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Title: Gli Uomini Rossi
Author: Beltramelli, Antonio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Gli Uomini Rossi" ***


                          ANTONIO BELTRAMELLI


                            Gli Uomini Rossi

                               _Romanzo_



                                 TORINO
                     RENZO STREGLIO & C. — EDITORI.
                                  1904



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                   Venaria R. — Tip. R. Streglio e C.



_A Francesco Beltramelli, mio padre._



CAPITOLO I.

Nel quale, per l'eterno amore, gli uomini rossi si trovano a mal
partito.


Gli uomini rossi.

Disse un ispirato, una volta, che Adamo, in siriaco, significava rosso
e volle da ciò dedurre la remotissima origine del partito repubblicano.
La deduzione destò fra gli scienziati tedeschi interminabili dispute;
si formò a mano a mano una biblioteca su l'argomento e, come avviene
sempre in casi di sì alta importanza, la questione rimase allo _statu
quo ante_.

Ora io ho pensato non occuparmi delle origini: in primo luogo perchè
non sono scienziato e ciò mi sarebbe di grave impedimento; in secondo
luogo perchè non intendo abbracciare (e ciò sia detto con tutta la
simpatia che la parola modernamente esplica) i repubblicani di tutto
l'orbe terracqueo; bensì, con maggior modestia, limitare la mia
narrazione a coloro che, in terra di Romagna, si sono votati ai rossi
vessilli riassumenti una fede eroica.

Dopodichè, chiamati a raccolta i sovrani spiriti della memoria, dirò di
alcune gesta preliminari nelle quali ha buon partito l'amore.

Viveva un tempo nella gaia città del piano, Europa, figlia di
Gian Battifiore. Ella aveva quattro sorelle, il nome delle quali
corrispondeva alle altre quattro parti del mondo ne l'ordine che segue:
Asia, Africa, America ed Oceania.

Gian Battifiore, ch'era uomo sapiente, aveva dato così a' suoi
concittadini, un solenne esempio del suo libero pensare.

Europa, la minore fra le cinque sorelle, compiti i diciott'anni, nel
fiorire della sua giovinezza, era graziosa e piacente.

Asia, incamminandosi per il mezzo secolo, scrutava il passato. Era ella
semicalva e brutta come la calunnia, onde fioriva in cuor suo l'odio
universo e la maldicenza.

Africa era biondastra, aveva gli occhi color del mare (velato un poco
da lacrimose nubi) e la bocca di una garrula rana.

Benchè piangesse, pensavano gli anziani che qualcuno avrebbe tratto la
giovinetta nave al porto dei legittimi imeni.

Seguiva America, la quinquilustre; America dalla fluente chioma. Essa
era alta ed accesa dal sangue esuberante, onde piaceva agli uomini
rossi che amano i vessilli vermigli.

Ed ultima era Oceania asciutta e mingherlina. Possedeva ella una
vocetta aspra con la quale affliggeva l'umanità amica e nemica, dallo
spuntare del sole al suo celarsi.

Ora avvenne un giorno, nella gaia città del piano, che Europa, la
giovinetta, per compire la sua coltura letteraria, leggesse varii
romanzi nei quali si parlava d'amore.

Sì intensa ne fu la suggestione, ch'ella, pensosa già di una passionale
avventura, decise aiutare il destino.

Da lungo tempo Manso Liturgico passava e ripassava sotto alle sue
finestre volgendo in alto gli occhi sentimentalmente miti; da mesi
e mesi, nelle notti plenilunari (allorchè si spegnevano i fanali per
le necessarie economie del Comune) una voce litaniante, saliva dalla
strada intonando una salmodia amorosa; una salmodia sospirata in
tono minore perchè esplicasse, con irresistibile fascino, l'inesausto
desiderio di una qualsiasi corrispondenza.

Europa pensò che l'amore è cosa dolcissima.

Dicono i romanzieri, i quali si intendono di psicologia e si ripetono
con sbrigliata indifferenza, che vi è un punto, un attimo, nella vita
di una giovanetta, in cui il cuore le si apre d'improvviso come una
melagrana matura, e accoglie il primo amore, indimenticabilmente soave.

Europa era della stessa opinione una sera, allorchè, volgendo gli occhi
per la sottostante via (moriva un crepuscolo di croco dietro una fila
di pioppi lontani), vide Manso Liturgico che la guardava con soavità
intenzionale; era della stessa opinione e si convinse che il primo
amore è un sentimento strano il quale nasce per generazione spontanea
senza sapere perchè.

Assecondò così il giovinetto amatore.

Dopo qualche sera, Divina, la gigantesca camerista delle cinque parti
del mondo, recava nel seno a Europa, una rosea missiva alla quale,
naturalmente, la giovinetta rispose.

Passata una settimana, vi fu la primizia del bacio.

Poi, si prepararono i piani per l'immancabile fuga, dato e concesso che
Manso Liturgico, detto per vezzo Didino, essendo ascritto al partito
clericale militante e figlio di una vecchia nobilissima contessa, salda
colonna di nostra Madre Chiesa, non poteva aver speranza d'impalmare,
per le consuete formule di legge, la figlia del più fiero repubblicano
che la Romagna nutrisse nel secolo rosso.

Così solo Divina fu messa a parte della cosa.

Europa tutto le confessò piangendo e la camerista disse con semplicità:

— Bambina, ci sarò io per te!

Poi, dopo un silenzio, quand'ebbe ascoltato le frasi appassionate della
giovane innamorata, conchiuse:

— Quando è l'età, è giusto!... L'uomo ci vuole!...

Così, in una notte d'aprile, dopo un lungo affannarsi silenzioso di
Divina, un vegliare ai minimi rumori, un andar cauti lungo le pareti,
un soffermarsi agli usci origliando, l'avvenimento si compì.

Manso Liturgico, pallido e tremante, aspettava nella via, guardando,
con gli occhi larghi in nuova stupefazione, le fiammelle dei fanali
sdoppiarsi e raggiare in grandi aureole.

Se Europa non fosse giunta a l'ora prefissa avrebbe cercato invano
l'ardito amatore, poichè il giovanetto moveva già nella mente pensieri
di solitaria fuga, allorchè vide avanzare le due donne.

Fece Divina levando una mano in cenno di riconoscimento:

— Ehi!

Ed Europa con maggior timidezza:

— Sei tu?

Manso Liturgico non rispose. Guardava quasi estatico, avvolto in un
grande ferraiuolo nero sicchè le due donne sostarono temendo essersi
ingannate.

Trascorso qualche secondo d'incertezza, la camerista fece cuor
risoluto, avanzò sola, e Didino fu tolto dallo stupore di sogno che
teneva l'anima sua assente.

Ondeggiò ne l'immenso ferraiuolo, fece quattro passi, sorrise, volle
parlare; ma, ad un cenno, si tacque.

Europa gli si pose a lato e, poi che Divina li ebbe benedetti,
partirono verso l'ombra delle campagne; partirono per la loro
destinazione primaverile, nel gran rifiorir dei mandorli e dei peschi.

E la gigantesca camerista li guardò disparire sorridendo, poi
rientrò in fretta e chiuse la porta, chè, di lontano, si era
levata improvvisamente una gazzarra di voci, urlanti gli inni della
rivoluzione.



CAPITOLO II.

Nel quale Monsignor Rutilante spiega la sua autorità.


— Leggete reverendo — disse la contessa Gilarda Liturgico porgendo a
Monsignor Rutilante una lettera sgualcita: — Leggete e ditemi se non ho
ragione!

— Comunque sia... — aggiunse Monsignor Rutilante scrollando il capo —
... basta, vediamo.

Inforcati gli occhiali, spiegò il foglietto, e cominciò lentamente, con
voce roca e nasale:

      _Cara mamma_,

  «scrivendoti, il peccato che sto per commettere mi appare in tutta
  la sua gravità e ne chiedo umilmente perdono a Dio. So di errare e
  non posso trattenermi da l'errore. Sii buona, perdonami, perdonami
  mamma, perchè ti voglio tanto bene e sono molto infelice! (_Uhm!_
  commentò Monsignor Rutilante estraendo un suo enorme moccichino
  rossastro).

  «Ho pregato, ho seguito vigilie e digiuni, ho chiesto consiglio al
  mio confessore; ma nulla, nulla mi è stato di giovevole conforto in
  questo gran male.

  «L'amore è una cosa triste e ineluttabile; io lo sento e chiedo
  perdono a Dio per la mia debolezza.

  «Andrò molto lontano di qui; in qualche chiesa remota, consacrerò
  a Dio questo disperato amore che mi consuma, poi mi prostrerò su la
  terra, piangendo.

  «Non so scriverti più perchè il pensiero si perde.

  «Addio, ti bacio forte, addio.

                                                          «DIDINO.»

— Povero figliuolo! — disse Don Eucaristia.

La contessa Gilarda e Monsignor Rutilante si guardarono negli occhi.

— Che ne diranno i repubblicani? — chiese Don Barchetta con la sua voce
stridula e infantile; poi si volse verso la finestra e guardò giù, nel
giardino, con aria pensosa.

— Non è un'infamia? — riprese la contessa Gilarda interrogando
Monsignor Rutilante.

— In questa faccenda vi deve essere un colpevole — rispose il savio
prete — e lo scopriremo. Però mi permetterete dirvi, cara contessa,
che se da parte vostra vi fosse stata sorveglianza maggiore e saggia
oculatezza, il male che ora ci troviamo inaspettatamente su le
spalle, si poteva evitare. I ragazzi non hanno ancora sufficiente
discernimento, non possono, nella loro mente, troppo presa dalla
fantasia, fare una netta e sicura distinzione fra il bene ed il male,
sicchè da l'uno a l'altro, per inavviste propagini, si perdono.

Sta alla precettrice o al precettore che li guida il saperli
indirizzare per la retta via, nel santo timore di Nostra Madre Chiesa;
essi sono come una barca senza timone, ed attraversano il mare dei
perigli; sono come un augello nella tempesta e possono disperdersi
negli artifizi del nemico, nelle male reti degli uccellatori. Io so di
molti casi consimili, nella mia esperienza di padre.

Certamente, per voi, cara contessa, questo è un grave caso di coscienza
e dovrete purgarvene.

— Seguirò la volontà di Dio e la vostra, padre! — disse la contessa
Gilarda inchinandosi.

— Ora però — riprese Monsignor Rutilante, dai vivi occhi volpini —
conviene cercare la linea di condotta più opportuna per evitare mali
peggiori: Quali erano gli amici di vostro figlio?

— Non ne aveva.

— È impossibile contessa. Un giovane di vent'un anno ha sempre qualche
amico.

— Didino era un giovanetto solitario...

— Male! — chiosò Don Barchetta.

— ... e non aveva affetto per nessuno, se non forse per un suo cugino
che capitava qui due volte all'anno e non più.

— Come si chiama? — chiese Monsignor Rutilante.

— Fedele Barbigi. È figlio del marchese Barbigi...

— Conosco conosco! — Esclamò monsignor Rutilante assentendo.

— È un giovanetto pallido, biondo, tutto gentile di viso: pare una
donnina. Didino ne aveva molta compassione.

— E perchè? — chiese Don Barchetta.,

— Per naturale devozione ai deboli! — rispose la contessa Gilarda: — È
un insegnamento di nostro Signor Gesù Cristo!

Don Eucarestia, agitando il capo, assentì.

— Non sapete se vostro figlio tenesse corrispondenza col marchesino? —
riprese Monsignor Rutilante.

— Si scrivevano qualche volta.

— Le lettere le leggevate voi?

— No.

— Male! — ridisse Don Barchetta.

L'interrogatorio continuò da parte di Monsignor Rutilante:

— E, avete frugato fra le carte di vostro figlio?

— No.

— Neppure una volta?

— Mai, padre!

— Questa è cosa necessaria. Volete avere la cortesia di farmi recare
qui la corrispondenza di Manso Liturgico?

— Subito! — rispose la contessa, e toccò il bottone di un campanello
elettrico.

Allorchè Monsignor Rutilante s'ebbe i documenti incriminati, cominciò
a scorrerli con occhio attento. Passò una pausa durante la quale non si
udì che il respiro asmatico di Don Eucaristia; poi, riprese il vescovo
dalle grandi ciglia:

— E a voi non era nato mai il desiderio di leggere queste lettere?

— Mai.

— Peccato! Perchè sono veramente degne di essere osservate!

Don Barchetta volse gli occhi al soffitto in atto di squisita
distrazione.

— Pare impossibile — riprese il maestro e donno — sembrano scritte su
la falsariga di un epistolario galante.

— Davvero? — chiese la contessa, maravigliandosi.

— Proprio così. Sentite.

«... ah! i bei tramonti, i bei tramonti, ricordi Didino mio? su le
vette della Cescara, al castello di Belfiore, alle sorgenti del tuo
azzurro fiume di cui mi sapevi dire tante cose e sapevi con fascino
sì grande narrarmi gli incantesimi. Quanto ti ho amato, quanto t'amo
ancora per la tua dolcissima parola fascinatrice, irresistibile,
avvolgente.

«Io sono una povera paglia in tuo dominio e tu mi possiedi.

«Ora sono solo, così solo che tutto mi fa sospirare e non penso che a
te, e te vedo in tutte le cose e di te parlo ai boschi, alle nubi che
scendono verso la lontanissima pianura, al sole che muore nel tuo bel
mare pieno di vele rosse.

«Ritorna, ritorna, io ti desidero con tale ardente affetto quale forse
non potrai supporre.

«Tutto ti aspetta qui, vieni. Il tempo non sarà avaro a noi di ore
deliziose, vieni, vieni!»

— Eccetera! — aggiunse Monsignor Rutilante.

— Si volevano molto bene, infatti! — disse la contessa.

— Pare! — esclamò Don Barchetta.

E Don Eucarestia, un prete ormai vecchio e di costumi antichi, aprì per
la ventesima volta la tabacchiera d'argento.

— Ci si sente l'influsso d'annunziano — riprese Monsignor Rutilante.

— Questo poi!.. — sorse a dire con impeto la contessa Gilarda.

— Perchè vi maravigliate?

— Perchè nè Fedele, nè Didino hanno letto mai un libro di quello
scomunicato!

— Ne siete ben sicura?

— Sicurissima. Le letture di mio figlio le ho sempre regolate io.

— Che cosa leggeva, per esempio?

— Che so?.. _I promessi sposi; La monaca di Monza;_ il Leopardi...

I tre preti si guardarono in viso spinti da uno stesso sentimento di
indignazione, ed esclamarono in coro, prolungando le vocali:

— Il Leopardi?

— È un gran male? — chiese con timido sorriso la contessa.

— O beata inscienza! — esclamò Monsignor Rutilante: — Per te è forse il
regno dei cieli; ma quante anime si perdono su la terra per la tua mala
guida!

L'uditorio rimase silenzioso e l'esame continuò più rapido, più aspro,
più nervoso.

Nella casa non si udiva un sussurro. Era una casa muta, un po' buia,
posta in una strada chiusa fra un convento ed una chiesa. Il gran
sole che avvolge la piccola umanità litigiosa, vi giungeva a pena sul
mattino, per un attimo.

Così, muta nella sua penombra, poteva paragonarsi a qualcosa che stesse
fra la camera oscura e la cabina telefonica.

Non appena Monsignor Rutilante ebbe presa visione delle brevi lettere
sentimentali, si volse alla contessa Gilarda e disse:

— Una cosa traspare da queste missive, una cosa che non avrebbe dovuto
sfuggire alla vostra femminil perspicacia. Fedele, il biondo cuginetto,
sapeva tutto ed ha incoraggiato il parente.

— Possibile mai? — esclamò la contessa Gilarda.

— Nè più nè meno di quello che vi ho detto. Ora, per aver ben sicure
traccie del fuggitivo, bisogna chiamare al più presto Fedele Barbigi.

— Lo faremo.

— Non v'è altra via. Frattanto i repubblicani, i socialisti e
gli anarchici avranno il lor daffare! (A questo penso io!). Così
guadagneremo tempo.

— Però... la cosa è fatta! — osservò la contessa. — Non c'è via di
scampo! Converrebbe fargliela sposare onestamente.

— Mai! — gridò Monsignor Rutilante levandosi. Gli occhi suoi neri,
lampeggiarono d'odio. — Mai! Un servo della Chiesa deve rimanere fedele
a' suoi principî, in tutte le azioni della vita.

— E se Gian Battifiore lo vuole?

— Noi siamo più forti contessa; ricordatelo!

— Io affido nelle vostre sante mani il mio destino.

— Così sia! — disse Don Barchetta guardando co' suoi occhi miopi,
attraverso ai vetri, un giardinetto malinconico nel quale cresceva, fra
quattro mura verdastre di muffa, una vegetazione miserrima.

Il servo, alla chiamata della contessa Gilarda, riaccompagnò i
tre preti a l'uscita; poi, quando il silenzio ritornò nella stanza
semibuia, la signora si diresse verso una porta nascosta da ricchi
cortinaggi e, con voce impaziente, si dette a chiamare:

— Messibèll! Messibèll!

Si udì una corsa, un mugolio, indi comparve, aggroppando la coda, tutto
tremante e festante, uno di quei piccoli canini africani ch'ebbero
in dono da natura, fra le altre bellezze, quella di non avere, sul
corpicciuolo malfatto, l'ombra di un pelo.

Messibèll si rizzò su le zampe posteriori, abbassando le orecchie
con l'aria di timido ebetismo che è sì propria a questi piccoli
amici de l'uomo intelligente. La contessa se lo recò fra le braccia,
prodigandogli ogni sorta di vezzeggiativi amorosi e una volta ancora,
nelle avversità della vita, riconobbe come l'eterna provvidenza, per
istabilire il divino equilibrio delle cose, creasse l'uomo, il dolore e
il cane.



CAPITOLO III.

Nel quale Gargiuvîn ha una sua esclamazione consueta.


La gaia città del piano, sede degli avvenimenti ch'io narro, ospitava
allora una combriccola di anarchici, gente di piacevole eccezione.

Detti anarchici non erano propriamente seguaci de l'etica patologica
stirneriana, nè conoscevano l'utopistico comunismo de l'Owen, o gli
imperativi categorici del Bakounine e del Kropoktine; erano uomini
semplici, fedelissimi sudditi di Sua Maestà la miseria e amanti della
libertà che trascina i figli suoi su la terra e sul mare sotto ali di
fiamma.

I ben pensanti li chiamavano vagabondi; Augusto Regida, bello spirito
gioviale, li diceva gli intellettuali dello strame; ed erano in realtà
un po' de l'uno e de l'altro, in giusta misura.

Ora, capo della combriccola, era Gargiuvîn, omuncolo deforme.

S'egli fosse nato nel Medioevo, avrebbe fatto fortuna allogandosi
presso qualche Corte quale giullare. Nel secolo de l'acciaio, la
creatura del riso, si era votata alla morte.

La gaiezza, allorchè persegue un uomo, gli fa un comodo e ridevole nido
nelle cose più scabre.

Gargiuvîn era piccolo e sciancato; le sue gambe divergevano talmente
da formare il chiaro disegno di una _X_. Un viso pallido, magro, dagli
occhietti arguti e maligni, aventi sempre un'espressione canzonatoria;
i capelli tagliati a fratina e le orecchie dismisurate eran complemento
a l'insieme.

Per questo gnomo, i poliziotti, le leggi e la moneta, erano impacci di
cui si poteva far senza poichè rappresentavano avanzi di barbarie. La
sua anarchia in queste tre istituzioni trovava i suoi punti cardinali.

Lo seguiva Arfàt, uomo alto e bitorzoluto dagli occhi piccolissimi
e celesti. Arfàt aveva nella vita due odii: l'acqua e le donne. Si
era ascritto al partito anarchico militante perchè doveva a Gargiuvîn
cinque lire. Pagava di persona.

Essendo brutto e taciturno, le donne ed i fanciulli lo temevano,
raccontando sul suo conto avventure orrende, delle quali il mite
solitario avrebbe avuto per primo, somma paura.

Arfàt faceva lo spranghino ed era conosciuto da tutta la città, sì per
l'arte sua come per il grido gutturale e indimenticabile.

Secondo, era Marcôn, piccola ed esaltata creatura, che assumeva
pose profetiche. Portava a zazzera i capelli sì che da questo suo
costume e dai piccoli occhi neri e dal naso lungo e puntuto, gli era
nato il nomignolo di Marcôn che, in dialetto romagnolo, significa
cornacchia. Prima di essere anarchico, Marcôn, per seguire la sua manìa
divinatoria, diceva la ventura.

Egli era l'uomo della campagna. Quando l'udivano cantare di lontano le
giovanette, gli anziani ch'erano a l'opera nei campi, correvano su la
strada e l'aspettavano ridendo e gli battevano le mani in coro.

Per i contadini Marcôn era un filosofo perchè _sapeva di lettere_.
Tale qualità gli era conferita da l'abito ch'egli avea di recar sempre
seco una sdruscita coppia del _Libro dei Sogni_, ove erano gli alti
insegnamenti di magia.

Per queste qualità e per altre che in seguito si esplicheranno, Marcôn
si era fitto in capo di avere avuto da Dio l'incarico di un apostolato
e si era ascritto al partito degli anarchici.

Seguivano Schignòtt, Apulinèr e Don Vitupèri. Schignòtt viveva dei
rifiuti degli uomini e sdegnava l'elemosinare. Era quasi ignudo e
portava il capo scoperto; un capo adorno da una folta criniera fulva,
aggrovigliata, piena di lampeggiamenti cupi.

L'uomo scalzo amava la luce ed era taciturno.

Apulinèr e Don Vitupèri venivano ultimi. Un ortolano e un prete; un
ortolano mattoide e un prete, ricco come deserti polari.

Tutta l'anarchia si riassumeva in questi sei tipi i quali non avrebbero
minacciata neppur l'ombra di un uomo.

Pure, nella gaia città del piano, essi erano come il simbolo di ogni
crudeltà, di ogni efferatezza onde non avveniva assassinio o furto,
senza che la coscienza pubblica ne li incolpasse.

Così, allorquando, con fulminea rapidità, si sparse fra gli abitanti
della città repubblicana, la notizia della scomparsa di Europa,
scomparsa che non si poteva ricollegare con nessun plausibile amore
tanto da determinarne una fuga, la mente dei più ricorse a un atto
di crudeltà compiuto, per ignota e terribile vendetta, dalla tribù
selvaggia degli anarchici.

Gian Battifiore, il quale non poteva per l'alta posizione occupata in
paese (disimpegnava la carica di sindaco), iniziare piccole ricerche,
il giorno stesso in cui la sua bella figlia aveva seguito chi sa quale
sorte, adunò gli assessori del Comune, più intimi suoi, e con essi
tenne consiglio.

Intervennero: Bortolo Sangiovese, Ardito Popolini, Tragico Arrubinati e
Bartolomeo Campana.

Molto si parlò e molto si discusse, finchè, data la perfetta oscurità
nella quale la cosa era ancora avvolta, si decise attendere i primi
risultati che avrebbe ottenuto la pubblica sicurezza.

Ciononostante il mondo repubblicano era messo ad alto rumore e corso
dalle voci più disparate. Si parlava di una congiura dei clericali, di
una vendetta di Monsignor Rutilante. Solo il nome di Manso Liturgico
non comparve poichè, del vero, nulla era ancora palese.

Fumo e bagliori rossigni esaltarono ed esasperarono i repubblicani
i quali, quasi per coscienza continua di sospetto, si rivolsero al
campo dei loro nemici, cercando almanaccare e costruire castelli
inconsistenti. Gian Battifiore, chiuso nel suo mutismo preferito, non
prestò orecchio alle voci maligne e la polizia iniziò l'opera sua.

Stava Gargiuvîn, una sera, lavorando in compagnia di Plè, il suo
vecchio cane dal pelame rossigno e dalla gran testa piagata.

Su una corniola finiva di tracciare la linea perfetta di un teschio;
sua specialità questa poichè non aveva accettato mai di eseguire
disegno differente.

Volgeva il crepuscolo. Si udivan dai sottostanti cortili, stridori di
girelle, acciottolii di stoviglie, voci di donne sussurrare e cantare;
il cielo si tingeva in rosa su gli alberi lontani ed era violetto su
tutto il mareggiare dei tetti.

Ad un tratto l'anarchico udì bussare con violenza alla porta sì che
gridò:

— Chi è?

— Aprite! — rispose una voce rude. Gargiuvîn riconobbe il visitatore
e si alzò sorridendo. Quand'ebbe dischiuso l'usciuolo grigio, cinque
agenti di pubblica sicurezza si precipitarono nel suo stambugio con
cipigli feroci ed atti di prudenza gladatoria.

Poi, il più anziano parlò:

— Voi siete Armando Ginni detto Gargiuvîn?

— Sicuro! — rispose l'anarchico levando il capo.

— Allora seguitemi.

— Per quale ragione?

— La saprete.

— Amo meglio saperla subito! — esclamò l'anarchico volgendo gli occhi a
smorfia; ma l'anziano che se ne avvide, disse, rivolto a' suoi:

— Prendetelo e ammanettatelo!

Già stavan per compir l'opera, i bravi, allorchè, tendendo le braccia,
chiese Gargiuvîn, col suo miglior sorriso:

— Voglio farvi una preghiera: Posso?

— Dite, presto! — rispose rudemente l'anziano.

— Prima di seguirvi — riprese l'anarchico — permettete provveda alla
vita di Plè, mio affettuoso fratello.

Fattosi su le scale poi, chiamò a più riprese:

— Schignòtt? Schignòtt?

Una voce cavernosa rispose e, poco dopo, il pezzente si presentò su la
porta.

— Ascolta Schignòtt! — riprese Gargiuvîn: — Io sono invitato da questi
signori; forse rimarrò assente qualche giorno. In questo tempo ti
affido il mio caro Plè. Abbine cura come fosse una tua pupilla, il tuo
cibo prediletto. (Non dico la tua amante perchè sei troppo brutto). Il
suo pasto lo sai: quattro ossa al giorno: niente più perchè soffre di
gastricismo. Non viziarmelo. Serbalo puro ed amalo!

Rivoltosi poi alle guardie, disse loro:

— Eccomi!

Queste lo presero in mezzo e, cianchettando ed ondulando, l'anarchico
si avviò giù per le scale. Su la sua faccia pallida era un indefinibile
sorriso di scherno.

Fra un formicolìo di fanciulli, di donne e di sfaccendati,
l'improvvisato corteo giunse al corpo di guardia. Su la porta erano
schierati, in due ali, alcuni poliziotti che tenevano a freno i
curiosi.

— Largo! largo! — gridò l'anziano avanzando.

Fra un sussurio crescente, Gargiuvîn sbucò dalla folla; ma quando fu
per entrare ne l'andito, si piantò su le gambe sbilenche, alzò il capo
in comico atteggiamento, guardò in viso le guardie e gridò loro:

— Amici!... Son di ritorno!

Poi, fra un impeto improvviso di fischi, di urla e di risate, scomparve
dietro l'ombra della fiera legione.



CAPITOLO IV.

Nel quale gli anarchici prendono consiglio.


Allorquando Gargiuvîn si fu allontanato fra la folla che tumultuava e
l'ultima eco delle grida si perse nel consueto silenzio delle piccole
vie lontane, Schignòtt aprì l'impannata della breve finestra che dava
luce al suo momentaneo rifugio, sogguardò intorno e, assicuratosi che
nessuno era in agguato, prese con sè Plè e uscì camminando in fretta
rasente ai muri. Dopo aver percorso un laberinto di vicoletti, giunse
sotto le mura, alla piccola tana di Don Vitupèri. Raccolse un sasso
e battè su l'uscio (nel quale era aperto, verso la base, un piccolo
passaggio quadrato per il gatto e le galline) prima tre colpi rapidi,
poi tre più a rilento e tre ancora.

Una voce cavernosa rispose da l'interno:

— Novità?

— Apri — disse Schignòtt.

Poco dopo l'uscio si dischiuse e il pezzente entrò accompagnato da Plè.

Don Vitupèri era un prete lungo ed ossuto, dal viso magro e rugoso
e dagli occhi celesti. Indossava una veste rossigna, un tricorno
verdastro e aveva un vestigio di scarpe.

Egli era anarchico di convinzione e i compagni suoi l'avevano in alto
concetto, riconoscendo la sua sapienza.

Schignòtt andava ora a prendere consiglio.

Quando l'uscio fu chiuso, Don Vitupèri, riaccovacciandosi sul suo
giaciglio, innanzi ad un vecchio libro, chiese in tono distratto:

— Novità?

Schignòtt protese il collo e rispose:

— Hanno imprigionato Gargiuvîn!

— Ah! — fece Don Vitupèri senza scomporsi; e non alzò gli occhi dal
libro.

— Come? la notizia non ti fa impressione? — riprese Schignòtt.

— Niente affatto! — rispose il prete senza scomporsi.

— Ma siamo in pericolo tutti!

— E perchè?

— Perchè ci accusano di aver rapito una figlia di Gian Battifiore.

— Davvero? E per quali ragioni?

— Per vendicarci.

— E di che cosa?

— Delle continue persecuzioni.

— Eh! — fece Don Vitupèri alzando una mano come a significare una
inconcepibile invenzione; poi riabbassò gli occhi sul libro.

— Che cosa conti fare? — chiese Schignòtt.

— Nulla.

— E se ti legano?

— Buonanotte!

— Ma lo scandalo per te?

— Lo scandalo? — fece il prete alzando le sopraciglia a semiluna: —
E ti pare che ciò possa commuovermi? Lo scandalo per noi è una parola
come tante altre; il fatto non esiste. Noi siamo liberi da tali legami
e in ciò è il pregio della povertà. Ci hanno confinato quaggiù, siamo
straccioni, il nostro stato è quello delle bestie, avremo diritto ad
una nostra morale, mi pare!

Schignòtt tacque con gli occhi fissi e assunse l'aria compunta di colui
che non intende ed è per maravigliarsi.

— Poi — riprese il prete — siamo innocenti.

— Questo è vero! — disse Schignòtt: — Però oggi o domani ci porteranno
al buio.

— E che vorresti fare?

— Ti chiedevo consiglio. Apulinêr non è in casa?

— No; ma tornerà fra poco.

— Dio mi castighi, se non ho una paura maledetta.

— Dei poliziotti?

— No, della prigione.

— E perchè?

— Perchè?... perchè senza sole, il respiro mi manca; perchè voglio
morire in fondo a un fosso come mio padre, e non in un letto di
infermeria. Io ho paura degli uomini, sai?...

— Hai paura?

— Sì.

— E vivi delle loro elemosine?

— Non è vero! — gridò Schignòtt scattando. — Io vivo di ciò che trovo
per le strade!

Vi fu una sosta in cui Plè e Miarù, il vecchio gatto di Don Vitupèri,
si azzuffarono, si rincorsero, riempirono la stanza di mugolii sordi
e minacciosi, di cupe grida, di soffi e di guaiti. Plè, avanzando con
prudenza la grossa testa spelata dalle lunghe orecchie penzolanti e
piagate, girava intorno al nemico per prenderlo alla sprovvista; Miarù,
inarcato come un orciòlo, col pelo arruffato, la coda diritta, la bocca
aperta e minacciosa, seguiva col giro lento degli occhi verdi il cane,
muovendosi a pena in agili scatti.

Interruppe l'aspra battaglia, un gracchiare roco, e il subito apparire,
dalla piccola apertura praticata ne l'uscio, di un'ombra nera.

— Ecco Apulinêr! — disse Don Vitupèri.

— Lèdar lo precede sempre — soggiunse Schignòtt.

Lèdar, la cornacchia, giunse zoppicando nel bel mezzo della stanza,
spiccò il volo ed andò ad appolaiarsi sopra un'asse vicina al soffitto.

Poco dopo, Apulinèr socchiudeva la porta. Non appena vide gli amici,
sussurrò:

— Gargiuvîn è in prigione!

— Lo sappiamo — risposero — e ti aspettavamo.

— Arfàt e Marcôn sono già partiti — soggiunse.

— Lasciali andare.

— Che faremo noi?

— Rimarremo al nostro posto! — disse Don Vitupèri. — Chi parte si
condanna.

— Sei stato mai in prigione? — chiese Apulinèr, curvandosi.

— No.

— Allora non puoi sapere! Vieni con noi, andremo alla montagna, non ci
troveranno più.

— Lassù mi conoscono e sarebbe peggio.

— Vuoi rimanere coi lupi, allora?

— No, rimango con Miarù e guarderemo alla casa. Andate andate. Al
vostro ritorno mi troverete ancora qui. In quanto a vivere si vivrà.
Gli spazzini sono pigri, fino alle quattro di mattina non lasciano le
loro mogli e abbiam tempo di far bottino. Miarù non pretende molto,
a me, lo sapete, basta un rosicchiolo secco e si trova sempre. Quando
tornerete di lassù...

Ma poi non finì la frase, riabassò il capo sul libro e s'immerse nella
lettura.

Schignòtt e Apulinèr si guardarono un istante, alzando le spalle e si
dissero:

— Andiamo.

Schignòtt legò al collo di Plè una cordicella; Apulinèr fece un fischio
e dischiuse l'uscio. Per l'aperto quadrato, s'intravidero gli ori del
tramonto. Lèdar, gracchiando, scese dal suo nido vicino al soffitto e
s'involò innanzi ai due che prendevano il cammino silenziosamente.

Plè seguì con la coda bassa e si volse a tratti per tema che il
selvaggio Miarù lo seguisse.

Ne l'aria si udì lo stormire dei pioppi sotto il vento della sera.

— Oh, uomini uomini! — esclamò Don Vitupèri che s'era fatto su la
soglia e guardava il rosseggiare dei cieli. — Uomini uomini! Più
vale un grillo e una formica e una monera anzichè tutta la vostra
prosopopea.

Io mi chiamo l'Ultimo fra voi, ma la vendetta mi guida!

E tese le braccia scheletriche, alte sul capo, sogghignando.



CAPITOLO V.

Nel quale Divina piange un dirotto pianto per la soave Primavera.


Erano arrivate le prime canipaiuole, gli usignuoli e le capinere.
Africa le aveva udite cantare fra le siepi del brolo, nelle notti in
cui non poteva dormire perchè le lenzuola odoravano troppo acutamente
di lavanda e passava la primavera la quale ha qualche perfidia per le
zitelle che aspettano invano il guanciale compagno.

Gli alberi avevan posto la loro gaia animazione floreale ne l'aria
azzurrina e il vecchio melo, che sorgeva con le sue rame vicino alla
finestra della stanza ove dormiva la solitaria, sorrideva già nel suo
bianco diadema, per le nozze feconde rinnovantesi ad ogni nuovo ritorno
della dolce-prolificante sorella.

Era per l'aria l'invincibile languore primaverile che fa fiorire il
viso degli adolescenti.

Africa passava le sue giornate, intenta ad agucchiare, muta e astratta
nel suo unico pensiero d'amore e contava le foglie e contava le
rame, e aspettava il sorgere delle stelle, sempre intenta a trarre il
favorevole responso alla sua speranza dolorosa e continua.

Asia, la cupa Asia dai grand'occhi obliqui, dai miseri capelli e dalla
grande magrezza stridente, poichè Europa aveva seguìto il suo ignoto
destino, era divenuta più strana, più irascibile, più agitata. La
sua voce suonava ora, alta e sovrana in infinite querele. Tutto le
dava ragione di sospetto e di male, tutto l'accendeva di sacro zelo
e paure incomposte le attraversavan la mente di continuo, nate da
cause irrisorie. Ella era in moto per tutta la casa dai tetti alle
cantine, e ciò dallo spuntare del giorno a l'ultima sera; giungeva
trafelata, guardava la disposizione delle cose, lanciava qualche parola
e ripartiva per altra mèta, per altre grida, per altre apparizioni
trafelate.

Tutto il suo cuore e tutta la sua mente, erano in tale agitarsi; ella
non vedeva più in là e le pareva sorreggere il mondo. D'altra parte, le
agonie del desiderio nutrivano la sentimentale anarchia.

Asia sapeva che la sua stagione era giunta al termine estremo; sapeva
che ormai dalla rossigna sera si levava l'addio che non ha ritorno,
epperò gli ultimi assilli, le ultime tentazioni de l'amore le davano
l'irrequietezza di chi non può tender le mani al piacere che trema
nelle bianche gole delle vergini e zampilla dalla inesausta fonte della
vita.

A l'opposto, America era calma e tranquilla perchè sapeva di essere
desiderata. In tale pensiero, a volte, lo spirito si acqueta.

Ella era bionda e piacente, ne l'età dei frutti; aveva una bella
persona propiziatrice e la primavera non le dava nè malinconie, nè
esaltazioni.

Oceania, trillando come gli usignuoli e le capinere, guardava gli astri
fatali, in attesa de l'annunzio della sua definitiva assunzione al
marital dominio.

Le quattro figlie di Gian Battifiore, vive rappresentanti di una
incorrotta ed incorruttibile fede politica, assistevano così, sole e
fantasticanti, ciascuna in suo metro, alla stagione che gli uomini,
ligi alle loro leggi tetragone ad ogni assalto, dovrebbero chiamare
peccaminosa.

E Divina le guardava sospirando, e diceva in cuor suo:

— Quanta bellezza si perde! E gli uomini cantano alla luna!

Ella ci soffriva perchè era nella sua natura l'istinto de
l'accoppiamento, istinto che a volte rasentava l'ossessione.

Così, negli occhi suoi, vagava una continua pietà per le padroncine che
non potevano sapere niente.

Nel brolo c'eran le canipaiole che hanno gli occhi come due piccoli
coralli e Divina ricordava che, sotto la sua casa di grossolane selci,
udiva un tempo il fischio di Fiurù, simile al verso delle canipaiole.
Le sue quattro ragazze (le teneva ella ne la sua materna protezione)
chisà quanto dovevano soffrire per la ininterrotta solitudine!

E se qualcuna le avesse detto:

— Divina, aiutami!

Sarebbe andata in capo al mondo per far entrare di soppiatto l'amore,
dove le consuetudini non volevano. Non era giusto forse? La nostra vita
è breve — pensava ella — bisogna ben godersela come si può. Quando si è
morti, è finita!

Ora, vedeva Africa sospirare per il conte Alfonso De' Bigamia; Asia e
Oceania attendere a loro volta il sospiro che si rivolge a qualcuno e
America perdere la sua bella giovinezza, nel sonno e ne l'insapienza.

Ciò le dava grande amarezza.

Verso sera, le figlie di Gian Battifiore, poichè la madre Veneranda
usciva per le sue pratiche religiose e il padre era assorbito dagli
interessi della popolazione, si riunivano in una stanza a terreno, che
immetteva ne l'orto e, intente a qualche lavoro femminile, attendevano
l'ultimo crepuscolo.

Divina era con loro.

Quella sera, come di consueto, disposte in semicerchio intorno alla
porta, per ricever la luce direttamente, stavano chine sui loro
lavori. Tre giorni erano trascorsi dalla notte fatale, e quasi un
acconsentimento con la sorte era subentrato alla disperazione dei primi
momenti; un acconsentimento doloroso, perchè pensavano esse ai paesi
felici nei quali Europa fuggiva, guidata da l'amore forse, chè non
credevano altrimenti.

Asia lavorava ad un'enorme calza nera; America era curva sul tombolo;
Africa ed Oceania ricamavano, sopra una stoffa verde, un gran fiore
giallo.

Divina le guardava in silenzio diritta ed immobile dietro loro.

Cigolò d'improvviso una girella rugginosa su qualche antico pozzo delle
vicinanze.

— Dio!... — esclamò Asia portando una mano al cuore.

— Che cos'hai? — chiesero le sorelle levando gli occhi, sorprese.

— Questo rumore mi fa male!

Divina scrollò il capo in atto doloroso e disse:

— Povera figlia, povera figlia mia!

Il cigolio continuò per qualche minuto ancora, e fu seguito da una
voce limpida, che, in impeto canoro, mandò un suo lungo canto ai cieli
crepuscolari.

Poi Oceania mormorò:

— Sentite Neretta!...

Si udì da prima un mormorare sommesso, un picchiettìo di campanellini
a pena tintinnanti nella lontananza; dipoi in un crescere, in un
distinguersi, come per forza di vento, un gorgogliare, un trillare
di un fischio caldo e pieno che si espanse in poche note, fiorì
in appoggiature, si estese in cadenze e morì ad un tratto in breve
trillio.

— Neretta fa il nido — disse Africa.

Neretta era la capinera che tornava ogni anno ne l'orto dei Battifiore.

E le sorelle in coro, su toni differenti, come un lamento, risposero:

— Sì!

Passò una pausa.

— Dove sarà Europa? — chiese poi Africa, sospirando.

E le sorelle:

— Chisà?

Seguì ancora il silenzio e la luce si spense sempre più dietro gli
alberi, in grandi veli di porpora, fra sfumature violette e verdi e
d'oro.

A poco a poco, si come il vespero avanzava, ciascuna delle sorelle
abbandonò il lavoro e alzò gli occhi verso le alte rame e il cielo.
Giunse il suono di un organetto, da una casa vicina, e un tumultuare di
voci giovanili.

Divina, sempre immobile, udì e vide: vide le figlie sue impallidire,
vide la traccia inesorabile del tempo sul viso di qualcuna, ricordò
che la primavera è come un'alito, e che non si può far fidanza ne
l'avvenire, sì che, di fronte alla sua impotenza presente, un grande
scoramento la prese fino a darle il tremito del singhiozzo, fino a
farla scoppiare in gran pianto.

Vespero era sorto fra le rame del melo.

— Divina? — fecero le ragazze volgendosi — Divina?

— È ingiusto! — singhiozzò la gigantessa, con la faccia nascosta fra le
palme. — È ingiusto! Europa ha fatto bene!

— Divina!... — gridò Asia scattando.

— Sì — riprese l'ancella fra i singhiozzi — sì... perchè quando è
passato il tempo... addio!... È un'altra cosa!...

La magra zitella, cupa ed arcigna, chinò la testa in silenzio nè
replicò, perchè il languore, che è come un rettile avvolgente in
infinite spire, l'aveva stretta d'improvviso, sotto i vivissimi occhi
degli arguti desideri.



CAPITOLO VI.

Che serve d'intermezzo esplicativo.


Monsignor Rutilante, nel breve tempo che trascorse fra l'arresto di
Gargiuvîn e la ricerca de' suoi complici, pose in opera tutta la sua
attività per evitare lo scandalo.

Egli spinse la polizia su le orme degli anarchici, giacchè sapeva
che, per dirigere la pubblica opinione in certi casi, basta muovere
abilmente la prima pedina. Se da uno stormo, una pispola si getta nella
pania, tutte la seguono di un grido.

