati
non consentirono, perchè in quel tempo non ammettevano nella loro
chiesa sepoltura d'estranei all'Ordine, sia per evitare i disturbi,
sia per non avere controversie col clero secolare. E per questi motivi
non vollero sepolta in una loro chiesa nemmeno S. Elisabetta. Avendo
io dunque terminato di scrivere il lavoro che aveva intrapreso, e
che aveva durato sette mesi di fatica, sopravvenne il settembre,
circa il giorno dell'Esaltazione della Croce, quando frate Raimondo
Ministro Provinciale di Provenza, mi scrisse di andare ad incontrare
il Ministro Generale, che veniva di Francia dopo avere visitato
l'Inghilterra, la Francia e la Borgogna, e voleva anche fare una
visita in Ispagna. Lo stesso invito ricevette per lettera anche frate
Ugo, e lo trovammo a Tarascon, ove è il corpo di S. Marta, ed ove la
Contessa madre della Regina di Francia e della Regina d'Inghilterra
soleva per lo più dimorare. E andammo col Ministro Generale a visitare
il corpo di S. Marta, ed eravamo dodici frati oltre il Generale; ed i
Canonici ci offersero a baciare un braccio della Santa. Operandosi a
quella tomba in antico moltissimi miracoli, Clodoveo Re dei Franchi,
fattosi cristiano per battesimo ricevuto da San Remigio, una volta che
soffriva di grave mal di reni venne alla tomba della Santa, e ne guarì
completamente; epperciò ne dotò la chiesa di tre miglia di terreno
all'ingiro, di quà e di là dal Rodano, donando tutto, terre, ville e
castella, e rese quel territorio libero ed indipendente. Nel convento
de' frati Minori di questo castello, una sera, dopo che si era recitata
compieta coll'intervento del Generale, e che erano già stati in quella
casa designati i letti a tutti per dormire, compreso il Generale
stesso, questi uscì per andare a pregare nel chiostro. Intanto i frati
forestieri, per rispetto, si astennero dall'andare a letto, aspettando
che prima ritornasse e si coricasse il Generale. Ma io, accortomi
della loro irrequietudine pel troppo ritardo, e de' loro brontolamenti,
perchè avevano bisogno di riposare, e anche coricandosi non avrebbero
potuto dormire perchè i locali, in aspettazione del Generale, erano
illuminati da un cero, andai dal Generale, che era mio famigliare
ed intimo amico, e inoltre mio concittadino e parente dei parenti, e
lo trovai nel chiostro che pregava, e gli dissi: Padre, i forestieri
stanchi dalla fatica del viaggio avrebbero bisogno di riposare, ma per
rispetto vostro non vogliono coricarsi ne' letti loro, se prima voi
non v'adagiate nel vostro. Ed egli rispose: Va a dir loro da parte mia
che se ne dormano pure colla benedizione di Dio; e così fecero. Ma a
me parve volere la convenienza di aspettare il Generale per indicargli
il suo letto; e, ritornato egli dalla preghiera, gli dissi: Padre,
questo è il vostro letto, che per voi è stato allestito. E dissemi:
Figlio, in questo letto che mi additi, potrebbe dormire un Papa; frate
Giovanni da Parma non dormirà punto in questo letto, e si coricò in
quello ch'era stato designato per me. Allora io ripigliai: Padre, ve lo
perdoni Iddio, che mi toglieste quel letto dove sperava di dormire io,
perchè era stato assegnato a me. Ed egli di rimando: Dormi, dormi tu in
quel letto papale. Ed avendolo io a sua imitazione ricusato, conchiuse:
Voglio che tu ti corichi lì, e te lo comando; e mi convenne obbedire.
All'indomani arrivò il Guardiano di Beaucaire, che abitava sull'altra
sponda del Rodano in Beaucaire, nobilissimo castello, pregando il
Generale di andare, quando fosse spedito da Tarascon, a visitare con
tutto il suo seguito que' suoi figli che abitavano a Beaucaire. E
così fece. Intanto che eravamo là, arrivarono dall'Inghilterra due
frati, cioè frate Stefano lettore, che ancor garzoncello era entrato
nell'Ordine del beato Francesco, ed era bell'uomo, tutto consacrato
alle cose spirituali, letterato, prudentissimo ne' consigli, sempre
pronto a predicare al clero, ed aveva bonissimi scritti di frate Adamo
da Marisco, di cui col mezzo del detto Stefano, potei udire una lezione
sul Genesi. A costui frate Giovanni da Parma aveva promesso che,
terminata la visita dell'Inghilterra, l'avrebbe per sua consolazione
mandato lettore a Roma. Il suo compagno era un altro Inglese, frate
Iocelino, bell'uomo anch'esso, letterato e tutto dedito alle cose
dello spirito. Poi arrivarono altri due frati a pregare il Generale
che provvedesse il convento di Genova di un dotto lettore. I frati
venuti da Genova erano frate Enrico di Bobbio cantore del convento
di Genova, e da madre, zio di frate Guglielmo, che fu poi lettore
e Ministro; dell'altro non mi ricorda il nome. Eglino caldamente
pregarono il Generale che per amore di Dio esaudisse i frati del
convento di Genova, non che frate Nantelino loro Ministro Provinciale.
E subito il Generale, che sapeva in poco tempo spedir molte cose,
che era uomo pieno di senno, e aveva sempre in pronto un giudizio
pesato, disse a frate Stefano: Ecco una lettera, colla quale i frati
del convento di Genova mi supplicano di provvedere loro un dotto
lettore; se vi piacesse di andare lettore colà, se l'avrebbero per
un regalo; io poi, quando verrò là, vi manderò a Roma. A cui frate
Stefano rispose: Di buon grado e con mia consolazione sono pronto ad
obbedirvi. E il Generale di rimando: Sia tu benedetto o figlio; hai
fatto buona risposta. Andrai dunque con questi frati, che ti avranno
per molto raccomandato; e così fu. Dopo ciò lasciammo Beaucaire,
discendemmo pel Rodano ad Arles, che è poco lontana da Tarascon; e
que' frati si rallegrarono dell'arrivo del Generale, perchè era uomo
molto esemplare ed edificante. Un giorno trovandosi il Generale da
solo, mi appressai a lui, ed ecco sorvenire il mio compagno, frate
Giovannino dalle Olle Parmigiano, e dire al Ministro: Padre, fate
in modo che io e frate Salimbene possiamo avere l'aureola. A questa
domanda il Generale si mise a ridere, e disse al mio compagno: E come
posso fare che abbiate l'aureola? E frate Giovannino rispose; Dando a
noi l'ufficio di predicatori. Allora frate Giovanni Ministro Generale
soggiunse recisamente. Foste anche miei fratelli, non l'avreste
giammai senza prova d'esame. A questo punto presi la parola, e in
presenza del Ministro dissi al mio compagno: Vanne, vanne colla tua
aureola; io l'ebbi già l'ufficio di predicatore l'anno passato a Lione
da Innocenzo IV; e lo dovrei riavere ora da frate Giovannino da S.
Lazzaro?[131]. Mi basta averlo ricevuto da chi aveva l'autorità suprema
di conferirmelo. Or debbo dire che frate Giovanni si chiamava maestro
Giovannino quando da secolare insegnava logica, e si appellava anche
da S. Lazzaro, perchè da bambino fu allevato in una casa posta in S.
Lazzaro, presso Parma, da uno zio paterno, che era sacerdote, ed era
custode di un Oratorio di S. Lazzaro, e che a sue spese mantenne a
studio questo nipote. Ma accadde che questo ragazzo si malò a morte,
come ne pareva a quelli che l'assistevano; ed un giorno, confortatosi
in Dio, disse a udita dei presenti: _Il Signore mi ha colpito col suo
castigo, e non mi ha messo nelle mani della morte; no, non morrò,
ma camperò e narrerò le opere del Signore_. Ciò detto, tosto il
fanciullo si alzò sano, e cominciò a studiare con grande ardore, e
camminò fortissimamente nelle vie del Signore, finchè si fece frate
Minore; e da allora crebbe sempre maggiormente di virtù in virtù,
e ogni dì più si fortificava nella pienezza della sapienza e della
grazia di Dio. Era di statura mezzana, che tenea però più al basso
che all'alto; aveva belle forme in tutto il corpo, ben complesso,
sano e forte a sostenere le fatiche de' viaggi e dello studio; aveva
volto grazioso, angelico, sempre giocondo; carattere largo, liberale,
cortese, caritatevole, umile, mansueto, benigno, paziente, divoto
a Dio, sempre in preghiere, pio, clemente, compassionevole. Diceva
messa ogni dì, e tanto divotamente, che coloro che l'ascoltavano ne
ricevevano sempre qualche grazia. Predicava così bene e con tanto fuoco
sì al clero che al popolo che in molti dell'uditorio, e l'ho visto io
più volte, provocava le lagrime; aveva la parola facondissima, sempre
giusta; possedeva scienza profonda, giacchè era buon grammatico, e
nel secolo, era stato distinto maestro di logica, e nell'Ordine de'
frati Minori, teologo e dissertatore insigne. Insegnò sentenze a
Parigi, e fu molti anni lettore nel convento di Bologna e di Napoli.
Quando passava da Roma i frati lo facevano ogni volta o predicare,
o disputare davanti ai Cardinali, perchè era da loro riputato gran
filosofo. Era specchio ed esempio a quanti lo guardavano, perchè
tutta la sua vita splendeva come un luminare di onestà, di santità,
di buoni, anzi perfetti costumi. Caro a Dio e agli uomini conosceva
bene la musica, e cantava benissimo. Non ho mai visto un tanto rapido
scrittore, e così bello scultore della verità, e con un carattere
facilissimo a leggersi. Quando n'aveva impegno, fu nelle sue lettere
nobilissimo modello di stile forbito e sentenzioso. Fu il primo
Ministro Generale, che cominciò a girare attorno per visitare tutte
le provincie dell'Ordine; cosa per lo innanzi insolita, tranne che
frate Aimone una volta andò in Inghilterra, d'onde era nativo. E
quando frate Buonagrazia volle pure visitare tutto l'Ordine, seguendo
l'esempio di frate Giovanni da Parma, non potè durarne la fatica, e
prima della fine del quarto mese del suo ministero, malatosi a morte,
cessò di vivere in Avignone. Con pure frate Giovanni da Parma fu il
primo Ministro Generale, che ammettesse i devoti e le devote dei frati
Minori ai benefici dell'Ordine, rilasciando loro lettere segnate dal
suo sigillo di Generale, per le quali molti si fecero devoti a Dio e
all'Ordine del beato Francesco; e forse questa concessione servì a loro
come occasione di abbandonare il peccato, e di convertirsi a Dio, tanto
per effetto della loro devozione, quanto anche delle preghiere che i
frati facevano per loro; perocchè come dice Agostino: _È impossibile
che non siano esaudite le preghiere dei molti_. La lettera, che loro
dava era la seguente, colla sola differenza del nome delle persone:
«Ai dilettissimi in Cristo amici e divoti dei frati Minori Giacomo
dei Bussoli, donna Mabilia sua moglie, nonchè ad Angelica amatissima
loro figlia, frate Giovanni Ministro Generale e servo dell'Ordine
de' Minori augura salute e pace sempiterna in Dio. Accogliendo con
sincero affetto di carità la divozione che avete all'Ordine nostro, e
che conobbi per mezzo di una pia relazione de' frati, e desiderando
di ricambiarvi dell'amore vostro verso di noi, io vi ammetto a
partecipare di tutti i singoli suffragi della nostra Religione tanto
in vita che in morte, e in virtù della presente lettera, vi concedo la
compartecipazione piena a tutti i beni, che la clemenza del Redentore
si degnerà di operare per mezzo de' nostri frati in qualunque parte
del mondo sia che dimorino. Iddio vi conservi sempre sani. Data
a Ferrara 6 settembre 1254». E si noti che non voleva rilasciare
questa lettera se non a chi la domandava, e a chi domandandola, fosse
riconosciuto veramente divoto a Dio, o uno de' principali benefattori
dell'Ordine, o che almeno avesse disposizione a diventarlo. Frate
Giovanni da Parma diede anche licenza a frate Bonaventura da Bagnorea
di far scuola a Parigi, quantunque non l'avesse mai fatta altrove,
perchè era semplice baccelliere, non per anco dottore. E fu allora
che frate Bonaventura scrisse le sue lezioni sul Vangelo di S. Luca,
che sono bellissime e sapientissime; e compose quattro libri sopra _Le
Sentenze_, che anche oggi sono riputati di singolare utilità (volgeva
allora l'anno 1248, ed ora corre l'anno 1284); dettò eziandio in
seguito molti altri libri, che vanno per le mani di molte persone. E
quando maestro Guglielmo da Santo Amore provocò l'ira dell'Università
di Parigi contro l'Ordine de' Frati Minori e de' Predicatori, frate
Giovanni da Parma Ministro Generale, convocata l'Università a piena
adunanza, parlò agli scolari e ai Professori, e, tenuto loro uno
splendidissimo sermone utile e divoto, in fine disse: «Questi, che è
il Re dei Re, è il celeste agricoltore; il suo giardino è la Chiesa,
o la Religione del beato Francesco. Ricevette da voi il seme di una
pianta, perchè voi siete maestri e padroni nostri, e da voi imparammo
la scienza, e noi dì e notte ve ne ricambiamo il beneficio, e siamo
pronti a ricambiarvene sempre, sia pregando per voi, sia predicando,
sia curando in ogni maniera l'utilità delle anime vostre. Laonde se
volete pure schiantarla questa vostra pianta, schiantatela pure, se
per avventura non si opponga colui che dice ecc. Io sono il Ministro
Generale de' frati Minori, sebbene indegno, impari all'altezza di tanto
ufficio, e mio malgrado. Voi siete i padroni e maestri nostri. Noi
vostri servi, figli e discepoli; e se qualche cosa sappiamo, a voi ne
dobbiamo riconoscenza. Eccoci: Io sottopongo me stesso, e questi frati
miei dipendenti, alla vostra disciplina e al castigo, che ne vorrete
infliggere. Eccoci, siamo nelle vostre mani; fate di noi quel che ve ne
pare buono e giusto». Udite queste parole, tutti le accolsero bene e
le acclamarono, e si calmò quello spirito, che s'era sollevato contro
i frati; e si alzò uno che aveva ufficio di rispondere per tutti, e
disse al Ministro Generale: Benedetto che tu sia, e benedetto che sia
la tua eloquenza. La Religione del beato Francesco, che è professata
dai frati Minori, è buon seme seminato nel campo della Chiesa. È
maligno uomo chiunque s'adopera a distruggere questa Religione; come
fece frate Guglielmo da Santo Amore, che scrisse un opuscolo, in cui
sosteneva che tutti i religiosi e i predicatori della parola di Dio,
che vivono accattando limosina, non possono salvarsi, e distolse
molti dall'entrare nell'Ordine de' frati Minori e de' Predicatori.
Ma in seguito Papa Alessandro IV ne riprovò e condannò l'opuscolo;
e S. Lodovico Re di Francia, di buona memoria, fece irrevocabilmente
espellere da Parigi Guglielmo da Santo Amore, perchè seminò la calunnia
sopra gli innocenti. Tutte le suddescritte cose io le ho sapute da
maestro Benedetto di Faenza, dottore di scienze fisiche, che era
presente, e le ebbe udite, perchè si trovava a Parigi, ove fu molti
anni a studio, e amava e lodava frate Giovanni da Parma. Altra volta i
Ministri e i custodi adunati in Capitolo generale a Metz, proposero a
frate Giovanni di riformare la loro Regola aggiungendo nuovi articoli
allo Statuto. E frate Giovanni rispose loro: Non moltiplichiamo gli
articoli della nostra Costituzione, ma osserviamo piuttosto fedelmente
quelli che vi sono. Sappiate che i poveri fraticelli si lamentano
della moltiplicità delle vostre leggi, che imponete loro sul collo;
ma voi, che le fate, non le volete osservare, ed essi guardano più
alle opere che alle parole dei Superiori. Vi sia maestra la storia,
nella quale non si legge mai che Giulio Cesare abbia detto alle sue
legioni: Andate, pugnate: ma diceva: Andiamo e combattiamo. Quindi,
decamparono in questo Capitolo dalle proposte riforme. Tuttavia
frate Giovanni Ministro Generale scrisse una circolare che inviò ad
ogni convento dell'Ordine, colla quale comandava che tutti i frati
uniformemente adempiessero agli uffici ecclesiastici secondo la
rubrica dell'Ordinario; il che prima non si faceva; perchè se avevano
nel convento di buon mattino qualche messa da morto, in alcuni luoghi
s'accontentavan di quella; e l'altra che correva in quel giorno, fosse
pur anche della domenica, o di altra festa, la rimandavano sino a
circa l'ora di terza; e molte altre cose si facevano, come ho visto coi
miei occhi, or contro la rubrica, ora estranee alla rubrica stessa; le
quali per opera del Padre nostro Ministro Generale frate Giovanni da
Parma sono state in meglio riformate. Egli, a cagione della dottrina
dell'Abbate Gioachimo, alla quale era troppo attaccato, venne in odio
a certi Ministri, a Papa Alessandro IV, e a Papa Nicolò III; i quali
Papi, quand'eran Cardinali furono governatori, protettori e censori
dell'Ordine, e allora lo amavano come sè stessi per la sua scienza
e santità di vita. Onde, dopo lungo tempo, Giovanni Gaetani, che era
Papa Nicolò III, lo prese per mano un giorno, e conducendolo qua e là
per le sale del palazzo, gli disse: Essendo tu uomo di gran senno,
non sarebbe meglio per te e per l'Ordine a cui appartieni, che tu
fossi qui con noi a Corte, anzichè seguire la dottrina degli stolti, i
quali profeteggiano a seconda della loro stoltezza? Ma frate Giovanni
rispondendo disse al Papa: Io non ambisco le vostre dignità, e di
questa cosa ne è lodato ogni Santo, a cui onore la Chiesa canta: _Non
cercò la pompa delle dignità della terra, ma volò al regno de' cieli_.
In quanto alla saviezza de' consigli, di cui voi mi parlate, vi dico
ch'io l'avrei sicuramente un savio consiglio da dare, se vi fosse chi
volesse ascoltarlo...... All'udir queste cose il papa sospirò........
Dopo ciò, frate Giovanni, lasciato libero, ritornò al romitaggio di
Greccio[132], ove era solito soggiornare. Una volta, quando io dimorava
a Ravenna, frate Bartolomeo Calaroso di Mantova, che era lettore e
Ministro a Milano, e lo era già stato a Roma, e allora si trovava
meco nel convento di Ravenna come semplice frate, cioè senza alcun
ufficio, mi disse: Frate Salimbene, io vi dico che frate Giovanni da
Parma ha guastato sè e il suo Ordine, perchè egli aveva tanta scienza,
santità, ed eccellenza di vita, che avrebbe potuto riformare i costumi
della Corte romana, e a lui avrebbero prestato ascolto; ma dopo che
si diede in braccio alle profezie d'uomini fanatici, fece disonore
a sè, e offese non poco i suoi ammiratori. A cui io risposi: Pare
anche a me, e me ne duole vivamente, perchè egli mi amava di cuore; ma
che volete? I Gioachimiti vanno dicendo: Non vogliate tenere in poco
conto le profezie. Udita questa risposta, frate Bartolomeo replicò:
Ma anche tu fosti Gioachimita; ed io risposi: Tu di' vero. Ma dopo
che è morto Federico, che fu già Imperatore e già è trascorso l'anno
1260, abbandonai al tutto quella dottrina, e inclino a non credere se
non quello che vedrò. Onde mi disse: Sia tu benedetto; se così avesse
fatto frate Giovanni avrebbe portato la pace nell'animo de' suoi
frati. Ma io soggiunsi: non lo poteva. Sai che vi sono taluni che sono
così legati alle massime addottate, che dopo, per non mostrarsi in
contraddizione con se stessi, hanno vergogna a ritrattare le dottrine
professate, e quindi non hanno la forza di ritornare indietro. Tu sai
che quando la Contessa di Caserta rimproverò l'Imperatore Federico
di aver fatto male ad impacciarsi nelle guerre di Lombardia, mentre
poteva godersi ogni sorta di beni nel suo regno, e passarvi una vita
piena di dolcezze, egli le rispose: Riconosco, o Contessa, che avete
ragione, ma mi sono già spinto tanto innanzi che non posso più in
nessuna maniera ritrarmene senza vitupero. Avessi pur io sempre seguito
il vostro consiglio, che non sarei andato incontro a tanti disastri.
A cui aggiunse di ripiglio la Contessa: E vitupero maggiore avrete,
se vi accadrà di peggio (non era ancora stato deposto, nè vinto e
cacciato in fuga dai Parmigiani). E l'Imperatore: Io non mi aspetto di
peggio; anzi nutro fiducia di pigliarmi vendetta su' miei nemici. E la
Contessa di rimando: Vendica male l'ingiuria ricevuta, chi la rende più
oltraggiosa, epperciò un tale disse:

    _Iniuriam latam sibi nunquam vindicat apte_
    _Qui ruit in peius, quo dedecoratur aperte._

    Male al danno appien provvede
    Ohi da folle se lo incoglie;
    Ma se al peggio volge il piede
    Danno ed onta ne raccoglie.

Altrettanto accadde ad Ezzelino da Romano, il quale sulle mosse per
dar di piglio all'armi quell'ultima volta, che restò sconfitto, chiese
consiglio a' suoi se doveva passare il fiume, o nò, ed azzuffarsi
co' nemici; ma nulla ostante che ne fosse dissuaso, rispose: So che
giudicate meglio di me; ma io voglio passare; e così ad occhi aperti
corse in bocca alla morte. Avendomi detto frate Giovanni da Castelvetro
Ministro a Roma, quand'egli andava ad un Capitolo generale a
Strasbourg, che frate Giovanni da Parma ex-Ministro Generale persisteva
nelle sue vecchie dottrine, ed avendogli io lasciato credere che, se mi
trovassi con lui, farei tanto da sperare di ritrarnelo, mi soggiunse:
Vanne dunque a lui, che è nella mia provincia al convento di Greccio;
(ove il beato Francesco il giorno della natività del Signore cantò il
Vangelo e rappresentò la scena di Betlemme in un presepio col fieno e
con un bambino); perocchè frate Giovanni elesse per suo soggiorno quel
convento, quantunque possa andare dove vuole. E aggiunse quel Ministro
della provincia di Roma, corri, t'affretta, scuoti quel tuo amico,
perchè il beato Giacomo dice: _Se alcuno di voi svia dalla verità, ed
altri lo converte, sappia costui che chi avrà convertito un peccatore
dall'errore della sua via, salverà un'anima da morte, e stenderà un
velo sopra una moltitudine di peccati_. Questo frate Giovanni da Parma
però, che aveva molti nemici per cagione della dottrina dell'Abbate
Gioachimo, ebbe anche molti che, lo stimavano e l'amavano; tra'
quali maestro Pietro di Spagna, sommo filosofo, logico, disputatore e
teologo, che fatto Cardinale e poi Papa Giovanni XXI, mandò cercandolo,
perchè lo riconosceva fornito di tante ed esimie virtù. Volle dunque
il Papa che stesse sempre alla sua Corte, e aveva stabilito di
crearlo Cardinale, ma la morte gli tolse di mandare ad effetto il
suo proponimento, poichè Papa Giovanni morì dopo non molto sotto le
ruine di una camera. Anche Papa Innocenzo IV amava frate Giovanni come
l'anima propria, e, quando andava da lui, lo ammetteva al bacio del
volto, ed ebbe pensiero di farlo Cardinale, ma morì prima di nominarlo.
Parimente Vattazio Imperatore Greco, avuta contezza della santità di
frate Giovanni da Parma, mandò pregando Papa Innocenzo IV d'inviargli
frate Giovanni Ministro Generale, sperando che per opera sua i Greci
sarebbero tornati nel seno della Chiesa romana. E, frate Giovanni
andatovi, Vattazio ne prese tanta stima e amore, che volle colmarlo
di doni, che poi non furono accettati. Allora lo pregò di portare in
mano un certo scudiscio ogni volta che col suo seguito cavalcava per
la Grecia, e glielo diede. Ed egli pensando che dovesse servire per
sollecitare il cavallo, l'accettò, memore di quel verso:

    _Nil nocet admisso (idest: veloci) subdere calcar equo._

    Se galoppa il caval più che veloce,
    Un nuovo sprone al cavalier non nuoce

Vedendo dunque nelle sue mani quell'arnese, che era un emblema
imperiale, tutti s'inginocchiavano, quando passava frate Giovanni,
come usano i latini quando nella messa si fa l'elevazione del Corpo di
Cristo; e facevano per lui e per il suo seguito le spese del viaggio.
E, dopo tante onorificenze, Frate Giovanni ritornò al Papa, che lo
aveva incaricato di quella missione. Vattazio fu l'Imperatore, a cui
successe Paleologo, non perchè avesse secolui alcuna attinenza di
parentela, ma occupò il trono per usurpazione, dopo avere ucciso il
figlio di Vattazio. In un Capitolo provinciale celebratosi a Sens,
conobbi quanto il Re di Francia, di buona memoria, S. Lodovico tenesse
in venerazione frate Giovanni. E i tre fratelli del Re, ed il Cardinale
della Corte romana Oddone, che in occasione di quel Capitolo pranzarono
nel convento de' frati, tutti gareggiarono nel mostrargli la loro
reverenza. Parimente trovandosi frate Giovanni in Inghilterra, ed
essendosi fatto annunziare per una visita al Re nell'ora che era del
pranzo, subito il Re s'alzò da tavola, discese di palazzo, in fretta
gli andò incontro, lo abbracciò e lo baciò. Ed essendone rimproverato
da' suoi cortigiani, perchè s'era abbassato troppo, correndo incontro
ad un tale omiciattolo, il Re rispose: Io l'ho fatto per onorare Iddio
e il beato Francesco, ed anche quest'uomo, di cui ho udito celebrare
l'insigne santità, e che è un vero servo ed amico del Dio Sommo ed
Eccelso, e non si degrada guari chi onora i servi di Dio; perocchè il
signore disse loro; Chi riceve voi, riceve me. E fu bene accolta la
risposta del Re, e lodaronlo della deferenza usata per un uomo tanto
rispettabile. Questo Re fu il padre di Odoardo Re d'Inghilterra e
passava per un sempliciotto; onde, un giorno che era a tavola co' suoi
cavalieri, un giocoliere della Corte a udita di tutti disse: Ascoltate,
ascoltate: Il nostro Re è simile a Gesù Cristo. Provò molta compiacenza
il Re a udire che era assomigliato all'Uomo-Dio; ed insisteva perchè il
giocoliere spiegasse in che egli fosse simile a Gesù Cristo (tanto il
Re che il giocoliere parlavano francese, e sulle loro labbra suonava
grazioso il volgare francese). Allora il giocoliere disse: Del Signor
nostro Gesù Cristo si dice che tanta sapienza avesse al momento della
sua concezione, quanta all'età di trent'anni; similmente il nostro Re è
tanto sapiente ora, quanto lo era da bambino. Si turbò l'animo del Re,
e sdegnato ordinò, a chi era presente, di far appendere il giocoliere
alla forca. Ma quando que' cavalieri che erano presenti furono col
giocoliere in disparte, non eseguirono il comando del Re; gli legarono
soltanto una fune al collo, e lo fecero sollevare a braccia alquanto
da terra, e gli dissero: partiti di qui intanto che si calmi l'ira
del Re, e non infierisca su di noi e su di te. E ritornando a Corte
dissero che avevano eseguiti appuntino gli ordini. Quando poi frate
Giovanni da Parma era lettore a Napoli, prima che fosse Generale, e
passò da Bologna, un giorno che era alla mensa della foresteria con
altri forestieri, sopravvennero alcuni frati, e con violenza lo fecero
alzare da tavola per condurlo a pranzare nell'infermeria. Ma vedendo
egli che il suo compagno restava, nè era invitato a lasciare quella
mensa, si volse al compagno stesso dicendogli: Io non mangerò in nessun
luogo senza il mio compagno. La qual cosa fu giudicata una villania
da parte di que' frati, ed una somma cortesia e grazia pel proprio
compagno da parte di frate Giovanni. Un'altra volta, quand'era Generale
e volle prendersi un po' di vacanze, venne al convento di Ferrara,
dove io soggiornai sette anni; ed osservando che a fargli compagnia
d'onore erano sempre invitati alla sua mensa, sì a pranzo che a cena,
gli stessi frati, gli entrò in animo il sospetto che il Guardiano
frate Guglielmo da Buzea, Parmigiano, avesse i suoi beniamini, e
gliene spiacque. Ora, una sera, mentre si lavava le mani per andare
a cena, il frate che lo dovea servire disse al Guardiano: Chi dovrò
invitare stasera? A cui il Guardiano rispose: Chiamerai frate Giacomo
da Pavia, frate Avanzo, e il tale, e il tale altro. E nota che c'era
già stata intesa preventiva, perchè i prenominati s'erano già lavate
le mani, e stavan già pronti a tergo del Generale, che li aveva già
scorti. Allora, con tutto l'ardore dell'anima sua accesa dallo Spirito
divino, cominciò a parlare come in parabola; così e così; chiamerai
frate Giacomo da Pavia, chiamerai frate Avanzo, inviterai il tale e il
tale altro; prendi per te dieci porzioni; questa è la fola dell'oca.
All'udir questo parlare restarono confusi e ne arrossirono quelli che
erano stati invitati alla mensa; e non ne rimase meno in vergogna il
Guardiano, il quale disse al ministro: Padre, io invitava costoro a
farvi compagnia d'onore, perchè io ne li reputava più degni. Ma il
Ministro rispose: Forse che la divina Scrittura.......? Io udiva tutto
essendo lì vicino. Allora ripigliò colui che dovea fare il servizio:
Chi dunque ho da invitare? E il Guardiano: Prendi gli ordini dal
Ministro. E il Ministro disse: Mi chiamerai i più umili fraticelli,
perchè il far compagnia al Ministro è un ministero che tutti sanno
farlo. Andò dunque il frate inserviente al refettorio, e chiamò i più
umili e poveri fraticelli, dicendo: Il Ministro Generale invita voi a
cenar seco, io vi comando a nome suo di andare immediatamente da lui;
e così fu fatto. Perocchè frate Giovanni da Parma Ministro Generale,
quando arrivava di passaggio ad un convento di frati Minori, voleva
che sedessero seco a mensa anche i più poveri ed umili fraticelli, o
tutti simultaneamente, ovvero divisi in gruppi, che si alternassero fra
loro, perchè al suo arrivare godessero anch'essi qualche cosa, (prima,
s'intende, che la sua foresteria fosse finita, cioè prima di mettersi a
mangiare alla mensa comune in refettorio, alla quale, quando si fermava
in un convento, era solito andare sempre, subito dopo che si era
riposato dalla fatica del viaggio). Frate Giovanni da Parma fu persona
accostevole a tutti, senza predilezione per nessuno; alla mensa,
liberale e cortese assai, tanto che se aveva a tavola varie specie di
vini scelti, ne faceva d'ogni specie mescere a tutti, acciocchè tutti
godessero. La qual cosa era reputata cortesia e grazia distintissima.
I compagni, che aveva frate Giovanni da Parma quand'era Ministro
Generale, sono i seguenti: Primo, frate Marco da Montefeltro,[133] uomo
onesto e santo, che ebbe una longevità straordinaria; e fu compagno di
frate Crescenzio, di frate Giovanni da Parma e di frate Bonaventura:
Egli era di Modigliana,[134] ed è sepolto ad Urbino; la sua fama è
cinta da fulgentissima aureola di miracoli. Modigliana è un castello
nel distretto di Massa di S. Pietro: Urbino è città sui monti, per
la quale si va a Cagli, che è la chiave della provincia della Marca
d'Ancona, per dove si va ad Assisi, nella Valle di Spoleto, all'eremo
del beato Francesco. Frate Marco fu anche Ministro Provinciale nella
Marca d'Ancona, ove fu lodatissimo il suo ministero. Fu buon scrittore,
rapido e chiaro, e per le fatiche che sopportò, servendo di compagno
e da segretario di tre Ministri Generali, si meritò, e in un Capitolo
generale si decretò, che alla sua morte ciascun sacerdote dell'Ordine
celebrasse per l'anima sua una messa da morto. Morì poi l'anno del
Signore 1284. Egli era mio specialissimo amico, ed amò tanto il
Ministro Generale frate Bonaventura, che quando, dopo la morte di lui,
gli tornavano a memoria le sue graziose maniere nel conversare e i
suoi meriti letterari, per dolce commozione gli piovevan le lagrime
dagli occhi. Eppure, quando frate Bonaventura Ministro Generale
doveva predicare al clero, frate Marco gli si presentava e dicevagli:
Tu sei come un mercenario; e non ricordi che, quando l'altra volta
predicasti, non sapevi quel che ti dicessi? Ma spero che questa volta
la non anderà così: E frate Marco gli parlava in questo modo per
ispronarlo a predicar sempre meglio. Tuttavia frate Marco scriveva e
voleva aver copia di tutti i sermoni di frate Bonaventura, il quale
del resto, quando frate Marco gli parlava quel linguaggio ingiurioso,
ne godeva per cinque motivi: 1.º perchè era uomo benigno e sapiente;
2.º perchè così imitava il beato Francesco; 3.º perchè era sicuro che
frate Marco lo amava di tutto cuore; 4.º perchè quel fare gli spegnerà
ogni seme di vanagloria; 5.º perchè ne riceveva stimolo ad essere
più accurato. Degli altri compagni di frate Giovanni diremo altrove
a luogo opportuno. Così quando suonava la campanella che chiamava chi
n'era incaricato dal convento, a mondare i legumi e gli erbaggi, frate
Giovanni, anche quando era Ministro Generale, accorreva e lavorava
cogli altri frati, come ho visto co' miei occhi; e perchè io aveva
secolui famigliarità, gli diceva: Padre, voi fate quello che insegnò
il Signore in Luca 22, ecc; e rispondeva: È così che noi dobbiamo
esercitare la perfetta umiltà, e quella giustizia davanti alla quale
dobbiamo essere tutti eguali. Parimente non mancava mai nè di giorno nè
di notte all'ufficio ecclesiastico, specialmente poi al mattutino, al
vespro e alla messa conventuale; checchè il guardacoro gli accennava,
subito lo eseguiva, intonare antifone, cantare lezioni e responsorii,
e dire le messe conventuali. Nel convento di Lione, come ho veduto io,
predicò due volte ai frati nel Giovedì Santo; una volta la mattina,
e l'altra volta all'ora che gli fu prefissa, ed eranvi ad ascoltarlo
Vescovi e Ministri dell'Ordine nostro. E ciò avvenne quando Papa
Innocenzo IV risiedeva a Lione co' suoi Cardinali. Il Venerdì Santo
poi avrebbe officiato, se Guglielmo, Vescovo di Modena e Cardinale,
non si fosse offerto di fare l'officiatura, a cui, come conveniva,
cedette per gentilezza. Nel Sabato Santo il guardacoro gli accennò di
cantare l'ultima profezia e la cantò. Insomma era ricco d'ogni virtù,
e, sin anche quand'era Generale, voleva fare le parti dell'amanuense
per guadagnare di che vestirsi colle proprie mani. Ma i frati non
glielo permettevano, perchè lo vedevano occupatissimo per il regime
dell'Ordine, e quindi gli davano di buon grado tutto il necessario. Fu
eletto Ministro Generale l'anno 1247 in un Capitolo generale adunatosi
a Lione in Agosto, tempo in cui aveva ivi trasportata la sua residenza
Papa Innocenzo IV. Governò lodevolmente dieci anni l'Ordine de' frati
Minori; e anticipò l'ultimo Capitolo generale celebratosi sotto il suo
Generalato, per affrettare il giorno delle sue dimissioni, non volendo
più saperne d'essere Generale, e si tenne il giorno della Purificazione
del 1257. I Ministri, i custodi ed i deputati soprassedettero un giorno
intero senza dar corso a nessuno degli affari del Capitolo, perchè non
volevano saperne di accettare le dimissioni. Allora entrato in Capitolo
motivò, secondo che seppe meglio e volle, la sua deliberazione, e,
quelli a cui spettava l'elezione, facendo ragione alla angustia, da
cui era premuto l'animo di lui, quantunque a malincuore, gli dissero:
Padre, voi che visitaste tutti i conventi dell'Ordine, e conoscete
le virtù e le doti dei singoli frati, indicatene uno idoneo a questo
ufficio, e sia vostro successore. E subito designò frate Buonaventura
da Bagnorea; e aggiunse che uno più degno di quello non lo conosceva
in tutto l'Ordine; e per voto unanime fu eletto. Pregarono poi frate
Giovanni di tenere la presidenza del Capitolo fino alla sua chiusura,
ed accettò. Il successore frate Bonaventura resse l'Ordine diciassette
anni, e fece molto di bene. Frate Giovanni, esonerato dall'ufficio,
andò ad abitare nel romitaggio di Greccio, dove il beato Francesco,
il dì della Natività del Signore, aveva rappresentata la scena del
presepio, di che è parlato estesamente nella sua biografia. Ed ivi
frate Giovanni abitando, vennero due uccelli selvatici da una vicina
boscaglia, grossi come oche, e fecero loro nido, deposero le uova, e
covarono i pulcini sotto il tavolo che gli serviva a continuo studio,
e da lui si lasciavano senza renitenza accarezzare. Ed andato un
giorno a fargli visita un Vescovo, desiderò di avere, ed ebbe da lui
per favore, uno di que' pulcini. Inoltre una mattina frate Giovanni,
svegliato per tempissimo il suo camillo, perchè voleva dir messa,
questi rispose che s'alzerebbe subito; ma siccome si trovava ancora
mezzo tra il sonno e la veglia, di nuovo cadde in preda al sopore.
Dopo qualche tempo si risvegliò, si vergognò della sua sonnolenza, e,
accorso alla chiesa, trovò che frate Giovanni diceva messa, e aveva
un camillo in cotta, che lo serviva benissimo; e, finita la messa,
senza dir verbo si ritirarono. Nel corso della giornata però frate
Giovanni disse al suo camillo: sia tu benedetto, o figlio, perchè
oggi mi hai servito messa con tanta attenzione e devozione, che son di
credere avermi perciò Iddio conceduta la straordinaria consolazione,
che oggi ho provato nel dir messa. A cui il camillo rispose: Padre,
perdonate se quando mi chiamaste io era così vinto dal sonno che non
potei accorrere prontamente a servirvi; e quando arrivai vidi che altri
vi serviva. Eppure io so che non c'è nel convento nessun forestiero,
ed ho interrogato ad uno ad uno tutti i frati di casa se mai alcuno
di loro vi avesse servito alla messa, ed ognuno ha risposto che no.
A cui frate Giovanni rispose: Io credeva che fossi tu, ma chicchè
sia stato, sia egli benedetto, e sia benedetto il nostro Creatore in
tutti i suoi doni. Molte altre bellissime e buonissime cose vidi,
udii e conobbi di Frate Giovanni da Parma, già Ministro Generale,
degne di essere tramandato ai posteri, ma che passo in silenzio, sia
per brevità, sia perchè mi affretto a parlare d'altro, sia perchè
la Scrittura dice nell'Ecclesiastico 11. _Prima che muoia non lodare
nessun uomo_. E frate Giovanni vive tuttora, sebbene carico d'anni, ed
ora, che questi fatti affido alla carta, volge l'anno del Signore 1284,
giorno successivo alla festa dell'invenzione di S. Michele, anno IV
del Pontificato di Martino IV, indizione 12, mese di Maggio, martedì.
Il padre di frate Giovanni si chiamò Alberto Uccellatore perchè si
dilettava di andare a caccia d'uccelli, e ne faceva professione.
Dunque, come più su è stato detto, gloriandomi io in Arles, al cospetto
di frate Giovanni d'aver ricevuto la facoltà di predicare a Lione
da Papa Innocenzo IV, il mio compagno frate Giovannino dalle Olle
soggiunse: Preferirei d'averla dal Ministro Generale anzichè da un
Papa qualunque; e se è necessario passare sotto la prova di un esame,
ci esamini frate Ugo, e alludeva a quell'illustre Ugo Provenzale, che
si trovava allora nel convento di Arles in occasione dell'arrivo del
Ministro Generale, di cui era intimo amico. Ma frate Giovanni rispose:
Non permetto che vi esamini frate Ugo vostro amico, che sarebbe vosco
indulgente; chiamatemi invece il lettore e il ripetitore di questo
convento. Chiamati, accorsero, e il Generale disse loro: Ritiratevi in
disparte con questi due frati e sottoponeteli ad esame sulle materie
e sull'arte del predicare; e riferitemi se meritano di avere facoltà
di predicare. E a me la conferì, al mio compagno la negò, perchè era
ignorante. Il generale tuttavia gli disse: Ciò che si differisce, non
è perduto; studia, o figlio mio, e dammi la consolazione di prepararti
a rispondere meglio a chi ti esaminerà. In quel frattempo arrivarono
due frati Toscani; uno di Prato, frate Gherardo fratello di frate
Arlotto, ed uno da Colle[135], frate Benedetto, che andavano a studio a
Tolosa. Eglino erano allora diaconi ed erano buoni scolari, ed avevano
studiato meco più anni nel convento di Pisa. Essi, volendo partire
all'indomani, mandarono frate Marco dal Generale, di cui era compagno,
a pregarlo che volesse conferire loro la facoltà di predicare, e
di essere promossi al sacerdozio. Quella sera il Generale recitava
compieta, ed io solo era con lui quando in quel momento arrivò frate
Marco, e interruppe la nostra compieta per fare la sua ambasciata. Ma
il Generale col calore e coll'enfasi di quello spirito, che soleva
avere quando gli pareva d'essere eccitato da zelo divino, rispose
a frate Marco suo compagno: Fanno male que' frati, ed è impudenza
domandar tanto, mentre l'Apostolo dice: _Nessuno arroghi a se stesso
gli onori_. Ecco: Essi sono or or partiti dal Ministro loro, che
conosceva la loro abilità, e poteva loro conferire quanto domandano a
me; vadano dunque a Tolosa, dove sono mandati a studiare, ed imparino,
che ivi non sono necessarie le loro prediche; a tempo debito potranno
ottenere quello che desiderano. Allora frate Marco, vedendo il Generale
conturbato, diede un'altra piega al discorso e disse: Padre, dovete
credere che non eglino mi hanno mandato, ma frate Salimbene può avermi
detto ch'io parlassi a voi per loro. E il Generale di rimando: Frate
Salimbene è sempre stato quì con me a recitare compieta; quindi son
certo che non ha dato a te questa incumbenza. Si ritirò adunque frate
Marco dicendo: Così volete, così si faccia. Io mi accorsi che frate
Marco non aveva accolta con animo sereno quella risposta; e, finita
la compieta, andai per confortarlo, e mi disse: Frate Salimbene,
ha fatto male frate Giovanni a farmi diventar rosso la faccia, e
non ascoltare la mia preghiera per sì poca cosa. Anch'io fatico per
l'Ordine nostro, sono suo compagno e segretario, sebbene io mi trovi
in età avanzata. È vero che sono partiti or ora dal loro Ministro,
che li conosce a pieno, e appunto perchè li conosce buoni di indole
e di ingegno li manda a studio a Tolosa, perchè vadano poi a Parigi.
Ma questi frati gradivano più d'avere la facoltà di predicare dalla
santità e dignità di frate Giovanni, che da frate Piero da Cori[136]
loro Ministro. Volevano poi essere promossi al sacerdozio perchè la
città di Pisa, dove abitarono, da trent'anni, come sapete, è interdetta
delle ufficiature ecclesiastiche, avendo i Pisani fatto prigionieri
in mare molti Cardinali ed altri Prelati, e per giunta occupano di
forza sui monti dieci castelli del Vescovo di Lucca, ed hanno invaso
la Garfagnana contro la volontà della Chiesa. (La Garfagnana è un
territorio montano tra il Lucchese e il Lombardo). Laonde, trovandosi
eglino a Pisa, non si presero pensiero della promozione al sacerdozio;
ma ora desidererebbero d'esser fatti preti per dir messa pe' vivi e
pe' morti ed essere più utili ai frati, presso i quali si recano; e
questi giovani se lo avrebbero in tutta loro vita per un benefizio,
ed ora sarebbero riconoscenti della grazia se l'avessero conseguita;
e sallo Iddio con qual rossore sulla fronte mi presento a loro per
annunziare che sono state vane le mie preghiere. A cui io breve risposi
e dissi: Mi piacciono le tue considerazioni più che la risposta del
Generale; ma abbi pazienza, chè la pazienza per l'uomo è perfezione.
Quella sera stessa il Generale fece chiamar me e il mio compagno, e
ne disse: Figliuoli; spero di partirmi presto da voi, perchè mi sono
proposto di fare una visita ai frati della Spagna. Perciò sceglietevi
un convento, qualunque esso sia fra tutti quelli dell'Ordine, ove vi
piaccia andare, eccetto però quello di Parigi, e là vi manderò; avete
tempo tutta notte a pensare, a scegliere, a deliberare; domani me
ne farete cenno. E l'indomani al primo incontrarci, ne disse: Quale
deliberazione avete presa? quale scelta avete fatto? A cui io risposi:
Nulla deliberammo a proposito della scelta d'un convento ove andare
per non essere noi stessi la causa del nostro dolore; ci rimettiamo al
vostro volere; mandatene ove a voi piace, e noi obbediremo. Accolta
per virtuosa la nostra risposta, ne soggiunse: Andatene ve dunque al
convento di Genova, ove vi troverete in compagnia di frate Stefano
Inglese, che manderò colà. Intanto scriverò al Ministro e a que' frati,
che vi usino que' riguardi che userebbero a me stesso; e che tu, frate
Salimbene, sia promosso al sacerdozio, e il tuo compagno Giovannino
al diaconato. E quando verrò là, se vi troverò contenti, n'avrò tanta
consolazione, se no, troverò modo di contentarvi; e tutto fu fatto.
Poi quel giorno stesso il Generale disse a frate Ugo amico suo: Che ne
dite, frate Ugo? Dobbiamo andarcene insieme in Ispagna per adempire il
consiglio dell'Apostolo? E frate Ugo rispose; Anderete voi, Padre; io
desidero chiudere i miei giorni nella terra de' padri miei. E subito
lo accompagnammo alla barca che l'aspettava sul Rodano. Era la festa
di S. Michele, dopo nona, e, datone l'addio, si mosse per arrivare in
giornata a S. Egidio. Noi per mare andammo a Marsiglia, ove trovammo
frate Stefano Inglese, che mi pregò di dire al Guardiano che per la
festa del beato Francesco avrebbe predicato volentieri al clero e ai
frati. Ma il Guardiano rispose che l'avrebbe udito di molto buon grado,
se non avesse temuto di fare uno sfregio al Vescovo, che doveva andare
a rendere quella festa più solenne del solito. Passata la solennità
del beato Francesco, prendemmo il mare e andammo a Jeres, al convento
di frate Ugo; e frate Stefano, che non potè trovare imbarco col suo
compagno s'avviò per terra al convento di Genova. Io poi ed il mio
compagno facemmo sosta a Jeres per godere la compagnia di frate Ugo,
dalla festa del beato Francesco sino al giorno d'Ognissanti. Ed io
era ben lieto dell'occasione di starmi in conversazione di frate Ugo,
col quale tutta la giornata si parlava della dottrina dell'Abbate
Gioachimo. Perocchè egli ne possedeva tutte le opere pubblicate, era
uno de' suoi più caldi seguaci, uno de' chierici più illustri del mondo
per scienza e santità incomparabile. Tuttavia io era in dispiacere
perchè il mio compagno era malato morto e non voleva aversi riguardi,
e per l'una parte l'inverno rendeva più difficile la navigazione, e
per l'altra, quell'anno, il soggiorno di Jeres era malsano pel vento
marino, ed anch'io, non malato, appena poteva respirare di notte,
anche stando all'aperto. Ma la notte si udivano lupi a torme ululare,
e li ho uditi più volte; perciò dissi al mio compagno, che era un
giovane sempre inchiodato nelle sue idee: Tu non vuoi averti riguardi
da ciò che ti fa male, e sempre fai ricadute. Io riconosco questo
paese molto insalubre, e non vorrei morire ora, perchè vorrei arrivare
a vedere le cose che predice frate Ugo. Perciò sappi che, se trovo
tra' nostri frati una compagnia che mi garbi, partirommi con quella.
Allora rispose: Mi piace la proposta, verrò anch'io con te; ma si
arrese perchè sperava che nessun frate fosse per mettersi in viaggio
con noi. Quand'ecco, per grazia di Dio, subito presentarsi un certo
frate Ponzio, sant'uomo, che aveva dimorato con noi nel convento di
Aix, ed andava a Nizza, del cui convento era stato eletto Guardiano.
Quando ci vide, mostrossi tutto festoso, e gli dissi: Vogliamo venir
con voi, giacchè noi dobbiamo andare a Genova. Egli se ne mostrò molto
lieto, e disse: Vado subito a procurarmi un imbarco. L'indomani, dopo
il pranzo, ci recammo alla nave, che era distante dal convento dei
frati un miglio. Ma il mio compagno non voleva seguirmi. Veduto però
ch'io assolutamente partiva, si licenziò dal Guardiano del convento, e,
dopo noi, si mise in via. E dandogli io la mano per aiutarlo a salire
a bordo, si trasse indietro, come io gli facessi orrore, e disse:
Non sia che tu mi tocchi, tu che non mi hai serbata nè fede, nè buona
compagnia. Ed io di rimando: Miserabile, sii riconoscente alla bontà
di Dio verso di te, la quale mi ha rivelato che se tu fossi rimaso qui,
ne saresti morto. Ma egli era tanto protervo che non aggiustò fede alle
mie parole finchè il morbo colla sua gravità non glielo fece intendere.
Difatto tutto l'inverno non potè liberarsi dalla malattia, che aveva
contratta in Provenza. .... e mi imbarcai il giorno di S. Mattia, e, da
Genova al convento di frate Ugo, navigai quattro giorni; e trovai morti
e sepolti sei frati di quel convento; primo de' quali il Guardiano,
che aveva accompagnato alla nave il mio compagno; un altro fu frate
Guglielmo da Pertuis[137], eccellente predicatore, che una volta
aveva soggiornato nel convento di Parma, ed altri quattro che non è
necessario nominare. Quando poi, al mio ritorno al convento di Genova,
dissi al mio compagno che erano morti i suddetti frati, mi rese molte
grazie d'averlo tratto dalle fauci della morte. Finalmente guarì, e
dopo alcuni anni andò in una provincia d'oltremare, (quell'anno in cui
per la seconda volta partì per una crociata il Re di Francia) e andò a
Tunisi, ove fu fatto custode, e, come custode, venne poi ad un Capitolo
generale celebratosi ad Assisi, in cui fu creato Ministro Generale
frate Bonagrazia, e fu distribuita ai frati una chiosa della Regola.
E avendo poi i cristiani che erano in Egitto prigionieri dei Saraceni
mandato a pregare Papa Nicolò III che per amore di Dio inviasse loro un
buono ed adatto sacerdote, a cui potere confidenzialmente confessare
i proprii peccati, il Papa incaricò il Ministro Generale di designare
un frate, ed il Generale Bonagrazia volle che quel sunnominato mio
compagno, in virtù di salutare obbedienza, e per la remissione di
tutti i suoi peccati, andasse dai prigionieri cristiani, che erano in
Egitto. Egli poi ottenne dal Ministro Bonagrazia di poter venire al
primo Capitolo generale, e poscia andare nella provincia di Bologna,
alla quale a principio apparteneva. Ed ogni cosa fu fatta a dovere.
Perocchè e per opera sua e coll'aiuto d'altri ne venne molto di bene
a quei cristiani. E vide il rinoceronte, e la vigna del balsamo, e
portò manna in un vaso di vetro, ed acqua della fontana di S. Maria,
senza la cui irrigazione la vigna del balsamo non può fruttare, e portò
seco pezzi del legno del balsamo, e molte altre cose nuove per noi,
e le faceva vedere ai frati; e riferiva come i prigionieri cristiani
erano trattati dai Saraceni, i quali li fanno scavare le fosse de'
loro castelli, e asportarne la terra in corbelli, e non si danno loro
che tre piccoli pani per testa al giorno. Dopo dunque che fu celebrato
il primo Capitolo generale in Alemagna, a Strasbourg, al quale egli
era intervenuto, fu colto da morte nel primo convento che trovò sulla
via del suo ritorno presso Strasbourg, e rifulse per miracoli che
operò. Tale era frate Giovannino dalle Olle di Parma, che appartenne
alla provincia di Romagna, ossia dell'Esarcato Greco, alla provincia
di Bologna, e alla provincia di Terra Santa; e fu mio compagno in
Francia, in Borgogna, in Provenza e nel convento di Genova; scrittore
buono, buon cantore, buon predicatore, buono, onesto ed utile uomo, la
cui anima riposi in pace. Nel convento ove morì v'era un frate minore
malato di malattia incurabile, per quel che ne san fare i medici, il
quale si diede a pregare Iddio affinchè per amore di frate Giovannino
volesse concedergli piena salute, e subito guarì. Ho udito raccontarlo
da frate Paganino da Ferrara, che era presente. Trovandomi io adunque
con lui e con frate Ponzio, nuovo Guardiano di Nizza, quel giorno
stesso che lasciammo frate Ugo e Jeres, approdammo a Nizza, che è città
sul mare; e vedemmo ed imparammo a conoscere frate Simone Pugliese
da Montesarchio[138], che era procuratore dell'Ordine alla Corte
pontificia, che allora aveva residenza a Lione. Egli voleva andare a
Genova ed aspettava al lido in compagnia del refettoriere di Lione, se
mai potessero trovare una nave a loro conveniente, e dissi loro: Noi
la nostra nave l'abbiamo già noleggiata, e domani prenderemo il mare.
Ed eglino se ne congratularono con noi. Tutta la giornata seguente
e tutta la notte si navigò, e al primo mattino si entrò in porto a
Genova, che è presso il mare, ed era una domenica. I frati, quando
ci videro, ne fecero i loro rallegramenti, e mostrarono di gradire il
nostro arrivo; ma in ispecie frate Stefano Inglese, che era lettore,
cui poscia il Ministro Generale mandò a Roma, come gli aveva promesso,
e vi fu lettore, e vi morì col suo compagno frate Iocelino, dopo che
ebbero appagato il loro desiderio di vedere la città eterna co' suoi
santuarii; e allora era Ministro di quella provincia frate Giacomo
da Iseo[139]. Nel convento di Genova, quando vi arrivai, c'era anche
frate Taddeo Romano, già canonico di S. Pietro di Roma; era vecchio,
vecchissimo, e dai frati stimato per santo. Altrettanto è da dire di
frate Marzio da Milano, che era stato Ministro, e di frate Rabuino di
Asti. Questi era stato Ministro della provincia di Terra di Lavoro e
della provincia della Marca di Treviso, ed aveva soggiornato a lungo
con frate Giovanni da Parma nel convento di Napoli. Nel Capitolo di
Lione si adoperò a far nominare Generale frate Giovanni da Parma,
sollecitandone i frati; e Iddio appagò il suo desiderio. Trovai pure
a Genova frate Bartolino custode del convento, che poi fu Ministro;
frate Pentecoste, santo uomo; e frate Matteo da Cremona, anch'egli
un santo; i quali tutti ne usarono gentilezze e carità. Il Guardiano
poi diede a me due tonache, una più fina, l'altra meno, ed altre due
parimente ne diede al mio compagno. Il Ministro, frate Nantelmo da
Milano, che era stato lettore, uomo santo e consacrato a Dio, disse
che m'avrebbe procurato qualunque piacere e grazia gli avessi mostrato
di desiderare, e delegò frate Guglielmo Piemontese suo compagno,
uomo valente in letteratura e santo, ad insegnarmi a dir messa ed a
cantare. Tutti costoro salirono già da questo mondo al Padre eterno; e
i loro nomi sono scritti nel libro della vita; chè buona e lodatissima
fu sempre la loro condotta. Non ho mai visto uomo che, più di frate
Nantelmo Ministro di Genova, si assomigliasse a frate Vitale Ministro
di Bologna, sia nella persona che nel carattere, ne' costumi, in tutto;
ed era molto nella grazia di frate Giovanni da Parma. In questo anno
1248 era a Genova un Vescovo di Corsica, che era stato monaco nero
dell'Ordine di S. Benedetto, piacentino per padre, e parmigiano per
madre, la quale era della famiglia degli Scarpa. Rè Enzo, o Federico
suo padre ex Imperatore, lo aveva fatto espellere dalla Corsica, che
è vicina alla Sardegna, in odio alla Chiesa, e dimorava a Genova,
ed era ridotto a fare l'amanuense per guadagnarsi il vitto, e ogni
dì veniva alla messa dei frati Minori, e dopo andava in iscuola ad
ascoltare la lezione di frate Stefano Inglese. E causa dell'espulsione
fu che l'Imperatore Federico aveva dato ad Enzo od Enrico, suo figlio
illegittimo, una donna Sarda in moglie, che si chiamava Donzella.
Questo Vescovo adunque mi consacrò Sacerdote nella chiesa di S.
Onorato, che ora è annessa al convento de' frati Minori di Genova,
ma allora non apparteneva ai frati; chè quantunque fosse eretta su di
un'area che era di proprietà dei frati, pure l'aveva occupata un prete
e la teneva senza che avesse parrocchiani. Quando i frati si coricavano
nelle loro celle dopo il mattutino per riposare, quel buon uomo, colle
sue campane, non li lasciava posare; ed ogni notte era di quella. Per
cui i frati del convento di Genova seccati troppo, si adoperarono
presso Papa Alessandro IV per avere quella chiesa, e la ebbero. Ma
quando Papa Alessandro canonizzò S.ª Chiara, nella celebrazione della
prima messa di detta Santa, recitatane l'orazione, gli si avvicinò
quel sacerdote e disse: Per amore della beata Chiara, Padre, vi prego
di non privarmi della chiesa di S. Onorato. E il Papa, toltegli dalla
bocca le parole, in suo dialetto cominciò a dire ripetutamente: Per
amore di S.ª Chiara voglio che la abbiano i frati; e lo ridisse tante
volte che pareva quasi un pazzarello; e quel prete, udendo quella
risposta e in tal modo data, sospirò e partissene. Nel tempo in cui
io abitai a Genova, eravi pure un Arcivescovo, basso di persona, molto
vecchio e avaro, e sul conto suo correvano anche altre sinistre voci;
si diceva cioè che non fosse in tutto cattolico. Egli un giorno convocò
nel suo palazzo il clero regolare e secolare, quasi volesse fare un
sinodo, ma lo scopo vero era quello di ascoltare, come desiderava,
un'orazione di frate Stefano Inglese dell'Ordine de' Minori, poichè
l'aveva sentito lodare altamente per celebre oratore ed illustre
chierico. Vi fui anch'io, e riferisco quanto ho udito. Primo fu egli
a predicare; dopo di lui non permise che altri parlasse tranne frate
Stefano, il cui sermone magnificò con lodi. Encomiò frate Stefano anche
per la sua scienza, bontà, onestà e santità di vita, aggiungendo che un
chierico tanto illustre aveva onorato assai la città di Genova venendo
dall'Inghilterra in Italia, e che, se egli fosse stato ancor giovane,
avrebbe volentieri, ogni volta che l'avesse potuto, assistito nella
scuola alle lezioni di lui. Poi fece i suoi elogi al Vescovo di Corsica
come religioso, e santa ed onorata persona, e come distintamente abile
a leggere, scrivere, porre in carta le note musicali, cantare, e come
rispettabile per ogni maniera di virtù; ed aggiunse che era povero,
perchè l'Imperatore lo aveva cacciato dal suo episcopio, e raccomandò
a tutti che lo aiutassero in ogni possibile maniera. Vi fu chi osservò
che l'Arcivescovo con questa raccomandazione fece vergogna a sè stesso,
perchè egli doveva soccorrere un Vescovo bisognoso tenerlo presso
di sè nella sua Corte, e n'avrebbe avuto merito, premio ed onore. Ma
Seneca dice: _L'avarizia del vecchio è simile ad un mostro._ Parimente
Marziale Coco dice:

