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Title: La libertà
Author: Mill, John Stuart
Language: Italian
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                         BIBLIOTECA UNIVERSALE


                               LA LIBERTÀ


                                   DI
                          GIOVANNI STUART MILL


                          TRADUZIONE ITALIANA
                                   DI
                            ARNALDO AGNELLI



                                 MILANO
                       SOCIETÀ EDITRICE SONZOGNO
                        14 — Via Pasquirolo — 14



                     PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

         Milano, 1911. — Tip. della SOCIETÀ EDITRICE SONZOGNO.



GIOVANNI STUART MILL


Giovanni Stuart Mill nacque a Londra nel 1806. Il padre di lui, Giacomo
Mill, storico ed economista di qualche valore, scolaro di Bentham
ed intimo amico di Ricardo, sottopose il suo promettente ingegno ad
un sistema di educazione che ne sviluppò assai per tempo le forze:
giovinetto ancora, lo Stuart Mill conosceva perfettamente il latino,
il greco, la storia, specialmente antica: dopo alcuni mesi passati nel
1820 in Francia, ritornò in patria, studiò filosofia e giurisprudenza,
e ottenne, sotto la dipendenza del padre, un posto negli uffici
amministrativi della Compagnia delle Indie, che conservò dal 1823 al
1858. Fu, per qualche anno, membro della Camera dei Comuni, mandatovi
dagli elettori di Westminster. Ritiratosi negli ultimi anni ad Avignone
in Francia, vi moriva nel 1873.

L'ingegno dello Stuart Mill si esplicò nelle forme più svariate:
scrisse di filosofia, seguendo e modificando dapprima l'utilitarismo
di Geremia Bentham, poi subendo l'influenza del positivismo di Augusto
Comte, col quale egli fu in corrispondenza ed amicizia; pubblicò un
_Sistema di logica_; patrocinò ardentemente quelle riforme agrarie
d'Irlanda, di cui già si faceva sentire la necessità.

Ma il maggior titolo di gloria a cui il nome di lui si lega sono,
senza dubbio, i suoi scritti in materia di economia politica e di
diritto pubblico. Seguace, in economia, della scuola classica, quale in
Inghilterra l'avevano costituita Adamo Smith, Malthus, Ricardo, egli si
occupò nondimeno con amore di questioni operaje, accettando e svolgendo
a questo proposito delle idee prettamente moderne; coi suoi lavori poi
sul _Governo rappresentativo_, sulla _Soggezione delle donne_ e con
questo saggio di cui presentiamo una traduzione al lettore italiano,
egli prese posto fra i primi pubblicisti d'Europa.

Propugnò la rappresentanza delle minoranze; fu un apostolo intelligente
ed appassionato di quel complesso di riforme che si comprendono sotto
il nome di «Emancipazione della donna»: sopratutto, col presente lavoro
sulla _Libertà_, si pose in una decisa posizione di combattimento
contro quelle tendenze ad allargare le funzioni del potere sociale,
che, portato inevitabile di nuovi tempi e di nuove condizioni, debbono
essere per altro energicamente frenate in ciò che hanno di eccessivo e
di tirannico.

Questo libro è uscito per la prima volta a Londra nel 1859. Eppure,
esso non è invecchiato, non ha perduto d'interesse nè di sapore
d'attualità; anzi, il giudizio del tempo ha dato alle idee che vi sono
svolte una così incontestata ragione, che la loro importanza e la loro
autorevolezza ne è cresciuta d'assai.

Non ho creduto bene di premettere al libro un così detto proemio
critico. Davanti ad una mente come quella dello Stuart Mill, davanti ad
un lavoro come questo, un giudizio sarebbe facilmente avventato: è bene
che il lettore se lo formi da sè, secondo i suoi convincimenti e le sue
tendenze.

Certo è che, se il libro ottenesse in Italia quel successo e quella
diffusione che pur troppo non gli meriterà la povera veste ch'io gli ho
saputo dare, esso potrebbe fare qualche po' di bene. La dimostrazione
limpida, pacata, serena che la libertà non è soltanto un astratto
diritto teorico, ma anche una condizione imprescindibile di saldo
progresso civile, potrebbe contribuire a diffondere nel nostro paese
quel senso della libertà di cui, in tante occasioni, si constata
malinconicamente l'assenza. Oso raccomandare in modo speciale a chi
segue ciecamente l'impulso di certi pregiudizi e di certi timori, quel
piccolo capolavoro che è il capitolo secondo, sulla libertà di pensiero
e di parola.

Se, ad ogni modo, l'intento di sgombrar dalle menti qualche falsa
opinione, d'insegnare a qualcuno un po' di tolleranza in fatto di
religione e di politica, fosse, anche in minima parte, raggiunto, io
sarei esuberantemente compensato del mio modesto lavoro.

  _Gennajo, 1895._

                                                     ARNALDO AGNELLI.



                           Il gran principio, il principio dominante,
                         a cui mettono capo tutti gli argomenti
                         esposti in queste pagine, è l'importanza
                         essenziale ed assoluta dello sviluppo umano
                         in tutta la ricchezza della sua varietà.

                           GUGLIELMO DI HUMBOLDT. — _Della sfera
                         d'azione e dei doveri del governo._


Io dedico questo volume alla cara e lagrimata memoria di colei che fu
l'inspiratrice, e in parte l'autrice, di quanto v'ha di meglio ne'
miei lavori: alla memoria dell'amica e della sposa, il cui fervido
senso del vero e del giusto fu il mio più vivo incoraggiamento — la cui
approvazione fu la mia ricompensa più alta.

Come tutto quello ch'io ho scritto da molti anni, questo volume è tanto
opera sua quanto mia, ma il libro, quale ora si presenta, non ha goduto
se non in grado molto insufficiente il vantaggio inestimabile d'esser
riveduto da lei: qualcuna delle parti più importanti era riservata ad
un secondo e più accurato esame, che ormai non è destinata a ricevere
mai più.

S'io sapessi interpretare la metà soltanto dei grandi pensieri, dei
nobili sentimenti che sono con essa sepolti, il mondo ne coglierebbe
un frutto ben maggiore che da tutto quello ch'io posso scrivere, senza
l'inspirazione e l'assistenza della sua impareggiabile saggezza.

                                                      G. STUART MILL.



LA LIBERTÀ



CAPITOLO PRIMO.

INTRODUZIONE.


Il soggetto di questo lavoro non è il così detto libero arbitrio tanto
infelicemente opposto a quella che mal si chiama dottrina di necessità
filosofica, ma bensì la libertà sociale o civile, cioè la natura
e i limiti del potere che la Società può legittimamente esercitare
sull'individuo: questione posta di rado e forse non discussa mai in
termini generali, ma che colla sua presenza inavvertita ha una profonda
influenza sulle controversie pratiche del secolo e probabilmente sarà
bentosto riconosciuta come la questione vitale dell'avvenire. Questa
questione è sì lungi dall'esser nuova, che, in un certo senso, essa ha
diviso l'umanità, fin quasi dai tempi più remoti. Ma essa si presenta
sotto nuove forme nell'epoca di progresso in cui ora sono entrati i
gruppi più civili della specie umana, ed è necessario trattarla in modo
diverso e più fondamentale.

La lotta tra libertà ed autorità è la nota caratteristica di quelle
epoche storiche che ci divengono a prima giunta familiari nelle
storie greca, romana ed inglese. Ma, in altri tempi, la lotta era tra
i sudditi, o qualche classe di sudditi, e il governo: per libertà,
s'intendeva la protezione contro la tirannia dei governanti politici.
Questi (tranne che in qualche città democratica di Grecia) sembravano
in una posizione necessariamente nemica al popolo da essi governato.
In altri tempi il governo era in generale tenuto da un uomo o da una
tribù o da una casta che derivava la propria autorità dal diritto di
conquista o di successione, — in nessun caso dal consenso dei governati
— e di cui gli uomini non osavano, fors'anche non desideravano di
porre in dubbio la supremazia, pure prendendo qualche precauzione
contro l'esercizio oppressivo di essa. Si considerava allora il potere
dei governanti come necessario, ma anche come altamente pericoloso:
come un'arma ch'essi avrebbero tentato di usare tanto contro i loro
sudditi quanto contro i nemici esterni. Per impedire che i membri più
deboli della collettività fossero divorati da innumerevoli avoltoî,
era indispensabile che un uccello da rapina più forte degli altri
fosse incaricato di frenare questi animali voraci; ma poichè il re
degli avoltoî non sarebbe stato meno disposto a divorare il greggie
di nessuna delle arpie minori, così bisognava tenersi sempre sulla
difensiva contro il suo becco e contro i suoi artigli.

Per questo, scopo dei patrioti era di assegnare dei limiti al potere
che i governanti dovessero esercitare sulla collettività: questo
essi intendevano per libertà. Vi si tendeva in due modi: anzitutto,
coll'ottenere il riconoscimento di certe immunità, dette libertà o
diritti politici, che, secondo l'opinione generale, il governo non
poteva impunemente violare senza mancar di parola e senza correre,
ben a ragione, il rischio di una resistenza particolare o di una
ribellione generale. Un altro espediente, più recente in generale, era
lo stabilire dei freni costituzionali, per mezzo dei quali il consenso
della comunità o di un corpo qualunque, supposto rappresentante
degl'interessi di questa, era condizione necessaria di qualcuno fra gli
atti importanti di governo. Nella maggior parte dei paesi d'Europa,
il governo è stato costretto, più o meno, a sottomettersi alla prima
di queste restrizioni. Non avvenne lo stesso per la seconda; e il
potervi giungere o, quando fino a un certo punto già la si possedeva,
il giungervi più completamente, divenne dappertutto principal fine
degli amici di libertà. E finchè l'umanità si contentò di combattere
un nemico coll'altro, e d'esser governata da un padrone, a condizione
d'esser più o meno efficacemente garantita contro la sua tirannia, i
desiderî dei liberali non si elevarono più alto. Pure, nel cammino
delle cose umane, venne un momento in cui gli uomini cessarono
di considerare come naturalmente necessario che i loro governanti
costituissero un potere indipendente, d'un interesse opposto al loro.
Parve ad essi assai meglio che i varî magistrati dello Stato fossero
loro rappresentanti o delegati, revocabili a loro piacimento. Sembrò
che solamente a questo modo l'umanità potesse avere la completa
assicurazione che non si sarebbe mai, a suo danno, abusato dei poteri
del governo. A poco a poco, questo nuovo bisogno di governanti elettivi
e temporanei divenne l'obbietto principale delle agitazioni del
partito popolare, dovunque ce n'era uno, e allora si abbandonarono
quasi dappertutto gli sforzi precedenti per limitare il potere dei
governanti. Poichè in questa lotta si trattava di far emanare il potere
di governo dalla scelta periodica dei governati, alcuni cominciarono a
credere che si era attribuita troppa importanza all'idea di limitare
il potere stesso. Questo (a ciò che pareva) era un vantaggio contro
quei governanti i cui interessi erano abitualmente opposti a quelli del
popolo; ma ciò che allora occorreva, era che i governanti fossero una
cosa sola col popolo, che il loro interesse e la loro volontà fossero
l'interesse e la volontà della nazione. La nazione non avea bisogno
d'esser protetta contro la sua propria volontà: non c'era da temere
ch'essa si tiranneggiasse da sè. E poichè i governanti di una nazione
erano efficacemente responsabili verso di essa, prontamente revocabili
quando a questa piacesse, si poteva bene affidar loro un potere di cui
la nazione stessa aveva il mezzo di prescrivere l'uso. Il loro potere
non era che lo stesso potere della nazione, concentrato e messo in
una forma comoda per essere esercitato. Questo modo di pensare o forse
piuttosto di sentire era comune, nell'ultima generazione dei liberali
europei, fra i quali prevale ancora sul continente. Quelli che pongono
qualche limite a ciò che un governo può fare, tranne il caso di governi
tali che, secondo essi, non dovrebbero esistere, sono, fra i pensatori
del continente, segnati a dito come brillanti eccezioni. Un tal modo di
sentire potrebbe, nell'ora che volge, prevalere anche nel nostro paese,
se le contingenze che per un dato tempo l'incoraggiarono non l'avessero
mutato dappoi.

Ma nelle teorie politiche e filosofiche, come nelle persone, il
successo lascia scorgere dei difetti e dei lati deboli che l'insuccesso
avrebbe potuto nascondere. L'idea che i popoli non hanno bisogno di
limitare il loro potere su loro stessi poteva sembrare assiomatica
quando il governo popolare era una cosa di cui ci si limitava a sognar
l'esistenza o a leggerla nella storia, in qualche epoca molto remota.

Questo concetto non fu necessariamente turbato da transitorie
aberrazioni, come quelle della rivoluzione francese, di cui le peggiori
furono opera di una minoranza usurpatrice e che, in ogni caso, non
rappresentavano l'azione permanente delle instituzioni popolari, ma
una esplosione subitanea e convulsiva contro il dispotismo monarchico
ed aristocratico. Frattanto, a tempo opportuno, una repubblica
democratica venne ad occupare una larga superficie della terra e
divenne una delle parti più potenti della comunità delle nazioni.
D'allora in poi, il governo elettivo e responsabile divenne l'obbietto
di quelle osservazioni e di quelle critiche che si dirigono a qualunque
grande fatto esistente. Ci si accorse allora che certe frasi, come
«il potere su sè stesso» e «il potere dei popoli su loro stessi,»
non esprimevano il vero stato delle cose; il popolo che esercita
il potere non è sempre quello stesso su cui lo si esercita, e il
governo di sè stesso di cui si parla non è il governo di ciascuno
tenuto da lui stesso, ma di ciascuno tenuto da tutti gli altri.
Inoltre, volontà del popolo significa, praticamente, volontà della
parte più numerosa ed attiva del popolo — della maggioranza insomma,
o di quella che riesce a passare per tale. Di conseguenza, il popolo
può desiderar di opprimere una parte di sè stesso, e le precauzioni
sono, a questo riguardo, utili altrettanto che contro qualunque altro
abuso di potere. Per queste ragioni è sempre importante limitare il
potere del governo sugl'individui, anche quando i governanti siano
regolarmente responsabili verso la comunità, o cioè verso il partito
che nella comunità prevale. Questo modo di lumeggiare l'argomento non
ha durato fatica a farsi accettare: esso si raccomanda ugualmente
all'intelligenza dei pensatori e alle tendenze di quelle classi
notevoli della società europea che considerano la democrazia come
ostile ai loro interessi. Così ora si pone, nelle speculazioni
politiche, la tirannia della maggioranza nel novero dei mali contro di
cui la società deve premunirsi.

Come le altre tirannie, quella della maggioranza fu dapprima ed è
volgarmente ancora temuta, sopratutto in quanto agisce per mezzo
degli atti della pubblica autorità. Ma ogni attento osservatore si
accorse che, quando la società è essa stessa il tiranno — la società
collettivamente, rispetto ai singoli individui che la compongono —
i suoi mezzi di tiranneggiare non si restringono agli atti ch'essa
comanda ai suoi funzionarî politici. La società può eseguire, ed
eseguisce essa stessa, i suoi proprî decreti; e, se ne emana di
cattivi, o se ne emana a proposito di cose in cui non dovrebbe entrare,
essa esercita una tirannia sociale più formidabile di qualunque
oppressione legale: in realtà, se una tal tirannia non dispone di
penalità altrettanto gravi, lascia però minor mezzo di sfuggirle;
perchè penetra ben più addentro nei particolari della vita ed incatena
l'anima stessa.

Per questo, la protezione contro la tirannia del magistrato non basta.
Dappoichè la società ha la tendenza: 1.º d'imporre come regole di
condotta, con mezzi che non entrano nelle penalità civili, le sue
idee e i suoi costumi a quelli che se ne staccano — 2.º d'impedire
lo sviluppo e, per quanto è possibile, la formazione di qualunque
individualità spiccata — 3.º di costringere tutti i caratteri a
modellarsi sul suo proprio — l'individuo ha il diritto di esser
protetto contro tutto questo. C'è un limite all'azione legittima della
opinione collettiva sull'indipendenza individuale: trovare questo
limite e difenderlo contro qualunque usurpazione è indispensabile
ad una buona condizione delle cose umane altrettanto che proteggerci
contro il dispotismo politico.

Ma, se questa proposizione non è contestabile in termini generali,
la questione pratica del _dove_ il limite si debba porre, del _come_
si debbano metter d'accordo la libertà individuale e la sociale
sorveglianza, è un argomento sul quale quasi tutto è ancora da fare.
Tutto ciò che dà qualche valore alla nostra esistenza dipende dalla
coazione imposta alle azioni d'altri: dunque alcune regole di condotta
debbono essere imposte dalla legge anzitutto, e poi dall'opinione, per
quelle molte cose su cui la legge non può esercitare un'azione.

Quali debbono essere queste regole? Tale è la fondamental questione
nelle cose umane; ma, eccezion fatta per qualcuno dei casi più
importanti, è anche quella per la soluzione della quale si è fatto il
minor cammino.

Non vi sono due secoli nè, quasi, due paesi che su questo siano
arrivati alla stessa conclusione; e la conclusione di un secolo o di
un paese è argomento di stupore per un altro. Tuttavia, gli uomini
di ciascun secolo o di ciascun paese non trovano la questione più
complicata che se si trattasse di un soggetto su cui la specie umana
sia sempre andata d'accordo. Le regole che in mezzo a loro predominano
sembrano evidenti ed aventi in sè stesse la loro giustificazione:
questa illusione quasi universale è uno degli esempî della magica
influenza dell'abitudine, la quale non soltanto, come dice il
proverbio, è una seconda natura, ma continuamente è scambiata con la
natura medesima. L'effetto dell'abitudine, impedendo che alcun dubbio
si elevi a proposito delle regole di condotta dall'umanità imposte a
ciascuno, è tanto più completo in quanto che, su questo argomento,
non si considera generalmente come necessario di poter dare delle
ragioni o agli altri o a sè stesso: si è avvezzi a credere (e certuni
che aspirano al titolo di filosofi c'incoraggiano in questa opinione)
che i nostri sentimenti su soggetti di tal natura valgano meglio di
ragioni e rendano queste inutili. Il principio pratico che ci guida
nelle nostre opinioni sul modo di regolare la condotta umana, è l'idea,
nello spirito di ciascuno, che gli altri dovrebbero esser costretti ad
agire come desidererebbe egli e quelli pei quali egli ha simpatia. In
realtà, nessuno si confessa che il regolatore del suo giudizio è il suo
proprio capriccio; eppure un'opinione su un punto di condotta, che non
è sostenuta da ragioni, non può considerarsi se non come la tendenza di
una persona; e se le ragioni, una volta date, non sono che un semplice
richiamo ad una simile tendenza a cui altre persone obbediscono, e
sempre ancora la inclinazione di molti in luogo d'essere quella di
un solo. Per un uomo ordinario, tuttavia, la sua inclinazione, così
sostenuta, non solo è una ragione pienamente soddisfacente, ma l'unica
da cui derivano tutte le nozioni di moralità, di gusto, di convenienze,
che la sua fede religiosa già non comprende: è anche la sua principal
guida nell'interpretazione di questa.

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che è lodevole o
biasimevole risentono l'influenza di tutte le cause diverse che
influiscono sui loro desideri a proposito della condotta degli altri,
cause numerose quanto quelle che determinano i loro desideri su
qualunque altro soggetto. Qualche volta è la loro ragione; qualche
altra sono i loro pregiudizi o le loro superstizioni; spesso i loro
sentimenti sociali, e non di rado le loro tendenze antisociali,
l'invidia o la gelosia, lo sprezzo o l'improntitudine. Ma il più delle
volte l'uomo è guidato dal suo interesse, legittimo o illegittimo.
Dovunque c'è una classe dominante, quasi tutta la morale pubblica
deriva dagli interessi di questa classe e dai suoi sentimenti di
superiorità. La morale tra Spartani ed Iloti, tra coltivatori e negri
nelle piantagioni, tra principi e sudditi, tra nobili e plebei, tra
uomini e donne, fu quasi dappertutto creazione degl'interessi e dei
sentimenti di classe: e le opinioni così generate reagiscono alla lor
volta sui sentimenti morali dei membri della classe dominante, nelle
loro relazioni reciproche. D'altra parte, dovunque una classe in altri
tempi dominante ha perduto la sua influenza, o anche dovunque questa
influenza è impopolare, i sentimenti morali che prevalgono portano il
segno di un'impaziente ribellione all'autorità. Un altro principio,
che determinò delle regole di condotta imposte, sia dalla legge,
sia dall'opinione, fu la servilità della specie umana riguardo alle
preferenze o alle avversioni supposte dei suoi signori terreni o delle
sue divinità. Questa servilità, sebbene essenzialmente egoistica, non
nasce da ipocrisìa, e fa sorgere dei sentimenti d'orrore perfettamente
sinceri; essa ha reso gli uomini capaci di bruciare degli stregoni e
degli eretici.

Frammezzo a tante più basse influenze, gli interessi evidenti
e generali della società hanno avuto naturalmente una parte, ed
importante, nella direzione dei sentimenti morali: meno tuttavia pel
valore loro proprio che come una conseguenza delle simpatie o delle
antipatie da questi interessi prodotte. In seguito si son fatte sentire
con altrettanto vigore nello stabilirsi dei principî morali delle
simpatie o delle antipatie le quali nulla o quasi avevano a che vedere
cogli interessi della società.

Così il capriccio o il disgusto della società o di qualche parte
potente della società sono la principale determinante, in pratica,
delle regole imposte all'osservanza generale sotto la sanzione della
legge o della opinione.

In genere, quelli che erano, quanto ad idee e a sentimenti, più
avanzati della società, hanno lasciato che un tale stato di cose si
mantenesse, come principio, intatto, per quanto abbiano potuto lottare
contro qualcuno dei suoi particolari; si sono dati cura di sapere
che cosa debba preferire o non preferire la società, piuttosto che di
sapere se quanto essa preferiva o non preferiva si dovesse imporre agli
individui; si proposero di mutare i sentimenti della specie umana su
qualche punto speciale in cui essi stessi eran colpevoli di eresia,
anzichè di fare, con tutti gli eretici in generale, causa comune per la
difesa della libertà. Nessuno si è, coscientemente, inalzato di più; e
nessuno ci è rimasto saldamente tranne che in materia di religione: un
caso che, sotto più rispetti, contiene degl'insegnamenti, sopratutto
perchè offre un esempio, che colpisce, della fallibilità del così detto
senso morale: poichè l'_odium theologicum_, in un bigotto sincero, è
uno dei casi più sicuri del sentimento morale. Quelli che scossero per
primi il giogo di ciò che si chiamava la Chiesa universale, erano in
generale disposti a tollerare delle divergenze di opinioni religiose
quanto quella Chiesa stessa. Ma, quando fu sbollito l'ardore della
lotta senza dare completa vittoria ad alcun partito, quando ciascuna
chiesa o setta dovette limitare le sue speranze a conservare il
possesso del terreno occupato, le minoranze, vedendo che esse non
avevano probabilità di mutarsi in maggioranze, furono costrette a
sostenere la libera dissidenza religiosa in confronto di quelli che
non potevano convertire. Di conseguenza, è quasi solo su questo campo
di battaglia che i diritti dell'individuo contro la società sono
stati rivendicati sulla base di principi bene stabiliti, e che il
diritto della società di far pesare l'autorità sua sui dissidenti fu
apertamente contestato. I grandi scrittori a cui il mondo deve ciò
ch'egli possiede di libertà religiosa hanno rivendicato la libertà
di coscienza come un diritto inalienabile, ed hanno in modo assoluto
negato che un essere umano debba render conto agli altri della sua fede
religiosa. Tuttavia è così naturale alla specie umana l'intolleranza
per tutto quello che veramente le preme, che la libertà religiosa non
fu attuata quasi in nessun luogo, salvo là dove l'indifferenza, che non
ama di vedersi turbata nella sua pace da dispute teologiche, ha fatto
sentire il suo peso sulla bilancia.

Nello spirito di quasi tutte le persone di fede, anche nei paesi più
tolleranti, il diritto non è ammesso senza tacite riserve. Una persona
lascierà dire i dissidenti in materia di governo ecclesiastico, ma
non in materia di dogma; un altro può tollerar chicchessia, ma non
un papista o un unitario; un terzo, tutti quelli che credono alla
religione rivelata; un piccolo numero va nella sua carità più lontano,
ma si ferma alla credenza in un Dio e nella vita futura. Dovunque il
sentimento della maggioranza è ancora sincero ed intenso, ci si accorge
che essa non ha punto rinunziato alle sue pretese di essere obbedita.

In Inghilterra (a cagione delle speciali contingenze della nostra
storia politica) sebbene il giogo della opinione sia forse più grave,
quello della legge è più lieve che nella maggior parte dei paesi
di Europa, e c'è una grande avversione contro qualunque diretto
intervento del potere, sia legislativo, sia esecutivo, nella condotta
privata; questo assai meno a causa di un giusto rispetto pei diritti
dell'individuo che a causa della vecchia abitudine di considerare
il governo come rappresentante di un interesse opposto a quello del
pubblico. La maggioranza non ha ancora imparato a considerare il potere
del governo come il suo potere, e le opinioni del governo come le sue:
e quando essa sarà giunta a questo, la libertà individuale correrà
probabilmente il pericolo di essere violata dal governo quanto lo è già
ora dalla pubblica opinione.

Ma, pel momento, c'è una forza grande di sentimento pronta a sollevarsi
contro qualunque tentativo della legge per sorvegliare gl'individui,
in cose che fino allora non erano di sua spettanza: e questo senza
alcun discernimento di ciò che sia o no nella sfera legittima della
sorveglianza ufficiale; cosicchè un tale sentimento, così altamente
salutare in sè, è applicato altrettanto spesso a torto che a ragione.
In fatto, non v'è principio riconosciuto per istabilire in modo
pratico la legittimità o l'illegittimità dell'intervento governativo:
si decide secondo le tendenze personali. Gli uni, dovunque vedono del
bene da fare o del male da riparare, vorrebbero spingere il governo
ad assumersi l'impresa, mentre gli altri preferiscono sopportare
ogni sorta di abusi sociali piuttosto di aggiungere alcunchè alle
attribuzioni del governo. Gli uomini si schierano, in ciascun caso
particolare, in queste o in quelle file, seguendo o l'indirizzo
generale dei loro sentimenti, o il grado d'interesse ch'essi prendono
alla cosa che si propone di far fare al governo, o anche la persuasione
che il governo saprà o non saprà fare la cosa nel modo da essi
preferito. Ma essi agiscono molto di rado secondo una opinione meditata
e ferma sulle cose che naturalmente devono esser fatte dal governo. E
quindi mi sembra che oggidì, in conseguenza di tale mancanza di regola
o di principio, un partito ha torto altrettanto spesso che l'altro;
l'intervento del governo è invocato a torto altrettanto spesso che
condannato a torto.

Scopo di questo saggio è proclamare un principio molto semplice,
e che deve assolutamente informare la condotta della società verso
l'individuo, in tutto ciò che è costrizione e sorveglianza — siano poi
i mezzi usati vuoi la forza fisica, sotto forma di pene legali, vuoi
la coazione morale della pubblica opinione. Ecco un tale principio: il
solo fine che permette agli uomini, individualmente o collettivamente,
di turbare la libertà d'azione d'alcuno dei loro simili, è la
protezione di sè stesso; la sola ragione legittima che possa avere
una comunità per far uso della forza contro uno dei suoi membri, è
d'impedirgli di nuocere agli altri: ma non è ragione sufficiente il
bene, sia fisico, sia morale, di questo individuo.

Un uomo non può, a rigore, essere costretto a fare o ad omettere
un'azione, perchè ciò sarebbe meglio per lui, o lo renderebbe più
felice, o perchè, nell'opinione degli altri, egli farebbe cosa saggia
od anche giusta. Tutte queste sono ragioni buone per fargli delle
osservazioni, per discutere con lui, per convincerlo o per supplicarlo,
ma non per costringerlo o per cagionargli alcun danno, s'egli non se ne
cura. Per giustificare questo, occorrerebbe che la condotta da cui si
vuole distogliere quest'uomo avesse per effetto di nuocere a qualche
altro: la sola parte della condotta d'un individuo, sulla quale la
società abbia giurisdizione, è quella che concerne gli altri: per ciò
che interessa lui solo, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta;
su sè stesso, sul proprio corpo e sul proprio spirito, l'individuo è
sovrano.

Questa dottrina — è forse appena necessario di accennarlo — non vuol
essere applicata se non agli esseri umani nella maturanza delle loro
facoltà. Noi non parliamo dei ragazzi nè degli adolescenti d'ambo i
sessi che non abbiano raggiunto, secondo la legge, l'età maggiore:
quelli che sono ancora in età che richiede le cure altrui, devono
essere protetti contro le loro proprie azioni così come contro
qualunque pericolo esterno. Per la stessa ragione, noi possiamo
lasciar da parte quelle società nascenti in cui la razza stessa può
esser considerata come minorenne: le prime difficoltà sulla strada
del progresso spontaneo sono così grandi, che ben di rado si ha la
scelta dei mezzi di superarle. Così, qualunque sovrano animato da
spirito progressivo può bene servirsi di tutti i mezzi per raggiungere
uno scopo, che altrimenti, forse, gli sarebbe sfuggito per sempre.
Il dispotismo è un modo legittimo di governare quando si tratta
con barbari, purchè lo scopo sia il loro miglioramento e i mezzi si
giustifichino raggiungendolo sul serio. La libertà, come principio,
non si può applicare ad uno stato di cose anteriore al momento in
cui la specie umana divien capace di migliorarsi con un'equa e libera
discussione: fin là, essa non può sperare che nella cieca obbedienza ad
un Akbar o ad un Carlomagno, se ha la fortuna di trovarne. Ma dacchè il
genere umano è capace di progredire per mezzo della convinzione o della
persuasione (grado che da molto tempo hanno raggiunto tutte le nazioni
di cui qui dobbiamo occuparci) la coazione, o sotto la forma diretta, o
sotto quella di penalità per la non osservanza, non è più ammissibile
come mezzo di far del bene agli uomini; essa è giustificabile ancora
soltanto per la loro sicurezza reciproca.

Conviene premetterlo: io trascuro qualunque vantaggio possa venire
alla mia argomentazione dall'idea del diritto astratto come cosa
indipendente dall'utile: l'utilità è, a senso mio, la soluzione suprema
di qualunque questione morale; ma dev'essere l'utilità nel senso
più vasto della parola, l'utilità fondata sui vantaggi permanenti
dell'uomo, considerato come essere progressivo.

Questi interessi, io sostengo, non giustificano la sottomissione
della spontaneità individuale ad una sorveglianza esteriore se non per
quelle azioni di ciascuno che toccano l'interesse altrui. Se un uomo
compie un atto agli altri dannoso, c'è evidentemente ragione di punirlo
colla legge, oppure, se le penalità legali non sono in tutta certezza
applicabili, colla generale disapprovazione. Vi sono anche molti atti
positivi vantaggiosi agli altri, che un uomo può esser giustamente
obbligato a compiere: per esempio, far da testimonio in giudizio o fare
tutto il proprio dovere, sia nella difesa comune, sia in qualunque
opera comune necessaria alla società sotto la protezione della quale
egli vive. Inoltre, si può, a rigore, tenerlo responsabile verso la
società s'egli non compie certi atti di beneficenza individuale che
sono, in date circostanze, il dovere evidente di ogni uomo; come il
salvare la vita al proprio simile o l'intervenire per difendere il
debole dai maltrattamenti. Una persona può nuocere agli altri non
soltanto colle sue azioni, ma colla sua inazione; e, in ogni caso, essa
è responsabile verso di loro del danno.

È vero che, nell'ultimo caso, la coazione deve essere esercitata con
assai maggiore riguardo che nel primo. Tenere qualcuno responsabile
del male ch'esso fa agli altri: ecco la regola; tenerlo responsabile
del male da cui non li assicura: ecco, comparativamente parlando,
l'eccezione. Tuttavia, vi sono molti casi abbastanza chiari ed
abbastanza gravi per giustificare questa eccezione. In tutto ciò
che riguarda le relazioni esteriori dell'individuo, esso è ipso
iure responsabile verso quelli i cui interessi sono in giuoco, e,
se occorre, verso la società come loro proteggitrice. Vi sono spesso
delle buone ragioni per non imporre agli uomini questa responsabilità;
ma tali ragioni debbono derivare dalle particolari convenienze del
caso, sia perchè è un caso in cui, tutto considerato, l'individuo
agirà probabilmente meglio abbandonato al suo proprio impulso che
sorvegliato in qualsiasi modo dalla società; sia perchè un tentativo
di sorveglianza produrrebbe mali più grandi di quelli che si vogliono
evitare. Quando tali ragioni fanno ostacolo alla responsabilità
forzata, la coscienza dello stesso agente deve prendere il posto del
giudice assente, per proteggere quegli interessi altrui che mancano
di una protezione esteriore, e l'uomo deve giudicarsi tanto più
severamente in quanto che il caso non lo sottomette al giudizio dei
suoi simili.

Ma v'è una sfera d'azione, nella quale la società, come distinta
dall'individuo, non ha che un interesse indiretto, se pure essa ne ha
uno. Intendiamo quella parte della condotta e della vita di una persona
che tocca soltanto la persona stessa o che, se tocca ugualmente gli
altri, lo fa col loro consenso e colla loro partecipazione libera,
spontanea e perfettamente illuminata. Quando io parlo di ciò che
riguarda la persona soltanto, intendo ciò che la riguarda in modo
diretto e immediato; poichè tutto ciò che tocca un individuo può
toccar gli altri per mezzo di lui, e l'obbiezione che si basa su questa
possibilità sarà l'argomento di nostre ulteriori riflessioni. Questa
è adunque la regione che spetta alla umana libertà. Essa comprende,
prima di tutto, la giurisdizione di quello che i canonisti chiamano il
_forum internum_, esigendo la libertà di coscienza nel senso più esteso
della parola, la libertà di tendenza e di pensiero, la libertà assoluta
d'opinioni e di sentimenti, su qualunque soggetto pratico, speculativo,
scientifico, morale o teologico. La libertà di esprimere e di pubblicar
delle opinioni può sembrar sottoposta a un diverso principio, perchè
essa appartiene a quella parte della condotta d'un individuo che tocca
gli altri; ma, poichè essa è d'un'importanza pressochè uguale a quella
della stessa libertà di pensiero, e riposa, in gran parte, sulle stesse
ragioni, queste due libertà sono, in pratica, inseparabili. In secondo
luogo, il principio della libertà umana richiede la libertà dei gusti e
dei capricci, la libertà di adattare il nostro tenor di vita all'indole
nostra, di fare quel che ci garba, avvenga che vuole avvenire, senza
esserne impediti dai nostri simili, fino a che noi non arrechiamo loro
danno, ed anche quando essi trovino sciocca o biasimevole la nostra
condotta. In terzo luogo da questa libertà di ciascun individuo nasce,
negli stessi limiti, la libertà di associazione fra gli individui;la
libertà di unirsi per un qualunque fine inoffensivo per gli altri —
supposto sempre che gli associati siano d'età maggiore e non siano nè
costretti, nè ingannati.

Nessuna società è libera, qualunque possa essere la forma di governo
con cui si regge, se queste libertà non sono almeno rispettate; e
nessuna è libera completamente, se queste libertà non esistono in modo
assoluto e senza riserve.

La sola libertà degna veramente di questo nome e quella di cercare
il nostro bene a modo nostro, fino a che noi non tentiamo di privar
gli altri del loro o di porre ostacoli ai loro sforzi per ottenerlo.
Ognuno è il custode naturale della sua propria salute, sia fisica, sia
intellettuale e spirituale; e la specie umana guadagna di più a lasciar
che ciascuno viva come meglio gli sembra, che a costringerlo a vivere
come sembra meglio a tutti gli altri.