Così avvenne alla popolazione ciarliera la quale si impigliò nelle reti
de l'uccellatore mattiniero.

Ebbe il pasto per la sua fantasia, e, in buona fede, aiutò chi non era
nelle sue grazie.

Monsignor Rutilante non avea proseliti fra gli uomini rossi; la
sua cura era quasi esclusivamente di anime femminili, de l'alta
aristocrazia e del popolo. Le donne accorrevano in massa alla parola
del sacerdote fascinatore, dalla figura maschia e maestosa, dagli
occhi neri e penetranti per assidua forza interiore, dalle folte
sopracciglia, dalla sottile bocca piegata sempre in sorriso ambiguo,
fra lo scherno e la benevolenza, e, di questo suo dominio, il benigno
padre era soddisfatto.

A volte aveva destato una vera frenesia fra le sue ammiratrici, perchè
rappresentava il Signore! La sua voce calda, dalle cadenze lente,
avvinceva le donne che han seguito l'amore; poi era bello! Bello come
una palma ieratica!

Il sacerdote solenne ebbe così in suo potere, nella piccola società
in cui il suo dominio si esplicava, la donna, la quale, anche fra gli
uomini rudi e battaglieri, rappresenta la brezza soave e Borea che
scompiglia, scendendo con sibili dalle nubi tumultuose.

Alle sue parole di incitamento, le regine del fuoco rosseggiante
fra gli alari, si votarono alla giustizia, con l'entusiasmo degli
sfaccendati, per i quali la benchè minima causa è ragione di gran
fiamma.

Inoltre la giustizia è donna: si trovò in famiglia così e sussurrò con
le gravi-osannanti sorelle i proprii sospetti e le formidabili realtà.

Monsignor Rutilante circuì i liberi pensatori, nelle invisibili trame
del suo esercito innumerevole che combatte a guerriglie e non ha
temibili nemici.

D'altra parte Gian Battifiore aveva chinato il capo al destino e si era
rassegnato a pagare il riscatto che gli anarchici avrebbero chiesto,
forse, per rendergli la bella creatura scomparsa.

Europa era la sua intelligenza viva; era il ramo più forte della sua
prolifica pianta, colei che si era adorna di ogni più squisita bellezza
del sapere e poteva sostenerlo nelle sue difficili vie, ed essergli di
consiglio e di aiuto.

Gli doleva ch'ella fosse stata vittima di occulte vendette; ma
intimamente pensava alla grande dignità di dolore e alla nuova forza
di potere che gli avean dato gli anarchici, vendicandosi in tal guisa
della superiorità sua e del suo partito.

Dunque avevano necessità di colpirlo negli affetti, non riuscendo loro
possibile altra via di vendetta?

Forte come uomo, più forte come capo di una falange ardita e
battagliera, i dinamitardi non potevano aver l'ardire di prenderlo di
fronte, e gridargli:

— Ora si veda fra noi, Gian Battifiore, chi vale più!

Ma oscuramente, eludendo la vigilanza, lo colpivano nel suo nido; nella
persona più cara ch'egli avesse su la terra.

Tristi e dolorose necessità queste, nella vita; il destino, per
esaltare una creatura, vuole sempre le sue vittime.

Così l'uomo calvo, che aveva nel sangue una terribile capacità
vulcanica; il violento oratore dei comizi, assumeva di fronte agli
estranei che si dolevano per la sua disgrazia, un contegno enigmatico,
tanto che alcuni andavan sussurrando:

— Ma Gian Battifiore impazzisce!

Mentre in cuor suo, il libero pensatore, sentiva che la gloria lo
trascinava su cime luminose; lo poneva nel suo nido di falco, fra le
asprezze adamantine delle rupi; gli donava un trono, alto su la folla
plaudente alla vittima delle segrete mene politiche, dei terribili odii
di parte, delle oscure vendette settarie.

Europa, la gaia Europa, l'ultima nata fra le cinque parti del mondo,
era stata sempre la sua dolcezza. Sbocciata di maggio, portava con sè
la fortuna che rinnova, povera santa anima sua!

Prima, amore e dolce luce della triste casa; ora, vittima della
grandezza di suo padre!

Bortolo Sangiovese, Bartolomeo Campana e Ardito Popolini non avevano
abbandonato un istante il loro capo, dal giorno della disgrazia. Alla
mattina erano ad attenderlo e lo riaccompagnavano la sera, camminando
in silenzio, le mani dietro le reni e il capo chino.

Sui tre seguaci, si rifletteva un po' la gloria del doloroso.

E, al loro passare, tutti si facevan su le porte e sussurravano:

— Guardali, guardali!

Gian Battifiore era al centro, la corte si distribuiva ai lati.
Solo Bortolo Sangiovese, ch'era piccolo e rotondo ed aveva le gambe
cortissime, rimaneva un poco addietro e seguiva agitando le braccia,
tutto acceso nel volto, ma felice di quel suo affrettarsi.

— Com'è pallido! — dicevano i curiosi segnando Gian Battifiore. — Pare
abbia vissuto mill'anni!

E ancora:

— È una tempra d'acciaio. La sventura non lo vince!

Una domenica, giorno in cui gli uomini si guardano le vesti nuove e si
aggreggiano abitualmente per le vie, in nome del Signore che si riposò,
Gian Battifiore e i tre devoti al suo cammino, avendo occasione di
traversar un quartiere popolare, si ebbero dimostrazioni di simpatia,
prima da un gruppo di pochi operai, poi da una vera folla.

Fu allora che Gian Battifiore pronunziò il suo primo discorso dopo la
triste sventura. Tanto commosse i fieri-urlanti ascoltatori suoi, che,
quand'ebbe finito, Albena, una bella del luogo, si inoltrò recando
un boccale azzurro, decorato di rossi festoni, e offrì al sindaco
riluttante, col suo più bel sorriso, un bicchiere ricolmo del sanguigno
vino che Bertinoro dalle vigne opime, profonde agli uomini che
scalerebbero il cielo.

Gian Battifiore bevve al bicchiere di Albena e il popolo, a l'atto di
fiera democrazia, plaudì frenetico; poi accompagnò, inneggiando alla
rivoluzione ed alla scomparsa di tutte le monarchie, il sindaco fino
alla sua abitazione e rimase sotto le finestre ad urlar canzoni ed
evviva, finchè la notte non fu nei cieli.

Allora Coriolano, il donzello del Municipio, disse a Gian Battifiore:

— Tutto il male non vien per nuocere!

E Bortolo Sangiovese, rispose:

— È vero!

Un'altra volta, quattro ciechi che andavan cantando per le terre
di Romagna, su fisarmoniche e vecchi violini sonori, le rapsodie di
ignoti eroi, si fermarono sotto la casa di Gian Battifiore. Avevano
improvvisato la nenia de l'odio e del ratto, ed ora venivano a farne
omaggio al loro signore.

Così per molteplici esplicazioni, Gian Battifiore si vide accresciuto
ne l'affetto e nella considerazione de' suoi simili e amministrati.

Egli non pensò di iniziar ricerche per rintracciare la figlia perduta.
Di questo si occupava la polizia, sempre solerte e, per quanto i
tentativi non avessero dato alcun risultato soddisfacente, nutriva fede
nella buona riuscita delle cose.

Più lo preoccupava la sua fama. Al bene pubblico, un uomo superiore,
deve talvolta sacrificare e i suoi particolari interessi e gli affetti
famigliari ed ogni suo bene; in tale sacrificio sta la sua superiorità,
il coefficiente primo che lo distanzia e lo diversifica dalla massa dei
mediocri e degli intelligenti.

E Gargiuvîn, frattanto, nelle lunghe notti di sua prigionia, contava
dalle strette inferriate, le stelle, chiedendosi serenamente se egli
fosse per davvero l'uomo più folle fra la folle brigata rivoluzionaria.



CAPITOLO VII.

Qui fa la sua prima comparsa il Cavalier Mostardo negli uffici
dell'«Aristogitone».


L'_Aristogitone_ era l'organo del partito repubblicano. Ne era anima e
corpo, Ardito Popolini, mente eletta e temperamento entusiastico.

Egli aveva avuto l'idea di sostenere il partito con un giornale,
il quale doveva essere ad un tempo: gogna dei disonesti, centro di
combattività per l'idea del Maestro e palestra aperta ai giovani
ingegni romagnoli, desiderosi di tentare il campo delle lettere e della
politica.

L'_Aristogitone_ aveva due avversari: _Il Cataclisma_, organo dei
socialisti rivoluzionari, che combatteva sotto l'egida di un motto
piuttosto medioevale: _Quia nominor leo!_; e _La Vera Croce_,
ebdomadario del partito clericale.

Ogni ingiuria creata ed ogni fantasia ingiuriosa che il clima della
calda Romagna alimentasse, trovava in detti giornali sua stabile dimora
per le ardenti e continue polemiche, nate da minime cause, divampanti
in perenni incendii.

Ardito Popolini, allorchè fu per porre un titolo al suo giornale,
frugò fra i suoi ricordi classici, perchè voleva togliersi dalle
comuni denominazioni. Rimase incerto così fra i nomi di due eroi della
libertà, dei quali conosceva le gesta: Armodio ed Aristogitone. Armodio
si prestava troppo ai facili giuochi di parola degli avversarii; la
scelta cadde su Aristogitone.

Quantunque avesse pensato a Vercingetorige, non lo elesse a vessillo,
che gli parve troppo barbaro.

Spiegò a' suoi lettori l'essenza del suo eroe e affisse, su la porta
della redazione, un cartello sul quale era stampata la seguente
dicitura:

                   _Redazione dell'ARISTOGITONE_ (*)

                       (*) ARISTOGITONE E ARMODIO
                             ANTICHI GRECI
                   FAMOSI PER LA LORO ARDITA CONGIURA
               CONTRO GLI ODIATI TIRANNI IPPARCO E IPPIA
                                FIGLI DI
                        PISISTRATO L'USURPATORE
                OGNI BUON REPUBBLICANO ONORI LA MEMORIA
                              DEI RIBELLI

Ciò per chi non sapeva. Naturalmente, Aristogitone divenne
popolarissimo tra gli uomini rossi. In tal guisa Ardito Popolini
dimostrò la sua coltura e la sua originalità e fu gran colpo per gli
avversari.

Ora frequentava gli uffici del giornale, i quali consistevano in una
sola camera a pianterreno, il Cavalier Mostardo.

Il Cavalier Mostardo aveva quarant'anni.

Portava il cappello su le ventiquattro, il colletto a pistagna e una
grande cravatta rossa; era alto, forte e piacente; gran mangiatore e
uomo di piacevoli vendette.

Il Cavalier Mostardo era un Nume.

I romagnoli adorano la forza muscolare, e Mostardo aveva dimostrato
in varie occasioni di possederne tanta, da far nutrire a' suoi simili
savio rispetto per la sua persona. Egli sollevava un uomo di statura
media, a braccio teso e con massima disinvoltura; fermava un barroccio
trascinato da due mule, afferrandolo per il verricello; faceva
divergere le sbarre di un'inferriata, con semplice garbo disinvolto.

Raccontava che, una volta, entrato in mischia, e trovatosi sprovvisto
di armi, afferrò per una gamba uno dei contendenti e se ne fece clava
mettendo così in isbaraglio, in pochi minuti, gli uomini inferociti.
Un'altra volta, combattendo in Calabria contro il brigantaggio, uccise
cinque malfattori di un colpo solo rovesciandoli in un precipizio. E
così via.

Le sue avventure erano eroiche. Egli le raccontava, ridendo del riso
solenne dei numi e lo stupore si appalesava negli occhi attoniti degli
ascoltatori. Qualcuno aveva fatto un calcolo però: secondo i fatti
d'arme ai quali Mostardo raccontava aver preso parte, egli avrebbe
raggiunto la rispettabile età di centocinquant'anni; ma siccome
l'eroe non amava essere contraddetto, ed aveva sempre qualche ragione
convincente, i maligni si guardavan bene dal comunicargli le loro
osservazioni.

Ora il suo nome di battesimo era Giovanni Casadei, nome che indicava la
sua origine ignota. Però, per la perfetta concordanza dei tipi, Augusto
Regida lo disse discendente da un antico eroe della città; del quale
eroe un cronista del quattrocento parlava in questi termini:

«Cavalier Mostardo, conduttiere et capitano di ventura, homo molto
pronto et valoroso. Lo quale si gloriava che nelle battaglie diverse
haveva havuto cento ferite nel suo corpo, delle quali mostrava le
cicatrici; tanto fu animoso che non istimava pericolo di morte, et a
la sua forza non credeva altri fesse resistenza, et più et più volte
combattè a corpo a corpo et sempre vinse».

Giovanni Casadei credette per davvero fosse il Cavalier Mostardo suo
antenato, sì che ne assunse il nome e si gloriò della discendenza.

Negli uffici de l'_Aristogitone_, il Cavaliere era la seconda persona;
la terza era Maraveja, vecchia nutrice di Ardito Popolini. Ella
assomigliava ad un arcolaio ed aveva negli occhi tutta la dolcezza
stanca delle favole che raccontava a' suoi innumerevoli nipoti. Seduta
tutto il giorno su l'uscio della casa di Popolini, faceva certi suoi
scacchi componenti una gran coperta matrimoniale destinata forse ad
una fra le bionde principesse delle sue fiabe, e si udiva sempre il
picchiettio sommesso de' suoi ferri da calza, simile al lento rodere
di un tarlo. La casa del suo figlioccio sorgeva in una strada vicina
ad una gran torre che segnava il tempo con le sue vecchie campane, fra
attimi brevi, quasi ad ogni pulsare di vena: e Maraveja, da lunghi
anni, vedeva morire il sole su le alte grondaie rossigne e vedeva
passare i fanciulli alle ore consuete. Essi crescevano di anno in
anno e la salutavano con varie voci. Ora viveva ella come ombra che si
attarda in crepuscoli estivi, solo del ricordo di un giorno.

— Ah, quando c'erano i tedeschi! — soleva dire. Allora aveva sposato,
e, per l'umile creatura, tutta la gioia vissuta era di quel tempo.

Il Mostardo amava la vecchia ch'egli chiamava _Nonna_, quasi per
antonomasia e l'amavano così tutti gli abitanti del Rione perchè ella
sapeva tacere e parlare a tempo.

Questa, la portinaia del giornale vulcanico nel quale si agitavano i
destini di tutta una gente.

Il Cavalier Mostardo fungeva da cronista ne l'_Aristogitone_; veramente
egli era analfabeta, ma il suo pensiero, passando attraverso la penna
del Popolini, nulla perdeva della sua originalità.

Il còmpito affidatogli di scovare notizie, le quali mettessero la città
a rumore, lo disimpegnava a maraviglia.

Molti scandali si dovevano alla sua perspicacia, al suo intuito da
segugio che sapeva scoprire le traccie le quali lo avrebbero tratto a
infallibile porto.

Per tale qualità il Cavalier Mostardo era molto temuto.

Un giorno, era trascorso forse un mese da l'arresto di Gargiuvîn, il
Mostardo, nelle ore del pomeriggio, andò, contro il suo solito, agli
uffici de l'_Aristogitone_.

A Maraveja ch'era seduta nella sua eterna posa, sugli scalini della
porta, chiese:

— C'è Ardito?

La vecchia, senza alzare il capo dal lavoro, rispose come sempre:

— Sì _donnino mio_!

Il Cavaliere spinse l'uscio ed entrò.

Ardito Popolini scriveva ad un gran tavolo posto in fondo alla stanza;
allorchè vide l'amico, emise una specie di saluto gutturale e riabbassò
subito gli occhi su le cartelle che riempiva di fitta calligrafia a
zampe di mosca.

Il Cavalier Mostardo a quell'ora, era sempre un po' alticcio nè
meritava il tempo e la fiducia di chi è spinto da continua fretta sul
suo fatale andare.

Mostardo si piantò in mezzo alla stanza. Aveva gli occhi un po' lucidi,
il viso era vermiglio come il vessillo del suo partito; i baffi diritti
e il cappello da parte accrescevano l'aria piacevolmente spavalda.

Si dondolò su la persona con le mani strette dietro le reni e il petto
un po' innanzi; guardò con insistenza l'amico suo, con un sorrisetto
furbo, come per dire: — Tu non immagini neppure ciò che sto per
rivelarti! — poi tossì leggermente. Attese qualche secondo e visto
che l'amichevole richiamo non serviva a distogliere Popolini dalle sue
profonde elucubrazioni, abbassò il capo, quasi a riordinar le idee, ed
esclamò con voce profonda:

— Io ho un'amante!

Rialzò gli occhi. L'altro continuava imperturbabile il suo lavoro.

Allora fece un passo innanzi e a voce più alta riprese:

— Io ho un'amante!

— Lo so! — disse Ardito e gonfiò le gote per l'impazienza.

— Ascolta — continuò il Cavalier Mostardo, col suo risolino arguto — la
mia donna si chiama.....

E il Popolini, scattando:

— Ermelinda Melisari, abita in via Pelle di leone, numero 34, piano
terzo a sinistra. Basta?

— Ma ascoltami! — ripetè con divina calma e in tono mitissimo il
Cavaliere: — Lasciami parlare!

— Non ho tempo, non ho tempo!

— Non vuoi ascoltarmi?

— No!

Il Popolini chinò di nuovo il capo sul suo lavoro.

Il Cavalier Mostardo, per nulla sconcertato, dondolandosi sempre su la
persona, sorrise.

Scorse breve tempo durante il quale il direttore de l'_Aristogitone_,
cercò riordinar le idee; ma, sotto l'insistenza dello sguardo del
Cavaliere, fu costretto inconsciamente a rialzare gli occhi.

— Ebbene lo fai tu l'articolo di fondo? — gridò a l'imperturbabile
compagno.

— Volentieri — rispose il Cavaliere con le sue più gentili inflessioni
di voce — ma non so scrivere.

— Allora lasciami lavorare, fammi questo regalo!

— Non vuoi ascoltarmi?

— Non ho tempo ora! Intendi o no?

Altra sosta, altro tentativo di lavoro. Il Popolini aveva ripreso
l'aire, ma stentando, interrompendosi a tratti, faticosamente, quasi
distillasse le parole ad una ad una, dal pensiero ribelle.

Mostardo lo lasciò fare per un po', poi, per la terza volta, con calma
indisturbata riprese:

— Io ho un'amante!

Popolini lanciò la penna sul muro, posò con forza le braccia sul tavolo
e aprì gli occhi oscuri ed inquieti sul volto del pacifico amico.

— Bravo! — disse il Cavalier Mostardo — ascolta adunque!

Ermelinda è una ragazza onesta, vuol bene a me e basta! Tu non ne vuoi
sentir parlare ed hai torto perchè, per mezzo suo, sono sulle traccie
di un mistero!

— E quale? — esclamò Ardito.

— Ascolta. Don Papera abita il secondo piano della casa di Ermelinda e
Don Papera è un prete che ha paura del diavolo e degli spiriti. Susanna
mi raccontava che la notte dorme col capo sotto alle lenzuola e non
ispegne il lume. Susanna è la sua cameriera: Lo sai? Sta bene.

Io odio i preti per convinzione e per sentimento, se posso tormentarne
qualcuno sono felice; il mio ideale sarebbe di porli tutti in fascio
dentro un vascello e mandarli a colonizzare il polo.

Ieri notte mi feci una pensatella graziosa. Mi dissi: Don Papera
rientra alle undici, io lo aspetterò sulle scale per fargli paura. E lo
aspettai.

Nascosto nel vano di una porta, avevo messo la giacchetta al rovescio,
e mi ero tirato il cappello sugli occhi. Quando Don Papera entrò,
salì le scale e mi fu vicino, sugli ultimi scalini, uscii dal mio
nascondiglio, afferrai il prete per una spalla e gli gridai: — Ed ora
confessati! — Pietà, pietà! — rispose tremando, ed io: — Non ho tempo,
spicciati! — Proprio come dicevi con me, poco fa. Sentivo che il povero
diavolo veniva a mancarmi sotto alle mani, pareva diventasse sempre più
piccolo; con un fil di voce rispose: — Io sono estraneo... io non ne
ho colpa... è stato Monsignor Rutilante! — Malmissole! pensai, qui si
tratta di cosa seria! — Ingrossata la voce ripresi: — Non è vero!...
Bada la pagherai per tutti! — L'altro respirava come un mantice ed io
pensavo: Ora mi muore ed è fatta! — Rispose ancora: — È stato Monsignor
Rutilante d'accordo con la contessa.... non odio gli anarchici. — Poi
sentii ch'era rimasto appeso al mio braccio, come fosse un cencio. Lo
adagiai su due scalini e me ne venni via.

Questa mattina Susanna mi ha detto che Don Papera è in letto con la
febbre.

Mostardo tacque e continuò ad arricciarsi i baffi. Ardito Popolini
s'era fatto serio e pensoso.

Disse quest'ultimo in tono grave:

— È tutto vero ciò che mi hai raccontato?

Mostarde fece un atto sdegnoso ed evasivo e non rispose.

— Allora — riprese Popolini — conviene parlarne nel giornale.

— Certamente.

— E se aspettassimo prove più convincenti?

— Bisogna agire subito! — rispose il Cavalier Mostardo.

Ardito si strinse la fronte fra le mani, rimase in silenzio per qualche
tempo, poi disse, scrollando il capo in atto risolutivo:

— Hai ragione. È necessario compromettere i nostri nemici. Tacendo,
lascieremmo loro tempo per riparare al mal fatto!

Riprese la penna e vergò frettolosamente un articolerò di cronaca che
lesse poi al Cavalier Mostardo.

«Fra poco sul conto dei nostri nemici, manipolatori della virtù, ne
avremo da raccontar delle belle.

«Il pubblico giudicherà allora chi meriti più la sua stima: se noi,
liberi pensatori, anime ribelli ma integramente sincere, o gli ipocriti
seguaci della Chiesa.

«Ciò che si promette, non sarà insinuazione maligna, ma verità
documentata!»

— Come va? — chiese Ardito a lettura finita.

— Benone! — rispose il Cavalier Mostardo.

— La mando in tipografia?

— Certamente.

— Mi assicuri l'esito dell'inchiesta che farai?

— Sulla mia coscienza! — rispose il Cavaliere, e inarcò le ciglia come
soleva fare allorquando Madonna Serietà lo invadeva co' suoi effimeri
fuochi.

E come decisero, fu fatto.

Il Cavalier Mostardo chiese consiglio al suo cuor leonino ed _entrò
in lizza_, giacchè egli considerava ogni atto della sua vita, come una
fiera battaglia.



CAPITOLO VIII.

Nel quale Don Papera si trova in un terribile ginepraio e non sa come
uscirne.


Per qualche giorno il saggio prete non uscì di casa; dette ordine a
Susanna di far le provviste per una settimana, chiuse ermeticamente
porte e finestre, accese la lucerna e si dette a considerare versetto
per versetto, con soave intensità d'attenzione, una sua grande Bibbia.

Egli si dilettava di interpretare il senso religioso del Cantico
dei Cantici il quale aveva suo inizio con sì dolci parole: «_Bacimi
egli de' baci della sua bocca: perciocchè i tuoi amori son migliori
che il vino._» Anzi, ogni qualvolta aprisse la sua Bibbia, tant'era
l'abito di questa di mostrare una determinata faccia, che non v'era
caso capitassero, sotto agli occhi del reverendo, le disperate parole
de l'Ecclesiaste o le violente visioni di Isaia: sempre il prediletto
libro gli porgeva il prediletto frutto: il più bel canto che abbian
mai accompagnato, nel lento giro delle danze primaverili, i queruli
salterï.

E Don Papera si compiaceva provare la sua bella vocetta dai toni
bianchi, nella declamazione dei versetti dai quali balzavan le immagini
voluttuose in continuo susseguirsi, quasichè l'intera giovinezza di un
popolo avesse nel breve canto, profuso con regale magnificenza tutto
l'amor suo.

Chino su le pagine giallastre, un braccio gesticolante ne l'aria, Don
Papera, entusiasmandosi di parola in parola, cresceva tono, fino ad
esplicar tutta la potenzialità della sua voce.

E nella stanza non era che Susanna intenta ad avviar qualche sua lunga,
abbominevole calza.

Diceva il sacerdote:

«_O figliuola di principe, quanto son belli i tuoi piedi nel lor
calzamento! le giunture delle tue cosce son come monili di lavoro di
mani d'artefice_....»

Susanna alzava gli occhi riabbassandoli in fretta e l'altro cresceva
tono gesticolando sempre più disperatamente, col braccio teso sul capo:

«_Il tuo bellico è una tazza ritonda, nella quale non manca giammai
beveraggio: il tuo ventre è un mucchio di grano intorniato di gigli._»

Altra pausa. Maraviglia de l'uditorio ed entusiasmo crescente de
l'oratore.

«_Le tue due mammelle paiono due cavrioletti gemelli_....»

Or avveniva quasi sempre che Susanna la quale, poverella, essendo
nata in campagna non conosceva troppe sottigliezze distintive, si
appropriasse la squisita serie di bibliche galanterie ed interrompesse
la lettura, con la risatella di sdegno consenziente comune alle
creature semplici.

Don Papera alzava gli occhi furibondi dal libro galeotto.

— Perchè ridi, stupida?

— Ma.... padrone....

— Quando leggo, non devi ascoltare!

— Debbo andare in cucina? — chiedeva Susanna facendo l'atto di levarsi.
Don Papera, il quale poco simpatizzava con la solitudine, si affrettava
a rispondere:

— No rimani, e non ridere.

— Ma... dice delle sciocchezze!

— Io non dico nulla! — gridava il prete: — Io leggo il libro sacro, il
libro di Dio e tu non capisci niente!

— Può darsi!

Susanna chinava la testolina di bimba sedicenne su la sua abbominevole
calza e sorrideva muta allorchè Don Papera, continuando, diceva
con gran serietà, quelle tali cose ch'ella aveva udito, in forme
differenti, ben altre volte; ma sussurrate a l'orecchio, in qualche
aia remota, fra l'uggiolar dei cani e il palpitìo legnoso delle lontane
maciulle.

Ora, nei pochi giorni di malinconica prigionia, Don Papera, ad ogni
scampanellata, ebbe un sussulto timoroso e si consigliò con Susanna.

Che fare? La paura è una compagna che ha mille occhi; ella si trasmuta
nelle forme più bizzarre: per sollazzarsi degli uomini coi quali
simpatizza e li veglia da buona madre e sussurra loro mille sospetti
sì da renderli piacevolmente fanciulli. La paura che ha l'oscura
profondità de l'abisso e la gaietta sembianza dei conigli e delle
mansuete pecore, si compiace delle sue creature, mai le abbandona,
e, varia, molteplice, universa come lo spazio, avvolge a volte per
i repentini guizzi delle sue enigmatiche comparse tutte le cose che
ebbero il potere di un'ombra su la terra poichè il destino le trasse
dai gurgiti del mare.

Madonna Paura amava Don Papera tantochè questi, per l'assidua
vegliante, aveva adottato e il fare guardingo e il dubitoso dire e la
rinunzia a qualsiasi comando o volontà di possesso su cosa controversa.
Cauto, tollerante, remissivo con gli uomini sempre, con le donne
talvolta, il piccolo prete palliduccio e mingherlino cercava seguire
una sua viuzza oscura che non recasse danno a nessuno, che a nessuno
desse noia; e si curvava tutto ne l'ombra per passare inosservato e
s'inchinava ai burberi, povera piccola creatura! Perchè è ben naturale
che al mondo si debba vivere con solazzevole pace.

Era modesto; un po' pettegolo forse, ma con discreta parsimonia;
gli piaceva dir male del prossimo, ma, in tutta segretezza, sotto il
vincolo del giuramento. D'altra parte gli uomini non erano lo specchio
della bontà e, se Don Papera ne biasimava la condotta, lo faceva per
augurar loro il perdono da Colui che, sempre benevolente, è disposto ad
indulgere.

Aveva due occhietti di adamatica ingenuità infitti a fior di pelle
alle prime radici di un gran naso angolare, sottile come una lamina; la
boccuccia asciutta stirata in sorrisetto benigno, lasciava in mostra,
per tale particolare atteggiamento, i denti giallastri. Portava il capo
leggermente inclinato su la spalla sinistra.

Ora nel terzo giorno di prigionia, Susanna presentò al suo piccioletto
signore, una lettera che il postino, aveva fatto passare fra l'uscio e
la soglia.

— Una lettera?! — esclamò Don Papera — e dove l'hai trovata?

— Nella stanza d'ingresso.

— Quando?

— Poco fa.

— Oh! — fece il reverendo e rimase fisso a guardare la calligrafia de
l'indirizzo; poi con subita decisione, strappò la busta e lesse:

      «Molto Reverendo,

  «Vi prego intervenire domani all'adunanza che si terrà al mio
  domicilio (Via Sacro Cuore, N. 10) alle ore tre pomeridiane.

  «Non mancate poichè la seduta sarà di somma importanza e vi si
  dovranno discutere cose gravissime.

                                             «P. RUTILANTE EMERSI.»

Rilesse, si passò una mano su la fronte, alzò gli occhi al soffitto,
guardò Susanna ed esclamò:

— È fatta!

Per quel giorno più non ebbe pace. L'indecisione lo tenne,
palleggiandolo piacevolmente fra due punti estremi, onde mille volte
guardò Susanna con aria interrogativa e le chiese:

— Che debbo fare?

La piacente camerista non seppe quale consiglio suggerirgli, essendole
ignota la causa che poneva in simile turbamento il suo signore, sicchè
rispose imperturbabile, col fatalismo rassegnato che è proprio delle
genti della campagna romagnola:

— Ma?! Ci penserà il buon Dio!

E Don Papera la guardò con gli occhi foschi. Se non si fosse trattato
della Grande Maestà de l'Eterno, avrebbe sentito, la piccola ignorante,
come sapevan d'amaro le sue parole.

Giunto il momento fatale, Don Papera ebbe la disperata decisione dei
deboli: infilò una veste, si pose il tricorno ed uscì. In via Sacro
cuore, trovò adunati Don Barchetta, Don Eucaristia e molti altri
reverendi.

Al suo giungere passò qualche risolino sardonico, perchè Don Papera era
valutato un niente da' suoi colleghi. Già il suo nome era Abelardo; il
nomignolo, col quale era noto a tutti, gli era stato imposto a l'inizio
della carriera e precisamente al tempo del suo primo quaresimale.
Allora, fresco di studi, ci teneva a far bella figura; la timidezza lo
perdette.

Quando si trovò su l'alto del pulpito e guardò la folla assiepata
che aspettava le sue parole, un gran tremore lo colse, pensò a ciò
che avrebbe detto, al suono della sua voce, al giro de' pensieri suoi
e gli parve essere innanzi ad una tenebra fitta. Aveva preparato un
panegirico coi fiocchi: _Gesù a Gerusalemme_ — frutto di lungo lavoro:
ora non ne ricordava parola. Comunque fosse, bisognava ben parlare!
Trasse un grande sospiro, puntò le mani sul parapetto del pulpito e si
protese verso la folla sperduta ne l'oscurità. — La sua voce risuonò
ad un tratto sotto le grandi arcate e parve un'altra! Dio, che pena! Ma
chi parlava? Era veramente lui? Don Abelardo? Poi udì qualche sussurro.
Aveva detto, dimenticando una semplice regola di madre grammatica:

— _Fedele e fedeli!_

Ciò bastò per aumentar a mille doppi l'intenso timore che lo faceva
tremare a verga a verga. Dopo una sosta, fatalmente, a voce alta,
scandendo le sillabe, continuò:

— Allorchè dalla verde, dalla lussureggiante Galilea, portato
da Dio che lo guidava sulle vie della salvazione, _Gerù scese in
Gesuralemme_...

Breve pausa. Che aveva detto mai? sentiva salire un mormorio cupo,
giù, da l'ombra minacciosa e vedeva i volti più vicini atteggiati
in ismorfie di riso trattenuto. Alzò gli occhi agli alti domi per
dimenticare il presente e proseguì:

— ... un fatale monito _dagli oscuri veli cielò_... un fatale monito
_cielò dagli oscuri veli_...

Altra pausa. Riprese quasi singhiozzando: Dagli oscuri cieli velò il
cuore degli uomini pravi, delle male femmine e dei perduti.

Doveva dire ancora, più innanzi, in un punto in cui, por il crescendo
della voce e l'incitamento della passione, la folla si sarebbe
commossa; doveva dire: _Una folgore minacciosa_... ecc. — E, rincorato
un poco, che, tanto tanto una diecina di periodi si erano annodati
bellamente in seguito decoroso, prese lo slancio oratorio, protese le
braccia sul capo, e, nel silenzio, gridò:

— Sì, fratelli, fu proprio allora che _una fragorosa minaccia_ piombò
su gli infedeli!...

Fu uno scandalo! Subitamente una pazza risata salì, si propagò fra la
folla e risuonò bacchicamente nel tempio. Egli era perduto. Scese dal
pulpito e da quel tempo gli fu tolta la facoltà di predicare e gli fu
imposto il nomignolo di Don Papera.

Trovatosi adunque Don Papera nella grande sala del palazzo vescovile,
fra una severa ricchezza di arredi (ricchezza che gli toglieva ogni
facoltà di libero movimento onde più non sapeva come atteggiarsi e
dove guardare) rimase alcun tempo immobile a pochi passi dalla soglia,
sorridendo a destra ed a sinistra, senza sapere precisamente a chi;
poi, scorto poco lontano un gruppo di preti che discutevano con
animazione, vi si mischiò quasi a nascondervisi.

Poco stette ascoltando e poco apprese dal vociferio indistinto, chè un
subito movimento di sorpresa mosse tutti a guardare ad un punto, e lui
con gli altri.

Una pesante cortina di velluto rosso, in fondo alla sala, si era
sollevata, e l'alta e mirifica persona di Rutilante era apparsa nel
vano, in posa di «_Non mette conto!_»

Avanzò inchinandosi leggermente e mentre tutti rispondevano con
rispettoso ossequio al suo saluto, si sedette su la sua grande
poltrona, adorna come una signora crepuscolare.

Poichè erano convenuti in quel giorno, per suo ordine, anche i parroci
delle lontane campagne, Don Rutilante cominciò da questi e dette loro
singoli avvertimenti e consigli, licenziandoli poi ad uno ad uno.

Disse ad esempio a Don Rosolia, parroco di Mongrande, di non avere più
tante tenerezze per i socialisti della sua parecchia; a Don Presente,
prete evoluzionista, di intendimenti prettamente moderni, impose, sotto
minaccia di grave punizione, di togliere l'indecorosa iscrizione posta
a sommo della Chiesa.

Don Presente vedendo che i fedeli non erano più assidui alle funzioni
religiose, per richiamarli, su la facciata della chiesa, fra due enormi
mani nere da l'indice teso, aveva fatto dipingere a lettere cubitali le
seguenti parole: — _Qui si parla di Dio!_

Ciascuno ebbe il suo consiglio o il suo avvertimento severo. La sala si
sfollò lentamente e come Don Papera si vide sempre più solo, più il suo
timore si accrebbe.

Finalmente rimasero di fronte al gran vescovo dai folti sopraccigli:
Don Papera, Don Barchetta, Don Eucaristia, Don Giovanni, Don Crisantemo
e Don Amilcare.

Il Vescovo stette alcun tempo in silenzio quasi si concentrasse,
poi, da una tasca segreta della lunga veste, tolse una copia de
l'_Aristogitone_.

Don Barchetta tossì e Don Amilcare, un prete donnaiuolo, ciarliero ed
aggressivo, mormorò:

— Io non c'entro!

— Neanch'io! — soggiunse Don Papera chinando il capo.

E Don Crisantemo, sacerdote dagli eterni dubbi, chiosò, alzando gli
occhi al soffitto e continuando metodicamente la rotazione dei pollici:

— Speriamo!

— Saprete — prese a dire Monsignor Rutilante — come il giornale del
partito repubblicano, abbia qualche giorno fa pubblicato un articoletto
di cronaca nel quale si minacciano rivelazioni gravi a proposito del
noto affare Liturgico-Battifiore. Dette rivelazioni implicherebbero
naturalmente una campagna, aspra e dannosa al massimo grado, contro il
partito clericale.

Ora io ho iniziato particolari ricerche, riuscite fino ad ora
infruttuose, per sapere dove e come il Signor Popolini, o chi per esso,
possa avere assunto le gravi informazioni, le quali, naturalmente,
condurrebbero i nostri nemici su le traccie dei fuggitivi. Riuscirò
all'intento, sviando le malvagie insidie! Comunque sia, chiedo fin
d'ora il vostro indispensabile aiuto.

Voi conoscete la doppia conversione che siamo per compiere mercè
l'opera oculata ed assidua del molto Reverendo Canonico Bartoletti,
il quale si è recato appositamente al Castello dei Lecci; ora,
sarebbe atroce se le nostre migliori speranze venissero troncate di
un colpo per il divulgarsi della cosa. Come ho detto, fino ad ora
non ho certezze; ho solo alcuni indizi (e qui guardò acutamente Don
Papera) i quali mi condurranno o prima o poi a buon porto. Comunque
sia raccomando la massima oculatezza (e fissò sempre il povero
piccolo prete) la prudenza più rigorosa, la segretezza più assoluta.
Se qualcuno fra voi (qui la voce crebbe e gli occhi lampeggiarono
minacciosi) trasgredisce a questi miei ordini, che sono la volontà
della Chiesa, mi troverò costretto a punirlo con severità della quale
fin qui non ho dato esempio!

— Io non so niente! — sussurrò Don Papera che si credeva diggià
scoperto.

— Non ho parlato con lei in particolare! — soggiunse Monsignor
Rutilante: — Vi ho messi tutti sull'avviso. D'altra parte credo che
ognuno agirà da buon sacerdote.

— Speriamo! disse Don Crisantemo.

E Don Barchetta sorridendo:

— Può darsi!

— Ma io vorrei — riprese don Amilcare — vorrei che Ella specificasse
i suoi dubbi perchè da sacerdote onesto non posso lasciare che altri
supponga...

— Nessuno può supporre un ette, dal momento che io solo so. D'altra
parte hanno intesa la mia volontà. Ora ogni discussione è esaurita.

I sacerdoti s'inchinarono, poi, siccome il comando del gran vescovo
dagli occhi volpini era stato esplicito, uscirono uno alla volta,
lentamente, in silenzio.

Quando Don Papera si trovò nella strada, già erano accese le prime
scialbe fiammelle dei fanali. Udì per ultima la voce di Don Barchetta,
il quale diceva:

— Già già, l'affaruccio si complica. Prima Fedele e Didino: amor
fraterno, disinteressato e platonico; poi Didino ed Europa: amor
fulmineo, irresistibile, sensuale; infine Didino, Europa, il canonico
Bartoletti e una piccola cicala che canta. C'è un po' d'idilio, un
po' di farsa e si delinea la tragedia. Ci divertiremo! — E se ne andò
fregandosi le mani.

Don Papera prosegui la sua via rasentando i muri e guardò con la coda
de l'occhio, sospettosamente tutti i passanti, vicini o lontani. Non
mai, come in quella sera, la paura lo arroncigliò e sì forte lo tenne.

Non fece dieci passi senza rivolgere il capo. Gli parve aver sempre
alle spalle qualcuno che lo seguisse spiandolo. Quando svoltò per un
vicoletto oscuro che scorreva fra due alte mura, cercò farsi piccolo
piccolo, per non essere osservato, per non esser veduto neppure dai
tralci d'edera o dai rami di glicinie, i quali, soverchiando gli alti
ripari, condiscendevano per buon tratto lungo le mura screpolate, nidi
alle lucertole e culla di tenaci gramigne.

La metodica luna, spavento delle solitarie cagne, adornatrice di tenui
ricami; invocata dai grandi alberi ciechi, immobili giganti della
terra e sorrisa nel suo viaggio, dagli occhi delle querule rane che
l'abboccano negli stagni, non aveva peranco raggiunto il colmo del suo
andare, sì che, celata in parte da una muraglia, proiettava su l'altra
e la sua luce metallica e l'ombra lieve dello cose.

Don Papera, a tratti, aveva un sussulto di paura, poichè vedeva, per
l'affanno del vento, le ombre rincorrersi e scomparire; sminuire e
giganteggiare in successione continua.

Andava così tutto timoroso e della notte e della triste fortuna che
lo perseguitava, allorchè udì, proprio dietro le spalle, una voce
imperiosa gridargli:

— Fermati Don Papera!

Il povero prete provò quel tal brivido che imbianca d'improvviso il
volto e priva il corpo di ogni vigoria, sicchè, come non ebbe forza
di continuare il cammino, così non trovò il coraggio di rivolgersi. Si
appoggiò al muro e si posò una mano sul cuore il quale ballava una sua
indemoniata furlana.

Poi la stessa voce ripetè:

— Buona sera cittadino!

Don Papera alzò gli occhi, tutto rincorato da l'augurio e provò un
impeto di gratitudine per lo sconosciuto, perchè si aspettava qualche
grave insulto. Quando riconobbe il Cavalier Mostardo, gli tese le mani
e disse con la tenera foga dei deboli ai quali preme ingraziarsi i
forti:

— Buona sera, caro Cavaliere, buona sera! Come state? Come mai siete da
queste parti?

— Ti cercavo — disse il repubblicano.

— Mi cercavate?

— Si, tu devi dirmi alcune cose che sai.

— Io non so nulla, io non so nulla! — sussurrò Don Papera, e si sentì
morire.

Il Cavalier Mostardo, da quattro giorni dava la caccia a Don Papera.
Avendolo visto uscire in quel pomeriggio, architettò il piano per
catturarlo.

— Ascolta cittadino! — prosegui Mostardo, dondolandosi su la persona: —
Io non ti farò alcun male però ti avviso che di qui non potrai fuggire.
Ai due sbocchi del vicolo, ci sono gli amici miei; se urli nessuno ti
udirà. Poi, con me non si scherza e tu lo sai.

— Ma io non vi ho fatto niente! — sussurrò la povera creatura mesta. —
Lasciatemi in pace, per la carità del vostro Dio!

— Guarda! — esclamò l'uomo rosso alzando un dito in segno d'attenzione:
— Se tu dirai ciò che voglio sapere, ti prenderò sotto la mia
protezione e ti giuro che non vi sarà persona la quale si attenti di
torcerti un capello. Tu mi conosci! Il primo che ti tocca lo mando
a fare una visita alla moglie del sonno e sai ch'io non le faccio
spicciolare le mie monete!... Una e due!... — E Don Papera vide
luccicare in due atti bruschi, qualcosa di orribilmente lucido nel
baglior lunare.