    _Miramur iuvenes largos, vetulosque tenaces;_
    _Illis cum multum; his breve restat iter._

    È un fatto in vero sovra ogni altro strano
    Che scialacqui il garzon lunge da morte,
    E ammassi poi con appetito insano
    Chi già del cimiter bussa alle porte.

Doveva dunque il ricco Arcivescovo tenere in casa sua il povero
Vescovo, e dire con Giacobbe Genesi 22º ecc; ma la sua avarizia e
tirchieria ne lo dissuase: e dopo la mia partenza da Genova seppi poi
che l'avevano ucciso. Simile a lui per avarizia ed esosità era il
Vescovo di Ferrara. Tanto che, quando il Patriarca di Gerusalemme,
arrivato a Ferrara d'oltremare, in viaggio per recarsi alla Corte
pontificia a trattare di suoi affari, lo pregò di ospitarlo una
notte nel suo episcopio, n'ebbe un rifiuto. Ma arrivato a Corte, e,
fermatovisi alquanto tempo, vi fu eletto Papa. Questi fu Urbano IV
oriondo di Troyes; e scrisse al Vescovo di Ferrara una lettera di
questo tenore: Sappi che ora io sono Papa, e non avendomi tu voluto
accogliere come ospite, quantunque l'Apostolo dica: Il Vescovo deve
essere ospitale, dell'avarizia e tircheria tua potrei ricambiartene
a misura del merito ecc. Non si è però mai saputo che il Papa ne
lo abbia punito. Tuttavia egli rimase sotto il peso di una continua
trepidazione, che gli valse per una non piccola punizione. Il Vescovo
suaccennato era oriondo di Brescia, medico, poi Vescovo di Piacenza.
Finalmente andò a Roma, ove ne ottenne il Vescovado di Ferrara. A
Piacenza teneva in casa due frati Minori, a cui per avarizia dava
un vitto meschino. Nell'anno 1248 Papa Innocenzo IV, che risiedeva
a Lione co' suoi Cardinali, mandò frate Simone da Montesarchio,
procuratore dell'Ordine dei frati Minori, di cui ho parlato più su, in
Puglia, perchè sottraesse il regno di Puglia e di Sicilia dal dominio
di Federico Imperatore deposto; e molti di quegli abitanti volse ad
abbracciare il partito della Chiesa. Ma finì che l'Imperatore lo fece
prendere, e gli fece subire diciotto torture, sostenute tutte da quel
frate con una fiera rassegnazione, senza che i tormentatori potessero
estorcere nulla dalle sue labbra, tranne che lodi a Dio; e Iddio operò
per intercessione di lui molti miracoli, e voglia il cielo che sia
intercessore anche per noi, e così sia. Questi fu mio amico e venne
meco dal Papa alla Corte di Lione, e passando da Nizza a Genova per
mare, ci raccontammo molti fatti. Era di statura mezzana e bruno,
somigliante a S. Bonifacio, uomo sempre allegro e intraprendente, di
buona vita e sufficiente coltura letteraria. Vi fu anche un altro frate
Simone, detto della Contessa, cui Iddio rese illustre, cingendolo di
una raggiante aureola di miracoli; e frate Giovanni da Parma lo fece
Ministro della provincia di Assisi, nella vallata di Spoleto. Questo
fu mio intimo amico nel convento di Marsiglia, l'anno in cui il Re
di Francia andò la prima volta oltremare, cioè l'anno 1248, anno in
cui i fuorusciti di Reggio, partigiani della Chiesa, presero di viva
forza tutti i castelli della montagna; e i Parmigiani ricuperarono
Bibbianello[140], Cavriago[141], Guardasone[142] e Rivalta[143], e
infierì anche una estesa moria, della quale restò vittima l'Abbate
di S. Prospero di Reggio. Lo stesso anno l'Imperatore già deposto
riconquistò Vercelli; e fu ucciso Bonacorso da Palù; e furono mandati
ostaggi in Puglia Ruzinente di Reggio e Maravone e molti altri
Reggiani. Il Re Enzo, che allora occupava la città di Reggio, fece
aprire un gran cavo verso la Scalopia[144] sino al Po; e il Vescovo di
Tripoli, che era de' Roberti di Reggio, morì in Parma, e fu sepolto
nella Basilica cattedrale, che è dedicata alla Beata Vergine; e
Bernardo di Rolando dei Rossi da Parma, cognato di Papa Innocenzo IV,
fu preso e ucciso dagli imperiali, perchè, tornando da Fornovo, il
suo cavallo incespicò e cadde a terra. Che se l'Imperatore l'avesse
avuto in mano vivo......... e la guerra era grossa. L'Imperatore aveva
il suo quartiere a Cremona, e faceva spesso sue scorrerie sull'Agro
parmigiano, e si soffermava talora ne' dintorni di Parma co' suoi
tedeschi ed altri di parte sua, spiando l'occasione di vendicarsi de'
Parmigiani, che l'avevano cacciato in fuga, e distrutta Vittoria sua
città, costrutta presso Parma, in una località chiamata Grola. E in
quel tempo teneva la signoria di Modena, Reggio e Cremona, mentre que'
cittadini di queste città, che parteggiavano per la Chiesa, vagolavano
al di fuori schivando sempre le strade. Nell'anno suindicato Lodovico
Re di Francia passò il mare per battere i Saraceni d'Oriente, e prese
loro Damiata;[145]; i Bolognesi assediarono Bazano, castello de'
Modenesi, lo espugnarono e lo occuparono il giorno 6 di Luglio. Così
la Chiesa, mentre era allora Legato in Lombardia Ottaviano Cardinal
diacono, ricuperò le Romagne e riacquistò quasi tutta la Marca
d'Ancona. Nell'anno predetto, come già accennai, Lodovico Re di Francia
co' suoi tre fratelli, coll'esercito e con una innumerevole caterva di
volontarii, tutta gente del volgo, verso la Pentecoste, presa la croce,
incominciò il suo viaggio e passò il mare per debellare i Saraceni e
ricuperare Terra Santa. E a prima giunta occupò Damiata; ma poi, per le
colpe dei Francesi, restò ucciso Roberto secondogenito fratello del Re,
ma non mancò di colpa il Re stesso, perchè, inebbriato dalla fortuna
del primo fatto d'armi, ciecamente credette di avviluppare tutti i
Saraceni, e d'un colpo solo distruggerli tutti. Nella vallata di S.
Giovanni di Morienna (che si stende da Susa in Lombardia sino a Lione,
tra la città di Grenoble e il castello di Ciamberì) ad una lega di
distanza da Ciamberì vi è una pianura, che si chiama propriamente valle
di Savoia, sopra la quale alzava il capo un monte altissimo, che in
quell'anno una notte franando ingombrò, anzi otturò, la valle; e quella
frana si vede ancora lunga una lega, e larga una e mezzo, e sotto vi
restarono sepolte sette parocchie con quattromila abitanti. Quando
accadde questo disastro io era a soggiornare nel convento di Genova,
ove udii la voce che ne correva; ma l'anno dopo passai per quella
contrada, cioè per Grenoble, e me ne accertai. Dopo tempo poi, abitando
io nel convento di Ravenna, ne interrogai frate Guglielmo Ministro
Provinciale di Borgogna, che passò da Ravenna per andare ad un Capitolo
generale, e ne scrissi fedelmente e veracemente tutto quello che ne
seppi.


a. 1249

L'anno del Signore 1249, dimorando io nel convento di Genova, il
Ministro frate Nantelmo volle ch'io mi recassi dal Ministro Generale
per affari della provincia di Genova. M'imbarcai il giorno di S. Mattia
Apostolo, e in quattro giorni arrivai a Jeres al convento di frate
Ugo. Egli al vedermi fece vivissima festa, ed, essendo Vicario del
Guardiano, pranzò con me e col mio compagno come in famiglia, senza
che nessun altro vi fosse presente, tranne il frate che ne serviva;
e ne fece imbandire un pranzo di pesci di mare e d'ogni altra cosa
lautissimo. Eravamo al principio di quaresima; e il mio compagno, che
era Genovese, e i frati di quel convento fecero le meraviglie per
la famigliarità e dimestichezza usatami, sapendo che frate Ugo non
era uso pranzare in quelle ricorrenze in compagnia d'alcuno; forse
perchè era quaresima. Durante il pranzo si parlò molto di Dio, della
dottrina dell'Abbate Gioachimo, e delle cose future; e seppi, come
più sopra ho detto, che erano morti in quel convento sei frati, che,
circa al dì d'Ognissanti, io vi aveva lasciati vivi e sani. E, quando
io partii da Genova, vi era vicino alla sagristia un mandorlo fiorito;
ed in Provenza vidi le mandorle grosse col mallo verde; trovai anche
fave grosse e fresche ne' baccelli. Dopo pranzo mi avviai alla volta
del Ministro Generale, che, dopo il tempo necessario pel viaggio,
trovai in Avignone, reduce dalla Spagna, d'onde era stato richiamato
da Papa Innocenzo IV, residente allora a Lione, per affidargli una
missione presso i Greci, i quali si sperava di ricondurre, coll'aiuto
di Vattacio, in seno della Chiesa romana. Avignone è una città della
Provenza, non lunge dal Rodano, nella quale in processo di tempo morì
frate Bonagrazia Ministro Generale. Poscia andai a Lione col Ministro
Generale stesso, e quando arrivammo a Vienna, incontrammo il nunzio,
che Vattacio aveva mandato al Papa, per domandargli la missione del
Ministro Generale in Grecia. Quel nunzio era un frate de' Minori, e si
chiamava col mio nome, frate Salimbene, ed era Greco per parte di un
genitore, latino per parte dell'altro, e, per laico, parlava benissimo
il latino classico, e conosceva benissimo anche quella lingua latina
e greca che si parla volgarmente; e il Generale lo condusse seco a
Lione. Presentatosi il Generale all'udienza, il Papa lo ammise al bacio
del volto, e gli disse: Iddio ti perdoni, o figlio, il tuo indugio;
e perchè non venisti a cavallo per arrivare più presto? forse perchè
non posso farti le spese della cavalcatura, tu non la prendesti? E
frate Giovanni: Padre, veduta la vostra lettera, m'affrettai quant'era
possibile, ma i frati pe' cui conventi io passava, avevano bisogno
di consigli e m'intrattenevano. E il Papa gli disse: Frate Giovanni,
abbiamo buone notizie; pare che i Greci siano proclivi ad accordarsi
colla Chiesa Romana. Laonde vorrei che tu ti recassi tra loro con
buona compagnia di frati del tuo Ordine, e può essere che Iddio per
opera tua si degni concederne questa consolazione. Per parte mia ti
sarà concessa ogni grazia che domanderai. A cui frate Giovanni di
rimando: Padre, non mancherà chi obbedisca, quando non manchi chi
comandi. Io sono prontissimo, e non mi conturba il pensiero del grave
incarico d'eseguire i tuoi comandi. E il Papa: Sia tu benedetto,
o figlio, la tua risposta è saggia e santa. Era allora a Lione il
lettore di Costantinopoli frate Tomaso, oriondo Greco, dell'Ordine
de' Minori, che era un sant'uomo e parlava benissimo il greco ed il
latino. Il Generale lo prese per condurlo seco in Grecia, perocchè
appunto per questo scopo lo aveva mandato Vattacio. Condusse seco
anche frate Drudo, Ministro della provincia di Borgogna, nobil uomo,
bello, letterato, santo, lettore dottissimo in teologia, che ogni
giorno voleva predicare ai frati. Prese pure con sè frate Bonaventura
d'Iseo, uomo famoso e Ministro da molto tempo in diverse provincie; e
condusse in sua compagnia molti altri frati di distinta abilità, cui
ora non occorre nominare. Finita la settimana di Pasqua, si mosse da
Lione. Eravi allora a Lione anche frate Ruffino, Ministro di Bologna
in compagnia di frate Bonaventura di Forlì e di frate Bassetto.
E frate Ruffino Ministro mi disse: Io ti ho mandato in Francia a
studiare perchè tu fossi onore e splendore della mia provincia, e
tu andasti a soggiornare a Genova; sappi che me l'ho avuto per male
assai, poichè pel lustro della mia provincia mi do cura di far venire
a Bologna frati studiosi sin anche da altre provincie. Ed io risposi:
Padre, perdonatemelo, io non avrei creduto che ve ne offendeste. Ed
egli di rimando: Te lo perdono, purchè tu prometta, quì, subito, per
iscritto, di obbedire e ritornare col tuo compagno, che è a Genova,
alla provincia di Bologna, a cui eri già addetto. Così fu fatto; e
di quest'ordine di obbedienza nulla seppe il Generale finchè stette a
Lione. In quel tempo era a Lione anche frate Rainaldo di Arezzo della
provincia di Toscana, che era venuto dal Papa per farsi dispensare
dall'accettare un Vescovato che gli era stato conferito. Ed era quel
di Rieti, ove, essendo lettore al tempo in cui morì il Vescovo di
quella diocesi, i canonici per l'alta opinione che avevano di lui, lo
elessero ad unanimità per loro Vescovo. Ma Papa Innocenzo, informato
della scienza e santità di lui, non solo non volle dispensarlo, che
anzi, giusta il parere de' suoi fratelli i Cardinali, gli comandò di
sobbarcarsi a quell'ufficio. Dopo poi, ed io era ancora a Lione, gli
fece l'onore di consacrarlo egli in persona. Poscia io presi la via di
Vienne, distante da Lione 15 miglia; in seguito passai per Grenoble,
attraversai la valle del Conte di Savoia, ed ebbi notizie particolari
della frana, e della ruina di quel monte, ed entrai in una chiesa,
che aveva per titolare S. Gherardo, la quale era piena di camicie da
ragazzi. Continuando il mio viaggio arrivai ad Embrun[146], dove era
Arcivescovo un Piacentino, che ogni giorno voleva avere commensali due
frati Minori, e faceva sempre apparecchiare anche per loro alla sua
tavola, e li serviva d'ogni vivanda, che a lui si portava; e quando non
aveva a pranzo i frati Minori, quel tanto che sarebbe occorso per loro,
se vi fossero stati, lo faceva distribuire ai poveri. In quella Terra
dimoravano otto frati; e il Guardiano del convento, venutomi incontro,
mi disse: Fratello, piacciavi d'andare oggi a pranzo dall'Arcivescovo,
che se l'avrà molto caro, poichè da tempo non ha avuto frati Minori
alla sua mensa; perocchè quell'essere con lui a pranzo a' miei frati fa
troppa soggezione. A cui risposi: Padre, perdonateci e non abbiatevelo
per male, se non accettiamo, perchè dopo pranzo vogliamo senza
indugio partire; ed esso, sapendo che veniamo dalla Corte del Papa,
probabilmente ci vorrebbe intrattenere, e, cercando a noi notizie,
ritarderebbe il nostro viaggio. Il Guardiano, udita la mia risposta,
non aggiunse verbo; ed io sottovoce dissi al mio compagno: Ho pensato
che sia meglio tirar dritto per la nostra strada, giacchè abbiamo tempo
opportuno e lettere commendatizie; e così potremo portare più sollecita
risposta a chi ne ha mandati, e il Generale non ne precorrerà col suo
arrivo al convento di Genova; il che spiacerebbe al nostro Ministro
frate Antelmo. Piacquero al mio compagno quelle osservazioni, e così si
fece. Questa è la città, il cui Arcivescovo fu miracolosamente convinto
di simonia a Lione da Ildebrando Priore di Clunì, quando fungeva
da Legato, come abbiam detto di sopra. In seguito poi l'Arcivescovo
di questa Terra fu creato Cardinale della Corte romana; ed era uomo
valente nelle scienze, nel canto, in letteratura e per vita onesta e
santa. Una volta suonando un menestrello la viella in sua presenza, e
pregandolo che gli desse qualche cosa, gli rispose: Se vuoi mangiare,
per amore di Dio te ne darò volentieri; ma nulla ti darei pel tuo
canto e per lo strimpellìo della tua viella, perchè cantare e suonare
la viella, come tu fai, so anch'io. Questo Arcivescovo teneva sempre
in compagnia due frati Minori; non è però il Piacentino sunnominato.
Partimmo da questa città, attraversammo il Delfinato, ed arrivammo a
Susa, che appartiene alla provincia di Genova. Giunti ad Alessandria
di Lombardia, trovammo due frati del convento di Genova, frate Martino
cantore, e frate Ruffino d'Alessandria, ai quali il mio compagno frate
Guglielmo Biancardo, disse: Sappiate che voi perdete frate Salimbene
e il suo compagno che è a Genova, perchè frate Ruffino Ministro
di Bologna li richiama alla sua provincia. Io poi, quantunque sia
Genovese, non voglio tornare a Genova, ma voglio andare al mio convento
di Novara, d'onde mi tolse il Ministro Provinciale, quando mi mandò dal
Generale. Noi abbiamo compiuta la nostra missione con fede e con zelo,
abbiamo fatto, a nostro avviso, ogni cosa per bene, e lasciammo a Lione
frate Pietro Lanerio Guardiano di Genova, che vide colà il Generale,
e frate Buiolo, il quale alloggia in casa il Papa, ed è addetto alla
Corte; e se alcunchè non fosse stato da noi adempiuto al tutto bene,
speriamo che sarà corretto da loro. Inoltre tra breve passerà da
Genova anche il Ministro Generale, che va inviato del Papa in Grecia,
domandato dai Greci stessi. Frattanto pigliate questa lettera, e, a
nome del Generale, consegnatela a frate Nantelmo Ministro. Dette queste
cose, tirò fuori la lettera che aveva, e la diede a' miei compagni.
L'indomani si passò da Alessandria a Tortona, un viaggio di dieci
miglia, e il giorno successivo da Tortona a Genova, viaggio lungo
assai. Quando i frati mi videro, fecero le feste, perchè io ritornava
di lontano, e perchè io era apportatore di buone notizie. Il Ministro
e frate Stefano Inglese mi domandarono se il Ministro Generale aveva
visitato la Spagna. A cui risposi che no, perchè il Papa l'aveva
richiamato in seguito all'invito de' Greci; e lo manda in Grecia
perchè i Greci, come ha scritto Vattacio, desiderano di ritornare nel
grembo della Chiesa romana: e spero che presto passerà da Genova, e
lo vedrete, e il vostro cuore ne giubilerà per la consolazione che
ne proverete. Dopo pochi giorni, arrivò poi, reduce da Lione, frate
Rainaldo Vescovo, e nel giorno dell'Ascensione predicò al popolo, e
celebrò messa colla mitra nella chiesa dei frati Minori di Genova; ed
io, che era già sacerdote, servii alla messa, quantunque vi fossero già
il diacono e il suddiacono e gli altri inservienti; e fece imbandire
ai frati un buon pranzo di pesci di mare ed altre cose, e pranzò in
refettorio con noi molto famigliarmente. La notte successiva, dopo
mattutino, frate Stefano Inglese predicò ai frati ed era a udirlo
anche quel Vescovo, e tra le altre melliflue parole, che di solito
gli sgorgavano dalle labbra, a confusione del detto Vescovo, riportò
un esempio del seguente tenore: «Ben disse una volta in Inghilterra
un frate Minore, laico, ma uomo santo, che il cero pasquale quando
si accende in chiesa, rifulge e illumina; ma quando poi se gli pone
su lo spegnitoio, si smorza e manda cattivo odore: Così è di qualche
frate Minore; quando nell'Ordine del beato Francesco è acceso ed arde
d'amor di Dio, allora risplende ed è per gli altri un luminare di
buono esempio....» Io aveva osservato che il nostro Vescovo al pranzo
permetteva che i suoi frati facessero davanti a lui le genuflessioni,
quando gli servivano le pietanze; e perciò s'attagliava appuntino a
lui quanto quel frate aveva detto del cero pasquale. All'udire tale
linguaggio il Vescovo trasse dal cuore un grosso sospiro, e terminato
il sermone, genuflesso, in assenza del Ministro Provinciale, pregò
frate Bertolino custode, che era uomo di natura dolce e che era già
stato Ministro, di concedergli licenza di parlare. Ed ottenutala, si
giustificò dicendo: Per vero io nell'Ordine del beato Francesco sono
stato come un cero acceso, ardente, splendido, luminoso, e di buon
esempio ai veggenti, siccome ben sa frate Salimbene, che abitò con me
due anni nel convento di Siena, e conosce quale concetto abbiano della
mia vita passata i frati di Toscana; ed anche i frati più vecchi di
questo convento conoscono la mia condotta, per la quale, ad onore di
questo convento stesso, fui mandato a studio a Parigi. Se i frati al
pranzo vollero onorarmi con le genuflessioni, questo non è da imputare
a mia ambizione, perchè io ho loro ripetuto a sazietà di non farle, nè
io ho potuto loro imporre, nè era di mia convenienza, nè avrei osato,
di batterli colla verga. Laonde accogliete, ve ne prego, per amor di
Dio le mie scuse, e assicuratevi che in me non vi fu nè ambizione nè
vanagloria. E dette queste cose, genuflesso, a mia veduta e udita,
confessò quella qualunque che mai vi fosse stata sua colpa, se mai
egli avesse data ad alcuno involontaria occasione di cattivo esempio,
e promise di lanciar via da sè, tosto che il potesse, lo spegnitoio,
che gli avevano imposto sul capo. Dopo si raccomandò ai frati, e noi
lo conducemmo fuori, e per segno d'onore l'accompagnammo sino ad un
convento di monaci bianchi ne' pressi di Genova, ove soggiornava un
vecchio che s'era spontaneamente dimesso da Vescovo di Torino per
potere con maggiore agio in quel chiostro pensare a Dio e all'anima
sua. Questi avendo udito che Rainaldo era uomo dottissimo e che di
recente era stato eletto Vescovo, trasse un sospiro e gli disse: Mi fa
meraviglia che tu, uomo saggio, sia stato travolto a tanta follìa di
assumerti un vescovado, mentre eri addetto ad un nobilissimo Ordine,
quello cioè del beato Francesco, che è l'Ordine de' frati Minori;
Ordine di altissima perfezione, nel quale chi dura tutta la vita, senza
dubbio è salvo; Ordine, in cui certamente era meglio per te _essere
umile di spirito co' mansueti, che spartir le spoglie cogli altieri_.
Prov. 16º. A mio avviso tu hai fatto un grave errore, direi quasi
un'apostasia, perchè trovandoti in uno stato di perfezione e nella
vita contemplativa, ritornasti alla vita attiva. Anch'io fui Vescovo,
come sei tu; ma veggendo ch'io non aveva potere di correggere la
scostumatezza de' miei preti, che camminavano per le vie della vanità,
_l'anima mia preferì il laccio_[147]. Lasciai pertanto l'episcopato e i
miei preti per salvare l'anima mia; e l'ho fatto seguendo l'esempio del
beato Benedetto, che abbandonò alcuni monaci per averli riconosciuti
discoli e maligni. Avendo frate Rainaldo attentamente ascoltato
queste considerazioni, che gli piacevano e non erano nuove nella sua
coscienza, e riconoscendo che quel Vescovo aveva ragione, non fece
verbo di risposta. Perciò presi io la parola, perchè il Vescovo di
Torino non avesse la superbia di credere d'aver operato da savio, e
dissi a lui: Padre, or tu hai detto d'aver abbandonato i tuoi preti;
ma pensa un po' se tu hai fatto bene. Papa Innocenzo III tra le tante
sentenze che ha lasciate ai posteri, ne ha una per un Vescovo che
voleva essere dispensato dal ministero, libro delle Decretali 1º alla
rubrica _della rinuncia_, che comincia: _Nè pensare_. ecc. Mentre io
diceva queste cose, pendevano dalle mie labbra i due Vescovi, nè frate
Rainaldo osò prendere la parola per non parere di compiacersi della sua
dignità episcopale; ma in suo cuore andava sempre più radicandosi il
proposito di deporre l'ufficio impostogli, e affrettava col desiderio
il momento opportuno di farlo. Andò adunque alla sua diocesi: ed
arrivatovi, accorsero i canonici a fargli visita, e gli parlarono di
un loro collega giovane e lascivo, che aveva più il fare laico che
del sacerdote, e che si lasciava crescere i capelli lunghi e li tenea
sciolti sulle spalle, nè voleva farsi la tonsura. E il Vescovo lo prese
pe' capelli, e gli affibbiò uno schiaffo, e, fatti chiamare i genitori
e i parenti di lui, che erano nobili, ricchi e potenti, disse loro:
O questo vostro figlio si dia alla vita laicale, o porti abito che si
addica ad un sacerdote; io non posso punto tollerare che vesta a questo
modo. Ed i genitori risposero: A noi piace che sia prete, e voi fate
di lui quello che ve ne pare bene e dicevole. Allora il Vescovo di
sua mano stessa gli tagliò i capelli, e gli fece fare la chierica in
forma di cerchio, larga e rotonda, affinchè la tonsura presente facesse
ammenda della capellatura passata. Il chierico ne restò profondamente
mortificato, ma i canonici ne ebbero piena soddisfazione. Frate
Rainaldo però non potendo con coscienza tranquilla dissimulare quella
sbrigliatezza del clero, e riconoscendo di non poterlo ritornare alla
rettitudine ed all'onestà, si presentò a Papa Innocenzo IV, che era
venuto a Genova, e rassegnò l'ufficio, che gli era stato conferito
a Lione, protestando che non sarebbe più stato Vescovo. E il Papa,
facendo ragione al turbamento dell'animo di Rainaldo, gli promise che
ne lo dispenserebbe, quando arrivasse in Toscana, sperando che il tempo
maturasse un cambiamento di proposito; ma non avvenne. Andò dunque
frate Rainaldo e si fermò alcuni giorni a Bologna colla speranza che
il Papa vi passasse per recarsi in Toscana. Quando poi seppe che era a
Perugia, frate Rainaldo si presentò al Papa, al cospetto de' Cardinali
in concistoro, rassegnò l'ufficio e il beneficio, e depose a piedi del
Papa gli indumenti pontificali, il pastorale, la mitra e l'anello. I
Cardinali se ne maravigliarono e se ne conturbarono, parendo loro che
il frate con questa determinazione facesse sfregio alle loro dignità,
quasi che chi trovasi insignito dell'onore di alti uffici nella
prelatura non potesse salvare l'anima sua. Se ne conturbò anche il Papa
tanto perchè lo aveva egli in persona con particolare onore consacrato,
quanto perchè aveva la persuasione, come tutti la condividevano, e
così era in fatto, d'aver provveduto la Chiesa di Rieti di un Vescovo
degnissimo. Quindi i Cardinali e il Papa lo pregarono vivamente
che per amore di Dio, per riguardo alla loro dignità, per l'utilità
della Chiesa e per la salute delle anime non rinunciasse. Ma egli
rispose che insistevano invano, e invano pregavano. Allora i Cardinali
conchiusero: Che s'ha a dire se a lui ha parlato un Angelo, e se Iddio
gli ha fatta questa rivelazione? E il Papa trovandolo tanto fermo gli
disse: Sebbene tu ti sia proposto di non volere su la tua coscienza le
sollecitudini e le cure pastorali, almeno restino a te gli indumenti
pontificali, la facoltà, la dignità e l'autorità di amministrare
il sacramento dell'Ordine, affinchè i frati ritraggano da te alcun
benefizio. E risoluto rispose: Io non mi terrò nulla. Dispensato, si
recò subito al convento, e dato di piglio ad un sacchetto, o ad una
bisaccia, o sporta che fosse, pregò il frate destinato alla questua,
che quel giorno stesso lo volesse aver seco alla cerca del pane. E
mentre andava così a mendicare per la città di Perugia, s'imbattè in
un Cardinale, che ritornava dal Concistoro, (forse per disposizione
divina), affinchè vedesse, imparasse, ed udisse. E riconosciutolo,
si volse a lui dicendo: Non era meglio che tu fossi restato Vescovo,
che andar accattando di porta in porta? A cui frate Rainaldo rispose:
Il savio dice ne' proverbii ecc. Udendo il Cardinale queste parole,
e riconoscendo che era Dio che parlava per mezzo del suo santo, si
allontanò, e il giorno dopo in Concistoro riferì al Papa e ai Cardinali
le cose, che aveva imparate dal Vescovo mendicante; e tutti ne furono
meravigliati. Frate Rainaldo poi disse a frate Giovanni da Parma
Ministro Generale che lo destinasse a quel qualunque convento gli
piacesse, e lo mandò a Siena, ove era noto a molti, e vi restò dal
dì d'Ognissanti fin dopo Natale, quando morì e volò in grembo a Dio.
Mentre egli era malato della malattia di cui morì, eravi a Siena un
canonico della Chiesa maggiore, che da sei anni giaceva per paralisi
in letto, e con tutto il divoto fervore dell'animo invocava l'aiuto di
frate Rainaldo. Un giorno, sul far dell'alba, udì in sogno una voce
a dire: sappi che frate Rainaldo volò di questa vita al cielo, e pe'
meriti di lui Iddio ti risanò completamente; e tosto svegliatosi, e
sentitesi sciolte e sane le membra, chiamò il famiglio che gli portasse
gli abiti, e recandosi in camera di un suo amico e canonico collega,
gli raccontò del miracolo. E tutti e due incontanente, e in tutta
fretta, andarono dai frati per narrare il miracolo tanto manifesto, che
Dio quella notte s'era degnato operare pei meriti di frate Rainaldo. Ed
essendo usciti da una porta della città, udirono i frati, che cantando
ne trasportavano la salma alla chiesa; assistettero alle esequie, e poi
proclamarono il miracolo. E i frati giubilanti anch'eglino sclamarono:
Sia benedetto Dio. Tale fu frate Rainaldo di Arezzo, miracoloso
in vita e dopo morte, che amò piuttosto umiliarsi...... Fu uomo
coltissimo in letteratura, insigne lettore di teologia, predicatore
esimio, graditissimo al clero e al popolo, fecondissimo di pensiero,
e di parola sempre fluida e sgorgante calda dal cuore. Io abitai seco
due anni nel convento di Siena, e l'ho incontrato molte volte nel
convento di Lione e di Genova, e mi fece ordinare suddiacono quando
egli, non era ancora investito d'alcun ufficio. Non potrei aggiustar
fede a nessuno che mi dicesse che la Toscana ha dato tale uomo, se non
l'avessi visto io co' miei occhi. Egli ebbe un fratello nell'Ordine
di Valle Ambrosiana ossia Vallombrosa, che fu Abbate nelle Romagne,
nel convento di Bertinoro[148], santo, letterato, buono, amico intimo
dei frati Minori: Che l'anima sua riposi in pace. Nota qui che due
persone di Brettagna ritornavano in compagnia dalla Corte di Roma, ove
erano andati a visitare per divozione i Santuarii; e arrivati nelle
Romagne, si fermarono su di un monte ad alloggiare in alcune celle,
coll'intendimento di far vita da eremiti. Col tempo si agglomerò molta
gente ad abitare attorno a loro, e si fecero un bel castello, che
sino ad oggi si chiama Brettinoro da que' due eremiti che vi posero
stanza, e che erano nativi della Brettagna. Una volta io sapeva i
loro nomi, ma ora mi sono fuggiti dalla memoria: si hanno per santi.
L'anno del Signore 1249 era Podestà di Genova Alberto Malavolta di
Bologna, e venne al convento dei frati Minori a sentir messa. Ed io
era colà, e frate Pentecoste, che era sagrista, uomo santo, onesto e
buono, volendo suonar le campane per far onore al Podestà, questi gli
disse: Anzi tutto porgete orecchio ad una cosa che voglio annunziarvi,
ed è una buonissima notizia: Sappiate dunque che il 26 di Marzo i
Bolognesi fecero prigioniero Re Enzo e con lui un numero grandissimo
di Cremonesi, Modenesi e Tedeschi. Re Enzo, che si dice anche Enrico,
è figlio naturale, cioè non legittimo, di Federico Imperatore deposto,
ed è uomo di singolare valore e coraggio, e guerriero prode, e
sollazzevole quando gli piace, compositore di canzoni, e che in guerra
sa andare audacemente incontro ai pericoli; è bell'uomo e di statura
mezzana. Quand'egli fu fatto prigioniero aveva sotto la sua signoria
Reggio, Cremona e Modena. I Bolognesi lo tennero molti anni prigione
nelle carceri del palazzo municipale, ove morì. Non avendogli un giorno
i custodi voluto dar da mangiare, si recò da loro frate Albertino da
Verona, che era un celebre predicatore dell'Ordine de' frati Minori,
pregandoli che, per amor suo e di Dio, non lo volessero lasciar morir
di fame. Ma non piegandosi eglino punto alle preghiere di lui, propose:
Giuochiamo insieme a' dadi; se vincerò, avrò licenza di dargli da
mangiare. Giuochiamo, risposero. Giuocò dunque, vinse, e gli diede
da mangiare, standosi con quel Re in famigliare colloquio. E tutti
quelli che ne ebbero contezza lodarono il frate della sua carità,
cortesia e liberalità. In quella giornata campale, in cui il Re, e
col Re moltissimi del suo esercito furono sconfitti, vi furono anche
alcuni che, voltisi in fuga, sguizzarono dalle mani del vincitore,
alcuni che caddero sul campo, altri rimasero prigionieri, e condotti
alle carceri sotto sicura custodia vi stettero tra ceppi. Guido da
Sesso, che era il principale Reggiano di parte imperiale, morì nella
fuga, precipitando insieme col suo destriero in una fogna dell'Ospedale
de' lebbrosi di Modena. Egli era il più acerbo nemico dei partigiani
della Chiesa; tanto che essendone stati una volta dal Re fatti molti
prigionieri nel castello di Rolo[149], che è nella diocesi di Reggio,
ed essendo essi stati condannati alla forca, e desiderando confessarsi,
non volle concedere loro tanto di indugio che bastasse a confessarsi,
anzi disse: Non avete bisogno di confessarvi, voi partigiani della
Chiesa, chè siete santi, e quindi volerete subito senz'altro in
paradiso; e, pel suo diniego, fu subito eseguita la sentenza, nè
poterono confessare le loro colpe. Egli, in quel tempo in cui tra
la Chiesa e la Repubblica avvampava più grossa la guerra, veniva al
convento dei frati Minori con altri suoi scherrani, e radunando i frati
a capitolo, domandava a ciascuno d'onde fosse, e facevane notare i
nomi ad uno scrivano che conduceva seco, poi diceva: tu vanne al tuo
paese, tu farai altrettanto, nè osare di farti più vedere in questo
convento, nè per questa città. E così furono tutti espulsi, tranne
pochi lasciati custodi del convento; ai quali poi, allorchè andavano
per città mendicando pe' bisogni di loro sussistenza, si faceva ogni
sorta oltraggi, e si lanciavano loro maledizioni, imputandoli di
portare lettere false, e di essere nemici dell'Imperatore. Nè i frati
Minori, nè i Predicatori, che passavano pel territorio, osavano entrare
nelle città di Modena, di Reggio e di Cremona; e se talora alcuni,
ignari della condizione delle cose, per caso entrarono, furono subito
presi, condotti al palazzo del Comune, tenuti sotto guardia, nutriti
per alcuni giorni del pane della tribolazione e dell'angoscia, poi
obbrobriosamente cacciati, espulsi, tormentati, e taluni anche uccisi.
Difatto più d'uno è stato sottoposto alla tortura in Cremona e a Borgo
S. Donnino; a Modena presero alcuni frati Predicatori, che portavano
con sè alcuni ferri che servono a fare le ostie, e li condussero al
palazzo del Comune, e a loro disonore si fece credere al popolo,
che avevano stamponi per coniare moneta falsa. Nè la perdonavano
neppure a que' frati, i cui parenti erano in opinione d'appartenere al
partito imperiale, ed essi stessi ne erano tenaci fautori, tra' quali
fu ignominiosamente espulso frate Giacomo di Pavia, frate Giovanni
di Bibbiano[150], frate Giacomo di Brescello, e molti altri; e per
dir tutto in poco, furono licenziati dal convento di Cremona tutti
coloro che parteggiavano per la Chiesa. Ed io vi era presente, e fu
in quell'anno, in cui Parma mia città nativa si ribellò all'Impero.
In seguito fermarono e trattennero a lungo alla porta della città
di Reggio frate Ugolino da Gavassa[151], nè gli permisero d'entrare,
quantunque avesse in città più d'un fratello di parte imperiale. Che
più? Era gente diabolica; e sovra tutti pessimo in malizia Giuliano da
Sesso, maestro in leggi, vecchio, e inveterato nel male; e, nominato
da Re Enzo giudice supremo di Cremona, Reggio e Modena, fece impiccare
alcuni da Foliano, e molti altri ne condannò a morte, come partigiani
della Chiesa, e se ne gloriava, e diceva: Guardate come li conciamo noi
questi ladroni. Questo Giuliano era veramente un membro del diavolo;
e perciò Dio lo colpì di paralisi, e ne diventò da una parte rigido
inaridito; gli uscì dell'occhiaia un occhio, che, sporgendo fuori,
pareva una saetta, e faceva ribrezzo a guardarlo; diventò eziandio
tanto fetido, che ognuno si guardava bene dall'avvicinarsegli, tranne
una giovinetta tedesca, la cui bellezza era tanto ammaliante, che
bisognava ben essere molto severi per non guardarla con compiacenza.
Questo Giuliano era figlio di uno spurio di quei da Sesso, onde un
poeta scrisse:

    _Spurius ille puer nullum suadebit honestum_

    Di spurio seme, reo rampollo è questo,
    Nè mai ti saprà dar consiglio onesto.