Sebbene questa dottrina non sia affatto nuova, e possa a qualcuno
sembrare una verità evidente, non ve n'è certo altra che sia più
diametralmente opposta all'opinione e al costume oggi esistenti. La
società si è data tanta cura per tentare (secondo i suoi criteri) di
costringere gli uomini a seguir le sue nozioni di perfezione personale,
quanto per veder di obbligarli a seguire le sue idee in fatto di
perfezione sociale. Le antiche repubbliche si credevano in diritto (e
i filosofi dell'antichità appoggiavano la loro pretesa) di regolare,
di pubblica autorità, tutta la condotta privata, sotto pretesto che
la disciplina fisica e morale di ciascun cittadino è cosa la quale
interessa profondamente lo Stato. Questo modo di pensare poteva essere
ammissibile in piccole repubbliche circondate da potenti nemici ed
in pericolo continuo di essere rovesciate o da un attacco esteriore
o da un sommovimento interno. A simili stati poteva così facilmente
cagionar danno che l'energia e l'impero degli uomini su loro stessi
si allentassero anche per un solo istante, che non era ad essi lecito
di attendere gli effetti salutari e permanenti della libertà. Nel
mondo moderno, la maggior importanza delle comunità politiche, e
sopratutto la separazione dell'autorità religiosa dalla civile (ponendo
la direzione della coscienza dell'uomo in mani diverse da quelle che
sorvegliavano i suoi affari temporali) impedirono un intervento così
grande della legge nei particolari della vita privata; ma, a dire il
vero, l'individuo non vi fece un gran guadagno: l'autorità spirituale
si pose a regolare tutti i particolari abbandonati dalla temporale:
l'uomo fu allora stretto anche più da vicino in quanto lo riguarda,
poichè la religione (l'elemento d'autorità morale fino ad oggi più
potente) fu quasi sempre governata o dall'ambizione di una gerarchia
che aspira a guidare tutta la condotta umana o dallo spirito di
puritanismo. Qualcuno di quei riformatori moderni, che con maggior
veemenza hanno dato l'assalto alle religioni del passato, non sono per
nulla affatto rimasti addietro nè alle chiese nè alle sette, nella loro
affermazione del diritto di autorità spirituale; citeremo in ispecie
Augusto Comte, il cui sistema sociale, quale ei lo espone nel suo
_Sistema di politica positiva_, mira a stabilire (piuttosto, è vero,
con mezzi morali che con mezzi legali) un dispotismo della società
sull'individuo, che supera tutto quanto hanno potuto imaginare i più
rigidi tra i filosofi antichi in fatto di disciplina.

A parte le dottrine speciali dei pensatori individuali, vi è anche nel
mondo una forte e crescente inclinazione ad estendere esageratamente
il potere della società sull'individuo, e colla forza dell'opinione,
e anche con quella della legislazione. Ora, poichè tutti i mutamenti
che s'operano nel mondo hanno l'effetto di accrescere la forza della
società e diminuire il potere dell'individuo, questa usurpazione non
è uno di quei mali che tendano a sparire spontaneamente: anzi, esso
tende, al contrario, a divenire sempre più formidabile. La tendenza
degli uomini, sia come sovrani, sia come concittadini, ad imporre agli
altri le loro opinioni e i loro capricci come regola di condotta è
così efficacemente sostenuta da qualcuno dei migliori e da qualcuno dei
peggiori sentimenti dell'uomo, che essa non si raffrena quasi mai, se
non quando proprio il potere le manca. E poichè il potere non è sulla
strada di diminuire, ma di crescere, conviene aspettarsi — salvo che
contro il male si elevi una forte barriera di convinzione morale —
conviene aspettarsi, diciamo, nelle presenti condizioni del mondo, di
veder crescere anche tale tendenza.

È più opportuno per l'argomento che, invece di affrontare
immediatamente la tesi generale, noi ci tratteniamo dapprima in
una sola delle sue parti, a proposito della quale il principio qui
stabilito è riconosciuto, se non del tutto, almeno fino ad un certo
segno, dalle opinioni correnti. Questo ramo è la libertà di pensiero,
da cui è impossibile separare la libertà di parola e di stampa.
Sebbene queste libertà formino una parte importante della moralità
politica di tutti i paesi che mantengono la tolleranza religiosa e le
libere instituzioni, tuttavia i principî, sia filosofici, sia pratici,
su cui esse riposano, non sono forse così famigliari allo spirito
pubblico nè così pienamente valutati dagli stessi capi dell'opinione,
come si potrebbe credere. Questi principî, sanamente intesi, sono
applicabili a ben più d'una suddivisione dell'argomento; e un esame
alquanto approfondito di questa parte della questione sarà, io penso,
la migliore introduzione al rimanente. Per questo, coloro che non
troveranno nulla di nuovo in ciò che verrò dicendo, vorranno, io spero,
avermi per iscusato se oso discutere una volta di più un argomento che,
da tre secoli in qua, è stato tante volte dibattuto.


