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Title: Le cronache italiane nel Medio Evo
Author: Balzani, Ugo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Le cronache italiane nel Medio Evo" ***


                                   LE
                           CRONACHE ITALIANE
                             NEL MEDIO EVO


                               DESCRITTE
                                   DA

                              UGO BALZANI


                       SECONDA EDIZIONE RIVEDUTA


                        Le cronache portano le azioni, i soli tempi
                          rivelano l'individuo.

                                   L. TOSTI, _La Contessa Matilde_.



                             ULRICO HOEPLI
                    EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
                                 MILANO
                                  1900



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

  36-900. — Firenze, Tip. di S. Landi, dirett. dell'_Arte della Stampa_



                                   A

                     TERENZIO MAMIANI DELLA ROVERE

                              IN ATTESTATO

                       DI REVERENZA E DI AFFETTO



PREFAZIONE


Inteso a far noti popolarmente i cronisti italiani del Medio Evo, io
ho cercato di togliere ogni ingombro di erudizione da questo libro e
presentarlo ai lettori il più semplice e spedito di citazioni che si
potesse. Ché se non m'è riuscito di tenermi più strettamente a questo
metodo, n'è cagione l'avere io tentato per quanto sapevo, di fare un
lavoro il quale non riuscisse del tutto inutile anche agli eruditi
poiché questo, a mia notizia, è il primo tentativo che siasi fatto
di raccogliere espressamente in un libro tuttaquanta la storia della
cronografia medioevale italiana. Perciò ho procurato di studiare con
diligenza nelle migliori edizioni il testo degli autori dei quali tengo
parola, e prima di profferirne definitivo giudizio, ho procurato di
vedere quanto sopra ciascuno autore altri ha pensato o scritto.

Per quel che si riferisce alla struttura del libro, se talora mi sono
diffuso alquanto nel tratteggiare i vari periodi storici che questo
lavoro attraversa, io spero che mi sarà perdonato da chi pensi che
non è facile nè sarebbe buon metodo parlar di storici e tacere sui
tempi nei quali essi han vissuto e dei quali scrissero. Così anche mi
è spesso accaduto di dilungarmi a narrare le vite degli scrittori dei
quali esaminavo i lavori. L'ho fatto perché mi è parso narrandole di
chiarir meglio i tempi che essi descrissero e le ragioni delle opere
loro, giacché la storia del Medio Evo è stata detta in Italia più
che altrove da uomini che parteciparono largamente ai fatti di cui ci
lasciarono memoria, e ciò dai primi agli ultimi tempi, da Cassiodoro e
Gregorio Magno fino ad Albertino Mussato, a Dino Compagni, a Giovanni
Villani.

Per far meglio conoscere l'indole, la natura e lo stile delle diverse
cronache, ho recato di esse nel libro molti e lunghi frammenti
volgarizzati dai testi. In tal modo que' vecchi cronisti nelle ingenue
pagine loro descriveranno sé stessi alla memoria e alla fantasia
del lettore assai meglio che non varrebbe a descriverli l'amoroso ma
incerto tentare di uno scrittore moderno. Questi frammenti erano già
stati tradotti da mia moglie che ha dato veste inglese a tutto il
libro e diviso con me in larghissima parte la fatica e il piacere del
compilarlo. Nel voltarli ora io in italiano, ho cercato com'ella avea
fatto di tenermi il più che potevo fedele alla lettera dei testi, ma,
dove alcuni d'essi per la oscura e intralciata latinità si opponevano
ad una traduzione letterale, mi sono sforzato d'accostarmi al concetto
degli autori quanto meglio e più precisamente ho saputo farlo. Il
numero dei libri dei quali mi son dovuto giovare è stato di necessità
assai grande, e poiché non potevo mentovarli tutti, ho cercato almeno
di professare la gratitudine mia ricordando quelli da cui ho ricavato
maggior profitto. È superfluo poi l'avvertire che non essendo questo
uno studio critico sulle fonti ma una storia descrittiva della nostra
cronografia, ho di proposito evitato ogni discutere intorno alle
sorgenti da cui ciascun cronista è venuto attingendo. Del pari non
si fa discorso, o di rado e solo fuggevolmente, dei lavori che si
son pubblicati e si pubblicano ad ogni ora intorno alla critica dei
testi, ma ho speranza che coloro i quali hanno familiarità con siffatti
lavori, non vorranno perché io ne taccio mettermi tra quelli che li
ignorano e scusano il peccato della ignoranza con una sciocca mostra di
dispregio. Ma costoro per fortuna ed onore degli studî nostri son rari,
e la critica storica italiana, memore di sue tradizioni, cresce sempre
più in fiore e dà frutti.

Questo libro fu prima pubblicato in inglese per incarico e cura di una
poderosa società che con larghe vedute e concetti vasti s'affatica di
spargere la cultura cristiana dovunque la lingua inglese è parlata o si
legge, e stima a ragione questa cultura essere universale e non doversi
disgiungere dal pensiero moderno[1]. Sebbene sieno corsi sol pochi
mesi da che la edizione inglese fu pubblicata, già nell'intervallo son
venuti fuori altri studî intorno a parecchi testi e io ho procurato
per quanto ho potuto di vederli e aiutarmene, ed anche ho cercato
di corregger qua e là talune imperfezioni secondo che io stesso le
scoprivo o m'erano indicate da qualche benevolo. Tra questi ringrazio
particolarmente il conte Costantino Nigra che non solo mi additò
un errore ma, come si vedrà a suo luogo, volle indicarmi la via di
correggerlo, e ringrazio l'autore dell'insigne libro sul Sacro Romano
Impero, il professor Bryce dell'Università di Oxford a cui debbo
alcuni utili suggerimenti per questa edizione. All'amico mio avvocato
Scipione Lupacchioli son grato per la critica arguta e vigorosa
colla quale accompagnò la compilazione del mio lavoro man mano che
lo scrivevo. Da ultimo amo rendere anche qui reverente tributo alla
memoria del canonico Robertson di Canterbury il quale innanzi ch'io li
mandassi la prima volta alla stampa, lesse ed onorò di consigli i primi
capitoli di questo libro. Pur troppo la morte gli tolse di continuare
nell'amorevole ufficio, e certo molti in Inghilterra lo rimpiangono
meco per le nobili e gentili qualità del cuore, mentre e in Inghilterra
e in Italia è rimpianto da quanti ne studiarono i libri ed ammirarono
in essi la dottrina vasta e quella calma ed acuta serenità di giudizio
che ci fa fede della bontà di chi scrive ed è tra le prime doti e più
necessarie a chi va cercando il vero nella storia[2].

  Oxford, 21 settembre 1883.

                                                         UGO BALZANI.



INDICE


  CAPITOLO I                                                 _Pag_. 1

  L'arte storica decade col decadere di Roma — Si ravviva
  durante la età gotica — Cassiodoro. Sue dignità e tendenza
  politica delle opere sue. La perduta storia dei Goti e i
  «Libri Epistolarum Variarum» — Compendio della storia di
  Cassiodoro compilato dal goto Giordane — Dissensi tra Romani
  e Goti fomentati da Bizanzio — Guerra gotica narrata da
  Procopio di Cesarea. Pregi e importanza di questo
  scrittore — Scrittori minori.

  CAPITOLO II                                                      39

  Calamitose condizioni d'Italia nel primo periodo della
  invasione longobarda — Gregorio il Grande. Raccolta delle sue
  lettere. Altissima importanza di esse per la storia d'Italia.
  I libri dei Dialoghi — Editto di Rotari — La «Origo
  Langobardorum» e scritti minori fino a Paolo Diacono — Vita di
  Paolo Diacono, sue opere e specialmente sua storia
  dei Longobardi.

  CAPITOLO III                                                     87

  Decadenza della cronografia italiana — Il «Liber
  Pontificalis» — «Gesta Episcoporum Neapolitanorum» — Agnello
  Ravennate — Scritti polemici di Ausilio e Vulgario — I
  monasteri e le invasioni saraceniche — Farfa: la «Constructio,»
  le vite dei santi Vulturnensi, la «Destructio» — Montecassino:
  il «Chronicon Sancti Benedicti Casinensis» — I cataloghi e le
  traslazioni dei Santi — La Historia di Erchemperto e l'Anonimo
  Salernitano — Andrea da Bergamo — Panegirico di Berengario —
  Stato della cultura laica in Italia — Liudprando — Scritti
  imperialisti — Benedetto di Sant'Andrea — Cronaca
  veneta di Giovanni Diacono.

  CAPITOLO IV                                                     141

  Movimento intellettuale del secolo undecimo e del
  dodicesimo — Riforma della Chiesa — Risveglio della cultura
  ecclesiastica e delle indagini storiche nei monasteri —
  Regesti e cronache monastiche — Il monastero di Farfa e le
  opere di Gregorio di Catino. «Chronicon Vulturnense» —
  Rinascenza artistica e letteraria di Montecassino promossa
  dall'abate Desiderio. Il monaco Amato e la storia dei Normanni.
  Leone Marsicano e Pietro diacono, storici di Montecassino —
  Scritti storici dell'Italia meridionale — Cronaca del monastero
  della Novalesa.

  CAPITOLO V                                                      177

  I continuatori del Libro Pontificale: Bruno da Segni.
  Guiberto di Toul. Paolo di Bernried. «Annales Romani.»
  Pandolfo. Bosone — Scritti polemici. San Pier Damiani.
  «Liber ad Amicum» di Bonizone — La Vita di Anselmo
  da Lucca — La Vita della contessa Matilda di Donizone —
  Le lettere di Gregorio VII.

  CAPITOLO VI                                                     213

  Nuove fasi del pensiero italiano dal dodicesimo secolo al
  decimoquarto — Scrittori meridionali dei tempi normanno e
  svevo — Saba Malaspina — Storici del Vespro Siciliano — Vite
  dei Papi — Vita di Cola di Rienzo — Scrittori municipali
  lombardi del primo periodo — Ottone di Frisinga — Altri
  cronisti imperiali — Storie generali — Fra Salimbene da
  Parma — Cronisti di varie città dell'alta e della media
  Italia — Cronisti di Lombardia e della Marca Trivigiana —
  Albertino Mussato.

  CAPITOLO VII                                                    279

  Cronisti delle repubbliche marinare — Cronache di Venezia:
  Martino da Canale e Andrea Dandolo — Gli Annalisti di Genova
  da Caffaro a Giacomo D'Oria — Pisa: Le «Gesta triumphalia».
  Bernardo Marangone — I cronisti della rimanente Toscana e
  principalmente i Fiorentini: I Malispini. Dino Compagni.
  I Villani.



LE CRONACHE ITALIANE NEL MEDIO EVO



LE CRONACHE ITALIANE NEL MEDIO EVO



CAPITOLO I

  L'arte storica decade col decadere di Roma — Si ravviva durante la
    età gotica — Cassiodoro. Sue dignità e tendenza politica delle
    opere sue. La perduta storia dei Goti e i «Libri Epistolarum
    Variarum» — Compendio della storia di Cassiodoro compilato
    dal goto Giordane — Dissensi tra Romani e Goti fomentati da
    Bizanzio — Guerra gotica narrata da Procopio di Cesarea. Pregi e
    importanza di questo scrittore — Scrittori minori.


Colla decadenza di Roma e lo sfasciarsi lento della unità latina
fiaccandosi il nervo della vita all'Italia, s'era dileguata da essa la
potenza e l'arte dello scrivere storie. L'antichità moriva in Occidente
e con essa veniva meno la vasta luce della civiltà sua. Da secoli eran
cessate le magnifiche ispirazioni di Tito Livio e la incisiva parola
di Tacito era fatta muta. A poco a poco ogni fonte di ricordi s'era
così inaridita, che al quinto secolo la buia e malcerta storia di
quella età dolorosa vuolsi cercare a fatica tra i pochi scrittori che
si mostravano ancora e i più non erano storici neppur di nome. Ammiano
Marcellino, Prudenzio, Claudiano, Rutilio Numaziano, Olimpiodoro e con
San Girolamo i principali Padri della Chiesa, ecco le scarse sorgenti
a cui si volge ora lo storico che tenta d'investigar quel passato, ed
è naturale che venissero meno le memorie della vita là dove la vita
stessa languiva. Nè, mentre si spegneva la storia dei Latini, poteva
nascer d'un subito quella dei primi popoli invasori. Mancava l'arte in
costoro, e non potevano mutare in istoria le tradizioni vive dei loro
canti senza prima imparar quest'arte in Italia o trovare almeno tra i
vinti chi prendesse a narrare le loro vicende. Per giungere a questo
era necessario che vinti e vincitori mescolati insieme si confondessero
in una aspirazione comune, e mentre gli uni infiltravano sangue nuovo
nelle stanche vene d'Italia, gli altri lo fecondassero con quel che
avanzava dell'antica sapienza. Una siffatta fusione che non potea farsi
coi primi invasori parve un momento effettuabile coi Goti, e nel tempo
loro risorgendo a un tratto il culto delle memorie può dirsi che abbian
principio le narrazioni e i documenti storici del medio evo.

Certo di tutti i popoli germanici il gotico era il meglio temprato
a civiltà, il più capace di assimilarsi la cultura latina e
d'intrecciarsi alle antiche stirpi tra cui era disceso recando nuovi
elementi di vita. Quando la luce del cristianesimo penetrava in
Germania, trovò pronto a propagarla il linguaggio dei Goti, ed Ulfila
traducendo in gotico la Bibbia gettò le prime fondamenta delle lingue
e delle letterature germaniche[3]. Popolo forte e originale, da lungo e
di frequente in commercio colle nazioni latine e coi Greci di Bizanzio,
i Goti non ignoravano le tradizioni intellettuali di Roma, nè potevano
accostarsi con tutto rozzo dispregio alle opere dell'arte greco-romana
o a quella sapienza legislatrice che stava per sintetizzarsi tutta
quanta nella raccolta Giustinianea. E come in questi barbari men
rudi era una cotale capacità d'intendere le tradizioni dell'antico,
così queste ancor vive nella loro caduta avevano in sé tanto di
forza da attirarli e costringerli ad ammirazione e a rispetto. Se il
compaginarsi del doppio elemento in una forte nazione fosse stato
possibile, solo sarebbe stato possibile coi Goti e solo in quel
tempo. La maestà dell'Impero era ancor grande e non pativa ancora
l'ingiuria della noncuranza. Più tardi dopo molti contrasti e guerre
lunghe e disastri, smunta dissanguata spoglia d'abitatori, cupidamente
desiderata e mal difesa dai Greci, l'Italia non avrà più forze in sé
d'aiuto, e i nuovi invasori potranno calpestar senza cura le ultime
reliquie della scaduta civiltà romana. Ma per allora era altrimenti,
e in quel supremo albore di vita il regno di Teodorico sembra mirar
del continuo a riunire in un fascio le forze germaniche e le romane
affratellando i due popoli in comunione d'affetti e di pensieri.
Cassiodoro che tenne le più alte cariche dello Stato da Teodorico a
Vitige per un tratto lunghissimo della dominazione gotica, cercando
quanto era da lui di dar ferme radici al nuovo regno, volse a questa
riunione tutto il potere dell'ingegno suo. «Siam nel proposito, se
Iddio ci aiuti, di far che i sudditi nostri si dolgano d'esser troppo
tardi venuti al nostro dominio.» Così esclamava Cassiodoro per bocca
di Teodorico, e queste parole in cui si ripone il concetto fondamentale
della sua mente, come un ago magnetico gli puntano innanzi una via che
vuole esser seguìta senza oscillare.

Finché resse la cosa pubblica, Cassiodoro concordò a questa le opere
sue letterarie e ne trasse aiuto per tendere alla mèta prefissa, onde
bene può dirsi che egli rappresenta l'età sua così nelle lettere come
nella politica. La corte di Teodorico, animata da lui, si fe' centro in
breve ai più colti ingegni di quel tempo, e in essa furono originate
molte opere per le quali calò al medio evo la conoscenza del sapere
antico. La scuola dei grammatici Donato, Macrobio, Marciano Capella,
scende di questi anni a congiungersi con Prisciano e Cassiodoro
dai quali l'età di mezzo imparerà ammirando lo stile intralciato
e la latinità gonfia ed oscura. La filosofia aristotelica prenderà
impero sulle menti medioevali per mezzo del maggiore erudito allora
vivente, Severino Boezio, nobilissimo uomo fatto immortale dalle sue
sventure e dal libro ch'esse gl'ispirarono a conforto. Quello che fra
tanto rivolgimento d'uomini e di pensieri non era morto dell'antica
sapienza, ripullulava in questi uomini i quali in certa guisa
cristallizzandola la rendeano accettevole alle generazioni future. Nè
i Goti se ne tennero in tutto lontani. Alcuni tra essi, per quanto
pare, s'avvicinarono ai dotti romani e ne seguirono l'esempio e le
usanze studiose. Non è ben chiaro se vissero veramente i filosofi
goti Atanarido, Ildibaldo e Marcomiro menzionati in alcun luogo, ma
senza dubbio Teodato parente di Teodorico e più tardi re egli stesso
inclinava agli studî filosofici e seguiva Platone; la vittima di
costui Amalasunta regina fu pei suoi tempi donna di rarissima cultura,
e al goto Giordane dovrò rivolgermi di corto dopo aver discorso di
Cassiodoro del quale per buona fortuna egli compendiò la storia dei
Goti ora perduta.

Magno Aurelio Cassiodoro Senatore, nato, secondo ogni probabilità, a
Squillace[4] da nobilissima famiglia[5] e fin da giovane entrato nella
vita pubblica, teneva con quella parte del patriziato romano che riputò
opportuno fondere in una le sorti della patria e quelle dei barbari.
Seguiva in questo le tradizioni del padre che ebbe nobili incarichi
sotto Odoacre e raggiunse i massimi onori sotto Teodorico. Iniziato
dal padre, il giovane Cassiodoro percorse anch'egli il suo cammino con
Teodorico, il quale in premio d'un suo panegirico[6] lo nominò Questore
e poi di grado in grado sollevatolo a dignità altissime gli diè in mano
molte fra le cure maggiori dello Stato. Ciò valse a determinar sempre
più l'indole dei lavori suoi letterari e a farla concorde allo scopo
politico della sua vita. E prima è da menzionare una breve cronaca,
intesa a glorificare i Goti e gonfia d'ampollose lodi per Teodorico,
meschina opera e grave di errori indicati e censurati severamente da
Teodoro Mommsen innanzi al quale Cassiodoro trova di rado favore[7].
D'assai maggior pregio invece e tali da onorarsene la erudizione del
tempo suo sembrano essere stati i dodici libri della sua storia gotica
sui quali peraltro pesa a ragione il sospetto di soverchia parzialità
verso i Goti. Ma questa storia andò presto smarrita e solo ci avanza di
giudicarne in modo imperfetto dal compendio che ce ne lasciò Giordane.
L'intendimento del libro apparisce dalle parole colle quali il re
Atalarico annunzia al Senato Romano l'innalzamento di Cassiodoro a
Prefetto del Pretorio. Non solo, egli dice, Cassiodoro ha magnificato
i suoi signori presenti, ma rifacendosi indietro, «si distese anche
sulla antica nostra prosapia imparando col leggere quello che appena
ricordavano in lor tradizioni i nostri canuti. Egli dalle latebre
dell'antichità trasse i re de' Goti nascosti per lungo oblìo. Egli
restituì l'antica nobiltà di sangue agli Amali, dimostrando aperto
la stirpe nostra essere stata regale per diciassette generazioni. Fe'
diventare storia romana la origine dei Goti[8] raccogliendo quasi in
ghirlanda i germi fioriti che prima si dispergevan qua e là pe' campi
dei libri. Considerate quanto in lodarci v'amò colui che dimostrò esser
mirabile fin dall'antichità la nazione del vostro principe, affinché
come foste sempre ritenuti nobili così imperasse sopra voi una antica
progenie di re.»[9] Lo scopo politico del libro si mostra qui chiaro.
Ai Romani tanto più alteri di loro storia quanto più era scadente la
grandezza reale di Roma, riusciva opportuno il dire che questi barbari
calati di Germania a divider con loro la patria, avevano anch'essi
nobiltà d'origine e storia gloriosa. A ciò, dice il Wattenbach, intese
la erudizione di Cassiodoro. «Che i Goti e i Geti fossero un sol popolo
già da lungo tempo era facilmente creduto, ma nessuno aveva ancora
cercato di dimostrarne la parentela. Fe' ciò Cassiodoro. Intrecciò le
memorie propriamente storiche dei Goti, il contenuto dei loro canti,
con quanto intorno ai Geti egli trovò presso i Romani ed i Greci,
e poiché così gli uni come gli altri dai Greci erano detti Sciti,
risalì la intera storia primitiva degli Sciti e senza esitare chiamò
donne gotiche anche le Amazzoni. Così gli Amali di cui lo splendore
era narrato dalle saghe gotiche, apparivano ora come i discendenti
immediati di Zamolclii e di Sitalchi, e i Romani potevano trovare in
ciò un conforto all'amarezza della signoria straniera.»[10]

Le parole indirizzate a Cassiodoro dai re Teodorico e Atalarico che
ho citato più sopra, furono scritte da Cassiodoro medesimo e leggonsi
tra le lettere che egli per ufficio venne scrivendo in nome dei suoi
sovrani e delle quali più tardi compose una raccolta divisa in dodici
libri. Queste lettere rivolte per lo più a personaggi importanti o
agli istituti maggiori dello Stato, contengono come in una serie i
principali atti coi quali i re goti e il loro ministro governarono
la cosa pubblica in Italia fino al principio del regno di Vitige.
Il valore ch'esse hanno per la storia d'Italia è supremo. La stessa
smarrita storia dei Goti non avrebbe potuto indicare con tanta evidenza
le condizioni morali e politiche degli Italiani, nè recar tanti
ragguagli intorno alla vita d'allora e allo stato degli uomini e delle
cose. Documenti di tal sorta parlano ai posteri con una eloquenza che
nessuna storia può raggiungere mai, perché inconsciamente toccano
di fatti a cui la storia non arriva. Così, per citare un esempio,
Teodorico annunziando al Senato d'aver conferita al padre di Cassiodoro
la dignità di Patrizio, mentre ci rende una immagine che non potremmo
avere altrimenti della reverenza che si spandeva ancora dal nome
romano, ci mostra insieme con quale romanità di espressione il re goto
rammentasse le invasioni di Attila. «Anzitutto, egli dice, noi bramiam
con ardore che il vostro collegio s'adorni nel lume delle dignità
quando coloro che crebbero nel potere aulico tributano onestamente
alla patria la loro grandezza.... Ché il padre di questo candidato per
giovare alla repubblica associossi con gran carità ad Ezio patrizio....
Ad Attila fu inviato non vanamente in legazione. Mirò intrepido
quell'uomo di cui tutto l'Impero temeva; forte nel vero, non curò que'
volti terribili, minacciosi, nè dubitò di contrastare agli alterchi di
colui che rapito da non so qual furore parea pretendere al dominio del
mondo. Trovò superbo il re ma lo lasciò placato.... La sua costanza
rialzava i timorosi, nè furon creduti imbelli coloro che s'armavano
di tali ambasciatori. Riportò una pace che parea disperata.»[11] E
mentre queste lodi all'avo di Cassiodoro indicano come un timoroso
desiderio di veder tenuto alto ancora e riverito il nome della virtù
romana, altre ne contiene questa raccolta che giovano mirabilmente a
chiarirci intorno a varie questioni storiche di gran momento. Il brano
seguente ci serba un insegnamento duplice anch'esso, affermando a un
punto le condizioni giuridiche dei due popoli e ritraendoci in vera e
trista dipintura gli scaduti costumi del patriziato romano. In uno di
quei tumulti che per brutta usanza venuta da Costantinopoli nascevano
frequenti nelle ire partigiane del Circo, un patrizio di nome Teodorico
e il console Importuno avean fatta ingiuria ai popolani della parte
avversa alla loro nei giuochi e fatto uccider l'un d'essi. E Cassiodoro
parlando nella persona regia così ne scriveva al magistrato con austera
fermezza: «Se noi moderiam colla legge le usanze di straniere genti,
se chiunque si associa all'Italia obbedisce al diritto romano, quanto
più si conviene alla sede stessa della cittadinanza aver maggiore la
reverenza delle leggi affinché la grazia delle dignità risplenda in
esempio di moderazione? E dove sarà da cercare un animo modesto se
i Patrizi si macchiano con atti violenti?.. Ma affinché i magnifici
personaggi non sieno offesi dalla loquacità popolare frenisi di
questa la presunzione. Si tenga in colpa chiunque sulla via faccia
ingiuria ad un reverendissimo Senatore, poiché mal si condusse quando
era da parlare onesto. Ma chi può pretendere gravità di costumi agli
spettacoli? Al Circo non sanno convenire Catoni. Checché ivi il popolo
gaudente si dica, non s'ascriva ad ingiuria ché il luogo protegge gli
eccessi. Ché se la costoro garrulità sia portata pazientemente, se ne
onoreranno gli stessi principi.»[12] Nobili e temperati sensi a cui
fanno bel riscontro questi cenni dati a Sunivado senatore inviato da
Teodorico nel Sannio a compor liti tra Romani e Goti: «Entra dunque
nella provincia del Sannio. Se un Romano avrà a far co' Goti o un Goto
co' Romani, e tu definisci considerando la legge nè si conceda vivere
in diversa legge a coloro che vogliam protetti da un giudice solo.
Sentenzierai dunque in comune ciò che è secondo giustizia, ché non sa
guardare alle persone colui che solo fa stima dell'equo.»[13]

Era dunque diritto che Teodorico lodasse Cassiodoro per avere reso
famoso il suo regno recando la integrità della coscienza nelle corti
e dando alta quiete ai popoli[14]. Sulla soglia del medio evo si
sente ancora per le lettere di quest'ultimo uomo di Stato romano che
l'antichità non è tutta spenta, e che alla civiltà romana avanza
tuttavia un ultimo alito di vita e di vigore. Nessuno elemento di
civiltà è trascurato in esse. Come alla conservazione delle leggi
romane, così v'apparisce continua la cura alla conservazione dei
monumenti e delle opere d'arte in tutta Italia. Ora son lettere per
ricuperare all'ornato pubblico una statua di bronzo rubata a Como, ora
per restaurare le terme di Spoleto, ora pel rifacimento di acquedotti
che minacciavan, rovina, ora per inviare a Ravenna colonne e marmi
giacenti fuor d'opera in Roma e colà ornare nuovi monumenti poiché
l'arte scaduta mal si prestava ad ornati nuovi. La musica ha suo
tributo d'onore anch'essa in una lettera a Boezio al quale un'altra
pure è diretta di cui i brani seguenti ci mostrano in quale stato
si conservassero gli studi meccanici. «Il signore dei Borgognoni ci
richiede a grande istanza d'inviargli un orologio che si muova pel
correr dell'acque sotto la ruota, e segni l'ora comprendendo in sé la
luce dell'immenso sole. E chiede maestri dell'arte a collocarlo, talché
godendo questo impetrato piacere sembri miracolo a loro quel che è
quotidiana cosa per noi.... Il meccanico è a così dire come il socio
della natura, svela le occulte cose, le manifeste trasforma, scherza
co' miracoli, e così bene dissimula che non si sospetta artificio e
l'imitato si ritien vero. Ora poiché ti sappiamo addentro in siffatte
cose, studiati di mandarci al più presto i predetti orologi, e ti
farai così conosciuto in quella parte del mondo dove non hai potuto
penetrare altrimenti. Imparino per te le genti straniere esser tali i
nostri nobili quali si leggon gli autori. Quante volte non crederanno
agli occhi loro! quante volte stimeranno sogni d'illusi questa realtà!
E quando saranno usciti dallo stupore non vorranno chiamarsi uguali
a noi presso i quali sanno tali cose essere escogitate dai nostri
sapienti.»[15]

Leggendo questa lettera si fa più doloroso il pensare che Teodorico
macchiò negli ultimi anni la gloria del suo regno colla crudele
uccisione di Boezio che ha qui così largo tributo di lodi. Forse la
feroce condanna sua e quella di Simmaco sono indizio che il patriziato
romano s'andava staccando dai Goti e l'accordo fra i due popoli
appariva arduo più che non s'era creduto in sulle prime. Ma intorno
a questo argomento non ci ponno dar luce le lettere ufficiali di
Cassiodoro, e, poiché ogni certezza storica ci fa difetto, forza è
contentarci d'ipotesi. Ad ogni modo, comunque andassero gli eventi
e qual che fosse l'animo dei nobili romani, Cassiodoro rimase fermo
nei suoi propositi di conciliazione, e, morto Teodorico, tenne il
suo ufficio presso Amalasunta che regnò qualche anno in nome del
fanciullo Atalarico e da cui fu innalzato alla suprema dignità di
Prefetto del Pretorio. Reggendo ella lo Stato, gli screzî tra Romani e
Goti appariscon più aperti. L'educazione del giovinetto re fomentava
specialmente ire e sospetti, ché i Romani con Amalasunta tendevano a
coltivarne latinamente lo spirito, ma i principali Goti lo volevano
Goto e non Latino, alieno da ogni studio e unicamente inteso agli
esercizî del corpo e alle arti di guerra. Il governo imperiale
frattanto da Costantinopoli soffiava nel fuoco, e raccendendo la
vampa di queste discordie nazionali e quella che serpeggiava interna
tra gli stessi Goti, si apparecchiava a giovarsene per ricuperare le
provincie italiane. Alla morte del giovinetto Atalarico, la madre
Amalasunta tenne alcun tempo il regno da sola, ma nè l'intelletto
suo vasto nè l'esser figlia di Teodorico valsero a salvarla dalle
diffidenze dei Goti, talché per un momento nelle cupe angoscie d'un
regnar minacciato, trattò in segreto con Giustiniano imperatore per
fuggir d'Italia e avere asilo a Costantinopoli. Poi nella lusinga
di potersi reggere ancora sul trono vacillante, tentò di legare a
sé Teodato un suo cugino della stirpe degli Amali, già suo nemico.
Sperava conciliarselo associandolo al regno, ma l'abbietto uomo salito
al trono rilegò Amalasunta in una isoletta del lago di Bolsena dove
indi a poco la lasciò trucidare. Rimasto solo regnò breve tempo, ma
pericolando anch'egli e desideroso com'era di menar vita pacifica,
offrì a Giustiniano di cedergli lo Stato e chiese in ricambio ricchezze
e tranquilli onori sul Bosforo. I Goti avvedendosi d'esser traditi da
quel codardo, lo deposero, e coltolo fuggente a Ravenna lo sgozzarono.
Vitige, un prode guerriero loro, levato sugli scudi fu acclamato re, e
Cassiodoro rimasto in carica tutto quel tempo scrisse in nome del nuovo
sovrano la lettera seguente che riferisco intera perché mi par che
suoni come uno squillo di tromba destinato ad annunziare la fortunosa
guerra imminente.

«A tutti i Goti, Vitige re. Se ogni bene vuolsi riferire a dono della
divinità nè v'ha nulla di buono se non quanto ella ci concede, tanto
più vuolsi attribuire la dignità regale al giudizio divino che ordina
coloro a cui vuol soggetti i suoi popoli. Di che a Cristo signor
nostro riferendo grazie con umilissima compiacenza, giudichiam che i
Goti ci abbiano coll'aiuto di Dio conferita la dignità regia levandoci
tra le spade in sugli scudi, secondo l'uso dei maggiori nostri,
affinché l'armi dessero l'onore a colui cui le guerre procacciarono
stima. Imperocché sappiate ch'io fui eletto non tra l'angustia delle
stanze ma nel largo aperto dei campi, nè fui chiamato tra i sussurati
colloquî de' blandienti ma tra lo squillar delle trombe, affinché il
popol gotico concitato da quel fremere nel desiderio dell'ingenito
valore, si trovasse un re guerriero. E quanto mai tempo uomini forti e
nutriti nel fervor delle guerre avrebbero potuto tollerare un principe
non provato di cui fosse dubbia la fama, anche s'ei presumesse del
valor suo? Imperocché, come avrete udito, io chiamato nel pericolo
dei parenti Goti ero accorso a portar cogli altri la fortuna comune,
ma e' non si contentarono d'avermi a condottiero desiderosi com'erano
d'un re sperimentato. Per la qual cosa, prima nella grazia d'Iddio poi
compiacetevi nel giudizio dei Goti, perché tutti mi fate re voi che
unanimi rivolgete in me i voti. Deponete oramai ogni timore di danni,
ogni sospetto di spese; non temete nulla d'aspro sotto di noi. Noi
trattando così spesso la guerra imparammo ad amare i forti. S'aggiunga
ch'io son testimonio a ciascuna delle prodezze vostre, nè v'occorre
che altri mi narri le vostre gesta perch'io le conobbi tutte, socio
con voi nelle imprese. L'armi dei Goti mai non si frangeranno pel
mutar delle mie promesse. Ad utilità del popolo si rivolgerà ogni atto
nostro nè trascureremo i privati. Promettiam di compiere quel che orni
il nome di re. Da ultimo promettiamo di far che l'imperio nostro sia
tale quale ponno aspettarselo i Goti dopo l'inclito Teodorico, uomo
così singolarmente e mirabilmente adatto alle cure del regno, che ben
può ogni principe esser tenuto insigne a seconda ch'ei mostra d'amare
i precetti di lui. Pertanto dovrà esser creduto parente suo chiunque
potrà imitarne le imprese, e perciò siate solleciti per la utilità del
regno nostro e sicuri dello stato interno se Iddio ci aiuti.»[16]

Questa ed un'altra inviata da Vitige a Giustiniano per annunziargli
la sua elezione ed esortarlo a pace senza mostrar timore di guerra,
sono le due ultime lettere importanti che si leggono nella raccolta
di Cassiodoro, e parrebbe notevole segno dei tempi il non trovarsene
alcuna diretta al Senato Romano. Non è ben noto in quale momento
Cassiodoro lasciasse la vita pubblica, ma è opinione comune ch'egli
se ne ritraesse alla chiusa del regno di Vitige dopo la prima grande
disfatta dei Goti. A me dall'improvviso interrompersi delle sue
lettere, dal non trovar menzione di lui nelle storie di Procopio e
dalle nuove decise tendenze sorte col cadere degli Amali, pare invece
probabile ch'egli cessasse anche prima, stanco alla fine e perduta
ogni fede in un accordo tra Romani e Goti più che mai necessario in
quell'ora suprema alla salute del regno. Ad ogni modo verso l'anno
540 aveva abbandonato le cure del mondo. Ritiratosi presso Squillace,
fondò il Monastero Vivariense e vi condusse la rimanente vita in quieta
solitudine tra lavori letterarî e pie contemplazioni. Quivi oltre le
opere storiche già composte da lui raccolse e fece tradurre una storia
della Chiesa[17], e nel novantesimo terzo anno di sua età compose un
trattato sull'ortografia per ammaestramento dei suoi monaci ai quali
aveva imposto l'obbligo di copiar libri. In quale anno egli morisse
è incerto, ma forse la vita sua si prolungò fino alla invasione dei
Longobardi e si chiuse tra le calamità di una oppressione ch'egli aveva
indarno tentato di stornar dalla patria favorendo la fondazione di un
regno goto-romano[18].

Allo scopo di Cassiodoro mirava anche il compendiatore della sua
storia Giordane escito da nobilissima famiglia gotica stretta di
parentela cogli Amali. L'avo suo Paria era stato notaio in Mesia e
cancelliere di Candac re degli Alani, e prima d'abbracciare la vita
ecclesiastica fu egli stesso notaio presso il nipote di Candac, Guntige
o Baza. Scrittore spesso ricercato e sentenzioso come Cassiodoro, e
come lui smodato lodatore dei Goti, egli è del pari dominato dallo
stesso pensiero. Dimostra lo Stahlberg e lo ripete il Wattenbach,
com'egli riconoscesse in quel pensiero ogni speranza per l'avvenire
di sua nazione. Perciò Giordane non pure s'astenne dal prender parte
nella lotta che seguì tra i Goti e l'Impero, ma parve piuttosto
propendere verso i Greci che verso i suoi connazionali. La stessa sua
parentela cogli Amali e le tradizioni di Teodorico che pure serbandosi
indipendente s'era mostrato ossequioso all'Impero ed amico ai Romani,
schieravano Giordane in un partito contrario alle idee prevalenti
allora tra i Goti e che mal s'acconciava alla caduta degli Amali e al
distacco dei Goti dai Romani. Di che si chiarisce come nel suo lavoro
egli faccia appena menzione di Totila che doveva parergli quasi un
usurpatore. Del resto egli non scrisse in Italia i libri suoi, ma a
Costantinopoli e, come il Mommsen dimostra, intorno all'anno 551. Ciò
spiegherebbe per qual ragione egli scrivendo non avesse innanzi a sé
l'opera di Cassiodoro, ma la compendiasse di memoria aggiungendovi
alquanto di suo circa agli eventi contemporanei[19]. Ma poiché di
questi ei tratta assai brevemente e degli anteriori la narrazione sua
è confusa molto e disordinata, ne segue che il valor del suo libro come
fonte di storia italiana è scarso più della fama sua. Un altro libro di
Giordane che vien chiamato _De summa temporum vel origine actibusque
gentis Romanorum_, è compilazione anch'essa di poco pregio[20]. Già
il Wattenbach ha notato come la caratteristica principale di Giordane
stia nel suo concetto storico secondo il quale l'impero romano legato
attraverso i secoli alle generazioni del Vecchio Testamento è destinato
a perpetuarsi nel tempo fino alla fine del mondo. A me più che per
questa romana universalità di vedute, sembra essere particolarmente
notevole in quanto egli ci rappresenta tutto un partito gotico che,
per convincimento o per interesse, voleva accomunarsi ai Romani e si
sforzava di creare una nazionalità mista dei due popoli riuniti[21].

Ma le forze di questo partito erano frante oramai e ogni legame
tra Romani e Goti era sciolto. Giustiniano frattanto, uscite vane
le pratiche per ricuperare pacificamente l'Italia, s'apprestava a
riconquistarla colle armi. Belisario, già famoso per le guerre vinte
contro i Vandali in Affrica, era stato spedito in Italia, e, regnando
ancora Teodato (A. D. 535-536), erasi impadronito della Sicilia e
di Napoli. Vitige fatto re appena, non sentendosi forse in forza da
resistere al primo urto di Belisario, indietreggiò fino a Ravenna, e il
bizantino mettendo a profitto quella mossa, rapido s'impadronì di Roma.
Qui veramente incomincia il periodo eroico di questa guerra, una fra
le più memorabili che sieno state mai combattute. Vitige raccolte tutte
le forze gotiche, con largo esercito mosse da Ravenna a Roma e vi pose
assedio. La costanza e il genio militare di Belisario tennero contro
lo sforzo, e dopo accanite lotte e patimenti indicibili di fame e di
peste, Roma fu sollevata da quel primo assedio e la forza dell'esercito
goto in gran parte esaurita. Ma la guerra continuò in tutta Italia.
In ogni luogo combattimenti e assedi di città prese e riprese, da
Milano infin presso a Roma le campagne devastate, le messi distrutte,
e per una gran parte d'Italia una dolorosa fame che menò strage tra
il popolo (A. D. 537-538). Il combattere seguitava e i suoi mali con
esso, quando un esercito di Franchi valutato a circa centomila uomini
calò dalle Alpi improvviso come un nuvolo di locuste, e spargendo
intorno devastazione, incendio e rapina, corse un largo tratto della
penisola e se ne tornò indietro per la Liguria carico di preda. Di lì
a poco Ravenna stretta dai Greci arrendevasi, e Belisario con Vitige
prigioniero tornava a Costantinopoli rifiutando il regno d'Italia
che gli era offerto dai Goti (A. D. 540). Questi allora si scelsero
prima Ildibaldo poi Erarico uccisi ambidue entro pochi mesi. A loro
succedette un eroe, Totila, il quale radunati quanti rimanevano Goti
e riordinatili, mentre i capitani greci discordavan fra loro riuscì
in breve a ricuperare quasi tutta Italia tranne Ravenna e Roma (A. D.
542). Belisario mandato di nuovo in Italia non poté come avrebbe voluto
soccorrer subito Roma cinta strettamente dai Goti, e poi più tardi con
inauditi sforzi lo tentò invano. Roma resse a lungo in preda alla fame,
ad ogni sorta d'angoscia, ma finalmente cadde in mano di Totila. Poiché
se ne fu impadronito il re dei Goti, forse perché non avrebbe potuto
reggersi dentro la vasta cinta della città, ne smantellò le mura, ne
cacciò fuori i cittadini, e abbandonandola la lasciò vuota e deserta;
poi mosse verso il mezzogiorno. Belisario la rioccupò subito, e pur
così diroccata seppe difenderla da ripetuti assalti intanto che la
guerra continuava sparsamente per tutta Italia (A. D. 547). Più tardi
per intrighi di palazzo richiamato Belisario a Costantinopoli, le cose
d'Italia scesero di nuovo alla peggio pei Greci. Totila poté rifar
sua Roma e spingersi fino in Sicilia ad occuparla, mentre i Franchi
giovandosi della debolezza dei Greci e dei Goti, calati di nuovo si
stendevano devastando nel Veneto e nella Liguria (A. D. 548-552).
Narsete eletto capitano alla guerra d'Italia rialzò le sorti dei Greci,
i quali vinta prima una battaglia navale nell'Adriatico liberarono
Ancona assediata. Poi ricuperata Corsica, Sardegna e Sicilia,
seguitarono combattendo e vagando per tutta Italia, finché raccoltisi
i due eserciti nemici un contro l'altro presso Tagina nell'Umbria[22],
i Goti dopo una ostinata battaglia furono disfatti e Totila ucciso (A.
D. 552). All'eroe caduto i Goti sostituirono un altro eroe e s'elessero
in re Teia a Pavia, mentre i Greci compievano nel mezzogiorno altre
imprese, ricuperavano Roma e assediavano Cuma dove Aligerno fratello
di Totila difendeva il riposto tesoro dei Goti. Il nuovo re Teia con
le ultime reliquie dell'esercito percorrendo quasi tutta l'Italia
arrivò fino a Nocera alle falde del Vesuvio. Quivi ebbe luogo l'ultima
decisiva battaglia nella quale i Goti soggiacquero per sempre, e Teia
trovò una morte degna di rinomanza imperitura.

Di questa maravigliosa epopea non ci sarebbe rimasto quasi nessun
ricordo contemporaneo se per buona sorte non ce l'avesse narrata
Procopio lo storico il quale seguì Belisario e gli fu compagno nelle
sue guerre. Perciò ho voluto richiamarla alla memoria dei miei lettori
prima di farmi a parlar di lui e dei particolari del suo lavoro.

Da Cesarea in Palestina dov'egli sortì i natali, Procopio ai tempi
dell'imperatore Anastasio venne a Bizanzio e per le molte doti
dell'ingegno e della dottrina presto seppe aprirsi innanzi una
via. Giustino I seniore, in un momento arduo per l'Impero, mentre i
Persiani prevalevano in guerra, pose Procopio come consigliere presso
Belisario. Con lui rimase anche più tardi ai tempi di Giustiniano,
e nelle guerre d'Affrica e d'Italia meritò bene dello Stato in vari
uffici e fu di molto aiuto al grande capitano imperiale. Richiamato
Belisario dall'Affrica soggiogata, Procopio si trattenne qualche
tempo col successore di lui Solomone, e si die' con prudente energia
a rassodare l'autorità dell'Impero mal ferma ancora in quelle regioni
così rapidamente piegate. Egli stesso ci ha lasciato memoria di ciò
che compì in Persia, e più tardi a Roma, a Napoli, a Siracusa, nè
veramente gli si può far mai rimprovero di soverchia baldanza in
parlar di sé stesso. L'operosità sua non restò senza premio, e prima
ascritto al Senato, salì alla Prefettura Urbana nel trentacinquesimo
anno dell'Impero di Giustiniano. Intorno a quel tempo avea già composte
le sue storie e divulgatele tutte tranne un ultimo libro che fu
chiamata _Anecdota_ ed è noto universalmente col titolo di _Historia
Arcana_[23]. In quest'ultimo libro scritto ma non pubblicato innanzi
alla morte di Giustiniano, ei rivelò molti intrighi di palazzo che
mettono in mala luce la corte imperiale. Contro Giustiniano e sua
moglie Teodora salita dai giuochi del Circo alla maestà dell'impero, si
volge specialmente velenosa la _Historia Arcana_, la quale per essere
tortuosa rivelatrice di vizî taciuti nei libri anteriori, ha messo
in qualche sospetto la veracità di Procopio. Ma oltreché l'impero di
Giustiniano ebbe varia luce di virtù e di colpe tanto da potersene fare
descrizioni diverse insieme e veraci, non è di questo luogo esaminar la
giustezza delle accuse che la critica ha mosse a Procopio, nè la bontà
delle difese. Io qui, tralasciando la Historia Arcana che non riguarda
molto direttamente l'Italia, e la narrazione delle guerre condotte da
Belisario in Affrica e in Persia, debbo trattar solo di quella parte
delle sue storie che propriamente si riferisce alla guerra gotica.
Il valore della testimonianza sua intorno a questa guerra è doppio, e
per la parte ch'ei v'ebbe a fianco del condottiero supremo, e per la
grande imparzialità che dimostra inverso i Goti ai quali non nega una
ammirazione sincera e onorevole[24]. Testimonio di vista, egli non pure
descrive vivido le imprese di quei diciotto anni di guerra, ma anche
raffigura i mali lunghi che ne derivarono, onde è agevole immaginar
dal suo libro lo stato d'Italia alla fine di quel contrasto, e come
rimanesse smunta di forze e prostrata in un letargo mortale. Scrittor
greco d'una età di decadenza, apparisce chiaro ch'egli ha scritto
il suo libro a Bizanzio e non in Atene, e così il suo stile come la
sua lingua cedendo alla povertà dei tempi, rimangono assai lontani
dalla severa purità degli antichi. Tuttavia non gli manca vigore nè
colorito, si sente in lui lo studio dei maestri antichi[25], e il suo
libro superiore di molto all'arte latina contemporanea, in paragone
cogli scritti di Cassiodoro è un modello. Quando egli narra la fame
che desolò tutta Italia e le malattie che ne seguirono e falciaron via
un infinito numero di vite, trova a dipingerla una evidenza di colori
fosca terribile paurosa, quale occorreva a ritrar que' famelici vaganti
per cibo in cerca di cadaveri. La brevità stessa colla quale racconta
di cinquantamila agricoltori morti nel solo Piceno e dei molti più
morti oltre il seno Jonico, rende più efficaci i suoi detti e ne cresce
la pietà e lo sgomento. Basterebbe quel cenno a farci intravvedere
quanto per quella guerra restasse disertata l'Italia, ma non è il
solo purtroppo. Quasi ogni pagina narra nuove miserie, descrive nuovi
dolori, e ne sia esempio la descrizione seguente di un'altra fame che
cruciò Roma in uno dei frequenti assedî sostenuti in quegli anni:

«Frattanto continuando e aumentandosi, la fame si mutò in grande
miseria e suggerì strane maniere di cibi ripugnanti a natura. E
anzitutto Bessa e Conone, i quali eran capi del presidio di Roma
e avevano abbondanza di frumento raccolta ne' granai entro le mura
della città, e i soldati risparmiandone dal vitto loro, ne vendevano
per molto danaro ai ricchi romani, ché sette monete d'oro erano il
prezzo d'un moggio. Ma coloro che non avevan modo di spender tanto
pel cibo, pagavano il quarto di tal prezzo per un moggio di crusca,
e necessità la faceva parer loro dolcissima e squisita. E un bove che
gli scudieri di Bessa prendessero in una sortita, era venduto ai Romani
per cinquanta monete d'oro. E ogni Romano che avesse un cavallo morto
o qualcosa di simile, bene era stimato felice ch'ei poteva sfamarsi
nella carne della morta bestia. Ma tutto il rimanente popolo si pasceva
solo d'ortiche le quali crescono abbondanti d'ogni intorno tra le
mura e le ruine della città. E affinchè la ruvidezza della pianta
non pungesse loro le labbra e la gola, ei le bollivano bene prima di
mangiarle. Pertanto finché i Romani ebbero oro e' lo barattarono come
s'è detto in grano e in crusca, ma finito l'oro traevano al mercato le
lor masserizie e le barattavano nel cibo d'ogni giorno. E finalmente,
quando nè i soldati dell'Imperatore avean più grano da vendere, appena
rimanendone alquanto per Bessa, nè ai Romani era più nulla lasciato da
offrire in cambio, tutti ebbero ricorso alle ortiche. Ma poiché questo
cibo non era sufficiente e neppure ne avevano tanto quanto avrebber
potuto mangiarne, i corpi loro man mano s'estenuavano, e il colorito
loro presto divenendo livido li faceva in tutto parer simili a spettri.
E molti mentre camminavano e ancor masticavano fra i denti le ortiche,
cadean di botto morti in terra. E molti altri spinti dalla fame,
uccidevansi quando non potevano più trovar cani o sorci nè cadaveri
d'animali onde cibarsi. E fuvvi un Romano, padre a cinque figliuoli i
quali lo circondavano e gli s'attaccavano alle vesti implorando cibo.
Ma egli senza piangere e senza mostrare la sua confusione, con gran
forza d'animo celando la sua miseria comandò ai figli che lo seguissero
come s'ei volesse procurar loro il cibo. E quando fu al ponte sul
Tevere, avvoltasi nel manto la faccia e copertisi gli occhi con esso,
lanciossi nel Tevere in vista dei figliuoli e di tutti i Romani ch'eran
presenti. Dopo ciò i governatori imperiali, estorta maggior moneta,
diedero a quanti Romani piaceva, licenza di fuggirsene dove volevano.
Così, pochi soltanto rimanendo indietro, tutti gli altri usciron fuori
a gran fretta per dove potevano. E molti di loro morirono in lor via
per mare e per terra essendo ogni loro forza esaurita dalla fame. E
molti furono presi dal nemico e uccisi. A tale fortuna s'erano ridotti
il Senato e il popolo di Roma!»[26]

La cupidigia sordida atroce di Bessa e Conone, rivelata qui dallo
scrittor greco è altrove rimproverata con fierezza acerba. Per
contrario di fronte a questa viltà dei Greci si trova contrapposta
la condotta del diacono Pelagio che poi fu papa, il quale si volse
con dignitose preghiere al vincitore Totila chiedendo che i Goti
risparmiassero le vite dei Romani contro i quali essi entrati appena
nella città incominciavano ad incrudelire. Totila si mostrò benigno
alla domanda ma s'impadronì egli stesso e i suoi Goti delle ricchezze
rimaste. Per tal modo i male accumulati tesori di Bessa caddero in
mano del goto principe e tutte le case patrizie furono spogliate. «E
così,» continua Procopio, «accadde agli altri Romani e senatori, e più
specialmente a Rusticiana moglie di Boezio e figliuola di Simmaco la
quale avea sempre dato tutto il suo ai poveri, tanto ch'essi dovevano
andare accattando dai lor nemici il pane e ogni cosa necessaria al
vivere, in veste di schiavi o di contadini. Imperocché essi andavano
picchiando di porta in porta mendicando il cibo nè ciò teneano a
vergogna. E i Goti instavano che Rusticiana fosse messa a morte
accusandola d'aver pagato romani ufficiali affinché distruggessero le
statue di Teodorico per vendicar l'uccisione del padre Simmaco e del
marito Boezio. Ma Totila non concesse che le si facesse ingiuria e
salvò da oltraggio lei e tutte l'altre donne, della qual temperanza ei
ricevette gran lode.»

Mentre Procopio in questo episodio commovente tributa onore a Totila
e alle ultime reliquie del patriziato romano, ci dà prova insieme di
possedere una grande serenità di giudizio e quella qualità eccellente
in uno storico del saper cogliere la vera luce dei fatti ed esporli
in guisa che dal complesso loro appariscano le condizioni generali
dei tempi descritti. Del resto le migliori qualità sue di scrittore mi
par che si mostrino tutte in questa descrizione dell'estrema battaglia
combattuta tra Bizantini e Goti, colla quale Procopio conclude la sua
narrazione:

«A pie' del monte Vesuvio sono sorgenti di pura acqua e ne deriva un
fiume chiamato Draco (Sarno) che passa assai prossimo alla città di
Nocera, e i due eserciti s'erano accampati a' due lati del fiume. Ma il
Draco ancorché contenga poca acqua, non può guadarsi da cavalieri nè da
fanti perché stringe il suo letto in breve spazio e solca d'ambo i lati
la terra a molta profondità talché le sponde divengono ripide molto.
Se ciò avvenga per la qualità del suolo o dell'acqua io non so. E i
Goti occupato il ponte e accampativisi presso, posero in quello torri
di legno e macchine diverse, e tra esse quella che chiamano _balista_,
per modo ch'essi potevano dall'alto ferire e tormentar l'inimico.
Imperocché, come ho detto, per cagion del fiume che si frapponeva,
era impossibile combatter petto a petto e per lo più ciascuna parte
attaccava l'altra con missili avvicinandosi per quanto poteva sulla
sua sponda. Pochi certami singolari avean luogo quando qualche Goto
varcava il ponte recando una sfida. E così i due eserciti passarono lo
spazio di due mesi. Ma quinci i Goti eran padroni del mare presso a cui
s'accampavano, e potevan reggere finché le lor navi recavan per essi
le provviste occorrenti. Poi i Romani[27] preser le navi nemiche per
tradimento del Goto che comandava l'armata, ed anche navi innumerevoli
da Sicilia e dal rimanente Impero vennero a loro soccorso. Nel tempo
stesso Narsete ponendo torri di legno sulla sponda del fiume riuscì
interamente ad abbatter l'animo dei suoi avversari. I Goti scorati
e stretti dal difetto di cibo si rifugiarono ad una montagna vicina
chiamata dai Romani in latino Mons Lactarius. Quivi non potevano
inseguirli i Romani per cagione del cattivo terreno. Ma presto i
barbari incominciarono a pentirsi d'esserci andati ché le provviste si
fecero anche più scarse tanto che in nessun modo potevano più mantener
sé stessi e i cavalli loro. Di che, stimando meglio accettevole morire
in ordine di battaglia che per lenta fame, calaron giù quando il nemico
men li aspettava facendo contro esso impeto improvviso. I Romani li
fronteggiarono così com'erano senza ordinarsi secondo lor capitani,
o compagnie, o posizioni, nè collocarsi in alcuna maniera d'ordine
tra loro, ma difendendosi contro il nemico ciascuno come gli accadde
trovarsi. Allora i Goti lasciati i cavalli composero una profonda
falange tutti colla faccia rivolta al nemico e anch'essi i Romani
vedendo questo lasciarono i cavalli e tutti si strinsero insieme nello
stesso ordine.

«E qui io narrerò una battaglia assai memorabile per sé stessa e per
la chiara virtù spiegata da Teia che non si mostrò minore ad alcuno
di quelli a cui diamo nome d'eroi. E il disperato partito a cui
erano ridotti i Goti accresceva in essi prodezza, mentre i Romani li
confrontavano con ogni possa vergognosi di cedere a coloro che già
eran vinti, sicché d'ambe parti s'attaccavano i più vicini nemici, gli
uni cercando la morte gli altri la gloria. E cominciando la battaglia
per tempo al mattino, Teia riparato dallo scudo e imbrandita la lancia
stava in luogo cospicuo innanzi alla falange. Quando i Romani lo
videro, pensarono che s'egli cedesse sarebbe più facile romper tutta
la linea di battaglia, onde quanti pretendevano d'aver coraggio, ed
eran molti, s'adunarono insieme contro di lui, alquanti appuntando in
lui le lancie altri scagliandogliele addosso. Ma egli celato dallo
scudo, in questo riceveva i dardi e poi a un tratto gettandosi sui
nemici, molti ne uccideva. E quando vedeva che lo scudo era carico di
dardi, ei lo dava ad uno de' suoi scudieri e prendevane un altro. Così
continuò a combattere per una terza parte del giorno, quando essendo
il suo scudo trapassato da dodici dardi ei non poteva più muoverlo a
posta sua nè respingere i suoi assalitori. Ma egli soltanto chiamò in
fretta uno dei suoi scudieri, senza lasciar suo posto o dare indietro
un pollice o lasciare il nemico avanzarsi, e senza rivolgersi o
coprirsi le spalle con lo scudo o mettersi da lato; ma egli stava con
lo scudo come piantato in terra, menando colpi mortali colla destra,
tenendo tutti a distanza colla manca, e chiamando per nome il suo
scudiero. E allorché questi gli portò lo scudo, ei subito lo cambiò
con quel che aveva greve per gl'infissi dardi. In quella avvenne che
gli rimase il petto scoperto un momento e un giavellotto colselo e
l'uccise di colpo. E alcuni Romani infissero una picca al capo suo
e questo portarono attorno mostrandolo ai due eserciti; ai Romani
per incorarli, ai Goti affinché, sparita ogni speranza, cessassero
la guerra. Pure nemmen per questo i Goti lasciarono il combattere,
ancora che per certo sapessero ch'era morto il re loro. Ma quando
fu scuro, gli uni e gli altri separandosi passaron la notte entro
l'arme, e sorgendo presto il mattino appresso venner fuori di nuovo
nell'ordine medesimo e combatterono fino a notte, gli uni non cedendo
agli altri nè rivolgendosi o lasciando presa un momento, avvegnaché
molti restassero morti d'ambo i lati, ma ostinandosi nel contrasto e
infuriati a vicenda. Imperocché i Goti bene sapevano di combattere la
battaglia suprema e i Romani stimavano troppo da meno di loro l'essere
vinti. Da ultimo i barbari spedirono alcuni di lor capi a Narsete
dicendo d'essere omai persuasi ch'eglino contendevano con Dio perché
sentivano che il poter suo stava contr'essi. Perciò considerando questa
verità al paragone di quanto era accaduto, desideravano mutar d'avviso
e cessare la lotta non già per obbedire all'imperatore ma per vivere
liberamente con altri barbari. E chiesero che i Romani li lasciassero
ritirarsi in pace e non contrastassero a loro un trattamento
ragionevole, ma concedessero loro come mantenimento pel viaggio tutta
la moneta ch'essi tenevan raccolta in lor castella in Italia. E mentre
Narsete stava deliberando, Giovanni figlio di Vitaliano lo consigliò
di acconsentire alla domanda, e che non era da seguitare a combatter
con uomini disposti a morire, nè porre più oltre a prova una virtù che
veniva da disperazione e del pari era funesta a chi la mostrava e a chi
l'opponeva. ‘Imperocché, egli disse, all'uom saggio dovrebbe bastare
il vincere, e il voler troppo rischia d'essere in pregiudizio d'ambe
le parti’. Questo consiglio piacque a Narsete, e combinarono che quanti
rimanevano dei barbari, raccolti i lor beni tosto se n'andassero fuori
d'Italia, e per nessuna ragione combattessero più contro i Romani.
Frattanto circa mille dei Goti, lasciato il campo s'erano recati alla
città di Pavia e alle contrade di là dal Po; e quell'Indulfo che abbiam
già menzionato era tra coloro che li conducevano. Ma tutti gli altri
confermarono per giuramento quanto s'era combinato. Così i Romani
presero Cuma e tutti gli altri luoghi, e questo fu il termine del
decimottavo anno della guerra coi Goti che fu scritta da Procopio.»

In Cassiodoro e Procopio si riassume tutta la storia di questa età,
ma v'hanno insieme alcuni scrittori minori degni di menzione. Agatia
continuò, anch'egli in greco, la storia di Procopio narrando le imprese
di Narsete, e può essere consultato con frutto circa le ultime vicende
della guerra gotica dopo la morte di Teia[28]. Un'arida cronaca latina
è quella di Marcellino Conte, la quale dai tempi di Teodosio va fino a
quelli di Giustiniano (A. D. 379-558), ma pur malgrado l'aridità sua
ha valore specialmente per la cronologia di alcuni fatti. Lo stesso
può dirsi per la cronaca di Mario Aventicense[29]. Assai superiore a
costoro per interesse e per pregio è Magno Felice Ennodio vescovo di
Pavia. Di stirpe indubbiamente gallo-romana e nobile, nacque per quanto
pare a Pavia e certo v'ebbe dimora fanciullo. Fu legato di parentela
e d'amicizia coi primi uomini del suo tempo e più segnalati per sapere
e per nascita. Ebbe moglie ed un figlio, ma più tardi egli e la sposa
lasciato il secolo si consacrarono alla Chiesa. Nominato diacono,
Ennodio rimase lungamente in tal grado finché fu chiamato alla dignità
di vescovo di Pavia dove morì verso il 521. Godè riputazione grande
come retore a' suoi tempi, e scrisse in nome suo e d'altrui moltissime
orazioni, lettere ed epitaffi per cui fu celebrato largamente. Ma la
fama maggiore gli venne da un panegirico di Teodorico e da un libro
apologetico in favore di papa Simmaco. Il panegirico fu scritto nei
primi anni del sesto secolo. Non è ben certo in quale città fosse
recitato a Teodorico, e taluno reca valide ragioni per credere che
esso non sia stato recitato mai[30]. È scrittura di pessimo gusto,
abbondante in tutti i difetti dello stile di Cassiodoro, scarsa nei
pregi. La povertà di migliori documenti le dà qualche importanza
storica ma non certo paragonabile alla importanza delle sue lettere e
della vita di Santo Epifanio vescovo di Pavia. Le lettere dirette quasi
sempre a personaggi cospicui, contengono molte notizie preziose per gli
studiosi del secolo quinto e del sesto. La vita di Santo Epifanio poi
non pure dipinge l'accesa carità d'un santo tutto rivolto a riscattar
coloro che i barbari nelle loro incursioni trascinavano schiavi fuor
della patria, ma è una pittura viva della torbida età che precedette
immediatamente i tempi gotici, torbidi anch'essi e sovra i quali
purtroppo incombono oramai tempi di maggior dolore[31].



CAPITOLO II

  Calamitose condizioni d'Italia nel primo periodo della invasione
    longobarda — Gregorio il Grande. Raccolta delle sue lettere.
    Altissima importanza di esse per la storia d'Italia. I libri dei
    Dialoghi — Editto di Rotari — La «Origo Langobardorum» e scritti
    minori fino a Paolo Diacono — Vita di Paolo Diacono, sue opere e
    specialmente sua storia dei Longobardi.


Caduto il regno dei Goti, l'Italia non fu affrancata. Belisario e
Narsete colle loro imprese erano bastati a spezzar le armi gotiche ma
non potevano erigere un baluardo sicuro dagli assalti nuovi. L'Impero
in Occidente era davvero sfasciato e i suoi legami coll'Oriente gli
erano inevitabile cagion di rovina. La corte di Bizanzio fiacca per
corruzione non era sufficiente a sé stessa e sciupava le forze d'Italia
col suo dominio non nazionale e non abbastanza straniero. Da ciò la
rovina d'Italia. Se, come già si è venuto dicendo, il concetto di
Cassiodoro avesse potuto avverarsi e il popol goto fondersi nelle
stirpi latine, forse un vero regno italico sarebbe sorto capace
di contrastare da un lato alle nuove immigrazioni barbariche,
dall'altro alle sordide pretese dei Bizantini. Assicurata così per
quanto comportavano i tempi una specie di nazionalità italica, forse
la civiltà romana non sarebbe rimasta soffocata per tanto andare
di secoli, e i giorni della rinascenza si sarebbero maturati prima
e con minore stento. Se non che guida le vicissitudini umane una
legge storica profonda come ogni decreto della Provvidenza e non
facilmente scrutabile, e l'umanità attraversando tanto dolore ha forse
invece affrettato il suo cammino. Ma se il rimpianto è vano, mal sa
guardarsene chi s'affaccia a riconsiderar nella mente gl'immensi mali
che sovrastavano in quell'ora all'alma parente delle nazioni moderne.

Il primo invadere e stabilirsi dei Longobardi in Italia segna il
periodo più infausto della storia medioevale italiana. Venuti dalla
Pannonia, sotto la guida d'un re prode e feroce, Alboino, i Longobardi
scesero in Italia alcuni anni dopo l'ultima disfatta dei Goti.
Trovarono poca resistenza. A Narsete era succeduto un dappoco, Longino,
e le città abbandonate a sé stesse si difesero come poterono. In breve
giro di tempo la dominazione loro incominciata nel Friuli si distese
per una gran parte d'Italia. Diversi di religione perché altri d'essi
erano ariani, altri idolatri ancora, i Longobardi vivevano ferocemente
e ferocemente operavano verso i conquistati. Le rapine e le stragi,
spargevano intorno squallore e desolazione echeggiate nel lamento
che prorompeva dal cuore di papa Pelagio II quando in una lettera ad
Aunacario vescovo di Auxerre, esclamava: «E perché non gemete in vedere
sparso dinanzi agli occhi nostri tanto sangue d'innocenti, e profanati
i sacri altari, e fatto insulto dagli idolatri alla fede cattolica?» Le
condizioni giuridiche degli Italiani sotto i nuovi conquistatori furono
durissime per tutto il tempo della loro dominazione che si mantenne due
secoli finché fu abbattuta da Carlomagno. L'antica civiltà già scadente
patì un ultimo colpo e fu gran pena se potè serbare qualche povero
frammento di vita e la tradizione del gran nome di Roma.

E in Roma veramente giaceva il seme della redenzione futura. In
quell'ora di dolore Roma si maturava ad una grande trasformazione, e
l'antica dominatrice scaduta dalla primitiva grandezza e coi barbari
alle porte, s'apparecchiava ad esercitare una influenza nuova e non
meno vasta sul mondo. Mentre l'Italia era lacerata dal mal governo dei
Bizantini di Ravenna e dalle devastazioni dei Longobardi, un uomo di
genio, Gregorio il Grande, dalla cattedra di Pietro sorgeva a difendere
l'Italia, e girando lontano lo sguardo, quasi inconscio e per istinto
di romana grandezza poneva le fondamenta alla supremazia universale
della Chiesa. Certo niun uomo poteva nascer temprato meglio di lui
a condurre un rivolgimento così tenace e durevole, così riccamente
fecondo d'eventi nella storia futura. «A pochi altri uomini,» ha
scritto di recente uno storico, «natura e fortuna si fecero incontro
con più benigna concordia, ma pochi uomini anche più solleciti di
quello in spender bene i lor doni e cavarne il più largo frutto e farne
ricco patrimonio altrui. Rampollo di illustre stirpe patrizia (si crede
che fosse della gente Anicia; suo padre era il senatore Gordiano, tra
gli antenati contava un papa, Felice IV) insieme col censo cospicuo
de' maggiori ne aveva ereditate le tempre robuste e l'assennatezza. La
gravità del romano e l'ardore del cristiano si unirono in Gregorio come
in nessun altro pontefice prima e dopo di lui.»[32]

Un uomo siffatto, mescolato com'era a quanto di notevole accadeva nel
mondo, di necessità doveva riflettere l'età sua in quante scritture gli
sgorgavano dalla penna feconda, onde talune di queste, intese allora a
tutt'altro scopo, hanno oggi un valore storico altissimo che s'accresce
per la gran povertà di ricordi contemporanei. Nato verso il 540, mentre
Belisario contrastava ai Goti il dominio d'Italia, Gregorio studiò
a Roma grammatica, rettorica, filosofia e diritto[33]. Giovanissimo
ancora era salito alla dignità di Pretore o di Prefetto in Roma, ma le
cure politiche non bastavano a distoglier lui uomo insieme di azione e
di pensiero, dalle pie opere e dalle abitudini contemplative. Mosso da
quella forza infaticabile che non gli fallì mai nella vita, egli dietro
la guida d'Ambrogio e d'Agostino, fonti limpide e profonde com'ei le
chiamava, intendeva la mente alla teologia e intanto volgeva le vaste
ricchezze sue a fondare sei monasteri in Sicilia e un settimo a Roma
al Clivo di Scauro là sul Celio, dove oggi ancora sorge una Chiesa che
s'intitola dal suo nome. In questo monastero egli si chiuse alquanto
più tardi a vita austera abbandonando la cosa pubblica, ma da questa
non gli fu dato sottrarsi gran tratto. L'illustre casato e la potenza
dell'ingegno suo non erano tali da lasciarlo rimaner nell'oscuro. Il
pontefice Benedetto l'ordinò diacono per affidargli una delle sette
regioni di Roma, e Pelagio secondo lo mandò come apocrisario a trattar
gli affari della Chiesa a Costantinopoli. Quivi durante l'ambasceria
acquistò credito presso l'Imperatore, e salì in tale riputazione,
che al suo ritorno in Roma, morto nel 590 papa Pelagio, i Romani
con voto unanime lo chiamarono a succedergli. La sua resistenza e la
tentata fuga da Roma non valsero a salvarlo dal peso di quella gran
dignità. Il volere del popolo e del clero di Roma ebbe a Costantinopoli
la sanzione imperiale, e gli fu forza rassegnarsi ed accettare un
incarico che tanto più lo sgomentava quanto al suo genio e al suo
cuore ne apparivano più vasto il concetto e più tremendi i doveri. I
tempi calamitosi imponevano all'alto ministero sempre nuove fatiche e
suggerivano sempre nuovi pensieri, ma la sua mente anelando al cielo
ritornava ogni ora al ricordo della pace perduta e richiamava con
tenerezza infinita la solitudine del monastero. «Il dolore ch'io soffro
continuamente, ormai per uso è antico ed è pur sempre nuovo. L'anima
mia angustiata ricorda quale era un tempo nel monastero, e come ella
sovrastava alle cose fugaci, e pensando solo delle celesti per virtù
di contemplazione trapassava oramai il claustro della carne e la morte
divenivale cara come principio di vita e premio dell'opera, sua.»[34]
Con tale rimpianto egli apriva un giorno l'angosciata anima ad un
amico che lo aveva sorpreso sedente in luogo solitario, a meditare
in silenzio il suo dolore. Ma nè le tendenze ascetiche dello spirito
nè le infermità che lo travagliavano ebbero forza di stornarlo dagli
obblighi dell'ufficio suo. Un cuore romano gli batteva nel romano
petto, ed ei ne seguiva i dettami con fermezza d'antico. La mente
sua larga come il suo zelo spandeva in ogni plaga le cure benefiche,
e per esse ei diveniva centro a popoli diversi e guida ad una nuova
civiltà ignota ancora ma nascente per impulso di lui. Or tutte queste
cure continue e varie, animate da una carità così intensa e così
comprensiva, originarono tra gli altri suoi scritti uno stupendo volume
di lettere che attestano la sublimità di sua vita e sono insieme il
maggiore monumento storico dell'età sua. Divise in quattordici libri
secondo gli anni del suo pontificato[35], e scritte ad ogni ceto di
persone, queste lettere spiegano mirabilmente le condizioni dei tempi
gregoriani e riflettendo l'immagine della vita d'allora mantengono
o confermano il ricordo di fatti ignoti o mal noti. Semplici e prive
d'ogni ornamento, ciascuna d'esse rivela la ispirazione momentanea per
cui fu dettata, ma dal loro complesso si ricava il lungo e continuo
pensiero dello scrittore. Lo stile dei profeti ai quali ispiravasi
nelle altre opere sue, non veniva innanzi a Gregorio quando esprimeva
caldamente e improvviso i pensieri suoi senza scopo letterario e
stretto quasi sempre da motivi immediati e incalzanti. Perciò lo
stile delle sue lettere scevro da mistica ampollosità procede piano
e scorrevole ricordando talora la semplice e dignitosa latinità di
tempi migliori[36]. I soggetti d'esse svariatissimi trattano ogni
materia dalle più ardue questioni religiose e politiche alla minuta
amministrazione dei beni della Chiesa, dalla ansiosa cura delle
singole anime al patetico familiare racconto dei suoi lunghi e quasi
continui patimenti morali e fisici[37]. Ma il riferire alcuna di queste
lettere gioverà meglio d'ogni discorso a descriverne l'importanza e a
dipingere lo squallore che ravvolgeva allora la storia nostra. Così la
lettera seguente indirizzata all'imperatrice Costantina per ottenere
alleviamento ai mali che gravavano sulla Corsica e la Sardegna, mostra
qual fosse il governo dei Greci e come stesse l'Italia a strazio tra le
due tirannidi dei nuovi e degli antichi oppressori.