Egli s'era lasciato sfuggir dalle labbra una o più volte in pubblica
adunanza che era meglio essere ridotti a mangiar della calce, che
vivere in pace coi partigiani della Chiesa. Ma intanto egli si mangiava
i buoni capponi, ed i poveri morivano d'inedia. Ma a questo mondo non
dura a lungo la fortuna de' malvagi: Mutò vento, e chi parteggiava per
la chiesa cominciò ad averlo in poppa. Ed anche per quel miserabile
venne il giorno della fuga, anzi fu portato via di soppiatto dalla
città di Reggio, e tutto fetore, scomunicato e maledetto, senza
confessarsi, senza comunicarsi, e senza fare la penitenza sacramentale
de' suoi peccati, e fu sepolto in un fossato della villa di
Campagnola[152]. Nello stesso anno 1249, i Parmigiani coi fuorusciti
Reggiani bruciarono il ponte di S. Stefano di Reggio, e il borgo
d'Ognissanti, e il ponte e il borgo di Porta Bernone; il 10 di Giugno,
il Crostolo gonfiò e atterrò i ponti e inondò sino alla Modolena[153].
Lo stesso anno in Agosto, Simone di Giovanni di Bonifacio de' Manfredi
occupò Novi, Rolo e S. Stefano[154] Terre o Ville della diocesi di
Reggio. Egli era del partito della Chiesa, nobiluomo, bello, forte,
amico mio, e, in tempo di grossa guerra, valoroso guerriero; e gli si
erano aggruppati attorno molti, che cacciati dalle loro case, avevano
il veleno nel cuore e seguivano lui come capo; e si era divulgata
molto la fama del suo nome per le memorabili sue gesta d'incendi, di
invasioni, di devastazioni, di stragi, come consigliava la barbarie
della guerra di que' tempi. Così pure nel settembre di quell'anno,
tra nona e vespro, si sentì un orribile terremoto; e i Bolognesi e i
fuorusciti Modenesi e Romagnoli assediarono Modena, ne incendiarono
i subborghi, e nel settembre stesso la manganellarono; ed Ezzelino da
Romano prese Este[155], castello del Marchese d'Este, ed altre Terre
dello stesso Marchese, per vendicarsi dell'aiuto che il Marchese Azzone
prestava ai Parmigiani, che fabbricavano il Castello di Brescello.
I Modenesi poi, nell'anno stesso, fecero alleanza co' Bolognesi,
e si crearono due Podestà, uno per parte, e riscattarono que' loro
prigionieri, che si tenevano stretti nei ceppi. In quell'anno, dopo la
festa di Sant'Antonio di Padova, o meglio di Spagna, che è dell'Ordine
da' frati Minori, partii col mio compagno dal convento di Genova, ed
arrivammo a Bobbio, ove vedemmo una di quelle idrie, nelle quali era
stata l'acqua che il Signore trasmutò in vino per le nozze di Cana
Galilea. Almeno si dice che sia una di quelle; se realmente la sia,
sallo Iddio, che vede tutto chiaro ed aperto. Dentro di essa sono
collocate molte reliquie, e sta su un altare del monastero di Bobbio,
dove sono anche, e le vedemmo, molte reliquie di S. Colombano. Dopo,
ci avviammo alla volta di Parma, d'onde eravamo nativi, e sbrigammo le
nostre faccende. Poco dopo la nostra partenza da Genova, arrivò colà
frate Giovanni da Parma Ministro Generale, a cui i frati del convento
di Genova dissero: Perchè, Padre, ci privaste di que' vostri frati,
che avevate mandati quì? Noi eravamo lietissimi di averli quì con noi
per amor vostro, per la loro bontà, per la consolazione che ne davano,
e per la loro condotta esemplare. Allora il Generale rispose: E dove
sono? Che? non sono forse più in questo convento? E i frati: Padre,
no, non vi sono più: Frate Ruffino, Ministro Provinciale di Bologna,
li richiamò alla sua provincia. E il Generale soggiunse: Iddio sa,
se io aveva alcuna notizia di questo ordine di obbedienza; anzi io
teneva sì per fermo di trovarli in questo convento, ch'io cominciava
a far le meraviglie, perchè non mi si erano presentati. In seguito ci
trovò a Parma, e con volto gioviale ne disse: Correte pur tanto per
di quà e di là, o miei giovanotti; ora in Francia, ora in Borgogna,
altra volta in Provenza, poi nel convento di Genova, oggi a Parma con
inclinazione a soffermarvici. Oh! se potessi io posare, come voi lo
potreste, non vorrei essere sempre in su' viaggi. E gli risposi: A voi,
Padre, toccano i disagi del viaggiare per ragioni di ministero; a noi
tocca viaggiare per virtù di obbedienza: chè, ve l'assicuro, viaggiammo
sempre per ragione di pura e vera obbedienza. Udito ciò, rimase
soddisfatto, specialmente per effetto dell'amore che aveva per noi.
Quando poi fummo a Bologna, un giorno in camera disse a frate Ruffino
Ministro Provinciale: Io aveva mandato questi frati nel convento di
Genova a studiare, e tu ne li hai tolti di là. E frate Ruffino rispose:
Padre, questo l'ho fatto per far piacere a loro. Io li aveva mandati
in Francia, quando l'Imperatore stava a campo intorno a Parma. Perciò
richiamandoli, io credeva di far cosa loro gradita. Ed io aggiunsi al
Ministro Generale: La cosa sta come il Ministro Ruffino l'ha esposta.
E il Generale ripigliò: Cura dunque ora di collocarli ove sia che
s'accontentino, e si dedichino a studio, e non vaghino tanto di quà
e di là. Di buon grado, o Padre, rispose frate Ruffino, mi adoprerò
a contentarli e per l'amore che nutro in cuore per voi e per l'amore
che mi lega a loro; e ritenne il mio compagno a Bologna, perchè gli
correggesse la sua Bibbia, e mandò me a Ferrara, ove dimorai sette anni
continui senza mutar mai di convento.


a. 1250

L'anno del Signore 1250 fu fatto prigioniero dai Saraceni Lodovico
Re di Francia, e la più parte dell'esercito Francese, che l'aveva
seguito oltre mare, fu passato a fil di spada. Anche prima però molti
ne avevano mietuto la pestilenza e l'inedia, che furono effetto del
cambiamento di clima, e della caristia e penuria di vettovaglia. Infine
poi, restituita Damiata ai Saraceni, il Re fu restituito a libertà, e
ritornando in regione di fedeli, edificò Balbek e molte altre Terre,
cingendole di muraglia, costruendovi case, ed innalzandovi torri. Ma
mentre l'esercito era diviso in quattro corpi, mandati in diverse parti
all'opera delle preaccennate costruzioni, i Saraceni in uno di quei
luoghi piombarono sopra gli operai inermi, e li massacrarono tutti. La
qual cosa risaputa, il Re, che si trovava altrove, accorse in fretta,
fece scavare una fossa, e, non ritenutone dalla fatica, nè distoltone
dal fetore, li seppellì colle proprie mani. E tutte le milizie ne
rimasero meravigliate, ond'è che a pieno gli si attaglia quello che è
detto di Booz nel 2º libro di Ruth: _Sia benedetto dal Signore ecc_.
Questo stesso anno in Giugno i Bolognesi, i Modenesi, i fuorusciti di
Reggio, i Parmigiani, i Romagnoli, i Toscani e i Ferraresi portarono
in S. Vito devastazione e saccheggio al territorio Reggiano dalla
strada di sopra sino alle fosse della città, e vendettero il bottino
ai Parmigiani: ed i Reggiani corsero sopra Novi, e ne posero a fuoco e
fiamma i sobborghi e il circondario: devastarono ogni dove, e fecero
preda d'uomini e giumenti, e s'impadronirono di Campagnola facendo
duecento prigionieri. Poscia, un giovedì, dopo la festa della Beata
Vergine, ai 18 d'Agosto, i fuorusciti Parmigiani di parte imperiale,
che erano di stanza a Borgo S. Donnino, i Modenesi e il Marchese Uberto
Pallavicini, Capitano e condottiero loro, piombarono sopra Parma; ma
i Parmigiani uscendo contro loro di città col carroccio, s'azzuffarono
in un luogo detto Grola, ove una volta sorgeva la città di Vittoria, e
vi ingaggiarono un accanito combattimento, ma sulla strada soltanto,
perchè a cagione de' fossati non potevano stendersi nei campi, e
presero parte alla pugna i soli militi dell'una e dell'altra parte,
e questi non tutti, atteso che la strada non lasciava spazio a larga
fronte. E il Marchese Monte Lupo, che era dotto dell'armi ed un leone
in guerra, fece mordere la polve sulla strada a molti Parmigiani
fuorusciti e Cremonesi; ma finalmente cadde egli stesso a terra ucciso.
Questi ed altri suoi fratelli, da parte di sorella, furono nipoti di
Bernardo di Rolando Rossi, cognato di Papa Innocenzo IV. Erano gran
Baroni, ed abitavano a Parma in Cò di Ponte. Primo de' fratelli era
Ugo; secondo, Guido; terzo, Rolando; quarto, Monte, di cui è parola;
quinto, Goffredo. Quest'ultimo fu nell'Ordine de' Templari, illustre,
potente, ed era tenuto in gran considerazione anche perchè era
Marchese. Io li ho veduti e conosciuti tutti, e si chiamavano Marchesi
Lupi di Soragna, Villa ove avevano le loro possessioni, cinque miglia
al di sotto di Borgo S. Donnino. Ma i fuorusciti Parmigiani, che
parteggiavano per l'Impero, vedendo che i loro si avevano la peggio e
andavan cedendo terreno, girarono di fianco, e minacciarono d'assalto
la città; correndo e sclamando: Alla città, alla città. Ma i popolani,
che erano usciti di Parma alla battaglia, udendo questo, lasciarono
il carroccio e i loro, che si battevano sulla strada come leoni, di
corsa s'incamminarono verso la città, ma nell'entrare si ruppe il ponte
della fossa, e molti vi si affogarono. E questa fu una vera provvidenza
divina, che impedì in quel modo ai nemici di entrare in città, poichè
la beata Vergine, che in Parma ha culto vivo e fervente, non volle
abbandonare i suoi. Tuttavia e per pena de' peccati loro, e per la
natura de' tempi che correvano, i Parmigiani che erano dentro la città,
l'ebbero per un disastro. Di fatto i loro nemici s'impadronirono del
carroccio, che era stato abbandonato sulla strada, e restarono sul
terreno tremila popolani, e molti militi. Podestà dei Parmigiani di
dentro la città era allora Catellano de' Carbonisi di Bologna, che
non restò prigioniero perchè seppe guardarsi bene. I prigionieri li
incatenarono nella ghiaia del Taro, come disse a me Glaratto, uno degli
incatenati; e disse anche che parevano tanti da far credere che tutti i
Parmigiani fossero prigioni. Li condussero a Cremona, e, per vendicarsi
e indurli a pagare il prezzo del riscatto, nelle carceri li posero ai
ceppi, fecero loro molti oltraggi, li sospendevano per le mani e pei
piedi, in terribile ed orribile maniera schiantavano loro i denti,
ponevano rospi in bocca, e fuvvi anche chi si dilettò d'inventare
tormenti di nuovo genere. I Cremonesi incrudelirono atrocemente contro
i prigionieri Parmigiani; ma i Parmigiani di parte imperiale fecero
ancora di peggio contro i loro concittadini di parte della Chiesa,
chè ad alcuni tolsero anche la vita. Ma col tempo arrivò il giorno
delle vendette e del ricambio, e i Parmigiani che erano di parte
della Chiesa se le presero terribili tanto sui Cremonesi, quanto sui
Parmigiani che stanziavano a Borgo S. Donnino, e sul Pallavicino.....
Perciò pare sia stato detto apposta da Geremia II ecc. Il che si fece
manifesto nel Re Enzo, quando dai Bolognesi fu fatto prigioniero in
una coi Cremonesi e co' suoi Tedeschi; ed a ragione perchè unitamente
ai Pisani aveva catturato nelle acque di Pisa i Prelati della Chiesa,
che si recavano al Concilio ai tempi di Papa Gregorio III. (.......
Parimente gli ecclesiastici serbano nelle chiese e negli oratorii
l'ostia consacrata per tre motivi....... E alcuni sagristi, quando
i frati comunicano nella messa vogliono sempre rinnovare l'ostia
consacrata nella pisside e nel tabernacolo, in cui si serba; e credono
di far bene, ma s'ingannano a partito per quattro ragioni. Primo,
perchè ne viene allungata la messa, e i frati s'impazientano, e i
secolari ne ricevono scandalo. Secondo, questa cosa potrebbe farla
egli stesso il sagrista, se è sacerdote, con due ceroferarii in una
messa privata, senza che sia presente tutto il convento. Terzo, perchè
talvolta l'ostia che adopera è della stessa infornata che quella
che fa consumare, che è quanto dire non fece ostie fresche; e tanto
meglio si deve conservare un'ostia consacrata che una non consacrata,
serbandosi quella chiusa e non esposta all'atmosfera, e per arrota
contiene Dio, che è il conservatore di tutte le cose. E di ciò se
ne ha prova. Nella città di Reggio si atterrò una chiesa, sul cui
altare, invece di reliquie, era stata collocata un'ostia consacrata, e
quell'ostia la trovarono bianca e bella, come se ve l'avessero messa
il giorno innanzi, quantunque una memoria scritta diceva che vi era
stata trecent'_anni_(?). Questo l'ho saputo da frate Pellegrino da
Bologna, che era presente e vide. A me non piace che il Corpo del
Signore stia per reliquia chiuso nel tabernacolo di un altare, come
non mi è mai piaciuto l'uso del beato Benedetto di porre il Corpo del
Signore sulla salma di un defunto e seppellirlo con quella sotterra.
Il Sagrista dirà forse che talvolta si consacrano più ostie di quelle
che si consumano, perciò le restanti bisogna riporle nel tabernacolo
ove si serba il Corpo del Signore. Ma a questo si può provvedere in due
modi, o mandando, al momento che si canta l'epistola della messa in cui
si communicano i frati, in giro l'accolito pel coro a contare quelli
che vogliono fare la comunione, ed ordinando al suddiacono di porre
sulla patena solamente quante ostie bisognano; o disponendo che gli
accoliti, che tengono le tovagliole, siano gli ultimi a comunicarsi,
e il celebrante dia a loro da consumare tutte le ostie consacrate che
restano. Fanno dunque benissimo i sagristi a far le ostie col più
puro fior di farina... Il moggio parmigiano è di otto sestarii; il
Ferrarese di venti, perchè hanno maggior abbondanza di frumento). Ora
è tempo di ritornare a Federico e parlare della sua morte. Federico
II ex Imperatore, quantunque grande, ricco, e potente, pure ebbe
molte disgrazie; 1.º Enrico suo figlio primogenito, che a lui doveva
succedere, fece adesione ai Lombardi contro il volere di lui; e perciò
lo prese, lo incatenò, l'imprigionò e finì col morire malamente; 2.º
volle soppiantare la Chiesa, e ridurre il Papa, i Cardinali e gli altri
Prelati ad essere poveri e andare a piedi; e questo non intendeva già
di farlo per zelo verso Dio, ma perchè non era buon cattolico, e poi
perchè era molto avaro e agognava cupidamente le richezze e i tesori
della Chiesa per sè e suoi figli, e voleva deprimere il potere degli
ecclesiastici, acciocchè nulla tentassero contro di lui; e lo diceva
apertamente con alcuni suoi segretarii, da' quali s'è poi saputo; ma
Dio non permise che mandasse a compimento questi propositi contro i
suoi ministri. 3.º Volle soggiogare i Lombardi, ma gli fallì l'impresa;
chè quando aveva su loro vantaggio per un verso, altrettanto ne perdeva
per altro verso. I Lombardi non si pigliano agevolmente; sono molto
obbliqui e sguizzevoli, e dicono una cosa e ne fanno un'altra, sicchè
è come voler stringere colla mano un'anguilla o una murena; quanto più
forte stringi, tanto più facilmente sguiscia. 4.º Il Papa Innocenzo IV
lo depose in pieno Concilio a Lione, e pubblicò tutte le malizie e le
iniquità di lui. 5.º In suo vivente, vide l'Impero dato ad altri, cioè
al Langravio della Turingia, cui poi la morte tolse presto di mezzo.
Tuttavia provò Federico gran dolore a vedere l'Impero dato ad altre
mani, e ne bevve tutta la tazza dell'amarezza; anzi fu detto e creduto
che lo avesse fatto uccidere, ed avrebbe fatto opera meritoria, perchè
il Langravio era uomo impastato di malignità. 6.º Parma gli si ribellò,
e parteggiò completamente per la Chiesa; il che fu cagione della totale
di lui ruina. 7.º I Parmigiani posero a sacco e fuoco la sua città
Vittoria, ch'egli aveva fatta fabbricare presso Parma, e la rasero al
suolo e ne otturarono le fosse, sicchè non ne restò vestigio di sorta,
e lui e il suo esercito costrinsero a vergognosa fuga, e molti de' suoi
uccisero, e molti ne trassero in Parma prigionieri, e lo spogliarono
di tutto il tesoro...... La quale (corona di Federico) fu trovata da un
Parmigiano. Io l'ho visto quell'uomo, e l'ho conosciuto; ho visto anche
ed avuta in mano la corona ed era di gran peso e di gran valsente, e i
Parmigiani gliela pagarono duecento lire imperiali, e gli diedero per
giunta un caseggiato presso la chiesa di Sª. Cristina, ove in antico
era la guazzatoia e l'abbeveratoio de' cavalli; e quell'uomo, per
essere piccino, si chiamava Cortopasso. 8.º Gli si ribellarono i Baroni
ed i Principi; come fece Tebaldo Francesco che si chiuse in Capaccio, e
poi finì malamente, perchè fattigli cavare gli occhi, e in molte guise
martoriare, gli fece togliere anche la vita; così Pietro delle Vigne e
molti altri che sarebbe lungo nominare. Il più amato di tutti fu Pier
delle Vigne, cui innalzò dal nulla; mentre prima era un pover uomo,
l'Imperatore lo fece suo segretario e lo nominò, a maggior onore, suo
_logoteta_. Questa parola è composta di _logos_ e di _theta_ che vuol
dir posizione, ed è maschile e femminile, e significa colui che tiene
discorso in pubblico, o colui che pubblica un editto dell'Imperatore,
o di altro Principe. 9.º La cattura di Re Enzo suo figlio fatta da'
Bolognesi, la quale fu giusta e meritata da Federico II, che aveva
catturati in mare i Prelati che andavano al Concilio indetto da
Gregorio IX. Quindi la spada del dolore per la prigionia di suo figlio
non potè non toccarlo, specialmente per essere stata operata da tali
nemici, e in tale condizione di tempi, che gli troncavano ogni filo di
speranza d'una vittoria a riscossa. 10º La conquista della Signoria dei
Lombardi, ch'egli non aveva mai potuto afferrare, fatta di leggieri
dal Marchese Uberto Pallavicini, quantunque fosse suo partigiano, e
per di più fosse anche vecchio, gracile, debole e guercio, per avergli,
quand'era ancor bambino in culla, un gallo beccato un occhio, cioè col
becco lo cavò dal capo del bambino, e se lo ingollò. (A queste dieci
disgrazie di Federico ex-imperatore possiamo aggiungerne altre due,
e così fare le dodici: 1.º la scomunica lanciatagli da Papa Gregorio
IX; 2.º il tentativo, da parte della Chiesa, di spogliarlo del regno
di Sicilia. E questo non accadeva senza sua colpa. Poichè avendolo la
Chiesa mandato oltremare al riscatto di Terra Santa, egli si rappaciò
coi Saraceni senza alcun vantaggio dei cristiani, e, per fellonia, fece
_onorare con canti_ il nome di Maometto nel tempio del Signore, come
narrammo in altra cronaca, nella quale passammo a rassegna le dodici
scelleratezze di Federico). Il Pallavicini ebbe in Lombardia dominio su
le città seguenti: Brescia, Cremona, Piacenza, Tortona, Alessandria,
Pavia, Milano, Como e Lodi. A tanto non arrivò mai l'Imperatore.
Oltracciò Vercelli, Novara e Bergamo gli davano soldati, quando per
qualche impresa voleva formare un esercito. Parimente i Parmigiani
gli davano fanteria e cavalleria, più però per timore, che per amore,
tenendo eglino per la Chiesa, ed esso per l'Impero; e si riscattarono
poi da quell'onere pagandogli duemila lire imperiali all'anno. Ogni
cosa ha suo tempo; e i Parmigiani, regolandosi prudentemente a norma
di questa sentenza, quando soffiò il vento propizio, fecero pesare su
lui le proprie vendette, e gli smantellarono il palazzo, che aveva in
Parma sulla piazza di S. Alessandro[156], e quel di Soragna, che pareva
un castello, e, ancor vivente, gli confiscarono le Terre e le Ville
che possedeva nella diocesi di Parma; d'onde ricuperarono il balzello
che gli avevano pagato. Il Pallavicino era cittadino Parmense, uomo di
animo grande, che spendeva largamente, e perciò era ridotto ad essere
così al verde che se poteva avere, quando cavalcava, due scudieri,
che lo accompagnassero su due cavalli magrissimi, come l'ho veduto io,
se ne contentava, e se lo teneva per un gran che. Ma quando poi ebbe
in sua mano la Signoria delle sunnominate città, e la tenne ventidue
anni, spendeva ogni dì alla sua Corte venticinque lire imperiali senza
il pane e il vino. Agognò di dominare su tutti, e su tutto. Prima
signoreggiò in Cremona, e ridusse al niente quella famiglia dei Sommo,
che gli aveva posto in mano il dominio di Cremona, ed erano del suo
partito e suoi consanguinei. Ma que' Cremonesi che teneano le parti
della Chiesa, come avevano fatto i Parmigiani, gliene diedero pieno
ricambio, spogliandolo e distruggendo quel di lui fortissimo castello
di Busseto, che aveva fatto murare in mezzo alle acque de' paduli, in
un bosco, sul confine dei territorii di Parma, Piacenza e Cremona. E
credevalo sì forte da non potere essere distrutto da tutto il mondo
congiurato. Parimente lo spogliarono i Piacentini, come avevano fatto i
Parmigiani e i Cremonesi, e devastarono le sue Terre. Egli bandì molta
gente da Cremona, molta ne martoriò, e molta ne uccise. Repudiò sua
moglie, donna Berta, figlia del Conte Rainerio di Pisa, perciocchè di
essa non poteva aver prole; e ne sposò un'altra datagli da Ezzelino di
Romano, da cui gli nacquero due figli e tre leggiadrissime figlie, che
stettero lungo tempo senza maritarsi. La memoria di tali avversità gli
addensò tanta nebbia di malinconia attorno all'animo, che cominciò a
malare gravemente di quella malattia, che lo trasse poi al sepolcro,
e fece quello che si legge di Antioco I, Macabei VI ecc. Federico
poi ex-Imperatore chiuse i suoi giorni l'anno 1250 in Puglia, in una
piccola città chiamata Torre Fiorentina[157], distante dieci miglia
da Lucera dei Saraceni; nè il cadavere, per l'ammorbante fetore che
mandava, potè trasportarsi a Palermo, dove sono le tombe, in cui si
seppelliscono i Reali di Sicilia. Molte però furono le cagioni, per
cui non ebbe sepoltura nelle tombe dei Re di Sicilia: 1º Il doversi
verificare la divina scrittura, nella quale Isaia 14. ecc. 2º Il
fetore ammorbante che tramandava il suo cadavere; il che è detto di
Antioco nel 2º Macabei 9º ecc. e si verificò appuntino in Federico; 3º
Lo studio del Principe Manfredi di lui figlio ad occultarne la morte
per occupare il regno di Sicilia e della Puglia prima che il fratello
Corrado arrivasse dalla Germania. D'onde avvenne che molti non lo
credettero morto, sebbene realmente lo fosse. Quindi si verificò quel
vaticinio della Sibilla, che dice: _Correrà voce tra le genti: vive e
non vive_, e premette che la morte di lui sarà tenuta occulta. E morì
il giorno di Sª. Cecilia Vergine, l'anno 1250, giorno anniversario
della sua incoronazione, avvenuta l'anno 1220. Alcuni dissero che morì
il giorno di Sª. Lucia; che se mai fosse stato vero, sarebbe stato
ancora un avvenimento misterioso; stantechè S. Lucia disse un giorno
in presenza di tutto il popolo di Siracusa: «Annunzio a voi che la
pace è data alla Chiesa di Dio: Diocleziano è stato detronizzato,
Massimiano è morto oggi» Similmente, quando morì Federico, molti mali
scomparvero dal mondo, giusta la parola scritta ne' Proverbii 22º
ecc. E nota che quelle cose che sono dette nel capitolo 14º di Isaia
intorno alla distruzione di Babilonia, e intorno a Lucifero, possono
essere appuntino applicate a Federico... E più sotto aggiunge altre
cose che sembrano dette appositamente per Federico e pe' suoi figli.
E Dio fece opera di altissima provvidenza spegnendo la stirpe de'
figli di Federico, che furono una generazione malvagia e crudele, una
generazione, che non tenne al retto il suo cuore; e il suo spirito non
si crede che sia salito a Dio. E qui si noti che Federico quasi sempre
si compiacque d'essere in rotta colla Chiesa, e in mille guise osteggiò
colei che l'aveva allevato, difeso ed esaltato. Non aveva alcuna fede
in Dio; fu uomo astuto, fino, avaro, lussurioso, collerico, maliziato.
Talora assunse anche le apparenze del gentiluomo, quando gli piacque
far mostra di bontà e di cortesia. Sapeva leggere, scrivere, cantare,
e comporre canzoni e canzonette; bell'uomo, ben proporzionato, ma
di statura mezzana. Io l'ho veduto, e vi fu anche un momento in cui
gli volli bene, quando cioè scrisse a frate Elia Ministro Generale
dell'Ordine de' Minori che in grazia sua mi restituisse a mio padre.
Parlava anche varie lingue e non poche, e, per farla breve, se fosse
stato buon cattolico e amante di Dio e della Chiesa, avrebbe avuto
pochi pari a lui nel Regno e nel mondo. Ma siccome è scritto che un
sol po' di fermento basta per corrompere tutta una gran massa, egli
ecclissò ogni sua virtù col perseguitare la Chiesa; e non l'avrebbe
perseguitata se avesse amato Dio, e voluto provvedere alla salute
dell'anima propria. Quale realmente fosse l'ex Imperatore Federico,
egli se lo saprà, e se peccando contro Dio ebbe a perdere molti
beni presenti e futuri, ne incolpi se stesso. Per questo fu deposto
dall'Impero e finì malamente. «Con lui sarà finito anche l'Impero, e
se pure avrà successori, non avranno nè autorità nè grado d'Imperatori
romani». Questa è predizione, dicono, di una Sibilla; ma io non
l'ho mai letta ne' libri della Sibilla Eritrea, nè in quelli della
Tiburtina; libri di altre non vidi mai, e le Sibille furono dieci. Che
questo vaticinio si avverasse, appare chiaramente sia per la parte che
riguarda l'Impero, sia per la parte che si riferisce alla Chiesa. Per
quello che riguarda l'Impero successe Corrado, figlio, da legittimo
matrimonio, di Federico con una figlia del Re Giovanni.

Questo Corrado non ebbe mai l'Impero, nè gli volsero mai prospere le
sorti. A lui successe Manfredi, suo fratello, ma figlio di un'altra
donna di Federico, che era nipote del Marchese Lanza, sposata da
Federico quando egli era sul punto di morte. Questi non ebbe mai
l'Impero, ma solo il titolo di Principe da quelli che erano amici di
suo padre; e tenne molti anni la Signoria in Calabria, in Sicilia e in
Puglia dopo la morte del padre e del fratello. A lui tentò succedere
Corradino, figlio di Corrado, figlio di Federico ex-Imperatore, ma
tanto Manfredi che Corradino furono tratti a morte da Carlo, fratello
del Re di Francia. Per parte della Chiesa poi, i successori nell'Impero
per volontà del Papa, dei Cardinali, dei Prelati e degli Elettori,
furono il Langravio di Turingia, Guglielmo d'Olanda, e Rodolfo di
Germania. Ma a nessuno di loro arrisero mai tanto propizie le sorti
da raggiungere, più che il titolo, la piena potestà imperiale. Quindi
il surriportato vaticinio pare che siasi adempiuto. Ora è da dire
qualche cosa delle strambezze di Federico. E la prima fu che fece
tagliare il pollice ad uno scrivano, perchè aveva scritto il nome di
lui altramente dal come egli volevalo; perocchè s'era fitto in capo
che nella prima sillaba del suo nome mettesse un _i, Friderico_,
e lo scrivano aveva messo un _e, Frederico_. Altra stranezza si fu
quella di voler esperimentare che linguaggio, o che modo di esprimere
i proprii pensieri, avessero i bambini cresciuti senza udir persona
parlare. Perciò diede ordine ad alcune balie e nutrici che dessero ai
loro bambini da suggere il latte delle mammelle, che li lavassero e
li pulissero, ma non li carezzassero, nè parlassero a loro udita. Con
questo mezzo credeva di poter riuscire a conoscere se que' bambini
parlerebbero la lingua ebraica, la greca o la latina, o quella de'
loro genitori. Ma era opera vana, perchè que' bambini morivano tutti,
nè potrebbero vivere senza le voci, i gesti, il sorriso, le carezze
delle balie e nutrici loro; ond'è che hanno nome di fascino delle
nutrici quelle cantilene che la donna canta cullando il suo bimbo per
addormentarlo; senza di che il fanciullo non potrebbe nè quietare,
nè dormire. Terza stranezza fu quella che quando vide oltremare quel
paese che era la Terra Promessa, tante volte da Dio magnificata col
chiamarla terra stillante di latte e miele e la più ubertosa di tutte
le terre, a lui per contrario non piacque, e disse che il Dio de'
Giudei non dovea aver mai veduto il paese d'ond'egli veniva, cioè
Terra di Lavoro, Calabria, Sicilia e Puglia, perchè altrimenti non
avrebbe più celebrata tanto quella terra che aveva promessa, e che
diede agli Ebrei, de' quali poi si dice anche che poco apprezzarono
la terra del loro desiderio. Perciò dice l'Ecclesiaste 5.º _Non
esser precipitoso nel tuo parlare, e il tuo cuore non s'affretti di
proferire alcuna parola nel cospetto di Dio_. Quarta stramberia fu di
mandare più volte sino al fondo dello Stretto di Messina, benchè fosse
renitente, un certo Nicola, d'onde poi sempre ritornò incolume. Ma
volendosi a pieno assicurare, se realmente avesse toccato il fondo, e
sin di là avesse potuto ritornare, gettò una sua coppa d'oro là dove
credeva che l'acqua fosse più alta; ed esso mandato giù la pescò e la
riportò all'Imperatore, che ne restò molto meravigliato. Finalmente
volendolo mandare un'altra volta, Nicola gli rispose: Non obbligatemi
a discendere ora laggiù, perchè il mare al fondo è tanto tempestoso
ch'io non potrei salvarmi. Nulla ostante lo costrinse a calarsi giù,
ma non si rivide: poichè in quel fondo di mare, vi sono scogli, e
quando infuria la tempesta, vi nuotano grossi pesci, e, come il Nicola
riferiva, vi si trovano navi naufragate. Costui poteva ripetere a
Federico ciò che si legge in Giona 2.º _Mi gettasti nel profondo_
ecc. Questo Nicola era un Siciliano, ed un giorno offese gravemente
ed irritò sua madre, la quale gli imprecò che abiterebbe sempre nelle
acque e di rado riapparirebbe a terra; e così gli accadde. Si noti
che lo Stretto di Messina in Sicilia è un braccio di mare presso
Messina, ove talora la corrente è così impetuosa e vorticosa, che
aggira, ingoia e sommerge le navi; e in quello Stretto vi sono anche
Scilla e Cariddi, e grossi scogli; onde frequenti disastri. Sul lido,
che vi si stende di fronte, sta la città di Reggio, di cui parla il
beato Luca, quando narra che dalla Giudea andava a Roma coll'Apostolo
Paolo, negli Atti degli Apostoli 28.º _Quindi costeggiando_ (cioè da
Siracusa, che è la città di S.ª Lucia) _giungemmo a Reggio._ Tutto
ciò, che ora ho contato, l'ho udito cento volte dai frati di Messina,
che erano de' miei migliori amici. Io poi aveva nell'Ordine de'
frati Minori anche un mio fratello consanguineo, frate Giacomino da
Cassio[158], Parmigiano, che dimorava a Messina, e queste stesse cose
mi riferiva. Molte altre furono le stranezze, le manìe, le maledizioni,
le atrocità, le perversità e le soperchierie di Federico, di cui alcune
notai in altra cronaca, come sarebbe quella di chiudere un uomo vivo
entro una botte finchè vi morisse, volendo con ciò dimostrare che
anche l'anima era mortale.... Perocchè era epicureo, e tutto ciò che
poteva trovare nella divina Scrittura o per sue ricerche, o per mezzo
de' suoi sapienti, che servisse a dimostrare che dopo morte non vi è
altra vita, tutto raccoglieva.... Il che prova che Federico e i suoi
sapienti non avevano fede, e credevano che al di là della presente
non esistesse altra vita, per non avere ritegno a secondare più
sfrenatamente le loro passioni e la loro libidine. Perciò abbracciarono
l'epicureismo, che ripone la pienezza della felicità dell'uomo nella
sola voluttà carnale, per contrapposizione allo stoicismo, che la
fa derivare dalla sola dolcezza della virtù.... La sesta pazzia, o
ribalderia di Federico fu quella di dar bene da mangiare in un pranzo a
due uomini, poi mandarne l'uno a dormire, l'altro a caccia, e la sera
far loro aprire sotto a' suoi occhi il ventricolo per conoscere quale
dei due avesse fatto miglior digestione; e da' medici fu giudicato
aver meglio digerito colui che aveva dormito. La settima stranezza fu
la seguente, che raccontai già in altra cronaca. Trovandosi egli un
giorno in palazzo, interrogò Michele Scoto suo astrologo, quanto era
egli distante dal cielo, e gliene rispose quel che ne pensava. Dopo
la risposta, col pretesto di fare un viaggio, lo condusse in altre
parti del Regno, e ve lo intrattenne per più mesi, e comandò a' suoi
architetti e falegnami che nel frattempo abbassassero la sala del
palazzo stesso in modo che nessuno potesse addarsene; e così fu fatto.
Ritornato di nuovo l'Imperatore dopo il viaggio al medesimo palazzo,
e dimoratovi alcuni giorni col prenominato astrologo, un dì condusse
bellamente il discorso a domandargli se erano allora tanto distanti
dal cielo, quanto aveva detto altra volta. E Michele Scoto, fattasi
sua ragione, rispose che o il cielo doveva essersi alzato, o la terra
abbassata. D'onde l'Imperatore dedusse che esso era un vero astrologo.
Molte altre consimili stranezze ho udito contare di lui, e so, cui io
non ridico per brevità, per premura di passar ad altro, e poi perchè
mi secca parlare di tante scioccherie. Federico usava anche talora
scherzare in casa co' suoi domestici, e pigliando l'aria canzonatoria,
contraffaceva, discorrendo e gesticolando, quegli ambasciatori
Cremonesi che di volta in volta erano inviati a lui da' loro
concittadini; i quali ambasciatori solevano sempre prendere le mosse
del discorso dal lodarsi reciprocamente, e dal dire l'un dell'altro a
vicenda: Questi è nobile; Questi è un sapiente; Quegli è straricco;
Quell'altro è potente; e, dopo le scambievoli lodi e presentazioni,
cominciavano a trattare degli affari loro. Parimente tollerava le
beffe, i lazzi, e le risposte pungenti de' giocolieri, e li ascoltava
senza punirli, o dissimulava di averli uditi. E questa è una lezione
contro altri, che si pigliano subita vendetta dei motti che toccano le
loro persone. Ond'è che egli trovandosi una volta a Cremona, dopo che
i Parmigiani ebbero rasa al suolo la sua città di Vittoria, e battendo
colla mano sulla gobba di un giocoliere, di quelli che si chiamano
cavalieri di Corte, e intanto dicendogli: O mio Dallio, quand'è che
si aprirà questo cofanetto? Egli rispose: Non si potrà aprire così
facile, perchè ho smarrita la chiave fuggendo da Vittoria. L'Imperatore
sentendosi rinfacciare l'onta patita, e rinnovarne il dolore, trasse
un sospiro e disse: _Sono stato turbato, ma non ho fiatato_; e non si
prese alcuna vendetta. Questo Dallio era Ferrarese, mio conoscente ed
amico; prese moglie una Parmigiana, e, subito dopo la distruzione di
Vittoria, venne a dimorare a Parma. Sua moglie era sorella di frate
Egidio Budello dell'Ordine de' Minori. Se la detta risposta l'avesse
fatta ad Ezzelino da Romano, era sicuro d'averne cavati gli occhi, e
d'esserne impiccato. Altra volta, quand'era all'assedio di Berceto,
lo beffò e lo prese in canzone Villano Ferri, e non se ne offese.
L'Imperatore gli domandò che nome avessero i mangani e i trabucchi che
erano là; e Villano Ferri con certe parole canzonatorie rispose che si
chiamavano _sbegni e sbegnoini_. Al che l'Imperatore sorrise soltanto,
e si allontanò. Qui pare luogo opportuno, di dire come l'Imperatore
Federico sia nato, cioè di quali genitori. Dirò dunque che suo padre
si chiama Enrico VI, sua madre Regina Costanza, che era Siciliana,
figlia di Guglielmo Re di Sicilia; ma, per conoscere meglio l'origine
di Federico, ti fa d'uopo guardare più sopra. L'anno del Signore 1075
fu fatto Papa Gregorio VII; si chiamava Ildebrando monaco, e tenne il
Pontificato 13 anni, un mese e quattro giorni. Fu fatto prigioniero la
notte di Natale presso S.ª Maria Maggiore. Dopo di che, il ventun di
Maggio, venne a Roma Re Enrico; e nell'anno medesimo dell'apostolato
d'Ildebrando, entrò pure in Roma, il ventotto di Maggio, Roberto
Guiscardo Re de' Normanni. E mentre soggiornava in Roma, arrivò
Enrico III Imperatore con Guiberto Arcivescovo di Ravenna per deporre
Gregorio, e far Papa Guiberto; ma il popolo romano, per pretesto di
riguardi ai Papa, non voleva aprire le porte all'Imperatore, che era
un maledetto, e, finchè visse, osteggiò la Chiesa. Ma l'Imperatore
arietando aprì una breccia nella muraglia di cinta della città, e

    Depopulans urbem, Papam statuit ibi turpem.
    In cathedra locat hunc, falso Clemens vocitatur:
    Hic est Guibertus fallax, vastator apertus
    Ecclesiae Christi, merito quem signat abyssi
    Bestia, quam vidit dilectus in Apocalypsi.
    Regis et illa falanx Romam totam maculabat.
    Pervigil et rector Gregorius ex grege fesso,
    Pollutae cathedrae multum quoque condolet aeque,
    Sperans in Petrum, rogitat pugnare Robertum
    Normannum quemdam, qui Regem depulit extra
    Urbem, qui voluti per stratam damula fugit
    Francigenam, montes ultra rediens malus hospes:
    Papa suus Clemens, romanis praemia praebens
    Raptor, terrenam Petri rapit ipse cathedram.
    Quamquam se monstret, quod sit quasi pastor in urbe:
    Ipsi nulla tamen pars in coeli manet arce.
    Hic heresis limes mundum seduxit inique,
    Iussa Dei sprevit, Sanctorum verba neglexit,
    Praevaricat leges, divinas destruit aedes.
    Persequitur dignum dominum, Papamque magistrum,
    Qui, monitis sacris plenus, manet in Lateranis.
    Illic consistens spermologus optimus iste
    Actibus et verbis exprobrat schisma Guiberti,
    Perpetuo damnans anathemate schismata tanta.
    Nascitur hinc cunctis ingens tribulatio iustis.
    Mucronem Regis pia pars quam maxime sentit.
    Sedibus expulsi sunt Pontifices quoque multi,
    Flagris afflicti, vinclis in carcere stricti.
    Rex et Guibertus faciunt juvenescere tempus
    Neronis prisci, qui praecepit crucifigi
    Petrum, cervicem Pauli gladio ferit idem,
    Et propriae ventrem proscindere matris ab ense
    Fecit, ut inspiceret requievit ubi malus ipse.
    Sic propriae matris palmas, calcaribus actis,
    Transfodit, missus Sathanae, Guibertus iniquus:
    Nullum quippe virum timuit nisi Nero magistrum.
    Venis incisis in aqua, vitam tulit ipsi.
    Hi duo praescripti, fidei fere nomen obliti,
    Perdere nituntur doctorem denique summum.
    Symon eis doctor Magus extat et hyspidus auctor.
    Ignorant forsan quod, dum fortuna reportat
    Iniustos seorsum, ruituros esse deorsum
    Quandoque plus ipsos, ideo patitur Deus illos.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Pugna fuit, donec potuit saevire Guibertus,
    Perfidiae dux, ecclesiae vastator apertus etc.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Hic per viginti tres annos denique Christi
    Ecclesiam nisu toto turbarat iniquus.
    Dum potuit multos animos seducere stultos,
    Destitit infelix nunquam. Nec corpora laedit
    Illius magnus mundus iam despicit actus.
    Ecclesiae cunctae Petre iam praebe promoconde,
    Iste senex ut hebes homines sinat esse fideles.
    Post annos binos Urbanus erat quod ab isto
    Saeclo portatus, coelique choro sociatus;
    Iste dolore gravi tactus, Guibertus inanis
    Mortuus est, secum portans anathema per aevum;
    Propterea coeli populus, pariterque fideles
    Exultentque boni, periit quia perdicionis
    Filius. Ut surgat similis non det Deus unquam. Amen.

    L'Imperador dell'Alemagna algente,
     Il fuoco, il sacco in Roma e un Papa addusse,
      Che si chiamò, ma non fu mai, Clemente.
      Guiberto ei fu, che bestemmiando strusse
      La Chiesa dell'Agnel d'amore ardente.
      Guiberto ei fu, che a dimostrar qual fusse,
      Pinse una belva di lontan prevista
      Il rapito di Patmo Evangelista.

    Furto, rapina, e strupo, e sangue e vampa
      Del Re Tedesco in Roma eran diletto.
      Del barbaro corsier la ferrea zampa
      Il Santo atterra; ma, da Pier sorretto,
      Il Normanno leon contro s'accampa;
      E del sacro Pastor con dolce affetto,
      Del santo gregge, che s'affanna e geme,
      A più lieto destino alza la speme.

    Urta, rompe, disperde il Re, che vile,
      Come cerbiatto ch'ha il mastin sull'orme,
      L'alpi ricerca e torna al suo covile.
      Ma l'intruso pastor il gregge a torme,
      Lupo, diserta e sbranca il sacro ovile
      Con mille di terror e mille forme.
      Quale pastore in Roma abbia ei pur sede!
      Chè non l'avrò su 'n ciel, se non ha fede.

    D'eretico venen coll'alma infetta
      Ei guasta il mondo ed ogni cor corrompe;
      E la santa parola in cor negletta,
      Iddio bestemmia ed ogni legge rompe;
      E contra 'l ciel la tracotanza eretta,
      Contro la Chiesa e contro il Papa irrompe,
      Che maestro del ver splende qual sole
      Di Laterano entro l'augusta mole.

    Ove, raggiante del divino spiro,
      Del ver, del buon spande e feconda il seme.
      E Guiberto scismatico deliro,
      Con argomento che l'incalza e preme,
      Giudica e danna e si l'avvolge in giro,
      Che fulminato orrendamente freme.
      Orge, ricade, sbuffa tosco e bile
      E lutto e pianto invade il sacro ovile.

    Del Re sente nel cor fitta la spada
      Il popolo fedel, che Cristo adora;
      E lunga schiera di Pastor la strada
      Calca del bando e del dolore ognora;
      Oppure avvien che tra catene cada;
      Ed ai tormenti invan pietade implora.
      Ch'oggi Guiberto e il Re, Nerone fanno
      Parere a noi poco crudel tiranno.

    Neron, che a Pietro fa salir la croce,
      Neron, che a Paulo fa balzar la testa,
      Neron, che mostro dispietato, atroce,
      Ogni moto del cor crudo calpesta,
      E di natura ogni ragione e voce;
      E la viltade all'empietà contesta,
      Nel seno di sua madre un ferro intride,
      Che per orrore si ritorce e stride.

    Più che Neron, fello Guiberto ed empio
      Alla nutrice sua Chiesa di Dio
      Trafisse il sen con esecrando esempio,
      E se l'antico, di cui niun più rio,
      Del suo maestro fece scherno e scempio;
      Il Nerone novel, che lo seguio,
      Al Vicario di Cristo, al suo maestro
      Ministra il duolo, il fele ed il capestro.

    Guiberto e Arrigo infin, scossa ogni fede,
      Scosso l'ossequio al successor di Piero,
      Colui che il Cristo a prezzo compra e cede,
      Seguono dottore in lor sentiero.
      Nè san che se fortuna ad alta sede
      Porta il reo talor, con gioco fiero
      Lo balza poi dall'alto a precipizio.
      Questo matura in ciel giusto giudizio.

    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      Arse la pugna, s'incrudì, s'espanse;
      E allor dell'ire s'ammorzò l'ardore
      Che la spada del ciel, toccando, franse
      Di tanto scisma il perfido dottore, ecc
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

    Ventitrè volte il sol vide, e rivolse
      Da tanto orrore l'atterrito ciglio.
      Nè quel lupo cessò fin che nol tolse
      Seco la morte al doloroso esiglio.
      Ah! quanti ne sedusse e ne travolse
      Al regno del dolor, od in periglio!
      Ma la vendetta non è lenta; e copre
      L'infamia omai di lui l'audacia e l'opre.

    O Divo, o tu, che delle eteree sedi
      Volgi le chiavi alla virtù che sale,
      Ed alla Chiesa universal provvedi,
      Soffia su la caligine mortale,
      Che 'l mondo ingombra, e 'l rasserena. Or vedi
      Che vacilla la fè, l'error prevale;
      Or che d'Urbano, dopo due soli anni,
      L'alma spiegò sino alle stelle i vanni.

    Or che del cielo la saetta ardente
      Toccò Guiberto con eterno danno,
      Del paradiso la beata gente,
      E chi del mondo dura ancor l'affanno,
      E la lotta sostien forte e fidente,
      Tra plausi e grazie a Dio, gridando vanno:
      Il gran vermo di Satana perio!
      Da un altro egual difenda il mondo Iddio.

Della morte dell'Imperatore Enrico III.

    Dictus iamdudum Rex quo sit fine solutus,
    Scilicet Henricus, volo mundi discat amicus.
    Cum scierit, noscat faciendum quid sibi constat.
    Rex supra fatus, vivens erat illaqueatus
    Actibus in pravis. Semel at se dissimulavit
    Converti; pleno quod fecit corde veneno.
    Schismaticos semper coluit, tenuitque libenter;
    Hic exordescens minor eius filius enses
    Elevat adversus genitorem. Tollere regnum
    Quaerit ei, duram secum committere pugnam,
    Non piguit campi, quem bellando superavit.
    Mesticia multa per totum tempus abundans,
    Undique confossus, quassatus et undique tortus;
    Mortem non sperans; demum tamen ipsa catena
    Mortis eum strinxit, rapuit de corpore tristi.
    Augusti quarto defungit id in anno
    Christi milleno, centeno, denique seno
    Ad templum Spirae dormit, quod struxerat idem.

    Come pur morto sia lo terzo Enrico
      Che 'l mondo sappia io vo', del mondo amico.

    Lo sappia, e faccia quel che far gli giova.
      In vita sua diè luminosa prova

    D'intelletto e di cor pien di malizia
      Tanta da degradarne ogni nequizia.

    Di rinsavir finse talora il Sire
      Ma solo per unir perfidia all'ire.

    Chi lo scisma seguìa tenne in onore,
      E lo cinse di gloria e di splendore:

    Di che 'l figlio minor inorridito
      Levò le spade contro il padre, ardito.

    Aspra la pugna fu, lungo lo sdegno;
      Il figlio al padre agogna torre il regno.

    Non cura il sol, la neve, la tempesta,
      Dura sui campi e vittorioso ei resta.

    E l'ugna del dolor il padre artiglia,
      E a fronte, a' fianchi, a tergo ognor lo piglia;

    Sì che per fino di morir dispera.
      Ma 'n fin precipitò nell'onda nera,

    Nel mille centosei, allor ch'il giorno
      Quattro d'Agosto a noi fa suo ritorno.

    Un tempio eccelso aveva eretto a Spira:
      Or vi riposa in fino al dì dell'ira.