— Però... — continuò lentamente il Cavalier Mostardo — però se vorrai
fare il cocciuto e intestarti nel silenzio, non mi faccio garante di
nulla. Accada ciò che vuol accadere!

— Ma io non so niente! — riprese il sacerdote. — Io non saprei proprio
che dirvi!

— Ti farò domande semplicissime alle quali risponderai.

— Oh! Vergine benedetta! — mormorò Don Papera torcendo il viso.

— Presta attenzione perchè incomincio. È vero che gli anarchici hanno
rapito Europa?

Don Papera si guardò intorno con aria timorosa e sussurrò:

— Voi mi perderete, voi mi perderete!

— Rispondi. È vero?

E il prete, con tono rassegnato, precipitosamente disse:

— No!

— Bravo! Ora ti metti su la buona strada e guadagnerai la mia stima
che potrà esserti utile, molto più utile di quella del tuo gran
Monsignore, perchè qui, il tuo principale comanda alle donne e questa è
commedia da ridere; io invece, ho in mano una leva con la quale posso
mandare tutto all'aria: la Chiesa, i sacerdoti, le donne. Basta mi
piaccia gridare una parola perchè tutti siano con me. Questa parola
è il sole dell'avvenire. — S'inarcò su la persona, allargò le spalle,
spinse il cappello un po' più su l'orecchio, e, fissando con le ciglia
aggrottate, la metodica luna che sfiorava allora il comignolo di un
camino, gridò: Viva la rivoluzione! — Da l'ombra del vicolo, alcune
voci risposero:

— Evviva!

— Hai udito? — riprese il Cavalier Mostardo. Don Papera si rannicchiò
sempre più vicino al muro, invidiando le lucertole che hanno il nido
nei crepacci.

— E avanti! — continuò Mostardo — Rispondi a tono. Dov'è Europa?

— Non lo so, ve l'assicuro, non lo so!

— Bada ch'io non posso perdere tempo. Rispondi: dov'è?

Don Papera che stava fra la paura della vendetta di Monsignore e quella
del repubblicano, pensò appigliarsi ad un partito sicuro rivolgendosi
al buon cuore di quest'ultimo:

— Ascoltate — disse — datemi la vostra parola, Mostardo, la vostra più
sacra parola che non mi tradirete, che non direte neppure all'ombra
vostra ch'io vi ho parlato! Ne va del mio decoro, della mia vita, e voi
non vorrete rovinarmi!

— Ehi! — fece il Cavaliere alzando il capo: — Tu non sai che voglia
dire repubblicano! Sta attento figliuolo, che questa è sacra dottrina.
Repubblicano, vuol dire: Dignità e Coscienza; Pensiero ed Azione;
Progresso e Cortesia! — Hai inteso? Ora, puoi fidarti.

— Ma datemi la vostra parola! — ripetè Don Papera poco convinto dalla
dichiarazione.

— Bestia! — rispose il Cavalier Mostardo indispettito. — Non capisci
niente! Ebbene, su la mia parola d'onore non farò il tuo nome.

E allora, rapidamente, a voce bassissima Don Papera cantò:

— Didino è fuggito con Europa, perchè si volevano bene; gli anarchici
non c'entrano. Ora gli innamorati sono in campagna, in una villa delle
vicinanze, ma non so dove.

— È possibile mai che tu non lo sappia?

— Ve lo direi come vi ho detto il resto.

— Voglio crederti perchè sei un buon figliuolo e meriti la mia stima.
Ora puoi andartene a casa senza timore. Sei salvo!

— Buona sera Mostardo! — disse il prete.

— Addio cittadino! — rispose il gigante battendogli una mano su la
spalla. Mentre Don Papera si avviava lentamente rasentando il muro,
il Cavalier Mostardo mandò un fischio d'intesa al quale altri fischi
simili risposero di rimando. Poi gridò:

— Passo libero!

E quando Don Papera svoltò per un vicoletto remoto, vide tre brutti
figuri che lo salutarono togliendosi il cappello e gridando:

— Evviva la repubblica!

Al qual grido il povero prete, cercando il suo miglior sorriso, rispose:

— Evviva!



CAPITOLO IX.

Si osserva ora come l'illustre scienziato Gerolamo Parvenza possa
appianare momentaneamente le cose.


Gli anarchici ritornarono dai loro nascondigli sui monti. Qualcuno li
rassicurò ed essi, posto da parte ogni timore, ripresero la via della
loro lieta città nel piano.

Arfàt, Marcôn, Schignòtt e Apulinèr, i fuggiaschi per l'idea, pensarono
che nessuno li avrebbe tormentati ormai poichè tutto s'era appianato.

Mendicando o prestando opera presso qualche villano, percorsero la
lunga via.

Marcôn cantò e disse la ventura e siccome aveva i lunghi capelli
a zazzera e il viso pallido degli ispirati, trovò ovunque numerose
simpatie. Una vecchia lo pregò di guarire una sua povera figlia che
tribolava per l'_anma cadù_ e siccome l'operazione era lunga, egli
si trattenne qualche giorno nella casa ospitale. Certi disturbi
nervosi, non infrequenti nelle ragazze, i contadini della terra
romagnola li spiegano con l'_anma cadù_ o caduta de l'anima. Secondo
il loro concetto, l'anima si abbassa dal livello normale e il corpo,
svigorendosi per il disequilibrio, si consuma. Un pratico de l'arte
poi, con certi suoi nastri e scongiuri, misurando e rimisurando, con
nodi e cappii rimette a mano a mano le cose a posto.

Ora Marcôn, per certe malattie, era rinomato quasi come taumaturgo. La
vecchia comare lo chiamò ed egli operò il miracolo.

Raggiunse poi i compagni vicino alla città, su gli ultimi contrafforti
de l'Apennino. Li trovò, un crepuscolo serale, distesi in un praticello
che si apriva fra un ampio anfiteatro di quercie, poco lontano dalla
via maestra. Schignòtt ed Arfàt erano intenti a dividere qualche
rosicchiolo fra la voracità di Plè, il cane filosofo e di Lèdar, la
cornacchia. Apulinèr, disteso col ventre a l'aria, guardava le nuvole
rosse e cantava.

Al comparire di Marcôn, non fu scambiata parola e nessuno si scompose.
Era loro abito il trattarsi così rudemente e il non sindacar gli atti
reciproci con vana curiosità. Andavano uniti, si disunivano a seconda
dei casi, non v'era patto prestabilito fra loro; ognuno era padron suo.

Marcôn si assise fra Schignòtt ed Arfàt che lo guardarono appena;
solo Plè scodinzolò e Lèdar crocidò il suo contento; anzi, come aveva
spiccata simpatia per il profeta, gli volò sopra una spalla.

Nel piano appariva la città co' suoi campanili a cono e le sue torri,
tutta animata da un lampeggio rosso di vetri.

Ad un certo punto Apulinèr si alzò:

— Andiamo — disse. — Il rientrare in città prima di notte tarda, è cosa
prudente!

— Andiamo! — risposero gli altri.

Plè, ondulando, riprese la strada e Lèdar non si mosse dalla spalla di
Marcôn.

Disse Schignòtt:

— Gargiuvîn ci aspetterà!

Nessuno rispose. Poi, dopo una sosta, Arfàt soggiunse:

— Ma siete ben certi che ci lascino in pace?

Uguale esito di risposta. Nella brigata regnava perenne concordia per
questo semplicissimo mezzo di reciproca difesa: se non si trattava di
affari gravissimi ognuno che movesse una domanda doveva implicitamente
rispondersi; gli altri non interloquivano mai.

Così, allorchè Marcôn disse:

— Êrla, la vecchia del castello dei Lecci, è rimasta contenta. Le ho
guarita la figlia che soffriva da sei mesi e più. Male difficile e
guarigione portentosa. Êrla è ricca e mi ha pagato bene. Avete bisogno
di qualche spicciolo?

Fu come parlasse al vento. Gli spiccioli di un compagno sapevan bene
ch'eran anche i loro; questa era vecchia consuetudine. Poi, tanto
eran disabituati al possesso speciale della moneta, che ormai non
ne conoscevano più il valore. Un soldo equivaleva ad un pane e sta
bene; ma Schignòtt, ad esempio, aveva l'abilità di fornirsi quasi
quotidianamente di un pane senza bisogno di ricorrere allo sporco
dischetto di metallo, ragion per la quale allorchè possedeva un
soldo, essendo i bisogni suoi limitatissimi, lo dimenticava in fondo a
qualche tasca o lo regalava a Don Vitupèri perchè, come diceva lui, si
comprasse un libro o un bicchier di vino, a suo talento. Negli ultimi
tempi, su l'alta montagna, un ricco proprietario al quale Schignòtt
aveva reso un servizio, gli chiese che pretendesse in compenso.
Schignòtt dai capelli rossicci, era bizzarro, aveva certe predilezioni
particolari quasi da fanciullo.

Avendo visto in mano al suo debitore del momento un vecchio portafogli
tutto sgualcito, lo guardò ben bene e disse poi, chinando la testa da
un lato e puntando un dito come soleva fare allorquando gli prendeva
vaghezza di una cosa:

— Dammi quello!

— Questo? per che fartene?

— Niente. Dammi quello.

Per quanto l'altro cercasse sapere la motivazione della strana domanda,
non si ebbe in altra risposta da l'ingenuo mendicante se non le due
parole con le quali questi aveva chiesto l'oggetto desiderato:

— Dammi quello!

E se l'ebbe e ne fu lieto. Lo guardò con infinita compiacenza cercando
poi nella profondità delle proprie tasche qualcosa da riporvi. Dopo
un minuto esame estrasse un sigaro, un vecchio sigaro per il quale
aveva speciale predilezione; lo rinchiuse nel portafogli e se ne andò
contentone, guardando i compagni e la gente che incontrava, con occhi
accesi.

Il vagabondo era ricco allora, più ricco di un re perchè aveva appagato
i suoi desideri.

Disse Schignòtt, come furon poco lontani dalla città, ed eran già
apparse le prime stelle:

— Apulinèr, mi dice il cuore che non dovremmo entrare in città —
e come, secondo la consuetudine, il vecchio Apulinèr dalle grandi
bizzarrie non si volse manco a guardarlo, Schignòtt continuò quasi, a
soddisfare una supposta domanda:

— Perchè, vedi? noi siamo i topi di tutte le trappole e i perpetui
sconta-pene delle colpe altrui.

Apulinèr si dette a fischiettare, poi, siccome gli cadde la mazza, la
lasciò cadere reiteratamente, ad ogni tre passi, per altre sei volte,
perchè egli aveva la mania del tre e del sette e, se compiva cosa
che non dovesse ripetersi per tre o per sette volte, riteneva certa e
prossima la fine sua.

Entrarono in città ch'erano già accese le fiammelle rossastre dei
fanali a gas. Entrarono alla spicciolata e nessuno pose mente agli
straccioni che guardavan le stelle ed il selciato, alla ricerca di
sogni e di rosicchioli secchi.

Don Vitupèri li accolse con allegrezza. Miarù, il gatto forastico,
s'inarcò soffiando, alla comparsa del suo fiero ed implacabile nemico:
Plè.

Lèdar tornò nel suo nido sotto le travi. E tutto parve ristabilirsi in
pace. Don Vitupèri nulla chiese ai compagni ch'erano stati assenti e i
compagni non lo tormentarono con domande importune. Solo Apulinèr, capo
della schiera in assenza di Gargiuvîn, domandò:

— Novità?

E Don Vitupèri:

— Nessuna.

— Gargiuvîn è libero?

— Si.

— Sta bene.

Don Vitupèri, seduto sul suo pagliericcio, riprese la lettura
interrotta e Schignòtt lo guardò per qualche tempo con molta
ammirazione poi gli regalò un soldo, tutto ciò che possedeva e molto
più gli avrebbe dato, potendo, perchè, secondo l'idea sua, Don Vitupèri
era un Saggio e non doveva che leggere.

Usciti per la città poi, videro le principali vie adobbate come per
gran festa, tanto che si guardarono maravigliati. Qualcuno disse loro
di che si trattava.

Benchè il centenario non fosse argomento da persuaderli, proseguirono
il loro cammino verso la casa di Gargiuvîn, senza più dimandare.

E Gargiuvîn li ospitò ridendo. Aveva innanzi a sè i suoi teschi e
lavorava ad una corniola su la quale, con infinita pazienza ed arte
squisita, incideva la figura di una morte sorridente, con le braccia
protese a l'amplesso. Illuminava l'opera sua e la stanzuccia meschina,
un'esile candela. Il volto del pallido artefice, era in netto contrasto
di luci e di ombre.

— Ehi! — fece Gargiuvîn sghignazzando — vi presento Tanumlìgh, la spia,
che morì quattro anni fa. Guardate che testa aveva, il buffone!

Arfàt che era superstizioso e credeva negli spiriti, si fece il segno
della croce. Egli era ne l'ombra ed ebbe cura di non farsi scorgere.

— Hai veduto Apulinèr? — riprese il capo anarchico: — L'ho bollato come
si meritava. Per le spie non c'è perdono.

Prese il teschio e ne mostrò la calotta su la quale risaltava in grandi
lettere nere, la scritta: _Morte alle spie!_

Apulinèr lesse la condanna ad alta voce e la ripetè sette volte in tre
tempi, metodicamente.

Marcôn dagli occhi spiritati guardò Gargiuvîn ed esclamò:

— Bravo!

— Ehi! — fece il pallido ribelle — a ognuno il suo. Botte agli asini e
fieno ai cavalli. Ieri notte Tanumlìgh mi un ardo di traverso perchè
gli avevo conciato il cranio a quel modo. Ha corso un brutto rischio
sapete, perchè io faccio giustizia. Ma tant'è, l'ho voluto risparmiare.
Così al giorno del Giudizio Universale, quando il Signore Iddio lo
chiamerà con gli altri per dirgli la buona o la mala sorte, non potrà
nascondere i suoi peccatacci. Glie li ho scritti sul cranio e vi
rimarranno!

Arfàt, il gigante dagli occhi placidi e timorosi, sentì un brivido di
paura.

— Dunque sbandatevi e state all'erta! — disse ad un tratto Gargiuvîn.

Nessuno rispose.

— Avete inteso?

— Sì.

— Ora celebrano il centenario della morte di Girolamo Parvenza. È un
signore che non conosco, ma non era anarchico. Molta gente è venuta,
molta ne verrà, i gendarmi ci terranno d'occhio.

— È vero! — disse Schignòtt.

— Essi debbono pure far qualcosa e tutelare l'ordine pubblico. Se un
asino raglierà, probabilmente saremo incolpati noi. Tenetevi lontani
dalla folla.

— Faremo come dici.

— E se ci porteranno al buio, pazienza. Pensate che i martiri saranno
ricordati.

Silenzio assoluto.

— Avreste paura forse?

Tutti, tranne Arfàt, risposero concordi:

— No!

— Bravi! La prigione non è poi la morte, è un po' di riposo, ecco tutto.

Dopo breve pausa, Gargiuvîn si alzò, andò ad aprir l'uscio e disse:

— Ed ora andatevene. Ognuno alla sua casa. Dove dormi Schignòtt?

— Non lo so.

— Vuoi rimanere con me?

— Non importa. È caldo ed è sereno. Nei fossi c'è posto per tutti.

— E tu Arfàt? — riprese Gargiuvîn.

— Io? — sussurrò il nemico de l'acqua che parve ridesto da un sogno. —
Io mi adatto sotto al ponte del fiume. Ci si sta bene.

— Non sei mai ruzzolato nell'acqua?

— Mai! — rispose con orrore il gigante. — Mai!

— Ti fa tanta paura l'acqua?

— Si, perchè non so nuotare!

— Ma per lavarsi non c'è bisogno di saper nuotare, sai? Vecchio
barbagianni!

E Marcôn con aria d'ispirato esclamò:

— È vero!

Ad uno ad uno sfilarono innanzi a Gargiuvîn e scomparvero ne l'oscurità
delle scale; solo Apulinèr si fermò a toccar l'uscio sette volte e se
ne andò a capo chino, senza nulla dire.

Così i rappresentanti del partito estremo, se pur poteva dirsi quella
loro inconsulta associazione un'estremità, si trovarono riuniti una
volta ancora nella città degli uomini rossi, culla di eccellenti vini e
di idee avanzate.

Ora (essendo il carattere romagnolo impulsivo e per conseguenza rapido
nel condannare e rapidissimo ne l'assolvere) nessuno pensò più alla
ragione per la quale i miti apostoli dello sfacelo si erano allontanati
per ignote vie.

Essi trascorsero fra la gente senza destar sorprese; solo Arfàt servì
da spauracchio alle donne ed ai bambini, per la sua bruttezza pietosa.

Il giorno seguente alla loro comparsa ripresero le consuete occupazioni
interrotte per qualche tempo.

Frattanto avveniva che Gian Battifiore, ingolfato nel soverchio
daffare, avesse quasi dimenticato la figlia fuggita.

E come avrebbe potuto occuparsene se tutta l'Europa scientifica era per
partecipare al centenario di Gerolamo Parvenza?

Ben vide Monsignor Rutilante la propizia occasione e pensò alla sua
buona fortuna che non era per abbandonarlo.

Ardito Popolini, dopo il primo violento articolo comparso su
l'_Aristogitone_, aveva taciuto aspettando l'opera del Cavalier
Mostardo.

Passava come una tregua di Dio in nome de l'illustre scienziato
Gerolamo Parvenza.

L'idea del centenario non era nata a Gian Battifiore il quale poco si
occupava del passato: ma al conte Agesilao De' Lavilla, uomo studioso
quant'altri mai.

Era il conte Agesilao di antichissima stirpe chè la sua famiglia
aveva avuto e guelfi e ghibellini e capitani di ventura e cardinali
ed alti magistrati dottissimi. Il genio dei Lavilla si era esplicato
universalmente, in tutti i rami dello scibile umano, lasciando traccie
non comuni del suo passare. Un Teodoro che aveva vissuto su l'aprirsi
del millecinquecento, era stato inviato dal papa per certa ambascieria
in Ispagna, con missioni delicate, tali da richiedere la più abile
tempra di diplomatico; e con tanto onore aveva disimpegnato il non
comune incarico che il papa, poichè il detto Teodoro fece ritorno, lo
creò spontaneamente cardinale, elargendogli ricchi premii e in terre e
in danaro.

Però del vasto patrimonio accumulato dagli avi poca cosa rimaneva al
conte Agesilao, onde viveva egli modestamente del frutto di qualche
podere, pascendosi de' suoi studi prediletti.

Nella città rossa altri non v'era che, come il conte Agesilao,
conoscesse punto per punto, fin nei più minuziosi particolari, le
cronache ed i documenti inediti dai quali la storia della detta
vermiglia città emergeva chiara; altri non v'era che potesse con più
dotta facondia enumerare e fatti e uomini e cose lustro e decoro di
tutta la terra di Romagna, sicchè a lui spettava per diritto acquisito
dal lungo studio e da l'inesausto amore, il vanto di far rivivere per
pochi giorni nella memoria dei già lontani nepoti l'illustre scienziato
Gerolamo Parvenza.

Sfogliando un giorno una monografia nella quale il genio del Parvenza
si esplicava per un sapiente parallelo istituito fra i costumi
de l'ornitorinco (classe dei _monotremi_ o, come altri vogliono,
_ornitodelfi_) e quelli del pinguino (famiglia dei _bachitteri_, ordine
dei _palmipedi_, genere degli _aptenodytes_) e ricercando gli anni nei
quali l'illustre compaesano, tutto dedito agli studi gerarchici delle
famiglie animali, aveva compito certi suoi viaggi per rintracciare
l'esatta ubicazione delle uberifere bestiuole, per associazione d'idee
si chiese:

— Ma quando è morto Gerolamo Parvenza?

Compulsò i documenti e vide che poche settimane mancavano perchè il
ciclo dei cento anni si compisse. Allora gli nacque il pensiero della
doverosa memoria e con forbita dialettica l'espose a Gian Battifiore.
Questi se pur rimase dapprima sconcertato perchè il Parvenza non era
stato repubblicano nè tampoco libero pensatore e non s'era occupato
di politica (ciò che segnava senza dubbio una implicita inferiorità)
si lasciò purtuttavia persuadere dal pensiero che la commemorazione
avrebbe portato grande decoro a lui ed alla città sua.

Fece uno strappo alla fede politica e lanciò la proposta in pieno
consiglio comunale.

Naturalmente ne nacquero divergenze le quali, secondo i costumi dei
fieri uomini di parte, finirono in chiassosi battibecchi.

L'assessore della pubblica istruzione Bartolomeo Campana, fervido
studioso delle orazioni di Cicerone dalle quali desumeva le veneri
della sua oratoria, pronunziò uno de' suoi più applauditi discorsi.
Dato uno sguardo alle finanze del Comune, da un lato e a l'accrescersi
della miseria e dei bisogni della popolazione, da l'altro, disse ch'era
ormai tempo di lasciare in pace i morti per occuparsi con maggior
serietà dei vivi.

Alla foga demagogicamente irruenta del suo discorso, il pubblico
rispose con grida osannanti.

Il Maraviglia e l'Arrubinati furono pure contrari al progetto.
Bortolo Sangiovese per amore del sindaco e Ardito Popolini per tattica
prudenza, si astennero.

Contuttociò l'idea del conte Agesilao De' Lavilla segui una sua via
trionfale onde furono decretate a Gerolamo Parvenza solenni onoranze.

Si diramarono circolari-invito ai quattro punti cardinali: si stabilì
un programma di feste per intrattenere i forestieri che sarebber giunti
in istraordinaria affluenza; si dotò il teatro comunale per avere una
breve stagione d'opera; si bandiron concorsi ippici, gare ginnastiche,
feste popolari, e Bortolo Sangiovese il quale appena in quei giorni
ebbe nozione del suo illustre compaesano, lanciò la proposta di bandire
una grande fiera di bestie. L'idea non attecchì data la solennità de
l'avvenimento.

Gian Battifiore, novello Bruto, sacrificava così a l'amor del paese i
figli suoi.

In quei giorni, volgevan le calende di maggio, fra discorsi,
ricevimenti, preparativi e sorveglianze, non aveva trovato tempo
neppure per il suo quotidiano nutrimento!

Gerolamo Parvenza lo aveva assorbito; Agesilao De' Lavilla gli era
sempre alle calcagna.

Erano giunti frattanto gli scienziati tedeschi rappresentanti varii
Istituti ed Accademie: Fredrich Hoblein, Heinrich Krapffer, Sigmund
Hoërgritz.

Il primo, Fredrich Hoblein, professore de l'Università di Lipsia, era
presidente di venti istituzioni scientifiche, membro un po' di tutte le
Accademie del mondo. Profonda celebrità, intelletto insuperabilmente
vasto, dottrina incoercibile. Ove lucesse un lume di civiltà ivi era
il nome, volava la fama di Hoblein, torre d'avorio incorruttibile al
tempo.

Seguiva Heinrich Krapffer prototipo del genere co' suoi grandi occhiali
cerchiati d'oro, rotondi come due lenti da lanterna; biondastro, obeso,
solenne. Egli era filosofo naturalista; nato a Wolfenbüttel professava
a Gottinga. L'opera che aveva destato un mormorio intorno al suo nome
s'intitolava: _Quadri comparativi degli alfabeti dei varii popoli_.
Per condurla a termine aveva impiegato venticinque anni votandosi al
celibato ed alla castità. I varï popoli, riconoscenti per i rispettivi
alfabeti, l'avevan fatto salire in somma gloria.

Veniva terzo ed ultimo Sigmund Hoërgritz, uomo che pareva l'emanazione
diretta della tranquillità e della pazienza. Portava un soprabito
bluastro orlato accuratamente ai bordi da un nastro nero; un
cappelluccio rotondo e floscio, adorno da una piccola penna ricurva;
gli immancabili occhiali e le scarpe coi chiodi.

Sigmund Hoërgritz aveva il viso rotondo, gli occhietti chiari e pareva
sempre assunto alla maraviglia delle maraviglie. Egli era celebre come
i compagni per un'opera grandiosa: _La storia degli uomini e delle
bestie_.

L'autore non aveva trovato fra gli uomini persona il nome della quale
fosse meritevole di andar unito nei secoli a l'opera sua onde, preso
da subita ispirazione, l'aveva dedicata al Signore Iddio Re degli
Universi.

Per la città gaia di sole, di stendardi e di bei visi di donna; sonora
di voci bronzee, di voci umane osannanti al bel maggio, divino amante;
per la città vegliata dalle lunghe ombre degli insigni campanili,
rosea e bianca come una adolescente che il bel tempo innamorato
non raccoglie, gli scienziati andavano sogguardando e il cielo e i
monumenti, scortati da un corteo di monelli che il conte Agesilao De
Lavilla e Bortolo Sangiovese cercavano invano di scacciare a cenciate,
quali mosche importune.

Erano su la piazza maggiore, dinnanzi a la chiesa di San Viminale di
maravigliosa eleganza per l'esile campanile diritto come albero di
nave, lanciante fra il vago sciamar delle nubi e dei cirri, fra il volo
dei colombi e l'azzurrità chiara de l'infinito, il suo cono roggio e
verdastro sormontato da una croce di ferro aperta in eterno stupore
innanzi a l'immenso.

— Questa — diceva il conte Agesilao in pessimo francese — è la chiesa
più antica della città. La sua fondazione si perde ne la notte dei
tempi. Il primo ricordo che se ne abbia, risale all'893. Apparteneva
allora ai monaci cluniacensi. Grandi venture si ebbe nei numerosi
secoli di sua esistenza. Fu quasi distrutta dall'incendio, fu
ricostruita e s'ingrandì a mano a mano nel tempo. La facciata, come è
ora, fu compita nel 1646, naturalmente non serba che pochissime traccie
dell'antico splendore. Quando il seicento è passato restaurando, addio
bellezza!

— Addio bellezza! — ripetè Bortolo Sangiovese tanto per interloquire
qualche volta e far notare la sua presenza ai tre ospiti illustri.
In verità egli non concepiva come si potesse ammirare un vecchio muro
nerastro il quale d'altro non aveva bisogno se non d'essere intonacato,
chè, così nero, era una vera indecenza. Comunque fosse ascoltava
pazientemente le fole del conte Agesilao, con la rassegnazione
particolare alle cariche autorevoli.

I monelli facevano attorno a loro un gran vocìo ridendo e segnando
a dito in particolar modo Sigmund Hoergritz per il suo cappellaccio
olivastro e rotondeggiante.

— E questo è il campanile — riprese il conte Agesilao — antica
opera muraria pregevole di grazia e d'eleganza. Ne fu cominciata la
costruzione nell'anno 1178 e fu compiuta nel 1180. In soli tre anni si
elevò dalla terra a dominare la magnificenza dei piani vastissimi. Lo
stile è lombardo. È alto settantacinque metri o poco più. Gli uomini ne
deturparono in parte l'aspetto primitivo.

I tre scienziati del nord stavano col capo a l'aria, ammirati dalla
grazia della esile guglia eretta a dominio ne l'alto medioevo.

— La fede per la quale sorse l'ha salvato da rovina — soggiunse il
conte Agesilao. — L'ombra sua coprì stragi e tripudii; vide barbari
dominii e libero governo repubblicano; vide alte le aquile imperiali
e gli stendardi che il popolo eresse a grida, i rossi stendardi dalle
bianche croci che segnavano le libertà repubblicane!

— Bravo bravo! — esclamò Bortolo entusiasmandosi al sacro nome del suo
desiderato governo; e l'Hoblein, molto freddamente, quasi avesse udito
un qualsiasi brano del Baedeker, soggiunse:

— _Très bien_.

L'assessore de l'annona gli lanciò un'occhiata feroce.

Seguirono per la grande piazza innondata di sole e il conte Agesilao,
animandosi sempre più, nonostante la fredda cera degli illustri ospiti,
dimostrò come la bella piazza fosse stata campo di grandi stragi, di
insigni esaltazioni e di giostre e di quintane e di palii trionfali. —
Se vide dilagare il sangue — soggiunse — se per l'aria la campana del
popolo lanciò le sue grida d'allarme che corsero dai colli al mare e
destarono ogni capanna; se gli uomini fecero scempio di uomini nel giro
delle mura severe, sotto l'ombra delle alte grondaie su le quali si era
annidata la morte, anche vide trionfar primavera, la bella piazza che
cerchia un breve orizzonte, e vide passar carri e cavalli e bardotti
coperti di acciaio e di argento; di ori scintillanti e di gemme, fra i
suoni delle baldose, dei liuti e il ritmo lieto dei caribi. Vide i bei
torneamenti, le magnificenze imperiali, le porpore, i broccati e le
sete delle quali andarono adorne le dilettose giovanette al tempo in
cui ogni bella cortesia fioriva per l'amore gentile; ella fu la terra
madre di tutta una gente, il grande altare sacro all'ignoto Dio degli
umani destini. Solitario orto un tempo, corso dai cantici gravi dei
monaci cluniacensi, campo di orgogli e di bellezza di poi, di aspre
violenze e di primaverili conviti; altare in cui fluì il sangue e si
sparsero fiori, in cui giacquero i vinti, la faccia rivolta al cielo
profondo e sul quale volarono canti propiziatori di amplessi fecondi;
altare in cui gli uomini, arrovellandosi e accarnandosi, invocarono il
cielo e la morte; l'amore e la morte; ara misteriosa nella quale tutta
una gente esaltò la sua forza e la sua eterna paura: Iddio!

Il conte Agesilao De' Lavilla trasse un gran sospiro e Bortolo
Sangiovese, l'assessore de l'annona, rimase con gli occhi sbarrati e
luccicanti, il viso congestionato dalla commozione intensa. Solo, dopo
qualche secondo, strinse vigorosamente la mano al conte Agesilao e gli
disse in tono enfatico e solenne:

— Sei grande!

Gli scienziati speculavan un piccolo arco di luna, navicella d'argento,
che scendeva fra nuvole ed aria verso il suo nido negli alti grani
maggesi.

Poi, come passavan cantando due giovanette belle, in tutto quel sole
d'oro, Hoergritz si rivolse al conte Agesilao e gli chiese:

— _Connaissez vous le folk-lore de votre pays?_

Il conte fu preso da un certo imbarazzo e rispose:

— _Non monsieur, mais_....

Si arrestò perchè, volgendo gli occhi, aveva veduto Augusto Regida che
li sbirciava poco lungi, sorridendo.

— Regida, Regida? — chiamò il conte accennando con la mano. Il giovane
si avvicinò.

Fatte le debite presentazioni disse Agesilao De' Lavilla:

— Senta, caro Regida, questi signori vorrebbero sapere qualcosa circa
il _folk-lore_ romagnolo, ella che è profondamente erudito....

— Prego! — fece inchinandosi con schernevole sorriso il Regida.

— Me lo lasci dire — riprese il conte — lo merita! Ella che è
profondamente erudito può dar loro gli schiarimenti che desiderano.
Vuole?

— Ma certamente!

E il Regida compiacque il desiderio degli scienziati i quali lo
ascoltarono con molta deferenza.

Giunsero così a passo a passo ad una piccola piazza nella quale si
teneva il quotidiano mercato delle erbe. V'era molta folla; un gridìo
assordante si levava fra il trascorrere di terribili cortesie. In
Romagna ogni insolenza ha valore di squisito augurio.

In lunga fila erano schierate le ortolane sedute sui loro piccoli
carri, sotto immense ombrelle bianche, fra monti di legumi, di frutta
e di verdura; fra scintillar di colori e di sole e chi andava, chi
veniva, chi si soffermava gridando. Tutti gridavano a gola aperta quasi
temessero non essere uditi dal vicino, quasi volessero comunicare ai
circostanti la loro ragione, onde più e più cresceva il frastuono con
l'accrescersi della folla. In tutti quei volti accesi, era una ebbrezza
di vita gagliarda.

Grandi mucchi di ciliegie e di albicocche e di pesche duracine
mettevano la loro nota gaia nel sole; i frutti degli orti e dei
giardini dei quali la città si coronava come di un bel diadema.

E i monelli ronzavano intorno a tutto quel bene, a quella festa, a
quella dovizia inutile per loro; ronzavano come povere pecchie a cui
toccano appena gli avanzi.

Andaron quattro fanciullette bionde tenendosi per mano ed eran tutte
un sorriso, vieppiù chiare che l'alba del giorno. I visetti belli
e luminosi, gli occhi festevoli e ridenti. Avevan su le orecchie, a
pendenti, gruppetti di ciliegie martelline come rubini e gridavano
saltando:

— Son venute le ciliegie martelline che hanno sapore d'uva paradisa!...

Passarono come una folata di vento.

Gli scienziati speculavano la massa. E chiese l'Hoergritz indicando una
fila di ragazze:

— Chi sono quelle?

— Quelle sono le _coefore_ — rispose Regida sogghignando — le
portatrici di libamenti e mercanteggiano i cibi per la mensa.

Augusto Regida aveva intuito la grazia di linguaggio confacentesi a
menti sì erudite onde si compiacque far pompa de' suoi ricordi classici
e riferirli, a dritto o a torto, a cose presenti.

Un tronco di colonna, abbandonato fra l'erba, disse appartenere a un
gran tempio di Giove statore; del qual tempio non si aveva ricordo se
non nella leggenda popolare e in un palinsesto del secolo quinto.

Aggiunse che in alcune canzoni del popolo si nominava ancora Giove
quale datore di ogni bene.

Parlò della città romana e della repubblica popolare che fu già grande
nel medioevo sì che la città rossa, per feudi e castella, dominò su
gran parte della Romagna.

— Gli astrologi del tempo — soggiunse — pronosticarono che il Governo
Popolare avrebbe avuto qui sua stabile dimora. Ricorda conte Agesilao?
Dice il cronista:

«_Nell'anno 1381 apparve un segno in l'aria a modo d'una lampida
da fuoco, e avea direto a modo d'una coda de fuoco conio lancie
grosse_...» Eccetera. Dall'apparizione trae gli auspici.

Videro poi le chiese e il po' che avanzava dei maravigliosi affreschi
di taluna fra esse.

— Ringraziamo il cielo — aggiunse Regida — che qualcosa si sia
salvato perchè dove è un'opera d'arte ed un prete, ivi sono due nemici
inconciliabili!

— _Mais_ — chiese Sigmund Hoergritz — _on n'aime pas l'art en Romagne?_

— Ecco — rispose Regida sbirciando il conte e Bortolo Sangiovese —
i romagnoli sono gente pratica: amano il buono ma non il bello. Ad
un quadro preferiscono una moggia di grano. Intendiamoci, ogni legge
ha la sua eccezione. Il conte Agesilao, ad esempio, è tra coloro che
difendono il nostro patrimonio d'arte dall'eccessiva praticità dei
cosidetti _popolari_.

Bortolo Sangiovese tossì e torse il niffolo.

— Sicuro. Guardi ad esempio: la parola _artigiano_ in dialetto
romagnolo non esiste: esiste bensì la parola _artista_; ma non
s'inganni; gli artisti per il nostro gaio-osannante popolo sono
i falegnami, i fabbri, i calzolai _et similia_. Un catenaccio, un
tavolino, un paio di scarpe sono, per ogni buon romagnolo, opera d'arte
perchè di indiscussa utilità: il resto... è letteratura!

La cosa mise un po' di malumore Bortolo Sangiovese il quale mormorò fra
le labbra:

— Esagerazioni!

— Nient'affatto, verità! — rispose Regida.

— E sta bene! — soggiunse il rotondeggiante repubblicano il quale, per
aver combattuto con Garibaldi, adottava il suo intercalare.

La città fu esplorata minuziosamente in lungo ed in largo; tutto
ch'ella poteva offrire alla curiosità dei dotti alemanni, offrì; anzi
più si rivelò che non fosse possibile supporre.

In un quartiere eccentrico, poi che gli scienziati uscivano da una
vecchia chiesa, s'imbatterono in una torma di marmocchi i quali, con le
rispettive camicie occhieggianti da l'apertura posteriore delle brache,
infervorati di belligero ardore andavano cantando a squarciagola:

    _Con Mirabelli_
    _Noi vogliam marciar!_...

Trascorrevan così sotto al sole di primavera sempre più animandosi
allorchè, da un vicoletto, sbucarono altri monelli i quali, udita la
canzone dei compagni, si dettero a gridare a contrapposto:

    _Con Enrico Ferri_
    _Noi vogliam marciar!_...

Le due schiere urlanti si diressero l'una verso l'altra cercando
soppraffarsi con la vigoria delle voci. Allorchè si scontrarono,
tacquero un attimo; poi da ambo le parti, per reciproco saluto di
guerra, si levò alto e sonoro quello special suono che Dante udì in
Malebolge, usato a vaga salutazione da Barbariccia, capo della decina.

Al qual suono i dotti alemanni corrugarono il supercilio.



CAPITOLO X.

Dove si cantano gli osanna.


Gian Battifiore dette gli ultimi ordini necessari perchè la solenne
commemorazione filasse a buon vento, senza inconvenienti.

Gli operai avevan finito di erigere le grandi tribune per il pubblico,
per le autorità, per la stampa; la cattedra per gli oratori, i seggi
speciali per il sindaco e per i suoi seguaci.

Lavoro faticoso fu quello degli adobbi (nei quali dominò il rosso,
un rosso vivo di carminio puro) e molta cura richiese la diramazione
degli inviti. Quali posti si dovevano serbare alle autorità civili
e militari, ai rappresentanti del Governo monarchico? Lungo fu il
dibattito, lunghe le querele e i disaccordi. Ardito Popolini voleva
dare carattere politico alla commemorazione. Gian Battifiore era
di opposto consiglio. Poi si trattava del suo decoro; egli doveva
dimostrarsi ospite compito. Così... si esclusero i clericali.

Si invitò l'aristocrazia, la grande e la piccola borghesia, il corpo
insegnante, il questore, il prefetto, il generale. Un grande strappo
alla fiera coscienza repubblicana!

Ora le cose erano a l'ordine e nel recinto erano giunti già: il
collegio convitto, l'asilo infantile, la musica e alcuni invitati, in
ordine sparso, i quali si sbandarono qua e là per le tribune.

Gian Battifiore guardò l'orologio ogni cinque secondi passeggiando su
lo spiazzo vuoto fra le tribune. Lo seguivano a qualche distanza Ardito
Popolini e Bartolomeo Campana, assessore della pubblica istruzione.
Essi conversavano animatamente. Tutti indossavano il soprabito di
prammatica. Gian Battifiore aveva anche la fascia sindacale; ma la
teneva accuratamente celata sotto al soprabito perchè non dovevano
rifulger sul suo petto gli aborriti colori de l'insignificante
monarchia.

Suo pensiero, molto apprezzato dal Popolini, fu quello della bandiera.
Era necessario inalberare una bandiera sul recinto della commemorazione
e Gian Battifiore la inalberò, ma avvolta in guisa da sembrar tutta
rossa. Gli uomini vermigli ne impazziron di gioia.

Ora rideva il sole, (rideva, diciamo così, poichè lo vogliono fare
ridanciano il severo padre de l'infinito) e su la terra passava
primavera.

Dalla torre del palazzo comunale giunsero dieci tocchi di campana.
Gian Battifiore guardò l'orologio, forse per la centesima volta, si
soffermò aggrottando le ciglia poi si volse a Popolini e a Campana che
lo seguivano:

— L'invito è per le dieci e mezzo mi pare?

— Si.

— Sono in ritardo gli invitati.

— Ma non tanto. Guarda un po' intorno.

Le tribune cominciano ad affollarsi.

Breve pausa.

— A proposito — riprese Gian Battifiore — ci siamo dimenticati di una
cosa!

— Quale?

— Chi riceve gli invitati?

— Nessuno! — disse Popolini.

— Nessuno! — soggiunse Campana.

— Ma come, e vi pare cortese? Chi indicherà loro il posto assegnato?

— Il donzello del Municipio: Coriolano.

— Sicuramente! — chiosò Campana.

— E vi pare cortese?

— Cortesissimo. Noi siamo democratici e non potremo mica ossequiare
l'aristocrazia!

— Ma che aristocrazia d'Egitto! Ritorniamo da capo? È questione di
gentilezza! Verranno molte signore e diranno poi che siamo asini e
villani. Bisogna provvedere e subito!

— Io non vado! — esclamò Ardito Popolini.

— Neanch'io — aggiunse il Campana.

Gian Battifiore si strinse la fronte fra le mani.

— Guarda — riprese il Campana — c'è il Cavalier Mostardo laggiù,
possiamo mandar lui.

Gian Battifiore scrollò le spalle senza rispondere. Poi, alzando gli
occhi, vide un nuovo arrivato ed ebbe un'idea felice.

— Ecco il mio caso! — mormorò, e si diresse con le mani tese verso il
conte Alfonso Bigamia. — Caro conte devi farmi un grande favore! — gli
disse stringendogli le mani con effusione.

— Anche due se posso.

— Devi incaricarti di ricevere le signore e le autorità.

— È solo questo che vuoi?

— Sì.

— Sarà fatto.

E il conte si avviò.

— Ascolta — riprese Gian Battifiore — se credi può aiutarti Coriolano!

— Non ne ho bisogno — rispose Bigamia sorridendo.

— Belle storie! — fece Ardito Popolini bofonchiando.

— Povera democrazia! — aggiunse Bartolomeo Campana; ma questa volta
Gian Battifiore non udì o non volle udire.

Giunse Veneranda con le figlie; quattro eleganze sotto al sole. Asia
vestiva di giallo, un giallo cupo come quello delle zinnie le quali,
per chi non lo sa, sono fiori molto sciocchi che adornano i giardini
eleganti. Era pallida, cupa, accigliata e guardava il suo simile con
l'ira repressa e feroce delle vecchie e brutte zitelle.

Giunsero le signore de l'aristocrazia in vesti estive; tutto uno
sfolgorìo di bianco, di rosa e di celeste chiaro si espanse. Il recinto
si animò pei colori e la festevolezza che portati seco le belle
donne, ovunque. Giunsero gli studenti, gli assessori, il prefetto,
ii generale; ogni bellezza ed ogni autorità fu presente al solenne
consesso.

Il recinto per il popolo era gremito, urlante, ossessionato. Tale
recinto l'aveva voluto Ardito Popolini ed ora se ne trovava quasi
pentito, vista la mala grazia de' suoi umili fratelli in fede
repubblicana.

Infatti, per passare il tempo, i rappresentanti più interessati della
democrazia si erano empite le tasche di semenza, di lupini, di ciliegie
e di ogni sorta di ghiottonerie vegetali! Poi tanto per dimostrare
come il loro rispetto per Madonna Cortesia fosse intenso e come,
per isquisiti sentimenti di delicatezza andassero essi evolvendosi
verso l'ideal forma di perfezione per la quale qualche Grande sognò
inutilmente, gettavano i noccioli e le buccie nella cattedra degli
oratori, nelle tribune delle autorità, nello spiazzo occupato dalla
musica.