«Posciaché» egli scrive «io conosco la serenissima Donna nostra esser
pensierosa della patria celeste e della vita dell'anima sua, io terrei
me gravemente colpevole, se tacessi quanto per timore dell'onnipotente
Iddio è da suggerire. Avendo io saputo essere nell'isola di Sardegna
molti gentili, ed essi tuttavia secondo il loro mal uso, sacrificare
agl'idoli, e i sacerdoti di quell'isola andare torpenti a predicare
il Redentore, vi mandai uno de' vescovi italiani, che, aiutando
Iddio trasse alla fede molti dei gentili. Ma egli mi ha annunciata
una cosa sacrilega; che coloro, i quali colà sacrificano agl'idoli,
pagano al giudice affinché ciò sia lecito loro. Dei quali essendo
alcuni stati battezzati e avendo lasciati quei sacrifizi, tuttavia
il giudice dell'isola, anche dopo il battesimo, esige quella paga
usata dare da loro. Ed avendolo il vescovo ripreso di ciò, rispose
egli, aver promesso tanto in paga dell'impiego, che nol potrebbe
riavere se non a quel modo. L'isola di Corsica poi è oppressa di
tanta soverchieria degli esattori e tanta gravezza d'esazioni, che gli
abitatori vi possono a mala pena supplire vendendo i proprî figliuoli;
ondeché lasciando la pia repubblica e' sono sforzati a rifuggire
alla nefandissima gente de' Longobardi. E qual cosa più grave, qual
più crudele veramente, potrebbero eglino patire dai Barbari, oltre
all'esser ridotti a vendere i propri figliuoli? In Sicilia dicesi d'un
cotale Stefano cartulario delle parti marittime, che coll'invadere
ogni luogo, e con porre senza pronunziar giudizio i cartelli a' poderi
e alle case, arreca tanti danni, tante oppressioni che s'io volessi
dire tutte le opere riferitemi di lui, nol potrei compiere in un gran
volume. Adunque vegga la serenissima nostra Donna tutte queste cose, e
sollevi i gemiti degli oppressi. Ben sono io certo non essere elleno
pervenute alle vostre pie orecchie; che se 'l fossero non avrebbero
durato fino al presente. Suggeritele a suo tempo al piissimo Signore,
affinché dall'anima sua, dall'Imperio e da' suoi figliuoli ei rimova
tale e tanto gravame di peccato. E ben so ch'ei dirà forse, mandarsi
a noi per le spese d'Italia quanto si raccoglie dalle suddette isole.
Ma dico io: conceda meno per le spese d'Italia e tolga dal suo Imperio
le lacrime degli oppressi. E perciò forse tante spese fatte per questa
terra giovano meno perché con mescolanza di peccato lor si provvede.
Comandino adunque i serenissimi Signori che nulla più si raccolga con
peccato. E se così si attribuisca meno alle spese della repubblica,
tuttavia le si gioverà più, e sarà meglio non provvedere alla vita
nostra temporale che procacciare impedimento alla vostra eterna.
Pensate di che animo, di che cuore, in che strazi esser debbano quei
genitori che per salvarsene strappansi dappresso i figliuoli! E chi ha
figliuoli ben può sapere come s'abbiano a compassionare gli altri. A
me poi basti l'aver questo brevemente suggerito, affinché se rimanesse
la vostra pietà ignorante di quanto succede in questi paesi, non
fossi io poi del mio silenzio appresso il severo Giudice incolpato e
castigato.»[38]

In quella desolazione d'Italia, Gregorio conscio che il governo
imperiale piuttosto era d'aggravio che di soccorso ai mali, cercava
quando poteva di concluder paci temporanee coi Longobardi per
procacciare almeno a Roma e alle provincie dell'Impero qualche
respiro in quella vita d'oppressione. Ma Romano esarca di Ravenna
con gretta e gelosa politica gli faceva ostacolo e gli ruppe tra gli
altri un accordo iniziato con Ariolfo duca longobardo di Spoleto.
Ne conseguì una incursione longobarda intorno a Roma e stragi e
rapine fin sotto le mura della città. Il pontefice oppresso dal gran
dolore ne cadde infermo e solo riebbesi per andare incontro a nuove
amarezze. Agilulfo, re dei Longobardi, volendo ricuperare alcune città
ritoltegli per tradimento dai Greci, mosse rapidamente da Pavia verso
Toscana, ricuperò Perugia e accostatosi anch'egli fin sotto le mura di
Roma, recò ivi intorno nuovi guasti e saccheggi. Gregorio che a quel
tempo spiegava ai Romani Ezechiele in un corso d'omelie, sopraffatto
dalle calamità del suo popolo, non ebbe forza di seguitare. «Da
ogni lato» sclamava «udiam gemiti; città distrutte, castella rase,
campi devastati, la terra mutata in un deserto. Altri vediam tratti
prigioni, altri mutilati, altri uccisi.» E di lì a poco cessando, così
se ne scusava: «Non mi si faccia rimprovero s'io cesso dopo questo
discorso, poiché, tutti lo vedete, le nostre tribolazioni s'accrebbero.
D'ogni parte ne circondan le spade, da ogni parte temiamo un pericolo
imminente di morte. Altri ci tornano innanzi colle mani mozzate,
d'altri ci si annunzia che son captivi, d'altri che spenti. M'è
necessario oramai trattener la lingua da questa esposizione.»[39]

Intanto ch'egli tentava d'alleggerir le sventure della patria e
soffriva per esse nell'anima col doppio dolore di cristiano e di
cittadino, i dignitari imperiali affaticandosi di scalzare l'autorità
sua a Costantinopoli, l'accusavano d'esser caduto negli inganni del
Duca di Spoleto e d'aver con ciò ingannato l'Imperatore. Gregorio
indignato si difese, e scrivendo aperto ed austero all'Imperatore
stesso: «Se la schiavitù di mia terra» diceva «non crescesse ogni
dì, io pur tacerei del disprezzo e della derisione fatta di me. Ma
questo mi duole che mentre mi si dà taccia di mentitore si strascina
Italia più e più sotto al giogo de' Longobardi. Io dico al mio
piissimo signore: pensi egli di me ogni male; ma intorno all'utile
della repubblica e alla liberazione d'Italia, non dia facile le pie
orecchie a ciascuno ma più creda ai fatti che alle parole. Contro ai
sacerdoti poi non si sdegni nella sua terrena potestà il signor nostro
sì prontamente; ma in considerazione di colui onde essi sono servi,
comandi loro in modo da mostrar la dovuta riverenza.... Di quanto ebbi
a soffrire dirò brevemente. Primo, mi fu guasta la pace ch'io senza
spesa della repubblica avea fatta co' Longobardi in Toscana; poi,
guasta la pace, si tolsero dalla città di Roma i soldati, e gli uni
rimasero uccisi da' nimici gli altri collocati a Narni o a Perugia;
e per tener Perugia si lasciò Roma. Fu peggio la venuta d'Agilulfo,
quando io ebbi di miei occhi a vedere i Romani a guisa di cani colle
funi al collo ire ad esser venduti in Francia. Noi, la Dio grazia,
sfuggimmo, racchiusi nella città, dalle costoro mani; ma allora fu
cercato d'incolparci che mancasser frumenti nella città, dove pure,
com'io esposi altra volta, non si possono a lungo serbare. Nè di me
duolmi; che fidato, il confesso in mia coscienza, purché salvi l'anima
mia, mi tengo apparecchiato ad ogni cosa. Duolmi sì dei gloriosi uomini
Gregorio prefetto e Castorio maestro de' militi, i quali fecero ogni
cosa fattibile e durarono nell'assedio durissime fatiche di vigilie
e guardie, e tuttavia poi furono colpiti dalla grave indignazione de'
signori. Ond'io ben veggo aver ad essi nociuto non le azioni loro ma
la mia persona; che dopo essersi con me affaticati con me ora son
tribolati. E quanto a ciò che mi si accenna del terribile giudicio
dello onnipotente Iddio, prego io per lo stesso onnipotente Iddio che
mai più nol ripeta la pietà de' miei signori. Perché noi non sappiamo
quale abbia ad essere quel giudicio; e dice Paolo egregio predicatore:
Non giudicare anzi tempo, finché non venga il Signore il quale
illuminerà i nascondigli delle tenebre e manifesterà i consigli dei
cuori. Questo io dico brevemente perché, indegno peccatore più m'affido
nella misericordia di Gesù che nella giustizia della vostra pietà. E
Iddio regga qui di sua mano il mio piissimo signore e in quel terribil
giudicio lo trovi libero d'ogni delitto; e faccia poi piacere me, se è
d'uopo, agli uomini; ma in cotal modo che io non offenda la sua eterna
grazia.»[40]

Del resto nè calunnie nè ostacoli lo trattennero dal negoziar nuove
tregue coi Longobardi studiandosi così di sollevar le campagne
specialmente da quelle guerre devastatrici. Regnava allora sui
Longobardi Agilulfo già duca di Torino principe di gran valore
e conciliante d'animo, chiamato al trono da Teodelinda allorché
rimasta vedova di re Autari, i nobili, al dire di Paolo Diacono[41]
la lasciarono arbitra del regno invitandola ad eleggersi fra i duchi
longobardi un successore all'estinto. Questa principessa, donna
d'alte virtù, bavarese di nascita, cattolica di fede, esercitò una
grande e salutare influenza nelle cose del regno e sui consigli del
marito, e fu spesso mediatrice di pace. Dalle lettere di Gregorio
apparisce sovente com'egli la tenesse in gran pregio e sperasse
per lei di condurre al cattolicesimo i Longobardi. Riuscì in parte
all'intento. Per le persuasioni di Teodelinda par che Agilulfo
s'inducesse a lasciar l'arianesimo a quel modo che in Inghilterra le
persuasioni di Berta aiutarono la conversione di Etelberto. Certo
dopo Agilulfo i Longobardi a poco a poco, sebbene non senza molta
resistenza, incominciarono a tenere una sola fede con gli Italiani e
il fatto avea grande importanza perché valeva a scemare le divisioni
tra i due popoli e n'aiutava la fusione alla quale peraltro fu sempre
impedimento la coesistenza dell'Impero in Oriente. Verso quel tempo
per cura di Teodelinda sorse la cattedrale di Monza a cui fu data
in offerta la corona ferrea che servì da quel tempo a incoronare i
re d'Italia e dopo aver cinta la fronte a Carlomagno e a Napoleone,
apparve in un giorno di dolore solenne dietro al feretro di Vittorio
Emanuele rinnovatore del regno italico. Quando nacque ad Agilulfo
un figliuolo (A. D. 603), fu battezzato secondo il rito cattolico.
Gregorio che afferrava bene la utilità di quell'evento, ne mandò lieto
rallegramenti e lodi a Teodelinda. «Quello che mi mandaste in iscritto
dalle contrade genovesi,» così le diceva Gregorio, «mi fece partecipe
del gaudio vostro col farmi noto che per la grazia di Dio onnipotente
vi fu concesso un figliuolo, e, quel che torna a lode della eccellenza
vostra, ch'egli fu ascritto alla fede cattolica. Nè altro era da
aspettarsi dalla cristianità vostra se non che avreste procurato di
munir del sussidio della giustizia cattolica colui che v'era dato per
dono divino, affinché il Redentore conoscesse in voi una serva fedele,
e alimentasse nel suo timore il nuovo re alla nazione dei Longobardi.
Perciò prego l'onnipotente Iddio ch'egli custodisca voi nella via de'
suoi mandati e faccia crescer nell'amor suo l'eccellentissimo figliuol
mio Adaloaldo per tal modo ch'egli già grande infra gli uomini anche
per sue buone opere divenga glorioso dinnanzi agli occhi del nostro
Iddio.

«Quanto a ciò che scrisse la eccellenza vostra che io dovessi
sottilmente rispondere all'abbate Secondo, figliuol mio carissimo, chi
mai, se infermità nol contrastasse, vorrebbe indugiarsi a soddisfare la
domanda sua e il desiderio vostro il quale, vedesi, riuscirebbe utile a
molti? Se non che mi opprime tale infermità di podagra, che non pur m'è
negato il dettare, ma a stento posso levarmi a discorrere. Ciò sanno
i legati vostri apportatori di queste lettere, i quali mi trovarono
infermo al venire e mi lasciano in pericolo grande e dubbio della
vita. Ma se l'onnipotente Iddio vorrà ch'io guarisca, a quanto egli mi
scrisse risponderò sottilmente.

«.... All'eccellentissimo figliuol mio Adaloaldo re, mando alcune
reliquie, cioè una croce col legno della santa croce del Signore,
ed una lezione del Santo Vangelo inclusa in una teca persica. E alla
figliuola mia, sua sorella, mando tre anelli, due con giacinti uno con
onice, le quali cose prego sien date da voi a loro affinché per mezzo
della eccellenza vostra riesca loro grato l'affetto mio.

«Nel mandarvi con amor paterno il debito saluto, chieggovi che al
figliuol nostro eccellentissimo il re vostro sposo rendiate grazie per
la fatta pace, e che per l'avvenire secondo l'uso vostro, lo esortiate
con ogni maniera alla pace. Così tra le molte buone opere vostre
potrete trovare innanzi al cospetto di Dio la mercé usata ad un popolo
innocente che poteva perir nel dissidio.»[42]

Queste lettere scelte non senza esitazione tra molte d'ugual valore,
possono in qualche modo mostrar la luce che viene alla storia d'Italia
da questo singolare epistolario. Ma l'ampia mente di Gregorio, le
ispirazioni del suo ministero, la larghezza cristiana della sua carità,
non gli consentivano di restringere nella sola Italia l'opera sua, onde
le sue lettere sono fonte di storia non pure italiana ma universale. La
storia d'Europa si chiarisce mirabilmente per le lettere scritte nelle
Gallie e in Ispagna, notevolissime tra le prime quelle dirette alla
famosa Brunichilde[43], e tra le seconde quelle dirette a Leandro quel
vescovo di Siviglia che indusse il re Recaredo e i suoi Visigoti ad
abbandonar l'arianesimo. Del pari le lettere dirette a Costantinopoli,
ad Alessandria ed altrove in Oriente e in Affrica, descrivono lo stato
dei paesi più lontani e le loro relazioni con Roma. Quali poi fossero
le relazioni tra Gregorio e la Inghilterra, e qual parte egli avesse
alla conversione di quel paese, è famoso al mondo. Beda il venerabile
raccogliendo le tradizioni inglesi ne ha lasciato un racconto notissimo
ripetuto per tutto il medio evo. Egli narra come Gregorio non ancora
pontefice veduti in Roma alcuni schiavi inglesi, colpito dall'angelica
bellezza loro, udendo ch'essi erano idolatri, concepisse il pensiero
di convertir l'Inghilterra alla fede. Ottenutane licenza ei s'avviava
missionario a quelle contrade, ma appena mosso, ecco il popolo romano a
sollevarsi e costringere il papa a richiamarlo. Questo racconto della
cui verità non apparisce traccia nelle opere di Gregorio, riflette
non solo l'affettuosa venerazione che nutrivasi per lui in Inghilterra
qualche secolo dopo la sua morte, ma puranco l'affettuosa sollecitudine
che nelle lettere di Gregorio traluce continua per quella missione[44].
L'infiammato ardore di carità che lo ispira su tale argomento mi sforza
a varcare i limiti di questo lavoro, e uscendo dalla storia particolare
d'Italia raccolgo qua e là qualche frammento in cui Gregorio parla di
questa impresa a lui cara, e nel compiacersi della riuscita, coi gravi
e dolci ammonimenti la dirige al suo termine.

«Ma,» egli scrive ad Eulogio vescovo Alessandrino, «poiché io so che
voi tanto vi rallegrate nel bene operato da voi quanto in quel che è
operato dagli altri, rendovi cambio del favor vostro e v'annunzio non
dissimili cose. Imperocché perfidiando finora nel culto de' tronchi
e delle pietre la nazione degli Angli che vive nel più remoto angolo
del mondo, a me collo aiuto delle orazioni vostre entrò nell'animo
ch'io dovessi mandar colà un monaco del monastero a predicare colla
grazia di Dio. Il quale con mia licenza fatto vescovo dai vescovi di
Germania, anche col conforto loro fu condotto laggiù in fin del mondo a
quella gente, e pur ora ci son pervenute scritte notizie di sua salute
e dell'opera sua. E tra quella gente splendono di tanti miracoli ed
egli e gl'inviati con lui, che sembrano imitar le virtù insigni ch'essi
vanno sponendo degli apostoli. Nella festa della Natività del Signore
occorsa in questa prima indizione, ci annunzia il fratello e convescovo
nostro che oltre a diecimila Angli furono battezzati. La qual cosa
io vi narro affinché sappiate ciò che parlando operate tra il popolo
Alessandrino, e pregando operate ai confini del mondo. Le orazioni
vostre sono dove voi non siete e dove siete appariscono le opere
sante.»

Nel seguito di questa lettera così notevole per giusta compiacenza e
per l'umile fede che ne traspare, si fa cenno d'una grave questione
ch'egli ebbe in Oriente con Giovanni il Digiunatore patriarca
costantinopolitano, intorno al titolo di vescovo universale ch'egli
rifiutava per sé e non voleva riconoscere in altri. Ma una tale
questione che originò molte lettere della raccolta importantissime
per la storia della Chiesa, trasmoda troppo la cerchia di questo
libro. È necessità tralasciarla e concludere queste citazioni, forse
già troppo lunghe, coi brani di un'altra lettera scritta ad Agostino
l'apostolo d'Inghilterra: «Gloria negli eccelsi a Dio e pace in terra
agli uomini di buona volontà. Come il morto grano di frumento recò
molto frutto cadendo a terra affinché non regnasse solo nel cielo, così
noi viviamo per la morte sua, ci confortiamo per la sua infermità, pel
suo patire siam tolti al patire, per l'amor suo cerchiamo in Britannia
i fratelli che ci erano ignoti, per sua grazia troviamo quelli che
noi ignoranti cercavamo. Chi varrà a dir quanta gioia sia nata quì in
cuore di tutti i fedeli a udir che la nazione degli Angli per la grazia
dell'onnipotente Iddio e le fatiche della fraternità tua, scacciate le
tenebre dell'errore s'è circondata della luce della santa fede, che già
con mente franca essa calpesta gl'idoli a cui prima soggiaceva insana
per terrore; a Dio onnipotente si piega pura nel cuore, dalle prave
opere è trattenuta per le regole della santa predicazione, ai precetti
divini inchina l'animo e sollevasi coll'intelletto, infino a terra
umiliasi coll'orazione per non giacer colla mente a terra? Di chi è
questa opera se non di colui che dice: Il Padre mio opera fino ad ora
ed opero anch'io?[45].... Or tu godi pure perché le anime degli Angeli
pe' miracoli esteriori son tratti alla grazia interiore, ma temi che
fra queste maraviglie che sono operate l'infermo animo non si levi a
presunzione, e mentre esaltasi fuori ad onore non cada internamente per
vanagloria... Imperocché ai discepoli del vero non deve arrecar gaudio
se non quel bene che hanno comune con tutti e nel quale non hanno
fine alla letizia. Resta dunque, o fratello carissimo, che tra ciò che
tu per opera di Dio fai esternamente, sempre all'interno ti giudichi
sottilmente, e che sottilmente osservi ciò che sei tu stesso e quanta
grazia sia in quella gente per la cui conversione ottenesti perfino il
dono di far miracoli. E se ti ricorderai d'aver mancato talora innanzi
al Creatore nostro o colla parola o coll'opera, sempre ti richiamerai
ciò a memoria affinché il ricordo della colpa reprima la insorgente
vanità del cuore. E quanto di operar miracoli ti sarà o ti fu concesso,
stimalo donato non a te ma a coloro per la cui salute ti si concede....
Molto adunque vuolsi premer giù l'animo tra i segni e i miracoli
affinché esso non cerchi la propria gloria ed esulti nel gaudio privato
della sua esaltazione.

«Le quali cose io dico perché desidero umiliar l'animo di chi
m'ascolta, ma tuttavia abbia anche la sua fiducia l'umiltà tua.
Imperocché io peccatore tengo speranza certissima che per la grazia
dell'onnipotente nostro Creatore e Redentore Dio e Signore Gesù Cristo,
già i peccati tuoi sono rimessi e perciò sei eletto affinché per te
si rimettano i peccati altrui. Nè avrai afflizione d'alcun peccato in
avvenire tu che ti sforzi di far gaudio in cielo per la conversione di
molti. Lo stesso Creatore e Redentore nostro, parlando della penitenza
degli uomini, afferma: Io vi dico che si farà maggior gaudio in cielo
per un peccatore penitente, che per novantanove giusti a cui non fa
d'uopo pentirsi[46]. E se per un sol penitente è così grande gaudio
nel cielo, qual gaudio crederem noi che si faccia per tanto popolo
convertito dall'error suo, il quale venendo alla fede condannò col
pentirsi il male che fece? In tanto gaudio di cielo e d'angeli ripetiam
dunque quelle parole angeliche che premettemmo: “Gloria negli eccelsi a
Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà.”»[47]

L'anno 604, nel giorno 14 di marzo, chiudeva la santa vita Gregorio
Magno e col cessare del suo epistolario la storia d'Italia perde la
guida sua più luminosa attraverso que' secoli. Altre opere di Gregorio
hanno pregio storico per le allusioni che vi si trovano a fatti
contemporanei o recenti, e principale tra queste opere è il libro dei
_Dialoghi_. In questo libro singolare, uno di quelli che più hanno
affascinata la fantasia del medio evo, Gregorio descrisse le vite e i
miracoli di San Benedetto e d'alcuni altri Italiani in fama di santità
vissuti intorno al suo tempo e i più d'essi o conosciuti da lui o da
persone a lui note. È una raccolta di leggende strane e fantastiche
narrate con ferma fede e con ferma fede ripetute per secoli, ed è
maraviglioso insieme e caratteristico di que' tempi e di questa nostra
natura umana il trovar tanta puerile credulità in uomo di genio così
mirabile. Ma queste leggende riescon preziose alla storia sparse come
sono di fatti reali e d'allusioni a luoghi ad usi a monumenti non
ancora scomparsi, a personaggi che vissero e operarono in quella età
momentosa[48].

Colla morte di Gregorio le testimonianze contemporanee e dirette
sulla storia d'Italia nei tempi longobardi cessano quasi del tutto.
Il documento di maggior valore è l'Editto di re Rotari (A. D. 643),
che con le aggiunte fattevi dai re successivi raccoglie in sé tutta
la legislazione longobarda. Rotari prefisse all'Editto un prologo il
quale nella scarsità delle memorie serve molto alla storia essendo
riferita in esse con diligenza la serie dei re longobardi coi nomi di
loro famiglie ed una accurata genealogia per dieci generazioni della
famiglia dello stesso Rotari che era degli Arodi.

Finché Rotari non le raccolse, nessuno aveva scritto le leggi dei
Longobardi. Esse scendevano tramandate colla parola viva da generazione
a generazione e il somigliante accadeva per la memoria di loro
genealogie e di loro imprese che circonfuse di leggende erano affidate
al canto. Verso il 670 un Longobardo tentò come seppe di ricavare da
quelle saghe alquanti cenni intorno alla provenienza del suo popolo,
e questo lavoro eletto _Origo Langobardorum_ s'aggiunse _ab antico_
nei codici al prologo dell'Editto di Rotari e parve quasi confondersi
in quello[49]. Prima di questi tentativi esisteva una storia dei
Longobardi compilata da quell'abbate Secondo di Trento († 612), che
levò al fonte battesimale il fanciullo Adaloaldo e si trova nominato
qui sopra nella lettera di Gregorio Magno alla Regina Teodelinda, ma
di questa storia, che sembra essere stata importante, riman la sola
menzione negli scritti di Paolo Diacono a cui siam giunti oramai[50].
Il continuatore di Prospero d'Aquitania il quale condusse la sua
continuazione fino al 671 ed un _magister Stefanus_ che verso il
698 compose una rozzissima poesia in lode di re Cuniperto sono le
sole fonti contemporanee che abbiamo oltre la _Origo_ e l'Editto, e
provenienti da scrittori di origine latina. I Longobardi stentarono
sopra ogni altro popolo germanico ad avvicinarsi alla cultura latina
e vi si avvicinarono sol quando la loro dominazione era presso
al tramonto. Però, come osserva il Wattenbach, «i grammatici che
malgrado la contrarietà dei tempi avevano sempre continuata l'opera
loro, trovarono a poco a poco discepoli tra i Longobardi e quando la
costoro signoria si appressò alla fine, già avevano educato al popolo
straniero il suo storico che, come Giordane, alla caduta del regno ne
serbò almeno la memoria.»[51] Questo storico fu Paolo Diacono, e di
lui, insigne tra gli storici dell'antico medio evo italiano devesi ora
trattar di proposito[52].

Paolo Diacono ci ha lasciato egli stesso memoria di sé qua e là ne'
suoi scritti, e in essi possiamo seguir le traccie della sua vita che
fu certo notevole. Nasceva da stirpe antica ed egli ne risalisce la
storia intessuta di leggende. Leupchis, lo stipite ch'egli menziona
del suo casato, scese nel Friuli con Alboino al tempo della prima
invasione longobarda e quivi morì lasciando cinque figliuoli che poco
appresso presi in una incursione degli Avari furon tratti via dalla
patria. Durava da lungo la lor prigionia quando Lopichis un d'essi,
pervenuto alla virilità potè scampar colla fuga. Dopo un lungo vagar
solitario alla ventura tra stenti immani e pericoli, un dì sulle Alpi
mentre considerava incerto il suo cammino, ecco presentarglisi innanzi
d'improvviso un lupo e farglisi guida per la via sconosciuta. Poi a un
tratto sparitogli dagli ocelli misteriosamente il lupo, una visione
gli venne a soccorso nel sonno e gl'indicò la rimanente strada fino
al Friuli. Quivi trovò la deserta casa dov'era nato, e riconosciuto
dai suoi parenti potè ristorarla e fondare in essa la sua famiglia.
Da Lopichis derivò Arechis e da lui Warnefrit, il quale unitosi ad
una Teodelinda, n'ebbe alquanti figliuoli. Un d'essi, nato per quanto
si congettura tra il 720 e il 725 all'incirca, fu il nostro Paolo
Varnefrido o, come più universalmente è chiamato. Paolo Diacono.

Paolo ebbe a maestro nelle lettere il grammatico Flaviano nipote ad un
altro grammatico di nome Felice. Nelle scuole studiò la lingua greca
non senza profitto come è da credere malgrado la modestia colla quale
egli accenna a questo ramo del suo sapere. Non è ben sicuro in quale
luogo Flaviano gl'impartisse l'insegnamento suo, ma par probabile ch'ei
fosse educato in Pavia alla corte del re dove per questi grammatici
la cultura latina schiudevasi un varco. Certo Paolo trovavasi in corte
ai tempi del re Ratchis (A. D. 744-749), perché ci narra d'avere egli
stesso veduto quel re mostrare dopo un convito la tazza famosa che
Alboino fe' far col teschio di Cunimondo re dei Gepidi. Com'è noto,
Alboino, ucciso in guerra Cunimondo di cui poscia sposò la figliuola
Rosemunda, soleva ai solenni conviti ber nel suo teschio ridotto ad
uso di coppa. Un giorno a Verona grave di vino oltre il dovere, il
tiranno offrì la tazza orrenda alla regina invitandola a ber lietamente
col padre. L'atroce ingiuria vendicata più tardi ferocemente par così
enorme a Paolo che nel narrarcela esclama: «Affinché ciò ad alcuno non
apparisca impossibile, dico la verità innanzi a Cristo, io stesso un dì
di festa vidi il re Ratchis che tenea in mano questa coppa mostrandola
a' convitati suoi.»

Questo episodio che s'introduce qui ad esempio della feroce barbarie
de' primi Longobardi, bene ci aiuta a seguire la storia della vita
di Paolo e non è il solo per cui lo vediamo trattare familiarmente
coi principi del suo tempo. Lo scritto più antico che ci rimane di
Paolo (A. D. 763), è un carme sulle sei età del mondo, di cui le
strofe recano acrosticamente il nome di _Adelperga pia_ figlia del
re longobardo Desiderio e moglie di Arichi duca di Benevento. Questa
principessa che aveva avuto Paolo a maestro, gli rimase sempre amica
e lo invitò più tardi ad aumentare e continuare la storia romana di
Eutropio. Pare che egli componesse l'epitaffio in versi per la regina
Ansa madre di Adelperga il cui cadavere fu ricondotto in patria dalla
Francia dove Ansa era andata con Desiderio quando l'armi di Carlo
Magno fransero il regno dei Longobardi. I versi della iscrizione che
dallo stile pare sicuramente esser di Paolo, spirano una malinconia
profonda e attestano l'affetto che l'autore portava alla stirpe sua
longobarda. Non si sa in quale anno egli ricevesse i sacri ordini nè
quando entrasse nel chiostro, ma il Waitz tiene per non improbabile
ch'egli si rendesse monaco a Montecassino quando Ratchis balzato dal
trono vi trovò un rifugio. Quivi la solenne pace del monastero presto
pigliò tanto impero sull'animo di Paolo, che mai forse non si sarebbe
indotto a lasciarla se gravi casi non l'avessero chiamato fuori. Nel
776 i Longobardi da breve conquistati si rivoltarono in varî luoghi
contro a' Franchi e più vastamente nel ducato del Friuli. Se Paolo
non s'immischiò in questa rivolta certo vi prese parte il fratel suo
Arechis, il quale tratto prigioniero in Francia ebbe confiscate tutte
le sostanze sue. Da questo fatto dee trarre origine una leggenda
intorno a Paolo nata verso il secolo decimo e largamente diffusa
nei secoli posteriori. A voler seguire questa leggenda, Carlo Magno
sospettando Paolo complice in una congiura, l'avrebbe cacciato in
esilio e confinatolo nell'isoletta di Tremiti donde egli qualche anno
appresso avrebbe potuto fuggire per miracolo, rifugiarsi a Benevento
e di là a Montecassino. Ma tutto questo racconto è fantastico. Per
contrario quando già Carlo era venuto a Roma e avea dato prova di
temperata mitezza nelle cose di Stato e mostravasi protettore delle
lettere, vediamo Paolo rivolgersi al monarca vincitore. In versi ei gli
chiede che sia reso il fratel suo alla famiglia da sei anni giacente in
una miseria di cui dipinge lo squallore con gran vivezza di colorito
e gran calore d'affetto. A far più efficace la intercessione, Paolo
lasciò il monastero e valicate le Alpi si recò in corte di Carlo.
Questi lo accolse con molto onore e lo trattenne più a lungo ch'ei
non avrebbe voluto. Dalle rive della Mosella il desiderio del monaco
tornava alla dolce pace gustata tra i maestosi silenzî delle rupi
cassinesi: «Sebbene,» egli scrive all'abate suo Teodemaro, «uno spazio
vasto di terra mi separi dal consorzio vostro, me congiunge a voi un
tenace affetto che non può mai disciogliersi, nè il riferir per lettera
e la brevità di queste pagine bastano a dirvi l'amor che mi crucia ad
ogni momento per voi e pe' miei seniori e fratelli. Imperocché quando
mi sovvengono alla mente gli ozî occupati solo in opere divine, e la
grata dimora della cella mia, e il pio religioso affetto vostro, e la
santa caterva di tanti soldati di Cristo intesa al culto divino, e
di ciascun fratello gli esempi fulgidi per virtù diverse, e i dolci
colloqui sulle perfezioni della superna patria, io tremo attonito
e languisco, nè so trattener le lacrime tra i sospiri che m'escono
dal profondo del petto. M'aggiro tra cattolici e dediti al culto
cristiano, tutti m'accolgono bene, tutti mi si mostrano benigni per
amore del padre nostro Benedetto, e pei meriti vostri. Ma al paragone
del cenobio vostro il palazzo m'è carcere, al paragone di tanta quiete
che si trova fra voi il viver qui m'è tempesta. Solo pel corpo frale
son tenuto via da codesta patria, con tutta l'anima mia sono con voi.
E ora mi pare d'essere ai vostri troppo soavi concenti, ora seder nel
cenacolo a saziarci più colla lettura che col cibo, ora a considerar
le opere di ciascuno negli uffici diversi, ora a indagar lo stato
degli aggravati per vecchiezza o per male, ora a logorar le soglie dei
santi care a me come un paradiso.» E chiudeva la lettera esprimendo
la speranza di raggiunger presto i fratelli suoi, ma l'indugio al
ritorno non fu così breve. Appunto in quel tempo Carlo adunando alla
sua corte da ogni paese tutti coloro nei quali splendeva ancor qualche
raggio della ormai spenta cultura, studiavasi di ravvivare intorno
a sé la luce della civiltà romana mentre si preparava a far rivivere
nell'ordinamento politico il nome di Roma e l'autorità dell'Impero.
Paolo Diacono non poteva rimanersi estraneo a quest'opera di civiltà e
si lasciò indurre a prendervi parte. Di ciò avanza un chiaro monumento
nei versi che Pietro da Pisa gli scrisse in nome di Carlo magnificando
le doti e la scienza di Paolo e paragonandolo agli scrittori più grandi
della antichità. «La figliuola mia,» dice Carlo in que' versi «deve
andare sposa in Grecia ed è mio desiderio che Paolo ammaestri nella
lingua greca coloro che dovranno accompagnarla a Costantinopoli.»
Paolo verseggiando in risposta accetta l'incarico ma rifiuta modesto
le lodi regali ed anche nega d'aver tentata la conversione del re di
Danimarca Sigfrido, attribuitagli da Carlo in altri versi di Pietro da
Pisa. Verso quel tempo Paolo compose l'epitaffio d'Ildegarde moglie di
Carlo Magno († 783) e delle sorelle e figliuole di lui. Inoltre, sempre
ad istanza di Carlo, condusse a termine una pregevole raccolta di
omelie, abbozzata già a Montecassino la quale, come già altri osservò,
venne in grande aiuto all'ignoranza quasi universale in quei tempi del
clero[53].

Nè si limitarono a tanto le fatiche letterarie del nostro monaco
cresciuto oramai in fama tra i letterati dell'età sua. Fece un estratto
del trattato De verborum significatione di Festo Pompeio, serbando
così ai posteri almeno in parte un documento che ancora è prezioso
ai filologi e agli studiosi della legislazione romana. Pregato da
Angilramno vescovo di Metz, compose la storia dei vescovi Metensi e
aprì egli primo oltre l'Alpi, la serie di quelle storie episcopali
che hanno tanto giovato in ogni paese alla storia della chiesa
cristiana[54]. In quest'opera narrò diffusamente la vita di santo
Arnulfo stipite della casa carolingia e colse al volo la propizia
occasione per celebrare le glorie e le virtù del monarca che gli si
mostrava così benigno. In corte dovette Paolo incontrarsi e si strinse
di calda intima amicizia con uno dei maggiori uomini di quella età,
parente a Carlo, Adalardo abate di Corvey. Pur questa amicizia recò
frutti letterari, e, a richiesta dell'amico, Paolo si diè ad emendare
il testo delle lettere di Gregorio il Grande del quale anche dettò
una vita, ma colto da infermità potè solo compiere una breve parte
del suo lavoro che mandò ad Adalardo con una soave lettera riboccante
d'affetto.

Pare che Paolo mettendo a profitto quegli anni di dimora oltralpe
visitasse gran parte di Francia e i monasteri più famosi in essa. Ma
nè le attrattive di quel bel paese bastarono a fargli dimenticare la
cara patria, nè i dolci legami delle nuove amicizie a fermarlo per
sempre in corte di Carlo. Nota il Wattenbach che forse la nimicizia tra
Carlo e Arechis principe di Benevento, sempre crescente finché scoppiò
in guerra aperta, potè da ultimo rattristargli la dimora in Francia
sebbene il re gli rimanesse sempre amico. Inchina altri a credere
che Paolo sul cadere del 786 tornasse in Italia collo stesso Carlo.
Conghietture probabili entrambe ma non sicure. Certo è solo che intorno
al 787 Paolo dettava da Montecassino una bella iscrizione per Arechis
morto in quell'anno, e con quel pio tributo suggellava l'amicizia
fedele onde s'era legato al marito d'Adelperga sua discepola.
L'affannoso desiderio del monaco toccava alfine la cima sua. Dopo così
lungo aggirarsi tra i rumori del mondo e il fasto delle corti, egli
poteva adesso rigoder quella pace profonda verso cui s'affannano certe
anime con tanto più ardore quanti più trovano contrasti a raggiungerla.
Dalla vetta di quel monte venerando per pie memorie, dove Benedetto
aveva deposto un seme tanto fecondo di civiltà, quel monaco solitario
sciolto alfine d'ogni cura mondana poteva levarsi dalla contemplazione
degli eventi umani alla contemplazione serena di Dio. Così in quei
riposi tranquilli nacquero gli ultimi due lavori a cui consacrò la
rimanente vita[55], un commentario alla regola monastica e quella
storia dei Longobardi che gli ha assicurata la fama presso i posteri.

La nascita di Paolo Diacono e i casi di sua vita sembravano destinarlo
all'ufficio di storico. Nato in Italia da stirpe longobarda quando
il regno longobardo si avvicinava alla sua caduta, amante del popolo
da cui traeva l'origine, amico ai suoi principi, e d'altra parte
educato da maestri italiani alle tradizioni doppiamente latine della
antichità classica e della Chiesa, Paolo Diacono era insieme italiano e
longobardo. Da ciò quella specie di patriottismo che unisce in lui le
due razze e par che simboleggi tra esse una fusione che non potè mai
compiersi intera e solo si compì in parte quando il popolo oppressore
soggiacendo ai Franchi scese alquanto più vicino agli oppressi. Già
Paolo rifacendo l'opera d'Eutropio aveva narrata la storia di Roma,
ed ora mutato per dir così il titolo del suo lavoro, nelle vicende del
popolo longobardo narrava il proseguimento di quella storia. Come s'è
già veduto, i popoli germanici ignari di lettere affidavano la notizia
di loro genealogie e di loro imprese alla tradizione che le tramutava
in canti e in leggende. Ricavare da queste leggende la vita del popolo
ch'esse celebravano, era l'ufficio di chi metteva mano alla storia
quando le imprese accumulate e i primi raggi della civiltà penetrati
ispiravano quasi inconsciamente il desiderio d'una narrazione più certa
e più duratura. Da ciò quell'intrecciarsi continuo dei fatti reali coi
leggendari che dà un carattere così spiccato alla storia dei Longobardi
i quali anche, per loro indole rude ma cavalleresca, spesso condussero
imprese da leggenda piuttosto ispirati da vaghezza di mostrarsi prodi
che da ragione di Stato. Bene Cesare Balbo con l'usata acutezza sua
ha notato che fin dai tempi di Autari e di Teodelinda «possono dirsi
incominciati in Italia i tempi, benché il nome non peranco, della
cavalleria; tempi più piacevoli all'immaginazione che all'effetto, più
ammirabili ne' romanzi che nelle storie; tempi non senza virtù, ma di
virtù sprecata.»[56] Nè v'ha per fermo romanzo cavalleresco delle età
posteriori che narri alcun racconto più ricco d'avventurosa poesia di
questo che ci è narrato da Paolo:

«.... Dopo queste cose re Autari inviò legati in Baviera per
chiedere in matrimonio la figlia del re Garibaldo, e questi accoltili
benignamente promise di dare ad Autari la figlia sua Teodelinda. Ciò
nel tornare riferendo i legati ad Autari, egli desideroso di veder
cogli occhi suoi la sua sposa, presi con sé alcuni pochi ma scelti
Longobardi e conducendo quasi come seniore un suo fedelissimo, senza
indugio trasse in Baviera. I quali introdotti secondo l'usanza dei
legati al cospetto di re Garibaldo, posciaché colui ch'era venuto con
Autari quasi come seniore ebbe fatti i saluti e le parole d'uso, Autari
ignoto a tutta quella gente, fattosi più presso a re Garibaldo gli
disse: ‘Il signor mio Autari re qui mi ha propriamente inviato a veder
la figliuola vostra sua sposa, affinché io possa sicuramente annunziare
al signor mio quale ne sia la bellezza.’ E udendo ciò il re e fatta
venir la figliuola, Autari contemplatala tacitamente e vedendola di
belle forme e compiacendosene in ogni cosa, disse al re: ‘Poiché tale
vediamo essere la persona della figliuola vostra che bene dobbiamo
desiderarla per nostra regina, noi ameremmo, se piace alla podestà
vostra, che ella ci desse di mano sua la coppa del vino come dovrà
fare appresso con noi.’ E avendo il re conceduto che ciò si facesse,
ella presa la coppa del vino, prima propinò a colui che pareva esser
seniore. Poscia avendola pôrta ad Autari ch'ella ignorava esser lo
sposo suo, questi, dopo aver bevuto, nel render la tazza, senza che
altri lo notasse col dito le toccò la mano, e accostò la fronte e il
volto alla sua destra. Ella suffusa di rossore narrò il fatto alla
nutrice. A cui la nutrice disse: ‘Se questi non fosse lo stesso re e il
tuo sposo, certo non avrebbe osato toccarti. Ma tacciamo frattanto che
non lo sappia tuo padre: per fermo egli è persona degna e di tenere il
regno e d'associartisi in matrimonio.’ Era allora Autari florido d'età
giovanile, di bella statura, biondo di crine e di nobilissimo aspetto.
Coloro preso commiato dal re, ripigliando la via della patria mossero
in fretta a' confini dei Norici. Imperocché la provincia dei Norici
abitata dal popol de' Bavari, ha la Pannonia da oriente, da occidente
la Svevia, da mezzogiorno l'Italia e da tramontana il corso del
Danubio. Autari adunque essendo già arrivato presso a' confini d'Italia
e avendo con sé i Bavari che lo riaccompagnavano, levossi quanto potè
sul cavallo che inforcava, e con tutta forza infisse nell'albero che
gli era più prossimo la scure che tenea in mano e ve la lasciò infissa
con queste parole: ‘Di cotali ferite suol fare Autari.’ E avendo ciò
detto, allora i Bavari che l'accompagnavano intesero ch'egli era lo
stesso re Autari.»[57]

Nè solo per fatti somiglianti apparisce in forma così leggendaria la
storia dei Longobardi. Il racconto di rivolgimenti politici gravissimi
mostra il vero della osservazione del Balbo intorno alla tendenza
cavalleresca che si veniva manifestando allora in Italia e improntava
del suo carattere molte azioni reali di quel popolo. Questa tendenza si
riflette come in uno specchio nell'anima ingenua ed immaginosa di Paolo
diacono ed è gran fortuna pei posteri. Ispirato da essa egli narra la
storia delle cose avvenute quali la voce viva delle tradizioni gliele
riferisce e non sciupa queste ultime sfoggiando una vana erudizione o
una critica non concessa ai suoi tempi. Così per lui rientriamo davvero
nella età longobarda e i suoi personaggi sono ritratti con un vigore di
movimento e di colorito che ci aiuta a maraviglia per intenderli e per
rifarci nella mente que' tempi de' quali egli solo ci ha lasciato un
largo e durevole ricordo. Dalle prime mitiche origini longobarde egli
scende fin quasi ai tempi di Desiderio e di Adelchi di cui non tratta,
o che la morte gli rompesse a mezzo il racconto o che gli fosse troppo
arduo narrar la conquista del suo popolo compiuta da quel Carlo che lo
aveva tanto onorato. Longobardi, Greci, Romani da Alboino a Liutprando
ci ritornano ancor vivi dinnanzi. Tra la gran folta del popolo tutti
quei papi e re e gran baroni, e gli aderenti loro e i nemici, e monaci
e guerrieri e santi e donne eroiche ed abbiette tutti risorgono e si
muovono nel libro di Paolo. Battaglie aperte e congiure, splendori di
corti e spelonche di romiti, virtù e delitti, sacrilegi e miracoli, si
seguono e s'intrecciano in un contrasto pieno di vita. Scegliere esempi
dalle narrazioni di Paolo è difficile, massime quando è necessità
limitarsi: valga perciò questo solo episodio che narro in gran parte
colle parole stesse di Paolo.

Dopo il glorioso regno di Rotari il legislatore e l'altro assai breve
di Rodoaldo, fu chiamato al trono Ariperto figlio ad un fratello
di Teodelinda il quale regnò nove anni di cui quasi nulla ricorda
la storia. Alla sua morte due figli suoi Godeperto e Pertarito si
divisero il regno e il primo pose stanza a Pavia l'altro a Milano.
Questa divisione, nuova presso i Longobardi, mostra come gli animi
fossero divisi intorno alla elezione e si potessero male accordare.
Infatti indi a breve pur tra i fratelli sorse dissenso, e Godeperto
istigato da mali consiglieri, spedì il duca di Torino a Grimoaldo
duca di Benevento, principe dei più potenti d'Italia e per le qualità
sue personali riputatissimo. Godeperto offriva una sua sorella in
isposa al beneventano e in cambio gli chiedeva aiuto contro Pertarito,
ma il messaggero fattosegli traditore offrì invece a Grimoaldo
la corona regia e l'esortò a trar partito dalle discordie di que'
fratelli per farsi signore d'Italia. Grimoaldo si recò in Lombardia,
e quel da Torino inteso sempre nel suo proposito, eccitando sospetti
vicendevoli tra i due alleati, adoperò così scaltro che al primo loro
abboccarsi Grimoaldo uccise di mano sua Godeperto. All'annunzio del
fatto Pertarito, sentendosi forse mancare a un tratto ogni appoggio,
abbandonò Milano a così gran fretta che si lasciò dietro la regina e
il figliuol Cuniperto i quali furono confinati entrambi a Benevento
mentre egli vagava. Grimoaldo intanto sposò la sorella dell'ucciso
principe, fatto non senza esempio nella storia longobarda ma pur molto
strano, e nel 662 fu confermato re a Pavia. Le vicende dello sbandito
re Pertarito lungo l'esilio ci sono così narrate dallo storico nostro:

«Confermato dunque Grimoaldo nel regno sul Ticino, non molto dopo
si tolse in moglie la figliuola di re Ariperto che già eragli stata
promessa e di cui egli avea ucciso il fratello Godeperto. L'esercito
beneventano che l'aveva aiutato a impadronirsi del regno rimandò con
gran doni alle sue case. Tuttavia trattenne solo alquanti di esso a
star seco concedendo a loro possedimenti larghissimi.

«Il quale posciaché seppe che Pertarito fuggendo era arrivato in Scizia
e dimorava presso del Kan, a quel medesimo Kan re degli Avari mandò
dicendo per suoi ambasciatori, che se ricoverasse Pertarito nel regno
suo, non potrebbe mantener più quella pace che s'era mantenuta fino ad
allora tra i Longobardi e lui. Udendo ciò il re degli Avari chiamato
Pertarito dissegli ch'egli andasse pure in qual parte gli piaceva
ma che gli Avari non avean da contrarre nimicizie coi Longobardi. E
Pertarito in udir ciò si rivolse all'Italia per tornarsene a Grimoaldo
perché aveva udito ch'egli era clementissimo. Pervenuto adunque alla
città di Lodi, prima di sé mandò a re Grimoaldo, Unulfo un fedelissimo
uom suo che gli annunziasse la sua venuta. Unulfo quindi presentandosi
al re gli annunziò che Pertarito veniva a mettersi nella sua fede.
La qual cosa udendo colui promise sicuramente ch'egli non patirebbe
alcun male poiché veniva alla fede sua. In questa venendo Pertarito,
entrato presso Grimoaldo, mentre voleva buttarglisi a' piedi, il re
clemente lo trattenne e lo sollevò all'amplesso suo. A cui Pertarito:
‘Io son tuo servo, gli dice; sapendoti cristianissimo e pio, mentre
potea viver tra i pagani, m'affidai alla tua clemenza e ti venni
innanzi.’ A cui il re col solito suo giuramento così promise dicendo:
‘Per colui che mi fe' nascere, posciaché tu venisti alla mia fede,
in niuna cosa tu patirai male, ed io così ordinerò le tue cose che
tu possa vivere onoratamente.’ Quindi assegnandogli ospizio in una
casa spaziosa gli disse di riposarsi dopo il travaglio del viaggio,
e impose che gli si somministrasse largamente dal denaro pubblico il
vitto e ogni cosa necessaria. Ma poiché Pertarito fu andato alla casa
apparecchiatagli dal re, subito cominciarono torme di cittadini pavesi
ad accorrer quivi o per vederlo, o, quelli che già lo conoscevano, per
salutarlo. Però dove non giungono le male lingue? Imperocché tosto
alcuni adulatori maligni recatisi al re gli sussurrano che s'ei non
toglierà prestamente Pertarito di vita, egli stesso perderà in breve
e regno e vita, asseverando che perciò tutta la città accorreva a
lui. Udito ciò Grimoaldo troppo credulo e dimentico delle promesse,
s'accende subito al pensiero d'uccider Pertarito e fa consiglio del
come ucciderlo l'indomani poiché l'ora era omai troppo tarda. In sul
vespro gli invia diversi cibi, scelti vini e bevande di varie maniere,
affinché abbandonatosi quella notte al molto bere e sepolto nel vino
non valesse a badare in nulla alla salvezza sua. Allora un tale ch'era
stato ai servigi di suo padre, avendo recato a Pertarito le regie
vivande, inchinando il capo fin sotto la mensa quasi a salutarlo,
segretamente gli annunziò che il re aveva divisato d'ucciderlo. E
Pertarito subito comandò al suo coppiere che nella tazza d'argento
null'altro gli versasse fuorché un po' d'acqua. E poiché coloro che gli
portavano le varie bevande lo pregavano a nome del re che si bevesse
tutta la fiala, quegli promettendo di berla tutta in onore del re,
libava un po' d'acqua nel calice d'argento. Quei ministri annunziando
ciò al re e ch'egli beveva avidissimo, il re lieto rispose: ‘Beva
quel briacone; domani renderà quel vino medesimo misto col sangue.’
Pertarito intanto chiamato a sé subito Unulfo gli narrò la trama del
re per ucciderlo. Unulfo subito mandò a casa sua un ragazzo che gli
portasse i panni del letto e si fe' apparecchiare un letto presso
quello di Pertarito. Nè andò un pezzo e Grimoaldo diresse i suoi
satelliti a circondar la casa dove Pertarito dormiva talché non potesse
scampare in alcun modo. E finita la cena e tutti usciti, rimanendo soli
Pertarito, Unulfo e il guardarobiere di Pertarito che gli era fedele
davvero, essi s'aprono con lui e lo supplicano che, mentre Pertarito
fuggirà, egli, il più lungo tempo che potrà, entro la stanza da letto
finga di dormire. E promettendo quegli di far così, Unulfo impose sulle
spalle e sul collo a Pertarito i panni del letto e la coltrice e una
pelle d'orso, e secondo l'accordo cominciò a cacciarlo fuor della porta
ingiuriandolo forte e per giunta battendolo colla verga, senza cessar
mai di sgridarlo, talché colpito e spinto ruzzolava spesso a terra. E
interrogandolo di ciò i satelliti regi che eran lì posti a custodia:
‘Questo servo cialtrone, rispose Unulfo, mi avea collocato il letto
nella stanza di codesto briacon Pertarito, il quale è così pien di vino
ch'ei giace come morto. Mi basta d'aver seguita finora la pazzia sua,
d'ora innanzi, finché viva il re, io nella propria casa, mi rimarrò.’
Udendo tali cose coloro e credendole vere se n'allietarono, e dando
luogo a lui e a Pertarito, che stimavano essere un servo e che per non
farsi conoscere avea il capo coperto, li lasciarono andare. Mentre essi
andavano, quel fedelissimo guardarobiere chiusa bene la porta se ne
rimase dentro solo. Unulfo intanto calò con una fune Pertarito giù da
quel lato delle mura che è verso il Ticino, e l'associò a que' compagni
che potè raccogliere. I quali tolti que' cavalli che trovaron lì alla
pastura, corsero in fretta quella stessa notte ad Asti dove Pertarito
aveva amici i quali si mantenevano tuttavia ribelli a Grimoaldo. Quindi
movendo quanto più presto poté a Torino, superati i confini d'Italia
giunse alla patria dei Franchi. Così Iddio onnipotente per disposizione
di misericordia e strappò un innocente alla morte e salvò da colpa il
re che nell'animo suo desiderava di far bene.

«Ma Grimoaldo stimando che Pertarito dormisse nella dimora sua, tra
questa e il suo palazzo fece distendere una schiera d'uomini per far
passare Pertarito in mezzo a loro affinché non potesse fuggire in
nessun modo. E venendo i messi del re a chiamar Pertarito a palazzo,
e picchiando alla porta dove e' credean che si stesse dormendo,
quel guardarobiere che stava dentro li pregava dicendo: ‘Abbiategli
misericordia e lasciatelo dormire alquanto perché stanco ancora del
viaggio è oppresso da sonno gravissimo.’ E annuendo quelli riportarono
al re che Pertarito dormiva tuttavia un grave sonno. Egli allora: ‘Così
s'è caricato iersera che adesso non può tenersi sveglio.’ A quelli
tuttavia impose che svegliatolo subito lo conducessero a palazzo. I
quali recatisi all'uscio della stanza dove speravano che Pertarito
riposasse, incominciaron più forte a picchiare. Allora il guardarobiere
di nuovo prese a pregarli che concedessero ancora a Pertarito di
dormire un poco. Quelli irati esclamando che ormai il briacone avea
dormito a sufficienza, rompono a calci l'uscio della stanza ed entrati
cercano nel letto Pertarito. Non trovandolo chiedono al guardarobiere
che cosa fosse di Pertarito e quegli rispose ch'egli era fuggito.
Furenti a ciò lo prendono pe' capelli e tra le percosse lo strascinano
a palazzo, e condottolo alla presenza del re, lo dichiarano conscio
della fuga di Pertarito e però degnissimo di morte. Il re comanda
che lo lascino e s'informa ordinatamente in qual modo Pertarito sia
scampato. Quegli riferisce ogni cosa come s'era fatta. Il re interrogò
allora i circostanti dicendo: ‘Che vi par di quest'uomo che fece una
siffatta cosa?’ E tutti a una voce risposero ch'egli era degno di
morir fra mille tormenti. Ma il re: ‘Per colui che mi fe' nascere,
disse, degno è d'essere ben trattato quest'uomo che non ricusò di
consacrarsi a morte per la fede del suo signore.’ E tosto comandò che
l'annoverassero tra i suoi guardarobieri ammonendolo che gli serbasse
la stessa fede che aveva serbata a Pertarito e promettendo di largirgli
ogni agio. Chiedendo poi il re che fosse avvenuto d'Unulfo, gli dissero
che s'era rifugiato nella Chiesa del Beato Arcangiolo Michele. Il re
mandò subito per lui promettendogli spontaneo che non patirebbe alcun
male, ma ch'ei venisse sulla sua fede. Unulfo poi udendo una tale
promessa del re, subito venne a palazzo e gettatosi ai piedi del re fu
interrogato da lui come e qualmente Pertarito avesse potuto scampare.
Ma quegli avendo riferita ogni cosa per ordine, il re lodando la fede
e la prudenza sua, gli concesse clemente tutte le sue facoltà, e quanto
poteva avere.

«Il re poi dopo qualche tempo interrogando Unulfo s'egli volesse allora
esser con Pertarito, quegli giurando disse che piuttosto vorrebbe morir
con Pertarito che vivere altrove nelle maggiori delizie. Allora il re
interrogò anche il guardarobiere chiedendo s'egli trovava migliore
lo star con lui in palazzo o andar seguendo Pertarito nell'esilio.
E avendo quegli risposto il medesimo che Unulfo, il re accogliendo
benignamente le parole loro e lodando la loro fede disse ad Unulfo
che dalla casa sua prendesse quanto piacevagli, cioè garzoni, cavalli
e suppellettile diversa, e se ne andasse illeso a Pertarito. Nel
medesimo modo licenziò anche il guardarobiere. I quali secondo la
benignità regia pigliando a sufficienza tutte le cose loro, coll'aiuto
del re medesimo si recarono nella patria de' Franchi al diletto lor
Pertarito.»

Nè qui finisce questa drammatica storia. Qualche anno più tardi
Pertarito sentendosi mal sicuro nella terra Franca pensò d'andarsene
in Inghilterra. Frattanto Grimoaldo morì d'una ferita ch'egli avea
cagionata a sè stesso nel tirar d'arco, e fu sospettato che i medici
l'avessero avvelenata mentre mostravano di curarla. «Questi, conclude
Paolo parlando di lui, all'editto composto da re Rotari aggiunse
alcuni capitoli di legge che gli parvero utili. Fu egli validissimo di
corpo, innanzi a tutti per audacia, calvo del capo, lunga la barba,
non meno ornato di consiglio che di forza. Il corpo suo fu sepolto
nella basilica del beato Ambrogio confessore, già fabbricata da lui
entro Pavia. Un anno e tre mesi dopo la morte del re Ariperto egli
avea invaso il regno dei Longobardi, e regnò nove anni lasciando re
in età ancor puerile Garibaldo un figliuolo che da lui avea generato
la figlia del re Ariperto. Adunque, come avevamo incominciato a dire,
Pertarito lasciata la Gallia, salì una nave per passar nell'isola
britannica al regno dei Sassoni. E già aveva alquanto navigato in
mare, quando fu dalla riva udita una voce chiedente se Pertarito si
trovasse in quella nave. E risposto ch'ei v'era, colui che chiamava,
soggiunse: ‘Ditegli che egli se ne torni alla patria sua: già fan tre
giorni oggi da che Grimoaldo fu tolto alla luce.’ Udendo ciò Pertarito
subito tornò indietro ma giunto al lido non potè trovar la persona che
avevagli annunziata la morte di Grimoaldo, onde fe' stima colui non
essere stato un uomo ma un nunzio celeste. E quindi, movendo verso la
patria, giunto ai confini d'Italia trovò che l'aspettavano palatini
ossequi ed ogni regia dignità con grande moltitudine di Longobardi.
Adunque tornato a Pavia, tolto del regno il fanciulletto Garibaldo,
fu da tutti i Longobardi sollevato al regno nel terzo mese dopo la
morte di Grimoaldo. Era egli uomo pio, cattolico di fede, tenace della
giustizia, e dei poveri nutritore larghissimo. Il quale subito mandò a
Benevento e richiamò di quivi Rodolinda consorte sua e Cuniperto suo
figlio.»[58] Dagli esempi che son venuto recando non sarà malagevole
al lettore il figurarsi i pregi principali e i difetti di Paolo e
come scrittore e come storico. Nato quando le lettere latine erano
cadute nel folto della barbarie, egli al paragone de' suoi tempi è
scrittore assai buono ma non è da aspettarsene quella purezza sicura
che abbellisce lo stile di latinisti fioriti in età diverse. Poeta
gentile e talora perfino elegante egli adopera la lingua latina colla
facilità nativa di chi l'ha usata fanciullo ancorché talvolta pecchi di
qualche errore. Di stile è disugualissimo, e la disuguaglianza per lo
più deriva dalle fonti a cui egli attinge spesso copiando. Generalmente
egli è chiaro, ma si incontrano nel suo libro taluni passi intralciati
e in tal modo oscuri, che dopo infiniti lavori tormentano ancora la
fantasia e la pazienza degli eruditi a cui tocca d'interpretarli. Ama
il vero con ardore di uomo onesto, ma ripete credulo le leggende e i
racconti favolosi che ha trovato sparsamente nelle cronache o nelle
tradizioni nè cerca d'alterarli togliendo ad essi o aggiungendovi
nulla. E ciò è un gran pregio e tanto più gliene dobbiamo esser grati
quanto più la cultura sua, vastissima pe' suoi tempi, poteva tentarlo
ad una narrazione più ricercata e artificiosa che ne avrebbe insieme
distrutto il fascino e il merito storico. Così com'essa è la sua
narrazione ha un valore immenso che s'accresce per l'uso ch'egli fece
degli scritti perduti oramai senza speranza di Secondo di Trento. Il
lungo e vario commercio di pensieri e d'affetti ch'egli ebbe con uomini
e paesi assai diversi tra loro, lo trae quasi per istinto ad allargar
la tela del suo racconto e a largamente giovarsi di altri scrittori per
narrar fatti lontani da lui di tempo e di paesi. Perciò oltre che alla
_Origo_ e all'abbate Secondo, egli attinge sovente a Gregorio di Tours,
a Beda il venerabile, alle vite dei Pontefici, alle opere di Gregorio
il Grande e d'altri somiglianti scrittori. L'amore della verità che lo
animava, i viaggi, le molte cose vedute, l'accesso familiare alle corti
dei Longobardi e dei Franchi, gli agevolarono il mezzo di raccogliere
le tradizioni del passato, mentre la fantasia vivida e la ingenuità sua
lo muovevano a dipingerle al vero. Quanto ha di plausibile la _Historia
Langobardorum_ vuolsi riputar grave e degno d'esame maturo, e quanto
v'ha di non plausibile in essa, bene dipinge e fedelmente gli antichi
costumi dei Longobardi, a quel modo che la vecchia Scozia meglio che
da ogni storico ci rimane innanzi dipinta dal maraviglioso pennello del
suo gran romanziere.



CAPITOLO III

  Decadenza della cronografia italiana — Il «Liber Pontificalis» —
    «Gesta Episcoporum Neapolitanorum» — Agnello Ravennate — Scritti
    polemici di Ausilio e Vulgario — I monasteri e le invasioni
    saraceniche — Farfa: la «Constructio,» le vite dei santi
    Vulturnensi, la «Destructio» — Montecassino: il «Chronicon Sancti
    Benedicti Casinensis» — I cataloghi e le traslazioni dei Santi —
    La Historia di Erchemperto e l'Anonimo Salernitano — Andrea da
    Bergamo — Panegirico di Berengario — Stato della cultura laica
    in Italia — Liudprando — Scritti imperialisti — Benedetto di
    Sant'Andrea — Cronaca veneta di Giovanni Diacono.


La historia di Paolo Diacono ebbe alcune continuazioni[59], ma il valor
d'esse appena merita una fuggitiva menzione in questo libro che non
considera esclusivamente le opere dei cronisti come sorgenti di storia
ma sì anche come manifestazioni letterarie della età medioevale. La
cronografia italiana entra ora nel periodo più povero della sua vita.
Un decadimento profondo seguì gli ultimi bagliori del classicismo e
quello sforzo verso una rinascenza tentato da Carlo Magno e cessato
con lui. Al notevole lavoro di Paolo tennero dietro cronache o ricordi
storici d'assai minore importanza. «È ben da compiangere, nota il gran
Muratori, la storia d'Italia che ci lascia per tanto tempo digiuni
dei fatti ed avvenimenti d'allora, con restarne solo un qualche
barlume presso gli antichi oltramontani.»[60] Infatti dal periodo
dei Carolingi a quel degli Ottoni, dove non ci soccorrono documenti
indiretti come iscrizioni, diplomi e somiglianti aiuti, spesso è
necessità ricorrere a fonti tedesche o francesi per aver qualche luce
tra il folto buio della storia nostra. Come vedremo, non s'era spento
del tutto nei laici ogni ricordo dell'antico sapere ma l'impulso a
scrivere mancava in essi, e la parte più colta del clero era troppo
intesa nelle agitazioni politiche per consacrarsi a dettare scritti
di storia. In genere la cultura ecclesiastica parve concentrarsi
pressoché intera nella trattazione degli affari, talché le raccolte
delle lettere pontificie di Niccolò I († 867) e di Giovanni VIII (†
882), così per forza e bontà d'espressione e di stile come per valore
storico, sono forse i documenti più pregevoli che ci abbiano lasciato
quei tempi. Ma il silenzio che nel secolo nono sembra regnare in Italia
intorno agli avvenimenti contemporanei, non può dirsi assoluto. Quegli
avvenimenti medesimi furono talvolta occasione pressoché necessaria
di scritti che direttamente o indirettamente hanno carattere storico,
tra i quali vuolsi dar luogo eminente al _Liber Pontificalis_ che per
quanto riguarda la prima metà del nono secolo è di grande sussidio alla
storia generale della Chiesa e a quella particolare di Roma. Questo
libro andò lungo tempo sotto il nome di Anastasio Bibliotecario uomo
di molta dottrina, che tradusse dal greco varie opere ma che, se pur
n'ebbe alcuna, ebbe pochissima parte in questa. Certo l'attribuire il
Libro Pontificale ad un solo autore è contraddire all'indole stessa
dell'opera la quale consiste in una serie di notizie biografiche dei
papi compilate or più or meno estesamente in varî tempi e da varî
scrittori. La storia di questo libro e delle sue compilazioni, le
indagini circa gli autori di esso, la critica dei manoscritti che lo
contengono, hanno dato materia di lungo lavoro agli eruditi e pur di
recente originarono alcune dissertazioni dottamente elaborate e ricche
d'acume le quali hanno poi fatto capo alla mirabile edizione datane dal
Duchesne che può considerarsi fondamentale[61]. Basti ora descrivere
brevemente la prima parte di questo libro che pel frequente variar
di forme può in certo modo rassomigliarsi al nascere e al correr d'un
fiume. Il bisogno continuo d'aver familiare per motivi ecclesiastici la
cronologia pontificia fu prima origine del libro. Così, verso il quarto
secolo, dagli antichi cataloghi dei nomi dei papi, dalle costoro lapidi
sepolcrali, dalle menzioni che se ne trovavano negli atti dei martiri
o in lettere o in libri, cominciò a comporsi il primo nucleo del libro
pontificale per la più antica e popolare redazione. Sulle prime le
biografie indicavano fuggevolmente il nome, la famiglia, la patria del
pontefice, la durata del suo pontificato, i decreti dati nel suo tempo
e il luogo di sua sepoltura. Tra un pontefice e l'altro era notato
il tempo della sede vacante. Poi a poco a poco le brevi indicazioni
aumentarono, e le compendiose notizie si vennero mutando in biografie
più larghe e ricche di particolari preziosi[62]. Sventuratamente
nell'ultimo quarto del nono secolo quando avremmo più bisogno dei
soccorsi di questo libro esso ci vien meno quasi interamente. Le
turbolenze politiche vincono la forza della tradizione, e il Libro
Pontificale ricaduto nella aridità primitiva si scheletrisce di nuovo e
si riduce a un catalogo. Più tardi, giunti al pontificato di Leone IX,
col risorgere della cultura storica lo ritroveremo più ricco di fatti
e più fiorente, rendendoci così sempre la immagine di un fiume che si
nasconde a un tratto per riapparire più vasto e più copioso altrove.

Quando Paolo Diacono scrisse le _Gesta_ dei vescovi di Metz, inaugurava
un genere di letteratura storica che rispondeva veramente a un bisogno
dei suoi tempi, e nei secoli seguenti trovò molti imitatori. Lo stesso
concetto che aveva ispirato il libro pontificale ispirava qua e colà
in varie diocesi storie di vescovi alle quali talvolta la importanza
della sede e la povertà di altre notizie allargano il valore nella
storia generale della Chiesa. Così le storie dei vescovi napoletani e
dei ravennati, compilate nel nono secolo, sono documenti che vogliono
tenersi in gran conto da chi indaga studiando le vicende di quella
età. Come la raccolta delle vite dei vescovi romani, così le _Gesta
Episcoporum Neapolitanorum_ sono opera di diversi autori e anch'esse
furono attribuite quasi per intero ad un autor solo, Giovanni Diacono.
Il Waitz e il Capasso pubblicando ciascuno una nuova edizione di questo
libro[63], hanno dimostrato come essa debba dividersi in tre parti.
La prima compilata da un ignoto autore verso la metà del secolo nono,
incomincia da Cristo e arriva con arida compilazione fino all'anno 763
aggiungendo poco o nulla di nuovo alla storia. La seconda parte è da
ascriversi a quel Giovanni Diacono che già fu stimato autore di quasi
tutto il libro e a cui veramente riman l'onore d'averne composta la
parte maggiore e la meglio pregevole. Giovanni cominciò adolescente il
lavoro suo, e ripigliando la storia dei vescovi napoletani all'anno
763 dove l'altro l'aveva lasciata, la continuò fino alla morte del
vescovo Atanasio I (A. D. 872). Col successore di lui incomincia la
terza parte delle vite, scritta da un Pietro suddiacono, ma n'avanza
un frammento così breve che non serve esaminarlo[64]. Lo scrivere di
Giovanni è corretto a sufficienza nè s'hanno da rimproverar molte mende
al suo latino. Considerando i tempi è scrittore di qualche merito, e
gli acquista lode la cura ch'ei pone a cercare il vero delle cose che
narra e a darne assicurazione al lettore. Le molteplici relazioni di
Napoli con altri paesi e specialmente con Roma, colla Grecia e col
Principato Beneventano, accrescono dal lato storico il valore a questo
lavoro di Giovanni e ad alcuni altri suoi scritti minori sulle vite e
la traslazione delle reliquie d'alcuni santi napoletani.

