Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Viaggj del Capitano Lemuel Gulliver - In Diversi Paesi Lontani
Author: Swift, Jonathan
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Viaggj del Capitano Lemuel Gulliver - In Diversi Paesi Lontani" ***


Project ID: COALESCE/2017/117 (Irish Research Council)



VIAGGJ

DEL CAPITANO

LEMUEL GULLIVER

In diversi Paesi lontani.

Traduzione dal Franzese.

DI F. ZANNINO MARSECCO.

Tomo Primo:

PARTE PRIMA.

Contenente il Viaggio di LILLIPUT

IN VENEZIA, MDCCXLIX.

Appresso Giovanni Tevernin.

All’Insegna della Providenza

Con Licenza de’Superiori, c Privilegio.



LO
STAMPATORE

A chi Legge.


SE mai con vostro gradimento vi ho servito colle mie Stampe; di servirvi
con vostro piacere pel mezzo delle presenti non poco presumo. L’Inglese
Aurore di quest’immaginarj Viaggj, comechè sotto il finto nome di
Capitan LEMUEL GULLIVER, scontento (al suo dire,) non già della
prediletta sua Patria, e neppure del generale della sua stimata Nazione;
di certi difetti bensì notati da lui in taluni de’suoi Campatrioti,
meditó di assalire i difetti stessi non affatto alla scoperta, ma si
bene per imboscata. Anzi dunque (se siete Leggitore erudito) che vi
rincresca il tornio ond’egli si è prevaluto, ammiratene l’industria,
e la graziosità: rendendovi persuaso che non sono puramente inezie
quelle che a prima vista per tali vi compariranno. Vivete felice.



TAVOLA
DE’CAPITOLI

Del Viaggio di Lilliput.

CAPITOLO I. CHI sia, e di qual Famiglia, l’Autore di questo Viaggio:
primarj motivi che lo indussero a viaggiare. Fa egli naufragio, e si
salva a nuoto sulla spiaggia di Lilliput; vi è fatto prigioniero, e più
a dentro nel Paese resta condotto.

Cap. II. L’Imperadore di Lilliput, scortato da molte persone
riguardevoli, va a vedere l’Autore. Descrizione della Persona, e delle
vestimenta dell’Imperadore. Alcuni Letterati del primo ordine sono
incaricati d’instruire l’Autore del linguaggio del Paese. Ei si fa
amare per la sua affabilità. Formasi l’Inventario di quanto si
rinviene nelle tasche di lui, e se gli tolgono le pistole, e la spada.

Cap. III. Strana maniera dell’Autore per tener ricreata Sua Maeftà
Imperiale, e la Nobiltà tutta dell’uno, e dell’altro sesso della
Corte di Lilliput, Altri divertimenti di questa Corte. Sotto certe
condizioni è l’Autore rimesso in libertà.

Cap. IV. Descrizione della Città Capitale di Lilliput, nomata Mildendo,
e del Palagio dell’Imperadore. Conversazione dell’Autore con uno
de’primi Segretarj degli affari dell’Imperio. Offresi l’Autore di
servir al Monarca contro agl’inimici di Lui.

Cap. V. Con uno stratagemma inudito l’Autore previene una incursione,
Titolo d’onore che viengli conferito. L’Imperadore de Blefuscu
spedisce Ambasciadori per chieder la pace. Appicciasi il fuoco
all’Apartamento dell’Imperadrice; ma col soccorso dell’Autore resta
estinto.

Cap. VI. Scienze, Leggi, e Costumanze degli Abitanti di Lilliput. Maniera
di allevare i loro Figliuoli. In qual modo vivesse in quel Paese
l’Autore. Giustificazione d’una delle principali Dame della Corte.

Cap. VII. L’Autore, essendo informato che i suoi nemici intentavano
d’accusarlo d’Alto-Tradimento, rifugge a Blefuscu. Maniera ond’egli
vi è ricevuto.

Cap. VIII. Per una singolar buona sorte, presentasi all’Autore il modo
di lasciare Blefuscu; e dopo di aver superare alcune difficoltà, sano e
salvo alla sua Patria ei ritorna.


DEL VIAGGIO DI BROBDINGNAG.

Cap. I. DEscrizione d’una suriosa tempesta. E’inviato a terra lo
Schifo per provvedersi d’acqua: vi s’imbarca l’Autore per iscoprir
il Paese, Egli è lasciato sulla spiaggia; vien preso da uno degli
Abitanti, ed è condotto in Casa d’un Fattor di Campagna. Modo
ond’egli vi fu ricevuto. Descrizione degli Abitanti.

Cap. II. Descrizione della figliuola del Fattor di Campagna. L’Autore
è condotto a una vicina Città , e di poi alla Capitale. Particolarità
di questo Viaggio.

Cap. III. L’Autore è condotto alla Corte. La Regina il compra dal
Fattor di Campagna, e il regala al Re. Ei disputa co’Professori di Sua
Maeftà; e alloggiato in Corte, ed è assai ben veduto dalla Regina.
Difende l’onore della sua Patria, e con un Nano della Regina contrasta.

Cap. IV. Descrizione del Paese. Progetto per la correzione delle Carte
Geografiche. Cosa fosse il Palagio del Re, e la Capitale. Maniera con cui
l’Autore viaggiava. Descrizione d’uno de’principali Templi di
Lorbrulgrud.

Cap. V. Differenti Avventure ch’ebbe l’Autore. Sentenza d’un
criminoso eseguita. L’Autore dà saggio della propia abilità
nell’Arte Nautica.

Cap. VI. L’Autore, con ogni sorta di mezzi procura di guadagnarsi la
benevolenza del Re, e della Regina. Dà saggio della propia abilità
nella Musica. Informasi il Re dello stato dell’Europa, e l’Autore
soddisfa ampiamente alla curiosità di lui. Riflessioni del Re sopra
quanto gli ha narrato l’Autore.

Cap. VII. Amor dell’Autore per la sua Patria. Ei fa al Re un’assai
vantaggiosa obblazione, la quale tuttavia è rigettata. Ingnoranza del Re
in fatto di Politica. Angusti limiti onde ristringosi le Scienze di quel
Paese. Leggi, e Militari affari di quel Regno. Quali turbolenze
l’agitarono.

Cap. VIII. Il Re e la Regina fanno un giro verso le Frontiere, e
l’Autore ha l’onore d’accompagnargli. In qual modo ei ritirossi da
quel Regno. Ritorna in Inghilterra.


DEL VIAGGIO DI LAPUTA BALNIB. ec.

Cap. I. IMprende l’Autore un terzo Viaggio; vien preso da Corsali.
Ribalderia d’un Fiamingo L’Autore approda ad un’Isola, ed è
ricevuto nella Città di Laputa.

Cap. II. Descrizione de’Lapuziani. Quali scienze presso loro sieno più
in voga. Compendiata idea del Re, e della sua Corte. Maniera con cui evvi
ricevuto l’Autore. Timori ed inquietudini a quali quegli Abitanti sono
suggetti. Descrizione delle Donne.

Cap. III. Fenomeno spiegato col soccorso della Filosofia, e
dell’Astronomia Moderna. Abilità de’Lapuziani nell’ultima di
queste due Scienze. Metodo del Re per reprimere le sedizioni.

Cap. IV. L’Autore parte da Laputa, è condotto a Balnibarbi, e arriva
alla Capitale. Descrizione di questa Città, e del suo Distretto.
Ospitalità con cui egli è ricevuto da un Gran Signore. Sua
conversazione con esse lui.

Cap. V. L’Autore ha la permissione di vedere la Grande Accademia di
Lagado. Ampia descrizione di quest’Accademia. Arti nelle quali vi
c’impiegano i Professori.

Cap. VI. Continuazione del medesimo Argomento. Propone l’Autore alcuni
nuovi Ritrovamenti, che con grandi applausi sono ricevuti.

Cap. VII. L’Autore lascia Lagado, e arriva a Maldonada. Non essendovi
pronto alla vela verun Vascello, fa un giro a Glubbdubdribb. Accoglimento
che gli fa il Governatore.

Cap. VIII. Curioso specificato racconto sopra la Città di Glubbdubdribb.
Alcune correzioni dell’Antica e della Moderna Storia.

Cap. IX. Ritorna l’Autore a Maldonada, e fa vela pel Regno di Luggnagg.
Vi è posto prigione, ed è poscia spedito alla Corte. Maniera con cui
egli vi è ricevuto. Clemenza estrema del Re verso i suoi Sudditi.

Cap. X. Elogio de’Luggnaggiani. Particolar descrizione degli
Strulbdruggs, con molte conversazioni fra l’Autore ed alcune persone
del primo carattere, su questo Suggetto.

Cap. XI. L’Autore lascia Luggnagg, e va al Giapone: donde sopra un
Vascello Ollandese si restituisce ad Amsterdam, e d’Amsterdam in
Inghilterra.


DEL VIAGGIO AL PAESE DEGLI HOUYHNHNMS.

Cap. I. IN qualità di Capitano d’un Vascello imprendesi dall’Autore
un Viaggio. La sua Ciurma cospira contra di lui; per qualche spazio di
tempo il tiene sequestrato uella di lui Camera, e il mette a terra in un
Paese incognito. Ei s’interna nel Paese medesimo. Descrizione d’un
strano animale nominato Yahoo. Due Houyhnhnms sono riscontrati
dall’Autore.

Cap. II. Un Houyhnhnms guida l’Autore alla sua Casa. Descrizione di
questa Casa. Maniera con cui vi è ricevuto l’Autore. Nutritura degli
Houyhnhnms. E’Ll’Autore proveduto d’alimenti dopa d’aver temuto
di mancarne. Suo modo di nutricarsi in quel Paese.

Cap. III. Applicasi l’Autore ad apprendere la favella del Paese, e il
suo Padrone, l’Houyhnhnms, gliene dà delle lezioni. Descrizione di
questa favella. Molti Houyhnhnms di qualità vanno a visitare l’Autore.
Fa egli al suo Padrone un compendiato racconto del suo Viaggio.

Cap. IV. Intelligenza degli Houyhnhnms in proposito del vero e del falso.
Discorso dell’Autore disapprovato dal suo Padrone. Introducesi
l’Autore in un racconto più specificato di se medesimo, e degli
avvenimenti del suo Viaggio.

Cap. V. Per ubbidire agli ordini del suo Padrone,lo informa l’Autore
dello Stato dell’Inghilterra, ed altresì de’motivi della Guerra fra
alcuni Potentati dell’Europa, e ad inspirargli qualche idea della
Natura del Governo Inglese incomincia.

Cap. VI. Continuazione del discorso dell’Autore, sopra la stato del suo
Paese, sì ben governato da una Regina, che vi si può far di meno d’un
Primo Ministro. Ritratto d’un tal Ministro.

Cap. VII. Amor dell’Autore per la sua Patria. Riflessioni del Padrone
di lui sopra il Governo dell’Inghilterra, tale che avealo descritto
l’Autore; con alcune comparazioni e con alcuni paralelli sopra il
medesimo Argomento. Osservazioni dell’Houyhnhnm sopra la Natura umana.

Cap. VIlI. Particolarità concernenti gli Yahoos. Eccellenti qualità
degli Houyhnhnms. Qual sia la loro educazione, e in quali esercizj nella
lor giovinezza s’impiegino. Loro Assemblèa generale.

Cap. IX. Gran dibattimento nell’Assemblea generale degli Houyhnhnms, e
in qual modo terminò. Scienze che anno corso fra loro. Loro Edifizj,
Maniera con la quale essi seppelliscono i loro Morti. Imperfezione del
loro Linguaggio.

Cap. X. Qual beata vita menasse l’Autore fra gli Houyhnhnms. Progressi
ch’egli fa nella Virtù conversando con esso loro. L’Autore è
avvertito dal suo Padrone di dover abbandonar il Paese. Egli sviene per
lo dolore, e dopo di aver ricuperati i suoi sensi, promette d’ubbidire.
Riesce gli di costruire una barchetta, e all’avventura in mare ei si
mette.

Cap. XI. Quali pericoli asciugò l’Autore.Approda alla Nuova Ollanda,
sperando di fissarvi il suo soggiorno. E’ferito con un colpo di freccia
da un Naturale del Paese, ed è trasportato sopra un Vascello di
Portogallo. Gli usa gran cortesie il Capitano, e arriva in Inghilterra
l’Autore .

Cap. XII. Veracità dell’Autore. Disegno ch’ei si è proposto in
pubblicar quest’Opera. Ei censura que’Viaggiatori che non anno un
inviolabile rispetto per la verità. Confuta l’Autore l’accusa che
forse potrebbesi addossargli di aver avuto qualche sinistro oggetto nello
scrivere. Risposta a un’obbiezione. Metodo di piantar Colonie. Elogio
del suo Paese, Ei pruova che l’Inghilterra possiede giusti titoli sopra
que’Paesi ond’egli ne ha fatta la descrizione. Difficoltà che si
opporrebbe all’impadronirsene. L’Autore si licenzia da chi legge;
dichiara in qual modo ei pretende di passare i rimanenti suoi giorni; dà
un buon consìglio, e finisce.



Noi Refformatori dello Studio di Padoa.

COncedemo Licenza à Zuanne Tavernìn Stam pator di Venezia di poter
ristampare il Libro intitolato Viaggi del Capitanio Lemuel Gulliver in
diversi paesi lontani. Traduzione del Francese in Italiano già stampato
in Venezia: osservando gl’ordini soliti in materia di Stampe, e
presentando le Copie alle Pubbliche Librarie di Venezia, e di Padoa.

Dat. li 2. Agosto 1748.

Gio, Emo Proc. Rif.

Barbon Morosini Cav, Proc. Rif.

Registrato in Libro a Carte 30. al Num. 239.

Mihiel Angelo Marino Seg.

Licenziato dal Mag. Eccell. contro la Bestemia

Gio; Gadaldin Seg.



VIAGGIO
DI
LILLIPUT.

PARTE PRIMA.


CAPITOLO I.

Chi sia, e di qual Famiglia, l’Autore di questo Viaggio: primarj motivi
che lo indussero a viaggiare. Fa egli naufragio, e si salva a nuoto sulla
spiaggia di Lilliput: vi è fatto prigioniero, e più a dentro nel Paese
resta condotto.


POchi erano i beni di fortuna di mio Padre, situati nella Contea di
_Nottingham_: ma in ricompensa egli era ricco di cinque figliuoli, onde
io sono il Terzogenito. In età di quattordici anni inviommi al Colleggio
di _Cambridge_, ove per lo spazio d’anni dodici m’applicai con
serietà agli studj: ma perchè i paterni sussidj, per supplire
a’dispendj del mio mantenimento, (che, per dir vero, troppo lunge non
istendevansi,) un po troppo erano mediocri, allogato fui in allievo del
Signor _Jacopo Bates_, uno de’migliori Chirurghi di Londra, presso cui
quattr’anni me ne rimasi. Di tempo in tempo riceveva io da mio Padre
qualche danajo, che restava da me impiegato nel farmi rendere instruito
di quella parte delle Matematiche che ha rapporto colla Navigazione, e la
cui conoscenza è necessaria agl’intenzionati di viaggiare;
divisamento, onde l’esecuzione, in qualche modo, a me destinata mi
sembrava.

In lasciando il Padrone, fui di ritorno alla Casa di mio Padre; il quale
con l’ajuto di _Giovanni_ mio Zio, e di diversi altri parenti,
providemi di quaranta lire Sterline, con promissione di annualmente
somministrarmene trenta, per mantenermi a _Leide_; ove per due anni, e
lette mesi, mi appigliai allo studio della Medicina; essendo ne’Viaggj
di lunga tratta utilissima questa Scienza.

Poco dopo il mio ritorno di _Leide_, il mio buon Padrone Signor _Bates_
raccomandommi in Chirurgo della Nave nomata la _Rondine_, e governata da
_Abramo Panell_ suo Capitano. Due Viaggi pe _Levante_, e per altre parti
effettuai con essolui nel termine di due anni e mezzo; e dopo ciò,
determinai di stabilirmi a Londrai. Approvò il Signor _Bates_ il mio
disegno, e diverse pratiche mi piocurò. Presi un meschino allegio; e
saltatomi in capo di ammogliarmi, sposai la figliuola d’un buon
Borghese, che quattrocento lire Sterline mi portò in dote. Ma la morte
del mio Padrone accaduta due anni dopo, o circa; e la scarsezza degli
Amici miei, furono la cagione che ben presto io non avessi ad operare
gran cose. D’altra parte, non volea la mia coscienza che io imitassi
certuni de’miei Confratelli, i quali trattano in un modo i loro
pazienti, che poco temer non deggiono di restarsene inoffiziosi.
Consultati, per tanto, la moglie, ed alcuni amici, risolvetti di darmi di
nuovo al Mare. Successivamente fui Chirurgo di due Vascelli; e pel corso
d’anni sei, compiei diversi Viaggi all’Indie _Orientali_, e
dell’_Occidente_, che qualche cosa mi profittarono. Le mie ore di
ricreazione erano impiegate nella lettura degli antichi, e moderni
migliori Autori, standone io sempre ben provveduto; e quando io poneva
piede a terra, m’applicava ad istudiare il genio, e la maniera
de’Popoli, co’quali io conversava, ed altresì ad apprendere i lor
linguaggj, il che sempre mi fu agevolissimo, essendo assistito da una
memoria felice.

Poco ben riuscitomi l’ultimo Viaggio, m’infastidj del Mare, e formai
il disegno di restarmene colla Moglie, e co’miei figliuoli. Cambiai per
due volte d’abitazione, lusingandomi di cambiar fortuna, ma era sempre
a un di presso la stessa cosa, e vale a dire, nulla. Dopo tre anni
d’inutili tentativi, aderj ad un offerta assai vantaggiosa fattami dal
Capitano _Guglielmo Prichard_, comandante un Vascello nomato _la
Gazella_, e che disegnava di mettersi alla vela pe’Mari d’Ostro.
A’quattro di _Maggio_ 1699. levammo l’ancora da _Bristol_, e da
principio fu prosperissimo il nostro cammino.

Con qualche ragione io penso non essere necessario di stancare il
Leggitore con la recitazione delle Avventure che in que’Mari ci
accadettero: basterà l’avvertirlo, che scorrendo alla volta
dell’Indie Orientali, fummo assaliti da una violenta tempesta, che al
Ponente Maestro del Paese di _Diemen_ ci sospinse. Osservatasi la
meridionale latitudine, ci trovammo a trenta gradi, e due minuti. Gli
eccessivi patimenti, e la pessima nodritura ci avean fatti perdere dodici
Marinaj; e in assai cattivo stato trovavansi i rimanenti.

Nel giorno quinto di _Novembre_, tempo, in cui la State in que’Paesi
comincia, annebbiatasi straordinariamente l’aria, scoprirono i Marinaj
una Roccia in distanza dal Vascello di circa la metà d’una gomena; ma
era sì furioso il vento, che la Nave gettatavi a traverso, poco dopo
restovvi infranta. Cinque uomini ed io, procurammo di salvarci nello
Schifo, e di staccarci dalla Rupe, e dal Vascello. A forza di remi
ottennemmo l’intento; e, se non m’inganno, ci allontanammo per nove
miglia: ma allora sì che a mal partito ci ritrovammo; nercè che
intieramente fummo abbandonati dalle nostre forze, di già estenuate
dall’operar nella Nave. Lasciammo dunque alla discrezion de flutti il
nostro schifo, che mezz’ora dopo restò ingojato. Emmi ignoto il
destino de’cinque miei, compagni, e degli altri che io lasciati avea
sul Bastimento; ma è probabilissimo che sieno periti tutti. Quanto a me;
sospinto dal vento, e dalla marea, nuotai alla ventura; e più d’una
volta, comechè inutilmente, procurai di sentir fondo: alla fine, per
rara felicissima sorte, sul punto che io stava di già mancando, ne
sentj; e quasi nel tempo stesso la burrasca si mitigò. Pria di
guadagnare la terra asciuta, faticai per quasi un miglio; essendo poco
men impercettibile il pendio di quel lido; e non fu che alle ore otto
della sera che vi pervenni. Camminai presso poco un mezzo miglio senza
scuoprire nè Case, nè Abitatori: gli estremi sofferti stenti, il caldo
che regnava; oltraccio, una mezza boccia d’acquavite che io aveva
tracannata innanzi di lasciar il Vascello, m’oppressero di sonno. Era
morbida l’erba; mi vi corcai, e dormj più di nove ore così profondo,
che nol feci mai per tutta la mia vita; poichè sullo spuntar dell’alba
solamente mi risvegliai. Volli levarmi; ma mi riuscì impossibile, per
aver da due lati le mie braccia, e le mie gambe strettamente attaccate al
terreno: e gli stessi miei capelli, ch’erano lungi, e folti, talmente
annessi vi si rinvennero, che alzar il capo non potei; e pure avrei
sommamente desiderato di farlo, giacchè cominciava ad incomodarvi il
calore del Sole. Sentiva io qualche confuso strepito d’intorno a me; ma
null’altro che il Cielo scorgere io poteva, a cagion dell’attitudine
nella quale me ne stava. Poco tempo dopo, qualche cosa sentj che
muovevasi sopra la mia manca gamba, e che piano piano avanzandosi sopra
il mio petto, arrivò sino al mento. Procurando, per quanto potea
permettermi la situazione onde mi trovava, di saper ciò che fosse,
ravvisai una creatura umana, di altezza non più che di sei grosse dita,
con in mano un arco, e una freccia, e in sulle spalle un carcasso, di
saette ripieno. M’accorsi nell’instante stesso, per via di
conghietture, d’una quarantina di piccoli’uomini del medesimo taglio,
che seguivano il primo. Nell’enorme stordimento in cui men giaceva,
gettai un sì forte grido, che tutti spaventati si diedero alla fuga; e
per quanto seppi da poi, alcuni d’essi saltando dalle mie coste a
terra, non si fecero poco male. Con tutto questo, poco tardarono a
ritornarsene; ed uno di loro che tanto si avanzò per potere guatarmi in
faccia, levando tutto maraviglia le mani, e gli occhj al Cielo, esclamò
con piccola, ma distinta voce: _Hekinach Degul_: per più volte
ripeterono gli altri le parole medesime, ma per allora ciò che
spiegassero io non sapeva. Malagevolmente non concepisce il Leggitore,
che in tutto quel frattempo me la dovessi passar poco bene. Finalmente,
tentati tutti i possibili sforzi per istaccarmi dal terreno, ebbi la
buona sorte di spezzare i legaccioli del sinistro braccio, e in
levandolo, mi avvidi della maniera da coloro tenuta per imprigionarmi,
che fu con piccole caviglie confitte in terra, a cui i legacioli stessi
stavano raccomandati. Tanto nel tempo medesimo mi dimenai; benchè non
senza un tal qual dolore, che i legami, che a sinistra attaccavano i miei
capelli, avendo ceduto di due dita, mi permisero di girare, ma molto
poco, la testa fuggirono allora per una seconda volta quelle piccole
creature, senza che io potessi afferarne veruna, e saltando a terra,
gettarono un orribile grido, (già intendesi a proporzione del loro
taglio) che fu seguito da queste due parole _Tolgo phonac_, che uno
d’essi con alto suono pronunziò. Già detto appena; sentj cento, e
più frecce scoccate contrala mia sinistra mano, che mi ferirono dal pià
a meno come tante aguglie; e oltracciò, lanciarono nell’aria
un’altra sorta di saette a somiglianza delle nostre bombe; molte di cui
(comecchè sentite io non l’abbia) certamente sul corpo mi son cadute,
ed alcune altre sulla faccia, che io stava con la mano mia mancina
cuoprendo. Cessato che fu cotale tempestoso saettame, con gran crepacuore
mi misi a gemere; e tentando di bel nuovo di disbrigarmi, asciugar
dovetti un’altra scarica, maggiore della prima. Alcuni di loro, tutto
fecero per traforarmi colle loro picche; ma per buona mia ventura non vi
riuscirono, stando io guarnito d’una camiciuola di bufalo. Credetti
miglior partito il restarmene cheto cheto per fin alla notte nella
positura medesima; assicurato, che potendo prevalermi della mano manca
interamente allora mi sarei sciolto: essendo che io pensava con molta
ragione, che a riguardo di quegli Abitanti, anche che un compiuto
esercito se ne assembiasse contra di me, potessi tenere lor fronte,
quando tutti della statura di que’che io vedeva esser dovessero. Ma
svanirono tutti i miei progetti. Scortasi da’Paesani la mia
tranquilità, cessaron eglino dal tirare, ma dallo strepito che io
sentiva, conobbi che aumentava il lor numero; e in distanza di circa
quattro verghe (misura del braccio d’Inghilterra,) rimpetto alla mia
destra orecchia, intesi, per più d’un’ora, una sorta di sussurro,
somigliante a quello che si fa quando si fabbrica. Al meglio che potei,
girai la testa a quella parte, e vidi una spezie di Teatro, elevato da
terra d’un piede e mezzo; e due, o tre scale per salirvi. Potea il
Teatro esser capevole di quattro Abitatori. Un di coloro che vi erano, e
che mi sembrava un uomo di distinzione, m’indirizzo un lungo discorso,
onde una sola parola neppur capj. Non mi sovveniva di dire, che prima di
dar principio alla sua aringa, gridato egli avea per tre volte _Langro
Dehulsan_: (cotali termini e gli altri di cui parlai, mi furono poscia
spiegati:) e appena pronunziati gli ebbe, che cinquanta Paesani, e più,
si accostarono, e recisero i legaccioli, a’quali stava attaccata la
sinistra parte della mia testa; cosicchè rivolgerla potei alla destra, e
considerare attentamente colui che mi perorava. Ei mi pareva di mezza na
eta, e di maggiore statura che veruno degli altri tre che tenevanlo
accompagnato; uno de’quali era un Paggio che gli sosteneva la coda, e
che a’miei occhj non più grande comparve del mio dito medio; e gli
altri due stavano a’suoi lati per fiancheggiarlo.

Bastevolmente son persuaso ch’egli fosse molto eloquente; mercè che,
non ostante il non intendersi da me la sua favella, m’accorsi della
somma di lui pratica ne’patetici muovimenti, e che a vicenda metteva
egli in uso le promesse, e le minacce, per persuadermi. Risposigli con la
più sommessa rassegnazione, alzando la mano manca, e gli occhj verso del
Sole, come chiamandolo in testimonio. Mi suggerì la fame una parte della
mia risposta, non avendo mangiata la menoma cosa da venti quattr’ore
addietro, cosicchè non potei di meno di far conoscere che io avea
bisogno di nodrimento, sovente mettendo un dito nella ma bocca: cosa che,
per dir vero, non suonava di buona creanza. Mi comprese molto bene
l’_Hurgo_; (questi si è il nome con cui essi onorano un gran Signore,
come susseguentemente ne fui informato,) calò dal suo Teatro, e comandò
che a’miei fianchi si applicassero molte scale furono montate da più
di cento Abitatori, recando perfino al margine della mia bocca
de’cofanetti ripieni d’alimenti, che il Re, immediate che intese il
mio arrivo nel suo Paese, diede ordine mi si spedissero. Osservai fra le
altre cose che mi si offerivano, la carne di animali diversi, ma mi
riusciva impossibile di distinguere le parti col solo tatto. Aveavi
spalletti, lacchette, ed altre membra, formate come quelle d’un
Castrato, e a perfezione imbandite, ma più picciole che l’ale
d’un’Allodola. Due o tre d’esse non mi valevano che una boccata;
giuntandovi altrettanti pani grossi, ciascuno, come una palla da
moschetto.

Non può esprimersi lo stordimento che la mia voracità in coloro
produsse. Satollo che quasi fui, feci un altro segno per dimandar a bere,
e sembrò loro che se la sete fosse proporzionata al mio appetito, poca
bevanda non mi basterebbe; e perciò quegl’ingegnognissimi Popoli
rotolarono sopra la mia mano un de’loro più gran barili, che
sfondarono un momento dopo, e che in un sol tratto io rendei voto, cosa
che non fummi disagevole, non contenendo neppure una mezza boccia, ed
avendo il sapore del vinetto di Borgogna, ma delizioso assai più. Mi
recarono un secondo barile, che votai nella guisa stessa, facendo segni
che di più ne desiderava; ma in tal genere mancò loro la provvisione.
Compiute ch’ebbi tali maraviglie, lanciaron eglino mille giocondi
gridi, e danzarono sopra il mio stomaco, ripetendo, come prima,
frequentemente questi termini: _HtKinach Degul_. Mi accennarono di gettar
a terra i due barili, con l’antivedimento tuttavia di rendere avvertiti
que’che stavan di sotto, di levarsi dal mezzo, cautela ch’essi
espressero con queste due parole: _Borach Mivola_. L’eseguj; e scortisi
da loro capienti sì prodigiosi nell’aria, rinnovarono gli schiamazzi
di allegrezza, e di stupore. Confessar deggio, che più d’una volta
patj la tentazione, in tempo che stavano passeggiando d’ogni parte sul
mio corpo, di prenderne una quarantina oppur cinquanta de’più portati
alla mia mano, e di schiacciarli a terra: ma non dimentico di quanto
intesi a dire, che secondo tutte le apparenze non era il peggio che far
potessero; e d’altra parte, la parola d’onore che io impegnata loro
avea di non far loro male di sorta, (che in questo senso intesi di
prendere l’aria di sommessione allor quando addrizzai loro la mia
aringa,) tolsemi ben presto qualunque vaghezza di simil fatta.
Aggiugnete, se vi piace, che sarebbe ciò stato un violare le Leggi sacre
dell’ospitalità, verso un Popolo che testè sì prodigamente, e con
tanta magnificenza regalato mi avea.

Con tutto questo, io non poteva a sufficienza ammirare l’intrepidezza
di cotali diminutivi d’uomini; che in tempo che se ne stava libera una
delle mie mani, ardissero di rampicarsi, e di trastullarsi, senza timore,
sul ventre d’una creatura sì portentosa, che io doveva loro parere.
Qualche tempo dopo, quando videro che io a mangiare più non chiedeva, un
Inviato di sua Imperial Maestà, montato al fondo della diritta mia
gamba, avanzossi con una dozzina di persone di suo seguito perfino sulla
mia faccia. Mostrommi le sue credenziali improntate coll’Imperiale
suggello, le accostò ben vicino a’miei occhj, e tenne un discorso di
circa dieci minuti senza colleroso verun contrassegno; bensì con un
tuono di risoluzione, ed intrepido, rivolgendo ben sovente i suoi
atteggiamenti verso un certo luogo, che di poi compresi essere la
Capitale, lontana un mezzo miglio; ove l’Imperadore, dopo di aver
esatti i pareri del suo Consiglio, comandato aveva il mio trasporto. Fu
brieve, ma inutile, la mia risposta. Feci cenno con la mano mia libera,
che io desiderava sciormi da’legami, procurando di ciò esprimere col
riporla sull’altra mano, sopra il mio capo, e sopra il mio corpo. Parve
per altro ch’egli mi capisse; perchè crollò in un certo modo la sua
testa, che bastevolmente diede a conoscere la disapprovazione della mia
supplica; e con certe gesta saper mi fece, che io doveva essere condotto
come prigione: aggiugnendo, non ostante, non sò quali altri
contrassegni, per rendermi accertato che non sarebbe per mancarmi un
alimento sufficiente, e che non mi verrebbe praticato il menomo
maltrattamento. L’idea d’essere trasportato alla Dominante in figura
di schiavo, m’instigò a tentare nuovi sforzi per ispezzare le mie
legature; ma per disgrazia non valsero tali sforzi che per tirarmi
addosso una nuova grandine di saette, che alle mani, e a la faccia, un
sensibile dolore mi cagionarono. Vedendo per tanto impossibile
l’eseguimento del mio disegno, e che altronde ad ogni instante
aumentava il numero de’miei nemici, diedi segno ch’essi potean
trattarmi a loro voglia. _L’Hurgo_ allora, ed il suo seguito,
licenziaronsi da me in un modo il più civile del mondo. Pochi momenti
dopo intesi gridar più fiate. _Peplom Selam_, e senti un gran numero
d’Abitatori, che talmente allentarono le funi che mi tenevano attaccato
a sinistra, che mi era agevole il rivolgermi a dritta, e nel tempo stesso
l’ajutarmi a far una pisciata da per me solo, il che in gran copia
effettuai, ma con orrido stupore del Popolo; il quale conghietturando
da’miei movimenti ciò che far io voleva, si allargò al più presto
dal torrente che il minacciava. Prima però di questo, mi avevan eglino
strofinato il volto e le mani con una sorta d’unguento, la cui
fragranza era gratissima, e che in pochi minuti mi tolse il sentimento di
dolore, che le frecce loro mi avean prodotto. Un tal rimedio, e la
lautezza del banchetto, mi conciliarono il sonno, che, come seppi nel
progresso, ott’ore in circa durò; cosa, che recar non dee stupore
veruno, se riflettasi, che per ordine dell’Imperadore, i Medici riposte
aveano nel barile di vino alcuno droghe sonnifere.

E’probabile, che immediate che fui scoperto dormiente sull’erba, ne
fosse stato informato l’Imperadore; il quale, avutone il raguaglio,
dopo di aver presi i pareri del suo Consiglio, ordinato avesse che io
fossi legato nel modo che ho sopra espresso; (il che praticossi in tempo
del mio dormire,) che mi fosse somministrato il mangiare, ed il bere; e
che una macchina per trasferirmi alla sua Capitale, si construisse.

Parerà forse ardita, ed arrischiata, una somigliante risoluzione; e ben
persuadomi che in tal congiuntura verun Principe dell’Europa non
prenderebbe ad imitarla; comechè, secondo il mio credere, non siavi cosa
nè più prudente, nè più generosa. Mercechè, supposto che in tempo
del mio sonno, procurato avessero i Paesani d’uccidermi colle loro
picche, e colle loro frecce; certamente immediate mi sarei svegliato, e
forse il dolore che risentito avessi, mi avrebbe impartita la forza di
rompere i miei legami; dopo di che, incapaci eglino di risistermi, non
avrebbono potuto sperare grazia veruna. Gli Abitanti di quel Paese sono
valorosi Matematici, e soprattutto eccellentissimi nelle Meccaniche,
incoraggiti a cotali studj dal loro Imperadore, il qual è un gran
Patrocinante delle Scienze. Possiede questo Principe diverse macchine
movibili sopra ruote, e che vagliono al trasporto degli Alberi, e
d’altre some. Presiede egli medesimo alla struttura de’maggiori suoi
Vascelli di guerra; alcuni de’quali, nove piedi son lunghi, e
dall’Arsenale per fino al mare, che tal volta n’è discosto tre, o
quattrocento verghe, trasportar gli fa sopra queste macchine. Cinquecento
Falegnami, ed altri Operaj ricevettero l’ordine d’allestire sul punto
stesso la massima delle loro vetture. Quest’era un ordigno di legno,
sette piedi lungo, e largo quattro, che sopra venti e due ruote aveva il
suo movimento. Al gettarsi l’occhio sopra una macchina così enorme,
scoppiarono que’gridi che io aveva intesi. Fu ella adattata in linea
paralella col mio corpo: ma la maggiore difficoltà cadeva sul modo di
ripormivi. Ottanta pertiche, cadauna d’un piede d’altezza, furono
inalberate a quest’effetto; e fortissime funi, della grossezza d’uno
spaghetto, attaccate furono a delle legature, onde il mio collo, le mie
braccia, e tutte le restanti mie membra stavano inviluppate. Novecento
de’più vigorosi di loro furono impiegati a levarmi di terra; e in
minore spazio di tre ore, coll’ajuto di molte girelle, riuscì loro il
caricarmi sulla vettura, ed ebbero l’attenzione di ben legarmivi. Tutto
ciò mi venne riferitto dopo il fatto; conciossiacosachè io nulla vidi,
nè sentj, standomi profondamente assonnato pel soporifero che io
traccannato avea. Mille e cinquecento de’più forzuti Imperiali
cavalli, alto ognuno a un di presso di quattro grosse dita e mezzo,
servirono per istrascinarmi alla Dominante, che, come penso di averlo
detto, era discosta d’un mezzo miglio. Avevamo già camminato per tre,
o quattr’ore; allor quando per un assai ridicolo avvenimento mi
risvegliai. Arrestatasi la carriuola pel bisogno ch’essa aveva di
qualche cosa, due o tre giovinastri degli Abitanti, ebbero la curiosità
di vedere con qual aria me ne stessi dormendo; e perciò salirono sulla
macchina, avanzandosi cheto cheto perfino alla mia faccia. Uno d’essi,
ch’era Uffiziale di Guardie, cacciommi nella sinistra delle nari una
gran parte della sua mezza-picca, la quale dileticò il mio naso, presso
poco come avrebbe potuto farlo una pagliuzza; cosicchè mi promosse un
violentissimo starnuto. Senza avvedermene batterono que’Signori la
ritirata; e solamente tre settimane dopo restai instruito della cagione
d’un sì improvviso risvegliamento. Praticammo una lunga marcia nel
rimanente del giorno, e passai la notte fra cinquecento guardie; la cui
metà teneva alla mano accese torcie; e l’altra, degli archi, e delle
saette per iscoccarle contra di me, per poco che io dessi indizj di voler
distaccarmi. Il giorno dietro, al levar del Sole, continuammo il nostro
cammino; e sul mezzo dì arrivammo a un certo luogo, lontano dalla Città
dugento verghe, o circa. Scortato da tutta la sua Corte venne a
rincontrarci l’Imperadore: ma i primarj Ufficiali di lui, non vollero
mai permettere che egli, montando sul mio corpo, la sagrata sua persona
mettesse a risico.

Nel sito, ove la macchina si arrestò, aveavi un antico Tempio, riputato
pel maggiore del Regno; che essendo stato da alcuni anni addietro
profanato da un omicidio che fa orrore alla Natura, se gli erano tolti
tutti i suoi ornamenti, e più non serviva ad usi sacri. Si trattò che
quegli fosse l’alloggio mio. La porta maggiore che riguardava a
Tramontana, era alta da quattro piedi, e al più de’più, due ne aveva
di larghezza; di modo che agiatamente io poteva introdurmivi. Da cadaun
lato della porta era costrutta una piccola finestra alta da terra sei
grosse dita; e a quella del lato sinistro vi erano novanta ed una catena,
somiglianti a quelle che pendono dagli oriuoli delle Dame in _Europa_, e
quasi così larghe, che furono attaccate alla sinistra mia gamba con
trenta e sei catenacci. Rimpetto di questo Tempio, e in distanza di venti
piedi, aveavi una Torre, alta di cinque piedi per lo meno; ove
l’Imperadore erasi trasferito con un gran numero de’principali
Signori di sua Corte, per contemplarmi a suo bell’agio. Secondo il
calcolo che ne fu fatto, più di cento mila abitatori, pel suggetto
medesimo uscirono della Capitale; ed io scommetterei, che al dispetto
de’miei custodi, col benefizio di molte scale, più di dieci mila
successivamente me ne son montati sul corpo. Ma una tale sfrontatezza ben
presto restò repressa da un Editto, che sotto pena di morte la proibiva.
Vistasi dagli Operaj l’impossibilità del mio scampo, recisero essi
tutti i leggacciuoli che servivano ad attaccarmi. Mi levai con un’aria
la più svogliata, e la più malinconica, che in mia vita non ebbi mai.
Non può esaggerarsi abbastanza lo stordimento del Popolo nel vedermi in
piedi, e che un momento dopo me ne stessi spasseggiando. Le catene onde
era la mia gamba avvinta, aveano due verghe, o circa di lunghezza, e mi
lasciavano, non solo la libertà di muovermi avanti, e indietro in
semicircolo, ma raccomandate in distanza di quattro grosse dita dalla
porta, permettevano eziandio che tutto disteso nel Tempio mi coricassi.



CAPITOLO II.

L’Imperadore di Lilliput, scortato da molte persone ragguardevoli, va a
vedere l’Autore. Descrizione della persona, e delle vestimenta
dell’Imperadore. Alcuni Letterati del primo ordine sono incaricati
d’instruire l’Autore dei linguaggio del Paese. Ei si fa amare per la
sua affabilita. Formasi l’inventario di quanto si rinviene nelle tasche
di lui, e se gli tolgono le pistole, e la spada.


RIto in piedi che fui, risguardai d’intorno a me, e negar non posso che
in verun tempo non mi si affacciò prospettiva più vaga. Mi sembrava
tutto il Distretto un sol giardino; ed ogni campo, d’un fiorito letto
portava l’aria. Eran que’campi, il cui maggior numero stendevasi a
quaranta piedi in quadrato, framescolati di boschi; e gli alberi più
minuti, per quanto io poteva giudicarne, erano dell’altezza di sette
piedi. Vidi alla mia sinistra la Città Capitale, la quale, da quel lato
ond’io la ravvisava, non malamente appariva che una di quelle Città,
che si ambiranno delle Teatrali rappresentazioni. Erano già molte ore
che estremamente mi trovava incomodato da non so quali necessità; il che
poi non è gran maraviglia; essendo che per quasi due interi giorni non
vi aveva io soddisfatto. Fieramente dunque contrastavano insieme la
necessità, ed il rossori. Miglior espediente non potei immaginarmi,
quanto ritirarmi carpone nella mia Casuccia; e di fatto l’eseguj.
Chiusi la porta dietro di me; e allontanandomi per quanto potea
accordarmelo la mia catena, mi scaricai d’un peso molto importuno. Ma
l’unica volta questa si è, che per tutta la mia vita rimprocciar mi
deggio una somigliante impulitezza; di cui tuttavia ne spero il perdono
da chiunque ragionevole Leggitore, che senza parzialità di sorta
bilancerà le circostanze che mi strignevano. Da quel tempo in poi,
immediate che mi era levato, fu mio costume di fare la cosa medesima a
Cielo scoperto, il più lungi dal mio domicilio che m’era possibile; e
ogni mattina, pria che sopravvenisse compagnia, due servidori, di cui una
tal incombenza era peculiare, non mancavano mai di togliere tutto ciò
che offendere poteva l’odorato di chi mi onorava delle sue visite. Si a
lungo non averei insistito sopra un particolare, che forse a primo
aspetto non sembrerà di molta conseguenza, se creduta non avessi cosa
indispensabile di formar l’apologia della mia pulitezza, che alcuni
de’miei invidiosi, cogliendo l’opportunità dell’accidente or or
narrato, ebbero l’audacia di rivocare in dubbio.

Sbrigatomi da una tal avventura, uscj della mia casa per prender
l’aria. Era già calata dalla torre Sua Imperial Maestà, e a Cavallo
portavasi alla mia volta; cosa che stette per costarle caro; atteso che
l’animale montato da lei, ancorchè, per altro, ben disciplinato, non
avvezzo a vedere una creatura di mia fatta, che parer gli doveva un
mobile monte, s’inalberò. Ma il Principe, perfettissimo Cavaliere, non
perdè staffa, e vi si mantenne finchè il suo seguito mettesse mano
sulla briglia della bestia, e ch’ei poscia ne discendesse. Posto piede
a terra, mi contemplò da tutti i lati; sempre però fuori di mia
portata. Comandò a’Cucinieri, e a’Bottiglieri, ivi già lesti, di
recarmi a mangiare, e a bere; il che essi effettuarono, col ripporre
l’imbandigione, ed i liquori, sopra una spezie di macchine a ruote,
ch’eglino spignevano fin al segno che vi giugnessero le mie mani. Diedi
l’assalto a queste macchine, e in un batter d’occhio le lasciai
nette. Venti n’erano riempiute di vivande, e dieci di pozioni: cadauna
delle prime mi valeva due o tre boccate; e riguardo alla bevanda, n’era
molto ben osservata la proporzione. Sopra seggj d’appoggio, e in certa
distanza, stavano assisi l’Imperadrice, i Principi, e le Principesse
del sangue: ma veduto l’accidente che minacciò l’Imperadore a
cagione del Cavallo di lui, levaronsi, e se gli accostarono. Ecco
com’è fatto questo Monarca. Egli supera in Matura chiunque della sua
Corte, una buona grossezza d’una delle mie unghie; il che solo, è
sufficiente per inspirar rispetto in chi lo risguarda. Sono maschili i
suoi delineamenti; le labbra grosse, ed olivastra la sua carnagione; si
tiene molto diritto, ha le sue membra assai ben proporzionate, abbonda di
graziosità, ed è maestisissimo in tutte le sue azioni. Lasciavasi egli
allora addietro la primavera della sua età, avendo ventott’anni, e
alcuni mesi, onde sette ne avea regnato compiutamente felice. Affin di
ravvisarlo a mio piacere, mi corcai sull’uno de’miei fianchi, lungi
da lui lo spazio di tre Verghe; attitudine tale, che precisamente
costituì il mio capo, paralello a tutto il di lui corpo. Non può darsi,
per altro, che non sia esatta la descrixion che quì faccio: giacchè da
quel tempo avanti, più d’una fiata l’ebbi nelle mie mani. Èra
positiva la sua vestitura; e per quanto può spettare alla moda, ei
ritenea una spezie di mezzanità fra gli _Asiatici_, e gli _Europei_
Abitatori; in sulla testa pero portava egli una celata d’oro
leggerissimo, ornata di giojelli, e guarnita d’una piuma. Teneva in
mano una sorta di spada nuda, che dovea servirgli di difesa in caso che
da’legami mi fossi sciolto: ella era lunga tre pollici al più, e
l’impugnatura, e la guaina n’erano d’oro, arricchito di diamanti.
Era sottile, ma molto chiara la sua voce; cosicché distintamente poteva
io intenderla tutto che me ne stessi in piedi. Con tanta magnificenza
comparivano abbigliate le Dame, ed i Cortigiani, che il luogo da essi
occupato avea la mina d’una sottana distesa a terra, e di diverse
figure d’argento e di oro ricamata. Sua Maestà Imperiale non di rado
m’impartì l’onore di parlar meco; e dal mio canto non si mancò di
renderla appuntino soddisfatta con le risposte; ma ella nè pur parola
potè capire di quanto io le diceva; come altresì, per parte mia,
potestar posso, che del discorso di lei non ho compresa silliba. Stavan
presenti (per quanto fummi lecito di conghietturare dalle vestimenta)
alcuni Sacerdoti, ed uomini di Legge, cui fu ingiunto di attaccar meco
conversazione. Parlai loro tutti i linguaggj che mi erano noti; ed
eziandio quegli, ond’io ne aveva una tintura men che superficiale;
voglio dire il _Tedesco_, il _Fiamengo_, il _Latino_, il _Franzese_, lo
_Spagnolo_, e l’_Italiano_: Tutto vi rimescolai, perfino alla lingua
Franca, ma senza riuscimento. Due ore dopo, la Corte si ritiro, e mi
lasciò sotto una huona guardia, con l’oggetto di prevenire
l’impertinenza, e verisimilmente la malizia della canaglia, che moriva
di voglia d’avvicinarmisi; avendo alcuni, in tempo che me ne stava
sedendo sull’uscio della mia casa, avuta l’insolenza di lanciarmi
molte saette, una delle quali poco vi volle che non mi cavasse un occhio.
Ma il Colonello comandò che si arrestassero sei de’principali complici
dell’attentato, e che in pena del loro delitto fossero rimessi in mio
potere; il che fu eseguito dalla milizia, che gl’incalzò colle sue
picche, finchè fossero alla mia portata. Tutti gli presi colla destra
mano; e cinque d’essi ne riposi nella tasca del mio giubbone, facendo
sembiante per lo stesso, di volermelo assorbere vivo vivo. Il meschino
misesi a gridare orribilmente; e del pari al Colonnello, da terribili
dolori di ventre furono sopraffatti gli altri Ufficiali, spezialmente
quando mi videro a dar di mano al mio temperino. Poco tuttavia tardai a
togliere lor l’affanno, conciosiachè prendendo io un’aria di
piacevolezza, e tagliando di là a un instante le funi che il teneva no
legato, il rimisi pianamente a terra, ed egli in un subito si dileguò.
Dopo di aver tratti ad uno ad uno dalla tasca gli altri miei prigionieri,
mi contenni con esso loro nella guisa medesima: ed osservai che i
Soldati, ed il popolo, furono incantati da un sì clemente procedimento,
che in un modo, al segno maggiore vantaggioso per me, fu riferito alla
Corte.

Sull’imbrunir del giorno m’introdussi, strisciando, nella mia
abitazione, ed a terra mi vi corricai: altro letto non ebbi pel corso di
quindici giorni; ma dopo questo tempo, uno ne ottenni per ordine
dell’Imperadore. Secento materasse d’una misura comune, furono
trasferite, ed adagiate nel mio Palazzo. La lunghezza, e la larghezza del
mio letto eran composte di cinquanta de’loro ricuciti insieme, e
l’altezza di quattro; e pure ciò non impediva che io male non me ne
trovassi, perchè il pavimento era di pietra. Lo stesso calcolo si
osservò riguardò alle lenzuola, e alle coperte. Per dir vero, non
n’era io per niente pago; ma accostumato di lunga mano a’patimenti,
dovetti mettermi in pace. Sparsa che fu pel Regno la nuova del mio
arrivo; affin di vedermi, portossi alla Capitale un infinito numero di
scimuniti; e sì prodigiosa funne la quantità, che i più de’villaggj
rimasero senza campajuoli, non ostante il sommo pregiudizio
de’domestici loro affari, e altresì dell’agricoltura. Ma diversi
editti di Sua Imperial Maestà provvidero a un tal disordine; comandato
avendo, che quei, che mi avessero di gia veduto, tornassero alle loro
case, e non si accostassero per cinquanta verghe alla mia, senza una
permissione della Corte: ristrignimento, che a Segretarj di Stato
profittò riguardevoli somme.

Furono frequenti le Consulte tenutesi dall’Imperadore per deliberare
della mia persona: e seppi da poi da uno de’migliori amici che io abbia
avuto in quel paese, uomo di primaria qualità, e che senz’altro potea
aver mano negli affari: seppi, dico, che la Corte stavasene enormemente
imbarazzata a mio riguardo. Vi si temeva che mi riuscisse spezzare una
volta le mie catene; o che la mia voracità cagionasse una orribile
carestia. Tal fiata vi si risolveva di lasciarmi morire di fame; ed
altre, di ferirmi le mani, e la faccia con frecce vennate; il che, ben
presto, tratto mi avrebbe di briga. Nessuno pero di tali divisamenti fu
postò in esecuzione: riflettutosi che il puzzo d’un cadavero sì
smisurato come il mio, avrebbe, senza alcun dubbio, infettata l’aria, e
prodotta nella Dominante qualche contagiosa malattia che seguitamente si
sarebbe dilatata per tutto il Regno. Nel forte di queste deliberazioni,
furono alla porta della Sala del Consiglio molti Uffiziali delle
Soldatesche, ed ottenutone l’ingresso due di loro, fecero il riferto
del modo che io avea tenuto in proposito a’sei criminosi, di cui, non e
guari che si è parlato. Non solo nell’animo del Monarca, ma eziandio
di tutto il suo Senato produsse sì fatte impressioni il rapporto degli
Uffiziali, che tutti i Villaggi fin alla distanza di novecento Verghe
dalla Città, ebber ordine di somministrare cadaun giorno, sei buoi,
quaranta castrati, ed alcune altre vittuaglie pel mio nutrimento; con
pane, vino, ed altri liquori a proporzione. Il pagamento di tutto questo,
era loro assegnato sull’Erario di Sua Maestà; essendo che questo
Principe sussiste colle rendite de’suoi Dominj, non esigendo che molto
di rado, e in congiunture eccessivamente strignenti, sussidj da’suoi
Suggetti, quali, dal canto loro, sono obbligati a servire nelle guerre di
lui, a proprie loro spese. Cogli stipendi Imperiali eran pagate secento
persone scelte in miei domestici, e furon loro piantate delle tende a
cadaun lato della mia porta. Comandossi pure che trecento Sarti
travagliassero per mio servigio un compiuto assortimento di vestimenta
alla foggia del Paese: Che sei de’primarj Letterati del Imperio
avessero la cura d’ammaestrarmi nel loro idioma: e finalmente, che le
Guardie dell’Imperadore; e stessamente i suoi Cavalli, e que’della
Nobiltà, frequentemente mi passassero d’avanti, perchè si
avvezzassero della mia vista. Furono eseguiti tutti questi ordini con la
più esatta precisione; e nello spazio di tre settimane feci gran
progressi nella lingua del Paese. Nel frattempo, parecchie volte mi
onorò il Monarca di sue visite; e insino mi giuntò la grazia di
mescolar sovente le sue instruzioni con quelle de miei Precettori.
Cominciavamo già a strignere insieme una spezie di conversazione; e
co’primi termini da me appresi, mi sforzai d’esprimere la brama che
m’incalzava di conseguire la libertà, e ginocchione gliene ripeteva
ogni giorno la supplica. Per quanto pote comprendere, ei rispondeva: che
la mia dimanda esigeva tempo; e che senza il parere del suo Consiglio non
era cosa neppur da badarvi: che prima di tutto, io doveva, _Lumos Kelmin
pesso desmar lon Emposo_; cioè a dire, giurarli, che io vivrei in pace
con esso lui, e con tutti i suoi sudditi: che frattanto, ben trattato io
sarei. Consigliommi, per altro, a procurar di guadagnarmi la sua
benevolenza, e quella de’suoi Suggetti, col mio sofferimento, e con la
mia discretezza. Mi pregò non perdere in mala parte, se egli ingiugnesse
ad alcuni de’suoi Uffiziali di far revisione alle mie tasche; poichè
era verisile che io avessi sopra di me qualche arme, che al certo dovea
straordinariamente pericolosa, se ella corrispondeva all’immensità
della mia corporatura. Io replicai che Sua Maestà sarebbe ubbidita, e
che io stava pronto ad ispogliarmi, e a rovesciare le mie saccocce; il
che espressi a forza di contrassegni, mancandomi per allora i termini.
Soggiunse l’Imperadore: che per le leggi del Regno, due Uffiziali
dovevano visitarmi: che egli non ignorava che era impossibile il potersi
ciò effettuare senza la mia cooperazione: che vantaggiosamente egli era
prevenuto della mia generosità, e della mia giustizia, perchè affidar
potesse nelle mie mani le persone loro: che tutto mi fosse stato tolto,
mi sarebbe renduto al mio staccarmi dal Paese, oppur pagato secondo il
prezzo che io medesimo tassato avessi. Presi dunque i due Ufficiali nelle
mie mani, e a prima giunta gli messi nelle tasche del mio giubbone, e
poscia in tutte l’altre; eccettuatine i due borsellini, e un’altra
tasca ancora contenente alcune bagattelluzze, che solo valevano per lo
speziale mio uso. In uno de’miei taschetti aveavi un oriuolo
d’argento; e nell’altro alcune monete d’oro in una borsa.
Que’Signorini che tenevano con esso loro carta, penna, ed inchiostro,
formarono, di tutto ciò che vi rinvennero, un’inventario esattissimo;
e compiuto il fatto loro mi pregarono di mettergli a terra, perchè
all’Imperadore farne potessero il riferto. Tempo dopo trasportai in
Inglese quest’Inventario; ed eccone parola per parola la traduzione.
Primieramente; nella saccoccia a parte dritta del Giubbone del
_grand’Uomo-Montagna_, (che così sembrami si abbiano a tradurre i
vocaboli _Quibus Flestrim_,) dopo la più diligente visitazione, vi
trovammo solamente un drappo di estensione sì enorme, che servir
potrebbe di tappeto per la maggior Sala del Palazzo di Vostra Maestà.
Nella tasca sinistra vi abbiani veduto un esorbitante forziere, tutto
d’argento. Avendo chiesto fosse aperto, uno di noi vi entro, e
sprofondovvisi per fino a mezza gamba in una sorta di polvere; parte di
cui sparsasi nell’aria, molte volte ci fece stranutire. Nella saccoccia
dritta della vesta di lui, visitammo un prodigioso volume, composto di
molte bianchicce sostanze piegate l’une in sull’altre, della
lunghezza all’incirca di tre uomini, strettamente serrate fra d’esse,
e contrassegnate di figure nere: ci ha egli detto che son elleno
scritture, onde cadauna lettera è tanto larga, quanto la metà della
palma delle nostre mani. Nell’altra saccoccia a mano manca, aveavi una
sorta di macchina composta di venti lunghe pertiche, che mai non
assomigliavano al palizzato che regna dinanzi alla Corte di Vostra
Maestà. Conghietturiamo che con cotale strumento _Uomo-Montagna_ si
pettini la testa, mercechè non tutte le volte il tormentiamo con le
nostre quistioni, durando noi un sommo stento per farci intendere. Nella
dritta gran tasca del suo invoglio di mezzo, (che in questi termini io
rendo i vocaboli _Ranfu Lo_, ond’essi disegnavano i miei Calzoni,)
scorgemmo una colonna di ferro scavata, della lunghezza d’un uomo, e
strettissimamente annessa a un pezzo di legno, ancor più grande della
colonna. Sopra uno de’lati di questa macchina vi erano smisurati pezzi
di ferro, per la cui bizzara figura noi non sappiamo che crederne. Uno
strumento del tutto somigliante trovammo nella tasca manca. In un altra
più piccola a parte destra, stavano molti pezzi d’un bianchiccio, e
rossigno metallo, di differenti grandezze; ed alcuni de’pezzi bianchi,
che ci parevano d’argento, erano sì larghi, e sì pesanti, che il mio
camerata ed io, levargli appena potevamo. Due nere colonne,
d’irregolare figura, ritrovammo nella saccoccia sinistra; e una
d’esse stava coperta, e sembrava d’un solo pezze: ma nella parte
superiore dell’altra, aveavi una spezie di rotonda, e bianchiccia
sostanza: al doppio più grossa che le nostre teste: ognuna di queste
macchine conteneva una prodigiosa lamina d’acciajo. A mostrarcele
l’obbligammo; temendo noi che non fossero strumenti perniziosi. Ei
levolle dalle loro nicchie; e ci fece avvertiti, che nel Paese di lui
egli avea il costume di servirsi dell’una per radersi la barba; e per
trinciare non so quali cibi, dell’altra. Egli ha due borse, in cui
introdurci non potremmo, e le chiamava i suoi borsellini. Eran questi,
due larghe fessure, tagliate nella parte superiore del suo invoglio di
mezzo, ma rendute molto anguste per la pressione del ventre di lui. Al di
fuori del dritto borsellino, pendeva una gran catena d’argento alla cui
estremità stava attaccata una macchina la più singolare, che vertimo di
cavar fuori ciò che teneva alla catena; ei lo fece; e mostrocci un
globo, in parte d’argento, e in parte d’un altro trasparente metallo.
Riguardandolo noi dalla parte trasparente, vi ravvisamo strane figure
disposte in cerchio; che avendo tentato di toccarle, trovaronsi arrestate
da quella diafana sostanza le nostre dita. Accostò egli alle nostre
orecchie questa macchina, e vi udimmo un continuato fracasso, somigliante
a quello d’un mulino da acqua. Pensiamo che cosa tale sia qualche
incognita bestia; oppure la divinità che colui adora: ma quest’ultima
opinione ci sembra più verisimile; avvendoci egli assicurati, (se pure
ben il comprendemmo, poichè si esprime in un modo molto imperfetto,) che
ciò era una sorta d’Oracolo assai sovente consultato da lui, e che
distinguevagli il tempo di cadauna azione della sua vita. Dal manco suo
borsellino egli estrasse una spezie di rete tanto grande, che può
servire alla pesca, ma che a guisa di borsa si apre; e si chiude;
valendosene egli per un tal uso. Vi trovammo alcuni massiccj pezzi d’un
metallo giallicio; che se son eglino d’oro vero, deggiono essere d’un
valor immenso.

Dopo di aver, in eseguimento degli ordini di Vostra Maestà,
scrupolosamente rivedute, e visitate le saccocce tutte di lui, osservammo
che d’intorno alla sua vesta egli aveva un cinturone, che certamente
non può essere stato fatto, che della pelle di qualche portentoso
animale. Al lato manco di esso cinturone, pendeva una spada della
lunghezaza di cinque uomini, e alla dritta una spezie di sacco diviso in
due serbatoj, ognun de’quali contener potrebbe tre sudditi della
Maestà Vostra. In uno di questi serbatoj stavano molti globi d’un
pesantissimo metallo, cadauno della grossezza delle nostre teste, e molto
disagevoli per levargli. Vedemmo nell’altro una gran quantità di
granineri, assai piccoli, e di non grave peso, potendo noi, in una sola
volta, più di cinquanta tenerne in mano.

Quest’è l’Inventario fedele di quanto trovammo indosso
all’_Uomo-Montagna_, il quale trattò con noi in un onestissimo modo, e
col rispetto dovuto alla commissione di Vostra Maestà. Soscritto e
suggellato il quarto giorno dell’ottangesima nona Luna dell’Augusto
Regno di Vostra Maestà Imperiale.

    _Glefren Frelock_.
    _Marsi Frelock_.

Letto, e riletto ch’ebbe da un capo all’altro l’Imperadore
quest’Inventario, mi ordinò, comechè in civilissimi termini, di
rimettere qualunque cosa nelle mani di lui. A prima giunta mi ricercò la
mia spada, che tolsi dal cinturone col suo fodero. Comandò nello stesso
tempo, che tre mila uomini delle sue più guerriere milizie, da cui egli
stava allora circondato, prendessermi nel mezzo da tutti i lati, e gli
archi loro, e le loro frecce lesti tenessero: ma, per dir vero, io non me
ne avvidi, perchè i miei sguardi eran fissati nel solo Imperadore. Ciò
fatto, ei mi pregò di sguainare la mia spada; la quale, non ostante che
per l’acqua marina fosse in qualche parte irruginita, non lasciava
d’essere molto risplendente. L’eseguj; e nell’instante tutta la
Soldatesca gettò un orribile grido, segno manifesto e della sua
sorpresa, e del suo spavento, essendo che i raggi Solari, dopo
d’essersi ribattuti sulla mia spada, ripercuotevano gli occhj
de’soldati. Il Monarca, che è un Principe magnanimissimo, fu assalito
da minor terrore che io non avrei creduto. Mi commise di rimettere la
spada nel fodero, e di gettarla la terra il più leggiermente che
potessi, e in distanza di sei piedi dall’estremità della mia catena.
Chiesemi in secondo luogo una di quelle colonne di ferro, che erano
scavate, per le quali egli intendeva le mie pistole da saccoccia. Una
gliene mostrai; e feci tutto, stante il desiderio ch’ei manifestava
d’averne, di fargliene comprendere l’uso. In fatti, la caricai con
sola polvere, che io avuto avea l’avvedimento di guarentire
dall’umidità del mare; (inconvenienza, contra cui chiunque prudente
marinajo si premunisce) e dopo di aver avvertito l’Imperadore di non
temere, feci il mio tiro nell’aria. O allora sì che più che alla
vista della mia spada, fu orribile il loro spavento. Cadevan eglino a
centinaja come tanti morti; e l’Imperadore medesimo, tutto che rimasto
in piedi, ebbe bisogno di qualche tempo per ripigliarsi. Nel modo stesso
che io fatto aveva della spada, consegnai le pistole, e susseguentemente
la taschetta da polvere, e le palle di piombo; con l’avvertenza a
que’Signori di tener lontana dal fuoco con somma attenzione la polvere,
perchè la menoma scintilla potuto avrebbe accenderla, e così far saltar
in aria tutto l’Imperiale Palazzo. Rimisi eziandio il mio oriuolo, che
il Monarca desiava ardentemente di vedere; ed egli ordinò a due delle
sue guardie più nerborute d’appenderlo ad una pertica, e di portarlo
in sulle loro spalle, nella guisa stessa che in Inghilterra i bastaggj
portano un barile di birra. Il sorprese l’incessante strepito della
macchina, ed altresì il movimento dell’aguglia che i minuti disegna, e
che egli facilissimamente ravvisò; essendo la vista degli Abitatori di
quel Paese molto più fina della nostra. Parecchi Letterati richiesti
dall’Imperadore della natura di questa macchina, fecero, come chi legge
può agevolmente immaginarselo, differenti risposte; di cui, confessarlo
deggio, non ne ho compreso il menomo senso.

Consegnai poscia tutto il danajo in argento, e in rame; la borsa
contenente nove grosse monete d’oro, ed alcune altre di minor valore;
il mio coltello, il rasojo, il pettine, la tabacchiera d’argento, il
fazzoletto, e l’almanacco. La spada, le pistole, furono caricate sopra
carrette, e trasferite negli Arsenali di Sua Maestà.

Come già il dissi, teneva io una segreta tasca che restò sottratta alle
occhiute lor revisioni, e in cui serbava un pajo d’occhiali (onde alle
volte mi servia in ajuto della debol mia vista,) un Cannocchiale, ed
alcune altre bagattelluzze, che credetti non essere obbligato di
discoprire; pel timore di perderle, e che, per altro, per uso veruno
dell’Imperadore servir non potevano.



CAPITOLO III.

Strana maniera dell’Autore per tener ricreata Sua Maestà Imperiale, e
la Nobiltà tutta dell’uno, e dell’altro sesso della Corte di
Lilliput. Altri divertimenti di questa Corte. Sotto certe condizioni è
l’Autore rimesso in libertà.


LA mia placidezza, e la buona mia direzione mi aveano talmente acquistata
la benevolenza, non solo dell’Imperadore, e della Corte di lui, ma
eziandio della Milizia, e di tutto il Popolo in generale, che cominciai a
nodrirmi di speranza d’essere fra poco rimesso in libertà. Operai
tutto il possibile per coltivare sì favorevoli disposizioni. Io non
faceva più paura a’Naturali del Paese: anzi talvolta cercandomi per
terra, io permetteva che cinque, o sei d’essi danzassero sulla mia
mano. In somma; perfino i giovinetti, e le donzelle si arrisicarono di
givocare alla Cieca ne’miei Capelli, ed io, a parlar, e ad intendere
passabilmente il lor linguaggio, già cominciava. Venne un giorno in capo
all’Imperadore di regalarmi con alcuni spettacoli del Paese; nel che
certamente confessarsi si dee, che i _Lillipuziani_ superano tutte le
Nazioni del mondo, sì a riguardo della loro industria, che della loro
magnificenza. Fra tutti spettacoli io rimasi più ricreato da quello de
Saltatori da corda. Facean eglino le più arrischiate capriole sopra un
fil bianco assai sottile, di due piedi di lunghezza, e che era teso
all’altezza da terra di dodici pollici. Su che, con buona permission di
chi legge, è forza che io mi stenda alquanto più.

Non è in uso un tale divertimento che fra que’soli che aspirano alla
grazia del Principe, o a grand’impieghi. Fin dalla prima giovinezza si
esercitano essi in quest’arte, e non sempre si distinguono con un
nascimento illustre, o con una bella educazione. Vacante che fia qualche
Carico riguardevole, o per la morte, o per la grazia dell’investito,
(il che non di rado avviene,) cinque, e sei, de’Candidati implorano
dall’Imperadore la permissione di danzar sulla corda alla presenza di
lui, e della sua Corte; e colui che senza cadere salta più alto,
conseguisce la Carica onde si tratta. Frequentissimamente i primi
Ministri stessi son tenuti di far pompa della loro destrezza, e di dar
saggi sulla faccia del Monarca della conservata antica loro agilità,
Conviene ognuno che _Flimnap_, il Tesoriere, in facendo sopra una tesa
fune una Capriola, elevasi in aria, per lo meno, d’un grosso dito più
alto che quale siasi Signore di tutto l’Imperio. L’amico mio
_Reldresal_, primo Segretario degli affari segreti, per quel che me ne
pare, se tuttavia non mi trovo un po troppo prevenuto a favore di lui, e
il secondo dopo il Tesoriere: quanto agli altri Grandi, nè pure se ne
avvicinano.

Cotali divertimenti, allo spesso non piccoli infortunj cagionano, onde la
Storia ne abbonda. Co’proprj miei occhj vidi due o tre Candidati a
dislogarsi, o a fracassarsi qualche membro, è ben maggiore il pericolo,
quando i Ministri medesimi sono costretti a manifestare la propria
sveltezza, mercechè per superare i lor emoli, e in qualche modo se
stessi, praticano sforzi sì prodigiosi, che quasi niuno ve n’ha che
fatta non abbia qualche caduta, ed alcuni pure per fino a due, o tre. Fui
accertato che due anni in circa prima del mio arrivo, sarebbesi, senza
altro, _Flimnap_ accoppato, se uno de’guanciali Imperiali, che a sorte
trovossi a terra, la forza della percossa non avesse diminuita.

Avvi un altro genere di ricreamento, ma che non si prende tuttavia che in
certe occasioni, e alla sola presenza dell’Imperadore,
dell’imperadrice, e del primo Ministro. Ripone il Principe sopra un
tavoliere tre fila di seta, ciascuno della lunghezza di sei pollici.
E’di color porporino il primo, il secondo giallo, e bianco il terzo.
Propongonsi queste fila come altrettanti premi a quegli soli che
l’Imperadore vuol distinguere con un sonoro, e speziale contrassegno
della sua grazia. Celebrasi la cerimonia in una delle maggiori Sale di
Sua Maestà; ed ivi sono tenuti i Candidati di soggiacere ad una pruova
di agilità molto diversa dalla precedente, e tale, che nel vecchio, e
nel nuovo Mondo, in qualunque parte che sia, somigliante non ne vidi, e
neppure che vi abbia il menomo rapporto. Tiene l’Imperadore in sue mani
un bastone, le cui due estremita sono paralelle dell’Orizzonte; ed
a’Candidati tocca di avanzarsi ad uno ad uno, e di saltare ora al di
sopra del bastone, ora di sguizzarvisi pel di sotto, a misura che più
elevato, o più basso egli è. Più d’una fiata si ripete
quest’esercizio; tenendo tal volta il Principe una estremimità del
bastone, e il primo Ministro l’altra; ed altre volte pure il tiene il
primo Ministro solo. Quegli che da saggio di maggior industria, e che men
fatica nel saltare, e nel rampicarsi, conseguisce in ricompensa il filo
color di porpora; del giallo si mette in possesso il secondo, e del
bianco il terzo. Ognuno de’vincitori se ne fregia a foggia di cintura;
pochi essendo i Signori di distinzione, che adorni non ne sieno.

I Cavalli dell’Esercito, e quegli altresì delle Stalle Regie, essendo
stati condotti ogni giorno dinanzi a me, già si erano cotanto
accostumati di vedermi, che veniva, no fin su’miei piedi senza
scomporsi. Quando io metteva a terra la mia mano, i Cavalieri gli
facevano coruettarvi sopra, el uno degl’Imperiali Cozzoni salto col suo
cavallo sopra il mio piede, sopra la scarpa, e sopra ogni cosa, il che,
per dir vero, poteva si registrare per un salto portentoso. Ebbi io la
felicità di ricreare un giorno l’Imperadore in una straordinaria
maniera. Il supplicai di dar ordine che mi fossero provveduti alcuni
bastoni di altezza di due piedi, e della grossezza d’una canna comune.
Comandò egli immediate al suo soprantendente Generale de’Boschi di
sarmigli avere; ed in fatti il giorno dietro vidi arrivare sei boscajuoli
con altrettanti carri carichi della qualità di bastoni da me richiesta,
ed ogni carro era tirato da otto cavalli. Presi nove di que’bastoni che
fortemente in terra conficcai, e che disposi in un modo, che formavan
eglino un quadrato di due piedi, e mezzo. A cadaun lato attaccai un
bastone all’altezza di due piedi da terra, e in tal simmetria, che
tutti fra d’essi erano paralelli. Dopo ciò, legai il mio fazzoletto
a’nove bastoni che io aveva confitti nel terreno, e ben lo tesi da
tutti i lati come la pelle d’un Tamburo; servendo d’ogni intorno di
sponda i quattro bastoni paralelli, i quali più del fazzoletto erano
elevati di cinque grosse dita. Compiuto il fatto mio, proposi
all’Imperadore che due dozzine de’suoi migliori Cavalli facessero il
loro esercizio sopra quella pianura. Soddisfece alla mia richiesta il
Principe; ed io, l’un dopo l’altro, gli presi tutti cogli Uffiziali
che gli montavano, e sopra il mio fazzoletto gli accomodai. Posti che
furono in ordinanza, si divisero in due manipoli, scherzevolmente
scaramucciarono, scoccarono saette che veruno offendere non potevano,
spiegarono le bandiere, vennero alle mani, e per dir tutto in una parola,
diedero a conoscere che perfettamente erano instruiti di molte regole
della militar disciplina. I bastoni paralelli impedivano che essi, e i
loro cavalli a terra non cadessero, e tanto si compiacque l’Imperadore
di un tale spettacolo, che ne ordinò la replica per molti giorni; e
volle stessamente una volta essere riposto egli medesimo sopra il mio
fazzoletto, e comandare in persona le mozioni de’suoi Cavalieri.
Rendenne eziandio persuasa l’Imperadrice; tutto che con non poca pena
ei mi accordasse di tenerla in mano nella sedia d’appoggio di lei, in
distanza di due verghe dal mio fazzoletto, donde ella a suo bell’agio
d’ogni cosa potesse essere spettatrice. Buona sorte per me, che in
tutti questi divertimenti non n’è accaduto il menomo inconveniente.
Una sola volta, un cavallo focoso che apparteneva ad uno de’Capitani,
con un colpo d’unghia fece un buco nel mio fazzoletto, e rovescione
cadde col Cavaliere che lo montava; ma entrambi al più presto gli
rialzai; e dopo di aver turato il buco con una mano, mi servj
dell’altra per riporre la brigata a terra. Si era il cavallo stravolta
la manca spalla: ma il Cavaliero non ne risentì male di sorta, ed io il
meglio che seppi rappezzai il fazzoletto; persuaso però di non esporlo a
somiglianti accidenti mai più.

Due o tre giorni prima che io ricuperassi la libertà, in tempo che me ne
stava divertendo la Corte con tutte queste maraviglie, capitò espresso
un Masseggiere per informare l’Imperadore, che alcuni de’suoi
Suggetti, sollazzandosi nel sito medesimo ove io era stato trovato,
scoperta aveano una gran cosa, che giacevasene a terra, d’una assai
bizzarra figura; i cui margini si stendevano in cerchio, e che nel mezzo
era all’altezza d’un uomo; avendo; per altro, poco più, o meno,
l’estensione medesima che la camera da letto di Sua Maestà: che non
era questa una creatura vivente, come da principio si avea temuto;
poichè praticatisi d’intorno a lei diversi giri, non avea ella esibiti
indizj veruni del menomo movimento: che in montando in sulle spalle degli
altri, alcuni d’essi erano pervenuti sino alla sommità, la qual’era
molto piana; e che col battere d’un piede, trovato aveano che la
macchina era al di dentro vota: che sembrava loro verisimile che ella
dovesse appartenere all’_Uom-Montagna_; e che se fosse in grado di Sua
Maestà, ne avrebber eglino impreso il trasporto alla Corte, purchè
fossero loro somministrati cinque cavalli. Immediate compresi ciò che
dir volessero, e giubilai nel mio cuore per la recata novella.
E’probabil cosa, che dopo d’essermi salvato a terra dal mio
naufragio, talmente stordito io fossi, che prima d’arrivare al luogo
ove mi addormentai, il mio cappello, che io aveva legato al collo in
tempo che me ne stava remando, e che tenne fermo per tutto lo spazio del
mio nuotare, caduto fosse senza che me ne avvedessi. Supplicai Sua
Imperial Maestà di comandarne il pontuale trasporto, e ne le descrissi
la natura, e l’uso. L’ebbi il giorno dietro, ma in pessima
condizione; mercechè, a un pollice e mezzo di distanza dal di lui
margine, vi avean coloro praticaci due fori, ed a questi, attaccati due
uncini, pe’quali passata aveano una lunga fune, per legar meglio il
povero mio cappello alle tirella de’Cavalli: e con tal apparecchio ei
fece più d’una mezza lega d’Inghilterra. Ma come il terreno di quel
Paese è molto piano, non restonne danneggiato quanto sorse avrei creduto.

Due giorni dopo quest’avventura, l’Imperadore, avendo intimato a
quella parte di sue milizie che si trovava dentro, e d’intorno alla sua
Capitale, di tenersi lesta al primo ordine, immagino un assai singolare
divertimento. Egli s’invogliò che io me ne stessi come un _Colosso_,
con le gambe larghe per quanto mi fosse possibile. Comandò allora al suo
Generale, il qual era un gran Capitano, e mio amicissimo, di mettere in
buona ordinanza gli Squadroni, e di fargli marciare di sotto a me
formando l’Infanteria una fronte di venti quattro, e la Cavalleria di
sedici, tamburi battenti, insegne spiegate, ed alte le picche. In questo
modo mi passarono fra le gambe tre mila Fanti, e mille Cavalieri. Sotto
pena di morte promulgò Sua Maestà, che ogni Soldato nella sua marcia
osservasse le regole più esatte della decenza a mio riguardo. Con tutto
ciò, un tal ordine non impedì che alcuni giovinastri Uffiziali non
levassero in alto gli occhj in passandomi pel disotto. E per dir vero,
erano allora sì laceri i miei calzoni, che per lo meno traveder facevano
alcuni argomenti di beffe, e d’ammirazione.

Furono tante, e tali le mie suppliche per ottenere la libertà, che
finalmente fu messo sul tappeto l’affare, prima nel Gabinetto di Sua
Maestà, e poscia in pien Senato. Non vi fu chi si opponesse se si
eccettua _SKyresh Bolgolam_; il quale, senza che gliene avessi dato
suggetto di sorta, fece scoppiare contra di me una mortale aversione: Ma
al suo dispetto, tutto il Consiglio decise a mio favore, e la decisione
dall’Imperadore restò ratificata. Quest’atrocissimo nemico era il
_Galbet_; e vale a dire, l’Ammiraglio del Regno, gran Favorito del
Monarca, e oltracciò, versatissimo negli affari, ma d’un aspro
temperamento, ed importuno d’umore. Cedette alla fine; ma nel tempo
stesso se gli acaccordò, che lui medesimo quegli sarebbe che stendesse
gli articoli, e le condizioni onde dipendesse la mia libertà, e la cui
manutenzione convalidata fosse dal mio giuramento. _Skyresh Bolgolam_
stesso, accompagnato da due sotto Segretarj, e da alcune altre persone
ragguardevoli, recommi queste condizioni. Seguita la lettura, dovetti
giurarne l’osservanza, primieramente secondo lo stile del mio Paese, e
poscia secondo quello che le loro Leggi prescrivono, il qual era di
tenere il piede mio dritto nella mia manca mano, di porre il dito di
mezzo della mia mano destra sulla sommità della mia testa, ed il pollice
sull’estremità superiore della dritta mia orecchia. Come forse può
essere curioso il Leggitore di concepir qualche idea dello stile, e della
maniera di parlare di quel Popolo, e di aver eziandio il raguaglio delle
condizioni, alle quali mi su renduta la libertà, ho creduto ch’ei mal
volentieri non ne vedrebbe la traduzione, che ho procurato di fare con la
più possibile fedeltà, ed eccola per appunto. Golbasto Momaren Eulame
Gurdilo Shefin Mully Gue, Potentissimo Imperadore di _Lilliput_, le
Delizie, ed il Terrore dell’Universo, le cui Regioni an di estensione
cinque mila _Blustrugs_, (dodici miglia in circa di circuito) e che altri
limiti noti anno che quelli della Terra: Monarca de’Monarchi, più
grande, che i Figliuoli degli Uomini, i cui piedi posano sul centro della
terra, e la cui testa arriva perfino al Sole: che con una occhiata sola
fa tremare i Principi del Mondo, Amabile come la Primavera, Giocondo come
la state, Fecondo come l’Autunno, e Terribile come l’Inverno. La
Sublimissima Maestà sua propone all’_Uomo Montagna_ capitato da
qualche tempo nel formidabile Imperio di Lei, i seguenti Articoli, la cui
osservanza ei con giuramento dovrà promettere.

Primieramente; l’_Uomo-Montagna_ non uscirà de’nostri Stati senza
averne una permissione suggellata col gran Suggello.

II. Senza espresso nostro ordine non entrerà egli nella nostra Capitale;
e quando vi verrà, gli Abitanti due ore prima ne saranno avvertiti,
perchè abbiano il tempo di ritirarsi nelle loro Case.

III. Il sudetto _Uomo-Montagna_ limiterà il suo passeggio alle
principali strade maestre e si guarderà dal trattenersi, o dal mettersi
a dormire in una Prateria, o in un Campo di biade.

IV. Quando si tratterà nelle Strade Maestre, avrà esatta attenzione di
non camminare sul corpo di alcuno de’nostri diletti sudditi, nè sopra
i loro cavalli, e le loro carrette; non potrà pure prendere in sua mano
veruno degli stessi nostri suggetti, se pero eglino non ci consentissero.

V. Se avviene che all’improvviso si abbia la necessità di spedire per
qualche parte un Messaggere, l’_Uomo-Montagna_ sarà obbligato, una
volta per cadauna Luna, di trasportare il Messaggiere stesso nella sua
tasca alla distanza di sei giornate di cammino, e (se egli ne fosse
richiesto,) di riportarlo sano, e salvo in presenza di Sua Maestà.

VI. Sarà egli ammesso alla nostra confederazione contra gli Abitanti
dell’Isola di _Blefuscu_, e farà tutti i suoi sforzi per distruggere
l’Armata Navale, con cui coloro si apparecchiano di fare uno sbarco nel
nostro Imperio.

VII. Nell’ore di sua comodità, sarà egli tenuto d’ajutare
a’nostri Operaj a levare alcune grosse pietre, che servir deggiono alla
costruzione della muraglia del nostro gran Parco, e a quelle di alcuni
Palaggi Reali.

VIII. L’_Uomo-Montagna_ suddetto, nel termine di due Lune esibirà una
diligente descrizione del circuito del nostro Imperio, e in questo
calcolo serviranno di misura i suoi passi.

Finalmente quando l’_Uomo-Montagna_ avrà giurato solennomente
d’osservare tutti questi Articoli, gli sarà cadaun giorno
somministrata tanta quantità di cibi, e di bevande, quanta bastar possa
per l’alimento di 1724. de’nostri Suggetti: e oltracciò egli avrà
sempre un libero accesso alla Nostra Imperial Persona, con altri
contrassegni della grazia nostra. Dato nel Nostro Palazzo di
_Belfaborac_, il giorno duodecimo della novantesima prima Luna del nostro
Regno.

Io soscrissi, e giurai con sommo piacere l’osservanza di tali Articoli,
tutto che ve ne fossero alcuni di non troppo mio onore, e che io
attribuir non poteva che al pessimo genio del Grand’Ammiraglio _Shyresh
Bolgolam_: Dopo ciò, mi furono immediate tolte le catene, e
l’Imperadore medesimo m’impartì lo spezioso onore d’essere
presente a tutta la cerimonia. Mi prostrai a’piedi di lui per
avanzargli i miei ringraziamenti, ma egli m’impose il levarmi; e dopo
di avermi dette alcune cose, che la mia moderazione, e il timore
d’essere tacciato di vanità non mi permettono di ripetere, ei
soggiunse che confidava molto che io fossi per adempiere scrupolosamente
qualunque mio dovere, e che fossi per rendermi degno delle grazie di già
ricevute, e di quelle ancora che d’impartirmi ei disegnava.

Si risovviene già il Leggitore, che nell’ultimo Articolo, onde io
giurata aveva l’osservanza, l’Imperadore mi avea assegnata, ciascun
giorno, una quantità di cibi, e di bevande, che avrebbe potuto esser
bastevole a 1724. _Lillipuziani_. Qualche tempo dopo interrogai un Amico
mio di Corte, per quale ragione si era un tal numero precisamente
determinato: egli mi rispose, che i Matematici di Sua Maestà, avendo
presa l’altezza del mio corpo pel mezzo d’un quarto di Cerchio, e
trovando che con loro vi era la proporzione di dodici ad uno, conchiuso
aveano da cio, che i loro corpi, ed il mio, erano somiglianti, che
conveniva che il mio contenesse 1724. de’loro, e che per conseguenza
egli avesse bisogno di tanta nutritura, quanta ne bisognava al numero
menzionato di _Lillipuziani_. Il che basta per esibire a’miei Leggitori
una idea dell’industria di quel Popolo, e altresì della prudente, ed
esattissima economia del Gran Principe che il governa.



CAPITOLO IV.

Descrizione della Città Capitale di Lilliput, nomata Mildendo, e del
Palagio dell’lmperadore. Conversazione dell’Autore con uno de’primi
Segretarj degli affari dell’Imperio. Offresi l’Autore di servir al
Monarca contro agl’inimici di Lui.