Ardito Popolini li redarguì ma per poco, che qualcuno, più animato
degli altri, rispose a' suoi consigli gridando:

— Abbasso la borghesia!

Un bubbolio sordo si levò dalla massa.

Gian Battifiore ch'era poco distante ed udì, si volse di scatto, sbarrò
gli occhi e disse forte:

— Ancora un grido come questo e faccio sgombrare il recinto!

Risposero voci di assentimento e di protesta, poi due semplici
pennacchi rossi che ondeggiarono sul tumultuare dei grandi cappelli a
enormi tese, bastaron a ristabilire la calma.

L'incidente passò inosservato al pubblico delle tribune, ebbro della
festevolezza che dànno le mattine placide e serene, le ineffabili
mattine primaverili.

Ne l'ampia corona dei due steccati che si svolgevano ad arco e innanzi
ai quali erano eretti i palchi per gli invitati, fulgeva tutta la sana,
la forte bellezza romagnola.

Il convegno aveva chiamato dalle città vicine, liete comitive
di signore e di giovani e la rossa città del piano se n'era
improvvisamente animata.

La cosa insolita inorgoglì Gian Battitore il quale vide come non solo
egli potesse essere valente e temuto uomo di parte, ma anche abile
organizzatore di piacevoli conviti.

Gian Battifiore aveva qualcosa più dei cinquantanni e i gravi pensieri
che incombono ai guidatori di greggi lo tenevano sotto il loro dominio;
pure come poteva non essere distolto dalle sue cure e affascinato da
tutta quella luminosità di bellezza che dava come un desiderio vago
di moltiplicarsi a l'infinito per tutto abbracciare? C'erano visi sì
intensi d'espressione, occhi sì grandi e neri, bocche che parevano
l'amore istesso e persone velate da ineffabili eleganze che... ah! il
popolo era una gran brutta bestia in paragone!

Quasi quasi si sentiva aristocratico ne l'anima; sì, che dopo tutto
nessuno la vedeva ed egli poteva foggiarsela a sua posta, secondo i
suoi desideri. I poeti fanno altrettanto. L'anima è un'espressione
elastica; è come l'onore.

Così girava gli occhi estasiato. Un giovane amico elegante, Isidoro
Quarti, gli diceva i nomi e le particolarità delle intervenute.

— Quella è la contessa Maria Agiolesi; una statua; vede? L'ufficiale
che le sta accanto è l'amante suo. Il marito è più giù, guardi, vicino
allo stendardo; parla col prefetto.

L'altra, discosta un palco, è la Sinibaldi, la famosa Sinibaldi, la
bellezza più superba della nostra terra, sindaco! La guardi bene.

Gian Battifiore aguzzò lo sguardo, stette un attimo estasiato poi
esclamò:

— Maravigliosa!

E Quarti continuava:

— Poi la Simetri, la biondissima: Annalena Vanni che ispirò tutto un
poema d'amore; la contessa Beatrice Marella, fiore degli stagni. Oh!
Guardi Marinella Albisi, la contessa Marinella: quella in celeste,
vicino al palco del generale. Le piace? È il viso più squisito ch'io mi
conosca!

Poi a voce più bassa:

— Il povero Vallata si uccise per lei.

— Davvero? Per una donna? — fece sdegnosamente Gian Battifiore.

— Per quella donna! — rispose Quarti.

Gian Battifiore rimase un poco perplesso fissando la soavissima
creatura e mormorò:

— L'uomo è sempre una bestia!

L'enumerazione piacevole continuò per qualche tempo, poi Quarti stava
per dire:

— E quella...

Ma il sindaco affrettandosi concluse:

— Quella la conosco troppo, troppo bene!

Volse le spalle e se ne andò. Il Quarti gli aveva indicato il viso
cupo, arcigno, sparuto di Asia, la tragica sorella dei tramonti
novembrini, la dolorosa immagine del costretto rifiuto.

Passò una nube su lo spirito di Gian Battifiore. Com'era subitamente
dileguato il velo di leggiadria che lo aveva ringiovanito di vent'anni!
Ecco per un cenno, per un viso egli si sentiva più vecchio delle
montagne, vedeva riapparire tutto il pandemonio che aveva turbato la
sua famiglia negli ultimi tempi trascorsi.

Trasse un grande sospiro e riguardò l'orologio. Mancavano pochi minuti
a l'ora fissata. Volse gli occhi attorno. Tutto era a l'ordine non
mancava che il conte Agesilao De' Lavilla coi professori tedeschi.

— Ma dove saranno? — si chiese. E stava per ispedire il Cavalier
Mostardo alla ricerca allorchè le cortine celanti l'entrata si
sollevarono e Fredrich Hoblein, Heinrich Krapffer, Sigmund Hoergritz
entrarono l'uno dopo l'altro lentamente, rigidamente, solennemente.

E siccome, per giungere alla cattedra oratoria, dovevan passare sotto
la tribuna degli studenti, un coro di brevi risa li seguì. Ma il
Cavalier Mostardo che avea il compito de l'entusiasmo, ebbe un grido di
evviva al quale rispose la sua numerosa popolar coorte.

— E sta bene! — mormorò Bortolo Sangiovese. Egli mostrava la sua bella
faccia rossa nella tribuna degli assessori.

Passò un silenzio preparatorio. Si aspettava veramente il conte
Agesilao De' Lavilla incaricato di presentare Fredrich Hoblein. Prima
però doveva inaugurar la seduta Gian Battifiore. Il gran silenzio
intimorì il povero maestro di democrazia. Tutti gli occhi convergevano
su lui; gli pareva avere fisso sul viso il fuoco di una lente enorme.

La musica municipale intonò la marcia della Giovane Romagna che fu
accolta da grida ed entusiasmò il popolo divoratore di semenza; sicchè
quando Gian Battifiore fu per prendere la parola (era giunto il conte
Agesilao De' Lavilla) non potè, chè, dal recinto popolare, una tempesta
di urli si levò in note acute e semitonate:

— L'Inno, l'Inno, l'Inno!

— Li hai invitati i tuoi guastamestieri? — gridò Gian Battifiore a
Ardito Popolini che gli era vicino. — Ora guarda che figura ci fanno
fare!

Il Popolini rimase un poco perplesso, guardò le tribune, guardò il
recinto de' suoi fratelli adottivi, poi come vide che il tumulto non
accennava a quietarsi, fece un cenno imperioso al capo musica che lo
fissava aspettando e le note belliche de l'inno di Garibaldi irruppero,
volarono come in uno scoppio di gioia. Tutti gli assessori si levarono
in piedi. Nel chiarissimo cielo di maggio sventolavano gli stendardi
rossi.

Poi come volle la buona sorte, il tumulto parve quietarsi. Passarono le
ultime grida:

— Evviva Mazzini e Garibaldi!

— Evviva Ermellini, evviva Saffi!

— Evviva la Repubblica Sociale!

E con più prudente voce:

— Abbasso gli sfruttatori!

Nelle tribune la calma regnò sovrana. Disse Regida alla contessa
Marinella:

— Così si commemora la memoria di uno scienziato. La Romagna è sempre
originale nelle sue vedute!

Ad un tratto il silenzio s'impose e Gian Battifiore potè pronunziare
il suo discorsetto che fu accolto da applausi fragorosi. Seguì il conte
Agesilao il quale disse poche parole di presentazione; Fredrich Hoblein
salì poi la cattedra degli oratori.

Una grande attenzione si fece intorno. Il Cavalier Mostardo si preparò
a l'applauso. L'Hoblein con voce lenta e precisa cominciò.

Vi fu qualche incertezza dapprima; gli studenti si protesero per
intender meglio, poi si udiron mormorii, sussurri, risatine.

L'Hoblein parlava latino.

E come il mormorio, con l'avanzare de l'orazione, si accrebbe e il
pubblico sempre più si mostrò disattento, il conte Agesilao fece al
Cavalier Mostardo il segno convenuto onde questi si dette ad applaudire
e dietro lui la massa dei seguaci.

Ma allorchè la calma fu ristabilita, durante una pausa che fece seguito
ad una lunga perorazione, si vide dal recinto del popolo sporgere il
viso malignetto e satiresco di Gargiuvîn e si udì la sua voce gridare
in note sopracute:

— Evviva l'anarchia!

E se l'ilarità accompagnò il bel gesto di mattoide, vi furon signore
che fecero il viso de l'arme onde ne nacque un certo turbamento.

— Fuori! — gridò una voce.

— Alla porta! — gridaron mille.

E il povero cianchettante ribelle fu preso fra i pennacchi rossi. Egli
non fece resistenza: sorrise e gli occhi suoi lampeggiarono come per un
trionfo.

Il corpo di guardia era a due passi; il tragitto fu brevissimo e
Gargiuvîn si lasciò condurre placidamente; ma quando fu per entrare,
s'inarcò su la persona, guardò le guardie che vegliavano il luogo ed
esclamò aprendo le braccia:

— Amici!... Son di ritorno!

Sventolavan ne l'aria i rossi stendardi del popolo e dal recinto un
coro di applausi si levò irrompendo nel luminoso mattino.



CAPITOLO XI.

Dove si banchetta alla guisa omerica, superlativamente, e il Cavalier
Mostardo trionfa.


Fin dalle prime ore de l'alba, Smeraldina, la bionda ancella ed unica
compagna di Bortolo Sangiovese, era in gran daffare.

Coadiuvata ne l'opera straordinaria e colossale da cinque contadini
che Bortolo Sangiovese aveva assunto provvisoriamente agli onori della
cucina; fra gli ordigni del mestiere, che avevano preso, per il caso
speciale, dimensioni esagerate, ella si affannava, correva, accesa dal
fuoco, da l'orgasmo, dalla tema di non mostrarsi degna del gran còmpito
affidatole.

Le aveva detto il signor Bortolo il giorno innanzi:

— Ehi Smeraldina! Domani ho trenta invitati a pranzo.

— Trenta! — aveva mormorato la glaucopide ancella.

— Si, non ti maravigliare, è così! Del resto verranno cinque contadini
a prestarti mano, li ho avvertiti. Bada... bisogna farsi onore!

— Ma?!...

— Non c'è _ma_ che tenga.

Così Smeraldina bionda, la molteplice e malinconica madre, si era
posta a capo del suo piccolo esercito e fra comandi, brontolii,
strapazzate, dirigeva l'infrequente opera con disperata energia, pronta
a sacrificarsi per il suo amor proprio. Tutta la casa era satura di un
forte odore di cucina, fino alle soffitte, fino alla scuderia, dove la
cavalla storna aspettava, annitrendo, il suo fieno.

— Baròzz bada all'arrosto! — gridò Smeraldina giungendo con una gran
corba di spinaci — A che cosa pensi? Gira!

E Baròzz, seduto sotto la nera cappa del camino medioevale, grondò
sudore per l'opera continua e l'alta fiamma di un vivissimo fuoco, e
riprese a girar gli spiedi lentamente, continuamente, fischiettando.

I compagni suoi eran così, sorridenti per l'opera nuova ed inusitata,
vicino a grandi casseruole di rame lucente e ai fornelli dai quali si
sprigionava la bluastra fiamma del carbone.

Cruschîn spennava i galletti di primo canto, Bùrgot li abollessava,
Sghìrbazz chino sopra un grande mortaio di rame, adorno di larghi
festoni di fiori e frutta, pestava una sua abbondante miscela fra il
bianco ed il vermiglio della quale non sapeva la composizione, ma che
avrebbe mangiato volentieri.

— Quanti ne hai spennati? — chiese Smeraldina a Cruschîn.

— Trentadue! — rispose l'uomo dalla faccia gioviale. — Tutto un pollaio!

— Bisogna spennarne altri sei!

— Come volete Smeralda! — rispose sorridendo l'uomo.

— Sghìrbazz? — gridò l'ancella — lascia il pestare per un poco e vai
nel pollaio a prendere sei galletti di canto.

— Sì — rispose imperturbabile l'anziano dalla faccia rugosa e
originale; poi si avviò curvo, quasi pestasse ancora.

— Che mangiare! — fece Bùrgot guardando per aria.

— Da signori! — soggiunse Cruschîn sorridendo.

— Al tempo dell'_uròl_ non si sta meglio![1]

— Così durasse sempre!

— Alla mietitura, quante volte mangiate in un giorno? — chiese
Smeraldina.

— Cinque, sei... secondo — rispose Cruschîn.

— Ma dodici per lo meno! — esclamò Burgòt. — Non è vero Sghìrbazz?

Il valentuomo tornava allora dal pollaio con una corona di galletti
urlanti disperatamente, a becco aperto. Egli non sapeva di che si
trattasse pure, secondo la sua perpetua adesione, rispose:

— Sì.

Sghìrbazz dalla faccia rugosa tra il pensoso, il bonario e l'idiota,
era sempre di tutte le opinioni perchè non si era mai permesso
di averne una. Fra tutte le parole prediligeva il _sì_; per tale
predilezione aveva preso moglie.

L'opera continuò ardente, affrettata, affannata fra uno sfrigolìo,
uno schioppettìo, un agitarsi, un correre sotto il bagliore delle alte
fiamme che salivano per l'ampia cappa del camino medioevale e facevan
scintillare i pochi rami rimasti appesi al muro qua e là, in ordine
sparso.

Volgevan le ore prossime al meriggio; gli invitati dovevan giungere a
mezzogiorno. Già Bortolo Sangiovese si era affacciato alla porta della
cucina per chiedere in tono amorevole:

— Come va? come va?

— Vada fuori! Non voglio nessuno qui! — gli aveva gridato la mite
Smeralda e il signor Bortolo, per non compromettere le cose, non aveva
insistito.

Cominciò poi uno scampanellìo assiduo. Rudàr, il vecchio stalliere che
altro non aveva maneggiato in vita sua se non il tridente, doveva in
quel giorno aprir la porta agli invitati e servirli a tavola.

Bortolo passeggiava nella sala al piano superiore, dov'era
apparecchiata la lunga tavola. La sala era un corridoio di passaggio;
l'unico ambiente capace di accogliere trenta persone.

A mezzogiorno e un quarto tutti gli invitati erano giunti; si poteva
cominciare.

Bortolo suonò un grande campanello, simbolo della sua presidenza
padronale sul buon ordine del pasto, e Rudàr comparve.

— Siamo all'ordine?

— Sì signore.

— Allora in tavola. — E scampanellando verso gli invitati che si erano
divisi a gruppi e parlavano ad alta voce producendo grande frastuono,
gridò:

— A tavola signore e signori! A tavola!

Il vocìo si tacque, si perse in fioco sussurrare. Ognuno si avvicinò
guardando i cartellini ch'erano stati posti fra gli innumerevoli
bicchieri e le grandi bottiglie e sui quali Smeraldina, la sera
innanzi, con la sua calligrafia ferocemente scomposta, aveva tracciato
il nome dei singoli invitati.

Con un po' di buona volontà furono occupati i posti rispettivi, poi i
commensali si guardarono in viso senza dir parola.

Solo Augusto Regida e Giacomo Berbieri, che si erano posti accanto,
sorridevano osservando.

A capo della lunga tavola troneggiavan i tre scienziati tedeschi dalle
faccie inespressive ed impassibili e parevano, riavvicinati così, una
qualche antica trimurti sacra a l'ignoto. Seguiva il conte Agesilao De'
Lavilla sorridente e lucente come una meleagrina madreperlifera; poi
la signora Eulalia, vecchietta piena di rughe e di sorrisi, e tutta
raumiliata di trovarsi tanto vicina alle oscurissime potenze della
trimurti tedesca; le sedeva di fronte il marito Pantaleone, vecchio
medico pensionato.

Intermezzate poi agli assessori, erano le figlie di Gian Battifiore.
Asia che vestiva sempre di giallo; America che aveva una veste bianca
fatta con arte propiziatrice al seno; Africa e Oceania, pallide come
abbominevoli orzate, come larve di maggiolini. Seguiva Veneranda, il
conte Alfonso de' Bigamia, Regida, Berbieri e moltissimi altri.

Gian Battifiore sedeva a capo tavola, di fronte agli scienziati
tedeschi. Bortolo Sangiovese aveva a destra il Popolini, a sinistra la
signora Zarbi; vedova per la quale propendeva la simpatia del vecchio
scapolo.

Ora i convitati cercavano assumere pose graziosamente simpatiche
innanzi al munifico ospite; così un sorrisetto benevolo errava su tutte
le labbra, più incerto negli uomini, di condiscendevole dolcezza nelle
donne.

Essendo il banchetto, in certo qual modo, d'etichetta, date le comuni
abitudini, molti e specialmente le signore, cercavan porre un loro
garbo d'eleganza nello spiegare il tovagliolo, nel riassettare le
posate innanzi ai piatti, ne l'attendere coi gomiti strettamente
uniti alla vita e i polsi appoggiati al limite della tavola, in linea
parallela, rigidamente.

Però se un convitato improvvisamente si volgeva verso qualche punto,
per darsi un'aria disinvolta, gli altri, quasi di comune accordo,
ripetevano l'atto insieme. Così una volta si trovaron tutti a fissare
con discreta intensità il soffitto quasi dovesse aprirsi per una
mistica pioggia di rose; un'altra volta l'attenzione fu rivolta a Gian
Battifiore il quale non seppe come atteggiarsi sotto il fuoco degli
sguardi; e ancora su l'apparire di Rudàr; su lo sventolìo leggero
di una tenda; su qualche convitato gli occhi furono fissi, aperti,
sorridenti di tutto e di nulla. Il turbamento di trovarsi insieme a
compire il solenne atto umano del quotidian pasto poneva in timore la
gaia brigata.

Poi il simposio ebbe suo inizio.

Furono serviti prima i cappelletti, i tradizionali cappelletti che
compaiono in ogni tavola romagnola dalla più modesta alla più sontuosa
nelle grandi occasioni.

Dopo la minestra il simposiarca dette ordine che la lunga fila delle
portate incominciasse. Si presentarono, ad una sua chiamata, Smeraldina
e Sghirbazz recando enormi vassoi di carne bollita passata già per le
sapienti mani degli scalchi.

E Rudàr offrì le salse verdi, le salse di alici, di capperi, di timo
e di menta. Aveva un suo arnese diviso in tanti compartimenti ciascuno
dei quali era occupato da uno special tipo di salsa, e lo passava sotto
al naso dei convitati con grazia tutta sua particolare dimenticando
la destra, la sinistra a grande edificazione di Smeraldina la quale,
da l'altro lato della tavola, gli faceva inutilmente larghi cenni di
sdegno.

Cominciò poi il dilettoso fiume dei vini a riversarsi in riscintillii,
in gai spumeggiamenti, in bagliori d'ambra e di rubino, nella
multiforme schiera dei bicchieri di puro cristallo.

Albano di Bertinoro, limpido come begli occhi di bimbo, dal soave aroma
inebbriante; sangiovese di Civitella bruno come il ferro, dai bagliori
sanguigni, aspro un poco al palato, dal vago aroma di viola; moscato di
montagna, più dolce di vergine bocca; poi _canina_ dei piani; _pagadet_
vigoroso e traditore e molti altri che comparivano a mano a mano su la
tavola recando, su l'etichetta delle nere bottiglie, vecchie date.

L'eloquio tanto più si profuse quanto maggiormente i volti diventaron
vermigli e gli occhi acquistarono certe loro luminosità speciali,
mobili in bagliori improvvisi o stabili in vaghe languescenze e in
pensieri di intimo compiacimento.

Le portate si susseguirono con matematica precisione. Al bollito
seguiron i fritti dolci, i fritti misti, i fritti romagnoli
specializzantisi per la loro particolare indigestività; poi i pesci di
mare, i grandi lucci e le anguille di fiume servite con sovrabbondanza
di salse e di contorni; poi gli umidi ricchi di colore e di profumi,
gli uccelletti in salmì, le enormi frittate alla campagnola, i
galletti alla cacciatora, la zuppa di rane palustri, otto grandi
tacchini arrostiti e, il cuore dei convitati si allargò di sollievo, un
piramidale pasticcio tutto a fiorami, a ghirigori, a frastaglii. Quasi
a somma ironia verso il cocchiume del colle mangereccio, Smeraldina
aveva composta con la pasta frolla un augurio che risaltava in grandi
lettere: _Buon appetito!_

Vennero rinnovati i calici e si servirono i vini spumanti imbottigliati
col propiziare di marzo; indi le portate ricominciarono fra lo stupore
dei pochi e il consentimento dei più. Le grandi ampolle, i vassoi
enormi come pianure rifecero il loro giro in offerte rinnovantisi con
rapidità.

Comparve una grande trota seguita da vere torme di budini di riso, di
verdura, di rigaglie, di ricotta; poi quattro lepri in salmì; anatre
selvatiche e beccaccini con lenticchie, e quattro gelati conici,
bianchi e lucenti.

Ma questa volta gli illusi non caddero nella panìa e si astennero o
tentarono astenersi, chè non era poi cosa sì facile rifiutare la grazia
di dio che la prodigalità di Bortolo Sangiovese poneva innanzi a' suoi
ospiti di un giorno.

Ormai col progredire del pasto, ogni vincolo di timidezza aveva esulato
dagli animi dei cittadini della esultante terra repubblicana; ad ogni
incertezza di eloquio, ad ogni dubitoso sussurrare si era sostituita,
per andar di vini, una franca sincerità, una sovrabbondanza di riso,
una esuberante tenerezza amichevole alla quale non si poteva far brutta
cera.

Tutti dovevan mangiare di tutto per le insistenti preghiere e le
minaccie di permali da parte de l'anfitrione. Era un pranzo modesto,
troppo modesto e di ciò si scusava Bortolo; ma pertanto gli facessero
onore per quel poco ch'egli aveva potuto offrire; gli dimostrassero
che, una volta usciti, non sarebbero andati in trattoria per togliersi
la fame.

— Poco ma buono! Fate onore alla mia tavola!

E incominciava il barbaro supplizio.

— Smeraldina guarda; la signora Eulalia ha il piatto vuoto.

— Signor Bortolo, la prego... non ho fame!

— Non faccia complimenti, via!... Ce n'è per tutti.

— Ma le assicuro non posso... proprio non posso!

— Smeraldina?!

— Che vuole!

— Quando vi si chiama fate attenzione. Non vedete? La signora Eulalia
non ha più arrosto. Servitegliene.

— Gliene avevo offerto e non ne ha voluto.

— Non si offre, si serve. Lo dovreste sapere. Questi signori sono
troppo complimentosi.

— Signor Bortolo... le assicuro... con tutta la mia migliore volontà...
ma non posso... non posso...

— Non vede? Ha appena ciò che basterebbe per un grillo. Già bisogna ci
pensi io!

E seguìto dalla stupefazione dolorosa della vecchia signora, Bortolo
Sangiovese si alzò, prese dalle mani di Smeraldina il vassoio de
l'arrosto e, con grazia pantagruelica, servi l'involontaria penitente.

— così va bene! — disse poi soddisfatto.

— È sciupato le assicuro! — mormorò torcendo il collo Eulalia
Pantaleone.

— Non vorrà farmi questo sgarbo! — replicò Sangiovese. — Se non lo
mangia me l'ò per male!

— Ma come si fa? — disse con tenera voce piagnucolosa la vecchia
damina. — Io non ho mica lo stomaco di uno struzzo!

Frattanto la trimurti, la gaia trimurti (poichè il vino ch'ella aveva
bevuto senza parsimonia l'aveva accesa di luminosità vermiglie) per
non comprendere il rude dialetto che sostituiva ne l'intimità della
mensa il po' di lingua italiana comunemente usata, sorrideva a tutti
compiacentemente di un riso largo, tenero, amoroso, spinta già, per i
dionisiaci fuochi, alle convenevoli dolcezze delle subite simpatie.

Bortolo Sangiovese si avvicinò a Sigmund Hoërgritz, gli posò una mano
su la spalla ed ebbe la sua eterna frase conviviale:

— Allegri allegri!

L'Hoërgritz che non intese, rispose a l'augurio brindando alla salute
de l'Italia.

E a sua volta il Sangiovese, credendo trattarsi di pura facezia, uscì
in una sonora risata.

Il piccolo e rotondeggiante Bortolo dalla lunata faccia, luminosa
come una bacinella di rame percossa dal sole; l'idolo delle liete
brigate, ridevole, ridanciano e di immutabile buonumore; il signore
dalla voce un po' roca la quale pareva gorgogliasse da una gora; dagli
occhi piccoli, astuti e lacrimosi per il perenne riso; vittima delle
più atroci burle e a sua volta espertissimo nel saper rendere pan per
focaccia, dominava ora l'ambiente quale impareggiabile simposiarca,
guardato con simpatia anche dalle sue vittime, da coloro cioè che, per
le umane convenienze, dovevano far conoscenza con Madonna Indigestione.

Ma come volle la grazia di Smeraldina, il banchetto volse al suo
termine; furon serviti i dolci, le frutta, i liquori, il caffè e gli
ultimi aneliti del colosso furono preceduti, accolti e seguiti da un
vociare confuso, altissimo, dilagante come fiumana che irrompa.

Però i vini continuavano a mescersi negli ampi calici che passavan dal
bianco al vermiglio con inusitata lena.

Una scompostezza bacchica era ormai in tutti i volti e un'affettuosità
ampia; un senso di umanità dilagante, in tutti i cuori. Gli arbitri dei
destini della città rossa non si erano mai sentiti tanto repubblicani
come allora.

Ridevano, si univano, facevan progetti di fiere battaglie e di
commoventissime paci; picchiavan pugni su la tavola, sbraitavan con
ambo le braccia levate in aria quasi ad afferrare e a tener saldo il
pencolante ragionamento.

Ardito Popolini, appoggiato un ginocchio al margine della tavola,
discuteva con Augusto Regida intorno alla legge di selezione e alla
necessità delle rivoluzioni; Tragico Arrubinati con parole comiziali,
accendendosi, quasi arringasse il popolo ch'egli vedeva ovunque
numeroso e plaudente, s'intratteneva col Campana circa il dottrinarismo
democratico e l'idealismo mazziniano, rinnovando i propositi del
partito d'azione che trovava in loro i rappresentanti più valorosi.

Gian Battifiore che amava dimenticare di tanto in tanto la politica,
per darsi a più ridevole conversare, criticava con Pietro Andruco, un
vecchio signore benestante, l'effeminatezza di certo Mario Casimiro.

— È uno sciocco! — esclamò Gian Battifiore.

— Val meno di una donna! — soggiunse l'Andruco ch'era un valoroso
misogine.

— Figuratevi che a quella sua villetta vicino alla Rocca, ha posto il
nome di _Villa Bianca_!

— Peuh!

— Ma sì! _Villa Bianca!_ Sarebbe meglio pensasse a far quattrini!

— Certamente. Credo sia ridotto al verde.

— Quasi!

— Allora altro che poesia ci vuole! — soggiunse l'Andruco battendosi le
mani su l'epa.

— Ma c'è di peggio!

— Dite dite!

— Vedeste la sua stanza da letto! Io non la sognerei neppure. Tutta un
fronzolo. È vergogna per un uomo. Ha una toeletta piena di spazzole,
spazzolini, bottiglie di profumo, saponi... come una donna perduta.
Figuratevi, la sua effeminatezza giunge a questo punto: Si lava i denti
tutte le mattine!

— Davvero?

— In parola di galantuomo.

— Già è la nuova generazione! E vedrete poi! Sono come moscerini: un
soffio d'aria, un niente li manda all'altro mondo!

— Al nostro tempo non usavano tante sciocchezze, eppure eccoci qua sani
e forti.

— Che volete, ora hanno inventato l'igiene, la disinfezione, i microbi
e che so io. Abbiamo vissuto e siamo morti sempre ed i microbi non
c'erano. La civiltà si accresce...

— E perfeziona la gente!

— Ah! beato mondo, beato mondo! — E Pietro Andruco si dette a cioncare
di bel nuovo, in memoria del bel tempo antico, spoglio delle svenevoli
invenzioni che non erano per lui se non un portato di pretenziosa
ignoranza.

Ad un tratto i lieti e i violenti conversari si tacquero e l'attenzione
converse sul vecchio Pantaleone il quale, pregato con insistenza da
Bortolo Sangiovese, aveva preso un suo malinconico violino e regalava
agli assistenti uno zibaldone della _Norma_.

Per qualche tempo il silenzio si ottenne, ma al primo intervallo, il
quale non era che una pausa musicale, scoppiò un uragano di applausi
che autorizzò i convitati a riprendere il loro conversare senza prestar
più attenzione ai suoni del concavo legno. Però il vecchio medico,
siccome era abituato ad essere incompreso, non si lasciò turbare dalla
strana accoglienza avuta e, ritto vicino ai suoi calici, col capo
inclinato e gli occhi socchiusi, condusse l'arco per molte melodie
facendo ballonzolare le dita nei tremuli ch'eran come pioggerelle di
lacrime.

Una persona sola era protesa su l'onda dei suoni ch'egli traeva
sospirosamente rievocando: la signora Eulalia, la sposa della sua
vita. La mite signora aveva fatto di sè compiaciente eco ad ogni
ambizioncella dello sposo: ella era divenuta la nota sincrona,
l'esaltatrice, il rifugio sacro; ogni sua potenza ammirativa era
riserbata a l'ingegno del marito, ingegno ch'ella sola riteneva
comprendere nella sua incommensurata grandezza.

Nella vita non aveva altro còmpito se non quello di ammirare l'uomo che
la grazia del Signore le aveva posto a lato, a sua somma gloria.

Così, fra il vociferio alto e continuo, la signora Eulalia, cercando di
tanto in tanto l'attenzione di qualche vicino, unite le mani, esclamava
sorridendo d'orgoglio:

— Come suona bene Pantaleone!

Però la frase passava inavvertita e senza assentimento.

Chi poteva por mente al solitario sentimentale se non l'anima sorella?
Gli altri erano talmente assorti e presi dalle singole manifestazioni
del loro ingegno tribunizio, che avrebbero avuto ogni altra cosa in
gran dispetto.

Il popolo, il popolo! Tale la causa che poneva in ebollizione quelle
anime balde! E sul popolo e su tutti gli uomini la Repubblica Sovrana!

Data la gran somma dei vini, il grado della comune intelligenza si era
elevato dal livello normale onde la verbale battaglia, per accresciuta
facilità di eloquio, assunse carattere violento ed assordante.

Nè valsero le preghiere delle signore:

— Non parliamo di politica, per carità!

Nè i miti e sussurrati consigli.

Nulla. Dato un banchetto e dieci romagnoli, la politica è terzo
elemento di equilibrio.

Si criticò, si distrusse, si riedificò con tale rapidità che più non
n'ebbe il Creatore ne' suoi biblici giorni. Ogni Governo fu sottoposto
ad acerbe critiche; ogni uomo che non condividesse l'idea repubblicana
s'ebbe una sua ghirlandetta di ingiurie; ogni atto di repressione,
rievocato, fece accendere di fiero sdegno quei venti petti di eroi
proclamanti per proprio conto, visto che il mondo non si muoveva, la
Rivoluzione Universale.

Non era possibile via diversa. L'evoluzione era una panacea per i
paurosi, una trovata dei capitalisti. Che cosa sarebbe toccato ai vivi?
Niente, meno che niente, le beffe e l'obbrobrio. Le beffe di coloro che
godono ingiustamente e tiranneggiando muovono i destini dei popoli;
l'obbrobrio per la loro povertà d'intelletto che li teneva schiavi
della prima cabaletta annunciata quale mezzo di comune salvazione.

— In verità io vi dico — gridò Ardito Popolini sempre più acceso in
volto — che non c'è via di scampo! Mi opponete: La rivoluzione conduce
a penosi eccessi; la rivoluzione è un male. Sì è un male, ne convengo,
ma un male necessario! Vorrete morire di cancrena anzichè tagliare
l'arto ferito? Vorrete, essendo poveri e macilenti, rinnegare un gran
bene per tema di traversare a nuoto un fiume vorticoso? Qui s'impone un
dilemma, un _aut aut_; non vi sono vie traverse. Ne convenite?

— Si! — risposero a coro venti voci entusiaste.

— Ebbene, noi siamo su la via buona e condurremo il nostro popolo
alla redenzione finale! Ai potenti ridremo in faccia e alla violenza
risponderemo con la violenza!

Un coro di voci osannanti si levò turbinando. Ne l'attimo della
ripresa, da un angolo, umile ed entusiasta, la vocetta della signora
Eulalia esclamò:

— Come suona bene Pantaleone!

Il violino continuava la sua solfa, malinconicamente inascoltato.

— Chi di voi avrebbe paura di salire le barricate domani?

— Nessuno! — gridarono tutti.

— Preparatevi perchè l'ora è vicina. Pertanto, per chiudere
degnatamente questo banchetto, v'invito a gridare con me: Evviva
_Colei_ che ci condurrà a grandi porti, ad alti destini. Evviva la
Rivoluzione!

In altissimo grido tutti risposero:

— Evviva!

La Trimurti si alzò protendendo i calici ricolmi.

Nel frattempo un nuovo personaggio era entrato nella sala. Si notò il
bagliore di una cravatta rossa, il lampeggìo di due occhi fieri, la
baldanza di due baffi diritti.

— Oh Cavalier Mostardo! Bevi! — fece Bortolo, protendendo al nuovo
venuto un calice: ma il Cavaliere passò sdegnoso, ringraziando a pena.
Pareva avesse vinto a Waterloo.

Si avvicinò a Popolini e gli disse a mezza voce:

— Debbo parlarti. — Poi si chinò e rapidamente, a l'orecchio, gli
sussurrò alcune parole. Il Popolini sorrise, impallidì e disse forte:

— Ne sei ben certo?

— Come del sole! — rispose il Cavaliere con ampio gesto.

Si fece assoluto silenzio. I convitati si protesero verso il Popolini
che si era alzato per parlare. Passò un attimo in cui il repubblicano
assaporò la gioia di sentirsi centro di tanta attenzione poi, scandendo
le parole, ad alta voce annunziò:

— Europa è salva!

— Salva! — gridò Gian Battifiore.

— Salva! — ripeteron le sorelle.

— E chi l'ha trovata? — chiese Gian Battifiore, pallidissimo e tremante.

— Io! — esclamò il Cavalier Mostardo. E rimase rigidamente immobile. In
quell'attimo, parve agli astanti più grande di una rupe.

A l'alto silenzio seguì un diluvio di domande, di ringraziamenti, di
promesse; fu allora che il violino del vecchio medico riprese la solfa
sospirosa.

La signora Eulalia, sorridendo a l'unico ammiratore del suo grande
marito, dette l'eterna nota di gaudio:

— Come suona bene Pantaleone!

E Sghìrbazz, appoggiato allo stipite della porta, rispose rudemente,
chinando il capo:

— Sì!



CAPITOLO XII.

Nel quale si vede come Madonna Luna si dichiarasse nemica di Monsignor
Rutilante.


Gli anarchici, i poveri piccoli anarchici, avevano veduto, forse per la
cinquantesima volta, il loro capo varcare la soglia della bolgia oscura
onde, presi dal timore di condividerne la sorte, pensarono un mezzo di
scampo.

Era necessario in primo luogo ingraziarsi le autorità e il caso li
aiutò.

Marcôn e Apulinèr amavano il vino e il vino è un fratello che bene
consiglia.

Un giorno si trovavano a far siesta in una osteria suburbana, allorchè
udirono alle loro spalle parlare sommessamente; si volsero e videro il
Cavalier Mostardo conversare con due figuri di ignota provenienza.

Il primo consiglio fu di non por mente alle parole che giungevan loro,
ma poi Marcôn sobbalzò, si battè una mano su la fronte e disse al
compagno:

— Siamo salvi!

— Perchè? — chiese Apulinèr.

— Lascia fare. Vedrai.

Apulinèr, secondo le buone leggi della compagnia, chinò il capo nè più
domandò.

Marcôn disse forte:

— Cavalier Mostarde io potrei darvi buoni consigli.

— Tu! — rispose rivolgendosi il gigante e piegò il labbro a smorfia
canzonatoria.

— Io!

— Bada ranocchio! — fece il Cavaliere avvicinandosi al tavolo
di Marcôn. — Io son capace di mandare a gambe levate, te e tutta
l'anarchia se intendi burlarmi!

— Voglio esservi utile. Posso darvi un grande consiglio!

Marcôn amava l'enfasi; ma il Cavalier Mostardo lo afferrò a mezzo il
petto e gli gridò:

— Parla e spicciati!

Al comando risoluto, l'anarchico, raumiliandosi, chiese:

— Voi cercate Europa?

— Si.

— Europa è al Castello dei Lecci.

— Quando l'hai veduta?

— La settimana scorsa. Mi trovavo da Êrla per curarle una figlia
ammalata di _ânma cadù_. Vidi Europa passare nel bosco.

— Con chi era?

— Con un giovanotto.

— L'hai riconosciuto?

— No. Però Êrla mi disse che al Castello c'era anche un prete.

— L'hai veduto?

— No.

Passò una sosta in cui il Cavalier Mostardo si strinse la fronte fra le
palme.

— Forse ci siamo! — disse poi. E, a breve ripresa, rivolto a Marcôn:

— Tu verrai con me, scarafaggio. E bada, questo sia detto perchè la
cosa non ti giunga nuova, se hai mentito ti appendo a una vite come una
botta!

— Farete ciò che vi piacerà. Ciò che vi ho rivelato è verità.

— È lontano il Castello dei Lecci?

— Sessanta miglia vecchie. Quattro giorni di cammino. Con un buon
cavallo possiamo arrivarci in un giorno e mezzo.

— Allora andiamo. Mi aspetterai alla stalla di Frigòr.

— Come volete.

Partirono. Il Cavalier Mostardo comunicò la buona novella ai
banchettanti, poi raggiunse Marcôn e si misero in via verso l'antico
castello sorgente fra le montagne selvose.

Alle scosse ritmiche e continue del barroccino, Marcôn si addormentò
mentre il Cavalier Mostardo, gli occhi fissi a l'orizzonte, tracciava
ne l'aria grandi segni quasi sviluppasse mentalmente un suo piano
strategico. Poi scese la notte ed essi continuarono sotto la luna
l'interminabile via.

Il Castello dei Lecci era, su l'alto Apennino, in luogo diruto ed
aspro. A prima vista pareva inaccessibile, perduto lassù fra le sue
rupi che scendevano a picco da grande altezza sul letto di un torrente
sassoso e sconvolto; però, nascosta fra le anfrattuosità, era una
viottola la quale, svolgendosi tortuosamente, guadagnava la cima di
Monfùg. Il Castello dei Lecci apparteneva ai marchesi Barbigi ed era
da lungo tempo disabitato. Ne era affidata la custodia alla vecchia
Êrla che aveva incarico di aprirlo ai rarissimi visitatori; incarico
ch'ella non poteva disimpegnare perchè le gambe non le permettevano di
affrontar le numerose scale a chiocciola e gli sdrucciolevoli pavimenti
dei sotterranei e che, con giovanil grazia, disimpegnava una figlia
sua, la bella Giasmîn che Marcôn aveva curato già dal lento languore
che la consumava, in quelle azzurre solitudini dove non si udiva se
non il muggir delle mandre e le grida che mandano i venti, passando nel
loro viaggio vertiginoso.

Erla e Giasmîn vivevano in una casetta grigia ed era con loro un
anziano: Vuriòl, zio della giovanetta.

Un giorno, su l'aprirsi di aprile, era giunto lassù il marchesino
Fedele Barbigi e aveva dato ordine si apprestassero nel castello alcune
stanze perchè una coppia di giovani sposi avrebbe passato la primavera
fra quelle montagne.

L'opera fu compita con gioia sì da Êrla come da Giasmîn, perchè se
l'una sperò nel guadagno, l'altra fu presa da viva curiosità giovanile
e le riempì l'animo il pensiero di poter osservare da vicino, in
sorridente stupore, ciò che aveva pensato talvolta a traverso qualche
leggenda antica.

Poi una chiara mattina, tanto chiara che il lontano mare tutto si
rivelava a l'orizzonte, pieno di scintillìi come una immensa corazza di
metallo brunito che ripercotesse il sole, il cane da guardia abbaiò con
tale insistenza che Êrla e Giasmîn uscirono e si trovarono di fronte
Europa e Didino.

— Sono loro gli sposi? — chiese sorridendo Erla.

I fuggitivi si guardarono negli occhi e Didino rispose:

— Sì.

— Allora si accomodino. Li aspettavamo. Ho preparato quattro stanze
vicine alla torre di destra; vede? quella là. Sono le migliori e ci si
troveranno bene.

Vedendo poi che gli sposi novelli non rispondevano, pensò che l'oscura
mole del castello incutesse loro timore sicchè soggiunse:

— Oh! non ci sono gli spiriti, è vero Giasmîn? Non ci sono gli spiriti
glielo assicuro. Io ho dormito sola, al tempo de la povera marchesa,
(ero ancora ragazza e ne sono trascorsi degli anni!) ho dormito sola
nella stanza dei quadri. Dicono, è vero, che nella notte si sente
urlare e si vedono fantasmi su tutte le torri, ma non diano ascolto.
Noi non abbiamo veduto niente, ed è un pezzo che si vive quassù.

Del resto — soggiunse — se hanno paura Vuriòl dormirà nel castello.

— Oh! non importa! — fece Didino punto sul vivo.

— Non importa! — sussurrò Europa.

— Allora, Giasmîn, va a prendere le chiavi ed accompagna i signori
nelle loro camere.

Giasmîn ch'era rimasta tutta compresa di ammirazione e di gioia e
s'era ferma a guardare senza batter ciglio, alla chiamata della madre
si riscosse e andò e tornò in un battibaleno recando un gran mazzo di
chiavi rugginose e dismisurate. Si fermò innanzi a Didino o, con un
bel sorriso della bocca rossa e dei piccoli denti perlacei, chiese,
piegando leggermente il capo ad invito:

— Vogliono venire?

— Eccoci — rispose Manso Liturgico, e si avviarono.

Dalla casupola di Êrla alla porta del castello, chiusa ora da enormi
battenti che avevano sostituito le antiche saracinesche, correva una
viottola mal selciata, fra due basse siepi di canne e lunga forse
duecento metri, in salita. Innanzi a l'entrata del castello era una
spianata alla quale faceva corona una duplice fila di cipressi e di
abeti.

Giasmîn corse innanzi. Scalza com'era, pareva uno scoiattolo per
quelle balze; si affrettò ad aprire la gran porta grigia, tempestata di
borchie rugginose come l'armatura di un gigante.

