Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Ricordi d'infanzia e di scuola
Author: De Amicis, Edmondo
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Ricordi d'infanzia e di scuola" ***


                           EDMONDO DE AMICIS


                                RICORDI
                               d'INFANZIA
                              e di SCUOLA

                               SEGUÌTI DA

                  BAMBOLE E MARIONETTE — GENTE MINIMA
                     PICCOLI STUDENTI — ADOLESCENTI
                      DUE DI SPADE E DUE DI CUORI



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1913

                       Quattordicesimo migliaio.



                   PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA.

     _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
      tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._

                         Tip. Fratelli Treves.



AL DOTTORE ANGELO BOCCA SINDACO DI CUNEO

CARO AMICO DEI MIEI PRIMI ANNI INSEPARABILE NELL'ANIMO MIO DALLA
MEMORIA DELLA CITTÀ ILLUSTRE E BELLA A CUI MI LEGA AMORE E REVERENZA DI
FIGLIO.



RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA.



I primi anni.


La traccia più remota ch'io trovi in me della mia coscienza è quella
d'un giorno che stavo giocando sopra un mucchio di sabbia con un mio
fratellino, maggiore di me di due anni, il quale morì quand'io n'avevo
quattro, non lasciandomi neppure una vaga reminiscenza del suo viso.
In che maniera mi sia rimasta l'immagine di lui in quel punto, e non
l'ombra d'un ricordo di quanto avvenne in casa mia alla sua morte, che
avrebbe dovuto lasciarmi un'impressione profonda, è uno di quei tanti
misteri della memoria, che tenta invano il nostro pensiero. E non è
meno misteriosa per me la certezza assoluta che ebbi sempre, che quella
larva con cui giocavo quel giorno era mio fratello, quantunque non
abbia nessuna ragione d'esserne certo. A me pare che la mia esistenza
sia incominciata in quel momento. Ma dopo di questo ricomincian le
tenebre, e non ritrovo più il lume d'una ricordanza che molto tempo di
poi: quello d'avere una volta, scendendo la scala di casa, contato i
miei anni, che eran cinque, sulla punta delle dita, e d'aver pensato
che mi sarei potuto chiamar grande quando per contar la mia età
mi fossi dovuto servire anche dell'altra mano. D'allora in poi gli
avvenimenti di cui mi rammento, benchè separati ancora da molti spazi
oscuri, come i fuochi notturni dei pastori sui monti, sono chiari nella
mia memoria come quelli dei periodi più recenti della mia vita.

                                   *

Mio padre, genovese, era banchiere regio dei sali e tabacchi in una
piccola città del Piemonte, che è per il sito e per i dintorni una
delle più belle d'Italia: posta sull'ultimo lembo d'un altipiano,
che si protende a punta e sovrasta al confluente d'un fiume e d'un
torrente, i quali la cingono come d'un abbraccio; e di là dalle rive
si stende, ascendendo ad anfiteatro, una campagna floridissima, tutta
macchie e vigneti, coronata dalle Alpi imminenti. Tutti i ricordi
dell'infanzia mi si disegnano alla mente sul verde vivo di quella
campagna, sull'azzurro chiaro di quelle acque, sulla neve luminosa di
quelle alte montagne. Abitavamo in una casa spaziosa, che guardava
da una parte sul fiume, e aveva a terreno l'ufficio e i magazzini,
e davanti un giardino, un orto, due grandi pergolati, e un vasto
cortile; il quale si riempiva due volte la settimana dei carri dei
rivenditori, discesi a far le provviste fin dai villaggi più lontani
del circondario; e quei giorni era un moto, un traffico, un rumorìo
di mercato, nel quale io mi tuffavo con gran piacere, correndo qua
e là fra le bestie e la gente e su per i sacchi e le casse, curioso
e eccitato, e un poco anche inorgoglito dal pensiero che tutto
quell'affaccendamento mettesse capo a mio padre, che mi pareva un
personaggio più potente d'un ministro. Ma le impressioni più belle
e più forti di quei primi anni furono quelle che ebbi dalla natura:
tanto belle che, ripensando a quel tempo, mi pare che non ci siano
più stati al mondo splendori di sole così sfolgoranti, lumi di luna
così limpidi, primavere così fresche e così odorose; tanto forti che
anche ora il piacere che mi dànno l'aurora, il tramonto, la pioggia, la
neve, l'odor della terra e il profumo delle rose e delle viole, deriva
in gran parte dal ricordo delle sensazioni che tutte quelle cose mi
destavano allora. Per il luogo e per le circostanze in cui trascorsi la
mia infanzia, non avrei potuto esser più fortunato. Mi è sempre stato
un conforto dolcissimo il pensiero d'esser cresciuto in cospetto di
quella vasta bellezza alpina, in quella casa grande e sonora, inondata
di luce e scossa dai venti, tra il verde di quel giardino che mi pareva
immenso, in mezzo a quel trambusto di arrivi e di partenze, di lavoro
e di grida, che metteva in moto ogni momento la mia immaginazione e le
mie gambe, e mi faceva vivere una vita intensa e varia, tra cittadina
e campestre, un po' da figliuol di signore e un po' da ragazzo
d'officina, libera e vigorosa come l'aria purissima che respiravo.

                                   *

Un ricordo vivo di quegli anni, che mi fa ancora sorridere, è la
condizione singolare in cui mi trovavo davanti a mia madre e a mio
padre in riguardo del linguaggio. Portato via, che non avevo ancor
due anni, da Oneglia, dov'ero nato e cominciavo a balbettare il
genovese, e trapiantato in una città dove si parlava un dialetto
diversissimo, avevo scordato quello affatto, e imparato questo dalle
persone di servizio e dai miei nuovi concittadini coetanei avanti che
i miei parenti ci si cominciassero a raccapezzare; perchè ai bambini
il linguaggio che intendono dai compagni di gioco e dagli inferiori
ossequiosi si attacca più prontamente di quello che sentono in casa.
Ne seguì che per un bel pezzo mia madre ed io ci capimmo poco o punto;
ed eran scene comiche, che facevan ridere tutti i presenti, quando
essa mi dava una lavatina di testa in genovese ed io mi giustificavo e
protestavo in piemontese, e la disputa andava per le lunghe, essendo
grammatica tedesca per ciascuna parte le argomentazioni dell'altra;
tanto che molte volte, per finirla, bisognava chiamare per interprete
uno dei miei fratelli. E così a tavola due volte il giorno, essendo io
il solo che parlasse il nuovo dialetto e non capisse l'altro, feci per
molto tempo la figura d'un forestiero intruso, d'un trovatello raccolto
nella città nuova, impacciato a chieder molte cose e costretto spesso
al silenzio, come quei viaggiatori che si trovano solitari a una tavola
rotonda d'albergo in mezzo a commensali di un'altra nazione. Non fu che
anni dopo che cominciai a parlare in casa il mio dialetto d'origine,
che ora posseggo quanto l'altro; ma la pianta aveva già preso il colore
del concio piemontese, e però son sempre rimasto il più piemontese
della famiglia; benchè, passata la prima gioventù, mi sia nato e andato
crescendo sempre con gli anni, per la virtù crescente delle memorie
familiari, un affetto dolce e profondo per la mia regione nativa.

                                   *

Fra le memorie della mia infanzia tiene un posto di principessa,
accanto a mia madre regina, una vecchia serva, uno dei cuori più
buoni e più dolci ch'io abbia conosciuto al mondo; della quale ho
davanti agli occhi, lucidissimo, il piccolo viso sorridente, vero
specchio dell'anima, e sento ancora la voce amorosa e tremola, di
cui si diceva in casa che pareva la voce d'un'anima del purgatorio.
Si chiamava Maddalena. Era come una seconda madre per me: nascondeva
le mie piccole malefatte, si rallegrava come una bambina d'ogni mia
gioia, s'affannava d'ogni mia sbucciatura come d'una grande disgrazia,
e mi dava dei santi consigli dalla mattina alla sera; ed io le volevo
bene come un figliuolo, le stavo appiccicato alle sottane ore intere,
a farmi raccontar cento volte le stesse storielle, che mi parevan
portenti di fantasia, e volevo addormentarmi tutte le sere al suono del
suo canto lamentevole, che somigliava alle nenie degli Arabi. Posso
dire che le ho serbato gratitudine per tutta la vita, e giurare che,
se c'è un mondo di là, dove dobbiamo rivedere le persone care, sarà
lei una delle prime che cercherò nello sciame bianco, e di quelle a
cui volerò incontro con un remeggio d'ali più vigoroso. Strani giochi
della memoria! Perchè essa mi condusse una sera con altri ragazzi a
fare i rotoloni giù per una china, verso il fiume, dov'erano moltissime
lucciole, la sua immagine mi si presenta quasi sempre coronata di
lucciole, come la Madonna di stelle; e perchè fu lei che m'insegnò
a intrecciar coroncine coi fiori rossi e azzurri che fanno tra il
grano, oggi ancora mi balena davanti il suo viso ogni volta che vedo
accoppiati, o in natura o in pittura, quei due colori. E m'è rimasta
impressa così addentro nel cuore quella buona donna, che anche al
presente, quando sogno qualche mio grande dolore, vedo qualche volta
lei, con la rocca infilata nella cintura del grembiale, che mi guarda
con viso ansioso, come faceva nel rialzarmi da una caduta, e sento la
sua voce dolce che mi dice parole confuse di compassione e di conforto.
Ah! se la rivedessi viva, quando mi risveglio da quei sogni, come darei
ancora il capo bianco alle sue braccia, con che dolcezza piangerei
ancora sulle ginocchia della mia vecchia Maddalena!

                                   *

Non per altro che per ignoranza, con l'intento di ricrearmi, fu lei che
fece di me per un certo tempo una delle vittime più compassionevoli,
che siano state mai, del terrore dei fantasmi; e questo con un solo
racconto, che essa disse sbadatamente, filando — me ne ricordo bene —
e dando ogni tanto un'occhiata alla pentola, dove bolliva la minestra
per la cena. Era la storia della Morte, che, beffata da un ragazzo,
gli annunzia che verrà a pigliarlo nel letto la notte; e il ragazzo, la
notte, sente prima il passo di lei per la strada, poi all'uscio della
camera, poi dentro; e infine la Morte se lo porta via. Questa storia
mi diede una vera malattia di paura. D'immaginazione viva com'ero, io
sentivo veramente, da letto, il passo della Morte, e rabbrividivo,
sudavo freddo, tremavo da battere i denti; saltai più d'una volta
giù dal letto e corsi nella camera di mia madre, gridando aiuto. E da
quello mi nacquero cento altri terrori. Per molti giorni mi atterrì
la solitudine anche di giorno; tremai alla vista improvvisa d'un
lenzuolo steso, che mi pareva il mantello dello spettro; ebbi paura
d'un vecchio allampanato, che da una finestra d'un ospizio di cronici,
che prospettava la mia casa, mi guardava lungamente, quando giocavo
nel cortile; e credo che mi sarei ammalato davvero, se non fossi stato
di fibra molto robusta. È ancora così forte in me il ricordo di quei
tormenti che quando in una casa o in un giardino pubblico vedo una
governante nell'atto di raccontare una favola a dei bambini, provo un
senso d'inquietudine, e son tentato d'avvicinarmele, per assicurarmi
che non racconti loro nulla di terribile, e per pregarla di smettere,
quando ciò fosse. Povera Maddalena! Essa rimase più spaventata di
me degli effetti della sua imprudenza, e fece punto fermo coi suoi
racconti, inesorabilmente; ciò che le alleggerì di molto le fatiche del
servizio, perchè la mia curiosità insaziabile metteva alla tortura il
suo povero cervello, che non era quello del Dumas padre, sebbene io le
concedessi un uso larghissimo della ripetizione. — Mai più! mai più! —
rispondeva alle mie preghiere. — Che nostro Signore mi perdoni, povera
testa _voida_ che sono stata!

                                   *

I miei primi compagni furono i figliuoli d'uno dei nostri facchini,
il quale abitava in una casetta accanto al portone del cortile, e
faceva anche da portinaio. Erano una tribù di ciabattoni, che facevano
scala, come le canne degli organi, da un anno ai dodici, e ogni anno ne
saltava fuori dalla casetta uno nuovo. Per me, figliuolo del padrone,
avevano un certo ossequio di servitorelli, e mi ricordo che inclinavo
ad abusarne. Ma su questo punto mio padre e mia madre erano severi,
non me ne lasciavano passar una, ed è una delle cose di cui son loro
più grato. Non si lasciavano sfuggire un'occasione di rintuzzare in me
l'orgoglio signorile, d'inculcarmi il sentimento dell'uguaglianza e il
rispetto della povertà. In ogni litigio che nascesse fra me e i piccoli
mangiatori di polenta, se io non avevo proprio della ragione da buttar
via, mi davano torto. E quando commettevo qualche grossa prepotenza,
mia madre aveva un modo particolare di farmi ravvedere e chieder scusa:
coglieva quel momento per fare alla famiglia uno dei regali soliti
di biancheria o d'abiti smessi, che per quella povera gente era tanta
manna, e voleva che portassi io stesso la roba, non accompagnato. Con
la soddisfazione del compiere l'atto benefico m'entrava nel cuore
il pentimento del sopruso, e con questo la vergogna; la quale alle
volte mi teneva un pezzo titubante e mi faceva fare molti zig zag nel
cortile, prima di presentarmi; e provavo poi un grande piacere quando,
nel porger l'involto alla mamma, vedevo il piccolo offeso sorridermi,
facendo capolino di dietro all'uscio, dove s'era rimpiattato al mio
apparire. Il mio prediletto era Franceschino, un trippettino biondo,
d'un par d'anni più di me, gran cacciatore di lumache al cospetto
di Dio; che n'avrebbe scovate fin nelle crepe dei muri, e le faceva
arrostire a modo suo, per semplice formalità, con un fiammifero. Un
giorno, nel cortile, fui colpito nella fronte da un sasso ch'egli aveva
lanciato in aria alla cieca: m'uscì il sangue, strillai, accorse mia
madre, e un momento dopo la portinaia, che s'avventò sul ragazzo come
una furia per pestargli le ossa. Questi, scappando in giro come una
rondine, atterrito, passò accanto a noi, mia madre l'arrestò, e mentre
m'aspettavo che facesse lei le mie vendette, gli mise le mani sul capo
e se lo strinse al petto, per difenderlo, dicendo alla donna: — Non
l'ha fatto apposta, non lo picchi, è perdonato. — Quell'atto mi cacciò
dall'animo come per incanto ogni risentimento, e quasi non sentii più
il dolore. Questo si chiama educare.

                                   *

Fra le mie memorie di quel tempo v'è un angelo dipinto a fresco sulla
vôlta d'una cappella del duomo, dove andavo la domenica a sentir la
messa con la famiglia: un'alta figura alata, ravvolta in un camicione
bianco, di viso soavissimo, che pareva mi guardasse coi suoi grandi
occhi azzurri. Fu quella figura che mi destò il primo sentimento
religioso, facendomi pensare quanto fosse dolce il vivere dopo la
morte in mezzo a migliaia di creature così belle, buone e bianche,
seduto sopra le nuvole, dentro una gran luce rosata, in un'aria odorosa
d'incenso, al suono dell'organo. Ricordo che pensavo a quell'angiolo
ogni sera, mentre dicevo il _Paternoster_ e l'_Avemaria_, prima di
andare a letto, e che davo con l'immaginazione la sua forma all'angelo
custode che credetti fermamente, per un pezzo, mi venisse accanto dalla
mattina alla sera, invisibile. Tanto ci credevo che sovente, nei miei
giochi, m'interrompevo, per domandarmi dov'egli stesse in quel momento,
se davanti a me o alle spalle o dai lati, se vicinissimo o un po'
discosto, se con l'ali aperte o ripiegate, e anche mi guardavo attorno,
qualche volta, con la vaga idea, se non di veder lui in persona, almeno
qualche indizio della sua presenza, alcun che di bianco, una forma
vaporosa, un bagliore fuggente. Avevo la fede, se così può chiamarsi
quello che allora sentivo; ma non rammento d'aver mai avuto paura
dell'inferno, al quale quasi neppur pensavo, come a una cosa che non
riguardasse i ragazzi. La religione era per me come la visione confusa
d'una grande bellezza e un sentimento indeterminato di tenerezza e di
bontà per tutti e per tutto, fin per i più piccoli insetti, che nei
giorni di zelo più vivo badavo a scansare coi piedi. Dal che seguì
che quando ebbi in chiesa le prime lezioni di catechismo dal parroco,
che non ci metteva nè miele nè fiori, mi parve che m'avessero mutata
la materia, e, senza rendermene chiara ragione, rimasi male, come uno
che, aprendo un libro con l'idea di leggere un poema, si ritrovi sotto
gli occhi un trattato scolastico. M'urtò in special modo, senza però
turbarmi, quel nodoso dito sacerdotale sempre eretto e agitato in atto
di minacciare le pene eterne. Quando facevo a mia madre qualche domanda
relativa alla religione, non la interrogavo mai che sul paradiso, che
era per me l'oggetto d'una curiosità vivissima, e intorno al quale
pensavo che i grandi avessero delle cognizioni molto più precise che
i bambini. E quando udivo dire d'una persona morta: — È andata in
paradiso, — credevo che si dicesse per aver visto veramente qualche
cosa di quella persona, come un'ombra o una fiamma, volare in alto e
perdersi nell'azzurro. Quel pensiero del paradiso fu così forte allora
nella mia mente, che mi attrassero poi sempre, anche nell'età matura, e
mi dilettarono vivamente l'immaginazione tutte quelle scene di teatro,
anche rappresentate alla peggio, nelle quali per uno squarcio delle
nuvole, a traverso a un velo bianco trasparente, si vedono in un fondo
luminoso delle vaghe figure celesti, sedute in vari ordini di seggi,
come nell'ultima visione di Dante. Anche a vedere il paradiso in una
baracca di burattini ci ho altrettanto piacere che il più piccolo degli
spettatori.

                                   *

L'angelo custode non mi guardò dal crup, al quale scampai per miracolo,
dopo che il medico m'aveva dato per perso. Non ho memoria alcuna
dei patimenti provati, che furono atroci, come seppi poi da mia
madre, poichè, già soffocato a mezzo, durai per ore a rantolare e ad
annaspar con le mani, come un naufrago, rimovendo da me chiunque mi
s'accostasse, come se mi rubassero l'aria, e supplicando coi cenni
che si spalancasse la finestra. Ricordo soltanto che stavo spesso con
l'orecchio teso per sentire se cantasse il corvo di fuori, perchè
m'aveva detto Franceschino che il giorno prima della morte di mio
fratello s'era sentito cantare un corvo sul tetto della casa. Ricordo
d'aver visto per un momento ritta accanto al mio letto la forma nera
del parroco. E un'altra cosa m'è rimasta in mente, che ancora mi fa
fremere. Uscendo una mattina il medico dalla mia camera, mio padre
e mia madre l'accompagnarono nella stanza accanto; donde mi venne
all'orecchio un suono di voci sommesse, e poi un'esclamazione terribile
di mio padre: — _Anche questo!_ —; terribile al mio cuore in appresso,
quando seppi che significava: — Anche questo figliuolo mi è tolto, —
poichè il medico gli aveva levata in quel punto ogni speranza; ma non
già allora, perchè non compresi. E così non compresi perchè mio padre,
poco dopo, si sedesse a un piccolo tavolino accosto al letto, e menasse
la matita sopra un foglio di carta, guardandomi spesso attentamente.
Mi fu detto poi che, compiendo uno sforzo eroico, egli m'aveva fatto
il ritratto a matita, per avere almeno quella memoria del mio viso,
non ci essendo ancora in città, a quel tempo, nessun fotografo. Povero
padre mio! Conservo ancora quel ritratto che mi fu lasciato da mia
madre, e mi prende una pietà infinita, quando lo guardo, a pensare
con quale strazio nell'animo furono fatti da lui tutti quei tratti
minutissimi, che paiono l'opera d'un artista tranquillo, e specialmente
quell'arruffio di riccioli bruni, sui quali egli era già preparato a
darmi l'ultimo bacio. La crisi che mi salvò, la gioia dei miei parenti,
la convalescenza, tutto è svanito dalla mia mente. Non mi rammento che
la prima volta che fui riportato nel giardino, con un cuffietto in capo
e un fazzoletto al collo, accompagnato a festa da tutti i miei, seguiti
dalla povera Maddalena che piangeva dalla consolazione; rammento che
era una mattina di primavera, e che provai un piacere delizioso, come
se m'apparisse per la prima volta ogni cosa, al riveder la luce del
sole, gli alberi fioriti, e il gatto, che si arrestò a guardarmi,
stupito.

                                   *

Fra quella e la prima impressione della scuola ne ricordo un'altra,
che ebbi dalla prima cognizione d'un grande dolore umano, e che vorrei
poter cancellare dalla mia memoria, in cui è incisa come una ferita
nella carne. C'era accanto alla nostra casa l'ospedale militare, e
davanti a questo una casetta, dove abitava l'amministratore, tenente
di fanteria, con sua moglie: una coppia simpatica alla città intera,
che parevano fratello e sorella, e che io vedevo spesso dalla finestra
passare sul viale dei bastioni, con due bambini bellissimi, fra i
quattro e i sei anni, che tutti ammiravano. Una mattina, tornando
con Maddalena da una passeggiata, vedemmo molta gente che s'affollava
davanti all'ospedale, trattenuta a stento dai bersaglieri di guardia,
tutti col viso alzato verso le finestre della piccola casa, dalle
quali, tra varie voci concitate e confuse, usciva un singhiozzo di
donna violento, strozzato, disperato, più somigliante all'urlo che
al pianto, e che a molti della folla strappava le lacrime. Maddalena
interrogò qualcuno. La risposta gelò il sangue a me pure, benchè
bambino. Era accaduto questo: che il farmacista dell'ospedale, dovendo
mandare della santonina per i due bimbi malati, aveva mandato invece
della stricnina, e le due povere creature, prese le polveri a un tempo,
erano morte quasi nello stesso punto fra le braccia del padre e della
madre. La buona Maddalena si cacciò le mani nei capelli e si diede a
esclamare senza fine, piangendo dirotto: — Ah povera gente! Ah povera
gente! Ah povera gente! — Poi, quando fummo sull'uscio di casa, che era
l'ora di desinare, mi raccomandò in fretta di non dir nulla alla mamma,
chè se no, avrebbe digiunato. Ma appena entrata, al veder mia madre
seduta, che piangeva, con la fronte nelle mani, comprendendo che già
sapeva, proruppe in un'esclamazione d'angoscia quasi collerica, che mi
scosse il cuore, benchè io non capissi ancora che era un'eco del grido
eterno dell'umanità flagellata: — Signore Iddio misericordioso, come
possono accadere di queste cose!



La prima scuola.


Prima dei sei anni fui mandato a imparar l'alfabeto da un maestro
che teneva scuola in un ospizio di ragazzi poveri, nella quale erano
ammessi a pago anche alunni esterni di famiglie agiate. V'andai
volentieri; m'hanno sempre attratto fortemente tutte le cose nuove:
se la natura m'avesse dato la virtù del persistere pari all'ardore
dell'incominciare, sarei forse diventato un pezzo grosso. Il maestro
era un uomo sui cinquanta, zoppo, senza barba, imparruccato, una figura
di vecchio barbiere; ma di umor vivace, tanto che covava in quel tempo
l'idea d'un matrimonio, che compì poi, con una ragazza ventenne; la
quale era cagione di certe sue giornate radiose, in cui stava ritto
sulla gamba sana con una certa grazia di cicogna, come in atto di farsi
beffa dell'altra. Non aveva cultura; ma mente aperta e lucida, sapeva
insegnare, che è una virtù assai rara fra gl'insegnanti, e render la
scuola piacevole. Per insegnar la nomenclatura aveva fatto egli stesso
un gran numero di cartelloni, nei quali erano disegnati e dipinti con
colori chiassosi, e con cert'arte ingenua, e precisa, efficacissima
sui ragazzi, campi e piazze, interni di case e d'officine, con scene
relative a tutti i mestieri, animate da molte figure d'uomini e
d'animali; e quei cartelloni, che mi parvero capolavori, e che ricordo
con una chiarezza maravigliosa, mi fecero un'impressione così viva
e piacevole, che in tutta la vita non ebbi mai più dalla pittura
(Raffaello, perdonami) un diletto più delizioso.

                                   *

Nella scuola, lunga e nuda come un camerone di caserma, v'erano due
file di rozzi tavoloni congiunti: una fila per gli alunni esterni,
l'altra per quelli dell'ospizio, i quali eran tutti vestiti di panno
grigio. La distinzione non era soltanto nel posto e nel vestire; ma
anche nel trattamento che usava il maestro, il quale faceva ancora una
seconda distinzione fra gli esterni di famiglia cospicua e quelli della
piccola borghesia. Egli aveva la voce dolce per i signori, agrodolce
per i borghesucci, agra per i poveri: questi castigava a ceffoni,
scrollava gli altri per le braccia, non toccava i primi. Io appartenevo
all'ordine degli scrollati. C'era tra i primi (come lo rivedo!) il
figliuolo d'un banchiere, guardato con rispetto profondo da tutti;
intorno al quale correva la leggenda favolosa che giocasse alla guerra
in casa sua, facendo delle fortezze con gli scudi, e rappresentando
assediati e assedianti con lire d'argento, fra cui gli ufficiali eran
marenghi e i generali doppie di Genova, e i proiettili fiammiferi
accesi, dei più fini. C'era il figliuolo d'una bella signora, che
compariva alla scuola a quando a quando, vestita con gran lusso; sulla
quale i ragazzi più grandi dell'ospizio facevano a bassa voce dei
commenti, ch'io non capii che anni dopo, quando seppi che essa non
era in regola con lo stato civile; il che mi spiegò pure perchè quel
povero ragazzo piangesse qualche volta di certi scherzi, di cui mi
pareva allora che avrebbe dovuto ridere. C'era anche il figliuolo d'un
giudice di tribunale, che ci minacciava spesso di farci agguantare
dai carabinieri, e mi ricordo d'un fatterello che lo riguarda: che
un giorno, avendolo ingiurato un ragazzo dell'ospizio, il maestro,
infuriato, afferrò il colpevole per un orecchio, e scotendogli il
capo violentemente, gli urlò sul viso: — Ma non sai, ma non sai,
di-sgra-zia-to, che quello è il figliuolo d'un giudice? — Che cose! Che
tempi! Il vecchietto zoppo, adesso, farebbe ancora la tirata d'orecchi,
forse anche più forte; ma non direbbe più la frase.

                                   *

Non ricordo in quanto tempo io abbia imparato a leggere. Credo non
meno presto di quello che si faccia ora dopo cinquant'anni di progressi
didattici. Ma ho ben presente alla memoria che una mattina di domenica,
in casa, avendomi un mio fratello messo sotto gli occhi un libro
di lettura per vedere a che punto fossi, rimase maravigliato che io
leggessi già quasi corrente, e ne diede la notizia a mio padre e a
mia madre, i quali se ne rallegrarono come di cosa inaspettata. Mi
rallegrai anch'io di quel riconoscimento ufficiale della mia uscita
dalla classe illetterata; ma per una mia ragione particolare, da cui
mi derivò un disinganno spiacevole. Io m'ero immaginato che bastasse
saper leggere le parole per divertirsi alla lettura di qualunque libro,
come vedevo che facevano i grandi. Con questa illusione, quel giorno
medesimo, tirai giù un volume a caso dalla libreria di mio padre, e mi
misi a leggere. Era il libro _Della tirannide_ di Vittorio Alfieri.
Lessi una mezza pagina, la rilessi, e restai lì stupito e scontento:
non ci capivo un'acca, come se fosse stato ebraico. E non me ne potevo
capacitare. — O come va questo? — mi domandai. — È scritto in italiano,
so leggere, e non intendo nulla! — Pensai d'esser cascato sopra un
libro difficile: ne presi un altro. Era il _Primato_ del Gioberti.
Rifeci la prova. Peggio che peggio. Cominciai a capire allora che mi
rimaneva molt'altra strada da fare prima di entrar nel regno della
letteratura, e, scoraggiato, lasciai i libri e corsi a giocare, non
confessando ad alcuno la mia delusione, di cui sentivo vagamente il
ridicolo. Ma pochi giorni dopo ebbi un conforto. Il facchino portinaio,
salito in casa per pigliare un mobile, vedendo un libro sopra un
tavolino, ne compitò il titolo, a voce alta, per farmi sentire che
sapeva leggere; ma lesse: — _Opere schelte._ — Io lo corressi, si
persuase, e mi ringraziò. Fu per me una viva soddisfazione d'amor
proprio che mi fece rialzare la fronte e ritornare fiducioso agli
“studi„.

                                   *

Furono interrotti i miei studi da un grande viaggio, del quale serbo il
ricordo come d'un sogno stupendo: un viaggio che feci con mia madre a
Valenza, dove una sorella m'aveva innalzato alla dignità prematura di
zio: una visione confusa di paesi ignoti, inquadrati in finestrini di
vagoni e di diligenze; nella quale sono grandi lacune nere di spazio
e di tempo, che mi paiono corrispondere a lunghi sopori misteriosi;
e fra l'una e l'altra, in una luce vivissima, particolari di nessun
conto, come un gatto visto sopra un tetto o un cencio rosso appeso a
una finestra, e dei via vai d'ombre umane senza viso, e suoni vaghi
di campane sconosciute, il cui ricordo mi ridesta il sentimento
provato allora, d'una lontananza immensa della mia casa e della mia
scuola. Uno dei ricordi più netti è la curiosità ardente con cui mi
guardai attorno quando scesi alla stazione d'Alessandria, con l'idea
di vedere all'orizzonte una specie di gran muraglia della China, un
ammasso enorme e intricato di bastioni e di torri merlate, che si
disegnassero nel cielo come una cresta alpina, mostrando le bocche di
mille cannoni e le baionette di un esercito di sentinelle. Credo che la
mia passione di girare il mondo sia nata dalle commozioni straordinarie
che ebbi in quel viaggio; durante il quale mi rammento che mia madre
doveva frenare di continuo le mie impazienze, ritenermi per un braccio
quando mi lanciavo allo sportello, e farmi cenno di parlare più basso
quando esprimevo i miei sentimenti con esclamazioni a voce alta, che
facevano ridere tutti i viaggiatori. E non solo per il diletto che
provai ho sempre creduto che i denari meglio impiegati dai parenti per
l'educazione dei fanciulli siano quelli spesi a farli viaggiare; ma
anche, e più, perchè ricordo bene (e me l'affermarono i miei) che quel
breve viaggio fece fare quasi un salto alla mia intelligenza; tanto
che, tornato a scuola, feci più profitto in un mese che non ne avessi
fatto prima in parecchi. E così sempre, in appresso, risentii dopo
ogni viaggio un rinvigorimento di tutte le facoltà dello spirito, mi
ritrovai in uno stato di coscienza intellettuale somigliante a quello
che ci è frequente nell'adolescenza, quando, voltandoci indietro a
considerare ciò che eravamo poco tempo avanti, ne sentiamo quasi pietà,
come dello stato d'un essere inferiore, che ci sia rimasto di sotto, a
una grande distanza.

                                   *

Il giorno che tornai a scuola mi lasciò nell'animo un ricordo
incancellabile. Prima che entrasse il maestro, i ragazzi dell'ospizio
mi diedero la notizia che era morto il giorno avanti un loro e mio
condiscepolo, del quale ricordo il nome: Giacinto, e mi domandarono se
lo volevo vedere. Risposi di sì, spensieratamente, e condotto da uno di
essi, m'andai a affacciare all'uscio d'una cameretta a terreno, dov'era
disteso in letto il cadavere, col capo scoperto. Quel viso immobile e
bianco, con gli occhi vitrei spalancati in un'espressione di stupore
sovrumano, mi fece un senso così profondo di terrore e di ribrezzo,
che per quanto durò la scuola non intesi nulla, e arrivato a casa,
mandai giù a stento due bocconi per non farmi scorgere, e non dissi
una parola; assorto sempre nell'immagine di quel viso, che mi stava
davanti, solenne, misterioso, terribile, come il viso d'uno spettro che
sorgesse da terra dovunque io volgessi lo sguardo. Non sfuggì il mio
stato d'animo agli occhi di mia madre, che m'interrogò, e mi indusse,
insistendo, a dirle il vero. Mi fece rimprovero della curiosità
che m'aveva spinto a vedere; ma subito sviò da questo il discorso,
impietosendosi per quel povero ragazzo morto in un ospizio di poveri,
senza padre nè madre, che forse non aveva mai conosciuti, senz'alcuna
assistenza amorosa, non pianto da alcuno, e che sarebbe stato sepolto
senza un fiore sul feretro, e non ricordato da anima viva. Quelle
parole mi destarono in cuore un senso di compassione e di tenerezza,
che non ne scacciò al tutto, ma vi scemò assai, e quasi coperse d'un
velo il terrore, volgendo a un altro corso i miei pensieri; a traverso
ai quali quel viso bianco mi apparve sotto un nuovo aspetto, più
doloroso che spaurevole, come ingentilito dall'aureola ideale della
sventura. Ma per tutto quel giorno scansai sempre di trovarmi solo
dove si fosse, e la sera volli che mia madre mi stesse al capezzale fin
che fossi addormentato, a ripetermi le parole d'amore e di pietà, che
velavano di bianco ai miei occhi il fantasma della morte.

                                   *

Stetti quasi due anni a quella scuola, che non mi riuscì punto
faticosa, grazie al buon senso del maestro, e anche all'uso didattico
di quel tempo, nel quale si misurava forse meglio d'adesso la
capacità cerebrale dei fanciulli. E fu sul finire del second'anno
che incominciai a leggere qualche libro, e a comprendere. La prima
commozione profonda che ebbi dalla lettura me la diede un capitolo
del _Giannetto_ dov'è raccontata una scappata di casa del piccolo
protagonista, il quale, dopo varie corse e avventure, ritrovandosi solo
in campagna al calar della notte, preso dalla paura e dal pentimento,
mentre sta per darsi alla disperazione, è ritrovato e ricondotto fra
i suoi. Tremai e piansi a quella lettura, mi ricordo, e, chiuso il
libro, m'andai a avviticchiare al collo di mia madre, giurando in cuor
mio che mai, mai al mondo mi sarei arrischiato a una così tremenda
avventura. Ma che è mai l'animo dei ragazzi, che può ricevere l'una
sull'altra, egualmente profonde, due impressioni di natura opposta, e
che potenza maravigliosa ha sulla fantasia fanciullesca ogni finzione!
La mia seconda lettura fu la _Vita d'un bandito_: un vecchio libro
ch'io scovai per caso nei fondi della biblioteca di casa, e che poi
andò perduto; con mio grande rammarico, poichè ebbi più tardi cento
volte il desiderio di rileggerlo, appunto per la forte scossa che
n'avevo avuto da bambino. Non ricordo di qual paese nè di che tempo
fosse quel soggetto da galera che correva i monti e le foreste rubando
e accoppando, e uscendo sempre vittorioso, con stratagemmi sbalorditoi,
dalle sue lotte temerarie con “l'arma benemerita.„ Ricordo solo che
mi appassionai per lui come per un eroe, che la sua vita errante e
tempestosa mi parve così bella e desiderabile da farmi vagheggiare
in segreto il disegno di darmi alla macchia non appena l'età me lo
consentisse, e che m'infervorai a tal punto in questo sogno che già
dalle finestre di casa mia cercavo con lo sguardo per la campagna quale
via avrei preso per la fuga, e su quale delle alture lontane avrei
fatto il mio primo bivacco brigantesco, e forse affrontato per la prima
volta la forza pubblica. Ah, come sarebbe rimasto male, se m'avesse
potuto veder nell'animo, il povero autore del _Giannetto_!

                                   *

Ma proprio nel più caldo dei miei entusiasmi criminali mi seguì
un'avventura che mi fece rinunziare di punto in bianco alla nobile
carriera che vagheggiavo. Avevamo in casa un vecchio gatto rosso, al
quale volevo un gran bene, e che soleva dormire ogni sera sulle mie
ginocchia. Mi prese un giorno il ghiribizzo di condurlo a spasso come
un cagnolino, e gli legai al collo una corda, con un nodo largo e
fermo, che non gli desse noia, e non si potesse stringere. Ma, fatto
appena il nodo, egli mi scappò, e non mi riuscì di raggiungerlo; nè lo
rividi più per quel giorno. La mattina dopo, giocando nel giardino, lo
vidi per di dietro fra i rami d'un albero, come appostato, nell'atto
d'avventarsi sopra un uccello. Lo chiamai: non si mosse. Mi feci sotto
l'albero, per guardarlo nel muso. Rabbrividii. Era morto. Impigliandosi
fra i rami, la corda gli s'era avvolta e serrata intorno al collo come
un serpente, e l'aveva soffocato. Pien di spavento e di dolore, corsi
a confessare il mio delitto a mia madre, piangendo e supplicandola di
non dir nulla a mio padre, al quale il gatto era carissimo. Mia madre
mi perdonò e promise il silenzio, il gatto fu sepolto di nascosto,
nessuno tradì il segreto. Ma fu un momento terribile quando mio padre,
a tavola, uscì a dire tutt'a un tratto: — O dov'è andato il gatto
rosso, che non si vede più? — Non debbono esser sonate più terribili al
primo fratricida le parole divine: — Caino, che cos'hai fatto di tuo
fratello? — Mi sentii la coscienza d'un assassino. Non potei reggere
allo sguardo di mio padre, che pareva mi leggesse nel cuore. Finsi di
sentirmi poco bene per scappar da tavola, e m'andai a chiudere nella
mia camera, dove mi buttai sul letto, col cuore oppresso dalla paura
e dal rimorso. C'era sul tavolino da notte la _Vita d'un bandito_. Al
veder quel libro mi balenò un pensiero salutare; il dubbio di aver mai
l'animo così forte da potermi dare con fortuna alla poetica professione
che avevo scelta. Meditai alquanto su quel problema. E venni a questa
conclusione: — No. Tu che sei ridotto in questo stato per la morte d'un
gatto, che pure non morì di tua mano, no, tu non avrai mai l'animo
di ammazzare dei carabinieri. — Il pensiero era espresso in parole
più riguardose per il mio amor proprio; ma, insomma, era quello.
E rinunziai da quel momento alla vita del brigante, e ridivenni
_Giannetto_.

                                   *

Fu una sera di quell'anno stesso che il mio buon padre, sempre
inconsapevole della corda, mi condusse la prima volta al teatro,
dove una povera compagnia drammatica rappresentava il _Tartufo_ del
Molière. Prevengo la disapprovazione degli scrupolosi: la commedia
non appannò nemmeno la mia purità infantile, perchè non ne capii il
bellissimo nulla. Una sola frase richiamò la mia attenzione. Quando
Tartufo, torcendo il collo e giungendo le mani, disse alla signora:
— _Voi avete certe armi!_ — tutto il teatro diede in una risata,
della quale non compresi il perchè, non vedendo indosso all'attrice
nè pugnali nè pistole. E domandai a mio padre: — Quali sono queste
armi? — Egli sorrise, passandosi una mano sui baffi, e dopo una breve
esitazione rispose: — Per armi, in questo caso, s'intende la bellezza,
la grazia.... i modi gentili.... — Ne capii poco più di prima. Ma
per me furono uno spettacolo incantevole la sala, il triplice ordine
dei palchi, il lampadario, i lumi della ribalta, e soprattutto il
telone dipinto, che rappresentava una rivolta di popolo contro un
feudatario del medioevo: la commedia non mi parve che un accessorio
di quelle maraviglie. E all'uscita feci rider mio padre esclamando
con entusiasmo: — Ah, quanto mi son divertito! — Buon padre mio!
Anche privando sè di molte cose, egli ci procurava ogni specie di
divertimenti, e quando mia madre gli faceva qualche osservazione sulla
spesa, le soleva rispondere: — Eh, poveri figliuoli; abbelliamo loro
la vita quanto ci è possibile; chi sa mai quale sarà il loro avvenire?
Avranno almeno un caro ricordo dei loro primi anni.

Ma per tutto quell'anno ogni piacere che dovetti a mio padre mi fu
sempre turbato dall'immagine di quel povero gatto, il quale mi aveva
distolto, morendo, dalla via della violenza e del sangue.



Qui, quae, quod.


Non avevo ancora otto anni quando fui messo al latino, nelle scuole
pubbliche, in _Prima Grammatica_, come si chiamava allora il primo
corso di Ginnasio. Troppo presto. Vengano a discorrere con me i padri
che hanno la smania di far correre le scuole ai figliuoli come si corre
il palio, come se la loro buona riuscita nel mondo non dipendesse da
una infinità di casi intimi ed esteriori, tutti imprevedibili; appetto
ai quali il dubbio vantaggio di finire i primi studi un anno o due
avanti gli altri non conta il minimo che. Questa smania non aveva già
mio padre, che volle far soltanto un esperimento; ma l'esperimento,
benchè non subito, fallì; e non senza mio danno, perchè quel “troppo
presto„ mi fece un martirio inutile di quei tre primi anni di latinità,
che pure erano allora meno difficili d'adesso.

Mi fece l'effetto d'una caserma, quando c'entrai la prima volta, quella
grande scuola affollata di ragazzi, molti dei quali avevano tre o
quattro anni più di me, e mi parevano uomini, e mi destò un senso di
reverenza paurosa quella cattedra enorme, della forma d'un pulpito,
che torreggiava sopra i banchi come un castello feudale sopra le
casipole d'un villaggio. Il professore, un uomo sulla quarantina, di
viso aristocratico e grave, sempre insaccato in una gran palandrana
oscura, che pareva un prete spretato, ci faceva dire le preghiere in
coro al principio e alla fine d'ogni lezione, e benchè vigesse da sei
anni lo Statuto, fra una declinazione e l'altra, picchiava spesso e
sodo; ma egli pure, come il mio primo maestro, più volentieri sui panni
rozzi che sui panni fini. Salvo questa parzialità delle mani, era un
buon diavolo, e insegnava con buon metodo; ma non era in suo potere
di far digerire il latino a uno stomaco di sette anni e mezzo. Di
tutto quell'anno m'è rimasta una memoria confusa di fatiche ingrate,
di sogni affannosi e di pianti. Il solo ricordo lieto è quello del
giorno onomastico del professore, che si soleva festeggiare allora,
in tutte le scuole inferiori, con un regalo collettivo, per il quale
la scolaresca si dava moto quindici giorni avanti. Il regalo fu fatto
quell'anno in un modo comicissimo, che mette conto d'accennare, per
dare un'idea degli usi scolareschi del tempo. Si mise trenta soldi
ciascuno, e si comprò un pan di Spagna, non so quante bottiglie di vin
di Barolo, e un gran mazzo di fiori. Nell'ultima adunanza che si tenne
per la strada, il collettore generale, figliuolo d'un oste, ci annunziò
che avanzavano della somma otto soldi. Che cosa farne? I pareri furon
diversi, si discusse: fu infine accolta a unanimità l'idea luminosa
d'un piccolo droghiere, sempre carico di pensi, il quale, rammentandosi
che il professore aveva da quindici giorni la tosse, propose di
coronare il regalo con otto soldi di gomma arabica. E come fu portata
la roba! _Coram populo_, di pieno giorno, come il Santo Sacramento, da
tutta la compagnia: il pan di Spagna, scoperto, alla testa, portato
dal più alto della classe; poi uno col mazzo, tenuto su come un
flabello papale; poi altri otto o dieci, ciascuno con una bottiglia in
mano; infine, il latore della gomma, e dietro di lui una processione
rumorosa, che percorse le vie principali, in mezzo alla gente che
si soffermava a guardare e diceva a voce alta: — Sono gli scolari di
Prima Grammatica che portano la festa al professore tal dei tali. — Un
ludibrio! Ora si fanno le cose con più discrezione, individualmente,
e da certuni soltanto, e dai padri invece che dai figliuoli, e invece
di gomma arabica si dà dell'unto nazionale. Ma il meglio l'ho ancor
da dire: la scena della presentazione fu assai più amena. Era presente
la signora. Tutto era già stato offerto, il professore aveva già fatto
il suo discorsetto, esortandoci a dimostrargli il nostro amore con lo
studio invece che col vin di Barolo, e stavamo per andarcene, quando
il “gommifero„ che s'era dimenticato di fare il suo presente, si fece
innanzi, e porgendo il pacco come avrebbe porto le chiavi d'una città,
disse solennemente: — Signor professore, c'è ancora questo! — e poichè
quegli non capiva, soggiunse con tutta serietà: — Per la sua tosse,
signor professore! — Giornata felice! Dopo la quale ricordo che per
alcuni giorni suonò più mite il latino e fu sospesa la distribuzione
delle pacche. Ma ci vuol altro che pan di Spagna. La settimana dopo
il _qui quae quod_ riprese tutta l'asprezza dell'antico impero,
ricominciarono a grandinare i pensi e le briscole, e anche il piccolo
droghiere dovette riconoscere che non serve la gomma arabica a mutar
l'andamento delle cose umane.



I bersaglieri.


Dalla grammatica latina mi distrasse violentemente una passione, che
ebbe un effetto notevole nella mia vita, poichè si effuse quattordici
anni dopo in un libro, il quale fu la prima mossa del viaggio che
finisce forse con queste pagine: la passione per i soldati. O a dir
meglio: per i bersaglieri, che erano il solo presidio della città;
chè se ci fosse stata invece fanteria di linea, son certo che quella
passione sarebbe stata assai men forte, avendo principalmente giovato
a farla nascere, insieme con lo spirito guerresco del tempo e con la
mia natura disposta all'affetto, la bellezza della divisa, la sveltezza
degli esercizi e la prestanza personale dei “figliuoli di Alessandro La
Marmora„. Fu una passione quale credo non sia stata mai più ardente in
alcun ragazzo di quegli anni, neanche in quelli che erano per indole
assai più fortemente inclinati di me alla vita militare: una vera
frenesia, che non valsero a frenare nè esortazioni, nè rimproveri, nè
danni. In tutti i giorni di vacanza, e anche negli altri, avanti e dopo
le lezioni, io scappavo di casa a tutte le ore per correr dietro ai
pennacchi in piazza d'armi, al bersaglio, alla ginnastica, e fin nelle
marcie in campagna, allontanandomi di parecchie miglia, anche sotto
la pioggia, dalla città, dove ritornavo in uno stato da impietosire i
sassi. Quando sentivo suonare quelle maledette trombe sotto casa mia,
non c'era più forza che mi tenesse; mi sarei calato con una fune dalle
finestre, se m'avessero chiuso la porta; e tiravo via come mi trovavo,
lasciando lì merenda e latino, senza cappello e senza cravatta, qualche
volta in maniche di camicia, come un ladruncolo inseguito. Imparai
presto a quel modo, e perfettamente, il maneggio teorico delle armi,
i segnali delle trombe, l'orario, tutti i particolari della vita di
quartiere, e conobbi la maggior parte dei sergenti e dei caporali
della guarnigione, molti dei quali mi conoscevano e mi salutavano,
chiamandomi per nome, come un cagnolino familiare. E non ero un
semplice dilettante, che si contentasse di guardare: negli intervalli
di riposo, in piazza d'armi e al tiro a segno, mi ficcavo tra i
crocchi per sentire i discorsi e rendere dei piccoli servizi: andavo
ad attinger acqua nelle gamelle o a comprar per l'uno o per l'altro un
soldo d'uva o di castagne, porgevo i cappelli e gli zaini e aiutavo a
spolverar le mantelline, e m'era un gran compenso il permesso che mi
davano di lisciar con le mani i pennacchi o di piantar le carabine in
terra per lo sperone che avevano allora infisso nel calcio. Ripensando
a quel tempo, non ho che a chiuder gli occhi e a raccogliermi, e sento
veramente, come se lo aspirassi, l'odor di cuoio dei centurini e delle
uose, e quello delle cartucce rotte e del fumo delle schioppettate,
e fino i vapori caldi della zuppa che venivano su dalle cucine della
caserma. A vedermi vestito com'ero spesso, tutto impolverato e col capo
nudo, molti bersaglieri mi pigliavano per un cialtroncello scappato
dall'officina o dalla bottega, e quando dicevo chi era mio padre,
ridevano della celia, dicendosi fra loro che per la mia età avevo già
una bella disinvoltura a piantar carote. Ma io ero tanto infatuato
dell'“arma„ che non m'avevo per male neppur delle beffe; e poi dalla
più parte, dai soldati in special modo, non avevo che dimostrazioni
di simpatia, che m'intenerivano. Di quanti ricordo ancora il viso, la
voce, le diverse pronuncie dialettali, e gl'intercalari del discorso,
e persino l'andatura! E ricordo pure che in quelle mie corse al suon
delle trombe e davanti allo spettacolo degli esercizi di battaglione
la mia immaginazione era in continuo lavorio febbrile, tutto visioni
di accampamenti e di battaglie e d'avventure guerresche d'ogni specie,
nelle quali mettevo in azione, sempre vincitori ed eroici, i miei
soldati prediletti. Fu così viva quella passione che oggi ancora la
campagna circostante alla città e le rive dei due corsi d'acqua che
la fiancheggiano e tutte le strade che vi fanno capo mi si presentano
sempre alla mente picchiettate di nero dalle divise e d'argento dalle
baionette dei bersaglieri.

Anche una gran parte degli ufficiali conoscevo di viso e di nome,
e ho ancora presente l'immagine giovanile di molti di essi, allora
subalterni, che raggiunsero poi i più alti gradi, o morirono in Crimea,
a San Martino, a Custoza, o combattendo contro i briganti. Ricordo un
grande aiutante maggiore, dal viso fiero, che io guardavo sempre con
timida curiosità, perchè si diceva che mettesse i ferri a sua moglie,
per punizione, ed era vero; il famoso tenente negro, Amatore; il
figliuolo di Sebastiano Tecchio, allora sottotenente, ancora imberbe,
che pareva un ragazzo, e faceva girar molte teste infiorate; il tenente
Franchini che, quando fu maggiore, nel 1861, arrestò e fece fucilare il
famigerato Borjes; il capitano Pallavicini, quello che poi, colonnello,
arrestò Garibaldi a Aspromonte, e che io vidi una mattina, andando a
scuola, mentre lo portavano in carrozza, gravemente ferito al ventre
in un duello, all'ospedale militare; dove riseppi dai soldati il giorno
dopo che, nell'atto che gli cucivano la ferita, aveva detto sorridendo:
— Oh diavolo! Non avrei mai pensato di dover vedere il colore delle mie
budella! —; e molti altri. Ma fino a questi personaggi non s'alzarono
le mie relazioni, nè sognavo neppure tanto onore; poichè un ufficiale
dei bersaglieri mi pareva un nume. Il mio affetto era tutto per la
_bassa forza_, come allora si diceva, ed era così pieno di poesia e
di rispetto, e così ingenuo, che quando i giorni di festa, passando
davanti a certi vicoli, in cui non entravano le donne oneste, vedevo
qualcuno dei miei amici piumati in cattiva compagnia, ne provavo un
senso penoso, un misto d'accoramento e di vergogna, che mi lasciava poi
per un pezzo scontento, come per la perdita d'una cara illusione.



Il caporale Martinotti.


Fra le molte simpatie trovai un'amicizia, che è rimasta uno dei più
cari ricordi della mia fanciullezza. Era un caporale trombettiere,
nativo di Mortara, se non sbaglio; un giovanotto di statura media,
robusto e svelto, un vero tipo di bersagliere, di viso fermo e serio;
ma pieno di bontà, e di modi semplici e amabili; che si chiamava
Martinotti. Prese simpatia per me a forza di vedermi galoppare, con la
lingua fuori, davanti alla sua tromba. Stringemmo relazione in piazza
d'armi. Poi cominciammo a passeggiare insieme nelle ore ch'egli era
libero, intorno a casa mia. Egli mi trattava come un uomo; il che
m'inorgogliva, e rincalzava il mio affetto di gratitudine. Mi parlava
della sua famiglia, del servizio e dei superiori, mi raccontava la
cronaca del quartiere, con molti particolari e con grande gravità,
e io lo stavo a sentire con un raccoglimento di divoto. In casa
non discorrevo più che del caporale Martinotti, che i miei fratelli
chiamavano “il generale„ per canzonarmi. Egli voleva che gli dessi
del tu; ma non ebbi mai tanto ardimento. Farmi veder per la strada
accanto a lui era un trionfo per me, e quando mi conduceva al caffè
a bere la gazosa, andavo in gloria: non mi sarei insuperbito di più
se mi ci avesse condotto il conte di Cavour. Mi chiamava col nome di
battesimo, ma scorciato, perchè gli pareva, così com'è, troppo lungo, e
di pronuncia difficile: mi diceva Mondo o Mondino. Un giorno mi regalò
un paio dei suoi galloni smessi, di lana gialla: io li portai a casa
come un tesoro, me li cucii da me alle maniche della giacchetta, e con
quei galloni feci per molto tempo i miei lavori di latino, che era un
latino da caporale, veramente. Arrivò a tal punto la mia adorazione per
lui che imitavo la sua andatura e la sua pronuncia, e fischiavo dalla
mattina alla sera le “marcie„ ch'egli faceva suonare più spesso ai suoi
trombettieri. Non ricordo bene quanti mesi sia durata quella felicità.
So che mi pareva che non avesse mai da finire, come se il Martinotti
dovesse invecchiar caporale in quella città, per gl'interessi del mio
cuore. Finì invece bruscamente.

Una sera, sull'imbrunire, all'ora della ritirata, incontrandomi sui
bastioni, egli mi disse:

— Sai, Mondino, parto domani sera col battaglione. — E come io non
capivo, soggiunse: — Vado in Crimea.

Da un pezzo sentivo parlare della guerra di Crimea; ma, non so come,
non m'era mai passato per la mente che ci potesse andare anche lui.
Non mi riuscì di pronunciar parola. Egli sorrise della mia commozione,
guardandomi in aria compassionevole. E credette di consolarmi
dicendomi: — Spero bene di scampare ai Russi. Non ci vorranno mica
ammazzar tutti. E se scampo, è facile che ritorni qui. Su, Mondino,
coraggio. Ci rivedremo.

Non potei trattener le lacrime. Egli mi guardò un poco, serio serio, e
poi scappò di corsa, come se l'avesse chiamato all'improvviso la voce
d'un superiore. Io tornai a casa col cuore stretto, e appena entrato,
diedi a mia madre la gran notizia, rotta a mezzo da un singhiozzo: — Il
caporale Martinotti.... va alla guerra!

— Povero giovane! — esclamò essa, e soggiunse subito, per confortarmi,
che avrei fatto bene a andarlo a salutare alla stazione.

La sera del giorno dopo corsi alla stazione: non c'era nessuno. Il
battaglione era partito la mattina.

E io rimasi là un pezzo a guardar con gli occhi pieni di lacrime le
rotaie luccicanti sulle quali era fuggito il mio amico, inseguendolo
con la fantasia fino al paese lontanissimo, pieno di terrori e di
mistero, donde pensavo che non sarebbe tornato mai più.



La guerra di Crimea e i miei amici poveri.


La guerra di Crimea è il primo avvenimento pubblico di cui trovi
qualche traccia nella mia memoria; ma son tracce così rare e sparse,
che ne stupisco, considerando che avevo già allora quasi nove anni, e
che le grandi cose delle quali sentivo parlare ogni giorno avrebbero
dovuto lasciarmi impressioni assai più fitte e più vive. Di tutto
quello che precedette la spedizione non ricordo altro che una frase: —
Stiamo a vedere come si dispone l'Austria — detta in casa mia, a mio
padre, dal direttore delle Poste, che rivedo seduto, com'era in quel
punto, in un angolo della sala da desinare, con una gamba sull'altra,
e un braccio ciondoloni dietro la spalliera della seggiola. Della
partenza delle truppe, dopo quella del battaglione del caporale, non
rammento che un episodio, che si riduce nell'immagine d'una giovine
contadina; la quale, dall'alto dei bastioni, singhiozzando, col busto
spinto innanzi e con le braccia tese in uno slancio disperato di
dolore, gridava gli ultimi: — _Ciao! Ciao!_ — al treno fuggente sul
ponte lontano, dove si vedevano ancora ondeggiare fuor dei vagoni
i pennacchi dei bersaglieri. Poi ricordo mia madre che, con la
_Gazzetta del Popolo_ fra le mani, interrompe a mezzo, soffocata dalla
commozione, la lettura della descrizione dell'incendio del _Croesus_,
salpato pochi dì avanti da Genova coi nostri soldati. Di tutto il tempo
che durò la guerra non ho più altro nella memoria che una nebbia, in
mezzo alla quale vedo una dozzina di ragazzi scamiciati, raggruppati in
fondo al mio cortile, che cantano in coro una canzone guerresca: vedo
la bocca squarciata e torta di uno di essi, che si chiamava Clemente,
e che pronunciava Crinea in vece di Crimea, e ho ancora in mente una
strofetta di quella canzone, da cui si può argomentare che non ci fosse
allora in una parte del popolino un'idea molto chiara delle nostre
alleanze, poichè diceva:

    La caserma degl'Inglesi
    È situata in mezzo al mar,
    Napoleone coi suoi cannoni
    La faranno sprofondar.

Ciò che ricordo bene è che pensavo spesso al mio caporale lontano,
e che dopo la sua partenza cessai di bazzicare coi pochi bersaglieri
rimasti, come se egli avesse portato via con sè tutta la poesia del suo
Corpo e tutti gli entusiasmi del mio cuore.

                                   *

Vivissimi mi son rimasti i ricordi dei miei compagni di gioco di
quel tempo, fra i quali ritorno spesso e mi trattengo lungamente col
pensiero, poichè trovo in loro il primo perchè di molte idee, tendenze
e simpatie, che ho conservate per tutta la vita. Essendo sempre aperto
il grande cortile della casa, era il luogo di convegno e il campo di
gioco di tutta la ragazzaglia del vicinato; onde mi trovai mescolato
fin da bambino con ragazzi d'ogni condizione, la più parte figliuoli
d'operai e di rivenduglioli; alcuni dei quali poverissimi, che
perdevano i panni a brandelli e andavano scalzi sei mesi dell'anno. Con
questi ebbi per anni una famigliarità fraterna, cementata da scappate
comuni in campagna, da scambi di busse e di regali, da rotture e
rimpaciamenti, e da migliaia di partite di palla e di pila e croce e
di piccole monellerie d'ogni colore. Potrà osservare qualcuno che mi
si lasciava troppa libertà, che quella compagnia non mi poteva riuscir
che perniciosa. Ebbene, io son grato invece a mio padre e a mia madre
d'avermi lasciato così la briglia sul collo, d'aver permesso che mi
tuffassi così liberamente in quello stracciume (dal quale, del resto,
date le condizioni della casa, non avrebbero potuto separarmi che
segregandomi), poichè ho capito allora della vita e dell'animo della
gente povera tante cose, che non capirà mai chi non è stato da ragazzo
in mezzo a coetanei di quella classe sociale, chi non ha osservato
in germe, per così dire, il popolo minuto, da cui ci separano più
tardi troppi preconcetti e troppe diffidenze reciproche; perchè fu
quella promiscuità coi piccoli scamiciati che mi fece nascere per la
poveraglia una simpatia affettuosa e pietosa, la quale mi ricondusse
poi sempre in mezzo agli umili, con sentimento d'amico, negli anni
posteriori; poichè furono quelle amicizie che non lasciarono crescere
nel mio cuore certe vanità e superbiole di “giovin signore„ le quali,
svolgendosi col tempo, chiudono in molti le porte dell'animo a certi
sentimenti d'umanità e di giustizia, che picchiano per entrare, troppo
tardi. E quanto all'infezione morale, come dicono ora gli educatori,
l'idea mi fa sorridere, veramente; poichè ho a questo riguardo dei
ricordi molto chiari: ricordo che fra i ragazzi del mio ceto, che
conoscevo alle scuole, e i brindelloni che m'avrebbero dovuto infettare
nel cortile, non c'era alcuna differenza nè in materia di cognizioni,
nè in materia di linguaggio, nè in altro che si riferisse a cose
proibite; che, anzi, se una differenza c'era, stava in questo: che i
ben vestiti, ai quali l'agiatezza dava maggior libertà di spirito,
e il buon nutrimento più vivacità d'immaginazione, lavoravano con
questa intorno agli argomenti interdetti assai più continuamente e
più volentieri che i poveri, distratti molto spesso dall'appetito
insaziato, dalle fatiche, dai litigi domestici, e dalle busse paterne,
materne e fraterne.

                                   *

Poveri ragazzi! Non ho più saputo nulla d'alcun di loro dopo che
lasciai la città; ma essi vivono, parlano ancora nella mia memoria,
dopo più di quarant'anni, come se li avessi lasciati ieri: vedo ancora,
oltre che i visi, i vestiti di tutti, con quelle toppe e quegli sbrani,
i rammendi delle camicie rozze, gli scarponi girati loro dai fratelli,
e le capigliature inesplorate dal pettine, e le crepature dei geloni
alle mani, e quasi sento ancora l'odore che portava ciascuno con sè del
mestiere di suo padre. Ho conosciuto poi nella vita centinaia di uomini
d'altre classi sociali, che corrispondevano mirabilmente nell'indole
ai tipi diversi ch'eran tra di essi; posso dire anzi d'aver incontrato
ben poche persone così originali di carattere, che non mi paresse
d'averle già conosciute in embrione in qualcuno di quei piccoli “mal
nutriti„; poichè noi possiamo cambiare quanto vogliamo e il tenor di
vita e il cerchio degli amici e dei conoscenti, ma ci ritroviamo sempre
presso a poco in mezzo alla stessa compagnia drammatica, con quei certi
personaggi e maschere inevitabili, che la natura ripete senza fine.
Ricordo Tonino, figliuolo d'un carrettiere, che portava due cerchietti
d'ottone agli orecchi, uno spirito satirico, che metteva tutti in
canzonella, ma di cuor buono e d'un buon senso precoce, e dotato di
molte piccole abilità meccaniche, che invidiavo e ammiravo; col quale
m'era un piacere indicibile, un vero tripudio, nei giorni di pioggia,
il far cuocere le castagne in un pentolino di terracotta, sotto una
tettoia in fondo al giardino; dove fantasticavo d'esser stato colto
dal temporale in un bosco, e d'essermi rifugiato in un antro, senza
saper quando mai avrei potuto tornare a casa. Ricordo Nuccio, un viso
d'arabo, figliuolo d'un pescatore, invitto giocatore a castellina, che
non lasciava una noce in tasca a nessuno, una lingua d'inferno, con
cui nessuno la poteva nella lotta delle ingiurie, e che insolentiva
qualche volta a pagamento: capace di durarla una mezza giornata
per quattro fichi secchi; Tommasino, figliuolo del pollivendolo, un
pallidino con un fil di voce, di animo mite, che piangeva per nulla,
e che tutti si divertivano a tormentare; Giacometto, figliuolo della
lattaia, piccolo e tarchiato, buon diavolaccio, e un po' melenso, ma
che quando lo mettevano a un puntaccio dava in vere furie di torello,
che facevano scappare tutti quanti. E il povero Andrea, che fine avrà
fatta? Un disgraziato trovatello, fasservizi d'un panattiere, che
tutti picchiavano nella panatteria, così per spasso; un vero sacco da
botte, e pure fresco sempre e pien d'allegria, come se i manrovesci e
le pedate gli facessero l'effetto di docce igieniche: insuperabile a
far saltare i soldi con la trottola e a saltare sui muriccioli a piedi
giunti. E dove sarà il _frate_, figliuolo del cenciaio, a cui s'era
dato quel soprannome perchè da bambino, per un voto fatto, era andato
un pezzo vestito da fraticello; quel piccolo _frate_ che aveva un così
bel testone di filosofo piantato per traverso sopra due spalle gibbose,
e che ci portava nel cortile tutti i pettegolezzi del vicinato, il più
astuto e più ciarliero della compagnia, e tanto buffo da farci scoppiar
dal ridere al solo suo apparire? E Gigetto, il ciabattino, gran
rapinatore di nidi d'uccelli, il mio Sancio Pancia, che m'accompagnava
in tutte le corse avventurose per la campagna, e che era regolarmente
scapaccionato da sua madre ad ogni ritorno, perchè ritornava sempre
mostrando una natica per un grande squarcio dei calzoni? E il piccolo
Savoiardo, quel bel ragazzo biondo, sempre serio, orfano d'un oste,
che i ragazzi più grandi tormentavano con certe allusioni misteriose a
una sua sorella, sulle quali poi io meditavo lungamente.... Mi ricordo
sempre d'una volta che essa venne a cercarlo nel cortile, tutta ben
vestita, coi capelli corti e ricciuti, e una cintura di cuoio alla
vita: mi ricordo che mandava un odore acuto d'essenza di violetta,
e che per molto tempo dopo rividi sempre con l'immaginazione quei
riccioli ogni volta che sentii quell'odore.

Ma il personaggio che m'è rimasto più impresso è un ragazzo sotto
i dieci, che si chiamava Clemente, quello della _Crinea_, figliuolo
d'un'erbivendola, un tipo di monello compiuto, nel quale era il germe
del delinquente. È il ricordo di costui che, prima ch'io leggessi
alcun libro di Cesare Lombroso, mi persuase che ci sono dei delinquenti
di nascita. Era un piccolo Don Chisciotte del delitto. Il suo ideale
supremo era di diventare un farabutto famoso, e si gloriava d'esser già
tale, con una impudenza da pestargli la faccia. Portava sempre in tasca
un coltelluccio spuntato, per impaurirci, minacciando ogni momento di
servirsene. Menava vanto d'esser tenuto d'occhio dalla polizia, di non
aver paura dei carabinieri, di essere anzi già sfuggito più d'una volta
dalle loro mani, e diceva che per arrestar lui due non bastavano. A
sentirlo, andava in giro tutta la notte, e ogni notte compiva qualche
prodezza, alla quale faceva dei vaghi accenni, strizzando un occhio e
appuntandosi con due dita uno dei baffi che non aveva. Ebbe un giorno
la faccia tosta di condurmi in un vicolo e di indicarmi sul ciottolato
certe macchie che egli diceva di sangue, sparso là da un uomo, da un
prepotente, al quale egli aveva data una lezione; e un'altra volta,
accennandomi la porta d'una stanza a terreno dell'ospedale civico, dove
si esponevano i cadaveri degli assassinati, mi mormorò all'orecchio:
— Sai? Ce n'ho già mandati un bel numero lì dentro! — Io sospettavo
la smargiassata; ma che qualche cosa di vero ci fosse non dubitavo.
E avevo di lui un gran terrore, che cercavo di nascondere, e me lo
propiziavo regalandogli quasi ogni giorno le frutta di cui mi privavo a
tavola, e anche roba che non mi spettava. Per questo egli s'atteggiava
a mio protettore, e per buscar dell'altro mi dava a bere che avevo dei
nemici, delle canaglie che mi volevan fare la pelle, e si vantava ogni
tanto d'aver sventato una loro trama, d'averli sorpresi e cacciati in
fuga col suo coltello, mentre s'aggiravano in atto sinistro intorno
a casa mia. E io facevo nuovi vuoti nella dispensa domestica per
ricompensare i suoi finti servigi di brigante amico.

Costui, nondimeno, non aveva ancor sulla coscienza nulla di grave;
non era ancora che uno spaccone della mariuoleria. Ce n'era un altro
che aveva già incominciato la carriera. Non veniva che di rado nel
cortile, perchè abitava lontano; di chi fosse figliuolo non sapevo;
forse di nessuno. Era sempre in giro; passava più notti al lume
della luna che sotto i travicelli, se pure aveva un tetto. Era un
ladruncolo di mestiere, specialista delle frutta. Passando accanto
a un banco di fruttaiuolo, di pieno giorno, in presenza di chi si
fosse, agguantava una pesca o un grappolo d'uva, e spulezzava con
una tal velocità che non c'erano gambe che lo potessero raggiungere:
era un ladro alato. Aveva una faccia trista. E come l'avrebbe potuta
aver buona, povero ragazzo, cresciuto come una fiera in un bosco? Ma
io non potevo allora sentirne la pietà che ne sento adesso. Temevo
assai più lui di quell'altro, e per questo l'accoglievo con particolar
cortesia quando onorava i miei poderi d'una sua visita. Un giorno,
dopo avermi guadagnato un soldo al gioco delle bocce (lo lasciavo
sempre guadagnare), egli infilò la strada per andarsene, ed io stavo
osservandolo dalla soglia del portone. Passò in quel punto davanti
a me un brigadiere della polizia, — un perticone alto due metri, con
una durlindana che non finiva più; — il quale, vedendo il ragazzo alle
spalle a un tiro di pistola, esclamò: — Ah! Ce l'ho finalmente! — e
slanciatosi di corsa in punta di piedi, a passi corti e rapidissimi,
lo raggiunse e lo ghermì per un braccio. Quegli si mise a urlare
come un disperato, chiedendo pietà e misericordia; ma il brigadiere
tenne duro, e lo tirò via. Io rimasi agghiacciato dalla paura, con
la coscienza d'un complice, a cui dovesse toccare la stessa sorte fra
poco; e rientrato in casa pallido e tremante, stetti rintanato tutto il
giorno, spiando tratto tratto dalla finestra, col tremacuore di veder
comparire da un momento all'altro il brigadiere lungo, in aria di dire:
— All'altro, adesso! — Non vidi più quel ragazzo dopo quel giorno.

Fuori di questo e dell'accoltellatore putativo, tutti gli altri
erano in fondo buoni figliuoli, incapaci d'una birbonata vera, alcuni
affezionatissimi e già utili alle loro famiglie; e mi volevan tutti
bene, nonostante i battibecchi frequenti, perchè, non tanto per
proposito quanto per affetto, io non facevo sentir loro in alcun modo
la mia superiorità di condizione. Il che non toglieva che facessi
qualche volta il prepotente, per impulso d'istinto; ma ricordo che
quando mi dicevano (e lo dicevano sempre in quei casi) ch'io facevo
così perchè ero un signore, queste parole mi ferivano al cuore, e ne
rimanevo umiliato e confuso, e m'affrettavo a farmi perdonare con ogni
specie di cortesie, e anche d'adulazioni.



Sul campo dell'onore.


La mia passione per i soldati trovò un grande sfogo in questa banda
di mocciosi, coi quali potevo fare il generale. Li armavo di randelli,
li ammaestravo agli esercizi, e li conducevo fuori a far delle marcie
militari con trombette di latta e con bandiere di carta, discorrendo
sempre con loro d'un nemico immaginario, col quale un giorno o
l'altro ci saremmo dovuti misurare, e contro il quale essi s'andavano
accendendo di giorno in giorno di generosa ira guerriera: tanto è
facile montar la testa alle moltitudini coi fantasmi dell'onore e
della gloria, anche contro un nemico che non esiste. E veramente io
vivevo nell'aspettazione continua di qualche grande prova, senza
saper da che parte nè come se ne potesse presentar l'occasione.
L'occasione si presentò. V'era in un altro quartiere della città
un altro piccolo Bonaparte, che fu poi mio compagno nella Scuola
di Modena ed è ora colonnello dei bersaglieri, il quale addestrava
pure un piccolo esercito contro un nemico creato dalla sua fantasia.
Apprender l'esistenza l'un dell'altro, ed esser nemici, e considerar
necessario il cozzo delle due schiere, fu una cosa sola. S'era bene
italiani da una parte e dall'altra, e cittadini della stessa città,
e in un tempo in cui la patria comune era impegnata in una guerra
contro la Russia; ma si apparteneva a due parrocchie diverse, e questo
bastava ad aprire un abisso fra di noi. Noi dicevamo con disprezzo:
— Quelli di Sant'Ambrogio —;questi dicevano con disdegno: — Quelli
di Santa Maria —; come accade fra gli uomini, tale e quale, e anche
fra i popoli, presso a poco. Si procedette con tutte le regole della
diplomazia. Ci fu una formale dichiarazione di guerra portata per
iscritto da due commissari in ciabatte. I due eserciti, composti d'una
ventina di cazzabubboli, partirono una mattina, a un'ora convenuta,
dai loro accampamenti, movendo l'un verso l'altro per vie designate.
Io m'ero messo a tracolla una sciarpa azzurra rigata di bianco, avanzo
d'una vecchia tenda di finestra, e brandivo una daga di legno, fasciata
di carta d'argento, che m'aveva fatta un mio fratello: mi credevo
formidabile. Ma quando vidi apparire in fondo alla strada, alla testa
dei suoi, il generale nemico, riconobbi con umiliazione ch'egli era
assai più fieramente armato di me, poichè aveva in capo un vero e
proprio cappello di bersagliere, con tanto di sottogola, un vero zaino
sulle spalle, e un simulacro di carabina fra le mani. A un segnale
dato da un dei miei con un imbuto, le due osti si corsero incontro.
Non saprei ridire l'andamento della battaglia, che dev'esser stata,
come le battaglie antiche, una serie di conflitti disgiunti, i quali
non avrebbero data ad alcuna parte la vittoria, se questa non fosse
stata decisa dal duello dei capitani. Il mio avversario era ardito; ma
fu vittima d'una illusione: scambiò con una lama vera il mio brando
di legno inargentato, mi credette risoluto al sangue, die' indietro
ai primi colpi, mi voltò lo zaino e riprese a gambe la via della
sua parrocchia. Ma era una fuga da Orazio davanti ai Curiazi. Io gli
detti dietro; corremmo un pezzo in mezzo alla gente che s'arrestava a
guardarci, in atto di dire: — Santi scapaccioni! — A un certo punto,
il generale fuggente, visto in terra un mattone, lo raccolse con una
mossa fulminea, e mi fece fronte: io torsi il busto per scansare il
proiettile, e me lo presi in un fianco. Vidi le due Orse! Accecato
dall'ira, mi lanciai avanti; il generale Ambrosiano, più lesto di me,
sparì come un razzo. Insomma, il vero “battuto„ ero io, e come! Ma con
la scomparsa del fromboliere, il suo esercito s'era dileguato; eravamo
rimasti noi padroni del terreno, noi i vincitori. Tornai a casa piegato
in due; a ogni mossa, ricacciavo dentro un gemito; dissi a mia madre
che era un colpo d'aria. Ma la galloria, ma il vampo che menammo di
quel trionfo ipotetico fu una cosa da non immaginare. Per tutto quel
giorno, e per qualche giorno appresso, non parlammo d'altro; tutti
raccontavano episodi, tutti avevano fatto prodezze da Orlando; tale e
quale come i “reduci„ ai banchetti. E m'era già cessato da un pezzo il
dolore al fianco, ch'io lo simulavo ancora, camminando inflesso come un
arco, per far durare la gloria della ferita. Quante volte, molti anni
dopo, alla Scuola militare, il mio buon amico ed io ricordammo quella
famosa giornata, e la nostra “singolar tenzone!„ E chi sa che il bravo
colonnello non se ne ricordi ancora qualche volta, quando lavorano i
muratori nella sua caserma, e gli cade lo sguardo sopra un mucchio di
mattoni!



Primi palpiti....


Trovo a questo punto il ricordo di quel primo sentimento confuso e
soavissimo, che si può chiamare il crepuscolo dell'amore, e che la
parola non può render che malamente, come il pennello il primo barlume
dell'alba. Una sera, tornando da una passeggiata col portinaio, ci
fermammo in una piazzetta dove dava spettacolo una famiglia di poveri
saltimbanchi, e danzava in quel punto sopra una corda, con le sottanine
corte e il bilanciere in mano, una ragazzina della mia età, di forme
graziose e di viso dolce e triste, accompagnata da un organetto che
suonava un'aria lamentevole. Le batteva in viso la luce d'un lampione;
vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime: era forse stata battuta,
o era digiuna o malata, e la facevano ballare per forza. Non so ben
dire, ma ricordo bene quello che provai: un sentimento nuovo per me,
una simpatia viva, dolcissima, piena di tenerezza e di pietà, diversa
affatto da quanto avessi mai sentito fino allora in presenza dell'altro
sesso; una commozione gentile e grave ad un tempo, della quale sentivo
non so quale alterezza, e che mi lasciò pensieroso per tutta la sera,
come d'un mistero, e compreso di quella malinconia che ci viene dalla
solitudine della campagna all'ora del tramonto; ma non turbato neppure
dall'ombra d'un pensiero sensuale, benchè fra i compagni di scuola
e di gioco mi fosse già passata per gli orecchi molta parte dello
scibile; anzi rifuggente con ribrezzo da ogni immagine impura che mi
balenasse appena alla mente. Ciò che prova per me che non è quella
peste incurabile che si crede la cognizione precoce (d'altra parte
inevitabile, che che si faccia) di certe cose, poichè l'amore è più
forte di lei, e quando si leva spazza via dall'anima, come un colpo
di vento, ogni pensiero immondo. Disparve presto quella immagine;
ma non rimase più vuoto il posto che ella aveva occupato: nel quale
sottentrarono via via le piccole signorine più belle e più note della
città, che usavano ballar tra di loro ogni domenica in una piazzetta
del passeggio pubblico, mentre suonava la banda municipale; e tutti
quegli amori furon della natura del primo, affettuosi e puri, tutti
del cuore e della fantasia, accompagnati da ambizioni vaghe di gloria,
da immaginazioni poetiche di nozze premature, di fughe avventurose,
d'incontri romanzeschi in foreste e in deserti, di colloqui
appassionati e sommessi nel silenzio delle notti stellate. Che sciocco
errore è di far colpa ai ragazzi, come d'un delitto, o di deriderli di
quei primi moti della passione, che sono invece la sola forza intima
che possa preservarli dalla corruzione! Io ricordo che tutte quelle
ragazzine m'apparivano come ravvolte in una infinità di veli, di cui il
mio pensiero non raggiungeva mai l'ultimo; che le tenevo come creature
sovrumane, le quali non avessero di fanciullesco che l'aspetto, così
che restavo stupito, quasi deluso, quando nel passare accanto a loro,
mentre discorrevano con le governanti o coi fratelli piccoli, le udivo
dire qualche sciocchezza, come ne dicevano tutti i ragazzi della mia
età. E avrei sentito una vergogna mortale se esse avessero potuto udire
certi discorsi che facevamo fra di noi, e ogni allusione volgare che si
fosse fatta a quella che per il momento stava sull'altare, m'avrebbe
offeso nell'anima. Ma da quei discorsi, per quanto stava in me, esse
rimanevano sempre fuori, come esseri inaccessibili alle volgarità di
questa terra. Le nostre immaginazioni e i nostri discorsi licenziosi
avevan per oggetto persone d'altra età e d'altra condizione, nelle
quali non si guardava nè a bellezza nè a bruttezza, e neppur ci aveva
che vedere la simpatia; e anche correva un lungo tratto tra l'audacia
impudente delle parole e la vera capacità morale di peccare. Benchè il
mio sentimento religioso fosse molto vago, e andasse soggetto a molte
intermittenze, quello di cui si parlava così allegramente m'appariva
pur sempre un peccato enorme, di conseguenze grandi e terribili
nell'altra vita ed in questa; la prima delle quali pensavo che fosse
un'immediata e profonda trasformazione morale, un'entrata violenta e
pericolosa di tutto l'essere nella virilità, lo scoprimento istantaneo
di molti misteri solenni della vita, una sazietà improvvisa di tutti
i giochi e di tutti i piaceri della fanciullezza, e la morte d'ogni
amore allo studio. Tanto è vero che, essendosi vantato con me quel tal
Clemente, d'aver conosciuto l'albero del bene e del male, e avendomi
raccontato che la sera della sua prima colpa era stato accompagnato
fino a casa da una voce cupa e continua che veniva di sottoterra, io la
bevetti come me la diede, e ne serbai per molto tempo un senso segreto
di terrore.



