Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: L'eresia nel Medio Evo
Author: Tocco, Felice
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'eresia nel Medio Evo" ***


                                L'ERESIA
                             NEL MEDIO EVO


                                 STUDI

                                   DI
                              FELICE TOCCO



                               IN FIRENZE
                         G. C. SANSONI, EDITORE
                                  1884



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                 Firenze — Tip. G. Carnesecchi e figli.



ALLA

CARA E VENERATA MEMORIA

DI

MIO PADRE



AVVERTENZA


Messomi a studiare i rapporti tra la filosofia scolastica e la
contemporanea eresia, se non ho trovato quello che a prima giunta
supponevo, mi venne fatto in compenso di formarmi un'opinione ben netta
sulla genesi e sul corso delle molteplici sètte eretiche. Il risultato
di questi studii pubblico nel presente libro, che per conseguenza non
è, nè vuol essere una storia degli eretici, e molto meno un trattato
dommatico sull'eresia.

L'ho intitolato _Studi sull'eresia del Medio Evo_, prendendo
quest'ultima parola nel senso più ristretto del periodo, in cui
domina la filosofia scolastica. L'età di transizione tra la coltura
antica e la nuova, in cui fiorisce la Patristica, è affatto estranea
al mio compito. Avrei dovuto occuparmi delle sètte contemporanee al
moto francescano, che vanno sotto il nome di Flagellanti, Apostolici,
Beghini e Guglielmiti, e molti materiali avevo raccolti intorno a
codesto argomento. Ma la ristrettezza dello spazio m'impedisce di
trattarlo anche superficialmente, e mi riserbo di farne uno studio a
parte, se i saggi, che ora pubblico, saranno benevolmente accolti,
del che dubito forte. La mancanza di spazio m'impedisce altresì
di pubblicare nella loro integrità alcuni testi inediti, che si
riferiscono all'abate Gioacchino, all'Evangelo eterno, ed al moto
francescano. Ne ho solo riportati quei frammenti, che più s'affacevano
al mio scopo. Ho forse abbondato nelle note, ma non me ne pento, chè
nelle ricerche storiche la mancanza assoluta o la citazione manchevole
delle fonti parmi un vero danno. Del resto se al lettore piace di
saltare le note, e credermi in parola, io gli sarò grato di tanta
fiducia.

  Firenze, marzo 1884.



INTRODUZIONE


Il Medio Evo, che a torto da amici ed avversarii fu detto l'era della
concordia e della pace, ebbe a soffrire non meno dell'età nostra
profondi e dolorosi travagli. Codesta unità delle menti e degli animi,
produttrice secondo gli uni di opere grandiose, segno secondo gli altri
di fiacchezza e torpore, fu sempre e dovunque vagheggiata, giammai
conseguita. Nè ci verrà mai fatto di trovarla nei tre periodi, in cui
vanno divisi i secoli che corrono da Carlo Magno a Carlo di Boemia.


I

Il primo periodo, che diremo di preparazione, è il più lungo di tutti,
protendendosi dal secolo nono sino alla metà del decimosecondo. Vi
primeggiano in filosofia le dispute faticose intorno agli Universali,
nate da una frase dell'Isagoge Porfiriana, la quale racchiude in
germe un problema sempre risoluto e sempre da risolvere. Quel che noi
diciamo i generi e le specie, sono forse entità reali, anzi solo la
vera realtà, o non piuttosto artifizii della mente per non smarrirsi
nel laberinto della natura? Alla prima sentenza piegavano i Realisti,
i Nominalisti alla seconda; ed il loro dissidio, frutto di una profonda
antinomia della ragione, durava ostinato per secoli, e quando parea che
fosse per comporsi, rinasceva sotto altra forma più vivace di prima.
Secondo l'intuizione realistica gli individui sono effimere esistenze,
le quali, a così dire, nell'istessa ora che nascono, scompaiono. Che
siamo noi uomini, presi individualmente? _Pulvis et umbra._ Consacrati
alla morte, un piccolo accidente distrugge in un punto quanti fra noi
aveano redata maggior consistenza e vigore. La sola che sopravvive a
tante ruine, e sfidando le ingiurie del tempo, per volger di secoli
non cresce nè scema, è quel che v'ha di universale in noi, l'umanità.
E lo stesso che diciamo degli uomini, possiamo ripetere degli esseri
tutti. Chè anzi a quel modo che gl'individui umani sono frammenti
dell'umanità, questa è una piccola parte di un essere più sterminato di
lei, l'animale. E l'animale a sua volta è frazione del vivente, ed il
vivente è anch'esso forma fugace di un Essere immenso che è tutte cose,
ma nessuna in particolare. Questo solo è ciò che permane immutato,
è l'ordito su cui s'intesse la variopinta trama della natura, è
l'Oceano che serba costante il volume delle acque, benchè sull'immensa
superficie s'avvicendino i flutti rumorosi. Questi arditi concetti sono
adombrati nel _De divisione naturae_ di Giovanni Scoto Erigena.[1] Così
nella prima metà del nono secolo quella Filosofia, che si dice serva
del domma, prende le mosse da un libro, il quale parecchi secoli dopo
(nel 1225) da Papa Onorio III verrà condannato alle fiamme.[2]

Nè men libera ed ardita è la scuola opposta dei Nominalisti. Il
concetto dal quale partivano Roscellino e i suoi seguaci, affatto
discorde da quello dei Realisti, è il seguente: la sostanza prima è
l'Individuo; gli universali sono astrazioni che la nostra mente forma
togliendo ed isolando ciò che han di comune gl'individui, e lungi
dall'essere la vera realtà, non hanno maggior consistenza del suono che
li esprime.[3] Se il Realismo menava dritto al concetto di sostanza
unica, di cui gl'individui son gli accidenti, il nominalismo in
quella vece di conseguenza in conseguenza riescir doveva alla dottrina
dell'originalità degli individui, o in altre parole all'atomismo.[4]
Tali erano i due indirizzi della speculazione di quel tempo, i quali,
mutati nomi e fattezze, si sono conservati sino ai nostri giorni. Ma
e l'uno e l'altro sistema eran guardati con sospetto dagli ortodossi,
cui non isfuggì che sotto l'apparenza dell'accordo si nascondesse un
grave dissidio tra la Fede e la Filosofia. Ben fu tentata una via di
mezzo tra i due opposti estremi, la quale sembrava s'accordasse meglio
colla tradizione; ma il tentativo non ostante la pietà e l'ingegno di
Anselmo di Aosta fallì; nè a torto gli scolastici posteriori ebbero a
temere che l'idealismo dell'arcivescovo di Canterbury non fosse meno
avventuroso degli altri sistemi, nè sapesse tenersi egualmente lontano
dal misticismo degli uni e dal razionalismo degli altri.[5] E questi
erano infatti gli scogli, nei quali rompeva la speculazione di quel
tempo, in cui i filosofi, non usi ancora a infingersi, come fu stile
dei secoli posteriori, traevano dai loro principii, saldi argomenti a
trasformare i dommi e le dottrine tradizionali.

Così i Realisti, al cui misticismo nessun mistero ripugnava, tra
le nebbie della credenza popolare s'argomentavano di scoprire le
proprie teorie. E restaurando il vecchio metodo dell'interpetrazione
allegorica, già tanto usato ed abusato dai gnostici, nel domma della
trinità videro simboleggiato un ciclo cosmogonico, e nella redenzione
l'eterna durata dell'effetto garentita dal perenne intervento della
causa.[6] Ed anche i nominalisti alla lor volta, benchè non spiccassero
voli così alti e ben lontani si tenessero dal nebuloso speculare degli
avversarî, non cessavano per tanto dallo studiare i dommi religiosi, nè
meno uso facevano dell'interpetrazione allegorica. Le loro spiegazioni,
non elaborate certo nel grande stile dei realisti, eran più piane e
sarei per dire volgari, ma meglio confacenti secondo loro a far luce
piena dove più s'addensava l'ombra del mistero.

La setta nominalistica o concettualistica[7] che dir si voglia fu
per tal guisa l'iniziatrice del razionalismo, ed il suo più illustre
rappresentante, l'infelice Abelardo, ragionatore instancabile e
strenuo propugnatore dei diritti del libero pensiero, cadde vittima
della sua dialettica. _Odiosum me mundo reddidit Logica._[8] Per ben
due volte ei fu tradotto davanti a Sinodi provinciali sotto l'accusa
di eresia. La prima nel 1121 in quella stessa città di Soissons, dove
pochi anni innanzi era stato condannato Roscellino per sospetto di
triteismo;[9] la seconda nel 1140 a Sens, dove egli sperava battere
colle armi delle sue implacabili argomentazioni l'accusatore suo S.
Bernardo. Ma nè l'una volta nè l'altra gli arrise la fortuna; chè a
Soissons fu condannato a bruciare colle sue proprie mani _l'Introductio
ad Theologiam_, e come se ciò non bastasse fu chiuso in espiazione dei
suoi falli nel convento di S. Medard. A Sens poi gli sarebbe capitato
anche peggio, se l'accorto filosofo, presentito l'imperversar della
bufera, non se ne fosse appellato al Pontefice. E ventura per lui che,
mancategli le forze lungo il viaggio alla volta di Roma, riparasse
nell'abbazia di Cluny, ove fu accolto affettuosamente da Pietro il
venerabile, miracolo ed esempio di vera carità cristiana. Se fosse
proceduto oltre, non avrebbe trovata eguale accoglienza nel Papa
Innocenzo II, il quale non poteva al certo darla vinta al filosofo
palatino contro quello stesso S. Bernardo, alla cui opera egli doveva
in parte il trionfo riportato sul rivale Anacleto.[10] E d'altro lato
come mai quel Pontefice, che l'anno innanzi avea imposto silenzio
all'audace Arnaldo da Brescia, avrebbe ora dubitato di condannare il
maestro e la guida dell'abborrito novatore? Non eran forse questi
due uomini stretti siffattamente in un pensiero, che agli occhi
del chiaravallese l'uno paresse il gigante Golia, e l'altro il fido
scudiero? E per fermo lo stesso ardore di libertà scaldava i loro
petti. Entrambi volevano la riforma della Chiesa, l'uno spogliandola
dei mal tolti beni temporali, cagion prima di scandali e corruzioni;
l'altro sciogliendola da quelle pastoie dommatiche che impedivano la
libera espansione del sentimento religioso.

Ed entrambi sono specchio fedele di quell'età turbinosa, in cui
infranti nella lotta delle riforme e delle investiture i vincoli
dell'antica disciplina, il prestigio della tradizione vien meno, e Papi
combattono contro Papi, come nello scisma di Cadalò, di Guiberto, di
Anacleto; vescovi contro Papi, Imperatori contro questi e quelli; nulla
di saldo e durevole; ed oggi si proclama campione della Chiesa chi
domani vien condannato da eretico e fellone. Si comprende di leggieri
come in queste lotte incessanti crescesse e si dilatasse lo spirito
critico, e quale potere esercitasse sulle giovani menti uno ingegno
così acuto come quello di Abelardo, che mise lo scompiglio nella
teologia autoritaria colle famose antinomie del _sic et non_. La sua
parola affascinava, la sua dialettica stringeva, e quando si ritrasse
nel romitaggio del Paracleto, i discepoli accorrevano a torme alle sue
lezioni, contenti di vivere in miserabili capanne, non curanti dello
scarso nutrimento, che il deserto luogo concedeva. Confortato da queste
prove di affetto, nè fiaccato dalle persecuzioni patite, l'intrepido
maestro continuava a battere in breccia _illum fidei fervorem, qui
ea quae dicantur antequam intelligat, credit, et prius his assentii
ac recipit quam quae ipsa sint videat, et an recipienda sint_.[11]
Era naturale che questa critica assottigliasse fuor di misura i dommi
tradizionali, e riuscisse alle interpetrazioni razionalistiche di un
pallido deismo. Le tre persone, ad esempio, sono tre nomi con cui è
descritta diligentemente la perfezione del sommo Bene;[12] la creazione
non è libera, ma necessaria;[13] il peccato originale non è colpa, ma
trasmissione ereditaria della pena che al primo fallo successe;[14]
il Redentore è l'esempio dell'uomo perfetto che adempie al dover
suo non per timore ma per amore;[15] il cristianesimo in una parola
non è altro se non un ritorno alla legge naturale, la quale è certo
che fu seguita dai filosofi, mentre la legge mosaica si appoggia su
precetti più simbolici che morali (_magis figuralibus quam naturalibus
nitatur mandatis_) ed abbonda più dell'esterna che dell'interiore
giustizia.[16] S. Bernardo, ben consapevole della gravità di questi
arditi commentarii esclama tristamente: _Omnia usurpat sibi humanum
ingenium, fidei nil reservans. Tentat altiora se, fortiora scrutatur,
irruit in divina, sancta temerat magis quam reserat, clausa et signata
non aperit sed diripit_ (Ep. 188).

Se non che era vano sperare che colla punizione del filosofo si potesse
soffocare la libertà del pensiero, la quale in quella vece si levava
più fiera e minacciosa dalle violenze patite. Colla morte di Abelardo
non perì l'indirizzo razionalistico, e Bernardo Silvestre trova nel
platonismo inteso a modo suo la soluzione dei problemi religiosi;[17]
Guglielmo di Conches attacca la superstizione come la peggior nemica
del progresso intellettuale;[18] persino Gilberto Porretano;[19] dal
1142 vescovo di Poitiers, costruisce una dottrina della trinità così
poco ortodossa, che vien costretto a ricredersene innanzi al concilio
di Rheims del 1148.

Contro il mal dissimulato razionalismo di questi filosofi seguita
sempre a combattere S. Bernardo, e non meno fieramente di lui i
Vittorini Ugo Riccardo e Gualtiero. Quest'ultimo principalmente non
perdona nè a filosofi, nè a teologi, ma nello stesso biasimo coinvolge
con Abelardo e col Porretano, i due dottori Pietro Lombardo detto il
Maestro delle sentenze, ed il discepolo Pietro di Poitiers,[20] che
raccolsero in trattati scolastici ed in forma dialettica esposero la
somma del sapere teologico.[21] Se non che l'opposizione di codesti
mistici è una ben debole diga contro l'irrompente fiumana. Realisti e
nominalisti seguitano a battagliare, e tra gli opposti estremi nascono
tanti sistemi intermedii, che a noverarli tutti si stanca Guglielmo
di Salisbury. E sovra tutti mira ad innalzarsi quest'uomo singolare,
questo discepolo di Abelardo, che pare appartenga ad altra epoca, ed
assai prima del Petrarca professa come un culto per l'antichità[22]
classica, ed in mezzo al cozzo di tanti dommatismi vorrebbe rinnovare
l'antica Accademia. Così al primo periodo della scolastica non manca
neanco la nota critica. E non più due indirizzi soli si contrastano il
dominio delle menti, ma quattro, il realistico, il nominalistico, il
mistico, lo scettico.


II

Prima che s'aprisse il secondo periodo della coltura medievale, la
guerra tra l'Impero e la Chiesa s'era rinnovata con maggiore violenza,
e tre antipapi l'un dopo l'altro contesero per venti anni la tiara ad
Alessandro III (1158-1178). E durante queste lotte si rinvigorirono
le sette ereticali dei Catari, Valdesi ed Arnaldisti, e accanto
a loro si fecero strada gli avversarii di ogni credenza positiva,
gl'Indifferenti, che riconoscevano a lor capo il grande filosofo
arabo Averroè. Questi sosteneva che tutte le religioni hanno egual
valore innanzi agli occhi della ragione. Son tutte vere perchè tutte
hanno tal forza morale da infrenare il ribelle volere delle masse;
tutte false, perchè la schietta verità filosofica v'è ottenebrata
da imagini ed allegorie. Certo l'importanza e la perfezione relativa
delle religioni è diversa secondo le varie condizioni dei tempi, ma
ciò mostra che il criterio di valutazione delle religioni vuole essere
storico, non speculativo.[23] Questo nuovo nemico era al certo molto
più temibile dei precedenti, imperocchè tra i filosofi ed eruditi arabi
si conservava la più ricca tradizione della coltura ellenica; nè solo
la maggior parte delle opere aristoteliche conoscevano, ma benanco i
più importanti interpetri, Alessandro di Afrodisia, Temistio, Porfirio,
Ammonio. Onde Avicenna nei primordii del secolo undecimo ed Averroè
nel duodecimo scrissero i più estesi commenti allo Stagirita. I quali
commenti voltati ben per tempo in ebraico, e dall'ebraico in latino
furono accolti con trasporto dai filosofi d'occidente, che in tanta
venerazione tenevano Aristotele, per quanto scarsa conoscenza avessero
delle sue opere. Se non che lo studio di Aristotele attraverso questi
infidi espositori non era senza pericolo; perchè l'interpetrazione più
che al testo di Aristotele si confaceva alle chiose neoplatoniche, onde
il teismo aristotelico tramutavasi per tal via in un panteismo mistico,
quale è svolto, ad esempio, nel _Fons vitae_ dell'Avicebronio.[25] Gli
effetti di questi agenti dissolutori si vedono chiari in due filosofi
che vissero tra la fine del secolo XII ed il principio del XIII,
Amorico di Bena e Davide di Dinan, condannati entrambi come eretici in
religione e panteisti in filosofia.[26]

Ma la Chiesa oramai era uscita più vigorosa dalla lotta sostenuta con
Federico. Alessandro III, che seppe trovare un efficace aiuto nella
forza giovane e rigogliosa dei Comuni, avea disfatto il suo potente
rivale così che neanche il matrimonio di Enrico VI con Costanza di
Sicilia valse a restaurare le sorti dell'Impero. Chè anzi nuovi
danni si maturavano alla causa imperiale, quando morto in fresca
età l'ardimentoso Enrico, del fanciullo erede assumeva la tutela una
donna debole e bigotta, la quale non seppe trovar migliore protezione
all'infuori del Papato, al cui soglio veniva in quel torno levato
uno dei maggiori uomini del tempo, Innocenzo III. Questi procede con
insolito vigore contro gli avversarii della Chiesa. In danno degli
infelici Albigesi bandisce nel 1209 una crociata, che dopo lunghi anni
di guerre e calamità distrugge l'eresia, ma spegne con essa il fiore
della coltura provenzale. Nello stesso anno un sino do provinciale,
tenuto a Parigi, decreta che venga tolto alla pace del sepolcro, e
gettato in terra non benedetta il corpo di Amorico, morto due anni
innanzi; che sieno degradati e condannati a carcere perpetuo parecchi
ecclesiastici, convinti di eresia; che vengano consegnati al vescovo
di Parigi i quaderni del maestro Davide di Dinan; infine che sia
proscritta da Parigi la lettura delle opere di Aristotile. _Nec libri
Aristotelis de naturali philosophia, nec commenta legantur Parisiis
pubblice vel secrete. Et hoc poena excommunicationis inhibemus._[27]

Insofferente di opposizioni Innocenze taglia quei nodi che non può
sciogliere, e della supremazia dell'autorità sua su tutte le podestà
della terra ha tale coscienza, da costringere a ribellarglisi la sua
stessa creatura, l'Imperatore Ottone IV. Nè per ostacoli che incontri,
vacilla quell'animo gagliardo; ma dalle nuove opposizioni attinge
maggior forza; onde raunato nel 1215 un solenne concilio nel Laterano,
vi scomunica l'Imperatore al quale oppone il suo pupillo Federico;
spoglia dei suoi legittimi possessi il Conte di Tolosa, investendone
Simone di Monforte, ricondanna solennemente l'empio Amorico e tutti gli
altri eterodossi in qualunque modo si chiamino,[28] non dubita infine
di tenere per decaduti dal trono quei principi che non isvelgano col
ferro e col fuoco l'annoso tronco delle eresie.[29] Ed istrumenti di
tali implacabili persecuzioni doveano essere quegli ordini religiosi
dei minoriti, che appunto in quel torno nascevano coll'obbligo di
non restarsene isolati e neghittosi nel silenzio del cenobio, bensì
di vivere in mezzo al popolo, accattare da lui giorno per giorno la
sussistenza, dividerne le gioie ed i dolori, spiarne i più segreti
pensieri, onde non isfuggisse al loro acuto sguardo il più lieve
indizio di opinioni e tendenze ereticali. Nè tutto questo bastava. Le
misure preventive e repressive, per quanto accorte e vigorose, non
potevano eliminare i più profondi bisogni della ragione. Il _credo
ut intelligam_ di S. Anselmo restava sempre come insegna delle menti
superiori. Era dunque necessario che le menti più elevate della Chiesa
si mettessero a scoprire la via di una conciliazione tra la ragione
e l'autorità, e che si ristudiasse da capo il problema filosofico per
metterlo d'accordo col religioso. E come il grande filosofo era tuttora
indiscutibilmente Aristotele, bisognava esaminare se il commento e
l'interpetrazione araba fosse proprio quella che meglio rispondesse al
pensiero dell'autore. Questo è l'intendimento dei maggiori filosofi del
SECONDO PERIODO della scolastica, Vincenzo di Beauvais,[30] Alessandro
di Halès, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino, i più grandi raccoglitori
del sapere contemporaneo che condensavano nelle lor enciclopedie e
nelle lor somme, libri chiusi, cui non occorreva aggiungere o toglier
verbo.[31] Ma quale fu il risultato di tanti sforzi generosi? Valga
per tutti S. Tommaso che nell'inferno dantesco dipinto nel camposanto
pisano[32] è rappresentato come il vincitore dei tre nemici della
chiesa, Ario capo degli eretici, l'Anticristo seminatore dello scisma,
ed Averroè principe dei filosofi increduli.


III

La prima cura del Dottore Angelico, come del suo maestro Alberto Magno
fu di comporre il dissidio tra nominalisti e realisti che travagliò il
periodo precedente. Concedevano ai nominalisti l'universale non essere
un'entità a sè,[33] e indipendente dall'intelletto che lo forma pel
noto processo di astrazione o eliminazione;[34] ma nel contempo davan
ragione ai realisti in quanto che la formazione dei concetti di generi
e specie non è punto arbitraria, ma ben fondata sulla natura delle
cose. In una parola l'Universale non è sostanza separata, ma legge di
natura. Per ben intenderci adunque bisogna distinguere l'universale
_ante rem_, _in re_, _post rem_.[35] L'_ante rem_ sono le idee di
Dio creatore; quello _in re_ il divino pensiero, divenuto legge delle
cose; il _post rem_ infine il concetto o volgare o scientifico, che
noi uomini acquistiamo dopo un lungo lavorìo di astrazione. O per
dirla con un noto esempio, l'universale _ante rem_ è il concetto
che l'artista vagheggia nella sua mente; l'_in re_ è l'attuazione di
quello nel marmo o nei colori; il _post rem_ la sua riproduzione nella
mente dello spettatore e del critico. Posto termine in tal guisa agli
interni dissidii, si sperava di raccogliere in un fascio tutte le forze
contro l'eterno nemico, Averroè, il quale di qui innanzi diviene il
rappresentante dell'incredulità pervicace. Ed a prostrare un avversario
così formidabile, S. Tommaso non risparmia nessun'arte; nè contento
di combatterlo nelle opere generali, scrive contro di lui trattati
speciali, come ad esempio il celebre opuscolo: _De unitate intellectus
contra Averroistas_.[36]

La quistione dell'Intelletto nacque, come è noto, dalle oscurità
della psicologia aristotelica. Nel terzo libro del _De Anima_ lo
Stagirita avea distinto l'intelletto passivo dall'attivo, e l'uno avea
fatto mortale, l'altro eterno e separato. Cosa intendesse Aristotele
per questo doppio intelletto è difficile dire;[37] ma secondo il
principio fondamentale della psicologia aristotelica che le potenze
inferiori sono grado ed avviamento alle superiori, il _Nous_ passivo
dovea significare un intelletto non ancora sviluppato o in potenza, e
l'attivo un intelletto pervenuto al suo più alto grado di energia.[38]
Se non che i caratteri, che separano i due intelletti, sono così
spiccatamente opposti, che le loro differenze più che di grado si
dovrebbero tenere invece per specifiche; onde quell'Essere che è
fornito dell'Intelletto attivo non potrebbe identificarsi con l'Ente
fornito di solo intelletto passivo.[39] In altre parole l'Intelletto
attivo sarebbe estrinseco al passivo; e più che il supremo grado
della mente umana sarebbe invece l'intelligenza divina, ovvero quella
Νόησις νοήσεως che nel XII della metafisica si confonde col Motore
immobile. Tanto vero che uno dei più sottili e fidi interpetri della
dottrina aristotelica, Alessandro, che pure ha la tendenza di eliminare
ogni elemento mistico dalla filosofia peripatetica, mentre considera
l'intelletto passivo come il compendio e l'integrazione delle potenze
inferiori dell'anima, pervenuto all'intelletto attivo cangia metro, e
lo dice tutt'uno con Dio, e lo pone fuori dell'uomo. Qual meraviglia
adunque che i filosofi arabi, dominati dalle intuizioni neoplatoniche,
non pure accettino questa interpetrazione, ma la guastino e complichino
fuor di misura? Era conforme all'indirizzo del loro filosofare
l'accrescere il numero delle entità intermediarie tra l'Unità suprema
e il mondo sensibile; onde a quel modo che Aristotele avea moltiplicato
tante volte il motore estrinseco, per quante sfere celesti gli offriva
l'astronomia del suo tempo, nella stessa guisa i filosofi arabi
moltiplicano l'intelletto attivo, e per ciascuna sfera ne immaginano
uno, che ha la doppia funzione di muovere la sfera ed illuminare
le menti degli abitatori. Nè questo è tutto, ma ben altra stortura
conviene aspettarci. Avicenna (980-1038) avea tenuto come sostanza
separata il solo intelletto attivo, il quale aderisce o serve all'anima
razionale siccome la luce all'occhio.[40] Averroè (1126-1198), come se
ciò non bastasse, dichiara esterno anche l'intelletto passivo, che per
tutti i suoi predecessori era stato tenuto come intrinseco all'anima
umana, o per meglio dire, come la sua funzione più alta. Se è esterna,
ei dice, la sorgente luminosa, esterni sono anche i raggi che da quella
piovono su le cose. E come la sorgente s'agguaglia all'intelletto
attivo, ed i raggi all'intelletto passivo; ragion vuole che l'uno
e l'altro si tengano per esterni all'anima umana; e l'uno e l'altro
siano un solo e medesimo intelletto per tutti gli uomini.[41] E se
volete sapere che cosa sia questo intelletto unico, che illumina le
nostre inferme fantasie, è subito detto. È il motore dell'ultima sfera
celeste, che secondo l'antica astronomia è quella della luna; onde non
a torto Astolfo sale fin lassù per pescarvi il senno di Orlando.[42] Le
conseguenze di questa dottrina sono facili ad intendere. In quel tempo
le prove, che si adducevano dell'immortalità dell'anima, eran tutte
cavate da questo concetto, che l'anima, avendo attività o funzioni
sue proprie, affatto separate dalle corporee, debba essere di una
sostanza diversa da quella del corpo, ed agevolmente separabile. Il
quale ragionamento sarebbe venuto meno quando fossero state accolte
le dottrine averroistiche. Imperocchè se l'intelletto, da qualunque
aspetto si consideri, è estrinseco all'anima, a lei non restano di
proprio se non le funzioni del senso e dell'istinto, le quali, comecchè
legate indissolubilmente coll'organismo, cessano quando questo si
dissolva, e traggono nella loro rovina il soggetto stesso senziente.

Era ben naturale che i dottori della Chiesa, i quali s'adoperavano a
metter d'accordo la scienza colla fede, si volgessero a combattere
questo punto dell'averroismo. Ed Alessandro e Alberto Magno e S.
Tommaso si fecero a dimostrare esser le teoriche di Averroè non pure
false in sè medesime, ma in aperta contraddizione colle dottrine
aristoteliche. Nè si può negare che la interpetrazione più conforme
allo spirito dell'aristotelismo è quella appunto, che abbraccia
l'Aquinate, secondo la quale l'intelletto attivo ed il passivo
sarebbero bene una stessa cosa, stantecchè l'uno è in potenza quello
che l'altro è in atto; ma e l'uno e l'altro s'han da tenere come
funzioni dell'anima: onde lungi dall'essere unico l'intelletto, o
attivo o passivo che sia, si rompe in quella vece in tanti intelletti
singoli, per quante anime dar si possano.[43] Se non fosse così,
l'anima umana non sarebbe gran fatto diversa dalla parete su cui cadono
i raggi luminosi; e come la parete, benchè illuminata dal sole, non
vede, così l'anima nostra benchè rischiarata dall'Intelletto agente non
intenderebbe nulla di nulla. E se non è lei che intende, così neanco è
lei che vuole e opera, ma quell'Essere dal quale spiccia la fonte della
intelligibilità.[44]

È indubitato adunque che S. Tommaso vide molto più addentro dei
commentatori neo-platonici ed arabi. Ma quel pericolo che crede di
sfuggire da un lato, gli si presenta dall'altro. Imperocchè a quel modo
che l'intelletto attivo s'identifica col passivo piuttosto secondo lo
spirito che la lettera della psicologia aristotelica, così pure s'ha a
dire lo stesso dell'intelletto passivo rispetto alla fantasia ed alla
percezione sensibile. E come Aristotele dice che senza il fantasma non
potrebbe svolgersi l'intelletto,[45] così è impossibile che l'anima
abbia funzioni e vita propria, ove mai si sciolga da quel corpo che in
lei ingenera sensazioni e fantasmi. Lo Stagirita senza dubbio tenne per
mortale l'intelletto passivo, e ove mai l'attivo ed il passivo son la
medesima cosa, con qual diritto affermeremo dell'uno ciò che dell'altro
si nega? All'acume dell'Aquinate non isfugge questo pericolo, dal
quale s'argomenta di scampare, ammettendo nell'anima una misteriosa
tendenza verso il sensibile, la quale perdura sempre anche quando
s'infrangono i lacci corporei.[46] Questa tendenza è come un corpo
interno, del quale l'anima non si sveste mai; onde nè il sentimento nè
i fantasmi le verranno mai meno, ed è per sempre assicurata la base
su cui poggiano le più alte potenze intellettive e pratiche. Teorica
codesta, strana quant'altra mai, e per giunta non nuova ed attinta a
quella stessa fonte neoplatonica, dalla quale rampollava la teorica
degli intelletti, separati, che S. Tommaso ripudia.[47] Se non che ella
era un espediente inevitabile non solo per sottrarsi alle conseguenze
estreme della teorica dell'unità degl'intelletti; ma per conciliare
altresì l'immortalità dell'anima colla teorica dell'individuazione.

Questo problema dell'individuazione fu il pomo di discordia tra le
scuole realistiche del secolo XIII, come quello degli universali
travagliò i secoli precedenti. Abbiamo già detto che i Realisti
concordemente ammettevano oltre l'universale _ante rem_, che esiste
solo nella mente di Dio, ed il _post rem_, che sta nella mente umana,
anche un altro universale, che essi dicevano _in re_, vale a dire
insito nelle cose stesse. Ora le cose tutte, secondo i concetti
aristotelici, constano di materia e forma, in che dunque è riposto
l'universale nell'uno o nell'altro di questi fattori? Aristotele
stesso s'era posto in qualche modo questo problema, quando facevasi la
dimanda opposta, cioè che cosa fosse l'individuo. Ed egli dopo lungo
contrasto venne nella conclusione: l'individuo non esser nè la materia,
nè la forma, ma l'unità di entrambi, il _sinolo_, come egli diceva,
dei due universali.[48] Se non che ammessa pure questa soluzione
aristotelica, il problema rinasce sempre sotto un'altra forma. Dei
due fattori, il cui intreccio costituisce l'individuo, quale dei due
è il determinante e quale l'indeterminato, o in altre parole dove sta
il _principium individuationis_? Per un certo rispetto sembra che il
principio individuante stia nella materia: perchè la forma, secondo le
stesse parole di Aristotele, è un tipo unico, il quale si riproduce
in tante differenti impressioni per quanto diverse sono le materie
in cui s'impronta. E questa fu la dottrina seguita da Alberto Magno
e dall'Aquinate;[49] ma non senza gravi e ben fondate opposizioni
da parte delle altre scuole. Come mai, si diceva, sarà la materia il
_principium individuationis_, ovvero la radice di tutte le distinzioni,
e specificazioni quando essa medesima è qualche cosa d'indistinto? Che
cosa è la materia destituita di forma? Non è forse l'indeterminato, la
potenza pura direbbe Aristotele, la quale appunto per opera della forma
acquista limiti e contorni? Il sostrato universale dunque è la materia,
e la forma è il principio che da questo fondo comune cava fuori le
specie e gl'individui.[50] Sembrano discussioni bizantine coteste, e
lo stesso Jourdain così dotto nella filosofia scolastica rimprovera
S. Tommaso di esservisi cacciato dentro. Ma siamo giusti. Non è forse
un profondo bisogno di qualsiasi filosofia realistica la deduzione
o costruzione, che dir si voglia, dell'individuo? Il problema era
adunque inevitabile, e più che a porlo sarebbe occorsa molta industria
per ischivarlo. Comunque sia, egli è fuor di dubbio che il problema
dell'individuazione servì a crear sul finire del secolo XIII due nuove
scuole, che si combattevano non meno aspramente delle antiche, e che
dai loro fondatori tolsero il nome di Tomisti e Scotisti.[51]

A rinfocolare le ire avrà contribuito senza dubbio l'antico livore
tra Domenicani e Francescani; ma il problema intorno a cui disputavano
non era meno grave di quello degli universali, e qualunque soluzione
si accettasse veniva a rompere contro le barriere della teologia.
In verità lo Scotismo, che, mettendo il principio d'individuazione
nella forma,[52] ha l'aspetto di un Realismo più compatto, cade in
quelle conseguenze panteistiche, che vedemmo non iscompagnarsi mai
dalle intuizioni realistiche. Nè il Dottor sottile se ne dissimula
il pericolo, ma aperto e risoluto gli va incontro dichiarando di
tornare alla posizione dell'abborrito Avicembronio, e rappresentandosi
il mondo tutto come un albero bellissimo, la cui radice e seme sia
la materia prima, le foglie gli accidenti, le frondi e i rami il
creato corruttibile, il fiore l'anima umana, ed il frutto la natura
angelica.[53] Ma neanco è mondo di peccato il Tomismo, nel quale le
dottrine filosofiche solo per via di espedienti artificiosi son messe
d'accordo coi dommi tradizionali. Così ad esempio se Averroè seguendo
Aristotele dimostra l'eternità del mondo, S. Tommaso non ardisce di
provare il contrario, ma s'argomenta di mettere in salvo la fede collo
stabilire che non tutto ciò che si crede debba essere dimostrabile e
conoscibile.[54] Parimenti ei non sconfessa le conseguenze della sua
teorica dell'individuazione, ed interpetrando a suo modo la tradizione,
ammette che la natura angelica, comecchè destituita di materia non
sia capace di differenze individuali, bensì delle sole generiche e
specifiche.[55] Ma dell'anima umana non osa dire altrettanto, e per
salvarne ad ogni costo l'individualità escogita quella teorica della
tendenza al sensibile, di cui abbiam fatta parola. A tale dovea ridursi
una mente eletta, come quella dell'Aquinate; segno evidente che il
dissidio tra il contenuto filosofico ed il dommatico è ben superiore
alla volontà degli uomini, e quel semirazionalismo, che vuol comporre
in armonia le più opposte tendenze, riesce invece a dirimerle di
vantaggio. Onde alcuni contemporanei si argomentarono di battere una
via diversa dalla tomistica.


IV

E primo e più geniale fra tutti è S. Bonaventura (1221-1274), che
venne a ragione chiamato _Doctor Seraphicus_. Animo profondamente
mistico non crede che nelle materie comuni alla fede e alla filosofia
il ragionamento possa aggiunger nulla di forza al convincimento
religioso. E la ragione stessa ha un ufficio affatto secondario,
comecchè serva solo di guida per elevare la mente per varii gradi alla
contemplazione beatifica di Dio. Ma pervenuti a quest'alta cima, lo
splendore dell'infinita luce ne abbaglia la vista; la forza del nostro
argomentare si fiacca, e l'anima dimentica di sè stessa, si smarrisce
nell'oggetto della sua contemplazione e dell'amor suo.[56]

Fra gli oppositori del Tomismo si potrebbe annoverare anche l'altro
francescano _Raimondo Lullo_ (1235-1315), strano miscuglio di
capestrerie cabalistiche ed astrologiche e sconfinate pretensioni
razionalistiche. Nel Lullo si rovescia affatto la relazione che pone
Bonaventura tra la fede e l'intelletto. Per Bonaventura l'intelletto
è il mezzo, e la fede o la visione beatifica da lei somministrata
il fine; per Lullo invece la fede è il mezzo per elevarci a Dio, e
l'intenderlo, il conoscerlo razionalmente il fine. La fede può bastare
agli uomini volgari, ai contadini, agl'ignoranti, ai mercenarii; ma
quelli forniti di più alto intelletto non se ne contentano, e fan bene
perchè la ragione non è impotente a svelare i più alti misteri; e col
nudo magistero della ragione il Lullo s'affida di distruggere non solo
le false filosofie, ma benanco le false religioni e le eresie. Escogita
anzi a questo fine una tal macchina ragionatrice, una specie di tavola
pitagorica, coll'aiuto della quale senza scomodarsi molto, si può
scoprire e dimostrare qualunque verità. Si sente in lui il filosofo del
Rinascimento,[57] come in un altro francescano ed oppositore del pari
si ravvisa già il precursore dei tempi moderni.

Intendo parlare di _Rogero Bacone_ (1214-1294), di quel genio
solitario ed infelice, che scontò colle più crude sofferenze il
grave peccato di richiamare sulla buona via le menti smarrite dei
suoi contemporanei. Straniero all'età sua ei ben seppe scoprire dove
stessero i veri impedimenti, e come ei dice _maxima comprehendendae
veritatis offendicula_, che sono la falsa autorità, l'abito inveterato,
l'illusione del senso, il bisogno di nascondere colle lustre di un
falso sapere la propria ignoranza. Ed al falso metodo delle deduzioni
arbitrarie ei vuol sostituire quello di una ben regolata esperienza, ed
ai commenti sui libri naturali degli antichi uno studio diretto della
natura, integrato e compiuto dalle costruzioni matematiche. Povero
Bacone! La tua voce suona nel deserto, e correrà molto tempo prima che
un tuo omonimo riprenda e seguiti con migliori auspicî l'opera da te
intrapresa. Il secolo XIII era per fermo immaturo a tanta riforma, chè
per quante opposizioni gli si movessero, il tomismo pur sempre dominava
le menti, ed alle sue dottrine s'informavano non pure la teologia, ma
benanco le lettere di quel tempo.[58]


V

Una splendida prova del dominio del pensiero filosofico di S. Tommaso
sulla letteratura è senza dubbio la _Divina Commedia_, nella quale con
immagini, spesso nuove, sempre felici, sono chiarite le più astruse
dottrine dell'Aquinate. Valga per tutti il XIII del Paradiso, in cui
Dante mette in bocca a S. Tommaso stesso la dottrina dell'universale
_ante rem_, o pensiero divino e dell'universale _in re_, raggiamento
della divina luce.

    Ciò che non muore, e ciò che può morire
      Non è se non splendor di quell'idea
      Che partorisce amando il nostro Sire.
    Chè quella viva luce che sì mea
      Dal suo lucente, che non si disuna
      Da lui, nè dall'Amor che in lor s'intrea,
    Per sua bontate il suo raggiare aduna,
      Quasi specchiato, in nove sussistenze,
      Eternamente rimanendosi una.
    Quindi discende all'ultime potenze,
      Giù d'atto in atto, tanto divenendo,
      Che più non fa che brevi contingenze;
    E queste contingenze essere intendo
      Le cose generate, che produce
      Con seme e senza seme il Ciel movendo.
    La cera di costoro e chi la duce
      Non sta d'un modo, e però sotto il segno
      Ideale poi più e men traluce:
    Onde egli avvien che un medesimo legno
      Secondo spezie, meglio e peggio frutta.
      E voi nascete con diverso ingegno.
    Se fosse a punto la cera dedutta
      E fosse il cielo in sua virtù soprema,
      La luce del suggel parrebbe tutta.
    Ma la natura la dà sempre scema
      Similemente operando all'artista
      Che ha l'abito dell'arte, e man che trema.

Nelle ultime terzine è sfiorato il problema dell'individuazione, e la
cagione della varietà dei frutti di uno stesso albero vien posta parte
nella materia, o nella cera, in cui s'impronta il segno ideale, e parte
nella scarsa efficacia delle cause seconde. Imperocchè Dante, come
ogni buon aristotelico, attribuisce la creazione delle individualità
terrestri non direttamente al primo motore, ma a quella che Aristotele
chiama _natura_, analoga in un certo senso all'anima del mondo di
Platone. Seguitiamo: Se la materia è il principio individuante, non si
può dare una materia non specificata, come sostenevano gli Scotisti.
Questo cosiddetto sostrato universale è una astrazione filosofica; in
realtà:

    Forma e materia, congiunte e purette
      Usciro ad atto che non avea fallo
      Come d'arco tricorde tre saette.
                          (_Parad._, XXIX, 22).

Ed a quel modo che la materia non può essere staccata dalla forma,
il corpo non può del tutto separarsi dall'anima, e l'integrità della
persona umana sta appunto nell'intrinsecazione dei due elementi. Onde
Salomone dice nel _Par._ XIV, 43:

    Come la carne gloriosa e santa
      Fia rivestita, la nostra persona
      Più grata fia, _per esser tutta quanta_.

Ed è quindi ben naturale che gli spiriti eccelsi affrettino coi loro
voti il giorno della risurrezione, chè anche nelle loro anime pure v'è
quella tendenza irresistibile verso il corpo, che ammetteva l'Aquinate:

    Tanto mi parver subiti ed accorti
      E l'uno e l'altro coro a dicer amme,
      _Che ben mostrar disio dei corpi morti_.
                                 (_Ivi_, 61).

Il corpo adunque non può essere considerato come talmente estrinseco
all'anima, che ella se ne possa spogliare o vestire come d'un abito,
e debbono andar messe tra le fole le utopie platoniche e neoplatoniche
della preesistenza e trasmigrazione delle anime, se pur sotto il velame
di questi miti il grande filosofo non abbia voluto far trasparire una
verità più peregrina.

    Quel che Timeo dell'anima argomenta,
      Non è simile a ciò che qui si vede,
      Perocchè come dice par che senta.
    Dice che l'alma alla sua stella riede,
      _Credendo quella quindi esser decisa_,
      _Quando natura per forma la diede_.
    E forse sua sentenzia è d'altra guisa
      Che la voce non suona, ed esser puote
      Con intenzion da non esser derisa.
                              (_Parad._, IV, 49).

Nè questo solo è l'errore dei platonici, e degli interpetri
platoneggianti di Aristotele, chè non contenti di avere così decisa
o staccata l'anima dal corpo, dividono ancora l'anima stessa in parti
tanto opposte fra loro, che, in luogo di frammenti di un tutto solo,
sembrano al contrario diverse totalità, o anime separate. I fatti più
ovvii della esperienza psichica stanno contro questo

                        error che crede
      Che un'anima sovr'altra in noi s'accenda;
    E però quando s'ode cosa o vede,
      Che tenga forte a sè l'anima volta,
      Vassene il tempo e l'uom non se ne avvede.
                              (_Purg._, IV, 5).

Per lo che alla teoria psicologica fondata sulla separazione assoluta
delle facoltà, bisogna sostituire quella più giusta di Aristotele e S.
Tommaso, che fa svolgere le facoltà superiori dalle inferiori; essendo
la radice di queste potenze

                        un'alma sola
      Che vive e sente e sè in sè rigira.
    E perchè meno ammiri la parola,
      Guarda il calor del sol che si fa vino
      Giunto all'umor che dalla vite cola;
                              (_Purg._, XXV, 74).

E se tutte le facoltà dell'anima si svolgono le une dalle altre, anche
l'intelletto passivo segue la stessa legge, nè v'ha teorica più assurda
dell'averroistica che

                        fe' disgiunto
    Dall'anima il possibile intelletto:
                               (_Purg._, ivi, 64).

Come pure è assurda la dottrina delle idee innate e la reminiscenza
platonica; perchè

    Esce di mano a lui che la vagheggia
      Prima che sia, a guisa di fanciulla
      Che piangendo e ridendo pargoleggia,
    L'anima semplicetta che sa nulla,
      Se non che, mossa da lieto Fattore,
      Volentier torna a lui che la trastulla.
                               (_Purg._, XVI, 85).

Potremmo continuare per un bel pezzo a notare le più evidenti
coincidenze tra le teoriche tomistiche e le dantesche e non pure in
metafisica, ma in etica, in teologia, in esegesi biblica. In un sol
punto Dante discorda dal suo maestro, nelle quistioni politiche, dove
il dissidio è tanto più aperto per quanto più pieno fu l'accordo nelle
altre dottrine.

L'antica e tragica lotta tra l'impero e il papato s'era già da un
bel pezzo rinnovata con maggior vigore da Gregorio IX in poi. Non
orpelli, non infingimenti da una parte e dall'altra, ma franca e
solenne dichiarazione delle loro dottrine e dei loro fini. Gregorio
afferma apertamente il diritto del papato alla signoria suprema su
tutti i principi e popoli della terra, perchè lo stato non ha un valore
intrinseco, ma quello solo che gli viene dall'autorità pontificia;[59]
e dal canto suo Federico II, anticipando i tempi moderni, difende
l'autonomia dello stato, l'indipendenza dalla podestà ecclesiastica
ed il dritto e dovere di ridurre il papato alla povertà gloriosa dei
primi secoli.[60] S. Tommaso prese parte alla disputa che ferveva
animosa tra i giuristi imperiali, e i canonisti; e traendo le ultime
conseguenze dai suoi presupposti filosofici sostiene apertamente
le ragioni dei papi. Come l'anima esercita un assoluto dominio sul
corpo, così il pontefice sui principi tutti della terra. Ei solo,
rappresentante di Dio, è la fonte dell'autorità; e di seconda mano
da lui la debbon ricevere tutte le altre potestà. Il pontefice sta
all'imperatore come la splendida luce del sole al pallido chiarore
della luna, e la spada che egli brandisce è di tanto più formidabile
di quella che mette in pugno all'Imperatore, di quanto lo spirito vince
la materia; e gl'interessi celesti sovrastano alle meschine gare della
terra.[61] A queste dottrine, che sotto la sembianza di pietà religiosa
nascondevano le più smodate passioni mondane, non sapeva acconciarsi
l'anima fiera del gran fiorentino, e nella _Divina Commedia_ e nel _De
Monarchia_ sdegnosamente vi si ribella. Strano contrasto tra i due
sommi! S. Tommaso, del gentil sangue dei conti di Aquino, pronipote
del Barbarossa e cugino del secondo Federico, rompendo colle tradizioni
degli avi suoi, si caccia nel fitto della mischia, paladino di quella
corte pontificia, che avea giurato e inesorabilmente compiuto lo
sterminio di casa sveva. Dante, che da giovane combattè nelle file dei
guelfi, ricredutosi per tempo dell'error suo, si converte alla fede
ghibellina, ed il dominio temporale e le cupidigie e le ambizioni della
corte romana sfolgora nelle tremende invettive del poema sacro. A quel
genio divinatore ben presto si discoperse l'assurdo ed il danno della
mistione dei due poteri, e con argomenti che calzano anche ai nostri
giorni, sostenne arditamente l'autonomia dello stato, o per dirla col
linguaggio del tempo, l'indipendenza dell'impero.[62]

Ma non a torto ei protesta di far parte da sè, chè le sue dottrine
politiche, non del tutto conformi a quelle dei ghibellini,[63]
s'inspirano a quello spirito umanistico, che fra non molto farà
rinascere la tradizione ed il culto dell'antichità. Per Dante la storia
antica non era chiusa peranco, nè poteva chiudersi giammai; imperocchè
la Provvidenza affidò al popolo romano il primato su tutto il mondo,
nè altra gente per alte virtù e gesta gloriose se ne rese più degna,
nè accadrà mai che questa veneranda compagine dell'antico stato si
dissolva. Al popolo romano adunque appartiene di diritto l'imperio, ed
ei solo può commetterne a Cesare l'esercizio. Non il pontefice, non
i principi tedeschi sono di diritto gli elettori dell'imperatore, ma
solo il popolo di Roma.[64] Questa teoria bastava a combattere tutte
le prentensioni guelfe; imperocchè se l'imperatore non deve al papa la
elezione sua, non è obbligato a riconoscer da lui la sua autorità. Ma
essa non era nata soltanto da un intendimento polemico, nè si può dire
che sia un sogno da poeta. Fra non molto Ludovico il Bavaro, convocata
un'assemblea popolare nel Campidoglio (11 gennaio 1328) chiederà la
corona imperiale, che per solenne plebiscito gli sarà conferita. E più
tardi campione dei creduti diritti di Roma si leverà un uomo singolare,
il quale assunto il dimenticato nome di tribuno, affermerà l'autorità
sua e il non vano suo potere di contro al papa e all'imperatore. E
gli uomini più celebrati del suo tempo gli crederanno, ed il padre
dell'umanismo, gl'indirizzerà una delle sue più belle canzoni,[65]
e gli scriverà lettere di calda ammirazione, e per cagion di lui si
raffredderà coi Colonna, vecchi suoi amici e protettori.

Ma benchè nel _De Monarchia_ aliti questo spirito classico e
democratico, pure il fondo del ragionamento è schietto medievale, ed
affatto tomistiche le premesse che Dante pone per trarne conseguenze
affatto opposte a quelle dell'Angelico. Anche egli, come tutti i
filosofi di quel tempo, non sa concepire l'ideale se non incarnato
in una meschina ed angusta realtà; onde stabilita la necessità
dell'unificazione delle genti, la quale soffochi il germe di guerre
intestine, vien di conseguenza che quest'unità si debba impersonare
in un corpo politico, l'impero, ed in un uomo, l'imperatore.[66] Ma
altri avrebbe potuto inferire il vero regno unico e cristiano esser
la Chiesa, e la suprema autorità delle genti il Papa. Per toglier le
conseguenze facea mestieri di negare le premesse, e dimostrare come
l'unità del genere umano sia solo ideale, ed a tradurla in realtà vi
si opponga non pure l'ordine delle cose, che vieta uno stato così
mostruosamente sterminato; ma benanco le profonde ed insuperabili
differenze che la natura e il corso della storia hanno poste tra le
nazioni. Per siffatta guisa si scalzava quel falso realismo, che dando
corpo alle ombre, popolava il mondo di realtà immaginarie. Ma opera
siffatta non poteva essere tentata se non da un riformatore della
filosofia, il quale in verità era già nato e negli ultimi anni della
vita di Dante avea acquistata non poca fama nell'insegnamento.[67]


VI

Con Guglielmo Occam, (morto intorno al 1349) il vigoroso ristauratore
del nominalismo, s'apre l'ultimo periodo, o vogliam dire, la
dissoluzione della Scolastica. Il Realismo, travagliato dalle interne
scissure di tomisti e scotisti, battuto in breccia da opposti lati
per opera dei mistici e degli esperimentalisti, era già un edifizio
scrollato, quando l'ardimentoso minorita gli dette l'ultimo assalto.
Non bisogna, ei diceva, moltiplicare gli Enti senza necessità[68] nè
attribuire un'esistenza sostanziale ai concetti della nostra mente.[69]
La realtà può venir colta soltanto dalla diretta intuizione;[70] ciò
che supera i confini della percezione immediata, o non può da quella
essere mediatamente raccolto, non è argomento di scienza; onde mal
s'appongono i realisti di ragionare di Dio, e del modo come ei pensi,
e delle idee che in lui si accolgano; mentre il nostro circoscritto
intelletto non può penetrare i misteri dell'Essenza divina.[71] Nè
meno assurdo è dimandare il principio dell'individuazione, perchè
l'individuo è posto fin dall'origine tale qual'è, nè acquista per via
le note individuatrici.[72] Questo audace filosofo seppe al pari di
Dante sostenere le teoriche ghibelline, e quando gli se ne porse il
destro, si offerse campione del loro diritto a Re ed Imperatori «_Tu
me defendas gladio_, diceva a Ludovico il Bavaro, _ego te defendam
calamo_». Ormai la teorica dell'indipendenza dello stato avea fatti
grandi passi. E per quanto la chiesa perdurasse negli antichi concetti,
e Bonifacio VIII li esagerasse fuor di misura[73] altrettanto energica
fu la protesta che da tutte parti si sollevava. E Filippo il bello
respinse le pretensioni della Curia, ed una fiera polemica insorse, di
cui abbiamo anche oggi parecchi documenti, a cominciare dallo scritto
intitolato: _disputa tra un cavaliere ed un chierico intorno alla
potestà commessa ai prelati della chiesa ed ai principi della terra_.
Codesto è un dialogo molto vivace ed arguto, dove sono messi alle prese
un prete, che rincalza con sillogismi scolastici le boriose pretensioni
del papa, ed un cavaliere che con apparente bonomia li ribatte ad uno
ad uno. Il prete tenendosi stretto all'argomentare tradizionale esce ad
esempio in questa tirata _a majori ad minus_: Se non negate che Cristo,
padrone del cielo e della terra possa disporre dei beni temporali,
come potrete senza rossore negare questa stessa facoltà al suo vicario
in terra? Ma il buon cavaliere non si lascia prendere all'amo, e
tranquillamente risponde: _audivi a viris sanctis ac devotissimis
duo tempora in Christo distingui, alterum humilitatis et alterum
potestatis. Humilitatis usque ad suam passionem, potestatis post suam
resurrectionem ... Petrus autem constitutus est Christi vicarius pro
statu humilitatis, non pro statu gloriae et majestatis_. Questo dialogo
venne attribuito all'Occam, ma non pare che gli appartenga.[74] Certo
pel concetto che vi domina dell'autonomia dello stato non sarebbe
indegno del filosofo francescano, il quale in un trattato intorno
alla giurisdizione imperiale nelle cause di matrimonio mise in tanto
rilievo l'indipendenza del potere politico, che a lui si deve il primo
schizzo della teorica del tutto moderna del matrimonio civile[75] oltre
a questo piccolo scritto del 1342 Occam scrisse altre opere più vaste.
Giova ricordare le otto quistioni del 1339 e il dialogo del 1343, che
va diviso in tre parti, la prima distinta in sette libri riguardava la
chiesa e le eresie; la seconda riproduceva il trattato composto sin dal
1333 intorno ai dommi di Giovanni XXII; la terza infine dovea andare
suddivisa in nove trattati di cui sono pervenuti infino a noi ed anche
mutili, soltanto i primi due. In questi lunghi e faticosi lavori, non
senza le solite sottigliezze scolastiche, vengon combattuti ad uno
ad uno tutti gli argomenti papalini, e non pure i filosofici, ma i
tradizionali ricavati dai testi biblici, e gli storici fondati sulla
pretesa donazione di Costantino e la successiva traslazione dell'Impero
nei Franchi. Una gran parte di queste critiche non è certo nuova, ma
nuovo è senza dubbio lo spirito che informa la polemica. Il misticismo
medievale scompare affatto, chè l'Impero, se non è una creazione
del Papa, non è neanco una istituzione divina, ma schiettamente
storica. Essa nacque _ex ordinatione humana et non ex divina lege_ per
conservare la pace e la tranquillità delle genti. Quando questo scopo
fallisse, e l'elezione dell'Imperatore lungi dal portar concordia,
dovesse provocare nuove guerre, _non esset talis assumptio attentanda;
quia quod provisum est ad concordiam, non debet tendere ad noxam_.[76]

Il concetto grandioso dell'Impero, vagheggiato da Dante, era ben
presto venuto meno, talchè Marsilio da Padova al di sopra della maestà
imperiale mise la sovranità del popolo.[77]

E già da gran tempo le idee degli stessi Ghibellini s'erano
profondamente modificate. La lotta tra Bonifacio e Filippo il Bello
scoppiata per quelle stesse ragioni che tante volte avean messi alle
prese il papato e l'impero, mostrava ben chiaro che nelle lunghe lotte
combattute non era in gioco soltanto l'impero, ma gli stati tutti. Il
pronostico di Federico II si avverò ben presto, e la primogenita della
Chiesa vide torcere contro di sè le stesse armi, che avean ferita a
morte la casa sveva. Se non che ciascuno stato difendendosi in questi
contrasti colle sole sue forze, acquistava piena consapevolezza della
sua indipendenza non pure dalla chiesa, ma benanco dall'impero. A quel
fittizio organamento imperiale, che sotto le sembianze di un vasto
accentramento celava in realtà lo sparpagliarsi di mille signorie
feudali, sottentravano ora le monarchie autonome, o già formate, o
in via di rapida formazione. L'individualismo che in filosofia era
rappresentato dalla scuola dei nominalisti, in politica si ripercuoteva
nella costituzione degli stati autonomi. Ed all'acuto sguardo
dello scrittore del dialogo già citato non isfuggirono questi gravi
mutamenti. «Quando, ei dice, per effetto della divisione dell'impero
carolingio il regno franco si separò dal resto dell'Imperio, tutti
quei diritti che pria spettavano all'Imperatore venner trasferiti
integralmente al re francese. Il quale nei confini del suo regno può
promulgare nuove leggi ed emendare o affatto abolire le antiche».[78]
Così l'Imperatore non vien più riconosciuto come la suprema autorità,
intorno a cui gravitano i re ed i principi, come pianeti intorno al
sole. L'impero non è più lo stato per eccellenza, ma uno stato tra gli
stati, il quale per giunta ha minore forza delle potenti monarchie
che lo circondano. Questa era già da gran tempo la vera condizione
di fatto, ma prima d'ora non s'era mai apertamente dimostrato che la
condizione di fatto rispondesse all'intima ragione del diritto. E per
fare questa dimostrazione occorreva che le menti sgombrassero l'errore
del vecchio realismo di dar corpo e consistenza agli astratti concetti.

Quanto cammino abbia fatto la mente umana nel volger di pochi anni
si può raccogliere dal confronto tra i due grandi poeti della nostra
letteratura, Dante e Petrarca. Dante non solo mostra una grande
riverenza per i filosofi scolastici, ma ne accoglie e commenta
poeticamente la dottrina; Petrarca non è stanco mai di colpire dei
suoi frizzi quegl'importuni dialettici, quei barbari dello stile,
che fra le dispute astruse smarrirono la tradizione del divino
Platone, e lo stesso Aristotele da dolce e soave che è, tramutarono
in rude scrittore. _Sic jam sola philosophantis infantia et perplessa
balbuties, innitens supercilio atque oscitans, ut Cicero vocat,
sapientia in honore est._ Nel Petrarca rivive lo scetticismo di
Cicerone, dell'autore latino che sopra tutti gli altri avea caro. E ben
volentieri al pari del suo duca e maestro contro le vane elucubrazioni
dei filosofi invoca l'autorità del buon senso e della tradizione. _Sint
plane Aristotelici, sint philosophi... neque enim clara haec nomina
illis invideo, quibus falsis etiam tument, non mihi invideant humile
verumque christiani nominis et catholici._[79] Il Petrarca non è più
dominato, come Dante, dalle idee medievali; ed a ragione vien da tutti
riconosciuto come il primo restauratore del classicismo. Si comprende
da ciò come in lui il concetto dell'Impero non possa avere quel non so
che di grandioso e mistico che gli presta la fantasia dell'Allighieri.
L'impero pel Petrarca non è più di un ricordo classico, e la grandezza
di Roma e la salute dell'Italia, più che l'unificazione di tutte le
genti, è il suo ideale.[80] Venne notato molto opportunamente che il
Petrarca più che Dante insiste sui confini naturali che separano il bel
paese dalle altre regioni; e con maggior compiacenza ricorda l'antica
opposizione tra barbari e latini:

    Che fan qui tante pellegrine spade?
    Perchè il verde terreno
    Del barbarico sangue si dipinga?[81]

La salute d'Italia, corsa da sfrenate compagnie di ventura, e in
preda a incessanti guerre intestine; la salute di Roma erede del nome
antico, ed ora vilmente abbandonata da Papi, ed Imperatori, questo
è l'unico scopo a cui intende il poeta. Ed ove si possa conseguire,
anche contro l'Impero, e per opera di un generoso romano — come parve
per poco possibile al tempo di Cola — nessuno meglio di lui affretterà
coi suoi voti il compimento della nobile impresa.[82] Certamente
fallita l'impresa di Rienzo il Petrarca si volgerà ora ai Papi, ora
agl'Imperatori perchè abbiano pietà della patria infelice. Gli sarebbe
parso di mancare al suo dovere, se non avesse cercate tutte le vie
di salvezza; ma non si dissimula pertanto che sull'Impero si debba
contare ben poco, nè che altra speranza vi sia fuor della concordia
degl'Italiani. In una lettera al doge Dandolo esprime chiaramente
questi pensieri: _Italiano qual io mi sono ... lascia che parli delle
sventure d'Italia. Ecco già correre all'armi i due popoli più potenti,
le due più fiorenti città, e a dirlo in breve, i due più splendidi
astri d'Italia, che a mio giudizio acconciamente si parve aver la madre
natura quinci e quindi all'ingresso dell'italico mondo collocati,
perchè cotesto vostro al Settentrione ed al Levante e l'altro al
Mezzogiorno ed al Ponente rivolti, e voi padroni del mare di sopra,
gli altri di quel di sotto alle quattro parti del globo mostraste come
debilitato, vacillante e per poco non dissi disfatto al tutto l'Impero
Romano, fosse pure l'Italia signora e regina_.[83] Altre volte avea
sperato che Roberto di Napoli potesse ridurre in sua mano il governo
della penisola, perchè l'Italia prendesse un posto onorato tra le
grandi monarchie d'Europa.[84]

Ma torniamo al nostro minorita, il quale non pure prese parte alle
quistioni politiche del tempo, ma benanco alle religiose. Il vecchio
dissidio tra i due ordini frateschi era ricominciato nel 1321 a cagione
di un'accusa di eresia che il domenicano Giovanni Belna muoveva contro
il francescano Berengario Tolon. Il Papa dette ragione al domenicano,
ma l'assemblea generale dei minoriti, tenuta sotto la presidenza di
Michele da Cesena, proclamò come domma di fede la povertà assoluta
di Cristo, e dichiarò eretici e scismatici quelli che non credevano
in questa dottrina, nè seguivano il divino esempio. Questo domma,
che menava diritto alla distruzione del cosiddetto potere temporale,
per quanto tornasse acerbo al pontefice, di tanto vantaggiava lo
imperatore. Onde allorchè Giovanni XXII lanciò la scomunica contro
i sottoscrittori della nuova dottrina, Ludovico li tolse sotto alla
sua protezione, e ne affidò ai suoi giureconsulti la difesa. L'Occam
era uno dei sottoscrittori, nè è a dire con quanto calore sostenesse
la causa del generale del suo ordine, che era per giunta uno degli
amici della sua giovanezza. E coll'Occam si associò il più dotto
giureconsulto di quel tempo Marsilio da Padova, il quale nel _Defensor
pacis_ avea stabilito non esser la Chiesa costituita dal solo Pontefice
e Cardinali, ma da tutti i fedeli; talchè se il maggior numero di
essi, raccolto in assemblea solenne pronunzia una sentenza, le si deve
inchinare il Papa per il primo.[85] Dottrine che non tarderanno molto a
trionfare nel Concilio di Costanza. Nè contento di questo il giurista
patavino nega che il vescovo di Roma abbia un'autorità maggiore degli
altri primati della Chiesa, dubita della venuta di S. Pietro, e, quel
che più monta, mette la scrittura al di sopra della tradizione. In
queste ardite sentenze si riconosce già il precursore di Vicleffo e
Giovanni Huss. Senza dubbio il Medio-Evo è tramontato, e dall'opposto
lido spunta di già la splendida aurora del Risorgimento.

Riassumiamo. In tre periodi si divide il movimento intellettuale
del Medio Evo. Nel primo di essi mentre il Realismo promuove o si
associa con quelle sètte religiose, che giovandosi dell'allegoria,
trasformavano le credenze tradizionali, il Nominalismo dall'altra parte
vien penetrato da tutte le tendenze razionalistiche di quell'età. Nel
secondo si costruisce quel mirabile sistema, nel quale debbon comporsi
tutti i dissidî dell'età precedente, ed a norma del quale s'hanno a
stabilire immutabili rapporti tra la scienza e la fede, lo stato e
i sudditi, la chiesa e l'impero. Questo sistema non domina solo, e
non pure vien combattuto da molti filosofi contemporanei, ma anche
quelli, che ne accettano le dottrine fondamentali, ricusano poi le più
importanti conseguenze nel campo politico. Nel terzo periodo infine
la dissoluzione della scolastica trae seco la rovina di quel grande
edificio politico e religioso, che fu la gerarchia medievale. Ma in
tutto questo lungo corso di tempo non mancarono profonde agitazioni
religiose. Ed abbiamo citate già molte sette ereticali, i Catari, i
Valdesi, gli Arnaldisti nel primo periodo, i Gioachimiti nel secondo,
i seguaci di Michele da Cesena nel terzo. Quali rapporti hanno queste
eresie colle speculazioni filosofiche e coi moti politici del Medio
Evo? Nel corso del nostro lavoro esamineremo l'origine ed il carattere
di tutte queste eresie, e dopo siffatto studio forse ci verrà fatto di
rispondere al difficile quesito.



LIBRO PRIMO DALL'ERESIA ALLO SCISMA



CAPITOLO I

I CATARI


I

Dall'eresia dei Catari,[86] che fu senza dubbio la più vigorosa ed
infesta al cattolicismo, ha da prender le mosse chi voglia conoscere
l'origine ed il corso delle opposizioni religiose nel medio evo. Noi
adunque esporremo per sommi capi i dommi del Catarismo, e toccato in
seguito dell'origine e della diffusione di questa setta, diremo infine
delle altre che vi si annodano.

Il sistema cataro si può riassumere in questi brevi tratti. Dacchè il
mondo ribocca di mali non può essere tutto opera di uno spirito buono e
provvidente.[87] Le cose buone, che non sono certo le sensibili, le ha
create Iddio; ma le cattive, le vane, le transitorie non le fece lui,
bensì uno spirito perverso che stampò nel loro disordine l'impronta
della malvagità sua.[88] Naturalmente non tutti i catari la pensavano
ad un modo. Alcuni, come Giovanni di Lugio, non pure ammettevano
quest'opposizione tra il cielo e la terra, ma la tenevano per eterna;
perchè, dicevano, se non cessano le opposte cause debbono durare anche
i due ordini di effetti; onde è falso che col tempo possa sparire il
mondo visibile, e che il Dio della luce sia mai per riportare piena
vittoria sul suo rivale.[89] Altri meno rigidi, come i Bogomil ed
i Catari di Concorrezo, riducevano di molto l'importanza del minor
creatore attribuendo al buon Dio la creazione di una parte del mondo
visibile, come a dire i quattro elementi,[90] e credendo fermamente nel
finale trionfo del bene sul male.[91] Ma tutti si accordavano nel dire
il mondo opera di un genio malefico, sia che l'avesse creato lui stesso
di pianta, o coll'ajuto del Dio buono.[92]

E al pari del mondo anche l'uomo è fattura dello spirito del male.
Se non che l'uomo, secondo la psicologia neoplatonica accolta dai
catari, è formato di tre elementi, il corpo, l'anima e lo spirito;[93]
e se si può ammettere che il corpo ed il principio che lo vivifica
siano fattura del Dio delle tenebre, lo spirito per fermo, che è puro
intelletto e volontà, vanta origine più nobile, nè altri può averlo
creato se non il Dio della luce. Lo spirito dell'uomo dunque non è
diverso da quelle creature angeliche ed immortali, che il principio
buono crea ab aeterno nella pienezza dell'amor suo;[94] l'anima per
contrario è tutt'uno colla funzione stessa del corpo organico, e quando
l'organismo si dissolve, perisce anch'essa.[95] Ma come mai ha luogo
questo accozzo di elementi così disparati? Per qual misterioso consenso
gli opposti principii del bene e del male, che agiscono sempre a
ritroso, or cooperano nella creazione dell'uomo?

Questo difficile problema vien risoluto in vario senso dalle sètte
catare. Ed alcuni come i Bogomil, credono che il diavolo, creato l'uomo
dal fango, non potendo trattenere l'anima nel plasmato organismo,
chiedesse al Dio della luce uno spirito fra quelli da lui creati, che
valesse a raffrenare gl'impeti della ribelle. Ed il compiacente Dio,
non si sa perchè, piegatosi alle preghiere del suo nemico, gli fu largo
del richiesto aiuto.[96] Altri più accorti, non a Dio, ma allo spirito
stesso ed alle sue colpe attribuiscono la ragione della caduta; ma non
riescono certamente per questa via a vincere le difficoltà. Imperocchè
difficilmente i Catari possono menar buono che un Dio perfetto immetta
nelle sue creature la funesta possibilità del peccare, tanto che la
maggior parte di loro nega risolutamente la libertà dell'arbitrio;[97]
onde se questo spirito peccò non fu certo per elezione, ma per
necessità di natura; e la ragion del male per tal guisa risalirebbe
sempre al Creatore stesso, che si voleva a tutti i costi scagionare.
A sfuggire questa evidente contraddizione si adoperano i Catari, per
mezzo di miti.[98] E molti tra essi, immaginano che il Dio delle
tenebre accompagnato dai suoi demoni desse la scalata al cielo, e
vinto l'arcangelo Michele, che gli contendeva il passo, di viva forza
ne togliesse la terza parte delle creature celesti, che cacciò nei
corpi degli uomini e dei bruti.[99] Altri, non meno fantastici dei
primi, avvisano che il diavolo non delle violenze si fosse valso, ma
dell'astuzia; e con promesse e lusinghe avesse indotto nel peccato gli
angeli del cielo.[100] Ma nè gli uni dichiarano come mai al Dio del
male si debba attribuire maggior potenza che a quello del bene; nè gli
altri spiegano come creature perfette possano così facilmente divenir
gioco delle astuzie di uno spirito malefico.

Ma lasciamo queste contraddizioni, che nessun simbolismo religioso può
rimovere. In questo convengono tutte le sette catare, essere in noi uno
spirito celeste, il quale, compiuta l'espiazione del suo fallo, farà
ritorno alla patria antica. Se non che qui rinascono le discrepanze, e
alcuni ammettono l'unicità di questo spirito in tutti gli uomini, altri
la pluralità. I concorrezesi ad esempio, riproducendo il traducianismo
di Tertulliano, insegnano che alla concezione di un nuovo individuo
umano, la parte spirituale non si crea _ex novo_; ma staccasi quasi per
gemmazione dal tronco dei suoi parenti, dai quali colla colpa eredita
giustamente la condanna. Onde lo stesso spirito o angelo, che informò
il corpo di Adamo, seguita tuttora di generazione in generazione il suo
pellegrinaggio doloroso.[101] Le altre sette catare, come i seguaci
del vescovo Balasinanza, e i Bajolensi e i Lugiani, in luogo di uno
suppongono che più angeli fosser caduti.[102] Ma il loro numero dal
dì della colpa non cresce nè diminuisce più, onde al dissolversi di
un organismo passano in altro, e da questo in altro ancora, fino a
che non sia compiuto il giro dell'espiazione.[103] Così vien rinnovata
l'ipotesi della trasmigrazione o metempsicosi, la quale vanta maggiore
antichità del traducianismo.[104]

Ma o traducianismo o trasmigrazione che sia, è necessaria certo a
queste sètte una ipotesi, che assicuri la continuità dello spirito e
spieghi e giustifichi i secolari dolori dell'umanità. La storia dei
quali è raccontata da tutte le sètte catare presso a poco nello stesso
modo. Da quell'ora funesta, esse dicono, che trionfarono le arti dello
spirito maligno, gli angeli sedotti non ebber più riposo. Scacciati
dal Cielo, dimenticarono e la patria e l'origine loro, nè altro Dio
riconobbero da quello infuori che li avea tratti a rovina. Ed a lui
s'inchinarono tremanti e vittime cruenti offersero per calmarne il
furore e la bieca avidità di sangue. Così nacque la legge mosaica;
così il demone corruttore usurpò per buona pezza il posto del buon
Dio, ed ebbe autorità di codice sacro il vecchio Testamento, da lui
ispirato, e nel quale ben disvelò la sua indole volubile, crudele
e menzognera.[105] E codesto inganno sarebbe durato ancora, se il
principio del bene, riscossosi alla fine, e risoluto di por fine al
regno del suo rivale, non avesse mandato il suo diletto figlio per
insegnare agli uomini la schietta verità.

Ma chi è mai questo figliuolo prediletto? È forse tutt'uno nella sua
essenza col Padre, come insegna il domma del Concilio Niceno? No.
I Catari riconoscono due soli principii, il Dio del bene e quello
del male, e all'infuori di questi non ammettono altre divinità. Onde
Cristo si deve considerare come un angelo, o se vogliamo un arcangelo,
che scende in terra per ricondurre nella diritta via gli smarriti
fratelli.[106] Quest'opinione evidentemente riproduce l'arianesimo,
e per questo rispetto i catari furon chiamati ariani,[107] sebbene
fossero pochissimi i punti di contatto tra cotesti eretici, ed i
catari oltre alla dualità di natura tra Padre e Figliuolo insegnassero
altresì essere il corpo di Cristo affatto apparente non reale.[108]
L'Arcangelo, essi dicevano, mandato a salvare gli uomini non avendo
peccato come gli altri angeli scacciati dal Cielo, non deve e non può
assumere un vero corpo umano; chè nè di pena egli è meritevole, nè
d'altra parte sarebbe possibile la compenetrazione di uno spirito puro
coll'immonda fattura del Diavolo. Così i Catari insieme all'eresia
di Ario rinnovarono il docetismo gnostico.[109] L'eresia ariana e
la docetica sono agli antipodi, stantechè la prima ponendo maggior
peso all'elemento umano in Cristo, ne assottiglia talmente la parte
divina da ridurla all'influsso o ispirazione profetica; la seconda,
invece rilevando l'elemento divino attenua di tanto il lato umano che
lo tiene per vana apparenza (δόκησις). Eppure non ostante l'aperto
antagonismo e l'una e l'altra opinione vengono accolte di conserva
nel Catarismo.[110] Il quale se non crede alla realtà del corpo,
molto meno può prestar fede alla passione e morte di Gesù.[111] Ben
s'argomentarono gli adoratori del falso Dio di troncare sul labbro
del Cristo la parola rivelatrice; ma non accorgendosi gli stolti
dell'inganno orditogli, misero a morte quel che non potea morire, un
corpo etereo, nel cui velo ben presto riapparve il Maestro ai discepoli
per confermarli nella nova fede.


II

Esposte le dottrine proprie dei Catari, non sarà inutile esaminare
come combattessero le dottrine altrui. Essi riconoscevano nella
Chiesa primitiva la vera Chiesa di Cristo, che custodiva con cura
gelosa gl'insegnamenti del suo Maestro, e ne seguiva scrupolosamente
gli esempi. Ma dall'infausta donazione di Costantino in poi ella si
corruppe, e tolsero a governarla i suoi più fieri nemici, che più
che a Dio servono al Diavolo, a cominciare da quel Silvestro, che
accettando il funesto dono, venne meno ai precetti del divino Maestro,
e ben può dirsi l'Anticristo.[112] Corrotto il costume, fu guasta la
dottrina, e venner proclamati come dommi gli errori più manifesti,
che metton capo nell'intendere alla lettera i simboli e le allegorie
dell'Evangelo. Così nacque il domma della transustanziazione, secondo
il quale il pane ed il vino mutano la propria natura in quella del
corpo e del sangue di Cristo, conservando pure gli accidenti della
prima sostanza.[113] Ma Gesù nel pronunziare le parole: _Hoc est corpus
meum_ adoperava certamente un linguaggio figurato,[114] che stoltamente
vien torto a significare un'assurda consacrazione di sostanze caduche
e create dal malefico Dio.[115] Nè intendeva il divino Maestro che
ogni giorno avesse a rinnovarsi il suo sacrifizio a pro' dei ministri
del culto, che dal mercato delle messe traggono i loro più lauti
profitti; nè molto meno insegnò mai che i suffragi dei sacerdoti
potessero applicarsi alle anime dei defunti per affrettarne l'entrata
in Cielo.[116]

Ma se la dottrina delle preghiere pei defunti, e quelle del Purgatorio
strettamente connessavi non potevano essere accolte dai Catari,
pei quali l'espiazione sta nel migrare dell'anima da un organismo
nell'altro,[117] molto meno accetto dovea lor tornare il domma della
risurrezione della carne. Imperocchè in esso s'attribuisce allo
strumento, col quale si opera, la pena o il premio proprio solo
dell'operante, e si glorifica e mette quasi a paro del puro spirito
il corpo, che è fattura del Dio malvagio.[118] Parimenti sembra loro
strano che si attribuisca ad un elemento di questo basso mondo, come
l'acqua,[119] una virtù santificante; ma più assurdo ancora pare loro
il battesimo dei bambini, ai quali si somministra un sacramento quando
non ancora sono in istato di accoglierlo; onde il più importante
atto della vita religiosa, qual è quello di riconoscere in altri il
credente nella propria fede, diviene una cerimonia affatto vana ed
esteriore.[120] Nè meno irragionevole è il culto delle imagini, le
quali contrariamente allo spirito del Cristianesimo non si tengono
per simboli degli Enti spirituali che rappresentano, ma per oggetti
forniti di un potere magico e miracoloso.[121] Nello stesso modo
che s'intende per casa del Signore, non il cuore del credente, ma
l'edifizio fabbricato di pietre e mattoni, e superbamente decorato di
marmi e d'oro.[122] E per tal guisa si falsa il significato delle cose,
e non si dubita di fare onore alla croce, che fu ed è uno strumento
d'ignominia.[123]


III

Chi ha seguita l'esposizione delle dottrine dommatiche dei Catari potrà
di leggieri indovinare il carattere severamente ascetico della loro
morale, e delle pratiche religiose. Se il mondo è opera dello spirito
del male, qualunque affetto o desiderio che maggiormente vi leghi lo
spirito penitente, lo allontana dal sospirato termine dell'espiazione.
Il vero cataro adunque, a simiglianza del divino Maestro, non possiede
nè case, nè campi, nè altre ricchezze; tutto l'aver suo mette in comune
cogli altri, e va campando miseramente la vita col lavoro delle sue
mani.[124]

Ed al pari delle ricchezze ei condanna gli onori e la possanza, intorno
alla quale si affatica la vana ambizione degli uomini, non risparmiando
guerre sanguinose o arti fraudolenti per conquistarla. Ma la guerra
è opera violenta, che i seguaci del cattivo demone possono desiderare
ed imporre nel loro furore, non certo le miti creature del Dio buono,
i quali invece la condannano sempre, anche quando provocata dagli
altri, o fatta a propria difesa.[125] E non meno della guerra riprovano
l'uccisione del proprio simile così da negare financo ai poteri
pubblici il diritto di mettere a morte i cittadini che infrangono
la legge. Questi eretici in mezzo ad una società efferata e violenta
predicavan l'abolizione del patibolo.[126] I costumi dei Catari sono
miti; e solo contro il proprio corpo incrudeliscono, nè per rintuzzare
gli appetiti perdonano a digiuni e mortificazioni, di parchissimo
vitto si contentano, e severamente proibiscono il nutrimento animale,
perchè non è lecito uccidere gli animali, e distruggere l'organismo
ove può essere trasmigrata un'anima peccatrice.[127] E non meno
dei piaceri delle mense il cataro sa vincere gli allettamenti del
sesso, nè s'illude che alcuna differenza corra tra congiungimento
e congiungimento, nè stima il matrimonio meno illecito della venere
vaga.[128] Imperocchè e l'uno e l'altra menano alla stessa conseguenza
di ritardare pel corso di nuove generazioni il ritorno delle anime alla
lor patria celeste.[129]

Tutte queste massime mettono capo nel principio che governa
l'ascetismo: lo scopo della vita essere la continua preparazione alla
morte. La quale per conseguenza non temuta e aborrita dal Cataro,
è invece ardentemente desiderata, come il termine del doloroso
pellegrinaggio. Talchè si comprende bene come non sia vietato ma
raccomandato il suicidio, quando si corra il pericolo di ricadere
nell'impurità antica. Così i malati, ricevuto l'estremo conforto
religioso, affrettano la morte coll'astenersi dal cibo, o mettersi,
come dicevano, in _endura_.[130] Parimenti si mette in _endura_ chi è
per cadere nelle mani degli inquisitori, o cadutovi venga condannato al
rogo.[131]

Molto più difficile a spiegare è il divieto del giuramento, il quale
era così assoluto che un Cataro dichiarava agli inquisitori non
giurerebbe anco se col giuramento suo potesse convertire gli uomini
tutti al Catarismo.[132] Che fosse assolutamente proibita la menzogna
è naturale. Il diavolo è di sua natura falso e bugiardo, e chi lo
imita non può entrare nel regno del buon Dio. S'intende anche che il
rigorismo cataro possa per l'amore della verità condannare financo la
menzogna pietosa e la necessaria; ma perchè s'ha da avere in orrore
il giuramento, anche quando nell'interesse della giustizia e dello
Stato serva a stabilire la verità? Questo senza dubbio è uno dei tanti
tratti caratteristici di quel misticismo nebuloso, che per elevare
la Divinità, la circonda di silenzio e mistero impenetrabile. L'Ente
Supremo dagli gnostici è chiamato βοθὸς (profondità) e Σιγή (silenzio),
e dagli gnostici e neoplatonici insieme ἃῥῤητος (innominabile). Non
diversamente lo concepiscono i Catari, ai quali sembra per conseguenza
una profanazione che non solo si ardisca di nominarlo invano,[133] ma
lo si chiami a testimone nelle nostre meschine contese.[134]


IV

Ma non s'ha a credere che tutti i Catari adempissero scrupolosamente
agli obblighi imposti dalla loro religione. Rinunziare alla proprietà,
abbandonare la famiglia, consacrarsi al celibato, digiunare almeno due
volte la settimana, astenersi rigorosamente dalla carne, dalle uova,
dal burro, non era certo da tutti; e se la nuova religione avesse
chiesti sì gravi sacrifizii, le sue fila si sarebbero ben presto
diradate. Furon fatte adunque due classi, i perfetti e i credenti.[135]
Questi ultimi non doveano seguire tutte le pratiche religiose, nè
lasciare le famiglie o spogliarsi dei beni, ma solo tenersi stretti
ai credenti nella stessa fede. E della fede neanco tutti gli articoli
erano loro disvelati, ma quelli solo che meno contrastavano alle
credenze antiche, o eran già preparati da vecchie eresie.[136] E
così venne fatto, come diremo, a suo luogo, che una setta ben più
affine al dualismo persiano che al monoteismo occidentale, mentite
le sembianze di un cristianesimo più razionale,[137] riuscisse non
rare volte a scalzare la religione dominante. Dai credenti dicemmo
doversi distinguere i _Perfetti_, ben meritevoli di questo nome per
la vita aspra e faticosa che menavano, e per l'olocausto che facevano
di tutti gli affetti ed allettamenti del mondo, al quale, come opera
del demonio, viveano affatto estranei. E per questa via sebbene
imprigionati nel corpo, si sentivano uniti col Dio buono, di cui aveano
accolto il santo spirito nel _Consolamentum_.[138]

Il _Consolamentum_ era la funzione religiosa più importante dei Catari,
che valeva ai loro occhi più del battesimo cattolico. Vedemmo già
come essi condannassero il battesimo coll'acqua, uno degli elementi
creati dal demonio,[139] Siffatta cerimonia non fu istituita da Gesù,
ma dal Battista il quale si deve tenere per falso profeta,[140] onde
a ragione il Vangelo di S. Matteo (III, 11) e i Fatti degli apostoli
(I, 5) opposero al battesimo con l'acqua quello con lo spirito o
col fuoco.[141] E basta secondo il costume degli apostoli imporre le
mani sul capo dell'iniziato, perchè su lui discenda lo spirito del
Signore.[142]

Per conferire il _Consolamentum_ bisognava esser puri da peccato
mortale, perchè d'accordo coi Patarini i Catari credevano che non possa
assolvere gli altri chi pria non abbia assolto sè dal peccato.[143]
Per ricevere il _Consolamentum_ bisognava esser ben preparati; nè solo
conoscere la vera dottrina religiosa, ma pronti a metterla in pratica.
Imperocchè chi riceveva il _Consolamentum_ poteva altresì trasmetterlo
agli altri. E come sarebbe stato capace di tanto, se non avesse rotto
qualunque vincolo colla materia impura? Il consolato entrava adunque
nella classe dei _Perfetti_, e da quel giorno incominciavano le sue
terribili prove. Ei non apparteneva più a sè, ma alla comunità. La
sua vita non avea altro scopo se non insegnare la verità, combattere
l'errore, disporre e preparare gli animi alla comunione col Santo
Spirito. E se in questo duro e faticoso apostolato gli accadeva
d'incontrare la morte, tanto meglio per lui, chè la sua anima era ben
certa di non ricadere più nella terrestre prigione.

Avendo il _Consolamentum_ la virtù di sottrarre l'anima all'impero
del Demonio, e congiungerla collo spirito del buon Dio, ei pare che
pervenuti a quest'alta cima, non si debba più ridiscendere a valle.
I _Perfetti_ adunque sarebbero non solo di nome ma di fatto, e la
virtù religiosa ne avrebbe talmente compenetrata l'anima, che non
potrebbero più spogliarsene ricadendo nel peccato. Così par che la
pensassero alcuni Catari, ai quali Moneta[144] rimprovera di tenere
per impeccabili i ministri del Signore. Ma il Moneta stesso e tutte le
altre testimonianze affermano d'accordo che la maggior parte dei Catari
teneva l'opinione affatto opposta, vale a dire che anche ricevuto
il _Consolamentum_ si potesse ricascare nel peccato.[145] Per questa
ragione i più differivano a prendere il _Consolamentum_ fino al punto
di morte, sentendosi allora solo sicuri di non tornare vittima del
Demonio. Durante la vita si era sempre esposti alle sue seduzioni,
che se ei fu da tanto da corrompere i puri spiriti del Cielo, qual
meraviglia che riesca a riconquistare un'anima, pur sempre avvinta
al suo corpo? Se non che la ricaduta è oltremodo pericolosa, e ben
difficile è il rilevarsi, e più dure prove si chiedono per essere degni
di un secondo _Consolamentum_.

Quelli che non ricevono il _Consolamentum_, non sono uniti collo
spirito del Signore, e se muoiono, la loro anima, tuttora in balìa
del demonio, deve incarnarsi in un altro corpo, e ricominciare di
nuovo il corso della sua espiazione. Si comprende con che ansia
il Cataro aspetti questo sacramento, e come i Perfetti non debbano
risparmiare fatiche e pericoli per somministrarlo a chi lo richiegga.
E non si risparmiavano davvero, che anche in mezzo alle più occhiute
persecuzioni, apparivano presso al letto del moribondo, quando meno lo
aspettavano; onde il popolo li avea in grande venerazione e li chiamava
buoni uomini, ragione per cui l'eresia dei Catari fu detta _des
Bonshommes_.[146]

Oltre al _Consolamentum_ poche altre funzioni religiose ammettevano
i Catari.[147] Ad imitazione della Cena cristiana celebravano la
_benedizione_ del pane. Quando interveniva un Perfetto alla mensa dei
fedeli, diceva l'orazione domenicale, e poscia benedetto il pane lo
spezzava, distribuendone i pezzetti ai convitati, cui diceva «Che la
grazia del Signore sia sempre con voi».[148] Così anche praticavano
la confessione pubblica e solenne in luogo dell'auricolare, che
condannavano.[149]

Della gerarchia cattolica la Chiesa Catara non conservava se non
due gradi, i vescovi ed i diaconi.[150] Ogni vescovo avea con sè due
ministri, uno maggiore, l'altro minore. Alla morte del vescovo gli
succedeva il ministro maggiore, il quale era ordinato e consacrato dal
minore.[151] Per togliere questo assurdo più tardi si decretò che il
vescovo stesso ordinasse colui che dovea succedergli.[152]


V

L'origine del Catarismo è molto oscura, onde ogni scrittore si crede
in obbligo di combattere i suoi predecessori, ed escogitare una nuova
congettura. Lo Schmidt, che scrisse la migliore storia del Catarismo,
opina esser nata questa eresia spontaneamente presso i Bulgari sul
cominciare del secolo decimo. Ei ricorda che non appena convertiti
i Bulgari al Cristianesimo nell'862 da Cirillo e Metodio, l'opera
di questi missionarii fu ben presto intralciata da due dissidii che
dilacerarono in quel torno la Chiesa cristiana orientale. Il primo
dei quali fu dovuto all'antica rivalità tra Roma e Costantinopoli,
rinfocolata poi dall'essersi il re Bogoris rivolto al Pontefice
Romano per missionarii che compissero l'opera di Metodio. Il secondo
dissidio nacque tra gli Slavi convertiti da qualche secolo che usavano
la liturgia latina, e quelli recentemente conquistati alla fede da
Metodio, ai quali il Papa avea concesso l'uso della lingua nazionale.
Sino alla morte di Metodio la scissura fu soffocata, ma rinacque
subito dopo, ed i Greco-slavi ebbero a cedere ai prepotenti latini.
Si aggiunga che gli Slavi non potevano obbliare così presto l'antica
religione, tanto vero che nell'869 il Concilio di Costantinopoli fu
costretto d'interdire ai Traci e Macedoni, convertiti sin dal settimo
secolo, le rimembranze dell'antico culto. Non è improbabile che in tale
stato d'incertezza tra l'antica e la nuova fede, da questa prendessero
l'idea monoteistica, e tramutassero i loro antichi Dei nel diavolo, che
avea tanta parte nelle prediche dei missionarii del medio evo. C'est
au milieu de ces circonstances que parut parmi les Slaves, peut-être
dès le commencement du dixième siècle, l'hérésie du dualisme Cathare.
Est-ce une opinion trop hasardée, si nous admettrons que ce système
sortit de quelque couvent greco-slave de la Bulgarie, dont les moines,
irrités de l'invasion d'un culte qui répugnait a leur nationalité, et
se livrant en même temps à des speculations tour à tour subtiles ou
fantastiques, étaient arrivés à la conclusion que deux principes se
partagent le gouvernement du monde, et que pour être pur (καθαρὸς)
il faut affranchir l'esprit de toutes les entraves de la création
matérielle? (Schmidt, I, 7).

Questa ipotesi non pare che spieghi pienamente l'origine del Catarismo.
Potrebbe benissimo renderci conto del culto reso in segreto agli
antichi dei, trasformati in demoni, come accadde dovunque la religione
cristiana fu innestata a tronco pagano; ma non ci spiegherebbe
come mai si attribuisse al demone tanto potere, da farlo creatore
dell'universo materiale. Nè molto meno è facile ad intendere come in
mezzo a popolazioni semibarbare, appena convertite al Cristianesimo,
nascesse il pensiero di paragonare la nuova religione non alla propria,
ma alla mosaica, e quest'ultima considerare come l'opera di un Dio
maligno.[153] Nei primi secoli del Cristianesimo, in quei centri
cosmopolitici che erano Alessandria ed Antiochia, ove il pensiero
filosofico greco venne tante volte a contatto col misticismo orientale,
si comprende benissimo come nascessero le audaci speculazioni dei
gnostici.[154] Ma non si capisce egualmente come siffatto movimento
intellettuale dovesse aver luogo tra popoli, che non poteano ancora
assimilarsi l'antica coltura.

Quest'arditezza speculativa è già un sicuro indizio non essere il
Catarismo una creazione bulgara, ma ben piuttosto l'avanzo di antiche
eresie, nate sotto altro cielo, e in altre condizioni sociali, e
trapiantatesi in Bulgaria nel tempo più propizio alla loro diffusione.
Non dubito dunque di seguire l'antica tradizione, secondo la quale i
Catari sarebbero manichei imbastarditi;[155] nè temo che le difficoltà
opposte dallo Schmidt non sieno per rimuoversi facilmente. Ammettiamo
pure che al catarismo manchi cette forme mithologique si remarquable
qui est particulière au manicheisme ... o anche l'idée gnostique de la
matière (ύλη) en lutte avec la divinité (II, 256). Ma è forse strano
che una credenza, una leggenda, un sistema filosofico trapiantandosi
da un luogo ad un altro non perda molti caratteri, e ne acquisti altri
per adattarsi al nuovo ambiente in cui deve vivere? E che meraviglia
se non trovi nel Manicheismo il domma del _Consolamentum_ essenziale
alla religione catara? Non trovi la parola, nè la formola ed il rito
religioso; ma certo il concetto della purificazione dell'anima, che
accolse in sè il Santo Spirito, non manca. Noi non diciamo che il
Catarismo sia il Manicheismo nella sua forma primitiva; tutt'altro.
Il tempo avea già scoloriti molti tratti della dottrina religiosa di
Mani, ed il nome stesso del fondatore era già obbliato; che perciò? non
accadde lo stesso nel secondo secolo a Valentino, a Basilide e ad altri
fondatori di sètte gnostiche, i cui nomi erano sconosciuti a coloro
stessi che se ne appropriavano le dottrine?[156]

Del resto lo Schmidt stesso non può fare a meno della tradizione
manichea. Quand on songe que les souvenirs du manicheisme s'étaient
conservés longtemps dans les couvents de l'orient notre opinion ne
doit pas paraître dénuée de toute probabilité (I, 8). Nelle quali
parole egli riconosce essere il Manicheismo la prima fonte onde
attinsero i Catari, il che non esclude che altri rivoli secondarii vi
si mescolassero per via. In tutti i grandi movimenti religiosi accade
quello che notammo del Catarismo, nel quale intorno al nucleo della
dottrina dualistica si aggrupparono le più vecchie eresie, che viveano
tuttora occulte e dimenticate nelle lontane solitudini dei pensatori.
E per tal guisa si formò un insieme di dommi non molto omogenei, ma il
cui contrasto sfuggiva all'acume dei recenti alleati. Noi già trovammo
più su accanto alle tradizioni ariane della distinzione sostanziale
tra Padre e Figlio le fantasticherie docetiche sul corpo apparente di
Gesù. Ed insieme alle mistiche descrizioni del regno celeste, e della
trasmigrazione delle anime le polemiche di Claudio di Torino contro
l'adorazione delle immagini, e quelle più radicali di Berengario
contro l'Eucaristia.[157] Ma non perchè queste continue aggiunte dieno
una nuova impronta al Catarismo, non per questo s'ha da sconoscere
la sua stretta parentela coll'antico manicheismo,[158] il quale non
ispento dalle persecuzioni rifioriva prima in Ispagna per opera di
Priscilliano,[159] e più tardi in Armenia coi Paoliciani;[160] di lì si
diffuse tra gli Slavi; e dalla Bulgaria pel tramite dei commerci passò
in Italia, e quindi in Francia.


VI

Toccato dell'origine studiamo ora la DURATA, DIFFUSIONE, ed INTENSITÀ
del movimento cataro.

Fino dai primi anni del secolo decimoprimo serpeggiava per
l'Aquitania la nuova eresia, come ne fa fede il cronista contemporaneo
Ademaro.[161] E questi e Rodolfo Glaber del pari fanno menzione di
dieci canonici di Orleans, scoperti come manichei nel 1022, e dati
alle fiamme per ordine di Re Roberto.[162] Ma dacchè secondo lo stesso
Glaber siffatto movimento vien propagato dall'Italia, è lecito supporre
che tra noi si manifestasse l'eresia molto prima del 1034, anno in
cui Girardo di Monteforte venne a furor di popolo bruciato vivo in
Milano.[163] Nè andremo lungi dal vero se la faremo risalire alla fine
del secolo decimo. D'altra parte il catarismo militante vien meno al
cominciare del secolo XIV, quando alle cruenti crociate contro gli
Albigesi successero le stragi dell'Inquisizione. Sicchè non tenendo
conto di qualche resto cataro, scoperto da Vincenzo Ferrer nel 1402 o
in Lombardia, o nelle inaccesse valli del Pellice e Clusone, la durata
dell'eresia catara nell'occidente oltrepassa i tre secoli.

Non meno importante è la diffusione, della quale ora terremo parola
sommariamente, rimandando chi desideri più estesi particolari alla
monografia dello Schmidt. A cominciare dall'Italia settentrionale,
ricordiamo che la Lombardia riboccava di eretici così, che le sètte vi
si moltiplicavano, e la chiesa moderata di Concorrezo combattea la più
rigida del veronese Balasinanza, e quest'ultimo non andava d'accordo
con l'altro rigorista Giovanni di Lugio. A Ferrara spesseggiavano gli
eretici del pari, e per iscacciarneli il vescovo ebbe a ricorrere al
potere civile.[164] In Modena i catari l'impattavano coi cattolici,
tanto da vivere in pace gli uni accanto agli altri, ed il Muratori
ricorda che nel 1192 furono ricompensati con eguale misura catari
e cattolici per la distruzione che a causa di utilità pubblica fu
fatta di loro mulini.[165] Anche in Toscana il Catarismo ebbe non
pochi seguaci, ed il primo vescovo dei Catari moderati o concorrezesi
fu un Pietro Lombardo da Firenze. In questa città le donne stesse
s'adoperavano alla propagazione della setta e gli eretici cresceano a
tal segno che nel 1173 dettero pretesto a mutamenti nel governo.[166]
Dalla Toscana discese l'eresia ad Orvieto, ove, oppressa nel 1125,
fu rilevata nel 1150 dal Diotisalvi di Firenze e da Girardo da S.
Marzano. In seguito, scacciati questi missionarî, ne seguitarono
l'opera due donne, Milita di Monte Meato e Giuditta da Firenze.[167]
Da Orvieto si estese a Viterbo, nè la stessa Roma fu salva, anzi si
serba memoria di una esecuzione di Catari, fatta nel 1231 al tempo di
Gregorio IX.[168] Perfino nella remota Calabria par che attecchissero
i Catari a giudicarne almeno dall'ardore con cui l'abate Gioacchino li
combatteva.[169]

Dall'Italia, come dicemmo, l'eresia passò in Aquitania, e Tolosa fin
dai primi tempi fu il centro della sua diffusione.[170] Di là s'avanzò
nel Perigord, nel vescovado di Limoges, nella marca di Poitiers,
risalendo su sino ad Orleans, ove trovammo a capo degli eretici alcuni
sacerdoti, grandemente stimati per la loro pietà. Ben presto oltrepassò
la Loira, talchè il vescovo di Chalons, Rogero (1043-1062), chiese
a Wazon vescovo di Liegi se in vista del pericolo imminente non si
dovesse procedere rigorosamente contro gli eretici. Abbiamo tuttora la
risposta del pio prelato: Dio non vuole la morte, ma la conversione dei
peccatori; e la sola pena consentita dal Vangelo contro gli eretici sta
nell'escluderli dalla comunione dei fedeli.[171] Questa lettera porta
la data del 1048, e la pena che in essa vien suggerita fu nel fatto
comminata l'anno appresso dal concilio di Reims.[172] Tanto rapidamente
s'era diffusa l'eresia nel nord della Francia, ove già sin dal 1025
s'ebbe notizia di eretici, principalmente a Reims, a Liegi, Arras e
Cambray![173]

Dalla Francia il passaggio in Germania è ben facile, e già nel 1052
Enrico III fece impiccare in Gosslar (Hannover) alcuni eretici, che
si scopersero per manichei dal rifiuto di uccidere un pollo.[174]
Nel secolo susseguente, come sappiamo dalla lettera di Evervino a S.
Bernardo, l'eresia s'era così diffusa in Colonia, che vi si stabilì
un vescovado cataro. Arrestati nel 1146 il vescovo col suo diacono,
anzi che smentire le loro credenze, salirono animosamente sul rogo.
Pochi anni dopo nel 1160 furono scoperti altri catari a Bonn, con a
capo Arnoldo abile disputatore, conoscitore profondo della scrittura
ed entusiasta della sua fede. A capo a qualche anno salito sul rogo coi
suoi diaconi, fu udito gridare tra le fiamme: «Fratelli, siate costanti
nella fede, oggi sarete riuniti ai martiri del Cristo». E in questo
dire una fanciulla catara, che in grazia della sua bellezza era stata
sottratta al supplizio, copertosi il volto, si precipitò nel fuoco per
morire col suo maestro.[175]

L'Inghilterra fu salva dall'eresia. Ben tentarono di penetrarvi verso
il 1160 alcuni catari, volgarmente detti pubblicani (paoliciani),
non ammontanti a più di trenta, tutti di nazione e lingua tedesca, e
guidati da un tal Girardo, il solo tra loro che sapesse di lettere.
Ma furono scoperti e segnati nella fronte da un marchio d'infamia, e
poscia battuti a verghe ed espulsi dalle città, e proibito a chiunque
di ospitarli. Perirono per la campagna di freddo e fame, vittime
anch'essi devote e coraggiose della loro fede;[176] ma altri dopo di
loro non ritentò l'ingrata prova.