Introdusse la chiave, fece forza piegando la persona, girò gli ordigni
ch'ebbero stridori acuti, sostò guardando se gli sposini giungevano,
poi appoggiando le braccia e il torso, spinse la porta che cigolò e si
dischiuse.

Ritta ora nel gran vano luminoso, con la sua bella corona di capelli
rossi, attese gli adolescenti che salivano l'erta.

Entrarono in un vasto cortile chiuso da un lato da una torre; negli
altri tre lati correva un portico oscuro. Le mura si levavan diritte
e grigie; rosse in alcuni punti, dove l'opera muraria era in mattoni.
Percorsero un androne, chiuso da saracinesche; sbucarono in un
cortiletto meno grande del primo; volsero a destra; salirono una scala
a chiocciola e furono in una terrazzina.

— Dalla parte del mastio non si passa — disse Giasmîn rivolgendosi —
perchè la scala è pericolosa.

Traversarono una grande stanza piena di feritoie e di spiombatoi,
ridiscesero, videro un terzo cortile.

— Ma questo è un laberinto! — esclamò Didino.

— Siamo giunti! — rispose Giasmîn. — Poi, indicando con la mano: — Ecco
la scala — riprese.

Sotto un arco a sesto acuto, adorno di quattro colonnette appaiate, si
intravide la bella scala in marmo, ricca di eleganti balaustrate, della
quale saliron due rami e furono innanzi ad una porta dorata che Giasmîn
dischiuse facilmente.

— Aspettino; apro le finestre — disse Giasmîn entrando. Udiron nel
buio lo stropiccìo dei piccoli piedi nudi, sul pavimento; giunse loro
un senso di umidiccio e un tanfo di aria viziata poi un impeto di
luce invase la sala, rivestita di damasco verde e decorata da begli
affreschi nel soffitto.

— Questa è la sala verde — disse Giasmîn. — Le loro stanze son per di
qua.

E volse a destra.

Didino ed Europa guardavano maravigliati e intimoriti la maestà severa
del luogo e pareva loro li seguissero sguardi scrutatori e minacciosi.

Poi, come eran rimasti immobili, quasi vinti da particolar fascino
suggestivo, Giasmîn li chiamò con allegra voce:

— Si accomodino. Questa è la stanza da pranzo. — Guardarono. Era un
enorme vano con zoccoli di legno alle pareti e decorazioni murali
figuranti scene di caccia. In mezzo era posta una interminabile tavola
di noce alla quale avrebber potuto banchettare, senza trovarsi a
disagio, i diecimila di Senofonte; tutt'intorno numerose poltrone dagli
ampi bracciali, ricoperte di cuoio nerastro, pareva attendessero gli
eroi della gigantomachia. Su la parete di fondo era un trofeo d'armi.

Due ampie finestre a sesto acuto, fiancheggiate da graziose colonnette,
davano luce alla sala che aveva in sè una cupa severità e non
predisponeva certo al buon umore.

— Mio Dio! — esclamò Europa stringendosi al braccio del compagno: —
Questa è una caserma! Io non avrò mai appetito qua dentro.

— Veramente — rispose Didino — è un po' troppo grande per due; ma ci
adatteremo.

— La nonna racconta — soggiunse Giasmîn — e dice cose di verità,
ch'ella ha risaputo da' suoi vecchi antichi, che in questa sala
mangiava il conte Leone co' suoi signori ed erano più di cento; e dice
che i cuochi servivano vitelli interi e pecore e agnelli arrostiti e
che si consumava in un giorno il vino bastante a tutto il paese di San
Benedetto per un mese.

Entrarono poi nella camera nuziale parata di stoffe color rosa,
sbiadite dai tempo, biancheggianti qua e là in contorni indefiniti.
Aveva il soffitto a volta. Le voci vi risuonavano sonore, come fra gli
intercolunnii di una cattedrale.

— E qui dormiranno loro — disse Giasmîn.

Europa chinò il mento al seno e impallidì, come amor che langue; Didino
volse gli occhi in giro.

Un immenso letto di noce si distendeva sotto il trionfo del
baldacchino, sorretto da quattro colonnine nere, a fregi d'oro; un
angiolo, a sommo degli archi, reggeva le cortine che condiscendevano
in lievi ondeggiamenti a velare i guanciali e le grandi coperte di
damasco, ramezzate d'oro.

Vi fu un breve silenzio, poi Giasmîn si avvicinò al letto, alzò le
cortine e disse: — Guardino, come è bello!

E siccome i coniugi non fiatavano, continuò:

— Ci si deve star bene come su le prime erbe: come sul fieno fiorito.
— Affondò una mano fra le coltri. — È soffice che più non potrebbe
esserlo. Su la lana ci si imparadisa, come dicono su, a San Benedetto,
ed ogni sposa da noi — fece volgendosi — vede? ogni sposa da noi porta
il suo sacco di lana perchè i primi sonni siano belli.

La paglia è dura; stride. La notte par d'avere sotto al capo un mondo
di grilli. A volte ci si sveglia di soprassalto che, sa Dio come,
pare qualcuno salga sul letto e lo scuota. L'altra notte ebbi paura
veramente. — E scoppiò in una risatella breve che le passò nella gola
tremando, le illuminò gli occhi e il viso, riempì l'aria di un brivido.

Le finestre della stanza nuziale si aprivano su la breve spianata alla
quale facevan doppia corona gli abeti e i cipressi; oltre i primi colli
e le lunghe vallate, si stendeva nella lontananza l'azzurro cupo della
pianura e la bianca chiarezza del mare.

— Se odono rumori, la notte — riprese Giasmîn — non vi pongano mente.
Su la torre maestra, in una vecchia stanza abbandonata, hanno il nido i
barbagianni e le civette. I barbagianni russano come uomini e soffiano.
Dicono i vecchi che soffian per ispegner la luna che li infastidisce.
Li odo anch'io dal mio letto, ma ormai ci sono abituata.

Europa aveva ascoltato poco rassicurandosi nel cuore. Manso Liturgico
osservava con soverchia attenzione il disegno degli arazzi sfioriti dal
tempo.

Visitarono un'altra stanza più modesta e la cucina; un'ampia cucina
annerita dal fumo, con una cappa di camino che poteva ricordare
l'entrata di qualche remoto inferno.

Passaron quel giorno parlucchiando, guardandosi di rado, turbati
sì dal luogo pauroso come dalla tensione nervosa causata loro dagli
avvenimenti improvvisi.

Manso Liturgico di fronte a l'amor suo era impacciato e goffo quasi
dovesse risolvere un oscuro problema impostogli dal Divin Creatore allo
scopo di martirizzarlo.

Come scese la sera assaggiarono appena la cenetta che Giasmîn aveva
allestito. Europa, perduta quasi in una poltrona da l'ampia spalliera,
di fronte alle finestre dalle quali luceva il pallido cielo, verdognolo
a l'occaso, come un'acqua chiara e profonda, guardava pensosamente
lo svettar lento, ritmico degli abeti nel loro breve semicerchio.
Didino, con gli occhi bassi, come immerso in una grave meditazione su
l'eternità, tamburinò con le dita, su la tavola, un tempo di marcia.

Si accendevano i primi sorrisi di stelle. Vespero già era alto a
l'orizzonte, bianco e lucente nella dorata diafanità de l'ultimo
crepuscolo.

Le lontananze si perdevano sotto l'imminente dominio della notte.
Ancora qualche punto bianco, qualche gemmea cosa ne l'infinito; un
bagliore di sogno lontano.

Disse Europa non volgendo il capo, quasi parlasse agli abeti:

— Io non ho sonno!

Mormorò Manso Liturgico di rimando:

— Neanch'io.

Poi si tacquero di nuovo. Così si sarebbero taciuti chi sa per
quant'altro tempo ancora se una porticina nel fondo non avesse cigolato
d'improvviso e Giasmîn non fosse apparsa.

Gli adolescenti si volsero di scatto.

— Ah! sei tu! — esclamò Europa traendo un sospiro.

— Son io — rispose Giasmîn. — Ma chi poteva essere? Nel castello siamo
soli.

— Non so.

Giasmîn si avanzò lentamente. Giunta vicino a Europa le chiese:

— Ha paura?

La giovinetta si alzò un poco su la poltrona e rispose:

— No.

Passò un'altra pausa.

— Io ho sbrigato le faccende della cucina — riprese Giasmîn.

— Bene — rispose Europa.

— Posso andare?

— Fa come credi.

— Come desidera lei, signorina. Vuole dorma nel castello?

— Ma... tua madre rimane sola.

— Oh! è abituata e non ha paura.

L'ultima parola scosse Manso Liturgico che fino allora era rimasto
assorto. Ecco, mostrarsi pauroso di fronte ad una giovanetta non gli
conveniva, sicchè disse:

— No no, possiamo rimaner soli. Vai, vai nel tuo letto e dormi bene.

— Allora... — fece Giasmîn sorridendo.

— Buona sera — mormorarono i fuggitivi.

— Buona sera — rispose la giovanetta da' bei capelli ardenti. E si
allontanò guardando gli ospiti ch'eran rimasti muti nelle loro pose
d'abbandono.

Quando fu su l'uscio Europa gridò:

— Giasmîn, Giasmîn?

— Eccomi.

Breve pausa in cui il pensiero parve indugiare.

— Chiudi bene la porta.

— Non dubiti. Poi chi vuole venga quassù?

— Le precauzioni non sono mai troppe.

— Ha ragione. Chiuderò a doppia mandata.

— Ma come? Ci chiudi nel castello? — chiese Manso Liturgico scattando.

— Eh! — rispose la giovanetta alzando leggermente le spalle.

— E se vogliamo uscire?

Giasmîn pensò un poco, poi disse.

— Senta, la chiave la passerò sotto la soglia e potranno riprenderla.

— Va bene non te ne dimenticare.

— No signore.

— Allora... buonasera.

— Buonasera.

E Giasmîn si avviò per la seconda volta; ma non ebbe fatto quattro
passi che Europa la richiamò.

— Senti Giasmîn, non ci dai un lume?

— Oh perdoni la sbadataggine! — E soggiunse sorridendo: — Glie lo porto
subito... chè il lume è mezza compagnia.

Poco dopo ricomparve recando una vecchia lucerna della quale aveva
acceso i tre becchi. La giovanetta avea sprazzi di luce sul mento, su
gli zigomi, alla sommità delle ciglia e la dolcezza forte del suo viso,
per i contrasti, risaltò nettamente quasi che un'interna luminosità
l'animasse.

Dietro Giasmîn si ridestaron giganteggiando, ombre enormi che si
abbinavano, si sovrapponevano, disparivano animate da una vita
inafferabile.

Manso Liturgico guardò con le sopracciglia inarcate, alzando a pena gli
occhi.

— Non avevi un lume a petrolio? — chiese a Giasmîn poichè gli fu vicina.

— No signore. Il castello è disabitato da molti anni. Tutto ciò che v'è
rimasto è vecchio.

— Va bene.

Giasmîn posò la lucerna su la gran tavola di noce, indugiò un poco per
alzare i lucignoli poi disse rivolgendosi ad Europa:

— Le occorre altro?

— No, grazie.

— Buona sera.

— Buona sera.

Udirono chiudersi la porta della sala; il lieve scalpiccio della
giovanetta si perse. Udirono ancora il cigolar delle vecchie ferramenta
che chiudevano la porta d'ingresso del castello.

Altro silenzio più grave, più lungo del primo; poi, giù per la costa,
la voce squillante di Giasmîn cantò l'endecassilabo dei pastori, la
semplice invocazione:

«_Amante! Amante! Amore amore amore!_».

Si perse. Gli alberi neri attesero immobilmente la sorella che sorge
dai mari, per il suo viaggio remoto.

Europa e Didino si guardarono negli occhi un attimo. Madre Solitudine
li aveva avvertiti ch'essi erano liberi come il vento; che, nel grande
castello dei Lecci, erano arbitri e padroni poichè due soli cuori, ne
l'ampio giro delle mura turrite, battevano. Madre Solitudine li incitò,
senonchè il fuggevole sguardo non ebbe risultato positivo.

Europa si volse un poco su l'ampia poltrona; Didino sentì un fremito
trascorrergli le reni sottilmente.

Il sonno pertanto esulava dai loro sensi turbati.

Dalla finestra aperta giunse il trillare dei grilli mariani, dei
grilli che vanno fra stelo e stelo, sotto i fiori della menta, col
loro timpano d'argento a far la serenata alle stelle; giunse l'aroma
dei fieni maggenghi e delle resine dense. Sciami di falene entrarono
attratte dalla luce e fecero ghirlanda alle tre fiammelle, come un
nimbo primaverile.

Europa fissò l'ardente luminosità di Sirio ch'era apparso sopra gli
abeti.

E Didino pensò: — Che cosa aspettiamo? Perchè non dice ella una parola?
Il suo silenzio è causato forse dal pentimento. Certo, ella è pentita
d'aver abbandonata la famiglia, d'esser venuta con me ed ora se ne
duole e non mi guarda e non mi parla. Ma io non l'ho ingannata; quando
vorrà ci sposeremo. Io anche ho avuto per lei il rispetto che si ha per
una santa e, da quando siamo soli, non le ho chiesto pure l'ombra di un
bacio. Dovrebbe amarmi di più; dovrebbe apprezzare il mio sacrificio e
la mia onestà!

Così si doleva in cuor suo il giovinetto amatore, mentre Europa fissava
con gli occhi larghi ed oscuri l'ardente luminosità di Sirio.

E pensava a sua volta: — Che cosa aspettiamo? Perchè non mi parla? Non
vorrà, spero, ch'io sia la prima a rivolgergli la parola, e non potremo
passare tutta la notte così! Almeno sapesse dirmi le cose che mi ha
scritto! Mi piacerebbe sentirmele ripetere all'orecchio, sussurate
dalla sua voce. Ma perchè tace e rimane tanto lontano da me? Mi farebbe
compagnia... ma così!...

E il silenzio continuò ancora finchè Europa lo ruppe con una domanda
sussurata a pena:

— Che ore sono?

Manso Liturgico alzò gli occhi, sorrise, estrasse l'orologio e lo
mostrò senza dir parola alla compagna:

— Le dieci? — chiese Europa debolmente.

— Si, sono le dieci — rispose Didino.

— Com'è tardi! — riprese Europa.

— Infatti... è tardi!

— Quand'ero a casa, dormivo già a quest'ora.

— Anch'io!

— Non hai sonno? Io sono un poco stanca! — disse Europa chinando il
capo con gli occhi molli di dolcezza.

— Lo credo, povera piccola! — rispose Didino. — Il viaggio è stato
lungo e faticoso, non si arrivava mai! Anche la notte scorsa non hai
riposato! Vai a dormire, io rimarrò qui, su la poltrona e ti aspetterò.

Europa lo guardò con un senso di maraviglia nuova:

— Su la poltrona?

— Si. Ci si sta bene. — E aggiunse dopo una sosta. — Non preoccuparti
per me; io dormo ovunque.

La giovanetta ebbe timore che il compagno suo fosse per davvero più
santo di padre Origene. Chinò il capo sul palmo della mano e si tacque.

Il sentimento della sua femminilità offesa, forse inconsciamente,
da l'inverosimile amante, si ribellava ora dandole un senso lieve di
amarezza e di scoramento. Ma come non intendere certe cose? Era egli
forse più semplice e più ingenuo di un poppante? E pure pareva fosse
chiara l'anima sua e aperta come un sillabario! E pure, per certi
sottintesi giocondamente piacevoli, pareva... Ecco, non le era dato
tacere perchè le si imponeva un dilemma: o Didino voleva prendersi
giuoco di lei, e in tal caso sarebbe stato imperdonabilmente cattivo:
o... — Non compì il pensiero chè il pudore e lo sdegno le fecer le
guance vermiglie.

Manso Liturgico frattanto, pensava che Europa gli avrebbe serbato
senz'altro gratitudine immensa per quella sua onesta condotta da buon
figliuolo.

Ma la giovanetta si levò ad un tratto, quasi scattando, e allungò
la mano verso il lume, poi si trattenne e, rivolta a Didino, chiese
dolcemente:

— Rimani al buio?

Didino parve non avesse inteso:

— Perchè?

— Io vado a riposare. Giasmîn non ci ha lasciato che un lume.

— È vero!

E Didino non pensò alla convinzione di Giasmîn, che una lucerna fosse
sufficiente cioè a illuminare un amore, si che esclamò indispettito:

— Che asina!

— Ma la piccola non supponeva... — ribattè calorosamente Europa: poi si
arrestò. Voleva dire: Non supponeva che tu fossi timido e pauroso!

Manso Liturgico si tacque per qualche secondo, combattuto fra varii
pensieri, poi prese una risoluzione eroica e disse alla compagna che
aspettava:

— Prendi il lume con te.

Europa indugiò un poco come incerta sul da farsi, poi su ogni
sentimento la vinse il dispetto e si avviò verso la porta a sagome
dorate che immetteva nella stanza nuziale. Lasciò l'uscio socchiuso e
disparve.

Manso Liturgico rimase ne l'oscurità; vide però, da uno spiraglio,
un lieve chiarore giallastro, verso il quale gli occhi suoi stettero
immobilmente fissi. Gli accadde allora di pensare alle squisite
particolarità de l'abbigliamento notturno, alle dolcezze intravviste,
alle cose imminenti che dànno un senso di penosa aspettazione. Avrebbe
voluto avvicinarsi alla porta, furtivamente, senza ch'ella nulla
intuisse del suo spiare, ma non si attentò. Non era impresa facile
e piana quella di avventurarsi al buio nella grande sala. Chiuse gli
occhi, volle dormire e il sonno gli fu nemico.

Passò così forse mezz'ora e di tanto in tanto sentì un brivido
aggricciargli i capelli, alla sommità della nuca, per qualche fruscìo
lungo, indeterminato che passava ne l'oscurità, che si perdeva nella
notte, lontano.

Ciò che gli avevan raccontato Êrla e Giasmîn, le storie degli
spiriti e dei fantasmi, ritornavano ora al suo pensiero con impensate
particolarità e siccome egli, pur essendo religiosissimo, aveva sempre
creduto che qualcosa di vero ci fosse, nei racconti delle visioni di
spavento, non si trovava perfettamente sicuro, temendo in cuor suo
di vedersi apparire innanzi l'ombra di qualche antenato del marchese
Barbigi.

Avrebbe dovuto per davvero passare tutta la notte così senza poter
sperare in un attimo di sosta?

Qualche tempo trascorse in cui parve stabilirsi una relativa calma; ma
poi, d'improviso, i battiti del suo cuore si accrebbero intensamente
poichè udì ne l'ombra, non seppe bene da qual punto giungesse, un
soffio, un vero soffio umano, uguale e ritmico come nella gravità del
sonno.

Si rizzò un poco sul torso, cercò acuire l'udito e si persuase che non
si era ingannato; la sua non era illusione, il soffio ignoto e pauroso
continuava chiarissimo e pareva si avvicinasse.

Avrebbe voluto fuggire, ma dove? E se Europa udiva? Come avrebbe
risposto alle sue domande di curiosità? Però la sofferenza morale si
acuì d'attimo in attimo sì che il barlume di ragione che ancora lo
reggeva dileguò ad un tratto allorchè il soffio si convertì in mugolio
roco. Più non ci vide, si rizzò sotto il poderoso scatto di un impulso
violento, avea gli occhi sbarrati, i capelli irti e gridò per tre volte
consecutive, gridò con voce forte e innaturale:

— Chi è? Chi è? Chi è?

Il mugolio si tacque come d'incanto, ma dalla contigua stanza nuziale
giunse la voce di Europa, voce alta e turbata:

— Didino? Didino?

Egli si ricompose subitamente:

— Che vuoi? — rispose.

— Perchè urli?

— Sognavo!

Vi fu una pausa; poi Europa riprese:

— Non sognar più così, perchè mi fai paura.

Il silenzio ritornò; ritornò la calma apparente.

— Potessi addormentarmi almeno! — pensò Manso Liturgico; ma in tale
benefico rimedio non v'era da porre speranza.

Vide svettare le cime degli abeti, nere sul cupo cielo e giunse ad
avvolgerlo la brezza dei mari che precorre l'alba e l'annuncia.

Poi l'inenarrabile martirio ricominciò. Riudì il soffio ritmico
passar nella notte con reiterata ed inesausta lena; poi al primo se ne
aggiunse un secondo, un terzo, un quarto quasichè fosse su la spianata
del castello un esercito dormiente.

Più non sapeva ormai a qual santo votarsi: tentò la preghiera, e gli
morì su le labbra; si appellò alle sue energie, ma non posero argine
sufficiente al terrore.

Ad un tratto gli parve scorgere fra le rame protese di un abete,
qualcosa di orribilmente rosso, come uno spaventoso fantasma sbucato
da l'ombra e irradiante d'improvviso tutte le cose. I mugolii
crebbero d'intensità, si moltiplicarono, quasi a festeggiar l'ignota
apparizione.

Egli più non vide, più non resse. Spinse indietro la pesante poltrona
che ruzzolò al suolo con subito fracassìo; girò un lato della tavola;
corse verso la stanza nuziale e, allorchè fu per entrare, la porta si
aprì. Europa apparve, dolcissima nel suo costume notturno.

Poi la coppia paurosamente felice dileguò. Frattanto Madonna Luna,
salutata dai soffi dei barbagianni, saliva sorridendo nei cieli. Così
ciò che la solitudine non aveva allacciato, la paura costrinse. E
l'amore piacevolmente fu accolto fra le vecchie mura, come si conviene
a persona dabbene.

Qualche giorno dopo, il canonico Bartoletti, inviato speciale di
Monsignor Rutilante, giunse a fatti compiuti.

In breve tempo Monsignor Rutilante, messo su le peste dal marchese
Barbigi, aveva scoperto la dimora dei fuggitivi, ma non in guisa sì
fulminea da impedire che l'impresa fosse consumata.

Ciò non pertanto, l'animo suo fiero e settario non si arrese. Se non
era possibile, secondo la norma di onestà comunemente osservata, far
ritornare i giovani ciascuno al loro nido e non parlarne più; se non
era possibile, data l'accanita campagna dei repubblicani, stendere un
velo su l'atto inconsulto che un figlio della Chiesa aveva compiuto per
impulso di leggerezza, ben altre vie si presentavano per trionfare su
la tracotante arroganza de' suoi fieri nemici e per far sì che in nulla
l'integrità di un clericale potesse essere violata.

Scrisse al canonico Bartoletti, uomo di lettere ecclesiastiche, e lo
pregò di recarsi al Castello dei Lecci ed ivi intrapprendere con la sua
profonda dottrina, la non difficile conversione di Europa Battifiore.

Era divisamento de l'astuto vescovo da l'ampio viso folto di peli, di
far sì che Europa, pentita della sua non bella condotta, si ritirasse
in convento. In tal guisa sarebbero rimaste a lui le vie piane; per
Manso Liturgico, poco v'era da preoccuparsi.

Il canonico Bartoletti compì la missione con zelo veramente cattolico.
Primavera e amore gli mossero aspra guerra; ma egli seppe trionfare
anche su gli eterni nemici degli uomini neri.

Con la paura, con macabre visioni, con terribili minaccie pose tale
turbamento ne l'animo di Europa da farla piegare a' suoi consigli.

Scrisse allora a Monsignor Rutilante chiedendogli in quale convento
avesse dovuto far ritirare la convertita e domandando ragguagli circa
la condotta da tenersi con Manso Liturgico che soffriva di orribili
malinconie.

Ora aspettava la risposta del solenne prete e frattanto riposava
onestamente sugli allori.



CAPITOLO XIII.

Nel quale si assiste ad un trionfale ritorno.


Cavalcavano su per l'erta.

Il Cavalier Mostardo aveva una muletta grigia, bestia di buona volontà
e di miti costumi; Marcôn, un vecchio asinello nero, cocciuto e
caparbio che non volea saperne di essere guidato e andava lungo gli
scrimoli dei burroni.

A un cascinale che si trovava ai piedi di Monfùg, i due viaggiatori
avevan lasciato il loro veicolo, e per non intrapprendere la lunga
salita a piedi, avevan facilmente noleggiato le due cavalcature atte a
quei passi rupestri di percorso difficile.

Rompeva l'aurora a l'oriente.

Marcôn pencolava su la primordiale sella, della quale avevano armato
la sua antica cavalcatura; pencolava sì per l'inusitata ginnastica,
sì per il sonno e la stanchezza. Il Cavalier Mostardo, con le gambe
larghe e i piedi infitti nelle staffe fino al tallone, con la grande
cravatta rossa svolazzante al vento, il cappello a enormi tese, spinto
su la nuca; ritto e scrutante lo spazio, alto più della metà del suo
umile seguace anarchico, dominava e il sonno e la stanchezza. Egli
pregustava già la gioia del trionfo. Ciò che nessuno aveva potuto, ciò
ch'era sfuggito alla vigilanza oculata dei più, non isfuggiva alla sua
infallibile percezione, al suo tatto impareggiabile, alla sua furberia
ed al suo ingegno. V'era da gloriarsene! E se ne gloriava, accendendosi
tutto di sacro amor personale. I repubblicani avrebbero provato ancora
una volta come non si potesse fare a meno del Cavalier Mostardo. Nei
frangenti più difficili, egli era colui che trovava sempre il bandolo
della matassa e disponeva le cose in guisa che il partito repubblicano
ne uscisse con onore. Non poteva dirsi egli forse, il portabandiera
del suo partito? Un uomo simile non avevano nè i socialisti, nè i
monarchici, nè i clericali. In tutta la rosea città non si trovava un
secondo _Cavaliere_ (egli amava chiamarsi così, quasi per antonomasia)
e gli amici suoi dovevano stimare alta fortuna l'averlo compagno di
fede.

Non avevano forse i socialisti tentato corromperlo? E i monarchici e i
clericali non gli avevano reiteratamente avanzato lucrosissime proposte
pur ch'egli volesse entrare nelle loro file? Ma il Cavalier Mostardo
era incorruttibile quale fiero repubblicano convinto sorto da stirpe
repubblicana: puro sangue.

Ed esaltandosi così nel pensiero, mentre con una mano reggeva le
briglie, con l'altra andava lisciandosi i lunghi e ruvidi mustacchi di
corsaro nei quali riponeva ogni estetica ambizione di uomo piacente.

E piacente era in quella sua figura bizzarra, adorna con indigena
eleganza romagnola di difficile riscontro.

Aveva i calzoni, a piccoli scacchi bianchi e neri, attillati alle gambe
e non tanto lunghi da non lasciar intravvedere le calze rosse prima
che gli scarponcelli verdi e gialli rivestissero il piede. Portava
una giacchettina sdegnata che gli scendeva a pena oltre la vita, quasi
timorosamente pudica, e sì aderente al torso, da farlo risaltare nelle
sue linee classiche di virile possanza. Un panciotto a maglia, un'ampia
cravatta a nastro, rossa come un cocomero settembrino e un cappello
floscio, rotondo, di feltro grigio dalle incommensurabili tese.

Tale era l'avventuroso Cavaliere, figlio di Romagna, la bella.

Per lungo tempo avanzarono muti su l'aspro sentiero mentre l'aurora
cedeva, sotto il bacio del mattino, i suoi talami chiari. Su le cime,
le ontanete e le case disperse; le folte selve e le fonti, sorgevano
da l'ombra a mano a mano, appalesandosi sotto la grande fiamma bionda.
Nelle valli passava un chiarore velato, come di crepuscolo permanente.

Il Cavalier Mostarde si rivolse ad un tratto a Marcôn e gli chiese con
voce sonora:

— Dì, ranocchio, siamo lontani ancora?

— Ora viene la strada difficile — rispose Marcôn che aprì gli occhi di
soprassalto a l'inattesa chiamata.

— Ti domando se il Castello dei Lecci è ancora molto lontano. E non
dormire, re delle oche!

— Ah! — fece Marcôn in atto d'intesa. — Precisamente non ve lo saprei
dire perchè l'ultima volta che ci son venuto ho preso le scorciatoie.
Però mi pare vi debba essere una buon'ora di cammino.

— Come, _mi pare_? Sbaglieremmo strada forse?

— No no! Non c'è che questa strada mulattiera che va al castello.

— E chi te l'ha detto?

— Lo so!

— E da chi lo sai?

— Dall'esperienza. Fidatevi Cavaliere; io vi condurrò dove vi ho
promesso.

— Guarda, se mi hai fatto fare un viaggio inutile, ti prometto su la
mia parola che ti sposo al ramo di un castagno. Bada!

— Ma vi assicuro... perchè vorreste?...

— Bando ai discorsi; poche chiacchiere e carte in tavola. Io non voglio
perdere tempo. Rispondimi a tono. È la via buona questa?

Marcôn si alzò alquanto su la cavalcatura, spinse gli occhi intorno,
cercò orientarsi e, dopo una sosta, rispose:

— Sì.

Il Cavalier Mostardo squadrò il profeta dal capo alle piante con
un'occhiataccia minacciosa, stette pensoso un attimo, poi esclamò:

— E sta bene. Allora avanti!

La muletta del Cavalier Mostardo riprese facilmente l'erta, a un
piccolo grido di avvio; ma non fu così di Fiùt, il vecchio asino che
cavalcava Marcôn.

Poichè Fiùt aveva trovato da brucare l'erba nuova, non voleva lasciarsi
persuadere dalle grida del provvisorio padrone ch'era suo interesse
particolare porsi in cammino, onde cadeva a vuoto ogni percossa e
ogni incitamento. Anzi di tanto in tanto alzava il muso e le froge
in ridevole smorfia di scherno. Con un bastoncello esilissimo,
Marcôn tentava il dorso della coriacea creatura e per l'ira sorda che
l'accendeva contro tale caparbietà incrollabile gridava a gola aperta,
ansimando:

— _Iiüh_.... vecchio imbecille! Cammina! Ti leverò il pelo! _Arriiii_...

Poi, come la bestia indietreggiava nel sentiero, largo a pena qualche
metro, e sotto si apriva a picco un precipizio profondo, Marcôn preso
da spavento spegneva la voce e gli epiteti in subita dolcezza fraterna:

— _Sssst_... ferma, ferma, ferma!

Così in vario succedersi di mitezze e di vituperii la lotta continuava
da qualche minuto e il profeta ballonzolava in metro poco piacevole su
l'orlo del precipizio.

Il Cavalier Mostardo, distante qualche passo, godeva l'inaspettata
scena la quale era piacevolissimo diversivo alla monotonia del viaggio
e rideva incitando Marcôn:

— Ma picchia sodo!

— Non vedete? Non giova! Ha la pelle d'acciaio, ci vorrebbe un
mazzapicchio perchè volgesse gli occhi!

— Scommetti ch'io lo faccio camminare?

— No, per carità, Cavaliere! Questa bestiaccia mi scivola e... chi si è
visto, si è visto!

Vi fu un punto in cui le zampe posteriori di Fiùt scivolarono per
qualche centimetro lungo il ciglione della gran forra, sì che Marcôn
sentì l'improvviso disequilibrio verso l'abisso. Non mandò un grido,
ma curvatosi innanzi, si abbrancò con quanta forza aveva, al collo de
l'indomabile animale, abbrividendo. Il Cavalier Mostardo si mosse a
pietà.

Rifece la strada, si pose dietro la cavalcatura di Marcôn e, un po'
con le grida, un po' con le busse che fioccarono solenni e persuasive,
riuscì a smuovere Fiùt il quale s'era fitto in capo forse, di essere
una immobile pianta.

Ma con l'originalità macabra dei ciuchi, i quali sdegnano seguire la
comune via, il vecchio Fiùt da le molteplici piaghe, mentre per lo
innanzi si era incaponito di non muover passo, preso ora da subitanea
bizzarria (e il maggio aveva sua parte in tale espansione) scuotendo il
muso in guisa grottesca e sferrando a l'aria coppie di calci, si dette
a galoppare su per l'erta riducendo il misero cavaliere alla funzione
di un pendolo pericolante.

L'anarchico dalla gran capelliera profetica, a ogni impeto del duro
galoppo era spinto in grandi rimbalzi disuguali onde vedendosi fra
le due terribili probabilità d'esser lanciato su la roccia, o di
precipitare nella forra, implorava gridando:

— Ferma ferma!... Ferma ferma!...

Questa volta il Cavalier Mostardo non rise; non rise perchè la sua
muletta, ingagliardita alla vista del compagno ribelle, gli si pose
alle calcagna galoppando di conserva, senza por mente al freno.

Il Cavalier Mostardo perdeva così la sua compostezza e la bella
serenità indivisibile compagna.

Poi, come volle la gioconda sorte, le due bestie infrenarono la corsa.

— L'abbiamo scampata bella! — esclamò Marcôn allorchè si sentì bene al
sicuro.

Il Cavalier Mostardo gli passò innanzi senza nulla dire. Egli guardava
con occhi feroci la muletta bizzarra e, per la prima volta in vita sua,
si astenne dal far intendere le sue ragioni per la via più spiccia, sì
come usava allorquando l'ira lo coglieva

S'inerpicavano ora su per una ripidissima viottola tutta ingombra di
sassi e di scheggie trascinatevi da l'acqua, al tempo delle pioggie
torrenziali. Le bestie trovando falsi appoggi, a volte, scivolavano per
breve tratto incurvandosi.

Il cuore di Marcôn era in grande apprensione.

Il Cavalier Mostardo chiese con voce cupa:

— Ce n'è molta ancora di questa maledetta strada?

— Non lo so.

— Non lo sai?

— No.

— E dove andiamo allora?

— Al Castello dei Lecci.

Ora il primo sole, languidamente roggio, stendeva la sua carezza su
quelle terre, verdi di folte vegetazioni e univa nella luce blanda i
gruppi d'alberi, fondendoli in masse d'oro fantastiche, coronanti i
culmini e le valli.

Sbucarono i viaggiatori, dopo lungo andare silenzioso, in un prato che
si stendeva in dolce declivio. Ivi pascolava un gregge e una giovanetta
lo seguiva, guidandolo con un suo lungo vinciglio.

Gridò il Cavalier Mostardo poichè scorse l'abitatrice dei culmini:

— Ehi ragazza!

Quella si volse e rimase immobile guardando.

— Non odi? — riprese il Cavaliere facendo grandi cenni col braccio
levato. — Non odi? ragazza?

La giovanetta si accostò:

— Che volete? — chiese.

— Sai dirmi, per favore, da che parte rimane il Castello dei Lecci?

— Il Castello dei Lecci? — fece la pastorella con voce maravigliata —
ma io non lo conosco!

— Come non è qua su? — chiese il Cavalier Mostardo arrossendo d'ira
improvvisa.

— Ch'io mi sappia, no!

— Buonanotte! — mormorò Marcôn e abbassò gli occhi sotto lo sguardo
terribile del Cavaliere.

Però, come non volle darsi per vinto e conoscendo d'altra parte la
natura della gente del luogo chiese:

— Ma dove abita Êrla, la vecchia?

— Da quella parte — rispose tendendo un braccio la pastorella. — A Ca'
Nigra.

— E il castello dei marchesi Barbigi non è quassù?

— Sì. Ca' Nigra è dei marchesi Barbigi.

— L'avevo detto io! — esclamò il ben chiomato profeta esultando.

Con miglior lena che mai, dopo qualche ricalcitrare di Fiùt, ripresero
l'erta. Il primo sole li avvolse. Disuguali e barocchi nelle loro
sagome originalmente eccezionali, proseguirono l'un dietro l'altro.

Marcôn con la _galosa_ grigia che portava, non già foggiata in
breve copricapo rotondo, ma diritta, a pane di zucchero, come una
qualche mitria orientale, e col pastrano di stoffa violetta che
indossava sempre, d'estate e d'inverno; il Cavalier Mostarde, fiero
ne l'arroganza degli enormi mustacchi, degli occhi imperiosi, delle
folte ciglia sotto il cappello da l'ala vasta come un ippodromo. L'uno
contemplava l'altro; poteva dirsi tutta l'umanità in quei due estremi:
il pensiero preceduto dalla forza e scortato da l'eterna gaiezza di
Padre Sole. E il sole indorò i loro contorni, fece riscintillare i
bottoni argentei del lungo pastrano violetto di Marcôn, gettò le loro
ombre sul prato: due sgorbi che si inseguivano passando, inconsistenti,
su gli steli delle lupinelle e de l'erba spagna. Troneggiava il
Cavaliere, innanzi, col suo bel naso arcuato e la vigorìa delle spalle
quadrate; Marcôn seguiva, curvo su la sua curva bestia, con gli occhi
fissi nello stupore del sonno e le braccia abbandonate lungo il corpo
per istanchezza fisica e per fissa intensità di meditazione.

— Come si respira bene — disse il Cavalier Mostardo.

— Sì — rispose Marcôn, ma distrattamente. Egli pensava alla profezia
che gli aveva fatta un vecchio indovino dei monti, Gièvul, qualche
anno innanzi, una sera in una campagna abbandonata, mentre andavano
alla ventura. Gli aveva detto Gièvul, ch'era molto più sapiente di lui
perchè più tempo aveva corso il mondo e portava gli occhiali; gli aveva
detto con voce fatidica: — Io vedo che tu avrai fortuna nell'avvenire.
Sei nato sotto la stella diana! — E tale profezia, da quella sera
lontana, era nella sua mente continuo assillo e speranza luminosa.
Salirono, salirono come alla conquista del sole, verso l'inarrivabile
cima e la luce si fece più intensa e le cose intorno più chiare.

Alla fine sbucarono dalla terra, d'improvviso, quattro torri monche e
un giro di mura merlate.

Il Cavaliere si volse a guardare Marcôn; questi scosse il capo
affermativamente.

Scendeva nel contempo Giasmîn, con due anfore di rame su le spalle;
scendeva alla fonte. Quando fu distante pochi passi, il Cavalier
Mostarde, ch'era in vena di galanteria e sempre lo era allorchè un
visuccio adorno solleticava il suo amor proprio di uomo piacente, disse
rivolto alla giovanetta e cercò nel dire il suo sorriso più fiorito:

— Fronte-di-sole è dei marchesi Barbigi quella rocca?

— Sì, è dei marchesi Barbigi — rispose Giasmîn sorridendo. E riprese
dopo una pausa:

— Ma chi cercate?

— Questo è affare che non riguarda Bocca-di-corallo! — rispose il
Cavaliere, inchinandosi per accarezzare Giasmîn, che si scostò. Poi
l'uomo rosso piantò i tacchi nel ventre della muletta la quale, o
offesa dallo sgarbo inaspettato, o presa da improvvisa gagliardìa per
i primaverili sentori, si lanciò, non l'avesse mai fatto, in corsa
sfrenata. Il Cavaliere per non dimostrar timore, curvò la schiena,
strinse i ginocchi e si adattò momentaneamente alla pericolosa parte
di cavallerizzo. Ma il peggio si fu che Fiùt, la nervosa creatura
dai subiti entusiasmi, visto l'esempio e animato dalla comparsa
di un'asinella grigia, innanzi alla casa di Vuriòl, si dette a
ragliare con le sue trombe poderose dal suono simile a quello degli
ottoni guerreschi, e a falcate, a sgambetti, a raggiri, soffiando e
sternutendo, ritta la coda, nero flabello di vittoria, sorpassò la
muletta, non sentendo ormai nè grida, nè busse; orgoglioso e caparbio,
indomito e selvaggio ne l'impeto del suo amore.

Marcôn chiuse gli occhi, arroncigliò le orecchie del barbaro nemico,
si resse più che potè; ma ad un tratto si sentì lanciato ne l'aria e
cadde pesantemente innanzi alla casa di Vuriòl, mentre Fiùt rincorreva
a disperazione la fuggitiva compagna.

L'entrata di Marcôn, nel dominio del grigio castello, fu accolta da
una risata argentina perchè Giasmîn ch'era ritornata, spinta dalla
curiosità, aveva assistito alla scena grottesca.

Giunse poi il Cavalier Mostardo, di trotto serrato, ballonzolando
rigidamente. La muletta si fermò contro un pagliaio e il Cavaliere, non
senza fatica, scese di sella.

A l'inusitata irruzione, Êrla e Vuriòl uscirono su l'aia e guardarono,
sorridendo del riso bonario dei contadini, il Cavalier Mostardo che, ai
loro occhi, si rivelò subito un'autorità cittadina.

Il Cavaliere si rivolse a Vuriòl e gli disse:

— Vecchio, conducimi al castello. Europa Battifiore e Manso Liturgico
sono qui, non è vero?

— Io non lo so — rispose il villano che s'era tolta la _galosa_ e la
rigirava fra le mani callose.

— Nel castello ci sono gli sposi — interloquì Giasmîn — ma noi non
sappiamo come si chiamino.

— C'è anche un prete — soggiunse Êrla.

— Un prete! — esclamò il Cavaliere. — E per che fare?

— Sta sempre coi signorini — riprese Giasmîn — e parlano di religione.
L'altro giorno anzi, la signorina mi confessò che voleva ritirarsi in
convento.

— Ah canaglia! — gridò il Cavalier Mostardo scattando: — Canaglia
matricolata!

Giasmîn ed Êrla si guardarono negli occhi stupefacendo.

Il Cavalier Mostardo riprese, rivolto a Giasmîn:

— Sono in castello i signorini a quest'ora?

— Sì, li ho lasciati poco fa. Facevano colazione.

— E il prete?

— Il prete credo dorma ancora!

— Lo sveglierò io! — disse il Cavaliere; poi, seguito da Marcôn e da
Giasmîn, si avviò a gran passi lungo la via che conduceva alla spianata
del castello.

Trovaron i grandi battenti socchiusi. Giasmîn servì di guida ai nuovi
arrivati.

Giunti innanzi ad una porta, la giovanetta si soffermò e disse a bassa
voce:

— Sono qui.

— Lascia ch'io entri primo — rispose il Cavaliere.

Pose la mano su la maniglia, girò, aprì l'uscio di scatto, fece due
passi nella sala e si fermò senza profferire parola.

Un lungo — Oh!.. — di stupore accolse l'inaspettata comparsa. Europa
e Didino erano seduti di fronte, vestiti di nero, palliducci un poco
nelle loro gramaglie.

— Bravi! bravi! — esclamò il Cavalier Mostardo incrociando le braccia
e scuotendo leggermente il capo a destra e a sinistra. — Bravi davvero!
L'avevate trovato il vostro nido, perbacco! E non era brutto. Ma ora —
soggiunse cambiando tono — presto, fate le vostre valigie, e via!

Europa e Didino si guardaron negli occhi e non si mossero.

— Non udite? — riprese il Cavaliere accigliandosi — io non ischerzo
bambini e il tempo per me è prezioso. Vi consiglio quindi di far più
presto che mai! — Europa si alzò prima, Didino la seguì; poi, preso da
un dubbio, si fermò rivolto alla compagna e disse:

— Ma... e don Bartoletti!