Di maggior momento è il Libro Pontificale di Agnello da Ravenna. La
importanza di questa città, assai grande mentre decadeva l'Impero,
non pur si mantenne alta, ma per la favorevole sua posizione sulla
costa adriatica si fece forse maggiore nei primi secoli del medio
evo. Poiché i Greci ebbero riperduta gran parte d'Italia all'invadere
dei Longobardi, Ravenna divenuta sede del governo imperiale poteva
assai più di Roma considerarsi come capitale dell'Impero. Mentre gli
Esarchi di Ravenna reggevano la Pentapoli in nome degli Imperatori,
Roma circondata dal dominio longobardo, tanto si scioglieva man mano
dalla influenza imperiale quanto più i Papi venivano slargando la
loro e aspiravano a sottrarsi dalla soggezione bizantina. La rilevanza
della città crebbe rilievo alla diocesi di Ravenna, e l'autorità dei
vescovi ravennati salì così alto da indurli a contrastare con Roma e
a non voler facilmente accogliere le papali pretese di supremazia.
Da ciò si fa agevole intendere come il libro di Agnello che tratta
dei vescovi ravennati, debba riuscire di pregio. Composto in modo
somigliante al Libro Pontificale romano, ha comune con esso il titolo
ancorché sovente mostri tendenze poco favorevoli a Roma. Contro
l'usanza seguìta dai compilatori delle vite papali, Agnello ha lasciata
ampia traccia di sé nel suo libro, onde la sua biografia riesce facile
a tessere. Nacque di nobile famiglia a Ravenna verso l'anno 805, e
destinato dai primi anni alla vita ecclesiastica, fu educato nella
cattedrale (_Ecclesia Ursiana_). Fanciullo ancora ebbe in beneficio
l'abbazia del monastero di Santa Maria ad Blachernas e in seguito
anche quella di San Bartolomeo. Più tardi però quest'ultima gli fu
tolta per qualche tempo dall'arcivescovo Giorgio il quale, senza giusta
ragione al dire d'Agnello, d'amico grande gli si convertì in nemico.
Agnello fu ordinato prete da Petronace arcivescovo che governò la
sede ravennate dall'anno 817 fino all'anno 835. Oltreché la nascita
e le ricchezze già lo collocavano in posizione elevata, Agnello
poté splender tra il clero non pure per queste doti esteriori ma per
quelle ancora dell'ingegno e del sapere. Nè ciò vorrebbe dir molto,
come osserva a ragione l'ultimo editore d'Agnello, ché la cultura del
clero ravennate era allora meno che scarsa, ma tuttavia fu bastevole
occasione per un lavoro utilissimo ai posteri lontani. La fantasia
vivace, l'amor suo per le arti e i frequenti incarichi ch'egli ebbe
d'attendere all'ornamento e ai restauri delle chiese ravennati, una
certa conoscenza del greco necessaria allo storico d'una diocesi così
legata ai Bizantini, tutto doveva aiutarlo all'opera che si metteva
a comporre. E però è naturale il credere che la riputazione della sua
dottrina inducesse gli altri preti di Ravenna ad insistere forte presso
di lui per fargli intraprender la storia dei loro vescovi. Accettato
l'incarico, Agnello lo eseguì con lentezza e a frammenti, malgrado lo
stimolo impaziente dei colleghi ai quali, per quanto apparisce, egli
veniva leggendo il libro man mano che lo componeva. Questo lavoro,
compiuto verso la metà del secolo nono, muove dai tempi apostolici
colla vita di santo Apollinare e giunge fino ai vescovi contemporanei
dell'autore. È opinione generalmente accolta che il libro d'Agnello
traesse origine ed ispirazione dal Libro Pontificale romano, ma non
trovo per essa molta solidità di fondamento. Gli argomenti addotti
per sostenerla s'appoggiano principalmente sulla identità del titolo
e su talune somiglianze nella disposizione del libro, ma al giudizio
mio sono argomenti deboli e inefficaci alla prova. Inoltre ammettendo
queste ipotesi non è facile intendere come Agnello non si sia mai
giovato del Pontificale Romano. In parecchi luoghi egli avrebbe potuto
attingere da esso utilissime notizie, e non par cosa probabile il suo
trascurarle senza ragione[65]. Ma tralasciando questo mio dubbio, il
libro di Agnello ha certo tra i suoi pregi maggiori quello di non aver
solo attinto dai libri come da unica fonte. Una delle sue somiglianze
colle vite dei papi consiste nell'essersi molto giovato dei monumenti
e d'avere ritrovata in essi una gran parte della sua storia. Come s'è
detto, il sentimento e il sapere dell'arte lo aiutarono grandemente
nel suo lavoro. Del continuo s'incontrano nel suo libro descrizioni
di chiese e d'altri edifici ravennati, e il suo racconto s'appoggia
alla autorità di epigrafi trovate in que' monumenti. Persin le figure
dei personaggi di cui fa discorso, ci son recate innanzi dall'autore
con descrizioni ricavate dalle pitture e dai mosaici di cui era allora
così gran copia in Ravenna che ancora è ricchezza stupenda quel che ne
avanza dopo tanti secoli e tante vicende. «E,» dichiara egli stesso,
«se a voi che leggete questo Pontificale verrà alcun dubbio, e vorrete
indagare dicendo: ‘Perché non narrò i fatti di questo pontefice come
degli altri predecessori?’ udite per qual ragione. Questo Pontificale
dal tempo del beato Apollinare per ottocento e più anni dopo la sua
morte composi io Agnello che anche son detto Andrea, esiguo prete
di questa santa mia chiesa ravennate, pregandomi e costringendomi i
fratelli di questa sede medesima. E dove trovai quel ch'essi fecero
certamente, ciò io recai dinanzi a voi, e di quanto udii da più vecchi
e longevi non defraudai gli occhi vostri, e dove non trovai storia o
qual fosse la vita loro nè per uomini annosi e vetusti nè per edificio
nè per autorità alcuna, per non far lacuna tra i santi pontefici, io,
secondo l'ordine in che ottenner la sede un dopo l'altro, composi la
vita loro aiutandomi Iddio per le vostre orazioni, e credo di non aver
mentito perché e' furono pii e casti e limosinieri e acquistatori a Dio
d'anime umane. E della effigie loro, se forse nasca pensiero tra voi
come io potei conoscerla, sappiate che mi ammaestrò la pittura, perché
ai lor tempi sempre si facevan le immagini a lor simiglianza. E se
nasca questione che io dovessi affermare dalle pitture la effigie loro,
Ambrogio vescovo santo di Milano, nella Passione dei beati martiri
Gervaso e Protaso parlò della effigie del beato Paolo apostolo dicendo:
‘Il cui volto mi additò la pittura.’»

Com'è da aspettarsi, Agnello con questo suo metodo di scriver la
storia mescola frequenti leggende di miracoli tra i fatti che narra
e le notizie artistiche che ci tramanda indirettamente. Quando nelle
vite più antiche gli vien meno l'aiuto di positive indicazioni nè
trova molto oltre il nome del vescovo, egli stima lecito aggiunger
di suo parole e racconti di lode contrapponendo, non senza amarezza
di rimproveri, quelle vite ideali degli antichi alle vite reali dei
vescovi recenti. Ciò d'assai scema fede alla sua storia quando in essa
raccontasi direttamente alcun fatto antico, ed anche vien dubbio della
imparzialità sua verso i contemporanei leggendo le acri espressioni
appuntate contro quell'arcivescovo Giorgio che per qualche tempo gli
tolse l'abbazia di San Bartolomeo. Dei papi parla spesso con gran
libertà e con poco favore, la qual cosa ha forse ristretta la sua
fama nel medio evo e ha reso scarsi a tal punto i manoscritti del suo
libro, che oramai solo un codice se ne conosce che lo contiene intero.
Lo stile suo molto disuguale è stato descritto bene dall'Holder Egger
con queste parole che pongo qui a conclusione: «Il suo linguaggio,
come quello di tutti gli scrittori italiani di quella età, simile
piuttosto alla lingua del volgo che a quella dei classici, poco cura
le leggi di grammatica. Ma le varie parti differiscono molto tra loro
di stile e di maniera. Talora scrive abbastanza corretto, e, per
quanto può, elegante; talora spropositato a maraviglia, negligente
d'ogni composizione buona e costruzion retta di parole; per lo più
semplice e asciutto, ma dove riferisce udite favole, parla copioso,
concitato e spesso tumidissimo nè di rado oscuro. Massimamente imita la
Sacra Scrittura, de' cui detti è ripieno il suo discorso oltre quanto
può notarsi, ed i Padri della Chiesa, ma dove descrive fervidamente
t'imbatti qua e là a spesso ripetute sentenze di Virgilio. Dal quale
anche pigliò in ridicol modo nomi d'antichi, onde chiama i Greci dei
suoi tempi Pelasgi e Danai e Mirmidoni. Inoltre vuolsi avvertire che il
discorso suo abbonda di parole altrove inusitate, ἅπαξ λεγομένοις, per
lo più tratte dalla lingua greca.»[66]

Il rapido decadimento morale a cui soggiacque la Chiesa Romana
sul finire del secol nono, mentre inaridiva alle sorgenti il Libro
Pontificale romano, die' vita a taluni scritti polemici il cui valore
storico risalta per le molteplici questioni lungamente agitate sulla
infallibilità papale. La storia di papa Formoso è nota. Strappato
dalla tomba per volere di Stefano VI suo successore e nemico, il suo
cadavere fu come persona viva sottoposto al giudizio di una sinodo e
condannato solennemente (A. D. 897). L'assemblea sacrilega e feroce
dichiarò reo quel miserando avanzo di papa, e affermò ch'egli era
stato contravventore alle leggi della Chiesa e usurpatore della
sedia apostolica. Rinnegata la elezione sua, tutti gli atti del suo
pontificato furono annullati e l'informe spoglia, svestita delle
insegne pontificie e mutila, fu con obbrobrio gettata in Tevere. A così
turpe strazio la malvagità dei tempi sempre crescente e la dura ferocia
delle parti avean messo il papato, e cosiffatti successori sedevano
dove Gregorio Magno avea ministrato! Ma contro lo scellerato atto di
Stefano s'alzò la voce d'alcuni scrittori, e il morto Formoso ebbe
sue difese. Uno di questi scrittori, Ausilio, nato d'origine franca,
viveva a Napoli e credesi che morisse monaco a Montecassino. Lo aveva
consacrato prete Formoso, e la consacrazione sua considerandosi nulla,
egli alcun tempo dopo lo scandalo di Roma sostenne coraggioso e per
quella età con molto sapere, la causa del condannato papa che in certo
modo era sua causa. Colle stesse tendenze scrisse Eugenio Vulgario
grammatico italiano, anch'egli per quanto pare dimorante a Napoli. Lo
scritto suo è piuttosto una glorificazione che una difesa di Formoso
a cui peraltro non si tenne sempre fedele. Dopo i primi scritti piegò
verso la parte contraria, ma poi venuto al pontificato Giovanni X,
di nuovo si mostrò formosiano colla _Invectiva in Romam_ se è vero
ch'egli la componesse, ma di ciò resta ancor qualche dubbio. Scritto
con pesante artifizio di stile questo libello è fatto quasi eloquente
dalla fiera iracondia che lo anima. Con ardor grande inveisce contro
la intera città di Roma, e chiama in colpa della esecranda opera i
Romani usati ab antico a ripagar di morte i loro benefattori. Perciò la
violenza patita in altri tempi da Romolo e da San Pietro e San Paolo,
doveva ora patire Formoso uomo santo giusto cattolico. «Il cadavere
già per nove mesi sepolto strappaste dal sepolcro. Se era interrogato
che mai poteva rispondere? Se avesse risposto, tutta quella orrenda
congrega colta di terrore si sarebbe dispersa.»[67] Così in pochi
tocchi egli descrive la sinodo che giudicò Formoso e che fu chiamata
_horribilis_ pur dal Concilio Romano dell'anno 898 adunatosi a riparare
la sozza ingiuria.

Da questi scritti polemici i quali malgrado la passione che li impronta
recano pure utilissime testimonianze su quel fatto straordinario,
volgiamo ora a diverso genere di componimento. Appena Benedetto da
Norcia ebbe fondati i primi monasteri, tosto il viver monastico si
distese rapido per una immensa regione. La scintilla accesa a Subiaco
e a Montecassino s'era propagata lontano, e a stuoli i benedettini
popolavano ormai le campagne dell'intero occidente. A secondare
questa tendenza verso la vita cenobitica e per impulso di essa, erano
frequenti le fondazioni di nuovi monasteri. I quali spesso, favoriti
dalle circostanze, privilegiati dai principi, arricchiti da ogni
maniera di gente con doni di terre che i monaci colonizzavano quando
il valor della terra era in picciol conto, presto salivano a grande
stato di ricchezza e potenza. La regola benedettina che oltre al
lavoro manuale dei campi, imponendo ai monaci il leggere promuoveva
la trascrizione dei manoscritti, accoppiava al beneficio inestimabile
di moltiplicar libri l'altro non lieve di serbar nei monasteri alcun
barlume di quella cultura che allora spegnevasi negletta dal rimanente
clero in Italia. Fioca luce invero, ma pur così fioca valse tra il nono
secolo e il decimo a ispirar talune scritture intorno alla origine
e alle prime vicende di parecchi monasteri. Mista di leggende e di
racconti miracolosi esse contengono una messe considerevole di fatti
veri e molti tratti caratteristici di cui può servirsi lo storico
nel ricomporre da quegli scarni profili il quadro di una età tanto
buia[68].

Tra questi lavori uno ve n'ha che narra le origini del monastero di
Farfa in Sabina. La storia della prima fondazione di questo monastero
non posa nel fermo e si perde nella leggenda. Un santo uomo di nome
Lorenzo, venuto dalla Siria a Roma nei tempi di Giuliano imperatore,
fondò il monastero distrutto poi alla prima venuta dei Longobardi o,
secondo un'altra versione, anche prima durante l'invasione vandalica
di Genserico. Più tardi coll'aiuto di Faroaldo duca di Spoleto,
il pellegrino Tommaso da Morienna ricostruì il monastero. Presto
v'affluirono d'ogni lato i monaci, e la badia prosperò di tal guisa che
a breve andare fu delle prime d'Italia, vasta per la estensione de'
suoi possedimenti, potente per le sue relazioni coi duchi di Spoleto
e coi re d'Italia. Perciò riesce pieno d'interesse quanto ce ne narra
la _Constructio_ o _Liber Constructionis Farfensis_, dall'anno 705, a
cui può ricondursi approssimativamente la seconda e certa fondazione
del monastero, fino all'anno 857 nel quale essa _Constructio_ ha il
suo termine. Opera d'un monaco ignoto del secolo nono, questo scritto
non è pervenuto a noi quale lo compose l'autore, e solo ce ne resta
quel che ne fu interpolato in un antico codice del monastero che
contiene lezioni sulle vite di alcuni santi[69]. Questi avanzi della
_Constructio_ copiati senza alcun dubbio dal testo originale, recano
testimonianza di una latinità assai migliore di quella che s'incontra
per solito in quella età. Ciò forse è dovuto alla influenza delle
relazioni onde il monastero fu sempre legato ai dominatori longobardi
e franchi che nei loro contrasti colla sede apostolica lo tennero fin
dal principio come il baluardo loro più prossimo alle mura di Roma.
Governato da abbati di origine franca quando la cultura ecclesiastica
era meglio curata oltralpe che a Roma, il monastero non soggiacque
del tutto a questo periodo di decadenza letteraria che si attraversa,
e vedremo più tardi sorgere tra le sue mura i primi inizî di una
rinascenza storica a cui prelude intanto questa _Constructio_. Ad essa
collegasi strettamente e fornisce materia di compilazione, la vita dei
tre fondatori del monastero di San Vincenzo al Volturno. Nel primo
quarto del secolo ottavo fondarono questo monastero tre giovinetti
beneventani di nobile lignaggio e parenti fra loro, consigliandoli
ed aiutandoli all'opera quel medesimo Tommaso di Morienna che avea
ravvivato il monastero di Farfa. Autperto monaco e più tardi abbate
di San Vincenzo raccontò la storia de' suoi fondatori non molti anni
dopo ch'essi eran morti. Per questo racconto non s'accresce invero
il patrimonio della storia, e solo è da farne menzione perché si
ricongiunge alla storia di Farfa ed è monumento antichissimo della
età longobarda[70]. Più rilevante invece è la _Destructio Farfensis_,
scritta nel principio del secolo undecimo da Ugo abbate di Farfa. Al
fermarsi delle invasioni barbariche calate da settentrione, l'Italia
ebbe a patire nuove invasioni dall'Affrica. I Saraceni fattisi signori
della Sicilia, venivano distendendo il dominio loro nel mezzogiorno
d'Italia, e dove non avevano dominio stabile si spingevano rapinando
in temporanee incursioni. Secondo il più o men di resistenza che
lo stato politico d'Italia poteva opporre, essi davano indietro o
avanzavansi. Roma stessa minacciata sovente, vide un giorno le orde
saraceniche irrompere in San Pietro, e le vôlte della venerata basilica
echeggiarono l'urlo selvaggio degli Infedeli saccheggiatori. È agevole
intendere come i monasteri meridionali o non lontani dal mezzogiorno,
isolati nelle campagne e celebri per le raccolte ricchezze, fosser
continuo oggetto di mira pei Saraceni. L'odio pei tempî cristiani
e la cupidigia del bottino eran d'invito a spiar le occasioni per
invadere quelle badie e spesso dopo averle predate distruggerle. La
badia farfense posta alle falde d'un colle sabinate in luogo molto
bene accessibile ad una incursione, soggiacque alla sorte comune e fu
distrutta. Così ridotta in rovina, Farfa rimase a lungo deserta dai
monaci che vi tornarono sol quando fu possibile tornarvi con qualche
speranza di sicurezza. La restaurata badia patì varie vicende finché
il monaco Ugo levato al seggio abbaziale poté in un governo lungo e
glorioso (A. D. 998-1039) rialzarne le sorti e la scaduta disciplina.
Uomo di gran cuore e d'ingegno, Ugo non s'appagò del riformare il suo
monastero e richiamarlo allo splendore antico: volle farsene storico e
seguitar l'opera dell'anonimo autore della _Constructio_. Colla buona
latinità tradizionale nella scuola di Farfa, Ugo ripigliò il lavoro
dove l'altro lo aveva lasciato, e continuandolo fino ai suoi tempi
lo intitolò _Destructio_ dal gran fatto ch'ei narra della incursione
saracenica. Per la storia di queste incursioni e per quella di Roma e
di Spoleto ai tempi di Alberico, di Marozia e di Ugo re d'Italia, la
_Destructio_ ha grande importanza e merita forse più attento esame che
non ebbe finora dagli storici[71].

Prima di distruggere la badia di Farfa, i Saraceni avean distrutta
quella di San Vincenzo al Volturno e quella di Montecassino non meno
fiorente e più famosa d'ogni altra. Quest'ultima fortemente situata a
mezza via tra Roma e Napoli sul vertice d'un monte che domina la valle
del Garigliano, fu minacciata lungamente prima di patire il saccheggio
degli Arabi. Tra le ansietà di questa minaccia fu scritta una breve
cronaca che dopo avere riassunto rapidamente dietro le vestigia di
Paolo Diacono la prima storia di Montecassino, si distende in molti
particolari sui fatti avvenuti in quei luoghi d'Italia verso il mezzo
del secol nono fino all'anno 867. Intreccia, al solito, fatti veri e
leggende, ed è scritta in un latino di cui la rozzezza male potrebbero
superare altri scritti di quella età così barbara. Ma per la storia del
Principato longobardo di Benevento, per quella degli Arabi in Italia
e di lor guerre con Ludovico imperatore, è una preziosa cronaca. Nel
frammento che segue si narra in qual modo il Monastero sfuggì una volta
l'eccidio minacciatogli, e bene si pare da esso con quali cautele debba
aggirarsi lo storico tra queste cronache per isceverare il vero tra le
molte fallacie che ne precludono la vista agli occhi suoi.

«A questi dì i Saraceni uscendo di Roma, tutto devastarono l'oratorio
di Pietro principe degli apostoli beatissimi, e la chiesa del beato
Paolo, e uccisero Sassoni[72] assai, e molt'altra gente varia di
sesso e d'età. E pigliarono la città di Fondi e depredati i luoghi
vicini, a settembre accamparonsi di là da Gaeta. Contro ai quali
arrivò l'esercito dei Franchi, ma sbaragliato dai Saraceni il dì
quarto delle idi di novembre, si mise in fuga. I Saraceni inseguendo i
Franchi e pigliando loro ogni cosa, giunsero da ultimo a santo Andrea
e ne arsero il convento. I quali pervenuti al convento del beatissimo
Apollinare vescovo, che chiamano d'Alviano, vider da presso il monte
del beatissimo confessore di Cristo, e volean subito salirvi ma l'ora
tarda vietò loro il passaggio. Adunque tanta era allora serenità di
cielo e siccità di terreno, che il fiume poteva attraversarsi a piedi
da chi voleva. I monaci del beatissimo padre Benedetto, vedendosi
così vicina la morte, tosto si dieder l'assoluzione a vicenda
supplicando il Signore misericordioso che ricevesse propizio in pace
le loro anime ch'essi ad ogni minuto aspettavansi dovesser migrare
per morte repentina. Tutti dunque a pie' nudi, sparso di cenere il
capo, con litanie trassero al patrono loro Benedetto beato. Mentre era
grande il terrore e trepida l'aspettazione e facevasi copiosa prece
all'onnipotente Signore, apparve in visione a Bassacio padre il suo
predecessore Apollinare abbate, dicendo: ‘O che avete? che dolore vi
preme?’ E Bassacio: ‘Padre, ci sta sopra la morte, e non è da temere?’
‘No, dice, non vogliate temer nulla: il pio padre Benedetto ottenne
la salvezza vostra. Pregate dunque ardentemente Iddio con litanie e
solennità di messe. Iddio esaudirà pronto le voci che chiamano a lui:
da ultimo noi pur che siam nella chiesa, non cessiamo insieme cogli
altri cittadini del cielo di pregare Gesù Cristo Signore per voi.’
E sorgendo dal sonno il pastor Bassacio e narrando ciò ai fratelli,
tutti insieme con eccelsa voce benedissero Iddio che salva chi spera
nella misericordia sua. Allora subito ecco venire una pioggia immane,
e lampi e tuoni così veementi che il fiume Carnello (Garigliano)
crescendo oltre il segno, die' fuori. E mentre il dì prima potevano i
nemici passarlo a piede, il dì appresso, costretti dalla repulsione
divina, non potevano neppure accostarsi alle ripe. Volevan pure
attraversare ad ogni modo il fiume, ma non trovando alcun adito per
passare al cenobio, mordevansi le dita secondo lor fiera barbarie, e
fremevano e stridevano i denti correndo qua e là furibondi. E per non
tralasciare l'usata scelleratezza loro arsero i conventi dei beatissimi
martiri Stefano e Giorgio, e passando pei Due Leoni se ne tornarono
all'accampamento. Alquanti giorni dipoi uccisi i loro cavalli si misero
in mare. I quali quando furono così prossimi alla patria loro che già
vedevano i monti vicini, fecero festa con applausi marinareschi secondo
l'usanza loro. Ed ecco apparir tra loro una navicella che recava due
uomini, e l'uno avea l'abito come di chierico e l'altro di monaco. I
quali dissero a loro: ‘Onde venite e dove andate?’ Ma quelli risposero
dicendo: ‘Torniamo via da Pietro, devastammo a Roma tutto l'oratorio
di lui, predammo il popolo e il paese, vincemmo i Franchi e ardemmo i
conventi di Benedetto. E voi,’ dicono, ‘chi siete?’ Rispondono quelli:
‘Chi noi pur siamo vedrete or ora.’ Tosto venne su una gran tempesta
e una procella veemente: onde le navi tutte furono infrante e tutti
i nemici perirono: nessuno affatto di loro rimase che annunziasse la
cosa ad altri. Nel tempo seguente poi, Leone venerabile papa, circondò
l'oratorio del beato Pietro di mura fermissime ed eccelse affinché un
evento somigliante non accadesse più mai in Roma.»[73]

Alla cronaca cassinese è aggiunto un catalogo degli abbati del
monastero colla indicazione degli anni in cui vissero e governarono a
Montecassino. E qui mentovando un catalogo mi par luogo d'accennare
a quest'altro genere di componimento storico, non raro intorno a
questi tempi fino all'undecimo secolo e utilissimo specialmente alla
cronologia. Questi cataloghi consistono generalmente di semplici liste
con nomi di sovrani, di vescovi, d'abbati o d'altri personaggi, colla
menzione degli anni in cui governarono, e talvolta col ricordo di
qualche avvenimento. Così per esempio in un catalogo la serie dei re
longobardi termina in questo modo:

«Ratchis regnò anni cinque e mesi tre.

«Astolfo regnò anni otto e mesi sei.

«Desiderio regnò anni diciotto, mesi due, giorni dieci. E così compiono
201 anni nei quali i predetti venti re regnarono nel regno d'Italia,
come s'è notato particolarmente di sopra. Nel qual tempo fu presa
Pavia e la incarnazione del nostro signore Gesù Cristo a quel tempo
correva nell'anno 775. E dopo questi predetti venti re, il dominio del
regno d'Italia pervenne a Carlo imperatore succedente al re Desiderio
sopraddetto....» e dopo qualche altra parola cominciando la serie dei
Carolingi scende per tutti i dominatori d'Italia fino agli Enrichi
dell'undecimo secolo[74].

Quando finalmente Montecassino fu preso e devastato dai Saraceni (A. D.
883), toccò ai monaci di rifugiarsi come in esilio ad aspettare giorni
migliori nelle vicine città di Teano e di Capua. Il monaco Erchemperto
trasse cogli altri a Capua ed ivi poi scrisse una storia de' Longobardi
beneventani la quale incomincia dal duca Arechis e si distende fino
all'anno 889 appoggiandosi come di consueto per la parte più antica a
Paolo Diacono e ai suoi continuatori. Nato a Teano, Erchemperto entrò
fanciullo nel monastero e ne seguì le sorti travagliose in quella età
di procelle. Lasciata Capua dopo restaurata la Badia (A. D. 886), pare
ch'egli tornasse in breve a quella città, e vi tenesse poi stabilmente
dimora, accolto forse in qualche monastero dipendente da Montecassino.
Quivi egli longobardo di origine e di aderenze, fu indotto dagli amici
suoi a scrivere il suo lavoro e a riferire le vicende dei Longobardi
meridionali «dei quali,» egli dice, «a questi giorni nulla si trova
degno e lodevole che meriti d'esser notato con verace stile, e perciò
io non il governo loro ma l'eccidio, non la felicità ma la miseria,
non il trionfo ma la rovina, non come sieno cresciuti ma come si sieno
disfatti, non come abbiano superati gli altri ma come dagli altri sieno
stati superati e vinti, traendo alti sospiri dall'intimo core, narrerò
rozzamente e breve ad esempio dei posteri. E vinto dalle preghiere
degli amici, dichiaro che io non solo narro quanto vidi cogli occhi
miei, ma e più quanto udii cogli orecchi, imitando l'esempio di Marco e
Luca evangelisti i quali piuttosto per quel che udirono che per quello
che videro, scrissero gli evangeli.»[75]

Vivente nel teatro della sua storia, talvolta spettatore o vittima dei
fatti che narra, e più sovente, amico e uditore di chi ne fu testimonio
di vista, Erchemperto produce il suo racconto colla semplicità spedita
di chi parla cose familiari alla sua mente. Alquanto rozzo ma non
pesante di forma, nella sostanza sincero e credibile, ei ci ragguaglia
intorno alle guerre che si aggravavano sull'Italia meridionale ed alle
spogliazioni che infliggevano ad essa le orde dei Saraceni e dei Greci
i quali ultimi odia e spregia assai peggio dei primi. Il lavoro suo
che ci abbandona all'anno 889, aveva un seguito la cui perdita è grave.
Di questa perdita ci compensa in qualche modo lo scritto di un anonimo
salernitano[76], che ci ragguaglia intorno alla storia dei principati
longobardi fino al 974. Egli adopera molto Paolo Diacono ed Erchemperto
nella compilazione sua, e solo può considerarsi come fonte originale
nell'ultima parte del suo lavoro. Scrittor vivace ma di poca critica,
è l'unico cronista a cui possa appoggiarsi in questi anni la storia
dell'Italia inferiore. Ciò rende tanto più importuna la interruzione
dell'opera di Erchemperto il quale per fermo tra gli scrittori
meridionali è il maggiore, e neppure trova, fuor della scuola di Farfa,
chi possa paragonarsegli nell'Italia centrale.

Nell'alta Italia due scrittori assai diversi tra loro diedero segno
di loro attività letteraria nel campo storico. Un d'essi, il prete
Andrea da Bergamo, compilando nell'anno 877 un riassunto della
storia longobarda di Paolo Diacono, la continuò fino al suo tempo.
Di quante se ne sono menzionate finora questa è forse la scrittura
più barbara, talché la esattezza delle notizie la fa pregevole per la
parte media del secolo nono ma non vale a salvar dal tedio e dalla
fatica chi prende a leggerla[77]. Per contro pochi anni dopo, sullo
schiudersi del secolo decimo, ci apparisce innanzi un lavoro di poesia
storica il quale lasciandosi indietro a gran pezza ogni altro scritto
contemporaneo, rivela d'improvviso una larga conoscenza della lingua
latina e degli autori classici. Il poeta si propone per eroe Berengario
e celebra le imprese ch'egli sostenne per conquistarsi il regno
d'Italia e la corona imperiale. Il poema che s'intitola: Panegyricus
Berengarii è veramente un panegirico, e l'autorità sua come fonte
storica per chi lo pigli da solo, non ha gran valore. Con molta finezza
l'autore si studia di far sempre apparire legittima ogni pretesa di
Berengario, e di palliare coi versi il signoreggiar della forza sopra
ogni pretesa di diritto. Ma se non si vuol dar cieca fede alla storia
di questo poema, certo come produzione letteraria, ragguagliandolo alla
stregua dei tempi, è lavoro mirabile. Fu composto, per quanto pare, a
Verona tra l'anno 916 e il 924 da un maestro di grammatica il cui nome
è rimasto ignoto. Non può affermarsi con sicurezza se l'autore fosse
laico od ecclesiastico, ma l'ignoranza che prevaleva allora nel clero
italiano, indurrebbe piuttosto a farlo ritener laico. Postosi innanzi
gli esempi d'Omero, di Virgilio e di Stazio, egli racconta sulle orme
loro le imprese dell'eroe fino alla sua coronazione in Roma. Tra i
frequenti difetti di costruzioni stravolte e d'espressioni ricercate
ed oscure, gli esametri suoi tutti fioriti d'emistichii e di versi
classici son messi insieme con abilità sufficiente. Composto per essere
letto e studiato nelle scuole di grammatica, questo panegirico ebbe
l'onore di un commentario contemporaneo che lo spiega nei passi men
facili. Anch'esso questo commentario è notevole per la buona conoscenza
che mostra della letteratura classica, e ancor più per un certo modo
di commentare che indica come coloro ai quali il commento si dirigeva,
possedessero pure nozioni classiche non troppo scarse nè vili[78].

Dinnanzi a questo poema e ai segni di sapere che intorno a questo tempo
appariscono sparsi qua e là in Italia, viene naturale il domandarsi
quale fosse allora lo stato della cultura italiana. È egli ben vero
che l'Italia fosse ottenebrata dalla profonda barbarie indicata dalle
scarse e ruvide scritture ecclesiastiche che ci avanzano di quei
secoli? A questa domanda, dopo il Tiraboschi e il Giesebrecht, ha
risposto con tanta giustezza l'alemanno Wattenbach che mi stimerei in
colpa s'io togliessi ai lettori una bella pagina esponendo con parole
mie le sentenze di quell'insigne maestro:

«Noi ci troviamo innanzi ad una cultura» così egli parla «che non
trae origine dalla Chiesa ma è nutrita da quegli isolati grammatici
di cui l'attività non cessò mai in Italia. È merito di Guglielmo di
Giesebrecht l'avere indicato per la prima volta come queste scuole
rimanessero sempre in Italia e spargessero un grado di cultura tra i
laici sconosciuto dall'altro lato delle Alpi. In Italia, dice Wipone
nell'undecimo secolo, tutti i fanciulli vanno regolarmente a scuola,
e soltanto in Germania si stima cosa inutile o sconveniente l'educare
un fanciullo s'egli non è destinato alla Chiesa. I laici italiani
leggevano Virgilio ed Orazio, ma non scrivevano libri, e intanto il
clero parte s'immergeva nell'ignoranza e parte si consacrava troppo
agli affari politici per affannarsi dietro agli sforzi eruditi di quel
tempo. Per tal modo si spiega il difetto di produttività letteraria
e la povertà della attuale letteratura, mentre d'altronde per quel
panegirista, e alquanto più tardi per Liudprando, apparisce una piena
maravigliosa di erudizione classica e grande abilità d'espressione,
massime nel verseggiare che era oggetto precipuo della cultura
scolastica. Alcuni del clero gustavano avidamente il frutto proibito,
ma generalmente il clero stava contro questo movimento in cui non senza
ragione riconosceva un elemento pagano. La scienza non era qui presa
a servizio della Chiesa: essa teneva una posizione indipendente ma
era quasi esclusivamente di una natura formale e però essenzialmente
improduttiva.»[79]

Col sorgere della dominazione degli Ottoni (A. D. 961), si chiude il
faticoso ciclo storico di cui sono venuto descrivendo le fonti man
mano che le raccoglievo di qua e di là secondo che mi riusciva. La
fiacca dominazione dei successori di Carlomagno, scemando in Italia
le forze della monarchia, aveva per guisa accresciute quelle dei
nobili, che a poco a poco essi fatti come indipendenti guerreggiavan
tra loro disputandosi il potere supremo. Così crebbero quei fieri e
potenti signori d'Ivrea, del Friuli, della Toscana, di Spoleto, i quali
oramai fuor d'ogni soggezione dall'Impero ambivano al regno. Sono di
questa età le lotte di Berengario duca del Friuli con Guido e Lamberto
di Spoleto pel trono d'Italia, e le dispute tra loro e i principi
tedeschi e francesi per la corona imperiale (A. D. 888-924), e i regni
turbolenti e tirannici di Rodolfo, Ugo, Lotario di Provenza, e, per
ultimo, di Berengario II. Tra queste lotte pativa oppressa l'Italia,
mentre a Roma gli Alberichi e Marozia trascinavano nel fango il Papato
di cui s'erano fatti padroni (A. D. 924-961). A questo punto le tenebre
cominciano a diradarsi e succede l'età dei tre Ottoni sassoni i quali
tennero l'Impero e ressero Italia per quarant'anni circa, dal 961 al
1002. Non è di questo luogo esaminare i vantaggi e i danni di questa
dominazione, e come con essa si stringesse inestricabilmente quel
vincolo tra Italia e Germania per cui la storia delle due nazioni
quasi si confonde in un cumulo doloroso di vicende piene di miseria
e di sangue. Giovi qui soltanto accennare come Ottone il Grande per
abbassare la potenza dei nobili aiutò lo svolgersi delle libertà
comunali, e nelle città accrescendo le attribuzioni politiche dei
vescovi, sostituì in certo modo la forza di una nobiltà elettiva a
quella di una nobiltà ereditaria. Da ciò le aderenze degli Ottoni tra
gli uomini di chiesa e massimamente tra i vescovi dell'alta Italia.
Tra questi campeggia Liudprando vescovo di Cremona che si fece storico
di quei tempi[80]. Simile in ciò ai più antichi scrittori di cui si
è trattato, Liudprando ebbe parte non ultima nella vita pubblica.
Nacque verso il 920 in Lombardia e, secondo alcuni, fu propriamente
pavese. Perdette nella infanzia il padre, e fu educato con molta
cura dal suo patrigno, uomo, come egli ci narra, grave di costumi e
pieno di sapienza[81], le quali parole ricordano quel che s'è detto
sulla cultura del laicato italiano. Nell'anno 931 raccomandato al
re Ugo come fanciullo ricco d'ingegno e dotato di bella voce, fu
ammesso alla corte regia. Guadagnatosi il favore del re, prese più
tardi la via ecclesiastica e fu ascritto tra i diaconi della chiesa
di Pavia. Quando nel 945 Ugo abbandonò in fuga il regno, Liudprando
potè ottenere onorata posizione alla corte del nuovo re Berengario
II. Sembra che per qualche tempo anche questo sovrano ne tenesse in
pregio le doti e si servisse di lui volentieri. Negli anni 949-950 fu
inviato a Costantinopoli in imbasciata e a siffatta legazione parevano
designarlo particolarmente i suoi studî e le tradizioni di famiglia
perché già il padre e il patrigno suo avevano entrambi disimpegnato lo
stesso ufficio. Il viaggio gli giovò mirabilmente a farsi pratico delle
usanze e delle istituzioni dei Greci, e a procacciarsi una conoscenza
piena di lor lingua e di loro letteratura da cui doveva trarre gran
giovamento più tardi. Quando fu ritornato in patria alienò da sé fino
all'odio Berengario e la regina Willa ma non se ne sanno i motivi, e
fu costretto a rifugiarsi in Germania dove il sassone re Ottone I lo
accolse onorevolmente. Nell'esilio si rese familiare la lingua tedesca
che anch'essa gli riuscì poi di grande vantaggio nella trattazione
degli affari a cui fu chiamato allorché Ottone spinto dai suoi grandi
destini scese in Italia. Nell'anno 956, mentre ancora era a corte in
Germania si strinse d'amicizia con Recemundo vescovo di Elvira il quale
lo consigliò d'intraprendere la storia dei suoi tempi. Maturato un
pezzo il consiglio, Liudprando dopo due anni cominciò a Francoforte
il suo lavoro. L'odio che nutriva verso Berengario e Willa, gli
suggerì il titolo del libro e lo chiamò _Antapodoseos_, o libro della
restituzione, volendo significare ch'egli avrebbe restituito bene per
bene agli amici e male per male a chi lo aveva cacciato in esilio. I
sei libri dell'Antapodoseos furono scritti interrottamente tra il 958
e il 962 in luoghi e tempi diversi. Incominciando dall'anno 888, data
abbastanza vicina all'autore per ottener verbalmente le testimonianze
contemporanee o quasi contemporanee, egli racconta la storia dei fatti
accaduti in Europa. È un libro curiosissimo nel quale gli avvenimenti
dei diversi paesi si seguono e s'incalzano con grande abbondanza
e con ricchezza di particolari maravigliosa. Naturalmente le cose
d'Italia occupano la parte maggiore dell'opera, ma la vasta tela di
essa abbraccia luoghi e persone lontane. Italiani, Tedeschi, Saraceni,
figure e storie d'ogni maniera dagli atti di papi e d'imperatori fino
a quelli del volgo, racconti di battaglie, esempi di virtù, pitture
di scandali osceni, v'è un po' di tutto nel libro, ed anco è notevole
che le leggende occupano in esso piccolissimo luogo. La narrazione
giunge fino all'anno 950 dove il sesto libro dell'Antapodosi rimane
interrotto. Liudprando s'era proposto di condur l'opera fino ai tempi
del suo esilio, ma la gran mole degli affari che gli venne sopra, e
forse, come pensa il Dümmler, l'odio suo placato per la caduta di
Berengario, lo distolsero dal continuare. Le sorti della sua vita
s'erano mutate. La nazionalità sua, l'ingegno pronto e versatile,
l'attitudine agli incarichi diplomatici, la familiare conoscenza di
varie lingue, lo chiamavano alle cose di Stato. Nell'anno 961 Ottone
il Grande sceso appena in Italia lo aveva preposto alla sede vescovile
di Cremona. Da quel tempo egli fu in mezzo a tutti gli affari d'Italia
e alle relazioni d'Ottone colla Grecia. Nell'estate dell'anno 964
andò a Roma legato al papa Giovanni XII e di lì a breve si trovò con
Ottone presente al Concilio dove quell'indegno pontefice fu deposto, e
toccò a lui d'interpretare ai vescovi italiani il discorso del monarca
tedesco. Partecipò alle elezioni di Leone VIII e alla deposizione di
Benedetto V suo competitore. Di tutti questi avvenimenti occorsi sotto
gli occhi suoi tra il 960 e il 964, egli scrisse la storia per comando
dello stesso imperatore in un libro intitolato _Historia Ottonis_.
Forse la dignità delle cariche a cui era salito e la parte presa alle
cose narrate, contribuirono a rendere questo scritto assai più calmo
e scevro da quella passione di parte che fa così acre l'Antapodosi.
Nè ciò giova solo a diminuirgli d'assai il difetto di parzialità onde
è accusato, ma aggiunge se è possibile evidenza di colorito al suo
racconto. La deposizione di Giovanni XII, per esempio, è narrata in
modo così vivo e spiccato, che leggendola par d'assistere al Concilio
che la decretò. Dopo aver descritte le differenze per le quali
l'imperatore e il papa erano venuti a termini inconciliabili, e come il
pontefice non solo non avesse badato alla sua legazione, ma, contro i
patti, avesse accolto Adalberto figlio di re Berengario entro le mura
stesse di Roma, Liudprando prosegue:

«Mentre accadean tali cose, la costellazione del Cancro ardua per gli
accesi raggi di Febo allontanava l'imperatore dai castelli romani, ma
quando la costellazione della Vergine tornando portò seco la stagion
grata, egli invitato segretamente dai Romani venne a Roma (A. D.
963). Ma perché dirò «segretamente» quando la maggior parte degli
ottimati invase il castel di San Paolo e invitò il santo imperatore
dando perfino gli ostaggi? A che indugiarsi in parole? Accampatosi
l'imperatore presso alla città, il papa e Adalberto se ne fuggon da
Roma. I cittadini accolgono nella città il santo imperatore con tutti
i suoi, promettono fedeltà, aggiungendo e giurando fermamente ch'essi
mai non eleggerebbero il papa nè l'ordinerebbero senza il consenso e la
elezione del signore imperatore Ottone cesare augusto, e del figlio di
lui il re Ottone.

«Dopo tre giorni, chiedendolo del pari i vescovi romani e la plebe,
si fa grande adunanza nella Chiesa di San Pietro, e coll'imperatore
sedettero gli arcivescovi, di quei d'Italia: Rodaldo diacono per
Ingelfredo patriarca d'Aquileia trattenuto colà, come suole accadere,
da una improvvisa malattia, e Gualperto di Milano e Pietro di
Ravenna; di quei di Sassonia: Adeltac arcivescovo, e Landoardo vescovo
Mimendense; di Francia Otcherio vescovo di Spira; dell'Italia i vescovi
Uberto di Parma, Liudprando di Cremona, Ermenaldo di Peggio.» E qui
segue una lunga lista di vescovi quasi tutti italiani e dei preti e
cardinali romani che si trovarono al concilio oltre ai rappresentanti
della nobiltà e del popol di Roma menzionati anch'essi nella lista,
dopo la quale Liudprando ripiglia il suo racconto:

«Sedutisi adunque costoro e fattosi un gran silenzio, così sorse a
dire il santo imperatore: ‘Quanto sarebbe acconcio che a tanto chiaro
e santo concilio si trovasse presente il signor papa Giovanni! Però
avendo egli rifiutata la compagnia vostra, noi consultiam voi, o
padri santi, che avete seco comune la vita e gl'interessi.’ Allora
i pontefici romani e i cardinali preti e diaconi con tutta la plebe
universale esclamarono: ‘Ci maraviglia che la santissima prudenza
vostra voglia farci scrutare quello che non è nascosto agli Iberici nè
ai Babilonesi, nè agli Indi. Costui non è già di coloro che vengono
in veste di agnello e dentro son lupi rapaci: egli infierisce così
apertamente, tratta così in palese i suoi diabolici affari che non
usa andare in circuito.’ L'imperatore rispose: ‘A noi par giusto che
le accuse siano espresse nominatamente, e quindi si tratti di comune
consiglio ciò che dobbiamo fare.’ Allora sorgendo Pietro cardinale
prete, attestò che egli l'aveva veduto celebrar la messa senza
comunione. Giovanni vescovo di Narni e Giovanni cardinale diacono,
dichiararono d'averlo veduto ordinare un diacono in una stalla di
cavalli e non nelle proprie ore. Benedetto cardinale diacono con altri
condiaconi e preti dissero ch'ei sapevano che egli faceva a prezzo
ordinazioni di vescovi, e che aveva ordinato vescovo un fanciul di
dieci anni nella città di Todi. Dissero non esser necessario indagare
sui sacrilegî perchè ne avevano veduto più di quanto potrebbero
apprendere udendo. Dissero degli adulterî.... Dissero che aveva
esercitata pubblicamente la caccia; che avea privato degli occhi
Benedetto padre suo spirituale talché ei n'era morto indi a poco; che
aveva evirato e ucciso Giovanni cardinale suddiacono; e attestarono
che avea fatti incendi, cinta la spada, vestito l'elmo e la lorica.
Che avea bevuto per amor del demonio lo acclamarono tutti, chierici e
laici. Dissero che giuocando ai dadi aveva invocato l'aiuto di Giove e
di Venere e degli altri demoni. Dichiararono ch'egli non avea celebrato
mattutino e le ore canoniche, e ch'ei non si muniva col segno della
croce.

«Udito ciò l'imperatore, poiché i Romani non potevano intendere
il linguaggio suo sassone, impose a Liudprando vescovo di Cremona
di esprimere a tutti i Romani quanto segue in latino. Onde quegli
sorgendo incominciò: ‘Spesso accade, e noi per esperienza crediamo,
che gli uomini costituiti in dignità sieno macchiati d'infamia dagli
invidiosi, ché il buono spiace ai malvagi come il malvagio ai buoni.
E ciò è cagione che ci sembri dubbia questa accusa contro il papa, che
ora lesse e fece con voi Benedetto cardinale diacono, incerti se essa
prorompa da zelo di giustizia o da livore d'empietà. Onde coll'autorità
della dignità concessa a me indegno, io vi prego per quell'Iddio che
pur volendo niuno può ingannar mai, e per la santa madre di lui Maria
Vergine intemerata, e pel corpo preziosissimo del principe degli
apostoli nella cui Chiesa si tiene questo discorso, che non si lanci
al signor papa accusa nessuna di colpe ch'egli non abbia commesse e
che non sieno state vedute da uomini provatissimi.’ Allora i vescovi, i
preti, i diaconi e il rimanente clero e tutto il popolo dei Romani come
un sol uomo dissero: ‘Se e quanto lesse Benedetto diacono, e indegne
cose anche maggiori e più turpi non commise Giovanni papa, non ci
assolva dai legami dei peccati nostri Pietro principe beatissimo degli
apostoli che chiude il cielo agli indegni e l'apre ai giusti, ma ci
annodi il vincolo dell'anatema e nel giorno novissimo siam posti dalla
parte sinistra con coloro che dissero al signore Iddio: Allontanati da
noi, non vogliamo la scienza delle tue vie. Che se non concedete fede
a noi, almeno dovete credere all'esercito del signor imperatore, a cui
quegli andò incontro cinque giorni or sono cinto di spada e armato di
scudo, di elmo e di lorica.’ Allora disse il santo imperatore: ‘Tanti
sono i testimoni di ciò quanti i combattenti nell'esercito nostro.’ La
Santa Sinodo disse: ‘Se piace al santo imperatore si mandino lettere al
signor papa, che venga e si purghi da tutte queste accuse.’ Allora gli
fu mandata questa lettera:

«‘Al sommo pontefice e papa universale Giovanni signore, Ottone
per concessione della clemenza divina imperatore augusto, cogli
arcivescovi e vescovi di Liguria, Toscana, Sassonia e Francia, nel
nome del Signore. Venuti a Roma per servigio di Dio, avendo richiesto
intorno alla vostra assenza i figliuoli vostri, cioè i vescovi romani,
i cardinali preti e diaconi, e tutta la plebe universa, per quale
cagione non volevate veder noi che siam difensori di vostra Chiesa e
vostri, tali e così oscene cose ci riferirono di voi, che ci farebbero
vergogna se si dicessero d'un istrione. Delle quali, per non tenerle
nascoste alla grandezza vostra, descriveremo qui alcune brevemente,
che se volessimo specificarle tutte, un sol giorno non ci basterebbe.
Sappiate adunque che non da pochi, ma da tutti, così dell'ordine
nostro che dell'altro, voi siete accusato d'omicidio, di spergiuro,
di sacrilegio e d'incesto. Dicono anche, e fa raccapriccio a udirsi,
che avete bevuto per amor del diavolo, e che al giuoco dei dadi avete
invocato l'aiuto di Giove, di Venere e d'altri demoni. Ora noi preghiam
vivamente la paternità vostra che non lasciate di venire a Roma e di
purgarvi da tutte queste accuse. Se per avventura temete la violenza
della moltitudine temeraria, noi vi promettiamo con giuramento che non
si farà nulla fuor della sanzione dei santi canoni.’

«Colui avendo letta questa lettera scrisse questa apologetica:
‘Giovanni vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i vescovi. Abbiamo
sentito dire che voi volete fare un altro papa; se ciò farete io vi
scomunico da parte di Dio onnipotente per modo che non abbiate licenza
di ordinar nessuno nè di celebrar la messa.’»[82]

Allorché questa rozza lettera fu letta in Concilio, spiacque del pari
per la forma e per la sostanza. Fu stabilito che l'imperatore e con lui
tutta la sinodo intimassero a Giovanni di venire in Roma alle discolpe,
minacciandogli di deporlo se non si piegasse. La lettera d'intìmo come
era stata concepita fu subito scritta con vigore fermo di pensiero e di
stile. Respingeva sdegnosa la scomunica papale con acerbi rimproveri
per l'inconsulta ingiuria fatta all'assemblea, affermava l'autorità
di questa a minacciar lui di scomunica se non compariva, e concludeva
paragonandolo a Giuda di cui l'autorità apostolica era cessata col
tradimento. Il messaggio fu affidato ai cardinali Adriano e Benedetto e
questi si mossero subito per andarlo a recare.

«I quali arrivati a Tivoli non lo trovarono; ché già se n'era andato
in arme alla campagna nè v'era alcuno il quale sapesse indicar loro
dov'egli fosse. E non potendo trovarlo se ne tornarono alla Santa
Sinodo che si raccolse allora per la terza volta. Ed ora l'imperatore
disse: ‘Aspettammo la venuta sua per lamentarci con lui presente della
condotta sua verso di noi. Ma poiché sappiam certo ch'ei non verrà,
vi chiediam con istanza di ascoltare com'egli siasi con noi condotto
perfidamente. Facciam dunque noto a tutti voi, o arcivescovi, vescovi,
preti, diaconi e a tutto il rimanente clero, e a voi conti, e giudici,
e a tutta la plebe, che questo medesimo Giovanni papa oppresso da
Berengario e da Adelberto ribelli nostri, mandò nunzî in Sassonia
pregandoci che per l'amor d'Iddio venissimo in Italia a liberar
la chiesa di san Pietro e lui dalle loro fauci. Quello poi che noi
coll'aiuto di Dio abbiamo fatto, non serve dire perché voi lo vedete
innanzi a voi. Strappato per opera mia dalle loro mani e restituito
al debito onore, egli, dimentico del giuramento e della fedeltà che
mi promise qui sopra le reliquie di san Pietro, fece venire a Roma
Adalberto e lo difese contro di me e fece sedizioni e in vista dei
soldati nostri, fatto duce di guerra vestì l'elmo e la lorica. Decreti
ora sopra ciò la Santa Sinodo e sentenzii.’ A ciò, i romani pontefici
e il rimanente clero e tutto il popolo risposero: ‘Una piaga inaudita
vuolsi cauterizzare con inaudito cauterio. Se coi corrotti costumi sé
solo danneggiasse e non gli altri, potrebbe in qualche modo tollerarsi.
Ma quanti che prima erano casti son fatti incestuosi per imitazione di
lui? Quanti probi conversando seco divenuti reprobi? Noi domandiamo
adunque alla imperiale grandezza vostra, che quel mostro i cui vizî
non sono redenti da virtù alcuna, sia respinto dalla Santa Chiesa
Romana, e un altro sia posto in suo luogo che possa guidarci e giovarci
coll'esempio della buona conversazione; viva retto per sé e c'insegni
coll'esempio a ben vivere.’ Allora l'imperatore: ‘Piace a noi ciò che
dite, e nulla ci sarà caro più del potersi trovare tale uomo che possa
preporsi a questa santa ed universale sede.’»

«A ciò tutti ad una voce dissero: ‘Leone venerabile protoscriniario
della santa chiesa romana, uomo provato e degno del supremo grado
sacerdotale, noi ci eleggiamo in pastore, come sommo ed universale papa
della Santa Chiesa Romana, riprovato pei suoi mali costumi Giovanni
l'apostata.’ E ripetuto ciò per tre volte, consenziente l'imperatore,
secondo la usanza conducono tra le laudi il nominato Leone al
palazzo Lateranense, e al tempo determinato lo sollevano con santa
consacrazione al sommo sacerdozio nella chiesa di san Pietro, e con
giuramento promettono d'essergli fedeli.»

«Compiute così queste cose, l'imperatore santissimo sperando di poter
dimorare in Roma con poca gente, die' licenza a molti di tornarsene a
casa affinché il popol romano non rimanesse consunto dalla moltitudine
dell'esercito. E risapendo ciò quel Giovanni che già fu chiamato papa,
non ignorando come potesse facilmente corrompere a denaro le menti dei
Romani, manda di celato messaggeri a Roma promettendo il denaro di san
Pietro e di tutte le chiese se dessero addosso al pio imperatore e a
papa Leone ed empiamente li trucidassero. A che indugiarmi in parole?
I Romani confidando, anzi ingannati per la picciolezza dell'esercito,
animati dal denaro promesso, dato fiato alle trombe corrono contro
all'imperatore per ucciderlo. Ai quali l'imperatore muove incontro sul
ponte del Tevere che i Romani avevano ingombrato di carri. I forti
soldati suoi, assuefatti alla guerra, intrepidi di petto e armati,
si caccian tra loro, e come falchi tra una moltitudine d'uccelli, li
atterriscono senza incontrar chi resista. Non nascondigli, non corbe,
non barche, non cloache furon tutela ai fuggenti. Li uccidono, e come
accade ai forti, li feriscono nelle terga. E chi mai sarebbe avanzato
superstite dei Romani, se il santo imperatore, inclinato ad una
misericordia che non era certo dovuta, non avesse ritratti e richiamati
i suoi ancora assetati di sangue?»[83]

È gran danno che l'intero racconto di questi avvenimenti, scritto
mentre essi accadevano, non sia stato terminato da Liudprando e
s'interrompa poco oltre l'esagerato ragguaglio di questa sedizione dei
Romani. Gli affari lo incalzavano. Concluso il Concilio tornò a Cremona
ma di lì a poco, morto Leone VIII (A. D. 965), fu spedito un'altra
volta a Roma per la elezione del nuovo papa. Nel 967 intervenne a due
altri concilî, un di Ravenna e un di Roma, e in quest'ultima città
si trovò alla incoronazione del giovinetto Ottone associato dal padre
all'impero. Coll'animo inteso a restaurar l'impero d'Occidente, Ottone
tendeva ad assoggettarsi il papato mentre lo riformava, e a far sua
tutta Italia scacciando dal mezzogiorno Arabi e Greci. In pari tempo,
sempre collo stesso pensiero, desideroso di circondare il suo trono coi
classici splendori delle tradizioni antiche, egli immaginava d'amicarsi
la corte di Bizanzio e stringersi di parentela ad essa maritando al
figliuol suo una principessa greca. Ma la diffidenza dei Greci ombrosi
a ragione per l'allargarsi d'Ottone nella Italia inferiore, faceva
ardua l'esecuzione di questo concetto. A vincere questa diffidenza
era mestieri trovar l'uomo adatto, destro nei maneggi diplomatici
ed esperto della Grecia. Certo pareva tale Liudprando e fu inviato a
Niceforo Foca per chieder la mano di Teofania figlia di Romano II, ma
l'ambasciata andò a vuoto. Liudprando fu male accolto e con patente
dispregio. Fin dalla prima udienza Niceforo gli mosse acerbe lagnanze
contro il suo signore per l'occupazione di Roma, pel titolo assunto
d'imperatore, per la soggezione ottenuta dai principi di Benevento
e di Capua; tutte cose nel parer suo lesive dei suoi diritti. Gli
argomenti e le ardite risposte dell'ambasciatore non giovarono a nulla
o valsero solo ad inasprir maggiormente l'animo del sovrano orientale.
Dopo varie udienze tutte inutili, raggirato schernevolmente in mille
modi, trattenuto a lungo in Costantinopoli tra mille pretesti più come
prigioniero che come legato, Liudprando ebbe in grazia di potersene
alfine tornare in patria senza nulla concludere. Di questo smacco egli
provò un dispetto amaro e lo versò tutto quanto in una relazione della
missione sua ch'egli compose e indirizzò ai suoi sovrani. Malgrado la
impronta della vanità personale e della parzialità caratteristiche di
Liudprando, questa _Relatio de Legatione Costantinopolitana_ ci offre
un quadro spiccato e vivissimo della corte greca. Il Gregorovius con
quella ricca esuberanza d'immagini onde colorisce il suo stile, afferma
che «questo bellissimo _pamphlet_ somiglia ad un'oasi che s'incontra
dopo avere percorso un deserto letterario[84]» ed aggiunge che da
Procopio in poi non possediamo uno scritto che gli sia paragonabile.
Io col pensiero a Paolo Diacono non vorrei far mio questo giudizio, ma
certo la Relatio è tra gli scritti più dilettevoli ed istruttivi che
ci offra l'antico medio evo italiano. La descrizione della corte di
Niceforo, le vivaci argute risposte colle quali, s'ei dice il vero,
Liudprando rimbeccava le accuse mosse al suo sire e al suo popolo,
la fede bugiarda e la rapace corruttela dei Greci, gli ostacoli
posti alla sua partenza e le angherie patite sulla via del ritorno,
tutto così nell'insieme come nei particolari porge risalto al libro
e lo fa attraente. Anch'esso come gli altri libri di questo autore è
incompleto e s'interrompe mentre narra il viaggio che fece tornando,
sul principio dell'anno 969. Rientrato in corte, Liudprando seguitò
a prender parte nei pubblici affari. Nel 971, morto Niceforo Foca e
rese più facili le relazioni tra i due imperi, pare ch'egli andasse di
nuovo a Costantinopoli colla solenne ambasceria inviata a prendere la
principessa Teofania destinata sposa di Ottone II. Ma oramai il corso
della sua vita era al termine ed egli non toccò più la sua Cremona.
S'ignorano la data precisa e il luogo di sua morte, ma par ch'ei sia
trapassato mentre era ancora in Grecia, o appena tornato con Teofania
in Italia nei primi mesi del 972, tra il quinquagesimo e il sessagesimo
anno della età sua.

Così terminava quest'uomo singolare la cui vita e gli scritti mostrano
profondo lo stampo di un ingegno arguto e originale, di un carattere
vivace e appassionato. Uguale ai più capaci tra gli scrittori suoi
contemporanei in Europa, incomparabilmente superiore a quelli d'Italia,
non sempre corretto latinista ma neppure spregevole. Egregiamente e
laicamente educato nella infanzia, conobbe per tempo ed amò i classici.
Ebbe familiari quasi tutti gli antichi e tra essi Terenzio, Cicerone,
Virgilio, Orazio, Ovidio, dei quali cercò d'incastonar qua e là frasi
ne' suoi libri non senza pompa ma pur con migliore discernimento
d'altri scrittori medioevali. Nè si tenne contento alle citazioni
latine, ma in ogni scritto amò sfoggiare la sua conoscenza del greco
interpolando nel suo latino greche parole e frasi. Come a modello dei
suoi lavori mirò molto a Severino Boezio i cui libri nel medio evo
ebbero una smisurata influenza, e, specialmente nell'_Antapodosi_,
sull'esempio di Boezio mescolò la sua prosa con versi abbastanza bene
architettati. Ma quell'esagerato spirito d'imitazione non bastò a
cancellare la originalità dello stile in un uomo così conscio ad ogni
ora della personalità propria. L'_Antapodosi_, che de' suoi libri
è il più lungo e il più liberamente composto, è forse quello in cui
si rivelano meglio il carattere dell'uomo e le sue contraddizioni.
Ingegnoso e credulo, acuto osservatore dei fatti e impetuoso nei
giudizî, desideroso del bene ma troppo facile censore del male e cupido
raccontatore di scandali. De' suoi nemici, massime di Berengario e
di Willa, flagellatore acerrimo, degli amici e benefattori lodatore
smisurato e adulatore, ma è pur chiaro a chi lo legge ch'egli sente
in cuore ciò che manda fuori, e per caldo di fantasia denigra o
adula colla convinzione d'esser nel vero. Da queste qualità personali
l'autorità sua di storico per un tempo patì di soverchio, ed ora parmi
di notare una moderna tendenza ad alzarla oltre il dovuto alquanto.
Io per me son d'avviso che le narrazioni di Liudprando in quanto
riguardano i particolari dei fatti sieno preziose a confermare o a
spiegare quanto ci è detto da altri, ma ch'esse debbano esser pure
adoperate con maggior cautela di quella usata da qualche storico
recente. Certo in complesso nessun lavoro contemporaneo potrebbe
aiutarci meglio dei suoi a darci una idea generale del secolo decimo
e a recarcelo innanzi alla mente. Uomo di Stato e di Chiesa, esperto
della vita per fortuna varia di casi, pronto d'ingegno, abile e colto
scrittore, Liudprando potè come niun altro afferrar col pensiero e
congiunger tra loro le relazioni delle cose che vide e narrò, mentre
l'indole sua vivacemente ingenua era mirabilmente formata a suscitare
in noi le impressioni medesime che l'insieme degli avvenimenti reali
avevano suscitato nell'animo suo[85].

Affatto diversa dalle opere di Liudprando nelle tendenze come nella
forma, è la cronaca di Benedetto di S. Andrea scritta ancor essa
intorno a questi tempi[86]. Grossissimo di stile, il monaco Benedetto
si sforza di raccogliere la storia del mondo dalla venuta di Cristo, ma
non ha vera importanza che per la storia locale di Roma verso i tempi
d'Alberico al quale come a protettore del suo monastero prodiga lodi
larghissime. La voce di Benedetto avversa ma senza odio e non ingiusta,
suona rampogna contro i nuovi monarchi calati d'oltralpe, le cui
soldatesche egli dalle falde solitarie e poetiche del Soratte vedeva
spargersi per la campagna romana. In contrasto colle amplificazioni
adulatorie di Liudprando e mestamente ispirate, quelle rozze pagine
lasciano in chi le percorre un senso di tristezza pietosa. Il rude uomo
che le scrisse non conosce i classici, non sa di grammatica, ma l'amor
della patria gli scalda il petto e il volgare linguaggio suo si leva
ad una eloquenza funerea quando ricorda l'abbandono desolato di Roma
dopo le repressioni feroci colle quali Ottone soffocò ogni resistere
dei Romani alla autorità sua. «Guai per te, o Roma,» esclama egli
«oppressa e conculcata da tante genti! Anche il sassone re ti prese,
e il popol tuo fu mandato a fil di spada e la tua forza annullata! Tu
che nella tua grandezza trionfasti delle genti, mettesti a morte i re
della terra, calcasti l'universo; tenevi scettro e potestà suprema, tu
sei spogliata dal re sassone e desolata.... Fosti troppo bella! Vediamo
ancora le tue mura colle torri e i merli. Avevi trecento ottant'una
torri, quarantasei castelli turriti, seimila ottocento merli, quindici
erano le tue porte. Guai a te, o città Leonina! già fosti presa dal re
sassone ed ora egli t'abbandona!»[87]

Malinconiche parole invero e triste richiamo dalla decadenza presente
allo splendor del passato! Ma se lo squallore di Roma ispirava il
rozzo compianto di Benedetto del Soratte, a Venezia invece il diacono
Giovanni cappellano del Doge Pietro Orseolo II (A. D. 991-1009),
ci schiude le prime pagine di una tra le più maravigliose storie
dell'universo[88]. Inviato più volte ad Ottone III e ad Enrico II
come ambasciatore, usato a conversare in una corte di gente pratica,
Giovanni era uomo avvezzo alle cose ordinarie della vita e aperto agli
affari. Di ciò riman traccia nella sua narrazione, la quale semplice,
non curante di rettorica e spesso neppur di grammatica, procede spedita
e piacevole a leggersi. Dalle prime origini di Venezia essa giunge
fino al 1008, manchevolissima ed erronea per la parte più antica,
preziosa per la contemporanea massime dove parla delle relazioni
tra gl'imperatori d'Occidente e Venezia. Nella cronaca sua ci è dato
di conoscer più pienamente quale fosse l'operoso governo di Pietro
Orseolo e quanto per impulso di lui la repubblica veneta si lanciasse
più sicura nella via delle sue grandezze. È lodator grande, forse
soverchio, del suo principe a cui lo stringeva un affetto devoto,
ma è pur vero che quel principe è annoverato tra i più insigni che
vanti l'antica storia di Venezia. Con Giovanni siam fuori della vita
claustrale e respiriamo aperta e libera l'aria delle sue lagune. Degno
predecessore di Andrea Dandolo egli ci fa intravveder primo la gloriosa
età dei Comuni a cui stava per muover l'Italia attraverso il laborioso
periodo che ora s'affaccia innanzi allo sguardo nostro.



CAPITOLO IV

  Movimento intellettuale del secolo undecimo e del dodicesimo —
    Riforma della Chiesa — Risveglio della cultura ecclesiastica
    e delle indagini storiche nei monasteri — Regesti e cronache
    monastiche — Il monastero di Farfa e le opere di Gregorio
    di Catino. «Chronicon Vulturnense» — Rinascenza artistica e
    letteraria di Montecassino promossa dall'abate Desiderio. Il
    monaco Amato e la storia dei Normanni. Leone Marsicano e Pietro
    diacono, storici di Montecassino — Scritti storici dell'Italia
    meridionale — Cronaca del monastero della Novalesa.


Usciti dalle chiuse anguste per le quali ci siamo avvolti così
lungamente, ora si aprono dinnanzi a noi orizzonti più vasti.
Incomincia un'età di giganti e la storia d'Italia si risolleva ad
altezze epiche. Il Papato trattosi appena dal fango entro cui s'era
ingolfato, riafferma con audacia grandiosa il suo potere, esagera
le romane tradizioni di Gregorio il Grande e colla universalità del
dominio spirituale reclama ad alta voce la supremazia della Chiesa
sopra popoli e re. L'Impero geloso di sue prerogative contrasta alla
smisurata pretesa, si difende or cavilloso or violento contro la
prepotenza morale del sacerdozio e tenta invano di soggiogarselo. Una
mano di venturieri normanni approda in Sicilia e sgombrati da essa i
Saraceni, s'allarga nel mezzogiorno d'Italia a fondare un regno talora
nemico, talor protettore dei papi i quali intanto mirando lontano,
maturano in mente il vasto concetto delle crociate e lo bandiscono al
mondo. E, quasi inavvertito, tra tanto mutare di casi il genio latino
risorgente mette i primi germi di una vita nuova feconda di gloria
all'Italia: la vita dei Comuni. Le lettere rinverdiscono. Chiesa,
Impero, popolo, tutti variamente tendono al rinascimento degli studi.
Il bisogno di una riforma nella Chiesa e gli sforzi per ottenerla
tentati prima dagli Ottoni e ripigliati con maggior lena dai grandi
papi del secolo undecimo, riconducono la cultura e l'amor dello
studio nel clero. Il cozzar delle parti suscita frequenti e vivaci le
scritture polemiche, e il bisogno di trovar nel passato le conferme
dei diritti asseriti apre una via allo studio della legge romana. Il
rinnovato vigore del diritto pubblico e privato ispira l'amore e lo
studio dei documenti, mentre il primo sorgere e svolgersi della vita
comunale è come un'alba di nuovi tempi che sveglia a maggiore attività
letteraria il laicato non immemore delle antiche tradizioni. L'età del
ferro per la cronografia italiana è oramai cessata.

La riforma penetrata nella Chiesa al tempo di cui teniamo discorso,
non fu nè tutta opera dei papi, nè tutta degli imperatori, nè tutta
del minor clero, nè del popolo. Fu opera complessiva e comune.
Un alito rigeneratore si agitava pel mondo e gli animi aspirando
all'alto tendevano quasi inconsapevoli per vie diverse alla riforma.
Una tendenza siffatta, essenzialmente religiosa da principio nel suo
carattere, di necessità doveva appoggiarsi al monachismo e trattolo
seco farne leva precipua al gran moto. La seconda metà del secolo
undecimo e la prima del dodicesimo possono in certo modo chiamarsi il
secol d'oro pel monachismo d'Occidente così per la influenza ch'esso
esercitò in generale sulla Chiesa e l'impulso che diede alla sua
riforma, come per la influenza e l'impulso che ne ricevette. Nell'età
precedente la corruzione dei monasteri era grande in ogni luogo,
e, come vedemmo, in Italia grandissima. Ma quando le cose toccavano
all'estremo, ecco risorgere a Cluny la vigorìa del monachismo e di
là muover l'iniziativa di un miglioramento universale. I monasteri
italiani furono rinsanguati per questa via. Odone di Cluny riformatore
zelante e savio riuscì tra molti ostacoli a far molto bene massime
a Montecassino e, dietro invito del famoso Alberico principe dei
Romani, anche nei monasteri di Roma e della Sabina. Questo missionario
della riforma monastica alle virtù morali accoppiava il sapere, e in
Francia aveva studiato filosofia, grammatica, musica e arte poetica.
Naturalmente egli dovette cercare di ricondurre l'amor dello studio nei
chiostri e farne rifiorire le scuole, onde i semi gettati da lui, presa
lentamente radice, diedero entro il giro d'un secolo frutti copiosi.
Il monastero di Farfa è primo in questa risurrezione intellettuale.
Nel capitolo precedente abbiamo veduto che l'abbate Ugo non contento
di restaurar la Badia e di ritornarla agli antichi splendori, si era
adoperato a perpetuarne la storia dettando uno dei più notevoli tra
gli scritti storici dell'età sua. Nè questa iniziativa fu sterile.
Allorché nel 1039 Ugo moriva, dietro a quel glorioso abbate rimaneva
nel monastero una scuola destinata a ripigliar l'opera sua e ad essa
fu educato il fanciullo Gregorio di una nobile famiglia di Catino in
Sabina. Suo padre, seguendo un costume dei suoi tempi, aveva offerto
questo fanciullo al monastero insieme con un altro figlio, che morì
di lì a poco nel 1068. Da circa trent'anni Gregorio viveva modesto
ed oscuro nella Badia quando, uscente il secolo undecimo, suggerì
all'abate Beraldo II un vasto lavoro e fu incaricato di mandarlo ad
effetto. Le invasioni patite nell'età anteriore, la distruzione e
il lungo abbandono del monastero, gli abbati dilapidatori, avevano
inevitabilmente disordinato molto e indotto mutazioni nelle proprietà
del monastero, onde seguiva un frequente contestar di diritti, e litigi
innanzi ai tribunali. Perciò Gregorio propose di riordinare l'archivio
e radunati tutti i documenti sui quali si fondavano i diritti del
monastero, copiarli ordinatamente in un sol libro. Così con una copia
autentica e maneggevole essi eran fatti facilmente adoperabili, e il
monastero si premuniva da ogni possibile deperimento degli originali.
Affidatagli la impresa, Gregorio si accinse a compierla, e quindici
anni durò nell'opera laboriosa nè la lasciò finché l'età omai tarda
e la vista indebolita non gli fecero impedimento a seguitare. Ma la
maggior parte e la più difficile del lavoro era fatta, ond'egli poté
senza timore affidarne il rimanente ad un suo nipote di nome Todino,
monaco anch'egli di Farfa, il quale die' l'ultima mano all'opera e la
condusse al compimento.