Il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea.


Ero passato intanto al secondo anno di Grammatica; del quale non
conservo altro ricordo netto che quello d'uno sproposito enorme ch'io
feci in una traduzione dal latino a un esame mensile, il più sformato
farfallone, il più buffo e scandaloso quiproquo che sia mai stato
preso, credo, nelle scuole d'Italia, da che vi s'insegna la lingua di
Cicerone, e che rimase meritamente celebre tra la scolaresca per tutta
la durata del corso. Era.... Ma no, non lo dico, perchè non sarebbe
creduto, perchè si penserebbe certamente ch'io l'avessi inventato per
rallegrar la materia e per vantarmi d'aver superato in qualche cosa i
confini dell'immaginazione umana: la memoria d'una tale scelleratezza
deve scender con me nel sepolcro. Fuor della scuola, il mio ricordo più
vivo di quell'anno fu il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea. Già,
quand'era venuta la notizia del primo sbarco delle truppe a Genova,
avevo pensato subito al mio caporale Martinotti. Era egli scampato alle
battaglie e al colera, o era una delle tante vittime che aveva lasciato
il nostro piccolo esercito sulla via dolorosa dal porto di Balaclava
alle trincee di Sebastopoli? E se era vivo, sarebbe ritornato nella
piccola città dove l'avevo conosciuto? Il giorno che si sparse la voce:
— Arrivano due battaglioni domattina — fui fuor di me dal piacere e
dall'impazienza. Ma mia madre, prudente, credette di dovermi preparare
a una delusione. — Bada — mi disse — ne son morti tanti! E poi, chi ti
dice che non sia rimasto a Genova, o che non debba rimanere a Torino?
— Quest'avvertimento mi rese pensieroso. Mi svegliai non di meno la
mattina dopo con l'allegra certezza di rivederlo. Accorse ad aspettare
i soldati una gran folla, per modo che dovetti restare assai lontano
dalla stazione, sul margine d'un largo viale che saliva dalla strada
ferrata ai bastioni; ma lì, a forza di gomiti, conquistai un posto fra
i primi spettatori.

Che cavallone mi fece il sangue quando sentii i primi squilli di
tromba, e vidi schierarsi in colonna giù sul piazzale i primi plotoni!
Ma che soldati eran quelli? Non riconoscevo più i miei bersaglieri.
Eran tutti neri come beduini, vestiti di lunghi cappotti grigi,
con certe miserie di pennacchi scemi e stinti, cascanti come cenci
dai cappelli logori: più fieri all'aspetto, senza dubbio, più belli
cento volte di com'eran partiti; ma mi parevan soldati d'un esercito
straniero, che dovessero parlare un'altra lingua, e di cui nessuno
m'avesse più a riconoscere. La colonna si mosse, fra gli applausi
della moltitudine. La precedeva un grosso stuolo di trombettieri, che
mi dovevano passare proprio sui piedi. Ci doveva essere tra quelli il
mio caporale; a ogni passo che facevano avanti, mi batteva il cuore
più forte. Ah! eccolo, ecco Martinotti.... Ahimè, fu l'illusione d'un
momento. Il caporale era un altro. Martinotti non c'era. I trombettieri
passarono. Rimasi col cuore oppresso. Guardai tutti i gallonati della
colonna: non lo vidi. Ah! è morto — pensai — il mio buon caporale
è morto! O è forse rimasto a Torino o a Genova, come mi disse mia
madre, e non lo rivedrò mai più, come se fosse morto. — Non restava
più da passare che una compagnia, e io stavo osservando un vecchio
capitano che aveva una grande cicatrice a una guancia, quando udii a
due passi da me una voce allegra: — O Mondino! — Mi voltai, come a una
scossa elettrica: era lui! lui, coi galloni di sergente, in serrafile,
col cappotto grigio e tre penne sul cappello, col viso abbronzato,
dimagrito, un po' invecchiato, mi parve, ma diritto e svelto come
avanti la guerra, lui che mi salutava con la mano nera e con quel buon
sorriso d'una volta, che non avevo mai dimenticato. Gli risposi con
un: — Ah! — che fu come uno squillo di trombetta, e per poco non mi
cacciai tra le file ad abbracciarlo. — Come sei cresciuto! — mi gridò,
e non ebbe tempo di dir altro; gli ultimi due plotoni passarono fra
gli applausi e gli evviva, e io fui travolto dalla folla che irruppe
dietro alla colonna per accompagnarla al quartiere. Lo rividi il giorno
dopo, con che festa si può pensare, e la nostra amicizia si riannodò
più salda di prima. Ma, cosa strana, non ricordo assolutamente nulla
delle molte cose della guerra ch'egli mi deve aver raccontate quel
giorno e i seguenti, nè m'è rimasto in mente alcun particolare delle
nostre relazioni dopo il suo ritorno. La sola cosa che ricordo, dopo
quell'avvenimento, è un gran banchetto che fu dato a tutti i soldati
nella piazza d'armi, dove eran disposte a raggiera molte lunghissime
tavole, sotto un vasto padiglione imbandierato. Ma anche di questo
non conservo che un'immagine confusa, come d'uno spettacolo visto di
sfuggita, e a traverso un velo di vapori.



Il furore della pittura.


La guerra d'Oriente ebbe una conseguenza triste in casa mia, poichè,
indirettamente, fu la causa che mi s'attaccasse la passione d'imbrattar
carta coi colori; la quale diventò e fu per un certo tempo un vero
furore di maniaco. Non mi pare inutile di farne un cenno poiché si
tratta d'una piccola malattia per cui passano quasi tutti i ragazzi.
Me l'attaccò un grande quadro, non ancor finito, rappresentante la
battaglia della Cernaia, che mio padre mi condusse a vedere nello
studio d'un bravo pittore lombardo (il Borgocarati, un eroe delle
Cinque giornate) che era stabilito da anni nella nostra città. Fra
gli altri particolari, mi colpì così vivamente lo sfolgorìo purpureo
d'uno squadrone di cavalleria inglese galoppante sul davanti della
tela, che non gridai: — Son pittore anch'io! — come quel tale artista
famoso, ma sentii il fremito delle facoltà occulte che esprimeva
quel grido. Era questa un'illusione che covavo fin dai sei anni,
per aver fatto uno scarabocchio di battaglia, il quale era parso una
maraviglia al mio buon padre, che l'aveva messo in un quadro, come una
manifestazione non dubbia di genio. Ah, gli occhi dell'amor paterno!
Faceva tanto più onore al suo cuor di padre quell'errore perchè,
senza aver fatto studi regolari, egli era intendentissimo d'arte, e
disegnava, miniava e modellava con gusto squisito. Vadano pur cauti i
padri amorosi a profetar Raffaelli in casa propria, chè non avranno
mai cautela soverchia. In realtà, avevo un sentimento vivissimo dei
colori, che mi davano piaceri acuti, somiglianti a quelli che dà la
musica, tanto da tenermi in contemplazione per delle mezz'ore davanti
a una stoffa, a un'aiuola, a una nuvola, fantasticando come davanti
a un quadro che rappresentasse una scena umana. Ma era un sentimento
che non si doveva estrinsecare per mezzo dei pennelli. Avvenne a me
quello che avviene a molti nati alla pittura, i quali cominciano
invece col menar la penna: sbagli di porta, che fa chi ha furia
d'entrar nell'arte. Ma questo dubbio non poteva neppur lampeggiare
alla mia mente. Sciupai dozzine di scatole di colori a tingere risme
di carta, tentando tutti i generi, dal paesaggio da confettiera
al quadro storico da cartellon dei burattini, ma più che altro la
pittura militare; alla quale mi incitava, senza volerlo, mio padre,
col parlar sovente di Orazio Vernet, di cui era caldo ammiratore. Non
si son combattute tante battaglie nel secolo sopra la faccia della
terra quante io ne scombiccherai in sei mesi col mio granatino della
malora. Ne buttavo giù fin quattro in un giorno. Era un vera fabbrica
di carnificine dipinte. Non si possono immaginare gli orrori che ho
messi in acquarello. E siccome regalavo i miei lavori, come Massimo
d'Azeglio, a tutti i miei amici e conoscenti, venne un tempo in cui
ne fu invasa la città, e se ne vedevano appiccicati ai muri per la
strada, nelle botteghe del vicinato, e perfino agli usci delle stalle.
Il caso aggravante era che avevo la faccia di firmarli, perchè non
mi potessero rubare la gloria degli artisti senza coscienza. Quante
volte il mio povero padre, vedendoli, deve aver detto tra sè: — Ah! _di
quanto mal fu matre_ quella benedetta inquadratura! — Perchè l'opera
si moltiplicava senza migliorarsi; il decimillesimo soldato uscito dal
mio pennello non aveva men diritto d'esser “riformato„ dai medici che
il primo; non figliavo che mostricini tutti improntati dello stesso
conio di famiglia; tutti quanti i battaglioni, tutti gli squadroni,
che lanciavo all'assalto sulla carta di protocollo, gridavano in coro
contro il piccolo assassino dell'arte. E intesi quel grido, finalmente,
e mi sdiedi a poco a poco dalla strage. Ma non son mica malcontento,
ripensandoci, d'esser passato per quel periodo di criminalità
pittorica, poichè fu forse quella sfuriata, dalla quale uscii sazio e
deluso, che mi distolse dal mettermi più tardi ad altre prove inutili,
fu quella rosolìa artistica, patita nella fanciullezza, che mi salvò da
qualche altro malanno nell'adolescenza, il quale avrebbe potuto avere
effetti più gravi che lo sciupio dei colori e l'imbratto delle mura
cittadine.



Il regno del terrore.


Entrai nella Terza Grammatica, sotto un professore terribile, che mi
rese quell'anno memorando. Era un uomo tarchiato, con una gran faccia
sbarbata e pallida da Padre Inquisitore, nella quale luccicavano due
occhi chiari e freddi, che parevano due pallottole di cristallo. Non
picchiava; ma era peggio che se picchiasse, perchè si serviva del
latino come d'una frusta metallica, con cui ci faceva frullare come
i mezzani di Malebolge sotto le scuriade dei diavoli. Ci caricava
di lavoro, ci oberava di pensi, non ci lasciava girar gli occhi, nè
allungar le gambe, faceva somigliar la scuola a una funzione funebre.
Aveva il furore dei quaderni di bella copia: ne dovevamo tener
dodici: per le frasi italiane e per le latine, per le regole delle
due grammatiche, per le sentenze morali, per le similitudini, per la
mitologia, e via discorrendo: una vera amministrazione letteraria,
che non ci dava respiro. Non montava mai in collera, era pacatamente
spietato. E il linguaggio feroce che usava così a sangue freddo! A
ogni errore di grammatica: — Ah, vile malfattore — Ma lei disonora la
sua famiglia — Lei tradisce la patria — Lei andrà a finire in galera
— Questo è uno sproposito ignominioso — Questa è una sintassi da farla
cacciare in prigione.... — Dopo due mesi di questo regime eravamo tutti
ridotti un branco di schiavi tremanti. C'eran dei veri martiri del
_nuovo metodo_, imbecilliti dai verbi difettivi, che impallidivano al
suono del comando: — Mi coniughi — e non dormivano più dallo spavento
delle dieci lezioni quotidiane che dovevamo mandare a memoria. Oh quel
gran crocifisso appeso al muro, sopra la cattedra, come simboleggiava
lo stato di tutti! Quell'Ezzelino della Grammatica s'ammalò una volta
nel cuor dell'inverno: tirammo tutti un respiro di mantice; ma un
respiro solo, perchè egli ci spirava terrore anche da letto. Venne a
sostituirlo un suo collega, professore in aspettativa, che comparve il
primo giorno in divisa di guardia nazionale, e appoggiò il fucile alla
parete, accanto alla cattedra. Credendolo della stoffa dell'altro, di
cui era amico intimo, pensammo che fosse venuto armato per far fuoco
sugli sgrammaticanti. Era invece un buon diavolo, che ci restituì alla
vita umana. Ma quel paradiso non durò che otto giorni; dopo i quali il
tiranno ritornò, più truce di prima, e noi ricurvammo la fronte, con
raddoppiato terrore, sotto il giogo nefando.

Tre personaggi straordinari di quella mandra atterrita mi sono ancora
stampati nella memoria. Uno era un certo Gatti, il solo che non
temesse Ezzelino, e che noi ammiravamo per questo come un'anima eroica,
che rappresentava in faccia alla tirannia il nostro spirito secreto
di ribellione. Egli faceva audacemente le nostre vendette, non con
risposte o atti insolenti, ma con l'ostentazione costante d'un freddo
disprezzo, con una pertinacia invitta nella volontà di non studiare;
e non c'era rimprovero nè minaccia che gli facesse mutare aspetto nè
_piegar sua costa_. Egli affrontava i fulmini fissando negli occhi al
professore uno sguardo da Capaneo, che ci faceva fremere d'entusiasmo.
Il professore castigava i rei facendoli stare in ginocchio
sull'impiantito accanto alla cattedra, e quel “magnanimo„ stava
inginocchiato per mattinate intere, col busto eretto e con la fronte
alta, in un atteggiamento superbo di angelo ribelle alla Grammatica,
nel quale grandeggiava ai nostri occhi come una statua di Michelangelo.
Il tiranno si rodeva; ma egli non chiedeva mai grazia. Credo che alla
scuola egli abbia passato più tempo in ginocchio che seduto, e che,
se è tuttora in vita, debba avere ancora i calli alle giunture, come
quei maomettani fanatici che hanno fatto il viaggio alla Mecca carponi.
O anima altera e disdegnosa! Dovunque tu sia, possa raggiungerti
questo tardo saluto d'ammirazione dell'antico compagno di schiavitù e
d'inginocchiatura.

L'altro era il più attempato della classe, un ragazzotto robusto,
di viso precocemente grave, poco familiare coi compagni: venuto da
Saluzzo, mi pare, e tenuto a dozzina da una zia di manica larga, che
gli allentava la briglia e non gli contava gli spiccioli. Lo guardavamo
tutti con certa ammirazione perchè si diceva che abusasse virilmente
della sua libertà; ci appariva quasi circonfuso d'una gloria satanica,
come un eroe del Byron, e poichè, diffidando di noi, non accennava che
velatamente, e di rado, alle sue scappate, noi davamo alle sue poche
parole oscure cento interpretazioni fantastiche, assai più ardite e
profonde del suo pensiero. Risento ancora la commozione della scena
solenne che seguì una mattina, quando il professore, informato non so
da chi delle sue sregolatezze, lo chiamò in presenza della scolaresca
davanti alla cattedra, e con viso e voce d'un presidente di Tribunale
statario, gli disse: — Nefande cose ho saputo sul conto suo, signor....
tal dei tali!

E dopo una pausa funerea: — Ella va attorno di notte!

E dopo un'altra pausa più lunga: — Ella bazzica con la feccia del
consorzio civile!

E dopo un silenzio lunghissimo, con voce soffocata: — Ella beve!

E finalmente, con un colpo di cannone: — Sciagurato!

Corse un brivido per tutti i banchi; pareva che nessuno respirasse;
durò per un minuto un silenzio di morte. Fu una scena tragica,
veramente. Il piccolo accusato, immobile e muto, ci apparve come
l'immagine incarnata di tutte le corruttele e di tutti i delitti della
decadenza di Roma.

Non saprei ridire il discorso che sfoderò poi il professore: ricordo
solo che c'entrarono la giustizia divina e la umana, e l'infamia
eterna, e l'ergastolo, e altre dolcezze consimili, messe fuori con
voce cavernosa e roteando gli occhi in modo da dar la terzana, e che,
finita la lezione, non per ribrezzo di lui, ma per terrore del tiranno,
sfuggimmo tutti lo sventurato peccatore come un maledetto da Dio.

Il terzo era un tipo amenissimo, mingherlino, con un viso di vecchio
notaio, figliuolo d'una bustaia vedova: uno sgobbone indefesso, che
aveva grandi pretensioni di latinista, e faceva i componimenti a
musaico, a furia di frasi raccattate qua e là con una pazienza di
santo, e messe insieme con gli artifici più grossolani, congiunte
proprio con la forza, a marcio dispetto della logica e del senso
comune, che per lui non contavan nulla, purchè la lingua e lo stile,
come egli diceva, fossero “oro di coppella„. Me lo vedo ancora
davanti, un giorno che leggeva al professore uno dei suoi periodi
intricatissimi, al quale diceva d'aver lavorato tutta la notte.

Il professore gli disse: — Ma io non capisco.

— Lo credo bene — rispose — qui ci son delle frasi peregrine.

— Ma che frasi sono, che io non le intendo?

— Ma è tutto, tutto un tessuto di frasi. Io ho condensato. Si sa.
Capire alla prima è impossibile!

E il tira tira durò un pezzo, fin che egli si rimise a sedere
scoraggiato, facendo un atto del capo come per dire: — È tempo perso:
il vero latino non è più inteso.

Dei fatti miei rammento una composizione italiana a tema libero, che
fu il primo mio parto letterario, di cui serbi memoria. Descrissi _Una
lotta fra il leone e la tigre_: argomento in armonia con la mia natura,
si capisce. Ricordo che incominciava con la frase: _Sul rosseggiar del
cielo_, ed era tutto uno stridío di parole terribili, scelte tra le più
ricche di erre e di esse, una musica infernale di ruggiti e di rantoli,
una lacerazione furiosa di carni e di regole di sintassi, che finiva
in un lago di sangue. Mi aspettavo un trionfo, quando fui chiamato
a leggere: fu un fiasco enorme; fu l'unica volta, credo, che risero
insieme il professore e la scolaresca, e forse l'ombra invisibile
del Padre Corticelli, che era il nostro grammatico ufficiale. E
questo fiasco, che m'avvilì allora profondamente, è adesso per me
un caro ricordo, poichè fu l'avvenimento che fruttò ai miei compagni
di servaggio e di terrore il solo quarto d'ora d'ilarità collettiva
ch'essi abbiano avuto in quella scuola dolorosa.

Dolorosa per me in ispecial modo perchè non ero ancora in età da poter
reggere a quelle fatiche, e tra per lo strapazzo intellettuale e per
l'affanno continuo, che qualche volta mi faceva sobbalzare la notte e
farneticare come un allucinato, la mia salute se ne risentiva. Appena
se n'accorsero mio padre e mia madre, decisero d'accordo di levarmi
dalla scuola e di non rimandarmici per quell'anno, perchè mi rifacessi
l'animo e le forze. Prima che finisse l'inverno mi fu fatta la grazia e
uscii dai lavori forzati.



Il maestro prete.


Perchè non frollassi nell'ozio, mi fecero far ripetizione di latino da
un prete, un'ora il giorno, a casa sua, dov'egli stava con sua madre e
una zia; le quali m'aprivano l'uscio pian piano, e scomparivano senza
dir nulla, come due larve. Era un bel pretino biondo, fresco come una
rosa, con due occhi azzurri vivissimi; i quali potevano far presagire
agli accorti che presto o tardi egli avrebbe gettato il collare sur
un fico; come lo gettò infatti pochi anni dopo per mettersi al collo
una collana vivente. Ma, ahimè! il giovine maestro non aveva più
voglia d'insegnarmi il latino di quello che n'avessi io d'impararlo.
Il ricordo di quell'esperienza m'ha fatto poi avversario risoluto
dell'insegnamento a quattr'occhi (fuor che nel caso che insegnante e
alunno siano due miracoli di buon volere), poichè quasi sempre manca
all'uno e all'altro ogni stimolo; quando nella scuola collettiva,
invece, lasciando anche da parte l'emulazione, s'avvivano e s'acuiscono
le facoltà intellettuali del ragazzo come quelle dell'uomo in teatro,
per effetto della comunione che si stabilisce fra le menti, le quali
quasi operano insieme, illuminandosi a vicenda. Sotto il tiranno
Ezzelino ero ammazzato dalla fatica; col prete morivo dall'uggia. Per
un po' di giorni simulammo tutti e due: egli lo zelo, io l'attenzione.
Poscia più che il dover potè la noia. Era un ipnotizzamento reciproco.
Ci guardavamo alle volte l'un l'altro con due grand'occhi fissi, che a
poco a poco s'ammammolavano, come gli occhi di chi cade in deliquio;
poi aprivamo la bocca insieme e ci tiravamo in faccia uno sbadiglio
sgangherato, enorme, interminabile, in cui pareva che esalassimo fino
agli ultimi _cuius_ tutto il latino che avevamo in corpo.... e non
c'era molto di più nel suo che nel mio.

Ma un giorno egli fece un'uscita che mise come un soffio di vita
fra di noi, e infuse in me una passione nuova, la quale lasciò una
traccia profonda nella mia memoria. Era allora attivissima l'opera
ecclesiastica per il riscatto dell'infanzia chinese abbandonata. _Ex
abrupto_, il giovine prete mi ragguagliò della cosa: poi mi domandò se
avrei accettato l'ufficio di raccoglier fra i ragazzi di mia conoscenza
sottoscrizioni di dodici soldi l'anno, allo scopo di salvar dalla
morte e dalla perdizione migliaia di poveri bambini del Celeste Impero,
ch'eran buttati via come cenci o venduti come bestie; e aggiunse ch'io
avrei assunto il titolo, ambito da molti, di collettore, che tutti
i collettori sarebbero stati presentati al vescovo, e che quattro
di essi, due ragazzi e due ragazze, _scelti fra i più avvenenti_,
avrebbero avuto l'onore di far la questua in una funzione solenne
che si doveva celebrare in una chiesa della parrocchia; per la quale
egli aveva composto i versi e la musica d'un inno, da cantarsi dalle
voci migliori, fra cui poteva esser la mia. Fu come avvicinare una
fiammella ad un razzo. L'idea del salvamento dei bambini, l'ambizione
dell'ufficio, la patente d'avvenenza e l'immagine del vescovo
m'accesero improvvisamente d'uno zelo, non dirò santo, perchè era misto
di troppi sentimenti profani, ma benefico per me, perchè mi risvegliò
l'animo e la mente, che s'erano addormentati nel latino. E a proposito,
non sarebbe una buona cosa quella di dare all'educazione intellettuale,
troppo astratta, della fanciullezza, il rincalzo di qualche azione di
utilità pubblica, che, avendo uno scopo diretto ed effetti sensibili,
stimolerebbe altre facoltà ed altri affetti, e insegnerebbe con
la dottrina la vita? Non mi pare un'idea da buttar via. Ma tiriamo
innanzi.

Il sentimento religioso, che non s'era spento in me, ma era solo stato
compresso, come ogni altro affetto, dall'incubo scolastico, mi si
ridestò in quel periodo di riavvicinamento alla chiesa; ricominciai a
dire le preghiere la sera e la mattina, andai alla benedizione, ripresi
amore alle cerimonie del culto, mi venne il desiderio d'imparar a
servir la messa, e per questo mi diedi a frequentare una chiesa vicina
a casa mia, dove strinsi amicizia con altri piccoli topi di sacrestia,
e entrai in grazia di qualche vecchio prete, che mi regalava delle
immagini. Ogni volta che mi raccolgo nei ricordi di quei giorni, vedo
arder ceri e scintillar pianete, sento le note dell'organo, mi par di
respirare nell'aria un odor d'incenso, e risento, se così può dirsi,
il sapore d'un certo stato di coscienza, non più esperimentato di poi,
una dolcezza quieta del cuore e quasi una chiarezza dell'animo, che
svaniscono se v'insisto troppo col pensiero, come quei motivi di musica
che ci suonano alla mente, ma che ci sfuggono se vogliamo tradurli in
note vocali. Vagheggiai in quei giorni l'idea di farmi prete.

Ma, Dio mio, sorse ben presto una nube di peccato in quella serenità
serafica. Il pretino dagli occhi azzurri radunò un giorno in casa
sua tutti i collettori e le collettrici, una ventina all'incirca,
me compreso, per insegnarci l'inno da cantare in chiesa; il quale
ricordo che incominciava col verso: — _Là nella Cina inospite._
— Le collettrici eran quasi tutte signorine della mia età, alcune
bellissime. La loro presenza mi produsse un vivo eccitamento. Quando
mi ci trovai in mezzo non pensai più nè alla China, nè al vescovo,
nè alla chiesa; non ebbi più anima e senso che per loro. C'era nella
stanza del latino un pianoforte, sul quale un ragazzetto di quindici
anni, figliuolo d'un organista, provava la musica dell'inno, fra
l'ammirazione di tutti. Fui morso da una maledetta gelosia, a cagione
delle ammiratrici. A un certo punto, non potendomi più contenere,
pregai il suonatore, con poca buona grazia, di lasciar suonare me
pure. Parrà incredibile una tale ignoranza a quell'età; ma è un fatto
ch'io credevo ancora che per suonare il pianoforte bastasse sapere il
motivo che si voleva suonare, e picchiar le mani sulla tastiera, così a
dettatura d'orecchio, come si fischia un'aria. Con questa sciocca idea
insistetti tanto che il ragazzo, credendo ch'io sapessi di musica, mi
cedette il posto per un momento. Immaginate quale fu alla prova il mio
stupore e la mia vergogna. Una vergogna tale che, anche ora, dopo quel
po' di primavere che son passate, quando mi ricordo tutt'a un tratto di
quella bella figura, perchè non me ne torni a gola tutta l'amarezza,
bisogna ch'io mi ragioni, e faccia onta a me stesso del mio orgoglio,
ancora palpitante quando dovrebbe esser morto e sotterrato.

Ma non fu quella la peggior figura ch'io feci in quel periodo
ecclesiastico della mia fanciullezza, e ricordo anche la peggiore per
il gusto di schiaffeggiare quello che mi resta di vanagloria. Venne
il giorno della funzione solenne. La chiesa era piena come un ovo. Ai
due collettori e alle due collettrici, che dovevano andare attorno con
una borsina elegante a raccogliere le offerte, era stato assegnato un
banco vicino all'altare. Modestia a parte, erano due bei ragazzi e due
belle ragazzine. Di una di queste non mi ricordo punto: l'altra fu poi
moglie d'un Direttore della Banca Nazionale, e il mio collega diventò
un avvocato celebre. Eravamo vestiti come principini, impomatati e
inguantati: quattro splendori. Ci erano state indicate prima le file
dei banchi dove doveva passare ciascuno. Durante la funzione io commisi
il peccato di pensar troppo intensamente alla mia vicina, la futura
banchiera, che era vestita d'un abito bianco, del quale sentiva la
carezza il mio abito nero. Il cenno del prete che ci disse: — Vadano —
mi sopraccolse in quel pensiero. Preso così all'improvviso a una così
gran distanza dall'idea del mio ufficio, mi confusi, e, oltrepassato
appena il primo banco, dove tutti, mi diedero un soldo, sbagliai, e
invece di proseguire come dovevo, mi cacciai fra gli altri banchi,
davanti ai quali era già passata una delle ragazze, e dove non ebbi
più il becco d'un quattrino. Quella sequela inaspettata di rifiuti, che
mi parve effetto d'antipatia personale, mi fece perder la bussola; non
vidi più nulla; non compresi i cenni con cui si cercava di rimettermi
sulla buona via; andai errando di banco in banco, alla cieca,
impacciato e goffo, con una faccia di ebete, che invece di stimolar la
carità provocava l'allegria, e dopo un pellegrinaggio interminabile,
che fu una tortura mortale, ritornai al banco dei collettori,
convertito per me in banco della berlina, con sette soldi nella
borsa. Ahi, dura terra! Che cosa sono le impressioni di quell'età!
Sta per morire il secolo che era allora a mezza strada, e ancora non
posso sentir pronunciare la parola _collettore_, senza che una voce
sarcastica mi mormori all'orecchio: — Sette soldi, signor collettore!
Sette soldi, e che figurona!

Ma in quegli anni ci rialziamo facilmente anche dalle più grandi
cadute. L'umiliazione patita in chiesa non tolse che fosse un giorno
di festa per me quello in cui il nostro prete mi condusse con tutto
il drappello dei colleghi e delle colleghe a far visita al vescovo.
Questi era un vecchio tutto bianco, già curvo, di viso grave e dolce.
C'eran con lui vari preti, fra cui riconobbi il Padre quaresimalista,
che predicava allora nel duomo; un bell'uomo bruno, coi capelli lunghi
e gli occhiali d'oro, dall'aria d'uno scienziato; la cui presenza
impreveduta mi turbò, perchè una domenica, facendo dal pulpito
un'invettiva terribile contro certi peccatori, con voce tonante e gesto
minaccioso, egli aveva per caso fissato sopra di me, che stavo davanti
al pulpito, uno sguardo scintillante, che m'aveva messo i brividi. Il
vescovo domandò a ciascuno di noi come ci chiamassimo. Quando fu la
mia volta, il predicatore disse non so che scherzo sulla latinità del
mio nome, con accento e sorriso benevolo, e quello scherzo, che mi fece
l'effetto di un'assoluzione, mi dissipò dall'animo ogni terrore. Delle
parole del vescovo non ricordo che un complimento che rivolse al mio
prete, sorridendo: — Lei è la colonna dell'istituzione, — e ricordo
la gioia che sfolgorò sul viso del lodato, pari a quella che davano ai
granatieri della Guardia gli encomî di Napoleone. Eh, povera colonna,
che doveva piegar tra poco come un giunco sotto una manina scomunicata!
E che singolari fissazioni ha la fantasia! Fin dalla prima volta che ho
letto i _Promessi Sposi_ ho sempre dato al cardinal Federico il viso
di quel vecchio vescovo, che, se fossi disegnatore, potrei riprodurre
fedelmente, mettendo al suo punto preciso il piccolo neo che aveva
accanto alla bocca; per cagion del quale mi fecero arrabbiare i miei
fratelli, che dicevan per celia che era finto.

In che maniera tutto quel mio fervore religioso si sia andato
spegnendo, non saprei dire. C'è a questo punto nella mia memoria, come
in altri punti, uno squarcio. Pare che quel piccolo mondo ecclesiastico
sia sparito dalla mia vita come una meteora. Mi ricordo peraltro che il
mio ufficio di collettore si veniva facendo di mese in mese più duro,
poichè era sempre più difficile strappare ai sottoscrittori poveri il
soldo promesso; e che un giorno tornai a casa quasi piangente perchè
la pollivendola, dandomi il soldo di mal garbo, dopo aver frugato in
tasca mezz'ora, mi domandò con un'occhiata severa: — Ma.... questi
soldi vanno poi tutti per davvero dove dovrebbero andare? — Rinunciai
all'ufficio quel giorno.

Proprio, non fui più fortunato io con la China di quello che doveva
essere quarant'anni dopo il Governo del mio paese.



Davanti al tribunale.


Al riaprirsi delle scuole municipali, in autunno, dovetti riprendere
la Terza Grammatica, sotto il tiranno; ma, riprendendola con un anno
di più, e dopo molti mesi di riposo, mi riuscì assai meno oppressiva
dell'anno avanti. M'ispirava sempre un gran terrore Ezzelino, ciò
non ostante. E a questo, sventuratamente, io offersi una memoranda
occasione d'esser terribile.

L'occasione fu, non dico il mio primo amore, ma il mio primo
amoreggiamento, poichè non credo che si possa amare a undici anni.
Uno dei miei nuovi condiscepoli, e stretto amico, che ora è un alto
impiegato delle Poste, s'innamorò a modo suo, che poi fu il mio, d'una
signorina della sua età, figliuola d'un avvocato, la quale andava e
tornava ogni giorno da non so che scuola privata con una sua piccola
amica, figliuola d'un notaro, passando per le strade che pigliavamo
noi per tornare a casa. Io m'innamorai dell'amica. Il doppio incendio
nacque dall'uniformità dei due orari scolastici. Andavamo tutti i
giorni ad aspettar la coppia gentile a una cantonata, all'uscir dalla
scuola: ardimentosi come due don Giovanni prima di vederle, intimiditi
a un tratto quando apparivano in fondo alla strada, tremanti come due
cani immollati quand'erano a due passi. E tutta la foga della nostra
passione non andava più in là di qualche esclamazione petrarchesca che
spiccicavamo a stento dalle labbra, arrossendo fino alle orecchie,
quando esse ci passavano davanti col capo e cogli occhi chini,
sorridenti al ciottolato. Dopo di che ce la davamo a gambe tutti e
due, l'uno incalzato dal terrore del bastone avvocatesco, l'altro dalla
paura dello stivale notarile, per commentar poi insieme l'avvenimento
con chiacchiere interminabili, come una prodezza di cavalieri antichi.

Questo giochetto innocente durò un paio di mesi, senza variazioni
notevoli, e senza tristi conseguenze.

Una mattina, a scuola, mentre un nostro compagno traduceva a voce
alta un distico delle _Georgiche_, entrò il bidello con una lettera
per il professore. Questi l'aperse, la lesse in silenzio, aggrottando
le sopracciglia, e poi diede un lungo sguardo a me e un altro al mio
amico, che sedeva in un banco del lato opposto. Quei due sguardi furono
per noi come due lampi rivelatori della verità tremenda. Ci guardammo:
l'uno lesse in viso all'altro il proprio pensiero: ci sentimmo perduti.
Vedo ancora la faccia pallida e spaventata del mio complice, che doveva
essere il riflesso della mia.

Il professore non interruppe la lezione; ma fu più feroce che se ci
avesse fulminati subito in presenza di tutta la scolaresca. Essendosi
accorto che avevamo capito, ci tormentò spietatamente per un'ora con
ogni specie d'allusioni avvelenate, tirate fuori a forza dalla poesia
virgiliana; l'ultima delle quali: — _Ci son altri che amano!_ — a
proposito della frase: — Le viti amano il sole —, smozzicata fra i
denti e accompagnata da due sguardi fulminei, fu così manifesta, che
molti compagni si voltarono a guardarci, raddoppiando in quel modo il
nostro terrore.

Venne finalmente il momento fatale. — Il tale e il tale si fermino —
disse il professore, quando entrò il bidello a dare il _finis_.

Sgombrata la scuola, ci avvicinammo alla cattedra col passo di due
condannati alla corda.

Il professore ci lesse la lettera adagio adagio, piantandoci ogni
parola nel cuore. Non era firmata. Era una denuncia anonima dei nostri
amori; la quale conteneva una calunnia, perchè parlava di “regali fatti
e ricevuti„, quando noi potevamo giurare sulla nostra borsa disabitata
che il nostro amore non ci costava un soldo, e terminava esortando il
professore a intimarci di smetterla se non volevamo “pagare amaramente
il fio„ della nostra audacia.

Pensammo subito che l'avesse scritta uno dei due padri; il che non era
verosimile per la ragione che v'erano accusate le ragazze d'averci
fatto dei regali. Solo molto tempo dopo sospettammo d'un alunno di
filosofia, nostro amico e canzonatore abituale. Ma la cosa rimase
sempre un mistero.

Il fatto è che quella minaccia oscura: “pagare amaramente il fio,„ che
lasciava spaziare l'immaginazione fra una pedata e un colpo di pistola,
ci fece allibire.

Ma fu ben più tragica l'ammonizione del tiranno. Se avessimo rapite
e portate in Svizzera quelle due signorine innocenti, non ci avrebbe
potuto dire di peggio. Ci trattò come due marci libertini, spavento
delle famiglie e disonore della città; ci parlò di tribunali; ci
parlò pure, com'era suo solito, della giustizia eterna, citando il
Canto quinto dell'_Inferno_, con la bufera che mena nella sua rapina
i peccator carnali; ce ne disse tante, insomma, e con un tal cipiglio
e un tale accento, che finimmo con scoppiare in pianto tutti e due;
anche il mio amico, che si vantava d'essere un uomo forte, e aveva per
intercalare, mi ricordo, due versi di Dante pigiati in uno:

    Sta come torre e lascia dir le genti.

Così morì ammazzato il nostro amore. Ma non con la correzione dei
peccatori, appunto perchè Ezzelino, secondo l'uso suo e di molti
altri, ci volle fare un delitto d'una fanciullaggine in cui non era
nulla d'ignobile. S'egli ci avesse dato anche una brava polpetta,
ma contentandosi di dimostrarci la grave sconvenienza d'andar a
posteggiare ai canti due ragazzine oneste e sole, come due birichine
vagabonde, noi ci saremmo certamente persuasi e pentiti. Trattati
invece in quella maniera, passata che fu la prima paura, ci invanimmo
quasi d'aver avuto la temerità di calpestare a quel modo tutte le
leggi umane e divine, e poi, quando ad animo quieto valutammo giusto il
piccolo fallo e la riprensione enorme, questa ci parve una buffonata, e
il riprensore un inetto e uno sciocco.

Non di meno, da quel giorno in poi, pigliammo un'altra strada per
tornare a casa, e per consolarci dell'amore andato a picco, ci demmo
con furore alla palla di gomma elastica.



Sulla mala via.


Fu in quel giro di tempo che, stando una sera nel giardino, ebbi un
quarto d'ora terribile, del quale ho risentito gli effetti funesti per
tutta la vita. Quasi all'improvviso mi girarono attorno gli alberi e
i muri, la terra mi vacillò sotto i piedi, mi si velarono gli occhi,
mi si oscurò la mente, e preso da un senso di stanchezza infinita, non
potendo più reggermi ritto, mi distesi per terra ed aspettai la morte.
Poi, rialzatomi con un grande sforzo, barcollando come un ferito, mi
trascinai a casa, dove mi buttai sul letto e confessai la verità a mia
madre; che, spaventata, mi spruzzò d'acqua la fronte e mi fece fiutare
dell'aceto, esclamando: — Ah, benedetto ragazzo! Anche tu! E così
presto!... Ah, non ci ricadere mai più, per l'amor del cielo!

E io ci ricaddi, pur troppo.

Ah, se quel giorno, nel punto che mi mettevo alla prima prova, avessi
potuto prevedere a quale ignobile schiavitù essa m'avrebbe condotto,
a che padrone tirannico, brutale e stupido dato in potere per sempre;
se avessi potuto prevedere di quale enorme disperdimento di forze del
corpo e dell'intelletto, di quanti turbamenti maligni della salute,
di quante ore di stanchezza inquieta e triste e notti d'insonnia
tormentosa o agitate da sogni spaurevoli mi sarebbe stato cagione
l'abito malaugurato che stavo per contrarre; se avessi preveduto
ch'io sarei stato un giorno certissimo, come ora sono, che infinite
ineguaglianze e fiacchezze del mio stile di scrittore, e radure
e garbugli del tessuto sottile delle idee, e mancanze improvvise
dell'acume critico e della flessibilità del pensiero e della facoltà
d'abbracciar con la mente vasti spazi, non sarebbero state che un
effetto di quell'abito; se avessi previsto nell'avvenire quante volte
avrei fuggito villanamente delle compagnie gentili o rinunziato
a spettacoli d'arte desiderati e a trattenimenti intellettuali
fecondi, non per altro che per soddisfare il bisogno volgare che
stavo per imporre irrimediabilmente alla mia gola e al mio cervello,
condannandomi per tutta la vita a respirare un'aria impura e a legger
libri e a vestir panni e a mandar pel mondo dei fogli impregnati
dell'odore del mio vizio; se avessi potuto antivedere, infine,
quante dure lotte, dalla giovinezza fino all'età matura, avrei dovuto
sostenere per liberarmi da quel vizio, destinate a finir tutte quante,
dopo giorni e mesi di sforzi penosi, con una vile dedizione al nemico,
non lasciandomi altro conforto che quello di veder immuni dalla
mia tabe i miei figliuoli, e amareggiato anche quello dal rimorso
d'ammorbar loro la casa e dalla vergogna di stampar sulle loro guance
dei baci attossicati; ah, se avessi presagito allora tutto questo, con
che ribrezzo avrei buttato via quello sciagurato mozzicone di sigaro
che stavo per cacciarmi fra i denti, e che, dopo quarant'anni, mi
brucia ancora la bocca e la coscienza!

                                   *

Ma già anche prima del sigaro io ero da un po' di tempo sur un brutto
sdrucciolo. Proprio, venivo pigliando la piega del cattivo soggetto.
Che era stato? Cattivi germi, assorbiti qua e là, ammucchiandosi a
poco a poco e andando in fermento, cominciavano a dar fuori; di quei
germi che son come nell'aria e che tutti i ragazzi assorbiscono, salvo
che sien tenuti sott'olio come le sardelle. Scatti di ribellione,
bugiarderia, secchezza d'animo, volgarità di linguaggio, predilezione
pei compagni sbarazzini, e propositi, più che altro, di bricconate;
ma anche qualche piccola bricconata che, sebbene commessa in casa,
avrebbe meritato qualche settimana di carcere correzionale, furono
le prime manifestazioni del serpentello maligno che m'era entrato
in corpo. Fors'anche perchè quell'anno era stato per me un anno di
cresciuta straordinaria, quasi maravigliosa, prevaleva alla virtù
dello spirito l'animalità imbaldanzita. Ma il male non era veramente
profondo, poichè, anche nei giorni peggiori, sebbene rispondessi duro e
arrogante anche a mia madre, pure i suoi rimproveri m'entravano sempre
nel cuore; e più che i rimproveri suoi mi turbava il contegno di mio
padre, che s'era mutato con me: il suo aspetto severo e freddo, il
proposito manifesto ch'egli metteva in atto di non rivolgermi la parola
e di non incontrare il mio sguardo mi facevano soffrire così nel vivo,
che mangiavo in furia molte volte e scappavo da tavola il più presto
possibile, col cuore serrato. Non ebbi nessun castigo, e credo che sia
stato meglio. Credo che tutti i ragazzi passino per crisi somiglianti,
le quali son per l'animo ciò che la tosse asinina e i bachi per il
corpo, e che i parenti non se ne debbano spaventare, nè ricorrere ai
grandi mezzi di correzione, lasciando invece che il male, fatto il
suo sfogo, se ne vada da sè; che è ciò che segue sempre, quando la
natura del figliuolo non è trista affatto; nel qual caso valgon poco o
punto i castighi. Quello che mantenne vivo e cocente in me per tutta
la vita il rimorso d'aver amareggiato mio padre e mia madre in quel
periodo fu appunto il fatto di non esser stato punito da loro come
meritavo. A poco a poco lo stato violento di coscienza in cui vivevo
mi divenne insopportabile. Ero già preparato a un pieno ravvedimento:
non occorreva più che una spinta, e il caso me la diede. Mia madre fu
presa una notte da un grave malore, si mandò per il medico, la casa
fu sottosopra; io la intesi gridare dalla mia camera con accento di
dolore disperato: — Ah mio Dio, morire! Lasciare quel figliuolo ancora
così ragazzo! — Quel grido mi snodò il cuore, scoppiai in pianto,
m'inginocchiai sul letto, ridissi la preghiera che non dicevo più da un
pezzo, supplicando Iddio che non mi togliesse la mamma, — e quando essa
fu fuor di pericolo, io era uscito di malattia.

                                   *

Erano incominciate le vacanze. Mi invase allora, come accade prima o
poi a ogni ragazzo, il furore delle letture romanzesche; se pure si
può chiamar “leggere„ il divorar l'un sull'altro decine di romanzi,
dalla mattina alla sera, senz'un'ora di respiro, fino ad averne la
mente e la vista offuscate, fino a passar più giorni di fila, come
a me accadeva, senza veder nè le Alpi nè il cielo, sempre coi pugni
sul libro, col mento sui pugni e con gli occhi sul foglio. Cascai
prima sui romanzi del Dumas padre, e il primo di questi fu il _Conte
di Montecristo_, che rimase sempre il mio preferito, non solo perchè
mi parve e mi pare ancora il più maraviglioso per la favola e il più
attraente per l'arte del racconto, ma anche per il fatto che mia madre
mi aveva dato pensatamente il nome di battesimo del protagonista,
per aver letto con molto piacere quel romanzo mentre stava aspettando
ch'io venissi al mondo. Seguirono a quello non so quanti altri, che
poi mi si confusero tutti nella mente in un solo romanzo enorme di
migliaia di personaggi e di avventure d'ogni tempo e d'ogni paese. Ma
questa furia s'arrestò ad un tratto, fortunatamente, per effetto della
lettura d'un libro, che doveva aver poi un influsso straordinario sul
mio pensiero e sul mio cuore, per tutta la vita. Non avevo letto sino
allora dei _Promessi Sposi_ che poche pagine sparse per le Antologie
scolastiche. Non ricordo che alcun professore delle prime scuole ce
ne consigliasse con insistenza la lettura. Misi un giorno la mano
sul romanzo, un'edizione di Vincenzo Batelli di Firenze, del 1827, in
tre volumi, che conservo ancora. Incominciai a leggere. L'effetto fu
maraviglioso. Mi sentii come preso da mille uncini e da mille lacci
sottilissimi, che mi avvolsero e mi strinsero, penetrandomi fin nel più
profondo dell'anima. Fu un diletto continuo e vivissimo, non interrotto
punto, nè quasi scemato dalle digressioni storiche e dalle descrizioni
minute che soglion seccare i ragazzi, rotto spesso da commozioni
violente, che mi strappavano il pianto, accompagnato dal principio
alla fine da un consenso pieno e dolcissimo di tutti i sentimenti e di
tutti i pensieri. Non distinguevo l'un dall'altro, mi ricordo bene,
ma sentivo confusi tutti insieme gli effetti di quell'arte profonda
e semplice, dell'armonia delle facoltà, della misura sapiente, della
logica finissima, della trasparenza cristallina dello stile, di quella
musica grave e delicata, e quasi segreta, che par che venga più dal
pensiero che dalla parola, e suoni nell'anima senza che l'orecchio la
senta. Non poteva essere compiuta la mia ammirazione; ma la simpatia
fu tale da non poter più crescere. Presentii fin dalla prima lettura
che avrei riletto quel libro mille volte, anche da uomo. Una quantità
d'immagini, di sentenze e di frasi mi s'impressero subito e per sempre
nella memoria. Mi rimase nell'animo una serenità, una pace, quasi una
compostezza, che m'era prima sconosciuta; quasi un'armonia sommessa,
alla quale s'intonò per un pezzo la voce di tutto il mio essere. Mi
parve che entrasse nella mia vita un amico, un maestro aspettato da
lungo tempo, e il cuore mi diceva che non ne sarebbe uscito mai più.
Posso dire che la lettura di quel libro segnò per me il passaggio dalla
fanciullezza all'adolescenza.

                                   *

Riandando col pensiero quei primi anni, sono sempre ricondotto, per
ciò che riguarda l'educazione dei figliuoli, alle stesse conclusioni;
non nuove per certo, ma, a mio avviso, non mai abbastanza stampate. Son
persuaso che c'è meno pericolo a lasciare ai ragazzi una certa libertà,
ed anche una libertà larga, che a tenerli a catena, perchè riconobbi
che gl'incatenati, che son come anime compresse, non solo non riescon
migliori, ma peggiori dei liberi, non foss'altro per l'arte più fine
della simulazione, che suole poi essere cagione ai parenti di grandi
disinganni. Son persuaso che è fatica perduta affatto quella gran cura
che metton molti a mantenerli nell'ignoranza di certe cose, delle quali
essi acquistano in ogni modo, per mille vie impossibili a precludersi,
la cognizione precoce; e che, ciò essendo, è perniciosissimo e stupido
il tenere in presenza loro certi discorsi, come quasi tutti fanno,
con parole coperte, nella fiducia che essi non li intendano, poichè
o li intendono, o capiscono se non altro che i loro parenti tengono
dei discorsi che non dovrebbero, ma da cui non sanno astenersi, perchè
ci trovan piacere; onde questi scadono nella loro stima, facendo per
giunta davanti a loro una figura ridicola. Son persuaso che non ci sia
nulla di più dannoso all'intelligenza e alla fibra dei ragazzi che il
costringerli, per mandarli avanti presto, a studi prematuri, perchè,
se anche ci reggono da principio, scontano immancabilmente lo sforzo
più tardi, uscendone con le facoltà fiaccate e spuntate, compresi
d'una sorda avversione per la scuola, e non più sospinti dal bisogno di
leggere e di studiare da sè, per curiosità e per diletto. Son persuaso
che lo spettacolo più nocivo all'educazione loro, il più funesto per il
loro cuore e il loro carattere sia quello della discordia, degli urti
anche più leggieri tra padre e madre, nei quali si sbriciola l'autorità
di tutti e due, ledendo nel ragazzo il concetto della santità
della famiglia, e lasciandogli dei ricordi incancellabili che gli
offuscano più tardi nel cuore le loro immagini, e vi diventan radici
inestirpabili di scetticismo. Son persuaso che è sacrosanta verità
la sentenza del Capponi, che le cose udite, non le insegnate, formano
l'animo dei fanciulli, ossia tutto ciò che di buono e di gentile essi
intendono, che è detto in presenza loro spontaneamente, senza pensare a
loro, per impulso d'istinto e di coscienza; e che perciò ammonimenti,
consigli, prediche, e anche castighi, tutto è fiato e rigore sprecato
se essi non vedono che nei loro parenti corrispondano perfettamente ai
precetti il carattere, la vita, lo spirito dei discorsi impremeditati
e abituali. Ho visto mia madre intesa tutta e sempre alle cure della
famiglia, scevra d'ogni vanità femminile, aborrente dai pettegolezzi,
impietosita d'ogni sventura altrui, caritatevole ai poveri, facile al
perdono con tutti; ho visto mio padre lavorar dalla mattina alla sera
con uno zelo d'impiegato esemplare, occuparsi in tutti i ritagli di
tempo dei suoi figliuoli, e studiare, quanto gli era concesso, tutta
la vita per coltivare il proprio spirito; ho intuito sin da bambino
che mia madre era una donna buona e onesta e che mio padre era un
uomo retto e generoso: questi sono stati gl'insegnamenti più efficaci
ch'io abbia avuto da loro. Fu l'esempio che mi diedero che mi ritenne
sulla buona via ogni volta che fui sul punto d'uscirne; fu il ricordo
delle loro opere che mi fece sempre ripentire e ravvedere d'ogni atto
insensato e ignobile. Tutto il resto, nel campo dell'educazione, è
vuota ciancia e vessazione inutile. Non serve fingere coi figliuoli,
e far due parti, l'una per loro e l'altra secondo il comodo proprio;
è anzi meno peggio il lasciarsi vedere come si è, coi nostri difetti
e con le nostre debolezze; chè, se non altro, così mostrandoci, siamo
stimati sinceri. V'è un modo solo di educare: vivere degnamente. Ma è
difficile, si capisce.



In _Umanità_.


Mi parve di aver fatto un gran salto in su nella gerarchia scolastica
quando invece di alunno di Grammatica potei dire: — Sono alunno
d'Umanità, — benchè non capissi punto in quale significato fosse usata
quella parola; anzi appunto perchè non lo capivo: cosa frequente anche
fra i grandi.

Era entrata quell'anno nelle scuole un'infornata di nuovi professori,
la più parte giovani e bravi; tre dei quali nella mia classe, che
corrispondeva alla quarta del Ginnasio attuale. Il solo professore
di lettere italiane e latine non era nè giovane nè bravo, sebbene
non mancasse nè di coltura nè di buon volere; era uno di quei molti
insegnanti a cui manca l'arte specialissima dell'insegnamento, rara
a trovarsi perfetta, anche fra gli uomini di gran levatura, come le
voci di tenore; tanto ch'io dubito che Dante sarebbe stato un buon
professore di Liceo. A quello poi non mancava soltanto l'ispirazione,
ma addirittura il calorico animale; una tinca fredda, l'avrebbero
chiamato in Toscana. Per questo rispetto era un vero originale, e
perciò ne faccio lo schizzo. Egli insegnava letteratura come avrebbe
insegnato computisteria; nessuna quistione d'arte o di storia
letteraria, nessuna bellezza poetica lo faceva mai uscire neppure
un momento dalla sua quiete beata, nè alterava la grave monotonia
della sua voce che rassomigliava al rumore d'una macchina da cucire,
nè la placidità immobile del suo buon faccione di padre guardiano.
E in questa maniera otteneva effetti maravigliosi. Pareva che con
la sua voce si espandesse nella scuola un'esalazione continua di
cloroformio, che assopiva gli spiriti più vivaci, domava a poco a poco
i temperamenti più irrequieti e otteneva una disciplina di convento. In
anni posteriori conobbi parecchi altri insegnanti della stessa natura;
ma nessuno dotato d'una tal potenza addormentatrice. Era contento di
noi, diceva che eravamo una scolaresca tranquilla. E sfido: egli ci
recideva ogni forza di ribellione come per virtù di magia. Ma lascio
immaginare che buon pro facessero la letteratura italiana e la latina
servite in una tal salsa di papavero.

C'era per altro chi ci svegliava. Era il professore d'aritmetica,
un omino tutto nervi, con una bella testa riccioluta, elegantissimo,
pieno d'ingegno e d'argento vivo; il quale si fece poi un nome nelle
matematiche. Questi insegnava mirabilmente; ma era impaziente come
un poledro stallino e rabbioso come un gallo andaluso. Inclinato per
la sua natura violenta a picchiare, ma rattenuto dalla prudenza, ed
anche dalla buona educazione, aveva trovato, per sfogarsi, qualche cosa
di mezzo tra la percossa, che era proibita, e gli epiteti forti, che
non gli bastavano: il pizzicotto; ma non quello semplice, che sarebbe
stato una bazza: una specie di pizzicotto rotatorio. Quando lo scolaro
chiamato alla lavagna non capiva le sue spiegazioni, egli s'alzava,
gli afferrava il braccio sotto alla spalla con l'indice e il pollice, e
stringeva e torceva fin che quegli capisse. In quell'esercizio, ch'egli
faceva certo da parecchi anni, le sue dita avevano acquistato una forza
di tanaglie. Era un'idea sua che la matematica si dovesse inoculare in
quella maniera, come il vaccino. Dopo due mesi di scuola eravamo quasi
tutti segnati, tanto che ai primi calori, quando ci andavamo a bagnare
nel torrente, i suoi alunni si riconoscevano fra quelli delle altre
classi, alla bollatura, come i giumenti delle mandre argentine, e si
poteva anche distinguere fra di essi, alla maggiore o minore estensione
e intensità di colore dei lividi, il diverso grado di disposizione che
avevan per la scienza. E ciò non ostante, gli volevan tutti bene perchè
del suo insegnamento tutti s'avvantaggiavano. Egli ci faceva veder
le stelle, ma anche capir l'aritmetica, ed era anche giusto, perchè
pizzicottava signori e poveri diavoli con egual vigoria. Per nulla al
mondo l'avremmo voluto cambiare con un professore di mano più dolce, ma
di metodo didattico meno efficace; tanto è grata la gioventù scolastica
a chi le agevola lo studio, anche martirizzandole le carni.

Un altro professore valentissimo, anzi perfetto, era quello di storia;
il quale provava mirabilmente col fatto come il miglior mezzo di
tener la disciplina sia la fermezza del carattere e la dignità delle
maniere. Egli aveva tutti i giorni lo stesso viso e lo stesso umore,
come un uomo in cui non potesse alcuna passione; non pizzicava, non
gridava, quasi non rimproverava neppure: e non di meno, credo che se
ci avesse fatto lezione il re d'Italia in persona non avrebbe ottenuto
maggior silenzio e maggior rispetto. Entrato lui nella scuola, non
rifiatava più nessuno; un suo sguardo severo bastava a rimettere a
dovere i più audaci; non lo udimmo dire in tutto l'anno una parola più
forte dell'altre. E le sue lezioni eran piacevoli, benchè leggermente
colorite di rettorica e fatte con intonazione un po' predicatoria. A
renderlo autorevole e simpatico giovava molto anche il suo aspetto,
poichè era il più prestante professore della famiglia, un giovane
bellissimo, di statura alta e di portamento maestoso, vestito sempre
con grande eleganza, e privilegiato d'una capigliatura e d'una barba
d'un biondo d'oro, che eran l'ammirazione di tutto il bel sesso e
l'invidia di tutta la gioventù brillante della città; e non lasciava
trasparire per questo il menomo segno di compiacenza vanitosa o
d'orgoglio, chè anzi, s'egli aveva un difetto, era quello di non
rallegrar mai la scuola con un sorriso, e di dire anche gli scherzi,
rarissimi, e sempre relativi alla sua storia, con una gravità di
magistrato. Lo temevamo ed eravamo tutti pieni d'entusiasmo per lui,
tanto che una sua parola di lode, un semplice _bene_ o anche solo un
cenno approvativo del capo davano pure ai più apatici una soddisfazione
grandissima. Mi ricordo che fui veramente afflitto e morso dalla
vergogna una volta ch'egli rispose a mio padre, che gli chiedeva
informazioni: — Potrebbe fare; ma, Dio buono, è tanto distratto! — e
che da quel giorno stetti in iscuola come una statua.

Proprio l'opposto di lui era una povera anima di professor di
francese, un'effigie di fattor di campagna cinquantenne, tarchiato
e sanguigno, che non riusciva a farci chetare un minuto, e che noi
tormentavamo barbaramente, andando alle volte otto o dieci intorno
al suo tavolino, con la grammatica in mano, col pretesto scellerato
di chiedergli spiegazioni, che chiedevamo apposta tutti insieme ad
alta voce. Quando capiva il gioco, perdeva i lumi, scattava in piedi,
e si metteva a sprangar calci da tutte le parti e a inseguir l'uno
dopo l'altro per darci il resto, saltando in giro per la scuola
come un mulo infuriato, fin che andava a ricader sulla sua seggiola
sfinito e convulso, trattandoci di vigliacchi e di banditi. Povero
professore! E portava per nostra meritata disgrazia degli scarponi di
montanaro, che ci sollevavano da terra come palle di gomma, lasciandoci
le traccie dell'inchiodatura nei dintorni dell'osso sacro. Ma non
ci faceva entrare il francese da nessuna parte. Colpa meno sua che
della consuetudine stupida, non ancora smessa affatto, di non dare
nelle scuole la grande importanza dovuta allo studio di quella lingua
necessaria a tutti; la quale moltissimi debbono studiare in furia più
tardi sotto la stretta del bisogno, imparandola male per sempre, e dopo
aver fatto una lunga serie di figure ridicole.



Tenorino fallito.


Dallo studio mi distrasse disgraziatamente in quell'inverno l'illusione
risuscitata d'avere una bella voce di tenore, in grazia della quale
avrei dovuto fra due anni lasciar la filosofia per darmi alla musica;
e l'idea del cambiamento non mi atterriva. È quello l'episodio della
mia adolescenza che, a ricordarlo ora, mi fa ridere più saporitamente
d'ogni altro alle mie proprie spalle. Illusione “risuscitata„ ho
detto, perchè l'avevo avuta già tempo prima, essendomi inteso dire fin
da piccino che avevo una bella voce, in special modo da mia madre,
che spesso mi faceva cantare; ma non m'ero mai curato gran fatto di
quel supposto dono della natura. Mi nacque la passione del canto e la
speranza di poter far fortuna con l'ugola soltanto in quell'inverno,
nel quale mio padre mi condusse varie volte a sentir l'opera in musica;
e fu una frenesia vera, come quella dei soldati e della pittura,
e che durò dei mesi. Solfeggiavo per tutta la giornata, in casa e
per la strada, e per le scale della scuola, e perfino nel teatro,
mentre cantavano i miei maestri, e in tutti i luoghi e i momenti in
cui potessi non essere udito cantavo con quanta voce avevo in canna,
come se mi fossero già pagate le note un marengo l'una. Una vocina
passabile l'avevo; ma una miseria, e mancavo d'orecchio: stonavo
come un ubbriaco. E capivo bene che, così come era, la mia voce non
meritava nemmeno di esser coltivata per spasso, nè per metallo, nè per
estensione. Ma con la maravigliosa facoltà che ebbi sempre d'ingannar
me stesso mi persuadevo che da una settimana all'altra, per effetto
di cause diverse, la voce mi sarebbe venuta come la volevo. Dicevo:
— Mi verrà quando smetterò di fumare; — poi: — quando non berrò più
che acqua; — poi: — quando non mangerò più dolci, che son quelli che
mi rovinano, non altro, — e quantunque dopo ciascuna prova seguitassi
a strillare come un uccello spennato vivo, pure persistevo a sperare,
accagionando il difetto ora a un raffreddore, ora a una infiammazione
di gola, ora all'aver troppo forzato il soffietto. E questa passione
tirava con sè un corteo di altre piccole ridicolaggini. Non solo facevo
dei gargarismi dalla mattina alla sera, ma imitavo il passo e il gesto
dei cantanti; non solo imparavo a memoria, ma mi copiavo in bella
calligrafia i libretti d'opera; e non cantavo soltanto in città, ma
per sfogare più sfrenatamente le mie forze vocali facevo apposta delle
corse in campagna, dove abbaiavo agli alberi per dei quarti d'ora, e
mettevo in fuga uccelli da tutte le parti. Ma, ahi! (l'interiezione è
imitativa) non ci guadagnavano nulla nè la trachea, nè l'orecchio; mi
s'andava anzi sciupando sempre peggio quel filo di voce, che non era
al tutto sgradevole prima ch'io fissassi il chiodo di fare il tenore.
Infine, mi sentii tanto trattare dai miei compagni di chiavistello
arrugginito e di galletto strozzato, e vidi anche nella mia famiglia
dei così manifesti segni di sazietà di quel diluvio di stecche false di
cui empivo la casa, che mi persuasi di dover rinunziare alla “carriera
lirica„ e smontai l'organetto. Ma se perdetti ogni illusione riguardo
alla voce, mi rimase sempre un gusto così vivo, anzi una passione
così calda per il canto, che anche ora una nota dolce e potente mi fa
impallidire dalla commozione, e una voce bella udita di sera per la
strada mi fa pedinare il cantante anche per un miglio, ed è quello il
dono di natura che, dopo il dono dell'ingegno, invidio di più a chi lo
possiede, e ritengo il canto uno dei mezzi più efficaci di educazione
dell'animo, e l'ho per uno dei più dolci conforti della vita.



Il Cinquantanove.


Cessato il furore tenorile, ebbi un'altra e ben più potente distrazione
dagli studi; la quale, per fortuna dell'Italia, durò assai più lungo
tempo dell'altra. Il colpo più funesto al latino lo diede in quell'anno
scolastico Vittorio Emanuele, e per l'appunto il primo di gennaio,
col discorso memorabile del “grido di dolore„. Entrò da quel giorno
nella scolaresca uno spirito di divagazione patriottica, che non
riuscirono a frenare neppure i professori più autorevoli; chè anzi
lo sovreccitarono spesso, anche facendo scuola, con allusioni agli
avvenimenti, e con digressioni politiche, che scappavan loro di bocca
come il vino spumante dalla bottiglia. Era come diffuso per l'aria un
odor di polvere; il suono delle trombe dei bersaglieri, che passavano
vicino al Ginnasio, ci faceva balenar gli occhi e fiorir sotto la penna
agitata le sgrammaticature; anche i vecchi professori più sconquassati
prendevan nell'andatura qualche cosa di belligero, e noi non ridevamo
più per la strada nemmeno delle guardie nazionali panciute, che
facevano tre passi sur un mattone. Crebbe ancora il fermento sulla fine
di febbraio, quando nella nostra piccola città, fatta sede del maggior
deposito dei Cacciatori delle Alpi, cominciarono ad arrivare a frotte
i giovani emigrati, la più parte lombardi e veneti, di ogni condizione
sociale; i quali portarono come un'onda di sangue ardente nella vita
cittadina, e diedero quasi un nuovo aspetto alle strade, ai caffè, a
tutti i luoghi di ritrovo pubblico, dove a ogni passo s'incontrava un
viso sconosciuto e s'incrociava lo sguardo con due occhi scintillanti
d'alterezza e di speranza. Molti di quei visi, parecchi dei quali erano
predestinati all'onore del marmo e del bronzo, mi sono rimasti scolpiti
nella memoria come visi d'amici intimi. C'erano fra quel migliaio e
più di nuovi venuti dei campioni della guerra del '48 e della difesa di
Roma; c'erano dei futuri pittori celebri, come l'Induno, il Pagliano,
il De Albertis; c'erano il Cairoli e il Bertani, e il De Cristoforis,
del quale dovevo legger poi con entusiasmo, alla scuola di Modena, il
_Trattato della guerra_. Ma non ricordo d'aver inteso allora i loro
nomi, che erano ancora fiori di gloria in boccio. Il solo nome che
correva sulla bocca di tutti era quello del Cosenz, comandante, che
rammento d'aver visto più volte in Piazza d'Armi, quando i volontari
non vestivano ancora l'uniforme, comandare gli esercizi col tubino
e col soprabito nero, come un capo di barricate: una figura svelta e
dritta come uno stocco, con un viso grave di filosofo, che molti per
le vie salutavano rispettosamente, ricordando le sue prodezze eroiche
di Venezia. E anche rammento, quando scomparve sotto il cappotto bigio
ogni apparente differenza di condizione sociale fra gli emigrati,
lo strano effetto che faceva nel popolino il sentir dire dell'uno e
dell'altro di quei soldati semplici: — Questo è un avvocato. — Quello
è un medico. — Quello là è un professore. — Quello lì è un signorone.
— Ciò che valeva più d'ogni discorso o articolo di giornale a dare
alla gente incolta un'idea della grandezza degli avvenimenti che si
preparavano, e faceva rivolgere dalle signorine a quei rozzi cappotti
certi sguardi di curiosità romantica, dei quali prima d'allora non
avevano onorato mai la “bassa forza„. Beati giorni, che risplendono
come zaffiri nella corona delle nostre più care memorie.

                                   *

L'agitazione della scolaresca giunse al colmo nel marzo, quando,
richiamati alle armi i _contingenti_, si videro arrivare i bersaglieri
delle classi congedate, uomini fatti, anneriti dal sole dei campi, con
le tuniche logore, coi cappelli spelati, con le scarpe contadinesche,
molti con le medaglie di Crimea dai nastri sbiaditi: d'aspetto così
grave la più parte, che parevano i padri dei soldati in servizio, di
cui venivano a ingrossare le file. E qui mi ricordo d'un fatto, che
mi fece un gran senso, e che prova come neanche in Piemonte, e neppure
per le guerre più popolari, ci sia mai stato un grande ardore guerresco
nei vecchi soldati che erano strappati ai figliuoli e ai loro campi e
mandati a farsi ammazzare; quantunque poi, per sentimento del dovere,
si portassero così bravamente che l'entusiasmo non avrebbe potuto fare
di più. Era una sera di domenica. Un gran numero di quei richiamati,
ancora senz'armi, passeggiavano a coppie e a drappelli per la strada
principale, affollata di gente. A un certo puto vidi sventolare
una bandiera, aprirsi la folla e venire avanti un folto stuolo di
cittadini, ordinati in quattro file, che cantavano l'inno del Mameli;
tutti signori in cilindro e in pastrano, fra i quali riconobbi con
piacere alcuni dei professori del Ginnasio: quello di matematica il
primo. Mentre mi passavano davanti, da un gruppo di vecchi bersaglieri
che mi stava accanto uscì qualche apostrofe a voce alta, in tuono di
sarcasmo: — Già, è comodo di cantare! — Loro cantano e noi andiamo a
dare la pelle. — Vengano con noi a battersi invece di far del baccano.
— Il drappello s'arrestò, disordinandosi; i dimostranti risposero;
s'attaccarono vari battibecchi vivaci. Alcuni dei signori, risentiti,
rinfacciavano ai soldati di mancar d'amor di patria; altri, più
pacati, cercavano di rabbonirli, persuadendoli che non tutti avevano
il dovere, che non a tutti era possibile d'andare alla guerra, e
qualcuno diceva loro che s'era battuto anche lui nel '48 e nel '49. Ma
i soldati parevano poco persuasi, rispondevano brontolando e alzando
le spalle. Ciò che mi fece più maraviglia in quel contrasto doloroso fu
la bella disinvoltura con cui alcuni dimostranti brizzolati e panciuti
assicuravano, picchiandosi la mano sul petto, che sarebbero andati alla
guerra essi pure, mentre si capiva dai loro faccioni pacifici che non
si sognavano neppure una mattata compagna. E ripetevano con calore:
— Ci rivedremo al campo! Ci rivedremo al campo! — Vedo ancora gli
sguardi di diffidenza coi quali i soldati misuravano le loro rotondità,
come se domandassero a sè stessi in quale campo avrebbero mai potuto
rivederli, non stimando che fossero pance da arrolarsi nei bersaglieri.
Il litigio durò finchè si avvicinarono due tenenti, alla vista dei
quali i bersaglieri si sbandarono. Povera gente, chi sa che alcuni di
loro non siano caduti i primi sotto le palle austriache all'assalto
di San Martino! Quella scena mi lasciò addolorato e turbato da molti
pensieri confusi; da questo fra gli altri: che, perchè una guerra fosse
veramente nazionale, si dovrebbe andare a battere molta gente la quale
rimane a casa, e che, in ogni modo, sarebbe delicatezza e prudenza che
quelli che rimangono non cantassero troppo forte passando davanti a
quelli che partono.

                                   *

Un altro mio ricordo vivissimo è quello della venuta di Garibaldi;
ma mescolato d'un forte amaro. Venne un giorno d'aprile a passare in
rivista i Cacciatori delle Alpi; ma quasi di nascosto, avendo pregato
prima che non si annunciasse la sua venuta, e non si trattenne tra noi
che poche ore. Da noi scolari non si seppe ch'era in città che quando
aveva già fatto la rivista e smesso la divisa di generale. Ero con
un compagno sur un viale della Piazza d'Armi quando alcuni ragazzi,
accennando una carrozza che passava di corsa, si misero a strillare: —
Garibaldi! Garibaldi! — e noi dietro a tutte gambe.

    .... Come s'andava un lo poi rede'.

Si fece non so quanta strada battendoci le mele coi tacchi, finchè ci
mancarono le forze e cascammo sulla proda d'un fosso, anelando, come
due levrieri sfiancati. Quando ripigliammo la corsa, il Generale era
già all'albergo a desinare, e il desinare chiamava a casa anche noi:
egli partì la sera stessa. Ci pigliammo un'arrabbiatura da morderci
i gomiti. Il giorno dopo ripassammo per tutte le strade dov'egli
era passato, come per fiutare le sue tracce. Ci fu detto che era
andato a visitare una rivenditrice di commestibili, soprannominata
la Pasqualina, che aveva bottega sotto i portici; un pezzo di donna
tarchiata e fiera, che tutta la città conosceva e rispettava perchè
uno dei suoi figliuoli, Paolo Ramorino, era stato commilitone e
amico di Garibaldi in America, ed era morto eroicamente alla difesa
di Roma, combattendo al fianco di Luciano Manara. Arrivammo subito
dalla Pasqualina, e la trovammo là davanti alla bottega, attorniata
da molti curiosi, ai quali accennava un sacco di riso sul quale
s'era seduto Garibaldi il giorno avanti, discorrendo con lei. Ah,
fortunata Pasqualina! Come ci parve bella e gloriosa! Stemmo là un
pezzo a contemplar lei e il suo sacco, e poichè avevo qualche soldo in
tasca, mi balenò l'idea di comprare un _etto_ di quel riso memorando,
che aveva avuto l'onore di far da cuscino all'Eroe di Sant'Antonio.
Ma il mio compagno, che conosceva l'umore della brava donna, me ne
distolse, osservando che ella avrebbe potuto pigliare la cosa come una
canzonatura e risponderci con una ceffata, che non sarebbe stata di
natura femminile. E così, miseramente, terminò la nostra spedizione;
la quale fu anche più sventurata ch'io non potessi allora pensare,
perchè non mi si doveva offrir modo mai più d'appagare il mio ardente
desiderio. Parrà incredibile, ma è così: per una serie di accidenti e
di contrattempi maledetti, qualche volta per il ritardo d'un minuto,
qualche altra volta per un impedimento materiale futilissimo, quella
sfortuna si ripetè dieci volte nella mia vita. Ho un rimpianto nel
cuore e lo confesso con un sentimento di vergogna, come una colpa: non
vidi mai Garibaldi!

                                   *

Mi stupisce come non mi sia rimasto alcun ricordo della forte
impressione che mi fecero certamente le descrizioni dell'arrivo dei
Francesi a Torino e le prime notizie delle battaglie di Montebello, di
Palestro, di San Martino. Su questi ricordi, che debbo aver serbati
vivi per un pezzo, s'è distesa, non so quando nè come, una nuvola
fitta, che non m'è riuscito mai di diradare. Mi rammento solo del primo
annunzio della vittoria di Magenta, che mi fu dato da mio padre, su
per la scala, con una esclamazione enfatica, tendendo un braccio in
alto, e sclamando: — Siamo a Milano! — Ma non c'è da meravigliarsi,
chi ci rifletta, di queste eclissi di certi grandi avvenimenti nella
nostra memoria, perchè è una illusione quella per cui pensiamo che noi
risentissimo allora al loro annuncio, noi, come tutta l'altra gente,
una commozione infinitamente maggiore di quella che ci desta il loro
ricordo, e che dovessimo quasi non viver d'altro, in quel periodo di
tempo, che di quelle commozioni. Come, guardando una fuga di colonne
da un capo della via, non vediamo gl'intervalli che separano quelle
lontane, che ci appaiono congiunte, così non vediamo più fra quegli
avvenimenti passati i larghi spazi di tempo, durante i quali eravamo
tutti assorti, come nei tempi ordinari, nelle nostre faccende e nei
nostri piaceri, che avevano pur sempre in noi il sopravvento sui nostri
pensieri e affetti di cittadini; e neppure consideriamo, d'altra parte,
che la lunga aspettazione e la frequenza stessa di quei grandi fatti
ci avevano come stancata la facoltà sensitiva, e reso l'animo in certo
grado indifferente anche alle cose più straordinarie.

Ciò che non ho dimenticato è lo spettacolo dei frequenti _Te Deum_ che
si cantavano nel Duomo, e a cui intervenivano con grande solennità
e in abito di gala tutte le autorità civili e militari; fra le
quali spiccava la bella testa bruna del nuovo provveditore degli
studi, venuto quell'anno, Domenico Carbone, che è rimasto una delle
memorie più luminose e più care della mia adolescenza. Quanto bene,
anche fuor dell'insegnamento diretto, può fare a una scolaresca un
uomo d'intelligenza eletta e di alto carattere! La venuta di quel
provveditore, coronato della doppia gloria di poeta e di combattente
volontario del 1848, e preceduto dalla fama d'uomo integro e buono,
ancor giovane, bello della persona, amorevole e severo ad un tempo, e
pieno di nobiltà nelle parole e negli atti, aveva portato come un'onda
d'aria pura e vivida in tutte le scuole. In ogni scuola dov'egli
entrasse e discorresse, lasciava un ardore di buona volontà e di nobile
ambizione, e quasi un profumo di gentilezza, che penetrava in fondo
agli animi. Egli fece dei miracoli: convertì dei discoli che nessuno
aveva mai domati, svegliò delle volontà che parevano addormentate per
sempre. Tutti i poveri angariati, che sono in ogni scolaresca, tutte
le vittime derise della prepotenza dei compagni e dall'antipatia dei
maestri, anche prima d'aver esperimentato la sua bontà, si sentivano
protetti dalla sola sua presenza, e prevenivano, pronunciando solo il
suo nome, molte ingiustizie e molte bricconate. Tutti lo amavano e lo
riverivano. Ci affollavamo sui pianerottoli per vederlo passare; per la
strada, facevamo apposta delle corse e dei giri per passargli davanti e
salutarlo; e quando nel Duomo, ai _Te Deum_, egli compariva primo nel
banco dei professori e girava sugli scolari accalcati quei due grandi
occhi austeri e leali, con quel buon sorriso che diceva: — Ecco i miei
figliuoli — gli rispondeva il nostro cuore con un fremito di simpatia
e d'alterezza. Se si potessero fabbricare degli uomini simili invece di
rimpastar programmi e regolamenti!

                                   *

Racconto un fatterello che lo riguarda, non tanto per far onore a lui,
quanto per far ridere a mie spese; chè ci provo piacere ormai, come i
flagellanti d'un tempo a farsi frizzare la pelle.

Avevamo da anni un viceprovveditore prete, caldo più di _morbin_ che di
ardor cattolico, che portava la tonaca come una camicia di forza: non
punto cattivo in fondo, ma assai piccoso, e invasato dalla smania di
fare il terribile; ciò che otteneva più che altro con certe minaccie
piene di mistero e con certe stralunature d'occhi da Luigi undecimo
da arena. Contro costui aveva scritto una poesia satirica, che girava
per le scuole, un alunno di filosofia, che io bazzicavo, essendo in
relazione d'amicizia le nostre famiglie. Smanioso di legger la satira,
il reverendo pensò di strapparla a me spaventandomi, e, mandatomi a
chiamare in provveditoria, a un'ora che non c'era nessuno, m'ingiunse
con parole solenni di portargli il corpo del reato, pena la bocciatura
agli esami finali, prefiggendomi per giunta il giorno e l'ora della
consegna, nell'ufficio stesso. Uscii dal colloquio con la tremarella in
corpo, egualmente sgomentato dalla minaccia della vendetta e dall'idea
dell'azione ignobile che mi sentivo inclinato a commettere, e passai
la giornata intera in uno stato d'incertezza angosciosa. Ma il giorno
dopo mi lampeggiò l'idea salvatrice: — Domenico Carbone! — Ero ben
certo che egli avrebbe disapprovato l'atto del prete e non condannato
la mia disobbedienza; nè avevo bisogno di far grave la cosa, ricorrendo
a lui formalmente. Sapendo che all'ora fissata per la risposta egli era
sempre in ufficio, col mio babau e col segretario, pensai che se avessi
esposto il mio rifiuto con qualche frase oratoria, a voce scolpita,
in modo da farmi sentire da lui e da costringerlo a domandare di che
si trattasse, io sarei stato salvo e l'amico nelle peste. Eureka! In
verità, per un ragazzo di tredici anni, non c'era male. E non solo
mi sentii salvo da quel momento, ma, confondendo le carte nella mia
coscienza, come fanno spesso gli uomini in tali casi, mi parve d'essere
un'anima spartana, e preparai nella mente una risposta eroica, un
“pistolotto„ da primo attore, che mettesse in luce gloriosa la nobiltà
del mio carattere.

All'ora fissata entrai nell'ufficio, pestando i tacchi, come per far
suonare gli sproni. Erano seduti a un grande tavolo, da una parte il
Carbone e il segretario, che discorrevano fra di loro, dalla parte
opposta lo spaventaragazzi, che in quel momento mi fece pietà. Questi
mi fece cenno che m'avvicinassi, e mi domandò sotto voce “se avevo
portato„.

M'impostai bene, e alzando la cresta e adocchiando dalla parte del
provveditore, risposi con voce grossa: — Non ho portato; ho pensato che
avrei commesso un'azione....

— Basta, basta — disse il prete, accennandomi con la mano che tacessi.

E io, alzando ancora la voce: — Ho pensato che avrei commesso
un'azione.... un'azione....