Papa Gregorio VII era amico della Contessa Matilde, e da Roma recavasi
al castello di Canossa, e, per utilità della Chiesa, soggiornava talora
con essa tre mesi, e avrebbe potuto fermarsi anche più a lungo, se gli
fosse piaciuto. Egli era sant'uomo, ella santissima donna e divota
a Dio, ed aiutava la Chiesa Romana co' denari e coll'armi, facendo
guerra contro l'Imperatore Enrico III suo cugino, che aveva creato
Ghiberto, Arcivescovo di Ravenna, Antipapa col nome di Clemente, invece
di chiamarlo empio e demente. I quali due, durante tutta la vita loro,
osteggiarono la Chiesa, distolsero molte anime dalle vie del Signore,
e le trassero con loro a casa del diavolo. E ciascuno di loro morì
nella vergogna e nell'amarezza dell'anima propria Ghiberto tornò a
Ravenna e riprese la podestà e il titolo che vi aveva prima. Riguardo
poi a quel maledetto Imperatore Enrico III, trovi in Isaia XIV ecc. Il
che si è avverato nell'Antipapa Ghiberto, detto Clemente, non che in
Enrico III. E la Chiesa, col tempo, per grazia di Dio, ebbe piena pace.
Dunque Roberto Guiscardo per aver dato aiuto a Gregorio VII nel momento
più stringente, cacciando l'Imperatore da Roma, si ebbe in feudo, per
ricambio del beneficio fatto, la Sicilia e la Puglia, spettanti alla
Chiesa romana; purchè se le conquistasse contro i Greci e i Saraceni,
che le occupavano. Egli dunque andò prima, a modo di esploratore, per
vedere gli abitanti di quelle terre; e, ritornato, raccolse l'esercito,
chiamò a sè i due fratelli che aveva, e i suoi consiglieri, e disse
loro: La sapienza dice ne' proverbi 11.º ecc. Poi aggiunse: Tutte
queste virtù deve possedere franche nell'animo colui, che vuol mettersi
alla testa di un esercito e far guerra ad un nemico; virtù, di cui, per
grazia di Dio, faranno mostra i nostri soldati. La Puglia e la Sicilia
sono state cedute a noi dal Papa, e là vidi uomini che hanno i piedi
di legno e parlano in gola. _Or su sagliamo contro a quella gente:
perciocchè noi abbiam veduto il paese, ed egli è grandemente ubertoso.
E voi ve ne state a bada? Non siate pigri a mettervi in cammino per
andare a prendere possessione di quel paese. Quando voi giungerete là
(conciossiachè Iddio ve l'abbia dato nelle mani) verrete ad un popolo,
che se ne sta sicuro, e 'l paese è largo, è un luogo nel quale non
v'è mancanza di cosa alcuna che sia sulla terra_. Giudici 18.º Nota
che Roberto chiamava piedi di legno le pianelle o zoccoli che usavano
que' Pugliesi e Siciliani, e che li giudicava gente cachetica, color
di merda e di niun valore. Disse poi che parlavano in gola, perchè
quando volevan domandare: Che cosa volete? dicevano: _Ke bulì_? Li
giudicò adunque uomini da nulla, imbelli, accasciati e senza perizia
alcuna dell'arte della guerra; Giuditta 5.º........ Perchè erano tre
fratelli, Roberto, Guiscardo, Ambrogio, che era monaco; a cui gli
altri due dissero: Tu combatterai colle tue armi, cioè ne aiuterai
colle tue preghiere; noi impugneremo il brando, e se Dio vorrà, li
soggiogheremo subito. E così fu. L'Imperatore de' Greci, sapendo
questo, e temendo che Roberto volesse correre sino a Costantinopoli,
a ridurre al nulla la Grecia, fece sotto i propii occhi in alcuni
luoghi avvelenare le acque, e ne morì Roberto; sopravvisse Guiscardo
di lui fratello, d'onde ebbe origine la dinastia dei Re Normanni in
Sicilia. Da Guiscardo discese Guglielmo Re di Sicilia; e da questo,
Guglielmo II, che ebbe parecchi figli ed una figlia di nome Costanza.
Egli alla sua morte, non so per qual ragione, comandò a' suoi figli di
non maritare la sorella Costanza; i quali, per ossequio agli ordini
del padre, la tennero secoloro sino all'anno trentesimo dell'età di
lei. Ma essa era donna di indole focosa e indomabile, disturbava e
rodeva le cognate e tutta la famiglia. Perciò considerando che la
Sapienza dice benissimo ne' Proverbii 25.º ecc. si deliberarono di
darle un marito, e mandarla lontano da loro[159]. E la diedero moglie
a Re Enrico, che fu l'Imperatore Enrico VI, figlio del primo grande
Federico, la quale a Iesi, nella Marca d'Ancona, gli partorì un figlio,
Federico II, del quale più sopra s'è detto ch'era figlio di un beccaio,
e che la Regina Costanza, dopo una finta gravidanza, se l'era messo
sotto, dando a credere d'esserne madre. Perciò Merlino aveva detto
che il secondo Federico _nascerebbe inaspettato e per miracolo_,
sia perchè la madre era già avanzata negli anni, e certamente perchè
quel figlio era di parto suppositizio, e raccattato con frode. Quindi
l'Imperatore Enrico, sotto colore dei diritti della moglie, invase la
Sicilia e la Puglia, e occupò tutto il regno unito di quelle provincie.
Ritornato poi in Alemagna, e udito che i regnicoli, cioè i Pugliesi e
i Siciliani, lo avevano tradito, corse di nuovo al regno, ne asportò
i tesori, ne distrusse i maggiorenti. Laonde conturbata e infiammata
la Regina Costanza contro il marito, cominciò co' suoi a prendere
le difese del regno; onde tra loro nacque rottura e guerra, sicchè
i saggi ed i letterati dicevano: Questi non sono marito e moglie che
abbiano un'anima sola, secondo l'insegnamento dell'Ecclesiastico 25.º
Ed i giocolieri poi dicevano: Se ora alcuno desse scacco a Re, la
Regina non si moverebbe a coprirlo. L'Imperatore Enrico finalmente
rioccupò il regno, fece strage de' maggiorenti, e secondo l'uso degli
Imperatori Tedeschi, osteggiò la Chiesa. Dopo di che passò di questa
vita, e rimase Federico, ancora pupillo, sotto la tutela della Chiesa,
che lo allevò ed esaltò, sperandolo migliore del padre. Ma qual padre,
tal figlio; anzi fu di gran lunga peggiore. Le cose dette da Merlino
riguardanti a Federico II sono: «Federico I ne' peli un agnello, ne'
velli un leone; sarà saccheggiatore di città; nell'esecuzione di questo
proposito terminerà in corvo e in cornacchia: vivrà in _H_, e cadrà nel
Porto di Milazzo. Federico II poi, di nascita insperata e miracolosa,
tra le capre agnello da dilaniare, non sarà assorbito da loro; gonfierà
il letto di lui, e frutterà nelle vicinanze dei Mori, e respirerà
in loro; poi sarà involto nel suo sangue, ma non ne sarà intinto a
lungo; tuttavia porrà radici in quello; sarà esaltato nel terzo nido,
che divorerà i precedenti: sarà leone che rugge tra i suoi; confiderà
assai nella sua prudenza; disperderà i figli di Ceylan; disgregherà
Roma e la snerverà; terrà lo spirito in Gerosolima; in trentadue anni
cadrà; vivrà nella sua prospera ventura settantadue anni, e due volte
quinquagenario sarà trattato blandamente; volgerà torvo l'occhio
a Roma; vedrà le sue viscere fuori di sè. Nel suo tempo il mare
rosseggierà di sangue santo, ed i comuni avversarii arriveranno sino
a Partenope; dipoi raccolto da lui un aiuto nelle parti d'Aquilone,
vendicherà il sangue sparso. E guai a quelli che non potranno avere
ricorso ai vasi; e dopo che sarà nel decimo ottavo anno, contando a
partire dal suo crisma, tornerà la Monarchia negli occhi degli invidi;
e nella sua morte saranno in lui resi vani gli sforzi di coloro che
lo avranno maledetto. E qui finisce. Nota che Enrico VI Imperatore
fu amico dell'Abbate Gioachimo dell'Ordine di Flora, il quale,
richiestone, scrisse una lettura sopra Isaia intorno ai doveri, e per
comando di lui, una lettura sopra Geremia, volendo intendere i misteri
di Daniele nascosti sotto la figura della statua, dell'albero, della
scure, della pietra, e della successione futura. Scrisse anche per sè,
l'anno del Signore 1198, un' — Esposizione dei libri della Sibilla e
di Merlino — Conclusione finale di Geremia profeta —. Ecco, Cesare, la
verga del furore di Dio» Geremia è abbastanza aperto, ma nell'adombrare
le afflizioni del secolo è dapertutto involuto: Dio voglia che anche tu
non sia tanto sprovvisto del timore di Dio quando stia per calare la
scure evangelica sulla radice dell'albero Imperiale» — Presagi futuri
sulla Lombardia, Toscana, Romagna, ed altre contrade, dichiarati da
maestro Michele Scoto:

    Regis vexilla timens, fugiet velamine Brixa,
    Et suos non poterit filios propriosque tueri.
    Brixia stans fortis, secundi certamine Regis.
    Post Mediolani sternentur moenia griphi.
    Mediolanum territum cruore fervido necis,
    Resuscitabit, viso cruore mortis.
    In numeris errantes erunt atque sylvestres.
    Deinde Vercellus venient, Novaria, Laudum.
    Affuerint dies, quod aegra Papia erit.
    Vastata curabitur, moesta dolore fiendo
    Munera quae meruit diu parata vicinis.
    Pavida mandatis parebit Placentia Regis.
    Oppressa resiliet, passa damnosa strage.
    Cum fuerit unita, in firmitate manebit.
    Placentia patebit grave pondus sanguine mixtum
    Parma parens viret, totisque frondibus uret.
    Serpens in obliquo, tumida exitque draconi.
    Parma Regi parens, tumida percutiet illum
    Vipera draconem. Florumque virescet amoenum.
    Tu ipsa, Cremona, patieris flammae dolorem.
    In fine praedito, conscia tanti mali,
    Et Regis partes insimul mala verba tenebunt.
    Paduae magnatum plorabunt filii necem
    Duram ed horrendam, datam catuloque Veronae.
    Marchia succumbet, gravi servitute coacta.
    Ob viam Antenoris, quamque secuti erunt,
    Languida resurget, catulo moriente, Verona.
    Mantua, vae tibi tanto dolore plena.
    Cur ne vacillas, nam tui pars ruet?
    Ferraria fallax, fides falsa nil tibi prodest
    Subire te cunctis, cum tua facta ruent
    Peregre missura, quos tua mala parant
    Faventia iniet tecum, videns tentoria, pacem.
    Corruet in pestem, ducto velamine pacis.
    Bononia renuens ipsam, vastabitur agmine circa,
    Sed dabit immensum, purgato agmine, censum.
    Mutina fremescet, sibi certando sub lima,
    Quae, dico, tepescet, tandem traetur ad ima.
    Pergami deorsum excelsa moenia cadent.
    Rursum et amoris ascendet stimulus arcem.
    Trivisii duae partes afferent non signa salutis.
    Gaudia fugantes, vexilla praebendo ruinae.
    Roma diu titubans, longis terroribus acta,
    Corruet, et mundi desinet esse caput.
    Fata monent, stellaeque docent, aviumque volatus
    Quod Fridericus malleus orbis erit.
    Vivet draco magnus cum immenso turbine mundi.
    Fata silent, stellaeque tacent, aviumque volatus
    Quod Petri navis desinet esse caput.
    Reviviscet mater: malleabit caput draconis.
    Non diu stolida florebit Florentia florum;
    Corruet in feudum, dissimulando vivet.
    Venecia aperiet venas, percutiet undique Regem.
    Infra millenos, ducenos, sexque decenos
    Erunt sedata immensa turbina mundi
    Morietur gripho, aufugient undique pennae.

    Brescia, che teme la reale insegna,
      Fugge col velo al capo e si rassegna,

    Nè i figli suoi, nè i suoi fautor difende;
      Che, la tema, vilissima la rende.

    Brescia sta salda colla lancia in resta
      Contro del Re che a battagliar s'appresta.

    Del Grifo di Milan cadran le mura.
      Atterrita Milan per la paura

    Di fieri colpi e di fumante sangue
      Trema, s'accascia, china 'l capo e langue.

    Ma paura maggior gli batte l'anca
      Ei si ribella e il reagir l'affranca.

    Poscia arriva Vercelli, e vien Novara,
      Lodi s'aggiunge, e 'l tempo si prepara.

    Pioverà su Pavia dolore, affanno.
      Risorgerà sulla tristezza e il danno.

    Questo ricambio di perfidia usata
      Ai vicini l'attende, e già la guata.

    Piacenza al Rege inchinerassi ancella.
      Ma scosso il giogo, s'ergerà novella.

    Libera vivrà se fia concorde
      Ma, sangue e schiavitù berrà, discorde.

    Parma, devota, al ciel s'erge superba,
      Ma, per foco struttor, fronda non serba.

    Barcamenando va contro il Dragone;
      Ma vipera divien, e a morte il pone.

    Non ignara del mal, che si previde,
      La fiamma anche su te, Cremona, stride.

    La parte imperïal, che in te risiede,
      Le lingue arrota, si dilania e fiede.

    De' magnati di Padova la prole,
      Commovendo la terra, il mare, il sole,

    De' padri piangerà l'orrenda morte,
      Che di Verona il Can lor serba in sorte.

    Sulla Marca cadrà vasta ruina;
      Sui Marchigiani schiavitù, rapina.

    Lungo la via d'Antenore l'antico
      E di lor che 'l seguir qual duce amico,

    Languida sorgerà nuova Verona,
      Defunto il Can, che di martir la sprona.

    Mantova ahi! colma di dolori e guai!.
      Cadran tanti de' tuoi, tu non cadrai?

    Oh! Ferrara, che sei d'inganni un nido,
      A te non giova il destreggiare infido.

    Di tutti il giogo avrai sulla cervice,
      Se pure erranti al piano, alla pendice,

    Quelli che 'l mal oprar faratti avversi
      In tua ruina, vuoi mandar dispersi.

    Viste Faenza armi, cavalli e tende,
      A pace ed amistà la mano stende;

    Ma cinto al capo della pace il velo,
      Su lei seminerà la peste il cielo.

    Bologna altera, che la pace sprezza,
      Di guerra avrà la morbida carezza

    E posato di Marte il fiero ballo,
      Gran censo spillerà, se pure avrallo.

    Modena freme, si corrode e lima
      S'alza, ricade, e in ritentar s'adima.

    Di Bergamo cadrà l'alta muraglia:
      Amor la sprona, e ridarà battaglia.

    Da furor di discordia in due diviso,
      Sogni di morte par che dia Treviso.

    Roma, che ninna per terror mortale,
      Del mondo più non fia la capitale.

    Le stelle, il fato e degli uccelli il volo
      Parlan concordi ed un accento solo.

    Chè Federigo con fatal rovello
      Sarà del mondo orribile martello.

    Il Dragone vivrà, da capo a fondo
      Orribilmente turbinando il mondo.

    Le stelle, il fato e degli uccelli il volo,
      Muti, non fanno un verbo, un segno solo;

    Chè naufraga di Pier la navicella
      Del mondo non sarà più l'alma stella.

    Risorgerà la Madre in sua ragione
      Il capo a martellar del reo Dragone.

    Ebbra Firenze, non a lungo, e folle
      Rifiorirà sul piano a piè del colle.

    Ma d'un Signor, ch'in feudo se la stringe,
      Il ceppo soffre, e non soffrir s'infinge.

    Venezia tingerà di sangue il mare,
      E fiere avranne il Re percosse amare.

    Entro ai mille dugento sessant'anni
      Guerra non più, non turbini, non danni.

    Chè, tocco il Grifo da mortal bipenne.
      Gioco del vento ne saran le penne.

Sino a che punto si siano verificati i suesposti presagi, molti hanno
potuto vederlo; ed anch'io l'ho veduto e n'ho udito ragionare, ed
entro la mia mente ci ho studiato sopra molto a fondo, e so che si
sono avverati, ad eccezione di pochi; p. e. che Federico, in generale,
non fu il martello del mondo quantunque molto di male abbia fatto.
Nè la nave di Pietro naufragò, se per avventura non vogliasi alludere
alla lunga vacanza della sede pontificia avvenuta, per discordia tra i
Cardinali. Ma che poi entro il 1260 tutti i turbini che sconvolgevano
il mondo avrebbero sedate le loro ire, non s'è verificato punto, come
pare, da qualunque parte si guardi; perocchè tuttora infuriano guerre,
discordie e maledizioni sotto ogni plaga di cielo. Tuttavia nel 1260
cominciò la divozione dei flagellanti, e gli uomini si rappaciavano
reciprocamente, e smorzavano le ire, e si faceva molto di bene, come
ho visto io co' miei occhi. Or resta da dire chi fossero coloro che
ebbero signoria in Lombardia ed in Romagna. In Piemonte il Marchese
di Monferrato; a Vercelli, Pietro Becherio; a Milano, Napoleone
Dalla Torre e Tassone suo figlio; in Alessandria, Lanzavecchia; a
Piacenza, Uberto d'Iniquità; a Parma, per il partito della Chiesa,
Bernardo di Rolando Rossi, cognato di Papa Innocenzo VI, (ebbe per
moglie una sorella del detto Papa, ed era un bellissimo Principe);
per il partito imperiale, Bertolo Tavernieri. In seguito poi dominò
in Parma Ghiberto da Gente molti anni, ed era cittadino Parmense, che
ebbe anche Reggio sotto la sua signoria. In Reggio, per il partito
della Chiesa, Ugo De' Roberti; per gli imperiali, Guido da Sesso e Re
Enzo figlio di Federico; in Modena, Giacomino Rangone e Manfredo da
Sassuolo, ossia da Rosa, suo nipote, per la parte della Chiesa; per la
parte dell'Impero, i Pio, Lanfranco e Gherardino; in Cremona, Uberto
Marchese Pallavicino, e Boso di Dovaria signoreggiarono lungamente,
e diedero il bando a molti cittadini, e ridussero al nulla molte
famiglie; e tennero sempre viva una grossa guerra, e danneggiarono
molto gli altri, ma alla lor volta ne ricevettero anch'eglino a usura
il ricambio; a Mantova, Pinamonte, cittadino mantovano, che dominò
lungamente e duramente; a Ferrara, Salinguerra; dopo il quale, Azzone
Marchese d'Este; e dopo questo, Obizzo figlio di Rainaldo, che era
figlio del predetto Azzone, morto in una prigione della Puglia,
ostaggio dell'Imperatore. Quest'Obizzo poi era figlio di una ignota
napoletana e di Rainaldo figlio del prenominato Azzone, e fu portato
ancor fanciullo dalla Puglia, ed io ne sono testimonio oculare, e fu
uomo magnanimo ma non buono, e commise non poche iniquità. Espulse da
Ferrara i Fontana, che lo avevano sublimato, e signoreggiò lungo tempo
con una durezza, che era fuor d'ogni misura. La città di Ferrara era
di pertinenza della Chiesa, come ho udito io dalle labbra di Innocenzo
IV, quando predicava al popolo Ferrarese; ma siccome i Marchesi d'Este
sono stati ab antico sempre amici della Chiesa romana, perciò la
Chiesa li appoggia e lascia che ne abbiano in loro mano il dominio. A
Treviso signoreggiò a lungo Alberico da Romano, la cui Signoria, come
ben se lo sanno coloro che la sperimentarono, fu durissima e crudele.
Questi fu veramente un membro del diavolo e figlio dell'iniquità, ma
finirono malamente egli, la moglie, i figli e le figlie. Perocchè
i loro uccisori divelsero le gambe e le braccia dal corpo di que'
bambini ancor vivi, e sotto gli occhi dei loro genitori, per usarne
a schiaffeggiare la faccia del padre e della madre loro; e poscia
legarono la madre e le figlie ad un palo, e le abbruciarono, quantunque
esse fossero nobili, e le più belle ragazze del mondo, ed innocenti,
e, per odio al padre e alla madre, non la perdonarono nè all'innocenza
nè alla leggiadria loro. E in vero i loro genitori avevano con terrore
orribile afflitti e tormentati i Trivigiani. Laonde accorrevano essi in
piazza frementi contro Alberico, e vivo ancora, ogni cittadino colla
tanaglia gli stracciava un boccone delle carni; e così tra ludibri,
vituperi e tormenti, ne scarnificarono il corpo. Perocchè a chi aveva
tolto di mezzo un consanguineo, a chi il fratello, a questo aveva
morto il padre, a quello un figlio, e imponeva tributi e multe così
gravi e così di frequente, da essere ridotti a distruggere le loro
case, ed imbarcarne i mattoni, le asse, i mobili, le botti, i bigonci
e mandarli a vendere a Ferrara per far denaro, pagare, e riscattarsi.
Queste cose sono accadute sotto i miei occhi. E, per poterle fare con
più sicurezza, simulava di essere in guerra con Ezzelino da Romano
suo fratello. E non risparmiava ai cittadini suoi sudditi neppure la
vita. E in un sol giorno ne fece impiccare venticinque de' notabili di
Treviso, senza che gli avessero fatto in nulla nè sfregio, nè danno;
ma se li tolse di sotto gli occhi mandandoli brutalmente al patibolo
per timore che gli potessero nuocere. E fece trascinare trenta nobili
donne, madri, o mogli, o figlie, o sorelle di loro, perchè li vedessero
ad impiccare, e perchè eglino avessero sotto gli occhi chi ne avrebbe
fatta più straziante la morte. Aveva anche comandato che a quelle donne
fosse tagliato il naso; ma per istratagemma di un tale[160] che in
quell'occasione fece credere spurio un suo figlio, sebbene realmente
non lo fosse, fu ritirato l'ordine; invece però furon tagliate loro le
vesti, all'altezza delle mammelle, sicchè tutto il corpo restò nudo,
e in quello stato le videro que' loro cari che dovevano salire sul
patibolo; e furono sospesi a studio così vicino a terra, che fosse
possibile forzar quelle donne a passar tra le gambe de' loro cari, i
quali mentre esse passavano, per non essere ancora spenti gli ultimi
spiriti vitali, battevano loro il volto co' piedi e colle tibie, che
ancora si contraevano: ed esse vivevano nello strazio e nello schianto
del cuore in mezzo a tanto atroce ludibrio. Nè spettacolo di più
feroce brutalità fu mai veduto nè udito. Poscia, che nulla bastava
a sbramare tanta ferocia, le fece trasportare di là dal Sile[161],
e andassero dove volessero. Elle allora di quel po' di veste, che
restava attorno alle mammelle, composero un qualche cosa da velare
le pudende, e tutta la giornata vagarono per quindici miglia di una
landa deserta tra spine, triboli, ortiche, lappoli, ronchi, e carzeti
pungenti; e camminando scalze, e a corpo nudo, le martoriava anche
il morso e il pungiglione di molti insetti; e andavano piangendo, e
n'avevan ben d'onde, chè al resto si aggiunse che nulla avevano di che
cibarsi se non del proprio pianto. Ah! quale colmo di miseria, o Dio!
Volgi a loro il tuo benigno sguardo, e vedi. Alla tua misericordia
tocca prestare soccorso; la tua misericordia sola può essere pronta,
presente ad aiutarle. Io le ho vedute quelle figlie del dolore, le
ho vedute riservate, per aver consolazione, alla tua destra pietosa;
le ho vedute a te solo abbandonate; chè è ben necessario che provegga
la potenza divina, ove manca ogni provvidenza umana. Questo si mostrò
palese in Susanna......... Ma ritorniamo alla storia. Arrivarono lo
stesso giorno alla laguna di Venezia ad ora già tarda; ed ecco che
videro subito un pescatore, solo nella sua barchetta, e lo chiamarono
che s'avvicinasse a loro. Ma egli, credendo che le apparenze che
aveva in lontano davanti agli occhi fossero ombre, o fantasmi del
demonio, oppure mostri marini usciti al lido, se ne spaventò, e
inorridì. Ma poi per ispirazione divina, e per la loro insistenza,
s'andò avvicinando. E, dopo che esse gli ebbero narrata per punto la
loro dolorosa istoria e sventura, egli sclamò: Voi mi avete straziata
l'anima; ed io non vi abbandonerò mai, finchè la provvidenza divina
non vi abbia procacciato di meglio. Ma siccome questa mia barchetta
peschereccia è tanto angusta che appena ve ne sta una, vi traghetterò
ad una, ad una, sicchè vi trasporterò tutte, e vi collocherò in un
isolotto che si va ora formando, ove però la terra è già soda, perchè
se stanotte restaste qui al lido, sareste preda de' lupi. Domani poi
per tempissimo, provveduto di barca più capace, vi porterò e collocherò
nella chiesa di S. Marco, ove spero che Dio rivolgerà sopra di voi
lo sguardo della sua misericordia. Che più? Dopo dunque che le ebbe
trasportate tutte, tranne una, quell'ultima la condusse alla sua casa
da pescatore, ove le apprestò buona mensa, e la trattò con bontà di
cuore, cortesia, umanità, amorevolezza ed onestà. L'indomani, pronto
adempì la promessa. E condottele nella chiesa di S. Marco, si presentò
al Cardinale della Corte romana Ottaviano, Legato in Lombardia, che
allora si trovava a Venezia; gli narrò tutta la storia di queste donne,
tutte le loro sventure, e gli disse dov'erano. Udita questa cosa, il
Cardinale volò subito a loro, le servì di una refezione; e fece bandir
voce per la città, che subito, in fretta, senz'indugio di sorta,
tutti, uomini, donne, piccoli e adulti, garzoni e donzelle, vecchi e
ragazzi, tutti accorressero a S. Marco, che udirebbero cosa non mai
più udita, e farebbe loro vedere spettacolo non mai più veduto. E,
più presto che non si dice, tutta Venezia si trovò stivata in Piazza
S. Marco, e udirono narrarsi tutta la inumana istoria; e dopo averla
narrata, fece venire quelle donne così malconcie e nude, come aveva
saputo malconciarle la efferatezza del maledetto di Alberico. Ed il
Cardinale volle questa scena per irritare più vivamente i Veneziani
contro di lui, e destare negli animi maggior compassione per loro.
Quando i Veneziani ne ebbero udita la storia, e vedute le donne così
nude, ad alte grida sclamarono: Morte, morte a quel maledetto; bruci
vivo colla sua consorte; e tutta la sua progenie sia estirpata. A
questo punto il Cardinale soggiunse: La divina Scrittura....... E
tutti gridarono: Si faccia, si faccia. Poscia, secondando il desiderio
di tutta la città, bandì una crociata contro quella maledizione di
Alberico; e che chiunque vi prendesse parte, e andasse, o mandasse in
vece sua altra persona a proprie spese per sterminarlo, avrebbe piena
indulgenza de' proprii peccati. La quale indulgenza data a tutti,
egli pienamente la confermò coll'autorità di Dio onnipotente, e dei
beati Apostoli Pietro e Paolo, non che della Legazione conferitagli
dalla sede Apostolica. Tutti dunque s'infiammarono, e presero parte
alla crociata, giovani, vecchi, uomini, donne, sovreccitati dalla
allocuzione del Cardinale, che era persona di alto merito e di
sì elevato ufficio rivestito; dalle atrocità di quel maledetto di
Alberico; dalla condanna a morte di que' nobili ed innocenti cittadini;
dalla pietà che facevano quelle donne, che avevano ancora sotto gli
occhi turpemente malconcie; e dalla promessa indulgenza che andavano
ad acquistarsi. Il Cardinale Legato per isvegliare ne' Veneziani più
risoluto furore, si valse anche dell'esempio della moglie del Levita,
della morte, e vitupero, e abuso della quale il popolo ebraico, per
volere di Dio, prese sì aspra vendetta, che ne rimase distrutta una
tribù quasi intera. Corsero dunque unanimi contro di lui; molto lo
danneggiarono, ma non lo ridussero a completo sterminio. Però non molto
tempo dopo questa crociata, fu sterminato con tutta la sua famiglia,
e soffrì i ludibrii, i tormenti e gli strazii, di cui è parlato più
sopra. E ne fu ben degno. Perocchè un dì che aveva smarrito un suo
sparviero, trovandosi all'aperto, calò le brache, e mostrò il culo a
Dio per oltraggio, insulto ed irrisione, credendo con ciò di vendicarsi
contro Dio; e quando fu a casa cacò sull'altare, precisamente in
quello spazio ove si consacra il corpo del Signore. Sua moglie poi
dava delle puttane e delle meretrici alle matrone e nobili donne. Nè
mai il marito ne la rimproverò; che anzi essa lo faceva per fidanza
che aveva del consenziente marito. Perciò meritamente di loro si
vendicarono i Trevigiani. Dopo la allocuzione, che ebbe fatta ai
Veneziani, il Cardinale raccomandò loro quelle donne come sè stesso;
ed essi di buon grado e con larga liberalità le provvidero di vitto
e di vestito. A quell'uomo poi, per cui stratagemma quelle donne non
ebbero mozzo il naso, i Trevigiani perdonarono, e gli lasciarono la
vita, anzi lo beneficarono assai, chè ben lo meritava, perchè spesso
aveva distolto Alberico e i suoi da molte tristizie, di cui avevano
concepito il pensiero. Nell'altra Marca poi signoreggiò Ezzelino,
fratello di questo Alberico, come anche in Padova, Vicenza e Verona.
Fu costui un membro del diavolo e figlio dell'iniquità; e un giorno
nel campo di S. Giorgio in Verona, dove talvolta io sono andato, fece
bruciare undicimila Padovani in un ampio edifizio, nel quale li teneva
a' ceppi in carcere; e mentre bruciavano, faceva, cantando attorno a
loro, un torneo co' suoi cavalieri. Veramente fu egli il peggior uomo
che si trovasse sulla faccia della terra; nè un sì pessimo credo siavi
mai stato dal principio del mondo sino a noi. Tutti tremavano al suo
cospetto, come trema un giunco nell'acqua corrente. E n'avevano ben
d'onde; poichè chi era vivo oggi, non era al sicuro d'esserlo ancora
all'indomani. Per piacere ad Ezzelino, si era arrivati al punto che
un padre cercava la morte d'un figlio, un figlio quella del padre,
o d'altro parente; e sterminò tutti i maggiorenti, i migliori, i più
potenti, i più ricchi e i più nobili della Marca Trivigiana. Castrava
le mogli altrui, e co' figli e colle figlie le cacciava in prigione,
e ve le lasciava morire di fame e di dolore. Fece trarre a morte molti
religiosi, e molti li tenne lungamente nelle carceri, tanto dell'Ordine
dei frati Minori e Predicatori, che d'altri Ordini....... Pari a lui
per feroce atrocità non furono nè Decio, nè Nerone, nè Diocleziano,
nè Massimiano; e nemmeno Erode ed Antioco, che furono i più crudeli
mostri del mondo. Veramente questi due fratelli furono due demonii,
per ciascun de' quali io potrei scrivere un grosso volume, se avessi
tempo, e non mi mancasse la pergamena. Alberico però sul punto di morte
fu tocco dal pentimento; nel che si mostrò grandissima la misericordia
di Dio, stendendo in morte le braccia anche a uomo tanto brutale; ma
Ezzelino non s'è mai convertito a Dio. Ad Ezzelino successe nella
Signoria di Verona un tal Mastino, Veronese, che fu poi ucciso da
assassini. E il Conte di S. Bonifacio, a cui era devoluta la Signoria
di Verona, andava vagando pel mondo, come io ho veduto; ed era tutto
del partito della Chiesa, buon uomo, santo, saggio, onesto, d'animo
forte, prode dell'armi e dotto nell'arte della guerra. Suo padre aveva
nome Guicciardo, egli Lodovico, e il figlio maggiore, Vinciguerra.
A Rimini signoreggiò il Malatesta, che s'attenne sempre fidissimo al
partito della Chiesa. La Signoria di Forlì la ebbe in mano il Conte
Guido da Montefeltro, che era un battagliero possente e dotto nell'arte
della guerra, e non poche vittorie sui Bolognesi, che parteggiavano
per la Chiesa, riportò, quand'ebbe a trovarsi loro di fronte. Molti
anni in tempo di grossa guerra tenne la Signoria di Forlì, ma in fine
si esaurirono le forze sue e de' Forlivesi, quando Papa Martino IV si
intromise in quella lotta con pertinace ed irremovibile proponimento di
entrare vittorioso in quella città. Per cui, venuto Legato in Romagna
Bernardo Cardinale della Corte romana, ed i Forlivesi datisi a lui,
mandò a confino il Conte Guido di Montefeltro, prima a Chioggia, poi
in Lombardia, ad Asti, ed obbedì sommessamente. A Ravenna dominò,
di parte della Chiesa, Paolo Traversari, nobiluomo, ricco, potente
e saggio; di parte dell'Impero, un certo Anastasio. Poi, dopo Paolo
Traversari, dominò in Ravenna Tomaso Fogliari di Reggio, fatto da Papa
Innocenzo IV Conte delle Romagne, perchè era suo parente; ed ebbe
moglie una nipote di Paolo Traversari, figlia d'un figlio, di nome
Traversaria, legittimata dal Papa perchè potesse ereditare. La sposò
poi, dopo la morte di Tomaso, Stefano, figlio del Re d'Ungheria, che
assunse la Signoria di Ravenna. Dopo la morte di lui venne di Puglia
un certo Guglielmotto, che conduceva seco una donna, e diceva che
era sua moglie e figlia di Paolo Traversari Ravennate, la quale era
in Puglia come ostaggio dell'Imperatore. E signoreggiò molti anni,
ed ebbe integralmente tutte le possessioni di Paolo Traversari: ma
fu creduto che tutto fosse un'ingannevole e frodolenta finzione sì
dell'uomo che della donna. Ma non era di parte della Chiesa, e quindi
fu espulso in una colla moglie da Ravenna, e spogliato di tutti i beni,
che aveva occupato. A Faenza signoreggiarono gli Alberghetti, chiamati
anche Manfredi, di parte della Chiesa, principale de' quali Ugolino
Buzola, e suo figlio, frate Alberico dell'Ordine dei Gaudenti; di parte
dell'Impero, signoreggiò Accarisio e suo figlio Guido di Accarisio.
Il partito poi della Chiesa in Faenza prendeva nome dai Zambrasi, e
non erano che in due di quella famiglia, cioè frate Zambrasino, che
fu, ed è, dell'Ordine de' frati Gaudenti, e Tebaldello di lui fratello
illegittimo, che godeva molta stima, essendo uomo forte, bello,
ed anche ricco, perchè Zambrasino, unico erede, quale figlio solo
legittimo, volle dividere con lui a parti eguali il patrimonio paterno.
Costui fu due volte traditore della sua città di Faenza. La prima
volta la pose in mano ai Forlivesi, e in quel tempo abitava io appunto
a Forlì; la seconda, restituilla alla Chiesa; ma poco dopo morì nella
fossa della città, affogato col suo cavallo e molte altre persone. In
Imola, i principali partigiani della Chiesa erano i Nurduli; e capo del
partito imperiale, Ugucione dei Binicli, cui Re Carlo fece prigioniero
nella guerra contro il Principe Manfredi, e gli fece tagliar la testa.
A lui succedette in Imola suo fratello Giovanni de' Binicli; ma nella
parte montuosa della provincia signoreggiava Pietro Pagano, di parte
imperiale, e risiedeva in un castello, che si chiamava Susinana[162];
ed era personaggio magnanimo, di singolare reputazione e rinomanza,
e dotto nell'arte della guerra. Aveva moglie una buona donna di nome
Diana, ed una buona sorella di nome Galla Placidia, che erano ambedue
mie divote. In Alconio signoreggiava il Conte Bernardo, magnifico
Signore e potente, partigiano della Chiesa. Il Conte Rugiero di
Bagnacavallo, di parte imperiale, dominava in Ravenna; ed era sagace,
furbo, astuto, ed una volpe frodolenta e di tutti i colori. Questi fu
mio famigliare; aveva una figlia unica, nè ebbe maschi, e in sul morire
disse che la voleva maritare con uno che sostenesse risolutamente gli
imperiali. E frate Gherardino Gualengo avendogli detto che quello non
era tempo di scherzare, rispose: Perchè? Non sono io un uomo? Ed il
frate di rimando: Voi siete bene un uomo; ma in punto di morte dovete
perdonare a tutti, nè parteggiare per nessuno, ma pensare solo a Dio,
come dice il Profeta: _O Signore, parte della mia eredità, e del mio
calice; tu sei quello che restituirà a me la mia eredità_. Parimente in
Romagna, di parte dell'Impero, fu grande il Conte Taddeo Boncompagni.
Questi era avanti in età, ed entrò nell'Ordine de' frati Minori.
Anche Giacomo di Bernardo parteggiò un tempo per l'Impero; ma dopo che
l'Imperatore fece tagliare la testa al figlio di lui, passò al partito
della Chiesa, e poi si fece frate dell'Ordine de' Minori. E tanto in
Romagna che in Lombardia molti ve ne furono di nobili e potenti, sì
di parte della Chiesa che dell'Impero, che sarebbero degni di essere
ricordati, se fossero stati buoni e amanti di Dio, e di sè stessi. Così
in Bologna per la Chiesa hanno signoreggiato i Geremei; e per l'Impero
i Lambertazzi, tra' quali fu principale Castellano di Andalò, che
poi morì miseramente, perchè i Bolognesi partigiani della Chiesa, in
occasione di una guerra intestina, lo presero e lo cacciarono tra ceppi
nelle carceri del palazzo del Comune. Ed i Geremei espulsero da Bologna
i Lambertazzi, che andarono in quel tempo a dimorare a Faenza; d'onde
furono poi cacciati, quando Tebaldello la rimise in mano al partito
della Chiesa. Questa città, cioè Bologna, fu l'ultima a bere il calice
dell'ira di Dio, e ne ingollò fino alla feccia, affinchè, restando
illesa, non si vantasse di essere sempre stata giusta e non insultasse
alle altre città, che avevano già trangugiato il calice dell'ira,
anzi del furore dello sdegno di Dio; giacchè dentro di essa vi erano
assassini, nè si imponeva a loro.......... In Cremona, que' che
parteggiavano per la Chiesa si chiamavano Cappellini, o Cappelletti;
que' che tenevano per l'Impero, si nominavano Barbarasi. Ho letto
più volte, cioè nè una nè due soltanto, nel pontificale di Ravenna:
_Verranno i Barbarasi; incrudeliranno assai_; ed è incerto se si abbia
da riferire ai presenti, o ai futuri. Tuttavia i presenti incrudelirono
assai quando chiamarono l'Imperatore in Lombardia ed a Cremona, e
da Cremona espulsero quelli che tenevano le parti della Chiesa; e
l'Imperatore col loro aiuto tenne viva in Lombardia una lunga guerra.
Di che si moltiplicarono i mali sulla terra; nè è finita ancora, nè
parne vicina la fine. In Parma, dopo la distruzione di Vittoria e la
fuga dell'Imperatore, chiunque non aderiva saldamente al partito della
Chiesa si chiamava di Malafucina, cioè di cattiva fabbrica, così detti
perchè spacciavano monete false; ma siccome v'ha differenza da bue a
bue, così si conosceva......... Parimente quelli che tenevano allora
le parti dell'Impero non potevano ristarsi dal parlare del proprio
partito, e così si conoscevano da ciò che dicevano.

In processo di tempo poi que' Parmigiani del partito imperiale, che
risiedevano a Borgo S. Donnino, pregarono i loro concittadini di parte
della Chiesa che per amore di Dio, e della beata Vergine gloriosa,
li accogliessero in città, poichè, essendo morto l'Imperatore,
desideravano riamicarsi con loro. E di fatto si rappaciarono, e furono
ammessi in città, come ho veduto io co' miei occhi; ma quando videro
le loro case atterrate (si noti che eglino altrettanto avevano fatto
ai partigiani della Chiesa, allora che anch'essi furono espulsi)
cominciarono a voler contendere, trattar da pari a pari, e insultare
il partito della Chiesa. Di più, sapendo che Uberto Pallavicini aveva
in mano il dominio di Cremona e di molte altre città, si proposero
di farlo Signore anche di Parma. A che Uberto aspirava ed ogni sua
cura rivolgeva, e volevano mandare in bando sino all'ultimo tutti
i partigiani della Chiesa, e ridurli siffattamente al nulla che non
potessero mai più ripor piede nella loro città. La quale trama venuta
a conoscenza de' Parmigiani, cominciarono a tremare come giunchi
nell'acqua, ed a nascondere le cose che s'avevano più care. Ed io
pure nascosi i miei libri, poichè in quel tempo io dimorava a Parma;
e molti Parmigiani del partito della Chiesa si preparavano già a
partire spontaneamente da Parma, prima che il Pallavicino, arrivando,
li incogliesse nella rete, rapisse loro ogni bene, e li costringesse
di forza al bando. Quando dunque cominciò a diffondersi in Parma la
voce che il Pallavicino era sulle mosse per arrivare, e d'altronde
si vedeva che il suo arrivo non era poi lì lì per effettuarsi, (ed
il ritardo derivava da ciò, che egli s'era deliberato di impadronirsi
prima di Colorno e di Borgo S. Donnino, come realmente fece; sia per
entrare in Parma con maggiore trionfo; sia, perchè, occupate quelle due
posizioni, i Parmigiani parteggianti per la Chiesa, che avessero voluto
fuggire, non avrebbero saputo da che parte voltarsi; e così avrebbero
essi ricevuto scacco matto, essi che s'erano allevato il serpente in
seno) ecco d'improvviso sorgere un uomo, che abitava in Parma in Cò
di Ponte, tra la chiesa di Santa Cecilia, e Santa Maria dell'Ordine
de' Templarii[163]. Costui era un sartore, e si chiamava Giovanni
Barisello, ed era figlio d'un contadino della famiglia Tebaldi, di
que' contadini che i Parmigiani chiamano mezzadri. E, presa in mano
una croce e il libro de' Vangeli, andò girando per la città alle case
di coloro, che passavano per imperiali, e si sospettava volessero
a tradigione consegnar Parma al Pallavicino, e li faceva giurare di
obbedire alle leggi del Papa e aderire al partito della Chiesa. Egli
aveva seguaci un cinquecento uomini in armi, che l'avevano fatto loro
Capitano, e lo seguivano come fosse un principe o un condottiero.
E molti degli imperiali giurarono di essere ossequenti alle leggi
del sommo romano Pontefice, e di aderire al partito della Chiesa;
parte de' quali lo fecero con sincerità, e parte per il timore, che
li incoglieva, al vedersi tanta gente armata alla porta della casa.
Quelli poi che non avevano l'animo disposto a quel giuramento, alla
chetichella se n'uscivano di Parma, e andavano a dimorare in Borgo S.
Donnino. Ed ogni volta che bolliva in Parma discordia tra cittadini,
chi fuggiva trovava sempre quel castello aperto; ed i Borghigiani
esultavano sempre delle discordie che s'accendevano in Parma, e
l'esultanza loro sarebbe stata maggiore se l'avessero veduta rasa al
suolo. I Borghigiani difatto non hanno mai guardata di buon occhio la
città di Parma; anzi, quando Parma era in guerra, in Borgo S. Donnino
si raccoglievano tutti gli assassini di Lombardia, ove erano di buon
grado ospitati, per far danno e vergogna a Parma. Eppure i Parmigiani
avevano fatto ai Borghigiani i seguenti benefici, come ho visto io co'
miei occhi, chè ivi ho abitato un anno, cioè nel 1259: (In quell'anno
l'Italia fu colpita da desolantissima morìa d'uomini e di donne, ed
Ezzelino da Romano fu fatto prigioniero dai Cremonesi e da quelli de'
loro alleati che si trovavano al campo). Il primo beneficio fu che
ogni anno mandavano loro un Parmigiano per Rettore, o Podestà, e ne
pagavano la metà dello stipendio. Secondo, che a partire dal Taro, che
è distante da Parma cinque miglia, tutti gli abitanti potevano andare
al mercato di Borgo S. Donnino senza opposizione alcuna da parte de'
Parmigiani; e così Borgo S. Donnino aveva il concorso d'un territorio
di dieci miglia, appartenente alla Diocesi di Parma: ed ai Parmigiani
restava la sola estensione di cinque miglia. Terzo, che i Parmigiani
accorrevano a loro difesa quando o i Piacentini, o i Cremonesi, o
chicchè altri fosse, moveva loro guerra. Quarto, che quantunque in
Borgo non vi fossero che due sole famiglie nobili, i Pinchilini ed i
Verzoli, mentre le altre erano di popolani, o di ricchi campagnuoli,
pure i Parmigiani non isdegnavano mandare ivi a marito le loro nobili
donzelle; il che non era poco onore. Io credo d'averne vedute quivi
di donne Parmigiane ben venti, che vestivano pelliccie di vaio[164],
o stoffe di colore scarlatto. Ma i Borghigiani, nulla valendo per
loro tanti benefici ricevuti, furono ingrati ai Parmigiani; epperciò
questi, e a gran ragione, quando se ne presentò l'occasione opportuna,
distrussero Borgo S. Donnino...... Girando dunque Giovanni Barisello
per Parma a intimare di prendere giuramento alle persone sospette,
arrivò alla casa di Rolando di Guido Bovi, che abitava in Cò di
Ponte, nei pressi della Chiesa di S. Gervaso; e, chiamatolo fuori di
casa, gli impose di giurare subito, senza indugio, e di abbracciare
il partito della Chiesa, se volesse aver salva la vita, altrimenti
partisse da Parma (Il prenominato milite Rolandino di Guido Bovi era
di parte imperiale, e aveva avuto dall'Imperatore molte Podesterie).
Or egli veduta tanta radunata di gente, che esigeva tale giuramento,
e lo minacciava del bando, fece secondo il consiglio del Savio ne'
Proverbii 22:º L'uomo avveduto vede il male e si nasconde; ma gli
scempii passan oltre, e ne portano pena. Giurò dunque e disse: Giuro
di stare ed obbedire agli ordini del romano Pontefice, e di aderire
al partito della Chiesa per tutta la mia vita, a scorno di quel
partito, di cui nessun altro più miserabile e più abbietto si trova
sotto il padiglione del cielo. E voleva alludere al suo partito, cioè
a quello degli imperiali, che lo avevano abbandonato, e lo lasciavano
tanto vituperosamente conculcare dagli avversari. E gli ecclesiastici
Parmigiani lo amarono...... Pertanto in quel tempo i Parmigiani vollero
tentare la riconquista di Borgo S. Donnino, ma non ne vennero a capo,
perchè il Pallavicino e que' Parmigiani di parte imperiale che erano
profughi dalla città l'occuparono e lo tenevano sotto buona guardia.
Quel castello era munito di forte muraglia, e cinto di ampie fosse,
che si estendevano anche attorno al suburbio. Ma Colorno lo ripresero
prestissimo, e molti imperiali vi caddero morti di spada, tra quali
Francesco figlio di Giovanni Pucilesio, e Rolandino Gogo di Parma, e
Manfredino da Cànoli[165] di Reggio, cui il Pallavicino aveva fatto
Capitano. Questi era uno de' figli di Manfredo di Modena, ed era
di persona tanto avvenente, che a pena l'avrebbe vinto in bellezza
Assalonne figlio di Davide. Molti altri, e degni di essere ricordati,
morirono, ma per ragione di brevità corro innanzi, e mi affretto
a dir d'altro. Il Pallavicino perciò depose il pensiero di correre
su Parma, perchè non lo poteva. La città aveva avuto sospetto degli
intendimenti di lui, ne conosceva le astuzie e le malizie, e quindi
si ebbe buona guardia; ed accadde al Pallavicino ciò che il Savio dice
ne' Proverbii 26.º ecc. Giovanni Barisello fu il povero e saggio uomo
che si trovò in Parma, e per virtù della sua saggezza si mantenne
libera la città. Laonde i Parmigiani non gli furono ingrati, anzi
riconobbero il beneficio ricevuto, e con molti favori lo ricambiarono.
Ed anzi tutto, di povero che era, lo arricchirono; poi, gli diedero
moglie una nobil donzella, che era de' Cornazzani; in terzo luogo, lo
nominarono consigliere perpetuo, stantechè era fornito di molta grazia
e attitudine naturale a fare concioni; finalmente gli concedettero
facoltà di poter sempre fare adunata di gente in armi, di condurla
seco, e di apporre alla compagnia il suo nome, purchè avesse per
iscopo l'onore e l'utilità della città e del Comune di Parma. Questa
compagnia di gente in armi ebbe vita di molti anni; ma un Modenese,
che era Podestà di Parma, cioè Manfredino da Rosa[166], che si chiama
anche da Sassuolo, come si chiama suo padre, per mostrarsi premuroso
dell'onore de' Parmigiani, la sciolse, non piacendogli che i Parmigiani
si denominassero da tal uomo e da tal nome. E tanto zelo provenne
dall'amore che Parmigiani e Modenesi si hanno scambievole, intimo e
caldo. Manfredino adunque ordinò che Giovanni Barisello attendesse a'
fatti suoi, e a casa sua, e sciogliesse quella compagnia di uomini
d'armi, e cessasse di farne pompa, perchè essendo egli Podestà di
Parma, voleva governare la città a suo talento. E Barisello ubbidì
sommessamente; e il giorno stesso, ripreso l'ago e il refe, tornò
alla sua bottega, e ricominciò sotto gli occhi de' Parmigiani a
cucire vestimenta..... Il padre del prenominato Podestà era un mio
conoscente, e sua madre e sua moglie erano mie divote. Nulla ostante
i Parmigiani usarono sempre deferenza a Giovanni Barisello, e fu
sempre tenuto in considerazione, e mantenuta alta la sua reputazione.
In processo di tempo poi Re Carlo, fratello del Re di Francia S.
Lodovico, che andò oltremare al riscatto di Terra Santa, avendo udito
che i Parmigiani erano prodi guerrieri e suoi amici, e sempre pronti
ad aiutare la Chiesa, mandò invitandoli a formare, ad onore di Dio
e della santa romana Chiesa, una compagnia che s'intitolasse dalla
croce, a cui egli pure desiderava di essere ascritto; e bramava che in
tale compagnia si fondessero tutte le altre che vi fossero in Parma,
e che stessero sempre pronti a soccorrere la Chiesa ad ogni bisogno.
Ed i Parmigiani annuirono, e, quella che si costituì, chiamossi la
compagnia dei Crociati. Ed i Parmigiani, in fronte al quaderno che
registrava i nomi degli ascritti, segnarono a lettere d'oro il nome
di Re Carlo, proclamandolo loro Capitano, primicerio, principe,
condottiero, compagno, Re e trionfatore magnifico. E se in Parma,
chi non appartiene alla compagnia, offende alcuno di quelli che vi
sono ascritti, questi accorrono subito, come fanno le api, a difesa
del consocio, e si aiutano reciprocamente, e subito corrono alla casa
dell'offensore e la smantellano radicalmente, sicchè non se ne vede
più pietra su pietra. Laonde i cittadini non ascritti alla compagnia
vivono in continua agitazione d'animo, e sono costretti o a starsene
mogi, o ad inscriversi alla compagnia stessa. La quale perciò crebbe
numerosissima. Ed ora i Parmigiani non sono più denominati da Giovanni
Barisello, ma da Re Carlo, e dalla Croce di nostro Signore Gesù Cristo,
a cui sia gloria e onore per i secoli de' secoli, e così sia.

