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Title: Favole per i Re d'oggi
Author: Morselli, Ercole Luigi
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Favole per i Re d'oggi" ***


                         ERCOLE LUIGI MORSELLI


                         Favole per i Re d'oggi


                IIª EDIZIONE ARRICCHITA DI NUOVE FAVOLE
                         E RIVEDUTA DALL'AUTORE



                      VALLECCHI EDITORE — FIRENZE



                          PROPRIETÀ RISERVATA

       Firenze 1919 — Stabil. Tip. A. Vallecchi, Via Ricasoli, 8



_«Un giorno la Verità, nuda così, com'è solita andare pe' 'l mondo,
si presentò al trono di un re. Appena si seppe chi era e quel che
voleva dire, subito le piovvero addosso mille villanie, e il re, più
inviperito di tutti, ordinò alle guardie che cacciassero incontanente
quella spudorata dal suo palazzo._

_«Allora la Verità andò in cerca della Fantasia._

_«Come l'ebbe trovata, da lei si fece prestare una bella veste tessuta
d'oro e stellata di gemme: e così vestita ritornò alla Corte di quel
re, e mescolando sorrisi a parole, disse quello che voleva dire, e il
re l'ascoltò, questa volta, serenamente. Anzi in poco tempo sgombrò la
Corte d'una buona quantità di scrocconi e volle cercar da sè le piaghe
del suo regno, e fu benedetto dal popolo e il nome suo andò glorioso
per la Terra»._

_Così il favolista russo Ismailow, in una graziosa favoletta, spiega
l'origine e le ragioni della Favola. Nè meglio si potrebbe._

— _Ma tu credi che questo possa ancora essere il compito della Favola?!
— griderà spalancando gli occhi inorriditi chi mi legge. — E con
questa fede hai scritto le tue favole?!... Tu pensi che i re de' nostri
giorni, quei pochi re che ci restano, siano ancora i re d'Egitto o i
tiranni di Grecia o gli imperatori romani?!... Ma oggi i re non leggono
più le favole se voglion sapere la Verità! Hanno rotto la ferrea
cerchia dei cortigiani che li divideva dal loro popolo e si vantano di
pensar liberamente e d'essere in tutto uguali a noi!!...»_

_ — Sentite: anch'io m'ero accorto che dai tempi di Ramsete erano
passati dei secoli, e che da allora a oggi le cose erano un pochino
cambiate; ma, nella mia enorme ignoranza della filosofia della storia,
osservando attentamente i miei simili e i re, ero venuto nella strana
convinzione che la moderna eguaglianza nascesse non dall'essere
i re (come voi pensate) discesi fino a noi; bensì dall'essere
noi saliti (per così dire) fino ai re: dall'esser cioè divenuti
noi tanti piccoli re, stracarichi di boria e d'ogni altro regale
peccato; perpetuamente illusi di nostra potenza, così nelle battaglie
dell'anima come in quelle della vita; preoccupati sempre di ciò che
muta, più che dell'eterno immutabile; serrati nella ferrea cerchia dei
nostri pregiudizi, che sono i nostri fedeli cortigiani, e ciascuno
ha la sua gran parola e la sua infallibile sentenza da sussurrarci
misteriosamente all'orecchio o da declamarci pomposamente davanti
nell'ora del dubbio. Ora, seguendo appunto questa mia fantasticheria da
profano, pensai che, cresciuto in sì straordinaria guisa il numero dei
re e delle corti, ci fosse più bisogno di favole, al mondo, oggi, che
non ai tempi di Esopo._

_E così, come a Dio piacque, mi misi a scriverne qualcuna: poi altre,
poi altre ancora._

_E ora che; bene o male, le ho scritte, vorreste forse che le buttassi
via?_



I.

PER IL LETTORE MALEVOLO


Essendo giorno di festa, alcuni somari mangiavano in un prato, e si
divertivano alla lor maniera.

Un aquilotto, bell'umore, vedendoli, discese in mezzo al prato; e poi
che tutti gli furono d'intorno, disse loro:

— Da certi vecchi nostri, ho sentito raccontare che, in un tempo
lontano, gli asini volavano: mi volete dir voi, se questo è mai stato
vero?

Allora quel branco di somari alzò un rumore infernale, che fece
rimbucare tutte le talpe della valle; e poi, in coro, stonando
ferocemente, disse:

— Noi volare? Noi lasciare la nostra greppia sicura e onorata, per
affidarci a quattro pennacce, come voialtri, col rischio di morir di
fame tra le nuvole? Che razza d'animale sei tu, che vai dicendo di noi
simili malignità? e ci butti in viso sì spudorata ingiuria? Ti sappiam
dire che non avevamo mai veduto un uccellacelo come te!

— E io vi so dire — rispose l'aquilotto levandosi d'un colpo d'ala —
che d'asini come voi n'ho visti molti!



Le tre virtù teologali.



II.

FEDE


Quando la nave fila, con vento fresco e largo, i delfini vengono a
centinaia e corrono e saltano e folleggiano da poppa a prua, da prua a
poppa: così come fanno gli uomini intorno al loro Ideale.

Ma un marinaro dalla mano sicura, discende allora, sulle catene del
bombresso, armato d'una lunga fiócina provata: e gli altri s'affollano
sul _castello_, attenti e pronti a _issare_ la _ cima_. Cento volte
hanno veduto i delfini quella manovra minacciosa; e pur non lasciano di
correre, di saltare di folleggiare sotto il loro castello fuggente!

A un tratto, un'onda rossa: una fuga per l'acqua, e un subito ritorno:
un _issare_ cadenzato; uno sbattere furioso di coda sulla _coperta_, un
lago di sangue, e un cane che lo lecca.

Tale la sorte di chi s'accosta all'Ideale con troppa Fede.



III.

SPERANZA


Nelle campagne toscane i ragazzi vanno matti per un giocattolo che
chiamano _misirizzi_. È un fiaschettino piccolo piccolo, il quale
somiglia più che può a uno di quei fiaschi grandi pei quali andiamo
matti noi uomini. Se non che, per quanto si faccia non si viene a
capo di farlo stare nè chino, nè riverso, nè a giacere, perchè, per un
segreto c'ha dentro, non può stare altramente che ritto.

Quando un buon vento mi mena in quelle divine campagne (ben lontano
dalle città!) è difficile ch'io dimentichi di portare con me qualcuno
di questi graziosi fiaschettini: e come vedo tre o quattro fanciulli
che si guardano gravemente, non sapendo a che cosa giocare, io li
chiamo e regalo a ciascun di loro uno di questi tanto desiderati
_misirizzi_. E non me ne vado: anzi mi diverto un mondo a vedere quanto
si dà da fare ciascheduno per buttar giù quello dell'altro, senza mai
riescirvi.

Mi diverto un mondo! sapete perchè? Perchè gioco anch'io: mi figuro di
essere Dio che dispensa agli uomini le Speranze, e poi guarda che cosa
ne san fare.



IV.

CARITÀ


Standosene accovacciato in un fosso un lupo, ecco vide venir su per
l'erta un fraticello, che andava lentamente e curvo, pesandogli un
capretto morto che portava sulle spalle.

Allora il lupo, ridendo forte, saltò nel mezzo del viottolo incontro
al frate, e sì gli disse: — Sangue di Giove! Or non direte più che son
solo io a rubare i capretti! Siamo due. Allegro compare! Non credere
che abbiamo ad essere nemici per questo: anzi tu mi darai ora mezzo di
quel capretto e di ognuno che ruberai, e io farò altrettanto con te, e
vivremo a questo patto fedeli, l'uno e l'altro.

— Che diamine vai tu bestemmiando — gridò il fraticello — nel nome
santo di Dio! vecchio peccatore! Ma credi tu ch'io l'abbia rubato,
questo capretto e sgozzato come fai tu da ladro e fuoruscito qual sei?
Sappi che questo m'è stato dato per carità!...

— Carità? come hai detto? che cosa è questa ch'io non l'ho mai udita
rammentare da che sono al mondo?!

— Ah! tu dunque non conosci la Carità, la divina virtù che agli uomini
soli Dio ha concesso di poter esercitare nel mondo! Vieni con me;
seguimi paziente e tu la vedrai.

E il lupo, tratto dalla curiosità, seguì mansueto il fraticello, fino
al suo convento: ve lo lasciò entrare senza dargli noia, e, poichè gli
fu detto che l'avrebbe vista uscir dalla finestra di cucina, questa
Carità, andò scodinzolando ad accularsi proprio sotto a quella.

Sentì dentro un gran inferno di risa, d'arrotii, di picchi, di tonfi e
anche un odor di soffritto da mancare. Poi, dopo un bel pezzetto, vide
finalmente comparire una mano, che gli gettò.... un piede del capretto!

Se ne stava tutto in tristi meditazioni, contemplando quell'osso
peloso, che egli credeva l'imagine della Carità, quando passò una
volpe, alla quale divisò di rivolgersi per consiglio, sapendola assai
accorta. La chiamò, le raccontò la nuova avventura, e le chiese se ella
riuscisse a capire perchè gli uomini chiamavan divina quella virtù.

— O non ti par divina, esclamò pronta la volpe, una virtù che insegna a
salvar così bene la roba propria dalla fame degli altri?



Le quattro virtù cardinali.



V.

PRUDENZA


Una vecchiuccia scheletrita, stava tutta intenta a ripulire certe erbe
che si tenea in grembo: e non servendole più gli occhi assai, col suo
gran naso quasi le toccava.

Una viperetta rinfrancata forse dal poco calore di que' fémori,
s'affacciò tra l'erbe: e non sì tosto si credè minacciata da
quell'enorme sprone, che gli s'avventò piena di rabbia. Ma una fedele
goccia di tabacco, che da lungo tempo aspettava, le discese nella gola
aperta, onde essa incontanente cadde e morì.

Consiglio chi mi legge a empirsi di Prudenza come quel naso, se vuol
vivere lungamente e sano.

Quanto a me imparo da questa favoletta a guardarmi più che dal morso
delle vipere, dal naso delle vecchie: chè non v'è luogo dove non lo
vogliano ficcare, e donde non lo traggano salvo!



VI.

GIUSTIZIA


Un vecchio platano, rinverdendo i suoi rami a primavera, nascose a un
giovane innamorato il balcone della sua bella. Onde il giovane pieno
d'ira, tesi i pugni contro il povero platano, gli gridò: — Perchè sei
tu cresciuto a quel modo? che tu sia maledetto! alberacelo goffo e
impiccioso!

Ma il platano, per nulla mostrandosi offeso, anzi sorridendo
serenamente, gli rispose: — Di grazia signore: come potevo io sapere
che t'era caro che rimanessi nudo e secco, se quando così ero, mai,
per nessun modo, ho udito la tua bocca benedirmi? Perchè non sei stato
così pronto a benedirmi allora, come a maledirmi oggi? Senti, in questa
gioia di canti c'ho attorno, quante benedizioni dicon le capinere alla
mia verdura! Impara da loro a esser giusto!

La mattina di poi, assai per tempo, il vecchio platano fu segato
ben rasente e messo a terra e fatto in pezzi. Fu per l'aria un gran
piangere di capinere sui nidi schiacciati! Ma il giovine rivide ogni
giorno la sua bella! E fatto buono da quelle ore felici, si ricordò
della giusta riprensione del vecchio platano: e benedisse, sì; ma
benedisse.... chi lo aveva segato!



VII.

TEMPERANZA


Avevo fatto amicizia una volta, con uno di quei cani vagabondi che
girano il mondo dicendo: «Dove c'è un mucchio di spazzatura là è la mia
patria». E mi divertivo a contargli, ogni giorno meglio, i nodi della
spina e a dargli qualche osso da rodere, in mezzo alla riprovazione
incoraggiante di sconosciuti e compassati vicini di tavola.

Un giorno m'arriva tra le gambe questa bestia, con un'allegria
insolita, e con il corpo pieno. Gli era capitata una bella fortuna!
In un giardino pubblico aveva incontrata una paffuta e agghindata
cagna inglese, che l'aveva trattenuto un'ora parlandogli d'una cosa
meravigliosa: veramente straordinaria, mi diceva, che nel mondo non ha
l'eguale!

— E come si chiama questa cosa così rara? — gli chiesi.

— Oh! mi rispose, vivessi vent'anni non dimenticherei il suo nome: si
chiama Temperanza!

— Si vede — soggiunse subito all'atto del mio volto — si vede bene
che voi ne avete sentito parlare, ma non l'avete mai veduta. Anch'io a
sentirne parlare m'annoiavo mortalmente! ma quando quella cagna gentile
pregò la sua governante di condurmi a casa con lei e di dare a me un
piatto uguale al suo, perchè io imparassi a conoscere la Temperanza,
allora capii e vidi finalmente che divina cosa era quella! Immaginatevi
un po' d'ogni bene: carne condita, ossi con la midolla, biscotti
inzuppati nel latte, insomma, vi dico: una cosa da non credere!.... E
poi.... Se sapeste!... Dopo mangiato.... siamo rimasti soli!... e....

E dire, che aveva perduto un'ora quella povera canina, per far
intendere a questa bestiaccia spudorata, che non avrebbe dovuto poi
raccontare nulla a nessuno!



VIII.

FORTEZZA


Mentre i più de' filosofi credono che le maggiori illusioni che gli
uomini si fanno, siano intorno all'Amore; io oso credere al contrario,
che le siano più rotonde e più ridicole assai quelle che si van
gonfiando intorno a questa virtù della Fortezza.

E mi pare che sian troppi gli uomini che rassomigliano quel piccone che
vedendo saltare in pezzi la pietra sotto i suoi colpi diceva: «Perdio!
picchio sodo davvero!»; o quel somaro che, tirando calci all'aria,
le ragliava: «Resistimi se hai core!»; oppure quel fumo che diceva
all'aquile che gli passavano vicino: «Mirate come volo anch'io?»; e
l'aquile gli rispondevano: «Sì, sì! ma noi preferiremmo che volasse
l'arrosto!!»

E mi pare che troppi casi umani sian da mettersi con quello del
torrente e del masso. Il quale torrente, passando a' piedi del masso,
gli ripete ogni giorno: — Che vita vile è la tua! Non ridi, non piangi,
non guardi nulla, non vedi nulla, non fai male e non fai bene; nessuna
passione, nessun sentimento di dovere, nessun desiderio, nessuna
pietà, nessuna curiosità ti sa muovere da questo tuo eterno semicupio!
Che divario tra noi! Vedi con quanto smisurato coraggio io discenda
continuamente verso l'ignoto, e quanta Fortezza di volere sia la mia,
chè nessun ostacolo mi si oppone ch'io non lo salti o lo giri!

— Oh! — risponde ogni giorno il masso con molta gravità: — non devi
già credere che sia Fortezza quella che ti persuade a correr così,
come un pazzo. Anzi, altro non è che debolezza la tua, perchè mostri
di non esser tetragono alle mille vanità con le quali la vita vorrebbe
tentarci, di non avere in te abbastanza, per amare la solitudine, il
silenzio, e l'immobilità, che sono i figli della saggezza!

E seguitano così, a disputare filosofeggiando ciascuno sulla propria
Fortezza e sulla viltà dell'altro, il torrente e il masso: quasi che,
volendo, quello potesse fermarsi, e questo andare.



I sette peccati mortali.



IX.

SUPERBIA


Avete mai veduto, in un di que' baracconi cascherecci dove si mostrano
tutte le meraviglie del mondo al rumore di due trombe e d'un tamburo,
un uomo avvicinarsi con ostentata circospezione a una puzzolente
cassetta, alzarne con solenne gravità il coperchio, incominciando
le lodi del famosissimo serpente Boa, prima ancora che voi possiate
vederlo raggomitolato nel fondo?