  FINE DEL CAPITOLO PRIMO



CAPITOLO SECONDO. LA LIBERTÀ DI PENSIERO E DI DISCUSSIONE. È lecito sperare che sia trascorso il tempo in cui sarebbe stato necessario difendere la libertà di stampa come una guarentigia contro un governo corrotto o tirannico; oggi, io penso, non c'è più bisogno d'eccitare gli uomini alla ribellione contro qualunque potere, legislativo o esecutivo, i cui interessi non fossero identificati con quelli del popolo e che pretendesse di prescrivergli delle opinioni e di stabilire quali dottrine o quali argomenti gli sia permesso di sentire. D'altra parte, questo aspetto della questione è stato già così spesso trattato, e in modo così splendido, che qui non occorre d'insistervi più specialmente. Sebbene la legge inglese sulla stampa sia oggi così servile come lo era al tempo dei Tudor, pure v'è ben poco pericolo che oggi se ne faccia uso contro la discussione politica, salvo che durante qualche panico passeggiero, quando il timor della insurrezione trascina ministri e giudici fuori del loro stato normale[1]. In generale, non v'è a temere, in un paese costituzionale, che il governo (sia esso o no pienamente responsabile di fronte al popolo) tenti spesso di sorvegliare l'espressione delle opinioni, eccettuato il caso in cui, così agendo, esso divien l'organo della generale intolleranza del pubblico. Supponiamo dunque che il governo non sia che una cosa col popolo, e non pensi in alcun modo ad esercitare alcun potere di coercizione, ammenochè non sia d'accordo con quello ch'esso considera la voce del popolo: ebbene, io nego al popolo il diritto di esercitare una tale coercizione, sia da sè, sia per mezzo del suo governo: questo poter di coercizione è illegittimo. Il migliore dei governi non vi ha più diritto del peggiore; un tal potere è altrettanto ed anche più dannoso quando lo si esercita d'accordo con l'opinione pubblica, di quando lo si esercita in opposizione con essa. Se tutta la specie umana, salvo una persona, fosse di un parere, e una persona soltanto fosse del parere contrario, la specie umana non sarebbe per nulla più giustificabile imponendo silenzio a tale persona di quello che questa lo sarebbe se, potendo, imponesse silenzio alla specie umana. Se una opinione non fosse che una personale proprietà, e non avesse valore che pel possessore; se l'esser turbati in questo possesso fosse un danno puramente personale, vi sarebbe qualche differenza tra l'essere il danno inflitto a poche persone o a molte. Ma questo vi ha di specialmente dannoso nell'imporre silenzio all'espressione d'una opinione: — che si defrauda la specie, la posterità come la generazione esistente, quelli che si allontanano da una tale opinione ancora più di quelli che la sostengono. Se questa opinione è giusta, sono privati di un mezzo di lasciar l'errore per la verità; se è sbagliata, essi perdono un beneficio quasi altrettanto importante: la percezione più chiara e l'impressione più viva della verità, prodotta dal suo cozzo con l'errore. È necessario di considerare separatamente queste ipotesi, a ciascuna delle quali corrisponde un ramo distinto dell'argomentazione. Noi non possiamo mai essere sicuri che l'opinione che noi cerchiamo di sopprimere sia falsa; e, lo fossimo pure, il sopprimerla sarebbe ancora un male. E, anzitutto, l'opinione che si cerca sopprimere d'autorità può benissimo esser vera; quelli che desiderano sopprimerla, naturalmente, contestano la sua verità: ma essi non sono infallibili, non hanno il potere di decidere la questione per tutto il genere umano, e di rifiutare agli altri i mezzi di giudicare. Non lasciar conoscere una opinione perchè si è sicuri della sua falsità è affermare che si possiede la certezza assoluta. Tutte le volte che si tronca una discussione, si afferma, soltanto con questo, la propria infallibilità: e la condanna di un tal modo di procedere si potrebbe benissimo basare su questo solo argomento. Disgraziatamente pel buon senso degli uomini, il fatto della loro fallibilità è lungi dall'avere, nel loro giudizio pratico, l'importanza che essi gli accordano in teoria. In realtà, mentre ciascuno di essi sa benissimo d'esser fallibile, un piccolo numero d'uomini soltanto trovano necessario di prendere delle precauzioni a questo riguardo, e di ammettere l'ipotesi che una opinione di cui essi si sentano certi possa servire ad esempio dell'errore a cui si riconoscono soggetti. I principi assoluti, o altre persone avvezze a una deferenza illimitata, hanno di solito questa piena fiducia nelle loro opinioni in quasi tutti gli argomenti; gli uomini aventi una posizione fortunata, che tentano talvolta discutere le loro opinioni e che non hanno del tutto perduto l'abitudine di essere corretti quando s'ingannano, pongono la stessa fiducia senza limiti in quelle loro opinioni a cui partecipano quelli che li circondano o quelli pei quali essi hanno una deferenza abituale; poichè in proporzione della mancanza di fiducia dell'uomo nel suo personale giudizio, egli presta una fede più cieca all'infallibilità del _mondo_ in generale. E il _mondo_ è, per ciascun individuo, la parte di mondo colla quale egli è a contatto: il suo partito, la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; e, comparativamente, si può dire di un uomo che ha uno spirito largo e liberale, quando questa parola _mondo_ significa per lui il suo paese o il suo secolo. La fede dell'uomo in questa autorità collettiva non è scossa nè punto nè poco, per quanto egli sappia che altri secoli, altri paesi, altre sette, altre chiese, altri partiti hanno pensato e pensano esattamente il contrario. Esso incarica il suo proprio mondo d'aver ragione contro i mondi dissidenti degli altri uomini e non si turba mai alla idea che il puro caso ha deciso quale di questi mondi numerosi dovesse possedere la sua fiducia, e che le stesse cause che fanno di lui un cristiano a Londra ne avrebbero fatto un buddista a Pekino. Tuttavia la cosa in sè è tanto evidente, che tutti gli argomenti la potrebbero provare. I secoli non sono più infallibili degli individui: ciascun secolo ha professato molte opinioni che i secoli seguenti hanno ritenuto non solamente false, ma assurde; ed è ugualmente certo che molte opinioni oggi da tutti professate saranno abbandonate dai secoli venturi, come molte opinioni in altri tempi comuni sono abbandonate dal secolo presente. L'obbiezione che probabilmente si farà a questo argomento potrebbe forse prendere la forma seguente. Non c'è una pretesa più grande d'infallibilità nell'ostacolo posto alla propagazione dell'errore che in qualunque altro atto dell'autorità. Il giudizio è dato all'umanità, perchè essa ne faccia uso; perchè se ne può fare un uso cattivo, bisogna dire agli uomini ch'essi non se ne dovrebbero servire del tutto? Nel proibire quel ch'essi credono dannoso essi non pretendono d'essere esenti d'errore, essi non fanno che adempire il dovere, per essi imprescindibile (sebbene siano fallibili) di agire secondo la loro convinzione coscienziosa. Se poi non dovessimo mai agire secondo le nostre opinioni, perchè le nostre opinioni possono essere false, noi trascureremmo di curare tutti i nostri interessi, di compiere tutti i nostri doveri; un'obbiezione applicabile a qualunque condotta in generale, non può essere un'obbiezione forte contro una data condotta in particolare. Dovere dei governi e degli individui è di formarsi le opinioni più vicine al vero che sia possibile, di formarsele accuratamente, di non imporle agli altri senza essere perfettamente sicuri di aver ragione. Ma quando essi ne sono sicuri (così parlano i nostri avversari) non sarebbe coscienziosità ma poltroneria il non agire secondo la propria opinione e lasciar propagarsi liberamente delle dottrine che in coscienza si trovano pericolose al benessere della umanità, sia in questa, sia nella vita futura; e tutto questo perchè altri popoli, in tempi meno illuminati, hanno perseguitato delle opinioni che oggidì si credono vere. I nostri avversari aggiungono: ci si dirà, guardiamoci dal cadere nello stesso errore. Ma i governi e le nazioni hanno commesso degli errori a proposito di altre cose sulle quali si ritiene che possa senza alcun inconveniente essere esercitata l'autorità pubblica; essi hanno levato delle imposte cattive, hanno fatto delle guerre ingiuste. E noi dovremo per questo non levar più alcuna imposta e non far più delle guerre, non ostante qualunque provocazione? Gli uomini e i governi debbono agire meglio che possono; la certezza assoluta non c'è, ma ce n'è a sufficienza pei bisogni della vita; e noi possiamo e dobbiamo affermare che la nostra opinione è vera per la direzione della nostra condotta e non affermiamo nulla di più coll'impedire che si pervertisca la società colla propagazione di opinioni che noi riteniamo false e perniciose. Io rispondo che così si afferma ben di più. C'è una grandissima differenza tra il presumere che una opinione sia vera, perchè, con tutti i mezzi d'esser confutata, essa non ha potuto esserlo, e l'affermare la sua verità allo scopo di non permetterne la confutazione. La libertà completa di contraddire e di disapprovare la nostra opinione è la condizione appunto che ci permette di affermare la sua verità da un punto di vista pratico; — un essere umano non può avere in altro modo l'assicurazione razionale di esser nel vero. Quando noi consideriamo, vuoi la storia dell'opinione, vuoi la condotta ordinaria della vita umana, a che si può attribuire se l'una e l'altra non sono peggiori di quel che sono? Non certamente alla forza inerente all'intelligenza umana, poichè su qualunque soggetto che non sia per sè stesso evidente, una sola persona su cento sarà capace di giudicare. Ancora: la capacità di questa unica persona non è che relativa; poichè la maggioranza degli uomini eminenti di ciascuna generazione passata ha sostenuto molte opinioni oggidì ritenute erronee, e fatte od approvate molte cose che nessuno oggidì giustificherebbe. Come avviene dunque che, dopo tutto, nella specie umana, c'è una preponderanza di opinioni e di condotta razionali? Se questa preponderanza esiste davvero — ed è quanto dev'essere, a meno che gli affari umani non siano e non siano stati sempre in uno stato quasi disperato — essa è dovuta ad una qualità dello spirito umano, la sorgente di tutto quanto vi ha di rispettabile nell'uomo, sia come essere intellettuale, sia come essere morale: la possibilità di correggere i proprî errori. L'uomo è capace di correggere i suoi sbagli con la discussione e l'esperienza. E non con la sola esperienza: occorre la discussione per vedere come quella si deva interpretare. Le opinioni ed i costumi falsi cedono gradualmente davanti al fatto e all'argomento; ma perchè i fatti e gli argomenti producano qualche impressione sullo spirito, è necessario che gli vengano presentati. Pochissimi fatti possono dire la loro storia essi stessi, senza commenti che ne spieghino il significato. Poichè dunque tutta la forza e tutto il valore del giudizio dell'uomo poggiano su questa proprietà ch'egli possiede, di poter essere corretto quando è fuor di strada, non è permesso di porre in esso qualche fiducia se non quando si hanno ben sotto mano i mezzi di raddrizzarlo. Come ha fatto un uomo il cui giudizio merita realmente fiducia? Egli ha posto attenzione a tutte le critiche sulla sua opinione e sulla sua condotta, ha avuto per abitudine d'ascoltare tutto quello che si poteva dire contro di lui, di trarne profitto in quanto era giusto, e d'esporre a sè stesso ed agli altri, all'occasione, la falsità di ciò che non era se non un sofisma; egli ha compreso che il solo mezzo col quale un essere umano possa giungere alfine a conoscere a fondo un soggetto è quello di ascoltare ciò che ne possono dire delle persone di tutte le opinioni, e di studiare tutti i modi onde esso può esser lumeggiato dalle diverse intelligenze. Mai alcun saggio acquistò diversamente la sua saggezza, e non è nella natura dell'intelligenza umana il divenir saggio in altro modo. La costante abitudine di correggere e di completare la propria opinione, paragonandola con quella degli altri, lungi dal cagionare dubbio ed esitazione nel metterla in pratica, è il solo fondamento stabile di una giusta fiducia in questa opinione. In realtà, poichè l'uomo saggio conosce tutto quello che, secondo probabilità, si può dire contro di lui, ed ha assicurato la sua posizione contro qualunque avversario, sapendo che, lungi dall'evitare le obbiezioni e le difficoltà, egli è andato a cercarle e non ha rinunciato ad alcun modo di lumeggiare il soggetto, quest'uomo ha diritto di pensare che il suo giudizio val meglio che quello di non importa qual persona o quale moltitudine, la quale non abbia usati gli stessi mezzi. Non è un pretendere troppo l'imporre al pubblico, a quest'accolta variopinta di pochi saggi e di molti sciocchi, le stesse condizioni che gli uomini più sapienti, quelli che hanno più ragione di fidarsi del loro giudizio, considerano garanzie necessarie alla loro fiducia in loro stessi. La più intollerante delle chiese, la chiesa romana cattolica, anche quando trattasi della canonizzazione di un santo, ammette ed ascolta pazientemente un _avvocato del diavolo_; sembra che i più santi fra gli uomini non possano essere ammessi ai postumi onori se non quando sia noto e ben ponderato quanto il diavolo può dire contro di essi. Se non fosse stato permesso di porre in dubbio la filosofia di Newton, la specie umana non potrebbe con tutta certezza tenerla per vera. Le credenze per le quali noi abbiamo le maggiori garanzie non poggiano se non su di una protezione: l'invito costante al mondo intiero di dimostrare la loro falsità. Se la sfida non è accettata, o se essa è accettata e la prova non riesce, noi siamo ancora abbastanza lungi dalla certezza, ma abbiamo fatto tutto quello che lo stato presente della ragione umana ci permette di fare; noi non abbiamo trascurato nulla di ciò che poteva fornirci un mezzo di raggiungere la verità. E, restando il campo sempre aperto, noi possiamo sperare che, se esiste una verità migliore, la si troverà quando lo spirito umano sarà capace di accoglierla; e, nell'attesa, possiamo esser certi di esserci avvicinati alla verità di quanto era possibile nel tempo nostro. Ecco tutta la certezza a cui possa arrivare un essere fallibile, ed ecco la sola strada per arrivarci. È strano che gli uomini riconoscano il valore degli argomenti in favore della libera discussione, ma che non vogliano saperne di portar questi argomenti alle ultime conseguenze, non vedendo che, se queste ragioni non servono anche per un caso estremo, esse non hanno alcun valore. Altra cosa bizzarra: essi non credono di darsi l'aria d'infallibili, quando riconoscono che la discussione deve essere libera su tutti i soggetti i quali possano essere _dubbiosi_, e pensano, nello stesso tempo, che al di sopra della discussione si dovrebbe porre una dottrina, un punto particolare, perchè esso è così _certo_... che è quanto dire _perchè essi sono così certi_ che è certo! Tenere una cosa per certa, finchè esiste un essere umano pronto a negarne la certezza, se lo potesse, ma a cui lo si impedisce, è affermare che noi, e quelli che seguono la nostra opinione, siamo i giudici della certezza, e giudichiamo senza sentir tutte e due le campane Nel nostro secolo, che si è rappresentato come privo di fede ma come pauroso dello scetticismo, poichè gli uomini si sentono assicurati non tanto dalla verità delle loro opinioni quanto dalla loro necessità, i diritti di un'opinione ad esser protetta contro un pubblico assalto riposano sulla sua importanza per la società, piuttosto che sulla sua verità. Vi sono — si va dicendo — certe credenze così utili, per non dire indispensabili al benessere, che i governi hanno dovere di proteggerle quanto di proteggere qualunque altro degli interessi della società. In un caso di necessità così assoluta, che fa parte così evidente del loro dovere, si sostiene che anche qualcosa di meno dell'infallibilità può permettere ai governi ed anche obbligarli ad agire secondo la loro opinione, confermata dall'opinione generale della umanità. Si dice pure spesso, e anche più spesso si pensa questo: nessuno, salvo un uomo vizioso, vorrebbe indebolire tali salutari credenze, e nulla ci può essere di male a raffrenare degli uomini viziosi ed a proibire ciò ch'essi soli vorrebbero fare. Questo modo di pensare fa, della giustificazione delle restrizioni che alla discussione s'impongono, una questione non di verità, ma di utilità, e si lusinga di sottrarsi in questo modo alla responsabilità della pretesa d'essere infallibile. Ma quelli che si contentano di così poco non si accorgono che la pretesa all'infallibilità è semplicemente spostata da un punto ad un altro. L'utilità stessa di una opinione è affare di opinione; essa si presta alla discussione, e la richiede altrettanto che l'opinione stessa. C'è lo stesso bisogno di un giudice infallibile di opinioni per decidere che una opinione è dannosa, come per decidere ch'essa è falsa, quando l'opinione condannata non abbia tutta la facilità di difendersi. Ed è inutile dire che si può permettere ad un eretico di sostenere l'utilità o l'innocenza della sua opinione, sebbene gli s'impedisca di sostenerne la verità: la verità d'una opinione fa parte della sua utilità: quando noi vogliamo sapere se sia o no desiderabile che un'opinione sia creduta, è mai possibile d'escludere la considerazione della sua verità o della sua falsità? Nell'opinione, non degli uomini viziosi, ma dei migliori, nessuna credenza contraria alla verità può essere realmente utile; e potete voi impedire a costoro di fare una tale apologia, quando siano perseguitati per aver negato qualche dottrina che loro si dice esser utile, ma ch'essi credono falsa? Quelli che seguono le opinioni già ammesse non trascurano mai di trarre tutto il profitto possibile da questa scusa; voi non li trovate mai a trattare la questione dell'utilità, come se la si potesse separare completamente dalla questione della verità. Al contrario, è sopratutto perchè la loro dottrina è la _verità_, che è indispensabile di conoscerla o di crederci. Non vi può essere discussione leale sulla questione di utilità, quando una soltanto delle parti può far uso di un argomento così vitale. E in linea di fatto, quando la legge o il sentimento pubblico non permettono di discutere la verità d'un'opinione, mostrano la stessa tolleranza verso chi negasse la sua utilità: tutto quello che essi permettono è un'attenuazione della sua necessità assoluta o del delitto positivo di negarla. Per mostrare più chiaramente quanto male si faccia col rifiutar d'ascoltare delle opinioni perchè noi le abbiamo condannate in anticipazione nel nostro proprio giudizio, sarebbe desiderabile stabilire la discussione su di un caso determinato. Io scelgo di preferenza i casi che mi sono meno favorevoli, quelli nei quali l'argomento contro la libertà di opinione, e dal punto di vista della verità, e dal punto di vista della utilità, è considerato come il più forte. Poniamo che le opinioni combattute, siano la credenza in Dio o in una vita futura o non importa qual altra fra le dottrine di morale generalmente accettate. Dar battaglia su questo terreno è come offrire un gran vantaggio a un avversario di mala fede, poichè esso dirà sicuramente (e con lui molte persone che non desiderano punto d'essere in mala fede): Queste sono dunque dottrine che voi non ritenete abbastanza certe per esser poste sotto la protezione della legge? La credenza in Dio è una di quelle opinioni di cui non si può sentirsi sicuro, senza pretendere all'infallibilità? Ma io domando che mi si permetta di notare come il sentirsi certo di una dottrina, qualunque essa sia, non è ciò che io dico «pretendere all'infallibilità». Io, con questo, intendo il mettersi a decidere una tale questione anche per conto degli altri, senza permetter loro di sentire ciò che si può obiettare dall'altro canto. Io non denuncio e non biasimo meno questa pretesa, se essa si fa innanzi per sostenere le mie più solenni convinzioni. Un uomo ha un bell'essere positivamente convinto, non soltanto della falsità, ma anche delle conseguenze perniciose, non soltanto delle conseguenze perniciose, ma anche (per adoperar delle espressioni che io pienamente condanno) dell'immoralità e della empietà di un'opinione; se nondimeno, in conseguenza di questo giudizio personale (ed anche quando sia pure sostenuto dal giudizio pubblico del suo paese o dei suoi contemporanei), egli impedisca a questa opinione di parlare in propria difesa, egli afferma la propria infallibilità. E questa affermazione è ben lungi dall'essere meno pericolosa o meno biasimevole perchè l'opinione è detta immorale od empia; al contrario, questo è il caso più fatale di tutti. Queste sono precisamente le occasioni in cui gli uomini commettono quegli spaventevoli errori che eccitano la stupefazione e l'orrore della posterità. Noi ne troviamo degli esempî memorabili nella storia, quando vediamo il braccio della legge occupato a distruggere gli uomini migliori e le più nobili dottrine: — e questo, pur troppo con grande successo quanto agli uomini; quanto alle dottrine, parecchie hanno sopravvissuto, per essere proprio (quasi per derisione) invocate in difesa di una simile condotta verso di quelli che non le accettavano, o che ne rifiutavano la interpretazione comune. Non si può ricordare abbastanza sovente alla specie umana che vi è stato un uomo, il quale si chiamò Socrate, e che vi fu un memorabile conflitto tra quest'uomo da una parte e le autorità legali e l'opinione pubblica dall'altra. Egli era nato in un secolo e in un paese ricchi di grandezze individuali; la sua memoria ci è stata trasmessa da quelli che conoscono meglio lui e l'età che fu sua, come la memoria dell'uomo più virtuoso del suo tempo. Noi lo conosciamo al tempo istesso come il caposcuola e il prototipo di tutti quei grandi maestri di virtù che vennero dopo di lui, attraverso la sorgente e dell'inspirazione di Platone e del giudizioso utilitarismo di Aristotele, «i maestri di color che sanno», i due creatori di qualunque filosofia, etica e non etica. Questo maestro riconosciuto da tutti i pensatori eminenti a lui posteriori; quest'uomo la cui gloria sempre crescente da più che duemila anni supera quella di tutti gli altri nomi che resero illustre la sua città natale, fu mandato a morte dai suoi concittadini, dopo una condanna legale, come colpevole d'empietà e d'immoralità. Empietà, perchè negava gli dei riconosciuti dallo Stato; a vero dire il suo accusatore affermava ch'egli non credeva in alcuno (vedi l'_Apologia_). Immoralità, perchè corrompeva la gioventù con le sue dottrine e coi suoi insegnamenti. Si hanno tutte le ragioni per credere che il tribunale lo abbia trovato, in coscienza, colpevole di questi delitti; ed esso condannò ad esser mandato a morte come un volgare malfattore l'uomo che fra i suoi contemporanei era probabilmente il più benemerito verso la specie umana. Passiamo all'altro, unico esempio d'iniquità giudiziaria per ricordare il quale, dopo la morte di Socrate, non si deva scendere un gradino più basso. Noi alludiamo all'avvenimento che si compì sul Calvario, più che diciotto secoli or sono. L'uomo che lasciò in tutti quelli che l'avevano veduto e sentito una tale impressione della sua grandezza morale, che diciotto secoli hanno reso omaggio a lui come all'Onnipotente, fu condannato a morte ignominiosa. Perchè? Come bestemmiatore. Non soltanto gli uomini non riconobbero punto il loro benefattore, ma lo presero pel contrario esatto di quello ch'egli era, e lo trattarono come un prodigio d'empietà. Ed ora son ritenuti essi come tali, a cagione del modo con cui lo trattarono. I sentimenti che animano oggi la specie umana a proposito di questi dolorosi avvenimenti, la rendono estremamente ingiusta nel loro giudizio sugli sciagurati attori. Questi, secondo ogni apparenza, non erano peggiori della generalità degli uomini: erano all'incontro uomini che possedevano in modo completo, più che completo forse, i sentimenti religiosi, morali e patriotici del loro tempo e del loro paese; di quegli uomini insomma che sono fatti in ogni tempo, compreso il nostro, per traversar la vita rispettati e senza macchia. Quando il gran sacerdote si stracciò gli abiti sentendo pronunciar le parole che, secondo le idee del suo paese, costituivano il più nero dei delitti, la sua indignazione e il suo orrore erano probabilmente così sinceri, come oggi i sentimenti morali e religiosi professati dalla generalità delle persone pie e rispettabili. E molti di quelli che ora fremono della sua condotta, avrebbero agito esattamente allo stesso modo, se avessero vissuto in quell'epoca, e fossero stati ebrei. I cristiani ortodossi che son tentati a credere uomini assai peggiori di loro quelli che lapidarono i primi martiri, dovrebbero ricordarsi che san Paolo fu tra questi persecutori. Aggiungiamo ancora un esempio: quello che colpisce più di tutti, se è vero che l'errore fa tanto maggiore impressione quanto più grande è la saggezza e la virtù di chi lo commette. Se mai un monarca ebbe ragione di credersi migliore e più illuminalo di chiunque fra i suoi contemporanei, fu l'imperatore Marco Aurelio. Padrone assoluto di tutto il mondo civile, egli dimostrò per tutta la vita non solo la più pura giustizia, ma anche ciò che meno si sarebbe atteso dalla sua educazione stoica — il cuore più tenero. I pochi errori che gli si attribuiscono vengono tutti dalla sua indulgenza, mentre i suoi scritti, le più elevate produzioni morali dell'antichità, differiscono appena, se pure ne differiscono, dai più caratteristici insegnamenti di Cristo. Quest'uomo, miglior cristiano in tutto, tranne che nel senso dogmatico della parola, della maggior parte dei sovrani ostensibilmente cristiani che regnarono poi, perseguitò il cristianesimo. Padrone di tutte le precedenti conquiste dell'umanità, dotato d'una intelligenza aperta e libera e d'un carattere che lo portava a compenetrare nei suoi scritti morali l'ideale cristiano, egli tuttavia non vide che il cristianesimo, coi doveri di cui era così profondamente penetrato, era un bene e non un male pel mondo. Egli sapeva che la società d'allora era in uno stato deplorevole. Ma per deplorevole che fosse, egli vedeva o credeva di vedere ch'essa non si poteva con sicurezza salvare da uno stato anche peggiore, se non colla fede e col rispetto per gli dei tradizionali. Come sovrano egli si credeva in dovere di non lasciare che la società si dissolvesse e non vedeva come, se si toglievano i legami esistenti, se ne sarebbero potuti formare degli altri capaci di rattenerla. La nuova religione mirava apertamente a spezzar questi legami; dunque, a meno che non fosse suo dovere di adottar questa religione, sembrava che fosse suo dovere di distruggerla. Dal momento che la teologia del cristianesimo non gli sembrava vera nè d'origine divina, dal momento che egli non poteva credere a questa strana istoria d'un Dio crocifisso, nè prevedere che un sistema riposante su d'una simile base avesse l'influenza rinnovatrice che si sa, il più dolce e il più amabile dei filosofi e dei sovrani, guidato da un solenne sentimento del dovere, fu costretto a permettere la persecuzione del Cristianesimo. A mio vedere, è questo uno dei fatti più tragici della storia. È triste di pensare come avrebbe potuto esser diverso il nostro cristianesimo, se la fede cristiana fosse stata adottata come religione dell'Impero da Marco Aurelio invece che da Costantino. Ma sarebbe ingiustizia e falsità ad un tempo il negare che Marco Aurelio, per punire come fece la propaganda cristiana, abbia avuto dalla sua tutte le scuse che si possono addurre per punire le dottrine anticristiane. Un cristiano crede fermamente che l'ateismo sia un errore e un principio di dissoluzione sociale; ma Marco Aurelio pensava lo stesso del Cristianesimo: egli, che di tutti i viventi allora si sarebbe potuto credere il più capace di apprezzarlo. Dunque, ogni avversario della libertà di discussione si astenga dall'affermare, ad un tempo, l'infallibilità propria e quella della moltitudine, come fece con sì miseri risultati il grande Antonino, se non si lusinga d'essere più saggio e più buono di Marco Aurelio, più profondamente versato nella sapienza del proprio tempo, d'uno spirito che meglio di quello si elevi sull'ambiente, di maggior buona fede nella ricerca della verità o di più sincero attaccamento alla verità una volta trovata. Riconoscendo l'impossibilità di difendere le persecuzioni religiose con argomenti che non bastano a giustificare un Marco Aurelio, i nemici della libertà religiosa accettano talvolta, quando sono messi proprio alle strette, questa conseguenza; e dicono col dottor Johnson che i persecutori del cristianesimo erano nel vero, che la persecuzione è una prova cui la verità deve attraversare e attraversa e sempre con successo, dappoichè, alla fin dei conti, le penalità legali sono senza forza contro la verità, sebbene siano talvolta utili contro errori dannosi. Questa forma dell'argomento in favore dell'intolleranza religiosa è notevole abbastanza perchè ci si trattenga un momento. Una teoria la quale sostiene che è lecito perseguitare la verità, perchè la persecuzione non le fa danno, non si può accusare d'essere _a priori_ ostile all'accoglimento di verità nuove; ma noi non possiamo lodare la generosità del suo modo d'agire verso le persone a cui la specie umana deve la scoperta di queste verità. Rivelare al mondo qualcosa che lo interessa profondamente e ch'esso fino allora ignorava, provargli ch'esso s'è ingannato su qualche punto vitale del suo interesse temporale o spirituale: ecco il servigio più importante che un essere umano possa rendere a' suoi simili; e in certi casi, come quello dei primi cristiani o dei riformatori, i seguaci dell'opinione del dottor Johnson credono che si trattasse del dono più prezioso che si potesse fare all'umanità. Ebbene: secondo una tal teoria, trattare come i più vili delinquenti gli autori di così grandi beneficî e ricompensarli col martirio non è un errore e una deplorevole sciagura di cui l'umanità debba fare penitenza col sacco e con la cenere, ma bensì uno stato di cose normale e perfettamente giustificato. Colui che propone una verità nuova dovrebbe, secondo questa dottrina, presentarsi come faceva presso i Locresi colui che proponeva una nuova legge: con una corda al collo, che si stringeva se per caso la pubblica assemblea, dopo aver sentite le sue ragioni, non adottava immediatamente la proposta. Non si può supporre che le persone che difendono questo modo di trattare i benefattori diano un gran valore al beneficio. Ed io credo che questa maniera di lumeggiar l'argomento appartenga quasi unicamente a gente persuasa che di verità nuove si poteva aver desiderio in altri tempi, ma che ora noi ne abbiamo abbastanza. Ma sicuramente quest'affermazione che la verità trionfa sempre sulla persecuzione è una di quelle comode bugie che gli uomini si ripetono gli uni agli altri finchè siano passate in luoghi comuni, ma che qualunque esperienza può confutare. La storia ci mostra costantemente la verità ridotta al silenzio dalla persecuzione; se essa non è soppressa per sempre, può essere ricacciata indietro di secoli. Per non parlar che di opinioni religiose, la riforma tentò di scoppiare per lo meno venti volte prima di Lutero, e fu ridotta al silenzio. Arnaldo da Brescia, fra Dolcino, Girolamo Savonarola subirono l'estremo supplizio; gli Albigesi, i Valdesi, i Lollardisti, gli Hussiti furono distrutti; anche dopo Lutero, dovunque si seppe persistere nella persecuzione, questa fu vittoriosa; in Ispagna, in Italia, in Fiandra, in Austria il protestantesimo fu estirpato; e probabilissimamente sarebbe accaduto lo stesso in Inghilterra, se la regina Maria avesse vissuto di più, o se la regina Elisabetta fosse morta prima. La persecuzione raggiunse sempre lo scopo, tranne dove gli eretici formavano un partito troppo potente per essere perseguitato con efficacia: Il cristianesimo — nessuna persona ragionevole può dubitarne — avrebbe potuto essere estirpato dall'impero romano; e se esso si diffuse e divenne predominante fu perchè le persecuzioni erano solamente accidentali, non duravano che poco tempo, ed erano separate da lunghi intervalli di propaganda, possiamo dire libera. È pura retorica il dire che la verità, unicamente come tale, possiede una forza intima, che l'errore non ha, di prevalere contro le prigioni e il rogo; gli uomini non hanno più zelo per la verità di quello che, spesso, abbiano per l'errore; ed una sufficiente applicazione di penalità legali o anche soltanto sociali riuscirà il più delle volte ad arrestare il propagarsi sia dell'una sia dell'altro. Il vantaggio reale che la verità possiede consiste in questo: che, quando un'opinione è vera, si può ben soffocarla più volte; essa riappare di continuo nel corso dei secoli, fin quando una delle sue riapparizioni cade in un'epoca in cui, per una serie di circostanze favorevoli, essa sfugge alla persecuzione, per tanto tempo almeno, quanto le basti ad acquistare la forza di poterle resistere più tardi. Ci si dirà che noi ora non condanniamo più a morte quelli che introducono delle nuove opinioni; non siamo come i nostri padri, che massacravano i profeti: anzi, fabbrichiamo loro dei sepolcri. È vero, noi non mettiamo a morte gli eretici, e tutte le pene che il sentimento moderno potrebbe tollerare, anche contro le opinioni più odiose, non basterebbero ad estirparle. Ma non ci lusinghiamo di essere già sfuggiti all'onta della persecuzione legale! La legge permette ancora delle penalità contro le opinioni o per lo meno contro la loro espressione, e l'applicazione di queste penalità non è una cosa talmente senza esempio che si possa far conto con certezza di non vederle mai rivivere in tutto il loro vigore. L'anno 1857, alle Assise d'estate della Contea di Cornovaglia, un uomo disgraziato ma di condotta irriprovevole, si dice, in tutte le relazioni della vita fu condannato a venti mesi di carcere per aver pronunciato e scritto su di una porta alcune parole offensive pel cristianesimo[2]. Un mese dopo, a Old-Bailey, due persone in due occasioni separate, furono rifiutate come giurati[3] ed una di esse fu grossolanamente insultata dal giudice e da uno degli avvocati, perchè dichiarò onestamente di non aver alcuna fede religiosa. Per la stessa ragione si rifiutò a una terza persona, uno straniero[4], di fargli giustizia contro un ladro. Questo rifiuto di riparazione ebbe luogo in virtù della dottrina legale che una persona la quale non crede in Dio (non importa in qual Dio) e in una vita futura non può esser ammessa a prestare testimonianza in giudizio; ciò è quanto dichiarare che queste persone sono fuori della legge, private della protezione dei tribunali, e che non soltanto si può farne impunemente la vittima di furti o di vie di fatto, se esse non hanno altri testimoni che se stessi o gente della loro opinione; ma che anche tutto il mondo deve subire di questi attentati, dal momento che la prova dipende unicamente dalla loro testimonianza. Questo è fondato sulla presunzione che il giuramento di una persona che non crede a una vita futura è senza valore; proposizione che mostra una ignoranza grande della storia in quelli che lo ammettono (poichè è storicamente provato che a tutte le epoche una grande quantità di miscredenti furono uomini di rara integrità ed onorabilità); e per sostener la quale bisognerebbe non sapere neppur lontanamente quante persone riputate nel mondo per le loro virtù e pel loro ingegno siano ben conosciute, almeno dai loro intimi amici, come non aventi alcuna credenza. Questa regola inoltre si distrugge da sè; sotto pretesto che gli atei debbono essere mentitori, essa ammette la testimonianza di tutti gli atei capaci di mentire, e rifiuta soltanto quelli che sfidano la disgrazia di confessare pubblicamente una opinione detestata piuttosto che affermare una menzogna. Una regola che si abbatte così da sè, dal punto di vista dello scopo che si propone, non può essere mantenuta che come un tributo d'odio, un resto di persecuzione: con questa particolarità, che la ragione per incorrervi è la prova ben certa che non la si merita punto. Questa regola e la teoria ch'essa implica non sono meno offensive per i credenti che pei miscredenti; poichè se colui che non crede ad una vita futura è necessariamente un mentitore, naturalmente quelli che ci credono non sono trattenuti dal mentire — se pure lo sono — che dal timore dell'inferno. Noi non faremo agli autori e ai seguaci di questa regola l'ingiuria di supporre che l'idea ch'essi si sono formata della virtù cristiana sia tratta dalla loro propria coscienza. In verità, questi non sono che dei lembi e dei resti di persecuzione e si può considerarli non come un indizio del desiderio di perseguitare, ma piuttosto come esempî di una infermità molto frequente negli spiriti inglesi, che fa provare ad essi un piacere assurdo ad affermare un cattivo principio, anche quando non siano più abbastanza malvagi per desiderare realmente di metterlo in pratica. Ma pur troppo non si può esser sicuri se continuerà o no, nello stato dello spirito pubblico, questa sospensione delle più odiose forme di persecuzione legale, che dura da circa sessant'anni: nel nostro secolo, la quieta superficie della _routine_ è turbata da tentativi fatti altrettanto spesso per risuscitare dei mali passati che per introdurre dei beni nuovi. Quello di cui ora ci si vanta come del rinascere della religione, è sempre almeno altrettanto, negli spiriti angusti ed incolti, il rinascere del fanatismo; e quando c'è nel sentimento di un popolo il lievito permanente e potente d'intolleranza che fermentò in ogni tempo in mezzo alle classi medie del nostro paese, non occorre molto per sospingerlo a perseguitare attivamente quelli ch'essi non hanno mai cessato di considerare degni di persecuzione[5]. Poichè sono proprio le opinioni dagli uomini professate e i sentimenti ch'essi nutrono a proposito dei dissidenti, quanto alle credenze stimate importanti, che fanno di questo paese un luogo dove la libertà del pensiero non esiste. Già da molto tempo, l'unico torto delle penalità legali è quello di sostenere e di rafforzare lo stigmate sociale. Questo stigmate soltanto è veramente efficace; e lo è talmente, che in Inghilterra assai meno di frequente si professano le opinioni messe al bando della società, di quello che in altri paesi si confessino le opinioni che portano per conseguenza punizioni legali. Per tutte le persone, eccettuate quelle che la fortuna ha reso indipendenti dal giudizio degli altri, l'opinione è su questo soggetto altrettanto efficace quanto la legge: gli uomini potrebbero allo stesso modo essere imprigionati che privati dei mezzi di guadagnarsi il pane. Coloro che hanno il pane assicurato, e che non attendono il favore, nè degli uomini al potere, nè di alcun corpo, nè del pubblico, non hanno nulla a temere per una dichiarazione franca di non importa quale opinione — salvo che di essere un po' bistrattati nel pensiero e nelle parole degli altri: per sopportar la qual cosa non occorre loro un grande eroismo: non c'è alcun appello _ad misericordiam_ in favore di tali persone. Ma, sebbene noi non infliggiamo dei mali così grandi come un tempo a quelli che come noi non pensano, pure danneggiamo noi stessi come, forse, non abbiamo mai fatto, col nostro modo di trattarli. Socrate fu condannato a morte, ma la sua filosofia si elevò come il sole nei cieli e diffuse la sua luce per tutto il firmamento intellettuale; i cristiani furono dati in pasto a' leoni, ma la chiesa cristiana divenne un albero magnifico, che superò gli alberi più vecchi e meno vigorosi e li soffocò dell'ombra sua. La nostra intolleranza, puramente sociale, non uccide alcuno, non estirpa alcuna opinione, ma costringe gli uomini a nascondere le loro opinioni o ad astenersi da qualunque sforzo efficace per diffonderle. Con noi, le opinioni eretiche non guadagnano e neppure perdono molto terreno a ciascuna dècade o a ciascuna generazione; ma non brillano mai di vivo splendore, e continuano a covare in quella ristretta cerchia di pensatori e sapienti d'onde esse sono uscite, senza mai proiettare sulle cose umane una luce, sia vera, sia falsa. E così si mantiene uno stato di cose soddisfacentissimo per una certa qualità di spiriti, perchè esso conserva tutte le opinioni preponderanti in una calma apparente, senza la spiacevole formalità di condannare alcuno alla multa o alla prigione, mentre non proibisce assolutamente l'uso della ragione ai dissidenti afflitti dalla malattia del pensiero: sistema ottimo per mantener la pace nel mondo intellettuale, e per lasciar che le cose vadano press'a poco col: _così faceva mio padre._ Ma il prezzo di questo modo di pacificazione è il sacrificio completo di tutto il coraggio morale dello spirito umano: uno stato di cose in conseguenza del quale la maggior parte degli spiriti attivi ed investigatori trovano utile di tenere per sè i veri motivi delle loro convinzioni, e si sforzano, parlando in pubblico, di adattare quel che possono del loro modo di pensare a premesse che, nel loro interno, essi negano, non può produrre di quei caratteri franchi e arditi, di quelle intelligenze logiche e sode che in altri tempi ornarono il mondo dei pensatori. La specie d'uomini che si può attendere sotto questo regime presenta o dei semplici schiavi del luogo comune o dei servitori guardinghi della verità, i cui argomenti sopra tutti i grandi soggetti sono proporzionati al loro uditorio, e non sono quelli di cui essi stessi si appaghino. Gli uomini che evitano questa alternativa ci riescono limitando il loro pensiero e il loro interessamento a quelle cose di cui si può parlare senza arrischiarsi nella region dei principî; cioè ad un piccolo numero di materie pratiche che riescirebbero a grandi cose per sè stesse, se l'intelligenza umana acquistasse forza e vastità, e che non vi riusciranno mai fintanto che quello che rafforzerebbe ed estenderebbe lo spirito umano — un libero ed audace esame dei soggetti più elevati — è lasciato in abbandono. Gli uomini agli occhi dei quali questo silenzio degli eretici non è un male dovrebbero considerare anzitutto che, in conseguenza di un tal silenzio, le opinioni eterodosse non sono mai discusse e approfondite in modo leale, cosicchè quelle fra esse che non potrebbero