— Non pensarci ragazzo! — esclamò il Cavaliere. — Don Bartoletti sono
io! E ti prego per la terza volta di far presto!

Siccome il tono non ammetteva repliche, Didino ed Europa si avviarono
relativamente alle loro camere.

Dopo non molto i fuggitivi ricomparvero in pieno assetto di viaggio.

— Così va bene! — esclamò il Cavaliere vedendoli giungere — Ed ora...

Nel frattempo una porta laterale si dischiuse e trafelata, ansante, la
rigida figura di Don Bartoletti si delineò nella penombra.

— Dove andate? — gridò in tono violento agli umili amanti che avevano
chinato gli occhi sotto lo sguardo indagatore del sacerdote. — Chi vi
ha detto di partire?

— Io! — esclamò ii Cavalier Mostardo facendo un passo avanti. — Io e
basta! — soggiunse scrutando il nemico.

— E chi siete voi?

Il Cavalier Mostardo al tono sprezzante con cui fu rivolta la domanda,
strinse le grandi mani, curvò il capo e le spalle innanzi e a voce
soffocata gridò:

— Prete!... Io sono tal uomo da mandarti diritto in prigione se mi
stuzzichi. Ti consiglio di riprendere la via e di andartene senza
parlare e subito! Perchè, vedi?... potrei fare di te uso molto diverso
da quello che non pensi.

— Sono prepotenze! — mormorò cautamente don Bartoletti, visto il mal
viso e le pessime intenzioni.

— Basta! — rispose scattando il Cavaliere.

Poi, rivolto agli amanti ch'erano rimasti muti e allibiti soggiunse:

— Passatemi innanzi e presto!

Europa e Manso Liturgico si avviarono a capo chino.

Il Cavalier Mostardo rimase ultimo. Quando tutti furono usciti, si
diresse verso la porta; ma prima di varcarla, rivolgendosi a Don
Bartoletti che più non aveva pronunciato verbo, gli lanciò un'occhiata
e una frase:

— Vile canaglia!

Poi richiuse e seguì la sua dolce preda.

Il Cavalier Mostardo e Marcôn guidarono le cavalcature su le quali
erano saliti i giovanetti, fidanzati ormai innanzi alla coscienza
repubblicana.

La discesa fu compita con maggior sollecitudine. Al cascinale, ai piedi
di Monfùg, la muletta e Fiùt ripresero le loro soglie e i viaggianti
partirono sul barroccino rosso noleggiato dal Cavaliere.

Passaron la notte in un paesuccio di montagna e il giorno dopo, su le
prime ore del pomeriggio, fecero il loro ingresso trionfale nella lieta
città del piano.



CAPITOLO XIV.

Dove Don Papera esplora nuovi cieli e gli anarchici collaborano al bene
della repubblica democratica.


Una ben triste primavera passo il dolce amico di Salomone; una
primavera piena d'incubi, affannosa, irrequieta chè un amaro
presentimento lo colse una sera e non l'abbandonò più, per trascorrer
di tempo.

Il suo segreto, del quale nessuno dovea saper verbo, l'aveva svelato a
Don Eucaristia, ad una sagra, durante le confidenze che seguono i lauti
banchetti.

Glie l'aveva svelato così, per un senso di garrulo pettegolezzo, perchè
nulla gli poteva rimanere suggellato nel cuore lungo tempo.

Fu solo nei giorni che seguirono ch'egli comprese tutta l'entità
del male commesso. Don Eucaristia era un prete invidioso e maligno;
inoltre, essendo di coloro che a tutti i costi voglion salire, ci
teneva ad ingraziarsi Monsignor Rutilante, non era quindi possibile
che, a momento opportuno, non gli parlasse del segreto di Don Papera.
E avrebbe il vescovo considerata l'impossibilità sua di tacere? Gli
avrebbe perdonata, in considerazione degli avvenimenti straordinari,
l'infrazione al divieto assoluto?

Invano cercò distrarsi, Don Papera, invitando alla sua mensa
Don Carnevale, il prete mattoide e musicomane. Anche le scurrili
piacevolezze e gli organetti di Barberia del confratello non gli furono
di conforto; invano scorse, rilesse, declamò il Cantico dei Cantici e
cercò assaporarne le umane dolcezze; invano guardò il lieto rifiorire
di Susanna nella stagione nuova e invano volle ammirarla tutta rosea
e bella nella veste bianca, ramezzata di papaveri rossi, della quale
le aveva fatto dono. Sopra ogni cosa, innanzi a ogni suo pensiero,
prima di qualsiasi dolce consuetudine quotidiana, il rincrescimento, il
timore, il dubbio stavano quali faci inestinguibili.

I giorni trascorrevano lenti, e pareva si addensassero muti e
solenni ne l'oscurità del destino che lo guatava con orribile ceffo
da l'ignoto: ogni chiamata, ogni tinnire di campanello gli dette un
sussulto improvviso, un'aspettazione dolorosa: perchè, d'attimo in
attimo, attendeva la pena, l'inevitabile pena che Monsignor Rutilante
gli avrebbe inflitto a castigo.

Povera primavera! E sì ch'egli la sentiva nel sangue, in ebollizioni
improvvise, quasicchè serpeggiassero piccoli fuochi quà e là per le
sue vene; quasi che la castità non avesse spento ancora l'ara sacra che
l'amore riattiva nel cuore degli uomini. Ma un velame di cupa tristezza
faceva sì che ogni sensazione illanguidisse svanendo.

Nè le cure assidue che gli prodigò Susanna ebbero potere di rianimarlo,
di condurlo su le vie della ragione.

Andarsene voleva dire per Don Papera morire a metà, essere dimezzati,
disparire quasi. Egli non era più giovanetto, aveva passato i
quarant'anni, si avviava verso l'età in cui l'uomo ama farsi un suo
nido per attendervi la morte. Il nido se l'era fatto e così quieto! Un
piccolo giardino, cinque stanze e una giovanetta bella! — Tutta la sua
religione era in queste cose che Dio gli aveva concesso. E perchè mai
glie le toglieva ora?

L'eccitazione che lo tenne, giunse, per andar di tempo, a tal segno,
che il piccolo sacerdote invocò il Signore Iddio di toglierlo al più
presto possibile da una situazione si ambigua.

Viveva così, miseramente tremando, come colui che si acquatta e chiude
gli occhi e tutto si raccoglie temendo l'imminenza di un pericolo,
allorquando con fulminea rapidità si sparse la voce che il Cavalier
Mostardo era ritornato da un suo viaggio, conducendo seco i fuggitivi.
Tale notizia che gli comunicò una mattina Susanna, tornando dal
mercato, pose il colmo alla misura.

Rimase qualche attimo senza parola, poi prese una risoluzione
improvvisa e gridò alzandosi di scatto dalla grande poltrona su la
quale stava abbandonato:

— Susanna prepara le valigie!

— Le valigie?! — esclamò la camerista con estremo stupore. — Ma dove
andiamo?

— Non lo so.

— E quando si parte?

— Subito.

— Col treno?

— Col treno, col treno! — gridò Don Papera: — Vorresti andartene a
piedi forse?

— No no. Mi sappia dire almeno quanto tempo si starà fuori perchè possa
riporre la biancheria che ci può abbisognare.

— Prendi tutto! — gridò Don Papera.

E così fu fatto.

Quando il giorno accennò a morirsi, clandestinamente, cercando le vie
più solitarie, Don Papera, seguito da Susanna, si avviò alla stazione.
Vi giunse che il crepuscolo era ancor alto nei cieli.

Sotto la breve tettoia erano accese le prime scialbe fiammelle dei
fanali, scialbe di fronte al dilagare violetto e rosa delle ultime luci
solari.

La via ferrata si svolgeva in linea retta fino alle estreme lontananze.

Sotto alla tettoia erano ad attendere il treno, oltre Don Papera e
Susanna: una vecchia signora in gramaglie, due agenti di campagna
e tre soldati. Dai campi di contro giungeva qualche voce lontana. E
tutti, tranne i due agenti di campagna, tacevano sporgendosi di tratto
in tratto sul binario per vedere se si annunciasse, per il bianco
pennacchio di fumo, la vaporiera.

Suonò vespro dalla città non lontana e Don Papera si segnò in croce
chinando umilmente il capo, poi fu invaso da grande amarezza onde con
maggior desiderio invocò l'arrivo del treno che doveva trascinarlo in
paesi remoti.

Chiese ad un facchino che passava recando una grande lanterna accesa:

— Scusi da qual parte arriva il diretto?

— Da questa parte — rispose il facchino volgendosi e tendendo un
braccio. — Da Ancona.

— È in ritardo?

— Sì è in ritardo di trenta minuti.

— Grazie.

— Di niente.

Don Papera si immerse di nuovo nella sua concentrazione. Susanna
rimase immobile con gli occhi fissi nelle lontananze dalle quali
dovevan sbucare, come da l'ignoto, gli occhi rossi del serpe che saetta
infaticabilmente attraverso la terra.

— Eccolo, eccolo! — esclamò ad un tratto la giovinetta. Tutti si
sporsero a guardare:

— Dov'è?

— Laggiù non lo vedete?

— Ma quella è la lanterna di un cantoniere! — disse un agente di
campagna.

— Se arriva alle otto mi accontento — soggiunse il compagno.

E i tre soldati, in varii dialetti, imprecarono al Governo.

— Signori, indietro dalla linea! — Gridò un facchino. I pochi
viaggiatori rientrarono sotto la grigia tettoia.

Da punti remoti giunsero i lamenti di due sirene, gravi, continui,
sospirosi, in due note accordate mirabilmente in ottava e parve si
fondessero col crepuscolo quasi a compirlo nella sua dolcezza moritura.
Continuarono buon tratto, poi si spensero allontanandosi; il vento
li portò alla deriva, sempre vicini al crepuscolo, in un eterno
inseguimento.

Squillò alta ed aspra la campana d'avviso e tutti concordemente si
volsero a guardare.

— Viene?

— Sì. Eccolo. Là in fondo.

— Io non lo vedo.

— Non vedi quei due punti rossi?

— Si.

— Quello è il treno.

— È lontano ancora! — disse un agente di campagna. E il compagno
rispose:

— Sarà a Savignano!

— Signori, indietro dal binario! — gridò un facchino.

— Ma che indietro! Avete paura si rubino i sassi?

— Io non so niente. Osservo il regolamento.

I tre soldati si caricarono dei loro zaini e delle bisaccie.

— Hai tutto? — chiese Don Papera a Susanna.

— Si. Due borse, due fagotti, la scatola. C'è tutto.

— Dammi le valigie; quelle le porto io.

— Non importa.

— Dammele!

Susanna gliele passò. Poi con l'ansia nervosa che, nella prossimità di
una partenza, coglie coloro non soliti ai viaggi, attesero guardando
fissamente l'avanzare, il distinguersi sempre più chiaro dei due punti
rossi; l'apparire del bianco pennacchio di fumo; il delinearsi della
vaporiera. Giunsero dalle cantoniere più vicine i suoni dei corni che
preannunciavano il passare del vigile mostro saettante, poi a mano mano
un fragore che si distinse sempre più chiaro ed aumentò in intensità
finchè un sibilo roco annunciò la prossima entrata del treno nella
stazione.

— Tienti pronta — disse Don Papera a Susanna.

— Sì — rispose l'ancella.

— Sali dove salgo io e non perder tempo.

— No.

— Mi raccomando, non dimenticar nulla.

— No.

Lanciando buffi di vapore il treno passò su la piattaforma con
reiterato fragore, entrò nella stazione rallentando la corsa; e, a un
breve sibilo, fu fermo.

Pochi viaggiatori scesero lenti e assonnati. I ferrovieri si
affannarono a strillare il nome della città.

Don Papera, seguito da Susanna, aveva perduto la bussola ormai, sicchè
girava da un vagone a l'altro senza decidersi, senza sapere dove
sarebbe salito.

— Due soli minuti di fermata! — strillò un guardiafreni; poi,
imbattutosi in Don Papera lo sollecitò:

— Presto presto.

Un altro gli disse:

— In fondo al treno c'è posto.

E via, con le valigie che gli battevano su le gambe e gli inceppavano
l'andare, seguito ciecamente dalla fedele Susanna, Don Papera si
affrettò verso la coda del treno. Non aveva fatto dieci passi che udì
una voce d'avviso:

— Partenza!

— Pronti!

— Pronti! — risposero altre voci.

— Ma dove va lei? — gli chiese con rudezza un impiegato.

— Voglio partire! — rispose timidamente Don Papera.

— Quale classe?

— Terza.

— Entri qui, presto, si spicci che il treno parte. — Aprì uno
scompartimento di terza classe, vi fece entrare, anzi vi spinse i due
malcapitati viaggiatori e richiuse con forza. Poco dopo il treno si
avviò.

Allora Don Papera pose il capo al finestrino.

Vide le file di pioppi coronanti gli orti, i giardini, le mura; vide le
ultime case della città, il fiume azzurro, il ponte romano, l'immensa
distesa verde della campagna; poi, ondulando, sussultando e lacrimando
si perse nelle lontananze, sotto le ali della notte.

Nella città degli uomini rossi, frattanto, e precisamente nel palazzo
della contessa Liturgico, era uno sfolgorio di lumi, un andare di
suoni, un lieto frastuono di parole e di canti.

Monsignor Rutilante aveva voluto si festeggiasse così il ritorno di
Manso Liturgico per non far credere ai repubblicani che tal ritorno
avesse sventato, come si vociferava, un piano prestabilito dai
clericali.

Con ciò non s'era il granitico vescovo piegato alla volontà della
contessa Liturgico la quale propendeva per il matrimonio; Monsignor
Rutilante, mentre fingeva di darle ascolto, pensava per suo conto quale
fosse la direzione migliore da seguirsi.

Le elezioni politiche erano prossime. Durante il periodo turbolento
gli si sarebbe presentata occasione propizia per isventare l'oscura
minaccia. Avrebbe mandato il giovane Liturgico in qualche remota parte
del mondo; l'avrebbe chiuso in qualche convento solitario fra i monti
e, mancando il capro espiatorio, le pretese dei repubblicani sarebbero
riuscite a vuoto. Ma conveniva agire con cautela e ponderazione perchè
numerosi occhi erano aperti a scrutare, senza posa mai, giorno e notte.
Frattanto, il giovanetto in parola, trascorreva gaudiosamente le ore.

Nella grande sala del suo vecchio palazzo seicentesco erano accolte
tutte le famiglie che rappresentavano l'aristocrazia nera (superstite
e fiero baluardo delle dottrine cattoliche nello sconvolto mare
della città rivoluzionaria) e le fanciulle guardavano l'eroe con viva
sentimentale attenzione.

Ai loro occhi il mite adolescente ch'era fuggito, non per atto di
ribellione ma per semplice forza d'inerzia, acquistava l'incomparabile
aureola d'arditezza virile che s'impone e comanda. _Le charme de la
canaille_ lo rendeva persona nuova alle vecchie conoscenze e, mentre
per l'innanzi lo stimavano inutile balocco, ora, con dolcissima soavità
ammirandolo, lo covavan con gli occhi per il desiderio romantico che è
nel cuore di ogni giovanetta bene educata alla guisa clericale.

Didino, in quel suo mezzo di famigliare intimità, provava ora un
sentimento di immensa dignità virile, tanto che avrebbe rapito le altre
quattro parti del mondo per rinnovare simile soddisfazione.

Le danze si animavano col trascorrer de l'ora, l'affiatarsi degli
invitati e lo stabilirsi delle piccole simpatie; il cicaleccio cresceva
e i suoni della piccola orchestra avevano virtù nuove per ogni mente
accesa.

Ad un tratto si levaron dalla sala voci sdegnate e piccole grida:

— Via! via!

— Vattene, brutto!

La contessa Liturgico prestò attenzione e chiese levando il capo:

— Che cosa è stato?

— Mah!? — rispose Monsignor Rutilante.

— Dov'è Didino? — riprese con ansia materna la grave signora.

— È laggiù non lo vede?

— Didino? — chiamò la contessa, ma la sua attenzione fu attratta da uno
spettacolo nuovo.

Le signore ed i signori avevano formato doppia ala ad un supponibile
corteo che, dal fondo della sala dove si trovava la contessa Liturgico,
non si vedeva ancora.

Le signore raccogliendo gli strascichi e le vesti intorno alla persona,
stavano leggermente chine; gli uomini sorridevano o si accigliavano.

— Ma che c'è? — chiese Monsignor Rutilante, poi tacque. Udì il lieve
tintinnio di un campanellino e vide avanzare, tutto festante e umile
fra la schiera degli invitati, Messibèll, il canino della contessa
Liturgico.

Proseguiva la bestiuola di un suo trotterello saltellante, scuotendo
la coda e tutto il corpo, in ineffabili espressioni di timorosa gioia;
e, ad ogni voce, volgeva gli occhi sporgenti, lacrimosi e tentava
festeggiare i convenuti rizzandosi su le zampe posteriori.

— Via! via!

— Vattene, brutto!

Attraversò così la sala tutto raumiliato e, saltellando sempre, giunse
ai piedi della dolce signora sua.

Allora negli occhi della contessa passò un lampo di terrore e Monsignor
Rutilante aggrottò le ciglia.

Messibèll si era seduto non sapendo quale orribile minaccia recasse,
graziosamente piroettando, sul piccolo dorso glabro.

Aveva una mano sacrilega, violato la bruna verginità della sua pelle
servendosene a scopi dinamitardi.

Sul dorso di Messibèll, col vermiglione più intenso, era dipinto un
orribile teschio e la scritta rivoluzionaria:

_Evviva l'Anarchia!_



CAPITOLO XV.

Nel quale gli Uomini Rossi passano la loro settimana di passione.


Gian Battifiore e il Cavalier Mostardo ebbero, qualche giorno dopo la
trionfale impresa, un colloquio intimissimo per istabilire su varii
punti il piano di condotta da tenersi durante il periodo delle elezioni
imminenti.

— Sopratutto bisogna osservare Didino — disse Gian Battifiore.

— A questo ho già pensato — rispose il Cavaliere — e il clericale è
sottoposto alla vigilanza più oculata.

— Che ne dicono i preti?

— Male!

— Sono sempre contrari al matrimonio?

— Più che contrari. Hanno giurato che non avverrà mai.

— Lo vedremo! C'è anche il Codice Penale!

— Ma che Codice d'Egitto! Ci siamo noi! Non vi pare basti, sindaco?

— Basterà, lo spero, perchè non vorrei essere trascinato a estremi
odiosi.

— Lasciate fare a me, sindaco, e non temete. Le acque andranno per la
loro china. Non vi ho dato prova più che sufficiente della mia abilità?
Voi lo saprete: se si arrivava un giorno dopo tutto era perduto!

— È vero! — esclamò Gian Battifiore. — Tu meriti una gran ricompensa
che non mancherà. Noi non siamo ingrati. Ma, pensavo, durante il
periodo delle elezioni non potrai occuparti affatto della faccenda.

— Certamente no; ma vi ho detto, mi pare, che ho pensato a tutto. Non
vi fidate forse? Prendo sulla mia coscienza ogni responsabilità. Didino
non muoverà un passo fuori di casa.

— E come farai?

— È affar mio: non ci pensate. I clericali hanno pretesa di essere più
furbi del diavolo. Io li prenderò tutti in una sola rete.

— Te lo auguro.

— Sindaco, io non ischerzo!

— Lo so.

— Sulla mia parola di repubblicano, il _signor_ Rutilante questa volta
non la spunterà.

— Bada, tu non disponi de' suoi mezzi.

— Io dispongo del mio ingegno e della mia forza.

— A volte ciò non basta.

— Basterà perchè il popolo è con me.

— Vorresti ricorrere alla violenza?

— Anche alla violenza se occorre!

— Ma allora la legge sarà coi clericali.

— E che m'importa della legge? La legge è una sciocchezza scritta;
è una cappezza per gli asini. Voi non sapete tirarmi in ballo se non
la legge! Io non l'ho mai guardata in faccia questa signora e me ne
infischio!

— In questo hai torto.

— Sarà. Ma quando la maggioranza, quando il popolo vuole una cosa, non
ha forse il diritto per volerla e la forza per prendersela? Voi avete
detto mille volte che il popolo è sovrano!

— È vero!

— Allora il popolo è con me, la legge è con me.

— Ma il popolo non si cura del matrimonio.

— Avete torto. Bastano dieci amici di buona volontà e una botte di
vino. Quando la gente beve è sempre dell'opinione di chi paga.

— Possono fare altrettanto i clericali.

— No, perchè sono odiati. Poi io ho detto ai caporioni: Badate, chi
beve il vino dei clericali segna la sua morte!

Vi fu una pausa durante la quale Gian Battifiore guardò con molta
ammirazione il Cavalier Mostardo. Riprese poi:

— Amico, per te sono giornate campali queste.

— Così andasse sempre. È la mia vita!

— Ma non sai che nella settimana entrante non potremo trovar sonno?

— Lo so e che m'importa? La repubblica deve trionfare su tutto.

— Sarà una lotta accanita perchè i monarchici si uniranno ai clericali.
Hai girato le campagne?

— Sì.

— Come vanno le cose?

— Bene. Al mare repubblicani e socialisti; al monte monarchici e
clericali; ma avremo la maggioranza. I monarchici e i clericali votano
a base di biglietti di banca.

— Noi non ne abbiamo.

— Lasciate fare e vedrete!

— Domani arriverà il nostro candidato Livio Merate. Bisogna preparargli
una bella accoglienza.

— Ho già pensato a tutto. Alla stazione vi sarà _gente di palma_, come
dice il signor Regida e l'avvocato Merate avrà gli applausi che merita.

— Bravo. Un'altra cosa voleva dirti.

— Dite.

— Gli anarchici che pensano di fare?

— Non voteranno, questo era da supporsi. Però bisogna rispettarli. Ci
hanno reso un servizio.

— Per parte mia nulla hanno a temere; ma non so come la penserà la
questura.

— Se sono prudenti non li toccherà.

— Lo credi?

— Lo suppongo. D'altra parte io non li ho presi sotto tutela e... sono
uomini!

— Già!... Ma ho udito pessime voci.

— Anch'io.

— Sai come sia andato l'affare dei manifestini dinamitardi?

— Precisamente non lo so; la cosa parte da Gargiuvîn; è sempre lui che
ha certe trovate malinconiche. Gli altri sono come la coda.

— Speriamo bene per tutti.

— Speriamo.

— Allora — fece Gian Battifiore alzandosi — all'opera, amico
mio. Questo è un periodo in cui il nostro partito deve affermarsi
solennemente. Tutto dipende dalla nostra attività e dal nostro ingegno.
Io fido molto in te.

— Sindaco! — esclamò il Cavalier Mostardo ponendosi una mano sul cuore:
— Sulla mia parola di repubblicano, fra dieci giorni la bandiera rossa
sventolerà vittoriosa sulla nostra torre!

— La Rocca delle sacre dottrine rivoluzionarie non può essere
smantellata finchè abbia uomini simili! — rispose con enfasi Gian
Battifiore e strinse vigorosamente la mano al Cavaliere.

— E non lo sarà! — soggiunse il Cavalier Mostarde.

— Arivederci.

— Arivederci.

Si guardarono negli occhi, si strinsero la mano ancora e si lasciarono.

E la settimana di passione, per gli uomini che nella politica pongono
ogni loro ragione d'essere, cominciò turbolenta, affannata, in un
crescendo continuo fino alla finale esplosione.

Da Coriolano, donzello del municipio, a Bortolo Sangiovese; dal
Cavalier Mostardo, uomo di fieri costumi, a Ardito Popolini,
terribile e stringente dialettico, ogni attività fu posta in opera
con furia audace, con veemenza vulcanica. I tre giornali della città
quadruplicarono la tiratura e aprirono feroci polemiche.

_Il Cataclisma_, organo dei socialisti rivoluzionarii, parve
l'emanazione di una falange pandistruzionista, decisa a porre nello
spazio una lapide commemorativa: _Qui fu la Terra_.

_La vera Croce_, per opera di Monsignor Rutilante, deciso ora più che
mai vedendosi in procinto di perdere due partite, a combattere a tutta
oltranza gli avversari, parve l'emanazione di un novello Isaia, re
delle spaventose iperboli.

L'_Aristogitone_ in capo a tutti, ebbe la violenza, la rossigna
luminosità di un rogo rinnovantesi di continuo per l'attiva forza di un
temperamento vulcanico portato alle sue ultime espressioni.

A questi tre si aggiunse, buon ultimo nella lotta, _La Verità_, diretta
emanazione del comitato monarchico del quale era presidente Monarco
Crisomele, uomo di buoni costumi e di discreta dottrina.

L'_Aristogitone_ non appena si vide innanzi il nuovo avversario, lo
attaccò ferocemente.

In breve andar di tempo la polemica si arricchì di contumelie e
condusse a una dimostrazione ostile che il popolo, guidato dal Cavalier
Mostardo, fece sotto gli uffici di redazione de _La Verità_.

_Il Cataclisma_ plaudì; _La vera Croce_, bestemmiando in sua guisa
la modernità, innalzò la Chiesa ad unico segnacolo, perchè in essa
era la fratellanza, in essa la pace, in essa l'avvenire trionfale del
popolo. Le male vie erano aperte; le orribili voragini del peccato
guatavano l'umanità; la fatale perdizione delle genti sarebbe stata
prossima e per l'eterno nella consumazione dei secoli, se gli sguardi
del popolo non si rivolgevano al fulgente lume di civiltà e di dolcezza
impersonato dalla Chiesa; se gli elettori, traviati dalle maligne arti
dei sovversivi, contribuivano col loro voto al trionfo del male.

Il paradiso non era serbato se non a coloro i quali avrebbero votato
per Giacomo Albenga, candidato monarco-clericaleggiante, sommo agnello
del Signore.

L'_Aristogitone_ s'intrattenne su le dissoluzioni del papato, su le
gesta de l'Inquisizione e aggiunse: «I fatti parlano, le nostre parole
nulla valgono d'innanzi alla fulgida evidenza dei fatti. Questi signori
cianciano di moralità; ma quale significato dànno essi a tale parola?
Tutta la storia è là per provarci che la morale dei preti non è quella
delle persone oneste! Noi combatteremo le turpitudini finchè la forza
ci assisterà, finchè il pensiero vorrà guidarci con la sua fiaccola
rossa.

  «Elettori!

«Fra pochi giorni sarete chiamati alle urne; fra pochi giorni dal
vostro giudizio complessivo sarà segnato un trionfo: o quello della
Giustizia, o quello dell'Ipocrisia clericale.

  «Elettori!

«Il mondo vi è a testimonio. Il vostro atto è solenne. Dalla decisione
che prenderete dipenderà la vostra fortuna.

«Volete il proseguimento di questo stato di cose intollerabile, di
questa orrenda ruina nella quale la vita dei più precipita miseramente?

«E allora votate per Giacomo Albenga.

«Volete le riforme, volete la giustizia comune, volete che i vostri
infrangibili diritti, manomessi ora e posti in non cale, siano
finalmente riconosciuti?

«E allora votate per Livio Merate.

«Il suo nome è una bandiera; la sua vita un segnacolo di giustizia; la
sua fede è la nostra, elettori; quella fede per la quale da tanti anni
diamo tutte le nostre energie, tutto il nostro sangue.

  «Elettori!

«In nome di questa fede incrollabile, v'invitiamo a gridare con noi:
_Evviva la R_...»

I puntini erano posti per evitare un sequestro.

A tali accuse _La vera Croce_ raggiunse il diapason delle sue
apocalittiche visioni e _La Verità_ attaccò la condotta dei capi
repubblicani.

Così i primi fuochi si accesero e la politicofilia romagnola cominciò
a porre gli animi in quello speciale stato di tensione che ha sempre,
come risultato finale, una qualsiasi conflagrazione di parole nelle
classi borghesi dirigenti; di azioni nelle masse popolari barbare e
audaci.

A compire le prime avvisaglie della lotta che si annunciava quell'anno
insolitamente accanita comparvero sui muri, i manifesti proclamanti le
poste candidature dei singoli partiti.

Due avvocati si contendevano il campo: Livio Merate, candidato
repubblicano; e Giacomo Albenga, candidato monarchico-clericale.

Nelle antecedenti elezioni, il partito monarchico e il partito
clericale si erano astenuti cosicchè gli uomini rossi avevano riportato
una grande vittoria. Il dubbio di non ottenere nelle nuove elezioni
identico risultato, era tale assillo doloroso agli uomini rossi che le
più ardenti fantasie furono chiamate a raccolta per escogitare nuovi
mezzi, atti a raccogliere il maggior numero di voti possibile.

L'accensione velava, ne' suoi alti bagliori, le qualità speciali di
bonaria festevolezza, di ampia e cordiale ospitalità per le quali le
genti romagnole vanno nominate in Italia. Ogni forestiero rappresentava
in quel periodo, per lo meno una _x_ incognita di dubitosa vicinanza.
Più non si aprivano le case con la facile accoglienza patriarcale di
gentile memoria; le mense non erano condivise; il volto de l'ospite
non sorrideva più alle giovanette e ai candidi capi dei vecchi, finito
l'abbondante pasto servito in onor suo; la diffidenza era subentrata
alla ingenua festevolezza primitiva; il silenzio alla feconda loquacità
ridanciana; il cipiglio fiero alla serena espansività dilagante.

Ogni buon romagnolo, in tempi normali, quando la politica co' suoi
flagelli non turbi il suo bell'equilibrio di uomo sano che ama la vita
e la gode come può, essendo di tutto grato alla terra, ritiene obbligo
imprescindibile quello di accogliere l'ospite col riso più franco e
circondarlo di tutta la sua gioia e offrirgli, nei limiti de l'onesto,
ogni possibile bene ch'egli possieda: però, se la politica dalle
aggrovigliate chiome appaia a l'orizzonte, il buon romagnolo si turba,
dubita, si acciglia e non si rinfranca se non allora quando il nuovo
arrivato gli dichiarerà di appartenere alla fede de l'ospite, di odiare
coloro che l'avversano, di essersi votato anima e corpo al trionfo
della medesima.

Inoltre non è uomo valutabile colui che non sia ascritto a un partito
qualsiasi; chi non si proclamerà gridando, strenuo propugnatore di
qualche forma politica, non godrà mai piena stima in Romagna, anzi sarà
guardato con lo stesso fare dubitoso col quale gli antiquari sbirciano
la merce se temono una contraffazione.

V'è un solo Dio: la Politica; questo è il verbo che guida gli uomini
rossi nella loro vita irruenta.

Ora, nei primi giorni della settimana di passione, avvenne che, per
ragioni di commercio, si trovasse a passare dalla rosea città, certo
Mauro Rubini, persona pacifica e aliena da qualsiasi partecipazione ai
così detti pubblici interessi. Siccome il Rubini conosceva da qualche
tempo il capo repubblicano e ne aveva ricevute altre volte festose
accoglienze, tanto da serbarne grata memoria, pensò di recarsi agli
uffici de l'_Aristogitone_ per presentare i suoi ossequi al cortese
ospite.

Così fece, e trovò Ardito Popolini acceso e sudante sul quarantesimo
articolo.

Levò gli occhi dalle cartelle, guardò il nuovo arrivato e, aggrottando
le ciglia, ebbe la smorfia dubitosa di colui che non rammenta.

— Non mi riconosce? — chiese Mauro Rubini.

— Ecco... precisamente... mi pare... ma...

— Sono Mauro Rubini. Non ricorda?

— Ah! si, ricordo. Come sta, come sta?

— Non c'è male e lei?

— Io ho la febbre; io mi consumo caro signore.

— E come mai? Perchè non rimane in letto e non si cura?

— In letto? Ma non sa che siamo in periodo d'elezioni?

— Lo so. E con questo?

Il Popolini, a l'inaspettata risposta, divenne livido, sbirciò il
conoscente che gli stava innanzi sorridendo e si tacque.

Dopo una pausa levò gli occhi e chiese a bruciapelo al malcapitato
signore:

— Scusi, a quale partito appartiene lei?

— A nessuno. — Rispose con tranquillità Mauro Rubini.

Altra brevissima pausa in cui Popolini parve inghiottisse qualcosa di
estremamente amaro.

— Domando — riprese — quale è la sua opinione politica?

— Non ne ho.

— Ecco — aggiunse con voce tremante per repressa ira, il Popolini —
ecco... forse non riesco a spiegarmi. — E alzando il tono, continuò: —
Desideravo sapere s'ella milita fra i repubblicani, fra i socialisti o
fra i monarchici.

— Io non milito — rispose l'interpellato col suo sorriso bonario.

Gli occhi del capo repubblicano lampeggiarono vivissimamente, le
sue mani ebbero uno scatto nervoso. Fu per levarsi, ma si rattenne e
cambiando tono e pronome, con un risolino sarcastico riprese:

— Sarete clericale allora?

— Meno che mai.

— Anarchico?

— Neppure.

A quest'ultima risposta il Popolini più non si frenò. Spinse indietro
la sedia con impeto, si rizzò di scatto, battè i pugni sul tavolo e con
gli occhi sbarrati, congestionato in viso, gridò protendendosi:

— Vi dichiaro ch'io non amo essere preso in giro e voi, a quel che
pare, ne avete intenzione. Sbagliate strada. Vi avverto per amicizia, e
per evitare dolorose e forse irreparabili conseguenze.

— Le assicuro... — soggiunse il Rubini.

— Non posso perdere tempo ora. Ci rivedremo altrove se così vi piace.

L'ospite, pallido ed esterrefatto, guardò il Popolini, guardò il
Cavalier Mostardo, seduto in un angolo, s'inchinò e senza far parola
disparve.

Non appena ebbe richiuso la porta, disse il Popolini al Cavalier
Mostardo:

— Tieni d'occhio quel tipo. È una spia.

— Sarà fatto! — rispose il Cavaliere arricciandosi i mustacchi: e a
lenti passi seguì il malcapitato ospite, il quale ormai poteva esser
certo di avere una volta o l'altra, un piccolo e grazioso ricordo della
Romagna rossa.

Ora, l'indice ordinario delle passioni che turbavano la città, era
il così detto _Passo_, nome posto a una via nella quale si trovavano,
quasi di contro, due caffè: il _Caffè della bandiera_ e il _Caffè dei
Girondini_. Il primo era comune ritrovo dei monarchici; il secondo,
come si può facilmente supporre dal nome, era stato eletto a sede
permanente dei repubblicani. Da l'uno si udivan gli urli de l'altro,
e ciò avveniva da l'alba fino a notte tarda, quando il lampionaio
scendeva la via per ispegnere le giallastre fiammelle dei fanali.

Il _Caffè della bandiera_ era frequentato più che altro da vecchi
patrioti, uomini fieri, gravi e arditi nella loro vecchiezza: la
generazione che passava.

Al _Caffè dei Girondini_ predominava l'elemento giovane: studenti,
commercianti, impiegati: gente che viveva de' suoi sogni come di
indiscutibile realtà.

A seconda delle voci che giungevano dai due luoghi di ritrovo posti di
fronte: a seconda delle invettive e delle grida, si poteva misurare
lo stato di tensione degli animi e i sentimenti belligeri della
popolazione.

In periodo di elezioni, il Passo assumeva importanza straordinaria,
tale, che v'erano alcuni giovani di buona volontà i quali
s'incaricavano di diffonderne d'ora in ora le lotte e le querele.
Querele e lotte che sollevavano a loro volta altre consorelle, onde
dagli angiporti alle case dei ricchi, era un battagliare continuo fra
alte voci discordi e dissonanti.

Dominava i frequentatori del _Caffè della bandiera_, Antonio Viminèdi,
vecchio colonnello pensionato; uomo di salda coltura, di tenace memoria
e di spirito bizzarro.

Il colonello Viminèdi era tal pessimista da non trovare facile
riscontro nella storia, e siccome sosteneva le sue iperboliche
malinconie con sufficiente dialettica, non trovava oppositori che gli
tenesser testa se non forse Pietro Ramelli, capitano in ritiro, il
quale, allorquando gli falliva la parola, subentrava con gli urli,
persuaso in tal guisa di aver doppia ragione. Erano intorno a questi
due capostipiti, una trentina di uomini, tutti oltre la cinquantina;
gente di coraggio, temeraria, fiera e prepotente.

Forti del loro diritto di giudizio, perchè tutti o quasi avevan preso
parte alla grande epopea del nostro Risorgimento, non si facevano
intimorire dalle minaccie e dagli scherni che il _Caffè dei Girondini_
lanciava loro quotidianamente; anzi ne ridevano, pronti a menar le
mani se alle parole si fossero sostituiti gli atti, come era accaduto
talvolta.

Erano uomini severi, vecchi soldati che l'entusiasmo di un tempo
non aveva abbandonato, devoti di un amore senza limiti a l'Italia,
alla quale era stata consacrata con impeto e violenza tutta la loro
giovanile energia. E come avevan sognato un tempo veder la loro patria,
oltrechè libera da gioghi, grande e possente fra le Nazioni, ora si
addoloravano sapendola umile laddove avrebber voluto avesse assunto
una disdegnosa indifferenza. Essi non intendevano la diplomazia, erano
stati uomini d'azione pronti a dare e la loro vita e i loro beni e
tutto che avesser potuto, al loro ideale di ribelli; la loro giovinezza
non aveva avuto timori, non debolezze, non dubitanze sentimentali; così
ogni transigere, ogni pencolare, era per le anime loro dolorosa ferita.

Se avesser dominato, fatta l'Italia l'avrebber ugualmente disfatta.
Ora, costretti a l'inazione, seguivano i moti politici giudicandoli in
base ad un pessimismo amaro del quale Antonio Viminèdi era la massima
espressione.

Al _Caffè dei Girondini_ era invece nota comune l'intolleranza spinta
alle sue ultime espressioni. D'altra parte i romagnoli hanno necessità
d'agitarsi in tutti i tempi, comunque sia.

Mancando una general causa che li accendesse, se ne eran creata una
votandosi alla repubblica e credevano sinceramente che ogni bene
fosse per provenire a l'umanità dalla trasformazione politica da essi
con ardore inestinguibile propugnata. Sognavano un domani oltre al
quale più non doveva esistere su la terra uomo infelice; un domani di
redenzione universa che si sarebbe verificato con lo stabilirsi della
repubblica, con l'imperare delle dottrine per le quali alla lor volta,
i _nuovi_, avrebber data la vita.

Tale fondamento di grande sincerità e l'intima persuasione che solo
le loro dottrine fosser le buone, le infallibili sorgenti di ogni
bene, faceva sì che i giovani repubblicani fossero violenti nemici di
qualsiasi altra manifestazione avversa alla loro: faceva sì ch'essi
guardassero non come avversario politico, ma come nemico personale e
nemico del pubblico bene, ogni individuo professante fede diversa.

I romagnoli non conoscono se non gli estremi. Se una cosa è buona, e
allora va accettata e imposta; se è cattiva, e allora va soppressa. I
mezzi termini sono ignoti in Romagna.

Nel primo giorno della settimana di passione si inasprirono adunque, al
_Passo_, i rapporti diplomatici.

Antonio Viminèdi, come di consueto, imperava; gli erano intorno i
compagni attenti. Pietro Ramelli passeggiò in lungo e in largo,
guardando a tratti il soffitto. Egli era in preda a visibile
turbamento.

Entrò un ritardatario, Achille Donatelli: salutò, poi, come vide i
compagni tacere, chiese:

— Avete letto il manifesto dei repubblicani?

Molti risposero:

— L'abbiamo letto.

— E... che ve ne pare?

— Peuh! — fecero alcuni; e Pietro Ramelli:

— Ci vorrebbero i tedeschi!

Antonio Viminèdi incrociò le gambe, lanciò il fumo a l'aria e disse
sorridendo ironicamente:

— _Jaculatio verborum!_

Chi capiva il latino, approvò.

— Dicono — soggiunse Pietro Ramelli che parlava a scatti, animandosi —
dicono i ranocchi che non hanno partito e si tengono coi più forti: —
Essi sono nel loro pieno diritto. Il pensiero è libero! — Il pensiero?!
Ma quelle sono ingiurie. Dice: è libertà di cosa... è libertà
d'opinione; ma che s'intende allora per opinione?

— Eh! — fece Antonio Viminèdi — l'opinione è una parola e significa
niente in sè. Guarda ad esempio: in Asia chiaman l'_assa fætida_, cibo
degli dèi; in Europa invece, _stercus diaboli_. Siamo nell'identico
caso.

— Sono così... sono villani — riprese gridando sempre più. Pietro
Ramelli — e si dicono democratici. Ma che intendono essi per
democrazia?

— Non sbagliare i termini! — riprese il Viminèdi. — Questa non è
democrazia, è ciarlataneria.

— Ben detto! — esclamarono gli ascoltanti.

— Sentili! — disse il Donatelli indicando il _Caffè dei Girondini_: —
Gridano come tanti ossessi! Quella gente rifà il mondo così!

— Vedrai! Quando saranno al potere, riformeranno il paternostro come ai
tempi di Cromwell e la loro azione non andrà oltre.

— Ma tu così... tu ammetti — gridò Pietro Ramelli — che possano salire
al potere?

— Certamente — rispose Viminèdi — Tanto ora

            _un Marcel diventa_
    _ogni villan che parteggiando viene!_

— La colpa è nostra, la colpa è nostra — gridò Sandro Ancona, un
vecchio cieco che ascoltava sempre col capo eretto e le mani incrociate
sul pomo della mazza. — Io non vedo, ma sento e imparo e so che
la nostra azione è debole. Per questo essi hanno ogni agevolezza e
conquistano il campo!

— Siamo vecchi! — mormorò Gian Urbini.

E Pietro Ramelli, gridando:

— Vecchi?! Io ho tanta cosa... ho tanta energia da venderne a tutti
quei signori. Sono le idee nuove che traviano le masse. Essi promettono
mari e monti e cosano... e trascinano il gregge.

— È tutta una putrefazione — gridò Viminèdi — tutta una putrefazione!
Povera Italia! Vi siete affaticati, vi siete macerati per farla? Ora
guardatela finire! Uomini politici che hanno l'intelligenza di un
grillo, che non sanno che voglia dire reggere uno Stato! Saliti al
potere per mene parlamentari, per vane ambizioni personali, senza
coltura, senza una meta prefissa, ci hanno fatto indossare la veste
di Arlecchino e, a suono di tube, hanno raccolto le Nazioni perchè
assistessero alle nostre vili pantomime. È tutto un giuoco di ipocrisie
che vela sordidi interessi; tutto un contesto di viltà. Se fossimo
persone dabbene, dovremmo sopprimere dalle nostre scuole l'insegnamento
della geografia perchè i figli nostri non imparassero che nel mondo
v'è un continente denominato Africa. Proprio noi dovevamo assistere
a tale obbrobrio. Il trionfo dei vili in terra italiana! Ma quando
mai i nostri vecchi sono andati processionando per le vie perchè non
si partisse? Io, vedete, io son diventato anarchico! Non credo più a
nulla, mi aspetto tutto. Domani un barattiere domanderà se l'Italia è
da vendere e la venderanno. Potrebbero venire anche gli Esquimesi o i
Patagoni a dominare qui, per conto mio non farò un passo: serberò il
mio _otium cum dignitate_.