E, giacchè la nostra penna scrive ancora di Parma, resta che parliamo
dei Pallavicini. Eglino hanno il titolo di Marchesi, ed elessero
per soggiorno il territorio di Parma e di Piacenza. Nella diocesi
Piacentina, sui confini di quella di Parma, hanno due castelli,
quello di Pellegrino[167], in cui abitò Uberto Pallavicini (che fu
bell'uomo e sollazzevole e compositore di canzoni, e lasciò parecchi
figli), e il castello di Scipione[168], presso Borgo S. Donnino, a
cinque miglia. In questo castello abitò Manfredo, fratello germano del
sunnominato Pallavicini, che fu padre di sette figli, quattro maschi
e tre femmine, leggiadrissime donzelle, nobilmente maritate in varie
parti del mondo. La moglie di lui, e madre di cotestoro, fu Clara dei
Conti di Lomello[169], avvenentissima donna, saggissima e sollazzevole.
Primogenito dei detti figli fu Guglielmo, bell'uomo e amante della
quiete, come suo padre; restò sempre in concordia coi Parmigiani, e
abitava in Parma. Moglie sua era Costanza di Azzone Marchese d'Este,
nè da essa potè aver prole; ebbe altri due mariti, ma non figliò mai.
Manfredo poi aveva un bel palazzo in Parma, ch'io ho veduto, presso
la piazza del Comune, ove sorgeva una volta il palazzo de' Pagani;
ma in tempo di guerra, i Parmigiani rasero al suolo l'uno e l'altro,
ed i beccai vi eressero un macello. Ora....... vi è la piazza del
Comune. Questo Manfredo fu uomo di pace e quasi religioso. Amava i
religiosi e le loro Regole, e specialmente i frati Minori, e a tutti
i conventi regalava in abbondanza il sale; essendochè possedeva,
vicini al castello di Scipione, molti pozzi di acque salse, d'onde
s'è arricchito e fatto grande. Il secondogenito era Enrico, guerriero
dotto nell'arte, e credo che se fosse campato più a lungo, avrebbe
ridotta sotto la sua dominazione tutta la Lombardia; giacchè si può
dire di lui quello che de' Macabei ecc. Questa conquista la tentò
un tempo anche il Marchese di Monferrato, che cadde poi ucciso nella
guerra contro Re Carlo, combattendo egregiamente e coraggiosamente,
come addetto, quale principe e condottiero, all'esercito di Manfredi,
figlio di Federico Imperatore deposto. Il terzogenito fu Uberto, pari
in tutto al precedente, sicchè quanto è detto a lode di quello, si può
ripetere di questo[170]. _E n'ebbe molte prove il Marchese Guglielmo di
Monferrato, che non poteva mai uscire da' suoi fortilizii, perchè era
in guerra con suo zio, Uberto Pallavicino, che allora signoreggiava in
Cremona, e dava a questo suo nipote trecento militi spesati affinchè
guerreggiasse validamente contro il Marchese di Monferrato._ Causa
di queste guerre erano le città di Alessandria e Tortona, di cui,
ciascuno de' due Marchesi, voleva il dominio. Questi fu ucciso dai
Piacentini presso il castello di Fiorenzuola[171], una volta che era
andato a predare in su quel di Piacenza insieme ai Parmigiani di parte
imperiale. E questa depredazione la faceva quantunque non vi fosse
guerra tra lui e quelli a cui portava via la rapina fatta; ma finì col
perdere il bottino, la battaglia e la vita. Quarto ed ultimo figlio di
lui era Guidotto, che vive tuttora, ed è uno dei grandi della Corte
di Spagna. Uberto Pallavicino dunque, che signoreggiò in Cremona, fu
fratello germano dei sunnominati, cioè del Pallavicini da Pellegrino,
e di Manfredo da Scipione. Egli ebbe due castelli nella diocesi di
Piacenza, cioè Landasio[172] e Ghisaleggio[173]; ma siccome di costui
abbiamo parlato abbastanza più sopra, qui non occorre parlarne. Fu
di animo grande, e gonfiava la cupidigia sino a voler occupare tutto
il mondo. Il padre di questi tre fu detto il Pallavicino, che ebbe
due fratelli germani, cioè Marchesopolo e Rubino, che abitarono in
Soragna, Villa fertile della diocesi di Parma, distante cinque miglia
a settentrione di Borgo S. Donnino. Marchesopolo ebbe moglie una
Borgognona, dalla quale non gli nacquero maschi, ma due sole femmine;
alle quali la madre volle porre nomi presi dalla lingua del suo paese
nativo, cioè _Mabelon_ e _Isabelon_, che in lingua lombarda suonano
Mabilia e Isabella. Il padre maritò la primogenita Mabilia, quando io
era ancora nel secolo, cioè prima ch'io entrassi nell'Ordine de' frati
Minori, l'anno 1238, e venne da Soragna a Parma, e ospitò nella casa di
quei da Colorno, accanto alla Chiesa di S. Paolo. Le furono assegnate
in dote mille lire imperiali, e sposò Azzone Marchese d'Este, che era
buon uomo, cortese, umile, dolce, pacifico e mio amico; ed una volta
gli lessi l'esposizione dell'Abbate Gioachimo, intorno ai doveri di
Isaia; ed era solo con me sotto ad un fico, e nosco un altro frate
Minore. Donna Mabilia anch'essa fu mia divota, come la fu anche di
tutti i religiosi, specialmente frati Minori, dai quali si confessava,
e recitava sempre il loro ufficio ecclesiastico, ed è sepolta presso
suo marito e riposa in pace nel convento de' Minori presso Ferrara. In
vita sua fece molto di bene, e alla sua morte fece distribuire molte
limosine, e lasciò ai poveri parte dei possedimenti, che il padre
le aveva lasciati in Soragna. Io abitai sette anni in Ferrara, dove
abitava anch'ella. Fu bella donna, saggia, clemente, benigna, cortese,
onesta, pia, umile, paziente, pacifica, e sempre divota a Dio. Aveva
un fornello in luogo appartato del suo palazzo, come ho visto io co'
miei occhi, ed essa stessa distillava l'acqua di rose, e la dava ai
malati; e perciò i medici ivi residenti ed i farmacisti l'avevano in
uggia; ma essa non s'impensieriva di loro, purchè soccorresse i malati
e facesse opera meritevole al cospetto di Dio. Visse molti anni col
marito, e non ebbe mai figli; dopo la morte poi del marito si fece
fare una casa presso il convento dei frati Minori di Ferrara, e in
quella abitò in sua vedovanza, finchè fu sepolta, come s'è già detto,
accanto a suo marito nel convento de' frati Minori di Ferrara; e la
sua anima per la grazia di Dio riposi in pace, che fu buona donna.
Dopo la morte del Marchese però venne a Parma, e la vidi, e udii da
lei che ne provava mirabile consolazione, perchè si trovava presso il
convento dei frati Minori, e presso la chiesa della Vergine gloriosa.
Non conobbi mai altra donna, che quanto questa si assomigliasse alla
Contessa Metilde, per quanto di essa si legge. Veramente, per me, tre
sono le donne ammirabilissime, che forse da altri non sono tenute
in molta reputazione; e sono: Elena, madre di Costantino; Galla
Placidia, madre di Valentiniano; e la Contessa Matilde. Marchesopolo
poi, dopo che ebbe maritata Mabilia, andò in Romanìa, ove si diede
a perseguitare i Greci, li aggrediva, li catturava e uccideva, come
Davide i Filistei. Altrettanto faceva Marchesopolo coi Greci, onde con
insidie ingegnosamente tese fu dai Greci ucciso in casa sua; perocchè
tutto cede alla potenza dell'oro. Egli aveva maritata la sua seconda
figlia Isabella ad un ricco, nobile e potente di Romanìa. Essa era
bella donna e saggia, ma zoppa e sterile; e dopo la morte del marito
le restò il castello di Bonicea, che ella con accorgimento, coraggio
e cautela seppe difendere contro i Greci. Il motivo poi della partenza
di Marchesopolo da Parma si dice sia questo: Che essendo egli nobile,
e di cuore magnanimo, lo moveva a sdegno e sopportava di mal animo che
un popolano qualunque, borghese o campagnuolo che fosse, mandandogli
a casa un usciere in berretto rosso, lo potesse citare al palazzo
del Comune e chiamarlo in giudizio. Suo fratello Rubino abitò in
Soragna, ed ebbe in moglie Ermengarda da Palù, sorella di Guidotto de'
Canini, che era bella donna, ma lasciva. Ebbe cinque maschi e cinque
femmine. La prima di nome Mabilia, bellissima (e qualche volta la
ho confessata). Uberto Pallavicino la maritò a Pontremoli, sperando
così di ridurre in suo dominio quella Terra. Rubino era vecchio
carico d'anni, quando l'anno in cui imperversò quella mortalissima
pestilenza preaccennata, cioè nel 1249, e che Ezzelino da Romano fu
fatto prigioniero in guerra, mi mandò a chiamare, si confessò da me,
aggiustò i conti dell'anima sua, e morì in una lodevole vecchiaia,
passando da questo mondo in grembo a Dio. Sua moglie poi si rimaritò
e prese Egidio Scorza; poscia precipitò da un solaio e ne fu morta e
sepolta. Altri Pallavicini ancora abitavano nella diocesi di Parma,
in una Terra che si chiama Varano[174], bel paese tra Medesano[175],
Miano[176], Costamezzana, e Borgo S. Donnino. Ve ne sono ivi
moltissimi, ricchi, potenti, cortesi, pacifici; stanno sempre di buon
accordo coi Parmigiani, perchè sono anch'essi cittadini di Parma. Uno
di loro era quel Delfino Pallavicini, che l'anno 1238 fa Podestà di
Reggio e fece fare duecento braccia delle mura della città, di seguito
a quella già fatta, come ogni Podestà aveva obbligo di fare ogni anno.
Tanto basti aver detto dei Pallavicini. In Verona, come s'è detto,
dopo la morte di Ezzelino da Romano, signoreggiò Mastino, morto da
alcuni Veronesi forti e pugilatori, per la speranza di avere dopo lui
la signoria di Verona. Ma s'ingannarono, perchè a lui succedette suo
fratello germano, Alberto dalla Scala, che vendicò il fratello colla
morte degli uccisori di lui. Questi vive tuttora, ed ha in mano la
signoria, ed è amato dai Veronesi, perchè si comporta bene. È persona
accostevole, fa giustizia, ama i poveri, come faceva suo fratello; pur
tuttavia è Podestà altra persona. In Imola, que' che tengono le parti
della Chiesa si chiamano Bricci; quelli che parteggiano per l'Impero,
Mèndoli. Ma il partito imperiale in Imola è spento; e il partito della
Chiesa, per invidia ed ambizione, s'è diviso in due campi, perchè gli
Audaci vogliono in mano il potere, come prima lo avevano quelli che si
chiamavano Nurduli. Questa maledetta discordia s'è già infiltrata in
Modena, e comincia a far capolino in Reggio. Dio voglia che non metta
radici in Parma, di che già si comincia a temere..... Ora passiamo a
parlare della Toscana, e spediamoci lesti; poichè molto di altro resta
che non deve essere taciuto. Le due più nobili città della Toscana
sono, a parer mio, Firenze e Pisa. A Pisa hanno tenuto signoria Conti
e Vice-Conti; ed i Pisani furono molto attaccati all'Impero; e, come in
Lombardia i Cremonesi avevano impugnate le armi a sostegno dell'Impero
così avevan fatto i Pisani in Toscana. A Firenze poi per parte della
Chiesa hanno tenuta la signoria i Guelfi; per parte dell'Impero i
Ghibellini; e da queste due fazioni hanno preso nome tutti i partiti
in Toscana; e sussistono tuttora. E gli uni e gli altri bevvero del
calice dell'ira di Dio, e ne ingollarono sino alla feccia; e chi se la
passò meno male, non può vantarsi d'aver in tutto declinata la spada
dello sdegno e della vendetta divina; perchè se eglino provocarono
scissure e divisioni nelle loro città, anch'essi furono divisi tra loro
dall'ira del volto di Dio..... Quanto vero sia ciò che dico, lo videro
i miei occhi, e gli occhi di moltissimi altri; ma sopratutto coloro
che ne fecero sui loro corpi esperienza. Pertanto tutte le suaccennate
fazioni, scissure, divisioni e maledizioni, tanto in Toscana che in
Lombardia, in Romagna, nella Marca d'Ancona, nella Marca Trivigiana
e in tutta Italia, le provocò quel Federico che si chiamò Imperatore:
e perciò fu a piena ragione punito, e la mano di Dio aggravò i colpi
su tutti i peccati di lui, percuotendolo nell'anima e nel corpo;
e i Principi del suo regno, che aveva tolti dal nulla ed esaltati
dalla polve, gli diedero il calcio, non gli tennero fede, anzi lo
tradirono..... «Non è prudenza in lui» cioè in Federico, quantunque
si vantasse tanto prudente. Così lo trattarono i tirannelli suoi, di
cui abbiam fatto menzione più sopra; ma anch'essi ricevettero il colpo
della vendetta, non perchè spodestarono Federico, che riconobbero per
malvagio, ma perchè anch'essi peccarono di molto. Conobbi quasi tutti
quelli che ho nominato, e in breve tempo disparvero dal mondo, e i
più terminarono malamente la loro vita, _perchè folleggiarono_ _in
vanità_..... Or resta da parlare dei Legati che la Corte Romana mandò
ai nostri giorni in Lombardia. Primo de' quali fu Ugolino, Cardinale
dell'Ordine dei Minori, cioè governatore, protettore e censore della
Frateria e della Regola del beato Francesco, del quale egli era stato
intimo amico, e che poscia diventò Papa Gregorio IX. Fece molte buone
cose, delle quali parleremo più innanzi ampiamente. Il secondo fu
Rainaldo Vescovo di Ostia, anch'egli Cardinale dell'Ordine de' Minori,
come è stato detto altrove, e che diventò poi Papa Alessandro IV. E
quando era Legato in Lombardia aveva seco come Vice-Legato il Cardinale
Tomaso, che era di Capua. Papa Gregorio IX summenzionato compose ad
onore del beato Francesco un inno: _Dal ciel discese un figlio_; ed un
responsorio: _Dal granaio della povertà_; ed una prosa: _Ultima testa
del Dragone_, ed un'altra prosa per la passione di Cristo: _Piangete,
anime dei fedeli_; e, ad istanza de' frati Minori, nominò Cardinale
Rainaldo, che fu poi Papa Alessandro IV; il quale Papa Alessandro
canonizzò santa Chiara, e compose gli inni e le collette di lei. Il
Cardinal Tomaso, che era di Capua, fu il più bello scrittore della
Corte, e dettò quella lettera, che il sommo Pontefice mandò a Federico
Imperatore spodestato, rimproverando lui de' molti e svariati eccessi,
e giustificando se stesso e la Chiesa romana delle accuse che le erano
mosse, e rammentogli i servigi e i benefici, che la Chiesa gli aveva
conferiti. E la lettera cominciava così: _Viva impressione fece la
nostra lettera sull'animo tuo, come hai scritto; ma più viva ancora
la fece sull'animo nostro la lettera tua_. Compose anche ad onore del
beato Francesco l'inno: _Tra i celesti cori_; e l'altro: _Splendore
de' costumi_; ed il responsorio: _Spica della carne_; e parimente fece
quella sequenza per la Beata Vergine, che comincia: _La Vergine che
figlia si rallegri_. E ne fece la composizione letteraria soltanto; la
musica per canto la fece, a sua preghiera, frate Enrico da Pisa, che
fu mio custode e maestro di canto. Il contraccanto lo compose fra Vita
da Lucca, dell'Ordine de' Minori, altro mio maestro di canto. Dopo i
prenominati, venne Legato in Lombardia Ottaviano Cardinal diacono.
Egli era bello e nobile, cioè uno dei figli di Ubaldino da Mugello
nella diocesi fiorentina. Fu reputato molto partigiano dell'Impero,
ma a difesa del suo onore faceva talvolta qualche cosa a vantaggio
della Chiesa, non dimenticando che questo era il suo mandato. Onde, un
giorno, quando l'Imperatore teneva Parma stretta d'assedio, io, che era
a Lione, interrogato da Guglielmo Fieschi Cardinal diacono, nipote di
Papa Innocenzo IV, che cosa dicevano i Parmigiani del Legato Ottaviano,
risposi: I Parmigiani s'aspettano che sarà traditore di Parma, come lo
fu di Faenza. Allora Guglielmo sclamò: Ah! per Dio non è da credere.
A cui io replicai: Se sia credibile, o non credibile, non so; è certo
che i Parmigiani lo dicono. Bene, bene, soggiunse Guglielmo..... Ma ivi
i presenti erano tanta moltitudine, che l'uno s'innalzava sulle spalle
dell'altro, per udire notizie di Parma. Imperocchè da questo dipendeva
la sorte della Chiesa romana, come in una battaglia, dalla quale l'uno
e l'altro dei contendenti spera vittoria. L'Imperatore era allora già
deposto dall'Impero, e la Corte romana era fuori della sua sede, ed
esulava in Francia, a Lione. E Parma aveva dato di piglio all'armi a
difesa della Chiesa, e si batteva valorosamente, sperando dal cielo
aiuto e vittoria; e Federico Imperatore accanitamente la assediava....
Avendomi dunque gli astanti udito a sostener tali cose, restarono
ammirati, e l'un l'altro, a mia udita, si dicevano: In vita nostra non
abbiamo mai udito un frate a parlare tanto franco e così sicuro. Ma
esprimevano questi sensi perchè mi vedevano seduto tra il Patriarca
di Costantinopoli e il Cardinale, dal quale io invitato a sedere,
non giudicai conveniente di rifiutare, e tenere in poco conto l'onore
offertomi, e l'accennata ammirazione nasceva anche dall'udirmi parlare
apertamente d'un uomo costituito in sì alta carica, e al cospetto di
tanti cospicui dignitari della Chiesa. Io allora era diacono e di 25
anni..... Ritornato in Lombardia, ed essendo ancora, dopo molti anni,
Ottaviano Legato a Bologna, io pranzai molte volte con lui; e mi faceva
sempre sedere in capo della sua mensa, sicchè tra me e lui non vi era
che il frate mio compagno, ed egli occupava il terzo posto, contando
dal capo della mensa. In tali circostanze io faceva come insegna il
Savio ne' proverbii 23.º ecc; ed era opportuno regolarsi in quel modo,
perchè tutta la sala del palazzo era gremita di commensali. Eppure ce
n'era per tutti da star bene e in abbondanza, e si mesceva in copia
vino scelto, ed ogni cosa era squisita. Allora cominciai a voler bene
al Cardinale. In seguito poi invitò me e il mio compagno a pranzare con
lui ogni giorno che ne piacesse; ma pensai di stare all'ammaestramento
dell'Ecclesiastico 13.º ecc. Di questo Cardinale corse voce che fosse
figlio di Papa Gregorio IX, forse perchè gli usava speciali deferenze.
Così io ho conosciuta una figlia di questo Cardinale, monaca in un
certo convento, la quale mi invitò, e pregò con molta insistenza, ch'io
fossi devoto a lei, ch'ella voleva essere devota a me; e non sapeva
di chi fosse figlia, e chi fosse suo padre. Ma io il sapeva bene, e le
risposi: io non ti voglio per amica, perchè Pateclo scrive:

    É 'n tedianza cu'no posso parlare:

e vuol dire che secca l'avere un'amica, a cui l'amico suo non può
parlare, quale sei tu chiusa in un monastero. Ed ella rispose: «Se
non può passare tra noi mutuo colloquio, almeno amiamoci col cuore, e
preghiamo l'uno per l'altro a fine di salvarci»; Giacobbe nell'ultimo
libro. E mi parve che a poco a poco volesse tirarmi a sè, e adescarmi
ad amarla; perciò le dissi: Il beato Arsenio.... Ottaviano fu uomo
sagacissimo. Di fatto facendosi un giorno una solenne processione, un
giocoliere nel momento ch'egli passava, disse a voce sì alta che il
Cardinale udiva: Largo, largo, toglietevi di quà, e lasciate passare
quell'uomo, che fu traditore della Corte Romana, e molte volte ingannò
la Chiesa. Udite il Cardinale queste cose, ordinò sottovoce ad uno
de' suoi di chiudere la bocca al giocoliere con monete, ben sapendo
che tutto cede alla potenza dell'oro. E così si liberò da quella
vessazione. Anzi il giocoliere, intascati i danari, si portò subito su
di un'altra strada, per la quale dovea passare il Cardinale, e ne fece
mille elogi, dicendo che nessun Cardinale meglio di lui aveva la Corte
Romana, e che era veramente degno del papato. Parimente ho udito dire
che, se Papa Innocenzo IV avesse vissuto un po' più, avrebbe deposto
Ottaviano dal cardinalato, perchè era troppo partigiano dell'Impero, e
non trattava con fedeltà gli interessi della Chiesa. Ma egli che sapeva
di non essere nelle grazie del Papa, e che molti cortigiani ed altre
persone lo avevano divulgato, si studiava di far mostra di godere la
confidenza papale. Perciò quando i Cardinali uscivano dal quotidiano
concistoro che il Papa soleva tenere, e andavano affrettandosi ai
loro alberghi, Ottaviano, o in anticamera, o sul passeggio, che era
subito fuori della porta del palazzo del Papa, si fermava a parlare
con qualche chierico sino a tanto che vedeva che i Cardinali se
n'erano andati tutti, sicchè paresse che, di quelli che erano nella
sala del palazzo al cospetto del Papa, egli fosse stato l'ultimo, a
uscire, e con ciò voleva far credere che il Papa l'avesse trattenuto a
confidenziale colloquio per trattare seco di affari importantissimi,
e così tutti lo stimassero il Cardinale più influente in Corte, e il
più potente presso il Papa, e quindi con lui largheggiassero in regali,
come a uomo, che avrebbe potuto giovarli assai negli affari che avevano
col Papa...... In quel tempo che Ottaviano fu Legato in Lombardia, fu
Legato in Lombardia stessa anche Gregorio Montelungo. Egli era una
volta uno dei sette notai della Corte Romana, e fu un antico Legato
di Lombardia. Di fatto quando Ferrara fu tolta dalle mani e dalla
signoria del Salinguerra, vi era presente; e quando l'Imperatore
assediava Parma, era ivi Legato, e alzava la sua tenda sempre di
fronte alla tenda dell'Imperatore. Egli era uomo coraggiosissimo,
dotto nelle armi e aveva composto un libro intitolato: _Della sagacia
nell'arte della guerra_. Sapeva condurre e ordinare le milizie alla
battaglia; sapeva simulare e dissimulare; conosceva quando s'aveva a
star cheti, e quando si dovea irrompere contro il nemico. L'Apostolo
nell'epistola agli Ebrei 5º dice: _Ma il cibo sodo è per li compiuti_
ecc; de' quali uno era Gregorio da Montelungo, che aveva tanta pratica
di battaglie, che sapeva discernere e quando una battaglia la s'avea
da ingaggiare, e quand'era il momento di finirla..... E così faceva
Gregorio da Montelungo, perchè era dotto nell'arte della guerra, e
sperava ed aspettava la vittoria da Dio; e la ebbe segnalata quando
s'impossessò di Vittoria.......... Anche Vegezio, ne' libri dell'arte
militare a Teodosio Imperatore, insegna mille accorgimenti atti a ben
condurre una battaglia, libri ch'io ho veduti e letti, e sono molto
utili a chi deve sostenere una guerra contro i suoi nemici. Similmente
il Legato Gregorio di Montelungo, quando si trovava in Parma assediata
da Federico, udendo che i Parmigiani mormoravano, perchè non arrivavano
soccorsi contro le astuzie del dragone, cioè di Federico, egli ne
teneva alti gli animi con suoi scaltrimenti. Perciò invitava talora
seco a pranzo alcuni militari dei maggiorenti della città, tra' quali
io fui talora commensale alla sua tavola nel palazzo del Vescovo di
Parma, e mentre si pranzava, ecco arrivare un messo alla porta, che ad
alta voce chiamava e voleva entrare. Allora uno de' famigli del Legato,
a udita di tutti, annunziava al Legato l'arrivo di un nuovo messo.
Egli comandava che subito senza indugio si facesse venire alla sua
presenza; e si presentava un uomo succinto, come in abito da viaggio
di persona che arrivasse da lontano paese, colle scarpe polverose, e
alla cintura la valigia delle lettere; e, prese le lettere, il Legato
comandava che conducessero il messo in disparte a rifocillarsi e
riposare, e che gli imbandissero un buon pasto. Ma il Legato faceva
così per darsi l'aria d'aver compassione della stanchezza del messo,
mentre lo scopo diretto era di impedire che i commensali cercassero
al messo notizie, che poi esso non avrebbe saputo dare, oppure, per
dire qualche cosa, sarebbe caduto in qualche scempiaggine. Nè qui
era finita. Il Legato leggeva le lettere ai commensali, nelle quali
si preavvisava dell'arrivo di soccorsi. Queste cose que' militari
le divulgavano per la città, e il popolo ne faceva le feste, e senza
rincrescimento aspettava. Ma due frati Minori di Milano, cioè frate
Giacomo e frate Gregorio, che stavano permanentemente in casa del
Legato, mi assicurarono che le accennate lettere erano state scritte
la sera antecedente nella camera del Legato. Ma egli, a cautela e con
accorgimento, faceva spesso queste cose per tener vivo lo spirito nel
popolo; e tanto in varii modi tenne alti gli animi de' suoi guerrieri
contro la città di Vittoria edificata da Federico, che la fu presa,
e si completamente rasa al suolo, da non trovarsene più una pietra. È
poi da sapere che l'Imperatore tentò più volte la costanza di Gregorio
con insistenti preghiere, per tirarlo dalla sua, e far seco amicizia,
e gli prometteva di crearlo primo ministro della Corte, sicchè sarebbe
stato secondo dopo lui primo; ma invano Federico s'ingegnava cogli
inganni e colle tentazioni di vincere Gregorio, perchè più facilmente
e più presto si sarebbe fatto deviare dal suo corso il sole (la qual
cosa è creduta impossibile), che corrompere Fabrizio. Così nessuno mai
potè distogliere Gregorio dalla fede data. Questo Legato soleva abitare
o a Milano, o a Parma, o a Ferrara. Ed una volta, ora è già passato
molto tempo, che era a Ferrara, aveva un certo corvo, cui al bisogno
dava in pegno per grosse somme di danaro, e che poi dopo riscattava,
restituendo il danaro ricevuto. Quello era un corvo, che parlava come
un uomo, e si prendeva gabbo di tutti. Di notte sorgeva e chiamava alle
loro stanze gli ospiti forestieri, gridando: Chi vuol venire a Bologna?
Chi vuol venire a Doiolo? Chi vuol venire a Peola? Venga, venga, venga,
presto, presto: sorgete, alzatevi, correte; andiamo, andiamo; alla
barca, alla barca: _voga, voga, arranca, arranca:_ al largo: Timoniere,
prendi la rotta, la rotta. S'alzavano dunque i forestieri novelli,
che non sapevano delle canzonature e delle gabbature di questo corvo,
e colle loro robe e co' bagagli quasi tutta la notte aspettavano in
riva al Po la barca, che li trasportasse ove volevano andare; e non
trovando ivi nessuno restavano tra lo sdegno e la meraviglia di non
sapere da chi fossero stati in tal modo giocati. Così pure questo corvo
era tanto molesto ad un cieco, che quando andava a piedi e a gambe
nude mendicando lungo la riva del Po, gli beccava le calcagna e le
gambe, e poi fuggiva, e, beffandosi del cieco, gli diceva: Or pigliati
questa, or abbiti quest'altra. Ma un dì il povero cieco lo colse col
bastone sull'ala, e disse: Or tocca a te; or tocca a te. E il corvo
rispose: Or tocca a me; or tocca a me. E il cieco: Tienla; prendi la
tua e vanne; i simulatori e gli astuti provocano l'ira di Dio; ti ho
colpito una volta; non sarà necessaria la seconda; va dal medico a
vedere se ti può guarire, giacchè la tua frattura è immedicabile, la
piaga è maligna. Ma il Legato diede in pegno il corvo per danaro, nè
volle più riscattarlo, perchè era ferito. Altrettanto fanno molti, che
licenziano i loro servi quando cominciano a malare. Come fece quello
del 1º dei Re 30º ecc. Operò bene il Centurione, che disse al Signore
Mattia 8º ecc. Così il Legato Gregorio fu un personaggio pari a quello
che descrive l'Ecclesiastico 34º dicendo: _Uomo in molte cose esperto._
Trattò con fedeltà e con accorgimenti gli interessi della Chiesa, e
meritossi il Patriarcato di Aquileia, e lo tenne molti anni sino alla
morte. Ebbe in un certo luogo un colloquio famigliare con Ezzelino
da Romano, e molti fecero le meraviglie che tali due uomini potessero
avere tra loro un colloquio, stantechè Ezzelino era in fama d'essere
un membro del diavolo, e figlio di Belial, a cui nessuno potesse
parlare; e il Legato si reputava un alto cedro del Libano. Tuttavia è
da sapere che Gregorio di Montelungo patì di podagra, e non fu casto;
ed io ho conosciuto alcuna delle sue amanti. Intorno al raccomandare
la castità a molti chierici secolari..... Così è da sapere di Ezzelino
da Romano che Papa Alessandro IV trattava con lui e lo preparava a
diventare d'un membro del Diavolo un figlio di Dio, e un amico della
Chiesa. Ma due ostacoli si frapposero: 1.º che l'ecclesiastico dice,
7º: _Considera le opere di Dio_ ecc; 2.º che Ezzelino, l'anno 1259,
fu fatto prigioniero di guerra, e l'anno stesso morì e fu sepolto nel
castello di Soncino[177], nella diocesi di Cremona. L'anno successivo
poi, 1260, appena cominciata la devozione dei flagellanti, morì
Papa Alessandro IV; e fu ordinato di celebrarne l'anniversario nella
vigilia della traslazione del beato Francesco, cioè ai 24 di Maggio.
Dopo Gregorio da Montelungo fu eletto Legato della Sede Apostolica
Filippo, per grazia apostolica e divina, Arcivescovo di Ravenna;
il quale parla ne' seguenti termini della circoscrizione della sua
Legazione in una sua Notificazione: «E perchè non si sollevi alcun
dubbio sulla circoscrizione della nostra Legazione, sappiano tutti che
a noi è pienamente affidato l'ufficio di Legazione nei patriarcati
di Aquileia e di Grado; nelle città, diocesi e provincie di Ragusa,
Milano, Genova, e Ravenna; ed in generale in Lombardia, in Romagna
e nella Marca di Treviso». Questo Legato era oriondo di Toscana, nel
distretto della città di Pistoia; e, povero qual era, andò scolare a
Toledo, volendo imparare l'arte della negromanzia. Assiso un giorno
sotto un porticato di quella città, un soldato gli domandò che
cercasse; ed avendogli esposto che era Lombardo, e il motivo che lo
aveva condotto là, lo presentò ad un maestro togato di quell'arte,
vecchio, bruttissimo, e glielo raccomandò, pregandolo che per amor suo
lo istruisse diligentemente nell'arte che professava. Quel vecchio lo
fece entrare in camera sua, gli porse un libro e gli disse: Quand'io
mi sarò ritirato, tu potrai quì studiare. E partendosene chiuse bene
la porta e la camera. Ma quando questo giovane cominciò a leggere, gli
apparvero demoni sotto varie forme, di sorci, di gatti, di cani, di
porci, e n'era piena la camera, e per la camera quà e là saltellavano
e scorrazzavano. In mezzo a quella scena egli non osò aprir bocca,
quando d'improvviso si trovò fuori della camera seduto in istrada.
E, sopravvenuto il maestro, gli disse: Che fai quì o figlio mio?
Allora egli raccontò al maestro quanto era accaduto, ed il maestro
lo ricondusse dentro ancora, e, come prima, partissene chiudendo
diligentemente la porta. Ma, riprendendo il giovanetto la sua lettura,
eccogli comparire molti garzoncelli e donzellette ballonzolanti per la
camera. E di nuovo non osando dir verbo, si trovò fuori seduto sulla
via. Ciò vedendo il maestro, gli disse: Voi Lombardi non siete fatti
per quest'arte; lasciatela a noi Spagnuoli, che siamo uomini fieri
e simili ai demonii. Tu poi, o figlio, vattene a Parigi, e studia
la divina Scrittura, che puoi diventar grande anche nella Chiesa di
Dio. Andò dunque a Parigi, e studiò, e imparò assai; e, ritornato
in Lombardia, dimorò a Ferrara in casa del Vescovo Garsendino, che
era uno dei figli di Manfredo di Modena, e fratello dell'Abbate di
Pomposa[178]. Diventò poi camerlengo del Vescovo, che, morto, ebbe
un successore, e morto anche il successore, costui fu eletto Vescovo
di Ferrara, e restò molt'anni l'eletto di Ferrara, finchè fu poi
creato Vescovo di Ravenna. E quando Papa Innocenzo IV da Lione venne a
Ferrara, costui ivi...... Fatto dunque Legato l'Arcivescovo di Ravenna
Filippo, si recò a Ferrara nel tempo, in cui i Re sogliono cominciare
le guerre. (Il tempo, in cui i Re sogliono cominciare le guerre è il
mese di Maggio, perchè la stagione è serena, ridente, temperata, nella
quale l'usignolo canta quasi sempre, e si trova erba in abbondanza
pe' buoi e pe' cavalli). Venuto a Ferrara convocò tutti gli abitanti
della città e i Padovani fuorusciti, che ivi erano ospiti, e arringò
dalla porta principale della chiesa madre, dedicata a S. Giorgio,
(quella della diocesi poi era dedicata a S. Romano) e vi si trovarono
tutti i religiosi e i popolani, ragazzi e adulti, i quali speravano
di udir parlare della grandezza delle opere di Dio. Anch'io vi era,
e mi trovava a fianco dell'Arcivescovo, e con me, e seduto accanto
a me, vi era Bongiorno Giudeo, che era mio famigliare, e desiderava
anch'egli di udire. Ritto adunque il Legato sulla porta della casa del
Signore, cominciò a parlare a voce alta; e l'arringa fu breve, perchè
poche parole, e molte opere, debbono farsi, quando sono da tradurre
in atto le imprese di cui si parla. Notificò adunque al popolo che
egli era stato fatto Legato dal papa per andare contro Ezzelino da
Romano, e che perciò voleva fare una crociata per riconquistare Padova,
e ricondurre nella loro città i Padovani espulsi; e che chiunque si
facesse inscrivere soldato nell'esercito, che voleva levare per quella
impresa, acquisterebbe l'indulgenza, il perdono e l'assoluzione di
tutti i proprii peccati. E nessuno osi dire: È impossibile che noi
possiamo sconfiggere quell'uomo diabolico, temuto dai diavoli stessi;
perchè ciò non sarà impossibile a Dio, che combatterà per noi. E
aggiunse: Io dico a Voi, ad onore e gloria di Dio onnipotente, e dei
beati Pietro e Paolo di lui Apostoli, nonchè del beato Antonio, che
si venera in Padova, che se anche io non avessi con me che orfani,
pupilli e vedove, e le persone bersagliate da Ezzelino, non mi verrebbe
meno la speranza di riportare vittoria sopra quel membro del diavolo
e figlio dell'iniquità; poichè già le grida della sua iniquità sono
salite al cielo, e dal cielo si roterà la spada contro di lui. Queste
parole del Legato fecero esultare di allegrezza gli ascoltatori; e,
raccolto un esercito, a tempo opportuno marciò all'espugnazione di
Padova, fortemente munita da Ezzelino di mille cinquecento armati,
uomini robusti ed espertissimi della guerra. Ma Ezzelino era altrove,
e temeva tanto di perdere Padova, quanto Iddio teme che cada il cielo,
specialmente perchè era cinta da triplice muraglia, ed aveva fosse ed
acque all'esterno ed all'interno, ed, oltre i soldati, una moltitudine
di popolo; e, per giunta, Ezzelino, anzi che potenti ad espugnare e
prendere quella città, giudicava i suoi nemici, imbelli, senza valore
e senza perizia dell'arte della guerra. Ma in questo esercito vi era un
frate laico dell'Ordine dei Minori, nativo di Padova, di nome Clarello,
da me veduto e conosciuto a fondo, che aveva cuor di leone, e ardeva di
desiderio che i Padovani, profughi già da tanto tempo, fossero rimessi
nella loro città. Questi, riconosciuto che il momento era favorevole,
e sapendo che: «_Dio si vale dei più deboli per umiliare i forti_» si
fece portabandiera dell'esercito, per provare se mai per caso volesse
Iddio per mano di lui salvare tanta gente. Si mise dunque alla testa
dell'esercito, e, trovato un campagnuolo che aveva tre cavalle, gliene
tolse a forza una, e montatala, impugnò una pertica che gli servisse
come di lancia: e cominciò a scorrazzare di quà e di là, e gridare
altamente: Su via, coraggio, soldati di Cristo; su via, coraggio,
soldati del beato Pietro; su via, coraggio, soldati del beato Antonio;
scuotetevi di dosso il timore, e confortatevi in Dio. Non ci volle
di più. Alle parole di lui si inanimò e infiammò tanto la milizia che
si deliberò di seguirlo ovunque andasse. E ripigliava frate Clarello:
Andiamo, andiamo; Addosso, addosso; la salvezza è nelle mani di Dio;
sorga Iddio.......... Andò dunque l'esercito seguendo Clarello che
precedeva e col vessillo in mano e coll'accesa parola infocava gli
animi alla guerra, e campeggiò all'assedio della città. A quelli
poi che eran dentro svegliò Iddio la paura in cuore, e non osarono
resistere. In quell'esercito eravi anche un altro frate Minore, uomo
santo e devoto a Dio, che da secolare era stato ingegnere meccanico di
Ezzelino coll'incarico di costruire macchine, trabucchi, gatti e arieti
per diroccare le città e le castella. Il Legato, stantechè costui non
voleva uscire dall'Ordine, gli comandò, in virtù di santa obbedienza,
di svestire l'abito del beato Francesco, e indossare un vestiario
bianco, e fabbricare un gatto così potente da poter aprire subito le
muraglie della città. Il frate obbedì umilmente, e prestissimo inventò
un gatto, che nella parte anteriore gettava fuoco, e dentro vi stavano
rimpiattati uomini in armi; e così la città fu presa incontanente.
Entrati in città, i partigiani della Chiesa non vollero fare offesa
ad alcuno, nè uccidere, nè imprigionare, nè spogliare, nè rapinare,
ma perdonarono a tutti, e li lasciarono tutti liberamente uscire.
E si tenevano ben felici di potersene partire schivando offese e
catture. Pertanto tutta la città si levò in allegria ed esultanza.
Erano uomini pestiferi quelli che se la svignarono da Padova; erano
distruttori e dissipatori quelli che da Padova fuggirono; e furono
riparatori quelli che vi rientrarono...... E siccome la vittoria
l'ebbero riportata e la città fu presa l'ottava di S. Antonio, perciò
i Padovani festeggiano più solennemente l'ottava che la festa di S.
Antonio. Quindi s'attaglia ottimamente a questo fatto ciò, che si
legge sulla fine del libro di Ester: _Perocchè questo giorno_ ecc.
sino all'ultimo versetto, che parla di cose consimili. Ma così non
cantano i Bolognesi di parte della Chiesa, che non vogliono sentirlo
nominare questo Santo in Bologna, perchè l'anno 1275 furono, appunto
il dì di S. Antonio, dai Bolognesi fuorusciti, cioè dai Lambertazzi,
e dai Faentini, e dai Forlivesi, al ponte di S. Procolo, sconfitti in
battaglia, morti, fugati, fatti prigionieri e incatenati nelle carceri.
E l'anno avanti, cioè nel 1274, gli stessi Lambertazzi furono espulsi
di Bologna dal partito della Chiesa il 1º di Giugno, dopo aver avuto
tra loro guerra civile......... Ed il Legato, che anche prima era uomo
di gran rinomanza e riputazione, dopo la presa della città di Padova,
riacquistò fama che risuonò altissima ed amplissima. Egli molto tempo
prima era stato Legato in Alemagna, allorchè, dopo la deposizione di
Federico, fu eletto Imperatore il Langravio. (Al tempo di quella sua
Legazione vi erano in Alemagna tre provincie, nelle quali dimoravano
alcuni famigerati religiosi, che dato un calcio alle discipline del
loro Ordine, non volevano obbedire ai Ministri. E, andando eglino a
consultare il Legato, li faceva sostenere e consegnare nelle mani de'
Ministri, perchè li giudicassero, e su loro pesasse quella sentenza,
che era conforme agli Statuti dell'Ordine). Or avvenne che il Langravio
morì; ed egli, che era in altra città, udito della morte del Langravio,
e temendo di Corrado figlio di Federico, che faceva tener molto vigili
gli occhi sull'Alemagna, comandò ad uno de' suoi domestici che per
parecchi giorni non aprisse la camera di lui a nessuno, macchinando
egli di fuggire per non restare prigioniero; e con mentito vestiario
e un solo compagno occultamente andò al convento de' frati Minori, e
chiamato il Guardiano in disparte, gli disse: Mi conosci tu? A cui egli
rispose: No. E il Legato ripigliò: Conosco ben io te; e ti comando in
virtù d'obbedienza di tenere in te e non rivelare a nessuno le cose
che ti dirò, sino a che non ne avrai licenza da me; e di non parlare
a nessuno se non in mia presenza, e non in tua lingua tedesca, ma
sempre in latino. Or ti dico che il Langravio è morto, ed io sono il
Legato: darai dunque a me e al mio compagno un abito del tuo Ordine,
e senza indugio ci trafugherai e condurrai in luogo sicuro, chè io
fuggo per non cader prigioniero di Corrado. Questo bastò perchè ogni
cosa fosse subito e di buon grado eseguita. Ma volendolo condurre
fuori di città, trovò una porta chiusa; trovò chiusa la seconda e la
terza. Ma alla terza videro che un cane grosso usciva fuori per un
vano che era sotto tra l'imposta e la soglia, e parve loro di poter
per quello uscire anch'essi. Ma provandovisi, il Legato per la sua
grossezza non poteva sbucare. Allora il Guardiano puntò con un piede
su le natiche del Legato e spingendo lo fece passare. Usciti per quel
pertugio tutti e quattro, presero la via, ed in giornata arrivarono
ad una città, ove era un convento di sessanta frati Minori; dai quali,
interrogato il Guardiano che cercava ospitalità chi fossero quei frati
che conduceva seco, egli rispondeva: Sono Grandi di Lombardia; per amor
di Dio mostratevi con loro liberali e cortesi, fate a loro servizio
e onore a voi; giacchè l'onore non è solo e tutto di quelli a cui si
fa, ma la miglior parte è di chi lo fa, ed è da reputarsi veramente
cortese colui, che di buon animo e con fronte lieta e serena, e senza
speranza di ricambio, è liberale di servigi a persone sconosciute.
Si presentò dunque il Guardiano di quel convento con dieci frati del
convento stesso, e pranzò col Legato e compagni in foresteria con tutta
famigliarità e allegramente, mostrando di ricevere molta consolazione
dalla presenza di quegli ospiti. Or conoscendo il Legato di essere in
sicuro, e di aver sfuggito ogni pericolo, dopo il pranzo diede facoltà
al Guardiano che lo aveva accompagnato di farlo conoscere. Perciò quel
Guardiano forestiere disse ai frati: Sappiate, fratelli carissimi, che
questo frate, col quale avete pranzato, è il Legato del Papa; e l'ho
condotto qui da voi perchè è morto il Langravio, e qui non c'è punto da
temere di Corrado. Nessuno finora ne sapeva nulla, neppure il compagno
mio, che è venuto qui meco. Udendo queste cose i frati, cominciarono a
tremare come giunchi nell'acqua corrente; ma il Legato disse loro: Non
abbiate timore, o frati; io ho conosciuto che voi albergate negli animi
vostri l'amor di Dio; ci serviste con prontezza; ci accoglieste con
festa e cortesia; Iddio ve ne rimeriti. Io era amico dell'Ordine del
beato Francesco, e lo sarò in tutta la mia vita. E di fatto fu così.
Diede ai frati Minori la chiesa di S. Pietro maggiore di Ravenna; ne
concedeva ogni grazia che si domandava, di predicare, di confessare,
di assolvere da tutti i peccati a lui riservati. Aveva una caterva
di servidorame terribile e feroce, ma tutti erano reverenti verso i
frati Minori, come fossero stati gli Apostoli di Cristo, sapendo che
eravamo addentro nelle grazie del loro padrone; ed erano ben quaranta
uomini armati, che aveva sempre seco a guardia della sua persona, e lo
temevano come il diavolo. Ed Ezzelino da Romano era poco più temuto.
Imponeva a' suoi servi severissime punizioni. Di fatto andando un
giorno ad Argenta[179], che è castello arcivescovile, fece legare un
servo con una fune ed immergerlo nell'acqua, e, così legato ad una
barca, lo fece trascinare per le acque delle valli, come se fosse
stato uno storione. E tutto questo perchè s'era dimenticato di portar
seco il sale. Altra volta ne fece legare uno ad una grossa pertica,
e girare come allo spiedo vicinissimo al fuoco. E piangendo gli altri
servi per compassione e per pietà al vedere quel crudele spettacolo, si
rivolse a loro dicendo; A che piangete, o miserabili? e comandò che si
allontanasse dal fuoco; ma ne aveva già avuto spavento e scottature.
Gettò in una prigione legato un suo castaldo di nome Ammanato,
Toscano, per accusa d'aver consumate le rendite di lui, e i sorci lo
rosicchiarono tutto. Molte altre crudeltà commise colle persone del suo
servizio per vendetta, per punizioni e per esempio agli altri. Perciò
Iddio permise che restasse prigioniero di Ezzelino, quando era tuttavia
Legato; e lo teneva sotto buona guardia e lo conduceva seco ovunque
andava per sicurezza che non gli sfuggisse. Però Ezzelino lo trattava
con reverenza e onorificamente, sebbene gli avesse rapita di mano la
città di Padova. Ma Colui che liberò dal carcere Manasse, e lo restituì
nel suo regno, liberò anche costui nel modo che segue. Un certo
Gerardo, banchiere di Reggio, lo cavò dalla prigione di Ezzelino, e
con una fune lo fece calar giù dal solaio, e così nel nome del Signore
evase dalle mani di Ezzelino. Egli poi non fu immemore del beneficio,
o piuttosto del servigio ricevuto, e ne lo ricambiò nominandolo
Cardinale di Ravenna. E a frate Enverardo di Brescia, dell'Ordine de'
Predicatori, e lettore magno, diede il Vescovado di Cesena, perchè
apparteneva alla sua Corte, e fu fatto insieme a lui prigioniero; il
qual frate Enverardo uscì di carcere dopo la morte di Ezzelino, quando
furono scarcerati anche tutti gli altri, che quel maledetto di Ezzelino
teneva prigioni. Questo Arcivescovo aveva due nipoti, cioè Francesco
e Filippo; ma veramente Filippo era suo figlio, ed aveva venticinque o
trent'anni, avvenente e bello come un Assalonne; e Filippo Arcivescovo
di Ravenna e Legato della Chiesa romana lo amava come l'anima sua.....
Chiunque pertanto voleva empir le mani di quei due, poteva avere o
una prebenda, o qualunque altra cosa avesse voluto dall'Arcivescovo;
onde ne diventarono ricchissimi. Ebbe anche una figlia bellissima, cui
volle dare in moglie a Giacomo di Bernardo, ma non la volle, perchè non
era figlia legittima, e poi non voleva in dote beni che erano della
Chiesa, ed anche perchè inclinava dell'animo a farsi frate Minore,
e morire nell'Ordine del beato Francesco, come poi avvenne. Questo
Arcivescovo era poi talora tanto melanconico, triste e furioso e
figlio di Belial, che nessuno gli poteva parlare. A me però fu sempre
benevolo, famigliare, cortese e liberale; e mi regalò quelle reliquie
del beato Eliseo, che erano in S. Maria del Fortico presso Ravenna, nel
monastero di S. Lorenzo, in un'urna di marmo nella cappella reale; ed
io ne portai le ossa principali e più cospicue a Parma, e le collocai
nell'altar maggiore della chiesa dei frati Minori, e vi sono tutt'ora
colla seguente epigrafe, oltre un'altra che vi avevano apposta in
piombo:

                            HIC VIRTUTE DEI
                      PATRIS OSSA MANENT HELYSEI,
                             QUAE SALIMBENE
                           DETULIT OSSA BENE

                                  URNA
                      DELLE OSSA DEL PADRE ELISEO
                               DONO SACRO
                     DELLA PIETÀ DI FRATE SALIMBENE