sostenere una tale discussione non iscompajono, per quanto forse s'impedisca ad esse di estendersi. Ma non è allo spirito degli eretici che nuoce di più la proibizione di tutte le ricerche le cui conclusioni non sono ortodosse; quelli che ne soffrono di più sono gli ortodossi stessi, il cui sviluppo intellettuale è impacciato e la cui ragione è raffrenata dal timor dell'eresìa. Chi può calcolare tutto ciò che il mondo perde con una tale quantità di belle intelligenze alleate a caratteri timidi, che non osano abbandonarsi a un modo di pensare ardito, vigoroso, indipendente, per paura di giungere ad una conclusione irreligiosa o immorale agli occhi di qualcuno? E voi vedete qualche volta un uomo profondamente coscienzioso, d'un'intelligenza sottile e raffinata, che passa la vita a sofisticare colla intelligenza, che egli non può ridurre al silenzio, e che esaurisce tutte le qualità dello spirito per conciliare le inspirazioni della sua coscienza e della sua ragione con l'ortodossia, cosa a cui, dopo tutto, egli forse non riesce. Nessuno può essere grande pensatore se non considera come suo primo dovere, in qualità di pensatore, di seguire la sua intelligenza dovunque essa lo possa condurre; la società guadagna sempre di più anche dagli errori d'un uomo il quale, dopo lo studio e la preparazione voluta, pensa con la sua testa, che dalle opinioni giuste di quelli che le professano soltanto perchè non si permettono di pensare. Non già che la libertà di pensiero sia necessaria unicamente o principalmente per formare dei grandi pensatori; anzi, essa è altrettanto ed anche più indispensabile per rendere la media degli uomini capace di raggiungere l'altezza intellettuale che la loro attitudine comporta. Ci sono stati, ci potranno essere ancora dei grandi pensatori individuali in un'atmosfera di generale schiavitù dell'intelligenza; ma non c'è mai stato e non ci sarà mai, in questa atmosfera, un popolo intellettualmente attivo. Dovunque un popolo ha posseduto temporaneamente questa attività, ciò avvenne perchè il timore delle speculazioni eterodosse era, per qualche poco, sospeso; ma dove è sottinteso tacitamente che i principî non devono essere discussi, dove la discussione sulle più grandi questioni che possano occupare l'umanità è considerata come chiusa, non si può certo aspettarsi di trovare quel livello elevato d'attività intellettuale che ha reso così notevoli certe epoche della storia. Mai lo spirito di un popolo fu rinnovato fino dai fondamenti, mai fu dato l'impulso che eleva anche gli uomini dell'intelligenza più ordinaria alla dignità di esseri pensanti, là dove la discussione evitava gli argomenti vasti ed importanti abbastanza per suscitar l'entusiasmo. L'Europa ne ha viste parecchie, di queste epoche brillanti: la prima, subito dopo la Riforma; un'altra, sebbene limitata al continente ed alla classe più colta, durante il movimento speculativo della seconda metà del secolo decimottavo, ed una terza, di durata ancora più corta, nel fermento intellettuale di Germania, al tempo di Goethe e di Fichte. Queste tre epoche differiscono enormemente quanto alle opinioni particolari ch'esse svilupparono, ma si rassomigliano in questo: che, durante tutte e tre, il giogo dell'autorità fu spezzato; durante ciascuna di esse, un vecchio dispotismo intellettuale era stato detronizzato e non era ancora stato sostituito da uno nuovo. L'impulso dato da ciascuna di queste tre epoche ha fatto dell'Europa ciò ch'essa è ora; qualunque progresso si è prodotto, sia nello spirito, sia nelle instituzioni umane, risale in modo evidente all'una o all'altra di queste epoche; ma tutto, da qualche tempo, accenna a dimostrare che questi tre impulsi hanno quasi perduta la forza loro e che noi non possiamo attenderci un nuovo slancio, prima di aver di bel nuovo conquistata la nostra libertà intellettuale. Passiamo ora alla seconda parte dell'argomento. Abbandonando l'ipotesi che le opinioni comunemente accettate possano essere false, ammettiamo ch'esse siano vere, ed esaminiamo che cosa valga la maniera in cui probabilmente saranno professate, se la loro verità non è liberamente ed apertamente combattuta. Per quante difficoltà abbia una persona a riconoscere la possibilità che un'opinione a cui essa è fortemente attaccata sia falsa, dovrebbe però esser colpita dall'idea che, per vera che sia quest'opinione, la si considererà come un dogma morto e non come una verità viva e vitale, se non la si può discutere completamente, arditamente e di spesso. C'è una classe di persone (fortunatamente non proprio così numerosa come un tempo) a cui basta che gli altri si schierino fra i loro seguaci, anche quando essi non conoscano punto i motivi di questa opinione e siano incapaci di difenderla contro le obbiezioni più superficiali. Quando tali persone sono giunte a far insegnare dall'autorità il loro _credo_, esse pensano naturalmente che dal permetterne la discussione non può derivare che male. Dovunque domina la loro influenza, rendono quasi impossibile di confutare con saggezza e cognizione di causa l'opinione comune, sebbene si possa ancora confutarla inconsideratamente e con ignoranza, poichè impedire completamente la discussione è impossibile; e se essa giunge a farsi strada, alcune credenze che non sono fondate sulla persuasione cederanno facilmente davanti alla più leggiera parvenza d'argomento. Ora, pure escludendo anche questa possibilità, pure ammettendo che l'opinione vera rimanga nello spirito; se essa vi rimane allo stato di pregiudizio, di credenza che non iscaturisce da un'argomentazione nè dalla prova di una argomentazione, non è questo il modo con cui un essere ragionevole deve professare la verità. La verità così professata non è che una superstizione di più che per caso si appiccica a parole enuncianti una verità. Se l'intelligenza e il giudizio della specie umana debbono essere coltivati — una cosa che almeno i protestanti non negano — queste facoltà non si possono meglio esercitare che su argomenti i quali interessano l'uomo tanto da vicino, da ritenersi necessario per lui di avere delle opinioni in proposito. Se la coltura del nostro giudizio deve preferire l'una piuttosto che l'altra cosa, preferirà sopratutto di conoscere i motivi delle nostre opinioni. Tutto quel che si pensa sopra argomenti intorno ai quali il pensar giusto è della massima importanza, si dovrebbe almeno saper difendere contro le obbiezioni comuni. Qualcuno per altro ci dirà forse: «S'insegnino pure agli uomini i motivi delle loro opinioni. Poichè non si sono mai sentite discutere, non se ne può dedurre che esse saranno nella memoria soltanto e non nell'intelligenza. Coloro che imparano la geometria non fanno che imparare i teoremi, ma comprendono ed imparano al tempo istesso le dimostrazioni: e sarebbe assurdo dire che essi rimangono ignoranti dei principi delle verità geometriche perchè non li sentono mai negati e neppure discussi.» Senza dubbio alcuno, un insegnamento di questo genere basta per un argomento come le scienze matematiche, in cui nulla affatto vi è a dire sul lato falso della questione. Quello che ha di particolare l'evidenza delle verità matematiche è che gli argomenti sono tutti da una parte; non v'è obbiezioni, non v'è risposta alle obbiezioni. Ma in qualunque soggetto sul quale è possibile una divergenza di opinioni, la verità esce da un equilibrio, che si dee conservare, tra due sistemi di ragioni contraddittorie. Anche nella filosofia naturale c'è sempre qualche diversa spiegazione possibile dei medesimi fatti; qualche teoria geocentrica in luogo di una teoria eliocentrica, la teoria del flogistico in luogo della teoria dell'ossigeno; e bisogna dimostrare perchè quest'altra teoria non possa esser la buona, e, finchè non sappiamo come ciò si dimostri, noi non intendiamo i motivi della nostra opinione. Ma se poi ci volgiamo a soggetti infinitamente più complicati, alla morale, alla religione, alla politica, alle relazioni sociali e agli affari della vita — tre quarti degli argomenti in favore di ciascuna opinione discussa consistono nel distruggere le apparenze che militano per l'opinione opposta. Secondo la sua testimonianza, il secondo fra i grandi oratori dell'antichità studiava sempre la causa del suo avversario con attenzione uguale, se non maggiore, di quella con cui studiava la propria: ciò che Cicerone faceva per ottenere un successo nel foro, deve essere imitato da quanti studiano un argomento, a fine di arrivare alla verità. L'uomo che non conosce se non il suo proprio parere, conosce ben poco; le sue ragioni possono anche esser buone, e può darsi che nessuno sia capace di confutarle: ma se egli è ugualmente incapace di confutare le ragioni della parte avversaria, s'egli non le conosce neppure, non ha motivo per preferire un'opinione all'altra. La sola cosa razionale che quest'uomo possa fare è di sospendere il suo giudizio; ove non si contenti di questo, egli o è guidato dall'autorità, o adotta, come accade in generale, la parte verso cui si sente più inclinato. E non basta che un uomo ascolti gli argomenti dei suoi avversarî dalla bocca dei proprî maestri, presentati e posti come vogliono costoro e accompagnati da ciò ch'essi dànno per confutazione; non è questo il modo di dar buon giuoco a questi argomenti o di mettere il proprio spirito in vero contatto con essi. Si devono ascoltare dalla bocca di quelle stesse persone che ci credono, che li difendono in buona fede e con tutte le loro forze: si devono conoscere sotto le loro forme più plausibili e più persuasive; si deve sentire in tutta la sua forza la difficoltà che rende complicato, arruffato il soggetto messo in tutta la sua luce. Altrimenti facendo, mai un uomo possiederà quella parte di vero che sola è capace di affrontare e vincere le difficoltà. Il novanta per cento dei così detti uomini colti, anche di quelli che possono correntemente discutere delle loro idee, si trovano in questa bizzarra condizione. La loro conclusione può esser vera, ma potrebbe anche esser falsa senza ch'essi lo sospettassero; essi non si sono messi mai nella posizione mentale di quelli che pensano altrimenti da loro e non hanno mai meditato ciò che tali persone avrebbero a dire: di conseguenza essi non conoscono, nel vero senso di questa parola, la dottrina che professano; non conoscono le parti della loro dottrina che spiegano e giustificano il resto, le considerazioni che mostrano come due fatti in apparenza contraddittori siano conciliabili, o come di due ragioni che sembrano fortissime ambedue, l'una debba esser preferita all'altra. Tali uomini sono estranei a tutta quella parte di verità che, per uno spirito davvero illuminato, è quella che grava sulla bilancia e decide il giudizio. Del resto, quelli soltanto conoscono realmente, che hanno ascoltato le due parti con imparzialità e che si son provati a vederne le ragioni sotto la forma più evidente. Questa disciplina è tanto essenziale ad una giusta comprensione dei soggetti morali ed umani, che, se per le verità importanti non esistono avversari, si devono imaginare e fornir loro gli argomenti più forti che mai possa trovare il più abile «avvocato del diavolo». Per diminuire la forza di queste considerazioni, forse un nemico della libera discussione dirà: «Non è necessario per l'umanità in generale di conoscere e di comprendere tutto quello che può esser detto pro e contro le sue opinioni dai filosofi e dai teologi; non è indispensabile per la comune degli uomini di poter confutare tutti gli errori e tutti i sofismi d'un abile avversario: basta che vi sia sempre qualcuno capace di rispondere affinchè sia confutato tutto quello che potrebbe ingannare le persone incolte. Gli spiriti ordinari, conoscendo i principi evidenti delle verità ch'essi professano, possono, pel resto, fidarsi dell'autorità; essi non hanno punto — e lo sanno bene — la scienza e l'ingegno necessari a risolvere tutte le difficoltà che si potrebbero elevare: e la sicurezza che queste possono esser risolte da coloro che se ne occupano di proposito deve bastare alla loro tranquillità.» Anche accordando a questo modo di pensare tutto quello che in suo favore possono domandare coloro a cui non è gran sacrificio credere la verità senza comprenderla perfettamente, i diritti dell'uomo alla libera discussione non ne sono per nulla indeboliti; poichè, secondo questa stessa dottrina, l'umanità dovrebbe avere la ragionevole sicurezza che a tutte le obbiezioni si è risposto in modo soddisfacente. Ora, come si può ad esse rispondere, se non se ne deve parlare? O come si può sapere che la risposta è soddisfacente, se coloro che sollevano obbiezioni non hanno potuto dire che essa non lo era? I filosofi e i teologi che debbono risolvere le difficoltà, se non il pubblico, dovranno prendere dimestichezza con tali difficoltà sotto la loro forma più terribile, e per questo occorre che le si possano esporre liberamente e mostrare sotto il loro aspetto più vantaggioso. La Chiesa cattolica tratta a suo modo questo imbarazzante problema: tracciando una linea di demarcazione bene spiccata tra quelli che debbono accettare le sue dottrine come materia di fede e quelli che le possono adottare per convinzione. In realtà, essa non permette ad alcuno di fare una scelta di ciò che egli accetterà; ma il clero, là almeno ov'esso merita la sua piena fiducia; ha licenza, ed anzi si fa un merito, col prender conoscenza degli argomenti degli avversari affine di rispondere ad essi: può per conseguenza leggere i libri eretici: i laici non lo possono senza uno speciale permesso, ottenuto assai difficilmente. Questa disciplina considera come utile agli insegnanti di conoscere la causa avversa, dando così all'_élite_ più coltura di spirito, se non maggiore libertà, che alla massa. Con questo mezzo, essa riesce ad ottenere quella specie di superiorità intellettuale che a raggiungere il suo scopo si richiede; poichè, sebbene la coltura senza la libertà non abbia mai fatto uno spirito vasto e liberale, pure si può ottenere un abile _nisi prius_ avvocato d'una causa. Ma questo vantaggio è negato ai paesi che professano il protestantesimo, poichè i protestanti sostengono, in teoria almeno, che la responsabilità della scelta di una religione deve pesare su ogni individuo, e non può essere rigettata sugl'insegnanti. Del resto, nello stato presente del mondo, è praticamente impossibile che le opere lette dalle persone colte siano ignorate dagli altri. Se gl'institutori dell'umanità devono essere competenti su tutto quello ch'essi son tenuti a sapere, deve essere anche permesso di tutto scrivere e di tutto pubblicare liberamente. Tuttavia se, quando le opinioni comunemente accette son vere, l'assenza della libera discussione non cagionasse altro male tranne quello di lasciar gli uomini nella ignoranza dei principî di tali opinioni, si potrebbe considerarla come un male non morale, ma semplicemente intellettuale e che non tocca per niente il valore delle opinioni quanto alla loro influenza sul carattere. Ma la verità è che l'assenza di ogni discussione fa dimenticare non soltanto i principi, ma troppo spesso il senso medesimo dell'opinione; le parole che l'esprimono cessano di suggerire delle idee, o suggeriscono soltanto una piccola parte di quelle che originariamente sapevan fornire. In luogo di una concezion forte e di una credenza vivente, non resta che qualche frase ritenuta per abitudine, o, se si ritiene qualcosa del significato, è soltanto il guscio e la scorza: la più pura intima essenza va perduta. La grande importanza che questo fatto ha nella storia degli uomini non sarà mai troppo seriamente studiata e meditata. Lo si vede nella storia di tutte le dottrine morali e di tutte le credenze religiose. Piene di vita e di significato per quelli che le creano e pei discepoli immediati dei creatori, esse continuano ad esser comprese altrettanto chiaramente, se non più, finchè dura la lotta per dare alla dottrina o alla credenza la supremazia sulle altre. Alla fine, o essa la vince e divien l'opinione dominante, o il suo progresso si arresta: essa conserva il terreno conquistato, ma cessa di estendersi: quando l'uno o l'altro di questi due risultati è divenuto evidente, la controversia sul soggetto diminuisce e s'estingue gradualmente. La dottrina ha preso il suo posto, se non come un'opinione accetta all'universale, almeno come una delle sette o delle divisioni d'opinioni tollerate: quelli che la professano l'hanno, in generale, ereditata e non l'hanno adottata; ed essendo divenute allora fatti eccezionali le conversioni da una ad altra dottrina, i loro seguaci si danno ben poca pena per convertire. In luogo d'essere, come da principio, costantemente sul _chi vive_, sia per difendersi contro il mondo, sia per conquistarlo, essi sono giunti ad una inerte fiducia, e mai, finchè possono, ascoltano degli argomenti contro la loro credenza, nè incalzano i dissidenti (se ve ne sono) con argomenti in favore di essa. Da questo istante si può di solito datare il principio della decadenza del potere vivente di una dottrina. Noi sentiamo spesso quelli che insegnano le credenze religiose lamentare la difficoltà di far nascere nello spirito dei credenti una concezione viva della verità che essi nominalmente riconoscono, in modo che questa possa influire sui loro sentimenti e avere un reale impero sulla loro condotta. Nessuno si lagna certo di tale difficoltà finchè la credenza lotta ancora per istabilirsi; allora i più deboli combattenti sanno essi pure e sentono lo scopo della lotta, e conoscono il divario che vi è tra le loro dottrine e le altrui. Così pure si può, in quest'epoca in cui la credenza vive, trovare un numero di persone che ne abbiano effettuato i principi fondamentali sotto tutte le forme del pensiero, che li abbiano esaminati e pesati sotto tutti i loro aspetti importanti, e che abbian provato, quanto al carattere, tutto l'effetto che la fede in tale dottrina doveva produrre su di uno spirito profondamente di essa penetrato. Ma quando essa è passata allo stato di credenza ereditaria ed è accettata passivamente e non attivamente, quando lo spirito non è più così strettamente obbligato a concentrare tutte le sue facoltà sulle questioni che la sua credenza gli pone, v'è una tendenza crescente a non ritenere che le formule della credenza stessa o anche a darvi un assenso inerte e indifferente. Si crede che lo accettarla come materia di fede esoneri dal praticarla in coscienza o dal farne la prova colla esperienza personale; e infine viene un momento in cui ogni rapporto quasi dispare tra questa credenza e la vita interiore dell'essere umano. Allora si vede, ciò che è quasi generale oggi, la credenza religiosa rimanere, per così dire, all'estremo dello spirito, pietrificata oramai contro tutte le altre influenze che s'indirizzano alle parti elevate della nostra natura; essa manifesta il suo potere coll'impedire a qualunque convinzione nuova e vivente di penetrarvi; ma non fa, di per sè, per lo spirito e pel cuore, null'altro che stare di guardia per conservarli vuoti. Si può vedere fino a qual punto le dottrine in sè capaci di produrre la più profonda impressione sullo spirito possano restarvi allo stato di credenze morte, senza mai essere comprese dall'imaginazione, dal sentimento o dall'intelligenza, quando si esamina come la maggioranza dei credenti professa il cristianesimo. Io intendo qui per cristianesimo ciò che è tenuto per tale da tutte le chiese e da tutte le sette: le massime e i precetti contenuti nel Nuovo Testamento. Tutti i cristiani professanti li considerano come sacri e li accettano come legge; tuttavia, è la pura verità che non c'è forse un cristiano su mille che diriga o giudichi la sua condotta individuale secondo queste leggi: il modello a cui ciascuno d'essi s'inspira è il costume della propria nazione, classe o setta religiosa. E così egli ha, da una parte, una raccolta di massime morali che la divina saggezza, secondo lui, si è degnata di trasmettergli come regola di condotta; e dall'altra un insieme di giudizio e di pratiche abituali che s'accordano abbastanza bene con qualcuna di queste pratiche, meno bene con qualche altra, che sono direttamente opposte ad altre ancora, e che formano insomma un mezzo termine tra la credenza cristiana e gli interessi e le suggestioni della vita del mondo. Al primo di questi modelli il cristiano presta il suo omaggio; al secondo la sua vera obbedienza. Tutti i cristiani credono che i poveri, gli umili, quanti insomma il mondo bistratta, sono ben felici; ch'è più facile a un camello passare per la cruna d'un ago di quello che sia ad un ricco entrare nel regno de' cieli; che non devono giudicare per timore d'esser giudicati essi stessi; che non devono giurare; che devono amare il prossimo come sè stessi; che se alcuno si prende il loro mantello, essi devono dargli anche la loro veste; che per essere perfetti devono vendere tutto quello che hanno e darlo ai poveri. I cristiani non mentono quando dicono di credere a queste cose: vi credono come a cose che hanno sempre sentito lodare e mai sentito discutere. Ma, se per fede vivente s'intende quella che è regola di condotta, essi credono a queste dottrine appunto per quel tanto che si ha l'abitudine di agire seguendole. Le dottrine, nella loro integrità, hanno il loro pregio per lapidare gli avversari, ed è sottinteso che le si devono citare, per quanto è possibile, come i motivi di tutto quello che gli uomini fanno o credono fare di lodevole: ma chi ricordasse loro che queste massime esigono una quantità di cose che essi non pensano e non penseranno mai di fare, non vi guadagnerebbe che d'esser posto nel novero di quelle persone impopolari che affettano d'essere migliori degli altri. Le dottrine non hanno nessuna presa sui credenti ordinari, nessun potere sui loro spiriti; essi hanno un rispetto abituale pel suono delle dottrine, ma non già il sentimento che dalle parole va al fondo delle cose, costringendo lo spirito a prendere quest'ultime in considerazione, e tenerle come base di condotta. Tutte le volte che si tratta di condotta, gli uomini si guardano intorno per sapere da A, o da B, fino a che punto essi debbano obbedire a Cristo. Noi possiamo star sicuri che tutto l'opposto accadeva tra i primi cristiani; se fosse stato allora come oggi, mai il cristianesimo sarebbe divenuto, da setta oscura d'un popolo disprezzato, la religione ufficiale dell'Impero. Quando i loro nemici dicevano: «Vedete come i cristiani si amano gli uni gli altri,» (osservazione che nessuno, evidentemente, oggi farebbe) i cristiani sentivano certo più vivamente la portata della loro credenza di quel che in qualunque tempo dappoi. Ed è senza dubbio per questo che il Cristianesimo fa oggidì così scarsi progressi e si trova, dopo diciotto secoli, press'a poco limitato agli Europei e ai discendenti degli Europei. Accade sovente, anche alle persone rigorosamente religiose, a quelle che prendono le loro dottrine sul serio e che vi attribuiscono maggior significato di quanto in generale si fa, d'aver presente allo spirito in modo attivo solamente quella parte della dottrina, aggiunta da Calvino o da Knox o da qualche altra simile persona d'un carattere più analogo al loro: gli insegnamenti di Cristo coesistono passivamente nel loro spirito, producendovi un effetto appena superiore a quello della meccanica audizione di parole così dolci. Vi sono senza dubbio molte ragioni perchè le dottrine che stanno sulla bandiera d'una setta particolare abbiano una vitalità maggiore di quella delle dottrine comuni a tutte le sette riconosciute, e perchè coloro che tali dottrine insegnano si diano maggior cura per inculcarne tutto il significato; — ma la ragion principale è che queste dottrine sono più discusse, e debbono più spesso difendersi contro aperti avversarî. Dacchè non v'è più nemico a temere, e quelli che insegnano e quelli che imparano possono, al loro posto, addormentarsi. Lo stesso è vero in generale trattandosi di qualunque dottrina tradizionale: quelle di prudenza e di conoscenza della vita così come quelle di morale o di religione. Tutte le lingue e tutte le letterature abbondano di osservazioni generali sulla vita e sul modo di comportarvisi; osservazioni che ciascuno conosce, che ciascuno ripete o ascolta pienamente consentendo, che si ritengono assiomatiche, e di cui tuttavia in generale non s'impara il vero significato che quando l'esperienza li trasforma per noi in realtà, e quasi sempre a nostre spese. Quante volte una persona, provando un dolore o un contrattempo, non si ricorda qualche proverbio o qualche motto che glie lo avrebbe risparmiato, s'egli ne avesse sempre così bene compreso il significato! Ad onor del vero, per questo vi sono altre ragioni oltre l'assenza di discussione; vi sono molte verità di cui non si può comprendere il senso che quando l'esperienza personale ce l'ha insegnato. Ma anche di quelle il significato sarebbe stato più o meno compreso, se l'uomo fosse stato avvezzo a sentir discutere il pro e il contro dai competenti. La fatale tendenza della specie umana a lasciar da parte una cosa dacchè essa non è più messa in dubbio ha causata la metà dei suoi errori: un autore contemporaneo ha descritto bene il sonno profondo d'un'opinione fatta, e fermata nel suo cammino. «Ma dunque» ci chiederà qualcuno «l'assenza di unanimità è una condizione indispensabile al vero sapere? È necessario che una parte di umanità persista nell'errore perchè l'altra possa comprendere la verità? E una credenza cessa d'esser vera e vitale non appena è generalmente accettata? E una proposizione non è mai completamente compresa e sentita, se non si conserva, a proposito di essa, qualche dubbio? E una verità, insomma, perisce non appena gli uomini l'hanno accettata all'unanimità? Il consentimento sempre più generale ed unanime degli uomini alle verità importanti fu sempre considerato come lo scopo più elevato e come il più notevole progresso dell'intelligenza: questa dunque ha una durata insufficiente ad attinger lo scopo? E proprio la pienezza della vittoria è quella che distrugge i frutti della conquista?» Io non affermo nulla di questo. A misura che l'umanità progredisce, il numero delle dottrine che non son più soggetto di discussione nè di dubbio aumenta costantemente e il benessere della umanità si può quasi commisurare al numero e all'importanza delle verità divenute incontestabili. La cessazione su di un punto, poi su di un altro, di qualunque seria controversia è una delle condizioni necessarie al consolidarsi dell'opinione; una consolidazione altrettanto salutare trattandosi di un'opinione giusta, quanto pericolosa e dannosa trattandosi di opinioni errate. Ma, sebbene questa diminuzione graduale delle divergenze di opinioni sia, in tutta la forza della parola, necessaria, dappoichè essa è ad un tempo inevitabile e indispensabile, noi non siamo obbligati a concluderne che tutte le sue conseguenze debbano essere salutari. La necessità di spiegare o di difendere costantemente una verità ajuta così bene a comprenderla in tutta la sua forza, che questo vantaggio, se non supera, per lo meno uguaglia quasi quello del riconoscimento universale di questa verità. Io confesso che vorrei vedere, là dove un tale vantaggio più non esiste, gl'institutori della specie umana cercare di sostituirlo; io vorrei si creasse qualche mezzo di rendere le difficoltà della questione altrettanto presenti allo spirito degli uomini quanto lo farebbe un avversario bramoso di convertirli. Ma, in luogo di cercare simili mezzi, essi hanno perduto quelli che avevano in altri tempi: uno di tali mezzi era la dialettica di Socrate, di cui Platone ci dà nei suoi dialoghi degli esempi così magnifici. Era essenzialmente una discussione negativa delle grandi questioni della filosofia e della vita, condotta con una consumata abilità, che si proponeva di mostrare a un uomo il quale avesse adottato semplicemente i luoghi comuni della opinione ammessa, ch'egli non intendeva il soggetto, che non aveva ancora dato alcun senso definito alle dottrine da lui professate; affinchè, illuminato sulla sua ignoranza, egli potesse cercar di farsi una solida credenza, basata su di una concezione netta e del significato e dell'evidenza delle dottrine. Le dispute delle scuole del medio evo avevano uno scopo press'a poco simile. Si voleva con tal mezzo aver la prova che l'allievo comprendeva l'opinione sua propria e (per una necessaria correlazione) l'opinione opposta, e ch'egli sapeva sostenere i motivi dell'una e confutare quelli dell'altra. Queste ultime dispute avevano, in verità, il difetto irrimediabile di trarre le loro premesse non dalla ragione, bensì dall'autorità: e, come disciplina dello spirito, esse erano sotto tutti i rispetti inferiori alla possente dialettica che formò l'intelligenza dei _socratici viri_; ma lo spirito moderno deve ad ambedue queste scuole assai più di quello ch'egli generalmente voglia riconoscere, e i diversi modi d'educazione d'oggidì non contengono nulla che possa punto punto sostituirsi all'una o all'altra. Una persona che ha ricevuto tutta la sua coltura dai professori o dai libri, anche se sfugge alla tentazione solita di contentarsi d'imparare senza comprendere, non è per nulla obbligata a conoscere tutte e due le faccie d'un soggetto. È rarissimo, anche tra i pensatori, che si conosca a questo punto un argomento in ambedue le sue parti; e la parte più debole di quello che ciascuno dice per difendere la sua opinione è quello ch'esso destina come replica a' suoi avversari. Oggi è di moda sprezzare la logica negativa, quella che indica i punti deboli in teoria o gli errori in pratica, senza stabilir delle verità positive. Certo, una tal critica negativa sarebbe triste come risultato finale; ma come mezzo di ottenere una conoscenza positiva o una convinzione veramente degna di questo nome, non si può mai stimarla abbastanza. E finchè gli uomini non vi siano di nuovo sistematicamente avviati vi saranno ben pochi grandi pensatori e il livello medio delle intelligenze sarà poco elevato per tutto ciò che non è matematiche o scienze fisiche. Su qualunque altro soggetto, le opinioni di un uomo non meritano il nome di conoscenze se non in quanto egli abbia seguito, o spontaneamente o per forza, il cammino intellettuale che gli avrebbe fatto seguire un'attiva opposizione degli avversari. Si vede dunque quanta assurdità vi sia nel rinunciare, quando s'offre spontaneamente, a un vantaggio che è così indispensabile, ma così difficile a creare quando manchi: se vi sono quindi persone che contestano una opinione ammessa comunemente o che lo faranno se la legge o l'opinione lo permette loro, ringraziamole, ascoltiamole, e rallegriamoci con noi stessi perchè qualcuno fa per noi quello che altrimenti (se noi appena appena diamo qualche importanza alla certezza o alla vitalità delle nostre opinioni) noi stessi dovremmo fare con molto maggiore incomodo. Ci resta ancora a parlare d'una delle cause principali che rendono vantaggiosa la diversità d'opinioni. Questa causa sussisterà finchè l'umanità sia entrata in uno stadio di progresso intellettuale che sembra, per ora, ad una incalcolabile distanza. Noi non abbiamo finora esaminato che due ipotesi: 1.º l'opinione ammessa può essere falsa e, di conseguenza, qualche altra opinione vera; 2.º l'opinione ammessa è vera, e una lotta tra essa e l'errore opposto è indispensabile ad una concezione netta e ad un profondo sentimento della sua verità. Ma accade più spesso ancora che le dottrine in contraddizione, invece d'essere l'una vera e l'altra falsa, si dividano la verità: allora l'opinione dissidente è necessaria per fornire il resto della verità di cui la dottrina comunemente ammessa non possiede che una parte. Le opinioni popolari su qualunque cosa che non cada sotto i sensi sono spesso vere, ma non lo sono quasi mai completamente: esse contengono una parte di verità (talvolta più, talvolta meno rilevante), ma esagerata, sfigurata, e separata dalle verità che la dovrebbero accompagnare e limitare. D'altra parte, le opinioni eretiche contengono generalmente qualcuna di queste verità soppresse e trascurate che, spezzando le loro catene, o cercano di riconciliarsi colla verità convenuta nell'opinione comune, o l'affrontano come nemica e di fronte ad essa si elevano, affermandosi in una maniera esclusiva così come la stessa verità. Il secondo caso è stato fino ad oggi il più frequente perchè lo spirito umano è più generalmente esclusivo che liberale: onde, di consueto, anche nelle rivoluzioni dell'opinione, una parte della verità si oscura mentre ne viene in luce un'altra. Il progresso medesimo che dovrebbe sempre più accrescere il patrimonio della verità non fa, nella maggior parte dei casi, altro se non sostituire una verità parziale ed incompleta ad un'altra; e il miglioramento consiste semplicemente nell'essere il nuovo frammento di verità più necessario, meglio adatto al bisogno del momento di quello a cui si sostituisce. Tale il carattere parziale delle opinioni dominanti, anche quando riposino su una base giusta: dunque, qualunque opinione che rammenti qualche poco della parte di verità dalla opinione comune trascurata, dev'esser considerata preziosa, per grandi che siano gli errori a cui tale verità può andar congiunta. Nessun uomo sensato si vorrà indignare perchè quelli che ci obbligano a notare delle verità che altrimenti noi avremmo trascurato ne trascurano poi dal canto loro qualcuna di quelle che noi scorgiamo. Egli dirà piuttosto che, dal momento che l'opinione pubblica è così fatta che non vede della verità se non una parte, è desiderabile che le opinioni impopolari siano proclamate da apostoli non meno esclusivi, perchè sono di solito i più energici e i più capaci d'attirare, suo malgrado, l'attenzione del pubblico sul frammento di saggezza ch'essi esaltano, come se fosse la saggezza tutta quanta. È così che nel secolo XVIII i paradossi di Rousseau fecero un'esplosione salutare in mezzo ad una società in cui tutte le classi erano in profonda ammirazione davanti al così detto incivilimento e davanti alle maraviglie della scienza, della letteratura, della filosofia moderna, e non si paragonavano agli antichi che per mettersi al di sopra di loro. Rousseau rese il servizio di spezzare la massa compatta della cieca opinione e di forzare i suoi elementi a ricostituirsi sotto una forma migliore e con parecchie aggiunte. Non già che le opinioni ammesse fossero, tutto sommato, più lontane dalla verità di quelle di Rousseau; al contrario, esse vi erano più vicine, e contenevano più verità positiva e meno assai di errori. Nulladimeno, c'era nelle dottrine di Rousseau, ed è passato nell'opinione comune, un gran numero appunto di quelle verità di cui l'opinion popolare avea bisogno; e così esse continuarono a sussistere. Le qualità superiori della vita semplice, l'effetto snervante e immorale delle pastoje e delle ipocrisie d'una società artificiale sono idee che, da Rousseau in poi, non hanno mai completamente abbandonato gli spiriti colti; esse produrranno il loro effetto, sebbene, pel momento, abbiano ancora bisogno d'essere proclamate con atti; poichè le parole su questo argomento hanno oramai quasi esaurita la loro potenza. D'altra parte, è riconosciuto in politica che un partito d'ordine o di stabilità e un partito di progresso o di riforma sono i due elementi necessari d'uno stato fiorente, finchè l'uno o l'altro dei partiti abbia talmente estesa la sua potenza intellettuale da saper essere ad un tempo partito d'ordine e partito di progresso, conoscendo e distinguendo quel che si deve conservare e quel che si deve distruggere. Ognuna di queste maniere di pensare trae profitto dai difetti dell'altra; ma è principalmente la loro mutua opposizione che le mantiene entro i limiti della sana ragione. Se non si può esprimere con uguale libertà, sostenere e difendere con uguale ingegno e con uguale energia tutte le opinioni che si contendono il terreno della vita pratica, siano poi esse favorevoli alla democrazia o all'aristocrazia, alla proprietà privata o all'uguaglianza economica, alla cooperazione o alla concorrenza, al lusso o all'astinenza, allo stato o all'individuo, alla libertà o alla disciplina; — non v'è alcuna probabilità che i due elementi ottengano ciò che loro è dovuto; è sicuro che uno dei piatti della bilancia traboccherà. La verità, nei grandi interessi pratici della vita, è sopratutto una questione di combinazione e di conciliazione degli estremi; e poichè pochissimi uomini hanno abbastanza criterio ed imparzialità sufficiente per fare questo accomodamento in modo più o meno corretto, così talvolta esso deve compiersi col proceder violento di una lotta tra combattenti sotto bandiere nemiche. Se, a proposito d'una delle grandi questioni che abbiamo enumerato testè, un'opinione ha maggior diritto dell'altra ad essere non soltanto tollerata, ma anche incoraggiata e sostenuta, è la più debole. Ecco l'opinione che, pel momento, rappresenta gl'interessi trascurati, il lato del benessere umano che è in pericolo di ottener meno della parte che gli spetta. Io so che tra noi son tollerate le opinioni più varie sulla maggior parte di tali materie: e ciò prova con esempî numerosi e non equivoci l'universalità di questo fatto: che nello stato attuale dello spirito umano tutta la verità non può farsi strada che traverso la diversità d'opinioni. Quando si trovano delle persone che non partecipano affatto all'apparente unanimità del mondo su di un soggetto, è probabile che, se anche il mondo avesse ragione, questi dissidenti abbiano a dire per altro in loro favore qualcosa che merita d'essere ascoltato, e che pel loro silenzio la verità ci rimetta qualcosa. Si può fare l'obbiezione seguente: «Ma qualcuno dei principî comunemente ammessi, sopratutto sui soggetti più elevati ed essenziali, è qualcosa di meglio d'una mezza verità. La morale cristiana, per esempio, contiene la verità tutta quanta, e se qualcuno insegna una morale diversa, è completamente in errore.» Poichè questo è uno dei casi più importanti in pratica, nulla di meglio per mettere alla prova la massima generale. Ma, prima di decidere quello che sia o non sia la morale cristiana, sarebbe desiderabile di fissare che cosa per morale cristiana s'intenda. Se s'intende la morale del Nuovo Testamento, io mi meraviglio che qualcuno che trae da questo stesso libro la sua dottrina possa supporre che esso sia stato concepito od annunciato come una dottrina completa di morale. L'Evangelo si riferisce sempre ad una morale preesistente, e limita i suoi precetti ai punti particolari in cui questa morale dev'esser corretta o sostituita da un'altra più vasta ed elevata; inoltre, esso si esprime sempre nei termini più generali, che bene spesso non si possono letteralmente interpretare ed hanno il colore della poesia o dell'eloquenza piuttosto che la precisione della legge. Non si è mai potuto estrarne un corpo di dottrina morale, senza aggiungervi il Testamento Vecchio, un sistema cioè elaborato per dire il vero, ma barbaro sotto molti rapporti, e fatto solamente per un popolo barbaro. San Paolo, nemico dichiarato di questa maniera giudaica d'interpretar la dottrina e di compiere lo schizzo dal suo maestro abbozzato, ammette egli pure una morale preesistente, quella dei Greci e dei Romani, e consiglia ai cristiani di venire con essa quasi ad un accomodamento, fino al punto di sanzionare in apparenza la schiavitù. Quel che si chiama morale cristiana, ma che si dovrebbe piuttosto chiamare morale teologica, non è per nulla opera di Cristo nè degli apostoli: essa ha una data più recente, è stata messa gradatamente insieme dalla Chiesa cristiana dei primi cinque secoli; e, sebbene i moderni e i protestanti non l'abbiano implicitamente accettata, pure essi l'hanno modificata meno di quel che si sarebbe potuto aspettarsi. A vero dire, la maggior parte si è contentata di rintracciare le aggiunte che v'erano state fatte nel medio evo, e ciascuna setta le sostituì con aggiunte nuove, più conformi al suo carattere e alle sue tendenze. Io non pretendo punto di negare tutto quello che la specie umana deve a questa morale e a coloro che pei primi la bandirono; ma oso dire però che essa è in molti punti incompleta ed esclusiva e che, se idee e sentimenti ch'essa non sanziona non avessero contribuito alla formazione della vita e del carattere europeo, le cose umane sarebbero ora a ben peggior partito di quel che sono. La così detta morale cristiana ha tutti i caratteri d'una reazione; è in gran parte una protesta contro il paganesimo. Il suo ideale è negativo piuttosto che positivo, passivo piuttosto che attivo, l'innocenza piuttosto che la grandezza, l'astensione dal male piuttosto che l'energica ricerca del bene; nei suoi precetti, come è stato benissimo osservato, il: _tu non farai_ domina eccessivamente sul: _tu farai_. Nel suo orrore per la sensualità essa ha fatto un idolo dell'ascetismo, e quindi, per un compromesso graduale, della legalità; essa considera la speranza del cielo e il timor dell'inferno come le spinte di una vita virtuosa; e restando in questo ben al di sotto dei saggi dell'antichità, fa ciò che può per dare alla morale umana un carattere essenzialmente egoista, separando i sentimenti di dovere presso ciascun uomo dagl'interessi dei suoi simili, tranne che quando un motivo interessato lo conduca ad avervi riguardo. È essenzialmente una dottrina di passiva obbedienza; inculca la sommessione a tutte le autorità costituite; o cioè alle autorità non vuole si obbedisca attivamente quando esse comandino ciò che la religione proibisce; ma non si deve resister loro, meno ancora ribellarsi, per ingiuste ch'esse siano. E mentre nella morale delle migliori nazioni pagane i doveri del cittadino verso lo stato tengono un posto sproporzionato ed usurpano il campo della libertà individuale, nella morale puramente cristiana questa gran parte dei nostri doveri è appena ricordata o riconosciuta. Nel Corano e non nel Nuovo Testamento noi leggiamo questa massima: _Un governante che nomina un uomo ad un impiego, quando c'è nei suoi stati un altr'uomo più degno di occuparlo, pecca contro Dio e contro lo Stato_. Se l'idea d'obbligo verso il pubblico è giunta a farsi strada nella morale moderna, essa è stata attinta non al Cristianesimo, ma ai Greci ed ai Romani. Allo stesso modo, quello che c'è nella morale privata di magnanimità, di elevazione di spirito, di dignità personale, e direi anche di senso d'onore proviene non dalla parte religiosa, ma dalla parte puramente umana della nostra educazione, e non avrebbe mai potuto essere frutto di una dottrina morale che non riconosce del merito se non nell'obbedienza. Io sono ben lontano dall'affermare che questi difetti siano necessariamente inerenti alla dottrina cristiana, qualunque sia la forma in cui la si concepisce, o anche dall'affermare che quanto le manca per essere una dottrina completa sia con essa inconciliabile; e tanto meno pretendo d'insinuar questo a proposito delle dottrine e dei precetti di Cristo stesso. Io penso che le parole di Cristo sono chiaramente tutto quello che han voluto essere; ch'esse non sono inconciliabili con nulla di quanto è richiesto da una morale completa; che vi si può far rientrare tutto quanto v'è di eccellente in fatto di dottrine morali senza violentarne il significato più di quello che abbiano fatto quanti hanno tentato di dedurne un qualunque sistema di pratica condotta. Ma credo nello stesso tempo — e non sono con questo in contraddizione — ch'esse non contengano nè volessero contenere se non una parte della verità. Io credo che, nei suoi precetti, il fondatore del cristianesimo abbia a bello studio trascurati molti elementi essenziali della più alta morale, che la Chiesa cristiana ha completamente rifiutati, nel sistema di morale ch'essa ha basato su queste stesse istruzioni; e, dato questo, io considero un grande errore quello di voler trovare nella dottrina cristiana una regola completa di condotta che il suo fondatore non ha voluto particolareggiar tutta quanta, ma solamente sanzionare ed appoggiare. Credo anche che questa angusta teoria divenga praticamente un male gravissimo, diminuendo assai il valore della educazione e della istruzione morale che tante persone ben intenzionate si sforzano d'incoraggiare. Temo forte che — tentando di formare lo spirito e i sentimenti su di un tipo esclusivamente religioso e lasciando da banda quei modelli secolari (se l'espressione mi è permessa) che stavano a lato della morale cristiana e la integravano mescolando il loro spirito al suo — non ne sia per risultare un tipo di carattere basso, abbietto, servile, capace forse di sottomettersi a quello ch'egli crede la volontà divina, ma non di elevarsi alla concezione della divina bontà e di provare per essa un'alta simpatia. Credo che un'altra morale oltre a quella puramente cristiana debba esistere a lato di questa per produrre la rigenerazione morale dello spirito umano; e, secondo me, il sistema cristiano non fa eccezione alla regola generale che, dato uno stato d'imperfezione dello spinto umano, gl'interessi della verità esigono la diversità d'opinioni. Non è necessario che, cessando d'ignorare le verità morali non contenute nel cristianesimo, gli uomini debbano ignorare qualcuna di quelle che esso contiene. Un tal pregiudizio o un tale errore, quando si verifica, è senza dubbio un male; ma è un male da cui noi non possiamo sperare d'essere sempre esenti, e che deve considerarsi come il prezzo di un bene inestimabile. Si deve protestare contro la pretesa esclusiva che una parte della verità eleva di essere la verità tutta quanta; e se una reazione rendesse ingiusti alla lor volta quelli che protestano, questo acciecamento può, come l'altro, esser deplorato, ma deve esser tollerato. Se i cristiani volevano insegnare ai pagani ad esser giusti verso il cristianesimo dovevano cominciare essi pei primi ad esser giusti verso il paganesimo. È un rendere dei cattivi servizî alla verità il perder di vista questo fatto, ben noto a quanti hanno la minima nozione di storia letteraria, che una gran parte dell'insegnamento morale più nobile ed elevato è stata l'opera non già d'uomini che non conoscevano, ma di uomini che conoscevano e non accettavano la fede cristiana. Io non sostengo già che l'uso più illimitato della libertà di esprimere tutte le opinioni possibili metterebbe fine ai mali dello spirito settario in religione o in filosofia; tutte le volte che uomini di mente angusta credono in buona fede una verità, si è sicuri di vederli a proclamarla, inculcarla ed anche spesso agire secondo la loro convinzione, come se al mondo non ci fossero altre verità, o almeno nessun'altra che potesse limitare o modificare la prima. Io riconosco che la più libera discussione non è un ostacolo alla tendenza, che ogni opinione ha, di divenir settaria; che anzi, al contrario, essa spesse volte l'aumenta, la fa più acre; perchè si respinge con violenza tanto maggiore la verità fino allora inavvertita, in quanto essa è proclamata da persone considerate avversarie. Ma non è sul partigiano appassionato, è sullo spettatore più calmo e disinteressato che questo cozzo delle opinioni produce il suo effetto salutare. Non è la lotta violenta tra le parti diverse della verità il male da temere; bensì la soppressione tranquilla d'una metà del vero. Vi è sempre speranza quando gli uomini sono obbligati ad ascoltare le due parti; è quando essi non s'occupano se non di una che i loro errori si mutano in pregiudizi e la verità esagerata e falsata cessa di aver gli effetti della verità. E poichè nulla in un giudice è tanto raro quanto la facoltà di dare un giudizio sensato in una causa in cui egli non ha sentito perorare che un avvocato, la verità non può sperar di farsi strada che se ogni opinione, la quale racchiuda qualcuna delle sue parti, trovi degli avvocati, e degli avvocati capaci di farsi ascoltare. Noi abbiamo dunque così riconosciuta la necessità pel benessere intellettuale della specie umana (d'onde dipende il suo benessere morale e materiale) della libertà di opinione e della libertà di discussione: e questo per quattro distinte ragioni che ora brevissimamente riassumeremo: 1.