Ebbene: che cosa fa il serpente mentre gli piovono nella cassetta le
più strabilianti e impensate prove della sua gagliardia, e gli sguardi
attoniti di cento occhi?

Il serpente dorme: o fa vista di dormire.

Ma è inutile che vi consigli di fare come quel serpente, perchè nessuno
di voi, se fosse al suo posto, saprebbe resistere alla tentazione
di rizzarsi più che mezzo fuori della cassetta, per ringraziare con
appropriate nonchè modeste parole il ciarlatano e il pubblico.



X.

AVARIZIA


Una variopinta e volonterosa cancrena, che si stava mangiando da
qualche mese la schiena di un famosissimo e luridissimo avaro, un bel
mattino, parlò così al suo involontario anfitrione: — Oggi mi sento
bene! e son di buon umore! Sarà la primavera! Ma vorrei vedervi un
po' allegro anche voi! non pensate così, sempre, alla vostra roba! Vi
farà male. Fate come me: Vedete? io mangio fin che ce n'è: quando non
ce ne sarà più: pazienza! morirò. Ma almeno potrò dire che della mia
morte nessuno godrà, e que' vermi schifosi che aspettano nella vostra
fossa la mia eredità, sognando laute cene, sarà miracolo se troveranno
qualche osso sano da vuotare!

Voi, invece, passate la vita a ricontare e a risigillare i vostri
sacchetti d'oro, perchè un giorno ve li possan manomettere quei diavoli
de' vostri eredi; che, quando voi dormite, si vengono a rallegrare con
me per il modo come mangio alle vostre spalle, dicendomi che era il
loro sogno e che mai l'han saputo fare: e mi incitano con belle parole
e con esempi tratti dalla storia, a spolparvi tutto in tre giorni!

E vi giuro che è contro mia voglia; ma vi confesso che un po' per
quelle parole che stuzzicano il mio amor proprio: un po' per certi
eccellenti aperitivi che mi somministra il vostro medico, e anche
perchè m'annoio a vedervi sempre far conti, chè so io? mi sembra che
l'appetito mi cresca ogni giorno, nonostante la vita sedentaria che
mi fate fare! Che ne dite voi, amico?... Ah! bravo!! approfittate di
questo mio bisogno di confidenza che m'ha fatto lasciare a mezzo la
colazione, per contare con più pace codesti lerci sacchetti, senza
darmi nemmeno ascolto!

Crepi l'Avarizia! Mi rimetto subito a mangiare!



XI.

LUSSURIA


Una grassa e venerabile abbadessa si recava a un certo conventuccio
di montagna, di sua giurisdizione, sedendo sopra un grosso e robusto
somaro.

Il quale, non sì tosto vide nel mezzo della via qualche po' di bagnato,
che vi corse sopra col muso, e, dopo aver con suo comodo osservato
e riflettuto assai, finalmente, sicuro del fatto suo, levò il muso
verso le nuvole e rise sonoramente fremendo e scotendosi tutto per la
felicità.

La severa abbadessa, rossa in volto, parendole che quello sconcio
diminuisse la sua autorità, lo percosse fieramente con una verga sul
muso.

L'asino smise subito di ridere: ma sapete che cosa ebbe il coraggio di
rispondere l'insolente a quella venerabile donna: — Vostra Signoria sa
meglio di me, — le disse, — che è legge di Natura che chi sta sopra le
dia e chi sta sotto le pigli: ma Vi vò dire che se Voi V'addattassi
ora a star sotto a me, io non Vi tratterei così male. Anzi credo che
V'avreste a lodare di me, assaissimo!...

Ridete? Ecco: voi pensate subito a male! Perchè? Perchè di questo
peccato siete pieni voi, pieni zeppi, dall'ugne de' piedi fino alla
punta dei capelli!

Sicuro! Chè se così non fosse, nessuno v'avrebbe impedito di credere,
per esempio, che l'asino significasse il Popolo; l'abbadessa, la
Tirannia; quel po' di bagnato in terra, la Libertà.



XII.

INVIDIA


Nel torrione d'una antica fortezza, un vecchio galeotto guardava il
solito pezzetto di cielo, attraverso la doppia inferriata della sua
cella; e ripescava, ripescava pazientemente, nella cloaca della sua
memoria, qualche disegno di fuga gettatovi forse da dieci anni, come
cosa inutile.

Quando, di fuori, sul turchino limpido del cielo, vide a un tratto un
enorme ragno discendere pacificamente dal tetto, sgomitolando il suo
filo lucido.

— Guarda quello schifoso animale! — pensò il galeotto — viene a bella
posta a farsi vedere da me, perchè il Diavolo gli ha insegnato a
vomitar corda, e a me no. Ma gli farò battere bene il muso, giuraddio!

E, frugando nel suo saccone, ne trasse una lunga paglia, e poi,
cacciato il braccio tra le nemiche barre della sua inferriata, tanto
e tanto fece, che alla fine arrivò a troncare il filo ondeggiante e
lucente.

Il ragno, che già stava vicino alla terra, guardò bene prima di
non rompersi nessuna delle sue tante gambe; poi pensò: — Pazienza!
ritorneremo a casa a piedi!

L'Invidia degli uomini non è mai meno stupida di questa del galeotto:
nè meno inutile contro chi non la curi.



XIII.

GOLA


Quello che vi posso dir della Gola l'ho saputo dalla sua bocca stessa:
ve lo dico, purchè non gli diate maggior fede di quel che meritano le
autobiografie e gli autoritratti.

Non pensate già ch'io sia intrinseco di questa grassa e attempata
signora. Io la vidi un giorno in un cimitero, che deponeva fiori sulla
tomba di un illustre prelato: nè l'avrei conosciuta: ma essa, vedendomi
passare, mi offrì con gentili modi qualche variopinto confetto che
io m'affrettai a rifiutare; e poi, piuttosto offesa, ma sorridendo
ancora, mi disse: — Voi dunque siete mio nemico. Badate: ve ne dovrete
pentire! Un giorno mi cercherete, e io allora sarò dura con voi.
Prendete esempio da questa perla d'uomo che mi ha sempre voluto bene:
è morto sorridendo: ognuno credeva ch'egli vedesse il paradiso: ma
io so che invece sentiva l'odore di quello che gli stavo preparando
in cucina!.... Anche lui da giovane s'era lasciato invescare dalle
grazie delle mie sorelle; n'ho sei sapete? sono delle versiere tutte,
e son più giovani di me.... ma io, con le mie cure amorose, l'ho fatto
ingrassare tanto, che a una a una son dovute fuggir tutte di casa!
perfin l'Accidia se n'è andata perchè non sapeva che cosa fare! e
son rimasta io sola con lui, e l'ho composto io qui dentro, in questa
tomba.

Quale delle mie sorelle l'avrebbe fatto morir così bene?! La Superbia
l'avrebbe fatto scoppiare, l'Avarizia l'avrebbe fatto morir di fame,
la Lussuria l'avrebbe avvelenato, l'Ira l'avrebbe accoppato, l'Accidia
l'avrebbe svenato grattandogli le morici.... Io invece, v'ho detto come
l'ho fatto morire! Grasso e sorridente, ch'era una maraviglia a vedere!

Vi par dunque sì o no, che io sia la più buona delle Sette Sorelle?
Oppure seguitate a disprezzarmi come avete fatto fin ora?

La Gola mi disse così. E io le promisi di pubblicare un giorno questa
sua apologia, a patto che ella non s'impicciasse mai più delle cose
mie, e mi lasciasse morire magro, come son vissuto e vivo.



XIV.

IRA


Gli animali più iracondi ch'io mi conosca, sono certi uccelli di
mare che seguono i bastimenti, da un tropico all'altro, in numerose
comitive, e che i marinai chiamano _Dame_; non già, credo, per il
loro peccato, ma per le loro ale bianche e nere, adorne di vaghi e
capricciosi disegni.

Ben che queste _Dame_ non siano buone da mangiare, i marinai le
acchiappano, adescandole con ami, come pesci, e le tengono legate sulla
_coperta_. Appena son due, il divertimento comincia. Basta metterle
vicine, perchè subito perdano ambedue il lume degli occhi, e se le
diano di santa ragione. Puntate di becco, fendenti d'ala, graffi
di zampe s'incrociano, s'aggrovigliano, con una incredibile fretta
d'uccidere.

Ma l'ultima scena è quella che aspettano i marinai, ridendo in giro,
impazienti.

Perchè, quando que' due uccellacci non ne posson più, allora si
staccano d'un passo, e fissandosi torvi sempre, mentre colan sangue da
ogni parte, e protendendosi tutti in una stecchita e buffa posizione
di guardia, nella quale i due gozzi si vedono agitarsi convulsi; ecco,
alla fine, si ricoprono l'un l'altro di vomito, nella più sconcia
maniera del mondo.

Allora i marinai ridono a crepapelle. E fanno bene. Però, guai se
qualcuno s'attentasse a ricordare a loro, quante volte, in uno svolto
di strada fuor d'una bettola, quasi in ogni porto del mondo, con
qualche solido inglese o con qualche inafferrabile spagnolo, in mezzo
a un cerchio di curiosi, han fatto su per giù la medesima figura di
quelle due _dame_!

Non so come la pensiate voi: ma io, prima di ridere dell'ira degli
altri, vorrei saper ridere della mia.



XV.

ACCIDIA


Conosco una vecchia oca che si vanta di discendere, per ramo diretto,
da una di quelle che salvarono Roma facendo quel po' po' di baccano che
tutti sanno.

E com'è usanza di quasi tutti coloro che hanno un gran nome da
custodire e da tramandare, si lagna anch'essa: chè ai nostri giorni non
si rispetta più la storia, chè i sangui sono contaminati dagli incroci
plebei, chè la nobiltà si compra, chè tutto è finito!... e dice che
altro non le rimane da fare se non ingrassare.

Oh! Lettori miei! Se i tempi fossero diversi, se si rispettasse la
storia, se i sangui non fossero contaminati, se le grandi azioni
valessero ancora nel mondo: chi sa mai che cosa potrebbe fare
quell'oca!



Libertà — Eguaglianza — Fratellanza.



XVI.

LIBERTÀ


Un feroce mastino, a catena, facea mille abbaiamenti e salti e urli e
guaiti, con gli occhi fuor del capo, per attirare gli sguardi distratti
di una cagna che vagolava sopra una balza, facendo le viste di non
capire. Un bel castoro grassoccio, che passava di là, si fermò a vedere
questa scena, e poi che gli parve oltremodo esilarante, si mise a
ridere a crepapelle, rotolandosi in terra per non iscoppiare.

Quando al fiero amatore, parve di non dover tollerare più oltre quel
villano insulto alla sua schiavitù, si slanciò come una tigre contro
l'insolente castoro. Ma prima che la catena, lo fermò a mezza via la
meraviglia: il grosso castoro, senza lasciar di ridere si scosciava a
forza quanto più poteva e sì mostrava chiaramente come ormai, altro non
potesse fare che ridere degli amori altrui.

E allora il cane, che era un po' filosofo, se ne ritornò pensieroso
alla sua cuccia, e corrugando la fronte, diceva tra sè: Sarebbe mai
quella bestia sguaiata il simbolo della Libertà?



XVII.

EGUAGLIANZA


Due gocce di pioggia marzolina cadendo giù dal cielo, l'una diceva
all'altra: Mi hanno raccontato che gli uomini, quando vogliono dire
che due cose si somiglian molto, dicono ch'elle sono come due gocce
d'acqua. E hanno ben ragione di dir così! e dove vedi nel mondo due
cose tra loro più simili di noi? Veramente meritiamo di essere in terra
il simbolo della divina Eguaglianza!

Un colpo di vento le divise: una se ne venne a morire splendendo, tra
i capelli della mia bella: l'altra andò in mezzo al campo a morir nella
sete di un fumante letamaio.



XVIII.

FRATELLANZA


Ecco la storia veridica di due tartarughe che una medesima madre generò.

Da qualche anno vivevano, avendo la cura reciproca di non si guardare
mai in faccia. Ma un giorno il destino volle che un pezzetto di sugna
si trovasse a eguale distanza dall'una e dall'altra; che ambedue nel
medesimo istante lo scorgessero; che con la stessa fretta arrancando,
si trovassero a bocca aperta, una di qua una di là dal pezzetto
di sugna. L'ira che divampò fu tale, che rimasero alcuni giorni a
guardarsi così, senza richiudere la bocca. Intanto le formiche si
portarono via la sugna.

Ma l'ira fu lungi da sbollire per questo: chè anzi finalmente una
di loro si decise a muover contro l'altra! Ma questa ritirò prima la
testa, poi le zampe davanti, poi quelle di dietro, infine la coda: e,
per questa volta, non se ne potè far di nulla.

Mentre la delusa assalitrice si allontanava meditando qualche insidia
abominevole: ecco, tacitamente, l'altra si riaffaccia, rimette i suoi
quattro remi negli scalmi e via, dietro a quella minacciosa! Ma quella,
accorta, ripiegò prima la coda, poi ritirò le zampe di dietro, poi
quelle davanti, e infine la testa. E anche per questa volta non se ne
potè far di nulla.

Ritoccò alla prima d'assalire: poi alla seconda, dopo nuovamente alla
prima, e ancora alla seconda: e via così di seguito; nè mai avvenne che
una fosse, per avventura, meno lenta a offendere, di quel che l'altra a
difendersi.

In questo elegante torneare, le sorprese la prima neve di Novembre
lungi dalla materna tana, e ambedue le uccise!



I sinonimi.



XIX.

VIZIO E VIRTÙ


Un cane e una cagna coglievano il bramato frutto della loro passione,
in riva a un fiume: e il tepore primaverile e l'umida frescura
dell'erbe, davano tanta foga alle loro piccole membra, che un somaro,
il quale da due ore assisteva indifferente a quel gioco di amore, alla
fine non potè far a meno di urlare con voce sinceramente commossa: —
Bravi, giurabbacco! Così mi piace!

Nel medesimo tempo un luccio, che da un'ora non aveva più avuto core
di levar fuori il capo, riaffacciandosi finalmente e vedendo ancora la
stessa scena di un'ora prima, rituffò in fretta la testa gridando: —
Che vergogna!!...

Vattici un po' a raccapezzare, in questo benedetto mondo!



XX.

DIRITTO E DOVERE


Per un viottolo di montagna discendeva un gran mulo, portando una soma
spropositata di fascine secche.

Dove il viottolo si chiudeva tra due strette muraglie di sasso, il mulo
vide venir su un polledro libero e spensierato. E tosto incominciò a
gridargli: — Lèvati di costì, se non vuoi che ti schiacci!... Torna
addietro, per le budella del caval di Troia! o di qua non esci vivo!...

E il polledro impennandosi:

— E dove mai s'è visto un bastardo come te insultar così la mia razza
nobile? Chi ti fa tanto ardito?

— Il Diritto mi fa ardito! — rispose il mulo, levando la voce di tra il
fruscio delle frasche: — il Diritto di chi opera e fatica per il bene
comune, sopra chi corre di piaggia in piaggia dietro ai capricci del
capo!... — E affrettava il passo abbandonandosi alla ripida scesa.

Ma il polledro non si moveva, e gridando vituperi da cavalli, aspettava
fermo in mezzo al viottolo; sì che alla fine l'altro gli arrivò addosso
come una valanga....