Pari alla durata ed estensione l'intensità. Senza un gran vigore di
fede il catarismo non avrebbe potuto opporre così tenace resistenza
alle persecuzioni, che massime dopo il 1200 infierirono senza misura.
Un rapido ricordo storico varrà meglio di qualsia dimostrazione.
Il secolo decimoterzo, che è quello dei grandi uomini della Chiesa,
Innocenzo III, Gregorio IX, Alberto Magno, S. Tommaso, è altresì il
secolo delle più fiere lotte, e più selvagge passioni. Montato sul
trono Innocenzo III mandò suoi legati nella Francia meridionale per
estirparvi l'eresia, e quando uno di essi, il Castelnau, fu ucciso a
tradimento indisse la crociata contro i popoli del mezzogiorno, che
s'erano allontanati dalla Chiesa.[177] Già prima di lui il legato
Enrico[178] vescovo cardinale d'Albano, indetta la crociata contro
gli eretici albigesi, con gran seguito di truppe aveva invase nel
1181 le terre del visconte di Béziers, ed ottenuta la resa del forte
castello di Lavaur. Ma questa prima crociata, benchè non poco cruenta,
fu nulla a petto della seconda, alla quale presero parte molti
signori del nord della Francia, che sotto il pretesto della religione
movevano alla conquista delle ricche contrade del mezzogiorno. Codesta
guerra fu combattuta con furore, e il nome di Simone di Monfort
restò tristamente[179] celebre in quelle infelici contrade, dove gli
eretici furon trattati peggio dei musulmani.[180] Quando Béziers,
dopo un'eroica resistenza, cadde sotto i colpi dei crociati, a quelli
che lo chiedevano sul modo di distinguere i rei dagli innocenti, il
legato Arnaldo rispose: uccideteli tutti, Dio riconoscerà quelli che
gli appartengono.[181] Alla presa di Carcassona 400 arsi vivi, e 50
impiccati come eretici.[182] Espugnato il castello di Minerva, il
legato Arnaldo promise la salvezza della vita a chi si convertisse,
perchè sapeva che nessuno dei credenti avrebbe rinnegata la sua fede.
Conosco i miei uomini, egli diceva a chi scandolezzavasi di tanta
mitezza. Nè avea torto, chè più di 150 perirono sul rogo martiri
della loro fede.[183] Presa Lavaur, ne fu impiccato il comandante,
gittata nel pozzo la sorella, arsi quattrocento Catari.[184] E più
cruente furono le stragi, quando dopo il concilio lateranense del
1215 si rinnovò la guerra con tanta violenza che i superstiti ebbero
a invidiare la sorte dei caduti in battaglia. E l'infelice conte di
Tolosa Raimondo VII se volle ottenere la pace dopo trenta anni di
guerre rovinose, ebbe a giurare di combattere e punire gli eretici
senza pietà, e conferire un premio di due scudi di argento a chi ne
assicurasse qualcuno alla giustizia.[185]

Ma questi roghi, queste condanne in massa senza giudizio, son pur
da meno delle persecuzioni posteriori. Si poteva attribuire siffatti
orrori alla necessità della guerra, all'eccitazione degli animi, al
diritto di rappresaglia; d'ora innanzi saranno imposti dalla fredda
ragione. Prima di questo tempo, come dimostrarono il Ficker e l'Havet,
la pena del rogo contro gli eretici non era stabilita per legge in
nessun paese.[186] In Germania si solevano, è vero, mettere a morte
gli eretici o a furor di popolo, come a Colonia nel 1163, o anche per
ordine dell'imperatore, come a Gosslar nel 1052; ma quest'ordine non
fu dato in omaggio ad una legge, bensì per misura politica. Anche in
Francia le molteplici esecuzioni, che ricordammo, ebbero lo stesso
carattere, e prima della legge di Luigi VIII del 1226, non ve ne ha
altra che condanni gli eretici al supplizio del fuoco. Con maggior
ragione si deve dire lo stesso della Francia meridionale e dell'Italia.
Chè anzi mentre nel settentrione dell'Europa la pratica discordava
dal diritto, e tacendo le leggi, vigeva la consuetudine di mettere a
morte gli eretici; nel mezzogiorno al contrario e diritto e pratica
s'univano in una grande mitezza e tolleranza. Dopo l'esempio di Girardo
di Monteforte non v'ha ricordo di altro bruciamento di eretici, e
l'autore delle memorie milanesi dice espressamente che nell'anno 1233
ebbe luogo la prima esecuzione.[187] In Modena ricordammo come accanto
ai diritti degli altri cittadini eran riconosciuti quelli dei catari.
Nella Francia meridionale Giraldo vescovo di Albi non dubitò d'invitare
gli eretici ad una pubblica disputa a Lombers.[188]

Questa tolleranza però cessò ben presto in tutti i paesi. Il cardinale
Pietro di San Crisogono, legato del papa nel Tolosano, condannò un
Morand, ricco signore seguace e protettore dell'eresia, alla confisca
dei beni ed alla distruzione delle case. E costui se volle salvarsi
dalla miseria, ebbe a sconfessare solennemente la sua fede, e subire
l'ignominioso castigo della fustigazione.[189] Parimenti in Italia
si serba memoria di un vescovo Guarnasia, legato dell'imperatore
Enrico VI, che confiscò per ordine imperiale i beni dei patarini di
Prato e ne distrusse le case.[190] Ottone IV, in un suo decreto del
1210 contro gli eretici di Ferrara,[191] e gli statuti di Verona: che
rimontano secondo il Ficker, al di là del 1218, prescrivono l'esilio
degli eretici e la distruzione delle loro case. Questa stessa pena
dell'esilio è prescritta nella legge di Federigo II del 1220.[192]

Dopo poco altro tempo le cose volsero in peggio. Il papa chiedeva
dall'imperatore una più energica repressione dell'eresia, e Federigo,
che avea rinnovato contro la Chiesa l'antica guerra per l'indipendenza
dello Stato, per tema non lo si sospettasse di poca ortodossia,
acconsentì a mutare la sua prima legge.[193] Strana ironia della
storia! Quell'Imperatore che tenne più fermo contro le pretensioni
di Roma, e presso i contemporanei era tanto in voce di miscredente ed
epicureo, da non trovar grazia neanco presso il gran poeta ghibellino;
quell'imperatore che avea ai suoi servigi gente di diversa credenza,
saraceni non meno di cristiani, egli per lo appunto è il primo a
sancire la pena del rogo contro gli eretici,[194] e in servigio della
Chiesa vien meno alle più fondamentali norme del diritto vigente. E
nel luogo dei vescovi stati fin oggi i giudici naturali delle eresie
acconsente che entrino i frati predicatori, facendoli almeno per la
Germania legati imperiali;[195] nè dubita di sancire le più aperte
infrazioni della regolare procedura, ammettendo la testimonianza del
correo o del delatore,[196] e tollerando che si tacesse nei giudizii il
nome del testimone. Un altro passo ancora, e non ci meraviglieremo più
che colla morte del reo non si estingua l'azione penale, ma seguiti il
processo contro i defunti, perchè gli eredi ne scontino la pena.[197]

Con queste misure violente l'eresia veniva stretta in un cerchio
di ferro, e ben pochi poteano sottrarsi alle occhiute vigilanze
degl'inquisitori, ed alle insidie delle spie prezzolate o interessate.
Ma non ostante questi rigori i Catari non furon domi, e se non
all'aperto, continuavano in segreto a professare il loro culto. E
taluno di essi seppe nascondersi così, che non solo non fu disturbato
finchè visse, ma dopo morto per poco non venne santificato dai
cattolici. Il Muratori pubblicò il processo di un Armanno Pungilupo da
Ferrara morto nel 1269, intorno al quale per anni parecchi continuò
aperto dissenso tra la Curia e i Frati inquisitori. La Curia, ligia
alla voce popolare, che dava il Pungilupo per uomo pio, e morto in
odore di santità, non solo permise che fosse seppellito nella Chiesa
maggiore in magnifico mausoleo; ma raccolte le informazioni sui
miracoli che dicevano fatti da lui, permise s'innalzasse presso alla
tomba un altare votivo. Ed i fedeli v'accorreano numerosi, e con
giuramento attestavano al Vescovo di avere per intercessione del beato
Armanno ricuperata o la vita, o il moto o la parola, e taluno persino
giurò d'essere stato liberato dai demoni, che lo possedevano.[198]
Ma gl'inquisitori diffidavano assai di tal taumaturgo, che pochi
anni innanzi, nel 1254, convinto d'eresia, dovè la sua salvezza
all'abjura.[199] E interrogati parecchi, già appartenenti alla setta
bagnolese, raccolsero che, non ostante la ritrattazione, il Pungilupo
continuò per tutta la vita nella fede catara;[200] nè fu solo
_credente_, ma ricevette il _consolamentum_,[201] e con ardore si mise
a diffondere le dottrine bagnolesi, e predicando contro il lusso e la
corruzione dei preti,[202] fece nuovi seguaci alla sua setta. Istruito
in tal modo il processo si venne alla sentenza, cagione di un violento
dissidio tra le due autorità ecclesiastiche. L'inquisitore ordinò
l'esumazione delle spoglie di Armanno, e, non obbedito, scomunicò
la Curia e interdisse la Chiesa; la Curia dal canto suo respinse la
sentenza, e si appellò al Papa Gregorio X. Ma nè a costui nè a parecchi
dei successori fu dato di comporre le cose, e la controversia si
prolungò per più di un trentennio. Alla fine nel 1301 l'inquisitore Fra
Guido Vicentino, consultati per ordine di Bonifacio VIII il Vescovo di
Bologna e un altro frate, domenicano anche lui, pronunziò la sentenza,
dal Papa già dichiarata inappellabile, che dice: s'infranga il mausoleo
e l'altare innalzato in onore di Armanno, e dissepolto e bruciato il
cadavere, ne si sperdano ai venti le ceneri. E le immagini e le offerte
votive si distruggano, e chiunque s'opponga a queste misure, o seguiti
a ricordare il nome e le opere dell'eresiarca, se privato incorra nella
scomunica, se chierico nella perdita dei suoi benefizii, se università
o terra nell'interdetto.[203] Questo solo fatto, accaduto nella seconda
metà del secolo XIII, vale più di un lungo discorso a provare quanto
rigoglio avesse tuttora l'eresia dopo tante persecuzioni, e come
riescisse difficile ai più zelanti di estirparla.


VII

La diffusione, la durata, la tenace resistenza dell'eresia manichea
sembrano un vero paradosso storico. Perchè se da una parte non si può
negare che l'ascetismo cataro più rigoroso del cattolico s'opponeva
al rifiorire delle scienze, delle arti, dei commerci, e vincendo
avrebbe ritardato di molto altro tempo quel risorgimento classico,
di già cominciato nel medio evo, dall'altra non è men vero che un
misticismo così malsano, e di colore schiettamente orientale attecchì
quasi dappertutto in Europa, ma principalmente nei centri della nuova
coltura. E così accadde che nello stesso linguaggio in cui la nuova
musa cantava i cavalieri, l'armi, gli amori, un'altra voce più severa
predicava i digiuni e le astinenze, segnava d'infamia il matrimonio,
e stillava nelle menti un odio feroce contro il mondo, creatura d'un
malvagio iddio. Non giova addurre la legge dei contrapposti, che fa
passare la natura umana dall'estremo della frivolezza e della gaja
vita alla tetraggine di una inquieta ascesi. Nè si potrebbe invocare
l'esempio recente della Germania, che nel tripudio del patriottismo
trionfante vide rinnovarsi la filosofia pessimistica. Ragioni ben più
profonde e molteplici spiegano le insperate fortune del Catarismo.
E la prima è questa, che la nuova setta al pari delle antiche
pitagoriche e gnostiche si circondava di mistero, nè tutti i suoi
dommi svelava agli iniziati o credenti pria che fossero per lunghe
prove divenuti _perfetti_.[204] Talchè non in grazia delle dottrine
ignorate dai più essa facea il maggior numero dei seguaci, bensì per
l'opposizione alla Chiesa dominante ed alla gerarchia medievale. E come
il bisogno di libertà si sentiva più acutamente nelle contrade, ove
il laicato parlava già e scriveva una lingua diversa dal latino, ed
una nuova letteratura avea creata, ed espressi pensieri e sentimenti
nuovi, era ben naturale che ivi si formasse il centro ed il focolaio
dell'agitazione ereticale.

L'opposizione che il Catarismo movea al Cattolicesimo abbracciava due
capi, le dottrine ed i costumi. In quanto alle dottrine già vedemmo
come i Catari sapessero far tesoro delle opposizioni precedenti, nè
fa meraviglia che agl'iniziati insegnassero per prime non le proprie
idee, ma quelle invece, che sebbene ostili al Cattolicismo, tornavano
più accettevoli pel ricordo delle antiche eresie. Vedemmo come il
catarismo fosse ariano, docetista, iconoclasta, berengariano. Per tal
guisa la nova religione, non che nemica, si diceva restauratrice del
Cristianesimo, come quella che volea riaddurlo alla forma schietta
dei primi tempi, alla cui semplicità mal s'addicevano i dommi
posteriori.[205] A codesta rinnovazione ben si comprende come giovasse
lo studio degli antichi documenti del Cristianesimo. Onde i Catari
facean pochissimo conto della tradizione ed ai molti libri dei padri e
dei dottori, che i Cattolici soleano addurre[206] opponevano un libro
solo, il Nuovo Testamento, e quello studiavano e mandavano a mente,
e traduceano nelle nove lingue ed interpetravano ora alla lettera
ora allegoricamente, come faceva il bisogno.[207] Per questi motivi
il Catarismo parea come una purificazione della coscienza religiosa,
ritemprata alle pure fonti dei tempi apostolici. Ed ecco un'altra
cagione dei suoi trionfi. Di contro ai sacerdoti cattolici, ingombri
da superstizioni e talvolta così ignoranti da non sapere neanche
leggere la Bibbia, i _Perfetti_ catari parevano animati da una fede
più razionale, e più studiosi dei sacri testi.[208] Era una apparenza e
l'una e l'altra, chè il Catarismo coi suoi presupposti dualistici mal
rispondeva ai bisogni della ragione; e tra i sacerdoti catari nessuno
potè levarsi all'altezza intellettuale di molti fra i cattolici.
Ma tant'è; nelle rinnovazioni religiose l'apparenza giova non meno
della sostanza, e le grandi masse con quella più che con questa si
guadagnavano alla nova fede.

L'altra opposizione, che facevano i Catari, si riferiva ai costumi. I
cattolici stessi levavano alte grida contro la corruzione del clero,
e basterà per tutti ricordare Benedetto IX, fatto Papa a dodici
anni, il quale dal 1033 al 1045, empì Roma di scandali, ruberie ed
assassinii. Nè a strappare dall'indegno capo la tiara vi fu altro
mezzo se non comprarla a contanti, come fece il buon Gregorio VI,
il quale nonchè rimproverato dell'aperta simonia, venne accolto dai
più come restauratore della Chiesa.[209] Dalla sommità della scala
gerarchica sino agli ultimi gradini si faceva mercato degli ufficii
ecclesiastici.[210] Ed il clero era ognor più avido di ricchezze,
ed alle ricchezze aggiungeva il fasto ed il potere. Non erano rari i
vescovi principi e militari, che con una mano fecevano il segno della
pace e dell'amore e coll'altra stringevano la spada ancor fumante di
sangue.[211] Contro codesto clero le anime profondamente religiose
gridavano: povertà e castità. E quel grido fu abilmente raccolto dai
Catari, che sull'autorità dei sacri testi insegnavano il più rigido
ascetismo, ed il rigore dei precetti confermavano colle opere. Anche
i Catari furono più volte accusati d'immoralità ed ingordigia ma le
stesse testimonianze cattoliche come quella di S. Bernardo smentiscono
le accuse. Gli uomini, che morivano lieti sul rogo in olocausto alla
loro fede, conoscevano bene la virtù del sagrifizio; ed il popolo
ai cui mali essi provvedevano con sollecita ed instancabile cura, in
opposizione al clero egoista li soleva chiamare _bonshommes_. Altra
causa codesta del favore ognor più crescente del Catarismo.

E questa cagione forse è la più forte di tutti perchè nella lotta
contro i vizii del clero l'opposizione ereticale si collegava
naturalmente colla cattolica. Più tardi parleremo degli oppositori
cattolici o _patarini_. Per ora ci basta questo ricordo storico. Pochi
anni innanzi che S. Arialdo levasse il grido di guerra contro l'alto
clero milanese, un Girardo eretico ricoverato nel castello di Monforte
confessò apertamente all'arcivescovo Ariberto, che egli ed i suoi
seguaci, ammontanti a più di tremila, non mangiavano carne, metteano
tutto in comune, facean voto di verginità, e se anche ammogliati
rispettavano la propria moglie come sorella.[212] Una gran parte di
questi eretici, non volendo rinunziare alla sua fede, fu data dal
popolo tumultuante alle fiamme, ma certo non tutti perirono sul rogo,
ed i superstiti senza dubbio si fusero coi _patarini_.[213] Così
all'ombra del movimento riformatore, capitanato da Gregorio VII, si
dilatava sicura ed inavvertita l'eresia.

Le ragioni finora addotte delle fortune del Catarismo mettono capo in
quello spirito di opposizione alla Chiesa stabilita, per cui la nuova
eresia facendo causa comune con tutte le antiche prende l'aspetto
di una purificazione della coscienza religiosa. Ma oltre a questo
elemento critico e negativo dobbiamo distinguere nella nuova religione
un altro elemento, non meno importante, voglio dire l'ascetismo,
pel quale non solo va d'accordo col Cattolicesimo, ma lo supera,
offrendo così nuovo e più sostanzioso pascolo alle anime mistiche.
La Chiesa catara sottoscrive di gran cuore alla massima cattolica
che tre sono i nemici dell'uomo, il mondo, il demonio, la carne;
ma ne trae le estreme conseguenze. Fra i tre nemici, ella dice, che
sono uniti contro l'anima, corre di certo un rapporto di parentela,
e come l'anima, per malvagia che sia, è dappiù della materia, così
delle tre potenze avverse la maggiore è quella del demonio; le altre
si possono considerare come sue ausiliarie, o meglio sue geniture.
Ed eccoci in pieno dualismo.[214] Nè vogliamo tacere che questa
trasformazione favoriva per soprammercato certe tendenze, molto comuni
nel Medio Evo, ed anche oggi non estirpate del tutto, come a dire la
fede nell'esistenza ed efficacia di spiriti malefici, che non solo
assalgano gli eremiti del deserto, ma si caccino nelle popolose città,
mescolandosi in tutti i negozii, e talvolta nascondendosi negli angoli
delle case. È stato già notato come in queste superstizioni diaboliche
rivivesse l'antico culto pagano. Per lo che non a caso si estesero e
dilargarono col rifiorire degli studii classici, nè solo nel Medio Evo
ma più ancora nella Rinascenza si credè follemente alle streghe e agli
ossessi.

Non farà dunque meraviglia che il Catarismo rispondendo a così
diverse tendenze faccia tanti seguaci. Alle anime, avide di libertà,
offre di sottrarsi al ferreo giogo della gerarchia; alle travagliate
dalla sventura svela il mistero dell'infelicità umana, e promette
la fine del doloroso pellegrinaggio. Le menti vigorose alletta
coll'interpetrazione allegorica dei dommi, che tornano più ostichi
alla ragione; le inferme seduce rafforzando le loro credenze nel
diavolo, e giustificando le più strane e paurose superstizioni. Non
per tanto i due elementi, che rilevammo nel Catarismo, non cessano di
essere eterogenei. Chè l'uno tende, come dicemmo, alla purificazione
del contenuto religioso, l'altro per lo contrario favorisce la
superstizione; l'uno coll'andare del tempo riescirà alla reintegrazione
della vita, l'altro ad una condanna di essa più cruda e recisa che non
avesse fatto il Cattolicismo. Questi elementi adunque, così discordi,
dovranno separarsi. Gli spiriti più geniali, e desiderosi di una vera
rinnovazione religiosa lasceranno cadere l'ascetismo dualistico,
importazione affatto orientale, e serberanno invece l'altra parte,
frutto dei più grandi pensatori dell'occidente come Claudio di Torino,
Agobardo di Lione, Berengario di Tours. Per tal guisa nascono i
Valdesi.



CAPITOLO II

I VALDESI


I

L'opinione dell'identità di Valdesi e Catari è stata, sostenuta
da nemici ed amici. Il Gretser tra i cattolici ad esempio crede
che tutte le eresie del Medio Evo si riducano ad una sola, e che i
nomi differenti ricordati da Raniero Sacconi e Pier delle Vigne non
accennino se non a varietà locali di una stessa eresia.[215] E così i
Valdesi si chiamano catari non dal greco καθαρὸς come parrebbe a chi
ricordasse il nome che si solevan dare gli antichi Novaziani, bensì dal
tedesco _Kätzer_. Quale sia poi l'origine di _Kätzer_ non è difficile
dire. Forse da _kätzern_ dividere, ma più probabilmente da _cato_.
_Cur autem majores nostri Germani haeretici nomen a cato indiderint
promptum erit intelligere ei, qui proprietates cati cum genio et indole
haereticorum conferre volet._ È inutile discutere queste stranezze,
non tollerabili neanche nel 1612 quando furono scritte; ma voglio
notare solo la contraddizione in cui cadeva il Gretser. Secondo lui i
Valdesi non rimontano prima del 1160 ed hanno per progenitore Pietro
Valdo.[216] Dunque le eresie anteriori, che nel nome di catarine furon
condannate nei concilii di Tolosa del 1056 e 1119, non possono essere
valdesi.

Il bisogno polemico di fare apparire i Valdesi nella luce più fosca, e
di attribuire loro anche gli errori dualistici per meglio combatterli,
fuorviò il Gretser. E l'opposto disegno condusse allo stesso errore gli
scrittori protestanti, come il Basnage, l'Abbadie, il Monastier.[217]
I quali tutti sostenevano anch'essi l'identità di Valdesi e Catari,
ma credevano che le dottrine dualistiche, attribuite a questi ultimi,
fossero una invenzione dei loro persecutori. Eppure la verità non era
difficile ad appurare, perchè le testimonianze più antiche non lasciano
dubbio che i contemporanei sapessero già ben distinguere la setta
catara dalla valdese. Così il Sacconi dopo avere esaminato le dottrine
dei Catari, e le varie sètte in cui si dividono, serba un capitolo a
parte ai valdesi, di cui parla come di una eresia tutt'affatto diversa,
e che a nessuno verrebbe in mente di confondere colle precedenti.[218]
Parimenti Stefano di Borbone distingue chiaramente i poveri di Lione,
che ebbero e nome e dottrina da un tal Valdense, dai Patarini o
Bulgari, che ei fa risalire direttamente a Mani e chiama senz'altro
Manichei.[219] Più esplicito è Guglielmo di Puy Laurent che nella
sue cronaca dice: nelle provincie narbonese ed albigese erano alcuni
ariani, altri manichei, altri infine valdesi o lugdunesi, i quali
tutti sebbene dissenzienti tra loro cospiravano pur contro la Chiesa
cattolica. I Valdesi eran quelli che più acutamente disputavano contro
gli altri eretici.[220] Oltre a codesti autori bisogna citare Alano che
consacra ai Valdesi il secondo libro della sua opera ed il Moneta che
non ignora esserci Valdesi più vicini ai Cattolici dei Catari.

Del resto ove pongansi a raffronto le dottrine dei Catari con quelle
dei Valdesi si colgono a colpo d'occhio le differenze. E perchè
la nostra dimostrazione sia più compiuta, scegliamo gli autori del
tempo in cui i Valdesi avean già subito parecchi influssi dei catari.
Togliamo ad esempio il Sacconi, che scrisse nel 1250. Secondo questo
inquisitore, che conosceva di persona gli eretici, i Poveri di Lione si
dividono in due rami, quelli d'oltremonti ed i lombardi. La dottrina
dei primi si assomma in questi quattro punti: 1º ogni giuramento
è vietato dall'Evangelo; 2º non lice alla potestà civile punire di
morte i malfattori;[221] 3º qualsiasi laico può consacrare il corpo di
nostro Signore; 4º la Chiesa Romana non è la Chiesa di Cristo. I poveri
lombardi s'accordano nei due primi punti coi fratelli d'oltremonti, ma
intorno agli altri due vanno anche più in là. Sostengono che chiunque
vive in peccato mortale non possa consacrare il corpo di Cristo, e
la Chiesa Romana raffigurano nella donna dell'Apocalisse, e ai suoi
precetti non vogliono obbedire, talchè non credono peccato mangiare
carne in quaresima e nelle vigilie. Questa esposizione ci mostra non
pure differenza ma opposizione tra le due dottrine. Non solo nella
dottrina valdese manca qualunque traccia del dualismo cataro, ma mentre
i Catari vietano assolutamente il mangiar carne, i poveri di Lione lo
permettono anche nella quaresima e nella vigilia; e laddove quelli a
simiglianza dei cattolici hanno sacerdoti, o Perfetti, ai quali solo
è lecito benedire la tavola spezzando il pane, e somministrare il
_consolamentum_; questi al contrario dicono non esservi bisogno di un
particolare intermediario tra l'Uomo e Dio, ed ogni figliolo potersi
rivolgere direttamente al suo padre celeste.

Col Sacconi s'accorda Pietro di Vauxcernay, il quale mettendo in
raffronto i Valdesi cogli Albigesi dice che i primi sono meno perversi
dei secondi, perchè in molti punti convengono coi cattolici. A quattro
assommano i loro errori, portar sandali secondo il costume degli
apostoli, credere che ognuno di loro se anche non ordinato possa
consacrare il corpo di Cristo, vietare che si giuri, o che si uccida
per qualsiasi ragione anche giusta.[222] Davide di Augsburgo, che
nell'enumerare le principali dottrine dei valdesi si accorda colle
altre testimonianze, aggiunge questa circostanza, che i Poveri di Lione
si credevano così lontani dagli eretici, da domandare al papa Innocenzo
III il riconoscimento del loro sodalizio, come quello che menava una
vita conforme ai precetti dell'Evangelo.[223]

È adunque fuor di dubbio che i Valdesi non si possono accomunare coi
Catari, e per la concordia delle più antiche testimonianze e per
l'evidente disformità delle dottrine. Ma queste differenze non ci
debbono far dimenticare i punti di contatto.

I Valdesi non meno dei Catari adducendo il testo evangelico: che dal
frutto si conosca l'albero,[224] sostenevano concordemente la Chiesa
cattolica non potersi dire la vera chiesa di Dio.[225] Inoltre i
Valdesi al pari dei Catari condannavano qualunque possesso; ed i primi
si chiamarono perciò Poveri di Lione[226] che a somiglianza di Valdo
spogliaronsi dei loro beni, e reputavano indegni seguaci di Cristo
quei sacerdoti, che accettavano pingui prebende e regalie.[227] Per lo
stesso motivo doveano condannare il potere temporale dei Papi,[228]
e Valdesi e Catari solean dire che da quel giorno in cui Silvestro
accolse l'infausto dono di Costantino la santità primitiva venne meno
e la Chiesa di Cristo si tramutò nella donna dell'Apocalisse.[229] Nè
solo in queste massime pratiche sono d'accordo e Catari e Valdesi,
ma in molti punti dottrinali di grave momento. Dimostrammo già a
suo luogo che i Catari per nascondere il loro ascetismo orientale
sotto sembianze razionalistiche, solevano accogliere le più disparate
dottrine eterodosse. E ben per tempo i Valdesi li seguirono per questa
via. Vogliamo tra tutte ricordare questa, che ci viene attestata da
una delle fonti più antiche, dall'abate di Foncaldo. Dio, essi dicono,
ripetendo le parole dei Catari, non può albergare in una casa, fatta
colle mani dell'uomo; nè fa d'uopo andare in chiesa per adorarlo. Lo
s'adora con maggior frutto nelle stalle, nelle camere, chè dappertutto
il figliuolo può invocare l'aiuto del padre suo.[230]

Ed oltre a questa coincidenza è notevole l'altra del peso che davano
all'autorità della Bibbia al di sopra di tutte le altre. I Catari
nelle loro polemiche non si valevano tanto di prove dottrinali,
tirate a fil di logica dai principii dualistici, ma più che altro
della testimonianza del nuovo Testamento, il cui testo conoscevano
profondamente. Parimenti i Valdesi possono dirsi, colla frase del
Comba, popolo _unius libri_. E del loro capo racconta Stefano di
Borbone, che non intendendo bene il latino, si fece tradurre la Bibbia
in volgare, ed avuto il prezioso testo, lo studiava assiduamente e ne
imprimeva a mente le massime.[231]

Accanto dunque a notevoli differenze s'hanno pur da ammettere non poche
analogie tra i Catari ed i Valdesi. Ed io non dubito che tra le opposte
opinioni dei vecchi e dei nuovi espositori debba aprirsi la via una più
moderata, che si tenga egualmente lontana dalle esagerazioni dell'una
e dell'altra parte, ed ammettendo pure una diversa origine pei Catari
e pei Valdesi riconosca l'azione efficace che gli uni esercitarono
sugli altri. Sarebbe veramente strano che una agitazione così
profonda, come quella dei Catari, non avesse prodotta una moltiplicità
di sètte, come accadde più tardi al tempo della Riforma. Quando il
sentimento religioso è sovreccitato, e la forza della tradizione è
svigorita dall'urto delle nuove dottrine, è vano sperare l'unità di
opinioni e nell'un campo e nell'altro. Dal contrasto tra quelli, che
voglion distrugger tutto, e gli altri, che tutto intendon conservare,
senza dubbio nasceranno non uno, ma parecchi partiti mediani che si
avvicineranno qual più qual meno ad uno degli estremi. Così accadde
che dal fondo dell'eresia catara emergessero tante eresie di cui
avremo a parlare in seguito, e perfino gli Ebrei trassero partito da
quell'arruffìo, gli Ebrei, che sono pure i meno atti al proselitismo
religioso, e che in quel tempo, in cui si diffondeva una eresia più
avversa della stessa Chiesa Cattolica al Mosaismo, parea poco prudente
si rinzelassero. Ma videro i figli d'Israello propizia l'occasione,
e dalla dottrina ariana, accettata dai Catari, della diversità di
natura delle tre persone trassero la conseguenza che Cristo non
valendo dappiù degli altri profeti del Vecchio Testamento, non avrebbe
potuto distruggere la legge mosaica, la quale vige sempre in tutto
il suo rigore; epperò chi vuol salvarsi ha da osservare il sabato e
circoncidersi.[232] Se dunque l'agitazione religiosa era così intensa
che persino gli ebrei speravano di trovar seguaci tra i cristiani, ed
anch'essi al pari dei Catari si appellavano contro la Chiesa romana al
Nuovo Testamento ed ai Profeti,[233] qual meraviglia che pullulassero
altre sètte più o meno affini tra loro, ma tutte egualmente avverse
alla Chiesa ufficiale?

Contro queste argomentazioni si potrebbe addurre il fatto rilevato
da tutti gli storici moderni, che i Valdesi nascono in Lione, dove
l'eresia catara, per quanto si sappia, non è mai penetrata; nè io
voglio dubitare del fatto, nè addurrò le solite ragioni contro le
prove negative. Ammetto benissimo che l'impulso del moto valdese sia
partito da Lione e per opera di un uomo, che certo non apparteneva
alla setta catara. Ma questo moto dove si propaga, dove diventa più
largo e minaccioso? Nei paesi dove fervea l'agitazione catara, e le
discussioni religiose commoveano gli animi e le menti. Ivi l'eresia
valdese si staccò definitivamente dalla Chiesa romana, e formò un corpo
di dottrine in parte tolte dal catarismo, in parte a lui ostili. Ivi
fece il maggior numero di seguaci, sottraendoli alla setta rivale,
ed è ben certo che senza questi aiuti efficaci le idee del novatore
lionese sarebbero state, come quelle di Claudio, seme senza frutto.
Qual'è dunque la vera patria dell'eresia valdese? Il luogo dove nasce
e donde ben presto fu scacciata o gli altri dove s'organizza, prende
consistenza e perdura? Anche prima dei valdesi gli eretici Pietro
di Bruys ed Enrico aveano fatto gran seguito nelle provincie di
Arles e di Tours, già devote da gran tempo al catarismo. In seguito
gli Enriciani stendendosi sino al Reno posero il loro quartiere
generale in Colonia, ove sappiamo già da Evervino che pur s'adunava
gran copia di Catari.[234] Lo stesso fatto accadde in Lombardia, ove
l'eresia catara si era divisa e suddivisa in tante sètte, che al dir
di Stefano di Borbone, parecchi vescovi rappresentanti ciascuno una
frazione, riunitisi per trovar modo d'intendersi, riuscirono invece
a scomunicarsi a vicenda.[235] In questo paese così travagliato
dai dissensi religiosi ebbero ben presto molti seguaci i Valdesi, e
fin da principio si divisero anche essi in sètte parecchie. Alcuni
col nome di Poveri di Lione serbarono anche l'antica dottrina della
povertà assoluta; gli altri, che si dissero Poveri Lombardi, pare che
transigessero su questo punto dei possessi; altri negando il bisogno
di speciale consacrazione, sostennero tutti gli uomini buoni potersi
dire ministri del Signore, gli uomini, ben inteso, non le donne; altri
scartarono come assurda questa ultima restrizione e così di seguito.
Qual prova più convincente di questa che mostra come i Catari ed i
Valdesi camminino di pari passo?[236]

Dell'azione che l'antica eresia catara esercitò sulla nascente valdese
fanno sicura testimonianza alcune dottrine che non hanno nessun
nesso coi dommi fondamentali dei Poveri di Lione. Noi già ne abbiamo
ricordato uno, che in nessun caso nè per alcuna necessità sia lecito
torre la vita al suo simile fosse anche per difendere la propria vita,
o per la conservazione dello Stato o della Chiesa. Si comprende che
in opposizione alla Chiesa, inspiratrice delle crociate contro gli
eretici, questi dovessero mettere in rilievo l'orrore dell'omicidio. Ma
la condanna illimitata della pena di morte è un retaggio cataro, perchè
i nuovi manichei come gli antichi proibivano severamente l'uccisione di
ogni vivente, tanto d'un pollo come d'un uomo.[237] Un'altra dottrina
non propria di Valdesi è l'assoluto divieto di giurare, attestato
concordemente da Stefano di Borbone, Alano, Pietro di Vaux Cernay e
Rainero Sacconi.[238] Che questa proibizione così rigorosa, benchè
possa giustificarsi con citazioni bibliche (S. Giacomo, Epist. v,
12; Mat. Ev. v, 34) non risponda allo spirito che informa l'eresia
valdese, lo prova il fatto, che cadde nel protestantesimo. E se i
Valdesi v'insistono tanto da farne il cardine delle loro dottrine, è
dovuto senza dubbio alla tradizione catara. Chè i Catari, al pari dei
gnostici antichi, aveano tanto in orrore il giuramento da metterlo a
paro colla menzogna. Ed anche intorno alla menzogna i Valdesi ereditano
dai Catari la massima che il nasconder la verità sia un peccato mortale
non meno grave dell'omicidio; nè valgono circostanze o buone intenzioni
a scemarne la portata.[239]

Un'altra traccia si riferisce al matrimonio. Dicemmo già come e perchè
i Catari condannino il matrimonio, nè pongano nessuna differenza
tra l'unione legittima e il concubinato. I Valdesi rifiutando la
metempsicosi non potevano avere gli scrupoli dei Catari, e non solo
tenevano per sacramento il matrimonio, ma tornando ai tempi patriarcali
avvisavano, secondo un'antica fonte, non essere peccato torre in moglie
la sorella o la cugina.[240] Il che spiega come nel Protestantesimo
si sia tolto l'obbligo del celibato pei sacerdoti. Ciò non pertanto è
così stretto il legame tra Catari e Valdesi, che questi ultimi, se pur
non condannano il matrimonio, lo tengono molto da meno del celibato. Nè
vietano che quandochessia la moglie si separi dal marito per attendere
ad una vita più austera; ma invece lodano questa che nel linguaggio
cattolico si chiamerebbe infrazione di un vincolo sacro.[241] Secondo
l'anonimo di Passau vanno più in là, e tengono addirittura per peccato
mortale il coniugio, quando almeno non vi sia speranza di prole.[242]
Si direbbe che mal tollerando il matrimonio, cercano tutte le vie per
frapporgli ostacoli. Similmente s'erano adoperati gli Enriciani, che
come vedremo sono i più prossimi precursori dei Valdesi; ed aveano
anch'essi proibite se non le prime almeno le seconde nozze.[243] Tutte
queste prescrizioni, che ripugnano allo spirito della Riforma, e che
ben presto cadranno, non si possono spiegare se non ad un patto, che
si ammetta un influsso cataro nella formazione della nuova eresia.
Parmi adunque fuori di controversia, che sebbene l'eresia valdese si
distingua profondamente dalla catara e indipendentemente da questa
sia nata, pure crebbe e si diffuse per l'aiuto datole dai Catari, e
per questo intreccio delle due eresie nell'una sono penetrate dottrine
proprie dell'altra, e fu possibile che gli storici posteriori non le
sapessero più distinguere.

Resta ora da discutere l'altra quistione del tempo in cui nacque la
Chiesa valdese.


II

Gli scrittori valdesi per fini apologetici negano di avere tolto il
loro nome da Pietro Valdez, mercatante lionese, che cominciò a spargere
le sue dottrine nel 1170, e credono che la loro Chiesa rimonti assai
più indietro nel tempo. Anche gli antichi Valdesi si davano il vanto
di essere gl'immediati successori degli apostoli.[244] Ma certo essi
intendevano che durante il lungo tempo che corse tra Costantino
e Pietro Valdez non mancarono santi uomini, mondi dalla generale
corruzione,[245] non certo che il loro patriarca fosse contemporaneo
di papa Silvestro.[246] Ed il prof. Comba opportunamente ricorda che
i primi scrittori valdesi come il Perrin ed il Gillio accettano la
comune ed antica tradizione dell'origine lionese.[247] Fu il primo
Léger che prese a favoleggiare di una origine più remota, e dietro a
lui seguirono altri scrittori fino al Muston, al Monastier, all'Hahn.
Le ragioni più forti le traevano codesti scrittori dall'antica
letteratura valdese, che facevano rimontare al 1100 o giù di lì. Ma il
Dieckhoff prima[248] e poi l'Herzog dimostrarono evidentemente, che le
opere, credute antiche erano invece posteriori ai taboriti. Più tardi
trovati i celebri manoscritti di Cambridge, che si credevano dispersi,
fu constatato che anche la Nobla Leyczon, creduta antichissima dal
Raynouard, è posteriore al 1400, perchè nel famoso verso: _Ben ha
mil et cent ancz_ si deve aggiungere un piccolo quattro, visibilmente
raschiato in un codice, ed altrove scritto a tutte lettere.[249] Così
fu tolto ogni valore alle fonti valdesi, e benchè l'Herzog seguitasse a
farne gran conto, pure è fuori di dubbio che senza le fonti cattoliche
sarebbe ben difficile sceverare negli scritti valdesi la parte antica
della dottrina dalle moderne aggiunte.[250]

In questa sentenza convengono ormai tutti gli scrittori più autorevoli.
Solo il Muston non si dà per vinto, e con nuovi argomenti rincalza
l'antica sua tesi, che i Vaudois delle valli piemontesi e pel dialetto
che parlano e pei libri che scrissero si chiariscono molto più
antichi di Pietro Valdo, ed indigeni dei luoghi, ove da tanti secoli
abitano.[251] Ma la teoria del Muston, che il dialetto valdese sia
d'origine schiettamente italiana, e non provenzale contraddice ai
risultati più certi della filologia neolatina, come ha dimostrato
un'autorità ben competente, il prof. Förster di Bonn.[252] E la
quistione dell'antichità dei Valdesi si può dire ormai con certezza
risoluta nel senso delle fonti cattoliche.

Ma se è vana la pretensione dei Valdesi di far rimontare la loro setta
sino ai tempi di papa Silvestro, non è punto falso per lo contrario,
che nei secoli passati si scoprano qua e là segni precursori delle
nuove eresie. La continuità della Chiesa valdese dai tempi apostolici
sino a noi è una favola; la lenta preparazione delle sue dottrine
nei secoli anteriori è un fatto storico. Così non a torto i Valdesi
adducono tra i loro predecessori Claudio, cappellano di Ludovico il
Pio, e vescovo di Torino dall'822 all'839.[253] Certo le sue opinioni
iconoclastiche non lo metton fuori dalla Chiesa cattolica, chè le
decisioni del concilio Niceno del 787, non che accolte negli Stati
occidentali, furono invece respinte nel concilio di Francoforte del
794; e lo stesso Carlo Magno e molti prelati non dissimulavano la loro
avversione al culto delle immagini. Ma è strano che Claudio proscriva
perfino l'adorazione della Croce, rappresentante agli occhi suoi,
come a quelli dei Catari, non un pio ricordo della passione di Gesù,
ma uno strumento d'ignominia.[254] Questo difetto di ogni senso pel
simbolismo religioso non è però il tratto che più raccosta il vescovo
di Torino ai moderni valdesi; perchè più della stessa condanna del
culto delle imagini, le ragioni che adduce per sostenerla arieggiano
al fare protestante. Lui move la tema che il volgo, confondendo il
simbolo col simboleggiato, insieme li adori ricascando nell'antico
paganesimo. A questo timore s'aggiunge il convincimento, che si debba
inchinare solo al Creatore non alla creatura per grande che sia, e
a Dio solo rivolgerci senza l'inutile scorta d'intermediarii; onde
insieme al culto delle imagini proscrive anche l'invocazione dei Santi
e le litanie. Non col metterci nel seguito dei Beati noi partecipiamo
alla loro beatitudine, ma coll'attingere alla stessa fonte di giustizia
e di carità assoluta, a cui attinsero quelli. Siffatta condanna di usi
e riti tradizionali vien giustificata dalla profonda differenza che
corre tra l'essenza della religione e le sue manifestazioni storiche;
che per quanto pura ed elevata è la prima, altrettanto imperfette e
facili a corrompere son le seconde. E l'essenza intima della religione
non è aperta a tutti, bensì a pochi ingegni privilegiati, come quello
di Agostino, cui il nostro Claudio, al pari dei Protestanti, mette al
di sopra degli altri padri della Chiesa. È per questo appunto che la
spiritualità della religione ideale si offusca nel corso della storia,
è necessario che di tempo in tempo nascano coraggiosi prelati, i quali
combattano senza tregua gli errori, e faccian rifiorire la purità
primitiva. In questi pensieri è racchiusa in germe non solo la riforma
della dottrina cattolica, ma benanco un'ulteriore trasformazione
razionalistica.[255]

Al pari di Claudio vescovo di Torino, è iconoclasta Agobardo
arcivescovo di Lione,[256] autore di un libro _contra eorum
superstitionem, qui imaginibus et picturis sanctorum adorationis
obsequium deferendum putant_. Ma l'opera di Agobardo giovò più alla
causa del razionalismo che a quella della riforma, e la maggior parte
degli scritti di Agobardo sono indirizzati contro le superstizioni
popolari. Nel libro _de grandine et tonitruis_, combatte l'ignoranza
del volgo, il quale crede che con preghiere ed esorcismi si possa
torcere il corso della natura. Il che importerebbe non pure che Dio
possa mutare i suoi consigli, ma che nel governo del mondo abbiano
parte quelli, mediante i quali accadono questi mutamenti. Contro il
duello giudiziario scrive un prezioso trattato, _Liber adversus legem
Gundobaldi_, in cui mette a nudo l'assurdo di chieder la divinità di
opere, che spetta a noi compiere, come la ricerca della verità. Chi ci
assicura che la Divinità si presti al piacer nostro, e che la vittoria
non sia dell'innocente, ma del più abile? La virtù lungi dal trionfare,
anzi il più delle volte suole essere oppressa; talchè al cristiano
s'insegna di nulla sperare e nulla temere da questo mondo. Questi
trattati si rivolgono contro pregiudizii e superstizioni popolari; nè
certo in essi, ma in quelli schiettamente teologici troveremo qualche
accenno alle idee che più tardi saranno sostenute dai Valdesi. Così
nel libro contro Fredegiso sostiene non doversi la Bibbia intendere
sempre alla lettera, chè il contenuto è certo divino, ma la forma,
vale a dire imagini e parole, sono umane, e adatte alla condizione dei
tempi. Tutto ciò che è umano non può pretendere mai all'infallibilità,
e la principale virtù dell'uomo è l'umiltà, nella quale si riconosce
la propria fragilità. Dal che l'avversario Fredegiso nell'interesse
polemico dedusse che Gesù, praticando l'umiltà, si riconosceva capace
di peccare. Conseguenza giusta, a cui Agobardo s'argomenta di sfuggire
adducendo esser l'umanità di Cristo di una natura sua propria, e non
assimilabile a quella degli altri uomini. La qual risposta avrebbe
porto argomento a discutere del rapporto delle due nature in Cristo;
ma la polemica non ebbe seguito. Come anche non ebbe seguito l'altra
discussione sull'eternità della Redenzione. Agobardo volendo conciliare
insieme i due punti, che non si è salvi se non per opera di Cristo,
e che la salute abbia potuto aver luogo in tutti i tempi, ammetteva
la preesistenza del Salvatore all'Incarnazione. Il che veniva negato
da Fridegiso sull'autorità di Agostino.[257] Ma nè questa quistione
nè la precedente si connettono colle polemiche riformistiche; onde
non a torto il Monastier tien più conto di Claudio che di Agobardo, e
questo ultimo solo in un senso molto largo si potrebbe annoverare tra i
predecessori dei Valdesi.

Nè si può contare a stretto rigore neanche Berengario (999-1088),
sebbene nella polemica che questo coraggioso prete sostenne contro
Lanfranco sono ben messi in rilievo due punti di molto interesse
nel Protestantesimo; il carattere simbolico dell'Eucaristia, e la
preferenza data alla Bibbia (purchè la s'interpetri nel suo spirito)
in confronto della tradizione religiosa. Ma più ci avviciniamo al
secolo XII, ed in maggior numero scopriamo precursori della dottrina
valdese. Verso l'anno 1110 un laico di Amsterdam, di nome Tanchelino,
insurse contro il clero corrotto. Par che cominciasse dal combattere
la dottrina agostiniana, che i doni di Dio arrivano sempre a chi
li riceve con fede, anche se il messo che li porta sia indegno come
Giuda.[258] Egli invece predicava non giovare il sacramento se non in
ragione della santità di chi l'amministra.[259] Dottrina, che s'era
già fatta strada tra i Patarini, e per averla prima di Tanchelino
predicata un tale di Cambray fu arso vivo, esecuzione iniqua contro
la quale protestò Gregorio VII, chiedendone stretto conto al clero
cameracense.[260] Ma pare che non s'arrestasse a questo punto
l'eresiarca di Amsterdam. Se i Sacramenti non valgono di per sè, ma
solo in quanto mettono in comunione le anime pie e devote, non sono
dappiù di un simbolo; nè hanno alcuna virtù sovrannaturale, e ogni
uomo pio può somministrarli.[261] Non c'è dunque ragione di prestare
un ossequio superstizioso ai sacerdoti e vescovi. Ogni fedele, di
anima pura, è sacerdote, massime se è sotto l'ispirazione diretta del
Santo Spirito. E tale è Tanchelino, che predicando la schietta verità,
non è solo al di sopra dei sacerdoti e vescovi, ma può aspirare a
ben più alti onori. Nè la madre stessa di Gesù, la Vergine Maria, gli
rifiuta la sua mano. Anzi queste mistiche nozze, a quel che dice un
cronista, furono celebrate con pompe e donativi. Tanto potere s'era
acquistato sulle turbe il nuovo Profeta, che vestito di gemme, e legati
i capelli da triplice nastro, procedeva alla testa di tremila persone
che lo veneravano più che santo, fino al punto da bere l'acqua del suo
bagno.[262] Non ostante questo favore popolare, Tanchelino fu ucciso da
un prete nel 1125 secondo alcuni, nel 1115 secondo altri.[263]

Contemporaneamente a questo movimento nelle Fiandre ne scoppia un
altro nel mezzogiorno della Francia, e dalla provincia arelatense si
estende e si dilarga _more pestis validae_, dice l'abate di Cluny. Il
capo di questa eresia è Pietro di Bruys, il quale nega il battesimo
dei bambini, la necessità di consacrare fabbricati appositi al culto,
l'adorazione della croce, l'eucaristia, infine le messe, orazioni
ed elemosine in suffragio dei defunti.[264] Dottrine che abbiamo
già viste mescolate a tante altre nel Catarismo, e che fra non molto
saranno accolte nella loro integrità dai Valdesi. Il numero dei seguaci
s'ingrossava rapidamente, ed uno dei discepoli, il monaco Enrico,
ebbe tal seguito che gli eretici di quel tempo vanno più col nome di
Enriciani, che non Petrobrusiani.[265]

Enrico cominciò in Tours le sue predicazioni contro il fasto e la
dissolutezza del clero. E l'argomento non era fuor di proposito, chè
non ostante i rigori dei Pontefici, i preti perduravano nelle antiche
consuetudini, e più d'un secolo dopo le riforme gregoriane il concilio
lateranense del 1177 fu costretto ad inserire un canone contro i
sacerdoti concubinarii.[266] Il terreno era dunque bene scelto, e la
vittoria certa. Adoperava le stesse armi dei Patarini e di Tanchelino,
e, nuovo Arialdo, sapeva accendere l'animo del popolo così, che
il vescovo Ildeberto ebbe a durar fatica se volle salvare dall'ira
della turba i sacerdoti e i lor figli.[267] Espulso dalla diocesi di
Tours, continuò la sua propaganda nel Poitou, e di là sino a Tolosa.
E l'eresia faceva così rapidi progressi, che Eugenio III[268] fu
costretto a mandare per suo legato nel Tolosano il cardinale Alberico,
che scelse a suo compagno S. Bernardo. Di questo ultimo abbiamo ancora
due lettere, in cui il pericoloso monaco è ritratto coi più neri
colori; lo si rimprovera d'incontinenza, ingordigia e venalità;[269]
gli si appone a colpa sinanco il peregrinare di città in città secondo
il costume apostolico.[270] Ma queste accuse mal nascondono le ansie
del santo abate, il quale ben conosce il valore dell'avversario suo,
nè si dissimula il successo da lui riportato. Vuote son le chiese,
ei dice, il popolo senza sacerdoti, i sacerdoti senza autorità, i
Cristiani senza Cristo.[271] Il che mal s'accorda col ritratto che ei
fa di Enrico, essendo ben difficile che un uomo sì corrotto operi tali
miracoli, ed un freddo ed astuto calcolatore valga a infondere altrui
il fuoco sacro.

La verità non s'ha da cercare nelle studiate accuse dei polemisti,
ma nelle ingenue parole della vecchia cronaca, il cui autore pur
non credendoci, ci parla della fama di santità e di scienza che
accompagnava il novatore.[272] E per testimonianza degli stessi
cattolici gli eretici o manichei o petrobusiani o che altro fossero,
appunto per questo ottenevano presto il favor popolare, che di contro
alla mollezza della maggior parte del clero menavano una vita austera
e faticosa.[273] Pellegrinavano di paese in paese, sempre stranieri
dovunque, non possedendo in alcun luogo o un tetto o un campo per
sè, solleciti soltanto della salvezza delle loro anime, non altro
tesoro portando seco, fuor dell'invitta fede che li animava.[274] In
olocausto alla quale essi sacrificavano la lor vita, gittandosi lieti e
volenterosi nelle fiamme. Costanza eroica, degna dei primi martiri del
Cristianesimo, e non ultima causa del rapido dilatarsi delle dottrine
eterodosse![275]

Gli è vero, che Evervino parla qui dei Catari, ma egli stesso ci narra
di altri eretici, i quali pur non accettando i principii dualistici,
evacuant sacerdotium Ecclesiae et dannant sacramenta praeter baptismum
solum et hunc in adultis.... in suffragiis sanctorum non confidunt ....
orationes vel oblationes pro defunctis annihilant.

Il qual passo della lettera di Evervino ci mostra come in breve
tempo le dottrine di Enrico e di Pietro dalle rive della Garonna
sieno arrivate sino al Reno, ove questi antichi protestanti non pur
si distinguevano dai Catari, ma entravano bene spesso con essi in
polemiche ardenti.[276] Questo ebbe luogo negli ultimi anni di Eugenio
III, e prima ancora che fosse assunto al trono imperiale Federigo
Barbarossa. Dal che si comprenderà come tal movimento si dilatasse e
divenisse più minaccioso negli anni successivi, in cui i papi Adriano
IV ed Alessandro III ebbero a sostenere contro Federigo I una lotta
non meno aspra e difficile di quella che pressochè un secolo prima
s'impegnò tra Gregorio VII ed Enrico IV. Ed in quegli anni appunto in
cui il mondo cattolico era diviso tra Alessandro III e i tre antipapi,
che successivamente gli furono opposti, s'udì in Lione la voce di
Pietro Valdez,[277] che venduto tutto il suo, e distribuitone il prezzo
ai poveri, si mise alla testa di una setta che da lui prese il nome
di Valdesi, e dal luogo onde mosse, e dalla vita mendica che menava si
disse anche dei _Poveri di Lione_.


III

Le fonti non sono d'accordo sull'occasione che provocò la risoluzione
del Valdez. L'anonimo di Passau l'attribuisce alla morte improvvisa
di un signore di Lione convenuto col Valdez ed altri amici ad
un'adunanza;[278] il cronista laudunense invece fa cenno di un
racconto della vita di S. Alessio, che avrebbe siffattamente tocco il
nostro Pietro da recarsi sull'istante presso un maestro di teologia
per chiedergli della vera via di salute. Ed il mercatante lionese,
arricchito sinoggi ai danni altrui, ottiene in risposta che la via
della salute sta nel disfarsi di tutto, e seguir Cristo, essendo molto
più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, anzi che un
ricco in paradiso.[279] Forse il primo racconto sarebbe più verisimile,
e anche di Budda dicesi che lo spettacolo delle miserie umane gli abbia
acceso nell'animo il fervore religioso. Ma comunque sia, l'apparizione
del Valdez, non è un fatto isolato, nè difficile a spiegare. Già prima
di lui altri novatori avean predicate le stesse dottrine. E tutte le
anime religiose sentivan bene che a lungo andare la Chiesa cattolica
sarebbe stata logorata da quei mali, che un Pier Damiani ed un Bernardo
confessavano apertamente. Nè la Chiesa dei Catari, sebbene più austera
della sua rivale, potea farne le veci, che per le stranezze dei dommi
mal s'accomodava al genio occidentale. Non restava dunque se non
una riforma del Cattolicismo molto più profonda e radicale di quella
cominciata da Gregorio VII. E giacchè il clero non ostante le vittorie
patariniche continuava negli antichi errori, se salute era possibile,
del laicato solo si aveva a sperare.

In queste condizioni sorge Pietro Valdez, ed il primo atto del suo
apostolato è di spogliarsi delle male accumulate ricchezze.[280] E
lasciata alla moglie, secondo la cronaca laudunense, tutta la sostanza
immobiliare, dotate convenientemente le figlie che chiude in un
convento, il resto dei suoi averi distribuisce tra i poveri. Lo stesso
cronista ci racconta che infierendo in quel tempo la carestia per la
Francia e la Germania, il Valdez soleva distribuire pane e carni a
chiunque gli capitasse. Così la fama della sua carità si spargeva di
città in città; tutti i bisognosi facevan capo a lui, e per soccorrerli
ei spendeva l'ultimo denaro. Ben si maravigliavano gli amici, e lo
tenevano per pazzo, ma egli seguendo la sua via, nel dar fondo a tutto
il suo, stimavasi affrancato da una grande servitù.[281] Per tal guisa
il mercatante di Lione cresciuto tra gli agi e le mollezze si compiacea
di tornar povero, ed accattava anche lui battendo alle porte dei
compagni antichi.[282] Quanta differenza dai prelati della Chiesa, che
non istanchi di accumulare ricchezze, misuravano la dignità del loro
ufficio dallo splendore delle vesti e dal lusso degli equipaggi!

Il primo punto dunque dell'insegnamento di Valdez è la povertà
volontaria, principale mezzo di salute. I Patarini ed i Catari
sull'autorità degli stessi testi evangelici avean sostenute le
medesime dottrine, facendone un'arma potente contro la simonia del
clero.[283] Ma mentre i Catari obbligano anche i perfetti a vivere
del lavoro delle proprie mani, e vietano severamente l'accattonaggio,
il Valdez lo predica, e lo inculca col suo esempio come severa prova
di umiltà. Per questa ragione i seguaci dell'apostolo lionese accanto
alla denominazione di Poveri di Lione si gloriano di portare quella di
Umiliati.[284] Più tardi questa dottrina della povertà assoluta, e del
gran merito dell'accattare verrà ripresa e sostenuta calorosamente dai
Francescani.

Questa dottrina della povertà se potea suonare come protesta contro
il fasto e le mollezze dell'alta prelatura, non era certamente
anticattolica, nè abbiamo motivo a negar fede all'anonimo laudunense
che racconta essere stato il Valdez grandemente lodato da papa
Alessandro III pel voto fatto di volontaria povertà.[285] Ma sovra un
altro punto lo stesso Papa non poteva transigere, nè egli nè il suo
successore vi si piegarono, voglio dire sulla predicazione. Il Valdez
conosciuta la vera via della salute, non fuggì in un lontano romitaggio
per consacrarsi alla preghiera ed alla penitenza secondo il costume
degli antichi cenobiti; ma bene invece sentì il profondo bisogno
d'insegnare agli altri quello che a lui venne fatto di scoprire.
Il Valdez avea l'istinto del riformatore religioso, e ben sapeva
trasfondere altrui l'intimo suo convincimento. Nè solo lui, ma tutti i
discepoli, a simiglianza degli apostoli, andavano pellegrinando per la
terra a spargere la nova parola; nè ha torto il Dieckhoff di chiamare
il sodalizio fondato dal Valdez col nome di liberi predicanti. E come
ad imitazione dei poveri di Lione sorsero i poveri d'Assisi o frati
minori, così ad imitazione dei predicatori valdesi nacquero i frati
predicatori. In queste faticose pellegrinazioni i Valdesi non solo
sulla povertà predicavano, ma su tutto l'indirizzo morale e religioso,
spiegando i libri sacri,[286] che Valdo avea a sue spese fatto volgere
in provenzale da due ecclesiastici, un Bernardo Idro che scrivea ed
uno Stefano di Ansa che dettava la traduzione.[287] Essi non furono
i primi a volgarizzare la Bibbia, avendoli preceduti i Catari che
dei testi tradotti faceano largo uso nelle loro polemiche contro la
Chiesa cattolica. Certo nessun'altra setta ebbe in tanta venerazione
i sacri testi, la cui autorità più tardi sarà messa al di sopra della
tradizione; e se lo studio della Bibbia non è il tratto più novo e più
caratteristico della nuova setta, certo non è meno importante degli
altri già descritti. Ed io sarei per credere che la povertà, la libera
predicazione ed il culto della Bibbia non si possono scindere l'uno
dall'altro da chi voglia riprodurre tutta intera la fisonomia della
nuova setta.

Le autorità ecclesiastiche mal tolleravano che dei laici idioti od
illetterati non solo usurpassero l'ufficio della predicazione, ma
s'adoperassero a spiegare i libri santi, i quali vanno interpetrati
e commentati con molta cautela. Talchè lo stesso Alessandro, che
avea lodato il voto di povertà fatto dal Valdez, interrogato forse
il concilio raccolto nel Laterano nel 1179, vietò a lui ed ai suoi
compagni di predicare senza il permesso dell'autorità ecclesiastica
locale.[288] Già questa, ben conscia dei pericoli di una predicazione
laica, lungi dall'incoraggiarla, l'avea repressa, e Stefano di Borbone
ricorda che Giovanni, vescovo di Lione, chiamati a sè i Valdesi, proibì
loro di occuparsi della Bibbia e di commentarla e divulgarla per le
vie.[289]

Non per questo smesse l'ardito novatore, e dicesi che alle ingiunzioni
del vescovo rispondesse come l'apostolo al principe dei sacerdoti,
doversi obbedire più a Dio che agli uomini.[290] Ma il principe dei
sacerdoti, Lucio III, scomunicò lui e i suoi seguaci,[291] e da quel
giorno cominciarono le ardue prove per la novella società. Espulsi da
Lione, andarono raminghi per diverse contrade, non cessando dal loro
apostolato, e pare che convinti della propria ortodossia contro il
decreto di Lucio, s'appellassero ad Innocenzo III, dal quale invocavano
eziandio l'approvazione del loro sodalizio.[292]

Innocenzo al certo poneva differenza tra Catari e Valdesi, e questi
come meno eterodossi trattava con maggiore indulgenza. Prova ne sia
quel Durando de Osca, capo di una frazione detta degl'Inzabattati, il
quale appellatosi a lui dalla scomunica dell'arcivescovo terraconese,
non solo fu riammesso nel seno della Chiesa, ma dopo esplicita
dichiarazione di fedeltà alla Santa Sede ebbe licenza di conservare
il suo istituto.[293] Non trovarono però eguale accoglienza gli altri
leonisti, che non vollero abbandonare le dottrine della predicazione
laica, e della libera interpetrazione della Bibbia. Contro costoro
Innocenzo tenne duro, e in luogo di essi approvò un altro sodalizio,
che pur facendo voti di povertà come i Valdesi, ne respingeva le
pericolose dottrine. Questi nuovi zelanti, che col tempo dal loro capo
prenderanno il nome di francescani, dicevansi allora poveri minori, e
più tardi per non andar confusi cogli emuli di Lione si dissero frati
minori.[294] E nel concilio lateranense del 1215 i Valdesi furono
scomunicati non meno dei Catari e dei Passagini, e condannati al pari
di loro al ferro ed al fuoco.

Le persecuzioni si fecero allora più feroci, e la società valdese
si disperse in opposte e remote contrade. Dove sia andato il Valdez
non si sa, e il luogo e il tempo della sua morte s'ignora. Certo
la sua memoria crebbe venerata tra i suoi seguaci, che lo ebbero
per santo così da rimproverare i Poveri Lombardi che non credessero
all'impeccabilità di lui, come di nessun altro uomo al mondo.


IV

Dalla condanna del concilio lateranense, o forse anche più in su dal
giorno in cui Innocenzo respinse le proteste dei Valdesi, cominciò
per loro un nuovo periodo, che diremo delle lotte, per distinguerlo
dal periodo precedente o delle origini. La differenza tra questi due
periodi fu già rilevata dal Dieckhoff, che seppe ben classificare le
fonti secondo un criterio cronologico.[295] Nè so capire il perchè
gli scrittori di cose valdesi siensi allontanati dalla via così
luminosamente tracciata dal loro predecessore. Si può ben dire che il
Dieckhoff abbia errato in qualche punto secondario, come ad esempio
che faccia l'Alano più antico di quel che sia; ma non si può negare
che in Alano e nel Foncaldo la dottrina valdese poco s'allontani
dal cattolicismo, e che se ne stacchi molto di più nel Borbone, nel
Moneta, nel Sacconi, e rompa di tutto punto in Davide d'Ausburgo.
Questa disparità delle fonti è dovuta al tempo in cui apparvero, ed al
successivo sviluppo della dottrina valdese.[296]

Dal principio, come dicemmo, i Valdesi si tenevano per buoni
cattolici,[297] nè sapeano intendere il perchè un laico non avesse da
leggere ed interpetrare la Bibbia, e gli fosse conteso di spandere
presso i popoli la parola del Signore.[298] Non erano forse laici
gli apostoli, che andavano di contrada in contrada predicando
la buona novella? E non leggiamo nell'antico Testamento che Mosè
lungi dal portare invidia ai profeti, desiderava invece che tutti
profetassero?[299] Del resto neanco nei nuovi tempi mancarono laici,
che predicassero con successo la parola del Signore, e dalla Chiesa
non che impediti venner levati sugli altari, come ad esempio il beato
Onorato e santo Equizio.[300] I Valdesi non capivano che in una Chiesa
costituita gerarchicamente non possano commettersi a chiunque uffici
così delicati come l'interpetrazione dei sacri testi e la predicazione.
Ed attribuivano perciò il divieto all'invidia o alla gelosia del clero,
che non volendo abbracciare la povertà voluta dal Cristo, mal tollerava
che altri e colla voce e coll'esempio la predicasse.[301] D'una
ingiunzione, dettata da motivi siffatti, era dunque lecito e doveroso
non tener conto, perchè secondo Pietro non agli uomini ma a Dio bisogna
obbedire.[302]

La disobbedienza agli ordini emanati dal Papa e dal concilio fu
il primo atto di aperta opposizione dei Valdesi,[303] che provocò
polemiche astiose, e novelle scissure. I cattolici sull'autorità
del concilio lateranense sostenevano che l'ufficio di predicazione
spettasse ai soli sacerdoti, e non a tutti, bensì a quelli
prescelti dai vescovi.[304] I Valdesi protestavano contro queste
restrizioni, e stimavano lecito a chiunque sapesse la parola del
Signore il predicarla, senza distinzione nè di sesso nè di età nè di
condizione.[305] E che anche le donne possano esercitare l'apostolato
lo provavano coll'autorità della lettera a Tito, e coll'esempio di
una profetessa.[306] Coteste dottrine erano diametralmente opposte,
l'una ripeteva il diritto della predicazione dalla scelta del vescovo,
l'altra dall'ardore e dalla scienza dell'insegnante. E trapassando
dall'insegnamento a tutti gli altri uffici religiosi, l'una dottrina
non teneva conto se non dell'ordinazione, l'altra del merito.[307] Dal
che seguiva questa conseguenza notevole, tirata dagli Arnaldisti prima
dei Valdesi, che solo ai sacerdoti o ministri buoni bisogna obbedire,
vale a dire a quelli che nella loro vita e nei costumi loro si mostrano
degni seguaci degli apostoli.[308] Imperocchè se il merito solo e non
l'ordinazione è la fonte della dignità sacerdotale, quelli che nelle
opere loro si mostrano impari all'alto ministero, hanno perduto non
ostante l'ordinazione ogni autorità.[309]

Dottrina siffatta è non solo contraria alla cattolica, che non
riconosce altro giudice del sacerdote all'infuori del superiore
gerarchico; ma benanco alla protestante, che attribuisce minor merito
alle opere che non alla fede.[310] Con tutto questo e gli Arnaldisti,
ed i Valdesi la professavano, come ci viene concordemente attestato da
fonti antichissime, quali Alano e l'Abate di Foncaldo, la cui autorità
nessuno può revocare in dubbio.[311]

Questa dottrina del merito in opposizione all'ordine venne formolata in
occasione della predicazione; ma è ben certo che a non lungo andare si
applicò anche ad altre funzioni religiose, prima tra le quali fu senza
dubbio la confessione. Che dal sacerdote legittimamente ordinato si
ascoltasse la messa, o si ricevesse la cresima non portava pregiudizio
alla nuova associazione, la quale si credeva sempre sinceramente
cattolica, e nessuno dei sacramenti voleva negare. Ma non era
possibile che i membri del nuovo sodalizio si confessassero a sacerdoti
cattolici, che faceano ai Valdesi una guerra non meno aspra e spietata
che ai Catari. Bisognava dunque svigorire l'autorità della confessione
cattolica, e sostituire a quella un'altra forma che meglio convenisse
ai progressi della nova società. A tale uopo solean dire i Valdesi,
che i sacerdoti cattolici ribelli ai precetti del divino maestro,
non potranno assolvere le colpe altrui se prima non si lavano dalle
proprie.[312] Nè la confessione è indispensabile, perchè chi perdona
non è sacerdote, ma Dio stesso, e quando a Dio ci rivolgiamo col
cuor contrito, che uopo v'ha del sacerdote?[313] Certo il confessore
talvolta ci aiuta coi suoi consigli, e cogli ammonimenti suoi; ma
quest'ufficio può essere disimpegnato da qualunque laico,[314] e la
prima confessione cristiana non si faceva in segreto, ma in pubblico,
non presso un sacerdote solo, ma presso la comunità dei fedeli.

Il principio di tutte queste argomentazioni è sempre il medesimo,
che al solo merito si debba attribuire valore, onde soltanto chi s'è
saputo rifare nell'intimo della sua coscienza, così da detestare le
colpe commesse, questo solo sarà perdonato da Dio. Quando manchi la
contrizione è assurdo assolvere, perchè non c'è nulla fuori della
coscienza che possa la coscienza purificare. Talchè non s'ha da credere
di poter comprare l'indulgenza a denaro sonante, o in qualsiasi altra
guisa, che non sia il profondo ed intimo dolore di aver peccato.[315]
E se le indulgenze non giovano ai vivi, tanto meno ai morti, i quali
non hanno più modo di rinnovarsi, essendo chiusa ormai loro la via
dell'operare.[316] E ormai sono quel che furono, dannati se vissero
male, beati se vissero bene.[317] Insieme colla dottrina delle
indulgenze si legano sempre quelle dei suffragi pei defunti, e del
Purgatorio; ed i Valdesi che negavano le prime doveano anche riescire
alla negazione dei secondi.[318]

In questi punti par che fossero d'accordo tutti i Valdesi, il che non
esclude la possibilità della divergenza in altri. Nè solo possibile
tornava questa divergenza ma necessaria, perchè la dottrina valdese
era in continuo movimento, ed ogni giorno come vedemmo e vedremo
s'aggiungevano novi articoli secondo le vicende della lotta, che
sostenevano colla Chiesa ufficiale, ed i bisogni della polemica.
Oltrechè il sodalizio valdese parte pel bisogno dell'apostolato,
parte per isfuggire alle persecuzioni degl'inquisitori s'era sparso
pressochè in tutta l'Europa, e nelle diverse regioni venuto in contatto
con eresie diverse si era fuso con esse, prendendone dottrine, che
al principio gli erano estranee. Di tali divisioni ci dicevano già
qualche cosa le antiche fonti come Stefano di Borbone, il Moneta, ed
il Sacconi. Ma il Preger trovò recentemente un monumento più antico di
queste fonti, e che se non può essere tenuto come il solo autorevole,
come par che pretenda lo scopritore, è certo di grandissimo interesse,
essendo l'unico d'origine valdese che conti una rispettabile antichità.
Codesto documento è una lettera che i Poveri Lombardi mandano ai loro
fratelli d'oltremonte intorno ai dissensi nati tra le due società, e in
gran parte composti in una conferenza tenuta a Bergamo nel 1218.[319]
Questi Poveri Lombardi, come già sappiamo da altre fonti, erano per
qualche rispetto più avversi alla Curia Romana dei loro fratelli
oltremontani;[320] e par certo che sien nati dalle fusioni di Valdesi
con Arnaldisti, forse con prevalenza dell'ultimo elemento. Nè credo
ci sia ragione di farli risalire col Preger agli _Umiliati_,[321] dei
quali è tuttora incerta la provenienza, ma bisogna pur convenire che le
due frazioni valdesi par che abbiano coscienza della loro diversità di
origine.[322] E senza dubbio alcuno i Poveri Lombardi non attribuiscono
al Valdez quella santità ed impeccabilità che, come già dicemmo, era un
articolo di fede pei fratelli oltramontani.[323] Un'altra differenza
tra loro era il lavoro manuale. I Poveri di Lione sostenevano che gli
apostoli non avessero da pensare ad altro fuor che a diffondere la
parola del Signore, nè quindi poteano procacciarsi il necessario se non
accattandolo dai fedeli; i Poveri Lombardi al contrario a somiglianza
dei Catari e dei Patarini dicevano dovere anche gli apostoli vivere
del lavoro delle proprie mani.[324] Una terza differenza riguardava
l'organamento della nova società. Il sodalizio oltramontano non era
solidamente costituito. I Valdesi credevano sempre di formar parte
della vasta società cristiana, talchè non stimavano utile di creare
rettori ed amministratori della nuova società. Tutti quelli che viveano
secondo il costume di Valdez, erano del pari membri della nova società;
ma non si doveva stabilire nessuna differenza e gerarchia tra loro. E
se pure occorresse talvolta di ridurre nelle mani di qualche ministro
il governo della nova società, gli si dovrebbe commettere quell'ufficio
temporaneamente, perchè una società, che nasce in opposizione alla
gerarchia, non può certo tollerarla nel suo seno. I Poveri Lombardi
la pensavano diversamente. Ei rimontavano ad una società, che cominciò
fin dal tempo di Arnaldo da Brescia, e ben sapeva che per conservarsi
nell'urto delle opposte confessioni bisognava solidamente organizzarsi.
Credevano perciò indispensabile nominare dei rettori.[325]

Altri punti di quistione par che fossero il battesimo coll'acqua,
quello dei bambini, e la indissolubilità del matrimonio. Intorno
ai primi due punti dicemmo già altrove, che i Catari al battesimo
dell'acqua voleano sostituito quello del fuoco o del calore, e che
condannavano recisamente la somministrazione del battesimo a chi
non fosse in grado di capirne l'importanza. Era ben possibile che
queste due dottrine fossero penetrate nella società valdese;[326] ma
certo è che nel convegno di Bergamo pensarono bene di non dipartirsi
dall'insegnamento cattolico.[327]

In quanto al matrimonio già sappiamo che i Valdesi oltremontani
in seguito ad influssi catari preferivano la verginità allo stato
coniugale, e tolleravano che pei bisogni della nova società il marito
si dividesse dalla moglie anche quando ella non v'acconsentisse. I
Poveri Lombardi par che facessero maggior conto del matrimonio, e
solo in due casi ne permettevano lo scioglimento, o quando entrambi i
conjugi fossero d'accordo a separarsi, o per causa di adulterio.[328]

Queste divergenze per quanto gravi non erano tali che con poche
concessioni da una parte e dall'altra non fossero per comporsi.
Intorno ad una però non era possibile l'accordo, e riguardava un
punto d'un grandissimo interesse e dommatico e pratico: l'Eucaristia.
I Valdesi d'oltremonte benchè ammettessero che a tutti i membri
della nova società fosse lecito di predicare e di confessare, pure
non erano ancora venuti all'estrema conseguenza di permettere loro
la celebrazione della messa. Certo è che essi ascoltavano la messa
dei sacerdoti cattolici, e credevano che il miracolo eucaristico si
compisse anche quando il ministro fosse indegno di operarlo. Questa
opinione era senza dubbio in contraddizione coll'altra più generale
che nessuna funzione religiosa potesse esercitarsi dal ministro
indegno. Ed a rimovere siffatta contraddizione s'adoperavano in diverse
guise. Alcuni dicevano che il miracolo della transustanziazione si
opera per virtù non del sacerdote, bensì delle parole mistiche da
lui pronunziate.[329] Altri sostenevano che se il sacerdote cattivo
non potesse celebrare la messa, per la medesima ragione non dovrebbe
somministrare il battesimo, mentre è risaputo che il battesimo ha
sempre valore fosse anche dato dalla levatrice.[330] Altri infine non
negavano la partecipazione del sacerdote, ma la dicevano sopraffatta ed
assorbita dall'opera dell'Uomo-Dio, il quale in fine è il vero autore
del miracolo.[331]

I Poveri Lombardi, che discendevano in diretta linea dagli Arnaldisti,
ed alla purità del sacerdote attribuivano infinito valore, non
potevano accettare nessuna di queste versioni dei Poveri oltramontani.
Non la prima, perchè se il miracolo eucaristico s'operasse solo in
virtù delle parole mistiche, anche il Giudeo od il Pagano potrebbe
operarlo.[332] Non la seconda, perchè tra il battesimo e l'eucaristia
non può correre l'analogia voluta dagli oltramontani, altrimenti
anche il laico, anche la donna potrebbe rompere il pane benedetto,
laddove per gli oltramontani stessi al solo sacerdote è commesso
quest'ufficio.[333] La terza opinione potrebbe accettarsi, purchè
s'aggiunga che oltre all'opera dell'Uomo-Dio per compiere il miracolo
eucaristico occorre la preghiera del sacerdote, e che questa preghiera
non sarà accolta da Dio quando venga sciolta da labbra impure.[334]
Questa terza opinione, non è dunque la stessa della prima, come dice
il Preger, perchè la prima non può essere accettata in nessun modo,
e la terza con opportune aggiunte viene ammessa. La prima pare una
superstiziosa deificazione della parola, la terza rileva sì l'elemento
soprannaturale del sacramento, ma non esclude per questo l'elemento
umano. Modificando questa terza opinione s'ha la vera che non
attribuisce il miracolo eucaristico al solo intervento di Cristo, nè
alla sola virtù del sacrificante, ma all'uno ed all'altro insieme. Se
mancasse l'opera dell'Uomo-Dio, il sacerdote per degno che fosse, non
potrebbe operare tanto prodigio. Come pure se venisse meno l'orazione
del celebrante, o, che torna lo stesso, se questa orazione fosse
detta da chi non avesse il diritto di dirla, il sacrifizio non si
compirebbe neanco. Occorrono dunque i due fattori: il subbiettivo o
la bontà del sacerdote, e l'obbiettivo o l'opera del Cristo. Ma pare
che quest'aggiunta non sia stata accettata e che la conciliazione
fallisse in questo punto delicato. Perchè l'ultima formola degli
oltramontani era questa: il sacerdote ordinato dalla Chiesa, finchè
sia mantenuto in ufficio dalla grande famiglia dei Cristiani, opera
sempre il miracolo eucaristico, o buono o malvagio che sia, e dopo le
mistiche parole da lui pronunziate il pane ed il vino si tramutano nel
corpo e nel sangue del Signore.[335] I Valdesi non potevano giammai
accettare questa dottrina.[336] Forse potevano spingersi all'ultima
concessione di attribuire un valore alla comunione, perchè in luogo
della preghiera del ministro indegno sottentra quella più efficace del
comunicando.[337] Ma che l'opera del sacerdote sia pressochè nulla,
e che Dio voglia accogliere sempre la preghiera purchè detta dal
sacerdote anche quando impure labbra la mormorino, i Poveri Lombardi
non sapeano accettare.[338]

Anche intorno alla confessione par che ci fosse dissenso tra i
Poveri Lombardi e gli oltramontani. Un tempo credettero i lombardi
all'efficacia della confessione auricolare, ma ora non più, e neanco i
fratelli d'oltremonte li potrebbero far cambiare d'opinione, perchè non
è lecito sottomettere di nuovo alla servitù della legge chi come Paolo
se ne sia affrancato.[339]

Da queste divergenze, che nella lettera non sono dissimulate, possiamo
raccogliere quel che già si sapeva dal Sacconi, che i Poveri Lombardi
fossero più ostili alla Chiesa dei loro confratelli d'oltremonti.
Perchè questi ultimi credevano tuttora di formar parte insieme ai
cattolici di una sola e grande famiglia, quella dei battezzati o
credenti in Cristo; in qualche punto rilevante come l'Eucaristia,
attribuendo il miracolo ad opera sovrannaturale indipendente dalla
coefficienza del sacerdote, s'adattavano molto più alla dottrina
cattolica, che ai presupposti della loro setta; infine, colla scorta
di queste dottrine potevano seguitare ad ascoltar messa e ricevere la
comunione dai preti cattolici senza tradire la nuova fede.

L'interpetrazione fin qui esposta dell'importante documento, pubblicato
dal Preger, non s'accorda con quella del dotto editore; ma io non
saprei ammettere senza sforzo che nel paragrafo sedicesimo della
lettera si tratti non d'un punto speciale, ma del fondamento stesso
della dottrina valdese. La quale secondo il Preger sarebbe affatto
identica a quella di Lutero, che cioè il diritto al sacerdozio si
debba ripetere dal battesimo, talchè tutti i battezzati sieno _ipso
jure_ sacerdoti. A me pare, o m'inganno, che il significato attribuito
alla _parola_ di Dio sia molto più profondo di quel che intendevano
gli oltramontani, stando almeno alla testimonianza del Borbone,
che egregiamente s'accorda in questo punto colla lettera dei Poveri
Lombardi. Non nego che dal contesto si potrebbe ricavare il senso
voluto dal Preger, ma interpetrata così la lettera dei Poveri Lombardi
contraddirebbe a tutte le altre fonti che la precedono e la seguono.
E sarebbe veramente strano che a tanti inquisitori, esercitati nelle
controversie del tempo, fosse sfuggito il vero principio della dottrina
valdese così da sostituirvene uno affatto opposto. Colla nostra
interpetrazione invece si mettono d'accordo tutte le fonti, e nel modo
più semplice si spiega che cosa intendessero i Valdesi oltramontani per
la comunità dei battezzati, e perchè in un punto speciale della loro
dottrina contraddicessero ai loro principii medesimi.


V

Dall'esposizione precedente si raccoglie che la lettera dei Poveri
Lombardi compie ma non contraddice alle altre fonti più antiche, che
si riferiscono ai Valdesi. E resta pur sempre tra i principii della
nuova fede questo, che venne giustamente rilevato dal Dieckhoff, che
la dignità dell'ufficio si misura dal valore di chi l'adempie, e la
validità dell'opera dal merito dell'operante. Se la cosa sta così,
è ben certo che non tutti i fedeli possono esercitare l'ufficio
apostolico, perchè non tutti sono meritevoli del pari. Ma come
s'accordano codeste sentenze colle altre conservateci parimente dalle
fonti più antiche: che ogni Valdese possa predicare la parola del
Signore, e sciogliere il suo fratello dal peccato, e somministrare ove
occorra ogni sacramento? Le due proposizioni: magis operatur meritum
quam ordo; omnes bonos esse sacerdotes,[340] non vanno bene d'accordo,
perchè la prima mena alla conseguenza di distinguer tra fedeli e
fedeli, nello stesso modo che faceano i Catari rispetto ai _Perfetti_
ed ai _Credenti_; la seconda di queste distinzioni non può far conto,
perchè son tutti pari quelli che venner moralmente rinnovati dalla fede
in Cristo.

Il Dieckhoff per sanare la contraddizione avea proposto d'interpetrare
in un senso restrittivo la seconda sentenza, come se dicesse: non
tutti i fedeli ma solo i buoni, quelli che eccellono per merito
hanno il diritto di esercitare le funzioni sacerdotali. Ma di queste
attenuazioni il Preger non vuole sapere, e preferisce di tagliar netta
una delle due proposizioni per lasciare intatta l'altra. Il nuovo
principio, secondo lui, proclamato dai Valdesi sarebbe questo: che al
di sopra degl'individui sta la comunità dei battezzati. Essa nomina
agli offici, o alle dignità, sieno temporanee o a vita come stima
meglio; scioglie il matrimonio anche senza il consenso dei conjugi
quando l'interesse generale lo richieda; essa è la conservatrice della
_grazia_ che investe l'uomo appena ricevuto il battesimo. Chiunque
entra a far parte di questa comunità è di pieno diritto buono, perchè
rinnovato dalla fede, talchè la frase di Stefano di Borbone, non si
deve intendere nel senso pregnante del Dieckhoff, ma nell'assoluto che
tutti i Valdesi senza distinzione possano esercitare le sacre funzioni.
Sarà pur vero che tra i Valdesi ci siano di quelli che meritano il nome
di perfetti a distinzione dei credenti, e che solo i primi sostengono
i duri travagli della povertà e dell'apostolato; ma codesta perfezione
è un compito morale per l'individuo, non una condizione per esercitare
uffici che spettano egualmente a tutti i battezzati.[341]

Che valore ha codesta interpetrazione del Preger? Notiamo in primo
luogo che egli ha dovuto modificare le sue opinioni nel più recente
lavoro intorno a Davide d'Asburgo, stante che questo scrittore parla
chiaramente di una distinzione tra perfetti e credenti riguardante
l'ufficio non la perfezione morale.[342] Nè questa distinzione, che
i Valdesi copiarono dai Catari, appartiene solo ai tempi di Davide,
perchè già Stefano di Borbone ne fa cenno.[343] Il trovarsi nello
stesso Stefano tanto la distinzione dei perfetti dai credenti, quanto
la frase: tutti i buoni possono fungere da sacerdoti ed amministrare,
se occorre, i sacramenti,[344] è una prova fortissima che codesta
frase si debba intendere in senso restrittivo. Nell'origine della
setta non era necessaria nessuna distinzione, perchè la nuova
società, molto scarsa di numero, non abbracciava se non gli uomini che
sentivano profondamente il bisogno di una rinnovazione religiosa, nè
erano meno ardenti del loro maestro, e al pari di lui pellegrinavano
faticosamente predicando ed insegnando. Oltrechè alla nuova società non
occorrevano speciali ministri, restringendosi le funzioni religiose
alla predicazione ed alla confessione, ed accettando tutte le altre
dai preti cattolici. Ma ben presto le condizioni mutarono. La società
valdese per ingrossarsi dovea accogliere anche coloro che, sebbene
inchini al nuovo insegnamento, non fosser disposti a spogliarsi dei
loro beni, nè avessero vocazione pel rude ministero dell'apostolato.
D'altra parte lo stacco dal Cattolicismo si facea sempre più netto,
ed alla nuova società facea d'uopo provvedere per tutte le funzioni
religiose, che indarno in tanta rottura veniano chieste ai preti
cattolici. In fine col crescere che facea la nova società avea bisogno
d'un organamento più saldo che non fosse quello dei primi tempi,
quando i Valdesi credendosi membri della vasta famiglia cristiana
mal tolleravano di costituirsi in corpo separato. Per tutte codeste
ragioni, ammesse in parte dal Preger,[345] ben presto si formò
la distinzione tra Perfetti e Credenti, ed ai sacerdoti cattolici
sottentrarono i ministri valdesi.

Con questa innovazione s'apre quel periodo della storia dei
Valdesi, che per noi sarà l'ultimo, stante che il successivo della
trasformazione di Valdesi in Protestanti esce dai confini del nostro
lavoro. In questo periodo le persecuzioni si facevano sempre più fiere,
ed il Santo Uffizio non metteva alcuna differenza tra Catari o Valdesi:
o per poco o per molto tutti s'allontanavano del pari dalla Chiesa
e tutti eran meritevoli della stessa pena, il rogo. La comunanza del
martirio strinse allora più fortemente i legami tra le due sètte, e
la società valdese accogliendo gli elementi assimilabili delle altre
eresie, si ordinò in comunità separata ed opposta alla cattolica. E
continuando da una parte le persecuzioni e dall'altra le resistenze,
ognor più s'allargava il solco che dividea l'antica dalla nova Chiesa.

Le fonti di cui ci varremo in questo periodo sono il Borbone, il
Moneta, il Trattato di Davide d'Ausburgo, l'anonimo di Passau e il
Libro dell'Inquisizione tolosana. Stefano di Borbone fin dalle prime
pagine c'informa della trasformazione avvenuta, ripetendo anche lui
colle fonti più antiche che i Valdesi hanno il giuramento e la menzogna
in conto di peccato mortale, ma soggiunge che queste massime rigide
vennero nella pratica temperate, ed a coloro, che non erano tra i
perfetti, venia concesso di mentire e di giurare, se minacciati di
morte.[346]

Ma una trasformazione ancor più profonda riguarda l'ufficio
sacerdotale. D'accordo colle fonti più antiche Stefano ed il Moneta ci
riconfermano la massima, che la santità del ministro si ripete dalle
sue opere, non dall'ordine ricevuto.[347] E con maggiori particolarità
Stefano racconta di un maestro valdese che gli poneva queste
distinzioni: v'ha taluni che non sono ordinati nè dagli uomini nè da
Dio, come i laici malvagi; altri sono ordinati dagli uomini, ma non
da Dio; altri per contrario sono ordinati da Dio e non dagli uomini,
come i buoni laici, i quali possono legare, sciogliere, consacrare,
ordinare, purchè profferiscano le parole divine secondo il rito.[348]
Dapprima le funzioni religiose, che credevano di poter esercitare
i Catari si restringevano al predicare ed assolvere i peccati. Ora
traggono altre più gravi conseguenze dalle loro premesse, nè soltanto
i Poveri Lombardi, ma benanco i Valdesi d'oltremonti sostengono, che
se non può predicare chi toglie coll'esempio ogni efficacia alle sue
parole, se non può sciogliere altrui chi è già da per sè legato, a
maggior ragione non può spezzare il pane del Signore chi non sia degno
di nutrirsene.[349] Ed in luogo dei sacerdoti indegni è necessario
che sottentrino i buoni, i quali per laici che sieno, potranno non
pertanto celebrare la messa con maggior frutto. Taluni, aggiunge
Stefano, concedevano questa facoltà non solo agli uomini, ma benanco
alle donne, quando al pari di quelli sieno penetrate dallo spirito del
Signore.[350]

Nè faceva intoppo che mancasse l'ordinazione regolare; stante che nei
primi tempi del Cristianesimo non occorrea, e bastava l'elezione della
comunità dei fedeli, perchè qualunque membro di essa fosse riconosciuto
per sacerdote. Per siffatta guisa un ministro, che fosse scelto a
questo modo, come accadde un tempo di Pietro Valdez, è sacerdote non
meno di chi sia stato consacrato dal vescovo.[351] Questo novo modo di
ordinazione, ovvero l'elezione per parte della comunità, permetteva che
nella nova società s'introducesse la gerarchia, nè andò molto tempo
che alla divisione in Perfetti e Credenti si aggiungesse anche la
distinzione di ufficii sacerdotali. I Valdesi del Piemonte ebbero ad
imitazione dei Catari il Barba, e due ministri a lui subordinati. Gli
altri Valdesi conservarono i tre gradi della gerarchia cattolica, il
vescovo il sacerdote ed il diacono.[352] Colla distinzione dei Perfetti
dai Credenti, e coll'introduzione di speciali funzioni sacerdotali
si collega la quistione del matrimonio, che noi toccammo altre volte,
ed ora ci conviene di riesaminare. Non è dubbio che nei primi tempi i
Valdesi non solo non condannavano il matrimonio, ma non lo tenevano per
un ostacolo all'apostolato.[353] Però in grazia degl'influssi catari
preferivano il celibato, ed il Valdez stesso, come narrammo, abbandonò
la moglie e la casa e mise le figliuole in convento. Sulle orme di
lui alcuni Valdesi, a quel che ne riferisce Stefano, sostenevano esser
lecito separarsi dalle mogli per consacrarsi a Dio, anche quando quelle
non vi consentano.[354] Nè certo la scabrosa missione del Perfetto
poteva essere adempiuta con zelo da chi fosse legato ad una famiglia,
di cui il più delle volte era l'unico sostegno e difesa. Non restava
che un passo per condannare del tutto il matrimonio, nè v'ha ragione
per dubitare che i Valdesi di Germania non l'abbiano fatto, perchè
già sappiamo da precedenti citazioni che essi erano i più disposti a
farlo.[355]

Dicemmo più sopra che secondo i Valdesi ad ogni laico era dato di
celebrar la messa; ma codesta celebrazione per parte dei laici dovea
portare di conseguenza che il rito si semplificasse, ed alle complicate
funzioni cattoliche fosse sostituita la semplice frazione del pane ad
imitazione della cena di Cristo. Il Libro dell'Inquisizione tolosana
più volte fa cenno di siffatta cerimonia.[356] Codesta semplificazione
del rito dovea portare di conseguenza l'attenuazione della dottrina, e
Davide riferisce che i Valdesi della Germania toglievano al sacramento
quel colore soprannaturale, che pur sempre nel periodo precedente era
gelosamente conservato. Ormai i Valdesi intendevano il sacramento
eucaristico in un modo affatto simbolico; e ripetevano coi Catari
che il corpo di Gesù non si debba prendere nel senso letterale, bensì
allegorico, come quando dicesi: Cristo esser la pietra su cui si eleva
la Chiesa di Dio.[357]

La Chiesa valdese adunque si è del tutto staccata dalla cattolica,
almeno in Germania. Nè fa meraviglia che ad uno ad uno condanni
tutte le dottrine ed istituti tradizionali. Intorno al battesimo dei
bambini vedemmo già come fossero dissensi tra i Valdesi. E pare che i
Poveri Lombardi solo per amore di conciliazione e deferenza verso gli
oltramontani si piegassero ad ammetterne l'efficacia. Più tardi le cose
mutarono, e gli oltramontani stessi a confessione di Davide stimarono
che il battesimo non possa giovare ai bambini, inetti al credere o
discredere.[358]

I suffragi pei defunti, la dottrina del Purgatorio e quelle delle
indulgenze già sappiamo che furono ben per tempo revocate in dubbio
dai Valdesi.[359] Ma ora progredisce il loro razionalismo, e dacchè
dichiararono simbolica l'eucaristia, simbolici saranno non pure
i misteri della religione ma benanco i sacramenti del battesimo,
della penitenza, della cresima e dell'estrema unzione,[360] i quali
ultimi per giunta essendo da meno degli altri possono senza danno
venire aboliti.[361] Inoltre avendo tolto ogni valore all'ordinazione
canonica, trasformarono il concetto del sacerdote, cioè di un essere
sacro, mediatore tra l'uomo e Dio, nell'altro più umile di ministro,
che aiuti e sorregga il fedele nel suo cammino, ma non si sostituisca
a lui, nè interrompa la libera e diretta comunicazione tra lui e il
suo creatore.[362] Ma insieme alla mediazione del sacerdote, più
tardi soppressero quella dei Santi, che secondo la testimonianza
di Davide sarebbero così lontani dai mortali, tanto assorbiti nella
loro beatitudine da non potere accogliere le preghiere che a loro si
rivolgono.[363]

Ed abolita l'adorazione dei santi cadono anche le feste, le
vigilie,[364] i digiuni,[365] le benedizioni, gli uffici[366] tutto
quel complesso di usi e cerimonie che formano il culto esteriore,
contro il quale fin dal principio s'eran ribellati i Valdesi,
condannando la consacrazione delle chiese,[367] l'adorazione delle
imagini e financo della Croce, come prima di loro insegnavano i
Catari.[368]

Questo è il cammino percorso dall'eresia valdese. L'intendimento primo
del riformatore di Lione non fu di staccarsi dalla Chiesa, bensì
d'introdurvi nuova vita colla partecipazione operosa del laicato.
Ma fin dal principio la nuova società subì l'influsso delle eresie
contemporanee, principalmente dei Catari, così da accogliere massime e
dottrine, a loro affatto straniere, e che più tardi saranno abbandonate
dai Protestanti.[369] In seguito, respinti dalla Chiesa ufficiale,
furono costretti a sostenere un nuovo concetto del sacerdozio che
tolsero in prestito e dai Catari e dagli Arnaldisti. Ma questo
concetto ha una portata molto maggiore di quel che si crede, perchè
smagliato un anello, l'aurea catena va tutta in pezzi. E così nei
periodi successivi, l'uno dopo l'altro tutti i dommi tradizionali
vennero combattuti, ed i Valdesi formarono una società novella, non
più cattolica, benchè non ancora protestante, perchè le mancava e la
dottrina della predestinazione, e quel che più conta, l'altra della
giustificazione per la fede.

Nel corso della nostra esposizione abbiamo più volte dovuto ricordare
gli Arnaldisti, che secondo noi si connettono strettamente coi
Patarini. E degli uni e degli altri discorreremo nel capitolo seguente.



CAPITOLO III

PATARINI ED ARNALDISTI


Il Decreto di Lucio III oltre ai Catari, Passagini, Poveri di Lione
colpisce anche i Patarini e gli Arnaldisti. Chi erano i Patarini? La
stessa cosa dei Catari o Catarini, o una setta affatto differente? E
gli Arnaldisti sono eretici anch'essi, e qual dottrina professano?
Rimontano ad Arnaldo da Brescia, ovvero, come par che voglia il
Giesebrecht, ad un vescovo cataro di nome Arnaldo? Per rispondere a
queste dimande dobbiamo rifarci molto indietro, e seguire passo per
passo la storia di quel partito che voleva la riforma della Chiesa non
certo nel domma, come opinavano i Catari ed in parte anche i Valdesi,
bensì nel costume e nella disciplina. E non che peccare d'eresia, ne
accusava invece gli avversarii, perseveranti negli antichi abusi ed
insofferenti delle riforme.


I

Nel secolo XI, in quell'età funesta, in cui il Papato era in balìa or
dei Crescenzi, or dei conti di Tusculo, il partito delle riforme prese
nome e colore imperiale. Nessun'altra potenza all'infuori dell'Impero
sarebbe riescita a liberare la Chiesa dalla soggezione de' nobili
romani, e per conseguire quest'alto scopo i migliori ecclesiastici
acconsentirono che l'elezione del Papa, sottratta al popolo romano,
fosse affidata all'Imperatore, ed accolsero con gioia i pontefici
nominati da lui Clemente II (1046-47), Damaso II (1048), Leone IX
(1049-54), Vittore II (1054-57).[370]

Prima della nomina imperiale tre papi si contendevano l'alto ufficio,
Benedetto IX dei conti di Tuscolo, nominato ancor dodicenne nel 1033;
Silvestro III, levato su dalla fazione, che nel 1044 si ribellò contro
il dissoluto pontefice; e finalmente Gregorio VI, il buon arciprete
di S. Giovanni che per far cessare lo scisma avea comprata nel 1045
la tiara pel reddito dell'obolo di S. Pietro. Tutti e tre i papi
furono deposti nel concilio di Sutri,[371] ed in luogo loro fu scelto
da Enrico III il vescovo di Bamberga Clemente II, il quale convocato
ben presto un solenne concilio nel gennaio del 1047 fulminò il primo
decreto contro la simonia del clero, riconfermato due anni dopo da
Leone IX.[372] Questo della compra e della vendita degli ufficii
ecclesiastici era il primo abuso al quale si dovea por riparo, chè
tutti gli ecclesiastici dal _supremo Gerarca all'ostiario_[373]
non erano mondi di colpa. Ma insieme con questa un'altra riforma
si reputava necessaria, quella del matrimonio dei preti. Perchè,
sebbene il celibato fosse sino dai tempi remoti della Chiesa tenuto
in grandissimo pregio, pure nel secolo decimoprimo eran tanti i preti
ammogliati ed in Italia e fuori, che Leone IX temendo di mettere sul
lastrico tante povere donne, permise che seguitassero a vivere coi loro
mariti, purchè cessasse tra loro ogni commercio carnale.[374]

I mercatanti dei beneficii spirituali furon detti simoniaci da quel
Simone Mago degli _Atti degli Apostoli_, che si fece cristiano per
comprare a contanti il segreto dei miracoli apostolici, superiori
ai suoi sortilegi.[375] Nicolaiti poi eran detti i sacerdoti o
ammogliati o concubinari in ricordo di un'antica setta, menzionata
nell'Apocalisse.[376] Ma non si deve credere che sotto questi nomi
di Simoniaci o Nicolaiti rivivessero eretici, sostenenti con ragioni
dommatiche la legittimità del traffico dei beneficii, o del matrimonio
dei preti. Certamente non mancavano argomenti e storici e dottrinali
in favore di quello che era allora il costume più generale. Si poteva
ad esempio distinguere l'ufficio ecclesiastico dal beneficio temporale
annesso; e sostenere che quest'ultimo al pari di tutti i beni e
possessi fosse ben lecito cedersi od acquistarsi.[377] Si poteva
aggiungere che la mercede chiesta dai chierici pei loro ufficii si
dovesse tenere come una pia elemosina, perchè i ministri del Signore
era ben giusto che vivessero a spese della comunità.[378] In quanto poi
al matrimonio dei preti si poteva fare appello, come fecero i prelati
milanesi, all'antica comunità cristiana, e alla autorità degli Evangeli
e di S. Paolo.[379] Ma benchè non facessero difetto le ragioni, nè
temessero di dirle coloro che dai decreti pontificii venivan colpiti,
pure vere sètte eretiche allora non sursero per questi due capi. E
la ragione forse sta in questo, che il moto ereticale di quel tempo
era fieramente avverso tanto al matrimonio, quanto al possesso delle
ricchezze, talchè i Catari si unirono piuttosto coi seguaci del Papa,
che cogli avversarii suoi. E per tal guisa la simonia ed il concubinato
vennero da tutti tenuti pel frutto non di un convincimento teorico,
ma di una intemperanza pratica, che s'ha da punire e svellere dalle
radici.

I decreti dei Papi, che richiamavano gli ecclesiastici a norme più
rigorose di vita, incontravano dappertutto tenaci resistenze, ma
più che altrove in Lombardia, dove il maggior numero dei sacerdoti
per antica consuetudine avean moglie e figliuoli, e la vendita dei
beneficii era uno dei maggiori proventi della nobiltà.[380] Oltrechè
l'arcivescovo milanese, capo ad un tempo della Chiesa e dello Stato,
s'era pressochè liberato dalla soggezione di Roma,[381] e sin da gran
tempo antico la Chiesa di Lombardia si distingueva da tutte le altre
in qualche particolarità liturgica.[382] Ma tutte queste ragioni,
che rendevano così difficile l'introduzione delle riforme, servivano
maggiormente ad eccitare lo zelo degli ecclesiastici che le voleano.
Perchè un partito riformatore non poteva al certo mancare in Lombardia
dove più aperto era il contrasto tra l'alto clero, ricco e sfarzoso, ed
il basso povero ed oppresso. Tra queste due parti della Chiesa dovea
esistere lo stesso antagonismo che separava la nobiltà maggiore o dei
capitani dalla minore o dei valvassori, e l'una e l'altra dal popolo
minuto. E coll'andare del tempo le due opposizioni formarono una sola,
e gli artigiani, i commercianti, i servi della gleba si strinsero
intorno al clero minore, e gli assicurarono la vittoria sull'alto
clero. Così nacque in Lombardia la setta dei Patarini, a capo della
quale si misero un sacerdote della classe dei valvassori, di nome
Arialdo, ed un nobile della classe dei capitani, Landolfo.[383]

Chi erano codesti Patarini, e onde trassero il loro nome? E qual
rapporto corre tra i Patarini, e i Catari, che di lì a poco vengono
chiamati con evidente analogia di suono, Catarini? Che nei secoli
posteriori i due nomi si scambino, e che l'abate Gioacchino non chiami
in altro modo gli eretici dualistici se non _patharenos_, è fuor di
discussione. Ma al principio il nome di Patarini ebbe un'origine ed
un significato del tutto differente. Come ci dice Arnolfo, questa
denominazione nacque per caso, e forse fu un termine d'ingiuria, che i
fautori dell'alto clero appiccarono ai loro avversarî, come se dessero
loro del _cenciajuoli_ o _cenciosi_. Pataria infatti si diceva in
Milano il luogo ove s'adunavano i Patari, ovvero i rivenduglioli di
panni vecchi, e forse o perchè in quel luogo si tenessero le prediche e
le adunanze dei novatori, o perchè il grosso del partito fosse formato
da questi minuti trafficanti, o infine per le due ragioni insieme,
certo è, secondo la testimonianza di un contemporaneo che da Pataria fu
tratto il nome di Patarini.[384]

Non è a dire però che tra i Patarini non si cacciassero i Catari.
Ricordo che gli eretici di Monforte furono per la prima volta noti nel
1045 in un viaggio che fece per la Lombardia l'arcivescovo Ariberto,
predecessore di quel Guido, contro cui si levavano i Patarini. Ricordo
che il numero dei Catari di Monforte era già salito a tremila e che
i seguaci della nuova dottrina del castello della Contessa si erano
sparsi per tutto il Milanese. Sarebbe veramente strano che gli eretici
non si fossero valsi della propizia occasione, che offrivano i tumulti
milanesi per spandere inavvertitamente la loro dottrina.[385] Tanto
più che nella parte pratica erano del tutto d'accordo coi novatori, e
se condannavano in tutti il matrimonio, tanto più lo doveano aborrire
nei ministri del Signore; se predicavano il disprezzo delle ricchezze e
della gloria mondana non potevano certo approvare il fasto ed il lusso
dell'alto clero milanese. Ed in quanto alla parte teorica sapevano
tacere a tempo quei dommi che non andavano ai versi del maggior numero.
Solo a pochi e più fidi svelavano tutta la loro dottrina; nei nuovi
affiliati bastava che gettassero i semi dai quali col tempo sarebbero
germogliate le nuove convinzioni.[386]

Non è dubbio adunque che coi Patarini si sieno mescolati i Catari,
ma certo i capi del movimento patarinico nè si credevano, nè erano
per quel momento eretici; chè anzi tutti i loro atti, anche i più
audaci e meno rispettosi della dignità sacerdotale furono approvati
da Roma. Nè certo è da meravigliare perchè la Curia romana teneva a
fare osservare i suoi decreti sopra tutto in Milano, ove l'arcivescovo
già da gran tempo era divenuto l'emulo del Papa. Da gran tempo nella
Chiesa milanese alitava tale spirito d'indipendenza, che quando il
legato di Roma, Pietro Damiani, nell'assemblea raccolta in Duomo prese
la presidenza spettante per grado all'arcivescovo, lo stesso popolo
che giorni prima s'era ribellato all'alto clero, levossi quindi in
furore per rivendicarne l'oltraggiata dignità.[387] Urgeva adunque di
ridurre alla soggezione di Roma il riottoso primate, e col fiaccarne
la potenza, che da signore feudale s'era acquistata, si facea un gran
passo.

Ed a questa s'aggiungeva un'altra ragione perchè Roma si stringesse
coi Patarini. L'arcivescovo Guido, creatura di Enrico III, e nominato
da lui all'alta dignità, benchè non fosse della classe più nobile, era
certamente legato alla causa imperiale molto più del suo predecessore
Ariberto.[388] Per lo contrario la Curia Romana ed il partito delle
riforme, che da principio avea commesse le sue sorti all'impero,
alla morte di Enrico III, quando le fazioni presero a travagliare la
corte della debole reggente gli si volse contro. Era ormai maturo
il tempo, perchè il Papato, che per opera di Enrico s'era liberato
dalla prepotenza dei conti romani, si liberasse alla sua volta anche
dalla tutela imperiale. Nè tardò molto ad affermarlo pubblicamente il
nuovo pontefice Niccolò II, il quale nel concilio del 1059 stabilì
che da indi innanzi il Papa non sarebbe scelto nè dal popolo, nè
dall'Imperatore, bensì dal collegio cardinalizio. Fiere opposizioni
dovea suscitare quest'audace misura, e le suscitò di fatto; e la guerra
apertamente dichiarata tra la Chiesa e l'Impero non poteva cessare
nè agevolmente nè presto. In queste congiunture non giovava di certo
alla Curia Romana che l'arcivescovato milanese conservasse e crescesse
il suo prestigio all'ombra del favore imperiale. E ben si comprende
come mettesse in opera tutti i mezzi per favorire i Patarini ai danni
dell'arcivescovo, e della sua potestà temporale. A noi non tocca
di rifare un racconto, già fatto maestrevolmente da altri;[389] ma
ricordando le misure prese dalla Corte Romana lungo il ventennio delle
lotte patariniche, mostreremo come la politica dei varii papi fosse
sempre la stessa, nè si smentisse neanche se per favorire la Pataria ne
fosse andata di mezzo la rigidità dell'ortodossia.

Quando i Patarini, cresciuti di numero in grazie della pietà di
Arialdo e dell'eloquenza di Arnolfo, invasero a mano armata il Duomo
per iscacciarne di viva forza l'arcivescovo, celebrante i divini
ufficii, Stefano IX prese sotto la sua protezione i promotori di
questa violenza, che a lui si appellarono dalla scomunica del sinodo
provinciale. Ed i legati che il Papa mandò per comporre i dissidii
della classe milanese, furono i più validi sostegni della Pataria,
Ildebrando ed Anselmo di Lucca.[390] E l'altro legato Pier Damiani,
che il nuovo papa Niccolò II mandò in Lombardia, benchè forse meno
aspro dei suoi predecessori verso l'arcivescovo, lo condannò pure
ad una grave multa in punizione della simonia, e lo costrinse a
prestargli il giuramento, ed a sottoscrivere la dichiarazione, che
d'ora innanzi somministrerebbe gratuitamente gli ordini, nè più oltre
sopporterebbe il matrimonio o concubinato dei preti.[391] La resistenza
dell'arcivescovo era ormai fiaccata, talchè fu obbligato a prender
parte a quel concilio romano, che tra le nuove misure sulla nomina del
Pontefice,[392] e la condanna dei simoniaci cacciò come di soppiatto
un articolo contro le investiture laicali.[393] Ed in omaggio a questo
articolo il primate di Milano ebbe a ricevere novamente dal Papa
l'investitura già avuta da Enrico III.[394]

In questo stesso concilio fu preso per la prima volta contro i
simoniaci ed i concubinarii un grave provvedimento, ripetuto dappoi
molte altre volte. Si prescrisse, non dovere i fedeli ascoltare
la messa di quel sacerdote che riconoscano per certa scienza
concubinario.[395] I cronisti del tempo fecero le più alte meraviglie
quando Gregorio VII ripropose questa misura, che capovolgea tutta la
gerarchia, e facea dei laici i giudici del clero.[396] Ma dessa era
un'arme di guerra, e guerra aperta si combatteva da gran tempo tra la
Curia Romana ed il clero milanese. E le ire vie più si rinfocolarono
quando alla morte di Niccolò i cardinali levarono sul soglio pontificio
quell'Anselmo vescovo di Lucca, già legato in Milano, e creduto
promotore delle agitazioni patariniche.[397] Nello scisma che allora
insorse tra il Papa dei Cardinali e quello dell'Imperatrice, il clero
milanese seguì in grande maggioranza le parti di quest'ultimo. E
provocò nuovi rigori dalla Curia Romana, che ormai non abborriva di
conseguire la vittoria col ferro e col fuoco. Talchè Alessandro II non
dubitò di consegnare una bandiera pontificia nelle mani di Erlembardo,
valoroso guerriero tornato testè dalla Palestina e succeduto al
fratello Arnolfo nella difesa della causa patarinica.[398]

Quest'atto era la consacrazione della guerra civile; ma la Corte Romana
ormai era decisa a tutto, perfino a scomunicare l'arcivescovo, pochi
anni innanzi investito dallo stesso papa. Tale misura però dette il
crollo alla bilancia; ed i Patarini furono sopraffatti dai nemici, e
lo stesso Arialdo, costretto a fuggire, fu preso e messo a morte dalla
nipote dell'arcivescovo.[399] L'alto clero trionfava, ma non sì che
a capo di dieci mesi Erlembardo non potesse rifarsi dei suoi danni,
e muovere armata mano contro l'Isola Madre per riscuotere dall'empia
Jezabel, come ei la chiamava, il corpo del martire suo compagno.[400]
Le sorti in breve ora mutarono, e rientrato Erlembardo in Milano colla
venerata salma, riprese le persecuzioni contro l'alto clero, certo
più spietate di prima. Non furono risparmiate nè le case nè le vite,
e a tale si venne che i legati pontificii ebbero a dare ordini severi
contro gli stessi loro partigiani.[401]

La lotta s'era fatta sempre più aspra; e non che smettere nuove ragioni
s'apprestarono a rinfocolarla. L'arcivescovo Guido, che da venti
anni reggeva la Chiesa di Milano, stanco dell'interminabile lotta, e
ben sapendo che i Patarini prendevano accordi intorno al successore
da dargli, pensò di cedere il suo ufficio ad un ecclesiastico, più
nobile di lui, a nome Goffredo.[402] L'imperatore, Enrico IV, uscito
da poco di tutela, accolse di buon animo la dimandata investitura,
nella speranza che col nuovo arcivescovo i dissidii sarebbero
cessati e l'autorità imperiale rinvigorita.[403] Ma per le opposte
ragioni il papa non volle saperne di questa nomina, che frustrava i
disegni da lungo tempo concepiti, e contraddiceva al canone contro le
investiture laicali votate nel concilio del 1059. Perlochè Goffredo
fu scomunicato[404] ed alla morte di Guido Erlembardo fece scegliere
coll'intervento del delegato un sacerdote di nome Azzone.[405] Per tal
guisa i partiti tornarono più accanitamente alle prese. L'alto clero
fu talmente irritato dalla nuova scelta, che ruppe in aperta violenza,
ed a furor di popolo fu trascinato il nuovo eletto alla chiesa di S.
Maria, ed ivi più morto che vivo gli fu fatto giurare che non salirebbe
mai sulla cattedra di S. Pietro.[406] Nè vi salì, ma non vi salì
neanche Goffredo, combattuto fieramente da Erlembardo. (1071). A costui
per verità non venne fatto d'impadronirsi del forte di Castiglione, ove
l'arcivescovo scomunicato s'era rinchiuso; ma riescì in quella vece a
sbarrare le porte di Milano, e a ridurre in sua mano il governo della
città.