º una opinione che si ridurrebbe al silenzio può benissimo essere vera: negare questo, è quanto affermare la propria infallibilità; — 2.º quando anche l'opinione ridotta al silenzio fosse un errore, essa potrebbe, come nella maggior parte dei casi avviene, contenere una parte di verità: e poichè l'opinione generale o dominante su qualsivoglia soggetto è raramente o non mai tutta la verità, non v'è mezzo di conoscerla per intero se non col cozzo delle opinioni avverse; — 3.º anche nel caso in cui l'opinione dominante contenesse la verità e tutta la verità, essa sarà professata come una specie di pregiudizio, senza comprendere o sentire i suoi principî razionali, se non può esser discussa vigorosamente e lealmente; — 4.º il significato stesso della dottrina sarà in pericolo di perdersi o indebolirsi o vedersi privato del suo effetto vitale sul carattere e sulla condotta; poichè il dogma diverrà una semplice formula che, inefficace pel bene, ingombra il terreno e impedisce il formarsi di qualunque convinzione reale fondata sulla ragione o sulla personale esperienza. Prima di lasciare questo soggetto della libertà di opinione è bene prestare orecchio un istante a quelli che dicono: «Si può permettere di esprimere liberamente qualunque opinione, purchè lo si faccia con moderazione e non si passino i limiti della discussione leale.» Si potrebbe parlare a lungo sulla impossibilità di fissare questi supposti limiti. Non è affatto possibile dire: basta non offendere coloro di cui si oppugna l'opinione, perchè — e l'esperienza lo prova — essi si considereranno come offesi tutte le volte che l'attacco sarà potente, ed accuseranno di mancar di moderazione tutti gli avversarî che daran loro da pensare. Ma questa considerazione, per quanto importante sotto l'aspetto pratico, sparisce davanti ad una obbiezione più fondamentale. Senza dubbio alcuno, il modo di proclamare una opinione, anche giusta, può essere molto riprovevole e provocare a giusta ragione una severa censura; ma le principali offese di questo genere sono tali che il più delle volte è impossibile, tranne che per una confessione accidentale, giungere a dimostrarle. La più grave di queste offese è discutere in una maniera sofistica, sopprimere dei fatti o degli argomenti, esporre inesattamente gli elementi di fatto o snaturare l'opinione avversaria. Ma persone che non sono ritenute e che, sotto molti altri rispetti, non meritano punto d'esser ritenute ignoranti o incompetenti, agiscono a questo modo, magari con la massima gravità, così spesso e con tanta buona fede, che è raramente possibile di potere, in coscienza e con sufficienti ragioni, dichiarare moralmente colpevole una falsa esposizione; e la legge potrebbe tanto meno tentar d'incriminare questo vizio di polemica. Quanto poi a ciò che s'intende comunemente per discussione intemperante: le invettive, il sarcasmo, le personalità, ecc., ecc., la denuncia di questi modi di procedere meriterebbe più simpatia se si pensasse almeno a proibirli ugualmente alle due parti; invece non si desidera se non restringerne l'uso all'opinione dominante. Che un uomo l'impieghi contro le altre opinioni, ed è sicuro non soltanto di non esser biasimato, ma d'esser anche lodato pel suo onesto zelo e per la sua giusta indignazione. Tuttavia il male che questi mezzi di discussione possono produrre non è mai così grande come quando se ne fa uso contro opinioni relativamente indifese; e l'ingiusto profitto che un'opinione può trarre da questa maniera di affermarsi ridonda quasi unicamente a vantaggio delle opinioni comunemente ammesse. La peggior offesa di questo genere che in una polemica si possa commettere è di vituperare come uomini pericolosi ed immorali quelli che professano l'opinione contraria alla nostra. Gli uomini che professano un'opinione impopolare sono specialmente esposti a tali calunnie, perchè in generale sono poco numerosi e punto influenti e nessuno s'interessa di veder loro resa giustizia; ma, per la natura delle cose, di quest'arma non si possono valere quelli che dàn l'assalto ad una opinione dominante; essi correrebbero un pericolo personale a servirsene e, quand'anche pericolo non vi fosse, non farebbero così se non screditare la loro causa. In generale le opinioni opposte alle opinioni dominanti non giungono a farsi ascoltare che usando un linguaggio studiatamente temperato, ed evitando con la massima cura ogni inutile offesa: esse non possono, senza perder terreno, menomamente deviare da questa linea di condotta; mentre al contrario gl'insulti senza misura indirizzati dall'opinione dominante alle opinioni contrarie allontanano realmente gli uomini da queste. Perciò, nell'interesse della verità e della giustizia, è importante sopratutto di proibire l'uso del linguaggio offensivo e, per esempio, se si dovesse scegliere, sarebbe molto più necessario riprovare gli attacchi insultanti contro le libere credenze che quelli contro la religion di Stato. È tuttavia evidente che nè la legge nè l'autorità non debbono occuparsi d'impedire gli uni o gli altri; e che il giudizio dell'opinione deve determinarsi, in ogni occasione, colle contingenze del caso particolare. Si deve condannare ogni uomo, senza riguardo alla parte dell'argomento da cui si metta, nelle cui parole faccia capolino o la mancanza di buona fede, o la malignità, o la bigotteria, o l'intolleranza di sentimento. Ma non bisogna accusar di questi difetti i nostri avversarî perchè sono i nostri avversarî; e si deve rendere onore a quella persona, qualunque sia il partito cui essa appartiene, che ha la calma di scorgere e l'onestà di riconoscere che cosa sono in realtà i suoi avversarî e le loro opinioni, non esagerando nulla di ciò che li può danneggiare, non nascondendo nulla di ciò che loro può riuscir di vantaggio. Ecco la vera moralità della pubblica discussione, e, se essa è soventi volte violata, io sono lieto di pensare che vi son molti polemisti che la osservano a un grado altissimo, ed un numero più grande ancora che coscienziosamente fanno ogni sforzo per giungere ad osservarla. FINE DEL CAPITOLO SECONDO CAPITOLO TERZO. L'INDIVIDUALITÀ COME ELEMENTO DI BENESSERE. Abbiamo vedute le ragioni che rendono assolutamente necessaria agli uomini la libertà di formarsi delle opinioni e di esprimerle senza tacite riserve; abbiamo pure veduto che, se questa libertà non è riconosciuta o mantenuta a dispetto della proibizione, le conseguenze per l'intelligenza e la natura morale dell'uomo sono funeste: — ricerchiamo ora se le stesse ragioni non richiedano che gli uomini siano liberi di contenersi nella vita secondo le loro opinioni senza esserne impediti dai proprî simili, finchè, s'intende, essi agiscono a loro rischio e pericolo. Questa ultima condizione è naturalmente indispensabile. Nessuno sostiene che le azioni debbano essere così libere come le opinioni; al contrario, le opinioni stesse perdono la loro immunità, quando le si esprimono in circostanze tali, che la loro espressione è un'instigazione positiva a qualche atto dannoso. L'idea che i mercanti di grano fanno morire di fame i poveri o che la proprietà privata è un furto, non deve essere perseguitata finchè si limita a circolare nella stampa; ma essa può incorrere in una giusta punizione se la si esprima oralmente, in mezzo ad un'assemblea di violenti, agglomerati davanti alla porta di un mercante di grano, o se la si diffonde sotto forma di avviso. Certe azioni, non importa di qual genere, che senza causa giustificabile danneggiano altrui, possono e, nei casi più importanti, devono assolutamente essere seguite dalla disapprovazione e, quando ve ne sia bisogno, dall'intervento attivo del genere umano. La libertà dell'individuo dev'esser limitata: egli non deve rendersi dannoso agli altri; ma s'egli non ferisce gli altri in ciò che li riguarda, e si contenta di agire secondo la sua inclinazione e il suo giudizio nelle cose che riguardano lui stesso solamente, le stesse ragioni le quali stabiliscono che l'opinione dev'esser libera provano pure che il mettere, a proprio repentaglio, in pratica le proprie opinioni deve essere perfettamente lecito. La specie umana non è infallibile; le sue verità non sono, per la maggior parte, se non delle mezze verità; l'unanimità delle opinioni non è desiderabile, a meno ch'essa non risulti dal confronto più libero e completo delle opinioni contrarie; la diversità di opinioni non è un male ma un bene, finchè l'umanità non sarà molto più atta che oggi non sia a riconoscere tutti i lati diversi del vero: — ecco dei principî che si possono applicare così alle opinioni degli uomini come alla loro maniera d'agire. Poichè è utile, finchè il genere umano è imperfetto, che vi siano diverse opinioni, è buono nello stesso modo che si provino delle differenti maniere di vivere; è vantaggioso concedere un libero slancio ai diversi caratteri, impedendo tuttavia loro di essere gli uni agli altri dannosi; e ciascuno deve potere, quando lo giudichi conveniente, tentar la prova dei diversi generi di vita. Là dove la norma della condotta è dettata non dal carattere di ciascuno, ma dalle tradizioni o dai costumi degli altri, ivi manca completamente uno degli elementi principali del benessere umano e l'elemento più essenziale del progresso individuale e sociale. Qui la più gran difficoltà non consiste nel valutare i mezzi che conducono ad uno scopo riconosciuto, ma nell'indifferenza della generalità a proposito dello scopo stesso. Se si considerasse il libero sviluppo dell'individualità come uno dei principî essenziali del benessere, se lo si tenesse non in conto di un elemento che si coordina con tutto quanto vien designato dalle parole d'incivilimento, di istruzione, di educazione, di coltura, ma bensì in conto di una parte necessaria e d'una condizione perchè tutte queste cose si ottengano, non vi sarebbe pericolo che la libertà non fosse stimata al suo giusto valore; non si troverebbero delle difficoltà enormi a tracciare la linea di demarcazione tra essa e la sorveglianza sociale. Ma, pur troppo, alla spontaneità individuale si riconosce soltanto, ed a fatica, qualche poco di valore intrinseco. Dappoichè la maggioranza è soddisfatta dei costumi attuali dell'umanità (i quali infatti sono opera sua) essa non può comprendere perchè questi costumi non debbano bastare a tutti quanti. Vi è anche di peggio: la spontaneità non entra nell'ideale della maggioranza dei riformatori morali e sociali; essi la considerano piuttosto con gelosia, come un ostacolo noioso e forse insuperabile all'accettazione generale di quello che, secondo il giudizio di questi riformatori, sarebbe il miglior partito per l'umanità. Poche persone, fuori di Germania, comprendono il significato di quella dottrina sulla quale Guglielmo Humboldt, uomo così notevole e come erudito e come politico, ha scritto un trattato: la dottrina per cui «il fine dell'uomo, non quale lo suggeriscono vaghi e fugaci desiderî, ma quale lo prescrivono gli eterni ed immutabili decreti della ragione, è lo sviluppo più vasto ed armonico di tutte le sue facoltà in un complesso sodo e completo» e quindi «lo scopo a cui deve tendere incessantemente ogni essere umano, e in particolare quelli che vogliono influire sui loro simili, è l'individualità nel potere e nello sviluppo.» A questo due cose sono necessarie: «La libertà e una varietà di condizioni». La loro unione produce «il vigore individuale e la diversità multipla» che si fondono nella «originalità»[6]. Tuttavia, per nuova e sorprendente che possa sembrare questa dottrina humboldtiana, che dà tanto valore all'individualità, la questione non è dopo tutto — ci si pensi bene — che una questione di più o di meno. Nessuno suppone che la perfezione della natura umana sia di copiarsi esattamente gli uni gli altri; nessuno afferma che il giudizio o il carattere particolare di un uomo non debba entrar per nulla nella sua maniera di vivere e di curare i suoi interessi. E d'altra parte sarebbe assurdo pretendere che gli uomini dovessero vivere come se nulla fosse stato al mondo prima della loro venuta, come se l'esperienza non avesse ancora in nessun caso mostrato che un certo modo di comportarsi è preferibile a un certo altro; nessuno contesta che si debba elevare ed istruire la gioventù in modo da farla approfittare dei risultati ottenuti dall'umana esperienza. Ma è privilegio e condizione propria di un essere umano arrivato alla piena maturanza delle sue facoltà il servirsi dell'esperienza e l'interpretarla a suo modo; tocca a lui scoprire che cosa vi sia, nell'esperienza accumulata, di applicabile alla sua condizione e al suo carattere. Le tradizioni e i costumi degli altri individui sono, fino a un certo segno, delle testimonianze di ciò che l'esperienza ha loro appreso, e questa testimonianza, questa presunzione deve essere accolta con rispetto dall'adulto che noi abbiamo supposto: ma, anzitutto, l'esperienza degli altri può essere troppo limitata, o essi possono averla interpretata male; l'avessero poi anche rettamente interpretata, la loro interpretazione può benissimo non esser conveniente ad un individuo in particolare. I costumi sono fatti pei caratteri e per le condizioni usuali; e il suo carattere, la sua condizione posson bene non esser fra queste. E quand'anche i costumi fossero buoni in sè stessi, e potessero convenire a questo individuo, un uomo che si adatta al costume semplicemente perchè è il costume non mantiene nè sviluppa in sè alcuna di quelle qualità che sono l'attributo caratteristico di un essere umano. Le facoltà umane di percezione, di giudizio, di discernimento, di attività intellettuale ed anche di preferenza morale, si esercitano soltanto col fare una scelta; chi agisce sempre in modo da seguire il costume non fa scelta di sorta, e non impara a discernere o a desiderare il meglio. La forza intellettuale e la forza morale, precisamente come la forza muscolare, non fanno dei progressi se non in quanto sono esercitate; e non si esercitano le proprie facoltà facendo una cosa semplicemente perchè la fanno gli altri, più di quello che le si esercitino credendo una cosa unicamente perchè la credono gli altri. Se alcuno adotta un'opinione senza che i principî di questa opinione gli siano sembrati concludenti, la sua ragione non ne sarà punto rafforzata, ma piuttosto indebolita; e se esso commette un'azione i cui motivi determinanti non sono conformi alle sue opinioni o al suo carattere (sempre dove non si tratti di affetti nè di diritti altrui) esso riuscirà solamente a snervare il suo carattere e le sue opinioni, che dovrebbero essere attivi ed energici. L'uomo il quale permette che il mondo, o almeno il suo mondo, scelga anche per suo conto personale il modo di vivere non ha da invidiare alle scimie se non la facoltà d'imitazione: l'uomo che sceglie egli stesso la sua maniera di vivere fa uso di tutte le sue facoltà. Egli deve usare l'osservazione per vedere, il ragionamento e il giudizio per prevedere, l'attività per raccogliere i materiali necessarî alla decisione, il discernimento per decidere; e, quando abbia deciso, la fermezza e la padronanza di sè stesso per attenersi alla deliberazione presa; — e quanto è maggiore la parte della sua condotta ch'egli governa secondo il suo giudizio e i suoi sentimenti, tanto più necessarie gli sono queste diverse qualità. Egli può, all'occorrenza, esser guidato sul retto cammino e salvato da qualunque influenza dannosa senza nulla di tutto ciò: ma quale sarà il valore comparativo di lui come essere umano? Quello che è veramente importante non è solo ciò che gli uomini fanno, ma altresì ciò che sono. Fra le opere dell'uomo, cui la vita è legittimamente chiamata a perfezionare e ad abbellire, la più importante è senza dubbio l'uomo stesso. Supponendo che fosse possibile fabbricar delle case, far crescere del grano, dare delle battaglie, giudicare delle cause, ed anche erigere delle chiese e pronunciar delle preghiere, meccanicamente, per mezzo di automi di forma umana, si perderebbe molto ad accettare questi automi in cambio degli uomini e delle donne che popolano oggidì le parti più civili del globo, benchè essi siano, fuor d'ogni dubbio, degli esempî ben miseri di ciò che la natura può produrre e produrrà un giorno. La natura umana non è una macchina che si possa costruire secondo un modello per fare esattamente un'opera designata, ma bensì è un albero che vuol crescere e svilupparsi da tutti i lati seguendo la tendenza delle forze intime che fanno di lui qualcosa di vivente. Si riconoscerà senza dubbio che è desiderabile per gli uomini ch'essi coltivino la loro intelligenza, e che val meglio seguire coscientemente il costume od anche, all'occasione, coscientemente staccarsene, che non conformarvisi ciecamente e macchinalmente. Si ammette fino ad un certo punto che la nostra intelligenza ci deve appartenere; ma non si ammette altrettanto facilmente che deve accadere lo stesso dei nostri impulsi e dei nostri desiderî; si considera quasi come una pericolosa insidia l'avere degli impulsi energici: tuttavia i desiderî e gl'impulsi fanno parte altrettanto integrante di un essere umano nella sua perfezione, quanto le credenze e le astinenze. Forti eccitamenti non sono pericolosi se non quando non sono equilibrati; quando cioè un complesso di vedute e di tendenze si è energicamente sviluppato mentre altre vedute ed altre tendenze, che dovrebbero farsi sentire a lato delle prime, restano deboli ed inattive. E gli uomini non agiscono già male perchè i loro desiderî sono ardenti, ma perchè sono deboli le loro coscienze: anzi non vi è una relazione naturale tra eccitamenti energici e debole coscienza: la relazione naturale è in senso opposto. Dire che i desiderî e i sentimenti di una persona sono più vivi e numerosi di quelli d'un'altra è dire semplicemente che la dose di materia bruta della natura umana è, in quella persona, più abbondante; per conseguenza, essa è capace forse di far più male, ma senza dubbio di far più bene. Insomma, gli impulsi potenti rappresentano, sott'altro nome, dell'energia; ecco tutto. L'energia può essere mal impiegata: ma una natura energica può far bene maggiore di una natura indolente ed apatica. Quelli che hanno maggior quantità di sentimenti naturali sono anche quelli in cui i sentimenti, per così dire, artificiali si possono meglio sviluppare. L'ardente sensibilità che rende gl'impulsi personali vivi e potenti è pure la sorgente da cui derivano l'amore più appassionato della virtù, la più rigorosa padronanza di sè; — è coltivando questa sensibilità che la società fa il suo dovere e tutela i suoi interessi; non rifiutando la stoffa con cui si fanno gli eroi, giacchè essa non è capace di crearli. Si dice di una persona ch'essa ha del carattere, quando i suoi desiderî e i suoi impulsi appartengono in tutto a lei sola e sono l'espressione della sua propria natura, così come l'ha sviluppata e modificata la coltura sua propria; un essere che non ha, per proprio conto, desiderî nè impulsi, non possiede più carattere di una macchina a vapore. Se un uomo ha degl'impulsi non solo suoi proprî, ma forti e posti sotto il controllo di una potente volontà, esso ha un carattere energico. Chiunque pensi che non si debba incoraggiare la manifestazione e lo sviluppo dell'individualità nei desiderî e negl'impulsi, deve sostenere altresì che la società non ha bisogno di nature forti, che essa non trae vantaggio alcuno dal racchiudere un gran numero di uomini di carattere, e che infine non è desiderabile di vedere la media degli uomini possedere molta energia. Nelle società nascenti, queste forze sono forse senza proporzione col potere che la società possiede di disciplinarle e di sorvegliarle: vi fu un tempo in cui l'elemento di spontaneità e d'individualità dominava in modo eccessivo, e in cui il principio sociale doveva con esso sostenere delle fiere battaglie. La difficoltà allora era condurre degli uomini potenti di corpo o di spirito a subire delle regole che pretendevano controllare i loro impulsi. Per vincere questa difficoltà, la legge e la disciplina (per esempio, i papi in lotta cogl'imperatori) proclamarono il loro potere su tutto quanto l'uomo, rivendicando il diritto di sorvegliarne tutta intera la vita, allo scopo di poterne sorvegliare il carattere, per frenare il quale la società non sapeva trovare altro mezzo. Ma la società oggi ha piena ragione dell'individualità, e il pericolo che minaccia la natura umana non è più l'eccesso, bensì il difetto di impulsi e di gusti personali. Le cose sono ben mutate dal tempo in cui le passioni degli uomini potenti per la loro condizione o per le loro qualità personali erano in uno stato di abituale ribellione contro le leggi e le ordinanze, e dovevano essere rigorosamente vincolate, affinchè tutto quanto li circondava potesse godere di una certa sicurezza; nell'epoca nostra, ogni uomo, dal più elevato al più basso sulla scala sociale, vive sotto lo sguardo di una censura ostile e temuta. Non soltanto per quel che riguarda gli altri, ma anche per quel che tocca loro stessi esclusivamente, l'individuo o la famiglia non si domandano già: «Che cosa preferisco io? Che cosa si attaglierebbe all'indole mia e alle mie attitudini? Che cosa darebbe buon giuoco e le massime probabilità di svolgersi alle nostre più elevate facoltà?» — ma si domandano bensì: «Che cosa conviene alla mia condizione, e che cosa fanno di solito le persone del mio stato e della mia fortuna, o (peggio ancora) che cosa fanno di solito le persone d'uno stato sociale e d'una fortuna al di sopra della mia?» Io non pretendo dire ch'essi preferiscano ciò che il costume prescrive a ciò che loro piace: non vien neppur loro in mente ch'essi possano aver un capriccio per qualcosa che il costume non permetta. Così anche lo spirito è curvato sotto il giogo; anche in quello che gli uomini fanno per loro svago, la uniformità è il loro primo pensiero; essi amano in massa, non fanno scelte se non in generale; evitano come un delitto qualunque singolarità di gusto, quantunque, a forza di non seguire la loro natura, essi non abbiano ormai più natura; le loro capacità umane sono inaridite e ridotte a nulla; essi divengono incapaci di provare alcun desiderio vivo, alcun piacere naturale; e non hanno, in generale, nè opinioni nè sentimenti da essi elaborati, ad essi appartenenti. E tutto questo può dunque esser ritenuto una sana condizione delle cose umane? Sì, seguendo la teoria calvinista. Secondo questa teoria, la colpa capitale dell'uomo è di avere una volontà indipendente; tutto il bene di cui l'umanità è capace è compreso nell'obbedienza. Voi non avete una scelta da fare; dovete agire così e non altrimenti; e tutto quanto non è dovere è peccato. Dappoichè la natura umana è completamente corrotta, non vi è redenzione per alcuno, finch'esso non abbia ucciso in sè la natura umana. Per chi sostiene una simile teoria, non è un male l'annullare tutte le facoltà, le capacità, le sensibilità umane; l'uomo non ha bisogno d'altra capacità fuorchè quella di abbandonarsi alla volontà di Dio, e s'egli si serve delle sue facoltà altrimenti che per eseguire in un modo più efficace i decreti di questa supposta volontà sarebbe meglio per lui che non le possedesse. Ecco la teoria del calvinismo; molte persone che non si considerano come calviniste la professano sotto un'altra forma più moderata; il temperamento consiste nel dare una interpretazione meno ascetica alla volontà supposta dell'Altissimo. Si afferma ch'egli vuole che gli uomini soddisfacciano a qualcuno dei loro gusti; non già, certamente, nel modo ch'essi preferirebbero, ma in una maniera obbediente, che è quanto dire nella maniera prescritta dall'autorità, la qual maniera è necessariamente la stessa per tutti. Sotto una tal forma insidiosa, vi è ora una forte tendenza verso questa angusta teoria della vita e verso questo tipo, ch'essa predica, di carattere umano ristretto ed inflessibile. Senza dubbio alcuno, molte persone credono sinceramente che gli uomini così torturati e ridotti alla statura di nani, siano quali il loro creatore li ha voluti; proprio come molta gente ha creduto che gli alberi siano molto più belli tagliati a palla o in forme di animali che lasciati nel loro stato naturale. Ma, se fa parte della religione il credere che l'uomo sia stato creato da un essere buono, è in armonia con questa tendenza pensare che questo essere abbia dato le facoltà umane perch'esse siano coltivate e sviluppate, e non perchè le si sradichino o le si distruggano. È ragionevole d'imaginare ch'egli goda, tutte le volte che le sue creature fanno un passo verso l'ideale di cui esse portano in sè la concezione, tutte le volte ch'esse aumentano una delle loro facoltà di comprensione, di azione o di godimento. Ecco un tipo di perfezione umana ben diverso dal tipo calvinista: qui si suppone che l'umanità non riceva la sua natura per farne tantosto sacrificio. La liberazione di sè stesso dei pagani è uno degli elementi del merito umano, così come l'oblìo di sè stesso dei cristiani[7]; vi è un ideale greco di sviluppo di sè stesso, a cui si accompagna, senza soppiantarlo, l'ideale platonico e cristiano d'impero su sè stesso. Può sembrar preferibile essere Giovanni Knox ad Alcibiade; ma vale ancora meglio essere Pericle, che l'uno o l'altro; e un Pericle, s'esistesse oggidì, non sarebbe privo di qualcuna delle buone qualità che appartenevano a Giovanni Knox. Non è già indirizzando all'uniformità tutto ciò che in essi c'è d'individuale, ma coltivandolo e sviluppandolo nei limiti imposti dai diritti e dagli interessi altrui che gli esseri umani divengono un bello e nobile oggetto di ammirazione; e, come l'opera si foggia secondo il carattere di quelli che la compiono, così, per lo stesso processo, la vita umana diviene essa pure ricca e svariata. Essa produce e conserva con maggiore abbondanza i pensieri elevati, i sentimenti che inalzano; rafforza il legame che congiunge gli individui alla razza, dando alla razza stessa maggior valore. In ragione dello sviluppo della sua individualità, ogni persona assume maggior pregio agli occhî suoi propri, e per conseguenza è capace di assumerne uno maggiore agli occhî degli altri: vi è una più grande pienezza di vita in tutta la sua esistenza; e quando c'è maggior vita nell'unità, c'è maggior vita anche nella massa, che è fatta di unità. Non si può trascurare la costrizione necessaria per impedire agli esemplari più energici della natura umana di invadere il campo dei diritti degli altri; ma a questo c'è un ampio compenso, anche dal punto di vista dello sviluppo umano. I mezzi di sviluppo che l'individuo perde, se gli s'impedisce di soddisfare alle sue tendenze in modo agli altri dannoso, non si otterrebbero che a spese degli altri uomini; ed egli stesso vi trova un compenso, perchè la coazione imposta al suo egoismo facilita lo sviluppo più elevato della parte sociale della sua natura. L'essere sottomessi pel bene degli altri alle strette norme della giustizia sviluppa i sentimenti e le facoltà che pel bene degli altri si esercitano; ma l'essere costretti nelle cose che non toccano punto il bene degli altri, pel loro semplice dispiacere, non isviluppa altro di buono se non la forza di carattere che si può, forse, spiegare resistendo alla costrizione. Se ci si sottomette, questa costrizione indebolisce ed appesantisce tutta la nostra natura. Per dar buon giuoco alla natura di ciascuno bisogna che diverse persone possano seguire un diverso tenor di vita; i secoli che hanno avuto in maggior quantità questa larghezza sono quelli che più si raccomandano all'attenzione dei posteri; il dispotismo stesso non produce i suoi peggiori effetti finchè la individualità resiste sotto questo regime, e tutto ciò che distrugge la individualità è dispotismo, qualunque sia il nome che gli si possa dare, pretenda esso poi d'imporre la volontà di Dio o i comandi degli uomini. Avendo detto che individualità è sinonimo di sviluppo, e che solamente la coltura dell'individualità produce o può produrre degli esseri umani bene sviluppati, io potrei qui chiudere l'argomento. In favore d'una data condizione delle cose umane che cosa si potrebbe dire meglio di questo: che essa conduce gli uomini il più vicino possibile al loro tipo ideale? E di un ostacolo al bene che cosa si potrebbe dire di peggio, se non ch'esso impedisce un tale progresso? Tuttavia, senza dubbio alcuno, queste considerazioni non basteranno a convincere quelli che hanno maggior bisogno di essere convinti. Ed è necessario inoltre di provare che questi esseri umani sviluppati sono utili agli esseri non sviluppati; è necessario di mostrare a quelli che non desiderano la libertà e che non se ne vorrebbero servire, che, se permettono ad altri di farne uso senza ostacolo, possono esserne in qualche modo apprezzabile ricompensati. E prima di tutto, non potrebbero essi imparar qualche cosa da questi individui lasciati liberi? Nessuno vorrà negare che l'originalità sia un elemento prezioso nelle cose umane: vi è sempre bisogno di gente, non soltanto per iscoprire verità nuove, non soltanto per indicare il momento in cui quello che fu in altri tempi una verità cessa di esserlo; ma anche per farsi iniziatori di nuove pratiche, per dar l'esempio d'una condotta più illuminata, di maggior buon gusto e di maggior buon senso nelle cose umane. Questo non può esser negato da chiunque non creda che il mondo abbia raggiunto la perfezione in tutte le sue abitudini e in tutti i suoi costumi. È vero che un tal servigio non può esser reso da tutti quanti senza distinzione: non vi sono che poche persone, in confronto di tutto il genere umano, le esperienze delle quali, se generalmente adottate, segnerebbero un progresso sul costume stabilito. Ma queste poche persone sono il sale della terra; senza di esse la vita umana diverrebbe un mare stagnante; e non soltanto introducono un bene ignoto, ma conservano alla vita quello che essa già possedeva. Se anche non ci fosse nulla di nuovo da fare, forse che la intelligenza umana cesserebbe di essere necessaria? Sarebbe questa una ragione perchè coloro che seguono una antica tradizione dimentichino perchè la seguano, agiscano come bruti e non come esseri umani? Le migliori credenze e le pratiche migliori hanno una eccessiva tendenza a degenerare in qualcosa di macchinale; ed a meno che non vi sia una serie di persone la cui originalità infaticabile conservi la vita in queste credenze e in queste pratiche, un automatismo così morto non resisterebbe punto all'urto più leggiero di qualcosa di realmente vivente; non vi sarebbe ragione allora perchè la civiltà non isparisse, come nell'impero d'Oriente. In verità gli uomini d'ingegno sono e saranno sempre, probabilmente, una impercettibile minoranza; ma per averne, bisogna conservare il suolo sul quale possono fiorire. E l'ingegno non respira liberamente che in un'atmosfera di libertà; gli uomini d'ingegno sono _ex vi termini_ più individuali degli altri, meno capaci, per conseguenza, di modellarsi, senza una dannosa compressione, in alcuno di quegli stampi poco numerosi che la società prepara per risparmiare a' suoi membri la fatica di formarsi un carattere. Se per timidità gli uomini d'ingegno consentono a sopportare uno di questi modelli e a permettere che non si espanda quella parte di loro stessi che non si può dilatare sotto una tale pressione, la società non potrà approfittare del loro ingegno; ma se essi sono dotati di una gran forza di carattere e spezzano i loro legami, divengono il punto di mira della società; non essendo riuscita a ridurli alle proporzioni comuni, essa li segna a dito come bizzarri, stravaganti ecc. Press'a poco come se ci si lagnasse di non vedere il Niagara scorrere con la stessa calma di un canale olandese. Se io insisto con questa enfasi sulla importanza dell'ingegno e sulla necessità di lasciare ch'esso liberamente si sviluppi, come pensiero e come pratica, è perchè, se nessuno nega in teoria la cosa, il mondo in realtà vi è del tutto indifferente. Gli uomini considerano l'ingegno come una bella cosa, se esso rende un individuo capace di scrivere un poema inspirato o di dipingere un bel quadro: ma dell'ingegno nel vero senso della parola, cioè dell'originalità nel pensiero e nelle azioni, sebbene ognuno in teoria ammetta che sia una cosa degna di ammirazione — quasi tutti in fondo del cuore trovano che si potrebbe benissimo fare a meno. Pur troppo questo è un sentimento ben naturale perchè deva suscitar maraviglia. L'originalità è una cosa di cui gli spiriti non originali non possono sentire la utilità; essi non possono scorgere quello che l'originalità saprebbe far per loro: e come lo potrebbero? Se lo potessero, non si tratterebbe più di originalità. Il primo servigio che la originalità deve rendere a tali spiriti, è di aprir loro gli occhî; e fatto questo, e fattolo bene, essi pure avran qualche speranza di diventare originali. Frattanto, questi poveri di spirito si ricordino che nulla ancora fu fatto senza che qualcuno abbia cominciato, che tutto quanto esiste di bene è frutto dell'originalità; e siano modesti abbastanza per credere ch'essa ha qualcosa ancora da fare, e per convincersi che, quanto meno sentono il bisogno di originalità, tanto più essa è loro necessaria. La verità è che, per grandi che siano gli omaggi onde si pretenda onorare, o si onori anche, la superiorità intellettuale, vera o supposta, la tendenza generale delle cose nel mondo è di fare della mediocrità la potenza dominante. Nella storia antica, nel medio evo, e, in un grado minore, durante il lungo passaggio dalla feudalità ai tempi moderni, l'individuo era per sè stesso una potenza, e, s'egli aveva o un ingegno straordinario o una condizione sociale elevata, la potenza era considerevole. Oggi, gl'individui sono perduti nella folla. In politica, è quasi banale il dire che oggi il mondo è governato dalla pubblica opinione; il solo potere che merita davvero nome di potere è quello delle masse o quello dei governi, che si fanno strumenti delle tendenze e degl'istinti delle masse. Questo è così vero per le relazioni morali e sociali della vita privata come per le pubbliche convenzioni. Quello che si chiama opinione pubblica non è sempre l'opinione delle stesse specie di pubblico: in America, il pubblico è tutta la popolazione bianca, in Inghilterra, semplicemente la classe media; ma si tratta sempre di una massa, vale a dire di una mediocrità collettiva. E — novità ancora più grande — oggi la massa non si forma un'opinione sull'autorità dei dignitari della Chiesa o dello Stato, di qualche capo ostensibile o di qualche libro; la sua opinione è fatta da uomini press'a poco della sua levatura, che, per mezzo dei giornali, si rivolgono ad essa o parlano in suo nome sulla questione del momento. Io non lamento tutto questo, non affermo che nulla di meglio sia compatibile, come regola generale, coll'umile stato attuale dello spirito umano. Ma questo però non toglie che il governò della mediocrità sia un governo mediocre: mai il governo d'una democrazia o d'un'aristocrazia numerosa è giunto ad elevarsi al di sopra della mediocrità, sia pei suoi atti politici, sia per le opinioni, le qualità, il genere di spirito pubblico a cui esso dà vita, tranne là dove la folla sovrana (come ha fatto sempre nelle sue epoche migliori) si è lasciata guidare dai consigli e dall'influenza d'una minoranza o di un uomo più colto e più riccamente dotato. L'iniziativa di tutte le cose saggie e nobili dee venir dagl'individui, e prima di tutto, in generale, da qualche individuo isolato. L'onore e la gloria della media degli uomini è di poter seguire questa iniziativa, d'aver il senso di ciò che è saggio e nobile, e di farvisi guidare ad occhi aperti. Io non incoraggio con queste parole quella specie di culto dell'eroe, che applaudisce un uomo di genio potente perchè esso s'impadronisce colla forza del governo del mondo, e gl'impone, buono o malgrado suo, i proprî voleri. Tutto ciò che un tal uomo può pretendere, è la libertà d'indicare il cammino; quanto al potere di costringere gli altri a seguirlo, non solo esso è incompatibile colla libertà e lo sviluppo del resto dell'umanità, ma corrompe lo stesso uomo di genio. Sembra tuttavia che, quando le opinioni delle masse composte di uomini ordinarî, son divenute o divengono dappertutto il poter dominante, contrappeso e correttivo della loro tendenza sarebbe l'individualità sempre più spiccata de' più eminenti pensatori. Sopratutto in tali contingenze gl'individui eccezionali dovrebbero essere incoraggiati ad agir diversamente dalla massa, in vece d'esserne impediti. In altri tempi, non c'era vantaggio in questo, a meno che essi non avessero agito non solo diversamente, ma meglio; oggi, il semplice esempio della non uniformità, il