Tristo fu l'incontro! Ma pur tra calci e morsi il gran peso del mulo
la vinse sul temerario polledro il quale, finalmente, a spinte e
balzelloni, rifece tutta la scesa, fin dove il viottolo s'apriva nel
faggeto; e allora lo vidi saltar da parte ancor tutto irsuto e lasciar
passare il gran mulo, squadrandolo pieno di cruccio.

Ma subitamente il suo occhio sanguigno si rallegrò. Sul sedere del mulo
discendeva, con ritmo uniforme, una interminabile serie di bastonate.

Per dio! — esclamò il polledro imboscandosi — ch'io non debba mai
godere simili Diritti!

Quanti uomini non vediamo trasformare in arrogante Diritto le
invisibili bastonate del Dovere!



XXI.

VERITÀ E BUGIA


Due farfalline venivano leste dalla finestra aperta, verso la mia
_bugia_ accesa.

Una, evidentemente amante della luce e della Verità, è andata dritta
verso la fiamma e s'è bruciata. L'altra invece è discesa prudentemente
sul piatto di maiolica, e vi ha riposato in pace tutta la notte.

Questo dimostra che Verità e Bugia in fondo altro non sono che due
parti di un medesimo arnese umilissimo, e utilissimo agli uomini.
Ma pure una grande differenza passa, come avete veduto, tra l'una e
l'altra: quella brucia, questa reca placidi sonni.



XXII.

SAPIENZA E IGNORANZA


Sai tu chi porti?! — domandò gravemente un enorme dottore al somaro che
cavalcava.

— No — rispose il somaro; — ma ti posso dire che pesi più dei due
corbelli di concio che son solito portare.

— Ecco perchè tu rimarrai eterno segnacolo di ignoranza! — gridò il
dottore, — perchè tu misuri il mondo con la groppa e non col cervello.
Tu porti un gran sapiente, forse il più grande scienziato che viva nel
mondo: e, anzichè gloriartene ti lamenti del mio peso!...

Come si venne a un luogo dove il viottolo girava intorno a un prato,
il grosso dottore tirò l'asino da parte, e lo mandò senz'altro per il
prato, dicendo: — Or tu non hai mai osservato, le mille volte che sei
passato di qua, che questo prato è quadrato, e che il viottolo ne segue
due lati? Tu non vedi dunque che, attraversando il prato, noi veniamo a
percorrere un lato di un triangolo, il quale, per una delle immutabili
leggi del divino Euclide, dev'essere sempre inferiore alla somma degli
altri due?...

— Guarda guarda! — fece il somaro — non ci avevo mai pensato!

Ma gli stavano ancor sul labbro queste oneste parole, quando a un
tratto la terra mancò. Nel tempo che si batte un ciglio somaro e
sapiente si trovarono in fondo a un pozzo ch'era stato scavato di
fresco e ricoperto alla meglio di frasche verdi.

Con la testa fuor dell'acqua motosa e le reni fracassate, si guardarono
un pezzetto, poi, alla fine, mancando le forze, scivolarono abbracciati
giù, sollevando una nuvola di fango.... precisamente come avrebbero
fatto se fossero stati due somari!



XXIII.

RAGIONE E TORTO


Tra il pero e il melo sorse un tempo fiera contesa: ciascuno pretendeva
che il proprio frutto fosse più buono e più bello di quello dell'altro.

La contesa durò finchè, un giorno, passò un uomo di là. Lo chiamarono,
e senz'altro gli affidarono la loro sorte, lasciando a lui di giudicare
e di decidere da che parte fosse il Torto, da che parte la Ragione.

L'uomo tolse con una mano una mela, con l'altra una pera: stette a
lungo osservando e meditando, poi mangiò l'una e l'altra assaporandole,
e finalmente sentenziò: — La mela è più bella...

E il melo subito: — E tu allora che sei giusto, punisci il pero come si
merita; spoglialo tutto e lascialo ignudo!

— Sicuro, questo è giusto — rispose l'uomo al melo: — ma giustizia
vuole ch'io dispogli così anche te dei tuoi frutti, poichè, in verità,
la pera è più buona!

E ciò detto, approssimò il suo somaro; riempì tranquillamente un
corbello di pere e uno di mele e poi si allontanò fischiando.



XXIV.

CORAGGIO E PAURA


Si vantava un gallo di aver fatto più volte fuggire il leone,
mettendoglisi a cantare davanti.

Io allora lo presi e lo portai davanti a un leone impagliato che tenevo
in casa.

Appena l'ebbi posato in terra, il gallo allungò il collo e cantò a
squarciagola; ma subito che vide che il leone lo fissava e non si
moveva, s'infilò tra le mie gambe e scappò via; nè mai più si rivide
nel pollaio!

Per quanto sia grande il coraggio di un leone, è sempre immensamente
più grande quello di un leone impagliato!



Rinomate virtù — Beni desiderati — Certezze incerte.



XXV.

LA RICCHEZZA


Ieri, per ammazzar la noia, ho preso una cicala e le ho raccontata la
famosa favola che corre sul suo conto.

La cicala m'ha ascoltato fino all'ultimo, tacendo, poi m'ha detto: — La
favola mi insegna quanto voialtri uomini bramiate la Ricchezza!

Ma la verità si è che, per noi, altra Ricchezza al mondo non conosciamo
se non quella che ciascuna creatura nascendo riceve in dono dalla
Natura.

E la nostra immensa Ricchezza è il canto, e noi cantiamo perdutamente:
e non già per piacere a voi che ci calunniate, ma per piacere al Sole
che ci ama!

Strana fantasia la vostra! Noi bussare alla porta della esosa
formica?!... e perchè mai?

Forse per poter vivacchiare un'invernata?... Ma d'inverno il Sole se
ne va lontano, e non ci udrebbe cantare: e allora è inutile per noi
vivere!

Forse per ricantare alla nuova Estate?... Ma non vedete che se noi
moriamo, il canto non muore mai? N'abbiam seminate tutte le valli: e
il Sole ritornando sarà salutato da voci più fresche e più canore delle
nostre!

Come potrebbe dunque dolerci di morire?... e come potremmo desiderare
le miserevoli e sudate ricchezze che piacciono tanto alle formiche e a
voi?

E ciò detto se ne volò.



XXVI.

IL PROGRESSO


Mi è sempre piaciuto di vagare, attorno ai grossi mercati del mondo,
dopo tramontato il sole: per le immense prigioni, fatte silenziose,
dove sognano incatenate le mie care navi.

Avvenne una volta vagando così, ch'io mi trovassi a un angusto
braccio di porto, del tutto abbandonato, lungo cui vidi nereggiare una
miserabile teoria di grue arrugginite, le quali chi sa da quant'anni
s'eran fermate a guardarsi nell'acqua malinconicamente invecchiare.

Venendo sotto alla prima di queste grue, sentii uscirne subito un
di que' soffi straordinari che soglion fare i gufi il venerdì notte.
Io che, vi confesso, credevo allora che i gufi non parlassero, feci,
così per ridere: — Ben levato, messer gufo; avete forse qualche grossa
seccatura, che soffiate così?

Ma eccoti comparire, a queste mie parole, su dal palco, il gufo in
persona; il quale mi guardò un poco, poi mi disse: «Alla buon'ora!
ch'io ho trovato alfine a chi dir le mie ragioni! S'io soffio a questo
modo è proprio perchè mi son seccato. E se vuoi sapere di che cosa, ti
dirò che mi son seccato di vedere voialtri uomini andare così lenti
e malsicuri per la via del Progresso: e massimamente l'ho con certi
bertuccioni che sento chiamare poeti e filosofi, e che vanno per il
mondo a cantare le bellezze dei tempi morti e a predicare l'inutilità
d'ogni cosa!

«Sai tu quanti miei fratelli sono costretti ancora, a scavarsi una
sudicia buca nel tufo come le talpe? e quanti devono accontentarsi
ancora di scomodi castelli medievali, freddi avanzi di barbarie, o
di comignoli fumosi che fan starnutire, o di campanili dove non si
può prender sonno, o moriranno, poveretti, senza avere idea delle
innumerevoli comodità di una moderna casa di ferro?

«Non già ch'io mi stia troppo contento in questa: io che abito da due
anni questa specie di costruzioni, vedo bene di quanti madornali errori
le avete sapute fregiare: tuttavia riconosco che un gran passo avete
fatto. Ma però, tanto più vi disprezzo se, sapendo far cosa migliore,
non la fate, o ad essa con vergognosa svogliatezza intendete.

Avanti dunque uomini! Senza soste! Senza riposo! Avanti sempre! perchè
noi che da tanti secoli vi seguitiamo nella gran Marcia, alla Conquista
dell'Avvenire, piantando le insegne della Morte dentro le orme vostre,
Noi, dico, non vogliamo fermarci!»

Avete sentito?

E pensate che c'è chi accusa i gufi di «passatismo!»

Non date dunque ascolto alle parole dei poeti e alle sciocchezze dei
filosofi!... camminate sempre più spediti e più fiduciosi per la via
soleggiata del Progresso se volete che i gufi siano contenti di voi!



XXVII.

LA PERSEVERANZA


Oggidì non è creatura al mondo che non creda di poter essere alle altre
esempio di rare virtù.

Una mosca che mi ronzava attorno da più di un'ora appena mi ha visto
scrivere questo titolo, ecco, m'è scesa vicino all'orecchio e m'ha
incominciato a dire: «Come potresti tu parlare di tanto preziosa virtù
chè non sai com'ella sia fatta?

«Oserebbe forse la tua penna sacrilega dispregiare questo dono divino,
anzichè additarlo al mondo come la magìa onnipossente con cui, tutti i
desiderî presto o tardi s'appagano?

«Io dirò le lodi della Perseveranza! e tu scriverai le mie parole, se
non vuoi ch'io ti ronzi attorno all'orecchio tutta l'estate!

«Scrivi che la perseveranza è figlia della Sapienza e madre della
Felicità. In fatti qual'è la recondita ragione che ci spinge a
perseverare tanto più là dove con maggiore ostinazione ci vediamo
scacciate?

«È che quella ostinazione medesima rivela al nostro senso esperto che
là deve esserci qualche cosa di molto desiderabile; e tanto e tanto
facciamo che alla fine arriviamo a scoprirla e a ficcarvi la nostra
tromba!

«Non è dunque figlia di Sapienza, la nostra Perseveranza?

«Ed è madre di Felicità, poi che per essa tutte quelle cose che
il mondo predilige e più gelosamente custodisce, noi discopriamo e
gustiamo!...»

Proprio in questo momento la dicitrice, inebriata forse dalla sua
stessa eloquenza, si avvicinò troppo al mio orecchio, e io, senza
considerare i grandi meriti suoi, le diedi una manata così potente che
la mandai dritta dentro a uno scaffale della mia libreria.

Manco a farlo apposta, per sua somma sventura capitò proprio nel
palchetto delle grammatiche dove un ragno passa beatamente la vita.

La povera mosca resta presa alla rete, e il ragno le è sopra d'un
salto, dimenando la sua pancetta rotonda.

Mi lasci morire così? — mi gridò la mosca disperata.

Ma io non le risposi nemmeno, tanto mi piacque di veder premiata la
taciturna e nascosta Perseveranza del ragno, il quale non corre, non
briga, non s'agita, non s'imbranca, cerca il silenzio e sopratutto si
studia di non dar noia a nessuno.

Fa e aspetta, il ragno; come il povero favolatore.



XXVIII.

L'EMULAZIONE


Sembrava che il vento fosse morto; perchè la nave stracarica stava da
cinque giorni sulla Linea dell'Equatore, ferma come una casa.

Il Sole calava e io scrivevo da poppa. Ogni tantino ci guardavamo, io
e il sole, da vecchi amici, senza dirci nulla. Quand'ecco m'avvidi d'un
seppione a fior d'acqua che mi guardava fisso.

— Come va la vita? — gli chiesi, tanto per non essere mai scortese con
nessuno.

— Oh! — mi rispose — M'annoio mortalmente!

— Perchè non scrivi anche tu, — gli dissi ridendo: — il calamaio ce
l'hai. Ma il seppione non rise affatto e mi rispose con molta gravità:
— Sto appunto guardando come tu fai per imparare.

Ora ho capito! — gridò a un tratto: — Che cosa facile scrivere! Invece
di buttar fuori tutto l'inchiostro insieme come son solito far io,
basta buttarlo poco per volta. Non è forse vero?

Verissimo! — dissi io.

E quello non se lo fece dir due volte. Subito si diede a
schizzare torno torno, a goccia a goccia, tutto il suo inchiostro,
soddisfattissimo d'aver così presto imparato a scrivere.



XXIX.

LA MODESTIA


Lungo le spiaggie dei mari è facile assistere al lavoro di certi
scarafaggi, rinomati per saper costruire delle pallottole di sterco e
saperle ruzzolare e dirigere con rara destrezza, per poi nasconderle
accuratamente sotto la rena.

I naturalisti credono di aver scoperto la ragione di tutte queste
manovre. Ma io, osservando per lungo tempo con quanto amore e con
quanto studio, ciascuna di quelle bestie si foggi la sua pallottola,
perseguendo evidentemente una ideale vagheggiata perfezion di forma,
e vedendo poi come subito si affrettino quei sapienti artefici a
inforcare con le gambe di dietro l'opera loro e via correndo a ritroso
a trasportarla lontano e a sotterrarla con ogni cura; son venuto nella
ferma convinzione che quegli scarafaggi siano guidati da un lodevole
sentimento di Modestia del tutto paragonabile a quello che spinge molti
dabben uomini a nascondere così le loro rare virtù civili o private!

Ecco perchè vi consiglio di non cercar mai queste nascoste virtù, senza
prima tapparvi il naso.



XXX.

LA PAZIENZA


Un vecchio somaro, con gli occhi bendati, moveva un decrepito bindolo,
pieno di cigolii di stridi e di schianti.

Mentre girava così, sotto il suo naso correva salterellando un canetto
arzillo che sembrava far discreta attenzione a certi filosofici
insegnamenti che il savio somaro gli veniva impartendo da tre ore, in
mezzo a infiniti sospiri.

L'asino ragionava, come un moralista qualunque, di quella virtù nella
quale credeva di eccellere, ponendola, naturalmente al di sopra d'ogni
altra.

— Hai ben veduto figlio mio, — diceva — quante legnate m'ha scaricato
addosso poco fà quel maledetto garzone! Solo a ripensarci le gambe mi
corrono! Sarebbe stato pur facile per me sfondargli la pancia con una
coppia di calci ben sortiti... e invece, che cosa ho fatto? Ho parato
la groppa e me le son prese tutte, senza nemmeno fiatare!... Oh! la
Pazienza! Questa è davvero la più grande virtù dell'anima! Come presto
scomparirebbe il Male dalla faccia del mondo, se non con la vendetta si
combattesse, ma con la dolce sofferenza, come io faccio!...

A questo punto, il povero somaro, affaticato di gambe e di mente, si
provò a rallentare il passo: e poichè non gli arrivò negli scartocci
nessuna voce d'uomo nè vicina nè lontana, non senza una lunga e penosa
titubanza, finalmente deciso, si fermò; e tacque.

Allora il cane, giovane e pazzerello, per dimenticar la noia di quegli
insegnamenti e prendersi innocente gioco del virtuoso filosofo bendato,
gli andò pian piano di dietro, gli addentò il fiocco della coda che
avea lunghissima, e cominciò a tirare allegramente.

Ma non aveva ancor dato due stratte, quando gli arrivò un piede del
somaro proprio nel mezzo del corpo, e così ben posto, che si ritrovò in
fondo al fosso tutto stronco.