LA prima supplica che io presentai dopo di aver conseguita la libertà,
fu di avere la permissione di veder _Mildendo_, la Capitale. Acconsentivi
di buon gusto l’Imperadore, raccomandandomi a chiare note non inferir
male alcuno a’Cittadini, nè alcun pregiudizio alle loro Case. Con
pubblico Editto si fece saper al Popolo la vicina mia andata alla
Dominante. Alta due piedi e mezzo, e al più, undeci grosse dita larga, e
la muraglia, onde _Mildendo_ sta circondata; cosicché sulla sommità
della muraglia stessa, puossi in Carozza far il giro della Città. In
distanza di dieci piedi, l’une dall’altre, regnanvi forti Torri, che
in caso d’assalimento, un gran soccorso per difesa della Piazza
recherebbono. Con una largata di gambe passai al di sopra della gran
Porta che risguarda l’Occidente, e trascorsi con la più possibile
agilità le due principali strade, non avendo indosso che la semplice mia
camiscia, per timore di danneggiar i tetti, e i gocciolatoj delle
abitazioni co’lembi de’miei vestiti. Me ne andava con tutta
l’immaginabile cautela, per non mettere il piede sopra qualcuno che a
caso si fosse dimenticato nelle strade; tutto che l’ordine fosse
formallissimo, che chiunque si trovasse fuori di casa, correrebbe il
risico a propio suo conto. Contenevano un sì gran numero di spettatori
le finestre de’Granari, e delle parti superiori delle fabbriche, che
non mi ricordo di aver veduto mai in una sola volta tanto Popolo.
E’costrutta in quadro la Città, avendo cadaun lato della muraglia in
lunghezza cinquecento piedi. Le due strade maestre che
s’incrocicchiano, e dividonla in quattro parti, sono cinque piedi
larghe. Le altre strade più strette, nelle quali entrar non potei, ma
che solamente vidi in passando, stendonsi in larghezza da dodeci perfino
a’diciotto pollici. Di cinquecento milla anime, o circa, sarà capevole
quella Città; essendo le sue Case fabbricate da’due Solai insino
a’cinque; e abbondando d’ogni cosa i suoi Mercati, e le sue Botteghe.

Nel centro della Città, e sul crocicchio delle due grandi strade, è
situato l’Imperial Palagio. Egli è cinto da una muraglia alta due
piedi, e disgiunta dalle altre fabbriche per lo spazio di venti. Avea mi
permesso sua Maestà di sormontare con un allargar di gambe questo muro,
e come era assai vasto il tramezzo tra il Palagio ed esso, ebbi
l’opportunità di considerare quello, da tutti i lati. L’esterior
Corte è un quadrato di quaranta piedi, e contiene due altre Corti. Nella
più interiore son fondati gl’Imperiali Appartamenti, che con
impazienza io bramava di vedere; il che però mi riuscì con terribile
stento; essendo che gli uscj maggiori, pei quali si entra da un quadrato
all’altro, non aveano di altezza che diciotto pollici, e di soli sette
erano larghi. Ora, gli Edifizj della Corte esteriore eran alti, per lo
meno, cinque piedi, e perciò riuscivami impossibile il passarvi di sopra
a gambe larghe, senza risico che la fabbrica restasse estremamente
danneggiata; non ostante che le muraglie, che erano di pietra,
solidissimamente fossero costrutte, ed a vessero di grossezza quattro
pollici. L’Imperadore era allora invaghito che io ammirassi il suo
Palagio; ma non fuvvi il modo, che tre giorni dopo, che io impiegar
dovetti atagliare col mio coltello alcuni de’più grand’alberi del
Regio Parco, il quale, per cento Verghe, o circa, era discosto dalla
Città. Formai di questi alberi due sedili, alto ciascuno di tre piedi, e
bastevolmente forte per sostenermi. Una seconda volta avvertito il
Popolo, fui di nuovo per la Città alla Regia, co’miei due sedili alla
mano. Arrivato al margine della esteriore Corte, montai sopra un sedile,
tenendo nelle mani l’altro. Levai in alto questo quì, e nello spazio
che si frammette fra la prima, e la seconda Corte, e che all’incirca è
largo d’otto piedi, il collocai. Fummi allora più che agevole
l’allargar le gambe, e da un sedile all’altro passar al di sopra
degli Edifizj, e pel mezzo d’un bastone, onde l’estremità era armata
d’un uncino, ritirar poscia l’altro sedile presso di me. Col favore
di cotale invenzione, penetrai fin nella Corte più interiore, e
corcatomi sopra un fianco, mi avvicinai alle finestre del piano di mezzo,
a bella posta lasciate aperte, e restai sorpreso dagli oggetti de’più
magnifici Appartamenti, che può formarsi l’idea. Ravvisai
l’Imperadrice, e le Principesse, attorniate dalle loro Dame d’onore.
Sua Imperial Maestà compiacquesi farmi un sorriso il più grazioso del
mondo, e fuor del balcone presentommi la destra perchè la baciassi.

Non mi andrò già perdendo in un racconto più diffuso, e in descrizioni
di questa fatta, poichè le serbo per un’opera più voluminosa, che ben
presto vedrà la luce, e che conterrà una Generale Storia di
quell’Imperio. Niuna cosa vi sarà ommessa: io rimonterò perfino alla
prima origine, e dopo che avrò scorsi i fatti più memorabili delle vite
de’diversi Principi che il governarono, parlerò delle guerre sostenute
da quest’Imperadore; delle massime di Politica, e delle Leggi che vi si
osservano; delle Costumanze, e delle Scienze che più vi si praticano, e
della Religione che vi si professa. Il mio presente disegno si è, di sol
narrare alcuni avvenimenti succeduti in quell’imperio, per lo spazio di
nove mesi che vi dimorai.

Una mattina, quindici giorni, più, meno, dopo la ricuperata mia
libertà, _Keldersal_, Primo Segretario (come essi il chiamano) degli
affari segreti, venne a trovarmi, accompagnato da un solo servidore.
Diede egli ordine che a una certa distanza lo attendesse alla sua
Carozza, e mi pregò di accordargli udienza per un’ora, il che feci
volentierissimo, avuto riguardo non solo alla qualità di lui, e al suo
merito personale, ma eziandio a’buoni uffizj che nelle mie
sollecitazioni mi avea renduti. Volli corcarmi a terra, perchè lui fosse
più a portata di farsi intendere; ma desiderò piuttosto che io il
tenesi in mano per tutto il tempo della nostra conversazione. Diede
principio da’complimenti in proposito alla mia liberazione; "a cui,
_diceva egli_, io ho contribuito con tutte le mie forze; tutto che
principalmente voi ne siate debitore alle circostanze, onde rinvienesi il
nostro Imperio: mercechè, (_ei soggiunse continuando il suo discorso_,)
per quanto formidabile sembrar possa agli Stranieri il nostro Dominio,
egli è affievolito da due spaventevoli mali; da una violenta Fazione al
di dentro, e da un terribile nemico al di fuori. Quanto al primo di
questi mali, saper dovete, che da più di settanta Lune in quà, trovasi
l’Imperio squarciato da due Partiti, sotto i nomi di _TramecKsan_, e di
_SlameKsan_; nomi, che dalla diversa altezza de’talloni delle scarpe
loro, son derivati. Per dir vero, negar non si potrebbe che l’uso di
portare alti talloni non sia il più antico: ma che che siane in tal
proposito, Sua Maestà decretò non doversi impiegare
nell’amministrazion del Governo, ed investire delle Cariche  dipendenti
dalla Corona, che que’soli che porteranno talloni bassi, come voi
medesimo potuto avrete osservarlo, e se ci fate buona attenzione, vedrete
che i talloni di Sua Imperial Maestà sono più bassi d’un _Drurr_,
(_misura che presso poco riviene alla quarta decima parte, d’un grosso
dito_) che verun altro de, suoi Cortigiani. Va a un tal segno l’astio
di queste due Fazioni, che elleno non consentirebbono nè di mangiare,
nè di bere, e neppur di parlare insieme. Gli TramecKsan, o sien quelli
che portano alti talloni, sono in maggior numero che noi, ma militano dal
nostro canto la possanza, e l’autorità. Temmiamo che Sua Altezza
Imperiale, l’Erede della Corona, non abbia qualche inclinazione per gli
talloni alti: ciò che vi ha di certo si è, che uno de’suoi talloni
cresce un pocchettino più che l’altro; il che cagiona che in
camminando ei alquanto zoppichi.

"Nel mezzo di cotali intestine divisioni, siam noi minacciati d’un
assalimento dal canto degli Abitanti dell’Isola di _Blefuscu_, che è
l’altro grand’Imperio dell’Universo, e per lo meno così dilatato,
e così potente, che quello di _Lilliput_. Essendo che, voi ci
raccontaste che nel Mondo sienvi altri Regni popolati da Creature umane
del vostro taglio, si rivoca in dubbio da’nostri Filosofi, i quali
sospettano piuttosto che voi siate caduto dalla Luna, o da qualche
Stella; poichè è cosa incontrastabile che un centinajo d’uomini di
vostra corporatura, in poco tempo, tutte le frutte, e tutti i greggi di
quest’Imperio consumerebbe. Oltre di che, la nostra Storia, che rimonta
fin a sei mila Lune, di verun’altra Regione non parla, che delle due
smisurate Monarchie di _Lilliput_, e di _Blefuscu_: le quali, per quel
che già io cominciava a dirvene, sono trenta, e sei Lune, che si fanno
una guerra crudele: ed eccone per appunto il motivo. Non ha che opporre
il Mondo tutto, che anticamente, quando si volea mangiar delle vova, si
rompevan queste dalla più larga estremità. Or accadde un giorno, che
l’Avolo dell’Imperadore Regnante, essendo per anche giovinetto, e
volendo, secondo il costume antico rompere un vovo, tagliossi un dito. E
perciò l’Imperadore, Padre di lui, fece pubblicare un Bando, onde egli
commetteva a’suoi suggetti sotto gravissime pene, di rompere in
avvenire le vova loro, dalla estremità più stretta. Sdegnossi talmente
il Popolo per un tal Editto, che le nostre Storie fan menzione di sei
cagionate rebellioni; avendo queste ribellioni costata la vita ad un
Imperadore, e la Corona all’altro. I Monarchi di _Blefuscu_, che an
sempre accordato l’asilo a’Ribelli che abbandonavano l’Imperio di
_Lilliput_, an fomentato queste domestiche dissensioni. A conto fatto,
undeci mila persone in tempi differenti, anzi che rompere le loro vova
dalla estremità più stretta, vollero piuttosto perire. Molte centinaja
di Volumi in proposito a questa controversia sono state pubblicate; ma da
molto tempo in qua sono stati proibiti i Libri degli ostinati a rompere
le loro vova secondo il rito antico, e con una solenne Legge fu il
Partito dichiarato incapace di riempire veruna Carica.

"Nel frattempo di tali turbolenze, gl’Imperadori di _Blefuscu_, colla
voce de’loro Ambasciadori si sono di frequente lamentati, che noi
producessimo uno Scisma nella Religione, rovesciando una fondamentale
dottrina del nostro gran Profeta _Lustrog_, contenuta nel Capitolo
cinquantesimo quarto del _Brundecral_, (_che è l’Alcorano loro_.) Ma
una querela somigliante, non ha altro fondamento che una vana glosa sopra
il Testo, onde eccone i precisi termini: Tutti i veri Credenti romperanno
le lor vova dalla estremità convenevole: Ora, a quel che me ne pare,
alla coscienza d’ognuno, od anche al Sovrano, appartiene di determinare
qual esser deggia quest’estremità. Ma il maggior male si è che i
Partigiaui dell’antico metodo di rompere le vova, che sono rifugiti
alla Corte di _Blefuscu_, anno avuto tanto credito presso
quell’Imperadore: e con tanta forza sono stati assistiti da que’del
partito loro rimastisi nella propria patria, che da trenta e sei Lune in
qua, si è accesa fra’due Imperj una sanguinosa guerra, onde l’evento
non corrispose sempre a’nostri desiderj; imperocché, non ostante che
sieno state grandi, più che le nostre, le perdite degl’Inimici, vi
abbiam però sgraziatamente lasciati quaranta Vascelli del primo ordine,
e un maggior numero d’altri men riguardevoli, con trenta mila
de’nostri più valorosi Soldati, e migliori Marinaj. Eperò; tutto che
la somma de’loro morti trascenda quella della nostra parte, anno eglino
in questi giorni allestita una numerosa Armata marittima, e stanno per
effettuare uno sbarco nel nostro Paese. In tali angustie, Sua Imperial
Maestà, la qual è prevenuta dalle più avvantaggiose idee della vostra
forza; e del vostro coraggio, mi comandò d’esporvi lo stato
de’nostri affari."

Io pregai il Segretario di assicurare Sua Maestà de’profondissimi miei
rispetti; e di rappresentarle, che non sembravami cosa di buon ordine,
che io, Forestiere, mi rimescolassi negli affari di Partito; con tutto
ciò, che io era pronto ad esporre la vita per la Persona, e per gli
Stati di Lei, contra chiunque avesse la temerità di fare una incursione
nell’imperio.



CAPITOLO V.

Con uno stratagemma inudito l’Autore perviene una incursione. Titolo
d’onore che  viengli conferito. L’Imperadore di Blefuscu spedisce
Ambasciadori ter chiedere la pace. Appicciasi il fuoco all’Appartamento
dell’Imperedrice; ma col soccorso dell’Autore resta estinto.


L’Imperio di _Blefuscu_ è un’Isola situata a Greco Tramontana di
_Lilliput_, da cui n’è separata per un canale di sole ottocento verghe
di larghezza. Io non aveva mai veduto il Paese di _Blefuscu_, e stante la
nuova dell’incursione onde _Keldresal_ aveami instruito, sfugj di
comparire sulla spiaggia che disgiungne quell’Imperio dall’altro di
_Lilliput_, per timore d’essere scoperto da qualche Vascello
degl’inimici, i quali non aveano veruna contezza di me; essendo
interdetto con pena di morte qualunque commerzio fra’due Imperi,
durante la guerra, e avendo comandato l’Imperadore che fosse negato
l’ingresso ne’suoi porti ad ogni Bastimento, niuno eccettuato.
Comunicai all’Imperadore il progetto da me formato di rendermi padrone
della nemica Armata, che, per le relazioni di tutti i nostri Scorridori,
si sapeva accertatamente che stava sul ferro in Porto, pronta di mettersi
alla vela a primo buon vento. Interrogai gli uomini più esperti di
Marina, sopra la profondità del Canale, molte volte da essi già
scandagliato, e mi risposero essi, che quando l’acqua trovavasi nella
maggior sua escresenza, nel mezzo del Canale aveanvi settanta
_Glumgluffs_ di fondo, (il che riviene a piedi sei in Europa,) e altrove
da per tutto cinquanta _Glumgluffs_ al più. Mi portai sulla sponda del
Canale rimpetto per appunto di _Blefuscu_, e nascostomi dietro una
piccola eminenza, presi il Cannocchiale, e vidi l’Armata nemica
sull’ancora, consistente in una cinquantina di Vascelli da guerra, e in
un maggior numero di Bastimenti da trasporto. Me ne ritornai allora
all’abitazione, e (secondo la permissione che io ne aveva,) diedi
ordine mi si provvedessero molte fortissime gomene; e una buona quantità
di spranghe di ferro. Era grossa ogni gomena poco più, o men, che uno
spago, e le spranghe all’incirca del taglio d’un’aguglia da cucire.
Interzai le gomene per renderle più poderose, e per la ragione medesima,
unj tre spranghe insieme, e ad un uncino ne appesi l’estremità. Legati
in questo modo cinquanta uncini ad altrettante gomene, fui al Canale una
seconda volta, e toltomi d’indosso i miei vestiti, le scarpe, e le
calze, mi misi in mare con la mia camiciuola di bufalo, e camminai per lo
spazio di mezz’ora, prima della marea. Mi affrettai il più che mi
riuscì possibile: e nel mezzo del Canale, prima che co’piedi mi
riuscisse toccare fondo, fui costretto mettermi a nuoto per trenta
verghe. Trenta minuti di tempo non impiegai, finchè pervenni
all’Armata di _Blefuscu_. In vedendomi gl’inimici, un sì orrido
spavento gli assalì, che gettaronsi da’loro Vascelli all’acqua, per
salvarsi nuotando sopra la spiaggia, ove io vidi raccolti più di trenta
mila uomini. Presi allora tutte le mie macchine; ed appicato un uncino
alla prua di cadaun Vascello, unj insieme, per l’estremità, tutte le
Gomene. Nel tempo dell’azione, mi scoccarono gl’inimici molte
migliaja di frecce, onde alcune mi ferirono le mani, ed altre il volto, e
che oltra il dolore che io ne risentiva, molto m’inquietarono nel mio
lavoro. Gli occhj mi stavano più a cuore; che certamente gli avrei
perduti, se non mi fossi risovvenuto d’un maraviglioso spediente per
conservargli. Fra l’altre cose, teneva io in una secreta tasca un pajo
d’occhiali, che, come penso di averlo detto, non erano stati guatati
da’diligenti Esploratori dell’Imperadore. Gli presi, e gli assicurai
in sul naso, il più forte che potei. Con una tal difesa, continuai con
arditezza l’opera mia, in dispetto delle saette che continuavano a
piovere sopra di me, e molte delle quali colpirono i vetri de’miei
occhiali, ma senza altro effetto che di leggermente smuovergli. Io aveva
di già appiccati tutti gli uncini, e impugnato il nodo ove le gomene
tutte riferivano, cominciai a traere gli Vascelli. Ma tutti, e poi tutti,
tennero saldo, pel benefizio delle lor ancore. In un tal imbroglio, qual
partito prendere? Abbandonai le funi, e lasciando gli uncini attaccati a
Vascelli fui così temerario, che col mio coltello tagliai le gomene
dell’ancore; ricevendo tuttavia in una spedizione di questa fatta, una
tempesta di saette e nelle mani, e nel capo. Dopo ciò, ripresi il nodo
che io avea formato coll’estremità di tutte le funi onde stavano
appiccati i miei uncini; e con la maggior facilità del mondo, trassi
dietro di me cinquanta de’più poderosi Vascelli da guerra
degl’inimici.

I _Blefuscuani_, che tutto altro attendevano che una somigliante burla, a
primo tratto bruttamente storditi rimasero. Mi avevan essi veduto a
recidere i cavi de’ferri; ed immaginarono che io avessi solamente in
testa di lasciar le Navi alla discrezione della Marea, o che urtassero
l’une coll’altre: Ma quando si avvidero che l’Armata tutta
muovevasi in buona ordinanza, o che io solo era quel desso che
strascicava la, disperati vomitarono gridi tanto diabolici, che è forza
di avergli intesi, per poter formarsene un’adeguata idea. Scortomi fuor
di pericolo, mi arrestai qualche instante per togliermi le saette restate
fitte nelle mani, e nella faccia, che poscia ebbi cura di strofinar ben
bene con quell’unguento stesso, che non è guari, fu da me mentovato.
Mi levai in quell’instante gli occhiali miei, e dopo di aver atteso
un’ora che l’acqua abbassasse un poco, guazzai con tutti i Vascelli
i1 mezzo del Canale, e sano e salvo all’Imperial Porto di _Lilliput_,
mi transferj.

Era la spiaggia ingombra dall’Imperadore, e da tutta la Corte di lui,
in attenzione dell’evento d’un’Avventura sì enormemente stupenda.
Vider eglino i Vascelli disposti in mezza Luna avanzarsi alla volta loro;
ma non poterono ravvisar me, che me ne stava nell’acqua fino allo
stomaco. Pervenuto che fui alla meta del Canale, aumentò la loro
apprensione, perchè io ne aveva perfino al collo. Volea in ogni modo
l’Imperadore che io fossi annegato, e che gl’inimici sempre si
avanzassero per tentare uno sbarco: ma ben presto svanirono i suoi
spaventi; mercè che ad ogni passo che io faceva, divenendo il Canale di
minor fondo, in pochi momenti fui in istato di farmi intendere, e levando
in aria il nodo formato dall’estremità dei cavi che l’Armata
legavano, sclamai ad alta voce: _Viva il potente Imperadore di Lilliput;
viva_. Mi ricevè questo gran Principe sul lido un modo il più
obbligante del mondo, e sul punto stesso mi creò _Nardac_, che è il
titolo più sublime d’onore, che si possa ricevere in quell’imperio.

Mi pregò Sua Maestà di compiere quanto prima una impresa che sì
felicemente cominciata io aveva, conducendo ne’Porti di lei il
rimanente della nemica Armata, e tal si era la sua ambizione, che parea
che l’Imperadore non pensasse meno che di ridurre in Provincia tutto
l’Imperio di _Blefuscu_, per essere in avvenire governato da un
Vicerè, che di sterminare tutti i ribelli, partigiani dell’antico rito
di rompere le vova, rifuggiti alla _Blefuscuana_ Corte, e che a
costrignere il Popolo a seguire il nuovo metodo; dopo di che sarebbe egli
rimasto il solo Monarca di tutto l’Universo. Ma io non mancai di
distrarlo da un tal disegno, per l’efficacia di molti argomenti statimi
suggeriti dalla Politica, del pari che dall’equità: E gli protestai
che morirei disperato, se contribuito io avessi alla schiavitù d’un
Popolo libero. In pien Consiglio l’affare restò discusso, e si unì al
mio parere la parte più sana del Ministero.

Gustò sì poco di sì ardita dichiarazione Sua Imperial Maestà, che non
me la perdonò mai più. Ella ne fece menzione nel suo Senato; ed i più
saggi, alle relazioni che n’ebbi, si manifestarono, almen pel loro
silenzio, del sentimento mio: ma altri, che covavano contra di me una
segreta nemistà, non poterono trattenersi dal lanciare alcuni maligni
tratti, tutto che in un indiretto modo. Quindi formossi tra la Maestà
Sua, ed alcuni Ministri animati contra di me ingiustamente, una
conspirazione, che ebbe a costarmi la vita. Tanto è vero, che i più
importanti servigj che rendonsi di certa fatta, interamente sono
dimenticati, immediate che una sola volta si manca.

Tre settimane dopo questa spedizione l’Imperador di _Blefuscu_ spedì
una solenne Ambasceria per chiedere la pace, che a condizioni assai
vantaggiose pel nostro Monarcha ben presto restò conchiusa; ma il cui
ragguaglio poco importar dee al Leggitore. Erano sei gli Ambasciadori, e
di cinquecento persone era composto il lor seguito. Fu magnifichissimo il
loro Ingresso, e per dir tutto in una parola, proporzionato alla
grandezza del loro Sovrano, e all’importanza della lor commissione.
Quando il Trattato che essi negoziavano, ed io cui rendei loro de’buoni
uffizj pel credito che io avea alla Corte, o che per lo meno
m’immaginava d’avervi, quando, dissi, il Trattato restò conchiuso,
l’Eccellenze loro, di già instruite de’miei maneggj in lor
vantaggio, mi renderono una visita nelle forme. Dieder elleno principio
dall’innalzare perfino al Cielo il mio valore, e la mia generosità. A
nome poscia del loro Signore mi pregarono di portarmi in quell’Imperio,
e altresì di regalar loro un qualche saggio di quella prodigiosa forza
onde io era dotato, e di cui intese aveano tante maraviglie. Mi accinsi a
compiacerle.

Dopo aver io operati molti incomprensibili prodigj, al dir degli
Ambasciadori: e che non avrebbono potuto mai credergli, se essi medesimi
stati non fossero testimonj di vista, gli supplicai d’assicurare degli
umilissimi miei rispetti all’Imperadore di _Blefuscu_, e di
rappresentargli che le gran cose che la Fama pubblicava di lui, mi aveano
determinato a non tornarmene al mio Paese, senza l’onore di fargli le
mie riverenze. Con tal disegno, la prima volta che vidi l’Imperadore di
_Lilliput_, chiesigli la permissione di andar a salutare il Monarca di
_Blefuscu_; il che egli accordommi con un’aria la più scipita del
mondo: ma ne ignorai la cagione, finchè non so chi graziosamente mi
rendè instruito, che _Flimnap_, e _Bolgolam_, rappresentate aveano le
mie aderenze cogli Ambasciadori di _Blefuscu_, come indizj manifesti
delle malvage mie intenzioni. E fu allora solamente che cominciai, per la
prima volta, a formarmi qualche idea delle Corti, e de’cattivi Ministri.

E’necessario d’osservare, che quegli Ambasciadori non mi parlavano
che pel mezzo d’un Interprete; differendo l’un dall’altro i
linguaggj de’due Imperj, come due idiomi in Europa differir possono:
glorificandosi, cadauna di quelle Nazioni, dell’antichità, della
vaghezza, e dell’energia di sua propria lingua, con uno spregio
dichiarato per quella dell’imperio confinante. Con tutto ciò; come
l’Imperadore di _Lilliput_ godea d’un riguardevole vantaggio sopra i
_Blefuscuani_, essendosi lui impadronito della parte migliore della loro
Armata, obbligò gli Ambasciadori a non parlargli che in _Lillipuziano_;
e ricever non volle le loro Credenziali, se scritte non fossero in questa
Lingua. Nel che non fi dee negare che egli non avesse somma ragione:
comechè d’altra parte, il Commerzio, che in ogni tempo si era
praticato fra’due Imperj; l’asilo, che i malcontenti d’una delle
Corti rinvenivano sempre nell’altra; ed il costume scambievole di
mandar nell’Imperio vicino tutti i giovani di qualità affine di
pulirsi con la conversazione degli Stranieri, renduto avessero l’uso
de’due linguaggj assai comune in entrambi gli Dominj; come lo
sperimentai alcune settimane dopo, quando fui a tributare i miei doveri
all’Imperadore di _Blesuscu_: e fu questo viaggio, che la malizia
de’miei nemici mi sforzò d’intraprendere, quello il quale mi esibì
l’opportunità di riguadagnare la mia Patria, come a suo luogo
racconterò.

Rammentasi forse il Leggitore, che allor quando soscrissi alle
Condizioni, colle quali mi fu accordata la libertà, ve ne avea che
troppo non mi gustavano, perchè a mio riguardo erano troppo vili. Ma
immediate che creaco fui _Nardac_, lasciarono d’obbligarmi, e
l’Imperadore, (e in questo convien fargli la dovuta giustizia) non me
n’ha mai battuto becco. Nulla di meno poco tempo dopo mi si presentò
l’occasione di rendere a Sua Maestà, a quel che per lo meno
m’immaginava, un segnalatissimo servigio. Nel più profondo d’una tal
qual notte fui risvegliato da’grid i d’un infinito numero di persone,
che ad ogni instante ripetevano il termine _Burglum_. Molti domestici
dell’Imperadore penetrarono la calca per pregarmi d’essere immediate
alla Regia, ove per la trascuratezza d’una Damigella d’onore, che in
leggendo un Romanzo si era addormentata, stavasene in fuoco
l’Appartamento dell’Imperadrice. Fui in piedi in un momento, e
comandatosi che anima vivente non attraversasse i miei passi; col
benefizio d’un bel chiaro di Luna, feci in modo che guadagnai il
Palazzo senza aver posto piede su creatura umana. Trovai molti uomini che
aveano di già presentate delle scale all’Appartamento, e che tenevano
alla mano una quantità di secchie di cuojo; ma l’acqua n’era
discosta. Erano quelle secchie della grandezza d’un ditale da cucire. I
poveri uomini me ne riposero in mano il più che loro fu possibile; ma a
cagion della violenza della fiamma; poco valsero. Avrei potuto con
facilità smorzare il fuoco col mio vestito; ma per disgrazia, la fretta
di correre al soccorso, me l’avea fatto lasciar addietro. A prima
giunta non vi scorgeva io rimedio di sorta, e l’incendio divorato
avrebbe, senz’altro, quel magnifico Palagio, se, per una prontezza di
spirito, che confesso non essermi troppo ordinaria, avvertito non mi
fossi d’un espediente maraviglioso. La sera avanti aveva io
copiosamente bevuto d’un saporitissimo vino, che essi chiamano
_Glimigrim_, (i _Blefuscuani_, _Flunec_,) il quale all’estremo è
diuretico. Per la massima delle buone fortune, non ne aveva io per anche
renduta goccia. Il calore che la prossimità delle fiamme cagionato mi
avea, gli sforzi da me impiegati per estinguerle, e la qualità del
bevuto vino, pareva si fossero riuniti per eccitarmi ad orinare; il che
feci in copia tale, e con tanta desterità, per rapporto a’luoghi che
presi io avea di mira, che in tre minuti il fuoco onnina mensmorzossi, e
il rimanente del superbo Edifizio, onde la struttura costati aveva tanti
secoli, felicemente si conservò.

Cominciava ad albeggiare il giorno, quando fui di ritorno al mio
domicilio, senza aver praticati i dovuti complimenti di congratulazione
con l’Imperadore; poichè, non ostante che gli avessi prestato un
servigio importantissimo, non era io accertato che ei si fosse
compiaciuto del modo: essendo che, per Legge fondamentale dell’lmperio,
è un delitto capitale l’orinare nel ricinto del Palagio, e ciò senza
distinzione nè di grado, nè di nascimento. Ma alquanto respirai, a
vendo avuta il Monarca la bontà di farmi intendere, che avrebbe egli
rilasciato un ordine perchè io fossi provveduto di Patenti di
suppressione, che tuttavia non ho mai ottenute. E fummi detto sotto
sigillo di segretezza, che l’Imperadrice avea conceputo un tal orrore
per ciò che io operato avea, che si era ella ritirata nell’altro
angolo del Palagio, con ferma risoluzione che in verun tempo non si
sarebbe riparato in uso di lei, l’Appartamento danneggiato dal fuoco,
Si aggiunse, ch’ella eziandio pensava di vendicarsi di me; ma che
a’soli suoi più intimi confidenti, comunicato aveva il suo disegno.



CAPITOLO VI.

Scienze, Leggi, e Costumanze degli Abitanti di Lilliput. Maniera di
allevare i loro Figliuoli. Un qual modo vivesse in quel Paese l’Autore.
Giustificazione d’una delle principali Dame della Corte.


TUtto che io serba a un particolare Trattato la descrizione di
quell’Imperio, non lasciero nulla di meno di offrirne qualche generale
idea a’miei Leggitori. La statura de’naturali del Paese non è
affatto affatto di sei pollici: e la proporzione medesima di piccolezza
ha luogo, rispetto agli altri animali tutti, del pari che agli alberi ed
alle piante. Per esempio: i Cavalli ed i Buoi più grandi che io abbia
veduti, più alti non erano di quattro o cinque pollici; ed i Castrati,
d’un pollice e mezzo, poco più, poco meno. Le lor Oche sono della
grandezza delle nostre Allodole; e così del resto perfino a’loro
animali più minuti, che scappavano a’miei sguardi; ma la Natura ha
proporzionati gli occhj de’_Lilliputziani_ agli oggetti ond’ella gli
ha circondati. E’acutissima la loro vista, ma non troppo si allunga: e
per ispiegare con qual esatezza ravvisan eglino le più piccole cose,
purchè non ne sieno lontani, vidi un giorno, con piacere sensibilissimo,
un Cuciniere spiumando un’Allodola, che era più piccola d’una Mosca
ordinaria d’_Europa_; e una donzella passando un filo invisibile di
seta, pel buco d’un’aguglia altresì invisibile. Sette piedi
d’altezza anno i lor alberi più eminenti; voglio dire, que’del gran
Parco Reale; alla cui sommità poteva io arrivar per appunto col pugno
chiuso. Trovansi nella proporzione medesima gli altri vegetabili: ma è
d’uopo che anche il Leggitore s’immagini qualche cosa.

Parlerò ora qualche poco delle Scienze, che da molti Secoli presso loro
fioriscono. E’singolarissimo il loro modo di scrivere; non già dalla
sinistra alla destra, come fanno gli _Europei_; nè della destra alla
sinistra, come gli _Arabi_; nè dall’alto al basso, come i _Chinesi_;
nè dal basso all’alto, come i _Cascajani_; ma in traverso, da un
angolo all’altro, come le Dame in _Inhgilterra_.

Seppelliscono i loro morti co’piedi in alto, e la testa al basso,
essendo opinione invalsa, che in undici mila Lune tutti risorgeranno; che
in questo frattempo, la Terra (che essi credono essere una superficie
tutta piana,) si rivolgera sossopra, e che per tal mezzo, al tempo della
Risurrezione, tutti si troveranno in piedi. Confessano pero i loro Saggj,
che è assurda cotale Dottrina, ma il costume è sempre il medesimo, per
compiacenza del Volgo.

Avvi in quell’Imperio alcune Leggi d’un genere assai singolare, onde
io patirei la tentazione di farne l’Apologia, se direttamente a quelle
della prediletta mia Patria non contrariassero. Risguarda i Querelanti la
prima, di cui ne faro menzione. Col più severo rigore si puniscono tutti
i delitti di Stato; ma se la persona accusata produce chiare pruove della
propria innocenza, a una morte ignominosa è condannato l’Accusatore, e
i suoi beni servono a risarcire l’imputato del perdimento di tempo di
lui, del risico che egli ha corso, de’disagj del carcere, e delle spese
fatte per la propia difesa: Che se non bastano gli averi del Dinunziante,
ha la cura di supplirvi l’Imperadore. Sua Maestà eziandio concede al
giustificato qualche sonoro contrassegno di favore; e con pubblico Bando;
dell’innocenza di lui tutta la Città n’è instruita.

Appo que’Popoli è spacciata la frode come un misfatto, più enorme del
furto, e perciò, quasi sempre, ella è punita con pena capitale. Mercè
che mi dicevano alcuni, con un poco di accortezza, e di lume di ragione,
può l’uomo guardarsi dalle ruberie; ma infinitamente è più difficile
il guarentirsi dagl’inganni: e come il Commerzio è un de’principali
vincoli della Società: se premessa fosse, o tollerata la frode, un
Mercatante guidone sempre avrebbe un gran vantaggio sul galantuomo.
Ricordomi che un giorno intercedei presso Sua Imperial Maestà, a favore
d’un criminoso, il quale avea asportata al suo Padrone una gran somma
di danajo, che egli ricevuta avea per ordine di lui. Per minorare il suo
mancamento, mi avvertj di dire, che tutto il suo male consisteva
nell’aver abusato della fidanza del Padrone: ma l’Imperadore trovò
essere una mia mostruosita, allegare per difesa l’aggravio medesimo del
delitto, e negar non posso che mi vidi alle strette di ricorrere, per
soddisfattoria risposta, al comune passo: _che ogni Nazione ha le sue
usanze_: e tuttavia non potei allegarlo senza arrossirne.

Comechè per ordinario noi chiamiamo ricompensa e gastigo, i due massimi
perni onde aggirasi tutto il Governo, confesso che i _Lillipuziani_ sono
il solo Popolo, appo cui io abbia veduta in uso una tale instituzione.
Chiunque può dar pruove di aver esattamente osservate la Leggi del suo
Paese per lo spazio di settanta e tre Lune, ha il diritto di certi
Privilegj a misura della propia qualità, e del propio stato; e riceve
una tal qual somma di danajo a proporzione. Resta egli altresì onorato
col titolo di _Snilpall_; che disegna la fedeltà, con la quale ha egli
osservate le Leggi; ma questo titolo alla posterità di lui non discende.
Risguarda quella Nazione come un prodigioso difetto fra di noi, che
l’osservanza delle Leggi, dalle sole punizioni, senza ricompensa di
sorta, sia sostenuta. E per questa ragione nelle Corti di Giustizia di
quell’Imperio, è dipinta con sei occhj dinanzi questa Divinità, con
altrettanti al di dietro, e con uno per ciascun lato, per rappresentare
la sua circonspezione: e con un sacco riempiuto d’oro nella sua destra
mano; e nella sinistra una spada nel fodero, per dimostrare che ella più
inclina a’premj, che a’gastighi.

Nella scelta che fan que’Popoli delle persone destinate a qualunque
impiego, più badano alla virtù, che all’abilità; mercè che, poichè
è necessario che fra gli uomini vi abbia un Governo; credon essi che una
ordinaria misura d’intelligenza sia sufficente per supplirvi; e che non
fu mai intenzione della Provvidenza, che l’amministrazione
de’Pubblici affari fosse un enigma, il cui termine, essere non potesse
indovinato che da un picciol numero di persone d’un genio superiore,
che cadaun secolo, una, o due ne produce appena: ma suppongono che ogni
uomo ha la potestà d’astenersi dalla menzogna, e di praticar gli
obblighi, che gli sono perscritti. Or la pratica di questi obblighi, di
con essi, fiancheggiata da un poco di esperienza, e da una somma dritta
intenzione, renderà qualunque uomo capace di servire al proprio Paese,
purché quel solo picciol numero d’impieghi se n’esenti, che dello
studio ricercano. Ma, essi aggiungono, sì poco è vero che da talenti
superiori possa essere supplito un difetto di virtù, che, pel contrario,
non possono mai i grand’impieghi cader in mani più pericolose, quanto
in quelle d’uno scellerato di abilità; perchè inclinato a far del
male, possiede tutta l’autorità, e tutta la necessaria industria per
rendere soddisfatto un prurito sì abbominevole.

An eglino un’altra assai riguardevole Legge; ed è questa, di non
ammettere a runa Pubblica Carica coloro che ni egano una Provvidenza:
imperocchè; se protestano i Principi d’essere della Provvidenza i soli
Luogotenenti; i _Lillipuziani_ dicono, che è una cosa la più assurda
del mondo per un Principe, l’impiegar uomini che non confessano
quell’autorità medesima, sotto cui egli opera.

In riferendo tutte queste Leggi, io non parlo che delle Instituzioni
primitive; non potendosi, per altro negare, che da molti anni in qua
estremamente quel Popolo degenerato non abbia. Per esempio; la costumanza
infame d’elevarsi ad eminenti Cariche, e d’essere onorato co’più
luminosi caratteri di distinzione, per essersi esercitato a ben danzare
sopra la corda, a saltare al di sopra del bastone, e al guizzarvisi pel
di sotto, non si era introdotta che dall’Avolo dell’Imperadore
Regnante; e non era pervenuta al segno onde io la vidi, che per le
fazioni che lo Stato laceravano, e che tutte a segnalarsi con la più
vile delle destrezze, andavano in traccia.

E’fra loro l’ingratitudine un delitto capitale; provando essi con la
Ragione, che ogni uomo, che mal corrisponde col suo Benefattore, deesi
per necessità riputare come l’inimico del Genere umano in generale,
onde questi ricevuta non ha veruna beneficenza, e che per conseguenza
quegli è indegno di vivere.

Eccessivamente dalle nostre differiscono le lor cognizioni in proposito
agli obblighi de’Genitori, e de’Figliuoli. Come la congiunzione del
maschio con la femmina è fondata sopra una inclinazione stabilita dalla
Natura per la propagazione di tutte le spezie, pretendono i
_Lillipuziani_ che l’Uomo e la Donna sien portati l’un verso
l’altro, come il rimanente degli Animali, per motivi di concupiscenza,
e che la tenerezza loro pe’propj figliuoli, abbia pur la sua origine da
una Legge della Natura: per questa ragione son eglino persuasi, che un
Figliuolo non è obbligato a veruna riconoscenza verso suo Padre, per
averlo generato; nè verso la Madre per averlo messo al mondo: il che,
avutasi riflessione alle miserie dell’umana vita, non è in se medesimo
nè una beneficenza, nè conferito come tale da’Genitori, che allora a
tutto altro pensavano. Somiglianti ragionamenti, ed alcuni altri della
medesima spezie, egli anno determinati a non affidare a’Padri
l’educazione de’loro Figliuoli, bensì a stabilire in cadauna Città
pubblici Collegj, ove tutti i Genitori, eccettuatine i soli Borghigiani,
e i Campajuoli, sono obbligati di mandare i propj Figli d’entrambi i
sessi, immediate che toccano l’età di venti Lune; supponendosi che
allora cominciano ad essere idonei all’instruzione. Cotali Scuole sono
di differenti generi, secondo la differente qualità de’fanciulli. Sono
incaricati molti abilissimi Professori di allevargli secondo la
condizione de’loro Padri; ed eziandio secondo il propio lor genio, e le
proprie loro inclinazioni. Dirò ora qualche cosa de’Collegj
de’Giovani; e in progresso, di que’che alle Donzelle son destinati.

Di dotti Professori, e d’esperti Sotto-Maestri, son provveduti i
Collegj de’Ciovani d’un illustre nascimento; e i vestiti, e la
natritura di questi, son semplicissimi. Inculcansi loro de’principj
d’onore, di giustizia, di coraggio, di modestia, di clemenza, di
Religione, e d’amor per la Patria. Si tengono sempre occupati in
qualche cosa; se si eccettua il tempo, da essi impiegato ne’loro pasti,
e nel dormire; ed ancora è molto brieve questo tempo. Due ore per cadaun
giorno son destinate pei loro passatempi, i quali in esercizj di corpo
consistono. Per fino all’età di quattr’anni, altrui gli veste, ma
poscia son tenuti a vestirsi essi medesimi, per quanto eminente possa
essere il loro carattere. Non anno la permissione d’addomesticarsi con
servidori; ma fra essi soli si trastullano, e sempre in presenza d’un
Professore, o di qualche Sotto Maestro; il che gli tien guardati da
quelle impressioni di sciocchezza, e di vanità, cui soggiacciono i
nostri Figliuoli. Due sole volte all’anno ammettonsi i loro Padri a
vedergli, e la visita non eccede lo spazio d’un ora. Si accorda loro
uno scambievole abbracciamento nell’entrare, e nell’uscire; ma il
Professore, che in simili occasioni non manca mai di sua presenza, non
foffre che il Padre parli all’orecchio del figliuolo; che gli attesti
una sciocca tenerezza, o il regali di confetti, od altre golosità. Se la
pensione pel mantenimento, e per la nutritura di qualche ragazzo non è
sufficientemente corrisposta, sonovi Imperiali Uffiziali che costringono
al necessario esborso.

I Collegj pe’Figliuoli di persone di minor carattere, come di
Mercatanti, d’Artisti, e d’altri, son regolati nella proporzione
medesima. I destinati a qualche mestiere, son messi in pratica in età
d’anni undici; laddove gli altri, che appartengono a Signori di
distinzione, se ne restano ne’lor Collegj perfino a’quindici; il che,
presso noi, riviene a venti e un anno: Ma nel frattempo degli anni tre
ultimi, si diminuisce a grado a grado il loro sugettamento.

Ne’Collegj delle Donzelle, sono allevate le Giovinette a un dì presso
come i Ragazzi, con la sola differenza, che son elleno abbigliate da
persone del loro sesso, ma sempre alla presenza d’un Professore, o
d’un Sotto-Maestro, finchè sieno pervenute all’età di cinque anni;
al qual tempo sono obbligate ad obbgliarsi da se medesime. Che se le
Governatrici loro restano convinte di aver lor raccontate novelle di
Sogni, d’Apparizioni, e d’altre somiglianti impertinenze, onde in
_Europa_ le fantesche nostre son solite di guastare l’immaginazion
de’figliuoli, son elleno per ben tre volte scopate in pubblico,
imprigionate per un anno, e mandate in perpetuo esilio nella parte più
disabitata di tutto l’Imperio. Quindi ne deriva, che le Giovinette, del
pari che gli stessi uomini, d’essere scioccamente paurose arrossiscono.
Avvi un’altra differenza fra l’educazione di questi, e di quelle;
cioè, che gli esercizj delle Donzelle non sono così violenti; che
prescrivonsi loro alcune regole sopra l’economico governo; e che non
avanzano come i Giovani i loro studj, comechè per altro sieno obbligate
d’applicarsi a delle scienze; onde le nostre Dame d’_Europa_ non ne
posseggono inferior idea. Essendo che egli è massima di quella Nazione,
che fra persone ragionevoli, una Donna esser dee sempre una compagna
ragionevole, e ornata di graziosità, giacchè la giovinezza sempre in
lei non può fiorire. Toccati che abbiano le Vergini gli anni dodici,
(età che è nubile presso que’Popoli,) i Parenti loro, o i lor Tutori
le ritirano in propria casa dopo di aver adempiuto ai più cordiali
ringraziamenti co’Professori; e molto di rado avviene che la
Giovinetta, separandosi dalle sue compagne, non versi delle lagrime.

Ne’Collegj delle Donzelle d’inferior grado, son esse ammaestrate in
ogni sorta di lavori, al loro sesso convenevoli. Rimandansi all’età di
nove anni quelle che son disegnate ad allevarsi in qualche mestiere, od
esercizio; e perfino agli anni tredici si custodiscono le altre.

Le Famiglie de’Ragazzi che d’un ordine inferiore s’instruiscono in
que’Collegj, oltre all’annuale pensione, che è leggerissima, sono
tenute di corrispondere ogni mese all’Intendente della Casa, una parte
di quanto elleno an guadagnato, perchè un giorno servir possa allo
stabilimento de’Giovani, dovendosi riflettere che vi ha una Legge, la
quale regola la pramatica del dispendio de’Parenti; mercè che, dicono
i _Lillipuziani_, è cosa alquanto ingiusta, che persone plebee; Per
rendere soddisfatto il propio capriccio, procreino una nidiata di
figliuoli, che certamente per le sciocche spese de’loro Padri, non
potranno un giorno non essere a carico del pubblico. Quanto alle persone
riguardevoli, s’impegnan esse, che ciascuno de’loro figliuoli avrà
una destinata somma proporzionata alla sua condizione; e talj vi sono,
che an l’incarico di provvedere questi fondi; impegno, onde sempre con
saggezza, e con la più esatta giustizia si sciolgono.

I Borghigiani, ed i Campajuoli, custodiscon in propia casa i loro Figli;
poichè disegnati unicamente a coltivar la terra, non è di gran
conseguenza al Pubblico la loro educazione; ma i Vecchj di loro, e
gl’infermi, son curati, e nodriti negli Spedali, non sapendosi in quel
Paese cosa sia il dimandare limosina.

Forse che quest’è il luogo che il Leggitore resti informato del metodo
onde io vissuto sono in quella Regione, per lo spazio di nove mesi, e
tredeci giorni di mio soggiorno. Quanto a’miei mobili, consistevan
essi, principalmente, in una tavola, e in un sedile, che io stesso avea
lavorato per uso proprio, servendomi de’maggiori alberi del Parco
Reale. Dugento Cucitrici impiegate furono per farmi delle camiscie, e per
cucire i pannilini del mio letto, e della mia mensa. Questa biancheria
era della più grossa qualità: ma siccome a dispetto di tale
circostanza, non avrei potuto prevalermene; così esse ebbero
l’antivedimento di raddoppiarla molte volte, e oltracciò di
trapugnerla, a guisa d’una sottana d’_Europa_. D’ordinario, tre
pollici larghi sono i loro pannilini, e tre piedi formano la loro maggior
tirata. Affinchè le Cucitrici potessero prendermi la misura, mi prostesi
a terra; si mise l’una sopra il mio collo, e un’altra verso la metà
della mia gamba; tenendo cadauna per l’estremità una fune, in tempo,
che una terza misuravane la lunghezza con una spezie di braccio, lungo un
grosso dito.

Dopo ciò, misurarono il mio pollice dritto, e tanto loro bastò;
imperocchè con un calcolo di Matematica, avean elleno compinato che il
giro del pollice, preso due volte, riveniva a quello del pugno; e che il
giro del pugno due volte preso, corrispondeva a quello del collo; e
finalmente che il replicato giro del collo, compone quello del mezzo. Per
altro, non era necessario tutto questo calcolo, avendo io stesa a terra
la vecchia mia camiscia per servir loro di modello; e dir deggio a loro
gloria, che l’imitarono perfettamente bene. Dietro i miei vestiti
faticarono trecento sarti, ma valevansi essi d’un altro metodo per
prendermi la misura. Mi messi ginocchione; ed eglino inalberarono una
scala, che dalla terra arrivava al mio collo, e montata da un di loro la
scala medesima, perpendicolarmente ei lasciò cadere dal collo della
camiscia perfino a terra una corda; il che appuntino riveniva alla
lunghezza intera del mio vestito; ma il mezzo del corpo e le braccia, me
gli misurai io medesimo. Compiuti che furono gli abiti miei, (dietro cui
io feci travagliar i Sarti in mia Casa, perchè le loro potuto non
avrebbono contenergli,) aveano gli abiti stessi, l’aria di quei lavori
che le Dame _Inglesi_ formano, cucendo insieme una infinita di differenti
frusti; con tale varietà però, che i miei vestiti erano tutti d’un
solo, e medesimo colore.

Da trecento cucinieri si apprestavano le mie vivande, stando essi
alloggiati colle loro famiglie accosto della mia abitazione sotto tende,
ove ognuno avea la cura d’imbandirmi due piatti. Era mio costume di
prendere in mia mano una ventina di coloro che mi serviano in tavola, ed
avevane più d’un centinajo che se ne restavano a terra, gli uni con
piatti, ed altri con l’intera bottiglieria de’liquori. A misura che
io bisognava di qualche cosa, i miei domestici, che erano sulla tavola,
si valevano con grande artifizio d’una carrucola per ritraerla a se,
presso poco come in _Europa_ si traggon le secchie da un pozzo. Uno
de’loro piatti conteneva una buona boccata; ed assai agevolmente, in un
sol tratto, io mi traccannava una delle loro bottiglie di vino. Il loro
Castrato non è sì buono che il nostro; ma in ricompensa è
squisitissimo il loro Bove. Mi ricordo d’averne mangiato un taglio di
coscia, che mi obbligò a tre boccate; ma ciò avviene di rado.
Stranamente stupivano i miei servidori nel vedermi a mangiar le ossa,
come facciamo nel nostro paese dell’ala dell’Allodola. Una delle lor
Oche, o uno de’loro Galli d’Indie, non mi costava la pena che d’un
sol boccone; e confessar deggio, che in fatto di dilicatezza, la vincono
sopra i nostri, cotali sorte d’uccellami. Rispetto a’loro Uccelli
d’alquanto minor mole, venti, o trenta, io potea metterne sulla punta
del mio coltello.

Sua Imperial Maestà informata della mia maniera di vivere, volle un
giorno aver la sorte (questi sono i termini di lei,) di pranzar meco.
Venne ella accompagnata dalla illustre sua Famiglia: ed io ebbi
l’attenzione di collocargli tutti in seggj d’appoggio sopra la mia
tavola, rimpetto a me, colle loro Guardie che gli circondavano.
_Flimnap_, il Gran Tesoriere, intervenne anche egli a un tal convito, e
teneva in mano la sua bacchetta bianca. Osservai più d’una volta che
ei mi guattava di mal occhio, ma senza manifestarne il menomo indizio; ed
io in apparenza non mangiai che con più appetito, tanto per far onore
alla mia cara Patria, che per riempiere la Corte di ammirazione.
Persuasissimo io sono, che questa visita dell’Imperadore ha recata
opportunità a _Flimnap_ di rendermi cattivi uffizj presso il suo
Padrone. Fu sempre questo Ministro, segreto mio nemico, comechè
esteriormente praticassemi più cortesie, che sembrava non
permettergliele il brusco suo temperamento. Rappresentò egli
all’Imperadore, che il pubblico erario si trovava in istato pessimo,
che egli era obbligato di prender a prestito del danajo a grosse usure;
che i biglietti del Tesoro circolar non poteano che a nove _per cento_ di
perdita, che in pochissimo tempo io avea costato a Sua Maestà più
d’un milione e mezzo di _Sprugs_, (che sono le loro più massicce
monete d’oro della grandezza d’un tremolante;) e che, salvo un
miglior parere, ei consigliava il Principe a licenziarmi a prima apertura.

Come io fui la cagione, tutto che innocente, che una Dama del primo
ordine fosse assalita nel suo onore, innanzi che più stendermi, egli è
forza che di giustificarla io procuri. Si era messo in capo il Tesoriere
d’essere geloso della propia moglie; essendo che pessime lingue gli
aveano rapportato che ella era impazzita di me, ed eziandio perchè alla
Corte erasi sparsa voce, che ella una volta venuta fosse in mia casa. Io
protesto solennemente che queste sono infamissime calunnie, onde la Sposa
del Tesoriere non ha mai contribuito; non avendo io per tutta la mia vita
ricevuto per parte di lei, che contrassegni d’amistà innocenti. Vero
è bensì, che ella sovente mi visitava, ma sempre in pubblico, nè mai
senza essere accompagnata da tre persone; che per ordinario erano sua
Sorella, sua nipotina, ed alcuna delle sue amiche; ma ciò non era cosa
speziale di lei sola; poichè molte altre Dame della Corte frequentemente
venivano a ritrovarmi. Ed io me ne appello a tutti i miei domestici, se
in ni un tempo an eglino veduta Carrozza alla mia porta, senza sapere chi
fossero le persone che in essa vi stavano. In somiglianti occasioni,
immediate che un servidore avea mi avvertito che alla mia porta trovavasi
una Carrozza, il mio costume si era di calarvi in un instante, e dopo di
aver salutato chi mi visitava, di prendere esattamente in mia mano la
Carrozza, e i due Cavalli, (che se ve n’erano sei, l’Ajutante del
Cocchiere distaccavane sempre quattro,) e di collocargli sopra la mia
tavola, d’intorno a cui regnava una sponda di cinque pollici di
altezza, per timore di qualche accidente. Mi è accaduto, non di rado, di
aver quattro Cocchj in un sol tempo sopra la mia tavola, ed io starmene
nel mio sedile divertendo la Compagnia. Più d’un dopo pranzo mi
ricreai col maggior piacere del mondo in tal sorta di conversazione. Ma
io ardisco sfidare il Tesoriere, e i suoi due Querelanti _Clustril_, e
_Drunlo_, (ne pubblico il nome per isvergognarli,) perchè pruovino se ni
uno sia mai venuto incognito in casa mia, all’eccezione del Segretario
_Keldresal_, che non vi si portò se non per ordine espresso
dell’Imperadore, come par mi di averlo raccontato. Insistito non avrei
per sì lungo tempo sopra quest’articolo, se non vi si fosse
interessato l’onore d’una gran Dama; per non dir niente di me
medesimo; tutto che allora fossi _Nardac_; carattere di cui non è
investito il gran Tesoriere stesso, sapendo ognuno che egli non è che
_Cumglum_; titolo, che ha la proporzione medesima con quello onde io
stava onorato, che l’ha il titolo di Marchese con quello di Duca in
_Inghilterra_, comechè, per altro, per ragione dell’impiego suo, ei
nel passo mi precedesse. Cotali callunie, che per un accidente che quì
non è d’uopo di riferire, mi si sussurrarono alle orecchie, furono la
cagione che _Flimnap_, per lo spazio di qualche tempo, scavasse la mina
alla sua sposa, ma assai più a me; ed ancorchè alla fine siasi egli
disingannato, e rappattumato si sia con esso lei non potè mai
perdonarmela di avermi preso in sospetto contra ragione, e riuscivvi pure
per farmi togliere la grazia dell’Imperadore, il quale, per dir vero,
lasciavasi un po troppo reggere da questo Favorito.



CAPITOLO VII.

L’Autore; essendo informato che i suoi nemici intentavano d’accusarlo
d’Alto-Tradimento, rifugge a Blefuscu. Maniera ond’egli vi è
ricevuto.


INnanzi di narrare l’uscita mia di _Lilliput_, vuol il buon ordine che
chi legge resti instruito de’motivi, che ad appigliarmi, e ad eseguire
un tal disegno, la spinta mi diedero.

Tutto ciò che chiamasi Corte, era stato fin allora per me una Terra
incognita; poichè la bassezza della mia condizione, non aveami permesso
in verun tempo di frequentarne. Per vero dire, la conversazione, e la
lettura, mi aveano impresse sinistre idee delle Corti stesse; ma creduto
non avrei mai, che la propia mia esperienza dovesse un giorno rendermi
convinto dell’aggiustatezza di queste idee, in un paese poi molto
lontano, e governato, a quel che io ne pensava, con massime onninamente
differenti da quelle che in _Europa_ son del bell’uso.

In tempo che io mi allestiva pel Viaggio di _Blefuscu_ affin d’umiliare
i rispetti miei a quell’Imperadore, un Signor di Corte di grande stima,
(a cui, in tempo ch’ei col Principe se la passava male, aveva io
renduto un insignissimo servigio,) venne nottetempo alla mia casa in
seggetta chiusa, e senza farmi avanzar il suo nome, chieder mi fece se
forse ei non mi recherebbe disturbo. Licenziati i portatori, misi la
seggetta, ed il Signore nella tasca del mio giubbone: e poscia a un
servidore di mia confidenza dato ordine di dire ad ognuno che io
indisposto stavamene dormendo, serrai a catenaccio la porta della mia
casa, e mi messi ad attaccare conversazione con colui che praticavami una
visita sì misteriosa.

Dopo i primi scambievoli complimenti, osservai in esso lui una grande
inquietudine, e chiestone del motivo, pregommi di pazientemente
ascoltarlo, giacchè trattavasi d’un suggetto, onde il mio onore, del
pari che la mia vita s’interessava. Ècco in sostanza il discorso
ch’ei mi tenne, di cui immediate, al licenziarsi di lui, n’estesi in
carta i più importanti Articoli.

"Convien sappiate essersi a cagion vostra più volte assembiato il
Consiglio con la più possibile segretezza, e che sono solo due giorni
che Sua Maestà n’è venuta ad una finale deliberazione.

"Evvi noto che il Grande Ammiraglio Skyris _Bolgolam_, poco men che dal
momento del vostro arrivo, fu sempre vostro mortal nemico. Non so quali
esser possano i primi motivi dell’aversione di lui: ma egli è
certissimo che ella di molto rinvigorì, dopo il felice successo della
vostra impresa contra l’Armata di _Blefuscu_; perchè egli risente in
buona coscienza, che con tutta sua Ammiralità, non ne fece in verun
tempo altrettanto. Questo Signore, e _Flimnap_ il gran Tesoriere, la cui
nemistà contro a voi, pel motivo della moglie di lui, e cognita a chi
che sia; _Limtoc_ il Generale, il Ciamberlano _Lalcon_, e _Balmuff_ il
gran Giustiziere, an piantato Articoli di accusa a vostro disfavore, e di
convincervi di Alto-Tradimento, e di alcuni altri capitali delitti essi
presumono."

Persuaso che io era della propia mia innocenza, rendemmi così impaziente
un tal esordio, che stetti sul punto d’interrompere quegli che mi
annunziava novità così strane: ma ei mi pregò di lasciargli proseguire
il discorso; il che fece ne’seguenti termini.

"In riconoscimento della buona amicizia che mi testimoniaste, feci in
modo di restar instruito di tutta la loro cospirazione, e di aver copia
degli Articoli d’accusa; il che non men che la testa mi varrebbe, se
discoprir si potesse."

Articoli d’accusa contro a Quinbus-Flestrin, (l’Uomo-Montagna.)

ARTICOLO I.

TUtto che per una Legge creata sotto il Regno di Sua Imperial Maestà
_Calin_ _Deffar Plune_, sia ordinato: Che chiunque piscerà nel ricinto
del Palagio Imperiale, sarà riputato come reo di Alto Tradimento: Se per
tanto, il mentovato _Quinbus-Flestrin_, in manifesto infragnimento della
suddetta Legge, sotto pretesto di estinguere il fuoco che si era
appicciato all’Appartamento dell’Imperadrice, maliziosamente,
traditoriamente, e diabolicamente ha estinto il detto fuoco
nell’Appartamento summenzionato, situato nel ricinto del suddetto
Palaggio, contra la Legge testè allegata, contra il dovere di lui ec.

ARTICOLO II.

IL suddetto _Quinbus-Flestrin_ condotta avendo l’Imperial Flotta di
_Blefuscu_ al Porto Imperiale di _Lilliput_; ed avendo di poi ricevuto
ordine da Sua Imperial Maestà di rendersi padrone degli altri Vascelli
tutti del detto Imperio di _Blefuscu_, di ridurre l’Imperio stesso in
Provincia per essere da me innanzi governato da un Vicerè; e di
sterminare, non solo tutti i Partigiani dell’antico rito di rompere le
vova rifuggiti in quel Paese, ma eziandio tutti gli Abitanti di
quell’Imperio che sul fatto stesso abjurar non volessero una eresia si
orribile; come un traditore che lui è, ha richiesto di essere dispensato
dal rendere i servigj suddetti, col ridicolo pretesto di non voler
costrignere le coscienze, nè mettere a morte, o ridurre in ischiavitù
un Popolo libero.

ARTICOLO III.

QUando gli Ambasciadori di _Blefuscu_ son venuti ad implorar la pace da
Sua Maestà, manifestò il detto _Flestrin_, che lui era un traditore,
interessandosi a favore degli Ambasciadori sudetti, e tenendogli
ricreati; non ostante che ben sapesse, che eglino a un Principe
appartenessero, il quale poco prima era stato apertamente in guerra
contra di Sua Maestà.

ARTICOLO IV.

ALlestiscesi il suddetto _Quinbus-Flestrin_ (il che direttamente è
contrario all’obbligo d’un fedele Suggetto,) ad imprendere un Viaggio
alla Corte di _Blefuscu_, tutto che sua Imperial Maestà non gliene abbia
accordata la permissione che in voce; e sotto pretesto della detta
permissione, ei divisa di fare il Viaggio suddetto, affin di dar mano
all’Imperador di _Blefuscu_, il quale di fresco è stato in guerra con
la suddetta Maestà Imperiale.

"Vi sono alcuni altri Articoli; ma questi onde l’estratto or ora vi ho
letto: sono i più importanti.

"Negar non si può che ne’differenti contrasti che si suscitarono
nell’incontro di tutti questi capi d’accusa, Sua Maestà non abbia
manifestati contrassegni d’una grandissima clemenza; che ella sovente
allegati non abbia i vostri servigj, e procurato di estenuare le vostre
reità. Acremente insisterono il Tesoriere, e l’Ammiraglio che
soffrirvi si facesse una morte crudele, ed ignominiosa, in appicciando il
fuoco alla vostra casa; e che allor quando voi ne sortiste stessevi in
aguato il Generale alla testa di venti mila uomini, che sarebbero
comandati di ferirvi in faccia, e nelle mani coti saette venenate. Alcuni
pure de’vostri domestici dovean ricevere un ordine segreto di
strofinare le camiscie vostre con un tal qual sugo attossicato; il che in
pochi istantivi avrebbe cagionata una spaventevole ma insieme tormentosa
morte. Appigliossi a un tal consiglio il Generale; cosicchè per molto
tempo vi ebbe pluralità di voci contra de’voi. Ma risoluta Sua
Maestà, se mai si può, di conservarvi la vita, ha staccato il
Ciambellano dal partito de’vostri nemici.

"Nel forte di cotali maneggi, _Keldresal_, Primo Segretario de’segreti
affari, il quale veramente si è sempre manifestato vostro Amico, ebbe
ordine dall’Imperadore di produrre il proprio sentimento: il che egli
fece in un modo il più adattato a confermarvi nell’opinione
avvantaggiosa che avete di lui. Ei confessò che erano grandi i vostri
delitti; ma che non ostante aveavi luogo per la clemenza, la più bella
di tutte le virtù che un Principe adornano; e che da Sua Maestà in un
grado così eminente era posseduta. Disse, che era sì nota ad ognuno
l’amicizia che regnava tra esso lui, e voi che forse il Consesso
Augusto, innanzi a cui ei perorava, lo spaccerebbe in colpevole di
parzialità: che con tutto questo, per ubbidire a Sua Maestà Imperiale,
direbbe con libertà il proprio parere: Che Sua Maestà, in
considerazione de’vostri servigj, e per soddisfare al proprio genio
inclinato alla clemenza, avesse la bontà di conservarvi la vita, e
comandasse che solo vi si cavassero i due occhj, sembravagli che con un
tale espediente, sarebbe in qualche modo appagata la Giustizia, e che
l’Universo tutto esalterebbe perfino alle Stelle l’Imperiale
misericordia, ed altresì la generosità, e la dolcezza di que’che
gustavano dell’onore d’essere suoi Consiglieri: Che la perdita
de’vostri occhj nulla vi toglierebbe delle vostre forze, che potreste,
non ostante, impiegare a favore di Sua Maestà: Che un coraggio cieco non
può non essere più grande, perchè non iscorge verun pericolo: Che il
timore che avevate per gli occhi vostri, era stata l’unica difficoltà
nella vostra intrapresa contra la nemica Armata; e che dovea bastarvi di
vedere per gli occhi de’Ministri.

"Fu altamente rigettato da tutto il Consiglio un tal sentimento.
_Bolgolam_, l’Ammiraglio, non potè contenersi; ma tutto in furia
disse: Che stranamente egli stupiva con quale fronte osasse il Segretario
di persuadere la conservazion della vita d’un traditore: Che i servigj
da voi prestati, per giudizio di tutti gli conoscitori delle Ragioni di
Stato, erano l’aggravio medesimo de’vostri delitti: Che voi, che
eravate capace, in pisciando, di smorzare il fuoco sopra l’Appartamento
dell’lmperadrice, (attentato, che egli nol potea rammemorare senza
raccapricciarsi,) potevate, un giorno, cagionare col medesimo mezzo un
allagamento, e affogare tutti que’che si trovassero nel Palagio.
Aggiunse: Che le forze stesse, con cui v’impadroniste della Flotta
nemica, servir potrebbono in un primo vostro disgusto, per ricondurla a
_Blefuscu_: Che valide ragioni gli facean credere che nel fondo del
vostro cuore nodriste una criminosa inclinazione all’eretico stile di
rompere le vova; e che siccome il tradimento annidasi nel cuore prima di
scoppiar colle azioni, così egli vi denunziava come traditore, ed
instava che foste fatto morire.

"Uniformossi all’opinione di lui il Tesoriere, e rimostrò che era
impossibile che l’Erario di Sua Maestà bastar potesse pel dispendio
del vostro mantenimento: Che tanto era lontano che l’espediente di
cavarvi gli occhj, proposto dal Segretario, fosse un rimedio al male che
si temeva, che pel contrario, secondo tutte le apparenze, non servirebbe
che ad aumentarlo, come ciò provasi con l’esempio di certi Uccelli, i
quali, tolta che si è lor la vista, più ingrandiscono, e più
s’ingrassano: Che Sua Sacra Maestà, e tutto il Consiglio, che erano
vostri Giudici, stavano, in loro coscienza, pienamente persuasi che
avevate meritata la morte; il che era sufficiente per condanarvi, quando
anche contra di voi non ispiccassero quelle pruove che dimanda il
precioso della Legge.

"Sua Maestà Imperiale essendo assolutamente portata a salvarvi la vita,
ebbe la bontà di dire: Che poichè il Consiglio avea deciso che la
perdita de’vostri occhj fosse una punizione assai leggiera, protrebbesi
nel progresso farvene soffrire qualche altra. E l’amico vostro, il
Segretario, chiedendo efficacemente di essere udito in proposito
all’obbiezione del Tesoriere, che il vostro mantenimento fosse un
eccessivo aggravio per sua Maestà, disse: Che l’Eccellenza Sua, per le
cui mani passavano tutte le rendite Imperiali, agevolmente a una tale
inconvenienza provveder potea, col diminuire a poco a poco la pietanza
assegnatavi: Che mancandovi la nutritura, vi afievolireste di giorno in
giorno, e senza altro in pochi mesi vi morreste di digiuno: Che essendo
smagrato, e smunto per metà il vostro corpo, più tanto a temersi non
sarebbe il puzzo del vostro cadavere, e che immediate dopo la vostra
morte, cinque o sei mila Sudditi di Sua Maestà, potrebbono in due, o tre
giorni, scarificar le vostre ossa, ed interrarne il carname in diversi
luoghi, affine di prevenire qualunque infezione, lasciando lo scheletro,
come un monumento di ammirazione per la posterità.

"In questo modo, per la strettissima amicizia del Segretario, ebbero
felicemente fine tutte queste discussioni. Espressissimamente si proibì
di rivelar il progetto di farvi morire a grado a grado; ma si estese
ne’Registri la sola sentenza di cavarvi gli occhj. Non vi ebbe che
l’Ammiraglio, il quale trovasse che voi foste trattato con troppa
umanità, e che volesse a tutto costo la vostra morte senza ritardamento.
Venivagli inspirato questo furore dall’Imperatrice, che non ha mai
potuto perdonarvi l’indecente, ed irregolare metodo, onde estingueste
il fuoco appiedatosi all’Appartamento di lei. Da quì a tre giorni, il
vostro Amico, il Segretario, verrà a visitarvi per leggervi gli Articoli
d’accusa intentata contra di voi: vi notificherà poscia la bontà
statavi praticata da Sua Maestà Imperiale, e dal Consiglio, di non
condannarvi che a perdere solamente gli occhj; sentenza soavissima, a cui
il Monarca non dubita che non siate per soscrivere con riconoscimento: E
perchè sia ben fatta l’operazione, saran presenti venti Chirurgi di
Sua Maestà, quando vi si scoccheranno appuntate saette nelle pupille.

"Io lascio alla vostra prudenza di prendere le più adattate misure sopra
ciò che vi ho riferito. Quanto a me, affin di togliere qualunque
sospetto, con la maggior segretezza mi ritiro."

Ei lo fece, e abbandonommi in preda a’più crudeli agitamenti. Era un
costume introdotto da quel Principe, e dal Ministero di lui, (costume,
che seppi accertatamente non essere stato messo in uso che in quel
tempo,) che quando la Corte avea il disegno di praticare qualche barbara
esecuzione, fosse, che la vittima immolata esser dovesse al risentimento
dell’Imperadore, o all’odio d’un Favorito, il Principe perorava al
suo Consiglio, allargandosi sopra la propia bontà, e sopra la propria
clemenza, come sopra due caratteri già noti a tutto il Mondo. Dopo
d’essersi pronunziato, s’imprimeva immediatamente il discorso, e si
spargeva subito per tutto l’Imperio. Non ispaventavasi mai tanto il
Popolo, se non quando riceveva tali sorte di prove della benignità
dell’Imperadore; imperocchè si avea riflettuto, che a proporzione che
si era più esaltata la clemenza di lui, altrettanto il supplizio era
inumano, e maggiore l’innocenza del condannato: E per quello spetta a
me, ingenuamente confesso, che non essendo io destinato ad essere uomo di
Corte, ne pel mio nascimento, nè per la mia educazione, io era un
giudice così inesperto, che ravvisar non sapeva nella sentenza grazia di
sorta; ma che pel contrario, sembravami, anzi che mite, rigorosissima la
sentenza medesima. Io volea talvolta difendere la mia innocenza; mercè
che, tutto che negar non potessi gli fatti prodottisi contra di me, non
ostante egli era infallibile che nella mia condotta non aveavi veruna
reità, e che perciò avrei potuto, come già il divisava, rimettermene
alla decisione de’Giudici. Ma scappommi ben presto una tal vaghezza, da
che richiami alla memoria la possanza de’miei nemici, e la corruttela
delle giudicazioni. Mi trovai un giorno terribilmente tentato di mettermi
in difesa; giacchè in tempo di mia libertà, nulla potuto avrebbono
contro a me le forze tutte dell’Imperio, e mi sarebbe riuscito assai
agevole di distruggere, a colpi di pietra, tutta la Capitale: ma con
prontezza rigettai, non senza orrore, un tal progetto, rammentandomi il
giuramento impegnato all’Imperadore, le grazie che io ne avea ricevute,
e il titolo di _Nardac_, onde egli aveami onorato. Non aveva io
bastevolmente appreso il sistema di gratitudine de’Cortigiani, per
credere che l’ingiustizia, che s’intentava di praticarmi, rendesse
soddisfatte tutte le obbligazioni che io doveva all’Imperadore.

Presi finalmente una risoluzione che forse da taluni sarà biasimata, e
per quello ne penso non contra ragione; dovendo io confessare d’essere
debitore della conservazione de’miei occhj, e per conseguenza di quella
della mia libertà, alla mia precipitazione, e al mio poco di esperienza;
perchè se allora conosciuto avessi il genio delle Corti, come il feci
dappoi, e altresì la condotta loro a riguardo di criminosi che lo erano
molto meno di me, volentieri mi sarei suggettato a sì facile punizione.
Ma trasportato dal fuoco della giovinezza; e a vendo, d’altra parte, la
permissione di andar ad umiliar i miei ossequj all’Imperador di
_Blefuscu_; innanzi che se ne spirassero i tre giorni, tener feci una
lettera all’amico mio Segretario, in cui io gli esponeva il mio disegno
di partir per _Blefuscu_ la mattina medesima; e senza attenderne la
risposta fui al luogo dell’Isola, ove stava sull’ancora la nostra
Armata. Preso un de’maggiori Vascelli di guerra, gli legai alla prua
una fune, e levati i ferri, mi spogliai, e misi i miei vestiti (colla
coltre ch’ebbi attenzione di portar meco,) nel Vascello, e
strascinandolo dietro di me, in parte camminando, e in parte a nuoto,
pervenni al Reale porto di _Blefuscu_, ove il Popolo mi attendeva da
lungo tempo; e furonmi assegnate due guide per condurmi alla Capitale,
che ha il nome medesimo. Perfino alla distanza di dugento verghe dalla
Città portai le guide nelle mie mani, e allora le riposi a terra,
pregandole di notificar il mio arrivo ad uno de’Segretarj, e dirgli ove
io mi trovava, e che mia intenzione si era di attendervi gli ordini di
Sua Maestà. Un’ora dopo n’ebbi in risposta, che Sua Maestà, tutta
l’imperiale Famiglia, e i primarj Signori della Corte, uscivano ad
incontrarmi. A tal nuova, mi avanzai un centinajo di verghe; ed appena
fui a portata d’essere ravvisato, che l’Imperadore, e tutto il suo
seguito; discesero di cavallo, e l’Imperadrice, e tutte le sue Dame,
uscirono delle loro Carrozze, senza che nè pur una di quelle persone
desse indizio di spavento in vedendomi. Mi corcai a terra per baciar la
mano dell’Imperadore, quella dell’Imperadrice. Dissi a Sua Maestà,
che io là mi trovava secondo la promessa, e con la permissione
dell’Imperador mio Signore, per aver la gloria di ammirare un sì
potente Monarca, e affine di prestargli quel serviggio ond’era capace
la mia abilità, e che la fede dovuta al mio Sovrano concedere mi poteva;
ma profondamente me ne tacqui sul proposito della mia disgrazia; poichè
statone io instruito in segretezza, poteva supporre di nulla saperne: e
oltracciò, non poteva immaginarmi che l’Imperadore avesse
l’imprudenza di discoprirne l’arcano, giacchè io più non mi trovava
nelle sue mani: nel che tuttavia restai deluso, come il dirò ben presto.

Io non istancherò il leggitore sopra la relazione distinta del mio
ricevimento, che fu proporzionato alla magnificenza di sì gran Principe;
nè sopra l’imbroglio in cui mi rinvenni, per non aver nè abitazione,
nè letto, essendo costretto di dormir a terra, involto nella mia Coltra.



CAPITOLO VIII.

Per una singolar buona sorte, presentasi all’Autore il modo di lasciare
Blefuscu, e dopo di aver superate alcune difficoltà, sano a salvo alta
sua Patria ei ritorna.


TRE giorni dopo il mio arrivo, standone passeggiando alla parte
Settentrionale dell’Isola, osservai nel mare, in distanza, poco più, o
meno, di mezza lega, qualche cosa che avea l’aria d’un schifo
roversciato sossopra. Mi tolsi le scarpe, e le calze, e avanzando
nell’acqua dugento, o trecento verghe, vidi l’oggetto che la marea
continuava di gettar alla spiaggia, e allora chiaramente distinsi uno
schifo; il quale secondo le apparenze tutte, erasi staccato di un
Vascello, per qualche burrasca. Senza perdere instante fui di ritorno
alla Città, e supplicai Sua Maestà Imperiale di prestarmi venti
de’suoi maggiori Vascelli, e tre mila Marinaj, sotto il comando del
Vice Ammiraglio. Sciolse questa Flotta in tempo che io mi rendei pel
cammino più corto al luogo, donde lo schifo aveva io discoperto, e
trovai che la marea avealo vie più accostato. I Marinaj tutti erano
proveduti di funi di già allestite dalla mia attenzione; avendone
attorcigliate molte insieme, perchè fossero più consistenti. Arrivati
che furono i Vascelli, mi dispogliai, e marciai per l’acqua sin alla
distanza di cento verghe dallo schifo; dopo di che, per arrivarvi, fui
costretto di far a nuoto il rimanente cammino. I Marinaj mi gittarono
l’estremità d’un cavo, che io legai alla parte anteriore dello
schifo, e l’altra estremità a un Vascello di guerra. Ma poco men
inutile fu tutta la mia fatica; perchè non riuscendomi sentir fondo,
operare io non poteva. In tal urgenza, fui obbligato di guadagnar a nuoto
il di dietro dello Schifo, che nella più possibile maniera mi accinsi a
sospignere con una mano, e come mi era savorevole la marea, tanto nuotai
che toccai fondo, non avendo l’acqua che fino al mento. Per lo spazio
di due minuti, o tre, presi alquanto di fiato, e poscia a spignere lo
schifo continuai, finch non più che le mieasoelle dall’acqua erano
coperte; e come allora aveva io superato il maggior imbroglio, presi
d’altre mie funi che erano in uno de’Vascelli, e le legai prima allo
schifo, poscia a nove Navi, che io avea fatte avvicinare a tal effetto.
Essendo propizio il vento, rimburchiarono i Marinaj lo schifo; ed io, in
sospignendo, il loro travaglio agevolai, finchè arrivammo alla distanza
dal lido non più che di quaranta verghe. Ivi attesi che abbassasse
l’acqua, dopo ciò mi portai allo schifo a piedi asciutti, e pel
soccorso di due mila uomini, provveduti di differenti ordini, il
dirizzai, e con grandissimo piacere, pochissimo danneggiato il vidi.

Io non istarò tediando il Leggitore nel ragguagliarlo, che durante lo
spazio di dodici giorni, soffrj mille, e mille stenti, per condurre il
mio schifo al Porto Reale di _Blefuscu_, ove la novella del mio arrivo
attratto avea un infinito numero di Popolo; il cui stupore alla vista di
un sì prodigioso Bastimento, eccede qualunque immaginabile esagerazione.
Dissi all’Imperadore che un destino felice presentato mi avea quello
schifo, per trasferirmi in qualche luogo, donde potrei restituirmi alla
mia Patria, e supplicai Sua Maestà di dar gli ordini necessarj, perchè
mi venisse somministrato quanto occorresse per rassettare, e
vettovagliare lo schifo stesso, e di accordarmi eziandio la permissione
d’andarmene; al che assenti l’Imperadore, dopo tuttavia qualche
obbligante rimbrotto, di voler io abbandonarlo sì presto.

Stupj fortemente di non vedere in quel frattempo a comparire Corriere di
sorta alla Corte di _Blefuscu_, per parte dell’Imperadore di
_Lilliput_, a mio riguardo. Ma intesi dappoi, che Sua Imperial
_Lillipuziana_ Maestà, non potendo immaginarsi che fossemi nota qualche
cosa de’disegni di lei, avea creduto che io solamente mi fossi portato
a _Blefuscu_ per disimpegnare la mia parola conformemente alla licenza
che io ne avea avuta: e che dopo di aver inchinato il _Blefuscuano_
Imperadore, non mancherei fra pochi giorni di ritornamene. Ma finalmente
cominciò ad inquietar la lunga mia assenza, e dopo di essersi consultata
col Tesoriere, e col resto de’suoi macchinatori, inviò ella alla Corte
di _Blefuscu_ Persona di qualità, incaricata d’un esemplare degli
Articoli di accusa contra di me. Rappresentar dovea quest’Inviato
all’Imperadore la clemenza estrema del suo Padrone, il quale
compiacevasi di condannarmi alla sola perdita degli occhj; che io mi era
sottratto alle mani della giustizia, e che se nel termine di due ore io
non fossi di ritorno, sarei dichiarato traditore, e spogliato del mio
titolo di _Nardac_. L’Inviato aggiunse; che per mantener la pace, e
l’amicizia fra’due Imperj, stava il suo Signore in attenzione che Sua
_Blefuscuana_ Maestà rilasciasse gli ordini convenevoli perchè io fossi
ben bene bastonato, e così condotto a _Lilliput_, per esservi punito,
come un ribelle.

L’Imperator di _Blefuscu_, presi tre giorni per consultarsi; fece una
risposta che in complimenti; ed in iscuse sol consisteva. Disse; che il
Monarca di _Lilliput_ ignorar non potea che il progetto delle mie
bastonate era onninamente impraticabile; che non ostante che io asportata
avessi la sua Armata navale, ei non lasciava di professarmi
grand’obblighi per avergli assistito nella stipulazion della pace, che,
qualunque a mio riguardo fosse la cosa, ben presto si sarebbero sbrattati
di me i due Imperi, avendo io rinvenuto sopra la spiaggia un bastimento
sì prodigioso, che era non solo idoneo a contenermi, ma eziandio a
trasportarmi per mare in quale sia si altro Paese; che egli avea
comandato di provveder misi tutto il bisognevole pel mio cammino; e che
in questo modo ei si lusingava che in poche settimane, d’un peso sì
intollerabile sarebbero alleggiate entrambe le Monarchie.

Ritornossene l’Inviato a _Lilliput_ con una risposta di tal tenore; e
l’Imperador di _Blefuscu_ participommi tutto il Trattato; offrendomi,
(ma sotto sigillo di segretezza) la sua protezione, in caso che volessi
restarmene al suo servigio; il che ricusai con la più possibile civil
maniera; perchè, tutto che sincere credessi le sue esibizioni, io mi
avea determinato a non più fidarmi alle Corti, se potessi dispensarmene.
Dissi di più; che giacchè la mia sorta, o buona, o trista, aveami dato
nelle mani un Vascello, io era risoluto di mettermi in mare, piuttosto
ch’essere il motivo della rottura di due sì possenti Monarchi. Non mi
parve l’Imparadore disgustato del mio disegno; ed il caso scoprir mi
fece, che anzi, sì egli, che i Ministri di lui, se n’erano
compiaciuti. Riflessioni tali affrettar fecero la mia partenza, nel che
la Corte, la quale altro non desiava che di vederla effettuata, ebbe la
bontà di secondarmi. Cinquecento Operai impiegati furono nel lavoro di
due vele per lo mio schifo; e queste vele furon formate della più grossa
tela che trovar si potè, posta tredeci volte l’una in sull’altra. Io
stesso allestj il mio sartiame, ed i cavi, venti o trenta
attorcigliandone insieme. Una gran pietra, che dopo molto stento mi
riuscì di trovare sul lido, mi servì d’ancora. Il grassume di
trecento Vacche valsemi per ispalmare il mio Vascello, e per alcuni altri
usi. Non può credersi quanto io abbia faticato per rintracciar legni di
tal grandezza, che di remi, e d’alberi servir potessero, nel che, non
ostante, molto bene fui ajutato da’Legnajuoli di Nave di Sua Maestà,
che assai a pulirgli contribuirono dopo il mio più rozzo lavoro.

Nello spazio d’un Mese fu tutto lesto: e allora feci chiedere a Sua
Maestà Imperiale se avesse ella qualche cosa a comandarmi, perchè io
divisava d’andarmene. Accompagnato dall Augusta sua Famiglia, uscì
della Regia l’Imperadore; ed io mi prostesi a terra per baciargli la
mano, ch’ei mi porgè con graziosissimo modo. Fecero lo stesso
l’Imperadrice, e le Principesse del sangue. Regalommi Sua Maestà di
cinquanta borse, cadauna di cento _Sprugs_, col suo Ritratto in grande,
che immediate riposi in uno de’miei guanti, per guarentirlo dagli
accidenti. I complimenti seguiti alla mia partenza furono troppi, perchè
io quì ne faccia la descrizione.

Cento Buoi, trecento Pecore, e tante pietanze, quanto quattrocento
Cucinieri apprestar poterono, con biscotto, ed ogni sorta di bevanda a
proporzione, servirono a vettovagliare il mio schifo. Presi meco sei
Vacche, e due Tori vivi; e lo stesso numero di Pecore e di Montoni;
intenzionato di trasferirgli al mio Paese, e di moltiplicarne la razza.
Per loro nutritura, io avea imbarcata una buona quantità di fieno, ed un
sacco di frumento. L’avrei fatto volentieri d’una dozzina di Naturali
del paese; ma a patto veruno non volle aderirvi l’Imperadore, ed oltre
a una diligentissima visita che si è fatta in tutte le mie tasche, Sua
Maestà giurar mi fece da uomo d’onore, di non asportare veruno
de’suoi Suggetti, anche che eglino stessi vi consentissero.