Il Regesto di Farfa, o, come Gregorio lo intitolò, il _Liber
gemniagraphus sive cleronomialis Ecclesiae Farfensis_, è per fermo
uno dei documenti di maggiore importanza per la storia del medio evo
italiano dai tempi longobardi fino alla fine del secolo undecimo. I
numerosi documenti antichissimi ch'esso ci tramanda, presentano un
insieme di valore insuperabile per la storia del diritto e pel problema
delle relazioni che correvano tra le popolazioni latine e i dominatori
longobardi e franchi nei secoli ottavo e nono. Relativi a questi due
soli secoli il Regesto contiene quasi trecentocinquanta documenti, e
sovr'essi come sovra una delle basi principali, posa molta parte degli
studî fatti in Italia e in Germania intorno a questo periodo della
nostra storia. A centinaia trovansi in questa raccolta diplomi di papi,
di imperatori, di re, di duchi, e si aggiungono alle carte private
anch'esse piene di parole e di notizie che giovano indirettamente
alla storia, o allo studio del diritto o della topografia medioevale.
La importantissima storia del Ducato spoletino si attinge tutta per
la parte più antica nel Regesto di Farfa, che inoltre ha capitale
importanza per la storia particolare di Roma nel decimo secolo e nel
decimoprimo.

I limiti del libro presente non consentono ch'io mi dilunghi trattando
di questo insigne documento di nostra storia. Fin qui la scarsità dei
ricordi storici mi ha invitato ad allargarmi e a parlar di raccolte
che non erano propriamente cronache; adesso l'abbondanza a cui muoviamo
incontro mi costringe di lasciar da lato e menzionare appena ogni fonte
indiretta di storia come i diplomi e le lettere. Tuttavia è necessario
indugiarsi alquanto sul Regesto di Farfa che è l'antichissima tra
le raccolte vaste e complete del suo genere. Esso a dir così è il
foriero degli altri Regesti che comparvero verso quella età e giovarono
maravigliosamente a fare risorgere non pure l'amor del racconto, ma
la critica della storia con esso[89], poiché ai Regesti, o almeno alle
indagini fatte negli archivî, tenevano dietro come natural conseguenza
le cronache delle badie, e il lume della critica si accendeva spontaneo
in quei monaci archivisti. Nei pensosi silenzi di loro celle essi
interrogando i documenti e comparandoli insieme, vedevano uscirne
la storia del monastero e s'invogliavano di narrarla ai posteri.
Gregorio di Catino ci porge un esempio di questo spontaneo educarsi
ad un senso sagace di critica. Solo e non soccorso da verun modello
anteriore, egli immaginò per la compilazione del suo lavoro un metodo
così giusto e semplice che quasi non potrebbe aspettarsi migliore dalla
critica odierna. Conscio di fare opera storica e degna di pregio, egli
vi si consacra con dignitosa coscienza e con un concetto limitato
e manchevole della storia ma moralmente elevato. In qualche modo
s'accosta alla definizione ciceroniana allorché dimostra la storia
dover giovare ai posteri narrando ad esempio le virtuose opere compiute
dai giusti delle generazioni passate. «Le età dei giusti,» egli dice
in un luogo, «sono principalmente descritte affinché noi passiam l'età
nostra con saggia e somigliante felicità e senza offesa. Imperocché sta
scritto che noi siam fatti più cauti dagli esempi dei giusti, le cui
orme seguendo non cadremo per via.» E tra questi pensieri egli cercava
con amor sincero la verità nella storia della sua Badia, respingendo
le favole e cercando appoggio nei documenti dell'archivio. Per le
prime leggendarie notizie sulla antichissima fondazione di Farfa, egli
non ha altra guida che la _Constructio_, ma se ne serve, citandola,
con molta cautela e senza affermar nulla dove l'affermazione non ha
fondamento di certezza: «Basti sapere,» così si contenta di dire. «che
questo santo cenobio fu costruito da questo santissimo uomo (Lorenzo) e
non per opera pubblica. Siccome poi il tempo di tale costruzione ci è
ignoto, amiamo meglio tacere intorno a ciò che profferir cosa mendace
o frivola. Ché se a noi non è lecito ascoltar la menzogna, assai meno
si conviene il profferirla in alcun modo.»[90] Nobile sentenza degna
di storico, pur troppo non seguita sempre dagli scrittori di storia
ecclesiastica! Ma se da un lato lo scrupoloso timor d'ingannarsi lo
ritiene dal creder troppo, dall'altro non si perita di cercar nella
critica aiuto a congetture probabili, e in questo caso aiutandosi con
un passo dei dialoghi di San Gregorio, immagina argomenti assai validi
per riferire la data della prima fondazione ad una età non precisa ma
certo anteriore a quel pontefice. Del resto le norme ch'egli seguì
nel suo lavoro sono molto bene chiarite in questa pagina di una sua
prefazione al Regesto, la quale merita anche d'esser considerata
come indizio del nuovo movimento intellettuale che incominciava ad
agitarsi nei monasteri: «Io,» dice l'onesto monaco, «non presumo nulla
delle mie forze, ma per carità d'Iddio e fidente nel suo aiuto per
la intercessione della nostra gloriosissima Signora, sonomi studiato
attentamente di compier quest'opera molto devota e assai proficua
nel modo più verace e fedele. Non ch'io sia sufficiente in emendar le
parti corrotte della rettorica, ma secondo la pochezza del mio picciol
sapere[91] procacciai di correggere quelle parti che oltremodo parevan
confuse, ma nol feci interamente affinché i semplici non avessero a
credere che si volesse confonder l'intelligenza della prima edizione
nella quale furono scritte. E massimamente perché io non mi sedei
soletto in disparte remoto dalle turbe per insister più attento al
quieto lavoro, ma situato all'aperto appena potei esser tranquillo
alquanto e aver favore della solitudine necessaria a tale opera. Nè
io mi reputo di essere a ciò abbastanza idoneo, perché non fui erudito
alle scuole dei poeti nè addottrinato nella profondità dei grammatici,
ma nudrito fin quasi dalla cuna agli esercizi divini nella scuola di
questo sacro cenobio e alimentato nella fedele sapienza del latte della
madre di Dio, a lei, operando alcun che d'utile, ho voluto riferire
quanto imparai. Adunque come m'imposero il predetto abbate e gli altri
religiosi seniori, nulla di ciò che vidi tolsi dalla intelligenza
delle carte e nel trascriver le cose nulla v'aggiunsi, ma come le vidi
cogli occhi mentre scrivevo e potei capire con intelletto sincero, mi
studiai di riscriverle, tranne certe prolissità di parole e ripetizioni
inutili, come dir talune obbligazioni già estinte, affinché per le
moltissime corruzioni delle parti, lungamente affaticato e trattenuto
nello scrivere non mi venisse composto troppo lentamente il volume,
e fastidioso male acconcio ad esaminarlo ed immenso. Adunque solo
contento alla verità delle cose e all'utile delle cause, col soccorso
di Cristo e i suffragi della genitrice sua sempre vergine, mi studiai
di compier questo lavoro sincerissimo e senza frode alcuna, con solerte
e sottile sagacia. Anche nelle singole carte curammo d'inserire i nomi
dei testimonî come li trovammo descritti negli originali. Que' nomi poi
che per antichissima vetustà trovammo consunti e corrosi dai tarli, e
difficilissimi a intendere, con equo giudizio omettemmo intatti, non
volendo in questa purissima operetta inserir nulla che non vedessimo
chiaramente cogli occhi o potessimo copiare con intelletto verace[92].
E poiché io mi sono sforzato di trasferir qui una verissima e fedele
riproduzion delle cose, così possa io avere delle colpe mie certissima
remissione dall'onnipotente Iddio per intercessione della Nostra
Signora, e ottener mercede perpetua a' miei parenti. E a questo libro
imponemmo il nome di _Gemniagrafo_ ossia _Memoria della descrizione
delle terre_, perché inserimmo in esso memoria delle terre di questo
cenobio da qualunque persona e in qualunque luogo acquisite. Anche ci
piacque che si chiamasse _Cleronomiale_ ossia ereditale della chiesa
farfense, perché dimostra fin dal principio i suoi possessi immobili.
Premettemmo inoltre i nomi di tutti i luoghi e a ciascun d'essi
aggiungemmo i proprî numeri e notammo con gran cura in quali scritti tu
potrai ritrovarli.»[93]

Da questo brano rilevasi chiaro con quanto discernimento Gregorio
conducesse la compilazione del vasto lavoro, e oggi la dispersione
completa dei documenti originali cresce lode al pensiero prudente che
ne ispirò la raccolta. Nè l'erudito monaco limitò ad essa l'attività
sua, ma pose mano e recò a termine tre altri lavori: il _Largitorium_,
il _Floriger_ e il _Chronicon Farfense_. Il primo, simile nella
disposizione al Regesto, contiene i documenti dei beni dati dal
monastero in enfiteusi ai coloni che ne imprendevano la coltivazione.
Così mentre il Regesto autenticava i diritti immobili del monastero,
il _Liber Largitorius_, o come Gregorio anche lo chiamò, _Liber
notarius sive emphiteuticus_, registrava tutti i contratti temporanei
e ne determinava le circostanze e il valore. Esso incomincia con un
documento dell'anno 792 e termina verso il principio del dodicesimo
secolo coi documenti contemporanei al compilatore. Un indice e
un prologo spiegano il concetto di questa raccolta, ancora quasi
sconosciuta e di gran pregio per la storia della proprietà fondiaria
e delle condizioni dell'agricoltura in Italia durante il medio evo.
Delle altre due opere di Gregorio, il _Floriger cartarum_ è un copioso
indice topografico del Regesto disposto per ordine alfabetico ed ha
minore importanza degli altri due. Grandissima invece è la importanza
del terzo libro che fu pubblicato dal Muratori col titolo di _Chronicon
Farfense_[94]. Questa compilazione fatta un po' in forma di cronaca,
riassume il contenuto del Regesto e riferendone i principali documenti
spreme da essi la storia del monastero. Colla guida della _Constructio_
e della _Destructio_, di cui già ho tenuto parola nell'altro capitolo,
Gregorio di Catino narra in questo libro gli avvenimenti dei tempi più
antichi ponendo le sue fonti al paragone della critica e dei documenti,
e cercando in essi la conferma dei fatti narrati. Ricchissimo di
notizie e di diplomi tolti le une e gli altri dall'archivio di Farfa,
questo libro mi par descritto a sufficienza nella descrizione del
Regesto, di cui può in certo modo ritenersi come il compendio e il
commento. Del resto il _Chronicon Farfense_ nel suo concetto e nella
sua partizione, non ha forma propria di storia e ciò farebbe maraviglia
se non apparisse manifesto che malgrado la latinità sufficiente del suo
dettato, a Gregorio manca affatto l'arte dello scrittore. I pregi suoi
son diversi, e l'essersi egli prima e meglio d'ogni altro aperta la via
all'esame critico dei documenti, il suo genio erudito e il suo schietto
amore del vero, levano alto il valore dell'opera sua e lo fan degno di
una fama assai superiore a quella che gli fu concessa finora[95].

All'ordinamento dell'archivio Farfense corrispondono intorno a quel
tempo gli ordinamenti di altri archivî monastici, e le cronache e i
regesti che ne derivarono. Il monastero di San Vincenzo al Volturno
legato fin dalle origini sue con una specie di affinità al monastero di
Farfa, ci offre anch'esso la sua cronaca documentata che fu composta
da un monaco di nome Giovanni. Intrapreso il lavoro per esortazione
di Girardo abbate del monastero, Giovanni ebbe il conforto di poter
mostrare già molta avanzata l'opera sua al pontefice Pasquale II (A.
D. 1099-1118) che lo incoraggiò dicendogli: «_Bene, o fili, magnum
opus coepisti sed bene coepta melius perficere stude._» La cronaca che
incomincia ripigliando il racconto di Autperto sulle origini della
Badia[96] e prosegue fino all'anno 1075, fu compiuta quando Gelasio
II era già pontefice (A. D. 1118-1119). Anch'essa può dirsi piuttosto
un regesto che una cronaca e la sua vera importanza consiste nei
diplomi che le servono di base e ne costituiscono la parte maggiore.
L'antichità di questi diplomi rilasciati per lo più da sovrani, estende
l'utilità del libro non solo alla storia dell'Italia meridionale ma
a quella di tutta la penisola, e la storia del diritto può anch'essa
trarne partito. Abbastanza buona è la latinità di Giovanni nei brani
che aggiunge di suo tra documento e documento, ma il senso critico
di Gregorio da Catino gli fa difetto, e le notizie pregevoli che ci
fornisce vanno spesso commiste a favolosi racconti di miracoli accolti
senza ombra di discernimento.

Se può dirsi che Farfa nel secolo undecimo iniziasse un nuovo movimento
storico, a Montecassino tocca invece la gloria d'aver prodotte le
migliori storie monastiche scritte in Italia a quei tempi. Dopo che
l'abbate Aligerno (A. D. 949-985) ebbe ricostruito quel famoso luogo
già rovinato dai Saraceni, la vita intellettuale rinata a poco a poco
nei chiostri cassinesi erasi venuta svolgendo man mano e aumentando
finché toccò sua cima tra l'anno 1058 e il 1087, durante il governo
abbaziale di Desiderio che fu poi papa col nome di Vittore III. È
questo il periodo più glorioso che vanti Montecassino nei secoli
della sua storia fino ai dì nostri, e questa luce di rinascenza si fa
notevole pei tempi torbidamente procellosi tra cui risplendette. Nato
dai principi di Benevento, signorile in ogni sua tendenza, di mente
versatile, d'animo mite fin troppo, pio, dotto, elegante, Desiderio
pareva destinato a proteggere le arti e le lettere e a dar loro un
impulso efficace. Aggiungansi a ciò i viaggi ch'egli compì, quello in
ispecie a Costantinopoli dove andò in qualità di apocrisario insieme
con Federico dei duchi di Lorena chiamato come lui più tardi a salir
sul trono pontificio dove prese il nome di Stefano IX. «Il monaco
lorenese e il longobardo,» nota di loro opportunamente il Tosti «quando
tornavano dalle Bizantine legazioni, recavano nel loro saio la semenza
della civiltà greca, e sul loro labbro il racconto di quel che fosse
la santa Sofia di Giustiniano: per cui poi Desiderio chiamò colonie di
artisti alla costruzione e decorazione della basilica e del monastero,
di cui fu veramente altro fondatore. Anzi parmi che questo Desiderio
s'avesse quasi per natura inchinato l'animo all'oriente, donde voleva
quasi evocare un raggio di sole, che collustrasse e vivificasse la
sconvolta ragione occidentale e scaldasse le radici del vecchio tronco
latino a dar fuori germogli di nuova civiltà. Imperocché egli fu il
primo tra' Romani Pontefici a levare la voce adunatrice di eserciti
contro gl'Islamiti di Oriente. Le crociate furono una santa follia: ma
non è dubbio che in quella incomposta commozione di tutto l'occidente
e peregrinazione in oriente venne molto bene alle scienze ed alle arti
per ricambio di pensieri tra le disgiunte generazioni.»[97]

Mosso dalle incivilitrici sue aspirazioni Desiderio rifece per gran
parte il monastero e la sua chiesa. In questa raccolse quanto di
più squisito sapeva concepire ed eseguire l'arte a quei tempi, ed è
grande sventura che il mirabile lavoro fosse tutto scrollato alquanti
secoli appresso da un terremoto. Ma l'arte non teneva sola il campo
a Montecassino. Mentre ogni maniera d'artisti chiamati da Lombardia,
da Amalfi, da Costantinopoli, lavorando ai mosaici, allo scolpire,
al dipingere, fondavano colà una scuola artistica, anche sorgeva
accanto ad essa una scuola letteraria e allargava i suoi rami. La
biblioteca si arricchiva di codici preziosi che Desiderio faceva
scrivere e alluminare nella Badia; i documenti ordinavansi, e tra le
scritture teologiche e le polemiche s'apriva un varco la storia. A
quel modo che Farfa parteggiava per l'Impero nella gran lotta delle
Investiture, Montecassino teneva fermo pei Papi. Di là come da rocca
munita uscivano spesso cavalieri di Cristo i monaci, e lasciata appena
la quiete del chiostro si gettavano ardenti in quel turbine di guerra
politica e religiosa a combattere le loro battaglie colla penna e
colla parola. Solo da una gran forza morale poteva veramente trar
vittoria il Papato, e strumento poderoso ad ottenerla era la dottrina
che i monaci quasi per istinto si affaticavano di riguadagnarsi e di
possedere. Situato non lontano da Roma, ma al riparo delle violenze
imperiali, Montecassino divenne in breve il convegno dei più dotti
e zelanti ecclesiastici di quel tempo, e centro di un movimento
politico e letterario. Appartenevano a Montecassino, tra molti altri
uomini insigni, Pandolfo dei principi di Capua che in versi scrisse
di matematica e d'astronomia; Costantino l'Affricano fondatore della
scuola medica di Salerno; Oderisio dei conti marsicani, scrittore di
grido e più tardi abbate del monastero; Guaiferio poeta, e Alfano
poeta anch'egli e celebratissimo uomo che divenuto arcivescovo di
Salerno ospitò quivi il fuggiasco Gregorio VII e ne raccolse il
sospiro morente. La storia naturalmente doveva approfittare di queste
tendenze erudite, e lo stesso abbate Desiderio scrivendo un libro
di dialoghi sui miracoli di San Benedetto ci serbò notizie storiche
rilevantissime, massime intorno al pontificato di Leone IX col quale
aveva vissuto familiarmente e aveva divise molte vicende. Del pari le
poesie d'Alfano non sono solo monumenti letterarî ma anche storici[98],
e così quelle di Guaiferio e, in genere, molti altri scritti cassinesi
di quel tempo. Ma alle testimonianze storiche indirette s'aggiunsero
le dirette, e il salernitano monaco Amato dedicava al suo abbate
Desiderio, con bellissime parole, una storia della conquista dei
Normanni in Italia e dei primi tempi di loro dominazione. Questa
storia risalisce alla origine dei Normanni e trattando delle invasioni
loro nella Spagna, nell'Inghilterra e in Italia, termina colla morte
di Riccardo principe di Capua, uno dei figli di Tancredi, avvenuta
nell'anno 1078. La narrazione è divisa in otto libri, e ciascuno di
questi in varî capitoli che portano in capo un breve sommario dei
fatti narrati. Sventuratamente l'opera di Amato è perduta, e solo se ne
conosce il contenuto per una antica traduzione francese scoperta prima
e pubblicata dallo Champollion Figeac e ripubblicata di recente dal
Delarc[99]. Tutte le ricerche fatte finora per ritrovare l'originale
sono riuscite vane, ed esso è forse scomparso per sempre, ma per somma
fortuna oltre alla traduzione francese ci compensa di questa mancanza
il sapere che l'opera di Amato pochi anni dopo essere stata composta fu
largamente adoperata da uno storico assai maggiore di lui per un lavoro
che ancora ci rimane.

Intorno all'anno 1060, l'abbate Desiderio accoglieva nel monastero un
giovinetto quattordicenne di nome Leone destinato al chiostro. Istruito
con cura nelle scuole cassinesi, ebbe tra i suoi maestri Aldemario che
già prima d'esser monaco era stato «un prudentissimo e nobile chierico
di Capua e notaio del principe Riccardo»[100]. Di pronto ingegno e di
buona indole, Leone attirò presto l'attenzione dei monaci sopra di sé
e divenne caro a Desiderio. Il quale in breve fattoselo familiare,
incominciò a servirsi di lui ne' gravi e molteplici affari che gli
occupavano l'animo. Questa consuetudine di vita gli avvinse Leone con
grato e venerabondo affetto che non venne meno quando Desiderio morì
a Montecassino, dopo essere stato papa due anni col nome di Vittore
III. A Desiderio successero nel pontificato romano Urbano II, e nel
governo della Badia Oderisio dei conti di Marsi, il quale probabilmente
era parente a Leone e certo gli mantenne la fiducia e l'affetto del
suo predecessore. Il nuovo abbate gli commise di scriver la vita di
Desiderio; e di lì a poco allargò la tela del lavoro commettendogli
invece di scrivere, dalle prime origini fino ai loro tempi, tutta la
storia della Badia. Non si poteva scegliere autor migliore di Leone per
siffatto lavoro. Lo designavano a ciò l'ufficio suo di archivista che
gli dava una facile opportunità di conoscere i documenti storici del
monastero, la sua dottrina, gli affari monastici e di stato tra cui
era vissuto, e la familiarità avuta con tutti i principali uomini che
dimoravano o convivevano a Montecassino. Dubitoso in sulle prime, egli
intraprese il lavoro e proseguendolo con amor grande ne narrò l'origine
e il concetto allo stesso abbate Oderisio in una lettera dedicatoria.
«La beatitudine tua,» egli scrive, «o padre venerando, già avevami
ingiunto che io dessi opera a scrivere per ricordo dei posteri le gesta
magnifiche del glorioso tuo predecessore l'abbate Desiderio di santa
memoria, uomo per fermo singolare e a questi tempi unico dell'ordine
suo. Imperocché ti parve indegno imitar la inerzia degli antichi di
questo luogo i quali non si studiarono di riferir cogli scritti quasi
nulla dei fatti di tanti abbati e tempi: e se di ciò taluni scrissero
alcuna cosa, queste scritture inette e rozze di stile piuttosto recano
fastidio che scienza a chi legge. La paternità tua provvedendo solerte
che ciò non avvenisse pel nostro abbate Desiderio, compiacquesi di
destinar me a questa opera, imponendomi un peso per verità impari alle
mie forze, talché soccombente al solo pensiero di essa, per quasi un
anno non mi sono attentato di cominciare. Ma poco fa quando io per mio
ufficio t'accompagnava al ritorno da Capua, risovvenendoti lungo il
cammino dell'egregio ordine tuo, mi richiedesti s'io avevo adempiuto
la tua voglia e scritte le gesta di Desiderio. Io, colpito da quella
subita domanda, dovetti pure rispondere che invero non ne avevo fatto
nulla. Poi ripigliato un po' di coraggio: ‘e quando,’ dissi, ‘potevo
io obbedire all'ordine tuo, mentre quasi tutto quest'anno occupato
per tuo incarico ora in servizio del Signore Apostolico, ora in varie
faccende tue, appena rimasi nel monastero otto giorni di seguito? Un
siffatto lavoro richiede non poca quiete nè è per uomo affaccendato lo
assumere una così vasta materia ma sì piuttosto per uno sciolto da ogni
altra cura.’ Ascoltata questa ragione pazientemente e rimproveratami
assai blando la mia negligenza, ‘ed ora,’ dicesti, ‘abbiti la quiete
che desideri e non metter più indugio a scrivere di Desiderio. Anzi io
voglio e comando, poiché la cosa fu indugiata finora, che tu pigliando
le mosse pel tuo lavoro dal padre Benedetto, ricerchi, indagatore
studiosissimo, la serie degli abbati del nostro luogo e i tempi e le
gesta fino a Desiderio medesimo: e quali e per chi e in qual modo sotto
ciascuno abbate sieno venute al monastero nostro le possessioni e le
chiese che ora possediamo; ed esaminando scrupolosamente i diplomi
degli imperatori e dei duchi e dei principi e le carte degli altri
fedeli, a mo' di cronaca comporrai una storia non poco utile a noi e
ai successori nostri. Non ti sia grave inoltre aggiungere brevemente a
suoi luoghi tanto la distruzione che la restaurazione di questo cenobio
due volte avvenuta in diversi tempi, e se qua e là capiterà alcuna cosa
memorabile delle opere e azioni dei chiari uomini di queste parti.’
Quando io ebbi incominciato a considerar tra me stesso la gravità di
questo comando, mi sorse in mente uno spineto fitto di pensieri, e
non vedendo facile per la povertà del mio ingegno donde e in qual modo
eseguirlo degnamente, io stava incerto tra l'accettare e il ricusare un
così gran lavoro. Accettando, mi pungeva il pensiero della temerità;
ricusando, della inobbedienza. Oltre a ciò io mi ricordava che il
predetto signor mio Desiderio già aveva commessa questa opera medesima
ad Alfano arcivescovo di Salerno, uomo nei nostri tempi sapientissimo,
ma egli prevedendo troppo laborioso il tema si sottrasse alla prova.
Che se colui il quale allora era così incomparabilmente eccelso per
sapere e per eloquenza, ebbe timore di sottomettersi a questo peso,
che dovrei fare io che non ho scienza di sorta nè eloquenza? Anche mi
tormentava la coscienza mia chiedendosi perché tu non commetteresti
piuttosto quest'opera a qualche altro dei confratelli nostri di gran
lunga più scienziati di me e più esperti nell'uso dello scrivere, i
quali già aveva aggregati a questo luogo la diligenza del medesimo
santo predecessor tuo o da lui erano stati fatti educar con gran cura
in questo stesso cenobio. In tali pensieri io m'affannavo ondeggiando,
ché la cosa troppo era più alta ch'io non potessi attingere e certo
più astrusa ch'io non valessi a scrutare. Tuttavia, poiché io per la
divozione singolare che da lungo portavo alla paternità tua già m'ero
proposto di non volerti ricusare mai nulla, fermai finalmente l'animo
mio. E mentre prima pusillanime avevo temuto di attentar le sole
gesta di Desiderio, ora poi fidando nell'aiuto di Dio e stimando di
dover così fare, impresi come sapevo a scriver di tutti i predecessori
suoi. Raccolti adunque tutti quegli scrittarelli che di questa materia
avevano trattato, pur con cencioso stile e scarsi, e principalmente la
cronaca di Giovanni abbate che primo costruì il monastero nostro di
Capua Nuova; e presi i libri che erano necessari a quest'opera, vale
a dire la storia dei Longobardi e la cronaca degli imperatori e dei
pontefici romani; indagati diligentemente i privilegî, i precetti,
le concessioni e le carte di diversi titoli, tanto cioè dei romani
pontefici che dei varî imperatori, re, principi, duchi e conti, e
d'altri uomini illustri e di fedeli, che dopo due incendî ancora ci
rimangono, sebbene neppure mi riuscisse di veder tutti questi; da
ultimo interrogai scrupolosamente coloro che dei tempi moderni e dei
fatti degli abbati avevano potuto udir dappresso o vedere. Come lo
concede la tenuità dell'ingegno mio io mi accingo ad eseguire quanto
m'imponesti, più certo affidato alla obbedienza che ti debbo come a
padre e a signore che presumente d'alcuna scienza. Mi assista Iddio
e la grazia del suo Spirito, tanto che io possa mandare ad effetto
quello che ti sei degnato amorevolmente d'ingiungermi, talché questa
operetta e a te sia grata e profittevole a molti. Queste cose pertanto,
guardando a me stesso, ebbi io necessità di premettere in questa
prefazioncella affinché chi le ignora non mi arguisse di temerità o di
presunzione, e se m'accusa la pochezza mia mi scusi almeno l'autorità
di colui che mi comanda.»[101]

Incominciata così la sua storia, egli la condusse dalle prime origini
della Badia fino all'anno 1075, ma non la potè condurre oltre
quell'anno ancorché v'attendesse pur dopo che Pasquale II l'ebbe
nominato cardinale vescovo d'Ostia, onde gli venne tra i posteri
il nome di Leone Ostiense. I troppi affari e i tempi affannosi lo
distoglievano dalla impresa e gli vietavano un continuato lavoro. Si
trovò a Roma (A. D. 1111) quando Enrico V impadronitosi violento di
papa Pasquale in San Pietro, lo trascinò seco prigioniero in Sabina.
Travestiti da popolani egli e Giovanni cardinal vescovo di Tuscolo,
poterono sfuggire alla cattività, e non par dubbio che anch'egli, come
Giovanni, tentasse d'infiammare i Romani alla fiera resistenza ch'essi
opposero ai Tedeschi d'Enrico. Ma se non fu preso ancor'egli e non
sottoscrisse la convenzione sulle investiture strappata per forza al
Papa, la ragion dei tempi lo costrinse pure di malavoglia a piegarsi
e a tenere con quei prelati che insieme con Pasquale II preferivano le
vie conciliative ad una inflessibilità immota. Inflessibili erano altri
prelati e un dei principali tra questi era Bruno d'Asti vescovo di
Segni e abbate di Montecassino, uomo di molta dottrina, austero e santo
di vita, nella sua resistenza all'Impero irreconciliabile. Il Papa
stimando pericoloso che un forte nucleo di oppositori gli si formasse
contro a Montecassino, tosto inviò quivi Leone a cui riuscì d'ottenere
che Bruno, abdicata la dignità abbaziale si ritirasse nella sua
diocesi di Segni. Tornato a Roma Leone prese gran parte nel concilio
Lateranense del 1112, ma dopo riman poca traccia della sua vita. Essa
cessò un ventidue di maggio, non si può bene affermare di quale anno
tra il 1115 e il 1117.

Come può intendersi anche dalla lettera premessa al suo lavoro, Leone,
oltre al grande sussidio trovato nei documenti dell'archivio, s'era
pure aiutato della biblioteca cassinese che gli fornì dovizia copiosa
di scritture relative in qualche modo alla storia del monastero. Il
maggior numero degli scrittori di cui sono venuto parlando finora
fu nota a quel dotto uomo e se ne servì largamente. Inoltre attinse
talvolta a qualche fonte che non è pervenuta infino a noi, e verso
l'ultimo periodo della narrazione aggiunse di suo quanto della storia
contemporanea aveva veduto o udito egli stesso. Di quanti scrissero
in quella età di tendenze partigianesche, Leone per la elevatezza e
la naturale imparzialità dello spirito, è uno di quelli che meritano
maggior fede. Se gli fosse rimasto agio di condurre il lavoro fino
agli ultimi tempi di sua vita, forse oggi dovremmo considerarlo come
il maggiore storico italiano del medio evo dopo Paolo Diacono. Nè come
monumento letterario l'opera di Leone è inferiore alla sua importanza
storica. «In quanto alla forma,» volentieri torno a citare il venerando
storico di Montecassino, «noi pensiamo, che in mezzo alle barbarie, il
cassinese Leone sia il primo a farci ricordare degli storici latini e
ad accennare a quelli che sarebbero stati per fiorire in Italia dopo il
risorgimento delle lettere. Nè in Italia nè fuori troviamo alcuno che
in quei tempi vada al pari di Leone per certa tal quale composizione
de' fatti, nesso di ragioni e decenza di discorso, per cui la storia
si distingue dalla rozza cronaca, che non è altro se non una materiale
riproduzione per la scrittura delle successive e incoerenti notizie
di fatti, le quali cadono dall'animo dello scrittore senza che ci
dicano del come e del perché vi siano entrate. Egli stesso sente non
essere un volgare cronista; imperocché deputato dall'abbate Oderisio a
scrivere dei fatti del suo predecessore Desiderio, afferma, che quelli
giudicassero indegna cosa il non esser stato per lo passato alcuno che
avesse messo opera a tramandare con le scritture le opere degli antichi
abbati, e se pur ve ne fosse stato alcuno, lo avesse fatto con isconcio
e selvaggio stile, da ingenerare in chi legge piuttosto fastidio che
dottrina. Egli prende le mosse da San Benedetto fino ai suoi tempi; si
prepara con molto studio al racconto che imprende; accenna alle fonti
onde attinse la notizia dei fatti.... e sotto il velame di religiosa
modestia rivela la coscienza d'aver fatto da più degli altri nella
sua narrazione, alla quale lo stesso Alfano, richiesto dall'abbate
Desiderio, non volle porsi; per cui reputa non degno della sua cronaca
il titolo di cronaca ed osa chiamarla _historiola_. Adunque e per la
veracità del racconto e per la forma questa cronaca arrecò molta luce
alla storia del Medio Evo.»[102]

L'opera di Leone interrotta col racconto della consacrazione della
restaurata badia, fu ripresa da Pietro Diacono e continuata fino
all'anno 1138. Discendente dalla illustre famiglia dei conti Tusculani,
Pietro era nato verso il 1107, dal romano Egidio figlio di Gregorio
patrizio e console dei Romani, e pronipote di Alberico e di Marozia.
Offerto da fanciullo in oblazione al monastero nel 1115 sotto l'abbate
Giraldo, Pietro fu educato con cura ed ebbe a principal guida ne' suoi
studi il monaco Guido, uomo, al dire del suo discepolo, assai riputato,
autore di varie opere storiche ora perdute e di una _Visione di
Alberico_, rimasta famosa perché parve ad alcuni di ravvisare in essa
un concetto ispiratore della _Divina Commedia_. Nel 1128 la nimicizia
dei conti d'Aquino ai quali si era strettamente legato il padre di
Pietro, indussero l'abbate Senioretto ad allontanare il giovinetto
monaco da Montecassino. Pietro allora si ritrasse nella prossima Atina
dove, richiesto da Adenolfo conte di quella città, scrisse una storia
del martirio di San Marco vissuto nei tempi apostolici e primo vescovo
della diocesi atinate. Mentre durava il suo esilio, gli zii di Pietro
dai quali suo padre erasi distaccato per allearsi ai conti di Aquino,
gli scrissero esortandolo a tentare d'indurre il padre a tornare in
lega con loro. Non può affermarsi con sicurezza ma pare probabile che
Pietro aderisse all'invito de' suoi parenti. Certo noi lo troviamo di
lì a poco a Montecassino in amiche relazioni con essi, e nel favore
dell'abbate suo Senioretto che gli commise più tardi di continuare la
storia della Badia e gliene narrò molta parte di cui egli stesso era
stato testimonio oculare. Ma prima che gli fosse affidato l'incarico
di questa storia, egli s'era venuto acquistando fama con altri lavori.
Nominato come Leone archivista e bibliotecario della Badia, l'ingegno
facile arguto meridionale gli spianò la via a sviluppare una prodigiosa
attività letteraria. In varî tempi e tra molte occupazioni copiò
molti codici, scrisse vite di santi e narrazioni di miracoli e versi e
lettere, compilò un grande Regesto dei documenti serbati nell'archivio,
narrò le vite dei più illustri monaci del monastero, e continuò l'opera
che Leone d'Ostia aveva lasciata interrotta. Pietro fu men di Leone
mescolato nelle vicende politiche della età sua, e le molteplici cure
sue si restrinsero quasi tutte entro la cerchia del suo monastero. Da
ciò si spiega la moltitudine dei suoi lavori e la mole di alcuni tra
essi. La calata di Lotario nel mezzogiorno d'Italia (A. D. 1137) segnò
il punto più culminante della sua vita, che ci vien descritto da lui
con boriosa compiacenza. Ai tempi di Pietro, cessata oramai la lotta
delle Investiture, Montecassino cercava come sapeva l'appoggio della
protezione imperiale per sottrarsi dalle frequenti e varie pretese dei
principi normanni e della Curia romana. La soggezione ad un imperatore
lontano riusciva assai meno molesta alla Badia delle relazioni
sue temporali e spirituali con possenti vicini. Allorché Lotario
insieme con Innocenzo II trovavasi presso Melfi a Lago Pesole, Pietro
recossi colà col suo abbate ed ivi fu incaricato di sostenere innanzi
all'imperatore le ragioni del monastero contro i diritti asseriti dal
cardinale Gerardo in nome della Chiesa. La facile arguta parola del
monaco riportò vittoria dopo varî giorni di contrasto, e l'Imperatore
stupito di tanta facondia e di tanta dottrina pose grande benevolenza a
Pietro, lo colmò di onori e mostrò desiderio d'averlo seco in Germania.
Almeno così egli ci narra, e veramente parve ch'egli fosse sul punto
di seguirlo colà, ma varie cagioni ne lo distolsero e rimase nel
suo monastero. La data della sua morte è incerta, ma non è debole la
congettura del Wattenbach che lo reputa morto non molto dopo il 1140.
Infatti dopo quel tempo non si ha più notizia di lui, nè par naturale
che uno scrittore così fecondo, il quale nello spazio di circa dieci
anni aveva posto mano e compiuti tanti lavori, cessasse a un tratto lo
scrivere e cadesse in un silenzio assoluto.

Tralasciando le minori opere sue, Pietro Diacono ha raccomandata la
sua fama ad alcuni lavori storici ricchi di merito e di difetti. I
suoi libri sugli uomini illustri di Montecassino e sulla vita e la
morte dei giusti di quel monastero, contengono, miste a portentose
leggende, notizie storiche di gran pregio massime pe' tempi più vicini
all'autore. Ma i due lavori suoi più importanti sono il Regesto di
Montecassino e la continuazione della cronaca cassinese. Se l'onorato
amore del vero che animò Gregorio di Catino e Leone Ostiense avesse
animato anche Pietro Diacono, per fermo il pregio di questi due suoi
lavori, e specialmente della cronaca, sarebbe riuscito incalcolabile;
ma per disavventura non fu così. I dubbi ch'egli c'ispira del continuo
sono l'opposto di quella fede sicura colla quale possiamo abbandonarci
alle narrazioni di Leone Marsicano. Questi semplice imparziale
veridico, e Pietro vanitoso appassionato malsincero[103]. Colla
compilazione del Regesto egli fece opera grande e utilissima anche oggi
sebbene i documenti originali dell'archivio cassinese si conservino
ancora in gran parte. Questo suo libro scritto in bellissimo carattere
longobardo, è quasi altrettanto vasto di mole quanto il Regesto di
Farfa ma diverso nella distribuzione del contenuto. I documenti non si
seguono tutti indistintamente un dopo l'altro in ordine cronologico,
ma sono ripartiti in varî gruppi secondo la varia loro natura e, come
si pare dalle parole della prefazione, secondo un piano già iniziato
da Leone Marsicano. «Di grandissimo aiuto,» dice Pietro, «mi fu in
ciò la storia di Leone venerabile vescovo d'Ostia, il quale pigliando
cominciamento dal beatissimo padre Benedetto, scrisse sulle cose del
cenobio cassinese un libro utilissimo nel quale pose tanta ricchezza
d'ingegno che quasi nulla tralasciò di quanto è avvenuto in questo
medesimo cenobio. Non potendo adunque seguire la diligenza di un
tanto uomo in quest'opera per la facoltà troppo impari dell'ingegno,
tenni tuttavia il medesimo ordine ch'egli avea stabilito alle carte
di donazione.» Questa opera di Pietro fu consultata spesso dagli
eruditi con gran profitto, e certo è desiderabile che i monaci di
Montecassino, terminata la magnifica descrizione che stanno facendo
dei loro manoscritti, mettano mano a pubblicare un codice diplomatico
dei documenti originali dell'archivio cassinese, raffrontandoli quando
sia opportuno e completandoli col Regesto di Pietro Diacono[104]. Ma
se il lavoro di Pietro è pregevole, non è però tale da accettarlo mai
senza molta cautela. La tendenza dell'autore e quella dei suoi tempi
contribuiscono a toglier fede a quel lavoro. Le contese frequenti sulle
proprietà dei beni monastici e talora sulla santità delle origini
o sulla autenticità delle reliquie serbate nei monasteri, non solo
spingevano i monaci alle compilazioni dei regesti ma spesso anche a
falsificare o ad alterare i documenti con impudente audacia. Nè Pietro
fu immune da questa colpevole tendenza a cui lo spingeva in molti
casi l'animo vanitoso e il desiderio di trovare immaginarie nobiltà
di origini e di vicende al suo monastero pur così nobile e famoso. Se
non si può affermare del sicuro ch'egli abbia fabbricato documenti
falsi, certo ha talora scientemente alterato con interpolazioni gli
originali che copiò entro il Regesto. E lo stesso difetto di onesta
sincerità macchia la sua cronaca di Montecassino che movendo, come
dicemmo, dal punto dove s'era fermato Leone (A. D. 1075) prosegue fino
all'anno 1138 e abbraccia così il periodo storico più rilevante di
quell'età fortunosa. Anzi qui alla vanità del monaco pel suo monastero
si aggiunge la boria gentilizia e personale grandissima in lui, talché
il suo lavoro dovunque si riferisce agli interessi della Badia o alla
persona sua nominata ad ogni tratto, sempre è di autorità molto dubbia.
Ma tuttavia la importanza dei tempi per cui s'aggira la sua narrazione
dà uno speciale valore a questa cronaca, fatta anche piacevole dalla
spigliata franchezza del suo stile che attira pur coi difetti e svela
spesso all'aperto l'anima dello scrittore ingenua nella sua scaltrezza.
Diverso anche in ciò da Leone il quale attingendo notizie ad altre
fonti componeva sempre di suo il racconto, Pietro spesso copia brani
d'altri scrittori e li innesta colle stesse loro parole nel libro. Di
che viene una grande disuguaglianza di stile. Ma dove egli scrive del
proprio, se talora è un po' scorretto per frettolosa negligenza, egli
è pur sempre vivace evidente ricco di colorito e di vita, e malgrado i
difetti rimane sempre un curioso e singolare scrittore, degno d'essere
letto da chi voglia aver familiare la letteratura storica di questo
periodo[105].

Il grande risorgimento artistico e letterario di Montecassino si
collegava ad un consimile movimento in tutta la bassa Italia nella
quale per gli immediati contatti suoi colla Grecia e cogli Arabi
spargevansi a un tempo i raggi fecondatori di due civiltà. Gli istinti
quasi medicei che Desiderio avea recato nel chiostro, eran pure
gl'istinti dei principi longobardi da cui usciva. La nobiltà longobarda
di quei luoghi protettrice delle lettere fin dai tempi di Paolo
Diacono, erasi a poco a poco assimilata agli indigeni, e nel fondersi
con essi e ingrecandosi cogli elementi avanzati dal greco dominio,
aveva assorbito i pregi e i difetti della nuova patria. Da ciò la
prontezza di quelle regioni nel risvegliarsi alla civiltà, e l'influsso
efficace che esercitarono sovr'essa per alcuni secoli da quel tempo.
A testimoniare questo primo risveglio nel Mezzogiorno, oltre i lavori
monastici di Montecassino concorrono varî lavori di carattere storico
dei quali terrò discorso ora per isgombrar la via ad altri soggetti che
son da trattare nel capitolo seguente[106]. Della città di Bari sulla
costa adriatica ci lasciò notizie fino al 1102 Lupo Protospatario,
e più tardi fino al 1152 l'anonimo Barense. Benevento ha suoi annali
fino all'anno 1130 ed una cronaca che per mala ventura è incompleta,
rude di stile ma di gran pregio alla storia. Del pari ha suoi annali il
famoso monastero della Trinità della Cava presso Salerno, ricostruito
anch'esso a que' tempi e consacrato solennemente da Urbano II, della
quale consacrazione riman pure memoria. Da Taranto derivano le notizie
intorno ai primi invasori normanni che ci son porte dal _Chronicon
nortmannicum breve_. Del monaco Amato che scrisse più largamente
intorno ai Normanni si è già detto, e quando il suo lavoro ci lascia,
serve a completarlo il poema eroico di Guglielmo di Puglia che celebra
Roberto Guiscardo e le imprese dei suoi Normanni. Buon poeta pe' suoi
tempi e abbastanza familiare coi classici, egli ci canta le gesta del
suo eroe in esametri infiorati di citazioni virgiliane. L'opera sua
intrapresa per desiderio di Urbano II e dedicata a Ruggiero figliuol di
Roberto, oltre al pregio dell'essere scritta in tempi e luoghi prossimi
agli avvenimenti, mostra una buona conoscenza degli scrittori che lo
precedettero e tra questi di un biografo di Roberto del quale oggi
non avanzano traccie. E, contemporaneo al poeta Guglielmo, Goffredo
Malaterra per incarico del gran conte Ruggiero scriveva una preziosa
storia dei Normanni in Sicilia con sufficiente scioltezza di stile e
ricca di notizie anche per la storia delle relazioni che corsero tra i
Normanni stessi e il pontefice Urbano. Come si vede, la cavalleresca
epopea dei Normanni non mancò di scrittori che la celebrassero, e la
nuova tendenza storica dei tempi trovò in quelle imprese spazio largo
abbastanza per non aver bisogno di tramutarsi in leggenda.

E per fermo, attratta dalla verità della vita, animata da forti ideali,
la fantasia si volgeva all'umano e la luce della leggenda impallidita
innanzi alla luce della storia rifugiavasi nelle tradizioni del popolo
o in qualche oscuro libro monastico destinato a lontane e inaspettate
risurrezioni. Infatti, lontan lontano dai luoghi di cui si tiene
parola, in Val di Susa alle falde del Cenisio, un monaco del monastero
della Novalesa raccoglieva le tradizioni della calata di Carlomagno in
Italia e manteneva ricordi di un ciclo di leggende che più tardi ispirò
trovatori e poeti del medio evo, illuminò la fantasia dell'Ariosto e,
ai tempi nostri, innestato alla storia crebbe colore alla musa pensosa
di Alessandro Manzoni. La storia vera del monastero della Novalesa
somiglia alle altre storie monastiche di quei tempi. Fondato nell'anno
726, distrutto dai Saraceni nel 906 o nel 916, restaurato verso il
mille, ebbe tra i suoi intorno alla metà del secolo undecimo un monaco
del territorio di Vercelli che ne scrisse la cronaca[107]. Quest'opera
fantastica ci è avanzata mutila nello stesso antico rotolo membranaceo
su cui l'autore la scrisse a più riprese, tra lunghi intervalli di
tempo, senza condurla a termine mai. Attinta alle fonti del popolo,
incomincia quasi subito con una favolosa leggenda di un monaco
ortolano di sangue reale chiamato Waltario che compì gesta prodigiose
a tutela del monastero, ed è, come nota il Bartoli, quello stesso
Walter figliuolo del re di Aquitania preso in ostaggio da Attila e la
cui leggenda si rilega ai Niebelunghi alla Wilkina-Saga scandinavica
e a tutto il ciclo delle tradizioni eroiche intorno ad Attila. Alle
quali leggende tengono dietro altre leggende del cielo di Carlomagno
importantissime perché dopo men di tre secoli narrano ciò che la
fantasia popolare aveva creato sui fatti avvenuti tra quelle montagne
dove il monaco le raccoglieva. La visione di Carlomagno, l'ospitalità
ch'egli trovò alla Novalesa, il giullare che insegnò a Carlo il valico
per passar le Alpi e prendere i Longobardi alle spalle, la presa
di Pavia, le miserie del longobardo re Desiderio, e le maravigliose
prodezze di suo figlio Adelchi, sono altrettanti episodî di leggende
ricchi di poesia e di sentimento. Diversa dalle cronache erudite
dei monaci del Mezzogiorno, questa cronaca della Novalesa ha pure
una importanza singolare perché raccoglie le impressioni del popolo
durevoli assai lungamente oltre le sue cagioni. Tornando indietro con
essa fino alla età longobarda, al punto ove Paolo Diacono s'arresta,
noi possiam colorire quelle scarne notizie che la critica ci aiuta a
trarre dagli ampî Regesti e dalle cronache più severe. Ché se questo
scritto nato al pié delle Alpi è piuttosto poesia che storia, certo è
poesia che ricorda la vita dei tempi lontani e la ripete dopo secoli
di silenzio, come le maestose montagne che incoronano le ruine della
Novalesa ripetono tra i vasti silenzi la lunga e solitaria eco dei
suoni cessati.



CAPITOLO V

  I continuatori del Libro Pontificale: Bruno da Segni. Guiberto di
    Toul. Paolo di Bernried. «Annales Romani.» Pandolfo. Bosone —
    Scritti polemici. San Pier Damiani. «Liber ad Amicum» di Bonizone
    — La Vita di Anselmo da Lucca — La Vita della contessa Matilda di
    Donizone — Le lettere di Gregorio VII.


«Il beato papa Gregorio (VII) soleva narrarci assai cose di quest'uomo
(Leone IX), e da lui ho memoria d'avere udito in gran parte tutto
ciò che sono venuto dicendo fin quì. Ora egli un giorno, parlando di
lui incominciò a rimproverarci, e me principalmente (come mi parve
poiché tenea fissi in me gli occhi) perché lasciavamo passare in
silenzio le gesta del beato Leone, e non iscrivevamo ciò che sarebbe
riuscito a gloria per la Chiesa Romana e ad esempio di umiltà per
molti che avrebbero ascoltato.»[108] Queste parole di Bruno vescovo
di Segni mostrano come al risorgere dell'autorità e del vigore
nella sede romana, rinascesse il bisogno di un libro pontificale,
e come i papi stessi promuovessero quest'opera. Infatti nel secolo
undecimo, le vite dei papi, a muover da quella di Leone IX († 1054),
incominciano ad essere narrate con larga estensione da scrittori
non privi di merito, spesso testimonî oculari o assai prossimi delle
cose narrate e mescolati in qualche modo ad esse. Così, per esempio,
le parole citate qui sopra furono scritte in una vita di Leone IX
da quel medesimo Bruno vescovo di Segni e abbate di Montecassino,
che nell'altro capitolo ci apparve tanto attivo e ardente partigiano
nella lotta delle Investiture. Ma quest'opera sua non ha molto valore,
e fu superata da altre venute in luce verso il suo tempo, quali la
commovente descrizione della morte di Leone IX dettata in Roma dal
chierico Libuino custode del sepolcro di quel papa, ricca di fatti
veri tra molte leggende, e la vita scritta da un monaco beneventano,
specialmente stimabile pel racconto della mal provvida spedizione di
Leone contro i Normanni, e della prigionia che seguì alla sua disfatta.
Più importanti ancora sono due altri lavori di due tedeschi[109],
Guiberto di Toul e Paolo di Bernried, che scrissero molto diffusamente
il primo di Leone IX, il secondo di Gregorio VII. Guiberto che fu
familiare di Leone quando questi era vescovo di Toul, è specialmente
ricco di particolari circa la prima parte della sua vita, ma pel
rimanente, il suo scritto, sebbene pregevole, non ci dà un ritratto
così completo di quel pontefice che non sia bisogno di cercare anche da
altre fonti aiuto a rifarne la storia.

Dettata mentre cessava la contesa delle Investiture, la storia di
Gregorio VII lasciataci da Paolo di Bernried ripete l'eco delle antiche
querele e magnifica la potenza morale di Gregorio, quasi ad ammonir
gli avversarî del pericolo che correrebbero a rinnovar la gran lotta.
Dedicatosi fin dal 1102 alla vita ecclesiastica, Paolo fu ordinato
prete nel 1120. Per le persecuzioni dell'imperatore Enrico V, riparò
l'anno seguente a Bernried nella diocesi di Augusta. Nel 1122 si recò
a Roma, e quivi forse gli venne in animo di narrar la vita di Gregorio
VII. Senza dubbio radunò colà la materia del suo lavoro, studiò il
registro delle lettere gregoriane, interrogò i superstiti testimonî
delle vicende del suo eroe, tra i quali lo stesso pontefice Calisto II.
Tornato a Bernried si mise all'opera e la condusse a termine nell'anno
1128. Narratore ingenuo, egli, sebbene sprovveduto di critica, attinge
per lo più a buone fonti e fa largo uso di documenti ufficiali.
Per tal modo bene e coscienziosamente informato, scrive di eventi
occorsi quasi cinquant'anni prima di lui con una tenace semplicità di
convinzione che penetra efficace nell'animo di chi lo legge. Con facile
credulità egli corre spesso al soprannaturale e spiega miracolosamente
assai fatti o li colorisce colla aggiunta di episodi leggendarî, ma
è così onesto e di buona fede in queste aggiunte, che la critica può
facilmente respingerle o spremer da esse il vero della storia, e l'arte
aiutarsene a descrivere una età drammatica oltremodo. Uno storico
artista, il Villemain, che ha lumeggiato a maraviglia la vita di
Gregorio VII[110], si giovò assai di questo biografo per dar colore ai
suoi quadri, e specialmente alla sua descrizione di quella fosca notte
di Natale, quando il romano Cencio entrato in Santa Maria Maggiore
strappò Gregorio dall'altare e lo trascinò in una sua torre prigioniero
e ferito. Amo riferir qui in parte il racconto dell'antico scrittore,
che è bello confrontare collo storico moderno per vedere in qual modo
le vivide impressioni d'un semplice cronista del medio evo abbiano
ispirata una delle più luminose pagine di cui si onori la moderna
letteratura storica di Francia.

«Ecco venuta la notte in cui il figliuol delle tenebre sta per assalire
il ministro della luce. E prima manda esploratori ed altre spie,
perché tra gli abitanti di quel quartiere presso alla chiesa essi
s'erano aggiunta una certa società che notando ogni cosa ne mandava
notizia a quello scellerato. Allora egli messa in arme la legione sua,
la condusse rapidamente, disponendo in modo che, o dopo aver vinto
uccidendo Gregorio o trionfato portandolo via vivo, chiunque potesse
avere un cavallo lo inforcasse affinché niuno s'attentasse d'insorger
contro di loro. E si viene alla chiesa. Il Papa in luogo glorioso nel
presepio, come insegna la religione cantava la prima messa di notte e
già egli e il suo clero avean preso il corpo del Signore. Partecipavano
gli altri alla comunione quando ecco tuona improvviso un clamor grande,
un grande ululato, e riempie la chiesa. Ed eccoli a percorrer d'ogni
parte la chiesa, colle spade sguainate a percuoter chi capitava, e
affacciatisi alla cappella del presepio dove in alto sedeva il Papa,
percotendo alcuni e spezzando i cancelli, a cacciar truculenti le mani
nel presepio del re eterno e della madre sua. Allora poser le mani sul
Papa e lo tennero. Un d'essi tratta la spada voleva troncargli il capo
ma per volontà di Dio non potè. Però percosso in fronte e gravemente
ferito, colle violente mani lo strapparon via dalla chiesa che ancora
la messa non era finita, tra le uccisioni e il percuotere. Quegli
intanto come agnello innocente e mansueto, levando gli occhi al cielo
non die' loro alcuna risposta, non si lagnò, non fe' resistenza, non
pregò che lo risparmiassero. Spogliato del pallio e della pianeta,
della dalmatica e della tunica, ravvolto solo nel camice e nella
stola, trascinandolo come un ladro lo poser sul dorso a uno di quei
sacrileghi. Quel tale poi che colla spada gli aveva percossa la fronte,
preso dal demonio s'avvoltolò spumando un pezzo nell'atrio della
chiesa, e il suo cavallo fuggì via e non fu più trovato.

«La fama di tanto male tosto colpì la città tuttaquanta, e chi potrebbe
ridirne il pianto e i funerei lamenti?... Il clero tutto, perché il
pastore era percosso, correva qua e là, e spogliando denudava tutti
gli altari. Tranne ciò che si era detto prima, nulla in niun luogo
nelle chiese fu detto del divino ufficio. E gli elementi che erano
stati turbati fino ad allora, per non impedire il popolo zelante nello
zelo del Signore, si mostrarono pacati, e la terra assorbendo tutta
l'acqua che reggeva per la soverchia inondazione, mostrò di nuovo
l'asciutto per far che tutti accorressero alla vendetta. Tutta la
notte adunque, suonandosi le campane e le trombe, i soldati percorsero
ogni andito affinché con qualche astuzia non portassero fuori della
città il Papa, ma di lui non apparve vestigio. E per vero, mentre
si dubitava, ignorando tutti s'egli era vivo o morto, radunatosi il
popolo in Campidoglio, riferirono alcuni ch'egli era tenuto prigione in
certa torre. Tutta la gente allora mandò grida alle stelle. E appena
tornò sulla terra il giorno, tutti esortandosi a vicenda, s'avviarono
innumerevoli alla casa di quell'anticristo. S'appiccò la zuffa, ma al
primo scontro la parte nemica si die' in fuga e tutta la fazione si
rinchiuse nella torre. Allora in tutta la parte munita fu posto il
fuoco, e recate macchine e arieti spezzasi il muro, e quanto era là
chiuso divien preda al popolo del Signore. Nessuno evitava il pericolo,
ma dimentico di sé combatteva ciascuno a tutta possa.

«Peraltro un nobile uomo e una nobil matrona avevano seguìto il
padre Gregorio e gli erano stati di qualche sollievo. L'uomo trovate
alcune pelli scaldò il pontefice affranto dalla via per cui era stato
trascinato, e se ne pose i piedi sul petto. La matrona deplorando
molceva coi medicamenti la piaga del nostro padre, molle pel rosso
profluvio del molto sangue, e sclamava contro quegli omicidi sacrileghi
nemici di Dio. Era quasi un'altra Maria, ché come quella piangendo i
delitti suoi bagnava in lacrime le vestigia del Signore, così questa
con le lacrime sue bagnava un tanto pastore!

«.... Ma quanto era animosa la fede di costei tanto era linguacciuta
la perfidia d'un'altra donna. Imperocché come già nella Domenica di
Passione l'ancella ostiaria aveva atterrito Pietro, così costei con
suoi mordaci obbrobri ne conturbava il Vicario. La quale era sorella di
quel traditore e però non temeva di maledire a tanto padre. E un altro
ministro e seguace di quel traditore colla spada alla mano minacciava
bestemmiando di voler troncare in quello stesso giorno il capo di tanto
uomo. Ma il giudizio velocissimo di Dio non differì la vendetta della
empietà sua: un dardo vibrato dal di fuori troncandogli la gola onde
usciva la crudel voce, lo prostrò a terra moribondo e palpitante, e
così lo mandò all'inferno.

«.... Finalmente il pio Papa affacciatosi alla finestra, aprendo le
braccia verso la turba furente, fece cenno che si calmassero, e alcuni
dei maggiori salissero entro la torre. Alcuni però credendo ch'ei li
esortasse all'opera incominciata, fatto impeto schiudono la torre. E
così fu condotto fuori, piangendo di gaudio tutte le turbe esclamanti
per la pietà. Imperocché lo si vedeva tutto cosparso di sangue per
la gran ferita, onde presi d'orrore mandavan le voci alle stelle.
Avuta così vittoria, tutti con papa Gregorio pieni d'infinito gaudio
tornarono alla chiesa della Madre di Dio da cui l'avevano strappato
in quella notte. E il comun padre compì allora la messa che non aveva
potuto terminar nella notte impedito dai ministri del diavolo, e ai
ritornati dalla gran vittoria die' la grazia della benedizion del
Signore.»[111]

Il cozzar delle parti ora più che mai favoriva il risorgere della
storia pontificia cercando aiuto nella esposizione dei fatti. E poiché
il giudizio dei fatti raro scompagnasi dal giudizio sugli uomini che
li promuovono, così le vite dei papi erano di frequente narrate e
poste in buona luce o cattiva secondo il sentimento del narratore.
Entro le stesse mura di Roma i partiti in contrasto produssero alcuni
scritti che furono pubblicati col titolo di _Annales Romani_[112], e
manifestano le due contrarie tendenze nei pensieri di quel tempo. Il
primo di questi scritti, inteso a continuar propriamente l'antico Libro
Pontificale, contiene le vite dei vari papi che si seguirono a breve
distanza tra l'anno 1044 e il 1049. È uno scritto anonimo condotto
con diligenza e ricco di dettagli intorno alle cose cittadine e alle
famiglie nobili di Roma. Ad esso tengono dietro due narrazioni che
comprendono la serie dei papi da Leone IX fino ad Alessandro II (A. D.
1049-1072), scritte da partigiani dello Impero e con animo avverso ai
papi. Per contrario è favorevole ad essi un altro scritto che ci narra
con semplicità evidente la violenza patita in Vaticano da Pasquale
II quando Enrico lo trascinò via da Roma come prigioniero. Presente
ai fatti che narra, «queste cose» afferma l'autore «come le abbiamo
patite, e le vedemmo cogli occhi nostri e udimmo colle nostre orecchie,
così in pura verità abbiamo scritte.»[113] E procede descrivendo anche
le vite degli antipapi che si opposero a Pasquale II e a Gelasio
II. L'ultima continuazione finalmente viene a tempi più recenti ed
abbraccia i pontificati che si seguirono a breve intervallo tra Lucio
III e Clemente III (A. D. 1181-1188), e le controversie di quei papi
con Federico Barbarossa. Scritture tutte quante appassionate, eccedono
nel biasimo o nella lode, e parteggiano secondo le passioni dei loro
autori, ma per essere state composte nei tempi e sui luoghi degli
avvenimenti, rimangono pur sempre sorgenti ricchissime di informazioni.
Nè hanno pregio storico solamente; dal lato letterario il rozzo e
popolare latino in cui son dettate, acquista loro importanza per le
forme linguistiche italiane le quali fanno già presentire il gran
mutamento che veniva operandosi nel linguaggio di quella età feconda di
trasformazioni all'Italia.

A questa raccolta di vite pontificie che può considerarsi in certo
modo come una continuazione popolare dell'antico _Liber Pontificalis_,
figura accanto un'altra continuazione di carattere più ufficiale,
scritta quasi sotto gli occhi dei Papi da un dignitario della Chiesa
di nome Pandolfo, nipote al cardinale Ugo d'Alatri, che ebbe incarichi
importanti nella Curia dai tempi di Pasquale II a quelli d'Onorio
II[114]. Nello scisma che alla morte d'Onorio divise la chiesa,
Pandolfo parteggiò per Anacleto contro Innocenzo II di cui parla
aspramente nei suoi scritti. Anacleto lo creò cardinale, ma spento lo
scisma, non pare che il suo grado fosse riconosciuto da Innocenzo, e da
quel tempo vien meno ogni memoria di lui e il nome suo scompare dalla
storia.

Le vite dei papi che ressero la Chiesa da Leone IX fino a Calisto II
(1049-1124), possono in certo modo considerarsi come altrettanti atti
di un dramma che ha il suo punto culminante nel pontificato di Gregorio
VII. Tutti quei pontificati hanno una sola tendenza e lottano per
un principio comune che il monaco Ildebrando promosse prima d'esser
pontefice e lasciò morendo in eredità ai suoi successori. Di che si
spiega naturalmente come il Libro Pontificale ripigli un racconto
più largo delle vite dei papi a cominciare da Leone IX, poiché da lui
s'inizia un periodo nuovo nella storia della Chiesa. Dalle parole che
si sono citate, secondo le quali Gregorio VII esortava Bruno da Segni
a parlar di Leone, già traspare questo concetto e ad esso si attenne
Pandolfo. Egli pertanto ci ha lasciato quasi senza interruzione le
vite dei papi di quel periodo, le prime assai inesatte e confuse
nel racconto dei fatti, quelle di Gregorio VII e d'Urbano II più
importanti, sebbene non prive di mende, ma superiori a tutte e dettate
con una grande e profonda conoscenza dei fatti, le vite di Pasquale II
e di Gelasio II a cui fanno seguito quelle di Calisto II e d'Onorio II,
però trattate più brevemente delle altre due.

Educato allo studio degli antichi e desideroso di fare sfoggio delle
sue attitudini letterarie, Pandolfo quando giunge ai tempi vicini a
lui non appoggia particolarmente il suo racconto a documenti, ma trae
dalla memoria gli elementi del suo lavoro, cercando in essa quei fatti
che più lo aiutano a dar vita alla narrazione, e si adattano meglio
all'indole sua che par più di soldato che di prete[115]. Narratore di
cose quasi sempre vedute e patite in tempi d'angoscia, ei le dipinge
con evidenza, e imprimendo in esse un cotal suo sentimento pieno
d'efficacia drammatica, risuscita le immagini di quel passato come egli
le vide agitarglisi intorno. È gran colorista, e le scene descritte
da lui per istinto d'affetto e di fantasia, durano nella mente di chi
le legge e non si cancellano. Veggasi come egli descrive l'affannosa
fuga a Gaeta colla quale il vecchio e travagliato papa Gelasio scampò
all'improvviso assalto d'Enrico V (A. D. 1118):

«.... Mentre accadean queste cose, un tale che avea molti amici, mandò
nel silenzio della notte tarda un uomo al predetto egregio cardinale
Ugo, per avvertirlo che Enrico chiamato Imperatore Romano, veniva
armato contro il Papa entro il portico di San Pietro. Non serve ch'io
mi dilunghi: il Papa è prevenuto dal cardinale, e poiché, acciaccato
dagli anni e dalla infermità, non poteva così di repente fuggire, vien
condotto a mano dai servi, e messo su a cavallo fugge e nascondesi per
quella notte nella casa di Bulgamino. Fuggiam tutti con lui. Venuto
il mattino, turbati noi tutti e sbalorditi, poiché nè potevam rimaner
sicuri in città nè potevam fuggire per terra, essendo da ogni lato
piena d'inciampi la via, facciam consiglio di darci alla fuga per
mare, e così fu fatto. Entriam nel Tevere e con due galee scendiam
fino a Porto, ma quivi cielo e terra e mare e quanto è in essi tutto ci
congiura contro. Perché il cielo era carico di pioggia greve e grandine
e tuoni e lampi e folgori, e il mare e il Tevere insieme contrastavano
con tali tempeste alla nave, che, nonché metterci in mare, a stento
potevamo rimaner vivi nel porto. Inoltre già dalla ripa la crudel
barbarie degli Alemanni ci lanciava contro dardi avvelenati, e
minacciavano anche con fuoco di pece di abbruciarci, così galleggianti
com'eravamo, in mezzo all'acqua, se non davamo nelle mani loro e
il Papa e noi stessi. E credo che saremmo stati presi se coloro non
fossero stati impediti dalla notte e dall'ira del fiume. Che potevano
opporre a tanto que' miseri? Si presero, anzi Ugo cardinal prete fu
lui che si pigliò in collo il nostro Papa, e così di notte lo portò al
castello di San Paolo in Ardea[116].

«Il dì appresso all'aurora i Tedeschi tornarono volendo impadronirsi
di noi. Ma giurammo loro che il Papa era fuggito, e, sia lodato
Iddio, s'allontanarono da noi. Frattanto ritentammo se potevamo
ancora metterci in mare; di notte riportammo il Papa. Allora non senza
pericolo arrivammo ai flutti marini, e il terzo giorno toccammo alla
ripa di Terracina, e il quarto entrammo nel porto di Gaeta, e dagli
uomini di quella terra fummo ricevuti a grande onore e benignamente
trattati.»

Al romano Pandolfo succede come biografo pontificio l'inglese Bosone
cardinale del titolo di Santa Pudenziana. Ascritto, per quanto pare,
alla Curia verso il 1147, quando Eugenio III era in Francia, Bosone
continuò nel suo ufficio di scrittore apostolico fino al pontificato
di Adriano IV, il solo inglese che abbia mai saliti i gradi del
trono pontificio. Allora Bosone, com'egli stesso ci narra, nominato
Camerario fin dal principio da quel pontefice, e ordinato cardinale
diacono della chiesa dei Santi Cosma e Damiano, restò con lui assiduo e
familiare finché egli morì. Sollevato così alla dignità cardinalizia,
maneggiò con molta cura le finanze pontificie, costrinse colle armi
alla soggezione alcuni vassalli che s'erano ribellati alla Chiesa, andò
legato in Inghilterra. Morto Adriano, propugnò strenuamente la elezione
di Alessandro III, osteggiata da Federico Barbarossa, e, finché il Papa
fu eletto, tutelò in San Pietro il conclave dalle minaccie armate che
lo circondavano. Da Alessandro III ebbe il titolo di cardinale prete di
Santa Pudenziana, e partecipò con lui alla famosa lotta che si raccese
tra l'Impero e il Papato, e che, per la lega dei comuni lombardi,
trasformatasi in lotta nazionale, fiaccò l'Impero alla battaglia di
Legnano. Fissata la pace di Anagni, Bosone si trovò presente in Venezia
all'incontro del Papa coll'Imperatore, e seguì il Papa nel suo ritorno
a Roma (12 marzo 1178). Di lì a poco cessa ogni menzione di lui nei
registri pontifici, ed è probabile ch'egli verso quel tempo chiudesse
la vita sua.

Il lavoro di Bosone abbraccia, con qualche interruzione, la storia
dei pontefici da Stefano VI fino ad Adriano IV ed Alessandro III,
ma non ha valore di scrittura originale che per questi due ultimi
pontificati[117]. Per tutti gli altri, egli quasi a parola copia gli
antichi cataloghi e gli autori delle vite che lo precedettero, e per
l'undecimo secolo massimamente Pandolfo e il _Liber ad Amicum_ di
Bonizone di cui sto per discorrere. Ma se la prima parte dell'opera
di Bosone non reca nulla di nuovo, assai ci compensa la seconda parte
e più lunga. La familiarità sua coi due pontefici di cui scrive, il
grado eminente che occupò nella Chiesa, i varî e difficili ufficî suoi
pei quali si trovò a conoscere personalmente i principali personaggi
d'Europa, dànno autorità grandissima alle biografie di Bosone. Meno
ingegnoso e men colorito di Pandolfo, è più diffuso, più minuto, più
preciso di lui, e narra particolarmente tutti gli avvenimenti che
ebbero luogo a quel tempo nella Curia, e le relazioni di essi cogli
avvenimenti generali dell'età sua. I primi disaccordi tra Adriano
e Federico Barbarossa, la morte di Arnaldo da Brescia, le relazioni
del Papa col mezzogiorno d'Italia, la lotta d'Alessandro III e dei
collegati lombardi contro l'Impero, e finalmente l'abboccamento
del Papa e dell'Imperatore a Venezia, sono i punti più salienti del
vasto quadro che Bosone ha dipinto. Il suo racconto che vien come a
concludere le antiche redazioni del Libro Pontificale, ci fa sentir
che la storia si muove in un ambiente nuovo. In legger quelle due
vite si sente il rapido trasformarsi dei tempi, e ci si dischiude
innanzi allo sguardo il mare delle nuove vicende in cui siam per
entrare coi cronisti municipali. E appunto le relazioni del Papato non
solo con l'Impero ma anche coi municipî italiani, trovano in Bosone
un illustratore molto pregevole, sia ch'egli si appoggi a documenti
tratti dalla cancelleria pontificia, sia ch'egli scriva di memoria
le cose vedute. Pregevolissimo poi egli mi sembra per la storia di
Roma, e degno di essere ponderato più che non siasi fatto finora, per
contrapporlo agli esagerati scrittori di parte imperiale troppo seguìti
da qualche storico moderno. E dico contrapporlo, perchè vuol essere
anch'egli sottoposto alla critica, e gli scrittori di parte contraria
giovano alla lor volta a ritrovare nelle sue narrazioni quella giusta
verità da cui quasi sempre, pur con animo inconscio, si distacca ogni
storico che tratta cose nelle quali ebbe parte. Nè certo sarebbe potuto
accader diverso a Bosone. Anche tralasciando l'affetto personale che lo
avvicinava ai due pontefici di cui descrisse la vita, troppo sarebbe
stato difficile ad ogni uomo evitare qualche tendenza partigiana in
quel poetico periodo di lotte nelle quali per un momento la causa
nazionale d'Italia s'intrecciò a quella della Chiesa, e il lombardo
rintuzzar delle spade straniere ebbe per un momento il bagliore di una
guerra sacra.