— Esagerazioni! — esclamò Gian Urbini.

— Volete anche illudervi? Guarda: io non leggo più i giornali per
partito preso; ma tu, che li leggi, potrai essere al corrente più di me
di ciò che avviene. Ora vorrai tu dirmi che da un giorno a l'altro il
male si sia convertito in bene?

— Tu esageri — ripetè l'Urbini.

— Ma che esagero?! Tutto va a catafascio, tutto si corrompe, tutto
scompare in un battibaleno. Quando abbiamo combattuto si faceva
un giuoco di bimbi. Costruivamo un balocco complicato e per tale
costruzione abbiamo rischiato la vita, ora lo si rompe per vedere com'è
fatto dentro.

— Sono le nuove cose... sono le nuove dottrine che rovinan tutto! —
esclamò Pietro Ramelli che continuava la sua passeggiata affannosa.

— E le nuove dottrine e l'insipienza degli uomini di Stato. Si fa la
politica della paura e del sentimento e col sentimento si dominano
le femminucce e non si guida un popolo nè ci si impone agli altri.
Aggiungi a questo, le promesse dell'impossibile che i parolai fanno al
popolo, al _Popolo Sovrano_, al grande ambiguo martufo, mezz'asino e
mezzo giullare e ne avrai il risultato presente. La corda che ci regge
non ha più che una debolissima vena; il minimo vento di tempesta farà
disparire tutta la bella costruzione. L'Italia è un castello in aria,
amici miei!

— Frattanto — disse il cieco Sandro Ancona — se invece di profetizzare
bibliche rovine, voi, che avete a cuore il bene di questa nostra terra,
vi deste d'attorno per far trionfare le idee buone, tanto male non
sarebbe.

— Ma quali sono le _idee buone_? — gridò inveendo il colonnello
Viminèdi.

— Le nostre! — rispose il cieco arcuando le sopracciglia.

— Vi sbagliate. Le nostre idee non valgono più delle altre. Il mondo è
un carcame e il tempo se lo riprende.

— Ma allora che cosa vuoi, tu? — chiese violentemente Pietro Ramelli,
che s'era fermo innanzi al colonnello e lo guardava con occhio torvo.

— Io vorrei non esser nato per non vedere questo mondaccio fatto così a
rovescio.

— Ma vuoi sostituirti al Coso... vuoi sostituirti al Creatore, tu?
Tutto è a rovescio per te, nulla v'è di buono! E allora è meglio non
cosare perchè tu fai come coloro che si metton gli occhiali neri e
vedono tutto oscuro.

— E non cosiamo! — rispose il colonnello sorridendo con lieve
malignità. — Tanto se tutto va male io non ne ho colpa e col vostro
ottimismo non cambiereste direzione a una piuma.

— Bella ragione! — gridò il capitano Ramelli che si accendeva d'ira —
bella ragione! Quando hai torto, per difenderti, sostieni le maggiori
strampalerie. Faresti inviperire un santo.

— Ecco la tua logica!

— Ma che logica! Io dico che è una vergogna sentirti parlare in tal
modo qui, di fronte al _Caffè dei Girondini_, in tempo di elezioni!

— Ha ragione! — dissero i compagni.

— Io coi preti non voterò mai! — gridò Antonio Viminèdi con la
sicurezza di aver toccato un tasto d'effetto.

Passò un silenzio generale. Pietro Ramelli riprese la sua passeggiata
guardando qua e là con gli occhi torvi.

— Avreste forse il coraggio di votare insieme a coloro che vi odiano,
che odiate e avete combattuto?

— No! — gridaron tutti quasi che un impeto di fiamme fosse passato
nelle singole voci.

— E allora è inutile sperare: i repubblicani trionferanno.

— Vi sono le campagne — disse il cieco.

— Le campagne sono sovversive.

— Non tutte.

— Gran parte.

— I preti condurranno molti elettori.

— Rieccoci ai preti! — gridò Viminèdi. — Ciò che ci vien da loro si
converte in veleno. Per me, dall'ora in cui i nostri capi han deciso
unirsi alle vesti nere, ho fatto voto di abbracciare l'anarchia come
unico possibile partito in Italia. Ma dobbiamo dunque rinnegare tutta
la nostra giovinezza con un atto di vergognosa umiltà? Quando partimmo
con Garibaldi si aveva in odio ogni bestia nera e si uccidevano i
corvi in mancanza d'altro: ora dovremmo stringerci al seno, per un
imbroglietto politico, i nostri maggiori nemici?

La domanda lanciata là come una sfida, non ebbe risposta precisa; ma fu
seguita da un mormorìo di singole conversazioni intavolate a bassa voce
fra compagno e compagno.

Antonio Viminèdi e Pietro Ramelli si tacquero guardandosi.

— Che ne dici? — chiese il colonnello.

— Hai ragione! — rispose per la prima volta, quasi rabbiosamente,
Pietro Ramelli.

— Chi disse prete disse castigo!

— Per me — esclamò il Ramelli — la mia parte l'ho fatta. Nella cosa
contro il brigantaggio ne fucilai due.

— E il Signore ti avrà in grazia.

— Ne sono certo.

Achille Donatelli che fino allora era rimasto in silenzio, ascoltando,
uscì d'improvviso in una imprecazione quasi compisse così e suggellasse
dignitosamente un suo lungo ragionare:

— Accidenti ai capi!

— Quali capi? — chiesero molte voci.

— I nostri i nostri! Quelli che abbiamo eletti noi, che gettano lo
scorno sul nostro nome! Perchè avremo il male, il malanno e l'uscio
adosso. Vincere non si vince, questa è verità indiscussa. Dunque tanto
valeva rimanersene soli e non stender la mano a Monsignor Rutilante che
vorrà riderne ora di questi nemici di Dio.

— Non del Signore Iddio! — corresse Antonio Viminèdi. — Noi siamo
nemici dei mercanti del soprannaturale; del tenebroso sinedrio dei
barattieri; dei catafalchi neri che rinnegano il sole. Il Signore Iddio
è troppo in alto per queste creature meschine.

Nel frattempo dal _Caffè dei Girondini_ era giunto un alto frastuono
di grida. I vecchi frequentatori del _Caffè della bandiera_, tacquero
guardando nella via.

— Che hanno le araguste? — chiese Viminèdi.

— Sssst!... — fecero gli altri.

Stettero in ascolto. Una voce chiara e solennemente tribunizia, si
udiva giungere, interrotta, a ogni fuocherello d'artifizio, da vivi
applausi.

— Chi parla?

— Aspettino, guardo — disse il piccolo cameriere, rotondo e paffuto
come un chierichetto.

Si affacciò su la porta, sporse il capo e susurrò poco dopo, rientrando:

— È Ardito Popolini.

— Sempre lui... quel buffone!.. — gridò Pietro Ramelli.

— Sarà al suo novantesimo discorso — soggiunse il cieco.

— Non lo cambia mai! — disse Viminèdi.

— Non importa; ottiene il suo scopo.

Nel _Caffè dei Girondini_ infatti, il direttore de l'_Aristogitone_,
ritto sopra un tavolo, arringava quel tanto di folla che poteva capire
nel ristretto ambiente repubblicano. Con voce sonora, scandendo le
parole più importanti e seguendo nel dire un suo ritmo musicale di
ineffabile monotonia, intesseva a sazietà gli elogi di Livio Merate
candidato popolare, accennando alla vastità del suo programma di
riforme, alla saldezza de' suoi propositi, alla maravigliosa possanza
del suo ingegno.

E siccome, ne l'esaltazione crescente, la frase del Popolini si
arrotondava acquistando sveltezze procaci, lampeggiamenti e plasticità
tentatrici, gli ascoltatori, facili alle veneri oratorie, scattavano di
tanto in tanto in applausi, poco curandosi se il periodo s'interrompeva
a metà e il senso comune prendeva i cocci. Tanto, a detta stessa del
Popolini, il senso comune era il giudizio irriflessivo di tutto uno
stupido gregge; non valeva dunque la pena di accalorarsi per lui.

Erano adunati nel _Caffè dei Girondini_ e si pigiavano attorno a
l'oratore o, dispersi in fondo alla sala, ascoltavano seduti, sorbendo
la loro bibita, circa un centinaio di repubblicani, giovani per la
maggior parte, alcuni giovanissimi e accesi tutti di sacro ardore.

Visi fieri, accigliati: cravatte rosse; lunghi capelli spartiti, come
in giube leonine, ombreggiati dalle vaste tese dei cappelli flosci
gettati sul capo quasi con dispetto civettuolo.

E tutti avevano il loro ciondolo, recante il ritratto di un capo
repubblicano: di Garibaldi o di Giuseppe Mazzini. Alcuni l'avevano
adottato come spilla, altri come fibbia al cappello, altri come
decorazione; ed uno ve n'era, giovane repubblicano di stirpe
repubblicana: Ribelle Libertà Giovanelli il quale, per avere il
sopravvento sui compagni, e per dimostrare l'altezza della sua
fede, aveva sostituito agli umili bottoni del suo vestiario, tante
piccole reliquiette rotonde dalle quali, attraverso un cristallino,
trasparivano i ritratti in miniatura dei principali repubblicani, da
Platone in poi.

Così Ribelle Libertà, oltre essere un'espressione altamente
repubblicana, era anche un utilissimo sunto di storia.

Oltre ai ciondoli, qualcuno mostrava le calze rosse: altri aveva,
poichè la calda estate col suo nimbo di mosche avanzava, in luogo del
panciotto, una larga fascia vermiglia; altri portava a l'occhiello
garofani, gerani, papaveri, del più bel scarlatto. E compivano il loro
assetto, con grossi bastoni, atteggiandosi alla guisa di coloro che son
pronti a l'assalto se una voce li inciti.

Il loro Caffè aveva assunto quella esterior forma che più si confaceva
ai gusti di sì vulcanica stirpe.

Nella scansia troneggiante nel fondo, dietro al banco vegliato dalla
_cittadina_ Ragione Verlenghi, la proprietaria, si allineavano in buon
ordine, su varie file, parecchie dozzine di bottiglie della più strana
foggia. Ciascuna d'esse rappresentava, a suo modo, il busto di un uomo
caro alla repubblica; busto il quale, per necessità di cose, terminava
con una breve appendice chiusa da un bel tappo rigonfio e dorato.

Chi fosse entrato nel Caffè, inconscio della cosa, avrebbe potuto
supporre di trovarsi in un nuovo originalissimo museo ove fossero
accolte nobili persone costrette a portare col cercine uno strano
carico.

Sui muri bianchi della sala bislunga trionfavano poi, fra gruppi di
ghirlande d'alloro, oleografie di Garibaldi, di Mazzini, di Ermellini,
di Saffi, di Cavallotti, di Imbriani, ecc.; oleografie che Madonna
Ragione ricopriva l'estate con garze color rosa perchè le mosche non vi
lasciassero irriverentemente le schiere dei loro puntini.

Completava l'insieme un affresco del soffitto, affresco rappresentante
una figura enorme vestita alla foggia romana, ricoperto il capo dal
berretto frigio.

Ora Ardito Popolini, inesauribile oratore, continuava a tessere le lodi
del candidato repubblicano e avrebbe continuato chi sa quanto ancora,
dimentico di tutto, se, in una sosta, una voce d'avvertimento non si
fosse levata dal gruppo degli ascoltatori.

— Ardito, sono le quattro; c'è il discorso di Livio Merate al teatro
Chenier.

Al subito richiamo, l'ardente tribuno troncò a mezzo la sua concione,
discese dalla tavola e si volse in giro battendo le mani.

— Ragazzi?... Presto, al teatro Chenier. Parla il nostro candidato.

In un battibaleno il _Caffè dei Girondini_ si vuotò e la folla
schiamazzando empì la via del Passo, diretta al prossimo teatro.

Vi fu chi, passando innanzi al _Caffè della bandiera_, volse occhiate
di scherno alle persone ivi accolte; ma rapidamente chè Pietro Ramelli,
ritto su la porta, vegliò con gli occhi torvi, nero come la più nera
tempesta. E sapevano i repubblicani che l'uomo grave d'anni, ma forte
ancora in tutta la sua vigorìa, non avrebbe temuto, ne l'impulso de
l'ira, di cimentarsi con tutta una folla. Era il Ramelli come un ariete
bronzeo, cieco ne l'impeto e di straordinaria violenza.

— Dove vanno? — chiese il vecchio cieco che ascoltava.

— Al teatro Andrea Chenier. Parla il loro candidato — rispose Urbini.

— Bisognerebbe render loro pan per focaccia! — fece il Ramelli
volgendosi — L'altro giorno non vennero forse appositamente al coso...
al teatro Comunale, per fischiare Giacomo Albenga?

— Chi ha più educazione l'adoperi — rispose Sandro Ancona, il cieco.

— In tempo di lotta politica non v'è educazione che tenga. Chi fischia
sarà fischiato. Io coso... io vado, chi viene con me?

Mentre Pietro Ramelli si volgeva, interrogando con lo sguardo i
compagni e molti già s'eran levati per seguirlo, passò dalla strada
un gruppo di giovanotti, che si soffermò innanzi al _Caffè della
bandiera_.

Era a capo della schiera Teseo Alvisi, studente di medicina, piccolo e
forte, dal viso energico.

— Dove andate? — chiese Antonio Viminèdi.

— Andiamo al teatro Andrea Chenier. Andiamo a fischiare, guardate! — ed
estrasse un'enorme chiave. — Chi viene? — soggiunse.

La schiera adunata da Pietro Ramelli si confuse con quella de l'Alvisi
e partirono in silenzio. Al teatro si divisero fra la platea, il
loggione e i palchi. Pietro Ramelli, Teseo Alvisi, Giacomo Verati,
Bartolomeo Vienni, occuparono un palco di proscenio, al prim'ordine.
Non appena entrarono, tutti gli occhi si rivolsero dalla loro parte e
siccome l'oratore aveva già cominciato la sua arringa e i nuovi venuti,
col loro entrare, coprirono un po' la sua voce, si levò un coro di
zittii e qualche:

— Alla porta i disturbatori! — che non ebbe altro effetto se non quello
di far sorridere Teseo Alvisi. Il qual Teseo Alvisi, per rendere nota
al pubblico la sua intenzione, estrasse da una tasca l'enorme chiave
che avea portato seco e la posò con lento gesto sul parapetto del
palco.

— Questo è il mio binoccolo! — disse ad un tipo che stava sotto al
palco e lo guardava con minaccia.

— Bada alla tua pelle! — rispose lo sconosciuto.

— Non temere, ne ho molta cura e ho anche la _canterina_ a dodici colpi.

— Silenzio! — gridarono dal palco vicino. E altri:

— Alla porta i disturbatori!

— Fuori i codini!

— Alla forca!

— Non vogliamo gli sfruttatori!

— Abbasso i borghesi!

— Fuori fuori fuori!

A tale impeto di ribellione e al pandemonio che ne seguì, Livio
Merate interruppe il suo dire onde la furia popolare si volse più
intensa verso il palco di proscenio nel quale erano apparsi i quattro
monarchici.

Teseo Alvisi e Pietro Ramelli, ch'erano innanzi, non si scomposero.
Ascoltarono per qualche secondo il diluvio d'invettive a loro dirette
poi, mentre l'Alvisi con gesto lento e composto, presa l'enorme chiave
l'avvicinò alle labbra e gonfiando le gote mandò un sibilo acutissimo,
Pietro Ramelli afferrata una sedia, la levò sul capo e, sporgendosi,
gridò a coloro che s'erano minacciosamente aggruppati vicino al palco:

— Al primo che fa un passo rompo la testa come a un cane!

Sì bene si leggeva l'intenzione del vecchio capitano che nessuno si
mosse.

L'intervento dei pennacchi rossi e la minaccia di far sgombrare il
teatro, rimisero un po' di calma negli animi; ma calma fittizia.

Gli urli si spensero a mano a mano in un brontolìo sordo che si perse
completamente allorchè Livio Merate accennò a riprendere l'interrotto
filo del suo discorso. La voce tonò alta e musicale sotto le volte
armoniche.

Disse il Merate delle soverchie ingiustizie del presente ordinamento
economico; esaminò le condizioni del proletariato romagnolo e parlò
de l'indifferenza e de l'incuranza degli uomini di Stato per questa
enorme falange di lavoratori. Scese poi gradualmente a discutere
dei partiti riformatori e dei partiti impossenti a portar frutti di
prossime riforme, dati i capisaldi sui quali si reggevano; i dogmi
imprescindibili che dovevano osservare per serbarsi in vita.

Entrato nel difficile argomento, vi si mantenne poichè se da un lato
vedeva i pochi monarchici accendersi d'ira funesta, notava da l'altro
il mormorìo d'intima soddisfazione che scorreva fra la folla dei
repubblicani.

E disse:

— Noi rappresentiamo la vita e l'avvenire. Con noi è la giustizia, è
la verità, è la divina libertà. Noi, liberi pensatori, scioglieremo il
mondo dagli oscuri legami che l'avvincono ancora e, nella grande scìa
che la nostra nave, impetuosamente avanzando, aprirà, scompariranno
i nemici nostri, coloro che ci avversano e vorrebbero vederci morire
perchè dalla nostra presenza sentono minacciati i loro dominii oscuri.

«Cittadini! Con noi la giovinezza adunque, con noi ogni forza
primaverile, con noi la scure che abbatte, la vanga che apre la terra
e la rigenera e la rende atta ad accogliere e a fecondare una nuova
sementa.

«Forti di questa luminosa certezza, avanzeremo impavidi e sicuri
sotto qualsiasi bufera. Vengano pure i monarchici a protestare poco
civilmente, noi...

Ma non gli fu dato compire la frase chè dalla platea, dai palchi, si
levò un coro di acutissimi sibili.

Ai fischi risposero gli urli, agli urli seguirono e si confusero le
invettive.

Livio Merate si avanzò fino al proscenio, si sporse verso il palco ove
Teseo Alvisi adoprava tutta la forza de' suoi polmoni per trarre dal
suo istrumento di protesta suoni sopracuti e gridò:

— Accettate un contradditorio!

— No! — rispose il Ramelli — Io coso... io protesto!

— Villani!

— Buffone!

— Patriottardi da strapazzo!

— Canaglia in mala fede!

— Prete!...

— Ah! assassino! — gridò Pietro Ramelli preso dalla cieca furia della
sua violenza a l'imperdonabile insulto. E Teseo Alvisi e gli altri
compagni usarono la forza per trattenerlo, ch'egli, posto già un piede
sul parapetto del palco, stava per lanciarsi a l'assalto.

— Lasciatelo venire! — gridarono dal palcoscenico.

— Liberatelo, l'eroe da burla!

— Lo vedremo! Venga, venga l'amico dei preti!

— Non ci si muove. Ti aspetteremo fino a domani, capitano!

E Pietro Ramelli, reso impotente dalla vigorosa stretta di sei poderose
braccia, proteso il capo dagli occhi iniettati di sangue, continuava a
lanciare le sue invettive.

— A me prete? Ve lo farò vedere s'io porto le vesti, buffoni! Mentre a
cori, a ondate, da tutti gli angoli del teatro si levava il grido:

— Alla lanterna!

Nel contempo, poichè la scena si svolse in pochi secondi, era dalla
platea al loggione, come un mare corso da furiosissima bufera.
Volavano i cappelli, si levavano i bastoni in atti minacciosi,
ricadendo, rialzandosi come un ondeggiare continuo. Si videro più
braccia sollevare un uomo che si difendeva a disperazione con ogni
suo arto libero, poi scomparve, si riconfuse alla folla; si videro due
avvinghiarsi alla vita e attorno a loro si formò un largo improvviso
tosto ricoperto; si notò la lotta di un giovinetto circondato da
dieci che gli gridavano in viso ogni contumelia poi si udirono, acuti
sul tumulto, i tre squilli fatali, ravviso che i pennacchi rossi
intervenivano.

Per qualche secondo ancora il tafferuglio continuò; ma ai primi
arresti, i tumultuanti si accalcarono a l'uscita.

Teseo Alvisi e Pietro Ramelli furono seguiti da due carabinieri. Non
appena se ne avvidero, si volsero pregandoli di allontanarsi:

— Non abbiamo bisogno di protezioni!

— Sappiamo difenderci, lasciateci soli.

Però i pennacchi rossi, che avevano ricevuto un ordine, non vollero
saperne e continuarono la loro guardia, molto opportuna d'altra parte,
perchè non appena i due monarchici sbucarono su la piazza, un crocchio
di male faccie che s'era formato, si trattenne da l'assalto solo per la
presenza dei due paggi severi che hanno una loro casa di ricovero poco
simpatica al popolo. Anche l'eco del tumultuoso comizio, si perse in
breve ne l'accrescersi de l'ansia, per la sempre più prossima giornata
campale.

Il Cavalier Mostardo continuò a batter le campagne in compagnia molte
volte di Ardito Popolini che improvvisava discorsi su discorsi: nelle
aie, nelle osterie, nelle stalle, fra i campi, ovunque trovasse un
gruppo di bifolchi.

Il Cavalier Mostardo era più risoluto; Popolini più suasivo; ciò che
il primo otteneva minacciando, il secondo otteneva con la parola
ornata, sempre pronta, sempre chiara nelle iperboli strampalate,
ragione principale questa del suo notevole ascendente su gli uomini
che ascoltano a bocca socchiusa e ad occhi fissi e tanto più si
maravigliano quanto meno comprendono.

Aspra fu la lotta alle Colìe, regione divisa in due nimicissimi campi:
socialista e repubblicano. Un fiume che scorreva per le verdi e belle
campagne, un fiume profondo e azzurro, serviva di confine ai due
partiti.

Su la destra del fiume si trovava un villaggio: Asis, piazza forte
dei repubblicani; su la sinistra, un poco più innanzi, era un secondo
villaggio: Duràz, torre maestra dei socialisti.

Gli abitanti del primo erano in prevalenza contadini; quelli del
secondo erano braccianti e barrocciai.

Non nasceva ombra d'uomo ad Asis che non fosse battezzato repubblicano
e non dovesse per conseguenza nutrire un verace odio per gli abitanti
de l'altra sponda; e a Duràz, ogni neonato succhiava spontaneamente il
collettivismo con le prime goccie di latte dal dolce seno materno.

Se ad Asis fu, per il Cavalier Mostardo, larga e facile messe, a Duràz,
l'idea de l'unione dei partiti popolari non ebbe efficacia.

Nei giorni che seguirono, il Cavalier Mostardo, dando ampia relazione
del suo operato, fece notare come fosse necessaria un'azione concorde
contro Duràz, villaggio _sovversivo_, peste dannosa che si doveva
combattere con lena gagliarda per evitare irreparabili danni al
razionale estendersi del partito repubblicano!

Ma ormai il momento solenne era vicino e la voce del Cavaliere passò
inosservata.

Il Comitato istituito per la compilazione e la diffusione dei
manifesti, del quale facevano parte l'assessore della pubblica
istruzione Bartolomeo Campana e Tragico Arrubinati, cominciò la sua
opera di propaganda.

Furono da prima enormi manifesti nei quali si annoveravano i pratici
benefizî che sarebbero derivati al popolo dalla elezione di Livio
Merate. Ogni male, al solo presentarsi de l'apostolo rosso, sarebbe
dileguato e i beni, in benefiche masse accorrendo, avrebbero scacciato
ogni miseria. Livio Merate chiudeva il vaso di Pandora; Livio Merate
era l'_Ecce Homo_ dei nuovi credenti, il divulgatore dei vangeli per
il trionfo dei quali tutta una falange di martiri giaceva disseminata
sotto le zolle.

I muri de l'eroica città passarono rapidamente nel corso delle ore, dal
bianco al vermiglio, dal vermiglio al verde, al giallo, a l'indaco. I
colori si sovrapposero, si fusero, formarono immani tavolozze.

Vere torme di uomini furono assoldate per andare intorno ad affiggere i
cartelloni, gli avvisi, i manifesti, onde non aveva finito il pubblico
di leggerne uno che un altro vi si poneva a canto, poi un terzo, un
quarto in sequela interminata finchè si sovrapponevano, disparivano, si
accavallavano in pandemoniaca fratellanza.

Ciò che cominciava nel nome del Signore, finiva con feroci imprecazioni
alla casta sacerdotale; così gli accenni rivoluzionari, modificandosi
per via, trovavano loro conclusione in una compunta fidanza ne l'Ente
Supremo e la _morale dei liberi pensatori_ (chè non può supporsi
in Romagna un _libero pensatore amorale_) dopo una serie di guizzi
bizzarri, finiva per cadere e abbandonarsi in seno di Nostra Madre
Chiesa.

Da ciò impeti di sdegno, lotte con gli uomini assoldati, irruzione di
nuovi manifesti e cartelloni in prolificità spaventosa.

La lotta continuò, amplificandosi, fino alla vigilia del giorno
destinato alle elezioni, nella quale vigilia, assunse nuova,
inaspettata forma.

Avendo ormai i repubblicani ed i loro avversari esaurita ogni possibile
sorgente di auto-esaltazione e di denigrazione del campo nemico,
attaccarono di fronte cose e persone e trassero al pubblico giudizio
fatti ormai dimenticati o posti in non cale.

La vita di Giacomo Albenga, candidato monarchico-clericale, fu
accuratamente vagliata, e come si scoprì che Giacomo Albenga, nella
sua ormai lontana giovinezza, aveva professato le dottrine della
repubblica, alte querele se ne mossero e motivazioni di sempre
rinnovati attacchi.

Sì come il tempo urgeva e l'ansia e l'esaltazione toglievano la
possibilità materiale di lunghe elucubrazioni, i cartelloni si
ridussero a semplici striscie, su le quali erano stampate le frasi che
dovevano bollare, come un marchio d'infamia, il candidato nemico.

Così la mattina del penultimo giorno, i muri ebbero un nuovo aspetto e
gridarono la loro ingiuria:

_Non votate per Giacomo Albenga, candidato fedifrago!_

Più tardi un'altra se ne aggiunse:

_Chi ha tradito, tradirà. All'erta, elettori!_

Poi un'altra:

_Vorrete esaltare Giuda?_

A capannelli, a crocchi, fermi su le cantonate, accalcandosi in corona,
vecchi, giovani, fanciulli stettero fermi sussurrando, intenti alla
lettura. Le grida d'approvazione o i susurrii discordi crescevano:

— Chi ha tradito la sua parte è un cane!

— E un assoldato della polizia!

— E un figlio di preti!

Il Cavalier Mostardo batteva le piazze e le vie seguito da una sua
torma di fedeli dal ceffo poco rassicurante, onde la prudenza, in veste
di mite madonna, seguiva la maggior parte degli amici dello _statu
quo_.

Ad ora più tarda, sempre nella mattinata, un'altra torma di uomini,
recanti nuovi avvisi, si sparse per la città. Questa volta erano i
monarchici. La pubblica curiosità si acuì, sì che ogni uomo lanciato
in corsa lungo le vie, alla ricerca degli angoli ove affiggere le
sue striscie di risposta, aveva dietro una vera massa di gente che lo
seguiva affannandosi.

Si videro così passare in varie direzioni questi gruppi bizzarri
rincorrenti un uomo scamiciato e sudante.

Dopo non molto, sui muri, sotto l'ultima striscia vermiglia che recava
l'ingiuriosa domanda:

_Vorrete esaltare Giuda?_

era disteso un cartello verde che recava la risposta dei monarchici:

_Il vostro linguaggio vi giudica. Elettori, guardatevi dai falsi
apostoli; dai Ciceruacchi che vi tendono reti insidiose!_

Quando il Cavalier Mostardo lesse tale risposta, si ripromise di
appendere alla cima del campanile, almeno una coppia di monarchici per
intima soddisfazione degli occhi e della coscienza.

Però non trascorse il breve periodo di un'ora che già il comitato
repubblicano aveva replicato:

_Mentitori! Nelle nostre file non milita gente prezzolata. Il popolo
può giudicarci._

E i monarchici:

_Vi giudica l'amministrazione del 18... Vi giudica il Commissario
regio!_

E i repubblicani:

_Le vostre insinuazioni non hanno valore, traditori del popolo!
Ricordate l'Africa e le persecuzioni politiche!_

E i monarchici:

_La nostra moralità è ineccepibile. Voi non potete dire altrettanto!_

E i repubblicani:

_Non c'è morale dove l'interesse borghese domina. Il popolo vi
giudicherà, sanguisughe insanabili!_

E ancora ancora in fila ininterrotta, sui muri, su le colonne, sui
marciapiedi, nei tempietti del divo imperatore, sui fanali, su le
insegne dei negozi, sui portoni chiusi, su le finestre, ovunque fosse
uno spazio libero, ovunque fosse un palmo disponibile, le striscie si
distesero, si sovrapposero recando il loro dialogare rapido e veemente.

Il prefetto fece sguinzagliare per tutta la città i suci agenti: ma
con l'ordine di seguire la massima prudenza che, data la soverchia
eccitazione degli animi, sarebbe bastata la più lieve scintilla a far
nascere gravissimi disordini.

Ora avvenne che Gargiuvîn avesse adunato, in quel penultimo giorno,
i compagni suoi per impartir loro la parte delle dottrine anarchiche
che impediva di portare il loro contributo alle urne. Decisero adunque
di astenersi in massa. Però, come volevan dimostrare la loro presenza
e l'assiduita del loro pensiero avvenirista, Gargiuvîn, capo e
iniziatore, pensò di esporre un unico cartello nero sul quale a lettere
rosse, sotto un teschio che aveva stampata nelle concave occhiaie la
parola _Libertà_, era scritto:

_La morale non esiste; il popolo non esiste. Esistono solo degli
uomini. Abbasso i Re, le Elezioni, i Governi. Evviva l'Anarchia!_

                                                                 NOI.

Finita la compilazione, Gargiuvîn si rivolse a Apulinèr, Marcôn, Arfàt
e Don Vitupèri che aveano seguito il suo lavoro ammirando e disse loro:

— Andiamo.

Come non era loro abitudine nè rispondere, nè trasgredire, si avviarono
dietro lo storpio il quale, col cartello arrotolato in una mano, li
precedè cianchettando.

Quando furono su la via, Gargiuvîn si provvide della colla necessaria
poi, in prossimità della piazza maggiore, si fece aiutare da Marcôn
e da Arfàt e, spiegato il cartello e spalmatolo ben bene di colla, lo
affisse sotto l'ultima striscia dei repubblicani che diceva:

_Non c'è morale dove l'interesse borghese domina, ecc. ecc._

Stavano contemplando l'opera loro e Don Vitupèri già era per
allontanarsi, allorquando una torma di agenti fu loro addosso; li
legò, li impacchettò, e, fra larg'ala di popolo, li trasse al consueto
domicilio. La preda era fatta. L'azione della polizia, salva.

Gargiuvîn rise. Rideva sempre quell'anima da burla! Marcòn guardò i
cieli, Arfàt il selciato, Don Vitupèri studiò le proprie scarpe, più
anarchiche del padrone nella loro disfatta compagine e Apulinèr tentò
toccare col gomito sette volte e poi sette e poi tre, i poliziotti che
lo avean preso in mezzo e lo conducevan fieramente, a buon passo.

Solo su l'entrare nel corpo di guardia, Gargiuvîn, come di consueto,
squadrò le guardie ch'eran ferme su la porta, le salutò, e gridò loro
con un bel gesto marziale:

— Amici!... Son di ritorno!

E più debolmente la voce di Don Vitupèri si udì, come a compimento di
una prece:

— Amen!

Così la feccia del sobbollimento politico era tolta di mezzo.

Ma l'ultimo giorno spuntò; l'ultimo giorno in cui gli uomini rossi,
dischiuse le loro fucine, dovean provare la vigorìa delle proprie
ancudini.

Nella notte antecedente i capi non avevan saputo riposo. Il Cavalier
Mostardo era partito per le più lontane campagne onde raccogliere e
guidare alla città torme di contadini.

Ardito Popolini e Tragico Arrubinati avevan vegliato, intenti a
disporre le cose in guisa che la prima vittoria si ottenesse con la
conquista dei seggi. Gian Battifiore, vigile nel suo studio, aveva
misurato le forze degli avversari.

Inoltre Bartolomeo Campana parlò al Circolo Marat e Bortolo Sangiovese,
nella solenne occasione, compì un discorso che aveva cominciato il
padre, l'unico discorso della famiglia Sangiovese.

Come suonaron le campane del giorno, gli uomini rossi ritornarono alla
luce.

Alle nove doveva aver principio la votazione per eleggere i presidenti
dei seggi.

L'ultima adunanza fra i capi repubblicani fu tenuta rapidamente in casa
di Gian Battifiore. Stabilite le ultime disposizioni si lasciarono.
Nessuno pensò a prender cibo.

E alle nove, in vari punti della città si apriron le _porte fatali_.

Gli ambienti, adibiti a l'alta funzione politica, furono presi
d'assalto dagli uomini di parte rossa. Urlando e sbracciandosi si
scagliarono verso le urne.

Nel frattempo, una geniale idea di Bartolomeo Campana, aveva trovato
sua pratica applicazione. Erano state scelte, fra il popolo, le
giovanette più avvenenti, e si era fatta indossar loro una veste del
color di fiamma viva e, a gruppi, erano state poste su la soglia delle
varie sezioni, per distribuire le schede su le quali figurava il nome
di Livio Merate.

Alle dieci era compita la prima votazione terribilmente indiavolata. Vi
fu sul principio un istante di panico fra le masse repubblicane, poichè
erano corse male voci; ma gli animi si rincorarono allorchè furono
positivamente noti i risultati. Su otto seggi, cinque erano stati
conquistati dai popolari e tre dai monarchici.

Sotto gli auspici di sì maraviglioso principio, la votazione fatale
cominciò.

Fra lo sventolìo delle bandiere, sotto l'ardente sole estivo, fra
un via vai continuo, un incontrarsi, un soffermarsi, un sussurrio di
parole a pena pronunciate e male intese, i cittadini cominciarono il
loro còmpito solenne.

Andavano a gruppi o alla spicciolata, attardandosi su la soglia
delle sezioni, sogguardando coloro che ne uscivano, quasi tentassero
investigarli nel più profondo de l'anima e divinare così, per chi fosse
stata la loro preferenza di elettori.

Sotto ai porticati, innanzi ai caffè, non era più gente la quale,
placida nel riposo estivo, oziasse, incurante di ogni umano affannarsi;
l'alta febbre, l'agitazione comune aveva preso i più refrattari,
trascinandoli nel suo vortice.

Il sole ascese, toccò il meriggio, indicando invano a quella sua esigua
torma di fedeli, l'ora consueta del pasto quotidiano.

Giunsero frattanto i grandi carrozzoni dentro ai quali, stipati, chè
uno in più non vi si sarebbe costretto, erano i contadini elettori, i
gruppi raccolti quà e là dai seguaci sguinzagliati per le campagne.

A Porta del Mare, un gran frastuono richiamò l'attenzione dei passanti
e delle buone comari che attendevano alle loro faccende.

Un impeto di sonagli, uno schioccare di fruste, uno scalpitìo fisso
di zoccoli ferrati e un cigolìo, un fremito di ruote su le selci,
accompagnato da canti, da risa, da alti vocii, da evviva, irruppe in
una ondata sonora, s'innalzò dilagando.

Le finestre furono in un attimo gremite.

Ecco, da Porta del Mare, faceva in quell'istante il suo ingresso
trionfale nella via Robespierre, un lungo corteo formato da circa
una ventina di pesanti vetture, di antiche corriere, e di carrozzoni
antidiluviani nei quali gli uomini dei campi, sotto il propiziare
di Bacco, cantavano e gridavano e ridevano agitando le braccia,
sporgendosi col torso, picchiandosi a sonori pugni, così, per cortesia
di reciproco amore.

A cassetta, nella prima vettura, era Uguaglianza Vicini, un seguace
del Cavalier Mostardo: uomo robusto e forte e solenne; circa alla metà
del corteo, un altro era posto a vegliare: Ribelle Libertà Giovanelli;
veniva ultimo il Cavalier Mostardo, il quale, salito su l'imperiale di
una corriera, dominava la situazione.

Fra la polvere sollevata, passarono nel sole, a gran trotto,
allontanandosi verso la piazza maggiore.

A un'ora pomeridiana i clericali e i monarchici dubitavano già e la
confusa rincorsa al voto non accennava a diminuire.

D'innanzi ai singoli comitati monarchici e repubblicani era uno
stazionare perenne, un via vai continuo di contadini che attendevano il
loro turno, che tornavano col _contrassegno_ per ricevere la promessa
ricompensa. Non di rado avveniva che qualcuno, sbandatosi, fosse
improvvisamente conglomerato in una squadra repubblicana o viceversa.

— _C'mav ciamèv?_ Come vi chiamate? — gli chiedeva a bruciapelo il capo
della squadra.

— _Me non lo so!_ — rispondeva il contadino nella sua bizzarra lingua.

— Il vostro nome? — urlava il capo.

— Ah! _mi dice Tininana!_ — rispondeva illuminandosi per la subita
comprensione il malcapitato.

— _Ma e nôm d'batésum?_ Il nome di battesimo?

— Giorgio!

— Poi?

— _Zorz di Bissi._

— Allora avanti!

— _Che scusa?_ — mormorava dubitando il contadino; ma il capo con una
spinta l'univa al branco, gridando:

— Avanti con gli altri che non c'è tempo da perdere!

E la schiera si avviava muta al suo destino, preoccupata solo di
avere l'altra metà di un biglietto da cinque lire, rimborsabile a voto
compiuto.

L'orologio della torre aveva suonato le due pomeridiane. Il caldo era
soffocante.

In certe sezioni che avevan trovato lor nido nelle chiese, tanto tanto
si viveva; ma in certe altre, sì intensa era la temperatura, che il
presidente del seggio e i quattro scrutatori erano stati costretti a
liberarsi da ogni indumento di soverchia eleganza.

Simil cosa era toccata a Tragico Arrubinati.

Trascorsero le ultime ore affannose.

L'onda degli elettori divenne sempre più esigua.

— Come andiamo? — chiese il Cavalier Mostardo irrompendo nella sezione
di Tragico Arrubinati.

— Mah? — rispose Ribelle Libertà Giovanelli.

— Come non abbiamo la maggioranza?

— E chi lo può sapere?

— Io lo so; che ho lavorato come un bue.

— E sta bene! — rispose Ribelle Libertà ch'era tormentato dal dubbio.
Il Cavalier Mostardo lo squadrò malamente e si allontanò.

Suonarono le tre poi le tre e mezzo. Il tempo pareva trascorresse con
insolita rapidità.

Molti repubblicani, per la stanchezza grande, videro tutto rosso; altri
si sedettero sfiniti; altri fumarono, disperatamente, con la tenacia di
chi vuol resistere fino a l'ultimo.

Tragico Arrubinati leggeva la lista degli elettori su la quale veniva
contrassegnando coloro che non avevano compito ancora l'atto doveroso.

Ad un tratto fece un cenno al Cavalier Mostardo che si avvicinò:

— Dì? Bruto Arullari non ha votato.

— Non ha votato?! — esclamò il Cavaliere sbarrando gli occhi.

— No. Bisogna andarlo a chiamare subito, prendi una vettura.

Il Cavalier Mostardo, urtando e calpestando i presenti, si slanciò
fuori dalla sala.

Tragico Arrubinati fece cenno ad altri che si avvicinassero, poi a
ciascuno dette ordine di sollecitare qualche ritardatario. Partì una
torma, via, in corsa per le vie ardenti.

E giunsero vetture e grida di protesta e di sollecitazione.

— Dormivi?

— Ti curi così del partito?

— Spicciati che è tardi!

La voce di Tragico Arrubinati s'era fatta fioca.

— Manca mezz'ora!

— Mancano quindici minuti! — gridavano i sopraggiungenti.

— Come va? A Sant'Anna la vittoria è nostra.

— Alle Clausure siamo in maggioranza.

— Anche al Comune.

— Come va?

Tragico Arrubinati impallidiva di secondo in secondo.

— Un po' di pazienza! Un po' di pace!

— Vinceremo! — gridò un ossesso alzando, col braccio teso, il cappello
floscio.

— Abbasso i _codini_! — rispose una voce di rimando.

Ma l'Arrubinati si alzò di scatto sul suo banco ed urlò, sbarrando gli
occhi accesi:

— Silenzio per dio! O vi mando fuori!

Tutti si tacquero.

Una vettura che giungeva al galoppo, si fermò innanzi alla sezione.
Il Cavalier Mostardo balzò a terra, precipitandosi a gran furia nella
sala.

— Ebbene? — chiese l'Arrubinati.

— Bruto Arullari non c'è! — rispose col fiato grosso il Cavaliere.

— Ma sei stato a cercarlo a casa?

— L'ho cercato in tutto il paese. Non c'è!

— Ah traditore! — gridò Tragico. E il Cavalier Mostardo si morse una
mano a sangue, poi, segnando con l'indice una croce sul banco della
presidenza, bestemmiò una sua folle vendetta.

Pochi minuti ancora: l'ansia cresceva assidua, cocente, intollerabile.

Con la voce fioca Tragico Arrubinati, leggendo nella lista, seguiva:

— Vincenzo Camaldoli?

Silenzio. Quelli ch'erano in prima fila si volgevano guardando e
ripetevano ad alta voce: — Vincenzo Camaldoli?

Silenzio.

— Nessuno lo conosce? — riprese il presidente.

Ugual esito di risposta.

— Non c'è? — chiesero gli scrutatori. Passò qualche attimo, poi dal
fondo della sala, una vocetta che fu udita a pena dai circostanti
esclamò:

— È morto!

Il Cavalier Mostardo, che udì la risposta, diè un balzo, fu sopra a
l'omuncolo spaurito e gli gridò con gli occhi fissi:

— Tu sei Vincenzo Camaldoli. Ti conosco!

— Io sono Pierini e ho già votato alle Clausure — susurrò l'omuncolo.

— Nossignore! — esclamò il Cavalier Mostardo. — Tu sei Camaldoli e io
ti conosco!