— Ma basta, le ripeto; non occorre altro....

Ma io avevo l'abbrivo, e poichè il provveditore s'era voltato, volevo
fare il colpo a ogni costo. E rincalzai: — Avrei commesso un'azione
indegna.... tradito un amico....

— Ma vada, le dico! — mi gridò il prete stizzito e rosso in viso. —
Poichè le ho detto che non occorre altro, vada una buona volta....

Allora me n'andai, ma lentamente, e a passi maestosi, come dev'essere
uscito Pier Capponi dalla presenza di Carlo ottavo, voltandomi ancora
di sull'uscio a guardare il vinto, che mi lanciò un'occhiata da darmi
il fuoco.

Non seppi poi mai se il provveditore avesse chiesto e avuto spiegazione
della cosa; ma non c'è dubbio che l'altro aveva capito la mia politica.
Il fatto è che non ebbi più molestie per quella faccenda, e che agli
esami, benchè a scappellotto, come al solito, fui promosso. Ed ecco
come fra tante altre buone azioni l'autore del _Re Tentenna_, senza
saperlo, fece anche quella di non lasciarmi commettere una birbonata.

                                   *

    Cavalier che hai bianca fede
    Come bianca è la tua croce,
    Tu d'eroi gagliardo erede,
    Tu all'oppresso amica voce,
    Tu sgomento all'oppressor....

Ricordo questi versi d'una bella poesia a Vittorio Emanuele che
pubblicò il Carbone in quell'anno, e che tutti gli scolari impararono
a memoria. La guerra aveva dato la stura, anche in quella piccola
città subalpina, a un torrente di lirica patriottica. Professori,
impiegati della prefettura, avvocati, ufficiali dei bersaglieri, tutti
sfornavano rime guerresche. Non si raccoglievano venti cittadini
intorno a un risotto alla milanese senza che qualcuno trombettasse
una filastrocca di strofe, che poi andavano attorno manoscritte o
stampate, a rinfiammar in molti l'odio contro l'Austria, in alcuni
l'odio contro le Muse. Ma, dopo il Carbone, uno solo di quel vespaio
di poeti m'è rimasto nella memoria. Lasciate che io ve lo presenti, ve
ne prego, perchè il ricordo di lui, che è un conforto della mia vita,
potrà mettere qualche dolcezza anche nella vostra. Era il professore
di filosofia, uno dei più ameni originali che abbiano mai rallegrato
le scuole del Regno, un cinquantenne zazzeruto, con mezzo il capo
sempre insaccato in una tubaccia rugosa, che gli pareva inchiodata
sul cranio, e vestito tutto l'anno d'un certo biracchio nero che gli
dava alle ginocchia e mostrava l'ordito; un uomo che sarebbe divenuto
famoso nella città non per altro che per un suo gesto abituale
comicissimo, che era di ripiegare un braccio in alto col pugno chiuso,
e di battersi dei gran colpi sul gomito con l'altra mano, come....
se volesse sculacciare la propria immagine; un curioso professore e
educatore, il quale, sul serio, domandava ai suoi alunni più sodi
dei pareri amichevoli intorno al modo di regolarsi con una vedova
ch'egli corteggiava, e che non sapeva decidersi a sposare, perchè
aveva un orario di pasti che non s'accordava col suo; il più clamoroso
dei filosofi, come lo chiamavano i suoi colleghi, perchè urlava la
filosofia con una tal potenza di polmoni da coprir la voce di tutti i
professori delle classi vicine. Ma non son nulla tutte queste stranezze
appetto all'originalità inimmaginabile dei suoi versi, che tutti i suoi
scolari recitavano, facendoci delle risate da slogarsi le mascelle. Che
peccato non averne più copia! Ma non li ho tutti dimenticati, grazie al
cielo. Ricordo una strofa d'un inno al generale Petitti, che diceva:

    Natura ti diè nome
    Petitti, ma sei grande
    E il nome tuo si spande
    Per l'aula elettoral;

due versi in lode a Garibaldi:

    Tua venuta a queste sponde
    Bianca in pietra fia segnata;

e pochi versi d'un'altra poesia in onore della città di Bene, la quale
si distende, a quanto egli diceva, sopra sette colli; ciò che dava
al poeta il pretesto di farle quest'ardito complimento: che Roma era
stata eletta in luogo di lei capitale d'Italia per un equivoco. Era
vaticinato, diceva.

    Che d'Italia fia regina
    Tal cittade, che sia posta
    Sopra sei e una collina,
    E Cavour la credè Roma,
    Ignorando i sette in Bene
    Colli aprichi, e la gran soma
    Di virtù che ascose tiene.

Sulla qual modestia della città insisteva con quest'amore di strofa:

    Bene fa, e n'ha più merito
    Perchè tien nascosto il bene;
    Chi rimira il suo preterito
    Forse ciò a capir non viene....

Come potesse insegnar la filosofia un professore che trattava la poesia
in questa maniera, benchè non siano sorelle gemelle, non si capisce;
eppure dicevano che non c'era gran male. Misteri della mente umana.
Povero poeta dei sette colli in Bene! Ebbi l'ultime notizie di lui
molti anni fa, a Torino, dove mi dissero che, avendo ricorso per non so
che affare a certi falsi spiritisti birboni, costoro, per spillargli
dei quattrini, lo avevan fatto bastonare dallo spirito che aveva
evocato, e non già con un bastone spirituale, ma con un vero e nodoso
ramo di frassino, che l'aveva messo a letto per una settimana.

_Petitti_ guai della filosofia.



Attore drammatico.


La poesia patriottica aveva invaso quell'anno anche il teatro, dove,
succeduta all'opera la commedia, non passava quasi settimana che non
fosse declamata dal primo attore qualche lirica d'argomento nazionale,
accolta sempre con applausi frenetici. E così m'entrò anche l'assillo
della declamazione. Avevo creduto d'esser nato pittore, e poi tenore;
credetti pure per un pezzo d'esser destinato alla carriera drammatica.
Ero in questa illusione più scusabile perchè, se non avevo voce per
cantare, per declamare n'avevo fin troppa, e non ne facevo risparmio.
Fu anche questo un furore da far desiderare che fossi nato afono.
Sceglievo i passi delle tragedie in cui occorresse un maggiore sforzo
di mantice, e di preferenza quelli in cui il personaggio delira, come
il soliloquio di _Saul_ e quello di _Aristodemo_ nell'ultim'atto,
per poter tonare più forte. La mia specialità, come ora si dice,
era il delirio dei re. Si sottintende che ero un cane. Ci accozzammo
parecchi compagni, tutti malati della stessa febbre, e ululammo insieme
tutto l'autunno, ora in casa dell'uno ora dell'altro, e spesso anche
nel ghiareto del torrente e del fiume, dove le pietre, per nostra
fortuna, non si potevano muovere. Ma il nostro teatro preferito,
poichè ci potevamo sbraitare senz'essere uditi, era veramente degno
dell'arte nostra: era una stalla in fondo al cortile di casa mia,
dove i tabaccai dei villaggi riparavano durante il giorno i muli e i
cavalli. Disgraziato Alfieri! E infelice Berchet! Poichè s'espettorava
pure molta lirica. Ma proprio sul serio io mi credevo chiamato a una
grande carriera tragica. E mi frullavano sotto i capelli le idee più
temerarie: di dare un saggio di declamazione nel Teatro Civico, di
smetter gli studi e di entrare in una compagnia drammatica, di formare
io stesso una compagnia unisessuale coi miei quattro sbraitoni e di
trovar dei “capitalisti„ per fabbricare un teatro apposito. E sarebbe
stato strano che fra tante idee matte non mi fosse saltata anche quella
di scrivere un dramma. L'idea mi saltò. Non ricordo bene quale soggetto
avessi escogitato: ricordo soltanto che era un dramma cruento, e che
la parte del protagonista l'avrei dovuta far io: condizione _sine qua
non_, da imporsi al capocomico che avesse avuto l'onore di metterlo in
scena. Caso senza esempio, credo, nella storia degli autori drammatici:
anche prima di mettermi a scrivere il dramma io feci il cartellone — un
annunzio in caratteri cubitali sopra un lenzuolo di carta — per avere
un'idea dell'effetto che avrebbe fatto alle cantonate, e m'esercitai a
emettere certe grida di disperazione e di terrore, che non sapevo ancor
bene a che proposito, ma dovevan sonare assolutamente in certe scene,
e (voglio esser sincero fino in fondo) feci molte prove del passo con
cui mi sarei presentato alla ribalta e dell'atteggiamento modesto
e dignitoso ad un tempo, col quale avrei ringraziato il pubblico
strepitante dall'entusiasmo. Tutto era pronto, in fine: non restava
che un accessorio: quello di scrivere il dramma. Dio m'assistè: non ne
scrissi che la prima scena. Ma non cadde l'illusione dell'attore con la
lena del drammaturgo: il mio vaneggiamento e il mio abbaio drammatico
continuarono fino all'apertura del nuovo anno scolastico. I primi
freddi e i primi pensi, non so come, mi levarono dal capo per sempre
il ruzzo della recitazione, e salvarono così Ernesto Rossi e Tommaso
Salvini da una vecchiaia avvilita.



Nuove amicizie e nuove grullerie.


Entrando nella classe di rettorica ebbi la prima mattina una sorpresa
gradita. Nel far la chiamata degli alunni il professore lesse un
nome che ci fece voltar tutti con viva curiosità verso il chiamato: —
Angelo Brofferio. — Gli domandò il professore se fosse figliuolo del
Brofferio deputato: rispose di sì. Fummo tutti colpiti dalla grande
rassomiglianza che egli aveva col padre, che noi conoscevamo, più che
dalle fotografie, dalle caricature frequentissime del _Fischietto_
e del _Pasquino_: di profilo era tale e quale. Aveva una testa molto
grossa, che pareva anche più grossa in confronto del corpo piccolino;
un viso lungo, di lineamenti e d'espressione virili, rocchio bruno, la
bocca arguta, un sorriso benevolmente canzonatorio. Egli si mostrò fin
dai primi giorni d'ingegno aperto e pronto, e parlatore facile, con
alcun che d'avvocatesco nell'intonazione e nel gesto, affabilissimo
coi compagni, non punto orgoglioso della fama del padre, che era allora
popolarissimo, in specie per le canzoni piemontesi; molte delle quali,
cantate per i caffè e per le strade, noi sapevamo tutti a memoria.
Finito quel corso, andò a compiere gli studi altrove, e io non n'ebbi
più notizia che dopo circa trent'anni, quando, professore di filosofia
a Milano, se non erro, egli pubblicò un libro dotto e brillante sullo
_Spiritismo_, che fece molto rumore. Ricordo che, bravo in letteratura,
egli aveva pure un'attitudine particolare alle matematiche. E m'illusi
d'avercela anch'io in quell'anno, che era l'anno dell'algebra.
Avendo avuto mio padre la buona idea di mandarmi durante le vacanze
a prender lezioni d'algebra da un geometra suo conoscente, io ero
entrato nel corso già infarinato della materia; in grazia di che avevo
nei primi mesi riportato qualche successo onorevole alla prova della
lavagna, salvandomi dai pizzicotti professorali. Questo era bastato
a farmi credere che mi fosse dato fuori a un tratto il bernoccolo
della matematica, e lo credetti tanto che ebbi l'audacia di fondare
un periodico bisettimanale (di tiratura modesta, poichè n'usciva un
numero solo, manoscritto), nel quale rifacevo le lezioni ad uso dei
pizzicottati. Ma quest'illusione durò anche meno dell'altre perchè,
non avendo studiato nelle vacanze che fino all'estrazione delle radici
cubiche, quando si arrivò a questo punto del programma mi ritrovai
da capo al livello degli altri.... e i pizzicotti ricominciarono.
Ricominciando i pizzicotti, cessò il giornale. Ma non importa:
consiglierò sempre ai padri di far preparare nell'estate i ragazzi
agli studi più difficili del nuovo anno scolastico, perchè anche
la più leggiera preparazione riesce loro di giovamento grandissimo,
preservandoli dal danno grave di rimanere addietro al primo intoppo.

Ma, ahimè! anche dallo studio dell'algebra troppe cose mi dovevano
distrarre quell'anno. Fatto già quasi un giovanotto, e tale parendo
per la statura, che era d'un uomo, io andavo allargando di giorno
in giorno il cerchio delle mie amicizie, e le nuove erano assai più
pericolose delle altre, perchè eran fuori del giro della scuola. Le
prime di queste, e le più care, furon le amicizie militari. C'erano
allora fra i bersaglieri volontari, e anche fra quelli di leva, molti
giovani di famiglia signorile: studenti smessi, laureati, artisti
drammatici, pittori, tutti più o meno intinti di letteratura, e tutti
caldi d'un entusiasmo patriottico, che dava un'impronta di nobiltà
d'animo anche ai caratteri più leggieri. Stretta relazione con uno di
essi, venivan gli altri come le ciliege. Con questi conobbi la prima
volta il piacere e l'alterezza dell'amicizia virile. Nascondevo con
loro i miei tredici anni; mi davo l'aria d'uno studente già esperto
del mondo; ero tutto contento di farmi vedere alla passeggiata in loro
compagnia, appoggiando il braccio sopra un braccio gallonato, con la
tesa del cappello accarezzata dagli svolazzi d'un grande pennacchio, e
mi pareva di fare una prodezza di brillante scapigliato trattenendomi
mezz'ora con essi davanti a un caffè, all'uscita del teatro, come se
tutti i passanti avessero dovuto dire: — Chi sa mai dove passerà la
notte quel collorotto? — Di una di quelle sere mi ricordo in particolar
modo perchè fui presentato da un sergente a un bel giovanotto, alto e
elegante, impiegato al Commissariato militare; il quale si chiamava Ugo
Iginio Tarchetti. Era il futuro autore dei _Drammi della vita militare_
e di _Tosca_, il poeta forte e triste, che doveva morir nel fior
dell'età, appena baciato dalla gloria. Chi m'avrebbe predetto allora
ch'io avrei scritto dieci anni dopo un libro di spirito affatto opposto
al suo, che saremmo stati citati mille volte come due antagonisti, e
che, dopo averlo tenuto in conto d'un nemico mentr'era vivo, io l'avrei
amato, morto, come un fratello!

                                   *

Entrai allora in quel breve periodo il quale corrisponde negli
adolescenti a quello in cui le ragazze cominciano a stringersi il
busto e a mettersi dei fiori nei capelli: il periodo in cui diventa il
mobile più importante della casa lo specchio. Per quanto sia in vena
di confessioni non oso di dire fino a quale altezza di grulleria io
sia salito in quella fase di luna, quanto tempo ci mettessi a farmi
il nodo della cravatta, quante volte tornassi indietro a raggiustarmi
il cappello davanti alla specchiera prima d'uscire di casa, e quale
sciupio abbia fatto delle pomate e delle acque d'odore delle mie
sorelle, e quali torture abbia sofferto nella prigione di san Crispino
per fare il piedino aristocratico. Molti padri e madri, quando i loro
figliuoli piglian quella passione, credono di guarirli mettendoli
in ridicolo e trattandoli dalla mattina alla sera d'imbecilli. È
una sciocchezza, che i miei non commisero, comprendendo che era
una malattia dell'età, come uno sfogo cutaneo: finsero invece di
non badarvi, non scambiandosi che qualche sorriso discreto quando
io chiedevo una cravatta nuova o un paio di scarpe di marocchino;
sorriso che non mi sfuggiva. E li lodo ora di quella indulgenza, che
non fu l'ultima delle cause per cui la malattia non fu lunga, perchè,
umiliandomi, l'avrebbero inasprita. Certo, tutta quella ripicchiatura
di paino e quei bagni quotidiani d'acqua di Colonia non miravano a
guadagnarmi le grazie dei miei amici bersaglieri. Fu quello il secondo
periodo degli innamoramenti platonici, spinti fino alle passeggiate
sotto le finestre e alle “pedinature„ furtive e alla contemplazione
estatica dei palchetti del teatro: amori repentini, languidi e
mutevoli, anzi procedenti non di rado a coppie, e anche a triadi,
facilissimi alle più insensate illusioni, pasciuti per settimane d'uno
sguardo incontrato a caso o d'un sorriso forse più di canzonatura che
di simpatia, e atteggiati di mestizie soavissime o di tetre tristezze,
imparate nei libri. Ah, che bell'attore! Mi è uno spasso il ricordare
le mie avventure d'immaginazione di quell'anno di bollori. Ebbi più
amori io che don Juan Tenorio e Luis Mendía messi insieme. Il mio cuore
ospitò più bellezze che il serraglio imperiale del Bosforo. E i miei
sospiri amorosi si levavano a tutte le altezze: una settimana era la
figliuola del prefetto, un'altra la moglie del professore; succedeva
alla prima attrice la prima ballerina, all'istitutrice d'una casa
nobile la vedova d'un colonnello. E con le adorazioni del passeggio e
del teatro andavano di passo le adorazioni di casa. Quando veniva una
bella signora a far visita a mia madre, non scappavo più in cortile,
come per il passato, per sfuggire alla noia dei discorsi soliti:
stavo lì ribadito sur una seggiola ad ascoltare il chiaccherìo della
visitatrice con gli occhi come due lampioni, e con una immobilità
di magnetizzato, di cui non sfuggiva il senso alle più accorte; le
quali scansavano il mio sguardo indiscreto con un sorriso a fior di
labbra, e, stringendomi la mano all'atto di andarsene, mi dicevano con
una rapida occhiata indulgente: — Ho capito, piccolo impertinente;
faresti meglio a studiare il latino. — Proprio, avevo un debole per
le donne maritate, e più per quelle che portavano indosso una parte
maggiore dello stipendio del marito. È incredibile il numero di mariti
rispettabili che ho oltraggiati nel mio cuore. Se tutti i miei amori di
fantasia avessero avuto effetto, e mi fossi dovuto battere, avrei avuto
un duello ogni settimana, e a andar bene bene, mi sarei ridotto un
crivello ambulante avanti d'aver finito il ginnasio. E non nel cuore,
ma nel cervello, erano così vivi, benchè rapidissimi, questi amori,
che n'avevo spesso la coscienza turbata, come di colpe vere; arrossivo
fino ai capelli incontrando per la via certe coppie coniugali; mi
pareva alle volte d'essere veramente un dissoluto senza freno nè legge,
insidiatore di talami e scandalo della gente onesta, di reputazione
perduta, e ne sentivo non di meno una vanagloria segreta, come se
soltanto con una coscienza così fatta uno si potesse vantare d'esser
uomo.

                                   *

L'uomo, peraltro, non era ancora che un lungo bambino, il quale
seguitava a baloccarsi per ore intere con tutti i giocattoli che gli
eran rimasti dell'età infantile, coi fantocci, con le trottole, con
le palline di vetro e perfino con le oche di carta. Per darmi questi
spassi mi nascondevo, e quando mi coglieva sul fatto qualcuno della
famiglia, riponevo ogni cosa in furia, vergognandomi, e fingendo
d'aver tirato fuori quelle carabattole per curiosità di filosofo,
amante di meditare sul proprio passato. Ma non mi vergogno ora che
conosco il mondo e la vita, di dire che quell'amore dei trastulli
fanciulleschi mi rinacque a quando a quando fin quasi ai trent'anni,
che, già reo di parecchi libri, mi divertivo per delle mezz'ore
a far saltare sul tavolino di quei ranocchi di legno, che hanno
sotto il filo attorto e la bacchettina cerata, e che pure adesso,
qualche volta, passando davanti a una bottega di giocattoli, sento
delle tentazioni straordinarie. E perchè me ne dovrei vergognare?
Gli uomini non sono che ragazzi invecchiati, che nascondono la loro
fanciullaggine sotto un'apparenza di gravità, e che ogni qualvolta
possono, di nascosto, ci si abbandonano con un piacere infinito. E in
fondo, poi, il fantasticare, come tutti sogliono, delle cose strane e
impossibili, ma ardentemente desiderate, non è che un baloccarsi con
idee ed immagini; e lo scrittore di libri che tra un periodo e l'altro
scarabocchia dei pupazzetti o fa delle greche sui margini, si balocca
come un ragazzo; e si balocca il ministro di Stato che nei momenti
d'ozio piega e ripiega in dieci forme un giornale o suona il tamburo
sul banco col tagliacarte, come faceva il conte Cavour, durante i
discorsi dei deputati seccatori. Io credo che a chiudere in una stanza
nuda l'uomo più serio del mondo con una scatola di soldatini di piombo,
viene il momento che li tira fuori, e li schiera, e li fa armeggiare
come un bambino di sei anni. Quella passione persistente dei trastulli
infantili giovò a divagarmi alquanto dagli amori, e fu per me un
calmante salutare. Ah, se una di quelle molte signore a cui facevo gli
occhi di triglia al teatro, pigliando delle impostature da trovatore,
m'avesse visto far correre sul tavolino per tutta una mattinata delle
file di noci, sulle quali avevo appiccicati dei pezzetti di carta
dorata, per rappresentare gli stati maggiori degli eserciti combattenti
in Lombardia, che bella risata argentina m'avrebbe data in faccia,
e che bel colpo d'ombrellino, forse m'avrebbe assestato sulla nuca!
Ma si guardino le mamme dal ridere e dal far vergogna ai figliuoli
grandi quando li vedono occupati in trastulli che credono indegni della
loro età, e indizio di poco cervello; chè quello è anzi segno d'una
semplicità d'animo, d'una vivacità d'immaginazione, d'una facoltà di
dar corpo a dei cari fantasmi e di vivere col pensiero in un mondo
foggiato da loro, che saranno anche negli anni più tardi un grande
conforto, un rifugio dello spirito oppresso dalle realtà dolorose, e
quasi una fiammella inestinguibile di gioventù; la quale gioverà molto
a tener vive in essi tutte quelle altre passioni e illusioni, senza
di cui la vita non sarebbe per il più degli uomini che un desiderio
continuo della morte.

                                   *

Ma in quell'anno scolastico dovevo avere una distrazione dagli studi
ben più potente che non fossero gli amici bersaglieri e gli amori
sospirosi. Come nel 1859 aveva dato un colpo mortale al latino Vittorio
Emanuele, così fu Garibaldi nel 1860 il peggior nemico del greco;
poichè in quell'anno appunto fu istituito nel Ginnasio lo studio del
greco, riconosciuto di necessità urgente per affrettare la liberazione
d'Italia. La partenza dei Mille da Quarto fu come un segnale convenuto
fra Garibaldi e la scolaresca perchè smettessimo d'affaticarci troppo
il cervello sui libri di testo. Partivano per la Sicilia, a frotte,
giovani d'ogni condizione, e fin dei mostriciattoli, che erano lo
zimbello pubblico: fra i quali ricordo un piccolo sarto gobbo, con le
gambe arcate come due fette di popone, che fu salutato alla partenza da
una tempesta di risa e d'applausi. Con la guerra del 1860 mi s'accese
nella testa una nuova girandola: quella della politica. Ero stretto
allora d'amicizia fraterna con due compagni di scuola, tutti e due di
principî rivoluzionari: l'uno perchè figliuolo d'un mazziniano, l'altro
perchè ribelle per istinto a ogni autorità, cominciando da Senofonte e
venendo fino agli ultimi classici. Io ero figliuolo d'un monarchico, e
non rivoluzionario per natura; ma tale m'aveva fatto a poco a poco la
lettura quotidiana del _Diritto_, a cui mio padre s'era abbonato per
simpatia letteraria. Tutti e tre, fanatici di Garibaldi, concertammo
una fuga clandestina per “accorrere in suo aiuto„; la quale non ci
riuscì, come raccontai altrove; e quel tentativo fallito esasperò
la nostra passione patriottica. Diventammo nemici implacabili del
conte di Cavour, che intralciava l'impresa di Garibaldi con “le arti
subdole di una politica pusilla„: la frase ci piaceva immensamente. La
cessione di Nizza e di Savoia alla Francia ci mise su tutte le furie.
In tutte le nostre conversazioni facevamo dell'“infausto„ ministro
uno strazio miserando. Leggevamo i suoi discorsi nei giornali con un
sorriso di sarcasmo feroce. E conciammo secondo i suoi meriti anche
Napoleone _il piccolo_, che conoscevamo a fondo, grazie al libro di
Vittor Hugo. Attaccavamo intorno all'uno e all'altro delle discussioni
furiose coi nostri compagni “moderati„ i quali ci accusavano di
“metter dei bastoni fra le ruote alla politica del Governo„. — Sì, —
rispondevamo in coro tutti e tre, — noi combatteremo il governo con
tutte le nostre forze; non gli daremo tregua mai; noi non vogliamo la
politica dell'asservimento allo straniero; chi non è con noi, è contro
l'Italia. — Quando poi andò a armeggiare in Sicilia il La Farina,
uscimmo addirittura dalla grazia di Dio: pigliammo la cosa come una
sfida gettataci in faccia dal venditore di Nizza e Savoia, e parlammo
di fondare un giornale per “demolirlo„. Ricordo che mi facevano fremere
i giudizi che davan di Garibaldi certi vecchi impiegati, cavuriani
marci, che frequentavano casa mia: uno fra gli altri, un ispettore
di non so che cosa, un gigante canuto, con due grandi solini a vela,
il quale parlava con una lentezza insopportabile, come se ad ogni
parola che gli usciva dalla bocca gli scappasse uno scudo dalla borsa.
Quando lo sentivo parlare di Garibaldi come d'un guastamestieri della
politica di Torino, d'un perturbatore importuno del mondo, fortunato
per disgrazia nostra, con quella solita chiusa sinistra, che faceva
scrollar le spalle a mio padre: — Ci darà del filo da torcere, vedrete,
vedrete! — io gli saettavo delle guardatacce da passarlo da parte a
parte. Ah, come ho odiato quei due solini! E quella febbre garibaldina
durò allo stato acuto fin al ritorno di Garibaldi a Caprera. Come siano
andati gli studi negli ultimi mesi di quell'anno scolastico si può
immaginare: come gli affari del re di Napoli, presso a poco. Ma per
essere promossi, in quegli anni beati, credo che sarebbe bastato il
gridare: “-Viva l'Italia!„ e fui promosso io pure. Pochi giorno dopo
l'esame, passando per un vicolo vicino a casa mia, vidi molte donne
affollate intorno a una merciaia, che stava seduta sullo sporto della
sua botteguccia, coi gomiti sulle ginocchia e il capo fra le mani,
piangendo dirottamente. Domandai perchè. Mi rispose una donna: — Gli
hanno ammazzato il figliuolo a _Milass_. — Il mio primo senso fu di
pietà, e il secondo (m'è grato ricordarlo) di vergogna. Sentii dentro
una voce che mi disse: — Quello ha combattuto ed è morto, e tu da tre
mesi in qua non hai fatto che sbraitare, buffone! — E da quel giorno
feci un po' meno lo smargiasso contro il conte di Cavour.



Professori di liceo.


Per passare dalla Rettorica al Liceo, che fu istituito quell'anno in
luogo dei due corsi di filosofia, dovemmo fare un esame di greco in
iscritto, il quale si ridusse alla declinazione di qualche sostantivo;
ma parve che scrivessimo un greco, dirò così, garibaldino, poichè
fummo quasi tutti rimandati; e fu la nostra salvezza l'essere in
tanti, avendo deciso il Ministero, perchè il Liceo non restasse vuoto,
d'insaccarvici tutti a ogni modo.

E qui sulla soglia liceale mi trovo davanti un esemplare così
mirabile d'una razza particolare di professori di lettere che fu assai
numerosa in quel periodo rivoluzionario, e non s'è punto perduta dopo
l'unificazione della patria, un tipo così perfetto e così ameno di
mangiapaga a tradimento e di spandichiacchiere scansafatiche, che non
posso resistere alla tentazione di farne la fotografia. Era venuto
nella nostra città, non so di dove, quell'anno stesso, con una gran
pancia e una gran sicumera, accompagnate da una grandissima voglia di
non far nulla. Era professore di letteratura italiana. Ma di questa non
discorreva che per incidente. Parlava quasi sempre dell'Italia e dei
fatti propri. A parlare di sè gli dava pretesto qualunque argomento.
Partiva da un verso di Dante o da una sentenza del Machiavelli, e passo
passo, legando un'idea all'altra, per salvare le apparenze, con ogni
specie d'artifici birboni, veniva a dire il prezzo che aveva pagato
i suoi stivali o a farci osservare la bellezza della propria mano;
poichè, fra le altre fisime, aveva quella di credersi uno dei più begli
uomini d'Italia, e si vantava di rassomigliare a Gustavo Modena. Quanto
alla politica, per entrar nell'argomento non pigliava vie traverse:
entrava addirittura nella scuola col _Diritto_ spiegato fra le mani, e
ci leggeva i rendiconti dei discorsi dei deputati; dichiarando peraltro
che non ce li leggeva per il contenuto, che non aveva che far con la
scuola, ma per la forma, per farci notare le frasi più efficaci e più
eleganti; il che non gl'impediva poi di batter la campagna, tra l'una
e l'altra frase, dicendo corna del Ministero, che gli aveva fatto
un monte di torti, e del Municipio, che lasciava in cattivo stato i
locali scolastici. Quando non parlava di sè e della patria, ci leggeva
svogliatamente qualche cosa d'un suo sunto manoscritto della storia
letteraria, nel quale affermava d'avere stretto tacitescamente “il
molto in poco„ e aveva stretto tanto, infatti, che più d'un secolo
v'era ridotto in quattro o cinque paginette: una vera quintessenza
di rose; ed era comodissimo, perchè su quella traccia s'andava di
carriera: si sarebbe corsa la storia universale in un trimestre. Tutto
il suo lavoro era condensato a quel modo. Dopo averci annunciato
per dei mesi che avrebbe fatto “una campagna giornalistica„ contro
il Municipio, per costringerlo a trasferire il Liceo in un'altra
sede, egli pubblicò nella gazzetta della città dieci povere righe
non firmate; per le quali poi gridò tutto l'anno: — Ho scritto, ho
combattuto, ho tempestato sui giornali.... — E il curioso era ch'egli
si credeva sul serio un lavoratore infaticabile: con una voce che
veniva proprio dal fondo della coscienza, e picchiando i pugni sul
tavolo, ci gridava ogni momento che eravamo dei mostri d'ingratitudine
a battere così la fiaccona con un professore che dava all'insegnamento
tutta l'anima sua, che “sudava,„ che “vegliava,„ che “s'accorciava la
vita„ per noi. Del rimanente, era d'indole gioviale, parlava quasi
sempre di cose allegre, soventissimo di musica, perchè da giovane
aveva suonato il violino, e del _Barbiere di Siviglia_ in particolar
modo, del quale era matto ammiratore; tanto che ogni volta che trovava
in un testo italiano la parola “barba„ tirava in ballo quell'opera,
raccontando invariabilmente le peripezie della prima rappresentazione
di Roma; donde prendeva le mosse per ricorrere tutta la vita del
Rossini, ch'era il suo dio. Di qualunque cosa parlasse, poi, o di sè,
o di politica, o di musica, o di letteratura, i suoi discorsi finivano
tutti a un modo come i salmi: in una querimonia amara per la miseria
dello stipendio. — Siamo pagati come dei portinai! — urlava. — È un
obbrobrio per uno Stato civile.... Ma non importa.... Noi facciamo
egualmente il nostro dovere... — E rientrava nel dovere in questa
forma, per esempio: — Io vi dicevo, dunque, che la serenata del conte
d'Almaviva fu composta dal tenore Garcia. Ebbene....



Un rimorso.


Bravo era il professore di matematica, una figura rotonda di buon
fratoccio; il quale, peraltro, avrebbe potuto con qualche piccolo
intermezzo renderci assai più piacevole il suo insegnamento, poichè
si diceva che avesse una bellissima voce di tenore, e che cantasse
con garbo; eccellente il professore di lettere latine, un coso
risecchito, ma pien di vita, che parlava con una correttezza e con una
precisione, da parer che recitasse a memoria delle lezioni scritte con
cura diligentissima; e migliore di tutti il professore di filosofia.
Il cantore del generale Petitti aveva portato la sua lira a Torino:
il nuovo venuto era l'opposto di quello, un uomo grave e compassato,
d'ingegno acuto e di parola scolpita e lucida, che faceva il miracolo
di renderci facile la scienza più contraria alla natura umana, e in
specie alla natura giovanile: la logica. Il professore di storia lo
rammento per infliggermi pubblicamente un castigo. Era un giovine
mingherlino, di viso fine e pallido, un professore improvvisato, credo,
come eran molti in quegli anni, il quale studiava forse giorno per
giorno la storia che c'insegnava, e aveva la parola fioca e restia, e
una timidità fanciullesca, che gli raddoppiava la fatica; ma faceva
ogni suo sforzo per far bene, era buono, ci trattava come compagni,
e avrebbe certo insegnato molto meglio se lo avessimo incoraggiato
dimostrandogli rispetto e simpatia. Noi invece ci facevamo beffe di
lui e gli rendevamo la scuola una berlina e un supplizio con ogni
specie di scherzi villani e d'insolenze vigliacche. E io fui uno
dei più vigliacchi. Il perchè non me lo so spiegare nemmen ora; non
comprendo come potessi esser malvagio con lui, e sentire ad un tempo
un grande affetto, una reverenza proprio filiale, che m'è un conforto
il ricordare, oltre che per altri, per il preside del liceo: un degno
prete, veramente, di ottimo cuore e d'educazione squisita; ma che
con noi non aveva punto che fare, e a me non aveva dato nessun segno
particolare di benevolenza; ciò che prova che animo affatto cattivo
non avevo. Ma c'è in ogni animo, come in ogni casa, il canto della
spazzatura. Bisogna dire che avessi dentro una certa dose di malvagità
che voleva a ogni costo il suo sfogo, e io la sfogavo bassamente
contro un giovane mite e debole, che sapevo incapace di farmela
ringozzare. Ma posso ben dire d'averla scontata, perchè tra le molte
nequizie giovanili, di cui mi rimorde la coscienza, la condotta ch'io
tenni con quel buon professore è una di quelle che mi fecero soffrire
di più. Riveggo ogni tanto l'espressione di stupore e di rammarico
che gli passò sul viso una volta che gli feci in piena scuola un
atto irriverente, per il quale non mi disse neppure una parola di
rimprovero, e al sorger di quell'immagine sento sempre uno strizzone al
cuore e un moto d'indignazione contro me medesimo: oggi ancora, dopo
tanto tempo, e benchè dal modo come mi salutò l'ultima volta ch'io
lo vidi abbia compreso che m'aveva perdonato. Egli fu trasferito in
un'altra città l'anno dopo, e non seppi più nulla di lui. Spero che
sia ancora in vita. Se per caso egli leggerà questa pagina, sappia che
l'ho scritta con gli occhi inumiditi, e che nei quarant'anni che son
trascorsi, da quello in cui l'ebbi maestro, non l'ho dimenticato mai, e
gli ho voluto sempre bene.



I liceisti.


La scolaresca di quel primo corso liceale, molto numerosa, era composta
in gran parte di alunni venuti di fuori; alcuni dei quali pezzi di
giovanotti che avrebbero potuto portar sulle spalle i professori.
Molti erano convittori d'un Collegio Civico, separato dal Liceo, che
venivano a scuola con un berretto militare, e portavano i giorni di
festa una divisa somigliante a quella dei bersaglieri. Mi ricordo che i
più tenacemente studiosi eran quelli di famiglia meno agiata, figliuoli
di piccoli bottegai e di piccoli proprietari rurali, che facevano duri
sacrifici per avviarli alle professioni liberali; il che prova che
anche nel campo scolastico, come nel campo sociale, ha più ardore e più
lena chi combatte per salire che chi lotta soltanto per non discendere.

Fu quella la classe in cui contrassi le prime amicizie durevoli,
furon quelli gli amici che rividi sempre con maggior piacere per tutta
la vita, poichè in quell'anno soltanto cominciarono a stringermi ai
miei condiscepoli dei legami intellettuali. Per tutto un inverno ebbi
vicino un futuro Conservatore delle ipoteche, un generale avvenire, un
vescovo in erba e un rettore predestinato di quello stesso collegio,
del quale era collegiale: altrettanto, buono allora coi compagni ed
esemplare nell'osservanza della disciplina, quanto poi fu amorevole
coi suoi sottoposti e saggio nell'esercizio dell'autorità. Il generale
avvenire sedeva proprio nel mio banco, alla mia sinistra. Era uno dei
più quieti e dei più amabili della classe, un giovinotto robusto, coi
capelli neri arricciolati, con gli occhi bruni e dolci, sfavillanti
di vita, con due guancie piene e floride che, quando rideva, formavano
due fossettine rotonde, che davano al suo viso un'espressione di bontà
infantile. Sento ancora nella mente, come se mi suonasse all'orecchio,
il metallo della sua voce, che pareva quella d'un uomo raffreddato, e
rivedo le sue grosse labbra vermiglie, un po' sporgenti come quelle dei
mulatti, delle quali osservavo tutti i moti quando, ritto in piedi,
recitava la lezione al professore, ed io gli facevo da suggeritore,
com'egli faceva a me, quando ero io sotto i ferri. Accadeva spesso fra
gli altri di bisticciarsi per un disparere letterario o per un libro
buttato sotto il banco, e di barattarsi qualche parola acre; ma non
seguiva mai con lui, tanto era d'indole mite e arrendevole, e giocondo
d'umore, e affabile di maniere. Era alunno del convitto, e lo vedo
ancora col suo cappello da bersagliere messo un po' di traverso, con un
pennacchio azzurro e rosso, che gli ricascava sulla spalla già virile.
Quante risate abbiamo fatte insieme, nascondendoci dietro i compagni
del banco davanti, quando il professore di lettere italiane attaccava
il ritornello solito del _Barbiere_ e dello stipendio; di quelle risate
deliziose, che hanno il gusto del frutto proibito, e di cui si perde la
facoltà quando non si ha più in faccia qualcuno che ci possa gridare:
— La smetta —! Mi rammento che un giorno il professore di lettere fece
recitare a lui la poesia del Guidi, _Alla Fortuna_, della quale non ho
più in mente che un verso:

    Affrica trassi sul Tarpeo cattiva.

In quella parola “Affrica„ era segnato il destino del mio buon
compagno, che si chiamava Giuseppe Arimondi.



Il bimbo del Consigliere.


Fu in quell'anno stesso che conobbi un altro, allora ancor bambino,
predestinato alla fama in tutt'altro campo.

I prefetti regi, e con loro i consiglieri di prefettura, erano in
quel periodo mutati spessissimo. Nei pochi anni che trascorsero dalla
guerra di Crimea alla liberazione di Napoli ne passarono in quella
piccola città non so quanti, che ho dimenticati, tranne il Bellati,
governatore, il quale aveva fama di letterato per una bella traduzione
del poema del Milton, e un Consigliere lombardo, il cui nome, che
allora sapevo senza dubbio, m'uscì poi dalla mente, e non lo riseppi
che dopo lunghissimo tempo. La consiglieressa — una giovane signora
d'aspetto buono e di modi schietti e gentili — veniva qualche volta a
casa nostra a render visita a mia madre, conducendo sempre con sè un
figliuoletto di tre o quattr'anni, del quale mi son rimasti impressi
nella memoria gli occhietti vivaci e la forma singolare del viso, dal
mento fuggente a curva di mela, e, anche più del viso, una miniatura di
cappotto color nocciola, che gli stava dipinto, e gli dava l'aria d'un
ometto. È probabile ch'io abbia giocato più d'una volta con lui, con
la condiscendenza d'un fratello maggiore, per liberarlo dalla noia che
son sempre per i ragazzi le visite. Ma non rammento altro che la sua
personcina e le feste che gli soleva fare mia madre, complimentandolo
per quel cappottino prematuro di zerbinotto, che non dimenticò mai
più neppur essa. Chi m'avesse profetato che cosa dovea diventare quel
bambino, e quale influsso esercitar con la sua penna sul mio pensiero,
e che ansie dolorose farmi provare per lui in un momento terribile
della sua vita, gli avrei dato del matto da catena. E fu così. Quel
figliuoletto d'un consigliere di prefettura, che poi fu prefetto,
divenuto trent'anni dopo un pubblicista originale e potente, d'una
arte dialettica maravigliosa, d'uno stile tutto punte e incavi, dal
quale sprizzano le idee fitte e lucide come baleni da un'armatura a
scaglie d'acciaio, ed escon mille suoni acuti e minacciosi come da un
fascio di spade agitate, mi doveva prima e più d'ogni altro accendere
e persuadere dell'Idea, alla quale egli dedicò tutto il suo ingegno e
tutta la sua vita, e che lo condusse ammanettato davanti a un tribunale
di guerra, e dal tribunale all'ergastolo, condannato a dodici anni
di reclusione per un delitto politico, a cui ripugnavano con egual
forza la sua ragione e la sua natura. Ma soltanto assai tempo dopo
ch'io conoscevo l'uomo, seppi che erano una sola persona il direttore
della _Critica sociale_ e quel bambino; non lo seppi che il giorno in
cui mia madre mi domandò: — Ma questo Turati che hanno condannato è
forse figliuolo del Consigliere che abbiamo conosciuto nel 61? — Oh
come sentii più forte l'affetto d'amico e di compagno di fede che mi
stringeva a lui, quando si legarono nella mia mente quel cappottino
color nocciola e la casacca grigia del galeotto!



La resa di Gaeta.


La resa di Gaeta, avvenuta nel febbraio di quell'anno, ridestò i
nostri bollori patriottici, dati giù da qualche tempo, senza però
farci andare di miglior voglia agli esercizi militari, che erano stati
istituiti di fresco per tutte le scolaresche del Regno: esercizi che
noi ci ostinavamo a non prender sul serio, benchè studiassimo logica
e ci dichiarassimo pronti a combattere per la patria; come se per
ammazzare gli Austriaci non fosse necessario prima di tutto di saper
caricare il fucile. Ebbi la notizia del grande fatto in un modo e in
un momento comico, di cui si rise nella scuola per un pezzo. C'era
un professore d'istituto privato, noto a tutti, un vecchio gamberone
che pareva un palo del telegrafo, codino fino al punto da lamentare
la caduta dei Borboni; ma generalmente ben visto dalla gioventù
delle scuole, perchè usava accompagnarsi per la strada con qualunque
ragazzo o giovine, che avesse aspetto di scolaro, e di chiacchierare
con lui in tono familiare, raccontandogli aneddoti morali e dandogli
consigli filosofici. Eravamo quattro o cinque liceisti con lui
davanti a un caffè, un dopo pranzo, e si discorreva di Gaeta, di cui
durava l'assedio da tre mesi. — Gaeta — ci diceva egli con un sorriso
compassionevole — non cadrà. Gaeta non fu mai presa, dovete sapere.
Ricorriamo la storia, signorini miei. Noi vediamo che ci si ruppero le
corna i Barbari, che l'assalirono invano i Longobardi e i Saraceni. Poi
se ne impossessarono i Francesi e gli Spagnuoli, ma non con la forza
delle armi. Vi resistette per sei mesi, sul principio del secolo, il
principe Hesse-Philippsthal contro tutto l'esercito del Massena. E
ci vogliono altri denti che quelli del generale Cialdini per romper
quell'osso. Per anni l'aspetterete, figliuoli cari; son io che ve
lo dico: per anni! — Proprio in quel punto passò di corsa un giovane
impiegato della prefettura, che ci gridò senza arrestarsi, col viso
radiante: — Gaeta è presa! — Ci voltammo tutti verso il professore,
mettendo fuori in coro un _ah!_ di trionfo, per godere della sua
confusione. Egli fu maraviglioso. Non mutò viso, non scosse neanche
un muscolo, come se non avesse inteso nulla. Cavò di tasca il suo
pezzolone turchino intabaccato, si soffiò il naso adagio adagio, guardò
in giro per aria come per vedere che tempo facesse, poi disse con la
bonarietà solita: — A rivederci, ragazzi, — e voltataci la schiena, se
n'andò via tranquillamente, con una mano nell'altra sulle reni. Doveva
esser quello il suo modo di “far fronte„ agli avvenimenti avversi. Noi
rimanemmo mal soddisfatti, si capisce. Ma fummo compensati la sera al
teatro, dove si rappresentava la _Gemma di Vergy_, con illuminazione
“a giorno„ per festeggiare la vittoria. Nel primo atto il tenore negro
fece al pubblico una lieta sorpresa. Al momento di cantar l'_a solo_

    Mi toglieste al sole ardente,
    Ai deserti, alle foreste,

si slanciò alla ribalta con l'impeto d'un levriere sguinzagliato, e
invece di dire i versi del libretto, cantò una strofa d'occasione,
composta da lui, che m'è rimasta in mente tutta intera, e che voglio
regalare alla storia della lirica italiana:

    Là sui merli di Gaeta
    Splende l'italo vessillo,
    Delle trombe il fiero squillo
    Chiama Italia a libertà;
    Sulla rupe del Tarpeo
    Sorge unanime una voce:
    Vien Vittorio, vien veloce,
    E l'Italia è fatta già!

Scoppiò un uragano d'applausi, dovette cantar la strofa tre volte; fini
alla terza con una stecca; ma fu attribuita alla commozione, e coronò
il suo trionfo. Felici giorni, anche per i tenori.



Un pericolo e un lutto.


Dopo la caduta di Gaeta, gli avvenimenti che più ci commossero furono
la lettera famosa che scrisse il generale Cialdini a Garibaldi dopo la
gran burrasca parlamentare dell'aprile, e la morte del conte di Cavour.
Benchè anche la parte rivoluzionaria della scolaresca avesse in grazia
il vincitore di Castelfidardo non meno per la prosa poetica dei suoi
proclami che per le sue vittorie, pure quella lettera male ispirata,
la quale svelava un sentimento acre di gelosia e sonava più che
ammonimento d'avversario provocazione di nemico, ci mise il sangue in
rimescolo. Credemmo tutti che ne seguisse un duello. Ricordo le dispute
tempestose che avemmo nella scuola coi compagni devoti al Governo, e
al caffè con gli amici bersaglieri, le botte e le risposte clamorose:
— È una infamia. — È una lezione meritata. — Raccoglieremo il guanto!
— Vi piglieremo a fucilate! — e le altre minaccie, gravide di guerra
civile, che ci lanciammo in faccia per tutta una serata, picchiando
i pugni sui tavolini, su cui ballavano i gelati e le chicchere; e
ricordo pure il senso di viva soddisfazione che produsse in tutti
la risposta pacata e nobile di Garibaldi, la quale troncò la lite e
dissipò ogni pericolo. Quanto alla morte del conte di Cavour, son lieto
di poter dire che anche la triade garibaldina, che aveva combattuto
con tanto furore la sua politica, ne fu addolorata sinceramente. Già
fin dal marzo ci eravamo alquanto riconciliati con lui per effetto dei
discorsi stupendi ch'egli aveva pronunciati intorno alla questione di
Roma: avevamo riconosciuto onestamente che non gli si poteva negare
l'ingegno, e che forse, a modo suo, amava anche lui il suo paese. Non
s'andava d'accordo; ma, da leali avversari, si ammetteva che avesse
reso all'Italia dei servizi non dispregevoli, e che non c'era per il
momento un altro uomo di pari levatura che gli potesse succedere: la
passione di partito, dicevamo, non ci impedisce d'esser giusti. Ed era
di questa opinione anche il professore d'italiano, quantunque per la
sua rassomiglianza con Gustavo Modena egli si credesse in dovere di
professare le idee della Sinistra estrema; ammirò egli pure — in morte
— il gran ministro, e fu felice di provarcelo leggendoci in scuola,
invece di far lezione, le più eloquenti necrologie che si pubblicarono
in quei giorni dolorosi; non solo per rendere l'onore dovuto al grande
morto — diceva — ma per farci imparar lo stile degli elogi funebri,
che erano un genere a parte, come chi dicesse la musica sacra rispetto
alla musica drammatica; al qual proposito citò lo _Stabat Mater_ del
Rossini, che lo condusse a discorrere del _Barbiere di Siviglia_....



Primi studi di lingua.


In quello stesso mese di giugno seguì nella mia vita di studente un
piccolo avvenimento, che ebbe per me una importanza straordinaria,
e che noto soltanto per i miei lettori di quindici anni; per i quali
appunto mi par necessaria una breve prefazione.

Nelle scuole classiche, allora come ora, non s'insegnava, nel senso
proprio della parola, la lingua italiana, come se per il solo fatto
d'esser nati in Italia tutti i ragazzi dovessero naturalmente saperla,
o come se bastassero a farla imparare quelle poche letture di scrittori
italiani, disordinate, frammentarie e superficiali, che si facevano
a scuola e in casa; delle quali, come d'ogni semplice lettura, resta
tanto meno di lingua nella memoria quanto più è assorbita l'attenzione
dal contenuto. I professori ci correggevano nei componimenti gli
errori grossi, suggerendoci la frase e la parola da sostituire al
modo errato, e consigliandoci ogni tanto di leggere i buoni autori:
e questo era quanto facevano per insegnarci quella lingua, che da
nessun'altra bocca fuorchè dalla loro noi potevamo imparare. E neppure
dalla loro bocca non potevamo imparare gran cosa, perchè, essendo tutti
piemontesi (e sarebbe stato lo stesso se fossero stati di qualunque
altra regione, fuorchè toscani), essi non possedevano un vocabolario
molto più ricco che non fosse il nostro; parlavano corretto e non
altro. Che un ragazzo non nato in Toscana, e più se nato ai piedi
delle Alpi, non potesse imparare in altro modo la lingua italiana, non
parlata da alcuno intorno a lui, che studiandola come avrebbe fatto
d'una lingua straniera, ossia formandosi a poco a poco, per via di
ricerche e d'appunti, un corredo di vocaboli, di frasi e di costrutti,
da imprimersi nella memoria a uno a uno, a modo di date e di sentenze,
non passava per il capo a nessuno. Procedendo dunque di classe in
classe, noi imparavamo a scansar gli spropositi; ma quanto a ricchezza
di lingua non si faceva quasi nessun acquisto, e si continuava a
rimpastare nel liceo, presso a poco, lo stesso materiale linguistico
che s'era usato nelle prime scuole, a scrivere, cioè, un italiano
misero, scolorito, rachitico, senza forza e senza finezza, e senz'alcun
sentore di distinzione fra il linguaggio accademico e il familiare,
come lo scriverebbe un francese o uno spagnuolo che avesse studiato la
nostra lingua sui libri, quel tanto che è necessario per capire e farsi
capire senza far ridere.

Mi trovavo a questi termini quando mio fratello maggiore mi mise sotto
gli occhi le Poesie del Giusti — un'edizione di Capolago, che aveva in
capo una prefazione del Correnti e in coda un dizionarietto di modi
toscani — e mi disse: — Leggi questo, se vuoi imparare la lingua. —
Del Giusti non avevo ancora letto che due o tre poesie, sparse per le
_Crestomazie_ scolastiche. Le lessi per la prima volta dalla prima
all'ultima. Fu come una festa. Non saprei paragonare il piacere che
n'ebbi se non a quello che si prova da fanciulli quando ci è messa
in mano la prima scatola di colori o il primo strumento di musica;
un piacere puramente artistico, e questo quasi tutto filologico, nel
quale non entrava che in minima parte il pensiero satirico e politico
del poeta, che in molti punti mi riusciva oscuro. Quella grande
ricchezza di modi nuovi per me, familiari ed efficacissimi, quella
varietà di scorci e di rilievi di lingua, di costrutti arditi e di
legature eleganti e flessibili fra idea e idea, quella profusione
di gemme e di perle fini, infilate l'una sull'altra, incastonate nel
verso con quel garbo, fatte come saltar nelle mani con quella lestezza
e con quella grazia; che esprimevano mirabilmente mille cose ch'io
non avrei saputo neppure adombrare con la parola, e ch'erano come
risposte inaspettate a mille domande curiose accumulate da un pezzo
nella mia mente, mi misero il cervello in ebollizione. Quelle parole,
quelle frasi mi risplendevano agli occhi come fuochi di mille colori,
mi suonavano all'orecchio come le note d'un coro di voci argentine,
mi si imprimevano nella memoria, e quasi nell'animo, come sguardi e
lineamenti di creature umane; me le volgevo e rivolgevo nel pensiero
a una a una, come per cercarne la virtù segreta; godevo a staccarle
dalla strofa e ad assaporarle pure, come a spiccare dei fiori da una
pianta e a odorarli l'un dopo l'altro a occhi chiusi. Il mio amore per
la lingua nacque da quella lettura. E fu un amore non punto eccitato
dalla coscienza d'aver delle facoltà di scrittore o dalla speranza
d'acquistarle, chè a questo allora non pensavo punto: fu come la
passione di chi raccoglie monete preziose o conchiglie rare per il solo
piacere di osservarle e di palparle, senza neppur pensare di mostrarle
agli amici. Mi comprai un grosso quaderno legato, e vi cominciai a far
delle note; feci lo spoglio di tutte le poesie, trascrissi quasi tutto
il dizionario; in pochi giorni il quaderno fu pieno. Mi passavano le
ore come minuti in quel lavoro piacevolissimo, come a studiare una
lingua nuova e maravigliosa, di cui non avessi avuto fino allora che
una nozione confusa. Mi pareva d'imparare ad un tempo lingua, musica, e
pittura, e di diventare da un giorno all'altro, per effetto di quello
studio, più intimamente, più patriotticamente italiano. E tanta parte
aveva in quella passione questo sentimento, benchè non ne avessi allora
una ben chiara coscienza, che sentii la prima volta in quei giorni il
bisogno di correggere la mia pronunzia, giovandomi della conversazione
d'un bersagliere, nativo di Siena, poeta improvvisatore e caporale:
altra piccola miseria, questa della pronunzia italiana, di cui non
si davano alcun pensiero gl'insegnanti di lettere; ai quali si poteva
leggere un verso del Petrarca nel seguente modo, per citare un esempio:

    Giuvine dona soto un frasco louro,

senza che se ne dessero per intesi. E naturalmente, poichè la passione
della lingua era mossa, il mio lavoro non s'arrestò all'ultima poesia
del Giusti. Cercai altre miniere, e m'abbattei per mia ventura sul
Guerrazzi, del quale avevo già letto bensì vari libri, ma soltanto
con l'occhio del patriotta, non inteso ad altro che a pescarvi delle
invettive contro i tiranni da innestare nei componimenti d'effetto.
Ma dal Guerrazzi, preso all'amo del suo stile immaginoso e forte, non
mi bastò più levar le parole e le frasi; tirando forte, portavo via
il pezzo, e oltre al trascrivere, mandavo a memoria pagine intere,
che recitavo poi a un mio compagno di scuola, allora guerrazziano
nell'anima, ora sindaco della città da ventitrè anni; il quale in
quell'esercizio gareggiava con me, e mi vinceva, perchè sapeva a
menadito tutti i più bei passi dell'_Assedio di Firenze_, e li diceva
con un garbo squisito. Poi feci nella passione della lingua delle
volate come quelle che facevo nell'amore. Passai dal Guerrazzi al
Guadagnoli....



Furori ginnastici.


Ma che mosca senza capo è mai un uomo di quindici anni. Figurarsi
che quella gran passione filologica fu troncata di colpo, a metà
delle vacanze, dall'apparizione dei fratelli Guillaume. Non era mai
venuta nella città una grande Compagnia equestre: tutto quell'apparato
spettacoloso di cavalli, di attrezzi, di maglie e di vestiti variopinti
m'infiammò d'entusiasmo per l'acrobatica, e mi fece ricadere in piena
fanciullezza. Il mio buon padre, che mi contentava in ogni cosa, mi
fece fare un trampolino, e mi comperò corde, anelli, trapezi e cerchi,
come s'io avessi dovuto rizzar baracca di saltimbanco. E questo feci,
a un di presso. Chiamai a raccolta tutti i miei compagni che avevano
tendenze d'acrobati, e mi diedi con loro allo _sport_ circense con
una passione sfrenata. Furono esercizi e camiciate da pazzi, con
conseguenti capitomboli, ammaccature, torsioni e rotture di testa e
scalmane da cavalli. Ma era anche quello “furor di gloria,„ poichè,
facendo le mie prodezze, m'immaginavo sempre di “agire„ davanti a una
moltitudine spettatrice, che io vedevo e di cui sentivo gli applausi,
come un allucinato. Sul serio, covai per qualche tempo l'ambizione di
diventare un direttore di circo equestre. Mio padre mi rimproverava
d'andare all'eccesso. Io gli rispondevo: — _Mens sana in corpore sano_;
— al che egli ribatteva argutamente che, intanto, era un principio
bell'e buono d'insania di mente il rompersi la testa per sanificare
il resto del corpo. E il corpo, infatti, salvo le enfiagioni e le
sbucciature, era sano: crescevo come un girasole, ero un lupo a tavola,
un ghiro a letto, e gareggiavo coi facchini del Banco, per bravata, a
portar dei sacchi di sale di dieci miriagrammi, che avrebbero stroncato
il mio professore di filosofia. Ma quanto a nutrir la _mente sana_
di studi, era un altro discorso: non mi ricordo d'aver mai avuto in
tanta avversione la carta stampata quanto in quel periodo: ero sulla
via di diventare un fortissimo e agilissimo cretino. Ma è proprio
vero che le malattie della vanità guariscono da sè stesse: poichè
non era altro, per tre quarti, quella mia smania di ballar per aria.
Ed ecco come guarii, con molta soddisfazione di mia madre, che stava
sempre col batticuore di vedermi portare in casa a quattro braccia. Il
mio esercizio prediletto era quello del salto col trampolino; la mia
ambizione suprema, quella di riuscire a saltare una diligenza, come
avevo visto fare a un pagliaccio del circolo Guillaume (un semidio). Ma
per arrivare a tanto bisognava imparare a far il salto mortale, come
il semidio lo faceva, ed io smaniavo di farlo: smaniavo, ma non mi ci
provavo, perchè non c'era da scherzare: era troppo facile di rompersi
il nodo del collo. Un giorno, nella compagnia solita dei miei fratelli
d'arte, fra i quali m'arrogavo il primato, che m'era concesso, come a
proprietario degli attrezzi, s'imbrancò un mio condiscepolo, assai più
svelto e più ardito di me, che si provò a fare quel salto. Ci riuscì
alla prima, fra l'ammirazione di tutti; io fui ricacciato fra gli
artisti di second'ordine, e n'ebbi una gelosia mortale. Cento volte,
da me solo, mi decisi a tentare la prova, e stetti ritto per dei quarti
d'ora sull'alto del trampolino, coi pugni chiusi e con gli occhi fissi
sulla sabbia sottostante, nell'atteggiamento d'una Saffo in calzoni
sul punto di fare il gran tonfo, aspettando l'impulso del coraggio, e
dandomi delle spronate vocali: — Andiamo! — Animo! — Su! — Ma l'impulso
non venne mai. Tutto ben considerato, avevo una sola spina dorsale, e
non conveniva arrischiarne l'integrità. E allora mi persi d'animo, e
smisi. Smisi le gare con gli amici e le ambizioni di gloria ginnica;
ma non perdetti l'amore degli esercizi fisici; i quali accompagnai
sempre, non di meno, con l'immagine del circo e della folla plaudente,
composta specialmente di signore e di signorine. E quell'amore mi durò
per tutta la prima giovinezza, pigliando molte forme diverse, fra le
quali quella del gioco del pallone, della palla e delle boccie; del che
fui così soddisfatto da benedire anche quelle prime pazzie, perchè son
fermamente persuaso di dover in gran parte alla ginnastica la salute
vigorosa che ebbi fino all'età matura, e quindi la rara serenità di
spirito, la maravigliosa facilità di godere d'ogni più piccola cosa
e di pigliare la vita lietamente, e d'esser contento di vivere in
qualunque stato: serenità che non mi lasciò mai, se non a rarissimi e
brevissimi intervalli, finchè non fui colpito da quelle grandi sventure
che sconvolgono anche i temperamenti più sani, come gli uragani
atterrano anche gli alberi più forti.



Fisica e storia.


C'è quasi sempre nella nostra giovinezza un anno straordinario,
che, quando ripensiamo a quel tempo nell'età matura, ci si presenta
alla mente come all'occhio dell'oratore pubblico uno di quei volti
singolari, i quali attirano la sua attenzione fra gli altri mille
dell'uditorio e lo costringono a riguardarli cento volte, come se
s'innalzassero al di sopra di tutti e fossero rischiarati d'una luce
più viva. Tale è per me il secondo anno di liceo, che incominciò nel
novembre del 1861.

Principiò bene in grazia di due nuovi professori, che m'è sempre grato
ricordare, e che nomino per sentimento di gratitudine e per dovere di
cittadino, perchè nel campo ristretto del loro ufficio fecero tanto
bene a tanta gioventù da meritare che chiunque possa, anche dopo mezzo
secolo, li onori pubblicamente. Erano molto giovani tutti e due; l'uno
professore di fisica, l'altro di storia.

Il primo, Giovanni Cossavella, un bel biondo sanguigno, forte e sano
come una pianta di montagna, d'un viso aperto e simpatico, che diceva
a primo aspetto l'animo e l'ingegno, era un insegnante impareggiabile,
nato fatto, come direbbe Tito Livio Cianchettini, per travasare idee
dalla propria “nell'altrui recipiente testa.„ Il far lezione era per
lui un vero godimento dell'intelletto e dell'animo, che gli faceva
scintillar gli occhi, vibrar la voce e scattare il gesto come a un
oratore di tribuna. Aveva nell'esposizione un ordine matematico e
una chiarezza cristallina, sentiva la poesia della sua scienza e ne
trasfondeva il sentimento nella scolaresca, ci rendeva amena la fisica,
quanto la letteratura, con un'eloquenza viva, colorita, ondulata,
direi, per esprimere la varietà piacevole delle sue intonazioni;
eloquenza, per altro, che anche quando scoppiettava in motti
arguti, non usciva mai un momento dal suo soggetto. Ed era modesto
senz'affettazione, indulgente senza debolezza, familiare con noi, senza
incoraggiarci alla licenza, buono e fermo, sempre sereno ad un modo,
tutti i giorni dell'anno, come se, salendo sulla cattedra, gli fuggisse
dalla mente ogni pensiero e dall'animo ogni sentimento che non fosse
quello della sua scienza e del suo dovere.

L'altro, una figura smilza e pallida di abatino patrizio, era
meno vivace nell'insegnamento; ma anch'egli, in forma diversa,
efficacissimo. Faceva lezione come avrebbe celebrato la messa, con una
dignità sacerdotale che c'imponeva rispetto e c'ingrandiva mirabilmente
il concetto dell'importanza della storia. Quando ci esponeva le
condizioni d'un grande trattato di pace o d'alleanza, lo faceva con
una tale gravità di viso e d'accento, che stavamo tutti ad ascoltarlo
raccolti e silenziosi, come compresi della solennità del momento
storico, come se avessimo visto in mezzo alla scuola i principi e
gli ambasciatori dei vari Stati, seduti intorno al tappeto verde, a
discutere le sorti dell'Europa. Annunziava le dichiarazioni di guerra
in maniera che ci faceva battere il cuore come alla lettura della
scena dell'_Adelchi_, dove il messo di re Carlo lancia il guanto a
Desiderio, e quasi esclamare in cuor nostro: — Che necessità tremenda!
Quanto sangue umano si sta per versare! — In fine, trasportava così
bene la nostra immaginazione nei luoghi e nei tempi remoti, che,
dopo la scuola, discutevamo sui grandi avvenimenti di dieci secoli
fa come su fatti di storia contemporanea, accalorandoci per Federico
Barbarossa e per Giovanni delle Bande Nere come per Napoleone III e per
Garibaldi. Non scherzava mai; teneva lo sguardo raccolto come un prete
all'altare, parlava sotto voce come se ci confidasse dei gelosissimi
segreti politici, e non lodava mai chi sapeva, restringendosi a fare
col capo un atto lento d'approvazione, come per dire: — Non spetta a
me di lodarla; ella ha aggiustato gli affari d'Europa; i popoli gliene
saranno riconoscenti. — E non c'è da riderne, perchè era un'arte che ci
teneva attenti e ci faceva studiare. Si chiamava Bartolomeo Fontana.
Non ne ho più saputo nulla dopo quell'anno; ma non ho mai aperto un
libro di storia senza che mi sorgesse davanti l'immagine di lui, col
viso grave e con gli occhi bassi, nell'atto di “celebrar„ la lezione.
Posso dire in tutta coscienza che se non son diventato uno storico
illustre la colpa è d'un altro; non sua.



Avvocato!


A quel professore di storia debbo le mie prime soddisfazioni di
vendiparole. Egli ci aveva esortati a far di quando in quando
dei “lavori di diligenza„ che dovevano essere sunti narrativi di
un periodo storico, chiusi da qualche considerazione generale.
L'ambizione d'entrargli in grazia era così viva in tutti che i “lavori
di diligenza„ piovevano ogni settimana a dozzine sul suo tavolino,
e gareggiando fra di noi a chi scrivesse più roba, c'era chi gli
rovesciava addosso delle mezze risme di carta, ch'egli mandava a
prendere dal bidello; il quale usciva qualche volta carico come un
somaro. L'aria del tempo voleva che ogni scritto scolaresco terminasse
con una sonata patriottica. Io feci al primo di quei lavori una chiusa
di questo genere, che ebbe qualche fortuna. Ciò bastò perchè vari
compagni ricorressero a me abitualmente per farsi fare la tirata finale
del loro “sunto„. Le richieste mi titillarono l'amor proprio, divenni
un fabbricante di _chiuse_: chiuse rimbombanti d'amor di patria, tirate
con le mani e coi piedi, code di frasoni cucite ai lavori non con
filo bianco, ma con spago da imballatura, veri petardi di rettorica,
furfanterie letterarie da non averne un'idea. Con l'esercizio continuo
acquistai in questo mestiere indegno una destrezza spaventevole: avrei
potuto aprir bottega e guadagnarmi il pane. Ne insuperbii. Ma è strano
che da questo buon successo non nacquero punto in me la speranza e il
proposito di diventare uno scrittore; ma sorse invece l'idea d'aver la
vocazione dell'avvocatura.

Infatti, lo stile di quella prosaccia era più da improvvisatore che
da letterato, apparteneva esclusivamente al genere oratorio, e al più
basso. L'idea, a poco a poco, mise radici, e vegetò rigogliosa. Sì,
ero nato per tuonare alla sbarra, per grandeggiare nel foro; nessun
dubbio oramai; mi maravigliavo d'aver sentito così tardi la voce
della natura. Era quella, dunque, la mia nona incarnazione: prima
bandito, poi soldato, pittore, prete, tenore, matematico, commediante,
direttore di circo equestre.... avvocato! E abbracciai la nuova
illusione con lo stesso ardore con cui avevo abbracciato le altre otto.
Ricordandomi il gran colpo che m'aveva fatto il discorso in difesa
del generale Ramorino dell'avvocato Brofferio, mi diedi a leggere i
_Miei tempi_ (che si pubblicavano allora a fascicoli), il cui stile
oratorio mi pareva giustamente il meglio atto a formar l'eloquenza
d'un aspirante alla toga, e studiai a memoria tutti i frammenti di
discorsi parlamentari che l'autore riferisce in quell'opera, e li andai
recitando nel giardino e nel cortile, con una gran mimica curialesca,
fingendo che fossero arringhe in difesa di accusati, e vedendo, dico
vedendo proprio la gabbia, i giudici, l'uditorio, i carabinieri, tutti
rintontiti dalla mia parola. Mi diedi a frequentare la Corte d'Assise,
e marinai una volta la scuola per andar a sentire il vecchio avvocato
Sineo, venuto da Torino, che mi avvampò d'entusiasmo. Poi presi a fare
delle arringhe per conto mio, in difesa di mascalzoni immaginari e
di Ramorini ideali. M'infervorai a tal segno, in fine, che un giorno
dichiarai il mio pensiero a mio padre: avevo scelto la mia carriera,
non avevo più bisogno che del suo consenso. Egli sorrise, e dopo esser
stato un po' sopra pensiero, acconsentì, dicendomi che agli studi
universitari, in ogni modo, io ero destinato, che potevo studiar leggi,
se tale era mio desiderio. — Va bene — concluse — sarai avvocato. —
Mi parve di esser laureato in quel punto, e che dovesse cominciare il
giorno dopo ad affluir la clientela. Diedi l'annunzio ai miei compagni,
come d'una cosa fatta, e cominciai, nel discuter con loro, a fare i
gesti avvocateschi di sciogliere il braccio dalla toga e di aggiustarmi
sul petto le facciuole, e in casa, nei momenti d'ozio, a palpare
con amorevole familiarità i codici di mio fratello. Oh, finalmente,
avevo trovato la mia strada! E intanto, per esercitarmi sempre più
all'improvvisazione, giù “chiuse„ a rifascio.



I profughi Polacchi.


“Chiudevo„ qualche volta con un'invocazione all'Europa in pro della
Polonia, dov'era scoppiata nel gennaio quella disperata insurrezione,
che si protrasse fino all'inverno del 1864, e fu poi soffocata, come le
tre precedenti, in un mare di sangue eroico. Eccitava la mia eloquenza
la vista quotidiana di molti giovani polacchi, allievi d'una Scuola
militare di Varsavia, i quali, dopo una rivolta, s'eran rifugiati
in Italia e venuti a stabilire nella nostra città, per aspettarvi
l'occasione e il modo di ritornare a combattere per il loro popolo.
Eran tutti di famiglia signorile, bei biondi robusti, di viso ardito
e grave, su cui si leggeva il pensiero assiduo della patria lontana e
della morte prossima: pochi mesi dopo, infatti, caddero la più parte
sotto il piombo russo, in un combattimento memorabile. La cittadinanza,
a cui ciascuno di essi richiamava al pensiero i molti Polacchi morti
generosamente per l'Italia, e che sapeva come quasi tutti avessero
nella loro famiglia o fra i loro amici una vittima di quella caccia
feroce data ai colpiti dalla nuova leva, onde l'insurrezione era stata
provocata, li circondava di rispetto e li colmava di cortesie. E alle
cortesie essi rispondevano con viva gratitudine; della quale diedero
una prova gentile, in occasione della morte del sindaco, portando
con le proprie braccia il feretro al camposanto. Di molti di quei
giovani votati alla morte ho ancora nella mente l'immagine, che mi si
presenta sempre accompagnata dal suono armonioso della loro lingua,
di cui raccoglievo curiosamente qualche parola passando accanto ai
loro crocchi, mentre commentavano le notizie giornaliere della guerra
santa che li aspettava. Di uno in special modo mi ricordo, che nessuna
mia concittadina di quel tempo può aver dimenticato: la figura più
bella e più poetica che abbia mai sognato una fanciulla amorosa: un
viso che pareva uscito da un quadro di frate Angelico, coronato d'una
maravigliosa capigliatura bionda, d'un'espressione triste e dolcissima,
non mai rischiarata da un sorriso; al quale corrispondeva la grazia
del corpo alto e snello, un po' curvo, come per effetto d'una cresciuta
troppo rapida: perchè aveva appena diciassett'anni, dicevano: un fiore
di bellezza e d'eleganza femminea, austero non di meno, che pareva
anche più delicato appetto alle altre forti piante della Vistola, in
mezzo alle quali finiva allora di crescere in terra d'esiglio. Lo vidi
una sera al teatro, in sedia chiusa, solo, tutto intento alla commedia,
di cui forse non capiva una parola: alcune giovani signore, che gli
stavan sedute intorno, facevan di tutto per attirar la sua attenzione,
e altre lo guardavano col cannocchiale dai palchi: egli non diede
segno d'avvedersene, nè durante la recita, nè fra un atto e l'altro;
stette sempre seduto con gli occhi fissi sugli attori o sul telone,
come assorto in un pensiero doloroso. Qualche cosa di tragico, certo,
doveva esser seguito nella sua famiglia lontana. Egli pensava forse a
suo padre che si trascinava in catene per le vie della Siberia, o a un
fratello, soldato forzato, che si struggeva dall'ira tra le rupi del
Caucaso, o a sua madre impazzita dal dolore in quella notte tremenda,
in cui le soldatesche del governatore Wielopolski, sguinzagliate come
branchi di briganti, avevano strappato alla Polonia il fiore dei suoi
figli. E forse egli vedeva nell'oscurità delle selve, che la guerra
insanguinava, il suo bel corpo giovanile disteso immobile sull'erba,
lacerato dalla mitraglia dell'Imperatore.



Giorni d'ebbrezza.


Ma e “chiuse„ e toga e Polonia, tutto andò per aria ad un tratto, e la
fisica e la storia con loro. Furono giorni affannosi e beati, in cui
il sole sfolgorava come se si fosse avvicinato alla terra, e la luna
mi guardava e mi parlava, e le Alpi eran così bianche e la campagna
così verde come non erano state mai nè mai più saranno; giorni in cui i
fiori del mio giardino, mandandomi un'ondata di profumo, mi dicevano;
— A te, bel ragazzo! — e ogni musica che suonava nell'aria pareva che
suonasse in onor mio, per accompagnare il canto di trionfo del mio
cuore; giorni in cui la gente affollata al passeggio, che io fendevo
guizzando come un pesce nell'onda e cercando intorno con gli occhi, mi
pareva una moltitudine d'infelici che non avessero ragione d'esistere,
e tutte le cure della vita e gli aspetti umani e le cose vicine e
lontane m'apparivano come a traverso i vapori rossi d'un incendio
che avvampasse l'universo. E v'era nella città una povera strada dove
tutte le case mi parevano templi e palazzi d'un'architettura di sogno,
e in quella strada una casa, che aveva per me la vita e l'espressione
d'un enorme viso umano, il quale mi faceva arrossire e impallidire
fissandomi con l'occhio d'una finestra che mi pareva accesa, e in
quella casa una scala dove vedevo oscurarsi l'aria e danzare i muri
e sentivo tremare le pietre sotto i miei piedi come per una scossa
di terremoto. E v'era un'immagine che m'accompagnava da per tutto, e
mi pareva a un tempo gentile come un fiore e immensa come un mondo,
dolce insieme e terribile, familiare all'occhio e al pensiero, e pure
ravvolta d'un mistero enorme e impenetrabile, in cui si smarriva la
fantasia, come lo sguardo in un abisso di tenebre. E in quei giorni
sdegnavo ogni volgarità, rifuggivo dai giuochi fanciulleschi, cercavo
le braccia di mia madre; mi risaliva la preghiera dal cuore alle
labbra, mossa dal sentimento che non altro che un Dio infinitamente
buono potesse aver fatto il cuore umano capace della dolcezza infinita
che m'inebbriava; e mentre adoravo la vita, vedevo bella anche
l'immagine della morte, perchè mi pareva che neppur essa avrebbe potuto
spegnere la fiamma onnipotente che m'ardeva, e che la vita futura non
potesse esser altro che l'appagamento assoluto e il trionfo immortale
della passione che mi sollevava da terra. E questo basta, perchè, fra
molte altre cose, non ho mai capito come un uomo possa raccontare al
pubblico il suo primo amore.



Un grande dolore.


Mi svegliò da quel sogno un colpo di fulmine.

Una sera, mio padre, sedutosi appena a tavola con noi, si lasciò cascar
dalle mani la forchetta; si sforzò due volte di riprenderla, non potè;
disse: — Non mi sento bene, — e alzatosi a fatica, si mise a sedere sul
sofà, dove rimase qualche tempo immobile, con gli occhi fissi, senza
parlare. Poi volle andare a letto, e v'andò a stento, trascinandosi,
sorretto da mia madre e da uno dei miei fratelli. Si mandò a chiamare
il medico, che accorse subito.

Dalla camera vicina intesi la sentenza terribile.

Era perduto.

Un colpo d'apoplessia gli aveva preso tutta la parte destra del corpo,
e offeso il cervello.

Così si spegneva a un tratto, come una fiamma soffocata, quella mente
acuta e lucida, dotata d'una ragione potente e di squisite facoltà
artistiche, aperta a ogni idea bella e atta a ogni maniera di studio
e di disciplina; così finivano cinquant'anni di lavoro utile, di vita
onesta e feconda, di cure e di sacrifici affettuosi e continui perla
famiglia, prima ch'egli potesse avere alcuna ricompensa dalla buona
riuscita dei suoi figliuoli; finivano con lo sgomento e con l'angoscia
di lasciarci quando avevamo ancor bisogno di lui, e di rigettarci,
lasciandoci, da una condizione agiata nelle angustie e nell'incertezza
dell'avvenire, come se egli non avesse faticato, lottato per tanto
tempo che per renderci più funesta la sua fine!

Da quel giorno la nostra casa non fu più che una tomba, nella quale,
ancor vivo, egli era già come sepolto, già separato da noi più
terribilmente che dalla morte, poichè non avevamo più padre, e ci
rimaneva ancora davanti, come l'immagine stessa della nostra sventura,
la sua larva dolorosa. Parlava ancora, ma con parole sconnesse e
insensate, che ci laceravano il cuore più che il silenzio della morte;
ricordava ancora i nostri nomi, ma dava all'uno quello dell'altro,
come se non vedesse più in noi che delle ombre, e ci ascoltava
con lo sguardo fisso e con la fronte corrugata, facendo uno sforzo
intenso e lungo per raccogliere e riconnettere i congegni spezzati
dell'intelligenza; ma non ci comprendeva più, come se gli avessimo
parlato una lingua sconosciuta o dimenticata, la quale non gli
toccasse più altro che l'udito. E se qualche volta, per pochi momenti,
gli ritornava un barlume d'intelligenza, eran quelli i momenti di
maggiore angoscia per noi, poichè, avendo come a lampi coscienza della
sua sventura, si batteva la mano sulla fronte in atto disperato, ed
esprimeva il desiderio di morire, il rammarico di esser ridotto per
noi un “fastidio„ e un “ingombro„, il tormento che lo straziava di non
poter più parlarci ed intenderci; e questo esprimeva con esclamazioni
rotte e violente e con scoppi di pianto sconsolato, che ci facevano
fuggir singhiozzando.