Ma la prosecuzione del Libro Pontificale mi ha tratto lontano fuor
dell'undecimo secolo, ed è mestieri rifare indietro la via. Il
contrasto delle Investiture, lungo ostinato violento, die' luogo a
molti scritti polemici i quali anch'essi, qual più qual meno, hanno
valore storico, e taluni anzi sono addirittura scritti di storia.
Già si è menzionata la _Orthodoxa Defensio Imperialis_, opuscolo
composto senza dubbio a Farfa nei tempi di Pasquale II, e, parmi a
torto, attribuito generalmente a Gregorio di Catino[118]. Scrittura
sobria dotta misurata, la migliore forse che sia stata scritta in quel
tempo a favor dell'Impero per dimostrarne canonicamente i diritti,
sembra precorrere il futuro trattato dantesco _De Monarchia_, ed
è meritevole di speciale attenzione. Appoggiata all'autorità della
legge romana è un'altra difesa dei diritti imperiali scritta da Pietro
Crasso, e son pure notevoli alcuni scritti in favore dell'antipapa
Guiberto, e specialmente quello di Guido vescovo di Ferrara, il quale
dopo aver seguita la causa di Gregorio VII e avere scritto per essa,
mutò parte al morir di Gregorio e rovesciò le proprie argomentazioni
in un altro lavoro ricco di notizie storiche. Di carattere polemico
e di parte imperiale è pure l'apologia di Enrico IV, scritta da
Benzone vescovo d'Alba, in una prosa rimata abbietta per l'adulazione
sua verso l'Imperatore e per le turpi ingiurie che scaglia contro
i Gregoriani[119], e, peggior d'essa, il libello intitolato: _Vita
Gregorii VII_ che Bennone cardinale guibertino compose non solo contro
Gregorio ma anche contro i papi che lo precedettero e contro Urbano
II. Scritti calunniatori entrambi, hanno valore non pei fatti che
narrano, ma come espressione dello stato degli animi e della violenza
colla quale i due partiti avversi si combattevano. Ché se da un lato è
vera l'osservazione del Wattenbach che questa violenza era in Italia
più aspra e meno scrupolosa nel partito imperiale, e se i Gregoriani
avevano contro questo il vantaggio di una maggiore cultura e di una
moralità più elevata, certo è tuttavia che neppur essi si mostravano
miti quando scrivevano. L'eccitamento della passione apparisce in tutti
gli scritti di quella età, e come già s'è veduto in Brunone da Segni e
negli scrittori delle vite papali, così fra gli altri traluce nel fiero
ritmo che deplora la prigionia di Pasquale II, nello scritto sull'onor
della Chiesa composto da Placido priore della Badia di Nonantola, e in
quell'altro sul diritto del Papa a scomunicar l'Imperatore, scoperto di
recente e attribuito a Lamberto d'Ostia che fu più tardi papa col nome
di Onorio II[120]. Ma non è il caso d'indicar quì tutti minutamente gli
scritti polemici comparsi intorno a quel tempo, e poiché s'è altrove
accennato sufficientemente a Brunone da Segni, convien limitare il
discorso a due altri scrittori soltanto: Pietro Damiani e Bonizone da
Sutri.

Tra i polemisti papali dell'undecimo secolo senza dubbio tiene il
primo posto San Pier Damiani monaco e cardinale, uno dei più singolari
uomini che la età sua producesse, sempre in contrasto tra il misticismo
dell'anima che lo faceva anelare alla solitudine e all'asprezza delle
penitenze, e la inflessibile volontà d'Ildebrando che imperiosamente
lo costringeva di uscir dal chiostro a combattere con tutte le
appassionate forze che aveva in core. Natura nervosa sensibilissima
complessa, impastata di lacrime e di fuoco, di tenerezza e di violenza,
Pietro Damiani improntò di sé stesso tutti gli scritti suoi che si
appoggiano per lo più a fatti avvenuti di recente, e traggono argomento
dallo stato della società e soprattutto del clero, alla cui riforma
egli mirò con infiammato zelo. Sostenitore del celibato ecclesiastico,
gli opuscoli suoi sono la principal guida che ci aiuti a seguire lo
svolgersi di quella questione così fieramente contrastata, e che,
malgrado le resistenze, ebbe allora definitiva risoluzione secondo
il volere della Chiesa di Roma. Nè per quello solo, ma per quanti
problemi si trattarono allora, Pietro Damiani mescolato in tutti,
operò, scrisse, parlò, nei Concilî nelle Corti tra il popolo, teologo
ambasciatore agitatore. Da ciò s'intende che sarebbe impossibile
tracciar la storia della Chiesa e d'Italia al secolo XI, senza tener
conto delle opere polemiche e più dell'epistolario di quest'uomo,
nel quale si confusero in così strano congiungimento l'operosità
appassionata di un partigiano e l'ascetismo contemplativo dei primi
romiti d'Oriente[121].

Singolare anch'essa è la vita di Bonizone il cui _Liber ad Amicum_
è più che altro una storia del Papato ai suoi tempi scritta in forma
di trattato polemico. Nato, per quanto può congetturarsi, a Cremona
intorno al 1045, egli apparisce nel 1074 come suddiacono a Piacenza,
e un dei più zelanti capi di un partito popolare surto allora in
Lombardia e chiamato la Pataria, il quale, favorito dal Papa e
favoreggiandolo, osteggiava aspramente le tendenze imperialiste
dell'alto clero lombardo e il matrimonio dei preti. A capo del suo
partito Bonizone entrò presto con Dionigi vescovo di Piacenza in una
lotta che terminò sfavorevolmente a quest'ultimo, riprovato da Roma
e discacciato dai Patarini di Piacenza che non vollero più saperne di
lui. Nel 1078, Gregorio VII nominò Bonizone alla sede di Sutri, città
che per esser posta presso Roma sulla via che mette al settentrione
d'Italia, domandava un vescovo fedele a prova e di robusta energia non
pur nelle lotte spirituali ma nelle temporali, e pronto occorrendo a
difender la Chiesa colle armi. In quello stesso anno, volgendo gravi
le cose di Lombardia, Bonizone fu inviato colà dal Papa come Legato
Apostolico. Quivi lo troviam poi di nuovo nel 1081 sempre tra i più
attivi capi della Pataria e così formidabile, che Benzone d'Alba,
nella Apologia di cui si è discorso, congratulandosi coll'Imperatore
che impadronitosi di Runcio capo dei Patarini di Cremona lo aveva
fatto abbacinare e morire, soggiunge: «O Runcio, fatto deforme dormi
senza luce! Lode a Dio che mal poté fuggir dalle tue mani chi osò
assalirti colle ingiurie della sua lingua. Nelle quattro plaghe del
mondo si udì in qual modo tu, o formidabile potestà, ti vendicasti di
Runcio da Cremona e d'alcuni altri. Ma tutto il popol si lagna che di
Bonizello[122], d'Armanello e di Morticello, tre demoni, non avvenne il
medesimo»[123]. Sfuggito appena da quel pericolo, egli lasciò Lombardia
e corse a raggiungere il pontefice mentre Enrico IV muoveva verso Roma
(A. D. 1081). Poi quando l'imperatore volgeva indietro, egli s'affrettò
alla sua sede di Sutri dove l'anno appresso Enrico, tornato da quelle
parti, lo prese e lo trasse con sé prigioniero. Ma, o fosse rilasciato
o gli riuscisse una fuga, certo di lì a qualche tempo egli ricompar
sulla scena come Legato Apostolico in Lombardia, in Toscana, e presso
la contessa Matilde che lo ebbe tra i suoi consiglieri, sempre attivo
coraggioso indomabile. Forse per dargli modo di guidare più facilmente
le forze della Pataria in cui soffiava il caldo alito suo, egli fu
trasferito dalla Sede di Sutri a quella di Piacenza dove aveva fatto le
sue prime prove, e quivi, non si sa bene in quale anno ma certo prima
del 1092[124], egli finì tragicamente la vita martire della sua causa.
«Bonizone di pia memoria» così ne ha lasciato ricordo l'annalista
Bernoldo di Costanza «vescovo di Sutri, ma scacciato di quivi per la
fedeltà sua a San Pietro, da ultimo dopo molte prigionie, tribolazioni,
esilî fu eletto vescovo dai cattolici piacentini, ma gli scismatici di
quel luogo strappatigli gli occhi, dilaniate quasi tutte le membra sue,
lo coronarono di martirio.» Così l'ardore posto da lui nel combattere
eccitò la vendetta, e la rabbiosa voglia espressa da Benzone d'Alba era
finalmente sbramata e si mutava in trionfo.

All'attività nell'operare Bonizone accoppiò l'attività nello scrivere,
e lasciò dietro a sé testimonî di sua erudizione ecclesiastica una
collezione di canoni, un libro sui sacramenti e un estratto delle
opere di Santo Agostino. Ma lo scritto pel quale egli vuole essere
annoverato tra gli scrittori di polemica insieme e di storia, è un
libro intitolato: _Liber ad Amicum, de persecutione Ecclesiae_, nel
quale, appoggiato ai canoni e alla storia della Chiesa, risponde ad un
amico che gli proponea per quesiti come mai Iddio lasciasse affliggere
da tante calamità la sua Chiesa, e se fosse lecito di impugnare le
armi temporali a difenderla[125]. E a trovar la risposta egli risale
al passato e la cerca dalle prime vicende della Chiesa, condensate in
breve con molta ma confusa erudizione, fino a quelle dei suoi tempi
che narra distesamente. E nelle prime persecuzioni, dal sangue dei
martiri vede nascer la pianta del cristianesimo e prendere radice tra
i popoli, seguitar nel germoglio in mezzo a mille eresie da Costantino
fino ai Longobardi, fiorire coi primi carolingi, e di nuovo intristirsi
e risorgere con varia vicenda fino alla età sua. Qui comincia la parte
preziosa del libro, che lasciando molto in disparte le questioni
proposte dall'amico, narra a lungo con intelletto di storico e per
gli ultimi anni con voce di testimonio, i fatti avvenuti nel corso di
quasi mezzo secolo dai tempi di Leone IX fino a quelli di Gregorio VII.
Scrittore non elegante ma neppure artificioso, scrive semplicemente i
fatti come li sa, senza alterarli mai di proposito. Cercando in essi se
non le cause, almeno la giustificazione dei fatti posteriori, veniva
inaugurando uno studio quasi filosofico della storia mentre Gregorio
di Catino nella solitaria sua cella inaugurava la storia erudita. La
tendenza di Bonizone è sempre di giustificare i fatti narrati con
esempî canonici e scritturali, perché, convien rammentarlo, la sua
narrazione è intesa sempre a dimostrare che l'opera del Papato ai suoi
tempi era giusta e consentanea alle tradizioni della Chiesa. Ché se la
mal digerita erudizione sua gli fa sovente confondere date e alterar
fatti lontani da lui, man mano che s'avvicina all'età sua egli divien
più preciso, finché arrivato alla storia contemporanea, e specialmente
nella vita di Gregorio settimo, il suo racconto prende una forma molto
sicura e, per fermo, autorevole. Il Watterich, il quale ripubblicando
il lavoro di Bonizone ne ha scritto con gran diligenza la vita, trova
a ragione che ciò è assai naturale. Le stesse vicende della sua vita
lo avean condotto a conoscere tutti i principali uomini di quella età,
e a trattar con loro degli eventi di cui ha lasciato memoria. Gregorio
VII e il suo successore Desiderio di Montecassino, la imperatrice
Agnese, la contessa Matilde, Bruno da Segni, l'antipapa Guiberto e
tanti altri, gli furono personalmente noti, e con molti d'essi ebbe
consuetudine familiare, onde ad ogni nuovo avvenimento che narra, nasce
nella mente il pensiero ch'egli può averlo udito da chi ne fu autore
o lo vide compiere. Perciò amo scegliere dal suo libro il racconto di
uno tra i maggiori episodî che son registrati nella storia del medio
evo, l'episodio del convegno di Canossa (A. D. 1077), narrato com'egli
certamente dovette udirlo dai principali personaggi che vi presero
parte. La storia di quella scena e delle cagioni che la produssero
è nota all'universale, e par superfluo aggiunger nulla a chiarire il
racconto già per sé così chiaro di Bonizone.

«Frattanto poiché fu arrivata all'orecchio del popolo la notizia che
il re era messo al bando, tutto il nostro mondo romano tremò, e ne
fecero diverso giudizio gl'Italiani e gli Oltramontani. Imperocché
gl'Italiani dopo la Pasqua celebrarono a Pavia un Concilio di male
intenzionati, in cui per opera di Guiberto, del pari i vescovi e gli
abbati lombardi, imitando Fozio e Dioscoro, scomunicarono il signor
Papa della seniore Roma, nè mai s'era udito che l'inimico dell'uman
genere armasse a un sol tempo tanti mentecatti vescovi contro la Santa
Chiesa Romana. Mentre a persuasione del diavolo si facean tali cose
in Italia, i principi oltramontani convengono insieme e con salutare
consiglio chiamano quasi in giudizio le due parti, per potersi chiarire
se il Papa potesse o non potesse scomunicare il Re, o se l'avesse
o no scomunicato a ragione. Imperocché non volevano distruggere
la legge loro la quale prescrive che _se taluno non sia prosciolto
dalla scomunica entro un anno e un giorno, perda ogni onore delle sue
dignità_. Adunque i prudentissimi vescovi e gli abbati e i chierici di
quel regno, preso insieme consiglio decretarono secondo i decreti dei
Santi Padri e gli esempi dei maggiori, che il Re bene poteva essere
scomunicato dal Papa, e che come Fozio e Dioscoro era scomunicato
a ragione. Che più? Non trovando nulla di meglio in sul momento,
affermano con giuramento e appresso a loro affermarono i duchi Rodolfo,
Guelfo e Teodorico (Goffredo marito della eccellentissima Matilde era
morto pochi dì innanzi), insiem cogli altri maggiori del regno, che
se il Re volesse acconsentire al consiglio loro, essi entro il giro
dell'anno condurrebbero oltre i monti il Papa, il quale liberamente
lo assolverebbe dalla scomunica. E costrinsero il Re a giurare colle
sue labbra ch'egli aspetterebbe la presenza e il giudizio del Papa.
E fatto ciò tutti di nuovo giurarono unanimi, che se il Re tenesse il
dato giuramento, eglino farebber con lui una spedizione in Italia, e
assalendo i Normanni libererebbero Puglia e Calabria dalla dominazione
loro. Ché se pei suoi peccati egli venisse meno al giuramento, mai
più non lo riconoscerebbero per signore e sovrano. Frattanto mandano
a Roma il vescovo di Treviri affinché conduca il Papa oltre i monti ad
Augusta. Ma come egli per l'astuzia del Re fosse preso presso Piacenza,
e non fosse liberato prima che da Spira arrivassero lettere regie al
vescovo piacentino per la liberazione, io non dirò perchè la storia è
lunga.

«Il venerabile Gregorio per amor della pace muoveva intanto verso
Augusta tra somme difficoltà di viaggio, ché l'inverno allora era
gravissimo. Ma il Re sprezzando il suo giuramento entrò d'improvviso
in Italia, e sono alcuni i quali dicono ch'egli voleva all'impensata
impadronirsi del Papa, ciò che par verosimile. Imperocché Gregorio
vescovo di Vercelli e cancelliere suo, a cui i principi avean commesso
di condurre il Papa oltre i monti, poiché ebbe passato il giogo
d'Apennino, udì ch'Enrico nascostamente era arrivato a Vercelli, e
annunziatolo al Papa, questi subito si ritrasse a Canossa, sicuro
Castello della eccellentissima Matilde.

«Il re allora vedendo svelate le macchinazioni sue, deposta in
apparenza ogni fierezza, ammantandosi di colombina semplicità, andò
a Canossa. E per alquanti giorni durando tra la neve e il ghiaccio
a pie' nudi, ingannò i meno accorti, e dal venerabile Gregorio, che
però non ignorava l'astuzia sua, ottenne la richiesta assoluzione,
e fu mediatore tra loro il sacramento eucaristico nella celebrazione
della messa per questo modo. In presenza di vescovi, abbati, religiosi,
chierici e laici, lo fe' partecipe della mensa divina a questo patto,
_che s'egli s'umiliasse della mente come del corpo, e se credesse lui
esser Pontefice di diritto e sé scomunicato a imitazione di Fozio e di
Dioscoro, e se credesse di potere essere assoluto per quel sacramento,
gliene crescerebbe salute, ma se fosse altramente, come a Giuda gli
entrerebbe per la bocca Satana in persona._ Che più? celebrata la
messa ebbero la mensa in comune. Quindi assoluti tutti gli altri dalla
scomunica, fu imposto loro che si guardassero dal consorzio degli
scomunicati. Taluni anche asseriscono ch'egli giurò omaggio al Papa
per la sua vita, le sue membra e il suo onore, ma io di ciò che ignoro
interamente non vuo' affermar nulla.

«Intanto il Re, posciaché fu assolto dal bando, mostravasi in apparenza
devoto al Papa e obbediente, ché si sequestrava dal consorzio di tutti
i vescovi considerandoli scomunicati, ma di notte, aderendo ai consigli
loro nefandi, volgeva in mente ciò che i fatti mostrarono più tardi. E
così fece per tutto il tempo che rimase a Piacenza, assai temendo la
presenza di sua madre imperatrice religiosissima, che per avventura
colà si ritrovava.

«In quel tempo medesimo venne a lui quel Cencio odioso a Dio, di cui
facemmo sopra menzione[126], ed egli di giorno rifiutava di vederlo
come scomunicato, ma di notte si dava tutto ai pestiferi consigli suoi.
E vedendo che non gli riusciva di tôr via il Papa da Canossa, ei mosse
a Pavia. Quivi Cencio odioso a Dio morì d'amara morte, e Giliberto e
gli altri scomunicati ne celebrarono il funerale con pompa mirabile.»

Narrata la storia di Gregorio VII, il libro di Bonizone torna al
punto onde era mosso, e dagli ammaestramenti del passato viene nella
sentenza che pure tra le persecuzioni vive la Chiesa cara al Signore,
e fiorisce pur nei contrasti pei quali talora è di necessità costretta
ad usar l'armi temporali e le è lecito usarle. «Adunque» egli conclude
«combattano i gloriosissimi soldati di Dio per la verità, contrastino
per la giustizia, e combattano con tutta l'anima contro l'eresia che
si rizza contro a quanto si dice e si venera. Emulino nel bene la
eccellentissima contessa Matilde, la quale con virile animo, postergata
ogni cosa mondana, piuttosto è pronta a morire che a frangere la legge
di Dio, e con quante ha forze in ogni modo impugna l'eresia che ora
infierisce nella Chiesa. In mano sua, noi crediamo, sarà dato Sisara,
e come Jabin sarà disperso nel torrente Cison perché sterminò la vigna
del Signore e la divora, talché è fatto come sterco della terra. E
noi secondo il tenore del ministero nostro, preghiamo che l'eresia si
distrugga prontamente arsa dal fuoco e sgominata dalla severità del tuo
volto, o Signore.»

Così termina questo libro che aveva una specie di continuazione
storica in un altro opuscolo scritto da Bonizone contro Ugo cardinale
guibertino. È gran danno che questo opuscolo sia ora perduto, perché,
da quanto ne sappiamo, può rilevarsi che contenesse notizie importanti
pei primi anni del pontificato di Urbano II. Amico di Bonizone e suo
compagno di lotte era stato un nipote di papa Alessandro II, Anselmo
vescovo di Lucca, uom caro e devoto a Gregorio VII che lo aveva dato
per consigliere alla contessa Matilde, e tale era rimasto fino alla
morte. Di lui ci rimane una biografia che pei tempi e le persone che
tratta ha un certo valore, e fu scritta da un prete suo famigliare, di
nome Bardone, il quale con affetto fedele raccolse le memorie delle sue
virtù e dei miracoli che si moltiplicavano sulla sua tomba[127]. Più
importante e più noto è un curioso poema scritto da Donizone, monaco
benedettino addetto alla Chiesa di S. Apollonio nel castello di Canossa
ai tempi della contessa Matilde[128]. In versi barbari oltremodo ed
oscuri, egli narrò le gesta della sua signora, ispirato ad un affetto
profondo e ad un culto pieno di ammirazione per la fortissima donna.
Questo culto naturalmente scema autorità ai suoi detti, e l'ufficio suo
lo induce talora ad una cauta riserva, mentre la intralciata rozzezza
dei suoi versi lo rende a leggere faticoso e spesso difficile a capire.
Tuttavia, come nota un ardente ammiratore suo[129], tutti coloro che
scrivono di Matilde e dei suoi tempi sono costretti a valersi di lui
e a tenerne gran conto. Erroneo relatore dei fatti lontani, rapido
o silenzioso dove teme d'offender Matilde, del resto egli è minuto e
abbastanza preciso nei fatti dei quali ha personalmente contezza, e
l'affetto serbato oltre la tomba alla sua eroina gl'ispira nei rozzi
versi parole non prive di patetica eloquenza, come queste colle quali
nel chiudere il suo poema si volge a Canossa esclamando: «O candida
pietra.... un tempo fosti felice e gloriosa, allorquando la gran
Matilde fu teco; gl'illustri suoi antenati ti amarono di spontaneo
affetto e in alto edificarono le tue mura. La stirpe che in te riposa
non è più.... Più non esiste la grande Matilde, ma vive in te gloriosa
la sua memoria, e mentr'ella è in nuovi regni beata, risuona per ogni
parte la fama dell'eccelso suo nome.»[130]

Generazioni feconde di segnalati uomini furono queste, ma vinti tutti
da Gregorio VII che fu per certo lo spirito animatore della età sua.
Grandissimo uomo, superiore ad ogni altro papa dopo il primo Gregorio,
pontefice e monaco, visse nel mondo e col mondo, eppure tanto se ne
distaccò nella rigida fermezza dell'anima, da parer quasi diverso nella
natura sua dall'umano. Mentre lo straordinario uomo colla mano ferrea
scolpiva un monumento di storia maraviglioso, ei ne veniva insieme
scrivendo gli annali, e segnava le pietre miliari del suo cammino nel
registro delle sue lettere. Fin da tempi antichissimi e per tutto il
Medio Evo, la Curia Romana usò, e continua l'uso, di trascriver gli
atti spediti in suo nome e serbarli in appositi registri ordinati
cronologicamente in libri e divisi per anni. Questo provvido pensiero
avrebbe potuto preparare una infinita miniera di notizie alla storia,
se nel corso dei molti secoli e delle molte vicende, tranne alquante
lettere di Giovanni VIII (872-882), tutti i Regesti che stanno tra
quello di Gregorio primo e questo di Gregorio VII, non fossero andati
smarriti. Per maggiore sventura, neppur esso il Regesto di Gregorio
VII ci avanza intero, e solo ne son discesi a noi otto libri, talché
gli ultimi quattro anni di quel pontificato rimangono senza tanto
sussidio. Filippo Jaffé, che ha pubblicato la migliore e più completa
edizione delle lettere gregoriane[131], supplì in parte alla mancanza
raccogliendo ogni altra lettera che poté trovare sparsamente, edita
o inedita, ma pur così gli avanzi relativi a quell'ultimo periodo
riescono scarsi al paragone del desiderio. E tuttavia, anche monco
in tal guisa, questo massimo tra i documenti storici apparsi allora
in Italia, sparge un immenso tratto di luce sugli eventi di quella
età, e riproducendo con evidenza scultoria la figura grandiosa e
severa di Gregorio VII, ce lo mostra quale era nelle sue relazioni coi
contemporanei e nelle lotte sue quotidiane colle infinite difficoltà
che si levavano contro i suoi vasti disegni. Libro mirabilissimo, degno
di molta meditazione, solo paragonabile alle lettere di Gregorio Magno,
dalle quali però differisce per molti rispetti. Paragonar quei due
libri vale paragonarne gli autori. Benedetti entrambi dalla forza di
una fede senza confini, mossi dall'impersonale desiderio d'assicurar la
vittoria a questa fede, dotati entrambi di genio, superiore ciascuno di
essi all'età sua, eppure stretti e ossequenti a molti dei pregiudizi
che li circondavano, que' due papi differiscono tra loro per l'indole
diversa, e per un diverso concetto dell'idea della Chiesa dovuto alla
diversità dei tempi, delle circostanze, delle ispirazioni. Nel primo
d'essi, comparso sul limitare del medio evo, germoglia ancora la vita
del passato, e l'anima gli si tempra fra le tradizioni dell'antica Roma
e le tradizioni dei tempi apostolici, fra gli echi del Palatino e gli
echi delle Catacombe. Intelletto prudente pieghevole, cuore indulgente
e bisognoso d'espansione e d'affetto, anima essenzialmente umana,
il più perfetto uomo che sia comparso in tutta la storia medioevale.
L'altro vien fuori nel colmo del medio evo, dopo una lunga tenebra di
corruzioni e di barbarie, monaco fin dall'infanzia, non freddo, ma meno
dischiuso a tenerezza d'affetti, calmo severo inflessibile dominatore.
Riformare la Chiesa imputridita per le colpe passate, trasformare
l'ammollito clero in una falange d'apostoli austera e staccata da
ogni cura d'affetti mondani, l'episcopato sottratto all'autorità
regia e stretto intorno al pontefice pastore di popoli e di re, guida
suprema alla giustizia e alla pace. Tale il concetto di Gregorio VII
come scaturisce da queste lettere, se non materialmente scritte certo
almeno sempre ispirate da lui, ed esprimenti tutte in diversi casi
una tendenza sola. Ché se questo concetto, avanzando i termini del
possibile e del giusto non toccò interamente la sua meta, e presto
cedendo luogo a concetti nuovi si trasmutò in parte, non si scema per
questo la grandezza di Gregorio, ed egli rimane pur sempre nella storia
come un'aquila solitaria che posata sulla cima d'una rupe, ivi sovrasta
e guarda in basso impassibile e maestosa.



CAPITOLO VI

  Nuove fasi del pensiero italiano dal dodicesimo secolo al
    decimoquarto — Scrittori meridionali dei tempi normanno e svevo
    — Saba Malaspina — Storici del Vespro Siciliano — Vite dei Papi —
    Vita di Cola di Rienzo — Scrittori municipali lombardi del primo
    periodo — Ottone di Frisinga — Altri cronisti imperiali — Storie
    generali — Fra Salimbene da Parma — Cronisti di varie città
    dell'alta e della media Italia — Cronisti di Lombardia e della
    Marca Trivigiana — Albertino Mussato.


Mentre durava la lotta delle Investiture tra la Chiesa e l'Impero,
un grande mutamento veniva maturandosi nelle condizioni politiche
e intellettuali d'Italia, e al cessare di quella lotta la storia
letteraria italiana trovasi come all'improvviso in un campo diverso.
Nel Mezzogiorno, il reame fondato prima dai Normanni, radicatosi forte,
divenne la sola monarchia che rimanesse ferma in Italia, accolse per
un momento la sede dell'Impero, e, nè per le molte vicissitudini nè
pel mutare delle dinastie, si disciolse mai più. La Chiesa Romana
salita in alto per l'impulso poderoso di Gregorio VII, mentre allargava
vastamente le influenze sue spirituali e politiche, veniva aumentando
e rafforzando il patrimonio suo temporale, finché ai tempi d'Innocenzo
III († 1216) toccò il culmine di una potenza che cominciò a scadere
con Bonifazio VIII († 1303). Nell'Italia centrale e nell'alta, i Comuni
dopo una laboriosa gestazione di germi latenti, fiorivano a un tratto
d'ogni parte e si svolgevano rapidamente forti liberi e ricchi. Milano,
Venezia, Genova, Pisa, Firenze, ad ogni passo s'incontra una città, ed
ogni città è una potenza. Il sole sorto dopo i primi albori dell'età
precedente, s'accampa in cielo e sale a splendere la luce di Tommaso
d'Aquino, di Giotto e di Dante. Tra così rigogliosa ricchezza di vita,
il laicato comincia ad uscire dalla tutela ecclesiastica, anzi la
democrazia invadente nello Stato tenta d'invader la Chiesa. Dappertutto
al fervore del pensiero s'accompagna il fervore dell'azione, e lo
spirito filosofico appena rinato cerca subito di promuovere nuove
riforme. Agitato prima da Arnaldo da Brescia esso scruta arditamente
le dottrine ecclesiastiche difese da San Bernardo e più tardi dai
Domenicani, e intanto varie eresie serpeggiano tra il popolo, stendono
loro riti e ispirano sacri entusiasmi ed eccessi strani, mosse in parte
da tendenze non diverse da quelle che muovono l'ordine democratico
di Francesco d'Assisi. Le mutate condizioni mutano le condizioni
dell'Impero tedesco che, s'impegna in una lotta nazionale ai tempi
di Federico Barbarossa, s'italianizza un momento con Federico II, e
poi trapiantato di nuovo in Germania, perde ogni forza tra noi ed è
svigorito quando Arrigo VII vi discende confortato dai Ghibellini. I
nomi di guelfo e di ghibellino divengono pretesto e segnacolo delle
discordie italiane, che crescono quanto più esuberante è la vita, e
creano lotte e anarchie e tirannidi e sventure infinite alla patria. Ma
pur tra queste discordie si esplica la espressione vera del pensiero
e dell'indole italiana coll'esplicarsi delle arti e più della lingua,
che tenta le sue prime canzoni a Bologna e alla corte di Federico II
in Sicilia, canta tra il popolo le laudi spirituali dei Francescani, e
cercando perfezioni per tutta Italia, pone finalmente sede in Toscana
ad aspettare la vicina musa dell'Alighieri.

Tale il periodo di cui si debbono ora esaminare gli storici. Come
al rovinar dell'Impero s'erano inaridite le fonti storiche, così ora
quanto più cresce e si feconda la vita del popolo tanto si moltiplicano
le cronache e a poco a poco saliscono a dignità di storia. I materiali
ci si affoltano intorno così aumentati d'importanza e di numero, che
non è più possibile per me, e non gioverebbe oramai, il tener dietro
singolarmente alle centinaia di cronisti che spuntano fuori da ogni
parte d'Italia tra il dodicesimo secolo e il decimoquarto. È necessario
restringersi. E per cominciare dal Mezzogiorno, ai cronisti del primo
periodo normanno menzionati più sopra nel capitolo quarto, altri se
ne vogliono aggiungere[132] fioriti sotto gli ultimi re di quella
dinastia, i quali più o meno si collegano coi cronisti del periodo
svevo che succedette (A. D. 1194-1268). Le cronache monastiche danno un
secondo germoglio. Appartengono a questa età gli _Annales Casinensens_
(1000-1212), compilazione di diversi monaci che ritesserono la storia
di Montecassino traendola dagli storici che già si sono esaminati ed
aggiungendovi notizie proprie per gli anni posteriori. Il monastero
di S. Clemente di Casauria e quello di S. Bartolomeo di Carpineto
situati entrambi in Abruzzo, entrambi di fondazione antichissima,
ebbero anch'essi le loro cronache infarcite di documenti preziosi al
modo della cronaca di Farfa, e compilati sul finire del dodicesimo
secolo la prima da un Giovanni, la seconda da un Alessandro monaci
ciascuno del monastero di cui raccolsero le memorie. Di carattere più
vasto di queste cronache monastiche, la storia di Alessandro abbate
di Telese sugli avvenimenti del regno di Ruggiero di Sicilia (A. D.
1127-1135), è libro notevole malgrado le tendenze panegiriche a cui
l'autore s'ispira. Gli _Annales Ceccanenses_, pubblicati prima col
titolo di _Chronicon Fossae Novae_ dal monastero dove furono rinvenuti,
e composti in forma di storia universale, cominciano dall'èra volgare
e proseguono fino al principio del secolo decimoterzo in cui furono
scritti, per quanto pare, da Landulfo abbate di S. Maria de Flumine
presso Ceccano[133]. Inutile rabberciamento di antiche scritture nella
prima parte, questo lavoro divien diffuso e circostanziato nella parte
più recente. In essa, all'anno 1192, anche si contiene di diverso
autore una rozza ed oscura poesia contro Enrico VI imperatore, il
quale pel suo matrimonio colla principessa normanna Costanza, aveva
impiantata nel mezzogiorno la dinastia sveva degli Hohenstaufen, e
s'era fatto odioso così per l'influenze tedesche che introduceva,
come per le sue crudeltà contro il partito normanno divenuto oramai
nazionale e caro ai Siciliani. Più universale ancora è la cronaca di
Romualdo Guarna arcivescovo di Salerno e celebrato tra i medici della
scuola salernitana. La quale cronaca incomincia dalla creazione del
mondo e scende fino alla seconda metà del secolo dodicesimo dove si
interrompe. Uomo di alto affare nella Corte normanna dei due Guglielmi
di Sicilia, ai quali era legato di sangue, occupò cariche eminenti
presso quei due sovrani, ed ebbe gran parte nei molti rivolgimenti che
agitarono quegli ultimi regni della dinastia degli Hauteville. Andò
a Venezia rappresentante di Guglielmo II il Buono, e prese parte in
nome del suo signore al convegno e ai trattati di pace che ivi ebbero
luogo tra Alessandro III e i Comuni Italiani da un lato, e Federico
Barbarossa dall'altro. Accolto con particolari attestati d'onoranza
dall'Imperatore, e condotti a termine con buon esito i suoi negoziati,
egli parla del convegno di Venezia con diffusa compiacenza nella sua
cronaca. Questa, come può credersi, ha gran pregio quando giunge ai
fatti contemporanei, sebbene una certa parzialità spiegabile in un
uomo vissuto in mezzo alle lotte vive e violente dei partiti, inclini
spesso l'autore a colorire i fatti o a sbiadirne le tinte o a tacerli,
secondo il vantaggio del partito suo. Egli stava coi governativi e
monarchici, ai quali si opponeva il partito feudale dei baroni mal
sofferenti degli uomini nuovi che salivano al potere con danno loro.
A questo partito apparteneva invece Ugo Falcando, robusto e generoso
scrittore che si guadagnò colla sua storia dei fatti di Sicilia il
glorioso soprannome di _Tacito del Medio Evo_[134]. È disputa sul
luogo della sua nascita, ma par vero ch'egli nascesse in Francia, e
venuto in Sicilia da giovane, rimanesse non breve tempo nell'isola
dov'ebbe, come narra egli stesso, favore, sostegno e condizione
onorata. Ripassato in Francia o, forse, in Inghilterra, scrisse la sua
storia e la compì verso il 1169. Poi più tardi, nel 1189, ripresa la
penna, in una lettera a Pietro di Blois toccò nuovamente delle cose di
Sicilia quando Guglielmo II moriva e Tancredi di Hauteville levatosi
a capo del partito siculo-normanno e proclamato re, tentò d'opporsi,
e per quattro anni che durò in vita si oppose, alle pretese del
tedesco Enrico VI. Partigiano ed amante della feudale nobiltà normanna
stabilita in Sicilia, Falcando ne accomuna gl'interessi a quelli del
Regno, che gli è caro malgrado le amare parole che di tanto in tanto
volge a Siciliani e a Pugliesi, mosso piuttosto da antipatia di partito
che da antipatia nazionale. Diverso in ciò da Romualdo Salernitano,
egli ci parla appena di sé, e da questo riserbo deriva la povertà delle
notizie che rimangono sul conto suo. Anche vi è un'altra diversità
tra lui e l'arcivescovo, che dove questi tende a tacere le circostanze
sfavorevoli al suo partito, Falcando invece è più coraggioso e affronta
la difficoltà francamente, esponendo, mentre li giudica, i fatti
pervenuti a sua notizia o per averli egli stesso veduti o per averli
uditi dai ragguagli dei nobili normanni ai quali fu familiare. E
sebbene egli attinga a fonti partigiane e parteggi egli stesso in cuor
suo, tuttavia è più imparziale che non potrebbe aspettarsi. Inoltre,
sagace com'egli è ed acuto, sente che la nuda narrazione dei fatti
non basta all'ufficio di storico, e ci serba una quantità di notizie
che non sapremmo altrimenti, intorno alla costituzione politica della
monarchia, alle condizioni dei feudatari, dei municipî e del popolo.
Il Gibbon, malgrado qualche lieve inesattezza, parla di Falcando con
l'usata intuizione sua, e dice: «Falcando è stato chiamato il Tacito
di Sicilia, e io dopo una giusta ma immensa riduzione dal primo al
dodicesimo secolo, da un senatore ad un monaco, non lo vorrei privar
del suo titolo. La sua narrazione è rapida e lucida, il suo stile
ardito ed elegante, il suo spirito d'osservazione è acuto: aveva
studiati gli uomini e sente come un uomo.»[135] E narrando le ultime
vicende del regno normanno, e come Enrico VI se ne impadronisse
coll'armi «contro l'unanime volere d'un popolo libero,» il Gibbon reca
in parafrasi le profetiche parole che Falcando compiuta la sua storia
mandava a Pietro di Blois sul cominciar della lotta. Le quali parole
son qui ripetute per intero come le scrisse lo storico di Sicilia, a
testimoniare i nobili affetti e la malinconia profonda che gl'ispirava
la caduta del regno normanno.

«E Dio volesse che entrata col re tedesco in Sicilia, mancasse
a Costanza la fermezza del perseverare, nè le si desse copia dei
campi messinesi, o di trapassare i confini dell'Etna! Là rimarrebbe
benissimo quella gente dove la crudeltà dei Pirati verrebbe in cozzo
colle atrocità dei Teutoni.... Ma i luoghi interni di Trinacria,
massime dove splende il fulgore della città nobilissima preminente
per singolar merito a tutto il Regno, sarebbe nefando e mostruoso
veder polluti dall'ingresso dei Barbari, scomposti dal terrore degli
irruenti, esposti alle rapine dei predoni, o turbati dalla barbarie
delle leggi straniere. Ma tu mi dirai, ‘A che vuoi venire, e qual
consiglio stimi che prenderanno i Siciliani? Si eleggeranno essi un
Re e combatteranno a forze unite contro i Barbari, ovvero cedendo
alla diffidenza e all'uggia della insolita impresa, preferiranno
accettare ogni duro giogo di servitù piuttosto che provvedere alla
fama e alla dignità propria, alla libertà della patria?’ Io stesso
trattando tacito questi pensieri nella mente dubbiosa, tenzono tra me
distratto dalle varie ragioni, nè veggo chiaro il partito da scegliere.
Certo se si eleggeranno un Re di non dubbio valore, e se i Saraceni
non discorderanno dai Cristiani, l'eletto Re potrà soccorrer le cose
quasi disperate e perdute, e conducendosi prudentemente respinger le
incursioni dei nemici. Imperocché s'egli si concilierà il favor dei
soldati aumentando gli stipendî, se conferendo beneficî si cattiverà
l'animo della plebe, se premunendo con cura le città e le fortezze,
anche in Calabria, disporrà presidî in luoghi opportuni, ei potrà
protegger per modo Sicilia e Calabria che non cadano in man de'
Barbari. Ma in Puglia dove godon sempre del nuovo e voglion sempre cose
diverse, non reputo che si possa riporre speranza o fiducia veruna.
Che se raccogliendo soldati a forza li comanderai alla battaglia, e'
ti si metteranno in fuga prima che si dia fiato alle trombe: se li
porrai a difender le fortezze, ecco che gli uni tradiscono gli altri
e ti introducono dentro il nemico alla insaputa o a malgrado dei
compagni. E poi perché è difficile che, tolto il timore del re, in
tanto turbinar delle cose i Saraceni non sieno oppressi dai Cristiani,
se i Saraceni stanchi per le molte ingiurie di costoro comincieranno
a discordarne, e occuperanno le castella marittime e le fortezze della
montagna, per modo che si debba combatter da un lato i Tedeschi a tutta
possa, e dall'altro respingere le frequenti scorrerie dei Saraceni,
che credi faranno i Siculi oppressi tra queste angustie, e posti come
tra il martello e l'incudine? Faranno come potranno, e arrendendosi
in quella miserevole condizione ai Barbari si metteranno nella potestà
loro. Oh voglia Iddio che s'accordino i voti della plebe e dei nobili
de' Cristiani e de' Saraceni, affinché eleggendosi concordemente un
Re, si sforzino di contrastare con ogni potere, con ogni sforzo, con
ogni aspirazione alla irruenza dei Barbari. Infelice isola condannata
dalla sorte a nutrire e far così prosperare i tuoi figli, che quando
sono giunti alla desiderata maturità di lor forze, prima ne fanno
esperimento in te, e gli allevati dalle tue pingui mammelle ti scerpono
ricalcitrando le viscere! Così molti nutriti già nel tuo seno e nelle
tue delizie, t'afflissero poi con infinite ingiurie e guerre infinite.
Così anche Costanza educata dalla cuna alla abbondanza delle tue
delizie, istruita nelle tue dottrine, informata ai tuoi costumi, se
n'andò da ultimo tra i Barbari ad arricchirli delle tue ricchezze, ed
ora con esercito ingente viene a ripagarti una scellerata mercede, a
distrugger violenta la ornatezza della sua bella nutrice, a contaminar
colla sozzura barbarica quella tua purezza per cui sovrasti ad ogni
altro regno. Muoviti ora o Messina città possente e prevalente per
molta nobiltà di cittadini, segui qual miglior consiglio t'è dato
guardando alla salvezza tua, per fiaccare i primi sforzi dei Barbari
e vietare il passo del Faro alle armi nemiche. Preme che tu maturi
ponderatamente ciò che farai. Imperocché come tu prima ti presenti
innanzi alle navi che vengono in Sicilia appena passato il Faro, anche
t'è necessità sostenere i primi impeti dei combattenti e sperimentare
i primi auspicî della guerra. Certo ti crescerà gran forza e fiducia,
grande speranza e sicurezza, se guardi al valore e alla audacia dei
cittadini tuoi, i vecchi atti a maturar consigli, i giovani avvezzi
alle cose di guerra, il giro delle tue mura tutto cosparso intorno
di torri, se pensi alle forze tue colle quali spesso frangesti la
superbia dei Greci, e spogliando Affrica e Spagna ne traesti spesso
preda ingente e spoglie opine. Non ti dia dunque nessun timore, nessun
terrore la turbolenta barbarie di costoro, se resistendo fortemente
potrai sostenere i primi assalti, scuoterai dal tuo collo un giogo
durissimo e spargerai lontano la gloria immortale del celebrato tuo
nome.»[136]

Con Ugo Falcando può dirsi che abbiano termine gli storici del
periodo normanno, dai quali si fa passaggio a quelli del periodo
svevo mediante il carme di Pietro da Eboli (A. D. 1187-1195), che in
versi eleganti narrò la lotta fra Tancredi ed Enrico VI, scrivendo
piuttosto un panegirico di quest'ultimo che una storia. È un periodo
povero di cronisti speciali per la bassa Italia, sebbene in esso
grandeggi la figura di Federico II che tanto affascinò le menti de'
suoi contemporanei in Italia, e la corte sua di Sicilia divenisse
convegno d'uomini dotti e di letterati, e quasi culla della poesia
italiana. La cronaca anonima _De rebus siculis_, gli _Annales Siculi_,
il _Breve chronicon lauretanum_ sono scritture utili a consultar
dallo storico ma di mediocre valore, e solo davvero importanti tra
i cronisti meridionali di quella età sono Riccardo da San Germano,
Niccolò di Jamsilla e Saba Malaspina sul continente, e nell'isola di
Sicilia Niccolò Speciale e Bartolomeo da Neocastro. Il primo di questi
scrittori, nato nella città di San Germano alle falde di Montecassino,
fu notaio imperiale e adoperato in molti negozî da Federico II. Le
molte cose vedute, l'esperienza della vita pubblica, e, forse, le
tradizioni della letteratura storica attinte alla grande Badia presso
cui era nato, lo invogliarono a scrivere la storia dei tempi che
corsero dalla morte di Guglielmo il Buono fino al 1254. Lavoro preciso
e semplice, scritto con imparzialità diligente, ricco di fatti narrati
schiettamente, senza nessuno ornamento oratorio, povero di colorito,
cronaca vera e non storia, esso è la guida più sicura che abbiamo
per quegli anni intorno alle vicende di Federico II e delle provincie
napoletane.

Onesti narratori anch'essi gli altri due, ma parteggiatori entrambi
e appassionati nella lotta risorta per la terza volta tra la Chiesa
e l'Impero, della quale descrivono le ultime vicende. Del ghibellino
Niccolò di Jamsilla non sappiam nulla oltre il nome, e questo pur
dubbiamente, ma dalla stessa opera sua può dedursi ch'egli era notaio,
familiare e segretario di re Manfredi, e suo seguace negli anni
1253-1256, tanto appariscono minute e sicure le notizie che egli più
specialmente ci dà per questi anni del regno di quel cavalleresco
sovrano. Scrive con eleganza dignitosa, e le tendenze ghibelline non
nuocciono alla sua fedeltà di storico, ché anzi lo stesso parteggiar
suo gli cresce forse la naturale attitudine di connettere insieme
gli avvenimenti e di giudicarne da un punto di vista complessivo e
sintetico. Questa attitudine egli ha comune con Saba Malaspina, di cui
pure si hanno scarse notizie. Saba nacque a Roma d'una vecchia famiglia
romana, fu decano della Chiesa di Mileto in Calabria, e addetto alla
Curia di papa Martino IV, durante il cui pontificato (A. D. 1281-1285)
scrisse la storia sua e la dedicò ad un collegio di ufficiali della
Curia. In questa storia, egli dichiara di voler narrare i fatti veri
de' quali fu testimonio egli stesso, o quelli, che divulgati tra i
contemporanei, gli sono giunti all'orecchio e gli paiono aver sembiante
di certezza. L'opera divisa in due parti, tratta gli avvenimenti del
regno dalla morte di Federico II fino alla morte di Carlo d'Angiò
(A. D. 1250-1285). È la storia di un periodo agitato e pieno di
rivolgimenti, e abbraccia le fortunose vicende del regno di Manfredi.
Il quale da Federico II colla regia corona ereditò il mortale odio del
partito guelfo, e la nimistà dei papi onde si spianò la via a Carlo
d'Angiò, finché alla battaglia di Benevento cadde Manfredi cessando
insieme il regno e la vita. E dopo Manfredi, continua Saba narrando lo
stabilirsi di Carlo d'Angiò, e le molteplici sue relazioni col partito
guelfo in tutta Italia, e specialmente coi papi e col municipio di
Roma di cui fu senatore; e il tentativo del bello e infelice Corradino
di Hohenstaufen che scese di Germania a sedici anni per riacquistare
il regno de' suoi, ma fu vinto a Tagliacozzo, e il fosco Angioino
gli fe' come un fiore reciso cader sul patibolo la testa giovinetta
vendicata più tardi in Sicilia quando suonò la tremenda campana del
Vespro[137]. Guelfo d'animo e addetto alla curia pontificia, Saba rende
bella giustizia al valore e alle sventure di Manfredi e di Corradino,
e non si studia di nascondere le colpe del re Carlo di cui, pure
pregia oltremodo le doti che gli valsero di conquistare il regno e di
piantarvi la sua dinastia. Gonfio ricercato oscuro di stile, rozzo nel
suo latino, non difetta tuttavia d'efficacia nè di colorito, ispirato
com'è dalla importanza del suo soggetto e dai sentimenti che gli desta
in core il continuo mutarsi di tante fortune[138].

Lo scoppio improvviso che determinò la rivoluzione del Vespro e lo
stabilirsi della stirpe d'Aragona in Sicilia, trovano in Saba uno
storico acuto ed onesto, che pur malgrado l'animo sfavorevole, seppe
vederne le cause e le conseguenze, e con lui sono tra i principali
storici di quell'avvenimento i siciliani Bartolomeo da Neocastro
e Niccolò Speciale. Bartolomeo da Neocastro, messinese, giurista,
magistrato repubblicano di Messina durante la rivoluzione del 1282,
indi avvocato del fisco e nel 1286 ambasciatore di Giacomo I di Sicilia
al pontefice Onorio IV, è forse il miglior testimonio che ci rimanga
intorno a quel fatto. La sua narrazione muove dal 1250 e va fino al
1293, distendendosi nell'ultimo periodo di tempo e descrivendo gli
eventi ancor freschi nella memoria dell'autore con intendimento onesto
di dire il vero, salvo che un soverchio amore alla nativa Messina
lo rende talvolta ingiusto ai Palermitani e a ciò ch'essi fecero per
affrancar l'isola dalla tirannia dei Francesi. La _Historia Sicula_ di
Niccolò Speciale abbraccia un periodo posteriore, e, muovendo appunto
dal Vespro, giunge fino al 1337, e narra la storia dei primi regni
aragonesi di Sicilia. Uomo d'alto stato e ricco di buone lettere,
Niccolò Speciale era stretto di amichevoli legami colla corte di
Federico II d'Aragona, il quale nel 1334 mandò anche lui ambasciatore
a papa Benedetto XII. Da questi legami, nota giusto l'Amari, «abbiamo
un bene ed un male, il bene che fu in luoghi e in tempi da conoscere
appunto, e non da uom del volgo, ciò che scrisse, veduto cogli occhi
propri e ritratto da vicino; il male che poté peccar di prudenza
cortigiana contro la verità.»[139]

Dalla famosa isola tornando ora di nuovo alla terra ferma, senza
indugiarmi a parlare degli scrittori dei primi tempi angioini, che
sono scarsi e di poco interesse allo scopo del libro, passerò d'un
tratto a parlare degli scrittori romani. Anch'essi scarseggiano, e dice
vero il Gregorovius osservando che le migliori notizie sulla storia
municipale di Roma ci sono fornite dai cronisti inglesi, Guglielmo
di Malmesbury, Rogero Hoveden, e soprattutto da Matteo Paris i cui
lavori sono preziosi alla storia italiana del tredicesimo secolo.
Di Saba Malaspina si è detto come, egli romano, trattasse insieme
gli avvenimenti del reame napoletano e quelli di Roma allora assai
mescolati. Le vite dei papi, dopo quelle che scrisse il cardinal Bosone
furono prima ripigliate da un altro inglese, Giovanni di Salisbury, del
quale avanza un frammento pregevolissimo per la storia di Eugenio III,
che fu pubblicato col titolo di _Historia Pontificalis_[140]. Dopo lui
un prete anonimo narrò le _Gesta d'Innocenzo III_ (A. D. 1198-1216),
e trattò le relazioni di quel pontefice illustre verso l'Oriente e la
Sicilia, con diffusione e autorità di contemporaneo, ma non chiaro nè
elegante. Scritta anch'essa da un contemporaneo, ma parziale assai e
nemica all'imperatore Federico II, è la vita di Gregorio IX († A. D.
1241). A questo, di gran lunga più pregevole tien dietro la storia
d'Innocenzo IV (A. D. 1243-1254), composta da un cappellano di lui,
Niccolò da Calvi, scrittore apologetico ma bene informato e diligente,
che ricorda i migliori scrittori del Libro Pontificale e li supera
per la facile eleganza dello stile e per una purezza di linguaggio,
che ci fa sentire come oramai la buona latinità sia risorta e s'avanzi
rapida nella via di maravigliosi progressi[141]. Dopo Niccolò da Calvi
non abbiam più proprie biografie di pontefici, ma solo aridi cenni
riuniti più tardi nelle raccolte che si vennero compilando al secolo
decimoquarto, quando la storiografia pontificia, trasformandosi,
prendeva un carattere più generale nella cronaca di Martino di Troppau,
famoso col nome di Martin Polono, e in quelle, men celebrate ma
migliori assai, dei domenicani Bernardo Guidone e Tolomeo di Lucca, le
quali muovendo entrambe dall'èra volgare, cessano nella prima parte del
secolo decimoquarto[142].

Il passaggio della sede pontificia ad Avignone, togliendo ogni
occasione di scriver da Roma la storia dei papi, riuscì a danno della
storiografia romana ed è ragione che sia così. I municipi dell'alta e
della media Italia rappresentavano propriamente uno stato, ed avevano
una vita politica che difettava alla città di Roma assorbita com'era
nella vita politica del Papato. Quando questa veniva meno, il valore
della storia di Roma non superava quello d'ogni mezzano Comune fuorché
per la grandezza del nome romano e de' suoi ricordi immortali. E ciò
è così vero, che appena tra i ruderi giacenti del Fôro, si rizzò la
figura fantastica di un uom singolare che, risognando la vaghezza delle
glorie antiche, salì al Campidoglio, brillò quivi un momento e svanì
nel buio, tosto ecco apparire una cronaca a ricordarne le gesta, ma
venne isolata, e la _Vita di Cola di Rienzo_ riman solitaria com'è
solitaria la figura dell'eroe che descrive.

Tra pochi altri frammenti di mediocre valore, la _Vita di Cola di
Rienzo_ è il lavoro storico più poderoso prodotto da Roma nel secolo
decimoquarto. Della autenticità di questo lavoro fu mosso dubbio e
taluno anzi la negò addirittura, e neppur io, lo confesso, oserei
dichiararmi scevro da ogni esitazione. Ma le ragioni per ritenerlo
autentico mi sembrano tali, che quando per uno studio accurato dei
manoscritti che restano, e per un esame storico e filologico del
testo, si potrà pronunciare un giudizio definitivo, io fo stima che
la sentenza sarà favorevole alla cronaca, e se ne avrà una edizione
genuina e monda dagli errori e dalle interpolazioni che la deturpano
adesso. Del resto pur così imperfetta come oggi la leggiamo, quella
vita è piena d'attrattive, dettata in dialetto romano, animata da
esclamazioni e da dialoghi, semplice evidente piena di movimento e di
vita. Mossa da grande ammirazione per Cola, è temperata dal profondo
patriottismo del cronista, il quale amante ancor più di Roma che di
lui, ci mette innanzi l'immagine fantasiosa del Tribuno in tutte le
sue strane contraddizioni. Quel suo misto di senno e di capricci,
la grandezza classica dei propositi di un uomo quasi ispirato, e
le puerili vanità di chi a un tratto salisce da umiltà di stato
ad autorità illimitata, ogni impulso, ogni nota caratteristica di
quella curiosa indole, ci si descrive con tanta vivacità, che egli
sembra risorgerci innanzi a rivivere la clamorosa sua vita. E con lui
rivediamo i legati del Papa e i baroni, ora accarezzati or minacciati
da Cola, tremargli innanzi di paura e d'ira e covar la brama della
vendetta in core; e le sedizioni bollire e sbollire, e agitarsi armati
que' turbolenti Romani e muovere a combattere nelle piazze e talora
acquetarsi e poi frementi riarder di nuovo e tornare alle ire, alle
grida, ai tumulti. È quel libro un romanzo immaginoso e vivace assai
più di quello del Bulwer ed è insieme storia, come il tipo del tribuno
romano è di quei tipi che fermano a un tempo la mente degli storici e
la fantasia dei poeti[143].

Se in Roma era grande povertà di cronisti, ben diverso accadeva in
altre parti d'Italia, in Lombardia soprattutto, dove la vita comunale
si svolgeva floridissima, le libertà cittadine si allargavano, e
con esse i commerci e le ambizioni e il cozzar delle armi agitate
talora contro le invasioni tedesche, più spesso in guerre fratricide
tra le città vicine e fin dentro le mura d'una sola città. Già fin
dal secolo undecimo, quando la Chiesa lottava per la supremazia,
comincia in Milano a profilarsi la storia secondo le nuove tendenze,
e un elemento laico e popolare penetra in essa e vi soffia dentro
l'alito della vita sua. In tal modo Arnolfo, sebbene partigiano della
aristocrazia ecclesiastica milanese, è inconsciamente animato ancor
egli da questo elemento nelle _Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium_
(A. D. 925-1076). In esse egli narra quel periodo agitato d'ansie e
di contrasti tra l'alto clero milanese da un lato, e dall'altro gran
parte del basso clero e del popolo: quello per antica tradizione ostile
alle pretese romane, geloso di sue prerogative e di sue ricchezze,
contrario al celibato ecclesiastico, ma il basso clero e il popolo
trascinati dalla corrente delle idee riformatrici, e addicentisi a quel
partito della Pataria di cui abbiam veduto farsi campione a Piacenza e
divenir martire Bonizone da Sutri. Arnolfo inizia a Milano la cronaca
municipale, che ci apparve iniziata a Venezia da Giovanni diacono, e
nelle pagine d'Arnolfo, dice assai bene uno scrittore recente, «non
siamo più nel chiostro, siamo nella città in mezzo ai suoi tumulti e
alle sue lotte.»[144] E mentre la Pataria milanese aveva anch'essa i
suoi martiri in Arialdo e in Erlembaldo delle cui vite ci rimane un
racconto, altri storici sorgevano a narrare le vicende delle lotte
religiose e delle civili. Così due Landolfi, il seniore e il giuniore,
riproducevano il popolo tra cui vivevano, il primo addetto al partito
degli arcivescovi, fiero appassionato parzialissimo; assai migliore e
moderato il secondo, più veritiero e ricco di maggior dottrina e di
maggior diligenza. Nato sul cadere dell'undicesimo secolo, Landolfo
giuniore fu educato con cura, viaggiò per motivo di studî a Parigi,
dove allora conveniva d'ogni parte d'Europa la gioventù ad istruirsi,
e tornato in patria fu addetto alla chiesa di San Paolo riedificata
da suo zio Liprando, eloquente ardentissimo e perseguitato capo
della Pataria. Perseguitato ancor egli ma pur tenuto in gran conto,
Landolfo giuniore scrisse una storia di Milano dal 1095 al 1137, che,
al dire del Muratori, è breve ma contiene tutti i maggiori eventi che
muovevano allora Milano, e i rivolgimenti degni di memoria, ed esprime
vividamente quel che poteva in que' tempi, e potrà sempre, la cupidigia
del dominare. Nè la narrazione di Landolfo si restringe entro le
mura della città, ma s'allarga ad illustrare molta parte della storia
italiana[145].

Contemporanei a Landolfo un Magister Moyses celebrava verseggiando le
lodi della nativa Bergamo, dov'era tornato dopo essersi guadagnato
ricchezze ed onori alla corte di Costantinopoli, e un altro poeta,
anonimo, piangeva la devastazione di Como compiuta dai Milanesi e la
guerra lunga ed aspra che la precedette dal 1118 al 1127. Ma i tempi
procedevano rapidi, e i nuovi avvenimenti apparecchiavan materia ai
nuovi cronisti, tra i quali ci si presenta primo un Milanese, a cui
dobbiamo una buona storia delle guerre sostenute dai Milanesi contro
il Barbarossa[146]. Il momento solenne per la storia di Milano, che
rasa al suolo e solcata dall'aratro del vincitore, era risorta a un
tratto indomita e più implacabile che mai contro Federico, le feroci
crudeltà di quella lotta accanita, le nimicizie mortali di talune
città fra loro, e la gloriosa concordia delle altre che liberò l'Italia
colla vittoria di Legnano (A. D. 1176, 29 maggio), trovano in questo
cittadino di Milano un testimonio oculare che narra i fatti con calma
austera e con desiderio di cavarne ammaestramento per le generazioni
future: «Ciò ch'io vidi e che udii di verace, tenterò di scrivere.
Imperocché è di grande utilità a chi vien dopo l'imparare da ciò che
è accaduto a guardarsi per l'avvenire.» E alla voce di questo severo
cronista che narra le difese della patria, dalle coste adriatiche fa
eco quella del fiorentino Boncompagno che descrive con molto maggiore
impeto un episodio di quel contrasto, l'assedio d'Ancona, la quale
stretta dai soldati imperiali guidati da un prete guerriero, Cristiano
arcivescovo di Colonia, si difese ostinata e costrinse i Tedeschi a
levare l'assedio.

Guardando le cose con occhio affatto diverso e appassionati per la
parte imperiale, scrissero Ottone Morena e suo figlio Acerbo, i quali
lasciarono memoria delle cose operate in Italia da Federico I, e delle
vicende di Lodi loro patria. Ottone che fu giudice e messo imperiale
di Lotario e di Corrado III, produsse fino al 1162 il suo lavoro,
continuato poi fino al 1167 dal figliuolo Acerbo, caro all'imperator
Federico che lo nominò podestà di Lodi. Alla costui morte avvenuta in
Siena nel 1167, un anonimo proseguì la storia interrotta, e la prolungò
di qualche anno con intelletto alquanto più nazionale dei due Morena,
i quali vincolati d'affetto all'Impero e accesi dell'antico odio di
Lodi contro Milano, sono ardentemente nemici a quest'ultima. Ma pur
con questo difetto di parzialità, per la forza dell'ingegno e della
espressione, e per le molte notizie che recano, voglionsi tenere tra le
migliori fonti che ci rimangono di quella età memoranda[147].

La figura grandiosa di Federico Barbarossa ebbe fra i Tedeschi uno
storico il cui nome di necessità si registra in queste pagine. Fu
questi Ottone vescovo di Frisinga, nato verso il 1114 dalle seconde
nozze di Agnese figlia dell'imperatore Enrico IV, con Liupoldo
marchese d'Austria, e così fratello uterino del re Corrado III e zio
del Barbarossa, che l'ebbe tra i più fidati consiglieri e partecipe
negli affari dell'Impero. Ingegno pronto e versatile, indole mistica e
malinconiosa, Ottone tendeva al chiostro, e dopo alcun tempo passato
agli studi in Parigi, si rese monaco cisterciense nella badia di
Morimund. Di quello stesso monastero fu eletto abbate, ma presto dopo
fu sollevato alla sede episcopale di Frisinga, senza però ch'egli
smettesse l'abito e gli affetti di monaco. Durante la seconda crociata
guidò in Palestina contro i Saraceni un esercito che fu distrutto,
e scampato a fatica egli stesso e visitata Gerusalemme, tornò in
Occidente. Non par che fosse molta armonia di pensiero tra lui e
il fratello Corrado, ma quando salì al trono Federico, ei s'accostò
maggiormente alle cose del Regno. Rimase coll'Imperatore fino al 1158,
ma apparecchiandosi Federico a tornare in Italia, egli per la fiaccata
salute sua ottenne di rimanere in patria. Quivi morì di lì a poco in
quella stessa badia di Morimund dove era stato monaco ed abbate, e alla
quale era legato d'affetto come alla diocesi sua di Frisinga la cui
cattedrale trasandata nelle turbolenze dei tempi precedenti, egli aveva
restaurata nobilmente e resa splendida e ricca.

Meditabondo per istinto e nutrito di forti studî filosofici e
teologici, Ottone dallo spettacolo degli avvenimenti umani nei
quali si trovò mescolato trasse ispirazioni ad un libro di storia
in cui filosofar mestamente sulla caducità delle cose mondane, e
andar cercando conforto nel pensiero di un avvenire immortale. Il
_Chronicon_, o, per chiamarlo come lo chiamò Ottone stesso, il _Liber
de duabus civitatibus_, raccoglie sinteticamente le varie età del
mondo, e dalla creazione perviene ai suoi tempi, in sette libri,
ai quali se ne aggiunge un ottavo che tratta del giudizio finale e
della vita futura. Informata all'erudizione storica di Paolo Orosio,
e ispirata per le vedute filosofiche agli scritti di Santo Agostino,
questa è forse la prima opera che in quegli albori di rinascenza
tentò di conglobare tutta quanta la storia dell'umanità in un sistema
preordinato di cause e d'effetti. E ciò ha gran pregio per chi cerca il
vario e progressivo svolgersi degli studî storici, come senza dubbio
hanno pregio per lo studio minuto della storia tedesca quei libri del
Chronicon che trattano dei tempi più vicini ad Ottone. Ma il libro che
ha speciale valore per la storia italiana è un altro, che s'intitola
Gesta Friderici Imperatoris e discorre la prima parte delle imprese del
Barbarossa. Calmo estimator del dissidio fra la Chiesa e l'Impero[148],
questo vescovo monaco, zio dell'Imperatore, testimonio oculare di
molti fatti, assai bene informato di molti altri, sarebbe senza
paragone il migliore storico di quella età, se alcuni gravi difetti
non gli vietassero quella gloria. La stessa tendenza filosofica della
sua mente, che gli fa abbracciar d'uno sguardo i fatti e giudicarli
abbastanza giusto quando li contempla dall'alto, lo rende spesso
trascurato nei particolari e non bene sicuro. Inoltre un certo pomposo
amore di frasi, un desiderio rettorico di crear contrasti d'ombre e di
luce, lo inducono spesso ad alterare per modo le circostanze narrate,
che se anche riman veritiero nel complesso di un fatto, nei particolari
riesce inverosimile. Tale si mostra narrando la impetuosa sollevazione
dei Romani contro l'esercito di Federico (A. D. 1155, 18 giugno), e il
lungo ostinato contrasto e la strage che ne seguì, dove afferma che
dei sollevati mille furono i morti, dugento i prigioni, innumerabili
i feriti, ma aggiunge che uno solo perì dei Tedeschi e un altro
ne rimase prigione, e con un _mirum dictu_ si sbriga classicamente
dell'ardua asserzione[149]. Ma se questo difetto e un cotal misto di
boria nazionale e di cortigiana adulazione lo rendono men degno di
fede in certi particolari, egli tuttavia è nell'insieme uno storico
pregevolissimo, e in questo ancor singolare che nel rendersi conto
degli avvenimenti, spesso con sottile intuito ne ritrova le ragioni
storiche e politiche, e risalendo al passato spiega con grande acume
il presente. Così per esempio il passo che son per citare mi sembra
mirabile, specialmente se si consideri che fu dettato da un Tedesco
imperialista quando la volontà di Federico e lo studio rinascente della
legge romana tendevano ad esagerare oltre ogni termine i diritti e le
pretese del cesarismo.

«Tuttavia i Lombardi, forse perché i lor figliuoli pei maritaggi cogli
Italiani ereditavano in linea materna, e per influenza del suolo e del
clima, alcunché della romana mitezza e della sagacia, deposta tutta
l'asprezza della ferità loro, ritengono la eleganza del linguaggio
latino e certa cortesia di costumi. Inoltre essi imitano la solerzia
dei Romani antichi nel governo delle città e nella conservazione della
cosa pubblica. Da ultimo essi così sono affezionati alla libertà loro,
che ad evitar la insolenza de' reggitori amano meglio essere governati
da consoli che da principi. E poiché sono fra loro tre ordini, quel
dei capitanei, quel de' valvassori e quel della plebe, a tener giù
l'arroganza, questi predetti consoli sono scelti non da un solo ordine
ma da ciascuno, e affinché non li vinca la cupidigia del potere, essi
quasi ogni anno sono mutati. Di che avviene che quella contrada è
tutta divisa in città le quali hanno costretto quei del territorio
loro a vivere in esse, e a stento troverebbesi uom nobile o grande con
tanto potere da esser franco dell'obbedienza alle leggi della città
sua. E usano di chiamar Contadi o Comitati questi diversi territorî,
dal privilegio del vivere insieme[150]. E affinché non manchi loro il
mezzo d'infrenare i vicini, e' non disdegnano di levare al grado della
cavalleria, e ad ogni grado di autorità, giovani di bassa estrazione
e perfino operai di spregevoli arti meccaniche, che gli altri popoli
allontanano come pestiferi dalle più nobili e liberali professioni. Da
ciò avviene che essi avanzano ogni altro del mondo per loro ricchezza
e potenza. E a ciò, come s'è detto, sono aiutati dall'indole loro
laboriosa e dalla lontananza dei loro principi residenti di solito a
settentrione dell'Alpi. In ciò tuttavia essi, dimentichi della nobiltà
antica, ritengono la traccia di lor barbare costumanze, che mentre si
vantano di viver secondo la legge, pure alle leggi non obbediscono.
Imperocché di rado o non mai accolgono riverenti il principe a
cui sarebbero in obbligo di mostrare una volenterosa reverenza di
soggezione, nè accettano obbedienti quel ch'egli impone secondo la
giustizia delle leggi, se non sentono l'autorità sua costretti dal
coadunarsi di molto esercito. Onde egli accade frequente che mentre il
cittadino dovrebbe esser frenato sol dalla legge e il nemico secondo
la legge essere costretto dall'armi, essi veggono colui presso il
quale come lor principe dovrebbero trovar clemenza, aver più spesso
ricorso alle armi per mantenere i diritti suoi. Di che viene allo Stato
un doppio danno, ché il principe deve torcer sue cure a raccogliere
un esercito per tenere in freno i cittadini, e questi debbono esser
costretti ad obbedire al principe non senza grave dispendio della
sostanza sua. Onde per la stessa ragione che il popolo è in tal caso
colpevole d'improntitudine, vuolsi scusare il principe innanzi a Dio e
agli uomini per la necessità del caso.

«Tra le altre città di questa nazione, è principale ora Milano posta
fra il Po e le Alpi.... Ed è stimata più famosa d'altre città non pure
in ragione di sua maggiore ampiezza e del suo maggior numero d'uomini
d'arme, ma sì anche perché entrano nella giurisdizion sua altre due
città poste nella regione medesima, ciò sono Como e Lodi. Quindi come
avviene nelle umane cose pel blandir della ridente fortuna, essa per
tal modo si gonfiò in ardimento d'orgoglio, che non solo non s'astenne
dall'assalire i vicini suoi, ma perfino s'avventurò senza sgomento a
incorrere nella recentemente offesa maestà del principe.»

È da dolere che una morte immatura togliesse ad Ottone di proseguir
la sua storia oltre il 1158, quando il conflitto tra Federico e i
Comuni poteva dirsi poco più che iniziato. Per fermo la esperienza
dei fatti, la familiarità sua coll'Imperatore, e l'uso facile di
documenti ufficiali avrebbero sempre più cresciuto valore al suo
libro col progredir degli eventi. Non ce ne compensa abbastanza il
suo fedel cappellano Ragevino che per comando di Federico[151] ne
proseguì alquanto l'opera e la protrasse fino al 1160, testimonio
anch'egli di vista e forse più diligente del suo patrono, ma come
di stato così d'ingegno e di dottrina infinitamente minore. E oltre
a questa continuazione, le _Gesta_ ispirarono il poema _Ligurinus
o Carmina de rebus gestis Friderici I Aenobarbi_ che ha dato luogo
alcuni anni or sono, a molte discussioni sulla autenticità sua.
Qualche erudito dichiarò essere quel poema una impostura del secolo
decimosesto, ma questa par sentenza esagerata. Assai più ragionevole è
quella dell'erudito francese Gastone Paris, e dei tedeschi Pannenborg
e Wattenbach, i quali ritengono essere il poema una specie di
esercitazione letteraria scritta sul finire del dodicesimo secolo quasi
intieramente sulle traccie delle _Gesta_ di Ottone di Frisinga e di
Ragevino, talché dal punto di vista storico non eccede molto il valore
di una parafrasi in versi.