semplice rifiuto di mettersi in ginocchio davanti al costume è per sè stesso un fatto benefico. Appunto perchè la tirannia dell'opinione è tale, ch'essa fa dell'_eccentricità_ un delitto, è desiderabile, per ispezzare questa tirannia, che gli uomini siano eccentrici. L'eccentricità e la forza di carattere camminano sempre di pari passo; e la somma di eccentricità che una società contiene è generalmente in ragione diretta della somma d'ingegno, di vigore intellettuale e di coraggio morale ch'essa racchiude. Ciò che davvero ci addita il principal pericolo dell'età nostra è il vedere così pochi uomini osare d'essere eccentrici. Io ho detto che è importante di dare il più libero sfogo a quello che non è nell'uso, affinchè si possa a tempo opportuno vedere che cosa meriti di passarvi; ma la indipendenza d'azione e lo sdegno del costume non meritano d'essere incoraggiati soltanto come quelli che presentano la probabilità di creare dei modi d'agire migliori e dei costumi più meritevoli d'esser da tutti adottati; non sono più soltanto le persone di una superiorità intellettuale ben evidente che abbiano un giusto diritto a condurre la vita che loro aggrada. Non v'è ragione perchè tutte le esistenze umane siano costruite su di un unico modello, o su di un piccolo numero di modelli: se una persona possiede una sufficiente quantità di senso comune e d'esperienza, il suo proprio modo di condurre l'esistenza è il migliore; non perchè sia il migliore in sè, ma perchè è il suo proprio. Gli esseri umani non sono dei montoni: e gli stessi montoni non si somigliano tutti così da non potersi distinguere l'uno dall'altro; un uomo non può avere un abito o un pajo di scarpe che gli stiano bene se non le fa fare apposta o se non le sceglie tra tutte quelle di un magazzino. È dunque più facile di fornirgli una vita che un abito, o la conformazione fisica e morale degli esseri umani è più uniforme di quella dei loro piedi? Se questo fosse soltanto perchè gli uomini non hanno tutti lo stesso gusto, già non occorrerebbe assolutamente di tentare di modellarli tutti ad una stessa maniera; ma, oltre a questo, le diverse persone vogliono differenti condizioni pel loro sviluppo intellettuale, e non possono mantenersi sane nella stessa atmosfera morale più di quello che tutte le varietà di piante possano fiorire sotto lo stesso clima. Le stesse cose che ajutano una persona a coltivare la sua natura superiore sono di ostacolo per un'altra. La stessa maniera di vivere è per l'uno un salutare eccitamento che conserva nelle migliori condizioni le sue facoltà di godimento e d'azione, mentre per l'altro è un carico spaventevole che sospende o distrugge la vita interiore. Vi sono tali differenze fra gli uomini, nella loro maniera di godere, di soffrire, di soggiacere all'opera delle diverse influenze fisiche e morali, che se non vi è una simile diversità nella loro maniera di vivere, essi non sapranno nè ottenere tutta la loro parte di bene, nè giungere all'altezza intellettuale, morale ed estetica di cui la loro natura è capace. Perchè dunque la tolleranza, se si tratta di sentimento pubblico, si estenderebbe solamente ai gusti e alle maniere di vivere che si fanno accettare dalla moltitudine dei partigiani di esse? In nessun luogo (salvo nelle istituzioni monastiche) si nega la diversità di gusto: una persona può, senza esser biasimata, amare o non amare il sigaro, la musica, gli esercizî del corpo, gli scacchi, le carte o lo studio, perchè i partigiani e i nemici di tutte queste cose son troppo numerosi per esser ridotti al silenzio; ma l'uomo e, anche più, la donna che può essere accusata di fare ciò che nessuno fa o di non fare ciò che fanno tutti, è oggetto di un biasimo pari a quello in cui incorrerebbe per aver commesso qualche grave delitto morale. Bisogna possedere un titolo o qualche altra ragione che ci elevi nell'opinione dei concittadini al livello della gente d'importanza, perchè ci si possa permettere un po' il lusso di fare quel che ci garba, senza nuocere alla nostra riputazione. Permettere un poco — ho detto, e lo ripeto; perchè chiunque si permettesse largamente questo lusso correrebbe il rischio di qualcosa di peggio che discorsi maldicenti; sarebbe in pericolo di esser sottoposto ad una commissione _de lunatico_ e di vedersi togliere la proprietà a profitto della sua famiglia[8]. V'è un tratto caratteristico nelle attuali tendenze della pubblica opinione, che è proprio fatto per renderla intollerante contro qualunque spiccata dimostrazione d'individualità. In generale gli uomini non soltanto mancano di intelligenza, ma anche hanno delle inclinazioni temperate; non hanno gusti nè desiderî abbastanza vivi per esser condotti a far qualcosa di straordinario, e, per conseguenza, non comprendono punto chi ha tutt'altre doti: lo classificano fra quegli esseri stravaganti e disordinati cui sono avvezzi a disprezzare. Oltre questo fatto, che è generale, noi dobbiamo tener conto che oggidì si è manifestato un potente progresso morale; e si sa che cosa se ne può attendere. Questo movimento si è manifestato a' dì nostri: si è fatto molto per accrescere la regolarità di condotta e sconsigliare gli eccessi, e v'è dappertutto uno spirito filantropico che trova la sua più gradita applicazione nel miglioramento dei nostri simili, in fatto di morale e di prudenza. Per effetto di queste tendenze, il pubblico è più disposto che in altri tempi a prescrivere delle regole generali di condotta ed a studiarsi di ricondurre tutti al tipo normale. E questo tipo, lo si confessi o no sinceramente, è di nulla desiderare con vivacità. Il suo ideale di carattere è di non averne alcuno bene spiccato; qualunque parte saliente della natura umana, che tenda a rendere una persona esteriormente diversa dalla comune degli uomini, si deve mutilare colla compressione, come il piede di un chinese. È lo stesso qui, che per qualunque ideale il quale escluda la metà di ciò che è desiderabile; il tipo attualmente dominante non produce che una imitazione inferiore dell'altra metà. In luogo di una grande energia guidata da una ragione vigorosa e di sentimenti potenti potentemente guidati da una coscienziosa volontà, non si ottengono che una scarsa energia e dei sentimenti deboli, che per conseguenza possono conformarsi alla regola, almeno nell'apparenza, senza richiedere un grande sforzo nè di volontà nè di ragione. Già i caratteri energici su larga scala van diventando puramente leggendarî. Oggi, nel nostro paese, l'energia non trova modo di applicarsi se non negli affari; l'energia che vi si spende può ancora essere ritenuta considerevole; e il poco che ne sopravanza è impiegato a cercar di soddisfare qualche passione, che può essere una passione utile, magari filantropica: ma che si restringe ad una cosa sola, e, in generale, poco importante. La grandezza d'Inghilterra è oggi tutta collettiva: piccoli individualmente, noi sembriamo capaci di qualcosa di grande solo per la nostra abitudine dell'associazione; e di questo i nostri filantropi morali e religiosi sono perfettamente soddisfatti. Ma uomini di un'altra tempra hanno fatto l'Inghilterra ciò che essa è stata; uomini d'altra tempra saranno necessarî per impedirne la decadenza. Il dispotismo del costume è dappertutto l'ostacolo perpetuo al progresso umano, perchè esso combatte una lotta incessante contro quella disposizione a tendere a qualcosa di meglio del costume, che si chiama, secondo i casi, spirito di libertà o spirito di progresso e di miglioramento. Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perchè può volersi imporre a gente che non se ne cura; e lo spirito di libertà, quando resiste a simili sforzi, può allearsi, per un dato luogo o per un dato tempo, cogli avversarî del progresso; ma l'unica sorgente infallibile e perenne del progresso è la libertà, perchè solo per suo mezzo si possono avere tanti centri indipendenti di progresso quanti sono gl'individui. Tuttavia il principio progressivo, sia sotto la forma dell'amore di libertà, sia sotto quella dell'amor di miglioramento, è nemico dell'impero del costume; perchè esso implica per lo meno la liberazione da questo giogo e la lotta tra queste due forze forma il principale interesse della storia dell'umanità. La più gran parte del mondo, nel preciso senso della frase, non ha storia, perchè ivi è assoluto il dispotismo del costume. È il caso di tutto l'Oriente: là il costume regna sovrano ed arbitro su tutte le cose; giustizia e diritto significano conformarsi ad esso; nessuno, salvo qualche tiranno ubbriacato dal potere, pensa a resistervi: — e noi vediamo gli effetti di tutto questo. Queste nazioni debbono, in altri tempi, aver avuto dell'originalità; esse non sono uscite dalla terra popolose, colte in letteratura, e profondamente versate in certe arti della vita; sotto tutti questi rapporti debbono a sè stesse la loro esistenza ed erano un tempo le più grandi e potenti nazioni del mondo. Che cosa sono esse ora? sono suddite o dipendenti di tribù i cui antenati erravano nella foresta, mentre i loro avevano dei magnifici palazzi e degli splendidi templi; ma su questi barbari il costume divideva il suo impero con la libertà e col progresso. Un popolo, a quel che sembra, può essere, durante un certo lasso di tempo, progressivo e poi fermarsi: e quando? Quando cessa di possedere l'Individualità. Se un simile cambiamento dovesse accadere anche nelle nazioni d'Europa, non sarebbe precisamente cogli stessi caratteri. Il dispotismo del costume, che minaccia queste nazioni, non è precisamente l'immobilità; esso condanna la singolarità, ma non pone ostacolo al mutamento purchè tutto muti nello stesso tempo. Noi abbiamo abbandonati i costumi immobili da cui i nostri avi non si allontanavano: bisogna bene ancora vestirsi come tutti gli altri: ma la moda può mutare una o due volte per anno. Con questo, noi facciamo in modo di cambiare per amor del mutamento, non per alcun concetto di estetica o di comodità; perchè lo stesso concetto di estetica o di comodità non verrebbe in testa a tutti nello stesso punto e non sarebbe, ad un altro punto, abbandonato da tutti. Noi siamo progressivi così come siamo mutevoli: facciamo continuamente delle nuove invenzioni in meccanica e le conserviamo finchè non le si possano sostituire con invenzioni migliori; siamo pronti a migliorare in fatto di politica, di educazione, di costumi, sebbene in quell'ultimo caso la nostra idea di miglioramento consista sopratutto nel rendere gli altri, o colle buone o colle brusche, buoni come siamo noi. Non ci opponiamo al progresso; anzi, ci lusinghiamo di essere la gente più progressiva che mai si sia vista. Contro l'individualità noi combattiamo; e crederemmo d'aver compiuta un'opera meravigliosa, se ci fossimo resi tutti gli uni agli altri identici, dimenticando che la dissomiglianza tra due persone è la prima cosa che attira l'attenzione, sia per l'imperfezione d'uno di questi tipi e per la superiorità dell'altro, sia per la possibilità di produrre qualcosa di meglio di ciascuno dei due, combinandone i pregi. Un esempio ed un avvertimento ci è qui fornito dalla China — una nazione molto ingegnosa e, sotto certi rispetti, dotata di molta saggezza, grazie alla rara fortuna d'aver di buon'ora ottenuto un complesso soddisfacentissimo di costumi: opera, fino a un certo segno, d'uomini che gli Europei più illuminati debbono riconoscere, salvo qualche riserva, per saggi e filosofi. Questi costumi sono pure notevoli come quelli che assai bene si prestano per imprimere il più profondamente possibile i loro migliori precetti in tutti gli spiriti della collettività, e come quelli che attribuiscono i posti d'onore e di potere a coloro che di essi sono meglio penetrati. Senza dubbio il popolo che così agisce deve avere scoperto il segreto dell'umana perfettibilità e marciare sovranamente in testa al progresso universale. Ebbene, no. I Chinesi son divenuti stazionarî; essi da migliaja d'anni sono quali noi ora li vediamo e, se sono destinati a qualche miglioramento, questo verrà loro da fuori. Essi sono riusciti in modo da superare ogni aspettazione all'opera di cui tanto faticosamente si occupano i filantropi inglesi: — rendere tutto il mondo uniforme, far sì che ciascuno governi i suoi pensieri e la sua condotta colle stesse massime e colle stesse regole — con quali frutti, lo vediamo! Il regime della pubblica opinione è, sotto una forma inorganica, quello che sono i sistemi chinesi d'educazione e di politica sotto una forma organizzata: e, a meno che l'individualità (minacciata da questo giogo) non sappia vittoriosamente rivendicare i suoi diritti, l'Europa, nonostante i suoi nobili precedenti storici e il cristianesimo che professa, tenderà a diventare un'altra China. E, fino ad oggi, che cosa ha salvato l'Europa da questa sorte? Che cosa ha fatto delle nazioni europee una parte progressiva e non stazionaria dell'umanità? Non è la loro perfezione superiore che, quando esiste, è un effetto e non una causa, ma le loro notevoli differenze di carattere e di coltura. In Europa, gl'individui, le classi, le nazioni sono state estremamente dissimili: esse si sono tracciata una grande varietà di strade, ciascuna delle quali conduceva a qualcosa di preciso; e sebbene a ciascun'epoca quelli che seguivano le diverse vie siano stati intolleranti gli uni verso gli altri, e ciascuno abbia considerato una cosa eccellente poter obbligare tutti gli altri a seguire il proprio cammino, nondimeno i reciproci sforzi per impedire il loro sviluppo hanno avuto ben di rado un successo duraturo e, ciascuno alla sua volta, tutti hanno dovuto risentire il vantaggio dagli altri apportato. Secondo me, l'Europa deve soltanto a questa pluralità di vie il suo vario e progressivo sviluppo; ma già essa comincia a possedere questo vantaggio in un grado molto meno considerevole, essa cammina direttamente verso l'ideale Chinese di rendere tutto il mondo uniforme. Il Tocqueville, nel suo ultimo ed importante lavoro, osserva quanto i Francesi d'oggi si rassomiglino più di quelli della stessa ultima generazione: la stessa osservazione, a molto maggior ragione, si potrebbe fare sugl'Inglesi. In un passo già citato, Guglielmo di Humboldt indicò due cose come condizioni necessarie dello sviluppo umano perchè esse sono necessarie per rendere gli uomini diversi gli uni dagli altri: la libertà e la varietà di condizione; la seconda si va ogni giorno perdendo in Inghilterra. Le contingenze che circondano le diverse classi e i diversi individui, e che plasmano il loro carattere, si vengono ogni dì più rassomigliando. In altri tempi, le diverse classi, i diversi ceti, i diversi mestieri e le professioni diverse vivevano — si poteva dire — in mondi differenti; oggi, in modo assoluto, vivono tutti nello stesso mondo. Oggi, relativamente parlando, leggono tutti le stesse cose, ascoltano le stesse cose, vedono le stesse cose, vanno negli stessi luoghi; hanno le loro speranze e i loro timori diretti verso gli stessi obbiettivi, gli stessi diritti, le stesse libertà, e i medesimi mezzi per rivendicarle. Per grandi che siano le differenze di condizione sopravvissute, non sono nulla a confronto di quelle che sono scomparse. E l'assimilazione procede continuamente: tutti i mutamenti politici la facilitano, poichè tendono tutti ad elevare le classi inferiori e ad abbassar le elevate; ogni estensione dell'educazione la facilita, perchè l'educazione riunisce gli uomini sotto influenze comuni e dà a tutti adito di arrivare al fondo generale dei fatti e dei sentimenti universali; ogni progresso nei mezzi di comunicazione la facilita, mettendo a contatto personale gli abitanti di luoghi lontani, e promovendo una rapida successione di mutamenti di residenza di città in città; ogni accrescimento di commerci e d'industrie facilita ancora quest'assimilazione estendendo la fortuna e ponendo alla portata di tutti i più grandi oggetti di ambizione, cosicchè il desiderio di elevarsi non appartiene più ad una sola classe, ma a tutte. Ma una influenza più potente di tutte queste per apportare una generale somiglianza fra gli uomini è lo stabilirsi completo, in questo o in altri paesi, dell'influenza dell'opinione pubblica nello stato. Poichè le numerose preminenze sociali, che permettevano alle persone trincerate dietro di esse di sprezzare l'opinione pubblica, si vengono grado grado livellando, poichè la stessa idea di resistere alla volontà del pubblico, quando si sa con certezza ch'esso ha una volontà, vien sempre più scomparendo dallo spirito degli uomini politici pratici, cessa di esservi alcun sostegno sociale per la non conformità. Non vi è più nella società un potere indipendente, che, opposto all'influenza della maggioranza, sia interessato a prendere sotto la sua protezione delle opinioni e delle tendenze contrarie a quelle del pubblico. La riunione di tutte queste cause forma una così gran massa d'influenze ostili all'Individualità, che non si può ormai intravvedere come essa sarà capace di difendere il suo terreno. Essa vi troverà una difficoltà sempre crescente, a meno che la parte intelligente del pubblico non impari a valutare questo elemento, a tener per necessarie le differenze, quand'anche esse non siano in meglio, quand'anche, nell'opinione di qualcuno, esse siano in peggio. Se i diritti della individualità devono mai essere rivendicati, è venuto il momento di farlo, finchè molte cose ancora mancano per completare l'assimilazione imposta: — è soltanto sui principî che ci si può, con buon esito, difendere contro l'usurpazione. La generale pretesa di rendere gli altri simili a noi cresce quanto più è soddisfatta; se si attende, per resisterle, che la vita sia ridotta quasi ad un tipo unico, tutto ciò che da questo tipo si stacca sarà allora considerato come cosa empia, immorale ed anche mostruosa e contro natura; e la specie umana diverrà ben presto incapace di comprendere la varietà, quando ne avrà da qualche tempo perduto lo spettacolo. FINE DEL CAPITOLO TERZO CAPITOLO QUARTO. DEI LIMITI AL POTERE DELLA SOCIETÀ SULL'INDIVIDUO. Dove sono dunque i giusti limiti della sovranità dell'individuo su sè stesso? Dove incomincia il potere della società? Quanta parte della vita umana dev'essere attribuita all'individualità e quanta alla società? Ciascuna di esse riceverà la parte che le spetta, se avrà quella che la tocca più da vicino: la individualità deve governar la parte della vita che interessa specialmente l'individuo, e la società la parte che interessa specialmente il corpo sociale. Sebbene, a base della società, non istia un contratto, e sebbene non serva a nulla d'imaginarlo per dedurne degli obblighi sociali, non di meno tutti quelli che ricevono la protezione dalla società debbono ripagarle questo beneficio: il fatto solo di vivere in società impone a ciascuno una certa linea di condotta verso gli altri. Questa condotta consiste: 1.º nel non danneggiare gl'interessi altrui o piuttosto certi fra questi interessi che, sia per espressa disposizione di legge, sia per un tacito accordo, devono essere considerati come diritti; 2.º nell'assumersi ciascuno la propria parte (che dev'esser fissata secondo qualche equo principio) delle fatiche e dei sacrificî necessarî a difendere la società o i suoi membri contro qualunque danno o vessazione. La società ha l'assoluto diritto d'imporre questi obblighi a quelli che se ne vorrebbero esimere. E non si riduce a questo ciò che la società può fare: gli atti di un individuo possono essere dannosi agli altri, o non dare una sufficiente importanza al loro benessere, senza giungere fino a violare alcuno dei loro diritti costituiti; il colpevole può allora esser punito dall'opinione, sebbene non lo sia dalla legge. Dal momento che la condotta d'una persona è dannosa agli interessi altrui, la società ha diritto di giudicarla, e la questione di sapere se questo intervento sarà o no un ajuto al benessere generale, diviene argomento di discussione. Ma non è il caso di discutere una questione simile, finchè la condotta di una persona non tocca che i suoi proprî interessi o non riguarda gl'interessi degli altri se non col loro pieno consenso (e tutte le persone interessate sono di età matura e dotate della intelligenza normale). In casi simili, si dovrebbe avere libertà completa, legale e sociale, di fare qualunque cosa, a qualunque rischio. Si fraintenderebbero queste idee, se vi si vedesse una dottrina di indifferentismo egoistico, la quale pretendesse che gli esseri umani non debbano aver mutui riguardi nella loro condotta nè occuparsi del benessere e delle azioni altrui, se non quando il loro interesse è in giuoco: — in luogo di una diminuzione, ciò che occorre è un grande aumento degli sforzi disinteressati per favorire il bene altrui. Ma la benevolenza disinteressata può trovare un altro mezzo di persuasione che non sia lo staffile, figurato o anche reale. Io non voglio per nulla toglier pregio alle virtù personali: soltanto, esse vengono dopo le sociali: tocca all'educazione di coltivarle tutte allo stesso modo. Ma l'educazione stessa procede per mezzo della convinzione e della persuasione, così come per mezzo della coazione: ed è soltanto coi due primi mezzi che, una volta finita l'educazione, si dovrebbero inculcare le virtù individuali. Gli uomini debbono vicendevolmente ajutarsi a distinguere il meglio dal peggio, e incitarsi a preferire il primo e ad evitare il secondo; essi dovrebbero stimolarsi continuamente ad un esercizio crescente delle loro più nobili facoltà, ad una direzione crescente dei loro sentimenti e delle loro vedute verso scopi, non più sciocchi ma saggi, non più bassi ma elevati. Ma una persona, o un certo numero di persone, non hanno diritto di dire ad un uomo di età matura che egli non saprà regolarsi nella vita secondo il proprio interesse, come meglio gli conviene. Il suo benessere riguarda, più di tutti, lui stesso; l'interesse che vi può porre un estraneo, non è nulla (tranne il caso di un vivo affetto personale) a confronto di quello ch'egli stesso vi pone; la maniera con cui egli interessa la società (salvo quanto alla sua condotta verso gli altri) è parziale e indiretta: mentre per tutto quanto spetta ai suoi sentimenti o alla sua condizione, l'uomo o la donna più comune sanno infinitamente meglio di chiunque altro come comportarsi. L'intervento della società per dirigere il giudizio e i disegni di un uomo in ciò che non riguarda che lui, si fonda sempre su presunzioni generali: ora queste presunzioni possono essere completamente false; fossero anche giuste, esse saranno probabilmente applicate a torto, nei casi particolari, da persone che non conoscono se non la superficie dei fatti. Per questo un tal ramo dell'attività umana è proprio degli individui. Per quanto riguarda la condotta degli uomini gli uni verso gli altri, l'osservanza delle regole generali è necessaria, affinchè ciascuno sappia che cosa deve aspettarsi; ma, quanto agli interessi particolari di ciascuna persona, la spontaneità individuale ha diritto di liberamente esercitarsi. La società può offrire ed anche imporre all'individuo delle considerazioni per facilitare il suo giudizio, delle esortazioni per rafforzare la sua volontà: ma egli solo ne è giudice supremo. Egli può ingannarsi, non ostante gli avvertimenti e i consigli; ma il male è minore di quel che si farebbe lasciando che gli altri lo costringessero a proposito di ciò che ritengono suo vantaggio. Io non voglio già dire che i sentimenti della società verso una persona non debbano essere modificati dalle sue qualità o dai suoi difetti personali: questo non è nè possibile nè desiderabile. Se una persona possiede in un grado eminente le qualità che possono volgere al suo vantaggio, alla sua elevazione, è soltanto per questo degna d'ammirazione: si avvicina tanto più all'ideale della perfezione umana: se, all'incontro, queste qualità le mancano grossolanamente, si avrà per essa il sentimento opposto all'ammirazione. C'è un grado di sciocchezza e un grado di quella che si potrebbe chiamare (sebbene questo sia un punto contestabile) bassezza o depravazione di gusto, che, se non danneggia positivamente colui che lo manifesta, lo rende però necessariamente e naturalmente oggetto di repulsione ed anche, in certi casi, di disprezzo. Sarebbe impossibile, a chiunque possieda in tutta la loro forza le qualità opposte, di non provare di questi sentimenti. Senza nuocere ad alcuno, un uomo può agire in modo da obbligarci a considerarlo o uno sciocco, o un essere inferiore; e poichè questo modo di giudicarlo non gli farebbe gran piacere, gli si rende un servizio avvertendolo anticipatamente di questo come di ogni conseguenza sgradevole a cui egli si espone. Sarebbe ottima cosa davvero che la cortesia attuale permettesse di rendere più spesso un tal servizio, e che una persona potesse, senza passare per incivile o presuntuosa, dir francamente al proprio vicino ch'egli è in errore. Noi abbiamo anche il diritto di agire in varî modi, seguendo la nostra sfavorevole opinione su qualcuno, senza la minima offesa alla sua individualità, ma nel semplice esercizio della nostra. Noi non siamo obbligati, per esempio, a cercare la sua compagnia; noi abbiamo il diritto di evitarlo (non però in modo troppo visibile); perchè abbiamo il diritto di scegliere la società che meglio ne conviene; noi abbiamo il diritto, e forse anche il dovere, di metter gli altri sull'avviso contro questo individuo, se noi crediamo il suo esempio o la sua conversazione dannosa a quelli che egli frequenta; noi possiamo dare ad altri la preferenza per le spontanee cortesie, tranne se queste potessero tendere a migliorarlo. In questi modi diversi una persona può ricevere dagli altri delle severissime punizioni per difetti che riguardano direttamente lei sola: ma essa non subisce queste punizioni se non in quanto sono le naturali e, per così dire, spontanee conseguenze degli stessi difetti; non le s'infliggono a bello studio, con lo scopo di punirla. Una persona che mostra della precipitazione, dell'ostinazione, della boria, che non può vivere con un patrimonio ordinario, che non sa proibirsi delle soddisfazioni dannose, che corre al piacere animale, sacrificando ad esso il sentimento e l'intelligenza, deve aspettarsi d'essere molto in basso nell'altrui estimazione e di possedere una minima parte dell'altrui benevolenza. Ma di questo essa non ha diritto di lagnarsi, a meno che non abbia meritato il favore degli altri per la speciale eccellenza delle sue relazioni sociali e non si sia così creato un tale diritto alle loro cortesie, che essi non debbano occuparsi dei demeriti ch'ella ha verso di sè. Quello che io sostengo è che gl'inconvenienti strettamente connessi col giudizio sfavorevole degli altri, sono i soli a cui debba essere sottomessa una persona per quella parte della sua condotta e del suo carattere che tocca il bene suo proprio, ma non gl'interessi degli altri nelle sue relazioni con essa. Ben diversamente vanno invece trattati gli atti dannosi agli altri. Se voi usurpate i loro diritti, se voi fate subire loro una perdita o un danno che i vostri proprî diritti non giustificano; se voi, a loro riguardo, mostrate della falsità o della doppiezza; se voi vi servite contro di essi di vantaggi sleali o appena poco generosi ed anche se, per egoismo, vi astenete dal salvarli da qualche danno... voi meritate, ben a ragione, la disapprovazione morale e, in casi gravi, i rimproveri e le punizioni morali. E non soltanto questi atti, ma anche le disposizioni che vi conducono sono, per parlar propriamente, immorali, e meritano una disapprovazione che può divenire orrore. La crudeltà naturale, la malizia e la malvagità, l'invidia — la più odiosa ed antisociale di tutte le passioni — la dissimulazione, la mancanza di sincerità, l'irascibilità, le bizze senza sufficiente motivo, la smania di dominare, il desiderio di accaparrarci più di quel che ci spetta (la πλεονεζια dei Greci), l'orgoglio che trova una soddisfazione nell'abbassamento degli altri, l'egoismo che pone sè e i proprî interessi al di sopra di ogni altra cosa al mondo e decide in proprio favore qualunque dubbia questione: — ecco altrettanti vizî morali che costituiscono un'indole malvagia e odiosa; essi non rassomigliano in questo ai difetti personali prima ricordati, che non sono immoralità nel senso proprio della parola, e, per quanto eccedano, non costituiscono la malvagità. Questi difetti possono provare la sciocchezza o una mancanza di dignità personale o di rispetto di sè stesso, ma non sono soggetti a biasimo se non quando importano un oblìo dei nostri doveri verso gli altri, pel bene dei quali l'individuo è obbligato ad aver cura di sè stesso. Ciò che si chiama dovere verso noi stessi, non costituisce una obbligazione sociale, a meno che le circostanze non ne facciano un dovere verso gli altri; la espressione _dovere verso sè stesso_, quando significa qualcosa di più che prudenza, significa rispetto o sviluppo di sè stesso; e nessuno deve, in questo argomento, render conto ai suoi simili, perchè essi non vi sono interessati. La distinzione tra il discredito a cui una persona giustamente si espone, ove gli manchi la prudenza o la dignità personale, e il rimprovero che le è dovuto per aver attentato ai diritti degli altri, non è puramente nominale: c'è una gran differenza e nei nostri sentimenti e nella nostra condotta verso una persona, a seconda ch'essa ne spiace nelle cose in cui noi riteniamo di potere a buon diritto controllarla o nelle cose in cui sappiamo di non avere tale diritto. Se essa ci spiace, noi possiamo esprimere la nostra antipatia e tenerci lontani da un essere come ci terremmo da una cosa che non ci garba; ma non ci sentiremo per questo in dovere di renderle dolorosa la vita: noi penseremo ch'essa sopporta già o sopporterà ben presto la pena del suo errore. Se essa si rovina la vita per un difetto di condotta, noi non desidereremo, proprio per questo, di rovinargliela anche di più: lungi dall'invocare sul suo capo una punizione, noi tenteremo piuttosto di alleviare l'espiazione che per essa incomincia, mostrandole il mezzo d'evitare o di guarire i mali che la sua condotta le sta per cagionare. Questa persona insomma può essere per noi oggetto di pietà o anche d'avversione, ma non d'irritazione o di risentimento: noi non la tratteremo come un nemico della società; il più che ci crederemo lecito commettere a suo riguardo sarà d'abbandonarla a sè stessa; se pure non interverremo con benevolenza, additandole i mezzi di guarire i mali ch'essa si è attirata con la sua condotta sregolata. Ma è tutto il contrario se questa persona abbia infrante le regole stabilite per la protezione, individuale o collettiva, dei suoi simili: allora le conseguenze funeste delle sue azioni ricadono non su di essa, ma sugli altri, e la società come protettrice di tutti i suoi membri deve reagire sul colpevole, infliggergli un castigo, e un castigo abbastanza severo, coll'intenzione espressa di punire. In un caso, la persona è un colpevole chiamato a comparire davanti al nostro tribunale: e noi siamo incaricati non solo di giudicarlo, ma anche di eseguire, in un modo o nell'altro, la sentenza da noi emanata; — nell'altro, noi non dobbiamo occuparci di punirla in modo diverso da quello che ne deriverà naturalmente se noi, per regolare i nostri proprî affari, useremo della stessa libertà che accordiamo a lei per i suoi. Molte persone rifiuteranno di ammettere la distinzione qui stabilita, tra la parte della condotta di un uomo che tocca soltanto lui e la parte che tocca gli altri. Ci si osserverà, forse: come una parte della condotta di un membro della società può essere indifferente agli altri membri? Nessuno è completamente isolato: è impossibile ad un uomo di fare qualcosa di seriamente o costantemente dannoso per sè, senza che il male si estenda per lo meno a quelli che gli stanno vicini e spesso a molti altri. S'egli mette in pericolo la sua fortuna, nuoce a quelli che direttamente o indirettamente ne traevano un sostentamento, e di solito diminuisce più o meno la ricchezza collettiva; s'egli guasta le sue qualità fisiche o morali, non fa soltanto danno a tutti quelli il cui bene dipendeva da lui, ma si rende incapace di compiere i suoi doveri verso il prossimo in generale; diviene forse un grave carico per l'altrui benevolenza o per l'affetto altrui, e, se una tale condotta fosse più frequente, poche colpe diminuirebbero di più la massa generale dei beni. In fine, ci si può dire, se una persona non cagiona agli altri un danno diretto coi suoi vizî o colle sue follìe è non di meno perniciosa per l'esempio ch'essa dà, e dovrebbe esser costretta a frenarsi pel bene di quelli che la vista o la conoscenza della sua condotta potrebbero corrompere o traviare. Ed anche — si aggiungerà — se le conseguenze della mala condotta fossero circoscritte agl'individui viziosi o poco riflessivi, la società potrebbe abbandonare a sè stessi quelli che evidentemente sono incapaci di guidarsi? Se la società, come tutti riconoscono, deve protezione ai bambini e ai minorenni, non ne deve forse allo stesso modo alle persone d'un'età matura che sono egualmente impotenti a governarsi da sè? Se il giuoco o l'ubbriachezza o l'incontinenza o l'ozio o l'oscenità sono ostacoli al bene ed al progresso altrettanto gravi che la maggior parte delle azioni dalla legge vietate, perchè la legge non tenterebbe, fin dove la cosa è possibile, di reprimere anche questi abusi? E per supplire alle inevitabili imperfezioni della legge, l'opinione non dovrebbe essa almeno organizzare una forte polizia contro questi vizî, e dirigere contro quelli che ne sono macchiati tutti i rigori delle penalità sociali? Non si tratta qui — ci dicono — di comprimere la individualità nè d'impedire che si provi qualche maniera di vivere nuova ed originale; le sole cose che si cerca d'impedire sono cose che furono già provate e, da che mondo e mondo, condannate; sono cose che l'esperienza ha dimostrato nè utili nè convenienti all'individualità di alcuno. Occorre un certo lasso di tempo ed una certa quantità d'esperienza, perchè una verità di morale o di prudenza possa esser considerata come stabilita, e tutto quello che si desidera è d'impedire che le generazioni, l'una dopo l'altra, cadano nell'abisso che è stato fatale alle loro preceditrici. Io riconosco pienamente che il torto che una persona si fa può seriamente danneggiare i suoi prossimi parenti nei loro interessi e nei sentimenti loro, e, in un grado minore, la società in generale. Quando da una tale condotta un uomo è trascinato a violare una obbligazione precisa ed accertata verso uno o più altri, il caso cessa di essere personale e divien soggetto alla disapprovazione morale nel vero senso della parola. Per esempio, se un uomo, colla sua intemperanza o colla sua stravaganza, diviene incapace di pagare i suoi debiti, oppure, se, gravato della responsabilità di una famiglia, diviene per le stesse cagioni incapace di mantenerla e di allevarla, egli è giustamente disapprovato e può essere giustamente punito: ma questo non per la sua stravaganza, bensì per aver mancato a' suoi doveri verso la famiglia o verso i creditori. Se il danaro che ad essi doveva essere consacrato fosse stato stornato per l'impiego più prudente, la sua colpevolezza morale sarebbe stata la stessa: Giorgio Barnwell uccise suo zio affine di aver danaro per l'amante; ma sarebbe stato impiccato ugualmente s'egli l'avesse fatto per istabilirsi negli affari. Allo stesso modo, se un uomo, come spesso accade, procura alla famiglia dei dispiaceri col darsi a cattive abitudini, si può rimproverargli ben a ragione la sua malvagità o la sua ingratitudine; ma lo si potrebbe fare ugualmente se si desse ad abitudini, punto viziose in sè, ma penose per quelli con cui passa la vita, o il cui benessere dipende da lui. Chiunque manca al rispetto generalmente dovuto agl'interessi e ai sentimenti degli altri, senza esservi costretto da qualche dovere più imperioso o giustificato da qualche lecita inclinazione, merita la disapprovazione morale per questa mancanza, ma non per la causa di essa, non per gli errori puramente personali che possono avervelo in origine condotto. E del pari, se una persona, per una condotta puramente egoistica, si rende incapace di adempire a qualche obbligo verso il pubblico, è colpevole di offesa sociale. Nessuno dovrebbe essere punito unicamente perchè ubbriaco, ma un soldato o un poliziotto debbono esser puniti se ubbriachi quando son di guardia. Insomma, dovunque c'è per un individuo o pel pubblico un danno preciso, o il preciso pericolo di un danno, il caso non appartiene più al dominio della libertà e passa a quello della moralità o della legge. Ma quanto al danno semplicemente eventuale o, per dir così, imaginabile che alcuno può cagionare alla società senza violare alcun preciso dovere verso il pubblico e senza evidentemente colpire altri che sè stesso, la società può e deve sopportare questo inconveniente, pel bene superiore della libertà umana. Se si debbono punire degli adulti perchè essi non vegliano, come si dovrebbe, su loro stessi, io vorrei lo si facesse per loro amore, e non sotto il pretesto ch'essi rendonsi incapaci di compiere certi doveri verso la società, quando questa non pretende al diritto di imporli loro; ma io non posso ammettere che la società non abbia altro mezzo di elevare i suoi membri più deboli al livello ordinario della condotta razionale fuor che attendere ch'essi abbiano agito in modo disonorevole e punirli allora, legalmente o moralmente. La società ha avuto tutto il potere su di essi durante la prima parte della loro esistenza, ha avuto tutto il periodo dell'infanzia e della minore età per tentar di renderli capaci di condursi ragionevolmente durante la vita. La generazione presente è padrona dell'educazione e di tutto il destino della futura; in realtà essa non la può rendere perfettamente saggia e perfettamente buona, perchè queste due qualità — bontà e saggezza — mancano in modo deplorevole a lei stessa; e i suoi più grandi sforzi, in molti casi particolari, non sono quelli coronati da esito più felice; ma la generazione presente è perfettamente capace insomma di rendere la generazione avvenire altrettanto buona ed anche un po' migliore di essa. Se la società lascia che un gran numero de' suoi membri cresca in uno stato d'infanzia prolungata, incapace di sentir l'influenza di considerazioni razionali con cause un po' remote, la colpa delle conseguenze ricade sulla società. Armata non soltanto di tutti i poteri della educazione, ma ancora della forza che qualunque opinione accetta all'universale esercita sui meno capaci di giudicare con la loro testa, ajutata dalle penalità _naturali_ che chiunque si espone al disgusto o al disprezzo di quei che lo conoscono non riesce ad evitare, la società non deve pretendere, oltre a tutto questo, il potere di fare o d'imporre delle leggi relative agl'interessi personali degl'individui. Secondo tutte le regole di giustizia e d'utilità, la valutazione di questi interessi dovrebbe spettare a quelli che ne sopporteranno le conseguenze. Nulla tende maggiormente a screditare e a rendere inutili i buoni mezzi d'influire sulla condotta umana che l'aver ricorso ai peggiori; se vi è in coloro che si tenta di costringere alla prudenza o alla temperanza la stoffa di un carattere vigoroso e indipendente, essi senza dubbio alcuno si ribelleranno al giogo. Nessun uomo cosiffatto penserà che gli altri abbiano il diritto di sorvegliarlo nei suoi interessi, come hanno invece quello d'impedirgli di danneggiare i loro; e facilmente, da questo, si giunge a considerare come segno di forza e di coraggio il far fronte ad un'autorità così usurpata e l'eseguire con ostentazione precisamente il contrario di ciò che essa prescrive. Così si videro, al tempo di Carlo II, dei costumi licenziosi succedere come una moda all'intolleranza morale nata dal fanatismo puritano. Quanto a quello che si dice della necessità di proteggere la società contro il cattivo esempio dato dagli uomini viziosi o leggieri, è vero che il cattivo esempio, sopratutto quello di nuocere impunemente agli altri, può avere un effetto pernicioso. Ma noi parliamo ora della condotta che, mentre non nuoce agli altri, si suppone dannosissima a chi la segue; ed io non vedo come, in questo caso, non si trovi l'esempio più salutare che dannoso, perchè, se esso mette in mostra la condotta cattiva, addita nello stesso tempo le conseguenze penose e degradanti che in generale, per mezzo di una censura giustamente applicata, finiscono coll'esserne l'espiazione. Ma l'argomento più forte contro l'intervento del pubblico nella condotta _personale_ è che, quando esso interviene, lo fa inconsideratamente. In questioni di moralità sociale o di dovere verso gli altri, l'opinione del pubblico (che è quanto dire di una maggioranza dominante) sebbene spesso falsa, ha qualche probabilità d'essere anche più spesso giusta, perchè il pubblico è chiamato così a giudicare soltanto dei proprî interessi e del modo con cui essi sarebbero danneggiati da una certa maniera di comportarsi, se questa fosse permessa; ma l'opinione di una tale maggioranza imposta alla minoranza come legge su questioni personali ha altrettanta probabilità di esser falsa quanto d'esser giusta. Infatti, in tali casi, le parole _opinione pubblica_ significano tutt'al più l'opinione di qualche persona su ciò che per altre persone è buono o cattivo, e spessissimo non significano neppur questo, giacchè il pubblico con la più perfetta indifferenza trascura il piacere o la convenienza di quelli di cui biasima la condotta, e non ha riguardo che alle sue proprie inclinazioni. Molti ritengono un'offesa ogni condotta che, mentre eccita il loro disgusto, sembra loro un oltraggio ai loro sentimenti: come quel bigotto che, accusato di trattare con troppa indifferenza i sentimenti religiosi degli altri, rispondeva ch'erano gli altri a trattare con indifferenza i suoi, persistendo nelle loro abominevoli credenze. Ma non c'è alcuna identità fra il sentimento di una persona per la sua propria opinione e il sentimento di un'altra che si ritiene offesa dal veder professata questa opinione — più di quella che vi sia tra il desiderio di un ladro di prendere una borsa, e quello che prova il possessore legittimo di conservarla. E il gusto di una persona è sua stretta proprietà appunto come la sua opinione o la sua borsa. È facile imaginare un pubblico ideale che lasci tranquilla