In quel tempo (1073) fu assunto al pontificato Ildebrando, l'amico ed
il protettore di Erlembardo, e questi si credeva ormai così sicuro del
suo potere, che ogni giorno più cresceva di audacia ed intemperanza.
Così per mostrare il suo odio e disprezzo contro i vescovi, che aveano
riconosciuto a lor capo uno scomunicato, calpestò pubblicamente l'olio
da uno di loro consacrato, sostituendovi altro d'ignota provenienza. E
ricusando i vescovi di somministrare il battesimo nelle ferie pasquali
di quell'anno e del seguente, ingiunse ad un semplice prete Luiprando,
che facesse le loro veci.[407] Contro queste violenze suonarono ben
alte le grida del clero,[408] ed in occasione di un incendio, che in
quel torno distrusse la bella chiesa, ove fu consacrato Attone, si
disse essere codesto un giusto giudizio dell'empietà commesse. L'ira
dei Milanesi allora non conobbe più freno; i nemici di Erlembardo
non posero tempo in mezzo ad irrompere armata mano contro di lui,
ed il valoroso capitano cadde colla spada in pugno, martire della
sua fede.[409] Non però la morte di Erlembardo restaurò le forze di
Goffredo; e lo stesso Enrico lo ebbe ad abbandonare, scegliendo in
sua vece un uomo più accetto, Tedaldo.[410] Ormai i dissidii milanesi
scomparivano nella lotta delle investiture[411] che per la sua
grandezza supera tutte le altre finora combattute.


II

Il gran disegno di ridurre tutto il clero maggiore e minore in balìa
del Pontefice era attuato a mezzo fino a che un altro potere, il
laicale, avesse in sua mano i beneficii; onde Gregorio non dubita
di trarre le estreme conseguenze, e contrastare all'Imperatore
antichissimi diritti. Ora si chiariva il segreto pensiero del Papa.
La potestà pontificia dovea essere la fonte di tutte le autorità e
temporali e spirituali. Il clero non dovea inchinarsi ad altro capo
fuor del sommo Gerarca, e da lui solo avea a riconoscere non pure
l'ufficio suo spirituale, ma benanco il possesso dei beni ed il dominio
temporale. Nè faceva intoppo che per tal guisa si sarebbero capovolte
tutte le norme giuridiche e politiche del tempo; e che il feudatario
in omaggio al Papa avrebbe talvolta negata obbedienza al suo signore.
Ormai il supremo signore era il Pontefice, e le parti tra il Papato
e l'Impero affatto invertite. L'Imperatore avrebbe nominato il Papa,
non il Papa l'Imperatore, perchè se il sommo sacerdote ha la potestà
d'immettere nel loro ufficio alcuni principi dell'Impero, è naturale
che eserciti lo stesso diritto sul Principe dei Principi. E questo era
veramente l'ideale di Gregorio VII, la costituzione di una società
mondiale, il cui capo fosse il vescovo di Roma, suprema autorità
feudale, da cui come vassalli dipendessero tutti i principi, e primo
fra tutti l'Imperatore.[412]

Ma ora si scopriva una strana contraddizione tra il principio e la
fine del movimento riformatore, il quale cominciato dal contrastare
il fasto, la dissolutezza e talvolta il potere principesco dell'alto
clero, finiva col mettere in mano del Papa la maggior copia di
ricchezze, onori e potestà mondana. Se al supremo Gerarca è lecito di
circondarsi degli splendori di una corte, perchè non debbono seguire
il suo esempio e vescovi ed abbati? La riforma disciplinare sarà dunque
messa in seconda linea, ed or che nè l'arcivescovo di Milano, nè altro
al mondo può fare ombra alla Curia Romana, non si contrasterà più la
potestà territoriale dei prelati. E purchè questi riconoscano nel Papa
la fonte dell'autorità loro, vivano a lor modo, e camminino pure sulle
orme degli Ariberti e dei Guidi.

Per tal guisa i mali della Chiesa s'esacerbavano, e secondo la
testimonianza preziosa di S. Bernardo, le intemperanze del clero
metteano nuove radici e tanto più profonde, per quanto la Chiesa
grandeggiava di potenza e splendore.[413] Nettampoco la quistione
politica era risoluta, chè non ostante i trionfi di Canossa la vittoria
del Papato vacillava non poco, e dopo tanto battagliare Callisto II,
ebbe a sottoscrivere il compromesso del 1122, il quale se chiudeva
la grande lotta delle investiture, non ispengeva il germe di nuovi
contrasti. Il dissidio tra la Chiesa e l'Impero, insorto una volta
non sarà più per comporsi; nè solo colla Germania avrà da battersi il
Papato, ma colla Francia, coll'Inghilterra, col Senato di Roma, con
tutti quei governi in una parola, che mal tolleravano le usurpazioni e
frammettenze del potere ecclesiastico. E queste lotte in quell'età di
violenti e rudi costumi tornavano egualmente funeste allo Stato ed alla
Chiesa; e minacciavano l'esistenza stessa di ogni civile consorzio.


III

In questo tempo appare nella storia la misteriosa figura di Arnaldo da
Brescia.[414]

Il moto patarino ebbe per risultato di togliere in molti luoghi
ai vescovi la potestà territoriale che passò nei comuni, e così
nacquero quelle repubbliche medievali con consoli e consigli e
diritti e pretensioni baronali sui minori comuni. Questo accadde in
Milano, e sarà accaduto anche in Brescia, ove però il vescovo non fu
spogliato di tutta l'autorità, ma sembra prendesse parte coi Consoli
all'amministrazione della Repubblica.[415] Si comprende come dovesse
riescire faticoso questo governo misto, nel quale gli opposti elementi
si odiavano e sospettavano a vicenda; e come le scissure del governo
si ripercotessero nel popolo, diviso anche lui in partiti e fazioni.
Uno dei capi del partito antivescovile par che fosse il famoso
Arnaldo, il quale benchè prete e frate,[416] s'ispirava alle tradizioni
patariniche, tal che pareva in lui rivivesse lo spirito austero degli
Arialdo ed Erlembardo, santificati dalla Chiesa.

Questo rigido sacerdote, che al dire dell'_Historia pontificalis_
carnem suam indumentorum asperitate et inedia macerabat,[417] mal
tollerava che il clero s'inframmettesse nei negozii mondani,[418] e
contro il proprio vescovo, semprepiù avido di maggior potere, levava
alta la voce, infiammando il popolo a tal segno, che nel tornare quel
prelato da Roma, a fatica potè rientrare nella sua diocesi.[419] Non
diversamente s'era condotto un tempo Arialdo, e contro l'arcivescovo
milanese e il clero maggiore ben più gravi tumulti avea sollevato
nel popolo. Ma ora i tempi eran mutati, nè sulla cattedra di S.
Pietro sedevano gli Alessandro II e i Gregorio VII, nè gl'interessi
della Corte pontificia del secolo decimosecondo pareggiavan quelli
dell'undecimo.

Di queste condizioni consapevole il prelato bresciano s'appellò a
Roma contro il mal capitato canonico, e se non ottenne dal Concilio
lateranense del 1139[420] la condanna esplicita delle dottrine
arnaldiane, ebbe dal Papa quello che più gli premea di conseguire,
l'allontanamento del pericoloso oratore. Arnaldo infatti fu deposto
con decreto pontificio dall'uffizio suo, e cacciato in bando
oltremonti.[421] È dubbio se gli fosse proibito anche il predicare.
Ottone di Frisinga lo dice apertamente;[422] ma S. Bernardo non sa
nulla di questo divieto; nè forse alla Curia romana premeva di chiudere
la bocca all'esule sacerdote, convinta che fuori della patria la
sua parola non sarebbe nè cercata nè temuta. Comunque sia, è fuor di
dubbio che Arnaldo riparò in Francia, ove secondo Ottone di Frisinga
era già stato da giovane per udirvi le lezioni d'Abelardo.[423] E vi
tornò appunto in quel tempo, in cui il Concilio di Sens dovea decidere
sulle sorti del filosofo palatino, accusato da San Bernardo. L'esule
bresciano s'adoperò gagliardamente pel suo maestro,[424] e quando
fu pronunziata la sentenza, e l'infelice condannato si ridusse nella
solitudine di Cluny, ei restò impavido sulla breccia, ed occupata la
cattedra deserta, seguitò ad esporre la Bibbia nello stile di Abelardo,
e forse più di lui insisteva sul contrasto tra i primi vescovi
della Chiesa, e quelli che allora disonoravano il loro ministero
coll'avarizia ed il desio di beni mondani, e alle mollezze del secolo
s'abbandonavano, e voleano edificare la Chiesa sul sangue.[425]

Dell'efficacia di questo insegnamento non è a dubitare. Chi
l'impartiva, educato agli studii classici, possedeva il segreto
dell'eloquenza, che vince le menti,[426] e maggiore autorità dava
alle sue parole coll'esempio di una vita intemerata ed austera che
imponeva il rispetto anche ai nemici. Talchè S. Bernardo, ben conto dei
pericoli che sovrastavano all'opera sua, s'adoperava in tutte le guise
per ridurre al silenzio questo nuovo apostolo, pari al maestro per
ingegno e dottrina, ma d'animo più gagliardo. Già fin dalla chiusura
del concilio con lettere affannose avea sollecitata da Innocenzo II
la condanna del palatino e del bresciano insieme; pervenutogli poi il
decreto pontificio, che non pure condannava i novatori ma ne ordinava
l'arresto,[427] si mise in cerca di chi si prestasse ad eseguirlo. E
fallitogli il tentativo presso il re di Francia, dal quale ottenne
solo ed a stenti l'espulsione di Arnaldo,[428] si volse al vescovo
di Costanza nella cui diocesi s'era quegli rifugiato,[429] pregandolo
di far discacciare il ramingo, se pur non gli riescisse di chiuderlo
in prigione.[430] Ma non tutti la pensavano come l'impetuoso abate.
Nè soltanto l'ordine di arresto non fu eseguito;[431] ma perfino
un cardinale di S. Chiesa, e legato per giunta,[432] in luogo di
perseguitare il profugo sacerdote, lo accolse ospitalmente, e della
sua egida lo ricoperse. E indarno il Chiaravallese gli scrisse una
delle sue lettere più ardenti;[433] l'accorto porporato non si lasciò
prendere all'amo, chè ei ben sapea discernere gl'interessi della
Chiesa da quelli del fanatismo. Pare anzi che con lo stesso legato
Arnaldo abbia fatto ritorno in Italia, e che per opera di lui si sia
rappattumato col novo papa Eugenio III.[434]

Sembra molto strano che l'esule bresciano, il proscritto da Innocenzo,
trovi grazia appo Eugenio, presso quello stesso Papa, che avrebbe
dovuto più che altri seguire i consigli di S. Bernardo, stato già
suo maestro;[435] e qualcuno potrebbe essere indotto a dubitare
della veracità dell'_Historia pontificalis_. Ma la testimonianza
del Sarisberiense, come ha dimostrato il Giesebrecht, è fuor di
discussione; ed io stimo che si possano sciogliere le dubbiezze, ove si
studii più addentro nei fatti.[436]

Non appena assunto al pontificato Eugenio III ebbe dal suo venerato
maestro il libro _De Consideratione_, ove è svolta maestrevolmente
la quistione del giorno, quella stessa, che solea trattare Arnaldo
nelle sue predicazioni, e che oggi si direbbe del potere temporale.
S. Bernardo comincia dallo stabilire che la Chiesa non possiede per
diritto apostolico; chè gli apostoli non potevano dare quel che non
aveano.[437] E se non possiede per sè, mal può farsi distributrice di
terre, e giudice di possessi. Quale apostolo mai si attribuì questo
potere?[438] Nè tampoco la Chiesa è fatta per dominare, chè a lei non
lo scettro, ma il sarchio si conviene; e chiaramente traspare dagli
Evangelii il divieto della dominazione mondana.[439] Nè mai Pietro si
ornò di gemme o di seriche vesti, nè su bianco cavallo fu portato, nè
gli si stringevano attorno soldati e ministri.[440] Ed i possessi e
il dominio, e l'aureo manto e l'armi non spettano a chi fu commesso
l'umile ufficio di pascere il suo gregge;[441] bensì ai re e principi
della terra. Nè giova che l'una podestà invada i confini dell'altra,
e meni la sua falce nell'altrui messe.[442] Ma non perchè si spogli
di queste mal tolte attribuzioni, la dignità del sommo sacerdote
vien menomata. Chè per quanto egli si estolga su tutti gli altri
uomini, non può certo farsi maggiore del Signor suo, nè al discepolo
conviene usurpare titoli ed ufficii che al maestro non piacque di
assumere.[443] E d'altra parte ridotta al solo spirituale l'autorità
del Papa non cessa per tanto dal soprastare a quella di tutti i
principi della terra; non essendovi alcun re o imperatore, cui come
al Papa appartengano le due spade, la temporale e la spirituale.[444]
Con questa differenza che quella viene sguainata per suo cenno, ma non
dalla sua mano, questa anche dalla mano. La spada temporale deve essere
adoperata per la Chiesa, non dalla Chiesa.[445]

Da queste citazioni è facile raccogliere la dottrina di S. Bernardo.
Non avendo lo Stato un contenuto morale suo proprio, la podestà terrena
fino a che non sia consacrata dal Capo della Chiesa, pare agli occhi
del Chiaravallese rude forza non ancora tramutata in diritto; concetto
comune a tutto il Medio Evo, e dai ghibellini non meno accettato
che dai guelfi. Ma ciò non importa che la Chiesa stessa debba godere
autorità territoriale. Superiore a tutti i principi della terra, ella
non può discendere al loro livello, nè esercitare un potere materiale
come il loro; fonte di ogni autorità, la impartisce agli altri, senza
serbare per sè nessuna parte che non sia del tutto spirituale. Il
concetto di S. Bernardo dovea menare diritto al vicariato. Il Micado
per dedicarsi esclusivamente agl'interessi spirituali tralascia la
cura delle terrene cose, la cui amministrazione affida al primo tra i
principi del paese. E questi, il Taicun, ha bensì il vero potere nelle
mani, ma l'esercita nel nome del Micado.

Non dobbiamo qui dare un giudizio di questo sistema, il più ecclettico
che sia mai apparso. Ma certo è che ad Eugenio sorrise non poco, e ben
presto messolo in pratica nell'accordo che strinse colla Repubblica
romana, si fece restituire dal popolo romano il diritto di sovranità,
esercitata dai suoi predecessori, ma nel contempo s'impegnò di
trasferirne il potere nel Senato romano, come suo vicario.[446] Non è
improbabile che a questo componimento assentisse anche Arnaldo, e per
tal guisa spiegheremmo agevolmente come andasse assolto dalle antiche
censure, e gli fosse data licenza di starsene a Roma.

Ma non andò molto che si scopersero i vizii di quell'artifizioso
congegno, che metteva alle prese due autorità, una di nome, l'altra
di fatto. Non conosciamo le scissure che ebbero luogo in quel tempo
tra il Papa ed il Senato di Roma; certo è che nella primavera del 1146
Eugenio fuggì da Roma, e l'anno appresso dall'Italia. Fallito così
l'accomodamento ricominciò la lotta con maggior vigore. Ormai non era
più tempo di mezzi termini, ed Arnaldo riprese il linguaggio antico,
e nelle sue calde predicazioni sfolgorava per primo i cardinali,
nuovi scribi e farisei che si adunano nel tempio, come in mercato, a
trattar di negozii mondani e provvedere al loro fasto ed ingordigia. Nè
risparmiava il Papa, a cui negava il nome di uomo apostolico e pastor
delle anime; perchè gli apostoli non promoveano incendi e rapine come
lui; nè nel sangue fondavano il loro regno spirituale.[447] E da queste
premesse diritto conclude non doversi obbedienza nè al Papa nè ai
Cardinali, che non sono la vera Chiesa di Dio; nè aversi a tollerare
che il Papa rientri in quella città, cui vuole ridurre a servitù, lei
la fonte della libertà, la sede dell'impero e la regina del mondo.[448]

Arnaldo era dunque l'oratore della Repubblica, il temuto tribuno che
nel breve giro di pochi mesi avea saputo guadagnarsi il favor popolare
così da movere le masse a suo talento. Ben comprese il Senato romano di
quanto giovamento potesse tornargli questo sacerdote, di vita austera
ed intemerata, che spietatamente metteva a nudo le magagne del clero,
e ad un profondo sentimento religioso aggiungeva il culto della Roma
antica, e la fede invitta nei suoi nuovi destini. E con giuramento
solenne Arnaldo ed il Senato romano si strinsero in un patto, quegli
di consacrare tutta l'opera sua in servigio della Repubblica, questi
di difenderlo a tutti i costi dalle insidie nemiche. L'uno e l'altro
seppero mantenere la lor fede.[449] E quando nel 1149 fu costretto il
Senato a rappaciarsi con Eugenio, non permise che rientrando il Papa
nella città eterna, ne fosse bandito lo scomunicato tribuno. Mirabile
fermezza, che permise ad Arnaldo di seguitare a vivere in Roma, ove
sarebbe rimasto tuttora se il successore di Eugenio e di Anastasio,
Adriano IV, fulminando l'interdetto, non avesse indotto il credulo
popolo a chiederne lui stesso l'allontanamento.

Da quel giorno i destini di Arnaldo furon decisi. Indarno i Visconti
di Compagnatico lo sottrassero al cardinale Odone, in potere del
quale era caduto presso Bricole in Val d'Orcia.[450] Pochi uomini di
Federigo Barbarossa bastarono a ritoglierlo ai suoi salvatori; nè
il re tedesco, cui premeva di sgombrarsi la via all'incoronazione,
dubitò di consegnarlo al Papa. E questi non pago di farlo mandare a
morte,[451] ne fece bruciare il cadavere e disperdere nel Tevere le
ceneri, _ne a stolida plebe corpus ejus veneratione habetur_, come dice
il cronista.[452] Preziosa confessione, che mostra in qual concetto di
santità era tenuto il tribuno, e di quanto odio lo rimeritasse la Curia
Romana.


IV

Qual'era la dottrina di Arnaldo, per quanto almeno possiamo
raccoglierla dalle scarse testimonianze? Noi dicemmo già quali erano
le lotte che scoppiarono in quel tempo tra l'autorità religiosa e
la civile, e di quanti mali fosse cagione questo dissidio.[453] A
questi mali così profondi ed annosi un rimedio solo s'aveva energico,
infallibile e tale che li avrebbe tagliati dalla radice, e la grande
mente del bresciano seppe scoprirlo. Perchè il mondo abbia pace,
ei diceva, fa d'uopo che la Chiesa torni alla purità e semplicità
dei tempi apostolici, e ben si persuada che il Vangelo non tollera
anzi vieta ai ministri del Signore il possesso di beni temporali, e
che i preti e frati renitenti a spogliarsi delle molte ricchezze si
danneranno irreparabilmente. Non al clero spetta la proprietà delle
terre che ora sfrutta, bensì al Principe o allo Stato, al quale deve
restituirsi questa gran massa di beni, perchè sia adoperata in servigio
non di una casta, ma della società tutta.[454] Fatidiche parole, che
sembrano scritte ai nostri giorni, ma di quei tempi doveano riuscire
ben dure ad intendersi. Ricordiamo che prima di Arnaldo un Papa d'alta
mente, Pasquale II (1099-1118), a por fine alla guerra con Enrico V,
avea pattuito che l'Imperatore rinunziasse alle investiture, e per
compenso i vescovi restituissero i lor feudi all'Impero.[455] Ma il
pensiero geniale del Papa, benchè meno radicale di quello di Arnaldo,
non fu meglio accolto da entrambi i partiti. La società non era ancor
matura per queste ardite innovazioni, e come nel 1109 Enrico V ai
vescovi tedeschi, tumultuanti nel S. Pietro, dichiarava non desiderare
la separazione propostagli dal Papa, così parecchi anni più tardi, nel
1154, il Barbarossa si fa esecutore della vendetta pontificia contro
quel sacerdote che sosteneva a viso aperto i diritti dello Stato.

Ma se le idee di Arnaldo non erano conformi allo spirito dei tempi,
non per questo si doveano tenere per eretiche. Lo stesso Pasquale
II nel trattato stretto con Enrico V avea dichiarato contrario ai
canoni, che il clero coprisse un ufficio politico, e prestasse servizio
nell'esercito, e si fosse insieme servi dell'altare e della Corte.[456]
Nè suonavano diverse le dichiarazioni di S. Bernardo, il quale ben
comprendeva come tutte le idee di Gregorio VII non potessero attuarsi
di pari passo, essendo il primato politico della Chiesa il più forte
ostacolo alla riforma della disciplina. Non fa dunque meraviglia che
qualche ecclesiastico abbracciasse le opinioni di Arnaldo, senza
credere per questo di venir meno alla sua fede ed al suo ufficio.
Questo sappiamo dallo stesso breve di Eugenio III, il quale, com'è
stato più volte notato, chiama Arnaldo scismatico non eretico.[457]

E certamente se le dottrine arnaldistiche avessero avuta attinenza
soltanto col potere politico o la posizione economica del clero, non
potrebbero esser dette ereticali. E dovremmo assentire al Giesebrecht
che scagiona Arnaldo di ogni accusa di eresia. Ma non possiamo negare
che con quelle dottrine politiche ed economiche strettamente si
legavano altre, che non sono rigidamente ortodosse. Arnaldo stesso,
come già riferimmo dalla _Historia pontificalis_, sosteneva il Collegio
dei cardinali non essere la Chiesa di Dio, il Papa non essere un uomo
apostolico, e a lui non doversi nè obbedienza nè riverenza.[458] Non
più aspro era il linguaggio degli eretici, le cui invettive, imagini,
e citazioni son fedelmente riprodotte dagli arnaldisti. Basta leggere
la lettera, che uno di essi il Wezel,[459] scrive a Federico I. I
preti d'oggi, ei dice, sono i falsi dottori di cui parla Pietro, che
per avarizia mercanteggiano le anime loro affidate, gozzovigliano nei
conviti, e gli occhi han pieni di adulterio. Ei son quelli per cui
la via della verità sarà bestemmiata, e di loro si può dire essere
fonti senz'acqua.[460] Nè possono ripetere con Pietro: _tutto abbiamo
lasciato e te abbiamo seguito, o signore_, nè molto meno: _io non ho nè
argento nè oro_. Nè di loro si può dire che sono il sale della terra,
o la luce del mondo come dice Matteo: ma piuttosto lor conviene il
versetto che segue: _se il sale diviene insipido, con che salerassi
egli? non val più nulla siffatto sale, se non ad essere gittato
via, e calpestato dagli uomini_.[461] Chi dice di credere in Cristo
deve camminar come lui, e chi non conosce Dio, e non osserva i suoi
comandamenti mentisce. E Cristo stesso disse: _se non farò le opere del
padre, non mi credere_. E se a Cristo che fu senza peccato non s'avea a
credere senza le opere, come mai si dee prestar fede a costoro, che mal
s'avvisano ed operano il male pubblicamente? Come potete parlare del
bene, quando siete cattivi? Non ha detto il signore stesso _la vostra
fede senza le opere è morta_?[462] E come mai costoro, ingordi di ogni
ricchezza, possono ascoltare il primo tra i precetti dell'Evangelo:
_beati i poveri di spirito_?

Degli stessi testi si servivano i Catari e si varranno i Valdesi per
combattere la supremazia del Papa. Ma da queste premesse traevano
agevolmente la conclusione: che se i preti sono ormai così lontani dal
Vangelo non si può loro obbedire senza peccato. Il sacerdote, dicevan
gli eretici, è capo della Chiesa, ed a quel modo che ove sia infermo il
capo, tutte le membre illanguidiscono, così il sacerdote non può essere
indegno senza coinvolgere nella colpa sua tutta la Chiesa che governa.
Onde egli è come il lievito di cui al dir di S. Paolo, poca quantità
empie di sè la pasta tutta. Non si possono servire due padroni nello
stesso tempo, secondo Matteo; onde il prete malvagio non può servire
Dio, ei che serve il diavolo, nè può essere di quello il degno ministro
presso i fedeli.[463] Traevano le stesse conseguenze gli Arnaldisti.
A loro non si rimprovera nè il dualismo, nè la metempsicosi, nè
l'abolizione delle dignità ecclesiastiche o delle feste e delle
pratiche religiose. No, il solo punto nel quale essi differiscono dai
Cattolici è questo, che dicono non doversi accogliere i sacramenti dal
prete che si riconosce malvagio;[464] tutto al contrario della dottrina
cattolica secondo la quale il carattere sacro è indelebile, qualunque
sieno le opere del sacerdote, fino a che non abbia avuto luogo la
deposizione. E fino a questo punto non è lecito negare obbedienza al
sacerdote, e molto meno disdegnare la somministrazione del sacramento.
Il sacerdote in rapporto del sacramento non è se non uno strumento
passivo, nè perchè si compia il miracolo eucaristico importa che il
celebrante sia puro. Anche contro i meriti di chi lo consuma, il pane
si converte nel corpo di Cristo; e sia pure indegno il confessore,
l'assoluzione che ei pronunzia ha sempre la stessa efficacia di lavare
ogni macchia di peccato.[465]

Possiamo dunque concludere che se rispetto agli altri sacramenti
Arnaldo e gli Arnaldisti erano ortodossi schietti, nè abbiamo alcuna
prova che errassero intorno all'eucaristia; per quel che riguarda
l'ordine sacro la pensavano invece tutt'altrimenti dai Cattolici.

Prima degli Arnaldisti erano venuti alle stesse conclusioni i Patarini,
i quali nel combattere i preti concubinari o simoniaci, finivano collo
sconoscerne il carattere sacerdotale, prima che l'autorità competente
si fosse pronunziata. Ricordammo altre volte quel tale di Cambray che
predicava intorno al 1077 non doversi obbedienza ai preti simoniaci o
concubinari, nè potere essi celebrar messa, nè i fedeli ricevere da
loro i sacramenti. Il patarino francese fu giudicato come eretico,
e condannato al rogo, e sebbene Gregorio VII protestasse contro la
selvaggia esecuzione, e volesse punirne gli autori, pure non si può
negare che l'accusa di eresia non fosse niente affatto infondata.[466]
Senza dubbio la dottrina del predicatore di Cambray non era diversa da
quella che Gregorio VII sosteneva,[467] ed avea fatto accogliere nei
varii concilii che si succedettero dal 1059 in poi ma non per questo
diveniva più ortodossa,[468] e non andrà molto tempo che la Curia
stessa la ripudierà condannando negli Arnaldisti quei Patarini che un
tempo avea levati sugli altari.

Se occorressero altre prove della scarsa ortodossia degli Arnaldisti,
potrei addurre questa che mi sembra di non poca importanza. Già dicemmo
a suo tempo che i Valdesi si dividevano in Poveri di Lione, e Poveri
Lombardi. La dottrina particolare di questi ultimi, come apparisce
dall'anonimo di Passau, afferma non potere il cattivo sacerdote
consacrare il corpo di Cristo, nè Dio discendere alle preghiere di
lui. Notammo già nel capitolo precedente, che su questo punto i Poveri
Lombardi si mostravano inconciliabili con quelli d'oltremonti. Il
che ci fa intravvedere che i Valdesi, venuti in Lombardia e trovati
ivi i seguaci di Arnaldo, che al dir dell'_Historia pontificalis_ si
chiamavano già eretici lombardi, si fusero con loro, e tra gli altri
punti di dottrina questo misero in evidenza, in cui e Valdesi ed
Arnaldisti concordavano, che al ministro creduto indegno non si debba
prestare nè onore nè obbedienza. Quali conseguenze si possano trarre da
questo concetto non è mestieri che dica. Solo noterò che coll'elevarsi
il fedele a giudice dei sacerdoti viene scossa dalle fondamenta la
gerarchia cattolica, e crollato questo edificio così sapientemente
architettato, è aperta la via ad ulteriori e più radicali riforme.

Anche in questo punto il risultato del movimento patarinico dovea
cozzare col suo principio. Cominciato dal combattere quei prelati, che
minacciavano di levarsi in alto contro i diritti e le pretensioni del
sommo Gerarca, finisce coll'introdurre un principio che a lungo andare
sarà per distruggerne l'autorità. Io non voglio affermare che gli
Arnaldisti avessero consapevolezza della loro rottura col cattolicismo;
le loro divergenze erano limitate a pochissimi punti, ed anche in
questi potevano invocare in loro favore l'autorità dei concilii, talchè
più che eretici si potevan dire e furon detti scismatici. Ma ove pure
essi si credessero in buona fede migliori cattolici dei loro avversari,
ciò non prova che fossero in realtà. Anche i Poveri di Lione si
credevano così schiettamente cattolici, che chiesero a due pontefici il
riconoscimento del loro sodalizio.


V

Ed ora possiamo riassumere tutto lo sviluppo di questo moto ereticale.
Il principio di questa profonda agitazione dello spirito religioso s'ha
da porre nel catarismo, che voleva sostituito al domma dell'unicità di
Dio, o del creatore quello del dualismo, ed alla Chiesa cattolica già
gerarchicamente costituita opponeva un'altra, che avesse anch'essa i
suoi sacerdoti e vescovi, e perfino anche un papa. Ma per combattere
la Chiesa di Roma il catarismo dovea accogliere e difendere tutte
quelle dottrine, che nate da ben altre tendenze avean pure lo stesso
risultato di scalzare l'edificio cattolico. Il catarismo è iconoclasta,
berengariano, docetista e simiglianti. Il che fa sì che nella vecchia
eresia si formino due nuclei eterogenei; il primo formato dalle
dottrine dommatiche dualistiche, cagione di austero ascetismo, e di
stravaganti superstizioni; il secondo composto in gran parte dalle
dottrine più o meno razionalistiche, che cercavano di ridurre ognor più
il mistero, limitavano al possibile la sfera d'azione dell'autorità, e
tendevano a sopprimere a poco a poco il bisogno degl'intermediarii tra
l'uomo e Dio. La differenza, anzi opposizione tra queste due parti fece
sì, che la seconda si staccasse dalla prima, e mentre quella si rendea
sempre più estranea al genio occidentale, questa seguia trionfante il
suo corso, e col tempo da valdese tramutossi in protestante.

Ma i Catari ed i Valdesi per quanto discordi nei convincimenti
dommatici si accordano nell'indirizzo pratico delle dottrine, e contro
le ricchezze e gli ozi del clero vogliono far rifiorire i costumi
apostolici, e non apprezzano se non la povertà, il disinteresse, la
rinunzia ad ogni bene o piacere mondano. In questo indirizzo pratico
conviene una terza setta, la quale benchè più ortodossa dei Valdesi,
non è meno di loro sollecita delle riforme dei costumi.

Questa terza setta è quella che al principio delle riforme si chiamò
dei Patarini, e più tardi venne detta degli Arnaldisti. Non è a
dire che in qualche punto dommatico non s'allontani anche lei dalla
Chiesa costituita, ma forse ella si credeva sinceramente cattolica e
si conservò tale fino a che non si fuse coi Valdesi. E quando questa
setta scomparve, un'altra ne sorse in luogo suo predicando con maggiore
energia le stesse massime. E questa è la setta dei Gioachimiti, che
riconoscono a lor capo l'abate calabrese, di spirito profetico dotato,
il quale alla dottrina della povertà e dell'abnegazione attribuisce un
valore e significato più generale, e crede che ella debba rigenerare
non pure i preti e i frati, ma la società tutta, che dovrebbe a mente
sua formare un vasto cenobio; talchè mutato con questa trasformazione
l'ordinamento della società e della Chiesa, sottentrerebbe una nova
età, un terzo periodo nella storia del mondo, il regno dello Spirito
Santo. Con l'abate Gioacchino la storia dell'eresia entra in una nuova
fase, che ha caratteri affatto opposti al precedente. Nel primo periodo
dell'eresia catara per successive attenuazioni si riesce allo scisma
arnaldistico, nel secondo dallo scisma gioachinita per successivi
rinforzamenti si arriva all'eresia degli apostolici.



LIBRO SECONDO

DALLO SCISMA ALL'ERESIA



CAPITOLO I

L'ABBATE GIOACCHINO


Sono molto discordi i giudizii intorno al

    Calavrese abate Gioacchino
    Di spirito profetico dotato,

nè fa maraviglia; perchè chi attenda alla sua incontrastata pietà,
all'ampia e solenne dichiarazione di sottomettersi al giudizio di Roma,
e ritrattare tutto quello che nei suoi scritti si trovasse di meno
ortodosso; chi ricordi l'ordine florense ed il cenobio da lui fondato,
se anche non presti fede ai miracoli che si raccontano di lui, certo lo
metterà tra i più ortodossi asceti del medio evo. E la Chiesa stessa
lo disse beato, e permise che si levasse un altare sul suo sepolcro
nell'abbazia di S. Giovanni in Fiore, nè solo i Benedettini, ma benanco
i Gesuiti ne inserirono la vita nelle agiografie. Ma d'altra parte non
si può negare che nel Concilio lateranense del 1215 furono solennemente
condannate alcune dottrine teologiche dell'abate calabrese, e più
tardi nel 1254 una Commissione di cardinali raccolse dalle sue opere
autentiche una messe abbondante di opinioni e sentenze poco ortodosse.
Oltrechè lo stesso nome di profeta appar sospetto alla rigida autorità
ecclesiastica, perchè di santi la Chiesa cattolica ne riconosce
moltissimi, ma di profeti neppur uno, chè secondo molti dottori la vena
profetica andò del tutto esaurita dopo la venuta del Messia, quando
null'altro aveano a predire i veggenti del futuro, fuor che novità
pericolose. Codesta disputa tra gli apologisti e i contraddittori
dell'abate calabrese dura da un pezzo, nè sarà per ismettere,
attendendo gli uni alla purità degl'intendimenti, e gli altri al
tenore delle dottrine. Ma comunque si componga, a noi corre l'obbligo
di aprire questo secondo libro col profeta calabrese. Perchè se anche
dell'ortodossia di lui non si fosse dubitato punto, e concordemente
fosse venerato sugli altari, non sarebbe men vero per questo che nel
suo nome si levarono, e dalle sue opere presero le mosse alcune sètte
manifestamente ereticali.


I

Dell'abate Gioacchino è molto difficile ricomporre la biografia sulle
scarse notizie a noi pervenute. Del cenobio di Fiore, da lui fondato,
non resta ormai se non l'antica mole, e se dura l'incuria nostra, tra
poco cadrà ancor quella. I tesori e le memorie della ricca abbazia
andaron dispersi, ed i cronisti antichi bisogna adoperarli con molta
circospezione, se non si vuol cadere in gravi errori, come toccò al De
Lauro.[469] Nessuna cronaca ci dice nè la data della nascita nè quella
della morte. Ma quest'ultima può essere determinata con certezza da due
documenti riportati dall'Ughelli, dove appare ancor vivo nel settembre
del 1201 e già morto nel giugno 1202. La morte adunque accadde nel
frattempo, e propriamente il 30 marzo 1202; perchè sappiamo da Luca che
morì di sabato quindici giorni avanti la Pasqua.[470] Non è così facile
determinare l'anno della nascita. I calcoli del De Lauro, che lo crede
nato nel 1111 sono tutti fondati sopra una profezia che avrebbe fatta
Gioacchino sulla neonata principessa Costanza. Ma così la profezia,
come tutto il racconto intorno a questa principessa, che il De Lauro
attinse dal Fazelli, è un tessuto di favole. Un altro biografo, il
Greco, o perchè l'abbia trovato in documento antico, o perchè prenda
la media della vita umana, mette tra la nascita e la morte un settanta
anni. Secondo questo calcolo Gioacchino sarebbe nato intorno al 1132.

Che alla mamma e al babbo apparissero prima della nascita del bambino
parecchie visioni lo raccontano i biografi, nè fa meraviglia, perchè
un profeta non poteva non essere preceduto da quelle apparizioni, che
negli antichi tempi preannunziavano la nascita degli eroi, e nei nostri
quella dei santi. Ma è strano che tra le cose rivelate dall'angelo ai
genitori ci fosse questa, che non s'avesse a battezzare il figliuolo
prima dei sette anni, e più strano che i genitori aspettassero non pure
i sette anni prescritti, ma dieci addirittura. Non saprei veramente
come spiegare questo curioso racconto.

Giovane di prestante ingegno, bello della persona, largamente fornito
di beni di fortuna, avrebbe fatto gran cammino nel mondo, ed il padre
ben per tempo lo applicò alla regia curia, ove pare che avesse un
uffizio importante anche lui; ma lo splendore della corte non abbagliò
il giovane patrizio che si sentiva chiamato a ben altri destini, e
delle miserie della vita già si mostrava insofferente. Che pensieri
si agitassero nella sua mente è ben difficile dire, ma certo è che
ei sentendosi a disagio nella patria sua ottenne dal padre di fare un
viaggio per l'oriente ad attigere ispirazioni dagli stessi luoghi, ove
ebbe nascimento la nostra fede. Lui non moveva quell'inquieto ardore,
che menerà i Polo nelle lontane regioni della Mongolia, nè desio di
avventure; ma un sentimento indefinito che lì dove nacque il Cristo,
gli verrebbe scoperto il segreto del suo destino. Intraprese il viaggio
non a foggia di pellegrino, bensì circondato da servi ed amici, che
manteneva a proprie spese. Era ben raro anche a quei tempi che un
privato intraprendesse un così lungo viaggio con tanto seguito di gente
e, se s'ha a credere al cronista, il giovane signore ne invanì.[471]
Ma giunto a Costantinopoli, ove forse qualche morbo contagioso mieteva
a migliaia le vittime, il sentimento mistico prese il di sopra, e
spogliate le ricche vesti, e congedati i suoi compagni all'infuori
di uno, cinse il saio del pellegrino, e seguitò faticosamente la sua
via.[472] Ormai avea rinunziato ai piaceri della vita, ed ei stesso
narrava al suo compagno Luca d'una vedova siriaca, ancor giovane e
bella, che accolto in casa l'austero viaggiatore, cercò indarno di
soggiogarlo coi suoi vezzi.[473] Salito sul monte Tabor è fama che vi
restasse tutta la quaresima tra digiuni e preghiere. E se non si può
credere al biografo, che su quel monte concepisse il disegno di opere
scritte molto più tardi e sul cadere degli anni, certo è che vi attinse
il proposito di dedicarsi tutto alla religione di Cristo.[474]

Tornato in patria, se pure non è vero che ei si nascondesse ai suoi
genitori[475] certo è che non volle rientrare nella casa paterna, ma
invece per fecondare quei germi che avea seco portati di Palestina
entrò nel monastero di Sambucina. Se non che non volle legarvisi con
voti;[476] chè ei non aveva in mira di chiudersi nel silenzio di un
chiostro, ma di spandere la parola del Signore di gente in gente. E a
capo d'un anno dal monastero sambucinese si portò nei dintorni di Rende
per predicare ai popoli, e trasfondere in loro il fervore religioso
che scaldava il suo petto.[477] È strano che Gioacchino nel principio
del suo apostolato fosse ancor laico, e par che non avesse nessuna
fretta a prendere gli ordini. Nè questo è un fatto isolato nella sua
vita; chè nella sua peregrinazione per la Palestina, sebbene avesse
fatto voto di castità, e vestita la bianca tunica del frate, pure tornò
laico quale era partito. E tornato in patria, benchè si chiudesse per
un anno nel monastero sambucinese, pure nè si fece frate, nè prese
gli ordini. E quando più tardi fu fatto abate di Corazzo non vide
l'ora di fuggire dal convento e tornare a predicare all'aere aperto.
Questi fatti hanno certamente un nesso fra loro, nè può darsi che il
ritardo di Gioacchino a prender gli ordini sia accidentale. Egli era di
quegli uomini, che sentivano indispensabile una riforma della Chiesa,
se pur non si volea perpetuare le lotte tra il Papato e l'Impero, che
riaccese nel 1154 continuarono a lacerare la cristianità, e produssero
durante il pontificato di Alessandro III un lungo e disastroso scisma.
Forse istintivamente sentiva che questa riforma non potesse partire
dal clero stesso, che troppo avido si dimostrava di dominio, ed in
vista di temporali vantaggi non rifuggiva dal muovere una guerra
ingiusta, come quella di Adriano contro Guglielmo I di Sicilia. Non
bisogna dimenticare che Gioacchino visse per qualche tempo nella
curia cosentina, e dei contrasti tra i Normanni ed i Papi, che or li
benedicevano come salvatori, or li scomunicavano come empi e ladroni,
dovea sapere qualche cosa. Nè sarebbe strano che ei fin da giovane
avesse un lontano presentimento delle idee che più tardi sarà per
svolgere.

Comunque sia, è fuor di dubbio che Gioacchino ancor da laico si mise
alla predicazione, come al principio del secolo avea fatto Tanchelino,
e qualche anno dopo di lui farà Valdo. Ma la Chiesa non poteva
permettere che un laico assumesse un ufficio proprio del sacerdote,
nè dubito punto che a Gioacchino fosse proibita la predicazione dal
vescovo di Cosenza. Così si spiegherebbe il fatto, che egli volendo
prender gli ordini, per seguitare nel suo apostolato senza impedimenti,
non si rivolse al vescovo della sua diocesi, come era pur naturale,
ma recossi invece nella vicina Catanzaro,[478] ove fu ordinato da
Norberto, terzo vescovo di quella diocesi.[479] Il cronista racconta
che nel viaggio per Catanzaro arrivato al Crotalo (Corace) smontò
all'abbazia cistercense di Corazo. Ed ivi dall'abate Colombano
fu indotto a restare per prepararsi convenientemente all'ufficio
sacerdotale che volea imprendere, e dopo non molto si lasciò persuadere
a prendere i voti. La via della libera predicazione, per la quale
s'era messo, gli era stata chiusa; nè forse con suo rammarico. Alla sua
indole mite e poco battagliera s'addiceva una missione più calma della
predicazione, e la riforma che ei vagheggiava la potea promuovere più
collo studio e gli scritti che colla parola. E benchè finora non avesse
voluto nè legarsi con voti, nè prendere gli ordini, pure per la tempra
dell'animo suo più inchino alla vita contemplativa che all'attiva, era
un cenobita nato.

Divenuto frate cistercense, seguitò con ardore gli studii biblici, dai
quali mal tollerava d'andar distolto. E quando alla morte dell'abate
Colombano i confratelli levarono lui all'alta dignità, forse perchè
più schivo di tutti, ricusò l'impaccioso onore. E per sottrarsi alle
pressure, abbandonato il suo convento, riparò prima in quel d'Acri, e
poscia nel Sambucinese, dove era stato anni prima. Ma questa fuga non
intiepidì l'ardore dei suoi elettori, che dall'umiltà sua traevano novo
argomento per desiderarlo a capo. E frappostisi alcuni dignitari della
Chiesa gli convenne accettare[480] il non ambito ufficio, nel quale e
per la relazione di famiglia, e per essere stato egli stesso un tempo
addetto alla curia forse potè giovare più che ogni altro. Certo è che
sotto il suo governo l'abbazia, come dice il cronista, ottenne nuovi
privilegi, come ne fa fede un documento del 1178 riportato dal Greco,
in cui Guglielmo II ordina al suo rappresentante nella Puglia che sia
fatta giustizia ai giusti reclami dell'abate Gioacchino di Corazo.[481]
Ma sebbene adempisse scrupolosamente ai doveri del suo ufficio, pure,
anzi appunto per questo, non cessava di sentirne il peso. Tra quei
conflitti di case religiose, che si disputavano e terre e beneficii,
tra le cure dell'amministrazione di un vasto patrimonio, gli parve
smarrito lo scopo della sua vita. E l'irrequietezza dei primi anni
rinacque, e quell'alto fastidio, che un tempo lo allontanò dalla corte
cosentina, lo mise ora in fuga dall'abazia coracense.[482] Ma non v'era
altro mezzo per essere sgravato dal faticoso incarco, quando i suoi
confratelli non volessero, se non impetrarlo per grazia dall'autorità
del Papa. E l'abate corazzese, ben risoluto questa volta di andare
fino in fondo, prese la via di Roma, ed a Lucio III, salito dal 1181
sulla cattedra di Pietro, chiese di venire esonerato dall'ufficio, che
gli toglieva il modo di compiere il commento e l'interpetrazione della
Bibbia, da lui per tanto tempo vagheggiata. All'insolita dimanda fra
tanti che chiedevano privilegi e favori fece buon viso il Pontefice, nè
solo permise che deponesse la dignità abbaziale, ma gli dette licenza
di prendere stanza ove meglio gli paresse.[483] Così Gioacchino tornato
in Calabria, abbandonò per sempre l'abbazia di Corazzo, e ad imitazione
degli anacoreti dell'oriente si ridusse nel silenzio di Pietralata, ove
non giungea l'eco delle discordie fratesche, ed ei libero di cure a ben
più alti pensieri potea volgere la mente.

Da Pietralata par che andasse pellegrinando per le abbazie cistercensi,
lavorando dovunque indefessamente, e partecipando altrui i frutti del
suo lavoro. Questo almeno possiamo raccogliere dalla testimonianza
preziosa di Luca, che lo conobbe per la prima volta nell'abbazia di
Casamari, ove egli si trattenne più di un anno a compiere ed emendare
il libro della _Concordia_, ed il commento all'_Apocalisse_, e por
mano nel contempo all'ultima delle sue opere, il _Decacordo_.[484]
Che una di queste opere fosse già cominciata quando Gioacchino si
presentò a Lucio III è attestato non solo da Luca,[485] ma dalla
lettera di Clemente III.[486] E non è improbabile che l'ammirazione
per il disegno ed il metodo della _Concordia_ non fosse ultimo motivo
dell'arrendevolezza del Papa. Ma è fuor di dubbio che queste opere
furono compiute ed emendate in seguito, appunto nel pellegrinaggio di
abbazia in abbazia. Ed è certo del pari che se queste opere ardite
potevano piacere ai pochi, ai più tornavano ostiche per le ragioni
che diremo a suo luogo. Quei frati che si vedevano così spietatamente
colpiti nelle opere del santo abate, non glie la perdonavano di sicuro,
e non è improbabile che abbiano supplicato il Papa perchè imponesse
silenzio all'importuno censore. E forse per giustificarsi delle accuse
mossegli, come sospetta il De Riso, o per presentargli l'opera della
_Concordia_, Gioacchino si recò a Verona presso il novo papa Urbano
III, il quale confermato il decreto del suo predecessore, incoraggiò il
santo abate a compiere l'opera sua.[487] Ma non per questo cessarono le
accuse, e la Corte Romana stessa par che non fosse del tutto sgombra
da sospetti. Clemente III, almeno nella lettera citata più sopra,
benchè riferendosi ai decreti dei suoi predecessori Lucio ed Urbano,
confermasse anche lui la licenza di seguitare lo studio intrapreso,
pure gli prescrisse che non appena compiuto si recasse al più presto a
Roma per sottoporlo all'esame del Pontefice.[488] E la lettera stessa
che Gioacchino premette alle sue opere, in cui scusatosi di non averle
potute presentare al Pontefice per strettezza di tempo, dichiara di
voler ritirare ogni parola che la Chiesa possa trovare poco ortodossa,
questa lettera, ripeto, è un chiaro segno delle accuse e dei sospetti
che circolavano tra i contemporanei.

Non ultima delle ragioni che alimentavano la guerra contro Gioacchino,
era senza dubbio la franchezza e la severità con cui rampognava
gli uomini di chiesa, non risparmiando neanco i suoi correligionari
benedettini, che dappertutto trovava non dissimili dai corazzesi,
e meritevoli di una severa riforma.[489] Ad un carattere austero
e mistico come il suo mal s'affacevano e le simulazioni e gli
accorgimenti diplomatici, talchè disdegnando la vita molle dei suoi
correligionari, si ritirò nella sua cara solitudine di Pietralata.
Ed ivi seguitava nelle sue meditazioni, nè a nessuno faceva mistero
della nuova ed ardita interpetrazione della Bibbia, che uno studio
perseverante e diligente gli avea suggerito. Così il romitaggio di
Pietralata divenne in breve ora un centro dal quale s'irraggiava nova
luce,[490] come parecchi anni innanzi era stato il Paracleto per opera
di Abelardo. Il numero dei discepoli ognor più cresceva, a misura che
la fama del maestro s'ingrossava; e molti non sapeano staccarsi dal
fianco di chi scopriva nuovi orizzonti. Così a poco a poco il piccolo
romitorio di Pietralata non bastò più a contenere tante persone e fu
d'uopo edificare altrove un'abbazia. Gioacchino scelse per la nuova
costruzione il luogo più lontano dai centri popolosi, e nel cuore
della Sila, sovra un poggio che si leva per mille metri dal livello
del mare, piantò la rocca dell'ordine novello. Il pittoresco sito
è ben atto all'alta e tranquilla meditazione. Il suo silenzio non è
interrotto se non dal mormorio delle acque dell'Arvo e del Neto, che
venute da lontane sorgenti, si riuniscono ai piedi di quel monte per
formare il maggior fiume della Calabria. Di faccia ha il Monte Nero,
il più elevato della Sila, ed ai fianchi e alle spalle altri monti in
quel tempo più che in oggi vestiti da folta vegetazione. Su quella cima
par di essere separati dal mondo, chè dovunque volgi lo sguardo, ti
si rizzano barriere che sembrano insuperabili, e la valle che s'apre
dinanzi angusta e profonda, pare un burrone più invalicabile delle
stesse montagne. Questo luogo selvaggio chiamavasi Fiore,[491] nome
mal rispondente a quelle alpestri balze, ove fu costruita la chiesa
dell'abbazia e dedicata a S. Giovanni Battista. Il paese, che più tardi
vi si formò attorno, riunendo insieme i due nomi, fu detto e si chiama
tuttora S. Giovanni in Fiore.

Quando fosse aperta la nuova abbazia, il Greco non sa dire, ma
il De Lauro invece adduce una data precisa, il 18 Luglio 1189, 6ª
indizione, regnante Guglielmo il Bono;[492] ma non cita la fonte di
questa notizia. Certo è che la bolla di Celestino III che approva la
fondazione dell'ordine nuovo, e ne conferma gli statuti non rimonta
al di là del 1196;[493] ed il decreto imperiale che assegna alla
nuova abbazia la rendita di cinquanta bizantini d'oro appartiene
all'anno innanzi, 1195.[494] È probabile che la fondazione definitiva
dell'abbazia non risalisse molto al di là del decreto imperiale,
perchè pare che l'abbazia sia nata a poco a poco e per le offerte di
parecchi, non per largizione di un solo fondatore, il cui nome sarebbe
stato ricordato nelle memorie del convento, come fu ricordato quello
del signore di Mamistra che fondò la casa filiale di Fiumefreddo. E se
la cosa è andata come noi sospettiamo, ben si comprende che gli agenti
del fisco si opponessero all'ingrandimento successivo dell'eremitaggio,
ingrandimento che portava di necessità s'abbattessero le foreste e
s'occupasse parte del demanio pubblico. E si comprende altresì come a
far cessare queste opposizioni Gioacchino si recasse dal Re stesso in
Palermo. Il Re, cui forse non piaceva la creazione di un nuovo ordine
cistercense, che avrebbe destato le invidie e le gelosie dell'antico,
offrì all'abate il monastero di S. Martino presso Bisignano. Ma
Gioacchino che mirava non al possesso d'un'abbazia, bensì alla riforma
dell'istituto, ricusò la generosa offerta, nè altro chiese fuorchè di
essere lasciato in pace, lui e i suoi compagni, tra i silenzi delle
alpestri montagne.

Benchè non favorita dal Governo, la nuova istituzione cresceva e
si dilatava. Sfortunatamente non sappiamo in che differisse dalla
cistercense. Dalla bolla di Gregorio IX, che proibisce ai cistercensi
di accogliere tra loro chi fosse stato scacciato dai Florensi,
si ricava solo che la regola di questi ultimi era più stretta e
rigorosa. Non però si arrivava alla povertà abbracciata più tardi
dai francescani, perchè, come vedemmo, quando il nuovo istituto
cominciò a fiorire accettò le largizioni di Enrico VI, e più tardi
dell'imperatrice Costanza.

Gli anni in cui nasceva il nuovo ordine furono agitati dalle contese
tra gli Svevi ed i Normanni, e il De Lauro per mettere in luce il
dono profetico di Gioacchino, racconta che egli al tempo in cui
avvennero i disastri dello Svevo prevedesse di già la sua vittoria
finale, e saputo di queste profezie Tancredi montasse in furore e
minacciasse di distruggere tutti i conventi florensi. Ma tutto questo
racconto è fallace perchè è fondato sulle lettere di Gioacchino, che
non hanno maggiore credibilità di quelle attribuite a Platone. Ed è
molto improbabile che il fondatore di un nuovo ordine, il quale dovea
combattere contro tanti ostacoli e rivalità rendesse più difficile
l'opera sua mescolandosi in negozi politici. È verisimile invece che
Enrico VI favorisse la nuova istituzione non in grazia dei sentimenti
politici del fondatore, ma ben piuttosto o per il suggerimento di
Costanza, donna molto pia, che gran stima facea del santo abate, ovvero
perchè l'ordine florense aveva acquistato molto sèguito; e ad una nuova
signoria giova promuovere le istituzioni giovani che par che nascano ad
un parto col nuovo dominio.

Comunque sia, l'abbazia di Fiore ebbe molti donativi e crebbe così
rapidamente, che vivente Gioacchino cominciò a spiccare rami filiali
all'intorno. Ma l'austero abate, pur rallegrandosi di queste prospere
sorti, volgea non per tanto il pensiero al romitaggio, ove ebbe
nascimento il nuovo ordine. E sentendo appressarsi l'ultima ora, ivi
fece ritorno, e nella stessa camera, che ricordava le più feconde sue
meditazioni, volle chiudere il corso della sua travagliata carriera.

Nella vita di Gioacchino si possono distinguere nettamente tre periodi.
Quello del giovane signore che senza prender gli ordini, o ascriversi
ad un sodalizio religioso, fa il pellegrinaggio di Terra Santa e
tornato in patria imprende l'apostolato della predicazione. Quello del
frate cistercense, che divenuto abate, non trova posa finchè non sia
libero dal penoso incarco per consacrarsi tutto alla meditazione ed
al commento delle scritture. Quello infine del riformatore che mette
in atto una parte delle sue idee fondando un nuovo ordine più severo
del cistercense, al quale apparteneva. In tutti questi periodi domina
il misticismo. Fin da giovane Gioacchino è più sollecito del cielo che
della terra, e fugge dalla corte, ove avrebbe potuto conseguire i primi
onori, per fare da povero pellegrino il viaggio di Terra Santa. Fin da
giovane, quando ancor non era legato da voti religiosi, si consacrò ad
una vita aspra ed austera, e già vecchio ricordava con compiacenza le
battaglie sostenute e vinte contro le seduzioni della bellezza. Fin
da giovane sentì il bisogno di una rinnovazione religiosa, bisogno
indistinto ed indefinito, eppure sì prepotente che ancor laico si
mise a predicare penitenza. Ma la vita dell'apostolo, che trae seco
le genti, colla parola calda, e il piglio risoluto di chi sa dominar
le anime, non è per lui, nato più al contemplare che al fare.[495]
La lotta lo scoraggia, sebbene non la sfugga, se imposta dal dovere.
E chi non ha l'energia e l'ardore del soldato, nè sa piegare al suo
volere l'altrui, non move le turbe. Non un riformatore, ma un mistico
veggente era Gioacchino, nè in lui riviveva lo spirito di Enrico o di
Arnaldo da Brescia. Se non vi si opponessero moltissime dissimiglianze,
si potrebbe paragonare ad Abelardo almeno in questo, che al pari del
filosofo palatino ei crede di potere agire cogli scritti, se non con le
opere, e al pari di lui mette uno studio indefesso nella Bibbia, e pur
con intendimento diverso adopera lo stesso metodo dell'interpetrazione
allegorica. Ma in opposizione ad Abelardo Gioacchino è una mente
mistica, alla quale piace più la penombra della visione, che la
chiarezza del ragionamento. Egli non è un filosofo, ma un profeta, e
tale lo stimarono i contemporanei, e Vincenzo di Beauvais nel parlare
di lui spiega come si possa avere il dono della preveggenza, nè Dante
ad un secolo di distanza, lo chiama altrimenti.

Non intendiamo profeta nel senso comune della parola di tale
che preconosca i fatti avvenire in tutte le loro particolarità e
nell'ordine cronologico con cui si svolgeranno. Di queste volute
profezie non abbiamo alcun cenno nell'opera del suo discepolo Luca,
che per noi è la fonte più importante, come quei che, inchino a
scorgere nel suo maestro virtù soprannaturali, non avrebbe certo
taciuto delle profezie di Gioacchino, ove mai gli fossero state note.
Nè nelle opere autentiche si trovano le predizioni, ricordate dai
suoi biografi; nè se anche si trovassero ci darebbero il diritto di
attribuirle piuttosto all'ispirazione divina, che all'accorgimento
umano. Imperocchè le profezie che gli si attribuiscono sono queste tre,
che da Costanza sarebbe nato Federico II, il futuro e più pericoloso
nemico della Chiesa;[496] che fra tre giorni perverrebbe l'annunzio
dell'espugnazione di Gerusalemme per gl'infedeli; che infine il
figlio di Tancredi sarebbe stato ucciso, spegnendosi con lui la casa
normanna. E nessuna di queste previsioni si può dire che ecceda le
facoltà umane. Non era difficile trarre cattivi auspici dall'unione
della casa sveva colla normanna, ed uno sguardo acuto avrebbe potuto
intravvedere i futuri contrasti tra i Papi ed i discendenti di Enrico
IV, che divenuti ad un tempo imperatori e re di Sicilia difficilmente
avrebbero rinnovato il giuramento di vassallaggio al Papa, prestato
dai normanni.[497] Parimente le esperienze fatte dalla seconda Crociata
faceano concepire scarse speranze per la terza, perchè il tempo degli
entusiasmi era passato da un pezzo; nè s'era più rinnovata quella
fermezza e concordia di propositi della prima Crociata.[498] E per
quanto crescevano le discordie nel campo cristiano e più che altrove
nel regno stesso di Gerusalemme, altrettanto si rafforzava l'impero di
Saladino. Parimenti non era impossibile la previsione della vittoria
dello Svevo, il quale se patì una prima sconfitta, poteva e dovea
scendere di nuovo più forte d'uomini e d'armi; e la fine della dinastia
normanna, alla morte di Tancredi, del solo uomo che la seppe ritardare,
era per fermo imminente.

Se Gioacchino avesse fatto veramente queste previsioni, dovremmo
scorgere in lui l'uomo che conosce da vicino la società in cui vive,
nè le splendide ma passeggiere vittorie lo abbagliano, e non vede la
meta vicina per desiderio che abbia di toccarla, nè per i vantaggi
del presente trascura di porre in calcolo i danni dell'avvenire. Non
sarebbe certamente impossibile, che in Gioacchino al misticismo della
fede andasse congiunta l'esperienza consumata della vita. Per le sue
particolari condizioni ei s'era trovato in contatto colle persone più
eminenti del suo tempo, nè sarebbe strano che conoscesse le discordie
degli uni, la vanità degli altri, e prevedesse un avvenire molto più
buio di quel che i suoi contemporanei si raffigurassero. Anzi in questa
previsione la fede mistica e l'esperienza della vita si sarebbero
incontrate, ed entrambe avrebbero contribuito a confermare il solitario
veggente nella persuasione che bisognasse mutar cammino per ridar la
pace e la giustizia alla travagliata cristianità.

Comunque sia di queste previsioni di Gioacchino, nel modo come le
abbiamo esposte qui sopra, certo è che nei termini in cui ci son
raccontate dai biografi si tradiscono facilmente per tardive e malcaute
invenzioni, intrecciate di grossi errori e storici e cronologici.
Questi racconti appartengono alla stessa epoca, in cui sotto il nome
di Gioacchino andavan pubblicate e visioni e profezie, e gli uomini
si consolavano dell'acerbità dei loro mali coll'annunziarne facile
ed imminente la fine. In quel tempo nacque una copiosa letteratura
pseudoprofetica, che non ha nulla di comune colle opere genuine
dell'abate calabrese, ove non si preveggono i fatti avvenire nei
loro particolari, e più volte vien dichiarato che solo Iddio conosce
il giorno in cui sarà per cominciare il nuovo periodo della storia
umana.[499]

Per questo rispetto Gioacchino è di gran lunga inferiore agli antichi
profeti. A lui manca quella potente fantasia, che col magistero
di grandiose allegorie e di visioni estatiche sa bene anticipare
il futuro.[500] Non gli fa difetto certo il profondo sentimento
dell'infelicità presente, nè la viva aspirazione ad un migliore
avvenire, ma il suo pennello non sa colorire questi lontani orizzonti.
Ei non possiede il dono dell'ispirazione profetica come non conosce il
segreto dell'eloquenza; ed in luogo di bandire profezie sue si contenta
d'interpetrare le altrui. Chi sulla fede di Dante pensasse di trovare
nelle opere di Gioacchino le smaglianti pitture di tempi nuovi, ben
presto si sgannerebbe. L'abate calabrese non è un profeta, ma uno
scolastico e pesante commentatore, il quale per scoprire un lembo
dell'avvenire fruga e rifruga nel passato, e non che sciorre il volo
pei campi indefiniti della speranza, s'indugia in faticosi calcoli di
date e generazioni.

Ma l'effetto che Gioacchino produceva nei suoi contemporanei non
possiamo certo vagliarlo colle nostre misure. Il suo commento alla
Bibbia era secondo il gusto dei tempi, quelle interpetrazioni sforzate,
e che balzan fuori da sottili ragionamenti, avean grande presa
sugl'intelletti, ed i riscontri per quanto più strani e tormentosi
tanta maggior fede riscotevano. Nè faceva intoppo la sconfinata
libertà d'interpetrare allegoricamente quello, che inteso alla lettera
non avrebbe dato il senso voluto. Si era da gran tempo avvezzi a
questo giuoco, nè faceva certo meraviglia che Sara ad esempio ora
s'interpetrasse come il simbolo della vecchia legge, ed ora della
nuova, secondo che la si metteva in confronto di Elisabetta o di
Agar.[501] E tanto più questi contorti commentarii e questi calcoli
artificiosi doveano essere accolti con favore, in quanto che da essi si
cavavano risultati rispondenti ai più profondi bisogni del tempo. Il
secolo decimosecondo fu travagliato quanto altri mai da gravi lotte e
religiose e politiche. Mostrammo nei capitoli precedenti quanto vigore
avesse spiegato l'eresia, che pochi anni dopo la morte di Gioacchino
fu bandita una crociata per estirparla. Le lotte inoltre tra la Chiesa
e l'Impero dettero luogo ad uno scisma lungo e tormentoso, che durò
non meno di un ventennio, e se la pace fu alfine composta, tutti
prevedevano che non sarebbe durata, e che presto o tardi ricomincerebbe
la lotta con maggior furore. Queste discordie perenni, queste battaglie
sanguinose si tenevano allora non come una legge inesorabile della
storia, ma quale effetto passeggiero e transitorio della corruzione
umana, come il segno manifesto dell'appressarsi dell'ultima ora pel
vecchio mondo.[502] Non erano ancora spente le paure millenarie, se non
che le menti più ardite non osavano più preannunziare la fine delle
cose, tante volte indarno aspettata, bensì una profonda rinnovazione
sociale. E Gioacchino fu l'interpetre di questi pensieri che ei facea
scaturire dallo studio assiduo della Bibbia, e dalla profonda ed
instancabile osservazione dei mali presenti. E le sue parole destavano
un'eco tanto più larga, per quanto più alto era il posto onde veniano
profferite. E non è strano che fossero avidamente credute le previsioni
di un uomo eminente, che e per la pietà e la dottrina insieme fu
per forza creato abate, e in seguito divenne o fondatore, o almeno
rinnovatore di un ordine fratesco.

Le circostanze certamente favorirono assai il progresso delle idee
gioachimitiche, e la creazione dell'ordine francescano, e le scissure
che ben presto lacerarono quel sodalizio, vi contribuirono non poco.
Ma anche prima di quel tempo le ardite divinazioni di Gioacchino
levarono grande rumore. Prova ne sia il fatto raccontato da Rodolfo
di Coggesale, che capitato a Roma nel 1195 l'abate di Perseigne
volle avere una conferenza con Gioacchino intorno alle famose sue
profezie.[503] E non meno curioso fu Riccardo re d'Inghilterra, che al
dire di Roggero Hoveden fece venire a bella posta in Messina l'abate
per conferire seco lui sull'interpetrazione dell'_Apocalisse_.

Noi certo non lo teniamo per un profeta, nè nel significato razionale
che si suol dare a questa parola, e molto meno nel sovrannaturale; ma
riconosciamo volentieri in lui una mente elevata ed un animo onesto e
desideroso del bene. E se non possiamo dividere le sue idee sul corso
della storia, non gli possiamo negare un'acuta osservazione delle
calamità del suo tempo. E per quanto sieno fantastici i rimedii che ei
consigliava di apprestare, non pertanto i suoi disegni per più d'un
secolo affaticarono le menti, e certo avrebbero grandemente giovato
all'umanità, se il loro valore intrinseco fosse stato pari alla purità
degl'intendimenti di chi li pensava.


II

Benchè molte opere vadano sotto il nome di Gioacchino, tre sole sono
riconosciute autentiche dai più, la _Concordia dell'antico e nuovo
Testamento_, il _Commento all'Apocalisse_ ed il _Salterio delle dieci
corde_. Il Preger recentemente ha dubitato anche di queste, ma le
sue prove non reggono, come ha bene dimostrato il Reuter, alle cui
ragioni in favore dell'autenticità mi sia lecito di aggiungerne qualche
altra, che non va trascurata.[504] Ed in primo luogo è da notare col
Reuter, che le tre opere sono già citate da Guglielmo Alverniate,
morto cinque anni avanti al 1254. Nè ci farebbe meraviglia che qualche
altra citazione più antica, frugando meglio negli scrittori medievali,
si trovasse. Certo è notevole che il gioachimita Salimbene non citi
l'opera principale di Gioacchino la _Concordia_, o almeno che il solo
passo riferibile a questa non solo sia sospetto d'interpolazione, ma
sbagliato di pianta, stantechè nella _Concordia_ il pontefice Leone I,
che arrestò gli Unni, è messo in confronto non con Giosaffatte, come
vuole il Salimbene, ma con Asa, le cui preghiere misero in fuga gli
Etiopi.[505] Tutto questo è vero. Ma che cosa s'ha da inferire? Che
forse il Salimbene non conosca la _Concordia_? No certo, perchè il non
citare o citar male non vuol dire non conoscere un'opera, ma non averla
sottocchio nel momento che si scrive. Nè tampoco si può conchiudere
che il Salimbene conosca la _Concordia_, ma l'abbia in sospetto quale
opera spuria, come opina il Preger. Nessuno oserebbe attribuire tanta
finezza di critica al Salimbene, e molto meno il Preger, che non
ignora il passo della _Cronaca_, ove è citata un'altra opera a parer
suo pur anche spuria, l'_Esposizione dell'Apocalisse_.[506] Perchè
dunque il Salimbene non avrebbe saputo scoprire questa, se avea già
scoperta la falsificazione ben più difficile della _Concordia_? La
verità è che il Salimbene non è critico, nè molto nè poco, e sarebbe
ben strano che le tre opere maggiori facessero intoppo a lui, che
teneva per autentici i commentari a Geremia ed Isaja, la cui falsità
era più facilmente riconoscibile. Chè anzi nel Salimbene scorgiamo
maggiore predilezione per i libri apocrifi, che cita molto soventi. In
un luogo della _Cronaca_ ei ci dice di non aver da gran tempo nè letta
nè vista l'_Esposizione dell'Apocalisse_. E noi gli crediamo, che ai
francescani andavano più ai versi quelle credute opere di Gioacchino,
ove le allusioni ai frati minori erano certe e trasparenti, e più
determinate le profezie. Codesta letteratura apocrifa acquistando ogni
giorno maggior credito metteva in seconda linea la genuina. Così ci
spieghiamo come il Salimbene citi male la _Concordia_. La citazione
probabilmente si riferisce non alla _Concordia_, posta in secondo luogo
nella parentesi, ma al _Liber figurarum_, che forse era un rifacimento
della _Concordia_.[507]

Un altro passo della _Cronaca_ del Salimbene induce il Preger a
dubitare dell'autenticità della _Concordia_. Se il frate avesse
conosciuto o tenuta per autentica la _Concordia_, come avrebbe potuto
dire che Gioacchino non determina l'anno in cui ha da cominciare
il terzo periodo; mentre in quell'opera è chiaramente fissato il
1260?[508] Ma anche questo ragionamento non stringe. Il Reuter ha
già notato che nel passo di Salimbene non è detto che Gioacchino non
assegni il tempo, bensì che alcuni credano di sì, altri di no. Ed io
soggiungo che questa doppia interpetrazione era giustificatissima.
Perchè sebbene in più luoghi come vedremo, Gioacchino stabilisse il
1260 come anno in cui avrà fine il secondo periodo, pure in altri
luoghi mostra di dubitare di aver colto giusto, e se ne rimette ai
posteri, che saranno spettatori degli avvenimenti, o a Dio che li ha
predeterminati. Si poteva dunque ben dire: Gioacchino dai calcoli fatti
sulle generazioni, prestabilisce il 1260; ma l'esattezza del conto ei
non garentisce, e niente vieta che il terzo periodo entri o avanti o
dopo quest'anno misterioso. Si poteva e dopo il 1260 si doveva dire
così, se pur si volea salvare la reputazione profetica del grande
abate. Qual meraviglia che il Salimbene accolga questa spiegazione,
che rovescia sui cattivi interpetri la colpa, che molti attribuivano
a Gioacchino? Al che s'aggiunga che le parole, messe in bocca a
Gioacchino per iscusare l'incertezza della determinazione numerica,
sono tolte di peso da un luogo della _Concordia_, che facilmente
saltava agli occhi e poteva puranche tenersi a mente, perchè si trova
nel penultimo capitolo verso la fine dell'opera, in una commovente
esortazione ai fedeli.[509] Il passo adunque che il Preger adduceva
contro, è forse la prova più decisiva in favore dell'autenticità della
_Concordia_ che in questo luogo senza nominarla viene esattamente
citata.

Dopo questa discussione potremo sbrigarci più sollecitamente delle
altre prove del Preger. In un luogo della _Concordia_, ei dice, viene
ricordato Federico per metterlo a riscontro con Assalonne.[510] Non
si può intendere, seguita il Preger, Federigo Barbarossa, perchè
questi dopo lunghe lotte si riconciliò colla Chiesa, e non morì come
Assalonne combattendo contro il padre suo. La citazione si riferisce
piuttosto a Federico II, che da tutti i Gioachimiti era tenuto per
l'Anticristo, o almeno per uno dei precursori dell'Anticristo. Così la
intendeva l'anonimo di Passau, che per questa ragione appunto tiene per
ispuria l'opera della _Concordia_. Ma tutto codesto ragionamento cade,
quando si voglia leggere col Reuter tutto il luogo che si riferisce
a Federigo. Gioacchino avendo già paragonato Salomone, il figlio
prediletto di Davide, a Cristo, dovea riscontrare nell'Anticristo
il figlio ribelle, Assalonne. Se non che l'analogia non tornava,
perchè Davide pianse la morte del suo figlio benchè ribelle, mentre
la Chiesa non potrebbe se non rallegrarsi della fine dell'Anticristo.
Assalonne quindi non può essere l'imagine dell'Anticristo vero, ma di
uno dei precursori, che potè benissimo tornare infesto alla Chiesa, ma
non spezzò con lei tutti i vincoli di filiale affetto, e con questo
intendimento poteva essere ben citato Federico I, che dopo avere
combattuta la Chiesa, tornò nel suo grembo. Certo qualche dissonanza
resta pur sempre, ed è vero che Federico non morì combattendo contro
suo padre al pari di Assalonne. Ma la congruenza tra il vecchio ed
il nuovo Testamento non deve estendersi secondo Gioacchino a tutti i
particolari.[511] Ed in ogni modo il disaccordo sarebbe maggiore se si
trattasse di Federico II, al quale la Chiesa non perdonò mai nè vivo
nè morto, e non che piangere sulla sua fine, giurò un odio pertinace
ai suoi discendenti, nè smise se non quando ebbe mozzo il capo sul
patibolo l'ultimo rampollo della stirpe odiata.

Il Preger sforzato dalla sua logica demolitrice, deve revocare in
dubbio la lettera di Gioacchino, ove citate le tre opere in discorso,
vuole che sieno sottoposte al giudizio di Roma, e vi si cancelli tutto
ciò che possa parere meno ortodosso. Non è strano, aggiunge il Preger,
che scriva a tal modo un profeta, il quale è ben sicuro del fatto suo,
e detta sotto l'impulso di una alta ispirazione? Nè la Chiesa avrebbe
potuto concedere licenza a chicchessia di pubblicare scritti profetici,
la cui portata non era in grado di misurare.[512] Ma nè l'una nè
l'altra osservazione è esatta. Gioacchino se pur s'ha da chiamare così,
è profeta a modo suo; pieno di scrupoli e d'incertezze. E la lettera
ai confratelli è scritta nello stile delle opere delle quali abbiamo
già riportato parecchi passi, dove non traluce certo l'arditezza dei
profeti e la fiducia nelle proprie forze. Ed i papi che conoscevano per
prova la pietà del santo abate non potevano dubitare dell'opera sua;
ma ciò non pertanto ingiungevano che gli scritti avanti di pubblicarsi
fossero mandati a Roma. Infine dell'autenticità della lettera non si
può dubitare, se ne fu tenuto conto nel Concilio lateranense del 1215,
appena tredici anni dopo la morte di Gioacchino.

Riconosciuta l'autenticità di questa lettera, segue che sono genuine
non pure la _Concordia_, ma benanco l'_Esposizione dell'Apocalisse_
citata dal Salimbene, ed il _Salterio delle dieci corde_. In
quest'ultima opera sono esposte alcune opinioni sulla Trinità conformi
a quelle condannate nel Concilio lateranense. E l'Engelhardt da questa
conformità argomentava che il trattato contro Pietro Lombardo non
fosse in realtà se non il primo libro del _Decacordo_. Io riconosco
col Preger che questa opinione non regge, perchè l'opuscolo condannato
nel Concilio lateranense dovea essere indirizzato nominatamente contro
il libro delle sentenze, laddove nel primo libro del _Decacordo_ non
è citata alcuna opera. Ed in secondo luogo il _Decacordo_ è opera
espositiva, non polemica. Ma se per questo rispetto io sono d'accordo
col Preger, non posso acconsentirgli che l'indirizzo di quest'opera
sia affatto contrario a quello dell'opuscolo incriminato. Le dottrine
intorno alla Trinità, condannate dal Concilio, si trovan tutte nel
_Decacordo_, ed il dotto Papebrochio non è riescito di mostrare il
contrario. Nè vi manca l'allusione al Maestro delle sentenze, sebbene
non lo citi, nè lo combatta di proposito.[513]

Il presupposto dunque del Preger di un'opposizione tra l'opuscolo
condannato nel Concilio e il primo libro del _Decacordo_ non regge,
e cade per tal guisa tutto il ragionamento costruitovi sopra. Nel
_Decacordo_ l'autore è e vuole restare cattolico, ed in moltissimi
punti le sue dottrine non sono differenti dalle più ortodosse. Ma è
questa forse una prova dell'ipotesi del Preger, che il _Decacordo_ sia
stato scritto da un pio Gioachimita nell'intendimento di scagionare il
maestro dalle accuse? Non certo, perchè il contraffattore non avrebbe
dovuto nè ripetere le accuse contro il maestro delle sentenze, nè
sostenere apertamente e senza attenuazioni la dottrina gioachimita
della Trinità, già condannata nel Concilio. Più innanzi esporremo
questa dottrina, e riporteremo altri passi del _Decacordo_. Per ora
ci basterà concludere che il _Decacordo_ è autentico al pari della
_Concordia_ e dell'_Esposizione[514] dell'Apocalisse_. Queste tre opere
sono legate tra loro, perchè non solo Gioacchino le cita tutte e tre
nella lettera al Papa, ma l'una cita l'altra.

Dalla prefazione del _Decacordo_ sappiamo che il primo libro
di quest'ultima opera fu scritto quando si trovava nel convento
di Casamari, e poi che era stata già composta la _Concordia_ e
l'_Apocalisse_.[515] Codesta notizia ci vien confermata da Luca, che
ci dice benanco l'anno, a cui si riferisce Gioacchino, il 1182. Ed
un'altra conferma la ricaviamo dalla lettera del 1188 di Clemente III,
ove è detto che le opere di Gioacchino furono cominciate a scrivere per
incarico di Lucio III (1181-1185) e di Urbano III (1185-87).

Da questa stessa lettera ricaviamo che nel giugno 1188 le opere non
erano finite ancora, sicchè la pubblicazione dev'essere posteriore a
quell'anno, ma quando accadesse non sappiamo. Certo la _Concordia_ ebbe
a precedere le altre opere, perchè nella lettera più volte citata di
Gioacchino del 1200 è detto che la prima opera fu mandata al Papa, le
altre non ancora. È probabile che nel 1195 la _Concordia_ fosse già
pubblicata, perchè in quell'anno le profezie dell'abbate Gioacchino
erano così note, che come dicemmo l'abbate di Perseigne mostrò il
desiderio di discorrerne con l'autore. L'_Apocalisse_ poi fu scritta
intorno al 1196 o poco dopo, perchè in un luogo l'autore dice aver
saputo l'anno innanzi ovvero il 1195 che i Patarini mandarono legati ai
Saraceni.[516] L'ultima delle opere, il _Decacordo_, benchè composta
dopo, fu certamente pubblicata insieme al _Commento dell'Apocalisse_,
perchè in un luogo di quest'opera è citato il secondo libro di
quella.[517]

Da queste tre opere in fuori le altre sono manifestamente apocrife. E
a condannarle basta, come avverte il Renan, la lettera di Gioacchino
premessa così alla _Concordia_ come all'_Esposizione dell'Apocalisse_.
In questa lettera, ricordate la _Concordia_ in cinque libri, il
_Decacordo_ in tre, e l'_Esposizione_ in otto titoli, aggiunge di
avere scritto altri piccoli opuscoli contro gli Ebrei, e contro
gli avversarii della fede cattolica. In quest'ultima categoria può
benissimo entrare lo scritto polemico contro Pietro Lombardo, del
quale abbiamo parlato più sopra, ma restano escluse tutte le opere di
argomento dottrinale, e che non sieno indirizzate contro qualcuno.
Anche Luca, lo scolare ed il copista di Gioacchino, cita soltanto
queste tre opere.

Sono evidentemente falsi i _Vaticinia Pontificum_, che ebbero tanta
celebrità nel Medio Evo,[518] ed i commenti alle profezie di Cirillo,
di Merlino e della Sibilla Eritrea.[519] Non vogliamo entrare
nell'esame particolareggiato di tutta questa letteratura profetica,
che ci menerebbe molto fuor di strada, ma questo solo notiamo, che ove
pure sieno state in voga prima di Gioacchino le cosiddette profezie di
Merlino e delle Sibille, ei non le cita mai nelle opere autentiche che
abbiamo ricordato più sopra. Senza dubbio persone molto rispettabili,
come Alano di Lilla, tennero in gran conto i vaticinii che andavano
sotto il nome del mago inglese.[520] Ma Gioacchino non mescola il sacro
col profano, nè riconosce altra autorità all'infuori della Bibbia e dei
Padri, e se anche avesse conosciute queste pseudoprofezie, si sarebbe
ben guardato dal trarne partito e commentarle.

Non meno apocrifi sono i commenti ad Isaja e agli altri profeti
minori, nonchè quel trattatello che serve d'illustrazione alle minacce
profetiche, una specie d'indice geografico delle provincie del mondo
intero per ciascuna delle quali si notano le pene che loro sovrastano.
È noto che nel linguaggio profetico questo cumulo di colpe e minacce è
detto _onus_, onde _onera prophetarum_ sono chiamate le invettive dei
profeti, ed _onera provinciarum_ le colpe di ciascun paese.[521] Che
il trattato geografico non appartenga a Gioacchino è agevole provarlo
da questi pochi passi, che io aggiungo a quelli riportati dal Renan.
Nell'annotazione al ducato Spoletino è fatto cenno dei due ordini
francescano e domenicano, che al pari di luminose stelle sorgono a
predicare un'altra volta il Vangelo del regno coperti di ruvidi sacchi.
La Chiesa di Sardi viene paragonata a quella dei monaci cassinesi,
che la macchiano coi loro desiderii carnali, e col non distinguersi in
nulla dai secolari. Certo Gioacchino ha rimproverati soventi i frati
anche del suo ordine, ma è ben lontano di applicare loro il testo
dell'_Apocalisse_. In questa amara invettiva si scopre facilmente il
mendicante francescano che non può perdonarla al fastoso benedettino.
Nell'annotazione alla provincia narbonese si fa parola della crociata
che sarà bandita contro il focolare dell'eresia albigese.[522] Ma
non occorrerebbero nè questa nè altre prove per dimostrare che il
trattato appartiene al tempo dei commentatori di terza o quarta mano,
che per dir qualche cosa di novo hanno bisogno di scendere a minuti
particolari, e trovare un motto almeno per ciascuna provincia o città
che sia.

Parimenti apocrifi sono i commenti ad Isaja ed ai profeti minori.
Ed a provarlo poche citazioni basteranno. Nelle opere autentiche di
Gioacchino come nel _Commentario dell'Apocalisse_, la donna ammantata
di oro che fornica coi Regi, è Roma in quanto rappresenta non la
Chiesa dei giusti, ma la moltitudine dei reprobi. Anzi per togliere
ogni equivoco questa moltitudine di reprobi non è chiusa nelle mura
della eterna città, ma si dilarga per tutto l'orbe del cristiano
impero. L'autore della lettera ai fedeli non avrebbe potuto tenere un
altro linguaggio, ed egli che si dichiarava servo devoto della Chiesa
non avrebbe potuto raffigurarla nella donna dell'_Apocalisse_. Ben
altrimenti si comporta lo scrittore del _Commento_, che contro Roma
adopera le stesse parole, dai Catari, Valdesi ed Arnaldisti.[523]
Sotto il nome di Gioacchino mal si nasconde un frate francescano,
che ingenuamente confessa essere nati i due ordini a flagellare la
Chiesa occidentale. Questo chiaro accenno ai due ordini che si ripete
moltissime volte, e il ricordare che fa soventi di Federico II, sono
segni certissimi della tarda età del _Commento_.[524] Io non saprei
certamente determinarla con esattezza; ma come ha notato il Renan pel
libro di Geremia, debbo anch'io notare per questo d'Isaia che l'autore
mette in guardia non solo contro i tedeschi, ma benanco contro i
francesi.[525] Il che vuol dire che il tempo degli entusiasmi angioini
era già passato. Ed in un luogo parmi che sia sfuggito al malcauto
autore l'anno della composizione del libro, ove parlando del terzo
stato dice che sarà compiuto tra novant'anni dopo il mille e trecento,
espressione ben strana per uno che non fosse contemporaneo di Bonifacio
VIII.[526] Secondo questa congettura il commento ad Isaja sarebbe
posteriore al Salimbene. Il che s'accorda col fatto già da noi rilevato
che Salimbene conosce gli _Onera_ non il _Commento_. Gli _Onera_ in
verità sarebbero più antichi, ma certo molto posteriori al 1201 come si
raccoglie da una frase sfuggita allo stesso autore.[527]

Il commento a Geremia appartiene allo stesso tempo, perchè il Salimbene
racconta che i due frati francescani Bartolomeo Ghiscolo da Parma e
Gherardino da Borgo S. Donnino sulla fede nell'esposizione di Geremia
faceano tristi pronostici della crociata che S. Luigi apparecchiava
nel 1248.[528] Dunque la composizione di questo commentario risale al
di là di quest'anno. Ma forse non indietro al 1239, anno, come nota il
Renan, in cui la rottura tra il partito Guelfo e Federigo II si fece
più aperta. Certo son degne di quel tempo le fiere invettive che si
leggono in questo libro contro l'Imperatore, al quale adattandovi le
parole d'Isaja vien dato del _basilisco_, che esce dalla _radice del
serpente, della vipera e del serpente volante_. Nè gli risparmiano gli
epiteti più obbrobriosi, superbo, astuto, lascivo, avaro, tortuoso,
perfido, violento, iracondo.[529] Il nome in verità qui, a differenza
del commento ad Isaja, è taciuto; ma l'allusione a Federigo II
è trasparentissima. Questo commentario, che dice tante insolenze
dell'Impero si suppone indirizzato ad Enrico VI, ed il profeta non
dubita di annunziargli che il leone d'Isaja vuol significare il padre
(Federigo I), la radice serpentina lui stesso Enrico, e da lui escirà
il basilisco, che è per conseguenza il figlio di Enrico VI o Federigo
II. Più chiaramente in un altro luogo è descritto l'albero genealogico
di Federigo II risalendo ad Enrico IV, che il commentatore chiama
primo, perchè fu il primo degli Enrichi ad opporsi alla Chiesa. E
come se non bastassero tutte queste indicazioni, vi aggiunge l'altro
particolare, che i figli si ribelleranno contro il padre, accennando
alla fellonìa di Enrico, ed alla sua morte.[530]

Quest'ultimo particolare ci darebbe una indicazione più precisa
dell'età in cui fu composto questo commento, il quale dev'essere
posteriore non solo al 1239 ma benanco al 1242 anno della morte di
Enrico. Ma sulla quistione del tempo torneremo di qui a poco. Ora
basti notare che il solo fatto dell'allusione a Federico II[531]
toglie ogni credito a questo commento, e ci fa maravigliare come anche
dall'Engelhardt sia stato attribuito all'abate Gioacchino. Ma oltre
all'allusione a Federico II, troviamo chiari e numerosi accenni ai
due ordini dei minori e dei predicatori. Nè questo soltanto, ma, il
commentatore sa bene che i nuovi ordini sono combattuti dai prelati,
sospettosi di questi novatori che vestono in strane fogge, e predicano
dottrine di un'assoluta povertà non mai sentite, ed a chi non li segue
predicono calamità.[532] Nè si nasconde che la causa dei prelati viene
sostenuta benanco dal pontefice, sicchè l'autore non dubita di levare
anche contro lui la sua voce. E le parole che egli pronunzia contro la
Chiesa Romana non sono meno vibrate di quelle che leggemmo nel commento
di Isaia, nè ripugnano meno alla pietà di Gioacchino.[533] Il che vuol
dire che avanti alla composizione del libro era scoppiata la scissura
nell'ordine francescano, e la parte più intransigente era già per
volgersi contro i vescovi, i cardinali ed il papa, che mal tolleravano
le nuove dottrine. Una prova manifesta l'abbiamo in un passo ove i
nuovi ordini sono chiamati predicatori dell'evangelio eterno, parola
che nelle opere autentiche di Gioacchino non s'incontra mai.[534]

Tutte queste prove mettono fuori dubbio che l'opera non è di
Gioacchino, e che la data del 1197,[535] in cui si dà per iscritto
questo commentario, è una pia frode del commentatore. Se Gioacchino,
nota il Renan, avesse fatto questo commentario nel 1197, nella lettera
ai fedeli scritta nel 1200 l'avrebbe certamente rammentato. E noi da
alcuni passi abbiamo potuto raccogliere, che nè nel 1197, nè nel 1200
fu potuto scrivere questo commento, bensì posteriormente alla morte del
ribelle figlio di Federico II, vale a dire al 1242. E forse neanche
a questo tempo dovremmo arrestarci, perchè anche qui, il linguaggio
violento che si usa contro Roma, l'accenno alle persecuzioni subite dal
nuovo ordine dei frati minori, il nome di Evangelio eterno ci menerebbe
ad una data molto posteriore. E nella stessa opinione ci confermerebbe
l'accenno alla Francia, che secondo questo commento sarebbe come la
canna che ferisce chi vi si appoggia.[536] Non saremmo dunque lontani
dall'attribuire a questo commento la stessa età dello scritto su Isaja.

Nè vale il notare che questo commento ha dovuto essere scritto prima
del 1260, perchè in qualche passo appar verde la speranza che in
quell'anno fatale avranno fine le calamità del mondo. Nè tampoco
importa che il Salimbene abbia avuto contezza di questo libro sin
dal 1248. Imperocchè è certo che questa letteratura pseudo-profetica
non è nata tutta d'un getto in un anno determinato. E può darsi
benissimo che il commentario, che abbiamo noi oggi di Geremia sia
soltanto in parte quello conosciuto dal Salimbene;[537] e molte
aggiunte ed interpolazioni vi sieno state fatte, e molte altre se ne
farebbero ancora, se queste profezie avessero anche oggi il credito
che riscuotevano nel Medio Evo. Le pseudo-letterature hanno questo
carattere, che si considerano come un patrimonio comune, del quale
nessuno è proprietario in proprio, ed ognuno vi può apportare le
modificazioni che crede più opportune. Così si spiega come di due opere
distinte se ne faccia una sola, o di una due; come si aggiunga ora un
particolare ed ora un altro senza darsi la pena di verificare se stoni
con tutto il resto. Questo è accaduto alla letteratura profetica del
neopitagorismo, e del neoplatonismo, e senza notevoli differenze si è
ripetuto nel sodalizio francescano.

Intorno alle opere manoscritte dell'abate Gioacchino posso
aggiungere alle notizie date dal Renan alcune altre attinte ai
codici laurenziani. In un codice della biblioteca Santa Croce oltre
all'esposizione di Geremia si trovano altri due scritti dell'abate
calabrese, uno intitolato _De ultimis tribulationibus_, e l'altro _De
articulis fidei_. Il primo è un'esposizione delle ultime guerre che
dovrà sostenere l'umanità, analoghe a quelle sostenute nel Vecchio
Testamento. Non oserei dire che sia autentico, ma non vi ho trovati i
caratteri delle opere evidentemente apocrife, come i commenti a Geremia
ed Isaia.[538]

L'altro opuscolo è quello ritenuto perduto dal Renan, e di cui ei
pubblicò alcuni brani riportati dal resoconto d'Anagni. Non credo
giusta l'opinione del Renan che sia lo stesso di quello scritto contro
Pietro Lombardo, perchè questo opuscolo non è affatto polemico, e
le opinioni sulla Trinità sono espresse forse più temperatamente
che non nel _Decacordo_ e nell'_Apocalisse_. Benchè questo libro sia
citato dalla Commissione d'Anagni, io sospetto fortemente della sua
autenticità. Gioacchino non avea bisogno di circondar di mistero
le dottrine che aveva di già esposte in altre opere. Nè poi gli
sarebbe giovato di occultare le teorie teologiche, espresse in questo
libercolo, che in sostanza non differiscono dalle ricevute comunemente;
ma ben piuttosto le altre sui tre stati, che qui sono interamente
taciute.[539]

In un altro codice laurenziano, ove già trovammo il _liber Sybillae_,
esiste la lettera di Gioacchino, che il Renan trovò nel manoscritto
3595 dell'antico fondo. È una esortazione ai fedeli di mutar via
e pentirsi delle proprie colpe perchè il giorno della tremenda
espiazione è vicino.[540] Non v'ha nessuna ragione perchè non si
debba dire autentica, come autentici anche secondo il Renan sono i due
componimenti poetici stampati alla fine del _Decacordo_.[541]


III

Esponiamo ora brevemente le idee di Gioacchino prendendo le mosse
dalle opinioni teologiche, condannate nel solenne Concilio del 1215.
Queste opinioni si riferiscono al domma della trinità, intorno al quale
rinacquero sempre le dispute quando meglio parevano finite, comecchè
non fosse possibile tenersi egualmente lontano dagli opposti estremi,
e col dare maggior rilievo alla diversità delle persone, l'unità divina
correva pericolo; per contrario dando maggior peso all'unità divina, la
differenza delle persone diventava affatto secondaria ed evanescente.
Nella prima difficoltà ruppe Ario, nella seconda Sabellio.[542]
E quando pareva composto il grave dissidio, e trovato il punto di
equilibrio tra queste opposte tendenze, il fatto smentì le previsioni,
ed il problema rinacque intorno alla natura di Cristo. Anche qui quelli
che davano maggior importanza all'unità delle due nature divina ed
umana, correvano il rischio di assottigliare di tanto quest'ultima da
renderla qualche cosa di simbolico (docetismo); quelli al contrario
che mettevano in sodo la realtà della persona umana minavano
l'intrinsecazione delle due nature. Era ben difficile trovare un punto
fermo tra gli opposti indirizzi di Cirillo e Nestorio, ed i concilii
stessi talvolta ebbero a contraddirsi. Non farà dunque meraviglia se
la discordia rinacque nel decimosecondo secolo, e gli stessi pericoli
si manifestarono, e parve novamente difficile di cansare Scilla senza
incorrere in Cariddi.

Nella mente di Pietro Lombardo, il grande autore del libro delle
sentenze, la cura dell'unità dell'essenza divina appare manifesta.
L'essenza divina è qualche cosa di differente dalle persone, perchè
l'essenza è unica e le persone sono tre. Quindi non si potrebbe
mettere in luogo delle persone l'essenza, e dire ad esempio che
l'essenza del Padre ha generato l'essenza del figlio, e l'essenza del
figlio quella del verbo. Contro questa esposizione si levò l'abate
Gioacchino, il quale pare che scrivesse un opuscolo polemico contro
il grande Lombardo, accusandolo di mettere tale stacco tra l'essenza
e le persone, che in luogo della trinità si dovrebbe ammettere una
quaternità in Dio, vale a dire un'essenza e tre persone. L'opuscolo
è andato perduto, ma le accuse sono ripetute nel primo libro del
_Decacordo_, ove è esposta molto chiaramente la dottrina opposta a
quella del Lombardo.[543]

Le tre persone, ei dice, non vanno distinte tra loro come l'ulivo,
il mirto e la palma, che sono alberi di diversa natura e specie; nè
tampoco come tre ulivi, che sono bensì della stessa natura, ma di
proprietà differenti; nè quali tre rami impiantati nello stesso tronco,
cosicchè questa rappresenti la sostanza e quelli le persone, il che
tornerebbe lo stesso come ammettere una quaternità. Bisogna metter
da banda codeste imagini, e prendere la similitudine da quella luce,
che illumina tutti gli uomini che vengono al mondo, e dalla quale
procede quel calore che tutte cose avviva. Da questa luce, che si
chiama sole, promanano i raggi luminosi e calorifici, come dal Padre
promana il figlio, che discese per illuminare le menti, e lo spirito
per infiammarle. Tra il calore e lo splendore del sole non sai mettere
distinzione, e frattanto, tu non dubiti che sien due; oh! perchè vuoi
scindere la divina sostanza per credere alla trinità di Dio? Ma un
errore più grave di questo è l'altro, nova invenzione dei nostri tempi,
secondo il quale si dovrebbe ammettere le persone oltre la sostanza,
sicchè in questa si riponga l'unità ed in quella la trinità, come se
dicendo che il foco celeste e la luce ed il calore che ne promanano
sieno lo stesso sole, si voglia sotto il nome del sole indicare una
quarta cosa oltre alle tre.[544]

Un'altra imagine che chiarisce il mistero della Trinità è quella del
Salterio dalle dieci corde. Questo strumento musicale è uno, perchè
sebbene al pari di ogni corpo possa dividersi, pure ove si divida, non
è più quel dato istrumento. Ma non ostante che sia uno, ha tre lati e
tre vertici, e ciascuno di questi lati o corni non deve essere preso
nel senso di linea, bensì di superficie. Il lato orientale è tutta la
superficie in quanto prospetta sull'oriente, il lato occidentale è la
stessa superficie in quanto prospetta sull'occidente, e dite parimenti
del lato meridionale. Così la stessa superficie ha tre prospettive
differenti, ed ecco come tre può essere uno, ed uno tre.[545]

Non discuto queste similitudini, che lasciano il tempo che trovano,
nè riescono a far comprendere l'incomprensibile. Nè discuto
dell'ortodossia della dottrina. Il Concilio del 1215 la condannò e S.
Tommaso molto più tardi la combattè notando che se egli è vero che le
tre persone hanno pari valore, non è men vero che si debba adoperare
una parola per indicare ciò che esse han di comune, ed un'altra
pel differente; talchè se la parola persona è tolta a dinotare le
differenze, quella di essenza deve significare l'unità, e viceversa
quest'ultima parola deve esser lasciata da banda quando si tratti di
esprimere la differenza dei rapporti, non l'identità della natura.
Quindi a ragione il Concilio respinse al pari di Pietro Lombardo la
formola: l'essenza genera l'essenza.

Parrebbe dunque che fosse quistione di parole, e così giudicano i più
delle quistioni teologiche; ma in verità trattasi di gravi divergenze
d'indirizzo. E nessuno ad esempio può sconoscere nella teorica
dell'abate Gioacchino una tendenza a dar risalto alle differenze
personali a discapito dell'unità d'essenza. Per lui l'_unitas_ ben
differisce dall'_unus_. L'_unus_ s'ha da attribuire all'individuo
solo, laddove l'_unitas_ si può e si deve dire di una collezione
d'individui che convengano in un pensiero, o abbiano un volere solo.
Un aggregato d'individui come il popolo, la tribù non si potrebbe dire
uno assolutamente, come se fosse una persona sola, ma all'_unus_ si
deve aggiungere il suo sostantivo, _unus populus_, _una plebs_. Così
parimenti le tre persone della Trinità, avendo un solo intelletto, un
volere ed un potere possono ben dirsi _unitas_, _unum_, ma non _unus_
se non vi si aggiunga _unus deus_. Sottigliezze senza dubbio; ma in
fondo trasparisce chiaro l'intendimento di attribuire maggior valore
alla differenza delle persone, e ridurre la misteriosa unità di natura
ad una comunanza di pensiero o di volontà.[546]

Certo egli crede di restare nei confini della dottrina ortodossa, nè
dubita di avere ben fondata l'unità di essenza. Chi potrebbe imaginare,
dice egli, maggiore fusione del fuoco che si aggiunga a fuoco? Eppure
v'ha più profonda ed intima unità, quella dello spirito che si unisce
collo spirito così da formare uno spirito solo. Ma con tuttochè egli
insista sull'unità dell'essenza, e nell'adoperarsi a rinsaldarla usi
talvolta espressioni, che S. Tommaso farebbe sue, ciò non pertanto il
suo pensiero si ferma con compiacenza sulla diversità delle persone, e
sull'incompatibilità dell'ufficio che a ciascuna di esse è attribuito.
Soltanto il Padre è il genitore, solo il Figlio è generato, solo lo
Spirito procede da entrambi. Parimenti soltanto il Padre invia e il
Figlio e lo Spirito; soltanto il Figlio s'incarna, solo lo Spirito
discende in forma di colomba.[547] E per questa diversità di funzioni
spetta a ciascuna persona un nome diverso; il Padre s'ha da chiamare
con nome di Timore, il Figlio con quello di Sapienza, lo Spirito con
quello di Carità. Il che ci spiega come il principio della sapienza
stia nel timore, ed il fine nella carità. Il Padre, creando dal
nulla le cose volle mostrare il poter suo, ed incutere terrore negli
uomini perchè non peccassero, e non che correggere blandamente i
peccatori, li ebbe a punire con terribile severità. Il Figlio invece
non colla potenza debellò i superbi, ma colla dottrina della sapienza
e dell'umiltà. Lo Spirito Santo infine c'inspira l'amor di Dio e
dei nostri simili, così che scacciato il timore noi ci rallegriamo
dell'essere liberi. E nello stesso modo che sono diverse le persone
divine, sono diversi del pari i doveri nostri verso di loro. Ed a
cagione del Padre-timore siamo tenuti ad obbedire; a cagione del
Figlio-sapienza dobbiamo leggere; a cagione dello Spirito-carità
dobbiamo cantare e pregare ed amarci come fratelli.[548]

Ma se diversi sono gli ufficii delle tre persone e diverso anche il
modo come gli uomini si comportano verso di loro, egli è ben chiaro che
diverso è l'influsso che ciascuna di esse ha esercitato nella storia
del mondo. Secondo che gli uomini progrediscono, ed ai sentimenti
del terrore sottentra la brama del sapere, e poscia l'amore del
prossimo, muta il regno delle persone. Fu un tempo in cui gli uomini
non conobbero se non il rigor della legge, e dominava incontrastato
il Padre. A questo lungo periodo successe l'altro in cui fu scoperta
la verità, sulla quale era da secoli tirato un fitto velo, fu il regno
del Figlio, o dell'eterna sapienza. Ma con questo secondo periodo non
si chiude il corso della storia. L'uomo teme, sa, ma non ancora ama
quanto dovrebbe, e la fiamma del santo spirito non ancora scalda il suo
cuore; onde è necessario che al regno del Figlio sottentri quello dello
Spirito.[549]

Io non credo che questa dottrina dei tre stati sia la conseguenza di un
ragionamento teologico, come parrebbe dalla nostra esposizione. Altre
ragioni senza dubbio l'hanno dettata, e prima fra tutte l'invitta fede
in un migliore avvenire della cristianità. Ma la dottrina della trinità
se non è la progenitrice di quella dei tre stati, le ha certo fornito
i migliori argomenti di una dimostrazione. A chi tanto insisteva sulla
successione dei due regni del Padre e del Figliuolo dovea parere strano
che fosse lasciato da parte lo Spirito. Per giustificare l'esclusione
sarebbe stato uopo di provare che la terza persona non avesse un
carattere così spiccato come quello del Padre e del Figlio, il che
sarebbe assurdo, perchè la teologia attribuisce alle tre persone pari
valore. Così pari efficacia debbono esercitare nella storia del mondo.

Quest'ultima ragione ci suggerisce due importanti considerazioni. La
prima è che se l'azione delle persone è parimenti efficace, nello
studio dei due regni o stati, che finora ebbero luogo, si debbono
scoprire più profonde analogie di quel che si creda comunemente; e
la durata del regno ad esempio dev'essere la stessa, perchè pari è
l'intensità dell'azione delle due persone. La seconda considerazione
è questa: che guardando bene addentro nelle due storie per iscoprirvi
la meravigliosa consonanza, non solo conosceremo nella verità sua il
passato, ma divineremo l'avvenire.[550] Perchè in ogni modo l'azione
dello Spirito non dovrà essere da meno delle altre due persone, e
conosciuto il principio ed il corso di un processo storico si può
agevolmente predeterminare la fine.