Nè molto più, a parer mio, valgono le _Gesta Friderici_ di Goffredo
da Viterbo, che trattò anch'egli lo stesso tema, ma rozzamente,
disordinato e senza dir quasi nulla di nuovo. Goffredo scrisse alcune
altre opere tra le quali una storia assai nota intitolata _Pantheon_,
ed anche fu attribuito a lui un carme sulle imprese di Enrico VI contro
Tancredi in Sicilia, ma non par che sia suo. Si disputa s'egli nascesse
a Viterbo o in Germania, e il più dei critici lo ritiene Tedesco, ma
io non oserei affermare migliore l'una sentenza dell'altra. Certo
fu educato fanciullo a Bamberga, e addetto alla corte di Federico
si adoperò molto per lui. Lo seguì nelle sue imprese, e, come dice
egli stesso, viaggiò per lui «due volte in Sicilia, tre in Provenza,
una in Ispagna, sovente in Francia e quaranta volte dalla Germania
a Roma.» Morì a Viterbo che, se non lo vide nascere, gli fu patria
adottiva negli ultimi anni suoi, e certo gli mancò piuttosto l'arte che
l'occasione di salir più alto fra gli storici del suo tempo[152].

Ben diversamente pregevole apparisce invece un altro poema scoperto
dal professore Ernesto Monaci nella Biblioteca Vaticana e pubblicato
dall'Istituto Storico Italiano. L'anonimo autore, nativo per quanto
pare di Bergamo, e molto probabilmente discepolo di quel Magister
Moyses che si è già menzionato, è un imperialista ammiratore del
Barbarossa, e canta le costui imprese in Lombardia fino al 1160,
interrompendosi a un tratto forse perché mentr'egli scriveva, intorno
al 1166, Bergamo mutata parte staccavasi da Federico ed entrava nella
lega lombarda. Verseggiatore abbastanza buono, dipintore vivace,
testimonio contemporaneo e bene informato, egli se non accresce di
molti fatti nuovi la conoscenza che abbiamo di quei tempi, ne modifica
alcuni ed altri ne conferma o ne spiega. Così per esempio egli narra,
modificando il racconto di Ottone di Frisinga e con molto maggior
sembianza di vero, la incoronazione del Barbarossa e la zuffa avvenuta
tra i Romani e gl'Imperiali. Questo episodio, molto efficace nella
semplicità sua, si chiude con una digressione commovente intorno
alle dottrine e al supplizio d'Arnaldo da Brescia, ch'egli ci mostra
serenamente intrepido innanzi al laccio ed al rogo, martire fermo della
sua fede.

«Ma come vide preparargli il supplizio e affrettandosi il fato
legarglisi il laccio al collo, richiesto se volesse abbandonare il
pravo dogma e confessar sue colpe a mo' de' savî, egli, mirabile
a dirsi, intrepido e sicuro di sé rispose parergli salutare il suo
dogma, nè dubitare di patir la morte per le sue parole nelle quali
nulla era assurdo nulla nocivo. E chiese un breve indugio per pregare
un momento, perché disse di voler confessar le sue colpe a Cristo.
Allora piegate le ginocchia, levati gli occhi e le mani al cielo,
gemette sospirando dall'imo petto, e senza parole pregò mentalmente
il celeste Iddio raccomandandogli l'anima sua; e rimasto così alcun
poco, diede il corpo alla morte preparato a patirla costantemente. Gli
spettatori scoppiarono in lacrime, ed erano perfino alquanto commossi
i littori. Finalmente pendette sospeso al laccio che lo tratteneva,
e dicesi che ne dolesse al re, troppo tardi misericordioso. O dotto
Arnaldo, a che ti giovò tanta letteratura? a che tanti digiuni e tanti
travagli? Perché mai seguì egli sì dura vita, e spregiò i molli ozî, nè
volle conceder nulla alla carne? Ah, chi mai lo persuase di volgere il
dente mordace contro la Chiesa? Ecco perisce il tuo dogma pel quale, o
condannato, portasti la pena, e non rimane viva la tua dottrina! Arse,
e s'è risoluta teco in tenue favilla, affinché non avanzino reliquie
che taluno potrebbe forse venerare.»

L'esser questo un poema storico e non propriamente una storia, le
difficoltà del verseggiare, le reminiscenze classiche di cui s'infiora
il libro, massime dove descrive battaglie, tolgono alquanto alla
precisione storica delle notizie narrate. Ma l'amore e l'intuito
del vero che trovansi in esso lo fanno prezioso, ed è ammirabile
l'attitudine del poeta a scolpire in un solo verso i particolari
importanti di un fatto o le intime ragioni di molti. Così allorquando,
nel dir del fascino esercitato dalla eloquenza d'Arnaldo in molte città
d'Italia, egli aggiunge che l'esercitò anche sulla

    .... Romanam facilem nova credere plebem,

ci snuda innanzi e ci dipinge al vivo quel popolo sempre irrequieto
attraverso i secoli del medio evo, sempre troppo memore del suo passato
che gli pesava addosso colla sua grandezza, sempre male contento del
suo presente che non poteva rivendicare ad alti destini[153].

Colla pace tra i Comuni e Federico fermata a Costanza nel 1183, cessa
il primo periodo della storia comunale e un altro se n'apre ancor
più fecondo di attività e di rivolgimenti interni, età di guerre
intestine fiere e continue, età di commerci, d'arti, di letteratura.
La storiografia se ne giova, e mentre la erudizione crescente e il
propagato desiderio d'apprendere fan crescere il numero di quelle
compilazioni generali che abbracciano tutta la storia, dal nascere
del mondo fino ai tempi del compilatore, ogni città grande o piccola
ha suoi cronisti, e tra essi ne sorge alcuno che stendendosi oltre
la cinta delle sue mura è storico veramente di tutta Italia o di
gran parte di essa. Anche il soffio animatore dell'arte penetra in
queste pagine di storia, e cominciano a rivelarsi scrittori ricchi
di pensiero, ed eleganti dettatori o nell'antico linguaggio o nel
nuovo vivente parlare, che si vien formando sotto la lor penna e
diventa classico. Degli autori di compilazioni generali vuolsi qui
trattar brevemente, e toccherò appena alcuni dei minori tra i cronisti
particolari, per potermi distendere alquanto più sui maggiori. Dei
primi apparisce notevole Sicardo, eletto vescovo di Cremona nel
1185, uomo di gran zelo e di gran cuore, che molto si adoperò in
favor della patria presso Federico I, esortò i Cremonesi a mandare
aiuti ai Crociati in Oriente, e colà si recò egli stesso nel 1203
spingendosi fino in Armenia compagno di un legato apostolico. Scrisse
varî libri tra i quali una cronaca, abbondante di favole pei tempi
antichi ma assai diligente ed esatta in ciò che espone delle cose
avvenute all'età sua. Altri scrittori dello stesso genere sono il
domenicano Giovanni Colonna, il quale compose un _Mare Historiarum_
che ancora è quasi tutto inedito[154]; Ricobaldo da Ferrara, che sul
finire del tredicesimo secolo scrisse una storia universale intitolata
_Pomarium_, e Iacopo d'Acqui, e Giovanni diacono veronese, e Landolfo
Colonna romano, scrittori tutti le cui opere, come quella di Sicardo,
non hanno verun valore per la parte antica, ma dai quali si possono
estrarre utili notizie pei tempi contemporanei a loro. E molta utilità
di notizie si può ricavare da frate Francesco Pipino, domenicano
bolognese, che tradusse di francese in latino una storia della guerra
di Terra Santa e i viaggi di Marco Polo, e, dopo essere stato anch'egli
in Oriente descrisse i suoi viaggi, aggiungendo per ultimo a tanti
lavori una cronaca generale dalla prima origine dei Re Franchi fino al
1314. L'ultima parte di essa abbonda di fatti avvenuti in varie parti
d'Italia, ch'egli narra con diligenza accurata.

La cronaca di Francesco Pipino rappresenta una tendenza letteraria
dell'ordine domenicano, il quale inteso alla predicazione e alle
controversie, aveva bisogno di vaste compilazioni che facilitassero
una certa erudizione, abbracciando in gran copia avvenimenti tratti
dalla Scrittura, dalle storie, dalle tradizioni, propriamente
enciclopedie storiche mescolate di vero e di leggende. Diversa invece
la tendenza dei Francescani che s'aggiravano tra il popolo e ne avevano
l'intelletto, la fantasia e gl'istinti. Mirabile libro tutto ingenuità
e freschezza popolare i Fioretti di San Francesco, ardore infiammato
di zelo e spirito di satira mordace nei canti di Iacopone da Todi che
sfogava l'un sentimento nella mestizia solenne del suo _Stabat Mater_,
e l'altro nelle satire sanguinose contro Bonifazio VIII. L'ordine
francescano era democratico, e pur quando, accarezzato e temuto,
penetrava come un'onda di popolo nei palagî e nelle corti, mai non
abbandonava la primitiva tendenza, e vi penetrava colla familiarità
sprezzante di una democrazia conscia della sua forza. Era naturale che
il guelfismo popolare del secolo decimoterzo trovasse a rappresentarlo
il suo pittore in un francescano, ché frate Salimbene da Parma più che
lo storico è il pittore dei suoi tempi. Nacque a Parma nel 1221, di
quindici anni abbandonò la casa paterna per rendersi francescano, e
resistè ostinato alle preghiere, alle lusinghe, alle maledizioni del
padre che lo supplicava di tornare alla dolce compagnia dei parenti.
Di convento in convento peregrinò per l'Italia centrale e per l'alta,
arrestandosi più o men lungamente nei principali paesi di quella
regione; viaggiò la Francia per circa due anni, e tornato in Italia
dimorò un pezzo a Ferrara, poi seguitò a muovere da città a città,
sbalestrato qua e là secondo i casi, il volere dei superiori e un
certo irrequieto bisogno di moto e di novità che era nella natura sua.
Vide e conobbe infinita gente, varia di paese, di condizione, d'animo;
papi, re, vescovi, baroni, popolani, e profeti e giullari e santi e
ribaldi. Trattò parecchi affari per l'ordine suo, nel 1256 cooperò
colla nomina di un arbitro a comporre certe differenze tra il Comune di
Bologna e quel di Reggio. Di lì a poco lo troviamo presso Piacenza al
capezzale di un contagioso, nel 1260 guida per le vie di Modena una di
quelle strane processioni di flagellanti che, intorno a quegli anni,
eccitavano l'ascetismo disordinato e fantastico delle popolazioni.
Passato in Romagna, mentre s'occupava di studî e a Ravenna esaminava
il Libro Pontificale di Agnello, vide accadergli intorno molti fatti
notevoli «... e così sempre con un pié nel chiostro ed uno nel mondo,
sempre in mezzo a quell'agitarsi d'idee e di passioni, di penitenze e
di delitti, di libertà e di tirannide.»[155] Visse certamente fino al
1288, e probabilmente oltre il 1290, attraversando così nella sua vita
la parte maggiore e più caratteristica del secolo decimoterzo. Dopo
aver composte diverse opere teologiche e storiche quasi tutte perdute,
finalmente per una sua nipote monaca in un monastero di Parma raccolse
quanto aveva imparato dai libri o veduto nel mondo, e tutto fuse e
mescolò insieme in una vasta cronaca discesa infino a noi.

Il secolo in cui visse Salimbene si riproduce in questa cronaca come
in uno specchio luminoso. Diverso in ciò da quasi tutti i principali
cronisti italiani, questo frate fu piuttosto spettatore che attore
nella storia del suo tempo, ma spettatore acuto sagacissimo pieno
d'osservazione, abbastanza sciolto dai pregiudizi del suo partito e
della età sua per giudicar liberamente ogni cosa, abbastanza legato
ad essi per rifletterli inconsciamente. Francescano del tredicesimo
secolo, l'abito e i tempi gl'ispiravano un certo misticismo ascetico,
che non era nel fondo dell'indole sua ruvidamente schietta e piena di
buon senso. Scrivendo, diceva senza reticenze il vero d'ogni uomo, o
lo coprisse l'elmetto o il cappuccio o la mitra, e del pari giudicava
le cose alla libera con quel suo stile andante e pittoresco, e quel
suo latino rozzo e così pieno di forme italiane che della latinità
non ritien quasi nulla. Non è uno storico, è un raccontatore che viene
man mano descrivendo quanto gli cade sott'occhio, familiarmente, senza
ordine e quasi senza proposito, tra digressioni continue, inframettendo
ai suoi racconti osservazioni e giudizî arguti che mostrano in lui una
lucidezza di mente usata a cogliere per intuito il vero delle cose.
La lotta tra Federico II e i Comuni guelfi di Lombardia, è narrata a
frammenti in mille episodi nei quali appariscono e si muovono tutti
que' personaggi secondarî, e molti anche degl'infimi, che sono tanta
parte della storia eppur trovano appena rade e fuggevoli menzioni
presso gli storici di professione. E coi minori uomini dipinge a larghi
tratti anche i grandi, e l'imperatore Federico II «non avea punta fede,
fu uomo scaltro, furbo, lussurioso, malizioso, iracondo; e tuttavia
fu valente uomo quando gli piacque mostrar sue bontà e cortesie;
sollazzevole, giocondo, industrioso; sapea leggere, scrivere e cantare
e trovar cantilene e canzoni.... sapeva parlar molte e diverse lingue:
e, a sbrigarmi in breve, se fosse stato buon cattolico.... pochi
uguali avrebbe avuto nell'Impero.... fu bell'uomo e ben formato ma di
mezzana statura. Io l'ho veduto alcuna volta e mi piacque.» E dopo
aver parlato di alcune crudeltà commesse da Federigo per curiosità
d'investigazione scientifica, aggiunge ch'egli era epicureo «e quanto
poteva per sé o pei suoi sapienti ricavare nella Divina Scrittura che
dopo morte non ci fosse altra vita, tutto tirava fuori.»[156] Ed era
sua intenzione che «tanto il papa che i cardinali e gli altri prelati
fosser poveri e andassero a piedi, e ciò non intendea fare per zelo
divino, ma perché avaro era molto e cupido, e voleva avere le ricchezze
e i tesori della Chiesa per sé e pe' figliuoli suoi.... e ciò egli
riferiva ad alcuni dei suoi segretarî.» E altrove aggiunge che Federico
«coi suoi principali si sforzava di rovesciare la libertà ecclesiastica
e corrompere la unità dei fedeli,» la quale accusa che dovette essere
popolare a que' dì, par quasi accostarsi all'opinione di chi tra i
moderni attribuisce a Federico e a Pier della Vigna il disegno di
volersi staccar dal Papato e fondar nuova Chiesa, e spiega sempre più
il favore accordato dai Papi a Carlo d'Angiò contro gli Hohenstaufen. E
questo principe fortunato, ipocrita simulator di pietà, per interesse
e senza affetto capo e rovina del guelfismo italiano, anch'esso qual
fu vien descritto in più luoghi della cronaca di Salimbene, che prima
lo vide in un monastero di Francia in compagnia del fratello, il
re santo Luigi. Ma in questa cronaca più d'ogni cosa è attraente e
pregevole la dipintura larga insieme e minuziosa dello stato d'Italia,
quale scaturisce in ogni pagina, in ogni episodio ch'ei narra[157].
L'agitarsi delle dottrine teologiche e la tenace fermezza di Roma tra
quel nuovo fermento indagatore degli spiriti, o volgenti come Federico
II verso una specie di epicureismo negativo, o come i gioachimiti verso
un misticismo visionario, è mirabilmente ritratto da Salimbene. Il
quale, seguace egli stesso per alcun tempo dell'abate Gioachino, non
rimase a lungo in quelle dottrine per l'indole sua inclinata al pratico
e troppo diversa dalle tendenze fantastiche del visionario calabrese.
Onde, nella cronaca egli si volge naturalmente a molti episodî che
descrivono la vita dei varî ceti del clero e le virtù loro e i vizî, e
le relazioni di essi col popolo, e le stranezze religiose di questo,
che in parte approva e in parte talor disapprova. Del pari la vita
politica del suo tempo, il largo spandersi delle libertà repubblicane,
e i mali a cui le guerre di Federico II conducevano la Lombardia,
ch'egli dipinge «ridotta in solitudine tanto che non avea più cultori
nè passeggieri.... Non potevano arare gli uomini, nè seminare nè
mietere nè far vendemmia nè abitare in villa.... Tuttavia presso le
città si lavorava colla scorta dei soldati.... E bisognava far così,
a motivo dei berrovieri e predoni che erano moltiplicati a dismisura.
E pigliavan la gente e la incarceravano affinché si riscattasse
a denaro.... E così volentieri in quel tempo un uomo incontrava
un'altr'uomo in sulla via, come vedrebbe volentieri il diavolo.»[158]
Dolorose circostanze, aggravate dalle lotte parziali e continue, che
Salimbene descrive ad ogni tratto, tra il guelfismo popolare e la
vecchia nobiltà ghibellina sdegnosa della democrazia che la sforzava
di curvarsi alle leggi. Ma seguir negli infiniti meandri suoi questa
cronaca, tutta digressioni ed episodî di piccoli fatti e di grandi, è
impossibile. Tanto varrebbe quanto il volere stringere in una pagina la
compiuta dipintura degli uomini e dei costumi d'Italia in quel periodo
di rivolgimento, quando la vita comunale distendeva più rigogliosi
intorno i suoi rami, e il sangue scorreva più fervido nelle vene di
quel popolo ringiovanito.

La cronaca di Salimbene arriva al 1288 ed ha relazioni con esse
un'altra cronaca che si prolunga fino al 1290, e fu pubblicata come
anonima dal Muratori col titolo di _Memoriale Potestatum Reginensium_.
Tratta questa le cose della città di Reggio e si distende molto
sulla storia della Lombardia e dell'Emilia. E discendendo da esse
a parlare delle altre cronache particolari, può dirsi che appena si
trovi una città in quelle parti, la quale, tra il secolo decimoterzo
e i primi anni del decimoquinto, non conti una o più cronache quasi
tutte abbondanti di notizie pregevoli. Bologna, Ferrara, Modena,
Parma, Piacenza hanno principalmente cronache degne di nota; Piacenza
soprattutto, la cui storia si è recentemente arricchita di altre due
cronache del più alto valore pei tempi di Federico II, pubblicate prima
dall'Huillard Bréholles, poi dal Pertz, e con una edizione corredata
di buone note, dalla Società storica di Parma e Piacenza. A Milano,
Stefanardo da Vimercate, domenicano, teologo e dotto scrittore di
libri legali e canonici, in un poema dettato con eleganza scrisse
intorno alle cose avvenute colà tra il 1262 e il 1295 mentre era
arcivescovo Ottone Visconti. Un altro frate di San Domenico, Gualvano
Fiamma milanese, nato sul cadere del secolo decimoterzo, scrisse varie
opere importanti per la storia milanese e della casa Visconti, delle
quali opere la più nota finora che ha per titolo _Manipulus Florum_
fu pubblicata dal Muratori nella sua grande raccolta[159]. Milanese
anch'egli ed amico al Fiamma, fu il notaio Giovanni da Cermenate,
che ebbe qualche parte negli avvenimenti della patria e ne descrisse
quelli che occorsero dal 1309 al 1314 con gran precisione e vigorosa
eleganza di stile[160]. Men buono scrittore ma sincerissimo, fu Pietro
Azario da Novara, che narrò la storia della famiglia Visconti dal 1250
al 1362, e un anonimo la storia di Fra Dolcino eretico novarese, e
Bonincontro Morigia quella di Monza fino al 1349, testimonio oculare
anch'egli e partecipe dei fatti narrati nel suo lavoro. Del Piemonte,
più scarso allora di cronisti, basterà citar solo la cronaca d'Asti,
scritta da un Ogerio uscito dalla famiglia degli Alfieri, un'altra
cronaca pur d'Asti di Guglielmo Ventura, ed il Chronicon _Imaginis
Mundi_ di Giacomo d'Acqui[161]. Molto ricca invece per copia e qualità
di scrittori la Marca Trivigiana, e specialmente Verona, Vicenza e
Padova. Per la prima di queste città merita menzione il cronista guelfo
Parisio da Cereta, che riferì con semplice stile e con animo molto
imparziale gli avvenimenti di Verona nella prima parte del tredicesimo
secolo, fermandosi principalmente sui fatti di Ezzelino e di Mastino
della Scala. Ma gli storici maggiori di tutta quella regione son
vicentini e padovani. Mescolato sovente alle vicende che narra, Gerardo
Maurisio scrisse con spirito ardente di ghibellino le imprese della
famiglia da Romano dal 1182 al 1237, e trattò specialmente dei primi
tempi d'Ezzelino. Profuse lodi a costui, che stupirebbero se non fosse
che il Maurisio scriveva quando Ezzelino non aveva ancora rivelata la
mostruosa efferatezza dell'anima sua, e inoltre l'opera del Maurisio fu
raffazzonata in versi leonini dal contemporaneo Taddeo notaio, il quale
molto probabilmente esagerò quelle lodi. E pur di Vicenza e dei paesi
che furono in relazione d'amicizia o di guerra con essa nel secolo XIV,
scrissero Antonio Godi e Nicolò Smerego[162] il quale fu continuato da
un anonimo monaco di Santa Giustina di Padova, ma superiori a tutti
furono gli storici Ferreto da Vicenza e i due padovani Rolandino e
Albertino Mussato.

Nato verso il 1295 di buona e ricca famiglia vicentina, Ferreto
Ferreti, dal pronto e immaginoso ingegno, e dall'indole vivace e
satirica fu tratto alle lettere. Lo guidò alla poesia Benvenuto de'
Campesani celebrato per un poema in lode di Arrigo VII e di Cangrande
Della Scala, e in vitupero di Padova. Seguendo il salutare impulso
della età sua, studiò con grande affetto i classici e cercò d'imitarli.
Lodato dal Muratori come uno dei migliori latinisti di quel tempo,
egli tuttavia non evitò di cadere in quella stentata affettazione da
cui nei due secoli seguenti si salvarono appena i migliori umanisti
del rinascimento. Scrisse una storia delle cose avvenute in Italia
tra il 1250 e il 1318, ch'egli trattò specialmente in relazione cogli
avvenimenti a cui si trovava più prossimo, mostrandosi abilissimo a
raggruppare i fatti e, scegliendoli acconciamente, a rappresentarli
con vivacità alla fantasia del lettore. Ma questa abilità stessa
che gli veniva da una ricca vena poetica, più che a minute indagini
lo trascinava a cercare nelle azioni umane la parte abbagliante,
e a servirsene per crear begli effetti nel quadro che dipingeva.
Rerum gestarum splendida facta percurrimus, egli esclama, e davvero,
come osserva il professor Zanella nel suo bel saggio sopra Ferreto
«campo migliore non poteva desiderare al suo ingegno; poiché quel
periodo che prese a narrare, dal 1250 al 1317, è de' più splendidi e
fecondi di avvenimenti che abbiano le storie italiane. Niuno negherà
che Carlo d'Angiò, Piero d'Aragona, Bonifacio VIII, le fazioni di
Toscana, Corso Donati, Clemente V, Arrigo VII, Cangrande, Matteo
Visconti, Uguccione della Faggiuola non sieno vivamente ritratti da
Ferreto, che si compiace parimente di descrivere con ricchezza di
stile, siti, battaglie, assedii, ingressi, coronazioni, morti di papi
e d'imperatori. Ma quanto alla professione che fa di essere sempre
veridico e di non lasciarsi indurre a menzogne nè per amore nè per
odio, credo che spesso dimenticasse la fatta promessa. È notabile
come di molte voci che corsero intorno ad un fatto, mai non trascuri
quelle che tornano a vituperio di qualche potente; propensione satirica
che male si concilia coll'amore del vero.»[163] Anche come poeta
Ferreto tentò soggetti storici, e il suo poema sull'origine della
gente Scaligera dedicato a Cangrande, abbonda di notizie intorno alle
principali città del Veneto, e specialmente, oltre Vicenza e Padova, a
Verona la quale per la estesa influenza degli Scaligeri che v'ebbero
sede, viene ad essere illustrata da tutti i cronisti di quella parte
d'Italia. E come aveva celebrato gli Scaligeri, così Ferreto celebrò
in un carme la morte del grande fuoruscito che aveva trovato alla loro
corte il primo suo rifugio e il primo ostello, e ch'egli probabilmente
aveva conosciuto di persona, ma questo tributo antico alla tomba
dell'Alighieri sventuratamente è perduto.

Rolandino da Padova scrisse la storia di sua patria dal 1200 al 1260.
Aveva studiato alla Università di Bologna, e nel 1221 ricevuto ivi il
titolo di Maestro e Dottore in grammatica e rettorica. Tornato presso
suo padre ch'era notaio in Padova, questi gli cedette alcune note
ch'era venuto scrivendo sulle cose più memorabili accadute a' suoi
tempi, e l'esortò a scriver la storia della loro città. Rolandino seguì
l'esortazione paterna, e aiutato dagli studî fatti in Bologna, dettò
in dodici libri il suo lavoro con tanta chiarezza e così diligente e
ordinata conoscenza dei fatti, che si meritò subito fama di storico
insigne. Nel 1262, due anni dopo ch'egli l'ebbe condotta a termine,
la sua storia fu in segno di grande onore letta pubblicamente nella
Università di Padova al cospetto dei professori e della scolaresca
che l'approvarono solennemente, e i posteri han confermato il
giudizio[164].

A Rolandino tenne dietro uno storico anche maggiore, in verità uno dei
maggiori letterati d'Italia, Albertino Mussato che fu contemporaneo ed
amico di Ferreto da Vicenza. Nacque in Padova nel 1262. La povertà gli
fu maestra, e fin da giovinetto dovette provvedere a sé e ai fratelli
minori col copiar libri per gli scolari dello studio padovano, finché
facendosi man mano erudito collo stesso copiarli, cominciò a trattar
qualche causa nel fôro. La potenza dell'ingegno e la grandezza generosa
dell'animo gli procacciarono favore e lo sollevarono rapidamente in
fama e in agiatezza, talché nel 1296 era fatto cavaliere e chiamato al
Consiglio di Padova che allora si reggeva liberamente in Repubblica.
Quivi in breve salì a tanto credito nelle cose di Stato, che nel 1302
fu inviato ambasciadore a papa Bonifazio VIII, ebbe pubblici incarichi
a Firenze, e da quei primi tempi in poi, egli tra le varie vicende
della patria, anche quando le procelle della fortuna lo sbattevano al
fondo, statista, soldato, storico, poeta, sempre, fino al fin della
vita, rimase in evidenza e fu tenuto in gran conto pur dai nemici.

Quando, tormentandosi Italia tra la fazione guelfa e la ghibellina,
Arrigo VII di Lussemburgo scese, invocato da quest'ultima, a prender
la corona imperiale, fu un grande rimescolarsi nella parte superiore
e centrale della penisola. Non che il novello imperatore avesse in
sé vera potenza, ma i partiti percorsi da un nuovo fremito per la
sua venuta, e agitati da indefinite speranze e indefiniti timori,
divampavano in fuoco più acceso. Le città guelfe di Lombardia, gelose
di loro libertà e memori delle resistenze opposte in passato a ben
altri imperatori, accoglievan quest'ultimo freddamente o gli negavano
risolute l'ingresso. Lo favorivano invece le città ghibelline,
ma e nell'une e nell'altre rigogliose com'erano di vita propria,
l'autorità sua era assai poca, e la parte che egli credeva far di
paciero riusciva invano. Più che la reverenza o l'odio dell'Impero
potevano le ire cittadine, e ciascuna città era divisa in due parti,
di cui la prevalente s'affannava di reggersi, mentre la soccombente
era sempre agitata nella speranza d'abbatter l'altra, e afferrato il
timon dello stato dirizzarne altrove la prora. Di che spesso un salire
e discendere delle fazioni, e la città guelfa mutarsi a un tratto in
ghibellina e la ghibellina in guelfa, e un combattere entro le mura
di cittadini contro cittadini, e i vincitori radere al suolo le case
dei vinti, e questi andar profughi sbanditi in esilio col rancore
nell'anima e l'invincibile speranza del ritorno e delle vendette.
Questa agitata vita viveva anche Padova, guelfa per la prevalenza
di quella parte e pel timor che Vicenza, su cui dominava, scosso il
suo giogo si desse a Cangrande della Scala, signore di Verona e capo
dei Ghibellini in quelle provincie. Al primo giungere di Arrigo VII
in Italia, Padova con qualche riluttanza, ma con savio consiglio,
aveva mandato un'ambasciata a salutarlo in Milano (A. D. 1311). Degli
ambasciatori uno fu Albertino Mussato, ormai glorioso tra i letterati
del tempo suo, e già noto come uno dei primi restauratori della poesia
latina in Italia. Arrigo VII lo accolse con tanta e così singolare
benevolenza, da ispirargli un affetto che mai non si smentì, neppur
quando i suoi doveri di cittadino l'obbligarono di far tacere il
suo sentimento privato e d'opporsi coll'armi alla volontà imperiale.
Dopo alcun tempo, Albertino Mussato di nuovo fu inviato in ambasceria
ad Arrigo VII, per chiedere guarentigie alla libertà padovana, che
furono consentite con qualche condizione. Ma tornando in Padova, gli
ambasciatori trovarono i lor cittadini forte agitati per la voce corsa
che Arrigo avesse nominato Cangrande della Scala a Vicario Imperiale
per Padova, titolo abborrito dai guelfi e quasi sempre sinonimo di
signore e tiranno. Si respinsero le condizioni proposte da Arrigo, il
quale se ne irritò. Il momento parve propizio ai Vicentini, i quali si
ribellarono a Padova e si buttarono in braccio allo Scaligero, che fu
principio di una guerra lunga e accanitamente contrastata tra le due
città (A. D. 1311). Albertino Mussato che aveva fatto tutto il poter
suo per impedirla, ebbe più volte a recarsi presso Arrigo cercando
di compor le cose verso la pace, e d'ottener la conferma delle prime
concessioni. Ma l'opera sua era malagevole tra lo sdegnato sovrano e
gli animi eccitati de' suoi concittadini, che piegavano a stento verso
le proposte pacifiche solo quando il pericolo pareva maggiore. Di
questo stato pieno di ondeggiamenti pativa il contraccolpo Albertino,
che tornava dalle frequenti ambascerie ora accolto in patria come
un salvatore, or cupamente come se recasse con sé il tradimento e la
vergogna. Le cose si facevan sempre più gravi. Nel settembre del 1311,
Arrigo VII, a tenore di certe condizioni pattuite, scelse tra quattro
persone proposte dallo stesso Consiglio Padovano, Gherardo da Enzola
come Vicario Imperiale in Padova. Il nome odiato di Vicario accrebbe i
malumori nel popolo, e si faceva oramai impossibile vincer le proposte
pacifiche nel Consiglio. Nel 1312 tornando da Genova cogli ultimi patti
ottenuti dall'Imperatore, Albertino trovò la città in gran tumulto. Lo
Scaligero era stato nominato Vicario per la città di Vicenza, certo
lo sarebbe in breve per Padova, forse la nomina era già decretata in
segreto e s'aspettava il momento opportuno per pubblicarla. Tali le
voci che concitavano la città fiera e desiderosa di guerra, e l'ira di
tutto il popolo echeggiava in core dei consiglieri adunati nella gran
Sala della Ragione. Era un fremito in tutta l'Assemblea. Rolando da
Piazzola ch'era stato dell'Ambasceria col Mussato, levatosi, con impeto
grande ricordò le calamità già sofferte per altri Vicarî imperiali,
e profetando nello Scaligero un nuovo Ezzelino: «Vidi io» esclamava
infiammato riferendosi al recente suo viaggio presso l'Imperatore,
«vidi città poco innanzi floridissime, ora scacciatine i cittadini
andare in rovina, le campagne deserte abbandonate alle ortiche, le
facce dei nobili divenute squallide per inedia, la plebe esausta
per fame. O vergogna! La ferace terra lombarda, inculta adesso, è
paragonabile a un deserto selvaggio.... E chi abita le nobili castella?
I vecchi tiranni ammantati del titolo di Vicarî Imperiali. Da loro oggi
son consumate le reliquie ultime di Lombardia.... Vidi Genova.... la
vidi bella e la rividi sformata in tre giorni; bella per l'allegrezza
dei cittadini che accoglievano questo fantasma di felicità, sformata
pel mutato aspetto del popolo vivente a comune, cui s'eran cangiate le
usanze patrie in principati dispotici. Come se, o cittadini, rimosso
questo nostro Preside, si sostituisse a lui un ignoto, e rescissi e
distrutti fossero i plebisciti vostri e le leggi, e questo Senato
disciolto, e i tribuni che voi chiamate _gastaldioni_ turpemente
e ignominiosamente deposti.... S'ebbe forse vergogna, mutando il
sodalizio di Vicenza e Padova in pace tra loro, d'eleggere questo
Cane, uom nefando, a Vicario di Vicenza proprio in sull'uscio di questa
nostra fiorente città? Non solo non se n'ebbe vergogna, o cittadini,
ma fu consiglio di partigiani affinché questo Cane vi tragga alla sua
tirannide e muova guerra civile tra i vicini nel seno di questa città.
Oh vi torni in memoria la fiera strage dei padri nostri, orribile pure
a ridirsi, e quel figlio di Satana Ezzelino da Romano che lo scellerato
Federico, predecessore di questo Enrico di Lussemburgo, costituì qui
ministro solamente di stragi, con questo falso titolo del Vicariato
Imperiale....» e rivolgendosi al Vicario Imperiale seguitava: «E tu,
Gherardo, se così ti piacerà di fare, giura di rinunziare al Vicariato
e ripigliare il dolce e sacro ufficio e nome di Podestà nostro, e di
reggere pel semestre questa città nella libertà sua, se no, prendi il
tuo stipendio e vattene. Abbiam qui Rodolfo da San Miniato eccellente
uomo, che io stimo adatto a pigliare la sede di questa beata e libera
podestà e a reggerla.»[165]

Fu un grido di plauso[166]. Invano Albertino tentò rimetter calma
negli animi, espose lo stato dubbio delle cose in Italia, mostrò
come la parte ghibellina ancor vigorosa potrebbe divenire un aiuto
dell'Imperatore pericoloso alla patria, invano pregò, scongiurò, per
più mite consiglio. Tutta la sua eloquenza si franse contro l'ira
popolare, e vinse il partito dell'armi.

La guerra incominciò indi a pochi giorni, interrotta e ripresa ogni
tratto, e condotta molti anni con varia vicenda e con tutto l'odio
che solevasi mettere allora da quegli appassionati animi in quelle
guerre fraterne. Albertino Mussato che s'era mostrato così blando
al consigliare, apparve un leone al combattere, sempre nelle più
arrischiate fazioni, primo a gettarsi nel folto del pericolo, ultimo
a ritrarsene. Pareva che gli fosse scomparso dalla mente quell'Arrigo
VII ch'egli amava tanto e di cui descriveva le imprese, le quali egli,
come Dante, si lusingava dovessero riuscire a benefizio d'Italia.
Padova la cara patria era in guerra, ed egli ne combatteva i nemici.
Nel novembre dei 1313, parve che l'odio cedesse un momento. Albertino
Mussato ed un altro padovano andarono a discutere le parole di pace
che lo Scaligero faceva proporre, ma le trattative si ruppero senza
alcun frutto, e si tornò di nuovo a pensar di guerra. Intanto Arrigo
VII era morto (24 agosto 1313), e con lui si spezzavano molte speranze
dei Ghibellini più ardenti, molte illusioni di coloro che guardavano a
lui come ad un angelo annunziatore di pace. Il partito guelfo ne saliva
in superbia, e a Padova sotto colore di riforme impadronitosi d'ogni
potere si sfrenava non pur contro i ghibellini ma contro i cittadini
più temperati e diveniva tiranno (A. D. 1314). Ne seguì una sommossa
popolare violenta, nella quale contro ogni ragione fu preso di mira il
Mussato, alle cui case si volse una plebaglia inferocita per portarvi
l'incendio e la morte. In vista del pericolo, Albertino non si smarrì:
consigliato di nascondersi, non volle, e per non macchiarsi nel sangue
del popolo non volle difendersi, ma inforcato un cavallo, venne fuori
arditamente dalla casa infestata, e di gran corsa uscì incolume dalla
città e si ritrasse in salvo. Fu un gran dolore al cuor del Mussato,
a cui pareva tanto più amara l'offesa e l'esilio quanto più gli era
cara la patria e se ne sentiva benemerito. Onde in una concione ch'egli
dettò a sua difesa, e inserì poi nella storia, esclamava dolente e
sdegnoso: «Dovrei io vergognarmi o arrossire, se avendo bene meritato
in alcuna cosa, la tanta ingratitudine onde son circondato mi sforza
a recitar da me le mie lodi? Anche se lo facessi con petulanza? No,
perché quando una cagione di passati contrasti ci costringe a parlare
per respinger le ingiurie, la violenza del timore vince la calma d'ogni
più forte uomo. Dopo le uccisioni compiute il dì innanzi da quegli
iniqui, e le stragi orrende, una turma tumultuaria concorse alla casa
di me Albertino Mussato, la tenne assediata da manipoli di gente che le
infuriava attorno chiedendo i miei penati, i miei figli, il sangue mio.
Se posso parlare col Redentore del mondo: ‘O popol mio’ Egli diceva
‘che t'ho mai fatto? Per quarant'anni ti guidai nel deserto.’ Io ti
condussi, dico io Mussato, o popol di Padova, per altrettanti mesi tra
vasti pericoli dietro le orme mie sulla mia strada, da cui tu stessa
confessi d'aver deviato per tua ignavia....» E dopo avere enumerata
una lunga serie di servigi resi alla patria, e i miti consigli dati
ai Padovani nella prospera fortuna, alludendo al loro timore nei
pericoli, procede: «.... Ma tardo viene dopo la grandine il pentimento.
E che rimedî si son trovati a tanti mali? O tribuni della plebe,
ricordatevene. Parlo a voi conscî ed autori di tanto provvedimento.
Voi, pensaste, Ottimati della città, che se era fattibile, Cesare
doveva esser placato. E in che modo? con quale ingegno? con quali
arti? E che? la opportunità, la difficoltà chiamò innanzi Albertino
Mussato. Costui, si asserì, _può far salva la repubblica e rovinata
rialzarla_. Se avanzava da far qualche cosa, a lui solo ricorreste,
a lui privo d'ogni speranza di trattar gli affari e prostrato, e vi
consigliaste seco, e lui unico imploraste. E Vitaliano de' Basilii,
che allora quasi dominava sul volgo, a mani giunte, a ginocchia
piegate, lacrimando, stipato da voi tutti, o Tribuni, mi supplicò di
andare al Re.... Io guardo a me stesso ammirando e compassionando.
È necessario che la penna mandi tutto alla posterità. Forse mi resi
colpevole verso questa Repubblica? Tralascio le diurne, le notturne,
le annuali fatiche. Non vale la pena di allegare le vigilie, le cure,
le sollecitudini mordaci. Non si nascondano gli assertori; attestino
affinché io sia creduto. Consumai forse il denaro pubblico? E quale?
e quando? Mi son forse arricchito coi danni dei privati? Di quali?
Venga fuori un solo vessato o spogliato da me. Abbiatevi, o Tribuni,
un argomento efficace della sincerità nostra. In queste ultime calende
di decembre, per non ricondurvi indietro al non ricordabile, la sorte
mi prepose allo ufficio di Anziano, onore uguale quasi al consolato
dei Romani. Questo Pietro d'Alticlino potentissimo uomo e formidabile
contro cui si esclamava, e molti altri dell'ordine equestre e plebeo,
io convenni in giudizio di restituzione, li feci incatenare, li
convinsi, e li costrinsi a rimettere nell'erario la mal tolta moneta
con rigido e severo ardore. Così mi persuadevano a fare i miei costumi,
così l'audacia, l'amor della patria, l'atrocità di quelle rapine e la
giustizia.» E dopo queste calde parole altre ne aggiunge enumerando
le prodezze compiute in guerra, spiega per quali ragioni egli avesse
promossa la imposizione di una tassa utile e giusta che gli aveva
procacciato l'odio del volgo e l'esilio, e conchiude con disdegnosa
fierezza: «A ragione il gregge macchiato odia il vello della pecora
dorata. Sia lungi da voi, o Tribuni, la ferocia delle vili belve
assetate di sangue innocente. Salvato, io voto la mia salute, le mie
fortune ed ogni poter del mio ingegno e delle facoltà mie, ai Padri, ai
Maggiori e al Popolo più sano.»[167]

Pagine eloquenti davvero, che strappavano l'ammirazione ai
contemporanei, e ancora l'ispirano ai posteri richiamati per esse come
a un ricordo della romana repubblica, e di quella forte eloquenza che
scoppiava in Grecia e in Roma nel tumultuoso bollire degli affetti
politici quando la democrazia stendeva sovr'esse l'agitato suo impero!
Sedato finalmente il disordine e ricomposta la quiete nella città, si
adunò il Consiglio, e, abolite le esorbitanti riforme e ripristinato
il vecchio stato, decretò unanime il richiamo d'Albertino Mussato, e
pubbliche solenni onoranze per compensarlo dello sfregio patito. Ne
esultò il buon cittadino, ma prima pure del suo ritorno, i Padovani
mossero improvvisamente ad oste contro Vicenza ed egli s'aggiunse
agli armati. Nelle fazioni che seguirono egli combattè con l'usato
ardimento, finché in una mischia, precipitando da un ponte in una
fossa, accerchiato dagli uomini di Cangrande, fu con undici ferite
preso e condotto a Vicenza. Quivi egli rimase onorato prigioniero di
Cane, che con la sua corte andava a visitarlo e a scambiar con lui
amicamente gravi discorsi e celie frizzanti, esempio non unico di
quell'età, che all'abbassar delle spade stillanti sangue, l'ammirazione
prevalesse sull'ira, e un prepotente barone rendesse onore alle virtù e
all'ingegno d'un semplice cittadino.

Nel novembre del 1314, al conchiudere d'una pace, Albertino liberato
dalla prigionia tornava in patria a ricevere le decretate onoranze, e
a cinger le tempia di quell'alloro poetico a cui sospirò tutta la vita
Dante nella vana speranza che il poema sacro vincesse la crudeltà che
lo serrava fuori della patria. Pieno di compiacenza egli descrive a
lungo e con tratti caratteristici nella sua storia la festa che gli fu
fatta e che riuscì solenne, perché a celebrarla concorse col Senato
e colla Università la città tutta quanta, altera adesso di questo
suo figlio la cui fama letteraria spargevasi ormai onorata per tutta
Italia.

E veramente le opere letterarie di Albertino Mussato meritavano quegli
onori[168]. Latinista ottimo pei suoi tempi, egli, con Giovanni Del
Virgilio, con Dante e gli altri latinisti contemporanei, superiore
forse a tutti, spiana le vie della rinascenza al Petrarca, e mentre
studia gli antichi e ne ritenta le forme del dire, nel concetto e
nell'architettura de' suoi lavori apparisce scrittore originalissimo.
Poeta dettò epistole, sermoni, egloghe, elegie non prive di pregio, ma
soprattutto si rivelò creatore potente nella sua tragedia l'_Ezzelino_.
Spastoiatosi d'ogni teoria preconcetta, pur senza abbandonare le orme
classiche che trovava tracciate da Seneca, egli primo tra i moderni
italiani scelse un soggetto moderno, vivo anzi ancora nella memoria e
nel terrore del popol suo, soggetto cupamente tragico ch'egli trattò
con evidenza drammatica e, soprattutto nei cori, con impeto lirico
maraviglioso. L'argomento storico ch'egli scelse e che accrebbe di
tanto la popolarità del suo lavoro, annunzia la tendenza storica
dell'intelletto del Mussato. Il quale, innamorato degli antichi
scrittori e dei tempi romani, colla mente vigorosa d'immaginazione e
di pensiero, doveva sentirsi irresistibilmente attratto a raccontar
la storia ch'egli aveva vissuto, e ridir le cose vedute e pensate fra
tanto tumulto di azione, fra tanta grandezza di virtù e di vizî. E io
son venuto finora descrivendo così lungamente la vita di quest'uomo,
perché mi parve di veder compendiata in lui una gran parte dell'età
sua come egli la descrisse e come fu veramente. Dettò la _Historia
Augusta_ delle gesta in Italia di Arrigo VII (A. D. 1308- 1313),
principe di buone intenzioni ma di debole potere, caldamente invocato
dai Ghibellini, pregiato anche dai Guelfi, ma nè obbedito nè temuto
veramente mai, sceso dall'Alpi a risuscitare il fantasma d'un Impero
che aveva perduto i nervi in Italia tra tante repubbliche e coi papi
avversi e ancor potenti per l'aiuto dei Guelfi e degli Angioini.
Scrisse Albertino con imparzialità grande, ma con tutto l'ardore
di chi ha preso parte nelle cose pubbliche e postovi tutta l'anima
sua desiderosa del bene. Il viaggiar suo frequente, per lo più come
ambasciatore, in molte parti d'Italia (e negli ultimi anni andò anche
ambasciatore in Germania) gli avean dato modo di veder d'appresso
le condizioni dei diversi paesi che eran teatro della sua storia, di
conoscer gli uomini principali, e d'attingere dappertutto o d'appurare
molte notizie. Non tutto guelfo nè tutto ghibellino, diresti ch'egli
ondeggia intra due, ed è ondeggiamento non raro nelle menti più elevate
di quella età. Vorrebbe dall'Impero una forte unità di comando a cessar
le discordie dei partiti, mentre piega ai Guelfi per le tradizioni
repubblicane e la cura di una libertà gelosa dell'aquila imperiale e
dei tirannelli che col nome di Vicarî crescevano all'ombra dell'ale
sue. Amico e ammiratore d'Arrigo, ma storico libero e austero, nel
dedicargli la sua storia lo avvertiva che in quelle pagine non avrebbe
trovato lusinghe nè solo le imprese degne di lode, ma gli errori
altresì dai quali, come uomo, anche egli Arrigo non era immune. La
morte d'Arrigo troncò il suo lavoro, ma più tardi egli lo continuò
con una seconda storia che intitolò _Gesta degli Italiani dopo la
morte di Enrico VII_, divisa in dodici libri, dei quali tre in versi
descrivono l'assedio sostenuto da Padova nel 1320. Lavoro piuttosto
abbozzato che finito, presenta qua e là varie lacune di tempo ed è
assai men perfetto di stile che non la _Historia Augusta_, ma non
è inferiore ad essa per la importanza storica. Lo intraprese per
esortazione di Pagano della Torre, vescovo allora di Padova, e tra le
molte cure che lo affaticavano[169], lo condusse innanzi molti anni
per andarlo a terminare nell'esilio di Chioggia, dove abbozzò anche
uno scritto su Ludovico il Bavaro rimasto in frammento. Poiché il
31 maggio 1329 concluse in esilio la forte e onorata vita Albertino
Mussato. Dopo molti altri servigi resi alla patria e molto travagliar
di fortuna, egli fu nuovamente sbandito, nè lo richiamarono questa
volta. Fu lasciato morir fuori, nella miseria, colla vecchiezza
aggravata dal dolore di una cara amicizia tradita, dalla ingratitudine
di un figlio, dalla vista delle libertà padovane spente per mano
di tiranni. Malinconica fine e piena di pietà, eppur confortevole
e bella di quella morale bellezza che splende da una vita pura ed
eguale a sé stessa nella fortuna prospera e nella avversa, da una vita
destinata a mostrarci nelle stesse ingiustizie delle sorti terrene, la
testimonianza certa di una giustizia immortale.



CAPITOLO VII

  Cronisti delle repubbliche marinare — Cronache di Venezia: Martino
    da Canale e Andrea Dandolo — Gli Annalisti di Genova da Caffaro a
    Giacomo D'Oria — Pisa: Le Gesta triumphalia. Bernardo Marangone —
    I cronisti della rimanente Toscana e principalmente i Fiorentini:
    I Malispini. Dino Compagni. I Villani.


Volgendomi ai cronisti delle città marinare, primi mi si porgono
innanzi alla mente quei di Venezia. Illustrata pei tempi più remoti
dalla Cronica Altinate e dalla Gradense, che recano qualche luce nel
buio delle sue origini, poi da quel Giovanni diacono che ci si mostrò
ai primi albori della vita comunale, Venezia ebbe copia di storici
degna degli splendori della sua storia[170]. A que' primi cronisti
tenne dietro un anonimo che dettò gli annali veneti dalla metà
dell'undecimo secolo fino alla fine del dodicesimo, e tra le notizie
sulla storia politica lasciò molte importanti indicazioni intorno ad
avvenimenti locali relativi alla città di Venezia. Un frammento di
cronaca, scritto certamente dopo la morte del doge Sebastiano Ziani
(A. D. 1229) e già pubblicato come parte del _Chronicon Altinate_,
è anch'esso pregevole per la storia delle relazioni di Venezia cogli
altri Stati, e in particolare coll'Oriente dove essa, padrona oramai
dell'Adriatico, stendeva largamente la sua influenza e il potere. E
dal tredicesimo secolo in poi la letteratura storica veneziana diviene
sempre più fiorente, e s'ispira alla poesia del luogo e alla grandezza
di quel senno politico che mentre reggeva dentro con tanta sapienza lo
Stato, guidava lontane imprese in ogni parte del mondo. Pieno di questa
poesia e di questa grandezza è il cronista Martino da Canale. Questo
cronista descrisse la storia di Venezia fino al secolo decimoquarto
in forma piuttosto di romanzo che di storia, ma appoggiato alle fonti
che lo precedettero, alle tradizioni, e pe' suoi tempi alla fede degli
occhi suoi o alla viva voce di testimonî oculari, egli in ciò che narrò
del secolo decimoterzo, apparisce sostanzialmente scrittore veridico
e, spesso pur nei particolari, bene informato ed esatto quanto è
vivace. Di lui non si sa quasi nulla, e neppure s'egli fosse veramente
veneziano, ma certo visse lungamente in Venezia per la quale mostra un
affetto caldo ed una ammirazione infinita. Come il _Tesoro_ di Brunetto
Latini, come il Libro di Marco Polo, la sua cronaca è scritta in
francese perché «_lengue franceise cort parmi le monde et est la plus
delitable a lire et a oir que nule autre_.» Sui principî di Venezia
favoleggiò colle leggende troiane e con quelle d'Attila, e seguitò
breve fin verso i tempi di Enrico Dandolo. Con questo glorioso Doge
la narrazione di Martino incomincia a distendersi e diviene sempre più
ricca. Quando tocca poi i tempi del doge Giacomo Tiepolo fino al 1275,
ultima data della sua cronaca, i particolari che reca, specialmente
sui costumi di Venezia, acquistano un valore inestimabile. Le sue
notizie intorno ai personaggi dell'età sua, alla Chiesa di San Marco,
alla Piazza e ai tornei celebrati in essa, alle vesti ed onorificenze
dei Dogi, alle loro comparse e a quelle delle varie corporazioni
delle Arti, alla festa solenne delle Marie, sono altrettanti quadri di
un'età singolare dipinti sopra un fondo maraviglioso. Scrittore con
cui è necessario adoperar molta critica, storico, come s'è detto, e
romanziere a un tempo, Martin da Canale colla ingenua vivacità della
sua fantasia riesce tale pittor di Venezia da non aver chi lo superi
tra i contemporanei o l'agguagli a gran pezza. Dal suo libro pieno
d'attrattive tolgo l'episodio della presa di Zara avvenuta per opera
del Doge Dandolo mentre si recava coi Crociati in Oriente al conquisto
di Costantinopoli:

«.... Vi dirò che il Conte di S. Polo e il Conte di Fiandra, il Conte
di Savoia ed il Marchese di Monferrato, nell'anno della Incarnazione
di Nostro Signor Gesù Cristo MCCII, inviarono loro messaggi al nobile
Doge di Vinegia messere Errico Dandolo, e lo pregarono ch'egli loro
donasse naviglio per passare di là il mare. E quando Monsignore il Doge
Errico Dandolo udì la preghiera che li messaggi dei Baroni di Francia
gli ferono da parte di lor signori, sì ne fu lieto e disse ai messaggi:
‘Andate e dite ai signori vostri che di quell'ora ch'elli vorranno
venire in Vinegia troveranno l'armata apparecchiata per passare di là
il mare, e che il Doge di suo corpo medesimo vorrà passare con loro
al servigio di Santa Chiesa.’ Allora se ne tornarono li messaggi a'
Signori loro, e loro dissero tutto in così come Monsignore il Doge
loro mandava. E quando i Baroni di Francia udirono ciò, ne furono molto
lieti che dell'armata, la quale Monsignore il Doge loro aveva promesso,
che del voler passare il mare di suo corpo medesimo con loro, e dissero
che miglior compagnia non potrebbon elli avere in tutto il mondo.

«Messere Errico Dandolo, il nobile Doge di Venezia, mandò venissero
li carpentieri e fece rettamente apparecchiare e fare palandre e navi
e galee a gran numero, e fece prestamente fare medaglie d'argento
per dare il soldo ai maestri ed ai lavoratori, ché le piccole ch'elli
aveano non venian loro così opportune. E del tempo di monsignore Errico
Dandolo in qua fu cominciato in Vinegia a ferire le nobili medaglie
d'argento, che l'uomo dice Ducato, le quali corrono per mezzo il mondo
per la bontà loro. Molto si affrettarono li Viniziani per apparecchiare
il naviglio, e' Francesi allorquando furono in punto si misero alla via
e cavalcarono tanto ch'elli furono venuti in Vinegia, ove furono molto
bene ricevuti, e fecer loro li Viniziani grande gioia e grande festa. E
Monsignore lo Apostolo loro avea dato un suo legato che de' peccati li
avea prosciolti. A quel legato fece Monsignore il Doge grande onore, e
prese la Santa Croce da sua mano e molti nobili Viniziani la presero e
del popolo ancora.

«A grande gioia ed a grande festa entrò messer Errico Dandolo in una
nave per passare il mare coi Baroni di Francia al servigio di Santa
Chiesa; ed i Baroni si misero ciascuno in sua nave, ed i cavalieri
entrarono negli uscieri e nelle palandre e nelle altre navi da ciò ove
loro cavalli erano messi. Ed allorquando elli furono in mare i marinai
drizzaron le vele al vento e lasciarono ire a vele piene le navi per
mezzo il mare alla forza del vento. E Monsignore il Doge avea lasciato
in Vinegia in luogo suo un suo figliuolo detto messer Rinieri Dandolo,
e quegli governò i Viniziani in Vinegia molto saggiamente.

«Monsignore il Doge se ne andò tanto per mezzo il mare ch'egli fu
venuto a Giadra e tutta sua compagnia: e Giadratini erano a quel tempo
sì orgogliosi ch'elli aveano rifiutata la signoria di Monsignore il
Doge e faceano dirubare i trapassanti pel mare ed aveano levate le
muraglia d'intorno la città. Il temporale era cambiato ed il mare
iroso, sì loro convenne prendere terra per salvare il naviglio, ed
allora se ne andarono a Malconsiglio, ciò è un'isola la quale è tutto
dinnanzi Giadra. Quando elli furono dentro il porto messi a salvezza,
Monsignore il Doge disse ai Baroni: ‘Signori, vedete là quella città?
sappiate ch'ella è mia, ma quelli di dentro sono sì orgogliosi ch'elli
hanno rifiutato mio comandamento: io voglio che voi m'attendiate qui,
ch'io vuo' mostrar loro quale merito debbano avere essi che rifiutano
il comandamento del Signor loro.’

«Quando i Baroni udirono ciò, dissero a Monsignore il Doge: ‘Sire,
noi siamo apparecchiati di venire con voi e nostri cavalieri anche.’
‘In nome di Dio, disse Monsignore il Doge, già nullo di voi non vi
metterà suo piede, anzi voglio che voi vediate ciò che io so fare ed
i Viniziani con me.’ Ed allorquando elli furono apparecchiati di loro
armi e di loro scale, non fecero altro soprastamento fuorché messere
Errico Dandolo, l'alto Doge di Vinegia, si mise avanti e li Viniziani
appresso ed andarono assalire Giadra e fu la battaglia cominciata; e
già non rimase per nessuna difesa che i Giadretini ci facessero, che
i Viniziani non salissero in secca terra. Sì fu allora la battaglia
a colpi di lance e di spade, e quelli di sovra le muraglia gittavano
giavelotti e pietre canterute e pali aguti e difendevano la città a lor
podere. Ma la difesa non valse loro niente perché immantinente che i
Viniziani misero loro scale alle mura vi montarono sopra ed abbatterono
i Giadratini a terra, e presero la città rattamente rincacciandone i
cittadini e dando Giadra in preda di monsignore Errico Dandolo.»[171]

A quel modo che Martino Da Canale aveva attinto largamente dagli
storici che lo precedettero, così un altro cronista di nome Marco
si giovò molto di lui per compilare una cronaca latina di cui furono
pubblicati sol dei frammenti, e dopo lui e d'assai maggiore rilievo
appariscono Marin Sanudo Torsello, e il frate Paolino, due delle
principali fonti storiche di cui si servì il grande cronista medioevale
di Venezia, Andrea Dandolo.

Da una antica e gloriosa famiglia di guerrieri e d'uomini di Stato e di
Chiesa, Andrea Dandolo nacque nei primi anni del secolo decimoquarto.
Giovanissimo sostenne cariche importanti, Procuratore di San Marco nel
1331, Podestà di Trieste nel 1333, e tre anni appresso Provveditore
in campo nella guerra contro Mastino della Scala. Nel 1343 a soli
trentasei anni, o, come altri vuole, a trentatrè, Andrea con esempio
insolito fu levato al trono ducale. Giusto liberale benefico, i
contemporanei sono pieni di lodi per lui; dottissimo di giurisprudenza
e di storia, volse le sue cognizioni a benefizio dello Stato e delle
lettere che gli procurarono amicizie di letterati insigni, massimo fra
questi il Petrarca. L'indole e gli studî lo traevano alla pace, ma i
tempi gravi in cui resse lo Stato volgevano a guerra e gli fu mestieri
spender gran parte della sua mente a negoziati che s'appoggiavan
sull'armi. Le continue relazioni di commercio e di guerre tra l'Asia
Minore e Venezia, alla quale anche s'aprivano allora i porti d'Egitto
e di Siria, le contese commerciali sorte e appianate coi Tartari, la
ribellione di Zara in Dalmazia, vinta malgrado gli sforzi avversi del
re d'Ungheria, e quella di Giustinopoli nell'Istria vinta ancor essa,
e una terribile pestilenza in Venezia, occuparono con molte altre
cure l'attività di Andrea Dandolo nei primi anni del suo principato.
In proceder di tempo queste cure si accrebbero per la rivalità ognor
crescente tra i Veneziani e i Genovesi i quali anch'essi volgevano
le loro mire al commercio coi Tartari nel mare d'Azof. La rivalità si
mutò presto in guerra (A. D. 1351), e tal guerra quale potevano farsela
le due maggiori potenze marittime d'Europa a quel tempo. Guerra lunga
fortunosa varia di vittorie e di sconfitte, difficile a condurre per
le molteplici alleanze ch'era necessario stringere e opporre alle
alleanze nemiche. E qui è bello ricordare come la inerme voce del
Petrarca, si levasse tra quel frastuono d'armi a consigliare di pace
il doge Andrea Dandolo. Ma a questo non era dato ascoltarlo. I casi
incalzando rendevano necessaria la prosecuzione della guerra nella
quale i Veneziani toccarono una grave sconfitta. Mentre si provvedeva
a difender la città da un possibile assalto, o fosse il crepacuore pel
danno patito dalla patria, o fossero le fatiche sopportate in quegli
allestimenti di difesa, Andrea Dandolo morì il 7 settembre 1354 dopo
appena cinquant'anni di vita e dodici di principato.

Le molte cure dello Stato e i tempi bellicosi in cui governò, non lo
avevano distolto dai suoi lavori di giurisperito e di storico. Aggiunse
un libro agli Statuti di Venezia, rivedendo egli stesso e perfezionando
il lavoro man mano che si preparava. Assicurò l'ordinamento degli
archivi veneti facendo compilare due libri di grande pregio intitolati
_Liber Albus_ e _Liber Blancus_, contenenti il primo i trattati
conclusi da Venezia cogli Stati orientali, l'altro quelli conclusi
cogli Stati d'Italia. Prima di salire al principato aveva già
intrapreso qualche lavoro storico che poi rifuse nella grande opera
sua, la _Cronaca_ o, come altri la chiama, gli _Annali di Venezia_,
scritta mentre egli era Doge. È lavoro insigne pel quale si aiutò con
ogni maniera di materiali, e raccoglie in sé tutta quanta la storia
di Venezia fino al chiudersi del tredicesimo secolo, cercata con cura
grande e grande erudizione. La piena libertà di consultare gli archivî
gli rendeva facile l'uso dei documenti, ed egli se ne servì largamente
anche inserendone molti o per intero o in estratto nel suo lavoro.
Lesse molti degli scrittori non veneziani dai quali poteva trarre
notizie utili all'opera sua, e dei veneziani che lo avevano preceduto
non gli sfuggì quasi nessuno e forse conobbe qualche scrittura che non
è pervenuta infino a noi. Di tutti fece uso non senza acume di critica
talché non sarebbe ingiustizia affermare che dove tutti fossero periti,
la cronaca di Andrea Dandolo avrebbe conservato il succo delle opere
loro e la storia di Venezia rimarrebbe intera. Come scrittore non ha
grandi attrattive: assai semplice e lucidissimo ma piuttosto scarso
di fantasia, narra i fatti senza curarsi d'ordinarli con intendimento
d'artista. E neppure il nostro cronista è storico perfetto. Non si
guarda abbastanza dalle favole, dice il Muratori, dove narra cose
remote da' suoi tempi, e talvolta nella cronologia egli incespica
e cade negli errori di chi l'ha preceduto. Ma pur con ciò non è da
spregiarlo, e quanto egli dice intorno all'origine e al crescere di
Venezia è da avere in gran conto, nè certo si troverebbe scrittore più
grave di lui[172]. Dei suoi tempi non parla nella sua cronaca, ma di
quelli abbastanza vicini a lui tratta con molta larghezza di giudizio
e, pare, con animo sereno, sebbene ora taluno cominci a muovere
qualche dubbio sulla grande imparzialità che tutti gli riconoscevano
finora. Intorno alla vita e all'ordinamento politico di Venezia ha idee
chiarissime, e man mano che narra i fatti, egli espone lo svolgimento
storico e progressivo di quella mirabile costituzione, e in ciò è tal
pregio che solo basterebbe a farlo considerare come uno dei più grandi
e più importanti storici di tutto il medio evo italiano. All'opera sua
premise una lettera introduttoria Benintendi de' Ravegnani cancelliere
della Repubblica, amico anch'egli al Petrarca, letterato di fama e
autore di una storia veneta che rimasta incompiuta non oltrepassa i
primi secoli di Venezia. Un altro cancelliere, Raffaello o Rafaino de'
Caresini, proseguì l'opera del Dandolo e ne continuò gli Annali fino
al 1383, in un lavoro accurato anch'esso, e sebbene meno imparziale
di quello del Doge, pure molto commendevole come opera di storico
contemporaneo e di cittadino devoto e generoso verso la patria[173].

Nè la superba Genova volle restare indietro all'emula sua, ma con
sapiente consiglio provvide alla città una serie di istoriografi i
quali succedendosi gli uni agli altri ne descrissero le vicende per
circa due secoli dal 1100 al 1293. Ideatore e iniziatore di questa
serie fu un illustre cittadino genovese, Caffaro, il quale nato intorno
al 1080 si trovò come soldato e come duce a molte spedizioni, e prese
gran parte come console nelle cose della Repubblica e come ambasciatore
a papa Calisto II e a Federico Barbarossa. In sui vent'anni d'età,
al tempo della spedizione di Cesarea nel 1100, entrò nel proposito
di descrivere le gesta dei concittadini suoi, e da quel tempo quanto
vide egli stesso o seppe dalla testimonianza oculare d'altri consoli o
somiglianti personaggi, tutto notò costantemente, e nel 1152 presentò
il suo lavoro in pieno Consiglio ai consoli della Repubblica. I
consoli decretarono che il libro, copiato con gran cura ed eleganza,
fosse collocato nell'archivio pubblico. Lieto Caffaro con raddoppiato
zelo si ripose all'opera e condusse innanzi gli Annali fino al 1163,
ottantesimoterzo dell'età sua, ma le turbolenze civili che agitavano
Genova a quel tempo gl'impedirono di seguitare per gli altri tre
anni che visse. Morì nel 1166 lasciando oltre gli Annali un _Liber de
Expeditione Almariae et Tortuosae_ alla quale egli aveva preso parte
(1147-1148), ed uno _De liberatione civitatum Orientis_ che descrive
le spedizioni dei Genovesi in Siria e in Palestina. In essi, come
negli Annali, Caffaro rivela sé stesso quale scrittore ottimamente
informato, testimonio quasi sempre oculare delle cose che narra, uom
forte pio candido, della patria amantissimo, indagatore solerte di
quanto possa riferirsi alla vita pubblica e privata dei cittadini,
d'affari intendentissimo, familiare coi sommi uomini del suo tempo,
coll'imperatore Federico specialmente e coi papi, tenace del retto e
del giusto così nelle cose dell'Impero che della Chiesa, uomo alla cui
felicità, dopo le nobili cose operate in pace e in guerra, s'aggiunse
da vecchio di vedere il figliuol suo Ottone console nella Repubblica.
Tali le ampie e meritate lodi colle quali il Pertz delinea il ritratto
di Caffaro.

Proseguì la sua storia per ordine della Repubblica il cancelliere
Oberto, e la condusse dal 1164 al 1173. Mescolato ancor egli a tutti
gli eventi della patria, Oberto ebbe campo di vedere e conoscer bene
quanto accadeva d'importante per la Repubblica genovese e dentro la
città e lontano, talché la sua storia rende una viva immagine dei
tempi suoi. Le trattative di pace coll'imperatore di Costantinopoli,
gli armamenti a Porto Venere contro Pisa, la esposizione ch'ei fece a
Federico Barbarossa sulla contesa tra Pisani e Genovesi a proposito
della Corsica, i sussidî dati a Milano per fabbricare Alessandria,
sono alcuni tra i molti episodî nei quali ebbe parte. Dopo lui, Genova
per circa quindici anni non ebbe storiografo, ma Ottobono scriba
del Comune riprese l'opera, e colmata succintamente la lacuna di
quei quindici anni continuò con maggior larghezza gli Annali fino al
1196. Fu a molte imprese, e narrò quel che vide egli pure scrivendo
con quello stile piano e scorrevole che è proprio di una mente usata
agli affari e a guardar nelle cose il lato reale e pratico. Nel 1194
colla flotta genovese mandata in soccorso d'Enrico VI, partecipò
all'assedio di Gaeta, e quando quella città fu presa ne ricevette
per Genova il giuramento di fedeltà. Nel 1196 si trovò presso San
Bonifacio al conflitto tra la flotta di Genova e quella di Pisa, e
dalle minute e precise narrazioni sue può indursi ch'egli assistesse
anche alle altre spedizioni narrate nel seguito del suo lavoro. Lasciò
anche importanti notizie sui mutamenti politici interni avvenuti in
Genova nel 1194 quando ai Consoli del Comune fu sostituito un Podestà
annuo e forestiero secondo l'usanza generale allora nelle Repubbliche
italiane. Gli succedette nel lavoro Ogerio Pane (A. D. 1197-1219),
uomo che si adoprò molto in varî negozî della Repubblica col Re
d'Aragona Ildefonso, colla città di Marsiglia, e con Federigo II.
Dopo Ogerio, pregevolissimi e adoperati anche più di lui nelle cose
di Stato, Marchisio (A. D. 1220-1224) e Bartolomeo (A. D. 1225-1248)
ebbero, quest'ultimo specialmente, a narrare un tratto di storia
rilevantissimo, e ci mostrano Genova nelle sue relazioni colle potenze
vicine e lontane del Mediterraneo e la varia parte ch'essa ebbe nelle
lotte in Italia tra Federico II e la Chiesa.

Dopo una continuazione rimasta anonima che va dal 1249 al 1264, la cura
degli Annali genovesi fu affidata non più ad uno ma contemporaneamente
a diversi scrittori i quali allargando alquanto oltre la cerchia di
Genova i confini del loro lavoro, lo continuarono dal 1264 al 1279,
con grande zelo e, tra quel parteggiare continuo che travagliava
la città loro, con imparzialità mirabile nell'esporre i fatti e nel
giudicarne. Tra gli ultimi chiamati a questo ufficio fu sin dal 1269
Giacomo D'Oria, al quale nel 1280 fu dato incarico di proseguir
solo gli Annali, ed egli li condusse fino al 1294. Nato nel 1234
da Pietro figlio del celebrato ammiraglio Oberto D'Oria, fu tra
le varie vicende della patria esperto uomo di toga e di spada. Nel
1284 saliva con molti parenti una galera di casa D'Oria in una gran
battaglia contro i Pisani, ma nel tornar vittorioso, assalito da una
tempesta presso a Porto Venere, scampò a fatica da morte. Tornato in
patria, attese a riordinare l'archivio della città, fece trascrivere
in regesto molti documenti e di essi si servì nel suo ufficio di
storico. Dotto conoscitore degli antichi scrittori, ricercò in essi
quanto poté trovar di notizie per riassumere brevemente la storia
di Genova anteriore ai tempi di Caffaro. Di ciò che concerne i suoi
tempi fu larghissimo espositore, massime per le relazioni tra Genova
e Carlo d'Angiò e per la spedizione in Corsica condotta da Percivallo
D'Oria. Scrittore sagacissimo, avanza tutti i predecessori suoi per
acutezza d'osservazione, per larghezza di vedute e per una precisione
di mente che non gli fa mai trascurar dettaglio che possa importare ai
posteri. A queste doti la storia di Genova deve la memoria d'infinite
notizie intorno alla sua costituzione, all'esercito, alla flotta,
alla moneta. Il 16 luglio 1294, stanco per fiaccata salute più che
per vecchiezza, egli consegnò il suo lavoro ai magistrati della città
che lo ricevettero solennemente e con lodi degne del servigio ch'egli
avea reso alla patria. Con lui si conclude la serie di questi Annali,
l'unica che sia stata scritta per incarico di una Repubblica italiana,
la più completa in tutta l'età dei Comuni. Storia di un popolo
mercantile e guerriero, riflette l'indole di questo popolo nelle pagine
di ciascun degli autori malgrado la moltiplicità loro e la differenza
dei tempi in cui scrissero. A questi autori molte caratteristiche
sono comuni. Latinità piena di forme e di parole italiane, quasi
nessuno ornamento oratorio ma semplicità di frase e precisione di
stile grandissima, grande abbondanza di fatti, di nomi, di date,
molto amor patrio e molta imparzialità di giudizio, si trovano in
tutti questi scrittori da Caffaro a Giacomo D'Oria che sono il primo e
l'ultimo della serie e i due maggiori per vastità di vedute e acutezza
di indagini. Gli Annali di Genova provano più sempre come la storia
contemporanea per rendere viva figura di ciò che descrive, vuole essere
rappresentata da chi la vide e partecipando ad essa si scaldò al calore
dell'azione[174].