Poi, presolo per il bavero della giacca, lo alzò come un niente su gli
astanti e gridò, mostrandolo al presidente che nulla aveva udito della
scena:

— Ecco Vincenzo Camaldoli! È un amico mio e posso testimoniare della
sua _entità_!

E il pover'uomo assunse la parte del morto.

Così votarono i morti, gli assenti, i mentecatti: tutto fu portato a
contributo dagli uomini di buona volontà. Ma quando a l'orologio della
torre batterono le quattro pomeridiane, la votazione si chiuse.

Subentrò un grande silenzio durante il quale non si udirono se non le
voci degli scrutatori e il ronzio delle mosche.

Fu verso sera, si accendevano già le prime fiammelle e passava la
brezza del mare; corse il primo grido, da lontano, da l'ultima contrada
e si espanse con rapidità di folgore:

— Abbiamo vinto!

— Evviva Livio Merate!

Come un gran cuore pulsò che prima taceva ne l'ombra; come un sole si
disvelò che prima le nubi celavano.

Tutto ch'era stato approntato per la vittoria comparve. Ogni finestra
repubblicana ebbe il suo lume; ogni comignolo la sua bandiera; ogni
bocca il suo grido.

Oh! gli abbracci, i sorrisi, le reciproche congratulazioni, e il
sentimento irrompente e la gioia enorme, pazzesca, contagiosa! Fu una
valanga, un fiume che travolge le dighe e dilaga.

Ogni monarchico, ogni clericale ebbe il suo insulto:

— Codini impotenti.

— _Culandrê_...[2]

— Preti e codini, un fascio e al forno!

— Evvivaaa!

— Evvivaaa!

Così! Evviva di tutto e di niente. L'uomo è una bestia che si esalta e
grida.

Si formò il corteo, il corteo imponente che la grande occasione
richiedeva. Quattro musiche e tutte le associazioni e tutte le
bandiere, in fila interminabile.

Partirono dalla Porta del Sole osannando, baciandosi, abbracciandosi.
Che bella cosa la Repubblica! Percorsero le vie dei Bruti, si diressero
al Passo. Precedevano il corteo: Gian Battifiore, Bortolo Sangiovese,
Bartolomeo Campana, Ardito Popolini, Tragico Arrubinati, il Cavalier
Mostardo e Coriolano.

Bortolo Sangiovese sgambettava innanzi, senza sapere ove andasse,
stupito e inconsciente. Gian Battifiore sorrideva muto.

Quando giunsero al _Caffè della Bandiera_ le grida raggiunsero il colmo.

Su la porta erano ritti, sogguardando e subsannando: Pietro Ramelli,
Teseo Alvisi e Antonio Viminèdi.

Quest'ultimo tacque per qualche secondo: ma poi, preso da un impeto
d'ira, si pose le mani nei capelli, volse intorno gli occhi e gridò ben
alto, sì che i trionfatori udissero:

— L'Italia l'Italia! Il Metternich disse ch'era un'espressione
geografica, ma sbagliò!... L'Italia... è un'espressione umoristica!



CAPITOLO XVI.

Nel quale il giovinetto Imeneo getta la sua ghirlanda di rose e gli
anarchici esplorano altri cieli.


Le avversità non fiaccarono l'arditezza di Monsignor Rutilante, nè
scossero il suo volere. Però, dopo le molteplici sciagure che Satana
aveva, a sua gioia grande, scagliato su la dolce figlia del Signore,
la Chiesa, il vescovo animoso e superbo più non uscì dal suo augusto e
tetro palazzo e nessuno più volle vedere: nè amici, nè parenti, nè le
signore che lo avevano in sì squisita grazia. Lesse l'_Ecclesiaste_ e
meditò un suo piano di rivincita.

E siccome gli uomini, rossi o no che siano, non possono ancora fare
a meno dei preti; e siccome il Cristianesimo con tutto il suo mondo
spirituale è sì bene infitto nel cuore dei più, tanto da rivelarsi
incoscientemente, Monsignor Rutilante, vide che il suo commercio, non
ora poi tanto vicino al fallimento come poteva sembrare a prima vista e
si rincorò.

La Chiesa, derisa e vituperata dagli uomini rossi nelle sue
esteriorità, in ciò ch'era formula di culto, aveva alla fin fine un
impero sovrano su l'animo dei fieri ribelli, dei sedicenti _liberi
pensatori_; essa li coglieva là, ove la loro morale li teneva al giogo;
li coglieva nella tradizione, nella consuetudine, ne l'educazione
basata sempre su gli antichi cardini di umiltà.

Monsignor Rutilante era, in ultima analisi, convinto di una verità:
fra i clericali e i repubblicani non era poi un gran divario, un
insuperabile abisso; essi non si trovavano certo ai due termini di una
antitesi, nè erano come la Luce e Mammone. Bastava un accurato esame
per convincersi di ciò: ne l'organamento, nelle finalità potevano
chiamarsi _preti_ tanto gli uomini di parte rossa come quelli di parte
nera.

Tale l'opinione di Monsignor Rutilante, uomo di sottile esame.

Naturalmente egli era ben lontano dal comunicare agli amici il
risultato delle sue osservazioni e de' suoi studi; teneva la deduzione
per sè, pronto a servirsene ad occasione propizia, allorchè le cose,
ch'egli veniva disponendo, avrebbero trionfato per il bene della
Chiesa.

Frattanto, nella notte che seguì il risultato finale delle
elezioni, Monsignor Rutilante fece apprestare la sua vecchia berlina
settecentesca e, per vie remote, si avviò a una sua lontana villa posta
fra le pinete e il mare: fra l'eterna foresta e l'Adriatico verde,
maravigliosa cuna di pace.

Egli aveva bisogno di una sosta e andava a cercarla ne l'isolamento
completo, fra gli alberi che non hanno parole e partiti e il mare che
addormenta, con la sua voce sognante. Il mare buono e bello.

Avesse agito ormai come più le tornava a grado, la contessa Liturgico:
Didino era figlio suo.

Partiva lasciando il campo libero. Certo i nemici suoi avrebbero
cantato chi sa quali superbe altezze di vittoria; ma si sbizzarrissero
pure: tempo è di nascere, e tempo è di morire — dice il Predicatore —
tempo di piantare e tempo di divellere ciò che è piantato.

V'è un'alba per ogni cuore, ed egli sapeva la sua non lontana e radiosa
come mille fuochi.

Così pensando Monsignor Rutilante si allontanava per le vie mute della
campagna, sotto la luna che scendeva rosseggiando verso i limiti delle
siepi, mentre nella città del piano gli uomini rossi dormivano il sonno
grave e tranquillo dei trionfatori.

Tutto era nella quiete solenne che segue le grandi agitazioni. Per
le vie deserte non si attardavano se non i cani. Tutti i fanali erano
spenti poichè era il plenilunio.

Dormivano, gli eroi della giornata campale, un grave sonno, privo di
ogni visione, poichè la stanchezza estrema aveva abbattuto il loro
corpo quasi in una morte latente; ma dormivano coi volti sereni, vivi
ancora de l'ampio sorriso che li aveva animati la sera innanzi.

Ora, quando il mattino lanciò le sue freccie d'oro per l'aria e passò
le finestre in isprazzi luminosi e condusse il zinzillulare delle
rondini nei cieli; quando portò le colombe a volo in larghi cerchi
su la piazza maggiore ed ebbe per l'aria l'accoglienza delle numerose
campane, gli uomini rossi levarono il capo dal loro guanciale, poichè
tutti erano mattinieri e, cantando, dopo essersi sommariamente
abbigliati, si avviarono ai consueti ritrovi, pieno l'animo di
festività e il pensiero di gioconde parole.

Solo Gian Battifiore e il Cavalier Mostardo si levarono accigliati
ancora perchè il loro còmpito non era finito.

Dopo la Repubblica, Europa, ch'era alla fin fine la continuazione del
còmpito politico.

Verso le dieci del mattino Gian Battifiore si ebbe la visita del
Cavaliere, il quale, riprese già le trame della sua impresa, aveva
saputo della partenza di Monsignor Rutilante, della sicura permanenza
di Manso Liturgico e delle disposizioni d'animo della contessa circa il
matrimonio.

Quando Gian Battifiore si ebbe le tre buone novelle, tutto si rasserenò
rincorandosi e, rivolto al suo dolce amico:

— Dunque — gli disse — non sorgeranno impedimenti a questa desiderata
fine della nostra campagna?

— Di quali impedimenti parlate? Può esservi forse qualche impedimento
quando c'è l'onore di mezzo?

— Tu sei ingenuo, a volte, amico mio! Sarebbe la prima volta? Scuse se
ne possono trovar molte e i ragazzi sono ancora minorenni.

— Sindaco! Le chiacchiere sono buone per gli sciocchi non per noi.
Qui l'affare si spiccia in poche parole: o li fanno sposare e allora
pace con pace, o — e si soffiò sul palmo della mano — ... buona notte!
Didino va a far visita alle stelle!

— Ma queste tue... intenzioni sono arrivate all'orecchio della contessa?

— Sì, ho procurato ch'ella le sapesse molto bene perchè potesse
pensarvi.

— E l'ultima sua decisione la conosci?

— No; ma non può essere ch'ella voglia resistere; il _Signor_ Rutilante
l'ha abbandonata, poi ha paura.

Così continuavano conversando, ed era prossimo il meriggio, allorquando
Divina bussò alla porta dello studio ed annunziò una visita.

— Chi mi cerca? — chiese il Sindaco.

— Una signora — rispose la fantesca enorme.

— E chi è?

— Non la conosco.

— Falla passare in salotto — disse Gian Battifiore; poi, rivolto al
Cavalier Mostardo, chiese:

— E chi sarà?

— Non l'indovinate? — esclamò il Cavaliere, strizzando un occhio e
lisciandosi i mustacchi. — Io scommetto che è la contessa!

— Impossibile!

— Vedrete!

— Ma come? così presto?... A quest'ora?... In casa di un
repubblicano... lei!...

— V'ho detto che ha paura. Io sono bene informato!

— Uhm! — fece il Sindaco con fare dubitoso. — Vedremo.

E rassettandosi un poco, dischiuse la porta e scomparve.

Quando ritornò dopo circa mezz'ora, il suo volto era radioso.

— Tutto è combinato! — gridò — tutto è combinato! — E gettò le braccia
al collo al Cavaliere e lo strinse, lo baciò, lo ribaciò con effusione
indicibile, con impeto d'amore fraterno. — Tu sei un Dio! Tu vali
più di tutti gli uomini! Tu meriti una biblioteca, una pinacoteca, un
monumento! Io non potrò mai ricompensarti. Io ti debbo tutto!... La
Repubblica deve tutto a te... il più grande fra i repubblicani!...

Sotto tale valanga di aggettivi esaltatorii, il buon repubblicano
arrossì, tossì, gettò via lo sigaro, ebbe una lenta lacrima giù per le
gote rosse fino ai mustacchi imbelli, poi con la voce grossa e un poco
tremante, per una contrazione spasmodica della gola, disse:

— No... È troppo!... È troppo!...

Ma acceso ormai l'entusiasmo, Gian Battifiore continuò:

— Tu meriti un regno, un impero! Nessuno potrà mai darti ciò che il
tuo ingegno vale! Tutto che ti si getterà ai piedi sarà sempre poco.
Ah! mio grande amico, mio unico fratello, come ti voglio bene! Quanta
gratitudine ti debbo!

E, dismessi per alcun tempo gli abbracci, Gian Battifiore si lanciò
verso la porta, l'aprì d'impeto e sporto il torso, si dette a chiamare
a gran voce:

— Veneranda, Europa, America, Asia, Oceania... venite!... Presto,
venite che ho una buona notizia! Spicciatevi spicciatevi!

Sì alto fu il grido e sì pressante, che si udì un gran calpestìo,
un precipitare giù per le scale e le quattro sorelle, la madre seguì
ultima, irruppero nella stanza, scapigliate e vermiglie.

Gian Battifiore richiuse la porta. Le donne si disposero in semicerchio
aspettando, mentre il Cavalier Mostardo volgeva gli occhi al soffitto
per non mostrare il luccicar delle sue lagrime.

Poi il Sindaco prese per mano Europa e le disse:

— Europa!... Tu hai commesso una colpa e male poteva esserne per te
e per la tua famiglia; ma ormai non ti rimprovero, chè le cose sono
andate per la via migliore. Tu andrai sposa al conte Manso Liturgico.
Questa mattina, con la madre del tuo fidanzato, abbiamo deciso che il
matrimonio avverrà fra due giorni! Ora di questa tua insperata e grande
felicità, vai debitrice ad un uomo solo, ad un uomo che è più buono del
Signore e più alto dei sole; ad un uomo che è stato per te un angelo
custode, una dolcissima madre, un'assidua cura benefacente! Tutti
andiamo debitori a lui di qualche cosa. Tu lo conosci e lo ami già.
Bacialo!

E tese una mano verso il Cavalier Mostardo il quale, goffamente
confuso, andava mormorando con la voce grossa e rotta da l'emozione:

— No!... È troppo!... È troppo!...

— Bacialo! — ripetè Gian Battifiore.

E Europa, tutta rossa come una bella fragola saporosa, fece due passi,
si avvicinò al gigante poi, alzandosi su la personcina e tendendo il
collo, chè altrimenti non avrebbe potuto, baciò su la larga guancia
vermiglia il suo protettore.

E quel bacio fu la piena, fu il fremito intenso che pose ne l'anima
del povero Cavaliere uno sconvolgimento grande, onde nel pronunziare
la parola: Grazie!... — più non si rattenne e a grandi sospironi,
sussultando, lasciò libero corso alle sue lagrime copiose.

E piansero tutti, tranne Asia la quale, cupamente sogguardando, pareva
attraversasse una tenebra densa.

Poi il Cavalier Mostardo salutò senza pronunziare parola, strinse tutte
le mani protese, s'inchinò, tornò a inchinarsi, si rivolse, urtò tutti
i mobili e scomparve in silenzio.

Quando fu al sole, gli parve che tutto ciò che gli appariva intorno
fosse cosa miserrima; gli parve che avrebbe potuto servirsi del
campanile come stuzzicadenti e vide la sua ombra dilagare nello spazio.

V'era uomo più grande forse? V'era spirito più grande?

Egli non si comprendeva quasi; gli sembrava di aver superato il suo
desiderio; quasi s'incuteva rispetto, perchè ne' suoi precordi viveva
senza dubbio lo spirito di un nume, l'ombra superba e immensa di un
Dio! I suoi simili gli apparivano come un mondo brulicante di formiche
e non eran suoi simili se non nella simiglianza della forma: nel
rimanente, s'essi fossero saliti l'uno su l'altro, mille e poi mille
e diecimila ancora, non avrebbero raggiunto il superbo cielo della sua
essenza! Egli era la _causa_ di tutto il bene e si sentiva _padrone_ e
_signore_. Ciò gli era come un'ebbrezza grande.

Guardò l'ombra sua, nitida e nera nella chiarezza del sole e gli parve
di poterla scavalcare a sua volontà; vide un crocchio di giovanette ed
ebbe la convinzione che tutte sarebbero impazzite per il suo amore,
s'egli avesse fatto un cenno; e così, volgendo gli occhi al cielo si
convinse che le rondini e le colombe gli avrebbero fatta docile corona
ad un suo richiamo.

Esaltandosi si santificava; scrutandosi si adorava e, risultato
ultimo, risultato di relativa applicazione di detti sentimenti, era un
piagnucoloso sentimento di umanità. Poichè vedeva i suoi simili tanto
lontani e tanto piccini, tutti li avrebbe accolti in amplesso fraterno.
Egli sentiva di possedere il capace cuore di un Dio; anzi egli era la
stessa capacità divina. L'astrazione mentale di uno spirito a l'infuori
di noi, spirito invisibile, legiferante ed eterno, ch'egli non aveva
concepita mai, se non in barlume, si modificava in intima coscienza, in
istato di fatto allorchè si pensava ultrapossente.

L'impeto megalomane assaltava i cieli che racchiudono i comuni concetti
di vita; il Cavalier Mostardo credeva poter muover le nubi a suo
talento.

Così perigliosamente fantasticava camminando senza mèta, allorchè si
trovò sperduto fra il laberinto di viuzze che mettevan capo alle mura
della gaia città del piano. Stava per ritornarsene, quando la sua
attenzione fu attratta da un gruppo di persone che si allontanava verso
Porta del Sole. Aguzzò gli occhi e riconobbe fra queste Marcôn, il suo
fido amico,

Siccome la piena del suo sentimento era in quel giorno impetuosa, si
accostò le mani alla bocca e ad alta voce si dette a chiamare:

— Marcôn? Marcôn?

Il lacero profeta si volse, sogguardò, poi, com'ebbe riconosciuto il
Cavalier Mostardo, stette fermo ad attenderlo mentre i compagni suoi si
allontanavano lentamente.

— Dove andavi? — chiese il Cavaliere.

— Lontano — rispose brevemente Marcôn.

— E dove?

— Non lo so.

— Come non lo sai? Sei matto?

— Non lo so! — rispose il profeta con la sua flemma filosofica.

In un'ora differente, forse il gran repubblicano avrebbe persuaso
l'anarchico che quello non era il mezzo migliore per ragionare con
un par suo; ma allora, con la piena di gigantesca affettuosità che
gli inondava il cuore, avrebbe perdonato a tutti, anche al _signor_
Rutilante. Così battè una mano su la spalla del piccolo ben chiomato
vagabondo e gli disse:

— Sai? Fra due giorni Didino sposerà Europa!

— Ah! — rispose Marcôn.

— Come? La notizia non ti commove?

— Sì, mi commove.

— E non ne provi gioia?

— Non c'è male.

— Ma dove sei stato in questi giorni?

— In prigione.

— Per motivi politici?

— Sì.

— E perchè non me l'hai detto? Io potevo liberarti.

Marcôn scosse il capo e non rispose.

— Beh! — fece il Cavalier Mostardo dopo aver taciuto alcuni secondi. —
Vieni a pranzo con me, io voglio ricompensarti del buon servigio che mi
hai reso.

— Non posso! — rispose sempre con la sua flemma l'anarchico.

Gli occhi del repubblicano si aprirono in grande maraviglia:

— Non puoi? Ma sei ben sicuro di pranzare oggi?

— Non lo so.

— E rifiuti così?

— Ve l'ho detto: debbo partire.

— E quando?

— Subito.

Nello stesso tempo dalla fine del vicolo si udì un lungo fischio di
chiamata. Marcôn volse il capo, poi disse al Cavaliere:

— Sentite? Mi chiamano.

— E chi sono?

— I compagni.

— Ma lasciali partir soli, vieni con me. Berremo del buon vino ed io ti
terrò sotto la mia protezione.

— Non posso! — rispose col consueto tono flemmatico il profeta. Il
Cavalier Mostardo sbarrò gli occhi, strinse i pugni, guardò l'omuncolo
quasi lo volesse inghiottire, poi si corresse e dopo un:

— Va al diavolo! — gli volse le spalle e se ne andò.

Marcôn, come fu libero, rispose alla chiamata e raggiunse la comitiva
che l'attendeva presso Porta del Sole.

Erano della comitiva: Gargiuvîn, Apulinèr, Schignòtt, Don Vitupèri,
Arfàt. Gli anarchici.

Il giorno prima, uscendo dalla prigione, Gargiuvîn li aveva riuniti ad
uno strano convito, in un orto solitario del suburbio.

Bevvero acqua e mangiarono semi di zucca, poichè, in sei, non
possedevano un soldo. Poi, quand'ebbero finite le loro provviste,
Gargiuvîn si alzò per parlare e disse:

— «Uomini! Noi non abbiamo patria, noi non abbiamo interessi speciali:
il nostro paese è il mondo! Ora in questo nido di borghesi che sono
come il leone e dicono: — questo è mio e questo è mio! — e non lasciano
neppure le bricciche per i polli, noi non possiamo rimanere e per due
ragioni.

«La prima è questa: Ormai ci conoscono troppo e, per le nostre idee, ci
mettono al buio a ragione e a torto.

«La seconda è che ogni buon anarchico non deve legarsi ad un palmo di
terra.

«Io vi dico che la morte è una compagna bella come il vino e le donne!
Ora il vino costa; le donne hanno paura di noi e la morte no! Evviva
lei, dunque, e domani partiremo.

«Noi siamo apostoli dell'Anarchia. Gli apostoli non devono star fermi.
Chi sta fermo, vegeta; chi vegeta è una pianta... Noi siamo anarchici e
dobbiamo vivere per le nostre dottrine.

«La nostra guerra non si muove ad una classe, ma a tutte le classi, al
mondo! Quando gli uomini ci avranno inteso, saranno perfetti. Per ora
son degni di distruzione.

«E comincieremo dai culmini coronati, comincieremo dai regnanti! Ho una
missione che in via vi comunicherò.

«Preparate il vostro bastone e le gambe e le tasche per il pane. E
siate forti come la dinamite!»

Arfàt tremò; gli altri chinarono il capo. Così avevano acconsentito.

Ora, l'un dietro l'altro, uscirono da Porta del Sole. Andava innanzi
Plè, il cane apocalittico, dalla gran testa penzolante e malinconica
e buia. Stanco della vita ormai, non si soffermava più ai paracarri,
sdegnoso degli annunzi amichevoli che si lasciano i cani fra loro, con
reciproco accordo. Andava col muso su la polvere ardente, trascinando
le zampe ciondolon ciondoloni. Lo seguiva ronzando uno sciame di mosche
importune. Veniva poi Gargiuvîn col cappello su la nuca e il capo
diritto, da l'eterno sorriso maligno. Impugnava a sostegno e a difesa
una specie di clava di quercia, scolpita nei frequenti nodi a orribili
teschi. Pel suo cammino occupava mezza via, poichè gettava una gamba a
nord e l'altra a sud.

E Arfàt, il gigante dai miti occhi azzurri, fattosi anarchico per
il debito di cinque lire, seguiva a capo chino, pensoso solo della
canicola grande.

Poi Schignòtt, dai calzoni che gli arrivavano al ginocchio, dalla
camicia a brandelli. Egli non portava mai il cappello; lasciava il
cranio deforme dai capelli rossigni, al sole. Teneva le mani dietro le
reni e pareva fosse sua intensa preoccupazione quella di porre i piedi,
a passo a passo, su le immense orme lasciate da Arfàt.

Apulinèr, l'ortolano di un tempo, aveva dietro le spalle una bisaccia
contenente sette rape e sette sedani e tre pomodori. Non ne avrebbe
preso nè più nè meno, per la fatalità numerica che lo perseguitava.

Don Vitupèri, il prete filosofo, povero come tutta la miseria, andava
sorridendo. Ah! l'anarchia era, per lui, un regno d'amore divino! Un
ritorno alla filosofia della terra, ai costumi delle formiche! Uomini,
uomini! Iddio dette la luce e voi ve la togliete a vicenda!

Camminava distrattamente, un po' qua, un po' là, quasi gli mancasse
l'equilibrio.

Da un sacchetto che portava su le spalle, si alzavano ogni tanto soffi
e mugolii strani e paurosi. Miarù, il gatto forastico, si faceva vivo
così, per la paura grande.

Don Vitupèri aveva voluto prendere il suo amico migliore con sè, ne
l'ignoto pellegrinaggio.

E veniva ultimo Marcôn, il profeta. Su le sue spalle posava Lèdar, la
cornacchia; da una tasca sbucavano le pagine sgualcite del Libro dei
sogni.

Marcôn aveva seco gli elementi necessari per giungere in capo al mondo.

Andaron così sotto la canicola.

Quando furono al bivio dei Fonti, Gargiuvîn si volse e disse:

— Da che parte?

— Dove Lèdar andrà! — rispose Marcôn. E dette il volo alla cornacchia
che si avviò crocidando, per breve tratto, verso i profili dei monti
solitarii.

— E ai monti sia! — disse Gargiuvîn.

Prima di riprendere il cammino si volsero, quasi per muto consenso,
tutti e sei.

In fondo, nel sole quasi bianco, la gaia città del piano sorgeva in una
chiara visione abbagliante come in un sogno dei deserti.

— Addio! — esclamò Gargiuvîn tendendo le braccia in atto grottesco.

Riprese la strada e i compagni lo seguirono.

Solo Apulinèr raccolse sette sassi e poi sette e poi tre e li ripose
nella bisaccia fra i sedani e i pomodori.

Poi riandarono muti, l'un dietro l'altro, verso le vie de l'ignoto,
verso i dolci e terribili ideali della loro anarchia.



CAPITOLO XVII.

Nel quale i repubblicani proclamano il Supremo Trionfo.


Si erano vestite a nuovo Asia, Africa, Oceania e America.

Europa indossava l'abito nuziale tutto bianco e sgargiante e sui
capelli portava, nonostante la precursione degli avvenimenti la
simbolica ghirlandetta.

Asia aveva una lunga veste di raso verde; di un verde estivo, denso, a
riverberi cupi, che usciva, per la lucidità metallica della stoffa, in
bagliori improvvisi, in urlanti stonature di colore. Ella aveva scelto
un tono alla sua disperazione.

Ormai, come l'ultima sembianza di giovinezza cadeva, come sfiorivano
anche gli ultimi germogli de l'età divina ed ella ne sentiva giorno
per giorno la lenta e ineluttabile dipartita, ciò che v'era di latente
bontà ne l'anima sua si cristallizzava, era inutile e impossente forza,
perduta negli amari deserti di un'antica verginità crudele.

Quasi uno spirito vendicatore era sorto in lei, non diretto a scopo
determinato: ella non aveva pensiero critico bastante a comporsi
un qualsiasi ente morale ingiusto contro il quale dirigere la sua
violenza: ella viveva nella legge e credeva in Dio; viveva nella
consuetudine e n'era schiava, tutta schiava e cieca onde di tutto il
suo male non trovava ragione esterna e la sua ira si rinchiudeva in lei
e la rendeva cupa e scabrosa come vie non battute.

Solo le creature meno responsabili di quel suo sfiorire in desideri
solitarii, le creature che le vivevano a lato, risentivano degli
scatti che la Nemesi vendicatrice, annidatasi ne l'anima sua, aveva
quotidianamente. Così la madre Veneranda e Divina e le tre sorelle.

Ella, chiusa come un sepolcro quando si trovava in gaie comitive,
si apriva agli urli ed a l'ira non appena la vita consueta l'avesse
richiamata nella sua insuperabile prigione; e la madre e le sorelle
lasciavano libero corso alla torrenziale piena che scendeva ad
inabissarsi, accavallandosi e muggendo.

La benchè minima causa era cagione del subito disequilibrio e, quando
cause non se ne presentavano, divenuta aggressiva, una ne cercava per
la necessità di dilaniarsi e di riversare il suo veleno in altri cuori.

Non era giunta ancora al punto in cui l'acrimonia e le dense tenebre
delle quali si ammanta ciò che è terrestre, per le antiche vergini,
chiama le stesse al cielo ed apre loro, se la fede e la fantasia
creatrice le aiuti, un infinito campo di speranza; non era giunta alla
rinunzia completa dei beni di questa vita; l'astrazione non vinceva
ancora il senso convulso che aveva di frequente dominazioni d'incubo
e passava ne' suoi carri vertiginosi agitando mille faci, tutto
vermiglio di sangue e scarmigliato; ell'era nello stadio più terribile
e più oscuro, nel punto in cui Dio è ancora come un'alba lontana e il
desiderio, già al cielo d'occaso, rosseggia violentemente fino allo
Zenit, per l'ultimo suo impero.

Così camminava ne' suoi postremi sentieri di concupiscenza, Asia, la
cupa zitella dai pochi capelli raggruppati a teghe, dagli zigomi forti,
dalla stridente magrezza ed era, alle nozze della sorella, come un
orribile simulacro d'impotenza astiosa.

Si pose ella, ritta nel vano di una finestra e immobile, arcigna,
tacque sogguardando.

Nessuno, d'altra parte, le pose mente. I giovani no, che, quando si
avvicinavano per stringerle la mano erano accolti da sì macabro sorriso
(macabro nella subitanea apparizione dei denti rari e sconnessi e
puntuti come sanne) nè l'aggrinzarsi di tutto il volto come una vecchia
stoffa e nel lampeggio dei piccoli occhi sitibondi sotto le ciglia
troppo ispide, che ogni pietosa fantasia presto dileguava dalla loro
mente; i vecchi neppure chè non riuscivano a strapparle da l'ampia
bocca fortissimamente serrata, l'eco di un suono.

Ella rimase sola nel vano della finestra.

Chiusa nella sua veste di raso verde cupo come in un estivo ammanto
funereo, fissò Europa quasi volesse farla dileguare come l'ombra di un
sogno.

Parve a volte che le sue braccia scheletriche, ispide come le chele
di un granchio, dovessero aprirsi e racchiudere in amplesso di ansiosa
concupiscenza, tutta l'osannante brigata.

Africa e America, frattanto, bezzicavano qualche dolciume.

Oceania canticchiò come sempre, aspettando l'amore. Ed Europa e Didino
ebbero negli occhi l'azzurro cupo dei cieli.

Erano felici dovevano esserlo: sposavano. Nella buona società degli
uomini che si affratellano, conviene esser felici a scadenza fissa, per
il bene comune e per le convenienze, sciocche tirannelle.

Gian Battifiore, indossata la simbolica fascia del suo ufficio, aveva
già congiunto indissolubilmente i due rappresentanti dei partiti
avversi che, ne l'amore, trovavano momentanea sosta.

Ora tornavano dalla Chiesa. I liberi pensatori rispettano le tradizioni.

Un mondo di sventure sarebbe toccato agli sposi, qualvolta non avessero
chiesto a Dio il permesso di unirsi; così non era neanche passato pel
capo a Gian Battifiore il pensiero di opporre ostacoli al matrimonio
religioso. Assaporavano i simbolici dolciumi, ora, vezzeggiando con
molto spirito su la saggia dignità de l'alcòva. E dimostravano che le
feste di nozze sono sempre di gran belle cose! Opportune e di squisita
grazia.

Frattanto il Cavalier Mostardo e Bortolo Sangiovese, da bene esperti
amatori, assaggiavan tutti i liquori; Ardito Popolini, Tragico
Arrubinati, Bartolomeo Campana tacevano, impacciati, poichè di politica
per allora non se ne poteva parlare.

Solo le molte signore, arzigogolando qualche malignità, ridevano e
Augusto Regida faceva stupire la bonaria ignoranza di Veneranda, co'
suoi discorsi.

Ma vi fu un punto in cui l'ingenua vecchietta s'impermalì poichè il
Regida le disse:

— Vede signora Veneranda, due giorni di una donna sono i più soavi:
Quando si sposa e quando si porta a sepellire.

Lo diceva un greco ma lei non l'ha conosciuto.

Ella gli volse spalle e se ne andò senza rifiatare, inviperita.

Poi il Regida, come argomento nuziale, trasse in ballo Saffo dalla
cetra bene esperta d'_ymenaei_. E recitò ad alcune signore il brano de
l'ode:

«.... _è tramontata la luna e le Pleiadi, è mezzanotte, il tempo
passa e io dormo sola_....» Commentando poi con certi particolari di
terribile audacia che posero in fuga le signore, dignitosamente, per
Madre Decenza dai benigni velari.

Più si dilettarono esse nel leggere i numerosi sonetti e gli epitalami
inviati per l'occasione.

Uno ve n'era che piacque moltissimo per la sua gentile semplicità. Era
di un prete, zio materno di Gian Battifiore e diceva:

    «_Il canonico Minosa,_
    _parente della sposa,_
    _offre ogni cosa_».

E che più?

Poi il _rinfresco_ sparì. L'ora si fece tarda e le vetture furono alla
porta.

Cominciò il diluvio dei baci, cominciarono i rigagnoletti di lacrime
che si rinnovarono alla stazione. I coniugi Liturgico disparvero poi
sotto l'orizzonte mite, verso il paese degli aranci. E le sorelle
superstiti, unitamente a Divina, piansero e piansero per l'inarrivabile
amore.

Così si sciolse il nodo delle lotte; ma la Republica voleva avere, dopo
tanti trionfi, soddisfazione ben maggiore.

Fin dalla mattina, al domicilio di ogni repubblicano, era stata
recapitata una circolare misteriosa concepita in questi termini:

      «CITTADINO,

  «_In seguito alle luminose vittorie riportate in questi giorni dal
  nostro partito, una via ben più grande si è aperta._

  «_Siete pertanto invitato questa sera (ora consueta) alla sede del
  nostro principale circolo_ DANTON _per urgentissime comunicazioni._

  «_Vi si attende immancabilmente._

                                               _Per il Presidente:_

                                      «RIBELLE LIBERTÀ GIOVANELLI.»

Però, siccome simili circolari erano, a lunghi periodi, consuete,
nessuno pensò annettervi grande importanza o significato eccezionale.

Alle ore nove pomeridiane, ora consueta, alla spicciolata o a crocchi,
parlando e accendendosi per le discussioni politiche, gli uomini rossi
salirono le scale del circolo _Danton_ e si raccolsero, come era loro
abito nelle grandi occasioni, nella sala principale dalle pareti adorne
di ritratti, di trofei e di bandiere.

Erano accese tutte le lampade, l'ambiente era discretamente illuminato.

In un capannello, in mezzo alla sala, parlavano accalorandosi Ardito
Popolini, Gian Battifiore, Bortolo Sangiovese e un nuovo personaggio,
ritornato il giorno stesso da lontane regioni: Ottantanove Riborsi,
vecchio repubblicano convinto, anima schietta e sincera, tanto sincera
che il Regida, parlando di lui, soleva dire ch'egli

    «... _ne mettait son chapeau_
    _qu'il ne se couvrît la tête_».

Era importante la presenza del Riborsi per gli affigliati, poichè
qualcuno fra questi pensò fosse apportatore di grandi novità.

La sala del circolo _Danton_ non era nè ricca nè povera, discretamente
brutta, passabilmente tollerabile. Ognuno aspettava, trattandosi
di democratici, col proprio cappello in testa, chè, il toglierselo,
sarebbe stata dimostrazione di imperdonabile umiltà.

Come trascorse mezz'ora dal tempo fissato e il Popolini, volgendo gli
occhi intorno, vide presenti i principali rappresentanti del partito,
gridò al Cavalier Mostardo;

— Chiudi le finestre! — poi, come l'opera fu compita, salì su la grande
tavola ch'era situata al centro della sala.

Fu fatto un silenzio solenne.

— Cittadini! — gridò, e la sua voce fu come tuono, come fragore di
tempesta. Qualche cappello descrisse la parabola del rispetto.

— «Cittadini!

«La nostra regione, sacra ormai nella storia pel suo grande còmpito di
civiltà e per le vittorie ottenuto contro la tirannìa e gli oppressori,
ha in questi giorni conosciuto ciò che sia coronamento di trionfo a
centenaria lotta!»

Qualche altro cappello, poi che corse un fremito nelle anime, descrisse
il semicerchio laudativo.

— «Noi passiamo nella storia non solo per ciò che volemmo, ma per la
nostra tenace volontà di volere!»

Scoppiarono i primi applausi, e l'esaltazione, sì facile a spiriti
romagnoli, cominciò a manifestarsi.

— «Ora ciò che abbiamo ottenuto, ha avuto eco subitaneo _altrove_.

«Ciò che pensavamo lontano, è sorto al nostro fianco. La _mutazione_
sognata è ormai fatto compiuto.»

Ogni capo si scoprì, un mormorìo corse fra gli aspettanti.

Il Popolini riprese:

— «Sconfitti i clericali (vadano i nostri auguri ad Europa Battifiore,
gentile rappresentante del nostro partito) e sgominati i monarchici,
salimmo al postremo grado del nostro desiderio. Ora non mancava che
l'ultimo compimento. E la sorte c'è venuta in aiuto.

«Cittadini!

«Ecco ciò che i _nostri_ ci telegrafano da Roma!»

Il brivido s'intensificò. Quasi istintivamente tutti si strinsero a
spalla a spalla, protendendosi.

Ardito Popolini, girati gli occhi attorno, spiegò un telegramma, e con
la sua voce più forte, corsa da fremiti d'emozione, lesse:

«ARDITO POPOLINI, _Segretario Consociazione Repubblicana_.

«Seduta notturna nostra Direzione Centrale fissava per oggi
grande avvenimento. Stamane nostri deputati riunitisi Montecitorio
incaricarono onorevole Livio Merate svolgere proposta odierna seduta.

«Or ora dinanzi Camera imponente, Livio Merate, eloquenza degna
nostri maggiori, richiamate gloriose tradizioni partito, evocata
memoria immortale Maestro, cui spirito, disse, aleggiava su Assemblea,
dimostrando irrefutabile prova fatta incompatibilità assoluta fra
condannato Sistema e missione affidata genio nazionale, propose ordine
giorno dichiarante _decadenza monarchia proclamazione Repubblica_.
Proposta accolta entusiastiche, frenetiche acclamazioni deputati,
tribune.

«Prese necessarie disposizioni costituzione governo provvisorio,
prossima convocazione Costituente.

«Comunicate grande avvenimento Comitati circondariali dipendenti,
impartendo necessarie istruzioni.

«Convocate immediata grande Assemblea Circolo _Danton_, annunziando da
oggi soltanto comincia veramente, terza Italia!

«Disponete adeguati festeggiamenti pubblici.

«Viva la Repubblica!

                                           «_La Direzione P. R. I._».


Quand'ebbe finito, rimase in un attimo di sospensione durante il quale
nessuno fiatò, poi, allargate le braccia quasi attendesse un desiderato
amplesso, gridò con veemenza frenetica:

— Evviva sempre la Repubblica!

E non un grido solo rispose, ma un urlo formidabile per cui i vetri
tremarono:

— Evviva! Evvivaa! Evvivaaa!

Poi l'anima fremente, posta in sobbollimento, ebbe necessità di
espandersi.

Una mano staccò dal muro una bandiera rossa, un corteo improvviso, in
giro lento e continuo e grave intorno alla larga tavola, si formò.

E andarono, andarono, andarono nello spazio meschino come camminassero
verso l'infinito. Ogni grido ne alimentò cento e ciascuno credette,
in quegli attimi d'entusiasmo, alla gaia menzogna come a verità
indiscutibile.

Si agitarono i vessilli sui capi scoperti, si alzarono mani brandenti
cappelli, fazzoletti, bastoni, poi una voce intonò la marsigliese:

    _Allons, enfants de la Patrie,_
    _Le jour de gloire est arrivé_...

Al ritornello fu un coro generale. Voci gravi e vibranti:

    _Aux armes, citoyens! formez vos bataillons!_
    _Marchons, ça ira... marchons_...

E sotto le fiammee bandiere agitate da mani di ossessi, fra l'impeto
musicale gridato da cento petti, essi videro, i buoni romagnoli
ardenti, videro un'alta figura di donna benedicente: la Repubblica
Madre che scendeva ai figli suoi i quali non avrebbero temuto morte per
porla su gli altari.

Poi, come ogni cosa trova il suo ultimo grado, caddero le bandiere,
disparvero le visioni, le voci si spensero e gli uomini rossi uscirono
per la via.

Ribelle Libertà Giovanelli, quando si vide a l'aperto, volle affermare
ancora la sua convinzione politica, onde soffermatosi col capo a
l'aria, socchiudendo gli occhi come fanno i galletti di primo canto,
cominciò:

— Evviva la Re...

Ma non finì, che il Cavalier Mostardo troncò la frase con un solenne
scappellotto.

Come Ribelle si rivolgeva inviperito, il Cavaliere apostrofandolo
rudemente, gridò:

— Ma non vedi, asino? Ci sono i pennacchi rossi!

Così Ribelle Libertà Giovanelli, puro sangue repubblicano, tornò alla
dura realtà della vita e tutti vi ritornarono, contenti della loro
finzione, perchè, alla fin fine, ogni atto umanamente progressivo non
si riduce che a un giro intorno ad una tavola più o meno grande, e ad
una proclamazione d'impero.



INDICE


  CAPITOLI:

  I. — Nel quale per l'eterno amore,
  gli uomini rossi si trovano a mal
  partito                                         _Pag._ 7

  II. — Nel quale Monsignor Rutilante
  spiega la sua autorità                            »   14

  III. — Nel quale Gargiuvîn ha una
  sua esclamazione consueta                         »   25

  IV. — Nel quale gli anarchici prendono
  consiglio                                         »   34

  V. — Dove Divina piange un dirotto
  pianto per la soave primavera                     »   42

  VI. — Che serve d'intermezzo esplicativo          »   51

  VII. — Qui fa la sua prima comparsa
  il Cavalier Mostardo negli
  Uffici dell'_Aristogitone_                        »   59

  VIII. — Nel quale Don Papera si
  trova in un terribile ginepraio
  e non sa come uscirne                             »   74

  IX. — Si osserva ora come l'illustre
  scienziato Gerolamo Parvenza
  possa appianare momentaneamente
  le cose                                           »   98

  X. — Dove si cantano gli osanna                   »  130

  XI. — Dove si banchetta alla guisa
  omerica, superlativamente, e il
  Cavalier Mostardo trionfa                         »  145

  XII. — Nel quale si vede come Madonna
  Luna si dichiarasse nemica
  di Monsignor Rutilante                            »  170

  XIII. — Nel quale si assiste ad un
  trionfale ritorno                                 »  201

  XIV. — Dove Don Papera esplora
  nuovi cieli e gli anarchici collaborano
  al bene della repubblica
  democratica                                       »  221

  XV. — Nel quale gli uomini rossi
  passan la loro settimana di passione              »  238

  XVI. — Nel quale il giovinetto Imeneo
  getta la sua ghirlanda di
  rose e gli anarchici esplorano
  altri cieli                                       »  308

  XVII. — Nel quale i repubblicani proclamano
  il Supremo Trionfo                                »  329



di ANTONIO BELTRAMELLI:

Il Carnevale delle democrazie.

  1º _Gli Uomini Rossi_ — RENZO STREGLIO E C.,
      Torino.
  2º _Il Cavalier Mostardo_.[Da pubblicarsi.]
  3º _Qui si balla_.[Da pubblicarsi.]

Le leggi eterne.

  1º _L'antica madre_ — LICINIO CAPPELLI,
      Rocca S. Casciano.
  2º _Anna Perenna_ — FRATELLI TREVES, Milano.
  3º _I primogeniti_.[Da pubblicarsi.]



NOTE:


[1] Al tempo della mietitura. L'_uròl_ è l'urlo strano e selvaggio che
mandano i mietitori allorchè cominciano o finiscono l'opera.

[2] Voce di scherno, intraducibile, con la quale i repubblicani di
Romagna designano i monarchici.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Erla/Êrla, cigolio/cigolìo e simili), correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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