Il povero cane, da cucciolo e inesperto della vita, non sapeva ancora,
e imparò quel giorno a sue spese, che la Pazienza è quella tal virtù
che consiglia a lasciarsi bastonare solamente dai più forti.



XXXI.

LA GRANDEZZA


In un tacito angolo di cimitero, vicino ad un altissimo cipresso, fu
piantato un giovane salice.

Come il Sole cominciò a calare, l'ombra del cipresso cresceva a
dismisura e si distendeva come le altre sere, fin sull'ultime tombe:
ma subito scorgendo vicino a sè la breve ombra del salice allungarsi
per quel poco che poteva, sorrise e disse: Gran disgrazia invero, esser
piccoli, povera figlia mia! io vorrei piuttosto morire che contentarmi
di esser come te!

Il cipresso a queste parole: Taci sciocca, le gridò, che saresti tu se
io non fossi?... tu sei l'ombra mia: e la tua Grandezza altro non è che
l'ombra della Grandezza mia.

Il Sole, udendo, pensò che veramente così l'ombra come il cipresso
erano opera sua e che della loro vantata Grandezza egli solo era la
causa: ma, com'è solito fare, passò e non disse nulla.



XXXII.

L'UMILTÀ


Due fraticelli minori sedevano assai comodamente sopra certe molli
alghe in una piccola conca di roccie in riva al mare.

Parlarono dell'Umiltà, poichè questa, come figli del Poverello
d'Assisi, prediligevano sopra ogni altra virtù.

Tre o quattro granci s'eran messi attorno a sentirli; poi altri n'eran
venuti fuori da ogni buco, e altri ancora su dall'acqua e a poco a poco
s'eran fatti popolo.

I due fraticelli gongolavan di gioia credendo che si rinnovasse per
loro il francescano miracolo.

Ma qui, certo, il diavolo c'entrava per qualcosa: perchè, a un
tratto, ecco uscire di tra quel popolo un capo ameno che, camminando
tranquillamente, a suo modo sulle groppe degli altri, disse: — Attenti
tutti, ch'io vi voglio far divertire!

Si fece avanti fin presso gli zoccoli dei frati e disse loro: —
Venerabili padri. Abbiamo benissimo capito che l'Umiltà è la virtù più
cara a Dio. Adesso ci piacerebbe tanto di sapere chi di voi due ne ha
di più.

— Non già per mio merito, buon grancio, — disse subito il frate più
grosso, — ma perchè io sono più anziano e per più lungo tempo mi son
mortificato nella santa Regola, ritengo d'esser io più ricco di questa
francescana virtù.

Il frate più giovane aspetto ad occhi bassi che l'altro finisse, ma
poi si guardò bene da tacere: — Lungi da me ogni idea di vantazione, —
disse, — perocchè Dio per la sua immensa bontà ecceda talora nelle sue
grazie; ma è noto a tutto il nostro convento che di questo paradisiaco
dono dell'Umiltà, Egli m'ha voluto, se bene indegno, siffattamente
colmare, come se cent'anni di Regola avessi già vissuto.

— Come dire, dunque, che de' meriti della nostra santa Regola si possa
dubitare? — esclamò il primo.

— Peggio mostrar di dubitare della grazia di Dio come tu fai, — ribattè
il secondo.

— Non sia mai questo! — oppose di nuovo il primo — Solo parmi offendere
la Grazia di Dio, vederla dove non è.

— Dire a un fratello ch'egli è da meno per virtù; questo è davvero una
bella prova d'Umiltà che tu dai.

— Nè tu la dài migliore riprendendomi come tu fai!

— Io ho parlato soltanto per celebrare la Grazia Divina.

— E io per celebrar la Regola....

I granci ridevano da scoppiare. E non avrebbero voluto che quel gioco
finisse mai.

Ma durò due ore sole!

Sapete perchè? Perchè il mare, che s'era pian piano alzato per l'alta
marea, inondò a un tratto la piccola conca, mettendo in semicupio que'
due malcapitati fraticelli.

Quando, ratti ratti, tutti gocciolanti, quelli se ne furono andati
starnutando, oh! come risorsero liete al bacio del mare le povere alghe
schiacciate da quelle due così pesanti Umiltà!



XXXIII.

LA FELICITÀ


Viaggiando per l'Africa, una volta m'infreddai.

Il mio compagno di viaggio era una vera perla d'amico, e non poteva
vedermi sternutare senza gridarmi il sacramentale «felicità» secondo il
buon uso antico. Onde potete pensare quante volte l'ebbe a dire, se per
otto giorni interi non mi lasciò quella memorabile infreddatura.

L'ottavo giorno appunto, il mio servo moro, mi annunziò con somma
soddisfazione che in tutto il bagaglio non c'era più un fazzoletto
pulito.

— E tu perchè non li hai lavati, poltrone! — gli gridai.

— Come?! — mi rispose turbandosi — vuoi che io scacci la Felicità dalla
tua casa?!

Figuratevi!... Al mio fantastico Zulù il grido del mio compagno era
sembrato una invocazione magica: e poichè sempre seguiva a quello una
mia poderosa soffiata di naso, egli s'era convinto che dal mio cranio
uscisse la Felicità e intendeva di serbarla per i giorni tristi.

Io naturalmente gli feci subito lavare quel monte di fazzoletti.

Ma ora, ripensandoci, vi confesso che me ne pento.

E se il mio Zulù avesse avuto ragione.

Se veramente io avessi scacciato così per sempre la Felicità dalla mia
casa?



XXXIV.

LA FEDELTÀ


Roba da cani, è vero signora?

Non ne parliamo.



XXXV.

LA TRANQUILLITÀ


Una rinomata vacca raccontò, un bel mattino, al suo diletto consorte,
la storiella grassa e vera che correva sul conto di una capretta
sposata di fresco; e il toro ne fece gran risa.

Volle il caso che quella stessa mattina, dopo una felice notte d'amore,
la capretta sposata di fresco intendesse di rallegrare il suo dolce
sposo narrandogli la verissima e grassissima storia degli amori della
rinomata vacca.

Quel giorno il becco e il toro si incontrarono nel prato a passeggio:
non appena si furon veduti di lontano, si guardarono l'un l'altro sul
capo, esclamando a un tempo: Capperi! che razza di corna ci ha in testa
quello là!

Questo fattarello è istruttivo: tanto più che l'ho udito una sera
d'inverno dalla bocca sdentata d'un vecchio montone, il quale soleva
raccontarla quando la moglie era fuori di casa.



XXXVI.

L'ALTRUISMO


La civetta d'un cacciatore aspettava l'alba coccoveggiando, legata
a un davanzale, e parlava col cane che le si era acculato lì sotto.
Parlavano forte per farsi sentire dal gatto che li guardava da un
canto.

La civetta diceva al cane: — Fratello, tra poco il padrone ci chiamerà
alle nostre fatiche quotidiane! Senti tu quanta bellezza esemplare sia
nella nostra vita fatta di Sacrifizio e di Altruismo?!

— Sicuro che lo sento, sorella! — rispondeva il cane — e dico che chi
non conosce la gioia dell'Offerta e del Sacrificio, non conosce la
gioia più pura della vita!

— Dici bene fratello — osservava la civetta — io sono felice quando col
mio canto di sirena traggo alla morte torme di garruli uccelli; e pure
so che quegli uccelli non sono per me!

— E io tremo tutto di gioia, sorella, quando posso addentare la preda
che mi insanguina la bocca, per donarla intatta!

A questo punto il gatto miagolò e disse: — Poichè siete pieni di tanto
generoso amore del prossimo, perchè tu mia dolce civetta non ti metti a
richiamar qualche passerotto, e tu magnanimo amico, non me lo prendi e
me lo porti qua?...

Una interminabile risata a doppio accolse le parole del povero gatto, e
ancor tra le risa la civetta e il cane gli andavano gridando a vicenda:

— Me lo dai forse tu il core che mangio ogni mattina?!

— Me lo fai tu il pan di semola?!

— Ha ben ragione il padrone quando dice che tu non capisci niente!

— Bene fece quel fratello mio che ti mozzò la coda!...

— E perchè allora non gli sbarbi tu l'altra mezza?! — strillò ultima la
civetta.

Entrò il cacciatore proprio mentre il povero micio era sul punto di
perdere quel po' di coda che gli restava: per non aver abbastanza
meditato sulla intima essenza dell'Altruismo.



XXXVII.

LA MUNIFICENZA


Dovete sapere che nei velieri, specialmente quando si deve far
Natale in mare, se l'armatore non è troppo avaro, si mette a bordo un
maialetto e qualche pollanca.

Ora io, in uno de' miei viaggi, ebbi appunto tali compagni di fortuna.

Quando era buon tempo, si lasciavano libere quelle bestie per la
_coperta_; e allora io vedevo sempre il maialetto andare salterellando
e strillando da poppa a prua traendosi dietro, come uno strano e
clamoroso corteo d'onore, tutte le pollanche.

La prima volta che mi fu dato assistere a un simile spettacolo, risi
a crepapelle, e non mi curai di ricercare la cagione di quegli onori
regali.

Ma la seconda volta, mi fu facile osservare che le galline correvano e
acclamavano sì, ma non già disinteressatamente: che ogni poco le vedevo
precipitarsi tutte a beccare certe pallottole nere che ruzzolavano
fumando per la _coperta_; poi ricominciavano a correre dietro il porco,
acclamando.

Se quelle galline non fossero state mangiate anche loro il giorno di
Natale, la fama della Munificenza di quel maiale correrebbe il mondo...
come quella di tanti altri!



XXXVIII.

LA CIVILTÀ


Io posseggo una abilità singolarissima: riconosco la fisonomia d'una
bestia anche se l'ho incontrata una volta sola nella vita.

Infatti, ieri, visitando un giardino zoologico riconobbi di primo
acchito un giovane _puma_ che due anni or sono mi era scappato davanti
agli occhi nelle _pampas_.

E andando verso lui, che se ne stava comodamente sdraiato, gli gridai:
Amico!... come mai nelle _pampas_ non mi hai appena veduto che sei
scappato come una saetta; e ora non movi un'unghia?

E quello senza scomodarsi mi rispose prontamente: La stessa gabbia che
impedisce a me di fuggire, impedisce anche a te di toccarmi.

Riuscisse a me così facile comprendere i benefizi della Civiltà, come a
certe bestie!



XXXIX.

LA FURBERIA


Non poteva esser nel mondo più gran corbellone di Menico. Era così
arida la sua zucca che per quanto grandi glie le dessero a bere, ei le
beveva sempre.

E tutti nel contado lo chiamavano a nome e si prendevano gioco di lui.

Ora venne su quella terra il castigo della siccità, e le messi nel
campicel di Menico giacevano arsicciate che facevan piangere a vederle.
Un cipresso di cent'anni che si sentiva venir meno dalla sete, lì nel
mezzo di quell'arsura, sapendo anche lui con che razza di baggiano avea
che fare, ne pensò una di molto grossa e poi lo chiamò e glie la disse:
— Senti Menico; io saprei la maniera di cavarti da questa miseria e
di far crepar d'invidia tutti i tuoi nemici. Se non mi sbaglio tra
una quindicina di giorni è la luna piena. Quando la riman qui sopra
a picco, s'io potessi arrivare a farla sternutare con la punta del
mio pennacchio, ecco che tu avresti bagnate tutte queste messi e
avresti pane per tutto l'inverno.... Ma bisogna ch'io cresca almeno
tre braccia, se no non ci potrò arrivare. Per questo mettimi un po' di
concio d'attorno e dammi acqua più che tu puoi!...

Il buon Menico bevve anche questa: e tutto felice e speranzoso,
incominciò a dar tutta l'acqua che aveva a quel furbacchione di
cipresso che se ne rideva come un pazzo.

Venne la luna piena: — Eh! ci vuole altro! — disse scotendo la vetta il
cipresso — mi ci mancano ancora due braccia bone!...

E porta acqua ancora il povero Menico.

Torna la luna piena e passa sul campo. Ci arrivi? — domanda Menico al
cipresso. — Per bacco!... — risponde il cipresso — un braccio ancora:
poi ci arrivo davvero!

E riporta acqua per un altro mese il povero Menico e non avea più
braccia per la fatica e nemmeno avea pane nella madia, nè chicco nel
granaio, nè quattrino in saccoccia. «Sternuterà poi la luna?» pensava
qualche volta: e ormai dubitava.

Ritornò finalmente la luna piena. Menico guardava in su attento:
Ecco! — gridò il cipresso — ecco.... ho toccato la punta del naso....
per Dio! dentro non ci sono ancora!... Ma per quest'altra volta è
sicura!...

Menico diventò serio e non disse nulla. La mattina di poi, per tempo
andò in cerca di un mercante di legnami e lo condusse a vedere il
cipresso che era una bellezza davvero.

Così quel giorno stesso il cipresso fu segato, e Menico mangiò.

Chi le dà a bere non è sempre più furbo di chi le beve.



XL.

IL QUIETISMO


Ero in una città.... come le altre, seduto alla tavola d'una trattoria
qualunque: e mangiavo un gran piatto di ostriche.

A un tratto, ecco odo una voce, un po' fioca, ma vicinissima....
Indovinate chi era?!... Era un'ostrica che vedendomi, s'era lasciata
vincere dall'impeto lirico, e predicava:

«0 instancabili cercatori di Gloria, d'Oro, di Felicità, d'Amore,
di Piacere, insanabili pazzi! vedete in me l'esempio d'una esistenza
felice!»

Potete figurarvi, com'io tendessi l'orecchio e come l'anima esopiana
ch'io trascino mestamente per il taciturno mondo d'oggi, sorgesse in
me, felice per quella straordinaria parlata. E la illustre ostrica,
sporgendosi dal suo mezzo guscio, alto su tre dita mie, come da un
pulpito, continuava a dire: «Io non so chi m'abbia messo al mondo; e
non me ne importa nulla. La prima cosa che ho trovato sul mio cammino è
stata un palo: e a quel palo mi sono attaccata!... e starei ancora là,
se non m'avessero strappata via.

«Con un po' di pazienza, mi sono fabbricata questa casa, grande tanto
che basta per me sola: tutta bella e pulita dentro, per me: brutta di
fuori e ispida, per gli altri.

«Qualche pesce, grosso e pazzo come voi, passandomi vicino, m'ha
raccontato che il mare è tanto grande, che ci son tante cose da
vedere: ma io mi son chiusa in fretta, senza nemmeno rispondergli.
Che cosa volete ch'io vada cercando? Quando ho sete apro la casa e
c'entra l'acqua: quando ho fame, apro la casa e c'entrano certi piccoli
vagabondi, che mi mangio a comodo. Dite, instancabili cercatori di
felicità, fabbricatori di Sogni; è forse dato a voi di fare così?!

«Quando sento che l'onde cominciano a romoreggiare d'intorno, quando
avviene che l'acque s'arrossino per qualche combattimento vicino, mi
serro ben bene in casa: e non riapro finchè non sento che l'acqua è
ritornata ferma, e pulita. Dite voi, pazzi che combattete nel buio,
ostinati cavalieri dietro strane avventure, non è forse più saggio fare
così?

«A nessuno ho parlato d'amore mai! tuttavia senza soffrire pur una
delle vostre pene amorose, ho rivestito il mio palo d'una quantità di
ostriche le quali tutte grazie a Dio la pensano come me, e vivranno
felici! Dite voi, ubriachi e sterili amanti....».