Questo è il pensiero fondamentale del più antico e più originale
dei libri di Gioacchino, la _Concordia_. In opposizione agli eretici
contemporanei, che ponevano uno studio a rilevare le contraddizioni
tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento, questo opera di Dio, quello
del Diavolo, Gioacchino mette in luce un'armonia e concordanza anche
in quei punti, dove l'occhio comune non sa scoprirla. Ben vero ei non
nega le stonature non solo tra i due testamenti, ma ben anco tra le
varie parti del Testamento Nuovo.[551] Nè poteva certo dissimularsele
egli che in un secolo, in cui la critica non esisteva ancora, osava
pur distinguere tra libri e libri del sacro canone, nè dubitava di
attribuire minor valore agli evangeli non apostolici di Marco e Luca
in confronto degli apostolici di Matteo e Giovanni, ed approvava
gli ebrei, che fanno maggior conto delle storie di Giobbe ed Ester
in paragone di quelle di Tobia e Giuditta.[552] Ma non ostante le
critiche audaci ad una vera opposizione tra il Vecchio ed il Nuovo
Testamento non prestava fede, ed era convinto che, ben cacciando lo
viso a fondo, quello che pareva alla prima contrasto, andava risoluto
in un accordo. Bisognava solo non tenersi alla lettera, ma interpetrare
in un senso allegorico ciò che nel letterale porgeva argomenti a
dubbiezze.[553] Epperò dell'interpetrazione allegorica nessun Cataro,
nessun Valdese fece mai uso come Gioacchino, che spesso ripete il
detto dell'apostolo: «la lettera uccide, lo spirito vivifica, e ciò
che inteso intellettualmente edifica, preso alla lettera è insipido ed
ingannevole».[554]

Ma che cosa intende il nostro autore per allegoria? Ascoltiamo lui
stesso. L'allegoria egli dice, è la simiglianza del minimo col massimo,
come ad esempio del giorno coll'anno, della persona coll'ordine, colla
città, col popolo e simiglianti. Così Abramo è un uomo e significa
l'ordine dei patriarchi. Parimenti Zaccaria.[555] Nè si creda che
con questa distinzione vada ristretto il valore ed il significato
dell'allegoria; perchè l'autore sa noverarne sei specie, l'ultima
delle quali suddivide in sette altre, così da toccare il sacro
numero dodici. Le sei specie sono: storica, morale, tropologica,
contemplativa, anagogica, tipica.[556] Parrebbe che la storica fosse
un'interpetrazione letterale e tutt'altro che allegorica. No, risponde
Gioacchino, l'interpetrazione storica è diversa dalla storia, e Abramo
ad esempio diviene il rappresentante degli uomini obbedienti a Dio,
come Isacco il rappresentante dei buoni figli. L'interpetrazione
morale in luogo dell'uomo, mette in rilievo la qualità dominante, come
a dire nell'ancella Agar vien raffigurata la concupiscenza carnale.
L'interpetrazione tropologica non ha di mira se non il modo come in
quel fatto o persona possa intendersi significata la parola di Dio;
così ad esempio Agar o l'ancella rappresenta la lettera, Sara la donna
libera, lo spirito. L'interpetrazione contemplativa riguarda i varii
gradi dell'attività umana; l'ancella ad esempio rappresenta la vita
attiva, la padrona per lo contrario la contemplativa. L'interpetrazione
anagogica ci solleva dalla terra al cielo, così Agar rappresenta la
vita presente, Sara la futura.

L'interpetrazione tipica già dicemmo si divide in sette specie. La
prima si riferisce soltanto al Padre, nè esce dal Vecchio Testamento.
Per tal guisa se Agar rappresenta, poniamo, la plebe degli Ebrei,
Sara la tribù di Levi. La seconda specie si riferisce al Figlio, ed
agl'istituti che nel suo regno prevalsero; così Agar rappresenta la
Chiesa dei secolari, Sara quella degli ecclesiastici. La terza specie
si riferisce allo Spirito, come ad esempio nell'ordine monastico, che
fiorisce nel terzo stato, Agar rappresenta i conversi, Sara i professi.
La quarta specie si riferisce al Padre e Figlio insieme. Agar è la
Sinagoga, Sara la Chiesa dei latini. La quinta specie si riferisce
invece al Padre ed allo Spirito. Agar è di nuovo la Sinagoga; ma Sara
muta e rappresenta la Chiesa spirituale, che fiorì al principio presso
i Greci nella religione monastica (anacoreti). La sesta si riferisce
al Figlio ed allo Spirito, come a dire Agar rappresenta la Chiesa per
le sue colpe serva ed oppressa, Sara invece la Chiesa spirituale che
durerà sino alla consumazione dei secoli. La settima specie infine si
riferisce a tutte e tre le persone insieme. Agar rappresenta la Chiesa
passata e presente, vale a dire tanto la giudaica quanto la cristiana,
Sara invece la Chiesa futura.[557]

Seguitando di questo passo ad enumerare i diversi scopi a cui può
essere indirizzata l'interpetrazione allegorica, potremo contare
non solo dodici ma infinite specie di allegorie. Questa viziosa
classificazione giova soltanto a mostrare quanta libertà si prenda
il nostro autore nell'interpetrazione dei sacri testi, e come senza
scrupolo passasse da un'interpetrazione ad un'altra quando la prima
non gli faccia più al caso. Con quest'agile manovra non è difficile
far convergere tutti i testi, ed eliminare tutte le contraddizioni.
S. Paolo ad es. parla per ben due volte di vescovi ammogliati, e gli
antipatarini solevano citare con compiacenza quel passo: chi non voglia
bruciare si ammogli. A Gioacchino propugnatore della castità riesce
agevole d'interpetrare a modo suo questo incomodo testo, intendendo
per moglie non la donna ma la Chiesa.[558] Così nessun ostacolo più ci
sbarra il cammino, perchè l'interpetrazione allegorica non ha nessun
confine. Non solo i personaggi biblici, ma le loro opere altresì hanno
un significato simbolico, come la passione e morte di Cristo vuol
dire il Vecchio Testamento e la risurrezione il Nuovo. Nè i corpi
celesti, nè gli elementi della natura vengono sottratti a questa strana
metamorfosi; chè il sole, la luna, i pianeti non solo sono creati a
risplendere nella volta del cielo, ma a significare ben anco la luce
invisibile. E codesta significazione muta secondo il bisogno. Talvolta
il sole vuol dire Cristo, la luna è la Chiesa, le stelle la moltitudine
dei fedeli; tal'altra il sole rappresenta la vita contemplativa, o
se vogliamo la Chiesa meditante, e la luna invece la vita attiva,
o la Chiesa predicante. Non è esclusa però una terza, una quarta
interpetrazione, come a dire il sole rappresenta la vita futura, la
luna la vita presente. Ed al pari del sole e della luna sono simbolici
anche gli altri corpi celesti. Saturno mettiamo a quel che dicono, di
natura freddo, e che più lentamente compie il suo giro intorno al sole,
rappresenta il padre Adamo, che tremò dal freddo in paradiso, e visse
più di tutti gli uomini, che da lui nacquero. Dopo questo esempio non
parrà strano che al pianeta _Venere_ di qualità temperata si agguagli
il giusto _Noè_; nè che si metta in confronto il sapiente _Mercurio_
con quel vaso di scienza che fu _Moisè_. Nè certo è più strano il
simbolismo degli elementi, secondo il quale l'acqua, con cui si
battezzano i Cristiani, rappresenta la grazia che fu data agli uomini
nel secondo periodo, l'aria quella che s'impartisce ora nel principio
del terzo, ed il fuoco l'ultima e più meravigliosa che sarà impartita
nel dì della risurrezione.[559] Secondo le idee di Gioacchino i Catari
non avrebbero avuto torto di voler sostituire al battesimo coll'acqua
quello col fuoco, un fuoco che non bruci, un calore che si comunichi da
corpo a corpo imponendo le mani sul capo del convertito.

Ma torniamo al metodo allegorico. In grazia di questo meraviglioso
processo, che sciogliendo tutte cose nel mistico vapore dei simboli,
raccosta le più lontane, accorda le più opposte, non sarà certo
malagevole di fondere in uno il vecchio ed il nuovo Testamento, non
ostante le loro antinomie. Purchè siate discreti, nè vogliate la
rassomiglianza in tutti i particolari,[560] la dimostrazione è presto
fatta, nè alcuno potrà dubitare che il vecchio Testamento non abbia
valore per sè; bensì come simbolo precursore del nuovo. Questa è la
cosiddetta _Concordia_ dei due Testamenti, o vogliam dire simiglianza
di _giusta_ proporzione tra il nuovo ed il vecchio Testamento, giusta
in quanto al numero non in quanto alla dignità, stantechè persona e
persona, ordine e ordine, guerra e guerra, si raffrontano tra loro,
come Abramo e Zaccaria, Sara ed Elisabetta, Isacco e Giovanni Battista,
Gesù in quanto uomo e Giacobbe, i dodici patriarchi ed in pari numero
gli apostoli.[561] Il parallelo numerico è adunque la base della
concordanza, epperò vanno numerate accuratamente le generazioni che
precedono e quelle che seguono la venuta di Cristo. E se una volta
non torna il calcolo, bisogna rifarlo la seconda e la terza colla
costanza e la fede di un cabalista; perchè non è da dubitare che da
quel congegno sottile di somme e sottrazioni balzerà fuori la cifra
dell'avvenire.[562]

Basteranno pochissimi cenni per comprendere questa nuova aritmetica.
Matteo nel primo capitolo del suo vangelo numera le quaranta
generazioni, che precorsero secondo lui la nascita di Cristo a
cominciare da Abramo per terminare a Giuseppe. Non deve far caso che
l'Evangelista trascuri le tre generazioni di Ochozia, Gioas ed Amasia,
che tramezzano tra Gioram ed Uzzia; perchè chiudendosi con Gioram un
periodo della storia ebraica, e cominciandone un nuovo con Uzzia è
agevole inserire tra questi due estremi un periodo di transizione,
nel quale si contengano tre termini: l'antico non ancora finito, il
nuovo non ancora cominciato, ed un intermezzo tra il vecchio ed il
nuovo. Sistema molto ingegnoso per accomodare la storia ai nostri
gusti. Il perchè poi con Gioram si chiuda un periodo e con Uzzia ne
cominci un altro è subito detto. Matteo non risale oltre Abramo, ed
a ragione perchè con Abramo comincia l'impero di quella legge della
circoncisione, che durò fino a Cristo. Ma compiendo i calcoli di Matteo
e risalendo sino alla creazione dell'uomo tra il primo padre Adamo
e il primo patriarca, col quale comincia la legge, si contano venti
generazioni. Se dunque dopo le prime venti generazioni s'è chiuso un
periodo, l'analogia vuole che dopo le seconde venti se ne chiuda un
altro. Così con Gioram, che è la ventesima generazione dopo Abramo
si chiuderà un periodo, e trascurando le tre generazioni lasciate
da Matteo, con Uzzia si aprirà un nuovo. E che Uzzia sia il padre di
un'età nuova non è a dubitare, perchè ha molta analogia con Adamo e con
Cristo. Al pari di Adamo venne punito per la superbia, e scacciato da
un luogo santo; al pari di Cristo vinse i Filistei e gli Ammoniti, ed
il suo nome risuonò fino nel lontano Egitto, e volle essere egli stesso
sacerdote del Signore.[563] È ben strano in verità che Gioacchino metta
analogia tra Cristo, il vero sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec,
ed il re Uzzia che assunse l'ufficio sacerdotale indebitamente, e per
la sua prepotenza appunto venne punito colla lebbra. Ma la logica dei
paralleli consente queste licenze, e possiamo tenere per provato che
con Uzzia comincia un nuovo periodo. Ma quale periodo comincia con
Uzzia? Quello stesso che in un altro senso comincia con Cristo, cioè
il periodo dei sacerdoti. E perchè non faccia intoppo questo doppio
incominciamento, si sappia una volta per tutte che in ogni periodo
storico si deve distinguere il tempo in cui si spargono e fecondano
i semi, e quello in cui si raccolgono i frutti. Per tal guisa il
primo periodo della storia germoglia con Adamo e fruttifica con
Abramo, e parimenti il secondo germoglia con Uzzia e fruttifica con
Cristo. Queste anticipazioni sono un prezioso espediente, la cui mercè
Gioacchino può scoprire cristiani prima di Cristo, e spirituali avanti
il regno dello spirito, e talvolta vede effigiati tutti e tre i periodi
nei più antichi patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe.[564]

Dopo queste spiegazioni facciamo di nuovo il calcolo. Alle quaranta
o meglio quarantatre generazioni, che precedono Cristo, aggiungendo
le venti che si contano tra il primo parente ed Abramo, avremo un
sessantatre generazioni, ventuna per ciascuno dei tre periodi in cui
si può dividere il tempo trascorso avanti Cristo; il periodo che
precede la circoncisione, quello della circoncisione, ed il terzo
dei profeti. Così prima di Cristo abbiamo già una tripartizione che
contiene in effigie le tre età del mondo.[565] E se vogliamo seguitare
oltre nella divisione, divideremo l'èra precristiana in sei periodi da
dieci generazioni l'una, perchè anche il dieci è un numero perfetto.
Il primo periodo da Adamo al diluvio (Noè); il secondo dal diluvio
alla distruzione di Sodoma e Gomorra (Abramo); il terzo sino ad Obed
che fu contemporaneo di Elia, e vide l'arca dell'alleanza in mano
degli stranieri; il quarto fino a Gioas quando Israele cominciò ad
essere sterminata da Azael re di Siria; il quinto sino alla cattività
di Babilonia, ed il sesto fino alla venuta di Cristo.[566] Ma queste
sessanta generazioni non bastano se pur s'hanno da contare le tre
trascurate da Matteo, ed avremo così lo spazio per un settimo periodo,
composto di tre generazioni sole. Sicchè tutto il periodo precristiano
si può suddividere in sette sezioni, come in sette età vedremo che si
divide la storia del mondo. E questo sacro numero sette ritorna più
volte nei divini libri, a cominciare dai sette giorni della creazione
nel Genesi sino ai sette candelabri, ed alle sette Chiese, ed ai sette
angeli ed ai sette suggelli dell'_Apocalisse_.[567]

Determinate così le divisioni e suddivisioni dell'èra che precede
Cristo, sarà più facile lo studio delle altre che seguono. E
stabiliremo in primo luogo che le generazioni del secondo periodo
dovendo pareggiare le antiche debbono essere nè più nè meno di
sessantatre, ben inteso che queste sessantatre generazioni non si
debbono contare dalla venuta di Cristo, bensì dal re Uzzia; perchè
la prima parte del secondo periodo, ovvero l'età della fecondazione
incomincia,[568] come dicemmo, di là. Quindi in verità al periodo
cristiano in proprio non spettano se non quarantadue generazioni, che
noi, nati, come vedremo nella quarantunesima, possiamo bene paragonare
colle antiche per scoprirne il mirabile accordo.

Questo paragone vien fatto per minuto confrontando principalmente la
serie dei papi ed imperatori con quella dei re di Giuda e d'Israele.
È naturale che in molti errori è dovuto incorrere l'autore in omaggio
alla desiderata simmetria; ed ei stesso se ne riconosce colpevole, ed
attribuisce alla corruzione delle cronache quello che in grandissima
parte è dovuto al suo modo di studiare ed elaborare la storia.[569] Nè
noi lo seguiremo in questi raffronti; ma daremo soltanto pochi esempi
per mostrare il metodo ed il risultato della ricerca.

La duodecima generazione, che ebbe principio sotto Costantino
imperatore e Silverio papa, ha notevoli riscontri colla duodecima
generazione giudaica, a cominciare da Giacobbe. Imperocchè in questa il
popolo d'Israele ebbe un re unto dal Signore (Davide), ed in quella il
popolo dei gentili, disfatti i nemici della vera fede, sortì finalmente
un re cristiano (Costantino). Nell'antico fu eletta Gerusalemme e messa
al di sopra di tutti i tabernacoli da David; nel nuovo la Chiesa di
Roma ebbe il primato sopra le orientali. E cominciò per la donazione
di Costantino quel potere temporale la cui legittimità Gioacchino
riconosce, a patto però che il supremo sacerdote abbia la suprema
potestà, ma non l'uso, perchè non accada che chi milita con Dio non
si mescoli nei negozi temporali. Un altro benedettino, come dicemmo
altrove, avea manifestate prima di Gioacchino le stesse idee sulla
potestà terrena dei papi.[570]

Nella generazione che succede alla duodecima non trova Gioacchino un
imperatore che pareggi per sapienza il corrispondente re Salomone;
ma se mancò l'imperatore, non mancarono dottori della Chiesa come
Ilario, Girolamo, Giovanni Crisostomo ed Agostino, che non temono il
confronto del sapientissimo monarca, e riconoscono la loro scienza
dall'ispirazione di Gesù Cristo, che è un altro Salomone ben più alto.
Il trovato è ingegnoso![571] Nè meno ingegnosi sono i riscontri che
scopre il nostro autore nella sedicesima e diciottesima generazione.
Come Asa re di Giuda (II, _Paral._, 14, 11) con la fervida preghiera
fatta a Dio mette in fuga i nemici, così Leone papa colla forza della
sua parola arresta il barbaro Attila, a cui nessun braccio armato avea
saputo sbarrare la via dell'eterna città. Ed a quel modo che Teodorico
re dei Goti mise a morte Boezio, ed altri cristiani, il re biblico che
vi corrisponde, Joram, uccise i suoi fratelli. E come al tempo di Joram
fiorì il profeta Eliseo, così nell'età corrispondente cristiana visse
S. Benedetto. E quest'altro raffronto è specioso: Gerico, dove Eliseo
si mise a capo dei profeti, fu data in possesso ai figli di Beniamino,
unica tribù, che si fuse colle altre due di Levi e di Giuda. Eliseo
dunque si può dire mediatore tra queste due tribù, come S. Benedetto
è l'anello di congiunzione tra i monaci greci e latini, tenendo da una
parte ferma la fede di Pietro, e dall'altra abbracciando la regola dei
basiliani. Il paragone è tirato su come Dio vuole, ma è importante pel
giudizio che porta il nostro abate su greci e latini.[572]

E per la stessa ragione è da ricordare il confronto che fa tra il re
Josia e Leone IX. Il primo non credendo che l'invito a sottomettersi,
fattogli dal re egiziano, fosse ispirato da Dio, uscitogli incontro
nella pianura di Nieghiddo, morì nel combattimento (II _Paral._,
35, 22); il secondo volle del pari non ostante la sua pietà muovere
contro i Normanni e fu sconfitto. Benchè non lo dica apertamente, pure
le imprese guerresche dei papi non vanno a sangue a Gioacchino, nè
Gregorio VII è tenuto da lui in quella venerazione che gli tributavano
i guelfi italiani. Quando parla di lui non ricorda i gloriosi fatti,
ma soltanto l'esilio. A quel modo, ei dice, che Joachaz fu fatto re
dei Giudei a dispetto del re egiziano Neco, Gregorio VII fu acclamato
pontefice in odio dell'Imperatore. E come il re egiziano sbalzò di
seggio Joachaz, elevando invece di lui il fratello Joachin; così
l'Imperatore in luogo del Papa, che ebbe ad esulare in Salerno, mise
l'arcivescovo ravennate col nome di Clemente. Non una parola sola di
rimpianto pel gran Papa, che morendo sclamava: Dilexi justitiam, odivi
iniquitatem, propterea morior in exilio. A Gioacchino, così penetrato
dell'umiltà cristiana poco andavano a versi le imperatorie nature come
quella d'Ildebrando, nè dubitava di porlo a riscontro con quel Joachaz,
che secondo il IV _Re_ 32 fecit malum coram Domino.[573]

A queste citazioni mi permetto di aggiungerne qualche altra importante
per i giudizii che Gioacchino porta su avvenimenti di cui è stato
testimone. Morto Joachin prese a regnare Jeconia, rimosso il quale
dal re di Babilonia gli fu sostituito lo zio Sedechia, iniquo e
pessimo uomo. Allora venne in estrema confusione il regno di Giuda,
nè più secondo l'ordine di generazione regnarono i re di Giuda, ma
ora il fratello, ora il nepote, ora lo zio, ora insieme e l'uno e
l'altro. Lo stesso intervenne alla Chiesa, ove si vide due vescovi
contemporaneamente fatti papi, e l'Imperatore combattere la libertà
della Chiesa.

Tutto questo accadde durante la trentanovesima generazione al tempo
di Alessandro III e Federigo Barbarossa. Nè ai successori suoi
Lucio e massime Urbano III arrisero le sorti; ed anche oggi, seguita
Gioacchino, portiamo le tristi conseguenze del dissidio scoppiato
al tempo di Leone e di Enrico. E non senza gemito del cuore e dolore
dobbiamo ripetere le rampogne di Geremia, che ben si applicano a noi,
che ci diciamo cristiani e non siamo. Già da due anni era salito sulla
cattedra di S. Pietro Innocenzo III, quando Gioacchino proferiva queste
severe parole, e il famoso _quomodo sedet sola civitas_ applicava alla
Chiesa di Pietro, e contro gl'inerti sacerdoti volgea queste parole
dei Treni: _I profeti tuoi han veduto vanità e cose scempie_ (2, 14):
_Han mutato colore il buon oro fino, e le pietre del santuario sono
state sparse in capo d'ogni strada_ (4, 1).[574] Le fortune d'Innocenzo
non lo illudevano, nè alla pace, che parea dovesse finalmente arridere
alla cristianità, prestava fede: ma invece nuove guerre predicea, nuove
calamità, perchè essendo già cominciata col 1201 la quarantunesima
generazione, non molto andrà che il secondo periodo sarà per chiudersi.
E pria che spunti l'alba del nuovo giorno, gravi mali travaglieranno
ancora l'umanità, come previdero i profeti del vecchio Testamento ed i
veggenti del nuovo.[575]

Ora possiamo conoscere il risultato di questi faticosi riscontri. Dal
paragone di generazione a generazione si cava la conclusione che siamo
sul finire del secondo periodo, e che il cominciamento della nuova
èra non si farà aspettare lungo tempo. Che cosa sia questa nuova èra
già lo sappiamo, il regno dello Spirito, che tien dietro a quello
del Figliolo. Questo terzo periodo della storia dell'umanità per
un certo rispetto è già cominciato; perchè a quel modo che l'èra di
Cristo fu preparata nell'ultimo scorcio della precedente, così accade
dell'èra nuova, che se non dà frutti ancora, certo è germogliata da
un pezzo. Quest'anticipazione noi già l'abbiamo accennata parlando di
San Benedetto, che al tempo della diciottesima generazione fondò un
nuovo ordine monastico, nel quale il cenobitismo greco fu innestato
alla tradizione latina, e dal quale senza dubbio comincia la nuova
età, in cui posto fine agli abusi del chiericato, ed eliminate le
due cause principali delle discordie umane, l'orgoglio e l'avidità,
sarà finalmente assicurata la pace del mondo. Nello stesso luogo
abbiamo ricordata ancora la parentela che corre tra il profeta Eliseo
dell'antico Testamento e S. Benedetto dei nuovi tempi. In grazia di
quest'analogia l'anticipazione del terzo periodo dovrebbe scoprirsi
nell'antico Testamento stesso al tempo del re Asa. Nè è strano questo
doppio incominciamento, perchè il terzo periodo essendo il regno
dello Spirito, che procede insieme dal Padre e dal Figliuolo, era ben
giusto che mettesse capo nel vecchio e nel nuovo Testamento.[576]
L'interessante è che tornino i calcoli numerici. E torneranno di
sicuro, che sarà nostra cura accorciare o prolungare il tempo quanto
basti. Così ad esempio come da Adamo a Cristo corrono sessantatrè
generazioni, sarebbe desiderabile che altrettante ne corressero da
Eliseo sino a S. Benedetto; ma se questo non è possibile, sceglieremo
un altro termine, quello ad esempio in cui la regola benedettina prese
nuovo vigore per opera dei cistercensi,[577] ed il calcolo torna, e
possiamo con sicurezza predire che l'ora tremenda sta per sonare. Ma
quando? possiamo noi sapere e l'anno e il giorno della catastrofe,
o dobbiamo rassegnarci a più o meno probabili approssimazioni? Noi
già notammo come Gioacchino proceda molto cauto, e soventi ricusa di
addurre determinazioni precise, come si pare dai parecchi passi in
cui esprime le sue dubbiezze, e a chi gli dimandi maggiore precisione
di ciò che ei dice, risponde che solo Iddio sa il futuro.[578] Ma in
questo punto, nella determinazione dell'anno in cui dovrà cominciare la
terza età del mondo è più esplicito di quel che ci aspetteremmo.

Quando sarà per entrare la 42ª generazione Dio solo lo conosce,[579]
ma quando sia per finire si può argomentare da un gran numero di
prove, le une più indubitabili delle altre. In primo luogo si è già
detto che stante la concordia dei due testamenti il secondo periodo
deve durare in tutto 63 generazioni, e stante che 21 appartengono
al periodo di fecondazione, non restano da Cristo in poi se non 42
generazioni. La generazione dev'essere presa non secondo la carne,
ma secondo lo spirito. E come il Signore non cominciò ad avere
figli spirituali se non a 30 anni, il che era già prefigurato nella
unzione di David, e nell'iniziazione di Ezechiele, così trent'anni
deve durare ogni generazione nel nuovo tempo. Saputo dunque il numero
delle generazioni, 42, e la durata di ciascuna di esse, 30, basterà
moltiplicare l'un numero per l'altro, e sarà determinato l'anno
fatale, ovvero il 1260.[580] Il qual numero ritorna nei giorni che
Elia stette nascosto,[581] in quelli che passò nel deserto la donna
dell'_Apocalisse_,[582] e nei mesi che Giuditta restò vedova[583]
e la coincidenza torna sicura. Nè fa intoppo che il terzo periodo
cominci non alla metà delle 42 generazioni, che restano dopo Cristo,
cioè alla 21ª, ma invece alla 16ª come dice in un altro luogo della
_Concordia_.[584] Questi ritardi od anticipazioni non iscoraggiano
l'intrepido calcolatore, al quale non torna malagevole aggiungere se
occorra fino a quindici generazioni. Non disse il Signore ad Ezechia:
Io aggiungerò quindici anni al tempo della tua vita? E non fece tornar
l'ombra indietro per i gradi per li quali era discesa nell'orologio
di Achaz, cioè per 10 gradi (IV _Re_, 20, 6-11)?[585] E se la serie
delle generazioni secondo la carne non torna neanche dopo questi
rimendi, possiamo invocarne un'altra che corra più spedita per gradi di
parentela spirituale. Sta bene che Cristo discenda dai re d'Israele,
ma questi alla lor volta non sono i successori dei Giudici?[586]
Noi dunque possiamo movere dal primo Giudice, Moisè, e pei suoi
successori Giosuè, Othonel ecc. arrivare dopo ventuna generazioni ad
Asa, a quel buon re che negli ultimi anni della sua vita vide Israele
in mano di Acab, l'iniquo persecutore di Elia ed Eliseo. Ormai i
calcoli tornano. Perchè da Asa sino a Cristo si contano ventitre
generazioni secondo Matteo; aggiuntevi le tre che questi trascura, si
ha ventisei; aggiunte ancora le sedici che s'interpongono tra Cristo
e S. Benedetto, si ha il famoso numero quarantadue. E sommate queste
generazioni colle ventuna che furono tra Mosè ed Asa, torna il numero
sessantatre, e così le generazioni tra Adamo e Cristo pareggiano in
numero quelle che s'interpongono tra Moisè e S. Benedetto. Non vogliamo
più oltre paragonare le due serie, nè ripetere gli artificii adoperati
dall'autore per dissimularne le discrepanze, che già ben sappiamo,
e quello che Gioacchino ha voluto dimostrare e la via tenuta nel
dimostrarlo.


IV

Che il giorno tremendo sia prossimo, Gioacchino non pure lo dimostra
dalla concordia dei due Testamenti, ma dallo studio dei segni
precursori, descritti nell'_Apocalisse_: grandi calamità, guerre
disastrose, scismi ed eresie, e finalmente più terribile di tutti
l'Anticristo. Molti di questi segni secondo Gioacchino erano già
visibili, e se gli uomini non se ne addavano ancora, si doveva allo
scarso studio che facevano delle antiche rivelazioni in confronto
delle condizioni presenti. A codesto studio si mette il Profeta con
ardore. L'Apocalisse è giustamente prediletta da quanti affatica
l'ansioso problema dell'avvenire; ed a chi si compiaccia d'interpetrare
allegorie, nessun libro nè nel nuovo nè nel vecchio Testamento offre
materia più copiosa. Era dunque ben naturale che Gioacchino ne desse
una minuta esposizione, interpetrandolo e commentandolo dalla prima
all'ultima parola, e dappertutto scoprisse segni di verità arcane,
anche dove il senso letterale è pianissimo, e diventa oscuro solo
quando se ne sospetti altro più nascosto.

Così sin dalla prima pagina alla dimanda: perchè l'Evangelista mandi
il suo scritto alle sole sette Chiese dell'Asia minore, mentre egli più
degli altri apostoli suole volgersi a tutti i fedeli,[587] l'espositore
risponde: perchè queste sette Chiese non si debbono prendere nel
senso proprio ma nel metaforico. La concordia tra il vecchio e nuovo
Testamento c'insegna che come dodici furono le tribù del popolo
eletto, così dodici sono le Chiese principali fondate sugli albori
del Cristianesimo. Queste dodici si dividono in due gruppi, uno di
cinque l'altro di sette; il primo comprende le Chiese di Gerusalemme,
Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Roma; l'altro gruppo abbraccia
le sette Chiese dell'Asia minore. Ed a ragione l'Apocalisse non nomina
se non queste ultime, perchè le prime cinque simboleggiano l'età, che
precorsero Cristo, le ultime invece quella, che da lui comincia.[588]
Potrebbe fare intoppo che il periodo precristiano si partisca in
cinque e non in sei o sette periodi come si disse più sopra. Ma a
questa difficoltà è subito rimediato. Le cinque Chiese corrispondono
a cinque tribù d'Israele, Ruben, Gad, Manasse, Effraim e Giuda. La
terza di queste tribù fu suddivisa in due parti, una restò al di qua
del Giordano e l'altra passò oltre. Così le cinque tribù diventano
sei, e ben rappresentano le sei età del periodo precristiano. Le prime
tre, dimoranti all'oriente del Giordano, rappresentano il sorgere del
genere umano, le generazioni che si succedono da Adamo sino a Mosè,
sino cioè allo stabilimento della legge; le altre tribù, che restano
al di qua del Giordano, rappresentano le generazioni succedute a Mosè
sino a Cristo, cioè il periodo _post legem_. Dei figli d'Israele
Ruben perdette ogni diritto di preferenza per aver contaminato il
talamo di suo padre (_Gen._, 49, 4), ed a Giuda invece s'inchineranno
i suoi fratelli, e dalla sua tribù non sarà rimosso lo scettro (Ivi,
8, 9); così le generazioni posteriori allo stabilimento della legge,
furono più accette a Dio delle precedenti, che spesso l'obbliarono; e
parimenti la Chiesa di Roma andò innanzi alle altre che la precorsero,
e meglio di loro serbò il tesoro della tradizione. Queste coincidenze
meravigliose ci tolgono ogni dubbio che le cinque Chiese rappresentano
le cinque o meglio le sei tribù, e per esse le sei età che precedono
Cristo. Le rimanenti sette Chiese o sette tribù debbono dunque
rappresentare le età che lo seguono, vale a dire il lungo periodo che
da Cristo arriva sino ai giorni di Gioacchino. Quest'ultimo periodo
poi si suddivide in sette, e non in sei o cinque, per due ragioni
evidentissime: la prima che a tal modo si compie il sacro numero
dodici, la seconda perchè prima di Cristo erano ben pochi i fedeli ed
appartenenti ad una sola nazione, dopo Cristo son molti e di tutte le
nazioni, e ad una turba così numerosa Giovanni ha da volgere la parola
per aprirle il segreto dell'avvenire.[589]

Dopo questa interpetrazione non farà meraviglia che in quei pochi
luoghi dove Giovanni spiega da sè medesimo il senso delle sue
allegorie, il nostro autore non gli creda, e l'interpetre stesso e la
spiegazione addotta intenda come una nuova allegoria. Ormai si monta
di nube in nube, e la terra sempre più sfugge allo sguardo. Così
quando in fine del primo capitolo si legge che le sette stelle son
gli Angeli delle sette Chiese, e i candelieri d'oro le Chiese stesse
(_Ap._, I, 20), non dobbiamo intendere tutto questo alla lettera, a
quel modo che non bisogna intendere alla lettera la spiegazione, che
Giuseppe recò del sogno di Faraone. Perchè Giuseppe che spiega i sogni
e distribuisce le vettovaglie è il simbolo dell'ordine contemplativo,
che svela gli arcani e distribuisce le grazie spirituali. Ed i sette
anni grassi rappresentano le età del Vecchio Testamento, nelle quali
si fece incetta del grano delle sacre parole, e gli anni magri si
riferiscono all'età nostra povera di nuove rivelazioni, ma studiosa
interpetre delle antiche. Non dimandiamo come si dicano magri i tempi
del Cristianesimo in paragone, per giunta, non dell'avvenire, ma del
passato giudaico; sarebbe ingiusto richiedere esattezza e coerenza in
tanta mobilità d'interpetrazioni. Notiamo solo che per le sette stelle
ed i sette candelabri non si debbono intendere, come parrebbe, le
sette partizioni dell'èra cristiana, bensì i sette doni dello Spirito
Santo. Infatti, dice Gioacchino, le stelle poste alla destra di Gesù,
raffigurano qualche cosa di cui si riconosca l'eccellenza su Gesù
medesimo. E certamente lo Spirito si vantaggia sul Verbo di quanto
la pienezza e gioja dell'amore sovrasta sulle angustie della scienza;
talchè non lo _Spirito_ ma il _Verbo_ s'incarna ed assume le sembianze
del servo, e del servo porta le fatiche e le stanchezze; alla libertà
dello _Spirito_ invece perfino l'apparenza del servaggio ripugna.
Questo significato delle sette stelle ha tanto valore che si estende
alle Chiese, contraddicendo alla spiegazione precedente. Secondo questa
nuova interpetrazione cinque delle dodici Chiese s'hanno a riferire
non più al padre, bensì al figliuolo, del quale rappresentano le
cinque opere principali: la nascita, la passione, la risurrezione,
l'ascensione e l'invio del Paracleto; le altre sette naturalmente
anzichè il figliuolo rappresentano lo Spirito ovvero i suoi sette
doni.[590]

In un altro luogo le sette stelle non rappresentano più i sette doni
dello Spirito, ma sette grandi uomini, rappresentanti sette periodi.
Adamo, la cui lunga vita lo accomuna con Saturno; Noè che per la sua
temperanza si assomiglia a Venere; Abramo padre dei fedeli parallelo
a Giove che dai Gentili fu detto padre degli uomini e degli Dei;
Moisè sapiente come Mercurio; David valoroso più di Marte; finalmente
Giovanni ed Elia raffigurati nell'umida luna e nell'infocato sole.[591]
Si ritorna così all'antica interpetrazione delle sette Chiese, colle
quali possono andare benissimo paragonati i sette uomini, perchè
l'angelo di Efeso ha di comune con David la prerogativa del governo,
l'angiolo di Smirne pareggia Giovanni nella sofferenza, e così di
seguito.

Codesti grandi uomini sarebbero i patriarchi di sette ordini,
quello dei coniugati, dei laici continenti, degli apostoli, dei
martiri, dei dottori, delle vergini, dei conventuali, sebbene una
esatta corrispondenza tra gli uni e gli altri nè Gioacchino l'ha
mai dimostrata, nè forse sarebbe agevole a scoprire.[592] Comunque
sia, se per le sette stelle o candelabri o Chiese s'ha da intendere
codesti sette ordini, par che in esse vada effigiata la storia non
del solo periodo cristiano, ma di tutti i tempi; perchè l'ordine dei
conjugati e laici continenti rappresenterebbe l'èra precristiana;
quello degli apostoli, martiri e dottori la cristiana; e infine le
vergini ed i conventuali accennerebbero alla età nuova, già cominciata
con S. Benedetto. E con siffatta interpetrazione andrebbe in parte
d'accordo l'altra dei sette occhi dell'Agnello (_Apoc._, V, 6),
ciascuno dei quali rappresenterebbe il dono conferito dallo Spirito
a ciascun ordine, la fortezza dei prelati, l'intelletto dei dottori
e simiglianti.[593] Ma in quest'ultimo passo già comincia a mutare
l'interpetrazione, perchè i sette ordini non sono quelli di prima,
e si parla ora di prelati e di diaconi, e gli ordini par che tutti
appartengano all'èra cristiana.

In questo senso certo vanno interpetrati i sette suggelli del famoso
libro scritto dentro e di fuori, perchè codesto libro non è se non
il Nuovo Testamento e le successive rotture dei suggelli vogliono
dire altrettante fasi nello svolgimento dei tempi cristiani. Così
alla rottura del primo suggello l'Evangelista vede un cavallo bianco,
montato da un cavaliere dall'arco, che ebbe una corona e fu dichiarato
vincitore (_Ap._, VI, 1). Questo cavallo bianco è la Chiesa primitiva,
ed il cavaliere è Cristo medesimo. In altre parole abbiamo la
rappresentazione allegorica del primo periodo della Chiesa, governata
dagli Apostoli, e candida della sua purità. Alla rottura del secondo
suggello esce fuori un cavallo sauro, montato da un cavaliere, cui
fu dato di togliere la pace della terra. Questo cavallo sauro sono
i sacerdoti pagani, che combattono spietatamente la nuova Chiesa.
Siamo già nel secondo periodo, quello dei martiri. Un cavallo negro
esce fuori alla rottura del terzo suggello, ed il cavaliere che lo
monta ha una bilancia in mano (_Apoc._, VI, 5). Questo cavallo morello
secondo Gioacchino è il clero ariano, ed il cavaliere, Ario stesso, che
tenendosi strettamente alla lettera sotto l'apparenza di una esatta e
ben pesata interpetrazione uccide lo spirito della nuova dottrina. Ecco
il terzo periodo dei contrasti dommatici, il terzo ordine, i dottori.
Rotto il quarto suggello, sopra un pallido cavallo si mostra un
cavaliere per nome la Morte. Questo cavallo che ha il colore dell'odio
e del livore, vuol significare l'empia genìa dei musulmani che
disertarono moltissime Chiese dei Greci, ed occupano anch'oggi grande
estensione della terra. Questa quarta calamità ha la sua rispondenza
nella cattività di Babilonia. All'apertura del quinto suggello
l'Evangelista non vede più cavalli, ma le anime degli uccisi per la
parola di Dio, che di sotto all'altare gridano con gran voce: Infino
a quando, o Signore, non vendichi il nostro sangue? Qui è chiaramente
annunziata secondo Gioacchino una quinta persecuzione, e come la prima
ebbe luogo nella Giudea, la seconda in Roma, la terza in Grecia, la
quarta in Arabia, così la quinta è scoppiata nella Mauritania e nella
Spagna, ove un gran numero dei cristiani superstiti alle precedenti
persecuzioni, vennero uccisi. A queste anime vien detto, che riposino
ancora un poco di tempo finchè sia compiuto il numero dei fratelli
che han da essere uccisi, perchè dopo questa quinta persecuzione, che
ha luogo oggi, succederà una sesta. Gioacchino dunque crede che l'età
sua sia l'estrema del quinto periodo.[594] All'apertura del sesto
suggello si udì un gran tremuoto, ed il sole si fe' nero come un sacco
e la luna rossa come sangue, e le stelle del cielo caddero in terra,
ed i re della terra e i grandi e i capitani e i ricchi e i possenti e
ogni servo e ogni libero si nascosero nelle spelonche e nelle rocce
(_Ap._, VI, 12 e segg.). Questo evidentemente è l'ultimo giorno,
che in un senso stretto s'ha da riferire al giudizio universale,
avente luogo al termine della storia umana; ma nel senso largo si
può intendere per la fine di ciascun periodo,[595] ed in quest'ultimo
significato l'intende Gioacchino. Alla quinta persecuzione, che accadde
ai giorni suoi, ei prevede abbia a seguirne una più dura ancora; nè
s'illude che i mali dell'età sua sieno per cessare; anzi nell'ultima
età del secondo periodo, ovvero nel sesto tempo (sesto suggello),
si aggraveranno, e se i miscredenti e una parte di fedeli morrà per
la propria fede, un'altra, forse la maggiore, sarà per perderla. E
l'ordine monastico medesimo, del quale erano così evidenti i segni
di corruzione, volgerà all'estrema ruina, il che è come a dire che il
sole si oscurerà.[596] Non occorre dire del clero secolare, al quale
si può applicare l'imagine della luna fatta color di sangue, perchè in
lui non è più niente di spirituale e celeste.[597] Finalmente rotto il
settimo suggello, si fece silenzio nel cielo lo spazio di una mezz'ora
(_Apoc._, VIII, 1). Il che vuol dire che alle guerre e calamità
succederà il riposo, al secondo periodo così tormentato principalmente
negli ultimi suoi giorni, terrà dietro l'età nuova, nella quale regnerà
il silenzio della vita contemplativa.[598]

Da ora in avanti non si muta più l'interpetrazione. I sette angeli, a
cui furon date sette trombe, rappresentano le sette età del mondo, sei
nelle quali si esaurisce il secondo periodo, ed una in cui si riassume
il terzo. È inutile entrare nei particolari, ed il lettore può colla
scorta delle interpetrazioni precedenti indovinare le altre. La stella,
ad esempio, ardente come un torchio, che al suono della terza tromba
cade nelle acque, convertendo la terza parte di esse in assenzio,
è senza dubbio Ario, per onestà dei costumi uno dei sacerdoti più
specchiati, il quale caduto nell'eresia trae seco innumerevole turba di
vescovi e di preti. Un'altra stella cade al suono della quinta tromba,
in quella che l'angelo apre il pozzo dell'abisso, onde sale un fumo
così denso da ottenebrare l'aria, e vengono fuori locuste, cui fu dato
il potere degli scorpioni della terra. La nuova stella dev'essere un
altro eresiarca non dissimile da Ario, prete e letterato come lui. Di
costui Gioacchino non sa dire il nome, ma accenna vagamente ai filosofi
del suo tempo, che al pari di Abelardo vogliono tutto comprender colla
ragione.[599] Le locuste sono i Patarini, che al tempo di Gioacchino
s'erano moltiplicati a segno, che pochi anni dopo, Innocenzo ebbe a
bandire una crociata contro. Questi eretici sono il vero Anticristo,
come previde chiaramente Giovanni, che in una sua lettera (1 JOH.,
2, 22) dice chiaramente: chi nega che Cristo sia venuto in carne è
lo stesso Anticristo. (Evidentemente qui lo scrittore della lettera
parla del docetismo a lui contemporaneo, che poi venne accolto nel
Catarismo). E se tutti questi eretici meritano il nome di Anticristo,
a maggior ragione l'avrà il loro re che secondo l'_Apocalisse_ si dirà
Abadon (_Ap._, X, 11) ed in greco Apollion, distruggitore (!) E stante
che gli eretici patarini erano cresciuti d'audacia e di numero al tempo
di Gioacchino, ei non dubita che anche quei, che si metterà alla loro
testa, sia già nato, sebbene non sia ancora scoccata l'ora della sua
rivelazione, perchè si manifesterà soltanto nell'età seguente, o sesta
ed ultima dell'evo cristiano.[600] Questa età, come già sappiamo,
è la prossima futura, e Gioacchino la crede già cominciata al suo
tempo, sebbene non fosse[601] chiusa ancora l'età precedente. In essa
seguiteranno gli eretici con maggior vigore, stantechè ai patarini
si uniranno i saraceni, come tentarono di fare nel 1195 secondo le
notizie che Gioacchino raccolse da un tale tornato da Alessandria
in Messina. Questi novi eretici nati dalla fusione dei precedenti
sono rappresentati dai cavalli dell'_Apocalisse_ a testa di leone, e
dalla cui bocca escono fuoco e fumo e zolfo, e sul cui dorso montano
cavalieri dagli usberghi di foco (_Ap._, IX, 17). Contro essi non varrà
più resistenza alcuna, come pur troppo, aggiunge Gioacchino, già si
cominciò a sapere per esperienza or non è molto, quando gli eserciti di
Federico primo furono disfatti dagli infedeli.[602]

A questa età sesta succede, come già sappiamo, la settima, durante la
quale secondo l'espressione dell'_Apocalisse_ (X, 7) si compirà il
segreto di Dio, ovvero si chiuderà la storia dell'uomo, a quel modo
che il settimo giorno chiude la settimana. In questo nuovo periodo
all'intelligenza letterale succederà la spirituale, il che vien
rappresentato nell'iride che circonda il settimo angelo, e che nel
linguaggio simbolico di Gioacchino vuol dire o lo stesso Spirito Santo,
o l'intelletto ripieno dello spirito. E per ciò nell'_Apocalisse_ (X,
2) è detto che l'Angelo pone il suo piè destro sul mare ed il sinistro
sulla terra, perchè in questa è rappresentata la lettera del Vecchio
Testamento, ed in quello la lettera del Nuovo, che vengono entrambe
superate dall'interpetrazione allegorica, la quale sta all'intelligenza
letterale come il fuoco all'aria e all'acqua.[603]

Anche nel _Commento_ all'_Apocalisse_ come nella _Concordia_
Gioacchino pone nel 1260 il termine del secondo periodo, e il
cominciamento del terzo. Questa data vien suggerita da moltissimi
luoghi. Nell'_Apocalisse_ X, 2 si legge che i gentili calpesteranno
la santa città quarantadue mesi o meglio mille duecento sessanta
giorni, calcolato il mese a trenta giorni in media. E per 1260 giorni
è data facoltà nel paragrafo seguente ai profeti di profetare. Inoltre
la donna intorniata dal sole, di sotto a' cui piedi era la luna, e
sopra la cui testa una corona di dodici stelle, dopo aver partorito
il figliuol maschio, che ha da reggere le nazioni, fugge nel deserto
perchè sia quivi nudrita mille ducento sessanta giorni. (_Apoc._, XII,
6). Alla bestia dalle dieci corna e dalle sette teste fu data potestà
di durare quarantadue mesi, che secondo Gioacchino valgono 1260 giorni
(_Apoc._, XIII, 5). Queste coincidenze non sono a caso, si spiegano
tutte mirabilmente, se intende che i quarantadue mesi non sono se non
le quarantadue generazioni del secondo periodo, che calcolate a trenta
anni l'una, importano, come già sappiamo, il corso di 1260 anni.[604]

Dopo tutto quello che abbiamo detto e del corso del tempo, e delle
calamità che sovrastano alla Chiesa, non sono difficili ad interpetrare
le altre allegorie dell'_Apocalisse_. La donna vestita di sole in
generale rappresenta la Chiesa, ma in particolar modo la vergine
madre, che è come la rappresentante dell'ordine degli eremiti. Le
dodici stelle sappiamo ormai che rappresentano le dodici virtù, cinque
minori e sette maggiori. Il sole è lo spirito divino che la riscalda,
la luna che ha sotto i piedi è la concupiscenza carnale o la gloria
del mondo. Ma a quel modo che la donna vestita di sole, oltre al
rappresentare l'ordine verginale, simboleggia ancora la Chiesa in
generale, che dura da Cristo fino ai nostri giorni; così il drago che
le s'oppone rappresenta in un simbolo solo tutti i suoi persecutori,
nei periodi successivi della storia. E così accade che ha sette teste
corrispondenti alle sette età che noi ben conosciamo, e dieci corna che
rappresentano dieci re. La stessa interpetrazione devesi dare della
bestia, che sale dal mare (_Ap._, XII, 1) anch'essa fornita di sette
teste e dieci corna. Essa riassume in uno i caratteri delle quattro
bestie di Daniele (VII, 3), essendo simigliante ad un pardo, coi piedi
d'orso e la bocca di leone e dal drago riceve il suo potere. (_Apoc._,
XIII, 2). Questa bestia dunque personifica in sè i diversi nemici della
Chiesa di Cristo, prima fra tutti la sinagoga degli Ebrei, poi quella
dei pagani, quindi la terza degli ariani, e poi l'ultima dei saraceni:
peccato che il testo di Daniele non gli permetta di aggiungere per
quinta la sinagoga dei patarini.[605]

Ma ci sarà posto anche per questa, perchè fortunatamente
nell'_Apocalisse_ oltre alla prima si legge di una seconda bestia,
che sale non dal mare ma dalla terra, e in luogo di dieci ha due soli
corni simili all'agnello. E fa gran segni, e persuade gli uomini ad
adorare la prima bestia, che un tempo fu ferita mortalmente in una
delle sue teste, ma ora del tutto è risanata. L'allegoria è trasparente
secondo Gioacchino. Questa seconda bestia sono appunto i Patarini,
che si danno per i veri cristiani e non sono, e stringono, come già
dicemmo, alleanza coi saraceni, i quali un tempo quando al grido di
Urbano si riunì la prima crociata (qui sbaglia la data e in luogo
del 1079 mette il 1015) furono sconfitti; ma poi si rifecero delle
perdite patite, e disfarli oggi torna ben difficile, nè sarà possibile
neanche nell'avvenire se non forse colle armi della parola.[606] È
chiara la simiglianza di questa nuova bestia col piccolo corno di
Daniele (DAN., VII, 8), che ha occhi simiglianti a quelli d'uomo e
bocca che profferisce cose grandi. Le due Apocalissi di Daniele e
Giovanni si chiariscono a vicenda. Secondo Giovanni, la nuova bestia
seduce gli abitanti della terra, e fatta fare una imagine dell'antica
bestia, le infonde uno spirito che parli, e così piega tutti gli uomini
all'adorazione del mostro, e quelli che vi si rifiutano li uccide. E
tutti debbono portare sulla mano o sulla fronte il nome della bestia
o il numero del suo nome. Questa imagine della bestia, che parla per
bocca dei falsi profeti, è senza dubbio quel re undecimo di Daniele,
che (VII, 24) succederà agli altri dieci raffigurati nelle dieci
corna, e proferirà parole contro l'Altissimo, e penserà di mutare i
tempi e la legge. Codesto re sarà senza dubbio dei Saraceni, ed avrà
ai suoi fianchi qualche gran prelato patarino simile a Simon Mago, e
rappresentante l'Anticristo di cui parla Paolo. E l'uno e l'altro sono
rappresentati nell'_Apocalisse_ da un numero 666, perchè 600 vuol dire
le sei età del mondo, 60 la parte che appartiene alla sesta età, 6 il
sesto tempo di quest'età.[607]

Concorde con siffatte interpetrazioni è l'altra della gran meretrice
(_Apoc._, XVII), con la quale han trescato li re della terra, e del
vino della cui fornicazione sono stati inebbriati gli abitanti della
terra. Che non s'abbia da intendere in un senso diverso dalla bestia
che viene dal mare, lo dicono e il sedere sull'acque della meretrice,
e l'avere ella parimenti sette teste e dieci corna. I padri cattolici
sogliono intendere Roma, in quanto rappresenta non la Chiesa, bensì
la moltitudine dei reprobi, la quale non si raccoglie in un luogo, ma
è sparsa per tutte le latitudini della terra. Ed i re coi quali ella
fornica s'intendono i prelati, cui è commesso il governo delle anime,
e che talvolta per compiacere agli uomini, trascurano il dover loro.
Le sette teste sono i regni che furono molesti alla Chiesa nel corso
del tempo; Erode, Nerone, Constanzo ariano, Maometto o Cosroe re dei
Persiani sono i primi quattro capi. Il quinto è chi cominciò a dar
travaglio alla Chiesa nelle lotte delle investiture (Enrico IV). Il
sesto è il re undecimo di cui parla Daniele. Il settimo capo della
bestia è quello dannato alla morte, spento il quale risplenderà la
pace.[608] Le dieci corna, ovvero i dieci re debbono intendersi forse
di altrettanti sovrani che van compresi tutti nel sesto re, poniamo ad
esempio i successori di quel famoso Saladino, re dei turchi, dal quale
non ha guari fu presa la città santa.[609]


V

Tutte quante le interpetrazioni e della _Concordia_ e del _Commento
all'Apocalisse_ concordano nel disegno di dividere la storia
dell'umanità in sette età. Le prime sei ora rappresentano le epoche
ebraica e cristiana insieme, ora la sola cristiana; la settima sta da
sè e sarà forse la più breve e di poco lontana dalla fine del mondo. Ma
non perchè le due epoche precedenti alla settima si possano suddividere
ciascuna in tre parti, non per questo s'ha da dire che non abbiano un
carattere unico anch'esse. Noi già sappiamo come la pensi Gioacchino,
il quale crede che nella prima epoca abbia regnato il Padre, nella
seconda il Figlio, e nella terza sarà per regnare lo Spirito. La storia
dell'umanità dunque facendo astrazione dalle più minute suddivisioni
in tre grandi periodi si può partire. Il primo in cui si vive sotto il
rigore della legge, il secondo sotto il favore della grazia, il terzo
nella pienezza della grazia medesima. Nel primo ha luogo la servitù
servile, nel secondo la filiale, nel terzo la libertà. Nel primo si
vive in timore, nel secondo si riposa nella fede, nel terzo s'arde di
carità. Il primo periodo appartiene ai vecchi, il secondo ai giovani,
il terzo ai fanciulli. Il primo ai servi, il secondo ai liberi,
il terzo agli amici. Nel primo rilucevano le stelle, nel secondo
biancheggia l'aurora, nel terzo è giorno pieno. Nel primo domina
l'inverno, nel secondo la primavera, nel terzo l'estate. Il primo
produsse le ortiche, il secondo le rose, il terzo i gigli. Il primo
l'erbe, il secondo le spighe, il terzo il grano.[610] Questi paragoni
spargono alquanta luce sugl'intendimenti dell'autore, secondo il quale
i tre stati in cui si divide la storia dell'umanità dalla creazione al
giudizio finale, hanno un corso continuo; sicchè l'uno nasce dall'altro
come da fiore frutto. Nè solo continuo, ma progressivo, dal meno al più
perfetto, dal timore all'amore, dalla servitù alla libertà.

Ed agli stati corrispondono gli ordini, che ora sono sette, ora cinque,
il più delle volte si riducono a tre, il coniugato, il clericale, il
monastico. L'ordine dei coniugati ebbe principio in Adamo e cominciò a
fruttificare in Abramo, ed ebbe la missione di crescere e moltiplicare.
L'ordine dei sacerdoti prese principio da Uzzia, che offrì sebbene non
impunemente l'incenso al signore, e fruttificò con Cristo, che è il
vero re e sacerdote. L'ordine dei monaci ebbe principio da S. Benedetto
e avrebbe cominciato a gettar frutti ai tempi di Gioacchino.[611] Di
questi tre ordini il primo vien paragonato agli animali terrestri che
non guardano al di là della terra su cui vivono; ai pesci il secondo,
perchè la vita dei santi sacerdoti passa nello studio della scrittura,
come quella dei pesci nell'acqua; finalmente agli uccelli il terzo
perchè i monaci nella mistica contemplazione si movono liberamente
come in aere più salubre. L'ordine dei conjugati in un altro luogo
porta l'imagine del padre, perchè non è stato istituito da Dio se
non a procrear figliuoli; l'ordine dei sacerdoti è fatto ad imagine
del Figlio, verbo del Padre, perchè fu posto appunto per parlare ed
insegnare al popolo la via del Signore; l'ordine dei monaci porta
infine l'imagine dello Spirito Santo, che è l'amor di Dio, perchè non
si può avere in dispregio il mondo e le sue cose se non si è infiammati
dell'amor divino, e portati da quello stesso spirito che menò Gesù nel
deserto.[612]

Da questi passi ben si raccoglie che cosa voglia intendere Gioacchino.
Ei concentra tutta la storia dell'umanità in quella dell'ordine
sacerdotale. E nel primo periodo trova leviti che di poco si
distinguono dagli altri uomini, e attendono come loro a procrear figli,
e della propria famiglia e dei beni terreni sono solleciti. Nel secondo
periodo fu vietato menar moglie a quelli che si consacrano al divino
ministero, sebbene talvolta per eccezione si conceda. Ma i sacerdoti
vivendo tuttora in contatto colla società prendono parte alle passioni
e cupidigie mondane. E più si mescolano coi laici e più si corrompono
allontanandosi dall'esempio di Cristo. Chi voglia serbarsi puro bisogna
che rompa questo contatto e si raccolga come S. Benedetto nel silenzio
del cenobio. Così è già cominciato il terzo periodo, in cui i ministri
del Signore vengono sottoposti ad una più severa disciplina, nè altra
cura hanno all'infuori del cielo, e spente le passioni del secolo,
spendono la loro vita nella preghiera e nella contemplazione.

Il primo concetto di Gioacchino è questo senza dubbio, una storia del
sacerdozio che cominciato dai leviti, proseguito nel clero secolare,
si compia nell'ordine benedettino, riformato secondo una regola più
rigorosa. Se non che codesta angusta filosofia della storia, fatta in
servigio di un ordine monastico, gli s'allarga tra le mani. E come nel
primo periodo l'ordine dei coniugati non rappresenta solo i leviti,
ma tutti quelli che vivevano sotto la legge della circoncisione, così
l'ordine dei sacerdoti deve abbracciare tutti quelli che vivono sotto
la legge del Cristo, e l'ordine dei monaci tutti coloro, cui scalda
lo stesso amore delle cose celesti e l'odio delle mondane. La storia
dell'ordine sacerdotale diventa per tal guisa la storia dell'umanità,
e le opposizioni tra preti e frati acquistano una importanza fuor di
misura, e diventano il segno di quella lotta che sarà sempre combattuta
fra il passato e l'avvenire.

Per ciò che riguarda i due primi periodi dell'umanità il contrasto
secondo Gioacchino è evidente, come è evidente la profonda differenza
dei due Testamenti. Differiscono, già dicemmo, le nascite, le vite,
le guerre, le vittorie; perchè gli Ebrei nacquero dalla carne, i
Cristiani dall'acqua (battesimo) e dallo spirito. Quelli poteano
far divorzio dalle loro mogli, questi la debbono tenere presso di sè
secondo l'esempio di Cristo, che è sempre lo sposo della sua Chiesa;
quelli combatterono per i possessi terreni, questi non tanto per la
terra, quanto per la libertà della Chiesa. Ma se tanta è la differenza
tra il primo ed il secondo periodo, non deve correrne altrettanta tra
il secondo ed il terzo? Nel secondo periodo fu abolita la legge che
dominava il vecchio mondo, fu proscritta la circoncisione, furono
abolite le vittime di animali, ed al rigore e severità della legge
mosaica sottentrò la mitezza del cristianesimo. Pari innovazione dovrà
succedere rispetto al cristianesimo, ed a quel modo che il fuoco di
Elia consumò la catasta del sagrifizio e ne lambì l'acqua, così sarà
mutato l'evangelo, perchè quando sorge ciò che è perfetto, è necessario
che l'imperfetto tramonti.[613]

Ma che mai sarà codesto stato nuovo? Quali leggi cadranno, e quali
piglieranno il posto delle prime? Come sarà composta la società?
ammettiamo per ipotesi che il clero secolare scomparisca, e le funzioni
attribuite ai vescovi e parroci sieno indi innanzi esercitate dagli
abati e dai conventuali, cesserà forse puranche la divisione tra laici
e sacerdoti, e la società diverrà forse un vasto cenobio? E se diventa
un cenobio come farà a perpetuarsi? La generazione più saggia, più
casta, e più devota sarà forse l'ultima per l'umanità, e dopo questo
idillio di pace sarà troncata la storia dell'uomo, ed avrà luogo il
giudizio finale e la resurrezione della carne? Il genio profetico
intorno a questa dimanda si sarebbe travagliato, ed una pittura fresca
e viva di questa nuova società ci avrebbe data a preferenza. Ma il
nostro autore non s'estende tant'oltre, e la rappresentazione del
terzo periodo dobbiamo comporla noi stessi raccogliendo qua e là sparsi
accenni; ma ben ci guarderemo dal dare ai pensieri dell'autore maggiore
determinatezza o rilievo che non abbiano.

Il primo carattere di questa nuova epoca è questo, che non ci saranno
più misteri, i veli che coprivano l'esatta intelligenza dell'antica
e nuova lettera saranno squarciati, e sarà dato cogliere la verità
attraverso le molteplici allegorie.[614] Come cessò l'osservanza
dell'agnello pasquale allora che fu cominciata quella del corpo
di Cristo, così, nello schiarimento dello Spirito Santo cesserà
l'ammirazione della figura.[615] Ma se gli uomini vedranno la verità
faccia a faccia, non s'ha da credere pertanto che Gioacchino descriva
l'età futura come il secolo del razionalismo, nel quale la scienza
riporterà grandi vittorie sulla fede. Egli ha scarsa fiducia nella
scienza. Ingegno mistico e vaporoso, abborre la precisione e l'aridità
del ragionamento. La verità secondo lui resta nascosta ai prudenti e
sapienti, e si svela soltanto ai fanciulli, per confondere la vanità
della superstizione filosofica. L'argomentazione dialettica non vale
quindi se non a chiudere ciò che prima era aperto, o rendere oscuro
quello che prima era chiaro. E da essa nascono questioni e contrasti
di parole, ed invidie e contese e bestemmie e corruzioni. La fede,
come ha dimostrato l'abate di Chiaravalle, è al di sopra dei cavilli
della ragione. La scienza non edifica, ma distrugge talvolta, come
attestano quegli scribi, che gonfiati di vanità ed arroganza a forza di
ragionamenti caddero nell'eresia.[616]

La conoscenza della verità per lui, come per tutti i mistici dei vecchi
e nuovi tempi, è la visione intuitiva, alla quale si arriva non per
via dell'intelletto, ma del sentimento, non col raziocinio, ma colla
preghiera. Epperò il fondatore dell'ordine cenobitico impose l'obbligo
di frequenti cori. Tra i suoni che salgono e si ripercotono per le
volte del tempio, e i profumi degl'incensi, e le misteriose penombre,
l'anima sente e vede ciò di che non può render conto nè a sè stessa nè
agli altri. E codesta mistica visione, che ora è privilegio di pochi,
forse allora sarà comune a tutti, perchè alle distrazioni della vita
attiva succederà il silenzio ed il raccoglimento della contemplativa,
a Lia sottentrerà Rachele. In questi pensieri ben si scopre il
mistico cenobita non dissimile, come bene avverte il Rousselot, dai
Vittorini.[617]

Ma i mistici del secolo decimosecondo non sono meno arditi dei loro
avversarii razionalisti, ed in nome del sentimento reclamano la stessa
libertà d'interpetrazione, che gli altri chiedevano in nome della
ragione. E già sappiamo come Gioacchino spinga troppo oltre i diritti
dell'interpetre, e nessuna violenza risparmii alla lettera della
Bibbia per salvarne lo spirito. Rimosso l'ostacolo dell'intelligenza
letterale, l'interpetrazione allegorica non ha più freno che la moderi.
In quest'assoluta indipendenza della mente divinatrice sta la _libertà_
che Gioacchino attribuisce ai nuovi tempi. Cristo sottrasse il mondo
ai rigori dell'antica lettera, lo spirito ci deve liberare dai rigori
della nuova. Questo cammino dalla servitù alla libertà si riscontra
anche nei tre ordini. Il primo passò sotto il giogo dei precetti
legali; il secondo fu sottoposto ai travagli della passione; il terzo
è destinato alla libertà della contemplazione secondo il testo: _Ubi
spiritus, ibi libertas_.[618] Questo è un altro carattere dei tempi
nuovi.

Non è a dire che nel periodo cristiano sia mancata la libertà; c'è
stata di certo, ma una libertà relativa, chè alle catene dell'antica
legge vennero sostituiti più miti legami. Solo nei nuovi tempi sarà
data un'assoluta libertà, e il vincolo che stringerà gli uomini e
Dio non sarà il timore nè in larga nè in istretta misura, ma l'amore.
L'amore governerà gli uomini, ecco un altro segno del terzo periodo.
Gioacchino non nasconde nessuna delle calamità del tempo suo, e gli
odii che dividevano gli uomini, e le sanguinose guerre, che laceravano
in allora la Chiesa, ben prevede che non saranno per cessare; anzi
pria che il secondo periodo volga al suo termine raddoppieranno
d'intensità. Ma per quanto più gravi sono i mali, altrettanto più vivo
è il desiderio della loro fine, ed il vivo desiderio il più delle volte
fa tramutare la speranza in certezza. Anche ai nostri giorni in cui un
grande statista non dubitò di ripetere: _la force prime le droit_, e le
guerre se non più lunghe sono certo più sanguinose e rovinose di prima,
ai nostri giorni appunto si fa un gran parlare della lega della pace
e degli arbitrati internazionali. Qual meraviglia che in pieno secolo
decimosecondo, Gioacchino non vegga nelle calamità e nei tumulti del
tempo suo se non un avviamento ad un migliore assetto della società?
Egli forse credeva che nelle terribili lotte, che travagliavano
l'ultima parte del secondo periodo, i violenti si sarebbero distrutti
gli uni cogli altri. E dal nuovo diluvio non sarebbero scampati se non
gli animi miti e generosi, che più di sè amano gli altri, ed in ognuno
che soffra e preghi veggono un fratello, e con esso si confondono
nell'amore di chi a tutti è padre.[619] È un sogno forse che verrà
giorno in cui le passioni violente faranno luogo agli affetti più miti,
ma un sogno che riposa e ristora, e soventi l'umanità l'ha sognato, ed
è probabile che seguiti a sognarlo ancora altre volte.

Questa nova età di pace e di amore Gioacchino la presente vicina,
perchè fra non molto l'uomo sarà del tutto purificato, e svellerà dal
suo cuore gli affetti egoistici; nè vi sarà più lotta pel mio e pel
tuo, e dei beni mondani tutti faranno quel conto che meritano, nè
sarà pregiata la ricchezza, come nei periodi precedenti, ma invece
la povertà.[620] Non era certo una cosa nova questa della povertà.
Il Vangelo, come è noto, fulmina contro i ricchi quelle terribili
parole: _È più facile che un cammello entri nella cruna d'un ago, che
un ricco nel regno dei cieli_. Ma altro è parlar di morte, altro il
morire; e durante tutto il periodo cristiano non solo i laici, ma i
preti, e non pure i preti ma i frati si sono mostrati non meno avidi
dei loro predecessori. E di tutte le guerre medievali, a cominciare
dalle grandiose tra Chiesa e Impero alle minutissime tra una casa di
frati e un'altra, non piccola parte delle loro ragioni la ripeteano
dal tornaconto offeso. E pure quanto più crescea l'avidità delle
ricchezze, altrettanto pel solito contrasto si facea più calda ed
insistente la predicazione della povertà. Nella riforma, che Gioacchino
fa dell'ordine suo, non entra l'obbligo della povertà; ma secondo
lui quello che non poteva farsi al tempo suo, facente parte ancora
del secondo periodo, sarebbe accaduto di certo nell'avvenire.[621]
Quest'obbligo della povertà sarà imposto ai soli conventuali o
agli uomini tutti? Nè Gioacchino, nè i seguaci suoi par che abbiano
inteso parlare se non dei monaci soli; ma certo non è escluso che la
società tutta diventi un vasto cenobio. Anzi sarebbe necessario che
divenisse, perchè il terzo periodo è tenuto per un'età di perfezione,
e la perfezione non può ottenersi se non in una vita cenobitica, in
cui fossero abolite le classi, gli onori e le supremazie sociali.
Tutti sarebbero pari allora non nelle ricchezze, che nessuno pensa
ad accumulare, bensì nella povertà, e cesserebbero per tal guisa
le invidie e le gelosie. Curioso modo di risolvere il problema del
pauperismo, se mai fosse surto al tempo di Gioacchino!

Per compiere il ritratto del tempo futuro ci resta un sol tratto, la
castità. Certo a quel modo che nel lontano avvenire saranno spente le
cupidigie e le ambizioni, così anche gli appetiti sensuali, ed un'altra
fra le molte ragioni delle discordie tra gli uomini sarà eliminata.
Non v'ha dubbio che dovrà succedere codesto nel terzo periodo.
Gli uomini, da carnali che erano nei periodi anteriori non saranno
divenuti spirituali? E la castità non è uno dei doni più spiccati
dello Spirito santo? Chi è tutto penetrato dell'amore del cielo
può far posto ad amori terreni?[622] Anche qui si nota un progresso
notevole dall'Ebraismo a' nostri giorni. Secondo il Vecchio Testamento
aveano tutti diritto di tor moglie non solo, ma più mogli financo. Nel
Cristianesimo si proibisce la poligamia, il matrimonio si permette
ai laici, ma si vieta ai preti, facendo talvolta qualche eccezione;
ai monaci poi è negato risolutamente. La riforma infine ed il
miglioramento dei secoli avvenire starà nel rinforzare la disciplina,
rendere più rigorosa la castità. Ma anche qui si può chiedere se questo
divieto assoluto del matrimonio riguardi i preti e i frati soltanto, o
tutti gli uomini. E la risposta sarebbe più imbarazzante ancora; perchè
se nel terzo periodo gli uomini fossero divenuti così spirituali da non
pensare a perpetuarsi, la generazione posteriore a Gioacchino sarebbe
stata l'ultima della specie. Ma guardiamoci dal dare ai concetti di
Gioacchino maggiore determinatezza di quel che comportino. L'avvenire
si mostra a lui sotto un colore fortemente ascetico, nè altra immagine
gli soccorre a raffigurarlo fuori del cenobio. Ma più di questo non gli
chiedete, che per quanto lo dicano profeta, il futuro non è meno per
lui che per gli altri uomini ricoperto di nebbia densissima.


VI

Qual'è l'origine della dottrina che più tardi fu detta gioachimita
o gioachita? Il Renan fu il primo a sostenere che se ne debbono
cercare le origini nella Chiesa greca. L'abate Gioacchino, ei dice,
per tutta la sua carriera fu nei rapporti più intimi colla Grecia.
La Calabria, dove egli visse, e dove la sua scuola si continuò per
una tradizione appena interrotta, era un paese per metà greco. I suoi
principali discepoli, i redattori della sua leggenda, i personaggi
profetici, coi quali lo si mette in rapporto, sono greci. Egli stesso
viaggia in Grecia più volte per adoperarsi in favore della riunione
delle due Chiese, e codesta riconciliazione è il pensiero dominante
di tutti coloro che seguono la sua dottrina. Giovanni da Parma passa
molti anni presso i Greci, e al termine della sua vita voleva andare
a morire tra loro. Tutta la scuola dell'Evangelo eterno da Gioacchino
a Telesforo di Cosenza alla fine del secolo XIV non ha se non una
sola voce per proclamare la Chiesa orientale superiore alla latina,
e meglio preparata alla futura innovazione. Coll'ajuto dei Greci
trionferà la riforma della Chiesa carnale dei latini, e questa riforma
non sarà altro se non un ritorno alla Chiesa dei Greci.[623] Cotesto
è in parte vero, nè si può dubitare che la Calabria fino al tempo di
Gioacchino fosse un paese quasi greco. Dacchè Narsete la rivendicò
all'Impero fino ai Normanni questa estrema provincia d'Italia rimase
sotto l'amministrazione di ministri greci. L'invasione longobarda
fu qui arrestata nel suo corso vittorioso, nè i Carolingi vi miser
piede, e gli stessi Saraceni, che tra il nono e il decimo secolo
fondaronvi qualche colonia, non bastarono a ridurre in loro potere
tutta la contrada. E in meno di un anno nell'ottocento ottantacinque
per opera del valoroso Niceforo tutte le Calabrie tornarono sotto il
governo imperiale. Nello stesso tempo l'imperatore Basilio il Macedone,
affrancati tremila schiavi, li mandò a ripopolare alcune terre di
Puglia e Calabria desolate nella guerra dei Musulmani,[624] e così
greco sangue si mescolò al calabrese, e la lingua greca, già da gran
tempo lingua ufficiale del paese, fu anche popolare, ed in greco si
scrissero non pure gli atti pubblici, ma benanco le magre cronache,
principalmente le agiografie. Nè questo è tutto; fin dal tempo di Leone
l'Isaurico, quando scoppiò il movimento iconoclasta, furono sottratti
al Papa e messi sotto la giurisdizione del Patriarca di Costantinopoli
i vescovati della Sicilia, della Calabria e della Puglia. E per rendere
più docili a questo mutamento i vescovi, s'innalzarono ad arcivescovati
le sedi di Reggio, S. Severina, ed Otranto. E l'arcivescovo di
Reggio, da cui dipendevano tredici suffraganei, fu detto primate della
Calabria, come nella novella di Leone il Filosofo dell'anno 887. Più
tardi, quando la Chiesa greca ruppe apertamente contro la latina, il
patriarca di Costantinopoli Luitprando con editto del 968 impose alle
chiese di Puglia e Calabria in luogo del rito latino il greco. Alcune
chiese resistettero, ma non poche obbedirono, e molte conservarono il
rito greco, anche quando dopo la conquista normanna ritornarono sotto
la giurisdizione di Roma.[625] Così le diocesi di Bova ed Oppido,
l'arcivescovato di S. Severina[626] e più di tutte la chiesa di
Rossano, ove nel 1092 fu ben scelto un vescovo latino, ma gli abitanti
non vollero accomodarsi al cangiamento del rito, e tanto s'adoperarono
presso Ruggiero, che l'accorto duca acconsentì alle loro dimande, ed
il rito greco visse indisturbato fino al 1460, in cui il vescovo Matteo
dei minori osservanti lo mutò nel latino.[627]

A conservare il rito e la tradizione greca concorsero i basiliani,
venuti in Calabria al tempo delle persecuzioni iconoclastiche. Cotesti
frati si possono dire i precursori di Gioacchino, e parecchi di loro
vennero parimenti in riputazione di santi e di profeti. Nè sarà inutile
raccontare brevemente la vita di qualcuno tra loro per conoscere più da
presso l'ambiente nel quale visse l'abate calabrese.

La regola di S. Basilio, più rigida della benedettina, prescriveva
una vita austera, nè poneva inciampo che qualche frate seguisse le
tracce degli antichi anacoreti. Per tal guisa i basiliani acquistarono
ben presto gran credito presso il popolo, e la loro autorità crebbe
grandemente nei tempi così trepidi e burrascosi delle incursioni
seracinesche, talchè di parecchi fra loro, che colla loro parola
ispirata incuoravano i fedeli nella guerra santa, è rimasta viva
la tradizione in Calabria. Tuttora si venera nel Monteleonese S.
Leoluca o Leone Luca da Corleone in Sicilia, un monaco basiliano che
all'appressarsi dei Saraceni fuggì in Calabria nel monastero di Mula
presso Cassano, ne diventò più tardi abate, e fondate case filiali a
Vena e Monteleone morì intorno al 900.[628]

Più famoso ancora è un altro basiliano, siciliano pur lui, da Enna
o Castrogiovanni, e chiamato Elia il giovane. Fornito del carisma
profetico, previde a dodici anni che i Saraceni sarebbero entrati nel
castello di S. Maria, ove la sua famiglia s'era rifugiata, e perfino
i nomi di quelli che sarebber caduti nella mischia seppe dire; ma pur
troppo non previde che egli stesso sarebbe stato preso dagl'infedeli,
e per ben due volte di seguito. La prima par che fosse stato ricompro
e liberato da un cristiano; ma la seconda fu menato in Egitto, dove a
quel che narra il biografo ebbe a patire la sorte del casto Giuseppe.
Certo è che ben presto chiarita la sua innocenza, fu lasciato partire
per la Palestina, ove prese l'abito monacale dalle mani del patriarca
Elia, di cui tolse puranche il nome. Dopo tre anni di soggiorno nei
luoghi santi, fallitogli il disegno di recarsi in Persia, si fermò per
poco in Antiochia. E di là saputo che un'armata bizantina comandata da
Basilio Nasar moveva a combattere i Saraceni, fece ritorno in patria,
ove riprese le sue profezie e predisse ai Reggini la sconfitta che
avrebbero patito i Musulmani, già rotti una volta presso le coste
dell'Ellade. Restaurate le sorti delle armi nemiche fuggì di nuovo
in Oriente col compagno Daniele, che in Taormina gli s'era messo ai
fianchi. Riparò prima nel Peloponneso, e di là in Corfù, dove gli era
più agevole tornare alla sua diletta Calabria. E vi tornò, ed in un
luogo presso Capo dell'Armi, detto Saline, fondò un convento basiliano;
ma ben presto dovè riprendere la via dell'esilio per campare dal furore
dei Musulmani, che disfatto nell'888 il navilio imperiale a Milazzo,
minacciavano Reggio. Eccolo di nuovo a Patrasso nel Peloponneso, donde
posate le armi approdò di nuovo in Calabria, ed in luogo più sicuro,
sul vertice del monte S. Elia, tra Palmi e Seminara, fondò un altro
monastero basiliano. Di là, chiamato dall'imperatore Leone partì ancora
una volta per l'Oriente, ma arrivato a Tessalonica le forze gli vennero
meno, e morì nelle braccia del suo fido discepolo.[629]

Questo eroico cenobita, che non trova mai posa, è come rappresentante
di una forte generazione di Calabresi e Siciliani, che fan da mediatori
tra l'Oriente e l'Occidente, e s'adoperano a comporre i dissidii dei
due centri cristiani per rivolgere concordi le forze contro gl'invasori
musulmani. Ed a questo fine lavora un altro Elia, da Reggio, detto
Speleota dall'amore che porta alla vita solitaria, anche lui fuggente
nel Peloponneso dall'ira dei Saraceni, anche lui dotato dello spirito
profetico, tal che predice la morte del patrizio Bizalone ribellatosi
all'Imperatore intorno al 920. Succeduto ad Elia juniore nella
direzione del convento presso Palmi, vi morì intorno al 960.[630]

Discepolo di Elia Speleota è un Luca da Demona in Sicilia, che
lasciato il convento basiliano di S. Filippo d'Argira, ove era entrato
giovanetto, recossi in Calabria dal santo eremita, il quale divinate
le buone disposizioni del novizio, lo mise a parte della sua scienza.
Venuto anche in possesso dei doni profetici, previde nuove incursioni
dei Saraceni, dalle quali riparò in un luogo, posto a confine tra la
Calabria e la Lucania, detto Noja. E dopo essere stato ivi per ben
sette anni, venne ad un vecchio e diruto convento di S. Giuliano presso
il fiume Agri. Di là all'appressarsi di Ottone I, che muoveva contro
l'imperatore Niceforo nell'anno 968, fuggì coi suoi sulle montagne
delle Armi in Lucania, ed ivi fondò un nuovo monastero detto Armento.
Su questo ermo sito ei si teneva sicuro, e non a torto, chè neanco
riuscirono ad espugnarlo i Saraceni, contro i quali uscito animosamente
con i più validi dei suoi monaci li mise in fuga. Morì sul cadere del
secolo decimo nel 993.[631]

Taccio di altri due santi basiliani, a cui la tradizione non
attribuisce la virtù profetica, S. Vitale da Castronovo morto nel
994 e S. Filareto morto verso il 1070. Ma ben dirò di S. Nilo, forse
il maggiore di cotesti profeti, nato verso il 903 in Rossano, città,
dice il cronista, a tutti nota, perchè la sola che finora sia sfuggita
all'ira dei Saraceni. L'amore della vita ascetica ben tardi si accese
nel suo petto, ma così fervido che fattosi frate nel convento di S.
Nazario, non che convivere cogli altri si ritrasse in luogo alpestre
e solitario, dove in compenso delle aspre mortificazioni gli parea di
vedere l'invisibile, e gli si facea presente l'avvenire. Testimone di
una incursione saracinesca del 951, indarno preveduta dall'amico suo
Fantino, ed appena scampato da un'altra posteriore per essersi riparato
in Rossano, ei predicea che ne sarebbero accadute altre più terribili,
e distoglie lo stratego Basilio dal costruire un oratorio, che ben
presto sarebbe disfatto dalle orde nemiche. Nè mal s'appose, chè i
Saraceni vennero di nuovo, e benchè S. Nilo avesse ricevuta dall'emiro
Abu-l-Kasem una lettera piena di rispetto, pure non si tenne sicuro,
e lasciata per sempre la Calabria, riparò nel principato di Capua, ove
ebbe lieta accoglienza dai frati di Montecassino dapprima, e poscia da
quelli di Valle Lucia.

Non racconteremo più oltre la sua vita, nè diremo dei conventi
basiliani, che ei fondò a Gaeta e Grottaferrata. Ma toccheremo soltanto
di quello che a noi più preme, dei discorsi che tenne in Montecassino,
e le profezie che in quegli anni gli si attribuiscono. In quanto alle
dispute ben s'intende che doveano essere ben frequenti tra gli ospiti
benedettini, seguaci del rito latino, ed il frate basiliano che non
ismetteva l'abito e l'uso greco; ma egli avea la risposta pronta ad
ogni obbiezione. A chi forse menomava il valore della vita solitaria,
che molti basiliani amavano di menare, ei rispondeva che l'eremita
non era più uomo, ma uno di questi due, o angelo o demone. A tale,
che rimproverava i Greci di non digiunare il sabato a simiglianza
degli antichi Ebrei, ei diceva che il digiunare di sabato era comune
puranco ai Catari. Tutte le difficoltà che gli si faceano sui punti
più scabrosi della Bibbia risolveva, come più tardi Gioacchino, con
una interpetrazione allegorica, che salvava lo spirito sacrificando la
lettera.

Più notevoli sono le sue profezie, o le minacce che coll'accento
risoluto del profeta non temeva di volgere contro i grandi, principi
o pontefici che fossero. Alla principessa di Capua, accusata di avere
instigato il proprio figliuolo all'uccisione di un cugino, che poteva
contrastargli il trono, disse ben alto: non bastare le orazioni e le
elemosine ingiuntele dal vescovo a lavarla dal suo peccato; bensì
dovere in espiazione della sua colpa consegnare l'uccisore alla
famiglia dell'ucciso, e le predisse che nessun rampollo della sua casa
reggerebbe più le sorti di Capua. All'abate di Montecassino, seduto a
tavola tra suonatori di cetra, predisse che non passerebbe molto tempo
che il principe capuano, venuto a lotta con lui, gli farebbe cavare
gli occhi. Le profezie non saranno state così determinate, come _ex
eventu_ le sa dire il biografo; ma io non dubito dell'ardimento del
santo, che in altra occasione seppe tenere non meno aspro linguaggio
collo stesso Papa e coll'Imperatore. Trattavasi di un conterraneo,
di Filogato da Rossano, che venuto in grazia dell'imperatrice di
Costantinopoli, diventò prima vescovo e poi papa in opposizione di
Gregorio V. Pare che S. Nilo avesse dissuaso l'amico suo dal provocare
uno scisma, che sarebbe tornato e alla Chiesa ed a lui stesso di
grandissimo danno; ma quando seppe l'antipapa caduto, e cacciato in
fondo di una prigione dopo essergli stato barbaramente mozzo il naso
e la lingua, e cavati gli occhi, non stette alle mosse e partì per
Roma. Dal Papa e dall'Imperatore impetrò il perdono del vinto, che
oramai non poteva recare più nessun danno, e pare che l'uno e l'altro
glielo promettessero. Ma qual ne sia stato il motivo, vennero meno
alle promesse, e l'infelice antipapa così malconcio e vestito dei
paludamenti pontificali fecero trascinare alla coda di un asino per
le vie di Roma. Tonò contro l'osceno spettacolo il nostro santo, e
predisse al Papa ed all'Imperatore che Dio non avrebbe perdonato loro,
come essi non perdonarono al vinto nemico. Questo ardito linguaggio non
è insolito in tempi burrascosi, e la fama del santo era così diffusa,
che non sarebbe stato prudente recargli offesa. Certo che ei seguitò
a fondare nuovi sodalizii, e grave d'anni morì verso il 998, mentre si
costruiva il convento di Grottaferrata, che in seguito sarà il centro
dell'ordine basiliano.[632]

La vita di S. Nilo mostra quanta importanza abbiano avuta i monasteri
greci della Calabria nel secolo decimo. E seguitarono ad averla nei
secoli posteriori sotto i Normanni, i quali non pure restaurarono
i conventi rovinati dai Saraceni, ma altri non pochi ne crearono di
nuovi. Ed i privati emulavano in ardore i governanti, talchè secondo
il Barrio a mille ammontarono i conventi basiliani del continente, ed
a cinquecento quelli di Sicilia. Celebre fra tutti fu il monastero di
S. Salvatore presso Messina, fondato dal conte Ruggero ed ampliato dal
figliolo. A capo di questo insigne convento fu messo S. Bartolommeo
da Simmeri presso Catanzaro, già abate del monastero di Patire presso
Rossano. La vita di S. Bartolommeo non differisce gran fatto dalle
altre di santi basiliani. Dotato anche lui di spirito profetico, fondò
un nuovo convento, forse quello di Patire, ed avutane l'approvazione
da Pasquale II (1099-1118), ne divenne abate. Più tardi si recò
dall'imperatore Basilio per promovere la desiderata concordia tra
greci e latini, e rifiutata un'abbazia nella capitale bizantina tornò
in Calabria, e da Ruggero, come dicemmo, fu fatto archimandrita,
perchè il convento di S. Salvatore, al quale fu preposto, esercitava
giurisdizione su 44 conventi. Morì nel 1130.[633]

Codesti santi basiliani sono i veri precursori di Gioacchino. Tutti
menano al pari di lui vita di stenti e di fatiche, e tormentano
spietatamente il loro corpo per dare più libero volo al loro spirito.
Tutti amano al pari di lui la solitudine, e si ritraggono negli
alpestri silenzii di un eremo, ove a poco a poco per opera loro sorgerà
un nuovo cenobio, di regola ognor più stretta e severa. Ma e nell'eremo
e nel cenobio tutti questi santi spendono la loro vita tra lo studio
dei libri sacri e le frequenti salmodie, e la mente educata in questi
severi esercizii levano alle mistiche contemplazioni, ove par che si
squarci il velame del futuro. Dal più al meno codesti padri basiliani
sono dotati del _carisma_ profetico, e nei giorni angosciosi delle
incursioni saracene, ai popoli minacciati negli averi, nella libertà
e nella fede, fan sentire la loro voce ispirata, che or promette la
vittoria per incoraggiare la resistenza, or predice nuove sventure per
indurre il pentimento dei proprî falli.

Su questa via aperta dai basiliani fece gran cammino l'abate calabrese.
E se ai suoi tempi non si temevan più le incursioni saracene, gli
animi non erano meno agitati da paure, nè l'avvenire si mostrava
men fosco ai chiaroveggenti. Gl'infedeli erano stati disfatti; ma i
Cristiani seguitavano a battagliare tra loro, e con alterna fortuna
Svevi e Normanni si contrastavano il dominio della Sicilia. D'altro
canto la Chiesa e l'Impero eran di nuovo tornati alle offese, e contro
il Papa dei Guelfi si levava il Papa dei Ghibellini, e tra queste
scissure si faceva largo l'eresia, una d'intento, benchè diversa nei
nomi e dogmi. Così tra gli scismi, l'eresie, le guerre, le calamità
rinasceano le paure dei millenarii, che di un mondo così tormentato
prevedeano imminente la fine. E tornavano in onore gli scritti
profetici, da gran tempo dimenticati, talchè nel 1142 un Gaufrido di
Mounmouth tradusse dall'antico brettone in latino alcune profezie del
bardo o mago Merlino; ed altre ne tradusse per incarico di Roberto,
vescovo di Oxford, quel Giovanni di Cornovaglia che nel 1170 scrisse
un elogio di papa Alessandro III. Ed intorno a codeste profezie un
grave scrittore, Alano da Lilla, che è disputato se sia il dottore
universale, non disdegnò di comporre un lungo commentario. Non è da
meravigliare, scrive questo grave commentatore, che un bardo forse
pagano, o almeno non fervido cristiano, abbia sortite queste virtù
profetiche, perchè anche le Sibille ebbero tali virtù, ed una di esse
predisse l'avvenimento del Signore. Nè ci sarebbe da ridire se Merlino
fosse nato da una vergine e da un incubo, perchè anche Perizione ebbe
da Apollo il suo figliolo Platone, ed a quel che afferma Apulejo tra
la luna e la terra errano spiriti, che assumono talvolta la forma
d'incubi. Tanto era viva in quel tempo la fede nei profeti, tanto
bisogno si sentiva delle profezie![634]

L'abate Gioacchino non è dunque una manifestazione isolata. E prima e
dopo di lui viveano altri veggenti come quel S. Cirillo, priore dei
Carmelitani, morto intorno al 1224, che secondo un'antica biografia
celebrando la messa, vide in una nube un angelo che reggea due tavole
d'argento scritte in caratteri greci, tavole che recate dal cosentino
Telesforo all'abate Gioacchino furono da lui dottamente interpetrate
e commentate.[635] Tutto questo racconto è un tessuto di errori
cronologici, ed evidentemente apocrifo è il commento alle profezie di
Cirillo, attribuito a Gioacchino. Ma siffatta tradizione mostra come la
letteratura profetica traesse sempre novo alimento dallo scambio d'idee
tra l'Oriente e l'Occidente, che durava tuttora per opera dei frati
calabresi.

Per tutte queste ragioni ben si comprende come Gioacchino, che cammina
sulle orme dei basiliani, debba fare grandissimo conto della Chiesa
orientale in paragone della romana, nello stesso modo che mette S.
Giovanni, rappresentante secondo lui la Chiesa greca, al di sopra
di S. Pietro, fondatore della romana. E si comprende altresì come
apprezzi lo studio, che i Greci faceano dei libri sacri con maggiore
cura ed assiduità dei preti latini, e del loro metodo d'interpetrazione
allegorica si faccia continuatore. E lodi assai la preferenza data dai
Greci alla vita contemplativa in confronto dell'attiva ed al canto
corale a paragone della semplice lettura, e levi a cielo la vita
faticosa ed aspra, che menano i cenobiti greci di molto superiori ai
molli frati latini.[636] Ma se per questi rispetti tiene la Chiesa
greca superiore alla latina, per altri la stima assai da meno, come
ad esempio per la tolleranza del matrimonio dei preti.[637] E perciò
Gioacchino veste l'abito monacale in un convento di benedettini, non di
basiliani, e da Benedetto fa cominciare il terzo periodo dell'umanità,
non da Basilio. E benchè la dottrina dello Spirito santo insegnata
dalla Chiesa greca rispondesse meglio al suo proposito di attribuire
eguale efficacia alle tre persone, pure la rifiuta, nè soltanto ammette
la doppia processione, ma se ne serve, come vedemmo, per ispiegare
l'anomalia di certi riscontri storici. L'influsso della Chiesa greca in
Calabria se dunque può rendere ragione di alcune parti della dottrina
di Gioacchino, ne lascia inesplicate molte altre. Gioacchino dalle
scuole basiliane potè ben ricavare l'interpetrazione allegorica della
Bibbia, potè sulle orme dei santi basiliani divenire un profeta anche
lui; ma quella ingegnosa filosofia della storia, che sulle tracce del
passato gli fa scoprire le vie del futuro, ei non la trova nè nelle
scuole basiliane, nè nelle bizantine. Nè alcun contemporaneo od eremita
o filosofo o profeta era arrivato sino a questo punto.

Io son d'avviso, che la dottrina di Gioacchino si connetta strettamente
col Catarismo. Che Gioacchino conosca i Catari è fuori di dubbio.
Dall'esposizione abbiamo già veduto come egli applichi a questi
eretici quel che dice l'_Apocalisse_ dei falsi profeti, che saranno
per precedere la fine del mondo. Ma se rifiuta la parte dommatica
della loro dottrina, se quel loro dualismo gli ripugna, e peggio
ancora quella critica dei dommi cristiani, che fanno sulla scorta
della ragione, e quella loro concezione docetica di Cristo e di
Maria, non pertanto va d'accordo con loro nelle applicazioni etiche.
Quell'ascetismo esagerato, che nega ogni valore alla terra, ed
ogni diritto al corpo; che ingiunge la più rigorosa astensione dal
nutrimento animale, e dichiara colpevole ogni piacere od affetto
terreno; quell'ascetismo che volentieri distoglierebbe gli uomini dalla
procreazione, e vedrebbe con gioja la fine del mondo, non è dubbio che
risponde ai più intimi convincimenti di Gioacchino. Nè hanno tutti i
torti, secondo lui, i Catari di mordere il clero cattolico, che mena
vita intemperante e fastosa, e semprepiù si allontana dall'ideale
ascetico,[638] ed anch'egli, come vedemmo, non risparmia preti e frati,
ed è d'avviso che ormai la corruzione dei cristiani è venuta a tale, da
essere imminente una innovazione radicale nelle pratiche e nei costumi.
I mali estremi sogliono essere il segno di una età che si chiude e di
un'altra che comincia; perchè in quel periodo faticoso di dissoluzione
e di preparazione, pare che sia perduta ogni legge, ed è perduta nel
fatto ma per far posto ad un'altra. E Gioacchino al pari dei Catari
desidera e presente vicina una radicale mutazione non nei dommi o nelle
dottrine, come pretendono essi, bensì nella disciplina e nelle pratiche
del cristianesimo.

E questa previsione, a cui s'informano tutte le sue opere, ei l'attinge
da quello stesso metodo d'interpetrazione biblica, che solevano così
largamente adoperare gli eretici, la spiegazione allegorica. Certo
per un verso Gioacchino è l'antagonista dei Catari, e se quelli
scoprono ripugnanze e contraddizioni tra i due Testamenti, questi
invece ne dimostra in un libro speciale le armonie. Ma la stessa
opposizione mostra fra loro una certa parentela; e Gioacchino ben
concede che ove si prendano alla lettera i libri sacri, l'opposizione
è innegabile, e secondo lui la concordia nasce solo quando s'intenda
l'antico Testamento non per quello che fu, ma quale anticipazione
del Nuovo.[639] I Catari avrebbero potuto accogliere questa
interpetrazione, e lavorando di allegoria anch'essi trovare non pure
nel Nuovo Testamento, come erano usi, ma anche nel Vecchio i germi
delle loro dottrine. E nel risultato finale agevolmente si sarebbero
trovati d'accordo con Gioacchino, perchè anch'essi si credevano
uomini spirituali di contro a quelli, che tanto tenevano alla lettera
dei due Testamenti; ed anch'essi al battesimo dell'acqua volevano
sostituito quello del fuoco, ed il loro _Consolamentum_ stava appunto
nell'accogliere entro l'anima, pressochè sciolta dai vincoli del corpo,
la pienezza del Santo Spirito.

Tutti questi riscontri mettono fuor di dubbio la profonda
rassomiglianza tra le dottrine catare e le gioachimite, ed anche
qui troviamo confermata l'ipotesi fatta al principio dei nostri
studii, secondo la quale dal Catarismo per successive restrizioni o
attenuazioni sono provenute tutte le altre eresie medievali. Certo
Gioacchino, che si credeva e dichiarava apertamente cattolico, avrebbe
energicamente protestato contro chi l'avesse messo a pari cogli
eretici; ma di quanto s'allontanino dalle tradizionali le dottrine
gioachimite lo mostreranno nel fatto le sètte, che saranno per
abbracciarle. E che queste nuove eresie si riannodino per occulti fili
alla catara lo prova luminosamente un riscontro storico, che forse
parrà strano ma non è meno evidente. La dottrina dell'abate Gioacchino
ha molti punti di rassomiglianza col Montanismo. I Montanisti si
davano per profeti, nè parlavano se non per ispirazione dello Spirito
Santo. L'uomo, dice Montano, si riferisce al Santo Spirito come la lira
all'arco che ne cava i suoni.[640] Certo v'ebbero profeti e nell'antico
e nel nuovo Testamento, perchè sempre lo Spirito Santo ispirò alcune
anime elette; ma da ora in poi l'azione dello Spirito è continua ed il
profetismo non è più il fiore, bensì la radice della vita religiosa,
nè soltanto i fondatori della nuova dottrina, ma tutti quelli che vi
credono s'hanno a dire uomini spirituali o pneumatici, a differenza
degli altri, che sono soltanto psichici.[641] Codesta nuova profezia
non distrugge la dottrina cristiana, ma la compie e l'integra, perchè
il Paracleto secondo Tertulliano non è institutore, ma restitutore.
Nella natura, sèguita il grande Apologista, è dapprima il seme, poi
la radice, il fusto, i rami, le foglie, le gemme, il fiore, infine il
frutto che per gradi si matura. Così la giustizia umana cominciò dal
temere Dio, quindi per la legge e i profeti venne alla fanciullezza,
di poi per l'evangelio vigoreggiò da giovane, ora per mezzo del
Paracleto arriva alla maturità. Codesta maturità o perfezione sta nel
rinvigorire la disciplina della Chiesa, nel tenere in grande onore la
verginità, sicchè non pure si vietino le seconde nozze, ma benanco
le prime si permettano solo come un male necessario; nel rintuzzare
gli appetiti della carne per mezzo di più severi e frequenti digiuni;
nel rinunziare al mondo e con gioja andare incontro al martirio.
Senza dubbio codesto è un ascetismo rigoroso che mena diritto alla
distruzione del mondo. Nè lo negano i Montanisti, i quali sono pure
chiliasti o millenarii, e credono che noi siamo alla vigilia di quel
gran giorno dell'_Apocalisse_, in cui e terra e cielo andranno a
rifascio, e spenta la vita terrestre dell'uomo, ne comincerà un'altra
celeste ed immortale. Codeste idee riappariscono, di certo modificate
e rielaborate nella _Concordia_ e nel _Commento_ all'_Apocalisse_.
Cosicchè dopo più di mille anni ritornarono le credenze nella fine
del mondo, e rivissero i profeti che l'annunziavano, e riebbe credito
l'ascetismo inteso a diminuire i danni dell'estrema ruina.

Il Montanismo fiorì nella seconda metà del secondo secolo, quando
ferveano le lotte tra la Gnosi e l'Ortodossia. E benchè tutti i
Montanisti, e principalmente Tertulliano, fossero tra i più fieri
oppositori dei gnostici, pure qualche cosa attinsero dai loro
avversarii. Ammettiamo pure che la dottrina dell'ispirazione profetica
e l'ascetismo intransigente non siano se non esagerazione di dottrine
e precetti schiettamente cristiani; ma difficilmente si può revocare
in dubbio che a cotesta esagerazione abbia contribuito la gnosi. E per
effetto di questo influsso l'ispirazione profetica fu messa al di sopra
della tradizione e dell'autorità, ed una istituzione come quella del
matrimonio, approvata e santificata dalla Chiesa, si disse che solo per
legge, ma non in realtà differiva dal concubinato.

La stessa relazione che corre tra le sètte del secondo secolo
noi poniamo in quelle del decimosecondo, ed ammettiamo che benchè
Gioacchino fosse costante ed implacabile oppositore dei Catari, non
per questo seppe sottrarsi al loro influsso. Ed anche lui al pari dei
Catari pensava che l'avvenire appartenesse al più rigido ascetismo; e
che fosse d'uopo d'una profonda rinnovazione e sociale e religiosa.
Ed anche lui al pari dei Catari non temeva di affermare che codesta
rinnovazione in confronto della Chiesa dominante fosse come la carne
in paragone dello spirito. Si può dunque ben dire che rinnovatosi dopo
dieci secoli lo Gnosticismo, si dovea puranco rinnovare il Montanismo.
La storia certo non si ripete monotonamente, e grandi differenze
vi scopre chi vi guardi ben addentro; ma nei periodi più lontani e
disparati dominano pure le stesse leggi, che derivano da ciò che v'ha
di permanente nello spirito umano.



CAPITOLO II

AMORICO DI BENA ED IL MOVIMENTO FRANCESCANO


I

La fama di Gioacchino par che non tardasse a diffondersi fuori
d'Italia, e già dicemmo che il re d'Inghilterra e l'abate di Perseigne
nel loro viaggio in Italia vollero conoscere di persona quest'uomo
misterioso, che tanto facea parlar di sè. Nè parrà strano che l'eco
delle sue idee si ripercuotesse in Francia, ove i discepoli di Amorico
di Bena le accolsero per innestarle alle loro dottrine filosofiche.
Il Rousselot crede che l'innesto si debba ad Amorico stesso.[642]
Nè certo la cronologia porrebbe inciampo a codesta opinione, perchè
sebbene le opere dell'abate Gioacchino siano state pubblicate intorno
al 1200, e non molto più tardi quelle di Amorico, che venner condannate
dall'Università parigina nel 1204,[643] pure dopo questo tempo Amorico
andò a Roma per appellarsi dalla sentenza dell'Università, e nulla
vieta che a Roma sapesse qualche cosa delle dottrine di Gioacchino,
come nove anni prima era occorso all'abate di Perseigne. Nè sarebbe
temerità il supporre che a tergere la sua dottrina da ogni macchia,
ne mostrasse l'accordo con quella di un santo uomo, fondatore di un
ordine religioso, e tenuto dalla S. Sede in grande venerazione. Questa
prova in verità non avrebbe fruttato, perchè il Papa ribadì la condanna
dell'Università, ed Amorico, tornato a Parigi, fu costretto nel 1207 a
ricredersi pubblicamente, e ne morì, come dicevasi, dal dolore;[644] ma
ciò non toglie che la prova, pur non giovando alla causa del filosofo,
avrebbe contribuito non poco al successo della dottrina.

Non ostante questi nuovi argomenti da me addotti, io non saprei
accettare l'opinione del Rousselot, perchè le più antiche fonti
attribuiscono la teoria dei tre stati non ad Amorico stesso, nè a
Davide di Dinan, bensì ai loro discepoli.[645] Quando dunque sia nato
siffatto innesto del razionalismo filosofico col misticismo religioso,
mal si saprebbe dire; ma quando sia nato, o a chiunque appartenga, è
certo meritevole di studio.

La filosofia di Amorico di Bena rinnova il realismo di Scoto Erigena
con colorito più spiccatamente panteistico. Amorico, al pari di Scoto,
move dalla dottrina delle idee mediane tra il mondo e Dio, rispetto
a quelle creatrici, rispetto a questo create. E come le idee eterne
e la mente divina, che le pensa, sono in fondo la stessa cosa, così
parimenti si confonderanno in uno le idee creatrici e gli effetti che
da loro promanano. E così tutte le cose si unificheranno in Dio, e
tutte avranno la stessa natura, come della stessa natura sono Abramo
ed Isacco. Onde si può ben dire che tutte le cose tornano ad una, e
tutte sono Dio, imperocchè Dio è l'essenza di tutte le creature. Ed a
quel modo che la luce non si vede in sè stessa, ma nell'aere, così Dio
nè dagli uomini nè dagli angeli può essere veduto in sè stesso, bensì
nelle sue creature.[646]

La stessa dottrina venne insegnata dal discepolo di Amorico, Davide di
Dinan. Se non che pare che il discepolo si giovasse a preferenza di
concetti aristotelici, laddove il maestro più volentieri adoperava i
platonici. S. Tommaso ci dice che Davide soleva dividere le cose (il
mondo) in tre parti, corpi, anime e sostanze eterne separate. L'entità
indivisibile, onde sono formati i corpi la diceva ile o materia prima;
l'entità indivisibile, o sostrato delle anime la chiamava nous o mente;
l'entità indivisibile delle sostanze eterne, Dio. E come tutte e tre
queste entità sono prime ed indivisibili, vale a dire hanno gli stessi
attributi, è pur gioco forza che in fondo sieno la stessa entità.
Dal che consegue che tutte le cose nell'essenza loro si riducono ad
uno.[647]

Da questa dottrina metafisica potevano ricavarsi conseguenze
arditissime. Due sole ci vengono ricordate da Martino Polono. La
prima, riguarda la distinzione dei sessi, la quale al pari di tutte le
differenze, che separano cose da cose, sarebbe affatto provvisoria. Un
tempo siffatta tenzone dei due sessi non esisteva, cominciò soltanto
dal peccato di Adamo, e dopo la resurrezione si tornerà all'unità
primitiva.[648] Con queste sentenze, il cui senso appena si coglie,
e che certo ricordano i miti dell'androgino del _Convito_, forse
si connette l'entusiasmo per l'amore, per quella forza arcana e
misteriosa, che riduce gli esseri diversi all'unità della loro natura.
Certo questa seconda conseguenza traevano gli Almariciani dal loro
panteismo, che allorquando la forza d'amore investe gli uomini, vince
le loro volontà, e rende le loro azioni inimputabili.[649]

A queste teorie filosofiche Amorico avea già saputo dare un colore
ed espressione religiosa. Ei soleva dire, secondo la testimonianza
di Guglielmo Armorico riprodotta da Vincenzo di Beauvais, che il
primo domma da essere insegnato e creduto è questo: ogni cristiano
essere membro di Cristo, e non potere salvarsi alcuno, che non creda
in questo domma più fermamente della incarnazione o passione di
Gesù.[650] Così pure ammetteva bene che il corpo di Cristo fosse nel
sacro pane, perchè parimenti è in ogni pane, ed in ogni cosa.[651] In
altre parole ei sapeva col magistero dell'allegoria torcere i dommi
tradizionali a quei significati, che la sua filosofia richiedeva.
Questa libertà d'interpetrazione, questa tendenza alla spiegazione
allegorica, è appunto il tratto che raccosta l'abate calabrese al
filosofo di Chartres. E certo se non Amorico, almeno i suoi discepoli
non dubitano di accogliere la teoria dei tre stati. Ed anche essi
pensano che al tempo della legge mosaica, quando così aperto era il
contrasto tra Dio e l'uomo, non si conosceva la verità, ovvero il
monismo nella loro filosofia insegnato. Nel secondo periodo, in cui
Gesù è considerato come l'Uomo-Dio, la verità comincia a rivelarsi, ma
in forma di simboli, e l'unificazione di Dio coll'uomo è rappresentata
come se avesse avuto luogo una volta sola, e per virtù soprannaturale.
Nel terzo periodo poi la verità è svelata pienamente, in Gesù si vede
raffigurata tutta l'umanità, e ciò che si dice dell'uomo deve dirsi
della natura intera, che è tutt'uno con Dio.[652] Nel primo periodo
domina il Padre, senza l'intervento del Figliolo o dello Spirito.[653]
Nel secondo domina il Figliolo, che assunse carne in Maria non certo
nel senso che l'intende la tradizione, bensì a quel modo che si
può dire anche del Padre essersi incarnato in Abramo, il primo dei
patriarchi, o il rappresentante di Jeova. Nel terzo infine domina lo
Spirito Santo il quale s'incarna, anche lui non più in un uomo solo,
ma in tutti i membri della nuova religione.[654] E come alla venuta
del figliolo cessò il regno del Padre, e fu abolita la circoncisione,
e ci affrancammo dalla schiavitù della legge mosaica; così alla
venuta dello Spirito cesserà il regno del Figliolo, ed i dommi ed
i precetti della nuova legge cadranno al pari dell'antica.[655] Non
che cesseranno i sacramenti, ma s'intenderanno nel loro vero spirito.
Abbiamo già citata la trasformazione razionalistica dell'Eucaristia.
Parimenti è trasformato il domma della risurrezione dei morti, la
quale intesa alla lettera non si può ammettere, ma bensì nel senso
allegorico di un ridestarsi dello spirito della verità dal lungo sonno
che l'opprimeva.[656] Parimenti l'Inferno non è altro se non il peccato
mortale stesso, che è come un dente guasto nella bocca, e il Paradiso
lo porta con sè chiunque arrivi alla cognizione filosofica di Dio.[657]
Seguendo questo spirito razionalistico non fa certo maraviglia che
abbiano condannato anch'essi quegli usi e quelle cerimonie del culto
esteriore, che vedemmo proscritti dai Catari e dai Valdesi. Così pare
che abbiano condannato il battesimo dei bambini,[658] il culto delle
imagini, l'adorazione dei santi, la venerazione delle reliquie,[659]
e la confessione e la comunione l'intendevano come una interna
rinnovazione della coscienza religiosa, prodotta dalla grazia dello
Spirito Santo, senza il soccorso di opere o cerimonie esteriori.[660]

Ben si vede come gli Almariciani andassero molto più in là dell'abate
calabrese, o di qualunque setta religiosa. Ciò non pertanto al pari di
Gioacchino la pretendeano a profeti, e sapeano predire anche loro che
tra cinque anni sarebbero toccate al mondo quattro piaghe. La prima
è la fame, di cui sarebbe morto il popolo, la seconda è la guerra che
avrebbe fatta strage dei principi, la terza un terremoto che avrebbe
fatto inghiottire i Burgensi dalla terra squarciatasi sotto i loro
piedi, la quarta, il fuoco che avrebbe divorato i prelati, che sono
le membra dell'Anticristo, e Roma, la nova Babilonia, che ne è il lor
capo. Allora saranno unificati tutti i regni in un solo, ed il capo di
questa nova società, informata dall'amore dello spirito, sarà Filippo
Augusto, il re di Francia.[661]

Ma non ostante codeste rassomiglianze la dottrina degli Almariciani
e quella dell'abate Gioacchino sono agli antipodi, e l'innesto del
razionalismo filosofico col misticismo, del quale facemmo parola, dovea
riescire piuttosto ad una meccanica mescolanza che ad un concrescimento
organico. Imperocchè tra il monismo neoplatonico e la dottrina di
Gioacchino, che rasentava il triteismo, non poteva aver luogo nessuna
conciliazione. E se i due novatori si servivano dell'allegoria per
accomodare alle loro idee i sacri testi, certo le idee loro erano
affatto disformi; perchè nel mentre Amorico metteva la scienza al
di sopra della fede, e confidava che la religione in avvenire fosse
assorbita nella filosofia, Gioacchino al contrario faceva pochissimo
conto della scienza, e credeva che, non solo nel presente, ma più
ancora nell'avvenire, la religione avrebbe scacciata dal sacro tempio
la filosofia. Pari all'opposizione tra le dottrine è la disformità
dell'indirizzo pratico. Perchè la mèta dell'umanità secondo Amorico è
vivere la vita della natura, di cui l'uomo non è che una piccola parte;
la mèta secondo Gioacchino è tutt'altra, staccarsi più di quel che non
si faccia ora, dalla natura e raccogliersi nelle austere solitudini
dello spirito. L'ideale di Amorico è la riaffermazione del mondo,
l'ideale di Gioacchino invece ne è la piena ed imminente distruzione.
Non è la prima volta nè sarà l'ultima che una dottrina filosofica tolga
in prestito una forma religiosa, che non le appartiene. Talvolta è
codesto l'unico mezzo per assicurare l'avvenire della dottrina.