Povero padre mio! Allora soltanto, nelle mie lunghe ore pensierose,
riandando il passato, io compresi tutta la sua bontà, tutte le sue
virtù d'uomo e di padre. Il suo amore per noi avea qualche cosa
d'austero: egli ci amava, ma non ci adorava, e in questo pure era
saggio, e per questo la sua carezza, benchè frequente, ci faceva
l'effetto benefico d'una ricompensa ambita. Egli era stato per tutti
noi il primo maestro. Quand'eravamo ancora bambini, ci conduceva a far
delle lunghe passeggiate in campagna, che per noi erano una festa,
e, strada facendo, ci diceva sempre in forma dilettevole qualche
cosa di utile, accennandoci le bellezze del paesaggio, insegnandoci
i nomi delle piante, stimolando e appagando in mille modi arguti la
nostra curiosità infantile. Egli ci tracciava delle tavole sinottiche
per facilitarci lo studio del latino, c'insegnava il francese, che
sapeva benissimo, e la calligrafia, in cui era maestro, ci faceva dei
quadretti coloriti per farci imparare la nomenclatura italiana degli
oggetti domestici, e ci disegnava delle carte geografiche con un metodo
suo proprio, che gli costavano settimane di fatica. Dotato di molte
e finissime abilità meccaniche, le esercitava continuamente a nostro
vantaggio: ci legava i libri, ci faceva dei giocattoli, ci fabbricava
dei piccoli mobili, ci scolpiva le teste delle marionette, ci dipingeva
gli scenari per il teatrino. E pure essendo padre così operoso e
pieno di pensieri estranei al suo ufficio, era un impiegato, più che
diligente, ardente di zelo; tanto da mandare ogni anno al Ministero
dei grandi progetti di riforme computistiche, intorno a cui lavorava
per mesi e mesi. E non restringeva la sua vita intellettuale nel
cerchio dell'ufficio e della casa: leggeva libri nuovi d'ogni genere,
sapeva a memoria un gran numero di poesie, che recitava mirabilmente,
aveva un'ammirazione appassionata per i grandi scienziati e i grandi
artisti, visitava studi di pittori e stabilimenti industriali, andava
a cercare ogni uomo illustre per qualsiasi merito, il quale passasse
per la nostra città, presentandoglisi senz'altro titolo che quello
d'ammiratore, come un giovinetto entusiastico. Non ho di lui altra
immagine che quella d'un uomo bianco di capelli e di barba; così mi
sembra d'averlo sempre veduto; eppure non mi pareva vecchio, e non mi
passava mai per la mente ch'egli potesse morire prima ch'io fossi un
uomo fatto, tanto era sano, vigoroso, vivace, anche nei suoi discorsi
in famiglia, pieni di ricordi e di idee, di citazioni e d'arguzie. E mi
ricordo che provavo un gran piacere, come a un segno ch'egli mi desse
di dover vivere lungamente, quando, mettendo io nella sua larga mano
tutt'e due le mie, egli, per scherzo, me le serrava come in una morsa,
fino a farmi cacciare uno strillo, che esageravo, per dargli un'idea
più grande della sua forza. Visse lungamente, sì, ma morì troppo presto
per noi, e per il premio a cui gli dava diritto la sua nobilissima
vita. Povero padre mio, mio maestro e mio amico, che m'hai dato
l'esempio di tutte le virtù e colmato di tutti i benefizi, e ch'io non
ho potuto ripagare con una sola prova di riconoscenza pubblica, io che,
certamente, essendo l'ultimo dei tuoi figliuoli, fui il più doloroso,
il più disperato dei tuoi ultimi pensieri!

E mentre dicevo tra me queste cose, di notte, sentivo nella camera
accanto il suo vaneggiamento compassionevole, delle esclamazioni
affannose e senza senso, che m'entravan nel cuore come colpi di
pugnale, e le parole dolci e tristi di mia madre che lo vegliava; le
quali mi facevano soffrire anche più delle sue. Che terribili notti, e
che terribili giorni!



Cambiamento di rotta.


Ma tanta è la forza della vita a quindici anni che l'animo non rimane
prostrato a lungo neppur dai più grandi dolori; dai quali si divincola,
per rialzarsi impetuosamente, come il getto d'acqua vigoroso che
respinge la mano da cui è compresso. Così avvenne a me dopo pochi
giorni. Della condizione mutata della famiglia, in ciò che riguardava
i mezzi economici, non ebbi alcun dolore, anzi non mi diedi nemmeno
pensiero: eppure era mutata per modo ch'io non avrei più potuto far
gli studi universitari senza sacrifizi gravi di mia madre e dei miei
fratelli. Erano disposti a farli, e li avrebbero fatti lietamente;
lo compresi, e me lo dissero; ma compresi pure che era mio dovere
di prendere spontaneamente una deliberazione che li liberasse da
quell'obbligo; di scegliere, cioè, una carriera che mi mettesse in
grado al più presto di guadagnarmi la vita. Addio, dunque, sognati
trionfi del foro! Ma rinunziai al foro senz'alcun rammarico, come
avevo rinunziato al palcoscenico e al circo equestre. Gli entusiasmi
patriottici erano ancora caldi, il periodo delle guerre nazionali
ancora aperto, la mia passione per l'esercito non del tutto spenta:
scelsi la carriera militare. Fu deciso senz'altro che avrei finito
ancora il secondo corso del Liceo, e che ai primi dell'anno prossimo
sarei entrato in un collegio a Torino, per prepararmi agli esami
d'ammissione alla scuola di Modena. E il buon volere, anzi l'allegrezza
con cui presi quella decisione non fu punto turbata dal fatto, che
acquistassi proprio in quei giorni, lucida e ferma, destinata a non più
cadere, la coscienza di poter riuscire, comunque fosse, uno scrittore.

Fu per un caso, come quasi sempre avviene, che mi s'accese quella nuova
girandola, a fuoco perpetuo.

Una mattina il professore di lettere italiane ci fece fare in scuola
un componimento sul tema: _I Promessi Sposi_. Due giorni dopo, avendo
letto tutti i lavori, ebbe la bontà di sentenziare che il meno peggio
era il mio; ma con una frase assai più cortese di questa, seguita da
vari commenti, che terminavano con una falsa profezia. E fu proprio
quella falsa profezia che decise del mio destino. Avrei forse presa,
più tardi, la medesima strada, anche se non mi ci avesse spinto
allora quel piccolo avvenimento; ma è un fatto che soltanto dopo quel
giorno cominciai a studiare e a scrivere col proposito determinato e
con la speranza viva di riuscire a qualche cosa con la penna, e che
da quel momento in poi la mia passione per la letteratura non ebbe
più intermittenze. Le prime cose che scrissi furono dissertazioni in
forma di lettere, dirette ora all'uno ora all'altro dei miei amici;
ma lettere che mi sarebbero costate un occhio se le avessi mandate per
la posta, e che nessuno avrebbe lette fino a metà, se avessi avuto il
coraggio di regalarle a chi mi era servito di bersaglio per scriverle.
Eran quaderni, e trattavano di tutto, senza dir propriamente nulla,
girigogoli di frasi, fughe interminabili di parole, cascate fluviali
di periodi, non altro che esercizi d'immaginazione e di stile, nei
quali cacciavo a forza tutte le mie reminiscenze di letture, e facevo
dei larghi giri di falco per venire a una data immagine o a una data
locuzione, quasi sempre non mia, che mi pareva un fiore o una perla,
e anche votavo addirittura delle sacca di roba altrui, tinta soltanto
dei colori della mia tintoria, e sparpagliata con cert'arte perchè si
confondesse meglio con la merce dei miei magazzini. Ma c'era pure in
quella prosa di cicalone e di ladro qualche cosa di personale, ed era
la musica, che s'è mutata poco d'allora in poi. Con quegli esercizi
mi sfranchivo la mano a scrivere, imparavo a tradurre in parole il
sentimento quale mi spirava nell'animo, a esprimere in modi diversi il
mio pensiero, a snodare e a annodar fra loro i periodi, a maneggiare
con destrezza il materiale di lingua che avevo già accumulato nella
memoria. E di pari passo con la prosa sfrenavo i versi, perchè credevo
fermamente d'avere tutti i bernoccoli letterari. Avevo letto la prima
volta nella primavera di quell'anno le liriche e le ballate del Prati,
e quell'onda sonora di rime, quel barbaglio di lampi e di colori
m'aveva prodotto l'effetto, che suol fare in un giovane la prima
vista d'una grande sala da ballo sfarzosa, in cui turbini una folla
di belle signore infiorate e gemmate. E le mie poesie erano tutte
un'imitazione quasi plagiaria del “superbo signore dei colori e dei
suoni„ tirate via con una facilità di versaiolo estemporaneo, sonore
come concerti di campane e luminose come fuochi di Bengala; inni e
ballate d'un Prati rimbambito. Ma non posso dire il piacere che godevo
in quelle lunghe ore di scribacchiamento diurno e notturno, in cui
mi giungeva importuna l'ora del desinare e della cena, e mi coglieva
come improvvisa la sera, e non avevo più quasi alcun senso della vita
esteriore. E fu una provvidenza per me quella specie di febbrone
letterario perchè, tenendomi così assorto continuamente, mi faceva
vivere fuori della grande tristezza che pesava sulla mia famiglia, e
quasi dimenticar la sventura. Solo di quando in quando mi s'alzava
davanti tutt'a un tratto l'immagine del povero vecchio che giaceva
immobile in un letto all'estremità opposta della casa, e il pensiero
ch'egli non sapeva nulla di quella mia nuova felicità, che non avrebbe
mai letto nulla nè di quello che scrivevo allora, nè di quanto avrei
scritto nell'avvenire, mi faceva posare la penna e restare un pezzo
meditabondo, con gli occhi pieni di lacrime. Ah, come avrei voluto
ch'egli venisse ancora, come faceva nel passato, a portarmi a copiare
qualche tavola dei suoi progetti di riforma amministrativa, e come mi
pentivo amaramente di non avergli qualche volta nascosta la mala voglia
con cui interrompevo le mie letture per obbedirlo, come mi pareva
odiosa in quei momenti la mia ingratitudine, e con che parole dolorose
e supplichevoli ne domandavo perdono alla sua memoria!



Aspromonte.


Da quella furia di scribacchino mi fece uscire per qualche giorno,
nel mese d'agosto, Garibaldi. Il grido di _Roma o Morte_ ridestò
improvvisamente la fiamma delle mie passioni politiche e mi ricacciò
in mezzo ai miei compagni rivoluzionari a fremere e a vociare
contro “l'uomo di Novara„ e “la sfinge di Parigi„. Noi volevamo, si
sottintende, andare a Roma a qua-lun-que co-sto, e non dubitavamo
neppur per sogno che Garibaldi, il quale moveva allora verso Catania
coi suoi volontari, ci sarebbe arrivato, a dispetto di tutti i diavoli
e di tutti i santi. E non volevamo intender ragioni. A chi ci diceva:
— E se ci assale la Francia? — rispondevamo: — E noi faremo la guerra
alla Francia. — E se ci salta addosso l'Austria? — E ne daremo anche
all'Austria. — Pilade, Oreste, Elettra, a morte tutti. Il giorno
che venne la notizia d'Aspromonte, ci accozzammo una quindicina in
una trattoria, presieduti da un reduce garibaldino del sessanta, uno
sbarbatello indemoniato, che per l'occasione s'era messo in capo il
suo vecchio berretto rosso sdruscito, e, scovata in casa dell'oste una
bandiera stinta e sbrindellata, che non aveva mai visto che il fuoco
della marmitta e pareva un avanzo di venti battaglie, percorremmo la
città cantando l'inno del Mercantini e urlando _Roma o Morte_, fra
lo stupore, i sorrisi e gli sguardi di riprovazione dei cittadini
pacifici, a cui facevamo l'effetto d'un branco di evasi dal manicomio.
Eravamo sopra tutto furibondi contro il colonnello Pallavicini, che era
partito pochi giorni avanti dalla nostra città per andare ad assumere
il comando dei bersaglieri, condotti poi da lui stesso all'assalto
d'Aspromonte; di quei suoi bersaglieri dai quali era partita la palla
fatale che aveva spezzato il piede a Garibaldi; sì, l'avevamo a morte
con quel colonnello Pallavicini, che ci eravamo “scaldato in seno„
per tanti anni, e che ci aveva ripagato della nostra “ospitalità
cittadina„ a quel modo, mordendo a sangue il nostro dio. Qualcuno
parlò di fargli la festa, se avesse avuto la fronte di ritornar fra
noi. La sua promozione a generale inasprì anche di più le nostre
ire, come una provocazione aggiunta all'offese. Si ventilò l'idea
di comprare una sua grande fotografia, che era esposta nella vetrina
d'un libraio, per farne un _auto da fè_ davanti alla Prefettura; ma
ne volevano cinque lire, e preferimmo di spenderle in birra. Salì poi
al colmo la nostra indignazione (e, fuor di scherzo, fu una grande
tristezza) quando vedemmo passare per le vie della città una colonna di
garibaldini prigionieri, che eran condotti a un forte delle Alpi. Come
m'è rimasto impresso quello spettacolo! Saranno stati un centinaio,
fiancheggiati da due file di bersaglieri: i primi in camicia rossa,
uomini maturi la più parte, alcuni coi capelli grigi, e col petto
scintillante di medaglie, figure belle e superbe che camminavano
a fronte alta e a passo risoluto; gli ultimi una frotta di poveri
ragazzi laceri, semiscalzi, dall'aspetto stanco e triste, che diceva
una storia miseranda di digiuni e di stenti; figure di mendicanti,
più che di soldati, che alle nostre grida di: “Viva Garibaldi!„ si
voltavano a guardarci con aria attonita, girando gli occhi intorno come
se cercassero del pane. Ah, che furiose discussioni quella sera, al
caffè, coi nostri amici bersaglieri, che ci chiamavano i _Romaomorti_
e si burlavano dei liberatori di Roma senza scarpe e inneggiavano al
“vincitore di Aspromonte!„ S'affollò gente nella sala, accorse il
padrone, s'andò a un pelo dal fare a pugni. E il nostro nemico, il
vincitore, ritornò finalmente. Lo incontrai una sera a buio, sotto i
portici, vestito da borghese, che andava a passo spedito, guardando
verso la strada, come per raggiungere qualcuno. Gli cedetti il passo,
fremendo, e gli lanciai un'occhiata omicida. Non se ne accorse: aveva
ben altro per il capo. Voltandomi indietro, lo vidi poco dopo uscir di
sotto le arcate e salire in una carrozza patrizia, dove lo aspettava
una bella signora. Le due teste si avvicinarono, la carrozza partì, io
rimasi come un grullo, e Aspromonte restò invendicato.



Un fiume d'inchiostro.


Rientrai allora nella mia fucina letteraria e non ne uscii più per
il rimanente di quell'anno. Ebbi solo qualche giorno di malinconia,
all'aprirsi dell'anno scolastico, pensando ai miei antichi compagni che
entravano nel terzo corso del Liceo, al quale io avevo rinunciato: un
sentimento come di nostalgia della scuola, ch'io lasciavo prima d'aver
compiuti gli studi, e più che altro di rimpianto degli studi classici
abbandonati, come d'uno scadimento della mia dignità intellettuale.
Ma fu una malinconia presto soverchiata dall'ardor del lavoro, se
può darsi questo nome a quella mia eruzione di parole, che riprese
dopo i giorni d'Aspromonte più copiosa e più violenta che mai. Rimasi
veramente stupefatto quando, molti anni dopo, ritrovai in fondo a un
cassone i miei manoscritti di quel tempo, d'aver potuto rovesciar
sulla carta in pochi mesi un tal diluvio d'inchiostro: racconti,
dialoghi, satire, paralleli di scrittori, pappolate filosofiche: una
specie di _Decamerone_, fra le altre cose, che Dio e il Boccaccio me
lo perdonino. La mia passione prese davvero in quell'ultimo periodo
il carattere d'una malattia mentale, degenerando di letteraria in
libraria, in un bisogno pedantesco e puerile di vedere i miei parti
in forma di volumi stampati e legati, con gran lusso calligrafico
d'intestazioni, di indici e di fregi, e ciò che è più strano, immuni
di correzioni quanto più fosse possibile; tanto che ci lasciavo spesso
intatti dei grossi spropositi per non deturpare la pagina con un
frego. E come non mi spiego da che mi nascesse quella fisima, poichè
non davo a leggere le mie “opere„ neppure agli amici più stretti, non
capisco neppure il perchè di quella smodata produzione, non pensando io
neppur per ombra a dare alle stampe quelle bracciate di prosa. Avevo
bisogno di scrivere, credo, come avevo avuto l'anno avanti il bisogno
di saltare e di arrampicare; erano umori del cervello che dovevan dar
fuori; bisognava che m'affaticassi le facoltà eccitate per castigarle
e renderle atte più tardi a un lavoro pensato e tranquillo. Nondimeno,
mi vergogno ancora un poco, quando ci ripenso, di quella lunga orgia
di letteratura, la quale mi dimostra quanto stessi ancora male a buon
senso in quell'anno, quantunque mi cominciassero a spuntare i baffi. Mi
conforta solo il ricordare che non mi facevo grandi illusioni intorno
al valore intrinseco dei miei finti libri; dei quali, per mia fortuna,
ero io l'unico lettore. Il che non toglieva, peraltro, che io avessi
la certezza, ma proprio la certezza assoluta di riuscire un giorno a
qualche cosa, la previsione netta e sicura che la carriera militare non
sarebbe stata che un episodio della mia vita, che la mia vera ed unica
vocazione fosse quella di metter del nero sul bianco a beneficio del
genere umano. Non era una certezza fondata sui saggi che davo di me a
me medesimo in quel periodo di esercitazione letteraria meccanica; ma
sul presentimento di facoltà che sarebbero poi sorte nella mia mente,
su promesse confuse della coscienza, su non so quale armonia che mi
suonava dentro, non ancor formulata in idee, vaga, profonda, dolce,
continua, su non so che cosa che mi sentivo correre per le vene e
per le fibre e brillare sotto la fronte e nel cuore, e ch'io pensavo
sarebbe sgorgato fuori come uno zampillo di fuoco per effetto d'un
avvenimento inaspettato, dello spettacolo d'una città nuova, della
compagnia di nuovi amici, della vita libera, dal dischiudersi delle
porte dorate della gioventù, di cui stavo per varcare la soglia.



La partenza.


Venne finalmente il giorno della partenza per Torino. Parrebbe ch'io
avessi dovuto lasciar con dolore quella casa dov'ero entrato bambino e
donde partivo giovinetto, e quella piccola città, che era per me come
la città nativa, dov'ero vissuto quattordici anni, dov'ero cresciuto
così sano e forte e lasciavo tante memorie. Eppure questo non fu. La
prima età ha di questi momenti di duro egoismo, in cui la furia d'uscir
del guscio, l'ebbrezza di mutare orizzonti e di slanciarsi nella vita
preme con tanta forza su tutti gli altri affetti, da cacciarli quasi
dal cuore. Quella città, che doveva diventarmi poi così cara, mi si
era fatta in ultimo intollerabile. Vi conoscevo tutti i visi, avevo
impresse nella mente le facciate di tutte le case, potevo rammentare
per ordine tutte le botteghe di tutte le strade, e questa conoscenza
di tutto mi dava un senso di sazietà d'ogni cosa: perfino dall'aspetto
dei dintorni bellissimi, che m'erano stampati nel cervello sentiero
per sentiero e albero per albero, mi veniva un tedio infinito: mi
dibattevo fra quelle mura come un falchetto in una stia da uccellino;
sentivo una tale smania d'andarmene che il solo odore del fumo della
strada ferrata, alle volte, mi faceva fremere come fa l'amante al
profumo d'un fiore regalatogli dalla sua bella. E ciò non ostante
non m'è rimasta nella memoria alcuna traccia dei particolari della
partenza: non mi ricordo neppure degli addii dati in casa, nè di chi
m'abbia accompagnato alla stazione, nè dello stato d'animo, triste o
lieto, in cui mi ritrovavo all'ultimo momento. Mi ricordo soltanto che
il giorno prima della partenza chiamai a raccolta nel cortile quelli
che rimanevano dei miei antichi compagni scamiciati di gioco e di
milizia, e che distribuii fra tutti, perchè ne facessero un regalo ai
loro fratelli piccoli, quanto mi era restato in casa dei miei trastulli
della fanciullezza: stampe colorite, che rappresentavano soldati
francesi e italiani, casette e figurine di presepio, e trombe e daghe
di legno dei miei tempi bellicosi. Solo allora, quando vidi portar via
quella roba che m'era stata un tempo così preziosa, provai un senso
di tenerezza e di mestizia, come se in quel punto si fosse spezzato
il legame che teneva ancora unito in me il giovinetto al fanciullo,
e quei giocattoli fossero stati una parte viva di me, che morisse in
quel punto, e la portassero a seppellire. V'è da quel momento un buio
nella mia memoria fino a quello in cui mi trovai solo in un vagone, sul
treno che andava a Torino, con una grande sacca coricata sul sedile,
dentro la quale c'era tutta la compagnia dei grossi burattini dalle
teste di legno, scolpite dal mio buon padre, che avevan deliziato non
solo la mia, ma anche la fanciullezza dei miei fratelli, e che mia
madre m'aveva affidati con molte raccomandazioni perchè li portassi
a un mio nipotino di Torino. Vedo ancora quella vecchia sacca da
viaggio ricamata a colori vistosi, e quasi risento sotto le mani le
teste dure di quegli antichi amici, che facevan gobba da tutte le
parti. E a questo ricordo mi vien sulle labbra un sorriso d'ironia
malinconica. Sì, proprio, in quella sacca era chiusa l'immagine del
mio avvenire. Ahimè! Che cosa ho fatto altro nella vita che far ballare
dei burattini? E non ho nemmeno la coscienza d'essere stato un grande
burattinaio. Eccomi qui, coi capelli bianchi, già preparato a un'altra
partenza, e mi pare d'aver di nuovo accanto quella sacca. Allora
c'era chiuso il mio avvenire, ora c'è chiuso il mio passato. _Vanitas
vanitatum_: ecco il fondo delle cose, e la conclusione di tutto. Quando
queste parole, che sogliono rattristar l'animo e offender l'orgoglio
dell'uomo, gli son diventate un conforto, vuol dire che il suo cammino
è finito.



Un mistero.


Quella città, non più riveduta che due volte in trentaquattro anni,
e non ricordata che raramente, e di sfuggita, e senz'affetto, nel
tempo della gioventù, ha preso poi nel mio spirito, nell'età matura,
una vita intensa e quasi risplendente, mi è diventata oggetto fino
a questi giorni di sempre più frequenti e più vive riflessioni. E in
questo non è nulla di singolare, perchè, meditando l'uomo sul mistero
di sè medesimo, via via che invecchia, sempre più assiduamente, è
naturale che risalga sempre più spesso col pensiero ai propri principi,
e quindi ai luoghi dove passò l'infanzia. Ma singolare è che a quella
città io ritorni sempre più sovente nei sogni, e strano, inesplicabile
per me che questi sogni siano tutti lo svolgimento d'uno stesso fatto
doloroso, e impossibile ad un tempo. Mi ritrovo nella strada maestra,
fiancheggiata da un capo all'altro da un doppio ordine di portici
bassi, in un'ora che non è nè di giorno nè di notte, poichè i portici
è la strada sono qui oscuri, là rischiarati da una luce di crepuscolo,
altrove come ingombri d'una nebbia fitta, che ora si squarcia, ora si
riaddensa; ma è l'ora della passeggiata domenicale, poichè va e viene
gente da tutte le parti, e le botteghe son chiuse. In ogni sogno sono
arrivato allora allora, con un vivo desiderio di ritrovare gli antichi
amici molti dei quali vivono ancora; mi caccio tra la folla, e vo
innanzi cercandoli con lo sguardo, curioso e impaziente. Ma cammino
e cammino, e non ne incontro nessuno, e non rivedo neppure, fra tutta
quella gente, uno solo dei tanti visi noti, che mi si presenterebbero
nella realtà, e che dovrei incontrare per questo anche in sogno.
Invano ricorro da un capo all'altro i portici di destra e di sinistra,
osservando i crocchi davanti ai caffè, le brigate che passano e i
gruppi che stan fermi alle cantonate, dove sempre ne vedevo qualcuno,
quando vi passavo da ragazzo: non riconosco anima viva. È tutta una
popolazione sconosciuta, come mi sarebbe quella d'una città dove non
fossi mai stato. Vedo spesso venir verso di me, in quella luce incerta
di foresta, una persona che mi par di quelle ch'io cerco, e dico tra
me, rallegrandomi: — È il tal dei tali! — ma, andandogli incontro,
m'accorgo d'aver sbagliato: è un altro, un ignoto. A poco a poco la
folla si dirada, percorro lunghi tratti deserti, fiancheggiati da
edifizi non mai veduti, da alti muri di fortezza o di carcere, da
case e da muri di cinta in rovina; mi trovo in mezzo alla campagna,
solo; rientro un'altra volta sotto i portici, dove non suona più il
passo che di pochi solitari: corro dietro all'uno, corro incontro
all'altro: nessun amico, nessun conoscente; nessuno mi riconosce,
nessuno mi guarda; chi svolta a destra, chi svolta a sinistra, tutti
scompaiono. Corro a casa degli amici più stretti, agli uffici dove
sono impiegati, a quella tal farmacia, in quel dato caffè che so che
frequentano: non c'è nessuno, non c'è che sconosciuti; suono, picchio,
chiamo, domando ad alta voce: — Il tale? Il tal altro? — Nessuno sa
nulla. Affannato, addolorato, mi rimetto a correre per la via maestra,
infilo i vicoli laterali, giro e rigiro in mezzo a case che riconosco,
non so come, benchè non sian più quelle d'una volta, per crocicchi e
per piazzette che si allargano e si restringono come se gli edifizi
dintorno danzassero, per vicoli che s'allungano e si perdon nelle
tenebre, intorno a vecchie chiese che si trasformano al mio avvicinarsi
in cattedrali enormi, e da per tutto incontro, fiancheggio, raggiungo
delle ombre umane; ma da nessuna parte rivedo un amico, un conoscente,
un viso del passato. E questa corsa angosciosa dura fin che mi
risveglio, col cuore pieno di tristezza. Da anni e anni faccio sempre,
con poche variazioni, questo medesimo sogno. È impossibile che non ci
sia una ragione. L'ho cercata molte volte, meditando a lungo; ho anche
letto dei libri di onirologia scientifica, con la speranza di cavarne
qualche lume a scoprire il mistero: non ci ho trovato nulla che mi
giovasse. Eppure, dico, una ragione ci ha da essere, nella mia vita,
nella mia coscienza, che so io? una ragione che dispero di ritrovare,
ma che son persuaso non possa essere che triste, e legata strettamente
con altri misteri dell'anima, tristi del pari, che non mi saranno
svelati mai. Per questo non la cerco più da qualche tempo. Ora se una
voce soprannaturale mi dicesse: — La so, — e mi domandasse: — La vuoi
sapere? — risponderei: — Voglio ignorarla. — Sarà una superstizione
indegna d'un uomo; ma è così. _Ho paura non so di che_, come l'Osvaldo
dell'Ibsen. E non di meno desidero sempre di rifare quel sogno, tanto
è cara al mio cuore, tanto mi par bella anche non popolata che di
spettri, tanto mi attira e mi affascina quella piccola città alpina,
dove l'età più felice della mia vita si chiuse con la morte del più
saggio e dolce amico ch'io abbia avuto sopra la terra. Cuneo è la
città, e pronuncio con sentimento di riverenza e di gratitudine questo
nome, il quale mi desta la visione d'una città immensamente lontana,
posta quasi ai confini del mondo, che si disegna in contorni azzurri
sulla bianchezza d'un'alba luminosa.



BAMBOLE E MARIONETTE



IL “RE DELLE BAMBOLE„.


Così lo chiamano molte delle sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini,
inventore, fabbricante e negoziante di bambine inanimate, che ha la
bottega in via Roma. Non è difficile trovarla perchè vi si vede davanti
a tutte le ore del giorno una schiera di ragazzine del popolo che,
ammirando le vetrine, si scordano dell'involto, del cavolo o delle
pagnotte che debbono portare a casa, per abbandonarsi a un'orgia di
desideri. E tutte le signorine piccole che passan di là, condotte per
mano dalla mamma o dalla governante, per una ventina di passi tirano
l'accompagnatrice, sporgendo il viso innanzi, e per un'altra ventina di
passi si fanno tirare, torcendo il capo indietro.

Passando di là una mattina, mi ricordai d'un giorno che, avendo detto
in casa mia, in presenza della figlioletta d'una nostra vicina: — _A
momenti verrà il Bonini_ (un mio amico ufficiale), — quella, illusa
dall'omonimia, diede uno scatto sulla seggiola, come se avessi detto:
— A momenti verrà l'Imperatore di tutte le Russie; — e quel ricordo mi
destò curiosità di conoscer l'uomo e le sue opere.

Pensai di presentarmi senz'altro. — Ho lavorato anch'io per i bambini,
— dissi tra me; — non sdegnerà di ricevermi come un collega. — Ed
entrai in quella bottega stretta, lunghissima, male rischiarata;
ma che alla fantasia di bambine innumerevoli appare più vasta e più
sfolgorante del palazzo imperiale degl'Incas.

Il Bonini stava in fondo alla sua reggia piena di tesori visibili
e invisibili, leggendo la _Gazzetta del popolo_, come uno oscuro
cittadino qualsiasi. È un ometto sui cinquanta, di viso intelligente e
benevolo, dotato di quella dolcezza particolare di modi che è propria
di tutti coloro che hanno una clientela fanciullesca signorile, siano
essi bottegai, sarti, medici o ripetitori. Temetti non di meno, per un
momento, che il suo aspetto mi avesse ingannato perchè, appena inteso
lo scopo della mia visita, afferrò per i piedi una delle sue bambole, e
a modo dell'Eviradnus di Victor Hugo col cadavere del piccolo Ladislao,
si mise a picchiar botte da orbo sul banco, come se fosse irritato
dalla mia presenza. Mi ricredetti subito, peraltro. Era quella una
delle sue _bambole infrangibili_, benedette dai padri di famiglia, ed
egli ne faceva quel mal governo per provarmi l'invulnerabilità delle
sue creature.

Poi, alzando le sottanine alla bambola, mi fece osservare come fossero
ben riprodotte le forme anche delle gambe; ciò che una volta non si
faceva. Erano due belle gambe, infatti, ma di donna, non di bimba; anzi
così bene imitate che l'atto del Bonini sarebbe potuto parer disonesto.

E prese a discorrere familiarmente. Riconobbi subito l'artista al
modo con cui mi raccontò, colorandosi in viso, come egli e sua moglie
avessero fatto un viaggio a Parigi per visitare i grandi magazzini
di bambole, e _rubare_ — è la sua espressione — _con gli occhi_.
Scopersi poi sotto l'artista il filosofo quando, dicendomi che le
mamme preferiscono le bambole “vestite da bimba„ a quelle “vestite da
signora„ perchè queste “svegliano nelle ragazze delle idee ambiziose„
fece un fine sorriso, che voleva dire evidentemente: — Ha capito?
Lei credeva forse che fosse il lusso delle mamme quello che sveglia
l'ambizione nelle figliuole.... Si disinganni; è il lusso delle
bambole. —

Conosciuto l'uomo, decisi di fare un interrogatorio minuto, tanto
più che, piovendo, non si era disturbati dagli avventori. La grande
affluenza, del resto, è dopo mezzogiorno, e sopra tutto in dicembre,
sotto Natale. Allora la bottega è affollata dalla mattina alla sera,
il numero raddoppiato dei commessi basta appena al servizio, son
tutti costretti qualche giorno a far di meno della colazione, e dopo
chiusa la bottega, il lavoro dura ancora nel laboratorio, dove molte
ragazze passano le notti intere ad allestir corredi straordinari; e si
succedono così le giornate fra un tal rimescolìo e una tal confusione
di bambole e di bimbe, di vocine naturali e di vocine meccaniche, di
braccini di carne e di braccini di legno, gesticolanti ad un tempo,
e d'occhietti viventi e d'occhietti di vetro luccicanti da tutte le
parti, che in qualche momento, dice il Bonini, stanco di corpo e di
mente e come preso da un'allucinazione, egli è sul punto di confondere
la merce con la clientela, di rivolger la parola a una puppattola e di
dar la corda a una signorina.

                                   *

— In tanti anni — gli dissi — avrà potuto fare sulla sua clientela
molte osservazioni preziose.

Sì, ne fece molte e curiose. La prima è che, rispetto alle bambole, le
clienti si possono dividere in tre famiglie: quelle che le desiderano e
le amano moderatamente, le appassionate ardenti, e quelle indifferenti
o quasi, o per precocità d'altri gusti o per apatìa di natura.
Quest'ultime, però, sono assai rare.

E corrugando le ciglia, dopo un breve silenzio, come per interporre
uno spazio, che impedisse il sospetto d'un accordo interessato tra il
fabbricante e il filosofo, soggiunse: — Difficilmente queste riescono
buone madri.

— Anch'io lo credo, — risposi, e stavo per citare sbadatamente il
proverbio “chi non ama le bestie non ama i cristiani„, ma tacqui perchè
mi parve un'offesa all'arte.

— Lei dovrebbe vedere, — rispose il Bonini, — è un divertimento. — E
parlò delle “appassionate„. Ce n'è di quelle che entrano nella bottega
con la febbre, che prorompono in grida di ammirazione, in esclamazioni
di gioia, in risa, in trilli di piacere, da parer che ammattiscano.
Alcune, non di meno, si mostran poi ragionevoli, si contentano o,
meglio, si rassegnano a _quella_ che conviene alla borsa del padre o
della madre. Ma altre no, e fanno scene di tragedia, singhiozzando e
pestando i piedi, fino a buttarsi sul pavimento e a rivoltolarvisi,
menando in aria le _piote_, come frenetiche. — Ma anche quelle che si
rassegnano, se vedesse che sguardi lanciano alle bambole a cui debbono
rinunziare; sguardi d'amore, sospiri, se sentisse, addii, col capo
rivolto indietro, con certe espressioni di tenerezza e di struggimento,
che nessuna attrice drammatica sarebbe capace di rifarle. Mi fa pena a
vederle, qualche volta, glie l'assicuro.

Fra le “appassionate„ poi, v'è una “categoria„ particolare,
interessantissima. Son le dignitose che entrano col manifesto proposito
di dissimulare la propria passione. E a parole si mostran tranquille,
non spiccicando che monosillabi, non esprimendo con la voce nè
curiosità nè meraviglia: a chi non le osservi bene posson parere quasi
indifferenti. Ma tremano e fremono, si fanno pallide e rosse, schizzano
scintille dagli occhi, e al momento di metter la mano sulla bambola
desiderata e ottenuta, ma non sperata, quasi tutte si tradiscono.
Bisogna veder le mosse, lo slancio con cui alcune se ne impossessano e
se le serrano al petto: tigrette affamate che abbrancano la preda. — E
non vogliono a nessun patto che io mandi loro la bambola a casa: se la
vogliono portare da sè, anche se è pesante, a braccia incrociate, viso
contro viso, girando gli occhi diffidenti, scansando ogni bimba che
incontrano per la strada, “per paura di un colpo di mano„.

E le astute! Anche queste fanno delle scenette impagabili. Ce n'è delle
piccolissime che hanno già la finezza di fingere di non capire che
una certa bambola sia più cara d'un'altra, e cercan di dare alla loro
scelta una ragione diversa dalla vera, che paia anche una prova della
loro gentilezza di cuore: non vogliono quella tale perchè è più grande
e meglio abbigliata; ma perchè _ha l'aria più buona_. Altre credono
di pigliare all'amo i parenti con certi sotterfugi di un'evidenza
comicissima: vogliono una bambola da trenta lire, per esempio, invece
di una da cinque; ma quella si contentano di prenderla in camicia,
mentre questa è vestita; perchè c'è compenso, secondo loro. E bisogna
sentire qualche altra, quando la mamma, mentre contratta una bambola
già quasi accettata, cerca, movendosi, di non lasciargliene vedere
una più cara, che potrebbe far rifiutare la prima, bisogna sentire con
che tuono le dicono: — Eh, mamma, non serve che tu ti metta in mezzo:
l'ho già vista. Tu cerchi di pararla perchè costa di più. Ah, vedi che
diventi rossa! Ebbene, è quella lì appunto che io voglio. —

Fra le astute ci sono le ostinate impassibili, che sono un “genere„
tremendo; ed hanno tutte un procedimento uguale, come se l'avessero
imparato tutte da una sola. Si vede alle volte una intera famiglia,
disposta in cerchio intorno a una bimba alta un palmo, scalmanarsi
un'ora inutilmente, con le buone e con le brusche, per indurla a
cedere; e quella rimane là in mezzo immobile, incocciata a volere la
bambola preferita, dura e muta come un paracarro. Conosce i suoi polli,
ha fatto i suoi conti; sa per prova che, a tener duro, la spunterà,
senza darsi l'incomodo di piangere e di strepitare: le basta tacere
e non muoversi, respingendo a colpi di gomito ben assestati le mani
carezzevoli che tentano di posarsele sulle spalle per rabbonirla.
Non c'è che pigliarla in braccio e portarla via come un pacco. Ma le
bimbe che fanno così hanno dei parenti incapaci di quegli atti eroici.
Falliti i negoziati e sciupate le minacce, il padre o la madre finisce
con rassegnarsi e munger la borsa, con la magra consolazione — qualche
volta espressa a voce alta — di pensar che la sua figliuola _è un
carattere_.

Domandai al Bonini che parte egli rappresentasse in questi piccoli
drammi. — Una parte odiosa, — rispose sorridendo, — quasi sempre. — E
mi raccontò un fatterello divertente. Anni fa, gli venne in bottega,
con la mamma e una zia, una bella bimba, una ricciolina bruna, di
quelle “tragiche„; la quale fece tali furie perchè non le volevan
comprare una bambola delle più care, si mise a strillare e a dimenarsi
con tale frenesia, che la madre, sgomenta, affannata dal timore che
le pigliassero le convulsioni, si diede a gridare quasi piangendo: —
Dio mio! Che cosa fare! M'aiuti lei! Trovi qualche modo! — E il Bonini
trovò: agguantò la bambola desiderata, corse in fondo alla bottega,
fece mostra di ravvolgerla in un panno, dove mise invece quella scelta
dalla signora, ingrossando il volume con una dozzina di giornali, legò
l'involto traditore in fretta e in furia, e portatolo alla bimba, le
disse: — Prenda, se la porti a casa, aggiusteremo i conti un'altra
volta. — Ah, buon Dio! — esclamò; — seppi poi quello che era accaduto
a casa, all'apertura dell'involto: una tempesta, un inferno tale, caro
signore, che ebbi rimorso dell'opera mia.

— E poi? — domandai.

— E poi.... La bimba è tornata qui altre volte.... Da anni non ci
vien più, è una signorina da marito, la vedo qualche volta passar per
via Roma: ebbene, lo vuol credere? Lo capisco dalle occhiate che mi
tira.... Non mi ha ancor perdonato!

Gli domandai fino a che età venissero le ragazze a comperar bambole.
Sorrise, e rispose sottovoce: — Alcune vengono fino a un'età....
incredibile. — E si mostrò osservatore fine ed artista parlando
del come certe ragazze grandi si presentano, nelle ore che non c'è
nessuno, un po' impacciate, con due rose vive sulle guance, sorridendo
e vergognandosi a un tempo: graziosissime, veramente. E qualche volta
egli s'avvede benissimo della commediola concertata che recitano
insieme, per salvare la dignità, la figliuola e la mamma; le quali
esaminano la merce discorrendo fra loro come se la compera fosse
destinata ad una sorella più piccola, di cui non esiste l'effigie.
Quante ne ha viste passare in ventidue anni! Quante ne riconosce
ancora, che hanno preso marito e son madri! Per alcune, tra l'ultima
bambola che comprarono per sè e la prima che vengono a comperare per la
loro bambina, non passano che cinque o sei anni. Vedendole comparire,
dopo qualche tempo, con una governante che ha un batuffolo in braccio,
gli par che vengano a restituire l'ultimo acquisto che hanno fatto
nella sua bottega. Qualcuna gli dice scherzando: — Quando le comperavo
per me, non tirava i prezzi a questo modo. — E spesso egli vede la
bambina far le medesime scenate che fece la madre, e quando questa le
dice: — Ma che modi son questi? Ma non hai vergogna a farti sentire?
Ma non vedi che tutti ti guardano, ecc. — si ricorda che eran proprio
quelle stesse parole che la nonna diceva a lei, pochi anni addietro,
e proprio sulle stesse pianelle del pavimento, e con lo stessissimo
frutto; e ha buona speranza di veder ancor ripetere la scena dalla
bambina presente con una bambina futura.

                                   *

Di un gran numero delle sue clienti serba i nomi in un registro
“a figlia e matrice„ dove sono segnate le riparazioni da fare
alle bambole: poichè egli non è meno rinomato raccomodatore che
fabbricatore, e fa l'agevolezza del pagamento cumulativo in fin d'anno,
come i medici. Diedi un'occhiata all'ultimo libro: in poco più d'un
anno quasi tremila riparazioni: è un bel rompere. Si trovano in quei
fogli i nomi d'un gran numero di famiglie note dell'aristocrazia,
dell'alta industria, dell'alta finanza e della politica, e le
registrazioni sono fatte in modo che, a legger quel libro altrove,
senza sapere a chi appartiene, si fremerebbe d'orrore e di pietà, e
si riderebbe anche cordialmente. Figuratevi! — Signorina A. B. _le
gambe rotte_ — Contessa S. D. R. _perduti gli occhi_ — Marchesa D. O.
T. — _una parrucca_ — Signora E. Z. — _cambiarle le calze_; e avanti
così. A una baronessa va _rinnovato il meccanismo_, un'altra signora
ha _perduto la voce_, un'altra _ha perduto la testa_. Ma in realtà non
c'è da ridere, perchè molte delle clienti vengono a portar la bambola
con gli occhi ancora lagrimosi, addolorate come d'una disgrazia vera,
e, lasciandola, fanno raccomandazioni su raccomandazioni, con voce
commossa, come la madre al chirurgo che deve operare il figliuolo.
E la sala delle operazioni è là presso, tutta ingombra di ferri, di
pinze, di fili, di piccoli congegni per tener unite le membra avulse,
di boccette di colori per ritingere i visi slavati, di vasetti di
pasta per curare le scoriazioni e le piaghe; e vi si vedono sui
tavoli, sulle seggiole, sul davanzale delle finestre, buttate in
tutti gli atteggiamenti, grandi bambole nude, con le capigliature
tragicamente arrovesciate, con “gli occhi mobili„ stralunati, con
le “bocche parlanti„ spalancate, le une cieche, le altre zoppe, le
altre mutilate, teste separate dal busto, tronchi con le braccia tese,
braccia e gambe disperse; uno spettacolo orrendo, che mi ricordò un
cert'antro fantastico di _Jack lo squartatore_, visto in un baraccone
di Piazza Vittorio Emanuele, nel carnevale passato. Ma v'è in un angolo
un cassone che dà anche meglio l'idea di tutti gli strazi che possono
fare di un simulacro fragile di corpo umano quegli artiglietti così
industriosi e pazienti nel lavoro di distruzione che son le manine
fanciullesche eccitate dalla curiosità istintiva dell'anatomia del
giocattolo: un cassone che vi richiamerebbe alla mente il carnaio
della casa di Sédan, descritto dallo Zola, dov'era ammucchiato tutto
quello che cadeva dalle tavole d'operazione del dottore Bouroche. È
una miscela miseranda di pezzi di cranio, di mezze facce, di occhi
divelti, di frammenti d'arti superiori e inferiori, di manine e di
piedini recisi, e di nasetti staccati e di chiome bruciate, che fanno
pensare a mille accidenti domestici e pianti e dolori e scenate e
diverbi coniugali conseguenti.... — Sei tu che l'hai avvezzata male. —
Ma se ha il tuo carattere per l'appunto! — Non è il mio carattere, è la
tua educazione. — Ma come?... — Ma certo!... — Ah, che esistenza, Dio
mio!...

                                   *

Merce ve n'è da contentare il bel sesso di tutte le scuole elementari
della penisola: cassetti sopra cassetti, casse dietro casse, strati
sopra strati, collegi, folle, generazioni di bambole; e poichè le
straniere, per scemar le spese della dogana, che prende due lire il
chilogramma per le bambole intere, si fanno venire divise in due, e
anche le indigene, per occupar meno spazio, si dividono, così ci sono
casse piene di corpi senza testa, e casse piene di teste scompagnate,
in modo che le clienti possono metter la testa che vogliono sul corpo
che loro piace: operazione che scongiurerebbe tanti guai se si potesse
fare nei matrimoni! E poichè pagano di meno le teste senz'occhi, ci
sono casse piene di teste con le occhiaie vuote e casse piene d'occhi
di tutti i colori, che, al levar del coperchio, vi fissano in viso
cento sguardi interrogatori, come stupiti della luce improvvisa. E
poi ancora scatole sopra scatole piene di piccole capigliature bionde,
brune, castagne, arricciolate, increspate, ondulate, incipriate, che
danno l'immagine di tanti cofanetti di don Giovanni, contenenti le
ciocche delle cento belle sedotte. Ma quelle cassette di teste, con
quei cartellini scritti a grossi caratteri, quanto fanno pensare di
più! Ce n'è tanta varietà quanta ne può offrire una Camera di deputati:
_Teste di legno — Teste di ferro — Teste di cera — Teste infrangibili
— Teste piccole — Teste grandi — Teste fini_.... — E v'è accanto a
questo un altro grande compartimento, quello delle marionette, che sono
pure una “specialità„ del Bonini; altri scatoloni innumerevoli, con
certi strani accoppiamenti di nomi sulle etichette, come _vecchie e
streghe — monache e diavoli — fantasmi e garibaldini_, — e fra le più
appariscenti, tre scatole che si toccano, su cui è scritto: — _dottori
— assassini — sindaci._ — E poi bambole da capo, il compartimento
dei corredi, dove sono maraviglie di piccolissime calze di tutte le
tinte, con legaccioli che paiono anelli da dito, di camicine trinate,
di ombrellini, di manicotti in cui non entra il mignolo, di piccoli
corredi compiuti, che costano lo stipendio d'un anno di molti maestri
elementari del regno d'Italia; e poi il magazzino delle stoviglie
da tavola e da lavamani, che un tempo venivan tutte di fuori e ora
si fabbricano con molto gusto e a mite prezzo a Laveno; e in fine
la sezione dei mobili, dove ai prodotti di fabbrica sono frammiste
tavole e seggiole minuscole, fatte pazientemente a mano da lavoratori
solitari, da giovani artisti senza impiego, e anche da vecchi servitori
dello Stato pensionati e cavalieri, che, serbando l'incognito, si
guadagnano con quei gingilli il tabacco da naso.

                                   *

Il Bonini mi mostrò le bambole più belle, chiomate e vestite, chiuse
in una scatola, e le scoperse come fa con le piccole clienti, levando
il coperchio con un gesto rapido e presentando la scatola ritta, in
modo che la bambola apparisca tutt'a un tratto, come sur un uscio
spalancato, in tutta la sua virtù seduttrice. E si capisce come, così
presentate, facciano colpo. Alcune appariscono con un braccio teso,
come per porgere la mano alla compratrice; altre con un piede alzato,
come per slanciarsi verso di lei; questa con la testina inclinata
da una parte, come per vezzo; quella con gli “occhi mobili„ voltati
in su come se dicesse: — Sia ringraziato il cielo! Son libera! —
E altre ancora in atteggiamenti drammatici, tutte con quel visetto
fatto a pesca, con quella bocca a botton di rosa, con quegli occhi
grandi e freddi di damine senza cuore e di _cocottes_ senza pensieri.
E vedendole così passare pensavo al loro diverso destino, ai mille
scopi diversi con cui sarebbero state comprate. — Per questa, forse,
la compratrice è già per la strada, gongolante, e sarà qui a momenti;
per quella, o sta per nascere o non è ancor concepita; e quest'altra
apparterrà a una bambina che, per ottenerla, sta stillandosi il
cervello sull'aritmetica e sulla geografia. E quante serviranno a
strappare il consenso all'estrazione d'un dente o alla trafittura degli
orecchi per le piccole búccole! L'una dormirà la notte di Natale sotto
un cuscino da letto, l'altra la sua prima notte libera sulla strada
ferrata, e parecchie saranno regalate alla figliuola per ripagare d'un
favore il babbo, o serviranno a distrarre la bimba mentre il donatore
parlerà nell'orecchio alla mamma. Ed altre son destinate a rallegrar
la convalescenza di piccole inferme, e forse più d'una ad esser pôrta,
soffocando i singhiozzi, da una madre desolata, ultimo conforto a
una malattia senza speranza, e a cadere un giorno dalla piccola mano
scarnita, e a spezzarsi sul pavimento nel punto che la sua mammina
adottiva chiuderà gli occhi per sempre. E quante carezze amorose,
quante parole gentili, quanti teneri baci avranno questi corpicini
insensibili, quanti piccoli cuori palpiteranno contro questi brevi
petti pieni di tritura di sughero, su quante innocenti e soavi nudità
premeranno queste fantoccie i loro labbruzzi freddi di porcellana,
strette fra due braccini candidi e scaldate da un alito odoroso,
dentro un lettuccio visitato da sogni azzurri! — Eh, sì; ma molte
si buscheranno anche delle pacche secche, poichè è sempre in vigore,
m'immagino, quel bell'uso materno, così sapientemente educativo, di
consolar la bimba che cade picchiando la bambola ch'essa ha fatto
cadere con sè; e poi perchè.... _où il y a des femmes il y a des
claques_, come dice il proverbio dei nostri amici.

                                   *

Vidi infine le rarità: prima fra queste una piccola montanara di
Varallo, dove nacque il “re delle bambole„, vestita di tutto punto come
le sue compaesane vive, con quei ricami variopinti, che paiono mazzetti
di fiori, con quei calzoncini di panno nero, con quelle treccie solide,
con quegli ori antichi: una bella maschiotta bionda, che costò al
Bonini e a sua moglie mesi di lavoro, e fece furore all'Esposizione
di Palermo; per il che è conservata in bottega come una gloria di
famiglia. — Questa non si vende, — mi disse l'autore de' suoi giorni.
Infatti, aveva un'aria onesta. Ma le altre “rarità„ che rappresentano
contadine sarde, romane e napolitane, si vendono; ed è curioso che
sono quasi tutti viaggiatori stranieri quelli che le comprano, non
come giocattoli, ma come esemplari di vestiari italiani, per non
comprare un quadro del Michetti, del Quadrone o del Corelli; facendo
così una economia non disprezzabile. Domandai al Bonini se avesse delle
bambole col fonografo dentro. Mi rispose che n'aveva avute; ma che non
ne possedeva più. — Il modello che avevo fatto venire — soggiunse —
cantava una strofetta francese e poi faceva una risata.... Ma sa, di
quelle risate sguaiate, da canzonettiste parigine, che in una famiglia
per bene fanno un brutto sentire.... — Bambole corrotte, — osservai; —
ha fatto bene a farle fuori, perchè.... basta alle volte una sola anche
in un grande magazzino.... — Ed ero sul punto d'aggiungere: —.... per
guastare tutte le altre, — ma rinvenni a tempo dalla mia distrazione e
fermai al volo lo sproposito.

                                   *

Ma ora viene il meglio, un vero _finale_ da teatro. Stavo ancora
amoreggiando con la bella varallese, quando mi vedo buttar sul banco
una grossa bambola che agita le braccia e le gambe, gnaulando, come un
bimbo in culla, con una tale apparenza di vita, che mi desta quasi un
senso di ripugnanza. Mentre sto in ammirazione di quello sgambettìo,
sentendomi toccare una polpa, guardo giù, e vedo un'altra puppattolona
con la veste lunga, che mi fa intorno un giro di valzer. Non mi sono
ancora scansato, ed ecco un'altra bambola enorme, che alterna dei passi
sul pavimento, tenuta per le mani da un commesso, tale e quale come
un bimbo che impara a camminare. Un'altra bambola tanto fatta, nello
stesso tempo, mi viene incontro sul banco a passi risoluti, diritta,
gettando delle strida di galletto, come per domandarmi qualche cosa,
e, voltandomi a un leggero rumore, vedo dall'altra parte un'altra
fantocciona paffuta, in camicia, che succhia il poppaiolo a tutta
forza, come divorata dalla fame. Non so dire lo strano senso di stupore
e quasi d'inquietudine che provai in mezzo a quell'inaspettata eruzione
di vita artificiale, accompagnata da un ronzìo sordo di congegni
nascosti, somigliante ai borborigmi dei bimbi malati; tanto che mi
parve ad un tempo di trovarmi al teatro Regio a una scena del ballo
_Puppenfee_ e in una sala della Maternità in un momento di scompiglio.
E non badai a pregare il Bonini di non dar la corda ad altri automi, e
lasciai che dèsse un secondo giro anche ai primi, così che finii con
trovarmi in mezzo a un girìo e a uno sbracciamento di corpiciattoli
e a un concerto di miagolii, di gemiti e di strilli, che mi facevano
voltare in fretta di qua e di là, quasi inconsciamente, come se
m'avessero chiamato per nome da cento parti. Ma all'improvviso mi prese
un dubbio, che mi fece subito scrutare i miei sentimenti e interrogar
la coscienza, quasi diffidando, con curiosità viva ed attenta.... E
dissi tra me: — Come?... Sarebbe vero?... dopo quasi un mezzo secolo?
— Ed era proprio vero. — _Oh rossor!_ — come dice l'Alfieri — O vecchio
rimbambito! Insomma.... mi divertivo.

                                   *

E scappai fuori per non cedere alla tentazione di comprare. Ma per
un pezzo, per la strada, non potei staccare il pensiero da quanto
avevo veduto, perchè la vista dei passanti, invece di distrarmi, mi
riconduceva la mente a quello spettacolo. Ed era ben naturale, tante
son le rassomiglianze che corrono fra questo bel mondo e la bottega del
signor Bonini! Persone senza il capo sulle spalle, occhi fissi che non
vedono, bocche aperte che non mangiano, e crani vuoti e facce pitturate
e parrucche, se ne vedono a ogni passo. E i bei visetti a prezzo fisso,
e i personaggi di gomma elastica, e gli uomini che hanno nel ventre
il principio motore d'ogni passo e d'ogni atteggiamento, e le donnine
eleganti che non hanno in corpo che tritura di sughero, non si contano.
E se son rare le creature femminine _infrangibili_, quanti non sono
gli uomini pubblici che s'agitano e gridano per un'idea, soltanto
fin che dura la corda che ha dato loro il padrone, e quanti i poveri
disgraziati che delle manine di bimba carezzano e spezzano per un
capriccio, e quante le belle signore che ballano il valzer allegramente
mentre il bambino abbandonato succhia del latte di vacca freddo da una
mammella di vetro!

E v'è anche questa rassomiglianza, che come delle accomodature delle
bambole malmenate dalle bambine non sono queste che fanno le spese,
così avviene quasi sempre nel mondo degli uomini, che rompono gli uni e
pagano gli altri.



UN PICCOLO TEATRO CELEBRE.


Vidi una domenica, nella via Principe Amedeo, verso le tre dopo
mezzogiorno, un concorso straordinario al teatro dei fratelli Lupi,
dove si rappresentava _Le sette meraviglie del mondo_. La ressa era
tale che s'eran dovute mettere due guardie municipali ai due lati della
porta per impedire che seguissero disgrazie. La gente formava sulla
piccola scalinata esteriore un monte di teste, a cui sovrastavano i
visi ansiosi dei ragazzini tenuti in collo; alcuni dei quali, piangendo
per il timore di non poter entrare, tendevano le braccia verso lo
sportello del bullettinaio con un atto d'invocazione supplichevole,
che metteva pietà e faceva ridere. La strada era per un buon tratto
affollata, d'una folla diversa dalle solite: eran famiglie numerose
strette in gruppo, molte signore, moltissimi ragazzi, una falange di
governanti, di balie, di servitori, soldati di fanteria e bersaglieri,
gente di campagna, donne del popolo. Alcune di queste, vicino a
me, tenevano in mano il programma dello spettacolo, e lo leggevano
forte, compitando, masticando quelle misteriose parole: _Il mausoleo
d'Artemisia, gli orti pensili di Babilonia_, con un viso di divote
che sentissero nominare un miracoloso santuario sconosciuto. Intesi
un operaio, che aveva un po' d'accollo, dire in accento di trionfo
ai vicini, mostrando un suo ragazzetto con la medaglia delle scuole
municipali: — Questo non paga. I premiati hanno diritto. Ah, quei
Lupi, che uomini! — Da ogni parte, girando fra la folla, sentivo
commentare il programma, predir maraviglie della rappresentazione e
decantar la “compagnia„. C'erano ragazzi che saltavano dalla gioia,
che strepitavano dall'impazienza, che si cacciavano fra le gambe
alla gente come cani, e si facevan largo a gomitate e a capate; e
n'arrivavano altri continuamente, precedendo di corsa le loro famiglie,
ansanti e col viso rosso; e al veder la porta affollata qualcuno si
batteva il pugno sulla fronte in atto di disperazione. A un certo
punto arrivarono i musicanti che, dopo aver tentato invano di aprirsi
il passo, ritornando indietro per entrar dalla piazza Carlina, si
soffermarono intorno a un signore alto, in giacchetta e cappello alla
calabrese, fermo a una cantonata. In quel punto un ragazzo accanto
a me, accennando con la mano quel signore, esclamò con accento
appassionato d'ammirazione e di riverenza: — È lui!... Luigi Lupi! —
Fu quell'esclamazione che mi diede l'ultima spinta a scriver queste
pagine.

                                   *

Dei Lupi era già marionettista il nonno, nato a Ferrara, che cominciò
in qualità di garzone o, come si dice in linguaggio teatrale, di
“personaggio„ d'un marionettista rinomato, il quale girava per le
città del Piemonte e veniva ogni anno a “far la stagione di carnevale„
a Torino. Vennero per molti anni al _Teatro Paesana_, nel palazzo dei
Conti di Paesana, in via della Consolata; poi il Lupi mise su teatro
da sè, e seguitando a girare come il suo maestro, continuò a venire a
Torino l'inverno, non più al _Paesana_, al _San Martiniano_, dove gli
succedette il figliuolo Enrico. Era un piccolo teatro senza facciata,
posto al crocicchio di due strade uggiose della vecchia Torino, e così
si chiamava dalla vicina chiesetta di San Martiniano, che fu abbattuta
quando s'aprì la nuova via Pietro Micca. Ricordo che vent'anni fa,
abitando là accanto, sentivo ogni sera tardi la musica del ballo e
qualche volta scoppi d'applausi e fucilate; ma senza badarci, perchè
non ci attirano le marionette se non quando ci danno una immagine del
mondo che non si conosce ancora o quando ci rappresentano la caricatura
della vita di cui s'è fatto esperienza. Quel nome del compagno di
martirio di San Processo fece per trent'anni battere il cuore di tutti
i ragazzi torinesi d'ogni condizione: non credo che ci sia un mio
concittadino della mia generazione a cui esso non desti un ricordo
confuso di vivi desideri e di vivi piaceri, e che, passando davanti
a quella casa e dando uno sguardo a quella porta, sormontata ora da
un'insegna di tappezziere, non ci veda riflessa come in uno specchio
la sua immagine di fanciullo. In quel teatrino, che vide più volte nei
suoi palchetti Ernesto Rossi, Virginia Marini e altri artisti celebri,
dove recitò un prologo col capo nelle “nuvole„ Leopoldo Marenco, e di
cui furono frequentatori, nella fanciullezza, la principessa Margherita
e il duca di Genova, vennero su i due figliuoli di Enrico Lupi, ora
proprietari e direttori; i quali, prevedendo che quella casa sarebbe
caduta prima o poi sotto il piccone del conte di Sambuy, ne sloggiarono
nel 1884, e, comperato il _D'Angennes_, un tempo primo teatro della
commedia dopo il _Carignano_, andarono a installare il Gianduja e
Giacometta dove avevano recitato Gustavo Modena e Adelaide Ristori.
Ebbero per un pezzo un rivale formidabile nel _Teatro Gianduja_,
fondato e diretto da un marionettista argutissimo, Giambattista Sales,
che fu il primo a metter sulla scena la maschera di quel nome, e con
questo sostennero una lotta accanita, tirando a superarlo nella varietà
e nella ricchezza degli spettacoli; ma con la morte del Sales il
_Gianduja_ decadde e, dopo aver tentato inutilmente di rialzarsi con
la rappresentazione d'opere liriche, nel 1865 scomparve. D'allora in
poi, ossia da circa trent'anni, i Lupi non hanno più rivali a Torino,
e poichè nessuna delle altre buone “compagnie„ italiane, essendo tutte
girovaghe, può disporre di un copioso e vario materiale di scena com'è
quello che essi possedono, si può dire che non hanno più emuli neppure
in Italia.

                                   *

Il primo e più forte impulso al perfezionamento del piccolo teatro lo
diede il padre Enrico, che fu uomo singolare per vivacità d'ingegno
e vigore di volontà, non fornito di coltura scolastica, ma ricco di
cognizioni d'ogni ordine acquistate leggendo avidamente ogni specie
di libri, studiando gli uomini e la vita in tutte le classi sociali,
intervenendo, anche vecchio, a conferenze, a riunioni pubbliche, a
lezioni universitarie, e bazzicando pubblicisti, artisti, professori,
con lo spirito sempre inteso all'osservazione e pronto a trar partito
d'ogni cosa. I suoi due figliuoli ereditarono tutte le sue facoltà.
Hanno nome Luigi tutt'e due e si firmano Luigi I e Luigi II, come
due monarchi, padre e figliuolo, regnanti a un tempo. Sono, come i
fratelli Goncourt, due lavoratori intellettuali associati, fra cui
esiste un accordo perfetto. Ciascuno, peraltro, ha attribuzioni sue
proprie. Il maggiore cerca i soggetti, compone, traduce, riduce,
dirige l'andamento del teatro; l'altro provvede alla messa in scena,
alla fattura dei personaggi, ai vestiari, a tutti i particolari della
rappresentazione. Il primo, che ha passato la cinquantina, è il più
originale della coppia. Uno dei caratteri più notevoli della sua
originalità è di essere da trentaquattro anni impiegato nell'ufficio
di polizia del municipio di Torino. È un uomo d'alta statura, di testa
grossa e di membra robuste, che, visto una volta, non si dimentica più:
la fronte ostinata, il naso audace, la bocca comica, gli occhi vivi e
risoluti d'un uomo immaginoso e operoso, il collo e la voce ingrossati
dall'esercizio della recitazione a voce forzata, gli atteggiamenti
e i modi d'un artista. E d'artista ha pure il linguaggio scolpito
e colorito, e correttamente italiano, come il suo modo di scrivere;
ma attraente più che altro per la passione che lo scalda quand'egli
discorre delle cose sue. A sentirlo parlare delle vicende corse dalla
sua compagnia, ch'egli portò a Napoli, a Montevideo, a Buenos Aires,
delle rappresentazioni che andava a dare con suo padre al castello
di Moncalieri per il piccolo principe Oddone e per la principessa
Maria Pia, dei viaggi ch'egli fece a Londra, a Parigi, a Chicago, a
Vienna, a Berlino, in Danimarca per studiare i progressi della sua
arte e osservare le grandi Esposizioni che voleva riprodurre sul suo
teatro; ma sopra tutto a udirlo giudicare, dal lato dell'opportunità
e dell'adattamento alle sue scene, le grandi opere drammatiche e
liriche e gli avvenimenti politici e guerreschi d'ogni paese, ai
quali egli tien dietro con attenzione assidua spiando ai quattro canti
dell'orizzonte ogni fatto o personaggio o questione “teatrabile„ pare
d'aver dinanzi un grande impresario autore attore e direttore d'una
grande compagnia di prosa, di canto e di ballo, che pensi e lavori
per il gran pubblico, e si riman poi maravigliati, girando lo sguardo
intorno, di veder appesi alle pareti degli artisti di legno. E non
si può disconoscere che nel cogliere i punti culminanti d'un periodo
storico o della vita d'un uomo avventuroso e famoso, nell'intrecciare
a qualunque soggetto i piccoli casi della sua marionetta protagonista,
nella scelta delle situazioni drammatiche e dei quadri finali, ed anche
nella condotta dei dialoghi appassionati ed arguti, e in special modo
nelle “riviste„ egli dia prova di facoltà teatrali singolarissime; fra
le quali primeggia una immaginazione ardente, temeraria, diabolica, ma
sempre corretta, — se questo participio si può congiungere a quegli
aggettivi, — da un buon senso raro, che anche nelle sue corse più
stravaganti la tien legata per un filo sottilissimo a un sano intento
morale e a un severo rispetto della decenza.

                                   *

Domanderete di che si componga il suo repertorio.

È una domanda che sgomenta. Per rispondervi dovrei scrivere un volume.
È un repertorio che, fra drammi, commedie, farse, riviste, balli e
fantasie, abbraccia in tempo e in spazio l'universo; va dal diluvio
universale all'assedio di Makallè, comprende la mitologia, la storia
patria e la cronaca cittadina, si stende dalla China alla California,
dalla Cafreria alla Groenlandia, dalle regioni dell'etere agli
abissi dell'oceano, dai cerchi del paradiso alle bolge dell'inferno.
C'entrano le vecchie commedie dell'arte, drammi raffazzonati di tutte
le letterature, i balli del Pratesi e del Manzotti, le opere del
Meyerbeer e del Verdi, tutti i fasti militari della nazione dalla
battaglia di Goito alla occupazione di Roma, tutti i congressi,
i terremoti, le epidemie, le inondazioni, le incoronazioni, le
esposizioni, le grandi scoperte che si succedettero sulla faccia dei
due continenti negli ultimi cinquant'anni. Tutti i sovrani, tutti i
grandi statisti e generali ed eroi, tutti gli italiani celebri in
qualunque campo e per qualsiasi fatto, dal 1821 ai nostri giorni,
passarono su quel palcoscenico, non di nome soltanto, ma nella loro
effigie, scolpiti apposta, con rassomiglianza mirabile, vestiti
come vestivano, riprodotti perfino, quanto era possibile, nei gesti
e nella voce, presentati negli atti più importanti della loro vita
pubblica e nei particolari più noti della loro vita privata. Il teatro
dei Lupi rispecchiò tutta quanta la nostra nuova vita nazionale.
Gianduia arrischiò il carcere quando la parola non era libera, sfidò
le polizie, preconizzò la rivoluzione, congiurò, fu tribuno, soffiò
negli entusiasmi, glorificò i martiri, celebrò le vittorie, pianse
sulle sventure patrie, vendicò le vittime illustri dell'ingiustizia
dei governi e dei popoli. Con un tal repertorio, pensate al cumulo
dei copioni che debbono dormire nei suoi magazzini: s'avvicinano al
migliaio. E per rappresentare tutta questa roba immaginate quello che
deve aver visto quel palco di vestiari di tutte le fogge, d'armi di
tutte le forme, d'edifizi mobili di tutte le architetture, di onde
e di rocce, di piante e di ponti, di treni e di troni, di animali da
tiro, da corsa e da soma, domestici e selvatici, asiatici ed europei,
immaginari e reali, dall'asino e dal bue di Betlemme ai cammelli
della colonia Eritrea, dal cerbero della _Divina Commedia_ ai draghi
del Celeste Impero; figuratevi le sacca di polvere da schioppo e
di Bengala, di licopodio e di magnesio che vi debbono essere state
bruciate, e i miriagrammi di legno e di cartapesta che vi debbono esser
passati in sembianza umana.

                                   *

Le teste, appunto. Voi certo non immaginate (nè io l'immaginavo) che
le teste degli attori di legno possano dare ai fratelli Lupi assai più
pensieri che non ne diano ai capocomici le teste degli attori in carne
ed ossa. Ed è così, poichè essi vogliono una rassomiglianza perfetta
nelle teste dei personaggi illustri, morti o vivi che siano, e in
quelle di tutti gli altri una corrispondenza rigorosa della fisonomia
col carattere; e non è cosa facile agli artisti il soddisfare a una
tale esigenza attenendosi ad un tempo all'esagerazione dei lineamenti
voluta dall'ottica teatrale, senza spinger neppure questa esagerazione
oltre il limite d'una caricatura discreta. Vi furono in questo genere
due scultori genovesi, i fratelli Pittaluga, morti da circa trenta
anni, valenti tanto, che molte delle teste fatte da loro servono ancora
di modello e son riprodotte, con poche modificazioni, in centinaia di
esemplari. Ma altre moltissime debbono esser fatte d'immaginazione,
e non riuscendo alla prima, rifatte, e fino a tre o quattro volte
rimodellate in creta, prese nel gesso, gittate in cartapesta, colorite
a olio, con cura e fatica infinita di chi le ordina e di chi le forma.
E così negli scenari, dopo il vecchio Morgari, che fu insuperabile,
son rari i pittori che ottengano gli effetti speciali voluti da certe
rappresentazioni fantastiche d'un teatro di marionette. E per il
vestiario e per tutto ciò che vi si connette è il medesimo: è difficile
trovar lavoratori che abbiano l'abilità e il buon volere di far degli
stivali minuscoli perfetti in ogni loro parte, delle scarpettine
di signora lunghe quanto un dito, delle parrucche grandi come la
mano, brizzolate, architettate, disordinate con arte, e una quantità
innumerevole di piccoli oggetti, come parasoli, panierini, portafogli,
valigette, attorno a cui le dita più agili e più delicate si stancano e
s'impazientano. E ad ogni nuova produzione spettacolosa c'è un esercito
d'attori, d'attrici, di comparse grandi e piccole da vestire, calzare,
incappellare, armare e ingioiellare, secondo l'uso di vari tempi e
paesi, consultando album di costumi, studiando quadri, facendo ricerche
di figurini, utilizzando vestiari smessi; di modo che non bastano
all'opera la signora Lupi e le sue figliuole, e vi s'aggiungono modiste
e crestaine e stiratrici, e qualche volta per un solo spettacolo dura
il lavoro per un mese intero. Durante il quale è bellissimo a vedere il
laboratorio, dov'è uno sfoggio di manti regali, di strascichi di dame,
di sottanine di danzatrici, di divise di guerrieri, una profusione di
piccole cose strane, graziose e pompose, un barbaglio di colori e di
splendori, da impazzirci un collegio di bambine e uno sciame di gazze.

                                   *

Tutta la famiglia Lupi lavora al teatro: i due fratelli, la moglie e
i figliuoli del primo: quattro maschi e tre ragazze, di cui due fra
i diciannove e i ventidue anni. E bisogna vederli tutti là, tranne
i due più piccoli, appollaiati sul ponte, o appoggiatoio, come lo
chiamano, sovrastante al palcoscenico, durante la rappresentazione.
Ecco il soggetto d'un quadro originale per un pittore ardito. La
prima volta che, stando sul palco, vidi di profilo quelle otto teste
d'uomini e di donne, l'una dietro l'altra, sporgenti da quella specie
d'inginocchiatoio aereo, illuminate di sotto in su, ora parlanti ad
una ad una, ora tutte insieme, con ogni sorta di sforzi violenti delle
labbra e di strane intonazioni di voce, da quella di basso cavernoso
a quella di soprano in falsetto, mentre le sedici mani movevano con
un centinaio di fili una folla di personcine di sotto, mi parve di
vedere una famiglia di numi sorretti da una nuvola che dirigessero
le faccende e si pigliassero spasso d'una piccola umanità agitantesi
sopra il polo d'un asteroide. Ma riconobbi subito che il fare i
numi a quel modo non doveva essere una delizia. Stare delle ore in
quell'atteggiamento contratto, col calore di tutti quei lumi nel
viso, forzare e variare continuamente la voce, lavorando a un tempo
con le dieci dita e consultando con lo sguardo obliquo il copione
posto nel mezzo che fa l'ufficio di suggeritore, e mentre si parla
e s'opera in alto invigilare e dar ordini a chi lavora in basso e
ruzzolare e arrampicarsi ogni momento per un rompicollo di scaletta
da bastimento quasi verticale, è una fatica da ammazzare anche dei
numi. Non mi maravigliai, quando calò la tela, di vederli scendere
dall'Olimpo, in maniche di camicia e con le braccia nude, bagnati di
sudore e anelanti, come scendono gli acrobati dai trapezi. E allora
soltanto m'accorsi che le due signorine portavano un vestito maschile,
camicino e calzoni di traliccio grigio, che le facevano parere due
operai; ma due operai dai quali il più terribile capo fabbrica avrebbe
tollerato qualunque infrazione al regolamento, sostituendo dei sorrisi
alle multe. Ma il dietro scena d'un teatro di marionette, per chi
ci sale la prima volta, è pieno di altre sorprese piacevoli. Stando
accanto alle quinte mi veniva fatto di scansarmi con un leggiero
inchino, come si fa con le attrici vive, ogni volta che usciva di
scena una signora, e rimanevo poi stupito al vederla tutt'a un tratto
sollevarsi in aria, invece d'andare al suo camerino, e restarmi appesa
in faccia come un salcicciotto. E così avevo un'illusione amenissima
al veder tra le quinte del lato opposto una delle signorine Lupi
che dava gli ultimi ritocchi all'abbigliamento dei personaggi prima
che si presentassero al pubblico, accomodando a uno una spilla,
stirando a un altro il vestito, aggiustando a un terzo il cappello,
come si fa ai bambini filodrammatici, con atti lesti e carezzevoli,
a cui quelli rispondevano, appunto come i bambini, con gesti che
parevano d'impazienza, mossi dalla mano irrequieta che li reggeva
dall'alto. E mentre vari personaggi agivano alla ribalta, mi pareva
che ragionassero davvero degli affari propri, come fanno gli attori
fra due battute, quei due altri più piccoli che le altre due ragazze,
voltate dalla parte interna dell'appoggiatoio, facevano passeggiare
e gestire pacatamente in fondo al palco, per dar vita alla scena. E
quella confusione che si vedeva lungo i muri, in una mezza oscurità,
di personaggi della commedia che stava per finire e dello spettacolo
coreografico che stava per cominciare, di ballerine, di mime, di dame
scollate, di marionette in giubba e in uniforme, con la tuba e con
l'elmo, e di comparse di ogni età e d'ogni statura, mi dava quasi
l'illusione di trovarmi sul palcoscenico di un grande teatro quando
finisce l'opera e sta per cominciare il ballo. Ci era solo questa
differenza, che nella mia qualità di consigliere comunale, com'ero
allora, non potevo trovare là nessun argomento che mi servisse a
combattere in nome della moralità la dotazione del Teatro Regio.

                                   *

Ma per conoscere a pieno le fatiche dell'arte e la valentìa della
famiglia Lupi bisogna vederla all'opera in una giornata campale.
Lo spettacolo, in tal caso, è assai più grandioso e terribile
osservato dalle scene che visto dalla platea. Già è bellissimo
veder gli apprestamenti della battaglia: le masse d'armati raccolti
nell'oscurità, rotta dai lampi delle baionette e delle lance; i
cavalieri appostati dietro le quinte, come alla vedetta; i muli
carichi di munizioni che s'allungano in fila ai due lati del palco;
i comandanti con la spada sguainata che aspettano dalle due parti
il gran momento, coi grandi occhi sporgenti e fissi davanti a sè,
come spianti il doppio mistero dell'orizzonte e della morte. Quando
l'istante solenne è vicino, i direttori danno gli ultimi consigli,
lanciano gli ordini supremi. Le truppe son pronte? Pronte. I cannoni
sono in batteria? Sono. Le miccie sono accese? Sì. E allora avanti
e Dio ci guardi! Le avanguardie scambiano le prime fucilate, i primi
cavalieri scaramucciano, i primi feriti battono il capo di cartapesta
sul palco, e giacciono irrigiditi; ma alcuni per rialzarsi tra poco
più indemoniati di prima. Dietro le scene uno batte la grancassa per
imitare il tuono del cannone, un altro dà nella tromba, un terzo muove
la macchina che fa correre in lontananza un reggimento, un quarto
galoppa intorno al palco accendendo i razzi fissi alle quinte che
rendon lo strepito del fuoco di fila.

I ferri si scaldano: sul palco è un succedersi tumultuoso di mischie
feroci, un cozzar di teste e di petti, un grandinar di colpi, un
mulinìo di lame,

    un incalzar di cavalli accorrenti,

di muli, di cannoni e di mitragliatrici che precipitano dai ponti e
dalle rocce, con un fracasso d'inferno; e mentre su, sull'appoggiatoio,
i fratelli Lupi, coi figliuoli, agitano le braccia furiosamente
cacciando urli, minaccie, gemiti, grida di soccorso, frammiste a
comandi e ad avvertimenti concitati agli aiutanti di sotto; questi
e le ragazze, con una rapidità fulminea in cui ogni atto è preciso,
ogni passo misurato, ogni secondo contato, corrono e ricorrono fra le
quinte e le pareti, staccano le marionette, le porgono, le riprendono,
le riappendono, le riporgono, raccattando di volo armi, elmi, giberne,
bandiere, turbinando come fantasmi in una nuvola densa di fumo e in un
odore acre di zolfo. E quando credete che il pandemonio sia per finire,
non è che un artificio per crescer l'effetto: la battaglia riattacca
più ardente, raffittisce il foco, raddoppiano i lampi, s'addensa il
fumo, s'accelera il turbinìo; ai fragori del palcoscenico s'uniscono i
clamori della platea, con gli urli d'ira dei combattenti si confondono
le grida di entusiasmo dei ragazzi; è una furia febbrile e crescente
d'uomini che salgono e che scendono, di lumi che girano, di marionette
che volano, di fili di ferro che s'incrocian per aria, è un moto
vertiginoso di ombre, di bagliori, di teste, di braccia, di attrezzi,
una tempesta di schianti, di tonfi e di strida, una nebbia fitta, un
rovinìo, un casa del diavolo che, quando cala la tela e tutto si queta,
vi lascia sbalorditi, intronati come all'uscir da un manicomio dove
siano scoppiati insieme una ribellione e un incendio.

                                   *

Ma più d'ogni spettacolo è divertente l'esame del “personale„
artistico. La prima cosa che mi stupì, quando visitai per la prima
volta il palco scenico, fu la statura dei personaggi, che visti dalla
platea paiono poco più alti d'un palmo, e son più di mezzo metro,
come bimbi. E mi meravigliò l'esattezza minuziosa, perfin superflua,
dei vestimenti. Non crediate che sian fatti soltanto per ingannar
l'occhio da lontano, chè possono affrontar l'analisi della lente. Ecco,
per esempio, un povero diavolo di vagabondo: egli è vestito di panni
logori, pieni di sbrani, di rimendature, di toppe, di macchie d'unto,
spelati ai gomiti e coi bottoni che ciondolano, e ha la cravatta a
corda, la camicia di tela rozza e rugosa, le scarpe acciabattate e
crepate. Il signore elegante ha il solino di moda, i bottoncini d'oro
ai polsini e allo sparato, e la catenella dell'orologio che gli pende
dal taschino della sottoveste. C'è un vecchio medico intabaccato, con
un cappello cilindrico che mostra dieci anni di servizio, gli occhiali
sulle orecchie, e una palandrana d'un color di ragno arrabbiato,
che farebbe venir l'acquolina in bocca a Ermete Novelli. Ma le più
belle son le signore, vestite secondo l'ultimo figurino, con un gusto
squisito, dai fiori del cappellino agli stivaletti, che son piccole
meraviglie, con spille, orecchini, anelli, borsa, ventaglio, con
capelli veri, pettinati all'usanza del giorno, che si ravviano col
pettine al momento dell'andata in scena, con le sottanine ricamate e
insaldate, perchè, se segue un accidente impudico, il pubblico veda
che son vestite di tutto punto, da signore per bene. E la proporzione
delle loro forme è ammirabile: hanno petto, spalle, fianchi, braccia
di donnine vere, tanto che è un diletto il voltarle e rivoltarle fra
le mani, e col pretesto di vedere come son vestite vi lasciate andare
a prolungar l'analisi con un sentimento di curiosità colpevole. E
la varietà dei tipi! La prima volta che fui sul palco, di giorno,
il signor Lupi me ne presentò una dozzina, il fiore della sua
aristocrazia, tutte giovani e eleganti, appendendole l'una accanto
all'altra per il loro fil di ferro lungo due metri a una spranghetta
che mi stava sopra il capo, e definendo in due parole ciascuna: — Ecco
un tipo sentimentale — Quest'altra è più bella, ma meno simpatica.
— Veda questa, che aria _distinta_! — E quando me le vidi schierate
davanti, come un comitato di patronesse d'opera pia, aspettanti la
visita d'un pezzo grosso, tutte impettite, con quegli occhi larghi
e luccicanti, che volete? sentii una certa suggezione, mi parve di
dover dir qualche cosa, poco mancò che non dimandassi loro se avevano
sofferto il mal di mare nel viaggio in America.