Con tal apparecchio, misi dunque alla vela il ventiquattro Settembre
1701. a sei ore della mattina; e dopo quattro lege, o circa, di cammino
verso Tramontana, essendo il vento a scilocco, scopri i verso l’ore sei
della sera una piccola Isola, lontana una mezza lega a Ponente Maestro, e
che mi parve diserta. A distanza ragionevole dalla spiaggia, lasciai
cascar l’Ancora; e dopo leggermente cenai, e procurai di riposarmi. Sei
buone ore, secondo la mia conghiettura, dormj; mercè, che due ore dopo
d’essermi risvegliato, stavasene spuntando l’Aurora. Facea un bel
chiaro di Luna; e prima che risorgesse il Sole presi la colezione. Levata
l’Ancora col favore d’un buon vento, continuai il cammin medesimo del
precedente giorno; nel che il mio compasso da saccoccia egregiamente mi
servì. Mia intenzione si era di guadagnar, se il poteva, una delle
Isole, che io avea ragione di credere situate al Greco Levante del Paese
di _Diemen_. Nulla vidi per tutto quel giorno; ma nel seguente, verso le
tre ore dopo il mezzodì, essendo discosto, secondo il mio calcolo, venti
e quattro legge da _Belfuscu_, scopri i una Vela che per iscilocco
navigava. Cacciai la scotta sopra di essa, ma corrisposto non fui; con
tutto ciò me le andava accostando sempre più, perchè allenta vasi il
vento. Sforzai tutte le mie Vele, e di là a mezz’ora la ciurma del
Vascello mi ravvisò, e fece un tiro di moschetto per avvertirmi che io
era stato veduto. Egli è invano che io possa esprimere l’allegrezza in
me eccitatasi dalla speranza di rivedere la mia cara Patria, e quelle
persone, onde io era unito con vincoli di tanta tenerezza. Imbroglio il
Vascello le Vele, e fra le cinque e sei ore della sera del venti sei
Settembre l’abbordai: ma quali trasporti di mia gioja nel riconoscerlo
per _Inglese_! Misi le mie Vacche, e le mie Pecore nelle tasche del mio
vestito, e con tutte le mie piccole provvisioni montai il Vascello,il
qual era di Mercanzia, rivenendo dal Giappone pe’Mari di Ponente, e
d’Ostro, e il suo Capitano, nomato _Giovanni Biddel_, era un gran
Galantuomo, e peritissimo nella Marina. Ci trovavamo allora a’trenta
gradi di Latitudine Meridionale; ed il Vascello potea avere cinquanta
uomini di equipaggio, fra quali uno ne rinvenni vecchio mio camerata, col
nome di _Pier Guglielmo_, il qual fece un ritratto vantaggioso di mia
persona al Capitano. Quest’onestissimo uomo mi praticò qualunque sorta
di convenienze, e mi pregò di dirgli donde io veniva ultimamente, ed ove
mi pensava d’indirizzarmi. In pochi termini soddisfeci alla curiosità
di lui, ma egli s’immaginava che io sognassi, e che i pericoli da me
scorsi mi avessero intorbidato il cervello. Su corale disputa, trassi le
mie Vacche, e le Pecore dalla saccoccia, che appena scorte da lui,
confessò di non aver che rispondere a una somigliante spezie di
dimostrazione. Fecegli poscia vedere l’oro regalatomi dall’Imperador
di _Blefuscu_, il ritratto in grande di Sua Maestà, ed alcune altre
curiosità del Paese. Gli presentai due borse, ogniuna di dugento
_Sprugs_; e gli promisi, che giunto che io fossi in _Inghilterra_, gli
avrei dato una delle mie Vacche, e altresì una Pecora pregna.

Nel nostro rimanente viaggio, che generalmente parlando, felicissimo
riuscì, non ci accadde cosa di gran momento, degna della notizia del
Leggitore. Arrivammo alle _Dunes_ il terzodecimo di Aprile 1702. La sola
mia disgrazia fu, che i sorcj mi asportarono una Pecora, onde le ossa,
propi issimamente rosecchiate ritrovai in un cantone. Sbarchai sano, e
salvo, il restante mio gregge, e lo misi all’erba in una prateria a
_Greevich_, ove a perfezione ei s’ingrassò, tutto che il contrario
temuto ne avessi. Non sarebbemi riuscito di tenerlo in vita in un sì
lungo viaggio, se il Capitano non mi avesse somministrati alcuni
de’migliori suoi biscottini, che ridotti in polvere, ed impastati con
l’acqua, egregiamente nodrivano la piccola mia mandra. In mostrandola a
qualificate, ed altre persone, considerabilmente profittai pel poco di
tempo che me ne restai in _Inghilterra_; e innanzi d’inprendere il mio
secondo viaggio, la vendei per secento Scudi. Dopo l’ultimo mio
ritorno, trovai la razza accresciuta di molto, in particolar delle
Pecore; le quali, a quello che io ne spero, contribuiranno assai
all’avanzamento del lanificio, per la finezza della lana loro.

Due soli mesi me ne restai con la moglie, e co’figliuoli; poichè
l’insaziabile brama di veder nuovi mondi, non permettevami un più
lungo soggiorno in mia casa. Provvidi la mia Sposa di mille e cinquecento
Scudi, e ciò che mi restava oltre a questa somma, commutai in danajo, ed
in merci, con la speranza di far fortuna. Mio Zio _Giovanni_ mi aveva
lasciato un picciolo podere che mi fruttava trenta scudi per anno;
cosicchè io non correva il risico di lasciare la mia famiglia in
meschinità, e fuor di questo, io pur avea un’altra piccola tenuta,
onde ritraeva anche di più. _Giannato_ mio figliuolo, così chiamato
dopo suo Zio, studiava allora il Latino, ed era un ottimo ragazzo, e
quanto a mia figliuola _Lisaberta_, (che al presente è ben maritata, ed
ha figliuolanza,) ell’applicavasi a’lavori d’ago. Mi accommiatai
dalla moglie, dal figliuolo, e dalla figliuola, rimescolando con le loro
le mie lagrime, e fui al bordo dell’_Arrisicato_, Vascello di Mercanzia
di trecento botti, destinato per _Surate_, e comandato da _Giovan
Nicola_. Che se i miei Leggitori son tentati dalla curiosità di sapere
gli avvenimenti di questo secondo Viaggio, mo per appunto soddisfatti gli
rendo.


Fine della Prima Parte.



VIAGGIO DI
BROBDINGNAG.

PARTE SECONDA.


CAPITOLO I.

Descrizione d’una furiosa tempesta. L’inviato a terra lo Schifo per
provvedervisi d’acqua: vi s’imbarca l’Autore per iscoprir il Paese.
Egli è lasciato sulla spiaggia, vien preso da uno degli Abitanti, ed è
condotto in Casa d’un Fattor di Campagna. Modo ond’egli vi fu
ricevuto. Descrizione degli Abitanti.


COndannato dalla mia inclinazione, del pari che dalla sorte, a un genere
di vita sempre inquieto ed in moto, dieci mesi dopo il mio ritorno
abbandonai un’altra volta la mia Patria; e alle _Dunes_ il venti di
Giugno 1702. m’imbarcai sopra un Vascello destinato per _Surate_, detto
l’_Arrisicato_, e il cui Capitan Comandante era un tale _Giovan
Nicola_. Perfino all’altezza del _Capo Buona Speranza_, ove demmo a
fondo per provvision di rinfreschi, ci fu il vento più che propizio. Vi
fummo arrivati appena, che ci avvedemmo che l’acqua entrava nel nostro
Vascello: e cotale ragione, unita all i febbre che nel tempo stesso
sorpreso aveva il Capitano, ci determinò a quivi restar sull’ancora
tutto l’inverno, non avendo potuto partircene che sul fine di _Marzo_.
Rimettemmo allora alla Vela, ed avemmo un favorevole tempo perfino allo
Stretto di _Madagascar_. Ma lasciata a Ponente quest’Isola, a un di
presso a cinque gradi di Meridionale latitudine; i venti, che in
que’mari regnano infallibilmente fra il Ponente, ed il Libeccio dal
principiar del Decembre fin al cominciamento di Maggio; e che per tutto
questo tempo egualmente soffiano, sul diciannove d’Aprile si fecero
sentire assai più violenti, e piegarono al Libeccio più che
d’ordinario per lo spazio di venti giorni. Spirato questo termine ci
trovammo al Levante delle Molucche, e presso che al terzo grado di
lattitudine Settentrionale, secondo una osservazione fatta dal Capitano
a’due di Maggio; giorno, in cui una tranquillissima calma successe alla
tempesta che poco innanzi travagliati ci avea; il che produssemi una non
mediocre allegria. Ma il nostro Comandante, che più d’una volta
frequentati avea que’Mari, ci rendè avvertiti d’una vicina burrasca.
Restò compiuta il giorno dietro la predizione di lui; mercè che
cominciò a suscitarsi un vento d’Ostro, che la _Mousson du Sud_
comunementesi chiama.

Vedutosi ad ingagliardire da un instante all’altro, ammainammo la
Civadiera, e ci preparammo ad abbassar il Trinchetto: ma a cagion del
tempaccio, assai faticammo per ottenerne l’intento. Stavasene in alto
mare il Vascello; il che risolver ci fece, anzi che metterci alla cappa,
di scorrere a secco. La tempesta era sì violenta, che sembravaci ad ogni
momento di colar a fondo. Con tutto ciò, per la massima delle nostre
buone fortune, dopo di aver infuriato alcuni giorni, ella si abbonacciò.

Durante il cattivo tempo, che fu seguito da un buon Libeccio, con tanta
forza fummo portai al Levante, che niun de’nostri asserir potea ove noi
fossimo. Abbondavano per anche le nostre provvisioni, il Vascello poco si
trovava danneggiato dalla burrasca, e d’una perfetta sanità godeva
tutto l’Equipaggio; e pure, mancandoci l’aqcua, era crudelissima la
nostra costituzione. Giudicammo che fosse meglio di continuare il cammino
medesimo, che di piegare più al Ponente: il che avrebbe potuto menarci
al Ponente-Libeccio della Gran _Tartaria_, e nel mare _Glaciale_.

A’sedici Giugno 1723. un mozzo di Nave che era ad alto del Parochetto,
discoprì Terra. A’diciassette distinguemmo chiaramente una
grand’Isola, o fosse un Continente, (perochè qual de’due nol
sapevamo,) alla cui parte meridionale aveavi una picciola lingua di terra
sporgente in mare, ed un piccolo seno, tanto nè pur profondo, per
ricevervi un Vascello di cento botti. Ci ancorammo a una lega da questo
seno; e il nostro Capitano spedì una dozzina d’uomini ben armati nello
schifo, co’necessarj arnesi per rintracciarvi dell’acqua. Gli chiesi
la permissione di accompagnargli, per vedere il Paese, e procurar di
farvi qualche scoperta. Posto piede a terra, non vedemmo nè Riviere, nè
sorgenti, ne segno veruno di abitazioni. Costeggiarono i nostri, ansiosi
pur di scorgere se fossevi qualche fiume che mettesse in mare, ed io
dall’altra parte feci, da per me solo, per quasi un miglio, senza
ravvisar altro, che un arrido, e pietroso terreno. Malcontento delle mie
discoperte, adagio adagio me ne rivenni al seno mentovato; ma quale
stordimento non si fu il mio, quando vidi che le nostre genti, non erano
solamente entrate nello schifo, ma che a forza di gran remate smaniavano
di riguadagnar il Vascello, econ un affrettamento, onde comprenderne non
ne potei la cagione? Stava io per gridar loro che si arrestassero:
allorchè mi venne fatto di raffigurare una spezie di Gigante che
avanzavasi nel Mare dietro di loro il più velocemente poteva, non avendo
l’acqua che fino alle ginocchia, facendo sgambettato, che aveano del
prodigioso. Ma i Marinaj, inoltrati più che lui d’una mezza lega,
essendo ivi il fondo seminato di roccie, non poterono esser raggiunti dal
Mostro. Fummi ciò rapportato dappoi; mercè che non ebbi il coraggio di
fermarmi, per essere spettatore del fine d’Un’Avventura sì
terribile. Presi il partito di darmi alla più precipitata fuga pel
cammino più corto, e dopo uno sfiatato correre di qualche tempo mi
rampicai sopra una collina scoscesa, donde allungar potea l’occhio
sopra una estensione di Paese assai vasta. Comparvemi allo sguardo
d’una buona cultura; ma a prima giunta restai sorpreso dalla lunghezza
dell’erba, la qual si alzava per più di venti e quattro piedi, e che
nel luogo onde io vedeala, mi parea espressamente conservata per farne
fieno. Ad alto della Collina, scoprj una grande strada, per tale almeno
la giudicai, comechè non servisse agli Abitatori che d’un piccolo
sentiero traversante un campo di frumento. Me ne andai qualche tempo su e
giù di questa strada; ma nulla potei vedere nè dall’una, nè
dall’altra parte, perchè era ormai la stagione del mietere; avendo gli
steli un’altezza di quaranta piedi per lo meno. Bisognai d’un’ora
intera innanzi di ritrovarmi all’estremità di questo campo, ch’era
circondato da un’alta siepe di cento e venti piedi. Pel passaggio dal
campo stesso al campo vicino, aveavi una barricata; e questa barricata
quattro gradini avea, al di sopra di cui stava altresì un gran sasso,
che bisognava saltare per superarlo. Mi era impossibile di montare questi
gradini, essendo ognuno sei piedi alto, e più di venti la pietra. Me ne
andava io fiutando qualche apertura nella siepe; allorchè nel vicino
campo gettai l’occhio sopra uno degli Abitatori, il quale accostavasi
alla barricata, ed era del taglio medesimo che colui che al nostro schifo
data avea la caccia. Pareami egli dell’altezza d’un Campanile comune,
e cadauna sgambettata di lui, dieci verghe valea, o a un di presso.
Stordito dalla maraviglia, e dallo spavento, m’intanai fralle biade,
donde il ravvisai all’alto della barricata, risguardando nel campo
vicino alla dritta. Un momento dopo lo intesi a gridar non soche, ma
d’un tuono così orribile, che il credei da principio uno scoppio di
fulmine. Sei mostri accorsero alla sua voce della statura medesima, e
tenenti in mano delle salci d’una smisurata grandezza. Non eran questi
ultimi così ben abbigliati che il primo, avendo eglino sembianza
d’essere servidori di lui; essendo che immediate che ei pronunziò loro
alcune parole, si accinsero a mietere le biade del campo ove io mi
trovava. Mi staccai da essi il più che potei, comechè con estrema
difficoltà; perchè i gambi del frumento non erano, allo spesso, che
alla distanza d’un piede gli uni dagli altri, cosicchè stentatamente
io passava fra due. Con tutto ciò, in avanzando sempre, pervenni a un
certo luogo del campo, ove il vento, e la pioggia, abbattuto avevano il
grano. Qui sì che assolutamente mi fu impossibile di far un passo;
conciossiacosachè gli steli erano così agruppati, e confusi insieme,
che io non poteva pel traverso guizzarmivi; e le reste, che erano cadute,
sì forti, che le punte loro traforavano i miei vestiti. Nel instante
medesimo io sentiva i mietitori, non più che cento verghe da me lontani.
Oppresso di fatiche, e quasi alla disperazione ridotto, mi prostesi fra
due solchi, mi augurai di buon cuore la morte. La memoria della mia
Sposa, e de’miei figliuoli, che secondo tutte le apparenze io non dovea
riveder mai più, vivamente mi tormentava. Un momento dopo io piagneva la
mia imprudenza, e la mia pazzia, di aver, contra il consiglio
de’parenti, e di tutti gli amici miei, intrapreso un secondo viaggio.
In un tale spaventevole agitamento di spirito, non potei di meno di
pensare a _Lilliput_, i cui Abitanti mi spacciavano per una creatura di
smisurata grandezza, ove io era capace, da per me solo, d’impadronirmi
d’una Imperiale Armata, e di operare tante altre maraviglie, onde la
memoria sarà conservata eternamente negli Annali di quella Monarchia, e
alle quali difficilmente prestar vorrà sede la posterità, tutto che
ratificate dalla deposizione d’un numero infinito di testimonj. Io
meditava che molto mortificarmi dovea il comparir così picciolo al
Popolo fra cui io mi rinveniva, come un _Lillipuziano_ paruto lo avrebbe
fra noi. Ma quest’era il menomo de’miei infortunj: mercè che come si
è osservato che le Creature umane son più selvagge, e più crudeli a
proporzione della grandezza loro; e che altro poteva io aspettarmi, che
l’essere divorato dal primo di que’Mostri che riscontrato avessi? An
ben ragione di dire i Filosofi, che nulla vi ha di grande, o di picciolo,
che per comparazione. Avvenir poteva che i _Lillipuziani_ trovata
avessero una Nazione, il cui Popolo, per rapporto ad essi, fosse così
piccolo, che eglino stessi l’erano a riguardo di me. E chi sa se la
razza enorme di que’Giganti che io aveva negli occhj, non era un
semenzajo di Nani, in comparazione di qualche altro Popolo?

Con tutto il mio sbigottimento, non poteva io non dar luogo a tali
riflessioni; allor quando uno de’Mietitori, che dal solco, ove io me ne
stava appiattato, non più che dieci verghe discostavasi, temer mi fece,
che col dar avanti un sol altro passo, non mi schiacciasse, o con la sua
falce non mi dividesse in due. Affine di prevenire entrambe queste
disgrazie, veduto che l’ebbi in disposizione di qualche muovimento,
gettai un grido che la paura prese a suo conto d’ingrandir molto. Si
arresta il Mostro; e risguardando per qualche spazio da tutti i lati
sotto di lui, finalmente ravvisommi a terra. Per alcuni instanti mi
considerò egli con quell’attenzione medesima che si ha, quando si
vorrebbe prender in mano qualche pericoloso animaluzzo, senza ch’ei
mordere, o graffiar potesse; come io stesso talvolta in _Inghilterra_
praticato aveva a riguardo d’una donnola. Arrisicossi finalmente a
prendermi pel mezzo del corpo fra il suo pollice, e l’indice, e mi
avvicinò a tre verghe da’suoi occhj, per poter esaminarmi
distintamente. Indovinai il pensiero, e per buona sorte fui assistito da
una tal presenza di spirito, che in tempo ch’ei mi teneva sospeso in
aria indistanza di più di sessanta piedi da terra, non ostante che
crudelmente mi pizzicasse fralle sue dita, nè pur fiatai, per paura
ch’ei non mi lasciasse cadere. Rivolsi solo gli sguardi miei verso il
Sole; giuntai le mani in aria di supplichevole, e alcune parole proferj
con un lamentevole tuono, che conveniva pur troppo alla sgraziata mia
costituzione di allora. Mercè che io tremava ad ogni momento ch’ei non
mi gettasse a terra, come facciamo per ordinario di qualche odiosa
bestioluccia, che vogliamo distruggere. Ma il destino che cominciava a
placarsi verso di me, operò che la mia voce, ed i miei atteggiamenti,
gli piacessero, e che stupito al maggior segno d’intendermi ad
articolar de’suoni, mi contemplasse con una spezie di curiosità. Nel
tempo stesso non potei di meno di gettare molti sospiri, di spargere
alcune lagrime, e di girar la testa verso quella parte ov’ei mi teneva;
dandogli a conoscere, nel miglior modo, che mi faceva male. Parve ch’ei
mi capisse; perchè levato il lembo del suo vestito, pianamente mi vi
ripose, e un istante dopo corse alla volta del suo Padrone, il qual era
un buon Fattor di Campagna, ed il medesimo, che io da prima nel Campo
veduto avea. Il Fattore, (come suppongo per le loro maniere) ricevute, in
riguardo a me, tutte le informazioni possibili dal suo Famiglio, prese un
bruscolo di paglia, quanto una canna, e se ne servì per alzare la parte
estrema dell’abito mio, che ei credeva una sorta di pelle, onde la
Natura avessemi ricoperto. Chiamò i suoi servidori, e chiese loro, (a
quel che dappoi me ne fu detto) se mai ne Campi trovata avessero una
picciola creatura che mi assomigliasse? Mi mise poscia con tutta la
dilicatezza a terra, nella situazione medesima come una bestia a quattro
piedi; ma immediate mi levai, passeggiando avanti, e indietro, a piccoli
passi, per far comprendere a quel Popolo che mia intenzione non era di
fuggirmene. Stavan coloro tutti sedendo d’intorno a me, per Levai il
mio cappello, e feci una riverenza profonda al Fattor di Campagna. Mi
gettai alle ginocchia di lui; e avendo alzato gli occhj, e le mani al
Cielo, pronunziai alcune parole il più alto che potei. Dalla mia tasca
trassi una borsa contenente alcune monete d’oro, che con un’aria
tutta rispetto gli offerj. Ei la ricevette nella palma della sua mano;
indi accostolla ben da vicino alla sua vista, per veder ciò che fosse:
dopo ciò, con la punta d’uno spilletto, ch’ei tirò dalla sua
manica, più e più volte la girò, e rigirò, ma sempre senza
comprendere qual macchina si fosse. Io addocchiato ciò, gli feci segno
di mettere la sua mano a terra, e presa, ed aperta la borsa stessa,
versai nella palma della mano di lui, tutto l’oro. Aveavi sei dobbloni
di _Spagna_ da quattro l’uno, ed altre venti o trenta monete di minor
peso. Osservai che egli sopra la sua lingua bagnava l’estremità del
più picciolo suo dito, per poter così prendere una delle monete più
grandi, e di poi un’altra; ma mi parve che certamente non le
conoscesse. Mi accennò di rimetterle nella borsa, e poscia di rimettere
la borsa nella mia tasca; il che feci dopo di avergliela offerita ancora
cinque o sei volte.

Il Fattore allora restò convinto che io fossi una Creatura ragionevole.
Frequentemente mi parlò, e tutto che a guisa d’un mulino da acqua mi
stordisse la voce di lui nulladimeno distintamente ei pronunziava. Col
più forte tuono risposigli in linguaggj diversi, e molte fiate ei tanto
si abbassò, che fra la sua orecchia, e me, non aveavi di distanza che
due sole verghe; ma fui inutile il fastidio d’entrambi, perchè
d’intenderci non fu vi mezzo veruno. Inviò allora i suoi famiglj
all’opera loro, e tratto dalla saccoccia il suo fazzoletto, piegollo in
due, e lo stese sulla sua sinistra mano, che, con la palma al di sopra,
aperta la mise a terra, facendomi segno di ripormivi; il che non era
disagevole, poichè di grossezza non vi ave che un solo piede. Credetti
dover ubbidire, e per timor di cadere, mi distesi per lungo sul
fazzoletto; col resto di cui, per sicurezza maggiore, m’inviluppò per
fino alla testa, e in cotal positura mi portò in sua casa. Pervenutovi,
immediate mi mostrò a sua moglie; ma ella fortemente stridendo diede
addietro, come appunto in _Inghilterra_ an costume di fare le Dame in
vedendo un rospo, o un ragnolo. Considerata però che ella ebbe la mia
continenza, e con quale docilità me ne stessi ubbidendo a’menomi cenni
di suo marito, addomesticossi ben presto, e guari non tardò ad amarmi di
tutto cuore.

Verso il mezo giorno un domestico recò il pranzo, il quale consisteva in
una sola pietanza, ma assai buona nel suo genere, e tale che conveniva a
un lavoratore di Campi. Venti e quattro piedi di diametro aveva il
piatto: e la compagnia consisteva nel Fattore, nella moglie, in tre
figliuoli, e in una Vecchia Nonna. Seduto che fu ognuno, il Fattore mi
collocò sopra la tavola, che aveva un’altezza di trenta piedi, in
qualche distanza da lui. O che terribili dolori di ventre che allor mi
presero! e per timore di ruotolar abbasso, mi staccai il più che potei
dalla sponda. Trinciò la moglie un pezzo di carne, e sminuzzato sopra un
tondo un poco di pane, il pose d’avante a me. Io le feci un profondo
inchino, trassi il mio coltello e la mia forchetta, e a mangiar mi messi,
onde eglino parvero soddisfatti. La Padrona comandò alla serva di andar
in traccia d’una piccola tazza di tenuta non più che di dodici
boccali, o circa, e che ella stessa ebbe la cura di riempiere per conto
mio. Per prendere la tazza fui obbligato di valermi d’ambe le mani; e
in contegno di rispetto brindai alla sanità della Signora della casa; il
che fece fare a tutta la brigata un sì grande schiamazzio di ridere, che
pensai divenir sordo. Avea la bevanda un sapore di piccola cervogia, e
non era ingrata. Il Marito allora mi accennò di mettermi accanto del
tondo di lui; ma come io stava camminando sulla tavola per anche tutto
stordito, (e ben penso che il Leggitore facilmente sel persuada,)
m’accadde d’intopparmi in una crosta di pane, ed in cadendo, di dar
del naso sulla tavola medesima, ma per buona sorte senza farmi male
veruno. Mi rilevai in un subito; ed osservando la somma inquietudine di
quelle buone persone, presi il mio cappello, (che per pullitezza io avea
tenuto sotto il braccio,) e girandola sopra la mia testa, gettai nel
tempo stesso due, o tre giocondi gridi, per manifestare che io non era
restato offeso. Ma nel punto che io mi avanzava verso il padrone, (che
così sempre in avvenire il chiamerò,) il più giovane de’figliuoli di
lui, che gli era seduto accosto, e ch’era un furfantello di dieci anni
di età, pigliommi per le gambe, e sì sospeso mi tenne nell’aria, che
non aveavi membro del corpo mio, che non tremasse di paura. Ma il suo
padre me gli tolse dalle mani, diedegli uno schiaffo sì terribile che il
più grosso Elefante che in _Europa_ siasi mai veduto, ne sarebbe restato
rovesciato, e gl’ingiunse di levarsi immediatamente di tavola. Ma io
temendo il rancore del giovane; e ricordandomi perfettamente bene fin a
qual segno presso noi i ragazzi sono crudeli verso i passeri, i coniglj,
i gattuccj, ed i cagnuoli, mi gettai ginocchioni; e additando il
malfattore, procurai di far capire al mio padrone, che io gli chiedeva la
grazia del perdono di lui. Acconsentivvi il padre, e permise che il
figliuolo ripigliasse il suo posto; per lo che mi addrizzai ver lui, e
gli baciai la mano; che presa dal padrone, ei più fiate passolla, e
ripassolla sulla mia faccia, come per accarezzarmi.

Verso la metà del pranzo, il gatto favorito della mia padrona le saltò
nel grembiule. A giudicarne dalla testa, e da una delle zampe, che io
attentamente considerai quand’ella lo accarezzava, ed il nutriva, tre
volte più che un Bove parvemi grosso quell’animale. L’aria furiosa
d’una tal bestia mi fece tremare da capo a piedi, tutto che mi trovassi
all’opposta estremità della tavola; e che la padrona il ritenesse, per
timore che saltando sulla tavola stessa, non mi brancasse. Ma per buona
fortuna la pagai col solo spavento; mercè che il gatto mi bado appena,
non ostante che il padrone me gli avesse avvicinato tanto, che lo spazio
di tre verghe ci separasse solamente. Come io sempre avea inteso a dire,
e altresì esperimentato ne’Viaggj miei che il fuggire, o il mostrar
paura dinanzi ad un animale crudele, è il vero mezzo di farsi assalire;
mi risolvetti, in un cimento così scabroso, di prendere una maniera
intrepida, e di coraggio. Con un sembiante animosamente fiero, cinque, o
sei volte, su, e giù spasseggiai sul ceffo medesimo dell’animale, e
accanto accanto poscia me gli accostai; ed egli saltò a terra, come
fosse più di me spaventato. Un tratto tale di arditezza sì ben
riuscitomi, produsse che io poi non avessi tanto terrore de’cani,
essendone tre o quattro di essi nell’instante stesso entrati nella
stanza, come per ordinario si pratica nelle case de’Castaldi; ed uno di
que’cani, ch’era un mastino, quattro Elefanti uguagliava. Vicino di
lui stavasene un levriere, ancora più alto, ma non sì grosso.

Era il pranzo presso che al fine, quando entrò la balia tenendo nelle
sue braccia un bambino d’un anno, il quale subito mi pose l’occhio
addosso, e cominciò a gridar sì forte, che potevasi sentire per una
lega, e non per altro com’è solito de’bamboccj, perchè io gli
servissi di suo trastullo. Per pura indulgenza mi prese la Madre di lui,
e mi avanzò verso il pargoletto, che incontanente mi afferrò pel
traverso, e cacciò la mia testa nella sua bocca; il che mi fece gittar
gridi sì spaventosi, che atterrito il bambino mi lasciò cadere, e
certamente mi sarei rotto il collo, se la Madre non avesse allargato
sotto di me il suo grembiule. La balia, per acquietare il bambino, si
valse d’un sonaglio, il qual era una spezie di vase voto, riempiuto di
grosse pietre, e appeso con una fune alla metà del corpicciuolo di lui.
Ma ciò nulla valse, cosicchè fu ella obbligata di ricorrere
all’ultimo de’rimedj, che era di presentargli la poppa. Confessar
deggio che a’miei giorni non ho mai veduto un oggetto più
mostruosamente disaggradevole, quanto quegli che allora si affacciò
a’miei sguardi: Ma voglio risparmiare a’miei Leggitori una
somigliante descrizione, e in sua vece rendergli piuttosto partecipi
d’una riflessione statami inspirata da una sì laida, ed enorme
comparsa. La pelle, diceva io fra me stesso, delle nostre Dame
d’_Inghilterra_, sembraci bellissima: ma non avverrebbe ciò forse,
perchè queste Dame non sono più grandi che noi, e perchè non
ravvisiamo la pelle loro col microscopio; il quale ci convincerebbe che
la più bianca, e più lisciata carnagione, non è in sostanza che una
piallata masse di sporchi colori?

Ricordomi che in tempo che io mi trovava a _Lilliput_, le carnagioni
degli Abitanti mi sembravano la più bella cosa del mondo, e che
quinstionando su questo punto con un uomo di spirito del Paese,
intimissimo amico mio, ei mi disse, che il mio volto gli compariva assai
più vago, e più pulito, quand’ei mi risguardava da terra, che quando
collocato in mia mano, poteva considerarmi da più vicino. Confessommi,
che egli allora raffigurava molto pertugiato il mio mento; che i peli
della mia barba erano più irsuti che le setole d’un cignale; e che la
mia carnagione era composta di molti colori ingratissimi: tutto che non
vanamente io possa dire che le mie sembianze sieno così avvenenti, come
il sono quelle de’più degli uomini del mio paese; e che il mio
colorito così abbronzato non sia, come il dovrebbe, a cagion de’miei
viaggi. D’altra parte, parlando delle Dame della Corte di _Lilliput_,
ei mi disse più volte, che l’una avea delle rossicce macchie;
l’altra troppo grande la bocca; un’altra il naso mal fatto; cose
tutte ond’era impossibile che io mi avvedessi. Ingenuamente confesso
che son naturalissime cotali riflessioni; e che chi legge avrebbe ben
potuto farle senza di me. Con tutto ciò non potei trattenermi dal
fargliene parte, temendo che ei non s’immaginasse che realmente più
difformi, che noi, fossero quelle vaste Creature: poichè per rendere
loro la dovuta giustizia, è forza che io pubblichi ch’egli è un
Popolo assai ben formato; e in ispezieltà riguardo al mio Padrone; che,
comechè un Castaldo, i suoi delineamenti, non ostante,
proporzionatissimi mi parevano quand’io gli considerava in distanza di
sessanta piedi; che vale a dire, quand’io me ne stava a terra tutto
accosto di lui.

Alzati di tavola, andò il Padrone alla visita de’suoi Operaj; e per
quanto liquidarlo potei dalla sua voce, e dalle sue gesta, diede ordine
alla sua Sposa di aver buona cura di me. Estremamente io mi trovava
lasso, e una furiosa voglia di dormire mi tormentava. La mia Padrona, che
se ne avvide, mi adagiò sul propio suo letto, e mi ricoprì con un
fazzoletto bianco; ma più grande, e più massiccio della principal vela
d’un Vascello di guerra. Dormj due ore, più o meno, sognando di
starmene in mia casa con la moglie, e co’miei figliuoli; il che
accrebbe al doppio la mia maninconia, quando risvegliatomi, mi rinveni,
solo, in un vasto Appartamento che stendevasi per dugento, o trecento
piedi; e la cui altezza superava i dugento. Era già uscita la Padrona in
attenzione de’suoi domestici affari, e dietro di se avea chiusa la
porta della mia stanza. Otto verghe da terra era alto il letto; e
stimolato da qualche necessità, avrei ben voluto scenderne, ma non ardj
di chiamar persona; mercè che i miei gridi sarebbero stati inutili, e
certamente non giunti alla Cucina, ove stavasene rutta la Famiglia. Nel
frattempo di quest’imbroglio, due topi si rampicarono sul cortinaggio,
e dando del naso da per tutto, corsero da una parte all’altra. Venne un
d’essi fin sulla mia faccia, e mi cagionò uno spavento orribile. Più
che di fretta mi levai, e sguainai la spada per difendermi. Così
temerarie furono quelle prodigiose bestie, che mi assalirono da due lati,
ed una insino mi saltò sul giubbone; ma prima che mi offendesse, mi
riuscì di fenderle il ventre. Cadde ella a’miei piedi; e l’altra,
scorto il destino della camerata, se ne fuggì, ma non senza riportare
una buona ferita al di dietro. Compiuta l’impresa; per rimmettermi
dallo sbigottimento, e dal disagio, mi si misi a spasseggiare da un capo
all’altro del letto. Erano que’topi del taglio d’un Alano
_Inglese_, ma infinitamente più agili, e di maggior fierezza: cosicchè
se innanzi di mettermi a dormire deposta io avessi la mia spada,
infallibilmenmente divorato mi avrebbono. Misurai il topo morto, e il
trovai di due verghe, men un pollice, di lunghezza.

Poco dopo entrò nella stanza la mia Padrona; e in vedendomi tutto
insanguinato, corse velocemente a me, e mi prese in sua mano: io ridendo,
e dando altri segni di allegrezza per farle conoscere che io non avea
alcun male, le mostrai il topo morto. Ella ne restò incantata; e
ingiunse a una fantesca che con le molli il prendesse, e gettasse dalla
finestra. Dopo ciò fui da lei collocato sopra una tavola, donde le feci
vedere la mia spada tutta sangue, che in un instante forbj, e rimisi nel
fodero. Io mi trovava incalzato da più d’una di quelle sorte di cose,
per le quali sono impraticabili le Proccure; e a tal effetto mi sforzai
di far comprendere alla Padrona, che io desiderava d’essere messo a
terra; il che eseguito, non permisemi il mio rossore di far altri
atteggiamenti, che di accennare l’uscio, e d’incurvarmi parecchie
volte. Mi comprese finalmente, tutto che con istento, la buona donna: mi
pigliò in sua mano, e mi mise a terra nel giardino. Per dugento verghe
mi staccai da lei; e fattole segno che mi risguardasse; e non mi
seguisse, mi nascosi fra due foglie di acetosa, e soddisfeci alla mie
necessità.

Lusingomi che il Leggitore benevolo mi terrà scusato, se talvolta io
insisto sopra particolarità di tal fatta; che tutto che poco
interessanti agli occhi del volgo ignorante, non lasciano tuttavia di
recare un nuovo grado di estensione alle idee, e all’immaginazione
d’un Filosofo. Oltracciò, mi sono spezialmente attenuto alla verità,
senza adornare il mio stile con le affettate vaghezze della menzogna: e
dir posso che tutte le circostanze di questo viaggio an formata una sì
viva impressione sopra di me, e sì profondamente si sono scolpite nella
mia memoria, che in istendendole in carta, veruna non ne ommisi che
alquanto fosse importante: Comechè dopo una esatta revisione ne abbia io
scancellati alcuni passi di minor momento, che già stanno registrati nel
primo mio esemplare; e ciò per timore d’essere importuno a’miei
Leggitori; timore, che, a quel che se ne dice, agitar dovrebbe la maggior
parte degli Autori di Viaggj.



CAPITOLO II.

Descrizione della figliuola del Fattor di Camgna. L’Autore è condotto
a una vicina Città, e di poi alla Capitale. Particolarità di questo
Viaggio.


AVea la mia padrona una figliuola di nov’anni, fanciulla, per la sua
età, amabilissima, che col suo ago operava qualunque cosa, e industriosa
a maraviglia nell’abbigliar la sua bambola. La madre, ed ella,
pensarono di accomodar la culla della bambola medesima pel mio uso nella
vicina notte; ed in fatti fu riposta la culla in una piccola cariuola
d’uno stanzino; e la cariuola sopra una tavoletta sospesa in aria, per
timore de’topi. Altro letto non ebbi per tutto il tempo che dimorai in
quella casa; benchè, dopo di aver alquanto appresa la lingua del Paese,
e subito che sui in istato di saper chiedere in qualche modo il mio
bisogno, più adagiata renduta io l’abbia. Era sì esperta quella
giovinetta, che dopo d’sermi tolti, in presenza di sei, due, o tre
volte i miei vestiti; potè ella esser capace di spogliarmi, e di
rivestirmi; tutto che un tal fastidio io non le abbia mai recato, quando
volea lasciarmi fare da per me solo. Mi lavorò ella sette camiscie, ed
alcuni altri pannillini; i quali, comechè finissimi, erano tuttavia più
grossi, e più ruvidi d’un ciliccio; e sempre ella compiacevasi di
farne bucato con le stesse sue mani. Prese pure a suo conto
d’instruirmi della lingua del Paese: quand’io accennava qualche cosa
col dito, ella me ne diceva il nome, cosicchè in pochi giorni io avea
l’abilità di chiedere ciò che io volea. Era colei una ragazza assai
buona, che per anche non avea di altezza quaranta piedi, essendo piccola
a proporzion di sua età. Imposemi il nome di _Grildrig_; nome statomi
conservato dalla famiglia di lei, e per cui fui poscia riconosciuto per
tutto il Regno. Questo termine, spiega lo stesso che _Nannuculus_
de’_Latini_, che _Nanerettolo_ degl’_Italiani_, che _Mannikin_
degl’_Inglesi_, e che _Mirbidon_ de’_Francesi_. Principalmente a lei
io sono debitore della mia conversazione in quel Paese; non essendomi
giammai da lei separato per tutto il tempo del mio soggiorno. Io la
chiamava mia _Glumdalclitch_, o sia mia piccola balia. E certamente io
sarei il più ingrato di tutti gli uomini, se menzion non facessi della
tenerezza, e delle sollecitudini di lei a mio riguardo; desiderandomi con
tutta l’anima in condizione d’un adeguato riconoscimento; quando per
altro, secondo le apparenze, io non sono che il fatale, tutto che
innocente, strumento della sua disgrazia, Comincia vasi già nel vicinato
a parlar di me; sparsa essendosi la fama, che il mio Padrone avea
rinvenuto ne’suoi Campi uno straordinario Animale, della grandezza
d’uno _Splachnuk_, ma le cui membra tutte esattamente eran formate come
quelle d’una Creatura umana, ond’egli per sopra più in tutte le sue
azioni si rassomigliava; che ei parlava un picciolo linguaggio suo
propio; che appresi già avea alcuni termini della lingua del Paese;
camminava sopra le sue gambe; era piacevole, ad altresì domestico:
veniva quando si chiamava: facea tutto che si volea; le parti del suo
corpo erano le più graziose del mondo: ed avea una carnagione più
dilicata di quella d’una nobile fanciulletta di tre anni. Un altro
Fattore che abitava non troppo da noi discosto, e che era amico
intrinseco del mio Padrone, venne a fargli visita, con intenzione
d’informarsi della verità di questa Storia. Mi si fece immediate
comparire, e collocato sopra una tavola, ove su e giù me ne andava
spasseggiando secondo mi si ordinava, diedi mano alla spada, la rimisi
nel fodero, feci una riverenza a colui che ci visitava, chiesigli in sua
lingua come se ne stesse in sanità, e gli dissi che lui era il ben
venuto, co’precisi termini che la picciola mia Nutrice insegnati mi
avea. Colui, che era un vecchione, e che la vista troppo non gli serviva,
prese gli occhiali per meglio considerarmi; ed io confesso che la
singolarità d’un somigliante spettacolo strappommi uno scoppio di
ridere assai incivile. Ne conobbero i nostri il motivo, e nel tempo
stesso rinforzarono il giocondo schiammazzio, cosa, che ebbe a disgustare
quel vecchio pazzo. Passava egli per un avaro, e per mia disgrazia, pur
troppo un tal mal credito ei giustificò. Consigliò il mio Padrone di
far mostra di me come d’una rarità, in un giorno di Fiera nella Città
vicina. In ravvisandogli entrambi a lungo quistionanti insieme, e cogli
sguardi loro sovente a me indrizzati, temetti di qualche trama a mio
discapito, e nel mio timore mi parve pure di comprendere una parte del
loro discorso. Ma la seguente mattina _Glumdalclitch_ mi racconto
fedelmente ogni cosa, di già informata da sua Madre. Misemi nel suo seno
la povera figliuola, e proruppe in lagrime tali che m’intenerirono.
Paventava ella qualche mio infortunio, e che qualche villanaccio
tenendomi fra le sue braccia non mi schiacciasse. Ell’avea in me
osservati alcuni delineamenti di nobile, e fiera modestia, e
bastevolmente era convinta che al segno maggiore mi sarei sdegnato, se
per denajo fossi stato mostrato a tutti, come un barattino. Disse il suo
Papà, e la sua Mamma promesso le aveano che _Grildrig_ sarebbe suo; ma
che ben iscorgeva che farebbono come l’anno passato, che promessole un
Agnello, immediate che s’ingrassò fu venduto ad un Macellajo. Quanto a
me, protestar posso che mi trovava men inquieto della mia Balia, per una
tal nuova. Aveva io gia smarrita la speranza di ricuperare un giorno la
mia libertà, e per quello concerne il vituperio d’essere qua e là
condotto a guisa di mostro, riflettei che in quel Paese io era un
Forestiere, e che una tal disgrazia non potrebbe mai essermi rimprocciata
in _Inghilterra_, se mai ritornato me ne fossi; poichè per la trafila
medesima, o a buon grado, o a forza, passato sarebbe il Rè stesso della
_Gran-Bertagna_, se trovato si fosse nelle mie veci.

Secondo il consiglio dell’Amico, aspettò il Padrone il primo giorno di
mercato per trasferirmi in un cassettino alla vicina Città, non
prendendo seco lui che la picciola mia Nutrice. Era il cassettino chiuso
da tutti i lati, e non avea che una picciola porta, onde entrare, ed
uscire io potea, e alcuni piccioli buchi per respirazione dell’aria.
_Glumdalclitch_ si era avvisata di riporvi il materasso del letto della
sua fantaccia, per coricarmivi. A dispetto di tal cautella, il viaggio,
che una sola mezz’ora durò, mi avea poco men che fracassato; mercè
che i Cavalli avanzavano quaranta piedi per cadaun passo, e trottavano in
maniera sì poco comoda, che un Vascello aggitato da una gran burrasca si
eleva, e si profonda molto meno di quel che faceva io ad ogni istante.
Aveavi dalla nostra casa alla Città vicina a un di presso tanta
distanza, quanto da _Londra_ a _Sant’Albano_. Si fermò il Padrone
all’albergo suo ordinario, e dopo di aver consultato l’Oste, e fatti
alcuni necessarj apparecchj, nolleggiò il _Gruttrud_, o sia pubblico
banditore, per annunziare ad alta voce per tutta la Città, che
all’Osteria dell’_Aquilaverde_ vi era a vedersi una Creatura
incognita; che questa Creatura non era per anche grande come uno
_Splacknuck_; (animale del Paese di circa sei piedi) e che in tutte le
membra del suo corpo rassomigliava ad un uomo; pronunziava molte parole,
e faceva mille gentillezze.

Fui adagiato sopra una tavola nella stanza principale dell’Osteria: la
quale stanza potea avere trecento buoni piedi in quadro. La picciola mia
balia stavasene sopra un basso sedile acosto della tavola, per aver
attenzione a me, e per ordinarmi ciò che far dovessi. Per issuggire la
calca, volle il padrone che io non fossi veduto che da trenta persone per
volta. Spasseggiai sulla tavola come m’imponeva la fanciulla; ella mi
fece alcune dimande che ben sapeva che io avrei capite, e risposi col
più alto tuono che mi fu possibile. Rivolto molte fiate agli Spettatori,
dissi loro che erano i ben venuti, gli accertai de’miei rispetti, e mi
servj d’altre frasi di già imparate. Presi un ditale riempiuto di
liquore che mi fu sporto dalla picciola mia nutrice in guisa di coppa, e
bevvi alla lor sanità. Trassi la mia spada, e schermj nell’aria, come
i Mastri di tal arte fanno in _Inghilterra_. Provvidemi _Glumdalclitch_
d’un bruscolo di paglia, con cui feci l’esercizio della picca, che
aveva io appreso nella mia giovinezza. In quel giorno si fece mostra di
me a dodici compagnie differenti; ed altrettante volte fui obbligato di
ricominciare l’esercizio medesimo, finchè mi trovava mezzo-morto e di
stanchezza, e di sbigottimento: poichè coloro che veduto mi aveano, sì
strane relazioni avean fatte di me, che il Popolo, per un motivo
d’interesse, stava sul punto di sforzare le porte. Non volle mai
permettere il mio Padrone che chiunque si fosse mi toccasse, se si
eccettui la fanciulla, e per prevenire qualunque inconveniente, si fecero
regnare d’intorno alla tavola delle panche in tal distanza, che era
impossibile l’arrivarmi. Con tutto questo, uno Scolaro briccone mi
lanciò alla testa una noccivola, e buona mia sorte fu, ch’ei non
colpì nel segno: perchè senz’altro mi avrebbe fatto saltar il
cervello, essendo grossa poco men che una zucca. Ma almeno ebbi il
piacere di vederlo molto ben villaneggiato, e poscia scacciato dalla
stanza.

Pubblicar fece il Padrone per tutta la Città, che il giorno di fiera
susseguente ei mi farebbe un’altra volta vedere, e nel tempo stesso
presesi la cura di allestirmi una vettura più comoda, e con gran
ragione; essendo che io mi trovava sì stracco del primo mio viaggio, e
di tutte l’altre galanterie che mi si fece fare per ott’ore continue,
che appena poteva io reggermi in piedi, e profferire parola. Bisognai di
tre giorni innanzi di rimmettermi, e come fosse un destino che in casa
stessa non dovessi avere un’ora di riposo: tutti i confinanti nostri,
per più di cento miglia d’intorno, renderonsi all’alloggio del mio
Padrone affine di vedermi, il che gran somme gli profittò. Così, tutto
che condotto non fossi alla Città, pochissimo si era il mio respiro
cadaun giorno della settimana, se non si mette in conto il Mercoledì il
qual era la loro Domenica.

Il Padrone, veduto il vantaggio che egli da me ritraeva, formo il disegno
di condurmi a tutte le più riguardevoli Città del Regno. Provvedutosi
del bisogno per un viaggio di lunga corsa, e regolati i suoi domestici
affari, prese congedo dalla sua Sposa li 17. Agosto 1703. due mesi, o
circa, dopo il mio arrivo. Ci mettemmo in cammino per la Capitale,
situata presso poco nel mezzo di tutto l’Imperio, e a più di mille
leghe dalla nostra Casa; portando il mio Padrone in groppa del suo
cavallo la figliuola _Glumdalclitch_. Mi aveva ella adagiato in un
cassettino, e teneva questo nel suo grembiuletto; e il cassettino
medesimo era stato guernito dalla buona fanciulla con un panno il più
morbido che riuscille di ritrovare; non dimentica pure del letto della
sua bambola, nè di quale altra cosa che, o necessaria, od aggradevole,
credeva ella dovermi estere. Tutta la nostra compagnia fu un sol ragazzo
della casa, il qual seguivaci a cavallo col bagaglio.

L’intenzione del mio Padrone si era di far mostra di me in tutte le
Città che incontreremmo in sul cammino, e di lasciare la strada maestra,
quando non si trattasse di fare che cinquanta o cento miglia per arrivare
a una Terra, o a un Castello di qualche gran Signore; sviamento,
ond’egli si lusingava di dover ricavarne qualche profitto; dopo di che,
di rimettersi sul sentiero della Capitale ei divisava. Non facevamo noi
che cenquaranta, o censessanta miglia per giorno: mercechè
_Glumdalclitch_, per compiacermi, si lagnò d’essere faticata dal
trottar del cavallo. A grado mio mi toglieva ella dal cassettino, per
farmi prendere l’aria, e veder il Paese. Passammo cinque, o sei fiumi,
più larghi che il Nilo, o il Gange; e pochi erano i ruscelli così
stretti, che il _Tamigi_ al _Ponte_ di _Londra_. Dieci settimane
consumammo in tal viaggio; ed io fui mostrato in diciotto gran Città,
senza annoverare i Villagj, le Castella, ed alcune case particolari. Il
venti e sei d’Ottobre alla Capitale giugnemmo, chiamata in loro lingua
_Lorbrulgrud_; cioè, l’_Ammirazione del mondo_. Il mio Padrone prese
ad affitto un Appartamento nella principale strada della Città vicino al
Palagio Reale, e fece spargere de’biglietti, che contenevano una esatta
descrizione della piccola mia persona. La stanza ove adunar doveansi gli
spettatori, si stendeva fra i trecento, e quattrocento piedi; e sopra una
tavola di sessanta piedi di diametro, cinta, in distanza di tre piedi
dalla sponda, di un palizzato per guarentirmi dal cadere dall’alto al
basso, doveva io rappresentar la mia scena. Dieci volte al giorno io era
visibile, con grande stupore, e compiuta soddisfazione del Popolo. Già
aveva io appreso l’alfabeto loro, e sapeva altresì valermi a
proposito, quinci quindi, di alcune frasi; imperocchè _Glumdalclitch_
avuta avea l’attenzione d’intuirmene, mentre ce ne stavamo in casa; e
pel corso di tutto il viaggio me ne avea ella continuate le sue lezioni.
Quasi sempre ella tenea in sua tasca un libricciuolo, il qual era poco
più grande che un Atlante di Sansone: quest’era una spezie di Trattato
per uso delle Donzelle, affine d’imprimer loro una compendiata idea
della loro Religione. Di cotal libro servivasi ella per farmi conoscere
gli caratterj, ed eziandio per inserirmi qualche intelligenza
de’termini.



CAPITOLO III.

L’Autore è condotto alla Corte. La Regina il compra dal Fattor di
Campagna, e il regala al Re. Ei disputa co’Professori di Sua Maestà;
è alloggiato in Corte, ed è assai ben veduto dalla Regina. Difende
l’onore della sua Patria, e con un Nano della Regina contrasta.


IL fatigante esercizio a cui io me ne stava condannato ogni giorno, avea
alterata in poche settimane la mia sanità; e pareva che il profitto che
di me ritraevane il mio Padrone, non servisse che ad accendere le brame
di lui per un guadagno maggiore. Io non aveva più appetito, ed era
orribile la mia estenuazione. Se ne avvide il Castaldo; e conchiuso
avendo che per poco tempo potrei durarla, risolvette di non risparmiare
cosa veruna per conservarmi una vita sì idonea ad aumentargli una
fortuna, onde aveane egli goduto di sì felici principj. In tempo di tali
divisamenti, sopraggiunse uno _Slardral_, o Scudiere della Corte, con
ordine al mio Padrone d’immediate condurmivi, per ricrear la Regina, e
le Dame di lei. Talune di queste già erano venute a vedermi, e
raccontate aveano le più incredibili cose della mia bellezza, e del mio
spirito. Sua Maestà, e tutto il suo seguito, restarono incantati al di
là di qualunque esagerazione; ed io postomi ginocchioni, chiesi di aver
l’onore di baciar i piedi della Regina; ma la graziosissima Principessa
(collocato che io fui sopra una tavola,) mi stese il picciolo suo dito,
che strinsi fralle mie braccia, e sulla cui estremità, col rispetto più
profondo, applicai le mie labbra. Mi fece ella alcune generali
interrogazioni in proposito al mio Paese, e a’viaggj miei; ed io supplj
con le riposte così chiaramente, e in sì pochi termini, che mai ho
potuto. Mi dimandò se volentieri passerei la mia vita in sua Corte: io
feci un umilissimo inchino; e con un’aria tutta ossequio, dissi di
appartenere al mio Padrone, ma che se io fossi l’arbitro di me
medesimo, sarei troppo felice di poter consecrar la mia vita in servigio
di Sua Maestà. La Regina allora ricercò al Fattore, se egli
inclinerebbe a vendermi? Ei, che credeva che un solo mese camparla non
potessi, non vi fece troppa difficoltà; e la sua dimanda fu di mille
monete d’oro che sul fatto stesso sborsate gli furono; ed io osservai
che ogni moneta era prodigiosamente massiccia. Ricevutasi la somma, dissi
alla Regina, che poichè allora io era l’umilissimo schiavo di Sua
Maestà, le chiedeva in grazia che _Glumdalclitch_, la quale sempre con
tanta tenerezza avea avuta cura di me, ammessa fosse al servigio di lei,
e continuasse a servirmi di nutrice, e di Maestra. Mi venne accordata la
supplica, e non fu difficile il conseguirne l’aderimento del Fattore,
molto ben contento che sua figliuola fosse allogata in Corte: e la povera
ragazza medesima, dissimular non potè la propia allegrezza. Se ne andò
il Padre bramandomi qualunque sorta di felicità, e aggiugnendo ch’ei
mi lasciava in buona condizione: non risposi parola; e di fargli una
picciolissima riverenza mi contentai.

Del freddo mio contegno ben avvidesi la Regina; ed uscito che fu il
Castaldo della stanza, ne fui interrogato della ragione. Presi la
libertà di dire a Sua Maestà, che io a colui non aveva altra
obbligazione, che di non aver egli schiacciata una miserabile picciola
creatura come me, quando mi avea rinvenuto nel suo Campo: obbligazione
tale, onde io mi credea a sufficienza disimpegnato, pel profitto che egli
avea ritratto in mostrandomi a mille e mille persone, e pel prezzo che
testè avea ricevuto da Sua Maestà: Che la vita che io avea menata da
che egli mi possedeva, era stata così penosa, che ammazzar potea un
animale dieci volte più robusto di me: Che infinitamente la mia
complessione ne avea patito per la fatica continua di ricreare qualunque
genere di uomini in tutte l’ore del giorno: e che se il Fattore creduto
non avesse in pericolo il viver mio, Sua Maestà non mi avrebbe avuto sì
buon mercato: Ma che trovandomi allora sotto la protezione d’una sì
grande, e sì buona Regina, lo Stupore della Natura, la Maraviglia del
Mondo, l’Amore de’suoi Soggetti, e la Fenice della Creazione; io mi
lusingava che si troverebbe deluso il timore del mio Padrone, poichè in
me io già risentiva a rinvigorire una nuova vita, che dell’Augusta
presenza di lei era l’unico effetto.

Si era questi il preciso del mio discorso; in cui, non vi ha dubbio, ho
commessi molti errori di lingua, e m’incantai molte volte; ma
l’ultima parte fu onninamente dello stile di quella Nazione, per alcune
frasi che, in andando alla Corte, mi furono suggerite da _Glumdalclitch_.

La Regina ne pur badò a miei sbagli nella lingua; parve bensì sopra di
trovare tanto spirito, e sì buon senso in un animale cotanto picciolo.
Mi pigliò in sua mano, e portommi al Rè, che stavasene allora nel suo
Cabinetto. Egli, che era un Principe austero, e di serietà, non
discernendo molto bene la mia figura, con aria fredda, e di sussiego,
dimandò alla Regina da quando in qua ella dilettavasi degli _Splaknuck_?
essendo che, per razza di somiglianti bestie ei mi prendeva, in tempo che
corcato sul mio stomaco me ne stava nella destra mano di sua Maestà. Ma
la Principessa, infinitamente spiritosa, ed allegra, mi mise in piedi ad
alto d’uno studiolo, e mi ordinò d’informare io medesimo il Re di
cio che mi risguardava; il che eseguii in pochi termini: e
_Glumdalclitch_, che mi attendeva fuor della porta del Gabinetto, e che
mal soffriva di non avermi sotto l’occhio, introdotta che fu, confermò
quanto era avvenuto dopo il mio arrivo in casa di suo Padre.

Il Re, tutto che fatto avesse il suo corso di Filosofia, e che si fosse
dedicato con istudio alle Matematiche, avendo attentamente esaminata la
mia figura, e scorgendomi passeggiare, prima che io parlassi pensò
prendermi per un _Automato_, fatto per mano di qualche ingegnosissimo
artefice. Ma udita che gli ebbe la mia voce, e trovato che io discorreva
ragionevolmente, non pote occultare il proprio stupore. Il racconto da me
fattogli della maniera del mio approdare al Regno di lui, per niente
affatto il persuase, e crede che fosse una concertata favola tra
_Glumdalclitch_ e il padre di lei, che mi avessero insegnate alcune
parole, e alcune frasi, affine di vendermi più caro. Un tal sofpetto
fecegli propormi alcune quistioni, alle quali in un modo assai sensato
sempre risposi, e senza diffetto di sorta, fuori d’un grand’imbroglio
nello spiegarmi, d’un cattivo accento, e di alcune espressioni villane
che in casa del Fattore io avea apprese, e che non erano del bell’uso
della Corte. Sua Maestà fece chiamare tre Professori, che allora,
secondo il costume del Paese, erano di settimana. Dopo di aver
que’Signori spiata per qualche spazio dell’alto al basso la mia
figura, furono di diversi pareri. Convennero solamente, che io non poteva
essere stato prodotto secondo le leggi regolari della Natura, perchè io
era privo del talento di poter conservarmi in vita, sia in volando per
l’aria, o in rampicando sugli alberi, o in iscavando in terra
de’buchi. Conchiuser eglino da’miei denti, che essi disaminavano con
grande attenzione, che io era un animale _carnivoro_, con tutto ciò
ignoravano quase stata fosse la mia nutritura; mercè che la maggior
parte degli animali a quattro piedi era troppo pesante per me; e le
talpe, del pari che alcune altre bestie, troppo leggiere. Secondo il loro
credere, non restavano che le lumache: ed alcuni altri insetti; e pur
ebbero la crudeltà di provar altresì co’dotti loro argomenti, che
d’un tal genere di alimento non poteva servirmene. Uno di quegli
Eruditi inclinava molto a credere che io fossi un Embrione, o al più un
aborto. Ma quest’opinione fu rigettata dagli altri due, i quali
osservarono che tutte le mie membra erano compiute, e perfette nel loro
taglio; e che, stanti gli contrassegni della mia barba, i cui pel i
distintamente ravvisavan essi con l’ajuto d’un Microscopio, io già
avea vissuti alcuni anni. A patto veruno non vollero riconoscermi per un
Nano, poichè inferiore a qualunque comparazione era la mia psccollezza:
essendo che il Nano favorito della Regina, il qual era il più picciolo
che si fosse veduto in quel Regno avea di altezza quasi trenta piedi.
Dopo molti dibattimenti, decisero di comun accordo, che io era solamente
_Relplum Scalcath_, cioè che i Latini chiamano _Lusus Naturæ_:
Definizione esattamente conforme alla nostra moderna Filosofia; i cui
Professori, sdegnando le _cause occulte_, colle quali i Discepoli
_Aristotelici_ cercano vanamente di mascherare la loro ignoranza, hanno
inventato questo maraviglioso scioglimento di tutte le difficoltà, con
grande avanzamento delle umane conoscenze.

Dopo una sì autentica decisione, chiesi la libertà di dire due sole
parole. Rivoltomi verso del Re, assicurai Sua Maestà che io veniva da un
Paese abitato da molti milioni d’uomini de’due sessi, e tutti della
mia statura; che gli Animali, gli Alberi, e le case, vi erano nella
proporzione medesima; e che per conseguenza io era del pari capace di
difendermivi, e di trovarvi la mia sussistenza, che verun altro suddito
di Sua Maestà nel suo Paese: e mi sembrò che una tale risposta fosse
sofficiente per confutare gli argomenti di que’Signori. Non replicarono
eglino che con un sorriso disprezzante; dicendo che io egregiamente avea
ritenuta la lezione statami dettata dal Fattor di Campagna. Il Re, che
era dotato d’uno spirito più penetrante ch’essi non l’erano, dopo
di aver licenziati i suoi Savj, fece cercare il Castaldo, che per buona
sorte non era per anche uscito di Città lo inquisì da principio da solo
a solo: il confrontò poscia con _Glumdalclitch_, e con me; e corne non
traballammo nelle risposte, cominciò a credere, che dir vero noi
ponessimo. Pregò egli la Regina di dar ordine che si avesse buona cura
di me, e credè ben fatto che la picciola mia balia continuasse a
starsene meco, giacchè si era accorto che assai ci amassimo
scambievolmente. Se le assegnò nella Corte un agiato appartamento, una
Governatrice che avesse l’impegno dell’educazione di lei, una serva
per abbigliarla, e due servidori per ubbidirle; ma quanto a me io era
onninamente affidato alle sue sollecitudini. Comandò la Regina che sul
modello di mio piacere, e di quello di _Glumdalclitch_ mi si lavorasse un
cassettino, perchè mi valesse di camera da letto. L’Operajo che vi
s’impiegò, essendo espertissimo, in men di tre settimane mi fabbricò
una stanza di sedici piedi in quadro, e di dodici in altezza con finestre
invetriate, una porta, e due stanzucce. Potea la fronte del cassettino,
col mezzo di due ganghesi, alzarsi ed abbassarsi, affine di riporvisi un
letto, che l’Arziere di Sua Maestà teneva di già allestito, e che
_Glumdalclitch_ si compiaceva di preparare ogni giorno colle proprie sue
mani. Un Artefice, che si era renduto famoso per la sua industria di
lavorare in picciolo, imprese di costruirmi due sedili cogli schienali
loro, e colle altre attenenze tutte, d’una materia rassomigliante di
molto all’avorio, e due tavole con uno studiolo per qualunque mio uso.
Era la camera imbottita da tutte le parti, insino il tetto, e il
frontispicio, a cautela delle disgrazie quali si fossero, e che avvenir
potevano per la negligenza, o balorderia de’portatori; e affinchè io
men mi risentissi dello scuotimento in andando in cocchio. Dimandai che
la mia Camera fosse serrata a chiavi, perchè i Topi, ed i Sorcj entrare
non ci potessero. Dopo molti esperimenti, un Operajo fu sì perito, che
travagliò la più picciola serratura che siasi mai veduta in quel Paese;
avendo io conosciuto in _Inghilterra_ un Gentiluomo, che ne avea una più
grande all’uscio della sua Casa. Feci quanto potei per mettere la
chiave nella mia tasca, per timore che _Glumdalclitch_ non la perdesse.
Diede por ordine la Regina, che si facessescelta della più fina seta
pe’miei panni, e questi panni non erano gran fatto più grossi delle
nostre coperte da letto in _Inghilterra_; dovendo io confessare che durai
una estrema fatica per avvezzarmi vi. Erano i miei vestiti tagliati alla
moda del Paese, la quale in sè stessa ha qualche cosa di decente, e
ritiene una spezie di mezzanità fra la maniera dell’abbigliarsi
de’_Persiani_, e quella de’_Chinesi_.

A poco a poco prese la Regina tanto piacere della mia conversazione, che
ella più non poteva andar in tavola senza di me. Io avea una picciola
mensa collocata su quella, alla quale pranzava Sua Maestà, ed un sedile.
Stavasene _Glumdalclitch_ in piedi al mio canto per servirmi, e averne
cura. I piatti, ed i tondi di mio servigio che erano d’argento, in
comparazione di quel della Regina, non eccedendo la grandezza di quegli
che in tal genere vidi a _Londra_ in una bottega, che servia
d’addobbamento in una casa di fantoccia. La picciola mia balia avea
l’attenzione di tenergli in sua tasca entro una scatola d’argento,
recandomegli a misura del bisogno, e pulendogli ella medesima. Mangiavano
con la Regina le sole due Principesse Reali; la maggiore di cui contava
gli anni sedici di età, e tredici anni, e un mese la minore. Era solita
Sua Maestà di porre sopra un de’miei piatti un pezzo di carne,
ond’io poscia ne trinciava il bisogno, ed era un gran suo diletto di
vedermi mangiare col sopraffine della delicatezza: mercè che ella, che
era una mangierina, gonfiava in una sola volta la sua bocca con quanto
dodici bifolchi _Inglesi_ divorar potrebbono in tutto un pasto; il che mi
riusciva uno spettacolo assai molesto. Per esempio, un’ala di Allodola,
con tutte le sue ossa, servivale per una sola boccata, e pure quest’ala
era più grande nove volte del più grosso Gallo d’Indie fra noi. Al
talento mangione di lei esattamente si proporzionava quello del bere.

Stabilita costumanza di quella Corte si era, che ogni Mercoledì, (che,
come già l’avvertii, passava colà come presso di noi la Domenica,) la
Regina, e tutta la Famiglia d’entrambi i sessi, pranzassero col Re
nell’Appartamento di lui. Io già di molto mi era innoltrato nella
buona grazia di quel Monarca il quale ogni Mercoledì faceami collocare
al sinistro suo lato, accanto d’una delle saliere; laddove negli altri
giorni, il mio posto si era alla man sinistra della Regina. Compiacevasi
assai il Principe d’intavolarmi quistioni sopra gli usi, la Religione,
le Leggi, e le Scienze de’Popoli dell’_Europa_, ed io tutto faceva
per contentare sopra questi punti la sua curiosità. Per quanto oscure
che naturalmente parer gli dovessero alcune cose, ei non ostante, con
estrema facilità le comprese, e maturamente profondo a qualunque mio
racconto ben riflettè. Ma non posso non confessare, che essendomi
allargato alquanto sul proposito della mia cara Patria: sopra il nostro
commerzio; i nostri scismi in fatto di Religione, e le nostre fazioni
dentro lo Stato, i pregiudizi dell’educazione ebbero sopra lui tanta
forza, che prendendomi sulla sua destra mano, e gentilmente
accarezzandomi con l’altra, ritenersi non potè dall’interrogarmi con
uno scopio grande di ridere, se io era _Vuhig_, o _Tory_? Rivoltosi di
poi al primo suo Ministro, che dietro di lui se ne stava in piedi col
bianco suo bastone in pugno, meditò quanto spreggevoli fossero le umane
grandezze, giacchè minuti insetti, qual mi era, tentavano di aspirarvi:
e pure, egli diceva, ardirei di scommettere che quest’insetti hanno i
lor titoli d’onore, che hanno piccioli nidi, e tane, che essi
intitolano Palagi, e Città, e che affettano splendidezza nelle loro
vestimenta, e ne’lor equipaggj; che amoreggiano, che combattono, che
disputano, che s’ingannano, che si tradiscono. Sul tuono medesimo
continuò egli per qualche tempo; ed io non saprei esprimere la mia
indignazione, nell’intendere un discorso, onde la Patria mia,
l’Augusta, la Maestra delle Arti e delle Scienze, il Soggiorno della
verità, e della Virtù, e dell’Onore, e l’Oggetto
dell’Ammirazione, e dell’invidia di tutto l’Universo, fosse sì
crudelmente vituperata.

Ma come, da una parte, io non era molto in istato di vendicare
somiglianti ingiurie; dall’altra, dopo di averci ben pensato, a dubitar
cominciai se veramente fossi stato ingiurato, o nò. Essendo che, dopo
d’essermi per alcuni mesi accostumato alla vista, e alla conversazion
di quel Popolo, e di aver osservato che ogni oggetto, che io risguardava,
trovavasi in una esatta proporzione di grandezze con tutti gli altri;
l’orrore che io avea conceputo da prima, si era talmente dileguato, che
se allora veduta avessi una truppa di Signori, e di Dame _Inglesi_ in
tutte le loro pomposità, e in tutte le affettate loro maniere che la
pulitezza prescrive, per vero dire, patita avrei una violenta tentazione
di ridere di essi di sì buon gusto, come il Re ed i Grandi di sua Corte
il facevan di me. Ciò che vi ha di certo si è, che poco poco vi volea
che io medesimo non mi rinvenissi ridicolo; quando la Regina, mettendomi
sopra la sua mano rimpetto ad uno specchio ove io poteva interamente
vederci emtrambi, accorgere mi faceva della sterminata nostra
sproporzione.

Nulla più acutamente mi punse, nè maggiormente mi mortificò, quanto il
Nano della Regina; il quale effendo di una piccolezza senza esempio nel
Paese, (e per verità, non arrivava affatto alla misura di trenta piedi,)
in tal modo insolenti, scorgendomi una creatura così menoma in confronto
di lui, e che gli affettava di risguardarmi dal di sopra al di sotto,
quando nell’Anticamera della Regina passava accosto di me, e in tempo
che io stava collocato sopra una tavola a disputare co’Signori, e colle
Dame della Corte; ed ei non trascurava altresì opportunità veruna di
motteggiarmi, del che io procurava di ritrarne vendetta, col chiamarlo
_Fratello_, collo sfidarlo, e con altre maliziosette furfanterie, che
sono ordinarie ne’_Paggj_. In tempo di pranzo un giorno, fu sì piccato
il picciolo briccone che non so che che io gli avea detto, che presomi
pel mezzo il corpo, in tempo che a tutt’altro io badava che a una
somigliante imminente disgrazia, mi lasciò cadere in un gran cattino
d’argento empiuto di fior di latte, dopo di che se ne fuggì come il
vento. Sprofondai in quella bianca sostanza perfino al di sopra delle
ciglia: e se non fossi stato un buon nuotatore, avrei corso un gran
risico d’affogarmi; poichè in quell’instante _Glumdalclitch_ si
trovava all’altra estremità della Camera, e sì spaventata per la mia
caduta fu la Regina, che non ebbe prontezza di spirito per soccorrermi.
Ma la mia Nutricina ben presto accorse, e mi tolse dal Catino, dopo che
io avea ingojato più d’un boccale di fior di latte. Fui posto a letto,
ma lode al Cielo i soli miei vestiti, interamente guastati, asciugarono
quella burrasca, non essendo accaduto alla mia persona male di sorta.
Molto bene restò stregghiato il Nano; e per maggiore mortificazione di
lui, fu costretto a tracannare il fior di latte tutto, in cui egli mi
avea gittato. Ma d’allora innanzi più egli in grazia non rientrò,
avendolo la Regina regalato di poi a una Dama della prima qualità,
cosicchè nol vidi mai più, cosa che assai mi piacque, perchè io non so
esprimere fin a qual segno mi avrebbe trasportato il livore che io
nutriva contra quel malizioso ribaldello.

Ei già per l’addietro aveami praticato un disobbligante scherzo, che
molto fece ridere la Regina, tutto che: se ne restasse ella nel tempo
stesso sì disgustata, che sul punto scacciato l’avrebbe, se io
medesimo non avessi avuta la generosità d’intercedere per lui. Sopra
il suo tondo, la Maestà Sua aveva preso un osso empiuto di midolla; e
toltane questa, rimesso avea ritto nel piatto l’osso medesimo nella
situazione stessa ond’egli era da prima. Il Nano, che avea aspettato di
far il suo colpo in tempo che _Glumdalclitch_ se n’era gita alla
Credenziera, montò sul sedile di lei, mi pigliò nelle sue due mani, e
unendo insieme le mie due gambe, mi collocò perfino al ventre
nell’osso votato della midolla, ed ove, negar non si può, io faceva
una figura sovranamente ridicola. Credo che scorso siasene un buon
minuto, innanzi che niuno sapesse ciò che fosse accaduto di me;
imperocchè mi sembrava una mia viltà se gridato avessi. Ma come i
Principi di rado mangiano caldo, le mie gambe nulla patirono; e non vi
ebbe che le mie calze, e i miei calzoni, che la nuova foggia
dell’Avventura pagarono. A mia intercessione se la passò il Nano con
un solo buon carico di bastonate.

Mi motteggiava spesissimo la Regina in proposito alla mia timidezza: ed
era solita di dimandarmi se i miei Compatriotti sossero sì gran poltroni
come me? eccone l’incontro.

In tempo di State, le mosche di quel Regno sono furiosamente tormentose;
e questi odiosi insetti, che tutti sono del taglio delle nostre Allodole,
col loro continuato ronzio d’intorno alle mie orecchie, non mi
lasciavano momento di quiete nel frattempo del mio pranzare. Talvolta si
adagiavano sulla mia pietanza; ed erano eziandio sì impertinenti, che vi
facevano le lordure loro; cosa che, per vero dire, in vedendola, non
riusciva troppo saporosa per me, ma che i Naturali del Paese ravvisarla
non potevano, poichè i lor occhj non erano sulla forma de’miei, per
iscorgere oggetti così minuti. Alcune fiate si posavano sul mio naso,
oppure sulla mia fronte, e mi pugnevano perfino al vivo; lasciandovi
sempre de’marchj di quella vischioso materia, a cui elleno son
debitrici della facoltà di camminare con la testa in giù sul
frontispizio di qualunque corpo, come dicono i Naturalisti. Era
indicibile il mio fastidio per difendermi da que’sozzi animali; e non
potea di meno di stranamente agitarmi quando essi calavano sulla mia
saccia. Una delle ordinarie malizie del Nano si era, di afferrare in sua
mano un buon numero di que gl’insetti, a somiglianza degli Scolari fra
di noi, e poscia di lasciargli volare di tutto un tratto sotto il mio
naso, affine di farmi paura, e nel tempo stesso per ricrear la Regina. Io
non sapeva altro rimedio che di tagliargli a pezzi col mio coltello, in
tempo che svollazzavano per l’aria: Esercizio che io adempieva con
industria tale, che mi attraeva gli applausi di tutti gli Spettatori.

Mi risovvengo, che una mattina che _Glumdalclitch_ aveami adagiato sopra
il margine d’una finestra, cosa che ella avea in costume tutti i giorni
di bel sereno, per farmi prendere un poco d’aria, (essendo che io non
mi arrisicava di lasciar appendere il mio cassettino ad un chiodo fuor
del balcone, come noi in _Inghilterra_ attacchiamo le nostre gabbie,) mi
risovvengo, dissi, che avendo alzata una delle mie invetriate; e messomi
a sedere alla mia tavola per far con un marzapane la mia colezione, più
di venti vespe, invitate dall’odore, s’introdussero nella stanza,
facendo più rumore col loro ronzio, che far nol potrebbono altrettante
Cornamuse. Gettaronsi alcune sopra il mio marzapane, e a pezzi a pezzi se
l’asportarono, si misero altre a svolazzare d’intorno alla mia testa,
stordendomi col loro susurro, e cagionandomi uno spavento non mediocre
co’loro pungoli. Ebbi, non ostante, il coraggio di levarmi, di dar mano
alla spada, e di assalirle nell’aria. Quattro ne uccisi, andossene il
resto, e chiusi la finestra dietro di loro. Erano quelle bestie così
grandi come le nostre Pernici. Presi i loro pungoli, e trovai che essi
erano lunghi un pollice e mezzo; e così aguzzi come le aguglie. Gli ho
conservati tutti con somma cura, e con alcune altre curiosità gli ho
mostrati in molti luoghi dell’_Europa_. Al mio ritorno in Inghilterra,
tre ne ho regalati al Coleggio di _Cresham_, e il quarto l’ho ritenuto
per me.



CAPITOLO IV.

Descrizione del Paese. Progetto per la correzione delle Carte
Geografiche. Cosa fosse il Palagio del Re, e la Capitate. Maniera con cui
l’Aurore viaggiava. Descrizione d’uno de’principali Templi di
Lorbrulgrud.


MIO disegno al presente si è di esibire a’miei Leggitori una brieve
descrizione di quel Paese; per lo meno, di ciò che ne ho veduto; non
essendo io stato che a mille leghe in giro da _Lorbrulgrud_ la Capitale;
mercè che la Regina, la quala da me non era abbandonata mai, avea il
costume di non accompagnar più lunge il Re ne’viaggj di lui,
fermandosi nella mentovata distanza dalla Dominante fin al ritorno di Sua
Maestà dalle frontiere. Tre mila leghe, più o meno, allungasi
l’Imperio di quel Principe, e per due mila si dilata; cosa, che
conchiuder mi fece, che i nostri Geografi di _Europa_ an presi furiosi
abbaglj, collocando una sola vasta estensione di mari fra il _Giapone_, e
la _California_; poichè sempre fui d’opinione che esservi doveano
Terre immense per contrappesare il Continente della Tartaria. Ecco
perchè debbon eglino correggere le loro Carte Geografiche, unendo quel
grande spazio di Regione al Ponente Libeccio dell’_America_; nel che io
son prontissimo d’ajutar loro colle mie scoperte.

Il Regno è una penisola, circonscritta alla parte di Greco-Levante da
una catena di monti alti quindici leghe, che è impossibile, a cagion
de’Vulcani che nelle cime vi regnano, di sormontargli. Non è noto a
chi che sia quale razza di gente sia abitatrice di que’dirupi; o se
neppure vi si rinvengano uomini. Le tre altre parti an per confine
l’Oceano. Non vi ha nel Regno Porto di mare di sorta; e i luoghi della
Costa, ove le Riviere si gettano nell’Oceano stesso, son sì seminati
di roccie, che di navigarvi co’più piccioli schifi non è possibile; e
quindi ne proviene che quel Popolo non abbia assolutamente verun
commerzio col rimanente dell’Universo. Ma ne’fiumi, che abbondano di
pesci di squisìtissimo gusto, vi sono assaissimi Vascelli;
conciossiacosache gli Abitanti pescano di rado nel mare, ove i pesci sono
della grandezza medesima di que’d’_Europa_; non valendo per tal
ragione la fatica di prendergli: nel che chiaramente apparisce, che il
producimento di quelle piante, e quegli animali di mole sì smisurata, si
è la Natura unicamente ristretta, a quel Continente, onde lascio
a’Filosofi il discuterne la ragione. Di quando in quando, nulladimeno,
prendono eglino delle balene che vanno ad urtare in quegli scogli, e con
cui il Popolo minuto nobilmente si regala. Ne ho vedute alcune di
grandezza sì sterminata, che un uomo sudava assai per portarne una sola
in sulle sue spalle; e talvolta per curiosità se ne trasportano entro a
panieri _Lorbrulgrud_. Una un giorno ne fu imbandita per la mensa del Re,
e riputavasi per una rarità: io però osservai che egli non ne facea
gran caso; immaginandomi che si trovasse nauseato dalla grossezza di
quella bestia; comechè nella _Nuova Zemhla_ di assai più grandi io
vedute ne abbia.

E’popolatissimo quel Paese, contenendo cencinquanta Città, sì grandi
che piccole, e un numero prodigioso di Villaggj. Per formar a chi legge
una qualche idea di quelle Città, mi contenterò di fargli la
descrizione della Capitale. Ella è traversata pel mezzo da una Riviera
che la divide in due parti eguali. Vi si annoverano più di ottanta mila
Case, e a un di presso secento mila Abitatori. Per tre _Govglungs_ (che
presso poco sono cinquanta quattro miglia _Inglesi_) stendesi la sua
lunghezza; ed è larga due _Gonglungs_ e mezzo; come io stesso in una
Carta delineata per ordine espresso del Re, e che a tal effetto fu
spiegata in terra, ne ho tolte le misure.

Il Palagio del Re non è già un Edifizio regolare; bensì molte
fabbriche unite insieme, il cui circuito gira sette miglia, o circa.
Dugento quaranta piedi di altezza, e lunghe e larghe a proporzione, sono
le principali Stanze. _Glumdalclitch_, ed io, avevamo un Cocchio, entro
il quale allo spesso la Governatrice di lei la prendeva per veder la
Città, o le botteghe; ed io era sempre della compagnia accomodato nel
mio cassettino; tutto che la buona ragazza mi togliesse fuori quante
fiate io il desiderava; e mi tenesse in sua mano, perchè scorgere
potessi le Case, ed il Popolo, quando per le strade noi passavamo.

Oltra il cassettino grande, in cui d’ordinario era io portato, la
Regina lavorar ne fece per me un altro più picciolo, di circa dodici
piedi in quadro, e di altezza di dieci, per viaggiare con maggior
comodità: e questo, perchè il primo non potea ben addatarsi al
grembiule di _Glumdalclitch_, e serviva di troppo imbarazzo nel Cocchio.
Questa nuova moda di Gabinetto da viaggio, era un quadrato perfetto; tre
lati di cui aveano, cadauno, una finestra nel mezzo, e ciascuna finestra
una rete di fil ferro, per riparo di qualunque accidente ne’lunghi
cammini. Nel quarto lato non aveavi finestra veruna; bensì due poderosi
ritegni, onde il Cocchiere attaccava la mia piccola camera con un
cinturone di cuojo a traverso del corpo di lui, quando mi prendeva la
voglia d’uscirmene all’aria. Incombenza tale era appoggiata a qualche
saggio e posato servidore; fosse che io accompagnassi il Re, e la Regina,
ne’loro viaggj; o che visita facessi a qualche Ministro di Stato, o a
qualche Dama della Corte, quando accadeva che _Glumdalclitch_ indisposta
si trovasse: essendo che guari non istetti ad essere conosciuto, e
rispettato dagli Uffiziali della Corona; non tanto, secondo il mio
credere, pel merito mio, quanto per la confidenza che mi testimoniava Sua
Maestà. In viaggio, quand’io mi sentiva faticato dalla Carrozza, un
servidore a Cavallo legava il mio cassettino con una fibbia, e collocava
la innanzi a se sopra un guanciale; e allora poteva io vedere il paese da
tre parti per le mie finestre. Io aveva in quello studiolo un letto da
campagna, e un picciolo materasso appeso alla fronte, due sedie, e un
tavolino, raccomandati con madrevitti al soffitto, perchè il muovimento
del cavallo, o del cocchio, non gli rovesciasse. Tutto che violentissimi
que’generi di muovimenti, men disagiavano me che chiunque altro, il
quale non fosse stato avvezzo, come io l’era, agli agitamenti del mare.

Ogni volta che mi prendeva l’umore di veder la Città, sempre ciò
seguiva nel mio Gabinetto da viaggio, che _Glumdalclitch_ entro una sedia
portatile teneva nel suo grembiule. Da qua tr’uomini era portata questa
sedia, e scortata da due altri con la livrea della Regina. Il Popolo che
frequentemente avea inteso a parlar di me, affolavasi d’intorno alla
mia lettiga; e la mia balietta molto spesso si compiaceva di ordinar
a’portatori di arrestarsi, mi pigliava in sua mano, perchè più
distintamente ognuno mi ravisasse.

Io moriva di voglia di ammirare un famoso Tempio situato nella Capitale;
e in ispezieltà la Torre, la quale passava per la più eminente del
Regno. Mi vi condusse un giorno _Glumdalclitch_, ma cosa vera posso
asserire, che molto restai deluso nella mia espettazione; mercè che
l’altezza non trascendeva i tre mila piedi; il che, ben riflettutasi la
differenza che vi ha fra il taglio di quel Popolo, e quel o degli
_Europei_, non è poi un grande argomento di stupore; anzi, se non
m’inganno, in fatto di proporzione col campanile di _Salisbury_, è
quella molto inferiore. Ma, per non inferire torto veruno a una Nazione,
a cui per tutta la mia vita professerò grand’obblighi, confessar si
dee, che ciò che in altezza manca a quella famosa Torre,
sofficientemente è risarcito dalla bellezza, e dalla fortezza di lei.
Presso che cento piedi sono grosse le sue muraglie, e son costrutte di
pietre dure; essendo ogni pietra di quaranta piedi in quadro, e tutte da
tutti i lati adorne di simulacri degli Dei, e degl’Imperadori. Misurai
un dito auriculare che era caduto da una di quelle statue, e il trovai
appuntino di quattro piedi e un police di lunghezza. Inviluppollo
_Glumdalclitch_ in un fazzoletto, e lo portò in casa per unirlo ad altre
bagattelluzze ond’ella diveniva pazza, come è solito delle fanciulle
di sua età.

E’forza convenire che la Cucina del Re è un magnifico Edifizio, eretto
in forma di volta, ed alto quasi che secento piedi. Il forno maggiore non
è però sì largo come la cupola della Chiesa di S. Paolo; avendo io a
bella posta, dopo il mio ritorno, prese le misure di questa. Che se
entrar volessi in una specifica relazione delle suppellettili di cucina,
de’pignati, de’caldaj, de’pezzi di carne che giravano agli spiedi,
e d’altre cose di simil genere, si stentarebbe a credermi; per lo meno,
una critica alquanto rigida taccerebbemi di esagerazione; che è solita
della maggior parte de’Viaggiatori. Con tutto ciò, ben lungi dal
meritarmi questa spezie di censura, temo di aver urtato nell’altro
eccesso: e che se mai questo viaggio è traddoto nella lingua di
_Brobdingnag_, (chè è il nome generale di quel Regno) e trasferito nel
Paese, il Re ed il Popolo non si lagnino che io ingiuriati gli abbia,
impicciolendogli in grazia della verisimilitudine. Di rado sua Maestà,
nelle sue stalle ha un maggior numero di secento Cavalli; i quali,
generalmente parlando, an cinquanta e quattro, e sessanta piedi di
altezza. Ma, quando ella esce in certi giorni solenni, e scortata da
cinquecento cavalli, che certamente era il più magnifico spettacolo onde
io essere stato possa testimonio di vista; avendo ancora veduta una parte
delle sue milizie schierate in battaglia, come nel progresso avrò
l’opportunità di narrare.



CAPITOLO V.