II

I veri interpetri del pensiero di Gioacchino non furono i fratelli del
libero spirito, bensì i frati minori, che nel silenzio delle loro celle
ne studiarono e commentarono i libri e formarono una scuola, detta
gioachimita o gioachita, e crearono una completa letteratura profetica,
e pseudonoma. Sarebbe interessante lo studio di questa letteratura, in
parte già pubblicata nel secolo decimosesto, ed in parte sepolta nella
polvere delle nostre biblioteche. Ma pel nostro compito la notizia, che
ne demmo nel parlare delle opere di Gioacchino è più che bastevole.
Ci restringeremo a studiare le idee direttive dei Gioachimiti, ed
il modo come germogliarono tra le lotte del sodalizio francescano.
Giace tuttora inedito nelle nostre biblioteche un antico racconto
dei dissidii francescani, che va sotto il nome di _Cronaca delle
Tribolazioni_.[662] Si conserva una redazione in latino, ed un'altra
in italiano, ma entrambe evidentemente sono composte di frammenti di
cronache più antiche, legate insieme col manifesto disegno di mostrare
non pure la successione cronologica, ma l'intima connessione delle
lotte, che ebbe a durare una parte dei francescani.[663] In codesto
centone, come nei _Fioretti di S. Francesco_, composti nello stesso
modo e collo stesso intendimento se non col medesimo disegno, gli
errori storici e cronologici spesseggiano. Nè certo l'anonima _Cronaca
delle Tribolazioni_ può stare a petto di quella fonte preziosa, che è
il Salimbene, gioachimita anche lui, ma temperato, e narratore ingenuo
dei fatti accaduti sotto i suoi occhi. Ma non ostante questi gravi
difetti nè la Cronaca nè i _Fioretti_ perdono la loro importanza, e
debbono essere posti da banda, come crede l'Affò.[664] Tutte e due
valgono, e la _Cronaca_ a parer mio più dei _Fioretti_, essendo il
primo saggio di una ricostruzione della storia dell'ordine da S.
Francesco ad Ubertino da Casale. Certo codesta ricostruzione, fatta con
intendimento polemico in servigio d'un partito, non ha nè può avere
grande esattezza e schiettezza storica, ma come manifestazione delle
idee e dei sentimenti di quel partito, è certo un documento prezioso. E
tale la reputava il Wadding, che se ne giovò più di quel che dovesse.
Il cronista conta sei tribolazioni, alle quali bisogna aggiungere per
settima quella che ei stesso soffre e di cui crede più prudente tacere.
Secondo codesta partizione della storia francescana si possono bene
agguagliare le tribolazioni francescane alle sette piaghe d'Egitto,
alle calamità predette nell'_Apocalisse_. E da siffatto riscontro il
pio cronista può ben trarre la speranza che la settima tribolazione sia
l'ultima, nè si faccia aspettare il giorno del trionfo; ma perchè il
numero torni deve mettere la prima tribolazione negli ultimi anni di S.
Francesco, il che difficilmente si può ammettere da chi studii le più
antiche fonti, come ci faremo a dimostrare.

Il Santo d'Assisi nel fondare un nuovo ordine religioso, ebbe in
mente idee più larghe e più feconde dell'Abate di Fiore. Ei ben vide
che il miglior mezzo a combattere gli eretici era quello d'imitarli
nei costumi, e sulle loro orme far getto della propria fortuna,
vestire ruvidi panni, e andar raminghi di città in città, predicando
dappertutto la buona novella. Anche Francesco al pari di Valdez
apparteneva ad un'agiata famiglia, e menava parimenti una vita frivola
e spensierata; ma anche lui, tocco dalle parole del Vangelo, si tolse
in un punto agli agi ed ai piaceri, e abbandonati amici e parenti,
cacciossi animoso nell'ingrata via dell'apostolato.[665] E dappertutto
predicava la sola via della salute essere la povertà, perchè chi non sa
spogliarsi delle ricchezze, nè vende il suo per distribuirlo ai poveri,
non è penetrato da quell'amore del prossimo, che Cristo mette a capo
della sua legge.[666] La povertà volontaria era per Francesco come pel
Valdez la fonte delle virtù, un ideale di sagrifizio e di generosità,
che scaldava il cuore e commovea la fantasia.[667] Nè gli parea di
averlo mai conseguito codesto ideale, al quale sempre si volgeva con
novello ardore. Nulla hai a possedere, neanco il mantello che porti
indosso; una rozza tonaca basta, e se logora, tanto meglio; sarà prova
di umiltà rattopparla con tela da sacco, come l'ultimo mendico della
via.[668]

L'umiltà è un altro tratto che compie l'ideale della vita mendica. S.
Francesco non è nè un cinico, nè uno stoico, odia le ricchezze, ma non
disprezza i ricchi, nè li tiene da meno di sè. Abborrisce le mollezze
e gli agi, indura il suo corpo alle fatiche, ma non sente l'orgoglio
di chi sapendo di bastare a sè medesimo, sfida superbamente i colpi
della fortuna. Questa fiera coscienza di sè medesimo e del proprio
valore sarebbe troppo ripugnante alle massime cristiane, che rintuzzano
l'orgoglio inspirando una salutare diffidenza delle proprie forze. E
conforme a questa massima raccomanda ai suoi fratelli l'umiltà, insiste
perchè secondo il precetto evangelico cedano alla violenza, nè ammette
che l'uno si faccia o si tenga superiore dell'altro. Non ci debbono
essere priori nel nuovo sodalizio, ma ministri, servi della comunità,
scelti democraticamente col suffragio di tutti, e revocabili.[669]
Anche i Valdesi in opposizione al fasto del clero secolare avean
levata la bandiera dell'umiltà, nè solo poveri, ma umiliati si solevan
chiamare. E in prova d'umiltà curvavan la fronte, e stendeano la mano
elemosinando. S. Francesco non esclude il precetto dei benedettini,
adottato dai Catari, che debbasi procacciare il vitto col lavoro delle
proprie mani;[670] ma ove non basti, anche lui raccomanda ed esalta
l'accattare di casa in casa.[671]

Questo spirito di sagrifizio e di umiltà dovea eliminare le lotte tra
gli uomini, che non avrebbero potuto avere luogo nè per rivendicare
i diritti, nè per respingere le offese. Ed il regno di Dio sarebbe
finalmente stabilito, e la legge dell'amore avrebbe avuta la sua piena
attuazione. S. Francesco non poteva comprendere la grande efficacia
morale della lotta pel diritto, egli avea sortita una natura così larga
ed espansiva da comprendere nell'amor suo non pure gli uomini, ma gli
esseri tutti, che ei chiama fratelli a cominciare dal sole cui volge
un canto,[672] agli agnelli, che riscatta dal macello, ai lupi che
ammansisce col fascino della parola. Pochi uomini si conoscono nella
storia così riboccanti d'affetto, come il Santo d'Assisi, che a mal
grado le sue ripugnanze stende la mano ai lebbrosi, diventa l'amico ed
il compagno dei poveri e degli abbietti, e si stima felice se possa col
danno suo soccorrere alle altrui miserie.[673] Il sacrificio era per
lui più che un obbligo morale, un bisogno del cuore e tale desiderava
che diventasse pei suoi fidi, sicchè non si desse contrasto nel loro
animo, e il loro dovere si confondesse coll'amor loro, e dell'interna
serenità fosse specchio il volto sempre ilare e composto.[674]

Ma se il francescano a differenza del valdese non dovea atteggiare
il suo volto a mestizia, non per questo la sua vita era men dura
e faticosa. Ei non si dovea chiudere, come l'antico anacoreta nel
silenzio del cenobio e assorbirsi nella contemplazione. I tempi non
consentivano più questi ozii speculativi, e facea d'uopo operare
energicamente, incessantemente per riguadagnare l'affetto dei popoli.
E se gli eretici sull'esempio degli apostoli non perdonavano a fatiche
e disagi per diffondere la loro fede, certo non si poteva far da meno
di loro. Per queste ragioni, benchè l'istituto della predicazione
non fosse proprio dei francescani, ma dell'altro sodalizio istituito
nello stesso torno da S. Domenico, pure non era estraneo neanche a
loro.[675] Chè anzi i francescani si possono ben dire i frati vaganti.
La necessità di accattare la vita li facea andare di porta in porta,
di borgata in borgata; oltrechè la loro stessa regola non consentiva
riposo, chè alla santa milizia facea d'uopo mutar guarnigione soventi,
per non poltrire nell'immobilità, come era uso dei cenobiti. A
questo fine Francesco raccomanda ai suoi compagni di andare due a due
pellegrini pel mondo a piedi nudi.[676] Non si vincono le battaglie
senza indurare il soldato alle marce faticose, ed il milite di Cristo,
come il legionario di Cesare, non ha da conoscere stanchezza.

Queste erano le ardite innovazioni che Francesco portava alla vita
cenobitica, e quanto ei ben s'apponesse lo mostrarono i fatti; chè
nessuno istituto religioso si è mai diffuso con tanta rapidità, come
il francescano. Parevan tornati i tempi degli antichi apostoli, e
come allora si fondava una chiesa dopo l'altra, così ora a convento
s'aggiungeva convento, e ben presto il novo sodalizio si sparse per
tutto l'orbe. Ma senza dubbio la regola di S. Francesco era tale,
che nessun uomo poteva adattarvisi senza restarne schiacciato dal
grave peso. Innocenzo III, che pure avea approvato l'istituto di
Durando di Osca, non sapeva dare la sua sanzione alla regola di S.
Francesco, informata ad un ideale di povertà ed umiltà mal rispondente
agli splendori ed alle smodate pretensioni della Corte romana.[677]
Certo non potea respingere queste nuove forze, che gli venivano
inaspettatamente in ajuto per combattere l'eresia, nè si può dubitare
che benedicesse il mendico d'Assisi, senza vietargli di seguitare
nell'opera sua; ma non smise mai i suoi dubbî sulla regola, che a lui
pareva non facesse il debito conto dei reali bisogni e tendenze della
natura umana, nè volle concedere una bolla d'approvazione.[678] Non
smise per questo S. Francesco, ma il disegno presentato ad Innocenzo
colorì nei suoi particolari, e le sue idee giustificò con ragionamenti
e citazioni bibliche. E questa nova regola molti anni dopo presentò
al successore d'Innocenzo Onorio III, e ne ottenne finalmente la
desiderata sanzione con bolla del 1223.[679] Se non che l'approvazione
del papa non rimoveva le difficoltà, e il santo non se le dissimulava.
Pare anzi temesse non poco che morto lui sarebbero nate dispute
e commenti sulla regola, per trarne un senso ben lontano dai suoi
intendimenti. Talchè credette bene restringerla in brevi e succosi
capitoli[680] e con solenne testamento raccomandò ai suoi fratelli,
che codesta regola dovessero mandare a mente, codesta osservare alla
lettera, vietando recisamente qualunque commento, che sotto pretesto
d'interpetrarla, l'avrebbe distrutta.[681] Queste inquietezze di S.
Francesco, attestate da documenti autentici, rendono molto probabile
il sospetto che tra i compagni stessi del Patriarca non mancasse chi
la pensava al modo d'Innocenzo, e credendo la regola molto rigida fosse
ben disposto a tollerarne qualche attenuazione.

Ma questi discorsi erano forse segno di un'aperta opposizione alle
idee del Patriarca? Parrebbe certo se s'avesse a prestar fede alla
_Cronaca delle Tribolazioni_, che ci narra di violente dispute tra S.
Francesco e frate Elia, il quale mal tollerando la pubblicazione della
regola succinta, alla testa di molti frati si sarebbe presentato a S.
Francesco, come un tempo gli Ebrei a Mosè. E d'altro canto il nuovo
legislatore, scendendo anche lui dal monte come l'antico, avrebbe
rinfacciati i protervi suoi compagni, ben ribadendo che alla regola,
datagli direttamente da Dio, tutti fosser tenuti di prestare cieca ed
intera obbedienza.[682] E d'accordo con questo racconto la cronaca
narra ancora, che S. Francesco, stanco forse di combattere contro
l'ostinatezza dei frati, si ritirò sdegnoso dal governo dell'ordine,
lasciando pure che fosse assunto dal suo oppositore Elia.[683] Se
non che codesta narrazione, ripetuta dal Wadding, è falsa di pianta,
come ben dimostra l'Affò.[684] Perchè le fonti più antiche, come
la Vita di Tommaso da Celano, non solo non dicono nulla di codesta
opposizione tra Francesco ed Elia; ma ci parlano per lo contrario del
loro vicendevole affetto, talchè il Patriarca solo per non dispiacere
all'amico suo, acconsentì ad aversi riguardi nell'ultima e mortale
malattia.[685] E ponendo mente alla grande venerazione in cui i
frati tenevano il fondatore del loro ordine, non par verisimile che
scegliessero a farne le veci chi sarebbe stato a capo degli oppositori.
È molto più probabile invece che Francesco, premuto dai molti mali che
avean logorata la sua fibra, nè più gli consentivano le aspre fatiche
dell'apostolato, avesse chiesto e forse scelto lui stesso come suo
vicario prima fra Pietro, e alla morte di costui Elia, uomini di sua
fiducia.[686] Che invece d'Elia avesse indicato a suo successore fra
Bernardo raccontano concordemente e la _Cronaca delle Tribolazioni_ e
i _Fioretti di S. Francesco_.[687] Ma codesto racconto, foggiato sul
biblico del patriarca Giacobbe, non è più vero dei precedenti, perchè
della pietà di Elia, e delle cure che prestò al suo venerato maestro
abbiamo un documento autentico, la lettera che egli stesso scrisse ai
ministri e frati della provincia annunziando la morte di lui.[688]
È certo altresì, che mancato Francesco non Bernardo, ma Elia resse
l'ordine francescano seguitando nel suo ufficio di vicario. Possiamo
dunque conchiudere che finchè visse S. Francesco, e nei primi anni dopo
la morte di lui, non scoppiarono le discordie nel nuovo sodalizio. Gli
animi e le menti occupava un sol pensiero, rendere onore alla memoria
del fondatore, la cui vita fu un lungo e non interrotto sagrifizio,
e la cui parola infocata sonava sempre pace e carità. E forse per
attendere indisturbato a codeste onoranze, ed alla costruzione
del tempio, che per ordine di Gregorio IX si doveva innalzare al
santo mendico, il Vicario di S. Francesco non volle succedergli nel
generalato, e in luogo suo venne scelto Giovanni Parenti.[689]


III

Ma i dissidii, soffocati dall'autorevole parola del fondatore, morto
lui non tardarono a scoppiare. E ben presto si formarono due partiti
nel nuovo sodalizio, l'intransigente che volea rispettata la regola
alla lettera, il moderato che sosteneva s'avesse a interpetrare meno
rigidamente. Era inevitabile che i due partiti sorgessero non per colpa
o volontà degli uomini, ma per necessità delle cose. Imperocchè da una
parte la regola, data per inspirazione divina e confermata dal Papa,
si dovea osservare scrupolosamente, nè era lecito apportarvi glossa
o commenti, senza violare il testamento del santo fondatore; talchè
temperare la regola sarebbe stato lo stesso che snaturare l'ordine
togliendogli quel carattere, che lo distingueva da tutti gli altri, e
a cui doveva le sue prodigiose fortune. Ma d'altra parte codesta regola
era così rigida e severa, che ben pochi vi si potevano adattare; e più
l'ordine s'ingrossava, e più cresceva il numero dei tepidi osservatori;
oltrechè la povertà rigorosa, l'umiltà a tutta prova formavano di certo
un alto ideale religioso, ma nella lotta contro il clero secolare e gli
altri ordini frateschi, valeva ben poco ad assicurare la vittoria. Se i
frati predicatori fondavano dappertutto nuove case, e collo splendore
delle costruzioni abbagliavano le masse, i francescani non doveano
essere da meno di loro. Se quelli per sostituire il clero secolare
e nei pergami e nelle cattedre coltivavano ardentemente gli studii,
non era lecito ai francescani di trascurarli. Se i predicatori non
solo accettavano, ma sollecitavano dalla Curia onori e dignità, ai
francescani, per non scapitare in prestigio, non conveniva di ritrarsi
indietro. Questi bisogni ben comprese frate Elia, il quale innamorato
dell'arte avea fatto costruire in onore del santo mendico uno dei più
splendidi monumenti della rinata architettura;[690] cultore dei buoni
studii ne volea promosso l'amore nel nuovo sodalizio;[691] scaltro
conoscitore degli uomini non schivava i potenti ma ben presto avea
saputo entrare nelle grazie del Papa e dell'Imperatore.[692] Intorno
a quest'uomo più pratico che mistico si strinsero quanti volevano
interpetrata la regola in modo da non impedire il moto d'espansione
del nuovo sodalizio. Ed il partito s'ingrossò siffattamente che levò
di seggio il generale Parenti per sostituirvi lui, già stato vicario
di S. Francesco, e tenuto da tutti in gran concetto _per la preclara
scientia, e singulare prudentia_, come dice la stessa _Cronaca delle
Tribolazioni_.

Che il novo generale sentisse altamente del suo ufficio, nè in dignità
si credesse da meno di altri, lo dice il Salimbene, che narra questo
aneddoto, del quale egli stesso fu testimone, che venuto il potestà di
Parma per far visita al generale francescano, questi non si mosse dal
suo posto, nè rispose come dovea al saluto dell'ospite cortese.[693]
Il Salimbene, appartenente al partito opposto a frate Elia, non è
certo una fonte da accogliere a chiusi occhi, come vuole l'Affò.
Nè mi meraviglierei che e nel fatto che narra e nel giudizio che fa
dell'alterigia di frate Elia il cronista fosse poco esatto, ma questo è
fuor di dubbio, che il nuovo generale voleva che l'autorità sua fosse
tenuta in grande rispetto; nè tollerava che altri ridicesse sui suoi
disegni, o ricalcitrasse ai suoi ordini. Un documento riportato dal
Wadding lo prova. È una lettera del generale al Papa per chiedergli
mano forte contro i frati ribelli alla disciplina, e principalmente
contro alcuni compagni di S. Francesco, che forti dell'autorità e del
prestigio del loro nome, non dubitavano di levare alto la voce contro
le novità di frate Elia, e la mite interpetrazione della regola.[694]
Senza il presidio del Papa sarebbe stato pericoloso colpire uomini
tanto autorevoli; ma ottenuta la chiesta licenza, il generale agì
vigorosamente, ed i più riottosi rinchiuse in prigione, altri mandò
in provincie lontane; i ministri a lui men ligi rimosse sostituendoli
con creature sue,[695] altri acconsentì che restassero a patto di
dichiararsegli ligii.[696] Fatti ancor più gravi vengono narrati.
La _Cronaca delle Tribolazioni_ racconta di un fra Cesario da Spira
colpito a morte, mentre fuggiva dalla prigione ove era stato rinchiuso,
non che di S. Antonio imprigionato anche lui e battuto a verghe.[697]
Ma di codesti fatti il Salimbene non sa nulla, ed è ben probabile, come
crede l'Affò, che sieno stati inventati posteriormente.

Certo è, che il generale governava con mano di ferro la travagliata
società, e correva diritto alla sua mèta senza lasciarsi sviare da
rimostranze. E per togliere ogni ragione al partito intransigente,
chiese ed ottenne dal Papa una interpetrazione della regola, che
rispettasse la lettera sacrificandone lo spirito. Gioverà riassumere
le modificazioni ordinate da Gregorio IX. Il primo temperamento si
riferisce al divieto di possedere ed acquistare. I frati possono nei
casi di bisogno comprare quello che occorra, purchè non trattino
direttamente col venditore, bensì con un rappresentante o nuncio.
Codesto nuncio può ancora essere scelto da loro, ma resta pur sempre
rappresentante non di quelli che l'hanno nominato e presentato, bensì
delle persone a cui lo presentano. In un solo caso l'artificio è
lasciato da parte, quando cioè il nuncio sconosca i bisogni dei frati o
ne manometta i diritti, chè in tale congiuntura i frati hanno facoltà
di agire contro l'infido amministratore, riconoscendolo per tal guisa
come loro rappresentante. Anche oggi le associazioni religiose, che
perdettero la personalità giuridica, adottano l'espediente di farsi
rappresentare da un privato, che in nome suo acquisti, venda, accetti
le donazioni e somiglianti. Se non che oggi contro il rappresentante
infido le associazioni non hanno azione alcuna, perchè lo Stato non
può riconoscere quel patto, che non aveano facoltà di stringere; ma
nel secolo decimoterzo le cose andavano diversamente, ed i francescani
poteano godere tutti i vantaggi della rappresentanza senza temerne i
danni. I legali della Curia la sapean lunga![698]

Un altro temperamento era questo. La regola proibiva severamente la
rivendicazione dei proprii diritti. Se altri ti porta via il mantello,
cediglielo volentieri. Se poteri pubblici o privati vi scacciano dalle
vostre case, non procurate di restarvi. E se s'impadroniscono delle
suppellettili vostre, non gli resistete; perchè nulla appartiene nè
a voi nè alla comunità; nè sta a voi di decidere chi sia il padrone
vero. Queste disposizioni, che tirate a fil di logica dal precetto
della povertà assoluta, mettevano il nuovo sodalizio in balìa del
primo venuto, furono ingegnosamente attenuate da Gregorio. In luogo dei
frati, ei dice che non possono possedere, sottentra la Santa Sede, alla
quale spetta la proprietà delle case e masserizie fratesche. Questa poi
ne cede l'uso ai sodalizii a patto che non la sperperino, e la facciano
rispettare. Altra finzione giuridica che fece fortuna e venne dipoi più
nettamente formulata da Innocenzo IV.[699]

Codesta novità, ed il rigido governo di Elia esacerbava il partito
intransigente[700] che ogni giorno più s'ingrossava degli scontenti
di qualunque specie. Fra costoro primeggiavano, al dir di Salimbene,
i frati di messa, i quali mal tolleravano che crescesse il numero dei
colleghi laici, e peggio ancora che fussero messi a pari di loro, che
si tenevano di molto superiori. Ma il generale tenne duro, e nel giro
di pochi anni accolse tanti laici che superavano in qualche casa i
chierici, e conferì loro pari diritti ed onori, e taluni levò anche
al grado di ministri.[701] Così si mostrava osservante della regola,
innanzi alla quale tutti i membri del sodalizio eran pari,[702] e nello
stesso tempo ingrossava il suo partito.

Ma non ostante queste provvide misure l'opposizione non era fiaccata,
e semprepiù violente si faceano le accuse contro il generale. Lo
s'attaccava ormai non pure nel governo dell'ordine, ma nel carattere
e nel costume rappresentandolo come superbo, disdegnoso di vivere e
mangiare in comune coi frati, amante delle buone vivande e della vita
molle e voluttuosa. Gli si rimproverava di non visitare personalmente
le case dell'ordine, e se mai non a piedi, ma su ben pasciuti cavalli;
di non convocare il capitolo generale per tema che i ministri
oltramontani lo sbalzassero di seggio; nel mentre era novamente
sentito il bisogno di una costituzione generale che ponesse freno
agli abusi.[703] È ben difficile separare in queste accuse il vero
da ciò che v'aggiunge lo spirito di parte; e non è chiaro il perchè
v'abbia prestata fede Gregorio IX, un tempo amico e protettore di frate
Elia. Che il Papa trovasse giuste le accuse del partito intransigente
non è credibile, perchè egli stesso dette licenza ad Elia di punire
i riottosi, e pubblicò una bolla per interpetrare la regola in un
senso assai temperato. Io credo probabile che il Papa la rompesse col
generale francescano per motivi politici. Già dicemmo che costui era
egualmente accetto ed a Gregorio e a Federigo, e Salimbene ci dice
che spesso faceva da mediatore tra l'uno e l'altro. Forse in questi
negoziati ei si mostrò più favorevole alla causa imperiale. Uomo
pratico e moderato avrà fatte le sue osservazioni sull'intemperanze
della Curia, nè v'era bisogno d'altro per cadere in disgrazia del
Papa.[704]

Per codeste ragioni Gregorio la dette vinta al partito intransigente,
nè solo depose il mal capitato generale, ma fattolo espellere
dall'ordine, lo scomunicò solennemente. E certo gli sarebbe incolto
peggio se Federigo non l'avesse tolto sotto la sua protezione.
All'accorto imperatore, accusato di eresia, tornava di gran giovamento
avere dalla sua il compagno di S. Francesco, che pochi anni innanzi
era tenuto in grande rispetto dallo stesso Papa.[705] E dell'opera
dell'ex francescano Federigo ebbe grandemente a lodarsi, talchè gli
affidò una delicata missione presso l'imperatore di Costantinopoli,
come si rileva da una lettera imperiale al re di Cipro.[706] Così per
tutto il resto della sua vita frate Elia si tenne stretto al partito
imperiale, nè è ben certo che si sia ricreduto sul letto di morte.[707]
L'appoggio prestato dall'Imperatore al capo dei moderati francescani è
senza dubbio una delle ragioni che mossero gl'intransigenti a giurargli
quell'odio implacabile, che traspare dalla Cronaca del Salimbene. I
rigoristi non avevano certo a lodarsi del Papa,[708] e coll'Imperatore
che voleva restituire la Chiesa alla povertà gloriosa dei primi
secoli,[709] avrebbero dovuto andar d'accordo, come fecero più tardi
con Ludovico il Bavaro. Ma l'opposizione ascetica non era ancor matura
per fondersi colla ghibellina. Gl'intransigenti francescani sebbene
aspreggiati dal Papa, si davano per i campioni più risoluti della
Chiesa, nè Federico fece un passo per amicarseli, chè anzi accolse
nel suo consiglio il capo del partito opposto. Non occorreva altro
perchè agli occhi di quegli esaltati apparisse come l'Anticristo,
preannunziato dall'_Apocalisse_.[710]


IV

Dopo la caduta di frate Elia il partito intransigente riprese vigore,
e i due generali che l'un dopo l'altro gli successero, frate Alberto
pisano, e frate Aimone inglese, forse vi appartenevano.[711] L'ultimo
scrisse un Commento ad Isaia senza dubbio sul gusto di quello
attribuito a Gioacchino, stante che gl'intransigenti abbracciavano
con fervore le idee dell'abate calabrese, e per distinguersi dai
loro avversarii volentieri si davano il nome di Gioachiti.[712] Quale
affinità corresse tra le dottrine del Florense e le francescane non è
difficile scoprire. Gioacchino avea predetto che al secondo periodo,
ovvero al regno del clero secolare sarebbe succeduto il terzo periodo,
vale a dire il regno dei monaci. I minoriti ora soggiungevano che
i veri monaci non erano nè i benedettini, sfolgorati da Gioacchino
stesso,[713] nè i florensi, che non avean saputo intendere il segreto
pensiero del loro fondatore, e si mostravano non meno avidi e litigiosi
dei loro predecessori; bensì i nuovi ordini mendicanti, e specialmente
il francescano, il quale solo avea saputo tradurre in atto l'ideale
della carità vagheggiato da Gioacchino. Oltrechè colla creazione
dei nuovi istituti, non si trattava di aggiungere ordine ad ordine,
ma d'innovare profondamente la vita religiosa; chè per conformarsi
scrupolosamente alla regola bisognava che gli uomini, cangiato il
corso delle loro idee, e soffocate le tendenze loro più abituali, si
tramutassero in angeli.

Con S. Francesco adunque più che con S. Benedetto si poteva dire,
secondo i minoriti, cominciata la nova età, l'ultimo e più splendido
periodo della storia umana, e Gioacchino stesso avrebbe a mente loro
mirabilmente predetto questi avvenimenti, chè dovunque egli parla di
due ordini si deve ben intendere dei domenicani e francescani. E se
l'allusione non era ben chiara nelle opere autentiche, altri scritti
balzavan fuori nel nome dell'abate calabrese, dove le profezie pareano
più determinate, e più trasparenti le allusioni ai fatti recenti.[714]
Nè questa sostituzione era difficile, perchè dopo la solenne condanna
delle opinioni teologiche dell'abate Gioacchino, le sue opere cadute in
sospetto si tenevan come nascoste,[715] ed il Salimbene ci narra di un
frate florense, che da Lucca le trasportò in segretezza in un convento
francescano di Pisa per sottrarle al saccheggio delle soldatesche di
Federico.[716] Siffatto mistero, che ravvolgeva le opere autentiche,
era senza dubbio la condizione più favorevole per la nascita delle
spurie. E l'ordine francescano, dove le menti erano più esaltate,
si mostrava più inchino di tutti gli altri a codesta letteratura
pseudonima. Così nel breve giro di pochi anni nacquero i commenti ai
profeti ed agli evangeli, che abbiamo già ricordato; nè solo i libri
sacri si commentarono ma benanco i profani, come le supposte profezie
della Sibilla e del Mago Merlino.

Codesta letteratura pseudonima ebbe, come dicemmo, grande credito
e diffusione; ma non sì che gli stessi gioachiti non sapessero ben
distinguere le opere autentiche dalle apocrife. Chè anzi quando si
fecero a raccogliere in un corpo solo le scritture del profeta non
vi ammisero se non la _Concordia_, il _Commento all'Apocalisse_
e il _Decacordo_.[717] Ed a queste opere, che sono come un'opera
sola, divisa in tre parti, dettero il nome di _Vangelo eterno_, che
tolsero dall'_Apocalisse_, sebbene Gioacchino non ne avesse fatto
uso.[718] Così tornarono alla luce gli scritti di Gioacchino, e senza
interpolazioni a quel che pare; ma quando occorreva di spiegare meglio
il pensiero dell'autore, o dare maggiore esattezza alle sue profezie,
gli editori vi aggiunsero delle note. Ed al tutto poi premisero larga
introduzione (_Introductorius_), in cui, pur riassumendo la dottrina
dell'abate calabrese, le dettero maggior rilievo e colore.[719]

Questa pubblicazione levò grande rumore non tanto forse per le dottrine
che vi si esponevano con insolita libertà, quanto per le circostanze
che l'accompagnarono e seguirono. Ferveva allora la guerra tra il
clero secolare ed i nuovi ordini religiosi. Il primo, geloso dei
suoi privilegi, mal permetteva che i frati imprendessero a predicare
senza invito o licenza delle autorità ecclesiastiche, ed ai parroci
facessero formidabile concorrenza nelle messe, nella confessione,
nelle sepolture.[720] E come se tutte queste ragioni di dissidio
non bastassero se n'era aggiunta una nuova e più formidabile, quella
dell'insegnamento. I Domenicani da prima, e sul loro esempio anche i
Francescani, ambivano alcune cattedre nell'Università parigina, che
era come il centro della vita intellettuale d'Europa, e dove da gran
tempo dominava indisturbato il clero secolare. I nuovi ordini certo
valevano ad imprimere più vigoroso slancio agli studii, chè gli uomini
più eminenti del secolo quali Alberto Magno, S. Tommaso, Francesco di
Hales, S. Bonaventura appartenevano ai loro sodalizii. Ma l'autorità
universitaria era ben a ragione sospettosa di codesti novi insegnanti,
i quali formavano come un'accademia a parte, emula dell'antica, ed
insofferente di disciplina.[721] E la guerra durò lunga ed ostinata, e
non ostante le quaranta bolle di Alessandro IV in favore degli ordini,
non si fece la pace se non quando ambo i litiganti furono stanchi di
lottare.

In codeste congiunture fu pubblicato l'_Evangelo eterno_, il quale
porgeva un'arme così poderosa, che si sospettò, manifestamente a torto,
non fosse stata fabbricata dagli stessi avversarii degli ordini.[722]
Certo è che il clero secolare se ne valse abilmente, ed una copia del
terribile libro fu mandata al Papa, e Guglielmo di S. Amore, nella
sua invettiva contro i mendicanti,[723] ne rilevò con mano maestra le
pericolose dottrine. Ma ora che ci venne fatto di ricordare l'opuscolo
del Rettore dell'Università parigina, non sarà inopportuno fermarvisi
alquanto per toccare di alcune somiglianze, forse non abbastanza
avvertite, tra il fare dei Gioachimiti e quello di Guglielmo. Tanto
gli uni che l'altro sostengono essere il loro tempo molto prossimo
ad una grande catastrofe, ed i segni precursori li rintracciano
concordemente colla scorta dell'_Apocalisse_ e dei Profeti. E deplorano
entrambi le calamità del loro secolo, e ne prevedono ancor maggiori
nel prossimo avvenire.[724] Ma non ostante siffatte simiglianze,
anzi forse a cagione di esse, il pensiero di Guglielmo è proprio
l'opposto del gioachimismo. Per i seguaci dell'abate calabrese i
falsi profeti, sorretti da perversi e potenti re, saranno i sacerdoti
sullo stampo d'Ario, o altro dottore simigliante dalla facile parola,
e dall'argomentar sottile; per Guglielmo invece sono i mendicanti
stessi, che usurpano gli ufficii altrui, e sotto il manto di falsa
pietà desiderano maggiori poteri, guadagnando per mezzo delle donne il
favor popolare e per via dei cortigiani quello dei principi.[725] Pei
Gioachimiti l'avvenire della Cristianità sta nella sostituzione degli
ordini mendicanti al clero secolare, per Guglielmo nel rifiorire del
sacerdozio, poi che saranno rimossi gli elementi perturbatori, che
ne minano la potenza.[726] Da questo raffronto non credo temerario
inferire che il libro _De Periculis_ s'è ispirato all'_Evangelo
eterno_, ne è per così dire la palinodia.

E codesto rapporto tra i Gioachimiti e Guglielmo di S. Amour non si
smentisce neanco negli altri scritti successivi, nè nel rifacimento
del _De Periculis_ che va sotto il titolo _Collectiones catholicae et
canonicae scripturae ad defensionem ecclesiasticae hierarchiae_,[727]
nè nel libro _De Antichristo_, che dal Le Clerc venne rivendicato
al nostro Guglielmo. Intorno a quest'ultima opera va notato che il
discorso sull'Anticristo era comune a quanti credevano alla prossima
rinnovazione del mondo. Chi fosse quest'essere misterioso, che dovea
apportare tanti danni alla Chiesa, quali segni l'avrebbero preceduto,
in qual tempo sarebbe nato, eran tutte dimande che correvano per le
bocche dei Gioachiti. L'abate calabrese avea ben pensato d'intender
per l'Anticristo non un essere unico, bensì il complesso di tutti gli
oppositori e vecchi e novi della Chiesa; ma codesta interpetrazione,
così elastica, non bastava più ai suoi successori, che amavano maggiore
precisione e determinatezza. E già sappiamo che la maggior parte dei
gioachiti intendeva Federigo II. Guglielmo riprende l'interpetrazione
di Gioacchino, e lasciando nell'ombra la figura dell'Anticristo non
ha cura di determinare se non i suoi predecessori, che già indoviniamo
quali debbono essere, quei falsi profeti, quegl'ipocriti, quei monaci
girovaghi, di cui si doleva la Regola di S. Benedetto.[728]

Ma torniamo al libro _De novissimis periculis_, che fu come il grido
d'allarme dato dal clero regolare contro i frati mendicanti. Non
occorre dire che fu condannato nel 1256 da Alessandro IV, strenuo
protettore dei nuovi ordini.[729] Il Rettore dell'Università parigina,
difendendo la gerarchia cattolica, e l'autorità dei vescovi contro le
usurpazioni fratesche avea stabilito che quest'ordinamento era stato
istituito direttamente da Gesù Cristo, e neanche il Papa avrebbe potuto
mutarla. Talchè quando il Papa concedeva ai domenicani di predicare
nel suo nome, era da supporre vi sottintendesse il beneplacito del
vescovo, senza di che il governo della diocesi non sarebbe stato
affidato ad un solo capo, ed il disordine e la ruina della Chiesa ne
sarebbe conseguita.[730] Codesta argomentazione feriva l'illimitata
supremazia del Pontefice, nè v'è da far le meraviglie che Alessandro
l'abbia condannata. Nel sostenere la causa dei domenicani il Pontefice
sosteneva la sua, perchè i frati e da predicatori e da inquisitori si
presentavano come legati del Papa, e per quanto prestigio e credito
togliessero all'autorità episcopale, altrettanto ne crescevano alla
pontificia.[731]

La condanna del _De Periculis_ portava con sè quella dell'_Evangelo
eterno_; chè se quel libro colpiva di fianco la gerarchia, questo la
feriva nel cuore. Nè Alessandro senza taccia di parzialità avrebbe
potuto passar sotto silenzio un libro denunziato dall'Università,
e mandato dal vescovo di Parigi al predecessore Innocenzo IV. Ma
d'altra parte il Papa ben sapeva che l'opera incriminata apparteneva
a quel partito gioachimita, che contava tanti illustri seguaci tra
i francescani, a cominciare da frate Giovanni da Parma, eletto a
voti unanimi generale dell'ordine sin dal 1247. Oltrechè una censura
pubblica del libro si sarebbe certo ripercossa su quei frati, dei
quali egli era stato sempre il più strenuo difensore da cardinale, e
seguitava ad esserlo da papa. Per queste ragioni decise di sottoporre
lo scritto incriminato ad una Commissione di prelati consapevoli della
gravità del verdetto, che stavano per pronunziare. I commissarii si
riunirono tosto ad Anagni, e con tutta diligenza si misero all'opera,
come si pare dal resoconto delle loro sedute, che tuttora si conserva
in due manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi.[732] Ben
s'accorsero i giudici che l'_Evangelo eterno_ constava di due parti,
l'una moderna, l'introduzione e le note, l'altra antica, le tre opere
dell'abate Gioacchino;[733] ma e l'una e l'altra condannarono del
pari come contrarie all'ortodossia, ed Alessandro s'accomodò al loro
giudizio.

Fu giusta la sentenza dei giudici, e doveva Gioacchino esser coinvolto
nella condanna dei suoi interpetri? Che l'Introduttorio e le note
fossero giudicate poco ortodosse non è da far le meraviglie, perchè
i Gioachimiti non ponevano nessuna cura ad attenuare il contrasto tra
il Vangelo del Figlio e quello dello Spirito, ovvero sia l'_Evangelo
eterno_. E questa differenza abbiamo già notata tra Gioacchino e i suoi
seguaci, che mentre ei cerca di attenuare il contrasto tra la legge
presente e la futura, e questa considera come l'integrazione di quella,
i suoi discepoli al contrario tengono a rilevarne le discrepanze.[734]
E nell'Introduttorio vien dato al nuovo Vangelo un nome differente
chiamandolo, ad imitazione dell'_Apocalisse_, _eterno_ come se
volessero contrapporlo ad un vangelo _mutevole e caduco_;[735] laddove
Gioacchino dichiara espressamente non esservi due evangeli, ma un solo,
nè usa mai il nome di _Vangelo eterno_ parlando del nuovo periodo,
bensì l'altro d'intelletto spirituale.

L'Introduttorio non dubita di affermare che il Nuovo Testamento avrà
vigore solo fino al 1260, e che da quel tempo in poi al vangelo
di Cristo succederà un nuovo vangelo, come ai sacerdoti di Cristo
sottentreranno altri sacerdoti; perchè nessuno altro potrà insegnare la
dottrina dello Spirito se non quelli che a simiglianza degli apostoli
vanno a piè nudi.[736] Gioacchino non avrebbe mai tenuto un linguaggio
così irriverente. E certo non sono estratti dalle sue opere genuine
quei passi arditi, che feriscono la Chiesa romana, come questo, che a
lei appartiene la sola interpetrazione letterale del Nuovo Testamento,
non la più profonda e spirituale, e che i Greci fecero bene a separarsi
da essa, e che la Chiesa greca cammina sulle orme dello Spirito
molto più che la latina.[737] Abbiamo già ricordate le preferenze
di Gioacchino per la Chiesa greca; ma certo non l'avrebbe esaltata
di tanto egli che soleva rimproverarle alcune istituzioni come il
matrimonio dei preti. Nè avrebbe in ogni modo approvato lo stacco delle
due Chiese, ei che tante volte lo avea rimpianto nei suoi scritti.

Non meno esplicite dell'Introduttorio son le note, che senza alcun
riguardo coloriscono quelle parti, che Gioacchino lascia nell'ombra.
Come ad esempio nei luoghi della _Concordia_ ove l'abate calabrese
aveva toccato dell'abbominio, che avrà luogo nello scorcio del secondo
periodo, le note ci dicono che cosa s'intenda per codesto abbominio,
che sarebbe il pseudo Papa, ovvero il Papa simoniaco che regnerà sul
finire del sesto tempo.[738]

Ma se l'Introduttorio e le note usavano frasi più incisive, e davano
al pensiero di Gioacchino maggiore precisione, non s'ha da inferire
che la dottrina, in esse insegnata, fosse diversa da quella del pio
abate. La copia di passi, raccolti dai giudici di Anagni, mette fuor
di dubbio, che nei punti essenziali commento e testo andavan pienamente
d'accordo. La maggior parte delle immagini adoperate nell'Introduttorio
per colorire il rapporto tra i tre periodi sono tolte di peso da
Gioacchino, sopratutto da un capitolo della _Concordia_, da noi già
citato altrove, ed accortamente rilevato dai giudici di Anagni.[739]
E se Gioacchino non adopera la parola di _Vangelo eterno_, certo è che
se avesse dovuto dare un nome all'interpetrazione allegorica dei sacri
testi, non ne avrebbe scelto un altro. Nè solo i giudici di Anagni, ma
i Gioachimiti stessi citavano un luogo del _Decacordo_, a dimostrare
che con quella denominazione non si dipartivano dall'insegnamento
di Gioacchino.[740] Un altro punto rilevavano a ragione i giudici
di Anagni, l'esaltazione del monachismo a scapito[741] del clero
secolare. Ed in verità se pure i commentatori leggevano negli scritti
di Gioacchino accenni a lui, a S. Domenico e S. Francesco, che egli
non avea fatti, nè poteva fare,[742] certo è che dei nuovi ordini
mendicanti non dicevano nè più nè meno di quel che avea scritto
lui intorno ai monaci spirituali. Il monachismo per Gioacchino è un
istituto, che col tempo assorbirà tutti gli altri della Chiesa, quando
al Vangelo inteso secondo la lettera sottentrerà il vero spirito
evangelico. Allora succederà una profonda innovazione, ed a quel modo
che la legge mosaica venne abolita all'apparire della nuova legge, così
il Vangelo letterale dovrà cedere alla nuova interpetrazione. La parola
_evacuatio_ applicata al vangelo non appartiene ai Gioachimiti, ma a
Gioacchino stesso, il quale, benchè non osasse confessarlo a sè stesso,
era pur portato dalla sua teoria dei tre stati alla conseguenza, che il
secondo debba scomparire per far luogo al terzo.[743] E questa teoria
avea profonde radici nelle sue convinzioni teologiche, formulate non
pure nell'opuscolo polemico che nel 1255 non esisteva più, ma nel
_Decacordo_, e nel _De Articulis fidei_, come appar chiaro dai passi,
che i giudici di Anagni seppero raccogliere.[744]

La condanna dunque del Gioachimismo era giusta, e per nulla
esagerato il grido d'allarme levato dal clero parigino. La dottrina
dell'_Evangelo eterno_ menava dritto alla distruzione della gerarchia,
stantechè nel terzo periodo ha da prevalere quella legge d'amore, che
agguaglia tutti i membri della società umana, sciogliendoli dai vincoli
della subordinazione. Non è dunque meraviglia che Alessandro IV l'abbia
solennemente riprovata, ingiungendo al vescovo di Parigi di sequestrare
e bruciare tutti i libri dove fosse esposta.[745]

Ma chi è l'autore dell'_Evangelo eterno_? L'Eccard, che scrisse
nella seconda metà del secolo decimoquarto, l'attribuisce secondo
la comune tradizione a Giovanni da Parma.[746] Il Salimbene
invece nomina esplicitamente un altro gioachimita, Gherardo di S.
Donnino.[747] E l'autorità del Salimbene, cronista contemporaneo,
e gioachimita anche lui, è tale, che tutti gli scrittori moderni vi
s'acquetarono. Il buon frate, ammiratore ed amico del suo generale,
avea certo tutto l'interesse di nascondere la verità, ma che la sua
testimonianza almeno in parte sia veridica, è provato dal resoconto
del processo di Anagni, dove esplicitamente è detto che l'autore
delle note è frate Gherardo. Se non che è da dubitare che l'autore
delle note abbia anche scritto l'Introduttorio, perchè gl'inquisitori
d'Anagni nel citare i passi dell'Introduttorio si sarebbero serviti
della stessa dicitura, che costantemente adoperano per le note, nè
avrebbero dato come anonimo l'Introduttorio, mentre tutte le volte
che vien fatto di citare una nota, ripetono costantemente il nome
dell'autore.[748] L'ipotesi più semplice per spiegare le reticenze è
questa, che l'autore dell'Introduttorio sia diverso da quello delle
note, e che agl'inquisitori rincresca di nominarlo. E se codesto
autore fosse Giovanni da Parma, che godeva una grande reputazione di
santità, ed a quel tempo era tuttora generale dell'ordine, i riguardi
degl'Inquisitori sarebbero facilmente spiegabili.[749] Se la cosa
stesse così, dovremmo ammettere che la compilazione dell'_Evangelo
eterno_ non appartenga ad un solo, bensì a due e forse anche a tre
membri del partito gioachimita. L'un d'essi, il più autorevole, scrisse
l'Introduzione generale, l'altro o gli altri le glosse introduttive ed
esplicative.[750]

Questa ipotesi spiegherebbe perchè dopo la condanna dell'_Evangelo
eterno_ venissero sottoposti a processo non solo fra Gherardo, ma fra
Giovanni e fra Tommaso e tutti e tre condannati del pari. Nè fanno
intoppo le ragioni che il Wadding e l'Affò hanno recato per scagionare
fra Giovanni.[751] Perchè al di sopra di tutte le apologie sta il fatto
che fra Giovanni apparteneva al partito gioachimita, anzi ne era come
il capo e l'ispiratore.[752] E noi vedemmo che tra l'Introduttorio e
le opere autentiche di Gioacchino non corre disparità sostanziale, se
non che in quello sono più nettamente e con maggior vigore formolate
le stesse dottrine, insegnate in queste. Se dunque ripugna che abbia
scritto l'Introduttorio un uomo di grande pietà, da Innocenzo IV
mandato per gravi missioni in Grecia, e da questo e da Niccolò III[753]
preposto ad alti ufficii, ripugnerà altresì che egli abbia appartenuto
al partito gioachimita, e creduto nel prossimo avvenire di una nuova
fase nella vita religiosa dell'umanità.[754]

Ma chiunque sia stato l'autore dell'_Evangelo eterno_, certo è che la
condanna del libro fu un terribile colpo per la frazione gioachimita
dei francescani, e le stesso generale dell'ordine, appartenente
a quella parte, fu costretto a dimettersi, come un tempo toccò al
capo della parte moderata.[755] Gli successe un uomo di gran cuore
e di grande mente, S. Bonaventura, il quale sapeva tenersi lontano
dagli eccessi dei due partiti, e difensore caloroso della povertà,
sapea pur tener conto dei temperamenti necessarii alla pratica della
vita. I cronisti francescani raccontano che fra Giovanni stesso avea
indicato a suo successore fra Bonaventura. Ma questo racconto, dovuto
all'industre pietà dei narratori, che amavano di attenuare i contrasti,
e mostrare l'ordine molto più unito di quel che in realtà fosse, è
in contraddizione con altre fonti gioachimite che presentano sotto
altra luce S. Bonaventura.[756] Però questo è fuor di dubbio, che il
nuovo generale si comportò con molta umanità verso il partito dei
gioachimiti; nè frate Ugone, nè il Ghiscolo, nè altri molti furono
molestati, benchè è da credere che non abbiano rinunziato all'antica
fede. I soli perseguitati furono gli autori del libro condannato tra
i quali lo stesso generale, testè rimosso.[757] Non valse la dignità
dell'ufficio disimpegnato con apostolico zelo per lo spazio di dieci
anni, non valse la santità della vita, e la grande reputazione a
salvare fra Giovanni, il quale insieme ai suoi compagni, fra Gherardo
e fra Leonardo, sarebbe stato condannato alla prigionia perpetua, se
non fosse accorso in suo ajuto il cardinale Ottoboni, che fu poi papa
Adriano V.[758] In grazia di questo potente intercessore fu concesso
a Giovanni di scegliersi il luogo del suo ritiro, mentre Leonardo e
Gherardo morirono in prigione.[759]


V

Queste misure di rigore portarono lo scoraggiamento nei Gioachimiti, e
parecchi senza dubbio sentirono intiepidire la loro fede, come accadde
al Salimbene, che morto Federico II, prima di avere apportato alla
Chiesa gli estremi danni, cominciò a dubitare delle dottrine a lui sì
care, e le sconfessò del tutto allorchè si chiuse il fatale anno 1260,
senza la sperata innovazione.[760] Ma se i più vacillavano, non mancava
certamente chi tenesse fermo negli antichi convincimenti, e le dottrine
di Gioacchino rinfrescasse adattandole alle nuove condizioni. Tale fu
Pier Giovanni Olivi, col quale la _Cronaca_ a noi già nota comincia la
quinta tribolazione.

Nacque il nostro frate nel 1247 a Serignano nella diocesi di Béziers;
a dodici anni entrò nella religione dei minoriti, il che non gl'impedì
di fare i suoi studii nell'Università parigina, ove prese il grado
di baccelliere.[761] Scrisse molti libri, tra i quali uno in lode di
Maria, ove pare avesse talmente esaltata la vergine, che il generale
dell'ordine, succeduto a S. Bonaventura, fra Girolamo d'Ascoli,
lo condannò a bruciare il libro colle sue mani.[762] Questa prima
persecuzione ebbe luogo nel 1278; e ben presto le tenne dietro un'altra
più grave. In un Capitolo generale tenuto a Strasburgo nel 1282 fu
accusato d'eresia, e l'anno dopo il generale Bonagrazia si recò a bella
posta in Francia per fare esaminare gli scritti di lui, che da una
Commissione di quattro dottori e tre baccellieri, furono condannati
come pericolosi. Nel frattempo il generale morì, ed essendosi l'autore
sottomesso,[763] le persecuzioni cessarono per ricominciare nel 1285,
quando il nuovo generale, Arlotto da Prato, lo chiamò a Parigi per
difendersi dalle accuse, che gli movevano Riccardo di Middleton e
Giovanni di Muro. Pietro v'andò e si difese abilmente, e confuse così
i suoi accusatori, che il generale non ebbe animo di condannarlo.[764]
Cinque anni dopo ricominciarono le persecuzioni non in verità contro di
lui, bensì contro i suoi discepoli, che per ordine dell'antico generale
Girolamo Ascolano, divenuto ora papa Niccolò IV, vennero inquisiti e
condannati. Il maestro fu risparmiato per quella volta;[765] ma nel
1292 ebbe novamente a scolparsi innanzi ad un Capitolo tenuto a Parigi,
e fu salvo in grazia di alcune accorte dichiarazioni.[766] Morì il 6
marzo 1297, e dal letto di morte par che abbia ribadita la dottrina
esposta nei suoi scritti.[767]

Di questi scritti io non conosco se non alcuni opuscoli intorno alla
povertà, ed i commenti all'Evangelo di Matteo e di Luca manoscritti
nella Laurenziana. Frammenti delle quistioni quodlibetali ci sono
conservati nella sentenza pronunziata dai sette dottori nel 1282. Del
_Commento all'Apocalisse_ abbiamo molti estratti nel rapporto della
Commissione dei teologi incaricata da Giovanni XXII dell'esame di
questo scritto.[768]

Qual'era la dottrina insegnata in codesta opera? La quistione
dell'interpetrazione da dare alla Regola di S. Francesco, quando
meglio si credeva sopita rinasceva con maggior furore. Si era cercato
di sfuggirle dando la proprietà dei beni al Papa, e l'uso di essi ai
frati. Ma codesta finzione legale salvava solo in apparenza la regola,
che sotto il pretesto di farne omaggio al Papa, i minoriti avrebbero
potuto accettare lasciti e doni non meno degli altri ordini religiosi,
e per tal guisa quelli, che si dicevano mendichi o poveri di Cristo,
poteano vivere più lautamente dei benedettini. Rinacque dunque la
quistione, e gl'intransigenti con a capo Pier Giovanni Olivi dicevano,
che per conformarsi alla regola di S. Francesco non bastasse rinunziare
alla proprietà dei beni, ma anche il loro uso dovesse andare ristretto
nei più angusti confini. Per essere veramente poveri bisognava che
l'uso fosse povero del pari. Certo era difficile definire in che cosa
consistesse l'uso povero, e codesta difficoltà dava buon gioco agli
avversari di cogliere in fallo la dottrina degl'intransigenti;[769] ma
chi voleva intendere, sapeva bene a che tenersi. E si capiva benissimo
che i difensori dell'uso povero voleano proscrivere tutto ciò che non
fosse strettamente indispensabile pel sostentamento della vita.[770]
Così ad esempio è necessaria la casa, ove i frati possano convivere,
ma un comodo ed elegante fabbricato non è lecito possederlo nè in
proprietà nè tampoco in usufrutto. È permesso servirsi del pane, che
s'accatta di porta in porta, ma è severamente proibito di tenere ben
provvisti i granai e le cantine del convento.[771] Il seppellire i
morti nella propria chiesa è certo un'opera meritoria, ma i frati, a
cui è vietato di accettar denaro, non possono riscuotere i diritti, che
il clero secolare ricava dalle sepolture. E se a cagione di siffatti
guadagni il clero contende ai frati questo pio ufficio, come tanti
altri parimenti lucrosi, dev'essere proibito severamente di mover
liti, che sono così contrarie allo spirito della Regola.[772] La quale
impone severamente codesto uso povero, e quelli, che le abbiano giurata
obbedienza, debbono osservarlo, se anche diventino vescovi o cardinali.
Codesto era un punto molto delicato. La regola avea consigliato di
schivare gli onori ecclesiastici, ma in pratica anche i zelanti, come
il Salimbene, non che avversare, favorivano le promozioni dei frati,
per fermo assai vantaggiose all'ordine. Volevano solo che anche nel
nuovo stato si sentissero tuttora membri dell'antico sodalizio, ed alla
regola strettamente si conformassero,[773] perchè dal loro giuramento
neanche il Pontefice li poteva sciogliere. Dottrina ardita codesta,
che limitava il potere del sommo gerarca, ed apriva il varco a teorie
più radicali. Per ora il pericolo era lontano, perchè il pontefice
Onorio III nella bolla _Qui exiit_ l'avea data vinta agl'intransigenti
prescrivendo l'uso povero, e condannando qualunque interpetrazione o
attenuazione che si volesse ulteriormente dare della Regola.[774] Ma
l'esperienza avea provato che non sempre i pontefici se l'intendevano
col partito del rigore, e si poteva ben prevedere, quello che di
fatto avvenne, che la pace non sarebbe durata lungo tempo.[775] Perchè
gl'intransigenti non aveano scordate le idee gioachimite, e contro il
clero secolare e la Chiesa di Roma seguitavano a nutrire la diffidenza
e l'odio, punto dissimulati nell'_Evangelo eterno_.

Che Pier Giovanni Olivi fosse tenero delle idee gioachimite,[776] e
le modificasse per adattarle ai tempi nuovi, è fuor di dubbio. Una
prova inconfutabile ce la porge il _Commento all'Apocalisse_ scritto
nello stile non di Gioacchino, ma dei suoi più fervidi commentatori,
e dove son fatte all'interpetrazione gioachimita quelle mende e
ritocchi, necessarie ormai per le mutate condizioni dei tempi. Così il
re dell'_Apocalisse_ non sarà più Federigo II, già morto da un pezzo,
bensì qualcuno del seme maledetto, che sarà per conquistare non pure
l'impero romano, ma la Francia eziandio.[777] Il terzo periodo che
per Gioacchino cominciava da S. Benedetto, e per i gioachimiti dal
1200 (anno in cui Gioacchino pubblicò i suoi libri) per l'Olivi invece
comincia dal tempo in cui la regola di S. Francesco fu impugnata e
condannata dalla Chiesa carnale.[778] Per i gioachimiti l'angelo che
porta l'_Evangelo eterno_ è Gioacchino stesso, per l'Ulivi invece
è S. Francesco, il quale ad imitazione di Cristo risorgerà al tempo
delle tribolazioni, come ad imitazione del Crocifisso portò le sacre
stimate.[779] Per Gioacchino tutta la storia dell'umanità va divisa
in sette periodi, per l'Ulivi invece soltanto quel tratto di storia
che corre dalla predicazione di Cristo alla consumazione dei secoli,
sicchè a ciascuno di questi periodi poneva cominciamento e fine diversi
da quel che solessero e Gioacchino, e i Gioachimiti insieme.[780] Ma
queste differenze non toccano l'accordo fondamentale delle dottrine.
Anche per l'Ulivi si debbono distinguere tre fasi nel corso religioso
dell'umanità; la prima, che appartiene al Padre, ove regna il timore e
la legge; la seconda, che appartiene al Figlio ove domina la sapienza,
e si predica l'evangelo; la terza che appartiene allo Spirito, ove si
svela tutta la verità, e la legge evangelica viene intesa ed osservata
in tutta la purità sua.[781] E come l'Evangelo pose fine alla legge
mosaica, così l'Evangelo nuovo farà cadere l'antico,[782] ed al clero
secolare che mal si conforma ai precetti di Cristo sottentrerà il
monacato che spoglio di effetti terreni menerà una vita di sacrifizi e
di povertà, in una parola la Chiesa carnale, simboleggiata nell'impura
donna dell'_Apocalisse_, farà luogo alla Chiesa spirituale.[783] Ma
prima del trionfo la Chiesa spirituale sarà combattuta aspramente
dalla carnale, come il Cristianesimo fu perseguitato a morte dalla
Sinagoga.[784] E se S. Francesco non fu condannato al pari di Cristo,
e la guerra contro al sodalizio francescano scoppiò non nel suo
cominciamento, ma alquanto più tardi, ciò si deve a varie ragioni,
tra le quali la principale che l'analogia non esclude le differenze, e
benchè la Chiesa carnale dovesse comportarsi come la Sinagoga, non era
necessario che agisse con pari prontezza.[785] Codeste lotte però non
debbono scoraggiare i fedeli seguaci dell'uso povero, perchè l'avvenire
è loro, nè molto andrà che sarà pronunziato il tremendo giudizio sulla
nuova Babilonia.[786]

Queste idee doveano incontrare fiera opposizione non pure nel partito
moderato, ma benanco in quella parte degl'intransigenti, che pur
professando la teoria dell'uso povero, non volevano romperla colla
corte di Roma. E forse fino dalle prime persecuzioni contro Giovanni
Olivi si formarono i tre partiti, a cui accenna la testimonianza di
un beghino, i Conventuali che si attenevano all'interpetrazione più
larga della Regola, i Fraticelli che abbracciavano la più rigida ma
non accoglievano per questo le idee gioachimite, infine gli Spirituali
che aspettavano il trionfo dell'uso povero dalla totale rinnovazione
della Chiesa e del mondo.[787] Il nome di fraticelli sarà stato ancor
prematuro al tempo di Giovanni Olivi, ma non è men vero che il partito,
che più tardi prese questo nome, era già formato ed ottenne dal
pontefice Celestino V che si staccasse dal resto dell'ordine e formasse
una corporazione a sè sotto il nome di Celestini o _pauperes heremitae
domini Coelestini_. Codesto sodalizio che aveva a capo fra Liberato,
ed a poeta fra Jacopone, fu costretto ad esulare in Grecia, quando al
Papa che fece per viltate il gran rifiuto successe Bonifacio VIII.[788]
E neanche lì potè vivere in pace, ed i suoi membri perseguitati per
sollecitazione del Papa dal patriarca di Costantinopoli ebbero a far
ritorno in Italia. E fra Jacopone stette molti anni in prigione, e fra
Liberato morì di stenti e di crepacuore.[789] Simili travagli ebbero a
sostenere alcuni frati della Marca, che condannati ad una carcere dura,
non ne uscirono se non per ripartire verso il lontano oriente, ove
parecchi subirono eroicamente il martirio.[790]

Ma più gravi furono le persecuzioni contro gli Spirituali. Essi eran
cresciuti così di numero che quando fu assunto al cardinalato il
generale Matteo d'Acquasparta, al quale Dante rimprovera la fiacca
interpetrazione della regola, riuscirono a far nominare all'alto
ufficio uno dei loro, Raimondo Gaufrido, amico ed ammiratore
dell'Olivi.[791] E per fino fuori dell'ordine francescano par che
trionfasse la loro propaganda, quando dopo due anni e tre mesi di
vacanza i cardinali levarono al soglio pontificio l'eremita Pietro de
Morrone (1294). Ma queste fortune durarono ben poco. Che dopo pochi
mesi il buon Celestino depose la tiara, e il suo successore rimosse
dall'ufficio fra Gaufrido sostituendogli quel Giovanni di Muro, che era
stato tra i più fieri persecutori dell'Olivi. Allora ricominciarono le
dolorose prove per gli Spirituali. Il loro capo non venne risparmiato
neanco morto, chè il nuovo generale avendone fatte condannare le opere
da un Capitolo generale, ordinò che si bruciassero insieme al cadavere
dell'autore, tolto alla pace del sepolcro sei mesi dopo che v'era stato
calato con solenni esequie.[792] Fu proibito ai frati di leggere e
serbare libri maledetti, ed un fra Ponzio, che non volle consegnarli al
suo superiore morì in prigione tra stenti e sofferenze incredibili, e
molti altri frati furono perquisiti ed incarcerati.[793]

Ma codeste misure di rigore non scoraggiavano i seguaci dell'Olivi,
ed uno fra essi, Ubertino da Casale, ebbe il coraggio di prenderne le
difese, e scrivere contro i potenti accusatori una calda apologia.
Ubertino nacque nel 1259, e quattordicenne entrò nell'ordine dei
Minori. Lesse per nove anni nello studio parigino, e tornato in Italia
continuò nell'insegnamento per altri quattro; poscia abbandonata la
cattedra si mise alla predicazione, fino a che gli fu imposto silenzio
dai suoi superiori, che lo mandarono nell'eremo della Vernia, ove
scrisse un libro, tuttora esistente, _arbor vitae crucifixae_.[794]
La ragion per cui fu imposto silenzio al focoso predicatore non è
difficile scoprire. Egli apparteneva al partito intransigente, e
forse pubblicò la sua prima apologia di Giovanni Olivi alla morte di
Bonifazio VIII, quando si sperava che col nuovo papa cessassero le
fiere persecuzioni contro gli spirituali. Mi pare molto improbabile
che ei l'avesse scritta prima, come sospetta il Wadding, perchè da
una parte non sarebbe andato impunito, e dall'altra la _Cronaca delle
Tribolazioni_ dice espressamente che fra Ubertino fu accusato al papa
Benedetto XI (1303-1304), e seppe così abilmente difendersi da andare
assolto.[795] Ma quando che fosse scritta, l'apologia era intesa a
provare: 1º che Pier Giovanni nè nella Postilla all'_Apocalisse_ nè in
altro libro non parlò mai irreverentemente della Chiesa, alla quale
invece si mostrò sempre devoto; 2º che l'uso povero è siffattamente
ortodosso da potersi dire la lampada della nostra fede;[796] 3º che
le persecuzioni, patite dai rigidi osservatori della Regola, sono
mostruose, ed il Papa deve interporre la sua autorità per farle
cessare.

Così si rinnovarono le contese tra i conventuali e gli zelanti, ed
entrambi concordemente se ne appellavano al Papa. Benedetto XI morì
prima di poter dare alcun provvedimento, ma il successore Clemente V
credette opportuno di riprendere la cosa in esame. E chiamò in Avignone
molti francescani, tra i quali il generale dell'ordine che sosteneva
le ragioni dei conventuali, e l'ex generale fra Gauffrido, insieme ad
Ubertino da Casale, fra Siccardo ed altri molti, che rappresentavano la
parte degli spirituali. E comandò che fin che la controversia non fosse
composta dal collegio dei vescovi e cardinali da lui stesso nominato,
dovessero cessare tutte le misure di rigore per ragione di opinione.
E principalmente quegli tra gli Spirituali, che egli aveva chiamati
alla Corte, sottrasse alla giurisdizione dei loro superiori,[797] e
volle che si riprendesse l'esame delle dottrine di Pier Giovanni, e si
definissero i punti controversi della regola più chiaramente che non
fosse riescito a Niccolò III.

Le discussioni durarono lungamente, i due partiti si rimandarono le
opposte accuse di licenziosi od ipocriti colla consueta acredine.
Gli uni rimproveravano agli altri di voler scalzare l'ordine colla
fiacca interpetrazione della regola, e l'abbandono di quello spirito
di assoluto sagrifizio e di fervida carità, che l'informa; gli altri
replicavano che la rovina dell'ordine viene da coloro che mettono la
propria opinione al di sopra del dovere d'obbedienza, ed intendono la
regola in modo così rigido da non potersi umanamente osservare.[798]
Il più abile tra tutti par che fosse Ubertino, perchè riuscì non solo
a convincere delle verità dell'uso povero, ma benanco a scagionare Pier
Giovanni dalle accuse che gli si movevano. Ed in virtù di queste difese
il Papa nel Concilio di Vienna condannò alcune dottrine teologiche
di Pier Giovanni, ma tacque il nome dell'autore, e pronunziò la sua
decisione, come se si trattasse di punti controversi, intorno ai quali
prima della decisione si potesse opinare in un modo o nell'altro senza
incorrere in eresia.[799] Le altre dottrine di Pier Giovanni, e certo
le più importanti, come quella dei tre stati e dell'uso povero non
solo furono risparmiate, ma una di esse fu solennemente adottata nella
nuova interpetrazione che Clemente dette della regola francescana.[800]
Gl'intransigenti trionfarono di nuovo, ma anche questa volta per
poco. Il partito dei conventuali, non ostante la vittoria dei loro
avversarii, riuscì nel 1313 a creare generale dell'ordine uno dei suoi,
frate Alessandro di Alessandria, stato già appo Clemente uno dei più
vigorosi difensori dell'ordine contro Ubertino di Casale e gli altri
seguaci dell'Olivi.[801] Il che prova quanto fosse numeroso ed audace
codesto partito, il quale anche dopo le raccomandazioni di Clemente non
cessava di perseguitare gli spirituali.[802]

Per tal guisa seguitarono i dissidii, principalmente nella provincia
toscana, ove gl'intransigenti, seguendo l'esempio dei Celestini,
decisero di staccarsi dall'ordine, e formare un corpo a sè.[803]
Parimenti nelle provincie di Narbona e di Béziers, ove la memoria
di fra Pier Giovanni era più viva, i frati zelanti non vollero più
far vita comune coi loro avversarii, e vestita una tunica più corta
e tutta logora e rattoppata, si ridussero in meschini ricoveri, ove
metteano in pratica le regole dell'uso povero. Codesti frati, che si
dissero per umiltà fraticelli, non poterono certo trarre dalla loro
tutti gli spirituali, e molto meno il capo, Ubertino da Casale, il
quale ben sapeva, che entrando nella nuova comunità avrebbe perduto
in un punto tutto il favore, che s'era acquistato presso il Papa. Nè
furono più fortunati appo Clemente, il quale pur approvando l'uso
povero, non volea a nessun patto che servisse di pretesto ad una
scissione dell'ordine. E scrisse lettere severe ai vescovi di Genova,
Lucca e Bologna per richiamare i dissidenti all'obbedienza, e fulminò
la scomunica contro i ricalcitranti.[804] Perlochè come al tempo di
Celestino, si formarono ora di nuovo i tre partiti nell'ordine dei
francescani, i conventuali, i dissidenti o fraticelli, gli spirituali.
Ma gli ultimi due insieme uniti non eguagliavano nè per numero nè
per forza il primo, il quale ben seppe trarre profitto dall'errore
commesso dai dissidenti toscani e narbonesi per agire più severamente
contro gli avversarii. E le circostanze stesse furono loro propizie,
che a non lungo andare morì Clemente V (20 aprile 1214), e dopo una
vacanza di due anni e quattro mesi fu assunto al trono pontificio
un uomo punto mistico e poco scrupoloso, Giovanni XXII (scelto il
7 agosto, e coronato il 5 settembre 1316). Allora il partito dei
conventuali ebbe la mano libera; il nuovo generale Michele da Capua
potè agire energicamente contro i dissidenti, e lo stesso Ubertino da
Casale ebbe a chiedere in grazia al nuovo Papa il trapasso dall'ordine
francescano a quello dei benedettini. Strano destino del capo degli
spirituali, il quale dopo aver predicata la necessità dell'uso povero,
entra nell'ordine, che a detta di Gioacchino più si allontanava da
quell'uso.[805]


VI

Con Giovanni XXII comincia un'altra fase del movimento francescano. Ad
istanza del generale Michele da Cesena il nuovo Papa non solo scrisse
lettere più incalzanti a principi e vescovi contro i dissidenti,[806]
ma nell'aprile del 1317 in loro danno pubblicò la costituzione
_Quorundam_ per stabilire che la qualità della tunica e le sue
dimensioni debbono essere determinate dai superiori locali, ed al loro
giudizio venga lasciato se pei bisogni del convento si debbano tener
provvisti e granai e cantine.[807] La povertà, aggiunge il Papa, è
una grande cosa, ma al di sopra di lei sta la conservazione di sè,
e al di sopra di entrambe l'obbedienza ai legittimi superiori.[808]
Così la quistione dai meschini piati frateschi era sollevata alla
sua vera altezza. Da una parte s'affermava come primo dovere quello
dell'obbedienza assoluta, senza di che è impossibile la rigida
gerarchia, dall'altro si teneva duro a metter l'osservanza scrupolosa
della regola innanzi a qualunque altro dovere. Imperocchè, la regola
è come l'Evangelo di Cristo, e chiunque porti offesa a lei, viola la
fede; nè c'è persona, per quanto alto sia il suo ufficio, che stia
al di sopra della Regola; talchè quando o il Papa o altro chiunque
comandi qualche cosa che sia contro questa, gli si deve per la
salvezza dell'anima negare obbedienza. Tali dottrine sostenevano
gl'intransigenti francescani, e quattro di essi nel 1318 in Marsiglia
anzi che sconfessarle, preferirono di lasciare la vita sul rogo[809]
e molti altri fuggirono appo gl'infedeli.[810] Certo non eran nuove,
e l'inquisitore a ragione ne riconobbe la prima fonte nell'Olivi,
le cui opere vennero in quel tempo ancora una volta esaminate e
condannate.[811] Ma se l'Olivi aveva detto che S. Francesco era come un
nuovo Cristo, che sofferse al pari di lui, e forse come lui risorgerà,
ora s'aggiunge che la Regola bandita da S. Francesco, per diretta
inspirazione di Dio è da tenersi non meno del Vangelo, ed al pari di
quello non può essere nè abolita, nè forse anco modificata.[812] E la
vita povera, che essa prescrive, è la vera vita evangelica, perchè nè
Cristo, nè gli Apostoli possedevano nulla in proprio, ed a simiglianza
dei frati spirituali andavan ramingando e stentando la vita.[813]

La quistione, come si vede, si faceva grossa. Non si trattava più
di sapere quanti centimetri dovesse esser lunga la tunica, o di
qual rozzo panno contesta; nè si chiedeva più se fosse lecito tener
granai e cantine, o stringere contratti per mezzo dei procuratori.
Gl'intransigenti sotto questi meschini pretesti miravano ben più
alto, a dichiarare cioè che la vita prescritta dalla regola non
differisce dall'evangelica, e che ad essa si fosse conformato Gesù, e
gli Apostoli, e ad essa quindi dovrebbero conformarsi non soltanto i
frati Minori, ma i cristiani tutti che debbono porre l'Evangelo a norma
della loro vita; il che è come dire che non solo il clero, ma tutta la
Cristianità dovesse tramutarsi in un vasto cenobio francescano. Contro
siffatte massime protestavano già da un pezzo i frati domenicani, emuli
dei francescani, e professanti anche loro il vòto di povertà, ma così
temperato che ben poco differivano per codesto capo degli altri ordini;
ed uno di essi, l'inquisitore fra Giovanni di Belna,[814] citò al suo
tribunale un beghino narbonese per avere affermato secondo un'antica
cronaca «che Cristo e gli apostoli, via di perfezione seguitando, niuna
cosa ebbono per ragione di proprietade e di signoria nè in ispeziale,
nè eziandio in comune. Il quale inquisitore, seguita la cronaca,
vogliendo giudicare il detto bighino, chiamò a consiglio tutti i priori
e guardiani e lettori de' religiosi e molti altri savi. Intra' quali
fu presente frate Beringario Talloni, lettore nel convento de' frati
minori da Nerbona. Et intra l'altre cose che il predetto inquisitore
fece leggere, (si fu) il predetto articolo della povertade di Cristo
e degli appostoli suoi, per lo quale voleva condannare questo cotale
bighino. Ma il predetto frate Beringario lettore, sopra il detto
articolo richiesto, rispuose che questo dire non era eretico, ma era
dottrina sana, cattolica e fedele massimamente, conciò sia cosa che
questo fosse diffinito per la chiesa cattolica nella dicretale che
comincia: _Exijt q. seminat_. La quale cosa fatta, nè più nè meno, come
se il detto lettore avesse affermata eresia, il predetto inquisitore
comandò a questo medesimo lettore che il detto suo immantinente, in
presenza di tutti, rivocasse. Il quale lettore non volse rivocare
per niuno modo, ma imperò ch'era costretto a rivocare quella cosa
che era sana e cattolica, e come sana e cattolica diffinita per la
chiesa. E temendo per questo d'essere agravato per molti modi contra
la giustizia, alla sedia appostolica solennemente appellò, e colla
sua appellazione venne a Vignone dove il predetto papa Giovanni allora
colla sua corte risedeva».[815]

La quistione, sottoposta al Papa, era ben grave. Deciderla contro i
francescani non si poteva senza contraddire alla bolla _Qui exiit_,
ben a proposito invocata da fra Berengario;[816] deciderla contro i
domenicani sarebbe stato lo stesso che darla vinta agl'intransigenti,
contro i quali Giovanni avea già cominciato a pronunziarsi. In tanta
incertezza il Papa sottopose la vertenza ai più dotti teologi, e tra
gli altri ad Ubertino da Casale, il quale per mostrarsi nello stesso
tempo grato al suo protettore, che gli avea concesso il passaggio
ai benedettini e fedele al suo partito emise un parere, che dovea
contentar tutti, e tutti scontentò.[817] Le mezze misure ormai
a nulla approdavano. Al punto cui erano giunte le cose bisognava
prender partito o per l'uno o per gli altri,[818] e Giovanni lo prese
animosamente, e dopo un lungo concistoro,[819] si decise a revocare la
bolla di Niccolò III, dichiarando: la vera interpetrazione della Regola
non essere peranco trovata; e dopo le nuove quistioni insorte occorrere
nuovi studii per risolverle, ed esser quindi necessario, di togliere
il divieto delle glosse e commenti, per lasciar campo alla libera
discussione,[820] dalla quale sarebbe emersa la verità.

Questa misura radicale provocò le proteste di tutti i francescani.
Non solo gli spirituali ed i fraticelli, ma benanco i conventuali
se ne risentirono, e lo stesso generale fra Michele da Cesena, che
sinora avea agito con tanta energia contro i dissidenti, ed insieme
all'inquisitore narbonese avea dichiarate eretiche le dottrine dei
beghini e spirituali, ora credendo minacciate le fondamenta stesse
dell'ordine, si mise a capo dell'opposizione contro il Papa. E
convocato un Capitolo generale in Perugia il 4 giugno 1322, fece
dichiarare solennemente «che la renunziazione della proprietà di
tutte le cose sì in speciale come eziandio in comune fatta per Dio,
è meritoria e santa, la quale renunziazione Cristo, via di perfezione
mostrando, per parola la 'nsegnò, e per esemplo la confermò; e la quale
i primi fondatori della Chiesa militante, cioè li apostoli, sì come
da essa fonte, cioè Cristo, aveano attinto, in coloro che volgliono
perfettamente vivere, per rivi di dottrina e di loro vita, dirivarono.
La quale determinazione della Chiesa nel VI libro per essa Chiesa
cattolica è inframessa e per altra decretale nel Concilio di Vienna
promulgata e divulgata...... Et ultimamente per lo santissimo padre
e signiore, messer Giovanni, per divina provvidenzia, papa vigesimo
secundo, in alcuna sua dichiarazione fatta sopra la regola e sopra
lo stato de' frati minori, che comincia: _Quorundam exiit_, è questa
medesima dichiarazione molto commendata, come santamente composta,
soda, lucida e con molta maturità esaminata».[821]

Tale protesta fu come un guanto di sfida al Papa, e Giovanni
lo raccolse. E per tutta risposta pubblicò la celebre bolla _ad
Conditorem_, nella quale sostenne esser lecito di revocare i decreti e
le costituzioni dei predecessori, quando l'esperienza, maestra della
vita, dimostra che falliscono al fine per cui furono promulgate. E
criticò con vigore l'espediente imaginato dai suoi predecessori di
attribuire alla Chiesa la proprietà di quello, che i frati minori
usano per le necessità della vita. Imperocchè, ei dice, v'ha cose
che struggendosi coll'uso non consentono ne sia proprietaria una
persona diversa da chi le adopera. E nel fatto i mendicanti più che
usufruttuari ne sono i veri padroni, e le vendono e le barattano,
quando loro torni, per mezzo dei loro procuratori, talchè la Chiesa
ha solo di nome siffatta proprietà, della quale altri raccoglie i
frutti, ella invece i danni e l'onta d'interminabili liti. Per queste
ragioni Giovanni dichiarò di rinunziare alla proprietà dei beni
spettanti ai frati minori all'infuori degli stabili, o degli arredi
delle chiese,[822] sicchè i minoriti contro loro volere tornavano
proprietarii a simiglianza degli emuli loro, i frati predicatori.
Era una misura audace codesta, ed i francescani per mezzo del loro
procuratore Buonagrazia da Bergamo[823] seppero ben rilevare come
rompesse contro la tradizione pontificia da Gregorio IX a Clemente
V; ma Giovanni tenne duro, e messo in prigione l'audace autore della
protesta, ritirò la prima bolla per pubblicarne un'altra più diffusa
sotto la stessa data e colla stessa iniziale della precedente.[824]
Nè di ciò pago, più tardi con decretale del 12 novembre 1323 condannò
come eretica la dottrina sostenuta dal Capitolo generale di Perugia
intorno alla povertà di Cristo e degli apostoli.[825] E facendosi
contro codesta bolla sempre più vive le opposizioni, alle quali fece
eco Ludovico il Bavaro nella protesta di Sachsenhäusen,[826] non dubitò
Giovanni di difenderla nella decretale del novembre 1324, combattendo
punto per punto gli argomenti degli avversarii.[827]

Ma non ostante che la lotta fosse già così ardente, pure i minoriti non
seguirono l'esempio dell'Imperatore, e per tre anni di seguito agirono
copertamente senza romperla del tutto col Papa; talchè il loro generale
quando fu chiamato alla corte pontificia,[828] si fece scusare per la
malattia, che lo tratteneva a Tivoli,[829] e non appena ristabilito si
recò in Avignone. Se non che ben presto le cose volsero al peggio. Il
Papa nell'udienza solenne del 9 aprile 1328 amaramente rimproverava il
generale francescano della sua resistenza ai decreti pontifici,[830] e
dal suo canto il generale non pure tenne fermo nelle sue idee, ma per
sottrarsi all'ira pontificia fuggì la notte del 25 maggio accompagnato
dai frati Occam e Bonagrazia, e tutti insieme ripararono in una nave
imperiale, che li trasportò a Pisa.[831] Gli avvenimenti incalzavano
rapidamente. In un'adunanza tenuta nella Piazza di S. Pietro in Roma
il 18 aprile dello stesso anno Ludovico, mettendo in pratica le idee
rivoluzionarie dei suoi consiglieri Marsilio da Padova e Giovanni di
Gianduno, avea deposto come eretico il papa Giovanni, e nel 12 maggio
successivo gli avea sostituito a voce di popolo il minorita Pietro
da Corbara, che prese il nome di Niccolò V.[832] Non occorre dire
che all'Imperatore s'unirono i francescani fuggiti d'Avignone, ed una
testimonianza della loro opera ce la porge la nuova edizione fatta a
Pisa della sentenza, già pubblicata a Roma contro papa Giovanni.[833]
Dopo questi fatti scoppiò aperta la guerra tra la Curia e gli uomini
più eminenti dell'ordine francescano. Il Papa depose Michele di
Cesena dal suo ufficio, e scomunicò con lui i compagni Bonagrazia ed
Occam,[834] e dal canto suo il generale francescano pubblicò in Pisa
prima una lettera giustificativa della sua condotta[835] e poi due
proteste contro i decreti del Papa, dei quali si appellava al giudizio
di tutta la Chiesa.[836] Alle ragioni addotte in codesti scritti il
Papa credette di rispondere nella bolla _Quia vir reprobus_,[837] e di
rimando il generale minorita pubblicò un'altra protesta, che ribadiva
le accuse contro Giovanni, combattendone le difese.[838] Al generale
si associarono altri minoriti, nè solo i suoi compagni di fuga Occam
e Bonagrazia, ma benanco il provinciale tedesco Enrico di Thalheim
e Francesco d'Ascoli. Ed insieme pubblicarono uno scritto contro la
nomina del nuovo generale frate Oddone fatta nel Capitolo di Parigi il
10 giugno 1329,[839] e quando da molte parti si faceano vive premure al
Cesenate perchè si riconciliasse col Pontefice, ei lo incoraggiavano
a tener fermo salvando il suo diritto e l'autorità sua.[840] Il più
celebre tra loro era certo il provinciale inglese Guglielmo Occam,
non meno forte d'ingegno che d'animo, il quale ben protestava, che
se pure i più piegassero, se pure lo coprissero di vituperii, ei
seguiterebbe sempre a difendere la verità, finchè gli bastino la mano e
la penna.[841]

E tenne per fermo la promessa, e nel corso di venti anni non ismise
mai di scrivere per la causa, che i più l'un dopo l'altro disertavano.
Intorno al 1330[842] compose in novanta giorni un'opera voluminosa, in
cui seguendo passo per passo la bolla _Quia vir reprobus_, riassume
da prima le ragioni ivi addotte, e poi con più largo discorso espone
le risposte degli avversarii.[843] Più tardi, poichè Giovanni XXII in
concistoro ebbe dichiarato che della visione beatifica non potessero
godere i trapassati se non dopo ripreso il loro corpo, scrisse
animosamente contro la nuova dottrina del Papa.[844] Ed alla morte
di lui, quando fu certo che il successore Benedetto XII seguiva la
stessa via del predecessore, ritornò anch'egli sull'antica polemica,
pubblicando il compendio degli errori di Giovanni XXII.[845] In
questi faticosi lavori, col vuoto argomentare scolastico, infarcito
di sottili distinzioni e di citazioni infinite, vengono provate le
tesi francescane sulla povertà assoluta e sulla vita apostolica, e
contro alle teorie di Giovanni XXII è rifermata la distinzione tra la
proprietà e l'uso anco nelle cose consuntibili. Ma in fondo a codeste
quistioni, che paiono e sono oziose, si nascondeva un'altra ben più
grave sui limiti della potestà papale. E l'Occam, d'accordo colle
proteste del suo generale, credeva che il Papa non potesse revocare le
decisioni dei suoi predecessori in fatto di costumi o di domma,[846]
tanto più se codeste dottrine sono o chiaramente insegnate nei libri
sacri, o approvate dalla Chiesa universale. E se ardisce di farlo
è manifestamente eretico, e per conseguenza perde ipso facto ogni
autorità e dignità.[847] Nè alcun cattolico è tenuto ad obbedirgli,
anzi tutti debbono fuggirlo se non vogliono intingersi della sua pece.
Nè vale il dire che non essendovi al di sopra del Papa altra autorità,
non si può nè convincerlo d'eresia, e molto meno appellarsi di lui
ad un tribunale superiore;[848] perchè, dice Occam, al di sopra del
Papa sta la Chiesa ed il Concilio che la rappresenta. Così stante
l'appello il Papa deve astenersi da qualunque decisione e rimettersene
al Concilio, che ha da essere immantinenti convocato. Se ardisce di
levarsi a giudice, egli che è parte; se nega di riunire il Concilio e
ne usurpa l'autorità, è eretico manifesto,[849] e tale lo dovrebbero
dichiarare i custodi della fede, i vescovi, e deporlo dall'alto
ufficio, che ei mal sa reggere. E quando i vescovi si rifiutino,
l'Imperatore stesso, se cattolico, varrà a condannarlo.[850]

Quest'ultima sentenza si legge nell'opera pubblicata intorno al 1338,
ove si discutono otto gravi quistioni intorno all'Impero ed ai suoi
rapporti colla Chiesa.[851] L'Occam, al pari degli altri minoriti,
non abbracciava le idee radicali dei consiglieri laici di Ludovico,
come Gianduno e Marsilio da Padova; nè credeva che si dovesse rompere
così contro la tradizione da rimettere nel popolo di Roma la fonte
dell'autorità imperiale, e s'oppose al giurista imperiale Leopoldo di
Bamberga, che in parte rinnovava le idee del _Defensor pacis_.[852]
Ciò non pertanto opinava che le due autorità, la spirituale e la
temporale, non pure non si potessero riunire in una persona, ma
fossero così indipendenti, che l'una non dovesse tenersi per la fonte
dell'altra.[853] Egli in verità era d'avviso che il re dei Romani
non potesse assumere il nome d'Imperatore senza la coronazione e
l'unzione sacerdotale, ed in questo punto certo non andava ai versi di
Ludovico;[854] ma a differenza dei papisti sosteneva che la coronazione
e l'unzione non conferiscono poteri temporali, bensì doni spirituali
soltanto.[855] Talchè allorquando l'autorità ecclesiastica, che per
consuetudine soleva ungere o coronare il re eletto, si rifiuti, può
bene farne le veci un altro arcivescovo,[856] il quale non cessa
pertanto di essere suddito del sovrano che incorona.[857]

Da queste citazioni ben si raccoglie come l'Occam non fosse da meno
di nessuno nel sostenere la causa dell'Imperatore, il quale, non
perchè sia cristiano, ha perduto nulla dei diritti, che spettavano ai
suoi predecessori pagani. E se questi decidevano intorno alle cause
matrimoniali, perchè il loro successore non potrà fare altrettanto? Lo
può, e lo deve quando sopratutto l'interesse di Stato lo consiglia,
come nel caso del figlio di Ludovico e della principessa Margherita,
il cui matrimonio con Giovanni Enrico di Boemia non essendo stato
consumato, si può tenere per apparente più che per reale.[858]
Questi concetti sono chiaramente ripetuti nella terza parte di quella
voluminosa opera intitolata _il Dialogo_, ove l'Occam fa discutere da
un maestro ed un discepolo le quistioni più ardenti del suo tempo.[859]
Anche qui la teoria, che attribuisce al Papa una padronanza assoluta
non pure nelle cose spirituali, ma nelle temporali, vien condannata
come falsa, perniciosa ed eretica, perchè contraddice all'essenza
stessa del Cristianesimo che sta nella libertà; laddove se il Papa
avesse un così sconfinato potere sui fedeli, la legge di Cristo
sarebbe più dura e più tirannica della legge mosaica.[860] Parimenti
eretica e contraria alle sacre carte è l'altra teorica, derivata dalla
precedente, che riadduce al Sommo Pontefice l'autorità imperiale.[861]
Non che l'Occam creda l'Impero sia una istituzione sacra, emanante
direttamente da Dio; imperocchè già notammo nell'Introduzione, che
ei lo tiene per una creazione umana, voluta per fermo da Dio, ma nata
da certi bisogni degli uomini, e vôlta ad alcuni fini, e ben peritura
quando quei bisogni cessino o quei fini falliscano.[862] Però fin che
vige l'Impero, tutti debbono inchinarsegli, e l'Imperatore, il cui
dominio s'estende per quanto gira il mondo, non pure sugli averi e
sulla libertà dei suoi sudditi ha piena potestà (in quanto almeno alla
legge di natura non contraddica, ed al bene pubblico conferisca);[863]
ma benanco sulle cose e persone spirituali esercita diritti. E talvolta
può bene nominare i papi, non in quanto imperatore per fermo, ma come
rappresentante del laicato, ed in particolare del popolo romano, al
quale dev'essere restituito l'antico diritto di elezione, quando gli
elettori ecclesiastici o per eresia o per quale altra ragione se ne
siano mostrati indegni.[864] E se può nominare il Papa, ha diritto
altresì di giudicarlo, e punirlo se occorra, imperocchè se Cristo e
gli Apostoli si sottomisero alla giurisdizione imperiale, ragion vuole
che anche il Papa vi si pieghi, quando pur la comunità cristiana debba
avere, come ogni Stato ben costituito, un solo e supremo giudice.[865]
Nè manca il caso, in cui lo deve anche deporre, se il Papa, poniamo,
sia caduto in eresia, ed i cardinali ed i vescovi, non che richiamarlo
sulla buona strada, si uniscano a lui.[866]

Ma come può darsi codesto caso? Che cosa è mai l'eresia? Ed a quali
caratteri si scopre? E chi dovrà riconoscerla? Non forse il canonista,
che ben sa quali dottrine sieno state condannate dalla Chiesa e quali
no? E quale più autorevole canonista del Pontefice, che non pure può
interpetrare i vecchi canoni, ma crearne di nuovi? E come mai chi è
chiamato a definir l'eresia può cadervi dentro? E poniamo che vi cada,
chi può giudicarlo? E se egli è eretico, saranno altresì quelli che gli
prestano obbedienza? Codeste quistioni furono già discusse dall'Occam
nelle opere precedenti, ma ora nella prima parte del Dialogo vi ritorna
su, dibattendole con maggior larghezza ed ordine.[867] Non può cader
dubbio sulle sue opinioni, sebbene dichiari di non manifestarle, per
tema che altro le abbracci sull'autorità di lui, o le rifiuti in _odium
auctoris_.[868] L'eresia secondo l'Occam, è un domma falso contrario
alla fede ortodossa, attestata non pure dalle sacre carte, ma benanco
dalla tradizione della Chiesa,[869] ed eretico è quel cristiano, che
pertinacemente erri o dubiti di codesta fede.[870] Decidere quale
dottrina sia eretica e se altri sia caduto in eresia spetta ai teologi,
non ai canonisti, come si pretendeva dagli aderenti di Giovanni XXII;
perchè i canonisti ben conoscono le regole di procedura da osservare
nei giudizii di eresia, e il modo di accusare, e le pene da infliggere;
ma se non sono teologi, ignorano le più riposte ragioni della fede,
nè sanno riconoscere quello che vi contraddica, nè possono dare da
per loro l'esatta interpretazione dei canoni.[871] Anche il Papa
stesso, quando sia sfornito di studii teologici, non solo non sa
dare autorevole sentenza intorno agli eretici, ma egli medesimo può
cascare in eresia, come lo provano gli esempi e le ragioni.[872] Ed in
tal caso non manca chi possa e debba giudicare il Papa, perchè al di
sopra di lui sta la Chiesa universale. E se fia impossibile che tutti
i cattolici si raccolgano in assemblea, farà le loro veci il Concilio
generale, il quale non ha d'uopo dell'invito del Papa per adunarsi,
quando gl'interessi della fede lo richieggano.[873] E codesto Concilio,
accertata l'eresia del Papa, deve espellerlo dalla sede, spogliarlo
d'ogni dignità ecclesiastica e consegnarlo, se occorre, al braccio
secolare come farebbe di qualunque altro eretico. E dove il Concilio
non si possa riunire, nè altra autorità ecclesiastica ne faccia le
veci, spetterà, come dicemmo più sopra, ai laici ed alle potestà
secolari di salvare la fede.[874]

Intorno a codesta preminenza del Concilio, l'Occam va pienamente
d'accordo con Marsilio da Padova; ma dissente da lui intorno al
primato del vescovo romano. L'animoso minorita non è certo tenero
della supremazia papale, e spende un libro intero del Dialogo per
discutere se convenga all'università dei fedeli il governo di un solo.
E benchè non neghi i vantaggi della monarchia, pure dichiara in certi
casi preferibile l'aristocrazia; nè teme che la pluralità dei capi
possa recar danno alla forza e compattezza della Chiesa.[875] Ma ciò
non pertanto non gli basta l'animo di accettare le teorie storiche
di Marsilio, secondo le quali nè S. Pietro avrebbe avuto da Cristo
il primato sugli altri apostoli, nè avanti a Costantino il vescovo
di Roma avrebbe esercitato alcun potere sugli altri vescovi. E gli
argomenti addotti nel _Defensor pacis_ in sostegno di codeste teorie
ei li combatte ad uno ad uno,[876] ed apertamente dichiara che la
dottrina del primato romano è una costante tradizione della Chiesa, a
cui s'ha da prestare piena fede.[877] Nè s'ha da credere che codesta
prova non sia secondo le convinzioni dell'Occam, perchè invece va
d'accordo col suo principio fondamentale, che la tradizione cattolica,
continua e costante, è l'unico e saldo criterio di verità. Può fallire
il Papa; dice l'Occam, e non meno di lui il Collegio dei cardinali; può
fallire lo stesso Concilio, e forse anche in qualche momento d'oblìo la
Cristianità tutta; ma la dottrina canonica non verrà meno per questo, e
dopo gl'intervalli d'oscuramento brillerà di più viva luce.[878] Così
pare assicurata la supremazia di Roma, ma i principii da cui parte
l'Occam menano a ben altre conseguenze; perchè se non solo il Papa,
ma il Concilio e la Cristianità tutta può fallire, non resta nulla
di saldo all'infuori dei sacri libri. È manifesto per tal guisa come
per diversa via l'Occam riuscisse allo stesso risultato di Marsilio,
vale a dire alla negazione della gerarchia medievale. E così il moto
francescano, cominciato da un dissidio interno dell'ordine minorita,
si dilarga oltre misura, e si tramuta in opposizione implacabile contro
l'assolutismo teocratico e nell'ordine religioso e nel politico.

Dal movimento francescano furono provocate alcune sètte più o meno
ereticali, come i flagellanti, gli apostolici, i beghini. I flagellanti
apparvero nell'anno fatale 1260, in cui secondo i gioachimiti doveva
aver luogo la fine del vecchio mondo. Gli apostolici, surti al tempo
delle prime dissensioni francescane, si dettero per i soli e veri
seguaci delle dottrine spirituali. I beghini, nati più tardi, non
erano se non terziarii francescani, i quali mettevano la Regola al pari
dell'Evangelo, e negavano obbedienza a qualunque autorità ecclesiastica
non la interpetrasse a lor modo. Queste sètte solennemente condannate
come eretiche, ci porgono la più chiara prova del fine che sortì
l'agitazione gioachimita. E possiamo ben dire che il secondo periodo
del movimento religioso medievale ha un corso opposto al primo,
comincia dallo scisma e termina nell'eresia.



CONCLUSIONE


Pervenuti alla fine dei nostri studii possiamo riprendere la quistione
dei rapporti, che corrono tra le eresie ed il movimento filosofico
e politico del medio evo. Codesto movimento era indirizzato a tre
scopi, che sono la libertà del pensiero, l'autonomia dello Stato, la
riabilitazione della vita. In quanto al primo punto non si può negare
che le discussioni e le polemiche religiose valevano a scuotere le
menti dal loro torpore dommatico, e già notammo parziali contatti tra
i filosofi e gli eretici. Il capo degli Arnaldisti, ad esempio, era
discepolo fido di Abelardo, e coi gioachimiti si unirono apertamente
gli scolari di Amorico di Bena e di Davide di Dinant. Ma in verità
codesti contatti sono o accidentali, o sforzati. Quanta opposizione
corresse tra il pensiero di Gioacchino e quello di Amorico lo
dimostrammo più sopra, e più sopra notammo che gli Arnaldisti fuori
di un punto solo erano del tutto ligi ai dommi tradizionali, nè v'ha
ricordo che l'intendessero nel modo razionalistico di Abelardo. Ora
aggiungiamo che qualunque delle eresie fosse prevalsa, non esclusa la
valdese, non sarebbe stata meno infesta alla libertà del pensiero, e
vedemmo con quanto disprezzo e sospetto parli Gioacchino della scienza.
Nè va taciuto che alcune delle eresie, principalmente la catara,
erano fatte per favorire le credenze superstiziose, che maggiormente
ripugnano alla sana ragione, come a dire la fede nel diavolo e nelle
stregonerie. Lo stesso possiamo dire per quel che riguarda l'autonomia
dello Stato. Certo tutti codesti eretici, benchè discordi tra loro,
s'uniscono nel combattere la mondanità della Chiesa, e contro il potere
temporale dei Papi e la voluta donazione di Costantino levano unanimi
la voce; ma un'azione diretta dell'eresia sul partito ghibellino
non c'è stata, almeno fino a Ludovico il Bavaro. E ricordo che se
da una parte gl'imperatori, non escluso Federico II, furono aperti
persecutori dell'eresia, dall'altra i gioachimiti tennero Federico
per l'Anticristo. Finalmente intorno al terzo punto, la riabilitazione
della vita, gli eretici di qualunque setta vi si opponevano con maggior
vigore degli ortodossi; imperocchè notammo che nelle più opposte
scuole dominava il medesimo ascetismo. Le due correnti adunque, la
razionalistica e l'eretica, si tennero bene distinte, come ha già
notato il Reuter; ma nella fine del secondo periodo parve che si
ricongiungessero, perchè l'Occam, capo della scuola nominalistica,
fu altresì strenuo difensore della causa di Ludovico il Bavaro, e uno
dei più autorevoli tra i dissidenti francescani, che insorsero contro
l'assolutismo della Curia romana. Se non che l'Occam non apparteneva
a nessuna delle sètte eretiche da noi studiate, neanco a quella dei
gioachimiti, le cui opinioni sul terzo stato egli non insegnò mai.
E se pure eretica s'ha da dire la sua dottrina, certo è un'eresia
che ha uno stampo suo proprio, un carattere più sano e meno mistico
delle precedenti. Per tal guisa il pensiero dell'Occam sopravvive, ed
anche oggi se ne trova una traccia nei vecchi cattolici, laddove le
eresie medievali, l'una dopo l'altra, scomparvero tutte, alcune per
non risorgere più, altre per rifiorire rielaborate e trasformate nella
Protesta.



TESTI INEDITI

PUBBLICATI FRAMMENTARIAMENTE NELLE NOTE


  JOACHIM — _De ultimis tribulationibus_, cod. laur. XI, plut. IX,
  dex. Santa Croce (pag. 315, nota 1).

  JOACHIM — _De articulis fidei_, cod. suddetto (pag. 316, nota 1).

  JOACHIM — _Epistola_, cod. laur. XLI, plut. LXXXIX inf. (p. 318, n.
  1).

  ANONIMO — _Cronaca delle Tribolazioni_ (pag. 420, nota 1; p. 431,
  nota 1 e 2; pag. 433, n. 3; pag. 437, n. 2; pag. 440, n. 2; pag.
  479, n. 1; pag. 481, n. 1; pag. 483, n. 2; pag. 485, n. 2; pag.
  486, n. 1; pag. 487, n. 1; pag. 488, n. 1; pag. 491, n. 2; pag.
  492, n. 1; pag. 493, n. 1 e 2; pag. 494, n. 3; pag. 501, n. 1; pag.
  502, n. 2; pag. 504, n. 1 e 2; pag. 506, nota 1; pag. 511, n. 2 e
  3).

  _Processo verbale della Commissione d'Anagni_ — Codice della
  Sorbona 1726 (pag. 468, nota 1 e 2; pag. 469, n. 2; pag. 471, n. 1;
  pag. 475, n. 1).

  _Opuscoli di P. Giovanni Olivi_ — Codice Laurenziano III, plut.
  XXXI (pag. 489, n. 1).

  _Cronaca di Niccolò Minorita_ — Codice Magliabechiano, Classe
  XXXIV, num. 76 (pag. 530, n. 1; pag. 531, n. 1).


  Ai passi già riferiti del codice della Sorbona 1726 mi sia lecito
  aggiungere quest'altro molto importante per la bibliografia
  gioachimitica (carte 143 _tergo_):


  Item in tractatu (qui c'è una lacuna nel codice) Evangelia exponens
  illud de Symeone presentato Christo in templum die Purificationis
  ait: Itaque senex iste justus et timoratus ratione presules
  designat, in quibus donante Deo manet usque in finem promissio
  ista Domini dicentis Petro: Ego rogavi ut non deficiet fides
  tua. Semper enim Petri successio affectat videre completum quod
  praedicat, et cum dabitur ei videre quod optat, ut videlicet infra
  videat consumatum donum Spiritus Sancti in populo christiano,
  sicut futurum credimus in adventu Heliae, qui venturus est omnia
  consumare, videns sanctum illum ordinem, quem Ecclesia spiritualis
  peperit quasi de abditis praesepii locis venientem ad lucem,
  accipiet eum in ulnas fidei et dilectionis suae et pronunciabit in
  eo illum esse vivificantem spiritum, in quo est salus mundi, qui et
  loquetur in eo ad praedicandum evangelium regni in universo mundo.
  Illud scilicet evangelium de quo dicit Joannes in Apoc. XIII: vidi
  angelum volantem per medium coeli, et datum est illi evangelium
  aeternum. Sed quare vel a Domino dicitur evangelium regni, vel a
  Joanne evangelium aeternum nisi quia id quod mandatum est nobis
  a Christo vel apostolis secundum fidem sacramentorum, quantum ad
  ipsa sacramenta transitorium est et temporale, quod autem per ea
  significatur, aeternum.

  Sfortunatamente il codice ha una lacuna dove si citava il
  titolo dell'opera, da cui i giudici di Anagni tolsero il
  passo surriferito. Ma noi possiamo congetturare che essa sia
  l'Esposizione dei quattro Evangeli, ricordata dal Salimbene
  (pag. 124): Anno Domini MCCXLVIII cum essem cum fratre Hugone in
  Provincia Provinciae apud castrum Arearum, ubi Saccati sumpserunt
  initium, et ubi habitabat frater Hugo, accepi ab eo quod habebat de
  expositione abbatis Joachim super quatuor Evangelistas.