Men ricca di Annali fu Pisa ma non priva affatto di essi. Alleata nel
1088 a Genova e ad Amalfi per una gloriosa impresa in Affrica contro i
Saraceni, che fu preludio alle crociate, ebbe un cittadino che ricordò
questa impresa con un rozzo ritmo rimato pieno di fuoco patrio. Del
pari un poema latino in sette libri notevole per molte notizie e per
la tendenza classica del verseggiare, celebrò la presa di Maiorca (A.
D. 1115) che fu pure descritta da un anonimo, che il Watterich e il
Giesebrecht credettero potesse essere il cardinale Pietro Pisano ed
ora il Duchesne inclina a credere che fosse quello stesso Pandolfo di
cui si è già fatto ricordo tra i compilatori del Libro Pontificale.
L'autore narrando la spedizione dei Pisani alle Isole Baleari, allargò
il concetto del suo lavoro, e risalendo fino alla prima crociata e
alla presa di Gerusalemme, dettò le _Gesta triumphalia per Pisanos
facta_, magnificando anch'egli con molto calore e con molta evidenza le
glorie dei suoi concittadini. Ma il principale fra i cronisti pisani fu
Bernardo Marangone che fiorì nel dodicesimo secolo, ebbe molti pubblici
incarichi in patria e sostenne in più luoghi varie legazioni, una
delle quali nel 1164 a Roma per la conferma di una pace pattuita tra i
suoi concittadini e il popolo romano. Dopo brevi note cronologiche gli
Annali suoi incominciano all'anno 1004, da principio brevissimi, poi
dal 1136 al 1175 più larghi e con maggior pienezza nei fatti. Al 1175
cessa il lavoro suo che fu continuato fino al 1269 da Michele De Vico
canonico pisano del secolo decimoquarto. Il Marangone è scrittore rozzo
ma chiaro, e la latinità sua è piena anch'essa di forme e di parole
italiane. Annalista, quanto alla sostanza, bene informato e sincero,
egli ci lasciò notizie che non sapremmo senza di lui, e che attinse
a fonti oggimai perdute. Ha pregio specialmente per la storia delle
relazioni di Pisa coll'Impero e coi Papi, con Genova, e colla rimanente
Toscana di cui la storia appunto in quei tempi veniva in gran luce pel
salire della importanza politica di Firenze, e per quel maraviglioso
sorgere d'arti e di lettere destinato a stampare un segno così profondo
nella storia della civiltà[175].

Infatti verso quel tempo i cronisti cominciarono a fiorire in ogni
città di Toscana, utilissimi illustratori della storia d'Italia
dal secolo dodicesimo al decimoquinto. Lucca, Siena e Pistoia
principalmente ebbero cronisti pregevoli tra i quali gioverà
menzionare, per Lucca gli Annali (A. D. 1061-1394) di quel Tolomeo
da Lucca che abbiam veduto autore di una storia ecclesiastica, la
vita di Castruccio di Nicola Tegrimo (A. D. 1301-1328), e la cronaca
di Giovanni Sercambi (A. D. 1400-1409). Per Siena, a non dir d'altri
posteriori, vogliano citarsi la Cronica di Andrea Dei continuata
da Angelo Tura (A. D. 1186-1352) e gli Annali di Neri Donati (A. D.
1352-1381), e per Pistoia le _Istorie Pistolesi_ (A. D. 1300-1348)
dettate in italiano. E in italiano furono scritte varie di queste
cronache menzionate ed altre di cui si tace; non piccolo merito ancor
esso, sì perché aiutavano lo svilupparsi della lingua, e perché gli
autori, scrivendo come parlavano, non avevano impaccio che rallentasse
il pensiero loro, e l'esprimevano tutto quanto vivace e vero come
scintillava ad essi nella mente.

Sopra la rimanente Toscana, dopo il dodicesimo secolo, torreggia
Firenze, dagli umili e mal noti principî salita rapidamente al
primato, e fatta insigne dalle cresciute ricchezze, dalle arti e dalla
letteratura. Popolo pieno d'ingegno ed attivo, il più simile all'antico
ateniese di quanti ne conosce la storia moderna, per natura vivace
arguto riottoso discorde, i Fiorentini quasi d'istinto si formarono
ad una mirabile democrazia ricca di tutti i pregi democratici e di
tutti i difetti. Il sentimento individuale forte in tutti gl'Italiani
si mostrò fortissimo in Firenze e creò miracoli di virtù e di colpe.
Da un lato, gare d'ufficî e nimistà private suscitavan feroci le
lotte delle parti, ghibellina e guelfa dapprima, e poi, quando il
partito guelfo e democratico prevalse, di quelle dei Guelfi Bianchi
e Guelfi Neri: lotte tra famiglie e famiglie, tra nobiltà e popolo,
insofferenti gli uni degli altri. Dall'altro lato, un fiorir di
commerci, di ricchezze, d'industrie, e le corporazioni degli artieri
così saldamente costituirsi da divenir base allo Stato e curvare la
nobiltà costringendola per entrar negli uffici d'ascriversi ad essa, e
Dante fa esempio. La lingua formarsi, e le lettere e l'arti spiccare un
volo non tentato prima nelle età moderne nè mai superato in appresso.
È sentenza perpetua di Dio, che solo un popolo il quale senta in ogni
cosa con forza possa esser grande in ogni cosa, e non v'era bellezza,
di cui non s'innamorassero quegli animi così fieri e appassionati; nè,
tra le guerre fratricide e le uccisioni e gli esilî, v'era altezza di
pensiero a cui non giungessero, o gentilezza d'affetto che non capisse
in loro. Una fraterna simpatia legava tra loro quasi misticamente
quei grandi artisti che sorgevano a rinnovar di bellezza i regni del
pensiero, e quasi inavvertitamente e per istinto si legavano a Dante
giovine allora e pensoso di versi e d'amore. E mentre egli dettava la
_Vita Nuova_, Casella musicava la sua canzone _Amor che nella mente mi
ragiona_, e Giotto lo dipingeva bello di sentimento e di dolcezza, e
Guido Cavalcanti e Lapo Gianni e Cino da Pistoia gli scrivevano versi
ed egli a loro. Erano nella primavera dei loro pensieri e mettevan
fiori; ma presto l'arduo fiotto delle ire civili travolse Dante, e lo
gettò a maturar l'anima grande tra i dolori dell'esilio. Vagando da
paese a paese, l'immortal profugo guardò nel segreto degli uomini e
delle cose, imparò una ad una le virtù, le colpe, le sventure d'Italia;
e nel comporre il poema sacro a cui posero mano e cielo e terra, scolpì
in esso la storia d'Italia, e in verità gettò le basi alla storia di
tutto il medio evo. Non è di questo libro trattare il valore storico
del poema di Dante, ma giovi aver qui evocata la immagine sua, e che
la santa figura attraversi queste pagine come una fulgente visione di
luce[176].

Le origini di Firenze son buie. Fondata, per quanto pare, due secoli
prima di Cristo e rifondata da Augusto, la sua storia fino al secolo
undecimo non ha quasi altra base che le note e favolose leggende di
Troia, di Catilina e di Totila, popolari a Firenze[177]. Intorno a
queste leggende spaziò la fantasia de' suoi cronisti, e finora non si
ricavò quasi nulla che non sia congettura dalle più antiche memorie che
possono descriversi in breve. Le _Gesta Florentinorum_ del Sanzanome
partendo dalle origini incominciano a uscir del vago intorno al 1125
colla unione di Fiesole a Firenze, e ci mostrano quest'ultima già
bene avviata nel corso della prosperità sua materiale e intellettuale
fino al 1231. La _Chronica de origine civitatis_ sembra essere una
compilazione di varie mani e di varî tempi, nella quale sono venute
agglomerandosi le varie leggende delle origini. Gli _Annales Florentini
primi_ (A. D. 1110-1173) e gli _Annales Florentini secundi_ (A. D.
1107-1247), un elenco dei Consoli e dei Podestà di Firenze dal 1197 al
1267, ed un'altra cronaca, che si soleva attribuire a Brunetto Latini,
completano la raccolta delle prime memorie di Firenze. Alle quali è
da aggiungere un gruppo di notizie che verso il secolo decimoterzo
si venne formando e trasformando in varî codici, e fu adoperato nelle
varie sue forme dagli antichi scrittori Fiorentini e Toscani, e citato
da essi col nome generico di _Gesta Florentinorum_. «Opera,» come
congettura sagacemente Cesare Paoli «di compilazione e ricompilazione
continua, molteplice, anonima, universale; non opera veramente
letteraria ma fondamento d'una letteratura storica splendidissima,
quale fu la fiorentina del secolo decimoquarto.»[178]

Finora questa letteratura facevasi risalire di qualche tempo più in
alto e incominciar dalla cronaca che va sotto il nome di Ricordano e
Giacotto Malispini, vissuti nella seconda metà del secolo decimoterzo,
e delle cui persone si sa poco ed incerto. Era questa considerata
come la più antica cronaca scritta in volgare dopoché i _Diurnali_ di
Matteo Spinelli furono dichiarati apocrifi. Ma pur contro essa ora si
accampano taluni eruditi e la combattono con gran vigor di ragioni,
talché par difficile che possa difendersene l'autenticità malgrado
alcune serie obbiezioni mosse da chi la sostiene. Certo oramai tutti
ammettono che s'anco la cronaca nella sostanza è autentica, essa deve
essere pervenuta a noi sformata oltremodo e diversa dalla primitiva
lezione. Finora ad un giudizio definitivo manca una base ferma, e
non si può andare oltre le ipotesi tra le quali ci sembra probabile
quella del professor Paoli che questa cronaca sia un raffazzonamento
di più antiche memorie sconosciute a noi e da cui avrebbero attinto
parecchi cronisti senza citarle o con citazioni mal certe. Così come
ci rimane, la cronaca Malispiniana è libro molto attraente; muove
dalle leggende delle origini e discende fino ai secoli dodicesimo e
tredicesimo in cui narra per disteso la storia di Firenze. Ha forme
antiche di stile ed arcaismi di lingua che la fanno scrittura assai
pittoresca e coloriscono le abbondanti notizie e i molti fatti ed
episodi che si ritrovano poi quasi tutti ripetuti nella grande cronaca
del Villani, accusato finora d'aver copiato e rifusa nella sua l'opera
dei così detti Malispini mentre ora parrebbe che essi abbiano, almeno
indirettamente, attinto a lui. Ma innanzi d'affermar nulla è necessario
aspettare il risultato di nuove indagini condotte sui manoscritti e
di più profondi studî di critica, e ad ogni modo, se anche potesse
venir dichiarata in tutto o in parte apocrifa, alcuni pregi letterari
vieteranno che questa cronaca sia cancellata interamente dalla
letteratura italiana[179].

Dagli ardori della vita pubblica fiorentina, derivò la Cronaca di Dino
Compagni, una delle più care gemme che vanti la lingua italiana[180].
Nato verso il 1260 d'antica famiglia popolana, l'autor della Cronaca,
giovine ancora si trovò come Dante partecipe alle vicende della città
quando per Firenze s'apriva un periodo agitato di lotte civili, e la
costituzione sua popolare volgeva a forme sempre più democratiche. La
città divisa per la nimicizia d'alcune potenti famiglie, il popolo
in lotta vittoriosa colla nobiltà, fiero contr'essa e tendente ad
opprimerne la prepotenza con rigore prepotente di leggi. Il guelfismo
prevalente, poiché ebbe sconfitti i Ghibellini d'Arezzo e quei di
tutta Toscana con essi alla battaglia di Campaldino (A. D. 1289), si
veniva lacerando rabbiosamente da sé, diviso come abbiam detto, in
Guelfi Bianchi e in Guelfi Neri, i primi colla famiglia dei Cerchi, con
quella dei Donati i secondi. A questi si piegava favorevole Bonifazio
VIII che della parte bianca adombravasi perché non gli pareva staccata
abbastanza dai Ghibellini. Perciò il Papa mandava a Firenze i suoi
legati a spalleggiare i Neri, e più tardi chiamava sovr'essa le armi di
Carlo di Valois, principe avventuriero, povero e affamato di ricchezze
e d'onori, la cui dimora in Italia fu tutta una vergogna e non recò
altro frutto che di discordie. Pochi anni innanzi, il popolo di Firenze
guidato da un generoso tribuno, Giano della Bella, aveva stabilita
co' suoi _Ordinamenti di Giustizia_ una delle più fiere costituzioni
democratiche che potessero immaginarsi. Poi Giano andava bandito in
esilio, sopraffatto da molte invidie di potenti e da un altro e ben
tristo tribuno, il beccaio Pecora che s'era fatto innanzi adulando le
male passioni della plebe e facendone pro. Contro gli _Ordinamenti
di Giustizia_ tramava intanto Corso Donati, il Catilina di Firenze,
il quale messosi a capo dei Neri si sforzava di rendersi superiore
alla legge e di scuotere il giogo a cui i popolani avevan curvata la
nobiltà. Per la venuta di Carlo di Valois, Corso Donati e i Neri eran
saliti in forza e se ne giovarono alla oppressione dell'altro partito,
onde la dimora in Firenze di quel Francese venuto con titolo di
Paciere, servì solo a sbrigliar le male passioni e a insozzar la città
e i sobborghi d'omicidî, di saccheggi e violenze d'ogni maniera. Poi
il Valese lasciava Firenze alle sue desolazioni. Bonifazio VIII indi
a poco, patito l'insulto d'Anagni, moriva, Corso Donati era ucciso,
ma sempre duravano le discordie e il contrastare indomato. Intanto
molti dei Bianchi che erano stati banditi dalla patria, e Dante tra
essi, per necessità di casi e similtà di nemici si venivano accostando
ai Ghibellini, e più vi s'accostarono quando splendette anche a
Toscana quel raggio di speranza che illuminò un momento l'affaticata
Italia. Arrigo di Lussemburgo scendendo a coronarsi imperatore, pareva
invece dello scettro recar nella mano il ramuscello dell'ulivo. Era
un sogno desideroso di stanche anime affannate di pace, e già abbiam
veduto a Padova il guelfo Mussato inneggiare ad Arrigo e celebrarne
le gesta. Però le discordie non si assopivano, e quando Arrigo mosse
per la Toscana, i Ghibellini di quelle parti esultarono e nei Guelfi
Bianchi si ravvivò la speranza del rialzarsi. Ma i Neri di Firenze
non s'impaurirono, e strettisi agli Angioini di Napoli si mostrarono
apertamente ostili ad Arrigo a cui la morte non die' tempo di continuar
nel contrasto. Con lui cadde ogni forza alla parte bianca e la speranza
di mai più prevalere.

A tutti questi avvenimenti aveva assistito e partecipato in Firenze
Dino Compagni che fu, tra il 1282 e il 1301, più volte Priore nel
governo della città e nel 1293 Gonfaloniere di Giustizia. Anima
intemerata, cuor mite e sincero, mente diritta e semplice, tentò fra
le turbolenze della patria di richiamar gli animi verso la pace, e
prodigò vanamente a quel santo scopo le forze della eloquenza sua
fervidissima e dell'onesto volere. L'indole temperata lo accostò ai
Bianchi e quando la parte sua cadde, egli costretto a cessare dalla
vita pubblica e sospiroso sui mali della patria, si restrinse all'arte
sua di setaiuolo e cercò conforto nelle lettere di cui già prima aveva
dato qualche saggio in alcune liriche e, per quanto pare, in un poema
che ha per titolo la _Intelligenza_. Coll'anima piena delle impressioni
delle cose vedute e dell'affetto doloroso che portava alla patria, ei
si sentì tratto a scrivere i fatti a cui s'era trovato: «Le ricordanze
dell'antiche istorie,» egli dice «lungamente hanno stimolata la mente
mia di scrivere i pericolosi avvenimenti non prosperevoli i quali ha
sostenuti la nobile città figliuola di Roma, molti anni, e specialmente
nel tempo del giubileo dell'anno 1300. Io scusandomi a me medesimo
siccome insufficiente, credendo che altri scrivesse, ho cessato di
scrivere molti anni; tanto che moltiplicati i pericoli e gli aspetti
notevoli sì che non sono da tacere, proposi di scrivere a utilità di
coloro che saranno eredi de' prosperevoli anni, acciò che riconoscano i
beneficî da Dio, il quale per tutti i tempi regge e governa.

«Quando io incominciai, proposi di scrivere il vero delle cose certe
che io vidi e udii, però che furon cose notevoli, le quali ne' loro
principî nullo le vide certamente come io: e quelle che chiaramente
non vidi, proposi di scrivere secondo udienza; e perché molti secondo
le loro volontà corrotte trascorrono nel dire e corrompono il vero,
proposi di scrivere secondo la maggior fama.»

Narrato così la ispirazione e il concetto del suo lavoro e descritte
con vivida brevità la città di Firenze e le origini di sue discordie
civili, egli entra propriamente nella sua storia che dal 1280 al
1312 abbraccia tutti gli eventi ai quali siam venuti accennando. In
quella storia egli vive e respira, e si agita in essa per modo che
non sapremmo trovar fra i moderni uno scrittore di storia che gli si
agguagli per la potenza ch'egli ha di scaldare il petto di chi lo legge
con tutto il fuoco che scaldava il suo petto. Tra gli antichi l'han
paragonato di preferenza a Tucidide e a Sallustio, e forse somiglia
più al primo per lo spontaneo candore che manca al secondo a cui pure
s'accosta Dino per una certa esteriorità dello stile pittoresco e
nervoso. Nella Cronaca di Dino è tutta l'anima dell'autore quale essa
fu, consacrata alla patria e piena di sdegni virtuosi e d'amore per
essa. L'amor patrio infatti è la passione che muove sempre l'anima
di Dino o ch'egli narri imprese di virtù e se ne esalti, o ch'egli
giudichi severo e bolli d'infamia quei tristi che distruggevano la
patria per passioni private o di parte, imprecando ad essi come in
questa apostrofe: «Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e
pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre
malizie. Palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti;
non penate più; andate e mettete in ruina le bellezze della vostra
città. Spandete il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede
e dello amore, nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio. Seminate le
vostre menzogne, le quali empieranno i granai de' vostri figliuoli.
Fate come fe' Silla nella città di Roma, che tutti i mali che esso
fece in dieci anni, Mario in pochi dì li vendicò. Credete voi che
la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una
per una. Guardate a' vostri antichi, se ricevettono merito nelle
loro discordie: barattate gli onori che eglino acquistorono. Non
vi indugiate, miseri: che più si consuma in un dì nella guerra, che
molti anni non si guadagna in pace, e picciola è quella favilla che a
distruzione mena un gran regno.»

L'indole mite e schietta di Dino male adattavasi alla età turbolenta
in cui visse. Tra l'agitarsi di tante passioni, se come uom di Stato
ei rimaneva sempre nel giusto e accordava gli atti alla purità delle
intenzioni, non sempre nell'ingenuo candor di sua mente trovava rimedî
efficaci a prevenir le discordie o a reprimerle. E ciò sente egli
stesso, e quando ripensa il passato e lo giudica nella sua narrazione,
da sé riconosce gli errori proprî e dei suoi colleghi e li confessa,
e com'è giusto dispensiero di lode e di biasimo a tutti, così non
rifugge dal chiamarsi in colpa. Non è la persona sua ch'egli vede ma
i fatti che l'hanno mossa, e questo rende bello il seguirlo dov'egli
parla di sé e rivela nella semplicità sua la magnanima indole del suo
carattere e la serena imparzialità del giudizio. Niuno episodio più
commovente che quello narrato da lui, di ciò ch'ei fece essendo Priore
quando Carlo di Valois stava per entrare in Firenze. Paventando le
discordie civili in faccia d'uno straniero, egli ascolta la voce del
cuore, e parendogli che debba parlar potente in ciascuno dinnanzi alla
carità della patria, con fiducia ingenua e sublime la invoca dai suoi
concittadini:

«Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto
pensiero imaginando: ‘Questo signore verrà e tutti i cittadini troverà
divisi; di che grande scandalo ne seguirà.’ Pensai, per lo uficio
ch'io tenea e per la buona volontà che io sentia ne' miei compagni,
di raunare molti buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni; e così
feci. Dove furono tutti gli ufici; e quando mi parve tempo, dissi:
‘Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendeste il sacro
battesimo di questa fonte, la ragione vi sforza e stringe ad amarvi
come cari fratelli, e ancora perché possedete la più nobile città
del mondo. Tra voi è nato alcuno sdegno, per gara d'uficii, li quali,
come voi sapete, i miei compagni e io con saramento v'abbiamo promesso
d'accomunarli. Questo signore viene, e conviensi onorare. Levate via
i vostri sdegni, e fate pace tra voi, acciò che non vi trovi divisi:
levate tutte l'offese e ree volontà state tra voi di qui adietro; siano
perdonate e dimesse, per amore e bene della vostra città. E sopra a
questo sacrato fonte, onde traesti il santo battesimo, giurate tra voi
buona e perfetta pace, acciò che il signore che viene trovi i cittadini
tutti uniti.’ A queste parole tutti s'accordorono, e così feciono,
toccando il libro corporalmente, e giurorono attenere buona pace e
di conservare gli onori e giuridizion della città. E così fatto, ci
partimmo di quel luogo.

«I malvagi cittadini che di tenerezza mostravano lagrime, e baciavano
il libro, e che mostrarono più acceso animo, furono principali alla
distruzion della città. De' quali non dirò il nome per onestà: ma non
posso tacere il nome del primo, perché fu cagione di fare seguitare
agli altri, il quale fu il Rosso dello Stroza; furioso nella vista e
nelle opere; principio degli altri; il quale poco poi portò il peso del
saramento.

«Quelli che aveano maltalento, diceano che la caritevole pace era
trovata per inganno. Se nelle parole ebbe alcuna fraude, io ne debbo
patire le pene; benché di buona intenzione ingiurioso merito non si
debba ricevere. Di quel saramento molte lagrime ho sparte, pensando
quante anime ne sono dannate per la loro malizia.» «Pietosissime
parole» esclama il Tosti riferendole in un suo libro[181] «ed oh
fossero nelle italiane menti scolpite!» Ma le pietose parole che
infiammavano dopo sei secoli il santo e patriottico petto del monaco
cassinese non bastavano tra quei torbidi casi, e forse, come Dino
stesso lamenta un'altra volta di non aver fatto, sarebbe stato meglio
_arrotare i ferri_. La concordia delle parti era in cima dei suoi
pensieri, ed egli sperava di ottenerla con la mitezza delle persuasioni
come ci è mostrato da un altro episodio che non è meno degno di memoria
nè men bella pittura dei tempi e degli sforzi che pure si venivano
facendo per tornare alla pace la travagliata città. «I Signori erano
molto stimolati dai maggiori cittadini, che facessono nuovi Signori.
Benché contro alla legge della giustizia fusse, perché non era il tempo
da eleggerli, accordammoci di chiamarli più per pietà della città che
per altra cagione. E nella cappella di San Bernardo fui io, in nome di
tutto l'uficio, e ebbivi molti popolani, i più potenti, perché sanza
loro fare non si potea. Ciò furono Cione Malagotti, Segna Angiolini,
Noffo Guidi, per parte Nera: messer Lapo Falconieri, Cece Canigiani e
'l Corazza Ubaldini, per parte Bianca. E a loro umilmente parlai con
gran tenerezza, dello scampo della città, dicendo: ‘Io voglio fare
l'uficio comune, da poi che per gara degli uficî è tanta discordia.’
Fummo d'accordo, e eleggemmo sei cittadini comuni, tre de' Neri e
tre de' Bianchi. Il settimo, che dividere non si potea, eleggemmo di
sì poco valore che niuno ne dubitava. I quali, scritti, posi in su
l'altare. E Noffo Guidi parlò e disse: ‘Io dirò cosa che tu mi terrai
crudele cittadino.’ E io li dissi che tacesse; e pur parlò, e fu di
tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro parte,
nell'ufficio, maggiore che l'altra: che tanto fu a dire, quanto ‘disfà
l'altra parte,’ e me porre nel luogo di Giuda. E io li risposi, che
innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a mangiare
a' cani. E così da collegio ci partimmo.»

Così, senza saperlo, dipinge tutto sé stesso quest'uomo, il quale col
cader di sua parte, lasciata la cosa pubblica, continuò come s'è detto
tra la mercatura e le lettere una vita forse per necessità oscura,
di cui non riman quasi traccia fino all'anno 1324 che fu l'ultimo
suo[182]. Storico mirabile e uom giusto e buono, degno contemporaneo
e concittadino di Dante a cui, più d'ogni altro scrittore della età
sua, rassomiglia per l'ardore grande degli affetti, per l'indole
piena d'amore e di sdegno, per la singolare attitudine di guardar
le cose dall'alto, di giudicare conciso degli uomini e di scolpirne
con una frase il ritratto. Di lui molti scrittori han parlato, e
con molto sapere, tra gli altri, il nobile storico di Firenze, Gino
Capponi, che ne fa memoria così: «Dino Compagni buon uomo e un po'
corto nei suoi politici pensamenti, ma caldo fautore del buono e del
retto, era impossibile che scrivesse con la pazienza d'un erudito o
con l'accuratezza di uno stenografo, che a volte non basta. Compagno
allegro dei primi fondatori d'un governo popolare, devoto a chi aveva
saziato le ire contro ai nobili, poi male contento dei nuovi uomini e
delle plebi salite in iscanno; guelfo ma per l'amore dell'ordine pronto
ad accogliere un Imperatore, da ultimo impaurito di questo stesso
imperatore, a cui gli pareva che si facesse una pazza e inutile guerra;
onesto in ciascuno di questi concetti, ma in tutti accorgendosi avere
sbagliato; immaginoso e appassionato e sempre rigido moralista: è un
chiedergli troppo pretendere ch'egli desse alla storia l'esattezza
d'un registro minuto e impassibile.... La sua Storia è tutta composta
sopra una serie d'impressioni di cui l'evidenza, la vivacità, la
forza sono argomenti della sincerità: lo scrittore nel raffigurare
sé medesimo dipinge il suo tempo; e in questo appunto consiste il
pregio di Dino Compagni, che ha pochi uguali per questo rispetto....
Ai prosatori del dugento sovrasta molto con quella sua Cronaca il
fiorentino Dino Compagni: l'Alighieri tiranneggia col fiero ingegno
la lingua, alzandola come una bella prigioniera fino agli amplessi
del sire; Dino, che ha tanto viva ed efficace la parola, non riesce
però a nascondere un qualche sforzo nella composizione; sinceramente
appassionato, ma pure ambizioso di dare al racconto la forma di storia
secondo forse poté averne l'esempio in Sallustio. In quanto all'arguta
speditezza dello stile si lascia il Compagni addietro il Villani, che
tanto lo supera per la universalità dell'argomento e nella scienza dei
fatti.»[183]

Nei tempi di Dino ma d'alquanti anni più giovane, nasceva in Firenze
il grande cronista Giovanni Villani il quale, secondo le tradizioni di
sua famiglia, addettosi alla mercatura la esercitò in patria e fuori.
Nei primi anni del secolo decimoquarto viaggiò a Roma, in Francia e
nei Paesi Bassi, dove vide e notò molto d'uomini e di cose. Tornato in
patria, incominciò a consacrarsi alla cosa pubblica verso il tempo in
cui Dino se ne staccava, quando alle turbolente agitazioni che Dino
descrisse, succedeva un periodo di calma relativa. Negli anni 1316
e 1317 fu dell'ufficio dei Priori ed ebbe parte negli astuti maneggi
dei Fiorentini per concluder pace coi Pisani e i Lucchesi. Anche nel
1317 fu Uffiziale della Moneta, e amministrando le cose della zecca,
ne raccolse studiosamente le memorie componendo in gran parte egli
stesso un registro delle monete coniate in Firenze fino al suo tempo.
Priore nuovamente nel 1321, presiedette alla riedificazione delle mura
di Firenze con zelo grande e mal ripagato, perché poi l'opera sua fu
soggetta ad accuse di cui però si disciolse provando la innocenza
sua. Più tardi fe' parte dell'esercito mosso dai Fiorentini contro
Castruccio degl'Interminelli e sconfitto da lui ad Altopascio. In una
dolorosa carestia che travagliò molte provincie d'Italia nel 1328, egli
s'adoperò con l'usata attività sua a lenirne i danni entro Firenze, e
de' provvedimenti che furon fatti lasciò memoria in un capitolo della
sua cronaca che è monumento di quella sapienza economica per la quale
i Fiorentini del medio evo, antivenendo i tempi, s'accostarono spesso
nella pratica alle teorie degli economisti moderni. Due anni dopo
presiedette alla fattura delle porte di metallo di San Giovanni «molto
belle e di maravigliosa opera e costo, e furono formate in cera e poi
pulire e dorare le figure per uno maestro Andrea Pisano, e gittate
furono a fuoco di fornello per maestri viniziani.» Nel 1341 fu ostaggio
di guerra a Mastino della Scala in Ferrara, e quivi insiem cogli altri
ostaggi rimase alquanti mesi trattato a grande onore e con grande
amorevolezza. Tornato a Firenze, vide tra le ulteriori vicende della
patria, e la descrisse vivamente, la breve usurpazione e la cacciata
del Duca d'Atene. Travolto senza colpa in un grande fallimento della
Compagnia de' Bonaccorsi (1345) fu sostenuto qualche tempo in prigione.
Morì nel 1348 vittima della gran peste, famosa per la dipintura che ne
ha fatto il Boccaccio.

L'anno 1300 pel solenne Giubileo bandito da Bonifazio VIII, Roma
accolse tra le sue mura uno sterminato numero di fedeli accorsi
d'ogni parte della cristianità in pellegrinaggio a venerar le tombe
degli Apostoli. Colà mosse fra gli altri pellegrini il Villani, e
mentre s'aggirava per la maravigliosa città, lo attrasse il fascino
suo misterioso, e innanzi alla maestosa solitudine delle sue rovine
risalendo con la mente al passato sentì il core infiammarglisi nelle
antiche memorie. E mentre a Dante che s'aggirava anch'egli per le
vie di Roma in quell'anno, tumultuava indistinto nell'anima il grande
concetto del suo poema, allo spirito sagace e osservatore del mercante
fiorentino si rivelava la sua potenza di storico[184]. «Negli anni
di Cristo 1300, secondo la nativitade di Cristo, con ciò fosse cosa
che si dicesse per molti, che per addietro ogni centesimo d'anni
dalla natività di Cristo, il papa ch'era in que' tempi, facea grande
indulgenza, papa Bonifazio ottavo che allora era apostolico, nel
detto anno a reverenza della natività di Cristo fece somma e grande
indulgenza in questo modo: che qualunque Romano visitasse infra tutto
il detto anno, continuando trenta dì, le chiese de' beati apostoli
santo Pietro e santo Paolo, e per quindici dì l'altra universale gente
che non fossono Romani, a tutti fece piena e intera perdonanza di
tutti i suoi peccati, essendo confesso o si confessasse di colpa e di
pena. E per consolazione dei cristiani pellegrini, ogni venerdì o dì
solenne di festa, si mostrava in San Pietro la Veronica del sudario di
Cristo. Per la qual cosa gran parte dei cristiani che allora viveano,
feciono il detto pellegrinaggio, così femmine come uomini, di lontani
e diversi paesi, e di lungi e dappresso. E fu la più mirabile cosa che
mai si vedesse, che al continuo in tutto l'anno durante, avea in Roma
oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini sanza quegli ch'erano
per gli cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti
di vittuaglia giustamente, così i cavalli come le persone, e con molta
pazienza e sanza romori o zuffe: ed io il posso testimoniare, che vi
fui presente e vidi. E dell'offerta fatta per gli pellegrini molto
tesoro ne crebbe alla Chiesa, e' Romani per le loro derrate furono
tutti ricchi. E trovandomi io in quello benedetto pellegrinaggio nella
santa città di Roma, veggendo le grandi e antiche cose di quella, e
leggendo le storie e' grandi fatti de' Romani scritti per Virgilio e
per Sallustio e Lucano e Tito Livio e Valerio e Paolo Orosio e altri
maestri d'istorie, li quali così le piccole cose come le grandi,
delle geste e fatti de' Romani scrissono, e eziandio degli strani
dell'universo mondo, per dare memoria e esemplo a quelli che sono a
venire, presi lo stile e forma da loro, tutto sì come discepolo non
fossi degno a tanta opera fare. Ma considerando che la nostra città di
Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare e a seguire
grandi cose, siccome Roma nel suo calare, mi parve convenevole di
recare in questo volume e nuova cronaca tutti i fatti e cominciamenti
della città di Firenze, in quanto m'è stato possibile a ricogliere e
ritrovare, e seguire per innanzi stesamente i fatti de' Fiorentini e
dell'altre notabili cose dell'universo in breve, infino che fia piacere
di Dio, alla cui speranza per la sua grazia feci la detta impresa, più
che per la mia povera scienza; e così negli anni 1300 tornato da Roma,
cominciai a compilare questo libro, a reverenza di Dio e del beato
Giovanni, e commendazione della nostra città di Firenze.»[185]

L'opera incominciata dal Villani nel 1300 risalisce ai tempi biblici
e scende al 1346. Nè solo il concetto del suo lavoro era vasto pel
profondarsi ch'ei fece nel buio delle età lontane, e pel raccogliere
dei pochi fatti noti e delle molte leggende tra le quali si nasconde
il primo sorgere di Firenze. La vasta universalità del suo racconto,
massime pei tempi che gli sono vicini, mentre attesta i viaggi
dell'autore e la mente sua comprensiva, ti fa quasi sentire la romana
ispirazione del libro. La cronaca del Villani è cronaca universale e
spazia per tutta Europa. Dino Compagni sente i fatti della sua storia
e vive in essi, il Villani li guarda e li narra quasi estraneo ad essi
pur quando vi è in mezzo o ne è autore egli stesso. Pregevolissimo
per la storia italiana del secolo decimoquarto, egli è come la pietra
angolare alla storia medioevale di Firenze di cui rianda e aggruppa
le tradizioni, e raccogliendo ogni cosa che sa, tutto con più o
meno d'ordine racconta dei tempi passati e dei presenti. Di questi è
conoscitore grandissimo. Mescolato agli affari pubblici, educato alla
vita intellettuale e alla vita economica della sua città quando essa
primeggiava per entrambe in Europa, egli dipinge le cose vedute e udite
con quella evidenza che è spontanea in una mente chiara e avvezza
agli affari e alla osservazione degli uomini. È guelfo ma una certa
serenità si diffonde in tutto il suo libro che assai più si rivolge a
considerare le ragioni dell'utile e del vero che quelle delle fazioni.
Cronista veramente e non istorico, le cose che gli sono lontane di
tempo o di luogo riferisce spesso come le ha apprese, senza vagliarle,
e spesso cade in qualche inesattezza, ma tutti questi difetti ei
compensa largamente con pregi davvero grandissimi. Narratore di una
storia della quale ha veduto svolgerglisi innanzi una parte notevole
per mezzo secolo, egli sulla costituzione di Firenze, sui costumi,
sulle industrie e i commerci e le arti sparge notizie in gran copia,
e pel valore dei dati statistici ch'egli ha serbati non ha forse
l'uguale tra i cronisti di tutta l'Europa. Giovanni Villani è meno
profondo scrittore che arguto e chiaro, e se la sua prosa non è robusta
nè colorita come quella del Compagni, è però semplice e spedita, e
nel suo insieme egli è indubbiamente senza paragone il più grande tra
quanti cronisti hanno scritto in lingua italiana. È maraviglia che del
suo libro manchi ancora all'Italia una perfetta edizione, ma si può
ormai sperare che tra i molti e dotti ricercatori di storia che vanta
Firenze presto si trovi chi voglia accingersi all'arduo lavoro e sappia
condurlo a compimento.

Il filo del racconto che s'era spezzato per la morte di Giovanni, fu
riallacciato da suo fratello Matteo che condusse la cronaca fino al
1363 quando, colpito anch'egli di peste, morì lasciando a suo figlio
Filippo la cura di continuare il libro fino al 1364. Pur seguendo
lodevolmente le orme di Giovanni, Matteo gli rimane per alcuni
rispetti indietro, ma nondimeno mostra talora un più largo e profondo
intendimento delle ragioni dei fatti e una maggior robustezza di
pensiero. Di lui si sa assai poco. Meglio nota è la vita di Filippo che
fu più anni cancelliere del Comune di Perugia, uomo di dottrina e di
lettere, nel 1401 e nel 1404 eletto a spiegar pubblicamente la _Divina
Commedia_ nello Studio Fiorentino, e autor celebrato d'una raccolta di
vite di Fiorentini illustri. Più letterato del padre e dello zio, egli
è cronista inferiore ad entrambi.

Come in altre parti d'Italia così in Firenze non mancano per
l'età seguente a quella dei Villani altri cronisti e alcuni d'essi
eccellenti. Marchionne Stefani, Piero Minerbetti, il Boninsegni,
Giovanni Morelli, il Velluti, il Pitti ed altri, sono tutti cronisti
pregevoli e s'avvantaggiano sugli altri d'Italia pel facile uso
della lingua materna. Forse superiore a tutti, Gino Capponi scrisse
una eccellente narrazione del tumulto dei Ciompi (A. D. 1378) e
anche, seppur non è autore di esso suo figlio Neri, un Commentario
sull'acquisto di Pisa (A. D. 1402-1406). Ma coi Villani può dirsi
che la serie dei cronisti medioevali sia chiusa. Dopo loro sorge la
storia, non sempre sostanziosa, e nella forma spesso imitatrice troppo
ossequente dei modelli antichi, durante il movimento umanistico del
Quattrocento, ma pel secolo seguente, meditabonda acuta vigorosa nelle
pagine non ancor superate del Machiavelli e del Guicciardini. I quali
con intelletto e cuore diverso s'affacciarono entrambi all'età moderna
mentre la patria loro moriva, e meditando sulle cagioni di quel morire,
aprirono nuovi spazî al volo del pensiero umano. Ma la vigoria dei loro
intelletti s'appoggia al passato, e le loro storie traggono molto succo
vitale da quelle umili e robuste cronache che congiungono l'antichità
ai nostri tempi moderni, e che raccolgono per quasi dieci secoli la
storia di uno tra i più travagliosi sforzi che l'umanità abbia compiuto
nel suo cammino.



INDICE DEI NOMI


A

  Agatia, 36.
  Agnello Ravennate, 93-98.
  Alfano, 156.
  Alfieri Ogerio, 259.
  Alighieri Dante, 297-298.
  Amato di Montecassino, 157.
  Anastasio Bibliotecario, 89.
  Andrea da Bergamo, 112.
  Annales Beneventani, 173.
  Annales Casinenses, 216.
  Annales Cavenses, 173.
  Annales Ceccanenses, 216.
  Annales Florentini, 299.
  Annales Romani, 184-186.
  Annali Pistoiesi, 296.
  Anonimo Barense, 173.
  Anonimo Comense, 236.
  Arnolfo, 234.
  Ausilio, 99.
  Autperto, 103.
  Azario Pietro, 259.


B

  Bardone, 206.
  Bartolomeo annalista di Genova, 291.
  Bartolomeo da Neocastro, 227-228.
  Benedetto di S. Andrea, 136-138.
  Bennone, 194.
  Benzone, 194.
  Bernardo Guidone, 231.
  Boezio, 5, 13-14.
  Boncompagno Maestro Fiorentino, 237.
  Bonizone, 197-206.
  Bosone, 190-193.
  Bruno da Segni, 164, 177-178.


C

  Caffaro, 289-290.
  Canale Martin da, 280-284.
  Caresini Rafaino de', 288.
  Cassiodoro, 4-18.
  Cataloghi, 109.
  Cola di Rienzo, sua vita, 231-233.
    Epistolario, 233.
  _Chronica S. Benedicti_, 105-108.
  _Chronicon Altinate_, 139.
  _Chronicon S. Bartholomaei de Carpineto_, 216.
  _Chronicon Casauriense_, 216.
  _Chronicon Normannicum breve_, 173.
  _Chronicon Novaliciens_, 174-176.
  _Chronicum Salernitanum_, 112.
  _Chronicum Vulternense_, 152-153.
  Colonna Giovanni, 250.
  Colonna Landolfo, 250.
  Compagni Dino, 302-312.
  _Construnctio Farfensis_, 102-103.


D

  Damiani Pietro, 195-196.
  Dandolo Andrea, 285-288.
  Dei Andrea, 296.
  Desiderio abbate di Montecassino, 149-166.
  _Destructio Farfensis_, 104-105.
  Dolcino, Vita di Fra, 259.
  Deusdedit cardinale, 195.
  Donati Neri, 296.
  Donizone, 207.
  D'Oria Giacomo, 292-293.


E

  Ennodio, 36-37.
  Erchemperto, 110-112.


F

  Falcando Ugo, 218-223.
  Farfa, Monastero di, 101-105, 143-152,
    sua cronaca, 151-155, suo regesto, 144-150.
  Ferreto da Vicenza, 260-261.
  Fiamma Galvano, 258.


G

  _Gesta Episcoporum Neapolitanorum_, 91-93.
  _Gesta di Federico I in Italia_, 246-249.
  _Gesta Florentinorum_, 299.
  _Gesta Friderici I_, 236.
  Giacomo d'Aqui, 259.
  Giordane, 18-20.
  Giovanni da Cermenate, 259.
  Giovanni Diacono, principale autore delle
    _Gesta Episcoporum Neapolitanorum_, 91-93.
  Giovanni Diacono di Venezia, 138-140.
  Giovanni Diacono Vulternense, 152-153.
  Godi Antonio, 260.
  Goffredo da Viterbo, 245.
  Gregorio di Catino, 144-152.
  Gregorio il Grande, 41-61.
  Gregorio VII, 208-211.
  Guaiferio, 156.
  Guglielmo di Puglia, 173.
  Guiberto di Toul, 179.
  Guido vescovo di Ferrara, 193.


L

  Lamberto d'Ostia, 195.
  Landolfo seniore, 235.
  Landolfo giuniore, 235.
  Leone Marsicano, 158-166.
  _Libellus de imperatoria potestate_, 129.
  _Liber Pontificalis_, 88-91, 177-193.
  _Liber regiminum Paduae_, 263.
  Libuino, 178.
  _Ligurinus poema_, 245.
  Liudprando, 119-136.
  Lupo Protospatario, 173.
  _Lyber historiarum Romanorum_, 233.


M

  Malaspina Saba, 224-227.
  Malaterra Goffredo, 173.
  Malispini Giacotto, 300-301.
  Malispini Ricordano, 300-301.
  Marangone Bernardo, 295.
  Marcellino Conte, 36.
  Marchisio, 291.
  Mario Aventicense, 36.
  Maurisio Gerardo, 260.
  _Memoriale Potestatum Reginiensum_, 258.
  Montecassino, Monastero di, 105-109, 153-172,
    scritti minori di, 156, la cronaca di S. Benedetto, 105-109.
  Morena Acerbo, 237-238.
  Morena Ottone, 237-238.
  Morigia Bonincontro, 259.
  Moyses Magister, 236.
  Mussato Albertino, 263-277.


N

  Niccolò da Calvi, 230-231.
  Niccolò di Jamsilla, 224-225.


O

  Oberto, 290.
  Oderisio abbate di Montecassino, 156-158.
  _Origo Langobardorum_, 62.
  _Orthodoxa Defensio Imperialis_, 152, 193.
  Ottobono, 291.
  Ottone di Frisinga, 238-244.


P

  Pandolfo, 186-190.
  Pane Ogerio, 291.
  Panegirico di Berengario, 113-114.
  Paolino, 285.
  Paolo di Bernried, 179-184.
  Paolo Diacono, 63-86.
  Parisio da Cereta, 259.
  Pietro da Eboli, 224.
  Pietro Crasso, 193.
  Pietro Diacono, 166-172.
  Pipino Francesco, 251.
  Placido Nonantolano, 194.
  Procopio, 24-35.


R

  Ragevino, 244-245.
  Raul Sire, V. _Gesta Friderici_ I.
  Riccardo da San Germano, 224.
  Riccobaldo da Ferrara, 250.
  Rienzo, Vita di Cola di, 231-233.
  Rolandino da Padova, 262.
  Romualdo Salernitano, 217.
  Rotari, Editto di, 61.


S

  Salimbene, 252-258.
  Salisbury, Giovanni di, 230.
  Sanudo Torsello Marin, 285.
  Sanzanome, 299.
  Secondo vescovo di Trento, 61.
  Sercambi Giovanni, 296.
  Sicardo da Cremona, 250.
  Smerego Nicola, 260.
  Speciale Niccolò, 227-228.
  Stefanardo da Vimercate, 258.
  Stefanus Magister, 62.
  Subiaco, Monastero di, 100, 146, suo regesto, 146.


T

  Tegrimo Nicola, 296.
  Tolomeo da Lucca, 231, 296.
  Tura Angelo, 296.


U

  Ugo di Farfa, 104-105.
  Umberto cardinale, 195.


V

  Ventura Guglielmo, 259.
  Vico Michele de, 295.
  Vigna, Pier della, 227.
  Villani Filippo, 319.
  Villani Giovanni, 313-318.
  Villani Matteo, 319.
  Vulgario Eugenio, 99.



NOTE:


[1] _La Society for Promoting Christian Knowledge_.

[2] Nel pubblicare una nuova edizione di questo libro ho ben poco da
aggiungere a quanto e scritto qui sopra. Mi è parso bene di mantenere
al libro il carattere che gli diedi quando prima lo scrissi, ma i
molti studi critici sui nostri cronisti, e le nuove edizioni dei
testi che han veduto la luce da quel tempo, mi hanno obbligato ad una
lunga e minuta revisione di tutto il lavoro, e a modificare, dove
era necessario, giudizî e asserzioni a seconda dei risultati nuovi
raggiunti dalla critica nel suo andamento progressivo. Sempre cercando
di non ingombrare il libro con note superflue, ho però abbondato
alquanto più di prima nelle citazioni, quando mi è sembrato che il
farlo potesse riuscire di qualche utilità agli studiosi. Ai molti
amici che mi hanno aiutato con utili indicazioni esprimo qui la mia
gratitudine, e in particolare al conte Nigra e ai professori Isidoro
Del Lungo e Cesare Paoli, che mi furono larghi di notizie nuove e di
osservazioni opportune.

  Roma, 24 aprile 1900.

[3] «How carefully the Moeso-Gothic language was considered and
prepared for the expression of Scripture, becomes manifest to the
philological student, when he examines those precious relics of the
fourth century which bear the name of Ulphilas. Here we often meet
the very words with which we are so familiar in our English Bible, but
linked together by a flexional structure that finds no parallel short
of Sanscrit. This is the oldest book we can go back to, as written in
a language like our own. It has therefore a national interest for us;
but apart from this it has a nobility and grandeur all its own, as it
is one of the finest specimens of ancient language.» JOHN EARLE, _The
philology of the English tongue_. Oxford, Clarendon Press, 1873. Oltre
la traduzione di Ulfila avanzano alcuni altri frammenti in lingua
gotica dopo la quale vien l'anglosassone per antichità di reliquie
scritte, che però non risalgono di là dal secolo settimo.

[4] Squillacium prima urbs Bruttiouem.... cuius laesiones cogimur plus
dolere, dum patriotica nos probatur affectione contingere.

[5] Prima del nostro tre Cassiodori fiorirono e presero parte con onore
agli avvenimenti occorsi in Italia ai loro tempi, il bisavolo che
difese la costa di Sicilia ed i Bruzzii dalle invasioni vandaliche;
l'avo, Tribuno e Notaio sotto Valentiniano III, amico ad Ezio che
andò ambasciatore ad Attila; il padre che servì Odoacre come _Comes
Privatorum Rerum_, e _Comes Sacrarum Largitionum_, e poscia entrato
ai servizi di Teodorico salì all'ufficio di Prefetto del Pretorio
e all'onore del Patriziato. Si è molto discusso intorno al nome di
Cassiodoro. Diversi eruditi, per lo più tedeschi, preferiscono la forma
_Cassiodorio_, ma io inclino con Tommaso Hodgkin e per le ragioni
indicate da lui alla forma comunemente in uso. Anche il Mommsen il
quale parve per qualche tempo dell'altro avviso, è tornato alla forma
_Cassiodoro_ nella sua edizione delle _Variae_. V. HODGKIN, _The
Letters of Cassiodorus_, London, Frowde, 1886, pag. 5. I migliori e più
recenti studi su Cassiodoro pongono approssimativamente la data della
sua nascita tra il 477 e il 481.

[6] Cassiodorus Senator.... invenis adeo, dum patris Cassiodori
patricii et praefecti praetorii consiliarius fieret et laudes
Theodorichi regis Gothorum facundissime recitasset, ab eo quaestor est
factus. _Anecdoton Holderi_, ap. Usener, pag. 4.

[7] Intorno a questa severità di giudizio, T. Hodgkin (_Op. cit._, pag.
29) osserva argutamente: «When he [Mommsen] makes this unfortunate
chronicle reflect suspicion on the other works of Cassiodorus and
especially on the Gothic History, the german scholar seems to me to
chastise the busy Minister more harshly than he deserves.» Questa
cronaca è stata ripubblicata recentemente dal Mommsen tra le _Chronica
Minora_ in _Mon. Germ. Hist. Auctorum Antiquissimorum_, t. XI.

[8] Originem gothicam historiam fecit esse romanam.

[9] _Variarum_, IX, 25.

[10] WATTENBACH, _Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter_, I,
70. Berlino, 1893-1894. Di questa opera magistrale mi sono giovato
molto in queste prime pagine, e avrò frequente occasione di giovarmi in
seguito.

[11] «Vidit intrepidus quem timebat Imperium: facies illas terribiles
et minaces fretus veritate despexit, nec dubitavit eius altercationibus
obviare qui furore nescio quo raptatus mundi dominatum videbatur
expetere. Invenit regem superbum sed reliquit placatum.... Erigebat
constantia sua partes timentes, nec imbelles sunt crediti qui Legatis
talibus videbantur armari. Pacem retulit desperatam.» _Variarum_, I, 4.

[12] _Variarum_, I, 27.

[13] _Variarum_, III, 13.

[14] «.... nostra fecisti eximia tempora praedicari. Ornasti de
conscientiae integritate palatia, dedisti populis altam quietem.»
_Variarum_, III, 23. Un bell'esempio di tolleranza antica trovasi in
queste parole di una lettera motivata dall'incendio di una sinagoga in
una sedizione contro i Giudei, «quia nolumus aliquid detestabile fieri
unde romana gravitas debeat accusari.... Hoc enim nobis vehementer
displicuisse cognoscite ut intentiones vanissimae populorum usque ad
eversiones pervenerint fabricarum, ubi totum pulchrum volumus esse
compositum.» _Variarum_, IV, 43. Anche il codice Teodosiano, pur così
poco tollerante, favorisce i Giudei e impone che sieno rispettati.
_Cod. Theod._, lib. XVI, tit. VIII, 9. _De Iudaeis_.

[15] _Variarum_, I, 45.

[16] _Variarum_, X, 31.

[17] A questa storia col nome di _Historia Tripartita_ per essere
compilata dalle opere dei tre scrittori greci Socrate, Sozomene e
Teodoreto, rimase per secoli una grande e popolare autorità nella
Chiesa d'Occidente. La traduzione di questi autori fu eseguita da
Epifanio amico di Cassiodoro.

[18] MAGNI AURELII CASSIODORI SENATORIS, _Opera Omnia_.... opera et
studio J. GARETH, Venetiis, 1729; CASSIODORI SENATORIS, _Variae_, rec.
Th. Mommsen, _Mon. Germ. Hist. Auctorum Antiquissimorum_, t. XII;
e cf. MOMMSEN, _Die Chronick des Cassiod. Senator_ in _Abhandlungen
der Koen. saechs. Ges. der Wiss. phil.-hist. Kl._, vol. III, 1861; A.
OLLERIS, _Cassiodore conservateur des livres de l'antiquité latine_,
Paris, 1841; KOEPKE, _Anfänge des Königthums bei den Göthen_, Berlin,
1859; A. THORBECKE, _Cassiodorus Senator_, Heidelberg, 1867; A. FRANZ,
_Cassiodorius Senator_, Bresslau, 1872; I. CIAMPI, _I Cassiodori_,
Imola, 1876; USENER, _Anecdoton Holderi, Ein Beitrag zur Geschichte
Roms in Ostgothischer Zeit_, Bonn, 1877; A. GAUDENZI, _L'opera di
Cassiodorio a Ravenna_ in Atti e Memorie della R. Deputazione di
Romagna, 1885; WATTENBACH, _Op. cit._, I, 65; A. EBERT, _Hist. Générale
de la littérature du Moyen Age_, trad. Aymeric e Condamin, Parigi,
1893. Citando l'Ebert mi valgo di questa traduzione che fu approvata e
arricchita di qualche aggiunta dall'autore; T. HODGKIN, fa precedere
il lavoro suo già citato sulle _Variae_ da uno studio notevolissimo
intorno alla vita e agli scritti di Cassiodoro. Egli e l'Ebert
riassumono con molta chiarezza le opere teologiche di questo scrittore
e specialmente il trattato _De anima_, e le _Institutiones divinarum
et saecularium lectionum_. Un altro studio interessante è quello
del Church intitolato _Cassiodorus_. CHURCH, _Miscellaneous essays_,
London, Macmillan, 1891.

[19] Giordane afferma ch'egli ebbe in mano per soli tre giorni il libro
di Cassiodoro, ma a questa asserzione nessuno degli scrittori moderni
sembra prestare molta fede.

[20] Quasi universalmente finora si tenne, dietro la scorta di Giacomo
Grimm, che il Vigilio a cui questo libro è dedicato fosse papa Vigilio.
Il Mommsen, e ancor prima di lui l'Ebert, hanno però notato che un
semplice ecclesiastico come era Giordane, mai non avrebbe potuto
nella dedica trattar familiarmente un papa, e meno ancora rivolgergli
le esortazioni che si leggono nel passo seguente: «Tu vero ausculta
Iohannem apostolum qui ait: carissimi, nolite diligere mundum neque
ea que in mundo sunt, quia mundus transit et concupiscentia eius:
qui autem fecerit voluntatem Dei, maneat in aeternum. Estoque toto
corde diligens Deum et proximum ut adimpleas legem et ores pro me,
novilissime et magnifice frater.» Veggasi la prefazione del Mommsen
alla recente edizione di Giordane pubblicata da lui nei _Monumenta
Germaniae Historica_ (_Auctorum Antiquissimorum_, tom. V, Pars Prior).
Al Wattenbach tuttavia le ragioni addotte dall'Ebert e dal Mommsen non
sembrano abbastanza persuasive. _Op. cit_., I, 77, e anch'io mi accosto
al Wattenbach.

[21] Per dare un saggio del libro di Giordane reco tradotto qui in nota
questo ritratto di Attila ch'egli però attinse da Prisco: «Uomo nato
a desolazione di popoli, a sgomento d'ogni terra, il quale, non so per
qual sorte, atterriva tutti colla formidabile fama che si spargeva di
lui. Incedeva superbo girando gli occhi qua e là per mostrar l'altera
potenza sua pur col muovere del corpo. Amante di guerre ma temperante
di mano, validissimo di consiglio, arrendevole ai supplicanti, propizio
a chi una volta egli avea ricevuto nella sua fede. Breve di statura,
largo del petto, grosso il capo, piccoli gli occhi, rada la barba
sparsa di canizie, schiacciato il naso, pallido il colorito, segni
di sua razza. Il quale, avvegnaché per natura confidasse molto, pur
gli cresceva fiducia la ritrovata spada di Marte sempre sacra agli
Sciti. Questa, narra Prisco lo storico, ritrovossi in tal modo. Un
pastore, egli dice, vedendo zoppicare una giovenca dell'armento nè
potendo trovar la cagione di quella ferita, seguì attento le tracce
del sangue e finalmente arrivò alla spada che la giovenca aveva calcato
incauta pascendo, e trattala di terra subito la recò ad Attila. Questi
rallegratosi di quel dono, di gran core com'era, stimò d'esser fatto
principe dell'universo e per la spada di Marte essergli concessa la
potestà della guerra.»

[22] Per gli studi particolari che ebbi una volta occasione di fare
su quei luoghi, inclino a credere con T. Hodgkin (_Italy and her
Invaders_, IV, 278) che il cozzo dei due eserciti avvenisse nella
località detta _ad Ensem_, presso l'attuale villaggio della Scheggia
dove la via biforcandosi procede da un lato verso Fossato e dall'altro
va a Gubbio. Cf. _Rivista Storica Italiana_, vol. III, pag. 753.

[23] Esaminando in questa ristampa del mio lavoro le opere di
Procopio, ho adoperato per la storia della Guerra Gotica la edizione
del Comparetti pubblicata dall'Istituto Storico Italiano nelle _Fonti
per la Storia d'Italia_. Per gli altri scritti mi sono giovato della
edizione del Dindorf che trovasi nel _Corpus Scriptorum historiæ
Byzantinae_, stampata a Bonn, 1833-1838, in tre volumi. Oltre le
storie, rimane di Procopio un altro lavoro intitolato _Degli Edificî_,
nel quale si descrivono i monumenti e le opere pubbliche eseguite sotto
Giustiniano.

[24] «Illud vero sciebat Author, condendae huic historiae idoneum se
esse maxime omnium; ob aliud certe nihil, nisi quia cum a consiliis
fuerit Belisario Duci, quidquid fere gestum est vidit. Hoc etiam
persuasum habuit, arti Oratoriae convenire eloquentiam; Poeticae,
fabularum figmenta; Historiae veritatem. Quare ne amicissimorum quidem
peccata texit; sed cuiusque actus, pravos iuxta atque honestos, quam
potuit accuratissimis literis prodidit.» — PROCOP., _De Bello Persico_,
I, 1. Adopero per questa citazione la versione del Maltreto.

[25] «Tucidide che, oltre ad Erodoto, è suo principale modello.»
COMPARETTI, _Op. cit._, I, IX.

[26] Lib. III, cap. 17.

[27] La parola _Romani_ è qui usata genericamente per indicar
gl'imperiali.

[28] La continuazione di Agatia è pubblicata nella citata edizione di
Procopio a cura del Dindorf.

[29] Entrambe ripubblicate dal Mommsen tra le _Chronica Minora_ in
_Mon. Germ. Hist. Auctorum Antiquissimorum_, tom. XI.

[30] Tale è l'opinione del conte CARLO CIPOLLA nell'_Archivio
Storico Italiano_, XI, 3 (1883). Il MAGANI (_Ennodio_, Pavia, 1886) è
d'opinione contraria, ma il Cipolla mantiene le sue conclusioni in uno
scritto pubblicato negli _Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze
Lettere ed Arti in Padova._ N. S., IV, 1888.

[31] Oltre l'edizione delle opere d'Ennodio curata dal Sirmond e
pubblicata a Parigi nel 1611, se ne ha una edizione critica comparsa
nel VI volume del _Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum_ col titolo: M.
F. ENNODIi, _Opera Omnia recensuit et commentario critico instruxit
G. Hartel_, Vindobonae, 1882. Un'altra a cura di F. Vogel, fu
pubblicata nel 1885 pei _Monumenta Germaniae Historica_ (_Auctorum
Antiquissimorum_, tom. VII).

[32] MALFATTI, _Imperatori e Papi_. Hoepli, 1876, I, 163. Quanto
alla discendenza di Gregorio dal papa Felice, cfr. DUCHESNE, _Liber
Pontificalis_, I, LXXVI; DE ROSSI, _Inscript. Christ_., I, 372.

[33] Una sua frase mostra che Gregorio non aveva familiare la lingua
greca: «Quamvis Grecae linguae nescius» dice egli di sé stesso in una
sua lettera. _Epistolarum_, VII, 29.

[34] _Dialog_., Lib. I, nell'esordio.

[35] Intorno alla cronologia delle lettere Gregoriane gioverà riferire
alcune parole di una avvertenza premessa dal caro e compianto amico
mio Paolo Ewald al regesto di esse nella seconda edizione della
raccolta dello Jaffé: «.... Nam cum argumentis meis certe probatum sit,
non Registri illius authentici libris charticeis scripti apographum
nobis traditum esse, sed tria excerpta solummodo extare et haec
excerpta, quamvis ratione et numero epistolarum eligendarum maxime
secum dissentiant, tamen pari modo in eo consentire, quod ad certum
temporis ordinem respiciant, hoc iudicium non paucis locis priorum
editionum auctoritatem tollit. Ad quem annum et mensem epistolae
antea incerti temporis regerendae sint, hanc rationem excerptorum
intelligentes penitus pernoscere possumus. Sed hoc praemittendum esse
videtur de signis illis chronologicis, quae epistolis adscriptae sunt,
notas annorum et mensium non tempus edicere, quo epistola quaeque
scripta sit, sed quo scriptores Registri eam receperint; ita ut
mirari non liceat interdum et epistolas diversis temporibus scriptas
sub eodem mense coniunctas esse, et alias loco disiunctas ad idem
tempus spectare. Registri igitur seriem talibus locis relinquentes
secundum chronologiam epistolas hic ordinavimus. Authenticum autem,
ut ita dicam, datum in epistolis Gregorianis non invenitur, nisi
in eis perpaucis, quae etiam diem non tacent.» _Regesta Pontificum
Romanorum_... edidit PH. JAFFÉ, _ed. secunda_. Anche vuolsi qui
menzionare il notevolissimo studio dell'EWALD, _Studien zur Ausgaben
des Registers Gregors I_, pubblicato nel _Neues Archiv_., III, 433-625.

[36] È singolare che l'Ebert il quale espone con cura le altre opere di
San Gregorio faccia appena menzione delle lettere considerandole utili
bensì allo studio dei tempi gregoriani ma prive d'interesse letterario.
_Op. cit._, I, 590.

[37] «Inerat denique ei tanta abstinentia in cibis, vigilantia
in orationibus, strenuitas in ieiuniis, ut infirmato stomacho vix
consistere posset. Sustinebat praeterea assiduas corporis infirmitates
et maxime ea pulsabatur molestia, quam graeco eloquio medici syncopin
vocant; cuius incommodis ita dolore vitalium cruciabatur, ut crebris
interceptus angustiis, per singula pene horarum momenta ad exitum
propinquaret.» _S. Gregorii Magni Vita_, auctore PAULO DIACONO.

[38] GREGORII I PAPAE, _Epistolarum_, V, 38. Per questa lettera e per
la seguente diretta a Maurizio imperatore, riproduco, con alcune poche
e lievi modificazioni, la bella traduzione che ne dà il Balbo nella
_Storia d'Italia sotto ai Barbari_. Per le lettere di Gregorio mi son
valso della edizione dei _Monumenta Germaniae_. (GREGORII I PAPAE,
_Epistolarum_, pars I et II) curata da PAOLO EWALD e da L. M. HARTMANN;
per le altre opere ho seguito l'edizione dei Maurini.

[39] _Homiliarium in Ezechielem_. Lib. II, Hom. 10.

[40] _Epist_., V, 36.

[41] Intorno alla avversione che Teodelinda incontrava tra i Longobardi
presso il partito nazionale ariano, ed i sospetti che ispiravano le
sue relazioni con la Baviera, la Francia e Roma, vedansi tra altri
SCHUPFER, _Istituzioni politiche longobarde_, Firenze, 1863; TAMASSIA,
_Longobardi, Franchi e Chiesa Romana_, Bologna, 1888; HODGKIN, _Italy
and her Invaders_, VI, 150.

[42] _Epist_., XIV, 12.

[43] Questa corrispondenza di Gregorio con la fiera regina dei Franchi
ha chiamato su lui il rimprovero d'alcuni storici. Secondo essi
Gregorio non avrebbe dovuto trattar con forme tanto amichevoli una
donna di cui la memoria è discesa ai posteri così macchiata d'infamia.
Il rimprovero non mi par giusto. La Chiesa pativa a quel tempo grave
danno nelle Gallie per le frequenti elezioni simoniache dei vescovi,
e contro questo scandalo Gregorio appuntava tutte le sue forze
adoperandosi del continuo presso Brunichilde affinché s'inducesse a
farlo sparire. Il Pontefice adunque trattando con quella singolar donna
trovavasi in posizione assai delicata e difficile, della qual cosa
è da far conto nel giudicare la condotta d'un uomo la cui virtù e la
purezza delle intenzioni sono riconosciute dall'universale. Più grave
parrebbemi l'altro rimprovero che gli è mosso per la lettera colla
quale riconobbe l'autorità del tiranno Foca usurpator sanguinoso del
trono di Costantinopoli, ma pur qui è da riflettere alla responsabilità
che pesava su Gregorio per la sorte di tanto popolo che si volgeva
a lui come ad unico protettore, e di cui, come si rileva anche dalle
lettere citate qui sopra, egli aveva invano narrate le miserie e difesi
fieramente i diritti innanzi al predecessore di Foca.

[44] Non ricordo se altri l'abbia notato: a me pare non improbabile
che la leggenda di Beda tragga in qualche modo origine dalla fuga da
Roma che, secondo il biografo suo Giovanni Diacono, Gregorio tentò per
sottrarsi all'onore della dignità papale.

[45] JOHANN., V, 17.

[46] LUC., V, 7.

[47] _Epist._, XI, 36.

[48] SANCTI GREGORII PAPAE, _Dialogorum Libri IV, de Vita et miraculis
Patrum italicorum et de aeternitate animarum_.

[49] Cfr. A. VOGELER, _Paulus Diaconus und die Origo gentis
Langobardorum_. Berlin, Gaestner, 1887.

[50] «Possiamo credere che il monaco (Secondo), come altri dopo di
lui, si sia limitato a registrare i fatti più notevoli di cui fu
testimonio, o che giunsero a sua notizia. Lavoro ad ogni modo prezioso,
massime per quei tempi, e da considerarsi come l'ultimo riflesso
della cultura romana nel Trentino. Non sono difficili a rintracciarsi
i passi dove Paolo s'ebbe a giovare della _Historiola_. Oltre alle
notizie d'accidenti atmosferici e d'inondazioni, di carestie e di altri
disastri che travagliarono le regioni alpine e la valle dell'Adige,
sono certamente desunte da Secondo le informazioni intorno alle imprese
del duca Evino, ai dissapori fra il duca Gaidoaldo e al re Agilulfo,
ed al battesimo di Adaloaldo. Ma soprattutto i capitoli IX e XXXI del
terzo libro di Paolo sono desunti da Secondo e narrano fatti taciuti
dagli altri cronisti e molto importanti per la storia dei Longobardi
in relazione coi re Franchi e i Duchi Bavari.» Così B. MALFATTI, _I
Castelli Trentini distrutti dai Franchi_, in _Archivio storico per
Trieste_, II, 289.

[51] WATTENBACH, _op. cit._, vol. I, c. 2, § 6.

[52] PAULI, _Historia Langobardorum edentibus L. Bethmann et G. Waitz_,
nel volume degli _Scriptores rerum langobard. et italic, saec. VI-IX_
nei Monumenta Germaniae Historica. Le poesie di Paolo sono raccolte in
un altro volume dei _Monumenta: Poetae Latini aevi carolini recensuit
E. Duemmler_. Intorno alla persona e agli scritti di Paolo Diacono s'è
in quest'ultimo mezzo secolo affaticata con amore tenace una schiera
d'eruditi, tedeschi pressoché tutti. Oltre al Dahn, al Wattenbach,
allo Jacobi e al Mommsen, noto i nomi del Bethmann, del Waitz e del
Duemmler come di quelli che hanno meglio meritato del grande cronista
friulano. Il Bethmann iniziò gli studi lunghi e pazienti che proseguiti
dal Waitz hanno condotto ad una eccellente edizione della _Historia
Langobardorum_; al Duemmler poi devesi la raccolta delle poesie
paoline e la possibilità di raffrontarle utilmente colle altre poesie
dell'età carolina. Non è nei propositi di questo libro il discorrere
degli studi che i critici sono venuti facendo intorno al Varnefrido
fino alla edizione del Waitz. Chi ne desidera notizia potrà consultare
con profitto uno studio fatto con gran diligenza e gran lucidezza
dal professor P. Del Giudice, pubblicato col titolo _Lo storico dei
Longobardi e la critica moderna_, Milano, Hoepli, 1880, e ristampato da
lui nei suoi _Studi di Storia e diritto_ presso lo stesso editore nel
1890. L'Istituto storico Italiano si propone di pubblicare una nuova
edizione della _Historia Langobardorum_.

[53] Celebrandosi a Cividale il millenario di Paolo Diacono, il P.
Amelli di Montecassino ha dato in luce un trattato grammaticale inedito
ed un epigramma pure inedito ch'egli dimostra doversi attribuire a
Paolo. _Ars Donati quam_ PAULUS DIACONUS _exposuit, nunc primum ex cod.
Vaticano-Palatino 1746 Monachi Archicoenobii Montis Casini in lucem
properunt_. Typ. Montis Casini, 1899, e _Paolo Diacono, Carlo Magno e
Paolino d'Aquileia in un epigramma inedito, intorno al canto Gregoriano
e Ambrosiano_. Montecassino, 1899.

[54] Vedasi intorno a queste storie il bel lavoro di GABRIEL MONOD,
_Études critiques sur les sources de l'histoire carolingienne_, Paris,
Bouillon, 1898, pagg. 21 e 56.

[55] Un necrologio cassinese indica il giorno della morte di Paolo che
fu un tredici d'aprile, ma si è incerti dell'anno. Il Waitz ed altri
stimano ch'egli morisse prima dell'incoronazione di Carlo Magno, e
forse nel 799. Ebbe nel monastero parecchi discepoli tra i quali un
Ilderico che verseggiò a ricordo di lui un epitaffio pregevole.

[56] C. BALBO, _Storia d'Italia sotto i Barbari_, II, pag. 18. Firenze,
1856.

[57] _Historia Langobardorum_, III, 30.

[58] _Historia Langobardorum_, V, 1, et seq.

[59] _Pauli Continuationes nel volume Scriptores Rerum Langobardicarum
et Italicarum saec. VI-IX dei Monumenta Germaniae Historica_.

[60] MURATORI, _Annali d'Italia_, ad an. 860.