Ma a questo punto, non ebbi tempo di batter ciglio, chè vidi la
fanatica predicatrice disparire dietro la meravigliosa fila di denti
d'una mia commensale, e il pulpito cader vuoto sotto la tavola.
L'assassina rideva, come usa rider laggiù, quando si è ucciso un
nemico: e io.... che potevo fare? Risi anch'io.

Chi nelle infime necessità della vita, trova tutta la ragione di
vivere: chi nega la vita senza averla provata: chi fugge il mondo non
già perchè il suo cuore sia gonfio di amarezza e gli occhi sien secchi
di lacrime, ma solo perchè ha saputo che nel mondo un'ora di gioia si
paga con cento di dolore; quando egli osi ancora riprendere, per i loro
errori, quelli che vivono e si battono nel mondo, meriterebbe certo di
far la fine dell'ostrica.



XLI.

L'ANARCHIA


Lassù, nella gelida Lapponia, un giorno, in mezzo a una foresta,
dovetti fermarmi per lasciar passare un corteo anarchico di
ermellini. E bisognava sentire con quanta voce gridavano tutti: Viva
l'Anarchia!!...

Non potevo credere agli occhi miei!

Ne chiamai uno, che più bonariamente mi riguardava, e gli domandai
qual'era mai stata la ragione che li aveva cacciati dalle loro
pacifiche case, per vociare in quel modo.

Mi rispose con una eloquenza davvero insospettata, e disse:

«Tu mi sembri un uomo di retto criterio. Giudica dunque: e se le nostre
querele ti paion giuste, va a ripetile a re e imperatori della terra.

«Perchè mai, dal primo giorno che furon creati, questi grandi hanno
creduto sempre cosa ben fatta di vestirsi con la nostra pelle? Non è
forse tempo che se ne scelgano un'altra?

«Proponi, per esempio, quella dell'orso!... È una maraviglia a vedere,
e deve tener caldo assai più della nostra!...

«Dillo dunque ai tuoi re e imperatori, che noi saremo i più fedeli
sudditi, se essi vestiranno d'ora innanzi con la pelle dell'orso! Ma se
continueranno a voler sempre la nostra, noi faremo la rivoluzione!»

A me parve che gli ermellini non avessero torto, e oggi compio
scrupolosamente il mio dovere di ambasciatore.... Ma sento che è
fatica sprecata la mia. Ditemi un po' chi di voi, se fosse re, oserebbe
vestirsi con la pelle dell'orso!



XLII.

IL ROSSORE


Non avevo mai veduto un camaleonte così triste! Mi gli feci vicino e
con buona grazia gli chiesi perchè vivesse in tanta disperazione.

Senza levarsi l'ugne di sul capo, il povero camaleonte mi disse così
il suo gran dolore: «Oh! incontentabile natura nostra! Oh! raffinata
crudeltà di Chi ci ha creati così! A tutti gli animali Egli ha
dispensato infiniti beni, ma siffatti, che agli altri paiono beni, a
chi li possiede no. Poi ancora a ciascuno ha confitto nel core come un
pruno d'acacia, il desiderio irresistibile di un bene che non ha, e che
non avrà mai!... Così mentre tutti Lo esaltano per gli infiniti beni
che a piene mani ha riversato sul mondo, il cuore di ognuno si lacera
nel pianto per il desiderio inutile di quel bene che non ha.... e che
non può avere!

«Ora vedi: noi camaleonti siamo da tutti invidiati, e anche da voi
uomini, per la facilità grande che abbiamo, di cangiar colore a seconda
de' luoghi e de' tempi. Ed è vero infatti che noi prendiamo mille
colori. Ma c'è un colore che voi facilmente prendete e lasciate, e noi
lo ameremmo sopra tutti, e ci è negato!...»

— Un colore? noi?!

— Sì! È il rosso! uomo: il bel rosso del fuoco, in cui le salamandre
ciurmatrici bruciano come noi; il rosso de' tramonti sui quali il
nostro corpo si disegna nero, si che da tutti è scorto; il rosso
di queste folte di geranî, dove vorrei dormire tutta la vita non
veduto!... Ma noi non potremo mai diventare rossi come fate voi!... E
questa è la pena che precocemente intristisce la nostra giovinezza!...»

Io avrei subito voluto dire al mio povero camaleonte che gli uomini,
di quel privilegio per lui così invidiabile, non sanno precisamente
che cosa farsi; e che, anzi, i più, stimandolo assai pericoloso, per
diversi modi sono sì bene riusciti a ucciderlo, che ormai sarebbe
mestieri dar loro fiere ceffate per vederlo rinascere: avrei anche
voluto confidare in un orecchio il segreto di certe donne, che
disperate di questo benedetto rossore se lo nascondono poverette
alzando la gonna.... e mille altre saporite cosette gli avrei voluto
raccontare, vecchie per noi, ma per lui certo nuove, e che l'avrebbero
un poco rallegrato.... Ma ecco, vidi il mio camaleonte sguardarmi un
istante pieno di dispetto, poi fuggire via soffiando per la rabbia.

Probabilmente mi aveva visto arrossire. Perchè io ho ancora questo
viziaccio.



XLIII.

LA CONSIDERAZIONE


Era salito in gran pregio sopra tutti un vecchio volpone. Andavano
per ogni bocca il gran sapere e l'impareggiabile valore di lui: ognuno
temeva d'esser tardo a rendergli onore.

E perchè?

Era accaduto tra le volpi una cosa che vediamo accadere anche tra noi
uomini. Si sapeva che il Leone chiamava spesso quel volpe alla sua
corte, e lo copriva di onori e mostrava di tener gran conto di lui e
dell'opera sua.

Qual fosse in verità questa sua opera tanto cara al re, nessuno si
curava d'accertare; ma tutti eran certissimi che si trattasse di
difficili operazioni diplomatiche, oppure di ardue incursioni ne' regni
limitrofi, le quali cose, senza l'accorgimento e l'audacia del volpe,
non si sarebbero condotte a buon fine.

Invece, un bel giorno, la mia cagna di poco sgravata, penetrata, non
so come, nei giardini della corte, offrendo le sue poppe al minore
rampollo della real casa, seppe una certa cosa....

— Quando la mamma va a caccia per qualche giorno, e mi lascia crepar
di fame — le disse in un orecchio il leoncino — quell'animale tutta
coda conduce al mio babbo un'altra leonessa più giovane e più bella
della mamma mia; poi va fiutando d'intorno per ogni parte, e appena
ha sentore che mamma ritorni, corre dal babbo e gli porta via la bella
leonessa!

Ma queste, cari lettori miei, son favole.... povere favole! Cose che
succedono tra le bestie.

Tra gli uomini succede assai di peggio!



XLIV.

LA CAVALLERIA


Ho domandato a un toro in che cosa consistesse, secondo lui, la prima
regola di un duellante, e m'ha risposto: — Diavolo!... nel presentare
costantemente la fronte all'avversario!

Ho fatto la medesima domanda a un mulo, e m'ha risposto: Caspita!....
nel presentare sempre il sedere all'avversario!...

Evidentemente bisogna concludere che anche tra le bestie il codice
cavalleresco deve aver ceduto il posto al codice del tornaconto.



XLV.

IL POTERE


Un leone africano fu mandato in regalo a un re europeo: e questo re lo
fece mettere in un bel gabbione, nel mezzo del suo parco.

Ogni giorno, tra un sonno e l'altro, il povero ex re delle bestie
sentiva parlare di questo potentissimo re degli uomini; onde si moriva
dalla voglia di vederlo.

Finalmente, una mattina, venne davanti alla sua gabbia un ometto più
piccolo dei guardiani, con le mani in tasca, il quale, come fu vicino,
gli disse in tono scherzevole: — Buon giorno collega!...

Il leone a queste parole, si levò di scatto, irta la criniera, e stette
guardando, soffiando, e sbattendo la coda, finchè quell'ometto non se
ne fu andato per i fatti suoi.

Allora il leone si calmò e chiese al suo guardiano: Quello è il vostro
re?

— Sì — rispose il guardiano.

— Chi sa che unghie deve avere?!...

— No.... le ha più corte di me!

— E allora come mai lo ubbidite?...

— Lo ubbidiamo perchè c'è la legge che vuole così.

— Ma, senza unghie e senza denti, quando vuol mangiarvi, come fa?...

— Ma che mangiarci!... — disse il guardiano sghignazzando — starebbe
fresco!... c'è la legge anche per lui!

Il leone non parlò più.

Solo ogni volta che quel re con le mani in tasca gli veniva davanti,
a mala pena socchiudeva le palpebre, per guardarlo con una infinita
compassione.



XLVI. LA GRATITUDINE


Baciandomi il collo per un quarto d'ora, s'era allegramente ingrassata
una tal mignatta. Ora, quando io la strappai e la gettai da un canto,
mi gridò con enfasi teatrale: Infame! questa è la tua ricompensa? così
mi rendi il bene che t'ho voluto?!... Un'ora fa, tu mi chiamavi a gran
voce, e ora che hai goduto il mio bacio interminabile, mi getti come
una cosa sudicia!!... Questo insegna la tua morale?!...

Cara mignatta — le diss'io — qui la morale non c'entra: t'ho chiesto
un bacio perchè mi doleva la testa: tu me l'hai dato perchè ti piace il
sangue. Tu m'hai alleggerito il capo senza volermi bene: io t'ho fatta
ingrassare senza amarti.

E siamo pari.



XLVII.

L'ORATORIA


Nelle mie budella, infestate per avventura dai bachi, discese un gran
purgante noto per la sua facondia, e levò subito a gran romore tutto
quel mondo pacifico e laborioso.

Il purgante gridò: — Sollevate le vostre teste pallidi lavoratori!
Di fuori è l'alba del vostro giorno! Lasciate le dure fatiche delle
tenebre! A che vi servono i vostri misconosciuti eroismi? Io vi offro
la luce e la libertà sconfinata!

Ma i bachi, per natura poco propensi alle grandi idee, rispondevano: —
Signor purgante, creda che stiamo benissimo qui, e non abbiamo nessuna
voglia di muoverci!...

Non l'avessero mai detto! Il purgante diventò una furia; e investendoli
e trascinandoli giù, gridò: — Bestie, indegne di udire la gran voce
dell'avvenire! Sozzi ricettacoli di putridume! O per amore o per forza
vi converrà venir meco; vi converrà, sia pure per poco, mostrare la
faccia moribonda al Sole, redenti dalla mia parola!

E così fu, come il purgante volle.

Quei miseri provarono la fervida carezza del promesso Sole e poi
precipitarono nel... nulla!

Ma la fama di grande oratore a quel purgante chi gliela leva più?



XLVIII.

LA SOLIDARIETÀ


Or è qualche mese, le api per la prima volta dopo il diluvio
universale, hanno scioperato. Non so precisamente che cosa esse
volessero, e forse non lo sapevano nemmeno loro, perchè somigliano
tanto agli uomini in tutte le loro faccende: ma so di certo che in una
adunanza plenaria fu unanimemente accolta l'idea di indurre le formiche
ad essere solidali, e fu deciso di affidare il difficile e delicato
incarico a quella che più calorosamente aveva sostenuto la tesi della
Solidarietà.

L'ape eletta, tutta piena della sua eloquenza melata, volò per i campi
e subito ch'ebbe veduto una processione di formiche nereggiare sopra
un viottolo, facendo gran rumore con l'ali, vi discese in mezzo, e
senz'altro incominciò il suo discorso.

Le povere formiche, da quand'eran nate, non avevano mai sentito dire
tante belle cose, e si pigiavano si montavano addosso a migliaia e
migliaia, e se ne vedevano molte ammusarsi con le vicine in segno di
maraviglia.

L'effetto dell'arringa, che ormai si doveva concludere, non avrebbe
potuto esser più felice; l'assentimento di tutte le formiche era
ottenuto e la loro Solidarietà ormai sicura.... quando, all'improvviso,
l'enorme suola di un contadino piombò su quella folla estatica.

Le povere formiche ebbero appena il tempo di vedere la valorosa
parlatrice ronzare strisciando sopra il loro naso.... e volar via.

Padronissimi di credere che questa favola sia contro la viltà de'
demagoghi, oppure contro la bestialità delle formiche, o contro la
gagliofferia del contadino, o infine contro la Solidarietà medesima,
quando non sia santificata dall'Amore.



XLIX.

LA COMPASSIONE


Dev'esser piena di buon cuore, poveretta, la cipolla: ma deve aver poco
cervello!

L'altro giorno ne affettavo una con grande attenzione (per me
un'insalata senza cipolle è come un cielo senza stelle!) quando,
vedendomi lacrimare come una Maria, la buona cipolla trasse dalle sue
pallide labbra un tenue sospiro, e mi disse tristemente — Com'è dolce
all'anima morire almeno compianti!

Povera cipolla! non s'era avvista che mentre i miei occhi piangevano,
le mie mani stesse la trinciavano!

Ma io devo esser grato a quella sciagurata, perchè d'ora innanzi, userò
sempre la precauzione di guardar le mani di coloro che si dolgono de'
mali miei!



L.

L'ESPERIENZA


Viveva da gran tempo in riva al Nilo un coccodrillo, così vecchio,
che non c'era nel vicinato nessuna bestia, per quanto decrepita, che
potesse dire d'averlo veduto giovane.

Così avveniva che tutti lo venerassero come un pozzo inesauribile di
Esperienza, e andassero a lui per consiglio ogni razza di bestie.

Il venerabile animalone, molto soddisfatto di quella insperata
rinomanza, non penò molto a persuadersi lui stesso di essere un
infallibile consigliere.

Ora un giorno che si stava, com'era solito, con la coda nell'acqua e il
capo tra l'erbe, e intorno al capo sedevano molti animali giunti d'ogni
parte per onorarlo, ecco venir per il sereno una farfalla d'oro con
aria distratta, la quale discese battendo l'ale vagamente, e s'accomodò
sul suo venerando naso, e tosto disse: — Ho io la gran fortuna di
sedere sul naso di quel famoso Saggio del Nilo che per ogni parte sento
lodare?

Sicuro! — gridarono a una voce tutte le bestie ch'eran lì: — Sicuro!...
E se anche tu vieni come noi per consiglio, narra il tuo caso
sicuramente, e udrai parole di conforto, e saprai quello che più ti
convenga fare per il tuo meglio.

E il farfallone, subito, giungendo l'ale sul dorso: — È presto
detto: sono innamorato pazzamente d'una bella farfalla d'argento:
l'ho rincorsa un giorno intero, le ho dette tante parole d'amore:
tutte quelle che sapevo. Inutile! Ella mi fugge e non ha pietà di me,
capite?! Ora s'è nascosta e non la trovo più. Consigliatemi dunque!

In mezzo a un silenzio religioso, il coccodrillo, raccolse un momento
le idee, poi parlò e disse: — Tu sei innamorato?... Io l'avevo subito
capito! Male! Male!... Molto male!... alla tua età! poichè io ben vedo
che tu sei molto giovine!... Ti valga il mio esempio; io ho amato per
la prima volta centosessanta anni or sono, quando già da quaranta anni
conoscevo il mondo...! Non aver fretta! è il mio consiglio. Non aver
fretta, fanciullo! e sappi farti desiderare dalle femmine!... Una volta
io, avevo allora cent'anni, mi trovai nel tuo caso medesimo: ebbene,
rifiutato da una femmina che mi piaceva, giurai a me stesso che un
giorno sarebbe mia.. Non feci altro che aspettare: cinquant'anni dopo
era tra le mie braccia!... Aspetta dunque, fanciullo! Aspetta, non aver
fretta: questo è il consiglio che ti dò.