  Non ostante che questa opera sia citata dai giudici di Anagni non
  posso tenerla per autentica, perchè Gioacchino nelle opere genuine
  non parla mai dell'_Evangelo eterno_ in modo così esplicito,
  come nel passo surriferito. E la falsità mi pare più manifesta,
  quando confronto questo passo coll'analogo della _Concordia_,
  ove è commentato lo stesso testo di S. Luca (_Conc._, V, 43, fol.
  80, col. 3-4): Symeon suscipiens natum Christum dixit «Lumen ad
  revelationem gentium» et quod subjunxit «ad gloriam plebis tuae
  Israel» ad illos Israelitas referendum est, qui credituri sunt per
  verbum in fine postquam introiret plenitudo gentium.



INDICE


  AVVERTENZA                                               Pag. VII

  INTRODUZIONE — _Il movimento intellettuale contemporaneo
       dell'eresia_.

  I.   Primo periodo della scolastica. Nominalismo. Realismo.
         Concettualismo                                        1-18
  II.  Condizioni politiche e religiose che preparano il
         secondo periodo della scolastica                     18-25
  III. Secondo periodo della scolastica. Tomismo e
         Scotismo                                             26-42
  IV.  Oppositori del Tomismo                                 43-46
  V.   Influsso del Tomismo sulla letteratura. Dante          46-57
  VI.  Terzo periodo della scolastica. Parallelo fra Dante e
         Petrarca                                             57-71

  LIBRO I
  DALL'ERESIA ALLO SCISMA

  CAPITOLO PRIMO — _I Catari_.

  I.   I dommi del Catarismo                                  73-83
  II.  Polemiche catare                                       84-87
  III. Dottrine morali dei Catari                             87-93
  IV.  Culto esterno e gerarchia                              93-99
  V.   Origine del Catarismo                                100-107
  VI.  Durata, diffusione, intensità del movimento
         cataro                                             108-125
  VII. Valore del Catarismo                                 126-134

  CAPITOLO SECONDO — _I Valdesi_.

  I.   Rapporto tra Catari e Valdesi                        134-150
  II.  Precursori dei Valdesi                               150-164
  III. Pietro Valdez e l'opera sua                          165-174
  IV.  Dottrine primitive dei Valdesi                       174-192
  V.   Dottrine posteriori e rottura definitiva col
         Cattolicismo                                       192-206

  CAPITOLO TERZO — _Patarini ed Arnaldisti_.

  I.   Storia dei Patarini sino alla morte di Erlembardo    207-228
  II.  La lotta delle investiture                           228-231
  III. Arnaldo da Brescia. Sua vita                         231-246
  IV.  Dottrine di Arnaldo e degli Arnaldisti               246-256
  V.   Riassunto del primo periodo                          257-259

  LIBRO II
  DALLO SCISMA ALL'ERESIA

  CAPITOLO PRIMO — _L'abbate Gioacchino_.

  Preambolo                                                 261-262
  I.   Vita e carattere dell'abbate Gioacchino              262-291
  II.  Le opere autentiche e le spurie                      291-318
  III. Esposizione del _Decacordo_ e della _Concordia_      319-352
  IV.  Il Commento all'_Apocalisse_                         353-373
  V.   La dottrina dell'abbate Gioacchino                   373-387
  VI.  Origine del Gioachimismo                             387-409

  CAPITOLO SECONDO — _Amorico di Bena ed il movimento
    francescano_.

  I.   Amorico e gli Almariciani                            409-419
  II.  L'ordine francescano durante la vita del suo
         fondatore                                          419-435
  III. I primi dissidii francescani. Il generale frate
         Elia ed i suoi oppositori                          435-448
  IV.  Giovanni da Parma e l'_Evangelo eterno_              449-483
  V.   Pier Giovanni Olivi ed Ubertino da Casale            484-514
  VI.  La lotta dei francescani contro Giovanni XXII.
         Michele da Cesena e Guglielmo Occam                514-555

  CONCLUSIONE — _Valore dell'eresia medievale_              557-559


Diversi errori sono sfuggiti nella stampa, i quali saranno facilmente
avvertiti dal sagace lettore. A me preme notare questi soli, che
guastano il senso:

  ----+-----+----------------------------+-----------------------------
  Pag.| Lin.|           ERRORI           |         CORREZIONI
  ----+-----+----------------------------+-----------------------------
      |     |                            |
  201 |   1 | Ma la celebrazione della   | Dicemmo più sopra che
      |     |  messa per parte dei laici |   secondo i Valdesi ad ogni
      |     |                            |   laico era dato di celebrar
      |     |                            |   la messa; ma codesta
      |     |                            |   celebrazione
      |     |                            |
  372 | 7-9 | Roma, non in quanto        | Roma, in quanto rappresenta
      |     |  rappresenta la Chiesa, ma |   non la Chiesa, bensì
      |     |  bensì la moltitudine dei  |   la moltitudine dei reprobi,
      |     |  reprobi non si raccoglie  |   la quale non si raccoglie
      |     |                            |
  481 |14-15| non solo come gioachimita  | non solo quale capo del
      |     |  bensì quale capo del      |   partito intransigente,
      |     |  partito intransigente     |   bensì come gioachimita



NOTE:


[1] Giovanni Scoto Erigena nacque in Irlanda (Scotia major) sul
cominciare del secolo nono. Carlo il Calvo non molto dopo il suo
innalzamento al trono (843) lo chiamò a dirigere la scuola palatina, e
più tardi gli commise di tradurre dal greco le opere del pseudo Dionigi
l'Areopagita. Indarno il papa Niccolò I si dolse che questa traduzione
fosse pubblicata prima di venire sottoposta alla censura. Scoto morì
in Francia intorno all'anno 877. Secondo l'Hauréau la fine tragica in
Inghilterra attribuitagli dagli storici è una favola nata dallo scambio
di due omonimi.

[2] Le immagini adoperate da Scoto sono tutte improntate all'emanatismo
neoplatonico. _De divis. nat._, IV, 5: pag. 311 Est autem generalissima
quaedam et communis omnium natura, ab uno omnium principio creata; ex
qua veluti amplissimo fonte per poros occultos corporales creaturae
velut quidam rivuli derivantur, et in diversas formas singularum rerum
eructant. Nè crediate che questa _communis natura_ sia una cosa diversa
dal _principium_. Basterebbero tra mille questi due passi a mostrarne
l'identità, III, 23: pag. 249 Creatur enim a se ipsa in primordialibus
causis, ac per hoc se ipsam creat, hoc est in suis theophaniis incipit
apparere, ex occultissimis naturae suae sinibus volens emergere III,
17: pag. 238 Proinde non duo a se ipsis distantia debemus intelligere
Dominum et creaturam, sed unum et id ipsum. Nam et creatura in Deo est
subsistens, et Deus in creatura mirabili et ineffabili modo creatur....
omnia creans in omnibus creatum, et omnium factor factum in omnibus.
Scoto Erigena è il primo rappresentante di quell'indirizzo filosofico,
che attribuisce una realtà a sè ai concetti universali. Ac per hoc
intelligitur quod ars illa, quae dividit genera in species, et species
in genera resolvit, non ab humanis machinationibus sit facta, sed in
natura rerum ab auctore omnium artium, quae vero artes sunt, condita.
_De divis. nat._, IV, 4, pag. 310. Cito l'ediz. del 1838 pubblicata in
Münster.

[3] ANSELM. _De fide Trinit._, cap. 2. Illi utique nostri temporis
dialectici imo dialectice haeretici, qui non nisi flatum vocis putant
esse universales substantias. Non metto in dubbio che l'espressione
_flatus vocis_ sia stata usata da Roscellino, il quale nella
disputa contro i Realisti ebbe i suoi buoni motivi di opporre ad
un'affermazione assoluta un'assoluta negazione. Dal che non segue
però che si debba intendere alla lettera questa espressione polemica,
come se Roscellino tenga gli universali per puri nomi, ai quali non
corrisponda neanche un concetto.

[4] ABELARDO nel trattato _De Divis. et definit._ (_Ouv. inéd.
d'Abélard_, pars V. Cousin, 1836, p. 471). Fuit autem, memini, magistri
nostri Roscellini tam insana sententia, ut nullam rem partibus constare
vellet sed sicut solis vocibus species, ita et partes adscribebat.
In altre parole la scomposizione del tutto nelle sue parti (quando la
totalità è organica), è un processo puramente intellettivo. In realtà
non si può staccare una parte dall'altra senza distruggere la parte
stessa, come ad esempio un membro divelto dall'organismo non è più cosa
vivente, ma materia inerte. Ma se si considera la cosa più da vicino,
il vero nominalista non può ammettere questa forza misteriosa, che
conferisce alle parti un nuovo valore, e le trasforma in membra vive
di una totalità ideale. Il vero indivisibile per il nominalista non è
dunque il tutto, ma ciò che non ha parti di sorta. Questo è lo schietto
individuo, ente semplice, che resta sempre eguale a sè medesimo, benchè
la mente nostra guardandolo da varî aspetti, possa artificiosamente
dividerlo in altrettante porzioni.

[5] S. Tommaso nella _Summa Theolog._ I, _Quaest._ II, art. 1, ricorda
evidentemente il celebre argomento di S. Anselmo: Sed intellecto quid
significet hoc nomen _Deus_, statim habetur quod Deus est. Significatur
enim hoc nomine id quo majus significari non potest: majus autem est
quod est in re et in intellectu, quam quod est in intellectu tantum:
unde cum intellecto hoc nomine _Deus_, statim sit in intellectu,
sequitur etiam quod sit in re. E lo combatte in questo modo: forte ille
qui audit hoc nomen _Deus_ non intelliget significari aliquid, quo
majus cogitari non possit, cum quidam crediderint Deum esse corpus.
Dato etiam quod quilibet intelligat hoc nomine _Deus_ significari
hoc quod dicitur, scilicet illud quo majus cogitari non potest, non
tamen propter hoc sequitur quod intelligat id quod significatur per
nomen, esse in rerum natura sed in apprehensione intellectus tantum.
All'Aquinate non isfuggirono certo i pericoli dell'identificazione
del reale coll'ideale, e di quel semirazionalismo che ne era la
conseguenza, ed il meglio che potesse vi si oppose. Valga ad esempio
il confronto delle due interpretazioni del domma della Trinità. S.
Anselmo nel _Monol._ cap. 47, scrive: At si ipsa substantia Patris
est intelligentia, et scientia, et sapientia et veritas, consequenter
colligitur quia sicut Filius est intelligentia et scientia et sapientia
et veritas paternae substantiae, ita est intelligentia intelligentiae,
scientia scientiae. Cap. 49: Quam enim absurde negetur summus spiritus
se amare sicut sui memor est, et se intelliget!.... otiosa namque et
penitus inutilis est memoria et intelligentia cujuslibet rei, nisi
prout ratio exigit, res ipsa ametur vel reprobetur. La qual dottrina
mena a questo risultato, che non solo l'essenza, ma anche le funzioni
delle tre persone sono identiche; onde se è salva l'unità di natura,
corre pericolo la trina distinzione, o per parlare il linguaggio di S.
Tommaso: Sed secundum Anselmum sicut Pater est intelligens et Filius
est intelligens, et Spiritus Sanctus est intelligens; ita Pater est
dicens, Filius est dicens, et Spiritus Sanctus est dicens, et similiter
quilibet eorum dicitur. Ergo nomen Verbi _essentialiter_ dicitur in
divinis et non _personaliter_. Il che non è vero, perchè sicut Verbum
non est commune Patri et Filio et Spiritui Sancto ita non est verum
quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus sint _unus dicens_ (_S.
T._, I, quaest. XXXIV, art. 1). Questa risposta mostra il metodo di
S. Tommaso, che è tutto fondato sull'autorità. Se nei libri canonici
è scritto il Verbo non esser comune al Padre ed allo Spirito, la
relazione, che viene rappresentata dal Verbo, non può attribuirsi alle
altre persone. E qualunque sieno i bisogni della Ragione debbono tacere
innanzi alla sacra testimonianza, la quale sola ci può dar contezza dei
misteri divini. Per rationem igitur naturalem cognosci possunt de Deo
ea quae pertinent ad unitatem essentiae, non autem ea quae pertinent ad
distinctionem personarum (Ivi, qu. XXXII, art. 1).

[6] SCOTO ERIG., _De divis. nat._, II, 22, pag. 124. Patri dat
(Theologia) omnia facere, Verbo dat omnes.... primordiales rerum
causas aeternaliter fieri: Spiritui dat ipsas primordiales causas in
Verbo factas in effectus suos foecundatas distribuere. V, 25, pag.
479. Ac si aperte diceret: Si Dei sapientia in effectus causarum, quae
in ea aeternaliter vivunt, non descenderet, causarum ratio periret;
pereuntibus enim causarum effectibus nulla causa remaneret, sicuti
pereuntibus causis nulli remanerent effectus.

[7] Molti scrittori distinguono il nominalismo di Roscellino dal
concettualismo di Abelardo riferendosi al noto passo di Giovanni
Saresberiense (_Metalogicus_, II, 17, pag. 814, Amstelaedami 1664)
alius sermones intuetur et ad illos detorquet quicquid alicubi
meminit scriptum; in hac autem opinione deprehensus est Peripateticus
Palatinus, Abaelardus noster. La testimonianza di Giovanni (nato a
Salisbury intorno al 1110 o 20, morto vescovo di Chartres nel 1180)
è molto importante, comecchè ei fusse discepolo di Abelardo tra il
1136 e il 1148, e degli scrittori di quell'età l'unico che studiasse
di giudicare spassionatamente le opposte scuole, senza abbracciarne
alcuna. È da supporre adunque che una differenza interceda tra il
nominalismo di Roscellino e il concettualismo di Abelardo. Il primo
per opporsi bruscamente ai realisti disse gli universali pure voci,
senza ricercare nè se a questi nomi corrispondano concetti determinati,
nè se questi concetti sieno formati dalla nostra mente in un modo
arbitrario ovvero necessariamente. Abelardo definì meglio la dottrina
nominalistica riempiendo questi vuoti. Gli universali _ut sic_ non sono
entità reali, bensì concetti che il nostro intelletto non può a meno di
formare sulla scorta dei reali rapporti di somiglianza ed affinità tra
i varî esseri della natura.

[8] Vedi la commovente confessione ad Eloisa che comincia: Heloisa
quondam mihi in seculo cara, nunc in Christo carissima. (_Opp._, ed.
Cousin, I, 680).

[9] Roscellino, non ammettendo altre realtà dagli individui in fuori,
dovea profondamente modificare il senso tradizionale del domma della
Trinità. E gli erano aperte due vie. O far ritorno al monoteismo
ebraico, tenendo la distinzione delle persone per un fatto subbiettivo
nato dalla necessità in cui si trova l'intelletto nostro di guardare da
tre aspetti diversi ciò che pure è uno in sè; ovvero fare delle persone
tre individui distinti, la cui unità, puramente nominale, stia nella
conformità perfetta dei pensieri e voleri. Quest'ultimo partito sceglie
Roscellino, come ne attesta Sant'Anselmo _De fide Trin._ c. 3. Tres
personae sunt tres res sicut tres angeli aut tres animae, ita animae,
ut voluntas et potentia omnino sint idem. L'eresia dunque di Roscellino
è il Triteismo di Giovanni Filopono non certo il Monarchianismo di
Sabellio.

[10] S. Bernardo nella lettera a Innocenzo II (Ep. 330) chiama Abelardo
Pier Dragone per metterlo a paro con Pierleone, l'antipapa Anacleto.
Evasimus rugitum Petri Leonis, sedem Simonis Petri occupantem; sed
Petrum Draconem incurrimus, fidem Simonis Petri impugnantem. Gioco di
parole, che delicatamente ricordava al Papa i servigi prestati al tempo
dello scisma. V. lett. 189. Leonem evasimus sed incidimus in draconem,
qui non minus forsan nocet in insidiis quam ille rugiens de excelso.

[11] _Introd. ad Theolog._, _Opp._, ed. Cousin, Parigi 1859, II,
pag. 78. Nec quia Deus id dixerat creditur, sed quia hoc sic esse
convincitur, recipitur.... At nunquam, si fidei nostrae primordia
statim meritum non habent, ideo ipsa prorsus inutilis est judicanda,
quam postmodum charitas subsecuta obtinet, quod illi defuerat.... Nec
quod levitate geritur, stabilitate firmabitur. Unde et in Ecclesiastico
scriptum est: Qui cito credit levis est corde et minorabitur.

[12] Op. cit., pag. 12 Videtur autem nobis suprapositis trium
personarum nominibus summi boni perfectio diligentur esse descripta....
Patris quippe nomini divinae magistratis potentia designatur,
qua videlicet quidquid velit efficere possit.... Filii vero Verbi
appellatone sapientia Dei significatur quia scilicet cuncta discernere
valeat, ut in nullo penitus decipi queat. At vero Spiritus Sancti
vocabulo ipsa ejus charitas seu benignitas exprimitur, qua videlicet
optime cuncta vult fieri seu disponi. Lo Spirito Santo non vuol
dire un rapporto di Dio a sè medesimo, ma ad altro. _Introd._ pag.
101: Procedere quod est Deum se per caritatem ad alternum extendere.
Quodammodo enim per amorem unusquisque ad alterum procedit, cum proprie
nemo ad seipsum caritatem habere dicatur. Notisi anche questo passo che
pare scritto dall'Erigena. _Theol. Christ._, I, 5, pag. 379: Bene autem
Spiritum Sanctum animam mundi, quasi vitam universitatis Plato posuit.
Quest'ultima opinione, così acerbamente censurata da S. Bernardo
(Lettera citata: Dum multum sudat quommodo Platonem faciat christianum,
se probat ethnicum) fu tolta a principale argomento d'accusa nel
Concilio di Sens, e poi sconfessata da Abelardo nel trattato _De
divisione et definitione_ (_Ouvrages inédites d'Abélard_ par V. Cousin,
Paris 1836, p. 475). Sed haec quidem fides platonica ex eo erronea
esse convincitur quod illam quam mundi animam vocat, non coeternam Deo
sed a Deo, more creaturarum, originem habere concedit. Spiritus enim
Sanctus ita in perfectione divinae Trinitatis consistit, ut tara Patri
quam Filio consubstantialis et coaequalis et coaeternus esse a nulla
fidelium dubitetur. Dal che il Cousin ha benissimo dedotto che questo
trattato è posteriore alla _Teologia_, e scritto dopo il Concilio di
Sens. Il libro dunque della _Dialettica_ citato nella _Teologia_ non
può essere questo _de divisione_ pubblicato dal Cousin.

[13] _Theolog. christ._, V, pag. 566: Necessario itaque Deus mundum
esse voluit, nec otiosus extitit, quia eum priusquam fecit facere non
potuit.

[14] _Comm. in Epist. ad Rom._, II, pag. 238: Magis hoc ad poenam
peccati,... quam ad culpam animi et contemptum Dei referendum videtur.
Imperocchè (_Eth._, c. 13, pag. 615) non est peccatum nisi contra
conscientiam. In questo punto (sia detto per incidenza) Abelardo
rasenta il Kant (_Eth._, cap. 7): Opera omnia in se indifferentia sunt
nec nisi pro intentione agentis vel bona vel mala dicenda sunt.

[15] _Comm. in Epist. ad Rom._, II, pag. 207: Est illa summa in nobis
per passionem Christi dilectio, quae non solum a servitute peccati
liberat, sed veram nobis filiorum Dei libertatem acquirit; ut amore
ejus potius quam timore cuncta impleamus.

[16] _Theol. Christ._, I, 2.

[17] Sui fratelli Thierry e Bernardo, bretoni, nati a Moclan presso
Quimperlé, vedi HAURÉAU, _Histoire de la Phil. scolastique_, Première
partie, Paris 1872, pag. 392. L'Hauréau ha dimostrato che il vero
autore del rinnovato realismo è Thierry, e che Bernardo nell'opera
sua, recentemente pubblicata dal Barach (_Bernardi Silvestris De mundi
universitate libri duo seu Megocosmus et Microcosmus_, Innsbruck 1876)
non fa se non una parafrasi poetica delle dottrine insegnategli dal
fratello. Lo scritto di Thierry intitolato _De sex dierum operibus_ ci
è pervenuto mutilato, non più che il primo libro e parte del secondo,
tuttora inediti. Dai frammenti pubblicati dall'Hauréau riproduco
questo che espone in forma concisa il più schietto panteismo (pag.
402): Unitas ipsa divinitas est. At divinitas singulis rebus forma
essendi est, nam sicut aliquod ex luce lucidum est, vel ex calore
calidum, ita singulae res ex divinitate esse suum sortiuntur. Unde Deus
totus et essentialiter ubique esse vere perhibetur, unde vere dicitur
omne quod est ideo est quia unum est. Bernardo nel _Megocosmo_ non è
meno esplicito (Barach. pag. 30). Rerum porro universitas mundus nec
invalida senectute decrepitus, nec supremo est obitu dissolvendus, cum
de opifice causaque operis, utrisque sempiternis, de materia formaque
materiae, utrisque perpetuis, ratio cesserit permanendi. Usia namque
primarie aeviterna, et perseveratio fecunda pluralitatis simplicitas.
Una est, sola est, ex se vel in se tota natura Dei. E qui torna la
vecchia imagine neoplatonica già usata da Thierry. Ex ea igitur luce
inaccessibili splender radiatus emicuit.... Bernardo nato forse un
dieci anni più tardi di Guglielmo di Champeaux (intorno al 1080) gli
sopravvisse circa quaranta. Guglielmo morì nel 1121, Bernardo il 1161,
diciannove anni più tardi di Abelardo, del quale una tradizione lo fa
scolare (CHARLES DE REMUSAT, _Abélard_, I, 272).

[18] Guglielmo nato a Conches in Normandia, insegnò per lungo tempo
a Parigi, ove morì nel 1154. Oltre al commento del Timeo e del
_De Consolatione_ di Boezio scrisse la _Philosophia mundi_, che fu
pubblicata sotto il nome di Beda nelle opere di questo padre, e sotto
il nome di Onorato d'Autun nel tom. XX della _Maxima Bibliotheca
patrum_. Se Guglielmo fosse stato conseguente a sè medesimo, avrebbe
dovuto, come bene avverte l'Hauréau, fare una confessione panteistica
non diversa da quella di Thierry e Bernardo. In verità se lo Spirito
Santo è l'anima del mondo, altrettanto deve dirsi di Dio Padre, con
cui lo Spirito è tutt'uno in essenza. Ma Guglielmo non che ridursi
a questo stremo, difende invece con grave inconseguenza il dualismo
ortodosso. E vedi stranezza di casi! Mentre i fratelli Carnotensi
non patirono nessun danno delle loro audaci e franche rivelazioni, il
filosofo di Conches per lo contrario, molto più timido e circospetto
di loro, fu fatto segno agli assalti dei zelanti. A capo dei quali si
mise Guglielmo di S. Thierry, cui si aggiunse Gualtiero da S. Victor,
ed entrambi chiamarono in aiuto S. Bernardo, per ischiacciare il capo
del nuovo basilisco, che era pur mo' nato dal triste seme dell'antico.
Però non fu convocato un concilio, bensì s'impose all'accusato la
pronta ritrattazione, che ei fece nel dialogo intitolato _Dragmaticon
Philosophiae_ (HAURÉAU, I, pag. 432).

[19] Gilberto, nato a Poitiers, era nel 1135 cancelliere della chiesa
di Chartres. Nel 1140 scolastico di S. Ilario in Poitiers, e l'anno
appresso vescovo di quella diocesi. Il suo libro _Dei sei principii_
che tratta diffusamente delle sei ultime categorie toccate di volo
da Aristotile, ebbe tal successo, che fino al secolo XVI fu sempre
unito al pari dell'Isagoge porfiriana al trattato aristotelico. Nel
commento al _De Trinitate_ del pseudo Boezio è svolta la dottrina
realistica, che il contemporaneo Giovanni di Salisbury espone nel
seguente modo (_Metal._, II, 17, pag. 817): Est autem forma nativa
originalis exemplum, et quae non in mente Dei consistit, sed in
rebus creatis inhaeret. Haec greco eloquio dicitur εῖδος habens se ad
idaeam ut exemplum ad exemplar; sensibilis quidem in re sensibili,
sed mente concipitur insensibilis; singularis quoque in singulis,
sed in omnibus universalis. Queste forme sono la vera realtà, e non
sono esse nelle cose, ma piuttosto le cose in loro. Egli è ben certo
che nel nostro mondo la forma non si può staccare dalla materia se
non mentalmente; onde i due fattori sono talmente intrinsecati, da
poter chiamare sensibile o singola la forma, in quanto si manifesta
e determina nelle cose individuali. Ma badiamo bene, l'individuo
non è nulla di originario, bensì il risultato della complicazione
di fattori universali. La saggezza, la forza d'animo, la figura di
Sileno ecc., formano quel tutto che si chiama Socrate, ma ciascuno
di questi fattori considerato da per sè è un universale che può
trovarsi anche in Platone ed Aristotile. Questo tutto così composto
si può dire _substans_, in quanto è il soggetto degli accidenti; il
che non importa che sia la vera sostanza, perchè anzi in tanto esiste
in quanto ha per sè una parte di quell'ουσία che è l'universale.
L'applicazione teologica è la seguente, che io tolgo dall'Hauréau
pag. 472: Dieu est ainsi que Socrate un individue du genre de la
substance; et comme la raison d'être de Socrate est l'humanité qui
vit en lui, de même doit-on distinguer ce qui est Dieu, ce Dieu, de
la forme essentielle qui est la Divinité. Même raisonnement sur les
personnes divines. Elles se distinguent de l'essence et cependant elles
participent non seulement de la même essence, mais encore de la même
subsistance. Ce parquoi les personnes diffèrent entre elles est en
elles un principe di distinction formelle. In altre parole Dio come
tutti gl'individui risulta da fattori od elementi universali. Uno di
questi elementi è il predominante, e costituisce l'essenza di Dio,
o la deità, analogo a quello che in Socrate chiamiamo l'umanità. Ma
come in Socrate distinguiamo anche la saggezza, la forza di volontà e
simili, così in Dio distinguiamo le persone. Il principio adunque di
questa distinzione s'ha da trovare in altri fattori universali, non in
quello che diremmo centrale, e costituisce l'unità di essenza. Quamvis
enim in eo, quo sunt, i. e. essentia, quae de illis praedicatur sit
eorum indifferentia, est tamen ipsorum per quaedam, quae de uno dici
non possunt, ideoqui quae de diversis dici necesse est, differentia.
Questa dottrina non parve meno sospetta delle precedenti. Nel 1146 due
arcidiaconi di Gilberto Calon e Arnauld lo denunziarono come eretico al
Papa Eugenio III. Il quale nel suo viaggio in Francia nel 1148 tenne
un concilio, ove intervenne da promotore il terribile S. Bernardo.
Quattro proposizioni sospette, tolte dai libri di Gilberto, furono
sconfessate, ma non per questo si approvarono le quattro opposte di
S. Bernardo. Bensì furono sottoposte ad esame pochi giorni dopo nel
concilio trasferitosi a Reims, e dopo molte concessioni reciproche si
venne a tali formole, che sebbene suonassero censure per Gilberto, pure
non si sapeva con certezza qual parte avesse vinto se l'accusatore, o
l'accusato. Gilberto morì nel 1154.

[20] Ugo (1096-1141) ebbe a scolare Riccardo († 1173). Ed entrambi si
chiamano vittorini dall'abbazia di S. Victor in Parigi di cui facean
parte. Gualtiero abbate della stessa abbazia secondo Buleo (_Hist.
univ. paris._, I, pag. 404) scrisse: contra manifestas et damnatas
etiam in Conciliis haereses, quas sophistae Abaelardus, Lambardus,
Petrus Pictavinus et Gilbertus Porretanus, quatuor labyrinti Franciae,
uno spirito aristotelico afflati, libris sententiam suorum acuunt,
limant, roborant. Visse intorno al 1180. Vedi FABRIC., a. q. n.

[21] Pietro Lombardo da Lumello morto vescovo di Parigi nel 1164. Nel
1152 pubblicò il _Liber sententiarum_, che fece poi da testo nelle
scuole teologiche. Prima di lui Ugo da S. Vittore avea pubblicata
la _Summa sententiarum sive eruditionis theologicae_. (_Opp._, ed.
Rotomagi, 1648, III, 417-472). E dopo di lui Pietro di Poitiers,
suo discepolo (morto arcivescovo nel 1205) scrisse _quinque libros
sententiarum_. (FABRICIO, ed. fior., V, 258).

[22] Giovanni da Salisbury nato tra il 1110 e il 1120, morto vescovo
di Chartres nel 1180. I due noti libri il _Policraticus_ ed il
_Metalogicus_ furon pubblicati nel 1159 secondo lo Schaarschmidt
(Iohannes Sarisberiens. pag. 143 e 211). Lo stesso autore giustamente
osserva (pag. 84): Grade darauf beruht ein grosser Theil des
Interesses, welches man an ihm nehmen muss, dass er sich von der
unerquicklichen Modewissenschaft der gelehrten Schulen seiner Zeit,
der disputirenden Dialektik, zu den Alten als einer reineren Quelle der
Geistebildung gewandt hat, und ein Vorläufer des Humanismus die Früchte
dieser seiner classischen Studien in eigene Leistungen darzulegen
und auszupragen bestrebt ist. (pag. 313).... von der Unzulänglichkeit
unseres Erkennens in Bezug auf die hochsten Fragen durchdrungen, immer
auf das praktische Gebiet der Ethik hinuber eilte. Che Giovanni penda
per la Filosofia accademica V. _Polic._, VII, 1 e 2; 11, 22; _Metal._,
11, 14; IV, 20.

[23] Le opinioni filosofiche di Averroè s'accordavano tanto poco col
dommatismo religioso, che la sua alta posizione sociale di Kadì di
Cordova, e la fama che s'era acquistata colle sue faticose opere non
lo salvarono dalle persecuzioni dei fanatici.[24] Il re Almançour,
tolte al vecchio filosofo tutte le dignità da lui stesso e dal suo
predecessore conferitegli, lo relegò in Lucera presso Cordova; e
benchè per intercessione altrui gli permettesse di far ritorno in
Marocco, gl'ingiunse pertanto di passarvi il resto dei suoi giorni
nell'isolamento, e come in reclusione. Da quel tempo Averroè non si
mosse più dalla capitale, dove, affranto dal destino morì nel 1198,
in età di settantadue anni. (Era nato a Cordova nel 1126). Il MUNK
(_Mélanges de philosophie juive et arabe_, pag. 455-56) espone in
questi termini le opinioni del filosofo arabo: Malgré ses opinions
si peu d'accord avec ses croyances religieuses, Ibn-Roschd tenait a
passer pour bon musulman. Selon lui les vérités philosophiques sont
le but plus élevé, que l'homme puisse atteindre, mais il n'y a que peu
d'hommes qui puissent y parvenir par la spéculation et les révélations
prophétiques, qui étaient nécessaires pour répandre parmi les hommes
les vérités éternelles, également proclamées par la religion et la
philosophie. Nous devons tous dans notre jeunesse nous laisser guider
par la religion et suivre strictement ses préceptes; et si plus tard,
nous arrivons à comprendre les hautes vérités de la religion par la
voie de la spéculation, nous ne devons pas dédaigner les doctrines
et les préceptes dans lesquels nous avons été élevés. Intorno
agl'indifferenti riscontra REUTER, _Geschichte der relig. Aufklärung im
Mittelalter_, II, 133 e segg.

[24] Sul fanatismo dei Musulmani occidentali molto superiore a quello
degli occidentali vedi DOZY, _Hist. de l'Islamisme_, Paris 1879, pag.
340 e segg.

[25] Sull'importanza che ebbe nel secolo XIII il _Fons vitae_
dell'Avicebronio il Munk, op. cit. pag. 151, dice: Il paraît avoir
exercé une influence notable dans les écoles chrétiennes et avoir donné
naissance à des doctrines hétérodoxes que les théologiens jugeaient
assez redoutables pour s'armer contre elles de tous les arguments que
leur fournissaient les dogmes religieux et une dialectique subtile.
Les fréquentes citations du livre _Fons vitae_ que nous rencontrons
notamment dans les ouvrages d'Albert le grand et de S. Thomas d'Aquin,
témoignent de la grande vogue qu'avait alors ce livre et de la profonde
sensation que faisaient les doctrines qui y étaient développées. Lo
stesso Munk fece l'importante scoperta che il creduto filosofo arabo
(moro dice Bruno), del quale nessuno sapeva dire quando e dove fosse
nato, è un poeta e filosofo ebraico ben noto, Salomon-Ibn-Gebirol,
nome che passando per le bocche dei latini si corruppe in Avicebronio,
nello stesso modo che Ibn-Roschd divenne Averroé, Ibn-Sina Avicenna. Il
y a peu de noms aussi populaires parmi le Juifs que celui de Salomon
ben-Gebirol; un grand nombre de ses hymnes se sont conservés jusqu'à
nos jours dans la liturgie sinagogale de tous les pays. Mais tout ce
que nous savons de certain sur sa vie, c'est qu'il était né à Malaga
et qu'il reçut son éducation a Saragosse, où il composa en 1045 un
petit traité de morale (pag. 155). La dottrina dell'Avicebronio,
venne compendiata da uno scrittore ebreo di nome Ibn Faléquera, il
quale tradusse dall'arabo i luoghi più importanti dei 5 libri del
_Fons vitae_, che gli parvero contenere tutto il sistema. E dalla
traduzione di questo compendio, e dall'analisi del manoscritto latino
del _Fons vitae_, trovato dal Munk nella biblioteca parigina s'attinge
ora una notizia dell'Avicebronio molto più compiuta ed esatta che non
dalle citazioni dei dottori scolastici. On reconnait dans ce systême
l'influence de la doctrine des Alessandrins, et la philosophie de
Ibn-Gebirol, serait à peu près identique avec celle de Plotin et de
Proclus si, dominé par le dogme religieux, il n'avait pas cherché à
éviter les conséquences de ces doctrines panthéistes en se réfugiant
dans l'hypothèse de la volonté (pag. 231).

[26] Perversissimum dogma impii Amorici cujus mentem sic pater mendacii
excaecavit, ut ejus doctrina non tam haeretica censenda sit, quam
insana. (MANSI, XXII, 986).

[27] MARTÈNE, _Thesaurus_, IV, 166.

[28] Universos haereticos, quibuscumque nominibus censeantur, facies
quidem habentes diversas, sed caudas ad invicem collegatas. (MANSI, l.
c.).

[29] Moneantur saeculares potestates .... pro defensione fidei
praestent publice juramentum, quod de terris suae jurisdictioni
subjectis universos haereticos ab ecclesia denotatos bona fide
pro viribus exterminare studebunt .... Si vero dominus temporalis
requisitus et monitus ab ecclesia terram suam purgare neglexerit ab
hac haeretica foeditate .... excommunicationis vinculo innodetur. Et si
satisfacere contempserit infra annum, significetur hoc summo pontifici:
ut ex tunc ipse vassallos ab ejus fidelitate denunciet absolutos, et
terram exponat catholicis occupandam, qui eam exterminatis haereticis
sine ulla contradictione possideant, et in fidei puritate conservent.
Il canone del concilio lateranense contro l'eresia fu inserito nella
legge contro gli eretici, che pubblicò Federico II nel 22 novembre 1220
giorno della sua incoronazione. Quattro anni più tardi due altri editti
più severi (PIETRO DELLE VIGNE, _Lett._, I, ep. 25-27. MANSI, XXIII,
586).

[30] Sul valore di Vincenzo di Beauvais scrisse acute osservazioni il
BARTOLI nei _Precursori del Rinascimento_, pag. 29, e nella _Storia
della letteratura italiana_, I, pag. 245.

[31] Riscontrate il bellissimo capitolo del FIORENTINO sulla
scolastica, nella nota opera _Pietro Pompazzi_, pag. 124 e segg., e
dello stesso autore _Manuale di storia di Filosofia_, parte II, pag. 94
e segg. Inoltre RENAN, _Averroès et l'Averroisme_, pag. 225, 3ª ediz.

[32] Vedi RENAN, op. cit., pag. 301 e segg. Che l'Anticristo sia
messo come il rappresentante dello scisma si pare dall'affresco del
S. Petronio di Bologna, ove accanto a Maometto ed Averroè è messo
il capo dei nicolaiti, i quali non si confondevano nel medio evo
coi maomettani, come dice il Renan, bensì rappresentavano i preti
concubinarii, aspramente combattuti insieme ai simoniaci dalla chiesa
romana. L'affresco del Gaddi nel cappellone degli Spagnuoli in Santa
Maria Novella in luogo di Nicola ha Sabellio, che insieme ad Ario ed
Averroè vengono rappresentati come confusi e vinti dal loro grande
avversario. V. HETTNER, _Italienische Studien_, Braunschweig 1879, pag.
115.

[33] S. TOMMASO, _Summa contra Gentes_, 1, 26: Quod est commune multis,
non est aliquid praeter multa nisi sola ratione. Ivi 1, 65: Universalia
non sunt res subsistentes, sed habent esse solum in singularibus ut
probatur in VII met.

[34] S. TOMMASO, _De univ._ opusc. 50 ed. Parma 1864, tom. XVII, pag.
128 b. Et tangitur in hoc duplex esse universale: unum quod est in
rebus, aliud secundum quod est in anima. Et quantum ad istud esse quod
est rationis, habet rationem praedicabilis; quantum vero ad aliud
esse, est quaedam natura, et non est universale actu, sed potentia;
quia potentiam habet ut talis natura fiat universalis per actionem
intellectus, .... depurantis ipsam (naturam) a conditionibus quae sunt
hic et nunc.

[35] Cito il noto passo di ALBERTO MAGNO, _De natura et orig. animae_,
Tract. I, cap. II (_Opp._, Lugduni 1651, tom. V, pag. 186 b.): et tunc
resultant tria formarum genera; unum quidem ante rem existens, quod
est causa formativa rerum, praehabens simpliciter et immaterialiter et
immobiliter omnes diversitates formarum factorum materialiter; aliud
autem est ipsum genus formarum, quae fluctuant in materia et materiae
sunt perfectiones; tertium antem est genus formarum, quod abstrahente
intellectu separatur a rebus, secundum modum speciei et generis et
generalissimi in quolibet genere rerum. Et horum trium generum primum
quidem est ante rem, ut diximus. Secundum autem est in re .... tertium
autem est post rem.

[36] Anche ALBERTO MAGNO scrisse: De unitate intellectus contra
Averrhoem. OPP., V, 218-37.

[37] Vedi ZELLER, _Philosophie der Griechen_, II, 2^3 pag. 566-78.

[38] Nel principio del cap. 5 del lib. III _De anima_, 430 a 10-14
Aristotele dice: che poichè in tutta la natura occorrono differenze di
materia e forma potenza ed atto, si daranno anche nell'anima.

[39] _De an._ III, 5, pag. 430 a 23-25.

[40] AVICENNA, _De an._ cap. X, (Venezia 1546): Haec igitur manatio,
vel hoc a quo fit manatio, cum qua conjungitur anima, est substantia
intellectiva non corporea, neque in corpore; sed est existens per
se: quae inhaeret vel accidit vel assistit animae rationali, sicut
inhaeret lumen visui. Verum lumen confert vel tribuit cum semplicitate
essentiae suae visui virtutem super apprehensionem solum, et non formam
apprehensam; et haec substantia confert vel tribuit cum simplicitate
essentiae suae virtuti rationali virtutem super apprehensionem et facit
in ea advenire formas apprehensibiles etiam, sicut declaravimus.

[41] _Aristotelis De anima cum Averrois commentariis_, Venetiis 1562
fol. 149 v: Ex hoc dicto nos possumus opinari intellectum materialem
esse unicum in cunctis individuis. _Destr. destruct_ 1, dub. 8: prae
caeteris assimilatur lumini, et sicut lumen dividitur ad divisionem
corporum illuminatorum, deinde fit unum in ablatione corporum, sic
est res in animabus cum corporibus. Per tal guisa Averroè crede
di conciliare le due interpetrazioni di Alessandro d'Afrodisia
e di Temistio. Questi ha ragione di sostenere esser l'intelletto
attivo ed il passivo un solo e medesimo intelletto; ma ha torto
d'intrinsecarlo coll'anima individuale, nè per questo verso si può
dissentire dall'Afrodisio, a mente del quale il vero e compiuto
intelletto è esterno all'anima umana. Prendendo dunque dal Temistio
l'identificazione dei due intelletti, e dall'Afrodisio l'esteriorità
Averroè riesciva ad una dottrina psicologica di questa forma: Ciò
che v'ha d'individuale e di diverso negli uomini è la forma del corpo
organico, cioè l'anima come principio vitale. A quest'anima appartiene
il sentire, l'immaginare, ed anche una certa virtù valutativa. Ma
questo complesso di funzioni non forma ancora l'intelletto neanche in
potenza. Occorre l'opera di una causa esterna, dell'intelletto agente,
perchè da quella oscurità si sprigioni una scintilla, o in altre parole
perchè l'anima sia capace di nuove funzioni. Quindi anche l'intelletto
passivo è creazione dell'Intelletto agente. Formatasi questa nuova
potenza o l'intelletto passivo, si tradurrà in atto sotto l'influsso
permanente del νοῦς ποιητικὸς, e per tal guisa diverrà intelletto
acquisito.

[42] _Epit. meteor._ tr. 4: Intellectus autem agens ordinatur ex ultimo
horum in ordine, et ponamus ipsum esse motorem orbis Lunae.

[43] _Summa theol._, I, qu. 79, art. 3: Si noster intellectus agens
non esset aliquid animae, sed esset quaedam substantia separata,
unus esset intellectus agens omnium hominum, et hoc intelligunt qui
ponunt unitatem intellectus agentis. Si autem intellectus agens sit
aliquid animae, et quaedam virtus ipsius, necesse est dicere quod
sint plures intellectus agentes, secundum pluralitatem animarum, quae
multiplicantur secundum multiplicationem hominum.

[44] S. Tommaso nell'opuscolo citato _De Unitate intellectus_, ediz.
Parma, _Opp._, XVI, 217 a, dice: Se fosse vera la dottrina averroistica
sicut igitur paries non videt, sed videtur ejus color, ita videretur
quod homo non intelligeret, sed quod ejus phantasmata intelligerentur
ab intellectu possibili. Come si vede S. Tommaso combatte Averroè colle
stesse immagini da lui adoperate a colorire le proprie dottrine; nè a
torto conchiude: Impossibile est ergo quod hic homo intelligit secundum
positionem Averrois. E per conseguenza negato l'intelletto, gli si
negherà anche la volontà pag. 218 b et ita hic homo non erit dominus
sui actus .... quod est divellere principia moralis philosophiae.

[45] Anche S. Tommaso, sebbene con restrizione, ammette questo
(_S. t._, qu. 84, art. VII): Impossibile est intellectum, secundum
praesentis vitae statum, quo possibili corpori conjungitur, aliquid
intelligere in actu nisi convertendo se ad phantasmata.

[46] S. Tommaso da buon aristotelico non può ammettere l'assoluto
dualismo tra anima e corpo, chè in tal caso la loro unione sarebbe
affatto accidentale. In 111 Sent., dist. V, qu. 3, art. 2: si corpus
animae accidentaliter adveniret, unde hoc nomen _homo_, de cujus
intellectu est anima et corpus, non significaret unum per se, sed per
accidens, et ita non esset in genere substantiae. Altra conseguenza
assurda dell'assoluto dualismo (_S. t._, I, qu. 76, art. 6): Dicendum
quod si anima uniretur corpori solum ut motor, nihil prohiberet,
imo magis necessarium esset, esse aliquas dispositiones medias inter
animam et corpus. Contro questa separazione protesta pure l'esperienza
psichica. Ivi, qu. 75, art. 4: Ostensum est quod sentire non est
operatio animae tantum. Cum igitur sentire sit quaedam operatio hominis
licet non propria, manifestum est quod homo non est animo tantum, sed
aliquid compositum ex anima et corpore. Ivi, qu. 90, art. 4: Anima
autem cum sit pars humanae naturae non habet naturalem perfectionem
nisi secundum quod est corpori unita. Unde non fuisset conveniens
animam sine corpore creari. _C. Gentes_, II, 83: Animae igitur prius
convenit esse unitam corpori quam separatam.

[47] In Plotino si trova un accenno a questa dottrina. L'anima come
ultimo termine della triade partecipa per un verso della perfezione
del _nous_ che la generò, e per l'altro dell'imperfezione del mondo
sensibile da lei generato. _Enn._, V, 1, 7. E prima di Plotino i
gnostici aveano nello stesso modo determinata la posizione dell'ultimo
eone, della _sophia_ o _achamoth_ la quale bandita dai confini del
beato regno del _plēroma_ vive in trepidazione, e dalle lagrime sue
nasce il mondo sensibile. IRENEO, 1, 4, 2 ci dà la spiegazione del
mito.

[48] Che l'indecisione ed il problema rimonti ad Aristotele stesso non
v'ha dubbio. Nella _Metafisica_ Aristotele pone nettamente il quesito:
se la sostanza è il sostrato a cui tutto si può attribuire, mentre
esso non s'attribuisce ad alcuno, che cosa s'ha a dire sostanza? la
materia, la forma o il sinolo di entrambe? (Z 3. 1029 a 2). A prima
giunta sembra la materia, perchè essa sarebbe il soggetto di tutti i
predicati qualitativi e quantitativi come rosso, bianco, alto, lungo
e simili (_a_ 18-26). Ma per un altro verso la materia non è mai
separabile dalla forma. La pura materia, destituita di ogni forma,
è una astrazione, in realtà dacchè il mondo è eterno, sono eterni ad
esempio i quattro elementi nei quali la materia è intrinsecata ad una
forma determinata (_a_ 27). Ma neanche la forma è la vera sostanza,
perchè ella è l'essenza espressa nella definizione della cosa (Z. 4.
1030 a 6). E se l'essenza fosse da per sè, come le idee platoniche,
non potrebbe mai predicarsi a soggetti di sorta (Z. 6. 1031 b 16). Il
che è manifesto assurdo, chè tutti distinguono i predicati essenziali
dagli accidentali. La vera sostanza non è dunque nè la materia nè la
forma che sono entrambi fattori universali; ma l'intreccio dell'uno
e dell'altro (Z. 10. 1036 a 27). Se non che questa soluzione non è
senza difficoltà. Aristotele stesso avea detto in un altro capitolo:
_lasciamo pure da parte la sostanza composta dei due fattori,
materia e forma, chè dessa è posteriore ai componenti_. (Z. 3. 1029
a 30). E poi o questa dualità di fattori è puramente ideale, o come
diremmo oggi subbiettiva, ed in tal caso non è risoluto ma negato
assolutamente il problema. L'individuo è originario, ed è quello
che è. La scomposizione in materia e forma non sarebbe reale, ma una
necessità del nostro pensiero che guarda la cosa da due aspetti. Nella
realtà delle cose non si darebbe nè una materia che si specifichi, nè
una forma che s'individui per via; bensì esisterebbero individui che
generano individui simili a sè (Z. 8. 1033 b 33). Questo mostruoso
individualismo, che ammetterebbe come originarii ed indeducibili non
gli elementi più semplici, gli atomi, ma le individualità più ricche,
è certo lontano dal pensiero di Aristotele, il quale non rinunzia
a spiegare la genesi dell'individuo. Ed in tal caso torna sempre il
problema. Ammettiamo pure che l'individuo o la sostanza vera consti di
due fattori; ma dei due qual'è il determinante e quale l'indeterminato?

[49] S. Tommaso scrisse un opuscolo sul principio dell'individuazione,
nel quale discute le ragioni della sua teorica, e confuta le obbiezioni
che gli si posson muovere. Parte dal presupposto aristotelico esser
l'individuo nelle cose sensibili ipsum ultimum in genere substantiae,
quod de nullo alio praedicatur, immo ipso est prima substantia (_Opp._,
ed. cit., XVI 329 a). E stantechè la forma ha caratteri affatto
opposti, e di sua natura communicabilis est et in multis accipi
potest.... cum una sit ratio speciei in omnibus individuis, così è
chiaro che il principio d'individuazione si debba porre nella materia.
_S. t._, I, qu. 3, art. 2: formae quae sunt receptibiles in materia
individuantur per materiam quae non potest esse in alio, cum primum
sit subiectum substans. Ma S. Tommaso non si nasconde le difficoltà di
questa posizione, che del resto erano state prima di lui chiaramente
esposte da Aristotele medesimo. _De Princ. ind._ 329 b: Sed huic
objici potest quod materia de sui natura communis est, sicut et forma,
cum possit una sub pluribus esse. E s'argomenta di schivare queste
difficoltà per una scappatoia come nell'opuscolo seguente _De ente et
essentia_ (cap. II, pag. 331 a): materia non quomodo libet accepta est
principium individuationis, sed sola materia signata. Ma che cosa s'ha
da intendere per questo _signum_? Una certa disposizione posta nella
materia a ricevere questa o quella forma, come interpetra il cardinale
Gaetano, ovvero un dato _quantum_, come vuole Egidio pel quale _materia
signata_ non vuol dire altro se non _materia quanta_, o meglio
una determinata quantità di materia? Quest'ultima interpetrazione
certamente è più conforme al testo tomistico. _S. t._, I, qu. 76,
art. 6: dimensiones quantitativae sunt accidentia consequentia
corporeitatem, quae toti materiae convenit. _De ente et essentia_, loc.
cit. consideratur signatio ejus esse sub certis dimensionibus, quae
faciunt esse et hic et nunc. Però si corre il rischio di ridurre le
differenze tra gl'individui alla sola quantità, dottrina che applicata
all'uomo sarebbe gravida di conseguenze che S. Tommaso non saprebbe
accettare. Ma indipendentemente da questo, il _signum_ non è già
l'impronta di una certa forma? Se dunque il principium individuationis
non sta nella materia pura, ma nella segnata, e se per ottenere
questa designazione, o vogliam dire specificazione della materia è
pur necessaria la forma, egli è chiaro esser questa e non quella il
principio d'individuazione.

[50] SCOTO, _quaest. in met._ VII, qu. 13, scol. 2 (_Opp._, IV, 700,
ed. Lione 1639): Eadem materia quae est sub forma unius individui
potest esse sub forma alterius consequenter. Ergo non est illud, quo
distinguuntur duo individua et quo hoc est hoc.

[51] Intorno a Scoto tutto è ancora oscuro, il luogo di nascita non si
sa bene se sia in Iscozia, in Irlanda o nel Northumberland, e l'anno
stesso in cui nacque è incerto se sia il 1274, proprio quello in
cui morì S. Tommaso, ovvero il 1266. Giovanissimo entrò nell'ordine
dei Francescani, e a soli 23 anni insegnava con gran successo. Ma
ben presto la sua prodigiosa attività fu tronca dalla morte che lo
colse nel 1308, in Colonia, dove il Generale dell'ordine lo avea
chiamato a dar splendore a quell'antica scuola. L'Erdmann (_Grundriss
der Geschichte der Philos._, 3ª ed. I, 409 e segg.) pone il nostro
filosofo nel periodo della dissoluzione della scolastica. Ed in
verità quell'acume di dialettica, che fece meritare a Scoto il nome
di dottor sottile lo rende più atto a criticare le dottrine altrui,
che a costruirne nuove; a forza di distinzioni e suddistinzioni
notomizza e distrugge l'altrui pensiero; ma a questa forza d'analisi
non corrisponde quella potenza sintetica, che risplende nei periodi
creativi della filosofia. Per questa ragione lo Scoto attende più al
modo come si dimostra la dottrina, che alla dottrina stessa; onde da
lui prende origine quel fare scettico che trae in rovina il dommatismo
scolastico. Queste ragioni dell'Erdmann non son certo di poco valore;
ma non valgono a scuotere l'antica tradizione degli storici della
filosofia di mettere assieme i due grandi emuli, S. Tommaso e Scoto.
Non è punto vero che Scoto non abbracci una dottrina a preferenza
di un'altra. Tutt'altro. Egli invece sostiene un realismo, forse
più logico di quello di S. Tommaso, a costruire il quale ha bisogno
di attribuire realtà e consistenza ai concetti astratti più di quel
che facessero gli scolastici posteriori. Voglio dare un esempio.
Scoto combattè la dottrina tomistica degli attributi divini, i quali
solo a noi parrebber molteplici, mentre in realtà si riducono ad uno
nella semplicità dell'essenza divina, e non nasconde le conseguenze
pericolose di un siffatto docetismo, che minaccia la distinzione reale
delle persone. Aggiunge che non perchè gli attributi divini debbano
intendersi come infiniti, non per questo perdono la loro natura. E se
la saggezza, la bontà, la giustizia debbono elevarsi pel processo di
eminenza al massimo grado, non ne segue che la distanza, che separa
questi concetti, si raccorci. Questa critica è certamente fine, e se
fosse stata rivolta contro tutta la posizione della scolastica, che
cerca la luce dove più si addensano le tenebre, potremmo benissimo
mettere Scoto accanto all'Occam. Ma la cosa non sta così. Scoto vive
nello stesso ambiente di S. Tommaso, e combatte la dottrina di lui non
per mostrare l'impossibilità di quell'ibrido accozzo di dommatismo,
e razionalismo, ma per sostituire alla tomistica una dottrina non
certo più chiara, ma senza dubbio più vuota. Divinae perfectiones
distinguuntur ex parte rei, non realiter quidem sed formaliter.
Possiamo al più dire col Fiorentino che Scoto segna una transizione tra
il periodo della scolastica e quello della dissoluzione (_Manuale_, II,
110).

[52] Duns Scoto, al pari dell'Erigena e dell'Avicembronio, attribuisce
alla materia il valore di sostrato universale. Il quale sostrato,
benchè destituito di ogni forma, non è una mera possibilità,
un'astrazione, come dice S. Tommaso; ma una realtà bella e buona. Si
materia non esset aliqua res actu, ejus entitas non distingueretur ab
entitate et actualitate formae, et sic nullam realem compositionem
faceret cum ea .... materia habet actualitatem aliam ab actualitate
formae. _De rerum principio_, Qu. 7, art. 1, 3 (_Opp._, ed. cit., III,
38). E questo sostrato generalissimo, che ripetiamo non è un'astrazione
ma realtà vera, è il fondo comune onde emergono e le sostanze sensibili
e le spirituali, e s'ha da chiamare _materia primo prima_ (Qu. 8, art.
3) cioè tale che non accoglie ancora nessuna forma nè accidentale nè
sostanziale, cujus actualitas est immediate prope nihil. (Ivi pag. 51).
Da questa materia _primo prima_ s'ha da distinguere la _secundo prima_
(quae est subjectum generationis et corruptionis) e la _tertio prima_
(cujuscunque artis et materia cujuslibet naturalis particularis). Se la
materia è il sostrato universale, il principio d'individuazione s'ha da
trovare nel principio opposto, nella forma.

[53] Sono spesso citati i due passi seguenti. _De rerum principio_,
qu. 8, art. 4, 24 (_Opp._, III, pag. 52): Ego autem ad positionem
Avicembronis redeo; et primam partem, scilicet quod in omnibus
creatis per se subsistentibus, tam corporalibus, quam spiritualibus,
sit una materia teneo. Loc. cit., pag. 53: Mundus est arbor quaedam
pulcherrima, cujus radix et seminarium est materia prima, folia
fluentia sunt accidentia, frondes et rami sunt creata corruptibilia,
flos anima rationalis, fructus naturae consimilis et perfectionis
natura angelica.

[54] Averroè nega la creazione nel tempo, se non si vuole ammettere
fuisse mutationem in ipso Deo; et principium concessum ab omnibus est,
quod nulla res se ipsam mutare potest. (_Destr. destr._, disp. 1, dub.
1). S. Tommaso non va certo tanto in là, ma confessa (_Summa st._, 1,
qu. 46, art. 2) mundum incipisse sola fide tenetur ... novitas mundi
non demonstrationem recipere ex parte ipsius mundi, unumquodque autem
secundum rationem suae speciei abstrahit ab hic et nunc .... similiter
etiam neque ex parte causae agentis, quae agit per voluntatem. Noi
riconosciamo col Talamo (_L'Aristotelismo della Scolastica_, pag. 158,
3ª ed.) che S. Tommaso non per ossequio ad Aristotele, ma in forza
d'argomenti razionali sostiene la sua dottrina. E pensiamo anche noi,
che dell'autorità del filosofo l'Angelico se ne sarebbe sbarazzato
presto, come fece nella stessa quistione quando prese a combattere gli
argomenti dell'ottavo della fisica. Il contrasto in cui si dibatteva
era più profondo, e stolti erano quei _murmurantes_ che chiudevano gli
occhi per non vedere.

[55] _S. th._, I, qu. 50, art. 4. _De Ente et essentia_ c. 5. Sed
quum essentia simplicium non sit recepta in materia, non potest ibi
esse talis multiplicatio. Ed ideo non oporteat quod inveniantur plura
individua unius speciei in illis substantiis, sed quot sunt individui,
tot sunt species.

[56] Il misticismo di S. Bonaventura si ricollega con quello dei
Vittorini. _Itiner. mentis ad Deum_, cap. 1. Cum beatitudo nihil
aliud sit quam summi boni fruitio, et summum bonum sit supra nos,
nullus potest effici beatus nisi supra seipsum ascendat ... Sed supra
nos levari non possumus, nisi per virtutem superiorem nos elevantem.
Quantumcumque enim gradus inferiores disponantur nihil fit nisi divinum
auxilium comitetur. La via di questa visione beatifica monta per
sei gradi, corrispondenti a sei facoltà dell'animo, senso, ragione,
intelletto, intelligenza, sinderesi, apex mentis. Nel primo grado
si conoscono le cose esterne in peso, numero, e misura. Nel secondo
queste cose esterne o macrocosmo vengono ripercosse nel microcosmo, e
conosciute per mezzo delle specie sensibili. Nel terzo lo spirito si
concentra in sè. Nel quarto già comincia ad escir di sè. Nemo cepit
nisi qui accipit, quia magis est in experientia effectuali quam in
consideratione rationali. Nel quinto si abbraccia l'unità divina. Nel
sesto le tre persone.

[57] _Philos. princ._, c. 3; _Ars Magna_, part. 9, c. 64. Credere
non est finis intellectus sed intelligere; verumtamen fides est unum
instrumentum ad elevandum suum intelligere cum credere; et ideo
sicut instrumentum consistit inter causam et effectum, sic fides
consistit inter intellectum et Deum. Sotto Gregorio XI l'inquisitore
Eymerich estrasse dalle opere del Lullo cento passi incriminabili
tra i quali scelgo questi: 97. Quod fides est necessaria hominibus
insciis rusticis ministrantibus et non habentibus intellectum
elevatum .... homo subtilis facilius trahitur per rationem quam per
fidem. 98. Ille qui cognoscit per fidem ea quae sunt fidei, potest
decipi; sed ille qui cognoscit per rationem non potest falli. Voglio
anche addurre l'articolo seguente 99: interficientes haereticos sunt
injuriosi et vitiosi etc. (_Directorium inquisitionis_, Roma 1635, p.
277). In seguito alla denunzia dell'inquisitore, udito il parere di
Pietro vescovo d'Ostia ed altri venti maestri di teologia, Gregorio
XI ingiunge all'arcivescovo di Terragona: quod omnibus et singulis
eisdem personis vestrarum civitatum et dioecesum doctrinam seu potius
dogmatizationem, et usum hujusmodi librorum interdicere studeatis. La
bolla riportata nel _Directorium_ pag. 331 è del 25 gennaio 1376. Non
ostante questa condanna seguitarono i Lullisti, e nel rinascimento,
benchè fussero di nuovo condannate da Paolo IV, ebbero grande
importanza le teoriche del Lullo, talchè il Bruno scrisse un'_Ars
lulliana_.

[58] È commovente la storia di questo francescano, che in luogo
di scrivere somme teologiche o commenti alle sentenze, fa ricerche
ed esperimenti fisici. Ed in grazia di tali studii tenuto per mago
vien più volte molestato, e in fine messo in prigione ove languisce
per nove anni. E poco dopo che ne esce muore pressochè ottantenne.
I papi gli furono ora amici, ora avversi. Clemente IV (1265-68) lo
apprezzò moltissimo, e lo eccitò a scrivere l'_Opus majus_; Niccolò
IV invece (1288-1292) fu inesorabile. Quanto valore dia Rogero
all'esperienza si può vedere nella parte 6ª del suo _Opus majus_,
cap. 1º. Duo enim sunt modi cognitionis, scilicet per argumentum
et experientiam. Argumentum facit concludere quaestionem sed non
certificat neque removet dubitationem, ut quiescat animus in intuitu
veritatis, nisi eam inveniat via experientiae. Il Bacone del secolo
XIII è il vero precursore del Verulamio. E forse in qualche punto gli è
superiore; perchè mentre questi non fa nessun conto della matematica,
quello comprende benissimo di quanto giovamento possa tornare alla
scienza sperimentale. Vedi _Opus majus_, pars IV, dist. 1. Et harum
scientiarium porta et clavis est mathematica.

[59] Vedi la lettera di Gregorio IX a Federico II (Rieti 23 ottobre)
in BRÉHOLLES, IV, 918 e segg., e principalmente la lettera d'Innocenzo
IV del 1246. J: C. in apostolica sede non solum pontificalem sed et
regalem constituit monarchiam beato Petro ejusque successoribus terreni
simul ac coelestis imperii commissis habenis.

[60] Vedi la lettera di Federico 20 settembre 1236 e il celebre
manifesto del febbraio 1246 in risposta alla scomunica d'Innocenzo IV.

[61] _De regimine princip._, I. 14: In lege Christi reges debent
sacerdotibus esse subjecti. Di questo opuscolo tutto il primo libro
e i quattro primi capitoli del secondo appartengono all'Aquinate; il
resto, secondo il De Rubeis, al discepolo Tolomeo di Lucca. (_S. Thom.
Opp._, ed. Parma, XVI, 501). Sulle dottrine politiche di S. Tommaso
vedi BAUMAN, _Die Staatslehre des h. Thomas_, Leipz. 1873, specialmente
a p. 15, 75-81, 179. Lo Scaduto nel bel libro _Stato e Chiesa_,
Firenze 1882, pag. 34, mette una differenza tra la somma teologica e
l'opuscolo. Nè si può negare che nel _De Regimine_ è più nettamente
formolata la superiorità della Chiesa sullo Stato: ma anche nella
_Summa_ al disopra della legge umana è messa la divina, e tanto nel
_De Regimine_ quanto nella _Summa_ la Chiesa può sciogliere i sudditi
dall'obbedienza verso un Principe, che s'allontani dalla fede.

[62] Vedi principalmente la terza parte del _De Monarchia_, ove
discute: an autorithas monarchae dependeat a Deo immediate vel ab
alio Dei ministro seu vicario. WEGELE, _Dante Alighieri's Leben und
Werke_, 3ª ediz., pag. 312: er muss zugleich auch als einer der ersten
ahnungsvoller Verkündiger des modernen Staats begriffen und anerkannt
werden.

[63] In questo senso accetterei la nota del Prof. Del Lungo sul
ghibellinismo di Dante (_Dino Compagni e la sua Cronaca_, Firenze
1879, II, 605). Nessuno dubita che Dante avesse a disdegno i guelfi
e i ghibellini dei suoi tempi, partiti più municipali che politici,
e nutriti da discordie e rivalità di famiglia più che da contrasti di
idee. E ben a proposito il Del Lungo ricorda la nota terzina del VI del
_Paradiso_

    L'uno al pubblico segno i gigli gialli
    Oppone, e l'altro _appropria quello a parte_
    Sì che forte a veder è chi più falli.

Ma col debito rispetto ad un così esperto conoscitore di quei tempi,
io non posso capacitarmi che Dante si fosse fatto ghibellno per
forza e non per intimo convincimento. Se ghibellino nel suo più alto
significato è colui che abbracciava in fatto di sovranità opinioni
del tutto opposte a quelle sostenute sempre dai Papi a cominciare da
Gregorio VII sino a Bonifacio VIII e Giovanni XXII, nessuno può dirsi
ghibellino meglio di Dante, il primo che seppe ridurre a teoria la
politica imperiale. Un altro forse prima di lui Engelberto, abbate
di Admont, scrisse un libro _de ortu, progressu et fine romani
imperii_; ma nè Dante conosceva quest'opera, nè dessa può reggere al
paragone della dantesca. Sarebbe adunque strano che il primo teorico
dell'Imperialismo fosse non un ghibellino, ma un guelfo. Ammetto bene
che i guelfi non volessero distruggere la potestà imperiale, ma neanche
i ghibellini la potestà papale. La quistione non era di distruggere
l'una o l'altra delle istituzioni, a cui tutti credevano; bensì o
di sottomettere l'una all'altra, ovvero di rendere l'una dall'altra
indipendente. Questo voluto guelfismo di Dante ha indotto il prof.
Del Lungo nella credenza che il Veltro debba essere un Papa non un
Imperatore (op. cit., p. 555), opinione vittoriosamente oppugnata dal
Fornaciari (_Studii su Dante_, pag. 25).

[64] Vedi la seconda parte del _De Monarchia_: An Romanus populus de
jure monarchae officium sibi asciverit. Il Witte ha ben rilevata la
continuità della tradizione classica.

[65] Le ragioni addotte dal D'Ancona (_Studii di critica e storia
letteraria_, pag. 72-83) mi pare mettano fuori di controversia che lo
_spirto gentil_ non possa essere Stefanuccio Colonna. E fra tutte le
ipotesi la più probabile resta sempre quella che riferisce la canzone a
Cola, interpetrando le parole: _un che non ti vide ancor da presso_ nel
senso: _non ti vide tribuno_.

[66] Questa in fondo è la dimostrazione della prima parte del
_De Monarchia_: An de bene esse mundi monarchia necessaria sit.
L'imperatore è la miglior guarentìa della pace, della libertà e della
giustizia, perchè egli è spoglio di passioni, è un essere sovrumano.
Anche il Wegele pag. 348 riconosce la fallacia di questo ragionamento,
sebbene non ne rilevi il carattere medievale.

[67] È nota la disputa tra il Witte ed il Böhmer da una parte ed
il Giuliani ed il Wegele dall'altra. A me pare molto più probabile
la congettura del Wegele che il libro sia stato scritto dopo la
consacrazione di Enrico VII, al quale vanno riferite le parole del
libro II, cap. I: reges et principes in hoc uno concordantes ut
adversentur Domino suo, et uncto (non unico) suo Romano principi.
Ma benchè questo libro sia posteriore agli scritti francesi, che
ricorderemo più sotto, pure ha una tinta medievale più spiccata. Il
Brice (_The holy Roman Empire_, 6ª ed., pag. 264) avea già notato: With
Henry the Seventh ends the history of the Empire in Italy and Dante's
book is an epitaph instead of a prophecy; con non minore acume il
Wegele (op. cit., pag. 334): unter diesen rückwärtsstrebenden Geistern
nimmt Dante den ersten Platz ein, und er hat diese seine Stimmung
so entschieden und sinnreich ausgesprochen, sie zu einem Sistem
ausgebildet und poetisch verewigt, das sie stets ein grosses Interesse
hervorgerufen hat, obwohl sie nichts war, als das kraftvolle tragische
Verneinen des unabänderlichen Fortschrittes der Weltgeschichte.

[68] In 2 Sent., qu. 17: Non est ponenda pluralitas sine necessitate.

[69] _Summa totius logicae_, I, cap. XV: Nullum universale esse aliqua
substantia extra animam existentem evidenter probari potest.

[70] In _Sent._, prolog., qu. 1: Notitia intuitiva rei est talis
notitia virtute cujus potest sciri utrum res sit vel non sit.

[71] In 1 Sent., dist. 3, qu. 2: Nec divina essentia nec divina
quidditas nec aliquid intrinsecum Deus, nec quid quod est realiter
Deus potest hic cognosci a nobis .... nihil potest probari naturaliter
cognosci in se nisi cognoscatur intuitive.

[72] In 1 Sent., dist. 11, qu. 8. Non est quaerenda causa
individuationis nisi forte extrinseca.

[73] Il Kopp, il Theiner ed il Ficker aveano già pubblicata la
bolla inviata da Bonifacio VIII all'elettore Duca di Sassonia
perchè favorisse le pratiche avviate presso Alberto d'Austria per la
retrocessione alla Curia romana dei diritti imperiali sulla Toscana.
Gl'importanti documenti pubblicati dal signor Levi (_Bonifazio VIII
e le sue relazioni col Comune di Firenze_, Roma 1882) mettono fuor
di dubbio questo intendimento, e l'occulto fine del processo contro
Lapo Saltarelli e della missione affidata a Carlo di Valois. Bonifazio
VIII con certo minore accorgimento e prestigio tentava ciò che sarebbe
parsa follia agl'Innocenzo III ed ai Gregorio IX! Questi fatti rendono
molto improbabile l'ipotesi, che la repubblica fiorentina mandasse da
ambasciatore al Papa l'Allighieri, se a quel tempo avesse egli già
pubblicato un libro così ostile alle pretensioni papali come il _De
Monarchia_. Nè parmi probabile che Dante lo scrivesse nel breve ed
agitato tempo che corse tra l'ottobre del 1301, data dell'ambasceria,
ed il gennaio 1302 data della prima condanna. Si potrebbe ammettere
come mi suggerisce un dotto e caro amico, che il _De Monarchia_ fosse
stato scritto prima dell'ambasceria e pubblicato dopo. Ma quando? Prima
della condanna? È possibile che Dante volesse rendere peggiori le sue
sorti, quando pendevano ancora indecise? Sulla pubblicazione del Levi
vedi una bella recensione di Augusto Franchetti nella _Nuova Antologia_
del 1º gennaio 1883.

[74] GOLDAST, _Monarchia_, I, 13. Il RIEZLER, _Die literarischen
Widersacher der Päpste zur Zeit Ludwig des Baiers_, pag. 145 e segg.,
l'attribuisce al Dubois; perchè la sveltezza di questo dialogo mal
s'accorda colla gravità faticosa dei dialoghi autentici dell'Occam.
Oltrechè le edizioni più antiche danno il dialogo per anonimo, e solo
dall'edizione parigina del 1498 si cominciò ad attribuirlo all'Occam.
Una fedele esposizione del dialogo si può leggere nel libro dello
Scaduto: _Stato e Chiesa_, Firenze 1882, pag. 81 e segg.

[75] _Tractatus de Jurisdictione Imperatoris in causis matrimonialibus_
(GOLDAST, tom. II, p. 21). Cum enim secundum scripturas sacras atque
rationem naturalem inter infideles [non _fideles_ come è stampato
dal Goldast] verum licitum et legitimum reperiatur conjugium et
(prout etiam Romanorum Pontificum decretales testantur) infideles
constitutionibus ecclesiasticis non arceantur, evidenti concluditur
argumento, quod causa matrimonialis .... ad Imperatores legitimos
.... pertinebat, p. 23. In specie autem de Sacramento matrimonii (quod
etiam decretales Romanorum Pontificium dicunt apud fideles et infideles
existere) dicitur, quod ad Imperatorem, in quantum solummodo Imperator,
eo quod pluries Imperator extitit infidelis, causa matrimonialis
.... spectat. Queste citazioni bastano a provare come l'Occam senta
vivo il bisogno che il matrimonio diventi una istituzione dello stato
indipendente dalle confessioni religiose. Intorno allo scritto sullo
stesso argomento per Marsilio da Padova, la cui autenticità è da molti
revocata in dubbio, vedi RIEZLER, op. cit., pag. 234.

[76] GOLDAST, II, p. 877. Anche Bonifazio nella lettera all'elettore
di Sassonia dice alludendo all'impero: quod fuerat ad medelam provisum,
tetendit ad noxam.

[77] RIEZLER, op. cit., pag. 203 e segg. SCADUTO, op. cit., pag. 118.
Riscontrate anche l'opera recente del LABANCA, _Marsilio da Padova_,
Padova 1882, pag. 135. Acconsento al Labanca che il mettere nel popolo
la fonte della sovranità e non pure della temporale dell'Impero, ma
della spirituale della Chiesa sia un concetto moderno; ma ciò non
toglie che l'opera di Marsilio e pel fine che si propone, e pel metodo
che tiene sa del medievale in confronto del _Principe_ e dei _Discorsi_
del Machiavelli, come ha ben detto il Villari, _Niccolò Machiavelli_,
II, pag. 237.

[78] GOLDAST, I, p. 17: regnum Franciae dignissima conditione
Imperii portio est, pari divisione insignita, quicquid privilegii et
dignitatis retinet Imperii nomen in parte una, hoc regnum Franciae
in parte altera. Questo pensiero è comune agli scritti francesi del
1303 così nel trattato _De potestate regia et papali_ di Giovanni da
Parigi (RIEZLER, pag. 153; SCADUTO, pag. 93), come nella _Quaestio de
potestate papae_ (RIEZLER, pag. 142; SCADUTO, pag. 96). Anche OCCAM,
_Dialogus_, in GOLDAST, II, 876, secundum diversitatem qualitatem et
necessitatem temporum expedit regimina et dominia mortalium variari.

[79] _De sui ipsius et multorum ignorantia liber_, ed. Basilea, pag.
1037, 1043.

[80] Anche lo Zumbini, che rivendica contro il D'Ancona l'imperialismo
del Petrarca, scrive egregiamente: «In mezzo a quelle lotte della
Chiesa e dell'Impero, a quelle guerre crudeli, a quegli scandali
d'ogni maniera, il più offeso di tutti e insieme il solo incolpevole
era il popolo romano. Roma per il Petrarca era una grande vittima
e intemerata, e lei bisognava soccorrere anzi tutto». _Studi sul
Petrarca_, p. 254.

[81] FIORENTINO, _Saggio sul Petrarca negli Scritti varii di
letteratura, filosofia e critica_. BARTOLI, _I primi due secoli
della letteratura italiana_, pag. 485 segg. In una serie di lettere
che il Petrarca diresse a parecchi in occasione della guerra tra
Genova e Venezia è messa in rilievo quest'opposizione tra barbari
ed italiani. Lib. XI, ep. 8 indirizzata il 18 marzo 1351 al Doge
Dandolo (FRACASSETTI, pag. 131): Ergone ab Italis ad Italos evertendos
barbarorum regum poscuntur auxilia. Unde infelix opem speret Italia,
si parum est quod certatim a filiis mater colenda discerpitur, nisi
ad publicum parricidium alienigenae concitentur? pag. 132: Postquam
alpes et maria, quibus nos moenibus natura vallaverat, et interjectas
obseratasque divino munere claustrorum valvas, livoris avaritiae
superbiaeque clavibus aperiendos duximus Cimbris, Hunnis etc. Lib.
XIV, ep. 5 al Doge e Consiglio di Genova dopo la vittoria riportata dai
Genovesi sui Veneziani (FRACASSETTI, pag. 295): Et de exterius quidem
hostibus (cioè degli stranieri che pugnavano insieme ai Veneziani)
non doleo. Quid enim laboribus italicis sua tela permiscent, venale
genus ac faedifragum, quos in longinquam infelicemque militiam nummus
impellit etc. Lib. XIV, ep. 6, indirizzata parimente ai Genovesi,
quando nell'anno appresso alla vittoria sui Veneziani si volsero contro
il re d'Aragona: Quod optabam video; ab ortu ad occasum victricia signa
convertite. Hic precor incumbite, viri fortes, hoc agite hoc pium, hoc
justum, hoc sanctum, hoc _minime italicum_ bellum est. Lib. XVII, ep.
3, dopo la disfatta dei Genovesi (FRACASSETTI, pag. 432): ab initio
et semper _a bello italico dehortatus_ eram: deinde autem de externo
hoste quaesitae victoriae plauseram. Lib. XVIII, ep. 16, allo stesso
Dandolo dopo le vittorie veneziane del 1354 (FRACASSETTI, p. 506):
Quousque enim miseri in jugulos patria et in publicam necem barbarica
circumspiciemus auxilia? Quousque qui nos strangulent pretio conducemus
.... nihil insanius quam quod tanta diligentia tantoque dispendio
Italici homines Italiae conducimus vastatores, pag. 510: nec tibi
persuadeas, pereunte Italia, Venetiam salvam fore.

[82] D'ANCONA, _Il concetto dell'Unità politica nei poeti italiani_
negli _Studi di Critica e Storia letteraria_; Bologna 1880, p. 30-31.
BARTOLI, _Appunti sulla politica del Petrarca_ nella _Rivista Europea_,
16 gennaio 1878.

[83] Epist., Lib. XI, 8. A ragione il Bartoli scrive (op. cit. pag.
489): _Come il Petrarca si riconnette da un lato coll'Allighieri,
dall'altro sembra stendere la mano presaga al Machiavelli, il quale coi
versi di lui chiuderà il suo ritratto del Principe_.

[84] Il D'ANCONA (opera citata, pag. 34) ricorda la famosa lettera [_De
rebus familiaribus_, III, 7] indirizzata a Dionisio di S. Sepolcro nel
1339: Certe ut nostrarum rerum praesens status est, in hac animorum
tam implacata discordia, nulla prorsus apud nos dubitatio relinquitur
monarchiam esse optimam relegendis reparandisque viribus Italis, quas
longus bellorum civilium sparsit furor. Haec ut ego novi, fateorque
regiam manum nostris morbis necessariam, sic te illud credere non
dubito nullum me regem malle, quam hunc nostrum, cujus sub ditione
vivimus. Si deve certo ammettere collo Zumbini (_Saggio_, pag. 84)
che la speranza posta in Roberto non durasse lungo tempo, perchè ben
presto il re napoletano si chiarì indegno dei suoi alti destini. Epperò
il Petrarca si volge altrove, nè indirizza al suo regale amico alcuna
esortatoria, nè sulla tomba di lui rimpiange le fallite speranze. Tutto
questo è vero ed acutamente notato, ma ciò non toglie che in questa
lettera il Petrarca parli sul serio, perchè Roberto, se gli fosse
bastato l'animo, era certo l'unico monarca, a cui si porgevano le più
favorevoli occasioni per fondare un grande stato.

[85] RIEZLER, op. cit., pag. 215 e segg. LABANCA, op. cit., pag. 148
e segg. FRIEDBERG, _De finium inter Ecclesiam et civitem regundorum
judicio_, pag. 71 e segg.

[86] I Catari si dicevano così dal greco _catharos_ puro, perchè essi
soli si reputavano mondi dal commercio col cattivo spirito. HAHN,
_Geschichte der Ketzer im Mittelalter_, Stuttgart 1845, I, pag. 50;
SCHMIDT, _Histoire des Cathares_, Paris 1849, II, 276.

[87] _Disputatio inter Catholicum et Patarinum_ in MARTÈNE ET DURAND,
_Thesaurus_, V, 1706: Deum creasse omnia concedo. Intellige bona, sed
mala et vana et transitoria et visibilia ipse non fecit, sed minor
creator Lucifer. Vedi EBRARDUS in GRETSER, XII, 11, 136. ERMENGARDUS,
ivi, pag. 223.

[88] RAINERO SACCONI, _Summa de Catharis et Leonistis_ in DUPLESSIS,
_Collectio judiciorum_, pag. 48 a: Communes opiniones omnium Catharorum
sunt istae videlicet quod Diabolus fecit hoc mundum; pag. 52 a, _De
opinionibus Balasinanza_: Item quod utrunque principium sive uterque
Deus creavit suos angelos, et quod iste mundus est formatus et creatus
a malo Deo.

[89] _Summa_, pag. 52 b: Johannes de Lugio dicit quod omnes creaturae
sunt ab aeterno bonae cum Deo bono, et malae cum Deo malo; pag. 53
b: Deus vult et potest omnia bona sed impeditur haec Dei voluntas et
potentia ab hoste suo.

[90] _Summa_, pag. 54 b, _Sequitur de propriis opinionibus Catharorum
de Concorrezio_: Deus ex nihilo creavit angelos et quatuor elementa ...
diabolus de licentia Dei formavit omnia visibilia. Lo stesso Rainero
ci fornisce preziose notizie sulle varie sette catare, in ispecialità
italiane. I più rigidi erano chiamati, senza dubbio dal luogo di
origine del Catarismo, _Albanenses_. I quali alla lor volta divisi sunt
in duas partes: Hujus partis (quella che si teneva stretta all'antica
tradizione) caput est Balasinansa Veronensis eorum episcopus; alterius
vero partis (la più esagerata) est Johannes de Lugio Bergamensis
(pag. 51 b-52 a). Da queste due parti che costituivano i dualisti
rigorosi, si debbono distinguere i dualisti temperati, dei quali
alcuni si chiamavano da Concorrezo [non dalla modenese Correggio, nè
dalla dalmata Gorizia, come crede lo Schmidt (op. cit., II, 285), ma
da Concorrezo in Lombardia, circondario di Monza]; altri dicevansi
Bagnolensi o Bajolensi [da Bagnolo nel Milanese]. _Summa_, pag. 51
b: illi autem de Concorrezo diffusi sunt fere per totam Lombardiam;
Baiolensi Mantuae, Brixiae, Bergami et in comitatu mediolanensi. Alla
frazione più temperata appartengono gli Slavi _Bogomil_, o amici di Dio
come spiega Gieseler in Schmidt loc. cit.

[91] Anche Giovanni di Lugio credeva quod omnes (?) animae liberabuntur
in fine a poena et culpa (_Summa_, pag. 54 b).

[92] BONACURSUS in D'ACHERY, _Spicilegium_, I, 208: Sententia tamen
omnium est illa elementa diabolum divisisse.

[93] MONETA, _Adversus Catharos_, Roma 1743, pag. 105: illi enim
Cathari, qui duo ponunt principia dicunt populum Dei constare
ex tribus, scilicet corpore, animo et spiritu praesidente
utrique. Questa antica opinione che si riadduce alle distinzioni
platonico-aristoteliche delle parti dell'anima era stata accettata
dai Padri, come Giustino Taziano ecc. Vedremo che la Gnosi sapea
distinguere nell'uomo due anime, la buona e la cattiva. Lo stesso
affermano i Manichei. (GIESELER _Kirchengeschichte_, I, 306).

[94] MONETA, 105 B: Sciendum est, quod per spiritum intelligunt isti
Heretici Angelos, de quibus legitur «Qui facit angelos suos spiritus
(Paul. ad Hebr. I, 7)».

[95] ALANUS, _Adversus haereticos et waldenses_, pag. 53: Hi autem
volunt dicere, ideo resurrectionem non futuram, quia anima perit cum
corpore... Moyses dicit animam esse in sanguino, et sic videtur quod
pereunte sanguine, pereat anima. In questo luogo par che Alano non
faccia distinzione tra i Catari e quelli che negano la immortalità
dell'anima. Al contrario Moneta, pag. 416: In hoc autem non arguo
Catharos (vale a dire animas hominum cum corporibus interire).
L'equivoco nasce dal doppio senso della parola anima, ora intesa come
spirito, ora come principio vitale.

[96] V. SCHMIDT, II, 59, che cita Euthymius Zigadenus, _Narratio de
Bogomilis_, ed. Gieseler, Gottinga 1842, pag. 8.

[97] MONETA, pag. 63: de libero arbitrio quod isti negant esse in
populo Dei. E le ragioni di questa negazione vi sono molto sottilmente
esposte. Hujus rei caussa una est quia si populus Dei haberet liberum
arbitrium ad utrumque, scilicet ad bonum et ad malum, ab eodem fonte et
eadem natura esset bonum et malum, sic ergo non esset necesse ponere
duos Deos... Secunda causa quia Deus non habet liberum arbitrium; non
habet flexibilitatem ad bonum et ad malum. Unde ergo haberet populus
Dei liberum arbitrium? L'HAHN, op. cit., I, 69, giustamente osserva che
la negazione del libero arbitrio è intimamente collegata colle dottrine
dei dualisti rigorosi, perchè secondo loro, finchè l'anima è in potere
del cattivo spirito non può far bene, e quando al contrario in virtù
del _consolamentum_ se ne libera non può far male.

[98] V. SCHMIDT, _Histoire des Cathares_, II, 24.

[99] _Summa_ in DUPLESSIS, pag. 52 a: _De opinionibus Balasinanza_
Diabolus cum suis angelis ascendit in coelum, et facto ibi proelio
cum Michaele Archangelo, extraxit tertiam partem creaturarum Dei et
infundit eas quotidie in humanis corporibus et brutis.

[100] MONETA, pag. 4: Credunt etiam quod Diabolus, invidens Altissimo,
caute ascendit in coelum Dei sancti, et ibi colloquio suo fraudolento
praedictas animas decepit, et ad terram istam et caliginosum aerem
duxit. Rainero dice di Giovanni di Lugio (_Summa_ pag. 53 b): Igitur
cuncta animantia participabant calliditate, sed plus omnibus serpens,
et ideo per eum est facta deceptio. Ma questo inganno pare che non sia
volontario nè per chi l'ordisce nè per chi lo soffre, perchè nihil est
quod habet liberum arbitrium, etiam Deus summus.

[101] _Summa_, pag. 54 b: Diabolus formavit corpus primi hominis et
in illum effudit unum angelum, qui in modico jam peccaverat. Item quod
omnes animae sunt ex traduce ab illo angelo. Questo domma dell'unicità
dell'elemento spirituale in tutti gli uomini ha una lontana parentela
coll'intelletto unico e separato degli Averroisti.

[102] _Summa_, pag. 55 b: Bajolensi conveniunt cum praedictis Catharis
de Concorrezo fere in omnibus opinionibus excepto hoc scilicet, quod
dicunt quod animae sunt creatae a Deo ante mundi constitutionem, et
quod tunc etiam peccaverunt.

[103] _Summa_, pag. 52 a: Et etiam de uno corpore eas transmittit in
alium, donec omnes reducentur in coelum.

[104] Anche l'antico manicheismo insegnava questa dottrina. Socrate,
_Hist. eccl._ cap. XVII: Manes... animorum ex uno corpore in aliud
manifesto tradit, Empedoclis, Pithagorae et Aegiptiorum secutus
opiniones.

[105] Quest'opposizione tra il vecchio e nuovo Testamento è un retaggio
gnostico e manicheo. MONETA, pag. 143: Cathari Deum veteris testamenti
... reprobare nituntur... Objectionem haereticorum ex quatuor
radicibus procedunt. Prima ex contrarietate, quae videtur inter vetus
testamentum et novum. Secunda ex mutabilitate ipsius Dei, quae ex ipsis
scriptum apparet. Tertia ex crudelitate ipsius, quae in scripturis
ostenditur. Quarta ex mendacio (il testo ha erroneamente: _mandato_),
de quo Deus ipse in scripturis arguendus videtur. — Concordi le altre
testimonianze. EBRARDUS in GRETSER, tom. XII, pars 2, pag. 127: Ipsi
vero contra conditorem suum latrant, tanquam canes, Dominum ignorantes
et hinc inde de Veteri Testamento quae non intelligunt testimonia
congregantes, simplicium corda decipiunt. ERMENGARDUS in GRETSER,
loc. cit., pag. 224: Dicunt haeretici Legem Moysi ab omnipotenti Deo
non esse datam, sed a principe malignarum spirituum. Anche intorno a
questo punto v'ha differenza tra le sette catare. _Summa_, pag. 52 a:
Balazinanza tenet quod diabolus fuit auctor totius veteris Testamenti,
exceptis his libris Job, Psalterio ecc.; pag. 54 b: Cathari de
Concorrezo reprobant totum vetus Testamentum, putantes quod Diabolus
fuit auctor ejus.

[106] MONETA, pag. 234: In hoc autem tertio capitulo de Christo
errant Cathari, qui puram creaturam eum confitentur; pag. 239: Ad idem
inducunt illud Apoc. VII, 2, ubi Johannes ait «vidi alterum angelum» si
ergo fuit angelus, et non Deus.

[107] Nel decreto del concilio Lateranense, e in quello di Federigo II
si parla di _Patarenos_, _Leonistas_, _Arrianistas_.

[108] Moneta, pag. 247: Qui eam (carnem) credunt a Diabolo fabricatam.
Dicunt enim quod non habuit vere corpus humanum sed phantasticum.
_Liber inquisit. tholosanae_, ed. LIMBORCH, pag. 92: cum verum corpus
humanum et veram carnem hominis ex nostra natura ipsum (Christum)
denegas assumpsisse. Il Sacconi nella _Summa_ attribuisce queste
opinioni docetiche a Balasinanza, p. 52 a: quod Dei filius non
assumpsit humanam naturam in veritate sed ejus similem .... nec vero
comedit et bibit nec vere passus est et mortuus et sepultus, nec ejus
resurrectio fuit vera, sed fuerunt haec omnia putative. Giovanni di
Lugio non pare abbia avute opinioni meno docetiche degli altri catari,
perchè al passo della _Summa_ citato dall'Hahn, I, 65: quod Cristus
natus est secundum carnem .... et vere passus est, crucifixus mortuus
et sepultus, segue quest'altro: putat quod omnia ista fuerunt in alio
mundo superiori et non in isto. I Concorrezesi soltanto dicunt quod
Christus non assumpsit animam humanam; sed fere omnes credunt eum
assumpsisse carnem humanam de B. Virgine (pag. 55 a). Secondo questa
testimonianza i Concorrezesi più che docetisti sarebbero monofisiti.

[109] Anche Manes secondo Socrate, loc. cit.: Christum natum esse non
vult; illum spectrum fuisse dicit.

[110] Questo docetismo lo estendono anche alla vergine Maria. MONETA,
pag. 243: Machinantur autem insuper illum Angelum, qui in muliebri
forma appellatus est Maria, assumpsisse intra se alium Angelum, qui
dictus est Jesus, et sic deceptorie mater putaretur et diceretur
ipsius. _Liber inquisitionis_ loc. cit.: Mariam matrem Dei et Domini
Jesu Christi non esse nec fuisse mulierem carnalem asseris et mentiris,
sed tuum ac tuorum ecclesiam... mentiendo confingis hanc esse Mariam
virginem in tenebris dogmatizas. Il Sacconi attribuisce questo errore
ad un Nazario Concorrezese: quod B. Virgo fuit Angelus (pag. 55 a),
ed al vescovo Balasinanza (pag. 52, B), virginem, quam dicunt esse
Angelum.

[111] MONETA, pag. 256: Forte dices quod non est passus, nec mortuus,
nec aliquam angustiam sustinuit, licet ita videtur.

[112] BONACURSUS in D'ACHERY _Spicilegium_, pag. 207: Beatum Sylvestrum
dicunt Antichristum fuisse ... a tempore illo dicunt Ecclesiam esse
perditam. MONETA, 263 et de Sylvestro volunt intelligere illud 2
_Thessalon_. II 3: Homo peccati, filius perditionis.

[113] ALANUS, pag. 134: Dicunt quod in altari est panis post
consacrationem, quia ibi prius fuit panis, ed adhuc est forma panis.
ECKBERTUS, sermo XI in GALLANDI, XIV, 478: vos omnino renuitis credere
quod ab aliquo sacerdote sive bono sive malo possit ulla consecratione
fieri corpus Domini.

[114] MONETA, pag. 290. Alii autem intelligunt illa verba Domini: Hoc
est corpus meum: id est significat sicut illud in 1 Cor. 4 «Petra erat
autem Christus» idest significat Christum. Ebrardus contra Waldenses
cap. 8, in GRETSER, XII, 2, pag. 146 sed objiciunt increduli dicentes;
verba sancta dicunt esse _panem_; quia cibus animae sunt verba
evangelica. A sostenere la loro interpetrazione simbolica i Catari
adoperavano per sino argomenti filologici, come quello strano citato da
Ermengardo cap. 11, in Gretser loc. cit. pag. 231, _hoc_ non refertur
ad panem .... sed ad corpus suum.

[115] Cujus opinionis causa prima est, quia istum materiale panem, et
vinum mala esse dicunt; asserunt enim quidam eorum a Diabolo creata
esse. (MONETA, pag. 295). Cfr. _Summa_, pag. 49, verum tamen albanenses
dicunt, quod ille panis non benedicitur, cura ipse panis sit creatura
diaboli, et in hoc differunt a coeteris omnibus qui dicunt quod ille
panis vere benedicitur. Nemo tamen ex iis credit quod ex illo pane
conficiatur corpus Christi.

[116] Vedi nel DUPLESSIS il brano della cronaca di Rodolfo Cogeshalense
che si riferisce all'eresia dei Poplicani o Paoliciani. Ermengardus
cap. 17 in GRETSER, XII, 2, pag. 239: nec defunctos vivorum beneficiis
et orationibus relevari. Eckbertus, _sermo_ IX, in GALLANDI, XIV, 466:
animae defunctorum vel in aeterna beatitudine collocentur, vel aeternis
suppliciis tradantur, atque hac ratione nec malis prodesse nec bonis
necessarium esse ut pro eis orationes fiant, aut missae celebrentur.

[117] MONETA 371: Omnes autem haeretici tam Cathari, quam pauperes
Lugdunenses, hoc (Purgatorium) negant. _Summa_ pag. 50 a: Deus nemini
infert poenam purgatoriam, quam penitus esse negant.

[118] MONETA, pag. 347: Cathari horum corporum resurrectionem negant,
et hoc ideo quia ea a Diabolo creata vel facta credunt esse.... artifex
tantum remunerabitur non corpus. Vedi Ebrardo cap. 16.

[119] _Liber inquisitionis tholosanae_, pag. 37: Et sigillatim omnia
sacramenta ecclesiae scilicet eucharistiae et altaris ac baptism aquae
corporalis damnant. Ivi pag. 85: baptismus .... fit in aqua corrupta

[120] MONETA, pag. 284: Parvuli non sunt docendi.... ergo non sunt
baptizandi ... prius ergo est quod homo poeniteat de peccato suo,
deinde baptizetur. ECKBERTUS, sermo VIII, 1, in GALLANDI, XIV, 464:
Nam baptizandum quidem esse hominem dicitis cum ad annos discretionis
pervenerit.

[121] MONETA, pag. 460: Impugnant Ecclesiam etiam in picturis et
imaginibus dicentes quod nos sumus Idolatrae, qui imagines adoramus.

[122] EBRARDO, cap. 4, in GRETSER, XII, 2, pag. 131. Objiciunt enim
Dominus non in manufactis habitat. ERMENGARDO, cap. 9, in GRETSER,
loc. cit., pag. 230. Omnes haeretici Ecclesiam manufactam et altaria
.... et omnia ornamenta ecclesiastica ad nihilum deputant et ad salutem
animorum nihil proficere dicunt.

[123] MONETA, pag. 461: Et dicit quod ignominiam Christi adoramus,
et ejus ignominiam nostrae fronti imponimus. _Liber inquisitionis
tholosanae_, pag. 348: Item quod crux Christi non debebat adorari, quia
nullus adoraret furcas in quibus pater suus fuisset suspensus.

[124] Nella lettera di Evervino a S. Bernardo (op. S. Bern.,
ed. Mabillon, pag. 1487): Dicunt qui se tantum Ecclesiam esse et
apostolicae vitae veri sectatores permanent, ea quae mundi sunt
non quaerentes, nec domum, nec agros, nec aliquid possidentes sicut
Christus non possedit. È importante notare che i Catari proibivano
anche l'andare accattando al modo dei frati mendicanti. MONETA, pag.
451: Et de elemosynis quaerere victum et vestitum blasphemant ...
Objiciunt etiam illud Matth. VI, 25 «Ne soliciti sitis animae vestrae
quid manducetis ecc.» si enim quaerimus quotidie, inde soliciti sumus;
pag. 453: Objiciunt etiam et dicunt quod contra verba Apostoli venimus,
quia non laboramus manibus nostris.

[125] MONETA, pag. 513. Isti etiam haeretici omne bellum detestantur
tanquam illicitum, dicentes quod non sit licitum se defendere, pag.
515. Objiciunt etiam illud Matt. V, 38 «Audistis quia dictum est oculum
pro oculo et dentem pro dente. Ego autem dico vobis non resistere
malo», pag. 506. Objiciunt Matt. XXII, 7 «Perdidit homicidas illos»,
pag. 507: et illud Matt. V, 44 «Benefacite his qui oderunt vos».

[126] Il SACCONI, nella _Summa_, pag. 48 b: Item quod potestates
seculares peccant, mortaliter puniendo malefactores vel haereticos. Che
il _mortaliter_ si debba unire a _puniendo_ non a _peccant_ è provato
da Ebrardo, il quale riferisce a pag. 157 che gli eretici solevano
obbiettare: dictum est non occides. Vedi anche a pag. 159 cum sitis
homicidae, homicidas occidere prohibetis. Ermengardo nel cap. XIX parla
solo di _occisione hominis_ non dell'impunità del malfattore.

[127] Nè il Moneta, pag. 138 e segg. nè l'Alano pag. 169-70 scoprono
il vero motivo del divieto di mangiar carne, comune a tutti i credenti
nella metempsicosi. ECKBERTO, sermo IV, ha in GALLANDI XIV, 458: Ratio
vestra, quia de coitu nascitur omnis caro. Secondo questo autore, pag.
459 pare che ai Catari fosse concesso mangiar pesci. _Summa_, pag. 48
b: Credunt quod comedere carnes, et ova, vel caseum, etiam in urgenti
necessitate sit peccatum mortale. Ivi pag. 50 a: non enim gravius
puniretur Catharus si biberet toxicum volens occidere se ipsum, quam si
pro morte vitanda comederet pullum de consilio medicinae vel in aliquo
casu necessitatis. BONAC. in D'ACHERY, pag. 209: Quis manducaverit
carnem .... damnationem sibi manducat. Sui testi biblici che solevano
addurre, vedi BONAC. in MANSI, _Miscell. Baluz._ II, 583.

[128] MONETA, 315: Haeretici conjunctionem istam illegitimam dicunt,
idest contra Dei legem ... quia credunt corpus maris et foeminae
a diabolo fuisse factum. Matrimonium carnale fuit semper mortale
peccatum. _Summa_, 48 a: Item communis opinio omnium catharorum est
quod matrimonium carnale semper fuit mortale peccatum, et quod non
punietur quis gravius in futuro propter adulterium vel incestum quam
propter legittimum conjugium. Fra i Catari alcuni limitavano il divieto
alle seconde nozze. ECKBERTUS, sermo VI, 12, in GALLANDI, XIV, 457:
quidam vestrum, videlicet sequaces Hartuvini, mussitant quod illud
conjugium solum justum est, in quo virgines conjunguntur, et quod unam
prolem tantum gignere debent.

[129] Lo Schmidt osserva (II, 88) che solo i Bogomil, e i Concorrezesi
avrebbero diritto di ammettere l'assoluto divieto del matrimonio,
perchè secondo loro colla nascita di nuovi organismi si creano nuove
anime, e nuove vittime del demonio. Ma non così dovrebbero pensare
i dualisti assoluti, che ammettono o uno spirito solo o un numero
determinato di anime trasmigranti. Queste finchè si purificano debbono
pure passare per altri organismi, e non si capisce perchè si vieti a
coloro che non sono ancora perfetti di porre al mondo nuovi organismi,
e assicurarsi così la dimora durante l'espiazione che ancor resta
da fare. L'osservazione parmi più ingegnosa che vera, perchè tutti
i Catari debbono condannare come impuro il commercio del corpo,
creatura del diavolo. E l'astensione dai piaceri corporei è il mezzo
più acconcio perchè i meno perfetti si correggano. ECKBERTO, sermo
V, 6 (GALLANDI, XIV, 455) dice: Innotuit mihi per quosdam viros, qui
exierunt de societate vestra .... dicitis enim quod fructus ille de quo
praecepit Deus primo homini in Paradiso, ne gustaret ex eo, nihil aliud
fuit nisi mulier .... Ex hoc probatis, omne genus humanum .... natum
esse ex fornicatione et neminem salvari posse nisi purgatus fuerit per
orationes et sanctificationes eorum, qui inter vos perfecti vocantur.
Anche l'HAHN (op. cit., I, 86), giustamente connette col principio
fondamentale della mortificazione della carne il divieto della
congiunzione carnale.

[130] _Liber inquisitionis tholosanae_, pag. 179: Item tu (Petre
Raymonde de Hugonibus) ipse vitam corporalem volontarie tibi
subtrahis .... quia posuisti te in illa abstinentia quam haeretici
vocat _enduram_, in qua endura jam per sex dies sine cibo et potu
stetisti; pag. 204: Montolina .... in ultimo fine suo posuit se
in endura haereticorum, in qua endura sine infermitate alia multis
diebus perdurans fuit hereticata (ebbe il consolamentum); pag. 33:
Guilielma uxor quondam Martini de Proaudo .... mortemque corporalem
sibi accelerans, sanguinem minuendo, balneum frequentando, potumque
letisferum .... avide assumendo ad mortem festinavit. In altro luogo
è detto che Guglielma pregò la sua infermiera quod omnino perforaret
eam cum dicta alzena (sutoris) in latere in illa parte in qua erat
cor (pag. 71). I Catari di Monteforte nel 1030 dichiararono secondo
Landolfo seniore (MURAT. _Script._ IV, 90) proximus noster, antequam
animum damus, quoquomodo interficit nos. In quanto al suicidio
ricordiamo che S. Ambrogio e S. Crisostomo lodarono e la Chiesa
santificò la fanciulla Pelagia, che per salvare il suo onore si
precipitò dal tetto di sua casa. LECKY, _History of European morals_,
II, 49.

[131] _Liber._ pag. 76: dicta Guilielma instanter petiit .... quod mors
sibi acceleraretur timens capi per inquisitores.

[132] LAMI, _Antichità toscane_, II, 556. MONETA, 469: Cathari vero
ponunt quod semper fuit malum (il giuramento) sicut adulterium et
homicidium. _Summa_, 486: Item quod non licet jurare in aliquo casu, et
ideo hoc esse peccatimi mortale.

[133] EBRARDUS in GRETSER, XII, 2, 241, adduce i testi biblici dei
quali si servivano: objicis illud «nobite jurare omnino». Item objicis
«sit sermo vester est, est: non, non».

[134] Questa spiegazione parmi, o che io m'inganno, migliore di
quest'altra adottata dallo Schmidt (II, 83): on ne rougit pas, en
consentant à jurer de paraître capable de mensonge jusqu'à ce qu'on ait
confirmé la vérité par un serment. L'orgoglio di volere essere creduto
sulla semplice parola sarebbe un motivo molto impari al rigore del
divieto, e poco conforme all'umiltà dei Catari.

[135] In una lettera scritta dalla chiesa di Liegi a Lucio II, nel
1144, e riportata da Martene _Amplis. collect._ I, 776: Haeresis haec
diversis distincta est gradibus, habet enim _auditores_ qui ad errorem
initiantur; habet _credentes_, qui iam decepti sunt (SCHMIDT, II, 98).
Petrus Vallisarnensis Historia Albigensium cap. 2: Sciendum autem quod
quidam inter haereticos dicebantur Perfecti, sive Boni Homines, alii
Credentes.

[136] SCHMIDT, loc. cit., riproduce questo passo dagli atti
dell'inquisizione di Carcassona. Non omnibus credentibus suis dicunt
omnia ... nisi solum bene suis familiaribus et bene firmis.

[137] I Catari tenevano a chiamarsi i veri seguaci di Cristo, e
vivamente protestavano contro l'accusa di eresia. Lo Schmidt riporta
dagli atti dell'Inquisizione di Carcassona (manoscritti della
Biblioteca Nazionale di Parigi) questo passo: Malae gentes nos vocant
haereticos, et nos sumus haeretici, imo sumus boni christiani. _Liber
inquisitionis tholosanae_ pag. 37: et nos omnes de ecclesia romana
versa vice asserunt haereticos et errantes.

[138] Manus impositio vocatur ab eis consolamentum et spirituale
baptisma sive baptisma Spiritus Sancti (_Summa_, pag. 48 b).
L'inquisitore schernisce la funzione catara con un bisticcio
linguistico secondo il gusto del tempo nel _Liber inquisitionis_ pag.
33: consolamentum immo verius desolamentum.

[139] MONETA, 278. Dicunt etiam quod a Diabolo fuit ille baptismus, et
ad nihil utilis nisi ad impediendum Christi baptismum.

[140] _Summa_, pag. 52 a: caeteri Patres antiqui atque beatus Johannes
Baptista fuerunt inimici Dei. Questa sarebbe stata l'opinione di
Balasinanza, di Giovanni di Lugio (pag. 54 a), e dei più tra i
Concorrezesi (pag. 55 a). PETRUS VALLISARNENSIS, cap. 2: Johannem
Baptistam unum esse de majoribus Daemonibus asserebant. EBRARDUS, cap.
13: Diffidentes etiam de Domini praecursore vitam ejus repudiant et
baptismum.

[141] MONETA, 282. Ex quo patet quod Baptismus Ecclesiae alius est quam
Baptismus Johannis et quam doctrina et impositio manuum.

[142] MONETA, 280. In primis autem illud inducunt quod habetur
Actorum VIII 14, 17. Ecce quod dicitur hic quod receperunt Spiritum
Sanctum per impositionem manuum et non per baptismum aquae materialis,
ergo in baptismo non datur peccatorum remissio. L'imposizione delle
mani è certo il miglior simbolo del battesimo col fuoco, perchè il
porre le mani sopra una parte del corpo ne aumenta il calore; ma
ciò non pertanto parecchi catari alla stessa imposizione delle mani
attribuivano poco valore. _Summa_, pag 48: Albanenses enim dicunt quod
ibi manus nihil operatur, eum ipso ex Diabolo sit creata secundum eos,
ut inferius dicetur, sed sola oratione dominica quam ipsi tunc dicunt
qui manus imponunt.