                                   *

Perchè è da sapersi che a chi s'intrattiene fra gli attori d'un teatro
simile segue un caso psichico curiosissimo, il quale non avviene a
chi visita un magazzino di bambole, sian pure stupendamente formate;
avendo queste tutte lo stesso viso, la stessa età e un vestimento
convenzionale. Fra quelle marionette, invece, che rappresentano una
grande varietà di tipi, ed età, ceti, professioni, caratteri diversi,
con una riproduzione così perfetta, oltre che degli aspetti fisici,
di tutti i particolari del vestire, la nostra immaginazione è presa
a poco a poco in un inganno che, distraendola dalla considerazione
della grandezza, finisce con fargliele vedere e considerare come
persone vive. Riesce maggiore l'illusione quando s'è fatto l'occhio
all'esagerazione dei lineamenti e dell'espressione dei visi, non
sensibile a lungo perchè comune a tutti, e non mai spinta oltre quel
segno che pure nel vero è possibile; la quale, poi, produce quest'altro
strano effetto che, uscendo di là, ci paiono mancanti di rilievo, di
vigore, d'espressione, quasi facce appena abbozzate, i primi visi umani
che ci si paran dinanzi; come accade a chi vive tra i pazzi, che quando
rientra fra i savi, gli riesce a tutta prima sbiadito e monotono il
loro linguaggio sensato e pacato. Ed è appunto questa illusione che
rende piacevolissimo il “soggiorno„ in mezzo al popolo dei fratelli
Lupi. Io mi ci son divertito, non dico “come„ ma assai più d'un
ragazzo. Ci avrei passato la giornata intera. Il popolo è innumerevole.
Per lo spiraglio d'un guardaroba socchiuso, dietro a una tenda che il
Lupi solleva, negli angoli del palcoscenico, nei vani oscuri delle
pareti, da per tutto vedete crocchi di signore, pattuglie d'armati,
conciliaboli di facce equivoche, personaggi di corte sfolgoranti
d'oro, barboni misteriosi, occhioni che vi scrutano, bocche spalancate
come per cacciare un grido, rattenuto al vostro apparire, frotte di
popolani, brigate di signori in abito nero, gruppi di ballerine in
maglie color di carne. Una di queste mi diede nell'occhio: il Lupi
stese la mano per prenderla. Stavo per dire: — Non la disturbi, — ma
era già sull'impiantito, che faceva le sue piroette, voltando il busto
e il capo dalla parte opposta alla gamba alzata, gonfiando le sottanine
trasparenti tempestate di pagliuole d'argento, e _pubblicando_, come
dice l'Aleardi, _le arcane forme_ pienotte con tanta vivacità e tanta
grazia, che non mi parve più una stravaganza quel romanzetto di Felice
Govean, nel quale il protagonista s'innamora perdutamente della prima
ballerina del _Gianduja_. Non fo celia: metteva voglia di prenderla
per la vita e di portarsela via: un impertinente avrebbe domandato
al signor Lupi il suo indirizzo. Ma la cosa più amena è che fra un
così gran numero di visi verosimili vi occorre ogni tanto di trovarne
uno che vi fa dare un guizzo per la sua somiglianza straordinaria
con qualche persona che conoscete. Ho trovato là, _fra color che son
sospesi_, due ministri, un'attrice celebre, un mio vicino di casa;
e qualche altro di cui riconobbi il viso, senza ricordare chi fosse,
ma che mi fece dire senz'ombra di dubbio: — Con costui ho desinato.
— E, punto dalla curiosità, continuai a cercare, e feci anche delle
scoperte sgradevoli. Ficcando gli occhi tra una folla di donne, mi
scappò un'esclamazione: — La regina Taitù! — Era lei pretta sputata.
Un po' più in là trovai Menelik, Maconnen, Mangascià, il generale
Baratieri, con la sua uniforme d'Africa, somigliantissimo, ma ancora
con l'aria scipionica, perchè era stato modellato dopo Senafè. Il Lupi
alzò una mano, sollevò un personaggio e disse con accento di rispetto:
— Il maggiore Toselli. — Ebbene, nessuno ne avrebbe sorriso, e non mi
parve una profanazione. Era anch'essa una forma di gloria quel piccolo
simulacro che aveva scosso il cuore e fatto batter le mani a tanti
fanciulli e strappato qualche lagrima anche a dei grandi, e pensai
che se il bravo soldato l'avesse potuto vedere ne avrebbe sorriso
dolcemente, come un trionfatore che senta fra il plauso d'un popolo
gridare il suo nome da un bambino.

                                   *

Le sorprese sono infinite. Trovate due personaggi perfettamente uguali:
che rappresentino i _Menecmi_ di Plauto o i _Gemelli_ del Goldoni? No.
Il protagonista è uno solo; ma vuole il dramma che a un dato punto egli
si tolga la berretta sulla scena: operazione impossibile a cagione
del filo che regge i suoi destini: e non c'è altro che sostituire a
lui, con uno stratagemma di cui non s'avveda il pubblico, un _alter
ego_ con la berretta in mano: una sberrettata che costa ai signori
Lupi venticinque lire. Trovate qui un personaggio col viso fresco e
coi capelli neri; poco discosto il medesimo col viso rugoso e col pelo
grigio; un po' più oltre ancora lo stesso, con la faccia decrepita
e il cranio pelato: è un personaggio che deve apparir nel dramma
in tre età diverse; e se è vero che nel corpo umano si rinnovano di
continuo le cellule, in modo ch'esso è tutto intero rinnovato ogni
tanto tempo, la marionetta non rappresenta forse più il vero che
l'attore? Così, per rappresentare l'epopea garibaldina, che ebbe un
successo strepitoso, i Lupi fecero fare una famiglia di Garibaldi, da
Garibaldi bambino a Garibaldi morente, e d'uno stesso Garibaldi vari
esemplari, grandi e piccoli, per mostrarlo sul proscenio, a qualche
distanza, e lontanissimo. Così crede il pubblico di vedere tre fratelli
Girard, che fanno i giochi maravigliosi, e ne vede quindici. Di
Gianduia poi ce n'è una coorte; Gianduia di ogni età e di ogni altezza,
Gianduia ingrassati, allampanati, enfiati, feriti, afflitti, ridenti,
contraffatti; come si richiede per un personaggio che è contemporaneo
e cooperatore degli eroi di tutti i secoli e di tutte le genti. Le
teste storiche o di viventi illustri, che potrebbero abbisognare altre
volte, i Lupi le conservano: ne hanno piene delle scatole da petrolio,
ammontate a parte in un magazzino. Luigi Lupi ne aperse una piena di
teste di Gesù, modellate assai bene, e levandole e presentandomele
rapidamente l'una dopo l'altra, mi produsse un'illusione singolare,
somigliante a quella che dà il cinematografo: mi parve di veder
lo stesso viso, da prima sorridente, rattristarsi, balenar d'ira,
rasserenarsi di nuovo, poi rimbrunirsi da capo, impallidire, stillar
sangue, alzar gli occhi al cielo e rimaner immobile nella morte.
Le teste di Cristo, badate, sono le sole che non son mescolate con
altre. Ma che bizzarre miscele ritrovate mettendo le mani nelle altre
scatole! — To', Maino della Spinetta — To', Tommaso Villa — La regina
Vittoria — Davide Lazzaretti. — Mi venne in mano una testa che mi destò
una vaga reminiscenza, ma non accompagnata da un nome. Domandai: era
Alessandro Manzoni. La rassomiglianza era imperfetta, mi spiegò il
Lupi, perchè, volendosi fare alla testa il mento mobile, s'era dovuto
alterare il contorno inferiore del viso; del che si mostrò dolente.
Ma l'effetto di quella mostra di teste ha qualcosa di repugnante: vi
fa pensare ai cestoni orrendi della ghigliottina del Terrore. Corrono
un'altra sorte, però, le teste degli uomini notevoli di second'ordine,
pei quali è improbabile che ritorni un'altra ora di celebrità dopo
quella accidentale che li portò sul palco scenico: le teste di questi,
opportunamente svisate, rimangono in servizio sotto altri nomi, passano
sulle spalle di altri personaggi. A quali marionette saranno toccate
le teste di tanti membri di Comitati d'Esposizioni, di consiglieri
comunali e di regi prefetti, che vedemmo passare, salutate dagli
applausi, sulle scene del teatrino di Gianduia? Forse gli stessi
Lupi non le riconoscono più. Saranno diventate teste di portinai, di
mercanti, di lacchè, di gendarmi. Oh la gloria, com'è traditrice!

                                   *

V'è accanto al palcoscenico uno stanzone che serve insieme da magazzino
di vestiari e da laboratorio. Al primo entrare vi si presenta uno
spettacolo tremendo. Pendono in un angolo centinaia di corpi ignudi
d'impiccati, col capo nascosto in un cappuccio da fratelli della
Misericordia, ma bianco e tirato fin sulle spalle, come l'orrido
berretto da notte che si metteva un tempo ai condannati a morte. Vi
par di vedere lo spaventevole _verger du roi Louis_ che descrive
il Gringoire del Banville, non sapendo chi gli sta davanti, a
Luigi undicesimo. È il dormitorio delle marionette provvisoriamente
disoccupate. Là potete far degli studi anatomici, ammirare la bella
proporzione delle membra, la perfezione delle giunture, la delicata
fattura dei piedi e delle mani, le polpe delle regine e delle
servette, i toraci atletici dei guerrieri e dei briganti. E vi trovate
anche pance di Falstaff, schiene di Rigoletti, gambe di Quasimodi,
corpiciattoli di nani, tutte le deformità miserande d'un ospizio di
“incurabili„. Ma non si può immaginare come tormenti la curiosità la
vista di tutti quei cappucci lugubri sotto i quali l'immaginazione
si raffigura dei visi contratti dagli spasimi dell'agonia o composti
nella quiete solenne dell'eternità. Domandai al Lupi se fosse lecito,
per amor dell'arte, violare il segreto della morte. Egli fece un cenno
d'assenso. Io scopersi una testa....

                 Oh via dagli occhi miei,
    Fuggi, s'apra la terra e ti ringoi,

come dice Macbetto allo spettro di Banco. Mai una più spaurevole faccia
di vecchio pazzo e feroce non uscì dalla matita del Dorè nel furore
delle sue ispirazioni infernali, nè da quella del Goya nel tracciare a
ludibrio dell'uomo le caricature spietate della sua maschera. Mi balenò
un ricordo. Era forse _lui_. Non poteva essere altri che _lui_. Ed era
_lui_ infatti, me lo disse il Lupi. Era un vecchio alchimista matto e
solitario della parodia di _Giulietta e Romeo_, il quale, pochi mesi
addietro, aveva fatto una così profonda impressione al bambino d'un mio
amico, che se l'era sognato di notte e il padre aveva dovuto scender
dal letto per quetare il suo terrore. Con mano peritosa scopersi un
altro impeso, vicino a quello, e prima che ne apparisse il viso, mi
lambì la mano una ciocca morbida di bellissimi capelli biondi. O _nuovo
miracolo gentile_! Era un angiolo, un viso bianco e puro di Margherita,
con due grandi occhi innocenti e un sorriso da pargolo che sogna gli
splendori del paradiso. Ma aveva bisogno d'una mano di vernice perchè
gli aveva sciupato una guancia un colpo di trombone dei briganti in un
assalto dato alla sua casa tre anni innanzi. E continuai a scoperchiare
teste, e vidi facce così superlativamente buffe che mi fecero
scoppiare in una risata, visi d'una gravità da Presidenti di Corte
di Cassazione, musi incartapecoriti d'usurai senza viscere, grinte di
megere furibonde, _rictus_ di Gymplaines e di Calibani, ceffi da Corti
dei miracoli e da galera, frontespizi di bricconi così insolenti, così
cinici e odiosi da spendere volentieri qualche franco, come dice il
_sor Camola_, per pagare il piacere _de dagh una martelada_. E anche
dei visi di uomini onesti e simpatici; ma quegli altri erano i più
anche là, come nel mondo.

                                   *

Ma proseguiamo. Se tu, piccolo lettore, penetrassi dietro a quelle
scene vedresti ben altre maraviglie. Ce n'è una a ogni passo:
locomotive di strada ferrata che potrebbero far servizio negli
imperi di Blefuscu e di Liliput, carrozze di gala da piccole fate,
batterie di cannoni che sembrano uscite dalla vetrina dei modelli
dell'Armeria reale, piccoli sofà e seggioloni di velluto, con le
gambe e le spalliere scolpite, con rilievi di vero bronzo e candelabri
che, salvo la grandezza, starebbero bene sopra una mensa di principi;
poichè i fratelli Lupi vogliono la riproduzione del vero, anche nelle
cose minime, più esatta assai di quanto sia richiesto dall'effetto
teatrale e dai più difficili spettatori; e ciò non per altro che per
amor dell'arte, per ambizione, direi quasi, della coscienza, come quei
raffinati che mettono il lusso anche nelle cose che non si vedono.
Nè tutto è qui: ecco una flotta di corazzate con le artiglierie, di
piroscafi coi passeggieri, di bastimenti mercantili col carico, di
barche d'ogni forma coi rematori: quanto occorre per rappresentare
splendidamente la gran festa d'inaugurazione del canale di Suez. Ecco
un castello che si sfascia a pezzo a pezzo sotto le percosse degli
arieti o rovina tutto di un colpo, allo scoppiar d'una mina, come per
un crollo di terremoto. Ecco cavalli che scalpitano e s'impennano,
elefanti che mulinano la proboscide, leoni che squassano la giubba,
scimmie che s'arrampicano su per gli alberi come scimmie vive, serpenti
che strisciano e si rizzano sulla coda da metterti i brividi. Cerca
con la fantasia quanto puoi desiderare di più prezioso per regalo
di capo d'anno e lo troverai qui più grande e più seducente di come
l'immagini. E qui puoi anche vedere con che ingegnosa industria di
fili a una marionetta è fatto levare il portamonete dalla tasca interna
del soprabito con un gesto spocchioso di figliuol prodigo, a un'altra
cavar la spada dal fodero con la vivace eleganza d'un ufficialetto di
cavalleria, a una terza spegnere una lampada con l'apparenza ch'essa
sia spenta dal suo soffio: una delle prodezze marionettistiche più
freneticamente applaudite. E ti puoi anche fare un'idea dell'attenzione
e della destrezza che si richiedono per fare con garbo tutti quei
movimenti delle gambe, delle braccia, del capo, degli occhi, della
bocca; per evitare quei mille accidenti, così facili, di fili che
s'imbrogliano, di vestiti che s'impigliano, d'ingombri, di contrattempi
e di cozzi, dei quali basta uno solo a mandar a male una scena od un
quadro; per guardarsi, in mezzo ad attori di natura così accensibile,
a un tal cumulo di tela, di legno e di carta, a tanto fuoco di lumi,
di razzi, di lampi, d'esplosioni e di fiammate, da una svista, da una
distrazione momentanea che muterebbe a un tratto tutto quel palazzo
magico in un falò spaventoso. Vedi quanta fatica, quante cure costa a
chi ti diverte quello spettacolo che forse tu credi sia anche per loro
uno spasso; vedi che ardua cosa è il governare anche il più facile dei
popoli, un popolo che non mangia e non parla.

                                   *

Ma visitando l'interno del piccolo teatro, o piccolo lettore, avresti
anche molte delusioni; le quali, per altro, ti sarebbero compensate da
una più viva ammirazione dell'ingegno e dell'arte con cui le illusioni
ti sono prodotte. Vedi, per esempio: quei cavalieri e quelle dame in
gran gala che nel _Napoleone a Mosca_ ballano con ebbrezza spensierata
in fondo a un salone del Kremlino già morso ai fianchi dall'incendio,
e che ti fecero un effetto così fantastico, non ballano: sono fantocci
tutti d'un pezzo confitti in un disco invisibile che gira come la
ruota d'un arcolaio. Quelle contraddanze così intricate e precise
di zingarelle e di moretti, che ti paiono richieder l'opera di cento
mani, non sono che il movimento d'una delle così dette scalette, un
apparecchio contrattile di regoli di legno, su cui è piantato il corpo
di ballo, maneggiato da due mani sole. Quelle ballerine innumerevoli
che ne _La coda del gatto_ scendono sul palco come un'onda umana
inesauribile, e che ti strapparono un grido d'ammirazione, non son
che una cinquantina di bambole infitte in un tamburo rotante, il quale
te le ripresenta continuamente, come uno scrittore povero le medesime
frasi e le medesime immagini da un capo all'altro del libro. E anche
quella calata dei mille lumi dell'esercito abissino sopra Amba-Alagi,
che ti scosse quasi come la vista della realtà, non è che l'effetto
di un moccolo acceso fatto passare dietro a uno scenario bucherellato
come un crivello. E non son più vere le belle cascate d'acqua, che
ti fanno batter le mani dall'allegrezza: sono cascate di sabbia
bianca mista con pezzetti di cristallo, che un apparecchio raccoglie
e rimanda in secchielli alla sorgente, senza disperderne un grano. E
quel tuono così bene imitato che par che venga dal cielo e t'incute
quasi sgomento, ahimè! non è che un rumore di ciottoli cascanti dentro
a un cassone, mossi dalla stessa mano che produce il sibilo del vento
nella foresta per mezzo d'una confricazione di grossi fili di ferro.
E quel mare azzurro, in fine, quel bel mare ondeggiante, che ti pare
debba soverchiare da un momento all'altro le sponde e irrompere nella
platea, non è che un saliscendi di pezzi di legno congiunti a cerniera
che scote dietro le quinte un ragazzo della tua età, il piccolo
Edmondo Lupi; il quale comincia la sua carriera _facendo le onde_ e
rappresentando il _Colosso di Rodi_ nelle _Sette meraviglie del mondo_,
come la cominciarono suo padre e suo nonno, e come la comincieranno, è
da sperare, i suoi figliuoli. Ma tu, buon ragazzo, non isvelar questi
segreti ai tuoi compagni, perchè a questo mondo, vedi, non bisogna
togliere alla gente che le illusioni pericolose: strapparle quelle
che, senza danno, ci fanno più belle le cose e più vive le commozioni
piacevoli, è una brutalità, come sciupare i fiori.

                                   *

I grandi, però, anche conoscendo quegli inganni, non si diverton
meno dei piccoli che gl'ignorano; e i grandi sono la maggior parte
del pubblico. È improprio, in fatti, chiamar teatro dei bambini il
teatro Lupi, nel quale, fuor che i giorni di festa, otto su dieci
spettatori sono adulti. E un buon numero di questi, uomini maturi e
vecchi, e anche gente colta, sono frequentatori assidui. Per effetto
di quali vicende, di quali rivolgimenti psichici si saranno ridotti
al teatro delle marionette? In molti, senza dubbio, non è altra causa
che la semplicità dell'animo; ma in altri dev'essere una castrazione
volontaria della fantasia, desiderosa di diletto, ma amante della
quiete; una repugnanza, nata da un'esperienza amara della vita, alla
rappresentazione troppo verosimile delle miserie e dei dolori umani,
quale si fa nel teatro vero; un ritornare indietro di proposito, un
rifugiarsi nel mondo della fanciullezza per sazietà o per aborrimento
di quello degli uomini; e c'è forse in loro una stretta corrispondenza
fra la passione per le marionette e l'indole delle letture preferite e
di tutti gli altri passatempi: son forse di quei signori che passano
ore ed ore, sui sedili dei giardini pubblici, a veder giocare i
bambini. Ma è singolare come questi bambini con la barba non cerchino
soltanto in quel teatro una ricreazione amena, come prediligano anzi i
drammoni di grande effetto, e brontolino alle commediole e alle farse,
giudicandole quasi una degradazione dell'arte, e paragonino e discutano
quelle produzioni come drammi del Dumas e del Sardou, e propongano
perfino dei soggetti ai fratelli Lupi con lunghe lettere esortatorie.
E bisogna vedere con che serietà assistono allo spettacolo, come
s'impazientano agli applausi e alle risa intempestive dei ragazzi che
turbano la rappresentazione, e con che sdegno zittiscono gli sbadati
che lascian cascare la canna, come se rompessero una frase dello
Shakespeare in bocca a Tommaso Salvini. A vederli, ci vien sulle labbra
un sorriso di pietà; ma a pensarci bene, non è questo il senso che ci
dovrebbero ispirare. Che uomini i quali hanno vissuto più d'un mezzo
secolo, lottato, sofferto, visto mille casi strani e terribili; e che
hanno ancora passioni, dolori, cure gravi, possano prestar per tre
ore alla conversazione di dieci pupi di legno un'attenzione che non
presterebbero alla disputa d'un Consiglio di ministri intorno agli
interessi più vitali dello Stato, non ci dovrebbe destar piuttosto,
confortandoci, un sentimento d'ammirazione per la miracolosa facoltà
che ha la natura umana d'illudersi, di dimenticare, di consolarsi con
dei fantasmi e dei sogni delle sue miserie infinite?

                                   *

Le sere dei giorni feriali la sala non ha un aspetto diverso da quello
degli altri teatri. Per vederla nella singolarità della sua bellezza
bisogna andare alla rappresentazione diurna della domenica, quando
centinaia di ragazzi e di bambini riempiono le sedie e le panche e
formano in platea e nei palchetti come tanti mazzi, ghirlande, aiuole
di teste bionde, e la varietà dei colori chiari e vivi dei vestiti le
dà l'apparenza d'una sala infiorata e imbandierata per una festa. Anche
prima che s'alzi il sipario v'è in quella piccola folla oricrinita
l'agitazione, il rimescolìo d'una gabbiata d'uccelli digiuni al
momento che si mette il panico nelle cassette. Gli uni son seduti,
altri inginocchiati, altri ritti sulle panche o sulle ginocchia delle
mamme o delle cameriere, o appoggiati coi gomiti alle sedie davanti,
pigiati nei palchetti in doppia, triplice fila di teste, che fanno
scala, le più alte col mento posato sulle teste più basse, e queste
col mento sul parapetto, come disposte da un fotografo per il ritratto.
All'alzarsi del sipario, si può dire che cominciano due spettacoli. È
delizioso, durante una scena spettacolosa, vedere tutti quegli occhi
spalancati come a un'apparizione dell'altro mondo, quelle espressioni
di stupore altissimo, in cui pare sospesa la vita, quelle piccole
bocche aperte in forma di O, di anelli e di semicircoli, quelle piccole
fronti nivee corrugate come per uno sforzo profondo di cogitazione
filosofica, che si riscotono poi bruscamente come al destarsi da un
sogno. Poi, tutt'a un tratto, a una scena comica, a una risposta o a un
atto buffo d'un personaggio, file intere di corpicini si torcono dal
ridere, schiere di teste si arrovesciano indietro, scrollando matasse
di riccioli, scoprendo i piccoli colli bianchi, schiudendo le bocchine
come scrignetti rossi pieni di perle minute, e nell'impeto della gioia
alcuni abbracciano il fratello o la sorella, altri si abbandonano
fra le braccia della mamma, e molti dei più piccoli si buttano sulla
sedia con le gambe all'aria, mostrando innocentemente la biancheria
più segreta. E vedere come nel rapimento dell'ammirazione respingono
furiosamente il fazzoletto importuno che cerca il loro nasino o
ammollano una ceffata senza prefazione a chi para loro la vista del
palcoscenico. Sono trecento paia di mani che applaudono con tutte le
forze e non fanno fra tutte lo strepito di quattro mani virili: par di
vedere e di sentire il frullo di centinaia di alette rosate, rattenute
da altrettanti fili alle panche. E vi sono anche gli spettatori
indifferenti, i ghiottoni piccolissimi che non voltano il viso verso il
palco se non quando sentono delle fucilate; ma per riattaccarlo subito
alla poppa con un giro risoluto del capo, come dicendo: — Corbellerie!
Io ci ho di meglio! — Ma al rumor delle fucilate altri si spaventano e
strillano, a certe scene tragiche qualcuno scoppia in pianto e tende le
braccia verso l'uscita, ed altri, più forti, non piangono, ma, celando
il viso in seno alla mamma, guardano il restante della scena con un
occhio solo. E le esclamazioni ammirative e entusiastiche, è una gioia
a sentirle. Allo scoprirsi improvviso di certi quadri, all'apparire di
certi agnelli o asinelli o porcellini che paion vivi, sono scoppi di
_oh!_, lunghi mormorii di maraviglia, a cui tien dietro quasi sempre
qualche esclamazione solitaria d'una vocina sottile, che risuona nel
silenzio come un vagito in una chiesa, un: — _Ah com'è bello!_ — che
prorompe d'infondo all'anima, che esprime una pienezza di contento,
una beatitudine celeste. Ma è sempre Gianduia quello che produce
gli effetti più grandi. Son qualche volta accessi di riso convulso,
cori di singhiozzi e di trilli, risate acute, cantanti, prolungate,
inestinguibili, che fanno voltar tutti gli adulti, col viso sorridente,
verso le panche, come se gli attori fossero saltati dal palco nella
platea, e che quando si smorzano in modo da lasciar riprender la parola
alla famiglia Lupi, lasciano ancora qua e là qualche strascico sonoro,
qualche piccino piegato in due, che non può smettere nè frenarsi, che
col capo chino e col viso nelle mani seguita a ridere e a ridere,
perdendo le lacrime e la saliva, sfinito; ma non acquietato nè da
rimproveri nè da carezze, inebbriato e soffocato dal proprio riso, non
ridotto al silenzio che quando la mamma gli mette un braccio intorno al
collo e gli preme la pezzuola sulla bocca.

                                   *

Sentii una volta uno di questi scoppi di allegrezza, anzi un seguito
di scoppi, quasi senza interruzione, dal palcoscenico, dove, giungendo
a traverso la tela, affiochiti e confusi come se venissero di lontano,
fanno un effetto insolito, vanno anche più diritti al cuore che a
sentirli dalla sala. Pareva di udire un suono di cascatelle d'acqua,
il canto di mille uccelli in un bosco, e ogni scroscio di risa finiva
in un lungo sospiro di voluttà, simile al mormorio d'una onda larga e
lenta che viene a morir sulla riva. Si rappresentava _L'ultima notte
dell'anno_. Era un successo così straordinario che gli stessi fratelli
Lupi e i figliuoli, curvati sull'appoggiatoio, costretti ogni momento a
interrompere la recitazione, mostravano nei visi accesi e sudanti una
viva compiacenza dell'opera loro. Ed io pensavo, guardandoli, quanti
ragazzi e bambini essi avevano divertiti e commossi, quanti piccoli
dolori avevano consolati; pensavo quanto migliaia di piccole creature,
grazie a loro, s'erano svegliate la mattina d'un giorno di festa
gettando un'esclamazione di contentezza: — È quest'oggi! — e immaginavo
i tanti scolaretti poveri che avevano studiato per un pezzo fino a
notte avanzata per guadagnar la medaglia che dà l'entrata gratuita, e
vedevo i tanti visetti smagriti d'infermi che s'erano illuminati d'un
sorriso alla promessa d'esser condotti a quel teatro. E, pensando a
questo, l'opera loro m'appariva in un aspetto così gentile, la loro
famiglia in una luce così amabile! Non pensavo più che anche per essi
il primo scopo del lavoro era la vita, non vedevo più in loro che dei
benefattori della fanciullezza. Mi pareva che i due fratelli Luigi
avessero qualche cosa di paterno per quella grande famiglia rumorosa
che sentivo e non vedevo, e guardando quelle due belle ragazze,
inginocchiate in alto, mentre agitavano i fili con atti graziosi, rosse
nel viso come se le riscaldasse l'alito dei loro piccoli spettatori,
mi compiacevo a far passare col pensiero sui loro capelli tutte quelle
manine bianche che applaudivano e sulla loro fronte tutte quelle bocche
vermiglie che ridevano. Oh quelle risa argentine, quel riso fresco
e beato, la più dolce delle musiche della terra, quel riso che ci fa
rivivere nell'infanzia e rivedere il volto di nostra madre giovane,
quel riso che dice innocenza e speranza, ignoranza della vita e gioia
di vivere, che si diffonde intorno nelle anime come una virtù feconda e
consolatrice, sia benedetto chi lo ride e ringraziato chi lo desta.



GENTE MINIMA



GREMBIULINI BIANCHI.


Erano dieci anni che non vedevo più un asilo infantile. Mi ricevette
la direttrice, una monaca sui quarant'anni, di persona esile, col viso
scolorito e gli occhi chiari, d'una espressione giovanile e dolcissima.
Mi fece entrare in una vasta scuola, dov'eran raccolti trecento fra
bambine e bambini in lunghi ordini di banchi, messi a gradinata,
in modo che s'abbracciavano tutti con uno sguardo. Avevan tutti un
grembiule bianco, pulitissimo; erano quasi tutti biondi. Entrava una
luce viva per tre grandi porte vetrate. Era una bellezza da innamorare
l'aspetto di quelle trecento piccole creature, strette le une alle
altre come gli uccelletti sulle bacchette delle gabbie, e disposte
come i fiori nei tepidari, a file sopra file, ciascuna delle quali
presentava come tre striscie di colori, il bianco dei grembiulini, il
rosa dei visi e l'oro dei capelli. Si capiva, davanti a quel quadro,
come la mente umana non abbia potuto raffigurarsi il paradiso senza
bimbi. A un certo momento, la direttrice disse uno scherzo, e io vidi
aprirsi trecento bocciuoli di fiori rossi e brillarvi dentro migliaia
di perle bianche.

                                   *

Ero arrivato poco prima dell'ora della colazione. Uscirono tutti a
due a due, guidati da tre maestre monache e da una laica, ed entrarono
in tre stanze nude; una delle quali, la più ampia, fu occupata dalle
“signorine„ l'altre dai “giovanotti„. Tutt'intorno erano appesi alle
pareti i canestrini rotondi, che avevan portati da casa col loro
becchime per la mattina, e fui maravigliato della rapidità con cui le
monache li distribuirono, senza leggere i nomi sulle piastrine, e senza
fare uno sbaglio, come se fosse dipinto sopra ogni canestro il ritratto
del proprietario. In pochi secondi furono tutti serviti. E allora
cominciò lo spettacolo sempre nuovo e sempre bello dei mangia panini a
tradimento.

Si misero a sedere, parte su panchettine, lungo le pareti, parte
sull'impiantito, a file e a cerchi, che davan l'immagine di corone e
di spalliere fiorite d'un'aiuola. Ma non tutti: c'eran dei piccoli
“Taddei„ che, volendo fare il loro manducamento in santa pace, si
cercavano un posto solitario; ed era ameno il vedere gli apparecchi
minuziosi e lenti che facevano alcuni, con la serietà di vecchi
gastronomi, come per un pasto che dovesse durare tre ore. Altri,
spiriti contemplativi, stavano col canestrino chiuso fra le ginocchia,
guardando per aria, col pensiero chi sa dove, e bisognava che le
maestre li eccitassero a mangiare, agitando il bocconcino davanti
alla bocca ritrosa, come si fa coi passerotti di nido. Le femmine,
mangiando, cinguettavano; i maschi, più placidi, sgranocchiavano in
silenzio: in una delle stanze occupate da questi sgranocchiatori
non si sentiva una voce, tanto che, stando all'uscio, credevo che
non ci fosse nessuno, e mi stupii, voltandomi, di veder là dentro
quaranta ganascine al lavoro. Tutti quelli che avevan nel canestro
qualche cosa di dolce, mangiavano prima tutto il dolce, rimanendo
poi a pane asciutto; come fanno spesso, in altre cose della vita,
anche i grandi. Le maestre vigilavano perchè questi privilegiati non
facessero dei contratti birboni coi loro compagni, poichè accadeva
sovente, mi dissero, che per un pezzettino minuscolo di cioccolata o
di confetto alcuni dessero allegramente tutte le loro provvigioni, con
la giunta d'un bacio di gratitudine. Parecchi, invece di mangiare, si
facevano del cibo un balocco. Una bimba, che aveva un bocconcino di
carne in salsa dentro una ciotola, pestò nella salsa il formaggio, il
biscottino e le ciliege, e ne fece con molta cura una pasta d'un solo
colore, che poi si mise a leccare col raccoglimento di chi assapora
una ghiottoneria sopraffina, dando ogni tanto in una esclamazione di
piacere. Vedendo un bambino che faceva correre sull'impiantito una
pallottola, domandai a una maestra se fossero permessi i giocattoli:
quella guardò ed accorse subito, esclamando: — Ah! che porcellino! — La
pallottola era un rosso d'ovo sodo, annerito dalla polvere: il bimbo
si scusò, dicendo che l'avrebbe mangiato dopo. Ammirai la prodigalità
con cui le bambine che avevano una colazione abbondante ne facevan
parte alle compagne mal provvedute: ad alcune le monache dovevano
far riprendere quello che avevan dato perchè non rimanessero affatto
digiune. Di tratto in tratto se n'alzava una e correva ad offrire un
pinocchio o un acino d'uva secca o una ciliegia alla direttrice; la
quale accettava ogni cosa ringraziando, ma per render tutto un minuto
dopo; e le donatrici accettavano la roba resa con una compiacenza così
manifesta da far capire che avevan fatto il regalo _pro forma_, con
la certezza di rientrar nel proprio. Una bambina stava mangiando un
pezzetto di carne in umido: una monaca le domandò: — Con che cosa è
fatta codesta carne? — Quella intese che domandasse di che cosa fosse
fatta, e dopo un momento di riflessione rispose: — _La carne è fatta di
sangue._ — A un'altra che aveva un pezzetto di frittata, la direttrice
domandò: — Chi t'ha fatto quella frittata? — E la bimba, come avrebbe
nominato una persona celebre, che tutti dovessero conoscere, rispose:
— _Pinota_ (Giuseppina). — Chi sarà stata questa Pinota? Non ci fu
modo di farglielo dire: parve che fosse offesa dalla nostra ignoranza
nel suo sentimento d'alterezza di famiglia. C'era una sola bimba, alla
quale si permetteva di portare all'asilo una piccola boccetta di vino
annacquato, perchè era convalescente. Io la colsi sul fatto mentre ne
dava da bere un sorso, di nascosto, a una compagna più piccina di lei,
dicendole con gravità materna: — _Tira giù, che ti rinforza._

                                   *

Via via che finivan di mangiare venivano intorno alla direttrice, che
rivolgeva a tutte delle interrogazioni, con molto acume e molto garbo,
per esercitarle a discorrere. Ma era oppressa dalle loro carezze. Si
vedeva che l'adoravano. Sei o sette bimbe le stavano appiccicate ai
panni, con le guancie strette alla sua vita, facendole così una cintura
di testine bionde, che confondevano le capigliature, e la costringevano
a tener le braccia levate, e le impedivano di muoversi; e tutte le
altre tendevano verso di lei le manine aperte somiglianti a grandi
margherite agitate dal vento. Un quadro incantevole quella monaca dal
viso pallido e dal vestito nero, baciata da tutta quella fanciullezza
rosata e bianca, che le faceva salire al viso la fiamma dell'amor
materno, più vermiglia e più bella che non possa apparire in viso a
una mamma vera. Una delle più graziose bambine che l'abbracciavano
mi parve, dal rossore della palpebra, che avesse un occhio malato:
seppi poi che quell'occhio era di vetro; ma che in un anno da che essa
veniva all'asilo nessuna delle sue compagne se n'era accorta, e che
le maestre badavano attentamente a prevenire tra lei e l'altre ogni
gioco che potesse far scoprire il segreto. Vidi un bambino bellissimo,
di famiglia povera, che aveva una grande capigliatura dorata e
arricciolata, e domandai perchè facesse eccezione quello solo alla
regola dei capelli corti per i maschi. Mi rispose la direttrice che
quando aveva detto alla mamma di farlo rapare, questa s'era battuta la
mano sulla fronte e aveva esclamato: — Oh povera me! — con un accento
di così profondo dolore, che a lei era mancato il coraggio d'insistere.
Poi mi furono presentate tre sorelline brune e pallide, dall'aria
triste: una di cinque anni, le altre due gemelle, di tre anni e mezzo.
Avevan perduto la madre da pochi mesi. A tutte tre s'era fatto credere
ch'essa era partita per un lungo viaggio; ma che sarebbe ritornata. Un
mese dopo, vedendo la bambina maggiore sempre addolorata, la direttrice
le aveva detto: — Fatti animo: vedi le tue sorelline, che giuocano con
le compagne. — Ed essa aveva risposto: — Ma è perchè le mie sorelle,
che son piccole, non capiscono ancora che cosa vuol dire aver la mamma
lontana. — Lei, poveretta, credeva di capire, e l'aspettava!

                                   *

Uscirono tutti a due a due, prima i più grandi e poi i più piccoli, e
fecero parecchi giri per il cortile, in processione. Mi fermai in uno
dei punti dove svoltavano, per vederli sfilare. Quante forme diverse di
testine e di pettinature, quante espressioni variate di sguardo e di
sorriso! Alcuni mi sorridevano con un'aria di famigliarità scherzosa,
come se fossimo stretti amici da un anno. I bimbi salutavano mettendo
la mano tesa contro la fronte, le bimbe facendo un piccolo inchino
brusco del capo, come se ricevessero l'una dopo l'altra da una mano
invisibile una pacchina sulla nuca. Quando carezzavo il capo o prendevo
la mano ad uno, cinque o sei mi porgevano la manina o la zucchetta,
e tutti gli accarezzati, quando mi ripassavano davanti dopo fatto il
giro, domandavano la carezza un'altra volta. Qualcuno usciva dalle
file per venirmi ad afferrare la mano o il braccio, e vi posava su
il viso, e non si voleva più staccare. A momenti ne passava come
un'ondata, tutti belli e biondi della stessa sfumatura, come se fossero
stati scelti e messi insieme per far bellezza. Molti portavano il
nome trapunto in grandi caratteri sulla cintura o inciso sui fermagli
metallici, come colli viventi da spedirsi per la strada ferrata; e mi
fu detto che alcuni di questi, dimandati del loro nome, per non darsi
la noia di rispondere, indicavano col dito la propria pancia. Le bimbe,
per la maggior parte, eran più pulite: alcune s'arrestavano qua e là
per spolverarsi il grembiule o il vestito: cosa che i maschietti non
facevano mai. Fra le une e gli altri notai molti visi seri, ma d'una
serietà singolare, come di persone grandi occupate da pensieri gravi.
Alle volte ne passavano parecchi in un gruppo, che mi guardavan tutti
con la coda dell'occhio, senza alzar la testa, sorridendo furtivamente,
come per farmi un segno d'intelligenza di nascosto alla direttrice.
Uno dei bimbi più piccoli usci correndo dalla schiera, mi si venne a
piantar dinanzi, si tirò su a due mani il grembiale e il vestito, come
davanti a un medico, e stette guardandomi: io non capivo: la direttrice
m'illuminò: voleva che guardassi le sue calze nuove. Eran due giorni
che, per quella vanità, ogni momento, senza badare al sesso degli
spettatori, alzava il sipario.

                                   *

La processione si sciolse sotto un porticato, dove cominciò la
“ricreazione„. Chiudendo gli occhi, avrei creduto di trovarmi in un
bosco dove cantassero mille uccelli e mille fontane. Dalla parte delle
bimbe c'era meno rimescolìo e meno strepito; dall'altra si vedevano
girare e saltare le teste come le palline di midollo di sambuco nella
danza elettrica. Nacque qualche litigio, subito sedato. Domandai a una
monaca se si picchiassero spesso. Dopo una breve esitazione, mi rispose
di sì, sorridendo, e soggiunse: — I bimbi, per solito, danno dei pugni;
le bimbe usano già le unghie. — Che fine sale satirico in quel _già_,
detto da una monaca!

Una bimba venne a mostrare alla direttrice un ditino graffiato.
Questa chiamò la gatta avversaria e le ordinò di baciare la compagna.
Non scorderò mai il sorrisetto finissimamente femmineo con cui la
colpevole, ancora indispettita, accolse il comando, nè il bacio rapido
e secco, un vero bacio di ribelle, che diede alla compagna, voltandole
quasi ad un punto le spalle, come un automa girante sopra sè stesso. —
Una panca segnava il confine fra i due sessi. Una bambina di tre anni
lo passò, ed entrò fra i maschi. Uno di questi, della stessa età, le
si piantò davanti con un'impostatura di padre guardiano, e fissandola
negli occhi, le disse con voce burbera: — Che fai tu qui? Non è il
tuo posto.... _fila!_ — Domandai alla direttrice se tutte le bimbe
sconfinanti fossero ricevute con quella forma di galanteria. — No, —
rispose sorridendo; — _va a simpatie_. — Del resto, c'è anche fra di
loro spirito di gentilezza. I nuovi entrati, per esempio, e in specie i
più piccoli, sono ben ricevuti da tutti; ai convalescenti che rientrano
tutti fanno festa; non c'è uno sciancato o un malaticcio che non
trovi qualche piccolo protettore. Provai a rivolgere qualche domanda a
qualcuno; ma a me non osavano rispondere: rispondevano alla direttrice,
e bisognava ch'io mettessi l'orecchio alla loro bocca per raccogliere
il filo tenuissimo di voce che ne usciva a stento. Ma un momento
dopo, da quella stessa bocca lasciata libera uscivano degli squilli di
trombetta da passare i timpani. Domandai a una bambina piccolissima
dove stesse di casa. La bambina, che stava rivolta verso il cortile,
appuntò davanti a sè un ditino microscopico, che invece di indicare
una qualunque parte di Torino pareva che accennasse a un bottone del
mio vestito, e rispose con voce appena intelligibile: — _Giù di lì._
— L'informazione è precisa, — mi disse ridendo una monaca; — lei può
trovar la casa a occhi chiusi.

                                   *

Tra il diletto che mi davano i bambini e l'ammirazione che mi destava
la direttrice non saprei dire quale fosse il sentimento più vivo. Essa
parlava con me; ma aveva l'occhio a tutti e a tutto; non le sfuggiva,
in mezzo a quella folla agitata e rumorosa, nè una voce di lamento
nè una mossa scomposta; di tutti sapeva il nome e la condizione di
famiglia; non diceva una parola ad alcuno che non avesse uno scopo
d'insegnamento; era dolce e grave, affabile e ferma ad un tempo;
parlava continuamente e pensava sempre. — Da ogni bambino — mi diceva
— imparo ogni giorno qualche cosa. — Io credevo d'aver fatto molte
osservazioni sulla fanciullezza; ma non una gliene potei dire, ch'ella
non avesse già fatta, e me ne disse cento, che mi riuscirono nuove e
che mi parvero acutissime. Benchè monaca, come conosceva, o meglio
come capiva il mondo! E la sua bontà era più ammirabile perchè non
si fondava sopra le liete illusioni che addolciscono l'animo; ma era
fortificata appunto da quella cognizione della tristizia umana, che
in tanti altri cuori la scema. Aveva spesso occasione di andar nelle
case dei suoi bimbi poveri, e mi diceva, mettendosi una mano sulla
fronte: — Che cosa ci si vede, alle volte! Come si capisce che tante
povere creature non hanno alcuna colpa di esser malvagie! Come si
diventa indulgenti! — Ma la serenità che le veniva dalla coscienza
della sua vita operosa e benefica non la lasciava insistere in alcun
triste pensiero. Essa interruppe il discorso triste per accennarmi
con un sorriso una bambina di quattro anni, di mente molto sveglia
e di carattere un po' difficile, la quale, pochi giorni prima, aveva
fatto una amenissima ammonizione alla mamma. Questa, una mattina che
la sua figliuola aveva fatto le bizze in casa, s'era raccomandata
alla direttrice perchè, senza accennare a lei, raccontasse il caso in
iscuola e desse un avvertimento generale che giovasse alla colpevole. E
la bimba, ritornata a casa la sera, aveva detto alla madre, fissandola
con due occhi scrutatori e tentennando il capo: — Stamani la direttrice
ha raccontato un caso che pareva proprio quello avvenuto fra me e
te.... Non vorrei che _qualcuno_ avesse parlato.... Ma se vengo a
scoprire!

                                   *

Dopo la ricreazione, rientrarono tutti nella scuola, in quei banchi
disposti a scala, che presentavano la piccola scolaresca come affollata
sulla gradinata d'un tempio. La direttrice, con una voce armoniosa e
modulata mirabilmente, intonò un canto che diceva con molta proprietà
ed efficacia di termini tutti gli usi e le virtù della mano. I
bambini fecero coro, prima con un po' di titubanza, poi con un accordo
straordinario per l'età loro. Al canto era accompagnata la mimica e
la ginnastica. Ora alzavan le braccia agitando le mani, e pareva di
veder per aria trecento “rondinelle della vergine„, che battessero
le ali, rattenute ai banchi da altrettanti fili; ora s'inchinavan
tutti da una parte come i fiori di un'aiuola sotto un soffio di
vento; ora si pigliavan per mano, intrecciando le braccia, in modo
da formare una sola ghirlanda da un capo all'altro dei banchi; ora
posavan sui banchi la fronte, tutti a un punto, in atto di dormire,
e mettevano il desiderio di far correre la bocca su quelle file
di testine come la mano sopra una tastiera. E si sentivano in quel
canto note di usignuoli, suoni di violino e di flauto, tintinnii di
campanelli, mormorii di rigagnoli e sospiri di vento fra gli alberi,
e certe smorzature prolungate (corrispondenti a un'incertezza o
all'aspettazione d'un suggerimento della direttrice) d'una soavità e
d'una grazia da non parer suoni di voci umane. Una giornata intera
sarei stato là a vederli e a sentirli. Via via che procedevano nel
canto, non perdendo mai d'occhio il viso e il gesto della direttrice,
s'eccitavano e si accaloravano, e la buona monaca pure s'eccitava:
le sue guancie smagrite si facevano color rosa, i suoi occhi chiari
splendevano, la sua bella voce vibrava, le sue mani sottili tagliavan
l'aria con gesti larghi e vigorosi, tutto il suo corpo esile fremeva
come quello d'una giovane poetessa ispirata. E quanta poesia spirava
in lei, e intorno a lei, da tutti quei visi fiorenti, da tutta quella
innocenza, dal misterioso avvenire che aleggiava intorno a quelle
trecento fronti serene, dalla beata gioia di vivere che si espandeva
in quelle trecento voci argentine, fra le pareti bianche di quella
scuola inondata di luce e di armonia! O benedetti bambini, seminatori
eterni di speranza! Noi possiamo ben credere, quando non vi vediamo,
che un giorno sarete tormentati voi pure dalle tristi passioni che
ci tormentano, e macchiati degli stessi vizi e delle stesse colpe;
ma quando ci state dinanzi in una scuola, quando guardiamo le vostre
fronti non velate d'un'ombra, i vostri occhi in cui non brilla un
pensiero che dobbiate nascondere e le vostre bocche da cui non è uscita
ancora una parola d'odio, allora l'illusione che sarete migliori di noi
ci rinasce irresistibilmente nell'animo; ed è questa cara illusione,
è questa santa speranza, rinascente in ogni padre con ogni nuovo
figliuolo e nella umanità ad ogni nuova generazione, quella che più
fortemente ci aiuta a vivere e ci impedisce d'intristire.

                                   *

Osservando la direttrice mentre cantava coi bambini, mi ricordai d'aver
inteso dire da qualche visitatore di quell'asilo ch'ella s'affaticava
senza alcun riguardo alla propria salute, e anche nell'eccitazione di
quel momento il suo aspetto confermava quel giudizio. Io glielo dissi,
uscendo, dopo averle espresso con parole riverenti la mia più viva
ammirazione. Essa sorrise con una leggiera espressione di tristezza, e
rispose con un gesto vago della mano, che voleva dire: — Che importa!
Spendo la vita per i bambini e morirò contenta. — Quando rimasi solo
sull'uscio, sentii che ritornava alla scuola correndo, per riguadagnare
qualche secondo del tempo che le avevo fatto perdere. Un minuto dopo,
infatti, mi raggiunse per la via il canto affiochito e dolce dei suoi
trecento figliuoli.



PERSONAGGI INFANTILI.


I.

Cantavano, seduti tutti e duecento sopra sei lunghe file di panchetti
bassi, in modo che parevano accocolati sul pavimento e presentavan
l'aspetto, così fitti com'erano, d'una nidiata enorme di uccelli; i
quali, al mio entrar nel camerone, voltarono il becco tutti insieme,
rallentando il canto e mostrandomi duecento bocche aperte, come se
aspettassero l'imbeccata. Quando fui davanti a loro, accanto alla
direttrice, ebbi per un momento tutti quegli occhi addosso spalancati
e fissi; ma, con mio rammarico, riconobbi subito di non aver quello
sguardo affascinatore dei fanciulli, del quale certi ispettori si
vantano, perchè vidi che tutti quegli occhi non erano attirati dalla
virtù della mia pupilla, ma dal pomo d'argento della mia canna.
Che imprudenza! Se non avessi portato la canna non avrei perduto
l'illusione....

Stetti ascoltando un po' quel canto di bambini che mi fa ogni volta lo
stesso effetto quasi di stupore, come d'un canto che venga di lontano,
di fra le nuvole, da creature in cui rimanga la memoria, ma non più
il senso delle passioni umane, e che sempre mi si traduce agli occhi
nell'immagine d'un'alba limpida che imbianca una terra sconosciuta....

Poi andai intorno per osservare ad una ad una quella messe di teste
che, al primo sguardo, m'eran parse tutte compagne. Ah quando si dice:
il tipo regionale! In ogni folla di bambini è rappresentata l'umanità
intera. C'erano là teste di siciliani, di sardi, di tedeschi, di russi,
d'inglesi, di giapponesi, d'indiani; e più di piemontesi, certo; ma chi
le avrebbe riconosciute a Milano? E là pure, come in tutti gli asili
infantili, non c'era viso che non portasse qualche segno della lotta
quotidiana con gli uomini, con gli animali e con le cose: tracce di
graffiature umane o feline, lividi, ammaccature, scottature, gonfietti,
come se li avessero marcati a uno a uno per riconoscerli. E così quelle
voci, che parevan tutte eguali nel canto, come suonarono diverse quando
la direttrice fece alzare l'uno dopo l'altro a dire i numeri! Fu come
far correre la mano sopra una tastiera: una rapida manifestazione
d'animi e di temperamenti fisici distinti, che alla mia fantasia
trasformava istantaneamente quei bimbi negli uomini e nelle donne
avvenire, sospinti da mille disparate passioni per mille vie dolorose a
diversi destini, da cui rifuggiva il pensiero spaurito.


II.

Era l'ora della ricreazione: tutti s'alzarono e si sparsero per il
camerone aspettando che smettesse di piovere per andar nel giardino.

Allora cominciai a fare qualche “conoscenza„.

Il primo fu un bimbo di poco più di cinque anni, figliolo d'un gasista,
un faccione pacato e serio di bimbo precoce che pensi agli affari di
casa. — Questo — mi disse una maestra — lo chiamammo _il papà_. — Era
un originale amabile, che aveva l'istinto della protezione dei piccoli
e del mantenimento dell'ordine pubblico. Quando un bambino piangeva
egli andava a consolarlo e ad asciugargli le lacrime strofinandogli il
viso con la sua pezzuola, che non sempre glielo puliva; denunciava alle
maestre i torti fatti a questo o a quello; quando nasceva una lite,
si cercava sempre lui come paciere. Ma il curioso, mi dissero, era
la gravità con cui compiva il suo ufficio, senz'alcuna dimostrazione
di tenerezza, consolando con buone ragioni, esortando con un certo
frasario pedagogico. Quando qualcuno l'andava avvertire che c'era in
qualche parte una vittima, egli diceva gravemente: — _Vado mi_ — e
s'avviava col passo e con l'aria d'una guardia civica chiamata a far
rispettare la legge.

Mentre facevo i miei complimenti a questo brav'uomo me ne indicarono
un altro che passava, un musetto di topo, con due piccoli occhi
scintillanti e una bocca aguzza di ghiottone. — Questa è la gola più
lunga della compagnia — mi dissero — e uno scroccone di prima forza,
che si sfrega sempre intorno a quelli che hanno qualche cosa di buono
nel panierino. Quando lo vediamo seduto accanto a un altro bimbo,
non c'è da sbagliare: è certo che questo ha un boccone scelto. I ben
provvisti egli li conosce tutti, li trova al fiuto, e non bazzica che
con loro. Non può immaginare con che costanza li seguita, con che arte
li loda, li liscia e li serve, con che fine garbo di cortigiano riesce
a farsi dare la ghiottoneria su cui ha messo gli occhi, e con che
trovate astute, qualche volta, a pigliarsela. È capace di “lavorare„
il suo uomo per una intera mattinata. Guardi: ora par cucito a quel
bambino col vestito verde: è sicuro che quello gli confidò d'aver nel
panierino qualche cosa di prelibato. — Infatti, una maestra ci andò a
guardare e ritornò dicendo: — Un pacchetto di zucchero biondo. Aspetti,
e lo vedrà all'opera all'ora della colazione.

Quello che mi mostrarono dopo era uno dei bambini più strani ch'io
abbia mai conosciuto. Mi parve di vedere un uomo di quarant'anni
rimpicciolito: tutto faccia e pancia; un viso di buffone accorto,
che nel ridere strizzava un'occhio, e torceva la bocca da una parte,
corrugandosi tutto in un modo così lepido, con uno sguardo così
astutamente e comicamente canzonatorio, che quando mi fissò restai lì
stupito, sospettando che si burlasse di me. In verità se m'avesse detto
a chiare note: — Tal dei tali, ti conosco e non ti piglio sul serio,
— non mi avrebbe fatto una più strana impressione; tanto che arrestai
la mano già stesa a fargli una carezza e non mi riuscì di dirgli una
parola, parendomi che m'avrebbe risposto con una ghignata. Mi fece
l'effetto d'un nano burlone confuso per sbaglio con dei bambini.
E seguitava a guardarmi sorridendo a quel modo come se gli paressi
il frontespizio più buffo del mondo. Un caso singolarissimo, — più
apparente che reale, voglio credere, — di precocità di senso critico e
di malizia beffarda.


III.

Con troppa presunzione mi volli provare ad argomentar dall'aspetto
d'alcuni le facoltà intellettuali e il carattere. Vedendo una bambina
con gli occhi neri e pieni di vita e di fisonomia mobilissima, espressi
a una maestra la mia ammirazione per la sua bellezza, e stavo per
soggiungere: — dev'essere intelligentissima — quando essa m'interruppe:
— sì, è una bella bimba; ma non capisce nulla. — Pensai che sbagliasse;
ma confermò. Proprio, la più dura di mente, forse, di tutto l'asilo;
anche nel parlare era addietro d'un anno da tutte le sue coetanee; una
lanternina graziosa, ma senza moccolo. Ed io registrai il mio primo
granchio.

E subito dopo ne presi un altro. C'era un viso di madonnina, bianco e
dolcissimo, di quei visi che fanno dire alle donnicciole: — È una bimba
troppo buona, non farà vita lunga. — Questa dev'essere un angioletto, —
dissi alla maestra. — Un angioletto, costei? — mi rispose maravigliata.
— È un serpentino a sonagli che se ce ne fossero dieci compagne ci
sarebbe da perder la testa.

Possibile! E voltandomi ad altre bambine che facevano cerchio: — Non è
vero, — domandai, — che questa ragazzina è buona?

Tutte insieme scossero fortemente la testa in atto negativo.

— E che cosa fa per non esser buona?

Stettero un po' zitte, guardandosi a vicenda. Poi una disse
risolutamente: — Picchia. — E allora tutte le altre, preso animo, la
servirono di barba e di parrucca:

— Graffia.

— Strappa i capelli.

— Tira calci.

— Dà dei _titoli_.

E come in una scarica di plotone c'è sempre il colpo che parte in
ritardo, dopo un breve silenzio ci fu una che soggiunse: — E morde
anche.

E davanti a quel “plebiscito d'amore„ l'accusata restò sorridente,
girando sulle accusatrici il suo dolce sguardo di santerella, come se
le avessero fatto un panegirico. — O povero illuso, — dissi in cuor
mio, — che pretendi di legger nelle anime a traverso ai visi! Che
povera scienza è la tua!

In quel punto attirò i miei occhi la testa grossissima e sformata d'un
ragazzo che mi mostrava le spalle, ed essendosi egli voltato nel punto
stesso, fui colpito, quasi con un senso di ribrezzo, dalla strana
rassomiglianza che presentava il suo viso con la faccia orribile messa
dal Lombroso sulla copertina del suo _Uomo delinquente_. Ma questa
volta non mi potevo ingannare. In quel viso mostruoso, che si stringeva
dal basso all'alto come un trapezio, sotto quella fronte bassissima,
irta di setole, dalla quale sporgevano due grandi orecchi che parevano
i manichi d'una pentola deforme, brillavano due occhi di grandezza
ineguale e sporgenti dall'orbita, ma così angelicamente buoni e
amorosi, che non ebbi l'ombra d'un dubbio quando la maestra, chiamatolo
e messagli una mano sul capo, mi disse: — Questo, vede, è un angelo;
la più dolce, la più cara creatura che sia stata qui da molti anni. —
Allungai la mano per prendergli il mento, e mi commosse, mi diede quasi
una stretta al cuore l'atto pronto con cui egli l'afferrò, come un
affamato afferra un pane, e la grazia affettuosa con cui se la mise sul
capo, chiudendo gli occhi, come per raccogliersi tutto nel sentimento
di quella carezza....


IV.

Cessata la pioggia, uscirono tutti nel giardino, dove vidi molte
scenette curiosissime.

I maschi, riuniti in file di dieci o dodici, ciascuno con una mano
appoggiata sulla spalla di quello che lo precedeva, andavano e venivano
per i sentieri, pestando i piedi e cantando una strofetta. In un
angolo, lungo il muro, c'erano poche fragole che sarebbero state tutte
sulla palma della mano. Ogni volta che' una delle file cantanti passava
di là, tutti, come se obbedissero a un comando, voltavano il viso
verso quelle tentazioni porporine, rallentando il passo e smorzando
la voce, e seguitavano così col collo torto e con gli occhi rivolti
verso il frutto vietato, fin che lo perdevan di vista, come fa una
pattuglia di soldati quando passa davanti a una bella ragazza; e in
quel passaggio sfavillavano tutti i visi d'un desiderio così vivo,
che, a vederli, si ridestavano in me pure, come un vago ricordo, gli
stimoli antichi del palato infantile, e mi pareva di ringiovanire in
quel senso. Oh, gli asili infantili, che case di cura sarebbero per i
malati di disappetenza! Mentre quei cori giravano, si formavano qua
e là gruppi in ginocchio attorno a un bimbo o a una bimba che aveva
trovato una lumaca o un'ape o una pietruzza luccicante, corone di
teste rapate o capellute, chinate e strette, che non si vedeva più
un viso, veri mucchi di zucchine d'oro, come si vedono nei mercati
d'erbaggi, appiccicate le une alle altre in maniera che le maestre
le dovevan separare a forza perchè pigliassero un po' di respiro. E
intanto io ammiravo l'arte perfetta d'imitazione con cui certe bambine,
benchè di famiglia povera, facevano alle signore che si rendon visita:
— Venga avanti — Non la disturbo? — Ma si figuri! Faccia il favore
d'accomodarsi. — Era tanto tempo che desideravo di rivederla!... —
E mille riverenze da contraddanza e sorrisi di damine in solluchero.
E mentre da una parte seguiva questo scambio di cerimonie, vedevo di
sbieco dall'altra una piccola baruffa, non so se finta o vera, in cui
le “damine„ si ricambiavano con voci angeliche la parola del Cambronne
e si voltavan la schiena battendosi la manina sulle mele minuscole, con
un atto di disprezzo che, senza dubbio, avevano preso dal vero.

Le mie osservazioni furono interrotte in quel momento dalle grida di
cinque o sei piccini che accorrevano ad annunciare alla direttrice, col
viso spaventato: — C'è un bambino che ha perduto un braccio!

La direttrice corse a vedere. Era un bimbo, al quale la mamma, perchè
non movesse un braccio che s'era un po' forzato cadendo, gliel'aveva
stretto al busto con una fascia, di sotto alla giacchettina, di cui
ciondolava vuota la manica; e per questo gli s'era fatta intorno una
folla, che lo guardava e lo tastava, facendo mille commenti terribili.


V.

La direttrice mi presentò varii altri personaggi notevoli dei due
sessi: prima una bambina bionda, piccolissima, che aveva tutto il capo
bianco di diavoletti, messile dalla mamma, per mandarla arricciolata
a una processione di non so che Santo che si doveva far la sera nel
sobborgo. Era una bambina celebre per un motto pronunciato un mese
innanzi in casa sua; dove, essendo morto un suo zio verso l'ora del
desinare e piangendo tutta la famiglia senza mettersi a tavola, lei,
che non capiva la morte e sentiva la fame, s'era lagnata del ritardo, e
all'osservazione del babbo — che era ora di piangere e non di mangiare
— aveva risposto: — _ma prima mangiamo e poi piangeremo_ — ma con tale
accento di franchezza, con così manifesta coscienza di dire una cosa
ragionevole, che tutti n'avevan dovuto sorridere, anche nel dolore. Io
le rivolsi qualche domanda, a cui non rispose. — Scòtiti, — le disse
la direttrice, — di' qualche cosa. — E allora, dopo uno sforzo mentale
visibilissimo, essa mi disse con un filo di voce: — Mio padre s'è
tagliato i capelli.

Stavo per rallegrarmi di quell'avvenimento quando me ne fu presentata
un'altra, un triennio ambulante, bruna come una gitanella, che aveva
le lacrime agli occhi, e pareva molto afflitta. — È orfana di padre
e di madre, — mi dissero; — è entrata ieri, è ancora malinconica;
non c'è modo di farla sorridere. — Nemmeno il _papà_, che le stava
accanto in quel momento, era riuscito a rasserenarla. Teneva la testina
chinata sopra una spalla in un atteggiamento d'abbandono stanco, come
una malata, e pareva che non vedesse e non udisse nessuno; pareva un
viso su cui, per natura, non potesse spuntare il sorriso. Mi dissero
che aveva un fratello gemello, entrato nell'asilo con lei, ma che era
allegro, e giocava con gli altri. La direttrice mandò una maestra a
cercarlo, e questa ritornò poco dopo col bimbo per mano. Non si può
dire la dolcezza del sorriso sfuggevole che brillò negli occhi alla
sorella al primo vederlo, nè la grazia amorosa e triste con cui gli
s'avvicinò e gli appoggiò il capo sul petto mettendogli un braccio al
collo, come se lo ritrovasse dopo una lunga separazione in mezzo a una
moltitudine di gente sconosciuta, e volesse dirgli: — Non te n'andar
più, non lasciarmi più sola, non ho che te a questo mondo.

La maestra mi presentò una bimba con due occhi celesti splendidi,
una figurina di poetessa ispirata, dicendomi a bassa voce: — Ha molto
ingegno.... e un'ambizione! — ed io dissi, con voce anche più bassa: —
Ha degli occhi bellissimi. — Quella se n'andò; ma tornò poco dopo, e,
tirata la maestra in disparte, le parlò nell'orecchio; poi scomparve da
capo. Punto dalla curiosità, domandai che cosa avesse detto. — Guardi
che astuzia! — rispose la maestra ridendo; — mi domandò: che cosa
ha detto quel signore dei miei occhi? E me lo domandò perchè l'aveva
inteso. — Per prudenza, essa le aveva risposto: — M'ha detto che si
vede dai tuoi occhi che devi esser buona. — Ma era stata prudenza
inutile, perchè la furbacchiola non aveva chiesto che una ripetizione,
approvata dall'autorità, del complimento.

E non fu quella la sola osservazione che potei fare sulla precocità
della vanità femminile, poichè tutte le bambine belle che mi
presentarono, — assuefatte come son tutte a sentirsi dir belle da
parenti e da conoscenti, — dopo che m'avevan risposto alle domande
solite del nome e dell'età, si capiva che stavan lì ad aspettare il
complimento solito; si vedeva dalla sospensione d'animo che sollevava
un poco il loro piccolo petto e dal tenue flusso di sangue che il
palpito affrettato del coricino mandava alle loro guance contratte da
un leggerissimo sorriso forzato. E perchè appunto per questo io non
dicevo nulla, mostravano sul viso, quando se n'andavano, una vaga ombra
di delusione. E me ne dispiaceva; ma la prudenza.... Anche Gabriele
d'Annunzio, forse, avrebbe taciuto.


VI.

Poi mi fecero veder le maraviglie dell'Asilo: una bimba con la
capigliatura nera strisciata d'oro; conciata a quel modo dalla mamma
che, incaponita di tingerla alla Tina di Lorenzo, lasciava qualche
volta a mezzo l'operazione e la mandava fuori così, chiomata del
bicolore austriaco; un'altra che quasi nascondeva il visetto sotto
un turbante di riccioli lucidissimi, una matassa stupenda di anelli
di velluto corvino, in cui tutte le compagne cacciavan le mani per
diletto, e che tremolavan tutti a ogni scossa del capo come animati da
mille spiritelli irrequieti; e infine il bimbo dai cinque panciotti,
imbottito in quella forma dalla mamma per un suo terrore morboso dei'
raffreddori di petto, e che, oppresso da quella rigatteria, camminava
annaspando con le braccia larghe come se invocasse soccorso. Ah, c'era
da divertirsi, e anche da commoversi, non altro che ad osservare in
quei bimbi la varietà dei prodotti dell'industria domestica, e in un
solo capo di vestiario. Una collezione di calzoncini, per esempio, da
far rimpiangere di non esser andati là con una _istantanea_: tutti i
più strani saggi di taglio a cui possano riuscire le forbici inesperte
e affrettate d'una povera donna del popolo che ha le faccende a gola
e che utilizza senza scrupoli artistici quanti avanzi di stoffa le
cascano nelle mani, con la certezza che la vittima inconsapevole
accetterà qualunque ludibrio. Calzoni di due colori e di più di due,
raccorciati con filze, allungati con giunte, scaccati di toppe, fatti
di tende da letto, di federe di guanciali e di scialli logori, con
borsoni posteriori capaci quattro volte del contenuto, con spaccature
somiglianti a finestre a sesto acuto: mezze brachine della forma
d'imbuti accoppiati, di trombe gemelle e di sacchetti da ricotta, che
mettevano su quei corpicini delle apparenze buffe di fianchi, di pancie
e di deretani enormi e spostati, o li serravano, per scarsità di panno,
come maglie chirurgiche, facendo schizzar per di dietro, a ogni più
piccolo movimento, degli spicchi di carne rosata, impazienti della
prigionia, impudicamente ribelli all'avarizia tiranna della sarta:
una raccolta di figurini di fantasia da farne una sezione umoristica a
parte nella prossima Esposizione nazionale.

Ma da queste osservazioni ero continuamente ricondotto a quella della
varietà dei caratteri che si manifestava nei modi molto diversi di
ricevere le dimostrazioni amorevoli. Molti indifferenti affatto,
parecchi quasi repugnanti, qualcuno stupito, che si toccava la parte
del capo dov'era stato baciato, come se non capisse che cosa io gli
avessi fatto. Ma i più si mostravano contenti e grati, e fra questi
alcuni che si riscotevano e brillavano sotto la carezza come per la
soddisfazione d'un bisogno vivo dell'animo, e che ritornavan poco dopo
a prendermi la mano e a mettersela da sè sulla spalla o sotto il mento
e a strisciarmisi attorno come gattini, guardandomi di sotto in su con
una espressione di grande dolcezza; quello dalla testa deforme, fra
gli altri, e la bimba dei diavoletti, e un morino piccolissimo, nato
con un orecchio solo, con due begli occhi pensierosi, nuotante nel più
spropositato par di brachesse della collezione. Ed anche quand'eran
lontani, incontravo di tanto in tanto, qua e là, i loro occhi soavi,
che mi sorridevano con quella espressione di familiarità fraterna,
propria della infanzia, che dà del tu a tutte le età e a tutte le
stature ed ha per tutti quelli che l'amano lo stesso sorriso.

E qua e là, ma sempre da lontano, incontravo pure lo sguardo del
bimbo burlone, che parea che osservasse ogni mio atto e volesse farmi
capire, con quel suo sogghigno obliquo e rugoso e col suo occhietto
strizzato, che gli parevo ridicolo. E che volete! Avevo un bel dirmi
che in un moccicoso di quell'età non poteva corrispondere il pensiero
all'espressione della maschera: quel sogghigno di piccolo Mefistofele
mi riusciva molesto e, quasi senza volerlo, badavo a scansarlo, come si
fa qualche volta in casa d'altri davanti a certi ritratti di persone
sconosciute, che par che ci frughino con lo sguardo nell'anima e
pensino di noi roba da chiodi.


VII.

Suonata l'ora della colazione, rientrarono tutti nel camerone
e presero posto, in piedi, a due tavole lunghissime, su cui era
scodellata la minestra di riso e fagioli. Fu un divertimento a vedere
come gingillavano tutte quelle manine per annodarsi sotto la nuca le
fettucce del tovagliolo: i più non riuscivano a incrociarle; molte
bimbe, per sbaglio, se le legavano alla treccia; altre non facevano
che annaspar nel vuoto con mille movimenti strani e graziosi da
zampine di gatto. Ma il “banchetto„ procedette con ordine ammirabile.
Non vi fu che un “incidente„ da lamentare: un bimbo, dicendo che non
aveva appetito, rovesciò la sua scodella in quella del vicino; poi
si pentì e rivolle la sua minestra; ma l'altro, che era un minestraio
emerito, si rifiutò: dopo molto contrasto, nondimeno, scese a patti,
e gli offri, generosamente, un fagiolo — uno solo — che il primo
respinse con sdegno, invocando a grida la maestra. A capo della stessa
tavola vidi un banchettante che si ribeveva le lacrime, ma nel senso
materiale della parola, poichè mangiava avidamente e piangeva insieme
a goccioloni fitti, che gli piovevano nella minestra, e quel gran
dolore manducante riusciva più comico perchè gli stava dietro la cuoca
col cucchiaione brandito, pronta à riempirgli da capo la scodella
per consolargli l'anima. Un solo bimbo mangiava in disparte, con gli
occhi ancora rossi di pianto, imboccato da una maestra. Aveva appena
tre anni; era entrato nell'asilo quella mattina facendo una scena tale
di disperazione che, per veder di quetarlo, gli avevano attaccata al
petto una medaglia; e s'era quetato come per miracolo. Nel momento
che gli passavo accanto egli spalancava la bocca per ricevere il fatto
suo: eppure, in quello stesso momento, senza neanche torcere il capo,
guardandomi con la coda dell'occhio e ingoiando la cucchiaiata, prese
la medaglia con due dita e me la mostrò. Ahimè! Quando mai si potranno
sopprimere le onorificenze ufficiali?


VIII.

Finito il banchetto, senza discorsi, le maestre distribuirono i
panierini e tutti si sparsero per quella e per l'altre stanze per
riunirsi da capo, qua e là, a coppie e a gruppi, sedendosi in parte
sulle panchettine lungo le pareti e in parte sull'ammattonato, a
mangiare in libertà quello che s'eran portati da casa. La direttrice
mi condusse in un angolo dov'eran due fratelli che leticavano e —
Veda che caso — mi disse: — questi due fratelli hanno il panierino in
comune. Ebbene: ogni mattina dell'anno, regolarmente, s'accapigliano
per la divisione del mangiare; ogni mattina il più grande vuol prender
tutto per sè, e non c'è che l'autorità che lo faccia cedere. La lite è
così certa e preveduta che gli altri bimbi vengono a vedere prima che
incominci. Che cos'è mai l'istinto della proprietà! — Veramente, a me
pareva l'istinto del furto; ma mi guardai dal dirlo perchè, in bocca
mia, l'osservazione sarebbe potuta parer “sovversiva„.

M'avvicinai a un bimbo paffuto che mi guardava fisso, e gli domandai
che cosa gli avesse dato la mamma per colazione. Mi rispose con una
grossa voce: — Un pesce!

Al modo come lo disse pareva che dovesse essere un salmone. Lo pregai
di farmelo vedere. E mi mostrò il pugno da cui spuntavano le estremità
d'una mezza acciuga, ridotta non più che un filo dalle vigorose
fregagioni che — come mi fu detto da un'assistente — egli aveva
liberalmente concesso alle pagnotte circonvicine.

Venne in quel punto una maestra a dirmi che andassi a vedere all'opera
lo “scroccone„. Passammo nell'altra stanza e lo vedemmo solo, col
suo muso di topo sul petto, tutto intento a levar la crosta a un
panino. Finita la scrostatura, si mise a leccar la mollica da tutte
le parti, con grande cura, come se la volesse inumidir tutta quanta
prima d'addentarla. — Ne prepara qualcuna delle sue, senza dubbio, —
disse la maestra. — Infatti, dopo che ebbe condito bene il suo pane,
si voltò verso un gruppo di bimbi che assediavano il possessore dello
zucchero biondo e, cavallerescamente, liberò l'assediato, facendo in
là gl'importuni che volevano intingere il dito nella sua proprietà.
Poi gli si sedette accanto in atto ossequioso e gli disse nell'orecchio
non so che cosa, a cui quegli acconsentì, porgendo il pacchetto aperto.
Povero ingenuo! Egli credeva d'aver che fare con un pane asciutto, che
avrebbe fatto poco danno. Era invece un pane traditore che, maneggiato
da una mano abile, girando rapidamente come un buratto.... produsse un
vuoto spaventoso;

    _onde_ sospiri e pianti ed alti guai.


IX.

Entrammo poi in una “classe„ dove non c'erano, sparsi per i banchi,
che sei o sette bambini; due dei quali dormivano così saporitamente,
con le testine rase appoggiate sui gomiti, che nemmeno scossi a più
riprese non si destarono, e si dovette lasciarli stare. Agli altri la
maestra rivolse alcune delle solite domande scolastiche, a cui diedero
le risposte solite; comicissime alcune per il contrasto che faceva
la solennità della loro forma letteraria col viso di putto di chi le
pronunciava.

A un bimbo che sonnecchiava col capo ciondoloni domandò tutt'a un
tratto: — Che cos'è l'Italia?

Quegli balzò in piedi e, dopo aver guardato me e la maestra con due
occhi spauriti, mandò giù la saliva e rispose solennemente: — _È la mia
terra._

Un altro, che stava rodendo una ciambella, dopo che la maestra gli ebbe
detto nell'orecchio il titolo d'una poesia, si rizzò e, sollevando
in aria le due piccole braccia e spalancando la bocca impastata,
mise fuori un _O_ sonoro, come alla vista d'un fuoco d'artifizio
maraviglioso, un _O_ così prolungato ch'io ebbi tutto il tempo di
domandare a me stesso e di cercare con la fantasia quale cosa al mondo
potess'essere degno oggetto di quella stupefacente invocazione. E venne
fuori finalmente....

    Oooooo tricolor bandiera,
    Sventola sopra i monti,
    Sui petti e sulle fronti,
    Sull'armi e sugli altar....

Ma l'intonazione, il gesto non si può descrivere: gli s'enfiava il
collo, gli uscivan gli occhi dal capo, una parola sì e una no gli
restava in gola per mancanza di fiato: pareva la caricatura d'un
tribuno che arringasse un popolo. Tutto quell'entusiasmo, però, si
spense d'un colpo. Espettorata appena l'ultima sillaba, ricadde sul
banco e riaddentò la ciambella.

Ma il più ameno fu l'ultimo. La maestra gli suggerì il titolo d'una
poesia: egli si alzò e cominciò:

    Una goccia, o nuvoletta....

e poi da capo: — Una goccia.... una goccia,... — e seguitò a gocciolare
senza andare avanti. Tutt'a un tratto cavò il fazzoletto e se lo mise
al naso come se gli uscisse il sangue. — Oh! — gli disse la maestra,
— il sangue dal naso ti uscì ieri mattina: ma ora non t'esce: fa un
po' vedere. — Ma quegli fece un gesto con la manina libera, come per
dire: — Aspetta, aspetta, che deve venire, — un gesto così comicamente
affannato e affettato, che la maestra diede in uno scoppio di risa,
e si contentò della goccia. — Ma vede che malizia, — disse poi
allontanandosi, mentre quello continuava la commedia. — Ah, le dico che
ci abbiamo certi artisti!


X.

Di là rientrai nella sala grande, dove quasi tutti si trovavan
raccolti, ed era un gran moto, un ronzìo, un pio pio, quasi un
ribollimento di suoni rotti, acuti e sommessi, quale si può dare
soltanto in una folla di creature non ferme mai un minuto in un solo
pensiero e che parlano un linguaggio ancora monco e spezzato come i
loro pensieri. E guardando quello spettacolo feci anche quella volta
il proposito, che si fa sempre all'uscire da un di quei luoghi, di
tornarvi al più presto, e che non si mantiene quasi mai; ma che in
quel momento è sincero e vivissimo, ispirato quasi da un istinto
di protezione, come se quelle deboli creature, a cui bastò un'ora a
legarci, avessero bisogno di noi e fosse durezza il separarsene per
non rivederle mai più. Intanto, m'erano rivenuti intorno il _papà_,
la bimba dai diavoletti e tutti gli altri più espansivi a domandar la
carezza d'addio, tendendo le loro manine che stringevano ancora dei
pezzetti di pane e dei torsi di mela, e dicendomi cento _Ciao_, su
tutti i toni, come a una persona della loro famiglia che partisse per
un viaggio. Poveri bambini! Ed io pensavo, accarezzandoli, ch'eran
loro, invece, che partivano per un lungo viaggio, per il viaggio
misterioso della vita, nel quale, appunto perchè eran di natura più
dolce e più affettuosa degli altri, chi sa quanto avrebbero avuto più
degli altri da soffrire e da piangere ed anche più spesso desiderato la
fine....

Quando arrivai sull'uscio, e mi lasciarono, sentii ancora nella mia una
piccola mano che ci doveva essere da un po' senza che me n'avvedessi,
e sollevando il mento a quell'ultimo accompagnatore, riconobbi il
piccolo disgraziato che somigliava alla figura del libro del Lombroso,
quello a cui la natura aveva così crudelmente smentito sul viso la
bontà angelica dell'anima. E lo fissai per qualche momento in quei
piccoli occhi ineguali e sporgenti che dicevano così umilmente: — Son
brutto; ma son buono; non mi guardate; ma amatemi, — e mi domandai nel
cuore, con tristezza, quante umiliazioni, quanti dolori non gli sarebbe
costata nella vita quella menzogna spietata della natura; e stretto
fra le mani il suo capo deforme, fui costretto a prolungare il bacio
che gli stampai sulla fronte, — mentre egli mi s'attaccava al bavero
con le manine, — per avere il tempo di scomporre sulla mia faccia
l'espressione di profonda pietà che temevo egli potesse comprendere....