la libertà e la scelta degl'individui per ogni cosa incerta, esigendo soltanto che si astengano da quei modi di comportarsi che l'universale esperienza ha condannati: ma dove si è veduto un pubblico porre tali limiti alla sua censura? Oppure, quando mai il pubblico si cura dell'esperienza universale? Il pubblico, intervenendo nella _condotta personale_ pensa raramente ad altro fuor che all'enormità che vi è nel pensare ed agire diversamente da lui; e questo criterio, appena mascherato, è presentato alla specie umana come il precetto della religione e della filosofia, dai nove decimi degli scrittori moralisti e speculativi. Essi c'insegnano che le cose sono giuste perchè sono giuste, perchè noi sentiamo che lo sono; ci dicono di cercare nel nostro spirito o nel nostro cuore le leggi di condotta che ci obbligano e verso noi stessi e verso gli altri. Che cosa può fare il povero pubblico, più di applicare questi insegnamenti e rendere obbligatorî per tutti i suoi sentimenti personali di bene o di male, quando essi sono abbastanza unanimi? Il male che qui si addita non esiste soltanto in teoria, e il lettore attende forse che io citi i casi particolari in cui il pubblico di questo secolo o di questo paese dà, a torto, il carattere di legge morale ai suoi capricci. Io non iscrivo un saggio sulle attuali aberrazioni del senso morale: ed è questo un soggetto troppo importante per essere discusso tra parentesi e come esempio illustrativo; non di meno sono necessarî degli esempî per dimostrare che il principio da me sostenuto ha una seria importanza pratica e che io non cerco di far sorgere ostacoli contro mali imaginarî. Non è difficile provare con esempî numerosi che una delle più universali tendenze della umanità è d'estendere i limiti di ciò che si può chiamare la polizia morale fino al punto in cui essa invade il campo delle libertà più sicuramente legittime dell'individuo. Come primo esempio, vedete le antipatie che gli uomini nutrono a proposito di un motivo tanto frivolo come la differenza delle pratiche e sopratutto delle astinenze religiose. Per citare un caso un po' triviale, nulla nella credenza o nel culto dei cristiani attizza di più l'odio dei musulmani contro di loro che il vederli mangiar carne di majale; poche azioni sono più antipatiche ai cristiani ed agli europei di quello che questo modo di nutrirsi sia ai maomettani. È, prima di tutto, un'offesa verso la loro religione; ma questa circostanza non ispiega punto il grado o la forma della loro ripugnanza: perchè il vino è pure proibito dalla loro religione, e, sebbene i musulmani trovino biasimevole bere del vino, non ne sono affatto disgustati. La loro avversione per la carne della _bestia sudicia_ porta all'incontro quel carattere particolare, simile ad una istintiva antipatia, che l'idea di sporcizia, quando sia penetrata ben addentro nei sentimenti, sembra eccitar sempre anche in quelli le cui abitudini personali non sono affatto di una proprietà scrupolosa. Il sentimento dell'impurità religiosa, così vivo presso gl'Indiani, ne è un notevole esempio. Supponete ora che in un popolo in cui la maggioranza è musulmana, questa maggioranza voglia proibire, in tutto il paese, che si mangi carne di majale: non vi è in questo nulla di nuovo per paesi maomettani[9]. Sarebbe un esercitare legittimamente l'autorità morale dell'opinione pubblica? No, dite voi: e perchè no? Questo costume è realmente disgustante per un tal pubblico: esso crede sinceramente che Dio lo proibisca e lo aborra. Non si potrebbe d'altro canto biasimare questo divieto come una persecuzione religiosa: sarà religioso nell'origine, ma non è una persecuzione per causa religiosa, perchè nessuna religione obbliga a mangiar carne di majale. Il solo motivo sostenibile per condannare un tal divieto sarebbe questo: il pubblico non ha nulla che vedere nei gusti e negli interessi personali degli individui. Per parlar di cose a noi più vicine, la maggioranza degli Spagnuoli considera una grossolana empietà e la più grave offesa verso l'Essere Supremo il tributargli un culto che non sia quello dei cattolici romani, e sul suolo di Spagna non v'è altro culto tollerato. Per tutti i popoli del mezzogiorno d'Europa, un clero ammogliato è non soltanto irreligioso, ma impudico, indecente, rozzo, disgustante. Che cosa pensano i protestanti di questi sentimenti perfettamente sinceri e dei tentativi fatti per applicarli con ogni rigore a quelli che non sono cattolici? Tuttavia, se gli uomini possono vicendevolmente turbare la propria libertà nelle cose che non toccano gli interessi degli altri, per quali principî si può logicamente escluderne questi casi d'intolleranza? O chi può biasimare della gente perchè vogliono distruggere ciò ch'essi considerano come uno scandalo innanzi a Dio e innanzi agli uomini? Non si possono aver ragioni migliori per vietare ciò che si ritiene una immoralità personale di quelle che, per sopprimere questi costumi, abbiano coloro i quali li considerano come empî; e, a meno che noi vogliamo adottar la logica dei persecutori e dire che noi possiamo perseguitare perchè abbiamo ragione, e che essi non devono perseguitare noi perchè hanno torto, dobbiamo ben guardarci dall'ammettere un principio, la cui applicazione, se si facesse a nostro carico, ci sembrerebbe una sì grande ingiustizia. Si può, sebbene a torto, osservare che gli esempî precedenti sono tratti da eventualità impossibili nel nostro paese, perchè da noi l'opinione non giungerà fino ad imporre apertamente l'astinenza da certi cibi o a molestare la gente perchè segue questo o quel culto o perchè essa si ammoglia o no secondo le sue credenze e le sue tendenze: ebbene, l'esempio che segue sarà tratto da un attentato alla libertà di cui non è punto scomparso il pericolo. Dovunque i puritani sono stati in forza sufficiente, come nella Nuova Inghilterra e nella Gran Bretagna al tempo della repubblica, hanno tentato, e con successo, di sopprimere i divertimenti pubblici e quasi tutti i privati, in ispecial modo la musica, la danza, il teatro, i giuochi pubblici o qualunque altra riunione a scopo di divertimento. Vi è ancora nel nostro paese un numero non indifferente di persone, le cui idee di religione e di moralità condannano queste ricreazioni; ora, poichè queste persone appartengono sopratutto alla classe media che ha oggi più influenza di qualunque altra nel nostro paese, non è punto impossibile che i seguaci di queste opinioni possano un dì o l'altro disporre di una maggioranza in parlamento. Che cosa dirà il resto della comunità vedendo i divertimenti ad essa permessi regolati dai sentimenti morali e religiosi dei calvinisti e dei metodisti più severi? Non intimerà, e molto risolutamente, a questi uomini così importunamente pii, di occuparsi degli affari loro? È precisamente quello che si dovrebbe dire a qualunque governo o pubblico avesse la pretesa di privare tutti quanti dei piaceri ch'esso condanna. Ma, se il principio su cui la pretesa si fonda è ammesso, non si può ragionevolmente opporsi a che la maggioranza o qualunque altro potere dominante nel paese lo applichi secondo le sue vedute; e ciascuno deve tenersi pronto ad adattarsi all'idea di una repubblica cristiana, quale la pensavano i coloni primitivi della Nuova Inghilterra, se una setta religiosa come la loro rioccupasse mai il terreno perduto, come han fatto spesso delle religioni che si credevano in decadenza. Supponiamo ora un'altra eventualità che ha forse probabilità maggiore di esser mandata ad effetto. Tutti riconoscono nel mondo moderno una potente tendenza verso una costituzione democratica della società, sia poi essa accompagnata o no da instituzioni politiche popolari. Si dice che nel paese dove più prevale questa tendenza, negli Stati Uniti, dove si hanno la società ed il governo più democratico, il sentimento della maggioranza, a cui spiace qualunque modo di vivere troppo brillante o troppo dispendioso perchè essa possa sperar di uguagliarlo, fa abbastanza bene l'ufficio di una legge suntuaria; e vi sono, dicesi, molte parti dell'Unione, in cui una persona ricchissima può difficilmente trovar qualche modo di spendere la sua fortuna senza attirarsi la disapprovazione popolare. Sebbene, senza alcun dubbio, questo racconto esageri grandemente i fatti esistenti, tuttavia lo stato di cose ch'esso descrive non è soltanto concepibile e possibile; è il più probabile risultato delle idee democratiche alleate a questo concetto: che il pubblico ha diritto d'imporre il suo veto sul modo con cui gl'individui spendono le loro rendite. Ora noi non abbiamo che da supporre una notevole diffusione delle idee socialiste, e può divenire, agli occhî della maggioranza, infame il possedere qualcosa di più che una piccolissima proprietà o qualcosa di più che un salario guadagnato col lavoro manuale. Simili opinioni (almeno in principio) hanno già fatto grandi progressi nella classe operaja, e pesano in modo oppressivo sui suoi membri. Dirò una cosa molto nota: i cattivi operaî (che sono in maggioranza in molti rami dell'industria) professano fermamente l'opinione ch'essi dovrebbero avere gli stessi salarî dei buoni operaî, e che non si dovrebbe permettere a nessuno, sotto pretesto di lavorare a cottimo o altrimenti, di guadagnare più degli altri, per la sua maggiore abilità o destrezza. Ed essi impiegano una polizia morale, che all'occasione diviene una polizia fisica, per impedire agli abili operaî di ricevere e ai padroni di dare un compenso più grande ai servizî migliori. Se il pubblico ha la minima giurisdizione negli interessi privati, io non vedo qual sia la colpa di costoro, nè perchè il pubblico particolare relativo ad un individuo possa meritare biasimo, quando pretende sulla costui condotta individuale il diritto preteso dal pubblico in generale sugli individui in generale. Ma, per non fermarci alle ipotesi, oggi si invade grossolanamente il campo della libertà privata. Si minaccia di farlo anche di più con qualche probabilità di successo, e si predicano delle opinioni che rivendicano nel pubblico il diritto illimitato di proibire colla legge non soltanto tutto quello che esso trova cattivo, ma anche, per colpire più sicuramente quello ch'egli crede tale, molte cose che riconosce innocenti. Sotto pretesto d'impedire l'intemperanza, si è vietato per legge a tutta una colonia inglese e a quasi una metà degli Stati Uniti di servirsi delle bevande fermentate altrimenti che come medicine; perchè, in realtà, vietarne la vendita, è proibirne l'uso; e del resto lo si comprendeva bene così. E sebbene l'impossibilità di eseguire la legge l'abbia fatta abbandonare dalla maggior parte degli Stati che l'avevano adottata, compreso quello che le aveva dato il nome, tuttavia molti dei nostri dichiarati filantropi hanno tentato e tentano di continuo di ottenere una legge simile nel nostro paese. L'associazione o _alleanza_, come essa si chiama, che si è formata a questo scopo, ha avuto della notorietà per la pubblicità data ad una corrispondenza tra il suo segretario e un uomo di Stato, appartenente al piccolo numero di quelli che in Inghilterra credono che le opinioni di un personaggio politico debbano basarsi su principî. La parte che lord Stanley ha preso in questa corrispondenza rafforzerà le speranze che già aveva concepite su di lui chiunque sa quanto le qualità di cui egli, a più riprese, ha dato pubbliche prove siano rare presso i militanti nella politica. L'organo dell'_Alleanza «condanna altamente qualunque principio che possa servire a giustificare il fanatismo e la persecuzione_» e si prova a dimostrarci «_la barriera assolutamente insuperabile_» che divide questi principî da quelli dell'associazione. «_Tutte le materie relative al pensiero, all'opinione, alla coscienza, mi sembrano — dice — al di fuori del dominio legislativo. Le cose soltanto che appartengono alla condotta sociale, ai costumi, alle relazioni mi sembrano soggette ad un poter discrezionale posto nella legge e non nell'individuo._» Qui non si fa alcuna menzione d'una terza classe di atti diversa dalle due ricordate: le azioni e le abitudini non sociali ma individuali, quantunque a questa classe appartenga senza dubbio il bere liquori fermentati. Ma mi si dirà che vendere bevande fermentate è commerciare, e che commerciare è un atto sociale. Ancora, noi ci lagniamo d'una limitazione illecita delle libertà non del venditore, ma del compratore e del consumatore, perchè lo Stato potrebbe allo stesso modo proibirgli di bere del vino che rendergli impossibile di procurarselo. Tuttavia il segretario continua: «_Io esigo come cittadino il diritto di fare una legge dovunque l'atto sociale d'un altro invade il campo dei miei diritti sociali._» Ed ecco la descrizione di questi _diritti sociali_: «_Se qualcosa vi è che invada questo campo, è, senza dubbio alcuno, il commercio dei liquori spiritosi. Esso distrugge il mio fondamental diritto di sicurezza, creando e stimolando continuamente disordini; viola il mio diritto d'eguaglianza, con lo stabilire dei profitti che creano una miseria per sollevar la quale si fa contribuire anche me; annulla il mio diritto ad un libero sviluppo intellettuale e morale, circondandomi di pericoli e indebolendo e rendendo immorale la società, da cui ho diritto di esigere ajuto e soccorso_.» Tale sistema dei diritti sociali, che giammai senza dubbio era stato così nettamente formulato, si riduce, in sostanza, a questo: diritto sociale assoluto per ciascun individuo di esigere che tutti gli altri agiscano in ogni cosa precisamente come dovrebbero: chiunque manca menomamente al suo dovere, viola il mio diritto sociale e mi dà ragione di chiedere alla legge un rimedio a questo male. Un principio così mostruoso è infinitamente più pericoloso che qualunque isolata usurpazione a danno della libertà; non v'è violazione di questa che con esso non si possa giustificare. Esso non riconosce nessun diritto a nessuna libertà salvo forse quella di professare in segreto delle opinioni senza palesarle mai; perchè dal momento che alcuno emette una opinione che io considero dannosa, viola i _diritti sociali_ dall'_Alleanza_ riconosciutimi. Questa dottrina accorda a tutti gli uomini vicendevolmente un interesse determinato nella loro perfezione morale, intellettuale e persino fisica, che ciascun d'essi deve definire secondo il proprio criterio. Un altro esempio notevole di violazione della giusta libertà dell'individuo, che non è una semplice minaccia, ma una pratica dominante ed antica, è la legislazione del riposo festivo. Senza dubbio alcuno, astenersi dalle occupazioni ordinarie un giorno la settimana, per quanto lo concedono le esigenze della vita, è un'abitudine altamente salutare, sebbene non sia un dovere religioso che per gli Ebrei. E poichè questo costume non può essere osservato senza il consenso generale delle classi operaje, e qualcuno lavorando potrebbe imporre agli altri la necessità di fare lo stesso, è forse ammissibile e giusto che la legge garantisca a ciascuno l'osservanza generale dell'abitudine sospendendo in un dato giorno le principali operazioni dell'industria. Ma questa giustificazione, fondata sul diretto interesse che hanno gli altri o che ciascuno segua tale costume, non si applica alle occupazioni che una persona si sceglie da sè e a cui crede conveniente dedicare le sue ore d'ozio; aggiungo che non si applica menomamente di più alle restrizioni legali imposte ai divertimenti. È vero che il divertimento di qualcuno può essere, nel giorno di festa, il lavoro di qualche altro; ma il piacere, per non dire l'utile ricreazione d'un gran numero, val bene il lavoro di qualcuno, purchè l'occupazione sia scelta liberamente e possa essere liberamente abbandonata. Gli operaî hanno perfettamente ragione di pensare che se tutti lavorassero la domenica, si darebbe il lavoro di sette giorni pel salario di sei: ma dal momento che la gran massa delle operazioni è sospesa, quel piccolo numero di persone che deve continuare il lavoro pel piacere degli altri, ottiene un proporzionale accrescimento di salario e nessuno è obbligato a continuare nelle sue occupazioni se preferisce il riposo al guadagno. Chi voglia cercare un altro rimedio, lo potrà trovare nello stabilire un giorno di vacanza durante la settimana per queste classi speciali di persone. Per giustificare adunque le restrizioni poste ai divertimenti della domenica, bisogna confessare che essi sono riprovevoli dal punto di vista religioso — un motivo di legislazione contro di cui non si protesterà mai abbastanza. «_Deorum injuriae Diis curae_.» Resta a stabilire che la società, o qualcuno dei suoi funzionarî, abbia ricevuto di lassù l'incarico di vendicare qualunque supposta offesa alla potenza suprema, che non sia anche un torto fatto ai nostri simili. L'idea che è dovere dell'uomo rendere religioso il suo prossimo fu la causa di tutte le persecuzioni religiose che mai siano state ordinate; e, se fosse ammessa, le giustificherebbe pienamente. Quantunque nel sentimento che si rivela coi tentativi spesso ripetuti d'impedire alle ferrovie di far servizio, ai musei d'essere aperti la domenica, ecc., non vi sia la crudeltà degli antichi persecutori; tuttavia v'è l'indizio di uno stato di spirito assolutamente identico a quello. È la decisione di non tollerare negli altri quello che la loro religione permette, ma che la religione del persecutore vieta; è la persuasione che Dio non soltanto detesta l'atto del miscredente, ma non avrà per innocenti neppur noi, se permettiamo che si commetta. Io non posso astenermi dall'aggiungere a queste prove del poco conto in cui generalmente è tenuta la libertà umana, il linguaggio di franca persecuzione che la stampa del nostro paese si lascia sfuggire tutte le volte che deve rivolger la sua attenzione sul notevole fenomeno del mormonismo. Si potrebbe parlare a lungo assai su questo fatto inatteso e pieno d'insegnamenti che una pretesa rivelazione e una religione la quale su questa base riposa (ciò è quanto dire il frutto di una evidente impostura, che non è neppur sostenuta dal fascino di alcuna qualità straordinaria nel suo fondatore) è oggetto di fede per moltitudini ed è stato il fondamento di una società, nel secolo dei giornali, delle ferrovie e dei telegrafi. Quello che ci riguarda si è che questa religione, come molte altre e migliori, ha i suoi martiri; che il suo profeta e fondatore fu mandato a morte in una sommossa a causa della sua dottrina, e che molti fra i suoi seguaci perdettero allo stesso modo la vita; che la loro setta fu espulsa dal paese ov'era nata e che ora, mentre essa è stata cacciata in un solitario rifugio, in mezzo ad un deserto, molti inglesi dichiarano apertamente che sarebbe bene (solamente non sarebbe comodo) fare una spedizione contro i Mormoni ed obbligarli colla forza ad accettare opinioni diverse. La poligamia adottata dai Mormoni è la cagion principale di questa antipatia contro le loro dottrine, con cui si violano così le leggi della tolleranza religiosa; la poligamia, sebbene permessa ai Maomettani, agl'Indiani, ai Chinesi, sembra eccitare una implacabile animosità quando è praticata da gente che parla inglese e che dice di essere una specie di cristiani. Nessuno può disapprovare più energicamente di me questa istituzione dei Mormoni: ciò per molte ragioni, e fra le altre perchè, lungi dall'essere basata sul principio di libertà, essa ne è una diretta violazione poichè non fa che rafforzare le catene di una parte delle collettività ed esimere l'altra da ogni reciprocità di obblighi. Tuttavia, conviene ricordare che questa relazione è tanto volontaria da parte delle donne che ce ne sembrano le vittime, quanto qualunque altra forma dell'instituzione del matrimonio; e del resto, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente, essa ha la sua spiegazione nelle idee e nelle abitudini generali del mondo: si insegna alle donne a considerare il matrimonio come l'unica cosa necessaria: ed è ben naturale così che molte di esse preferiscano sposare un uomo che ha parecchie altre mogli, a non maritarsi del tutto. Non si domanda ad altri paesi di riconoscere tali unioni o di permettere che una parte dei loro cittadini abbandoni la legge nazionale per seguir la dottrina dei Mormoni; — ma quando dei dissidenti hanno concesso ai sentimenti ostili dei loro avversarî assai più di quello che si potesse, in istretta giustizia, esigere, quando essi hanno abbandonato i paesi che non potevano tollerare le loro dottrine e si sono stabiliti in un remoto angolo della terra, che sono stati i primi a rendere abitabile, è difficile scorgere secondo quali principî (salvo quelli della tirannia) si possa impedir loro di viverci come loro garba, purchè essi non commettano aggressioni contro altri paesi, e lascino ai malcontenti la piena libertà di andarsene. Uno scrittore moderno di merito, per qualche rispetto notevole, propone (usiamo le sue parole) una spedizione non di crociati, ma di pionieri della civiltà contro questa comunità politica, per metter fine a ciò che a lui sembra un passo addietro nel cammino del progresso. Io penso la stessa cosa — ma non credo che alcuna comunità abbia diritto di forzare un'altra ad essere civile. Dal momento che le vittime di una legge cattiva non invocano i soccorsi di altre comunità, io non posso ammettere che persone completamente estranee abbiano il diritto di esigere la cessazione di uno stato di cose che pare soddisfaccia tutte le parti interessate, soltanto perchè si tratta di uno scandalo per gente lontana qualche migliajo di miglia, e perfettamente al di fuori della questione. Spedite loro, se vi pare cosa buona, dei missionari, che predichino sull'argomento, ed impiegate tutti i mezzi leali (fra cui non è quello d'imporre silenzio ai novatori) per impedire nel vostro paese il progresso di tali dottrine. Se la civiltà ha prevalso sulla barbarie, quando la barbarie dominava il mondo incontrastata, è eccessivo temere che la barbarie, sconfitta una volta, possa rivivere e riprendere il predominio sulla civiltà. Una civiltà che potrebbe soccombere così davanti al suo nemico già sbaragliato, deve essere talmente degenerata che nè i suoi sacerdoti nè i suoi institutori ufficiali nè alcun altro abbiano la capacità o si vogliano dar l'incomodo di difenderla. Se così è, quanto più da questa civiltà si sarà lontani, tanto meglio: essa non può se non proseguire di male in peggio, finchè sia distrutta e rigenerata (come l'impero d'Occidente) da più energici barbari. FINE DEL CAPITOLO QUARTO CAPITOLO QUINTO. APPLICAZIONI. I principi in questo lavoro sostenuti devono essere ammessi in generale, come fondamento di una discussione particolareggiata, prima di poterli applicare, con qualche speranza di buon esito, ai varî rami della politica e della morale. Le poche osservazioni che mi propongo di fare su questioni speciali sono destinate a rischiarare i principî piuttosto che a trarne le conseguenze; io non offro tanto delle applicazioni; quanto degli esempî di applicazioni, i quali possono servire a gettar maggior luce sul senso e sui limiti delle due massime che sono la base di questo saggio: inoltre, queste applicazioni possono giovare all'equità del giudizio quando non si sappia bene quale delle due massime convenga applicare. Ecco, intanto, i principî: 1.º l'individuo non è responsabile verso la società delle sue azioni, finchè queste non riguardano se non i suoi personali interessi: — i consigli, l'istruzione, la persuasione, l'isolamento anche, se gli altri credono necessario pel loro bene di ricorrere a quest'ultimo mezzo: — ecco le sole maniere con cui la società può legittimamente dimostrare il suo disgusto o la sua disapprovazione della condotta dell'individuo: 2.º delle azioni ritenute dannose agli interessi altrui, l'individuo è responsabile e può esser sottomesso alle punizioni sociali e legali, se la società giudica le une o le altre necessarie alla propria protezione. Anzitutto non è affatto da credere che un danno o il pericolo di un danno fatto agli altrui interessi possa sempre giustificare l'intervento della società: questo è vero solo in certi casi. In un gran numero di casi, un individuo, nel proseguire un legittimo fine cagiona necessariamente, e di conseguenza legittimamente, un danno o un dispiacere ad altri individui, o intercetta un bene che essi potevano ragionevolmente sperare. Tali opposizioni d'interessi tra gli individui derivano spesso da cattive instituzioni, ma sono inevitabili finchè queste instituzioni durano; qualcuna anche sarebbe inevitabile sotto qualunque forma d'instituzioni. Chiunque riesca in una professione che molti occupano o in un concorso; chiunque sia preferito ad un altro in qualunque lotta per uno scopo che due persone desideravano di raggiungere, trae profitto dalla perdita degli altri, dai loro sforzi riusciti vani e dal loro dispiacere. Ma è una cosa che tutti ammettono: è meglio, nell'interesse generale dell'umanità, che gli uomini continuino i loro sforzi senza esserne distolti da questo genere di conseguenze. In altri termini, la società non riconosce ai competitori disgraziati alcun diritto morale o legale ad essere esenti da questa specie di dolore; essa non si sente chiamata ad intervenire se non quando i mezzi impiegati per raggiungere lo scopo sono di quelli che l'interesse generale non può permettere; la frode o il tradimento, e la violenza. Commerciare — ripetiamolo ancora — è un atto sociale. Chiunque si mette a vendere una merce qualunque fa una cosa che tocca gl'interessi altrui e la società in generale; dunque la sua condotta è, per principio, sotto la giurisdizione della società: di conseguenza, si considerava in altri tempi come dovere del governo fissare il prezzo e regolare il modo di fabbricazione delle manifatture. Ma ora si riconosce, sebbene soltanto dopo una lunga lotta, che il buon prezzo e la buona qualità delle merci si garantiscono più efficacemente lasciando produttori e venditori perfettamente liberi, senz'altro freno che l'uguale libertà pei compratori di provvedersi altrove. Tale è la dottrina detta del libero scambio, la quale riposa su basi non meno solide, ma diverse da quelle del principio di libertà individuale proclamato in questo saggio. Le restrizioni poste al commercio o alla produzione per ragioni di commercio sono in realtà coazioni; e qualunque coazione, in quanto è coazione, è un male: ma esse toccano soltanto quella parte della condotta umana che la società ha diritto di sorvegliare e non hanno altro torto tranne quello di non produrre i risultati che se ne attendevano. Dappoichè il principio della libertà individuale non è uno dei fondamenti della dottrina del libero scambio, non lo è di più nella maggior parte delle questioni che si elevano a proposito dei limiti di questa dottrina: per esempio, quando si tratta di sapere quanto di pubblica sorveglianza sia ammissibile per impedire la frode con falsificazione, o fino a qual punto si debbano imporre ai padroni delle precauzioni igieniche o dei mezzi di protezione per gli operai impiegati ad occupazioni pericolose. Tali questioni non comprendono considerazioni di libertà se non in un senso: che, _cæteris paribus_, è sempre preferibile abbandonare gli uomini a sè stessi piuttosto di sorvegliarli: ma, come principio, non è contestabile ch'essi legittimamente possano essere per simili fini sorvegliati. D'altra parte vi sono delle questioni relative all'intervento pubblico nel commercio, che sono essenzialmente questioni di libertà: tali, la _legge di Maine_[10], a cui si è già alluso, la proibizione dell'importazione dell'oppio in China, la restrizione imposta alla vendita dei veleni, e in generale tutti i casi in cui lo scopo dell'intervento è di rendere difficile o impossibile la vendita di certe merci. Questo intervento è biasimevole come una violazione, non già della libertà del produttore o del venditore, ma di quella del compratore. Uno di questi esempî, la vendita dei veleni, apre una questione nuova, quella dei limiti convenienti di ciò che si può chiamare funzione di polizia; trattasi di sapere fino a qual punto si possa legittimamente limitare la libertà, per impedire delitti o disgrazie. Il prendere delle precauzioni contro il delitto prima che sia commesso, così come lo scoprirlo e il punirlo una volta commesso, è una delle funzioni che nessuno nega al governo: tuttavia si può assai più facilmente abusare, a danno della libertà, della funzione preventiva che della repressiva: perchè vi è appena una parte della libertà legittima di azione di un essere umano che non possa con ragione essere imaginata come tale da facilitare un qualunque delitto. Non di meno, se una autorità pubblica o anche un semplice privato vedono una persona che evidentemente si prepara a commettere un delitto, essi non sono obbligati a restare spettatori inerti finchè il delitto sia commesso, ma possono intervenire e prevenirlo. Se non si comprassero dei veleni, oppure se non se ne facesse uso mai tranne che per avvelenare, sarebbe giusto di proibirne la fabbricazione e la vendita: invece si può averne bisogno per iscopi non solo innocenti, ma utili, e la legge non può imporre delle restrizioni in un caso senza che l'altro ne risenta. Inoltre, è officio dell'autorità prevenire delle disgrazie. Se un pubblico funzionario o non importa chi altro vedesse una persona la quale sta per attraversare un ponte che si sa non essere sicuro, e non avesse il tempo di avvertirla del pericolo ch'essa affronta, potrà bene afferrarla e farla indietreggiare a viva forza, senza violazione alcuna della sua libertà: la quale infatti consiste nel fare ciò che si desidera; e questa persona non desidera di cadere nell'acqua. Non di meno, quando non c'è la certezza, ma solamente la possibilità di un pericolo, la persona stessa può sola giudicare del valore del motivo che la spinge a correr tale rischio; e in questo caso, di conseguenza (a meno che non si tratti di un ragazzo, o che la persona non sia in delirio o in uno stato di eccitazione o di distrazione incompatibile coll'uso completo delle sue facoltà) si dovrebbe, a mio vedere, limitarsi ad avvertirlo del pericolo e non impedirgli colla forza di esporvisi. Tali considerazioni, applicate ad una questione come quella della vendita dei veleni, possono ajutarci a decidere quali fra i diversi modi possibili di _regolamentazione_ siano o non siano contrarî al principio: per esempio, si può imporre senza violazione di libertà una precauzione come quella di porre al veleno un'etichetta che ne faccia conoscere le qualità pericolose; non è in fatti possibile che il compratore desideri ignorare le proprietà venefiche della cosa da lui comprata: ma l'esigere sempre un certificato medico renderebbe talvolta impossibile, sempre poi dispendioso di ottenere l'oggetto per usi legittimi. A mio avviso, il solo modo con cui gli avvelenamenti si possano rendere difficili (senza violare la libertà di quelli che hanno bisogno di sostanze venefiche per un altro fine) consiste in quello che Bentham chiama, nel suo linguaggio così proprio, una testimonianza _preappointed_ (prestabilita). Nulla è altrettanto comune nei contratti. È giusta consuetudine, quando si fa un contratto, che la legge, la quale ne imporrà l'adempimento, vi ponga come condizione l'osservanza di certe formalità, come le firme, l'attestazione dei testimoni e vai dicendo: affinchè, in caso di contestazioni susseguenti, si possa avere la prova che il contratto è stato realmente concluso, e in circostanze che non lo rendevano per nessuna ragione legalmente nullo. Effetto di queste precauzioni è rendere difficilissimi i contratti fittizî o i contratti fatti a condizioni che, se fossero conosciute, ne distruggerebbero la validità. Si potrebbero imporre simili precauzioni per la vendita degli articoli che si prestano a diventare strumenti del delitto: per esempio si potrebbe esigere dal venditore che esso iscrivesse su di un registro la data esatta della vendita, il nome e l'indirizzo del compratore, la qualità e la quantità precise vendute, la risposta ricevuta quando ebbe chiesto al compratore che cosa volesse farne. Quando non vi sono ricette di medico, si potrebbe esigere la presenza di un terzo, per identificare il compratore, se più tardi si avesse qualche ragion di credere che l'oggetto fosse stato usato a scopo delittuoso. Tali regolamenti non sarebbero in generale un materiale impedimento ad ottenere l'oggetto desiderato, ma bensì un impedimento punto trascurabile a farne un uso illecito ed impunito. Il diritto che la società possiede di opporre ai delitti delle precauzioni anteriori, suggerisce delle restrizioni evidenti alla massima che i danni puramente personali non sono materia di prevenzione o di repressione. L'ubbriachezza, per esempio, nei casi ordinarî, non è una ragion conveniente d'intervento legislativo; ma io troverei perfettamente legittimo che un uomo convinto d'aver commesso qualche violenza contro altri sotto l'influenza dell'ubbriachezza, fosse sottoposto a disposizioni speciali; che, se in seguito lo si trovasse ubbriaco, fosse soggetto ad una penalità; e che, se in questo stato egli commettesse un'altro fallo, la punizione di questo fallo nuovo fosse più severa. Una persona che si ubbriaca quando l'ebrezza la spinge a nuocere agli altri, commette verso di questi un delitto. Allo stesso modo l'oziosità, tranne che in persone pagate dal pubblico, oppure quando questo vizio costituisce la violazione di un patto, non può senza tirannia divenire oggetto di punizioni legali: ma se per oziosità o per qualche altra causa facile ad evitarsi un uomo manca ad uno dei suoi doveri legali verso gli altri, come quello di mantenere i suoi bambini, non vi è tirannia a costringerlo ad adempire questo dovere con un lavoro obbligatorio, ove non si trovi altro mezzo. Inoltre, vi sono molti atti che, essendo direttamente dannosi soltanto a chi li commette, non dovrebbero essere legalmente proibiti, ma che, commessi in pubblico, divengono una violazione delle sociali convenienze e, passando così nella categoria delle offese verso gli altri, possono in tutta giustizia essere vietati. Tali sono gli oltraggi alla decenza, su cui non è necessario di dilungarsi, tanto più che essi hanno col nostro soggetto un rapporto puramente indiretto, dappoichè la pubblicità non è un'aggravante minore nel caso di molte azioni punto biasimevoli in sè stesse nè tenute per tali. V'è un'altra domanda a cui bisogna trovare una risposta che si accordi coi principî qui posti. Vi sono dei casi di condotta personale tenuti per biasimevoli, ma che il rispetto della libertà impedisce di prevenire o di punire perchè il male che ne deriva direttamente ricade tutto quanto sull'agente. Si deve lasciare ad altre persone la libertà di consigliare o di costringere a fare ciò che fa liberamente l'agente? La questione non è scevra di difficoltà. Il caso di una persona che ne sollecita un'altra a compiere un atto, non è, a rigor di termini, un caso di condotta personale; dare dei consigli od offrire delle tentazioni a qualcuno, è un atto sociale e può di conseguenza, come in generale qualunque azione che riguardi gli altri, essere considerato come sottoposto alla sorveglianza sociale. Ma un po' di riflessione corregge la impressione prima dimostrando che se il caso non è strettamente compreso nei confini della libertà individuale, non di meno gli si possono applicar le ragioni su cui si fonda il principio di questa libertà. Se si deve permettere agli individui, in ciò che tocca loro stessi soltanto, di fare ciò che meglio piace ad essi, a loro rischio e pericolo, eglino devono esser liberi di consultarsi l'un l'altro su ciò che convenga fare, di scambiarsi i pareri, di dare e di ricevere dei suggerimenti: si deve poter consigliare tutto ciò che è permesso di fare. La questione non è dubbia se non quando l'istigatore tragga un profitto personale dal suo consiglio, quando, per vivere o per arricchirsi, abbia per costume di incoraggiare a ciò che la Società e lo Stato considerano come un male. In realtà allora un nuovo elemento di complicazione s'introduce: cioè la esistenza di una classe di persone il cui interesse è opposto a quello che si considera pubblico bene e la cui maniera di vivere è basata sul partito preso di porre a questo bene ostacolo. È questo il caso d'intervenire? Così la corruzion dei costumi e il giuoco debbono essere tollerati, ma una persona deve esser libera di esercitare un mestiere come quello d'incoraggiare una tal corruzione o di tenere una casa di giuoco? Il caso è uno di quelli che si trovano sul limite estremo dei due principî: e non si scorge, a prima vista, a quale esso appartenga effettivamente: vi sono argomenti pro e contro. Si può dire in favore della tolleranza che il solo fatto di scegliere una cosa come proprio mestiere e di vivere o di arricchirsi esercitandolo non può rendere delittuoso ciò che altrimenti sarebbe ammissibile; che l'atto deve essere o sempre permesso o sempre vietato; che, se i principî da noi sin qui sostenuti sono giusti, la società, come tale, non deve occuparsi di dichiarar malvagio qualcosa che riguardi l'individuo soltanto: essa non può giungere più in là della dissuasione, e una persona deve essere altrettanto libera di persuadere quanto un'altra di dissuadere. Si può dire in favore dell'opinione opposta che, sebbene lo Stato non abbia il diritto di decidere, in via d'autorità e col disegno d'impedire o di punire, se sia buona o cattiva la tale o la tal altra condotta puramente personale, vi è tuttavia ragione di credere che la questione sia per lo meno dubbia. Dato questo, si aggiunge, lo Stato non può far male tentando di distruggere l'influenza d'instigatori che non agiscono in modo disinteressato ed imparziale, che hanno un interesse immediato da una parte (la parte cattiva, secondo l'opinione dello Stato) e che, secondo la loro stessa confessione, spingono verso questo lato per fini tutt'affatto personali. Inoltre, senza dubbio alcuno, non ci si perde nulla, nessun bene si sacrifica, procurando che gli uomini facciano la loro scelta, saggiamente o scioccamente, ma da loro stessi, senza essere sedotti nè spinti da persone che vi hanno un interesse. Così, ci si può dire, quantunque le leggi sui giuochi illeciti siano insostenibili in teoria, quantunque tutti debbano esser liberi di giocare in casa propria, o in casa d'altri, o in qualche luogo di riunione fondato per sottoscrizioni ed aperto solamente ai membri ed a chi vuol far loro una visita, non di meno non bisogna permettere le case pubbliche di giuoco. È vero che la difesa non è mai efficace, per grandi che siano i poteri di cui si armi la polizia, e che le case di giuoco possono sempre essere aperte sotto altri pretesti; ma esse sono obbligate a condurre le loro operazioni sotto un certo velo di segreto e di mistero, in modo che nessuno ne sappia nulla, tranne quelli che ricercano queste case: la società non deve chiedere nulla di più. Questi argomenti hanno una forza considerevole; io per altro non oserei decidere s'essi bastino a giustificare l'anomalìa morale che vi è nel punire l'_accessorio_ quando il _principale_ è e deve essere libero, nel mettere in prigione, per esempio, chi tiene la casa di giuoco e non il giuocatore stesso. Ancora meno si dovrebbe, per simili ragioni, intervenire nelle operazioni comuni di compravendita. Quasi tutto ciò che si compera e che si vende si può prestare ad eccessi, e i venditori hanno un interesse pecuniario ad incoraggiarli: ma da questo non si può dedurre un argomento in favore, per esempio, della _legge di Maine_, perchè i negozianti di bevande spiritose, sebbene interessati all'abuso, sono indispensabili a cagione dell'uso legittimo di tali bevande. Tuttavia l'interesse che questi commercianti hanno a favorire l'intemperanza è un male reale, e giustifica lo Stato quando impone delle restrizioni ed esige delle garanzie, che, senza questo motivo, sarebbero violazione della libertà legittima. Sorge ancora una questione: ed è di sapere se lo Stato, mentre tollera una condotta ch'esso crede contraria ai più preziosi interessi dell'agente, non debba ciò non di meno sconsigliarla indirettamente; se, per esempio, per rendere l'ubbriachezza più costosa o più rara, egli non debba studiare il modo di limitare il numero dei luoghi di vendita. In questa, come nella maggior parte delle questioni pratiche, bisogna fare una quantità di distinzioni. Colpire d'imposta le bevande alcooliche, allo scopo di renderle più difficili ad ottenersi, è un provvedimento che differisce ben poco dalla loro completa proibizione e non è giustificabile se la proibizione stessa non lo sia; ogni aumento di prezzo è una proibizione per quelli che non possono giungere al prezzo nuovo, e, quanto a quelli che possono, essi subiscono però una penalità per la soddisfazione di questo loro gusto. La scelta dei loro piaceri e del modo di spendere il loro danaro, dopo ch'essi hanno adempiuto le loro obbligazioni legali e morali verso lo Stato e gli individui, non riguarda che loro stessi e non deve dipendere che dal loro giudizio. A prima vista può sembrare che queste considerazioni condannino la scelta delle bevande spiritose come soggetto speciale d'imposta a scopi fiscali. Ma bisogna ricordarsi che l'imposta a questo scopo è assolutamente inevitabile, che in molti paesi essa deve essere in gran parte indiretta, che per conseguenza lo Stato non può fare altro che imporre tasse su certi generi di consumazione, in un modo che per qualche persona può giungere fino alla proibizione. È dunque dovere dello Stato di esaminare, prima di mettere delle tasse, di quali derrate i consumatori possano più facilmente fare a meno, e _a fortiori_ di scegliere quelle che, a suo parere, possono essere dannose se l'uso non ne è moderatissimo. Per questo è non soltanto ammissibile, ma lodevole il mettere sulle bevande spiritose l'imposta più elevata, dato che lo Stato abbia bisogno di tutto il gettito di tale imposta. La questione di sapere se convenga fare della vendita di queste derrate un privilegio più o meno esclusivo, deve essere diversamente risoluta secondo i motivi a cui si vuole subordinata la restrizione. Occorre la sorveglianza d'una polizia in tutte le pubbliche vendite, e specialmente in quei luoghi dove si macchinano volentieri delle offese contro la società. Dunque, è conveniente non accordare il permesso di vendere queste derrate (per lo meno quelle da consumarsi sul luogo) se non