[143] _Summa_ 48 b: Non sit aliqua remissio peccatorum si illi, qui
manus imponunt sint tunc in aliquo peccato mortali. Racconta ECKBERTO,
sermo XI, 8, in GALLANDI, XIV, 480, fuit mihi concertatio de his rebus
quadam vice in domo mea Buonae cum quodam viro qui suspectus erat nobis
quod esset de secta Catharorum, et contigit ut incideremus ad loquendum
de sacerdotibus malis, et dicebat ita de eis: Quomodo fieri potest ut
qui tam irrationabiliter vivunt distribuant in Ecclesia corpus Domini?

[144] MONETA, pag. 274. Nullus Spiritum Sanctum habens potest peccare.

[145] MONETA, pag. 275. Notandum quod _aliqui_ Cathari dicunt modo quod
amitti potest, sed amissus recuperari non potest: sua fide recedendo,
vel eum impugnando amittitur. Parmi che non ci sia tra i due passi
contraddizione, come crede lo Schmidt; perchè il testo 274 si riferisce
ad alcuni Catari, e ad altri il 275.

[146] Nel Concilio lombariense del 1165 venner condannati quidam qui
se faciebant appellari boni homines. _Liber sententiarum inquisitionis
tholosanae_, pag. 6: et ipsos haereticos quos _bonos homines_ appellas
et dicis, tu asseris posse dare ad salutem spiritum sanctum illis quos
recipiunt. Anche in Germania pare che prevalesse questa denominazione.
Vedi l'anonimo di Passau in Gretser, XII, 2, 31: Sed perfecti qui
consolati vocantur in Lombardia et in Theutonia _boni homines_
vocantur.

[147] _Summa_, 48 b. Cathari quoque ad instar simiarum, quae hominis
acta imitari conantur, quatuor habent sacramenta, falsa tamen et inania
illicita et sacrilega quae sunt: manus impositio, panis benedictio,
poenitentia, et ordo.

[148] SACCONI in _Summa_, 48 b: Panis benedictio est quaedam fractio
panis quam ipsi quotidie faciunt tam prandio quam in coena.

[149] _Summa_, pag. 49 b. Fit etiam ista confessio publica coram
omnibus, qui ibi sunt congregati, ubi multoties sunt centum et plures
viri et mulieres et credentes eorum Cathari. MONETA, pag. 305. Peccant
autem circa confessionem arbitrantes quod non est necessarium eam fieri
sacerdoti et quod sufficiat si fiat Deo soli. Pag. 306, objiciunt illud
Ezech. quacumque hora ingemuerit peccator etc.

[150] _Summa_, pag. 50 b, ordines Catharorum sunt quatuor. Ille qui est
in primo et maxime ordine vocatur Episcopus. Ille qui in secundo filius
major. Qui in tertio filius minor. Qui in quarto vocatur Diaconus.

[151] Mortuo episcopo, filius minor ordinabat filium majorem in
Episcopum. _Summa_, 51 a.

[152] Illa vero, quae supra dicitur de Episcopo mutata est ab omnibus
Catharis morantibus extra mare, dicentibus quod per talem ordinationem
videtur quod filius instituat patrem, quod satis apparet incongrum;
unde fit modo aliter in hac forma, scilicet quod Episcopus ante mortem
suam ordinat filium majorem in Episcopum. _Summa_, loc. cit.

[153] Notiamo che lo Schmidt ammette tra le dottrine primitive del
Catarismo la condamnation de l'ancien Testament comme oeuvre du démon
(II, 273).

[154] Der Gnosticismus mit der alexandrinischen Religionsphilosophie
und dem Neuplatonismus unter einen und denselben Gesichtspunkt gehört.
Alle diese Erscheinungen haben etwas gemeinsames und verwandtes, sie
sind ebenso religiöser als speculativer Natur. BAUR, _Vorlesungen über
die christliche Dogmengeschichte_, I, 177.

[155] Lo Schmidt ben conosce l'antichità di questa tradizione (II,
253) Au onzième siècle ils sont ainsi appelés par le moine Adémar de
Chabanois, par l'évêque Roger de Chalons etc.

[156] Non sarà inutile dare in questa nota un breve cenno dei gnostici,
i più antichi precursori dei Catari. Tutti gli storici della Chiesa
s'accordano nel dividere lo gnosticismo in due grandi categorie,
l'alessandrino e l'orientale. Il primo s'inspira all'emanatismo
delle ultime speculazioni greche, e non arriva in pratica fino alle
estreme conseguenze ascetiche, come il divieto del matrimonio. Il
secondo invece s'informa alle tradizioni orientali, e invece del
monismo emanatistico pone uno spiccato dualismo. Alla prima categoria
appartengono Basilide e Valentino, alla seconda Saturnino e Bardesane.
Secondo Basilide, che insegnava in Alessandria intorno al 125 d. C.,
dall'Entità suprema (_theòs arrētos_ l'Innominabile) emanano sette
potestà (_dinàmeis_) che sono _noûs_, _lògos_, _phronēsis_, _sophia_,
_dinamis_, _dìceosynē_, _eirēne_; ragione, verbo, saviezza, scienza,
potestà, giustizia, pace, le quali formano il primo regno degli
spiriti, _ouranòs_. Da questo primo cielo nasce un secondo, dal secondo
un terzo e così di seguito fino a 365 cieli, coll'avvertenza che il
seguente è sempre meno perfetto di quel che precede. L'ultimo cielo ha
sette angeli, ciascuno dei quali è creatore del mondo terrestre; ma più
di tutti il primo angelo (_ò ărchon_) che è il Dio adorato dagli Ebrei.
Perchè lo spirito umano torni al regno celeste, la prima delle potestà,
il nous, si unisce nel battesimo coll'uomo Gesù. Per Valentino [che nel
140 d. C. da Alessandria andò a Roma, e di là a Cipro ove morì nel 160]
dall'Ente primo o _bitòs_ profondità emanano le potestà, o eoni, come
ei li vuol chiamati; ma non è l'ultimo eone, che crea il mondo, bensì
un essere affatto impuro, ed escluso dal corpo degli Spiriti. Dalla
Sofia infatti, ultimo eone, nasce una saggezza bastarda _Achamoth_,
la quale errando fuori del Pleroma, o regno degli Eoni, dà vita alla
materia, e nello stesso tempo produce il Demiurgo, che cotesta materia
deve ordinare. Così nel mondo formato dal demiurgo combattono tre
elementi, il pneumatico, lo psichico, e il materiale: e il corso del
processo cosmico tende a separare lo spirito e l'anima dalla materia,
restituendo il primo al regno degli spiriti, ed il secondo a quel
luogo mediano, dove abita Achamoth. A compiere siffatto ritorno, da
tutti gli eoni emana una nuova entità, il salvatore, a quel modo che
per ristabilire la pace nel regno eonico, turbata dal parto di Sofia,
erano emanati due altri eoni, cioè Cristo e lo Spirito Santo. Saturnino
in Antiochia, contemporaneo di Basilide, ammetteva le emanazioni
degradanti sino agli spiriti dei setti pianeti. Ma contro a questi
buoni spiriti si leva il cattivo Spirito o Satana, il quale agli uomini
ispirati dal buon Dio, o uomini della luce, oppone una generazione
di uomini malvagi e tenebrosi. Per sottrarsi al contatto col cattivo
Spirito i Saturniani si astenevano dal matrimonio e dal mangiar
carne. MATTER, _Histoire du Gnosticisme_, I, 324-31; NEANDER, _General
History of the Christian Religion_, I, 14-26; GIESELER, _Lehrbuch der
Kirchengeschichte_, 4ª ed., I, pag. 179-192.

[157] Questo intreccio delle diverse eresie spiega i varii nomi dati
a questi eretici. Dell'identificazione di _Catarini_ con _Patarini_
diremo più tardi. Il nome di _Cathari_ ben presto per effetto
dell'aspirata si tramutò in _Cazari_ o _Gazari_. Come si fosse oscurato
in breve tempo il significato primitivo della parola lo provano le
curiose etimologie di Alano. Hi dicuntur Cathari; idest diffluentes
per vitia, a Catha, quae est fluxus; vel Cathari, quasi casti, quia
se castos et justos faciunt; vel Cathari dicuntur a cato, quia, ut
dicitur, osculantur posteriora cathi in cujus specie, ut dicunt,
apparet eis Lucifer. (Lib. I, c. 63). In Germania trovò favore questa
ultima etimologia stante l'affinità di suono tra _Katze_ (gatto) e
_Ketzer_ (GIESELER, II, 2, pag. 540). I Catari furon detti _Pubblicani_
[Concilio lateranense del 1179 in MANSI, XXII, 232: alii Catharos, alii
Patrinos, alii Publicanos] corruzione di paoliciani. Forse un'ulteriore
corruzione è il nome _Piphles_, che secondo ECBERTO (GALLANDI, XIV,
pag. 447) sarebbe stato comune nelle Fiandre. Nella costituzione di
Federico II (HUILLARD-BRÉHOLLES, _Hist. dipl._, IV, 298) sono detti
anche Speronisti, da un vescovo cataro Sperone del secolo XII (SCHMIDT,
II, 282). Si dissero _Bulgari_, dal luogo d'origine di questa setta,
ed _Albigesi_ dalla diocesi di Albi ove mise più profonde radici. Il
nome bulgaro o corrottamente _bougre_ significò più tardi al pari del
tedesco _Ketzer_ l'eretico in generale. In Francia si dissero TEXTORES
o TISSERANDS _ab usu texendi_ dice Ecberto; perchè questo era il
mestiere, cui si davan più volentieri i Catari, obbligati dalle loro
leggi a campar la vita col lavoro, non d'accatto. Si dissero anche
_Bonshommes_, perchè sappiamo già che boni homines si chiamavano i
loro Perfetti. Finalmente si dissero talvolta _Manichei_ ed _Ariani_
per le simiglianze di dottrine tra cotesti eretici e i loro lontani
progenitori. (GIESELER, loc. cit.).

[158] La Gnosi di Saturnino, che s'adattava mirabilmente al dualismo
orientale, da Antiochia si era rapidamente diffusa sino alla Persia,
e preparava quel sincretismo di Cristianesimo e Parsismo, che fu più
tardi predicato da Mani. Questo ardito novatore partiva dal presupposto
dei due regni, l'uno di Dio o della luce, l'altro di Satana, delle
tenebre o della materia. La quale opposizione si ripercuote in ogni
uomo, dove accanto all'anima buona o luminosa s'asside la malvagia, che
combatte e spesso vince la rivale. La malvagia per lungo tempo conservò
incontrastato dominio, grazie al prevalere delle false religioni come
il Paganesimo ed il Giudaismo, e tuttora le anime luminose sarebbero
schiave, se a liberarle non fosse disceso dal Sole in terra uno
spirito puro, Cristo, che per amor loro vestì un corpo apparente. Ma la
dottrina cristiana non fu bene intesa dagli Apostoli, e peggio ancora
dai successori. Onde occorreva un apostolo novello, che svelasse tutta
la verità. Il qual paraclito ben s'intende essere Mani. Il Manicheismo
rispondeva talmente ai bisogni del tempo, che non ostante il supplizio
del suo fondatore per ordine del Re persiano Baharam (272-275 d. C.),
crebbe in breve ora, e si distese nelle provincie del vicino Impero
Orientale, e di là in Occidente, sfidando le ire degl'Imperatori
(GIESELER, I, 303-11).

[159] Priscilliano fondò la sua setta in Ispagna nel 379 d. C. L'anno
dopo, 380, fu condannato nel Sinodo di Cesaraugusta, e per ordine
dell'usurpatore Massimo giustiziato nel 385. I Priscillianisti,
secondo la testimonianza di S. Agostino, _De haeres._, c. 70, maxime
Gnosticorum et Manichaeorum dogmata permixta sectantur. Non ostante le
persecuzioni si conservarono sino al VI secolo (GIESELER, I, 2, pag.
99-100).

[160] I Paoliciani rimontano al 660 d. C., in cui un tal Costantino
da Mananalide presso Samosata, appartenente alla setta gnostica
di Marcione, ispirato dalla lettura di S. Paolo, si annunzia come
restauratore della chiesa paolinica. A lui morto intorno al 684
succedono Simeone († 690), Paolo († 715), Gennasio († 745), Giuseppe
(† 775), Baanes fino all'801, per opera dei quali il Paolicianismo
si diffuse per tutta l'Asia Minore. Sergio che nell'801 si oppose a
Baanes, accusato d'immoralità, si può tenere come il secondo fondatore
della setta. Alla morte di Sergio accaduta nell'835 si decise di
non nominare più un capo spirituale. Ma scoppiate le persecuzioni
dell'imperatrice Teodora, i Paoliciani fuggirono sotto il comando di
Corbeade, il quale ben presto fattosi lor capo, divenne così potente
che unito ai Saraceni dette battaglia agl'Imperiali. Nè meno ardito
fu il successore Crisocere, che nell'867 fino ad Efeso estese le
sue scorrerie. Vinti poi dall'imperatore Basilio, che di persona
li combattè nell'872, i Paoliciani si sottomisero al vincitore,
ma non rinunziarono alla loro fede. Ed un secolo più tardi nel 970
l'imperatore Giovanni Zimisce li mandò in Tracia presso Filippopoli,
ove, a patto che custodissero i confini dell'Impero, concesse loro
piena libertà di coscienza. A cotesti paoliciani il Muratori riadduce
i Catari, e non a torto, perchè la setta paoliciana è la più vicina
alla catara sia pel tempo sia per gl'insegnamenti. Certo non si possono
negare nel paolicianismo gl'influssi manichei, e per questo rispetto il
manicheismo è la remota sorgente di tutte queste eresie dualistiche; ma
oltre alle opinioni dualistiche il GIESELER, II, 1, pag. 15 e segg.,
400 e segg., rileva nel paolicianismo la condanna di ogni esteriorità
nel culto. Anche il NEANDER, op. cit. V, 362: They maintained that by
the multiplication of external rites and cerimonies in the dominant
church the true life of religion had declined. Dicevano lo stesso i
Catari.

[161] ADEMARO, _Cronaca_: Pauco post tempore per Aquitaniam exorti sunt
Manichaei seducentes plebem. DUPLESSIS, 1, 5, riferisce l'avvenimento
all'anno 1010; PERTZ, _Mon._, _Germ. Script._, IV, 138, all'anno 1018;
BOUQUET, _Recueil_, X, 159, all'anno 1022.

[162] Decem ex canonicis Sanctae Crucis Aurelianensis, qui videbantur
aliis religiosores, probati sunt esse Manichaei. Quos rex Rotbertus
.... cremari iussit [D'ARG., 1, 5; _M. G. script._, IV, 143; BOUQUET,
X, 159]. ROD. GLABER, _Hist._ lib. III, cap. 8 (BOUQUET, X, 35)
darebbe il 1023; Tertio de vicesimo infra iam dictum millenium apud
Aurelianensem urbem reperta est cruda ... haeresis. Ma la cronaca
d'Auxerre (BOUQUET, X, 271), anticipa d'un anno: MXXII Aurelianis
cremantur Clerici ... ac si denuo Manichaei haeretici. E questa data
viene accettata dal Bouquet e dal Pertz, perchè è accertato in un
documento pubblico [BOUQUET, X, 35, not. a]. Glaber ci conserva il
nome di due capi degli eretici; quorum unus Lisoius in monasterio
sanctae crucis clericorum clarissimus habetur, alter idem Heribertus
... capitale scholae tenebant dominium. Anche Ademaro (PERTZ, IV,
143; BOUQUET, X, 159) conosce uno di essi. Qui autem flammis iudicati
sunt supradicti decem cum Lisoio, quem Rex valde dilexerat. Ma tanto
Glaber come Ademaro riferiscono imperfettamente il fatto, perchè da
un documento pubblicato dal D'Achery (_Spic._, II, 167; BOUQUET, X,
536) intitolato _Gesta synodi Aurelianensis anno MXXII adversus novos
Manichaeos_ sappiamo che Eriberto nonchè capo era invece un prete
recentemente convertito per opera dei due prelati Stefanus et Lisojus,
apud omnes sapientia clari sanctitate seu religione magnifici. Questo
Eriberto stava presso un Arefasto dei conti normanni, e tornato nella
costui casa da Orleans, dove s'era recato per istruirsi, pare che
volesse convertire il suo ospite alla nuova religione. Ma questi non
che piegarsi alla nuova dottrina la denunziò al conte Riccardo con
preghiera di parteciparla al re. Era una cosa ben grave che in Orleans
fosse apparsa l'eresia, e che vi partecipassero alte persone del
clero, e tenute da tutti in grande stima, come Stefano confessore della
regina, ed un canonico cantore di nome Teodato morto tre anni innanzi
nell'eresia (ADEMARO in BOUQUET, X, 159). Il re Roberto pensò quindi
di riunire intorno a sè un sinodo di prelati, che interrogassero gli
eretici. Stefano e Lisojo non smentirono le loro opinioni. Cumque ab
hora diei prima usque ab horam nonam multifariam elaborarent omnes,
ut illos a suo errore revocarent, et ipsi ferro duriores minime
resipiscerent .... de gremio Sanctae Ecclesiae eiecti sunt. Qui cum
ejicerentur Regina Stephani olim sui confessoris cum baculo, quem
manu gestabat, oculum eruit ... deinde praeter unum clericum et unam
monacham cremati sunt. La stessa narrazione d'accordo con Ademaro e
Glaber ricorda le virtù dei capi dell'eresia. E se anche non ce lo
dicessero le fonti, il fatto solo di non aver mentito nè abiurato
sotto la minaccia del rogo prova una gran forza di convincimento e di
carattere. Il che mal s'accorda colla leggenda che gli eretici usassero
raccogliersi di notte in una casa ad invocare con canti il diavolo,
che non tardava di comparire. Et tunc omnibus extinctis luminibus,
quamprimum quisque poterat mulierem arripiebat: sine peccati respectu
et utrum mater, aut soror, aut monacha haberetur. Ex quo spurcissimo
concubitu infans generatus, octava die ... in igne cremabatur. Cinis
veneratione colligebatur atque custodiebatur. Simili favole non
inventarono un tempo i Pagani in danno dei Cristiani?

[163] GLABER, loc. cit. Fertur a muliere quadam ex Italia procedente
haec insanissima haeresis in Gallis exorta. Ademaro la fa venire dal
Perigord (_ipsi decepti a quodam rustico Petragoricensi_), il che
non esclude che nel Perigord fosse importata dall'Italia. Anche per
l'eresia di Cambrai del 1025 dicono gli atti del Sinodo di Arras _ab
Italiae finibus advenisse_ (MANSI, Conc., XIX, 425. BOUQUET, X, 540).

[164] Vedi in MURATORI (_Antiq. Ital._, Diss. 60) il decreto di Ottone
IV: omnes hereticos Ferrarie commorantes, Patharenos sive Gazaros
imperiali banno subiacere, nisi ad unitatem Ecclesie secundum mandatum
Ferrariensis episcopi convertantur.

[165] MURATORI, l. c., pag. 446: Et pro molendinis Patarinorum,
et Petri de Cagnense dentur eis pro cambio molendina quae fuerent
Bachedeferro ad congruum et convenientem fictum. Il documento è
dell'anno 1192. Non essendo nominato il proprietario cataro il Muratori
crede che il molino fosse una proprietà collettiva degli eretici, che
ivi teneano le loro adunanze. Lo Schmidt sospetta che il passo dello
stesso documento: Molendina Patarinorum penitus destruantur, accenni a
misura presa contro gli eretici, invece trattasi di un'espropriazione
per utilità pubblica, come si direbbe oggi.

[166] LAMI, (_antichità toscane_, II, 491) che riporta da una cronaca
questo passo: MCLXXIII, XVIII. Kal. Maij: Indictione VI: propter
Paterinos amissum est officium in civitate Fiorentina. Ma da questo
passo male induce il Lami che l'eresia non si propagasse prima del 1170
contro la testimonianza del Villani e di Simone della Tosa. E come
nel breve giro di tre anni l'eresia poteva acquistare tanta forza,
quanta gliene attribuisce il cronista? Lo stesso Lami pag. 496 dice:
«che favoreggiavano e sostenevano Filippo Paternon (vescovo cataro)
alcuni possenti cittadini .... Barone di Barone, Pulce di Pulce,
Gherardo Cipriani, Chiaro di Manetto, Conte di Lingraccio, Uguccione di
Cavalcante, e le famiglie Saraceni e Malpreso».

[167] Vedi sui Patarini di Orvieto lo studio del Fumi. _Arch. Stor._,
1875, 4ª dispensa.

[168] Vita di Gregorio IX, MURAT., _Script._, III, 578. FICKER, _Die
gesetzliche Einführung der Todestrafe für Ketzer_, pag. 207.

[169] Ioachim in Apoc., f. 131, 167.

[170] Ademaro all'anno 1022 (PERTZ, IV, 143): Nihilominus apud Tolosam
inventi sunt Manichei, et ipsi destructi et per diversas occidentis
partes nuntii antichristi exorti, per latibula sese occultare, curabant
et quoscumque poterant viros et mulieres subvertebant.

[171] ANSELMI, _Gesta episc. Leod._ (_M. G. Scrip._, VI, 228). Ut ipsi,
eisque comunicantes catholica communione priventur. Ivi, 227. Qui non
vult mortem peccatorum .... sed per pacientiam et longanimitatem suam
novit peccatores ad poenitentiam reducere.

[172] MANSI, _Concilia_, XIX, 742. Et quia novi haeretici in gallicanis
partibus emerserant eos excommunicavit, illis additis qui ab eis
aliquod munus vel servitium acciperent.

[173] MANSI, (_Concilia_, XIX, 424) riferisce gli atti del concilio
di Arras tenuto nel 1025 da Gerardo vescovo di Cambray ed Arras.
Riproduco questo passo col. 425: At illi referunt se esse auditores
Gandulfi cuiusdam ab Italiae partibus viri, et ab eo evangelicis
mandatis et apostolicis informatos, nullamque praeter hanc scripturam
se recipere, sed hanc verbo et opere tenere. Rodolfo Coggeshale nella
sua cronaca (BOUQUET, XVIII, 92), racconta di una bella fanciulla di
Cambray, che scopertasi per catara o publicana ad un chierico, che le
chiedeva amore, fu da costui denunciata ai superiori ecclesiastici.
La fanciulla alle dimande dei giudici non seppe rispondere, ma
ingenuamente se ne rimise alla sua maestra, il cui nome candidamente
svelò. Furono condannate entrambe. La maestra riescì a fuggire in un
modo miracoloso, secondo il cronista, ma la fanciulla igne consumpta
est non sine admiratione multorum, cum nulla suspiria, nullos fletus,
nullum planctum emitteret, sed omne conflagrantis incendii tormentum
constanter alacriter perferret, instar martyrum Christi, qui olim pro
christiana religione a paganis trucidabantur.

[174] ANSELMI, _Gesta episc. Leod._ (_M. G. Script._, IV, 228) non
aliam condempnationis eorum causam cognoscere potuimus quam quia
cuilibet episcoporum iubenti, ut pullum occiderent, inoboedientes
extiterant.

[175] CAESAR HEISTERBACH, V, 19. Arnoldus discipulorum capitibus manum
imponens, ait: Constantes estote in fide vestra .... virgo quondam
speciosa, et quorundam compassione ab igne subtracta .... ex manibus
illorum (tenentium) elapsa, facie veste tecta, super extincti (Arnoldi)
corpus ruit. Anche il Cantù in un passo, che riferiremo in seguito,
ricorda senza citare la fonte, una fanciulla lombarda, che si getta nel
rogo per morirvi insieme coi suoi parenti.

[176] GUILLELMUS NEUBRIGENSIS, _De rebus anglicis_, II, 13, in
D'ARGENTRÉ, _Collectio iudiciorum_, I, 61. Duce quodam Gerardo ....
solus aliquantulum litteratus; caeteri vero sine litteris et idiotae
.... Princeps praecepit haereticae infamiae characterem frontibus eorum
inuri, et spectante populo, virgis coercitos urbe espelli.

[177] Epist. Inn. III, Lib. IX, 26. Illis autem qui orthodoxae fidei
zelo succensi ad vindicandum sanguinem iustum .... viriliter se
accinxerint .... suorum remissionem peccaminum a Deo eiusque vicario
secure promittatis indultam (PETRI VALLIUM SARNAY, _Hist._ in BOUQUET,
XIX, 13).

[178] GAUFRIDUS in BOUQUET, XII, 448.

[179] _Croisade contre les Albigeois_, trad. Fauriel, v. 8693. Si
pour avoir attisé le mal et éteint le bien, égorgé les femmes et
massacré des enfants, un homme peut en ce monde conquerir le règne de
Jesus-Christ, le comte doit porter couronne et resplendir dans le ciel.

[180] _Croisade_ v. 1055 et le monde entier leur court sus et leur
porte haine plus qu'a sarrasins.

[181] CAESAR HEIST., VI, 21, pag. 383 (ed. Col. 1591). Cedite eos,
novit enim Dominus qui sunt eius. Il numero dei morti ce lo dà Pietro
di Vaux Cernay, _Hist._, cap. XV (BOUQUET, XIX, 20): Statim intrantes
a minimo ad maximum omnes fere necant, tradentes incendio civitatem
.... fuerunt usque ad septem millia de ipsis Biterrensibus interfecti.
_Croisade_, v. 193. On ne pouvoit leur faire pis, on les égorgea tous,
on égorgea jusqu'à ceux qui s'étaient réfugiés dans la cathédrale.

[182] Quadringenti combusti sunt, caeteri (quinquaginta) patibulis
appensi. (CAESAR HEIST., loc. cit.).

[183] P. DE V. CERNAY (BOUQUET, XIX, 32). Ne timeatis, quia credo quod
paucissimi convertentur .... erant autem perfecti haeretici centum
quadraginta vel amplius. Praeparato igitur igni copioso, omnes in
ipso projiciuntur. _Croisade_, v. 1082. Et ils brûlèrent maint felon
d'hérétique fils de pute chienne, et mainte folle mécréante qui brait
dans le feu.

[184] _Croisade_, v. 1551 e segg. Car jamais dans la chrétienté si
haut baron ne fut, je crois, pendu avec tant d'autres chevaliers à
ses côtés. Car des chevaliers seulement, il en fut là compté plus de
quatre-vingts, à ce que me dit un clerc. Quant à ceux de la ville on
en ressembla dans un prè, jusqu'à quatre cents, qui furent brûlés et
grillés sans y comprendre Dame Giraude que les (croisés) jettèrent dans
un puits et couvrirent de pierres, dont ce fut dommage et pitié.

[185] GUILLELMI DE PODIO LAURENTII in BOUQUET, XIX, 220. Et promisit
quod iustitiam debitam faciet sine mora de haereticis manifestis ....
Inquiret etiam diligenter .... solvat usque ad biennium duas marcas
argenti, et exinde in perpetuum unam, ei qui haereticum ceperit.

[186] FICKER, _Die gesetzliche Einführung der Todesstrafe für
die Ketzerei_ (_Mittheilungen des K. Instituts für österr.
Geschichtforschung._, 1880, II. Heft, pag. 180 e seg.). HAVET,
L'_Hérésie et le Bras séculier dans le moyen âge_ (Bibliot. de l'école
des chartes, 1880, pag. 489 e seg.).

[187] FICKER, loc. cit., che cita _Mon. Germ. Script._, XVIII, pag. 402.

[188] MANSI, _Concilia_, XXII, 157, electis ac statutis iudicibus ab
utraque parte.

[189] ROGERO DE HOVEDEN, _Annales_, Francf. 1601, 575 in SCHMIDT, pag.
79.

[190] In Christi nomine ego H. episcopus de Guarnasia, legatus domine
Imperatoris Henrici et semper augusti, venientes Pratum pro facto
domini imperatoris, bona patarenorum et patarenarum ibi morantium
fecimus pubblicari et domos eorum fecimus subverti et destrui. Questo
documento fu pubblicato dal Lami (_Antichità_, II, 523).

[191] Decreto di Ottone IV (in MURAT., _antiq. Ital. med._ V, 89)
Ferrara 1210, omnes haereticos, Ferrarie commorantes Patharenos sive
Cataros .... imperiali bauno subjacere .... omnia eorum mobilia et
immobilia publicentur et domus .... destruantur et ulterius non liceat
alicui eas reaedificare.

[192] Decreto di Federico II in HOUILLARD-BRÉHOLLES, II, 2-6: omnes
haereticos .... perpetua damnamus infamia, diffidamus atque bannimus
censentes ut bona talium confiscentur nec ad eos ulterius revertantur
ita quod filii ad successionem eorum pervenire non possint.

[193] V. la lettera di Federigo II a Gregorio IX del 28 febbraio 1231
in BRÉHOLLES, III, 268-269. Quia igitur ex apostolicae provisionis
instantia qua tenemini ad extirpandam haereticam pravitatem potentiam
nostram ad ejusdem haeresis exterminium precibus et monitis excitatis,
ecce ad vocem virtutis vestrae zelo fidei quo tenemur ad fovendam
ecclesiasticam unitatem gratanter assurgimus .... et omnibus innotescat
nos ardenti voto zelare pacem Ecclesiae et adversus hostes fidei et ad
gloriam et honorem matris Ecclesiae ultore gladio potenter accingi.

[194] Cfr. la costituzione del 1231 in BRÉHOLLES, IV, 7 presentis
nostre legis edicto damnatos mortem pati Patarenos decernimus, quam
affectant, ut vivi in conspectu populi comburantur flammarum commissi
judicio. Questa costituzione che era stata già pubblicata per la
Lombardia nel 1224 (BRÉHOLLES, II, 421-23) fu ripubblicata per la
Germania nel 1232 (BRÉHOLLES, IV, 298), nel 1238 (Bréholles, V, 201) e
nel 1239 (BRÉHOLLES, V, 279).

[195] Constituzione del 1232 in BRÉHOLLES, IV, 302, fratres ordinis
praedicatorum de Wirceburg pro fidei negotio in partibus Theotoniae
contra hereticos deputatos .... sub nostra et imperii speciali
defensione receptos, et quod apud omnes sub ope ac recommendatione
fidelium imperii esse volumus inoffensos.

[196] Constituzione citata, p. 301, per viros ab eodem errore conversos
ad fidem nec non per alios qui eos de haeresi convicerunt, quod in hoc
casu licite concedimus faciendum, evidens testimonium habeatur.

[197] _Liber inquisitionis tholosanae_, pag. 80, crimen heresis propter
sua immanitate et enormitate non solum in vivis sed etiam in mortuis
per jura promptissima debeat vindicari; pag. 81: predictas domos (dove
morirono alcune catare) cum suis appendiciis .... funditus demendas;
pag. 162: et maxime in casu in quo delinquentis heredes ob culpam
sui actoris ad successionem admitti non debent, non obstante quod
ipsis viventibus interveniente ipsorum morte per sentenciam non extit
declaratum. V. la costituzione di Federico, in BRÉHOLLES, IV, 302,
haeredes et posteros usque ad secundam progeniem beneficiis cunctis
temporalibus, pubblicis officiis et honoribus imperiali auctoritate
privantes.

[198] MURATORI, _Antiq. Ital._ (ed. Arretii 1778, XII, 463-558): Die
XII, exeunte Decembri nova mulier filia quondam Mainardini de Maderio
et uxor Johannini de Achille.... iurato in praesentia venerabilis
patris Domini Alberti, Dei gratia, Episcopi Ferrarensis.... et dixit
quod passa est circa novem annos in oculo dextro. Et hodie personaliter
contulit se ad maiorem Ecclesiam, ubi requiescit corpus viri Dei
Armanni.... oblationes obtulit. Qua oblata tumor evanuit et visura
recepit pag. 465. Marinellus Calegarius.... coepit ire libere et sine
baculo, pag. 468. Perpudam de Adria paraliticam toto corpore et lingua,
ita quod non poterat loqui nec ire, et nunc liberata est pag. 478.
Aloysia de Layde de Brestello.... suo sacramento dixit quod ipsa fuit
detenta et oppressa ex duobus spiritibus malignis.... quum ipsa hodie
venisset ad tumulum beati Armanni.... liberata est, pag. 485.

[199] Anno millesimo ducentesimo quinquagesimo quarto.... Armannus
venit ad praesentiam Fratris Aldovrandini Prioris Fratrum Praedicatorum
etc. in quorum manibus abiuravit omnem haeresim (pag. 532).

[200] Il Muratori dice male, pag. 496: is vivebat vitam Pauperum de
Lugduno; perchè una testimone ci sa dire perfino a quale tra le sètte
catare appartenesse: fuit credens Haereticorum sectae de Bagnolo (pag.
504).

[201] Albertinus qui fuit Haereticus.... iuratus dicit quod ipse
Pungilupus fuit catharus consolatus, recepit manus impositionem in
Verona a Domino Alberto Episcopo sectae de Bagnolo (pag. 513).

[202] Detrahendo ministris Ecclesiae, appellando eos Daemones et Lupos
rapaces (pag. 526).

[203] Et corpus eius profanum et ossa extumulari, et extra Ecclesiam
projici et ignibus concremari arcani lapideam.... et altare.... dirui,
destrui et penitus dissipari.... omnes etiam sculpturas et imagines....
destrui et abradi (pag. 550 e segg.)

[204] _Summa_, 54 b. Est etiam valde notandum quod praedictus Johannes
et ejus complices non audent revelare dictos errores credentibus suis,
ne ipsi credentes discedant ab iis. Anche i valdesi seguono queste
precauzioni, come riferisce Davide nel suo Trattato su codesti eretici
(p. 34 ed. Preger): Non enim facile cuiquam aperiunt secreta erroris
sui, nisi postquam securi sunt quod credat eis in omnibus, timentes
quod recedat ab eis.

[205] I Catari di Arras dichiararono nel concilio del 1025 (MANSI,
XIX, col. 425). Lex et disciplina nostra quam a Magistro accepimus,
nec evangelicis decretis, nec apostolicis sanctionibus contraire
videbitur .... Haec namque hujusmodi est mundum relinquere, carnem a
concupiscentiis froenare, de laboribus manuum suarum victum parare,
nulli laesionem quaerere, charitatem cunctis quos zelus hujus propositi
teneat exhibere.

[206] BONACC. in D'ARG., 44 b: Doctores autem damnant omnes.

[207] ECKBERTUS in GALLANDI, XIV, 447: Muniti sunt verbis sacrae
scripturae quae aliquo modo sectis eorum concordare videntur, et ex
eis sciunt defendere errores suos, et oblatrare catholicae veritati.
Per questo studio che gli eretici ponevano nella Bibbia il concilio di
Tolosa del 1229 severamente proibì: ne libros veteris Testamenti aut
novi Laici permittantur habere nisi forte Psalterium, vel Breviarum
pro divinis officiis .... sed ne praemissos libros habeant in vulgari
translatos (D'ARGENTRÉ, _Collectio_, I, 76 b).

[208] Lo stesso Eckberto osserva mestamente nel luogo citato: Et est
non parva verecundia nostri, qui litteras sciunt, ut sint muti et
elingues in conspectu illorum.

[209] S. Pietro Damiani gl'indirizza una lettera (I, 1), nella quale
s'impromette dal nuovo papa la fine degli scandali: Reprimatur avaritia
ad episcopales infulas anhelantium, evertantur cathedrae columbas
vendentium numulariorum .... Primo Pisaurensis Ecclesia bonae spei
clarum dabit iudicium. Nisi enim praedicta Ecclesia de manu illius
adulteri, incestuosi, perjuri, atque raptoris auferatur, omnis
populorum spes, quae de reparatione mundi erecta fuerit, funditus
enervatur. Cfr. Epist. I, 2, allo stesso: Avaritiae quippe et elationis
igne succensi, ambiunt quidem ad sacerdotium promoveri, sed non student
digni sacerdotes fieri.

[210] DAMIANI, _Opere_ (Parigi 1664) III, 54: Quis enim nesciat... per
occidentalia regna virus simoniacae haereseos lethaliter ebullisse, ita
ut quod passim flebant, licenter admissum.

[211] DAMIANI, Epist. I, 12: Arma potius, arma corripimus, vibrantia
telis tela conserimus et non verbo sed ferro contra nostrae ordinis
regulam dimicamus.

[212] LANDULPHI SENIORIS, _Mediol. Hist._, I, 88: Qui Girardus cum
ante ejus vultum venisset, promptissimum gerens ad passionem animum
laetum si vitam suppliciis gravissimis finiret, vultu alacri ad omnia
respondere paratus astitit.... Nemo nostrum uxore carnaliter utitur,
sed quasi matrem aut sororem diligens tenet. Carnibus nunquam vescimur
.... omnem nostram possessionem cum omnibus hominibus communem habemus
.... Pontificem habemus non illum Romanum.

[213] Come dice il cronista Landolfo, III, 18. Venientes namque quidam
suburbani diversis, ac variis dogmatibus irretiti, et Arialdus ipse, et
ipse quem animo prae omnibus diligebat, et aliquantis cum Laicis, qui
Girardi de Monteforte sententias fere consentiebant.

[214] ALANUS, pag. 7. Item Christus ait in Evangelio: venit enim
princeps mundi hujus et in me non habet quicquam. Ibi Luciferum vocat
principium mundi potius quam Christus .... Si peccatum in carne est,
et caro sine peccato esse non potest, caro malum est et ita a Deo non
est. MONETA, pag. 80: Unum (testimonium) est illuc Ecclesiastae, I,
2, _Vanitas vanitatum et omnia vanitas_ et loquitum de creaturis istis
visibilibus et transitoriis. Quomodo autem potest esse quod in operibus
boni Dei aliqua vanitas sit?

[215] GRETSER, XII, II, 10, cum et Gazari et Patareni Waldenses
fuerint, uno ex stipite Waldo prognati.

[216] Ivi, pag. 7. Consentiunt ferme auctores sectam Waldensium
extitisse in Gallia progenitore Petro Waldo circa annum Domini MCLX.

[217] V. SCHMIDT, II, 268 e segg.

[218] Ecco il principio del capitolo in D'ARGENTRÉ, I, 55: Supra
dictum est sufficienter de haeresi Catharorum, nunc dicendum est de
haeresi leonistarum, sive pauperum de Lugduno, qui sunt divisi in duas
partes. È chiaro da quell'opposizione supra.... nunc, che l'eresia di
Lione non si può confondere con nessuna delle frazioni catare di cui
parla di sopra. Ed è giusto quel che dice il Cantù (_Gli eretici_, I,
79) che Raniero distingue affatto i Catari dai Valdesi. Ma in nessun
luogo il buon frate parla di Valdesi, progenitori degli Albigesi. Nè
sarebbe potuto cadere in questo errore egli, che a pag. 51 annovera
le chiese albigesi tra le catare di Francia, Tholosana, Carcassensis,
Albigensis, e a pag. 55 nota che tutte e tre queste chiese si attengono
alla dottrina di Balasinanza. Del resto il Cantù sembra non abbia un
chiaro concetto del rapporto tra Catari e Valdesi, che mentre a pag.
79 li distingue sulla testimonianza del Sacconi, a pag. 77 li confonde
in uno. _I suoi seguaci [di Pietro Valdo] si dissero poveri di Lione o
Catari, cioè puri._

[219] STEFANO in DUPLESSIS, I, 78: Waldenses autem dicti sunt a primo
huius haeresis auctore, qui nominatus fuit Waldensis. Dicuntur etiam
Pauperes de Lugduno, quia ibi inceperunt in professione paupertatis,
pag. 89. De Manicheis Patharenis vel Burgaris .... originem habuerunt a
quodam Persa, dicto Manes, qui vere Maniacus etc.

[220] Illi quidem Waldenses contra alios acutissime disputabant.
(DUPLESSIS D'ARGENTRÉ, I, 94).

[221] SACCONI in D'ARGENTRÉ, I, 55: et illud dicunt de justitia
saeculari, quod non licet Regibus et Principibus et Potestatibus
punire malefactores. Sospetto che innanzi a _punire_ si debba mettere
_mortaliter_, come nel luogo del Sacconi già riportato a p. 89 n. 1,
che riguarda i Catari. Si potrebbe intendere il passo del Sacconi
nel senso che non si debbano punire come malfattori quelli che si
allontanano dalla Chiesa, ed in favore di questa interpetrazione si
potrebbe addurre questo passo dell'anonimo di Passau: Quod nullus est
cogendus ad fidem (GRETSER, XII, II, 8: ecc.) e questo altro dalle
annotazioni marginali alla somma del Sacconi riportate dal D'Argentré,
I, 50: quod non licet corporalem iustitiam facere, vale a dire che per
le opinioni religiose non si debbano applicare pene corporali, bensì
spirituali quali l'ammonizione o la scomunica. Ma parmi più probabile
la correzione da me proposta.

[222] _Historia Albingensium_, cap. 2, longe minus perversi .... in
multis cum nobiscum conveniebant .... in quatuor consistebat error
eorum: in portandis sandalis .... nulla ratione iurandum vel occidendum
.... quemlibet eorum abque ordinibus posse conficere corpus Christi.

[223] _Tractatus de inquisitione haereticorum_, ed. PREGER, p. 25:
Postulantes autem a Domino papa Innocentio III hanc vivendi formam
auctoritate sua sibi ut sequacibus confirmari, adhuc recognoscentes
primatum apud ipsum residere apostolicae potestatis.

[224] MONETA, pag. 390, arbor ex fructibus cognoscitur ut habetur
(Matth. 7, v. 7), fructus autem Romanae ecclesiae malus est, ergo
romana Ecclesia mala est. Questa citazione non solo è comune ai Catari
e Valdesi, ma anche ai Cattolici che volevano separato il temporale
dallo spirituale. Valgan per tutti le terzine di Dante:

    Soleva Roma, che il buon mondo feo
      Due Soli aver, che l'una e l'altra strada
      Facean vedere, e del mondo e di Deo.
    L'un l'altro ha spento: ed è giunta la spada
      Col pastorale; e l'uno e l'altro insieme
      Per viva forza mal convien che vada;
    Perocchè, giunti, l'un l'altro non teme,
      Se non mi credi, pon mente alla spiga,
      Ch'ogni erba si conosce per lo seme.
                             (_Purg._, XVI, 106-114).

[225] Ecclesia dei non occidebat (MONETA, 394). Et homicidas deputant
et perditos qui praedicant pugnandum contra Saracenos vel Albigenses.
(STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, I, 88 b).

[226] STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, I, 87 a: Pauperes de Lugduno,
quia ibi inceperunt in professionem paupertatis.

[227] L'Anonimo di Passau in D'ARGENTRÉ, I, 93: Quod Clerici et
Claustrales non debeant praebendas habere .... quod Episcopi et abbates
non debeant iura regalia habere. STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ,
I, 89. Quod nostri clerici et sacerdotes qui habent divitias et
possessiones sunt filii Diaboli et perditionis. DAVIDE ed. Preger,
pag. 34: Papa et episcopi nostri et clerici qui divicias seculi
habent et sanctitatem apostolorum non imitantur, non sint ecclesiae
gubernatores, nec talibus dignetur Christus dilectam sponsam suam
ecclesiam committere, qui eam potius prostituant malis exemplis et
malis operibus, quam virginem castam Christo exhibeant, custodiendo eam
in illa puritate quam accepit ab ipso.

[228] BONACURSUS in D'ACHERY, _Spicileg._, I, 209, riferisce che i
Catari beatum Sylvestrum dicunt antichristum fuisse .... a tempore
illius dicunt Ecclesiam esse perditam. Secondo il Sacconi, _Summa_,
pag. 55 b, i poveri di Lione dicono: quod Ecclesia romana non est
Ecclesia Christi; i poveri lombardi aggiungono: Ecclesia Christi
permansit in episcopis et aliis praelatis usque ad b. Silvestrum et
in eo defuit quousque ipsi eam restaurarunt, tamen dicunt quod semper
fuerint aliqui, qui Deum timebunt, et salvabuntur.

[229] MONETA, pag. 397. Ad detestationem etiam Romanae ecclesiae
induxit haereticus illud (_Apoc._, 17, v. 3), ubi Johannes dicit se
vidisse mulierem sedentem super bestiam coccineam .... Et in fine
eiusdem «et mulier quam vidisti est civitas magna, quae habet regnum
super reges terrae» non est dubium quod Romana Ecclesia tunc dominium
habebat super reges terrae. STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, I, 89,
dicunt Ecclesiam Romanam Babylon meretricem de qua dicitur XVII _Apoc._
Questa interpretazione allegorica della Apocalissi fu accolta non pure
dai Valdesi, ma benanco dai cattolici Ghibellini.

    Di voi, Pastor, s'accorse il Vangelista
      Quando Colei, che siede sovra l'acque,
      Puttaneggiar coi Regi a lui fu vista:
    Quella che con le sette teste nacque,
      E dalle diece corna ebbe argomento,
      Fin che virtute al suo marito piacque.
                    (DANTE, _Inf._, XIX, 106-111).

[230] ABBAS FONTIS CALIDI, cap. 7º, in GRETSER, XII, II, pag. 213:
Haeretici vero nec domum Dei nec domum orationis vocant, nec in ea
cum electis orare curant, sed malunt in domibus suis quam in domo
Dei orare. Quare ergo impii haeretici jactant se servare evangelium
et sequi apostolos, cum non in templo orent sed in thalamo, nec ibi
doceant sed in foro et quidam clam in domu; pag. 221: Et inquiunt: si
excelsus non habitat in manu factis, non habitat in ecclesiis factis
manu hominum. Si autem ibi non habitat cur iremus illuc ad orandum? Non
dicevano diversamente i Catari nel Concilio di Arras del 1028 (MANSI,
XIX, col. 437) nihilque sanctum ex ea lapidea materia trahere in se
contenditis, et ideo nihil differre quin in domiciliis et privatis
mansionibus vestris orationes factae tantum valeant, quantum et in
templo Sancto Dei. Riportammo già a pag. 87, n. 2, le testimonianze di
Ebrardo ed Ermengardo.

[231] STEF. DI BORB. in D'ARGENT., I, 87 a: quae cum saepe legeret et
corde tenus firmaret .... evangelium et ea quae corde retinuerat ....
Vedi sopra pag. 9, n. 3.

[232] BONACURSUS in D'ARGENTRÉ, I, 64.... quod mosaica lex sit ad
literam observanda et quod Sabbatum et Circuncisio et aliae legales
observantiae adhuc habere statum debeant. Dicunt etiam quod Christus
filius Dei non sit aequalis Patri, quod Pater et Filius et Spiritus
Sanctus istae tres personae non sint unus Deus. Questi eretici che il
Bonacorso chiama Pasagii [secondo Ducange santissimi πασάγιος, secondo
Füslin, Jas e Schmidt, II, 294 vagabondi .... viaggiatori] vengono
detti _Circumcisi_ nella legge di Federico II.

[233] Totam Ecclesiam iudicant et condemnant .... novi Testamenti ac
Prophetarum testimonio (loc. cit.).

[234] Lettera a S. Bernardo, nelle _Opere_ di quest'ultimo, ediz.
Mabillon, I, 1488.

[235] STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, I, 86 a.

[236] Ivi, 86 b. Stefano racconta che un eretico capitato a Joinville
di ritorno dalla Lombardia, dove era rimasto 18 anni, gli disse non
esservi colà meno di 17 confessioni eterodosse. Lo stesso autore,
oltre a quelli che conosciamo (Arnaldistae, Speronistae, Leonistae,
Cathari, Pathareni, Manichaei sive Burgari, a suis inventoribus sic
dicti), enumera: 1. Pauperes de Lugduno, qui dicuntur Waldenses....
damnant omnes terrena possidentes. 2. Pauperes de Lombardia, qui
possessiones recipiebant. 3. Tortolani qui semel in anno et in coena
solum posse confici a Magistro eorum solo perfecto, qui tortellum
faciunt, de quo ab eo comunicantur. 4. Alii dicunt omnes bonos viros
sacerdotes non mulieres. 5. Alii non distinguunt in sexu. 6. Alii qui
communiati dicebantur, quia communia omnia dicunt esse debere. 7. Alii
rebaptizati, qui rebaptizandos ab Ecclesia esse dicunt.

[237] I Catari, come dice il Sacconi, _Summa_, 48 b, sostenevano quod
peccaret gravius, quicumque ex iis occideret sponte avem aliquam,
a minima avicula usque ad maximam, et quadrupedia a mastella usque
ad elephantem. E per conseguenza l'omicidio non può avere nessuna
giustificazione (vedi più sopra, p. 89, n. 1). Senza ammettere le
premesse i Valdesi accettano le conseguenze. Dalle annotazioni che
hanno per titolo: Isti sunt errores Valdensium sive Insabbatorum
(D'ARG., I, 57) tolgo questo passo del paragrafo 26: omnem iustitiam
mortis esse illicitam et iudicium similiter. STEF. DI BORBONE
in D'ARG., I, 88: peccant omnes iudicium vel iustitiam sanguinis
exequentes. DAVIDE D'AUSBURGO in PREGER, pag. 37. Non debere quemquam
occidere. PIETRO DI VAUXCERNAY in D'ARG., I, 93: nulla ratione
occidendum.

[238] _Summa_ (D'ARGENTRÉ, I, 56): In hoc concordant Pauperes de
Lugduno cum Pauperibus Lombardis.... quod non est salus aliquo modo
iurando. STEFANO DI BORBONE (D'ARGENTRÉ, I, 87) dicunt enim omne
mendacium esse mortale peccatum, et iuramentum similiter. ALANUS, lib.
2, cap. 18 e 19. Nullo modo est iurandum. PETRUS VALLIUM CERNAJ, cap.
2, nulla ratione iurandum.

[239] STEFANO DI BORB., pag. 876: Dicunt enim omne mendacium esse
mortale peccatum et juramentum similiter.

[240] L'anonimo annotatore del SACCONI, in D'ARG., I, 56 a, riferisce:
Non est peccatum, si homo acciperet sororem suam vel consanguineam in
uxorem.

[241] STEFANO DI BORBONE (D'ARG., I, 89). Quod uxor potest a viro
recedere, eo invito et converso et sequi eorum societatem et viam
continentiae. DAVIDE, pag. 30 ed. Preger. Coniuges si quas ante
habuerunt relinquunt.

[242] D'ARG., I, 94. Sacramentum coniugii damnant, dicentes mortaliter
peccare coniuges, si absque spe prolis conveniant.

[243] Omnem coniugium vocant fornicationem, praeter quod contrahitur
inter utrosque virgines masculum et foeminam (S. BERN., _Opp._, ed.
Mabillon, I, 1489). Che del resto anche i Catari propriamente detti
talvolta interpretassero il divieto del matrimonio come proibizione
soltanto o delle seconde nozze, o della convivenza, lo dice
espressamente Ecberto, in un passo già riportato, e che mi piace di
ripetere: Veniam et ad illud quod mussitant quidam vestrum, videlicet
seguaces Hartuvini, quod illum coniugium solum iustum est, in quo
virgines coniunguntur, et quod unam tantum prolem gignere debent, et
postea statim ab invicem discedere, nec unquam deinceps ad coniugalem
thorum convenire. In questo passo sorprendiamo sarei per dire nel fatto
la trasformazione dei Catari in Valdesi.

[244] Nel trattato di Davide, ed. Preger, pag. 26. Dicunt se
apostolorum successores et habere apostolicam auctoritatem et claves
ligandi et solvendi. Vedi anche BONACCURSUS in MARTÈNE, V, 1775.

[245] _Summa_, pag. 55 b, semper fuerunt aliqui qui timebant Deum et
Salvatorem.

[246] Solo le fonti molto tardive come il pseudo Pilichidorf e Claudio
di Seyssel parlano di un Leone socio di Silvestro.

[247] COMBA, _Storia della Riforma in Italia_, Firenze 1881, pag. 234 e
segg.

[248] Prima del Dieckhoff il Maitland avea avuto qualche sentore delle
frodi del Perrin, il primo manipolatore degli scritti valdesi. COMBA,
op. cit., pag. 270.

[249] MELIA, _The origin, persecutions and doctrines of the Waldenses_.
London, 1870, pag. 53-55. COMBA, op. cit., pag. 271, 550.

[250] Sarà benissimo che il Dieckhoff sia caduto in esagerazioni come
dice il prof. Comba, op. cit., pag. 270, nota 6; ma se anche dovessero
tenersi per meno giovani, le opere valdesi, hanno senza dubbio
un'antichità assai minore delle fonti cattoliche.

[251] MUSTON, _Aperçu de l'antiquité des Vaudois des Alpes_, Pignerol
1881. L'antica opera del Muston, _Israel des Alpes_, fu ristampata nel
1880.

[252] _Rivista Cristiana_, Firenze, Marzo 1882, pag. 97 e segg.

[253] MONASTIER, _Histoire de l'Église vaudoise_, pag. 21.

[254] HAHN, _Geschichte der Ketzer im Mittelalter_, I, pag. 52.

[255] V. REUTER, _Geschichte der religiösen Aufklärung im Mittelalter_,
I, 20 e segg. Er scheint ein biblischer Reformator und ein kritischer
Aufklärer zugleich gewesen zu sein. Il Reuter crede anzi che abbia
giovato più nell'ultimo senso che nel primo (pag. 24), il che l'Herzog
non ammette (_Kirchengeschichte_, II, 118).

[256] Nato sotto Carlo Magno e morto l'841. Percorse rapidamente la sua
carriera ecclesiastica. Divenuto arcivescovo di Lione dovè mescolarsi
nella lotta tra l'imperatore Ludovico e i suoi figliuoli in favore
dei quali scrisse il libro intitolato: _Liber apologeticus, pro filiis
Ludovici Pii Imperatoris adversus patrem_. (HAHN, op. cit., II, 33).

[257] REUTER, op. cit., I, 32-41.

[258] Sono due le fonti principali intorno a Tanchelino: 1. _Epistola
Trajectensis Ecclesiae ad Fridericum Archiepiscopum Coloniensem_;
2. _Vita S. Norberti_ di un anonimo. Nella prima è detto: Contra has
sententias (cioè dona Dei pervenire ad eos, qui cum fide accipiunt,
etiam talis est per quem accipiunt qualis Juda fuit) ille declamans,
dehortabatur populum a perceptione sacramenti, prohibens etiam decimas
ministris Ecclesiae exhiberi (D'ARGENTRÉ, II, 11).

[259] Ex meritis et sanctitate ministrorum virtutem sacramentis
accedere (loc. cit.).

[260] Su questo fatto torneremo a suo luogo. La lettera di Gregorio VII
è _ad Jusfredum episcopum parisiacensem_ dell'anno 1077 (lib. IV, ep.
20).

[261] Ex vita S. Norberti in D'ARG., I, 10: Sacramentum Dei inimicus
.... obsequium episcoporum et sacerdotum nihil esse diceret,
et sacrosancti corporis et sanguinis Domini nostri Jesu Christi
perceptionem ad salutem perpetuam denegaret. Concorda con queste
notizie un'antica cronaca. Sacri ordinis ministros et episcopalem ac
sacerdotalem gradum nihil esse dicebat corporis et sanguinis Christi
perceptionem sumentibus ad salutem prodesse negabat.... sed nec post
ejus mortem error ipsius tam facile extirpari possit. Continuazione
alla cronaca di Sigeberto, PERTZ, _M. G. Script._, VI, 449. D'ARG., I,
15.

[262] Epist. in D'ARG., I, 12 .... Ut etiam se Deum diceret .... quin
plenitudinem Spiritus Sancti habuisset .... balnei sui aquam potandam
dividerei .... manumque imaginis manu contingens, S. Mariam sibi
desponsavit.

[263] Il Mayer negli _Annali di Fiandra_ sulla fede di un antico
manoscritto sta pel 1125 (D'ARG., I, 13). Un'altra cronaca in PERTZ,
_M. G. Script._, VI, 459, adduce il 1115.

[264] Anno 1110 Petrus de Bruis impiae sectae in arelatensi Provincia
dux fuit .... Primum capitulum negat parvulos .... Christi baptismate
salvari posse .... non aliena fides sed propria salvat .... secundum
templorum fabricam fieri non debet, quoniam aeque in taberna ....
invocatus Deus audit. Tertium cruces sacras confringi praecipit.
Quartum capitulum ..... veritatem corporis et sanguinis Domini negat
.... Quintum capitulum: sacrificia orationes, eleymosinas et reliqua
bona pro defunctis (D'ARGENTRÉ, I, 14).

[265] Par che corresse differenza tra la dottrina di Pietro e quella
di Enrico, a quel che scrive l'abate Cluniacense: sed post regum Petri
de Bruis, haeres nequitiae ejus Heinricus .... doctrinam diabolicam non
quidem emendavit sed immutavit.

[266] Canone XI del concilio lateranense 1179 sotto Alessandro III:
Clerici, qui in sacris ordinibus constituti muljerculas suas indomibus
suis incontinenti nota tenuerint, aut abjiciant eas et continenter
vivant, aut ab officio et beneficio ecclesiastico fiant alieni. (MANSI,
XXII, 224).

[267] Da un vecchio codice pubblicato dal Mabillon, _Analect._ III,
512. Verumtamen mirum in modum facundus erat .... Qua haeresi plebes
in clerum versa est in furorem, adeo quod famulis eorum minarentur
cruciatus .... Denique idem Hildebertus modis omnibus procuravit
qualiter furorem plebis ratione pariter et humilitate mitigaret, quam
Henricus contra clerum seditiose concitaverat.

[268] A Diocesi Cenomannorum expulsus fuerat ad Pictavos adiit, tum
Petragoras, Burdigalam et Tholosam. Cum autem numerus haereticorum in
dies ibi cresceret, Eugenius papa III Albericum S. R. E. cardinalem
delegavit in Tolosanam illam provinciam adversus haereticos, sive
Henrici sectarios, sive Manicheos et Arrianos. Socium autem laboris
Bernardum (D'ARGENTRÉ, I, 16).

[269] S. BERNARDO, Lettera 241 _ad Hildefunsum Comitem Sancti Aegidii_:
Homo apostata est, qui relicto religionis habitu ad spurcitias
carnis et saeculi, tamquam canis ad suum vomitum est reversus ....
vangelizabat ut manducaret .... cura meretricibus inventus est
praedicator insignis.

[270] Prae confusione habitare inter cognatos et notos non sustinens
.... factus gyrovagus et profugus.

[271] Basilicae sine plebibus, plebes sine sacerdotibus, sacerdotes
sine debita reverentia sunt.

[272] Idem namque mirae sanctitatis et scientiae rumore non merito.
(D'ARGENTRÉ, I, 16).

[273] Lo stesso S. BERNARDO, _Serm._ 65, pag. 1492. Tam quod ad vitam
moresque spectat, neminem circumvenit, neminem supergreditur, neminem
concutit. Pallent infusa per ora jejuniis, panem non comedit otiosus,
operatur manibus unde vitam sustentat.

[274] Vedi un discorso degli eretici nella lettera di Evervino preposto
di Steinfeld presso Colonia a S. Bernardo (S. BER., _Opp._, pag. 1489).
Nos pauperes Christi, instabiles, de civitate in civitatem fugientes
.... nos hoc sustinemus, quia de mundo non sumus: vos autem mundi
amatores, cum mundo pacem habetis, quia de mundo estis.

[275] Possiamo addurre la preziosa testimonianza dello stesso Evervino,
il quale dopo aver detto che gli eretici tormentum ignis non solum cum
patientia sed etiam cum laetitia introierunt, et sustinuerunt dimanda
ingenuamente: unde istis diaboli membris tanta fortitudo, quanta vix
etiam invenitur in valde religiosis in fide Christi. Alla qual dimanda
S. Bernardo risponde non doversi far poco conto della potenza che
esercita il demonio non solo sui corpi, ma anche sui cuori delle sue
creature; quanta sit potestas diaboli non modo in corpora hominum,
sed etiam in corda, quae semel permissus possederit. E bisogna ben
guardarsi dal paragonare la costanza dei martiri colla pertinacia
di costoro; quia mortis contemptum in illis pietas, in istis cordis
duritia operatur. Distinzione molto comoda, ripetuta ai nostri giorni
dal Cantù (_Gli eretici in Italia_, pag. 88). «Ma la colpa onde più
concordemente sono rinfacciati i Paterini è l'ostinazione. Fra strazi
i e tormenti, al cospetto di morte obbrobriosa, non che convertirsi
più s'induravano, protestavansi innocenti spiravano cantando lodi
al Signore. In Lombardia serbarono memoria d'una fanciulla di cui
la bellezza e l'età mettevano in tutti compassione e desiderio di
salvarla. Perciò vollero assistesse, mentre padre, madre, fratelli
venivano consunti dalle fiamme, sperando si sarebbe pel terrore
convertita; ma no: poi che ebbe durato alquanto lo spettacolo si
svincola dalle braccia dei suoi manigoldi, e corre a precipitarsi nelle
fiamme e confondere l'ultimo suo coll'anelito dei parenti». Questo pel
Cantù non è eroismo, è colpa di ostinazione!

[276] Pag. 1489. Sunt item alii haeretici quidam in terra nostra ab
istis discordantes per quorum mutuam discordiam et contentionem utrique
nobis sunt detecti.

[277] Il vero nome del novatore lionese è Waldez secondo il
_Rescriptum heresiarcharum Lombardiae ad pauperes de Lugduno quae
sunt in Alamania_, pubblicato dal PREGER, _Beiträge zur Geschichte der
Valdesier im Mittelalter_, 1875, pag. 18.

[278] ANONIMO DI PASSAU in D'ARGENTRÉ, I, 92. Dum cives maiores pariter
essent in Lugduno, contigit quodam ex eis mori subito coram eis. Unde
quidam inter eos tantum fuit territus quod statim magnum thesaurum
pauperibus erogavit.

[279] _Chron. laud._, in BOUQUET, XIII, 680. Fuit enim locus
narrationis eius (ioculatoris) qualiter beautus Alexis in domo patris
sui beato quievit. Facto mane .... quaesivit a magistro quae via
aliis omnibus certior esset atque perfectior. Cui magister dominicam
sententiam proposuit: si vis esse perfectus, vade et vende omnia quae
habes.

[280] _Chron. laud._, qui per iniquitatem foenoris multas sibi pecunias
coacervaverat.

[281] O civis et amici mei! non enim insanio, sicut vos putatis, sed
ultus sum de hostibus meis qui me fecerunt sibi servum, ut semper plus
essem sollicitus de nummo quam de Deo. (_Chron. laud._, loc. cit.).

[282] A quodam cive quondam socio petiit dari sibi ad manducandum pro
Deo (loc. cit.).

[283] Il DIECKHOFF, _Die Waldenser im Mittelalter_, Gottinga 1851,
crede che la vera novità della setta valdese per cui si distingue da
tutte le altre affini è la libera predicazione, che ciascuno benchè
laico e senza licenza dell'autorità ecclesiastica può intraprendere.
Lucio III nel suo decreto contro gli eretici rimprovera la predicazione
dei Valdesi, prohibiti vel non missi. Alano apre la discussione
contro i Valdesi sulla tesi: nullus debeat praedicare nisi sit a
majore Praelato missus. Il che vuol dire che questo ei considera
come l'errore fondamentale dei Valdesi. Contro il Dieckhoff l'Herzog,
_Die romanischen Waldenser_, Halle, 1853, p. 117, osserva che non è
verosimile, nè alcuna fonte ci dice essere stato questo del predicare
il primo impulso dell'intrapresa del Valdez. Ed io aggiungo che prima
di mettersi nella predicazione bisognava che Valdez fosse già in
possesso della verità da predicare o della vera via di salute. Ma se
non possiamo accettare l'interpetrazione del Dieckhoff, neanche quella
dell'Herzog ci par felice; perchè sebbene sin dal principio della sua
carriera apostolica il Waldez avesse avidamente cercato d'istruirsi
nella Bibbia, come racconta Stefano di Borbone, pure non si può dire
che questo ritorno alle fonti bibliche sia il principio del movimento
valdese (pag. 118). È molto più verisimile, e le fonti concordemente
ce lo attestano, che il movimento del Waldez ebbe al principio un
carattere più pratico e meno dottrinale. La vita fastosa rimprovera
il Waldez a preti e laici, non l'obblio della Bibbia. Il nome che i
Valdesi stessi si davano indica chiaramente quello che essi ponevano al
di sopra di tutto, come l'unico mezzo della salute. E codesto nome non
è: fratelli, vuoi predicatori, vuoi biblici; ma invece poveri di Lione,
umiliati. Il primo documento che parla di loro, il decreto del 1183 di
Lucio III, ce li presenta come eos qui se Humiliatos vel Pauperes de
Lugduno falso nomine mentiuntur.

[284] _Chron. Usperg._, pag. 243: olim duae sectae in Italia exortae,
quorum alii Humiliatos, alii Pauperes de Lugduno se nominabant. Il
Tron, _Pierre Valdo Pignerol_, 1879, appoggiandosi a Reinero e a
Stefano di Borbone che dice: Vocant se pauperes spirito, crede che
la povertà si debba intendere in un senso molto largo. L'amour de
l'argent, ce ver qui range le pauvre aussi bien que le riche, tel est
donc le mal que les amis de la pauvreté spirituelle et volontaire
eussent voulu extirper de leur coeur (pag. 51). Ma le fonti, a cui
attinge il Tron, sono molto tardive. Le più antiche e schiette, parlano
della povertà nel vero senso della parola. E la cronaca laudunense
racconta che la moglie di Valdo, saputo come il marito accattasse la
vita da un amico, non mediocriter contristata sed velut amens effecto
ad Archiepiscopum urbis cucurrit.... Tum ex praecepto Praesulis
Burgensis hospitem suum secum ad praesentiam Praesulis duxit. At mulier
arripiens virum suum per pannos, ait: Numquid non melius est, o homo,
ut ego in te peccata mea eleemosynis redimam, quam extranei. Et extunc
non licuit ei ex praecepto archiepiscopi in ipsa urbe cum aliis cibum
sumere quam cum uxore (loc. cit.). A questa testimonianza aggiungiamo
l'altra di Alano, pag. 225: Dicunt etiam praedicti haeretici quod nullo
modo propriis manibus laborare debent, sed ab illis quibus praedicant
recipere necessaria.

[285] Valdesium amplexatus est Papa approbans votum quod fecerat
voluntariae paupertatis (loc. cit.).

[286] STEF. DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, loc. cit. Evangelia et ea quae
corde retinuerat per vicos et plateas praedicando multos homines et
mulieres ad idem faciendum ad se convocando firmans eis Evangelia.

[287] Incoepit illa secta per hunc modum secundum quod ego accepi a
pluribus qui priores eorum viderunt, et a Sacerdote illo.... qui dictus
fuit Bernardus Ydros, qui cum esset iuvenis scripsit dicto Valdensi
priores libros pro pecunia in Romano, quos ipsi habuerunt, transferente
et dictanti ei Stephano de Ansa. (STEF., loc. cit.).

[288] _Cronaca laudunense_, loc. cit. anno Domini 1178 [leggi 1179].
Concilium lateranense a Papa Alexandro huius nominis tertio celebratur
.... Valdesium amplexatus est Papa, approbans votum quod fecerat
voluntariae paupertatis, inhibens eidem ne vel ipse aut socii sui
praedicationis officium praesumerent nisi rogantibus sacerdotibus. Che
i Valdesi si fossero presentati ad Alessandro III ci viene attestato da
Gualtiero Mapes, _De Nugis curialium_, pubblicato dal Wright, London
1850. Non avendo potuto avere questa stampa, riferisco dall'Usser:
_Gravissimae quaestionis de Christianarum Ecclesiarum successione
et statu Historica explicatio_ (Hanoviae 1658, pag. 168). Vidimus in
concilio Romano, sub Alexandro Papa III celebrato, Valdesios, homines
idiotas illiteratos .... qui librum Domino Papae presentaverunt lingua
conscriptum gallica, in quo textus et Glossa Psalterii plurimorumque
legis utriusque librorum continebatur. Hi multa petebant instantia,
praedicationis authoritatem sibi confirmari. L'accordo colla cronaca
laudunense mostra erronea la correzione, voluta da qualcuno, di
Alessandro III con Innocenzo III.

[289] STEF. DI BORB., loc. cit. Cum autem ex temeritate sua et
ignorantia multus errores scandala circumquaque diffunderunt, vocati
ab episcopo Lugdunensi, qui Ioannes vocabatur, prohibuit eis ne
intromitterent se de scripturis exponendis vel praedicandis. Non
possiamo ammettere che questo divieto sia posteriore a quello di
Alessandro III, perchè Stefano ce lo presenta non come esecuzione
degli ordini di Roma, ma quale misura presa spontaneamente dal vescovo.
Inoltre dal racconto di Stefano la proibizione del concilio del 1179
parrebbe posteriore a quella del vescovo locale. Post expulsi ab
illa terra, ad concilium quod fecit Romae ante Lateranense vocati et
pertinaces, fuerunt schismatici postea iudicati.

[290] Magister eorum usurpans Petri officium, sicut ipse respondit
principibus sacerdotum, ait: obedire oportet magis Deo quam hominibus
(STEF. DI B., loc. cit.).

[291] Omnes qui vel prohibiti, vel non missi, praeter authoritatem
ab apostolica sede vel episcopo loci susceptam, publice vel private
praedicare praesumpserint .... pari vinculo perpetui anathematis
innodamus (MANSI, XXII, 477).

[292] Per l'appello ad Innocenzo ci sono due testimonianze, l'una
di Davide d'Asburgo (Ivoneto), l'altra della cronaca urspergense. Il
primo scrive: apud Lugdunum fuerunt quidam simplices layci, qui quodam
spiritu inflammati et supra ceteros de se presumentes iactabant,
se omnino vivere secundum evangelii doctrinam, et illam ad literam
perfecte servare, postulantes a domino Papa Innocentio hanc vivendi
formam sibi et suis seguacibus confirmari, adhunc recognoscentes
primatum apud ipsum residere apostolicae potestatis. (Vedi PREGER,
pag. 25). — La cronaca urspergense all'anno 1212: Vidimus tunc temporis
aliquos de numero eorum, qui dicebantur Pauperes de Lugduno apud sedem
apostolicam cum magistero suo quodam ut puto Bernhardo, et hi petebant
sectam suam a sede apostolica confirmare. Essendo dunque attestati
da molte fonti tanto l'appello ad Alessandro III, quanto l'altro ad
Innocenzo III, bisognerà ammettere col D'Argentré che si tratti di due
appelli differenti, non di uno scambio di nomi.

[293] INNOCENZO III, _Epistolae_, Lib. XI, ep. 196. Vedi GIESELER,
_Lehrbuch_, II, 2, 632.

[294] _Chr. Ursp._, l. c. Dominus Papa in loco eorum exsurgentes
quosdam alios, qui se appellabant Pauperes minores confirmavit qui
praedicta superstitiosa et probrosa respuebant .... maluerunt appellari
Minores Fratres quam Minores Pauperes.

[295] DIEKHOFF, _Die Waldenser im Mittelalter_, Göttingen, 1851, pag.
155-58.

[296] STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, I, 87, ben conosce questi
periodi successivi. Hii ergo, Valdenses videlicet et sui, primo
ex praesuntione et officii apostolici usurpatione ceciderunt in
inobedientiam, demum in contumaciam, demum in excommunicationis
sententiam .... Postea in Provinciae terra et Lombardiae cum aliis
haereticis se admiscentes, et errorem eorum bibentes et serentes,
haeretici sunt judicati infestissimi et periculosissimi.

[297] L'abate di Foncaldo, verso il 1209, aveva tuttora speranza di
richiamare i Valdesiani nel grembo della Chiesa: _Adversus Valdenses_,
in GRETSER, XII, 2, pag. 207: cui pauca de multis collegimus
ad ostendendum quanta sit episcoporum ac sacerdotum dignitas ac
auctoritas, quo cognito qui hactenus eis ribelles fuerunt, humiliter
eisdem obtemperent.

[298] FONCALDO, in GRETSER, pag. 203: Ab omni, qui scit verbum dei in
populis seminare, praedicandum esse. Quoniam Jacobus dicit «scienti
bonum facere et non facienti peccatum est illi». Quare autem si scimus
evangelizare et cepimus graviter peccamus?

[299] FONCALDO, in GRETSER, pag. 204: Moyses non invidit
prophetantibus, imo desideravit, ut omnis populus prophetaret.
Clericorum autem ordo obsistit nobis, et invidet prophetantibus id est
exponentibus mysteria Dei.

[300] FONCALDO, pag. 205. Ad hoc dicunt quod multi laici verbum Dei
in populo fideli disseminaverunt sicut fecit B. Honoratus et sanctus
Equitius .... Denique et primi apostoli idiotae et sine literis
fuerunt. Et isti omnes, licet Laici, verbum Dei praedicaverunt.

[301] DAVIDE D'AUSBURGO, ediz. Preger, pag. 26. Illi (Valdenses) autem
contempserunt in hoc claves ecclesie, dicentes clericos hoc facere
per invidiam quia viderent eos meliores se esse et melius docere et
maiorem ex hoc populi favorem habere, cum pro bono et perfecto opere
nullus debeat vel possit excomunicari .... Et illam excomunicationem
reputabant sibi esse aeternam benedictionem, gloriantes se apostolorum
successores esse, quod sicut illi pro doctrina evangelii a scribis et
phariseis extra synagogam eiecti maledictioni eorum et persecutioni
subiacebunt, ita et ipsi a clericis similia paterentur.

[302] ALANUS, _adversus haereticos_, pag. 1881. Isti Valdenses asserunt
neminem debere obedire alicui nisi Deo freti auctoritate quae est in
actis apostolorum. FONCALDO, pag. 209, sed inquiunt: obedimus Deo non
hominibus, sequens Petrum qui dixit: obedire oportet Deo magis quam
hominibus.

[303] FONCALDO, p. 198. In primis igitur arguuntur de inobedientia,
quia scilicet non obediunt ecclesiae Romanae.

[304] ALANO, pag. 184. Laico autem praedicare periculosum quia non
intelligitur quod dicit nec scripturas intelligit. FONCALDO, pag.
199: Ex quibus aperte datur intelligi quod nullus praesumere debet
docere aliquam viam perfectionis nisi sit in civitate id est in sancta
ecclesia, et Christi sit discipulus. Pag. 207: Ex his omnibus videtur
nec Clerico nec Laico cujus habitatio ignoratur (imo etiamsi sciatur
ubi habitet) esse licitum vineam id est plebem et gregem alienum
excolere sine licentia Episcopi vel Presbyteri ad cujus curam spectat.

[305] Pag. 202: Praedicant omnes passim, et sine delectu conditionis,
aetatis vel sexus.

[306] FONCALDO, pag. 113. Foeminas quas suo consortio admittunt, decere
permittunt, cum hoc sit apostolicae doctrinae contrarium. — Pag. 114:
sed dicunt inimici veritatis mulieres debere docere eo quod apostolus
dicat ad Titum: .... non criminatrices non multo vino servientes,
bene docentes. — Item hunc errorem confirmare scituntur exemplo Armae
propheticae, Luc. 2.

[307] ALANO, pag. 191: Magis operatur meritum ad consacrandum .... quam
ordo vel officium. Per l'opposto il cattolico deve sostenere secondo
il Foncaldo pag. 200: Spiritus sanctus plerumque potius dignitatem
sacerdotis pensat quam meritum.

[308] ALANO, pag. 186. Forte dicunt quidam haeretici quod bonis
Praelatis obediendum, et his qui apostolorum vicarii sunt vita et
officio. Tutto al contrario la dottrina cattolica è questa (pag. 183):
Obediendum esse dominis suis, non solum modestis sed etiam discolis.
Lo stesso ripete Foncaldo (pag. 200): Sacerdotibus etiam peccatoribus
peccatores nequitias suas confiteri debent.

[309] Per mostrare l'accordo delle fonti in questo punto e la
continuità della dottrina dall'origine sino all'ultimo periodo della
Chiesa valdese, cito STEFANO DI BORBONE in D'ARGENTRÉ, I, 89. Item
dicunt nullam esse sanctitatem nisi in bono nomine vel muliere;
ed il MONETA, pag. 408: Audacia Valdensium, qui ab ecclesia romana
propter quorundam vitia exire praesumpserunt .... si enim Scribis et
Pharisaeis, qui nequissimi fuerunt de lege Moysi obtemperandum fuit
propter officium et ordinem sacerdotis usque ad consummationem legis,
quanto magis sacerdotibus et praelatis obediendum est de lege Christi
licet mali sint. Riferiremo altrove un luogo di Davide, ediz. Preger,
pag. 27.

[310] DIECKHOFF, op. cit., p. 178. Der waldensische Satz stützt ja die
Kräftigkeit und Wahrheit der geistlichen Amts und seiner Thätigkeiten
nicht auf den obiectiven Christus in der Gemeinde. Pag. 181: Das
evangelische Protestantismus steht auf Seiten des Alanus.

[311] Il PREGER, _Beiträge zur Geschichte der Waldesier im
Mittelalter_, dubita a torto delle fonti cattoliche, perchè l'accordo
di queste fonti, che emanano da inquisitori ben diversi e per tempo e
per nazionalità è una prova inconfutabile della loro veridicità.

[312] Illis solis potestas ligandi et solvendi data sit, qui doctrinam
simul et vitam apostoli servant. (ALANO, pag. 187). Cfr. DAVIDE, ediz.
Pregar, pag. 27: Dicunt etiam quod sacerdos peccator non possit aliquem
solvere et ligare, cum ipse sit ligatus peccato, et quod quilibet bonus
et sciens laicus possit alium absolvere et paenitenciam imponere.

[313] ALANO, pag 196. Si vero ante confessionem, per contricionem
cordis, Deus per se ipsum sine ministerio sacerdotis ei debitum omnino
relaxat .... quid dimittit Sacerdos?

[314] ALANO, pag. 193. Non est necesse hominem peccata sui confiteri
sacedotibus si praesto sit laicus, cui possit peccata confiteri.

[315] STEFANO DI BORBONE, in D'ARGENTRÉ, I, 88: Derident indulgentias
Papae et absolutiones et Claves ecclesiae.

[316] FONCALDO, pag. 114-15. Audent jam insani haeretici eis
quos seducunt dicere: defunctis nihil prodesse fidelibus vivorum
eleemosynas, jejunia, orationes, nec etiam missarum solemnia, seu
orationes pro eis factas.

[317] FONCALDO, pag. 217: Sed ad hoc objiciunt inimici veritatis post
mortem hanc praedictas nulli prodesse. .... Ex his verbis liquet quod
post mortem tenebris poenarum involvitur qui in hac luce viam Dei
perambulare contempserit.

[318] FONCALDO, pag. 217: Negant enim ignem purgationis.

[319] Questo documento, pubblicato dal Preger nei _Beiträge_ già
citati, fu riprodotto presso di noi dal COMBA, _Storia della Riforma in
Italia_, pag. 541 e segg.

[320] SACCONI, _Summa_, pag. 55. Pauperes Lombardi concordant cum
primis in juramento et justitia saeculari. De corpore vero Domini
sentiunt pejus quam primi, dicentes quod concessum est cuilibet homini,
sine peccato mortali existenti, consecrare illud. Item dicunt quod
Ecclesia Romana est Ecclesia malignantium, et bestia et meretrix quae
leguntur in Apocalypsi.

[321] Anche il Tiraboschi, alla cui opera _Vetera Humiliatorum
monumenta_ (Med. 1766) il Preger ricorre, dice candidamente (I, 76): ea
fere omnia quae ad prima humiliatorum tempera pertinent incerta sunt.
La corporazione degli Umiliati era un ordine religioso, il quale è
fama che abbia ricevuto qualche regola da S. Bernardo, nè certo s'è mai
allontanato dalla Chiesa. E se ne togli l'obbligo del lavorare, che del
resto anche i Catari s'imponevano, non parmi che ci sia niente altro di
comune tra gli Umiliati ed i Poveri Lombardi.

[322] Da questa frase adoperata dai Poveri Lombardi (§ 3): Controversia
quae inter nos et electos Valdesii socios jam diu versatur, si deve
riconoscere col Preger che i Poveri Lombardi non si sentivano compagni
o socii del Valdez.

[323] § 15: Facta enim adhuc quadam super Valdesio et Viveto mortuis
questione respondimus: Valdesium et Vivetum si pro omnibus culpis
et offensionibus suis satisfecerint ante obitum posse salvari: quam
dicti ultramontani penitus respuentes ecc. Pare però che la disputa si
potesse comporre nella formola accettabile da ambe le parti: dicimus
Valdesium in dei paradyso esse.

[324] § 6: Valdesium dixisse quod cum de omnibus aliis esset pax et
concordia inter eum et fratres italycos, nisi separarentur laborancium
congregationes. A ragione il Preger si serve di questo testo per
mostrare la grande autorità esercitata dal Valdez.

[325] § 4: Valdesium dixisse videlicet se nolle aliquem in societate
ultramontanorum aut ytalicorum fratrem fore prepositum in vita sua nec
post mortem. Anche in questo punto si trovò modo d'intendersi: commune
nostrum .... eligat prepositos aeternaliter vel rectores ad tempus
secundum quod utilius communi videbitur vel amplius ad pacem pertinere.

[326] Il Sacconi dice che i Poveri Lombardi sostenevano quod infantes
salvabuntur sine baptismo (_Summa_, pag. 55 b.).

[327] Dalla formola adottata nella lettera (§ 8) parrebbe tutto
l'opposto di quel che pretende il Sacconi, perchè gli ultramontani par
che avessero bisogno di essere richiamati alla vera fede: hoc oramus
eos credere et fateri. La professione di fede suona così: nemo aquae
materialis baptismum respuens potest salvari.

[328] § 9: Credimus legitimos conjugatos nisi ob fornicationis causam
aut utriusque consensu neminem debere separare. Cfr. STEFANO DI BORBONE
in D'ARG., I, 89. Item in matrimonio carnali dicunt quod uxor potest
a viro recedere eo invito, et e converso et sequi eorum societatem vel
viam continentiae.

[329] § 16: Una est (sententia), ut quidam ex Valdesii sociis
proferunt, quod panis et vini substancia per solam verborum Dei
prolacionem vertitur in Christi corpus et sanguinem addentes: non
homini sed verbis Dei virtutem attribuimus.

[330] § 17: Altera quorundam Valdesii sociorum sententia de panis
fraccioni haec est; nemo potest baptizare, qui Christi corpus non valet
conficere.

[331] § 18: Dixerunt enim per neminem sive bonum sive malum, nisi per
eum qui est deus et homo, _i. e._ Christum, panis et vini visibilem in
corpus Christi et sanguinem transubstanciari substantiam, et hucusque
de hac tertia sacramenti hujus responsione nos et illi concordes
fuimus. De hoc autem quod addiderunt: _oracionem adulteri sive
malitiosi in hoc a domino exaudiri et recipi_, ab eis quia a veritatis
tramite deviat dissentimus.

[332] § 16: Quisquis sive Judeus sive gentilis verba Dei super panem
et vinum proferens .... Christi corpus et sanguinem conficiet. Questa
opinione di alcuni oltramontani era così indeterminata, che poteva
servire a dimostrare le tesi più opposte, nè solo che il sacramento
amministrato dai cattolici fosse valido, ma valido altresì quello di
qualunque altro sappia dire le sacre parole. In questo ultimo senso
intende la dottrina degli oltramontani STEFANO DI BORBONE in D'ARG., I,
89: Illi autem (Valdenses) qui in aliquo videntur minus male sentire in
hoc errant, quia dicunt corpus Christi posse confici a quocumque bono
vel consecrari qui dicit verba ad hoc statuta, licet, non sit ab homine
ordinatus.

[333] § 17: Interrogati etiam a nobis de pane fraccione confessi sunt
hoc sacramentum non per mulierem, non per laycum, sed per solum confici
sacerdotem.

[334] § 20: Item quod dominus iniquorum ministracionem non recipiat, et
eorum oracionem non exaudiat.

[335] § 22: Ecco la formola degli oltramontani: a sacerdote ab ecclesia
Romana ordinato, donec congregatio baptizatorum sustinet eum in
officio, sit justus vel iniustus, si acceperit panem et vinum et eum
benedixerit in commemoracionem corporis et sanguinis Dei, credimus quod
post benedicionem ab eo dictam corpus et sanguis fiat Dei.

[336] Loc. cit. Hanc Valdesianorum confessionem, quam contra divina
testimonia faciunt, omnino respuimus.

[337] § 18: Tamen si quis ad recipiendum hoc sacramentum dignus
accesserit credimus quod licet non per ministri indigni et reprobi
oracionem a domino impetrat quod exoptat, i. e. corpus domini ad sui
salutem juxta suum recipit desiderium (loc. cit.).

[338] Loc. cit. Si Deus oracionem exaudierit, credimus panis et vini
substanciam post benedictionem esse Christi corpus et sanguinem,
alioquin minime quod ad se et per se .... ad se i. e. quantum ad
ministrantem reprobum etiam si ipse ratione presumpserit, per se i. e.
per ejus orationem si alicui alio tradere voluerit.

[339] § 25: Cum essem parvulus loquebar ut parvulus. Quando autem
factus sum vir, evacuavi quae erunt parvuli .... Nec etiam licet
Valdesiani in hoc nos vellent cogere, volumus confiteri. Oportet enim
obedire Deo magis quam hominibus. Nec enim Paulus volentibus eum in
legis servitutem redigere, ut ipse testatur, ad horum subjectione
cessit. Questo luogo mi pare una chiara prova che gli ultramontani ai
quali s'indirizza la lettera dei Lombardi erano forse una frazione dei
Valdesi, rimasta ancora in moltissimi punti ligia alla Curia Romana.
Con nessun'altra ipotesi si potrebbe spiegare questa sollecitudine per
la confessione auricolare, che tra i sacramenti fu il primo ad essere
abbandonato, come ne fan fede le fonti più antiche, Alano e l'Abate di
Foncaldo.

[340] Di queste due sentenze, la prima ci viene conservata da Alano, la
seconda da Stefano di Borbone.

[341] _Beiträge zur Geschichte der Waldesier_, p. 22-23.

[342] _Der Tractat des David von Ausburg_, München 1878, p. 15-16.

[343] In D'ARGENTRÉ, I, 87. Et inveni per multas confessiones eorum in
jure tam perfectorum quam credentium.... Tamen aliqui eorum dicunt, ut
ab eis audivi, timore mortis esse eis, qui non sunt perfecti, licitum
mentire et jurare.

[344] STEPHANUS, in D'ARGENTRÉ, I, 89. Quilibet bonus homo sit
Dei filius, sicut Christus eodem modo.... cum homo poenitens bonus
efficitur, tunc est ibi verus baptismus.

[345] PREGER, op. cit., pag. 16: Natürlich konnte man nun nicht Alles,
was aufänglich für den Predigerverein galt, auch zur Vorschrift für die
Gemeinden machen.

[346] Vedi più sopra, p. 195, n. 1, da riscontrarsi con DAVIDE, §
18, ediz. Preger, pag. 35: Olim desiniverant jurare omnino, sed quia
facilius per hoc deprehendebantur, caute dispensaverunt modo jurare pro
se vel alio a morte defendendo.

[347] STEF. DI BORB., pag. 89: Nullam esse sanctitatem nisi in bono
homine vel muliere.

[348] STEF., pag. 88: Sunt quidam qui non sunt ordinati a Deo vel ab
hominibus ut mali laici: alii ab hominibus ut mali sacerdotes nostri et
non a Deo: alii a Deo etsi non ab hominibus, ut boni laici, qui servant
mandata Dei, qui possunt ligare et solvere, et consecrare et ordinare,
si proferant verba Dei ad hoc statuta.

[349] STEF., loc. cit. Item dicunt malos, qui sunt in peccato,
non posse ligare et solvere vel indulgentias dare, vel peccatorum
relaxationes, vel consecrare, vel aliquid tale facere, quod Deus
habeat ratum. — Riscontrate l'anonimo di Passau (Pseudo Rainero)
in D'ARG., I, 93. Item dicunt quod transsubstantiatio non fiat
in manu indigne conficientis sed in ore digni sumentis et confici
posse in mensa communi. DAVIDE, ediz. Preger, pag. 27: Hoc (cioè la
transustanziazione) autem quidam dicunt tantum per bonos fieri, alii
autem qui verba consecrationis sciunt.

[350] STEF., p. 88: Vidi haereticam quae combusta fuit, quae super
arcam ad modum altaris parati consecrare se credebat et attentabat.

[351] MONETA, pag. 403: Quidam dixerunt quod Valdesius ordinem
habuit ab universitate fratrum suorum. Eorum autem, qui hoc dixerunt,
principalis auctor fuit quidam haeresiarcha pauperum lombardorum Doctor
perversus Thomas. Hoc autem probare taliter visus est: Quilibet de illa
congregatione potuit dare Valdesio jus suum scilicet regere seipsum, et
sic tota congregatio illa potuit conferre et contulit Valdesio regimen
omnium, et sic creaverunt illum omnium Ponteficem et Praelatum.

[352] MONETA, pag. 402: Ipsi ad minus triplicem confitentur (ordinem)
scilicet Episcopatum, Presbyteratum, et Diaconatum.

[353] L'abbate di Foncaldo tra le altre obbiezioni contro alla libera
predicazione dei Valdesi move questa (pag. 208): Qui uxores habent aut
pondere terrenae solicitudinis opprimuntur ad disseminandum verbum Dei
idonei non sunt.

[354] Riportammo altrove il passo: Uxor potest a viro recedere eo
invito (D'ARG., I, 89).

[355] DAVIDE, ediz. Preger, pag. 27: Matrimonium dicunt esse
fornicationem juratam, nisi continenter vivant. Qualescumque alias
luxurie immundicias magis dicunt esse licitas quam copulam conjugalem.
Continenciam laudant, sed urente libidine concedunt ei satisfieri
quocumque modo turpi. Questo ultimo tratto è certo in contraddizione
col precedente, ed è poco credibile. Ma non per questo s'ha da revocare
in dubbio tutta la testimonianza, come fa il Preger, op. cit., pag.
18. Anche l'anonimo di Passau in D'ARG., I, 94, dice in un passo già
riportato: Sacramentum conjugii damnant, dicentes mortaliter peccare se
conjuges si absque spe prolis conveniant.

[356] Abbiamo riportato sopra, pag. 198, n. 2, il passo dell'anonimo
di Passau et confici posse in mensa communi. DAVIDE in PREGER, pag.
27: Hoc etiam in conventiculis suis celebrant recitantes verba illa
evangelii in mensa sua et sibi mutuo partecipantes sicut in caena
Christi. _Liber inquis. tholos._, pag. 216: Item oravit cum Valdensibus
pluries ante prandium et post inclinatus super bancam secundum modum
et ritum ipsorum. Cfr. pag. 222-23; 229. Dobbiamo dunque ammettere
col Preger, che continuasse la celebrazione dell'Eucaristia; ma che
il rito fosse semplificato, e la funzione cattolica messa da banda lo
dice esplicitamente l'anonimo di Passau in D'ARG., I, 93: Item dicunt
quod missa nihil sit, quia Apostoli eam non habebant et fiat propter
quaestum. L'anonimo del codice Claromontano ci da una descrizione
della cerimonia della consecrazione, che in questa forma forse era
celebrata una volta sola l'anno, nella Pasqua; D'ARG., I, 56: Dicti
Pauperes de Lugduno solum semel consecrant in anno, in coena Domini, et
tunc quasi iuxta noctem: ille qui praeest inter eos, si est Sacerdos,
convocat omnes de familia sua utriusque sexus, et facit ibi ante eos
preparari bancum seu unum scannum, et poni desuper unum mundum gausape,
cui postea supponunt unum bonum scyphum de vino bono et puro, et unam
fugaziam azymam .... Postea vero surgunt et tunc ille qui consecrat,
signat panem et scyphum, et fracto pane dat omnibus astantibus
particulam suam et postea dat omnibus bibere cum Scypho, et stant
semper in pedibus et sic finitur eorum sacrificium et credunt firmiter
et confitentur quod istud est corpus et sanguis Domini nostri Jesu
Christi.

[357] DAVIDE, pag. 27: Corpus Christi et sanguinem non credunt vere
esse, sed panem tantum benedictum, qui in figura quadam dicitur corpus
Christi, sicut dicitur: Petra autem erat Christus, et simile. Hoc
autem quidam discunt tantum per bonos fieri, alii autem per omnes verba
consecrationis sciunt.

[358] DAVIDE, in PREGER, pag. 17: Quidam autem dicunt baptismum non
valere parvulis, eo quod nondum actualiter possint credere.

[359] DAVIDE, loc. cit. Dicunt non esse purgatorium sed omnes morientes
statim transire in celum vel infernum; ideo suffragia pro defunctis
ab ecclesia facta asserunt non prodesse. Unde dicunt quod oblaciones
factae pro defunctis prosunt clericis, qui concedunt, non animabus quae
hujusmodi non utuntur.

[360] STEFANO DI BORBONE, pag. 89: cum dicunt se credere Incarnationem,
Passionem, Resurrectionem Christi, dicunt quod illam credunt veram
Conceptionem Christi, Nativitatem, Passionem, Resurrectionem et
Ascensionem cum bonus homo concipitur, nascitur, resurgit per
poenitentiam vel ascendit in coelum; cum martyrium patitur, illa est
vera passio Christi. Similiter, cum dicunt se credere Baptismum,
Poenitentiam, et sic de aliis sacramentis dicunt ipsa esse vera
sacramenta solum et tunc compleri, cum homo poenitens bonus efficitur,
tunc est ibi verus Baptismus, Confirmatio, Eucharistia vera, quia tunc
efficitur Corpus Christi, tunc ordinatur, tunc fit in eo conjugium et
unctio. Et per istam spiritualitatem fidem nostram plurimi eorum in
articulis et sacramentis annihilant.

[361] DAV., loc. cit. unctionem extremam respuunt et oleum consecratum
et crisma nil valere plus quam aliud.

[362] L'anonimo di Passau, in D'ARG., I, 93, tra gli errori dei Valdesi
di Germania conta questi: XI, quod non sit obediendum praelatis sed
tantum Deo. XII, quod nemo fit major altero in Ecclesia. XIII. Quod
nemo debet flectere genua Sacerdoti. L'anonimo del codice claromontano
in D'ARG., I, 57 dice parimente: Tricesimo, quod Sacerdos non est nisi
pronunciator. STEF. DI BORBONE, pag. 89: Sufficit ad salutem soli Deo
non homini confiteri.

[363] DAV., pag. 28: Dicunt etiam quod sancti in coelo non audiunt
oraciones fidelium; nec venerationes quibus eos honoramus, attendunt,
arguentes, quod cum corpora sanctorum hic mortua jaceant et spiritus
tam remoti sint a nobis in celo, nullo modo oraciones nostras valeant
auditu percipere neque visu. Dicunt quoque sanctos non orare pro nobis,
et ideo non oporteat nos implorare suffragia eorum qui absorpti gaudio
coelesti nobis non possint intendere. Cfr. l'an. di Passau in D'ARG.,
I, 94. Item nullum sanctum credunt nisi Apostolos, nullum sanctum
credunt nisi solum Deum.

[364] STEF. DI BORB., pag. 89: Irrisibiles dicunt qui faciunt festa
Sanctorum et quod non peccant qui in eis laborant. L'ANONIMO DI PASSAU
in D'ARG., I, 94: Canonisationes, Translationes et Vigilia sanctorum
contemnunt. DAV., pag. 28: unde derident solempnitates quas in
sanctorum venerationem celebramus et alia quibus eos honoramus.

[365] DAVIDE, loc. cit. In quadragesima et in aliis diebus jejuniorum
ecclesiae non jejunant sed carnes comedunt ubi audent, dicentes
quod Deus non delectatur in afflictionibus amicorum suorum. STEF. DI
BORB., pag. 89: Non peccare dicunt illos, qui jejunia statuta solvunt
quacumque die, et qui ibi carnes comedunt.

[366] STEF. DI BORB., loc. cit, irrident eos qui luminaria offerunt
sanctis .... irrident cantus Ecclesiae et officium divinum. DAV., pag.
27: Festa, feriarum jejunia, ordines, benedictiones, officia ecclesiae
et similia respuunt omnino.

[367] Intorno alla consacrazione delle chiese già ricordammo il
Foncaldo, che tra gli errori dei Valdesi nota questo (pag. 218): Malunt
orare in stabulis vel cubiculis seu thalamis quam in Ecclesia, DAV.,
§ 11, [non pubblicato dal Martène] pag. 31: Sicut Symea .... imitantur
.... id quod apostoli pro pauperibus collectas in ecclesia procurabant
et in domibus fidelium, quando nondum ecclesiae constructae fuerunt,
quando docebant vel sacra misteria celebrabant, vel ad predicandum per
diversas provincias discipulos destinabant, qui fundarent ecclesias
vel firmarent. L'anonimo del codice Claromontano in D'ARG. I, 57 locis
sacris nullam exhibent reverentiam.

[368] STEF. DI BORB., pag. 89: solum Deum adorandum dicunt omni genere
adorationis et dicunt peccare eos qui Crucem, vel illud quod nos
dicimus et credimus corpus Christi, adorant, vel sanctos alios a Deo,
vel eorum imagines. L'ANONIMO DI PASSAU in D'ARG., pag. 94: Reliquias
sanctorum contemnunt item sanctam crucem reputant ut simplex lignum,
ed item lignum S. Crucis horrent propter supplicum Christi, nec unquam
signant se.

[369] Davide conosce molto bene questo processo: § 5, pag. 26: Haec
fuit prima haeresis eorum, contemptus ecclesiasticae potestatis. Ex
hoc traditi Sathanae precipitati sunt ab ipso in errores innumeros, et
antiquorum haereticorum errores suis adinvencionibus miscuerunt.

[370] Quanta speranza ponesse nell'Imperatore il partito delle riforme
lo attesta tra tante la lettera di Pier Damiani ad Enrico III, in
occasione della sentenza imperiale contro l'arcivescovo di Ravenna
(_P. Damiani Epist._, VII, 2; _Opp._ Parigi 1664, pag. 109, A). Nam in
expulsione Uniquerii vox omnium in laudem sui Creatoris attollitur,
Ecclesia de manu violenti praedonis eripitur, et salus esse totius
mundi vestra Incolumitas judicatur. Laetentur ergo coeli, et exultet
terra quia in Rege suo vere Christus regnare cognoscitur.

[371] GIESEBRECHT, _Geschichte der deutschen Kaiserzeit_, II, 404.

[372] MANSI, XIX, 627: Concilii Romani anno 1047 habiti Canon....
Nullum aut ecclesiarum consecrationem, aut clericatus ordinationem,
aut Archipresbyteratum, aut commendationes altarium, aut traditiones
ecclesiarum, aut abbatias, aut praeposituras vendere. Quisquis
contradixerit aut vendiderit anathema sit. Del Concilio romano
dell'anno 1049, il Mansi, pag. 722, toglie le notizie da una lettera
di S. Pier Damiani ad Enrico arcivescovo ravennate. In questa lettera
è notevole la frase: Ponamus itaque ut simoniaci in nullo a caeteris
haereticis differant, che è forse un'amplificazione retorica.

[373] Come dice Enrico III (in GLABER, V, 2) Vos autem (qui vice
Christi in Ecclesia constituti estis) avaritia et cupiditate
corrupti, qui dum conferre deberetis in hujusmodi transgressionis
dando et accipiendo canonem maledicti estis.... Omnes quippe gradus
Ecclesiastici a maximo Pontifice usque ad ostiarium opprimuntur per
suae damnationis pretium.

[374] MANSI, XIX, 696: Omnino confitemur non licere episcopo
presbytero, diacono, subdiacono propriam uxorem causa religionis
abjicere a cura sua, scilicet ut ei victum et vestitum largiatur: sed
non ut cum illa ex more carnaliter jaceat.

[375] Simone Mago è tenuto dai padri della Chiesa del terzo e quarto
secolo come uno dei quattro capi dello gnosticismo. Le lettere
clementine già lo danno per il principale. Ma questo solo par probabile
che egli, appartenendo alla setta samaritana, cercasse di combinare
insieme la nuova religione col samaritanismo. Il che non importa che la
dottrina gnostica si debba a lui, come non si deve nè al suo discepolo
Menandro, nè a Dositeo; ben piuttosto a Cerinto, che è l'ultimo dei
quattro nominati dai Padri: SCHMID, _Kirchengeschichte Erlangen_, 1880,
Vol. I, pag. 64.

[376] _Apoc._, II, 6. Cfr. IRENEO, I, 29. CLEM. STROM., I, 3.

[377] Il decreto di Clemente II (MANSI, loc. cit.), già parla de
haeresia simoniaca. La stessa espressione si trova in Arnolfo,
_Gesta_, lib. III, cap. XI (PERTZ, _Mm. SS._, VIII 19). Il biografo
di Arialdo, Andrea, cap. XI, 7 (PURICELLI, pag. 86), riferisce alcune
ragioni che l'arcivescovo, insieme alla maggior parte del clero e dei
nobili, nonchè di molti del popolo minore solevano portare contro la
proibizione della vendita: Haec namque doctrina si ad profectum venerit
nobis nostrisque filiis profecto nullo modo vivere expedit. Quae
enim est nostra vita nisi ecclesiarum beneficia quae a nobis assidue
venduntur et emuntur? Certo queste ragioni erano deboli assai; ma
provano in ogni modo che si faceva una discussione e taluni sostenevano
la legittimità del traffico.

[378] LANDULFI, _Hist. Mediol._, II, 36 (PERTZ, VIII, 73): Itaque his
et aliis misericordiarum multarum elemosynis, si quid offensionis
laicis inhaerebat, et sacerdotibus illos moribus bonis imbuentibus
solvebatur.

[379] LAND., _Hist. med._, II, 35 (PERTZ, VIII, 70): Si autem in
virginitate uxorem aliquis non habens permanere non posse fateretur,
humanam ac fragilem naturam sciens restringi non posse nisi Dei
misericordia adjutus, continuo in testimonio bonorum virorum secundum
legem humanam licentia a pontifice accepta, uxor tamen virgo illi
desponsabatur; unde apostolus: _Qui se non continet, nubat_. Et
unusquisque excepta causa fornicationis suam uxorem habebat; qua
accepta non minus venerabatur et amabatur quam si sine uxore idem
degeret.... Usus enim ecclesiae totius tam latinae quam graecae per
tempora multa sic se habebat. III, 7 (PERTZ, 78): Sed nostri sacerdotes
Deo gratias usque hodie nec sunt nec nominati sunt adulteri, sed
curiose observant apostolicum praeceptum, ut sint unius mulieris
viri. Queste parole sono messe in bocca all'arcivescovo. Altre non
meno energiche sono attribuite all'arcidiacono Guiberto ed al diacono
Ambrogio III, 23, 24 (PERTZ, 89-91), nè meno incalzanti sono le
risposte che fa il sacerdote Andrea ai discorsi tenuti da Arialdo a
Landolfo III, 26 (PERTZ, 92-93).

[380] BONITH., in JAFFÉ, II, 648: Sed venditores ecclesiarum,
mediolanenses capitanei et valvassores, cum viderent se pecuniis
nudari, contristabantur.

[381] BONITH., lib. VI (JAFFÉ, II, 638): Ecclesia Mediolanensis, quae
fere per 200 annos superbiae fastu a Romanae ecclesiae se subtraxerat
dicione. ARNULFI, _Gesta_, III, 15 (PERTZ, VIII, 21): O insensati
mediolanenses, qui vos fascinavit? Heri clamastis unius sellae
primatum, hodie confunditis totius ecclesiae statum .... Dicetur enim
in posterum; subjectum Romae Mediolanum. Queste amare parole sfuggono
al cronista nel raccontare che il popolo milanese dopo essersi levato
in tumulto contro il legato di Roma gli si sottomise.

[382] BONITH. in JAFFÉ II, 638: Gregorius .... mediolanensem ecclesiam
.... secundum antiquum morem [vale a dire secondo il costume orientale
di S. Ambrogio] cantare constituit. Arnolfo, III, 17 (PERTZ, pag. 12):
Interea Arialdus .... letanias illas quas Ambrosiani post ascensionem
celebrant .... praedicabat execrandas.

[383] ARNOLFO, III, 10 (PERTZ, pag. 19): Qui (Arialdus) cum modicae
foret auctoritatis, humiliter utpote natus, praevidit applicare sibi
Landulfum quasi generosiorem et ad hoc idoneum .... Landulfus vero
cum esset expeditioris linguae ac vocis, nimiusque favoris amator,
repente dux verbi efficitur, usurpato sibi contra morem ecclesiae
praedicationis offitio. Hic cum nullis esset ecclesiasticis gradibus
alteratus etc. LANDOLFO, _Hist. med._, III, 5 (PERTZ, pag. 76),
conferma intorno ad Arnolfo le notizie dell'altro cronista: Landulphus
de magna prosapia oriundus .... Unus de notariis (grado ecclesiastico
inferiore al sottodiacono). Di Arialdo dice soltanto: alium forensem
clericum, levitam (diacono) tantum, Arialdus nomine, ortus in loco
Cuzago prope Canturium artis liberae magister. BONIZONE (JAFFÉ, pag.
639): Landulfus ex majore prosapia natus .... Arialdus ex equestri
progenie trahens originem. ANDREA, cap. I (PURICELLI, pag. 14), Bezo
quidam, cum Beza.... nobiles utrique natione sed nobiliores probitate;
cap. IX, pag. 81: Qui progenie altior erat Landulphus. Tutte queste
notizie concorderebbero se s'intendesse l'_humiliter_ del cronista
milanese in senso relativo non assoluto.