Ma, rialzando il capo per uscire, dovevo aver l'ultima stoccata da
quella strana faccia canzonatoria di mefistofeluccio, che era lì a due
passi, e che mi guardava socchiudendo un occhio e torcendo la bocca,
con l'aria di dirmi: — Ti conosco, e non me ne vendi. — Non poteva
essere, lo capisco bene; ma tant'è, l'orgoglio è irragionevole: se non
c'era lì la direttrice, gli allungavo una pacca.



I BAMBINI DI VAL D'ANDORNO.


Una delle più care bellezze dell'alta valle di Andorno sono i bambini;
per i quali io credo che il Correggio redivivo, se li vedesse una
volta, andrebbe a villeggiare ogni anno a Campiglia. Salendo dalla
Balma a Piedicavallo, se ne vedono da ogni parte; in mezzo ai prati,
fra i pietroni del Cervo, su per i sentieri che salgono e si perdono
fra i faggi e i castagni, e a mucchi e a processioni in ogni villaggio:
tanto numerosi da far pensare che non ci sia altra valle in Italia così
prolifica. E poichè d'estate, emigrando quasi tutta la popolazione
maschile (composta in gran parte di muratori e di scalpellini), è
rarissimo incontrare dalla Balma in su un uomo giovane o maturo, ne
segue che al nuovo arrivato vien fatto di domandarsi donde provenga
tutta quella razza minuta: se sia una produzione spontanea della terra,
o merce importata, per la stagione estiva, da altri paesi. Sono tutti
floridi e biondi, di tutte le sfumature dell'oro monetato e delle
barbe di pannocchia di meliga: teste d'inglesi e di scandinavi d'una
carnagione maravigliosa di colorito e di freschezza, con occhi di tutte
le gradazioni dell'azzurro, da quello forte delle loro Alpi a quello
chiarissimo del loro torrente, leggermente verdeggiante come i cieli
del Veronese: alcuni con biancori di latte sulla fronte, dietro le
orecchie e nel collo; e tutti segnati di due rose rosse sulle guance,
eguali di forma e di tono in quasi tutti, come quelle delle bambole
che l'artefice imporpora una dopo l'altra con lo stesso tocco meccanico
del pennello. E non solo per i capelli e per i colori, sono belli anche
per i lineamenti fini, per la forma gentile della bocca, per la grazia
scultoria di tutte le forme: e più belli appariscono per il risalto
che dà alle loro capigliature aurine scompigliate dall'aria viva e
ai loro visi bianchi e rosati il verde vivissimo della vegetazione
su cui si disegnano per solito le loro personcine rotondeggianti,
quando, dall'alto dei muri a secco o di mezzo alle macchie, in gruppi
o in schiere immobili, coi piedi nudi nell'erba, stanno a vedere il
forestiere che vien su lentamente in carrozza per lo stradone della
valle.

V'è per lo più molta rassomiglianza tra fratelli e sorelle; ci son
famiglie numerose in cui tutti i figliuoli e le figliuole rappresentano
una serie di edizioni in formato vario dello stesso libro, non riveduto
nè corretto: tanto rassomiglianti che, incontrandoli per via, a una
certa distanza, l'un dopo l'altro, vi pare di vedere sempre lo stesso
bimbo, ora ingrandito ora rimpicciolito, ora maschio ora femmina,
come se cambiasse di statura e di sesso a modo d'un personaggio dei
racconti fantastici dell'Hoffman. Ci diranno i fisiologi se questo
possa derivare dall'essere stati tutti concepiti nelle condizioni
medesime, nei ritorni periodici e a data fissa dei padri emigrati, i
quali riportano a casa quella quantità solita di risparmi di danaro e
di castità, a cui corrisponde sempre fra i due coniugi, con gli stessi
pensieri e gli stessi discorsi, la stessa misura d'allegrezza domestica
e d'impulso generativo.

A loro l'ardua sentenza.

Questi ragazzi così somiglianti, peraltro, questi bei fiori montanini
nati di rudi lavoratori pratici e positivi in sommo grado, dei quali
è ultima qualità lo spirito poetico, si distinguono per nomi classici
e romantici, che paiono stati scelti da padri letterati e da madri
poetesse; benchè, in realtà, non sia invalsa la consuetudine di quei
nomi insoliti che per ovviare alla confusione dei cognomi, diventati
comuni a un gran numero di famiglie per effetto della rete fitta di
parentele che allaccia i valligiani, devoti al proverbio del “moglie
e buoi„. La sera, all'udir le mamme chiamar di sull'uscio la prole
dispersa per i vicoli e per la campagna, vi par di udir invocare gli
eroi e le eroine della storia e della poesia di ogni paese e d'ogni
secolo. Dante vi passa accanto piegato in due sotto una fascina che lo
nasconde tutto; Clorinda, settenne, raccatta per la strada le reliquie
fecondatrici dell'orto; qui stimola i porci Temistocle; là sferza le
vacche Tarquinio; Rinaldo strascica il sedere sui ciottoli con una
fetta di polenta fra le mani, e

    Erminia intanto fra le ombrose piante

si soffia il nasino con la camicia.

Coi nomi terribili e romanzeschi non concorda l'indole, che è
generalmente placida e prudente. Il forestiere, che passa per la
prima volta, essi guardano con occhio intento e scrutatore, come se
prevedessero d'aver da trattare con lui un appalto o una vendita: con
occhio scrutatore, ma rispettoso. E rispettosi sono coi villeggianti
abituali, che sogliono salutare in modo originale, pronunciando il
loro nome, quando li incontrano, e fissandoli, come fanno i soldati
coi superiori, senza inchinare la testa. Sono anche poco rissosi,
come se volessero serbare le forze battagliere per la lotta disperata
che combatteranno un giorno coi lavoratori concorrenti di tutto il
mondo, e attendere a leticar fra di loro quando saranno proprietari
di quella terra divisa in mille scacchi e in mille striscie, sulla
quale e per la quale s'accapigliano intanto i loro parenti. E sono
dignitosi: nessuna di quelle piccole mani, neanche dei più poveri, si
stende a chiedere il soldo al passante; e quando uno ne stringono,
non c'è caso che lo sciupino o lo perdano; somigliantissimi pure in
questo ai loro genitori. E anche nei loro spassi mostrano mirabilmente
l'eredità delle facoltà acquisite. In nessun altro luogo vidi mai i
ragazzi costrurre muricciuoli e casette di sassi, mulini e condotti
d'acqua con arte così esperta e con diligenza così paziente, per ore
ed ore, in silenzio, concordi fra molti all'opera come squadre d'operai
disciplinati, prolungando il lavoro anche per vari giorni e smettendolo
e ripigliandolo ogni giorno all'ora stessa, come al suono della campana
d'un opificio.

Bambine di sette o otto anni aiutano la mamma ai lavori muratori,
portando nella loro gerla minuscola quattro manate di sabbia o un par
di mattoni per volta, con la serietà muta e col passo lungo e grave
d'operaie adulte. Bambini, alti un palmo, stanno seduti tutta una
mattinata, per trastullo, sulla proda d'una strada, a picchiare con
un chiodo e un martello un pezzo di sienite, come se avessero preso il
lavoro a cottimo, senza alzare una volta in un quarto d'ora la testina
bionda, dardeggiata dal sole.

Questa forza tranquilla di volontà, congiunta a un amor proprio
precocemente guardingo, dimostrano in ogni cosa. Intoppate per la
strada dei quinti d'uomo, usciti appena dalla prima elementare, che
non possiedono un vocabolario di più di venti sostantivi (i verbi sono
sempre incerti); ma che, se gli interrogate in italiano, incapati
di rispondervi nella lingua nazionale, s'ingegnano d'accozzare alla
meglio quelle venti parole, facendo lunghe pause riflessive fra l'una
e l'altra, come fanno in Italia i viaggiatori inglesi e tedeschi, con
una flemma di filologi scrupolosi, senza darsi un pensiero della vostra
impazienza, non intesi ad altro, con tutte le forze del cervello, che a
scansare gli spropositi.

Ricordo uno di questi che, domandato da me di un suo zio impresario a
Torino, volendomi dar la notizia che era stato decorato della Corona
d'Italia, dopo due buoni minuti di cogitazione, mise fuori questa
curiosa frase di suo conio: — _L'hanno fatto passar cavaliere_ — ma
con un accento di trionfo, che traduceva il pensiero: — l'ho cercata
un pezzo, ma l'ho trovata bene. — E hanno delle trovate singolari, da
montanari sottili, diverse in questo da quelle degli altri bimbi, che
vengon fuori in una forma di gravità comicamente impropria all'età
loro. Un piccino, a cui diedi una pera candita perchè la dividesse in
parti uguali fra sè e le due sorelle più piccole che gli stavano al
fianco, volendo, ma non osando di farsi sotto i miei occhi la parte
del leone, stette pensieroso un pezzo con gli occhi fissi sul frutto,
e poi disse solennemente alle sorelle: — _Qui non si fa niente senza
il coltello_, — e con questo pretesto si diresse verso casa per fare il
comodo suo; ma con l'incesso e il viso d'un uomo assorto in tutt'altri
pensieri, per distornare, s'intende, il mio sospetto; il quale mutavano
invece in certezza gli sguardi obliqui e indagatori di cui ogni tanto
mi saettava.

E come un bell'esempio di posatezza e di precisione rammento un bimbo
di men di tre anni, bellissimo, che, avendogli io porto una scatoletta
della Regia su cui fissava lo sguardo con grande curiosità, la rivoltò
con le manine per tutti i versi, l'aperse con cautela, vi guardò in
fondo attentamente, ne tirò fuori l'una dopo l'altra tre sigarette,
le esaminò ad una ad una, le rimise dentro adagio adagio dalla stessa
parte dove le aveva prese, gingillò un pezzo con le dita finchè riuscì
a far rientrare la linguetta nel taglio e, dopo essersi assicurato col
pollice che era chiusa bene, me la ripose sulla palma della mano e ve
la premè colla sua zampetta come per farmi prender atto che era fatta
in tutte le regole la restituzione della mercanzia.

Questi ragazzi, che sentono parlare in casa di tutti i paesi d'Europa
e d'Africa e d'Oriente e d'America, dove i loro padri lavorarono e
lavorano, viaggiano un po' coll'immaginazione, anche prima d'uscire
dal guscio, per il mondo intero. Appena sono in forza da portar la
secchia della calce, la più parte vanno a fare il tirocinio di muratori
nelle città grandi, e, compiuto questo, emigrano dall'Italia. Ma
le separazioni della famiglia si fanno senza lagrime, e quasi senza
commozione, perchè tutti ci hanno il cuore preparato fin dall'infanzia.
Non senza tristezza, però, quando li vedo giocar per le strade così
rosei e sereni, io me li raffiguro giovinetti, curvi sotto il carico
su per le alte scale oscillanti degli edifici in costruzione, o
ammucchiati nelle soffitte, dove essi stessi si fanno da mangiare e si
rimendano i panni, stillando ogni sorta di più duro risparmio; e poi,
più grandi, soli in terre straniere, in mezzo a gente di cui ignorano
la lingua, invisi quasi sempre ai concorrenti indigeni per il loro
accanimento al lavoro e per la loro parsimonia spartana, e vittime
qualche volta di persecuzioni crudeli.

Ma mi conforta il pensiero che darà saldo coraggio a tutti l'immagine
della valle nativa a cui sempre pensano, e che, se campano, li riavrà
tutti quanti certissimamente, arricchiti o poveri, stretti a lei fino
alla morte. Quanti sono già dispersi per il mondo che vidi bambini fare
i castelli coi sassi e scheggiar la sienite col chiodo, coi capelli
biondi dorati dal sole e agitati dal vento!

Ogni anno leva il volo una schiera di questi miei antichi amici, e i
loro nomi e i loro visi prima si confondono, poi svaniscono nella mia
memoria.

Ma i vuoti si riempiono continuamente. Ritornando nella valle vi trovo
ogni anno nuove capigliature d'oro, nuovi occhi celesti, nuove guance
vermiglie, un drappello nuovo di Danti, di Temistocli e di Goffredi,
figliuoli di padri lontani che non vidi e non vedrò mai; e questi
nuovi eroi nascono e crescono così somiglianti, sotto ogni aspetto,
ai partiti, che, insomma, mi par di ritrovarmi sempre in mezzo alla
stessa popolazione infantile. Bella e strana popolazione di piccoli
impresari in forma di cherubini, di futuri capomastri, che paiono putti
scappati dai quadri del Rubens, di scalpellini e di muratori in erba
a cui possono invidiare le rose e i gigli del viso i figliuoli dei
principi: innocenti sì, e amabili come tutti i bambini; ma che pure
hanno qualcosa nell'indole, negli occhi e nella parola da far credere
che nella notte di Natale, quando sognano la scarpetta che hanno messo
sulla finestra, non vagheggino di trovarvi dentro dei dolci, ma una
cedola del Consolidato 5%.



PICCOLI STUDENTI



MOMENTI SOLENNI.


Il regolamento delle scuole municipali dice che gli esami orali sono
“pubblici„. Non feci dunque che esercitare uno dei miei diritti di
cittadino chiedendo d'assistere agli esami degli alunni della 1ª
elementare della scuola “Giuseppe Grassi.„ Desideravo di vedere con che
animo e con che aspetto i miei concittadini di sette anni affrontavano
la prima prova del fuoco sul campo di battaglia della scienza.

Nei corridoi e per le scale, in mezzo a gruppi di alunni e d'alunne,
trovai molte mamme, che davano gli ultimi conforti ai figliuoli, o
stavano aspettandoli; alcune sedute lungo i muri, con l'aria paziente
e rassegnata di postulanti d'anticamera; altre che andavan su e giù,
col viso ansioso, come se aspettassero il risultato d'un'operazione
chirurgica. E pensai a quanti altri milioni di madri, in quei giorni,
erano, come quelle, prese per una fibra del cuore nei congegni di
quella macchina immensa dell'istruzione pubblica, che lavora il
cervello delle generazioni crescenti in tutti i paesi civili.

Salito al primo piano, entrai in una stanza ariosa e chiara, dove
quattro maestre e due maestri sedevano intorno a una gran tavola
coperta d'un tappeto verde, ciascuno rivolto verso un piccolo alunno,
che gli stava accanto, in piedi. Il direttore, — un omone dal viso
barbuto e benigno, — girava attorno alla tavola, usciva, rientrava,
assentendo col capo alle risposte giuste e corrugando la fronte ai
farfalloni che coglieva a volo. A quella vista il mio pensiero fece
un improvviso salto indietro di quarant'anni, e sentii come il vago
ridestarsi d'un terrore antico, che era già quasi morto anche nella mia
memoria. Mi ricordai, come in sogno, d'aver avuto una forte tremarella
in una stanza di quello stesso colore, davanti a una tavola verde come
quella, in presenza di un'altra gran barba nera di direttore, di faccia
a un altro finestrone con le tende bianche, dal quale veniva dentro
lo stesso raggio di sole, lo stesso odore di fiori d'acacia, lo stesso
silenzio di strada solitaria, che sentivo in quel punto. E mi rallegrai
veramente al pensare che non ero là per essere esaminato.

Oltre agli esaminati v'era in un angolo un gruppetto d'esaminandi,
che al vedermi entrare, credendomi un'autorità scolastica, si scossero
tutti a un tempo come una nidiata di passeri spauriti e mi piantarono
gli occhi addosso con l'aria di domandarmi qual particolare ufficio
di aiutante aguzzino io venissi a fare in quella stanza di tortura;
e quando mi videro tirar fuori una matita dilatarono gli occhi anche
di più, come se avessi cavato di tasca un par di tanaglie. Io sorrisi
amichevolmente, per rassicurarli; ma dovettero pensare che il mio
sorriso significasse: — Ora v'accomodo io, — o qualcos'altro di simile,
perchè non si rasserenarono punto; anzi mi parve che si turbassero
peggio. E allora rimisi la matita in tasca.... _per non farli più
tristi_.

Sedetti in un angolo, vicino a un maestro dai capelli bianchi,
che dava l'esame di lingua. Gli esaminatori erano divisi in tre
coppie; in ciascuna delle quali uno esaminava sulla lingua, l'altro
sull'aritmetica. Essendo stati promossi senza esami gli alunni
migliori, gli esaminandi non erano che gli “scadenti„ o, per parlare
col dovuto rispetto, i meno dotti della scolaresca.

Quando sedetti, il maestro bianco stava esaminando un visetto di poco
più di sette anni, così biondo, rosato e bello, che non avrei avuto
cuore di “bocciarlo„ neanche se avesse straziato la grammatica come una
tigre. Ma pareva che se la cavasse. Stava per finire. Colsi per aria
l'ultima domanda, che era di letteratura storica: — Quali sono i colori
della bandiera italiana?

— Bianco, rosso..., — rispose, e dopo un momento di titubanza: — verde.

— Bravo, — disse il maestro. Era promosso. Si cominciava bene. N'ebbi
piacere.

Da principio non mi riuscivo a raccapezzare in quella confusione
di domande e di risposte che mi venivano all'orecchio, a frammenti,
da varie parti. — Scrivi: diciotto. — Che cosa sono i sassolini? —
_Pere cite_ (pietre piccole). — Il sa-crifi-cio di Le-o-nida.... —
Quattordici, tredici, dodici.... — Il maiale grugnisce. — Ma bene,
quattro nocciole e tre nocciole fa nove nocciole: si raccolgono i
frutti dell'annata.... — Quadrupede, dunque, significa.... — _La mia
patria m'ha dato il Signore, Mio pensiero, mia fede_.... — E scrivi
venti con due zeri? Mariuolo!...

A questo punto ci fu un intervallo di silenzio, dopo il quale udii
distintamente la voce grave d'una maestra, che domandò: — Che cosa fa
il bue?

E una voce argentina e franca rispose: — Il bue ci dà il latte.

Cercai con lo sguardo il colpevole e lo vidi chinar la fronte sotto due
occhi fulminei.

Debbo dire che la maggior parte mostravano assai meno timore di quello
che m'aspettassi. Ma ce n'eran parecchi che n'avevan in corpo per
tutti. Li riconoscevo, dopo che avevan dato una risposta, dal movimento
forzato di deglutizione che facevan tutti, allungando il piccolo
collo come se mandassero giù un osso di pesca. A più d'uno tremavano
le mani e le labbra. Si vedeva su certe fronti lo sforzo violento
dell'intelligenza tesa a tutta possa, quasi con l'espressione d'un
dolore fisico, che si mutava tutt'a un tratto in serenità a un: — Bene
— dell'esaminatore, come la contrazione del viso d'un assetato a una
sorsata d'acqua fresca. Alcuni, per comprender meglio, si cacciavan
sotto, col viso voltato in su, quasi fra le ginocchia del maestro,
quasi a toccar col naso il suo naso, fissandolo negli occhi con gli
occhi spalancati, acconsentendo col capo a tutti i movimenti del suo
capo, riflettendo col viso tutti gli atteggiamenti del suo viso, come
ipnotizzati. E a che grado di tenuità si riducevano per la paura certe
voci! Erano bisbigli di confessionale, gemiti d'aurette, mormorii di
fili d'acqua, sospiri moribondi d'anime in pena. Parecchi eran così
piccoli che arrivavano appena col mento all'orlo della tavola, in modo
che, quando leggevano col viso spinto innanzi, non mostrando nè spalle
nè collo, pareva che la loro zucchina rapata posasse sul tappeto verde
come divisa dal busto, e quando scrivevano con la penna del maestro,
iperbolicamente lunga per loro, la quale, tenuta ritta, sorpassava di
quattro dita il loro capo, pareva che scrivessero con uno spiede.

— Quali sono gli alimenti principali dell'uomo? — domandò un maestro.

L'interrogato, ch'era figliuolo d'un operaio povero, rispose
prontamente, come chi non ha il minimo dubbio sull'ordine razionale
dell'enumerazione: — La polenta, le patate, l'insalata....

La stessa domanda era rivolta quasi nello stesso tempo a un altro
alunno, che, confondendola con un'altra domanda usuale di suono simile,
rispose con scioltezza: — Gli alimenti principali dell'uomo sono la
testa, il collo, le spalle....

Era questi un piccolo originale, che non dimenticherò mai, un
viso sorridente e ardito, con due occhi chiari di ribelle sereno,
inaccessibile per indole a ogni sopraccapo scolastico, che pareva dire
a tutta la Commissione esaminatrice: — Ma non sapete che io non ho
neppure un pelo che si dia pensiero di voi, dell'esame, del ministero
dell'istruzione pubblica e di tutto lo scibile umano? —

Amenissimo era il lavorìo che facevan quasi tutti con le dita per
rispondere alle domande d'aritmetica, richiedenti somme e sottrazioni
mentali. Alcuni, per dignità, facevano il calcolo di nascosto, sotto
la tavola o dietro la schiena; altri, senza un riguardo al mondo,
calcolavano con le mani sotto il naso dell'esaminatore, afferrando
successivamente le dita della mano sinistra col pollice e con l'indice
della destra e scotendole a tutta forza come per provare la saldezza
delle articolazioni, e nel contare battevano fitto le labbra e le
palpebre come le divote che recitano il rosario. A uno di questi
matematici “prestidigitatori„ un morettino di sette anni, il maestro
domandò quanti anni avrebbe avuti fra altri sette anni. Dopo aver molto
armeggiato con le mani sotto la tavola, egli rispose trionfalmente:
— Quarantanove. — E, _secondo il suo modo di vedere_, come dice
il Ferravilla dell'orso bianco che incanutisce in nero, egli aveva
calcolato giusto: solo che aveva moltiplicato, invece di sommare. Un
semplice malinteso.

Ah! come parevan lunghi ad alcuni quei pochi minuti! Per la grande
finestra aperta si vedeva il cielo, qualche vetta d'albero, degli
uccelli che roteavano nerazzurro; e i poveri ragazzi, nei momenti
d'incertezza o di smarrimento, rivolgevano quasi tutti lo sguardo
da quella parte, verso l'aria pura e la libertà, con un sentimento
d'invidia — si capiva — per quell'altre piccole creature volanti, che
non conoscono nè grammatica nè numeri; e quel sentimento era compreso
da più d'una maestra che, impietosita, per richiamare all'attenzione
l'alunno, lo pigliava dolcemente per un orecchio o pel mento e gli
faceva voltare il capo verso di sè, — come si fa girare un mappamondo
sferico sul suo asse, — dissimulando un sorriso.

Dopo un quarto d'ora ch'ero là il mio atteggiamento di “potenza
neutrale„ aveva rassicurato anche i più timorosi. Non solo non mi
guardavan più con terrore; ma qualcuno dei più vicini, in certi
momenti critici, cercando ansiosamente una risposta, mi rivolgeva
uno sguardo che implorava soccorso. E avrei suggerito volentieri;
fui anzi tentato più volte di far dei segni salvatori dietro le
spalle del vecchio maestro; ma oltre che il rispetto per questo,
che era, più che indulgente, amorevole, mi trattenne — lo dico sul
serio — una considerazione di alta politica, il pensiero della mia
fede nell'avvenire d'un ordinamento sociale, in cui, essendo aperto a
tutti il concorso nel campo degli uffici intellettuali, la selezione
delle intelligenze dovrà essere anche più severa, e quindi la prova
degli esami anche più rigorosa che al presente. — Sii logico, — dissi
a me stesso, — ed ebbi la forza di non fare un cenno nemmeno a un
povero ragazzo col naso ammaccato, che, sul punto d'affogare in una
sottrazione, volgendomi uno sguardo di naufrago, pareva che mi dicesse
il verso di Dante:

    Non hai tu spirto di pietade alcuno?

Ah! come la politica indurisce il cuore.

— LA MORTE DI SOCRATE!

Queste parole solenni, dette da una bella voce di contralto, mi fecero
voltare bruscamente verso l'angolo opposto della tavola: era una
giovane maestra, dagli occhi severi e dal naso aristocratico, che le
aveva dette a un ragazzo minuscolo, presentatosi in quel momento, con
un visino smarrito, che pareva una mela lessa. — La morte di Socrate!
— pensai. — E che potrà mai rispondere quel piccolo malcapitato? — Ma,
con mia maraviglia, l'ometto era ferrato sull'argomento. La morte di
Socrate non era che un raccontino di poche righe, compreso nel libretto
delle _Prime letture_, e imparato a mente dagli alunni nel corso
dell'anno. L'ometto si fece onore. Disse anzi la chiusa: — _Ammirabile
risposta!_ — (la risposta di Socrate) — con un accento di gravità
filosofica, che fece ottimo effetto.

Si presentò poco dopo al maestro mio vicino uno scolaretto poveramente
vestito, rosso in viso e tutto ansante, che doveva aver fatto poco
prima un pugilato con un suo compagno, perchè gli spenzolava il bottone
dal collo della camicia, e mostrava il petto nudo: un povero petto
scarnito e incavato, dal quale e dagli occhi pallidi, e come stanchi,
si capiva che nell'annata egli doveva contar più giornate che pasti.
Alla prima interrogazione, di vermiglio che era, si fece smorto: aveva
una gran paura, e gli si leggeva in viso ch'era paura d'una cosa
lontana più che del maestro presente; ahimè! delle botte materne e
paterne, forse, che avrebbero suggellato un esame infelice. Mi fece
una grande pietà. — Ah, questa volta — pensai — vada al diavolo la
logica: io suggerisco. — Ma, con mia viva soddisfazione e con stupore
del maestro, il piccolo pugilatore fece un “esamone„. Superato il
primo intoppo, tirò avanti col vento in poppa, rispondendo a tutte le
domande, nel secondo esame come nel primo, senza incagliare una volta
sola. Ed era commovente il vedere come quel povero viso a grado a grado
s'illuminava, come quel piccolo corpo si riscoteva a ogni parola di
lode, come sotto una carezza. L'esaminatrice d'aritmetica, contenta,
gli disse terminando: — Bene. Ancora una cosa. Sapresti scrivermi il
numero _cento_? — E quegli, trionfante oramai, stirato prima il braccio
in aria con l'atto d'uno schermitore che sta per impugnare la spada,
prese la penna, piantò i gomiti sulla tavola con un far da padrone, e
scrisse in mezzo al foglio un 100 enorme, in vere cifre da lotteria,
inappuntabile. Poi buttò la penna da parte, e alzò il viso baldamente,
come dicendo: — Si vuol altro da me?... Son qui pronto!

Il direttore, che aveva assistito all'esame, gli fece i rallegramenti,
e disse al maestro: — Lo proporremo per la villa Genèro.

Dei del cielo! Il mese d'agosto in una villa ridente, sulla bella
collina di Torino, in mezzo agli alberi e ai fiori, col Po sotto gli
occhi e le Alpi di fronte! Al povero ragazzo uscirono dagli occhi due
raggi di sole....

Venne poi un altro, palliduccio e di aspetto malinconico, a cui la
mamma aveva annodato con molta cura una cravattina nuova, che metteva
più in vista la giacchetta trita. Fattegli alcune domande, il maestro
dai capelli bianchi gli mostrò nel libro di lettura una vignetta, che
rappresentava una signora con la sua figliuola, vestita riccamente,
la quale tendeva la mano a una ragazza povera, accompagnata dalla
sua mamma vestita a bruno; e c'era scritto, sotto la stampa: — _La
figliuola della vedova._ — Interrogato, il ragazzo pose il dito prima
sull'una e poi sull'altra figura, e disse: — Questa è la fanciulla
ricca, questa è la povera.

— Perchè, — gli domandò l'esaminatore, — dici che questa è la povera? —
e aspettava che gli rispondesse: perchè è vestita da povera. Il ragazzo
rispose invece, con certo accento di mestizia: — Perchè non ha più suo
padre.

Il maestro parve stupito e commosso da quella risposta, e, fatto cenno
a me che quel ragazzo appunto aveva perso il padre pochi mesi avanti,
gli rispose con sapiente delicatezza, passandogli una mano sul capo: —
Hai ragione.... In fatti.... un bimbo non è mai povero fin che ha suo
padre.

E altri ne passarono: visi umili che domandavano misericordia, faccine
toste che parea che fossero al loro centesimo esame, buoni ragazzi
in disdetta che non ne azzeccavano una, bricconcelli fortunati che le
infilavano tutte, e bocchine slattate da un lustro che dicevano quattro
e sette fa dieci con una grazia adorabile, e anche più d'un becco roseo
invermigliato di sugo di ciliegie. Ne venne uno che per leggere il nome
di Epaminonda preparò i muscoli labiali con un movimento comicissimo,
come se avesse dovuto imboccare un trombone smisurato; poi un altro,
un biondino tutto sgomento, il quale balbettò il nome di Cincinnato
con tanti _cin_, da parere che imitasse il suono dei piatti turchi,
mettendo a duro cimento la serietà di tutto il corpo esaminante; e
dopo di lui un meschinello che a non so qual domanda difficile, dopo
un lungo silenzio, non trovò altra risposta che due lacrime. E vidi
ancora far molti calcoli da molti aritmetici maneschi; uno dei quali,
avendogli detto la maestra: — Ma che cosa ci hai in quella testa? —
si passò una mano sulla testa e si guardò la mano; e, tenendo dietro
alle letture del _Complemento del sillabario_, feci molte volate
vertiginose da Mosè a Demostene, da Garibaldi ad Enea, da Federico il
Grande a Orazio Coclite, a Giobbe, a Scipione, a Emanuele Filiberto,
divertendomi a immaginare la ridda matta che dovevan ballare quei
grandi personaggi nell'oscurità di quelle piccole teste; e dopo la
solita formula: — Va pure, — sentii certi

                  possenti aneliti
    d'una seconda vita.

che non credo se ne sentano di più profondi e di più dolci nelle aule
dei tribunali regi alla lettura dei verdetti d'assoluzione.

L'ultimo che si presentò alla maestra che avevo accanto fu il più
lepido della processione. Non pareva impaurito, ma attonito. Poteva
aver sette anni al più; un viso di nulla, che somigliava una miniatura.
La maestra gli fece una domanda, e, tardando la risposta, gli disse,
un po' impazientita, con l'occhio rivolto altrove: — Su via! — Quegli
credette che quel _via_ significasse _vattene_, e, non desiderando
di meglio, girò senz'altro sui talloni e se la diede a gambe. Quando
l'esaminatrice si voltò, e non lo vide più, restò a bocca aperta un
momento; poi s'alzò di scatto e corse nel corridoio, dove lo raggiunse,
e lo ricondusse per mano al suo posto — visibilmente accorto del
disinganno.

E questo innocente “tentativo d'evasione„ fu l'ultimo episodio notevole
a cui assistetti. Uscito prima che si sciogliesse la Commissione,
trovai ancora nel corridoio del primo piano e in quello a terreno
un buon numero di mamme, di nonne e di zie, che aspettavano con
santa pazienza da un paio d'ore, e vidi gli abbracciamenti con cui
alcune accoglievano “gli usciti fuor del pelago„ sommettendoli a
un interrogatorio concitato, seguito da un arruffio di risposte,
che provocavano nuove domande, le quali le lasciavano più inquiete
di prima. Non tutti, peraltro, si mostravano incerti o modesti. Un
piccolo spaccone rispose ad alta voce, tagliando l'aria con un gesto
di capitan Fracassa: — Ho saputo tutto! — Intesi un altro trionfatore
che si vantava; ma la mamma, una donna del popolo, gli tagliò in
bocca le vanterie, dicendogli: — Sta zitto, vanerello, che è stato
sant'Antonio: tu non sai quanto t'ho raccomandato.... — C'era un gruppo
di donne che circondavano un bimbo d'un'altra classe, del quale si
diceva che avesse fatto maraviglie, e tutti ci facevano dei commenti
laudativi, lavorando di fantasia: — qualche cosa di non mai visto
nè inteso, — gli esaminatori trasecolati, — un vero portento, — e
guardavano il marmottino da capo a piedi, con grande ammirazione, come
se gli vedessero già in dosso l'uniforme di Presidente dei Ministri.
Un po' più in là raccolsi un frammento di dialogo di due popolane,
una delle quali si lagnava, dicendo: — L'hanno interrogato su tutte le
_combinazioni_ più difficili. Già questi maestri e maestre, agli esami,
si sa, _vanno tutti per protezione_. — E domandandole l'altra perchè
non fosse andata ad assistere agli esami, che erano _a piede libero_:
— Eh, cosa ci sarei andata a fare, — rispose, — _io che non conosco
l'errore_!

M'ero soffermato in quel momento a pochi passi dal portone della
Scuola, davanti al quale stavano affollati una cinquantina tra scolari
e scolare delle prime due classi, che facevano un cicaleccio vivissimo.
A un tratto tutti tacquero, e li vidi dividersi rispettosamente in due
ali, guardando tutti verso il mezzo (dove io non vedevo), con gli occhi
scintillanti come di simpatia e d'ammirazione. Certo, entrava qualche
personaggio autorevole, l'Ispettore governativo, il Provveditore, che
so io? il Sindaco di Torino. — Che ragazzi bene educati, — pensai; —
buoni piccoli piemontesi, in cui pare innata, in cui è così profonda la
reverenza dell'Autorità, che dimenticano, all'apparire d'un Superiore,
ogni divertimento, ogni cura....

Non avevo finito di dir questo che il personaggio entrò.

Era un cameriere di caffè che portava un gelato.



PICCOLI SCRITTORI.


Ho sotto gli occhi i componimenti di trentacinque alunni della seconda
elementare d'una scuola municipale di Torino: ragazzi dai sette
agli otto anni, di tutte le classi sociali. Chi non ha mai letto una
raccolta di “prose„ di questo genere non immagina quanto ci sia da
divertirsi e da meditare.

Si noti che il componimento fu fatto nella scuola, senza brutta copia,
sotto gli occhi della maestra; la quale, dettato il tema, non aggiunse
alcun suggerimento, e che perciò questi lavori sono la schietta
manifestazione dell'animo e della capacità intellettuale degli alunni.

Il tema era: — dite quali siano le occupazioni del vostro babbo, della
vostra mamma, di ogni persona della vostra casa. —

Non mi trattengo sulla grammatica e sull'ortografia. Noto di volo,
soltanto, che gli errori grammaticali sono quasi tutti i medesimi,
derivando la maggior parte o da anomalie della lingua, come quello
frequentissimo di scrivere al nominativo _miei fratelli_ perchè si
dice al singolare _mio fratello_, o dalla suggestione del dialetto,
come quello del dativo _gli_ in vece di _le_; nel che non si può
supporre che i miei piccoli scrittori intendessero di seguire la teoria
manzoniana. Quanto all'ortografia, sono pecche comuni (e la ragione
si capisce) l'orrore della virgola, il disprezzo dell'apostrofe,
l'appiccicatura degli articoli ai sostantivi, e la cattiva
amministrazione delle consonanti, risparmiate o spese a sproposito,
per non aver la norma della pronunzia esatta. Lo scoglio in cui
tutti battono è l'acca del verbo avere. Io credo che molti ragazzi la
sognino. E non son forse i più quelli che dimenticano di scriverla; ma
quegli altri che, ricordandosi che ci vuole, senza sapere ben dove,
la scrivono di dietro invece che davanti, convertendo così il verbo
in un'interiezione, — _ah_, — la quale in certi punti fa un effetto
comico, come se volesse dire: son stufo. E degli errori di senso è il
più ovvio quello che proviene dall'intromettersi d'un pensiero in un
altro pensiero, il quale rimane così troncato nella mente del fanciullo
ed espresso a metà sulla carta, come uno di quegli avvisi pubblici
a cui si sovrappone in parte un altro avviso. Nella correttezza
grammaticale, del resto, come nella regolarità calligrafica, vi sono
tra i lavori grandi differenze; non tutte riferibili al vario grado
di capacità degli alunni, poichè molte derivano dal loro umore della
giornata; che è come dire dalla rottura d'un balocco o dalla perdita
d'un soldo o dalla soppressione del caffè e latte mattutino. Ma dei
dispiaceri di questa natura si risente molte volte anche lo stile degli
scrittori di quarant'anni.

                                   *

Restringo le mie osservazioni al campo morale, che è più fecondo e più
vario. Ricavo per prima cosa da questi componimenti che la maggior
parte delle famiglie si occupano dei loro piccoli scolari assai più
di quanto non si soglia credere, poichè non c'è quasi ragazzo, di
questi trentacinque, anche di quelli di più umile condizione (e non
c'è ragione di sospettare che non sian veritieri), il quale non dica
che il padre o la madre o un fratello o una sorella gli fa recitare
ogni giorno la lezione o gli rivede il lavoro, e tutti quanti accennano
il particolare, che, ogni volta che escon di casa per andar a scuola,
la mamma guarda loro nel zaino per veder se ci hanno ogni cosa. Mi
par questo un segno certo di progredita istruzione popolare, poichè
non credo che nelle famiglie povere di trent'anni addietro si facesse
altrettanto. Quasi tutti dicono minutamente e con ordine l'orario di
tutti i loro parenti. E da questo e da altri accenni a consuetudini
domestiche si capisce la vita ordinata e operosa di molte famiglie,
in cui tutti si levano all'alba e lavorano tutta la giornata, e si
aiutano e si ricreano insieme nel breve tempo che passano uniti; e
appariscono vagamente figure di madri ammirabili, e sventure nobilmente
sopportate, e case di piccoli “borghesi„ nelle quali il decoro visibile
è mantenuto a prezzo d'una rigida vita interiore, confortata dalla
buona armonia e dalla buona coscienza. E per questo rispetto la lettura
dei componimenti m'ha rallegrato.

Un'altra cosa consolante ho notata, che contraddirebbe a una mia
opinione, ma che, potendo essere un semplice caso, non basta a
distruggerla; ed è questa, che dalla classificazione dei componimenti
non resulta che i ragazzi di famiglie popolane siano inferiori, per
il minor aiuto intellettuale che hanno in casa, a quelli di famiglie
agiate, poichè degli undici, sui trentacinque, che ebbero i punti
migliori, sei sono figliuoli di povera gente.

Notevole è pure che sono figliuoli del popolo quelli che scrissero
espressioni più vive di affetto e di gratitudine per i loro parenti; il
che può derivare dal fatto ch'essi li vedono faticare per la famiglia
in una forma più sensibile che non sia quella del lavoro della mente,
e sono indotti più degli altri alla riflessione dall'austerità della
vita, e comprendono e valutano meglio le privazioni che s'impongono per
loro il padre e la madre, per effetto dell'esperienza dolorosa che ne
fanno sovente essi pure.

Curioso è che i tre alunni più affettuosi della classe sono tutti e tre
figliuoli di cuochi.

                                   *

Uno di questi chiude il componimento colle parole seguenti, che
trascrivo alla lettera: — _Oh se potessi essere al posto di mio babbo,
e non farlo più lavorare! Io penso che ha cinquant'anni! Io penso alla
mia povera mamma che è mezza ammalata! Dio benedica tutta la famiglia!_
— Il figliuolo d'una lavandaia, orfano del padre, scrive: — _Io non ho
il babbo, ma dico che cosa fa la mamma._ — E dice la sua lunga giornata
di lavoro. — _Viene a casa tanto stanca che nemmeno mangia la cena.
È molto buona e fa tutto quello che può per me, mi guarda perchè i
vestiti siano puliti, mi fa la colazione, mi pettina e ha cura di me._
— Originale e bella è questa chiusa del figliuolo d'un fabbro ferraio:
— _Oh bambini, obbedite sempre i vostri genitori. Essi sono gli
angioli. Ti anno allevato, ti mantennero ti mandano a scuola ordinato
e pulito essi ti diedero la vita e ti fecero camminare._ — Questo
_ti fecero camminare_ non è bellissimo? Non è men bella quest'altra
chiusa, del figliuolo d'un carbonaio: — _Povero babbo a durar fatica
dalle 5 alle 9 e mezza. Povera sorella che dura fatica a lavorare.
Povero fratello, è ammalato e molto._ — Ma la più singolare mi par
quella del figliuolo d'un conciatore, che dice: — _Quanto sono carini i
miei genitori! Quando noi gli chiediamo qualche cosa non osano dir di
no, dicono di sì. Anno proprio compassione di noi. Il padre si chiama
Antonio Lotta, la madre si chiama Maria Lotta, io mi chiamo Giulio
Lotta._ — E come è semplice e graziosa questa frase del figliuolo
d'un lavorante orefice: — _Il babbo è molto buono, la mamma è buona
come il babbo_ —;e quest'altra: — _La mamma pensa a tutti e a tutto.
La sorella, quando la madre è fuori, essa fa da madre._ — È una perla
quell'_essa_.

                                   *

Due caratteri principali si riscontrano in questi piccoli scrittori:
i riserbati e laconici, che dicono il meno possibile, restringendosi
a indicar secco secco le ore in cui le persone della famiglia si
levano, mangiano, e vanno a dormire, e gli espansivi, che profondono
le notizie e le confidenze. Questi parlano in special modo dei
fratelli e delle sorelle, e si possono dividere alla volta loro in
“affettuosi„ e in “critici„. La maggior parte dei primi ricordano con
molta tenerezza le sorelle e i fratelli più piccoli; ciò che conferma
la massima pericolosa d'un mio amico, padre molto prolifico, secondo
il quale bisogna che nelle famiglie ci sia sempre un bambino, perchè
ingentilisce il cuore dei figliuoli grandi. Dice uno: — _Quando la
mamma mi lascia da guardare il fratellino più piccolo sono molto
contento perchè gli do anche da mangiare._ — Un altro fa l'elogio del
fratellino, che _studia molto_, e dice di sua sorella minore: — _Mi
diverto in tutte le maniere con lei._ — Un terzo scrive: — _Maria è la
mia gioia la faccio saltare e qualche volta fa le bizze. E allora_ —
soggiunge come la cosa più naturale del mondo — _la mamma mi batte._
— Dice il medesimo un quarto: — _Io o anche la sorellina che a appena
cinque anni e quella sorellina è il mio divertimento, e quando ho fatto
il lavoro mi diverto e lei fa un pochi capriccetti, e mi fa castigar
dalla mamma._ — È un destino!... Un altro butta là nel mezzo del
componimento, senz'alcuna attaccatura col resto, questa frase curiosa:
— _Mio fratello qualche volta mi fa dei piaceri._

I “critici„ sono anche più ameni; ma indiscreti, qualche volta. Ve n'è
uno che giudica in questo modo le sue tre sorelle: — _Ada è buona,
ma un po' capricciosa; quella che si chiama Teresa va solamente a
scuola all'asilo_ (come si sente in quel solamente l'orgoglio dello
scienziato!), _Adelaide è un po' cattiva._ — Altri fanno a carico dei
loro fratelli rivelazioni più gravi, come quelle che seguono:

— _Poi ho un fratellino che ha appena due anni, e è un biricchino di
prima riga._

— _Ho un fratellino di 7 anni che va a scuola, non vuole saperne di
studiare._

— _Ho un fratello grande che è bocciato._

Uno dà intorno a suo fratello dei ragguagli più minuti, in una forma
amenissima: — _Il mio fratello più grande non studia abbastanza, ma fa
dannare il babbo e la mamma. Torna a casa con un castigo da fare per la
maestra. Il babbo e la mamma gli chiamano: te ne ha dato dei castighi
da fare e lui dice di no e ha vergogna di dir di sì._

E che dire di un cervello sodo di sette anni e mezzo, il quale scrive:
— _Ho due fratelli, il maggiore è in 3ª e pare che quest'anno metta
giudizio_?

                                   *

Molte cose strane e oscure dicono riguardo alla professione e alle
occupazioni del padre. La professione alcuni non l'accennano; altri
pare che non n'abbiano un'idea molto chiara. Dice uno: — _mio padre
è impiegato fuori di porta_ — senz'altro: provatevi a indovinare. Un
altro definisce la professione paterna in questo modo singolare, un po'
indeterminato, mi sembra: — _Il babbo va via alle 7 per guadagnarsi il
pane col sudore della sua fronte._ — Altrettanto singolare e non molto
più lucida è quest'altra definizione: — _L'occupazione del padre è di
pensare molto ai colori per fare i quadri con dei fiori e altre cose._
— Il figliuolo di un “impiegato al gas„ dice: — _Mio padre a mezzanotte
va a spegnere i ceri._ — Definisce un altro in questa ardita forma
grammaticale l'occupazione di sua madre: — _L'occupazione di mia madre
è che pensa alla roba di non perderla._ — Il più originale, per altro,
e il più misterioso è quello che, dopo aver detto: — _L'occupazione del
mio babbo è di fare il benestante_, — soggiunge: — _cioè 5 o 6 giorni
sarà a Torino, 8 o 9 giorni sarà in campagna a lavorare, e quei 5 o 6
giorni che è a Torino un'ora sarà al mercato un'ora sarà all'ufficio,
insomma ha tanto da lavorare che un'ora è in casa e un'altra è fuori._
— Un benestante, come si vede, che non poltrisce sulle sue rendite. Ne
cito ancor uno che fra le occupazioni del padre registra questa: — _poi
il babbo viene a casa e sta due ore a leggere il popolo_ (la Gazzetta
del popolo) — e un altro che fa questa straordinaria rivelazione: — _Il
babbo va a letto la sera alle 11 e non si alza più che alla mattina._

                                   *

Ma le uscite bizzarre, lepide, gentili che si trovano in questi pochi
componimenti, se volessi citarle tutte, riempirebbero troppe pagine.
Non si direbbe che è un epigramma pensato questa doppia proposizione:
— _Mio fratello va al ginnasio, ma studia?_ — E come è ben resa la
varia operosità d'una brava ragazza di casa con questi due tocchi: —
_Mia sorella mi corregge il lavoro e scopa il negozio._ — E che fior di
logica semplicità v'è in questa frase: — _Allora i genitori mi fanno
ripetere la lezione, se la so mi dànno la merenda e se non la so non
me la dànno_ — e nella seguente: — _la mamma mi lava i vestiti se sono
sporchi, me li cucisce se sono stracciati_. — Dopo aver accennato le
occupazioni dei parenti, uno passa a dire le proprie con questo ingenuo
avvertimento: — _Vengo a parlare di me._ — Un altro: — _Adesso parlo
di me._ — E un terzo, più solenne: — _Ed ora parlo di me stesso._ —
Questi me ne rammenta un quarto che notifica in una forma nuova affatto
la composizione della propria famiglia: — _A casa mia ho il babbo, la
mamma, la sorella e me._

Fra le chiuse più degne di nota trascrivo le seguenti, che paiono state
cercate per ottenere un “effetto finale„:

— _Io sono un bambino di 7 anni e 7 mesi._

— _Io ho otto anni e mi levo alle 7 e mezza._

— _Io sono della scuola Angelo Brofferio e mi levo alle 7._

Ve n'è uno che, fra l'altre, dà questa importante notizia; la quale,
per quanto concerne lui, è certamente una piccola spacconata: — _Dopo
cena qualche volta andiamo al caffè a bere dei liquori._

Da un periodo arruffato d'un altro si capisce che in casa sua sono
incaricati i ragazzi di apparecchiar la tavola; ma sentite con quali
restrizioni, e come giudiziosamente e ordinatamente specificate: — _Ma
mettono solamente il tovagliolo e le tovaglie perchè se mettono i tondi
li rompono e le posate si tagliano o cadono per terra e possono fargli
del male sugli occhi dentro alla bocca sulla fronte._

Il figliuolo d'un calderaio ha sulla fine questa maravigliosa uscita,
che a qualcuno farà dare un balzo sulla seggiola: — _Il babbo viene
a casa ed è l'ora della cena. Noi amiamo e dopo amato usciamo._ — Si
capisce che voleva dir ceniamo; ma che il verbo “amare„ ch'egli aveva
forse in mente per l'espressione d'un pensiero d'affetto alla chiusa,
essendosi cacciato avanti tutt'a un tratto, gli cascò sulla carta
invece dell'altro.

Fra le cose commoventi noto quella del figliuolo d'un muratore, per
intender la quale conviene sapere che una società di filantropi
torinesi fondò delle “colonie alpine„ dove son mandati ogni anno
a passar l'estate un certo numero di fanciulli poveri delle scuole
municipali, scelti fra i più deboli di salute. Il povero ragazzo scrive
che a casa sta coi piedi nudi per non sciupare le scarpe, _perchè ho da
andare alle colonie alpine, e così ci vuole un paio di scarpe buone_,
— ed enumera dopo questo gli altri oggetti di corredo richiesti,
soggiungendo con una esclamazione di gioia: — _E io ho già tutto!_

Ma la più saporita l'ho serbata per la fine. Dice un ragazzo: —
_L'occupazione di mio fratello maggiore è di levarsi la mattina alle 3
e di andare a Chieri al passo di corsa._ — Dêi del cielo, ci son venti
chilometri! — E che dannata professione sarà mai questa? — mi domandai
leggendo; ma, per quanto ci pensassi, non mi riuscì di scoprirla.
Seppi poi dalla maestra che quel fratello è “volontario d'un anno„
nei bersaglieri, e che l'alunno aveva inteso d'accennare a una “marcia
di resistenza„ fatta dal reggimento; ma s'era espresso in modo, come
si vede, da far scambiare la fatica straordinaria con una occupazione
quotidiana — spaventevole.

                                   *

Se tanto c'è da spigolare in trentacinque componimenti, che non si
troverebbe in una grande raccolta? Certo, io non dico agli insegnanti
elementari, che l'insegnarono a me, quanto ci sia da imparare spingendo
l'analisi di questi lavori oltre l'ortografia e la grammatica. Ma
mi arrischio a dirlo agli scrittori giovanissimi, e a tutti coloro
che studiano il cuore e la mente umana; poichè credo fermamente che
i fanciulli, a studiarli profondamente e con amore, siano, dopo gli
scrittori di genio, i migliori maestri dell'uomo.



I DESIDERI DEI RAGAZZI.


Non sono immaginazione mia: li manifestarono per scritto trentacinque
alunni d'una seconda classe elementare delle scuole municipali di
Torino, ai quali la maestra diede per tema: _I miei desideri_, e fece
fare il componimento nella scuola, senza brutta copia, concedendo
un'ora di tempo. La maggior parte sono ragazzi dai sette agli otto
anni, che venti mesi fa non leggevano ancora l'alfabeto, e diciotto
sui trentacinque, figliuoli d'operai. Da ieri ho fra le mani i loro
componimenti, — un mucchio di foglietti di carta rigata, coperti d'ogni
forma di scrittura, dalla calligrafia quasi perfetta alla pura e pretta
raspatura di gallina, e sparsi d'una flora maravigliosa di grossi e
piccoli spropositi che fanno ridere e pensare.... — e non so risolvermi
a buttarli in un canto, prima d'averne raccolto in un mazzo i fiori
più belli per offrirli agli studiosi e ai dilettanti di letteratura
fanciullesca.

                                   *

Prima di principiare a leggere pensai che questi componimenti non
potessero essere che elenchi di balocchi e di giochi, tutti eguali a
un dipresso, come le vetrine dei venditori di giocattoli; non pensai,
fra l'altre cose, che potesse essere così generale, come lo riscontrai,
in ragazzi di quell'età il desiderio dei viaggi; il quale poteva dare,
come dà infatti, ai loro lavori una varietà inaspettata e dilettevole;
e sono appunto le espressioni diverse di questo desiderio ciò che mi
divertì sopra tutto e che mi parve più meritevole d'osservazione nei
periodi bizzarramente scarmigliati e claudicanti dei miei piccoli
prosatori.

                                   *

Quasi tutti manifestano, prima d'ogni altro, il desiderio di viaggiare,
e nominano le città che preferirebbero di vedere. Le città più
“desiderate„ sono, per ordine di voti, Milano, Napoli e Roma. Penso
che abbia il primato Milano per la ragione che, essendo la più vicina
a Torino, è quella di cui i ragazzi sentono parlare più spesso. Quelli
che vorrebbero andare a Roma son quattro, e due di questi paiono
mossi da sentimenti politici opposti, perchè l'uno vorrebbe andarvi
soltanto “_per vedere dove abita il papa_„, l'altro, _per vedere quel
bel palazzo dove ci sta Umberto I_. Il terzo, indifferente al monarca
e al pontefice, dice che desidera di andar a Roma non per altro che
perchè “_c'è stato il suo padrino_„, ed è dubbio il quarto perchè
scrive che vorrebbe andare “_sul bastimento a rona_„ e può darsi che
abbia inteso di scrivere a Arona sul Lago Maggiore. C'è un altro, del
resto, che parla d'andare “_col bastimento_„ a Milano. Per Firenze
non ci sono che due aspiranti, per Genova uno e uno per la Sicilia. Ce
n'è sette, invece, per l'America; ma è da notarsi che i più di questi
dicono l'America perchè ci ebbero o ci hanno qualche parente; ed è
lo stesso dei tre che desiderano d'andare in Francia. Due soli hanno
desideri senza confini; uno che vorrebbe _visitare tutto il mondo_, e
un altro che desidera di _viaggiare tutti i paesi_; e altri due sognano
viaggi avventurosi di scoperte e di lotte. _Il mio desiderio, sarebbe
di attraversare il mare e di cercar le oasi_ (voleva dir le isole
forse), e il secondo: _Mi piacerebbe visitare i deserti dove c'è le
bestie feroci._ C'è anche un originale che vorrebbe non solo andare,
ma _stare in Asia_; in quale parte non lo dice; si può intendere fra
Gerusalemme e Pechino; e la ragione della sua scelta è un po' vaga:
— _perchè è molto bello e mi piace molto e c'è un sole molto caldo._
— Invitato dalla maestra a spiegarsi meglio, si chiuse in un silenzio
pien di mistero. Più comprensibile è uno dei sette già rammentati, che
vorrebbe visitare _quella grande città d'America_ (non dice quale)
_perchè ci sono quelle grosse piante, quei tronchi che sono di una
grandezza straordinaria_; ed esprime in questa forma ingenua la sua
ammirazione per la fecondità della natura: — _E poi da quelle piante
piccole a venire e quelle piante straordinariamente grosse!_ — E gli
accozzamenti delle grandi città e dei piccoli comuni sono curiosi.
Uno vorrebbe veder _Milano, Firenze, Castellamonte_; un altro vorrebbe
_andare in America, e poi a Crescentino_, un comune della provincia di
Novara, dove dice che è “_puro il cielo_„. Ma la cosa più amena sono
le ragioni che adducono, gli scopi particolari che si prefiggono alcuni
al loro viaggio. Quello che dice: — _vorrei andare a Genova a pigliare
i bagni di mare, ma ho un po' paura della burrasca_ — si capisce; ma
quello che vorrebbe andare a Firenze! Non pensate che sia per veder
Santa Croce, i musei, i monumenti: si può dare in mille a indovinare.
— _Per bere il latte che è squisito!_ — Donde gli sarà mai venuto un
così straordinario concetto del latte fiorentino? Può fare il paio con
quell'altro che desidera d'andare a Napoli, oltre che per vedere il
_vulcano o vesuvio_, sapete perchè? _Perchè si mangiano dei maccheroni
napoletani;_ e questo passi; ma soggiunge il sudicioncello: — _e sono
molto buoni e non si prendono col cucchiaio ma si mangiano con le
mani._ — Chiedo scusa per costui, come cittadino torinese, ai miei
compaesani di Napoli, e li assicuro che si tratta d'un'opinione affatto
personale dello scrittore.

                                   *

Al mare accennano più d'una metà, ed è notevole che quasi tutti quelli
che v'accennano desiderino di fare i bagni marini. Sarà un segno di
progredita cultura igienica? Perchè non uno su trenta scolaretti di
Torino, quando io ero ragazzo, avrebbe forse espresso un tal desiderio;
certo, non ci avrebbe pensato nessun ragazzo di famiglia povera.
L'immagine più poetica, riguardo al mare, è quella del figliuolo
d'un operaio, il quale dice: — _Mi piacerebbe andare sugli alti mari
dove si vede per tutto acqua e celo;_ — ma vorrebbe avere con sè la
mamma, la zia e un cugino “_per dividere i pericoli_„. Sono anche di
più quelli che desiderano di andare in montagna; ed è naturale anche
questo poichè vivono tutti davanti allo spettacolo incantevole delle
Alpi. Uno dice che vorrebbe andare in montagna _per vedere i buoi_;
un altro _per stare molti giorni ad una certa altezza numerosa_; un
bel traslato ardito, se lo volle riferire, come pare, al numero dei
metri d'altitudine. Un ragazzo povero esprime lo stesso desiderio
con una frase semplice e triste che tocca il cuore: — _Vorrei andare
sulle più alte montagne, a pigliare un po' d'aria buona, che non sono
mai andato in nessun paese._ — Andare a passar l'estate in campagna,
senza determinazione di luoghi, è il desiderio più comune; più vivo
in quelli che non lo possono soddisfare, ed espresso da tutti con
un'insistenza e un calore di parola, in cui si sente un bisogno vero
del corpo e dello spirito, un fremito d'uccelletti ingabbiati, assetati
d'aria e di verde. Conviene anche dire, peraltro, che quanto a viaggi
e a escursioni i desideri di una buona parte sono assai moderati,
arrestandosi in alcuni ai Santuari d'Oropa e di Graglia, e in altri a
villaggi dei dintorni di Torino e alla basilica di Superga; nella quale
uno degli scrittori vorrebbe andare a vedere “_quei sotterranei dove
è morto il re_„. Parecchi sono anche più modesti: non desiderano che
“_una passeggiata nel Corso Palestro_„ che vedono ogni giorno, poichè è
a un passo dalla loro scuola, o _una di quelle passeggiate in via Po_
(chi sa quali?), o fino alla _succursale_ (niente di meno), che è una
stazione minuscola della strada ferrata di Milano, dentro la cinta.
Ce n'è uno, poi, che non vuol andare in nessun luogo, e manifesta per
i viaggi un'avversione assoluta; dicendo che vorrebbe star _tutta
la vita a Torino_, per una ragione che siete mille miglia lontani
dall'immaginare: p_erchè c'è aria fina_. E neppure potete immaginare
la ragione, tanto è semplice, che adduce un altro del non poter fare
i grandi viaggi che vorrebbe. — _Ma fare tutti questi viaggi non
posso-_-dice — _perchè o da frequentar la scuola tutte le mattine._

                                   *

Sento una domanda del mio buon amico Moneta: — La propaganda per
la pace ha recato qualche frutto? Si può riconoscere in codesti
componimenti uno scemato spirito guerresco nel desiderio scemato di
quei giocattoli che rappresentano strumenti e idee di guerra e di
morte? — Mi manca, per dare una risposta, il termine di paragone;
ma temo che, se anche l'avessi, non potrei dare una risposta molto
consolante. Su trentacinque sono undici che desiderano trombe, soldati
di piombo, fucili, sciabole, pistole, un intero arsenale. Credo
soltanto minore di quello che sarebbe stata trent'anni fa la richiesta
dei tamburi (due soli ne chiedono) perchè, non usandosi più il tamburo
nell'esercito, manca l'impulso dell'imitazione. È vero, peraltro, che
uno solo di quegli undici esprime chiaramente delle idee belligere, e
anche in senso puramente difensivo, dicendo: — _Vorrei essere vestito
da soldato per andare in guerra a combattere contro il nemico e salvar
la mia patria._ — Quasi tutti gli altri non chiedono armi che per
giocare. Ce n'è uno, anzi, che confessa la propria avversione alla
guerra in un modo assai comico, ed è di quelli che vorrebbero viaggiare
in Africa. — _Ma andare in Africa_ — soggiunge — _non mi piace perchè
c'è la battaglia, ma io vado quando non fanno la battaglia._ — E dice
anche, contraddicendosi, che non gli piace d'andare in Africa, _perchè
vi sono neri gli Abissini_.

                                   *

Più delle armi sono desiderati gli animali, naturalmente, poichè dopo
l'uomo — primo oggetto d'osservazione pei fanciulli, — son quello che
più gli rassomiglia; e fra gli animali, per la bellezza delle forme, e
per la vivacità delle mosse e la varietà degli usi a cui serve, il più
desiderato è il cavallo. Sedici alunni vorrebbero averne uno, ma due
soli specificano: _un cavallino sardo_. Poi viene il cane, desiderato
da cinque: uno dei quali vorrebbe _uno di quei cani inglesi_, e un
altro, _un bel can barbone_; ma per licenziare la serva, parrebbe:
_perchè_ — dice — _il can barbone è docile e serve a far la spesa ai
padroni_. Sono desiderati da altri una _pecora_, una _pecorella viva_,
un _asinetto_, ed altri animali domestici; di uccelli non è nominato
che il canarino. Anche il gatto ha un voto solo; forse perchè quasi
tutti ne hanno uno da tormentare in casa propria. Ma a proposito di
bestie il più saporito periodo lo scrisse quello che vorrebbe “_un bel
cane e un cagnolino da guardia_: sentite se si può essere più assennati
e più previdenti; par che ripeta un discorsetto di suo nonno: — _Ma con
questi due cani_ — dice — _uno piccolo, e l'altro grosso, non vorrei
che fossero invidiosi, che non si mordessero malamente, come fanno
certi cani, e non mi piacerebbe niente se venissero arrabbiati, allora
poi li farei uccidere perchè senò si uccidono tra loro_....„

                                   *

Tra le cose inanimate quelle che destano più desideri sono la
lavagnetta col gesso e il teatro coi burattini; ma perchè l'una e
l'altro servono all'imitazione della vita. Anche la lavagnetta, in
fatti, benchè dicano quasi tutti — le mascherine — di desiderarla per
esercitarsi alle operazioni aritmetiche (che suol essere il pretesto
con cui se la fanno comperare), in realtà la vogliono per rabescarvi
su dei fantocci. Quattro desiderano _una biblioteca_, senza dir
altro; uno eccettuato, il quale ha pretensioni bibliografiche molto
discrete, poichè la vorrebbe composta di _tutti e cinque i libri di
lettura_ delle cinque classi elementari e di _una bella storia sacra
per leggere la venuta dei magi_. Di altri libri che si desiderino
non trovo accennati che due l_ibri di preghiere_ e _un bel libro di
preghiere a Gesù Bambino_. Opere d'arte ne desidera uno solo, che
vorrebbe _una statua_, e non aggiunge parola: la prima statua venuta.
Non metto fra gli oggetti d'arte _i due quadri, uno del re e uno della
regina_, a cui accenna un altro, perchè possono essere desiderati
per sentimento di devozione alla monarchia; come forse per sentimento
religioso desiderano altri tre un _bel crocifisso, un bel quadro della
Madonna, una Madonna dipinta_. Un solo filarmonico si palesa, uno che
vorrebbe _un pianoforte per imparare a sonarlo molto bene_. Fra gli
oggetti di desiderio più singolari noto _una bell'arnia e un servizio
da caffè_. Ma come badano tutti, quando può nascere equivoco, a far
ben capire che vogliono oggetti da grandi, e non dei trastulli. —
_Vorrei un bell'orologio_ — dice uno — _ma non di quelli da cinque
centesimi, e che vada._ Un altro vorrebbe una barca — _ma proprio di
quelle da metterci noi dentro e partire;_ — l'espressione potrebbe
essere forse più elegante, ma non più chiara. E uno di quelli che
desiderano un cavallo spiega bene: — _un cavallo, ma da andare in
groppa._ Un quarto mette in un mazzo, come tre cose affini, questi
tre desideri: _un teatro, una gallina, una spada._ È strano come
non uno di questi trentacinque ragazzi, di cui la più parte sono di
famiglia povera, esprima il desiderio d'un bel vestito, d'un oggetto
d'ornamento, d'una qualunque cosa che dimostri la vanità di volersi
distinguere esteriormente. Qualcuno si stupirà che non sia stata ancor
nominata la bicicletta, e ci sarebbe davvero da stupire se non l'avesse
rammentata nessuno. I desiderosi del nuovo “locomobile„ come lo chiama
prosaicamente il regolamento municipale, o del _ferreo corsiero_, come
lo chiama poeticamente Lorenzo Stecchetti, son cinque; uno dei quali
espone il suo desiderio con questa piccola spampanata: — _Mi piacerebbe
andare a Napoli a traversare il mare che è veramente bello; ma se io
avevo una bicicletta sarei già andato._

                                   *

Nell'ordine della “proprietà dei beni immobili„ i desideri son pochi,
e non irragionevoli. La proprietà più ambita è il giardino — _un
giardino con molti fiori — un giardino tutto fiorito di rose_ — ed
altri, definiti brevemente, con immagini graziose, che esprimono un
desiderio vivo. V'è un solo ragazzo, più pratico, chè vorrebbe “_un
campo pieno di frumento_„. Tre desiderano una casa, che uno chiama _una
costruzione_, e la vorrebbe mobiliare a modo suo, col proponimento,
pare, di rimaner celibe, perchè scrive: _una piccola casetta per
mettervi un lettuccio, un sofà, un guardaroba, con alcune seggiole e un
seggiolone_. Più numerosi son quelli che desiderano indeterminatamente
la ricchezza; ma quasi tutti (e in questo è evidente che esprimono
un'idea inculcata loro alla scuola più che un sentimento spontaneo)
dicono di desiderar d'essere ricchi per poter soccorrere i poveri.
Uno solo determina l'ammontare del patrimonio che vorrebbe avere,
aggiungendo quali sventurati soccorrerebbe di preferenza: — _Vorrei
avere una lira per fare elemosina agli infelici, cioè come lo storpio,
il cieco e il monchino_. Desideri riguardo all'avvenire, e in specie
alla carriera, tre soltanto ne espongono: uno che vorrebbe esser
_marinaio_, e due che vogliono far l'_avvocato_. E pare che uno di
questi faccia conto di pescar nel Foro fior di quattrini perchè dice:
— _I miei desideri sono pure, quando sarò già avvocato, due bellissimi
cavalli e una magnifica carrozza, e quando avremo voglia d'andare a
cavallo, io e il mio papà, andremo, e quando avremo voglia di andare
in carrozza, andremo._ — E perchè no? Non si direbbe che c'è sotto
una sfida ai socialisti? Un altro, meno ambizioso, dice di desiderare
_un caffè_; ma non si capisce se sia per “esercitare il negozio„ o
solamente per vuotare a suo libito le bocce e le zuccheriere; che è
forse la versione più ragionevole. Osservo, a questo proposito, che non
ci sono in tutti e trentacinque i componimenti se non pochissimi indizi
di ghiottoneria. Quattro soli desiderano dei dolci, pochi altri delle
frutta; e dice uno di questi che vorrebbe andare in America _perchè c'è
lo zucchero_ e in Africa _perchè c'è i datteri_. Cito ancora ad onore
un ragazzo sobrio che vorrebbe _fare una bella cena in un giardino, e
bevere un pochino, ma non bevere molto_, e un altro capetto scarico, il
quale desidera che i suoi genitori diano un pranzo in casa, e numera
le persone che vorrebbe invitate, una caterva di parenti, congiunti,
padrini, madrine ed amici, da dar fondo alle dispense dell'_Albergo
d'Europa_.

                                   *

Alcuni di questi componimenti si distinguono per un'abbondanza d'idee,
per un'effusione di sentimento e un colore di sincerità, che li fanno
parer lettere scritte spontaneamente, a sfogo dell'animo, più che
lavori di scuola; e danno perciò a conoscere in parte, l'indole dello
scrittore; la quale rimane affatto nascosta in tutti gli altri, segnati
d'una comune impronta scolastica. Quattro di questi scrittori originali
mi colpirono in particolar modo.

Il primo è un “appassionato„, un cuore “ardente e tenero„. Egli dà
al componimento la forma d'una lettera, disordinata e oscura, in cui
frammette, come un ritornello poetico, all'espressione dei propri
desideri parole di caldo affetto, note quasi d'amore, per la sua
maestra; alla quale dà del _lei_ e del _tu_, espandendo l'anima lirica
con una concitazione di stile singolarissima: — _Io vorrei andare a
Roma_ — scrive, salvo i peccati mortali d'ortografia — _stare due mesi
in campagna, ma che lei venisse a vedermi, vorrei giocare alla palla e
pregherò per te che non ti arrivi nessuna disgrazia, io le voglio molto
bene e vorrei andar nel mare, e guardi di venire a vedermi, che saremo
felici, e guardi di non esser mai malata, a me piace d'andare a giocare
e guardi di venire al più presto che puoi._ Ma l'adoratore rientra in
sè tutt'a un tratto alla chiusa, e dice rispettosamente: — _Con tutta
stima la riverisco._

Il secondo è un'immaginazione effervescente e sfrenata, che esprime
rapidamente una quantità di desideri diversi, come se cercasse degli
effetti d'antitesi imitando l'arte vittorhughesca di affollare con
disordine pensato immagini disparatissime. Egli vorrebbe andare in
villeggiatura, a Roma, a Massaua, sul Monte Bianco, a Parigi, sul
_vapore_, in vettura, in _tram_, in pallone, e dopo aver aggiunto che
vorrebbe _stare in un gran palazzo_ e che gli _piacerebbe d'essere il
re_, e accennato altre sue vaste aspirazioni e splendidi sogni, finisce
il componimento esprimendo il desiderio modestissimo di _pigliare un
bagno_.

Quest'altro è un filosofo semiserio, che mescola la lepidezza con
l'affetto e con l'ironia, rivolgendo tratto tratto la parola a sè
medesimo per darsi delle ammonizioni e dei consigli, coloriti di
canzonatura. Dopo aver significato il desiderio d'andare in campagna
per mangiar frutta, dice: — _Ma per te, mio Cesarino, non ci andrai
che quando le scuole saranno al fin dell'anno;_ — e poi enumera le
uve che mangierà — _l'uva bianca, l'uva nera, l'uva mericana_, ecc., e
soggiunge paternamente a sè stesso: — _Ma io ti dirò, caro Cesarino,
che a mangiare tanta uva fa del male, e rovina anche la salute, e fa
perfino venire mal di gola;_ e infine si dà questo memento gentile:
— _Tu mangierai le frutta, ma le viole le governi per portarle alla
maestra, che è tanto buona e gentile coi bambini della sua classe._

L'ultimo è un bel tipo comico di Michelaccio, amante del quieto e
grasso vivere. Sentite che beati ozî vagheggia. A lui piacerebbe
d'andar l'estate prossima al suo paese nativo (e lo nomina); — _a
spassarmela in campagna_ — dice — _perchè là si sta molto bene, si
mangia, si beve, si dorme e si va a spasso, e poi c'è molta uva, c'è di
tutto e questi sono i miei più cari desideri_. E dopo aver detto che
andrebbe volentieri ad Alassio, dove ha un amico, già suo compagno di
scuola (_antico_ compagno, lo chiama), _che se ne sta coricato nella
sabbia calda dal sole_, esce in questa impagabile frase esclamativa, di
cui rispetto l'ortografia: _E!! — ne son ben malcontento di non poterci
far parte!_ — Ma il più curioso è che questo allegro ragazzo, che parla
del paese di Cuccagna come d'un proprio feudo, è figliuolo d'un povero
operaio, il quale non ha ombra di casa nè di poderi. E la chiusa del
componimento è una gemma. Per dire che vorrebbe scriver dell'altro, ma
che, essendo arrivato in fondo al foglio, deve far punto per mancanza
di spazio, butta là questa espressione equivoca che può esser presa in
un senso.... terribile: _non posso più trattenermi._

                                   *

V'è ancora espresso, in queste pagine, un ordine particolare di
desideri, meritevoli d'un cenno a parte: desideri, che sarebbe
più proprio chiamar propositi, di studiare, di esser buoni, di
migliorarsi. Quasi tutti li esprimono: molti, certo, più per sentimento
di convenienza che per impulso dell'animo, o anche per forza di
consuetudine, o per dare buon concetto di sè; ma della sincerità
d'alcuni è impossibile dubitare, tanto è amabilmente semplice il loro
linguaggio. Dice uno: — _mi piacerebbe che la madonna mi facesse essere
buono a scuola e a casa._ — Un altro: — _Io voglio ancora studiare con
tanta voglia e con tanta bontà_ (non è bellissimo?) _e poi darò ancora
1000 e poi ancora 1000 consolazioni alla mia signora maestra. Ed hai
miei superiori._ C'è uno che fa un vero atto di contrizione: — _Il
mio più bel desiderio è di studiar bene, che la Sig. Maestra è tanto
buona, di non dargli tanti dispiaceri non star cattivo, come ho fatto.
E adesso guarderò di fare tutto quello che posso per star buono._ E
carino è l'esordio che fa un altro al componimento: — _Io farò tutto
quello che so per farlo bene e per scriverlo bene_ (senza dir che
cosa); poi, di sbalzo, dice i suoi desideri, il primo dei quali è di
possedere _una penna d'avorio_, e il secondo è espresso candidamente,
così: — _Io vorrei che mio padre e mia madre non mi sgridassero mai._
— E ci sono anche quelli che si propongono un ideale di buona condotta
addirittura disperato, come uno che vorrebbe avere un cortile per
giocare “_ma non di fare del chiasso, perchè nel giocare un pochino
si fa sempre di chiasso_„. — Che delicatezza! E in casa sarà forse il
terremoto. Il più commovente, in fine, è l'atto di mesta rassegnazione
d'un povero ragazzo, il quale, dopo aver esposto molti desideri,
mostrando di capire che per lui sono cose dell'altro mondo, che non
potrà aver mai, dice che si contenterebbe d'andare alle _Colonie
alpine_ dei ragazzi poveri, e soggiunge: — _Ma i miei genitori non
vogliono perchè dovrò andare a lavorare, ebbene, sia così._

                                   *

E queste ultime parole, che paiono un lamento compresso, mi turbano
nell'animo la giocondità che m'avevan messo tante altre cose amene
trovate in queste pagine, perchè mi rappresentano al pensiero non
soltanto il ragazzo che le scrisse, ma quegli altri innumerevoli a cui
nessuno dei mille desideri della fanciullezza, nemmeno i più umili,
sono appagati, e che, non comprendendo ancora che cosa veramente
sia l'esser poveri, non comprendono che i genitori _non possono_,
e pensano che _non vogliano_, e dicono come quello: — _E sia così!_
— rassegnatamente, ma col cuore di chi si rassegna ad un torto. Ah,
i desideri dei ragazzi! Essi sono ad un tempo una delle più care e
delle più tristi cose del mondo. Poterli appagare è una delle più
dolci soddisfazioni della ricchezza; non potere è una delle amarezze
peggiori della povertà. Questo dovrebbero aver sempre in mente quei
fortunati ai quali è concessa la grande gioia di essere benefici.
Accanto alla carità che domanda al ragazzo povero di che cosa abbia
bisogno, ci dovrebbe esser sempre la carità che gli domanda che cosa
desidera; dietro la mano che gli dà un pane, una mano che gli porga
un trastullo; perchè non basta ch'egli non pianga, bisogna ch'egli
sorrida; perchè nella fanciullezza che passa senza sorriso si prepara
l'uomo che tratterà i fanciulli senza pietà e che odierà i suoi simili
per vendetta



IL GAROFANO ROSSO.


Alle undici e mezzo, mentre la cameriera ansava ancora su per le scale
con la cartella del disegno sotto il braccio, Alba sonò il campanello
e, appena le fu aperto, si slanciò nella sala da desinare, dove
l'aspettavano il padre e la madre, coi regali pel suo giorno natalizio.

In un batter d'occhio vide e toccò tutto: il mazzo di fiori, l'anello,
il libro illustrato e il canestrino da lavoro, disposti sulla tavola
apparecchiata, su cui brillava un raggio di sole; poi, ringraziando e
ridendo, abbracciò e baciò con impeto il babbo e la mamma, e poi.... si
lasciò guardare.

Era più bella che mai quella mattina: i suoi capelli ondulati e i suoi
grandi occhi parevan più neri del solito, e il bel garofano rosso,
contornato di violette, che le usciva dall'abbottonatura del giubbetto
bianco, non reggeva al confronto della sua piccola bocca capricciosa e
imperiosa.

Suo padre stette un minuto in adorazione davanti a lei; e i suoi occhi
pieni di tenerezza facevano un contrasto singolare coi minacciosi baffi
grigi che gli andavan dalla bocca alle orecchie. Sarebbe bastato uno
sguardo a chi che sia per accorgersi che quel pezzo d'uomo del signor
Mazzi, dalla faccia di vecchio soldato e dalle mani d'antico operaio,
più temuto che amato dai duecento cinquanta lavoratori della sua grande
fabbrica d'ombrelli e di bardature, una delle più fiorenti di Torino,
non era che il servitore umilissimo di quella ragazzina di dodici anni,
in cui pareva che si fosse affinato ancora il sangue signorile della
mamma. Bella, figliuola unica, delicata di salute: aveva tutto quello
che ci voleva per far la tiranna. Una lunga malattia sofferta da lei
due anni innanzi, a cagion della quale, perduto un anno, ripeteva
l'ultimo corso elementare nelle scuole del Municipio, aveva ancor
rinsaldato il suo impero. A ogni sua nuova prepotenza giurava bensì
il signor Mazzi che sarebbe stata l'ultima; ma quando un'altra volta
la vedeva addolorarsi d'una ripulsa o ricorrere all'arma terribile
del digiuno per far trionfare la sua volontà, quando, sopra tutto,
le vedeva gonfiar per la collera quel bel collo esile e bianco, come
se fosse sul punto di schiattare, ogni forza alla lotta gli mancava.
Faceva ancora un'ultima mostra di resistenza invocando il soccorso
della signora Mazzi, che con la sua mollezza di bionda grassa e
linfatica gli consigliava di cedere per la pace, e poi.... cedeva per
la pace. Era così cresciuta liberamente nell'animo d'Alba una fitta e
intricata vegetazione di piccoli e grandi difetti; la quale, peraltro,
non aveva soffocato il fiore della bontà e della pietà, nato in lei
e mantenuto vivo da una precoce e quasi maravigliosa intuizione delle
miserie e dei dolori del mondo che non conosceva.

Quando si credette ammirata abbastanza, disse:

— Papà, ti ho da domandare un favore.

Ma in quel punto istesso s'affacciò all'uscio la cameriera ad
annunziare che il signor Boleri, avvocato criminale e radicale,
brillante ed entrante, buon amico di casa Mazzi, desiderava dir due
parole al padrone.

Questi entrò nella stanza accanto, e la signorina che, fra gli altri
difetti, aveva anche quello d'una curiosità indiscreta, s'avvicinò
all'uscio socchiuso per ascoltare. Ma il dialogo non le arrivò
all'orecchio che a frammenti.

Alle prime parole dell'avvocato, dette col suo solito accento gioviale,
il Mazzi rispose con tutt'altro accento: — Mi rincresce, non posso.

— Andiamo, — replicò l'amico, — non vorrai far scomparire il presidente
onorario della _Fratellanza artigiana_, a cui quel povero diavolo s'è
raccomandato. È un buon operaio, alla fin dei conti; ha lavorato per
due anni nella tua fabbrica e non hai mai avuto motivo di lagnartene.

Ma il Mazzi ripetè il suo no, borbottando delle ragioni che la ragazza
non intese.

L'altro allora tornò all'assalto, e questa volta sul serio: — Sta bene,
— disse; — ma pensa che da sei mesi cerca lavoro, e non ne trova; che
chiedendoti d'esser riammesso, fa ammenda del suo torto, se pure ti
fece un torto, e che ha famiglia.... e fame.