Un mormorio di ammirazione corse tra le bestie.

Ma la farfalla d'oro sorridendo disse: — Ho capito. Mi consigliate
insomma, di diventare un coccodrillo. Mi dispiace ma non posso.

E, detto, aprì l'ale splendide e volò via, in cerca del suo amore.



LI.

IL PREMIO


Dieci anni interi aveva consumato un certo serpente, per divenire
un perfetto acrobata e c'era così bene riuscito, che affrettava col
desiderio il giorno trionfale, in cui inviterebbe tutti i colleghi suoi
a veder le sue bravure, e otterrebbe finalmente quel premio che dalle
sue fatiche decennali giustamente si sperava.

Il giorno venne. È bensì vero che certi grossi e famosi serpenti non
credendo convenevole cosa interrompere la loro aurea digestione, si
fecero pomposamente rappresentare da altri più piccoli; pur tuttavia di
serpenti ne venne un bel po' e certo, a metterli in fila, saranno stati
un miglio!

Il nostro serpente fu per iscoppiare dalla felicità, tanto s'agitarono
a lodarlo quelle lingue forcute.

Ma io che, avvisato in tempo, mi ero potuto nascondere lì vicino per
spiare un poco, vi posso dire sul mio onore che quella canaglia vennero
tutti fischiando e se ne andarono fischiando.

Voi mi direte: Ma che diavolo potevano fare dei serpenti se non
fischiare?!

E io vi dirò: — Mettete degli uomini al posto dei serpenti, rifate la
prova e vedrete che fischian lo stesso.



LII.

LE ILLUSIONI


Quando vedete un serpente ammatassato giù a piè d'un bell'Eucalipto,
con la testa sola a fior d'erba e gli occhi fissi in alto, come un
incurabile sognatore, guardate bene su pei rami e certo vedrete qualche
povero uccello tutto colori e canti esser preso a un tratto dalla malia
di quegli occhi e buttarsi giù a capo fitto nella bocca che lo aspetta.

Ma noi non facciamo forse tal quale con le buone Illusioni che
accorrono in frotta sull'albero sempre verde dei nostri sogni? Ci
contentiamo forse di guardarle? di ascoltarle?

Oh no! Le vogliamo prendere. Le vogliamo divorare.

E sia.

Ma il serpente quando s'è ingoiato bravamente quel miracolo di colori e
di canti, non dice affatto piangendo: — Oh! com'erano smaglianti quelle
piume! Oh! com'era dolce quel canto! Me misero, ch'io non l'udrò mai
più; Sciagurato ch'io ho distrutto da me stesso il mio bene!

Il serpente, animale logico, è contentone d'esserselo mangiato e ne
aspetta tranquillamente un altro.

E noi, perchè non facciamo come lui?



LIII.

LE CORONE


A una donna che ne guadagnava assai sudando pochissimo, cadde un giorno
una moneta d'oro nel più folto d'un boschetto ombroso; e là rimase
splendendo come una stella.

— Che bello sputo! — esclamò dall'alto un ghiotto moscone e, tutto
giulivo ci si precipitò sopra; ma quando vide che non era quel che
sembrava, si sdegnò e se ne andò brontolando.

Le formiche invece, vedendo quell'insolito arnese, si fermarono a
rispettosa distanza con i loro sacchi in spalla e dissero: — Non si sa
mai.

Ma una gazza peritissima, corse leggera, ci diede sopra una bella
beccata per esser ben sicura che non si trattasse di qualche
cioccolatino, poi con quanto fiato aveva, si mise a gridare: —
Uccellame del bosco! lepri, lucertole, sorci rossi! Scoiattoli,
donnole, pipistrelli e calabroni! venite! venite a vedere quel che
mai non vedeste! Questo è oro! oro vero! oro fino! La cosa più bella e
preziosa che sia nel mondo! quella di cui s'incoronano i re!

— Uuuuh! — echeggiò il bosco.

E fu tutto un volare, un correre, un saltellare, un ronzare, uno
stridere, poi uno stringersi, un accalcarsi, un montarsi addosso per
vedere meglio.

Poichè quella moneta era proprio ai piedi di un lauretto profumato,
parve a questo lauretto propizia l'occasione per far conoscere a così
grande adunata di popoli i propri meriti, e così parlò: — O nobili
bestie qui convenute al richiamo della onorevole gazza, se tanto
religiosa maraviglia vi sembra meritare questo croceo dischetto, perchè
di tal materia piacque ai re di incoronarsi, quale onore non sarò io
per meritare da voi o nobili bestie, io che incorono i poeti, i quali
son più grandi dei re?

Seguì un silenzio attonito.

Ma fu rotto da una voce che pareva singhiozzo e usciva d'un pruno e
diceva: — Il Re dei re, il Poeta dei poeti non volle altra corona che
questa.

Le bestie, trasecolate, cercaron la gazza perchè le illuminasse; ma
quella, poco favorevole alle discussioni improduttive, era sparita con
la moneta d'oro.

Che fare? Che pensare di quella strana faccenda? Chi più stimare?
l'oro, il lauro, o il pruno?

Ci fu un grasso e liscio talpone che, per fortuna, mise a posto le cose:

— Questi ardui problemi, miei cari compagni, — disse — nuocciono
assai alla salute. Infischiatevene di tutte le corone come faccio io e
lasciate agli uomini matti di scegliersele d'oro, di lauro o di pruni,
come meglio credono.



LIV.

LA VITA


Il mare era deserto sotto il sole tropicale. La nave inclinata a fior
d'acqua filava via, in _bolina stretta_, rinculando secca, a ogni
ondata che imbarcava la prua.

Guardando l'orizzonte da sopravento vidi brillare sull'acque verdi un
luccichìo noto. Doveva essere uno di quegli eserciti di pesci-rondini
eternamente in fuga tra acqua e aria.

Erano infatti.

E venivano col mare e col vento quasi diritti di prua.

Ogni poco scomparivano tutti come inghiottiti dall'acqua, poi
riapparivano tutti a un tempo sembrando un nuvolo di frecce d'argento.

E presto furon vicini. Videro nel loro volo l'imgombro della nostra
nave, e sagaci piloti, decisero di passarci di prua, sì chè d'un tratto
tutti i loro corpi rigidi e sottili e brillanti ci tagliaron la rotta a
pochi metri.

Che passo fantastico sotto il bombresso! Lo vedo ancora!

Uno solo, l'ultimo forse, si sbagliò, e ingannato dal beccheggio della
nave sbattè contro il fiocco rimbalzandomi ai piedi.

Che maraviglia! Che sogno! — non mi stancavo di esclamare: — Eppure è
bella la vita!

— Ah! è bella eh? — sentii dire da una vocetta dispettosa. Era il
malaccorto pesce-rondine che parlava.

— Dunque ti par bella davvero la vita? — gridò saltando alto un
metro sulla _coperta_. Perchè ci vedi volare? Pare che si voli per
divertimento! Non sai che si vola perchè il pescecane c'è dietro che
vuol mangiarci? Questa è la bellezza della vita. Oh! meglio meglio
mille volte morire in padella come le sogliole, e finirla una buona
volta di patire!

A sentire un pesce parlare così vi giuro che fui lì lì per mettermi a
piangere. Credo che m'apparisse intera, come al gran Gothamo, tutta la
infinita inutilità di questo infinito sforzo per vivere, che riempie di
sè il mare e la terra e l'aria, e la povera anima umana....

Ma m'ero appena gettato nello spinoso sentiero di questa meditazione,
quando il povero pesce-rondine incominciò a fare: — Ohi! ohi! Amico,
Affogo qua! muoio! Ributtami in mare. Meglio mille volte morire in
bocca al pesce cane, che morir soffocati così!



LV.

L'AMORE


Se i colombi potessero intendere la lingua dei gazzettieri, chi sa mai
quante volte sarebbero stati _intervistati_ sull'argomento dell'amore.

Ebbene: io ho fatto la prova. Ho chiesto a un bel colombo, proprio di
quelli col ciuffo dietro: — Che cosa ne pensi tu dell'amore?

— Dell'amore?! Oh! che domanda strana! — m'ha risposto: — Che vuoi che
ne pensi? Penso che quando capita qualche bella colomba non bisogna mai
lasciarsela scappare.

— Siamo d'accordo! — interruppi: — Ma quali arti, quali argomenti
adoperi per insinuare nel loro cuore l'amore, tu che passi per gran
maestro....

— Mah! Non saprei. Spalanco la coda faccio due o tre inchini, tanto per
avvisarla che stia pronta, poi spiccò un salto e....

— Basta! Basta, per carità! ho capito benissimo! — gridai: — Ma
pure.... — volli ancora insistere, — tante volte ti vediamo discorrere,
giocarellare, dar beccuzzate e far mille moine con le tue belle....

— Oh! — esclamò: — purtroppo! Sono stupidaggini, ma bisogna farle. Le
femmine ci tengono!

Perduta ogni speranza di cavar qualcosa di buono da quel celebrato
maestro, lo piantai lì in asso, e mi misi a girare in cerca di qualche
altra bestia più sapiente in amore.

Incontrai un somaro; ma, considerando che eravamo di maggio, lo lasciai
passare senza dirgli nulla.

Feci invece la mia domanda a un bel gatto soriano.

— Fossi matto! — mi rispose, — a dirlo a te quel che penso io
dell'amore! Vado sui tetti apposta per far le mie cose in pace!

E mi toccò seguitare per la mia strada. Finchè vidi affacciarsi un
becco ad una siepe. «Questo se ne deve intendere!» pensai, e senza por
tempo in mezzo gli feci la mia brava domanda.

— L'amore? — disse il becco con molta disinvoltura: — Mah! Io, a dirti
il vero, non ci ho mai pensato seriamente. So che è l'amore che ci
fa crescer le corna, perchè me lo ha insegnato mia madre; e questo mi
basta.

Non son uomo da perdermi presto di coraggio. Alzai la testa e chiamai
un farfallone che, manco a dirlo, rincorreva una bella femmina.

— Mio carissimo amico, — mi strillò senza fermarsi, con la sua
facile cordialità da veneziano: — l'amore te lo dico io che cos'è: un
passatempo che può costar la pelle! — E continuò allegramente a far
capriole al vento dietro l'addome della bella femmina.

Il serpente fece lo spiritoso: — È un nodo indissolubile, — sentenziò,
e soggiunse con un bifido sorrisetto — ... che però si può sciogliere
benissimo!

Trovai una tartaruga che cenava tranquillamente con un fungo porcino.

Mandò giù il boccone, sospirò senza nessuna fretta, poi disse: —
Ah! È una detestabile follia, questo benedetto amore, che c'entra
in corpo una volta all'anno e ci toglie ogni nostra dignità, e ci fa
rassomigliare alle boccie d'un pallaio. Che roba! non mi ci far pensare
se no, addio appetito!

Tre passi più in là sbucava una talpa.

— E tu che ne pensi dell'amore?

— Oh! — esclamò piena di entusiasmo: — Non è forse l'amore che riempie
di talpe il mondo?!

Per meditare sopra queste poche ma in verità notevoli parole della
talpa, pensai di buttarmi a giacere sotto un bel castagno.

Allora vidi sul mio naso un ragnolino peloso correre lesto lesto dalla
sua mamma la quale siedeva con moltissimo sussiego in mezzo alla sua
gran tela.

— Mamma, — disse il ragnolino, — mi racconti una favola?

— Ti racconterò la favola dell'uomo, sei contento? — disse la mamma.

— Si! Si! Si! — disse il ragnolino.

«Allora, dunque — incominciò la mamma — devi sapere che noi ragni non
eravamo nati per menar questa travagliata vita che meniamo ora.

«Quando Giove ci creò, ci mise in un paradiso, e questo paradiso era la
testa dell'uomo. L'uomo, figlio mio, è una bestia con una gran testa
rotonda, e dentro era tutta piena di mosche. Figurati un po' che vita
felice era la nostra là dentro!

«Ma noi eravamo troppo ghiotti e mangiavamo proprio da scoppiare.

«E quando Giove s'avvide di questo, si sdegnò grandemente; e per
punirci mandò sulla terra la donna, e questa sapeva certe parole
magiche che soffiate nell'orecchio all'uomo ecco d'un tratto gli
vuotavan la testa.

«Che si poteva più fare noi dentro quelle zucche vuote?

«E così ci toccò uscire da quel nostro paradiso e andarcene per il
mondo a stentar la vita, come facciamo».



LVI.

LA GLORIA


Un branco di pazzi leopardi correva giù a salti e a capriole lungo la
riva d'un torrente sotto il plenilunio.

Videro una iena.

— Ehi! Amica! — le gridarono: — Passano cento cavalli stanotte per la
strada carovaniera. Li manda il Sultano alla Mecca. Devono esser carne
fine! Son pochi gli uomini di scorta. Pranzo sicuro! di quelli che
capitan di rado! Vieni con noi!

— Tante grazie, ma non posso — rispose la iena riavviandosi in fretta
per la sua strada.

— Perchè? — le gridaron dietro i leopardi.

— Debbo andare al cimitero — rispose quella, sorridendo di lontano.

Una volta, ve ne ricordate ancora amici miei? eravamo un branco,
briachi di giovinezza e di speranze: scendevamo anche noi giù per un
torrente sotto un plenilunio sereno.

Incontrammo la Gloria. La invitammo a cena con noi. E ci rispose come
quella iena!



LVII.

IL SOGNO


Le nubi, incalzate da Borea pe' cieli sconfinati, gli aquilotti, caduti
dai monti con l'ali fiaccate dalla tempesta, le ondate eternamente
ricacciate via dalla scogliera, invidiavano un tranquillo popolo di
pini nati e cresciuti tra il monte e il mare.

Ma i pini, vedendo le nubi e gli aquilotti e le ondate andare andare e
andare, fremevano dentro e maledicevano alle loro immense radici.

E finalmente un giorno dissero a gli uomini: — Sentite! Abbiam saputo
dal mare che ci son certe terre lontane dove le caverne son zeppe di
diamanti, dove i fiumi portano oro e argento a chi ne vuole. Liberateci
dunque da queste sorde radici che ci tengono! fate di noi belle navi
veloci, e andremo insieme per il mare a veder quelle terre miracolose.

Non a caso i pini avevan parlato di diamanti, d'argento e d'oro.
Avevano appena finito di nominar queste cose, che quelli s'eran già
accinti all'opera.

Che gioia sentirsi ferir dall'ascia per tutti quei pini!

Si sentivan certi bassetti e storti gridare a più non posso: — Noi!
Noi! vedete? siam nati per far da costole alle vostre navi!

E certi alti e sottili dire: — E noi siam nati per il fasciame delle
fiancate!

Ma quando le carene furon ultimate e coperte e stavano lungo il
seno tutto odorante di resine, trattenute come fantastici segugi al
guinzaglio; allora i più belli, quelli che io amo come fratelli, quelli
che avevano aspettato, sicuri, in silenzio, levarono anch'essi la voce
dalle altissime teste scarmigliate e cantarono: — Eccovi all'ultima
fatica, uomini! Forza con l'ascia: gettateci in terra! Mozzateci questa
enorme chioma inutile, e piantateci là, nel mezzo dei nostri scafi,
che sian come le nostre radici! Non queste cocciute e vili che non
ci vollero seguire, ma sì quelle che sognammo per tanti anni, libere
radici! che venivan con noi su per le onde verdi, verso l'ignoto!...