a persone la cui rispettabilità di condotta sia conosciuta e garantita; si deve, oltre a ciò, regolare le ore di apertura e di chiusura come la sorveglianza pubblica esige, e ritirare il permesso quando si commettano a più riprese delle violazioni della pubblica pace, grazie alla connivenza o all'inettitudine di colui che tiene la casa, o quando questa casa divenga il ritrovo di gente che si ribella alla legge. Io non trovo nessun'altra restrizione giustificabile — come principio. Per esempio, la limitazione del numero delle bettole per renderne l'accesso più difficile e diminuir le tentazioni, non soltanto espone tutti quanti ad una seccatura, solo perchè qualcuno abuserebbe della facilità, ma ancora non conviene se non ad uno stato della società in cui le classi lavoratrici siano apertamente trattate come si tratterebbero dei ragazzi o dei selvaggi, e poste sotto una educazione disciplinata, fatta per preparare la loro futura ammissione ai privilegi della libertà. Questo non è il principio secondo cui le classi operaje sono governate in qualunque libero paese, e chiunque stima al suo giusto valore la libertà non consentirà mai che esse siano governate a quel modo, a meno che per adattarli alla libertà e governarli come uomini liberi, non si sia fatto, invano, ogni tentativo e non si abbia avuto la prova definitiva che esse non si possono governare se non come ragazzi. La semplice esposizione dell'alternativa dimostra l'assurdità che vi sarebbe nel supporre che tali sforzi siano stati fatti in alcuno dei casi di cui noi qui ci dobbiamo occupare. Soltanto perchè le instituzioni del nostro paese sono un tessuto di contraddizioni, vi si vedono mettere in pratica delle cose appartenenti al sistema del governo dispotico o così detto paterno, mentre la libertà generale delle nostre instituzioni impedisce di esercitare quel controllo, che è necessario per rendere la costrizione veramente efficace come educazione morale. È stato dimostrato, nelle prime pagine di questo saggio, che la libertà dell'individuo nelle cose che toccano soltanto lui, implica la libertà per qualsivoglia numero d'individui di regolare con una mutua convenzione delle cose che li riguardano tutti collettivamente e che non riguardano altri. La questione non presenta difficoltà finchè la volontà delle persone interessate resta la stessa; ma, poichè questa volontà può mutare, è spesso necessario, anche in cose che concernono soltanto queste persone, ch'esse si assumano degli obblighi vicendevoli; e, fatto questo, è conveniente per regola generale che questi obblighi siano rispettati. Non di meno, è probabile che nelle leggi d'ogni paese questa regola generale vada soggetta a qualche eccezione. Non soltanto non siamo tenuti ad adempire gli obblighi che violano i diritti di un terzo, ma talvolta si considera come ragion sufficiente per liberarci da un'obbligazione, ch'essa ci sia dannosa: per esempio nel nostro paese e nella maggior parte dei paesi civili, un patto pel quale una persona si vendesse o consentisse ad esser venduta schiava sarebbe irrito e nullo: nè la legge nè l'opinione pubblica lo renderebbero obbligatorio. Il motivo che si ha per limitare così il potere di un individuo su sè stesso è evidente, e lo si scorge molto chiaro in questo caso estremo. La ragione per cui non si interviene (tranne che a vantaggio degli altri) nelle azioni volontarie d'una persona è il riguardo che si ha per la sua libertà; la scelta volontaria di un uomo prova che ciò ch'egli sceglie così è desiderabile o quanto meno sopportabile per lui, e ad ogni modo non si può meglio assicurare il suo benessere se non lasciando ch'egli lo prenda ove crede trovarlo. Ma, vendendosi schiavo, un uomo abdica alla sua libertà, abbandona qualunque uso futuro della libertà con un atto unico: dunque esso distrugge, nei suoi proprî riguardi, la ragione per cui lo si lasciava libero di disporre di sè; esso non è più libero, e d'allora in poi si trova in una condizione dove non si può più presumere ch'egli rimanga volontariamente. Il principio di libertà non può esigere ch'egli sia libero... di non esser libero; non vi è libertà insomma di poter rinunciare alla propria libertà. Queste ragioni, la cui forza appare così evidente in tal caso particolare, possono naturalmente essere applicate in molti altri casi: tuttavia esse trovano dappertutto delle limitazioni, perchè le necessità della vita esigono continuamente non già che noi rinunciamo alla nostra libertà, ma che ci rassegniamo a vederla limitata in un modo o nell'altro. Il principio che chiede libertà d'azione assoluta per tutto quello che riguarda solo gli agenti esige che coloro i quali si sono obbligati con un'altra persona per cose che non interessano punto i terzi, possano l'un l'altro liberarsi; ed anche senza questa liberazione volontaria non v'è forse contratto od obbligazione, salvo che si tratti di danaro, da cui si osi dire che non si dovrebbe mai avere la libertà di sciogliersi. Il barone di Humboldt, nell'opera eccellente che ho già citato, dichiara che, a suo parere, i patti i quali implichino delle relazioni o dei servigi personali non dovrebbero mai essere obbligatorî salvo che per un tempo limitato; e che il più importante di questi patti, il matrimonio, avendo questa particolarità, che fallisce al suo scopo se i sentimenti delle due parti a questo scopo non si accordino, dovrebbe potersi annullare semplicemente con la volontà espressa di ciascuna delle parti. Questo soggetto è troppo importante e troppo complesso per essere discusso tra parentesi; ed io mi limito a sfiorarlo, a titolo d'_illustrazione_. Se la concisione e la generalità della dissertazione di Humboldt non l'avessero obbligato su questo argomento a contentarsi di enunciare la sua conclusione, senza discutere le premesse, egli avrebbe riconosciuto senza dubbio alcuno che la questione non può esser decisa con ragionamenti così semplici come quelli ch'egli si limita a fare. Quando una persona, o per una promessa espressa o per la sua condotta, ne ha incoraggiata un'altra a confidare ch'essa agirà in un dato modo, a fondare delle speranze, a fare dei calcoli, a regolare una parte della sua vita su questa supposizione, questa persona si è creata coll'altra una nuova serie di obbligazioni morali che, nel fatto, potranno essere calpestate, ma che non è permesso d'ignorare. Inoltre, se le relazioni tra due parti contraenti sono state seguite da conseguenze per altri, se esse hanno posto dei terzi in una condizione speciale o se, come nel caso del matrimonio, esse hanno dato a terzi la vita, le due parti contraenti hanno presso questi ultimi delle obbligazioni il cui compimento sentirà grandemente l'effetto della rottura o della continuazione delle loro relazioni. Non ne deriva invece, ed io non posso ammettere, che queste obbligazioni giungano fino ad esigere l'adempimento del contratto a prezzo del bene della parte riluttante; ma esse sono un elemento necessario nella questione, ed anche se Humboldt sostiene che non debbano apportare alcuna differenza nella libertà legale che le parti hanno di liberarsi dall'obbligo assunto (neppure io ritengo che esse ne debbano apportare molta) pure creano necessariamente una differenza grande nella libertà morale. Una persona è obbligata a ben considerare tutto questo prima di risolversi ad una deliberazione che tanto può colpire gl'interessi d'altri, e, se non ha il voluto riguardo a questi interessi, è moralmente responsabile delle conseguenze funeste. Io ho fatto delle osservazioni di una tale evidenza allo scopo di meglio lumeggiare il principio generale della libertà, e non già perchè esse siano necessarie in questa questione, la quale anzi si discute sempre come se l'interesse dei figli fosse tutto, e nulla l'interesse dei genitori. Io ho già osservato che, in conseguenza della mancanza di principî generali riconosciuti, la libertà è accordata spesso là dove dovrebbe essere rifiutata, e _viceversa_; e uno dei casi in cui il sentimento di libertà è fortissimo nel moderno mondo europeo, è un caso in cui, a senso mio, esso è completamente fuori di posto. Una persona deve esser libera di fare ciò che le piace negli affari proprî; ma non quando essa agisce per conto di un altro, sotto il pretesto che gli affari di quest'altro sono i suoi proprî; lo Stato, mentre rispetta la libertà di ciascun individuo in ciò che riguarda l'individuo soltanto, è tenuto a vegliare con cura sul modo con cui questi usa del potere accordatogli su altri individui. Quest'obbligo è quasi del tutto trascurato nel caso di relazioni di famiglia; un caso che, data la sua influenza diretta sul benessere umano, è più importante di tutti gli altri presi insieme. Non c'è bisogno d'insistere qui sul potere quasi dispotico dei mariti sulle mogli, poichè per distruggere dalla radice questo male non occorrerebbe altro se non accordare alle donne gli stessi diritti e la stessa protezione da parte della legge, che si accorda a qualunque altra persona, e poi perchè, in questo argomento, i difensori dell'ingiustizia regnante non si servono della scusa della libertà, ma si presentano, senza ambagi, come i campioni del potere. Ma è nel caso dei figli che certi concetti di libertà applicati a sproposito sono un ostacolo reale a che lo Stato adempia a' suoi doveri. Si direbbe quasi che i figli di un uomo sieno letteralmente (e non per metafora) parte di lui stesso, tanto l'opinione è gelosa del minimo intervento della legge tra i ragazzi e l'autorità esclusiva ed assoluta dei genitori. Gli uomini la vedono più di mal occhio della maggior parte delle violazioni della loro propria libertà d'azione: tanto essi danno generalmente più valore al potere che alla libertà. Vedete, per esempio, che cosa accade per l'educazione. Non è, si può dire, evidente che lo Stato dovrebbe esigere da tutti i cittadini, ed anche imporre loro, una certa educazione? Non di meno tutti temono di riconoscere e di proclamare questa verità. A dire il vero, nessuno la nega: è uno dei più sacri doveri dei parenti (o, secondo la legge e l'uso attuale, del padre), dopo aver messo al mondo un essere umano, allevarlo in modo che esso sia capace di adempiere a tutti i suoi obblighi e verso gli altri e verso sè stesso; ma mentre tutti quanti riconoscono che tale è il dovere del padre, nessuno in Inghilterra si adatterebbe all'idea che altri l'obbligasse a compierlo. In luogo d'esigere che un uomo faccia qualche sforzo o qualche sacrificio per assicurare a suo figlio un'educazione, lo si lascia libero di accettare o di rifiutare questa educazione quando glie la si procura gratis. Non è ancora riconosciuto che mettere al mondo un ragazzo, quando non si abbia la fondata certezza di potere non soltanto nutrirlo, ma anche istruirlo e formare il suo carattere, è un delitto morale verso la società e verso gl'infelici rampolli, e che, se il genitore non adempie a quest'obbligo, lo Stato dovrebbe vegliare per farlo adempiere possibilmente a spese di lui. Se l'obbligo d'imporre l'educazione universale fosse una buona volta ammesso, si porrebbe fine alle difficoltà su ciò che lo Stato debba insegnare e sul modo con cui debba insegnare; difficoltà che, per ora, fanno dell'argomento un vero campo di battaglia pei partiti e per le sette. Si perde così, a discutere sull'educazione, del tempo e della fatica che andrebbero meglio impiegate a dare l'educazione stessa. Se il governo si decidesse ad esigere per tutti i ragazzi una buona educazione, si risparmierebbe l'incomodo di fornirne ad essi; potrebbe lasciar liberi i parenti di fare allevare i figli dove e come loro piacesse, e, secondo i bisogni di ciascuno, sia ajutare a pagare, sia anche pagare interamente le spese. Le obbiezioni che si oppongono giustamente all'educazione di Stato non sono già mosse al fatto che lo Stato impone l'educazione, ma al fatto che esso s'incarica di dirigerla: due cose affatto diverse. Io, più di chicchessia, mi opporrei a che tutta la maggior parte dell'educazione di un popolo fosse affidata allo Stato; tutto quel che si è detto sull'importanza dell'individualità di carattere e della diversità di opinioni e di tenor di vita implica una eguale importanza della diversità di educazione. Un'educazione generale fornita dallo Stato non è altro che un meccanismo combinato per gettar tutti gli uomini nel medesimo stampo; e poichè lo stampo in cui si gittano è quello che piace al poter dominante (sia poi esso un monarca, un'aristocrazia, una teocrazia o la maggioranza della generazione esistente) quanto più questa autorità è efficace e potente, tanto più essa stabilisce sullo spirito un dispotismo che tende naturalmente ad estendersi sul corpo. Un'educazione stabilita e sorvegliata dallo Stato non dovrebbe esistere, se non come esperimento, circondata da concorrenze e fatta al solo scopo di stimolarle e di mantenerle a un certo grado di perfezione; salvo quando la società in generale è così arretrata che non potrebbe o anche non vorrebbe procurarsi dei mezzi convenienti d'educazione: in tali casi, dovendo l'autorità pubblica scegliere tra due mali, può provvedere alle scuole ed alle università, allo stesso modo che essa può supplire le compagnie per azioni in un paese dove l'iniziativa privata non esiste in forma tale da permetterle d'intraprendere grandi opere industriali. Ma, in generale, se il paese racchiude un numero sufficiente di persone capaci di dar l'educazione sotto gli auspicî del governo, queste stesse persone potrebbero e vorrebbero dare una educazione ugualmente buona sulla base del principio volontario, se ad esse fosse assicurato un compenso stabilito da una legge che rendesse obbligatoria l'educazione e garantisse l'assistenza dello Stato agli incapaci di pagarsela. Il solo modo di eseguir la legge sarebbe esaminare pubblicamente tutti i ragazzi, dalla più tenera età in poi. Si potrebbe fissare un'età in cui ogni ragazzo o ragazza sarebbe esaminato per verificare se sappia leggere: e quando se ne mostrasse incapace, il padre, a meno che avesse motivi sufficienti di scusa, potrebbe esser sottoposto ad una ammenda moderata che, al bisogno, dovrebbe guadagnarsi col suo lavoro; e il ragazzo potrebbe esser messo a scuola a sue spese. Una volta l'anno, si potrebbe rinnovare la prova, ed estendere gradatamente il soggetto, per rendere virtualmente obbligatoria e conservare la conoscenza universale di un certo _minimum_ di scienza generale. Oltre questo _minimum_, vi sarebbero degli esami volontari su qualunque specie di soggetto, in seguito ai quali coloro che fossero giunti a un certo progresso avrebbero diritto ad un certificato. Per impedire allo Stato di esercitare con questi mezzi una influenza dannosa sull'opinione, la scienza da esigersi (oltre le parti puramente elementari del sapere, come le lingue e il loro uso) per superare un esame anche di ordine elevatissimo dovrebbe consistere esclusivamente in fatti ed in scienze positive. Gli esami sulla religione, la politica o qualunque altro argomento di discussione non riguarderebbero la verità o la falsità delle opinioni, ma il fatto che la tale opinione o tal altra è professata per le tali ragioni, dai tali autori, o dalle tali scuole o dalle tali chiese. Con questo sistema, la generazione nascente non sarebbe peggio fornita, quanto alle verità discusse, di quello che non sia oggi; si farebbe degli uomini quello che sono ora, dei seguaci della religion dominante o dei dissidenti; soltanto lo Stato prenderebbe cura che nell'un caso o nell'altro fossero istruiti. Non vi sarebbe ostacolo a che si insegnasse ad essi la religione, quando i genitori lo chiedessero, nella scuola dove loro s'insegna tutto il resto. Tutti gli sforzi dello Stato per influire sul giudizio dei cittadini a proposito di soggetti discussi sono dannosi; ma lo Stato può perfettamente offrirsi di assicurare e certificare che una persona possiede le cognizioni necessarie per rendere degna d'attenzione la opinione propria su un dato soggetto. Sarebbe tanto di guadagnato per uno studente di filosofia di poter sottoporsi ad un esame su Locke e su Kant — non importa quale dei due egli adotti, e quando anche non dovesse adottare nè l'uno nè l'altro; e non ci sono ragionevoli obbiezioni ad esaminare un ateo sulle prove del cristianesimo, purchè esso non sia obbligato a farne una professione di fede. Tuttavia gli esami sui rami più elevati del sapere dovrebbero, a mio avviso, essere affatto facoltativi; sarebbe accordare un troppo pericoloso potere ai governi il permettere loro di chiudere il varco a qualche carriera, anche dell'insegnamento, sotto il pretesto che non si possiedono in un grado sufficiente le qualità richieste; ed io penso con Guglielmo di Humboldt che i gradi o gli altri certificati pubblici di cognizioni scientifiche o professionali dovrebbero essere accordati a tutti quelli che si presentano all'esame e che lo sostengono con buon esito, ma che tali certificati non dovrebbero dare altro vantaggio sui rivali oltre al valore che loro attribuisce l'opinione del pubblico. Si vede qui un caso in cui, per un mal inteso concetto di libertà, non si riconoscono punto degli obblighi morali e non s'impongono punto degli obblighi legali, mentre e gli uni e gli altri sarebbero estremamente necessarî; ma questo caso non è isolato. Il fatto stesso di dar l'esistenza ad un essere umano è una delle azioni nel corso della vita che portano con sè la più grande responsabilità. Prendersi questa responsabilità di dare una vita che può essere fonte di dolore o di gioja è un delitto verso l'essere a cui la si dà quando non vi siano per lui le ordinarie probabilità di una esistenza desiderabile. E in un paese troppo popolato o che minaccia di diventarlo, mettere al mondo più di un piccolo numero di figli, cioè ridurre con la concorrenza il valore del lavoro, è una seria colpa a danno di tutti quelli che vivono di lavoro. Le leggi che, in un gran numero di paesi del continente, proibiscono il matrimonio, a meno che le parti non provino di poter mantenere una famiglia, non oltrepassano i confini dei poteri legittimi dello Stato; e, siano esse utili o no (cosa che specialmente dipende dalle circostanze e dai sentimenti locali) non si può rimproverar loro di essere violazioni di libertà. Con tali leggi, lo Stato interviene per impedire un atto funesto, un atto dannoso agli altri e che dovrebbe essere l'oggetto della riprovazione e dell'ignominia sociale, anche quando non si credesse conveniente di aggiungervi i castighi legali. Non di meno, le idee di libertà generalmente ammesse, che tanto facilmente si prestano a reali violazioni della libertà dell'individuo per cose concernenti lui solo, respingerebbero ogni tentativo fatto per frenare le sue inclinazioni, quando, soddisfacendole, egli condanna uno o più esseri ad una vita di miseria e di depravazione che eserciterà più d'una trista reazione sull'ambiente. Quando si paragona lo strano rispetto della specie umana per la libertà colla sua strana mancanza di rispetto per la libertà stessa, si potrebbe pensare che un uomo abbia il diritto indispensabile di nuocere agli altri e non il diritto di fare ciò che gli piace e che non nuoce ad alcuno. Io ho riservato per la fine tutta una serie di questioni sui limiti dell'intervento del governo, le quali, sebbene si avvicinino assai al soggetto di questo saggio, pure, a tutto rigore, non ne fanno parte. Ci sono dei casi in cui le ragioni contro questo intervento non discendono dal principio di libertà; la questione non è più di sapere se bisogni frenare le azioni degli individui, ma se convenga ajutarle: ci si chiede se il governo debba fare o ajutarli a fare qualcosa pel loro bene, in luogo di lasciare che essi facciano questo individualmente o per mezzo di associazione volontaria. Le obbiezioni fatte all'intervento del governo, quando esso non implichi una violazione di libertà, possono essere di tre sorta. Si può dire anzitutto che la cosa da farsi sarà probabilmente fatta meglio dagli individui che dal governo. Parlando in generale, non v'è nessuno più capace di condurre un negozio, o di decidere come e da chi esso debba esser condotto — di coloro che vi hanno un interesse personale. Questo principio condanna un intervento, in altri tempi così comune, della legislazione o dei funzionari del governo nelle operazioni ordinarie della industria. Ma questa parte del soggetto è stata sufficientemente sviluppata in opere di economia politica e non ha speciali relazioni coi principî del nostro saggio. La seconda obbiezione ha maggiori attinenze col nostro soggetto. In un gran numero di casi, sebbene la media degli individui non possa fare una data cosa altrettanto bene che i funzionarî governativi, è non di meno desiderabile che questa cosa sia eseguita dagl'individui piuttosto che dal governo. È un mezzo di fare la loro educazione individuale, di rafforzare le loro facoltà attive, di fornir loro una famigliarità coi soggetti che loro così si lasciano discutere; e la principale se non l'unica raccomandazione del giurì (pei casi non politici) delle instituzioni municipali e locali libere e popolari, della direzione delle instituzioni industriali e filantropiche da parte di associazioni volontarie. Queste non sono questioni di libertà e non toccano tale argomento che da lontano; sono questioni di sviluppo. Non tocca a noi d'insistere ora sull'utilità di tutte queste cose come parte dell'educazione nazionale; ma esse in realtà formano l'educazione particolare d'un cittadino, la parte pratica dell'educazione politica di un popolo libero. Esse fanno uscir l'uomo dalla ristretta cerchia in cui lo racchiude il suo egoismo, tutt'al più allargato ai suoi; esse lo avvezzano a comprendere degl'interessi collettivi, a trattare degli affari collettivi, ad agire per motivi pubblici o quasi pubblici ed a lasciarsi guidare nella propria condotta da ragioni che lo avvicinano agli altri in luogo di isolarlo. Senza questi costumi e queste facoltà non si può nè stabilire nè conservare una libera costituzione, come ci prova troppo spesso la natura transitoria della libertà politica nei paesi dove essa non riposa su di una base sufficiente di libertà locali. La direzione degli affari puramente locali da parte delle località, e la direzione delle grandi imprese industriali da parte della riunione di quelli che volontariamente ne forniscono i fondi si raccomandano inoltre per tutti i vantaggi che noi abbiamo additato come inerenti alla individualità di sviluppo e alla diversità di modo d'agire. Le operazioni del governo tendono dappertutto ad essere le stesse; all'incontro, grazie alle associazioni individuali e spontanee, si fa una immensa e costante varietà di esperienze. Lo Stato può poi essere utile come depositario centrale e distributore attivo dell'esperienza che risulta da numerose prove; il suo incarico è far sì che ogni esperimentatore profitti delle prove altrui, in luogo di non voler vedere che le sue proprie. L'ultima e più potente ragione per restringere l'intervento del governo, è il male gravissimo che deriva dall'aumentare senza necessità il suo potere. Ogni funzione aggiunta a quelle che già il governo esercita, diffonde viepiù la sua influenza sui timori e sulle speranze dei cittadini, e trasforma a mano a mano la parte attiva ed ambiziosa del pubblico in parte dipendente dal governo o di qualche partito che aspira a divenir tale. Se le strade, le ferrovie, le banche, le compagnie di assicurazioni, le grandi compagnie per azioni, le università e gl'instituti di beneficenza fossero altrettante branche del governo; se, oltre a ciò, i consigli municipali e locali, con tutte le loro attribuzioni, divenissero altrettanti dipartimenti dell'amministrazione centrale; se gli impiegati di tutte queste imprese diverse fossero nominati e pagati dal governo, e non attendessero che da questo le loro promozioni — tutta la libertà della stampa e di una costituzione popolare del potere legislativo, non impedirebbero all'Inghilterra o a qualunque altro paese di esser libero soltanto di nome. E quanto più il meccanismo amministrativo fosse costrutto in modo efficace e sapiente, quanto più gli accorgimenti per procurarsi le mani e le intelligenze più atte a farlo funzionare fossero ingegnosi... tanto più grave sarebbe il male. In Inghilterra, è stato ultimamente proposto di scegliere tutti i membri del servizio civile del governo dopo un concorso, allo scopo di avere come impiegati le persone più intelligenti e colte che fosse possibile: e molto si è detto e molto si è scritto pro e contro questa proposta. Uno degli argomenti su cui gli avversarî di essa hanno più insistito è che la condizione d'impiegato a vita dello Stato non offre una prospettiva bastevole di stipendî o d'importanza per attirare gl'ingegni più elevati, che troveranno sempre da far meglio il loro cammino, sia nelle professioni liberali, sia al servizio delle compagnie o degli altri enti pubblici. Non ci saremmo sorpresi se questo argomento venisse dai partigiani della proposta come risposta alla sua principale difficoltà; è abbastanza strano invece che essa venga dagli avversarî: quella che si pone innanzi come una obbiezione è invece la valvola di sicurezza del sistema in questione. In realtà, se il governo potesse attirare al suo servizio tutti gli ingegni elevati del paese, una proposta tendente a raggiungere questo scopo potrebbe inspirare dell'inquietudine; se tutto il lavoro di una società che esige un'organizzazione prestabilita, delle vedute larghe e comprensive, fosse nelle mani dello Stato e tutti gli impieghi del governo fossero occupati dagli uomini più capaci — tutta la coltura, l'intelligenza esercitata del paese (salvo la parte puramente speculativa) sarebbe concentrata in una burocrazia numerosa; da questa burocrazia il resto della comunità attenderebbe tutto, l'impulso e la direzione per le masse, il miglioramento personale per gli intelligenti e per gli ambiziosi: essere ammessi nelle file di questa burocrazia, e, una volta ammessi, crescervi di grado, sarebbero i soli obbietti d'ambizione. Sotto questo regime, non soltanto il pubblico non è capace di criticare o di controllare l'azione della burocrazia, ma anche se i casi fortuiti delle instituzioni dispotiche o il cammino naturale delle popolari daranno al paese un capo o dei capi amici di riforme, non se ne potrà effettuare alcuna che sia contraria agl'interessi della burocrazia. Tale è la triste condizione dell'impero russo, come ci attestano i racconti di quelli che l'hanno potuto osservare. Lo czar stesso è impotente contro il corpo burocratico; egli può mandare in Siberia ciascuno dei suoi membri, ma non governare senza di essi e contro la loro volontà; essi possono mettere un tacito _veto_ su tutti i suoi decreti, col semplice astenersi dall'eseguirli. Nei paesi di civiltà più avanzata e di spirito più rivoluzionario, il pubblico, avvezzo ad attendere che lo Stato faccia tutto per lui o almeno a non far nulla da sè senza che lo Stato glie ne abbia non soltanto accordato il permesso, ma anche indicato il modo, il pubblico, diciamo, tiene naturalmente lo Stato responsabile di ciò che gli accade di molesto, e se la sua pazienza un bel giorno si stanca, esso si solleva contro il governo e fa ciò che si chiama una rivoluzione: dopo di che qualcuno, con o senza il consenso della nazione, s'impadronisce del trono, dà i suoi ordini alla burocrazia e tutto procede press'a poco come prima, dappoichè la burocrazia non è mutata e nessuno è capace di occuparne il posto. Ben altro è lo spettacolo presso un popolo avvezzo a condurre da sè i suoi affari. In Francia, avendo una gran parte della nazione servito nell'esercito, dove molti hanno raggiunto almeno il grado di sott'ufficiale, si trovano in tutte le insurrezioni popolari molte persone capaci di assumere il comando e d'improvvisare qualche piano d'azione non del tutto cattivo. Gli Americani sono, per gli affari civili, quello che i Francesi pei militari: togliete loro il governo e ogni congregazione d'America ve ne saprà organizzare uno immantinente, e condurrà con un grado sufficiente d'intelligenza, di ordine, d'energia un qualunque pubblico negozio. Così dovrebbe essere qualunque popolo libero; un popolo capace di tanto è sicuro di conservare la propria libertà: egli non si asservirà mai ad alcun uomo o ad alcun corpo sociale, perchè questi soli siano capaci di tenere o di maneggiare le redini dell'amministrazione centrale: nessuna burocrazia può sperar di costringere un tal popolo a fare o a subire ciò che non gli piace. Ma là dove la burocrazia fa tutto, nulla può esser fatto di ciò a cui essa è realmente ostile; la costituzione di simili paesi è un'organizzazione dell'esperienza e della pratica abilità della nazione in un corpo disciplinato, destinato a governare il resto della nazione; e quanto più questa organizzazione è perfetta in sè stessa, tanto meglio essa riesce ad attirare a sè ed a plasmare a sua imagine gl'ingegni della comunità, tanto più completo è l'asservimento di tutti, compresi i membri della burocrazia; poichè i governanti sono schiavi della loro organizzazione e della loro disciplina così come i governati sono schiavi di essi. Un mandarino cinese è strumento e schiavo del dispotismo quanto l'infimo dei coltivatori; un gesuita è, in tutta la estensione della parola, lo schiavo del suo ordine, sebbene l'ordine stesso esista a causa del potere collettivo e della importanza dei suoi membri. Non bisogna dimenticare poi che l'assorbimento di tutti gl'ingegni elevati del paese da parte del corpo che governa è, tosto o tardi, fatale all'attività e al progresso intellettuale di questo corpo stesso. Legato in tutte le sue parti, seguendo un sistema che, come tutti gli altri sistemi, procede quasi sempre dietro regole fisse, il corpo ufficiale è costantemente tentato di addormentarsi in una indolente _routine_; oppure, se esso esce talvolta da questo eterno circolo, si appassionerà per qualche idea appena sbozzata che sarà andata a genio di qualche membro importante del corpo; e perchè queste tendenze che si toccano da vicino (sebbene sembrino opposte) possano essere tenute in iscacco, perchè tutti gli ingegni che il corpo racchiude si mantengano ad una certa altezza, bisogna che questo corpo sia esposto ad una critica vigile, acuta e che venga da fuori. Perciò è indispensabile che si possano formare degl'ingegni all'infuori dello Stato colle occasioni e l'esperienza necessaria per giudicar sanamente i grandi affari pratici. Se noi vogliamo possedere in perpetuo un corpo di funzionarî abili, capace di rendere dei buoni servigi e inoltre tutto un corpo che sappia creare il progresso o disporsi ad adottarlo, se non vogliamo che la nostra burocrazia degeneri in _pedantocrazia_, occorre che questo corpo non assorba tutte le occupazioni che formano e coltivano le facoltà necessarie pel governo dell'umanità. Dire dove comincino questi mali così terribili per la libertà e pel progresso umano, o piuttosto dire dove essi comincino a superare il bene che si può attendere dalle forze libere della società sotto i loro capi riconosciuti — assicurare i vantaggi dell'accentramento politico ed intellettuale fin che si può, senza attirare nelle vie ufficiali una troppo gran parte dell'attività generale — è una delle questioni più difficili e complicate nell'arte di governo; è una questione sopratutto di particolari, dove non si possono dare delle regole assolute e dove bisogna tener conto delle più numerose e varie considerazioni, ma io credo che dal punto di vista pratico il principio della salute, l'ideale da non perdersi di vista, il criterio secondo il quale si debbono giudicare tutti i mutamenti proposti per vincere la difficoltà, si possa esprimere così: la più gran disseminazione di poteri, compatibile coll'azione utile del potere stesso; il massimo accentramento possibile d'informazioni, diffuso poi il più che si può dal centro alla periferia. Così, dovrebbe esserci nell'amministrazione municipale, come negli Stati della Nuova Inghilterra, una divisione accuratissima tra i diversi funzionarî, scelti per le località, di tutti gli affari che non è più conveniente di lasciar nelle mani delle persone interessate; ma oltre a questo dovrebbe esserci in ciascuna divisione degli affari locali una soprintendenza centrale, una diramazione del governo generale. L'organo di questa soprintendenza concentrerebbe come in un faro tutta la varietà d'_informazioni_ e d'esperienza tratta e dalla direzione di questo ramo de' pubblici affari in tutti i luoghi, e da ciò che accade di analogo nei paesi stranieri e dai principî generali della scienza politica: ad esso dovrebbe spettare il diritto di sapere tutto quello che si fa; suo speciale ufficio sarebbe rendere utile dappertutto l'esperienza acquistata in un luogo. Essendo questo organo al di sopra delle ristrette vedute e dei meschini pregiudizî di una località, per la sua posizione elevata e l'estensione della sua sfera di osservazione, il suo parere avrebbe naturalmente una grande autorità; ma il suo massimo potere dovrebbe, secondo me, limitarsi ad obbligare i funzionarî locali a seguire le leggi stabilite dal loro speciale governo. Per tutto ciò che non è previsto da regole generali, questi funzionarî dovrebbero essere abbandonati al loro giudizio colla sanzione della responsabilità davanti ai loro mandanti. Della violazione delle regole essi sarebbero responsabili davanti alla legge, e le regole stesse sarebbero stabilite dall'assemblea legislativa: l'autorità centrale amministrativa non farebbe che vegliare alla loro esecuzione; e, se la esecuzione non fosse ciò che dev'essere, l'autorità se ne appellerebbe, secondo i casi, o al tribunale per imporre la legge, o ai corpi elettorali per deporre i funzionarî che non l'avessero eseguita secondo il suo spirito. Tale è, nel suo complesso, la sorveglianza centrale che l'_Ufficio della legge dei poveri_ è destinato ad esercitare sugli amministratori della tassa dei poveri in tutti i paesi. Per quante usurpazioni di potere abbia commesso questo ufficio, ciò era giusto e necessario in tal caso particolare, per tagliar dalle radici degli abusi inveterati in materie che interessano profondamente non solo le località varie, ma tutta la comunità. In fatto, nessun paese ha moralmente il diritto di trasformarsi per la sua cattiva amministrazione in un semenzajo di miserie, che si diffondono necessariamente in altre località e peggiorano la condizione morale e fisica di tutta la comunità operaja. I poteri di coazione amministrativa e di legislazione subordinata che l'ufficio della legge dei poveri possiede (ma che esercita assai debolmente a cagione delle idee dominanti a questo proposito) sebbene perfettamente giusti in un caso d'interesse nazionale di prim'ordine, sarebbero del tutto fuor di posto se si trattasse della sorveglianza d'interessi puramente locali. Ma un organo centrale d'informazioni e di istruzioni per tutte le località sarebbe ugualmente prezioso in tutti i rami dell'amministrazione. Non sarà mai eccessiva per un governo questa attività che non arresta, ma ajuta e stimola i moti e gli sviluppi individuali. Il male comincia quando, invece di risvegliare l'attività e le forze degl'individui e degli enti collettivi, il governo sostituisce alla loro la sua propria attività; quando, invece d'istruirli, di consigliarli e all'occasione di denunciarli ai tribunali, li sottomette, incatena il loro lavoro, o li fa sparire, compiendo, al loro posto, l'ufficio ad essi spettante. Il valore d'uno Stato, in fin dei conti, è il valore degl'individui che lo compongono; e uno Stato che preferisce all'espansione e all'elevazione intellettuale degli individui, una larva di abilità amministrativa nelle particolarità degli affari; uno Stato che impicciolisce gli uomini, affinchè essi possano essere nelle sue mani docili strumenti dei suoi disegni (anche benefici), s'accorgerà che grandi cose non si fanno con uomini piccoli, e che la perfezione del meccanismo a cui esso tutto ha sacrificato finirà col non essergli buona a nulla, per la mancanza della vitalità ch'egli ha voluto allontanare per render più facile il funzionamento della macchina. FINE DEL CAPITOLO QUINTO E DELL'OPERA INDICE GIOVANNI STUART MILL Pag. 3 Capitolo I. — Introduzione » 7 » II. — La libertà di pensiero e di discussione » 21 » III. — L'individualità come elemento di benessere » 57 » IV. — Dei limiti al potere della società sull'individuo » 77 » V. — Applicazioni » 95 NOTE: [1] Queste parole erano appena scritte, quando, quasi per dar loro una solenne smentita, sopravvennero le persecuzioni del governo contro la stampa, nel 1858. Questo sconsigliato intervento nella libertà della pubblica discussione non mi ha indotto a mutare una sola parola del testo; e non ha punto affievolito la mia convinzione che — salvo nei momenti di panico — l'epoca delle penalità per le discussioni politiche era passata nel nostro paese. Infatti, anzitutto non si perseverò nelle persecuzioni; e inoltre non si trattò mai di persecuzioni politiche, nello stretto senso della parola: l'offesa rimproverata non era di aver criticato le instituzioni, o gli atti, o le persone dei governanti: ma bensì d'aver propagato una dottrina ritenuta immorale, la legittimità del tirannicidio. [2] Tommaso Pooltey, assise di Bodmin, 31 luglio 1857 nel seguente mese di dicembre, ottenne la grazia sovrana. [3] Giorgio Giacobbe Holyake, 17 agosto 1857; Edoardo Truelowe, luglio 1857. [4] Barone di Gleichem, corte di polizia di Marlborough Street, 4 agosto 1857. [5] Tutta la passione di persecuzione che si è mescolata, durante la rivolta degli Indiani, al generale dispiegarsi delle parti più cattive del nostro carattere nazionale, ci offre qui un grande insegnamento. I furori dei fanatici e dei ciarlatani del pergamo non sono, forse, degni di nota; ma i capi del partito evangelico hanno enunciato come loro principio di governo per gli Indiani e per i Maomettani che nessuna scuola in cui la Bibbia non sia insegnata deve essere sovvenzionata dallo stato, e che nessun impiego pubblico deve essere accordato a chi non è cristiano o non si dà per tale. Un sotto-segretario di stato, in un discorso diretto ai suoi elettori, il 22 novembre 1857, si esprimeva, stando ai resoconti, così: «Il governo inglese, tollerando la loro fede (la fede di 100 milioni di sudditi britannici), la superstizione ch'essi chiamano religione, non ha ottenuto altro risultato che di ritardare la supremazia crescente del nome inglese, e d'impedire la salutare diffusione del cristianesimo.» La tolleranza è stata la pietra angolare delle libertà del nostro paese: ma non bisogna ingannarsi su questa preziosa parola. Nel modo con cui l'intendeva il sotto-segretario di stato, significava la completa libertà per tutti, l'affrancamento del culto — _fra i cristiani, che hanno un culto fondato sulle stesse basi_; significava la tolleranza di tutte le diverse sette di cristiani che _credono però in un solo mediatore_. Io desidero richiamare l'attenzione su questo fatto, che un uomo stimato degno di occupare un impiego elevato nel governo del nostro paese, sotto un ministero liberale, afferma questa dottrina: che non si ha diritto alla tolleranza quando non si crede alla divinità di Cristo. Dopo lo sciocco discorso che abbiamo testè riportato, chi può credere ancora che le persecuzioni religiose siano per sempre finite? [6] _Della sfera e dei doveri del Governo_, di Guglielmo Humboldt. [7] Saggio di Sterling. [8] Vi è qualcosa di doloroso e di spregevole nel genere di testimonianza sulla quale si può ai dì nostri dichiarare giudiziariamente un uomo incapace di condurre i suoi affari e, dopo la sua morte, tener per non avvenuta la disposizione ch'egli ha fatto dei suoi beni, se vi si trova di che pagare le spese del processo, che son prelevate sui beni stessi. Si fruga in tutti i minuti particolari della sua vita quotidiana; e quello che i più poveri fra i poveri di spirito vi scoprono, colle loro facoltà percettive e descrittive, che non sia assolutamente comune, è portato avanti al giurì come una prova di follia, e sovente con buon esito. I giurati sono appena meno ignoranti dei testimoni, mentre i giudici, nulla sapendo della natura e della vita umana — cosa che si nota con sorpresa ogni giorno presso l'uomo di legge inglese — contribuiscono spesso ad indurli in errore. Questi processi valgono dei volumi, come indizio del sentimento e dell'opinione volgare sulla libertà umana. Lungi dall'attribuire alcun valore all'individualità, lungi dal rispettare i diritti di ogni individuo ad agire nelle cose indifferenti come il suo giudizio e le sue tendenze lo guidano, giudici e giurati non riescono neppure a concepire che una persona sana di mente possa desiderare una tale libertà. In altri tempi, quando si proponeva di bruciare degli atei, caritatevoli persone suggerivano volentieri che sarebbe stato meglio di metterle in un manicomio. Nulla vi sarebbe da meravigliarsi se lo stesso si facesse oggi; e se quelli che lo facessero si congratulassero secostessi di avere adottato una maniera così umana e cristiana di trattare questi sfortunati in luogo di perseguitarli per causa religiosa, non senza, nel medesimo tempo, provare una segreta soddisfazione per aver loro procurato una sorte corrispondente ai loro meriti. [9] Il caso dei Parsi di Bombay è un curioso esempio di questo fatto. Quando questa tribù industriosa e intraprendente, che discendeva dai Persiani, adoratori del fuoco, abbandonando il proprio paese all'invasione musulmana, arrivò nell'ovest dell'India, vi fu tollerata dai principi indiani a patto di non mangiare carne di bue. Quando, in seguito, queste regioni caddero sotto il dominio dei conquistatori maomettani, i Parsi ottennero che la tolleranza continuasse a patto di astenersi dalla carne di majale. Ciò che in origine era sommessione divenne una seconda natura; e i Parsi non mangiano, neppur oggi, nè carne di bue, nè carne di majale. Sebbene la loro religione non lo esiga, la doppia astinenza ha avuto il tempo di entrare nei costumi della loro tribù, e in Oriente il costume è una religione. [10] Il Maine è un paese del nord-est degli Stati Uniti, in cui vigeva una legge del 1851, notissima, che proibiva la vendita dei liquori fermentati. (_Il Trad._) Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La libertà" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.




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