Differenti Avventure ch’ebbe l’Autore. Sentenza d’un criminoso
eseguita. L’Autore dà saggio della propia abilita nell’Arte Nautica.


IN un modo aggradevolissimo passato avrei il mio tempo in quella Regione,
se la mia picciolezza non mi avesse esposto a parecchie Avventure per me
pericolosissime, tutto che assai ridicole in se medesime. Ne farò il
racconto di alcune. Ricreavasi sovente _Glumdalclitch_ ne’Giardini
della Corte portandomi nel mio più picciolo cassettino, donde ella
talvolta mi traeva per mettermi a terra. Mi rammento che il Nano della
Regina ci seguì un giorno in que’Giardini; e che avendomi la mia balia
messo a terra, come trovavami solo con esso lui accosto di alcuni alberi
nani, (eran questi de’pomieri,) non potei trattenermi dal praticargli
qualche malizioso motteggio sul rapporto che aveavi fra quegli alberi e
lui, chiamandosi eglino, a caso, in loro lingua, nel modo stesso che
nella nostra. Per tutta risposta, colse il bricconcello la congiuntura
che io mi stessi sott’una di quelle piante; e allora si mise egli a
scuoterla sì forte, che una dozzina di mele cadde d’intorno a me: ma
fra tutte, una ve ne fu, che piombando sulla mia schiena in tempo che io
mi abbassava, fece che in sul terreno io dessi ben bene del naso: nè
occorre farsene le maraviglie; poichè que’pomi anno co’nostri la
proporzione medesima, che gli Abitanti del Paese anno con noi. Ecco tutto
il male ch’ebbi; ed io stesso implorai a favore del Nano, perchè
gastigato ei non fosse a motivo di un tale scherzo, da me medesimo, per
altro, promosso.

Un altro giorno _Glumdalclitch_ lasciommi sopra una motta di prato assai
liscia, tempo che ella se ne stava spasseggiando in qualche distanza con
la sua Governatrice; ed ecco nello stesso instante una grandine sì
gagliarda, che ne fui improvvisamente gettato a terra. In tale
costituzione, operava essa grandine le più dolorose contusioni per tutto
il mio corpo; nulladimeno procurando di mettermi al coperto, mi ricovrai
in quattro zampe sotto una spalliera di Cedri, ma così ammaccato
da’piedi perfino alla testa, che vi volle più di dieci giorni innanzi
che senza dolore potessi muovermi. Che se vi ha qualche incredulo di
questo fatto, spero che sia per prestarvi fede, quando gli avrò detto
che in quel paese i grani della tempesta son mille, e ottocento volte
più grossi di que, che cadono in _Europa_: cosa più che certa, poichè
io medesimo gli ho pesati, e misurati.

Ma nel Giardino stesso mi accadde un accidente, di gran lunga più
pericoloso, un giorno che la piccola mia Nutrice, supponendo di avermi
adagiato in un luogo ove io nulla dovessi temere, del che assai spesso ne
la pregava; affine di darmi in preda con libertà a’miei pensieri; ed
avendo collocato il mio cassettino a terra per non aver l’incomodo di
portarlo, erasi renduta in un altro sito del Giardino con la sua
Governatrice, ed altre Dame di sua conoscenza. In tempo di sua
lontananza, un picciolo braccio, che apparteneva a un de’principali
Giardinieri, entrato a fortuna nel Giardino, venne alla mia volta. Mi
fiutò appena, che corse sopra di me, mi prese in bocca, mi portò al suo
padrone, e mi pose bellamente a terra. Per la più grande delle buone
fortune, e gli era stato sì bene instruito, che in portandomi fra i suoi
denti, non mi cagionò verun male, e neppure daneggiò i miei vestiti. Ma
il povero Giardiniero che ben mi conosceva, e che mi amava assaissimo,
non se la passò senza una furiosa paura. Mi pigliò fra le sue mani, e
mi chiese come me ne stessi; ma era sì enorme il mio spavento, e mi
trovava così sfiatato, che una sola parola pronunziar non potei. Pochi
minuti dopo me ne rinvenni; ed egli mi portò sano e salvo alla mia
Nutrice, che in quel tempo si era restituita al luogo ove lasciato mi
avea, e che stava in una terribile angoscia per non vendermi comparire, e
perchè io non rispondeva alle sue affannose chiamate. Acremente
rimbrottò ella il Giardiniero, per aver lasciato andar il Cane; ma la
cosa restò sepolta, nè alla Corte mai si seppe cosa veruna del
successo, temendo _Glumdalclitch_ che la Regina non si adirasse contra di
lei: e per quello tocca a me, usai di discretezza, perchè sembravami che
l’Avventura non mi facesse troppo onore.

Un tal accidente risolver fece la mia Nutricina di non perdermi mai più
d’occhio. Era già molto tempo che io temeva d’un somigliante disegno
di lei: e perciò mi era indotto ad occultarle alcuni minuti miei
sgraziati avvenimenti, in tempo che mi trovava solo. Un Nibbio che volava
sopra il Giardino, piombò un giorno sopra di me; e se, dopo di aver data
coraggiosamente mano alla spada, cacciato non mi fossi in un folto
cespuglio, senza altro, asportato egli mi avrebbe fra suoi artigli.

Un altra volta mi sprofondai fino al collo in un buco di topinara, e fui
costretto di dire una bugia per mascherare il vero motivo, onde i miei
vestiti si erano tutti guasti. E infine un altra volta mi ruppi la dritta
gamba urtando in un guscio di lumaca, su cui ebbi la disgrazia di cadere
in tempo che me ne stava spassegiando solo, e che pensava alla mia povera
Patria.

Non saprei dire quale de’due prevalesse in me, il piacere, o la
mortificazione, quand’io osservava ne’miei solitari passeggj che i
più piccioli Uccelli non ispaventavansi nel vedermi; anzi in distanza
d’una sola verga andavano in busca di vermi, e di altri alimenti, con
tanta sicurezza, come non avessero assai vicino anima vivente. Non mi
dimenticherò mai che un tordo fu così sfrontato, che col suo becco mi
asportò fuor delle mani un pezzo di focaccia, che _Glumdalclitch_ data
mi avea per farmene la merenda. Quand’io volea prendere alcuno di
quegli Uccelli, essi coraggiosamente mi risistevano, procuravano di
pugnermi le dita, e un momento dopo rintracciavano d’intorno a me
de’vermi, o delle lumache, con l’indifferenza medesima, e con la
medesima tranquillità di prima. Ma un giorno dato di piglio a un grosso
bastone, colsi un fanello con un colpo sì forte, e di misura sì giusta,
che rovesciatolo a terra, il presi con le due mani pel collo, e in aria
di trionfo alla mia Nutrice il recai. Con tutto questo, come l’uccello
non era che stordito dalla percossa, si riebbe, e con tanta forza si
dibattè, che più d’una volta fui al cimento di abbandonare la preda;
ma accorso subito in mio ajuto un servidore, torcè il collo al fanello,
che per ordine della Regina fu il giorno dietro imbandito pel mio pranzo:
Quest’Uccello, per quanto può la memoria servirmi, era poco pochetto,
più grande che i Cigni nostri _Inglesi_.

Le Damigelle d’onore pregavano sovente _Glumdalclitch_ di andare
ne’loro Appartamenti; e di condurmi con esso lei, per goder del piacere
di vedermi, e di toccarmi. Talvolta mi adagiavan elleno per lungo nel
loro seno; cosa, che enormemente mi disgustava; mercè che per vero dire,
non suonavano di troppo buon odore; il che non asserisco con la malizia
di discreditare quelle amabili Fanciulle, per cui nodrisco la più
possibile considerazione; ma credo che la mia picciolezza la cagion fosse
della finezza del mio odorato; e che quelle illustri persone sembrassero
sì saporose agli Amanti loro, quanto a’giovani _Inglesi_ le nostre
Donzelle. E in fine, io trovai che il loro naturale odore riusciva assai
più soffribile di quello de’loro profumi. Sempre mi rammenterò, che
uno de’miei intimi amici di _Lilliput_, un giorno che faceva un
grandissimo caldo, e che io avea fatto molto esercizio borbottava d’un
odore eccessivamente ingrato che esalava dal mio corpo, tutto che al pari
di chi che sia io non patisca d’una somigliante incomodità. Ma
conghietturo che l’odorato di lui fosse altrettanto fino a riguardo
mio, come il mio l’era a riguardo degli Abitanti di _Brobdingnag_. E su
tal proposito non posso dispensarmi dal rendere una sonora giustizia alla
Regina mia Signora, e alla picciola mia Nutricina _Glumdalclitch_; e dal
dichiarare amplamente che in _Inghilterra_ non vi ha Dama, più ch’esse
esente dal diffetto testè mentovalo.

Il più che mi spiaceva di quelle Damigelle d’onore quando la mia balia
mi conduceva nel loro Appartamento si è, che elleno mi trattavano senza
nè pur ombra di complimenti, e come una Creatura assolutamente senza
conseguenza. Non vi ha foggia di libertà che non la prendessero me
presente: e ben mi sarebbe cosa impossibile l’esprimere il disgusto che
la maggior parte di quelle libertà mi cagionava. Una di loro fra
l’altre la qual era d’un umore estremamente allegro, facea di me
tutto ciò che le saltava in capo, e avvisavasi delle più scherzevoli
pazzie del mondo; onde io tuttavia ne prendeva poco gusto, che pregai
_Glumdalclitch_ a non più espormivi.

Un giorno un Gentiluomo, che era Nipote della governatrice della mia
balia, venne; e pregò entrambe di andar a vedere una Esecuzion di
giustizia. Avea il reo ucciso un intimo amico di quel Gentiluomo.
_Glumdalclitch_ finalmente si lasciò cogliere dalla proposizione, tutto
che contra suo genio, perchè per natura era molto compassionevole: E per
quanto tocca me, non ostante che in ogni tempo io abbia avuto
dell’orrore per ispettacoli di questa sorta, la curiosità di vedere
qualche co a di assai straordinario la vinse sopra la mia inclinazione.
Stava il paziente legato ad un sedile sopra il palco, e con un solo colpo
di spada, lunga quaranta piedi, fugli levata la testa. Il sangue, che
delle vene, e delle arterie uscì, era in tanta quantità, ed elevavasi a
una tale altezza, che in suo confronto si sarebbono svergognati i _getti
d’Acqua_ di _Versailles_ ed il campo, in cadendo sovra del palco, diede
un sì gran colpo, che io ne tremai, ancorchè lontano un mezzo miglio
_Inglese_.

La Regina, la quale assai sil compiaceva del racconto de’miei Viaggj di
Mare, e che non perdeva opportunità di divertirmi quando me ne stava di
mala voglia, mi dimandò un giorno se m’intendessi del reggere una
vela, un remo, e se converrebbe alla mia sanità l’esercitarmi alcuna
volta nel vogare. Le risposi che io me ne intendeva assai bene; e che non
ostante che il mio impiego stato sia quello di Chirurgo del Vascello,
nientedimeno, chiedendolo la necessità, io sovente avea fatta la
funzione di semplice Marinajo. Ma che concepire io non poteva come ciò
si avesse dovuto eseguire nel suo Paese, ove i più piccioli Navilj erano
del caglio de’nostri maggiori Vascelli di guerra. Ella mi replicò che
io solamente pensassi come il mio picciolo bastimento costruto esser
dovesse, che il suo falegname adempierebbe gli ordini miei in tal
proposito; e che ella stessa si piglierebbe la cura di farmi allestire un
luogo addattato alla mia navigazione. L’Operajo, che era espeito nel
suo mestiere, compiè nello spazio di dieci giorni una Scafa, tale che io
ordinata l’avea, e agevolmente capace di dieci _Europei_.

Tanto se ne compiacque, e trovolla sì gentile la Regina, che collocata
la nel suo grembiule, corse a mostrarla al Re, che comandò fosse riposta
in una cisterna piena d’acqua, e se ne facesse, standovi io dentro, la
pruova. Ma la Regina fatto avea per l’addietro un altro progetto. Avea
ella ordinato al Falegname di formare una spezie di Truogolo che avesse
trecento piedi di lunghezza, che cinquanta fosse largo, ed otto profondo.
Questo Truogolo, dopo di essere stato ben impeciato perchè tenesse
all’acqua, fu messo a terra in un Appartamento esteriore del Palazzo.
In minore spazio di mezz’ora poteano facilmente due servidori empiere
d’acqua quella macchina; e quivi entro me ne stava ricreandomi a far
andar avanti, e indietro, a forza di remi, la mia Scafa; non potendosi,
per altro, esprimere il godimento della Regina, e delle Dame; in
ammirando la mia destrezza, e la mia agilità. Alcune volte io mi metteva
alla vela; e allora l’unica mia occupazione si era di tenermi al
timone, in tempo che le Dame, co’ventaglj loro, mi somministravano il
vento a misura del mio bisogno; e quando erano stanche; i Paggj andar
facevano la mio Scafa col soffiar nella vela, nel mentre che io faceva
pompa della mia abilità, governando ad orza, e a poggia, secondo che me
ne dava il capricio. Finito il mio esercizio, _Glumdalclitch_ portava
sempre il mio Vascello nel suo stanzino, e il pendeva a un chiodo per
asciugarsi. Un giorno, uno de’servidori che erano incaricati di
riempire due volte per settimana d’acqua fresca il mentovato Truogolo,
senza avvedersene, misevi un grosso ranocchio, che, secondo tutte le
apparenze, si era intruso nella secchia di lui, nell’attignere
l’acqua. Il ranocchio non si lasciò mai vedere innanzi che io fossi
posto entro il Truogolo con la mia Scafa; ma scopertossi da esso un luogo
ove poteva riposarsi, vi si rampicò, e talmente fecela piegare da un
fianco, che perchè non si rovesciasse sossopra, fui obbligato di
gettarmi all’altro fianco per servirle di contrappeso. Entrato che fu
il ranocchio, venne con un solo salto da una estremità della Scafa
perfino al mezzo, e poscia sopra la mia testa dal davanti al di dietro
spruzzando sulla mia faccia, e su’miei vestiti di quella vischioso
materia, onde sempre abbondano questi Animali. La mole delle sue membra
fece io il trovassi la bestia più spaventevole del Mondo; non ostante,
supplicai _Glumdalclitch_ di lasciarmi terminare, solo, la querela che io
avea con esso. Per un mese continuo lo stregghiai molto bene con un
de’miei remi; e alla fine a saltar fuori della Scafa lo sforzai.

Ma il maggior pericolo che in quel Regno io abbia corso, mi venne da una
una Scimal, la quale apparteneva ad uno degli Scrivani d’Uffizio.
_Glumdalclitch_, avendo qualche cosa a fare, o a rendere qualche visita,
nel suo Gabinetto rinchiuso mi avea. Come regnava un gran calore, avea
ella lasciata la finestra del Gabinetto aperta, e altresì le finestre e
la porta del mio cassettino più grande, in cui per ordinario io mi
tratteneva; essendo molto spazioso, ed eziandio assai comodo. Me ne stava
asportato da un profondo pensiero; quando all’improvviso intesi qualche
cosa che all’uscio del Gabinetto faceva strepito, e che saltellava da
un luogo all’altro. Con tutto lo spavento che io aveva indosso,
procurai, senza levarmi dal mio sedile, di spirare ciò che fosse: e vidi
allora quell’infame bestia, che dopo di aver fatti alcuni salti, e
molte sgambettate, accostossi al mio cassettino, che mi parve che ella
risguardasse con suo piacere. Ritirai mi nell’angolo più rimoto del
cassettino medesimo; ma la Scimia che non lasciava una finestra che per
mettersi, un instante dopo, in su d’un’altra, tanta paura ella mi
fece, che non ebbi la prontezza di spirito di nascondermi sotto il letto,
come avrei potuto assai facilmente. Finite le sue contemplazioni
frammescolate di morfie, finalmente mi ravvisò; e avanzando per la porta
una delle sue zampe, come appunto fanno i gatti quando si trastullano con
un sorcio, tutto spesse volte cambiassi di luogo per non essere
afferrato, mi colse alla fine pel lembo del mio vestimento, (ch’era
d’un panno fortissimo, ed assai massiccio del Paese,) e mi trasse fuori
del cassettino. Mi pigliò nella sua zampa d’avanti, e mi tenne come
una balia il suo bambino in positura di dargli il latte; e precisamente
come vidi fare la razza, medesima d’animale co’gattucj in _Europa_: e
quando io cercava scuotermi, sì forte colei mi teneva, che giudicai
miglior partito il non fare un menomo muovimento. E’assai probabile
cosa che ella mi prendesse per qualche scimmiotolo della sua spezie,
mercè che in tempo che mi teneva con una zampa, mi accarezzava con
l’altra. Uno strepito che la bestia sentì alla porta del Gabinetto,
come se alcuno volesse entrarvi, interuppe cotale divertimento: ed ella
presto saltossene sulla finestra ond’era entrata, quindi su’tegoli e
sulle grondaje, camminando in tre zampe, e tenendomi nella quarta,
finchè all’alto del Palagio arrivata fosse. _Glumdalclitch_ l’avea
veduta saltando fuori della finestra, e aveva gettato un grido che fu da
me sentito. Trovavasi la povera ragazza in una furiosa commozione. Tutta
la Regia in un istante si mise sossopra; e i servidori si affrettavano di
rintracciar delle scale. Molte centinaja di persone scorgevano
distintamente la scimia sul tetto del Palagio che mi teneva fralle sue
braccia, e mi accarrezzava come un piccino de’suoi. Uno spettacolo sì
curioso rider faceva la maggior parte degli astanti; e, per dir vero, non
saprei troppo biasimargli, perchè egli è certo, che all’eccezione di
me, ognuno rinveniva la cosa perfettamente ridicola. Pensarono alcuni di
voler gettar delle pietre all’animale per isforzarlo a venir a basso;
ma espressamente fù ciò proibito: e gran buona sorte per me; poche
senza questo, per un eccesso di amore, avrebbesi potuto ben accopparmi.

Inalberatesi le scale, molti uomini vi salirono per soccorrermi, il che
appena vedutosi dalla scima, ed altresì l’impossibilità di fuggirsene
con la sua preda camminando con sole tre zampe, mi adagiò ella sopra un
bucato tegolo, e se ne andò. Ivi me ne ristetti per qualche tempo in
distanza di trecento verghe da terra, aspettando ad ogni momento che il
vento mi gittasse a basso, oppure che qualche capogiro rotolar mi facesse
da’tegoli in una grondaja. Ma un de’servidori della mia Nutrice, il
qual era un obbligantissimo giovane, si rampicò perfino a me, e dopo di
avermi posto in una saccoccia de’suoi calzoni, mi portò a terra sano,
e salvo.

Lo sbigottimento, e il dolore, cagionatimi da quella brutta bestia, mi
produssero una malattia, che per quindici giorni mi tenne obbligato al
letto. Il Re, la Regina, e tutti i principali Signori della Corte,
mandavano, tutti i dì, per sapere dello stato mio, e la Regina in
persona, in tempo della mia infermità, volle avere la compiacenza di
farmi molte visite.

Quando dopo il mio ristabilimento fui presso il Re per attestargli i
propj miei doveri, e ringraziarlo di tutte le sue beneficenze, fecemi
egli qualche motteggio sopra l’Avventura, unica cagione dell’incomodo
mio. Mi dimandò ciò che pensassi, e quali specolazioni fossero le mie,
in tempo che la Scimia mi teneva fralle sue zampe; e di qual tempera
avessi trovata l’aria che respirasi in su del tetto del Palazzo? _Qual
partito avreste preso_, egli aggiunse, _se somigliante cosa fossevi
accaduta nel Paese vostro_? Risposi a Sua Maestà, che in _Europa_ non
abbiam noi la razza di simili bestie; e che altre non ve ne sono, fuor di
quelle che per curiosità vi si trasportano; ma che erano tuttavia sì
picciole, che agevolmente avrei potuto tener faccia con una dozzina, se
avuta avessero la temerità d’assalirmi. Che quanto al mostruoso
animale, (poichè senza esagerazione egli era del taglio d’un
Elefante,) che aveami praticato uno scherzo così incivile; se il mio
spavento mi avesse lasciato l’uso libero della mia spada, (nel così
dire io messi la mano sull’impugnatura, non senza un’aria
d’intrepidezza,) quando egli avanzava la sua zampa nella mia camera,
gli avrei forse impressa una tal ferita, che ci non avrebbe mancato di
ritirarla, per lo meno così presto, come sporgevala. Fu espressa con un
tal tuono questa risposta, che bastevolmente spiegava la mia indignazione
per la proposta ingiuriosa che mi si faceva: E pure non servì ella che
ad eccitare uno schiamazzio di ridere vie più oltraggioso. Patj la
tentazione di andar in collora; ma le ne diedi lo sfratto; riflettendo
che il presumere di farci valere presso que’con cui è impossibile in
qualunque modo di misurarci, è la più pazza di tutte le follie.

Non passava giorno ond’io non regalassi di qualche ridicola scena la
Corte, e tutto che _Glumdalclitch_ mi amasse teneramente, non lasciava di
narrar alla Regina tutto ciò che poteva promuovere il riso di lei a sole
mie spese. Un giorno la sua Governatrice l’avea condotta a una lega
dalla Città, per farle prendere un poco d’aria, trovandosi alquanto
incomodata. Ancor io tenni accompagnata la mia Nutricina in quel Viaggio;
ed ella essendo uscita della Carrozza, ripose il mio picciolo cassettino
a terra in un viottolo. Spasseggiar io volea; ma per disgrazia mi
abbattei in una bovina, sopra cui m’era forza di far un salto, per
superarla. Mi accinsi ad effettuarlo; ma sì mal ci riuscj, che
precisamente vi saltai nel mezzo, e mi vi profondai perfino alle
ginochia. Me ne trassi nella maniera migliore; e un servidore a piedi,
così così col suo fazzoletto mi asciugò; mercè che sì diabolicamente
io mi trovava letamato, che _Glumdalclitch_ mi tenne nella mia cassetta
finchè a casa fummo ritornati: ove immediate ne fu reccato alla Regina
il ragguaglio della mia Avventura; il che per alcuni giorni a costo mio,
fece scoppiar dalle risa tutta la Corte.



CAPITOLO VI.

L’Autore, con ogni sorta di mezzi procura di guadagnarsi la benevolenza
del Re, e Della Regina. Da saggio della propia abilità nella Musica.
Informasi il Re dello stato dell’Europa, e l’Autore soddisfa
ampiamente alla curiosità di lui. Riflessioni del Re sopra quanto gli ha
raccontato l’Autore.


UNa, o due volte per settimana mio costume si era di trovarmi al levarsi
dal letto del Re; e con poche fiate fui presente quando il suo barbiere
il radeva; il che, innanzi che mi avvezzassi, mi sembrava uno spettacolo
orribile: poichè il raso io era triplicamente luogo quanto una falce
comune. Secondo il costume del Paese. Sua Maestà si facea radere due
volte in sette giorni. Ottenni, una volta, dal barbiere un poco della
saponata che adoprata egli avea, e trattine quaranta, o cinquanta peli,
gli accomodai in un pezzo di legno che era formato in ischiena di
pettine; ove, un’aguglia, io avea profondati alcuni buchi in eguale
distanza. Si industriosamente assettai gli peli in questi bucci, che mi
riuscì di farmi un pettine, onde servir mi potenva in difetto del mio, i
cui denti, poco men che tutti, erano rotti: non essendovi per altro,
verun Artefice nel paese, che avesse l’abilità di lavorarmene un
altro. Quest’esperimento un secondo me ne suggerì, che mi tenne a bada
per molti giorni. Pregai le Dame della Regina di mettermi a parte alcune
pettinature de’capelli di Sua Maestà, onde in poco tempo n’ebbi una
quantità ragionevole. Dopo ciò, feci venir da me il Falegname mio
amico, il quale già, una volta per sempre, ricevuto avea l’ordine di
travagliarmi in picciolo qualunque cosa che fosse di mio gusto, e gli
dissi di far due sedie, della grandezza stessa di quelle del mio
cassettino, ma che non avessero nè il fondo, nè lo schienale. Aveva io
l’intenzione d’intrecciar i capelli in maniera che servir potessero
di spalliere, e di sedili; a un di presso, come le sedie a fondo di canna
che si praticano in _Inghilterra_. Compiuta che fu ogni cosa, ne regalai
la Regina, che ripor le fece nel suo Gabineto, ove ella mostravale come
rarità, e per dir vero, ni un vi fu che di maraviglia non ne restasse
preso. Dissemi la Regina che mi sedessi sopra una di quelle scranne; ma a
patto veruno ubbidirle non volli, protestando che piuttosto sofferte
avrei mille morti, che di collocaro una parte sì indecente del mio
corpo, sopra que’preziosi capelli, che servito aveano d’ornamento
alla testa di Sua maestà. De’capelli medesimi formai altresì una
galante picciola borsa, che in lunghezza non tirava più che cinque
piedi, col nome della Regina a lettere d oro, di cui con permissione
della Principessa ne feci un presente a _Glumdalclitch_. Veramente, anzi
che per l’uso, serviva quella borsa per sola mostra, non avendo forza
bastevole per sostenere il peso delle più massicce monete, e perciò la
fanciulla alcune picciole leggierissime bagattelluzze solamente vi
riponeva.

Il Re, che di Musica si dilettava all’ultimo grado, ordinava
frequentemente de’concerti alla Corte, a’quali talvolta assisteva
ancor io, accomodato sopra una tavola entro il mio cassetino. Ma era sì
confusamente strepitosa quella Musica, che mi riusciva impossibile di
distinguerne i tuoni. Ardisco pur di asserire, che tutte le trombe, e
tutti i tamburi d’un Esercito, quando si suonassero, e si battessero
tutti in una volta in un Appartamento medesimo, non arriverebbono a far
tanto strepito, quanto ne fanno quelle sorte di armonie. Il mio metodo si
era di far mettere il mio cassettino il più lungi che era possibile
da’Musici; e poscia di chiuderne le porte, e le finestre; dopo di che
io trovava assai sopportevole la loro Musica.

Essendo giovane, io aveva alquanto appreso a suonar di spinetta: Una ne
tenea in sua camera _Glumdalclitch_, e un Mastro andava a darlene la
lezione due volte per settimana. Dico che era una spinetta; perchè quel
musicale strumento molto le rassomigliava, e per la figura, e pel modo di
servirsene; mi venne in pensiero di ricreare il Re, e la Regina, suonando
su quello strumento un’arietta _Inglese_. Ma, oh quanto sudai per
riuscirvi! mercè che la spinetta era lunga più di sessanta piedi, e
ogni chiave, d’un piede larga; cosicchè in istendendo tetto il mio
braccio, io non ne poteva scorrere più che cinque, e oltracciò sarei
stato obbligato di dare de’furiosi colpi di pugno per abbassarle, e
tanto e tanto non ne avrei ottenuto l’intento. Ecco quale fu la mia
invenzione. Allestj due bastoni tondi, più grossi da una parte che
dall’altra, e ricoprj la loro estremità più grossa con un pezzo di
pelle di sorcio, affinchè in battendo non restasse danneggiata la parte
superior delle chiavi, e che lo strepito de’colpi, ingratissimamente
non si confondesse col suono che la spinetta renduto avrebbe. Al
d’avante di quello strumento collocossi un banco più basso di quattro
piedi che le chiavi, ed io fui adagiato su questo banco. Vi scorsi sopra,
ora da un canto, ora dall’altro battendo co’miei due bastoni le
chiavi necessarie, e procurando di suonare una Giga, che parve fosse
intesa con gran piacere dalle loro Maestà: ma posso realmente dire che
a’giorni miei non ho praticato un sì violento esercizio; e pure mi fu
impossibile di scorrere più di sedici chiavi, e per conseguenza di
toccare il basso, ed il soprano insieme, come fanno altri Musici; il che
avrebbe aggiunta una nuova gentilezza alla mia Giga.

Il Re, che, come il dissi, era un Principe di somma abilità, e
spiritosissimo, spesse volte mi facea portare nel mio cassettino, e
riporre sopra una tavola nel Gabinetto di lui; dopo di che mi comandava
di prendere un de’miei seggi, che i faceva mettere con esso meco al di
sopra del cassettino, in distanza di tre verghe dalla sponda; il che più
o meno, mi costituiva a livello della faccia di Sua Maestà. In questo
modo godei di molte conversazioni con esso lei. Presi un giorno la
libertà di dirle, che il dispregio che Ella testimoniava per
l’_Europa_ e pel rimanente della Terra, non mi sembrava va accordarsi
con quel maraviglioso discernimento, che io sempre avea in lei ravvisato.
Che i gradi d’intelligenza non erano regolati secondo la grandezza
de’corpi: Che pel contrario osservavasi nel mio Paese, che le persone
più grandi, per ordinario, n’erano le men provvedute: Che fra gli
animali, le Api, e le Formiche, passavano per le più industriose, e le
più sagaci. E che tal che io le pareva, mi lusingava di poter renderle
qualche segnalato servigio. Mi ascoltò il Re con attenzione, e di là in
poi, egli formò di me un giudizio del tutto opposto. Pregommi di dargli
una idea, la più esatta che potessi, del Governo dell’_Inghilterra_;
imperocchè, diceva egli, per quanto sieno comunemente intestate le
Nazioni de’propj loro costumi, sarebbegli un gran piacere di apprendere
qualche cosa che egli imitare potesse.

Quante volte, e con quale brama io non mi sono augurata in quel momento
l’eloquenza d’un Cicerone, o d’un Demostene, per celebrar
degnamente tutte le lodi, onde è degna a sì giusto titolo la cara mia
Patria!

Cominciai il mio discorso dall’informanre Sua Maestà, che i nostri
Stati consistevano in due grand’Isole, che formavano tre possenti Regni
sotto un solo Sovrano, non comprese le nostre Colonie d’America.
Insistei lungo tempo sopra la fertilità del nostro Territorio, e sopra
la tempera del nostro Clima. La trattenni poscia sopra la Costituzione
d’un Parlamento _Inglese_, formato, in parte, da un Corpo illustre,
dinominato, la Casa de’Pari, che era d’Uomini d’un Sangue il più
nobile, e di Famiglie le più antiche del Regno. Le parlai della
straordinaria sollecitudine che sempre prendevasi della loro educazione,
affin di rendergli idonei ad essere Consiglieri nati del Re, e del Regno;
ad aver parte nella Potestà _Legislativa_; ad esser Membri della Corte
più alta di Giustizia, le cui decisioni sono inappellabili; e a
difendere con la loro saggezza, e col loro valore la loro Patria, e il
loro Re, contra tutti gl’imprendimenti de’loro nemici: Che eran
eglino l’ornamento, e il Baluardo del loro Paese, degni successori
degl’Illustri lor Avoli, la cui virtù non aveano giammai smentita: Che
ad essi, come Membri ad un medesimo Corpo, erano uniti Personaggj d’una
eminente pietà, sotto il titolo di Vescovi, onde la peculiar funzione si
era d’invigilare al sostegno della Religione, e all’instruzione del
Popolo: Che erano sempre scelti dal Re, e da’più saggj Ministri di
lui, fra que’che si distinguevano nel Sacerdozio per la purità
de’propj costumi, e per la profondità della propia erudizione.

Che l’altra parte del Parlamento consisteva in un’Assemblea, detta la
Casa de’Comuni, e composta di Gentiluomini, e di ben agiati Borghesi,
_liberamente_ eletti dal Popolo medesimo, a cagion della loro abilità, e
del loro zelo pel vantaggio della Patria: Che questi due Corpi formavano
insieme una delle più Auguste Assemblee dell’_Europa_; e che in essi,
congiuntamente col Principe, la Sovrana autorità risiedeva.

Le spiegai allora ciò che sieno le nostre Corti di Giustizia: Che
que’che vi presiedono sono Interpreti venerabili delle Leggi, chiamati
a mantenerci i nostri Diritti, e i nostri Possessi, a punir il delitto, e
a proteggere l’innocenza. Le parlai della prudenza nell’uso
de’nostri Erarj, e della grandezza delle nostre Forze, tanto marittime,
che terrestri. Le feci l’enumerazione del nostro Popolo, calcolandone i
molti milioni che aveavene di differenti Sette in materia di Religione, o
di differenti Partiti in fatto di Politica. Non ommisi i nostri
divertimenti; per dir brieve, nulla dimenticai di tutto ciò che io
credeva poter far onore alla diletta mia Patria. E diedi fine con un
Compendio Storico di quanto è accaduto, da un secolo in quà, o più o
meno, di più riguardevole in _Inghilterra_.

Come si vede, era assai vasto l’Argomento: perciò vi vollero molte
udienze; ognuna delle quali durò alcune ore, innanzi di poter votarla.
Con grande attenzione mi ascoltò sempre il Re; e comechè non
m’interropesse mai, non lasciò tuttavia passare cosa veruna senza
riflessione, come con le quistioni susseguentemente propostemi, il diede
a conoscere.

Detta che ebbi ogni cosa, mi fece Sua Maestà un gran numero di dimande,
e di obbiezioni fu cadaun Articolo. M’interrogò sopra la maniera che
praticavasi per coltivar i talenti dello spirito, e del corpo della
nostra gioventù Nobile; e in qual genere d’occupazioni passava ella la
prima, e la più disciplinabile parte della sua vita: Che si faceva,
quando estinguendosi qualche Famiglia Nobile, bisognava riempiere il
posto nella Casa de’Pari? Quali caratteri eran richiesti in que’che
erano investiti del titolo di _Lord_: Se il genio della Corte, una somma
di dannajo presentata a qualche Dama, o l’idea di rinforzare un partito
opposto all’interesse pubblico, n’erano sovente le cagioni,
creditrici di tali sorte di distinzioni? Fin a qual segno que’Signori
eran versati nella conoscenza delle Leggi del loro Paese? Che conveniva
che fossero ben eglino d’una grande abilità per poter decidere
inappellabilmente quistioni, che risguardavano la vita, e i beni
de’loro Concittadini: Se sempre rinvenivano molto esenti dalla taccia
d’avarizia, e bastevolmente superiori al bisogno, perchè i regali, o
altri criminosi motivi, non avessero la forza di corrompergli? Se i
Signori, chiamati a mantenere la Religione, erano sempre innalzati al
posto che occupavano, per motivo della loro capacità nelle materie che
concernono la lor Professione, o della santità della loro vita? Se in
tempo che essi non erano che semplici Cappellani, non disonoravansi mai
con una vil compiacenza pe’soro Signori, di cui forse continuavano a
seguir servilmente i sentimenti, dopo di essere stati ammessi a
quell’Assemblea sì Augusta.

Il Re poscia desiderò d’essere instruito de’mezzi che si mettevano
in pratica per essere eletto Membro della Casa de Comuni. Se uno
Straniere non potea forse, a forza di denajo, farsi scegliere, con
preferenza a un Signor del Paese, o a qualche Gentiluomo qualificato del
contorno? Come poteva darsi, che ognuno sollecitasse con tanta premura il
carattere di Membro di quella Ragunanza, (giacchè io gli avea detto che
un tal intento sempre gli costava caro,) senza mercede di sorta, nè
pensione veruna; essendo che, ei diceva, è troppo eminente un
somigliante grado di virtù, perchè sempre possa essere sincero, e
legittimo? Insiste poscia di sapere precisamente, se que’Gentiluomini
zelanti, non istudiavano risarcirsi delle cure, e de’dispendj stati
obbligati di fare, in sacrificando il Ben pubblico? A tali quistioni ei
ne aggiunse un gran numero d’altre, che io penso non essere necessità
di ripetere.

In proposito a quanto io gli avea detto delle nostre Corti di Giustizia,
mi pregò Sua Maestà di darlene specificazioni sopra alcuni Articoli;
nel che mi fu agevole di contentarla, perchè una volta mi trovai in
risico d’essere interamente ruinato per una tediosa lite che ebbi nella
Cancelleria, e che ho anche perduta con tutte le spese. Chiesemi quanto
tempo s’impiegava, per ordinario, in decidere se giusta, o ingiusta
fosse una cosa, e qual fosse il prezzo dell’ottenimento di questa
decisione? Se gl’Avvocati aveano la libertà di difendere Cause
notoriamente ingiuste? Se la Setta di Religione, o il Partito di
Politica, non entrava mai nella bilancia della Giustizia, per farla
chinare o dall’una, o dall’altra parte? Se tutti gli Avvocati eran
uomini generalmente conoscitori delle Leggi dell’Equità; o solamente
di alcune particolari costumanze della Città loro, della loro Provincia,
o della loro Nazione? Se in tempi diversi aveano talvolta sostenute due
contrarie sentenze in medesimo affare? Se componevan eglino una povera o
ricca Comunità? Se riceveano qualche pecuniario riconoscimento per aver
trattata, o consultata una Causa? E particolarmente se nell’inferior
Senato ammettevansi mai come Membri?

Passò in oltre ad altre quistioni sopra l’amministrazione del pubblico
Erario. Convien certamente dicevami Sua Maestà, che vi abbia tradito la
vostra memoria; poichè non faceste montare che cinque, a sei milioni per
anno le vostre Tasse, e qualche volta al doppio le vostre spese. Ella
avea in ispezieltà fatta attenzione a quest’Articolo, perchè sperava,
così ella diceva, che la cognizione della nostra condotta potesse
giovarle molto, e tenerla lontana dagli abbaglj ne’suoi calcoli. Mi
dimandò chi erano i nostri Creditori? E dove prenderemmo dannajo per
pagargli? Stupiva che spesse volte portata avessimo la guerra, sempre
gravosa, sì lontano dal nostro Paese. E’forza, diceva, che siate un
Popolo molto rissoso, o che abbiate confinanti molto cattivi, e che per
necessità i vostri Generali, più ricchi divengono che i vostri Re. Mi
dimandò quali affari noi avevamo fuori delle nostre Isole, se
eccettuansi il Commerzio, e la difesa delle nostre spiagge? Soprattutto
si faceva incredibili maraviglie per intendermi parlare d’un Esercito
mercenario, mantenuto nel mezzo della Pace, e nel seno d’un Popolo
libero. Opposemi, che se eravamo noi governati di nostro assenso da
uomini non che servivano che a metterci in iscena, non poteva Sua Maestà
concepire di chi avevamo noi paura, o contro a chi pensavamo di batterci:
e m’interrogò da chi meglio fosse difesa la casa d’un Particolare;
se da lui stesso, da’suo figliuoli, e dal resto di sua famiglia; oppure
da una mezza dozzina di vagabondi a caso presi nelle strade, e
miseramente pagati; in tempo che possono eglino guadagnar mille volte
più, scannando coloro che anno l’imprudenza di destinargli in lor
guardie.

Nulla di più ameno riuscivale quanto la mia Aritmetica, nel far entrare
nell’enumerazione del nostro Popolo, le differenti Sette di Religione,
e le Fazioni diverse dentro lo Stato. Prostava Sua Maestà di non
iscoprirvi ragione veruna, perchè que’che anno opinioni pregiudiziali
al Pubblico fossero obbligati di cangiare, o obbligati non fossero di
occultarle: E che come sarebbe una Tirannia in un Governo l’esigere la
prima di queste cose, era una debolezza il non far osservar la seconda:
imperocchè è ben permesso a un uomo il tener in Casa de’veleni, ma
non già di vendergli per Cordiali.

Ella notò, che fra’passatempi della nostra Nobiltà, e di altre
qualificate persone, io del giuoco parlato avea. Desiderò di sapere a
qual età si cominciava, per ordinario, a prendere un tale ricreamento, e
quando vi si rinunziava? Quale porzione di tempo vi si perdeva, e se mai
il giuoco arrivava a ruinare una famiglia. Se taluni della plebaglia con
la loro desterità potevano alcune volte far acquisto di ricchezze
immense, e riddure gli stessi Nobili nella lor dipendenza; altresì
inspirar loro, con la loro amistà, ignobili e codardi sentimenti, e
costrignerli, per le sofferte perdite, ad apprendere e a saggiare sugli
altri l’infame industria cheruinati gli avea?

Inorridiva Sua Maestà per la Storia che io aveale rappresentata del mio
Paese nel corso del passato secolo, aggiugnendo, che ciò non era che una
concatenazione di conspirazioni, d’omicidj, di ribellioni, di stragi,
di rivoluzioni, di esilj; effetti i più esecrabili, che l’avarizia, la
fazione, l’ipocrisia, la crudeltà, la perfidia, la rabbia, la viltà,
l’odio, l’invidia, e l’ambizione, produrre possano.

In un’altra Udienza, racapitolò il Re tutto ciò che io detto gli
avea, e comparò le risposte che io gli avea fatte, con le dimande
ch’egli mi avea promosse. Prendendomi poscia fralle sue mani, e
piacevolmente accarezzandomi, mi disse queste parole che io non mai
dimenticherò, e neppur la maniera onde furono pronunziate. "Picciolo
amico mio _Grildrig_, voi avete fatto un eccellente Panegirico del vostro
Paese. Dimostrativamente avete pruovato, che l’ignoranza,
l’infingardia, e il misfatto, possono talvolta intrudersi per
necessità nel governo d’un Regno: Che le Leggi son meglio interpretate
da quegli che vi anno più d’interesse, e più di abilità
nell’oscurarle, e nel diluderle: Scuopro fra voi altri, alcuni tratti
d’un ottimo Governo nella prima sua instituzione; ma di molto
scancellati dall’abuso, e dalla corruttela: Da tutto il vostro racconto
si deduce, che nè pure una sola virtù fra necessaria per essere
innalzato ad alcuna delle vostre Cariche, molto meno; che gli uomini vi
sieno annobiliti da’propj lor meriti; che sia avanzato agli onori ri il
Sacerdozio in considerazione della pietà o del sapere; i Soldati per la
loro condotta, o pel loro valore; i Giudizi per la loro integrità; i
Senatori pel loro amore verso la Patria, o i Consiglieri per la loro
saggezza. Quanto a voi, continuò il Re, che passata avete la maggior
parte della vostra vita nel viaggiare, penso che abbiate sfuggite molte
di queste inconvenienze. Ma per quanto io posso raccogliere dalla vostra
relazione, e dalle risposte che vi ho estorte con grande stento,
costretto sono di conchiudere, che il grosso della vostra Nazione è il
più tristo, e il più odibile picciol verme, e cui la Natura abbia mai
permesso di strisciarsi sulla superficie della Terra."



CAPITOLO VII.

Amor dell’Autore per la sua Patria. Ei fu al Re un’assai vantaggiosa
obblazione, la quale tuttavia è rigettata. Ignoranza del Re in fatto di
Politica. Angusti limiti onde ristringonsi le Scienze di quel Paese.
Leggi, e Militari affari di quel Regno. Quali turbolenze l’agitarono.


NON aveavi che un amor estremo per la verità, che indur mi potesse a
rispondere alle quistioni del Re con tanta schiettezza, con quanta io
l’avea già fatto. Vane sarebbermi riuscite le rimostranze del mio
resentimento, perchè sempre sarei comparuto ridicolo, e perciò soffogar
dovetti nel mio cuore la passione, e lo sdegno, in tempo che la cara, ed
Augusta mia Patria era trattata in un modo così ingiurioso. Ne patì
tanta Afflizione, quanta ne può patire chi legge. Ma era così curioso
quel Principe; e con tanta precisione m’interrogava su cadaun articolo,
che peccato avrei contra le Leggi della pulitezza, e soprattutto contra
quelle della gratitudine, se non gli avessi data tutta la più possibile
soddisfazione. Con tutto ciò, dir deggio per mia discolpa, che procurai
di diludere industriosamente molte delle dimande di lui, e che sopra
cadaun particolare, io dava un tornio assai più vantaggioso, di quel che
il potea permettere l’esatta verità: avuta avendo io sempre pel mio
Paese quella lodevole parzialità, che con tanta giustizia _Diogini di
Alicarnasso_ racomanda uno a uno Storico. Con tutto il mio cuore avrei
voluto occultare i difetti della mia Nazione, e riporvi in loro luogo le
virtù nella loro luce più luminosa. Questa si era la mia intenzione
nelle moltiplici conversazioni che ebbi con quel Monarca; ma per
disgrazia, nè al mio genio, ne agli sforzi miei corrispose
l’avvenimento.

Ma ciò che perfino a un tal qual segno compor dee l’Apologia di quel
Principe si è, ch’egli viveva interamente separato dal resto del
mondo; dal che provenivano che non avea notizie di sorta delle maniere, e
delle costumanze delle altre Nazioni. Questa spezie d’ignoranza e
sempre una sorgente feconda di _prevenzioni_, e produce necessariamente
non so quali _limitazioni d’idee, e di concepimenti_, onde noi, del
pari che i più colti Popoli dell’_Europa_, siamo del tutto esenti. E,
per vero dire, la cosa sarebbe ben dura, se le conoscenze, che un
Principe sì rimoto ha della virtù, e del vizio, servir dovessero di
regola per tutto il Genere umano.

Per confermar il mio detto, e per mostrar con maggior chiarezza i
miserabili effetti d’una educazione circonscritta da termini troppo
angusti, voglio in questo punto far parte a’miei Leggitori d’un
fatto, che forse agevolmente essi non potranno credere.

Per insinuarmi di bene in meglio nella buona grazia di sua Maestà, le
parlai d’un ritrovamento scoperto da tre, o quattro secoli, più o
meno, in qua, consistente nella manipolazione di certa polvere, un cui
intero ammassamento, fosse pur grande quanto una montagna, saltava in
aria, e in un istante restava consumato, con un fracasso più terribile
di quello d’un tuono; e ciò immediate che una sola, soletta, scintilla
vi volava al disopra: Che una certa quantità di questa polvere
sequestrata con uno stopacciolo entro una canna di ferro, era valevole di
cacciare una palla, pur di ferro, o di piombo, con una violenza, e una
sì prodigiosa velocità, che non aveavi cosa che ne potesse sostenere lo
sforzo: Che parimente vi erano di queste palle, che essendo sparate,
rovesciavano non solamente file di Soldati intere con un sol colpo, ma
abbattevano altresì in ruina le più massicce muraglie e sprofondar
facevano de’Vascelli montati da molte migliaja d’uomini: Che quando
queste palle erano unite insieme con una catena, fracassavano gli alberi,
le antenne; in una parola, tutto ciò ch’esse riscontravano: Che spesse
volte mettiamo questa polvere entro gran palle di ferro votte, che con
arte, e con l’ajuto d’una certa macchina, sappiam lanciare dentro una
Città assediata, e che con tal mezzo restava ucciso un gran numero di
assediati nemici, e quasi tutte le loro Case erano ridotte in cenere: Che
mi eran molto ben noti gl’ingredienti nella composizione della polvere
stessa; che essi non costavano troppo, e non erano rari; Che per altro io
mi comprometteva d’insegnare agli Operaj di Sua Maestà l’Arte di
costruire quelle canne, d’una grandezza proporzionata a tutti gli altri
oggetti che erano nell’Imperio di lei; e che le maggiori, più che i
cento piedi di lunghezza eccedere non dovevano: Che venti, o trenta delle
canne stesse, cariche con quantità convenevole di polvere, e di palle,
poteano rovesciare in poche ore le muraglie della più forte Città del
suo Regno, o mettere sossopra la Capitale, se mai ella si staccasse dalla
dovuta sommessione agli ordini supremi di Sua Maestà. Io feci al Re
quest’obblazione; supplicandolo di accettarla come un fievole
contrassegno di quel riconoscimento; che le beneficenze di lui eccitato
in me aveano.

Il Re, in udire la descrizione di queste terribili macchine, e dell’uso
che io gli proponeva di farne, fu sorpreso da un orrore che non può
esprimersi. Concepir non potea come un insetto sì debole, e sì minuto
come me, (furono queste le stesse espressioni di lui) avea l’animo di
pascersi d’idee sì inumane, e sì poco restar commosso, in parlando
della disolazione, e della strage, che aveagli io detto essere gli
ordinarj effetti di queste macchine sterminatrici, di cui certamente,
diceva egli, qualche maligno Genio, e nemico dell’Uman Genere, dovea
esserne stato il primo ritrovatore: Che per quello apparteneva a lui, ei
protestava, che tutto che i nuovi scuoprimenti, sieno nell’Arte, o
nella Natura, gli cagionassero un singolare diletto, contenterebbesi
piuttosto di perdere la metà del suo Regno, che di apprendere un arcano
sì abbominevole, onde proibivami se mi era cara la vita, di tenergliene
discorso mai più.

Strano effetto di quella _limitazine d’idee_ e di quella _picciolezza
d’oggetti_, di cui parlai! Chi mai potrà credere che un Principe, il
quale, per altro, possiedeva tutte le qualità che producono la
venerazione, l’amore, e la stima; e il cui sapere, la saggezza, e la
bontà, il rendevano l’ammirazione, e le delizie de’suoi Suggetti;
per un _picciolo vano scrupolo_, che noi in _Europa_ non sappiamo neppur
che sia, lascisi scappare l’inestimabile opportunità di rendersi il
Signore assoluto della vita, della libertà, e de’beni del suo Popolo?
Ciò però che io ne dico, non è con intenzione di censurare gli altri
talenti di quel Monarca, il quale, a cagion del teste mentovato
avvenimento resterà molto pregiudicato nello spirito d’un Leggitore
_Inglese_. Ma solamente disegno mio si è, di far osservare quanto
massiccj sono i granchj che si prendono, quando non si riduce la
_Politica in iscienza_; come il praticano i più gran Genj
dell’_Europa_. Mercè che molto bene mi risovvengo, che un giorno
disputando col Re, gli dissi che fra noi si avea composta una infinità
di Volumi sopra l’_Arte di governare_; ma che contro alla mia
intenzione, io gli diedi una picciolissima idea della nostra capacità.
Ei mi protestò di avere un sommo dispregio per tutto ciò che chiamasi
_Misterio_, _Raffinamento_, ed _Imbroglio_, sia in un Principe, sia in un
Ministro. Non potea comprendere cosa io intendessi per _Segreti di
Stato_, purchè di qualche Nazione rivale, o nemica, non si trattasse.
Ristrigneva la Scienza del Governo in _limiti molto angusti_,
circonscrivendola al buon senio, alla giustizia, alla clemenza, e alla
pronta spedizione delle Cause sì criminali che civili, con alcuni altri
comuni luoghi che non meritano riflessione: e stranamente pensava, che
chiunque potea fare che due cannelle di biada, o due festuche d’erba
crescessero sopra un mucchietto di terra, ove per l’addietro non
cresceva che un solo, prestava alla sua nazione il maggiore de’più
essenziali servigi.

Sono assai difettuose le conoscenze di quel Popolo, non consistendo che
nella Morale, nella Storia, nella Poesia, e nelle Matematiche; nel che
confessar si dee ch’egli è eccellente. Ma l’ultima di queste Scienze
non è impiegata che negli usi della vita, e nel miglioramento
dell’Agricoltura, e di tutte l’Arti Meccaniche. Per quello concerne
le Idee, l’Entità, e le Astrazioni, non fu possibile il fargli
concepir ciò che esse fossero.

Niuna Legge di quel Paese dee eccedere in parole il numero delle lettere
del loro Alfabeto, che non sono più che venti e due. Ma per dir vero,
poche ve ne ha di una tale intera lunghezza. Ne più semplici e più
chiari termini son elleno espresse; ed è così stupida quella Nazione,
che non sa interpretarle che in un solo senso. Anzi è un Capitale
delitto il presumere di spiegar una Legge con una comentazione. Quanto
alla spedizione delle Cause civili, e criminali, son sì pochi presso lei
gli processi, che contra ragione ella vanterebbesi d’essere abilissima
nell’una, o l’altra di queste cose.

Da un tempo immemorabile quanto i Chinesi ebbero que’Popoli l’arte
della Stampa; ma le Librerie loro non abbondano di Volumi, imperocchè
quella del Re, la quale passa per una delle maggiori, non ne contiene a
un di presso che mille, adagiati in una Galleria di mille e dugento piedi
di lunghezza, avend’io la permissione di valermi di qualunque Volume.
Il Falegname della Regina avea formata in una delle stanze di
_Glumdalclitch_ una maniera di scala alta venti e cinque piedi, e ogni
gradino di cui, cinquanta piedi era lungo. Alla muraglia facea io
appoggiare quel Libro che io volea leggere; salendo poscia alla sommità
della scala, dava principio dalla prima linea della pagina, camminando
per fianco, finchè fossi pervenuto al termine della linea; dopo di che,
quando bisognava, io scendeva un gradino, facendo sempre l’esercizio
medesimo perfino al fondo della pagina.

Chiaro, maschio, e sonoro è lo stile di quella Nazione, ma non fiorito;
perchè ella sfugge di servirsi di espressioni soverchie. Furon da me
letti molti de’loro Autori; particolarmente que’che trattano della
Storia, o della Morale; e fra gli altri con mio inesplicabile gusto,
scorsi da capo a’piedi un vecchio Trattatello che trovasi sempre nella
camera da letto di _Glumdalclitch_, e che apparteneva alla Governatrice
di lei, Dama di gravità, e che non leggeva se non libri di Morale, e di
divozione. Trattava questo libro della debolezza del Genere umano, e non
era tenuto in pregio che dalle Donne, e dal semplice Volgo. Portommi la
curiosità a vedere ciò che dir poteva su quest’argomento un Autore di
quel Paese. Per appunto questo Scrittore toccò que’medesimi comuni
luoghi, che sì perfettamente son noti a’Dottori nostri in Morale;
rimostrando come l’uomo è un picciolo animale, spregevole, ed incapace
d’ajutarsi da se medesimo, e di difendersi contra l’ingiurie
dell’aria, e contra il furore delle bestie feroci: Quanto egli e
inferiore in forza a una creatura, in velocità ad un’altra, a una
terza in prudenza, e a una quarta in industria. Aggiugne; che in questi
ultimi tempi la Natura avea degenerato dal primo suo vigore, e che altro
più non produceva che piccioli aborti in comparazione de’decorsi
secoli. Dice, ch’è assai probabile, che non solo la spezie degli
uomini primitivamente fosse più grande, ma che eziandio ne’primi tempi
vi deggiono essere stati de’Giganti, come da un canto l’attestano la
Storia, e la Tradizione, e come dell’ossa prodigiose che si son
trovate, lo dimostrano dall’altra. Pretende che le Leggi della Natura
ricercavano, che al principio noi fossimo stati fatti d’una molto più
robusta costituzione, e molto men suggetti a restar distrutti da piccioli
accidenti, da un tegolo cadente da una casa, o da una pietra lanciata da
un fanciullo. Da somiglianti ragionamenti tra e l’Autore molte morali
conseguenze, di grand’uso per la direzion del vivere, ma che farebbe
inutile di quì registrare. Quanto a me; non potei di meno di ammirare
quanto general fosse il talento di rigirar le letture in moralità, e
l’inclinazione degli uomini a lagnarsi della Natura. E ben penso, che
dopo una esatta perquisizione, tali sorte di lamentanze, sì poco fondate
sarebbono fra noi, come l’erano fra gli Abitanti di _Brobdingnag_.

Per quello risguarda i militari affari di que’Popoli, mi an eglino
assicurato che l’Esercito del loro Re consisteva in cento settanta e
sei mila Fanti, e in trenta e due milla Cavali, se pure il nome di
Esercito convenir possa a un Corpo formato di Mercatanti collettizj di
differenti Città, e di Fattori di campagna, i cui Comandanti sono
semplicemente persone di qualità, senza paga, e senza ricompensa. Negar
non si può che eglino assai bene intendono l’Esercizio, e che in
eccellenza sono disciplinati; nel che non si rinviene poi un gran merito;
mercè che come mai potrebbe essere la faccenda altrimenti, in un Paese,
ove cadaun Castaldo è sommesso al padrone della sua Terra, e ogni
Cettadino a’Magistrati della sua Città, eletti per _isquittino_
secondo la pratica di _Venezia_?

Vidi di frequente la milizia di _Lorbrulgrud_ a fare l’Esercizio in un
gran campo presso della Città. Vi si potea annoverare venti e cinque
mila Pedoni, e a un di presso sei mila Cavalli: riuscendomi, per altro,
impossibile di numerargli con esattezza, a cagion del terreno che essi
occupavano. Un Cavaliere, montato sopra un Cavallo di ragionevole taglio,
avea in altezza più di cento piedi. M’incontrai un giorno di vedere
tutti i Cavalieri di quel Corpo, nell’istante che il Comandante loro ne
dava l’ordine, sguainare le loro spade tutti in una volta, e vibrarle
nell’aria. Uno spettacolo di tal fatta, avea un non sò che di
sorprendente, superiore a qualunque esagerazione. Fra lo stesso, come se
sei mila balini avessero lampeggiato in diverse parti del Cielo in un
tempo medesimo.

Tentavami la curiosità di sapere, come mai quel Principe, nel cui Paese
era impossibile di penetrare, potesse essersi avvertito di raccogliere
Eserciti, o di far instruire il suo Popolo nella Militar Disciplina. Ma
pel soccorso della conversazione, e per la letura delle loro Storie; ben
presto ne restai appagato; imperocchè dopo moki secoli, quegli Abitanti
sono stati assaliti dalla medesima malattia, onde tante altre Nazioni
sono suggette; voglio dire, che la Nobiltà si era applicata a
rintracciarvi troppo potere, il Popolo troppa libertà, è il Principe
troppo assoluto dominio. Per vero dire, avevasi provveduto con sagge
Leggi a tutte queste inconvenienze: ma queste Leggi sovente erano state
infrante dal alcuno de’tre Partiti; dal che, più d’una volta,
n’erano prodotte guerre civili; l’ultima delle quali era stata
felicemente terminata dall’Avolo del Principe Regnante, con una
generale composizione: e la Milizia, il cui numero allora si era fissato
di consentimento de’tre Partiti, dopo quel tempo si era tenuta
esattamente nel suo dovere.



CAPITOLO VIII.

Il Re e la Regina fanno un giro verso le Frontiere, e l’Autore ha
l’onore d’accompagnargli. In qual modo ei ritirossi da quel Regno.
Ritorna in Inghilterra.


IO sempre avea presentita una forte lusinga di dover un giorno ricuperare
la mia libertà, tutto che impossibile mi riuscisse di concepire con
quali mezzi, o di formare alcun progetto che avesse l’ombra menoma di
apparenza di poter ottenerne l’intento. Il Vascello, su cui io era
stato, era il primo che si fosse giammai veduto sopra le spiaggie di quel
Paese, e il Re avea dati gli ordini più precisi, che se qualche altro ve
ne comparisse, tutto si facesse per prenderlo, e che con tutta la ciurma,
e tutti i passeggieri, si conducesse sopra una carretta a _Lorbrulgrud_.
Desiderava con sommo ardore Sua Maestà di aver qualche femmina dello
stesso mio taglio, pel cui mezzo si potesse conservar la mia spezie: Ma
io credo che avrei piuttosto sofferte mille morti, che espormi al risico
di lasciar dietro a me una posterità, che fosse stata, o messa in gabbia
come uccelletti di Canaria, o forse venduta a persone di carattere; non
tanto, veramente, per farne degli schiavi, quanto delle curiosità.
Confesso che io era trattato assai gentilmente, essendo il Favorito
d’un gran Re, e le delizie di tutta la sua Corte: Ma con tutto questo,
la figura che io faceva non mi sombrava convenire alla dignità del mio
temperamento. Riuscivami impossibile il dimenticare quegli altri me
medesimo, che nella mia Patria io avea lasciati, e mi moriva di voglia di
trovarmi in mezzo d’un Popolo, con cui avessi una spezie
d’uguaglianza, e in un Paese, ove spasseggiar potessi con libertà,
senza temere d’essere schiacciato come un cagnuolo, o come un
ranocchio. Ma più presto di quell’avrei sperato, sopravvenne il
momento della mia liberazione, in un modo onninamente straordinario.
Eccone la Storia, e tutte le circostanze con la più esatta verità.

Due anni già erano scorsi da che mi trovava nel Paese; e nel principiar
del terzo _Glumdalclitch_, ed io, accompagnammo il Re, e la Regina in un
giro che fecero le loro Maestà verso la spiaggia meridionale del Regno.
Secondo il solito, io era portato nel mio cassettino da viaggio, che come
già il dissi, era un galantissimo stanzino di docici piedi di larghezza;
ed io avea ordinato, che con funi di seta egualmente lunghe mi si
appiccasse una picciola materassa all’alto de’quattr’angoli dello
stanzino stesso, affine di non risentirmi tanto dello scuotimento, quando
un servidore mi portasse d’innanzi a lui marciando a cavallo; e
altresì per dormirvi con tutto l’agio, quando mi trovassi in cammino.
Nel tavolato superiore del cassettino, verso il sito della materassa ove
io adagiava il capo, avea fatto fare all’Artefice un buco, o finestrino
d’un piede in quadro, donde mi venisse qualche respiro d’aria mentre
dormiva in tempo di caldo, e potevasi questo buco chiudere, o aprire con
una picciola tavola, che da me con una ribalta alzavasi, e si abbassava.

Compiuto che fu da noi il nostro giro, giudicò opportuno il Re di andar
a spassarsi per alcuni giorni in un Palagio che egli aveva presso di
_Flanflasnic_, Città situata a diciotto miglia _Inglesi_ della Marina:
_Glumdalclitch_, ed io, eravamo estremamente lassi: per la mia parte,
avea guadagnata una buona infreddatura; ma la povera ragazza si trovava
così male, che non poteva lasciar la stanza. Era grande la mia
impazienza di rivedere l’Oceano, sola, ed unica strada che mai si
poteste aprire al mio scampo. Feci sembiante d’essere incomodato più
che non l’era, e chiesi la permissione d’andarmene al lido per
respirarvi alquanto d’aria, con un Paggio che io molto amava, e con cui
talvolta io avea stretta gran confidenza. Non mi si svanirà mai dalla
memoria la repugnanza ch’ebbe _Glumdalclitch_ all’assentire a questa
mia andata; nè la maniera ond’ella raccomandommi al Paggio di aver
cura di me, struggendosi nel tempo stesso in lagrime, come se presentisse
qualche cosa di ciò che stava per avvenire. Mi portò il Paggio nel mio
cassettino perfin che arrivammo alla spiaggia; e allora gli dissi di
ripormi a terra; ove alzata una delle mie invetriate, per qualche tempo
gl’infelici miei sguardi sopra il mare vagarono. Me la passava male;
sicchè mi dichiarai col mio conducitore, che volentieri riposato avrei
alquanto sopra la mia matterassa, sperando che un poco di sonno mi
avrebbe molto giovato. Mi vi corcai, e il Paggio chiuse la finestra, per
timore che entrandovi l’aria, non m’incomodasse. Poco stetti, che
m’addormentai; e tutto ciò che posso conghietturare si è, che nel
frattempo del mio dormire, il Paggio, non immaginandosi mai che potessi
correre risico di sorta, stava spassandosi nell’andar in busca d’uova
d’Uccelli nelle fessure delle roccie; ricreamento, che io già avea
veduto prendersi da lui, in tempo che per anche stavamente alla finestra.
Chechè ne fosse in tal proposito; fui all’improvviso risvegliato da un
violento colpo che sentj sopra l’anello fitto sopra la superior parte
della mia cassetta, perchè mi si potesse portare più agevolmente. Mi
avvidi che il cassettino si elevava molt’alto nell’aria, e che poscia
con una prodigiosa velocità discendeva. Pensai che il primo scuotimento
mi gettasse dalla materassa; ma di poi fu più regolato il moto. Molti
furono i gridi mie, ma egualmente inutili, e guatando dalle mie finestre,
che Cielo e che nuvole veder non seppi. Intesi precisamente al disopra
della mia testa uno strepito somigliante a uno sbattimento d’ale, e
solo allora cominciai ad accorgermi dell’orribilità della mia
situazione. Indovinai che un’Aquila preso avea nel suo rostro
l’anello della mia cassetta, con disegno di lasciarla cadere sopra una
rupe, come una testuggine nella sua scaglia, e dappoi trarne il mio corpo
per divorarlo: Essendo che, è sì ammirabile l’odorato di
quest’animale, ch’ei sente la sua preda in una distanza assai grande
quando anche più nascosta ella fosse che non l’era io, infra tavole
che non aveano di grossezza due pollici.

Alcuni momenti dopo intesi che lo sbattimento d’ale più ingagliardiva,
e vidi chiaro che il cassettino alzava ed abbassava continuamente.
Parvemi che l’Aquila, (poichè non ho mai potuto togliermi dalla
fantasia, che una non ne fosse, che nel suo rostro tenesse l’anello del
cassettino,) fosse incalzata da qualche altro uccello; e di là a un
instante osservai che io perpendicolarmente cadeva, ma con una rapidità
sì portentosa, che mi sentivi di gia sfiatato. La mia caduta, poco più
o meno, durò un minuto, e allora il cassettino poggiò sulla superficie
del mare, e fecevi, in cadendo, un sì enorme fracasso, quanto quegli
della cateratta di _Niagara_; dopo di che, per lo spazio d’un altro
minuto mi trovai fra le tenebre, ed indi il cassettino cominciò a
riaversi tanto, che potei verso l’alto delle mie finestre ravvisar
lume. Senz’altro mi accertai che io era caduto nel mare. La cassetta
pel peso del mio corpo, ed eziandio per quello degli arnesi che ella
conteneva, e per le lamine di ferro ond’era armata ne’quattr’angoli
all’alto, e al basso perchè ne fosse la struttura più forte,
ondeggiava nell’acqua, profondatavi per cinque piedi. Pensai allora,
come al presente il penso, che l’Aquila, volandosene col mio
cassettino, stata fosse assalita da due, o tre altri uccelli della
medesima, o d’una diversa spezie; e che tentando difendersi contro ad
essi, che probabilmente voleano la loro parte della preda, fosse stata
costretta di laciarmi cadere. Le lamine di ferro fitte sull’inferior
tavola del cassettino, come le più massicce, mantenuto aveano
l’equilibrio nell’atto della caduta, e impedito che l’urto
dell’acqua nol mettesse in pezzi, e oltracciò, egli era sì ben
connesso, e chiuso da tutti i lati, che pochissimo mare vi entrò. Fu non
picciolo lo stento mio per togliermi dalla materassa, dopo di aver avuta
la cautela di prima ricevere alquanto d’aria fresca, onde estremamente
io bisognava, pel finestrino, con tal intento già stato fatto al di
sopra del mio Studiolo.

Quante volte allora desiderato non mi sono presso la mia cara
_Glumdalclitch_, da cui m’era allontanato per un’ora sola: E ben
posso realmente dire, che nel forte de’propj miei infortunj, non potei
di meno di compiagnere la povera mia Nutricina, e d’essere sensibile
a’crepacuori che probabilmente stava per cagionarle la mia perdita.
Pochi forse rinvengonsi Viaggiatori, che si sieno abbattuti in
congiuntura così sgraziata come la mia; aspettando io a cadaun momento
di scorgere messo in pezzi il mio cassettino, o inghiottito da’flutti.
Ella era spedita per me se una menoma parte delle mie invetriate si
spezzava. Vidi che entrava l’acqua per molte picciole fessure, che
procurai di turare alla meglio, ed ebbi la sorte di ben riuscirvi. Con
tutto questo, era molto deplorabile lo stato mio: o a buon’ora, o
tardi, non poteva non abissarsi il mio cassettino, e quando pure da un
risico, tale fosse egli stato esente, il freddo, e la fame, dovevano,
senz’altro, farmi morire. Per quattr’ore continue mi son trovato in
sì lagrimevoli circostanze, attendendo, e per ispiegarmi nel vero senso,
bramando che cadaun instante fosse l’ultimo del mio vivere.

Ho già instruiti i miei Leggitori, che a quella parte del cassettino ove
non vi era finestra di sorta, aveavi annessi due poderosi ritegni,
ne’quali colui che mi portava andando a cavallo, avea l’attenzione di
passare un centurione di cuojo, ch’ei poscia affibiava d’intorno a
se. Nel mezzo delle mie angustie, sentii, o per lo meno credei di
sentire, verso la parte de’ritegni mentovati, qualche strepito, e un
momento dopo m’immaginai che il cassettino tratto fosse sul piano del
mare; mercè che di tempo in tempo io sentiva che l’onde percuotevano
le mi finestre, nella giusa stessa che un Vascello in viaggiando, fonde
l’onde medesime. Ristettè in me allora un raggio tenuissimo di
speranza; tutto che per anche non concepissi la possibilità della mia
salvezza. Levai le viti che univano al solajo uno de’miei sedili, e
poscia feci alla meglio perchè il sedile saldo al di sotto della
picciola tavola che io testè aperta avea; dopo di che vi montai sopra,
ed avendo avvicinata la bocca al finestrino quanto potei, mi messi
fortemente a gridare, e in tutte le lingue che mi erano cognite. Indi a
un bastone, che per ordinario io aveva meco, appesi il mio fazzoletto,
che cacciai fuori del finestrino a foggia di banderuola, girandolo, e
rigirandolo molte volte, affinchè in caso che qualche Vascello, o
qualche schifo vicino ivi fosse, potessero i Marinaj indovinare che nella
cassetta stavavi rinchiuso qualche sgraziato mortale.

Per quanto mi pareva, tutti i miei schiamazzi, e tutti i miei segnali non
furono nè veduti, nè intesi; ma non ostante, chiaro ravvisai, che il
cassettino ad essere tratto continuava. Un’ora dopo, quella parte del
cassettino ov’erano attaccati i ritegni, ed ove non erano finestre,
urtò in qualche cosa di consistente. Temetti che non fosse una roccia; e
più che prima io sentiva le scosse. Al di sopra della cassetta intesi
distintamente uno strepito somigliante a quello d’una fune che traesi
per un anello. Vidi allora che la cassetta insensibilmente sorgeva; e che
prima di fermarsi, era più alta di tre piedi che per laddietro. In tal
caso ricominciai a nuove spese a chiamar ajuto, e a vogliere il mio
fazzoletto; e un grido, che molte voci rimescolate insieme rendevano
confuso, mi servì di risposta, e mi cagionò un trasporto tale di gioja,
che solo da chi il saggiò può essere conceputo. Un istante dopo, sentì
camminare sulla mia testa, e qualcuno gridando pel finestrino ad alta
voce in _Inglese_: _Se vi sta alcuno qui abbasso che parli_. Immediate
risposi, che io era un _Inglese_ confinato dalla spietata mia sorte nella
più spaventevole constituzione in cui ma i siasi trovato uomo; e che io
pregava per tutto ciò che essere può valevole a muovere a compassione,
di trarmisi da quel carcere. Replicò la voce che io nulla avea a temere,
poichè la cassetta era attaccata al loro Vascello; e che ben presto
sarebbe venuto il Falegname per farvi al di sopra un buco, bastevolmente
capace per estrarmivi fuori. Risposi, che ciò era inutile, e bisognava
di molto tempo; che era ben meglio che alcuno de’Marinaj mettesse un
dito nell’anello, e così togliesse il cassettino dal mare, per riporlo
poscia nel camerino del Capitano. Un linguaggio di questa fatta feci
credere a chi l’intese, che io vaneggiassi; ma taluno di coloro si mise
a ridere di buon gusto; dovendo io con mia vergogna confessare, che io
non badava di ritrovarmi allora fra uomini di mia forza, e di mia
statura. Venne il Falegname, e in pochi minuti formò un’apertura di
quattro piedi in quadro; fecevi poscia passare una picciola scala, sulla
qual montai per rendermi nel Vascello.

Stordiva all’ultimo segno l’Equipaggio tutto, facendomi mille
quistioni, alle quali tuttavia non sentivami di dare risposta. Dal canto
mio non restai men attonito nel ravvisare tanti Pigmei: tali eglino
sembrandomi, per essere stato sì lungo tempo accostumato a non vedere
che mostruosi oggetti. Ma il Capitano, che appellavasi _Tommaso
Vvilcolks_, uomo generoso, ed obbligante, osservando che io veniva meno,
mi prese nel suo Camerino, mi recò un Cordiale per guarentirmi da uno
svenimento, e corcar mi fece nel proprio suo letto, affinchè col riposo
alquanto mi ristorassi; e certamente ne avea io un gran bisogno. Prima
però di effettuarlo, diedi gli a conoscere che nel mio cassettino
esistevano alcune robicciuole che mi farebbe spiaciuto di perdere; e fra
l’altre, una buona picciola materassa, un galantissimo letto da
Campagna, due sedie, una tavola, ed uno studiolo. In oltre; che la
cassetta stessa da tutti i lati era foderata di bambagia, e di seta; e
che s’ei si compiaceva di farla trasferire da qualcuno de’suoi
Marinaj nel suo Camerino, gli avrei mostrato quant’io dicevagli, ed
altre cosucce altresì. Intesisi dal Capitano somiglianti assurdi, che io
sognassi ei credè. Con tutto ciò, (a quel che ne penso, per
acquietarmi,) mi promise di darvi l’ordine; e portatosi sul Cassero,
fece scendere alcuno de’suoi nel cassettino, e toglierne, come di poi
il trovai, tutto ciò che di buono entro aveavi; ma i sedidi e lo
studiolo, essendo uniti con madreviti al solajo, restarono non poco
danneggiati dall’ignoranza de’Marinaj, che vollero a forza di braccia
levargli. Veduto ch’ebbero non esservi più cosa che meritasse a
ricuperarsi, lasciarono andar al mare il cassettino, il qual essendo
aperto in diversi luoghi, guari non istette a sprofondarsi. E, per vero
dire, molto gradì di non essere stato testimonio di vista di quello
spettacolo, che mi avrebbe rinnovata la più infausta, e la più
angosciosa memoria.

Dormì alcune ore, ma d’un sonno ad ogni instante turbato dalla
meditazione del luogo ond’era io uscito, e de’pericoli che aveva
scorsi: Nulladimeno, destato che fui, mi trovai assai meglio. Erano
allora circa le ore otto della sera; e poco dopo il capitano ordinò che
si servisse la cena, credendo ei già che io avessi pranzato da molto
tempo. Fu assai benigna la conversazione di lui; e rimasti noi soli, ei
mi pregò di fargli la relazione de’miei viaggj, e di narargli per qual
accidente in quell’enorme macchina di legno trovato mi fossi. Dissemi,
che verso il mezzo giorno, risguardando col cannocchiale, avea scoperta
la mia cassetta, e che immaginandosi che fosse un Vascello, formato avea
il disegno di procurar di raggiugnerlo, con la speranza di provvedersi di
poco biscotto, onde cominciava a penuriarne il suo bastimento: Che
nell’accostarsi; si era accorto del proprio errore, ed avea inviato lo
schifo per sapere ciò che galleggiasse sull’acqua: Che le sue genti se
n’erano ritornate assai attonite, giurando di aver veduta una casa
fluttuante: Che egli beffatosi della follia loro si era messo in persona
nello schifo, avendo prima dato ordine di riporsi nello schifo stesso un
buon cavo: Che essendo il mare in bonaccia, con l’ajuto de’remi avea
egli molte volte fatto il giro della mia cassetta, e considerato le mie
finestre: Che avea ravvisati due ritegni da una parte che era tutta di
tavole, senza aperture di sorta che dessero passaggio al lume: Che avea
allora comandato a’suoi Marinaj d’accostarsi col Caicco a quella
parte stessa, di assicurar il cavo ad uno di que’ritegni, e poscia di
tirar la Cassa, (così ei chiama va la) fin al Vascello. Compiuta tal
opera, ordinò che si raccomandasse un’altra fune all’annello che
stava fitto al di sopra del cassettino, e che il si levasse con
carrucole; il che quegli uomini eseguir non poterono che per due o tre
piedi. Mi disse che ben gli era caduto sotto l’occhio il mio bastone, e
il mio fazzoletto; e che aveane conchiuso che in quella sì strana spezie
di prigione, se ne stesse rinchiuso qualche sventurato. Gli dimandai, se
verso il tempo onde io era stato discoperto la prima volta, egli, o
alcuno de’suoi, veduti avesse alcuni uccelli d’una prodigiosa
grandezza nell’aria? La sua risposta fu, che parlando su questo
proposito co’suoi Marinaj in tempo che io dormiva, uno d’essi gli
disse di aver osservate tre Aquile che volavano verso il Ponente; ma che
non vi avea fatta riflessione se fossero maggiori delle Aquile ordinarie;
il che, alla prodigiosa altezza, ond’elleno si trovavano, attribuisco:
ed egli indovinar non potè il motivo d’una tale mia interrogazione.
Saper poscia volli dal Capitano, in quale distanza da terra ei credeva
d’essere: disse, che secondo la sua opinione, n’eravamo, per lo meno,
a un centinajo di leghe. Gli protestai che egli prendeva abbaglio almeno
per la meta; poichè non erano che due ore che io lasciato avea il Paese
onde io veniva, quando cadei nel mare. Questa risposta fecegli di nuovo
credere che avessi la fantasia stravoltra; il che bastevolmente ei diede
a conoscere, dicendomi che me ne andassi a dormire in uno stanzino
fattomi di già allestire. L’assicurai che la sua conversazione più mi
giovava del riposo che prendere potessi; e che per altro io mi rinveniva
nel mio buon senso, che non l’era mai stato per tutta la mia vita. Egli
allora con un suono di serietà, mi dimandò in confidenza, se forse io
avessi lo spirito intorbidito dal rimorso di qualche misfatto orribile,
per cui, per ordine di qualche Principe fossi stato punito, coll’essere
rinchiuso in cassa, e gettato in mare, nella guisa che in altri Paesi,
entro una barchetta, senza provvisioni di sorta, espongonfi i criminosi
di prima classe alla discrezione dell’onde? Soggiunse; che non ostante
che gli spiacesse che il suo Vascello servito avesse di asilo a uno
scellerato, impegnavasi nulladimeno di mettermi sano e salvo a terra nel
primo Porto che afferrato avessimo. Aumentavano i suoi sospetti, ei
proseguiva, da non so quali discorsi assurdi che io da prima tenuti avea
co’Marinaj, e poscia con lui medesimo; ed eziandio dalla tetra mia
aria, e da’torbidi miei atteggiamenti.

Il supplicai di soffrire il racconto della mia Storia; il che eseguì con
la più esatta fedeltà, dalla mia partenza dall’_Inghilterra_, perfino
al momento ch’egli mi avea discoperto. E come la verità possiede
sempre una tale quale possanza sopra spiriti ragionevoli, non sudai molto
nel persuadere il mio Capitano, il qual avea qualche tintura di sapere,
un buon uso di ragione, della mia candidezza, e della mia veracità. Ma
per maggiormente convincerlo, il pregai di dar ordine che mi fosse recato
il mio Studiolo, la chiave di cui io già teneva in mia saccoccia,
essendomi già stato notificato ciò che i Marinaj fatto aveano del mio
cassettino. In presenza di lui aprì lo Studiolo, e gli feci mostra della
picciola raccolta di rarità che io avea fatta nel Paese, donde in un
modo sì miracoloso testè io era uscito. Gli posi sotto l’occhio il
pettine che io avea formato co’peli della barba del Re; un gran numero
di aguglie, e di spilletti, i più minuti  de’quali erano lunghi un
piede; e i più grandi una mezza verga; alcune pettinature de’capelli
della Regina: e un anello d’oro onde ella un giorno con la più galante
maniera del mondo mi regalò, traendolo dal suo picciolo dito, e
adatandolo al mio collo a guisa di collana. Sollecitai il Capitano ad
accettare l’anello stesso come un tenue contrassegno della mia
riconoscenza, ma ei non volle acconsentirvi mai. In fine, per non
lasciare dubbio veruno sopra il punto della mia veracità, fecegli vedere
i miei calzoni, che erano fatti della pelle d’un solo sorcio.

Non ci fu modo di fargli prendere cosa veruna, se eccettuisi il dente
d’uno Staffiere, che vidi essere da lui disaminato con gran curiosità,
e di cui ei mi sembrava molto invogliato. Il ricevè con ringraziamenti
tali, che non erano, per nulla affatto, alla picciolezza del dono
proporzionati. Questo dente, che era sanissimo, nè per sogno guasto,
avea appartenuto a un Palafreniere di _Glumdalclitch_, a cui uno stolido
Chirurgo strappato l’avea, in luogo d’un altro che gli doleva: mel
feci dare per conservarlo nel mio Studiolo. Avea un di presso un piede di
lunghezza, e quattro pollici di diametro.

Restò incantato il Capitano dal racconto della mia Storia, e disse, che
sperava che io non mancassi di farne parte al Pubblico, giunto che fossi
in _Inghilterra_. Gli risposi, che il numero de’Viaggi datisi alle
stampe non era che troppo grande, e che per tal ragione, o conveniva
tacere, e aver da narrare qualche cosa di straordinario; senza tuttavia
seguir l’esempio di quegli Autori, che a spese della verità,
rimescolano sempre del maraviglioso entro a’loro scritti: Che la mia
Storia non conterrebbe che avvenimenti assai comuni, senza aver veruno di
que’fregj che sono somministrati dalla descrizion delle piante, degli
alberi, degli uccelli, e delle bestie feroci; oppur da quella delle
costumanze barbare, e del culto idolatrio di qualche selvaggio Popolo;
fregj tali, onde abbondavano tutti i Libri di Viaggj: Che non ostante gli
era io molto tenuto della buona opinione che egli attestava di avere, e
che penserei a quanto egli mi diceva.

Protestossi poscia meco di restar molto attonito nell’intendermi a
parlar sì forte; chiedendo se il Re, o la Regina di quel paese, erano
forse duri d’orecchia? Gli dissi, che erano trascorsi di già due anni
che io mi era accostumato a un tale tuono, e che dal canto mio stavamene
altrettanto sorpreso dall’intenderlo a parlar sì basso, quanto poteva
esserlo lui dal mio gridar sì alto: Che in tutto il tempo del mio
soggiorno in quel Regno, quand’io doveva parlar con alcuno, era stato
costretto di tanto alzar la voce, quanto un uomo che standosene nella
strada, avesse voluto farsi sentire da un altro collocato sull’alto
d’un Campanile; eccettuato però, quand’io mi trovava sopra una
tavola, o che taluno mi teneva in sua mano. L’informai altresì d’un
altra cosa che io avea riflettuta; cioè, che sul punto del mio entrar
nel Vascello, e che tutti i Marinaj stavano d’intorno a me, eglino mi
son paruri le più picciole creature che avessi mai vedute: e che ciò
era tanto vero, che nel Paese donde io era uscito, non aveva mai osato di
affacciarmi allo specchio; mercè che avvezzo a vedere oggetti sì
prodigiosi, il sentimento della mia picciolezza mi avrebbe molto
mortificato. Soggiunsemi il Capitano, che in tempo che cenavamo, egli
avea osservato che io risguardava ciascuna cosa con una spezie di
stupore, e che più fiate io avea dati segni di volere scoppiar di
ridere; il che egli attribuito avea allo sconvoglimento del mio cervello.
Gli replicai che tale si era la verità, e che proveniva la mia sorpresa
dall’infinita picciolezza di tutto ciò che io vedeva, e quì sopra mi
messi a fare una descrizione di tutto ciò che si era trovato sulla
tavola di lui, tale che un Abitante di _Brobdingnag_ fatta l’avrebbe,
se fosse stato nelle mie veci. Il mio uomo si pose a sogghignare, e per
farmi gustar meglio il ridicolo di quanto testè gli avea detto,
protestò, che di tutto il suo cuore pagate avrebbe cento Chinee, di aver
veduta l’Aquila tenendo il mio Cassettino nel suo rostro, e lasciandolo
poscia precipitar nel mare: Ch’era ben un peccato che niuno fosse stato
oculato testimonio d’un avvenimento sì singolare, e la cui descrizione
meritava d’essere trasmessa alla più rimota posterità. Dopo un tale
scherzo venne in iscena la comparazione di _Fetonte_, per vero dire,
troppo naturale, perchè egli la risparmiasse.

Di là a due giorni del mio imbarco in fu quel Vascello, il vento, che
prima stato non era troppo favorevole, divenne eccellente, e rendè il
nostro viaggio e più brieve, e più felice, di quelche non avremmo nè
pur ardito di sperare. In un solo, o due porti diede a fondo il Capitano,
e spedì lo Schifo a terra in traccia di alcune provvisioni, e per far
acqua; e quanto a me, non uscì mai del bordo finchè non giugnemmo alle
_Dunes_; il che seguì il terzo di Giugno 1706 nove mesi, o circa, dopo
l’aver lasciato _Lorbrulgrud_. Offrì al Capitano di lasciargli in
pegno, tutto ciò che io avea, in sicurtà del pagamento di quanto io gli
potea dovere pel mio trasporto, e per avermi alimentato per tanto tempo:
ma ei si dichiarò che non ne voleva nè pur un soldo. Ci congedammo con
teneri abbracciamenti; e volli mi desse la parola di venir a vedermi in
mia casa, quando si trovasse a _Londra_; Noleggiai un Cavallo, e una
Guida, per prezzo, e somma di cinque _schelini_, presi a prestito dal
Capitano.