Ma il Mazzi persistette nel rifiuto, ragionando. Doveva dare un
esempio. Avrebbe voluto dir di sì; ma non poteva e non doveva. — Hanno
voluto lottare, — concluse, — lui e gli altri della combriccola, e
hanno perso: tanto peggio per loro. È una guerra a oltranza che si
combatte fra loro e noi. Io non do tregua. Faccio come essi fanno: mi
servo di tutte le armi che sono in mia mano.

— Ma tu combatti contro un disarmato, — ribattè il Boleri, — contro un
vinto, che ti chiede grazia.

— Me la chiede oggi, tornerebbe a combattermi domani. È inutile che tu
insista. Ho deciso.

— È la tua ultima parola?

— Me ne dispiace per te, che hai preso la cosa a cuore. È l'ultima.

— Ebbene, — rispose l'avvocato, avviandosi per uscire, — ti credevo non
soltanto più pietoso, ma più prudente.... e meno orgoglioso. Beccati
questa, e buon pro ti faccia. Darai alla bambina questo mazzetto. Tanti
saluti.

                                   *

Il signor Mazzi rientrò nella sala da desinare col viso rannuvolato e
porse ad Alba il mazzo di fiori.

— Papà, — gli disse questa, con voce franca; — riprendi quell'operaio.

— No, — rispose il padre, secco. Ma si pentì subito di quella durezza,
e soggiunse benevolmente: — Parliamo d'altro, Albina mia. Avevi un
favore da domandarmi, m'hai detto?

— Era quello.

— Come, quello? — domandò il padre, stupito, fermandosi in mezzo alla
sala.

— Sì, — rispose la ragazza, e s'accalorò a poco a poco, continuando:
— era quello, appunto; Maria Cinzano, una mia compagna di scuola,
figliuola di quel tuo operaio; è lei che me n'ha parlato questa
mattina; m'ha detto: — verrà un avvocato da tuo padre, per raccomandar
mio padre. Io mi raccomando a te. Faglielo riprendere. È senza lavoro.
Siamo nella miseria. — E m'ha dato questo mazzettino per la mia festa,
un garofano rosso. Io le ho detto di sì. Mi puoi dir di no, tu, il
giorno della mia festa?

E gli saltò al collo.

Ma, con sua maraviglia, egli non sorrise.

— Tu hai detto di sì, — le disse egli col viso serio, — perchè hai buon
cuore; non te ne faccio rimprovero. Ma non posso contentarti.

— Ma perchè?

— Il perchè non lo puoi capire.

— Ah! lo capisco bene. È il perchè che dicesti al signor Boleri. Ma
non è un buon perchè. E poi.... come ho da fare a andar a dire alla
mia compagna che m'hai detto di no? E oggi appunto ho da fare un
componimento sopra un signore caritatevole che salva dalla miseria
una povera famiglia! In che maniera ho da trovar le idee? Perchè sono
nella miseria, hai da sapere. Ah! ora capisco. È un mese che la vedo
cambiata, è dimagrita, chi sa come mangia; vive forse di pan nero; non
studia più; viene a scuola con gli occhi rossi. Ho da andarle a dire
che tu vuoi che muoia di fame?

— Non voglio questo, — rispose burbero il padre. — Basta così, e
mettiamoci a tavola.

— Ebbene, — disse la ragazza, — se non mangia lei, non mangio io.

— Alba!... Ti castigo.

— Castigami!

Il signor Mazzi incrociò le braccia sul petto, voltandosi verso sua
moglie che stava seduta sul sofà, e ascoltava sorridendo. — Ma sai che
questa ragazza passa tutti i segni! Ma non s'è mai vista un'audacia
simile! — E tornò a voltarsi verso la figliuola: — Ma che obblighi ho
io verso un briccone che mi piantò da un'ora all'altra, quando avevo
bisogno di lui, e che adesso, ridotto alla miseria per colpa sua, mi
offre un lavoro.... di cui non so che fare? — Poi si voltò da capo alla
moglie: — Figurati! Un presuntuoso, un traditore, che, l'anno passato,
mi mette su una decina di compagni.... fanno tutto il loro armeggio
sott'acqua.... imbastiscono una specie di Cooperativa.... Poi, un bel
giorno, si licenziano, e con che arie! Vanno a offrire i loro servizi
ai miei clienti, brigano al Municipio, fanno parlare i giornali....
In capo a un anno, si capisce, sono andati a gambe all'aria e ci han
rimesso quel po' di fondi raggruzzolati non so come.... E io dovrei
riprendere il caporione! Per far piacere a quel gran protettore di
tutti i cialtroni disoccupati che è l'avvocato Boleri! — E si voltò
un'altra volta verso la ragazza: — Tu non conosci gli operai, povera
ingenua. Tu non sai che razza di cani son tutti quanti.

— Sei stato operaio anche tu, — rispose la ragazza.

— Sì, e me ne vanto, perchè ero diverso dagli altri; ma per questo li
conosco, e li tratto come si meritano.

— Ebbene, fai male a far così.... Non saresti mica diventato ricco tu,
se non avessero lavorato per te.

Il padre la fissò. Poi disse: — Sta a vedere che m'hanno fatto una
grazia. Essi danno a me il loro lavoro; io do loro il mio danaro.

La ragazza stette un po' pensando; poi rispose: — Ma essi te ne fanno
guadagnare molto più di quanto ne dai.

A queste parole, il signor Mazzi scattò: — Cosa dici? Chi t'ha
insegnato a metter fuori di queste ragioni? — E, dopo un momento di
riflessione, riprese con maggior collera: — Questa non è farina del
tuo sacco.... È forse la maestra che t'imbecca di codesta roba?... A
questi lumi di luna, non ci sarebbe da stupire.... Dimmi un po': ho
indovinato?... Ah, bene! Andrò io a dirle due parole all'orecchio, alla
tua maestra.

— Non è lei! — s'affrettò a risponder la ragazza.

— E chi è dunque?... Lo voglio sapere, m'intendi?... O mi dici chi è, o
vo dalla maestra domani mattina.

— L'ho letto.

— Dove l'hai letto?

— Ebbene, sì! — rispose Alba, ripigliando animo; — l'ho letto nei
libretti che hai tu, che hai portato tu a casa.

— Che libretti? Dove sono? Vieni a mostrarmeli! — gridò il signor
Mazzi, fremente.

Ed entrò a passi concitati nella stanza accanto, seguitato dalla
figliuola, la quale, senza ombra di timore, andò difilata a una
libreria, si chinò e tirò fuori dallo scaffale più basso, di sotto
a un grande album di disegni di macchine, e porse al padre alcuni
opuscoletti impolverati. Erano il _Catechismo dell'operaio_, _I
diritti del lavoro_, _Riflessioni d'un disoccupato_, che il signor
Mazzi, mesi addietro, aveva strappati di mano a certi giovani operai
della sua fabbrica. Avendo veduto suo padre nasconderli là sotto come
roba proibita, la ragazza, punta dalla curiosità, li aveva scovati e
sfogliati.

Il signor Mazzi arrossì dallo sdegno. — Anche a te si doveva attaccare
questa infezione! — gridò, — non ci mancava altro! — E fece a pezzi
gli opuscoli e li buttò a pedate in un angolo della stanza. — Ed ora,
— soggiunse, agitando l'indice della destra, — non più una parola al
proposito, nè ora nè mai! Siamo intesi, o saran cose serie. A tavola,
signorina.

                                   *

Sedettero a tavola. La figliuola quasi non mangiò. Il padre, risoluto
a tener duro, finse di non badarvi. Era tempo davvero che si mostrasse
fermo una volta se non voleva diventare addirittura lo strofinacciolo
di quella monella. E non disse parola. Ma via via che il desinare
procedeva ed egli la vedeva ostinata a non mangiare, nonostante le
placide esortazioni di sua madre, gli andava succedendo nell'animo allo
sdegno il dolore. Vedete un po'! Una giornata ch'egli si era immaginata
così allegra! Gli altri anni, in quel giorno, soleva riandare a
tavola la breve storia della sua figliuola, rammentare le sue amabili
bizzarrie di bimba, le sue prime parole, i suoi motti più arguti, i
primi piccoli trionfi della sua bellezza bruna ed altera, che lo avevan
fatto palpitare d'orgoglio. Quel desinare era sempre stato una festa
per lui. Ed ora, doveva vederla digiunare, imbronciata e triste, e
ingozzare egli stesso un pane avvelenato, col cuore gonfio di dispetto.
E la guardava di sfuggita, quasi timidamente, perchè conosceva la sua
caparbietà, e sapeva che era capace, per un punto, di stare a pane
asciutto una settimana, facendogli soffrir le pene dell'inferno e
rischiando di buscarsi una malattia. E tutto questo per la bella faccia
di quel mascalzone di trinciapelli che gli aveva già dato tanti altri
fastidi! Poter del mondo! Al pensare che pel fatto di costui essa gli
faceva una tal scena, al ricordar le ragionacce che aveva pescate in
quegli scellerati libricciattoli per gettargliele in viso con quella
petulanza, egli non sentiva più alcuna pietà, e si raffermava con tutte
le forze nella sua risoluzione, e fissava gli occhi su quel visetto
pallido, contornato di capelli neri, quasi in atto di sfida, come
per esercitarsi alla resistenza in cui avrebbe dovuto persistere per
qualche giorno, per restaurare la sua autorità paterna in rovina.

                                   *

Il desinare finì com'era cominciato, tristamente. Finito appena,
il signor Mazzi uscì a passi risonanti, e la ragazza che, essendo
giovedì, non aveva scuola dopo mezzogiorno, rimase a casa a far con
mille stenti il suo esercizio di composizione sull'argomento della
famiglia indigente e del ricco benefico. La sera, la cena non fu più
gaia del desinare. La signorina mangiò appena una foglia di lattuga e
un bocconcino di pane, che finse d'inghiottire a gran fatica, e rimase
muta e cocciuta. A un certo punto, però, il padre perdè la pazienza, e
l'attaccò con la signora: — Ma scotiti dunque! Come puoi tollerare...?
Non hai nulla da dire a un'impertinente che digiuna apposta per
torturare suo padre?

— Eh, Dio mio! — rispose con placidità la signora. — Sai pure che
con questa benedetta creatura non si può nè vincerla nè impattarla. E
poi.... insomma.... dà prova di buon cuore. Contentala una volta, e che
sia finita. È la più spiccia, mi pare.

Il signor Mazzi saltò su. — Oh, questa è maravigliosa! Un bel sistema
d'educazione! La madre che ha anche meno giudizio della figliuola! Ma
non capisci che se ripigliassi quello dovrei ripigliare gli altri, e
che sarebbe un disdoro in faccia a tutti, un atto di debolezza che
mi toglierebbe ogni autorità nella fabbrica! Ma è possibile che tu
non intenda mai nulla di queste cose?... Son io, dunque, che ho il
torto!... Ah, che belle consolazioni mi dà la famiglia!

E sbattuto il tovagliolo sulla tavola, se n'andò nella sua stanza, dove
sedette, al buio, e restò a masticar la sua rabbia; con l'orecchio
teso, però, aspettando di sentire da un momento all'altro il passo
della figliuola. Voleva un po' vedere se non sarebbe venuta, come tutte
le sere, a dargli la buona notte. E, in fondo, egli sperava che in
quel momento, che è quello della tenerezza, quando tutto s'accomoda fra
padre e figliuoli, ella avrebbe domandato perdono. Trascorsa mezz'ora,
infatti, udì il suo passo nell'oscurità, e si drizzò sul busto, come
per mettersi sulle difese, e non perdonare alla prima. Ma perdette
un poco della sua forza sentendo che il passo, invece che incerto
e timido come sperava, era risoluto. Quando si vide davanti l'ombra
graziosa della sua figliuola, spiccante nel chiarore crepuscolare della
finestra, fu sul punto di afferrarla e di serrarsela al petto. Ma si
rattenne.

Essa disse con voce fredda: — Buona notte, papà.

— Non hai altro da dirmi? — domandò il padre.

La ragazza titubò un momento; poi rispose:

— Riprendi il Cinzano.

— Ancora! — gridò il signor Mazzi balzando in piedi. — Ah, questo
è troppo!... No! Hai inteso? No, mai! mai al mondo, se anche tu
digiunassi per un mese!... Va a letto.

La ragazza se n'andò, senza rispondere, a passi di ribelle.

                                   *

Di là a un'ora, dopo aver girato un pezzo per la casa, il signor Mazzi
si soffermò, col lume in mano, davanti all'uscio della camera d'Alba, e
pose l'orecchio al buco della serratura. Sentì il suo respiro regolare:
dormiva. Nondimeno dopo un momento d'incertezza, egli aperse l'uscio
pian piano e, mettendo una mano davanti alla fiammella della candela,
entrò in punta di piedi. La ragazza stava supina sul letto, con tutto
il busto coperto. Non gli era mai parsa così bella e così gentile. Ma
sul suo viso assopito era ancora dipinta la tristezza; il suo labbro
inferiore sporgeva un poco, nell'atteggiamento della bocca dei bambini,
quando si lagnano d'un torto e son lì per piangere; il suo respiro gli
parve affannoso. E a un tratto egli rabbrividì, osservando che aveva le
braccia incrociate sul petto, come una morta. Alla sua immaginazione
eccitata sembrò che quel nasino si fosse assottigliato, che quel
viso fosse già dimagrito, da mezzogiorno in poi. Ansioso, le prese
delicatamente le mani, per disgiungerle, che non le facessero pressione
sul cuore; ma fremè, atterrito, e non compì l'atto, vedendo fra le sue
dita una macchia rossa, che pareva di sangue. Guardò meglio e riconobbe
il garofano di Maria Cinzano. Respirò. E rimase pensieroso. Povera
Alba! Si teneva il fiore dell'amica sul cuore. Era pure affettuosa e
buona! E gli si presentò l'immagine di quell'altra ragazza che, pure in
quel momento, dormiva forse anche essa col respiro affannoso, agitata
in sogno da una dolce speranza o da un presentimento sinistro. Ma si
ribellò subito alla pietà che stava per vincerlo e gli prese un nuovo
senso di sdegno al pensare che quei bricconi avevano scaltramente
abusato della bontà della sua figliuola per giungere al loro fine, e
turbata la pace della sua casa. Che canaglia! Povera bambina! Ma essa
pure.... aver di quelle idee, alla sua età, nella sua condizione!
Infetta di socialismo.... la sua creatura! E pensò di levarle quel
fiore contagioso dalle mani per rimetterlo nel bicchier d'acqua ch'era
sul tavolino da notte. Ma un senso di delicatezza lo rattenne. E dopo
averla guardata affettuosamente un altro po', usci adagio adagio,
e se n'andò a dormire...; ma vedendosi ancora dinanzi la bambina
addormentata, con quella macchietta rossa sul petto, che pareva una
ferita al cuore.

                                   *

La mattina dopo egli non andò, come di solito, a darle il buon giorno
a letto. Alba ne fu afflitta, perchè sperava che col bacio mattutino
egli le avrebbe portato il consenso desiderato. E si levò col fermo
proponimento di proseguire la lotta. Andò nella sala da desinare, dove
l'aspettava il caffè e latte, mise sulla tavola, come un'insegna di
guerra, il bicchiere d'acqua col garofano rosso, sedette davanti alla
tazza fumante, fece in là il pane con la mano, e stette aspettando che
s'affacciasse all'uscio suo padre per fargli vedere che persisteva nel
digiuno provocatore. Suo padre s'affacciò, in fatti; e data un'occhiata
obliqua al pane intatto, corrugò la fronte e richiuse l'uscio. Allora
Alba sbattè il cucchiaino sulla tavola e si morse le labbra. Ma sperava
ancora ch'egli cedesse. Aveva l'abitudine di cogliere ogni mattina un
fiore dai vasi del terrazzino e d'infilarglielo in un occhiello del
soprabito perchè uscisse con un suo ricordo. Sarebbe uscito, quella
mattina, senza il fiore?... Pareva di sì, pur troppo, perchè l'ora
della scuola s'avvicinava ed egli non ricompariva. Infine, si dovette
risolvere ad andare a prendere i libri nella sua camera. Suo padre ne
uscì mentr'essa v'entrava. Era forse andato, come altre volte, a legger
di nascosto il suo componimento italiano. Le parve un buon segno.
Tossì. Ma quegli non rispose. Oh! come si sarebbe piegata a supplicarlo
con le più dolci parole per non dover andare alla scuola con la
vergogna di quel _no_ sulla fronte! Ma conosceva addentro suo padre,
la machiavellina, e sapeva che se c'era un mezzo certo di spuntarla
con lui non era quello di deporre le armi e di chinare la testa. E
non si mosse. Accastellò i libri e i quaderni, stando in ascolto, con
un'ultima speranza.... Ahimè! Il passo paterno s'allontanò, l'uscio di
casa s'aperse e si richiuse, e la sua ultima speranza si spense.

                                   *

S'avviò alla scuola, accompagnata dalla cameriera, col cuore pieno di
tristezza e di confusione, rallentando il passo e soffermandosi a ogni
tratto per giunger tardi, quando tutte le sue compagne fossero già
nei banchi e Maria Cinzano non avesse più tempo di parlarle. E diceva
tra sè, amaramente: — O non sa ancor nulla, e mi verrà incontro piena
di speranza, col viso buono e sorridente, e allora con che cuore le
darò la triste notizia? O le han già dato la notizia, e la vedrò più
pallida del solito, scoraggiata, con gli occhi pieni di lacrime, e come
potrò reggere a quella vista? — Ma la ragazza non le si presentò nè con
l'uno nè con l'altro di quei due aspetti. Entrando nella scuola, nel
punto che v'entrava la maestra, essa la vide seduta al suo posto, nel
primo banco, e incontrò subito i suoi occhi, che l'aspettavano. Come le
trafisse l'anima lo sguardo acuto, freddo, sarcastico, quasi feroce,
che quella le vibrò di sotto in su, mordendo l'asticciuola della
penna! Era uno sguardo d'odio e di disprezzo, il sorriso bieco d'una
nemica, la dichiarazione d'una guerra sorda e implacabile, che non le
avrebbe lasciato più pace. Alba ebbe un tremito; ma, per sentimento
d'alterezza, si fece forza, e dovendo passar davanti alla compagna per
andare al suo banco, rallentò il passo, per dissimulare il timore. Fu
peggio per lei. Maria Cinzano, quand'essa le passò accanto, ebbe il
tempo di dirle all'orecchio, con voce soffocata e fischiante: — Tuo
padre non ha cuore.

Alba sentì come un colpo di stile che le forasse la tempia, e andò
ai posto a passi ineguali, smorta, con gli occhi offuscati come da
una nebbia. La maestra incominciò la lezione; ma essa non sentì.
Le risonavano di continuo all'orecchio, come un fischio mordente,
ripetuto mille volte, quelle terribili parole. Provava un sentimento di
pietà amara per suo padre, un misto di avvilimento e di rabbia, e una
tristezza profonda. Lanciava ogni tanto uno sguardo alla sua nemica,
che le voltava la schiena, curva sul banco, e sentiva a vicenda un
violento bisogno di vendicarsi e una viva e triste pietà alla vista di
quelle spalle ossute e di quel collo sottile, che la facevan pensare
alle privazioni e agli stenti a cui il padre suo la condannava. E si
stringeva il capo fra le mani e faceva un grande sforzo per non dare in
uno scoppio di pianto.

La maestra, — una buona madre di famiglia, che, di nascosto, mentre
faceva lezione, rimendava i panni dei suoi cinque figliuoli, — osservò,
a traverso i suoi occhiali verdognoli, il viso mutato della ragazza,
e per distrarla dalla tristezza, senza domandargliene la cagione, la
chiamò a leggere il componimento sul quaderno, come solevan far tutte,
accanto al proprio tavolino, mentre essa seguiva la lettura sulla bella
copia.

Alba discese dal banco e salì sul piccolo palco, dove la maestra
troneggiava. Le mancaron quasi le forze quando si trovò là, sola, in
faccia alla scolaresca, col quaderno aperto fra le mani. Era un nuovo
e peggior supplizio per lei il dover leggere ad alta voce, a un passo
dal primo banco, quasi sul viso di Maria Cinzano, quel componimento
malaugurato, in cui si decantava un signore benefico, che con un atto
generoso e delicato salvava dalla disperazione una famiglia povera ad
era colmato di grazie e di benedizioni. Che sanguinosa ironia! Cominciò
a leggere con voce fioca e con gli occhi velati, come avrebbe letto un
atto d'accusa contro di sè e contro suo padre. Non vedeva, ma sentiva
lo sguardo iroso della sua compagna confitto nel suo viso, sentiva
che a ciascuna delle sue frasi sulla carità e sulla gentilezza del
signore immaginario, guizzava un sorriso di scherno su quella bocca a
cui suo padre rifiutava il pane. A un certo punto, forzata da non so
qual curiosità dolorosa, alzò gli occhi un momento dalla lettura, e
vide quello sguardo, vide quel sorriso. La voce le si spense, le salì
al viso un'onda di sangue, le tremò il quaderno fra le dita. Si vinse,
nondimeno, e riprese a leggere col viso sempre più pallido, con la voce
sempre più fioca. Ma, ad un tratto, quando voltò la pagina per leggere
le ultime righe, i suoi occhi si fissarono, dilatati, sulla facciata
di destra, dove non c'era più scritto, come attratti da qualche cosa di
inaspettato, che risplendesse.

— Vada avanti, — disse la maestra.

Ma la ragazza non continuò: i suoi occhi brillarono, il suo viso
s'accese, il suo petto si gonfiò. All'improvviso, con un atto
impetuoso strappò il foglio dal quaderno e lo gettò a Maria Cinzano,
che, stupita, lo afferrò per aria e lo fermò sul banco. La maestra,
maravigliata, stette a vedere. Quella lesse, e rimase un momento come
trasognata; poi pose un braccio a traverso il foglio, chinò la fronte
sul braccio, e si mise a piangere. Allora Alba saltò giù dal palco e
baciò la compagna sul capo. Questa le gettò un braccio intorno al collo
e le disse piano all'orecchio, singhiozzando: — Perdonami.

Sul foglio c'era scritto col lapis, a grandi caratteri: — _Dirai a
Maria Cinzano che suo padre può ritornare alla fabbrica e che sarà il
benvenuto._

                                   *

Palpitando di gioia e di gratitudine, appena finita la scuola, Alba
divorò la strada di casa sua, facendo trafelare la cameriera che la
seguiva. Per poco non strappò il cordone del campanello, entrò nella
sala da desinare come un colpo di vento, si gettò d'un salto sul
petto di suo padre, e gli coperse il viso di baci, senza parlare, con
una foga che gli mozzò il fiato e gli fece brillar due lacrime negli
occhi. Dopo l'abbraccio soltanto vide là il viso gioviale dell'avvocato
Boleri, con cui il signor Mazzi, che aveva anticipato il pranzo, stava
per uscire.

— Bene, bene, — brontolò il padre, bonariamente; — ma non credere che
siano le tue scenate d'impertinente che mi hanno fatto piegare. — E la
madre, con la sua dolcezza flemmatica, soggiunse sorridendo: — È stato
il mazzetto che t'ha visto fra le mani, mentre dormivi.

— Ahi Ho avuto dunque una buona idea! — esclamò la ragazza, battendo le
mani.

— Come, _una buona idea_? — domandò il padre meravigliato.

— Ma sì! — rispose Alba, con un sorriso fine; — l'idea del mazzetto.
Io sentii che ronzavi attorno all'uscio; sapevo bene che avresti
finito con entrare. Adora presi il mazzetto di Maria Cinzano e finsi
di dormire. Pensai: Papà è tanto buono.... vedendomi quel mazzetto sul
cuore s'intenerirà.... e farà quello che voglio.

L'avvocato Boleri diede in una risata.

Ma il padre fece un passo indietro, sdegnato. — Ah! questo è male! È
stata una finzione! Questo mi amareggia tutto il piacere!

— Andiamo, — gli osservò l'avvocato. — Non hai tu detto che volevi
combatter gli operai con qualunque arma? La tua figliuola ha messo in
pratica il tuo principio, per il suo fine.

— Ah, papà! — gli gridò Alba, afferrandogli le braccia, — non mi far
quel viso, poichè sei stato così buono. Ora tu sei in collera e io non
voglio. — E slanciatasi in un canto della sala, prese dal bicchiere
il garofano dell'amica, glielo infilò nell'occhiello e gli disse: — Va
alla fabbrica di buon umore. Ci troverai il Cinzano. Trattalo bene come
hai promesso sul quaderno; pensa che hai sul cuore il fiore della sua
figliuola.

Il padre la guardò un momento, e poi le diede un bacio sulla fronte.

Ma quando fu nella strada ripetè al Boleri, a denti stretti, la sua
frase solita:

— Questa, giuro al cielo, è l'ultima volta che la vince.

— Ma che! — gli rispose allegramente l'avvocato; — è la prima! Voglio
dire che è la prima di una nuova serie di vittorie.... come la tua
figliuola è forse la prima di una nuova generazione di signorine. Tutte
le grandi lotte sociali, caro mio, cominciano in scaramucce tra padri
e figliuoli. La famiglia è il primo laboratorio d'ogni idea nuova. Che
ci vuoi fare? Tu credi che la tua figliuola sia soltanto più buona di
te; è invece anche più giusta, e vede più lontano. Tu sei il secolo
decimono; lei è il ventesimo; _l'un contro l'altro armato._ E poi, si
chiama Alba. Le hai dato un nome profetico, caro mio. Preparati alla
lotta, e confortati pensando che in mille altre famiglie come la tua
seguirà lo stesso. E rassegnati fin d'ora perchè, in questa lotta, non
saranno i vecchi quelli che vinceranno.

— Sciocchezze! — ribattè il Mazzi, aggrottando le sopracciglia, e, come
per distrazione, fece l'atto di levarsi il garofano dall'occhiello.

— No, lascialo, — gli disse l'amico, trattenendogli la mano, — non
sarebbe gentile.... E poi, ti sta bene. Ti dà l'aria d'un giovane
socialista.

Il Mazzi fece un atto di dispetto; ma sorrise, e ritenne il fiore.



ADOLESCENTI



SUI BANCHI DEL GINNASIO

(Frammento).


                             . . . . . . .

Eran le otto e venti. Su nel grande corridoio, tutto tappezzato di
carte geografiche e d'orari, non passeggiava più che il bidello, solo
in mezzo a due lunghissime file di cappotti appesi alle pareti, che
davano al ginnasio l'aspetto d'un'enorme rigatteria: solo e tronfio
secondo il suo solito, come se portasse in corpo tutta la scienza che
s'era insegnata da vent'anni nelle stanze affidate alla sua scopa.

A un tratto, udendo un passo risoluto dietro di sè, si voltò in tronco,
e fece un saluto dignitoso al professore Carati che andava alla sua
classe.

Arrivato all'uscio, il professore aperse con uno spintone i battenti, e
in quattro passi impetuosi, come se pigliasse la rincorsa per un salto,
salì sulla cattedra.

La scuola, — un'ampia stanza rischiarata da due finestroni, tutta
bianca e nuda, fuorchè dalla parte della cattedra, dove pendevano alla
parete un crocifisso e il ritratto del re, tra una grande lavagna e un
planisferio, — era occupata da dieci banchi neri, divisi da una corsia,
tutti pieni di alunni. In un banco a sinistra del professore c'erano
quattro ragazze. Nei due penultimi spiccavano le uniformi orlate
di rosso e luccicanti di bottoni metallici di dieci convittori del
_Vittorio Emanuele_. Erano in tutto una cinquantina di scolari, cento
occhi vivi, ridenti, petulanti, curiosi, paurosi, fissi negli occhi
d'un solo.

Ma il professor Carati aveva dietro agli occhiali un par di pupille
piccolissime e nerissime, che, quando le fissava in faccia a qualcuno,
gli faceva sentir dentro lo sguardo acuminato e freddo come un
succhiello. Quella mattina aveva l'occhio sinistro ammaccato da un
librone cadutogli sul viso da uno scaffale alto della sua libreria. Era
un ometto di media statura, con un naso ardito, con una bocca a taglio
di rasoio, con certe mandibole rilevate come se ci avesse due noci tra
pelle e pelle; piantato su due gambe d'acciaio sempre tese, che, quando
era ritto, presentavan di profilo la forma di due archi rientranti
inflessibili. Egli era venuto su fin da ragazzo per forza d'una
volontà indomata, conquistando tutti i posti gratuiti dal Convitto
_Vittorio Emanuele_ al Collegio delle Province, ed era allora, oltre
che professore al Ginnasio, libero docente all'Università e ufficiale
di complemento degli Alpini: un vero Alpino delle lettere, fatto per le
lunghe marce in salita, e per la lotta con le bufere. Come non aveva
mai avuto indulgenza per sè, non ne aveva per gli altri. Trattava
gli scolari come soldati d'una compagnia di disciplina; giusto,
risoluto, e dopo che aveva deciso, inesorabile. Le sue punizioni erano
fulmini senza tuoni e senza lampi. E in tutto agiva così a scatto
di molla. Moveva delle domande improvvise che facean l'effetto di
stoccate in pieno petto; diceva dei _no_, dei _mai_, dei _via_, che
facevan trasaltare la scolaresca come lo scoppio d'un petardo. Per
far sentire la forza del latino pronunziava certe frasi, una di Livio
specialmente: _exercitum fundit, fugatque; regem obtruncat et spoliat;
duce ostium occiso urbem primo impetu capit_, in modo che pareva di
sentir scalpitare dei branchi di cavalli e cozzar delle spade. Diceva
_bocciare_ e _bocciato_ con tante ci che ai paurosi degli esami metteva
un brivido per le ossa. Vedeva tutto, indovinava ogni cosa; aveva un
occhio di lince e un udito di gatto; si spiegava con grande chiarezza,
senza una parola superflua; e, terminata la lezione con un taglio
netto, andava via di volo, cacciando da sè interrogatori, adulatori,
parenti, e in special modo le mamme appiccichine, come uno sciame di
mosche. Aveva — come dicevano — _il latino nero_, — e trentadue anni.

Girato uno sguardo rapido sulla classe, sedette, fece raccogliere i
lavori dai caposquadra, e, aperto il registro dei punti, chiamò a voce
alta: — Votini! —

Alberto Votini, un bel ragazzo dal viso aristocratico, figliuolo d'un
banchiere, s'alzò stentatamente, coi muscoli ancora indolenziti da
una lunga corsa sul velocipede, e rimase piegato a mezzo, con le mani
appoggiate al banco, come per iscomodarsi il meno possibile.

— La lezione, — disse il professore.

Eran quattro regole sull'uso dei casi.

Il Votini cominciò, si corresse, s'ingarbugliò, rimase in asso.

— Segga, — disse il professore. — Zero. Recidivo. Mi scriverà quaranta
volte queste regole per posdomani.

Il ragazzo sedette, sorridendo da un angolo della bocca al suo vicino,
per mostrare che s'infischiava del latino e dei suoi ministri.

— Annina Rosetti, — disse il professore.

Tutti gli alunni si voltarono con curiosità verso il banco delle
ragazze per vedere se il professore avrebbe usato delle preferenze.
E d'in fondo al banco s'alzò una ragazzina di undici anni, vestita
a lutto, piccolina, con un viso gentile e timido, che si coprì di
rossore. Capiron tutti che non era sicura del fatto suo.

La ragazza, infatti, espose con voce tremante, poco bene, le due prime
regole, — tartagliò la terza, — storpiò la quarta.

Il professore disse con voce squillante, notando: — Tre. — Tutti
i ragazzi si guardarono, scambiando un sorriso di approvazione:
riconoscevan la giustizia. La ragazza sedette, con le lacrime agli
occhi.

Interrogò altri tre: tutti risposero male: s'eran tutti fondati
sull'esame bimensile, che non avrebbe lasciato al professore il tempo
d'interrogare.

Il professore chiuse il registro con un colpo secco; poi, con un
accento che faceva d'ogni parola una frustata, disse: — Poltroni:
non avete vergogna a mangiare il pane dei vostri parenti? Voi, per le
vostre famiglie, non siete che animali domestici; e ancora.... questi
servono a qualche cosa. Vi dovreste coprir la faccia con le mani quando
incontrate per la strada i ragazzi del popolo che lavorano dieci
ore il giorno nelle officine. Voi dite: Gli uni lavorano, gli altri
studiano. Ma voi non studiate. Che sacrifici fate voi da mettere in
confronto con le loro fatiche? Voi convertite in una ingiustizia odiosa
la superiorità di condizione sociale in cui vi ha messi la fortuna. La
vostra poltroneria è un insulto alla fanciullezza povera che stenta e
lavora. E osate parlar di patria nei vostri componimenti! La patria ha
bisogno d'intelligenze colte e utili, e voi le preparate dei parassiti
ignoranti. Non avete in corpo che un'ambizione miserabile. Ma, badate:
cadrete nella mota a mezza via, e i valorosi vi passeranno sul ventre.
Intanto, non sperate compassione in fin d'anno, nei giorni in cui i
codardi piangono. Io vi schiaccierò. Scrivete.

E in mezzo a un silenzio profondo, dettò il tema d'esame: un passo di
Cornelio da voltare in italiano e due periodi italiani da tradurre in
latino.

Quasi tutti, secondo l'uso, invece di legger prima attentamente il
passo da tradurre per veder di coglierne il senso generale, si buttaron
subito sui vocabolari a cercar le parole della prima frase, anche
quelle che sapevano. E per un pezzo non si sentì più nella scuola che
il fruscìo dei libroni scartabellati.

La più tranquilla di tutti era Maria Bianchi, coi suoi lineamenti
regolari di santina di frate Angelico, sui quali non si vedeva mai
l'espressione d'uno sforzo intellettuale. Quando intoppava in una
difficoltà, posava la penna, e, fissati gli occhi chiarissimi sulla
finestra, cominciava a riflettere, a girare lentamente col pensiero
intorno al punto difficile, come un ufficiale con lo sguardo attorno
a una fortezza nemica; e se qualche rumore la scoteva, si voltava a
guardare, stupita quasi che ci fossero altri che lei nella scuola. Vico
Nelli, suo vicino di banco ed amico, la guardava tratto tratto, dal
secondo banco di destra, pensando con invidia a quella mente pacata
in cui tutte le idee si posavano pronte e nette come le immagini sur
uno specchio; mentre lui, come gli diceva sua madre, capiva, è vero,
e ricordava, ma tutto a mezzo, e aveva la testa piena di nozioni
indeterminate e ondeggianti, come il linguaggio della musica, che
studiava da due anni; e passandosi sulla fronte la mano larga e
pallida, cercava di mettere in atto il consiglio di sua madre, la
quale imparava il latino con lui: “non passar mai alla traduzione
d'una proposizione secondaria senza esser certo d'aver tradotto bene la
principale, per non correr pericolo di frantenderle tutte.„ E ripeteva
tra sè: — vediamo; vediamo; — ma il motivo della fantasia dell'Alard,
che il maestro di violino gli aveva data per lezione, non gli lasciava
raccogliere le idee. Ma il più agitato di tutti era un certo Morelli,
seduto all'altra estremità dello stesso banco, — figliuolo d'un
impiegato del Registro, — timido per natura, e affetto per giunta d'una
malattia particolare, tutta scolastica, che i medici hanno ancora
da definire, — un terrore degli esami, degli studi, dei professori,
di tutto quanto avesse relazione con la scuola, — terrore che
gl'ingigantiva il concetto di tutte le difficoltà, che gli scompigliava
in capo davanti alla cattedra la lezione saputa perfettamente fino a
un minuto innanzi, che gli ottenebrava, gli sbarrava l'intelligenza,
nel momento della prova, alla idea più semplice, alla domanda più
chiara. Passato a stento dalla 1ª alla 2ª, era rimasto con lo spavento
addosso del pericolo corso, come uno scampato a un eccidio, e a otto
mesi di distanza gli opprimeva già l'anima il pensiero dei nuovi
esami. Arrestato da una difficoltà fin dalla prima frase del tema, egli
cominciava ad affannarsi, come sempre, sfogliando con mano concitata
dizionari, Esercizi e grammatica, e lanciando da ogni parte delle
occhiate di naufrago che invoca soccorso.

I due veri principi della classe, superbamente sicuri del fatto
proprio, erano il Derossi e il Carpini, seduti alle estremità di
due banchi vicini, in modo che la corsia soltanto li separava.
Erano differentissimi fra di loro, sotto ogni aspetto. Il Derossi,
figliuolo d'un ricco fabbricante di seta, biondo, bello e riboccante
di vita, aveva un'intelligenza larga e brillante, riscaldata da un
cuore d'artista, generoso e palpitante d'ambizione. Il Carpini,
per contro, — figliuolo d'un ingegnere, — una figura secca, che
mostrava più anni di quelli che aveva, con una testa piccola e fatta
a punta, coperta di capelli neri appiccicati come se si fosse tuffato
nell'acqua, con due occhi grigi e freddi, un po' loschi, nei quali
non passava che a momenti un vivo balenìo, aveva un ingegno meno
pronto e meno vasto, ma più fermo e più esatto di quello del Derossi.
Ragazzo com'era, non aveva già altro in mente che la sua carriera
d'ingegnere: contava già sulle dita ogni giorno gli anni del ginnasio,
del liceo, dell'Università e del Valentino, meditando dei salti e
delle scorciatoie; e non gli premeva tanto di levarsi in alto quanto
d'arrivar lontano, e il più presto che avesse potuto. Trattava già i
suoi compagni come concorrenti; non aiutava nessuno; non amava nessuno;
avrebbe, potendo, rubato le frasi latine e le regole al cervello dei
suoi colleghi, non tanto per arricchir sè quanto per spogliar loro;
combatteva già, senza scrupoli, la lotta per la vita, con un intuito
precoce delle durezze del mondo, e con la coscienza sicura che nella
società egli sarebbe stato coi lupi e non fra gli agnelli. Fin dai
primi giorni la scolaresca aveva messo lui e il Derossi l'uno di fronte
all'altro, come due campioni che si sarebbero disputati la primazia; ed
essi, indovinatisi a vicenda, non s'erano ancora scambiati una parola
in due mesi, benchè due volte la settimana si trovassero insieme a
tirar di scherma nella sala del maestro Gandolfi, dove andava pure il
Votini. Ma il Carpini, che all'ammirazione dei compagni non teneva gran
fatto, non si appassionava punto in quella specie di rivalità pubblica;
mentre l'altro, caldo di natura, abituato a primeggiare e un po'
gonfiato da sua madre, era gelosissimo, e si preparava a combattere con
tutte le forze. Questo si vedeva benissimo dal loro contegno, quella
mattina. Il Carpini lavorava quieto e raccolto; il Derossi era eccitato
e, scrivendo, sbirciava a ogni poco il vicino, con un sorriso nel quale
già si riconosceva il difetto che gli andava crescendo nell'anima da un
anno: la vanagloria.

Accanto al Carpini c'era un povero ragazzo di nome Pitto, passato dalla
1ª alla 2ª per un miracolo di cui era ancora stupefatto, — piccolo, —
lo zimbello della scuola, — una di quelle povere creature assolutamente
inette agli studi, — le quali dicono e scrivono gli spropositi enormi
che passano in tradizione — che imparan la lezione senza intenderla
e traducono a caso — vittime innocenti della scuola, instupidite e
schiacciate ogni giorno di più dalle difficoltà che s'accumulano, e
come perduti in un caos tenebroso di idee e di parole, in cui vanno
brancolando alla cieca fin che un professore abbia l'onesto coraggio
di consigliare i loro parenti a liberarli da quel supplizio inumano. Il
povero ragazzo, che s'era impuntato alla prima parola, domandava tratto
tratto una spiegazione al Carpini, il quale gli rispondeva in fretta,
senza curarsi d'essere inteso; e quegli, rimasto al buio come prima,
guardava per aria, con l'espressione rassegnata e indifferente d'uno
assuefatto a quegli impicci, e che non spera nè teme più nulla. Ogni
tanto, mosso a compassione, gli suggeriva una parola o una frase un
convittore, che stava nel banco dietro al suo.

Costui, di nome Borzini, era il bello spirito della classe, uno dei
diavoli più indiavolati del _Vittorio Emanuele_, che aveva sempre
qualche ammaccatura, o lividura, o gonfio, o graffio, o una mano o
la testa fasciata, in conseguenza di pugilati o di cadute che gli
fruttava la ginnastica temeraria e matta a cui s'abbandonava durante
le ricreazioni. Il suo ideale era di diventare ufficiale d'artiglieria.
Caricaturista, imitatore di voci e di gesti, motteggiatore terribile, —
studiava poco; ma con certe sue furberie e industrie, che gli giovavano
molto; e aveva una grande immaginazione sregolata, che gli faceva tirar
giù dei componimenti interminabili, pieni di scorrezioni e di idee
e frasi originali, per lo più comiche; e una memoria maravigliosa,
ma non sorretta dalla riflessione; nella quale, come in un magazzino
di strada ferrata, entrava affollatamente una gran quantità di
roba da una porta per uscir quasi subito dall'altra. Un'ora dopo la
dettatura del tema, egli non aveva ancora tradotto che una frase:
stava facendo la caricatura d'un certo Pantone, suo compagno, il quale
ripeteva la 2ª dopo aver ripetuta la 1ª ginnasio e la 4ª elementare:
e lo rappresentava vecchio come l'alleluia, ancora alunno della 5ª
ginnasiale, che accompagnava a scuola i suoi figliuoli, già liceisti.

Questo Pantone, seduto nell'ultimo banco in mezzo agli altri ripetenti,
era il più attempato della classe: un ragazzone sonnolento e molle, che
incretiniva lentamente e dolcemente, rattrappito dentro a una scorza
d'indifferenza così spessa, che nessun rimprovero di professore o di
parente arrivava neppur più a passargli la prima pelle. Vorace come
un bufalo, egli si consolava di qualunque più clamorosa “topica„ con
la idea d'una data pietanza o minestra che avrebbe mangiato la sera, o
con la gioia infantile di poter aggiungere un oggetto nuovo a una sua
strana collezione, composta di pelli di topo, di bottelli di scatole
di Liebig, di caratteri tipografici, di calamite, di prismi di vetro,
di carte asciuganti di tutti i colori, che non usava, e che serbava
pulitissime. Egli se ne stava lì inerte, con la schiena arrotondata,
come un grosso gatto infingardo, intento alla sua ricreazione
prediletta di sforacchiarsi con la punta d'una penna la pelle della
mano, che s'era ridotta come la mano d'un crocifisso; e aspettava le
dieci per risolversi a copiare il lavoro da un altro.

Un altro bel personaggio era un ragazzo di nome Fossotto, seduto in
fondo al primo banco di sinistra, vicino all'uscio; un tipo rozzo e
sano di montanaro, ruzzolato giù da un villaggio di Val Vermenagna,
dove stava suo padre, capomastro, che aveva rammucchiato qualche
migliaio di lire e voleva far del figliuolo “un uomo di scienza„ mentre
questi, invece, aveva per aspirazione suprema di essere un giorno
impiegato postale del “servizio mobile„ e ciò per aver visto una
volta, durante una fermata di treni, l'interno d'un _vagone-posta_,
con l'impiegato dentro, che scriveva e fumava. Era un testone ben
costrutto, un piccolo studente posato, che rivoltava adagio adagio
e per tutti i versi le frasi latine, e le metteva le une sulle altre
con gran riguardo, come già aveva fatto coi pietroni da bimbo, nella
sua valle nativa, quando giuocava coi suoi compagni in zoccoli a
fabbricar muriccioli, mostrando ch'eran mirabilmente _risurte per li
rami_ le virtù manuali del padre. Questi l'aveva messo a una magra
dozzina da una vedova sua conoscente; pretendeva che, per esercizio,
gli scrivesse le lettere in latino, ch'egli si faceva tradurre dal
parroco; e veniva a Torino una volta al mese ad aspettarlo all'uscita
della mattina davanti alla porta del Ginnasio, dove lanciava occhiate
furibonde ai ragazzi fumatori, borbottava dietro alle spalle delle
studentesse, e mostrava il pugno ai velocipedisti che passavano sul
corso Siccardi. Il figliuolo portava anche d'inverno, per ordine del
padre, la testa rapata, delle grosse camicie di fil di canapa, e un par
di scarpacce, che si guardava ogni momento per verificarne lo stato.
Ed era diligente nello studio, benchè non leggesse nè scrivesse una
sillaba più del necessario; pien di buon senso; punto affettuoso con
gli amici; ma incapace d'un'impostura. L'unico suo tormento era quello
d'esser canzonato dalla scolaresca per la sua barbarissima pronunzia
italiana: perchè pronunziava come se avesse la bocca piena di pasta,
e i muscoli labiali ribelli alle parole lunghe, e gli era negata dalla
natura l'_esse ci_; tanto che il convittore Borzini gli aveva messo il
soprannome di _vovo al gussio_.

A destra di lui sedeva un certo Astocchi, il suo rovescio, figliuolo
d'un padre troppo buono, che l'adorava senza conoscerlo; un sacchetto
di vizi; fannullone, mellifluo, adulatore, impostore, invidioso; una
vera mela marcia messa a contatto d'una mela sana; e dall'altra parte,
un curioso originale, figliuolo d'un illustre professore d'anatomia,
una faccia rugosa di vecchio commediante, che il convittore Borzini
aveva soprannominato l'_astro spento_, perchè era stato un fanciullo
miracoloso nella 3ª e 4ª elementare, aveva avuto sei mesi di celebrità
nella 1ª ginnasio, e poi — a un tratto — come se gli si fosse spezzata
la molla della volontà sotto la pressione delle lodi, — non aveva
più fatto nulla di buono, ed era sceso dai primi fra i mediocri, e da
questi fra gli ultimi, non conservando più dell'antica grandezza che
un perpetuo sorriso tra minaccioso e sprezzante, che diceva: — Guai se
volessi! — Pover a voi se mi ci rimetto! — Ma non ci si rimetteva mai,
e non era più che una superba rovina intellettuale.

Nel banco delle ragazze, — tra Maria Bianchi, che toccava i quattordici
anni, e Annina Rosetti, una sensitiva, che diventava smorta a veder
leticare due compagni all'uscita e s'imporporava a ogni interrogazione
del professore, — c'erano due alunne che facevano un vivo contrasto
tra di loro. Una certa Italia Marri, rossa di capelli, fatticcia della
persona, diritta come un colonnino, di voce e di mosse maschili, —
sempre rannuvolata con le compagne — imperterrita davanti al professore
— e facile ad irritarsi con tutti; alla quale il Borzini aveva posto
il soprannome di _russa_ per la sua somiglianza con una studentessa
russa dell'Università di Zurigo, di cui aveva visto la fotografia;
e la signorina Irene Montepilli, cugina di Maria, una bella ragazza
vanerella, che s'era data agli studi classici per questa sola ragione,
che le aveva profondamente ferito la fantasia una graziosa studentessa
di legge, la quale aveva sostenuto gli esami pubblici di laurea, due
anni prima, con un vestito nero che le stava dipinto. Comparire un
giorno in quella stessa aula universitaria, vestita in quella maniera,
in mezzo agli applausi, era da due anni la passione, il sogno della
sua vita. Ma la signorina studiava pochino, aveva il vezzo di fare
tutti i sostantivi femminili, e una repugnanza innata al corretto uso
del soggiuntivo. In compenso, rideva a ogni proposito e sproposito,
per mostrare il doppio giro dei chicchi bianchi; rideva tanto che, se
ogni volta che apriva la bocca le fosse entrata dentro una regola di
grammatica, eh! ne avrebbe potuto insegnare a Tommaso Vallauri. Ed era
questa illusione forse che le faceva guardare dall'alto al basso il suo
sesso — _digiuno di studi classici:_ — una sua frase prediletta, che
aveva trovato in un articolo bibliografico del giornale l'_Eleganza_.

Questi erano i personaggi principali della classe; gli altri, i soliti.
Qualche ragazzo d'ingegno, che aveva poca volontà; alcune intelligenze
mediocri, molto studiose; dei giovanetti poveri e buoni; dei signorini
villani; parecchi somarelli di nascita, una decina di mascalzoni, e il
resto, nè carne nè pesce.

Il lavoro durò vivo e raccolto per un'ora e mezzo. Poi molti
cominciarono a lanciar occhiate al Derossi e al Carpini, curiosi di
vedere chi dei due avrebbe avuto il coraggio d'affrontare per il primo,
in faccia alla classe, il giudizio del professore; perchè l'aver fatto
meglio in minor tempo sarebbe stato una doppia vittoria.

Il Derossi, avendo perso un po' di tempo ad aiutare i vicini, era
rimasto un po' indietro. Ma quando vide, con la coda dell'occhio, che
il Carpini stava per finire la copiatura, piccato, s'affrettò, e riuscì
a terminar la pagina mentre l'altro ci scriveva su il nome.

Tutti e due scesero dal banco nello stesso punto, in modo che si
toccarono con le spalle, andarono tutti e due insieme alla cattedra,
e porsero tutti e due a un tempo il lavoro, l'uno a destra e l'altro
a sinistra; poi tornarono l'uno accanto all'altro al loro posto, il
Derossi col viso acceso, il Carpini indifferente, — senza guardarsi.

Il professore si mise a leggere i due lavori.

Tutti alzarono il capo e stettero attenti per indovinare il giudizio
dal suo viso. Ma, terminata la lettura, il viso del professore rimase
impassibile.

Allora si rimisero tutti al lavoro, in fretta, molti consultando a ogni
minuto l'orologio (c'erano nella classe tredici orologi); e in pochi
minuti quasi tutti finirono e rimisero il foglio. Una delle prime fu la
_russa_, che il professore rimproverò per un grosso sgorbio che aveva
fatto nel margine.

— M'è cascata la penna, — disse la ragazza, un po' secco.

— Non doveva lasciarsela cascare, — rispose il professore sullo stesso
tono.

E la ragazza ribattè a bassa voce: — Non è un delitto.

Ma per fortuna la ribattuta non fu intesa.

Uno degli ultimi fu il povero Pitto che si decise a dare la pagina con
parecchie righe lasciate in bianco, e la diede con l'aria avvilita e
triste del colpevole che fornisce volontariamente al giudice le prove
del suo delitto. Poi fu il Morelli, preso da un tale affanno che,
avvicinandosi alla cattedra, incespicò e dovette afferrarsi a un banco,
fra le risa sommesse di tutti i compagni: eccettuata Annina Rosetti,
che gli diede uno sguardo furtivo, pieno di pietà e di simpatia. E
dopo il Morelli, il Fossotto, che aveva per massima di esser sempre
uno degli ultimi, e se era possibile, l'ultimo — per prudenza. Ma
quella mattina fu l'ultima la Rosetti, che si fece avanti col viso
scarlatto, in punta di piedi, così timida e leggiera, che pareva
dovesse svanire da un momento all'altro come una larva. In quel punto
comparve sull'uscio il bidello e diede con accento grave il solito
_finis_; a cui seguì immediatamente un rimescolio affrettato di tele
cerate, di zaini e d'assicelle, e un rumor sordo di quaderni e di libri
sbattuti; al di sopra del quale si sentì, come sempre, lo strepito
indecente che faceva Pantone. Perchè questo bertuccione intorpidito e
sonnacchioso aveva sempre un brusco risveglio al momento di riporre
i libri, e metteva in quell'operazione tutta la vitalità che gli
rimaneva; premeva i volumi stringendo i denti, serrava le cinghie con
vigore erculeo, pareva che provasse un diabolico piacere a stroncare lì
dentro Cornelio, Fedro, lo Schiaparelli e il Gandino, per vendicarsi
dei tormenti e delle umiliazioni che gli avevano inflitte per il
passato; ed era così furioso in quell'impiccamento, che alle volte ci
si sbucciava le mani.

Un gesto del professore ristabilì all'improvviso il silenzio. Egli
assegnò la lezione e il lavoro, triplo di quel del dì precedente.
Poi, per finire con un monito soldatesco, com'era suo solito, disse, o
piuttosto _sparò_ queste parole: — Studiate, dunque, faticate. Siate
brutali con voi stessi. Giù dal letto avanti giorno, — una tuffata
del capo nell'acqua fredda, — quattro rotazioni delle braccia, — e
al lavoro. È duro, dite voi. Ma la vita è dura per tutti. A nulla si
riesce senza soffrire. L'hanno bandita i fiacchi la sentenza che la
vita degli studi è la vita della quiete e della sicurezza. Anche negli
studi i valorosi cimentano la salute e la vita, e molti ne muoiono
— onoratamente. Si può anche sul banco della scuola essere eroi.
Scotetevi, se avete dell'alterezza e del sangue....

Qui s'interruppe, come preso dal dubbio di parlare invano, e disse con
accento sdegnoso, accennando l'uscio: — Via! — E tutti uscirono, in
silenzio.

Mentre s'ordinavano nel corridoio per l'uscita, il Votini s'avvicinò
al Derossi, e gli domandò se sapeva dove stesse dì casa Garotti, il
loro antico compagno delle elementari, che copiava i pensi a pagamento.
— Non so, — rispose quello —,ma so dove sta il Garrone, che è alle
tecniche con lui, Via delle Palme, numero 7. È lontano. — Poh! —
rispose il Votini. — Otto minuti di velocipede.

Nel corridoio c'erano quella mattina molte signore, alcune ben vestite,
altre assai dimessamente, come beghinette; studenti di liceo, che
aspettavano i fratelli del ginnasio; padri, cameriere, servitori. Fra
gli altri, il padre e la madre del Pitto, che venivano sempre agli
esami bimensili; lui, un notaro in riposo, piccolo e curvo; lei pure
piccola e incartocciata, sempre l'uno stretto all'altro, attenti a
salutare con inchini ossequiosi tutti i professori, e come smarriti
fra quei torrenti di scolaresca che sgorgavano da tutte le parti;
dentro ai quali andavan cercando il loro piccolo martire, con gli
occhi ansiosi, in cui si leggeva il terror del latino. I ragazzi si
staccavan dalle file via via che vedevano i loro parenti. Alcuni di
questi s'avvicinavano ai professori, e li interrogavano. Ma nessuno
osò abbordare il Carati, che passò a naso ritto, facendo sonare i
tacchi come un carabiniere in servizio. In coda alle file, a una
certa distanza, venivano a coppie e a gruppi le ragazze delle varie
classi, lentamente, aspettando che sfuriasse l'onda mascolina, la
quale fiottava giù per le scale, e allagava la strada. Qui, appena
usciti, qualche studente di liceo accendeva il sigaro; e alcuni
del ginnasio pure, ma guardandosi attorno con sospetto, e facendosi
schermo del mantello. Sullo scalino del portone troneggiava il bidello,
con le braccia incrociate sul petto. Una cameriera gli si avvicinò
rispettosamente e gli domandò: — Scusi: c'è ginnastica stasera per il
ginnasio? — Egli la guardò da capo a piedi, e rispose severamente: —
Consulti gli orari.

E proprio a destra e a sinistra del portone stavano aspettando, in
mezzo ad altre, la signora Derossi e la signora Carpini, che non
si conoscevano ancora fra di loro, ma di cui ciascuna conosceva il
figliuolo dell'altra; e ciascuna rassomigliava al proprio: la signora
Derossi, grassa, bionda e elegante; la Carpini asciutta e bruna, con
due occhi grigi e freddi, vestita di scuro.

Eran venute tutte e due a sentir le prime notizie dell'esame bimensile.

Quando i due ragazzi comparvero, esse si riconobbero, e si scambiarono
uno sguardo.

La guerra era dichiarata.

                             . . . . . . .

Uscì in quel punto, a passi impetuosi, il professor Carati, il quale,
vedendo un gruppo di scolari che ingombravano il passo, disse forte:
_Ite in crucem, popelli!_[1]

E, data un'occhiata di traverso alle mamme, soggiunse fra i denti: _Et
vos, femellae dicaces!_[2]

— Ha inteso? — domandò dolcemente a una sua vicina la signora Derossi,
a voce bassa, ma con l'intenzione adulatoria di farsi sentire da lui: —
quello parla bene il latino!

                             . . . . . . .



I COMMEDIANTI E I RAGAZZI.


.... Era una gran festa per molti dei miei compagni di scuola, e per
me, quel cartellone che annunziava l'arrivo della compagnia drammatica.
La città era piccola; non ci veniva che una compagnia all'anno, dai
primi di novembre ai primi di dicembre; una compagnia povera e canina,
si sottintende. Ma ci parevano tutti grandi attori. Un'ora dopo
ch'erano arrivati, sapevamo a che albergo eran discesi. — La prima
donna e il brillante sono alla _Sbarra di ferro_. — Il prim'uomo è alla
_Corona_. — È stato visto il padre nobile al _Caffè dell'Unione_. —
Prima che cominciassero a recitare, li conoscevamo di vista dal primo
all'ultimo; li pedinavamo per la strada, di lontano; li esaminavamo
profondamente, al _Caffè d'Italia_, guardando le loro immagini negli
specchi, per non farci scorgere. Quanti ne ho visti passare, dei primi
attori impomatati, col soprabito nero stretto alla vita e spelato
ai gomiti; delle prime donne pallide e tristi, vestite di cenci
zingareschi; dei tirannelli gialli, insaccati in certi casacconi verdi
e imbacuccati in grandi scialli grigi; e dei poveri diavoli d'amorosi
allampanati, tutti cilindro e mantello, che parevan lo spettro della
fame. Nelle città piccole si va poco alla commedia: qualche volta il
teatro si chiudeva dopo quindici recite, per disperazione; la compagnia
non aveva più quattrini nè per rimanere nè per andarsene, e i cittadini
dovevan fare una colletta.... Ma questo non scemava mica la nostra
ammirazione per gli artisti. Tutt'altro. Essi grandeggiavano, ai nostri
occhi, in quella miseria, vittime dell'ignoranza e della barbarie
pubblica; e per lungo tempo dopo ch'erano partiti, li rimpiangevamo,
ricordando i loro atteggiamenti e le loro tirate, e dicendo che i
signori della nostra città erano un branco d'ignoranti e di pitocchi.

                                   *

Infatti, le commozioni che gli attori ci destavano erano così
maravigliose, che dovevan parerci animali senza cervello e senza cuore
coloro che non le provavano. Gli effetti della finzione drammatica,
nei ragazzi, sono poco meno profondi che gli effetti della realtà; al
che giova pure il non conoscere affatto, nemmeno per intuito, la classe
degli attori; i quali paiono creature quasi sovrumane, e il mistero che
li avvolge duplica la loro potenza. Anche i peggiori cani, allora, ci
facevano tremare, strepitare dall'entusiasmo, assai più che non abbian
fatto pochi anni dopo i più grandi artisti del mondo. Come stavamo
immobili, inchiodati sulla panca, col respiro sospeso, col cuore che
ci saltava fino alla fontanella della gola, con l'impressione come
d'una mano che ci serrasse alla strozza, quando il dialogo concitato
di due personaggi accennava a finire in una risoluzione disperata
o in un colpo di spada! Non dimenticherò mai, vivessi cent'anni,
l'effetto che mi fece una scena di _Margherita Pusterla_, una sera
ch'ero in palco con la famiglia, tutto contento, dopo aver fatto il
mio lavoro di quarta elementare. Quando Alpinolo afferrò per il collo
quel _boia_ di Luchino Visconti, e gli appuntò il pugnale sul viso,
caricandolo di contumelie, fremetti e risi di gioia, sprofondando le
unghie nel velluto del parapetto. Poi Alpinolo fugge, Luchino (che era
un pezzo d'omo, con un vocione spaventevole) si slancia alla finestra,
urlando: — Inseguitelo! — accenna le vicende dell'inseguimento,
grida: — Lo raggiungono.... si salva.... no.... gli son vicini....
sfugge.... è raggiunto! — Quella terribile parola _è raggiunto_ mi
fece scoppiare in un singhiozzo convulso, che fui appena in tempo a
soffocare col fazzoletto. Mio padre mi condusse fuori del palco, nel
corridoio, cercando di quetarmi. Ma nel corridoio arrivava ancora la
voce stentorea di Luchino; capii che Alpinolo gli era stato ricondotto
davanti, legato; era una cosa orribile; ricominciai a singhiozzare;
mio padre dovette accompagnarmi giù, nell'atrio del teatro; ma là
ancora rimbombava quella formidabile voce; fui costretto a uscire
nella strada; ero inconsolabile, avevo il petto rotto, e continuai
a disperarmi per un bel pezzo, in mezzo al cerchio dei monelli che
aspettavan le cicche, non piangendo più, ma singhiozzando ancora, con
quel tiranno esecrato davanti agli occhi.

                                   *

Naturalmente, a noi pareva che quegli attori avessero anche fuori
del teatro l'importanza, la potenza affascinatrice dei personaggi che
rappresentavano sulle scene. Ci pareva che nessun banchiere milionario
avrebbe osato rifiutar la mano della sua figliuola a quel bel primo
attore, ardente e superbo, che aveva fatto così bene _Francesco primo_
la settimana passata; e non eravamo lontani dal credere che, assalito
da una banda d'assassini, il tiranno non avrebbe avuto che a gridare
con quella sua voce sibilante: — Indietro, miiiiseee....rabili! — come
gridava nel dramma _Il delitto misterioso_, per vederli sparire come
uno stormo d'uccelli. Tra l'amicizia del Presidente del Consiglio e
l'amicizia del caratterista, avremmo scelto questa, senza un momento
di esitazione. Mi ricordo del grandissimo rispetto che sentii per un
mio zio burlone, dopo una sera che, rientrando in casa, disse d'aver
giocato una partita al biliardo col brillante. Quanto alle prime
donne bastava che non fossero mostri: ne eravamo tutti cotti; era un
innamoramento all'anno, dai primi di novembre ai primi di dicembre,
regolare e inevitabile, come la pioggia d'autunno. Ne ricordo ancora
una mezza dozzina, come se le avessi viste ieri: un donnone con
una voce di bombarda; una mingherlina, gobbina, che pareva sempre
che piangesse; una bionda, un angelo, che fece tre stagioni, sempre
incinta di molti mesi, poveretta; e dell'altre, tozzotte, belloccie,
malaticcie, bruttine, con certe voci stridule e certe pronuncie
dell'altro mondo; ma che ci rapivano in estasi, quando comparivano sul
palco scenico, coi capelli sciolti per le spalle, facendo le pazze col
solito spediente del piantoriso. Ah! Dio grande! Essere amati da una
prima donna! Era la suprema delle felicità e delle glorie umane! Come
dovevano essere superiori a tutte le miserie della vita, che sovrumano
linguaggio dovevan parlare, come ci parevano scolorite e prosaiche
tutte le altre donne, in confronto a loro! Ma nessuno di noi avrebbe
osato sperare neppure uno sguardo da una di quelle creature arcane e
sfolgoranti, che ci apparivano in sogno, nei panni di Maria Stuarda
e di Diana di Poitiers. Incontrandole per la strada, arrossivamo; e
una loro parola che cogliessimo a volo mentre passavano, una frase
straordinaria e misteriosa, come: Ho aspettato la sarta fino alle
sette.... oppure: — Ci hanno portato i bagagli al _Bue rosso_.... — ci
sonava nel capo per tutta la giornata, come il suono d'un'arpa celeste.

                                   *

Gli uomini, per altro, ci facevano un'impressione più profonda, perchè,
a quell'età, si ammira più il grandioso e il terribile di quello che
non s'ami il tenero e il gentile. La nostra grande passione erano le
scene in cui un personaggio coraggioso e generoso, invasato dall'ira,
incalzava un altro personaggio a traverso al palco scenico, gridandogli
sul viso. — Codardo, sciagurato, infame, miserabile, assassino del
sangue tuo, oppure del sangue mio. — Quanto più ne sputava, tanto più
applaudivamo. E in queste scene, bisogna dirlo, anche i più tangheri
avevano dei momenti felici. Ma sopra tutte ci entusiasmavano le scene
culminanti dei drammi patriottici, che in quegli anni avevano gran
voga. Erano i bei tempi dei _Martiri del 21_, del _Fanciullo Mortara_,
dei _Processi di Mantova_, se non sbaglio il titolo, e di altri drammi
pieni di congiurati, di commissarii di polizia, di sgherri papali,
di gendarmi austriaci: — drammi mediocri, per quanto mi ricordo,
come lavori d'arte, — ma d'efficacia maravigliosa sui giovanetti,
specialmente per le tirate degli oppressi contro gli oppressori, alcune
delle quali non mancavano davvero di eloquenza. Noi pestavamo i piedi,
battevamo i pugni, piangevamo lagrime ardenti a quelle espressioni
clamorose d'amor di patria, nelle quali gli attori ci apparivano
venerabili e gloriosi quanto gli eroi medesimi che rappresentavano.
C'era un Maroncelli, mi ricordo, per il quale avremmo dato metà del
nostro sangue. E sì che allora le tirate patriottiche erano fatte in
maniera da toglier qualunque illusione artistica. Arrivato a quel
punto, l'attore si voltava addirittura verso la platea, come per
arringare il pubblico, e recitava la sua filastrocca, come un pezzo
staccato dal dramma, cambiando voce e intonazione, con lo sguardo come
perduto verso un orizzonte lontano. Ma che ci importava! Eran sublimi.
E se qualche volta uno spettatore scettico e impertinente, accanto a
noi, esclamava a mezza voce: — Che cani! — era bell'e giudicato, da
noi altri: non poteva essere che un _asino_ e un _vile_. Che belle,
indimenticabili serate! Ci fermavamo alla porta per veder uscire il
Confalonieri, Silvio Pellico, il vecchio Schiller. — Son loro, — ci
dicevamo nell'orecchio: — eccoli qui. — E ci pareva un nuovo e maggiore
indizio di grandezza quell'aria stracca, e così tra sprezzante e
burlona, con la quale uscivano dal tempio della loro gloria, accendendo
un mezzo sigaro e tirandosi il bavero sugli orecchi, come il comune dei
mortali.

                                   *

Potrei fare il ritratto di quasi tutti, se sapessi disegnare, tanto
mi son rimasti stampati, cesellati nella memoria. Uno m'entusiasmò
principalmente, un primo attore romagnolo, giovane, il quale, a quel
che dicevano, imitava Ernesto Rossi, ch'io non avevo ancora inteso.
Ripensandoci ora, mi sembra che dovess'essere un birbaccione: smaniava
come un ossesso, e aveva una voce arrantolata da metter paura ai
bambini. Ma quando faceva il _Bravo di Venezia_, nell'ultim'atto,
gli avrei gettato sul palcoscenico una bracciata di cartelle del
Debito pubblico. Cento altri visi ricordo, delle maschere terribili
e grottesche, delle figure che mi parevano modelli insuperabili di
bellezza e d'eleganza, dei colossi dal passo elefantino, una varietà
infinita di gambe, soprattutto, gambe vestite di maglie di tutti i
colori, gambe sottili e maligne di Luigi undecimi e di Filippi secondi,
ristecchite dalle fatiche continue della caccia al desinare; gamboni
idropici di Don Marzi, gambe torte e bitorzolute di Paoli e di Romei,
belle gambe scultorie di Cesari di Bazan, alle quali paragonavo con
invidia le mie seste ginocchiute di scolaretto cresciuto precocemente.
Ma quello che mi restò più vivo di tutti nella mente, è un tiranno,
— lombardo, mi pare; — quello stesso che faceva il Luchino Visconti
in quella serata terribile. Ma faceva pure delle parti buone, — le
parti di gran forza, — nei drammi patriottici. Era un curiosissimo
originale: di media statura, tarchiato come un atleta, un po' panciuto,
con un gran naso a gancio, senza collo, tozzo, tutto d'un pezzo; di
trentacinque anni, o press'a poco. Capiva pochissimo quello che diceva:
l'ho capito dopo; recitava con una monotonia micidiale; faceva il duca
d'Alba e il padre amoroso tutt'a un modo; ma aveva un organo vocale
di tal potenza, quel buon bestione, che, nelle tirate patriottiche, in
special modo, quando la sprigionava tutta quanta _dalle spaziose atre
caverne_, faceva tremare il teatro, e suscitava un uragano d'applausi.
No, nessuna parola può dare un'idea di quella voce; non ne ho mai più
udita una simile. Aveva un organo di cattedrale, un cannone, un leone,
il corno d'Astolfo nel corpo; avrebbe coperto lo strepito d'un arsenale
col suo mostruoso vocione. Non so più in quale dramma, nominando per
caso gli Svizzeri, faceva una sfuriata contro gli Svizzeri mercenari.
Me ne ricordo sempre. Diceva a voce bassa, naturalmente, terminando
un periodo: — .... come usano gli Svizzeri; — e poi, tutt'a un tratto,
esplodendo come un mortaio: — Oooooh gli Svizzeri! Caaarne ven-du-ta!
Oooooh se l'ombra di Guglielmo Tell potesse levarsi dal suo sepolcro,
ecc. — Pareva di sentire il fragore del tuono in una valle delle Alpi.
E non se la pigliava mica a cuore il furbacchione. Che! Il suo accento
non aveva neppure un leggerissimo tremito, la sua faccia rimaneva
impassibile; egli metteva fuori tutta quell'ira di Dio senza scomporsi
menomamente, come se avesse chiacchierato con un amico con la tromba a
volano. Ma come resistere a quella voce? Io me la sentivo rombare poi
nella camera per tutta la notte; e per tutto il giorno dopo non facevo
che gonfiare il collo, declamando: — Oooooh Svizzeri! Caarne venduta!
— con un entusiasmo.... del quale si risentiva poi miseramente la mia
composizione latina.

                                   *

Poveri commedianti! Quanto eravamo lontani, allora, dall'immaginare le
miserie e i dolori che nascondevano sotto i loro manti di re e sotto
i loro giustacuori di gentiluomini! Ci pareva che dovessero essere
tutti felici, fortunati in amore, cercati, festeggiati per tutto dove
si presentavano. Non c'è alcuno di noi che non abbia sognato allora di
far l'artista drammatico. — La famiglia ci farà un po' di opposizione
sulle prime, — pensavamo — ma poi, quando riconoscerà la vocazione,
e proverà l'ebbrezza degli applausi, acconsentirà, e come! — Intanto
c'ingegnavamo d'imitare gli attori. Copiavamo la pettinatura del
prim'uomo, ci annodavamo la cravatta come il brillante, imitavamo la
pronunzia, il passo, il modo di ridere ora dell'uno ora dell'altro,
avremmo voluto poterci vestire sul loro modello. Quel certo primo
attore romagnolo aveva un cappotto di mezza stagione, color caffè e
latte, che gli stava come dipinto, un po' troppo lungo, forse; ma una
bellezza, che ci lasciavo gli occhi sopra. Mi pareva che passeggiar per
la città con quel cappotto caffè e latte, dopo aver recitato la sera
innanzi il _Bravo di Venezia_ com'egli lo recitava, dovesse essere il
più dolce dei trionfi umani: lui, invece, modesto, si fermava delle
mezze ore davanti alle vetrine dei salumai. Noi sapevamo i fatti
loro, come spie, da tanto che n'eravamo curiosi, e con tanto ardore
ne accattavamo notizie da ogni parte. Luigi undecimo faceva cucina in
casa: chi lo avrebbe mai pensato! La prima donna sonava la chitarra.
L'attore che faceva così bene Carlo Quinto aveva detto una sera, nel
_Caffè della rotonda_, ad alta voce: — Val più un pelo dello Shakspeare
che tutta la parrucca di Vittorio Alfieri! — L'amoroso fumava tabacco
turco. E in quei quaranta giorni di convivenza spirituale con loro,
mettevamo un certo affetto a tutti; quando qualcheduno era fischiato,
ne provavamo un dolore sincero; e il giorno dopo della loro partenza,
si era sempre un po' malinconici come se fossero partiti con loro
mille idee, mille fantasie amabili, tutta la folla viva e rumorosa
dei personaggi storici e delle creature immaginarie che essi avevano
incarnato sulla scena, e la nostra piccola città fosse ricaduta in un
silenzio stupido e uggioso.

                                   *

E ora, — mi domando sovente, — dove saranno andati a finire quei
commedianti, che vivono ancora così tenacemente nella mia memoria, con
le loro fisonomie, con la loro voce, coi loro vestiti? I padri nobili,
poveretti, saran morti quasi tutti, poichè, volere o non volere, è
sfumato un quarto di secolo dopo quegli anni; più d'un tiranno avrà
chiusi gli occhi all'ospedale, pur troppo; altri avranno corso le più
bizzarre avventure; celebre, tra i giovani, non è diventato nessuno,
ch'io sappia. E quelle povere prime attrici? Io le vedo confusamente
proseguire il loro pellegrinaggio faticoso di piccola città in
piccola città, spolmonarsi nei teatri spopolati e semioscuri, piangere
nelle camere nude degli alberghi di terz'ordine, incanutite, malate,
spossate; e ne sento una grande pietà, come se a quel tempo le avessi
amate davvero, non come un fanciullo, ma come un uomo. Infine, esse
hanno rallegrato e commosso la nostra prima età, e sono come vecchie
amiche perdute, per noi altri. Come possiamo ricordarle senza affetto
e senza gratitudine? Qualche volta, assistendo a una rappresentazione
drammatica nel teatro d'una piccola città dove sono andato a passar
ventiquattr'ore con un amico, riconosco uno di quegli antichi attori,
invecchiato, sfiatato, caduto nelle parti secondarie, con la storia di
venticinque anni di stenti scritta sul viso. Non lo riconosco subito,
naturalmente; bisogna che gli si presenti l'opportunità di fare quel
certo gesto o di metter fuori quel dato grido, per il quale la sua
immagine è viva nel mio capo; allora, alla terza o alla quarta scena,
per lo più, ritrovo il mio Kean, il mio don Ramengo, il marito di
Maria Giovanna dei tempi antichi, il Conte di Montecristo che mi fece
tornare a casa per quattro sere col cuore gonfio dalla commozione. Che
piacere, un poco triste, ma vivo, riprovo sempre in quel momento! Con
che profonda attenzione lo ascolto allora, quante cose rivedo e risento
al suono della sua voce! E come andrei ad aspettarlo all'uscita del
teatro, per fargli festa, e parlare con lui del _nostro buon tempo_,
se non temessi di esser preso per un burlone o per un matto! Non più
di sei mesi fa, per esempio (è il ricordo che mi ispirò di scrivere
l'articoletto), ne feci uno graditissimo di questi riconoscimenti.
Passeggiando col professore D'Ovidio in piazza Solferino, mi vedo
camminar davanti, a una decina di passi, un poco di sbieco, un signore
grasso, largo di spalle, vestito alla diavola, ma pulito, con una
grossa canna in mano; una figura che mi ridesta una lontanissima
reminiscenza. — Possibile! dico tra me. Che sia proprio lui! Ancora
lui, così saldo e vegeto, dopo tanti anni! — Affretto il passo, guardo
curiosamente quel viso.... Era lui, — lui in corpo e in anima, —
Luchino Visconti, la voce di cannone, quello della _carne venduta_, il
formidabile tiranno che m'aveva fatto scappar dal teatro, soffocato
dai singhiozzi. Il mio primo impulso sarebbe stato di fermarlo, di
dirgli: — Ma come, lei qui? Ma come va? Ma dov'è stato? Ma venga....
— Sai chi è quello lì? dissi al D'Ovidio, e gli raccontai la storia.
— Fermiamolo dunque, — rispose egli ridendo; e mi sospinse verso di
lui. Ma il solito timore di parere un cervello balzano mi trattenne.
Che sciocco! Avrei passato forse una bellissima serata, avrei desinato
con lui, avrei inteso la storia di chi sa che strane vicende, gli avrei
fatto piacere a raccontargli le mie commozioni di ragazzo, e dopo aver
votato parecchie bottiglie, ci saremmo forse alzati da tavola vociando
insieme: — Ooooooh Svizzeri! Caaaarne venduta! — E invece non feci che
accompagnarlo con lo sguardo finchè svoltò a una cantonata....

Ma lo accompagnai con uno sguardo di sincera e profonda simpatia,
mandandogli un saluto dal più vivo del cuore, e salutando
affettuosamente con lui tutti i suoi compagni e tutti i suoi colleghi,
vivi e morti, amorosi e tiranni, bravi attori e poveri cani....
idoli della mia infanzia, cari ricordi della mia gioventù, fantasmi
dolcemente tristi della mia età matura....



UN'ASCENSIONE IN PALLONE.


Era una promessa fatta a due giovani studenti, miei compagni di viaggio
carissimi; ma speravo di non esser costretto a mantenerla. Già m'ero
pentito d'aver promesso quando da un piroscafo del lago avevo visto
sospesa nel cielo di Ginevra quella palla color di patata, grossa
quanto un'arancia, e al pensiero di doverci andar dentro il giorno dopo
m'era preso un principio di capogiro. Il giorno dopo fui fortunato:
trovammo scritto sulla porta del recinto: — _Vent trop fort, ascensions
suspendues_; — e sperai nella continuazione del vento. Ma la mattina
seguente il cielo era limpido, l'aria immobile, il fato ineluttabile.
— Sia fatta la vostra volontà — dissi — così in cielo come in terra, —
e m'avviai alla stazione di partenza per le regioni eteree con un buon
umore di condannato ai ferri; temperato, peraltro, da una curiosità
vivissima della sensazione nuova che avrei provata.

                                   *

Vicino al recinto incontrai un mio buon amico di Torino e lo invitai
a fare l'ascensione con noi. Credette che parlassi di montagne.
— No — gli dissi — sul pallone dei signori Baud, di Losanna. — Tu
vuoi scherzare, — mi rispose, e pestando un piede in terra: — Io amo
questa, — soggiunse. E mi disse la ragione della sua ripugnanza. Era
un ricordo di ventisette anni fa. Un suo conoscente, a Firenze, s'era
voluto levare il capriccio, spendendo un centinaio di lire, di fare
un'ascensione areostatica con altri tre o quattro signori. Ma aveva
fatto assegnamento sopra un “coraggio fisico„ che non aveva. Partito
appena il pallone, con la rapidità d'una freccia, dal Politeama
Vittorio Emanuele, egli era impallidito come un morto, s'era accucciato
nella navicella come un cane, e stando così, stravolto e tremante, non
aveva fatto che ripetere come un ebete: — Cala, cala, cala, — per tutta
la durata del viaggio; terminato il quale, portato a casa in carrozza,
s'era cacciato in letto e n'aveva avuto per un mese. Ringraziai l'amico
dell'incoraggiamento amichevole, pagai a uno sportello (caruccio) il
bel piacere che m'aspettava, e, passato tra i ferri d'un contatore,
mi trovai di faccia all'enorme sfera di seta chinese, chiusa in una
rete di quattrocento corde e gonfia di tremila cinquecento metri cubi
d'idrogeno, che doveva portarmi dove non desideravo di andare.