E andarono così, finalmente, come avevan sognato, i miei cari fratelli,
tenendo tese le quadrate vele, al buon vento: uscirono del Nostro
mare, là nel mar Grande, e lo corsero tutto per sereni e per burrasche,
sentirono i freddi brividi dell'abisso, risuonarono come arpe sotto la
furia dei venti, videro le terre e i fiumi sognati, più belli ancora
che nei sogni, videro l'eterno penare degli uomini incapaci d'amarsi,
videro videro....

Ma andate per gl'intricati porti dei grandi mercati del mondo, e
vedrete che mentre gli uomini arcigni intenti a trafficare non guardano
in alto, gli alberi delle navi ormeggiate non dicon più nulla. Si son
fatti taciturni; ma scuotono con gran mestizia le loro teste.

Che ripensino alle loro vecchie radici?



LVIII.

LA REALTÀ


Ancora, nelle nostre montagne, in mezzo ai campi di grano veglia una
croce fatta con due legni legati.

Ma, nella notte qualcuno batte alle sbilenche vetratelle del contadino.
Paiono dita di regina cariche di brillanti. E di sirena par la voce che
dice: — Dormi in pace, buon villano, chè domani non avrai da mietere!
La buona fata io sono di cui ti narrarono quand'eri fanciullo che in
un'ora sola, di tre campi, trasse mille sacchi di fior di farina e
drizzò sette pagliai. Meno meco tant'opre per quante son le paglie del
tuo grano. Senti cantare le mie segatrici?... Ecco già le urlate de'
battitori!.. Han battuto.... Ora si sventola e si strameggia laggiù la
terra, mentr'io qua, su questo grano d'oro chiamo dal cielo le buone
stellucce mie sorelle a macinarlo! È morbida e bianca la farina, che
sembra nevicato!... Ho fatto. È tempo che ti desti!

E il contadino si desta. Un certo ventaccio fischia sì tra i tegoli
malfermi, ma il mareggiar delle spiche non s'ode più.

Che sia vero della fata?! Che quel biancore che si scorge appena là sia
farina!

Fa le scale come briaco, tira il paletto, spalanca la porta, si
stropiccia gli occhi, li rifissa su quel biancore, e grida: — La
tempesta! La tempesta! Non c'è più una spica dritta! non c'è più niente
per me nel mondo!

Ma no! contadino. Guarda meglio. Qualcosa è rimasto in piedi in mezzo
al campo.

Tu credi che solo le fate sian sogno. No anche il tuo grano è sogno;
anche il tuo pane è sogno. Solo quella è realtà vera.

Va. Inginocchiati. Sentirai che ti dirà: — Vivi e risemina.



Congedo.



LIX.

MECENATISMO ANTICO


Una mia bella antenata aveva ricevuto in dono da certo galante
cacciatore uno straordinario usignolo che cantava più di mille canzoni.
Tutta tremante di felicità, essa rinchiuse tosto l'usignolo in una
gabbietta d'argento, ben riguardato all'aria perchè non s'avesse
a infreddare, e lì dal mattino alla sera si mise a rimpinzarlo di
biscotti e a fargli mille moine perchè cantasse sempre rivolto a lei; e
soleva mostrarlo nei ricevimenti come cosa unica nell'universo.

E l'usignolo cantava sempre, più e meglio che poteva e con graziose
movenze si rivolgeva sempre alla sua bella padrona, per mostrar
palesemente che intendeva, cantando, di lodar lei sopra tutte le cose
belle del mondo. Ma un triste giorno, poichè vide a fianco della mia
bella progenitrice, una donna che gli parve assai più bella di lei,
senz'altro rivolse a questa ogni sua grazia e ogni sua canzone.

L'antenata sorrise, poichè aveva denti bellissimi.

Ma venuta la notte, e tutti usciti, e ogni lume spento, quando il
povero usignolo si preparava a ficcar la testolina sotto l'ala, due
bianche mani note, splendenti ancora di diamanti, si avvicinarono alla
gabbietta, l'aprirono, e mentre una l'afferrò rabbiosa e lo trasse
fuori, l'altra, con una spilla d'oro, gli bucò le pupille e l'accecò.

Quando una mia decrepita bisononna mi raccontò la prima volta questa
storiella di famiglia, io pensai subito: Ecco un bell'esempio di
Mecenatismo antico!

Non molto diversa fu la sorte dei grandi artisti dei tempi passati.



LX.

MECENATISMO MODERNO


Oggi, la sorte dei grandi artisti è ben differente e somiglia piuttosto
a quella di un usignolo che l'altro giorno morì di fame.

Era grande per tutta la terra, la gloria delle sue canzoni infinite,
e ne venivano di molto lontano uomini e bestie per sentirlo: ed egli
cantava con tutta l'anima, tra i rami verdi della sua gran quercia.

Ma, in mezzo ai trionfi quotidiani, sopravvenne inaspettato l'inverno.

La quercia si nudò: sotto la quercia non venne più nessuno: l'usignolo
cantava tristi canzoni, e un fuoruscito, che gli offrì qualche
bricciola di pane rubato, riconoscendolo, gli disse: — Sei pure un
gran mammalucco a cantar canzoni patetiche alla nebbia: va e picchia
alle finestre di tutti quei corbelloni che ti facevan ressa attorno
quest'estate. Volesse il cielo che io fossi nei piedi tuoi, e avresti a
vedere quello che saprei fare!

Ma il povero cantore, scotendo la testa malinconica rispose al vecchio
bandito: — li nostro destino è uguale: tu non puoi bussare alle case
degli uomini; io non voglio: e presto moriremo di fame tutti due.

E così fu.



Appendice.



NOTA


_Scrissi le tre favole che seguono per il Giornale d'Italia al bel
tempo, che pare ormai così lontano, della impresa libica._

_Lontano sì, quel tempo! E molto più grande la nostra Italia. Ma: sola
allora come sola oggi!_

_C'è chi avendo guadagnato milioni si compiace di mettere in cornice
nel suo salotto il primo foglio da cento guadagnato._

_Così potrebbe piacere a qualche buon italiano, in questa meridiana
ora di gloria, riudire questi tre chicchirichì ispiratimi dal roseo
albeggiare di quello stesso gran sole che oggi ci abbaglia e ci brucia
tutti._

                                                                1919.



DI UNA CERT'AQUILA MALE IMPAGLIATA


Una allegra scimmia che era stata al servizio di molti ciarlatani, un
bel giorno, stanca di pigliar busse, pensò di tornare a vivere nella
foresta dove era nata.

Colse un buon momento, scaraventò giù dal carro insonagliato l'ultimo
padrone, prese in mano redini e frusta, e via difilato dentro la
foresta squassata dal tramontano.

Se non che, un po' per l'abitudine acquistata d'aver paura di tutto,
un po' perchè veramente gli abitanti della foresta non erano più
quelli di un tempo, la povera scimmia fu molto ma molto preoccupata
di certi strani e feroci animali che si fecero, curiosamente, attorno
al suo carro tentennante. C'era per esempio un vecchio leone ben
pettinato, col monocolo, e con la punta del naso rossa; c'era un orso
bianco occupato a mangiarsi una dozzina di figliuoli e a grattarsi a
tratti la testa per il troppo daffare; c'era un dignitoso somarello
andaluso che prendeva a calci tutte le farfalle che passavano; c'era
un gran gallo pericolosissimo a toccarsi; c'era un panciuto e metodico
serpente munito di un piccolo corno puntuto e dorato nel mezzo della
testa durissima e di molte corone regie e granducali che portava
infilate alla coda a mo' di sonagli; c'era poi un vero e proprio
fenomeno vivente, una tacchina carnivora con due teste, e le due teste
non si guardavano mai come un marito e una moglie dopo una cena di
cipolle; tra le gambe di queste bestie s'intrufolavano, s'accucciavano,
giocarellavano, si rincorrevano, s'acciuffavano non so quante piccole
bestie libere e inutili.

La scimmia, che aveva molto bene imparato per lunga e dura esperienza
l'arte di divertire anche i più restii, prese a.... quattro mani il
coraggio della paura, scese dal carro tutta vestita da buffone di
corte, bilanciando sulla destra con disinvolta abilità lo stesso
bastoncino col quale il padrone soleva bastonarla, e incominciò a
cavar giù dal carro un monte di sudice cianfrusaglie maneggiandole con
ciarlatanesca venerazione.

Finito questo lavoro, tra la maraviglia di tutte le bestie, si fece
avanti e principiò a presentare il proprio vestito così:

— Illustri cavalieri e nobili dame, voi ammirate senza dubbio e con
ragione questo mio smagliante vestito: ora io vi dirò perchè questi
piccoli campanelli brillino tanto e suonino così armoniosi: essi
sono stati fabbricati nelle celeberrime fabbriche di Essen! (Il leone
brontolò, ma il serpente sorrise leccandosi rapidamente il corno con
la doppia lingua).... Questa stoffa di così bizzarri colori non si
stinge mai; sapete perchè? Perchè è vero tessuto inglese! (Il serpente
ingoiò veleno, ma il leone fece le fusa).... Queste scarpette così
eleganti sono di capriolo russo! (E l'orso si asciugò la bocca col
dorso della zampa e si mise a ballare).... e questa lama è autentica
lama di Spagna! (E l'asino si grattò la schiena in terra per la
contentezza).... e questa piuma che ho al cappello è stata acconciata
con quest'arte sopraffina nella bella Parigi, capitale del mondo!! (Il
gallo si rizzò tutto più che potè, rivoltando la coda spalancata alla
faccia del serpente).

Assicuratasi così la simpatia delle bestie più pericolose, la scimmia
prese un liuto e, accompagnandosi con arpeggi e sgambetti, cantò,
sollevando subito uno stonato coro di «oh!» ammirativi, poi un
altro coro ancora più strambo di babelici aggettivi, e alla fine un
entusiasmo fantastico, spasmodico, che invasò quegli strani animali,
i quali si strinsero attorno a lei leccandole le scarpe e gettando
tesori nel suo piattino. La scimmia, pur essendo persuasa di meritare
quell'ammirazione, si studiava con opportuna servilità di rendere meno
invidiabile la sua posizione. Ora raccoglieva la caramella caduta al
leone, ora cacciava un moscone dal corno del serpente, ora offriva
le sue reni alla tacchina perchè vi ci arrotasse i suoi becchi, ora
toglieva con molta grazia qualche rozza pagliuzza di tra le penne bruno
lucenti del gallo, ora aiutava l'orso a grattarsi la testa.

Finalmente posò il liuto, riprese la bacchetta e incominciò con
piacevolissima solennità la grande spiegazione di tutto il sudiciume di
stracci e di rottami che aveva esposto.

Mandòle, timpani, clarinetti, corone d'alloro, tutti i vestiti di
tutte le maschere resi più umoristici dagli strappi e anche da qualche
foro bruciacchiato sul petto, due tegole che avevano coperto il
Senato Romano, una reliquia portata al collo dal brigante Tiburzi,
un fazzoletto che aveva asciugato il sudore della Patti, la penna
d'oca con cui il grande poeta Dante Alighieri aveva scritto il
verso «Piangi che n'hai ben donde, Italia mia», un interessantissimo
quadro rappresentante la grande manifestazione umanitaria che corse
l'Italia al grido di «Viva Menelik!» nel 1896, il campanile di Pisa in
alabastro, la muffa della prigione di Beatrice Cenci, un pelo della
barba del famosissimo capo della terribile camorra napoletana (pelo
rimasto in mano ad una guardia venuta con lui a diverbio per questione
d'amore), uno dei molti fogli strappati da Pier Capponi fiorentino, la
coda della lupa che aveva allattato Romolo e Remo, e più di diecimila
altre curiosità purtroppo autentiche.

La scimmia, infaticabile, batteva sopra tutte queste meraviglie con
la sua bacchetta, man mano che le spiegava al pubblico intento; anzi,
solleticata dal successo, volle anche cavar fuori una certa aquila che
il padrone aveva chiuso a chiave in un armadio, e mostrandola dritta
sopra una gruccia come una civetta, e dandole una buona bacchettata
sulla groppa polverosa, gridò:

— Ecco, signori, la famosa aquila che mangiava a tavola col grande
imperatore Giulio Cesare, il padrone del mondo!!!

— Ooooh! — fecero in coro tutte le bestie estatiche.

— Ah! è lei! — esclamò melodrammaticamente il gallo: — Io la riconosco!
È stata mia amante: l'ho abbandonata, ed essa ne è morta di dolore!

— Mooolto interessante! — ruggì il leone guardandola attentamente col
suo monocolo, come se la volesse comprare.

— Aquila imperialis, storia antica! — definì il serpente chiudendo gli
occhi con molta gravità.

— Impagliata? — domandò con garbo il leone.

— Impagliata! Impagliata — Diavolo mai! — si affrettò ad assicurare
la scimmia dando un'altra bacchettata sulla schiena dell'aquila. —
Impagliata a maraviglia!

— Veramente straordinariamente interessante! — esclamò entusiasmato il
leone avvicinandosi e esaminandola meglio.

— Pauvre fille! — piagnucolò il gallo con aria di gran rubacori
commosso.

Tutti si fecero più avanti. Il somaro l'annusò, il serpente la misurò
bene bene, l'orso cercò di consolare il gallo tirandogli famigliarmente
il bargiglione, la tacchina canterellò un valzer in falsetto, mentre la
scimmia batteva ancora e strillava a più non posso.

A un tratto, tutti, compresa la scimmia rimasero di stucco.

L'aquila pian piano stirò una zampa, poi stirò quell'altra, poi stese
l'ali quant'eran larghe, poi si riaccomodò come prima.

— Siete un furfante! Ci avete ingannati! — ruggì il leone, e se
n'andò corrucciato; e tutte le altre bestie lo seguirono trovandosi
ora perfettamente d'accordo nel dire peste e corna della tanto lodata
scimmia.

Questa, pur non potendone più dal ridere per il caso inaspettato, cercò
di dire qualche parola di scusa:

— Signori! Miei cari signori! Non sarà stata impagliata bene; non è
colpa mia! Credano.... Io mi figuravo.... in buona fede.... che dopo
tanti secoli!...

Ma era fiato sprecato, perchè tutte le bestie se ne andavano prese
da santo sdegno, senza voltarsi indietro, salvo il gallo che, per
non mancare alla doverosa galanteria, andandosene si voltò a dire
all'aquila:

— Adieu, ma cherie! quand tu voudras revenir chez moi tu me trouveras
toujours prêt!

Così la scimmia è rimasta sola con la sua aquila. E l'aquila di Cesare
le insegna come si ridiventa uomini.



UNA BUONA DENTATA


Certi cacciatori di frodo trovarono un giorno sperduto e mal ridotto
assai, un povero maialetto roseo, proprio color dell'aurora, con sulla
groppa una mezzaluna bianca.

Furono tutti d'accordo e se lo portarono alla loro capanna per
ingrassarlo.

Il maialetto camminò di buona voglia, ma appena arrivati sentì subito
qualcuno domandare: Quando ce lo mangiamo? — e si impensierì. Chi aveva
fatto la domanda era uno che puzzava di sego lontano un miglio e si
vantava di poter trapassare la pancia di una mosca con la punta dei
suoi baffi.

— Adagio, adagio — brontolò una voce roca di sonno, che usciva insieme
al fumo di pipa, di sotto un enorme pelliccione — lo dirò io, quando
sarà tempo.

— Se uno deve dirlo, mi pare che questo debba essere io in persona
che ho avuto l'idea di portarlo qua! — sorse a dire il più grasso e
rubicondo di tutti, rompendo una bottiglia di birra vuota, contro lo
spigolo della tavola: bravata alla quale teneva moltissimo, sebbene
ormai non spaventasse più nessuno.