In sul cammino, riflettendo io alla picciolezza delle case, degli alberi,
de’bestiami, e degli uomini, mi credei transferito in un tratto
nell’Imperio di _Lilliput_. Io temeva sempre di schiacciarmi sotto
a’piedi chiunque io riscontrava; e gridai a molti e molti che si
togliessero dal mezzo: Impertinenza che stette per suscitarmi delle
querele, tutto che fosse involontaria.

Arrivato in mia casa, e apertomi l’uscio da uno de’miei domestici, mi
abbassai per entrarvi: la moglie, correndo, mi venne incontro per
abbracciarmi, ma io m’inchinai più basso che le ginocchia di lei,
immaginandomi che in altro modo le sarebbe riuscito impossibile di
giugnere con la sua alla mia bocca. Mia figliuola s’inginocchiò per
chiedermi la benedizione, ma non la vidi, che quando se n’era levata,
accostumato da tanto tempo di volgere la testa, e gli sguardi verso
faccie, che erano in altezza alla distanza di sessanta piedi dalla mia.
Risguardai i miei Domestici, e due o tre amici, a caso ivi presenti, come
altrettanti Pigmei, in cui confronto io era un Gigante. Dissi a mia
moglie ch’ella era vissuta con troppa frugalità; poichè, tanto essa
che la Figlia, erano smagrate, ed impicciolite oltra qualunque
esagerazione. In una parola: vomitai un sì gran numero di follie, che ad
ognuno venne in pensiero quanto da principio già il Capitano credea;
cioè che unanimamente si conchiuse che io aveva perduto il senno. Il che
riferisco come un riguardevole esempio della forza prodigiosa
dell’abitudine. Con tutto ciò guari non istetti a ricuperarmi da
quella spezie d’infermità, ma protestò mia Moglie che non mi
lascerebbe più andar in mare; e pure per mia disgrazia, era un destino
che ella non avesse l’autorità d’impedirmelo, come i Leggitori ben
presto potran vederlo.


Fine della Seconda Parte, e del Tomo Prima.



VIAGGI
DEL CAPITANO
LEMUEL GULLIVER

Tomo Secondo.

PARTE TERZA,

Contenente il Viaggio di Laputa, Balnibardi, Glubbdubdribb, Luggnagg, e
del Giapone.



VIAGGIO
DI
LAPUTA, di BAUNIBARBI, di Lugnagh, di Glubbdubdribb, e del Giapone.

Parte Terza.


CAPITOLO I.

Imprende l’Autore un terzo Viaggio; vien preso da Corsali. Ribalderia
d’un Fiamingo. L’Autore approda ad un’Isola, ed è ricevuto nella
Città di Laputa.


DIeci giorni appena erano scorsi dopo il mio ritorno, che un tale
_Guglielmo Robinson_, Capitan Comandante della _Speranza_, ch’era un
Vascello di trecento botti, fu a visitarmi in mia casa. Era io già stato
Chirurgo d’un altro Vascello che appartenevagli, e su cui fatto avevamo
di buoni compagnia un altro Viaggio al _Levante_. Anzi che in basso
Uffiziale, ei sempre in Fratello trattato aveami; ed inteso il mio
ritorno, per motivo d’amizizia, a quel che io ne pensava, venne a
riabbracciarmi; versata essendo in soli consueti complimenti, dopo una
lunga assenza, la nostra conversazione. Ma dopo di avermi molte volte
reiterate le sue visite, espresso il suo giubilo per rinvenirmi salvo e
sano, e richiesto se pel resto della mia vita al viaggiare rinunziato
avessi, mi palesò la sua intenzione di mettersi fra due mesi un’altra
volta in Mare per l’_Indie Orientali_; e di compiacer mi d’essere suo
Chirurgo di Nave mi pregò. _Emmi ben noto_, ei soggiunse, che
l’offerta d’un somigliante impiego più non vi conviene; ma
l’esibirvi, oltra i due ordinarj Ajutanti, un Cerusico subalterno, una
doria paga, e la mia parola di rapportarmi a’vostri consiglj come foste
un altro me stesso, forse accettabile potrebbe renderla.

Molte altre cose mi disse, e tutte obbliganti; e d’altra parte, io li
conosceva per un galantuomo tale, che non mi bastò l’animo di
ributtare il suo progetto. Il furore, onde mi trovava ingombro, di veder
nuovi mondi, (a dispetto di tutte le traversie attrattemi dalla propia
curiosità,) più che mai continuava in me violento: l’unica
difficoltà consisteva nell‘opposizion della moglie; la quale, alla
fine, rimasta persuasa dagli oggetti de’vantaggj che a’nostri
figliuoli risultar ne potevano, mi accordò il propio consentimento.

Partimmo dunque nel 5. d’_Agosto_ 1706., e arrivammo al Forte di _San
Giorgio_ gli undici d’Aprile 1707., ove a cagione di molte infermità
sopravvenute sul nostro Bastimento, di fermarci tre settimane fummo
costretti. Quindi pel _Tunchino_ vela facemmo, nella qual Regione per
qualche tempo il Capitano deliberato avea di restarsene; escendo che,
molte delle Mercanzie di suo disegno non eran leste, e non potevan
esserlo che per alcuni Mesi. Con la lusinga per tanto di rifarcirsi delle
spese della dimora, fece compra d’una picciola Barca; che caricata di
molti generi di merci di buono smaltimento presso gli _Tunchinesi_, egli
armò di quattordici uomini, compresivi tre Naturali del Paese, dandone a
me il comando; con facoltà, per lo spazio di due mesi che gli affari di
lui obbligavanlo di trattenersi a _Tunchino_, di poter praticare
qualunque traffico.

Non vi avea che tre giorni da che in mare ci eravamo posti, che insorse
una furiosa burrasca, la qual per cinque dì continui portossi al Greco
Tramontana, e di poi al Levante; dopo di che con un buon fresco di
Ponente, avemmo bel tempo. Sul duodecimo giorno fummo cacciati da due
Corsali, che ben presto raggiunti ci fecero loro preda; non potendo noi,
pel poco numero, metterci in qualche stato di difesa; ed essendo troppo
carica la Barca, per isperare, con lo sforzo delle vele, di sottrarci.

Nell’instante stesso ci abbordarono i due Corsali, e alla testa delle
loro genti si gettarono nella nostra coperta: ma trovatici, secondo
l’ordine che io ne avea dato, tutti prostesi, furon paghi di bel
legarci, e comandato poscia ad alcuni di lor truppa di far di noi buona
guardia, si misero a fiutare quanto vi avea nella Barca. Fra coloro mi
venne fatto d’osservare un Fiamingo, che facea mostra di qualche
autorità, tutto che non fosse Comandante di veruno de’due Vascelli. Al
nostro portamento, e alla nostra vestitura ei per _Inglesi_ ci riconobbe;
e parlandoci in sua favella, giurò che legati a schiena con ischiena,
lanciati in mare saremmo. Passabilmente io parlava il _Fiamingo_.
Dissigli chi noi eravamo; e il pregai pel comune nostro carattere di
Cristiani, di voler maneggiarsi a nostro favore presso il suo Capitano.
Non servì la supplica che a vie più irritarlo, e che a rinforzare le
sue minacce: rivoltosi ei poscia a’suoi compagni, con molta veemenza
parlò loro in _Giaponese_: sovente, a quel che ne penso, valendosi del
termine di Cristiani. Il maggiore de’due Corsali Vascelli, era
comandato da un _Giaponese_ Capitano, il qual parlava, comechè assai
male, qualche poco _Fiamingo_. Si fece egli accosto di me, e dopo
quistioni diverse, ond’io con somma umiltà soddisfeci, disse che noi
non faremmo morti. Una profondissima riverenza fu la mia risposta, e al
_Fiamingo_ di poi indirizzatomi, mi lagnai di rinvenire più compassione
in un Pagano, che in lui stesso, professore del Cristianesimo. Guari
però non istetti a ripentirmi della mia imprudenza; mercè che quel
tristo, intentato avendo, benchè invano, molte volte di persuadere
entrambi i Capitani di farmi gettar in mare, (il che dopo la promession
loro di salvarmi la vita, accordargli essi non vollero,) potè; non
ostante, ottener da loro, che io fossi punito con una sorta di pena, più
spietata della morte medesima. I miei uomini stribuiti furono su i due
Vascelli; ed i Pirati incaricarono alcuni de’loro Marinaj di navigar la
mia Barca. Quanto alla mia speziale persona; si decretò che io fossi
posto in una picciola barchetta con remi, vela, e provvisioni per quattro
giorni, (che furono raddoppiate dalla bontà del Capitan _Giaponese_,) e
di poi abbandonato alla discrezione de’flutti. Calai dunque nella
barchetta, regalato dal buon _Fiamingo_ di tutti i termini più
ingiuriosi, che il materno suo linguaggio suggerir gli poteva.

Un’ora, o circa, innanzi che i Corsali ravvisati avessi, io avea presa
altezza, e avea trovato d’essere a’quaranta a sei gradi di Latitudine
Settentrionale, e a’cento ottanta e tre di Longitudine. Staccato che
alquanto fui da’Pirati, col vantaggio del mio Cannocchiale, alcune
Isole dalla parte di Scilocco discoprj. Con l’intenzione di guadagnare
la più vicina, il che credetti dovermi riuscire in tre ore, alzai la
vela, e pervenutovi, non vidi che un ammassamento di picciole roccie fu
cui di molte uova di uccelli tennimi provveduto: ed avendo accesi col
battifuoco alcuni bronchi, e alcun’erbe inarridite, arrostì l’uova
medesime. Fu questa tutta la mia cena; volendo io, al possibile,
risparmiare le poche mie vittuaglie. Passai la notte al coperto d’una
rupe con pochi strepiti sotto al mio capo, ed assai bene dormì.

Il giorno dietro guadagnai un’altra Isola, e quindi una terza, e
susseguentemente una quarta, servendomi or della vela, or de’remi. Ma
perchè il Leggitore stancato non resti da circostanze poco interessanti,
solo dirò che nel dì quinto arrivai all’ultima dell’Isole
discoperte, situata allo Scilocco-Levante della prima.

Più discosta di quello che io ne pensava era quest’Isola, essendosi da
me consumate cinque ore e più, prima d’abbordarvi: Girai la poca men
che tutta, innanzi di trovarvi un luogo allo sbarco assai propio,
ch’era un picciolo seno, tre volte più largo della mia barchetta.
Tutto pietroso mi apparve il terreno dell’Isola, comechè quà e là di
molti cespi seminato. Tolsi dal picciolo mio Vascello le poche mie
provvisioni; e dopo di essermi refiziato con un leggerissimo pranzo,
messi gli avvanzi in una caverna, onde l’Isola n’era piena. Raccolsi
una buona quantità d’uova e di sterpi, per farne e dell’une, e degli
altri quell’uso stesso, che la sera innanzi fatto io già ne avea;
mercè che io teneva meco una focaja, un fucile, della miccia, ed un
cristallo ustorio. Nella caverna stessa, ove stavano riposte le mie
vittuaglie, passai l’intera notte; e gli stessi bronchi che mi serviva
no di legna da fuoco, di letto eziandio mi valeano. Non fu possibile che
le barbare mie inquietudini, neppur per un instante, mi lasciassero
chiuder gli occhi. Andava io riflettendo che un luogo tale ove io mi
trovava, diserto ed arido, non potesse presentarmi che una morte sicura;
cosicchè fortemente oppresso dalla tristezza de’miei pensieri, cuor
non ebbi di levarmi, e non uscì della caverna che molte ore dopo del
giorno. Spasseggiai qualche tempo fra quelle roccie: assai sereno era il
Cielo, e cosi servido il Sole che fissarmivi non potei: quando
all’improvviso oscurossi quest’Astro, a quel che mi sembrava, in un
modo onninamente diverso, che allorchè il ricuopre una nuvola. Girai la
faccia, e vidi fra me ed il Sole un opaco gran Corpo, che si accostava
alla mia Isola. Pareami questo Corpo all’altezza di due miglia; e per
lo spazio di sei minuti o sette, ei mi levò del Sole la vista. Non badai
che nell’intervallo fosse l’aria molto più fredda, o molto più
ottenebrato il Cielo, come me ne stessi all’ombra d’un alto monte.
Continuando il Corpo sempre ad avvicinarsi, ravvisai ch’egli era una
solida sostanza, e ch’era molto piana la parte sua inferiore. Me ne
stava allora sopra un’eminenza discosta dalla spiaggia per dugento
Verghe, (_misura del braccio Inglese_) e a un di presso per un miglio
d’Inghilterra dal mentovato Corpo. Diedi di mano al mio cannocchiale; e
distintamente raffigurar non potei molti uomini muoventisi sopra le coste
di quel nuovo Pianetta, ma ciò che facesser eglino, non mi riuscì di
disscernere.

L’amor della vita che sì di rado ci abbandona, eccitò in me non so
quali sentimenti di gioja, e concepì qualche speranza di liberarmi in
qualunque modo dalla spaventevole situazione in cui mi trovava: ma molto
disagevole mi sarebbe di esprimere qual si fosse in un tempo stesso il
mio stordimento, di scorgere nell’aria un’Isola abitata da uomini; i
quali, (per quanto parer mi poteva) aveano la facoltà di alzarla, di
abbassarla; in una parola, d’inserirle qualunque muovimento di grado
loro: Ma trovandomi allora di non troppo umore di andar filosofando sopra
quel Fenomeno, rivolsi tutta la mia attenzione a considerare qual cammino
prenderebbesi dall’Isola, giacchè mi sembrava che arrestata ella si
fosse. Un instante dopo continuò tuttavia ad accostarsi; ed io i suoi
lati ravvisar potei, circondati da serie differenti di Logge, e da non so
quali scale piantate a certe distanze, per discendere dall’una
nell’altra. Nella Loggia più inferiore vidi alcune persone che stavan
pescando con lunghe canne, ed altre puramente spettatrici: Feci lor
disegno in girando la mia berretta (giacchè da qualche tempo io era
privo del mio capello per essersi consumato) e il mio fazzoletto sopra la
mia testa. Giunte ch’esse furono a portata d’intendere la mia voce,
gridai con tutta la forza; e dagli sguardi che fissavano alla mia volta,
e dagli atteggiamenti loro scambievoli, conobbi che scoperto mi aveano,
tutto che al mio gridare non rispondessero. Chiaramente bensì ravvisai
quattro o cinque di quegli Abitatori che salivano con gran fretta la
scalla la quale all’alto dell’Isola conduceva, e che disparvero ben
presto. Indovinai che fosser eglino spediti a ricever ordini a riguardo
mio; e veramente, mal non mi apposi, come il seppi dappoi.

Da un momento all’altro aumentava il numero degli spettatori; e in
minor tempo d’una mezz’ora trovossi l’Isola in tal maniera situata,
che la Loggia più inferiore, tutto che lontana quasi che cento verghe,
all’eminenza, ove io me ne stava, compariva paralella. Mi misi allora
nell’attitudine di supplichevole, e parlai loro con un tuono di voce il
più rispettoso, ma risposta di sorta non ebbi. A giudicarne
da’vestiti, que’che stavano più a rimpetto di me, aveano l’aria di
persone ragguardevoli: mi guatavano sovente, e mostravano di quistionar
insieme con applicazione. Uno d’essi alla fine mi disse alcune parole
in un linguaggio che avea qualche rapporto coll’_Italiano_. Con la
lusinga che per lo meno il suono ne riuscisse più gradevole alle loro
orecchie, espressi in quest’ultima favella la mia risposta. Benchè
punto non c’intendessimo, si avvider eglino nulladimeno, e assai
facilmente, di che andasse in traccia la mia costituzione.

Mi fecero segno di scendere dalla traccia, e di portarmi alla spiaggia,
il che incontanente eseguì: e dopo ciò fu l’Isola volante diretta nel
suo muovimento in un modo tale; che calatasi dalla Loggia più bassa una
catena con un sedile appeso all’estremità, mi vi adagiai, e con un
carrucolo fui tirato ad alto.



CAPITOLO II.

Descrizione de’Lapuziani. Quali scienze presso loro sieno più in voga.
Compendiata idea del Re, e della sua Corte. Maniera con cui evvi ricevuto
l’Autore. Timori ed inquietudini a quali quegli Abitanti sono suggetti.
Descrizione delle Donne.


IL piede appena io posi a terra, che fui attorniato da una folla di
popolo; ma que’che più a me si avvicinavano, parevano qualche cosa di
maggior distinzione. Mi contemplarono con tutti i più chiari indizj di
stupore; ed io credo ch’ebbero il motivo di asserire la stessa cosa di
me; non avendo io, per tutta la mia vita, veduti uomini più singolari,
sia nelle vestiture, o nelle maniere, o ne’sembianti. Chinan tutti la
loro testa o alla dritta, o alla manca parte: uno degl’occhi loro è
rivolto verso la Terra, e l’altro verso i loro Zenit. Sono adorne le
loro vestimenta di figure di soli, di Lune, di Stelle, di Violini, di
Flauti, d’Arpe, di Trombe, di Chitarre, di Gravicembali, e d’altri
molti Strumenti incogniti in _Europa_. Alcuni uomini quà e là vidi che
l’aria aveano di servidori, e che all’estremità d’un corto
bastone, che tenevano in mano, legata aveano una gonfiata vescica, a modo
di frusta. In cadauna vescica si contevano alcuni ceci secchi, o alcuni
sassolini, per quanto fummi riferito dappoi. Valevansi coloro di quelle
vesciche per battere la bocca, e le orecchie di que’che erano lor
vicini; pratica, onde allora mi riuscì impossibile di concepirne
l’utilità; ma seppi poscia ch’è sì avvezzo quel Popolo a
profondarsi, e ad immergersi in cupe meditazioni, che a patto veruno non
può parlare, o ascoltare i discorsi altrui, se in qualche modo non se
gli percuote la bocca, o gli organi dell’udito. Ecco la ragione perchè
coloro che si trovano in istato di fare questa spesa, an sempre nella
loro Famiglia un somigliante _Destatore_ (il chiaman essi _Climenole_ (a
guisa di domestico, e da cui incessantemente sono accompagnati
quand’escono di casa, o che rendono qualche visita. Il suo impiego si
è, in una compagnia di tre persone o quattro, di passar leggermente la
sua vescica sopra la bocca di quegli che vogliono parlare, e sulla destra
orecchia altresì di colui, o di coloro, a quali essi parlano.
E’obbligo pure di questo _Destatore_, d’accompagnare il suo Padrone
quand’ei stassene spasseggiando, e di dargli in certe occasioni un
picciolo colpo sopra gli occhi: mercè che assiduamente egli è occupato
sì forte dalle sue meditazioni, che senza ciò, si troverebbe in risico
di piombare in qualche precipizio, e di dar la testa in qualche tronco;
oppure di cadere in qualche rivolo, o di farvi cascar gli altri.

Era necessaria una tale specificazione; imperocchè se io non vi fossi
entrato, i miei Leggitori, al pari di me si sarebbero rinvenuti molto
imbrogliati nel comprendere il procedimento di quelle genti, quando pel
mezzo di molti gradini elleno salir mi fecero per fin alla sommità
dell’Isola, e che quindi alla Reggia mi condussero. In tempo del nostro
ascendere, dimenticarono molte volte il suggetto di lor commissione; ed
ivi mi piantarono, finchè pel soccorso degli _Svegliatori_ loro,
rivennero a se medesime: poichè veruna d’esse non dava il medesimo
segno d’essere attratta da qualunque stravaganza de’miei vestiti, e
del mio portamento; e neppure da quali si fossero acclamazioni del Volgo,
non essendo la lor anima sì suggetta ad astratte specolazioni.

Arrivammo finalmente al Palagio, ed entrammo nella Sala di fronte, ove
vedemmo il Re sul suo Trono, circondato da ambi i lati da molti grandi.
Dinanzi al Solio stava piantata una gran tavola tutta coperta di Globi,
di Sfere, e di Strumenti di Matematica d’ogni sorta. Tutto che il
concorso di que’che appartenevano alla Corte rendesse l’ingresso
nostro tumultuoso, neppur baddovvi Sua Maestà; essendo ella
profondamente immersa nel rintracciare lo scioglimento d’un proplema,
che solamente un’ora dopo riuscille di ritrovare. A cadaun fianco di
lei v’era un Paggio con la vescica alla mano: veduto ch’ebbero questi
Paggi che si era rinvenuta la Dimostrazione; uno d’essi di edele un
picciolo colpo sopra la bocca, e l’altro sopra l’orecchia dritta; il
che la fece scuotersi, nella guisa appunto che qualcuno che dorme viene
all’improvviso destato: dopo ciò ella, gettato lo sguardo sopra di me,
e sopra coloro che m’attorniavano, si risovvenne del motivo del nostro
arrivo, onde da prima n’era stata istruita. Disse alcune parole; che
pronunziate appena, un giovane tenente in mano una vescica, tale che io
la descrissi, adaggiossi accosto di me, e diedemene alcuni colpi su la
destra orecchia; ma a forza di segni comprendere gli feci, che io non
avea bisogno dell’ajuto di quello strumento; il che, per quanto dappoi
ne seppi, impresse nel Re, e nella Corte tutta, una idea del mio genio
poco vantaggiosa. Per quello che congetturar ne potei, fecemi Sua Maestà
alcune quistioni; ed io dal mio canto le parlai in tutte le lingue che mi
erano cognite. Persuasi amendue che non potevamo intenderci, ordinò il
Re che io condotto fossi in un Appartamento della sua Reggia, (avendo
questo Principe superati tutti i suoi Predecessori in ospitalità o i
riguardo degli Stranieri,) ove due Staffieri, al mio servigio destinati
furono. Mi si reco a pranzare; e quattro Signori, che mi ricordava di
aver veduti accanto della persona del Monarca, m’impartirono l’onore
di mangiar meco. Due serviti avemmo, cadauno di tre piatti, Consisteva il
primo in uno spalletto di Castrato tagliato in triangolo Equilatero, un
pezzo di Bove in Romboide, ed un Sanguinaccio in Cicloide. Di due Anitre
in figure di Violini era l’altro servito, d’alcune Salsicce in forma
di Flauti, e d’un Petto di Vitello in guisa d’Arpa. I Servidori
trinciarono il nostro pane in Coni, in Cilindri, in Paralellogrammi, e in
molte altre Figure di Matematica.

Standocene in talvola, presi la libertà di domandare i nomi di diverse;
cose; e que’Signori, mediante l’assistenza de’_Destatori_ loro,
compiacquesi di dirmigli, con la speranza che se io avessi si una
infinita ammirazione per la loro abilità, pervenir potessi a legare con
esso loro una buona conversazione. Mi trovai ben presto in istato di
chiedere del pane, a bere, ed altre cose che mi erano necessarie.

Dopo il mio desinare la mia Compagnia mi lasciò; e per ordine del Re
fummi inviato un non so chi, assistito da uno _Svegliatore_. Egli avea
con se penna, carta, inchiostro, e tre o quattro libri, dandomi a
conoscere con atteggiamenti, che veniva per ammaestrarmi del linguaggio
del Paese. Quattr’ore me stetti con esso lui; nel corso delle quali
registrai alcuni termini in forma di colonna disposti, con la loro
traduzione accanto. Procurai altresì d’apprendere alcune brievi frasi.
A tal effetto il mio Maestro facea fate differenti cose al mio Servidore;
per esempio, ordinavagli di federe, di tenersi ritto in piedi, di
spasseggiare, o di fare una riverenza: e a misura che il Servidore
eseguiva cadaun degli ordini, mi dettava il Maestro la frase che dovea
esprimerlo. Mi mostrò eziandio in uno de’suoi libri, le Figure del
Sole, della Luna, delle Stelle, del Zodiaco, de’Tropici, de’Circoli
Polari, e d’un gran numero di Piani, e di Solidi. Notar mi fece i nomi
di tutti i Musicali Strumenti che sono in uso appo quel Popolo, e con
esatezza me gli descrisse. Partito che fu, disposi tutti i miei vocaboli
con le loro spiegazioni in ordine d’Alfabeto, e in questo modo, in
pochi giorni, col soccorso d’una buona memoria, feci gran progressi
nella loro favella.

Il termine che io rendei per quello d’_Isola Volante_, o _Fluttuante_,
trovasi in loro lingua _Laputa_; termine, onde non e sì agevole di
riconoscerne la vera etimologia. _Lap_ in vecchio idioma significa
_alto_; ed Untuh un _Governatore_; donde, dicon essi, è derivato
corrottamente il termine di _Laputa_: questa derivazione però non mi
sembra naturale. Feci parte un giorno ad alcuni Letterati di loro,
d’una mia conghiettura su questo proposito; e dimandai se forse
_Laputa_ da _Lap outed_ venir potesse; _Lap_ significando propiamente il
muovimento de’raggi Solari nel Mare, o _outed_ un’Ala: conghiettura,
su cui permetto a’miei Leggitori di pronunziare.

Riflettutosi da coloro, a’quali mi aveva affidato il Re, che trovavami
assai male in arnese, ordinarono essi ad un Sarto di venire il giorno
dietro, e di prendermi la misura per un abbigliamento compiuto.
L’eseguì quest’Artefice, ma in una foggia onninamente diversa da
quella ch’è dell’uso comune in _Europa_. Valsesi di primo tratto
d’un’quarto di Cerchio, per la misura della mia altezza; e poscia col
mezzo d’una Regola, e d’un Compasso, descrisse in carta tutte le
dimensioni del mio corpo, portandomi sei giorni dopo i miei vestiti
perfettamente mal fatti, per avere sbagliato in una Figura: tuttavia mi
consolai, avendo io osservato ch’erano assai ordinari gli accidenti di
questa fatta, e che non se ne prendeva la menoma inquietudine.

Nel frattempo che si lavorava dietro le mie vestimenta, e durante una
piccola indisposizione, che susseguentemente mi confinò alcuni giorni in
casa, accrebbi d’un gran numero di vocaboli il mio Dizionario;
cosicchè portatomi di poi alla Corte, fui in istato d’intendere molte
cose che mi diceva il Re, e _taliter qualiter_ di rispondergli. Avea
comandato Sua Maestà, che il movimento dell’Isola al Greco-Levante
diretto fosse verso il punto verticale al di sopra di _Lagado_, la
Capitale di tutto il Regno. In distanza di novanta leghe trovavasi questa
Città, e il nostro viaggio più che quattro giorni e mezzo non durò:
con tutto questo, posso fare un ampia protesta che in quel tempo tutto
del menomo muovimento della nostra Isola non mi avvidi.

Fermossi ella, secondo gli ordini del Re, sopra alcune Città, i cui
Abitatori presentar dovevano diverse suppliche. A tal effetto si calavano
molti funicelli tenuti tesi da qualche peso nella loro estremità
inferiore. Legava il Popolo le sue suppliche a questi funicelli, che
poscia si traevano ad alto; e talvolta, col mezzo d’alcune carrucole, e
vino, e provvisioni di qualunque sorta ritiravamo dal basso.

Ciò che io sapeva in Matematica fummi d’un grande ajuto per apprendere
la loro favella, i cui termini, per la maggior parte, an rapporto con
questa Scienza, e con la Musica, onde vantarmi posso di non essere tutto
affatto ignorante. Son continui oggetti delle loro meditazioni le Linee e
le Figure. Se voglion essi, per esempio, lodar la bellezza d’una Donna;
o di qualche altro animale, fanno entrare nel loro Elogio, Romboidi,
Circoli, Parallelogrammi, Ellisi, ed altre Geometriche Figure; ovvero
de’Musicali termini. Osservai nella Cucina del Re ogni sorta di
Strumenti di Matematica, e di Musica, le cui figure servono di modello
alle vivande della mensa di Sua Maestà.

Son mal costrutte le loro Abitazioni; e notai che non aveavi in veruno
degli Appartamenti neppur un angolo retto; il che proviene dal disprezzo
che an essi per la Geometria pratica, che come troppo meccanica
riggettan; e per disgrazia, gli Architetti loro non anno lo spirito di
comprendere le loro astratte Dimostrazioni; stupidezza, a cagione di cui
patiscono i loro edifizj.

I _Lapuziani_ generalmente son cattivi Ragionatori, e molto
contraddicenti, se eccetuisi quando lor avviene d’aver ragione, il che
è cosa assai peregrina. Immaginazione ed Invenzione sono termini
ch’eglino non conoscono, e pe’quali non an neppure vocaboli in loro
lingua; essendo circonscritti, e in qualche modo consecrati alle due
Scienze testè da me mentovate, tutti i pensieri delle lor anime.

I più di essi, e principalmente que’che si applicano allo studio
dell’Astronomia, sono gran Fautori dell’Astrologia Giudiciaria:
comechè arrossiscano di professarla in pubblico. Ma ciò che in
ispezielta ammirai, e che nel tempo stesso parvemi incomprensibile, si è
l’estrema loro curiosità per gli Politici affari, e il loro eterno
furore di formar giudizi, e disputar sopra qualunque cosa al Governo ed
agli Stati attinente. Per vero dire, riflettei ch’era questa un
infermità assai comune del maggior numero de’Matematici di mia
conoscenza in _Europa_; ma non per tanto non siegue che io non sappia
qual relazione esservi possa tra una somigliante smania, e la loro
professione; purchè essi non suppongano, che come un picciolo cerchio
non ha più gradi che un grande, ne venga in conseguenza che non
abbisogni maggior abilita per governar il mondo, che per girar un Globo
in sensi diversi. Ma più inclino a credere, che una tale irregolarità
provenga da un difetto comune alla Natura umana, che renderci più
curiosi delle cose che ci concernono meno, e per cui men di talento noi
possediamo.

E’suggetto quel Popolo ad inquietudini perpetue, non gustando mai
d’un solo instante di riposo; e derivano le sue inquietudini da cagioni
tali che non sono affettate dal rimanente degli Uomini. Ei teme che ne
Corpi Celesti non succedano certi cangiamenti. Per esempio, che la Terra,
se il Sole continui sempre ad accostarsene, non resti un giorno
inghiottita da quest’Astro: Che la superficie del Sole non sia poco a
poco ricoperta d’una crosta, che gl’impedisca alla fine di farci
parte del suo calore, e del suo lume. Racconta, che molto poco vi vuole
che l’ultima apparuta Cometa non siasi urtata con la Terra, il che se
seguito fosse, doveva questa, senz’altro, ridursi in cenere; e che
secondo tutte le apparenze resterà infallibilmente distrutta dalla prima
Cometa che si lascerà vedere; il che avverrà da quì a trenta e un
anno, secondo il suo calcolo: essendo che questa Cometa, nel suo
_perielio_ dee molto avvicinarsi al Sole, per concepire un grado di
calore dieci mila volte più grande di quello d’un ferro rovente; e
dopo di aver lasciato il Sole, strascicar dietro se una fiammeggiante
coda, che eccederà la lunghezza di quattrocento mila leghe; da cui, se
la Terra passa in distanza di trenta mila leghe dal Corpo della Cometa,
non può certamente non restar incendiata, e ridotta in cenere. Che il
Sole, perdendo ciascun giorno una porzion de’suoi raggi senza ricevere
qualche alimento che ne compensi la perdita, a guisa di candella si
smorzerà alla fine: dal che per necessità ne proverà il distruggimento
della nostra Terra, e de’Pianetti tutti che da lui il lume ricevono.

Sì fattamente sono inquietati que’Popoli da fomigliantti spaventi, che
non trovano luogo e quiete di sorta, nè san gustare delle comuni
soavità della vita. Quando la mattina si abbattono in alcuni de’loro
Amici, versa la prima lor quistione sopra la sanità del Sole, come par
ch’ei si porti nel suo tramontare, e nel suo risorgere, e se vi ha
raggio di speranza di poter isfugire della prima Cometa il rincontro. In
trattenimenti di questo genere, si lascian vedere a prendere il piacere
medesimo onde gustano i fanciulli, quando intendono Storie di Fantasmi, e
d’Apparizioni: Storie, ch’essi ascoltano con la più avida
curiosità, ma che imprimendo loro del terrore, lor non lasciano trovar
la strada d’andar a letto.

Le Donne dell’Isola sono molto vivaci, spregiano i propj Mariti, ed
impazziscono per gli Stranieri. Scelgono fra questi i lor Cicisbei; ma il
mal si è che con troppo agio, e troppa libertà coltivano i loro amori;
piochè trovasi sì profondato nelle sue meditazioni lo Sposo, che gli
Amanti potrebbono in presenza di lui appigliarsi alle maggiori confidenze
senza timore del suo accorgimento, purchè solamente egli avesse della
carta, e i suoi strumenti, e che non gli fosse a’fianchi il suo
_Risvegliatore_.

Le Femmine e le Donzelle si lagnano amaramente d’essere rinchiuse in
quell’Isola, non ostante che, a mio credere, sia quegli il più bel
Paese del Mondo: e tutto che vi vivan elleno in tutta l’abbondanza più
immaginabile in un modo il più magnifico, e che sia lor permesso di far
ciò che vogliono, muojon di voglia di veder il mondo, e di gustar i
piaceri della Capitale; il che non è lor permesso, senza, perlomeno, una
particolare licenza del Re, e sì facile ad ottenersi non è questa
licenza; poichè la maggior parte de’Mariti, quanto sia difficile il
quindi far rivenire le mogli, bastevolmente saggiò. Mi fu detto che una
Dama del primo Carattere che avea molti figliuoli, e ch’era maritata
con un Ministro di prima sfera, uno de’principali Signori del Regno, il
qual amavala fin ad essere pazzo, e con cui ella soggiornava in un
de’più bei Palagj dell’Isola, imprese il viaggio di _Lagado_ col
pretesto che spiravavi Un’aria migliore per la sanità di lei; che vi
si tenne per alcuni mesi occultata, finchè li Re mandovvi un ordine di
carcerazione; che fu rinvenuta in una bettola, tutta cenciosa, impegnate
avendo tutte le sue vestiture per mantenere un vecchio laidissimo
facchino, il qual la batteva ben bene ogni giorno, e da cui ella altresì
con infinita ripugnanza si separò. La ricevè lo Sposo con tutta la
bontà possibile; e senza che le ne facesse il menomo rinfacciamento: e
perciò ella guari non istette ad eseguire una seconda scappata, a
sportando seco tutte le sue gioje, per andar a riunirsi all’Amante suo,
senza che poscia se ne abbia avuta contezza di sorta. Non è improbabile
che alcuno de’miei Leggitori s’immagini che io gli narri una Storia
_Europea_, ovver _Inglese_: Ma lo scongiuro di riflettere, che i capriccj
del bel sesso non ristringonsi a qualche Clima, o a qualche particolare
Nazione: bensì che anno una uniformità più generale, che tutto ciò
che si possa dire.

Nello spazio d’un mese io avea fatti bei progressi nella loro favella,
e mi trovava in istato di rispondere alla maggior parte delle quistioni
del Re, quand’io avea l’onore di vederlo. Non dimostrò Sua Maestà
curiosità veruna in proposito delle Leggi, del Governo, della Storia,
della Religione, o de’Costumi de’Paesi che io avea visitati; ridusse
bensì tutte le sue ricerche alle sole Matematiche, ed ascoltò con molto
sprezzo, e con molta indifferenza ciò che le dissi su quest’argomento,
tutto che i due _Destatoti_ ch’ella teneva accosto, diligentemente le
proprie incombenze effettuassero.



CAPITOLO III.

Fenomeno spiegato col soccorso della filosofia, e dell’Astronomia
Moderna. Abilità de Lapuziani nell’ultima di queste due Scienze.
Metodo del Re per reprimere le sedizioni.


DImandai permissione a quel Monarca d’andar a vedere le curiosità
dell’Isola, ed egli graziosissimamente aderì a’miei desiderj,
ordinando nel tempo stesso al mio Maestro d’accompagnarmi. Mia
principale premura si era di sapere a qual Cagione, o nell’Arte, o
nella Natura, fosse debitrice quell’Isola de’suoi diversi movimenti:
ed ecco di che or ora voglio far parte a’miei Leggitori.

L’Isola volante, o fluttuante, esattamente è circolare: il suo
Diametro è di 7837. Verghe, e vale a dire, a un di presso di quattro
miglia e mezzo, e per conseguenza contiene dieci mila _Campi Italiani_.
Ha trecento verghe di grossezza, e la parte sua inferiore è una spezie
di piano di diamante assai liscio, che perfino allaltezza di più di
dugento verghe si stende. Al di sopra di questo letto di Diamante
trovansi i differenti minerali nell’ordine consueto, e poscia un
inviluppo di terreno assai grasso, di dieci o dodici piedi di grossezza.
Il pendio della parte superiore, della circonferenza perfino al centro, e
la natural cagione che le rugiade e le pioggie che cadono sopra
l’Isola, si rendano per piccioli rivoli verso il mezzo, donde si
gettano in quattro dilatati Bacini, ognun de’quali ha di circuito un
mezzo miglio, ed è lontano dal centro per dugento verghe. L’acqua di
questi Bacini si cangia ogni giorno pel calore del Sole in vapori, il che
impedisce ch’eglino non isgorghino; senza metter in conto, che siccome
è in arbitrio del Monarcha di far ascendere l’Isola al di sopra della
Regione delle nuvole e de’vapori, così è in potere di lui, quando il
voglia, di guarentirla dalle piogge e dalle rugiade; mercè che, a
confessione di tutti i Naturalisti, non sono che alla distanza di due
miglia le più alte nuvole. Ciò che vi ha di certo si è, che in quel
Paese più che a quest’altezza non ascendono elleno mai.

Nel centro dell’Isola avvi un’apertura di cinquanta Verghe di
diametro, per cui calano gli Astronomi in un gran concavo, che a cagion
di ciò nomasi _Elandola Gagnole_, o la _Caverna degli Astronomi_,
situato in profondità di cento Verghe più abbasso che la superior
superficie di Diamante. Ardono di continuo in questa Caverna venti
lampade, il cui lume sopra muraglie adamantine riflettuto, tramanda uno
splendore che non può esprimersi. E’empiuto il Luogo di Quarti di
Cerchio, di Telescopj, d’astrolabj, e d’altri strumenti Astronomici.
Ma il più curioso oggetto, e donde ne dipende il destino dell’Isola,
si è una calamita d’una prodigiosa grandezza, e d’una figura a una
navicella di Tessitore, assai somigliante. Sei verghe di lunghezza e tre
di grossezza ha questa calamita. Ella è sostenuta da un cardine
fortissimo di Diamante che le passa pel mezzo, e su cui ella si aggira;
ed è sì esatto il suo equilibrio, che il tocco più leggiero è
valevole a muoverla. Di più: è attorniata da un voto Cilindro di
Diamante, il qual ha quattro piedi di profondità, altrettanti di
grossezza, e dodici verghe in diametro, situato orizzontalmente, e
sostenuto da otto piedi di Diamante, ognun de’quali ha in altezza sei
verghe. Nel mezzo della parte concava, evvi un incavo di dodici piedi di
profondità, ove son collocate l’estremità del Cardine, e girano
quando il bisogna.

Non vi ha forza che toglier possa questa pietra dalla sua situazione;
piochè il cerchio che la circonda, e i piedi ond’ella sta appoggiata,
fono una continuazione di quel Corpo di Diamante che forma la parte
superiore dell’Isola.

Pel mezzo di questa calamita, si fa alzarsi, e bastarsi, e muoversi,
l’Isola da un luogo all’altro: Essendo che, per rapporto a quella
parte della Terra su cui si stende l’Imperio di Sua Maestà, e la
pietra in una delle sue parti dotata d’una facoltà attrattiva, e
d’una facoltà repulsiva nell’altra. In girando l’estremità
attrattiva della calamita verso la Terra, discende l’Isola: e pel
contrario ella monta direttamente ad alto, quando la Terra è risguardata
dall’estremità repulsiva. Quando è obbliqua la posizion della pietra,
lo è pure il movimento dell’Isola, mercè che in questa calamita, le
forze operano sempre in linee paralelle alla sua direzione.

Con quest’obbliquo movimento, è trasportata l’Isola verso i
differenti luoghi del Dominio del Monarca. Per meglio spiegar ciò,
poniamo che A B sia una linea tirata a traverso del Regno di
_Balnibarbi_; che la linea C D rappresenti la calamita, di cui D sia
l’estremità repulsiva, e C l’attrattiva essendo l’Isola situata
sopra C; che la posizion della pietra sia C D con l’estremità
repolsiva al basso; allora io dico, che salirà l’Isola in linea
obbliqua verso D. Pervenuta ch’ella sarà al punto D, che la pietra sia
girata sopra il suo Asse finchè la sua attrattiva estremità sia
appuntata inverso E, io dico che l’Isole sarà portata obbliquamente
verso E; o se la pietra è di nuovo aggirata sopra if suo Asse finchè
ella si trovi nella posizione E F con la sua estremità repulsiva al
basso monterà l’Isola obbliquamente inverso F, o se diregesi
l’attrattiva estremità in verso G, e da G inverso H, in girando la
pietra, in modo che la sua estremità repulsiva sia direttamente al
basso. E così cangiandosi la situazion della pietra tanto sovente quanto
egli è necessario, l’Isola o monta, o discende, o muovesi in Linee
più, o men obblique; e in questo modo dall’uno all’altro luogo del
Dominio è trasferita.

Ma convien riflettere che quest’Isola non potrebbe essere portata più
lunge di quel che si dilata l’Imperio del Re, nè salire a maggior
altezza di quattro miglia. Del che gli Astronomi, che an composti grossi
Volumi per ispegiare le maraviglie di questa pietra, recano la seguente
ragione: Che la virtù magnetica non si diffonde al di la di quattro
miglia; e che il Minerale il qual opera sopra la pietra nelle viscere
della Terra, e nel Mare perfino a sei leghe o circa dalla spiaggia, non
è sparso per tutto il Globo; bensì ha i limiti medesimi che il Dominio
del Re: e agevole riuscirebbe a un Principe, pel gran vantaggio ch’egli
ritrarrebbe da una somigliante situazione, di ridurre alla sua ubbidienza
tutti i Paesi, a riguardo de’quali la calamita della sua Isola avrebbe
le proprietà medesime.

Quando questa pietra è paralella all’Orizzonte, viene arrestata
l’Isola; imperocchè in un tal caso, le due estremità trovandosi in
egual distanza dalla Terra, operano con forza eguale, traendo l’una al
basso, sospignendo l’altra all’alto, donde ne siegue che non può
esservi muovimento.

E’affidata questa calamita all’attenzione di certi Astronomi, che di
tempo in tempo le adattano quelle posizioni che più vuole il Monarca.
Impiegan essi la maggior parte del viver loro nell’osservare i Celesti
Corpi; il che fanno con cannocchiali infinitamente più eccellenti
de’nostri. Un tal vantaggio gli ha messi in condizione di stendere le
scoperte loro assai più lunge che i nostri Astronomi in _Europa_;
perchè an essi formato un Catalogo di dieci mila Stelle fisse; laddove
la più compiuta lista delle nostre, non ne continue che incirca la terza
parte di questo numero. An discoperto due _satelliti_ di _Marte_, un
de’quali è lontano dal centro di questo Pianeta di tre de’suoi
Diametri, e di cinque l’altro: aggirasi questo sopra il suo centro in
ventun’ora e mezzo, e quegli in dieci; cosicchè: Quadrati de’loro
Tempi periodici sono presso poco nella proporzione medesima co’Cubi di
loro distanza dal Centro di _Marte_: il che dimostra con evidenza che son
governati dalla Legge medesima di gravazione, onde son suggetti gli altri
Corpi Celesti.

Hanno osservate novanta e tre Comete differenti, e notati con
grand’esattezza i ritorni loro periodici. Se ciò è vero, come con
gran franchezza l’assicurano, sono a desiderarsi estremamente le lor
Opere rendute pubbliche, perchè servir potrebbono a portar la Teorica
delle Comete, che fin al presente è molto difettuosa al punto medesimo
di perfezione, ove le altre parti dell’Astronomia sono pervenute.

Sarebbe il Re il più assoluto Principe dell Universo, se solamente
potesse rendere persuasi i suoi Ministri d’unirsi strettamente a lui:
ma come son situati al Continente i Beni di questi, e che d’altra
parte, spaccian eglino l’impiego di Favorito come cosa la più fragile
del Mondo, assentir non vollero mai che ridotta fosse in ischiavitù la
Patria loro.

Quando si ribella qualche Città, ch’è squarciata da violente Fazioni,
o che niega di pagare gli ordinarj tributi al Re, servesi questo Principe
di due metodi per rimetterla nel propio dovere. Il primo è il più soave
si è, di situare l’Isola al di sopra di quella tal Città, e del
circostante Paese, affin di toglierle la pioggia, ed il calore del Sole:
il che immediate produce una generale consternazione, e cagiona
infermità negli Abitatori. Che se il merita il loro delitto, si lancian
loro dall’Isola delle grosse pietre, da cui non han essi che un solo
mezzo per guarentirsi; ed è di cacciarsi entro caverne o concavità, in
tempo che i tetti delle loro Case ruinano. Ma se a dispetto di tutto
questo restan tenaci nella loro perfidia, o presumono di rivoltarsi: il
Re ne viene all’ultimo de’rimedj, il qual è di lasciar cadere
direttamente sull e loro teste l’Isola; il che in un tempo stesso e le
Case della Città, e gli Abitatori distrugge. Con tutto ciò, molto di
rado a un’estremità di questa fatta vuole ridursi il Monarca; anzi non
ha egli mai una vera intenzione d’effettuarla: d’altra parte non
ardirebbono i suoi Ministri consigliargli un’azione, che non solamente
renderebbelo odioso al Popolo, ma eziandio ruinerebbe le propie loro
Tenute, le quali sempre son collocate nel Continente, essendo l’Isola
il Dominio del Principe.

Ma vi ha altresì una più importante ragione, perchè i Re di quel Paese
cotanto ripugnino all’eseguimento d’una vendetta sì formidabile, se
pure non vi son costretti da una estrema necessità: Essendo che, se
nella Città che si vorrebbe distrutta, sienvi solamente alcune gran
roccie, come ve ne sono quasi in tutte le gran Città, che, secondo tutte
le apparenze sono state costrutte in luoghi idonei ad impedire una
somigliante Catastrofe, una caduta alquanto gagliarda danneggiar potrebbe
la superficie inferiore dell’Isola; la quale, tutto che consiste, come
già il dissi, in un sol Diamante di dugento verghe di grossezza,
potrebbe frangersi per un urto troppo violento, oppur fendersi in
accostandosi troppo a’fuochi accesi nelle abitazioni della Città; come
allo spesso cio avviene alle lastre di ferro, o di pietra ne’nostri
Focolari. A maraviglia, di tutto cio n’è informato il Popolo; ed ha
egli l’abilità di portar precisasmente la sua ostinazione al punto ove
bisogna, quando si tratti della propia libertà, o de’propj Beni. E il
Re, allor quando è più sdegnato, è più risoluto di rovesciare
sossopra la Città, commanda che adagio adagio facciasi scender
l’Isola, col pretesto della somma tenerezza di lui inverso il suo
Popolo: ma in sostanza, per timore di spezzare la superficie del
Diamante: nel qual caso son persuasi tutti que’Filosofi, che la
calamita a sostenerla più non varrebbe.

Per una Legge fondamentale di quel Regno, nè al Re, nè a veruno
de’suoi Primogeniti, non è permesso di distaccarsi dall’Isola:
Quanto alla Regina, non l’è proibito, purchè ella non sia più in
istato d’aver figliuoli.



CAPITOLO IV.

L’Autore parte da Laputa, è condotto a Balnibardi, e arriva alla
Capitale. Descrizione di questa Città, e del sue Distretto. Ospitalità
con cui egli è ricevuto da un Gran Signore. Sua conversazione con esso
lui.


TUtto che non avessi un giusto motivo di lagnarmi della maniera con cui
io era trattato in quell’Isola; un po troppo, non ostante, io vi era
trascurato: ed era la trascuranza alquanto disprezzante: mercè che nè
il Principe, nè chi che fosse de’Suggetti di lui, non avea la menoma
curiosità per veruna Scienza, eccettuatene le Matematiche, e la Musica,
che in confronto di loro molto poco io intendeva: dal che provenivane che
molto poco pure a me si badasse.

Da un’altra parte, avendo io vedute tutte le rarità dell’Isola, mi
moriva di voglia d’abbandonarla, non potendo più soffrire a patto
veruno la compagnia di quel Popolo. Ma vero è ch’è lui eccellente in
due Scienze che in ogni tempo furono molto da me apprezzate, ed in cui,
ardisco di dirlo, io non sono onninamente ignorante; ma in ricompensa,
stava egli di continuo sì forte profondato nelle sue specolazioni,
ch’è impossibile di ritrovar uomini di un commerzio più
disaggradevole. Io non frequentava che Donne, che Mercatanti, che
_Destatori_, e che Paggj di Corte per gli due mesi del mio soggiorno
colà; cosa, che alla fine in un generale dispregio gettommi. Ma che
farvi? Eran costoro l’uniche persone, ond’io potea ricevere una
risposta ragionevole.

A forza d’applicazione, mi era molto avanzato nella conoscenza della
loro favella: mi trovava lasso d’essere confinato in un’Isola ove io
faceva una sì sciocca figura; ed era risoluto a tutto costo con prima
opportunità di lasciarla.

Aveavi alla Corte un Gran Signore parente assai stretto del Re, e
rispettato per questa sola ragione. Fra coloro ei passava pel personaggio
il più stupido, e il più ignorante di tutto il Regno. Molte volte
renduti aveva segnalati servigj alla Corona, e possedeva qualità egregie
di cuore e di spirito; ma in riguardo alla Musica, egli avea
un’orecchia così cattiva, che i suoi nemici, d’aver allo spesso
battuta a falso la misura, accusavanlo. Creder non si potrebbono gli
stenti sofferti da’Precettori di lui in dimostrargli una sola
proposizione di Geometria, ed anche delle più facili. Diedemi molti
contrassegni di benevolenza, sovente mi onorò di sue visite, e mi pregò
d’instruirlo degli Affari dell’_Europa_, e altresì delle Leggi,
delle Costumanze, e delle Scienze del bell’uso ne’differenti Paesi,
ove viaggiato io avea. Mi ascoltò con estrema applicazione, ed
eccellentemente riflettè su tutto ciò che gli dissi. Il posto da lui
tenuto in Corte, l’obbligava ad avere due _Svegliatori_ a sue spese; ma
non se ne serviva mai se non in presenza del Re, o in alcune visite di
cerimonia, e gli faceva sempre uscire, quando soli insieme ci trovavamo.

Pregai questo Signore d’intercedere a favor mio dal Re la permissione
d’andarmene: ei ricevè l’impegno della commissione, comechè contra
genio, a quel che meco con bontà se ne spiegò, poichè statemi da lui
avanzate molte vantaggiose proposizioni, io, con mille proteste d’un
eterno riconoscimento, le ricusai.

Nel decimo sesto di Febbrajo presi congedo da Sua Maestà, e da tutta la
sua Corte. Fecemi un regalo il Re pel valore di dugento Ghinee; e il mio
Protettore, di lui parente, un più ragguardevole ancora, aggiugnendovi
una lettera di raccomandazione per un Amico ch’egli avea in _Lagado_,
la Capitale. Stando allora situata l’Isola al di sopra d’una Montagna
in distanza di sole due miglia da questa Città, ne fui calato dalla
Loggia più inferiore, nella guisa stessa con la quale io avea salito.

La Terra Ferma, per quanto dilatasi il Dominio del Monarca dell’_Isola
Fluttuant_e, porta il nome generale di _Balnibarbi_, e la Capitale, come
già il dichiarai, si appella _Lagado_. Non fu mediocre la mia
consolazione di ritrovarmi sul Continente. Essendo io abbigliato come un
Naturale del Paese, e sapendo abbastanza il linguaggio per farmi
intendere, spasseggiai senza timore di sorta per la Città. Fummi facile
di rintracciare l’abitazione di quegli a cui io era raccomandato, e la
lettera del suo Amico gli presentai. Non può darsi ricevimento più
obbligante del praticatomi da quel Signore, il qual chiamavasi _Munodi_:
ei mi assegno un Appartamento in sua casa, ove restai per tutto il tempo
del mio soggiorno a _Lagado_.

Il giorno dietro del mio arrivo, ei mi prese nel suo Cocchio per veder la
Città, la qual è grande poco più, poco meno per la metà di Londra; ma
i suoi edifizj sono mal costrutti, e cadono, quasi tutti in ruina.

E affrettato il Popolo in camminando per le strade, egli ha un portamento
distratto, ed è quasi tutta cenciosa la sua vestitura. Noi passammo per
una delle porte della Città, e per tre miglia c’innoltrammo nel
Distretto, ove vidi molti Campajuoli che con diverse sorte di strumenti
la terra smuovevano, ma indovinar mai non seppi il loro disegno; nè in
luogo veruno, o frumento, od erba non ravvisai, tutto che il Territorio
apparisse eccellente. Ciò che testè veduto io avea in Città, e ciò
che sul fatto stesso io vedeva in Campagna, rendemmi ardito per chiedere
al mio Conducitore la spegazione di quel, che il prodigioso numerò di
teste, e di mani occupate, tanto nelle strade che ne’Campi, significar
volea; imperciocchè non poteva io figurarmi che qualche cosa risultar ne
dovesse; ma che, pel contrario, in alcun tempo non mi era caduto sotto
l’occhio un Territorio più mal coltivato, Case sì pessimamente
fabbricate, o un Popolo, la cui aria, e il cui vestimento esprimessero
una più profonda miseria. Era _Munodi_ un Signore del primo carattere,
ed era stato per molti anni Governatore di _Lagado_; ma un imbroglio
de’Ministri tolsegli quel Governo. Con tutto ciò con molta bontà il
trattava sempre il Rè, come un suddito assai ben intenzionato, ma di
pochissimi talenti.

Fatta che gli ebbi la censura del Paese e degli Abitanti, ei non mi
rispose nulla; dissemi solo che la brieve mia dimora non poteva per anche
mettermi in istato di formarne qualche giudizio, e che ogni Nazione del
Mondo ha i suoi peculiari costumi; con alcuni altri comuni luoghi del
genere medesimo. Ma ritornati che fummo al Palagio di lui, mi dimandò
cio che sembravami di quell’Edifizio, quai difetti vi avessi osservati,
e qual fosse il mio pensiere sopra il portamento e la vestitura de’suoi
domestici? In farmi somiglianti quistioni, ei non correva gran risico;
con ciò sia che tutto ciò che si rinveniva in una sua Casa, passar
potea per cosa assai regolare, e dell’ultima magnificenza. Gli
replicai, che la saggezza, la qualita e le ricchezze di sua Eccellenza,
aveanla messa al coperto da’difetti che la follia, e la meschinita
prodotti aveano negli altri. Si espresse egli, che se io gradiva
d’accompagnarlo alla sua Casa di Campagna, che per venti miglia era
discosta dalla Capitale, ed ove stavano situate le Tenute di lui, avuto
avremmo il piacere di disputar a nostr’agio su quest’argomento. Fu la
mia risposta che io dipendeva interamente da’cenni suoi; cosicchè non
fu differito che al dì seguente il nostro picciolo viaggio.

Nel frattempo del nostro cammino, egli osservar mi fece i metodi
differenti, onde per render colte ed ubertose le loro terre, servonsi i
Fattori di Campagna: Metodi, che mi parvero assolutamente
incomprensibili; poichè, toltine alcuni luoghi in picciolissimo numero,
cannello di biada di sorta non vidi in qualunque parte, e neppure il
menomo filo d’erba. Ma tre ore dopo, più così non passò la faccenda:
ci trovammo in un Paese il più bello del Mondo. Ben fabbricati Edifizj
di Castalderie, in corta distanza gli uni dagli altri, regnavanvi. I
Campi cinti di siepi, contenevano de’vigneti, de’seminati, o delle
praterie. Non mi ricordava d’aver mai veduta cosa più deliziosa. Notò
bene l’Eccellenza Sua la giocondità che dipignevasi sulla mia faccia,
e dissemi sorridendo, che quivi cominciavano i suoi Poderi, e che sempre
vi avremmo camminato sopra, finchè alla sua abitazione pervenuti
fossimo: Che le Genti del Paese lo spacciavano per uno sciocco, e il
dispreggiavano, perchè egli non badasse con più attenzione a’propj
affari, e recasse a tutto il Regno un esempio sì pernizioso, il qual
tuttavia era seguito da picciol numero di persone.

Arrivammo finalmente alla Casa, ch’era un superbo Edifizio, costrutto
secondo le migliori regole dell’antica Architettura: Fontane, Giardini,
Passeggj, Viali, Grotte, tutto era fatto e disposto con discernimento, e
con gusto. Io lodava qualunque cosa, senza che Sua Eccellenza mostrasse
d’avvedersene; ma dopo cena, restati soli che fummo, con uno stile di
maninconia ei mi disse, che trovavasi in una grande apprensione,
dubitando d’essere costretto di gettar a basso tutte le sue Case di
Campagna, e di Città, per rifabbricarle alla nuova moda: di distruggere
tutte le sue piante, per formarne dell’altre nella figura prescritta
dall’uso corrente, e d’ingiugnere gli ordini medesimi a tutti i suoi
Fattori: che senza questo egli si esporrebbe alle imposture d’orgoglio,
di spirito, di singolarità, d’affettazione, d’ignoranza, e di
capriccio, ed eccitarebbe forse contra di se lo sdegno, e la disgrazia di
Sua Maestà.

Aggiunse; che svanirebbe ben presto la mia maraviglia, quando informato
fossi d’alcuna particolarità, che, secondo tutte le apparenze, io non
aveva apprese alla Corte, essendo colà gli uomini troppo ingombri dalle
propie loro speculazioni, per doversi prender cura di quanto quì abbasso
si pratica.

Sono quarant’anni, o circa, ei mi disse, che taluni, o per piacere, o
per affari, il viaggi di _Laputa_ impresero; e dopo d’esservi
soggiornati per cinque mesi, furono di ritorno con una leggerissima
tintura delle Matematiche, ma ricolmi di spiriti volatili, in
quell’aerea Regione conceputi: Che cominciarono costoro dal biasimare
ogni cosa senza eccezione veruna, e che il disegno di mettere l’Arti,
le Scienze, la Favella, e le Meccaniche sopra un nuovo piede, formarono:
Che a tal effetto, fecero in modo che ottennero un Diploma per
l’erezione in _Lagado_ d’un’Accademia di Manipolatori di progetti,
e che spezie tale di malattia fu sì contagiosa, che ben presto non vi
ebbe neppur una sola Città del Regno, anche delle men ragguardevoli, che
non avesse la sua Accademia particolare: Che ne’Collegj di questa
fatta, inventano i Professori nuovi metodi di coltivar le terre, e di
fabbricar le Case; ed altresì nuovi strumenti per tutti i mestieri, e
per le manifatture: Strumenti sì stupendi, che in servendosene un sol
uomo, è capace di far l’opera di dieci, e un Palazzo può esser
fabbricato in una settimana con materiali sì durevoli, che non vi
abbisogni la menoma riparazione mai più: Che studian eglino eziandio le
maniere perchè in qualunque stagione maturino tutte le frutte della
terra, e perchè ingrossino cento volte più che al presente: Che vi ha,
non ostante, una sola inconvenienza, che niun di questi progetti trovasi
per anche ridotto a perfezione, e che nel frattempo, il Paese se la passa
in una deplorabile costituzione, che gli edifizj ruinano, e che il Popolo
muore di fame, e non ha con che ricoprirsi. Il che, anzi che
disanimargli, vie più rinvigorisce in loro il furore de’progetti: Che
quanto a lui, che non era uno spirito intraprendente; stavasene; egli
pago di calcare il cammin battuto, di soggiornar nelle Case state
costrutte da’suoi Antenati, e di niente innovare nella maggior parte
delle cose della vita: Che certi qualificati Signori, ed alcuni altri di
minor carattere aveano i sentimenti medesimi, ma ch’erano vilipesi, e
trattati come tanti ignoranti, e pessimi Cittadini, che all’universal
vantaggio la propia particolar comodità preferivano.

Aggiunse _Monodi_; ch’egli introducendosi in una più distinta
specificazione, scemarmi non volea il piacere che avrei risentito nel
visitare la loro grande Accademia, come Consigliavami di fare. Mi pregò
solamente di gettar lo sguardo sopra un disolato edifizio, che in
distanza di tre miglia da noi scoprivasi sulla declività d’un monte,
di cui eccone la precisa storia. Io avea, ripigliò egli, a una mezza
lega dalla mia abitazione un Mulino assai buono, il qual col benefizio
d’una grossa Riviera continuamente girava, e donde io traevane, e i
miei Fattori altresì, quel miglior uso che desiderar potevamo. Sono
sett’anni, o circa, che una Società di questi Manipolatori di
proggetti venne a propormi di distruggere questo Mulino, e di costruirne
un altro sul fianco di questo Monte; sulla sommità di cui, dicevan
coloro, conveniva far un canale, che fosse una foggia di Serbatojo; nel
quale, pel mezzo di molti cannoni si sarebbe fatta scorrere l’acqua, e
quindi se ne sarebbe somministrata al Mulino: mercè che il vento, e
l’aria imprimevano nell’acqua, quand’ella si trova sopra una
eminenza, un nuovo grado d’agitamento, e per questa stessa ragione,
più idonea al moto la rendono; ed eziandio, perchè discendendo
l’acqua in maggior declività, potea più facilmente far girare il
Mulino, che nol farebbe un fiume, il quale scorre con maggior livello. E
come allora, continuò _Monodi_, io non mi trovava troppo bene in Corte,
e che d’altra parte molti miei Amici mi stimolavano, soscrissi al
progetto: Ma dopo di aver per lo spazio di due anni fatto travagliare un
centinajo d’uomini se ne ristette l’opera, e i Manipolatori di
progetti si ritirarono, ribattendo sopra di me il mal successo, e
scongiurando tutti i possessori di Mulini ad acqua sopra le Riviere, di
farne fabbricare sopra qualche monte, per convincermi coll’esperienza
del torto che io mi faceva.

Pochi giorni doppo fummo di ritorno alla Città, e riflettendo Sua
Eccellenza di non trovarsi ella in troppo buon odore presso
l’Accademia, non volle andarvi in mia compagnia, ma ad uno de’suoi
Amici mi raccomandò. Dipinsemi a quest’Amico come un grande ammiratore
di progetti, straordinariamente curioso, e di buona fede; il che tuttavia
era alquanto vero, avendo io medesimo in qualche tempo fatti
de’progetti assai ridicoli.



CAPITOLO V.

L’Autore ha la permissione di vedere la Grande Accademia di Lagado.
Ampia descrizione di quest’Accademia. Arti nelle quali vi c’impiegano
i Professori.


NON è quest’Accademia un solo Edifizio, bensì una serie di molte Case
 d’ambo i lati d’una strada, la qual divenuta disabitata, in domicilo
degli Accademici destinossi.

Fecemi il Rettore un graziosissimo accoglimento. Ciascuna stanza
conteneva uno o più Manipolatori di progetti, e ben credo che vi fossero
da cinquecento stanze in tutto.

Il primo uomo, in cui mi abbattei, era smunto e squallido, avea la
faccia, e le mani tutte fuliggine, i capelli rabbuffati, la barba lunga,
ed era per sopra più tutto lacero. I suoi vestiti, la sua camiscia, e la
sua pelle, erano precisamente del colore medesimo. Otto anni consumati
avea nel preparar de’cocomeri per attraerne i raggj Solari, che
disegnava di riporre in vasi ermeticamente suggellati, affin di valersene
a riscaldare l’aria nelle Stati poco favorevoli. Dissemi, ch’ei punto
non dubitava, nel termine d’anni otto di non trovarsi in istato di
somministrare una ragionevole quantità di questi raggj al Giardino del
Governatore; ma lagnavasi dell’estrema mediocrità del suo stipendio, e
mi pregò di dargli qualche picciola cosa per incoraggirlo nel suo
lavoro, e per compensarlo alquanto dell’eccessivo caro prezzo, onde
l’anno precedente erano stati i cocomeri. Gli feci un picciolo
presente; avvegnachè il Signore che mi albergava, provveduto aveami a
tal oggetto di qualche danajo, ben sapendo ch’era lor costume di
chiedere onestamente la limosina, a tutti que’che andavano a visitargli.

Entrai in un’altra stanza; ma fui sul punto di tornarmene immediate
addietro, a cagione del puzzo orribile che mi diede nelle narici,
nell’atto di porvi il piede. Sospinsemi avanti il mio Conducitore, e mi
accennò di non dare il menomo indizio d’aversione, o di nausea,
perchè avrebbesi ricevuto per un’offesa mortale. Il credei, e
violentai la mia pulitezza perfino a non otturarmi neppur il naso. Era il
più vecchio Studente dell’Accademia colui che in quella cella abitava.
Tutte impeciate di lordure erano le mani e le vestimenta di lui.
Presentato che me gli ebbi, fu ad abbracciarmi con ogni sorta di
tenerezza; civiltà, da cui l’avrei dispensato ben volentieri. Dal
primo istante del suo aggregamento all’Accademia, si era gli applicato
a rimettere nel loro stato primitivo gli escrementi umani, separandone
quella spezie di tintura che vi è influita dalla bile, facendone
svaporare l’odore, e il salivale togliendone. Pagavagli ogni settimana
la Società una sorta di diritto, consistente in un vase riempiuto di
umane fecce, perchè gli esperimenti suoi egli proseguire potesse.

Vidi un altro, tutto intento a calcinar del ghiaccio per formarne polvere
da cannone. Mostrommi costui un Tratto da lui composto sopra la
_Malleabilità_ del Fuoco, già tutto in pronto per mettersi alla luce.
Quivi pure stavasene un Architetto ingegnosissimo, inventore d’un nuovo
metodo di frabbricar le Case, cominciando dal colmo, e terminando per le
fondamenta, il che con l’esempio di due prudentissimi insetti, l’Ape,
e il Ragnolo, egli giustificava.

In un altro Appartamento mi venne sotto l’occhio un uomocieco nato, e
con esso seco molti allievi, parimente ciechi. Consisteva il loro impiego
nel frammescolar de’colori per uso della Dipintura; e il Maestro lor
insegnava a distinguerli pel mezzo del tatto; o pel mezzo del gusto. Ma
per tutto il tempo che io fui presente, assai male vi riuscirono;
essendosi il Professore medesimo quasi ogni volta ingannato.

Ma nulla sono i progetti tutti or ora da me mentovati, in paragone di
quegli che in questo punto participar voglio a’miei Leggitori. Da uno
di quegl’industriosi Accademici si era ritrovata l’Arte di lavorar la
terra con porci, per risparmiare la spesa degli aratri, de’buoi, e
degli operaj. Ecco il metodo di lui. In un campo di terra convien
sotterrare a sei pollici di distanza l’une dall’altre, e ad otto di
profondità, un buon numero di ghiande o di datteri, che i porci cercano
con grande avidezza; dopo ciò, convien condurre sopra luogo cinque o
secento di questi animali: or eglino, arrivati appena, smuoveranno
co’grugni loro tutta la terra rintracciando il lor nutrimento, e la
renderanno idonea ad essere seminata, ingrassandola nel tempo stesso col
loro letame. Per vero dire, dopo molti reiterati esperimenti, si è
rinvenuto che il travaglio era non poco, senza che tuttavia ricolto di
sorta se ne fosse veduto. Con tutto questo non si dubita che il
ritrovamento non abbia un giorno ad essere estremamente perfezionato.

Rendeimi in un’altra Camera tapezzata d’ogni intorno di tele di
ragnolo, se si eccettui un picciolo passaggio molto angusto, per cui
l’Artista entrare ed uscire poteva. Ravvisato ch’ei mi ebbe, gridò
con forte tuono che non toccassi le sue tele. Qual fatal errore, mi
disse, che per un tempo sì sterminato ci siam prevaluti de’bachi da
seta, quando in tanta copia abbiamo animaletti domestici, di
que’vermini infinitamente migliori! Oltracciò, aggiunse, servendoci
de’ragnoli, a temer non avremmo l’incomodità che cagiona la morte
de’bachi; del che interamente ne restai convinto, quand’ei mi fece
mostra d’un numero prodigioso di mosche a maraviglia colorate,
ond’egli nutricava i suoi ragnoli, assicurandosi che le tele ne
concepirebbono qualche tintura, e che come avevane di tutti i colori, si
lusingava di ritrarne gran profitti da un tale ritrovamento, immediate
che riuscito gli fosse di nutrir le sue mosche con certe gomme, con certi
olj, e con altre glutinoso materie, per inserir nelle sila della forza, e
della consistenza.

Un altro Accademico, ch’era Astronomo, impreso avea di collocare un
Orivolo da Sole sopra la girandola del Palazzo di Città, aggiustandone
il muovimento annuale e giornaliero della Tera e del Sole, in modo, che
esattamente corrispondesse a tutti gli accidentali muovimenti, che il
vento facesse fare alla girandola.

Mi accadde di dovermi lagnare col mio Conducitore per un picciolo
assalimento di colica, ed egli mi guidò nell’Appartamento d’un
famoso Medico, rendutosi tale pel modo di guarire questa sorta di
malattia. Ecco il suo metodo. Una sciringa di misura enorme, era da lui
riempiuta d’aria: scaricava egli quest’aria nel corpo del paziente, e
dopo ciò, ritiravane lo strumento per rimpierlo di nuovo d’aria;
cosicchè replicato appena per tre volte, o quattro, quest’esercizio;
il vento, onde il corpo del paziente era riempiuto, forzava quello che
cagionato avea il male ad uscirne, e quindi seguivane la guarigion
dell’infermo. Ei ne fece un saggio sovra un cane in presenza mia, il
qual cane, per dir vero, non si lagnava d’aver la colica; ma in
ricompensa ne fu preservato per sempre; mercè che alla seconda scarica
della sciringa, il povero animale crepò. Noi lasciammo il Dottore molto
occupato a restituirgli la vita, facendone uscire il soverchio d’aria:
ma dubito del riuscimento dell’operazione.

Diedi una scorsa per molti appartamenti; ma non avendovi ritrovata cosa
così importante come il narrato fin quì mi scuserà chi legge se la
passo sotto silenzio.

Fin allora io non avea visitata cbe una parte dell’Accademia, essendo
abitata l’altra da que’che si applicano all’avanzamento delle
Scienze specolative, di cui ne farò parola, dopo di aver fatta menzione
d’un illustre Personaggio, dinominato fra coloro l’_Artista
Universale_. Ei ci notificò d’essersi occupato pel corso di
trent’anni in rintracciar i mezzi di prolungare la vita umana. Due gran
camere egli avea ripiene di mille curiosità, e cinquanta uomini
operavano sotto di lui: entro a un vase condensavano questi l’aria; e
que’avean l’arte di togliere da quest’aria tutte le particelle di
nitro o d’acqua; ed altri ammollivano pezzi di marmo per formarne
de’cuscinetti, e de’guanciali. L’Artista medesimo si trovava allora
molto impegnato in due gran progetti. Consisteva il primo in seminare una
terra di paglia, in cui, diceva egli, contenevasi la vera virtù
producitrice; il che egli dimostrava con molti ragionamenti, che io non
ebbi la capacità di comprendere. La seconda invenzione tendeva ad
impedire che gli agnellini non si ricoprissero di lana; lusingandosi
l’Artista di poter ciò effettuare col mezzo d’alcune gomme,
ed’alcuni minerali applicati esteriormente sopra la loro pelle, e che
nello spazio di qualche tempo si sarebbe sparsa per tutto il Regno una
razza di pecore totalmente ignude.

Facemmo un giro all’altra parte dell’Accademia, ove, come già il
diceva, i Manipolatori di progetti in i scienze specolative, la loro
Residenza aveano.

Il primo Professore che io vidi, se ne stava in un grande Appartamento,
ed avea quaranta Scolari d’intorno a se. Dopo i primi complimenti,
osservando egli che io risguardava con attenzione una macchina, che, poco
men che la stanza tutta teneva ingombra, disse che io forse mi trovava
sorpreso, che egli formato avesse il disegno di servirsi di meccaniche
operazioni, per l’aumentazione delle conoscenze specolative: ma che il
Pubblico troppo tardato non avrebbe a risentirne l’utilità di cotale
metodo: e che vantavasi senz’altro, che uomo al Mondo inventata non
avesse più bella cosa. E noto ad ognuno, continuò il Professore, quanto
sia laborioso l’ordinario metodo di far acquisto di certe scienze;
laddove con l’invenzione, onde io vi parlo, l’uomo, il più
ignorante, può, con poco stento, e quasi con niuna spesa, scrivere sopra
la Filosofia, la Poesia, la Politica, le Leggi, le Matematiche, e la
Teologia; e ciò senza avere nè genio, nè studio. Mi fece allora
avvicinare alla macchina attorniata da tutti i lati da’discepoli di
lui, disposti in ordine. Ella avea venti piedi in quadro, e ne stava
collocata nel mezzo della Camera. Era composta la sua superficie di
diversi pezzi di legno, presso poco, della grossezza d’un dado ma gli
uni alquanto più larghi che gli altri. Tutti questi pezzi erano uniti
insieme con sottilissime fila, ed era coperti di carta esattamente
applicata sopra cadaun quadrato; e sopra queste carte stavano scritti
tutti i termini di loro Lingua ne’loro differenti Modi, Tempi, e
Declinazioni, ma senza regolarità veruna. Pregommi il Professore di star
attento, perchè ei accignevasi a far operar la sua macchina. Aveavi
quaranta manichi di ferro d’intorno alla macchina stessa confitti; ed
ognuno de’Discepoli, per ordine del Maestro, impugnava un manico: dopo
ciò, per un giro di mano ch’essi lor diedero, vidi che interamente si
era cangiata la disposizione de’termini. Il Maestro allora comandò a
trenta e sei de’suoi Discepoli di leggere a bassa voce le differenti
linee che erano apparute sopra la macchina: che se eglino trovavano tre o
quattro termini insieme che una parte di frase compor potessero, erano
obbligati di dettargli agli altri quattro giovani ch’erano i Segretarj.
Tre volte o quattro era ripetuta quest’operazione, ed ogni volta in
nuovo modo si trovavano disposti i termini. Sei ore del giorno erano
impiegate dagli Scolari in questo studio; e il Professore molti fogli mi
mostrò da lui composti di diverse imperfette frasi, che disegnava di
cucir insieme, per formarne poscia un dì di tutti questi ricchi
materiali un compiuto sistema di tutte l’Arti, e di tutte le Scienze:
Disegno, diceva egli, potevasi metter in eseguimento con assai maggior
facilità, e con assai maggior prontezza, se il Pubblico determinato si
fosse a crear un Fondo per far costruire, e metter in opera in _Lagado_
cinquecento di queste macchine, e ad ordinare a’Direttori di unir
insieme tutte le loro collezioni.

Ei mi assicurò di aver fin dalla prima sua giovinezza consecrati tutti i
suoi pensieri a cotale ritrovamento; che nella sua macchina non era
ommesso termine veruno del suo linguaggio; e che avea egli formato il
più scrupoloso calcolo della general proporzione che vi è fra’numeri
delle particole, de’Nomi, de’Verbi, e delle altre Parti della Favella.

Rendei i più umili ringraziamenti a quel Personaggio illustre, per la
facilità con cui egli d’un sì bel progetto facea mi parte; e gli
promisi che se mai per buona sorte la mia Patria riveder dovessi,
defraudato non l’avrei della giustizia di riconoscerlo per l’unico
Inventore di quella Macchina maravigliosa. Gli dissi, che tutto che sia
ordinario costume de’nostri Letterati in _Europa_ di farsi onore degli
altrui ritrovamenti; donde, per lo meno, riveniva lor l’avvantaggio di
piantar una controversia, qual fosse l’Inventore vero; ei, non ostante,
potea accertarsi, che quanto alla macchina testè da me veduta, chi che
sia non gli contrasterebbe la gloria dell’invenzione.

Alla Scuola di Lingua di poi passammo, ove tre Professori unitamente
deliberavano sopra i mezzi di perfezionare il Linguaggio del loro Paese.

Il primo progetto si era d’abbreviare i Ragionamenti, non lasciando che
una sillaba a tutti i termini che ne aveano molte, e troncando i Verbi ed
i Participi; mercè che a ben riflettervi, tutte le cose immaginabili non
sono che nomi.

Ma, dice uno degli altri, non sarebbe meglio di troncare assolutamente
tutti i termini? Per far meglio gustare un somigliante progetto, ei
pruovo che la sanità, ell’amore del parlar breve, troverebbonvi
egualmente il loro conto; essendo incontrastabile, che ciascuna parola
che noi pronunziamo, per quanto poco il faccia, logora i nostri polmoni,
e per conseguenza a corcia il nostro vivere, E per tal ragione ei
proponeva come ottimo espediente, che poichè i termini non sono che i
nomi delle _cose_, sarebbe più ragionevole che ognuno con se portasse le
_cose_, onde ei volesse discorrere. E senz’altro avrebbe avuto luogo
questo ritrovamento, con somma vaghezza del Ritrovatore, se le Donne,
collegate col profano Volgo, minacciata non avessero una rivoltura, se
lor si togliesse l’uso di loro favella per parlare alla foggia degli
Avoli loro. Tanto è vero che la Plebaglia è un nemico implacabile di
tutto ciò che Scienza si appella. Non ostante, molti saggissimi ed
eruditissimi uomini sieguono il nuovo metodo d’esprimersi per _cose_:
metodo, a cui tuttavia opponesi una picciola inconvenienza; ed è, che
quando un uomo ha molti affari, e di differenti spezie, egli è costretto
di portar con esso seco una quantità molto più considerabile di _cose_,
purchè non gli manchino i mezzi di mantenere alcuni servidori che da tal
fastidio l’esimano. Vidi talvolta due di questi Saggi poco men che
oppressi sotto il peso de’lor fardelli, come appunto i merciajuoli
delle strade fra noi. Quando questi Signori si rifcontravano fuori di
casa, adagiavano i loro fagotti a terra, e traendone le merci l’una
dietro l’altra, si trovavano in istato di trattenere per un’ora
intera la conversazione; dopo di che, ciascheduno raccoglieva le sue, ed
essendosi l’un per l’altro ajutati a riporsi in sulle spalle le loro
cariche, si licenziavano.

Ma quanto a men lunghi trattenimenti, puossi agevolmente mettere sotto il
braccio o nelle propie tasche tutto ciò ch’è bisognevole; e quando si
sta in casa, non vi ha imbarazzo di sorta. Ecco la ragione, perchè la
Stanza ove si assembiano coloro che una tal Arte mettono in uso, è
ripiena di tutte le _cose_, che sono necessarie per far sussistere sì
ingegnose conversazioni.

Un altro gran vantaggio che ritrar si potrebbe cotal invenzione si è,
che quindi ne proviene un Linguaggio Universale, ben inteso da tutte le
colte Nazioni, le cui masserizie, e suppellettili generalmente, alle
nostre affatto rassomigliano. Con questo mezzo pure gli Ambasciadori
trattar potrebbono co’Principi Stranieri, o co’Ministri di Stato, se
di essi ne ignorassero la favella.

Fui susseguentemente alla visita della scuola di Matematica ove ravvisai
un Maestro, che per insegnar questa Scienza a’suoi Discepoli, valevasi
d’un metodo, alquanto, al parer mio, bizzaro. La Proposizione e la
Dimostrazione sono scritte in caratteri assai leggibili sopra una Cialda
sottilissima, con inchiostro composto d’una tintura Cefalica. Questa
Cialda o pasta, dev’estere tranguggiata a digiuno dallo Studente; nè
può egli per tre susseguenti giorni cibarsi con altra nutritura che
d’un poco di pane ed acqua. A misura che se si esse: tua la digestione
della Cialda, monta la tintura al cervello, e la Proposizione è
obbligata d’accompagnarla. Ma fin al presente non ha il successo, del
tutto, corrisposto all’espettazione dell’Inventore; in parte, per
qualche sbaglio nel componimento della tintura; e in parte, per la
malizia de’giovanetti, a’quali un tal boccone promuove tanta nausea,
che la maggior parte d’essi procura di renderlo innanzi l’operazione:
e oltracciò, non si è potuto per anche far loro osservare la regola del
vivere, sì necessaria, secondo questo metodo, per apprendere le
Matematiche.



CAPITOLO VI.

Continuazione del medesimo Argomento. Propone l’Autore alcuni nuovi
Ritrovamenti, che con grandi applausi sono ricevuti.


NOn troppo mi ricreai in visitar la Scuola de’Manipolatori di progetti
Politici, perciocchè coloro mi sembravano onninamente insensati;
spettacolo, che in me produce una incessante maninconia. Formavano
que’Visionarj, de’progetti di persuader a’Monarchi di non badare
nella scelta de’loro Favoriti, che alla Saggezza, alla Capacità, e
alla Virtù, di non prendere de’Ministri che per travagliare con
miglior successo al vantaggio Pubblico; di non disgiugnere mai il loro
interesse da quello del loro Popolo; di non conferire gl’impieghi che a
persone idonee ad esercitargli, con altre chimere molte, onde in verun
tempo non si è chi che sia avvertito, e che mi an fatto toccar con mano
l’aggiustatezza d’un’antica Massima, la qual dice: che cosa non vi
ha sì assurda, che alcuni Filosofi avan, zara non abbiano come vera.

Per rendere, non ostante, giustizia a quegli Accademici di Politica,
confessar deggio che tutti non sono eglino Visionarj. Si trovava fra
coloro un uomo, che parevami a maraviglia conoscitore della Natura, e del
Sistema del Governo. Quest’illustre Personaggio si era applicato con
molta utilità in rintracciar sovrani rimedi contra tutte le malattie,
cui soggiacciono le differenti spezie di Pubbliche Amministrazioni, tanto
per gil vizzi, o per le debolezze di que’che governano, quanto per gli
difetti di que’che debbono ubbidire. Per esempio: giacchè tutti
que’che applicati si sono allo studio del governo degli uomini, unanimi
accordano che vi è un’universale rassomiglianza fra il corpo naturale,
e il corpo politico; non è forse un’evidenza, che le infermità
d’amendue questi corpi guarite esser deggiono, e che co’rimedj
medesimi la lor sanità dev’essere conservata? Egli è certo, che
talvolta alcuni Consigli sono incomodati da peccanti umori, e molestati
da molti mali di capo, e più ancora da mali di cuore, con gagliarde
convulsioni, e con violenti raggrinzamenti di nervi in ambo le mani,
comechè principalmente nella destra. Talvolta sono assaliti da
vertigini, da deliri, da una fame canina, o da indigestioni, e da altri
morbi di questo genere. Il Piano di questo Dottore era dunque; allorchè
si assembiasse un Consiglio, v’intervenissero, i tre primi giorni della
Sessione, alcuni Medici, i quali all’ultimo de’dibattimenti di
ciascun giorno, tastassero il polso a ciascun Consigliere; dopo di che,
avendo maturamente deliberato sopra la natura de’diversi mali, e sopra
il modo di guarirgli, potessero il quarto giorno restituirsi al luogo del
Assemblea, accompagnati da Speziali provveduti d’ottime medicine, i
quali avessero la cura, prima che si fossero assisi i Membri, di
dispensare ad ognuno d’essi, Lenitivi, Apertivi, Astersivi, Corrosivi,
Ristrignenti, Palliativi, Lassativi, o qualunque altra Droga lor
necessaria: pronti pel giorno dietro, a ripetere, a cangiare, o ad
ommettere i rimedj stessi, secondo l’effetto che essi prodotto avessero.

L’eseguimento d’un tal progetto non costerebbe gran cosa al Pubblico,
e sarebbe molto utile, a quel che io penso, per ispedire prontamente gli
affari in que’Paesi, ove i Consiglj fin qualche parte nell’Autorità
Legislativa. Ei produrrebbe l’unanimità; abbreviarebbe le discussioni;
aprirebbe quelle poche bocche che al presente son chiuse, e suggellarebbe
il numero prodigioso di quelle che sono aperte; reprimerebbe la petulanza
de’giovani, e correggerebbe l’ostinazione de vecchj; imprimerebbe
vivacità negli stupidi, e ritegno ne’balordi.

Di più: come generalmente si ha il motivo di querelarsi che i Favoriti
de’Principi son dotati d’una memoria la men felice, il Dottore
medesimo proponeva come un rimedio ad un tal male, che chiunque andasse a
ritrovare un Primo Ministro, dopo di avergli esposto in brievi e chiari
termini il propio affare, in partendosi, tra esse questo Signore pel naso
o per l’orecchio, gli desse qualche colpo di piede nel ventre, gli
pizzicasse ben bene le braccia, ogli cacciasse un’aguglia nelle
natiche; il tutto, perche meglio del negozio onde si tratta, ei si
risovvenisse: Rimedio, che converrebbe ripetersi tutte le volte che il si
vedesse, finchè la cosa fosse fatta, o rigettata assolutamente.