Ma non potei avere la testa di Eliseo, perchè gli Eremitani, di abuso,
l'avevano levata, e portata via; e l'Arcivescovo si curava più di
guerra che di religione. Una volta venne a Faenza, quand'era Legato,
dove io pure abitava, e dovendo entrare nel convento di S.ª Chiara,
perchè la Badessa voleva conferire a lungo con lui, mandò cercando
alcuni frati, che, tanto per far tacere la maldicenza, quanto per
onor suo, l'accompagnassero. Credo che nessuno al mondo più di lui
ambisse ricevere dimostrazioni d'onore, e nessuno più di lui sapesse
farla da gran Signore e da Barone, come ho giudicato io stesso, ed ho
udito anche da altri. Andammo dunque, dieci frati, a fargli corteggio
d'onore, e dopo che ci fummo scaldati, (era un sabato di Gennaio, a
buon mattino, festa di S. Timoteo) vestì gli indumenti sacerdotali per
entrare nel monastero coi riguardi dovuti alla decenza e all'onestà.
E, mettendosi un camice che aveva le maniche strette, s'inquietava.
Ed il Vescovo di Faenza gli disse: A me non è stretto, e me l'infilo
nelle braccia comodamente. A cui l'Arcivescovo rispose; Come? È forse
tuo questo camice? È mio, disse il Vescovo. E il mio dov'è dunque?
ripigliò l'Arcivescovo; e si scoprì che uno dei servi l'aveva portato
a Ravenna. In vero, disse l'Arcivescovo, mi meraviglio io stesso della
pazienza, che ho; ma lo punirò poi, giacchè, non essendo quì, non
posso punirlo ora: cosa differita non è perduta. A questo punto io
dissi all'Arcivescovo: Padre, portate pazienza; la pazienza è virtù di
perfezione; e il Savio ne' Proverbii 25.º dice: _Il Principe si piega
con sofferenza, e la lingua dolce rompe l'ossa_. Allora l'Arcivescovo
soggiunse: Il savio ne' Proverbii 23º dice anche: _Chi risparmia la
verga, non vuol bene a suo figlio_. Accortomi che l'Arcivescovo aveva
fermo il proposito di infliggere al servo una punizione, soggiunsi:
Padre, lasciamo questo discorso, e parliamo d'altro. Celebrate, voi,
oggi la messa? E disse: No; voglio che la canti tu. Ed io risposi:
Obbedirò e la canterò. Allora l'Arcivescovo riprese: Volete ch'io vi
predica qualche cosa del Papa futuro? (per la morte di Papa Urbano IV
di Troyes era vacante la cattedra di S. Pietro). Sì, Padre, rispondemmo
in coro, ditene chi sarà il Papa futuro. E disse: Papa Gregorio IX amò
assai l'Ordine del beato Francesco; ora succederà Gregorio X, che amerà
di gran cuore i frati Minori. (E voleva alludere a sè medesimo, perchè
ambiva molto di avere il Papato, e lo sperava anche, sia perchè aveva
molta deferenza pe' frati Minori; sia perchè il maestro in negromanzia
di Toledo gli aveva presagito che sarebbe diventato grande nella
Chiesa di Dio; e gli prestava fede, trovandosi già in eminente grado
collocato; sia perchè i Cardinali erano talvolta discordi nell'elezione
del Pontefice; e più ancora perchè già si buccinava qualche cosa di
lui a questo proposito). Allora io presi la parola e soggiunsi: Padre,
per grazia di Dio sarete voi quel Gregorio X: Voi ne avete prediletti
sin ora; Voi ne porterete ancora più amore per l'avvenire. Ma così
non avvenne; non successe un Gregorio X, sibbene un Clemente IV; nè
l'Arcivescovo di Ravenna ebbe il Papato. Fatte dunque queste ciarle,
l'Arcivescovo, che era anche Legato, soggiunse: I frati che verranno
meco nel monastero saranno tutti quelli che si trovano quì presenti;
de' miei nessuno entrerà, tranne il Vescovo di Faenza, l'Arcidiacono
di Ravenna, e il Podestà di questa Terra. Era allora Podestà di Faenza
Lambertino dei Samaritani, Bolognese, che era figlio di una sorella
della Badessa di Faenza; la quale era nativa di Faenza stessa, e
sapeva, quando le piaceva, col gentile e accorto parlare e co' doni,
cattivarsi il cuore di tutti; ed aveva così allacciato l'animo del
Cardinale Ottaviano che in ogni cosa che gli domandava se lo aveva
favorevole, benevolo e condiscendente. Arrivati alla porta della
chiesa, trovammo ivi un frate converso con un incensiere che mandava
globi di fumo, ed incensato il Legato, questi prese l'incensiere
dalle mani di lui, ed incensò tutti i frati, che entravano in Chiesa,
dicendo: _de lincenso ali frati me: de lincenso ali frati me: de
lincenso ali frati me._ Che era come dire: Incenso i miei frati. Dopo
ci inviammo alla scala, e nel salire, poi nello scendere ed uscire,
si appoggiava a me, in parte per boria, e in parte per bisogno; ed
io lo reggeva a destra, e l'Arcidiacono di Ravenna a sinistra. Nella
chiesa, che non era al piano terreno, si trovò raccolto tutto il
convento di quelle donne, in numero di settantadue; e celebratasi la
messa solennemente, e sbrigati gli affari, e dati i consigli opportuni,
usciti dal monastero, trovammo un buon fuoco. E subito suonò nona;
ed il Legato, mentre svestiva gli abiti pontificali, disse: Vi invito
tutti meco a pranzo. E credo che ben dieci volte in quel suo dialetto
toscano ripetesse _Mo è ve 'nvito, e sì ve renvito._ Che era come dire:
Vi invito a pranzo, e vi prego di non mancare. Erano però que' frati
tanto timidi e in soggezione, che non potei condurne meco che due;
gli altri andarono a pranzare al convento dei frati. Quando arrivai al
palazzo del Vescovo, il Legato mi disse: Oggi è sabato, e il Vescovo e
il Podestà vogliono mangiare di grasso; lasciamoli, e andiamo alla sala
del mio palazzo, chè troveremo imbandito un buon pranzo. Mi condusse
dunque seco, mi fece sedere a tavola accanto a sè, e più volte mi
disse che s'aveva avuto molto per male ch'io non l'avessi onorato di
condurre meco gli altri frati, e che li aveva invitati tutti. Ed io
non aveva coraggio di dirgli che non erano voluti venire; perchè se
ne sarebbe impermalito ancor più; invece io risposi che un'altra volta
avrebbe commensali tutti i frati del convento. Ed egli ci teneva molto
alle dimostrazioni d'onore, che gli si facevano. Anche l'Arcidiacono
venne con noi, ma sedette in disparte alla tavola bassa. Era egli
un mio conoscente ed amico, e mi mandò un regalo. Questo Filippo
Arcivescovo di Ravenna, per ordine di Papa Alessandro IV, poichè di
nuovo correvano voci di invasioni di Tartari, convocò a Concilio in
Ravenna, nella Chiesa Orsiana, che è la Chiesa Arcivescovile, tutti i
Vescovi suoi suffraganei per discutere e deliberare intorno al modo di
provvedere all'utilità della Chiesa, e per raccomandare che tutte le
Chiese e le prebende fossero pronte a soccorrere colle rendite loro
la cristianità contro i Tartari, quando il Papa lo ordinasse; e che
intanto facessero preghiere per tener lontano da loro e dal popolo
cristiano le nazioni barbare. A questo Sinodo intervennero i Preti,
gli Arcipreti, i Canonici, e gran numero di altri chierici. Aveva
anche l'Arcivescovo mandato dicendo a tutti i Guardiani dell'Ordine
de' frati Minori della provincia di Bologna che andassero al Sinodo
co' loro lettori. Ed erano già sull'andare, quando frate Bonagrazia,
che era Ministro, non volle che nessuno vi intervenisse, tranne frate
Aldobrando da Fojano[180], che era già stato Ministro, ed allora era
lettore a Modena: ed io l'accompagnai fino a Ferrara. Frate Bonagrazia
però, che era Ministro, e non volle andarvi, conferì tutti i suoi
poteri a frate Aldobrando, e mandò con lui frate Claro di Firenze
e frate Manfredo di Tortona, che erano ambidue chierici e dottori
illustri. In quel Concilio il clero secolare colse l'occasione di
sfogarsi contro i frati Minori e i Predicatori, accusandoli di non
predicare l'obbligo di pagar le decime; di confessare i parocchiani che
dovrebbero confessarsi dai parroci; di fare le esequie e dar sepoltura,
quando muoiono, ai fedeli dipendenti dalle parocchie; e di esercitare
l'ufficio di predicatori, che spetta ai parroci; conchiudendo che,
per questi quattro motivi, erano cagione che il clero secolare non
potrebbe soccorrere di denaro le imprese della cristianità. A questo
punto s'alzò Obizzo Sanvitali, Vescovo di Parma e nipote del fu Papa
Innocenzo IV di buona memoria, e difese benissimo i frati Minori
e Predicatori, sostenendo che le accuse lanciate contro questi due
Ordini, e le colpe che loro s'imputavano, non solo non erano di nessuno
impedimento al clero secolare, ma piuttosto di aiuto a godere con più
libertà i proprii beni. E, in molte maniere argomentando, confutò que'
chierici e giustificò i frati Minori e i Predicatori, per cui venne
in odio al clero secolare, che lo reputava suo mortale nemico. Anche
l'Arcivescovo vedendo che pei suaccennati motivi i frati Minori e i
Predicatori avevano molti nemici mordaci, prese la parola e ne fece
una forte difesa, e tra l'altre cose disse: «Miserabili e stolti, io
non vi ho qui convocati per aguzzare le lingue velenose contro questi
due Ordini, che sono stati dati da Dio alla Chiesa in aiuto vostro, e
a salute del popolo cristiano e di tutti, ma vi chiamai per deliberare
qualche cosa contro i Tartari, come a me e agli altri Metropolitani
comandò il Papa.» E udendo che tuttavia borbottavano, riprese le sue
prime parole e soggiunse: «Miserabili e stolti, a chi affiderò io il
ministero di confessare i secolari, se non confessano i frati Minori e
i Predicatori?..... Affiderò io dunque al prete Gerardo, ch'è qui che
m'ascolta, le donne da confessare, mentre io so che ha la casa piena
di figli suoi e di figlie? E volesse il cielo che il prete Gerardo
fosse solo, e in tanta bruttura non avesse compagni!......» Avendo
l'Arcivescovo toccato questo tasto in pubblico, tutti quelli che si
sentivano la coscienza brutta diventarono rossi di vergogna.......
In quei giorni io abitava a Modena; ed uscito di Modena, in viaggio
per Bologna, ecco lungo la via farmisi innanzi tre Arcipreti, miei
famigliari ed amici, reduci dal Concilio. Ed uno era l'Arciprete di
Campogalliano[181]; l'altro era un fratello di frate Bonifacio de'
Guidi, dotto decretalista, ed Arciprete di Cittanova[182]; il terzo
era Arciprete di Trebbio[183], che è tra l'Apennino, dove una volta io
andai a casa sua. E li interrogai del perchè era stato convocato quel
Sinodo d'onde tornavano, e di che avevano trattato, se pure potevano
dirmene. E mi risposero che il Sinodo era stato fatto per provvedere
al caso di una invasione dei Tartari, e fu ordinato, che, al bisogno,
il clero secolare, che gode di prebende, dovrà dare soccorso alla
Chiesa romana pel bene comune della cristianità contro la malignità
dei Tartari. E allora molti di noi sorsero a parlare con fuoco contro
i frati Minori e i Predicatori, e ci siamo lamentati, e vi abbiamo
accusati di quattro danni, che ne fate, e che noi non possiamo in modo
alcuno tollerare. Ma non si diede retta alle nostre querele, nè le
nostre ragioni trovarono alcuna soddisfazione; e per arrota, il nostro
Metropolitano e il Vescovo di Parma, che assunsero le vostre difese,
ne caricarono d'oltraggi e di vitupero. Laonde vi preghiamo di venire a
trovarci, quando sia che vi piaccia, e ne abbiate tempo, per conferire
intorno a quelle quattro cose, e disputando e discutendo, cercare da
che parte stia la ragione. A cui risposi: Verrò volentieri. E, quando
poi ci trovammo a convegno, mi dissero: Noi e con noi tutti i chierici
e prebendati ci lamentiamo che i vostri due Ordini ci rechino danni
che noi reputiamo gravi. Il primo, riguarda le decime, delle quali
dovreste parlare di frequente nelle vostre predicazioni, acciocchè i
laici secolari non manchino di pagarle, specialmente che sono obbligati
a darle di precetto divino. Il secondo, riguarda le sepolture, chè
voi volete fare esequie e dar sepoltura a' morti, che quando vivevano
erano sotto la nostra giurisdizione parocchiale; e perciò le nostre
chiese vengono spogliate di molti proventi temporali. Il terzo è che
voi con nostro dispiacere e contro la nostra volontà vi arrogate di
confessare i nostri parocchiani. Il quarto ed ultimo si è che voi vi
siete onninamente usurpato il ministero della predicazione, cosicchè
il popolo non ci vuol più ascoltare. A che io di rimando: Noi non
abbiamo la missione di predicare le decime; ma voi che dovete averle
e goderle, voi potrete richiamare a memoria del popolo il dovere di
pagarvele; nè pare conveniente che quando noi, predicando, siamo sul
parlare di qualche Apostolo, o di qualche altro gran Santo, si abbia
da interrompere il discorso di quella solennità per raccomandare
che si paghino le decime; anzi ci meravigliamo di voi, e ci abbiam
per male che voi vogliate imporci queste brighe. A questa stregua
potreste anche lamentarvi perchè non veniamo a mietere e a trebbiare
per voi le vostre biade...... Gli interessi secolari debbono essere
curati e trattati da persone di meno considerazione. Noi eleviamo
più alto lo scopo della nostra predicazione, e quando parliamo della
restituzione del mal tolto, veniamo a dire anche delle decime. Non
siamo però obbligati di inserire in ogni nostra predica parole sulle
decime, perchè sarebbe grave sconvenienza, e il popolo sdegnerebbe
di ascoltarci. Allora solo potreste con ragione dolervi, quando si
insegnasse che le decime non sono da pagare; il che nessuno di noi
ha fatto mai, principalmente perchè il Signore in Malachia 3º, dice:
_Nelle decime e nelle primizie_ ecc. Ma quando ripenso a qual fine e
con quale intendimento Iddio disse: _Portate le decime nel mio granaio,
perchè non manchi vitto in casa mia;_ mentre io so che in casa di
certi prebendati il vitto vi è in superflua abbondanza, e che hanno
tanta terra da non bastare venti paia di buoi ad ararla, non intendo
con quale coscienza osino predicare che si paghino loro le decime,
specialmente poi perchè elargiscono le ricchezze ecclesiastiche ai già
ricchi parenti, alle amanti, alle concubine, alle amiche, anzi che ai
poverelli di Cristo. E in tutto l'anno, quando vado alla cerca, dalle
case di que' cotali non posso avere un solo pane; che anzi ammettono
piuttosto alla loro famigliarità le compagnie degli istrioni e dei
giullari. Passiamo al secondo appunto, che riguarda le sepolture;
intorno alla qual cosa dirò che non senza un'alta ragione i Romani
Pontefici hanno consentito a chiunque di aver sepoltura ove sia che
voglia...... Della giustizia di quelle chiese, che ricevono le salme
dei defunti...... Se contro la volontà del proprio parroco, sia lecito
confessarsi da altro prete prudente, o se vi sia obbligo di confessarsi
dal proprio parroco...... Che in cinque casi se ne deve ritenere
come ottenuta la licenza...... Nota che i frati Minori ebbero da Papa
Gregorio IX il privilegio di confessare. Frate Bonaventura Ministro
Generale interrogò Papa Alessandro IV se gli piacesse che i frati
Minori confessassero, ed egli rispose: Anzi lo voglio, e ti narrerò un
fatto orribile, e che par quasi inventato per canzonare. [Narrazione
canzonatoria, ma vera, fatta da Alessandro IV a frate Bonaventura
Ministro Generale dell'Ordine de' Minori, riguardante ad un sacerdote
che sollecitava......]. Altro doloroso racconto. Conobbi un frate Umile
da Milano, che fu custode a Parma. Questi, quando dimorava nel convento
de' frati Minori di Fanano[184], in tempo di quaresima era tutto in sul
predicare e confessare. Il che udendo quegli abitanti dell'Appennino,
uomini e donne mandarono pregandolo che per amor di Dio e per la salute
delle anime loro, avesse la degnazione di recarsi tra loro, perchè
volevano confessarsi da lui, e, preso un compagno, si recò tra quegli
alpigiani, predicò, confessò molti giorni, fece molte buone cose, e
diede utili consigli. Un dì gli si presentò una donna, che si voleva
confessare...... Il frate gli diede l'assoluzione, e le disse: Che
significa questo coltello, che hai in mano, ed a che lo tieni in mano
in quest'ora, in questo momento? La quale rispose: Padre, veramente io
aveva proposto di togliermi la vita, se mi aveste invitata a peccare,
come fecero altri sacerdoti...... Operò dirittamente Papa Martino
IV, quando conferì all'Ordine de' frati Minori l'utile privilegio
di predicare e di confessare liberamente, nulla ostante che la loro
Regola prescrivesse ai frati di non predicare in nessuna diocesi senza
il permesso del Vescovo. Ora che scrivo volge l'anno 1284, giorno
della vigilia di S. Giovanni Battista; ma quando io parlava con quegli
Arcipreti correva il tempo del pontificato di Alessandro IV di buona
memoria. In risposta poi alla quarta accusa, che ne movono i sacerdoti
secolari, cioè di esserci usurpato il ministero della predicazione,
mentre eglino ne hanno l'obbligo, come investiti delle prelature......
noi diciamo che realmente ne correva loro il dovere, quando non ve
n'erano dei migliori di loro che predicassero; ma siccome essi se
n'erano resi indegni per la mala vita che conducevano, e per la poca
scienza che avevano, perciò il Signore ne fece sorgere de' migliori di
loro...... Tali sono i sacerdoti e i chierici del nostro tempo; e non
vogliono che i frati Minori e Predicatori possano campare la vita, il
che è un eccesso di crudeltà; e non vorrebbero nemmeno che potessimo
vivere di quelle limosine, che a gran fatica e col rossore sul volto
raccogliamo accattando. Eppure nell'Ordine de' frati Minori e de'
Predicatori molti vi sono, che se vivessero nel secolo meriterebbero
le prebende, e forse più di loro; perchè tra i frati se ne trovarono,
e se ne trovano oggi di nobili, di ricchi, di potenti, di letterati,
di saggi come tra loro, e al pari di loro potrebbero diventare preti,
Arcipreti, Canonici, Arcidiaconi, Vescovi, Arcivescovi, e fors'anche
Patriarchi, Cardinali e Papi. E perciò dovrebbero essere riconoscenti
verso di noi, che tutte queste dignità abbandonammo a loro, e,
per vivere giorno per giorno, andiamo mendicando; nè possediamo le
cantine di vino, nè i granai di frumento, che sono pieni in casa loro;
nullameno sosteniamo predicando una fatica che spetterebbe a loro,
e per giunta dobbiamo ingollarci bocconi amari; ed essi dormono in
letti fregiati d'avorio, e non hanno nessuna compassione de' frati,
che hanno fatto il gran rifiuto di tutti i beni temporali...... I
sacerdoti e i chierici secolari si erano lamentati con Papa Innocenzo
IV che nelle messe non potevano ricevere offerte, perchè questi due
Ordini celebrano le loro messe in modo che tutto il popolo corre da
loro: perciò domandavano che fosse loro fatta ragione. A cui il Papa
rispose: Alcuni de' frati dicono messa sul far del giorno, altri a
mezza terza, altri dopo cantata terza; non saprei dunque, a sentir
voi altri, quando mai dovessero eglino dirla la messa. Dopo pranzo
non debbono dir messa, nè dopo nona, nè all'ora di vespro, e quindi
non saprei come fare ad esaudirvi. Tuttavia volendo il Papa dar loro
qualche soddisfazione, perchè ne lo seccavano troppo, e perchè sperava
di svincolarne poscia i frati Minori, scrisse che questi due Ordini,
almeno ne' giorni delle feste solenni, non aprissero le porte delle
loro chiese, che dopo terza, affinchè i sacerdoti secolari, le chiese
parocchiali e le chiese madri non fosser defraudate delle oblazioni. Ma
avendo poi frate Giovanni da Parma Ministro Generale mandato dal Papa
frate Ugo Zampoldo di Piacenza, che era un fisico distinto e lettore
di teologia nell'Ordine de' Minori, e dimorava presso Ottobuono nipote
del Papa, che fu poi anch'esso Papa Adriano V, a pregarlo che per amor
di Dio e del beato Francesco, ed anche per onore e vantaggio suo, e per
la salute di tutto il popolo cristiano, annullasse quella disposizione,
non lo esaudì...... ed era così malato morto Papa Innocenzo IV; ed
ivi erano presenti due frati Minori tedeschi, che dissero al Papa:
Certamente, Santo Padre, noi stemmo in questo paese molti mesi per
avere un colloquio con voi, e con voi ordinare le cose nostre; ma
i vostri portieri non ci permettevano di entrare a vedere la vostra
persona. Ora non si curano più d'avervi i dovuti riguardi, perchè nulla
più da voi aspettano. Ma noi laveremo il vostro corpo...... Dopo pochi
giorni fu eletto Papa Alessandro IV, che era il Cardinale protettore,
governatore e censore dell'Ordine de' Minori, che subito annullò la
detta ordinanza. Tuttavia un certo Parmigiano, maestro Guglielmo da
Gattatico[185], che fu vice-cancelliere sotto Papa Innocenzo IV, che
era stato promotore e sollecitatore di questi danni nostri, e non
amava i religiosi, non se la passò impunemente. E quando malato si
fece portare al paese nativo colla speranza che quell'aria lo facesse
guarire, morì in Assisi, e fu sepolto nel convento del beato Francesco.
Argomentando io a questo modo intorno alle preaccennate accuse, quegli
Arcipreti miei amici, si maravigliarono, e dissero: Noi non abbiamo
mai udito tali cose: _Beati quelli che ti ascoltarono, e sono onorati
della tua amicizia_, 1º Ecclesiastico 48: Eramo amici, e amici sempre
più saremo. Ebbi dunque vitto e alloggio e predicai più volte nelle
chiese parrocchiali di quegli arcipreti; e li tenni come intimi amici.
Avvenne dopo molti anni, che io dimorava a Faenza, e che Matteo dei
Pio, Vescovo di Modena, mio amico, espulso da Modena, venne a Faenza
ed era ospitato nel convento de' frati Minori, ora in Faenza, ora a
Forlì, ora a Ravenna, passando di convento in convento; e seco aveva,
come addetto alla sua Curia, l'Arciprete di Campogalliano, uno dei tre
sunnominati, e mi dissero: Frate Salimbene, siamo stati espulsi di casa
nostra dal partito imperiale, come voi sapete, e siamo vagabondi pel
mondo; e abbiam sempre fitte nella memoria le vostre parole, e i nostri
peccati ci privarono d'ogni bene. In quel tempo, prima che Faenza fosse
data in mano ai Forlivesi, dimorando io quivi, e passeggiando un dì
per l'orto col pensiero a Dio, mi sentii chiamare da un certo secolare
di Ferrara, chiamato Matolino, celebre oratore, compositore di canzoni
e di serventesi, ossequioso e ad un tempo maldicente de' religiosi.
Era esso seduto con due frati all'ombra di una ficaia, e moveva
loro interrogazioni; e mi disse: Frate, venite qui a sedere con noi.
Sedutomi, mi disse: Io stava qui movendo alcune interrogazioni a questi
frati, ma declinano l'incarico di rispondere, e mi dicono di movere
le mie quistioni a voi, che siete pronto a rispondere a tutto. Perciò
vi prego che vogliate per bontà vostra soddisfare al mio desiderio. A
cui io risposi: Dite pure francamente tutto quello che volete. Allora
cominciò: Sappiate che voi frati Minori e Predicatori siete oggetto
di odio e di scandalo ai chierici e ai sacerdoti secolari. L'altro
giorno io pranzava col Vescovo di Forlì, ed aveva commensali chierici
e sacerdoti, che dicevano molto male di voi; ed io presi nota esatta di
tutto per riferirvelo, e sapere se avete modo, o no, di giustificare il
vostro procedere verso di loro, ch'essi chiamano iniquo: primo........:
quinto, perchè colle vostre messe conventuali, specialmente ne'
giorni di solennità, impedite loro di poter raccogliere oblazioni;
sesto, dicono che voi siete troppo donnaiuoli, e colle donne state
con compiacenza a colloquio, e, sulle donne, tenete fissi gli occhi;
il che è contrario a ciò che insegna la Scrittura. Allora io dissi:
Avete più nulla da dire? E rispose: Basta ben questo sì. «Bada a' vizii
tuoi, non a quei d'altri.» Queste parole, o Matolino, sono dette per
te. Del Vescovo di Forlì poi, sappi ch'egli odia i religiosi, e per
conseguenza egli pure non è ben voluto da Dio. Così io soddisfeci alle
inchieste di Matolino intorno alle ingiuste accuse mosse a noi; e se
ne tenne soddisfatto, e diventò mio amico intimo e fido. Riguardo poi
al secondo punto, quello cioè delle sepolture, dirò che da lungo tempo
prima di noi i frati Predicatori diedero nelle loro chiese sepoltura
a chi lo desiderava, e altrettanto potevamo ben fare anche noi; ma
ce ne astenevamo per amore dei chierici, e per evitare contese con
loro...... Finora rinunciammo a questo beneficio, ma oggi riconosciamo
che commettemmo uno sgarbo imperdonabile, rifiutando di accogliere
nella nostra chiesa santa Elisabetta, figlia del Re d'Ungheria, e
di dare luogo di riposo nel nostro convento alla salma del Conte di
Provenza, padre della Regina di Francia e della Regina d'Inghilterra,
che voleva essere sepolto nel convento de' frati Minori di Aix, dove
io allora soggiornava, ed era stato nostro liberalissimo amico. Se
alcuno volesse ora aprire una discussione intorno a questo argomento,
(come fece il beato Gregorio pe' sacerdoti del suo tempo) meno poche
eccezioni, troverebbe di gran lunga più feccia che uomini santi......
Conosco sacerdoti che fanno gli usurai per formare un patrimonio
da lasciare ai loro spurii; altri che tengono osteria coll'insegna
del collare e vendono vino...... i messali, gli indumenti sacri, i
corporali li hanno indecenti, grossolani, macchiati e nerastri; i
calici di stagno, rugginosi e piccoli; il vino per la messa agresto,
o acetoso; l'ostia tanto piccola che a pena si vede tra le dita, nè è
rotonda ma quadra, e tutta sucida d'escrementi di mosche. E, come ho
visto io co' miei occhi, molte donne hanno le legacce delle sottane e
delle scarpe più decenti dei cingoli, dei manipoli, e delle stole di
molti sacerdoti. Un giorno di festa dovendo un frate Minore dir messa
nella chiesa di un certo sacerdote, gli bisognò valersi, per fermaglio,
della coreggiuola che serviva alla cuoca del prete per tener unito
un mazzo di chiavi; e quando il frate, cui io ho conosciuto molto
davvicino, si voltava per dire il Dominus vobiscum, il popolo udiva il
tintinnìo delle chiavi....... Intorno a che osserviamo eziandio che
noi, secondo nostra Regola, siamo obbligati ad officiare secondo il
rito della santa Chiesa romana, nè accettiamo offerte nella messa, e
supponendo anche che nessun secolare venisse, quando diciamo messa, noi
la canteremmo egualmente con solennità. Alla sesta accusa con troppo
fina malizia lanciatane, cioè che siamo donnaiuoli, e che fissiamo con
compiacenza gli occhi sopra le donne, e secoloro volentieri stiamo a
colloquio famigliare, rispondo che queste sono maldicenze di coloro
che denigrano gli innocenti, cioè di giullari, di istrioni, e di
quelli che si chiamano sgherri della Curia, i quali calunniando gli
altri credono di scusare le loro lascivie e le loro vanità. Allora
rispose Matolino: In verità vi assicuro, frate Salimbene, che queste
sono le parole del Vescovo di Forlì, e non di istrioni...... Noi e
i Predicatori siamo poveri mendicanti, che viviamo di limosine, e
tra l'altre persone nostre benefattrici vi sono le donne, che sono
molto pietose e misericordiose; e perciò, quando mandano a cercarne,
dobbiamo andar da loro, sia pe' loro malati, sia per qualunque altra
tribolazione che abbiano....... Nè alterchiamo tra i bicchieri con
alcuna donna, perchè secondo la nostra Costituzione, nelle città non
osiamo bere se non coi prelati, coi religiosi e colle autorità del
paese...... Io poi ho conosciuto quel tal Vescovo..... ed era vecchio e
invecchiato nella malignità, e dopo pochi giorni una notte fu soffocato
da uno de' suoi, che ne portò via tutto il tesoro; anzi assistetti
alle di lui esequie (Egli fu Vescovo di Faenza, al quale succedette
un giovine dell'Ordine de' frati Minori, che era a studio in Padova,
e che venuto a Faenza ottenne subito la consacrazione, e fece sontuoso
trattamento tanto ai religiosi che ai secolari suoi concittadini. Egli
era nativo di Faenza, ed imbandì mense per tutti quelli che volessero
andarvi, poichè aveva il tesoro del suo predecessore in casa de' suoi
fratelli, ed era del partito degli Alberghetti, e fu fatto Vescovo
per violenza, simonia, denaro e minaccie. Le quali cose furono la
cagione del decadimento di Faenza, stante che il partito contrario,
cioè quello de' figli di Alcarisio e loro seguaci provocati per questo
fatto ad odio e ad invidia, chiamò i Forlivesi, ed espulsero dalla
città i loro avversarii. Ed il Vescovo si ritirò a Bagnacavallo, e
per timore degli stormi notturni stava chiuso di notte nel campanile
di quella chiesa plebana, tremando per la sua pelle; ma sopravvisse
pochi giorni e fu nominato un altro Vescovo). Ho conosciuto anche
un certo canonico, che fu strangolato dal diavolo e seppellito in
un letamaio accanto ai porci. Quando i frati Minori andavano per
qualche motivo a cercarlo di mattino per tempissimo, lo trovavano più
volte a letto con una nobil donna sua amante. (Era costui Giovanni
del Bondeno Ferrarese, che stette dieci anni nell'Ordine de' frati
Predicatori, e poi apostatò ed entrò nell'Ordine de' Canonici di S.
Frediano di Lucca, e si fermò alcuni anni con loro; poi, uscitone,
fu fatto Canonico della chiesa matrice di Ferrara. Quando poi nella
chiesa di S. Alessio, ove teneva con sè, come amante, una nobil donna,
ma povera, di Padova, espulsa da Ezzelino, fu trovato nel suo letto
soffocato dal diavolo senza confessione e senza viatico. La chiesa di
S. Alessio era nella parocchia, in cui aveva in antico i suoi palazzi
Guglielmo di Marchesella). Dopo che io ebbi fatta l'esposizione di
tutte le mie ragioni ed osservazioni, soggiunse Matolino: Hai risposto
benissimo a tutte le mie inchieste, e per me siete giustificati voi
e i frati Predicatori; e sarò vostro difensore contro i sacerdoti
e chierici secolari, che si sforzano di calunniarvi; poichè io sono
persuaso che parlano contro di voi per invidia e per malevolenza. Io
poi diedi l'assalto a Matolino e dissi: Io ho abitato cinque anni in
Ravenna, nè ho mai posto piede in casa di Marco di Michele, che è uno
dei maggiorenti, de' più nobili e de' più ricchi di quella città. Io
vi sono andato le cento volte, mi rispose, ed ho pranzato con lui,
Allora io ripigliai: Dimmi un po', Chi è dunque più donnaiuolo, tu, od
io? E rispose: Veggo che lo sono io[186]; e tu mi chiudesti la bocca,
e mi hai dato scacco, nè posso più rispondere nulla. Questo bastò
perchè Matolino diventasse mio amico, e lo trovassi sempre pronto a
farmi servigio. Ma per questo battibecco neppur egli ebbe a perdere
nulla, perchè, coll'aiuto delle raccomandazioni e sollecitazioni di
Guido, da Polenta e di Adegherio di Fontana presso un certo Marchese
di Ferrara, che abitava a Ravenna, gliene diedi per moglie la figlia,
d'onde ricevette una gran dote. Io era confessore del padre di quella
fanciulla nel tempo di quella malattia, che lo trasse al sepolcro, ed
ho fatto quel matrimonio di sua volontà ed assenso, anzi ebbe a dirmi:
Frate Salimbene, Iddio ve ne rimuneri, perchè mia figlia dopo la mia
morte sarebbe rimasta in una taverna e forse diventata una meretrice,
se non foste stato voi che l'aveste maritata. Ora muoio contento, chè
so che mia figlia è bene allogata. Ed ora ritorniamo all'argomento
principale. Obizzo dunque Vescovo di Parma teneva molto i suoi chierici
a bacchetta, e vedeva di buon occhio i frati Minori, e li difendeva
contro le male lingue. Altrettanto fece Filippo Arcivescovo di Ravenna,
il quale dopo molte guerre e molte vittorie, già invecchiato e oppresso
dagli anni, malò di quella malattia, che lo trasse al sepolcro. E
desiderando di chiudere i suoi giorni nella Terra natale, vi si faceva
portare su un letto di legno da venti uomini, che si alternavano dieci
per volta, e giunto ad Imola, dove io era allora, volle soffermarsi nel
convento de' frati Minori; e gli cedemmo tutto il refettorio; ma non
restò con noi che una giornata. Giunto poi a Pistoia, mandò cercando
frate Tomaso da Pavia, mio vecchio conoscente ed amico, si confessò
da lui, aggiustò con lui le cose dell'anima sua, chiuse gli occhi in
pace, e fu sepolto nella chiesa de' frati Minori di Pistoia. Quel frate
Tomaso di Pavia, fu un buono e sant'uomo, chierico illustre, e lettore
di teologia molti anni a Parma, a Bologna, a Ferrara; era uno dei più
vecchi dell'Ordine de' frati Minori, saggio, prudente, e uomo di sani
consigli; era anche socievole, pronto, umile, dolce, divoto a Dio,
predicatore di forza, e di grazia. Fu molti anni Ministro Provinciale
in Toscana; compose una cronaca ampia, perchè abbondava di materia
ed era prolisso. Scrisse un trattato Dei Sermoni, ed una amplissima
opera di teologia, cui egli, per la grossezza del volume, chiamava
Bue. Ridusse a buoni costumi la provincia di Toscana, e fu mio intimo
amico, perchè abitammo insieme per molti anni nel convento di Ferrara;
e l'anima sua per la misericordia di Dio riposi in pace, e così sia.
Filippo poi, l'Arcivescovo di Ravenna e Legato del Papa, quando era
nella sua villeggiatura d'Argenta[187] presso al Po, passeggiava
pel suo palazzo cantando responsorii e antifone in lode della beata
Vergine, e ad ogni angolo del palazzo, di estate, si soffermava a
bere, ed a questo fine teneva in ogni angolo del palazzo stesso, entro
un vaso di acqua fresca, un'inguistara d'ottimo vino; poichè era un
gran bevitore, nè voleva acqua nel vino, e perciò si teneva molto caro
il trattato di Primasso intorno al non annacquare il vino, che forse
trascriverò in questo libro per notizia e piacevole lettura. Però è
da sapere che per molte ragioni l'acqua nel vino fa bene. Comincia il
trattato di Primasso intorno al non mescolare acqua col vino:

    Denudata veritate,
    Succinctaque brevitate
        Ratione varia,

    Dico quod non copulari
    Debent, immo separari,
        Quae sunt adversaria ecc.

    Messo a nudo, tutto il vero,
    Dirò breve, ma sincero:
    Per argomenti e per ragion moltissime
    Non si denno mai sposare,
    Anzi s'han da separare
    Le nature tra lor dissimilissime. ecc.

Vi fu un tempo che l'Arcivescovo di Ravenna stette chiuso
spontaneamente nel suo palazzo d'Argenta[188], a cagione della rottura
che aveva col marchese d'Este e col Pallavicino, e non permetteva
che nessuno andasse alla sua presenza salvo che pochi famigliari
ed inservienti. Eravi a compagnia dell'Arcivescovo un certo Pisano,
maestro di grammatica, di nome Pellegrino, buono e sant'uomo, e faceva
scuola ai ragazzi d'Argenta. Egli era una mia conoscenza ed amicizia,
ed amava dal fondo del cuore tutti i frati Minori; e, servendomi
a tavola, a pian terreno del palazzo dell'Arcivescovo, presso il
Po, perchè io era giunto di recente da Ravenna, gli dissi: Maestro
Pellegrino, parlerei volentieri coll'Arcivescovo, se mi si permettesse
d'entrare, chè avrei delle novità da raccontargli. E maestro Pellegrino
rispose: Ditele a me le nuove che avete, ch'io le riporterò a lui,
perchè non vuole che nessuno entri a lui, se non è della famiglia.
Allora gli narrai che Papa Urbano IV era morto; e corse subito a
riferirlo all'Arcivescovo, che se ne rallegrò assai, perchè sperava
di diventar Papa, tanto perchè era Legato, e uomo di gran rinomanza,
e che aveva lavorato molto per la Chiesa, quanto perchè il maestro di
Negromanzia di Toledo gli aveva presagito che sarebbe diventato grande
nella Chiesa. Udita dunque la notizia della morte del Papa, mi mandò
un servito di pesci di mare ed una mezza torta; e il famiglio che
portava le vivande disse: Il mio Signore vi manda del suo pranzo, e
per mezzo mio vi domanda se crediate che il Papa sia veramente morto.
Ed erano presenti tre o quattro della famiglia, che erano accorsi per
udire. Allora io gli dissi: So di certo che è morto, ed è vacante la
sede pontificia. La quale assicurazione riportata al loro Signore, mi
mandò un'altra pietanza, poi una terza, facendomi sempre domandare se
veramente fosse morto il Papa. E seccandomi di ripetere tante volte
la stessa cosa, dissi ai messi dell'Arcivescovo: Volete voi ch'io
vi spedisca in poche parole? Accogliendo eglino di buon grado la mia
proposta, soggiunsi: In quella barca che vedete là in Po, vi si trova
un frate Minore malato, che in quattro giorni arrivò dalla Corte a
Ravenna, e fu presente alla sepoltura del Papa, e vi dirà egli tutto
quanto desiderate sapere. S'affrettarono adunque alla barca in Po e
udirono da lui confermata la notizia; ed io col mio compagno pranzammo
in pace. E giunti a Ferrara col frate malato, tutta la città era
già piena della morte del Papa; poichè l'Arcivescovo volendo l'onore
d'averlo per primo fatto sapere, aveva mandato annunziando a Ferrara
quello, che aveva saputo da noi. Dopo questo, fu fatto Legato maestro
Martino da Parma, perchè predicasse una crociata, e designasse quelli
che dovevano predicarla, e fregiasse della croce chi fosse accorso
in aiuto di Terra Santa. Questi fu allevato in casa de' Pozzolesi
di Parma. Papa Innocenzo IV lo nominò Vescovo di Mantova; e fu uomo
cortese, umile, benigno, liberale e largo. Invitava volentieri, con
cortesia, e molta garbatezza persone a pranzo, ed era un insaziabile
bevitore. Fece sontuoso trattamento a frate Regaldo in Mantova, e a
tutto il seguito che aveva, quando passò di là per andare alla Corte, e
lo fece precedere dal suo siniscalco coll'incarico di fargli le spese
sino a Bologna. Ma frate Regaldo non lo permise, dicendo che colla
metà delle rendite proprie poteva vivere splendidamente con tutta la
famiglia ch'era seco, e che aveva di superfluo l'altra metà. Eppure
aveva ottanta cavalcature in quel viaggio, oltre ad una proporzionata
famiglia di servi; e quando pranzò a Ferrara ebbe commensali quattro
frati Minori, che erano andati a fargli visita. E teneva davanti a sè
alla mensa due conche d'argento, entro le quali metteva da mangiare
pei poveri; e chi serviva a tavola portava sempre due piatti d'ogni
specie di vivande, e li poneva davanti a frate Regaldo, dei quali
uno teneva per sè e ne mangiava, l'altro lo versava nelle conche dei
poveri; e così faceva ad ogni servito e varietà di pietanze. Frate
Regaldo era dell'Ordine dei Minori e Arcivescovo di Rouen, ed uno de'
più illustri chierici del mondo. Fu maestro con cattedra a Parigi;
lettore di teologia nel convento de' frati; valentissimo nelle dispute,
e grazioso oratore. Fece un'opera intorno alle sentenze; fu amico del
Re di Francia S. Lodovico, il quale s'adoperò per fargli ottenere
l'Arcivescovado di Rouen. Amò molto l'Ordine de' Predicatori, come
anche quello de' Minori, di cui è sempre stato benefattore. Era brutto
d'aspetto, ma graziosissimo de' modi e de' costumi; fu uomo santo, a
Dio divoto, e chiuse santamente la sua vita; che per la misericordia di
Dio l'anima sua riposi in pace, e così sia. Ebbe un fratello germano
nell'Ordine, bell'uomo e chierico dottissimo, che si appellava frate
Adamo _le Rigalde_. Li ho veduti in più luoghi tutti e due. Maestro
Martino poi nativo di Parma e Vescovo di Mantova e Legato del Papa, per
un affare a lui raccomandato, venne a Ravenna, e ricevette ospitalità
nel monastero di S. Giovanni Evangelista, opera dell'Imperatrice Galla
Placidia; e dimorando io allora a Ravenna, mi recai a fargli visita,
perchè era amico di frate Guido di Adamo, mio fratello, che morì
nell'Ordine de' frati Minori. E dopo essere stati a lungo a sedere,
io ed il Vescovo Legato ci accostammo ad una finestra del palazzo, e
mi dimandò da che parte era il convento de' frati Minori. Allora gli
mostrai a dito un edifizio con una magnifica chiesa e un campanile
fabbricato a guisa di alta torre, e gli dissi: Quello è il nostro
convento, e ce lo diede Filippo Arcivescovo di Ravenna, il quale ha
molta deferenza per l'Ordine de' frati Minori, ed è con noi liberale. E
il Vescovo soggiunse: Sia egli benedetto, chè opera bene e saggiamente.
Poi ripigliò: E credete voi, frate Salimbene, che noi Vescovi, oppressi
da tante difficoltà, sollecitudini ed affanni pel nostro gregge, e
pe' sudditi nostri, possiamo salvarci, se voi religiosi, che siete in
continua comunicazione con Dio, non ci aiutate colle vostre cappe e co'
vostri cappucci? A che, per confortarlo, risposi: Il savio ecc. Ciò
detto, il Vescovo soggiunse: Iddio ve ne ricambii, frate Salimbene,
del conforto che mi date...... Dopo questo, fu mandato in Lombardia
un altro Legato un certo Cardinale, che era stato Arcivescovo di
Ambrun[189], e del quale avendo parlato più sopra, sono d'avviso che
ora non s'abbia a riparlarne. Solo dirò che essendo buon cantore, e
buon chierico, e piacendogli l'inno del beato Francesco _O Patriarca
pauperum_, ne volle imitare il ritmo componendone uno ad onore della
Vergine gloriosa, che è:

    O consolatrix pauperum,
    Maria, tuis precibus
    Auge tuorum numerum
      In caritate Christi;

    Quos tu de mortis manibus
    Per filium humillimum,
      Mater, eripuisti.

    Àncora fida di chi piange e spera
    Con un sorriso, tu Vergine pia,
    Moltiplica de' tuoi la santa schiera,
      Dolce Maria.

    De' tuoi, che hai tolti al doloroso ostello
    Pe' merti di Colui, dolce Maria,
    Cui ti piacque plasmar d'amor suggello,
      Vergine pia.

Compose anche una Somma che si denomina Copiosa. Poscia fu mandato
dal Papa, come Legato, un certo Cappellano, che coscrisse soldati da
ogni città in aiuto di Re Carlo contro Manfredi figlio di Federico. E
pronti mandarono i Lombardi e i Romagnoli buona quantità di armati,
che nella battaglia combattuta da Carlo e dall'esercito Francese
riportarono vittoria contro Manfredi. Essendo quel Legato venuto a
Faenza per la levata di soldati, convocò i frati Minori e i Predicatori
in una sala, ove era il Vescovo di Faenza co' suoi canonici; ed io
pure fui presente, e in poche parole ci sbrigò, alla francese, che
taglian corto a parole; non alla Cremonese, che non la rifinano mai
più. Disse vituperi di Manfredi, e in nostra presenza lo diffamò in
molte maniere. Poi soggiunse che l'esercito Francese veniva marciando
a grandi giornate; e disse vero, come vidi io co' miei occhi nella
vicina festa del Natale di Cristo. Finalmente assicurò che lo scopo,
per cui si movevano, si conseguirebbe presto con una pronta vittoria.
E così fu; sebbene però alcuni di quelli che l'ascoltavano non gli
prestassero fede e prendessero a canzonarlo dicendo: Ver, ver, cum
bon baton; cioè i Francesi con buoni bastoni riporteranno vittoria.
Dopo costui venne un altro Cappellano per Legato in Lombardia, che
seppe con molta destrezza ricondurre in Cremona i Cremonesi di parte
della Chiesa fuorusciti, che, da lungo tempo espulsi, erravano esuli
e vagabondi. Con molta sagacia trovò anche modo di scacciarne Bosio di
Dovara[190] e il Pallavicino, e tolse loro la Signoria di Cremona, che
tenevano da lungo tempo, facendo immensa strage d'uomini e di cose.
Ma i Cremonesi fuorusciti, rientrati nella loro città, diedero agli
avversarii pan per focaccia, atterrando le loro torri, smantellandone
case e palazzi, occupandone terre e possessioni a uso longobardico.
In seguito fu mandato il Cardinale Latino, un giovinetto mingherlino,
dell'Ordine de' Predicatori, eletto da Papa Nicolò III Cardinale,
e poi Legato, in grazia della parentela che aveva con lui. Questo
Legato colle sue ordinanze diede vivamente sui nervi alle donne,
comandando che non indossassero più vesti a lunga coda, come usavano
prima. Ordinò anche che le donne dovessero andare col capo velato, e
irritò poi specialmente le Bolognesi l'ordinanza di smettere un certo
fregio che a pompa e vanagloria portavano alla spalla sul manto, e che
in loro volgare chiamavano _regolio_. Dopo i sunnominati, fu Legato
in Lombardia e Romagna Bernardo nativo della Provenza, Cardinale
della Chiesa romana. Questi, mandato da Papa Martino IV, inviò frate
Fatebene, Guardiano de' Minori di Forlì, a Mantova con molte sue
lettere per Pinamonte, colle quali lo pregava di rappacificare i suoi
vicini e i suoi concittadini, affinchè potessero vivere tranquilli e
quieti. E Pinamonte fece ai messi cortese accoglienza come frati Minori
e come rappresentanti di un potente Signore, quantunque avess'egli già
da tempo fatta legge per la quale dovesse aver mozzo il capo chiunque
portasse lettere a Mantova. E in occasione dell'arrivo di questi messi
mandò, dono ai frati Minori, un carro di buon vino, ed una mezza
mezzina di lardo; ed uno de' suoi figli regalò ai frati stessi una
larghissima e buonissima torta e molte altre cose. Furono finalmente
di ritorno al Cardinale, riportando lettere di Pinamonte. Che cosa
dicessero, Dio lo sa. Ciò avvenne l'anno 1283, verso il dì d'Ognisanti.
Pinamonte era un Mantovano, che si aveva usurpato la Signoria della
sua città nativa, espellendone que' cittadini che reputava ostili,
impadronendosi de' loro beni, smantellandone le torri e le case. Era
temuto come il diavolo, vecchio co' capelli tutti bianchi e padre di
una turba di figli; tra quali uno, frate Minore, di nome Filippo, buono
ed onest'uomo, e lettore di teologia. Questi fu un tempo inquisitore
degli eretici, molti ne imprigionò e molti ne estirpò e cacciò in fuga
dalla Terra che si chiamava Sermione[191]. Quel Pinamonte era solito
menar vanto di non aver mai avuto nella sua signoria alcun infortunio,
e che ogni cosa gli era sempre andata a seconda. Questa vanteria era
però una stoltezza, perchè il Savio dice ecc. Poi sta scritto in una
Novella poetica:

    Si bene successit, non prima sed ultima spectes.
    A casu describe diem, non solis ab ortu.

    Se tristo fu l'evento, oppur felice
    Non il principio, ma la fin lo dice.
    Non quando s'alza il sol, quando s'abbassa
    Giudicare convien del dì che passa.

Parleremo poi ancora di questo Legato, quando arriveremo a Papa Martino
IV, che lo inviò Legato in Romagna a fine di riconquistarla, e per
la guerra vi si spese 1,400,000 fiorini d'oro; e pel solo assedio di
Meldola[192], durato cinque mesi, Papa Martino IV sciupò 300,000 lire
imperiali. Questa somma era il frutto di un balzello del decimo della
rendita imposto a tutte le chiese da Papa Gregorio X, da erogarsi in
soccorso di Terra Santa, e che, stornato, si usò per questa impresa.
I sunnominati furono i dodici più cospicui Principi e Legati della
Chiesa, mandati in Lombardia ed in Romagna, non solo per la salute
delle anime, ma anche contro l'astuzia del Dragone, cioè di Federico,
che co' suoi Principi e aderenti tentava con ogni sforzo di incatenare
la libertà della Chiesa, e disrompere l'unità de' fedeli. Perciò
pensai utile nominare anche alcuni de' Principi di Federico per dare
notizia delle cose passate. Perocchè come dice Daniele 5º _L'Iddio
altissimo aveva dato Regno, e grandezza, e gloria, e magnificenza_
(a Federico); _e per la magnificenza che gli aveva data, tutti i
popoli, nazioni e lingue tremavano e temevano nella sua presenza_ ecc.
Federico ex-Imperatore uccise completamente e disperse i nobili del
regno di Sicilia, Apuglia, Calabria e Terra di Lavoro, ed altri ne
surrogò. Questi sono i Principi che ebbe Federico: Il conte Gualterio
di Manopello[193]; Conte Tomaso di Acerra[194]; Conte Rizzardo di
Caserta; Marchese Umborgo Bertoldo; Marchese Lancia, Lombardo di
Piemonte (la cui sorella, o nipote fu madre del Principe Manfredi,
che occupò il regno dopo la morte del padre, e del fratello Corrado,
e che fu debellato, ucciso, e privato del regno da Carlo); Rizzardo di
Montenegro[195]; Marino di Eboli[196]; Rizzardo di Filangieri; Tebaldo
Francese; Pietro di Calabria Maliscalco; Pandolfo di Fasanella[197];
Pietro delle Vigne (questi fu segretario imperiale, assai potente
nella Corte dell'Imperatore, che lo nominò suo tesoriere); Taddeo di
Sessa[198] giudice; Aldobrandino Cazaconte. N'ebbe anche molti altri
per le città d'Italia, a difesa dell'Impero, ed a martello degli
ecclesiastici; ma l'istoria loro disdegno di raccontarla..... E nota
che quando l'Imperatore elevava a potenza qualcuno, se si accorgeva
che avesse abbondanza di ricchezze e d'onori, usava dire: Non ho
mai ingrassato un porco, da cui io non ne abbia tratta la sugna,
e voleva significare che lo spogliava poi degli onori impartiti, e
delle ricchezze accumulate. Ed era alla lettera così. Tanta era la
sua avarizia, che trovava sempre appigli per accusare or l'uno or
l'altro de' Principi di tradimento dell'Impero. Con tali imputazioni
calunniava la persona, e tolto di mezzo il Principe, ne occupava i
beni. Ma non impunemente. Per lui fu letteralmente scritto: _Con lui
finirà l'Impero, perchè, sebbene siano per esservi successori, saranno
privi dei titoli e della dignità d'Imperatori romani_. Questo vaticinio
pare che si avverasse. Or seguendo l'Abbate Gioachimo parliamo di
quel diavolo di Dragone, di cui parla nell'Apocalisse 12º.......
L'abbate Gioachimo nel libro _Delle Figure_ pone le seguenti parole
sopra i capi del Dragone suaccennato: «Prima persecuzione..... Quarta,
dei Saraceni; il tempo delle vergini; Macometto; il quarto sigillo.
Quinta, dei figli di Babilonia, secondo lo spirito, non alla lettera;
_Muthselmutus_[199]; quinto sigillo. La sesta è la presente; Saladino;
sesto sigillo; sono dieci Re, e un altro sorgerà dopo loro, che
sarà più potente dei primi. Segue la settima; tempo di calamità e di
miseria; questo è il settimo Re, che propriamente si chiama Anticristo,
quantunque ne sia per venire un altro dopo lui di non minore malignità,
designato dalla coda...... Della Esposizione di Aimone sopra Isaia alla
fine del ventesimo capitolo......... È chiaro che la Repubblica deve
sottostare al Pontefice romano. Parimente maestro Filippo cancelliere
di Parigi descrive ad evidenza la vita del Prelato e dei sudditi sotto
l'immagine delle membra del corpo umano..... Ora passiamo a Corrado,
figlio di Federico ex-imperatore.