[61] _Le Liber Pontificalis, texte introduction et commentaire par
l'abbé_ LOUIS DUCHESNE, Paris Thorin, 1886-1892. Quel che si dice
qui si riferisce al primo volume di questa edizione. Avrò più oltre
occasione di giovarmi del secondo volume quando dovrò parlare delle
vite pontificie da Leone IX in poi. Un'altra edizione del Libro
Pontificale pubblica ora il Mommsen pei _Monumenta Germaniae Historica:
Gestorum Pontificum Romanorum_, vol. I. _Libri Pontificalis pars prior
edidit_ THEODORUS MOMMSEN, Berlino, 1898.

[62] «Il Libro Pontificale utilissimo per le preziose notizie che ci
fornisce delle riparazioni e de' lavori fatti da romani pontefici in
que' luoghi venerandi» (le catacombe).... DE ROSSI, _Roma sotterranea
cristiana_, I, 8. Roma, 1864. Lo stesso De Rossi e il Duchesne pongono
la data della primitiva redazione del _Liber_ al principio del sesto
secolo. Il Waitz riteneva, e con lui s'accordano lo Harnack ed il
Mommsen, che questa data debba portarsi al secolo settimo, ma il
Duchesne non s'arrende a questa opinione.

[63] _Gesta Episcoporum Neapolitanorum_ edidit G. WAITZ, nel volume
_Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX dei
Monumenta Germaniae Historica_. Per queste notizie sul testo delle
Gesta seguo l'autorità del Waitz e quella del Capasso che ne ha
pubblicato dopo il Waitz un'altra eccellente edizione col titolo di
_Chronicon Episcoporum S. Neapolitanae Ecclesiae_ corredandola di
note dottissime. Entrambi questi eruditi lavorando contemporaneamente
e indipendentemente un dall'altro, sono arrivati a molto simili
conclusioni intorno al testo del libro e agli autori di esso. Noto
tuttavia che il Waitz reputa che l'anonimo autore della prima parte
abbia scritto sul finire del secolo ottavo mentre il Capasso reca gravi
ragioni per credere ch'egli scrivesse verso la metà del secolo nono.
_Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia.... cura et
studio_ BARTHOLOMAEI CAPASSO, vol. I. Napoli, 1881.

[64] «De Petri subdiaconi auctario, utpote minimo, nihil singulare
dicendum est.» CAPASSO, Op. cit.

[65] Il signor abate Duchesne vede una relazione tra alcuni passi di
Agnello ed altri del Pontificale Romano, ma a me questa relazione non
par chiara abbastanza.

[66] Dalla prefazione al _Liber Pontificalis_ di Agnello pubblicato nel
volume _Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX_ dei
_Monumenta Germaniae Historica_.

[67] «Cadaver namque per novem menses sepultum de sepultura extraxisti.
Si interrogabatur quid responderet? Si responderet, omnis illa horrenda
congregatio timore perterrita ab invicem separata discederet.» Intorno
a questi polemisti è da vedere come fondamento a quanto se ne è detto
appresso, lo studio del DÜMMLER, _Auxilius und Vulgarius_, Lipsia,
1866. Il DÜMMLER pubblicò la _Invectiva_ insieme con l'edizione delle
_Gesta Berengarii_ di cui si terrà parola più innanzi. Cf. anche il
WATTENBACH, Op. cit., I, 305.

[68] Nel render conto di questi scritti monastici non posso seguir
sempre l'ordine cronologico come ho cercato di fare finora. In qualche
caso per motivi di affinità che il lettore potrà veder facilmente, mi
è stato necessario aggruppare insieme alcuni scritti lontani di tempo
fra loro, oltrepassando fors'anco il tempo che dovrebbe limitare questo
capitolo.

[69] Un frammento della _Constructio_ fu pubblicato dal benedettino
Caetani, secondo il testo unico che se ne conserva, nel terzo volume
degli _Acta SS. Ord. S. Benedicti_, e riprodotto nella raccolta dei
Bollandisti al volume terzo di settembre. Il BETHMANN pubblicando per
primo l'intero testo nei _Monum. Germ. Hist. SS._, vol. XI, credette
che esso contenesse la Constructio completa e genuina quale prima
fu scritta. Il dotto tedesco, del resto assai benemerito degli studi
farfensi, era in errore, e l'amico mio Ignazio Giorgi ha dimostrato con
evidenza che il vero testo originale è perduto. _Archivio della Società
romana di Storia patria, anno II_, p. 409.

[70] Stimo tuttavia opportuno il riferire un tratto in cui si accenna
all'opera colonizzatrice del monachismo, la quale sembrami essersi poi
continuata in Italia anche verso la metà del nono secolo quando molti
monasteri eran caduti giù nel più profondo della corruzione. In questo
passo che segue, Tommaso di Morienna consiglia i tre giovani a fondare
il loro monastero sulle rive del Volturno: «Est autem, dilectissimi
filii, locus, ad quem vos ire desidero, in Samnii partibus super ripam
Vulturni fluminis, ubi initium sumit a mille fere passibus. In quo
videlicet loco situm est oratorium martyris Christi Vincentii nomine
dedicatum; ex utraque vero parte fluminis silva densissima, quae tantum
habitationem praestat ferarum latibulaque latronum. Omnipotens autem
Dominus, cui vos famulatum exhibere desideratis, et vos in eodem loco
illaesos servabit et cunctis iter agentibus a timore latronum pacatum
atque securum constituet, necnon et erutis dumis ac sentibus, lignis
fructiferis habundare faciet. Ite, ait, filii, ite, et in eodem loco,
sine metu cuiuscumque permanete.» _Vita Paldonis Tatonis et Tasonis
Vulturnensium_, nel volume citato degli _Scriptores Rerum Langob. et
Ital._

[71] Di tutti questi scritti farfensi sta per comparire una nuova
edizione nelle _Fonti per la storia d'Italia_ pubblicate dall'Istituto
Storico Italiano.

[72] Par che il cronista alluda ai soldati lasciati in Roma dagli
imperatori Franchi. Cfr. WAITZ nelle note a questo passo.

[73] _Chronica S. Benedicti Casinensis_, ed. G. WAITZ nel volume degli
_Scriptores Rerum Langob. ed Ital._ nei _Monum. Germ. Hist._

[74] Dal volume citato qui innanzi tolgo i titoli di alcuni cataloghi
che hanno relazione colla storia e specialmente colla longobarda. Sono
i seguenti: _Catalogus regum Langobardorum et ducum Beneventanorum_ (è
quello da cui traggo il brano tradotto qui sopra), _Catalogus comitum
Capuae, Catalogus regum Langobardorum et Italicorum Brixiensis et
Nonantolanus, Catalogus regum Langobardorum et Italicorum Venetus,
Catalogus regum Langobardorum et Italicorum Lombardus, Catalogus regum
tuscus, Catalogus regum Italicorum Oscelensis, Catalogus imperatorum,
regum Italicorum, ducum Beneventanorum et Spoletinorum Farfensis_. Nel
medesimo volume sono anche pubblicate una breve vita piena d'interesse
di Sant'Anselmo fondatore della Badia di Nonantola ripubblicata dal
Bortolotti nella sua _Vita di Sant'Anselmo_, Modena, 1892, e diversi
racconti di traslazioni di reliquie meritevoli anch'essi d'attenzione.
Com'è noto, nei secoli rozzi e superstiziosi dei quali si tiene
discorso, tanto avida era la smania di possedere reliquie di santi, che
spesso ora con buone or con male arti, esse venivano tolte da una terra
e trasportate in un'altra. Sotto il nome generico di _translationes_
trovansi negli atti dei santi frequenti narrazioni di questi trasporti,
le quali assai volte hanno un carattere storico.

[75] _Erchemperti historia Langobardorum Beneventanorum_, ed. G. WAITZ,
in _Scriptores Rer. Lang. et Ital. saec. VI-IX_.

[76] _Cronicon Salernitanum_ in _Mon. Germ. Hist. SS._ III e cfr.
SCHIPA, _Storia del principato longobardo di Salerno_, Napoli, 1887.

[77] _Andreae Bergomatis historia, ed_. WAITZ in _Script. Rerum Lang.
et Ital. saec. VI-IX_.

[78] _Panegyricus Berengarii Imperatoris_, in _Monum. Germ. Hist.
SS. IV._ Un'altra edizione ne aveva già dato il DUEMMLER preceduta
da uno studio notevolissimo: _Gesta Berengarii Imperatoris, Beiträge
zur Geschichte Italiens im anfange des zehnten Jahrhunderts_, Halle,
1871. Cfr. anche WATTENBACH, Op. cit., I, 310. È notevole pure una
lunga poesia in metro saffico dettata a Verona in lode del vescovo
Adalardo che sembrami tanto più degna di nota perché pare accertato
che anche il panegirico di Berengario uscì da penna Veronese. Alcuni
altri versi di carattere indirettamente storico furono compilati da
autore anonimo nell'anno 876 in lode del vescovo Azzone d'Ivrea ma
non hanno nessun valore. Anche vuolsi far menzione dei versi composti
da un monaco irlandese in lode dell'arcivescovo di Milano Tadone (A.
D. 861-869, UGHELLI, _Italia sacra_, IV, 83. Ed. Venezia, 1719) e di
Lotario imperatore. Queste produzioni poetiche attestano la presenza
di letterati stranieri in Italia e collegano il nostro paese con un
movimento letterario che uscito d'Irlanda sparse una certa luce di
civiltà in parecchi luoghi d'Europa. E qui mi corre il caro obbligo di
ringraziare pubblicamente il conte Costantino Nigra che in una dotta
lettera mi corresse amorevolmente d'alcuni errori nei quali inceppai
toccando di tale argomento nella edizione inglese di questo libro. E
aggiungerò, approfittando di quanto l'illustre celtista mi scrisse, che
il codice da cui furono tolti que' versi ne contiene altri, scritti
probabilmente dallo stesso monaco irlandese, in lode di un Sofrido,
ch'egli identificava col vescovo Sofredo o Seufredo che pontificava
in Piacenza negli anni 858-867, ed in lode del Duca Lodfrido ch'egli
identificava col Duca di Trento vivente nell'845. Inoltre qualche
altro verso nel codice fa menzione di Angilberto Pusterla immediato
predecessore di Tadone (A. D. 827-861, UGHELLI, _Italia sacra_, IV,
79). Ermanno Hagen ha pubblicato tali versi nella raccolta intitolata
_Carmina medii aevi.... inedita, ex bibliothecis Helveticis collecta_.
Bernae, Froben, 1877. Li trasse da questo codice prezioso che si
conserva ora nella biblioteca di Berna e di cui lo stesso Nigra nella
_Revue Celtique_ (luglio 1875) diede una descrizione assai precisa.
In esso si contengono parecchie materie d'argomento vario, «e poi,»
mi scriveva il conte Nigra, «nelle pagine rimaste vuote e di mano
posteriore ma irlandese, i versi sopradetti, iscrizioni, prove di
penna e chiose marginali e interlineari, non copiose, alcune delle
quali in lingua irlandese del IX secolo. I nomi propri scritti nei
margini appartengono alle tre nazionalità, irlandese, longobarda ed
italiana. Fra i nomi irlandesi vi è quello di Dungal, il quale da
un capitolare dell'anno 823 di Lotario I imperatore fu chiamato ad
istituire la scuola di Pavia (MURATORI, _Ant. Ital_., III, 815)....
Fra i nomi italiani, oltre quelli degli arcivescovi Tadone e Angilberto
che sono longobardi italianizzati, vi sono quelli della maggior parte
dei vescovi contemporanei dell'alta Italia. Sono notevoli alcune prove
di penna nei margini scritte da mani longobarde che fanno supporre
che il codice servisse alla scuola, probabilmente di Pavia. Certo fu
scritto in Irlanda, ed era in Italia fino allo scorcio del IX secolo
portatovi probabilmente da Dungal.» Così quell'erudito, e bene vorrei
che i limiti del mio lavoro mi concedessero di stampar qui tutta la sua
lettera a dimostrar sempre meglio come sia da tenere in gran conto un
siffatto elemento irlandese nella storia difficile di questo periodo
letterario. Certo farebbe pregevole studio chi, massime aiutandosi
di paragoni paleografici, s'accingesse a indagare se vi sono traccie
d'influenza irlandese nei monasteri dell'Italia centrale e del
mezzogiorno.

I versi relativi ad Angilberto e a Dungal sono stati pubblicati
nuovamente dal DUEMMLER, e quelli relativi a Tadone, Lotario, Sofrido
e Lodfrido dal TRAUBE, nei tomi II e III dei _Poetae Latini aevi
carolini_ in _Mon. Germ. Hist_. Il Traube dopo aver creduto anch'egli
che Sofrido dovesse identificarsi col vescovo piacentino di quel
nome, inclina ora a credere ch'egli fosse un nobile laico dell'Italia
superiore.

[79] WATTENBACH, _Deut. Geschichtsqu_., I, 312. Mentre m'accordo
con questa opinione, stimo debito di osservare che assai prima
del Giesebrecht, la continuata esistenza delle scuole italiane era
stata affermata e dimostrata dal Tiraboschi nella sua storia della
letteratura. Vi accenna anche il Muratori nella Dissertazione XLIII
delle _Antiquitates_. Su questo argomento l'Ozanam pubblicò un saggio
eccellente intitolato _Des Écoles en Italie aux temps Barbares_,
nel quale anche tien conto, forse con favore alquanto soverchio,
della esistenza delle scuole ecclesiastiche. Un lavoro del signor
Salvioli sulla istruzione pubblica in Italia dall'ottavo al decimo
secolo, è scritto con uno spirito meno comprensivo ma è pregevole per
molte indicazioni che reca. Si consulti anche A. DRESDNER, _Kultur
und Sittengeschichte der italianischen Geistlichkeit in X und XI
Jahrhunderten_, Bresslau, Koelner, 1890.

[80] LIUDPRANDI EPISCOPI CREMONENSIS _opera omnia in usum scholarum
ex Monumentis Germaniae historicis recusa. Editio altera. Recognovit
Ernestus Dümmler_. M. G. SS. III, 264-363. Hannoverae, 1877. Per quanto
si riferisce alla vita di Liudprando mi appoggio molto alla bella e
concisa prefazione del Dümmler il quale restringe con grande competenza
i molti studî fatti nel corso di questo secolo intorno a Liudprando,
di cui peraltro tende ad esaltare forse un po' troppo il valore. E
vedansi WATTENBACH, _Op. cit._, I, 423; KOEPKE, _De vita et scriptis
Liudprandi_, Berlino, 1842; GIESEBRECHT, _Geschichte der deutschen
Kaiserzeit_, I, 779-81; PAOLUCCI, _Liutprando_, Bari, 1883; COLINI
BALDESCHI, _Liudprando vescovo di Cremona_, Giarre, Castorina, 1888;
HANTSCH, _Ueber Liutprand von Cremona_, Leoben, 1888.

[81] «Viro gravitate ornato et sapientia pleno.»

[82] «Joannes episcopus, servus servorum Dei, omnibus episcopis. Nos
audivimus dicere quia vos vultis alium papam facere: si hoc facitis,
excommunico vos _da_ deum omnipotentem, ut non habeatis licentiam
_nullum_ ordinare, et missam celebrare.» È curioso che nella lettera
diretta in risposta dal Concilio a Giovanni, gli si rimprovera anche
l'errore di grammatica commesso scrivendo _nullum_ invece di _ullum_.
Dell'idiotismo _da deum_, non è fatta parola.

[83] _Historia Ottonis_, 8-16.

[84] GREGOROVIUS, _Storia della città di Roma nel Medio Evo_. Lib. VI,
c. IV, § 1. Traduz. Manzato.

[85] L'idea imperiale risuscitata dagli Ottoni e sostenuta così
caldamente in Italia da Liudprando, già prima della discesa di Ottone
il Grande aveva trovato un campione nell'autore di un _Libellus de
imperatoria potestate in urbe Roma_ che ha molto valore storico (_Mon.
Germ. Hist._ SS. III, 719-722). Di questo scritto hanno discorso
particolarmente lo Hirsch e lo Jung. Il LAPÔTRE nel suo libro _Le Pape
Jean VIII_, Parigi, 1895 dà ad esso grande importanza e lo attribuisce
con molta verosimiglianza ad uno scrittore quasi contemporaneo di
Giovanni VIII, d'origine longobarda e probabilmente nativo di Rieti.
Quest'ultima asserzione non mi sembra abbastanza provata. L'opinione
di chi vorrebbe attribuire il _Libellus_ a Benedetto di S. Andrea non
mi pare in alcun modo accettabile. Del pari hanno valore storico e
tendenze imperiali due poesie comparse nell'alta Italia nei primissimi
anni del secolo XI. Una di queste poesie specialmente, in cui si
rimpiange la morte immatura di Ottone III, contiene qualche strofa da
fare impressione.

[86] _Chronicon Benedicti de S. Andrea_ (_Mon. Germ. Hist._ SS. III).
L'autore di questa cronaca è stato chiamato finora Benedetto del
_Monte Soratte_, ma il Tomassetti nei suoi studi sulla Campagna Romana
dimostra che Benedetto era monaco della Badia di S. Andrea _in flumine_
posta presso Ponzano ai piedi del Soratte. Anche la vita di San Nilo
fondatore del monastero di Grottaferrata, scritta in greco da un suo
discepolo, e le lettere del famoso Gerberto che fu poi papa col nome
di Silvestro II, contengono dati storici contemporanei intorno al
periodo degli Ottoni. Sono parimenti degne di attenzione due vite di
sant'Adalberto e specialmente la più antica di esse, scritta in Roma da
GIOVANNI CANAPARIO abbate del monastero di sant'Alessio sull'Aventino.
«Das werk» osserva giustamente il GIESEBRECHT nella sua _Geschichte der
deutschen Kaiserzeit_, «schon dadurch interessant dass er das einzige
namhafte litterarische Erzeugniss eines Römers iener zeit ist, gehört
zu den wichtigsten Quellen der Zeitgeschichte.» Fu pubblicata dal Pertz
(_Mon. Germ. Hist._ SS. IV, 615-618).

[87] «Ve Roma, quia tantis gentis oppressa et conculcata; qui etiam
a Saxone rege appreensa fuisti et gladiati populi tui, et robor tua
ad nichilum redacta est.... Celsa tuarum triumphasti gentibus, mundum
calcasti, iugulasti regibus terre; sceptrum tenebat et potestas
maxima; a Saxone rege expoliata et menstruata fortiter.... Nimium
speciosa fuisti! Omnes tua moenia cum turris et pugnaculis sicuti modo
repperitur. Turres tuarum tricenti octoginta una habuistis, turres
castellis quadraginta sex, pugnaculi sex milia octocenties, portes
tue quindecim. Ve civitas Leoniana! dudum capta fuistis, modo vero a
Saxonicum rege relicta!»

[88] _Cronache Veneziane antichissime_ (vol. I) pubblicate a cura di
GIOVANNI MONTICOLO dall'Istituto Storico Italiano tra le _Fonti della
Storia d'Italia_. Questo primo volume oltre la _Cronaca Veneziana_
di GIOVANNI DIACONO e alcune brevi scritture storiche aggiunte ad
essa, contiene una _Cronica de singulis patriarchis nove Aquileie_
e il _Chronicon Gradense_. Il PERTZ aveva pubblicato insieme la
Cronaca Veneziana e quella di Grado intitolandole JOHANNIS DIACONI
_Chronicon Venetum et Gradense_ ma più moderni critici tornano alla
sentenza del Foscarini e staccano la cronaca di Giovanni da quella
di Grado. Assai notevole è anche il _Chronicon Altinate_ che ci dà
elementi antichissimi e pregevoli per la storia di Venezia. Ne ha dato
una ottima edizione il SIMONSFELD, in _Mon. Germ. Hist_. SS. XIV, e
un'altra ne promette il Monticolo nel secondo volume delle _Cronache
Veneziane antichissime_. Veggansi intorno a tutte queste cronache il
lavoro del SIMONSFELD sul _Chronicon Altinate_ pubblicato anche in
Italiano nell'_Archivio Veneto_, e gli studî del MONTICOLO, _La Cronaca
del Diacono Giovanni_ e la _Storia politica di Venezia sino al 1009_,
Pistoia, 1882, e _I manoscritti e le fonti della cronaca del Diacono
Giovanni_ nel _Bullettino dell'Istituto storico italiano_, n. 9.

[89] _Il Regesto di Farfa_, compilato da GREGORIO DI CATINO e
pubblicato dalla _Reale Società romana di storia patria_, a cura di
I. GIORGI e U. BALZANI, Roma, 1879-1892. Vol. II-V. Il primo volume
contenente le prefazioni e gli indici è in corso di stampa.

Il solo regesto di una certa importanza che si conosca anteriore in
parte al _Regesto di Farfa_, è quello del monastero di Subiaco. Esso
per altro non è una compilazione unica e tutta di un tempo, ma opera
di varî autori cominciata verso il principio dell'undecimo secolo
e terminata verso il principio del decimoterzo. Contiene documenti
antichissimi e ha molto valore per la storia locale di Roma, ma non
così grande per la storia generale. _Il Regesto Sublacense del secolo
XI_, pubblicato dalla _Reale Società romana di storia patria_, a cura
di L. ALLODI e G. LEVI. Roma, 1885.

[90] _Il Regesto di Farfa_, vol. II, pag. 5.

[91] «Juxta meae scientiolae parvitatem.»

[92] Infatti nel Regesto s'incontrano qua e là lacune di qualche parola
lasciata in bianco specialmente tra le sottoscrizioni.

[93] _Il Regesto di Farfa_, vol. II, pag. 6.

[94] _Rer. Ital. Script_., vol. II, pag. 2. Una nuova edizione del
Chronicon sta per essere pubblicata dall'Istituto Storico Italiano tra
le _Fonti per la storia d'Italia_.

[95] Generalmente a Gregorio di Catino si attribuisce un altro
scritto polemico intitolato: _Orthodoxa Defensio Imperialis_, inteso
a sostenere i diritti dell'Imperatore contro le pretese papali. Mi
astengo dal notarlo tra i suoi lavori perché inclino forte a credere
che egli non ne sia l'autore.

[96] Vedasi il capitolo precedente.

[97] L. TOSTI, _La Biblioteca dei Codici manoscritti di Montecassino_.
Napoli, 1874.

[98] Specialmente i _Versus de situ, constructione et renovatione
coenobii casinensis_, relativi alla riedificazione della Badia compiuta
da Desiderio, hanno grande valore per la storia dell'arte al secolo XI,
e vogliono essere paragonati con ciò che sullo stesso argomento scrisse
Leone Ostiense nella storia di cui son per parlare. Li pubblicò primo
l'Ozanam per intero nei _Documents inédits_, pag. 261-268.

[99] _L'ystoire de li Normant et la Chronique de Robert Viscart_ par
AIMÉ moine du Mont-Cassin, publiées par M. Champollion Figeac. Paris,
1835. Lo Champollion Figeac attribuì erroneamente ad Amato la cronaca
di Roberto Guiscardo che è soltanto un riassunto di una cronaca
di Goffredo Malaterra. La più recente edizione porta per titolo:
_Ystoire de li Normant_ par Aimé évêque et moine du Mont-Cassin,
publiée avec une introduction et des notes par l'abbé O. Delarc.
Rouen, 1892. La introduzione e le note di questa edizione sono molto
accurate e contengono notizie pregevolissime. Del valore storico di
Amato si sono occupati in vario senso lo Hirsch, il Baist, lo Schipa
e il Giesebrecht. Nel _Bullettino_ dell'Istituto Storico Italiano il
Gaudenzi ha pubblicato dei versi di Amato contenenti una vita di San
Pietro nella quale egli crede vedere delle allusioni al contrasto tra
il Papato e l'Impero.

[100] «Capuanae civitatis prudentissimum ac nobilem clericum et
Richardi principis notarium.» Così Leone stesso nella sua cronaca, III,
24.

[101] LEONIS MARSICANI et PETRI DIACONI _Chronicon Monasterii
Casinensis_ edidit W. WATTENBACH in _Mon. Germ. Hist._, § VII e cf.
anche il Wattenbach, _Op. cit._, II, 234.

[102] L. TOSTI, _La Biblioteca dei Codici manoscritti di Montecassino_,
Napoli, 1874. Veggasi anche ciò che l'illustre monaco scrisse del tempo
di Desiderio nella sua storia di quella Badia; e il CARAVITA nel libro
intitolato: _I codici e le arti a Montecassino_. E per citare altri
giudizî, il Baronio chiamò il cronista Leone «_scriptor sui temporis
integerrimus,_» il Muratori «_magnae gravitatis et auctoritatis_» e il
Wattenbach che ne curò l'edizione pei _Monumenta Germaniae_ gli dà gran
fede.

[103] _Mendacissimum Petrum Diaconum Casinensem_, lo chiama il BARONIO,
all'anno 1131, e vedasi anche quello che ne dice il TOSTI nella sua
_Storia della Badia di Montecassino_, II, 67.

[104] Così scrivevo nella prima edizione di questo libro e mi è caro
vedere il mio desiderio in via d'attuarsi. Col titolo di _Tabularium
Casinense_ i monaci di Montecassino vengono ora pubblicando in una
serie di codici diplomatici le carte più importanti del loro archivio.
Finora ha veduto la luce il _Codex Diplomaticus Caietanus_, raccolta
pregevole di carte e diplomi che vanno dalla fine del secolo ottavo
alla fine del decimoterzo.

[105] Un altro Regesto detto di San Placido, di minore importanza
ma anch'esso pregevole, si conserva attualmente a Montecassino ed è
opera di Pietro Diacono. Ivi si conservano anche due altri regesti
pregevolissimi della stessa età e di monasteri connessi a Montecassino,
quello di Sant'Angelo _in formis_, monastero del territorio di Capua,
e l'altro del monastero di San Matteo, di cui avanzano le rovine in una
montagna vicinissima alla madre Badia.

[106] _Annales Barenses_ e _Annales_ LUPI PROTOSPATARII in _Monumenta
Germaniae Historica_, Script., vol. V; _Anonymus Barensis_ in MURATORI,
_Rer. Italic._, Script., vol. V; _Annales Beneventani_ e _Chronicon
Ducum Beneventi_ in _Mon. Germ. Hist., Script_., vol. III; FALCONIS
BENEVENTANI _Chronicon_ in MURATORI, Op. cit., vol. V e presso DAL
RE, _Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani_, vol. I; _Annales
Cavenses_ in _Mon. Germ. Hist_., Script., vol. III, e più recentemente
una edizione importante nel _Codex Diplomaticus Cavensis_, vol.
V; _Chronicon Nortmannicum Breve_ in MURATORI, _Op. cit._, vol. V;
GUILLERMI APULIENSIS, _Gesta Roberti Wiscardi_ in _Mon. Germ. Hist._,
Script., vol. IX; GAUFREDI MALATERRA, _Historia Sicula_ in MURATORI,
_Op. cit_., vol. V; cfr. anche HIRSCH, _De Italiae inferioris annalibus
saec. X et XI_. Berlino, 1864.

[107] Edizioni complete del _Chronicon Novalicense_ furono pubblicate
dal MURATORI, _Rer. Ital._, Script., vol. II, 2, dal TERRANEO, e
dal COMBETTI, ed una migliore dal BETHMANN in _Monumenta Germaniae
Historica_, Script., vol. VII. Ora ne porge un'altra e più perfetta
edizione il conte CARLO CIPOLLA nel secondo volume della importante
pubblicazione intitolata: _Monumenta Novaliciensia_ data in luce
dall'Istituto Storico Italiano nelle _Fonti per la Storia d'Italia_.
Oltre la molta cura con la quale ha pubblicato il testo, il Cipolla
lo ha arricchito di note ed osservazioni molto pregevoli, rilevando
anche la importanza storica del _Chronicon_, ch'egli per molti rispetti
crede degno di stare al paragone col _Regestum Farfense_ di Gregorio di
Catino e col _Chronicon Vulturnense_.

[108] La importanza di queste parole era stata già rilevata molto
opportunamente dal Watterich nella prefazione alla sua raccolta
sulle vite dei pontefici, lavoro di cui mi sono molto giovato nello
scrivere questo capitolo. _Pontificum Romanorum Vitae.... ab aequalibus
conscriptae_, edidit J. M. WATTERICH, Lipsiae, 1862. Per questa seconda
edizione mi giovo anche molto della introduzione, densa di notizie e di
osservazioni originali, premessa dall'abate Duchesne al secondo volume
del suo _Liber Pontificalis_.

[109] È da notare che molti annalisti tedeschi del secolo undecimo e
del principio del dodicesimo hanno importanza per la storia del Papato,
tanto strettamente congiunta in quel tempo colla storia di Germania.
Non essendo del mio ufficio il prenderli specialmente in esame, io mi
limito qui a menzionar di passaggio tra i più cospicui gli annalisti
Bertoldo, Bernoldo di Costanza e Lamberto di Hersfeld, scrittori che
meritano tutta l'attenzione di chi studia la storia d'Italia.

[110] VILLEMAIN, _Histoire de Grégoire VII_. Paris, Didier, 1872.

[111] Ap. WATTERICH, _Vitae Pontificum_, I, pag. 501 e segg. Paolo di
Bernried ci ha anche lasciata una relazione della vita e miracoli della
Beata Herluca, una santa visionaria morta nel 1142, alla quale egli era
legato di stretta amicizia.

[112] Nei _Monumenta Germaniae Historica_, SS. vol. V, e ripubblicati
dal WATTERICH, Op. cit. e dal DUCHESNE, _Liber Pontificalis_, II, pag.
329 e segg.

[113] «Haec sicuti passi sumus, et oculis nostris vidimus et auribus
nostris audivimus, mera veritate perscripsimus.»

[114] Una parte di questa continuazione era stata attribuita, dietro
la scorta del Giesebrecht e del Watterich, al cardinale Pietro da Pisa
che fu uomo di gran valore ai suoi tempi e l'anima dello scisma contro
Innocenzo. L'abbate Duchesne ha dimostrato che tutto questo gruppo di
vite pontificie fino ad Onorio II deve attribuirsi al solo Pandolfo.
Queste vite ci sono state conservate in una redazione del _Liber
Pontificalis_ compilata da un _Petrus Guillermus_ bibliotecario di un
priorato _S. Egidii de Aceio_ in diocesi di Reims. Cf. DUCHESNE, _Liber
Pontificalis_, II, XXIV e segg. e 199 e segg.

[115] Ai tempi di Pasquale II ebbe anche il comando di alcune milizie
pontificie, e in genere si ferma sempre con molta compiacenza sulle
frequenti fazioni combattute in quei tempi agitati delle quali fu
spesso testimonio, e che descrisse con molta vivacità. Cf. DUCHESNE,
_Loc. cit._

[116] Secondo il Guglielmotti la lezione di questo passo è errata nel
manoscritto che ce lo ha tramandato, e Gelasio non fu portato ad Ardea
(_ad castrum Sancti Pauli de Ardea_) ma alla men lontana Isola Sacra
sul Tevere. GUGLIELMOTTI, _Storia della Marina Pontificia_, I, 262,
Firenze, 1871.

[117] Il lavoro di Bosone, ripubblicato dal Watterich nelle _Vitae
Pontificum_, e più di recente dal Duchesne, nel _Liber Pontificalis_,
ci fu conservato da Cencio Camerario (più tardi papa col nome di
Onorio III) il quale nel 1192 lo inserì nel suo _Liber censuum
Romanae Ecclesiae_, compilazione indigesta ma di gran valore storico,
ricavata dagli archivî per servire come registro di tutti i redditi
della Chiesa. Circa le relazioni tra Bosone e Cencio Camerario cf. E.
STEVENSON, _La Collectio Canonum di Deusdedit_, in _Archivio della R.
Società romana di storia patria_, VIII, 371, e PAUL FABRE, _Les vies
des Papes dans les mss. du Liber Censuum in Mélanges de l'École de
Rome_, VI, 147.

[118] La pubblicò pel primo il GIORGI nell'_Archivio della R. Società
romana di storia patria_, vol. II, ed è stata ristampata a cura di L.
Heinemann nella raccolta dei _Libelli_ di cui si fa menzione più oltre.

[119] BENZONIS ALBENSIS, _Ad Heinricum IV_, libri VII, in _Mon. Germ.
Hist._, SS. vol. XI, e cf. LEHMGRÜBNER, _Benzo von Alba ein Verfechter
der kaiserlichen Staatsidee_. Berlin, Gaertner, 1887.

[120] Tranne quello di Benzone d'Alba, tutti questi scritti polemici
ed altri di cui non tengo discorso, sono stati ripubblicati di recente
pei _Monumenta Germaniae Historica_, nella raccolta in tre volumi
intitolata _Libelli de lite Imperatorum et Pontificum saeculis XI et
XII conscripti_. Hannoverae, 1891-97. Le prefazioni premesse a ciascuno
scritto dagli editori sono spesso molto notevoli e riassumono gli studi
che sono stati fatti intorno ai diversi scrittori. Due altri scritti
notevoli, ripubblicati anch'essi nella stessa raccolta, sono quello
del cardinale UMBERTO, _Contra Simoniacos_, e quello del cardinale
DEUSDEDIT, _Libellus contra invasores et simoniacos et reliquos
schismaticos_. Il cardinale Deusdedit è anche autore di una specie di
regesto in cui oltre una collezione di canoni sono raccolti diplomi
imperiali e carte di grande antichità che si riferiscono alla Chiesa
Romana. Fu pubblicato da monsignor Martinucci a Venezia nel 1869. Un
lavoro molto pregevole sui polemisti del periodo Gregoriano è quello di
C. MIRBT, _Die Publizistik im Zeitalter Gregors VII_. Leipzig, 1894.

[121] S. PETRI DAMIANI, _Opera_, ed. Const. Caetani, 1783, in-4. È una
raccolta in quattro volumi delle opere uscite dalla feconda penna di
questo scrittore che in prosa o in verso trattò d'ogni materia nella
sua corrispondenza, in vite di santi e in trattati di politica e di
religione. Oltre le lettere sono notevoli e insieme assai strani i due
scritti intitolati: _Apologia e Liber Gomorrhianus_. Altri due suoi
scritti, il _Liber Gratissimus_ e la _Disceptatio Synodalis_, sono
stati ripubblicati tra i _Libelli de lite Imperatorum et Pontificum._

[122] Forma dispregiativa per _Bonizo_. L'uso di alterare il nome
degli avversarî per torcerlo a significato spregevole, frequente in
questi scrittori polemici, è frequentissimo in Benzone. Così, oltre
i nomi citati in questo passo, quello di Anselmo vescovo di Lucca,
l'amico della contessa Matilde, diviene _Asinelmus_, quel d'Alessandro
II _Asinandrum_, e si potrebbero moltiplicar questi esempî di
scurrile violenza, da cui anche gli scrittori di parte avversa non si
astenevano.

[123] «Runcie deformis factus sine lumine dormis! Laudetur Deus quia
vix potuit manus tuas evadere, qui iniuriis linguae ausus est te
invadere. Auditum est in quattuor mundi plagis qualiter es ultus,
formidanda potestas, super Runtio Cremonensi atque quibusdam aliis. Sed
de Bonizello, Armanello, Morticiello, tribus daemonibus, quod non idem
contigit improbat omnis populus.»

[124] Il Lehmbgrübner pone la data della sua morte al 14 luglio 1090.

[125] «Queris a me, unicum a tribulatione que circumdedit me presidium:
Quid est quod hac tempestate mater ecclesia in terris posita gemens
clamat ad Deum nec exauditur ad votum, premitur nec liberatur, filiique
obedientie et pacis iacent prostrati, filii autem Belial exultant
cum rege suo praesertim cum qui dispensat omnia, ipse sit qui iudicat
aequitatem? Est et aliud, unde de veteribus sanctorum patrum exemplis a
me petis auctoritatem: si licuit vel licet christiano pro dogmate armis
decertare? Quibus tuae mentis fluctuationibus, si aurem sani cordis
adhibueris, facile respondebitur, tum quia in promptu nobis est, tum
quia hoc tempore mihi scribere hoc visum est pernecessarium. Igitur
de Dei misericordia confisi, qui linguas infantum disertas facit,
adoriamur sermonem.» BONITHONIS SUTRIENSIS, _Liber ad Amicum_, I, ap.
WATTERICH, _Op. cit._, e nei _Libelli de lite_, vol. I ed. DÜMMLER.
Oltre il Watterich e il Dümmler pubblicò una edizione di questo libro
anche lo JAFFÉ nei _Monumenta Gregoriana_.

[126] È quello medesimo che fece violenza al Papa in Santa Maria
Maggiore.

[127] _Vita Anselmi episcopi Lucensis_, auctore BARDONE, in _Monun.
Germ. Hist. SS._, XII. Lo stesso Anselmo era autore di parecchi lavori,
alcuni dei quali polemici, ma la maggior parte di essi è perduta.

[128] DOMNIZO, _Vita Mathildis_, ed. Bethmann, _Mon. Germ. Hist.
Script._, XII.

[129] A. FERRETTI, autore di un saggio piuttosto diligente intitolato:
_Canossa_. Reggio Emilia, 1876.

[130] I versi seguenti che descrivono rincontro di Enrico IV con
Gregorio VII, serviranno a dare un'idea del verseggiare di Bonizone il
quale si trovava anch'egli in quel momento nel castello di Canossa.

    Ante dies septem quam finem Janus haberet,
    Ante suam faciem concessit Papa venire
    Regem cum plantis nudis a frigore captis
    In cruce se iactans, Papae saepissime clamans:
    Parce, beate pater, pie, parce michi, peto plane!

[131] _Monumenta Gregoriana,_ edidit PH. JAFFÉ, Berolini, 1865. Alcune
altre lettere sono state scoperte dipoi. Intorno a questo regesto,
il GIESEBRECHT pubblicò una importante dissertazione col titolo _De
Gregorii VII registro emendando_, Regiomonti, 1858. Secondo l'opinione
del Pflugk-Harttung e di altri, il cardinale Deusdedit avrebbe
adoperato per la sua _Collectio Canonum_ un altro registro gregoriano,
anteriore a quello pubblicato dallo Jaffé e più completo. Contraddice
a questa opinione il Loewenfeld. Io qui mi limito a far cenno soltanto
delle lettere di Gregorio, ma hanno pur grande valore quelle che ancora
si trovano degli altri pontefici che gli furono vicini di tempo.

[132] Per questi scrittori del Mezzogiorno, oltre lo studio che
sono venuto facendo sui testi, mi giovo grandemente dell'eccellente
lavoro pubblicato dal CAPASSO col titolo: _Le fonti della storia
delle provincie napoletane_, nell'_Archivio storico delle provincie
napoletane_, an. 1876. Mi hanno pure molto giovato alcune pubblicazioni
inserite nell'_Archivio storico siciliano_, e varie opere dei due
storici siciliani, il LA LUMIA e l'AMARI. Anzi al caro e venerato
autore del _Vespro Siciliano_ e della _Storia dei Musulmani in
Sicilia_, debbo anche speciale gratitudine per alcune indicazioni
verbali che mi riuscirono utilissime.

[133] Il nome di questo cronista era ignoto. Il prof. Gaudenzi lo ha
trovato in un manoscritto della biblioteca nazionale di Napoli in cui
questi Annali portano il titolo _Landulphi abbatis S. Mariae de flumine
apud Ceccanum Chronica_. Il Gaudenzi dà questa notizia nella prefazione
alla cronaca di S. Maria di Ferraria, ma non dà alcuna indicazione
circa l'autorità e l'età del manoscritto.

[134] Il Siragusa, ultimo editore del Falcando, pur mentre ne loda
i pregi letterari e la mirabile eloquenza, trova soverchio questo
appellativo.

[135] «Falcandus has been styled the Tacitus of Sicily, and after a
just but immense abatement, from the first to the twelfth century, from
a senator to a monk, I would not strip him of his title; his narrative
is rapid and perspicuous, his style bold and elegant, his observation
keen: he had studied mankind and feels like a man.» GIBBON, _Decline
and Fall of the Roman Empire_, cap. LVI.

[136] _La Historia o Liber de Regno Sicilie e la Epistola ad Petrum
Panormitane Ecclesie Thesaurarium di_ UGO FALCANDO _a cura_ di G. B.
SIRAGUSA tra le _Fonti_ pubblicate dall'Istituto Storico Italiano.
Nella prefazione alla _Historia_, il Siragusa riassume con molta
diligenza e discute le varie opinioni e i molti studî compiuti intorno
al Falcando massime dall'Hartwig, dall'Hillger e dallo Schröter. Anche
un altro libro del Siragusa, _Il regno di Guglielmo I in Sicilia_, è da
consultare per ciò che riguarda Ugo Falcando e Romualdo Salernitano.

[137] «Madet terra pulchro cruore diffuso, tabetque iuvenili sanguine
cruentata, iacent veluti flos purpureus improvida falce succisus.»
SABAE MALASPINAE, _Rerum Sicularum Historia_, IV, 16.

[138] Giunto a questa età non è più possibile per me trattare neppur
brevemente d'altre fonti storiche oltre i cronisti. Mi limito quindi
a rammentar qui in nota le lettere di Pier della Vigna il Gran
Cancelliere di Federico II. Il suo epistolario è uno dei più pregevoli
monumenti letterarî di quel tempo, e ha valore storico inestimabile.
Anche si conoscono altri epistolari contemporanei a quello, scritti
da uomini che presero parte alla vita pubblica, ma i più sono inediti
e meriterebbero d'essere pubblicati in tutto o in parte. È pure assai
desiderabile una edizione completa e definitiva dell'epistolario di
Pier della Vigna intorno al quale sono da consultare il saggio del
napolitano De Blasiis, e l'altro dell'Huillard Bréholles, _Pierre de la
Vigne, sa vie et sa correspondance_. Voglionsi menzionar di passaggio
anche la grande raccolta fatta dall'HUILLARD BRÉHOLLES in dieci volumi
col titolo _Historia Diplomatica Friderici II_, quella di BARTOLOMEO
CAPASSO, _Historia Diplomatica Regni utrimque Siciliae ab an. 1250 ad
an. 1266_, e quella del WINKELMANN, _Acta Imperii inedita seculi XIII_.

[139] _Annales Casinenses_ in _Mon. Germ. Hist._ SS. vol. XIX. —
_Chronicon Casauriense_, in MURATORI, _Rer. Italic. Script._, II,
2. — _Alexandri abbatis Telesini lib. IV de rebus gestis Rogerii
Siciliae regis 1127-1135_ in MURATORI, _Op. cit._, V, e presso DAL
RE, _Cronisti Sincroni Napolitani_, Napoli, 1845. — _Chronicon S.
Bartholomaei de Carpineto_, in UGHELLI, _Italia Sacra_, vol. VII.
— ROMUALDI SALERNITANI, _Annales_, Ibid. — HUGONIS FALCANDI, _Hist.
de rebus gestis in Siciliae regno_, in MURATORI, _Op. cit._, VII, e
nella edizione già citata del SIRAGUSA. — PETRI DE EBULO, _Carmen de
bello inter Heinricum VI et Tancredum_, ap. DAL RE, _Cronisti sincroni
napoletani_ e ed. Winkelmann, 1874. — RICARDI DE SANCTO GERMANO,
_Chronica, Mon. Germ. Hist._, SS. XIX. — NICOLAI DE JAMSILLA, _De rebus
gestis Friderici II_, MURATORI, _Op. cit._, VIII e DAL RE, _Op. cit._
— SABAE MALASPINAE, _Res Siculae_, Ibid., e meglio ap. DAL RE, _Op.
cit._ — NICOLAI SPECIALIS, _Hist. Sicula_, MURATORI, _Op. cit._, X.
— BARTHOLOMAEI DE NEOCASTRO, _Hist. Sicula_, Ibid., XIII. Un'altra e
più antica redazione della cronaca di Riccardo di San Germano è stata
pubblicata nei _Monumenti Storici_ della Società napoletana di Storia
patria dal prof. Gaudenzi, insieme ad una cronaca inedita di S. Maria
di Ferraria che non è priva d'interesse. _Ignoti Monachi Cisterciensis
S. Mariae de Ferraria Chronica, et_ RYCCARDI DE SANCTO GERMANO,
_Chronica priora_ ed. A. GAUDENZI, Neapoli, 1888. — Degli scritti
riconosciuti apocrifi come i _Diurnali_ di MATTEO SPINELLI, e tra le
croniche romane quella del MONALDESCHI, non tengo parola, nè tengo
parola del _Rebellamentu de Sichilia_, una specie di romanzo storico,
come lo chiama l'Amari, dettato in Siciliano e che mi par dimostrato
non essere contemporaneo del Vespro.

[140] _Historia Pontificalis_ ed. ARNDT, in _Mon. Germ. Hist_., SS. XX.

[141] Questo scrittore è stato finora conosciuto sotto il nome di
Niccolò da Curbio. Il Pagnotti in uno studio molto pregevole che
precede una nuova edizione della _Vita d'Innocenzo IV_, dimostrò
ch'egli va chiamato Niccolò da Calvi. F. PAGNOTTI, _Niccolò da
Calvi e la sua Vita d'Innocenzo IV, con una breve introduzione sulla
Istoriografia pontificia nei secoli XII e XIV_, in _Archivio della R.
Società romana di storia patria_, vol. XXI.

[142] PTOLEMAEI LUCENSIS, _Historia Ecclesiastica_, in MURATORI, _Rer.
Italic. Script._, vol. XI. — Tutte le altre vite pontificie Ibid., vol.
III.

[143] _Vita di Cola di Rienzo_, Bracciano 1624 e 1631; ap. MURATORI,
_Antiq. Ital._, III, e con note di ZEFIRINO RE, Forlì 1828, ristampata
a Firenze dal Le Monnier. Tutte edizioni imperfette e l'ultima più
imperfetta delle altre. È debito ricordar qui che Cola di Rienzo fu
benemerito degli studi storici, e iniziò in certo modo l'archeologia
romana indagando negli storici antichi e nelle epigrafi, la storia
di quei monumenti che gl'infiammavano l'anima. I quali fino ad
allora ebbero per quasi unica illustrazione le leggende medioevali
contenute nella _Mirabilia_, curioso e caratteristico libro di cui
molto volentieri avrei parlato se non fosse stato il timore d'ecceder
troppo i confini di questo lavoro. Oltre alle _Mirabilia_ è notevole un
libro di storie romane, che forse fu noto a Cola di Rienzo, e contiene
storie o leggende dell'antica Roma. Se ne ha una traduzione in volgare
romano che risale verso la metà del secolo decimoterzo. La R. Società
romana di storia patria la pubblicherà tra breve col titolo di _Lyber
hystoriarum Romanorum o_ _Storie de Troia et de Roma_ a cura del
professore ERNESTO MONACI che già ne discorse ampiamente nel volume XII
dell'_Archivio_ della Società stessa. Importantissima per la storia di
Cola di Rienzo è la raccolta delle sue lettere pubblicata dall'Istituto
Storico Italiano a cura di A. GABRIELLI, tra le _Fonti per la Storia
d'Italia_. Voglionsi anche menzionare alcuni annali relativi a Roma e
a paesi prossimi a Roma, pubblicati nel volume XIX (SS.) dei _Monumenta
Germaniae Historica_.

[144] ADOLFO BARTOLI, _Storia della Letteratura Italiana_, vol. I.
Firenze, 1878.

[145] «Brevis est, grandia tamen in Mediolanensi urbe gesta continet,
et rerum perturbationes memoria dignas; graphiceque exprimit, quid in
animis hominum eorum temporum potuerit, semperque poterit, dominandi
cupido. Neque intra pomoeria unius Mediolani consistit Landulphi
narratio: multa etiam habet, quibus Italica eius aevi historia
illustretur.» MURATORI, in praef. ad _Landulph. R. I. S._, vol. V.

È bene notare che questi cronisti attinsero a più antiche fonti di
storia milanese, molte delle quali ci rimangono, e saranno raccolte
e date in luce dall'Istituto Storico Italiano, col titolo _Monumenta
Mediolanensia antiquissima_. Veggansi intorno a queste fonti gli
studi pubblicati dal prof. L. A. FERRAI, nel _Bullettino dell'Istituto
Storico Italiano_, e nell'_Archivio Storico Lombardo_.

[146] Questa cronaca è stata generalmente attribuita finora ad un
Sire Raoul, di cui non si sapeva nulla oltre il nome, ma il signor
Holder-Egger pubblicando pei _Monumenta Germaniae Historica_ una nuova
edizione di questa cronaca, ha dimostrato in modo certo che il nome
dell'autore è ignoto. _Gesta Friderici I Imperatoris in Lombardia,
auctore cive Mediolanensi, recognovit_ O. HOLDER-EGGER. Hannoverae,
1892.

[147] ARNULPHI, _Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium_, in _Mon.
Germ. Hist_. SS. VIII. — LANDULPHI, _Historia Mediolanensis_. Ibid.
— LANDULPHI JUNIORIS DE S. PAULO, _Historia Mediolanensis_. Ibid.
XX, e MURATORI, _Op. cit._, vol. V. — ANDREAE, _Vita S. Arialdi_
in _Acta Sanctorum_ (5 giugno). — MOYSIS MAGISTRI BERGOMENSIS, _De
Laudibus Bergomi_. MURATORI _R. I. S._ vol. V. — ANONYMI, _Poema de
bello et excidio urbis Comensis_. Ibid. — RADULFI _sive_ RAUL, _De
rebus gestis Friderici I_. Ibid., VI, e _Annales Mediolanenses, Mon.
Germ. Hist._ SS. XVIII, e nuova ediz. Holder-Egger già citata. —
_Boncompagni Magistri Florentini_, _De Obsidione Anconae_, MURAT. _R.
I. S._ VI. — Un nuovo testo dell'_Assedio d'Ancona_, di Boncompagno, fu
pubblicato da A. GAUDENZI, nel fasc. 15 del _Bullettino dell'Istituto
Storico Italiano_. — OTTO MORENA, ACERBUS MORENA, ANONYMUS, _De
rebus Laudensibus_, in _Mon. Germ. Hist_. SS. XVIII. Una traduzione
dell'opera dei _Morena_, fu pubblicata nell'_Archivio storico per la
città e comune del circondario di Lodi_. Anni II e III.

[148] «Ottoni Frisingensi episcopo.... viro utique qui singularem
habebat dolorem de controversia inter regnum et sacerdotium.» RAHEVINI,
_Gesta Friderici_, III, 22.

[149] «Praelium hoc a decima pene dici hora usque ad noctem protractum
est. Caesi fuerunt ibi vel in Tyberi mersi pene mille, capti ferme
ducenti, sautiati innumeri, caeteri in fugam versi, imo tantum ex
nostris, mirum dictu, occiso, uno capto. Plus enim nostros intemperies
coeli aestusque illo in tempore maxime circa Urbem immoderatior,
quam Romanorum laedere poterant arma.» Eppure «Finito tam magnifico
triumpho,» il dì seguente l'Imperatore ritraeva l'esercito e
s'accampava a rispettosa distanza da Roma. Non è senza interesse
il confrontar questo episodio della storia del vescovo di Frisinga
col passo di Liudprando citato qui sopra alla pagina 131. Il testo
pubblicato dal Waitz nella nuova edizione delle Gesta, porta il numero
dei Romani morti a seicento, ma tra le numerose varianti ch'egli reca,
non indica il manoscritto da cui ha tratto questa variante, che pure è
così considerevole.

[150] Le edizioni recano veramente: _ex hac comminandi potestate_,
ma la frase non mi par che abbia senso. Io credo che debba leggersi
_commanendi_ e traduco a seconda della mia congettura, la quale mi
par confermata da tutto il passo che dice: «Ex quo fit ut tota illa
terra inter civitates ferme divisa, singulae _ad commanendum secum_
diocesanos compulerint, vixque aliquis nobilis vel vir magnus tam
magno ambitu inveniri queat, qui civitatis suae non sequatur imperium.
Consueverunt autem singuli singula territoria_ ex hac comminandi_ (l.
_commanendi_) potestate _comitatus_ suos appellare.»

[151] «Ego autem, qui huius operis principium eius [Ottonis] ex ore
adnotavi, finemque eius de principis iussu perficiendum suscepi, et
manu mea ipsius extrema lumina clausi.» RAHEVINI, _Gesta Friderici_,
IV, 14.

[152] OTTONIS FRISINGENSIS, _Opera_ (I. _Chronicon_, II. _Gesta
Friderici Imperatoris_) in _Mon. Germ. Hist_. SS. XX ed. R. WILMANS,
e una nuova edizione delle _Gesta_ curata del WAITZ, Hannover,
1884. Oltre Ragevino o Rahevino, che nelle antiche edizioni veniva
erroneamente chiamato Radevico, e che ebbe egli stesso un continuatore
anonimo, il vescovo di Frisinga ebbe un altro continuatore in Ottone
da San Biagio, il quale condusse il Chronicon fino al 1209. Intorno ad
Ottone di Frisinga si è scritto molto, e sono da segnalare sopra gli
altri gli studî del Giesebrecht e del Wattenbach, e le belle prefazioni
del Willmans alla edizione delle opere citate qui sopra. _Guntheri
Ligurini,_ _De Rebus gestis Friderici I Aenobarbi_, ed. pr. Basileae,
1569. GOTIFREDI VITERBIENSIS, _Opera_, in _Mon. Germ. Hist_. SS. XXII.

[153] _Gesta di Federico I in Italia_.... a cura di ERNESTO MONACI,
nelle _Fonti per la Storia d'Italia_, pubblicate dall'Istituto Storico
Italiano, e cf. ERNESTO MONACI, _Il Barbarossa e Arnaldo da Brescia
a Roma_, nell'_Archivio della Società romana di Storia patria_, vol.
I, e W. V. GIESEBRECHT, _Sopra il poema recentemente scoperto intorno
all'imperatore Federico I, lettera al prof. Monaci_. Ibid., vol. II.
Il signor C. Wenck propose il dubbio che l'autore potesse essere un
_Thadeus de Roma_, nel _Neues Archiv_, IX, 1 (Anno 1883), ma la sua
congettura non venne accolta. Il manoscritto che contiene il poema è
del secolo XIII, e in calce porta questo titolo: _Gesta per imperatorem
Federicum Barbam rubeam, in partibus Lumbardie et Italie_. Ruggero
Bonghi nel suo mirabile studio sopra Arnaldo da Brescia si giovò assai
della pubblicazione del Monaci rilevandone il gran valore.

[154] Ne pubblicò alcuni frammenti il WAITZ nei _Mon. Germ. Hist._
SS. XXIV. Intorno a questo scrittore io ebbi occasione di fare alcune
osservazioni pubblicando un frammento di cronaca scritto da Landolfo
Colonna. Cf. _Landolfo e Giovanni Colonna secondo un Codice Bodleiano_,
in _Archivio della R. Società romana di storia patria_, vol. VIII.

[155] M. TABARRINI, _La cronaca di Fra Salimbene da Parma_. In
tutto ciò che dico di Salimbene, seguo precipuamente il saggio del
senatore Marco Tabarrini, uno dei più perfetti lavori usciti dalla
penna di quello scrittore eminente. È stato ripubblicato tra i suoi
_Studî di critica storica_, Firenze, 1876. Quanto al _Chronicon_
FR. SALIMBENE PARMENSIS, esso fu per la prima volta pubblicato
nel 1857 in Parma (_Monumenta historica ad provincias Parmensem
et Placentinam pertinentia_, vol. III). Nuove edizioni di questa
cronaca sono annunziate dall'Istituto Storico Italiano e dalla
Società dei _Monumenta Germaniae_. Intorno alla critica del testo
salimbeniano e alle sue relazioni con altre cronache, si è molto
discusso, e principalmente dal Clédat, dal Novati, dal Dove, dallo
Scheffer-Boichorst, dallo Holder-Egger, dal Wattenbach e dal Michael.
Quest'ultimo è autore di un buon libro su Salimbene. E. MICHAEL,
_Salimbene und seine Cronik_, Innsbruck, 1889.

[156]

    Suo cimitero da questa parte hanno
    Con Epicuro tutti i suoi seguaci
    Che l'anima col corpo morta fanno.
    . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . .
    Qua entro è lo secondo Federico.
                         DANTE, _Inferno_, X.

[157] «Il guelfo Salimbene in quel suo stile caldo e abbondante ci fa
sentire i palpiti del cuore italiano.» AMARI, _Storia del Vespro_, I,
5.

[158] «Reducta in solitudinem eo quod non esset nec cultor nec
transiens per eam.... nec poterant homines arare, nec seminare, nec
metere, nec vineas facere, nec in villis habitare.... Verumtamen prope
civitates laborabant homines cum custodia militum.... Et hoc oportebat
fieri propter berruarios et praedones qui multiplicati erant nimis.
Et capiebant homines et ducebant ad carceres ut se redimerent pro
pecunia.... Et ita libenter videbat homo hominem, tempore illo euntem
per viam, sicut libenter videret diabolum.» SALIMB., _Chron_., pag. 71.

[159] Altre due opere storiche notevoli di lui sono la _Cronaca
Galvagnana_ e il _Chronicon Maius_. Cf. L. A. FERRAI, _Le Cronache
di Galvano Fiamma e le fonti della Galvagnana_, nel _Bullettino
dell'Istituto Storico Italiano_, n. 10.

[160] Ne ha data una nuova edizione il FERRAI nelle _Fonti per la
Storia d'Italia_, col titolo _Historia Johannis de Cermenate_.

[161] Cf. GORRINI, _Il Comune Astigiano e la sua Storiografia_.
Firenze, 1884.

[162] La cronaca dello Smerego fu ristampata dal senatore Lampertico
nel volume II dei suoi _Scritti storici e letterari_.

[163] ZANELLA, _Ferreto de' Ferreti_, nel volume intitolato: _Scritti
varii_, Firenze, Le Monnier, 1877, e cf. MORSOLIN, _Le Fonti della
storia di Vicenza_, Venezia, 1881; MAX LAUE, _Ferreto von Vicenza_;
e CIPOLLA, in _Giornale storico della Letteratura_, III, 229; AMARI,
_Storia del Vespro_, III, 19.

[164] FERRETI VICENTINI, _Historia rerum in Italia gestarum ab an. 1250
usque ad an. 1318, e De Scaligerorum origine poema_, in MURATORI, _Rer.
Ital. Script._, vol. IX. — ROLANDINI PATAVINI, _De factis in Marchia
Tarvisina_, lib. XII. _Ibid_., vol. XII, e _Mon. Germ. Hist._, Script.,
vol. XIX. Gli altri scritti menzionati qui sopra trovansi anch'essi
nella raccolta muratoriana. Anche è da ricordare una cronaca che già il
Muratori aveva pubblicato col titolo di _Chronicon Patavinum_ (_Antiq.
Ital._, vol. IV) e di cui il professore A. Bonardi ha dato una nuova
edizione nella _Miscellanea di storia veneta_, ser. II, t. VI, col
titolo _Liber Regiminum Paduae_. Il Bonardi dimostra come l'autore del
Liber attingesse a fonti originali che sono ora perdute. Le cronache
piemontesi furono ripubblicate a Torino negli _Historiae Patriae
Monumenta_.

[165] ALBERTINI MUSSATI, _Historia Augusta_, ap. MURATORI, _Rer. It.
Script._, vol. X, col. 417.

[166] «Fine facto fremens Senatus in altum voces tulit pari assensu
haec omnia sancienda dijudicans.» _Ibid_.

[167] _De Gestis Italicorum_, loc. cit., col. 614.

[168] ALBERTINI MUSSATI _Opera_, Venetiis, 1636. _De Gestis Henrici
VII Caesaris, Historia Augusta. De Gestis Italicorum post mortem
Henrici VII. Eccerinis Tragoedia_, ap. MURATORI, _Rer. Ital. Script._,
vol. X. Una nuova pregevole edizione dell'Eccerinis è comparsa testé
accompagnata da uno studio importante del Carducci. ALBERTINO MUSSATO,
_Eccerinide, tragedia a cura di_ LUIGI PADRIN _con uno studio di_
GIOSUÈ CARDUCCI, Bologna, Zanichelli, 1900. In un codice vaticano si
sono scoperti sette libri della _Historia Augusta_ tuttora inediti, che
fanno sempre più desiderare una completa edizione delle opere storiche
di Albertino Mussato. Diversi lavori sono apparsi su questo autore, tra
i quali uno assai notevole di GIACOMO ZANELLA, _Di Albertino Mussato
e delle guerre tra Padovani e Vicentini_, in cui l'autore esamina con
molta finezza oltre gli storici alcuni altri componimenti letterari, e
in uno d'essi intitolato _Il Sogno_ vede alcune relazioni colla _Divina
Commedia_. Ne ho tratto aiuto. Veggansi anche sopra il Mussato gli
scritti del Wychgram, del Cappelletti, dello Zardo, del Minoia, del
Gloria e del Novati. Buono il saggio di W. FRIEDENSBURG, _Zur Kritik
der Historia Augusta nelle Forschungen zur Deutschen Geschichte_.
XXIII, 1. Il Friedensburg ha anche tradotto in tedesco il lavoro
d'Albertino, di cui non esiste, ch'io sappia, traduzione italiana.
Finora il Mussato è il migliore storico di sé stesso. I due Cortusi e
i due Gatara zio e nipote i primi, padre e figlio i secondi, scrissero
di Padova dopo Albertino, ma son di molto inferiori a lui. È necessario
limitarsi a menzionarli qui in nota. Le opere loro furono pubblicate
dal MURATORI, _Op. cit._, vol. X e XVII.

[169] «Scis quippe tu nostrorum actuum in Rempubblicam, fide testis
Episcope, quantis domi militiaeque solertiis implicer, ut nec nox
agendorum variis meditationibus suppetat, nec agendis lux diurna
sufficiat.... Sed quamquam sic agitantibus vexatus anfractibus, quia
in parte laborum ipse fuerim, scribendi laborem recusasse nolim,
praesertim tanto permotus auctore.»

[170] Le fonti della storia veneziana sono, com'è naturale, oggetto
continuo di ricerche e di dissertazioni per gli eruditi. Oltre ciò
che hanno lasciato su tale argomento il Muratori, il Foscarini, il
Tiraboschi ed il Pertz, cito particolarmente per averne ricavato grande
aiuto i due lavori del Simonsfeld e del Monticolo già mentovati,
ed un altro studio del Simonsfeld sopra Andrea Dandolo pubblicato
nell'_Archivio Veneto_. Veggansi anche i lavori del PROST nella _Revue
des Questions Historiques._

[171] _La Cronique des Veniciens de Maistre_ MARTIN DA CANAL, edita
dal Polidori con traduzione a fronte del Galvani. Ho adoperato questa
traduzione nel frammento riportato qui sopra. La cronaca è pubblicata
nell'_Archivio Storico Italiano_, prima serie, vol. VIII, an. 1845. Lo
stesso volume contiene il _Chronicon Altinate_ pubblicato da A. Rossi,
e i frammenti della cronaca di Marco pubblicati da Angelo Zon.

[172] «Certe graviorem de iis rebus scriptorem nullum proferam.»
MURATORI, _In praef. ad A. Danduli chronicon_.

[173] ANDREAE DANDULI, _Chronicon Venetum, a Pontificatu S. Marci ad
an. usque 1339: succedit_ RAPH. CARESINI _continuatio usque ad an. 1388
nunc primum evulgata_, in MURATORI, _Rer. Ital. Script._, vol. XII.
Menziono qui anche la cronaca scritta in italiano da DANIELE CHINAZZO
sulla guerra di Chioggia tra Veneziani e Genovesi (A. D. 1378 e seg.).
Ibid. vol. XV.

[174] CAFARI _et continuatorum Annales Januenses_, ed. PERTZ, in
_Mon. Germ. Hist._, vol. XIII. Agli Annali è premessa una buonissima
prefazione del Pertz alla quale mi sono attenuto assai da vicino per le
notizie che reco sugli annalisti. Una nuova edizione assai migliore ne
dà in luce ora l'Istituto Storico Italiano nella sua raccolta. Il primo
volume già pubblicato contiene gli scritti di Caffaro e gli Annali di
Oberto Cancelliere fino all'anno 1173. Curò l'edizione di questo primo
volume Luigi Tommaso Belgrano e vi premise una introduzione ricca
di notizie e di particolari eruditi intorno ai due primi annalisti.
Interrotto per la morte del Belgrano, il lavoro viene ora continuato
dal marchese Cesare Imperiale di S. Angelo di cui vuolsi anche
menzionare il bel libro su Caffaro. _Annali Genovesi di_ CAFFARO _e
de' suoi continuatori_ nelle Fonti per la Storia d'Italia, e cf. C.
IMPERIALE DI S. ANGELO, _Caffaro e i suoi tempi_, Torino, Roux, 1894.
Relativamente a Genova anche giova ricordare il _Chronicon Genuense ab
origine urbis usque ad an. 1297_, di JACOPO DA VARAGINE, noto autore
della _Legenda aurea_. Lo pubblicò il MURATORI nel IX volume dei _Rerum
Italicarum_ compendiandone la parte antica e leggendaria e conservando
intera la serie dei vescovi e la parte del _Chronicon_ più vicina ai
tempi dell'autore.

[175] _Laurentii Vernensis_, _De bello Maioricano libri VII. Rer.
Ital. Script._, vol. VI. — _Gesta trumphalia per Pisanos facta_,
Ibid. BERNARDI MARANGONIS, _Annales Pisani, 1004-1115, Mon. Germ.
Hist. Script._, vol. XIX, e colla continuazione di MICHELE DE VICO,
in MURATORI, Ibid. Le opere nominate qui appresso immediatamente, in
MURATORI, _Op. cit._, vol. XI, XV, XVIII. E veggasi anche il volume VI
dei _Documenti di Storia italiana_ pubblicato dalla Deputazione Toscana
di storia patria, che contiene, gli _Annales_ PTOLEMAEI LUCENSIS
pubblicati a cura di C. Minutoli, e i _Gesta Florentinorum_ a cura di
C. Milanesi. Le _Croniche di_ GIOVANNI SERCAMBI sono state pubblicate
a cura di Salvatore Bongi nella raccolta delle _Fonti_ dall'Istituto
Storico Italiano.

[176] Non mi pare di dover far menzione del Petrarca, perché l'azione
sua come storico si volse alla antichità classica, di cui promosse con
tanto amore e con tanta fortuna la risurrezione. Tra le opere sue hanno
grande importanza per la storia contemporanea le _Epistolae_. Per le
stesse ragioni non parlo del Boccaccio di cui neppure tengo discorso
per la _Vita di Dante_ e pel Commento alla _Divina Commedia_ che mi
condurrebbe agli altri commentatori e fuori dei miei confini.

[177]

    L'altra traendo alla rocca la chioma
      Favoleggiava con la sua famiglia
      De' Troiani e di Fiesole e di Roma.
                        DANTE, _Paradiso_, XV.

[178] Intorno a questi primi cronisti cf. P. SCHEFFER BOICHORST,
_Gesta Florentinorum_ in _Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche
Geschichtskunde_, vol. XII. OTTO HARTWIG, _Quellen und Forschungen
zu ältesten Geschichte der Stadt Florenz_, Marburg, 1875, Halle,
1880 e le buone osservazioni del prof. Cesare Paoli su questo libro,
nell'_Archivio Storico Italiano_, 4ª serie, t. IX. P. VILLARI, _I primi
due secoli della Storia di Firenze_, Firenze, 1893-94, e specialmente
il primo capitolo di quest'opera, e l'appendice in cui il Villari
pubblica la cronaca già attribuita a Brunetto Latini. R. DAVIDSOHN,
_Geschichte von Florenz_, Berlino, 1896. P. SANTINI, _Documenti
dell'antica costituzione del comune di Firenze_, pubblicato dalla R.
Deputazione Toscana di storia patria, _Documenti_, vol. X.

[179] Vedasi su questo argomento il bellissimo studio di VITTORIO LAMI,
_Di un compendio inedito della Cronica di Giovanni Villani nelle sue
relazioni con la storia fiorentina malispiniana_, in _Archivio Storico
Italiano_, 5ª serie t. V. Con questo lavoro il Lami si avvicinò molto
alla soluzione del problema, ed è assai da dolere che la morte immatura
gli vietasse di giungere ad una conclusione definitiva.

[180] L'autenticità di questa cronaca è stata cagione di lunghe
appassionate controversie ormai sopite, giova sperare, per sempre.
L'opera ponderosa, ma dotta onesta e sagace, del professore Isidoro
Del Lungo (_Dino Compagni e la sua cronica_, Firenze, Le Monnier,
1879-1887) ha conclusa la questione e reso doppio servigio alle
lettere, provando l'autenticità della cronaca e porgendone anche una
edizione assai buona. Di tutta questa questione di Dino Compagni, come
l'hanno chiamata, io non farò parola, memore che il libro presente non
è polemico. Solo era necessità accennare al fatto, e ricordare il libro
del professore Del Lungo che mi è guida in queste pagine, e al quale
dovranno sempre aver grande obbligo quanti d'ora innanzi studieranno
la cronaca del Compagni. Il Del Lungo ha pubblicato anche un'altra
edizione della _Cronica_ per uso scolastico con un commento ed una
prefazione eccellenti, ed ora, ristudiando il suo maggior libro, ne ha
tratto un volume di pregio singolare. I. DEL LUNGO, _Da Bonifazio VIII
ad Arrigo VII_, Milano, Hoepli, 1899.

[181] TOSTI, _Storia di Bonifazio VIII e dei suoi tempi_.

[182] Morì il 26 di febbraio del 1324. I brani della _Cronica_ che
si leggono qui sopra, sono citati secondo il testo della edizione
scolastica curata da I. DEL LUNGO nella sua terza ristampa (Firenze,
1895). Nomino qui con sentimento di particolare riconoscenza i miei
cari amici Isidoro Del Lungo e Cesare Paoli, pei molti suggerimenti che
mi hanno dato mentre rivedevo queste ultime pagine relative ai cronisti
fiorentini.

[183] GINO CAPPONI, _Storia della Repubblica di Firenze_. Firenze,
Barbèra, 1876. Il prof. Del Lungo (_Op. cit._, vol. I, pagg. 971 e
segg.) fa alcune eccezioni a questo giudizio del Capponi, e nella
sua prefazione alla edizione scolastica scrive queste parole che pure
mi sembrano meritevoli di nota: «Il libro di Dino non è una cronica,
nel senso in che questa forma di narrazione si distingue dalla storia
propriamente detta.... Del resto la _Cronica_ del Compagni è proprio la
storia d'un fatto determinato e speciale, cioè la Divisione di Parte
Guelfa in Firenze tra Bianchi e Neri; storia nella quale spiccano,
in modo rilevantissimo, gli antecedenti il mezzo e la conclusione;
e dove inoltre la partecipazione dell'Autore in non piccola parte
de' fatti che narra, dà alle sue pagine.... alcuno dei caratteri del
Commentario.»

[184] «Like our own Gibbon musing upon the steps of Ara Coeli, within
sight of the Capitol, and within hearing of the monks at prayer, he
felt the _genius loci_ stir him with a mixture of astonishment and
pathos.» J. A. SYMONDS, _Renaissance in Italy_.

[185] G. VILLANI, VIII, 36.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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