Egli era eziandio di parere, che ogni Membro del Gran Consiglio della
Nazione, dopo di aver proposto e difeso il propio sentimento, obbligato
esser dovesse a dar il suo voto in favore dell’opinione contraria;
mercè che ciò facendosi, ne proverrebbe infallibilmente la conchiusione
in vantaggio pubblico.

Quando da violente Fazioni è lacerato lo Stato, egli avea rinvenuto un
maraviglioso mezzo per accordarle. Eccolo questo mezzo. Convien prendere
un centinajo di Capi di cadaun Partito, e mettere l’una contra
l’altra le teste che poco più o meno sono della figura medesima; che
dopo ciò, due peritissimi Chirurgi seghino l’occipizio di ciascun pajo
in un tempo stesso, cosicchè il cervello sia diviso in due parti eguali:
Che cadauno di questi occipizj così tagliati, applicato sia sopra quella
testa a cui gli non appartiene. Egli è ben vero che somigliante
operazione richiede una gran destrezza, ed una esatezza somma; ma
assicuravasi il Professore, che se il Chirurgo vi faceva ben le sue
parti, la curagione riuscirebbe infallibile; imperciocchè così gli la
discorreva: Dibattendosi insieme le due eguali porzioni di cervelli, le
materie che formano il suggetto della Disputa non potrebbono non
convenire ben presto; e per ciò che risguarda la differenza
de’cervelli in quantità e in qualità fra coloro che sono i Direttori
delle Fazioni, protestava in sua coscienza il Dottore, ch’era una
chimera.

Intesi due professori che stavano disputando con molto fuoco sopra il
miglior metodo d’impor Tasse senza aggravio del Popolo. Affermava il
primo che il modo più sano sarebbe di tassare i vizzi e la follia; e
d’appossare in cadauna strada un certo numero di Soprastanti, che
adducessero testificazione de’gradi di stravaganza, e di corruttela
de’loro Vicini, su’quali regolar si potrebbe la somma che ognuno a
pagare tenuto fosse. Direttamente opposta era l’opinione del secondo,
il qual volea che si mettesse una gabella sopra quelle qualità del Corpo
e dell’Anima, onde gli uomini il più si pregiano da se medesimi; e che
questa gabella fosse più o men grande, a misura del grado più o men
eminente onde si eleverebbono queste qualità: grado, a riguardo di cui,
sarebbe ognuno sulla propia parola creduto.

L’imposta più gravosa concerneva i più segnalati Favoriti del Bel
sesso, ed erano regolate le tasse secondo il numero e la natura
de’ricevuti favori; nel che si doverebbe pure rapportarsi alle loro
propie dichiarazioni. La vivacità dello spirito, il valore e la
pulitezza, doveano soggiacere altresì a pesanti imposizioni, le quali
ingiunte sarebbono nel modo stesso, passandosi ognuno da se medesimo. Ma
da un altro canto, l’onore, la Giustizia, la Prudenza, ed il Sapere non
doveano costar un soldo a colui che possedeva cotali qualità, poichè
sono d’un genere sì singolare, che niuno le riconosce nel suo Vicino,
e in se medesimo non le pregia.

Dovean le Donne esser tassate a misura della loro bellezza, e della loro
abilità nel ben comparire, e dovean godere dello stesso privilegio degli
Uomini; voglio dire, determinar la somma ch’esse obbligate si credono
di pagare. Ma il Senno, la Fedeltà, la Castità, e la Bontà del Cuore,
esser doveano cose onninamente esenti da gabelle; essendo che il poco che
avrebbesi potuto ritrarne, non varrebbe il fastidio che si sarebbe preso
per iscoprire quelle che risguardate sono da questa Tassa.

Per rendere ben affetti i Senatori agli interessi della Corona, il
Professor medesimo volea che si tirasse a sorte per gl’Impieghi,
impegnandosi a prima giunta ognuno d’essi, con giuramento, d’essere
parziale della Corte, fosse che la Carica profittasse, o no; dopo di che,
que’che avessero messo del proprio, potessero di bel nuovo tentar
fortuna a prima opportunità. In questo modo la speranza, e
l’espettazione gli renderebbono fedeli ne’loro impiegi; nè veruno
d’essi lagnar si potrebbe di quale siasi inganno, bensì imputerebbe la
sua disgrazia alla Fortuna, le cui spalle son più robuste, e più larghe
di quelle d’un Ministero.

Un gran foglio, tutto riempiuto d’instruzioni per lo scuoprimento delle
congiure che si tramano contra il Governo, fummi mostrato da un altro
Professore. In tutte le annotazioni di lui appariva una somma profondità
di genio, e un estremo discernimento di politica; tutto che, a mio
credere, vi si potesse aggiugnere qualche altra cosa. Quest’è ciò che
mi feci lecito di dire all’Autore; esibendomi nel tempo stesso di
fargli parte di quanto aver potessi di lumi su quest’argomento. Con
più di civiltà ricevè egli la mia offerta, di quel che non son soliti
di praticare gli Autori, particolarmente que’che lavorano in progetti;
assicurandomi che molto gradita gli avrebbe la comunicazione delle mie
osservazioni.

Gli dissi; che se mai accadesse di soggiornare in un Regno ove le
cospirazioni fossero in voga pel genio inquieto della Plebaglia, o servir
potessero allo stabilimento del credito, o all’avanzamento della
fortuna di alcuni Grandi, mi applicherei immediate a incoraggiar la rozza
degli Accusatori, de’Dinunzianti, e de Testimoni: Che allor quando ne
avessi raccolto un sufficiente numero di tutte le condizioni, e di
differente capacità, gli porrei sotto la direzione di alcuni abili
Personaggi, bastevolmente possenti per proteggergli, e per ricompensarli.
Personaggj di questa fatta, dotati di talenti e del potere testè
mentovati, potrebbono far servir le congiure ad usi più eccellenti;
sarebber atti a farsi valere e a spacciarsi in profondi Politici; a
rassodare un vaccillante Ministro; a soffogare, o a scemare una generale
scontentezza; ed arricchirsi di confiscazioni, e ad aumentare o a
diminuire il credito pubblico, a misura che il privato lor avvantaggio il
richiedesse. Quest’è ciò che può farsi, col convenir primieramente
di coloro, su cui cader dee l’accusa d’aver parte in una
cospirazione. Dopo ciò; convien assicurarsi di tutti gli scritti loro,
del pari che delle loro persone: Deggiono questi Scritti passar nelle
mani d’una Ragunanza d’uomini di grande abilità, perchè possan essi
interpretare i sensi misteriosi de’vocaboli, delle sillabe e delle
lettere; ma Affinchè sia fruttuosa cotale loro industria; si dee lor
permettere d’addattare alle lettere, alle sillabe ed ai vocaboli, il
significato che più lor piace, tutto che sovente questo significato non
v’abbia alcun rapporto, oppure sembri direttamente opposto al fine, che
quegli, di cui si disamina lo scritto, si propone. Così, per esempio, se
il credono a proposito, possono intendere per un _Vaglio_ una _Dama di
Corte_; per un _Cane stropio_ un _Usurpatore_; per una _Frusta_ un
_Esercizio in piedi in tempo di pace_; per un _Nibbo_ un _Gran Politico_;
per la _Gotta_ un _Sommo Pontefice_; per un _Orinale_ una _Ragunanza di
Signori_ per una _Scopa_ una _Rivoluzione_; per una _Trappola_ una
_Carica_; per un _Abisso senza fondo_ il _Tesoro Pubblico_; per una
_Grondaja_ la _Corte_, per una _Barretta con sonagli_ un _Favorito_; per
una _Canna spezzata_ una _Corte di Giustizia_; e per un _Barile voto_ un
_Generale_.

Che se questo metodo non conseguisse il suo riuscimento, se ne potrebbero
metter in pratica di più efficaci, e gli _Acrostici_ e gli _Anagrammi_
sarebbero d’un grande ajuto. Spiegaigli allora ciò che io intendessi
per _Acrostici_, e gli mostrai evidentemente l’utilità di questa
spezie di scienza per iscoprire il senso politico, nelle iniziali lettere
contenuto. Essendo che; senza questo, io gli dicea, avrebbesi mai potuto
sapere che N, per esempio, significa una Macchinazione; B un Regimento di
Cavalleria, ed L un’Armata; Ma se a caso, (il che quasi non è
possibile) questo metodo non basta per venir in cognizione de’disegni
del malcontento Partito, si potrebbe riuscire nella loro scoperta,
trasponendone le lettere dell’Alfabeto che si trovano in qualche
Scritto sospetto; trasponendole, dissi in tante differenti maniere, che
finalmente se ne rinvenga il senso che vuolsi in esse imprimere. E
quest’è ciò che si dinomina Anagrammatico metodo.

Con eccessivi complimenti mi ringraziò il Professore per le mie curiose
comunicategli osservazioni; e mi promise che nel suo Trattato farebbe di
me una menzione onorevole.

Null’altro vidi in quel Paese che allettarmi dovesse a un più lungo
soggiorno; e cominciai a pensare di ritornarmene in Inghilterra.



CAPITOLO VII.

L’Autore lascia Lagado, e arriva a Maldonada. Non essendovi pronto alla
vela verno Vascello, fa un giro a Glubbdubdrib. Accoglimento che gli fa
il Governatore.


IL Continente, di cui n’è una parte quel Regno, stendesi, per quanto
mi pare, al Levante verso le Regioni incognite dell’_America_, al
Ponente verso la _California_, e a Tramontana verso il Mar Pacifico, il
qual non è che a cencinquanta miglia da _Lagado_, dove vi ha un buon
Porto; praticandovi gli Abitanti un gran commerzio con gli Isolani di
_Luggnagg_, situati al Ponente Maestro, a un di presso a’venti e nove
gradi di Latitudine Settentrionale, e a’cenquaranta di Longitudine.
Quest’Isola di _Luggnagg_ si trova allo Scilocco del _Giapone_, in
distanza d’un centinajo di leghe. Evvi una stretta Confederazione fra
l’Imperador del _Giapone_, e il Re di _Luggnagg_; dal che ne viene che
vi sono frequenti occasioni di passaggj da una di quest’Isole
all’altra. Un tal motivo mi determinò ad imprendere il cammino per
quella parte, per quindi rivenirmene nell’_Europa_. Noleggiate per
tanto due Mule pel trasporto del picciolo mio bagaglio, e una Guida per
additarmi la strada, presi cogendo dal generoso mio Protettore, il qual
dati aveami tanti contrassegni di sua compitezza; e sul punto del mio
partire, un nuovo ragguardevole regalo ne ricevei.

Per tutto il mio Viaggio non mi accadde cosa che meriti d’essere
riferita. Arrivato che fui al porto di _Maldonada_, non aveavi Vascello
lesto alla vela per _Luggnagg_; e con certezza mi venne detto che
conveniva attendere alcune settimane innanzi che ve ne fossero. Può
essere questa Città della grandezza, o circa, di _Portsmouth_. Poco
tardai ad acquistarmi molte amicizie, e non poche furono le civiltà che
usate mi vennero. Un Gentiluomo di gran distinzione mi dice; che poichè
mancherebbono per un mese, almeno, le aperture d’imbarco per
_Luggnagg_, dovrei risolvermi ad andar a vedere la piciola Isola di
_Glubbdubdribb_, ch’era al Libeccio di _Maldonada_, non più lontana
che cinque leghe. Mi esibì la sua compagnia e quella d’un suo Amico; e
d’aver cura promisemi di tutto il bisognevole per tal intento.

_Glubbdubdribb_, per quanto puossi rendere in nostra favella un
somigliante termine, significa l’Isola degli _Stregoni_. Non ha
quest’Isola che il terzo della larghezza di quella di _Vvight_, ed è
straordinariamente fertile. E’governata da un Capo d’una certa
Tribù, di soli Maliardi composta.

Costoro, non contraggono mai maritaggi che con persone di loro Tribù, e
il più Anziano di loro razza, è il loro Principe, o il loro
Governatore. Allogia questo Principe in un Palagio magnifico, dietro di
cui vi è un Parco tre mila Campi d’estensione, e cinto d’un muro di
pietre dure, di venti piedi di altezza. Molti Chiusi differenti per
biade, per erbaggj, o per mandre, contiene questo Parco.

Da Domestici molto straordinarj e servito il Governatore con la sua
Famiglia. Per la sua esperienza nella Magia, egli ha il potere di
richiamare alla vita tutti que’che vuole, e il diritto altresì di
Dominio sovra d’essi per lo spazio d’ore venti e quattro, ma non già
per più lungo tempo: e di più, non gli è permesso di scongiurar due
volte di seguito una persona medesima, se non si frapponga un interstizio
di tre mesi, o pure ch’ei vi sia costretto da qualche importantissima
ragione.

Messo piede a terra, il che seguì verso le undeci della mattina, uno
degli amici che mi accompagnavano, avviossi alla visita del Governatore,
e gli dimandò se uno straniere potea aver l’onore d’inchinare
l’Altezza Sua? Accordogli immediate il Principe la richiesta: e noi,
tutti, e tre, entrammo nel Palagio fra due file di Guardie armate
all’antica, e che nella loro fisonomia spiravano un non so che, che
tremar mi faceva. Passammo poscia a molti Appartamenti pel mezzo di
Domestici tali, che alle Guardie non male rassomigliavano, e che,
com’esse, erano disposti in ala d’ambe le parti, finchè pervenuti
fossimo alla Sala di fronte; ove, dopo tre profonde riverenze, ed alcune
generali quistioni, ci fu permesso l’adagiarci su tre sedili, accosto
del più basso gradino del Trono di sua Altezza. Possedeva quel Principe
la favella di _Balnibarbi_, non ostante che diversa fosse da quelle che
si parlano nell’Isola di lui. Mi pregò raccontargli una parte
de’miei Viaggi, e per farmi comprendere che trattarmi voleva senza
complimenti, licenziò il suo corteggio con un solo muovimento di testa;
che appenna fatto, con orrido mio stordimento svanirono tutti i
Cortigiani in aria, nella guisa che dispajono gli oggetti da noi veduti
in sogno, quando all’improviso ci risvegliamo. Me ne ristetti qualche
tempo innanzi di rimettermi dal terrore: me come il Governatore mi
assicurò che non aveavi nulla a temere; e che d’altra parte io
osservava che i miei due compagni manifestavano intrepidezza, (il che
succedeva perchè non riusciva lor nuovo un somigliante spettacolo,)
cominciai a incoraggirmi, e feci a Sua Altezza una compendiata Storia
delle diverse mie Avventure, non senza tuttavia incantarmi qualche volta;
e non senza, di tempo in tempo, gettar gli sguardi sopra i luoghi testè
lasciati voti da que’domestici Fantasmi.

Ebbi l’onore di pranzar col Principe, e summo serviti in tavola da
certe larve differenti da quelle che io già vedute avea. Riflettei che
la mia paura d’allora era assai inferiore a quella della mattina.

Quivi consumammo tutta la giornata, ma dovetti supplicar il Governatore
di compiacersi scusarmi, se io non accettava l’offerta sua perchè
allogiassi nel suo Palaggio. I miei due Amici ed io fummo a dormire in
Città, e di poi ritornammo presso il Principe, per ubbidire a’suoi
obbligantissimi cenni.

In questo modo ce la passammo in quell’Isola per dieci dì, conversando
in Corte la maggior parte del giorno, e standocene la notte nella nostra
abitazione. Mi rendei ben presto talmente familiare cogli Spiriti, che io
più non gli temeva; o se restavami qualche impressione di terrore, la
curiosità me ne toglieva in un tratto il sentimento. Un giorno mi
ordinò Sua Altezza di scongiurare tal morto che più volessi di tutti
quegli, che secondo la Legge erano passati all’altra vita dal principio
del Mondo perfino al momento ch’ella mi parlava; e di comandar loro di
rispondere alle mie quistioni; a condizione però che le quistioni stesse
non verserebbero che sopra cose accadute al loro tempo: Che per altro, io
certo esser poteva, ch’essi non mi direbbono nulla che non fosse vero,
non essendo l’Arte del mentire di verun uso nell’altro Mondo.

Umilissimamente ringraziai Sua Altezza per una grazia sì segnalata. Ci
trovavamo in una Camera risguardante il Parco; e e come primo mio
desiderio fu di veder qualche cosa di pomposo e di magnifico, mi prese la
voglia d’ammirare _Alessandro il Grande_ alla testa del suo Esercito,
immediate dopo la battaglia d’_Arbela_. Pronunziate, ebbe appena il
Governatore alcune parole, che ravvisammo quel Conquistatore sotto la
finestra ove noi eravamo, alquanto più discoste le sue Falangi. Fu
ingiunto ad _Alessandro_ di rendersi nel nostro Appartamento: per vero
dire, il suo _Greco_ io non capì bene. Ei mi giurò sul suo onore che
non era stato avvelenato; bensì ch’era morto di febbre ardente, che
gli eccessivi disordini del vino cagionata gli aveano.

Dopo lui comparve _Annibale_ passando l’_Alpi_, il qual mi protestò
che nel suo campo non si trovava neppure una goccia sola d’aceto.

Vidi _Cesare_ e _Pompeo_ alla fronte delle loro Legioni, tutti lesti per
venir alle mani. Bramai che il Senato di _Roma_ mi si affacciasse in una
gran Sala, e un’Assemblea un poco più moderna in opposto in
un’altra. Parvemi la prima di queste Adunanze, composta di soli Eroi o
Semidei; laddove l’altra non assomigliava che a una Truppa di
Miserabili, di Banditi e di Sgherri. A mia instanza fece cenno il
Principe a _Cesare_ ed a _Bruto_ d’accostarsi a me. Inspirommi la vista
di _Bruto_ una profonda venerazione; e veramente non vi volle un grande
stento per riconoscere in lui la più consumata virtù, una fermezza di
spirito, un cuore intrepido eccedente qualunque esegerazione, e un Amore
il più efficace per la sua Patria. Con sensibile mio piacere osservai
che que’due grand’uomini davan segni di scambievole buon’amicizia;
e _Cesare_, nobilmente ingenuo, confessò che la gloria di _Bruto_ per
averlo ucciso, superava quella ch’egli Cesare si aveva acquistata per
tutto il corso della sua vita. Godei dell’onore d’una lunga
conversazione con _Bruto_ medesimo; e mi fu detto che _Giunio_,
_Socrate_, _Epaminonda_, _Catone il Giovane_, _Tommaso Moro_ e lui erano
sempre insieme: _Sextumvirato_, a cui tutte l’Età del Mondo aggiugnere
un settimo non saprebbono.

Non vi ha dubbio che si annojerebbe il mio Leggitore se gli rapportassi i
nomi di tutti coloro, che la brama, per dir così, di veder il mondo in
tutti i punti di sua durazione, fece che io scongiurassi. Soprattutto mi
appigliai a considerare i Distruggitori de’Tiranni e degli Usurpatori,
e quegli altresì che rimesse aveano delle Nazioni nella lor libertà.
Spettacoli di questa fatta una gioja sì sensibile in me producevano, che
il volerla esprimere sarebbe lo stesso che tentar l’Impossibile.



CAPITOLO VIII.

Curioso specificato racconto sopra la Città di Glubbdubdribb. Alcune
correzioni dell’Antica e della Moderna Storia.


VOglioso di veder gli Antichi che si erano renduti famosi pel loro
spirito o pel loro sapere, destinai loro una intera giornata. Dimandai
che _Omero_ ed _Aristotile_ comparissero alla testa di tutti i loro
Comentatori; ma eran questi in un numero così grande, che molte
centinaja nella Corte, e negli esteriori Appartamenti del Palagio se ne
ristettero. Alla prima occhiata conobbi e distinsi questi due Eroi non
solo dalla moltitudine, ma eziandio l’un dall’altro. De’due, era
_Omero_ il più grande e il più ben fatto, si teneva ben ritto per un
uomo di sua età, ed aveva un pajo d’occhj così vivaci, che di
somiglianti non ne vidi mai. _Aristotille_ estremamente incurvavasi, e si
appoggiava insù d’un bastone. Avea la faccia smunta, i capelli lunghi,
infiacchita la voce. Mi avvidi a prima giunta che veruno di loro non
aveva mai più veduto il resto della Compagnia, e neppure inteso mai a
parlarne: E uno Spirito, il qual io non voglio nominare, dissemi
all’orecchio, che nell’altro mondo questi Comentatori tenevansi il
più che potevano, lontani da que’due grand’Uomini, di cui vanamente
intentato aveano di dilucidarne gli Scritti; e ciò per la vergogna e pel
rimorso che rodevagli, di aver fatto lor dire mille contraddizioni e
mille assurdi, che per sogno non avevan eglino mai pensato. Io presentai
_Didimo_ ed _Eustazio_ ad _Omero_, il quale, in grazia mia, fece loro
miglior accoglimento ch’essi non meritavano; essendo che subito conobbe
che niun di loro aveva il genio ch’è necessario per rendersi parziale
di quello d’un Poeta. Ma _Aristotile_ perdè affatto tutta la sua
pazienza, allorchè dopo d’averlo instruito degli obblighi ch’egli
aveva a _Scot_ ed a _Ramo_, io messi alla sua presenza questi Saggj, ed
ei mi dimandò se così stolti come questi, fossero gli altri suoi
Comentatori?

Pregai allora il Governatore di scongiurare _Descartes_ e _Gassendi_; i
quali sulla mia faccia spiegarono ad _Aristotile_ i loro Sistemi.
Ingenuamente confessò questo Filosofo che si era ingannato spessissime
volte, per non essersi fondato, a riguardo di molte cose, che su semplici
conghietture; e dichiarò, che il _Vacuo_ d’_Epicuro_, onde _Gassendi_
n’era il Restauratore, e i _Vortici_ di _Descartes_, erano egualmente
appoggiati. Predisse che l’_Attrazione_, la qual in oggi a tanti
Difenditori, ricaderebbe un giorno nello spregio stesso, donde testè ne
fu tratta. I nuovi Sistemi sopra la Natura, non sono, soggiunse egli, che
nuove mode, che cangeranno di tempo in tempo; e que’medesimi che si
presume di dimostrare Matematicamente, non goderanno d’un Regnò sì
lungo, come pare che i lor Partigani si vantino di lor promettere.

Cinque giorni furono da me impiegati in trattenermi con molti altri Saggj
dell’Antichità. Vidi la maggior parte degl’Imperadori Romani.
Scongiurò il Principe, a mia sollecitazione, i Cucinieri
d’_Eliogabalo_, perchè essi imbandissero il desinare: ma per mancanza
di materiali, non fummo troppo paghi delle pruove di loro abilità. Un
Cuoco d’A_gesilao_ ci compose una minestra alla _Lacedemonica_; ma di
mandarne abbasso una seconda cucchiajata non bastommi l’animo.

Alcuni affari ch’esigevano la presenza de’due miei compagni di
Viaggio, gli obbligarono di ritornarsene al lor Paese fra tre giorni, che
io consumai in vedere diversi Morti moderni, i quali da due o tre secoli
addietro, o nella mia Patria, o in altre Regioni dell’_Europa_, una
brillante scena aveano rappresentata. Come sempre io era stato
grand’Ammiratore di tutto ciò che Antiche ed Illustri Schiatte
dinominasi, supplicai il Governatore di scongiurare una o due dozzine di
Re cogli Antenati loro disposti in ordine dalle otto o nove Generazioni.
Orribilmente restai deluso dalla mia espettazione; mercè che in luogo
d’una lunga serie di Diademi, ravvisai in una Famiglia due Suonatori,
tre Cortigiani in buona positura, e un Ecclesiastico. In un’altra, un
Barbiere, un Abate, e due Ecclesiastici di prima sfera. Ed è troppo
grande la mia venerazione per le Teste Coronate, perchè io insista sopra
un argomento così spiacevole. Ma per quanto spetta a’Marchesi,
a’Conti, e a’Duchi, io non sono sì scrupoloso; anzi confessar
degigo, che gradj non poco di vedermi nel caso di poter distinguere il
sentiere che calcato aveano certi Caratteri di Corpo e d’Anima, per
intrudersi in una tale, o tale Famiglia. Con chiarezza potei discernere
donde un tal Casatto ritraesse un mento aguzzo; e per qual ragione un tal
altro, da due Generazioni in qua, non producesse che Furfanti, e che
Pazzi da quattro: Quali fossero le cagioni giustificanti il Motto
espresso da _Polidoro_, _Virgilio_ in proposito d’una certa Razza: Nec
_Vir fortis, nec Fœmina casta_. In qual modo la Crudeltà, la Furberia,
e la Codardia, divenissero marchj caratteristici, co’quali certe
Famiglie sì bene si distinguessero, come per l’Arme loro.

Tutto ciò che io scorgeva, rendevami disgustato della Moderna Storia;
poichè avendo io disaminati, e consultati seriamente tutti coloro che da
un secolo addietro occupati aveano i più eminenti posti nelle Corti
de’Principi, trovai: Che miserabili Scrittori, con isfacciatezza,
aveano ingannato il Mondo, attribuendo, più d’una volta, le più
cospicue guerriere spedizioni a Pusillanimi; i più saggj Consiglj a
Sciocchi; la più nobile sincerità ad Adulatori; una Virtù Romana a
Traditori della loro Patria; della Pietà ad Ateisti, e della veracità a
Querelanti: Che molti Uomini d’un merito il più depurato e il più
distinto, erano stati messi a morte, o cacciati in esilio, per sentenza
d’alcuni Giudici, o corrotti, o atterriti da un Primo Ministro: Che
intriganti, o prostituite Femmine; che Ruffiani, che Parassiti, e che
Buffoni, decidevano bene spesso gli affari delle Corti, de’Consiglj, e
de’Senati più Augusti. Avea io già una pessima idea della prudenza, e
dell’integrità degli Uomini; ma fu ben altra cosa quando restai
informato de’motivi, l’quali i più strepitosi, imprendimenti, e le
più stupende Rivoluzioni son debitrici della loro origine; e altresì
degli accidenti spregevoli onde elleno sono tenute del loro successo.

Ebbi nel tempo stesso l’opportunità di convincermi della presunzione e
dell’ignoranza di quegli Scrittori d’_Anecdoti_, i quali nelle loro
Storie segrete attossicano quasi tutti i Re; ripetono parola per parola
un discorso che un Principe tenne a quattr’occhj col suo Primo
Ministro; an copie autentiche delle instruzioni più recondite degli
Ambasciadori; e pure sono così sgraziati che sempre s’ingannano.
Confessò un Generale, me presente, che un giorno avea egli guadagnata
una vitoria a forza di spropositi e di poltronerie: e un Ammiraglio, che
per non aver avute bastevoli strette intelligenze cogl’inimici, avea
battuta la loro Armata, in tempo ch’egli stava meditando di dar loro
nelle mani la sua. Mi protestarono tre Re, di non aver mai, per tutto il
corso de’loro Regni, cooperato al vantaggio neppur di un sol uomo di
merito, se pure non l’abbiamo fatto senza avvedersene, essendo abusati
da qualche Ministro, in cui confidavano.

Mi prese la curiosità di sapere specificatamente, con quali mezzi si
fossero elevati certi uomini a gran Titoli d’onore, ed acquistate
avessero ricchezze immense, e questa mia curiosità non ebbe già per
oggetti secoli troppo rimoti; comechè, da un altro canto, non
risguardasse nè il mio Paese, nè i miei Compatriotti: verità, ond’io
prego i miei Leggitori d’essere ben persuasi. Essendo dunque state
scongiurate molte persone, che si trovavano nel caso di cui si tratta,
non bisognovvi un grand’esame per iscoprire infamie d’una tal lega,
che il ricordarmele tuttavia m’inorridisce. Lo spergiuro,
l’oppressione, la frode, la suggestione, e il ruffianesimo, erano i
mezzi più onesti, posti da loro in uso, e come eziandio ciò era una
cosa assai vera, rinvenni che queste picciole _indisposizioni_ erano
assai scusabili. Ma quando alcuni confessarono di non dovere la propia
grandezza, e la propia opulenza che a’più spaventevoli misfatti; gli
uni alla prostituzione delle loro mogli, e delle loro figliuole; altri
a’tradimenti praticati al loro Principe, o alla loro Patria; altri
finalmente alla propia perizia nell’avvelenare li loro nemici, o in
ruinar gl’innocenti; mi lufingo che non siasi per pigliar in mala
parte, se scoperte di questa natura abbian fatta smarrire in me una gran
porzione di quel rispetto profondo che naturalmente nodrisco per
Personaggj d’un eminente carattere, e ch’è un tributo dovuto loro da
gente della mia pasta. Sovente io aveva letto che non so quali importanti
servigi erano stati renduti a de’Principi o a degli Stati, e quindi mi
venne il capriccio di conoscer coloro, a’quali questi Stati e questi
Principi avevano l’obbligazione. Dopo una diligente ricerca, mi fu
detto che non erano delineati in verun Registro i loro nomi; se tuttavia
si eccettui un picciol numero d’essi, che la Storia come infami, e come
traditori ha rappresentati. Quanto agli altri; io non aveva inteso mai a
parlarne. Comparver eglino cogli occhj bassi, e meschinissimamente
vestiti; essendo, per la maggior parte, a quel che me ne dissero, morti
in miseria, o lasciata avendo insù d’un palco la loro testa.

Vidi fra’primi un vecchio, la cui storia ha qualche cosa di singolare.
Stava a’fianchi di lui un giovanotto a un di presso di diciott’anni
d’età. Ei mi notificò, d’essere stato per anni molti, Comandante
d’un Vascello, e che nella battaglia navale d’_Aziò_, avea avuta la
buona sorte di gettar a frondo tre de’principali Vascelli nemici, e di
prenderne un quarto; il che era stato la sola cagione della fuga
d’_Antonio_, e della vittoria che funne una conseguenza: Che il giovane
che io vedeva a lato di lui, e ch’era suo Figliuolo unico, era stato
ucciso in tempo dell’Azione. Aggiunse, che terminata la guerra, se ne
andò a _Roma_ per sollecitare un Vascello più grande, il cui Capitano
era restato morto; ma senza che si badasse alle sue pretensioni, il
Vascello richiesto, stato era conceduto ad un Uuomo che non aveva veduto
mai il mare; e il cui merito tutto, in essere Figliuolo di _Libertina_,
Damigella d’una delle Innamorate d’_Augusto_, consisteva: Che in
tempo ch’egli al suo bordo se ne ritornava, fu accusato di mancanza nel
suo dovere; e il suo Vascello stesso fu dato ad un Paggio favorito di
_Poplicola_ il Viceammiraglio: che sopra ciò ei ritirossi a un picciolo
podere assai lontano da _Roma_, ove finì i suoi giorni. Io avea tanta
voglia di saper precisamente la verità di questa Storia, che dimandai
che _Agrippa_, il qual era stato Ammiraglio in quel combattimento, fosse
scongiurato. Ei venne, e mi certificò tutto il racconto; con questa
differenza però, che fece un assai maggior elogio del Capitano; il qual,
per la sua modestia, non avea renduta la necessaria giustizia al propio
suo merito.

Stranamente restai sorpreso che la corruttela fatti avesse progressi sì
rapidi in quell’Imperio, e ciò a cagion del lusso, che non vi si era
intruso che molto tardi: il che produsse che non mi feci le gran
maraviglie nel veder accadere somiglianti avventure in altri Paesi, ove i
vizzi, di qualunque genere, an regnato d’assai più lungo tempo in qua.

Come ognun di coloro ch’erano stati scongiurati, ritenuta avea
perfettamente la figura medesima sotto cui era apparuto nel mondo, con
sensibilissimo crepacuore osservar dovetti, fin a qual segno la Razza
_Inglese_ da un secolo addietro avesse degenerato, e quali cangiamenti
fra noi, la più infame di tutte le infermità prodotti avesse.

Affin di divertirmi da un spettacolo di tanta mortificazione, palesai il
mio desiderio d’aver sotto gli occhi alcuni di quegl’_Inglesi_ di
Roca vecchia, sì famosi un tempo per la simplicità de’loro costumi,
per l’esatta loro osservanza delle Leggi della Giustizia, pel saggio
lor amore verso la Libertà, pel loro valore, e per l’inviolabile
affezionata loro parzialità per la Patria. Non fu che con estremo
commovimento che io paragonai gli vivi co’morti, e che vidi
virtuosissimi Avoli disonorati da’Pronipoti, i quali, in vendendo i
propj suffragj al Favore, o alla Speranza, si sono impeciati di tutti
que’vizzi che contrar si possono in una Corte.



CAPITOLO IX.

Ritorna l’Autore a Maldonada, e fa vela pel Regno di Luggnagg. Vi è
posto prigione, ed è poscia spedito alla Corte. Maniera con cui egli vi
è ricevuto. Clemenza estrema del Re verso i suoi Sudditi.


SOpraggiunto il giorno di nostra partenza, presi congedo da Sua Altezza
il Governatore di _Glubbdubdribb_, e rivenni co’miei due Compagni a
_Maldonada_; ove, dopo una dimora di due settimane, trovammo un Vascello
pronto a mettersi alla vela per _Luggnagg_. I miei due Amici ed altri
diversi Signori, ebbero la generosità di tenermi provveduto del
bisognevole, e d’accompagnarmi a bordo. Fu d’un mese il mio viaggio;
e in cammin facendo; colseci una furiosa burrasca che ci costrinse a
scorrere verso il _Ponente_, per profittare d’un vento stabile che
soffia in que’Mari. Nel ventuno d’_Aprile_ 1709. imboccammo la
Riviera di _Glumegnig_, sulle cui sponde giace una Città del nome
medesimo. A una lega da questa Città calammo l’ancora, e perchè ci
fosse spedito un Piloto, segnali facemmo. In men di mezz’ora ne vennero
due, i quali fra molti scoglj, che rendono assai pericoloso il passaggio,
ci guidarono in un largo Bacino, ove un’Armata intera può starsene al
coperto dalle più violente tempeste.

Alcuni de’nostri Marinaj, o per malizia, o per inavvertenza,
informarono i Piloti che io era un Forastiere, e di più, un insigne
Viaggiatore; il che questi riferirono ad un Uffiziale della Dogana; il
qual, posto ch’ebbi piede a terra, a tutto rigore mi esaminò. Parlommi
colui la favella di _Balnibarbi_, ch’è intesa poco men che da tutti
gli Abitanti di quella Città, a cagione del gran commerzio ch’ella
pratica cogli Abitanti di questo Regno. Gli feci una narrazione succinta,
che al possibile procurai altresì di rendere verisimile; ma a proposito
non giudicai di palesar la mia Patria, bensì _Ollandese_ volli
spacciarmi; perchè mia intenzione si era d’andar al _Giapone_, e
perchè io sapeva che gli _Ollandesi_ sono il solo Popolo
dell’_Europa_, che vi sia ammesso. Con tal oggetto dissi
all’Uffiziale, che io avendo fatto naufragio sulle spiagge di
_Balnibarbi_, era stato ricevuto dentro _Laputa_, o Isola Volante, (di
cui l’Uffiziale stesso più d’una volta inteso avea a parlarne,) e
che allora io pensava di rendermi al _Giapone_; ove, di rinvenire qualche
Vascello sù cui tornarmene potessi al mio Paese, io mi lusingava. Mi
rispose l’Uffiziale, ch’era d’uopo che io me ne restassi
prigioniero, finchè sul mio proposito avesse egli ricevuti ordini dalla
Corte; che sul punto stesso egli andava a scrivervi, e che sperava
d’averne in quindici giorni le risposte. Assegnommisi in carcere un
Appartamento assai propio, con una sentinella alla mia porta; e non
ostante aveva io la libertà di spasseggiare in un giardino assai vasto,
essendo trattato con molta umanità, e spesato in tutto il frattempo dal
Re. Un motivo di curiosità indusse molte persone ad invitarmi in loro
Casa; essendo loro stato riferito che io veniva da molti lontanissimi
Paesi; alcuni de’quali altresì, riuscivano loro onninamente incogniti.

Presi al mio servigio un giovane, il qual s’imbarcò con esso meco per
valermi d’Interprete. Era lui nativo di _Luggnagg_; ma avea passati
alcuni anni a _Maldonada_, e perfettamente bene gli eran congnite amendue
le Lingue. Pel mezzo suo mi trovai in istato d’attaccare conversazioni
con tutti coloro che venivano a visitarmi; ma questa conversazione non
consisteva che in dimande dalla loro parte, e che in risposte dalla parte
mia.

Verso il tempo appunto che speravamo, il desiderato Dispaccio arrivò
dalla Corte. Ei conteneva un Ordine di condur me, e il mio seguito a
_Traldragdubb o Trildraogdrib_, (poichè in due modi intesi a pronunziar
questo termine,) con una scorta di dieci Cavalli. Altro non era il mio
seguito che il Giovane, il qual facevami la funzione d’Interprete, e
che io persuasi di mettersi al mio servigio, e non seguì che a forza di
suppliche, che si accordò a cadaun di noi una Mula, per imprendere più
comodamente il viaggio. Fu ingiunto ad un messaggiere di precederci
d’alcuni giorni, per annunziare il nostro avvicinamento al Re, e per
pregar Sua Maestà d’assegnare il giorno è l’ora onde potessimo aver
l’onore di _leccare la polvere ch’è innanzi alla predella de’piedi
di lei_. Si è questi lo stile della Corte; ed in fatti io provai che era
molto figurata una cotal frase; mercè che due giorni dopo il mio arrivo
accordatamisi l’udienza, fui comandato di strascicarmi carpone, e di
leccar il solajo a misura del mio avanzarmi; ma per essere forestiere, si
ebbe la cura di spazzarlo sì bene, che non ne ricevetti incomodo dalla
polvere. E pure, era questa una grazia particolare, la qual si accordava
a persone del primo carattere, quando il Re volea impartir loro l’onore
della sua presenza. V’ha di più. Spargesi talvolta a bella posta della
polvere sul pavimento; il che avviene allorchè colui che ammesso esser
dee, ha in Corte nemici possenti. Vidi io stesso un gran Personaggio, la
cui bocca n’era. sì piena, che quando strisciato ei si fu perfino al
luogo che conveniva, fugli impossibile di profferire una sola parola. Il
peggio si è, che non vi ha rimedio per una tale inconvenienza;
imperocchè egli è un capitale delitto degli introdotti all’Udienza
del Re lo sputare o il forbire la bocca in presenza di Sua Maestà. Evvi
eziandio a quella Corte un’altra costumanza, che io approvar non
saprei. Quando il Principe ha il disegno di far morire qualche gran
Signore d’una morte dolce, e che abbia un so che d’obbligante, ordina
di spargersi sopra il solajo una certa venenata polvere; che essendo
leccata infallibilmente in venti e quattr’ore uccide: Ma per rendere
giustizia all’estrema clemenza di Sua Maestà, e alle sollecitudini di
tenerezza ch’ella ha per la vita de’suoi Suggetti, nel che sarebbe a
desiderare che i Monarchi dell’_Europa_ si compiacessero d’imitarla,
è forza che io dica, che quando qualche Personaggio ha goduto del mortal
onore di leccare un poco di questa polvere, ingiugne il Re gli ordini
più precisi perchè il pavimento sia ben lavato: Che se i suoi Domestici
non eseguiscono con esattezza i suoi ordini, sì espongono alla collera,
e all’indignazione di lui. Io lo intesi, lui medesimo, a comandare che
si scopasse un Paggio, a cui toccava d’avvertir coloro che dopo
un’esecuzione il Solajo spazzar doveano, ma che per malizia l’avea
trascurato: trascuranza che cagionò, che un giovane Signore di
grand’espettazione, ammesso che fu all’Udienza restasse
sgraziatamente attossicato; tutto che in quel tempo non avesse Sua
Maestà il divisamento di farlo morire. Ma sì buono fu quel Monarca, che
rimise al Paggio la pronunziata leggiera punizione, con la promessa che
questi fece di guardarsi per altre volte da somiglianti sbagli, purchè
non ne ricevesse un ordine preciso.

Lusingomi che un tratto sì singolare di clementissimo procedimento,
obbligherà il Leggitore a menarmi buona una tal digressione.

Strisciato che mi ebbi perfino alla distanza di quattro verghe dal Trono,
mi dirizzai ginocchione; e dopo d’aver battuta per sette volte colla
mia fronte la terra, pronunziai le parole seguenti, tali che io aveale
apprese la notte innanzi: _Ickpling Glofftrobb squutserumm blhiop
Mlashnalt, zvvin, tnodbalkguffh slhiophad Gurdlubb Asth_. Questi si è il
complimento prescritto dalle Leggi a tutti que’an l’onore di salutare
il Re. Potrebbesi renderlo con questi termini Franzesi: _Puisse Votre
Majeste Celeste vivre plus long-temt que le Soleil, onze Lunes & demie_;
cioè: _Possa Vostra Celeste Maestà sopravvivere al Sole per undici Lune
e mezzo_. Mi fece il Re una brieve risposta; alla quale, tutto che non ne
comprendessi il senso, co’seguenti termini fattimisi imparar a memoria,
io replicai: _Flust drin Yalerick Dvvuldom prastrad mirpush_; il che vuol
dire: La mia lingua è nella bocca del mio Amico: e con ciò significar
volli che io desiderava che il mio Interprete fosse introdotto. Se pe
compiacque il Re; e pel mezzo di quest’Interprete, soddisfeci alle
quistioni statemi proposte per lo spazio d’una buon’ora da Sua
Maestà. Io parlava la favella di _Balnibarbi_, e il mio Interprete
rendeva i miei discorsi in quella di _Luggnagg_. Non fu mediocre il
piacere del Principe in questa spezie di conversazione; ed egli ordinò
al suo _Bliffmarklub_, o gran Ciamberlano, d’aver cura che
l’Interprete ed io fossimo alloggiati in Corte, e non mancassimo di
cosa veruna.

Fu di tre mesi il mio soggiorno in quel Paese; e ciò per compiacenza pel
Re, il qual mostrava di desiderare che mi fermassi per lungo tempo, e che
mi fece le più onorevoli esibizioni per ritenermi. Ma io credei che
fosse più conforme alle regole della prudenza e della giustizia, il
passare il rimanente de’miei giorni con la mia moglie, e co’miei
Figliuoli.



CAPITOLO X.

Elogio de Luggnaggiani. Particolar descrizione degli Strulbdruggs, con
molte conversazioni fra l’Autore ed alcune persone del primo carattere,
su questo suggetto.


NON vi ha Nazione più colta e generosa quanto quella
_de’Luggnaggiani_; e tutto che non sien eglino affatto esenti da quello
spirito d’orgoglio che in quasi tutte l’Orientali Nazioni
distinguesi; non ostante, generalmente parlando, non lasciano d’essere
umanissimi a riguardo degli Stranieri, Buona sorte per me, che io godeva
dell’intima amistà di molti Signori della Corte; cosicchè tenendo
sempre al mio canto l’Interprete, non erano disaggradevoli i nostri
trattenimenti.

Un giorno, in un’assai numerosa ragunanza, mi ricercò una persona di
qualità se veduto avessi qualcuno de’loro _Struldbruggs_, o sieno
Immortali. Le risposi che nò: e mostrai di desiderar di sapere in qual
senso si potesse applicare a una mortal Creatura un somigliante titolo.
Replicò quel Signore; che tal volta, comechè di rado, nascean fra loro
de’pargoletti con un marchio rossigno, e d’una circolar figura sopra
la fronte, direttamente al di sopra della sinistra palpebra, il che era
un segno infallibile d’immortalità. Aggiunse; che da principio era
picciolissima questa macchia, ma che a misura del crescere del bambino,
ella ingrandiva, ed eziandio di color cangiava: che da’dodici perfino
a’venti e cinque anni d’età, ella era verde, poscia cerulea oscura;
e sugli anni quaranta e cinque, nera come carbone; dopo di che, più non
pativa cangiamento di sorta. Son sì rari, ei proseguiva, cotali
nascimenti, che non credo che per tutto il Regno siavi una maggior somma
di mille e cento _Struldbruggs_ dell’uno e dell’altro sesso: Che
simili produzioni non erano peculiari di certe Famiglie, bensì un puro
effetto dell’accidente; e che i figliuoli degli _Struldbruggs_ erano
suggetti al cessar dal vivere, del pari che gli altri Mortali. Confesso
che un tal racconto cagionò in me un piacere che non può esprimersi; e
come venivami fatto da persona che intendeva il linguaggio di
_Balnibarbi_ ond’io parlava assai bene, ritenermi non potei da diverse
esclamazinni alquanto, forse, stravaganti. Come rapito fuor di me stesso
mi messi a gridare: O beato Popolo, ove ciascun pargoletto potè, per lo
meno, nascere Immortale. O Nazione beata, innanzi agli occhi di cui son
posti in o ostra tanti vivi esempi dell’antica Virtù; e che strigne
nel propio seno de’Maestri pronti ad instruirla nella saggezza di tutti
i secoli! Ma o mille e mille volte più beati ancora questi ammirabili
_Struldbruggs_, che nascono immuni dal più spaventevole di tutti mali; e
le cui anime dall’orribile terror della morte non sono continuamente
agitate! Diedi indizi di qualche mio stupore di non aver veduto veruno di
quegli Illustri Personaggi alla Corte; mercè che un marchio nero sopra
la fronte ha in se qualche cosa d’assai notabile, perchè immediate non
me ne fossi avveduto; e immaginandomi, d’altra parte, ch’era
impossibile che Sua Maestà, come giudiziosissimo Principe, non ne avesse
scelto un buon numero, per servirle di Consiglieri. Ma, continuava io,
può essere che questi venerabili Saggi respirar non vogliano un’aria
così corrotta come quella della Corte; oppure, che troppo non si badi
a’loro consigli; come fra noi veggonsi de’Giovanastri troppo vivaci e
troppo poco docili, per lasciarsi reggere dalla prudenza di qualche
Vecchio: Che ne fosse in tal proposito; poichè permettevami talvolta il
Re d’inchinarlo, io era risoluto di dichiarargli con libertà e
stesamente, a primo incontro, il mio sentimento, con l’assistenza del
mio Interprete; e fosse ch’egli ne profittasse o no, stava io
d’intenzione di risegnarmi alle replicate offerte di Sua Maestà, e di
passar i giorni che mi restavano, nel Paese di lei, affin di divenir più
saggio, e di migliorar pel commerzio de’suoi Esseri superiori, onde
venivami data contezza, se pure si compiacesser eglino d’accordarmi la
loro civil Società. Il Gentiluomo, al quale io avea indiritto questo
discorso, (essendo che, come già l’avvertì, ei parlava la favella di
_Balnibarbi_) mi disse con quella sorta di sorriso che cava a forza la
compassione che si ha per l’ignoranza; ch’ei gioiva, perchè vi si
rinvenisse qualche cosa che fosse valevole a ritenermi fra loro; e che mi
pregava di permettergli ch’egli spiegasse alla Compagnia ciò che
testè io gli avea detto. Ei lo fece: e que’Signori disputarono qualche
tempo insieme in loro lingua, senza che io ne intendessi neppur parola,
nè che accorgermi potessi qual impression sopra loro fatta avesse il mio
ragionamento. Dopo un silenzio d’alcuni instanti, il Signor medesimo mi
dichiarò, che i suoi Amici ed i miei (furon questi i precisi suoi
termini) stavano incantati dalle giudiziose riflessioni che io avea fatte
sopra gli avvantaggi d’una vita immortale; e che desideravano che io
palesassi loro in un modo alquanto specifico, a qual metodo di vivere
appigliato mi sarei, se avuta avessi la buona sorte di nascere
_Struldbrugg_.

Io risposi, che non era cosa molto difficile d’essere eloquente sopra
un sì bello, e sì ricco argomento; e in ispezieltà per me, che allo
spesso mi era divertito in pensare cosa facessi, se fossi un Re, un
generale, un gran Signore: Che quanto al caso proposto; più d’una
volta io avea riflettuto sopra la maniera del passar il mio tempo se
fossi assicurato di non aver a morire.

Che se avessi avuta la fortuna di nascere _Struldbrugg_, immediate che
conosciuto avessi l’eccesso della mia felicità, mi sarei a prima
giunta valuto di qualunque mezzo per acquistare ricchezze: Che a forza
d’industria e d’applicazione avrei potuto in men di due secoli
divenir uno de’più opulenti Particolari del Regno: In secondo luogo;
che fin dalla più fresca mia giovinezza, procurato avrei di
perfezionarmi in tutte le Scienze, affin di superare, un giorno, in
abilità, e sapere tutti gli uomini del Mondo: Finalmente, che io
registrerei in iscritto con tutta la diligenza cadaun ragguardevole
avvenimento, della cui verità io instruito ne fossi: Che senz’alcuna
ombra di parzialità delinearei gli Caratteri de’Principi, e de’più
rinomati Ministri di Stato, di Successori in Successori: Che distinguerei
esattamente i diversi cangiamenti che accadessero nelle costumanze, nel
linguaggio, nelle mode, e ne’divertimenti del mio Paese, e che con
questi mezzi io mi lusingherei di costituire me stesso come in tesoro
vivente di conoscenze, e di saggezza; e altresì come l’Oracolo della
mia Nazione.

Pervenuto che fossi a’sessant’anni d’età, diceva io in proseguendo
il mio discorso, più non penserei ad ammogliarmi, ma praticherei,
comechè con ritegno, le Leggi dell’Ospitalità.

Mi terrei occupato nel formare lo spirito e il cuore d’alcuni Giovani
di grande speranza, convincendogli con le mie osservazioni e con numerosi
esempi, dell’utilità, e dell’eccellenza della Virtù: Ma sceglierei
in miei compagni perpetui, degli Immortali al pari di me, fra quali
sarebbevi una dozzina de più Anziani, che vorrei Amici di tutta
intrinsichezza: Se taluni di questi non si trovassero in uno stato
opulento, gli alloggerei in mia casa, ed alcuni ne terrei continuamente
alla mia mensa; alla quale non sarebbe ammesso che un picciol numero di
voi altri Mortali, che io risguarderei con l’occhio medesimo, come un
uomo nel suo giardino risguarda l’annual successione de’Tulipani e
de’Garofani: i fiori ch’ei vede l’allettano, per qualche tempo, ma
non fanno ch’ei si prenda fastidio di quegli dell’anno innanzi.

Gl’immortali miei Compagni ed io, cui comunicheremmo scambievolmente le
nostre osservazioni, e studieremo sopra le differenti maniere con cui
intrudesi nel Mondo la corruttela; affin di preservarne gli Uomini con
sagge lezioni, e con l’Ascendente del nostro esempio; Rimedj, che,
secondo tutte le apparenze, impedirebbono quella depravazione
dell’umana Natura, di cui l’Età tutte, con tanto giusto motivo, si
son querelate.

A ciò il diletto aggiugnete di ammirare le più stupende Rivoluzioni di
Stato; Città antichissime discioglientisi in ruine: oscuri Vlllagj
divenenti Capitali d’Imperi; famose Riviere cambiate in meschini
Ruscelli; l’Oceano che lascia un Paese a secco per ricoprirne un altro
con le sue onde: le Scienze fondando la loro Sede in certe Regioni, ed
alcuni secoli dopo, mostrando d’averle abbandonate per sempre. Allora
sì che potrei promettermi di veder il giorno, in cui si rinvenisse la
_Longitudine_, il _Moto Perpetuo_, e la _Medicina Universale_, ed
eziandio molti altri bellissimi ritrovamenti.

Quali magnifiche discoperte non sarebber le nostre in Astronomia,
sopravvivendo alle più remote predizioni, ed osservando i periodici
ritorni delle Comete, e tutto ciò che al movimento del Sole, della Luna,
e delle Stelle, ha rapporto!

Ciò non fu che l’Esordio. Il mio amor per la vita rendè assai più
lunga la continuazione del mio discorso. Finito ch’ebbi spiegati che
furono miei sentimenti, come prima, al resto della Compagnia, parlò
questa fra se qualche tempo, e parvemi che a mie spese ridesse alquanto.
Finalmente, il Gentiluomo medesimo che mi avea servito d’interprete,
disse ch’egli era incaricato dagli altri Signori di farmi ravvedere
d’alcuni errori, in cui l’ordinaria debolezza della Natura umana
aveami fatto incorrere: Che quella razza di _Struldbruggs_ era
particolare del lor paese, giacchè non aveavene nel Regno di
_Balnibarbi_, nè nell’Imperio del _Giapone_, ov’egli goduto avea
dell’onore d’essere Ambasciadore di Sua Maestà, e che avea trovati i
Naturali dell’uno e dell’altro sesso di quelle Regioni così
increduli sull’articolo degli _Struldburggs_, come io stesso l’avea
paruto: Che ne’due mentovati Imperj, ove per molto tempo gli avea
sogiornato, la brama di lungamente vivere, era una brama universale: Che
chiunque teneva un piede nella tomba, procurava al possibile di ritirare
l’altro: Che il più decrepito speravavi di vivere ancora un giorno, e
risguardava la morte come la più atroce di tutte le miserie: ma che
nell’Isola di _Luggnagg_ il desiderio della vita non era sì ardente,
perchè di continuo si aveva dinanzi agli occhj l’esempio degli
_Struldbruggs_.

Che il propostomi metodo di vivere era ingiusto ed irragionevole,
supponendo una eternità di giovinezza, di sanità e di vigore, che chi
che sia, per quanto fosse pazzo, e stravagante in genere di voti,
promettersi non saprebbe: Che per conseguenza, non si trattava di sapere
se un uomo bramasse d’essere sempre giovane, e sempre felice; bensì
com’egli passasse una vita senza fine, suggetta alle incomodità, che
sono della vecchiaja il patrimonio ordinario. Mercè che, soggiugneva
egli tutto che pochi uomini confessar volessero, che bramerebbero
d’essere immortali anche a sì dure condizioni; osservai, non ostante,
negl’lmperj di _Balnibarbi_, e del _Giapone_, che ognuno è sollecito
di licenziare la morte per quanto tardi ella venga; e quasi mai non vidi
esempj d’Uomini che morissero volontarj, se pure da eccessive
afflizioni non vi sieno stati indotti. Ed io mi appello alla vostra
coscienza, se ne’Paesi, ove viaggiato avete non vi sia accaduto di
notare la cosa medesima.

Dopo questa prefazione, ei s’introdusse in uno specificato racconto in
proposito agli _Struldbruggs_. Disse ch’essi operavano come gli altri
Uomini perfino all’età di trent’anni; dopo di che si ravvisava in
loro una spezie di tristezza che aumentava di giorno in giorno, perfino
agli anni ottanta: Ch’egli ciò sapeva a confessione stessa di loro;
imperciocchè, come ciascun secolo non nel produce che due o tre di
questa spezie, non è sufficiente un tal numero per fare una generale
osservazione: Passati che anno gli ottant’anni d’età, il che per gli
altri Abitanti di quel Paese è l’ultimo termine, non solamente
soggiaccino a tutte le follie, e a tutte l’infermità degli altri
Vecchj, ma eziandio a certi diffetti che nascono dalla terribile certezza
della loro Immortalità. Non solo sono vani, ostinati, avari, di cattivo
umore, e chiacchieroni, ma altresì sono incapaci interamente
d’amicizia. Invidia ed impotenti desiderj sono le loro ordinarie
passioni. Ma gli oggetti, contra de’quali in ispezieltà scatenasi la
lor gelosia, sono i vizj de’Giovani, e la morte de’Vecchj. Col
riflettere sopra i primi, si trovano esclusi insino dalla possibilità di
poter gustare in verun tempo d’alcun piacere; e quando scorgono un
mortorio, si querelano che altri sieno entrati in un Porto, ove essi
medesimi non potranno mai pervenire. Di niente più si rammentano che di
ciò che anno osservato ed appreso in lor gioventù; e quest’anche
molto imperfettamente. E per quello concerne la certezza, o le
particolarità di qualche avvenimento, può farsi più fondo sulle comuni
Tradizioni, che sopra le migliori loro Memorie. I men miserabili fra
quegli eterni Vecchioni son que’che an la sorte d’essere vaneggianti,
e assolutamente smemoriati; poichè più non essendo impeciati di quelle
pessime qualità che rendono odiosi gli altri, più agevolmente inclinasi
ad aver compassione di loro, e a recar loro soccorso.

Se uno _Struldbrugg_ prende in isposa una Donna immortale come lui, non
dee sussistere il maritaggio che perfino che il più giovane de’due sia
pervenuto agli ottant’anni d’età, asserendo le nostre Leggi ch’è
cosa giusta, che colui, il qual senza sua colpa e condannato alla pena di
starsene eternamente sopra la terra, non sia costituito doppiamente
sgraziato, per avere una moglie eterna.

Immediate che ottant’anni essi contano, la Legge gli reputa come morti;
i loro Eredi metton le mani sopra i loro Beni, se si eccettui una
leggiera porzione che riserbasi pel loro mantenimento; e i poveri fra
loro restano a carico del Pubalico. Dopo questo periodo, sono incapaci
d’esercitar verun Posto; e in una Causa o civile, o criminale, non si
ammettono per testimonj.

Agli anni novanta, cascano loro gli capelli ed i denti; essi non saporano
cosa veruna, ma mangiano e beono senz’appetito e senza gusto, e le loro
ordinarie infermità camminano col solito passo senza crescere, nè
sminuire. In parlando, dimenticano i nomi più comuni delle cose, del
pari che quegli delle persone, quando pur queste fossero gli Amici loro
più intimi, o i più prosimi loro Congiunti. Per la ragione medesima non
potrebbono mai tenersi occupati nella lettura, perchè è sì poco ferma
la loro memoria, che in una sola frase più non si ricordano del
principio quando ne leggono il fine: Disgrazia, che dell’unico
divertimento onde capaci sarebbono, gli tiene privi.

Essendo il Linguaggio molto suggetto al cangiamento, gli _Struldbruggs_
d’un secolo non intendono que’d’un altro; e superata che anno
l’età di dugent’anni, sono inabili legar conversazione co’Vicini
loro, gli Mortali; il che lor inferisce il discapito d’essere come
Stranieri nella propria Patria.

Fu questi per quanto posso rammentarmene, il racconto che il Gentiluomo
mi fece in proposito agli _Struldbruggs_. Ne vidi poscia cinque o sei di
differenti età, ma che il più giovane non era vecchio che di due
secoli. Gustai pure di trattenermi alcune ore con due o tre di loro; ma
tutto che si avesse lor detto che io era un gran Viaggiatore, e che io
avea veduta la maggior parte della Terra, non ebber eglino la menoma
curiosità di farmi quistione di sorta, e furon paghi di chiedermi uno
_Slum Kudask_, o contrassegno di memoria il che è una onesta maniera di
domandar la limosina, senza che la Legge, che il divieta, resti
apertamente violata.

Ognuno gli odia e gli dispregia; e la nascita d’uno d’essi, spacciasi
per un funesto presagio. Il miglior modo di sapere la loro età si è,
d’interrogargli di qual Re, o di qual Personaggio illustre si
ricordino, e dopo ciò di consultarne la Storia; imperciocchè egli è
certo, che quand’essi avevano ottant’anni, l’ultimo Principe, di
cui conservata aveano la rimembranza, non avea per anche cominciato a
regnare.

Il loro aspetto è il più disgustoso di tutti gli spettacoli, e più che
gli Uomini, recano orrore le loro Femmine. Oltra le difformità già
troppo comuni a un’età decrepita, anno un non so che di particolar
laidezza, che sempre aumenta cogli anni, e ch’è imposibile di
descrivere. E a questo proposito vantar mi posso, che fra una mezza
dozzina di _Struldbruggs_ io distinsi a prima giunta il più vecchio,
tutto che non vi fosse più che dugent’anni di differenza.

Assai facilmente crederà il Leggitore che ciò che io aveva inteso;
scemasse di molto in me la brama di viver sempre. M’arrossì delle
stravaganti visioni nelle quali io era incappato; e restai persuaso che
il Tiranno più barbaro durerebbe fatica ad inventare un genere di morte,
a cui non mi contentassi di soggiacere, per dar fine ad un somigliante
vivere. Fu riferito al Re tutto ciò che si era passato fra me e gli
Amici miei su quest’articolo. Compiacquesi il Principe di farmi
l’onore di motteggiarmene, dimandandomi se io gradissi di trasportare
nel mio Paese un pajo di _Struldbruggs_ per armare i miei Compatriotti,
contra il terror della morte; ma sembra che ciò si proibisca dalle Leggi
fondamentali del Regno; che senza questo, assai volontieri fatta avrei la
spesa del trasferirgli. A confessar fui costretto che le Leggi di quella
Nazione, per quello spetta a gli _Struldbruggs_ erano fondate sopra
solidissime ragioni; e tali, che qual siasi altro Paese sarebbe obbligato
di adottarle, se nel suo seno somiglianti Uomini nutricasse. Altrimenti,
come l’Avarizia è una passione in qualche modo essenziale alla
Vecchiezza, diverrebbero quegl’Immortali, col tempo, possessori di
tutti i Beni della Nazione, ed usurperebbero tutta l’Autorità; donde
ne avverrebbe, che mancando di talenti per far un buon uso del potere che
avessero fra le mani; il Governo, ond’essi sarebbono gli sostegni, ben
presto sopra le sue fondamenta crollerebbe.



CAPITOLO XI.

L’Autore lascia Luggnagg, e va al Giapone: donde sopra un Vascello
Ollandese si restituisce ad Amsterdam, e d’Amsterdam in Inghilterra.


CRedei che questa narrazione degli _Strulbdruggs_, non fosse per riuscire
spiacevole a’Leggitori, non rammentandomi di aver mai veduta qualche
cosa di somigliante in alcun libro di Viaggj che siami caduto alle mani.
Che se un tal tratto Storico non e sì nuovo per chi legge, come mel sono
immaginato, trarrò la mia Apologia dalla necessità in cui si trovano
que’Viaggiatori che descrivono un Paese medesimo, di raccontar le
medesime particolarità, senza che per questo si possa accusargli
d’essersi gli uni cogli altri ricopiati.

Fra gli Abitanti di questo Regno, e i _Giaponesi_, si pratica un perpetuo
commerzio; ed è probabilissimo, che gli Autori del _Gibone_ potuto
avrebbono somministrarmi alcuni lumi concernenti gli _Strulbdruggs_; ma
sì brieve fu il mio soggiorno in quell’Imperio, e sì poco mi era
cognita quella favella, che di chiedere o di ricevere qualche
rischiaramento, impossibile mi riuscì. Ma mi lusingo che la lettura del
mio Libro inspirerà in qualche _Ollandese_ la curiosità d’accrescere
su quest’argomento le informazioni.

Il Re di _Luggnagg_, avendomi molte volte sollecitato d’accettar
qualche impiego nella sua Corte, e trovandomi costantissimo nel disegno
di ritornarmene alla mia Patria, mi accordò la partenza, e diedemi una
Lettera di raccomandazione, scritta di suo propio pugno, per
l’Imperador del _Giapone_. Mi regalò eziandio di quattro cento
quaranta e quattro grosse monete d’oro, (amando assai quella Nazione i
numeri pari,) e d’un Diamante che vendei in _Inghilterra_ mille e Venti
Ghinee.

Il sei di Maggio 1709. presi solennemente congedo da Sua Maestà, e da
tutti gli Amici miei. Ebbe la bontà quel Principe di comandare che un
distaccamento di sua Guardia scortassemi fin a _Glanguenstald_ ch’è un
porto di Mare situato al _Libeccio_ dell’Isola. Sei giorni dopo il mio
arrivo, fuvi un Vascello lesto a levar l’ancora pel _Giapone_, e in
quindici giorni quel tragitto facemmo. Prendemmo terra a una picciola
Città marittima nominata _Xamoschi_, e posta allo _Scilocco_. Mostrai
immediate agli Uffiziali della Dogana la Lettera del Re di _Luggnagg_ per
Sua Imperial maestà.

Conoscevan eglino perfettamente bene il suggello di quel Monarca,
ch’era della larghezza della palma della mia mano. Rappresentava questo
suggello _un Re che levava di terra un Povero storpiato_. I Magistrati
della Città instruiti che io avea una Lettera per l’Imperadore, mi
riceverono come un Pubblico Ministro, e furon solleciti di provvedermi di
Domestici per servirmi, e di Vetture pel trasporto del mio bagaglio a
_Yedo_; ove fui introdotto all’udienza, e consegnai la mia Lettera, che
con gran cerimonia si aprì, e spiegossi da un Interprete
all’Imperadore, il qual Interprete mi disse per parte di Sua Maestà,
che se io aveva ad umiliar qualche supplica, poteva io andar assicurato
del buon accoglimento, in considerazione del Re di _Luggnagg_. Da molto
tempo quest’Interprete era stato impiegato negli affari degli
_Ollandesi_: facilmente ei si lasciò intendere che io era _Europeo_; e
per tal ragione espresse in _ollandese_, ch’ei parlava a perfezione,
ciò che l’Imperadore testè detto avea. Conformemente alla risoluzione
che io ne avea presa, risposi d’essere un Mercatante d’_Ollanda_ che
avea fatto naufragio sulle spiagge d’un’assai rimota Regione; donde,
in parte per Mare, e in parte per terra m’era renduto a _Luggnagg_, e
quindi al _Giapone_, ove io sapeva, che i miei Nazionali spedivano
sovente de’Vascelli; sopra un de’quali io avea sperato di ritornamene
nell’_Europa_: Che per tal effetto umilissimamente io supplicava Sua
Maestà di dar ordine che fossi condotto escortato fino a _Nangesac_: Che
a questa grazia, per l’amore del Re di _Luggnagg_ mio Signore,
compiacessesi ella d’aggiugnerne un’altra; la qual era di dispensarmi
dalla cerimonia imposta a’miei Compatriotti di _calcare co’piedi la
Croce_; mercè che, non il disegno di fare qualche commerzio; bensì il
mio infortunio, condotto aveami nel Paese di lei. Spiegata che fu
quest’ultima richiesta all’Imperadore, ei parve alquanto sorpreso; e
disse, che pensava che io fossi il primo de’miei Paesani, che in nessun
tempo fatto abbia su quest’articolo qualche difficoltà; e che a
dubitar cominciava che io fossi un _Ollandese_; ma che piuttosto io dava
indizj, e sospetti d’essere un CRISTIANO. Che non ostante, per motivo
delle mie allegate ragioni, e principalmente per amicizia pel Re di
_Luggnagg_, egli si uniformerebbe alla _singolarità_ del mio umore; ma
che l’affare dovea essere maneggiato son gran destrezza, e che
sarebbono comandati; suoi Uffiziali di lasciarmi passare come per
inavvertenza. Colla voce del mio Interprete rendei mille grazie per un
favore sì segnalato; e trovandosi allora in marcia per _Nangesac_ alcune
Truppe, l’Uffizial Comandante ebbe l’ordine di condurmivi, con alcune
iastruzioni sopra l’affare della _Croce_.

Dopo un assai lungo, e altresì più incomodo Viaggio, pervenni li 9.
Giugno 1709. a _Nangesac_. Guari non istetti a far conoscenza con alcuni
Marinaj _Olandesi_ d’un Vascello nominato _Amboine_, di quattrocento e
cinquanta botti. Molto tempo io era vissuto in _Olanda_, proseguendo i
miei studi a _Leive_, e parlava assai bene in _Fiamingo_. Furono i
Marinaj ben presto instruiti donde ultimamente venissi, ed ebbero la
curiosità di chiedermi la Storia della mia vita, e le circostanze
de’miei Viaggi. Feci loro un compendiato, probabile e poco sincero
racconto. M’eran note molte persone in _Olanda_; e disagevole non mi
riuscì d’inventare Nomi supposti per miei parenti, che dissi esser
poveruomini della Provincia di _Gueldria_. Di buona volontà dato avrei
al Capitano (che dicevasi _Teodoro Van Grult_) tutto ciò ch’egli mi
avesse dimandato pel mio trasporto in _Ollanda_; ma intesa ch’egli ebbe
la mia professione di Chirurgo, si contentò della metà del consueto
Nolo, con patto che gli servissi in tal qualità per tutto il corso del
Viaggio. Avanti d’imbarcarci, alcuni della Ciurma mi chiesero sovente
se la Cerimonia da me mentovata, adempiuta avessi? Scansaimi dalla
quistione con vaghe risposte, dicendo che io avea eseguito tutto ciò che
mi era stato ingiunto dall’Imperadore. Con tutto questo; un furbo
briccone di Marinajo rivoltosi a un Uffiziale, e mostrandomi a dito, si
lasciò intendere che io non avea per anche _calcato il Crocefisso
co’piedi_: ma l’Uffiziale, a cui era stato ingiunto di non darmisi
fastidio di sorta, regalò il furfante d’una buona dose di bastonate, e
di là innanzi non restai più esposto a somiglianti quistioni.

Nulla accaddemi per tutto il Viaggio, che degno sia di veruna narrazione.
Profitammo d’un buon vento in puppa perfino al _Capo di Buona
Speranza_, dove d’acqua dolce ci provvedemmo. Ai sedici di Marzo 1710.
calammo l’Ancora sani e salvi ad _Amsterdam_, non avendo perduti che
tre Uomini di malattia, e un quarto, che vicino alle spiagge della Guinea
era caduto in Mare dall’albero di Maestra. Dopo d’essermi fermato in
_Amsterdam_ alcuni giorni, m’imbarcai per _Inghilterra_ sopra un
picciolo Vascello che a questa Città apparteneva. A’dieci Aprile demmo
a fondo alle _Dunes_. Il giorno dietro misi piede a terra, ed ebbi il
piacere di riveder la mia Patria dopo un’assenza di cinqu’anni e
mezzo. Fui in mia casa il giorno medesimo; e mia Moglie e i miei
Figliuoli in buona consistenza ritrovai.


Fine della Terza Parte.



VIAGGIO
AL PAESE
DEGLI HOUYHNHNMS.

PARTE QUARTA.


CAPITOLO I.

In qualità di Capitano d’un Vascello imprendesi dall’Autore un
Viaggio. La sua Ciurma cospira contra di lui; per qualche spazio di
tempo, il tiene sequestrato nella di lui Camera, e il mette a terra in un
Paese medesimo. Descrizione a’uno strano animale nominato Yahoo. Due
Houyhnhnms sono riscontrati dall’Autore.


CInque mesi incirca soggiornai in mia casa con mia moglie, e co’miei
figliuoli: e beato me, se saputo avessi far capitale della mia felicità:
Lasciavi incinta la mia sposa, ed accettai un’offerta di mio gran
vantaggio d’essere Capitano dell’_Arrisicato_, Vascello di
Mercatanzia di trecento cinquanta botti; essendo che, io era molto perito
nella navigazione: E perchè mi trovava assai infastidito dell’impiego
di Chirurgo sul mare, (impiego tuttavia, onde io sì assolutamente non
rinunziava che non fossi pronto a riassumerlo a tempo e luogo,) impegnai
in questa figura un certo _Roberto Curefoy_, giovane di grande abilità
nella sua Professione. Il secondo di Settembre 1710. mettemmo alla vela
da _Portsmouth_, e il quattordici riscontrammo il Capitan _Pocock_
indiritto al Porto di _Campeche_ per tagliarvi legna del medesimo nome.
Il sedici, una tempesta ci separò da lui, e al mio ritorno restai
informato che’il suo Vascello era piombato a fondo; e che di tutta la
sua Ciurma un solo mozzo dal naufragio scappò. Era un galantuomo e un
bravo marinajo questo Capitano, ma un po troppo tenace nella sua
opinione; ciò essendo stato l’unica cagione della perdita di lui, come
il fu d’altri molti; posciacchè se egli avesse seguito il mio
consiglio, a quest’ora forse il troverebbe, come me, sano, e salvo fra
la sua famiglia.

Tanti uomini mi furon rapiti dalla malignità delle febbri, che fui
costretto di poggiare alle _Barbades_, per praticarvi nuove reclute: ma
ripentirmi dovei ben presto della mia scelta; giacchè quasi tutti coloro
che presi sopra il mio bordo, erano perduta. In venti cinque marinaj
consisteva tutta la mia Ciurma; e ingiugnevami le mie commissioni di
trafficare cogl’Indiani del _Mare d’Ostro_, e di procurare qualche
nuova scoperta. Quegli sciaurati subornarono il resto de’miei, e tutti
insieme, il disegno d’impadronirsi del mio Vascello formarono: disegno,
che un bei mattino mandarono ad effetto, gettandosi all’improvviso
nella mia camera, e legandomi mani e piedi, con minaccia di lanciarmi in
mare al menomo segno di mia resistenza. Dissi loro che mi risegnava in
prigioniero, e che la più compiuta sommessione io lor prometteva.
Vollero essi che col giuramento io ratificassi una tal protesta; dopo di
che mi slegarono, ma non già un braccio, che con una catena appiccarono
al mio letto, appostando sul mio uscio un Archibusiere, con ordine di far
fuoco sopra di me se dessi indizio di volere sciormi. Mi tennero
provveduto del mio alimento, e s’incaricarono del governo del Vascello.
Lor intenzione si era di corseggiare contra gli _Spagnoli_; ma non si
potea ciò eseguire se non con un rinforzo d’uomini. Prima però di
nulla imprendere, disegnavan eglino di smaltire le Mercatanzie della
Nave, e poscia d’indirizzar la prua a _Madascar_ per farvi delle
reclute; essendo morti alcuni di loro dopo che a starmene in camera mi
costrignevano. Questa spezie di carcere durò alcune settimane; nel cui
termine, fecero commerzio cogl’_Indiani_, senza che io sapessi quale
corsa prendessero; essendo io strettamente custodito, ed aspettando ad
ogni momento che mandassero ad effetto la minaccia d’uccidermi, che
regolarmente mi veniva fatta otto o dieci volte al giorno.

Il 9. Maggio 1711. venne a vedermi un certo _Jacopo Vvelch_, e disse
d’aver ordine di mettermi a terra. Tutto feci per muoverlo a
compassione co’miei scongiuri; ma il tutto in vano; stendendo colui la
sua barbarie persino a ricusarmi di palesar solamente il nome del nuovo
lor Capitano. Eseguita ch’ebbe la sua commissione, egli e i suoi
compagni mi forzarono di calarmi nel Caicco, permettendomi d’aver
indosso il miglior vestito, di prender meco un picciolo fagotto di
pannilini, ma non già arme di sorta, se eccettuisi la mia spada: furono
eziandio così onesti che non visitarono le mie tasche, in cui tutto il
mio dannajo, ed alcune altre cosuzze riposto io avea. Vogarono a un di
presso per una lega, e di poi mi abbandonarono sulla spiaggia. Gli
supplicai a mani giunte di dirmi in qual paese mi trovassi; ma mi
protestarono tutti che sì poco il sapevano come me; ed aggiunsero, che
il Capitano (com’essi il chiamavano) preso avea l’espediente, dopo
d’essersi disbrigato delle merci, di mettermi a terra sul primolido che
discoprissimo. Nel così dire, si staccarono da me, lasciandomi come per
un addio l’avvertimento, che io non volea farmi sorprendere dalla
marea, avrei fatto molto bene di non restarmene per lungo tempo in quel
luogo.

In sì spaventole costituzione, l’alto della spiaggia guadagnai, ove mi
assisi per riposarmi alquanto, e per riflettere sul partito che io dovea
prendere. Dopo una matura deliberazione, risolvetti d’internarmi nel
Paese, di risegnarmi a’primi Selvaggi, che riscontrassi, e di ricomprar
la mia vita coll’esibir loro alcuni manigli, alcuni anelli di rame, ed
alcuni lavori di vetro, bagattelluzze, onde sempre in Viaggi di questa
sorla si sta provveduto, e di cui per buona fortuna io tenevan indosso
alquante. Vidi sul mio cammino un gran numero d’alberi che mi
sembrarono produzioni della Natura non ravvisandosi verun ordine nella
loro disposizione, molte praterie, e alcuni campi di vena. Me ne andava
con molta circonspezione, temendo non mi si scoccasse qualche saetta o
pel di dietro, o pe’fianchi. Sboccai ad una strada maestra, ove mi
caddero sotto l’occhio molte tracce d’Uomini, alcune di Vacche, ma un
assai più considerabile numero di Cavalli. Finalmente osservai in un
campo differenti animali, ed uno o due della medesima spezie assisi fra
gli Alberi. Eran eglino d’una figura assai difforme e più che
straordinaria. Ne restai sbigottito alquanto; e per meglio considerargli,
dietro una macchia mi nascosi.

Avvicinatisi alcuni di loro al luogo ove io me ne stava ebbi
l’opportunità di raffigurargli distintamente. Le loro teste, e i loro
petti erano ricoperti di crini; avean essi le barbe a somiglianza
de’Caproni; e il loro corpo, generalmente parlando, era del colore
della pelle di bufalo. Io gli scorgeva a rampicarsi sopra grand’Alberi
con tanta agilità, come potrebbe farlo uno scojattolo; mercè che aveano
nerborute zampe che terminavano in uncinate punte. Facevano terribili
salti, e correvano prodigiosamente veloci. Più che i maschj eran
picciole le loro femmine; le cui poppe pendevan loro fra’piedi dinanzi,
e incamminando radevan la terra. Di differenti colori erano i crini di
quelle bestie d’amendue i fessi: bruni gli uni, rosi gli altri, quegli
neri, gialli finalmente questi. A prender tutto, non so risovvenirmi
d’aver veduto, in veruno de’miei Viaggj, Animali più nauseanti, nè
più opposti al mio genio. Avendo dunque, anche troppo, soddisfatta la
mia curiosità proseguì il mio cammino, lusingandomi che alla capanna di
qualche _Indiano_ ei mi guiderebbe. Tirati innanzi appena alcuni passi,
diedi del naso in una di quelle creature or ora mentovate. Il sozzo
mostro non aveami quasi scoperto, che misesi a fare molte morfie, in cui
credei di figurare lo stupore di lui: ed accostatosi poscia a me, le sue
zampe levò, senza che io sapessi se ciò egli facesse per malizia, o per
semplice curiosità. Ma dubitando d’equivoco, die di mano alla spada, e
lasciai gli andare una piattonata; imperocchè io non cercava di ferirlo,
per timore che cotale violenta azione a riguardo d’una bestia che
poteva lor appartenere, non irritasse gli Abitanti contra di me. Con
tutto questo, riuscì il colpo non poco doloroso; perchè l’animale
gettando strepitosi gridi prese la fuga, traendo fuori del vicino campo
una quarantina di mostri della spezie stessa di lui, i quali d’assai
mal occhio mi risguardarono. Temendo, non ostante, di qualche insulto,
assicurai le spalle ad un albero, e mi feci largo con la mia spada; tutto
che, per vero dire, non mi trovassi con l’intero mio comodo.

In un imbroglio di questa fatta, qual non fu il mio stordimento; quando
vidi quegli animali a mettersi in salvo a tutte gambe, e a lasciarmi
proseguir il Viaggio con libertà, senza che possibil mi fosse di
comprendere la cagione di cangiamento così improvviso? Ma girato il capo
a sinistra, ravvisai un Cavallo che a piccioli passi se ne stava
spasseggiando nel Campo; ed era questo Cavallo, che prima di me avevan
eglino veduto, quello il quale, per quanto dappoi ne seppi, era il motivo
della loro fuga. Parvemi il Cavallo alquanto sbigottito in guardandomi,
ma rimessosi immediate dal suo spavento, considerò il mio volto con
indizj manifesti di maraviglia: contemplò attentamente le mie mani e i
miei piedi, e d’intorno al mio corpo molte volte girò. Continuar io
volea la mia strada; ma egli me la serrò in traversandola; tutto che per
altro, non avesse l’aria minaccevole, e che mi paresse non intenzionato
di praticarmi la menoma soperchieria. Per alcuni minuti ce ne ristemmo
amendue in cotale situazione; alla fine fui sì ardito di stendere la
mano sopra il suo collo, con intenzione di vezzeggiarlo, servendomi di
quella sorta di fischio e di parole ond’usano i Cozzoni, quando
maneggiar vogliono un Cavallo straniero. Ma quell’animale parve
sdegnare i miei blandimenti: essendo che crollò la testa, increspò le
ciglia, e con la dritta gamba del dinanzi allontanò leggermente il mio
braccio: dopo di che tre o quattro volte annitrì, ma in un modo sì
straordinario, che credetti ciò fosse una spezie di sua particolare
favella.

In questo mentre sopraggiugne un secondo Cavallo, il qual accostossi
all’altro con un’aria disinvolta e civile, gli annitrisce alcuni
suoni, che mi parvero articolati, e ne riceve una risposta del genere
medesimo. Si scostarono d’alcuni passi ambidui, come se avessero voluto
conferir insieme, spasseggiando avanti indietro l’uno a fianco
dell’altro nella guisa stessa che è praticata da chi vuol liberare
sopra un negozio importante; ma girando sovente gli sguardi verso di me,
come per impedirmi il suggirmene. Non saprei esprimere la mia sorpresa
nel veder operare somiglianti cose ad Animali bruti, e ne conchiusi, che
se gli Abitanti del Paese dotati fossero d’un grado di ragione
proporzionato a quell’ordinaria superiorità che anno gli Uomini sopra
i Cavalli, conveniva necessariamente che fossero il più saggio Popolo
della Terra. Una tal riflessione m’incoraggiò ad avanzar cammino, e
suggerirmi il disegno di più non fermarmi, se trovata non avessi qualche
Abitazione, o alcun Villaggio; o per lo meno, qualcuno de’Naturali del
Paese. Piano piano già mi andava sottraendo; allorchè il primo de’due
Cavalli, il qual era un Leardo ruotato, guatando il mio scampo si mise ad
annitrire dietro di me con un tuono sì assoluto, che di capire ciò
ch’ei dir volesse m’immaginai, e perciò me ne rivenni per attendere
gli ordini di lui. Il meglio che seppi dissimulai il mio spavento;
poichè, senza che io il giuri, il Leggitore crederà facilmente, che non
poca potesse essere la mia pena nell’incertezza del fine d’una
somigliante Avventura.

Si fecero accosto di me i due Cavalli, risguardando con somma attenzione
la mia faccia e le mie mani. Il Leardo, con l’unghia del piede dritto
del dinanzi toccò il mio cappello da tutti i lati, e talmente lo
scompose, che fui costretto di levarmelo per rassettarlo: Azione, che
sembrommi gettar quel Cavallo, e il suo Compagno altresì (ch’era un
bajo scuro) in un’ammirazione che non può esprimersi. Toccò
quest’ultimo il lembo del mio vestito, e trovando ch’ei non faceva
parte del mio corpo, palesò nuovi contrassegni di sua sorpresa. Le mie
scarpe e le mie calze molto imbrogliarono entrambi, che aveanle
esattissimamente disaminate, annitrendosi l’un con l’tro, e facendo
molte gesta, che a quelle che fa un Filosofo, il qual procuri di spiegare
qualche nuovo e difficile Fenomeno, non male rassomigliavano.

Per dir brieve; mi parvero sì sagge e sì piene d’intelligenza le
maniere tutte di quegli Animali, che conchiusi, che conveniva
necessariamente che fosser due Stregoni così trasformati, e che vedendo
uno Straniere, formato avessero il disegno di ricrearsi a mie spese; o
che forse realmente fossero trasecolati della vista d’un Uomo sì
diverso in vestimenta e in figura dagli Abitanti d’un Paese così
rimoto. Questo bello e ben fondato ragionamento mi rendè ardito per
tener loro il seguente discorso.

Signori: se siete Stregoni, come è assai probabile, vi son congnite
tutte le Lingue; e perciò prendomi la libertà di dire alle Signorie
Vostre, che io sono uno sgraziato Inglese, gettato da’suoi infortunj
sulle vostre spiagge. Priegovi per tanto di permettere che io monta sopra
uno di voi due, come realmente fosse un Cavallo, e di portarmi a qualche
abitazione, o a qualche Villaggio. Vi giuro che non obbligherete una
persona ingrata; poichè regalerovvi di questo coltello e di questo
braccialetto, (che in ciò dire tolsi dalla mia saccoccia.) Se ne
stettero profondamente mutole nel frattempo che io parlava le due
Creature, e manifestarono d’ascoltarmi con molta attenzione; e finito
che io ebbi, l’una coll’altra parecchie volte annitrironsi; nè più
nè meno, come se impegnate fossero in una seriosa conversazione.
Osservai che il loro linguaggio esprimeva assai bene gli affetti; e che i
termini si potevano ridurre in Alfabeto, più agevolmente che
que’de’_Chinesi_.

Gli udì più fiate pronunziare la parola _Yahoo_; e comechè mi
riuscisse impossibile d’indovinare ciò ch’ella significasse,
pruovai, non ostante, in tempo che que’Signori se ne stavano in
trattenimento, di profferirla ancor io. Subito che mi avvidi ch’essi
tacevano, dissi ad alta voce _Yahoo_, imitando nel tempo stesso al
possibile il nitrito d’un Cavallo; dal che non restarono ambidui
mediocremente sorpresi; e il Leardo ripetè tre volte il vocabolo
medesimo, come se avesse voluto instruirmi del vero accento; nel che lo
imitai alla meglio, e trovai che ciascuna volta io pronunziava men male,
non ostante che tuttavia fossi molto lontano dal punto di perfezione. Il
Bajo scuro poscia saggiò la mia capacità a riguardo d’un secondo
termine, la cui pronunziazione era molto disagevole; voglio dire quegli
di _Houyhnhnm_. Non ci riuscì sì bene in questo come nell’altro; ma
dopo due o tre esperimenti, la faccenda andò meglio, e i miei due
Maestri parvero estremamente stupiti dell’abilità del loro Discepolo.