L'anno 1250 Re Corrado figlio di Federico, la cui madre era figlia
del Re Giovanni, morto il padre, arrivò per mare in Puglia a prendere
possesso del Regno di Sicilia; e, presa Napoli, ne distrusse sino alle
fondamenta le mura. Ma l'anno successivo del suo regno cominciatosi a
malare, un serviziale, che si credeva dato dai medici come curativo,
per veleno commistovi, lo trasse al sepolcro. E trasportandosene la
salma a Palermo per darle sepoltura, perchè quivi sono le tombe dei
Re, arrivato a Messina, i Messinesi per odio e vendetta contro il
padre di lui, che una volta aveva oppressi ed uccisi i più cospicui e
migliori loro concittadini, ne gettarono le ossa in mare. Anche Corrado
stesso aveva fatto loro grave offesa, e finalmente in questo modo ne
presero vendetta. Nello stesso anno, in Danimarca, Enrico, inclito Re
dei Danesi, fu affogato in mare da suo fratello Abele per rapirgli il
Regno, che poi ne ricavò poco onore e vantaggio, poichè l'anno seguente
lo uccisero i Frisoni, cui aveva tentato di soggiogare.


a. 1251

L'anno 1251 si radunò in Francia una moltitudine innumerevole di
pastori, che dicevano di dover andar oltremare allo sterminio de'
Saraceni per vendicare il Re di Francia. E molta gente dalle varie
città della Francia si metteva al loro seguito, nè alcuno osava
fare loro resistenza; si davano loro vittovaglie e tutto quello che
volevano, onde i mandriani abbandonavano i loro armenti per correr
loro dietro. E, per affascinarli, colui, che s'era messo alla loro
testa, affermava che Dio gli aveva rivelato che il mare si aprirebbe,
e che egli condurrebbeli a vendicare il Re di Francia. Ed io, all'udir
narrarmi quelle cose, sclamava: _Guai ai pastori che abbandonano
il proprio gregge!_ E potranno costoro quello che il Re di Francia
col suo esercito non ha potuto fare? Prestò loro fede il volgo de'
francesi e terribile insorgeva contro i religiosi, e specialmente
contro i Predicatori ed i Minori, perchè essi, avevano predicato la
crociata, e apposta la croce al petto di chi seguiva quel Re, che fu
poi debellato dai Saraceni. S'arrovellavano dunque i Francesi rimasti a
casa contro Cristo, tanto che non mancava loro l'empietà di bestemiarne
il nome, che è sopra ogni altro nome benedetto. E quando in quel tempo
i frati Minori e i Predicatori cercavano la limosina ai Francesi,
questi digrignavano contro loro i denti; e quando vedevano frati, che
accattavano, chiamavano qualche altro povero, gli davano danari, e
dicevano: Prendi in nome di Macometto, che è più potente di Cristo.
E con ciò si adempiva quel detto del Signore, Luca 8º _Un momento
credono, e al tempo della tentazione si ritraggono indietro_. Miseranda
miseria! Mentre il Re di Francia non si turbava per i passati eventi,
quel volgo sommoveva una terribile turbolenza! E quella accozzaglia di
pastori, perchè i frati Predicatori in una certa città avevano osato
lasciarsi sfuggire dalle labbra qualche parola contro di loro, ne
smaltellarono siffattamente il convento, che non ne rimase più pietra
sopra pietra...... Ma..... l'anno stesso furon ridotti al nulla, e
quella ragunata fu distrutta. Lo stesso anno fu preso il castello di
Castellarano[200], nella diocesi di Reggio, sulla Secchia. Parimente lo
stesso anno il Marchese Uberto Pallavicino andò a Piacenza e concordò
fra loro i Piacentini e i Cremonesi; ed i militi uscirono di Piacenza
a malgrado del popolo, e stettero il mese di Maggio per le castella
dei Piacentini; e Uberto Iniquità, di Piacenza, fu Podestà del popolo
Piacentino. L'anno stesso Papa Innocenzo IV, Genovese, venne a Genova
da Lione, città di Francia nella Borgogna, ove aveva tenuta la sua
sede parecchi anni. Arrivò là il mese di Maggio, e vi ammogliò un suo
nipote, alle cui nozze egli assistette con ottanta Vescovi e i suoi
Cardinali; ed a mensa furono servite molte varietà d'imbandigioni,
e vini di varie specie di tralci, e de' più squisiti e più allegri;
eppure ogni servito costava molte marche. Non si videro mai a' dì
nostri nozze più sontuose in nessun luogo, sia per altezza di grado
de' commensali, sia per la squisitezza e quantità delle imbandigioni,
sicchè se l'avesse viste la Regina Saba, anch'ella ne avrebbe fatte
le meraviglie. Dopo, il Papa andò a Milano, dove si soffermò un mese
e più. In quel tempo della sua dimora a Milano, i Milanesi corsero
sopra Lodi e se ne impossessarono. Ma avuta di ciò notizia il Marchese
Uberto Pallavicino, che allora signoreggiava in Cremona, con un grosso
esercito di Cremonesi e parte di Piacentini, corse, la riprese e
s'impadronì del Castello che l'Imperatore s'aveva fatto ivi costrurre
(in ogni città, in cui signoreggiò, l'Imperatore volle avere un palazzo
o castello). Stettero dunque quivi per bene un mese. E stando quivi
a campo il mese di Luglio e di Agosto l'uno di fronte all'altro co'
loro eserciti i Milanesi e i Cremonesi, avvenne che i Cremonesi misero
a fuoco alcune contrade di quella città, spianarono parte del muro di
cinta e le fosse, poi se ne tornarono senza conflitto al loro paese; e
i Milanesi ne rimasero padroni. Poscia Innocenzo andò a Brescia, dipoi
a Mantova, poi al monastero di S. Benedetto, che è tra il Po ed il
Lirone, ove riposa la Contessa Metilde sepolta in un'arca di marmo. E
il Papa coi Cardinali, memori dei benefici della Contessa alla Chiesa
e ai romani Pontefici, recitarono sulla tomba di lei il salmo: _De
profundis_. Di là passò Innocenzo IV a Ferrara, ove io mi trovava. E
mandò avvisando i frati Minori che al suo ingresso in città l'andassero
ad incontrare, e gli facessero ala; il che fu lungo tutta la via di S.
Paolo. Nunzio di questi ordini fu un frate Minore di Parma, chiamato
Buiolo, che era addetto al servizio del Papa, e che dimorava a Corte.
Confessore del Papa era poi un'altro frate Minore, di nome Nicola, mio
amico, cui poi il Papa creò Vescovo di Assisi; e frate Lorenzo, pure
mio amico e compagno, anch'esso dimorava in Corte del Papa, e lo fece
Arcivescovo di Antivari; ed, oltre i sunnominati, anche due altri frati
Minori erano addetti al servizio del Papa. Il quale si fermò più giorni
in Ferrara fra l'ottava del beato Francesco, e predicò dal balcone del
palazzo del Vescovo, e gli facevano ala quinci e quindi i Cardinali,
e uno di loro, cioè Guglielmo di lui nipote, dopo la predica fece la
sua confessione pubblica. E vi era immensa folla di popolo accorsa,
quasi adunata al supremo giudizio; e il Papa s'era preso per tema della
predica: _Beata la gente che ha Dio per suo Signore; beato il popolo
designato da Dio suo erede_. Dopo la predica, il Papa soggiunse: Iddio
fu mio custode quand'io partiva d'Italia e quando soggiornai a Lione;
ora che in Italia ritorno, sia egli benedetto per tutti i secoli. E
aggiunse: Questa città è mia, vi conforto a vivere in pace, poichè
l'ex-Imperatore, che perseguitava la Chiesa, è morto. Io poi era così a
costa del Papa, che poteva toccarlo quand'io voleva, perchè egli andava
lieto d'avere frati Minori attorno. In quel momento frate Gerardino
da Parma, che fu maestro di frate Bonagrazia, mi toccò di gomito, e
mi disse: Senti che è morto l'Imperatore, che non l'hai mai voluto
credere. Lascia dunque in disparte il tuo Gioachimo, _e fatti saggio,
o figlio mio, dammene la consolazione, acciochè tu possa ora rispondere
qualche cosa a me, che ti rimproverava_. I Cardinali, nei giorni della
loro fermata a Ferrara, mandarono più volte regalandoci maiali uccisi e
già pelati, stati loro donati; e noi a volta nostra, ne facevamo parte
alle nostre sorelle dell'Ordine di S. Chiara. Anche il dispensiere
del Papa mandonne a dire: Domani il Papa è di partenza per Bologna;
mandatemi i vostri barcaiuoli che vi darò il pane e il vino che ne
resta, di cui non abbiamo più bisogno. E così si fece. All'arrivo a
Bologna i Bolognesi fecero al Papa una festosissima accoglienza; si
fermò poco tra loro, e partissene turbato e quasi improvviso, perchè
domandarono che cedesse loro in dono Medicina[201], che è una Terra
della Chiesa nella diocesi di Bologna, cui i Bolognesi da lungo tempo
avevano violentemente occupata. Ma il Papa non li esaudì, nè gliela
donò, anzi rispose: Di forza tenete una Terra della Chiesa, ed ora
volete che ve la doni? Andatevene con Dio, ch'io non posso nè voglio
darvela. Nulla ostante però, alla sua partenza il Papa trovò molte
nobili e belle donne Bolognesi, accorse dalle lor ville alla strada,
per cui doveva passare, bramose di vederlo; le benedisse nel nome
del Signore, continuò sua via e fece sosta a Perugia. Lo stesso anno
arrivò in Lombardia Re Corrado, prima a Verona, poi a Cremona, d'onde
ritornò a Verona, e da Verona partì per la Puglia; e fu in Novembre.
L'anno stesso fu preso il castello che era nella città di Lodi, e
tutti i Lodigiani che vi erano dentro ne ebbero mozza la testa, ed
i Pavesi, che pur vi si trovavano, li lasciarono andare liberi senza
molestia. Lo stesso anno furono fatti prigioni la maggior parte degli
uomini di Tortona dagli Alessandrini e dai Milanesi; e dal Marchese
Uberto Pallavicini e dai Cremonesi fu preso in Ottobre il castello
di Brescello. Brescello è una Terra posta nella Diocesi di Parma; una
volta era città, e fu distrutta sino alle fondamenta dai Longobardi.


a. 1252

L'anno 1252 Ghiberto da Gente, cittadino di Parma, coll'aiuto dei
beccai di Parma si fece Signore della città e lo fu molt'anni. Egli
fece due buone cose durante la sua signoria: Rappacificò tra loro i
Parmigiani, e fece murare alcune porte della città. Ma ne fece anche
di cattive, come ne giudicarono i Parmigiani, i quali finalmente si
levarono contro di lui, gli rapirono di mano la signoria, atterrarono
le sue case nella villa di Campeggine[202] e in Parma, e lo mandarono
in esiglio ad Ancona, dove stette sino alla morte. Prima però di
essere definitivamente espulso da Parma, quantunque spogliato della
signoria e ridotto a vivere come privato cittadino, ebbe la Podesteria
di Pisa, e poi quella di Padova; e vi si trovava quando fu trasportato
il corpo del beato Antonio alla nuova chiesa, ove era presente anche
frate Bonaventura Ministro Generale. Le colpe di Ghiberto da Gente
erano queste. Primo, s'avea molta ragione di sospettare della sua
fede al partito della Chiesa, che anzi teneva più per la parte del
Pallavicino; e siccome aspirava egli alla signoria di Parma, per ciò
solo non permetteva che il Pallavicino vi entrasse. Secondo, era troppo
ingordamente avaro, tanto che nel tempo della sua Signoria nessuno
poteva vendere vittovaglie se non per conto del Comune; e si faceva poi
socio con quelli, che erano autorizzati alle vendite, per espillarne da
ciascuno parte del lucro....... E spingeva tant'oltre la sua avarizia,
che avendogli un milite della Corte domandato che gli desse qualche
cosa, gli offerse un _Bolognino_ per comperarsi i fichi. Ed io stesso
ho veduta, conosciuta, provata e misurata la sua abbietta grettezza
a Campeggine, quando a suo non poco vantaggio, io mi era recato colà
con frate Bernardino da _Buzea_........ Terzo, che delle ricchezze de'
suoi concittadini si fabbricò alti e magnifici palazzi nella villa di
Campeggine ed in Parma, mentre prima non era che un povero soldato;
con che provocò l'invidia, e glieli smantellarono..... Quarto, ebbe
la follìa di condannare iniquamente alcuni nella persona, come si
disse che fece mozzar la testa al Da-Cavaza; altri, nella borsa;
e interrogane, che te lo dirà, Giacomo Sanvitali. Così ad alcuni,
per denaro, perdonava; contro altri, che non volevano spillarne,
infieriva... Il Signore dice Levitico 19º. _Abbiate bilancie giuste,
peso giusto, moggio giusto, e staio giusto._ Tutte queste cose egli
falsificò. Quinto, gli fu apposto di prendere uno stipendio annuo
troppo vistoso per compenso delle cure che aveva pel governo della
città, assegno maggiore di quello che Parma usava pagare agli altri
Podestà. La qual cosa non c'era delicatezza a farla, essendo egli
nel proprio paese, in casa sua, sulle proprie possessioni; e perciò
fu espulso dal governo e dalla città. Sesto, fu una soperchieria
quella di adunare il popolo di Parma nella piazza del Comune, tenere
una concione, e insignorirsi della città per sè e pe' suoi figli in
perpetuo...... (L'utile rettore viene da Dio). Non tale fu Ghiberto
da Gente, che portato sugli scudi dai beccai, si usurpò la Signoria
di Parma. Settimo, fu una iniquità quella di alterare le monete, e
impicciolirle riducendole a minor valore effettivo; alterazione, per
la quale, dicono i banchieri che i Parmigiani ebbero un danno maggiore
di un quarto del valore di tutta la città. E tienti ben fitto in mente
che le due cose, di cui suole più vivamente dolersi il popolo, sono la
carestia del frumento, e la falsificazione delle monete. Fece dunque
un male assai grave Ghiberto da Gente falsificando le monete più
direttamente a fine del vantaggio proprio che del Comune. Ottavo, per
dare maggior splendore e grandezza alla sua signoria, ebbe la pazza
vanità di formarsi una guardia di cinquecento uomini armati, che gli
facessero sempre corteggio, quando che a lui piacesse. Io li ho visti
quegli uomini in armi, la vigilia dell'Assunta, quando per ambizione,
per pompa, per onore e vana gloria si faceva fare corteo mentre andava
coi ceri, secondo l'uso de' Parmigiani, alla chiesa matrice. Poi s'era
proposto di far Vescovo di Parma un suo fratello germano, Abbate nel
monastero di S. Benedetto di Leno[203], nella diocesi di Brescia.
Ebbe l'ingordigia di voler aggiungere alla sua Signoria le due vicine
città di Reggio e di Modena, e voleva ch'io mi maneggiassi di fargli
aver Modena; ma io non mi ci volli immischiare, perchè nella seconda
Epistola a Timoteo l'Apostolo, 2º dice..... Ebbe però qualche tempo
in sua podestà Reggio, ma i Reggiani ne lo cacciarono presto, e lo
spogliarono del potere per le angherie e le perversità che in seguito
esporremo. Ricordo che, deposto dai Parmigiani dalla Signoria di
Parma, nella sua villa di Campeggine in casa sua, gli dissi: Che fate
Ghiberto? Perchè non entrate nell'Ordine de' frati Minori? E rispose:
Che vorreste farne di me che ho sessant'anni? Ed io soggiunsi: Dareste
ad altri il buon esempio di operar bene, e salvereste l'anima vostra.
Al che egli di rimando: Intendo bene che mi date un buon consiglio, ma
non posso seguirlo perchè vo mulinando nell'animo mio altre cose.....
Che volete? M'affaticai in pregarlo, ma non volle saperne di mettersi
sul buon sentiero: _perocchè aveva meditato iniquità dentro di sè._ Di
fatto nutriva speranza di vendicarsi dei Parmigiani e dei Reggiani,
che l'avevano deposto dalla signoria; e, a meglio riuscirvi, diede
per moglie sua figlia Mabilia a Guido da Correggio..... E nota che
siccome Ghiberto da Gente diede il bando ed espulse da Parma Bertolino,
figlio di Bertolo Tavernieri, così egli fu sbandito ed espulso dai
Parmigiani, e abitò nella Marca, e morì in Ancona, dove è sepolto. Ed
assegnò per un certo numero d'anni le rendite annue di alcune praterie,
che aveva nella diocesi di Parma, ai frati Minori e Predicatori, a
risarcimento di rendite incerte loro rapite; e le ebbero; e l'anima
sua per la misericordia di Dio riposi in pace, e così sia. Lo stesso
anno 1252, per la mediazione del Vescovo di Reggio Guglielmo Fogliani,
e di frate Egidio della Religione della Santa Trinità da Campagnola,
oriondo di Verona, si pacificarono tra loro i Roberti, i Fogliani e
tutti i fuorusciti ed espulsi di Reggio, e questo avvenne alla metà
d'Agosto nella chiesa di S. Lorenzo. E, per il meglio della città di
Reggio, furono creati gli Anziani, estraendoli a sorte dal Consiglio
generale; e a principio furono dodici. E lo stesso anno ad onore di
Dio e del beato Prospero e di S. Grisanto, e per il bene della loro
città, i suaccennati Anziani, in giorno di sabato, sedici Agosto,
convocati di volontà del Consiglio, secondo l'uso e la consueta formola
di convocazione, e radunati nel palazzo del Comune, giurarono pace e
concordia col prenominato Guglielmo Vescovo di Reggio, e coi Reggiani
fuorusciti da una parte, e dall'altra i Reggiani che erano in città. E
quell'anno una gran brinata, ai diciotto di Maggio, giorno di domenica,
distrusse in più luoghi il frutto dei vigneti.


a. 1253

L'anno 1253, indizione 11ª, Guido da Gente, Parmigiano, fu eletto
Podestà di Reggio per arti di Ghiberto da Gente suo fratello, allora
Podestà di Parma, e per accordi tra i Reggiani fuorusciti, ed i
Reggiani che erano dentro la città. E lo stesso anno, il ventotto
d'Ottobre, Martedì, festa dei beati Apostoli Simone e Giuda, Ghiberto
da Gente Podestà di Parma, cogli Anziani del Consorzio di Santa
Maria Vergine della città di Parma, e con altri probi uomini della
medesima città, si recarono con grande esultanza, colle croci, cogli
stendali, coi sacerdoti e tutti i religiosi a Porta Santa Croce con
tutti gli uomini della città di Reggio, e in Reggio, insieme cogli
altri fuorusciti, condussero il Venerabile Guglielmo Fogliani, che ne
era stato eletto Vescovo. E il Mercoledì, 29 dello stesso mese, il
prenominato Ghiberto Podestà di Parma, in piena adunanza del popolo
convocato a suono di trombe e di campane, nella piazza del Comune di
Reggio, fece il concordato tra i fuorusciti e que' di dentro, il quale
concordato fu scritto e inserto nello Statuto del Comune; e fu nel
giorno stesso 29 Ottobre che Guido da Gente, per arti del prenominato
Ghiberto Podestà di Parma e suo fratello, fu fatto Podestà di Reggio.
Quell'anno stesso 1253, ai sette di Dicembre, a sera, poco dopo il
crepuscolo, l'anno dodicesimo del suo pontificato, morì a Napoli
Innocenzo IV, Papa di inclita memoria; e, il giorno appresso, morì
Stefano Cardinal prete di Santa Maria in Transtevere; e i loro corpi,
sepolti nella chiesa Napoletana, riposino in pace, e così sia. E
Bertolino Tavernieri di Parma, che era allora Podestà di Napoli, fece
chiudere le porte della città per ritenere i Cardinali dall'andare
altrove, e costringerli ad eleggere, senza por tempo in mezzo, il
nuovo Papa in Napoli stesso. E siccome non si potevano concordare ad
eleggerlo per voti, che le urne davano sempre molto divisi, fu eletto
per compromesso. E Ottaviano Cardinal diacono impose il manto al più
degno uomo della Corte, come egli disse, cioè a Rainaldo Vescovo
di Ostia; e si nominò Papa Alessandro IV, eletto verso la vigilia
di Natale; sicchè il giorno di S. Tomaso di Cantorbery ne giunse la
notizia a Ferrara. Alessandro IV, oriondo della Campania, fatto Papa
l'anno 1253, tenne il pontificato sette anni. Nacque ad Anagni, e si
chiamava Rainaldo Vescovo di Ostia. Fu molti anni Cardinale dell'Ordine
de' frati Minori, e Papa Gregorio IX gli conferì la Porpora ad istanza
e preghiera de' frati Minori stessi. Questi ascrisse al catalogo dei
Santi la beata Clara, convertita al cristianesimo dal beato Francesco;
e ne compose la colletta e gli inni. Aveva una sorella nell'Ordine
di Santa Chiara, ed un nipote nell'Ordine de' frati Minori; ma non
creò nè quella, Badessa, nè questo, Cardinale; nè nominò nel suo
pontificato alcun Cardinale, quantunque allora fossero rimasi solo
in otto. Fu uomo di lettere, amante dello studio della teologia, e
spesso volentieri predicava, celebrava, e consacrava chiese. Fuse in
uno solo i cinque Ordini degli Eremitani che prima s'aveano; conferì
all'Ordine dei Minori quel privilegio, che si appella _Mare magno_.
Manteneva costantissima l'amicizia, come appare chiaro da quel che
faceva con frate Rainaldo da Tocca dell'Ordine de' Minori, cui amò
tanto, che all'amicizia di lui non si può paragonare nè quella di
Gionata con Davide, nè quella di Amelio e di Amico. E se anche tutto
il mondo avesse detto qualche cosa di male contro frate Rainaldo, il
Papa non l'avrebbe creduto, e nè pure ascoltato; e quando bussava
all'uscio della camera, il Papa gli andava ad aprire anche a piedi
nudi. Questa cosa la vide un altro frate Minore, una volta che era solo
in camera col Papa, cioè frate Mansueto da Castiglione Aretino, mio
amico, dalle cui labbra io l'ho saputo. Questo Papa non s'immischiò in
guerre, e passò pacificamente i suoi giorni. Era tarchiato, corpulento
e grasso, come un secondo Eglon; era benigno, clemente, pio, giusto,
timorato e divoto di Dio. (Sotto il suo pontificato, Manfredi figlio
del fu Imperatore Federico, infingendosi l'educatore di Corradino
nipote di Federico, e divulgato ovunque che Corradino era morto, si
pose in capo la corona del Regno. La qual cosa essendo a danno del
Papa, prima fu scomunicato, poi fu raccolto contro di lui un grosso
esercito. Tanto è vero che la menzogna a nulla approda). Questi,
come è già detto, canonizzò ad Anagni Santa Chiara dell'Ordine di S.
Francesco. Ai tempi di questo Papa, sia che l'epoca si voglia far
partire dalla morte, sia dalla deposizione di Federico Imperatore,
figlio del fu Imperatore Enrico, fatta da Papa Innocenzo IV, cominciò
a vacare l'Impero romano, nulla ostante che dai Principi dell'Alemagna
si facessero parecchie elezioni. E primo di tutti elessero il
Langravio di Turingia, e, dopo lui, Guglielmo Conte di Olanda, i quali
morirono prima di essere consacrati Imperatori. Dopo la morte poi di
Federico II, gli elettori, divisi in due, una parte elevò alla dignità
dell'Impero il Re di Castiglia, gli altri il Conte di Cornovaglia,
fratello del Re d'Inghilterra, di nome Riccardo. E la divisione di
quegli elettori durò molti anni. Questo Papa riprovò due pestiferi
libelli, de' quali uno sosteneva che tutti i Religiosi e predicatori
della parola di Dio, che vivono di limosine, non possono salvarsi.
Autore di questo libello era Guglielmo di Santo Amore, che lo pubblicò
a Parigi, e distolse molti maestri e scolari dall'entrare nell'Ordine
de' Predicatori e dei Minori. Ma l'autore non ne restò impunito; ed
il Papa Alessandro IV e il Re di Francia S. Lodovico lo espulsero da
Parigi, senza che potesse avere speranza di ritornarvi _mai più in
eterno, e più oltre_...... L'altro libello conteneva molte cose false
contro la dottrina dell'Abbate Gioachimo, cose che l'Abbate non aveva
scritte; p. e. che il Vangelo e la dottrina del Nuovo Testamento non
aveva condotto nessuno alla perfezione, e che dovea chiudersi il suo
ciclo l'anno 1260. E sappi che l'autore di questo libello fu frate
Girardino di Borgo S. Donnino, che nel secolo fu allevato in Sicilia,
e vi insegnò grammatica. Ed entrato poi nell'Ordine de' Minori, dopo
tempo fu mandato a Parigi per la provincia di Sicilia[204], e fatto
lettore di teologia; e a Parigi compose il preaccennato libello, e
all'insaputa de' frati lo pubblicò; ma ne fu gravemente punito, come
ho detto più su........ Pur tuttavia fu rimandato nella sua provincia,
e perchè non volle rinsavire, frate Bonaventura Ministro Generale,
che era in Francia, lo chiamò presso di sè. E passando per Modena, ove
io allora abitava, ed avendo io seco famigliarità, giacchè ero stato
seco a Provins e a Sens, quell'anno che il Re di Francia S. Lodovico
di buona memoria andò la prima volta oltremare, gli dissi: Disputiamo,
se vuoi, intorno alla dottrina dell'Abbate Gioachimo. E rispose: Non
disputiamo, ma comunichiamoci le nostre opinioni, e perciò ritiriamoci
in luogo appartato. Lo condussi nell'orto, di dietro al dormitorio, ci
mettemmo a sedere sotto una vite, e gli dissi: Io ti domando quando e
dove nascerà l'Anticristo. E rispose: È già nato ed adulto, e presto
eserciterà il suo ministero d'iniquità. E ripigliai: Lo conosci tu?
Non l'ho visto di persona, rispose, ma lo conosco bene per quel che
se ne scrive. E gli domandai: Dov'è che ne sta scritto? Nella Bibbia,
mi rispose. Dimmi dunque in quale punto, perchè la Bibbia la conosco
bene. Ma rispose: Non te lo dirò punto, se prima non avremo fra mani
la Bibbia. Andai pertanto a prendere la Bibbia, e di ritorno apertala,
conobbi che egli riferiva tutto il capitolo 18º di Isaia ad un Re
di Spagna, cioè di Castiglia. Il capitolo di Isaia diceva: _Guai al
paese che fa ombra coll'ale_ ecc. sino alla fine. E gli domandai: Tu
dunque dici che questo Re di Castiglia, ora regnante, è l'Anticristo? E
rispose: Senza dubbio, l'Anticristo, quel maledetto, di cui parlarono
tutti i dottori, e i Santi che hanno trattato di questa materia. E
cuculiandolo soggiunsi: Spero in Dio che t'accorgerai d'essere caduto
in errore. E mentre io pronunciava queste parole, ecco comparire molti
frati e secolari nel prato di dietro al dormitorio, che mesti parlavano
tra loro. E mi disse: Va ad ascoltare ciò che dicono, perchè hanno
l'apparenza di chi porta tristi notizie. Andai, e, ritornandone, disse:
Dicono che Filippo Arcivescovo di Ravenna è prigioniero di Ezzelino.
Allora replicò: Vedi, se cominciano i misteri! Dopo mi domandò s'io
conoscessi un Veronese, che soggiornava a Parma, e che possedeva
lo spirito di Profezia, e scriveva il futuro. Sì, lo conosco, e lo
conosco bene, io dissi, ed ho anche veduto le sue scritture. E allora,
vedrei volontieri, mi soggiunse, quegli scritti; ti prego, se puoi,
di provvedermeli. E risposi: Li dà di buon grado, e va in sollucchero
quando glieli cercano e vogliono averli. Ha fatto molte omelie, ch'io
ho lette; e, smesso il mestiere di tesserandolo, di cui campava in
Parma, è andato nel monastero dei Cisterciensi di Fontevivo[205], ove
tutto il dì, vestito da secolare, scrive in una camera assegnatagli
dai frati, predice il futuro, e vive a spese del monastero; e potrai
andare a vederlo, poichè è distante sol due miglia al di sotto della
strada. Allora osservò che i suoi compagni non vorrebbero deviare,
e che quindi mi pregava di provvederglieli, che me ne avrebbe avuto
grado. Continuò egli dunque il suo viaggio, e non l'ho mai più visto.
Io poi andai a quel monastero, quando n'ebbi tempo, e vi trovai un
cotal mio amico, frate Alberto Cremonella, entrato con me nell'Ordine
de' frati Minori il giorno stesso, in cui io vi fui ammesso da
frate Elia, Ministro Generale, in Parma l'anno 1238; ma, durante il
noviziato, ne uscì, restò secolare, imparò fisica, e finalmente entrò
nell'Ordine e nel monastero di Fontevivo, ove tutti lo stimarono
dottissimo. E, quando mi vide, disse gli pareva di aver veduto un
angelo del paradiso, essendochè mi amava vivissimamente. Allora gli
dissi che mi farebbe un segnalato favore se mi prestasse tutti gli
scritti di quel Veronese. E rispose: Sappiate, frate Salimbene, che io
sono tenuto in molta considerazione e posso molto in questo monastero,
e i frati, per loro bontà, e per quel tanto che so di fisica, mi
vogliono bene assai; se desiderate, posso prestarvi tutti i libri del
beato Bernardo. Colui, di cui parlate, è morto, e de' suoi scritti
neppure una sillaba rimase al mondo; perchè io di mia mano ho abraso
tutti gli scritti suoi; e ve ne dirò il come e il perchè. Vi era in
questo monastero un certo frate che sapeva benissimo l'arte del raspare
le carte, e disse all'Abbate: Padre...... giacchè è più chiaro della
luce del sole ch'io debbo morire, poichè io non sono punto migliore
de' padri miei, vi prego, Padre, se vi par buono, di assegnarmi alcuni
alunni, che amino di imparare a raspar le carte, perchè, morto io,
potranno tornare utili a questo monastero. Ma non trovandosi nessuno
che volesse imparare, tranne io, così dopo la morte del mio maestro,
e di quel Veronese, abrasi tutti i libri di questo, di modo che non ne
rimase lettera. E lo feci, parte per esercitarmi nelle abrasioni, parte
anche perchè quelle profezie avevano sollevato troppo grave scandalo.
Udito questo, io dissi in mio cuore: Anche il libro di Geremia profeta
una volta fu bruciato; ma chi lo fece bruciare non ne andò impunito,
come si legge in Geremia 36º; anche la legge di Mosè fu bruciata dai
Caldei, ed Esdra la riprodusse illuminato dallo Spirito Santo. Così
sorse in Parma un uomo, che nella sua semplicità ebbe l'intelletto
chiaro delle cose future, _perché Iddio parla ai semplici di cuore_,
Proverbi 3º. Però dopo molti anni, abitando io ad Imola, venne nella
mia cella frate Arnolfo mio Guardiano con un certo libretto scritto
sul papiro, e mi disse: Un notaio di questa Terra, amico dei frati,
mi diede a prestito da leggere questo libro, ch'egli copiò a Roma,
quando si trovò colà col Senatore Brancaleone di Bologna, e se lo tiene
molto caro, perchè lo compose e lo scrisse frate Girardino di Borgo
S. Donnino. Voi leggetelo, che avete studiato sui libri dell'Abbate
Gioacchimo, e sappiatemi dire se vi abbia qualche cosa di buono.
Lettolo e consideratolo, dissi a frate Arnolfo: questo libro non ha lo
stile degli antichi dottori, è frivolo, ed ha cose degne di riso; per
cui il libro fu diffamato e riprovato, e vi do il consiglio di gettarlo
nel fuoco a bruciare, e a quel vostro amico dite che porti pazienza
per amor di Dio e dell'Ordine nostro. Così si fece, e il libro fu
bruciato. È vero però che quel frate Girardino, autore dell'opuscolo,
dava argomento di credere che avesse in sè qualche cosa di buono. Era
famigliare, cortese, liberale, religioso, onesto, costumato, temperante
di parole, di cibo, e di bevanda, semplice nel vestire, ossequioso
con umiltà e mansuetudine; _Un uomo veramente amichevole in società,
più amico ancora che un fratello_, come disse il Savio ne' Proverbi
18º; ma la protervia nella sua opinione eclissava tutte quelle buone
qualità..... E per cagione di questo frate Girardino si fece legge che
nessuno nuovo scritto si publichi fuori dell'Ordine, se prima non è
stato approvato dal Ministro e dai definitori nel Capitolo provinciale;
e se alcuno contravvenga, digiuni tre giorni a pane ed acqua, e siagli
tolta l'opera sua....................................


a. 1254

L'anno 1254, Guido, fratello di Ghiberto da Gente, fu fatto Podestà di
Reggio, e vi morì nell'anno stesso, e fu sepolto nel convento vecchio
dei frati Minori, ove ora abitano le Suore Minori dell'Ordine di S.
Chiara. Si noti che anche la elezione di Papa Alessandro IV si può
ascrivere a questo millesimo, come al precedente, perchè fu eletto tre
o quattro giorni prima di Natale, e ne arrivarono le notizie a Ferrara
da Napoli il dì di S. Tomaso di Cantorbery.


a. 1255

L'anno 1255, indizione 13ª, fu data la Podesteria della città di Reggio
a Ghiberto da Gente, che era anche Podestà di Parma, e mandovvi, come
Vicario, un suo nipote, Guido De-Angeli, cittadino Parmigiano; e il
Vicario e Ghiberto da Gente in una furono spogliati della Reggenza
della città di Reggio dal collegio dei Giudici, i quali, senza il
concorso del Consiglio municipale, elessero Podestà Penazzo, figlio
del fu Giliolo da Sesso, il 3 di Marzo, lunedì prima della Quaresima.
E perciò sorse gran rottura tra Ghiberto da Gente Podestà di Parma e
il Comune di Reggio. E lo stesso anno, Bonifacio, figlio del fu Giacomo
da Canossa, stando e tenendo occupata la Rocca detta di Canossa contro
l'assenso del Podestà di Reggio....... perciò avendo Trisendo, suo
figlio, predato sulla strada del Comune di Reggio, il Podestà e il
Comune raccolsero un esercito di montanari attorno alla rocca stessa,
e l'assediarono, e vi costruirono trabucchi e màngani, a seconda della
volontà di quei di fuori, e ne capitanò le armi e l'impresa Alberto di
Canossa, e la rocca fu distrutta. Questa era la rocca della fu Contessa
Metilde, fondata da Atto suo avolo, a' tempi di Ottone I, Imperatore, e
si chiamava _Canusia_.


a. 1256

L'anno 1256, indizione 14ª il sunnominato Giacomo Penazzo da Sesso
fu eletto e confermato Podestà di Reggio a voce di popolo e degli
Anziani. E lo stesso anno, in Maggio, Guglielmo da Fogliano Vescovo di
Reggio vendette ai frati Minori di Reggio, per farne un convento, il
palazzo che l'Imperatore aveva donato a Nicolò di lui predecessore,
riserbandosi soltanto il diritto di ospitarvi quando si trovasse in
quella città. Ed i frati lo comprarono e pagarono coi denari riscossi
dalle suore dell'Ordine di Santa Chiara, alle quali avevano venduto
il Convento vecchio. (Questo accadde ai tempi di Papa Alessandro IV).
Ma siccome i frati Minori comprarono il detto palazzo coll'onere di
ospitalità all'Imperatore, in processo di tempo dissero a Rodolfo,
che era stato eletto Imperatore di volontà di Papa Gregorio X,
che possedevano il palazzo di lui in Reggio e lo abitavano, e che
desideravano che la dimora loro fosse da lui consentita. Ed egli
rispose che gradiva assai che il suo palazzo avesse tali ospiti,
e per amore de' frati Minori rinunziò liberalmente ad ogni diritto
ch'egli s'era riservato. E perciò diede loro due lettere segnate col
suo sigillo, nelle quali prometteva anche che, se le sue imprese per
il possesso dell'Impero volgessero prospere, avrebbe più validamente
confermata la sua concessione. Ma siccome il suaccennato convento era
angusto, i frati Minori comprarono ancora all'intorno terra e case.


a. 1257

L'anno 1257, indizione 15ª, fu assediato e preso a forza dal Comune di
Reggio Castel Adriano, cioè Castellarano[206], e molti furono i morti e
molti i prigioni. E que' del Frignano e della diocesi di Reggio che si
trovarono nel castello furono tormentati e uccisi.


a. 1258

L'anno 1258, indizione 1ª, Loterengo Andalò, Bolognese, fu Podestà di
Reggio; e, l'anno stesso, lo staio di frumento si vendeva cinque soldi
e mezzo imperiali, ma clandestinamente e in privato fu venduto anche
sei, sette, otto, nove, dieci, sin dodici soldi imperiali.


a. 1259

L'anno 1259, indizione 2ª, i Cremonesi, i Mantovani, i Ferraresi, il
Marchese Azzo d'Este, e il Conte di S. Bonifazio, tutti insieme, ad
unanimità, giurarono guerra ad Ezzelino da Romano. E l'istess'anno,
Ezzelino mosse con grosso esercito contro i Cremonesi sull'Adda, e
dai Cremonesi ed alleati vi fu sconfitto, fatto prigioniero, ferito,
morto, e sepolto nel Castello di Soncino, che appartiene ai Cremonesi.
Ma prima di morire, visse più giorni in quel castello, malato di
ferite, di dolore e di crepacuore, e fu sepolto sotto il palazzo del
castello. Credo che dopo la creazione del mondo non abbia mai avuto il
diavolo persona così somigliante a sè in ogni più raffinata malizia
di dar la morte. Era fratello di Alberico; e furono due demonii; ma
di loro abbiamo già parlato più sopra. Nel sussegnato millesimo,
Costantinopoli, che era stata già da tempo presa ed occupata dai
Francesi e dai Veneziani, fu per forza di guerra riconquistata da
Paleologo Imperatore Greco. E lo stesso anno, in Toscana d'Italia, ai
Fiorentini ed ai Lucchesi[207] toccò un miserando disastro. Fidenti sul
numero e sul valore dei loro invasero il contado di Siena; ma i Sanesi
calcolando sull'aiuto di Manfredi, allora Re di Sicilia, uscirono loro
incontro a guerra. Ed i Fiorentini ed i Lucchesi ebbero tradigione da
parte dei loro. Poichè a principio della battaglia, i capi principali
dei Fiorentini passarono dalla parte de' nemici, e in una coi Sanesi
infuriarono contro i loro concittadini. Si dice anche che di Fiorentini
e Lucchesi tra morti e feriti ne restassero sul campo più di seimila.
Quell'anno stesso io abitava a Borgo S. Donnino, e composi e scrissi
un altro lavoro _Delle tristezze_, alla maniera di Pateclo. Così pure
nel detto anno infierì in Italia una immensa morìa d'uomini e di donne,
sicchè all'ora dei vespri avevamo sempre in chiesa due morti. E quella
maledizione cominciò la settimana di passione, di modo che in tutta
la provincia di Bologna i frati Minori, la domenica delle olive, non
poterono ufficiare, tali erano i brividi che provavano; e questa peste
durò più mesi. Fu allora che morì Rubino di Soragna, zio di Uberto
Pallavicini, e fratello di Marchesopolo, ed io lo confessai. In Borgo
S. Donnino perirono di quella pestilenza trecento e più; in Milano
molte migliaia; a Firenze parimente molte migliaia; sicchè, per non
atterrire i malati, non si suonavano più le campane a morto.


a. 1260

L'anno 1260, indizione 3ª, sorsero i Flagellanti in tutto il mondo, e
tutti gli uomini, grandi e piccoli, cavalieri e popolani, andando per
le città processionalmente, preceduti dai Vescovi e dai Religiosi,
a nudo si flagellavano. E si componevano paci, si restituiva il mal
tolto, si confessavano le proprie colpe, sicchè i sacerdoti appena
avevano tempo di mangiare; e le loro labbra suonavano parole divine più
che umane, e la loro voce era come voce di moltitudine; e gli uomini
s'avviavano sul sentiero della salute, e componevano inni a onore
e lode di Dio e della beata Vergine, e li cantavano mentre andavano
flagellandosi in processione. Il Lunedì, festa d'Ognissanti, tutti
i Modenesi piccoli e grandi, e tutti quelli del contado di Modena,
il Podestà e il Vescovo collo stendale di tutte le confraternite si
recarono a Reggio, e si andarono flagellando per tutta la città; e i
più poi passarono a Parma il Martedì successivo al giorno d'Ognissanti.
E il Mercoledì, i Reggiani misero in pronto gli stendali d'ogni
parocchia, e fecero processioni intorno alla città, e il Podestà
di Reggio Ubertino Rubaconti de' Mandelli di Milano, anch'esso
s'andò flagellando. Quei di Sassuolo[208], sul principio di questa
benedizione, con licenza del Guardiano, mi tolsero dal convento de'
frati Minori di Modena, dove io allora abitava, poichè mi amavano molto
uomini e donne, e mi condussero a Sassuolo; poi a Reggio, poscia a
Parma, e, quando fummo a Parma, trovammo che questa benedizione già
vi era. Perocchè volava come aquila che vuol piombare sulla preda;
e in ciascuna città durava non pochi giorni; nè vi era alcuno tanto
severo, o invecchiato nel male che non si flagellasse volentieri. E
chi abborriva dalle flagellazioni era reputato peggiore del diavolo,
e lo mostravano a dito, come una singolarità e un uomo diabolico; ma
quel che è anche più, poco dopo, era colpito da infortunio di morte, o
di malattia. Il solo Pallavicino, che era allora Signore di Cremona,
e i suoi Cremonesi respinsero questa benedizione e devozione, perchè
come dice l'Ecclesiastico 10º, _Quale è il Reggitore d'una città,
tali ne sono anche gli abitanti_. E fece innalzare le forche lungo
il Po, per farvi impiccare quanti entrassero nel suo dominio con
queste flagellazioni, amando egli più il suo comodo temporale che la
salute delle anime, e la gloria del mondo più che la gloria di Dio.
Nulla ostante molti giovani timorati di Parma si proposero di andare
colà, disposti anche a morire per il perdono de' loro peccati, per la
fede cattolica, e per onore di Dio. Ed io era a Parma, e mi trovavo
col Podestà, che era uno di Pistoia, quando disse: «Quell'uomo ha il
cuore acciecato, pieno l'animo di malizia, e non sa di cose di Dio:
Guardiamoci dall'essergli occasione di far del male, e se non la vuole
la benedizione, la benedizione si allontanerà da lui». E soggiunse: Vi
pare fratelli, ch'io dica bene? Dite benissimo, io risposi, e siete
saggissimo, Signore. Allora egli mandò banditori per tutta Parma
comandando e proibendo, colla comminatoria di gravissime pene, che
nessun parmigiano osasse passare il Po; e così sbollirono gli ardori.
In quel tempo era tenuto in somma reverenza Obizzo Sanvitale Vescovo
di Parma. Queste cose avvennero nel millesimo sussegnato, pontificando
Papa Alessandro IV, anno sesto del suo pontificato, anno in cui si
cominciò a fabbricare la torre di Seggiolo al di là della Tagliata. Lo
stesso anno, Gregorio de' Bonici fece il suo ingresso, come Abbate,
nel monastero di S. Prospero di Reggio. E la città fu prosciolta
dall'interdetto e dalla scomunica, a cui era stata sottoposta sei anni.
E, lo stesso anno, doveva avere cominciamento il terzo di que' periodi,
in cui l'Abbate Gioachimo divide il mondo. Nel primo di tali periodi,
il Padre col mistero operò per mezzo de' Patriarchi e de' figli dei
profeti, quantunque le opere della Trinità siano indivisibili; nel
secondo, ha operato il Figlio per mezzo degli Apostoli e degli uomini
apostolici, del qual periodo il Figlio stesso dice in Giovanni _Il
padre mio ha operato sino a tuttora, ed io opero_. Nel terzo periodo,
opererà lo Spirito Santo per mezzo de' Religiosi. Così scrive l'Abbate
Gioachimo dell'Ordine di Flora. Il qual ultimo periodo diconlo
incominciato con quelle flagellazioni, che si fecero l'anno 1260,
indizione 3ª, quando quelli che si flagellavano chiamavano sè stessi
voci di Dio, non d'uomini. Lo stesso anno, il Re d'Ungheria, per
quistione di territorio, portò guerra al Re di Boemia con un esercito,
di cui facevan parte 240000 uomini di cavalleria, raccolti da diversi
popoli d'oriente e da' pagani; a cui si fece incontro, per tenergli
testa, il Re di Boemia con 100000 uomini di cavalleria, tra' quali è
fama che ne avesse 7000 con cavalli coperti di ferro. E azzuffatisi
sul confine dei due regni, il conflitto delle armi e de' cavalli
sollevò tal nembo di polvere che di mezzo e chiaro giorno appena un
uomo poteva distinguere un altro uomo. Finalmente gli Ungheri, caduto
il loro Re gravemente ferito, voltando le spalle e abbandonandolo, si
diedero a fuga precipitata. Ed, oltre ai morti di ferro, si dice che ne
restassero sommersi 14000 in un fiume profondo che dovetter passare. Ma
avanzandosi il Re di Boemia colla vittoria in Ungheria, fu richiesto
di pace dal Re degli Ungari, il quale restituì il territorio, che
era stato cagione della guerra; ed un matrimonio risaldò tra loro per
l'avvenire l'antica amicizia.


a. 1261

L'anno del Signore 1261, indizione 4.ª, nel Marzo, morì Simone
Manfredi, figlio di Giovanni di Bonifacio. Costui fu mio amico, di
parte della Chiesa, e in occasione di una grossa guerra si mostrò prode
e valoroso campione. Nello stesso millesimo ebbe luogo l'istituzione
e l'ordinamento della Regola dei militi della beata Vergine Maria,
per opera di frate Rufino Gorgone da Piacenza, che era stato molti
anni Ministro a Bologna, e allora era Penitenziere nella Corte
del Papa, e si trovava a Bologna per affari della Corte stessa. E
ad ordinarla concorsero coll'opera loro gli onorandi personaggi:
Loterengo Andalò Bolognese, che ne fu Priore o Prelato; Gruamonte;
Ugolino Capizio Lambertini Bolognesi; Bernardo da Sesso ed Egidio
di lui fratello; Fizaimone Baratti da Parma; Schianca degli Eleazari
da Reggio, e Rainero Adelardi di Modena. Costoro dai contadini, per
beffa e canzonatura, si chiamavano i Gaudenti: come se volessero
dire che si sono fatti frati perchè nessun altri pigli parte ai loro
beni, e volessero goderseli da per sè soli, secondo le parole di
quell'avaro, di cui parla l'Ecclesiastico 11.º: _C'è chi arrichisce
con poca fatica, e questa ricchezza è la sua porzione di mercede, in
quanto che dice: Ho trovato per me il mio riposo, ed ora mangerò de'
miei beni da solo_. Ricordo che quest'Ordine fu costituito in Parma
nel tempo dell'_Alleluia_, a tempo cioè di quell'altra fanatizzante
divozione, nella quale si cantava l'_Alleluia_, e i frati Minori
e Predicatori davano a credere di far miracoli, l'anno 1233, sotto
il pontificato di Gregorio IX. E fu costituito per opera di frate
Bartolomeo da Vicenza, dell'Ordine dei Predicatori, che allora era
tenuto in gran conto a Parma, e fu buon uomo; poscia diventò Vescovo
della Terra d'ond'era nativo. Ed i predetti frati vestivano lo stesso
abito che questi, con mantello bianco e croce rossa. In questo solo
differivano, che quelli si chiamavano militi di Gesù Cristo: questi
militi di Santa Maria. Ma quelli durarono molti anni, poi venner meno,
ed io ne ho veduto l'aurora ed il tramonto; chè pochi si ascrissero al
loro Ordine. Parimente questi, che si chiamavano Gaudenti, crescono
come il pane in mano ad un affamato, e credono di aver fatto un gran
che, un qualche cosa di singolare, appropriandosi la stessa foggia
di vestiario. Ma alla Corte di Roma sono stimati poco. E ciò per
cinque motivi: 1.º perchè di loro ricchezze non costruirono mai nè
monasteri, nè ospedali, nè ponti, nè chiese, nè si sa che abbiano
mai fatta altra opera pia; 2.º perchè tolsero a rapina molto di quel
d'altri, a uso de' potenti, nè restituirono il mal tolto; 3.º perchè
dopo aver sciupate le proprie ricchezze e fatte molte e grosse spese
in vanità e in pranzi, accogliendo alle loro mense gli istrioni anzi
che i poverelli di Cristo, eglino domandano alla Chiesa romana e
vogliono ottenere dal Papa licenza di occupare i conventi dei migliori
Religiosi, di qualsia Ordine, ed espellerli dalle loro abitazioni; 4.º
perchè sono avarissimi, e _la radice d'ogni male è l'avarizia_; 5.º ed
ultimo, perchè non veggo che servigi facciano alla Chiesa, ed a che
siano utili, se non fosse che curano la loro salvezza, la qual cosa
da Girolamo si chiama _santa rusticità_.... Di questo adunque basti.
Ora _è da godere coi godenti e da piangere coi piangenti_........ Papa
Alessandro IV morì l'anno 1261, ed ebbe successore Urbano IV, che diede
la Regola di questi Gaudenti.