                                   *

Siamo appena entrati che sopraggiunge una folla di gente d'ogni paese,
fra cui molte signore e signorine impennacchiate, molto più impazienti
di me di levarsi a volo; le quali discutono in dieci lingue della forza
di resistenza della seta e delle corde, delle valvole automatiche e
del palloncino compensatore, come se avessero fatto un corso compiuto
d'areostatica. — Ma noi abbiamo la _fortuna_, — così dicono i miei
due compagni, — d'essere della prima infornata. — I fortunati sono
undici, non contando il capitano; poichè c'è un capitano, col berretto
gallonato, un grosso svizzero biondo e flemmatico, a cui saranno
affidate le nostre vite. E ci stringiamo tutti in un gruppo, col
nostro biglietto numerato alla mano, che fa nascer subito fra di noi
una familiarità di compagni d'avventure. Ci sono due rotonde signore
quarantenni, due piccole immagini dell'areostato, e il marito d'una
di esse, che sento chiamare da altri viaggiatori _monsieur Charles_,
sferico come la sua compagna, un viso di buon diavolo angustiato,
che mostra una passione per la navigazione aerea anche meno ardente
della mia. Dagli sguardi inquieti che rivolge a tutti i suoi compagni
di viaggio capisco il suo pensiero. Par che il caso abbia raccolto
nella nostra infornata, — fatta eccezione dei miei figliuoli, — le più
maestose moli umane di Ginevra. Uno è un vero colosso. Sarà sufficiente
la forza di resistenza di duecento chilogrammi che ha ciascuna delle
quattrocento corde? Questa domanda si legge nei suoi occhi, e negli
occhi d'altri, che si squadrano a vicenda, come per pesarsi. Il
colosso, un giovine svizzero burlone, dice forte: — Dove andremo a
cascare? In qualche crepa di ghiacciaio, o in un lago? O ci andremo a
infilare nei pini del Brünig? Il cuore non mi dice nulla di buono. —
_Tu l'entends?_ — domanda monsieur Charles alla signora; ed io colgo
a volo un _tais-toi, c'est ridicule_, che mi dice chiaro che è lei,
con quel becco imperioso di pappagallo, che _vuole_ far l'ascensione,
e ch'egli s'è deciso ad avventurarsi nel cielo per evitare una
battaglia sulla terra. Un altro, — un grosso tedesco giallognolo, —
non mi par più smanioso di lui di abbandonare il globo terracqueo.
— _Souffrez-fous le fertige?_ — mi domanda nell'orecchio. — Più del
necessario per divertirmi, — rispondo. Finalmente cade la catena che
chiude il passaggio, e per un ponte mobile montiamo sulla navicella,
dove il capitano distribuisce le nostre gravità in modo da mantener
l'equilibrio. Una voce grida: — _Attention!_ — Tutti si voltano da una
parte, dove scopro la principale ragione per cui molti si decidono a
quel viaggio: una grande macchina fotografica rivolta verso di noi.
Tutti prendono delle impostature d'areonauti temerari. — _C'est fait!_
— grida il fotografo. Discorsi! Il peggio resta da farsi. Il capitano
dà un fischio, sei inservienti in uniforme staccano a un punto dagli
anelli le sei corde che ci agganciavano al pianeta.... e il pallone si
solleva.

                                   *

Non è che questo? È una delizia. L'ascensione è lenta. Non par di
salire. Io mi trovo fra il colosso e monsieur Charles, che mi volta le
spalle, mostrandomi di profilo un viso sbiancato, che par la fotografia
animata dello Sgomento. Questo mi dà animo. E tutto va bene fin ch'io
guardo lontano, all'orizzonte, che si va a grado a grado allargando.
Ma a un certo punto commetto l'imprudenza di chinare il viso sul largo
foro centrale della navicella e di guardar giù, proprio a filo sotto
i miei piedi, misurando con un'occhiata tutto lo spazio — l'altezza
d'un par di torri di Giotto — che ci separa già dalla terra. Mi fo
indietro subito; ma troppo tardi: la vertigine m'ha acciuffato. Fu
un minuto solo; ma.... lungo. Una tentazione vergognosa mi prese
d'accoccolarmi dolcemente fra i due parapetti della navicella, chinando
il capo e chiudendo gli occhi. Ma uno sguardo mi salvò: vidi la mano
con cui monsieur Charles stringeva una delle corde, e la violenza
compassionevole della commozione che indicavano i muscoli gonfiati e
tremanti in quella stretta di naufrago, distraendomi, mi rinfrancò.
Mi rimase un malessere, non di meno, nuovo affatto, e difficile a
esprimere: una maledetta voglia di sedere, un sentimento di solitudine
fisica, un senso fastidioso del mio peso, quasi un ribrezzo della
cedevolezza dei vimini di quel cestone odioso, a cui m'appoggiavo col
fianco.... — _Parfaitement dêsagréable_ — intesi dire da una delle
due signore, che non vedevo. — _C'est ça_, risposi tra me; era pure
la mia opinione. È strano: non avevo quasi coscienza in quel momento
della legge fisica in virtù della quale salivamo, nè dell'apparecchio
macchinoso che ci portava: mi pareva che ci levasse in alto qualche
smisurato uccello di rapina, a volo lento e silenzioso. La navicella
non faceva il minimo moto, nè le corde il più leggiero fruscìo: avrei
giurato che stavamo immobili nello spazio. — _C'est égal; ce ne sera
jamais mon métier_, — disse una voce. — Nemmeno il mio, — pensai. Che
si dice del mare! È un elemento infido; ma vi sentite sotto qualche
cosa, su cui in qualche modo ci si può reggere; ma l'aria.... l'aria
non è niente. No, non sarà mai questo il mio genere di sport, se ne
dovrò scegliere uno. Cento volte meglio la bicicletta. — E tutti
quei modi coi quali si suole esprimere un sentimento di gioia o
d'entusiasmo: — “parersi sollevato al disopra della terra„ — “sorvolare
a questo basso mondo„ — “sentirsi rapito in alto„ — mi parevano
smargiassate rettoriche. In verità, non avevo creduto mai di essere
così strettamente affezionato, come mi sentivo in quel quarto d'ora, al
mio pianeta nativo.

                                   *

Di sotto, intanto, i fiumi diventavan rigagnoli, le case scatole,
i parchi aiuole, gli uomini insetti come se una forza mostruosa
stringesse, raccorciasse, rattrappisse ogni cosa. Che mirabile
spettacolo! Ginevra dorata dal sole, l'Arve e il Rodano inargentati,
una vasta corona di colline seminate di borghi e di ville, la grande
mezzaluna color celeste del lago di Leman, i monti verdi del Giura
e le rocce grigie della Savoja, la catena superba del Monte Bianco,
un'immensità d'azzurro, di verzura e di neve, fatta per lo sguardo
d'un'aquila. In quella immensità splendida le due signore si davan la
briga di cercare l'isoletta del Rousseau e il castello del Voltaire.
Altri due sentivo che discutevano sul confine della Francia. — _Voilà
le capitaine qui lit son journal_ — disse il colosso. Infatti, il
capitano leggeva tranquillamente la _Tribune de Genève_, come se
fosse stato in una sala del _Cafè du nord_. Quest'osservazione parve
che tranquillasse un poco monsieur Charles che tentò d'abbozzare un
sorriso. Se il capitano leggeva il giornale, pericolo imminente d'un
disastro non c'era. Ma una voce che disse: — _Nous dévions_ — lo turbò
da capo. S'era levata veramente un po' d'aria; la grande bandiera
svizzera attaccata al polo inferiore dell'areostato s'agitava; il
pallone era deviato alquanto fuor della direzione del recinto da
cui era partito. Ma nessun movimento era sensibile. Monsieur Charles
osservava con uno sguardo obliquo il dinamometro appeso all'anello
d'acciaio, come se gli indicasse il grado variante del pericolo, e non
ne staccava gli occhi che per gettare qualche rapida occhiata dentro
la cinta dell'Esposizione. Ah le Esposizioni, viste da quell'altezza!
Paiono quello che sono in realtà: trastulli di popoli. Vedevo una
piccola città carnevalesca, divisa in due da un ruscello, simmetrica
da un lato, disordinata dall'altro, variata di cento architetture di
mille colori, che innalzavan le cupole, le guglie, le torri, i frontoni
dipinti, i tetti a cono e a piramide, luccicanti e imbandierati,
sopra un labirinto di giardini e di boschetti, biancheggianti di
zampilli e di cascate, e per tutto un brulichìo di esseri minuscoli
che entravano e uscivano da mille buche e s'affollavano per le vie
larghe un dito e per le piazze grandi come la mano, come un popolo di
formiche affaccendate. Vidi passare sur uno dei due ponti dell'Arve
il tranvai elettrico che faceva il giro della Mostra. Che miseria! Uno
scarabeo giallo fuggente sopra un fuscello a traverso un fil d'acqua.
Mi diede nell'occhio, a un'estremità della cinta, un qualche cosa della
grandezza e della forma d'un mezzo guscio d'ovo tagliato pel lungo:
era il grande circo per le giostre e per le feste ginnastiche, posto
sulla riva del fiume, di là dal “villaggio svizzero„. E il grande
villaggio, la maraviglia e il trionfo dell'Esposizione, pareva formato
di _châlets_ tolti dalle vetrine d'una bottega di Brienz: una cosa da
raccattarsi con due mani e da porgersi per balocco a un bambino. Sulla
piazzetta della chiesa del villaggio si vedevan movere dei puntini
rossi e bianchi. Dovevano essere le belle ragazze svizzere che si
preparavano per le danze nazionali. Com'era mai credibile che per uno
di quei puntini rossi uomini tanto fatti potessero perder la pace?

                                   *

— _Nous descendons, monsieur?_ — mi domandò monsieur Charles, senza
guardarmi.

— _Non, nous montons toujours._

— _Diable!_

A lui pareva già d'averne per più di quanto aveva pagato. Ma se
io dicessi che mi sentivo ancora in credito non direi la verità
vera. Stavo molto meglio, peraltro; tanto che feci a me stesso
quest'osservazione: — Che bisogno c'è di stringer così forte la corda
con la mano destra? — E allentai la mano.... un poco. E m'arrischiai
a guardare un'altra volta per l'apertura del mezzo — un'occhiata
sola, rispettosamente sfuggevole — quanto mi bastò per veder giù — a
una profondità d'abisso — la folla dei viaggiatori aspettanti — una
macchia scura punteggiata di rosa dai visi che guardavano in alto,
verso il piccolo mondo di seta e di gas, da cui io guardavo loro, con
un desiderio amoroso di raggiungerli. Poi mi raccolsi nell'ammirazione
del lago di Ginevra, una chiazza d'acqua chiara, in cui i grandi
piroscafi apparivano come moscherini anneganti che si dibattessero
senza far cammino, e la lunga fila dei villaggi e delle ville della
riva settentrionale sembrava una fioritura di minutissimi bocciuoli
multicolori, raggruppati in ghirlande e in mazzetti, con gli steli
immersi nell'acqua. Che dolce silenzio! Nè il rumore della galleria
delle macchine, nè lo scampanìo festoso, nè il muggito degli armenti
del villaggio svizzero, nè la musica barbara dell'accampamento dei
negri, nè gli strilli degli arabi venditori del “caffè delle fate„ non
arrivavano più alla nostra “superba altezza„ dove un'aria purissima,
dilatandoci i polmoni, pareva che ci serpeggiasse per tutte le vene,
e ci ringiovanisse il sangue e lo spirito. Oh tutti gli altri modi di
viaggio inventati dall'ingegno umano, coi quali si striscia sull'acqua
e sulla terra, tra il fumo, lo strepito e la polvere, molestati
dall'immagine d'uno sforzo continuo delle cose, come ci parevano rozzi,
faticosi ed umili, appetto a quell'ascensione dolce e muta di nuvola
carezzata dall'aria, di cui non si sentiva e non si vedeva il moto,
come se non noi ci movessimo, ma si allontanasse la terra! Nessuno
parlava più, nè badava ai suoi vicini. Ciascuno, da quella terrazza
aerea, beveva da solo, come un ingordo, la grande bellezza, non dicendo
una parola per non perdere un sorso, in un atteggiamento d'ammirazione
immobile, che pareva uno stupore profondo.

                                   *

Ma qui sento un lettore impaziente che mi domanda: — Ebbene, e poi?
Che cosa provaste quando non vedeste più la faccia della terra? Quando
cominciaste a sentir difficoltà di respiro? Quando l'uscita del sangue
dagli orecchi? Quando i primi deliqui?

A questo punto, per chi non ha ancora capito, debbo fare una
dichiarazione.... molto dolorosa alla mia vanità. Debbo dire che
attaccata al pallone c'era una corda cilindro-conica, d'un diametro
da trent'uno a ventinove millimetri, tessuta di canapa di Napoli, di
qualità sopraffina, capace di sostenere uno sforzo di più di novemila
chilogrammi, e che questa corda — debbo dire anche questo — scendeva
fino a terra, dove s'avvolgeva intorno a un cilindro, mosso da una
macchina a vapore della forza di venticinque cavalli, la quale....
Insomma, il pallone era frenato. — È detta.

Eh si, potete scrollar le spalle quanto vi piace; ma a venir giù
dall'altezza di sei mila o di cinquecento metri mi pare che la patta
sarebbe stata a un di presso la stessa. E questo è quanto. Ed era certo
del medesimo parere monsieur Charles, il quale mi domandò ancora una
volta, senza voltare il capo: — _Nous montons toujours? — Nous montons
toujours._ — E allora perdette la santa pazienza: — _Eh qu'est-ce
qu'il f.... donc ce capitaine avec son f....u journal?_ — Non credevo
di poter fare una risata a quell'altezza; ma il fenomeno avvenne.
— _On nous a trompé_ — esclamò il colosso, per ispassarsi del pover
uomo; — _il n'y a plus de cable; c'est une ascension libre que nous
faisons!_ — Un _nom de dieu_ inimitabile gli rispose, che il buon Dio
deve aver perdonato, tanto somigliava più a una supplicazione che a
una bestemmia. E lo scherzo crudele del mio vicino sarebbe continuato
se non si fosse sentita una voce dall'altra parte della navicella, che
disse forte: — _Wir gehen hinunter_ (noi discendiamo). — Dolce lingua
tedesca! Ma era vero? Non ci accorgevamo di discendere più che non
ci fossimo accorti di salire. Qualcuno anzi sosteneva che si saliva
ancora; altri diceva che s'era immobili. Si discendeva così a rilento,
in ogni modo, che non ce ne poteva accertare l'ingrandirsi delle cose
sottostanti, non apparente ancora in quel primo tratto. Ma l'incertezza
fu breve. Dato uno sguardo in basso, vidi Ginevra più vasta, l'Arve
dilatato, le architetture dell'Esposizione ingrandite, tutto il
formicolìo nero sparso per il labirinto delle vie e delle piazzette,
che cominciava a riprender l'aspetto d'una moltitudine umana. Poi la
discesa si fece ogni momento più sensibile. Sotto, sui frontoni del
palazzo delle Belle Arti, sulle facciate, dentro alle aiuole, nei
giardini, pareva che le statue crescessero, che le pitture pigliassero
vita, che i fiori sbocciassero, che gli zampilli s'innalzassero a
salti; un ronzìo confuso, soverchiato da mille suoni sparsi di voci,
d'acque, di ruote, di musiche, ci giungeva crescendo agli orecchi;
e guardando per il foro della navicella giù nel recinto le piccole
facce voltate in su della folla che ci aspettava, simili a una gran
canestrata di mele rosee, cominciai a distinguervi i cerchietti degli
occhi e i buchi neri delle bocche aperte. Ancora un minuto, ed ecco
i cento visi sorridenti, ecco gl'inservienti che accorrono, eccoci
riattaccati da sei solidi ganci alla superficie terrestre.

O caro prossimo mio, mi è dolce assai sovente il viver lontano da te;
ma non al di sopra! Non sono superbo. E non fui degli ultimi a passare
il ponticello mobile che mi rimetteva tra l'umanità camminante. Il
primo, s'intende, fu monsieur Charles, col viso ancora rannuvolato.
Vari conoscenti, che l'aspettavano, l'affollarono di domande. Egli
lanciò loro, passando, un'occhiata a colpo di falce, e rispose con voce
rauca: — _Délicieux._

— Ti sei divertito? — mi domandarono i miei due giovani compagni. —
Un'altra volta faremo un'ascensione libera....

— Figuratevi! — risposi — non ne vedo l'ora — Ma soggiunsi in cuor mio:
— Sì, all'Esposizione internazionale di Carmagnola.



DUE DI SPADE E DUE DI CUORI

RACCONTO



DUE DI SPADE E DUE DI CUORI.


Molti uomini illustri ebbero qualche predilezione particolare della
gola; per esempio, il Fontenelle per gli sparagi, il Rossini per
i maccheroni, il Niccolini per le radici: era dunque scusabile il
non illustre Arturo Pironi, appena dodicenne, d'avere egli pure la
sua, che era per il gelato di crema. Se fosse stato re, avrebbe dato
qualche volta il suo regno per un sorbetto giallo. E bisogna dire che
il piacere di mandar giù quella dolcezza, com'egli faceva, sei volte
la settimana, se lo guadagnava proprio col sudore della fronte. Suo
padre gli dava ogni mattina otto soldi per far le quattro corse in
tranvai fra piazza San Martino, dove stavan di casa, e il lontano
Ginnasio Gioberti, dov'egli l'aveva messo perchè c'era professore di
lettere un suo cugino: ma il piccolo ghiottone non rimetteva alla
Società elettrica che venti centesimi. Andava e tornava la mattina
con le sue sante gambe, correndo come uno struzzo; tornava a casa di
galoppo anche la sera, sputando un'ala di polmone, perchè, sebbene
vivacissimo, era di complessione delicata; e faceva in tranvai la sola
prima corsa pomeridiana, che rompeva in due, per saltar giù a spendere
i suoi risparmi in un gelato canarino, al caffè del Teatro Alfieri, a
mezza strada. A quell'ora non c'era quasi mai nessuno: egli entrava per
la porta piccola, sedeva nel primo stanzino, accanto all'uscio della
sala del biliardo, ordinava con un accento che voleva dire: — _Propere
propera;_ — vuotava il piattino in un minuto, ripuliva il cucchiaino
con la lingua, e poi via, come chi scappa senza pagare. Ma durante la
dolce operazione dava tali segni di beatitudine, che spesso i camerieri
stavan lì a guardarlo, godendosela, come a veder mangiare un affamato,
e qualche volta anche la padrona del caffè veniva a dare un'occhiata
sorridente a quel bel ragazzo biondo, a cui pareva che ogni cucchiaiata
di gelato facesse l'effetto d'un sorso di vino di Sciampagna, e gli
andasse in tanto sangue. Lo chiamavano fra di loro: _il gelato di
crema_.

                                   *

Un giorno, al principio d'aprile, nell'atto che si metteva a sedere
nel posto solito, egli udì nella sala del biliardo le voci di
vari giocatori; uno dei quali pronunciò un nome che attirò la sua
attenzione. Era il nome dell'avvocato Bussi, un amico di suo padre,
che non veniva più in casa da un pezzo, ma ch'egli sentiva rammentar
sovente.

— Il Bussi, — diceva uno dei giocatori, — è un tiratore. Siamo andati
sei mesi insieme alla sala Gandolfi; poi io smisi, egli seguitò. L'ho
visto tirare due anni fa al Teatro Scribe, nell'accademia a beneficio
dell'Ospedaletto: ha un polso di ferro, ed è un tempista. Dell'altro
non so; ma non vorrei essere nel suo soprabito... Tiro al rinterzo....
otto a sei.

— Si accomoderanno, — disse un altro, — fra avvocati!

— Tu mi canzoni, — ribattè il primo. — Una presa di sciocco in pieno
caffè San Filippo, in mezzo a una corona di colto pubblico.... Sei
impallato: oggi non è il tuo giorno.... L'avvocato Bussi non è uomo da
tirarla giù come un ovo fresco. E poi, quando c'entra la politica! Sta
certo che si batteranno, se non si son già battuti questa mattina.

— Impossibile, — disse un terzo. — La scenata è seguìta ieri sera alle
undici. Non possono aver regolato tutto nella notte. Son cose che vanno
per le lunghe. Al più presto si batteranno oggi. Quanto alza la rossa?

— Oggi no, — rispose un quarto. — Alza due dita. Oggi il Bussi ci
ha la causa del gobbo di Vanchiglia alle Assise. Questa mattina era
all'udienza, deve fare oggi la sua arringa. Si batteranno domattina, a
giorno.

— Ho paura, — tornò a dire il primo, — che il complimento sarà pagato
caro.

— Chi sa mai! — esclamò un altro, che non aveva ancora parlato. —
Non sempre chi maneggia meglio la sciabola è quello che dà la botta.
L'avvocato Pironi....

Il ragazzo lasciò cadere il cucchiaino e restò senza fiato.

— L'avvocato Pironi, — continuò il parlatore invisibile, — è un uomo di
sangue caldo, di quelli che sul “terreno„ perdono il lume degli occhi
e si caccian sotto per persi. Costoro alle volte sconcertano anche
un bravo tiratore, che si becca una sciabolata senza capir nè come nè
perchè.... Steccaccia da capo! Non gioco più! Sono una sbercia.

— Eh, s'ammazzino pure, — disse quello di prima. — Ce ne son troppi.
Sapete che n'abbiamo seicento dentro la cinta di Torino?... Questi
son calci, o signori! Ventiquattro. Si fa la rivincita?... Morto un
avvocato, ne nascon dodici....

Il povero ragazzo non udì più altro: pagò, senza finire il gelato,
si cacciò i libri sotto il braccio, si slanciò fuori del caffè come
da una casa incendiata, corse fino in mezzo a piazza Solferino, dove
s'arrestò ad un tratto, coi piedi come inchiodati alla terra, e là
ebbe una visione così lucida e terribile di suo padre disteso al suolo,
immobile e sanguinante da un'orrenda ferita, che gli venne su dal cuore
un singhiozzo, gli ondeggiarono agli occhi gli alberi e le case, e gli
mancarono sotto le ginocchia....

Ma fu un momento. Egli era delicato di fibra, ma gagliardo d'animo.
Subito si sentì come scattar dentro una molla d'acciaio che lo rizzò
sul busto e gli fece alzare la fronte in atto di risoluzione virile.
— No! — disse tra sè, — non perderò mio padre.... mio padre non si
batterà.... non me lo uccideranno, ci dovessi lasciare la vita!

                                   *

S'andò a buttare sur un sedile del giardino pubblico, vicino al
monumento del generale De Sonnaz, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e
il capo fra le mani, e si mise a pensare.

Ma la commozione e lo stupore gl'impedirono per un po' di tempo di
raccapezzarsi. Era possibile? Suo padre battersi in duello col Bussi!
Un tempo erano stati amici. Pochi anni addietro il Bussi veniva qualche
volta a casa sua, con la moglie e col figliuolo: un ragazzetto della
sua età, che era lo spasso di tutti, e giocavano insieme. Poi, fra la
signora Bussi e la mamma, senza ch'egli ne sapesse il perchè, s'era
rotta ogni relazione; ma non fra suo padre e il marito di lei, che
egli aveva visti ancora insieme molte volte per le strade di Torino.
Come avevano potuto tutt'a un tratto, in un luogo pubblico, venire a
un diverbio violento, insultarsi e sfidarsi come due nemici mortali?
Capiva allora perchè suo padre avesse quella mattina desinato fuori,
dicendo che era invitato da un collega, con cui doveva parlar d'affari.
Aveva dovuto andar fuori per trattare coi padrini, che non voleva
ricevere in casa sua, per non destare sospetti. Oh! povero babbo!
Chi sa che ore tristi d'ansietà, chi sa che dolorosa giornata era
quella per lui, costretto a fingere con la famiglia, a prepararsi al
cimento terribile, senza una parola di conforto dei suoi, senza poter
espandere l'animo suo, come se fosse solo al mondo, e la sua vita non
premesse a nessuno! La prima idea che gli venne fu di correre a casa
del nemico, di gettarsi ai suoi piedi e di supplicarlo, abbracciandogli
le ginocchia e piangendo, d'aver pietà di lui, di risparmiar la vita a
suo padre, di perdonare l'offesa.... Ma respinse sull'atto quell'idea.
Quel Bussi, che gli voleva uccidere il babbo, gli si presentava
nell'aspetto d'un uomo fremente d'ira e di vendetta, d'un assassino
feroce e inesorabile, che nessuna preghiera avrebbe potuto rimovere
dal suo proposito; gli metteva orrore e ribrezzo; gli pareva che
al solo vederlo si sarebbe sentito gelare il sangue e morir la voce
nella gola. Gli venne un altro pensiero: di dir tutto alla mamma. Ma
rigettò anche questo, comprendendo che sarebbe stato un passo peggio
che inutile. A che pro gettare il terrore e la disperazione in cuore
alla sua povera madre, che avrebbe passato una giornata e una notte
d'angoscie di morte? Sarebbe forse riuscita a impedire che suo padre
s'andasse a battere? Egli aveva bene un'idea, benchè confusa, di che
cosa fosse per un uomo della classe signorile il sentimento così detto
dell'onore, e capiva che se per questo suo padre arrischiava la vita,
non c'era da sperare che s'inducesse a soffocarlo per amore della
famiglia. Poi pensò a un altro mezzo: ad avvertire la Polizia. Sapeva
di molti casi in cui la Polizia, avvertita che due signori si dovevan
battere, era arrivata in tempo sul luogo per impedire il duello.... Ma
neppur questo mezzo gli parve da scegliersi. E se suo padre fosse stato
arrestato? E se, risapendo dopo che la Polizia era stata avvertita da
lui, l'avvocato Bussi avesse sospettato che egli fosse stato spinto
a quell'atto da suo padre stesso, per paura di battersi? Gli balenò
infine un'idea, che gli parve la meglio di tutte: d'impedire il
duello egli medesimo. Svolse nella mente questa idea con un sentimento
crescente di speranza e di conforto. — Per andarsi a battere, — pensò,
— mio padre uscirà la mattina molto presto. Io veglio la notte, senza
spogliarmi, per sentire quando s'alza ed esser pronto a uscir subito
dopo di lui; gli tengo dietro per la strada, di lontano, fin dove
si dovrà battere; si batteranno in campagna, come s'usa; mi nascondo
dietro un albero o una siepe; quando li vedo l'uno di fronte all'altro
salto su, mi getto in mezzo, m'avvinghio al babbo, supplico, grido....
Voglio vedere se l'altro avrà il coraggio di ferir mio padre che non
si potrà difendere; mio padre non riuscirà a svincolarsi da me; tutti
si commuoveranno, sentiranno pietà.... — Ma appunto questa parola
_pietà_, che gli suonò quasi all'orecchio come se l'avesse pronunciata
a voce alta, gli fece cader dall'animo anche quel proposito. No, non
era possibile. Egli avrebbe potuto impietosire suo padre: ma l'altro!
E che figura ci avrebbe fatta suo padre? E se anche in questo caso si
fosse sospettato che egli stesso avesse suggerito al figliuolo quel
passo, per vigliaccheria? Non trovando risposta a queste domande, non
venendogli altre idee, e disperando che gliene venisse, egli fu invaso
dallo sgomento, rivide l'immagine del babbo disteso a terra nel sangue,
e si mise a piangere a calde lacrime nel cavo delle mani, scrollando il
capo in atto sconsolato....

All'improvviso, come se una mano vigorosa lo sollevasse dal sedile,
egli balzò in piedi col viso illuminato da un pensiero, s'asciugò in
fretta le lacrime, riafferrò i suoi libri e ritornò al caffè quasi di
corsa.

                                   *

— Un altro gelato? — gli domandò sorridendo il cameriere. — No, —
rispose il ragazzo, con voce concitata; — la _Guida di Torino_. — Il
cameriere gli portò un grosso libro, che egli conosceva, perchè l'aveva
nello studio suo padre. Lo aperse, cercò l'elenco degli avvocati, vide
dove stava di casa l'avvocato Bussi, ringraziò e tirò via. Stava in via
San Domenico. Egli vi arrivò in un batter d'ali, s'affacciò all'uscio
di uno sgabuzzino del portone, dove stava rattoppando una scarpa un
vecchio ciabattino con gli occhiali, e gli domandò se stesse lì di
casa l'avvocato Bussi. Ci stava: al secondo piano. Domandò ancora:
— A che scuola va il suo figliuolo? — La seconda domanda dovè parere
indiscreta all'ombroso Crispino, il quale gli rispose con mal garbo: —
A scuola non ce l'ho messo io: vada a chiedere le informazioni in casa.
— Ma il ragazzo ridomandò: — A che scuola va il suo figliuolo? — con
un accento così commosso di preghiera, d'impazienza e d'affanno, che
quegli rispose quasi a suo malgrado, come a un comando, guardandolo
con due grand'occhi stupiti: — Qua vicino, al Ginnasio Balbo, in via
Porta Palatina. — Non aveva ancor detto la via che il ragazzo era
già scappato. Svoltò in via Milano, infilò via della Basilica, riuscì
in via Palatina e arrivò trafelato davanti alla porta del Ginnasio,
dove stava ritto il custode — un ometto sbilenco dal muso volpino —
il quale, vistogli i libri sotto il braccio, gli lanciò un'occhiata
severa, dicendo tra sè: — Ecco un monello che ha marinato la scuola,
e che viene ad aspettare un altro poco di buono, per andare insieme a
batter le strade. Che grinta! Questo deve dar delle belle consolazioni,
a suo padre!...

All'uscita degli scolari Arturo si piantò nel mezzo della soglia e
cominciò a chiamare: — Bussi — Bussi — Bussi, cercando a destra e a
sinistra il viso del suo piccolo amico d'un tempo, che non era certo di
riconoscere. Non n'eran passati trenta che una voce gli rispose: — Son
qui — e gli si parò davanti un ragazzo, il quale, guardatolo appena,
gli domandò con accento di stupore, sorridendo: — Pironi?

Era un ragazzo assai più alto e più robusto di lui, benchè non avesse
che un anno di più: bruno di pelo e di pelle, e d'aspetto piacente;
benchè di una espressione precocemente ferma, quasi d'un uomo, e
leggermente beffarda; la quale gli avrebbe fatto cattivo senso s'egli
avesse avuto l'occhio meno velato dalla passione. Ma Arturo non ci
badò, lo prese per mano, lo tirò dall'altra parte della strada e gli
disse affannosamente: — Senti.... domani mattina.... mio padre e tuo
padre.... si battono in duello....

La notizia non produsse l'effetto ch'egli s'aspettava. Quegli non fece
che un leggiero segno di stupore, dicendo:

— Oh, diavolo!... E perchè mai?

Arturo gli disse in furia quello che sapeva, e come l'aveva saputo,
e soggiunse con voce rotta: — Ora noi dobbiamo impedire, capisci, a
qualunque costo. Mio padre può uccidere il tuo, o restar ucciso. Questo
non dev'essere. È un orrore. Son venuto da te. Aiutami tu. Tentiamo
insieme. Noi soli possiamo impedire una tremenda disgrazia.

Il ragazzo si grattò il mento con un dito; poi rispose tranquillamente:
— Impedire.... va bene. Ma in che maniera?

Arturo gli espose il suo disegno. Il duello si sarebbe fatto senza
dubbio la mattina prestissimo. Dovevano vegliar tutti e due, attenti
a quando il babbo uscisse di casa, e uscir dopo di lui, senza farsi
sentire. Certamente, secondo l'uso, l'uno e l'altro sarebbero stati
aspettati dai padrini sulla strada, con una carrozza. Essi si dovevano
attaccare dietro alla carrozza, e non lasciarla più. Così, senza
gran fatica, potevano arrivare al luogo fissato per il duello. Là
si sarebbero facilmente ritrovati, e nascosti insieme, in qualche
modo, ad aspettare il momento. Giunto il momento, si sarebbe gettato
ciascuno ai piedi del proprio padre, supplicandolo di non battersi. Non
avrebbero osato, per certo, di battersi in presenza dei loro figliuoli,
si sarebbero commossi tutti e due, lasciati persuadere dai padrini a
desistere, forse riconciliati. — È questo l'unico mezzo, — concluse.
— Io solo non impedirei nulla. Mi raccomando a te. Non lasciarmi solo.
Aiutami, per quanto hai di più caro al mondo. Te ne scongiuro!

L'altro rimase un poco sopra pensiero; ma con un sorriso sulle labbra,
come se fosse più allettato dalla novità bizzarra dell'impresa che
commosso dall'idea del pericolo paterno e della gentilezza dell'azione.
Poi rispose con molta placidità: — L'idea è buona; ma.... quanto
alla riuscita, ho i miei dubbi. Per quello che riguarda mio padre,
intanto, io sono certo d'una cosa, come se fosse già avvenuta, ed è
che, quando mi vedrà comparire, invece di commoversi, mi ammollerà una
piattonata sulla schiena. Mi vuol bene; ma.... me l'ammollerà. Me la
sento. Ma questo non vorrebbe dire. Il male è che si farebbe un buco
nell'acqua.... credo. Dimmi un po': e se non ne facessimo nulla? Non
bisogna poi montarsi la testa. Non tireranno mica a finirsi. Tutti i
giorni seguono dei duelli senz'altra conseguenza che una scalfittura
al braccio o una sdrucitura al capo: il medico ci dà qualche punto, i
duellanti si stringon la mano, e poi.... vanno insieme a far colazione.

— No! no! — esclamò Arturo, col pianto nella gola; — non dir così,
te ne supplico. Tuo padre è stato offeso, il mio è impetuoso. Quando
hanno le armi alla mano perdon la testa. E poi, chi lo sa? E se si
battono con la pistola? Uno dei due può morire. Pensa che rimorso, che
disperazione ne avremmo tutti e due! Pensa alla tua povera mamma! Pensa
che domani mattina, fra poche ore, tu potresti non aver più padre, o
potrei non averlo io! E questo per una parola! È una cosa orrenda! Tu
scherzi; ma sei buono. Abbiamo giuocato insieme da bambini, ci volevamo
bene. Aiutiamoci come due fratelli. Non lasciarmi solo. Io ci vado
solo, se tu non vieni, anche a costo di cascar morto per la strada.
E allora direbbero tutti: — Perchè non ci è andato anche l'altro?
Penserebbero male di te.... Oh, vieni, vieni.... Come ti chiami?...
Carlo? Sì, ora mi ricordo. Vieni, Carlo, te ne prego; m'inginocchio qui
sulla strada, se non mi dici di sì; ho bisogno di te; tu puoi salvar la
vita a mio padre; te ne scongiuro in nome di mia madre, e della tua;
e se mi aiuti, ti vorrò bene sempre, anche quando sarò grande, sarò
sempre per te quello che tu vorrai, pronto a darti anche la mia vita,
se me la chiedessi! — E così dicendo, gli mise le mani tremanti sulle
spalle e il viso contro il viso.

Carlo, che aveva sorriso alle prime, parole, cessò di sorridere alle
ultime, lo fissò, e gli disse con un accento di pietà, da fratello
maggiore: — Povero Arturo!

Questi gli strinse le spalle più forte, aspettando la risposta, con
tutta l'anima negli occhi.

Carlo rispose: — Verrò.

Arturo gli avvinghiò un braccio intorno al collo e gli baciò le due
guance; e domandò ancora: — Me lo prometti?

— Sarò là, — rispose l'altro, risolutamente. Poi, sorridendo da capo in
aria di canzonatura: — Ma dimmi un po'.... E se andassero a battersi a
Rivoli? Avremmo una dozzina di chilometri da fare dietro la carrozza.
Sarebbero lunghetti.

Arturo fece un gesto risoluto come per dire che a qualunque distanza
egli avrebbe avuto la forza d'arrivare. E gli disse, guardandolo negli
occhi: — Mi hai promesso! Mi fido di te!

E l'altro, rifacendosi serio: — Hai la mia parola.

Arturo lo baciò un'altra volta, gli disse con tutta l'anima: —
Grazie! — e s'allontanò correndo; senz'accorgersi che Carlo lo stava
osservando, come fanno gli scommettitori coi cavalli da corsa, per
vedere se avesse gambe pari all'impresa. Poi anche Carlo se n'andò,
col suo passo solito, dicendo tra sè: — Le seste le ha buone; vedremo i
polmoni. Mio padre si batte! Oh diavolo.... diavolo. Non so se la darà
al signor Pironi; ma a me la darà, di sicuro. Si tratta d'aver prima
buone gambe, e poi.... buona schiena. _Macte virtute, Carole._ Sarà una
scarrozzata di nuovo genere. Purchè non vadano a Rivoli!

                                   *

Rientrato in casa, Arturo pose ogni cura a dissimulare il suo stato
d'animo alla mamma; la quale era ancora assai giovane, e d'indole così
espansiva, e così familiare con lui, che gli pareva alle volte, più
che una madre, una sorella. E quel giorno era più allegra del solito;
il che gli fece più pena, e gli rese più difficile la dissimulazione.
All'ora del desinare, quando sentì la scampanellata di suo padre,
tremò, non ebbe cuore d'andargli incontro, sedette a tavola a
aspettarlo, tutto trepidante.

Ma riprese animo quando lo vide comparire con l'aspetto consueto,
e più quando egli cominciò a discorrere, come faceva sempre, dei
casi occorsigli nella giornata, non solo senz'alcuna apparenza di
turbamento, ma con una vivacità insolita, e in un tono anche più
affabile dell'usato. Gli pareva solo qualche volta che, dopo aver
fatto una domanda, non ponesse mente alla risposta, come se avesse
interrogato così per parlare, e che di tratto in tratto, quando fissava
lo sguardo sulla finestra dirimpetto, rimanesse assorto un momento
come se vedesse in lontananza, per aria, qualche cosa di singolare.
Ma a quel modo egli aveva fatto altre volte. Il ragazzo si tranquillò
alquanto, a poco a poco; non solo, ma a un certo punto una risata
improvvisa che diede suo padre a uno scherzo della mamma gli fece
brillare una speranza, che gli aperse il cuore.

— E se non fosse vero che si deve batterei — pensò. — Egli aveva inteso
dire più d'una volta di “quistioni d'onore„ — come le chiamavano, —
composte dai padrini amichevolmente; aveva visto in qualche gazzetta
qualcuno dei così detti “verbali„ sottoscritti da quattro persone, le
quali dichiaravano, dopo aver esaminato il caso, non esservi ragione di
battersi fra due signori, che pure s'erano ingiuriati e sfidati. Perchè
non potevano essersi riconciliati, per intromissione degli amici, suo
padre e l'avvocato Bussi? Come avrebbe potuto suo padre mostrarsi
così tranquillo, se avesse dovuto il giorno dopo rischiar la vita?
— E s'afferrò con tutte le forze a questa speranza, nella quale ogni
sorriso di suo padre lo riconfortava, e si sentì crescere in cuore, a
grado a grado, una gioia immensa.

Tutt'a un tratto suo padre si battè una mano sulla fronte e sclamò: —
Che smemorato! — Poi, rivolto alla mamma: — Mi scordavo di dirti che
domattina devo partire per Vercelli.

Al ragazzo corse un brivido per le vene.

— Per quella benedetta causa dei fratelli Bonomi, — soggiunse suo
padre. — Ritornerò la sera. Parto col primo treno.

— Ma, — domandò la moglie, un po' stupita. — Non m'avevi detto che la
causa era rimandata al mese venturo?

— Così era, infatti, — rispose l'avvocato. — Ma fu anticipato il
dibattimento, perchè ne fu rinviato un altro, che lo doveva precedere.
Ho ricevuto un telegramma in tribunale. È un contrattempo che mi secca.
Ma non c'è che fare.

— Sei proprio certo di ritornar la sera? — domandò la signora, senza
un'ombra di sospetto.

— Certissimo. È un affare di poche ore. Non mi porto neppure la
valigietta. Non t'avrai nemmeno da svegliare.

Detto questo, cambiò discorso. Ma Arturo, ripreso dallo sgomento e
dall'affanno, non udì più nulla. Si levò da tavola appena finito di
desinare, andò nella sua camera, accese il lume e sedette a tavolino,
fingendo di fare il suo lavoro di scuola. A una cert'ora suo padre si
affacciò all'uscio e gli disse: — Vado nello studio a lavorare, Arturo;
non mi disturbare; ti do fin d'ora la buona notte.

— Buona notte, babbo! — rispose il ragazzo con voce soffocata, e rimase
là atterrito, agghiacciato dal pensiero che potesse esser quella
l'ultima volta ch'egli si sentiva dir: — Buona notte, — da quella
voce....

                                   *

Poi si gettò sul letto, svestito a mezzo, spense il lume, e restò con
gli occhi aperti nel buio e con l'orecchio teso, per sentire quando
suo padre andasse a dormire. Scoccarono le undici, e non aveva ancora
udito il suo passo. Che cosa poteva mai fare fino a quell'ora così
tarda, poichè non era possibile che avesse l'animo tanto tranquillo da
occuparsi dei suoi affari d'ufficio?

Arturo si ripetè più volte, con ansietà sempre più viva, quella
domanda: — Che cosa sta facendo?

Un'idea terribile gli passò pel capo: — Scrive il suo testamento!

Ne ebbe subito una certezza assoluta. Sì, egli faceva quella cosa
terribile. Suo padre aveva il presentimento della morte, e si preparava
a morire. E a quel pensiero lo prese una pietà e una tenerezza
infinita. Suo padre, ancora così giovane, e così buono, che aveva
circondato la sua infanzia di tante cure, che aveva tanto lavorato per
lui, che dedicava ogni suo momento libero a istruirlo e a ricrearlo, e
che cercava e trovava ogni giorno qualche nuovo modo di rendergli più
bella la vita! E di ricordo in ricordo, risalendo fino al principio
della sua memoria, riandò tutte le prove d'affetto che gli aveva
date, se lo raffigurò in tutti i momenti in cui gli era apparso
più rispettabile e più amabile, rivide i suoi sorrisi, riudì le sue
parole, risentì le sue carezze, e, giunto al termine di quella corsa
del pensiero, ritrovandosi dinanzi l'immagine di lui disteso a terra
insanguinato, fu oppresso da una stretta di dolore più violenta ancora
di quella che aveva risentito la mattina al primo intender la notizia
funesta, e scoppiò in dirottissimo pianto. Ma, infine, la stanchezza
lasciata in lui dalle commozioni profonde della giornata fu più forte
dell'affanno, e nonostante tutti i suoi sforzi per resistere al sonno,
si assopì leggermente.

E sognò.

Sognò che pioveva a rifascio, tuonava e lampeggiava. Egli era solo in
casa; ma in una stanza che non aveva mai vista. Tra un tuono e l'altro,
e qualche volta confusa col tuono, sentiva la voce di suo padre, che lo
chiamava, come invocando-soccorso: — Arturo! Arturo! Figliuol mio! — Ma
egli non capiva donde venisse quella voce, poichè pareva ad un tempo
vicina e lontana, che venisse dal piano di sopra e da quel di sotto,
di dentro ai muri, di sotto ai mobili, e di fuori, dai terrazzini,
o dall'aria. Si slanciò nella stanza accanto: la risentì: — Arturo!
Arturo! Figliuol mio! — Gli parve che la voce fuggisse davanti a lui.
Si diede a girare di stanza in stanza, correndo, per un labirinto
di stanze sconosciute, ora oscure come sotterranei, ora illuminate
dai lampi, per lunghi anditi, per sale vastissime, di cui il tuono
incessante faceva tremar le vetrate, e dove, con suo grande stupore,
inciampava in cespugli e in tronchi d'alberi e sentiva erba e sassi
sotto i suoi piedi; e sempre si udiva chiamare: — Arturo! Arturo!
Figliuol mio! — da una voce sempre più supplichevole, sempre più fioca,
sempre più lontana. Lo prese la disperazione, si mise a correre con più
furia, singhiozzando: — Babbo! Babbo! dove sei? dove sei?... — Infine
il tuono cessò, seguì un silenzio profondo, e nell'oscurità muta, non
più rotta dai lampi, egli sentì un passo leggiero che s'avvicinava....

Si svegliò di sobbalzo, vide che era giorno, e sentì ancora quel
passo....

Fece appena in tempo a tirarsi addosso le coperte: suo padre era sulla
soglia dell'uscio.

Veniva a dargli il bacio d'addio.

Egli finse di dormire; sentì che s'avvicinava in punta di piedi al suo
capezzale.

Lo assalì una tentazione violenta di gettargli le braccia al collo.
Ma capì che se l'avesse fatto sarebbe scoppiato in pianto e avrebbe
tradito il suo secreto. Con uno sforzo vigoroso di tutto l'animo e di
tutti i nervi, si contenne, e simulò il respiro fitto e regolare del
sonno.

Sentì la bocca di suo padre sulla fronte.

Tremò tutto; ma si vinse.

Suo padre s'allontanò come un'ombra.

                                   *

Non era ancora a mezzo delle scale, che Arturo, finito di vestirsi in
un lampo, si trovava già sul pianerottolo. Al momento che suo padre
usciva dal portone, egli scendeva l'ultimo scalino, e di là, sporgendo
il capo, vide nella luce incerta dell'alba una carrozza ferma vicino
al marciapiede, e tre signori ritti accanto allo sportello; i quali
salutarono suo padre, e salirono dentro con lui. Il fiaccheraio
frustò il cavallo, la carrozza partì, ed egli vi si cacciò dietro,
afferrandosi all'asse delle ruote posteriori.

Il cavallo andava di trotto lento: lo poteva seguitare senza fatica.
La carrozza svoltò in via Cernaia e pochi momenti dopo sul corso
Vinzaglio. Il suo primo pensiero fu chi potesse essere il terzo di
quei signori che erano saliti nel legno con suo padre. Che lo dovessero
accompagnare due padrini, lo sapeva; ma chi era il terzo? Non gli venne
in mente che fosse il medico. Ma non insistè in quel pensiero. Era una
bella mattinata di primavera, limpida e piena di fragranze di campagna.
Ma la città, ancora dormente, con le vie deserte e le botteghe chiuse,
presentava l'aspetto triste d'una città disabitata, e le pedate del
cavallo e il rumore delle ruote echeggiavano in quella solitudine
silenziosa come sotto una gran vôlta invisibile. Al crocicchio di
Corso Oporto attraversò la via un'altra carrozza, il cui fiaccheraio
gridò rizzandosi sulla cassetta: — Ohè! camerata! ne porti uno gratis!
— e quasi nello stesso punto Arturo fu colpito alla guancia dallo
sverzino della frusta, che il “camerata„ aveva menata con un giro del
braccio all'indietro. Ne sentì un bruciore acuto; ma lo bruciò di più
la vergogna. Cominciava a passare qualche operaio, ad aprirsi qualche
finestra: gli pareva che tutti dovessero guardarlo, e pigliarlo per
uno straccione vagabondo, e gridare al cocchiere: — Frusta di dietro! —
Correva per lunghi tratti col mento sul petto, non vedendo i passanti e
gli alberi che come ombre fuggenti, inzaccherandosi nelle pozzanghere
che aveva fatto la pioggia la notte, fissando gli occhi nel numero
della carrozza come per raccogliere in quello tutta la sua mente, e
non pensare ad altro. Svoltando dal Corso Vinzaglio sul Corso Duca di
Genova il cavallo prese un trotto più rapido, ed egli cominciò a sentir
la stanchezza, e a filar grosse goccie dalla fronte e dalle tempie.
Lo affaticava sopra tutto lo star chino con le mani sull'asse, che era
troppo basso; provò a tenersi alle molle, ma s'affaticò anche di più,
perchè doveva star colle braccia troppo aperte, e quell'atteggiamento
gli opprimeva il respiro; tornò ad appoggiarsi come prima. Quando la
carrozza girò a destra sul Corso Umberto, egli principiò a temere che
non gli bastassero le forze per proseguire lungamente. Ma raccolse
tutto il suo vigore e il suo coraggio, e continuò a correre. Gli
pareva che se si fosse arrestato sarebbe stato un presagio sinistro,
che se suo padre fosse andato innanzi senza di lui, sarebbe andato
certamente a morire. Ma oramai grondava di sudore, gli saltava il cuore
nel petto, gli usciva il respiro come un soffio di mantice. Pensare
che il suo povero babbo era lì, a tre palmi dal suo capo, che c'era
solo fra di loro una sottile parete di legno, e che pure gli pareva
tanto lontano, e come separato da lui da una muraglia enorme e da un
abisso insuperabile! E domandava a sè stesso se egli pensasse a lui
in quel momento, e immaginava i tristi pensieri e l'affanno doloroso
che lo dovevano opprimere, e ansando, sobbalzando a ogni scossa della
carrozza, movendo continuamente le mani dall'asse alle molle e da
queste all'asse, piegando tratto tratto sulle ginocchia e rialzandosi
con uno sforzo sempre più penoso, ripeteva tra sè: — No, no, non ti
abbandonerò, padre mio.... non ti lascierò ferire.... cadrò prima
sfinito in mezzo alla strada.... O ti salverò o morirò.... Coraggio,
babbo mio! Il tuo Arturo è con te.... Senti il mio cuore che batte
vicino al tuo.... Senti il respiro del tuo figliuolo che ti accompagna!

                                   *

Dentro la carrozza, intanto, suo padre taceva e pensava. Gli stava
seduto accanto il medico, un biondone corpulento, che sonnecchiava, e
gli sedevano in faccia i due padrini, due avvocati sulla quarantina,
barbuti e gravi; ma di quella falsa gravità con cui i padrini cercano
per solito di dissimulare agli altri e a sè stessi la coscienza
inquieta d'esser complici di un atto insensato e incivile. L'avvocato
Pironi pensava alla moglie, che aveva ingannata, al ragazzo, al quale
aveva dato quasi a tradimento forse l'ultimo bacio; pensava che era
fuggito di casa come un ladro, e che forse egli era un ladro veramente;
perchè poteva essere che, uscendo di nascosto da quella casa, ne
avesse portato via la felicità, la pace, l'agiatezza, l'avvenire del
figliuolo, e anche la salute, e anche la vita della madre. E per la
prima volta domandò alla propria coscienza se egli avesse diritto di
disporre a quel modo dell'esistenza e della fortuna della donna che
aveva legata alla propria sorte e del fanciullo che aveva messo al
mondo, giurando sull'onor suo di proteggerli e di consacrare a loro
tutto sè stesso. E una voce solenne della coscienza gli rispose: —
No, tu non hai questo diritto, perchè la tua vita non è tua! No, tu
non dovevi fare quello che hai fatto, non dovresti fare quello che
farai, perchè è un'azione sleale e crudele verso i tuoi, barbara
verso la civiltà, stolta davanti alla ragione, iniqua davanti alla
legge di Cristo. — E che dovevo fare? — si ridomandò, difendendosi
dalla coscienza propria. — Non dovevi oltraggiare l'amico. — Ma l'ho
oltraggiato, e gli dovevo una riparazione. — Sì, glie ne dovevi una; ma
era quella di umiliare, di punire il tuo orgoglio, da cui era uscito
l'oltraggio; non quella di mettere in gioco due vite che sono strette
alla tua, ma non son cosa tua; no, non per altro che per salvare il
tuo orgoglio, tu metti l'una e l'altra a cimento; perchè ti manca il
nobile coraggio di chieder perdono, tu hai il coraggio scellerato di
gettar la disperazione nella tua casa; per parere un uomo coraggioso
non t'importa d'essere un marito e un padre spietato; copri con la
maschera del gentiluomo un egoismo feroce; il tuo coraggio non è che
debolezza violenta; ti è più facile esser sanguinario che generoso;
prostituisci l'anima per salvare l'amor proprio. E va, dunque, battiti,
fatti ammazzare, e che tua moglie e il tuo figliuolo scontino per
tutta la vita con la miseria e col pianto una parola insolente che
t'è sfuggita nell'ira, e che tu non volesti ritirare per superbia.
Vigliacco! — A queste parole non trovò più obbiezioni, chiuse gli
occhi, fingendo d'appisolarsi, e pensò con profonda tristezza al
figliuolo, che era appunto in sull'età in cui un ragazzo ha maggior
bisogno del consiglio e degli aiuti del padre; che era intelligente
e studioso, ma di animo troppo sensitivo e di immaginazione troppo
eccitabile; e sano e bello, e di carattere vigoroso e risoluto, ma di
complessione non gagliarda, e che però egli avrebbe dovuto preservare
con gran riguardo da ogni commozione troppo forte, che gli sarebbe
potuta riuscir funesta. L'avrebbe dovuto riguardare da ogni forte
commozione, e stava per dargli quella terribile di vedersi portare a
casa suo padre con una mano recisa o con la fronte spaccata, e forse
moribondo, e forse morto! Un atroce rimorso gli passò il cuore a quel
pensiero, e aprendo gli occhi giusto in quel punto a uno scossone della
carrozza, e vedendo la nuova piazza d'armi, lungo la quale correvano,
egli si ricordò delle tante volte che aveva portato a scorrazzare su
quel piano verde il suo Arturo bambino, e gli tornarono vivi alla mente
il suo aspetto infantile, i suoi atti graziosi, le voci d'allegrezza e
il caro miscuglio di piemontese e d'italiano che balbettava allora, e
la grande gioia ch'egli provava a farsi rincorrere da lui e a pigliarlo
in braccio dopo essersi lasciato raggiungere; e a quei ricordi gli
venne su dal cuore come una ondata di tenerezza e di pietà così
improvvisa e impetuosa, che si dovè addentare le labbra per ricacciar
giù le lacrime, di cui si sarebbe vergognato. E giurò in cuor suo che,
se fosse scampato da quel duello, mai più, mai più nella vita avrebbe
rimesso i suoi cari a una così triste prova, nè l'animo proprio a una
così crudele tortura. — Perdonami questa volta — disse tra sè; — una
sola volta m'avrai da perdonare, figliuol mio! Mai più tuo padre non
giocherà sulla punta della spada la tua salute e il tuo cuore! E questa
volta Dio mi protegga per amor tuo, mio buono, mio adorato, mio povero
Arturo! —

                                   *

Mentre questo diceva il padre, la carrozza, correndo sempre più
rapidamente, svoltava sul corso Peschiera, e il povero Arturo era
all'estremo delle sue forze. Eran già quasi due miglia ch'egli aveva
fatto di corsa, e per un ragazzo come lui, di petto debole, eran già
troppe. Avrebbe resistito di più se si fosse messo alla prova fresco di
lena; ma ci s'era messo già affaticato dagli affanni del giorno avanti,
e dalla notte insonne e travagliata, e dal digiuno: solo uno sforzo
enorme della volontà l'aveva sorretto fino a quel punto. Era tutto in
acqua, aveva i muscoli sfiniti, il cuore gli saltava alla gola, gli
martellavano le tempie, gli tremavano le braccia, gli si aggranchivano
le mani, la vista gli s'intorbidiva, le idee gli si confondevano; la
sua respirazione non era più che un anelito continuo e doloroso; andava
avanti quasi senza conoscenza, come spinto da un impulso di dentro, che
si veniva man mano affievolendo; gli pareva di correre perdendo sangue
da una piaga; si sentiva mancare non solo il vigore, ma il pensiero e
la vita. La carrozza infilò il corso Sommeiller, e poi svoltò a destra.
Come a traverso una nebbia egli riconobbe gli olmi e le case del viale
di Stupinigi, e disse quasi inconsciamente, come un'eco: — Stupinigi!
— Poi balenò nella sua mente oscurata un ricordo. Si ricordò che molti
duelli si facevano nei boschi di Stupinigi. Non c'era dubbio. Suo padre
andava là. C'erano dieci chilometri! Si vide perduto. Sfuggendogli la
speranza di poter resistere, lo abbandonò l'ultimo resto del vigore.
Le gambe gli piegavano, si lasciò trascinare; non gli restò che un po'
di forza nelle mani, con cui si teneva rabbiosamente stretto all'asse
delle ruote. Ma gettando a destra uno sguardo di naufrago, vide la
facciata dell'ospedale Mauriziano, ed ebbe nel punto stesso quasi
l'apparizione viva di suo padre portato là da quattro uomini, col
viso bianco e le braccia ciondoloni. A quella visione perdè la testa,
allentò le mani, e cadde nel mezzo della strada, appena oltrepassato
l'ospedale, mandando un gemito, e dicendo disperatamente: — Addio,
babbo! addio! addio! — E impotente a rimettersi in piedi, riuscì ancora
a trascinarsi carponi fino alla proda del viale, dove andò giù disteso,
come un corpo morto.

                                   *

Pochi momenti dopo, come in un sogno, udì il rumore d'una carrozza che
passava, e quasi ad un tempo il suono del suo nome.

Aperse gli occhi: vide Carlo Bussi inginocchiato davanti a lui.

— Pironi! — esclamò quegli, pigliandogli una mano. — Pironi!... Che
hai? Cos'è stato?

— .... Non posso più, — rispose Arturo.

— Alzati! — gli disse concitato il compagno — fatti forza! Siamo ancora
in tempo. La carrozza di mio padre è passata ora. T'ho visto passando.
T'ho creduto morto. Su, Arturo, su! Possiamo ancora raggiungerli. Non
andranno lontano. La carrozza va adagio. Guarda.... Oh che fortuna! S'è
fermata!

A un centinaio di passi più oltre, infatti, la carrozza s'era fermata
per aspettare che passasse il treno della strada ferrata, la quale
attraversava il viale di Stupinigi in quel punto. Doveva passare il
treno di Milano, partito allora dalla stazione di Porta Nuova. Il
cantoniere aveva chiuso le due barriere.

— Coraggio! — ripetè Carlo, aiutando l'amico a mettersi a sedere e
facendogli appoggiar la schiena a un paracarri. — Ecco il tuo berretto.
Abbiamo cinque minuti di vantaggio. Hai il tempo di riprender fiato.
Su, Pironetto, su. Vuoi darla vinta a un ronzino da trenta soldi l'ora?
Ci ho delle pasticche di menta: ingollane una, chè ti rimetterà in
gamba. Hai fatto il più: fa ancora un ultimo sforzo. Fino a Stupinigi
non ci vanno; ho inteso dire al cocchiere il nome d'una villa. Ci
arriveremo e non li lascieremo battersi. Vedrai come mi buscherò la
piattonata del genitore! Che credi che non abbia faticato anch'io?
Nella furia di scappare ho infilato nell'anticamera le scarpe del
servitore. Guarda che torpediniere! Ho dovuto far miracoli per portarle
a salvamento. Credevo di lasciarne una davanti al Municipio. Lèvati
presto. Non avrai più da correre. Io ti metto a sedere sull'asse
delle ruote, tu ti appoggi con le mani alle mie spalle, e vai come un
milionario. Su, su, senti il treno che arriva. Andiamo subito. Vedrai
che tutto andrà bene. Ma non perdiamo più un momento!

A quelle parole Arturo si sentì nel petto come un nuovo soffio di vita,
si levò in piedi, e ciondolando un poco, ma a passi spediti, tirato
per la mano da Carlo, arrivò sin dietro alla carrozza, nel momento che
passava il treno con un fracasso di tuono.

— Riaprono! — disse Carlo. — Su, Arturo, in sella!

E, preso l'amico fra le braccia, lo pose a sedere sull'asse, si fece
metter le mani sulle spalle, e s'afferrò al ferro con le sue, l'una a
destra e l'altra a sinistra, pronto alla corsa.

La frusta schioccò; la carrozza si mise in moto.

— Ci stai bene? — domandò Carlo.

Arturo accennò di sì.

— Fa conto di far gli esercizii alla sbarra fissa. Ma agguantami forte,
e attento ai sobbalzi. Non aver paura, però. Non s'andrà molto lesti.
Mi sono accorto che il fiaccheraio è sborniato. E non darti pensiero di
me. Io ho i polmoni del Bargozzi. Vedrai che avremo fortuna....

                                   *

Proprio in quel momento, nella carrozza, uno dei padrini, — un signore
lungo e secco, con due occhi di gatto e un pizzo di barba grigia
— dava gli ultimi consigli all'avvocato Bussi, seduto dirimpetto a
lui, intorno al modo di regolarsi nel duello. — Dunque, siamo intesi.
L'avversario è fuor d'esercizio, si stancherà dopo la prima furia. Tu
aspetta che molli, e allora fa quello che t'ho detto: — così — così —
e là! — E sarà servito. — E rifece con la mano ossuta l'accenno di due
finte e d'un colpo di bandoliera, strizzando l'occhio felino.

L'avvocato Bussi non rispose. Aveva l'aria d'un uomo seccato. Volgeva
in mente da un po' di tempo dei pensieri assai discordanti dalla
conversazione; i quali s'esprimevano in un sorriso sarcastico sulle sue
labbra taglienti, usate alla canzonatura. — Curioso — diceva tra sè —
questo bravo signore, che si vanta di credere in Dio, e che m'insegna
tranquillamente a sgozzare il prossimo, come mi darebbe una ricetta
per una salsa! E quest'altro palloncino pien di vento, che non riesce
a nascondere la felicità d'esser per la prima volta padrino in un
duello, come se fosse una delle imprese d'Ercole, e schizza dagli occhi
l'impazienza d'andarlo a strombettare ai quattro canti di Torino! E
questi due armadi a ruote che portan via di nascosto me e quell'altro
come due ragazze rapite, e quel signore che c'impresta cortesemente la
villa perchè ci possiamo ammazzare a nostro comodo, e il medico che
ci accompagna con l'ago e col filo per rimendarci la pelle.... tutto
questo m'ha l'aria d'una lugubre buffonata. Vorrei sapere perchè mi
vado a battere. Quando il Pironi mi regalò quell'epiteto, io ero ben
certo che tale non mi credeva, e che quanti eran lì eran certi della
stessa cosa, e che capivano ch'egli m'aveva lanciato quella parola
perchè l'avevo messo al muro e non sapeva più che altro rispondermi.
Avrei dovuto ridergli in faccia, senz'altro. Io mi batto dunque per
dimostrare che non son uomo da lasciarmi dire delle impertinenze. Ma se
egli mi ferisce, a che servirà l'aver dimostrato che non mi lascio dire
delle impertinenze, se dimostrerò ad un tempo che mi lascio dare delle
sciabolate? Che corbelleria! Ma è una corbelleria che può finire....
con la fine d'uno dei due. Si può essere più bestialmente matti?...
Basta: purchè non ci sian là a vederci dei contadini. È il mio pensiero
fisso da ieri: un pensiero che mi dà una noia.... da non credersi. Mi
pare che mi vergognerei, e che buscherei una botta per effetto della
distrazione. E perchè me ne vergognerei?... Perchè la gente del popolo
ride del duello. È certo per questo. Ma perchè, se io vedo due popolani
che rissano col coltello, non rido, ed essi ridono quando vedono due
di noi che si battono con la sciabola? Vediamo un poco. Forse....
perchè essi non si battono che in un accesso di furore, il quale, se
non giustifica la rissa, la spiega, e le dà almeno un aspetto tragico;
quando il nostro combattimento condotto con tutte le regole, — dopo uno
scambio di saluti, con le debite pause, in presenza di quattro signori,
in un luogo prestabilito, senza neanche la giustificazione apparente
dell'ira — è veramente una cosa buffa e antipatica. E io me ne
vergognerei anche perchè quella gente, vedendo un duello, comprendono
che è assurda la distinzione enorme che noi facciamo fra le nostre
risse e le loro, e godono di coglierci in una contraddizione stupida
e odiosa fra la nostra ferocia di duellanti e le nostre vanterie di
gente civile e gentile; contraddizione tanto più odiosa in quanto ad
ammazzare essi non imparano, e noi ci esercitiamo per molti anni. Ah,
buffoni, buffoni, buffoni! Ma dunque non si arriverà mai a questa villa
del malanno?

                                   *

In quel momento, i due ragazzi sentirono uscir dalla carrozza un grido
soldatesco: — Ferma!

— Giù! — disse Carlo. — Siamo arrivati. Rimpiattiamoci subito. — Arturo
si buttò giù dall'asse, corse dietro all'amico e saltò con lui dentro
al fosso che fiancheggiava la strada; dove tutt'e due s'accucciarono,
levandosi il cappello e sporgendo il capo al disopra della proda appena
quanto occorreva per veder ciò che avveniva.

La carrozza si fermò davanti alla cancellata d'una villa signorile,
della quale appariva il tetto di là dagli alberi d'un vasto giardino,
cinto d'un muro. La cancellata, ch'era socchiusa, fu spalancata da una
mano invisibile, la carrozza entrò, i battenti si chiusero.

— Siamo perduti! — esclamò Arturo.

— Neppur per sogno, — rispose Carlo.

— Come faremo ad entrare?

— Come fanno i ladri. Non c'è bisogno d'entrar per la porta. Vieni con
me, ma lesto.

Così dicendo, Carlo saltò sulla strada, l'attraversò, si gettò di
corsa, seguito da Arturo, in un campo accanto alla villa, arrivò fino
ai piedi del muro di cinta, lo misurò con uno sguardo, e disse al
compagno: — Scavalchiamolo.

— Ma non faremo in tempo! — esclamò Arturo affannato. — Intanto si
batteranno!

— Non temere, — rispose Carlo. — I preparativi son lunghi. Fa a modo
mio.

Mise Arturo con le spalle al muro, gli fece piantar forte i piedi e
incrociare le mani a seggiolino, e dettogli: — Tien saldo! — gli pose
un piede sulle mani, afferrandosi alle sue braccia, prese una spinta
con l'altro piede, gli salì ritto sulle spalle e tastò con le dita la
sommità del muro.

— Accidenti al proprietario! — esclamò, e ricadde a terra.

— Che cosa c'è? — domandò Arturo, sgomento.

— C'è che la cresta del muro è incrostata di schegge di vetro, a
servizio dei galantuomini. Bisogna sacrificar le giacchette. Dammi la
tua.

Se le tolsero tutt'e due, Carlo le prese fra i denti, e, risalito sulle
spalle del compagno, gettò l'una sopra l'altra sul sommo del muro,
vi piantò le mani come due artigli, si tirò su, si rigirò verso il
compagno appoggiandosi sul ventre, tese le braccia verso di lui, e gli
disse: — Afferrati, punta i piedi contro le sporgenze e vien su senza
paura: ho le pale solide.

In quella maniera, facendo uno sforzo di piccolo atleta, tirò a sè il
compagno come un secchio.

— Bada a non bucarti! — gli disse quando Arturo s'attaccò alle
giacchette.

Arturo mise un grido.

— Che c'è?

— Nulla; una puntura.

— Io salto dentro. Tu aspetta.

Carlo saltò giù nel giardino, e tese le braccia allargate verso Arturo,
dicendogli: — A te, ora!

Questi si lascio andar giù e gli cadde fra le braccia.

— Bene arrivato! — esclamò Carlo, — siamo nella fortezza!

Si trovavano all'estremità d'un lungo sentiero che andava diritto in
mezzo a due fughe di piccole aiuole, divise da altri sentieri, fino a
una siepe altissima di mortelle; la quale attraversava il giardino come
un muro divisorio, aperta qua e là in vani arcati dalla forma di porte.

— Si battono là dietro! — disse Arturo. — Corriamo!

E tutt'e due scamiciati, grondanti di sudore, trafelanti, si lanciaron
di corsa verso il muro verde....

                                   *

Appena entrato nella villa e sceso di carrozza vicino alla porta, dove
stava già l'altro legno, l'avvocato Bussi s'era trovato davanti a un
largo viale, fiancheggiato da due alte pareti di mortelle e chiuso in
fondo dalla facciata della palazzina. Al capo opposto del viale, c'era
l'avvocato Pironi col medico e co' suoi padrini. Questi e quelli del
Bussi s'erano subito mossi gli uni verso gli altri, e, incontratisi a
mezza via, avevano fissato lì il campo del duello, e tracciato delle
linee sulla terra con la punta delle canne. Poi avevano levato dalle
fodere e dato le sciabole al medico, che le aveva asperse d'acido
fenico, dopo aver preparato bende, pinze e boccette sopra un sediletto
di legno, vicino a una delle aperture di fianco.

Mentre i due ragazzi stavano scalando il muro, i due avversari,
chiamati dai padrini, si avvicinavano, si levavano il cappello e
il vestito, si rimboccavano la manica della camicia sul braccio, si
facevano fasciar la mano con un fazzoletto, e, impugnate le sciabole,
si mettevano l'uno di fronte all'altro, avendo ciascuno i proprii
padrini a destra e a sinistra. Uno dei padrini del Bussi, quello dal
pizzo grigio, che aveva pure una sciabola in mano, faceva da direttore
del combattimento.

Tutt'e due avevano il viso pallido, ma risoluto. Tutti gli altri
tacevano. Non si sentiva che un cinguettìo allegro d'uccelli e il
latrato lontano d'un cane. Il sole batteva il primo raggio sulla
facciata rosea della palazzina.

A un cenno dei padrini, i due avversari fecero il saluto con la
sciabola.

Il signore del pizzo gridò: — A voi!

Era il segnale dell'assalto.

Si misero in guardia e incrociarono le lame....

In quel punto, di là dalla parete delle mortelle, suonò un grido acuto
e doloroso: — Aiuto!

L'avvocato Bussi s'arrestò il primo, stupefatto, come se avesse
riconosciuto quella voce, ma incredulo, come se gli paresse
un'illusione.

La voce ripetè con un grido più lungo e più supplichevole: — Aiuto!

Era il suo Carlo. Il Bussi non sentì più altro, gittò un'occhiata
intorno, vide il vano della siepe, vi si lanciò, tutti lo seguirono.

Fatti appena venti passi, s'arrestarono.

Arturo giaceva in terra, disceso a traverso a un sentiero, tutto
insanguinato e fuor dei sensi; Carlo, inginocchiato accanto a lui,
atterrito e tremante, gli sorreggeva il capo con una mano, e con
l'altra, rossa di sangue, gli stringeva un braccio intorno al polso;
lungo il sentiero serpeggiava una striscia sanguigna.

L'avvocato Pironi mise un grido disperato: — Mio figlio è morto! — e
gli si gittò accanto in ginocchio; il medico si chinò e gli prese il
braccio; tutti gli altri affollarono Carlo di domande.

Questi, quasi fuor di sè, rispose balbettando. Disse com'eran venuti
là, per impedire ai loro padri di battersi, e come avevano scavalcato
il muro, incrostato di scheggie di vetro. Nell'afferrarvisi, Arturo
s'era ferito al polso. Non se n'era accorto subito. Poi, correndo a
traverso al giardino, sentendosi mancar le forze, aveva scoperto la
ferita; aveva perduto molto sangue; era caduto là, fra le sue braccia.

— Dottore! — gridava intanto il Pironi, — dottore, me lo salvi!

Il dottore, che aveva esaminato il braccio e lo stava fasciando,
lo rassicurò, dicendo, che era stata ferita l'arteria radiale, ma
leggermente, che il compagno, comprimendola, aveva arrestato in tempo
l'effusione del sangue, e che non c'era pericolo.

Ma il Pironi, invaso dallo sgomento, non vedendo il figliuolo dar segno
di vita, non gli credette, e gridò più affannosamente: — Mi muore! mi
muore! ma non lo vede che mi muore?

— No, — rispose il medico, avvicinando alle nari del ferito una
boccetta, — ecco che rivive.

Arturo aperse gli occhi, riconobbe suo padre, gli sorrise, e alzando il
braccio illeso fece l'atto di mettergli la mano sulla spalla.

Il padre gettò un grido di gioia e gli coperse la fronte di baci,
singhiozzando.

— Babbo —, mormorò Arturo appena potè raccogliere la voce —, è
stato Carlo.... Io ero caduto per la strada..., mi rialzò, mi fece
coraggio.... È lui che mi ha tirato su pel muro.... Senza di lui
non sarei qui.... Egli m'ha fermato il sangue.... È lui che ha fatto
tutto....

Il Pironi alzò il viso verso Carlo, che gli stava ritto al fianco,
lo fissò negli occhi, e gli disse: — Tu sei un uomo! — e lo baciò sul
cuore.

Poi balzò in piedi, raccolse la sciabola che aveva buttata via, e
voltatosi verso il Bussi, che stava immobile a pochi passi, gli disse
con un accento risoluto, che discordava dallo sguardo, sfavillante di
gratitudine per il suo figliuolo:

— Son pronto!

— Io pure! — rispose fieramente il Bussi, e gettò la sciabola a terra.

Il Pironi gli s'avventò al collo, e mentre s'abbracciavano, gli disse
nell'orecchio: — Dimentica! — Poi, svincolandosi, a voce alta, perchè
tutti sentissero: — Perdonami!

Pochi minuti dopo, il ragazzo ferito, sorretto sulle braccia dai due
padri, sulle cui spalle appoggiava le mani ancora insanguinate, facendo
fra l'uno e l'altro come un vincolo vivo, e il suo bravo compagno,
sollevato anch'egli da terra, in sogno di festa, da due padrini,
furono portati alle carrozze, fra gli applausi e gli evviva, come in
trionfo....

                             . . . . . . .

Ma l'avvocato Pironi non doveva arrivare a casa senz'aver provato un
nuovo affanno. Nella carrozza, dove entrarono il Bussi e il medico
con lui e con Arturo, questi, dopo esser rimasto un pezzo assopito,
ridestatosi, volle rispondere a tutte le domande che gli eran rivolte,
e s'affaticò per modo che, nel punto che stavano per sboccare da via
Sacchi sul corso Vittorio Emanuele, ebbe un leggero deliquio. — Che
cos'è questo? — domandò il Pironi spaventato. Era debolezza. Il medico
consigliò un cordiale. Il Pironi gridò: — Ferma! — La carrozza si fermò
all'angolo del caffè Mogna. Dissero tutti e tre insieme: — Un cognac?
— Del vino chinato? — Un Marsala? — Arturo aperse gli occhi languidi e
mormorò sorridendo: — No.... un gelato di crema.

Poi soggiunse, richiudendo gli occhi: — Doppio.



INDICE.


  DEDICA                                        Pag. VII

  RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA
  [da pag. 1 a 188].

  I primi anni                                   Pag.  3
  La prima scuola                                     18
  Qui, quae, quod                                     30
  I bersaglieri                                       34
  Il caporale Martinotti                              39
  La guerra di Crimea e i miei amici poveri           42
  Sul campo dell'onore                                52
  Primi palpiti                                       56
  Il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea             60
  Il furore della pittura                             64
  Il regno del terrore                                67
  Il maestro prete                                    73
  Davanti al tribunale                                81
  Sulla mala via                                      86
  In _Umanità_                                        95
  Tenorino fallito                                   100
  Il Cinquantanove                                   103
  Attore drammatico                                  118
  Nuove amicizie e nuove grullerie                   121
  Professori di liceo                                132
  Un rimorso                                         135
  I liceisti                                         138
  Il bimbo del Consigliere                           140
  La resa di Gaeta                                   143
  Un pericolo e un lutto                             146
  Primi studi di lingua                              148
  Furori ginnastici                                  153
  Fisica e storia                                    156
  Avvocato!                                          159
  I profughi polacchi                                162
  Giorni d'ebbrezza                                  164
  Un grande dolore                                   166
  Cambiamento di rotta                               171
  Aspromonte                                         175
  Un fiume d'inchiostro                              178
  La partenza                                        181
  Un mistero                                         184

  BAMBOLE E MARIONETTE.

  Il “Re delle bambole„                              191
  Un piccolo teatro celebre                          210

  GENTE MINIMA.

  Grembiulini bianchi                                247
  Personaggi infantili                               261
  I bambini di Val d'Andorno                         283

  PICCOLI STUDENTI.

  Momenti solenni                                    293
  Piccoli scrittori                                  307
  I desideri dei ragazzi                             318
  Il garofano rosso, racconto                        335

  ADOLESCENTI.

  Sui banchi del Ginnasio                            357
  I commedianti e i ragazzi                          376
  Un'ascensione in pallone                           389

  DUE DI SPADE E DUE DI CUORI
  racconto
  [da pag. 403 a 442].



[Ed. Treves.] OPERE DI E. DE AMICIS [Ed. Treves.]


  IN-16.

  _La vita militare._ 67.ª impressione della edizione del
    1880, rifusa dall'autore, con l'aggiunta di due bozzetti   L. 4 —
  — — edizione popolare. 55.º migliaio                            1 —
  _Pagine sparse._ Nuova edizione economica con prefazione
    di =Salvatore Farina=                                         2 —
  _Marocco._ 23.ª edizione                                        5 —
  _Novelle._ 28.ª impressione della nuova edizione del
    1878, riveduta e ampliata dall'autore. Illustrata da 7
    incis. di Bignami                                             4 —
  _Olanda._ 22.ª edizione riveduta dall'autore                    4 —
  _Costantinopoli._ 32.º migliaio. Nuova edizione                 5 —
  _Ricordi di Londra._ 27.ª edizione con 21 disegni               1 50
  _Ricordi di Parigi._ 23.ª edizione                              1 —
  _Ritratti letterari._ 7.ª edizione                              2 —
  _Poesie._ 13.ª edizione                                         4 —
  _Gli Amici._ 24.ª edizione. Due volumi                          2 —
  _Cuore._ Libro per i ragazzi. 610.º migliaio                    2 —
    Del 500.º migliaio fu fatta un'edizione speciale a         L. 4 —
    La medesima rilegata in gran lusso                           20 —
  _Alle Porte d'Italia._ 18.ª impressione della nuova
    edizione del 1888, completamente rifusa e ampliata
    dall'autore                                                   3 50
  _Sull'Oceano._ 32.ª edizione                                    5 —
  _Il romanzo d'un maestro._ 11.ª edizione                        5 —
  — — Edizione economica in due volumi. 33.ª edizione             2 —
  _Fra scuola e casa_, racconti e bozzetti. 12.ª edizione         4 —
  _La maestrina degli operai._ Racconto. 5.ª edizione bijou       3 —
  _Ai ragazzi_, discorsi. 16.ª edizione                           1 —
  — — Legato in tela e oro 5 — Legato uso antico                  8 —
  _La carrozza di tutti._ 25.ª edizione                           4 —
  _Memorie._ 12.ª edizione                                        3 50
  _Ricordi d'Infanzia e di Scuola._ 14.ª edizione                 4 —
  _Capo d'anno_, Pagine parlate. 7.ª edizione                     3 50
  _Nel Regno del Cervino_, nuovi racconti e bozzetti.
    10.ª ediz.                                                    3 50
  _L'Idioma Gentile._ 57.ª edizione                               3 50
  _Pagine allegre._ 11.ª edizione                                 4 —
  _Nel Regno dell'Amore._ 12.º e 13.º migliaio                    5 —
  _Lotte Civili_ (Edizione postuma)                               2 —
  _Speranze e Glorie — Le tre Capitali_ (Torino-Firenze-Roma)     2 —

  IN-8 ILLUSTRATE.

  _Marocco_                 10 —       _Sull'Oceano_             10 —
  _Costantinopoli_          10 —       _Alle Porte d'Italia_     10 —
  _La Vita Militare_         6 —       _Novelle_                  6 —
  — — Edizione popolare      2 50      _Gli Amici_                4 —
  _Olanda_                  10 —       _La lettera anonima_       4 —
  _Cuore_                    5 —       _Nel Regno dell'Amore_     7 —

  ULTIME PAGINE (1908).

    I. Nuovi Ritratti Letterari ed Artistici. 4.º migliaio        3 50
   II. Nuovi Racconti e Bozzetti. 4.º migliaio                    4 —
  III. Cinematografo Cerebrale. 4.º migliaio                      3 50

  ANTOLOGIA DE AMICIS.

  Alla Gioventù. =Letture scelte= dalle opere di EDMONDO
    DE AMICIS. Antologia scolastica e famigliare per cura di
    DINO MANTOVANI. 27.º migliaio                                 2 —



NOTE:


[1] Andate sulla forca, canaglie.

[2] E anche voi, femminucce pettegole.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Ricordi d'infanzia e di scuola" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home