Dopo alcuni altri discorsi, che per quanto ne conghietturai risguardavano
me, i due Amici presero congedo un dall’altro: il Leardo fecimi segno
che io camminassi innanzi a lui: nel che giudicai a proposito
d’ubbidirgli, finchè una miglior guida trovata avessi. Quand’io
andava troppo lentamente, ei mi gridava _Huhuum_. _Huhuum_. Indovinai il
suo pensiero, e gli diedi ad intendere che io era stanco, e che possibile
non mi riusciva di progredire: egli ebbe la bontà d’arrestarsi
alquanto, perchè avessi l’agio di riposarmi.



CAPITOLO II.

Un Huyhnhnm guida l’Autore alla sua Casa. Descrizione di questa Casa.
Maniera con cui vi è ricevuto l’Autore. Nutritura degli Hoyhnhnms.
E’l’Autore provveduto d’alimenti doppo d’aver temuto di mancarne.
Suo modo di nutricarsi in quel Paese.


TRE miglia in circa fatte avevamo, allorchè pervennimo ad una lunga
fabbrica di legname, il cui tetto era basso e coperto di paglia.
Cominciai quell’instante ad incoraggiarmi, e trassi dalla mia tasca
alcune di quelle cosuzze, che per ordinario i Viaggiatori an sempre con
esso loro, per farne a poche spese regali magnifici agl’_Indiani
dell’America_. Trassi, dissi, dalla mia tasca alcune di quelle cosuzze,
con la speranza di conciliarmi, per tal mezzo, l’affetto degli
Abitatori di quella Casa. Che io entrassi il primo fecimi segno il
Cavallo. L’eseguj, e mi trovai in un’assai propia stalla, ove non
mancava nè rastrello, nè greppia. Vi stavano tre Cavalli, e due
Giumenti che non mangiavano, ma taluno di essi se la passava sedendo
su’suoi garetti; il che recommi un’estrema maraviglia, e questa si
rinforzò, quando vidi gli altri impegnati nell’esercizio stesso, che
da’nostri Palafrenieri è praticato nelle nostre stalle. Un somigliante
spettacolo mi rassodò nel primo pensiero, che un Popolo capace di render
colti fin a un tal segno de’bruti, non potea non essere il più saggio,
e il più abile Popolo della Terra. Il Leardo ruotato entrò allora, e
prevenne qualche mal termine che avrebbono potuto farmi gli altri:
Anitrì loro in diversi tempi con un tuono d’autorità, e sempre
n’ebbe le dovute risposte.


Al di sopra di quella foggia d’Apartamento ove noi eravamo, aveavene
altresì tre altri in un solo piano, a cui tre porte, l’une rimpetto
all’altre, davan l’ingresso. Pel secondo Appartamento ci rendemmo
alla porta del terzo, dove entrò solo il Caval Leardo, facendomi segno
di quivi attenderlo. Ubbidj, e in aspettando, alestj i presenti pel
padrone, e per la padrona della Casa. Consistevano questi presenti in due
coltelli, in tre manigli di perle false, in un picciolo cannocchiale, e
in un vezzo di vetro. Tre o quattro volte il Cavallo annitrì; ed io mi
figurava d’intendere cadauna risposta pronunziata con voce umana; ma un
nitrito altresì articolato, tutto che più sottile del suo, fu tutta la
risposta ch’egli ebbe. Passavami per la mente che quell’abitazione
appartenesse a qualche persona del primario carattere, giacchè vi
voleano tante cerimonie per esservi ammesso: parendomi totalmente
incredibile che un uomo di qualità da soli Cavalli servito fosse.

Temei per un instante che i miei infortunj, e i miei patimenti non mi
avessero offuscato il cervello: guardai d’intorno a me nella stanza ove
io era stato lasciato solo, e la trovai come la prima, tutto che
d’alquanto maggior propietà. Stroppicciami gli occhj molte volte; ma
costantemente furono essi colpiti dagli oggetti medesimi. Le braccia e le
coste mi bezzicai per isvegliarmi, con la lusinga che fosse un sogno
tutto ciò che io vedeva; dopo di che fui costretto d’attribuire ogni
cosa alla Magia. Ma nel forte di somiglianti mie riflessioni interrotto
fui dall’arrivo del Leardo, che mi accennò di seguirlo nel terzo
Appartamento; ove vidi una gentilissima Cavalla con due puledri, tutti e
tre assisi sopra stuoje di paglia assai ben lavorate, e dell’ultimo
buon gusto.

Immediate che la Cavalla mia ravvisò levossi dalla sua stuoja, si mise
accosto di me, e dal capo a’piedi disaminommi; esame, che terminò con
una disprezzante occhiata, e rivoltasi poscia verso il Cavallo, intesi
che sovente ripetevano entrambi il termine di _Yahoo_; termine, onde per
anche io non ne comprendeva il significato, non ostante che fosse il
primo che a pronunziare io appreso avessi; ma troppo non tardai a ben
capirne il senso, avend’io pagata una tal cognizione con la più
crudele di tutte le mortificazioni: Mercè che il Cavallo, facendomi
cenno con la sua testa, e replicando il vocabolo _Hhuum_, _Hhuum_, nella
guisa stessa che praticato avea in sul cammino; il che volea dire (come
già lo spiegai) che seguirlo io dovessi; in una spezie di Corte, ove
aveavi un’altra fabbrica in qualche distanza della Casa, mi condusse.
In quella fabbrica dunque entrammo; e vi vidi tre di quelle detestabili
Creature da me immediatamente riscontrate dopo il mio arrivo nel Paese,
che si pascevano di radici, e della carne di alcuni Animali, che dappoi
seppi ch’erano stati Asini, Cani, e Vacche morti di malattie. Con forti
funi eran elleno legate tutte pel collo ad una trave, tenendo il lor
mangiare fra l’ungie delle zampe d’innanzi.

Il Padron Cavallo commandò ad uno de’suoi domestici, ch’era un
Cavallo sauro, disciogliere la più grande di quelle bestie, e di
condurla nel cortile di dietro. Vi fui condotto ancor io, e ciò col
disegno di paragonarci insieme: il che il Padrone ed il servidore
effettuarono con molta esattezza, ripetendo ambidui molte volte la parola
_Yahoo_. Non saprei esprimere l’orrore e lo spavento che presemi,
quando mi avvidi che l’abbominevole mostro aveva sembiante umano. Per
vero dire, era più largo il suo ceffo, più schiacciato il naso, le
labbra più grosse, e più fessa la bocca, che non l’anno d’ordinario
gli _Europei_: ma cotale difformità scorgonsi nella maggior parte delle
Selvagge Nazioni. I piedi d’avanti del _Yahoo_ in nulla differivano
dalle mie mani, se eccettuinsi l’unghie ch’erano più lunghe: come
più irsuti, e più bruni erano gli piedi stessi. Aveavi la conformità
medesima, e la medesima differenza fra’nostri piedi: ma i Cavalli non
se ne accorsero, perchè i miei dalle scarpe e dalle calze erano
ricoperti.

La sola difficoltà che i due Cavalli tenea sospesi era, il vedere che il
restante mio corpo non rassomigliasse per nulla affatto quello d’un
_Yahoo_: disuguaglianza, onde io aveane la totale obbligazione a’miei
vestiti, che per coloro riuscivano una cosa interamente nuova. Offrimmi
il Sauro una radice, ch’ei teneva fra l’unghia del suo piede, e il
suo pasturale: Io la presi: ma gustata avendola, con la più possibile
civil maniera gliela rendei. Trasse egli dal canile del _Yahoo_ un non so
qual cibo che puzzava sì forte, che io girai la testa, facendo alquante
sdegnose e nauseate morfie; il che appena egli osservò, che al _Yahoo_
gettò il cibo, e fu questi con avidezza divorato da lui. Mi mostrò
poscia un monticello di fieno, e un quartiere di biada; ma il capo
crollai, manifestando che nè l’una, nè l’altra cosa servir mi
potevano di nutritura. E per dirla schiettamente, cominciai allora a
temere di morirmi di fame, se in alcuno della mia spezie non mi fossi
abbattuto; Essendo che, per quello spetta a que’sozzi _Yahoos_,
confessar deggio, che non ostante la cordial tenerezza che io professava
allora alla Natura umana, non mi venne mai fatto di vedere un Essere, che
per tutte le ragioni più mi disgustasse. Cosa più singolare si è, che
tutto che ci avvezziamo a qualunque sorta d’animali, i soli _Yahoos_ mi
son paruti sempre più abbominevoli, a misura che più gli ho conosciuti.
Il Padron Cavallo raffigurò abbastanza sulla mia faccia l’aversione
che io aveva per quelle bestie; e per obbligarmi, rinviò il _Yahoo_ nel
suo canile. Dopo ciò: avvicinò alla sua bocca l’ungia del suo piede
d’innanzi: dal che non ne restai mediocremente sorpreso, comechè il
facesse in un modo assai agevole, e con un muovimento che mi sembrò
perfettamente naturale. A questo primo segno ei ne aggiunse degli altri,
affin di pregarmi di dargli a conoscere ciò che volentieri mangiato
avrei; ma di fargli una risposta ch’ei potesse comprendere, totalmente
impossibile mi riuscì. Standocene amendui in un tal imbroglio, passò
una Vacca accosto accosto di noi. Io l’accennai col dito, e mostrai la
voglia che io avea di mugnerla. Intesemi il Padron Cavallo; piochè
ordinò ad una Cavalla, la qual era una delle fantesche
dell’abitazione, di diserrar una stanza, ove aveavi molti vasi di
terra, e di legno riempiuti di latte. Me ne offrii ella un buon
boccaluzzo pieno, che in un solo fiato, e con un piacere indicibile,
tracannai.

Verso il mezzo giorno, vidi sopraggiugnere alla nostra Casa una spezie di
Vettura tirata da quattro _Yahoos_. Adagiavasi in questa Vettura un
Vecchio Cavallo, che avea la portatura d’un non so che di qualificato.
Nello scendere, mise prima a terra i suoi piedi di dietro, avendo qualche
impedimento nel suo piede sinistro d’avanti. Veniva egli a pranzo col
nostro Cavallo, che il ricevette con sonore rimostranze d’amicizia.
Mangiarono essi nel più bello Appartamento, e di vena bollita nel latte
fu il secondo loro servito. Erano le lor mangiatoje situate in circolo
nel mezzo della Stanza, e divise in compartimenti eguali; davante a cui
eran eglino tutti assisi, avendo ciascheduno un fastello di paglia che
serviva gli di sedile, o di tappetto. Nella guisa stessa delle mangiatoje
era diviso il rastrello, dal che provenivane che cadaun Cavallo, e cadaun
Giumento mangiava il peculiare suo fieno, e la sua composizione di vena e
di latte, con molta decenza, e con molta regolarità. Mi ordinò il Caval
Leardo di starmene accanto di lui; e per molto tempo quistionò sul mio
proposito col suo Amico, per quanto conghietturar ne potei delle
frequenti occhiate onde mi onorava il Forestiere, e della sollecita
repetizione della parola _Yahoo_.

Terminato il pranzo, il Padron Cavallo presemi in disparte; ed ora
co’cenni, ed ora colle parole, chiaramente mi palesò la prima
inquietudine, perchè io non avessi di mangiare. In loro lingua, _Hlunnk_
significa vena. Due o tre fiate io pronunziai questo termine;
imperocchè, non ostante che da principio non ne avessi voluto dopo una
matura riflessione trovai che potea farne una spezie di pane; il qual
rimescolato col latte, valuto mi avrebbe di nutrimento, finchè cogliessi
l’opportunità di salvarmi in qualche Paese abitato da Uomini. Sul
fatto stesso ordinò il Cavallo a una Giumenta bianca di recarmi in una
sorta di tinozza una buona porzione di vena. Riscaldai al fuoco, il
meglio che potei, questa vena, e ne strofinai le grana finattanto che la
scorza, che procurai poscia di separarne, tolta ne fu: e susseguentemente
la schiazziai fra due pietre; dal che formossene una spezie di pasta, che
frammescolata coll’aqua, ed indi sectata al fuoco, mi tenne luogo di
pane. A prima giunta mi parve insipido questo pane, tutto che in _Europa_
sienvi molti Paesi, ove se ne mangia di somigliante. Ma poco a poco mi ci
costumai; oltrechè, come non era questi il primo mio saggio di
frugalità, non fu neppure il primo esperimento, onde mi rendei convinto
che di poco la Natura si appaga. Ed è cosa assai notabile, che in tutto
il tempo del mio soggiorno in quell’Isola, si mantenesse perfettissima,
senza la menoma interruzione, la mia sanità. Veramente, procurai
talvolta d’andar in busca di qualche Coniglio, o di prendere al laccio,
fatto di crini di _Yahoos_, qualche uccello; e allo spesso rintracciai
dell’erbe medicinali, che io facea bollire o che mangiava in insalata;
e di tempo in tempo composi un poco di butiro, di cui poscia il siero io
ne bevea. I primi giorni del mio arrivo mi sapeva male l’insipidezza,
ma insensibilmente io mi avvezzai; osando di dire che l’uso frequente
che noi ne facciamo ne’nostri pasti, è una corruttela del gusto, il
qual dee la sua origine alla qualità che ha il sale di provocar al bere
quegli medesimi che, senza questo, troppo berebbero; essendo che, non
veggiamo, se eccettuisi l’Uomo, animale veruno che ne rimescoli
ne’suoi alimenti: E per quanto tocca a me: lasciata ch’ebbi quelle
Regione, vi volle un tempo assai considerabile, prima che potessi
riaccostumarmivi.

Ma eccone abbastanza sull’articolo della mia nutritura: articolo, su
cui con ispecifica diffusione trattano quasi tutti gli Viaggiatori: come
se chi gli legge fossevi personalmente interessato. Con tutto ciò: gli
era necessità che parola ne facessi, per timore che non si pensasse,
ch’era impossibile che per lo spazio di tre anni, in un tal Paese, e
fra cotali Abitatori, alimenti trovar potessi.

Arrivata la sera, il Padron Cavallo ordinò il luogo del mio dormire. Una
picciola stalletta fu la mia stanza, lontana per sei verghe dalla Casa, e
disgiunta dal Canile degli _Yahoos_. Quivi mi corcai sopra un poco di
paglia, con cui io avuta avea l’attenzione di formarmene una maniera di
letto. Mi valsero di coperte le mie vestimenta, e asserir posso che
dormì perfettamente bene. Ma poco tempo dopo vi fui adagiato meglio come
il Leggitore resterà instrutto a suo luogo; cioè, quando della mia
foggia di vivere distintamente il ragguaglierò.



CAPITOLO III.

Applicasi l’Autore ad apprendere la favella del Paese, e il suo
Padrone, l’Houyhnhnms, gliene da delle lezioni. Descrizione di questa
favella. Molti Houyhnhnms di qualità vanno a visitare l’Autore. Fu
egli al suo Padrone un compendiato racconto del suo Viaggio.


PRimaria mia applicazione si era ad apprendere la Lingua, che il mio
Padrone (che così il chiamerò da quì innanzi,) i Figlivoli di lui, ed
altresì i Domestici tutti della Casa, egualmente solleciti, faticavansi
d’insegnarmi, riputando eglino come un prodigio, che un animale bruto
esibisse tanti apparenti contrassegni di ragione. Io mostrava qualunque
cosa col dito, e ne chiedeva il nome, che poscia si scriveva da me nel
mio taccuino, quando mi trovava solo. Quanto all’accento m’ingegnava
d’acchiapparlo, pregando que’della Casa di ripetere molte volte i
termini medesimi: nel che un Cavallo sauro, il qual non era che un
famiglio di stalla, fummi molto fruttuoso.

Più che alcun’altra favella dell’_Europa_ accostasi la favella loro
alla _Tedesca_; ma l’è molto superiore in graziofità e in energia.
L’Imperador _Carlo_ V. fece la riflessione medesima allorchè disse;
che se egli avesse dovuto parlare a’suoi Cavalli, non l’avrebbe fatto
che in _Tedesco_.

Furono sì grandi la curiosità e l’impazienza del mio Padrone, che
impiegò egli molte ore del giorno ad instruirmene. Era persuaso, come
poscia mel dichiarò, che io fossi un _Yahoo_: Ma ciò che egli
comprendere non potea, era la mia docilità, la mia aria civile, e la mia
propietà; caratteri onde verun degli _Yahoos_ del Paese, dotato non era.
Un’altra maraviglia impossibile a concepirsi da lui erano i miei
vestiti; mercè che egli s’immaginava che formassero parte del mio
Corpo, avendo io l’attenzione di non ispogliarmene mai se tutta la
famiglia non si fosse ritirata: e di rivestirmene la mattina innanzi che
alcuno si fosse alzato. Moriva di voglia il mio Padrone di sapere donde
io venissi, come avessi acquistate le apparenze di ragione ch’egli
scopriva in tutte le mie azioni, e d’intenderne le Storia della viva
mia voce: il che lusingavasi che ben presto io fossi in istato
d’effettuare, attesi i gran progressi che io ne avea già fatti,
apprendendo e pronunziando i loro termini, e le loro frasi. Per recar
qualche ajuto alla mia memoria, m’avvertì di far registro di tutti i
vocaboli che io imparava, con la loro traduzione accanto. Di sì gran
soccorso mi riuscì questo metodo, che alla fine la presenza stessa del
mio Padrone non mi tenne impedito dallo scrivere in carta alcuni termini,
e alcune maniere di discorrere. Stentai molto in ispiegargli ciò che io
faceva; non avendo gli _Houyhnhnms_ la menoma idea di tutto ciò che
Libri, oppure Scritture, noi chiamamo.

Nello spazio di dieci settimane fui capace d’intendere la maggior parte
delle sue quistioni; e alcuni giorni dopo, di fargli passabilmente la
risposta. Spasimava egli di brama che gli raccontassi da qual Regione
distaccato mi fossi, e chi insegnato mi avesse ad imitare una Creatura
ragionevole; a cagion che gli _Yahoos_ (a’quali egli osservava che io
esattamente era somigliante nella testa, nelle mani e nella faccia,
ch’erano le sole parti del mio Corpo che visibili fossero,) eran fra
loro’sempre passati per gli men disciplinabili di tutti gli Animali
feroci. Risposigli, che io me ne veniva pel Mare da un assai rimoto
luogo, con molte altre Creature della mia spezie, e in un gran Vascello
incavato fatto di legne: Che i miei compagni mi aveano a forza messo su
quella spiaggia, e mi vi aveano abbandonato. Non seguì che con estrema
difficoltà, e con l’ajuto di molti segni che gli feci ciò
comprendere. Ei ripigliò, che conveniva necessariamente che io
m’ingannassi, o che gli dicessi _la cosa che non è_, (poichè in loro
Lingua non anno termine di sorta per ispiegare ciò che noi chiamamo
falsità o menzogna.) Io so, continuò egli, ch’è impossibile che
siavi un Paese di là dal Mare, o che una truppa di bruti sia capace di
condurre in sull’acqua un Vascello di legno: Niuno _Houyhnhnm_ al Mondo
ha il talento di costruire una somigliante vettura; e neppure è così
imprudente per affidarne a degli _Yahoos_ la direzione.

Il vocabolo _Houyhnhnm_ significa in loro idioma un _Cavallo_, e nella
sua etimologica origine, _la perfezione della Natura_. Dissi al mio
Padrone che l’espressione m’imbrogliava; ma che a costo d’un fisso
studio avrei procurato di superare in poco tempo questa difficoltà,
lusingandomi di essere ben presto in istato di narrargli gran maraviglie.
Compiacquesi egli di dire alla sua propia Cavalla, a’suoi due Puledri,
e a tutti i Domestici di sua Casa, di non ommettere veruna opportunità
d’ammaestrarmi, ed egli stesso per due o tre ore di cadaun giorno si
prendeva questo fastidio. Molti Cavalli ed alcuni Giumenti qualificati
del Vicinato, vennero alla nostra abitazione, sulla fama che si era
sparsa, che aveavi un _Yahoo_ che parlava come un _Houyhnhnm_; e nelle
parole e nelle azioni di cui, scuoprivasi qualche barlume di ragione.
Parve che molto gustassero que’Forestieri del mio trattenimento;
praticate avendomi molte interrogazioni, alle quali secondo il mio
possibile soddisfeci. Tanto ne profittai di tutti questi mezzi, che
cinque mesi dopo il mio arrivo, io ben capiva tutto ciò che si diceva,
ed lo stesso mi esprimeva passabilmente bene.

Gli _Houyhnhnms_ che a visitar vennero il mio Padrone col disegno di
vedermi e di discorrer meco; non diedero indizj d’essere persuasi che
io fossi un vero _Yahoo_, perchè io era coperto diversamente da quel che
il sono questi animali. Per fino allora mi era determinato di tacere in
proposito a’miei vestiti, per distinguermi, per quanto fosse possibile,
da quella maledetta razza di _Yahoos_; ma alcuni giorni dopo mutai
parere; e credei un tratto di mia ingratitudine il farne per maggior
tempo un arcano al mio Padrone. Oltre che, io meditava, che si sarebbero
ben presto consumate le mie vestimenta e le mie scarpe, e che per
necessità avrei dovuto farmene d’altre di pelle d’_Yahoos_, o qual
altro animale si fosse; dal che si sarebbe manifestato tutto il misterio.
Dissi dunque al Padrone, che nel Paese donde io veniva, que’della mia
spezie coprivansi il corpo di pelo di certe bestie, industriosamente
lavorato: e ciò per decenza, ed anche per guarentirsi dalle ingiurie
dell’aria: Che se egli il volea, io offrivami di mostrargli in mia
persona un saggio della verità di ciò che io avanzava; purchè egli mi
permettesse d’occultar a’suoi occhj quelle parti che la Natura di
tener nascosse c’insegna. Risposemi il Padrone, che sembravagli molto
strano il mio ragionamento, ma spezialmente la conchiusione: Che non
potea egli comprendere come la Natura c’insegssasse a nascondere la
propia sua opera: Che nè egli, nè veruno di sua Famiglia arrossavasi di
veruna parte de’loro Corpi; ma che io era l’Arbitro di far quel che
volessi su quest’articolo. Cominciai allora dallo sfibbiare i bottoni
dal Giubbone, e dal togliermelo d’indosso con la mia veste. Levai
altresì le mie scarpe e le mie calze, e per compimento di soddisfazione
della curiosità di lui, gli mostrai il mio petto e le mie braccia tutte
ignude.

Con la più avida curiosità considerò il Padrone questi differenti
oggetti. Prese, pezzo per pezzo, tutti i miei vestiti nel suo pasturale,
e attentamente gli disamino; dopo di che, avendo con uno de’suoi piedi
d’innanzi lisciate alcune parti del mio corpo, dissemi, che in sentenza
sua io era un perfetto _Yahoo_: Che la sola differenza che passava tra
me, ed il resto della mia spezie, consisteva in ciò che io avea la pelle
più bianca, più dilicata e più morbida: e le unghie delle zampe del
d’avanti e del di dietro più corte che gli _Yahoos_ comuni; ed
eziandio consisteva nell’affettazione di camminar sempre co’miei
piedi di dietro. Aggiunse, che di più non volea vederne, e che come
sembravagli che io avessi freddo, così io poteva riprendere i miei
vestiti.

Gli espressi qualche mio rammarico perchè sì frequente avessemi dato il
nome di _Yahoo_, il qual era un Animale odioso, da me al maggior segno
dispregiato ed avuto in abbominazione. Il supplicai di non più valersi a
mio riguardo d’un titolo sì oltraggioso; e di fare che que’della sua
Famiglia e gli Amici, a’quali egli permetteva di venir a vedermi,
avessero l’attenzione medesima. A questa grazia lo scongiurai
d’aggiugnerne un’altra, cioè di non palesar a chi che fosse che ciò
che scorgevasi non fosse il mio vero corpo; mercè che spacciati si
avrebbe gli Abiti miei come una spezie d’artifizio, con cui persuader
volessi che io non fossi un _Yahoo_.

In una maniera la più graziosa del Mondo soscrisse il Padrone alle mie
instanze; e così il segreto restò custodito finchè le mie vestimenta
cominciassero a logorarsi, ed obbligassermi ad aver ricorso a diversi
espedienti per rappezzarle, come a suo luogo il dirò. Nel tempo stesso
mi pregò d’impiegarmi con tutta la possibile diligenza ad instruirmi
del Linguaggio del Paese; essendo che più rendevanlo attonito la mia
intelligenza, e la mia facoltà di discorrere, che la figura del mio
corpo, fusse egli coperto o no: aggiungendo che stava egli
impazientissimo d’intendere le maraviglie che di narrargli io avea
promesso.

Da quell’instante innanzi raddoppiò egli il suo fastidio per
ammaestrarmi; mi volle con esso lui in tutte le ragunanze, e faceva che
tutti gli Astanti mi trattassero con molta cortesia; imperocchè, come
egli il diceva loro in quattr’occhj, ciò renduto mi avrebbe di buon
umore e più conversevole.

Ciascun giorno che io andava a porgergli i miei saluti, alla briga
ch’ei prendevasi d’instruirmi, egli univa delle quistioni in
proposito di me medesimo; ed io procurava di supplirvi con tutto il mio
potere; e con questo mezzo gli avea esposte alcune generali idee, tutto
che imperfette.

Sarebbe cosa molto molesta il voler descrivere i differenti gradi, per
gli quali passar dovei prima d’essere capace d’una conversazione
alquanto continuata. Ecco la prima di quelle conversazioni. Per apaggare
la curiosità del Padrone, che sin allora io non avea che eccitata con
risposte mal espresse e peggio ancora intese, dissigli un giorno: Che io
veniva da un Paese molto lontano, come io già aveva avuto l’onore di
accennarglielo, in compagnia d’una cinquantina d’Animali della mia
spezie: Che avevamo traversati molti Mari in un Vascello di legno, più
grande che la casa di lui. E quì gli feci la più esatta descrizione che
potei del Vascello; e procurai di dargli ad intendere con la comparazione
del mio fazoletto spiegato, come questo Vascello era stato sospinto dal
vento: Che i miei uomini, essendosi ribellati contra di me, mi aveano
messo a terra su quella spiaggia, ove immediate io riscontrati avea
quegli esecrabili _Yahoos_, dalla cui persecuzione aveami guarentito il
di lui sopraggiugnere. Ei mi ricercò chi avesse costrutto il Vascello; e
come possibil fosse che gli _Houyhnhnms_ del mio Paese affidata ne
avessero a Bruti la direzione? Io replicai, che non avrei l’animo di
proseguire la mia relazione, se egli non s’impegnasse in parola
d’onore di non aversene a male, e che a questo patto gli racconterei le
maraviglie, onde sì spesso io gliene avea parlato. Ei mel promise; e
quindi il mio ragionamento continuai: assicurandolo che il Vascello era
stato fabbricato da Creature come me; le quali, in tutte le Regioni che
io aveva scorse, ed altresì nella mia, erano i soli Animali di ragione
dotati; e che al mio arrivo in quel Paese; io era rimasto tanto attonito
di scorgere gli _Houyhuhums_ ad operare come Esseri ragionevoli, quanto
egli, o gli Amici suoi, l’avean potuto essere in iscoprendo caratteri
d’intelligenza in una Creatura, che egli si compiaceva di confondere
con gli _Yahoos_, a cui io non volea già negare di rassomigliarmi in
alcune circostanze, ma non certamente nella ferocia e nella bestialità.
Dissi di più, che se mai godessi della buona sorte di ritornamene alla
mia Patria e di potervi narrare i miei viaggj, come n’era la mia
intenzione, ognuno taccerebbemi di dire la _cosa che non è_; e che,
malgrado il profondo rispetto che io avea per lui, per la sua Famiglia,
per gli suoi Amici, asserirgli io poteva, che i miei Compatriotti
durerebbono gran fatica a credere, che al Mondo fossevi un Paese, ove gli
_Yahoos_ fossero Bruti, e gli _Houyhnhnms_ Creature ragionevoli.



CAPITOLO IV.

Intelligenza degli Houyhnhnms in proposito del vero e del falso. Discorso
dell’Autore disapprovato dal suo Padrone. Introducesi l’Autore in un
racconto più specificato di se medesmo, e degli avvenimenti del suo
Viaggio.


AScoltò il mio Padrone ciò che testè io gli avea detto, con
quell’aria d’imbroglio che palesasi quando ci vengono rappresentate
cose che si dura fatica di comprendere, il che proveniva, perchè
l’idee di _Dubbio_, e d’_Incertezza a riguardo della verità d’un
fatto_, erano totalmente una novità per lui: E mi rammentò che in molti
discorsi ch’ebbi con esso in materia degli Uomini in generale, essendo
io sforzato di parlargli delle _Menzogne_ ond’eglino si prevalgono per
iscambievolmente ingannarsi, fu estrema la mia difficoltà per ottener
l’intento di farmi intendere; tutto che, per altro, egli avesse il più
lucido concepimento del mondo. Ecco com’egli ragionava. L’Uso della
parola è instituito per farci intendere, e per informarci di ciò che
non sappiamo: Ora se alcuno dice _la cosa che non è_, rovescia
quest’instituto; perchè; a parlar propiamente, dir non potrei che io
il capisco, e ben lunge dall’instruirmi di qualche cosa, gettami in una
condizione peggiore dell’ignoranza; poichè che il _Nero_ sia _Bianco_
ei mi persuade. Ecco tutta l’intelligenza ch’egli avea della Facoltà
di _Mentire_, che sì a perfezione posseggono gli Uomini.

Per rivenire al mio argomento; quand’ebbi detto, che gli _Yahoos_ erano
i soli Animali ragionevoli del mio Paese, dimandommi il Padrone se fra
noi si trovassero _Houyhnhnms_, e qual impiego fosse il loro? Gli risposi
che ne avevamo un gran numero: che in tempo di State pascolavano essi
nelle campagne, e nell’Inverno si custodivano nelle Case, ove gli
nutrivamo di fieno e di vena, ed ove _Yahoos_ servidori, erano obbligati
a pettinar loro il crinale, di nettar i loro piedi, di dar loro a
mangiare, e di fare i letti loro. V’intendo, replicò il mio Padrone, e
da quel che mi dite, concepisco che, qualunque sia la porzion di ragione
che i vostri _Yahoos_ presumono di avere, gli _Houyhnhnms_, non ostante,
sono i padroni vostri. Qual piacere sarebbe il mio, che i nostri _Yahoos_
fossero così sociabili! Il supplicai di permettermi di non dirne di
vantaggio; imperocchè io stava perfettamente assicurato che lo
scioglimento della da lui propostami difficoltà, non potrebbe non
dispiacergli. Ma egli mi ordinò di parlar alla libera, e di non adirarsi
diedemi parola. Accertato da tal promessa, gli dissi che i nostri
_Houyhnhnms_, che nol chiamiamo _Cavalli_, erano i più begli e i più
generosi di tutti gli Animali che avessimo: che in forza e in velocità
era ne eccellenti che appartenendo a persone di qualità, non erano
impiegati che a portare i loro Padroni, o a tirare de’Cochj; trattati,
per altro, assai bene, se pure non si ammalassero, o non divenissero
bolsi, mercè che in tal caso erano venduti, e più di essi non si faceva
che un uso basso, perfino alla loro morte; dopo di che si scorticavano
per trarne qualche vantaggio dalla loro pelle, e gittavasi il resto del
loro corpo in pasto a’Cani o agli Uccelli di rapina. Ma, io continuai,
i Cavalli ordinarj non sono sì felici; poichè son mal nodriti, e
adoperati da Castaldi o da Carretaj in fatiche assai più penose. Gli
descrissi; per quanto seppi, la nostra maniera d’andar a cavallo: e
altresì la forma e l’uso delle nostre briglie, delle nostre selle,
de’nostri sproni e delle nostre fruste. L’informai poscia, che al di
sotto de’loro piedi inchiodavano certe piastrelle d’una dura sostanza
chiamata _Ferro_, perche in camminando per sassosi sentieri, eglino non
si facessero male.

Parve sdegnato del mio ragionamento il Padrone; con tutto questo si
contentò di dirmi, ch’egli stupiva della nostra temerità di montare
sopra la schiena d’un _Houyhnhnm_; essendo più che sicuro, che il più
debole de’suoi domestici era capace di gettar a terra il più robusto
_Yahoo_, ed eziandio di schiacciar questa bestia col solo rotolarsi insul
dorso. Risposi, che noi avvezzavamo i nostri Cavalli fin dall’età di
tre anni o quattro a’differenti servigi a quali gli destinavano: Che
gli straordinariamente viziosi di loro, erano impiegati nelle vetture:
Che in tempo di lor gioventù gastigavansi severamente, per correggerli
di quella sorta di difetti, a cui gli gastighi servir possono di rimedio:
Che per rendergli più docili e più trattabili, si castravano, per la
maggior parte, all’età di due anni: Che conveniva confessare
ch’erano sensibili alle pene e alle ricompense; ma ch’egli era certo,
che la menoma tintura di ragione non possedevano.

Costretto sui di valermi di molte circonlocuzioni per imprimere nel mio
Padrone aggiustate idee di quanto io gli aveva esposto; essendo che non
abbonda i termini la loro favella: consistendo in assai più picciol
numero delle nostre, le loro necessità e le loro passioni. Ma riescemi
impossibile d’esprimere il nobile risentimento che l’idea del
trattamento crudele che pratichiamnoi a molti de’nostri _Houyhnms_
gl’inspirò: particolarmente dopo che spiegato gli ebbi il fine, che ci
proponevamo da quella sanguinosa operazione; ciò è d’impedir loro la
propagazione di loro spezie, e di rendergli più servili. Disse egli: che
se possibil fosse che avessevi un Paese, ove gli _Yahoos_ soli fossero
dotati di Ragione, bisognava per necessaria conseguenza ch’essi vi
fossero altresì i Padroni, imperocchè a lungo andare, la Ragione la
vinceva sempre sopra una cieca e brutale forza. Ma, che riflettendo alla
forma de’nostri corpi, e in ispezieltà del mio, sembravagli che
Creatura niuna, d’egual volume, men propi fosse ne’comuni affari del
vivere, a far uso di questa Ragione; sopra di che pregommi di dirgli, se
i miei Compatriotti rassomigliassero a me, oppure agli _Yahoos_ del suo
Paese. Gli dichiarai che io era sì ben formato come la maggior parte
degli Uomini di mia età; ma che i Giovani e le Femmine avean la pelle
assai più dilicata; e che particolarmente quest’ultime, l‘aveano,
per ordinario, così bianca come del latte. Vero è, mi soggiunse egli,
che vi ha qualche differenza fra voi e gli altri _Yahoos_; perocchè voi
siete molto più propio, e non del tutto così difforme. Ma quanto al
fatto, ei continuava, di vantaggi reali, essi mi erano superiori: Che le
mie unghie, tanto de’piedi d’innanzi che di que’di dietro, non mi
servivano a nulla: che in riguardo a’primi, egli impropiamente
assegnava loro un tal nome, non avendomi mai veduto a camminarvi sopra:
che non era sì dura la loro pelle per poter calpestrare le pietre: che
pel più del tempo io non gli copriva di cosa veruna, e che la coperta
ond’io talvolta gl’involgeva non era della figura medesima, nè così
solida come quella che a’piedi dietro io metteva: che bisognava per
necessità che io sovente cadessi, poichè era impossibile che sempre
potessi tenermi ritto, poggiando sopra due soli piedi. Cominciò allora a
far la critica dell’altre parti del mio corpo, dicendo che il mio naso
sporgeva troppo in fuori: ch’erano sì concentrati nella testa i miei
occhi, che volendo guardar qualche oggetto che mi fosse a’fianchi, mi
conveniva girarla: che senza avvicinare alla mia bocca l’un de’miei
piedi d’avanti, non poteva io nutricarmi: che per difendere il mio
corpo contra il caldo ed il freddo, io era costretto di ricorrere a
vestimenta, che togliere o rimettere cadaun giorno io non poteva, senza
una pensione di molto tempo e di molta fatica. E finalmente, ch’egli
avea riflettuto che tutti gli Animali del suo Paese naturalmente aveano
dell’orror per gli _Yahoos_: che i più deboli gli sfuggivano, i più
forti lunge da se gli scacciavano. Donde conchiudeva, che col supporci
dotati di ragione, men imbrogliato tuttavia non trovavasi, per sapere
come potessimo recar rimedio a quella naturale antipatia, che tutte le
Creature mostravano di avere contra di noi; nè per conseguenza come
addomesticarle, e ritrarne servigi. Ma, proseguiva, io non voglio
maggiormente internarmi in questa discussione, mercè che mi muojo di
voglia d’essere instruito della vostra Storia, in qual Regione siate
nato; e di tutto ciò che prima di qua venire vi sia accaduto di più
importante.

Gli dissi, che avrei fatto tutto per rendere compiutamente appagata la
sua curiosità, ma che io molto temeva non vi fossero molte cose, onde
impossibile riuscissemi  d’imprimergli le necessarie idee, non vedendo
io nulla nel suo Paese da poterne fare in qualche modo la comparazione:
Che non ostante mi accigneva a contentarlo sopra tutti gl’indicati
articoli, supplicandolo tuttavia d’ajutarmi, quando rinvenir non
potessi le dovute espressioni; il che con bontà ei mi promise. Cominciai
dunque: Che i miei Parenti erano buoni Borghesi, stabiliti in un’Isola
che _Inghilterra_ noma val, tanto lontana dal Paese di lui, quanto uno
de’suoi servidori penerebbe molto ad arrivarvi in un anno, quando anche
non traviasse dal suo diritto cammino: Che i miei Parenti stessi avean mi
fatta apprendere la Cirugia; e vale a dire, l’Arte di risanare le
piaghe, e le contusioni che succedono al Corpo: Che il mio Paese era
governato da una Donna che noi chiamiamo _Regina_: Che io aveva lasciata
la mia Patria per accumular ricchezze; pel cui mezzo potessi al mio
ritorno vivere nell’opulenza con la mia Famiglia: Che nell’ultimo mio
Viaggio io era Comandante del Vascello, e che avea sotto di me una
cinquantina di _Yahoos_, i più de’quali erano morti in Mare; il che
avea mi costretto di reclutargli con altri di differenti Nazioni: Che il
nostro Vascello per due volte aveva scorso il pericolo d’abbissarsi; la
prima, per una violenta burrasca; e per aver investito in uno scoglio la
seconda. A questo passo interrupemi il Padrone, per dimandarmi, come mai
persuader io potea Stranieri di diversi Paesi d’imbarcarsi con esso
meco, se tanti risichi passati avea il mio Vascello, e se tanti Uomini mi
erano morti? Gli risposi, ch’eran coloro canaglie di sacco e corda,
obbligati d’abbandonare le loro Terre, a cagione de’loro misfatti, o
o della lor povertà; Che le liti ne aveano ruinati alcuni; che altri si
erano immersi nella miseria pel vino, per giuoco o per le Donne; che
altri erano criminosi di tradimento; che un gran numero l’era altresì
di omicidj, di furti, di veneni, di spergiuri, di moneta falsa, o di
fuga; e che poco men che tutti si erano sottratti alle carceri: quindi
provenendone che veruno d’essi non ardiva di rimettere il piede nella
sua Patria, per timore d’essere appiccato pel collo, o di finir i suoi
giorni nel sondo d’una tenebrosa prigione: e che perciò erano forzati
di rintracciar il lor vivere in Regioni rimote.

Più d’una volta mi troncò il Padrone questo ragionamento, ed io mi
era prevaluto di molte circonlocuzioni per fargli conoscere la natura
de’differenti delitti, che la maggior parte della mia Ciurma ad
abbandonare la propia Patria, indotta aveano. A forza di molte
conversazioni finalmente compresemi, ma la necessità, o l’uso di
questi delitti, era la cosa, ch’egli potea concepire il meno. Per
rischiarare un tal punto, dovetti inserirgli alcune immagini della brama
d’essere potente e ricco; ed eziandio de’terribili effetti dello
Spirito di vendetta, di odio, di crudeltà, d’intemperanza, di
voluttà. Perchè ei comprendesse somiglianti passioni, molti supposti,
idonei ad inspirargli qualche intelligenza, formai. Dopo ciò: nella
guisa stessa che un Uomo la cui immaginazione è colpita da un non so che
ch’ei prima non avea ravvisato, e più a parlarne non avea inteso, con
istordimento e con indignazione egli alzava i suoi sguardi. Possanza,
Governo, Guerra, Leggi, Gastighi, e mille altre cose, non potevano essere
espresse in quella favella per mancanza di termini: e quindi ne derivava
il crudel mio imbarazzo di far concepire al Padrone ciò che dir io
volea. Ma avendo egli una maravigliosa comprensione, finalmente arrivò a
conoscere, se non perfettamente, per lo meno in gran parte, di che fra
noi sia capace la Natura umana; e mi pregò d’entrar alquanto in una
minuta narrazione degli Affari del Paese che io chiamava _Europa_, ma
spezialmente di quegli della mia Patria.



CAPITOLO V.

Per ubbidire agli ordini del suo Padrone, lo informa l’Autore dello
Stato dels’Inghilterra, ed altresì de’motivi della Guerra fra alcuni
Potentati dell’Europa; e ad inspirargli qualche idea della Natura del
Governo Inglese incomincia.


E’Pregato il Leggitore a risovvenirsi, che ciò che al presente io son
per dire è un estratto di molte conversazioni che per lo spazio di due
anni e più, ebbi col mio Padrone. A misura che io progrediva nella
favella degli _Houyhnhnms_, ei mi proponeva nuove quistioni.
M’interrogò sopra lo Stato dell’_Europa_, sopra il commerzio, sopra
le Manifatture, l’Arte, le Scienze; e cadauna mia risposta era
incentivo di nuove dimande. Ma io quì solo registrerò in sostanza i
trattenimenti che avemmo sul proposito della mia Patria; e gli disporrò
in un cert’ordine, senza riguardo nè de’tempi, nè delle
circostanze, che la opportunità n’esibirono. La sola cosa che
m’imbroglia è, che riuscirammi disagevolissimo di riferire con
fedeltà gli argomenti, e l’espressioni del mio Padrone. Ma mi si
lusingo nulladimeno, che a dispetto d’una barbara traduzione, non si
lascerà di ravvisar la vaghezza e l’aggiustatezza dello spirito di lui.

Per ubbidir dunque a’suoi cenni, narraigli il celebre avvenimento
conosciuto sotto il nome di _Rivoluzione_; la lunga Guerra cominciata
allora dal Principe d’_Oranges_ contro alla _Francia_, e rinfrescata
dalla Regina Regnante; Guerra, in cui si sono impegnate quasi tutte le
Potenze dell’_Europa_. A richiesta di lui, calcolai che pel corso di
questa Guerra era stato ucciso un millione di _Yahoos_, che di cento
Città erano state prese, e tre volte più, tanti Vascelli colati a
fondo. Mi dimandò egli quali fossero, per ordinario, le cagioni, perchè
una Nazione prendesse l’arme contra d’un’altra? Risposi, ch’erano
infinite queste cagioni; ma che gliene farei l’enumerazione delle
principali: Che talvolta era l’ambizione de’Principi, i quali
s’immaginano sempre che i loro Popoli e le loro Terre non bastino al
loro Dominio: Talvolta la corruttella di que’Ministri, che impegnano i
Sovrani loro in una Guerra per rendersi necessarj, o perchè alla loro
pessima amministrazione non si rifletta: Che in fatto d’opinioni, la
discrepanza avea costata la vita a molti milioni d’Uomini. Non vi ha
Guerra più crudele, o più sanguinosa, o di maggior durata, quanto
quella ch’è accesa dalla diversità d’opinioni; principalmente
quando questa diversità non risguarda che cose indifferenti.

Talvolta due Principi, insieme la rompono per sapere qual de’due
scaccerà un Terzo dagli Stati suoi, su’quali niuno d’essi d’avere
il menomo diritto presume. Allo spesso un Potentato dichiara la Guerra ad
un altro, temendo che questi non il prevenga. Accendesi talvolta una
Guerra, perchè l’Inimico è troppo _forte_, e talvolta perchè è
troppo _debole_. An talvolta i nostri vicini certe cose onde noi
_manchiamo_, e _mancano_ di certe altre che noi _abbiamo_; e ci
ammazziamo l’un l’altro, finattanto che essi piglino le nostre, o ci
diano le loro. Puossi con giustizia far la Guerra a un Alleato possessore
di alcune Fortezze che ci convengono; oppure d’un tratto di Paese, che
se al nostro fosse unito, renderebbe la figura di questo più regolare.
Se un Principe fa una spedizione di Truppe per un Paese, il cui Popolo
sia povero ed ignorante, può egli legittimamente sterminare la metà
degli Abitanti, e ridurre in ischiavitù l’altra metà, col disegno di
renderla colta, e di correggere la ferocia de’suoi costumi. E’una
communissima pratica, che un principe chiamato in ajuto d’un altro per
iscacciare un Usurpatore, si renda poscia padrone del Paese, uccida,
avveleni, o mandi in esilio il Principe soccorso. La parentella per
nascimento o per maritaggio, è una sorgente feconda di querele fra due
Potenze; e più che vi ha di prossimità di sangue, e più rinforzasi la
disposizione del querelarsi: Le Nazioni _povere_ son di _cattivo umore_,
e le Nazioni ricche sono _insolenti_. Or chi non vede che
l’_insolenza_, e il _cattivo umore_ non si accorderanno mai? Tutte
queste ragioni producono che il mestiere del _Soldato_ spaccisi pel più
onorevole di tutti gli mestieri: mercè che un _Soldato_ è un _Yahoo_
preso a nolo per accoppare a sangue freddo il maggior numero che può
d’Animali di sua spezie, tutto che questi non gli abbiano inferito in
verun tempo il menomo male.

Avvi pure in _Europa_ un’altra sorta di Principi, i quali non si
trovano in bastevole forze per far la guerra da se medesimi, ma che
imprestano alle Nazioni ricche le loro Truppe a un tanto per giorno per
ciascun Uomo; ed è questa una delle loro più fiorite e più oneste
rendite.

Ciò che mi raccontate, dissemi il mio Padrone, in proposito della
Guerra, mi presenta grand’Idee di quella Ragione, di cui vi presumete
dotati: Con tutto ciò, egli è una spezie di felicità che la possanza
di voi altri _Yahoos_ non sia proporzionata alla vostra malizia; e che la
Natura vi abbia costituiti poco men che assolutamente inabili a far del
male.

Essendo che, non isporgendo in fuora le vostre bocche come quelle di
molti Animali, è difficilissimo che vi mordiate l’un l’altro. Quanto
a’vostri quattro piedi, son eglino così teneri, e a nuocere sì poco
idonei, che uno de’nostri _Yahoos_ ne assalirebbe una dozzina
de’vostri. Così; quando voi sì alto montar faceste il numero di
que’che in certe Guerre sono stati uccisi è forza necessariamente, che
abbiate detta _la cosa che non è_.

Un tratto tale d’ignoranza fecemi sorridere: e perchè io non era
affatto affatto novizio nel mestier della Guerra, gli descrissi i
Cannoni, le Colubrine, i Moschetti, le Carabine, le Pistole, le Palle, la
Polvere, le Spade, i Pugnali, gli Assedi, le Ritirate, gli Assalti, le
Mine, le Contrammine, i Bombardamenti, e le Battaglie Navali. Aggiunsi,
che in queste battaglie vi restavano talvolta estinti venti mila Uomini
per cadauna parte, e che il fuoco continuo, lo strepito ed il fumo
de’nostri Cannoni, ed eziandio i gridi de’feriti e de’moribondi,
erano un non so che da non potersi esprimere: Che negli Abbattimenti di
terra, i Vincitori si la va vano nel sangue, calpestavano sotto a’piedi
de’loro Cavalli i Vinti, e lasciavano i loro cadaveri per servir di
pasto a’Cani, a’Lupi, e agli Uccelli da rapina. E per esaltare il
valore de’miei Compatriotti, gli protestai, che io gli avea veduti far
saltar nell’aria, in un istante, un centinajo di nemici in un Assedio;
e che i corpi morti erano ricaduti a terra in mille pezzi, con estremo
divertimento degli Spettatori.

Io stava per internarmi in una più diffusa specificazione, allorchè il
Padrone m’impose silenzio. Disse: Che chiunque conoscesse il naturale
degli _Yahoos_, facilmente gli crederebbe capaci di tutte l’iniquità
testè da me mentovate, se la forza loro fosse eguale alla loro
ribalderia: Che il mio discorso non solo aumentata avea l’orribilità
ch’egli nodriva per que’Mostri, ma ancora suscitata in lui una
turbolenza non più saggiata: Che temeva che le sue orecchie non si
avvezzassero ad intendere cose abbominevoli, e che l’indignazione onde
allora si sentiva assalito, insensibilmente non iscemasse: Che non
ostante ch’egli avesse in aversione gli _Yahoos_ del suo Paese, gli
biasimava, a cagione delle loro odiose maniere, così poco, che un
_Ennayh_ (sorta d’Uccello rapace) a cagion della sua crudeltà: Ma che
quando una Creatura, la qual presume d’essere dotata di ragione, è
capace di certe scelleratezze; la corruttela di questa facoltà
sembravagli abbassarne gli Autori, fin a costituirgli inferiori alle
Bestie brute.

Disse di più: ch’ei troppo ne avea inteso in proposito della Guerra;
ma che per allora imbarazzavalo molto un altro articolo: Che io gli avea
dichiarato che alcuni Uomini della mia Ciurma si erano staccati dalla
loro Patria, perchè i litigj gli aveano messi in ruina: Che non poteva
immaginarsi, che per aver qualche controversia con un altro, fosse
d’uopo far grandi spese, acciocchè un Giudice qual de’due avesse il
torto o la ragione decidesse.

Ripigliai: Che veramente io non mi trovava versato in tutto ciò che
presso noi dicesi _Processi_, non avendo io, quasi mai, avuto che fare
con persone di Foro, eccettuatane una sola volta che io aveva posti di
mezzo alcuni Avvocati per chiedere risarcimento d’una ingiustizia che
mi si era praticata, senza aver mai potuto vederne il fine: Che con tutto
questo, avendo avuta l’occasione di strignere amistà con taluni che si
erano ruinati per le liti, e che furono in conseguenza costretti
d’abbandonarne la loro Patria, mi comprometteva di esibirgli su
quest’argomento alcune idee, per lo meno, superficiali.

Gli dissi: Che coloro, i quali profession facevano di questa Scienza,
uguagliavano in numero i Bruchi de’nostri Giardini; e che, tutto che in
generale esercitassero il mestiere medesimo, aveavi nulladimeno qualche
disparità nelle loro funzioni: Che la quantità prodigiosa di que’che
a quest’Arte applicavansi, era la cagione che tutti non ne potessero
sussistere in un modo onesto e legittimo, e che perciò era forza che
molti avessero ricorso all’industria, e all’artifizio: Che fra questi
ve n’erano alcuni che dalla loro più tenera giovinezza si erano
applicati ad imparar la Scienza di provare chi il _nero_ sia _bianco_, e
il _bianco_ sia _nero_: Che la temerità di costoro e l’audacia delle
loro pretensioni erano sì grandi, che ingannavano il semplice Volgo,
presso cui essi passavano per Uomini di consumata abilità; il che gli
metteva più in voga che tutti gli altri loro Colleghi. Furono di questa
pasta, io diceva proseguendo il mio ragionamento, que’co’quali io
ebbi a fare nella lite che ho perduta: e non saprei meglio darvi ad
intendere la lor maniera di trattar le Cause, che con un esempio.

Supponiamo che il mio Vicino s’intalenti di aver la mia _Vacca_; ei si
provede d’uno di questi Avvocati per provare che la mia _Vacca_ gli
appartiene. E’forza allora che io mi proveda d’uno altro per
difendere il mio diritto; poichè egli è contra tutte le Regole della
_Legge_ che un Uomo difenda la propia sua Causa. Ora in questo caso, io,
a cui appartiene la _Vacca_, ho due gran discapiti. Primieramente; il mio
Avvocato essendo avvezzo dalla sua giovinezza a difendere la falsità e
l’ingiustizia, trovassi totalmente fuori del suo elemento, quando si
tratta di parlare in favore dell’Equità, essendo che, come questa
funzione gli riesce affatto nuova; senza dubbio ei vi si prenderà alla
peggio, anche che volesse fare il suo meglio. Il secondo discapito è,
che la natura del mio affare esigge che il mio Avvocato sia molto cauto;
conciosiachè, come dall’impiego ditante persone dipende la loro
sussistenza, se il mio Avvocato tratta la mia Causa in modo che
l’affare resti immediate spedito, egli è certo d’attraersi, se non
l’indignazione de’suoi Superiori, l’odio; per lo meno, de’suoi
Confratelli, che lo risguarderanno come una spezie di serpente che si
nutricano nel propio seno. Il caso in termini; io non ho che due metodi
per conservar la mia _Vacca_. L’uno; di corrompere l’Avvocato della
Parte avversaria, promettendogli duplicata mercede, e quest’artifizio
naturalmente mi dee riuscire; poichè l’educazione, e il carattere del
Personaggio onde si tratta, mi lascian l’adito di sperare ch’egli
tradirà colui che d‘affidarsigli ebbe l’imprudenza. L’altro metodo
è, che il mio Avvocato non insisti punto sopra la giustizia della mia
Causa: anzi riconosca che la mia _Vacca_ appartiene al mio Avversario;
avendo l’evento mille volte dimostrato, che una gran prevenzione a
favore del successo d’un litigio si è, quand’egli notoriamente è
ingiusto.

E’una massima di questi tali, che tutto ciò che si è fatto per
l’addietro, puossi far di nuovo legittimamente. Ecco perchè essi
custodiscono in iscrittura con sommo scrupolo tutte le Sentenze già
pronunziate; insino quelle che per ignoranza o per corruttella rovesciano
le Regole più comuni dell’Equità e della Ragione. Tutte queste
sentenze divengono in loro mani come tante Autorità, con le quali eglino
procurano d’imbiancare i più neri deliti, e di giustificare le
pretensioni più inique: E questa pratica lor riesce sì bene, che non e
quasi possibile l’immaginare un Processo, in cui le due Parti, più
d’una Decisione in propio favore ad allegare non abbiamo.

Nelle loro dispute, sfuggono con sommo studio di venir al fatto; ma in
ricompensa, vorrebbono rinunziar piuttosto alla lor Professione, che
ommettere la menoma _Circostanza_ inutile. Per esempio; per ritornare al
supposto da noi piantato, non s’informeranno già con qual diritto la
mia Parte avversaria pretendi che la mia _Vacca_ le appartenga; bensì se
questa _Vacca_ sia nera o bianca; se le sue corna sieno lunghe o corte;
se il Prato in cui ella pascola sia tondo o quadro; a qual male ella sia
suggetta, e così del resto; dopo il che consultano tutti i Decreti
emanati in somigliante caso; _intermettono_ a un altro tempo la decision
della Causa, e d’_intermissione_ in _intermissione_, venti o
trent’anni dopo, dichiara il Giudice di chi sia la ragione o il torto.

E’d’uopo pur di riflettere che questi Signori anno un Gergo ch’è
loro particolare; intelligibile per essi soli; e in questo Gergo sono
scritte le loro Leggi. Principalmente per questo mezzo son riusciti in
confondere il vero col falso, il giusto con l’ingiusto; e ne sono così
eccellenti, che son capaci di disputare per trent’anni continui, per
sapere se un Campo, il qual da sei generazioni ha appartenuto a’miei
Bisavoli, sia di mia ragione o di quella d’uno Straniere, che d’esser
mio parente non ha mai preteso.

Per ciò che spetta all’esame dagli Accusati di delitti di Stato, i
processi non sono sì lunghi: imperocchè se que’che si trovano alla
testa degli Affari ancora (come mai non mancano) di far appoggiare queste
sorte di commissioni a persone di Legge, la cui compiacenza e
l’abilità sono lor cognite; queste, immediate che comprendono le
intenzioni de’lor Protettori, non differiscono di condannare o
d’assolvere gli Accusati; e ciò senza inferire torto veruno ad alcuna
delle forme prescritte dalla Legge.

M’interruppe a questo passo il Padrone per dirmi, ch’era ben un
peccato, che Uomini tali, come questi Avvocati, che aveano tante
conoscenze e tanti talenti, non si applicassero piuttosto a farne parte
agli altri. Io risposi, che il loro mestiere rubava tutto il lor tempo, e
che non aveano essi neppur il piacere di pensare a verun’altra cosa;
Che ciò era sì vero, che fuori della lor Professione, erano ignoranti e
stupidi più di quello che possa esprimersi: e che si avea riflettuto
ch’erano nemici giurati di tutto ciò che conoscenza si appella, come
se a scacciar la Ragione da tutte le Scienze dopo di averla bandita dal
loro mestiere, determinati si fossero.



CAPITOLO VI.

Continuazione del discorso dell’Autore, sopra lo stato del suo Paese,
sì ben govornato da una Regina, che vi si può far di meno d’un Primo
Ministro, Ritratto d’un tal Ministro.


IL mio Padrone diede indizj di non prestar compiuta fede alle mie
narrazioni, non potendo, come poscia il dichiaro, a verun patto
comprendere per qual motivo gli Uomini di Legge si dessero mille fastidj,
e formassero insieme una sorta di lega d’iniquità, non per altro che
per conturbare gli Animali di loro spezie. Per vero dire, ei soggiunse,
mi diceste ch’essi erano salariati a tal oggetto; ma somiglianti
termini in me l’idea menoma non risvegliano. Per isciorre questa
difficoltà, fui costretto di descrivergli l’uso della moneta, i
materiali ond’ella lavoravasi, e il valor de’metalli. Dissigli, che
quando un _Yahoos_ aveva in sua propietà una gran somma di questi
metalli preziosi, potea far acquisto di magnifiche vestimenta, di bei
Cavalli, d’immense Terre, di squisite vivande, di graziose Femmine, di
qualunque cosa di suo piacimento.

Che derivandone dal solo danajo sì maravigliosi effetti, i nostri
_Yahoos_ non credevano mai d’averne abbastanza per ispendere, o metter
da parte, secondo che piegar gli facesse o alla profusione o
all’avarizia la loro inclinazione: Che i Ricchi usufruttuavano degli
stenti de’Poveri, e che questi eran mille contra uno, in comparazione
di quegli: Che il grosso del nostro Popolo menava una vita miserabile, ed
era obbligato di faticar tutto l’anno dalla mattina alla sera, per
rendere provveduto un picciol numero d’Opulenti di tutto ciò che i
loro capriccj, o la lor vanità lor suggerivano. Internaimi in una
instruzione assai estesa su quest’argomento: Ma tanto e tanto il
Padrone meglio non mi capì; essendosi intestato che tutti gli Animali
fossero in possesso d’una sorta di diritto sopra le produzioni della
Natura, e ben ispezialmente que’che agli altri presiedevano.

Cotal pregiudizio gl’inspirò la curiosità di sapere, in che
consistessero quegli squisiti cibi che io aveva ricordati; e come potesse
darsi che alcuno di noi ne restasse privo: E quì l’enumerazione gli
feci di tutte quelle qualità che mi caddero sotto la memoria; del pari
che delle differenti maniere di manipolargli; il che non potea eseguirsi
senza la spedizione d’infiniti Vascelli per diverse parti del Mondo,
affin di riportarne peregrine frutte, e liquori d’un gusto eccellente.
Gli protestai, che conveniva far, per lo meno, tre volte il giro della
nostra Terra, prima che una  delle nostre qualificate Femmine servita
fosse d’una colezione che avesse tutti i suoi numeri. Ei disse,
ch’esser dovea un assai sgraziato Paese quegli che nutricar non poteva
i suoi Abitatori: Ma principalmente rendevalo attonito il riflettere, che
una Regione, così estesa come la nostra, tanto penuriasse d’_Acqua
dolce_, cosicchè il nostro Popolo a ritraere la sua bevanda per via di
mare costretto fosse. Io replicai; che l’_Inghilterra_, mia diletta
Patria, produceva tre volte più d’alimenti che i suoi Naturali
confumarne potevano; che avea luogo la proporzione medesima a riguardo
de’Liquori ond’essi si prevalevano per ispegnere la loro sete; e che
questi liquori si componevano con la frutta di certi Alberi, riuscendo
un’eccellente bevanda. Ma che per soddisfare all’intemperanza
de’Maschj, e alla vanità delle Femmine, noi mandavamo in altri Paesi
la maggior parte delle utili produzioni delle nostre Terre, per averne in
concambio dello cose che non servivano che a procacciarci infermità, e
che ad alimentare la nostra stravaganza e i nostri vizzi. Donde ne
seguiva per necessità, che molti de’miei Compatriotti fossero sforzati
di guadagnar la vita con infami o ingiusti mezzi; come sarebbe a dire,
co’frutti, cogli spergiuri, con l’adulazione, col giuoco, con la
menzogna, con l’arte di velenare, o con quella di pubblicar libelli.
Non fu senza un grande stento, che mi riuscì di far comprendere al mio
Padrone il senso di queste differenti espressioni.

Non è; continuava io, perchè ci manchino i liquori o l’acqua, ch’è
portato il vino al nostro Paese; bensì, perchè questi è una bevanda
che ci rallegra, che scaccia le nostre maninconie, aumenta le nostre
speranze, scema i nostri spaventi, e ci priva per qualche tempo
dell’uso d’una importuna Ragione; dopo di che non vi ha dubbio che
non c’immergiamo in un sonno profondo; comechè confessar si deggia che
quasi sempre ci risvegliamo malati; e che l’uso d’un tal liquore sia
per noi una sorgente feconda d’incomodità, che accorciano la nostra
vita, e la nostra sanità ruinano.

I più di nostra Nazione campano la vita somministrando alle persone
ricche, e un generale a tutti que’che anno con che pagare le loro
mercatanzie o i loro travaglj, somministrando, dico, tutte le cose che
lor bisognano. Per esempio; quando io sono presso la mia Famiglia, ed
abbigliato come essere il deggio, porto sopra il mio corpo gli stenti di
più di cento Operaj; la struttura e l’adobbamento della mia Casa il
doppio ne vogliono; e innanzi che mia Moglie sia guernita da’piedi
infino al capo, non bastano mille.

Io stava per discorrergli d’un’altra foggia d’Uomini che si
applicano a guarire i mali del corpo, giacchè ebbi l’occasione di dire
a lui che molti de’miei Marinaj erano morti di malattia: Ma non può
credersi la mia pena per farmi capire. Ei ben comprendeva, diceva egli,
che un _Houyhnhnm_, alcuni giorni prima della sua morte diveniva debole o
languido: ovvero per disgrazia in qualche modo piagavasi: Ma sembravagli
impossibile che la Natura, la qual affettuosamente è sollecita per tutte
le sue opere, generar possa ne’nostri Corpi tanti incomodi e tanti
mali; e di spiegargli un sì singolare e sì bizzarro Fenomeno mi pregò.
Gli replicai; che non era difficile lo scioglimento di questo problema, e
che la sregolatezza del nostro vivere era la sola cagione delle nostre
infermità: Che noi mangiamo quando non abbiamo fame, e che bejamo senza
aver sete: Che passiam l’intere notti tracannando gagliardi liquori
senza prendere cibo di sorta; il che appiccava al nostro corpo un
incendio, e precipitava la degistione o l’impediva: Che _Yahoos_
Femmine, dopo d’essersi prostituite per qualche tempo, contraevano
certe dolorose malattie, ch’elleno comunicavano a que’che commerzio
aveano con esso loro: Che queste e molte altre malattie trasfondevansi da
Padre in Figliuolo; che se si avesse voluto, non si avrebbe mai composto
un esatto Catalogo de’malori tutti onde il Corpo umano è suggetto;
poichè non aveavi parte veruna che in sua spezieltà cinque o secento
non ne annoverasse: Che l’intensa brama che abbiamo della nostra
guarigione, moltiplicati avea fra noi gli Medici, e vale a dire, Uomini
che si fanno un punto d’onore di risanare gl’Infermi. Per anni molti,
soggiunsi, sono mi applicato a questa Scienza, la qual, per altro, ha
qualche affinità con la mia Professione; e perciò posso dire senza
vanità, che mi è noto il metodo tenuto da questi Signori nelle loro
cure.

Loro gran principio si è: Che tutte le Malattie derivano da
_Ripienezza_; donde conchiudon eglino, che per guarire le indisposizioni
nella loro sorgente, conviene che il Corpo pratichi _Evacuazioni_, sieno
pel passaggio naturale, o pel vomito. A tal effetto, si accingono a
comporre di molte Erbe, di Minerali, di Gomme, d’Olj, di Conchiglie, di
Sali, di Escrementi, di Corteccie d’Alberi, di Serpi, di Rospi, di
Ranocchj, di Ragnoli e d’Ossa d’Uomini morti, il più abbominevole e
nauseante estratto che lor sia possibile: Estratto, che sul fatto stesso
è renduto dallo stomaco: e quest’è ciò ch’essi chiama _Vomitivi_:
oppure a quest’ammirabile mischiamento aggiungono alcune attossicate
Droghe, che che ce le fan prendere (secondo la fantasia del Medico) o pel
di sopra o pel di sotto, e un tal rimedio sconvolge sì crudelmente gli
budelli, che questi poco men che con la stessa pontualità dello stomaco,
il restituiscono; e ciò in loro lingua una _Purga_ o un _Cristero_ si
appella. Essendo che la Natura (come riflettono i Medici) ha destinata la
bocca all’_Intromissione_ del mangiare e del bere, e un’altra parte
alla loro _Ejezione_: quindi conchiudono questi Signori con grande
ingegno, che essendo la Natura in queste infermità fuori della sua
_Situazione_, conviene, per rimetterla, curar il Corpo in un modo
direttamente opposto all’instituto di lei; cioè, introdurre certi
composti pel di sotto, e far uscire ciò che si ha negl’intestini, per
la bocca.

Ma oltra le reali infermità, siam sottoposti a molte altre, che sono
puramente immaginarie, e per le quali i Medici anno inventato rimedj del
genere medesimo. An per tanto questi rimedj i loro nomi, perchè i mali
ne anno altresì: ed è da questa sorta di mali che le nostre _Yahoos_
femmine, sono assalite. Soprattutto sono eccellenti in _pronostici_ i
nostri Medici, e di rado lor succede che s’ingannino: poichè nelle
malattie reali e alquanto maligne, predicono quasi sempre, che
l’Infermo ne _morrà_, perchè il verificar il detto sta in loro
arbitrio: laddove non è in poter loro la guarigione: Ed ecco perchè
sempre si corre gran risico nelle loro mani, immediate che tanto an
eglino fatto di pronunziare al fatal sentenza, non volendo essere mentori.

Son essi eziandio d’una grande utilità a que’Mariti, e a quelle
Mogli che non si amano, a Primogeniti, a Ministri di Stato, e sovente a
Principi.

Io avea già per l’addietro avute alcune conversazioni col mio Padrone
sopra la natura del _Governo_ in generale, e peculiarmente del nostro,
ch’è l’oggetto dello Stupore e dell’Invidia di tutto l’Universo:
Ma uscitomi a caso il vocabolo di Ministro di Stato, ei mi ordinò di
dirgli quale specie di _Yahoo_ io propiamente disegnava con questo
termine.

Gli risposi, che la nostra Regina essendo esente d’ambizione, e non
avendo il menomo prurito d’accrescere la sua possanza a spese de’suoi
Vicini o a pregiudizio de’propj suoi Sudditi, era sì lontana
dall’aver bisogno d’alcuni Ministri corrotti per eseguire o
ricuoprire qualche sinistro disegno; che anzi, pel contrario, ogni suo
disegno era diretto da lei a vantaggio del suo Popolo; e che ben lunge
dall’affidar interamente a qualche Favorito o a qualche Ministro la sua
autorità, sommetteva l’amministrazione de’suoi Ministri o de’suoi
Favoriti al più severo esame del suo Maggiore Consiglio. Ma io aggiunsi,
che sotto alcuni precedenti Regni, e attualmente in qualche Corte
dell’_Europa_, aveavi qualche Principe inoffizioso, ma schiavo del
proprio piacere; il qual trovando per esso lui troppo pesanti le redini
del _Governo_, rimette vale nelle mani d’un _Primo Ministro_: di cui
per quanto il potei conchiudere, non solamente dalle Azioni di coloro che
sono stati onorati di quest’impiego, ma eziandio da molte Lettere, da
molte memorie, e da molti Scritti pubblicati da essi medesimi e contro
a’quali fin al presente chi che sia non ha protestato in contrario,
eccone un fedele Ritratto.

_Un Primo Ministro_, (già s’intende d’un Primo Ministro di cattiva
intenzione, non mancandone di buoni, anzi d’ottimi) è un Uomo affatto
immune da Giocondità e da Maninconia, da Amore e da Odio, da Compassione
e da Collera: tutte le sue passioni, in una insaziabile sete di possanza,
di ricchezze e d’onori consistono. Servesi egli del talento, del
discorso come gli altri Uomini, con questa picciola differenza pero, che
non parla mai per dichiarar ciò che egli pensa: Non pronunzia mai una
_verità_, che col secondo fine che voi la prendiate per una _bugia_: ne
una _bugia_, che con l’intenzione che la spacciate per una _verità_.
Quegli ond’ei mormora in loro assenza, son vicini a un avanzamento, e
subito ch’ei comincia a lodarvi o sulla vostra faccia, o sull’altrui
fate conto d’essere perduto nell’istante stesso. Il men equivoco
contrassegno della propria disgrazia è, quando impegniti con esso voi in
qualche promessa, e soprattutto quando questa promessa sia confermata dal
giuramento: Mercè che in un tal caso un Uomo saggio si ritira, e alle
sue speranze rinunzia.

Sonovi tre maniere, per le quali un Uomo d’indole pessima pervenir può
al Posto di _Primo Ministro_. La prima: procurando che certe persone, o
Moglie, o Figliuola, o Sorella, abbiano un onesto compiacimento per gli
desideri del Principe: La seconda; tradendo, o intentando di soperchiare
il suo Predecessore: e declamando con furioso zelo contra la corruttela
della Corte nelle Pubbliche Ragunanze, la terza. Questi Ministri,
spezialmente que’che sono dotati di quest’ultimo carattere, di tutti
gl’Impieghi disponendo, anno una maravigliosa facilità in guadagnare
il maggior numero de’suffragj in un Consiglio, e conservano con questo
mezzo la propia Autorità; e alla peggio; un _Atto di general indulto_
(ond’io ne descrissi la natura) gli mette a coperto da qualunque
inquisizione: dopo di che prendono essi congedo dal Publico, carichi
delle spoglie della Nazione.

Il Palazzo d’un _Primo Ministro_ di depravato genio è un semenzajo,
ove altri se ne formano: I Paggj, gli Stafieri ed il Portiere imitando il
Padrone loro, divengono tanti _Ministri di Stato_ ne’loro diversi
Appartamenti, ed imparano a segnalarsi in tre cose: in _insolenza_;
nell’_Arte di mentire_, e in quella di _corrompere quegli ond’eglino
pretendono di valersi per adempire i loro infami divisamenti_. Molte
persone di Carattere fanno regolarmente la loro Corte a questi Signori; i
quali talvolta, a forza di destrezza e di sfaciataggine, anno la buona
sorte di succedere al loro Padrone.

Per ordinario, un cattivo _Primo Ministro_ è governato da una Vecchia
Innamorata o da un Cameriere zerbino, e costoro sono i due canali per cui
scorrono tutte le grazie, e che propiamente, i _Supremi_ Reggenti del
Regno, chiamar si potrebbono.

Disputando un giorno col mio Padrone sopra la Nobiltà del mio Paese, ei
mi fece un complimento che io non aspettava. Son persuaso, mi disse, che
voi siate uscito di qualche Famiglia Nobile; poichè in figura, in colore
e in proprietà superate tutti gli _Yahoos_ di nostra Nazione, tutto che
lor cediate in forza e in agilità; il che attribuisco alla differenza
che vi ha fra il vostro modo di vivere, e quello degli altri Bruti: ma
vie più crescono le mie prevenzioni a favor vostro, scorgendo che siete
dotato non solo dalla facoltà di parlare, ma altresì di alcuni principj
di Ragione. Fra noi, continuò egli, gli _Houyhnhnms bianchi_, gli
_Sauri_, i _Bigj_, non sono così ben fatti come i _Baj_, come i _Leardi
ruotati_, e come i _Neri_, e neppure non nascono con tanti talenti
d’Anima, nè con tanta capacità per approffitarsene; ed ecco perchè
sieno destinati a servir agli altri senza aspirar giammai alla menoma
Autorità; il che presso noi sarebbe un non so che di mostruoso.

Umilissimamente il ringraziai della buona opinione ch’egli aveva di me:
ma rendeilo nello stesso tempo assicurato che tutt’altro che illustre
era il mio nascimento, dovendo il viver mio ad onorati Borghesi,
provveduti appena de’sufficienti mezzi per la passabile mia educazione:
Ch’era altra cosa nel nostro Paese la Nobiltà, di quel che il fosse
nel Paese di lui: Che i nostri Giovani di qualità erano allevati
nell’infingardia e nel lusso: Che immediate pervenuti a un certo numero
d’anni, consumavano il loro vigore, e pel commerzio di alcune
prostituite donne, malori infami contraevano: Che avendo scialacquate
poco men che tutte le loro sostanze, si ammogliavano con qualche femmina
del comune, unicamente pel danajo di lei, senza aver mai per essa, nè
prima, nè dopo il maritaggio, il più leggier sentimento di benevolenza
o di stima: Che da questi disuguali accoppiamenti era prodotta una
difforme e mal sana figliuolanza: donde ne veniva che quasi mai una
Famiglia di somigliante razza, non toccasse la quarta generazione: se
pure non avesse attenzione la Sposa di scegliere fra’suoi Vicini, o fra
suoi Amici, un Padre di buona consistenza; il tutto per motivo della
sanità della prole di lei: Che un corpo mal composto, un’aria
infermiccia, e una faccia pallida e smunta, erano gli ordinarj
contrassegni d’un Uomo del più sublime carattere; laddove una sanità
d’Atleta in un Uomo qualificato, forma la più diffamante di tutte le
presunzioni contra la saggezza di sua Madre.



CAPITOLO VII.

Amor dell’Autore per la sua Patria. Riflessioni del Padrone di sopra il
Governo dell’Inghilterra, tale che avealo descritto l’Autore; con
alcune comparazioni e con alcuni paralelli sopra il medesimo Argomento.
Osservazioni dell’Houyhnhnm sopra la Natura umana.


STupiranno forse i miei Leggitori che io fossi così sincero
sull’Articolo degli Uomini, parlandone a una Creatura, in cui la mia
rassomiglianza cogli _Yahoos_ del Paese, impressa già avea una pessima
opinione della Natura umana. Ma ingenuamente confesserò loro, che le
numerose virtù di quegli ammirabili _Houyhnhnms_, contrapposte a’vizzi
nostri innumerevoli, aveanmi a un segno aperti gli occhi, che a ravvisar
cominciai le Azioni e le Passioni degli Uomini in un modo totalmente
nuovo, e a toccar con mano che l’onore della mia spezie il menomo
risparmio più non meritava. Oltrechè impossibile riuscito mi sarebbe
d’imporne a una persona di sì perspicace discernimento come il mio
Padrone, il qual ogni giorno mi facea avvedere degli sbagli che io
prendeva; sbagli che io non avea mai raffigurati, e che fra noi non si
registrerebbono neppure nell’Indice delle umane fragilità. Aggiugnete,
che l’esempio del mio Padrone stesso aveami inspirato un perfetto
orrore per tutto ciò che falsità o dissimulazione dinominasi; e che mi
sembrava sì amabile la _Verita_, che come fosse possibile che se le
mancasse di fedeltà o di rispetto, io comprendere non poteva.

Ma aveavi, se ardisco di dirlo, un motivo di maggior forza, che mi
spronava a un tal eccesso di candidezza. Dopo appena un mio soggiorno
d’un anno nel Paese, concepì tanto amore e tanta venerazione per gli
Abitatori, che risolutamente mi determinai di più non rivenire fra gli
Uomini, e di passar il resto del mio vivere fra que’virtuosi
_Houyhnhnms_; il cui esempio e il cui commerzio aveano di già prodotti
sopra di me sì felicissimi effetti. Ma la fortuna, eterna mia nemica, a
mio dispetto, fra gli _Yahoos_ di mia spezie mi ricondusse. Con tutto
ciò, egli è una sorta di mia presente consolazione, quando penso, che
in ciò che dissi de’miei Compatriotti, _scemai_ i difetti loro per
quanto io osava sulla faccia d’un Uditore sì intelligente, e che a
cadaun articolo diedi un tornio il più _favorevole_ ch’egli poteva
esigere: perocchè, per vero dire, io credo che al mondo Uomo non siavi
interamente immune di parzialità a riguardo della sua Patria.

Ho riferite in sostanza le diverse conversazioni ch’ebbi col mio
Padrone pel più del tempo che con mia gloria passai in servigio di lui:
Conversazioni, che furono assai più lunghe, ma che quì non ne ho esteso
che un solo compendio, per timore di recar tedio a chi legge.

Risposto ch’ebbi a tutte le sue Quistioni, e che parvemi pienamente
soddisfatta la sua curiosità, mandò egli un giorno, di buon’mattino,
a cercarmi; e dopo di avermi ordinato di sedere, (onore che fin allora ei
non mi avea impartito) disse, di aver con attenzione riflettuto sopra
tutta la mia Storia, per quanto aveva ella rapporto a me e al mio Paese:
Ch’ei ci riputava come Animali, a cui, senza saperne il come, era
toccata in retaggio una picciola porzion di _Ragione_, onde noi non ci
serviamo che in aumento de’nostri vizzi _Naturali_, e in acquisto di
nuovi, non impressici mai dalla Natura: Che noi ci svestiamo de’pochi
talenti ch’ella ci avea accordati; ma che in ricompensa, a moltiplicar
gli difetti e le nostre necessità, avevamo perfettamente riuscito: Che
per quanto toccava a me, egli era un’evidenza che io non avea nè la
forza, nè l’agilità d’un _Yahoo_ comune: Che l’affettazione di
camminare sopra i soli piedi di dietro, esponevami al risico di cadere ad
ogni instante: Che io avea rinvenuta l’Arte di togliere il pelo dal mio
mento che la Natura aveavi collocato per difendere quella parte contra il
calore del Sole, e contra il rigore del freddo: Finalmente, che io non
poteva nè correre velocemente, nè rampi carmi sugli Alberi come i miei
Fratelli, (quest’è il nome ch’ei compiacquesi d’impor loro) gli
_Yahoos_ di quel Paese.

Che il nostro _Governo_ e le nostre _Leggi_ supponevano necessariamente
in noi grandi sbagli di _Ragione_, e perciò anche di _Virtù_, mercè
che per governare una Creatura _ragionevole_ basta la sola _Ragione_;
donde ne proveniva ad evidenza, che a gran torto ci arrogavamo noi il
titolo d’Animali di ragione dotati; come si rilevava da tutto ciò che
io stesso de’miei Compatriotti narrato avea; tutto che egli ben avesse
osservato, che per conciliar loro la propia sua stima, io avea occultate
molte particolarità che lor nuocevano, e sovente detta _la cosa che non
è_.

L’aver egli riflettuto, che se da un canto io rassomigliava agli
_Yahoos_ per rapporto alla figura del Corpo, dall’altro questi Bruti
aveano una gran conformità con noi a riguardo delle inclinazioni e delle
qualità dell’Anima, lo stabilivano in un tal risentimento. Dissemi,
ch’era una cosa più che costante che gli _Yahoos_ fomentano maggior
aversione gli uni per gli altri, che per alcuni Animali d’un’altra
spezie; e che la ragion che rendevasi, si traeva dalla loro difformità,
la qual da tutti era ravvisata negli altri, senza che il fosse in se
medesimi: Che per questo motivo parevagli d’essere appagato del nostro
ritrovamento di _cuoprirci_ il corpo; essendo che, mercè un somigliante
antivedimento, esibivamo agli altri minor incentivo di concepire contra
di noi quella sorta d’odio ch’è cagionato dalla laidezza: Ma che al
presente egli accorgevasi del propio inganno, e che le dissensioni di
queste bestie nel suo Paese aveano la stessa origine che le nostre,
secondo la mia rappresentazione. Imperocchè, disse egli, se voi gittate
a cinque _Yahoos_ tanto nutrimento che ne vuol per cinquanta; invece di
mangiare in buona pace, si tireranno le orecchie, procurando ognuno
d’essi _d’aver ogni cosa per se solo_; e che per questa ragione un
servidore stava sempre presente quando gli _Yahoos_ mangiavano
ne’Campi; quando, per altro, dentro in casa, in una buona distanza gli
uni dagli altri, legati si tenevano: Che se una Vacca, o per vecchiezza,
o per accidente, veniva a morire; innanzi che un _Houyhnhnm_ potesse
farla trasferire alla sua abitazione per darla in pasto a’propj suoi
_Yahoos_, correvano a truppe que’del Vicinato per divorarla; donde
seguivane una zuffa, tale che io avea descritta; comechè di rado
accadesse che si ammazzassero l’un l’altro; non già per mancanza di
buona volontà, bensì di strumenti convenevoli: Che si sono talvolta gli
_Yahoos_ di confine diverso data battaglia, senza che veruna cagion
visibile scoprir si potesse; guatando sempre que’d’un Distretto
l’opportunità di sorprendere quegli d’un altro: Che se lor fallisce
il progetto, se ne ritornano; e non avendo nemici a mordere, si mordono
gli uni gli altri, e si sbranano.

Che in certi Campi del suo Paese vi erano _lucenti Pietre_ di colori
diversi, che gli _Yahoos_ furiosamente amavano; e che come queste
_Pietre_ si sprofondavano talvolta in terra, passavan essi le intere
giornate a scavare con le loro zampe per ritrarnele, e dappoi ne’loro
canili le nascondevano; riputando come la massima di tutte le disgrazie,
che alcuno di loro Camerate, fiutasse il soro tesoro. Aggiunse il mio
Padrone: Che non eragli mai riuscito di trovar la ragione del loro amore
per queste _Pietre_, nè di qual uso elleno esser potessero per un
_Yahoo_; ma che cominciava a credere che ciò provenisse dal principio
medesimo d’_Avarizia_, che io avea attribuito alla Natura Umana: Che un
giorno, per modo di pruova, egli avea tolto un monticello di _Pietre_
stesse da un luogo, ove uno de’suoi _Yahoos_ le avea sotterrate; che
alcune ore dopo quest’Animale, trovando il suo Tesoro asportato, si era
messo a gettare spaventevoli gridi, e avea dati segni della più profonda
tristezza; che non avea voluto nè mangiare, nè dormire, nè lavorare,
finattanto che il Padrone ordinato avesse ad un servidore di rimettere
segretamente nel loro luogo queste _Pietre_; il che eseguito appena il
Mostro le ritrovò, e ritrovò con esse la giocondità sua primiera; ma
fu sì cauto, che meglio le nascose, e da quel tempo innanzi egregiamente
servì.

D’una cosa, in oltre, mi assicurò il Padrone, e che io stesso, ebbi
l’incontro di confrontare ed è, che in que’Campi ove si produceva
maggior quantità di queste _lucenti Pietre_, seguivano i più frequenti
e i più crudeli conflitti.

Dissi; ch’era una cosa ordinaria, quando due _Yahoos_ scoprivano una
somigliante _Pietra_ in un Campo e venivano alle mani per possederla, che
un terzo si gettasse sul suggetto del contrasto, e per esso lui se
l’asportasse; il che, per quanto pareva al mio padrone, mal non
assomigliavano alla _Spedizione de’nostri Processi_: e per verità non
credei a proposito di contraddirgli; poichè il procedere del terzo
_Yahoo_, era più giusto che molte sentenze de’nostri Giudici; essendo
che al saldar de’Conti, cadauno de’due _Yahoos_ non perdeva che la
_Pietra_ per cui battevansi; laddove nelle nostre Corti di _Giustizia_ è
forza di pagar il Giudizio, che delle nostre pretensioni ci priva.

Il Padrone proseguendo il suo ragionamento, si spiegò; che non aveavi
cosa che rendesse gli _Yahoos_ più abbominevoli, quanto
quell’universale avidità, con la quale eglino divorano tutto ciò che
cadeva loro fra l’ugne, o fosser erbe, o radici, o biada, o carne
d’animale, oppure tutte queste cose confuse insieme: E che si avea
osservato, come peculiare lor bizzarria, che amavan piuttosto di camminar
alcune leghe per andar in busca d’un alimento mediocremente cattivo,
che di averne un buono tutto lesto presso di se. Oltracciò, che sono
insaziabili; e quando il possono, mangiano fin a crepare; masticando
poscia una certa _radice_, che loro cagiona una generale evacuazione.