Uno secco secco, lungo lungo, che appena arrivato s'era disteso supino
e a gambe larghe, nel miglior posto, con le mani affondate nelle
immense tasche da cui facevano capolino a sinistra due o tre bibbie
in edizione economica, a destra tre o quattro bottiglie di «Wiscky» di
ottima marca, a questo punto girò le palle degli occhi verso la pancia
del compagno, avendo cura di non scomodare nessun'altra parte del suo
corpo; poi fece una specie di strano grugnito che lì per lì riempì di
speranze il maialetto, dopo di che lanciò uno sputo al soffitto con
arte impeccabile, e in fine disse molto categoricamente senza aprire i
denti: — Se vi piace l'ammazzeremo quando vorrò io.

Gli altri si guardarono in viso.

— Veramente.... — incominciò ad osservare il panciuto: ma si fermò.

— È una bella.... — gridò quello coi baffi insegati: ma si fermò anche
lui.

— Un po' prima o un po' dopo.... purchè si mangi! — tonò la voce che
usciva dal pelliccione — Qu'est qu'en dis tu, mon pauvre Jacques!»

Jacques era il più donnaiolo della combriccola, che da qualche tempo
non poteva più uscir per la caccia a causa di un certo male che non
lo lasciava camminare. Jacques, che da un pezzo guardava fisso il
maialetto con aria meditativa, alla domanda dell'amico, levando gli
occhi al cielo rispose: «Ce qu'en dis moi? Je dis.... quel dommàge
qu'il ne soit pas une femelle!»

Fu una risata generale. Rise anche il cane.... un vecchio cane che
aveva il grave difetto di esser fedele a tutti senza che nessuno fosse
fedele a lui.

Il maialetto capì d'averla scampata brutta: cercò d'addomesticarsi
il più possibile, imparò a mangiare a tavola, imparò a parlare la
lingua di Jacques, a bere la birra per far piacere al panciuto, a
ubbriacarsi di Wiscky per divertire quell'anima lunga, a insegarsi
le setole del grugno in omaggio a quello dai baffi come aguglioli, a
fare il progressista per deliziarli tutti. E tutti facevano a gara
per ingozzarlo d'ogni ben di Dio, e così il maialetto ingrassava a
vista d'occhio, e diventava impertinente, in ispecie con quel gigante
dormiglione e col vecchio cane.

Ma più ingrassava, e più cresceva in quei zotici cacciatori la voglia
di mangiarselo. E il maiale lo capiva: ma siccome vedeva che in quella
brigantesca compagnia ogni qualvolta uno voleva, l'altro subito
disvoleva perchè il compagno non l'avesse vinta, così sperava che
quella gente non sarebbe mai venuta a capo d'ammazzarlo, e pensava
soltanto a mangiare più che poteva alle loro spalle.

Il giuoco durava alla meglio; ma un giorno finalmente il maiale si
persuase che, anche a costo d'ammazzarsi dopo tra loro, quei banditi
prima o poi lo avrebbero scannato, tanta era la bramosia suscitata
dalle sue carni. Allora ebbe un'idea geniale che nessun altro porco
aveva mai avuto prima di allora. Disse a quella losca combriccola: — Se
volete mangiare un po' della mia carne, accomodatevi pure: non importa
ammazzarmi per questo! Che mi faccio per esempio delle mie gambe di
dietro? tanto io non ho nessuna intenzione di camminare. E delle mie
gambe davanti? niente affatto! perchè non ho nè bisogno nè voglia di
lavorare. E delle orecchie? e degli occhi? e del cervello?... Sono
tutta roba superflua per me! Serbatemi la bocca e la pancia, questo mi
basta: e datemi da mangiar bene.

Figuratevi se ebbe bisogno di ripeterlo due volte!

Gli zampetti le orecchie e la frittura toccarono all'impellicciato e
a quello dai baffi, e se ne dovettero contentare perchè l'anima lunga
e Jacques diventati amici per l'occasione dimostrarono che alla loro
salute avrebbe moltissimo giovato un prosciutto per ciascuno.

Quanto al panciuto trovò comodo di rimanere a bocca asciutta perchè
era ghiotto delle cotiche. Infatti, quando tutti ebbero preso la loro
parte, s'avvicinò al porco, il quale aveva preso la cosa con grande
filosofia, e gli disse: — E della pelle che te ne fai? Se mi dai la
preferenza io te la leverò a fettine con molto garbo, con tanto garbo
che ti verrà da ridere come se ti facessi il solletico. — E il porco
acconsentì.

Tutti erano contentoni.

Soltanto il cane, pure scodinzolando a questo e a quello, in fondo in
fondo non era troppo soddisfatto di quel niente che gli era toccato.

Stava in un angolo seduto e inclinando il capo corrugato e pensieroso
ora su un lato ora sull'altro, contemplava evidentemente un punto solo,
una cosa che sembrava proprio fosse rimasta lì ciondoloni per lui: il
codino del maiale.

— A che serve ormai quel codino — pensava il cane — ... e per me
sarebbe un bocconcello tanto conveniente!

Le pulci che popolavano il suo pelame gli sussurravano sotto le grandi
orecchie parole di prudenza e il cane stava in forse. Ma alla fine,
quando s'avvide che con la scusa dei prosciutti o delle cotiche, tra
poco del codino sarebbe rimasto l'osso solo e il ciuffo, si fece cuore.
Un salto, una buona dentata e si portò alla cuccia il codino sano sano.

Apriti cielo! Non ebbe appena riconosciuto il suo codino in bocca
al cane, che il maiale incominciò a ruzzolarsi a strillare a fare il
diavolo a quattro: Ahi! Ahi! Ahi! — gridava — non posso vivere senza
codino, io muoio, ridatemelo subito! Ahi! Ahi! rivoglio il mio codino!

E grida ancora, e si ruzzola e strilla e fa il diavolo a quattro: e
per recitar meglio la commedia non mangia più e dimagra, e questo fa
un gran dispiacere a quei ghiottoni, i quali pensano e ripensano e si
stillano il cervello per cercare una parola che lo possa consolare.

Oggi tanto sembra che l'abbian trovata, sembra che la voglian dire....
ma non fanno se non uno strano mugolìo, perchè chi di prosciutto chi di
zampetti chi di frittura chi di cotiche, tutti hanno la bocca piena.



LA REGINA DEL QUERCETO


Vedi laggiù quel breve querceto nero? Da secoli e secoli gli passano
così sopra le nubi bianche, ridendo al sole.

So la storia di una di quelle querce. Mentre il suo vecchio tronco
aveva combattuto contro mille uragani, sfrondato talora, mozzato de'
suoi rami, ma pur saldo sempre; le radici fedeli, pazienti, sobrie,
infaticabili, avevano scelto i buoni succhi della terra per ispingerli
su alto per entro le fibre secche fin su nei rami, fino all'ultime
foglie, fino alle bacche cerule, fino alle tenere gemme.

Le cose camminavano così da molti secoli, quando tutto il querceto fu
invaso da una curiosissima specie di bruchi rossi, pelosi, tutta bocca.

Appena arrivati, questi bruchi s'imbucarono sotto terra e
incominciarono a gridare alle radici: — Sapete voi perchè state
lavorando giorno e notte senza riposo? Sapete perchè vi si obbliga
a sprofondarvi sin nelle viscere della terra, nè mai vi si concede
di vedere la luce del sole? Sapete voi chi gode delle vostre oscure
affannose fatiche? Non lo sapete? Ebbene ve lo diciamo noi: i porci!
Sicuro! voi lavorate per nutrire quest'albero perchè si spanda e
fruttifichi e dei frutti dei vostri sudori i porci s'ingrassano!

A questa straordinaria rivelazione rimasero tutte rintontite dalla
maraviglia, le buone radici.

I bruchi rossi ne approfittarono subito per mettersi tranquillamente a
mangiare alle loro barbe. Qualche radice volle sincerarsi: fece tanta
forza di reni e tanto s'ingobbì che alla fine un bel giorno sbucò su
tra l'erbe impaurite e vide.

Se ce n'eran di porci! e quanti! e come affondavano il grifo
grugnendo!... e com'eran grassi. I bruchi rossi avevan detto la verità.

La nuova corse subito tra le radici della nostra bella querce, e ci fu
subito gran subbuglio.

Allora i bruchi interruppero un momento il loro pasto per parlare con
la consueta facondia. E dissero: — Noi vi insegneremo che cosa avete da
fare. Protendete le vostre rudi e oneste braccia sotto l'umida terra!
Tutt'intorno voi troverete delle braccia sorelle che v'aspettano.
Unitevi in patto con tutte le altre radici del querceto. Nè vi sembrino
straniere se esse parlano una lingua che voi non capite: lo stesso
servaggio, la stessa umiliante fatica, la stessa volontà di franchigia
vi affratellano. Unite, voi sarete forti, invincibili! Se voi vorrete,
il querceto intero non farà più una ghianda e i porci dovranno morir di
fame o sloggiare.

Il trionfo oratorio fu enorme: le povere radici della nostra quercia si
misero senz'altro per far quello che i bruchi avevan detto.

La felicità dei bruchi si potè misurare dal loro appetito diventato
spaventevole. Dei buoni succhi della terra non salì più goccia per
il tronco: le radici si ingrandivano si distendevano, intricandosi e
districandosi in un tumultuoso groviglio serpentino, mentre i rami
intristivano si nudavano e lasciavano cadere i loro frutti ancora
acerbi, tra i lamenti di qualche vecchio usignolo fedele.

Le radici avevano ben altro da fare che veder questo scempio e udir
questi pianti: incitate a parole e a morsi da quegli strani bruchi,
brancolavano come ciechi briachi cercando invano sottoterra le promesse
mani sorelle da stringere in un macabro patto di distruzione.

Ma ecco le prime bufere di settembre. Odor di battaglie nell'aria!

Quello che i pianti de' rosignoli non avevan potuto fare, fecero bensì
i primi sinistri schianti de' rami seccati.

Le brancolanti disperse radici ebbero un brivido interminabile. Si
ricordarono a un tratto di certe notti lontane passate tutte in un
unico disperato sforzo di battaglia, aggrappate alla terra con mille
mani, le membra tese dai disperati contorcimenti del tronco, tese fin
quasi a lacerarsi.

Bastò: perchè tutte si dimenticassero a un tratto dei porci e dei
bruchi, e s'accingessero, gonfie di furore, alla nuova pugna.

Le solite radici curiose s'affacciarono ancora una volta tra l'erbe
per vedere, ma poco mancò non rimanessero secche dalla maraviglia e
dal dispetto; mentre la povera quercia loro era ridotta da far pietà,
l'altre nel frattempo eran cresciute in alto e in largo e facevano al
vento un rumore minaccioso squassando i loro rami stracarichi di foglie
e di frutti, superbe del loro rigoglio e della loro cresciuta potenza.

— Per dio! Siamo state giocate! — dissero le buone radici, quando
seppero di questo fatto. — Siamo state le sole di tutto il querceto a
prendere sul serio le chiacchiere di quegli arrabbiati vermi!

I bruchi, questa volta, non credettero opportuno di parlare:
seguitarono bensì a mangiare alla barba delle radici, ma senza nemmeno
tirare il fiato.

In poco tempo la povera quercia ha dissetato le sue arse membra del
buon nettare della concordia che le radici le han prodigato a gara, e
rivive, e rigemma, e rinverdisce, e sotto la bufera è salda come un
tempo. Le superbe vicine che avevano sperato di chiuderle presto il
sole con le loro fredde ombre, impallidiscono d'invidia mentre ella
si leva gagliarda e s'infronda e si carica di frutti e si riempie di
canti, che sembra un miracolo!

Non crediate, buone radici, sui vostri frutti maturi si precipiteranno
ancora gioiose schiere di porci. Che vi importa? Dopo, tutto fanno buon
concio! Ma voi dovete lavorare al canto che vi vien dall'alto, per
i nidi degli usignoli, per le soste delle aquile, per le merigge dei
placidi armenti, per il sole, per il gran Sole che benedice le vostre
fatiche.

E tu paziente compagno di cammino che m'ascolti, non maledire a quegli
irrequieti rossi bruchi affamati: le nostre radici sono ingrandite e
fortificate per loro. E di grandi e forti radici abbisogna la querce
che deve crescere e maravigliare il mondo!

Oh! potessimo noi risalire questo poggio insieme tra cent'anni! Certo
allora la riconosceremmo di lontano tra tutte, la più alta, la più
grande, la più bella, la Regina del querceto, sotto il riso bianco
delle nubi!



INDICE


        I. Per il lettore malevolo                     Pag. 7

  LE TRE VIRTÙ TEOLOGALI

       II. Fede                                            11
      III. Speranza                                        12
       IV. Carità                                          13

  LE QUATTRO VIRTÙ CARDINALI

        V. Prudenza                                        17
       VI. Giustizia                                       18
      VII. Temperanza                                      19
     VIII. Fortezza                                        21

  I SETTE PECCATI MORTALI

       IX. Superbia                                        25
        X. Avarizia                                        26
       XI. Lussuria                                        28
      XII. Invidia                                         30
     XIII. Gola                                            32
      XIV. Ira                                             34
       XV. Accidia                                         36

  LIBERTÀ — EGUAGLIANZA — FRATELLANZA

      XVI. Libertà                                         39
     XVII. Eguaglianza                                     40
    XVIII. Fratellanza                                     41

  I SINONIMI

      XIX. Vizio e virtù                                   45
       XX. Diritto e Dovere                                46
      XXI. Verità e Bugia                                  48
     XXII. Sapienza e Ignoranza                            49
    XXIII. Ragione e Torto                                 51
     XXIV. Coraggio e Paura                                52

  RINOMATE VIRTÙ — BENI DESIDERATI
  CERTEZZE INCERTE

      XXV. La Ricchezza                                    55
     XXVI. Il Progresso                                    57
    XXVII. La Perseveranza                                 59
   XXVIII. L'Emulazione                                    61
     XXIX. La Modestia                                     62
      XXX. La Pazienza                                     63
     XXXI. La Grandezza                                    65
    XXXII. L'Umiltà                                        66
   XXXIII. La Felicità                                     68
    XXXIV. La Fedeltà                                      70
     XXXV. La Tranquillità                                 71
    XXXVI. L'Altruismo                                     72
   XXXVII. La Munificenza                                  74
  XXXVIII. La Civiltà                                      75
    XXXIX. La Furberia                                     76
       XL. Il Quietismo                                    78
      XLI. L'Anarchia                                      81
     XLII. Il Rossore                                      83
    XLIII. La Considerazione                               85
     XLIV. La Cavalleria                                   87
      XLV. Il Potere                                       88
     XLVI. La Gratitudine                                  90
    XLVII. L'Oratoria                                      91
   XLVIII. La Solidarietà                                  93
     XLIX. La Compassione                                  95
        L. L'Esperienza                                    96
       LI. Il Premio                                       98
      LII. Le Illusioni                                    99
     LIII. Le Corone                                      100
      LIV. La Vita                                        102
       LV. L'Amore                                        104
      LVI. La Gloria                                      108
     LVII. Il Sogno                                       109
    LVIII. La Realtà                                      111

  CONGEDO

      LIX. Mecenatismo antico                             115
       LX. Mecenatismo moderno                            117

  APPENDICE

  Nota                                                    121
  Di una cert'aquila male impagliata                      122
  Una buona dentata                                       128
  La Regina del Querceto                                  133



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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