a. 1262

L'anno del Signore 1262, indizione 5.ª, fu eletto Papa Urbano IV, e a
suo tempo fece due cose: Per opera dei crociati mise in fuga l'esercito
di Saraceni, che Manfredi, figlio di Federico II Imperatore spodestato,
aveva lanciato sul patrimonio della Chiesa, e conferì facoltà a Carlo
Conte di Provenza, fratello del Re di Francia, di ritogliere il Regno
di Sicilia a Manfredi che l'occupava.


a. 1263

L'anno 1263, indizione 6.ª, Papa Urbano IV diede e confermò
l'investitura del Regno di Sicilia a Carlo, e ne privò il sunnominato
Manfredi, che lo teneva di forza.


a. 1264

L'anno 1264, indizione 7ª, ai sette d'Agosto apparve una maravigliosa
cometa, quale nessuno mai, che allora vivesse, l'avea veduta. Sorgeva
con vivacissimo splendore dall'oriente, e allungava una lucidissima
coda sino a metà dell'emisfero, verso occidente. E quantunque fosse
mandata, forse, come segnale di molti eventi a diverse parti del mondo;
questo solo almeno di chiaro si è veduto che, avendo durato tre mesi,
al suo apparire Papa Urbano cominciò ad ammalare, e spirò la stessa
notte in cui la cometa disparve. E lo stesso anno venne a Modena da
Ferrara il Marchese d'Este con forte numero di fanti e di cavalli, e
una Domenica, che fu il 20 Dicembre, arrivarono da Firenze 200 militi
Guelfi, ad istanza di Giacomino Rangoni, di Manfredo Rosa da Sassuolo e
di tutto il partito di lui, cioè della Chiesa, e del Podestà di Modena,
Monaldo da Orvieto; e scacciarono dalla città la fazione di quei da
Gorzano, che erano del partito imperiale, e tutti i loro aderenti,
e restò morto Tomaso di Gorzano, e due della famiglia Bastardi, e
distrussero tutto il castello di Gorzano[209]; il qual fatto produsse
forte impressione nell'animo di tutti i Reggiani. Lo stesso anno morì
anche Papa Urbano IV.


a. 1265

L'anno 1265, indizione 8ª, fu eletto in Perugia Papa Clemente IV, che
era allora oltre monti, ed apparteneva al collegio de' Cardinali,
e non volle recarsi a ricevere l'investitura del papato senza aver
prima visitato in Assisi la chiesa ove giace il gloriosissimo corpo
del beato Francesco. Lo stesso anno arrivò a Roma Carlo, fratello del
Re di Francia, e fu fatto e confermato Re della Puglia e di Sicilia,
d'onde il predetto Carlo, che era stato chiamato da Papa Urbano per
la riconquista della Sicilia, venne a Roma per mare, ove era anche
stato eletto Senatore. Dipoi invadendo la Puglia, in battaglia campale
tolse la vita e il Regno al prenominato Manfredi. Lo stesso anno, i
Modenesi e i Guelfi, che erano in Modena, un venerdì 6 Marzo, corsero
sopra Reggio, e quei di Fogliano ed i Roberti ruppero con gran violenza
Porta Castello, che era murata, ed i Modenesi e i Guelfi entrarono in
città, ove si azzuffarono con quei di Sesso, e con furore ed isterminio
li espulsero da Reggio. Perciò quei da Sesso coi loro partigiani si
ritirarono a Reggiolo, e quasi tutti i popolani, che tenevano dalla
parte di quei di Sesso, furono confinati a tre miglia al di sopra
della città e della strada Emilia, liberi sulla loro fede e lealtà,
tranne quelli che erano cittadini di Sesso. Così i Roberti nominarono
subito Podestà Giacomino Rangone di Modena, deponendo Marco Gradenigo
di Venezia. In quell'anno, que' di Sesso presero il castello di
Canolo[210], che dopo fu ripreso dalla fazione de' Roberti. Parimente
in quell'anno fu fatta e pattuita una tregua tra i Reggiani, che
occupavano Reggio, e quelli che ne erano stati cacciati, a cominciare
dal giorno di San Pietro sino a San Michele; e la convenzione fu
stabilita per mezzo de' frati Predicatori, cioè frate Federico Priore
di detti frati, frate Pellegrino lettore, e frate Pietro Falconi e
alcuni frati Minori; della qual tregua trassero utile notevole ambedue
le parti. L'anno stesso, verso Natale, arrivò un numeroso esercito
Francese in aiuto di Carlo fratello del Re di Francia, che era a Roma.
Ed io li ho veduti arrivare mentre andava a predicare in S. Procolo
di Faenza, nella festa di S. Giovanni Evangelista. E corsero in Puglia
contro Manfredi, figlio di Federico Imperatore deposto, per debellarlo,
e lo uccisero e spogliarono di quanto aveva, l'anno 1266, verso Pasqua.
E fu gran miracolo che l'anno in cui vennero non si ebbe freddo, nè
gelo, nè ghiaccio, nè neve, nè pioggia, nè fango; ma buonissima era
la strada, facile e commoda, come fosse il mese di Maggio. E questo
avveniva per disposizione di Dio, perchè accorrevano in aiuto della
Chiesa, ed a sterminio di quel maledetto Manfredi, che per le sue
iniquità fu ben degno di tal fine. Ed erano veramente moltissime, come
se ne diceva, e aveva perfino fatto uccidere suo fratello Corrado.
E Corrado aveva fatto uccidere Carlo di lui fratello, nato a Ravenna
da un'Inglese, moglie di Federico Imperatore, mentre Corrado gli era
nato da una figlia del Re Giovanni. Ebbe anche Enrico, il primogenito,
da una spagnuola; e Manfredi avevalo avuto da una sorella, o da una
figlia d'una sorella del Marchese Lancia, Lombardo di Piemonte. Ma tra
tutti i figli dell'Imperatore Federico, a mio avviso, il più valente
fu Enzo Re di Sardegna, fatto prigioniero dai Bolognesi, e per molti
anni sino alla morte tenuto in carcere. Questi non era legittimo.
Anche un altro ne ebbe non legittimo, di nome Federico, cui creò Re in
Toscana. Lo stesso anno, Uberto Pallavicino, Podestà di Cremona, coi
Cremonesi e con ogni sua possa tentò di impedire il passo al Conte di
Fiandra, Capitano della milizia dell'esercito di Re Carlo. Ma il Conte
sforzò il passo dell'Oglio a Palazzolo[211], distrusse il castello di
Capriolo[212], e gli abitanti del castello, perchè avevano impiccato
uno de' suoi cavalieri, tutti, maschi e femmine, sino ai ragazzi,
li fece passare a fil di spada. Il Conte passò poi vicino a Brescia,
prese e distrusse Montechiaro, castello dei Bresciani, e poscia andò a
Mantova.


  FINE DEL PRIMO VOLUME



_Il traduttore si riserva il diritto della proprietà letteraria_



ERRATA-CORRIGE


            Errori           Correzioni

  Pag.   2  peliccie         pelliccie
    »    7  sudarono         andarono
    »   14  lni              lui
    »   14  fondamento       fondamenta
    »   30  dei Stefani      degli Stefani
    »   34  1225             1229
    »   43  Tebaldo          Tedaldo
    »   58  Luigi Pizzi      Italo Pizzi
    »   82  Roberto          Giberto
    »   96  Sonio            Senio
    »   98  qnando           quando
    »  116  delle provincie  della provincia
    »  123  Adriano III      Alessandro III
    »  129  Cantorbery       Rouen
    »  140  Bartolomeo       Gherardino
    »  141  quatunque        quantunque
    »  145  Isaia XXXII      Isaia XXXI
    »  160  qnando           quando
    »  164  Prefetessa       Prefettessa
    »  196  Provvincia       Provincia
    »  196  Perrocchè        Perocchè
    »  207  Raimoudo         Rainaldo
    »  222  Balbekie         Balbek
    »  259  sovraccitati     sovreccitati
    »  305  Adriano III      Adriano V
    »  323  diocesi Reggio   diocesi di Reggio
    »  328  cinquanta        cinquecento



NOTE:


[1] Stimo conveniente avvertire (dice qui l'editore parmense
dell'originale) che si è ommesso nella presente pubblicazione tutto
ciò che leggesi da carte 208 (prima dell'acefalo codice Vaticano) a
215 non essendo la narrazione in esse compresa che un estratto della
Cronaca del vescovo Sicardo già edita dal Muratori (Rer. Ital. t. 7.).
Al quale avvertimento il traduttore aggiunge che il celebre Monsignor
Gaetano Marini quando fece trascrivere dall'Abate Amati l'autografo
salimbeniano pel Duca di Sermoneta, sulla qual copia fu condotta
l'edizione di Parma, ommise la trascrizione di alcuni trattatelli,
canzoni popolari, satire inserte nella cronaca, perchè a suo avviso
erano inutili, mentre potevano servire a far meglio conoscere il
movimento del pensiero filosofico e religioso del tempo. E se, come
pare, si pubblicheranno le accennate cose mancanti, saranno tradotte e
aggiunte in appendice a questa edizione. C. C.

[2] Nome d'un passo sulla Sierra Morena tra l'Andalusia e la Nuova
Castiglia ove nel 1202 erano stati sbaragliati i Mori.

[3] Castello sulla sinistra del Serio in Lombardia.

[4] Ora Chiaravalle della Colomba, pochi chilometri sotto Alseno, che è
una stazione della ferrovia Piacenza-Parma.

[5] Abate de' Cistercensi di Flora in Calabria, morto nel 1201 o nel
1202; ei spacciava e passò per profeta; lasciò libri di predizioni e
molte altre opere, che suscitarono gran romore, ed ebbero difensori ed
oppugnatori. La Chiesa nel concilio di Laterano indetto da Innocenzo
III, condannò le sue dottrine intorno alla Trinità perchè conducevano
al Triteismo, senza nominarne l'autore perchè era uomo di santa vita; e
prima di morire, riconosciuti i suoi errori, li disdisse.

[6] Sulla linea della Ferrovia a dieci chilometri prima di Rimini per
chi parte da Bologna.

[7] Donato fu maestro di Rettorica a Roma nel 356, ove ebbe scolare
S. Girolamo. Compose una Grammatica che poi si denominò il Donato; e
lasciò i commenti di Terenzio e Virgilio.

[8] Piccolo paese sulla destra del Po a pieno nord di Borgo S. Donnino.

[9] Nella Provincia di Foggia tra Lucera e S. Severo. Salimbene
lo chiama Fiorentino; Giovanni Villani Fiorenzola, il dizionario
geografico universale compilato da una società di dotti italiani dice
Firentina. Ora non restano che pochi ruderi e un tratto di cortina del
castello a cui è addossata una fattoria della famiglia Romano, e si
chiama in paese Torre fiorentina.

[10] Nocera de' Saraceni la chiama Salimbene; Nocera la dicono Svetonio
e Tolomeo; Luceria la dicono tanti altri antichi, ora è Lucera.

[11] Sulla destra del Po Nord-Est di Guastalla.

[12] Tra Guastalla e Reggiolo era una stesa di terreno paludoso detto
il Po morto, le cui acque incanalate nel detto cavo, e asciugato il
territorio, si conquistarono alla coltivazione ubertosissime campagne,
a spese de' Cremonesi padroni di Guastalla, e de' Reggiani. La Tagliata
è aperta ed utile tuttora.

[13] Questo è Bondeno della Provincia di Mantova alla destra del Po in
quel di Gonzaga. In antico vi era Bondeno di Arduino e de' Ronconi; ora
le frazioni di Bondanello e Ronchi.

[14] Fabbrico e Campagnola a Sud-Sud-Est di Guastalla. Bedullo era
nelle vicinanze: ora non esiste più come villa a sè; nel principio
del secolo corrente fu atterrata la chiesa che ne restava, come ultima
reliquia, che era soggetta alla parrocchia di Fabbrico.

[15] Scolo d'acque in gran parte interrito tra il Reggiano, il Modenese
e il Mantovano.

[16] Cioè nella gora delle acque.

[17] Di questa Corte e Castello, che diede nome alla nobile famiglia
de' Conti da Palù, appena resta un vestigio tra Fabbrico e Reggiolo, in
un luogo detto Motta di Fabbrico, o Valle di Padulo.

[18] Castello a mezza via circa tra Reggio e Scandiano.

[19] Castello sull'appennino alla destra del Tresinaro.

[20] Sulla destra del Panaro a monte della via Emilia.

[21] A 7 miglia da Bologna al di sotto della via Emilia verso il Panaro.

[22] Piumazzo è una villa del Comune di Castelfranco, situato al
disopra dell'Emilia vicino al Samoggia e al Panaro.

[23] Popoli che stanziavano all'oriente della foce del fiume Oural.

[24] Popoli che stanziavano a nord del Caucaso sul fiume Kuma corrente
al Caspio.

[25] Sulla destra del Panaro non lungi dall'Emilia, a monte.

[26] Circa sull'area, ove ora sorge il Seminario, era allora la
canonica, o casa in cui coabitavano e convivevano i canonici, la quale
prolungando a settentrione due ali con portici all'interno, correva
ad appoggiarsi al fianco meridionale del Duomo e formava un chiostro.
Nel portico orientale, detto _Paradiso_, e attigua al Duomo stava
la cappella di S. Agata, ove i canonici s'adunavano a capitolo, che
atterrata in processo di tempo in una col chiostro, fu poi riedificata
incorporandola col Duomo stesso ove ora si trova allineata colle altre
cappelle, che sono opere posteriori appiccicate alle navate minori,
come un fuor d'opera dell'edifizio o disegno primitivo e principale.
Non si sa in che tempo siasi cominciata l'erezione dell'attuale
cappella di S. Agata: è noto soltanto che i canonici nel 1556 si
valsero de' proventi di una certa eredità per continuare l'opera già
da tempo cominciata e poi sospesa; e che nel 1574-75 fu tutta dipinta
da Aurelio Barili, del cui lavoro non resta che la fascia dell'arcone.
La prima di dette cappelle fu eretta nel 1285 della nobile famiglia
Cantelli, di cui ora è illustre capo il Senatore conte Girolamo,
proprietario e restauratore di quel monumento della religione de' suoi
antenati.

[27] La lettera greca Y ipsilon per i pitagorici era figura della vita,
e colla sua biforcazione simboleggiava la scelta dello stato che si
faceva a quindici anni compiti, ed anche il bivio al bene e al male.

[28] Sul Tevere a pieno oriente di Arezzo.

[29] A 24 chilometri da Perugia, sulla ferrovia Perugia-Foligno.

[30] Aveva più che 50 anni, dice G. Villani.

[31] Gli Amorei erano un popolo della terra promessa, che non volle mai
lasciare il proprio paese, quando giunsero gli Israeliti dall'Egitto;
anzi sostenne molte e disastrose guerre per la difesa delle patrie
mura, e non ristette mai dal tentarne il riscatto dopo le perdite
sofferte: sicchè nel linguaggio biblico è dato come il tipo della
costanza spinta sino all'ostinazione.

[32] Cetei o Etei popolo della Palestina: buona gente ed ospitale:
quindi dati come il tipo della bontà e dell'ospitalità.

[33] Sulla sinistra dell'Oglio lungo la via che da Cremona va a Brescia.

[34] Moglie di Azzone Sanvitali.

[35] S. Giorgio era non lunge all'attuale piazza principale della città
nell'area di piazza detta Pescheria vecchia che si allinea con un lato
a strada S. Lucia, strada che allora non esisteva, e fu aperta nel
1283.

[36] Larione o Lirone era un ramo del Po, che ora non esiste. Il Po e
il Lirone formavano un'isola detta Polirone, nella quale Tedaldo, avo
della contessa Matilde edificò la chiesa e una parte del monastero di
S. Benedetto di Polirone.

[37] Presso Chiavari e al mare.

[38] Gli istoriografi della città di Reggio la dicono porta _Brennone_.

[39] Gattaiola: a tre miglia Sud di Lucca con un convento in cui fu
monaca anche una figlia di Castruccio Castracani.

[40] Arcella, che allora si diceva Cella, è luogo non lungi da Padova,
fuori di porta Codalunga, dove esisteva nel 1231 un convento di
monache. S. Antonio reduce da Camposampiero e giunto gravemente malato
presso quel monastero di Cella vi fu ospitato e vi morì.

[41] Piccola villa a Nord-Ovest a pochi chilometri da Reggio.

[42] Villa a tre miglia pieno Nord di Reggio.

[43] Paese a circa 15 chilometri da Parma e a pieno Nord da Parma
stessa, non lunge dal Po.

[44] A cavalliere della via Emilia a dodici chilometri da Modena per
Bologna.

[45] A mezza circa via tra Parma e Reggio.

[46] Dopo molte indagini, di cui nessuna mi ha condotto a sapere chi
fosse questo _Alachia_, mi sono rivolto a congetturare se mai _Alachia_
fosse un nome astratto significativo di castità, derivante da qualche
lingua straniera, e probabilmente orientale. Interrogatone perciò
un giovane e già illustre poliglotto parmigiano, che fu mio scolare
al Ginnasio, P. Italo Pizzi ha gentilmente risposto, che la parola
_Alachia_ nel senso di castità può derivare dall'arabo; e il movimento
della scienza orientale verso l'occidente operatosi nel medio evo, o
il contatto dell'occidente coll'oriente per mezzo delle crociate, può
facilmente aver data la detta voce al dizionario del canonico Primasso.
C. C.

[47] Alla sinistra dell'Oglio sulla strada da Cremona a Mantova. Il suo
castello è ridotto a civile abitazione.

[48] Alla sinistra dell'Oglio all'oriente e non lunge di Canneto.

[49] Grosso paese alla destra del Pò non lunge da Guastalla.

[50] Alla sinistra dell'Oglio, pieno Nord di Marcaria.

[51] In mezzo tra il Chiese e il Mella sul canale Naviglio, se pure,
come sì crede, sia il _castrum de Geo_ del testo salimbeniano.

[52] Sul Chiese, pochi chilometri sotto la strada Brescia-Lonato.

[53] A Nord-ovest di Mantova sulla strada che va a Castiglione della
Stiviere.

[54] Sul Chiese poco lunge da Castiglione delle Stiviere.

[55] Tra il Chiese e il Mincio pieno Sud di Castel Goffredo.

[56] Gambara, Gottolengo, Pralboino e Pavone nello stretto territorio
che è nel basso corso del Mella e del Chiese.

[57] Sulla sinistra dell'Oglio e sulla strada da Cremona a Brescia.

[58] Al Nord di Cremona sull'Ogiio e sulla strada Cremona — Brescia.

[59] Castel Leone fatto fabbricare nel 1227 da Bernardo da Cornazzano,
allora Podestà di Modena, a fianchi di Castelfranco che si stava
costruendo da' Bolognesi, e pare che fosse precisamente ove ora sorge
il forte Urbano. Nulla restando Castel Leone.

[60] Cortenuova villa al sud sud-est di Bergamo, destra dell'Oglio tra
Romano e Martinengo.

[61] Alla sinistra del Taro una dozzina di chilometri a monte
dell'Emilia.

[62] Alla sinistra del Taro otto circa chilometri a monte dell'Emilia.

[63] A 18 miglia Nord Nord-Ovest di Bologna tra il Panaro e il Reno.

[64] _aven_, dal latino _habet_ nacque l'italiano antico, e non ancor
morto, _ave_, così dal latino _habent_ ebbero _avene_, e, troncato,
_aven_ per hanno, ora totalmente disusato.

[65] Di poco fuori della porta orientale di Modena.

[66] Sulla sinistra del Panaro a dieci circa chilometri a monte
dell'Emilia. Patria dell'illustro architetto Barozzi, detto il Vignola,
e di Lodovico Muratori.

[67] Sei chilometri circa ad oriente di Guastalla.

[68] Sulla riviera ligure orientale vicinissimo a Chiavari Est.

[69] Questo Pietro Veronese inquisitore colle suo incessanti ricerche
contro gli eretici, coi roghi, coi bandi, colla demolizione delle
case, e la confisca de' beni degli inquisiti, si era reso odiosissimo
a chiunque temeva d'essere accusato di opinioni eterodosse. Tra tanti
era stato messo al bando come eretico, Stefano Confaloniere di Alliate,
e gli si doveva diroccare la casa e confiscare il patrimonio. Avvisato
_come per fra Pietro era stato misso nel bando_, dice il Corio, si
concertò con altri malcontenti nelle terre di Giussano, ed erano
Manfredo Chiroro, Guidotto Sacchella, Jacopo della Chiusa, Tomaso
Giuliano, Carlo da Balsamo, Alberto Porro, e lo uccisero il 6 Aprile
1252 presso Barlassina con un colpo di falce.

[70] Quasi nell'asse dell'Apennino sul parallelo di Caserta.

[71] A dodici miglia Nord-Est di Milano.

[72] Non colla forza dell'armi, ma colle pratiche fatte presso i
milanesi, che lo restituirono a patto che nè esso nè il padre movessero
mai più guerra contro Milano.

[73] Fatto distruggere dai ministri di Federico II dopo aver dato asilo
ai baroni ribelli, ora non resta che un piccolo villaggio. Gli abitanti
però in seguito lo rifabbricarono a 12 chilometri circa di distanza
vicino al mare e a trenta chilometri Sud-Est di Salerno, ed è città di
qualche considerazione.

[74] Sul cucuzzolo di un alto colle a Sud-Sud-Ovest di Reggio sulla
destra dell'Enza.

[75] Al Sud di Reggio, Comune di Castelnovo ne' monti, versante
dell'Enza.

[76] Sud-Ovest di Reggio nei pressi di Bibianello.

[77] A pieno Nord di Reggio sulla destra dal Po.

[78] Castello dell'alto Apennino Sud-Ovest di Parma sulla via che va a
Spezia.

[79] Cioè sulla destra dell'Enza.

[80] A Nord-Nord-Ovest di Parma presso la foce del Taro in Po.

[81] Sul Po ad Oriente della foce del Taro.

[82] Sul Po a pieno Nord di Guastalla.

[83] Sulla sinistra del Taro a monte dell'Emilia circa dodici
chilometri da Parma.

[84] Sulla sinistra del Taro a pochi chilometri Ovest di Noceto.

[85] Alla sinistra del Taro, a Sud-Ovest di Parma a monte dell'Emilia,
e a 20 circa chilometri da Parma.

[86] A pieno Nord di Cremona sulla sinistra dell'Oglio, e sulla strada
Crema Brescia.

[87] Tra il Lamone e il Senio ed Ovest e non lungi da Ravenna.

[88] Nell'agro di Forlì.

[89] Alla sinistra del Taro poco più che due chilometri al disotto
dell'Emilia.

[90] Nella parte orientale della città, circa sull'area dell'attuale
collegio Maria Luigia.

[91] Due miglia al Nord di Bassano sul Brenta. È questo il castello,
d'onde ha tratto nome e origine di potenza la famiglia di Ezzelino.

[92] Piazza S. Giorgio trovasi a pieno Nord di Verona, sulla sinistra
dell'Adige; e, sul murello di cinta del convento di S Giorgio, leggesi
anche oggi su pietra la seguente iscrizione:

                        _Ezzelino III da Romano_
                 _sospettandoli a parte Guelfa legati_
                  _Fece trucidare undicimila Padovani_
                          _Inermi e prigioni_
                                 1256.

[93] A Nord di Parma sulla sinistra del Po.

[94] Ora detto ponte di Caprazucca, allora di Donna Egidia, perchè
Egidia da Palù lo fece costruire a proprie spese.

[95] Quel Biduzzano corrisponde al luogo, ove ora la Baganza mette foce
nel torrente Parma, quasi sotto le attuali mura di cinta della città
di Parma. Ora non sussiste più un luogo col nome di Biduzzano. Molti
cambiamenti deve avere avuto quel punto d'incontro delle acque dei due
torrenti, e quindi n'è scomparso sino il nome.

[96] A Cremona tra le attuali Porta Romana e Porta Po era aperta
un'altra Porta, detta Porta Mosa, e subito fuori di quest'ultima vi
era uno spianato o una piazza che prendeva nome dalla porta che vi
metteva. Su quello spiazzo o campo erano le forche. Ora di Porta Mosa,
per ricostruzione delle mura avvenuta sulla fine del secolo passato,
non resta più traccia; ma in città la strada, che conduceva alla porta
soppressa, ritiene ancora il nome di Via a Porta Mosa; ed era, su
quell'antico campo, o spiazzo, vi è il tiro a segno.

[97] Ad Ovest-Ovest-Nord di Parma a valle dell'Emilia, 18 chilometri
distante da Parma. Ha un magnifico castello, in cui si reca a
villeggiare la famiglia de' Conti Sanvitali, a cui appartiene.

[98] _Partì da Lione per la Francia_. Vuol dire pel regno di Francia
quale aia allora politicamente costituito, di cui Lione non faceva
parte, ed era uno stato a sè, retto dagli Arcivescovi pro tempore di
Lione stessa.

[99] Salimbene chiama Planum Carpi il paese nativo dell'illustre
viaggiatore fra Giovanni. Nell'Umbria in seguito lo dissero Pian di
Carpine. Ora è valle di Magione; e Magione siede presso il Trasimeno
sulla ferrovia a 21 chilometri da Perugia, alla cui Provincia e
circondario appartiene.

[100] Figlio e successore del famoso Gengis-Kan.

[101] Questa torre, detta egregia in una cronaca Ravennate, sorgerà in
quell'area che si stende dalla strada del Corso a porta Alberoni, e,
restaurata da Federico II nel 1240, fu atterrata secondo il Riccobaldi,
nel 1295.

[102] Detta in cielo d'oro perchè il soffitto era ornato di stucchi
dorati.

[103] A quattro chilometri circa da Ravenna C. G. Cesare cavò a mani un
porto per stanza di una flotta romana, e sul lido di fronte costruì un
_castrum stativum_ un accampamento stabile per alloggio di una legione
in servizio della flotta. Trasportato il centro dell'Impero romano a
Costantinopoli, fu ritirata flotta e la legione; restò l'accampamento,
che era già fornito di non pochi edifizii, e il popolo di Ravenna lo
invase, e mutò in una città, che sorse non inferiore a Ravenna, e, da
_classis_ flotta, prese il nome di Chiassi. Distrutta poi, rimase il
nome stesso al luogo e al circondario dove era stata.

[104] Al Nord-Nord-Ovest di Parma sulla destra del Po; però ve ne ha
un'altra di rimpetto a questa sulla sinistra.

[105] Città e Cantone della Svizzera tedesca: La celebre Abbazia fu
fondata nel 700.

[106] Montecassino, a' cui piedi è S. Germano, che, sulla ferrovia Roma
Napoli, dista da questa città 111 chilometri. La magnifica Abbazia, che
è sull'altura, fu fondata nel 529.

[107] Il Yonne.

[108] Beaune: Bella città del dipartimento Costa d'Oro, posta in
fertilissima pianura, e ricca di celebri vigne.

[109] Vezellay; pochi chilometri distante da Auxerre.

[110] Jeres dista ora quattro chilometri dal mare di fronte alle isole
omonime.

[111] Digne: Capoluogo del dipartimento Basse Alpi, sul Bleone
influente della Duranza.

[112] Bariols: Nel dipartimento del Varo, sulla Duranza, ad Ovest di
Draguignan, che n'è il capoluogo.

[113] L'Abbate Gioachimo sativo di Celico, villaggio vicino e ad Est di
Cosenza, fece professione monastica nel monastero di Coraci, villaggio
vicino e al Sud di Cosenza. Era nato nel 1111. Comandato da Clemente
III di continuare i commentarii sulla sacra scrittura, si ritirò col
suo discepolo Rainiero in un luogo solitario detto Flora, sulla vetta
d'un monte presso Cosenza, ove eresse un oratorio e qualche cella. Ivi
si moltiplicò il numero de' suoi discepoli, e fondò un nuovo monastero,
e una congregazione con Regola più austera di quella dei Cisterciensi,
a cui egli apparteneva, e la chiamò Congregazione di Flora o Florense,
e ne fu proclamato Abbate.

[114] Vienna: Città sul Rodano, dipartimento dell'Isero.

[115] _Sebbene di piccola statura_: Vedine la ragione nei seguenti
versi.

[116] Marisco: Paese della diocesi di Bath in Inghilterra, sul canale
di Bristol, Ovest di Londra. Bath è antica e cospicua città romana.

[117] Lincoln: Città che possiede molti monumenti Sassoni e Normanni,
posta su ripido colle a pieno Nord di Londra verso il mare del Nord, a
53 circa di latitudine.

[118] Tarascon: è sulla sinistra del basso Rodano, a circa 15
chilometri Nord di Arles.

[119] Beaucaire: sulla destra del basso Rodano unita con ponte a
Tarascon.

[120] Antica città distrutta, che era alla foce della Magra, che si
versa in mare subito fuori del golfo di Spezia all'Est.

[121] Provins. Alla destra della Senna Sud-Est e non lontano di Parigi.

[122] A 22 chilometri Ovest di Parma sull'Emilia.

[123] Sull'Yonne alla sinistra della Senna, sud di Parigi.

[124] Al confluente del Yonne e del Vannes Sud-Est di Parigi.

[125] Ieres: Paese sulla sponda del Mediterraneo di fronte alle Isole
omonime, dipartimento del Varo.

[126] Merlino, secondo le cronache antiche, è il frutto misterioso
di un incubo d'una religiosa, figlia d'un re di Scozia, nei monti
della Caledonia. Sebbene la sua origine sia favolosa, pure non si può
dubitare della sua esistenza, e pare si debba fissare al quarto secolo,
e forse toccò anche il quinto. D'alto ingegno, di lunghe meditazioni,
ricco di cognizioni, versatissimo nelle matematiche e nelle scienze
naturali, era uomo di molto superiore al suo tempo; e quindi nessuna
meraviglia che la leggenda tessutane in que' secoli d'ignoranza
attribuisse ad ispirazione del cielo, ed a spirito di profezia, quanto
era in lui effetto della scienza e della previdenza calcolata dall'uomo
che medita. Ebbe la fiducia dei principi, che mi giovarono della sua
prudenza e sagacia nelle loro imprese. Tra gli storici chi ne parla
come d'un santo, e d'un profeta; chi come d'un mago e d'un incantatore.
E, divenuto l'uomo leggendario nel secolo quinto, lo rimase sino alla
fine del medio evo. Fu soggetto di molte tradizioni popolari nel ciclo
del re Arturo e dei cavalieri della _Tavola Rotonda_.

[127] La cattedrale di Ravenna è detta Chiesa Orsiana, perchè S. Orso
nel IV secolo la fondò, o almeno la fece restaurare ed ampliare.

[128] Polenta: Castello sui colli sud-ovest di Cesena.

[129] Erano a Firenze due vie, l'una nominata di Garbo dalla illustre
famiglia omonima, l'altra di S. Martino, nelle quali avevano sede
fabbriche di panni. In via di Garbo si confezionavano panni fini,
nell'altra grossolani. Onde ebbe origine l'uso di chiamare panno di
garbo il panno fino, e panno di S. Martino il grossolano. Dalle cose la
frase passò alle persone, e si chiamarono di garbo le persone gentili e
di fina educazione.

[130] Seguendo la dottrina de' ternari, i Gioachimiti in tre ordini o
stati dividevano gli uomini, i tempi, la sapienza, la vita. Abbracciava
il primo tre stati, o tre ordini d'uomini: cioè quello dei coniugati,
che aveva avuto luogo sotto il regno del Padre eterno, e sotto l'Antico
Testamento; quello dei chierici, sotto il regno del figliuolo, e sotto
la legge di grazia; e quello dei monaci, che perdurar doveva nel tempo
della maggior grazia per via dello Spirito Santo. Il secondo ternario
era quello della sapienza: cioè il Vecchio Testamento dato dal Padre;
il Nuovo che è opera del figliuolo; e l'Evangelio eterno, che doveva
venire dallo Spirito Santo. Il ternario de' tempi costituiva i tre
regni summentovati: del Padre, o lo spirito della legge mosaica; del
Figlio, o lo spirito di grazia; dello Spirito Santo, ossia la somma
grazia, o la rivelazione della verità. Sotto il primo erano vissuti gli
uomini secondo la carne; sotto il secondo tra la carne e lo spirito;
sotto il terzo, sino al finire del mondo, vissuto avrebbero secondo lo
Spirito puro. Nella quale ultima epoca dovevano, secondo loro, cessare
i sacramenti, le figure, e quanti vi aveva simboli o segni sensibili, e
mostrarsi nuda la verità.

[131] Villaggio sull'Emilia ad oriente di Parma e distante dalla città
poco più d'un chilometro.

[132] Greccio è sulla sinistra del Velino al di sotto di Rieti circa 12
chilometri.

[133] Montefeltro, ora Sasso Feltrio, tra il Conca ed il Marecchia a
Sud e vicinissimo alla Repubblica di S. Marino, è un piccolo tratto
di paese che diede nome ad un'illustre famiglia principesca, che ebbe
signoria in Urbino, Pesaro, Sinigallia, Gubbio ed altre Terre vicine.

[134] A pieno sud di Faenza, tra' colli.

[135] Circa 20 chilometri da Siena ad Ovest e a pochissima distanza
della ferrovia Siena-Empoli.

[136] Dista 9 miglia sud-Est da Velletri. Cori è antica città dei
Volsci, ha mura ciclopiche e avanzi considerevoli di templi antichi.

[137] Pertuis: Sulla destra della Duranza, pieno Nord di Marsiglia.

[138] Montesarchio: Paese al Sud-Ovest e non lunge di Benevento.

[139] Paese al Sud del lago omonimo e a Ovest-Nord di Brescia.

[140] Bibbianello, ed ora per accorciamento Bianello, dista 11 miglia
al Sud-Ovest di Reggio, sui colli. Non lunge da Bibbianello più d'un
tiro di balestra e tutti in amenissima postura erano anche altri tre
castelli, detti Montevecchio (poi Montevetro, Montevedro); Monteluncilo
(poi Monte Lucio, Monteluzo); Montegiovanni (poi Montezano):
Appartenevano tutti alla Contessa Matilde di Canossa. Ora restano
pochi ruderi di tre; ma Bianello sorge ancora magnifica villeggiatura
e proprietà del Professore Cavaliere Luigi Caggiati, che con molto
spendio lo ha sottratto a ruina, e con molto buon gusto l'ha fornito di
un ricco mobilio di stile antico.

[141] A Sud-Ovest di Reggio; e da Reggio dista cinque miglia.

[142] A venti chilometri Sud-Sud-Est da Parma sulla sinistra dell'Enza.

[143] Tre castelli nel territorio reggiano portavano questo nome:
uno, verso Bismantova; un altro, sul confine del mantovano; finalmente
quello che è quì nominato, a tre miglia Sud di Reggio.

[144] Due cavi si conoscono col nome di Scalopia: uno nel territorio
di Brescello con direzione verso Guastalla; l'altro nel territorio di
Reggio, che solca le ville di Cadelbosco, dell'Argine e il distretto
di Castelnuovo di sotto fin presso Gualtieri, al Nord di Reggio con
direzione al Pò. Questo si chiama la Parmesana, e di questo Cavo pare
si debba intendere parlato dal Salimbene.

[145] Alla foce del ramo orientale del Nilo.

[146] Embrun: Sulla Duranza, Dipartimento Alte Alpi, Nord-Est di Gap.

[147] Espressione enfatica di Giobbe usata da questo Vescovo per
indicare che piuttosto che fare il Vescovo avrebbe sopportato ogni
sorta di fatiche e di dolori sin anche la morte.

[148] Pochi chilometri a monte dell'Emilia tra Cesena e Forlimpopoli.

[149] A pieno Nord e a circa 10 chilometri da Correggio.

[150] A sud-ovest di Reggio sopra l'Emilia a piè dell'Apennino.

[151] Poco distante da Reggio verso Modena.

[152] A 20 chilometri circa da Reggio a Nord, Nord-Est.

[153] Sei chilometri distante da Reggio alla sinistra del torrente
Crostolo.

[154] A Nord Nord-Est di Reggio stanno Novi, Rolo e S. Stefano, il
quale pare fosse alla destra della Secchia nelle vicinanze della
Mirandola.

[155] Dista 17 miglia al Sud di Padova a piedi de' colli Euganei.

[156] Questo palazzo fu poi riedificato dalla famiglia, e nel 1500, o
poco dopo, fu comperato e atterrato per innalzare su tutta, o su parte
dell'area, il bel tempio detto della Steccata.

[157] Di quella città nulla più resta che qualche rudere, e un tratto
di cortina del castello imperiale, a cui è addossata una cascina della
famiglia Romano.

[158] Cassio è sul fianco settentrionale dell'Apennino a mezzo circa
della strada postale, che da Parma mette a Pontremoli.

[159] Molte e varie cose, tra vera e false, intorno a questa Costanza,
tramandarono ai posteri i Cronisti a lei contemporanei, a seconda
delle passioni di partito, ond'erano mossi. Tra l'altro fu scritto
dal Cranzio, dal Villani e da altri, che quando l'Imperatrice Costanza
era grossa di Federico II in Sicilia e in Puglia s'avea sospetto che
per la sua grande età la potesse realmente essere; per la qual cosa
quando venne a partorire, fece tendere un padiglione in su la piazza di
Palermo, e mandò bando che, qual donna volesse, v'andasse a vederla, e
molte v'andarono e videro, e quindi cessò il sospetto. Ma tutto questo
è favola, e se non d'altronde, si desume dal fatto che Federico II è
nato a Iesi. Salimbene dice che a trent'anni d'età i fratelli cercarono
di collocarla a marito. Giovanni Villani e più altri narrano che si
maritasse a cinquant'anni ed oltre. Ma gli uni e gli altri possono
accordarsi; poichè può essere vero il racconto del Salimbene che a
trent'anni la volessero maritare, ma che poi, non avendole allora
trovato un partito conveniente, e pur volendola allontanare dalla
Corte, per aver pace in famiglia, la collocassero in un convento,
da cui uscisse quando si maritò a circa cinquant'anni d'età, e si
effettuasse il matrimonio nell'età appunto, a cui lo riportano gli
altri Cronisti. Di fatto tutti convengono nel raccontare che ha passato
una parte de' suoi anni in un monastero di Palermo.

[160] Questo tale, come si può ragionevolmente arguire da quel
che segue, pare dovesse essere uno de' cagnotti di Alberigo, il
quale sensibile ai dolori di tanto strazio, credette di potere col
suo stratagemma far decampare Alberico da quell'ordine brutale,
inducendogli nella mente il pensiero che fra quelle donne ve ne
potessero essere alcune, che non avessero coi condannati quelle
attinenze di parentela, che comunemente si credeva, e per cui se ne
voleva dilaniare il cuore.

[161] Il Sile è piccolo fiume che passa vicino a Treviso e si getta
nell'Adriatico.

[162] È alle scaturigini del torrente Senio nell'alto Apennino, pieno
Sud di Imola. Conserva tuttora l'antico castello.

[163] Due chiese sull'attuale Strada S. Francesco; la prima, soppressa
da tempo, mostra tuttora un suo fianco in via detta Guasti di Santa
Cecilia; la seconda, che era sin'ora conosciuta col nome di chiesa
dei Cappuccini, perchè chiesa del loro convento, resta soppressa
quest'anno, per conseguenza della legge sulle Corporazioni religiose.

[164] Animale del genere dello scoiattolo. Pare che del vaio siasi
perduta la specie.

[165] Canoli: A Nord-Est di Reggio, da cui dista circa 15 chilometri.

[166] Rosa, o Rosola, castello alla destra del Panaro al Sud di Modena,
d'onde dista circa trenta chilometri.

[167] Circa 25 chilometri a Sud di Borgo S. Donnino presso le
scaturigini dello Stirone.

[168] A Sud-Sud-Ovest di sopra l'Emilia.

[169] A pieno Ovest di Pavia, su di un crocicchio Lomello Pavia,
Lomello Mortara, Lomello Valenza, Lomello Tortona.

[170] Nessuna delle ricerche storiche fatte, ha condotto a dare piena
luce al presente periodo, la cui traduzione letterale sta scritta
in corsivo. Forse a togliere l'apparente contraddizione gioverebbe
supporre che quel Marchese Guglielmo di Monferrato sia un cadetto
della famiglia de' Marchesi di Monferrato, signore di alcuni castelli,
e l'altro, che è semplicemente indicato col titolo di Marchese di
Monferrato, sia il capo della famiglia, il vero signore della Marca, o
del Marchesato di questo nome; e supporre eziandio che il Pallavicino
contro il capo della famiglia dei Marchesi di Monferrato armasse il
cadetto Guglielmo, il quale poi mancasse alla fede data al Pallavicino.
E in tal caso la traduzione dovrebbe dire non _il Marchese Guglielmo di
Monferrato; ma Guglielmo de' Marchesi di Monferrato_.

[171] A 22 chilometri da Piacenza sulla Ferrovia Piacenza-Parma.

[172] Landasio era alle scaturigini della Mozzola, che è un influente
di sinistra del Taro nell'alto Apennino. Ora è scomparso il castello e
anche il nome. Se non che i pastori di quelle vette chiamano ancora con
tal nome un greppo roccioso, a cui d'opera d'uomo non resta altro segno
che una cisterna.

[173] Ghisalecchio sull'alta Mozzola alla sinistra. Ne resta il nome ad
una Villa, nella quale è una località detta anche oggi il Castello.

[174] Circa 20 chilometri a monte dell'Emilia sulla sponda sinistra del
Ceno, che è un influente di sinistra del Taro.

[175] Circa 12 chilometri a monte dell'Emilia sulla sinistra del Taro.

[176] Miano e Costamezzana sono nei pressi di Medesano.

[177] Sull'Oglio e sulla via Lodi-Crema-Brescia.

[178] A 13 miglia Est di Ferrara alla sinistra del Po di Volano, ove
era un antichissimo e ricchissimo monastero, detto di S. Maria di
Comacchio.

[179] Sulla sinistra del Po di Trimaro a Nord-Ovest di Ravenna.

[180] Resta incerto se frate Aldobrando sia di quel Foiano che è nel
distretto di Campobasso nel Napoletano: o dell'altro che è in Val di
Chiana ad Ovest Ovest-Nord del Lago di Perugia.

[181] Di pochi chilometri sotto l'Emilia Ovest di Modena.

[182] Di pochissimo sopra l'Emilia Ovest di Modena.

[183] Sulla destra del Panaro un trenta chilometri a monte dell'Emilia.

[184] Sull'alto Appennino a sud di Modena tra le scaturigini del Leo e
la Scoltenna o Panaro.

[185] Villa posta sulla destra dell'Enza a tre chilometri circa al
disotto dell'Emilia.

[186] Per ispiegare l'asserto di Salimbene e di Matolino, e le
conseguenze a cui arriva l'uno e l'altro, è necessario ammettere
che nella casa di Marco di Michele vi fossero donne di facili
condiscendenze.

[187] Sulla destra del Po di Primaro a Nord-Ovest di Ravenna.

[188] Sulla sinistra del Po di Primaro.

[189] Sulla Duranza del Delfinato.

[190] Dovara o Dovera è un cospicuo villaggio tra Lodi e Crema.

[191] Sulla penisola che tra Lonato e Peschiera si stende nel lago di
Garda.

[192] Sulla sinistra del fiume Ronco, otto miglia al sud di Forlì, tra
monti.

[193] Sulla Strada che dal mare corre rasente la destra del Pescara per
andare ad Aquila.

[194] Circa 12 chilometri Nord-Est di Napoli sulla strada che va a
Caserta.

[195] A pochi chilometri dall'adriatico sulla via che da Vasto conduce
a Campobasso.

[196] A ottanta chilometri da Napoli sulla ferrovia del mediterraneo.

[197] Federico II distrusse Fasanella per vendicarsi dei conti omonimi,
e gli abitanti si ricoverarono a S. Angelo su un monte vicino che prese
nome di Sant'Angelo a Fasanella a 32 miglia Nord Nord-Est di Salerno.

[198] Sessa presso a Teano sulla Ferrovia Roma-Napoli a 67 chilometri
da Napoli.

[199] Per quante indagini, e lunghe, io abbia fatte, non ho potuto aver
notizia di un personaggio storico di questo nome; il quale, dice il
Prof. Luigi Pizzi, se vogliasi spiegare da una etimologia ebraica od
araba, significherebbe ombra di morte, o morte di morte; significazioni
non disadatte ad indicare i segni del vicino finimondo, a seconda delle
opinioni prevalenti in que' tempi. Tale qualificazione e denominazione,
potrebbe anch'essere che Giovachino se la fosse coniata di suo per
indicare qualche personaggio, cui la prudenza consigliasse di non
indicare col nome proprio.

[200] Sulla sinistra della Secchia a monte dell'Emilia, e più su circa
20 chilometri.

[201] Di pochissimo al di sotto dell'Emilia a Nord di Castel S. Pietro
che è sulla ferrovia Bologna Ancona.

[202] Alla destra e a poca distanza dall'Enza due chilom. a valle
dell'Emilia.

[203] Alla sinistra del Mella, Sud di Brescia.

[204] Il capo di tutti i Minoriti sparsi nel mondo era il Ministro
Generale, o semplicemente il Generale. Ma l'amministrazione era
divisa per provincia, e il capo di ciascuna Provincia era il Ministro
Provinciale, o semplicemente Provinciale. Il capo poi di ciascun
convento della Provincia si chiamava Guardiano. Ora ogni Provincia
ambiva ed aveva interesse morale e materiale di avere qualche frate,
che per ingegno e per dottrina le desse lustro; e perciò quando vi era
un giovane che offrisse speranza di riescire eminente per lettere o
per iscienza, lo mandavano alla celeberrima Università di Parigi per
gli studi di perfezionamento. Per la Provincia della Sicilia fu dunque
inviato frate Gerardino di Borgo S. Donnino.

[205] Sulla sinistra del Taro a due chilometri Nord della stazione di
Castel Guelfo.

[206] Sulla Secchia circa 20 chilometri a monte dell'Emilia.

[207] Intendi i Fiorentini ed i Lucchesi di parte Guelfa furono
fieramente battuti dai Sanesi e da fuorusciti Fiorentini di parte
Ghibellina. Ed i Guelfi furono traditi da Farinata degli Uberti e da
Gherardo Ciccia dei Lamberti, Ghibellini; i quali col mezzo di due
frati Minori proposero ai Rettori Guelfi di Firenze la consegna di una
porta della città di Siena nelle loro mani, purchè mandassero un regalo
di 10,000 fiorini d'oro, e andassero con un forte esercito a prenderne
possesso. I Rettori di Firenze morsero all'amo dell'inganno; raccolsero
i denari e l'esercito, ma la porta promessa non fu consegnata, anzi
furono rovinosamente sbaragliati a Montaperti sull'Arbia; e Firenze
ritornò a signoria Ghibellina. La strage fu grande, e la si può
misurare, quantunque vi sia palese esagerazione, da ciò, che gli Annali
di Pisa fanno ascendere a 10,000 i morti, e a 20,000 i prigionieri
di guerra; e il Cronista Saba Malaspina dice di 15,000 prigionieri;
Roncioni nello sue Storie Pisane nota 12,000 tra morti e prigionieri;
fra Leonardo Aretino dà 30,000 morti, 4,000 prigioni; Bartolomeo
Spina 10,000 morti, e 20,000 prigionieri. La battaglia fu combattuta
il 4 settembre 1260 secondo Giovanni Villani; il 4 settembre 1261,
secondo Rainieri Sardo nella sua Cronaca Pisana, inserta nell'Archivio
storico, pag. 88 del Tomo 6º, parte 2ª, dispensa 1; Salimbene la
assegna al 1259; ed è più attendibile che gli altri, poichè Salimbene
era contemporaneo e già scrittore di cronache; gli altri sono tutti
scrittori posteriori al tempo in cui il fatto avvenne.

[208] Venti chilometri a Sud Ovest di Modena sui colli.

[209] A sette miglia Sud da Modena sul Tiepido, e restano ancora avanzi
del castello.

[210] A dieci miglia Nord-Est di Reggio.

[211] Sull'Oglio e sulla strada da Bergamo a Brescia.

[212] Sulla sinistra dell'Oglio poco distante alla punta Sud del lago
di Iseo.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a fine volume (Errata Corrige) sono state
riportate nel testo.





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