Vi è pure un’altra sorta di _radice_ assai _sugosa_, ma che è assai
difficile a ritrovarsi, per cui impazziscono gli _Yahoos_, e che succiano
con infinito piacere, producendo in loro gli effetti medesimi che il Vino
in noi; e vale a dire che si abbracciano, che si dan bastonate, che
urlano, chiacchierano, per terra dimenansi, e di poi si addormentano nel
fango.

Notai io medesimo che gli _Yahoos_ sono i soli Animali del Paese che sien
suggetti ad alcune infermità; le quali, non ostante, sono in assai minor
numero di quelle de’nostri Cavalli, e non derivano punto dal pessimo
trattamento che lor si pratica, bensì dalla loro immondezza e dalla loro
ghiottoneria.

Per quello spetta alle Scienze, alle Leggi, all’Arti, alle Manifatture,
e a molte altre cose di simil genere, confessò il mio Padrone che non
rinveniva quasi conformità veruna fra gli _Yahoos_ del suo Paese ed i
nostri; ma che in ricompenza trovava una perfetta rassomigliansa nelle
nostre inclinazioni. Per vero dire, diceva, avea egli inteso da alcuni
_Houyhnhnms_, ch’essi aveano osservato che molte Truppe di _Yahoos_
erano provvedute d’una spezie di Comandante, assai agevole a
distinguersi dagli altri, perchè sempre egli era il più _mal composto_
e il più _tristo_: Che per ordinario questo Comandante avea un Favorito
il qual _rassomigliavagli_ al possibile, e il cui impiego era di _leccar
i piedi, e il di dietro del suo Signore, e di condur Yahoos femmine nel
canile di lui_; il che di tempo in tempo fruttavagli qualche buon
ritaglio di carne d’Asino. E’odiato questo Favorito da tutta la
Truppa; ed ecco il perchè, affin di mettersi al coperto dal risentimento
di lei, ei si tenga sempre _il più che può, vicino alla persona del suo
Comandante_; il qual mantienlo nel suo posto, finchè abbia trovato un
Favorito più sordido e più cattivo di lui: ma altresì nell’instante
stesso gli da il congedo; e il successore, egualmente che tutti gli
_Yahoo_; del Distretto, Giovani, Vecchj, Maschj e Femmine, vengono in
corpo, e scaricarono sopra di lui, dalla testa infino a’piedi le loro
lordure. Non è improbabile, aggiunse il mio Padrone, che ciò che or ora
ho detto, possasi applicare, fin a un certo segno, alle vostre _Corti_,
a’vostri _Favoriti_, e a’vostri _Ministri di Stato_: ma meglio di me
voi giudicar ne potete.

Non ardj di batter becco sopra una sì maligna insinuazione, la qual
costituiva l’umana intelligenza assai al di sotto della sagacità
d’un _Cane_ comune, che ha l’abilità di distinguere la voce del
miglior _Cane della Muta_, senza ingannarsi mai.

Instruimmi il Padrone che negli _Yahoos_ regnavano certe ragguardevoli
qualità: ond’io non gliene avea fatta menzion di sorta; per lo meno,
che io avea toccate assai di passaggio, in parlandogli degli _Yahoos_ di
mia spezie. Mi disse che questi Animali, come gli altri Bruti, aveano le
femmine loro in comune; con questa differenza però, che la _Yahoo_
femmina soffriva il maschio, finchè restasse incinta; e che i maschj
combattevano con tanta perfidia contra le femmine, del pari che contra
quegli del loro sesso: due cose ch’erano d’una brutalità senza
esempio.

Un’altra odiosa singolarità ch’egli notata avea negli _Yahoos_ era,
l’eccessivo lor sucidume in tempo che tutti gli altri Animali
sembravano animatori della pulitezza. Quanto alle due prime accuse, gradj
molto di lasciarle passare senza risposta; perchè per altro io aveva
nulla a dire. Ma per la terza, avrei ben potuto ripigliar facilmente, se
nel Paese stato vi fosse un solo Porco, che non vi era per mia disgrazia:
Essendo che, non ostante che quest’Animale sia per altro più amabile
d’un _Yahoo_, sarebbevi, a parer mio, parzialità nell’asserire
ch’ei fosse più pulito: del che il Padrone si sarebbe convinto egli
medesimo, se veduto avesse tutto ciò che mangiano queste bestie, e con
qual voluttà nel letame dimenarsi.

Accennò altresì il mio Padrone un altra qualità che i suoi domestici
ravvisata aveano in molti _Yahoos_, e che parevagli inesplicabile. Disse,
che talvolta saltava in capo ad un _Yahoo_ di ritirarsi in un cantone, di
mettersi ad urlare, e di dar de’colpi di piede a tutti quegli che se
gli accostavano, tutto che fosse giovane, si portasse bene, e che avesse
il suo bisogno di mangiare e di bere: Che non poteano immaginarsi i suoi
servidori qual mosca l’avesse punto: E che il solo rimedio ch’essi
sapevano, era di farlo ben lavorare; perchè riflettuto aveano che una
fatica alquanto laboriosa, dissipava insensibilmente questa spezie di
fantasie. La mia svisceratezza per l’Uman Genere quì m’impose il
più profondo silenzio; comechè molto bene io distinguessi in ciò che
io avea inteso, quelle sorte di capriccj, che produconsi
dall’_infingardia_, dalla _lussuria_, e dalle _ricchezze_: Capriccj,
ond’io mi comprometterei di guarire alcuni miei Compatriotti con la
medesima _Regola di governo_.

Il Padrone avea eziandio osservato, che sovente qualche _Yahoo_ femmina
mettevasi dietro d’una motta di terra, overo dietro d’un cespo: che
quando passavano certi giovani maschj, ella veder si faceva per metà,
gli eccitava con morfie poi fingeva di nascondersi; e che allor quando un
maschio si avanzava, ella piano piano ritiravasi volgendosi allo spesso
al’indietro, e se ne suggiva con affettato spavento in qualche
opportuno luogo, dove erale noto che il maschio l’avrebbe seguita.

Tal altra volta, se una femmina straniera capita presso loro, tre o
quattro del suo lesso la circondano, la spiana da capo a piedi,
civettansi l’une l’altre, e poscia con un’aria sdegnosa e di
disprezzo ivi la piantano.

Può essere che in queste specolazioni del mio Padrone entrasse alquanto
di sottigliezza Con tuttocciò, non fu senza una spezie di stordimento e
altresì di rammarico, che io meditai che fosse forse un instinto delle
femmine l’essere _Invidiose_, _Vane_, e _Libertine_.

Ad ogni instante stavami aspettando che il Padrone fosse per accusare gli
_Yahoos_ d’amendui i sessi di certi sregolati appetiti, che affatto
affatto non sono incogniti fra noi. Ma di ciò nulla mi disse.



CAPITOLO VIII.

Particolarità concernenti gli Yahoos. Eccellenti qualità degli
Houyhnhnms. Qual sia la loro educazione, e in quali esercizj nella lor
giovinezza s’impieghino. Loro Assemblea generale.


COme naturalmente meglio che il mio Padrone doveva io conoscere la Natura
umana, facile mi riusciva di applicarne a me medesimo e a’miei
Compatriotti le lezioni. Per maggiormente instruirmi, il pregai di
permettermi di passar alcuni giorni fra gli _Yahoos_ del Vicinato; il che
con bontà egli mi accordò; essendo bastevolmente persuaso che
l’aversione che io nutriva per quelle bestie, non avrebbe lasciato
impeciarmi del loro esempio, e oltracciò, ingiunse a uno de’suoi
domestici, ch’era un Caval Sauro vigorosissimo, e d’un gregio
naturale, di non abbandonarmi mai, e di guerentirmi dagl’insulti degli
_Yahoos_; i qualli credendomi di loro spezie, mancato non avrebbono
d’assaltarmi, pel principio medesimo che instiga le cornacchie di
boscho a gettarsi sopra le domestiche, quando esse ne incontrano.

Fin dalla prima lor giovinezza sono agili prodigiosamente gli _Yahoos_;
ma al dispetto d’una tal qualità, mi riuscì un giorno di mettere le
mani addosso ad un giovane maschio di tre anni, e procurai con tutti i
possibili contrassegni di amistà d’addomesticarlo: Ma il picciolo
diavolo posesi ad urlare e a mordermi con tanta violenza, che fui
costretto di lasciarlo andare; e n’era ben tempo; perciocchè il suo
urla mento attratta avea tutta la Truppa de’vecchj, i quali, trovando
che io non avea fatto male di sorta al giovane, e che il Caval Sauro era
accosto accosto di me, nel loro dovere si tennero.

Per quanto ravvisar potei, mi son paruti gli _Yahoos_ i più indocili di
tutti gli Animali, e solo idonei a portare o a strascinare fardelli. Non
ostante; io penso che un tal difetto provenga principalmente dalla loro
ostinazione; che per lo resto, son eglino astuti, maliziosi, traditori e
vendicativi. Sono forti e robusti, ma codardi; e per questa ragione
medesima, insolenti, rampanti e crudeli. Si è osservato che que’di
_pelo rosso_ dell’uno e dell’altro sesso, son più lascivi e più
mariuoli degli altri, e che gli superano eziandio in forza, e in agilità.

Gli _Houyhnhnms_ tengono un certo numero di _Yahoos_ dentro a capanne
vicino alle loro Case, e ne ritraggono qualche servigio, in cui impiegar
non vogliono i propj Domestici: Quanto agli altri, gli mandano in certi
campi, ov’essi vanno in traccia di radici, d’erbaggj e di carogne per
alimentarsi. E’grande altresì la destrezza loro nel cacciar donnole e
_Luhimuhs_, (sorta di sorcio selvaggio,) ch’essi divorano con una
golosità che non può esprimersi. Gli ha ammaestrati la Natura a
scavarsi in terra delle buche di tal ampiezza, che la maggior parte può
contenere il maschio, la femmina, e tre o quattro de’loro figliuoli.

Dalla loro infanzia nuotano come tanti ranocchj, e per molto tempo
possono stare sott’acqua; il che reca loro il modo di prendere sovente
de’pesci, che le femmine portano a’loro piccini: E su questo
proposito un’Avventura assai piacevole mi accadde.

Un giorno che col mio Protettore, il Cavallo Sauro, trovavami fuori, e
che faceva un gran caldo, il pregai che mi permettesse di lasciarmi
bagnare in una riviera, presso cui noi eravamo. Ei se ne compiacque, e
allora mi spogliai e mi gettai a nuoto. Per mia disgrazia una giovane
_Yahoo_, che tenevasi occultata dietro un’eminenza, vide tutto ciò che
io faceva, e infiammata da un non so qual prurito, per quel che
conghietturammo il Sauro ed io, venne nuotando verso il luogo ove io mi
bagnava. Non ebbi mai per tutta la mia vita un somigliante spavento, e il
mio Difenditore quindi stavasene in qualche distanza, non sospettando
neppure la possibilità d’un infortunio di questa fatta. Ella
abbracciommi con un modo assai significativo; ed io mi messi a gridare
sì orribilmente, che il mio Protettor mi sentì, e venne di galoppo alla
nostra volta: del che ella appena se ne avvide, che mi lasciò, tutto che
con l’ultima ripugnanza, e si adagiò sull’eminenza opposta, urlando
per tutto il tempo che mi riabbigliai. Fu questi un suggetto di
divertimento pel mio Padrone e per tutta la sua Famiglia, del pari che di
mortificazione per me: Essendo che io più negar non poteva d’essere un
vero e reale _Yahoo_, giacchè le femmine aveano per me una propension
naturale, come per uno di loro spezie. Ed è cosa vie più notabile, che
colei onde io parlo, non era di rosso pelo, (il che scusar potrebbe un
alquanto irregolare appetito,) bensì di pelo nero, e neppure sì affatto
spaventevole come le altre femmine di sua razza; credendo io che’ella
gli anni undici di età non eccedesse.

Avendo io soggiornato trenta e sei mesi in quella Regione, è giusto che
ad esempio degli altri Viaggiatori, instruisca chi legge delle maniere e
delle costumanze di quegli Abitanti, alla conoscenza di cui
particolarmente mi sono applicato. Come per natura gli _Houyhnhnms_ sono
inclinati alla pratica di tutte le virtù che convenir possono a una
ragionevole Creatura, loro gran principio si è, ch’è d’uopo
coltivar la _Ragione_, e non lasciarsi governar che da lei. Presso loro
non è mai la _Ragione_ una casa problematica, sopra la quale si abbia
campo d’allegare plausibili argomenti d’ambe le parti, bensì sempre
le colpisce con la sua evidenza; e ciò ella dee naturalmente fare,
quando il suo lume, o dalle passioni, o dall’interesse non sia
oscurato. E mi ricordo a questo proposito, che con estrema difficoltà
ottenni di far comprendere al mio Padrone il senso del termine
_Opinione_; o come un punto essere potesse disputativo, insegnandoci la
Ragione a non affermare o a non niegare se non ciò di che siamo
certificati. Ora, immediate che non vi ha certezza di sorta, esservi non
potrebbe nè affermazione, nè negazione: Cosicchè le controversie, le
dispute, e il tuono decisivo sopra false o dubbiose proposizioni, sono
fra gli _Houyhnhnms_ mali incogniti.

Similmente quand’io spiega vagli i nostri differenti sistemi di
_Filosofia Naturale_, ei si metteva a ridere, perchè una Creatura, la
qual si arrogava; il titolo di _Ragionevole_, si facesse gloria di sapere
le conghietture dell’altre, e ciò in cose, in cui questo sapere,
quando pur fosse di buona lega, non poteva servire a nulla. E in questo
egli entrava totalmente ne’sentimenti di _Socrate_, tali che da
_Platone_ ci son riferiti: il che io registro come un tratto d’Elogio
per quel Principe de’Filosofi: Considerai dappoi molte volte, qual
infinito torto inferirebbe questa massima a’Libraj dell’_Europa_, e
altresì al concetto di molti Letterati.

L’Amicizia, e la Benevolenza sono le due Virtù primarie degli
_Houyhnhnms_: e non sono già ristrette in alcuni particolari oggetti
queste Virtù, ma sopra tutti gli individui della Razza diffondonsi. Il
più straniero Cavallo vi è trattato nel modo stesso come il più
prossimo Vicino, e ovunque ei vada, e sempre come in sua propia Casa. Con
la più esatta precisione osservan essi le Leggi della _Decenza_ e della
_Civiltà_; ma assolutamente non capiscono ciò che presso noi dicesi
_Complimento_. Non anno tenerezza di cuore per gli loro Puledri; e la
cura che prendono di loro educazione, è unicamente della loro _Ragione_
un effetto. E io vidi il mio Padrone palesare per gli Puledri del suo
Vicino l’affetto medesimo ch’egli aveva per gli suoi propj.
Pretendono che la Natura insegni loro ad amare in generale tutta la
spezie, e che la _Ragione_ non sappia distinguere gli Uomini, gli uni
dagli altri, se non quando essi si sappiano far distinguere
nell’esercizio delle Virtù.

Allorchè le Mogli delli _Houyhnhnms_ an dato alla luce due Puledri,
cioè uno dell’uno, e uno dell’altro sesso, non anno più commerzio
co’loro Mariti, purchè lor non avenga di perdere uno de’loro
figliuoli, il che assai di rado succede: Ma in questo caso elleno si
riuniscono; oppure, se l’accidente avviene a un _Houyhnhnms_ la cui
Moglie non sia per istato di fecondità, qualche Amico gli fa regalo
d’uno de’suoi figliuoli, e travaglia poscia a riparare questa perdita
volontaria. E’necessario un tal avvedimento per impedire che il Paese
non troppo sia popolato. Ma questa regola non risguarda già gli
_Houyhnhnms_ d’una razza inferiore; essendo lor permesso di procreare
tre Puledri di cadaun sesso, per servir di Domestici nelle Famiglie
Nobili.

Ne’Maritaggj son eglino attenti che i colori de’due partiti non
facciano un’ingrata mischianza nella loro posterità. La _forza_ è il
carattere che più pregiasi nel maschio, e la _bellezza_ nella femmina:
non mai per un principio d’_Amore_ bensì affine d’impedir che la
Razza degeneri; con ciò sia che se sia che una femmina superi in
_forza_, se le sceglie uno sposo distinto per la tua _bellezza_.
Galanteria, Amore, Presenti, Dote, sono cose ond’essi non anno la
menoma idea, e per cui mancano insino di termini nella loro favella. Per
altro verun motivo non si sposano i Giovani, se non perchè i loro
Parenti e i loro Amici così vogliono: è questa una cosa che veggon fare
tutto giorno, e che risguardano come una delle azioni necessarie d’un
Essere ragionevole. Ma la violazione d’un tal Contratto è
assolutamente una reità inudita.

Nell’educazione della lor Gioventù d’amendue i sessi, è ammirabile
e degnissimo perchè l’imitiamo, il loro metodo. Voglion essi che i
loro Figliuoli sieno pervenuti agli anni diciotto d’età, anzi che sia
lor permesso di mangiar vena, se certi giorni si eccettuino: E un tal
esempio, purchè vi si praticassero alcuni leggieri cangiamenti, potrebbe
essere d’un grand’uso fra noi.

La _Temperanza_, l’_Industria_, l’_Esercizio_, e la _Pulitezza_, sono
cose egualmente prescritte a’Giovani de’due sessi: E dissemi più
d’una volta il Padrone, che noi eravamo pazzi di dar alle femmine
un’altra educazione che a’maschj: eccettuatisi tuttavia alcuni
articoli che concernono la regola dell’Economia; per lo che com’ei
giudiziosissimamente il rifletteva, noi facciamo che la metà delle
nostra Gioventù non sia buona che a metter al Mondo de’Figliuoli: e
come non bastasse questo primo tratto di pazzia, continuava egli, ne
commettete un secondo vie più maggiore, confidando l’educazione della
vostra prole ad Animali, ad allevarla sì poco idonei.

Ma fin dalla prima lor giovinezza avvezzano gli _Houyhnhnms_ i lor
discendenti alla corsa, alla fatica, e all’indurarsi negli stenti e
nelle incomodità: Per tal effetto alcune volte fan lor mutar di galoppo
dell’erte colline, ovvero ingiungon loro di correre sopra sassosi
sentieri, e poscia di getarsi tutti sudore in un qualche stagno. Quattro
volte in un anno la Gioventù d’un tal Distretto si raguna in un
assegnato luogo, per distinguere colui che avrà fatto maggior progresso
in velocità, in forza, o in agilità: e n’è ricompensato il Vincitore
con una Canzone composta in onore di lui, la qual è come una spezie di
monumento di sua vittoria. Il giorno di questa Festa an cura alcuni
Domestici di far recare da una Truppa di _Yahoos_ il fieno, la vena, ed
il latte ch’è necessario per lo pasto degli _Houyhnhnms_; dopo di che
incontanente sono rispediti que’mostri, perchè non ne resti incomodata
la Compagnia.

Ogni quattr’anni verso l’_Equinozio di Primavera_, un Consiglio, il
qual rappresenta tutta la Nazione, assembiasi in una pianura situata a
venti miglia dalla nostra Casa; e dura cinque o sei giorni
quest’Assemblea. Vi si esamina lo stato e il bisogno de’differenti
Distretti; se essi abbondino in fieno, in vena, in Vacche, e in _Yahoos_,
oppure se in alcuna di queste cose penurino. Che se si rinviene, il che
è molto di rado, che alcuni Distretti manchino di queste bestie, o di
queste produzioni della terra, ne son eglino provveduti per unanime
consentimento e per una generale contribuzione di tutta l’Assemblea.
Ivi si regola il cambio e il dono de’figliuoli. Per esempio; se un
_Houyhnhnm_ ha due maschj; egli un ne baratta con un altro, che ha due
femmine: E quando muore un figliuolo la cui madre non è più in età di
averne vi si determina la Famiglia, da cui de v’essere riparata questa
perdita.



CAPITOLO IX.

Gran dibattimento nell’Assemblea generale degli Houyhnhnms, e in qual
modo terminò. Scienze che anno corso fra loro. Loro Edifizj. Maniera con
la quale essi seppelliscono i loro Morti. Imperfezione del loro
Linguaggio.


A Tempo mio, tre mesi a un di presso innanzi la mia partenza, si tenne
una di queste grandi Assemblee, e fuvvi mandato il mio Padrone per
rappresentarvi il nostro Distretto. In questo Senato, rimesso fu sul
tappeto l’antico loro contrasto; è per vero dire, l’unico, che in
quel Paese venuto sia alle mie orecchie.

Consisteva questo contrasto (a quel che al suo ritorno me ne disse il
Padrone) in sapere se gli _Yahoos_ esser dovessero starminati dalla
faccia della Terra, o nò? Un de’Membri, il qual era per
l’affermativa; allegò diversi Argomenti di gran peso con dire: Che
erano gli _Yahoos_ non solamente le più succide, e le più brutte bestie
state mai prodotte dalla Natura; ma altresì le più indocili, le più
ostinate, e le più maliziose: Che di nascosto succiavan le poppe delle
Vacche che appartenevano agli _Houyhnhnms_, uccidevano e mangiavano i
loro Gatti, calpestavano sotto a’piedi i loro erbaggj e la loro vena, e
che commesse avrebbono ancora mille altre stravaganze, se non vi si
avesse invigilato. Menzione fece d’una general tradizione, la qual
diceva: Che nel Paese non erano stati sempre _Yahoos_; bensì che aveavi
alcuni secoli che due di questi Bruti comparvero insù d’un monte; e
ch’era cosa incerta se il calor del Sole, di corrotto fango, o della
spuma marina formati gli avesse: Che questi _Yahoos_ ebbero
de’figliuoli; e che in poco tempo divenne sì numerosa la loro razza,
che tutto il Paese ne restò infettato: Che per rimediare ad un tal male
si ragunarono tutti gli _Houyhnhnms_, assalirono gli _Yahoos_, e gli
sforzarono a ritirarsi in un luogo, ove gli circondarono, d’ogni
intorno; distrussero i vecchj, e presero, cadaun d’essi, due giovani in
propia casa: Che tanto gli addomesticarono, quanto Animali, sì
naturalmente salvatici, eran capaci di dimesticamento, servendosene per
portare e per istrascinare fardelli: Che una tal tradizione avea una
grand’aria di probabilità; e che somiglianti Creature, _Hinhniamshy_
(cioè naturali del Paese) essere non potevano, atteso l’orrido
abborrimento che gli _Houyhnhnms_, del pari che gli altri Animali,
aveano, loro; abbonimento, per vero dire, alle pessime lor qualita
dovuto, ma che non ostante non sarebbe così eccessivo, se fosser elleno
originarie di quella Terra: Che il capriccio saltato in capo agli
_Houyhnhnms_ di prevalersi di _Yahoos_ imprudentemente lor avea fatta
trascurare la razza degli _Asini_, che sono Animali bellissimi, assai
più facili ad addomesticarsi, e molto più pulitti che gli _Yahoos_; e
d’altra parte, assai robusti per risistere alla fatica, comechè, per
altro, a questi in agilità cedessero: Che se non erano aggradevoli i
loro ragghj, il suono, nulla dimeno, non n’era così orribile come
quello degli urlamenti degli _Yahoos_. Molti altri dissero il loro parere
sopra l’argomento medesimo; ma il più ragguardevole di tutti fu quegli
del mio Padrone, comechè io possa asserire senza vanità, che a me solo,
egli debba l’obbligo del maraviglioso espediente alla Ragunanza da lui
proposta. Approvò egli la tradizione testè mentovata; e affermò che i
due primi _Yahoos_ siensi veduti nel Paese, vi erano capitati per la via
di mare: Che mettendo piede a terra, ed essendo abbandonati da’loro
Compagni, si erano ritrati nelle Montagne, ove a poco a poco degenerato
avendo, col cader del tempo erano divenuti assai più selvaggj che
que’di loro spezie nella Regione dond’erano venuti. Fondava la sua
asserzione sull’aver egli attualmente in sua Casa un maraviglioso
_Yahoo_, (era questi io,) di cui la maggior parte di essi inteso avea a
parlare, e che molti veduto aveano. Lor narrò in qual modo ei avessemi
ritrovato: Che il mio Corpo era coperto di cuojo d’Animali, o de’peli
di loro, assai industriosamente accomodati: Che io parlava un linguaggio
mio particolare, ed aveva a perfezione imparato il loro: Che io gli avea
raccontati i diversi avvenimenti che tratto aveanmi in quel Paese; Che
quando io mi svestiva, a un _Yahoo_ appunto rassomigliava; con la
differenza però che io era più bianco, men peloso, e ch’erano più
corte le mie zampe. Aggiunse: Che io avea procurato di persuadergli che
nel mio Paese, ed eziandio in molti altri, gli _Yahoos_ erano Animali
ragionevoli, che ritenevano gli _Houyhnhnms_ come schiavi: Che avea
osservate in me tutte le qualità d’un _Yahoo_, fuorchè alquanto io
era più colto, e che io avea qualche tintura di Ragione, benchè in
questo proposito gli _Houyhnhnms_ avessero tanta superiorità sopra di me
quanta io ne aveva sopra gli _Yahoos_ loro: Che, fra l’altre cose,
aveva io fatta menzione d’una nostra costumanza di castrare gli
_Houyhnhnms_ quand’erano giovani affin di rendergli più dimestici;
ch’era agevole e sicura l’operazione; ch’ei punto non arrossiva
nell’apprendere certe cose da’Bruti, giacchè la Formica dava lezioni
d’industria agli _Houyhnhnms_; e che l’Arte del fabbricare era lor
insegnata dalla Rondine, (poichè io così traduco il termine di
_Lyhauuh_; non ostante che quest’Uccello sia assai più grande delle
nostre Rondini:) che si potrebbe metter in uso una tale invenzione a
riguardo de’giovani _Yahoos_; il che renderebbegli non solo più
mansueti e più docili, ma altresì n’estinguerebbe ben presto la
razza, senza essere necessitati di ricorrere a rimedj violenti: Che nel
tempo stesso gli _Houyhnhnms_ sarebbero _esortati_ a coltivare la razza
degli Asini, che sono Animali, non che a preferirsi in tutte le
circostanze agli _Yahoos_, ma anche superiori loro nell’avvantaggio
d’essere capaci di recar servigio dall’età di cinqu’anni; laddove
gli _Yahoos_ prestar non ne possono che dalli dodici.

Ecco tutto ciò che il mio Padrone giudicò allora a proposito di
raccontarmi, di quanto si era discusso nel Gran Consiglio. Ma occulta mi
tenne una particolarità, che personalmente mi risguardava, ond’io
guari non istetti a risentire le funeste conseguenze, come a suo luogo ne
renderò informati i miei Leggitori; ed è appunto da questo momento che
io comincio a registrare gl’infortuni del rimanente mio vivere.

Non anno Lettere gli _Houyhnhnms_, e conseguentemente non conoscono nulla
che per tradizione. Ma come accadono poche cose di gran momento fra un
Popolo di sì buona società, inclinato alla’pratica di tutte le Virtù
governato unicamente dalla Ragione, e separato da tutte l’altre
Nazioni, non è carica d’una gran massa di fatti la loro Storia. Ho
già avvertito che non sono eglino suggetti a malattie di sorta; donde ne
siegue che i Medici sono loro soverchj. Con tutto ciò, son provveduti di
eccellenti rimedj composti di diversi semplici, per guarir le ferite
delle pietre aguzze onde possono restar piagati gl’pasturali loro; e
altresì le contusioni accidentali de’loro Corpi.

Contano gl’anni per la Rivoluzione del Sole e della Luna, ma non fanno
suddivisione veruna di settimane: Sono loro ben cogniti i muovimenti di
questi due Astri, e comprendono la natura dell’_Ecclissi_; ma ciò è
tutto in proposito della loro _Astronomia_. Per l’aggiustatezza delle
loro comparazioni, e per la vaghezza e l’esattezza delle descrizioni
loro superano in Poesia tutti i Morali. Sono assai abbondanti nell’una
e nell’altra di queste cose i loro Versi, e per ordinario vertono sopra
l’eccellenza dell’Amicizia, o sopra le lodi de’Vincitori nelle
Corse, o in altri corporali esercizj. Le loro fabbriche, tutto che
semplicissime, sono assai comode, e interamente al coperto da tutte le
ingiurie dell’Aria gli mettono.

Servonsi gli _Houyhnhnms_ di quella parte concava che vi ha fra il
pasturale e l’ungia de’loro piedi d’innanzi, come noi fasciamo
delle nostre mani, e ciò con una quasi incredibile desterità. Mungono
le loro Vacche, ammuchiano la loro vena, e fanno in generale tutte quelle
operazioni, per le quali delle nostre mani ci prevagliamo. Anno una sorta
di focaje assai dure, che essi aguzzano con altre pietre, ed onde ne
compongono strumenti che lor tengono luogo di zeppe, di scuri e di
marteli. Di queste pietre medesime formano una spezie di falce, con cui
segano il loro fieno, e la loro vena, che in certi Campi cresce da per se
stessa: Gli _Yahoos_ ne portano i fascj all’Abitazione, e i Domestici
gli ripongono in molte coperte Capanne per toglierne il grano, ch’è
poscia riservato ne’Magazzeni. Construiscono vasi di legno e di terra,
ed espongono al Sole questi ultimi, perchè induriscano.

Se non avviene loro qualche straordinario accidente, invecchiano molto, e
sono interrati nel più tenebroso luogo che possasi rinvenire, senza che
i loro Parenti, nè i loro Amici diano contrassegno veruno di allegrezza
o di tristezza per la loro morte. Essi medesimi quando si accorgono del
propio fine, lasciano il Mondo con sì poco rincrescimento, come se si
licenziassero da un Vicino che stato fosse visitato da loro. Mi rammento,
che avendo un giorno il mio Padrone pregato uno degli Amici suoi di
andare con la Famiglia di lui in sua Casa per dar sesto a qualche
importante interesse, fuvvi la Moglie, nel giorno accennato, co’due
figliuoli di lei, ma molto tardi, allegandone due ragioni: La prima; che
la mattina stessa suo Marito era _Shnuvvnh_. E’molto espressivo in lor
favella il termine, ed è difficilissimo a tradursi in _Inglese_:
propiamente significa, _ritornarsene alla prima sua madre_. Era l’altra
scusa; che essendo morto assai tardi la mattina suo Marito, aveale
bisognato qualche tempo per regolare co’suoi servidori il luogo della
sepoltura di lui: ed io notai ch’ella era tanto allegra quanto ogni
altro della Compagnia.

Vivon essi generalmente infino a’settant’anni o settanta cinque, ma
di rado fino agli ottanta. Alcuni giorni innanzi la loro morte, mancano a
poco a poco, ma senza verun sentimento di dolore. In quel frattempo sono
visitati da’loro Amici, mercè che uscir non potrebbono secondo il
solito. Non ostante, dieci giorni prima del loro passagio, nel qual
calcolo pochissime volte s’ingannano, restituiscono tutte le loro
visite, essendo portati dagli _Yahoos_ in una vettura, di cui prevalgonsi
in altri incontri, come a dire, quando son vecchi, incomodati, o in
Viaggio.

E’una cosa assai singolare che gli _Houyhnhnms_ non abbiano verun altro
termine che quello di _Yahoo_, per disegnare in generale tutto ciò
ch’è cattivo. Così, quando spiegar vogliono la stupidezza d’un
servidore, il mancamento che un ragazzo ha commesso, o un brutto tempo,
aggiongono a cadauna di queste cose il vocabolo _Yahoo_, e chiamano,
_hhnm Yahoo_, _Vvhnaholm Yahoo_, _Ynlhmnh Vvthlma Yahoo_; e una Casa mal
fabbricata _Yaholmhnmrohlnvv Yahoo_.

Sarebbe un gran mio contento se potessi più stendermi sopra l’egregie
qualità di quel Popolo maraviglioso: Ma come ho l’intenzione di
pubblicare fra poco tempo un Volume che unicamente verserà su
quest’argomento, ivi rimetto i miei Leggitori; a’quali son ora per
render conto della catastrofe più funesta che mai siami accaduta per
tutta la mia vita, e che attualmente eziandio attossica tutta la dolcezza
de’giorni miei.



CAPITOLO X.

Qual beata vita menasse l’Autore fra gli Honyhnhnms. Progressi
ch’egli fa nella Virtù conversando con esso loro. L’Autore è
avvertito dal suo Padrone di dover abbandonar il Paese. Egli sviene per
lo dolore, e dopo di aver ricuperati i suoi sensi, promette d’ubbidire.
Riescegli di costruire una barchetta, e all’avventura in mare ei si
mette.


AVeami assegnato il mio Padrone un Appartamento disgiunto per sei Verghe
dalla Casa di lui, e che io avea accomodato e guernito a mia fantasia. In
guisa di pavimento e di tappezzerie io avea poste stuoje di vinci
lavorate da me medesimo. Cresce il canape in quel Paese senza essere
seminato, e gli Abitanti punto non se ne servono; ma io il mi si in opera
per fare una spezie di fodera; di cui, col mezzo di piume d’uccelli
presi al laccio lavorato di capelli di _Yahoos_, molti guancili formai.
Io avea fatti due sedili, per bontà del Cavallo Sauro che mi diede mano.
Consumate ch’ebbi interamente le mie vestimenta, me ne feci di nuove
con pelli di coniglio, e con quelle d’un certo animale ch’essi
chiamano _Hnuhnoh_, e il cui corpo è ricoperto d’una fina peluria.
Servimi altresì di queste farmene delle calze; e lavorai delle suole di
legno che unì, alla meglio, al cuojo del di sopra; e logorato che fu
questo cuojo, procurai di rimediarvi con pelli di _Yahoos_ seccate al
Sole. Ricrea va mi talvolta in rintracciar del mele nelle cavità degli
Alberi, che io poscia rimescolava con l’acqua, o che col mio pane
mangiava. Uomo allora non vi avea, che meglio di me intendesse
l’aggiustatezza di queste due massime: Che la Natura si contenta di
poco; e che la necessità è la madre dell’invenzione. Io godeva
d’una sanità perfetta a riguardo del Corpo, e della più amabile
tranquillità per rapporto all’Anima. Nè all’inconstanza d’un
Amico, nè all’ingiurie d’un Nemico, o secreto o dichiarato, io non
soggiaceva. Non mi correva l’obbligo di guadagnarmi il favore d’un
Grande, o quello d’un suo Favorito a forza di adulazione e di viltà.
Non mi bisognava l’esser difeso contra la frode o contra
l’oppressione. In un si beato soggiorno non vi erano Medici che
distruggessero il mio corpo, nè Uomini di Legge che la mia fortuna
ruinassero i non Delatori per ispiare le mie azioni e le mie parole, o
per manipolar accuse contra di me; non Importuni, non Maldicenti, non
falsi Amici, non Assassini di strada, non Procuratori, non Ruffiani, non
Buffoni, non Giuocatori, non begli Spiriti presupposti, non nojosi
Ciarloni, non Litiganti, non Rapitori, non Omicidi, non Capi di Partito:
Non Uomini, la cui seduzione o l’esempio incoraggissero gli altri al
mal fare; non tenebrose Carceri, non manaje, non forche, non berline: Non
impostura, non orgoglio o affettazione; non Isciocchi, non Isgherri, non
Ebbri, non pubbliche Prostituite, e non infami malattie: Non Pedanti
ignorantissimi e gonfi del loro sapere, non Briganti, non Insolenti, non
Bestemmiatori: Non Canaglie che i vizzi an tratta dalla miseria, non
Galantuomini che ve gli ha immersi una incorrotta virtù: Non Prepotenti,
non Suonatori di violino, non Giudici, non Maestri di ballo.

Io avea la sorte d’essere ammesso alla conversazione di alcuni
_Houyhnhnms_, che di tempo in tempo venivano a far visita, o a pranzare
col mio Padrone. Egli, ed i suoi Amici si abbassavano talvolta infino ad
intavolarmi delle quistioni, e ad ascoltare le mie risposte. Qualche
volta pure io accompagnava il Padrone nelle visite ch’ei lor rendeva.
Non mi prendeva mai la libertà di parlare, se non era per appagare
qualche dimanda: il che tuttavia io faceva contra voglia, essendo che
quegli era tempo tutto perduto, che meglio impiegato avrei in ascoltando.
Osservano gli _Houyhnhnms_ nelle loro conversazioni le regole più esatte
della _Decenza_, senza che manifestino neppure il menomo indizio di saper
ciò che noi _Cerimonia_ chiamiamo. Quando si parlano, non
s’interrompono mai, non si annojano, nè contraddicono. Intesi lor dire
più d’una fiata, che il miglior mezzo di rianimare il ricreamento in
una Ragunanza, era il tacere per alcuni instanti: del che più volte fui
testimonio: mercè che nel frattempo di somiglianti picciole pause, io
rifletteva che si risvegliavano nuove idee, le quali un nuovo fuoco alle
loro conversazioni imprimevano. Versano, per ordinario, i loro
ragionamenti sopra l’Amicizia, la Benevolenza e l’Economia: talvolta
sopra l’opere della Natura, o sopra alcune tradizioni dell’Antichita:
sopra le Leggi della Virtù, sopra i precetti invariabili della Ragione:
oppure sopra qualche deliberazione che deesi prendere nella prossima
Assemblea de’Deputati della Nazione, e sovente sopra le diverse
vaghezze, e sopra l’eccellenza della Poesia. Posco aggiugnere senza
vanità, che la mia presenza non di rado ha somministrata materia
a’loro trattenimenti: perchè al mio padrone serviva di motivo di
parlar a’suoi Amici della mia peculiare Storia, e di quella del mio
Paese. Come ciò ch’essi dissero su quest’argomento non recava onore
all’Umana Natura, penso che sarà in grado di chi legge il dispensarmi
dalla narrazione.

Ingenuamente confesso, che il poco di conoscenza, qualunque ella sia, che
io posseggo, da me è dovuto alle Lezioni che ho ricevute dal mio
Padrone, e a’saggi ragionamenti che ho intesi dagli Amici di lui.

Io non potea supplire a’muovimenti di rispetto che gli avvantaggj del
Corpo, e soprattutto le ammirabili qualità dell’Anima degli
_Houyhnhnms_ eccitavano in me. Per vero dire, da principio io non
risentiva quella naturale venerazione che gli _Yahoos_, e gli altri
Animali del Paese lor portavano, ma a saggiarla troppo non tardai, e ad
aggiugnervi quella riconoscenza e quell’amore, onde la bontà con la
qual essi mi distinguevano dal rimanente di mia spezie, sì degni
rendevagli. Quand’io pensa va alla mia Famiglia, a’miei Amici, o
a’miei Compatriotti, od anche agli Uomini in generale, gli considerava
come se stati essi fossero in figura, e in inclinazione realmente
_Yahoos_; con la sola differenza ch’erano alquanto più colti, che
parlavano, e che aveano in retaggio una Ragione, di cui nulladimeno non
si servivano che per moltiplicare i propj vizzi; de’quali, i loro
fratelli, gli _Yahoos_ di quel Paese, non avevano che quella sola
porzione che stata in loro impressa dalla Natura. Quando mi accadeva di
specchiarmi in un Lago o in una Fonte, mi trovava assalito da un non so
qual orrore; e più sopportevole della mia mi riusciva la vista d’un
_Yahoo_ ordinario. Conversando con gli _Houyhnhnms_, e considerandogli
con diletto, sonomi insensibilmente avvezzato a prendere qualche cosa
dell’aria loro, e della loro andattura; e gli Amici miei assai sovente
mi an fatta fare osservazione, che spasseggiando noi in un sentiero
piano, io _trottava come un Cavallo_; il che sempre presi per un
graziosissi no complimento.

Nel più forte delle mia felicità, e in tempo che io, senz’altro,
stava sicuro di passare in quel Paese gli restanti miei giorni, il mio
Padrone una mattina di più buon’ora del solito, mandò a chiamarmi. Mi
avvidi di qualche di lui confusione, e ch’ei non sapeva da qual parte
cominciare il suo discorso. Dopo un brieve silenzio, dissemi: Ch’eragli
ignoto in qual senso io dovessi prendere ciò che egli stava per
notificarmi: Che nell’ultima Assemblea, al passo della quistione in
proposito degli _Yahoos_ i Deputati di tutti gli altri Distretti
dichiarato aveano: Che stupivan essi al segno maggiore ch’egli nella
sua Famiglia trattasse un _Yahoo_ (era io quel desso) anzi in _Houyhnhnm_
che in Bruto: Che conversasse con esso meco, come se dal mio commerzio
ritrar potesse qualche piacere: Ch’era inaudita una somigliante
condotta: e oltracciò, egualmente opposta alla Natura e alla Ragione.
Aggiunse il mio Padrone, che per tanto avealo _esortato_ l’Assemblea
d’impiegarmi come gli altri Animali di mia spezie; oppure d’ordinarmi
di ritornarmene a nuoto al luogo, donde io era venuto: Che il primo di
questi espedienti era stato unanimamente rigettato da tutti gli
_Houyhnhnms_ che mi aveano veduto o in di lui Casa, o in quelle di loro:
Imperocchè, allegavan eglino, essendo io, con la natural malizia di
quegli Animali, dotato di qualche principio di Ragione, doveasi temere
che io non gli guidassi con esso meco nelle montagne, per quindi gittarci
nottetempo sulle mandre degli _Houyhnhnms_; il che era tanto più
probabile, quanto che noi tutti eravamo d’un rapace ed infingardo
temperamento,

Dissemi di più il Padrone, che egli _Houyhnhnms_ suoi Vicini lo
stimolavano tutto giorno ad eseguire l’_Esortazione_ dell’Assemblea,
e ch’egli non ardiva di recarvi maggior indugio. Mi accertò di
dubitare che possibile mi fosse di guadagnar nuotando un altro Paese, e
che per tal effetto desiderava che io costruissi un Vascello; il qual in
picciolo rassomigliasse a quegli onde io fatta avergliene la descrizione,
e con cui staccarmi potessi da quelle lor Terre: Che per altro io non
sarei solo ad intraprendere una tal opera, ma che i suoi Servidori, ed
altresì i suoi Vicini mano mi porgerebbono. Quanto alla vostra persona,
continuò, sarei stato molto contento di tenervi al mio servigio,
giacchè ho trovato che corretto vi siete di molti difetti, col procurar
d’imitare gli _Houyhnhnms_, per quanto un Essere d’una Classe
inferiore n’è capace.

A questo passo far riflettere debbo a’miei Leggitori, che un decreto
dell’Assemblea generale di quel Paese è significato col Vocabolo
_Hnhleayn_ che spiega un’_Esortazione_, ciò provenendo, perchè essi
non concepiscono come una Creatura ragionevole possa essere _forzata_ a
qualche cosa, come si possa comandarlela; imperocchè non saprebbe ella
disubbidire alla Ragione, senza rinunziare nel tempo stesso al titolo di
Creatura ragionevole.

Gittommi in sì fatta disperazione il ragionamento del mio Padrone, che
incapace di soffrire l’orribilità del mio stato, cadei svenuto
a’piedi di lui. Ricuperati ch’ebbi i miei sensi, mi protestò egli
che mi aveva creduto morto; non essendo quel Popolo a somiglianti deliqui
suggetto. Risposi con fiacco tuono, che beato me se una morte improvvisa
terminate avesse le mie sciagure! Che tutto che io non avessi a replicar
cosa alcuna sopra l’_Esortazione_ dell’Assemblea, nè sopra le
instanze degli Amici di lui, mi sembrava, non ostante, alquanto men di
rigore non avrebbe potuto disconvenire a quell’alta Ragione che
appariva in tutti i loro giudizj: Che io non poteva far a nuoto neppur
una lega: e che probabilmente avrei dovuto farne più di cento, anzi di
approdare a qualche Paese; Che per fabricare un picciolo Vascello,
bisognavami molti materiali ch’era lor impossibile di provvedermi, e
che perciò io risguardar dovea loro _Esortazione_ come una sentenza di
morte contra di me pronunziata: Che una morte appunto violenta era il
menomo de’mali che io temessi; ma che in modo veruno esprimere io non
potea la mia afflizione pensando, che quando anche per una serie di
miracoli di restituirmi sano e salvo alla mia Patria mi riuscisse, sarei
obbligato di passar i miei giorni fra gli _Yahoos_, ed esposto a ricadere
ne’vizj miei primieri, per mancanza di esempj, che sul dritto sentiero
della Virtù mi tenessero: Che mi era pur troppo noto sopra quali stabili
ragioni fondati fossero i Decreti degli _Houyhnhnms_, per presumere di
fargli rivocare con gli argomenti d’un miserabile _Yahoo_ come me. E
perciò, dopo di averlo umilissimamente ringraziato dell’offerta
fattami in proposito dell’assistenza de’suoi Domestici; e di averlo
pregato ad accordarmi uno spazio di tempo proporzionato alla grandezza
dell’opera, gli dissi che io mi accigneva a conservar la mia vita per
quanto fosse ella miserabile; e che se mai ritornato fossi
nell’_Inghilterra_, io non disperava d’essere di qualche uso a quegli
di mia spezie, col propor loro i virtuosi e saggj _Houyhnhnms_ in modelli.

Fecemi il Padrone un’assai obbligante risposta, e due mesi mi accordò
per metter in ordine il mio Cajcco. Ordinò pure al Cavallo Sauro, mio
intrinsechissimo, di seguire in tutto le mie instruzioni; posciachè io
mi era espresso che il solo di lui ajuto bastato mi sarebbe.

La prima mia attenzione fu di portarmi a quel luogo della spiaggia, ove i
miei Marinaj mi avevano messo a terra. Salì un eminenza; e riguardando
da tutte le parti in mare, credei di scuoprire una picciola Isola al
Greco-Levante. Diedi di mano al mio canocchiale; e vidi allora
distintamente ch’essere ella dovea cinque leghe da me, per lo meno
secondo il mio calcolo; comechè il mio compagno la spacciasse per una
nuvola: e ciò poi non era una gran maraviglia; essendo che, come egli
non conosceva altro Paese che il suo, era cosa naturale che distinguere
non potesse oggetti situati in mezzo all’acqua, in tanta distanza così
ben come me, a cui era sì familiare quest’elemento.

Fatta una tale scoperta, fui di ritorno all’Abitazione. Andai il giorno
dietro col Caval Sauro in un bosco a una picciola mezza lega da noi, per
tagliarvi le legna onde io bisognava per l’esecuzione del mio
imprendimento. Non istancherò chi legge con una diffusa descrizione di
tutto ciò che facemmo in questo proposito: lor basterà di sapere che
nel termine di sei settimane, con l’ajuto del mio Compagno, venni a
capo di costruire una maniera di barchetta _Indiana_, e quattro remi. Le
funi di mio servigio eran lavorate di canape, e di pelli d’_Yahoos_ la
mia vela. Consistevano le mie provisioni in alcuni Coniglj, e in alcuni
Uccelli bolliti, e in due vasi; l’uno di latte, d’acqua l’altro
ripieni.

In uno stagno vicino alla Casa del mio Padrone, saggiai se la barchetta
tenesse all’acqua, e procurai di otturare alcune picciole aperture:
dopo di che transferirono gli _Yahoos_ alla riva del mare il mio Vascello
sotto gli auspizj del Caval Sauro, e d’un altro Domestico.

Lesta che fù ogni cosa, e giunto il giorno della mia partenza, presi
congedo dal Padrone, dalla Padrona, e da tutta la sua Famiglia, con le
lagrime agli occhj, e con la disperazione nel cuore. Ma il Padrone, per
curiosità, e forse (se non vanamente ardisco di dirlo) per amicizia a
riguardo mio, volle vedermi a mettermi in mare: e pregò alcuni de suoi
Vicini d’accompagnarlo. Fui costretto d’aspettar più d’un ora
prima che l’acqua cominciasse ad alzarsi; e dopo ciò, osservato avendo
che il vento era buono per guadagnare l’Isola da me scoperta, per la
seconda volta dal mio Padrone mi licenziai, ma nel tempo che io mi
prostrava per baciar l’ungia del piede di lui, ei m’impartì
l’onore di levarla, e d’accostarla galantissimamente alle mie labbra.
Non mi sono ignote tutte le critiche che mi son tirate addosso per aver
fatta menzione di quest’ultima circostanza. Essendo che i miei nemici
si son preso il piacere di spargere, che non era probabile che un
Personaggio sì illustre accordato avesse un sì strepitoso contrassegno
di favore a una Creatura di tanta inferiorità. Ma senza giustificare la
mia veracità su questo proposito con l’esempio di mille e mille
Viaggiatori, che memoria fanno dell’onorevole accoglimento che an lor
praticato i maggiori Monarchi; contenterommi di dire, che coloro che
rivocano in dubbio un somigliante tratto di galanteria del mio Padrone,
ignorano affatto sin a qual segno sieno civili ed obbliganti gli
_Houyhnhnms_.

Feci una profonda riverenza agli _Houyhnhnms_ che accompagnato aveano il
mio Padrone; postomi poscia nella barchetta, dalla spiaggia mi allontanai.



CAPITOLO XI.

Quali pericoli asciugò l’Autore. Approda alla Nuova Olanda, sperando
di fissarsi il suo soggiorno. E’ferito con un colpo di freccia da un
Naturale del Paese, ed è trasportato sopra un Vascello di Portogallo.
Gli usa gran cortesie il Capitano, e arriva in Inghilterra l’Autore.


IL quindici Febbrajo 1715. ad ore nove della mattina, intrapresi
quest’infausto cammino. Era assai favorevole il vento; e pure da
principio io non messi in opera che i miei remi; Ma riflettendo che
stanco sarei ben presto, e che il vento cangiar potea, la mia picciola
vela alzai, e in questo modo con l’ajuto della Marea: feci una lega e
mezza per ora, per quanto mi sembrava.

Il Padrone e gli Amici suoi se ne restarono sul lido finchè interamente
mi avessero perduto di vista: e molte volte il Caval Sauro intesi, (che
per dir vero mi volea assai bene,) gridando con forte suono, _Hnuy illa
niha Majah Yahoo_: vi auguro un buon viaggio, amabile _Yahoo_.

Mio disegno era di scuoprire, se stato fosse possibile, qualche picciola
disabitata Isola, che somministrarmi avesse potuto quant’era necessario
per la conservazion del mio vivere, affin di passarmi tranquillamente i
restanti miei giorni: Sorte che io riputava assai superiore a qualunque
più luminoso posto che occupar potessi in una delle prime Corti
dell’_Europa_, sì spaventevole era l’idea che della società, e del
governo degli _Yahoos_ io mi formava: imperocchè io ravvisava un
somigliante ritiramento come il solo soggiorno, ove consacrar potessi
tutti i miei pensieri alla memoria delle virtù degl’inimitabili
_Houyhnhnms_, senza essere esposto al funesto pericolo di ricadere in
tutti que’vizj, pe’quali io aveva un orror sì sincero.

Non sarà dimentico forse il Leggitore che io narrato gli abbia, che
coloro della mia Ciurma da’quali fui posto a terra, mi dissero
d’ignorare in qual parte del Mondo noi allora fossimo. Con tutto questo
io credetti di poter essere a dieci gradi all’_Ostro_ del _Capo di
Buona Speranza_, o a 45. gradi di Latitudine _Meridionale_, per quanto
fummi lecito di conchiudere da certi loro ragionamenti, sopra il cammino
che si dovea tenere per giugnere a _Madaschar_. Nulladimeno ciò che io
udito avea, non mi esibiva che una debole conghiettura: ma come un tal
indizio valeva più che nulla: stabilj di proseguir sempre all’_Ostro_,
colla speranza di guadagnare la Costa _Occidentale_ della _Nuova Olanda_,
e di colà ritrovarvi forse qualche Isola, tale che io la bramava. Il
vento era tutto al _Ponente_; e a sei ore della sera, avendo io fatte a
un di presso diciotto leghe: una picciola Isola scoprii, lontana una
mezza lega, o circa; che ben presto fu altresì da me superata.
Nell’abbordarvi, vidi che non era che una spezie di roccia, con un
picciolissimo Seno.

Entrai in questo Seno con la mia barchetta; e montato l’alto della
roccia, vidi distintamente al _Levante_ un Paese che dall’_Ostro_ a
_Tramontana_ stendevasi. Passai la notte nel mio Vascello; e il giorno
dietro di buon mattino continuato avendo il Viaggio, in sett’ore alla
punta _Meridionale_ della _Nuova Ollanda_ pervenni; il che mi rassodò in
un’antica mia opinione; cioè che le nostre _Carte Geografiche_
delineano questo Paese tre gradi, per lo meno, più al _Levante_,
ch’egli realmente non è. Già alcuni Anni comunicai il mio sentimento
al buon Amico Signor _Moli_, e gli allegai le ragioni onde io mi fondava;
ma ei vole piuttosto esser seguace di altre autorità.

Non mi cadde sotto l’occhio Abitatore veruno nel luogo ove approdai; e
come mi mancavano l’arme, d’innoltrarmi non ardii nel Paese. Trovai
sui lido alcuni pesci a conchiglia che mangiai crudi; non arrischiandomi
d’accendere il fuoco per timore che i Paesani mi discoprissero. Per tre
giorni continui d’Ostriche e di Muscoli mi cibai, per risparmiare le
mie provvisioni; e per gran buona sorte rinvenni un ruscello
d’un’acqua squisitissima, che mi reccò il più sensibile piacere.

Avanzatomi un pò troppo nel Paese il quarto giorno, vidi sopra
un’eminenza venti o trenta persone, in distanza da me di circa
cinquecento verghe. D’Uomini di Donne, e di Fanciulli che stavano
d’intorno al fuoco totalmente ignudi, era composta quella Truppa. Fui
ravvisato da uno di loro che ne avvertì gli altri; e immediate cinque di
essi vennero alla mia volta. Mi affrettai di guadagnar il Lido: e
gittatomi nella mia barchetta, a forza di remi mi allontanai. I Selvaggj
scorgendo che io fuggiva, mi furono dietro: e innanzi che abbastanza
potessi distaccarmi, mi scoccarono una saetta, che profondamente piagommi
l’interior parte del ginocchio manco. Ne porto in oggi tuttavia il
marchio. Temei che la freccia non fosse venenata: e questo timore mi
suggerì di succiare la piaga subito che mi trovassi suori di portata
de’loro tiri. Tanto eseguj, e faci olla poscia il meglio che fù
possibile.

Io stava molto imbrogliato di me medesimo, non avendo l’ardire di
ritornarmene al luogo ove io avea sbarcato, cosicchè fui costretto di
rimettermi in Mare. Mentre io stava guattando qualche rifugio, vidi a
_Greco-Tramontana_ una Vela che teneva il suo cammino verso di me. Esitai
molto se attendere dovessi, o no, quel Vascello: Ma finalmente sopra qual
altro si fosse riguardo vinsela il mio orrore per la razza degli _Yahoo_,
e a forza di voga fecemi riguadagnare quel picciolo Seno donde n’era
partito la mattina: pago piuttosto di farmi uccidere da quei Barbari, che
di vivere fra gli _Yahoos_ dell’_Europa_. Per quanto potei, accostai
alla Spiaggia la mia barchetta, e dietro un sasso, che non molto era
lontano dal mentovato ruscello, mi nascosi.

A una mezza lega dal Seno diede a fondo il Vascello: il che concepir mi
fece qualche lusinga di non essere stato discoperto: ma crudelmente
m’ingannò la mia espettazione: essendo che nel tempo che io mi pasceva
di tale speranza, il Capitano spedì con lo Schito alcuni Uomini di sua
Ciurma per farvi dell’acqua. Ravvisarono coloro la mia barchetta, e
conghietturarono che non troppo lunge esser dovesse il propietario di
lei. Quattro di essi ben in arme mi fiutarono con ansietà, e ben presto
mi ritrovarono. Notai, la loro sorpresa di vedermi vestito e calzato sì
stranamente: quindi essi conchiudendo (a quel che poscia me ne dissero)
che io non fossi uno de’Naturali del Paese, i quali van tutti ignudi.
Un de’Marinaj mi pregò in _Portoghese_ di alzarmi, e m’interrogò
chi fossi? Io intendeva assai bene quella favella: ed essendomi levato,
dissi che io era un povero _Yahoo_ stato bandito da Paese degli
_Houyhnhnms_, e che gli scongiurava a lasciarmi andare. Restarono
attoniti nell’intendermi parlare il loro linguaggio, e si avvidero alla
mia carnagione, e alla mia fisonomia che io era un _Europeo_: ma non
capirono ciò che dir volessi per _Yahoos_, e per _Houyhnhnms_; e
scopiaron di ridere nel sentir il tuono onde io pronunziava questi
termini, che un non so che del nitrito de’Cavalli avea. Gli supplicai
di nuovo di permettere che me ne andassi: e senza attendere il rescritto
loro, già piano piano m’incamminava alla mia barchetta, allorchè
ritennermi per domandarmi, qual Paese sì fosse il mio? e donde venissi?
Dissi loro che io era nato in _Inghilterra_, daddove era seguita la mia
partenza da cinque anni, o circa addietre, e che in quel tempo il loro
Regno e il nostro stavano in pace: Che per questa ragione io mi lusingava
che essi non mi tratterebbono da nemico, poichè io non avea fatto loro
male di sorta: bensì io era un miserabile _Yahoo_ che andava in traccia
d’un Diserto, per passarvi il resto dello sgraziato mio vivere.

Quando eglino a parlar cominciarono, mi sorprese un impercettibile
stordimento; parendomi ciò tanto stravagante, come se una Vacca parlato
avesse in _Inghilterra_ o un _Yahoo_ nel Paese degli _Houyhnhnms_.
Inferior alla mia non fu la maraviglia de’_Portoghesi_, vedendo i miei
vestiti, e sentendo i miei ragionamenti: La maniera onde io profferiva le
mie parole, riusciva per coloro qualche cosa di nuovo e
d’incomprensibile; comechè per altro ben eglino capissero tutto ciò
che in loro diceva. Mi parlarono con molta affabilità, e mi dissero
d’essere persuasi che il lor Capitano si sarebbe fatto un piacere di
trasferirmi a _Lisbona_, donde alla mia Patria ritornarmene avrei potuto;
che due di loro si sarebbero restituiti al Vascello per informar il
Capitano medesimo dell’Avventura, e per ricevere gli ordini di lui; che
per altro, se io non avessi giurato loro di non fuggirmene, si sarebbono
assicurati di me con la forza. Credei mio miglior partito il far loro una
somigliante promessa. Morivano di voglia di saper la mia Storia, ma
impefettissimamente rendei appagata la loro curiosità; e tutti
conghietturarono che i miei infortunj alterata avessero la mia Ragione.
Nel termine di due ore lo Schifo, il qual portato avea a bordo il Bottume
ripieno d’acqua, se ne rivenne con ordine del Capitano di condurmisi al
suo Vascello. A mani giunte e ginocchione scongiurai che mi si lasciasse
la libertà: ma qualunque mia supplica fu infruttuosa. Fui legato,
trasferito nello schifo, e abbordata che fu da noi la Nave, restai
condotto nella Camera del Capitano.

Nomavasi egli _Predo de Mendez_, gran Galantuomo e generosissimo.
Priegommi di dirgli se bisognassi di qualche cosa; che sarei stato
trattato al pari di lui medesimo mi accertò. Non fu mediocre la mia
sorpresa nel rinvenire in un _Yahoo_ sì obbliganti maniere. Non ostante,
tutta la mia risposta fu, che io il supplicava che a mangiar mi si desse
qualche cosa di ciò che aveavi nella mia barchetta; ma egli recar mi
fece un pollastro, e una bottiglia di squisito vino, dando ordine mi si
allestisse un letto in un Camerino assai propio. Spogliarmi non volli; ma
mi corcai sopra le coltri, col disegno, infin che pranzassero i Marinaj,
di poter in un tratto guadagnar la coperta del Vascello, e di gettarmi in
mare; volendo piuttosto espormi al furor de’flutti, che vivere fra gli
_Yahoos_ più lungo tempo. A mio dispetto me ne tenne impedito un della
Ciurma, e datone l’avviso al Capitano, fui nel mio camerino messo alla
catena.

Dopo desinare, venne a vedermi _Don Pedro_, e mi dimandò il motivo che
instigato aveami sì funesta risoluzione. Mi protestò di essere disposto
a rendermi qualunque possibile servigio, e in un modo parlommi di tanta
compitezza, che finalmente fui forzato di trattar con esso lui come con
un Animale non totalmente privo di Ragione. Gli feci un compendiato
racconto del mio Viaggio, della cospirazione delle mie Genti, del Paese
ove mi avean elleno abbandonato: e del mio soggiorno colà per tre anni
continui. Ei prese per una visione, o per un sogno tutto ciò che gli
narrai; il che offesemi a un segno che non so esprimere, avendo io
perduta affatto la facoltà di mentire; e per la ragione stessa, la
disposizione a sospettar altrui di menzogna. Loro interrogai, se al Paese
di lui si praticasse di dire _la cosa che non è_? E gli dichiarai che io
avea poco men che dimentico ciò ch’egli concepiva per Falsità; e che
se fossi soggiornato mill’anni nelle Terre degli _Houyhnhnms_, non vi
avrei intesa una sola bugia dal menomo de’loro Domestici, che mi era
cosa indifferente se egli prestasse fede a quanto io aveagli asserito, o
nò; che non ostante, per corrispondere alle civiltà di lui, io era
pronto a sciorre tutte le obbiezioni ch’egli d’intavolarmi si
compiacesse, e che di costrignerlo con un tal mezzo a rendere giustizia
alla mia veracità, io mi lusingava.

_Mendez_, ch’era un Uomo di spirito, procurò con molte quistioni di
convincermi come menzognero; ma vedendo che il tentativo non riuscivagli,
cominciò ad aver miglior opinione della mia schiettezza, o del mio buon
senso, Confessommi pure di essersi abbattuto in un Capitano di Vascello
_Olandese_, il quale aveagli detto, che messo piede a terra in
un’Isola, o in un Continente della _Nuova Ollanda_, avea veduto un
Cavallo che cacciava dinanzi a se molti Animali somiglianti esattamente a
que’che io avea descritti sotto il nome di _Yahoos_, con alcune altre
particolarità che il Capitan _Portogese_ diceva più non ricordarsi,
avendole allora spacciate per solennissime bugie. Ma aggiunse; che
poichè io facea professione d’essere inviolabilmente ben affetto alla
Verità; io dovea impegnargli la mia parola d’onore, che per tutto il
Viaggio non intenterei sopra la mia vita; oppure ch’egli si
assicurerebbe di me, finchè a _Lisbona_ capitati fossimo. Gliel promisi;
protestando nel tempo stesso, che non aveavi così pessimi trattamenti,
di soggiacer a’quali non mi contentassi, piuttosto che ritornarmene fra
gli _Yahoos_.

Non ci accadde cosa di gran momento per tutto il nostro Viaggio. Per
gratitudine verso il Capitano, io, cedea talvolta alle instanze di lui
perchè il conversassi qualch’ora; ed io procurava d’occultare i miei
sentimenti d’aversione, e di dispregio per gli Uomini: con tutto
questo, di quando in quando gli lasciava uscire, ed egli facea sembiante
di non badarvi. Io passava la maggior parte del giorno, solo, nel mio
Camerino, affin di rispiarmiarmi la vista di qualcuno della Ciurma.
Aveami sovente il Capitano sollecitato di gittare le mie selvagge
vestimenta, o offerto di che abbigliarmi da capo a piedi; ma
risolutamente ributtai l’esibizione, non volendo cuoprirmi con la
menoma cosa che servito avesse per Un _Yahoos_. Il pregai bensì di
prestarmi due camiscie nette; che essendo state ben lavate dopo
che’egli portate le avea, non potevano, al mio credere, tanto
contaminarmi. Di due in due giorni io mi metteva una di queste camiscie,
ed io stesso nel frattempo lavava l’altra.

Arrivamo a _Lisbona_ il 5. _Novembre_ 1715. Quando fu d’uopo por piede
a terra m’obbligò il Capitano a cuoprirmi col suo mantello, perchè la
Canaglia non si affollasse d’intorno a me. Fui condotto alla Casa di
lui, e a forza di permurose mie instanze, alloggiato fui nel più intimo
Appartamento. Lo scongiurai di non raccontar a chi che fosse ciò che
aveagli io detto in Proposito degli _Houyhnhnms_; mercè che una
somigliante Storia attratto avrebbe, non solamente un numero infinito di
persone in sua Casa per vedermi, ma eziandio avrebbemi esposto ad essere
messo in carcere, o bruciato per ordine dell’_Inquisizione_. Ottenne da
me il Capitano che io accettassi un compiuto fornimento di vestiti nuovi;
ma permettere non volli mai che il Sarto mi prendesse la misura;
nulladimeno assettavansi essi perfettamente al mio corpo, essendo _Don
Pedro_ a un di presso del mio medesimo taglio. Diedemi altresì molte
altre robbe che mi bisognavano; ma prima d’usarle, per lo spazio di
venti e quattr’ore ebbi la cura d’esporle all’aria.

Il Capitano non avea Moglie, bensì tre Domestici, niuno de’quali, per
compiacermi, ci serviva in tavola. In una parola; erano sì obbliganti in
ogni azione a mio riguardo le maniere di lui, ed egli stesso era sì
ragionevole, per non essere dotato che d’una _umana_ intelligenza, che
per dirla schiettamente, la sua conversazione cominciava a parermi assai
soffribile. Egli ebbe un grande ascendente sopra di me perchè mi
persuadessi d’adagiarmi in un altro Appartamento, le cui finestre sulla
strada riferivano. La prima volta che mi vi affacciai, tutto spavento
girai la testa. In minore spazio d’una settimana ei mi trasse fin sulla
porta della sua Abitazione, e trovai che a poco a poco lo spavento
scemava, ma che l’odio mio e il mio disprezzo per gli Uomini andava vie
più crescendo. Alla fine, divenni sì coraggioso, che spasseggiai con
esso lui per la Città.

_Don Pedro_, a cui io aveva fatta una distinta narazione de’miei
domestici affari, dissemi un giorno ch’er mi credea obbligato in
coscienza e in pontualità di ritornarmente alla mia Patria, e di passar
il resto de’miei giorni con mia Moglie e co’miei Figliuoli. Mi
avvertì che aveavi nel Porto un Vascello _Inglese_ pronto alla Vela, e
mi assicurò che sarebbe cura di lui di tenermi provveduto di quanto al
mio Viaggio fosse necessario. Non annojerò per la mia parte i Leggitori
col ripeter loro gli argomenti di lui e le mie risposte. Si espresse egli
ch’era impossibile di rinvenir un’Isola tale che io la volea; ma che
in mia Casa sarei il Padrone, e che di vivervi in ritiramento sarebbe in
mio arbitrio.

In somma mi risegnai, convinto ch’egli avea ragione. Partì di
_Lisbona_ li 24. _Novembre_ sopra un Vascello _Inglese_ di mercatanzia,
il cui Capitano, almen che io il sappia, io non vidi mai, non essendomi
mai degnato d’instruirmene, e standomene sempre nella mia Camera sotto
pretesto d’indisposizione. _Don Pedro_ mi accompagnò alla Nave, e mi
prestò venti Ghinee. In licenziandosi da me mi strinse nelle sue
braccia, e non fu che per un eccesso di gratitudine che un tal affettuoso
complimento io tollerai. Alle ore nove della mattina del 5. _Decembre_
1715. arrivammo alle _Dunes_, e entrai in mia Casa a tre ore dopo mezzo
giorno.

Mia Moglie e i miei Figliuoli furono sorpresi ed incantati in vedendomi,
avendomi gia spacciato per morto; ma confessar deggio altresì che la
loro vista non cagionò in me che aversione, che rabbia, e che
dispreggio: Essendo che, dopo la mia partenza dal Paese degli
_Houyhnhnms_, se io mi avea usato violenza infino a risguardare _Yahoos_,
e infino a conversar con _Don Pedro de Mendez_, la mia memoria
nulladimeno e la mia immaginazione erano sempre cariche dell’eccellenti
qualità degli _Houyhnhnms_. E quando mi accadeva di riflettere che
confidenze d’un tal qual genere con una _Yahoos_ mi univano alla spezie
con un vincolo di più, mi è impossibile d’esprimere la mia confusione
e il mio orrore.

Videmi appenna la mia Sposa, che mi saltò al collo per abbracciarmi; ma
come un Animale sì odioso non mi avea toccato da molti anni addietro, un
tal contrasegno d’amore mi produsse uno svenimento che più
d’un’ora durò. Nell’instante, in cui ciò scrivo, sono anni cinque
che seguì il mio ritorno dall’ultimo mio Viaggio: Nel primo anno
Poggetto di mia Moglie e de’miei Figliuoli mi era insopportevole, ed io
non permetteva neppure ch’essi mangiassero nello stesso mio
Appartamento: All’ora presente, non ardirebbono di toccar il mio pane,
nè di bere fuori del mio bicchiere, e per anche non ho potuto
violentarmi a far loro la grazia di prendermi per la mano. Il primo
danajo che impiegai, servì a comprare due Cavalli non castrati, che io
custodisco in una buona stalla, e l’Appartamento che ne l’è più
vicino, e il più gradito, e il più da me abitato; poichè non vi ha
esagerazione che spiegar possa fin a quel segno l’odor della Stalla mi
ricrei. I miei Cavalli m’intendono passa bilmente bene: regolarmente io
passo quattr’ore, per lo meno, ogni giorno con esso loro. Non ho mai
fatto lor mettere nè sella, nè briglia; e l’affetto ch’essi anno
per me, e altresì l’uno per l’altro, è un non so che di vezzoso che
incanta.



CAPITOLO XII.

Veracità dell’Autore. Disegno ch’ei si è proposto in pubblicar
quest’Opera. Ei censura que’Viaggiatori che non anno un inviolabile
rispetto per la Verità. Confuta l’Autore l’accusa che forze
potrebbesi addossargli di aver avuto qualche sinistro oggetto nello
scrivere. Risposta a un’obbiezione. Metodo di piantar Colonie. Elogio
del suo Paese. Ei pruova che l’Inghilterra possiede giusti titoli sopra
 que’Paesi ond’egli ne ha fatta la descrizione. Difficoltà che si
opporrebbe all’impadronirsene. L’Autore si licenzia da chi legge;
dichiara in qual modo ei pretende di passare i rimanenti suoi giorni, da
un buon consiglio, finisce.


ECCO, mio caro Leggitore, una narrazione sincera di quanto emmi accaduto
ne’miei Viaggj per lo spazio di sedici anni e sette mesi: Narrazione,
onde serve d’ornamento la sola verità. Stato sarebbe in mio arbitrio
l’imitare quegli Scrittori che servonsi dell’incredibile e del
maraviglioso per rendere attoniti que’che gli leggono; ma io volli
piuttosto in una maniera semplice rapportar i fatti, essendo l’unico
mio disegno d’instruirvi, non di ricrearvi.

Non è malagevole a noi che viaggiamo in Paesi lontani, che non son
troppo frequentati dagli _Inglesi_ o da altri _Europei_, di formare
magnifiche descrizioni di molte maravigliose cose, di cui si è intesa
mai parola: Laddove il principal intento d’un Viaggiatore esser dee di
rendere gli Uomini migliorati e più Saggj, narrando loro cio che di
buono e ci cattivo ha egli veduto nelle sue corse.

Bramerei con tutto il mio cuore che si fondasse una Legge, la qual
obbligasse chiunque che viaggia, prima che permesso gli fosse di
pubblicare le sue Avventure, la qual obbligasse, dissi, a giurare in
presenza del _Gran Cancelliere_, che tutto ciò ch’egli ha intenzione
di dar alle stampe, esattamente sia vero; perocchè il Pubblico allora
abusato non sarebbe da una caterva di Scrittori che la sua credulità con
insolenza ingannano. Lessi in mia giovinezza con gran piacere molti Libri
di Viaggj, ma questi Libri an molto perduto di merito nella mia
immaginazione, dopo ch’ebbi l’incontro di rilevarne cogli occhj propj
le falsità. Ecco la ragione, giacchè i miei Amici an giudicato che il
raccontò delle mie Avventure recar potrebbe qualche vantaggio a’miei
Compatriotti, che mi sono imposta l’obligazione inviolabile d’essere
_sempre fedele alla Verità_. Egli è certamente indubitato, che non
potrei neppure partir la tentazione di violare questa spezie d’impegno,
finchè conserverò la memoria delle Lezioni e degli Esempj del mio
illustre Padrone e degli altri _Houyhnhnms_, di cui per sì lungo tempo
ebbi la sorte d’essere l’umilissimo Uditore.

---- Nec si miserum Fortuna Sinonem Finxit, vanum etiam, mendacemque
improba finget.

Ben mi è noto che non è un grande onore quel che acquistar si può con
Iscritti che genio nè scienza non esigono, ma semplicemente un poco di
memoria e di esattezza nel registrar in carta quanto si ha veduto. So
altresì, che fan parte al Pubblico de’loro Viaggj, soggiacciono alla
sorte medesima che i Facitori de’_Dizionarj_; e vale a dire, sono
scancellati da’loro Successori: il che gl’impegna a mentire un meglio
dell’altro, per preservarsi dall’obblivione. Ed è probabilissimo,
che verrà un giorno in cui de’Viaggiatori visiteranno le Regioni che
furono da me descritte, e che collo scuoprire i miei errori, (se pur ve
ne sono) e coll’aggiugnere molte nuove discoperte, occuperanno il mio
posto nel Tempio della Memoria, e faran dimenticare, insino, che io mai
abbia iscritto. Non vi ha dubbio che sarebbe questa una gran
mortificazione per me, se il solo Amore d’una vana Fama, renduto Autore
mi avesse: Ma come non presi di mira che il pubblico vantaggio, è
impossibile che in tutte le circostanze mi vada fallito il disegno.

Conciossiacosachè; chi mai può leggere ciò che ho scritto delle Virtù
degli _Houyhnhnms_ senza arrossire de’propi suoi vizzi, quand’ei si
consideri come l’Animale del suo Paese a cui sien caduti in retaggio la
Ragione e il Governo? Io nulla dirò di quelle rimote Nazioni, ove gli
_Yahoos_ presiedono; fra le quali la men corrotta è quella
de’_Brobdingnagiani_, le cui sagge Massime in Morale e in Politica, se
lor osservassimo, alla nostra felicità molto contribuerebbono. Ma temo
d’impegnarmi in una maggiore specificazione; e voglio piuttosto lasciar
al Leggitore la libertà di far quelle riflessioni che più gli saran
convenevoli.

Egli è un grand’argomento di piacere per me, quando penso che è
esente da qualunque censura la mia Opera: Mercè che; cosa asserir si
può contro ad uno Scrittore, il qual rapporta semplicemente i Fatti
accaduti in Paesi lontani, ove non abbiam noi che fare, o per interessi
Politici, o in riguardo al Commerzio? Con esatta attenzione mi tenni
netto da quali siensi sbagli, onde per ordinario sono tacciati i
Componitori di Viaggi. Oltracciò; non mi son sacrificato a verun
_partito_; serissi bensì senza passione, senza prevenzioni, e senza un
fine di malignità contra chi che sia. In iscrivendo, mi son proposto il
più nobile oggetto del Mondo, il qual è l’instruzione degli Uomini;
nel che dir posso senza vanità, che il commerzio ch’ebbi cogli
_Houyhnhnms_ impartimmi un gran vantaggio sopra que’che nelle Opere
loro il fine medesimo si propongono. Non ho scritto con la speranza di
approfittarmi, o d’acquistar vane lodi. Non ho messo in carta neppur
parola, che a inferir vaglia il menomo rammarico a’più sensitivi:
Cosicchè con giustizia spacciar mi posso per un Autore perfettamente
incolpevole, e contra cui i Facitori di Riflessioni, d’Osservazioni e
di Considerazioni, non avranno il menomo giusto motivo di mettere in
opera i loro talenti.

Non so negare che fummi detto in piena confidenza, che essendo io
_Inglese_, avrei dovuto al mio arrivo presentarne una Memoria al
Segretario di Stato; essendo che tutti i Paesi che sono scoperti da un
Suddito alla Corona appartengono. Ma molto dubito se le nostre vittorie
sopra gli Abitanti de’Paesi di cui parlai, riuscissero sì facili per
quanto quelle che _Fernando Cortez_ riportò sopra _Affricani_ ignudi. A
mio credere, i _Lillipuziani_ non vagliono la pena che si armi una Flotta
per soggiogargli; e temerei un pessimo riuscimento, se s’intentasse la
cosa stessa a riguardo de’_Brobdingnagiani_: oppure che un’Armata
_Inglese_ non si trovasse in tutte le sue comodità se si vedesse
l’_Isola Volante_ sopra la sua testa. Vero è che gli _Houyhnhnms_ non
sono molto esperti nel mestier della Guerra, e che soprattutto sarebbono
molto imbrogliati per guarentirsi da’colpi del nostro Cannone, e
de’nostri Moschetti. Non ostante; anche che fossi un Ministro di Stato,
non consiglierei giammai di praticarsi un’invasione nel loro Paese.
L’intrepidezza loro, la loro prudenza, la loro unanimità, e
l’inviolabile loro affetto per la Patria, terrebbono lor luogo
d’esperienza nell’Arte militare. Ma in vece di formar progetti per
debellar la Nazion magnanima degli _Houyhnhnms_, sarebbe a desiderarsi,
che fosser eglino in istato e in disposizione di spedire un numero
sufficiente di essi loro, per insegnar _agli Europei i primi_ principj
dell’Onore, della Giustizia, della Veracità, della Temperanza, della
Grandezza d’Animo, della Castità, della Benevolenza, e
dell’Amicizia. Virtù, di cui tuttavia ne conserviamo i nomi della
nostra favella; come, se fosse d’uopo, co’Libri di molti nostri
Scrittori potrei pruovarlo.

Ma evvi eziandio un’altra ragione, la qual moderarebbe la mia
sollecitudine nel dilatare i Dominj di Sua Maestà, se capace fossi. Per
vero dire, mi erano entrati alcuni piccioli scrupoli sopra la Giustizia
distributiva in questa sorta d’occasioni. Per esempio; una Truppa di
Pirati, senza saper dove, è sospinta da una una burrasca: Un Mozzo
s’arrampica ad alto dell’Albero di Maestra e vede Terra; la Ciurma vi
approda per praticarvi un saccomanno; vede un miserabile Popolo che la
riceve con amistà e con piacevolezza; impone un nuovo nome a quella
Regione, prendendone il possesso in buona forma pel Re; alza in guisa di
Monumento una pietra o qualche marcina tavola: accoppa una trentina
de’Naturali e ne asporta una mezza dozzina perchè serva di mostra; se
ne ritorna al suo Paese e ottien la sua grazia. Qual felicità per un
Monarca d’aver Sudditi così zelanti per far valere i giusti Diritti di
lui: Non si lascian perciò dimentiche le utili loro scoperte. Con prima
opportunità sono spediti Vascelli, i Natii del Paese sono scacciati o
destrutti; i loro Principi messi alla tortura perchè palesino i loro
Tesori, e sono autorizzati gli Atti tutti d’insolenza o d’inumanità.
E quest’esecrabile brigata di carnefici messa in opera per una sì pia
spedizione, si chiama una Colonia moderna, colà trasferitasi per
convertire, e per rendere colto un Idolatra e barbaro popolo.

Ma è forza che io dica altresì, che una somigliante descrizione non
conviene a patto veruno alla Nazione _Inglese_; la quale, nello
stabilimento delle Colonie, ha sempre osservate le regole della più
perfetta prudenza, e della più esatta equità; che in questa sorta di
fondazioni proponesi in primario vantaggio l’avanzamento della
Religione; che non vi spedisce che Pastori pii e capaci di predicare il
Cristianesimo: che non affida le Cariche civili, che ad abilissimi e
totalmente incorrutibili Uffiziali, e che, per tutto dire, fa sempre
scelta di vigilanti e virtuosi Governatori, i quali non anno altra mira
che la felicità del Popolo ch’è lor sommesso, e l’onor del Monarca
loro Signore.

Come però da un canto, i Paesi da me descritti non sembrano aggevoli per
praticarvisi incursioni; e che dall’altro non abbondano nè in oro, nè
in argento, nè in zucchero, nè in tabacco; patisco la tentazione di
credere che non sien questi oggetti convenevoli al nostro zelo, ai nostro
valore, al nostro interesse. Che se è diversa l’opinione di quegli a
cui ciò spettar potrebbe, io sono pronto ad attestare, quando
giuridicamente ci sia eccitato: Che verun _Europeo_, prima di me non ha
posto piede in quel Paese, per lo meno, se deggiasi prestar fede agli
Abitatori. Puossi veramente trarre un’obbiezione da que’due _Yahoos_
che si eran veduti già alcuni secoli sopra una Montagna delle Terre
degli _Houyhnhnms_, e da’quali, ha riferto di questi Animali, la razza
di quelle bestie era discesa. E’tanto più forte quest’obbiezione,
quanto che osservai nella loro posterità alcuni delineamenti _Inglesi_,
comechè non troppo distinti: Ma lascio a coloro che son versati nelle
Leggi che risguardano le Colonie, il decidere fin a qual segno cotale mia
osservazione fondi i nostri Diritti sopra quelle Regioni.

Quanto alla formalità di prender ne possesso a nome del mio Sovrano,
ella non mi si è mai presentata all’idea; e quando pure riflettuto ci
avessi, avrebbemi insegnato la prudenza di rimmettere a miglior
opportunità una somigliante cerimonia.

Avendo io così risposto alla sola obbiezione che potrebbemi esser fatta
come a Viaggiatore, prendo quì licenza da’cari Leggitori miei, e mi
accingo, al presente, a ben valermi dell’eccellenti Lezioni che ho
ricevuto dagli _Houyhnhnms_, ad instruire gli _Yahoos_ di mia Famiglia
per quanto potrà lor permettere la loro naturale indocilità: a
considerar sovente in uno specchio la mia figura, affin d’avvezzarmi
insensibilmente a soffrir la vista d’una Creatura umana: a compiagnere
la stupidezza degli _Houyhnhnms_ del mio Paese, ma non ostante a trattar
con rispetto le loro persone, per l’amore dell’amabile mio Padrone,
della sua Famiglia, e de’suoi Amici, a’quali i nostri _Houyhnhnms_ an
l’onore di rassomigliare per la figura; tutto che a riguardo
dell’intelligenza, dal tutto al tutto ne differiscano.

La passata settimana permisi per la prima volta a mia Moglie di pranzare
con esso meco, ma a condizione ch’ella adagiar si dovesse
all’estremità più distante d’una lunga tavola. Non è già che io
non mi ricorda che aveano il loro allettamento certe vecchie abitudini:
ma fin a questo momento mi è riuscito impossibile d’accostarmi ad un
_Yahoo_; senza temere le sue unghie e i suoi denti.

Ben più facilmente mi riconcilierei con la spezie degli _Yahoos_ in
generale, se impeciati essi non fossero che di que’vizzj e di quelle
follie, che in qualche modo sono il patrimonio di lor Natura. Punto non
mi sento commosso a sdegno se veggo un Avvocato, un Pazzo, un Giuocatore,
un Gran Signore, un Ruffiano, un Medico, un Seduttore, o un Traditore:
Tutti costoro rappresentano la loro scena naturalmente: Ma non mi posso
più raffrenare, quando scorgo una massa di vizzi nell’Anima e di
difetti nel Corpo, coronati dal più sciocco e dal più insolente
_Orgoglio_. Ho il mio che fare a menditarci: non ci è maniera che vaglia
a farmi comprendere come un un tal vizio regnare possa in un tal animale.
I saggj _Houyhnhnms_, che son dotati di tutte le bella qualità,
ond’essere può adorna una ragionevole Creatura, non an vocabolo per
esprimere questo vizio in loro favella, perchè ne sono incapaci, e
perchè non l’anno mai raffigurato ne’loro _Yahoos_. Ma io, a cui era
più cognita la Natura umana, alcuni delineamenti in quelle bestie ne ho
ravvisati.

Come professano gli _Houyhnhnms_ di non ubbidire che alla Ragione e di
non lasciarsi reggere che da lei, più non invaniscono per le buone
qualità ch’essi posseggono, di quel che potrei io farlo per aver due
braccia o due gambe: Avvantaggio, onde non vi ha persona così sciocca
che se ne glorii, tutto che senza questo sia ella miserabile. Se un po
troppo io insisto su quest’argomento, la ragion è che vorrei con tutto
il mio cuore rendere, per lo men, sopportevole la società d’un _Yahoo
Inglese_. Priego dunque que’che affatto non sono immuni da un vizio sì
assurdo, di aver la discretezza di non presentarsi a’miei occhj.


IL FINE.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Viaggj del Capitano Lemuel Gulliver - In Diversi Paesi Lontani" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home