[384] ARNOLFO, III, 13 (PERTZ, 20): Hos tales cetera vulgaritas
hyronice Patarinos appellat. IV, 11 (PERTZ, 28): non quidem industria
sed casu prolatum. BONIZONE, lib. VI (JAFFÉ, pag. 639): eisque
paupertatem improperantes, paterinos id est pannosos, vocabant. Anche
oggi secondo il Cherubini _pattaria_ in dialetto milanese vuol dire,
ciarpe, cenceria, sferre vecchie. E dall'essere denominati patari o
patarini i novatori si disse pataria la loro setta, ed in seguito la
dottrina da loro insegnata. LAND., _Hist._ III, 12 (PERTZ, 81): Cum
cujus inauditae Pataliae placitum cogitasti commovere. III, 9 (PERTZ,
79): Tu solus per execrabilem pataliam flammam .... super nos accendis.
Arnolfo nel luogo citato del libro quarto aggiunge ingenuamente: dum in
quodam etymologiarum tomo nuper plura revolverem, ita scriptum reperio:
Pathos graece latine dicitur perturbatio. Unde justa meae parvitatis
ingeniolum statim conjicio, quod Patarini possunt perturbatores
rite nuncupari, quod plane rerum probat effectus. Si perdona questa
partigiana etimologia al cronista, che ebbe molto a soffrire dalle
agitazioni patariniche; ma non si può perdonare al nostro Cantù
quest'altra etimologia, tolta di peso dalle costituzioni di Federico
II: _patarini furon detti da pati perchè ostentavano penitenza, o dal
pater che era loro preghiera_ (_Gli eretici in Italia_, pag. 77). Cfr.
BREHOLLES, _Hist. dipl._, IV, I, pag. 298: Patarenos se nominant velut
expositi passioni.

[385] Il cronista contemporaneo Landolfo conosce bene questo nesso
dei novatori cogli eretici. Lib. III, 19 (PERTZ, 87). Venientes namque
quidam suburbani diversis, ac variis dogmatibus irretiti, et Arialdus
ipse, et ipse quem animo prae omnibus diligebat, et aliquantis cum
Laicis, qui Girardi de Monteforte sententias fere consentiebant, quos
ipse paulo ut filios complexus deosculabatur ecc. Nel cap. 26 dello
stesso libro viene riferito un discorso del sacerdote decumano Andrea,
ove è notevole questo passo (PERTZ, pag. 93): Forsitan adhuc illa
sententia implicitus es, qua olim illi de Monteforte te imbuerant, qui
omnem christianitatem mulierem non tangere et genus humanum sine semine
virili apum more nasci dicentes, falsis sententiis affirmabant?

[386] Andrea nella vita di Arialdo, cap. IV, 4 (PURICELLI, pag. 78),
attribuisce al santo novatore questo discorso: Ecce Christus clamat:
Discite a me quia mitis sum, et humilis corde. Et iterum de se dicit:
Filius hominis non habet, ubi caput reclinet. Et item Beati pauperes
spiritu, quoniam ipsorum est Regnum Coelorum. E contra vero ut
inspicitis, vestri Sacerdotes, qui effici possunt ditiores in terrenis
rebus, excelsiores in aedificandis turribus et domibus, superbiores in
honoribus, in mollibus delicatisque vestibus pulchriores, ipsi putantur
beatiores. En ipsi, ut cernitis, sicut laici palam uxores ducunt:
stuprum, quemadmodum scelesti laici, sequuntur atque ad nefandum hoc
opus patrandum tanto sunt validiores, quanto a terreno labore minus
oppressi; videlicet viventes de Dono Dei. Possiamo confrontare questo
discorso con le accuse che i Catari faceano alla Chiesa cattolica. (V.
MONETA, pag. 60, e 303). Ecclesia Christi imminentibus tribulationibus
saepe esuriebat .... Romana Ecclesia in divitiis multis est et in
deliciis induta purpura et bysso, et epulatur quotidie splendide
et secure, et stabilis in hoc mundo non laborat manibus suis, sed
ipsa lasciva et otiosa devorat aliorum labores .... Ecclesia Christi
contemnebatur et blasphemabatur a mundo, e converso Ecclesia Romana
a mundo honoratur. Altrettali simiglianze scopriremo nel discorso di
Arialdo riferito da Arnolfo, III, 11 (PERTZ, 19): Pro luce palpatis
tenebras, caeci omnes effecti, quoniam coeci sunt duces vestri sed
numquid potest coecus coecum decere. Nonne ambo in foveam cadunt?

[387] ARNOLFO, III, 14 (PERTZ, 21): Tamen in presenti coetu, quia
Romanus erat, archiepiscopo praesidere contendit. Unde subito factus
est popularis in urbe tumultus, ut nisi cessisset illius humilitas,
quod suum erat, fecisset impetum, non quidem gratia Widonis, sed
Ambrosiani causa honoris. Pietro Damiani, _Opp._, 42, rimprovera
Arnolfo di non aver mantenuta la promessa fatta in quel tumulto, che si
sarebbe chiuso in un convento se avesse avuta salva la vita.

[388] PAÉCH, _Die Pataria in Mailand_, pag. 15; ARNOLFO III, 2 (PERTZ,
pag. 17): Heinricus.... neglecto nobili ac sapienti primi ordinis
clero, idiotum et a rure venientem elegit antistitem, cui nomen fuerat
Wido.

[389] Vedi tra le altre l'importante memoria dello Schupfer: _La
società milanese all'epoca del risorgimento del comune_ (_Archivio
Giuridico_, vol. III-IV, principalmente vol. IV, pag. 308 e segg.).

[390] Il PAECII (op. cit., pag. 24) dimostra questo viaggio molto
probabile, perchè Anselmo ed Ildebrando che nel 18 ottobre erano a Roma
(MANSI, XIX, 866), e nel 27 dicembre sono in Pöhlde (_Mon. Germ._,
VII, 246), avranno ben toccato Milano nel loro viaggio. Io aggiungo
che la notizia di Landolfo (III, 13) è confermata da Bonizone (pag.
640): et confestim misit a latere suo episcopos et cum eis Deo amabilem
Hildebrandum archidiaconum per tacere di Arnolfo (III, 14), che la dà
pure ma molto confusamente.

[391] Pietro Damiani si comportò con molta prudenza, chè a tagliar
corto coi simoniaci le chiese sarebbero rimaste senza sacerdoti. Ma
gl'intransigenti non gli perdonavano questa temperanza. (Vedi BONIZONE,
pag. 643). Quod aliquibus visum est culpabile, sapientibus valde
laudabile. Quod enim laudabilius ea tempestate poterat inveniri, quam
ut talis ecclesia sacerdotio non deperiret? Vedi la lettera di Pietro
Damiani ad Ildebrando riportata in MANSI, 887.

[392] MANSI, _Concilia_, XIX, pag. 907: Si quis apostolicae sedi
sine concordia et canonica electione ac benedictione cardinalium
episcoporum, ac deinde sequentium ordinum religiosorum clericorum
intronizatur, non papa vel apostolicus habeatur.

[393] Ut per laicos nullo modo quilibet clericus aut presbyter obtineat
ecclesiam, nec gratis nec pretio.

[394] PAECH (op. cit., pag. 30), con Giulini e Giesebrecht intende
in questo senso le parole di Arnolfo: accepto ab eo (papa) anulo
apostolicae gratiae ac totius potestatis ecclesiasticae (III, 15;
PERTZ, pag. 21).

[395] Ut nullus missam ad audiat presbyteri quem scit concubinam
indubitanter habere, aut subintroductam mulierem.

[396] _Lamberti Annales_ (PERTZ, _Mon. Script._, V, 218). Adversus hoc
decretum (quello di Gregorio VII contro i preti ammogliati) infremuit
tota fractio clericorum; hominem plane haereticum et vesani dogmatis
esse clamitans qui oblitus sermonis Domini, quo ait: non omnes capiunt
hoc verbum, et apostolus: qui se non continet nubat: melius est nubere
quam uri, violenta exactione homines vivere cogeret ritu angelorum.
_Sigiberti Chronica_ (PERTZ, _Mon. Script._, VI, 862). Gregorius papa
celebrata synodo symoniacos anathematizavit, et uxoratos sacerdotes
a divino officio removit, et laicis missam eorum audire interdicit,
novo exemplo ut et multis visum est inconsiderato praejudicio contra
sanctorum patrum sententiam, qui scripserunt quod sacramenta quae in
ecclesia fiunt, baptisma scilicit, crisma, corpus et sanguis Christi,
Spiritu Sancto latenter operante eorumdem sacramentorum effectum, seu
per bonos seu per malos intra ecclesia Dei dispensentur.

[397] LANDOLFO, III, 5 (PERTZ, 77) crede che Anselmo sia stato
l'istigatore di Arialdo ed Arnolfo. Il racconto del cronista, per
inesatto che sia, come dimostra il Paech, pag. 19, è una chiara prova
delle voci che correvano sul conto del vescovo di Lucca.

[398] ARNOLFO, III, 17 (PERTZ, 22) vorrebbe non credere ad Erlembardo,
tanto gli sembra incredibile quel che ei racconta. Praeterea gloriatur
Arlembardus idem ab ipsa Roma bellicum sancti Petri se accepisse
vexillum contra omnes sibi adversantes. Quod appensum lanceae
homicidiorum videtur iudicium; cum profecto sit nefas tale aliquid
suspicari de Petro, aut aliud habuisse vexillum praeter quod datum est
in Evangelio: _Qui vult post me venire ecc_. Che il vessillo fosse
dato nella prima gita di Erlembardo a Roma è detto da Andrea, cap.
XIV (PURIC., pag. 92), come osserva il Paech contro Giesebrecht, pag.
36. Una conseguenza grave dell'elevazione di Erlembardo a milite della
Chiesa era questa rilevata da Arnolfo, III, 11 (PERTZ, 21): Arlembardus
.... cum esset laycus, quasi fraternae gratia pietatis opus sibi
praesumpsit indebitum .... et quae sunt peccata dijudicans .... Dum
ergo laicus judicat, clericus tantum vapulat.

[399] ARNOLFO, III, 20 (Arlembardus) excommunicationis litteras dedit
archiepiscopo, quod pluribus grande visum est civitatis obprobium
... ad ultimum factis in medio ecclesiae partibus, clamoroso impeto
vicissim in sese consurgunt .... Remansit pene solus Antistes. Quem
pars aggrediens inimica, fustibus crudeliter caesum et quasi semivivum
reliquit. In crastinum visa tanta crudelitate cives horrescunt mente
confusi. Communiter igitur statuunt, aut tantum punire facinus aut
vivere nolle amplius. Unde factum ut fugiens Arialdus .... incidit
manus quaerentium animam ejus .... quem .... penitus interficiunt.
ARNOLFO (III, 30) non parla della nipote di Guido. Bensì Landolfo
(III, 30): juxta locum Legnani a manibus fidelium domnae Olivae, domni
Guidonis neptae, tentus et captus est .... in insula quadam juxta Lacum
Majorem .... vernulae Olivae furialiter in eum prosilientes, linguam
ejus de sub mentonem trahentes, in insula semimortum reliquerunt.
Questo racconto è confermato da Andrea (cap. 29, pag. 108) il quale non
appena si diffuse in Milano la notizia della morte di Arialdo recatosi
presso il Lago Maggiore, ne seppe alcuni particolari da un prete
Martino, altri ne raccolse in seguito; pag. 111: Quapropter nasus ....
cum labio superno est abscissus .... deinde ambo oculi sunt effossi.
Postea vero dextram detruncant manum. Dehine radicitus membrumque
amputant genitale .... postea vero de sub gutture linguam extrahunt.

[400] LANDOLFO, III, 30 (PERTZ, 96) racconta che la salma di Arialdo
fu seppellita in Arce Trevali in apotheca Sancti Ambrosii; ma poscia
pel gran fetore ipsam apothecam aqua usque umbelicum coarctantes
foetorem repleverunt. In seguito alle minacce di Erlembardo, corpus
jamdiu truncatum mulieris (causa) fere emarcidum minimeque propter
aquam in qua jacuerat foetens .... orribile nimis ac visu teterrimum,
illis traditum est. Andrea al contrario (cap. 30, pag. 112) racconta
che l'empia Jezabel, o la nipote di Guido valde fecit saxa ingentia
circa ipsum innecti et in profundum laci demergi, e che in seguito un
fedele di nome Algisio vide in riva al lago il corpo del santo sano e
meravigliosamente candido praeter octo membra quae ei erant cum ferro
amputata. Pare che sia più probabile il racconto di Andrea almeno nella
prima parte, perchè entrambi i cronisti s'accordano nel dire che il
cadavere fu seppellito in acqua, e Landolfo colla virtù dell'acqua
spiega perchè non putisse. S'accordano poi entrambi i cronisti anche
in questo, che i Patarini ripresero le spoglie del martire sulle rive
del Ticino. BONIZONE, pag. 649, dice soltanto: Herlembardus tam dierum
castra propinquorum archiepiscopi obsedit, donec corpus venerabilis
Arialdi ei reddiderunt. Quod Mediolani delatum in ecclesia Sancti Celsi
summo cum honore humatum est.

[401] ARNOLFO, III, 21 (PERTZ, 23). Ad quod sedandum litigium
contigit tunc temporis Maginardum episcopum Silvae candidae et Minutum
cardinalem presbyterum Romanos legatos venisse Mediolanum... deinde
inter clerum judicantes et populum eleganti scripto constituunt quid
fieri debeat in posterum. Si comprende perchè Arnolfo lodi questo
scritto, che prescriveva: neminem predictorum graduum clericum ex
suxpicioni damnari .... nullum clericorum pro cujusquam peccati culpa
in judicio laicorum amodo esse .... illud beneficium quod cuiquam
clericorum aufertur, nullus laicus in suum usum accipiat .... incendia,
depraedationes, sanguinum effusiones, multasque injustas violentias
omnimodo prohibemus ne faciant. MANSI, XIX, 347-48.

[402] ARNOLFO, III, 21 (PERTZ, 23): Arlembardus .... caute subintulit
juramento causam futuri eligendi pastoris post discessum praesentis
.... Archiepiscopus cum tot nequiret imminentes tollerare pressuras,
aevo jam maturus et diuturno languore membris omnibus dissulutus
arbitratus est fore conveniens ut quod ille faciendum praeviderat, ipse
quoque destruendo praeveniret.

[403] BONIZ., pag. 652: animumque regis utpote adolescentis facillime
venatus est. Nam et Pataream promittebat se destructurum et Erlembardum
vivum capturum.

[404] Nelle lettere di Gregorio VII più volte è fatta menzione di
Goffredo. Così nella lettera undecima del primo libro indirizzata
alle contesse Beatrice e Matilde il 24 giugno 1073 (JAFFÉ, II,
21): Longobardorum episcopi .... Gotefredum symoniacum, et ob hoc
excommunicatum atque damnatum sub specie benedictionis maledixerint et
sub umbra ordinationis execratum hereticum constituerint. Cfr. I, 15,
1 luglio 1073 ad Longobardos. Ivi, pag. 26: Gotefredus vivente Guidone
dicto Archiepiscopo mediolanensi eandem ecclesiam .... quasi vilem
ancillam praesumpsit emere. Certo tra i due prelati erano corsi patti,
tanto che secondo Arnolfo (I, 22) Guido riprese il suo ufficio e fece
lega con Erlembardo col pretesto che Gotefredo non avea mantenute le
sue promesse.

[405] Sull'elezione di Attone vedi LANDOLFO, III, 25. Bonizone, (pag.
653) lo chiama Ottonem, ejusdem ecclesiae clericum, nobilem quidem
genere sed nobiliorem moribus.

[406] BONIZ., loc. cit. Il Papa dichiarò nullo il giuramento.

[407] ARNOLFO, IV, 6 (PERTZ, 27): Crisma sacrum, quod unus illorum
dominicae coenae misterio metropolitanae direxit ecclesiae, sicut mos
est deficiente pontifice, profusum humi coram omni populo calcibus
proculcavit, suum producens in medium, a quo confectum vel unde venerit
incognitum. IV, 9 (PERTZ, 28): Liutprandus quidem presbyter nuncupatus
.... jussu ac virtute illius ordinariorum usurpavit officium, venientes
inconsulte baptizans.

[408] Il PAECH cita una lettera del vescovo di Verdun a Gregorio VII
(MARTÈNE, _Thes._, I, 214), ove è riferita la voce che gli atti di
Erlembardo non fossero senza l'approvazione del Pontefice: Vestro illo
praecepto vel motu vel assensu, in partibus Italiae veneranda misteria
.... non effusa, sed et projecta et pedibus conculcata.

[409] BONIZ., pag. 663: Eodem quoque tempore Mediolanensis civitas toto
incendio concrematur .... omnes sive amici sive inimici quasi una voce
clamabant, hoc esse peccatum Paterinorum. Post pascha vero, de repente
congregato exercitu et multitudine conjuratorum Herlembardum nihil
male suspicantem invadunt eumque bellare temptantem in media platea
interficiunt.

[410] Intorno a Tedaldo vedi le lettere di Gregorio VII, III, 8-9,
(JAFFÉ, 214-218). Nel Concilio del 1078 fu sospeso dall'ufficio e
vescovile e sacerdotale insieme a Guiberto di Ravenna (JAFFÉ, p. 305).
Scomunicato di nuovo nel Concilio del 1079 (JAFFÉ, pag. 355) ed in
quello del 1080. Ciò non pertanto resse la Chiesa di Milano per nove
anni, tre mesi e ventun giorno, e morì il 25 maggio 1086. Vedi il
catalogo dei vescovi milanesi, in PERTZ, _Script._, VIII, 104.

[411] GIESEBRECHT, _Geschichte_, III, I, pag. 186, cfr. 132-33.

[412] Vedi il cosidetto _Dictatus Papae_ (MANSI, _Concilia_, XX,
168-69), ove in brevi sentenze Gregorio VII compendia i diritti e le
dignità del Pontefice: Quod legatus ejus omnibus episcopis praesit
in concilio etiam inferioris gradus et adversus eos sententiam
depositionis possit dare. — Quod solus possit uti imperialibus
insigniis. — Quod solius papae pedes omnes principes deosculentur. —
Quod illius solius nomen in ecclesis recitetur. — Quod unicum est nomen
in mundo. — Quod illi liceat imperatores deponere.

[413] Per questa ragione nei concilii posteriori si crede necessario di
ribadire le antiche condanne e così ad esempio nel Concilio di Reims,
nel 1119, Callisto II conferma le sentenze dei suoi predecessori contro
i simoniaci (can. I); contro le investure laicali (can. II); contro
i concubinarii (can. V): Presbyteris et diaconibus, concubinarum et
uxorum contumaciam prorsus interdicimus (MANSI, XX, 236). Il Concilio
lateranense del 1123 fa altrettanto (can. I): ordinari quemquam
per pecuniam vel promoveri .... prohibemus. Can. III: Presbytheris,
diaconibus vel subdianiconibus concubinarum et uxorum contubernia
penitus interdicimus (MANSI, XX, 282). Innocenzo II, nel Concilio
di Clairmont del 1130 sancisce (can. I): Si quis simoniace ordinatus
fuerit .... honore male adquisito careat, et nota infamiae percellatur.
Can. IV: qui a subdiaconatu et supra uxores duxerint aut concubinas
habuerint officio atque beneficio ecclesiastico careant (MANSI, XXI,
438). Nel Concilio lateranense del 1139, infine fu necessario decretare
di nuovo: Si quis simoniace ordinatus fuerit, ab officio omnino cadat
quod illecite usurpavit. VI: Qui .... uxores duxerint aut concubinas
habuerint, officio atque beneficio ecclesiastico careant. II: nullus
missas eorum audiant quos uxores vel concubinas habere cognoverint.
(MANSI, XXI, 527).

[414] GIESEBRECHT, _Arnold von Brescia_ (_Sitzungsberichte der k. Ak.
der Wiss. zu München_, 1873, 1, pag. 139 e segg.). Il Giesebrecht
ben rileva l'importanza che ha per la vita d'Arnaldo l'_Historia
Pontificalis_, pubblicata dall'Arndt nei _Monum. Germ. Hist._ del
PERTZ, XX, 515 e segg. L'illustre storico attribuisce questa cronaca a
Giovanni di Salisbury. Della monografia del Giesebrecht fu pubblicata
per cura dell'Odorici, anche lui biografo di Arnaldo, una traduzione
italiana (Brescia, tip. Appollonio, 1876). Un'altra fonte importante
fu scoperta dall'infaticabile prof. Monaci nella Vaticana. È un poema
del secolo XII che tratta dei _Gesta per imperatorem Fridericum Barbam
Rubeam in partibus Lombardiae et Italie_. Il valore di questa nuova
fonte fu riconosciuto dal Giesebrecht (_Sopra il poema recentemente
scoperto intorno all'imperatore Federico I. Lettera al prof. E.
Monaci._ Roma, 1879). Di questo poema il Monaci pubblicò un frammento.
(_Il Barbarossa e Arnaldo da Brescia secondo un antico poema inedito
esistente nella Vaticana._ Roma, 1878). Vedi anche _Arnaldo da Brescia
e la rivoluzione romana del secolo XII_, studio di GIOVANNI DE CASTRO,
Livorno, 1875, con una compiuta bibliografia sull'argomento. BONGHI,
_Arnaldo da Brescia_, nell'_Antologia_ del 15 agosto 1882.

[415] DE CASTRO, op. cit., pag. 253 e segg.

[416] _Hist. pontif._, cap. 21, in PERTZ, XX, 537. Erat hic dignitate
sacerdos, habitu canonicus regularis, et qui carnem suam indumentorum
asperitate et inedia macerabat. Il BONGHI, pag. 603, interpetra che si
sia fatto monaco agostiniano, diventando più tardi abate dell'ordine.

[417] Poema, v. 153. Vir nimis austerus dureque per omnia vite. Anche
San Bernardo conferma questo tratto; ma, come sempre accade in lui,
l'elogio finisce in iraconda ingiuria. Homo est neque manducans neque
bibens, solo diabolo esuriens et sitiens sanguinem animarum; utinam tam
sanctae esset doctrinae quam districtae est vitae. (Ep. 195).

[418] Poema, v. 172. Namque Sacerdotes reprobos Simonisque sequaces
.... Omnes censebat. _Hist. pontif._, loc. cit. Et contemptus mundi
vehemens praedicator.

[419] Dum episcopus Romam profectus aliquantulum moraretur, sic interim
civium flexit animos, ut episcopum vix voluerint admittere. (_Hist.
pont._, loc. cit.).

[420] È falso che il Concilio lateranense abbia condannato Arnaldo come
eretico. Nè nel canone XXIII, nè nel XXIV è nominato Arnaldo, nè S.
Bernardo sa nulla di questa condanna conciliare, la quale gli avrebbe
porti nuovi e più vigorosi argomenti alle sue accuse. Vedi DE CASTRO,
_Arnaldo da Brescia_, Livorno, 1875, pag. 261, 262.

[421] _Hist. pont._, loc. cit. Ob quam causam a domno Innocentio papa
depositus et extrusus ab Italia, descendit in Franciam, et adhesit
Petro Abelardo partesque ejus cum domno Jacinto, qui nunc cardinalis
est, adversus abatem Clarevallensem studiosius fovit.

[422] OTT., II, 31: Ne perniciosum dogma ad plures serperet, imponendum
viro silentium decernit. I dubbi intorno a questa testimonianza sono
del Giesebrecht.

[423] OTT., II, 20. Petrum Abailardum olim praeceptorem habuerat. Di
questa notizia non dubitano nè il Giesebrecht (pag. 13) nè il De Castro
(pag. 151).

[424] Vedi il passo dell'_Historia pontificalis_ riferito più sopra
confermato da S. Bernardo, ep. 156. Execratus quippe a Petro Apostolo,
adhaeserat Petro Abaelardo, cuius omnes errores, ab Ecclesia jam
deprehensos atque damnatos, cum illo defendere acriter et pertinaciter
conabatur. Ep. 189: Squama squamae conjungitur, nec spiraculum incedit
per eos.

[425] Postquam Petrus Cluniacum profectus est, Parisiis manens in monte
S. Genovefe, divinas litteras scolaribus exponebat apud S. Hilarium
.... Episcopis non parcebat ob avaritiam et turpe questum, et plerumque
propter maculam vitae et quia Ecclesiam Dei in sanguinibus edificare
nituntur. (_Hist. pont._, loc. cit.).

[426] Poema, v. 155. Facundus et audax confidensque sui, vir multe
litterature. S. BERNARDO, Ep. 196, cujus conversatio mel et doctrina
venenum.

[427] Ecco il testo del rescritto: Per presentia scripta fraternitati
vestrae mandamus, quatenus P. Abailardum et Arnaldum de Brixia,
perversi dogmatis fabricatores et catholicae fidei impugnatores, in
religionis locos ubi melius vobis visum, faciatis includere.

[428] Abbatem .... arguebat tamquam vane glorie sectatorem et
qui omnibus invideret, qui alicuius nominis erat in litteris aut
religione, si non essent de scola sua. Obtinuit ergo abbas, ut eum
christianissimus rex ejiceret de regno Francorum. (_Hist. pont._, loc.
cit.).

[429] Al Vescovo di Costanza è indirizzata la lettera 195 che citammo
più sopra. Nec mirum si non horam praevidere aut nocturnum furis
imgressum observare quivistis. Mirum autem, si deprehensum non
agnoscitis, non tenetis, non prohibetis esportare spolia vestra.
Della dimora in Zurigo non ci dice nulla l'_Historia pontificalis_,
ed in questo punto sembra meglio informato Ottone (II, 21): ibique in
oppido Alemanniae Turego officium doctoris assumens, perniciosum dogma
aliquot diebus seminavit. La qual testimonianza concorda colla lettera
surriferita al vescovo di Costanza nella cui diocesi era compresa
Zurigo. (GIESEBRECHT, op. cit., p. 135).

[430] S. BERN., l. c. Melius auferre malum ex vobis. Quamquam amicus
sponsi ligare potius, quam fugare curabit, ne jam discurreret.

[431] S. BERNARDO, lettera 195. Hoc enim et dominus Papa fieri
scribendo mandavit... sed non fuit qui faceret bonum.

[432] Il Giesebrecht (p. 135) dalle parole Francia repulit, Germania
abominatur argomenta a ragione che tanto Arnaldo quanto il legato si
trovassero entrambi in Germania. Questo legato non è dunque Guido di
Castello, che fu poi Celestino II (sett. 1143, feb. 1144), ma un altro
Guido, legato per Boemia e Moravia nell'agosto 1142.

[433] A questo cardinal legato è indirizzata la lettera 196 di San
Bernardo. Si accessit favor vester, erit funiculus triplex, qui
difficile rumpitur... Securus annuntiabit et facile persuadebit quae
volet domesticus et contubernalis legati apostolicae sedis... Favere
huic domino papae contradicere est, etiam et Domino Deo.

[434] Exinde post mortem domni Innocentii reversus est in Italiam, et
promissa satisfatione et obediencia Romane ecclesie a domno Eugenio
receptus est apud Viterbum. (_Hist. pont._, loc. cit.). L'_Historia_
non ci dice le ragioni di questa conciliazione; ma è lecito parmi
argomentarle per congetture come ho fatto nel testo.

[435] S. Bernardo, udita la nuova dell'elezione di Eugenio III, suo
discepolo, scrisse ai cardinali la famosa lettera 237, ove non nasconde
i suoi timori. Parcat vobis Deus, quid fecistis? Nisi Dominus supponat
manum suam, heu necesse est obruatur et opprimatur onere et nimio. Ma
dacchè la cosa è fatta, et sicut multi dicunt, [par che ne dubiti] a
Deo factum est, ei per primo s'inchina al nuovo eletto. E nella lettera
238 che gli dirige lo chiama dominum meum, nè ardisce dargli il nome di
figlio, quia filius in patrem, pater mutatus est in filium. Ma neanche
a lui tace le sue trepidazioni. Ego etsi nomen patris deposui sed non
timorem sed non anxietatem... Altiorem quippe locum sortitus es sed non
tutiorem. E per confortarlo dei suoi consigli nella scabrosa via gli
manda l'aureo opuscolo _De Consideratione_, ove candidamente gli dice:
Non enim si bene te novi, quia pater pauperum factus, ideo non pauper
spiritu es. Monebo te proinde non ut magister sed ut mater.

[436] Anche il Bonghi, p. 617: «Ma come si può spiegare? Arnaldo non
poteva ritornare in Italia senza licenza del Papa, e questa licenza
non era possibile conseguirla senza promettere di rinsavire. Ed
Arnaldo promise. Era già da cinque anni lontano dalla patria sua, se
ne struggeva. E forse in terra straniera non sentiva la sua parola
efficace; non avea amici, conforti, speranze. L'animo che non piegò
avanti alla morte, non resse ad un esilio, per necessità ozioso. O
forse la spiegazione è un'altra». Quest'altra spiegazione ho cercato di
dare quassù forse con troppo lungo discorso.

[437] _De Consid._, II, 6, p. 419. Nam quid aliud dimisit sanctus
Apostolus.... cum ipse dicat: Argentum et aurum non est mihi?.... Esto,
ut alia quacum ratione haec tibi vindices, sed non apostolico jure. Nec
enim tibi ille dare, quod non habuit, potuit. Quod habuit hoc dedit,
sollicitudinem super Ecclesia.

[438] _De Consid._, I, 6. Non monstrabunt ubi aliquando quispiam
apostolorum judex sederit hominum, aut divisor terminorum, aut
distributor terrarum.

[439] _De Cons._, II, 6. Factum superiorem dissimulare nequimus
sed enim ad quid, omnimodo est attendendum. Non enim ad dominandum
opinor.... Disce sarculo tibi opud esse non sceptro, ut opus facias
prophetae. E più appresso: Numquid dominationem? Audi ipsum.... Reges
gentium dominantur eorum (Luc. 22, 55)... planum est, Apostolis
interdicitur dominatus.... si utrumque simul habere voles perdes
utrumque.

[440] IV, 3. Petrus hic est, qui nescitur processisse aliquando vel
gemmis ornatus, vel sericis; non tectus auro, non vectus equo albo, nec
stipatus milite, nec circumstrepentibus septus militibus.

[441] Ivi. Etsi purpuratus etsi deauratus incedens, non est tamen quod
horreas operam curamve pastoralem, Pastoris heres.

[442] _De Cons._, I, 6. Habent haec infima et terrena, judices suos,
reges et principes terrae. Quid fines alienos invaditis? Quid falcem
vestram in alienam messem extenditis?

[443] _De Consid._, I, 6. Itane imminutor est dignitatis servus si non
vult esse major domino suo? ... Quis me constituit judicem? ait ille
dominus et magister (Luc., 12, 14), et erit iniuria servo discipuloque
nisi judicet universos? .... Ergo in criminibus, non in possessionibus
potestas vestra.

[444] Epist. 256 ad Eugenio III dopo l'insuccesso della Crociata.
Exserendas est uterque gladius... Petri uterque est. _De Consid._, IV,
3. Uterque ergo Ecclesiae et spiritalis scilicet gladius et materialis.
Sul quale passo si fonda il Giesebrecht per dimostrare che S. Bernardo
è più gregoriano di quel che si creda. Parmi che l'egregio storico
non abbia tenuto nel debito conto le restrizioni delle quali parleremo
nella nota seguente.

[445] Epist. 256. Uterque Petri est, alter nutu, alter sua manu
evaginandus. Questa stessa restrizione è ripetuta colle stesse parole
nel _De Consideratione_, IV, 3. Sed is quidem pro Ecclesia, ille vero
ab Ecclesia exserendus: ille Sacerdotis, is militis manu, sed sane ad
nutum sacerdotis et jussum imperatoris.

[446] GREGOROVIUS, _Storia di Roma_, lib. 8.

[447] Jam palam cardinalibus detrahebant, dicens conventum eorum ex
causa superbie et avaricie, ypocrisis et multimode turpitudinis non
esse ecclesiam Dei, sed domum negociationis et speluncam latronum,
qui scribarum et phariseorum vices exercent in populo christiano.
Ipsum papam non esse, quod profitetur, apostolicum virum et animarum
pastorem, sed virum sanguineum, qui incendiis et homicidiis praestat
auctoritatem, tortorem ecclesiarum, innocentie concussorem, qui nihil
aliud facit in mundo quam carnem pascere et suos replere loculos et
exaurire alienos. (_Hist. pont._, l. c.). Poema, v. 179:

    Pontifices rebus magnos intricare caducis
    Et pro terrenis celestia spernere, causas
    Nocte, die, precio sumpto trutinare forenses.

v. 186:

    Heu mala romana presertim sede vigere.

[448] Dicebat quod sic apostolicus est et non apostolicam doctrinam
imitatur aut vitam, et ideo ei obedentiam aut reverentiam non deberi.
Preterea non esse homines admittendos, qui sedem imperii, fontem
libertatis romanae, mundi dominam, volebant subjicere servituti.
(_Hist. pont._, l. c.). Il poema, v. 175, aggiunge:

    Nec debere illis populum delicta fateri
    Sed magis alterutrum nec eorum sumere sacra.

Che non si debba nè confessarsi con sacerdoti malvagi, nè ascoltarne le
messe era una massima dei Patarini adottata nei Concilii.

[449] _Hist. pont._, p. 537. Sed pacem tum multa prepediebant, tum
maxime quod ejicere nolebant Ernaldum Brixiensem qui honori urbis et
reipublicae Romanorum se dicebatur obligasse prestito juramento. Et
ei populus Romanus vicissim auxilium centra omnes homines et nominatim
contra domnum papam.

[450] Vedi su questi particolari il GIESEBRECHT, trad. it., p. 33, nota
2.

[451] Secondo il poema Arnaldo imprigionato e condotto al supplizio
non volle ricredersi della dottrina sua, che ei riteneva giusta e
degna di sacrificarle la vita. Tanta fermezza riscosse l'ammirazione
dei presenti, ed anche di Federigo, che ebbe una tarda compassione
per la sua vittima. Codesti versi mi permetto di riferirli tutti, chè
contengono particolari interessanti sugli ultimi momenti di Arnaldo, v.
219 e segg.:

    Hic igitur regi delatus nunc Friderico,
    Judice prefecto romano, vincitur illum.
    Namque jubet rector causam discernere notam,
    Dampnaturque suo doctor pro dogmate doctus.
    Set cum supplicium sibi cerneret ipse parari
    Et laqueo collum fato properante ligari,
    Quesitus pravum si dogma relinquere vellet
    Atque suas culpas sapientum more fateri,
    Intrepidus fidensque sui, mirabile dictu
    Respondit proprium sibi dogma salubre videri
    Nec dubitare necem propter sua dicta subire,
    In quibus absurdum nil esset nilque nocivum.
    Orandique moram petiit pro tempore parvum,
    Nam Christo culpas dicit se velle fateri.
    Tunc genibus flexis, oculis manibusque levatis
    Ad celum, gemuit suspirans pectore ab imo
    Et sine voce deum celestem mente rogavit,
    Ipsi commendans animam; paulumque moratus
    Tradit ad interitum corpus tolerare paratus
    Constanter, penam lacrimas fudere videntes,
    Lictores eciam moti pietate parumper;
    Tandem suspensus laqueo retinente pependit.
    Set doluisse datur super hoc rex sero misertus.

[452] OTTONE, loc. cit.

[453] Un capitolo del Concilio di Guastalla tenuto nel 1106 sotto
Pasquale II incomincia così (MANSI, XX, 1209): Per multos jam annos
regni Theutonici latitudo ab apostolicae sedis unitate divisa est. In
quo nimirum schismate tantum periculum factum est, ut, quod cum dolore
dicimus, vix pauci sacerdotes ant clerici catholici in tanta terrarum
latitudine reperiantur.

[454] OTT. FRISING., II, 20, in PERTZ, _M. G. Script._, XX, 403:
Dicebat enim nec Clericos proprietatem, nec Episcopos regalia, nec
monachos possessiones habentes, aliqua ratione salvari possent. Cuncta
haec Principis esse, ab ejusque beneficentia in usum tantum Laicorum
cadere oportere.

[455] V. GIESEBRECHT, op. cit., III, 2, p. 809-10. Sia dovuto il
pensiero di Pasquale II ad una geniale anticipazione di nuovi tempi,
oppure, come pretende il Giesebrecht, alle necessità del momento che
non gli permettevano di levarsi in altro modo d'impaccio, certo è che
era bene immaturo un così ardito disegno.

[456] _Paschalis Papae II Epist._ (MANSI, XXII, 1007). Ad Henricum
V Imperat. Divinae legis institutionibus sancitum est et sacris
canonibus interdictum, ne sacerdotes curis saecularibus occupantur....
in vestri autem regni partibus, episcopi vel abbates adeo curis
saecularibus occupantur, ut comitatum assidue frequentare et militiam
exercere cogantur: quae nimirum aut vix aut nullo modo sine rapinis,
sacrilegiis, incendiis, aut homicidiis exhibetur. Interdicimus etiam et
sub anathematis districtione prohibemus, ne qui episcoporum seu abbatum
praesentium vel futurorum eadem regalia invadant.

[457] Nel rescritto d'Innocenzo II (MANSI, XXI, 565), Arnaldo ed
Abelardo sono chiamati _perversi dogmatis fabricatores, et catholicae
fidei impugnatores_. Il breve di Eugenio (BARONIO, _Annales_, ad an.
1148) ha: _Arnoldum tanquam schismaticum modis omnibus devitetis_.
Ma nella lettera a Guibaldo lo stesso Eugenio usa la frase, _Arnoldo
haeretico_ (MARTÈNE, _Ampl._, coll. II, 553; JAFFÉ, I, 537).

[458] Anche nel breve di Eugenio III è rilevato in preferenza questo
punto: et cardinalibus atque archipresbyteris suis obedientiam et
reverentiam promittere et exhibere debitam contradicant, vedi pure
GERHOHUS REICHERSPERGENSIS, _De investigatione Antichristi_: Praesules
eorum non episcopi, quemadmodum quidam nostro tempore, Arnaldus
nomine, dogmatizare ausus est plebes a talium episcoporum obedientia
dehortatus. La testimonianza di Geroo è molto importante, perchè
nessun odio di parte gli fa velo alla mente. Anche egli al pari di
Arnaldo deplorava la mistione dei due poteri. Cfr. ad esempio questo
passo tolto dall'opuscolo _De corrupto Statu Ecclesiae_ in GALLANDI,
_Bibl._, XIV, 557. Audiant haec episcopi, qui ultro et contra justitiam
plerumque bella movent .... Officiumque militis et sacerdotis in una
persona confundunt comitis et pontificis dignitatem simul administrant
.... esurimus et sitimus hanc justitiam, ut judicio et negotia
spiritalia per spiritales, saecularia per saeculares ita peragantur, ne
termini a patribus constituti negligantur. Inoltre della fine tragica
di Arnaldo, e dell'odio della Curia Romana portava un severo giudizio;
nè par che credesse alle voci ad arte diffuse in quel tempo, secondo le
quali il Prefetto di Roma avrebbe ordinata l'esecuzione ad insaputa del
Papa: Quem ego vellem pro tali doctrina sua, quamvis prava, vel exilio
vel carcere aut alia poena præter mortem punitum esse, vel saltem
taliter occisum, ut Romana ecclesia seu Curia ejus necis quaestione
careret. Un uomo così schietto merita tutta la nostra fiducia, e se
egli attribuisce ad Arnaldo una dottrina poco ortodossa, non abbiamo
alcun dritto di revocare in dubbio la sua autorità.

[459] MARTÈNE, _Amp._, coll. II, 554; JAFFÉ, I, 539, 43.

[460] II. PET. 2, 1; 3, 14 e 17.

[461] Riscontrate il seguente passo del MONETA, pag. 433: Quod autem
non possint ministrare sacramenta volunt probare haeretici qui Cathari
dicuntur, et etiam Pauperes Lombardi his modis, per illud Matth. V,
v. 13 vos estis sal terrae .... postquam Praelatus evanuit non potest
condire alium .... et ita sacramentorum etiam ministratio facta ab ipso
inefficax est. Istud credunt omnes Cathari et Pauperes Lombardi.

[462] Anche i Catari e più tardi i Valdesi si varranno di questa
citazione. MONETA, pag. 391. Objcit haereticus malo Praelato illud
Jacobi (2, v. 18 ecc.).

[463] Basteranno poche citazioni del Moneta tra le moltissime che
potrei addurre: (pag. 431). Sic objiciunt Cathari et Pauperes Lombardi:
Praelatus Ecclesiae caput est. Quomodo erga membra sana erunt, si
caput est languidum? Inducunt illud Matth. VI, 22, nomine oculi volunt
intelligere Praelatum. Si praelatus est tenebrosus tota Ecclesia
tenebrosa (pag. 432). Inducunt iilud I, Cor. V, 6, nescitis quia modium
frumentum totam massam corrumpit? Ex quo videtur, quod in Ecclesia non
posse esse praelatus malus, nec etiam subdolus.

[464] Bonaccurso (D'ACHERY, I, 214 B), questo solo rimprovera agli
arnaldisti: Quod pro malitia clericorum sacramenta Ecclesiae dicunt
esse vitanda, e loro oppone recisamente: tu qui es qui alienum servum
judices? citammo più sopra i versi del poema che si riferiscono alla
confessione ed alla messa.

[465] Le decretali sono molto chiare su questo punto (Decreti, pars
II, caus. XV, qu. VIII, cap. V). Non potest aliquis quantumcumque
pollutus fuerit, divina polluere sacramenta quae purgatoria cunctarum
contagionum existunt; nec potest solis radius per cloacas et latrinas
transiens aliquid exinde contaminationis attrahere. Qualiscumque enim
sacerdos sit, quae sancta sunt coinquinari non possunt .... cerea
fax accensa sibi quidem detrimentum praestat, aliis vero lumen in
tenebribus administrat, et unde aliis commodum exhibet, inde sibi
dispendium praebet ....

[466] _Epist. Gregorii VII_, 20 (MANSI, XX, 226). _Ad Josfredum
episcopum parsiacensem._ Item relatum nobis est Cameracenses hominem
quemdam flammis tradidisse, eo quod simoniacos et presbyteros
fornicatores missam non debere celebrare, et quod illorum officium
minime suscipiendum foret, dicere ausus fuerit. Quod quia nobis
valde terribile, et si verum est, omnis rigore canonicae severitatis
vindicandum esse videtur, fraternitatem tuam solicite hujus rei
veritatem inquirere admonemus: et si eos ad tantam crudelitatem impias
manus suas extendisse cognoveris, ab introitu et omni communione
ecclesiae auctores pariter et complices hujus sceleris separare non
differas.

[467] Gregorio VII (MANSI, XX, 433). Si qui vero (presbyteri, vel
subdiaconi) in peccato suo perseverare maluerunt, nullus vestrum
eorum audire praesumat officium, quia benedictio eorum vertitur in
maledictionem et oratio in peccatum.

[468] Abbiamo riferito nella n. 1, p. 253 il testo delle decretali
che stabilisce la dottrina cattolica del sacerdote come strumento
passivo. A questi testi così espliciti si opponeva il canone: nullus
audiat missam, da noi riportato altrove, e ripetuto moltissime volte
in diversi concilii a cominciare dal romano di Niccolò II. Al tempo di
Lucio III (1181-1185), quando la lotta delle investiture era finita da
più di un secolo parvero evidenti queste contraddizioni, e l'accorto
papa cerca di schermirsene facendo distinzioni sottili, le quali
servono a ripristinare la dottrina antica. Riscontrate le decretali
gregoriane, lib. III, tit. 2, cap. 7: Lucius tertius .... Vestra
duxit devotio inquirendum et infra. Alicubi dicitur, nullus audiat
missam sacerdotis, quem scit indubitanter concubinam habere. Alibi
vero legitur non potest aliquis quantumcumque pollutus fuerit, divina
polluere sacramenta. .... Ceterum aliud est crimen notorium, aliud
occultum, notorium diffinitur, de quo presbyter canonici condamnatur;
occultum quod ab ecclesia toleratur. Caeterum aliud est quando
crimen notorium non diffitetur presbytero, vel de ipso est canonice
condamnatus; aliud est pene occultum, quod ab ecclesia toleratur. Item
aliud est a talium officiis abstinere, ut peccandi licentia caeteris
auferatur, et hujusmodi ad poenitentiae fructum trahantur; atque aliud
si totum tamquam in fornicatione jacentium misteria respuantur. Sine
dubitatione itaque teneatis quod a clericis et presbyteris quamquam
fornicariis, quamdiu tolerantur, nec habent operis evidentiam, licite
divina misteria audiantur et alia recipiantur sacramenta ecclesiastica.

[469] Il De Lauro, abbate cassinese scrisse un'apologia dell'abbate
Gioacchino, facendo tesoro di un'antica biografia pubblicata prima
di lui dal Greco. Ma come si vedrà in seguito è tale la mancanza
di critica e l'inesattezza dell'apologista cassinese, che possiamo
pochissimo giovarci dell'opera sua. Non so comprendere perchè il
Rousselot (_Joachim de Flore_, Paris 1867) si serva della vita
del Barrio, attinta alle stesse fonti di quella del Greco, ma con
minore accorgimento. La vita del Greco, ristampata dai Bollandisti
fu ricavata da una cronaca antica, come dice lo stesso autore (_Acta
Sanctorum_, Maggio, VII, 123). Omnia quae descripsimus [novissimo
excepto, quod de ore fratris Andreae accepimus] de libello manuscripto
in monasterio S. Joannis de Flore [existente] a tempore monachatus mei
in eodem monasterio, quod fuit sub anno Domini millesimo quingentesimo
octogesimo sexto, transcripsimus et adnotavimus, nec de eorum
substantia aliquid addidisse, diminuisse, aut immutasse, tantum aliis
verbis retulisse, sub eodem Domini juramento confitemur. Qui quidem
libellus tum vetustate tum etiam usu cum quadam quasi difficultate
legebatur.

[470] Il primo di questi documenti riportati dall'Ughelli (_Italia
Sacra_, Venetiis 1721, IX, 453), si riferisce alla fondazione di una
casa florense. Anno Domino Incarnationis 1201 mense Septembris 5 ind.
.... Nos Simon de Mamistra Dominus Fluminis Frigidi .... proposuimus
aedificare domum Religionis infra fines terrae nostrae Fluminis
Frigidi .... vocavimus vos Domine Joachim venerabilis Abbas Floris
rogantes vos omni devotione, quatenus tam administrationem ipsus
monasterii, quam ipsum monasterium acciperetis in manus vestras et
successorum vestrorum. Questa donazione fu confermata da Riccardo
vescovo di Tropea, il quale vi aggiunse la chiesa di S. Domenica e
di S. Pietro e altri beni e diritti come risulta dalla lettera papale
di conferma. Ma nel frattempo l'abate Gioacchino era morto, perchè la
lettera del vescovo tropeano del giugno 1202 riportata nella bolla di
conferma d'Innocenzo III è indirizzata all'abate Matteo, successore di
Gioacchino, e ricorda quest'ultimo come già morto [venerabili quondam
abbati Joachim]. La determinazione del giorno della morte è data dal
Papebrochio nelle note al Greco.

[471] GRECO, 96 B. Succedente vero Paschatis festo, paratis sibi
vestimentis novis sui ipsius spiritum amoris vigere percepit, eoque
impulsus coepit de temporalibus cogitare, atque illorum voluptatibus
solicitari. Riportato quasi a parola dal De Lauro, che solo vi aggiunge
di suo, essere accaduto questo invanimento cum Bizantium pervenisset,
mentre invece il Greco mette in Bizanzio il ravvedimento.

[472] GRECO, loc. cit. Ceterum ad Thraciae Bosphorum Byzantium
ingressus, ibidem, tangente manu Domini urbem illam, plurimum hominum
multitudinem interire conspexit qui se cernens absolutum periculo,
prorsus se mundo renuntiaturum vallavit. Anche Valdo allo spettacolo
della morte sente sorgere in lui una nuova vocazione. Il De Lauro che
copia quasi a parola dal Greco, tace questa circostanza.

[473] Gioacchino stesso raccontava questo aneddoto all'amico suo Luca
(BOLL., loc. cit., pag. 93 F). Retulit mihi aliquando cum in Syria
juvenculus, habitu jam Religionis assumpto, solus fuisset apud quandam
viduam hospitatus; illa in eum oculis impudicis intuens, lasciviis
ipsum ad crimen invitare tentavit, sed servus Dei resistit sapienter
et fortiter. V. DE LAURO, cap. 8º, p. 12, che al suo solito amplifica
il racconto, e lo trasporta dalla Siria all'Asia Minore, interpetrando
male la frase del Greco, p. 98 A: in ea Asiae parte quae Euphrate ac
mediterraneo mare concluditur.

[474] GRECO, 97 F. Nam tria opera exorsus fuit, quae omnia felici
consummatione complevit. GREGORIO, cap. VI, riportando a questo
tempo la visione della quale parla Gioacchino nell'_Esposizione
dell'Apocalisse_, cap. I, testo 13 [contro questa anticipazione vedi
le giuste osservazioni del Papebrochio] dice: nam difficultates omnes,
simulque quaestionum involucra perspicaciter vidit, memoriter tenuit et
spiritualiter intellexit (!!!)

[475] GRECO, p. 98 C. Qui vallem Chratis ingressus, justa Bisentium
gradiens, urbem Consentiae, ne forte agnosceretur, abhorruit. Io non
so capire come mai Gioacchino, tornato in patria con alti intendimenti
religiosi, si nascondesse per non essere conosciuto da quegli stessi
conterranei tra i quali non avrebbe dovuto tardare di spargere la
parola del Signore. Parmi, o io m'inganno, che questo racconto sia
fatto tutto nell'intendimento retorico dell'incontro di padre e
figlio, che si scambiano discorsi pieni di reminiscenze classiche, e di
citazioni bibliche. GRECO, loc. cit. e DE LAURO, pag. 15.

[476] GRECO, 98 E: Licet enim in ipso monasterio adhuc Regulae jugo
colla non subdidisset. Questo fatto vale a spargere un po' di luce
sulla cronologia di Gioacchino. L'abbazia di Sambucina, filiale di
quella di Casimari, fu fondata, secondo il Papebrochio, nel 1157, come
apparisce da una antica cronologia manoscritta, (v. nota 9, al cap.
2 del GRECO, pag. 99 C.). La data del 1160, riportata dal Manrique
si riferisce probabilmente agli atti posteriori di dotazione. Il De
Lauro la crede invece fondata molto prima, ma non per altra ragione
se non per non essere costretto a fare Gioacchino più giovane di quel
che vuole lui. Infatti se Gioacchino è nato nel 1111, ammesso anche
che fosse entrato nell'abbazia di Sambucina nello stesso anno della
fondazione, avrebbe contati 49 anni. Ma noi abbiamo mostrato più sopra
che la cronologia del De Lauro tutta fondata sopra il fatto della
famosa profezia non regge alla critica. Ed ammettendo col Papebrochio
che Gioacchino nacque intorno al 1131 avrebbe contati dai 26 ai 27 anni
quando entrò nel convento di Sambucina tra il 1157 e il 1158.

[477] Joachim Dei famulus, aestuans spiritus fervore concepto a
memorato coenobio Cistercensium Sambucinae secedens, contra elatae
vallis Chratis terram, ubi Bucchita est nomen, juxta Rendarum oppidum
transvolavit (GRECO, 99 D).

[478] Il cronista (99 E) racconta il fatto nel modo che torni più ad
onore di Gioacchino; ast in agro dominico uberiores fructus in dies
se producere comperiens, scrupolositate quadam turbatus fuit, metuit
siquidem absque praevia Episcopi ordinatione praedicationis munus
exercere. Più appresso soggiunge: Propterea Cathazarii civitatem ad
tale munus habendum, devotione maxima non imparatus adire constituit.

[479] Questa notizia la tolgo dall'opuscolo del De Riso _Sull'abbate
Gioacchino_, pag. 143, nota 11, che cita un catalogo antichissimo
manoscritto dei vescovi catanzaresi. Se la data del 1168 è vera,
bisogna inferire che per dieci anni Gioacchino continuasse a menar la
vita da laico dopo l'uscita dal monastero di Sambucina (dato che ivi
sia entrato nel 1158). E gli ordini gli avrebbe presi a 37 anni. Il
De Riso che accetta la data del Lauro dovrebbe ammettere che li abbia
presi a 57 anni e non a 50.

[480] GRECO, 99 F. Insciis fratribus ex monasterio recessit, et
in cenobium Sanctae Trinitatis ad oppidum Acrae aufugit et inde in
Sambucinam repedavit .... sciens tandem nolle acquiescere esse quasi
peccatum ariolandi, in communi exaltatione abbas in Curatium rediit.

[481] Il documento comincia così: Redemptoris nostri anno millesimo
centesimo septuagesimo octavo et tertio decimo regnante Domino
Guiglielmo gloriosissimo rege Siciliae tertio decimo mensis februarii,
duodecimae Indictionis nos Gualterius de Moac Regii fortunati Stolii
ammiratus .... dum essemus in Baroli pro regiis agendis, Joachim
venerabilis abbas Sanctae Mariae de Curatii detulit sacras litteras a
Sacra Regia Majestate, quarum continentia talis est: segue la lettera
datata, Panormi duodecimo die mensis Decembris indictione duodecima.
Il De Lauro, pag. 83 crede che la prima data sia sbagliata, e che la
seconda si riferisca all'anno 1149, primo di Guglielmo il Malo, in
cui ricorreva la duodecima indizione (anche il Greco diceva che questa
lettera fosse di Guglielmo il Malo). Il Papebrochio, pag. 92 D, invece
ritenendo giusta la data del 1170, riferisce la lettera a Guglielmo II,
il quale infatti salito al trono nel maggio 1166 contava tredici anni
di regno nel 1178.

[482] Che sia fuggito dal monastero si raccoglie da un luogo degli
_Statuta Capituli generalis_ (MARTÈNE, IV, 1272). Le ragioni della
fuga le adduce egli stesso nella prefazione al _Salterio_, fol. 227,
col 1-2. Sed cum mihi qui (ut jam videbatur) cogitatione et aviditate
illius superne civitatis habitator effectus, fruebar secundum
interiorem hominem non modica visione pacis, accidere illud quod
sibi multi etsi frustra accidisse queruntur, ut rursum ecclesie cura
rei familiaris cogeret implicari negotiis monasterii, quae secundum
cujusdam coloris sui speciem vere secularia sunt, aut pene secularia
judicanda, compulsus sum iterum cum cordis gemitu non sine formidine
exclamare: Heu mihi quam incolatus meus prolongatus est ecc.

[483] GRECO, 102 A. Ceterum comperiens Pontifex (Lucius III), quanta
Joachim spiritus illustratione fulgeret, superindictae scribendi
facultati adjunxit pro talenti multiplicatione, ut de cetero, deposito
temporalium monasterii onere enodandis sacrae paginae arcanis se
dederet .... 102 B. At Romani Pontificis auctoritas, expetita seniori
consilio suspendens, Joachim et ab onere Curatii absolvit et alibi
consedendi potestatem adjunxit.

[484] BOLL., pag. 93 C. Ego Luca archiepiscopus cusentinus, anno
secundo Pontificatus Domini Pape Lucii (cioè nel 1182) jam monachus,
primo in Casa Marii, vidi virum nomine Joachim tunc abbatem Curatii
.... Mansit autem in Casa Marii sedulo quasi anno uno et dimidio,
dictans et emendans simul librum Apocalipsis et Concordiae. Che anche
il _Decacordo_ fosse cominciato a Casamari lo dice Gioacchino stesso
nella prefazione a quel libro, fol. 227, col. 2.

[485] Loc. cit. Tunc coram eodem Domino Papa et Consistorio ejus,
cepit revelare intelligentiae Scripturarum, et utriusque testamenti
Concordiam.

[486] Cum ergo, jubente et exhortante te beatae memoriae Lucio Papa
praedecessore nostro expositionem Apocalipsis et opus Concordiae
inchoasse et postmodum de Papae Urbani auctoritate composnisse
judicaris. Lettera di Clemente III, in GRECO, pag. 102 A. Contro queste
due testimonianze cadono tutti gli argomenti del De Lauro, pag. 59-60,
che vuole sia stato papa Urbano e non Lucio che abbia dato a Gioacchino
la licenza di scrivere il commento sulla Bibbia, ed il permesso di
allontanarsi dall'abbazia.

[487] La gita ad Urbano III è raccontata da Vincenzo Beauvais,
_Specul. hist._, lib. 29, cap. 40. Per hos dies venit ex Calabriae
partibus ad Urbanum papam Veronae commemorantum quidam ab. Joachim
de quo ferebant quia eum primum non plurimum didicisset, divinitus
accessit intelligentiae donum, adeo ut facunda disserteque enodaret
difficultates quasdam Scripturarum. Al tempo del Beauvais s'era già
cominciato a formar la leggenda; ma le fonti più autorevoli come Luca
non sanno nulla di questa voluta ottusità primitiva, la quale serve
mirabilmente a rilevare il merito e l'ispirazione divina del Profeta.

[488] Et veniens ad nos quam citius se opportunitas dederit,
discussioni apostolicae sedes et judicio te praesentes (lettera di
Clemente, loco cit.).

[489] Vedi ad esempio _Expositio in Apoc._, fol. 80, col. 3. Plura sub
quinto cursu ecclesiastici temporis sub beati Benedicti nomine fundata
esse monasteria, que et usque ad presens tempus perdurant, in quibus
aliquanto regule capitula ita absorta sunt ac si non sanctus Benedictus
ediderit, ut est precipue de opere manuum, et de abstinentia ciborum ac
potus, quod ideo accidisse cognoscitur quia dum divites esse voluerunt
sub regule paupertatis facti sunt delicati et facti sunt invalidi et
infirmi, facti sunt quibus lacte opus sit, non solido cibo. Ne mirum.
Quis enim unquam inter divitias et delitias potuit tenere inopem vitam
et castitatis propositum ubi multi sunt cibi. Taceo quod infra urbes et
vicos pluraque monasteria sita ecc.

[490] GRECO, pag. 102 C, dice che Pietralata si chiamò anche Pietra
dell'olio: et hoc non immerito, unctionem etenim Domini in se non parum
proficisse cognovit.

[491] Si potrebbe sospettare che questo luogo fosse chiamato Fiore
dopo la fondazione dell'abbazia a simboleggiare che da quel tempo le
stanze di feroci animali furon mutate in ameni giardini. Ma il Greco
dice al contrario che si chiamasse già Fiore, 105 B: Placuit ergo, Deo
disponente in Albanetho (parola inventata forse dal Greco stesso dai
duo fiumi Arvo o Albo, e Neto) ubi proprie de Flore est nomen, vestigia
premere. Lo stesso dice De Lauro, pag. 67. Potrebbe sospettarsi che
il luogo si chiamasse Fiore, dal nome di qualche famiglia, che vi
possedeva; ma non saprei dir altro.

[492] DE LAURO, pag. 68. A Petra Olei prorsus recesserunt anno
Domenicae nativitatis 1189 die 18 mensis Julii 6ª indictione, in
utraque Sicilia bono Guillelmo regnante, pace ubique vigente.

[493] DE LAURO, pag. 100. Celestinus Episcopus servus servorum Dei.
Dilectis filiis Joachino abati et conventui de Flore salutem et
apostolicam benedictionem .... Datum Romae octavo Kalendas Septembris
Pontificatus nostri anno sexto. [Celestino fu consacrato il 14 aprile
1191].

[494] Il decreto imperiale riportato dal Greco, pag. 108 E. Henricus
Sextus, divina favente gratia Romanorum imperator semper augustus
et rex Siciliae .... innotescat quod nos attendentes honestatem
et religionem abbatis Sancti Joannis de Flore, dilecti nostri,
constituimus perpetuo pro redemptione animae nostrae monasterio ejus
quinquaginta aureos Byzantinos de redditibus salinae de Netho ....
Datum apud S. Maurum anno Dominicae incarnationis millesimo centesimo
nonagesimo quinto.

[495] Gioacchino stesso al di sopra dell'eloquenza mette la
contemplazione. Così nell'_Apocalisse_, fol. 48, col. 4: Proprietas
predicandi verbi est incarnati; proprietas spiritus sancti silentium
magis expectat quam sermonem, et nequaquam vociferando ingerat, sed
silendo inspiret. E nella _Concordia_, III, a, 8, fol. 31, col. 4:
Commmutandus est status Ecclesiae de Lia in Rachel, de verbi eloquentia
ad spiritualem intellectum, de frondium pulchritudine ad soavitatem
pomorum. Hoc est enim illud: nisi ego abiero, paraclitus non veniet ad
vos (JOH., XVI, 7). Nota verbum et signa mysterium. Omnis eloquentia
pertinet ad verbum, omnis intelligentia spiritualis ad spiritum ....
Fol. 32, col. I: precessit regum tempore eloquentissimus Esaias qui
dicit: Ecce ego mitte me. Secutus est Hieremias qui dicit: nescio
loqui quia puer sum. Precessit Paulus facundissimus predicando in
Asia, secutus est Joannes cujus sermo despicabilis est, sed tamen
spiritualis gratie ubertate fecundus. Quin mo quod utilius fiat dominus
ipse demonstrat sum dicit: (JOH., XVI, 1) «Ego veritatem dico vobis,
expedit vobis ut ego vadam; si ego non abieroparaclitus non veniet ad
vos, si autem abiero mittam eum ad vos». Tale est enim ac si diceretur:
nisi cultum eloquentie subtraho, in quo carnalis pascitur intellectus,
propter eos quibus lacte opus erat aliquando et non solido cibo,
spiritualem intellectum accipere non potestis. Eo nempe circa spiritum
mens declarari nequit quo magis animus pascitur suavitate verborum, et
eo plus fructus spiritus quante sit dulcedinis sentitur, quo quicquid
foris resonat carnalibus hominibus et infirmis seponitur.

[496] Questa sola profezia delle tre ricordate dal Greco è conosciuta
dal Salimbene, pag. 4. Ideo verificatum videtur in Friderico verbum
abbatis Joachim, quod dixit Imperatori patri ejus quaerenti de filio
suo cum adhuc esset puer, qualis esset futurus, respondit: perversus
puer tuus, nequam filius et heres tuus o princeps. Nam dominus turbabit
terram, sanctos altissimi conteret. Omnia ista in Friderico impleta
fuerunt, ut vidimus oculis nostris qui nunc sumus in MCCLXXXIII.

[497] Che la pace tra la Chiesa e l'Impero non abbia a durare
Gioacchino lo dice chiaramente più volte. Vedi ad esempio nella
_Concordia_, III b, 6, fol. 41, col. 4: Quantum tamen secundum
coaptationem concordie exstimare queo, si pax conceditur ab his malis
usque ad annum millesimum duecentesimum incarnationis dominice; exinde
ne subito ista fiant, suspecta mihi sunt omnimodis et tempora et
momenta. Parimenti IV, 22, fol. 54, col. 2: hoc totum imputandum est
inertie sacerdotum qui consolantur eam dicentes: pax pax cum non sit
pax, de quibus dicitur: (_Threni_, II, 14) Prophete tui viderunt tibi
falsa et stulta, nec aperiebant ignominiam tuam ut te ad penitentiam
provocarent.

[498] Sulla Crociata del 1190 Gioacchino non ricorda previsioni da lui
fatte, ma scrive invece melanconiche riflessioni, che mostrano come ei
poco fidi nel valore delle armi cristiane. Cito l'_Apocalisse_, fol.
134, col. 4, riserbandomi di citare altrove un luogo parallelo della
_Concordia_: Dictum est autem: quod siccande essent aque Eufratis ut
preparetur via Regibus ab ortu solis, quod sine gemitu dicendum non
est, initiatus quedam terribilis jam precessit, super eo scilicet
quod nuper accidit super inclito illo exercitu Frederici magni et
potentissimi imperatoris et aliis exercitibus populi christiani qui
transeuntes mare in infinita multitudine, vix in paucis reliquiis pene
sine effectu remearunt ad propria.

[499] _Apocalisse_, fol. 207, col. 4: Que omnia quidem ventura esse
credendum est; sed quibus modis et quo ordine veniant magis tunc
docebit rerum experientia. Fol. 210, col. 4: Quo consumato prelio erit
magna pax qualis non fuit a principio seculi, cujus terminus erit in
arbitrio Dei.

[500] Sui profeti dell'antico Testamento e principalmente su Ezechiele
vedi le belle pagine del Castelli: _La profezia nella Bibbia_, Firenze,
Sansoni, 1882, pag. 378 e segg.

[501] _Concordia_, II, 1, fol. 18, 3: Invenimus Helisabette concordare
cum Sarra quia utraque sancta mulier sterilis fuit, utraque visitata
divinitus concepit, et peperit in senectute sua. Utraque autem antiquam
illam hebraeorum designavit ecclesiam .... Cum vero libere Sarrae
jungitur Agar ancilla, tunc profecto Sarra mutat significationem.
Illa enim vetus, haec novum significat testamentum .... Cum vero Agar,
amota eidem Sarra, jungitur Rebecca, tunc Sarra significat synagogam
quae defuncta est, quare defuit in fede; Rebecca vero ecclesiam quae
intravit et obtinuit tabernaculum ejus. III, 1, 16, fol. 32, col. 4:
Igitur Helias qui aliquando et alicubi designat Spiritum Sanctum, in
hoc loco (MALACH., IV, 5) et in aliis significat Christum.

[502] Vedi ad esempio la _Concordia_, IV, 24, fol. 53, col. 4: Sicut de
nostra temporis hujus angustia quam a diebus, ut jam diximus, Leonis
pape et Henrici theotonicorum regis olerantes portamus, illud quod
nobis proprium est silentio non expedit preteriri, imo nec sine cordis
gemitu et dolore proferre Hieremie increpationem, que peccata judeorum
enumerans in nos, qui christiani dicimus et non simus, redundat.

[503] _Histoire lettéraire_, XVI, pag. 438; 540-41. Mi piace
riprodurre il passo del cronista inglese, pubblicato prima dal
MARTÈNE, _Amplissima collectio_, V, 839, e poi dal BOUQUET, XVIII, 76.
Hac tempestate extitit quidam abbas non longe ab urbe Roma, ordinis
cisterciensis, sed cisterciensibus minime subjectus, qui quamdam
Expositionem in septem visiones Apocalypsis edidit, accepta, ut ajunt,
divinitus sapientia cum fere esset prius illiteratus. In hac autem
expositione evidenter ostendit vetus Testamentum Novo concordare ....
Quintam vero persecutionem quam sub quinta visione ..... dicit agi
temporibus nostris a Saladino ..... Dicit etiam quod anno Dominicae
incarnationis MCXCIX incipit sexta visio et sexti sigilli apertio,
sub qua visione probat auctoritate Apocalypsis, quod complebitur
omnis antichristi persecutio et ejusdem mors et perditio, sed ante
ejus persecutionem dicit evangelium Christi ubique praedicandum. Post
antichristi vero imperium quot annorum vel dierum fieret expletio
sigilli sexti, id est, mortuorum resurrectio et septimi sigilli
inchoatio, id est, sanctorum aeterna glorificatio, soli Deo cognitum
esse fatetur.

[504] Le tre opere sono state pubblicate in Venezia nel 1517 la prima,
e nel 1527 le altre due. Il Preger ne ha combattuta l'autenticità nella
memoria letta all'Accademia di Monaco, _Das Evangelium aeternum und
Joachim von Floris_, München 1874. Il Reuter confuta la dimostrazione
del Preger nella sua grande opera _Geschichte der religiösen Aufklärung
im Mittelalter_, II, 356-60.

[505] PREGER, op. cit., pag. 22 che cita SALIMBENE, _Chronicon_, pag.
85. Hic est Leo I qui secundum abbatem Joachim concordiam habet cum
Josaphath Rege Judae (vide in libro figurarum Joachym et in libro
Concordiae).

[506] SALIMBENE, pag. 325: quia Expositionem abbatis Joachym super
Apocalypsim habebam, quam super omnes alias reputabam.

[507] Il _Liber figurarum_ è citato altre due volte (vedi pag. 124 e
224). Che il Salimbene faccia più conto dei libri apocrifi si raccoglie
da questo passo, ove parlando delle opere di Gioacchino, mette in prima
linea l'esposizione di Geremia, pag. 102. Hi duo sollicitabant me ut
scriptis abbatis Joachim crederem et in eis studerem. Habebant enim
expositionem Joachim super Jeremiam et multos alios libros.

[508] PREGER, op. cit., pag. 27, che riferisce questo passo della
_Cronaca_ pag. 103. Igitur abbas Joachim non limitavit omnino aliquem
certum terminum, licet videatur quibusdam quod sic. Sed posuit plures
terminos dicens: «Potens est Deus adhuc clariora demonstrare mysteria
sua et illi videbunt, qui supererunt».

[509] Fol. 135, col 2. De exhibendo vero misterio hujus numeri nemo
mihi molestus fit, nemo me ultra statura limitem transire compellat,
_potens est enim Deus clariora adhuc facere mysteria sua_; fol. 134,
col. 2, si queris dierum numerum non est meum dicere neque scire; quod
nobis datum est hoc solvimus.

[510] PREGER, pag. 27, che cita il luogo della _Concordia_, fol. 95,
dove dopo aver paragonato Assalonne il figlio ribelle, all'Anticristo,
aggiunge: nisi forte quia Antichristi multi erunt aliquis dicat in
Absalon non significari illum maximum persecutorem, quem Dominus
Jesus interficiet spiritu oris sui, sed aliquem alium secundum quod
jam romanam sedem legimus aliquos usurpasse, et nuper sub Federico
imperatore accidisse comperimus.

[511] _Conc._, IV, 1, fol. 42, col. 3: .... Sicut ergo sunt arbores
silve plurime, que in stipitibus sunt similes, sed tamen in ramis
foliisque dissimiles, sic et duo testamenta in rebus quidem generalibus
similia sunt, sed in specialibus dissimilia.

[512] PREGER, pag. 29-30. La lettera di Gioacchino è premessa
nell'edizione a stampa così alla _Concordia_ come al _Commento
dell'Apocalisse_.

[513] Fol. 229, col. 2. Neque ut tres ramos uni radici infixos, ut
substantiam radicem et tres ramos ipostasis arbitraris _juxta aliquorum
perfidiam_, quod est inducere quaternitatem. Ivi, col. 3: Item quod
his nequius est, nescio que tria preter substantiam _nova adinventio_
assignare presumpsit.

[514] Sulle antiche testimonianze, che provano l'autenticità delle tre
opere, vedi il RENAN, _Joachim de Flore et l'Évangile éternel_ nella
_Revue des deux mondes_; tome LXIV, pag. 98.

[515] Fol. 227, col. 2. Cum essem apud cenobium Case maris.... accidit
in me velut haesitatio quaedam de fide Trinitatis ecc. Questa fu
l'occasione, che gli fece scrivere il _Decacordo_ dopo la _Concordia_
(quod opus incepimus primo) e l'_Esposizione dell'Apocalissi_, quae
(ignorante me omnimodis exitum rei) nescio qua Dei providentia ex eadem
nascendo processit.

[516] _Apoc._, fol. 134, col. 2. Mirum quod praeterito anno veniens
qui dam vir satis (ut apparebat) providus et timens Deum a partibus
Alexandriae, in quibus detentus fuerat in vinculis, dixit se audisse
a quodam magno Sarraceno mississe Patharenos Legatos suos ad illos
postulantes ab eis communionem et pacem .... Hoc audivi ipse ab eodem
viro in civitate Messana, anno millesimo centesimo nonagesimo quinto
incarnationis dominis tertie decime indictionis.

[517] _Apoc._, fol. 26, col. 3. De quibus in secundo libri psalterii
sufficienter diximus.

[518] Ho sott'occhi parecchie edizioni di questi vaticinii col commento
di Paolo Scaligero. Pauli Principis de la Scala et Hungariae Marchionis
Veronae etc. Domini Creutzburgi Prussiae, primi tomi miscellaneorum
de rerum caussis atque successibus, atque secretiori methodo ibidem
expressa effigies ac exemplar nimirum vaticiniorum et imaginum Joachimi
abbatis Florensis Calabriae et Anselmi episcopi marsicani super
statu summorum Pontificum romanae ecclesiae, contra falsam iniquam
vanam confictam et seditiosam cuiusdam Pseudomagi, quae nuper nomine
Theophrasti Paracelsi in lucem prodiit, pseudomagicam expositionem,
vera certa et indubitata explanatio, Coloniae Agrippinae ex officina
typografica Theodori Graminaei anno MDLXX. Dei trenta vaticini i primi
quindici sono attribuiti a Gioacchino. Il primo vaticinio si riferisce
a Papa Niccolò III (1277-80), qui non veretur decalvare sponsam
ut comam ursae nutriat; il quindicesimo si riferisce a Urbano VI
(1378-89), fera crudelis universa consumens.

[519] Il Salimbene, pag. 176, conosce questi commenti: scripsit etiam
sibi (cioè all'imperatore Enrico VI). Espositionem Sybillae et Merlini
anno Domini MCXCVI. La Sibilla, di cui qui si fa parola è l'Eritrea,
che vien citata insieme alla Tiburtina in questo altro luogo (pag.
62). Verba sunt ista cujusdam Sybillae sed non inveni ea nec in
Erithrea nec in Tyburtina. Scripturas aliarum non vidi. Di queste
opere io non conosco alcuna stampa. Un libercolo, stampato a Venezia,
promette nell'intestazione di pubblicare il commento di Gioacchino
alle profezie di Cirillo, ma poi in luogo di un opuscolo attribuito a
Gioacchino ne stampa un altro di Telesforo Cosentino, abbreviato da
un frate Rusticiano. Non sarà inutile riprodurre l'intestazione del
libro, ed il principio dell'opuscolo sulle ultime tribulazioni. Haec
subjecta continentur in hoc libello Expositio magni prophetae Joachim
in librum beati Cirilli de magnis tribulationibus et statu sancte
matris Ecclesie ab hiis nostris temporibus usque ad finem seculi, una
cum compilatione ex diversis Prophetis novi ac veteris testamenti. —
Item explanatio figurata et pulchra in Apocalypsim de residuo statu
Ecclesie et de tribus veh venturis debitis semper adjectis textibus
sacre scripture ac prophetarum. — Item tractatus de antichristo
magistri Joannis Parisiensis ordinis predicatorum. — Item tractatus de
septem statibus Ecclesie devoti doctoris fratris Ubertini de Casali
ordinis minorum. Venetiis per Bernardinum Benalium (p. 5.). Incipit
liber de magnis tribulationibus in primo futuris, compilatus a docto
et devoto presbytero et heremita Theolosphoro de Cusentia provincia
Calabriae, collectus vero ex vaticiniis novorum prophetarum seu beati
Cirilli, abbatis Joacchim, Dandoli et Merlini ac veterum Sibillarum.
Deinde abbreviatus per venerabilem fratrem Rusticianum .... addidi
sane paucissima locis opportunis predicta a sancto Vincentio nostro et
Brigida. In un codice della biblioteca laurenziana (pluteo LXXXIX, cod.
XLI, a pag. 103) va sotto il nome di Gioacchino il _Liber Sybillae_,
già pubblicato tra le opere di Beda ediz. Basilea, II, 251.

[520] Il commento di Alano di Lilla pubblicato a Francoforte il 1608
(l'_Hist. lit._, XIV, 420, dice: 1603). Ecco il titolo: Prophetia
Anglicana et Romana — hoc est — Merlini Ambrosii Britanni ex —
incubo olim ante annos — mille ducentos in Anglia nati vaticinia,
a Galfredo Monumetensi latine conscripta — una cum — septem libris
explanationum in eandem Prophetiam, excellentissimi sui temporis
oratoris — Polyhistoris et Theologi, Alani de Insulis, — Germani,
Doct. universalis et Academ. Paris ante — annos 300, Rectoris amplis.
Addita sunt vaticinia — et praedictiones Joacchimi abbatis Calabri
qui vixit circa annum 1200. Una cum annotationibus et explicatione
Joannis — Adrasder. — Opus nunc prinum pubblici juris — factum et
lectoribus ad historiarum multarumque — rerum cognitionem non parum
— lucis allaturum — Francofurti, Typis Joannis Spiessii, sumptibus
Joannis — Jacobi Possii mdcviii. Secondo l'_Hist. littér._, XVI, 419,
questo commento fu scritto tra il 1174 e il 1179. Nella prefazione
l'autore per giustificare lo studio che fa delle profezie di un pagano
ricorda Giobbe e le Sibille (p. 4): Nec mirum de beato Job, cui similis
in terra non erat, cum Sibyllam non Erythraeam sed Cumanam tanta et
tam vera de Christi incarnatione, passione et morte .... prophetasse
noverimus.

[521] Il commento ad Isaia fu pubblicato in Venezia nel 1517. Su questa
edizione, che il Renan non potè vedere, è utile fermarsi alquanto.
In essa sono riunite tre opere: 1º il Commentario d'Isaia, o meglio
dei primi undici capitoli (fol. 1-9 _recto_); 2º Il _De oneribus
prophetarum_ trovato dal Renan nel 3595 dell'antico fondo, e nell'836
Saint Germain e 865 Saint-Victor, (fol. 9 _verso_ — fol. 10; fol. 25
e segg.); 3º Il _De oneribus provinciarum_ trovato nel n. 836 Saint
Germain (fol. 11-27). La prima opera è divisa in dieci capitoli che
si succedono con numerazione regolare. Non così la seconda, i cui
capitoli prendono il numero non dall'ordine con cui si succedono,
ma dal capitolo del Profeta che commentano. Per esempio dopo il
capitolo 23 che commenta il XXIII d'Isaia, _Onus Tyri_, si salta al
30, che commenta il XXX, 6 d'Isaia, _Onus jumentorum Austri_. Dal
30 si retrocede al 19, commentario al XIX, 1 d'Isaia, _Onus Egypti_.
Inoltre la prima opera si riferisce solo ad Isaia; mentre la seguente
si riferisce in gran parte ad Isaia, ma principia colla citazione del
XX, 17-27, di Geremia, seguita col commento del XIII dell'istesso
profeta, e finisce coi commenti ai profeti minori. Perciò sarebbe
bene intitolarlo _Onera prophetarum_, secondo la nota a fol. 9_b_,
che avverte il lettore: hic ponentur undecim onera secundum Esaiam,
quibus adduntur tres alia secundum prophetas minores. La terza opera, o
l'indice geografico, non ha che fare colle altre, come si vede anche ad
occhio, perchè è stampata a caratteri più piccoli, ed il raccoglitore
stesso per ben due volte adduce il motivo di questa inserzione. Di
queste tre opere il Salimbene par che conosca soltanto la seconda,
perchè a pag. 176 dice che Gioacchino scripsit lecturam Isaie super
oneribus, ed a pag 191: aliquando legi sibi Expositionem abbatis
Joachim de oneribus Isaie.

[522] Fol. 11 _b_: duo ordines ac si stellae lucidae orientur ad
predicandum regni evangelium iterato saccis cilicinis amicti. Fol.
13_a_ ecclesiam sardensem designare monachos cassinenses utique suam
carnalibus desideriis inquinantes. Fol. 17 _b_. Timeo ne ad eorum (cioè
dei tolosani) infamiam dissolvendam vexillum crucis evidens elevetur.

[523] Il commento ad Isaia interpetra il 18 _Apoc._ in questo modo,
(fol. 4 _recto_): mulier auro inaurata indifferenter cura terrae
principibus effeminatis moribus fornicatur: Romana ni fallor ecclesia
ista est quae in Babylonem vitae confusione transfusa moechatur, ....
cardinales et presules ac si in coelo lucifer dignitate superbi ecc.
In ben diverso modo interpetra lo stesso testo Gioacchino nella sua
_Esposizione_ (fol. 194, col. 2): Hanc magnam dixerunt patres catholici
esse Romam, non quoad ecclesiam justorum que peregrinata est apud
eam, sed quoad multitudinem reproborum qui blasphemant et impugnant
operibus iniquis eandem apud se peregrinantem ecclesiam .... Non ergo
in uno regno aut in una provincia querendus est locus hujus famosissime
meretricis, sed sicut per totam aream christiani imperii diffusum est
triticum ebetorum et per omnem latitudinem ejus disperse sunt palee
reproborum.

[524] L'accenno ai due ordini è ripetuto molte volte; fol. 5, 7, 11,
28 ecc. Federico II è nominato nel fol. 4 _a_: verumtamen in Silvestri
vaticinio de Federico secundo et ejus posteris ecc.

[525] Fol. 6 _verso_: cavendum erit a germanis et francis.

[526] Fol. 30 _verso_: si vero anni ipsi ad statum ecclesiae
tertium referuntur profecto in nonaginta annis futuris ab anno MCCI
prostrabitur prorsus mundi superbia.

[527] Fol. 34 _recto_: Tempus Sedechiae regis tangit concorditer
presentem generationem inceptam anno 1201 a Christo sub pontifice
romano post obitum Celestini. Si potrebbe sospettare che in luogo di
1201 s'abbia a leggere 1301, e che il papa Celestino qui ricordato non
sia il predecessore d'Innocenzo III, ma Pietro Morrone addirittura. Ma
pur lasciando il passo com'è, par chiaro che il libro sia stato scritto
dopo il 1201.

[528] Et cum rex Franciae tempore illo cum aliis crucesignati
praepararet se ad transfretandum isti subsannabant et deridebant
dicentes quod male caderet ei si iret, sicut postea demonstravit
eventus. Et ostendebant mihi in expositione Joachim super Jeremiam et
multos alios libros. SALIMBENE, pag. 102.

[529] Fol. 46, col 3: Leviathan quoad superbiam, serpens quoad
astutiam, cetus quoad avaritiam, tortuosus quoad doli nequitiam
lubricus quoad lasciviam, voracius quoad perfidiam, virulentus quoad
sevitiam, mare quoad iracundiam.

[530] Vedi la genealogia di Federico, fol. 45, col. 4; fol. 46, col.
1. In quest'ultimo luogo è accennato alla ribellione ed alla morte
del figlio di Federico II; vel quia ejus filii latera sua rumpent per
discordiam, et tandem in defectum senectutis illius unus centra alterum
insurgendo unus pereat, alter praetium ecclesiae Christi paret.

[531] Tutta questa letteratura pseudoprofetica che va sotto il nome
del mago Merlino, della Sibilla Eritrea, e dell'abate Gioacchino, pur
non essendo benevola al Papa, non fa grazia neanche all'Imperatore. E
tutti hanno in odio Federico II, come ne fa fede lo stesso commento
a Geremia, fol. 58, col. 4. Sed si secundum Erithream 60 pedes vel
annos habere describitur heres tuus, quod etiam Esaias sentire videtur
(XXIII, 1) in spiritu sub figura Tyri, quae respicit Siciliam equo
vultu, mirum quomodo Merlinus eum bis 5 decadum; qui legis intelligas
et non centenarium sicut sonniat imperitus. Praeterea in 60 annis
terminari debet afflictio juxta prophetam tam in imperio quam in
regno. Nescio quo spiritu ducitur Eritrea, ubi post Aquilam primam
tam dico heredem successorem in imperio et regno suo aquilam secundam
introducat, quod Merlinus subticet. Fol. 62 (correggi 64), col. 1:
Eritrea: post haec veniat Aquila habens caput et pedes 60 colore pardi
ad livorem, vulpis quoad fraudem, leonis quoad terrorem. Quia forte sub
occasione patarenorum coercendorum dolose incedet contra ecclesiam.
Un'altra versione di questa profezia che andava sotto il nome della
sibilla Eritrea fu trovata dal Bréholles in un manoscritto della
Cronaca ghibellina _De rebus in Italia gestis_, pag. XXXVI. (_Chronicon
placentinum_ ecc. edidit J. L. A. Huillard-Bréholles, Parisiis, 1856).
Et veniet Aquila habens caput unum et pedes LX, cui acrescent duo
capita, cujus color sicut Pardi et pedes sicut Leonis et dicet _pax_ ut
pacifice capiat. Mamillis Sponse Agni lactabitur usque dum accrescat
ei caput majus in Eneade terciumque minus, eruntque sibillancia a
Germanis usque Tyrum. Et dabitur ei galina una ex Mauris alteraque
orientalis et duo pulli ex quibus vorabit unum ecc. I sexaginta pedes,
che il Bréholles non sa spiegare, noi già sappiamo dai passi del
pseudo-Gioacchino surriferiti che vogliono dire 60 anni, perchè la fine
dell'Impero si calcolava per il 1260, e la profezia si suppone fatta
nel 1200.

[532] Fol. 44, col. 2. Satis congruum est ut cardinales et etiam summus
pontifex immendaces praedicatores veritatis percutiant affligendo
et (ponant in nervum) silentium eis imponendo ne eis annuncient mala
futura in clero a Romano Imperio. Ivi, col. 4: _Masculus_ (Hier. XX,
15) est ordo seraphicus in ecclesia oriundus, _pater_ summus pontifex,
ubi doctores cardinalesque prelati de illorum ortu et profectu valde
dolebunt, tanquam eorum solicitudine subvertentur adulterantes verbum
Dei. Fol. 47, col. 1: Sed quia summus pontifex superbiae nititur, ab
exauditione repellitur.

[533] Fol. 9, col. 4. Igitur Romana ecclesia ac si altera tribus Juda
recessit a Christo .... Quod etiam negasse Petrum et redisse ad pompas
Diaboli et mundi illecebras hujus, seu principes saeculares, cum
quibus est polluta per munera, contaminata per suffragia, fornicata per
fastigia dignitatum .... Fol. 49, col. 1: Hi (pastores) sunt Lazarus
quatriduanus, qui jam mortui sunt in tribus, in avaritia, in perfidia,
in superbia, quarto loco scatent et fetent in luxuria. Fol. 52, col.
2. Aut enim prava vita, et doctrina ecclesiae latinae, quae est Romae,
intelligenda est ipsa pollutio .... dominam babylonem ecclesiam, quae
magistra est omnium meretricum.

[534] Fol. 43, col. 2. Sed nunc predicatores Evangelii aeterni frangent
doctrinam doctorum fidelium sacraeque scripturae in conspectu ecclesiae
generalis. Fol. 51, col. 3: per omnem orbem et fere omnibus regnis
terrae praedicabitur Evangelium eternum.

[535] Fol. 53, col. 1: Agitur enim nunc 1197 annus ut extendetur ista
vexatio in 64 annos deteriores prioribus. Vedi fol. 45, col. 3-4, ove
invece appare scritto il 1200: 42 menses 42 generationes sunt in quibus
affligendus est populus christianus et terminatur in anno Christi 1260
.... in 60 annis terminabitur afflictio ecclesiae.

[536] Fol. 7, col. 4. Videat Romanum capitulum si non fiet eis
arundineus baculus potentia gallicana, cui si quis innititur perforat
manus ejus. Cfr. fol. 59, col. 2. Necessario Francia .... videbitur
ecclesie adhaerere, quod quanto divine voluntati et dispositioni
displiceat ex consilio perpenditur Hieremiae .... Habet enim hoc
diffidentiae humana debilitas ut magis confidet in nomine quam in Deo,
et iccirco, unde sperat auxilium, justo judicio corruat.

[537] Il Salimbene infatti a pag. 176 cita questo finale del commento
a Geremia. Ecce Cesar, virgam furoris Domini. Sufficenter est Jeremias
explicitus, qui in replicandis afflictionibus saeculi ubique cernetur
implicitus, utinam et tu non usque expers sis divinae formidinis, cum
ad radicem imperialis arboris ponenda sit evangelica jam securis. Il
finale stampato è ben diverso, e più determinato l'accenno alla ruina
dell'impero. In ipso quoque finitur imperium, quia etsi successores
Christi fuerunt, tamen imperiali vocabulo ex romano fastigio
privabuntur. Cum decies et 1300 anni Antichristus nascetur demone
plenus post partum Virginis alme.

[538] Riproduco il principio di quest'opuscolo che si trova nel
cod. XI, plut. IX, dext. Santa Croce, carte 54 tergo: De ultimis
tribulationibus disputantes in opusculis nostris posuimus diversorum
opiniones et nostram; sed quia sicut aliquando brevitas, ita nonnunquam
multiplicitas verborum parit obscuritatem, praesertim ubi non est
impetus aliquid absolute dicendi sed exponendi in serie quod occurrit
in libris, opere precium credidimus quid inde nostra opinio teneat in
summa in hac brevi oratiuncula semper quidem et multis modis compilare.
Studio est Sathanae concitare scandalum ecclesiae Dei, et durat tempus
principatus ejus non annis, non mensibus, non diebus, nec cessat
quantum in se est a persecutionibus electorum .... Tria magna et quasi
necessaria bella noscitur gessisse sub veteri Testamento, et totidem
gerere demonstratur in novo.

[539] L'opuscolo leggesi a p. 59 _recto_ dello stesso cod. XI, plut.
IX. Il prologo ed il primo capitolo erano già riferiti dal resoconto
d'Anagni in questo brano che io pubblico secondo il codice della
Sorbona 1726: «Item habetur apertius in libello ipsius Joachim de
articulis fidei descripto ad querumdam filium suum Johannem, quod
opus suspectum est ex ipso prologo, ubi sic incipit dicens»: Rogasti
me (Joachim), attentius, fili Johannes, ut tibi compilatos traderem
articulos fidei, et notarem illa quae occurrerent scripturarum loca,
in quibus solent simplices frequenter errare: ecce subiecta pagina
invenies quod petisti. Tene apud te, et lege sub silentio, observans ne
perveniat ad manus eorum qui rapiunt verba de convallibus, et currunt
cum clamore ut vocentur ab hominibus rabi, habentes quidem speciem
pietatis, virtutem autem eius penitus abnegantes. «Ecce qualiter in
hoc prologo vult iste Joachim articulos fidei legi in abscondito,
more haereticorum, qui in conventiculos dogmatizant. Item inhibet ne
tractatus suus veniat ad manus magistrorum, quos etiam tam impudenter
quam superbe vituperat». (Fin qui fu già pubblicato dal Renan, op.
cit. pag. 99, n. 1) «Sed de hoc non curetur, quin potius diligenter
attendatur. Primum capitulum huius compilationis, quod intitulatur
de fide trinitatis ubi sic ait Joachim»: Ante omnia intellige Deum
tuum esse tres personas plenas integras atque perfectas, ita ut
credas singulum esse plenum atque perfectum Deum, et simul tres
unum Deum totum simplicem, totum aeternum (_totum virum, totum_,
cod. laur.) invisibilem et impalpabilem. Spiritus enim est Deus
non corpus, et idcirco mirari non debes si tres sunt unum, et unus
(_unum_, cod. laur.) tres; unum tamen dicimus non singularem, non
utique sicut dicimus unum sidus, unum jaspidem, unum smaragdum; sed
unum ab unitate, utpote cum dicimus unum gregem, unum populum, unam
turbam. Unde bene dicunt gramatici: populus currunt, et turba ruunt,
ut id, quod unum taliter dicitur, pluralis esse numeri intelligatur,
loquens (_loquimur_) ad intellectum non ad simplicem vel perfectam
similitudinem, ut videlicet per visibilia invisibilia intelligamus. Si
de duabus tribubus Israel dicit Scriptura: dixit Judas Symoni fratri
suo: veni pugna mecum in sorte mea, ut et ego pugnem in sorte tua,
miratur homo si tota trinitas dicitur unus Deus? si una massa auri
distinguatur (_distingueretur_) in tres statuas maxime si, ut solent
fieri in arte fusoria totae tres partes (manca _partes_ nel cod. laur.)
essent coniunctae, sic diceretur singula statua esse unum aurum, at
tamen simul tres non dicerentur nisi unum aurum. Et miratur homo si
singula divinitatis persona dicitur esse unus Deus, et simul tres
unus Deus? Si incalenti clibano proicierentur stipulae et ligna, licet
deesse viderentur flamma et carbones repente tamen in uno loco, idest
in ardore (male cod. _in uno illo hoc ardore_) tota tria ipsa pariter
apparerent. Si flammae adhaerenti sulphuri adhiberetur competens
fomentum, licet deesse viderentur carbones, repente tamen in uno illo
tota tria illa habentur pariter. Sed etsi carbo solus adesset, mox
adhibitis stipulis, tota tria illa pariter integra apparerent. Il
secondo capitolo s'intitola _De incarnatione verbi Dei_ e comincia
così (cod. laur. p. 60): Fuerunt quidam haeretici qui dicerent Christum
unius esse naturae: fuerunt qui dicerent matrem virginem non deum sed
tantum hominem genuisse. Tu autem horum omnium devitans perfidiam crede
Christum unam personam ex duabus et in duabus consistentem naturis,
secundum quod oliva inserta oleastro cum ipso oleastro una est arbor,
atque hoc totum, quod Christus dicitur, genuisse. Quod si dicis, verbum
dei, quod aliunde venit in virgine, gignere non potuit virgo, ergo nec
corruptibile semen viri gignere potest mulier, et quoniam ipsum semen
aliunde venit ad ipsam. Neque enim gignere de ipsa potest mulier nisi
aliunde concipiat. Hoc autem solum interest quod caeterae mulieres
concipiunt ex hominibus, haec autem sola virgo concepit et peperit
semen divinum, verbum scilicet quod caro factum est et habitavit
in nobis. Gli altri capitoli sono: 3. De sacramento baptismi et
penitentia. — 4. De sacramento crismatis. — 5. De sacramento corporis
et sanguinis Christi. — 6. De libero arbitrio et gratia. — 7. De
predestinatione et prescientia Dei. — 8. Quomodo possit Deus timeri
pariter et amari. — 9. De fide et operibus. — 10. De misericordia et
juditio. — 11. De timore et amore. — 12. De laetitia et tristitia. —
13. De vita conjugali et coelibatu, sive de abstinentia et gustatione
ciborum. — 14. De opere manum et sancto otio. — 15. Item de eodem.
— 16. De quiete claustri et frequenti mysterio. — 17. De utilitate
praedicationis et virtute silentii. — 18. De resurrectione mortuorum.
Manca nel codice l'ultimo capitolo che secondo il resoconto d'Anagni
s'intitolava _Confessio fidei_.

[540] Plut. LXXXIX, cod. XLI, c. 108 _verso_: Universis Christi
fidelibus, ad quos litterae istae pervenerint, frater Joachim dictus
abbas: vigilate et orate ne intretis in tentationem. Loquens dominus
Ezechieli prophetae, quem tempore transmigrationis Babiloniae
speculatorem constituerat domui Israel, post multa quae ei scribenda
commiserit, comminatus est dicens: si me dicente impio: morte morieris,
non annunciaveris ei, ipse quidem in impietate sua morietur. Sanguinem
autem eius de manu tua requiram etc.

[541] Fol. 279, col. 3: Incipit hymnus eiusdem abbatis Joachim de
patria celesti. Fol. 280, col. 1: Incipit Visio eiusdem preclara ac
plurimum admiranda de gloria paradisi.

[542] Gioacchino nel _Psalterium decem cordarum_, fol. 229, col.
4, rileva questa difficoltà: O humana temeritas quam ceca semper! O
inimica semper humane pietati presumptio! Si sic extimasti simplicem
divinam substantiam, uti seorsum a personis cogitaveris illam,
Sabellium sub Arrio palliasti; si seorsum a substantia tres personas,
Arrium sub Sabelli palliatione excusas.

[543] Vedi anche l'_Expositio in Apocalipsim_, fol. 34, col. 2.

[544] _Psalt._, fol. 229, col. 3. Inter calorem et splendorem
scissionem facere nequis, et tamen eos non dubitas esse duos; et
divinam vis substantiam scindere, ut trinum deum credere possis?
Item quod his nequius est, nescio que tria preter substantiam nova
adinventio assignare presumpsit, ut in altero unitas in altero trinitas
demonstretur quasi cum substantiam illam igneam, que in celo est, et
radium qui ex ea nascitur, et calorem unum solem esse dicimus, quartum
aliquod solis nomine assignamus. Cfr. fol. 229, col. 2.

[545] _Psalt._, fol. 230, col. 4: Inter cetera ergo opera domini,
que misterium exhibent trinitatis, magnum tenet locum decacordum
Psalterium. Est enim, ut diximus, vas unum musicum, quod etsi dividi
per partes potest, quia corpus est, non tamen ut esse possit decacordum
Psalterium, quamdiu ergo Psalterium est, indivisum est. Si dividitur in
partes non esse desinit id quod erat. Igitur vas ipsum unum est, sed
tamen in tribus cornibus miro modo consistens. Adeo enim tria cornua
ipsa unitas possidet indivisa, ut et tria videantur esse unum et unum
tria.

[546] _Psalt._, fol. 231, col. 2: Aliud sonat unus, aliud sonat
unitas. Unus non absolute dici nequit, nisi de una persona. Unitas
vero proprie dici non potest nisi de duobus ad minus. Neque enim cum
iubemur consistere in unitate, ad singularem personam referri posse
credendum est, licet ad populum, ad conventum, ad plebem. Cum enim
dicitur absolute: unus est hic aut illic, non est in loco ille nisi
unus, persona incunctanter intelligo; cum vero dicitur: unitas est in
loco illo, profecto nihil aliud intelligimus, quam multorum cor unum et
animam unam; hoc est unam voluntatem et unum consensum.

[547] _Psalt._, fol. 240, col. 1: Solus tamen Pater genitor est, solus
Filius genitus, solus Spiritus sanctus ab utroque procedens. Solus
autem Pater sic mittit Filium et Spiritum sanctum, ut a nullo mittatur,
et idcirco eterna Patris divinitas communis est Filio et Spiritui
sancto. Incarnatio vero Filii propria Filii est. Assumptio columbe vel
ignis propria Spiritus sancti, etsi una sit operatio trium.

[548] _Psalt._, fol. 240, col. 2: Sicut autem timoris nomine Patrem,
sapientie Filium, ita charitatis nomine intelligimus Spiritum sanctum.
Fol. 241, col. 3: In actionis obtinentia timor domini, in lectionis
studio sapientia, in oratione et confessione operatur dilectio. Tenemur
obedire per timorem, qui est Pater; tenemur legere per sapientiam,
qui est Christus; tenemur psallere et orare per charitatem, qui est
Spiritus sanctus.

[549] Che una connessione corra tra la dottrina della trinità e quella
dei tre stati lo dice l'_Expositio in Apocalipsim_, fol. 142, col.
2. Pro eo enim quod Deus trinitas est, in tribus magnis certaminibus
oportebat dissolvi regnum mundi hujus a compage sua, ut statueretur
perpetue regnum Dei. Cfr. _Concordia_, II, I, 6, fol. 8, col. 4.
Alioquin si una persona esset deus, nec tria distincta opera essent
querenda, nec in uno tamen concordia assignari valeret.

[550] _Apoc._, fol. 3, col. 2: Est enim clavis veterum notitia
futurorum. _Conc._, II, 5, fol. 8, col. 1: Intelligentia illa quae
Concordia dicitur similis est vie continue, que a deserto porrigitur
ad civitatem, interpositis locis humilioribus, in quibus se viator
ambigat iter rectum adire, et nihilominus interpositis jugis montium,
a quibus possit posteriora et anteriora respicere, et residui itineris
rectitudinem ex retroactae viae contemplatione metui. Omnis enim, qui
coram facie graditur, ubi itineris vestigium non apparet, ex aspectu
retroacti agendi rectitudinem pensat.

[551] _Conc._, II, I, 1, fol. 6, col. 3. Multum ergo distat inter
utrumque celum, multum inter utrumque testamentum differentia est.
Differunt sane utriusque nativitates, differunt vite, differunt bella,
differunt et victorie. Illi enim ex carne, isti ut jam dixi ex aqua et
spiritu nati sunt .... illi faciebant uxoribus libellum repudii ....
isti in typo Christi et ecclesie singuli singulas teneri jubentur ....
illi pro terrenis possessionibus pugnaverunt, isti non tam pro terra
aut qualibet terrena substantia, sed pro sancte libertate ecclesie et
salute spirituum suorum preliare noscuntur.

[552] _Apoc._, fol. 3, col. 1. Pro quattuor autem historiis quattuor
evangelia data sunt .... Duo vero medii Marcus et Lucas non apostoli
sunt, sed apostolorum discipuli et audita potius quam visa describunt.
Sicut ergo apud nos si humano liberaretur judicio, majoris auctoritatis
esse quis diceret que apostoli visa, quam quod apostolorum discipuli
non tam visa quam audita scripserunt, ita historiarum quattuor,
prime et ultime, Job scilicet et Hester majorem judeorum presbiteri
auctoritatem dederunt, quam duobus mediis, Tobie vero et Judith.

[553] _Conc._, II, I, 1, fol. 7, col. 2. Oportet inquam nos in hoc
opere altare testamenti prioris pro dono omnipotentis Dei ordinate
componere, fundentes et statuentes desuper aquam testamenti novi,
ut aliud inter aliud, ac si rota infra rotam inesse per concordiam
videatur. Invisibilem autem spiritum ignem suum spiritualem veluti de
tertio celo dirigere, ut, veniente quod perfectum est, evacuet quod ex
parte.

[554] _Conc._, III a, 18, fol. 29, col. 4. Attendamus ergo
spiritualiter quae spiritualiter dicta sunt, et quemadmodum aedificent
spiritualiter resoluta quae, carnaliter intellecta, insipida sunt.

[555] _Conc._, Prol., fol. 8, col. 1. Allegoria est similitudo
cujuscusque rei parve ad maximam ac si dies ad annum, ebdomada ad
etatem, persona ad ordinem vel ad urbem ad gentem ad populum et
mille talia. Verbi gratia Habraam unus est homo et significat ordinem
patriarcharum, in quo multi sunt homines. Zacharias unus est homo et
hoc ipsum significat. Sarra una est femina et significat Synagogam ....
Datus est filius Sarrae, filius non carnis sed permissionis temporis
senectutis suae. Hoc est quando venit plenitudo temporum ut mitteret
Deus filium suum; ergo Elisabethe illud idem significat.

[556] _Conc._, lib. V, cap. I, fol. 60, col. 3, 4; _Apoc._, fol. 14,
col. 3. Tutte queste interpetrazioni si riducono a quattro principali,
fol. 61, col. 3. Quia ex hiis omnibus quatuor sunt intelligentie
principales, que ceteras omnes continet infra se 1.º Historica seu
et 2.º moralis 3.º contemplativa [sub cujus nomine continentur duo
tropologica et anagogica, quarum prima inferior est contemplativa,
secunda superior] et 4.º typica, que dividitur in septem speciebus.

[557] _Concordia_, V, 2, fol. 61, col. 1; cfr. II, I, 29, fol. 28, col.
2.

[558] _Apoc._, fol. 63, col. 4.

[559] Queste strane allegorie si leggono nel _Commento all'Apocalisse_,
fol. 53, col. 4; fol. 54, col. 3, 4.

[560] _Conc._, IV, I, fol. 42, col. 2, 3. Sciendum quoque quod
concordia non secundum totum exigenda est, sed secundum quod clarius et
evidentius est; non secundum cursum historie, sed secundum quid ....
Ita novum testamentum simile est veteris testamenti .... Sicut ergo
sunt arbores sylvae plurimae quae in stipitibus sunt similes sed tamen
in ramis foliisque dissimiles, sic et duo testamenta in rebus quidem
generalibus similia sunt sed in specialibus dissimilia.

[561] _Conc._, II, I, 2, fol. 7, col. 2. Concordiam proprie esse
dicimus similitudinem aeque proportionis novi ac veteris testamenti,
eque dico quoad numerum non quoad dignitatem, cum videlicet persona
et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex parilitate quodam
mutuis se vultibus intuentur, utpote Habraam et Zacharias, Sarra et
Elisabeth, Isaac et Joannes Baptista, et homo Jesus et Jacob, duodecim
Patriarche et numeri ejusdem apostoli, et quodlibet simili, quod totum
ubicumque occurrerit non pro sensu allegorico sed pro concordia duorum
testamentorum facere certum est, unum vero spiritualem intellectum ex
utroque procedere.

[562] _Conc._, II, I, 10, fol. 10, col. 3. Non igitur secundum
intellectum numerum annorum extimanda sunt tempora ista, sed secundum
numerum generationem. Etenim ab Adam usque ad Christum fuerunt
generationes quadraginta et tres, et ab Osia usque ad finem secundi
status sexaginta tres; ab Osia namque initiatum est testamentum novum
quod confirmatum est in Christo, ne prius videretur deficere vetus quam
novum seminatum et radicatum germinaret ex humo et produceret fructum.

[563] Oltre alle suddette analogie Gioacchino sa scoprirne un'altra
che per la sua singolarità merita di esser riferita. _Conc._, IV, 2,
fol. 43, col. 2. Sed et illud ad concordiam pertinere non est dubium,
quod sicut Eva prima mater corrupta per serpentem genuit geminos in
peccato, quorum junior a primogenito interfectus est; ita, ut traditur,
tempore predicti Osie mater populi romani, que vocata est Rhea vel
Ilia, geminos concepit de stupro, et nihilominus primogenitus juniorem
occidit.

[564] _Conc._, II, I, 5, fol. 8, col. 2. Habet autem iter istud, quo
pergere cupimus, duce deo, aliquid securius utpote quam non aliquo casu
agitar aut agi capit, sed in dei sapientia et doctrina habens stationes
suas certis limitibus designatas. Qui videlicet limites diversis modis
considerandi sunt, largo seu et districto secundum majora tempora et
secundum mediocra et minora; quod totum de numero generationum et
temporum proprietate colligitur. Aliud namque tempus fuit, in quo
homines vivebant secundum carnem, hoc est usque ad Christum, cujus
initiatio facta est in Adam. Aliud in quo vivitur inter utrumque, hoc
est inter carnem et spiritum, usque scilicet ad presens tempus, cujus
initiatio facta est ab Heliseo propheta, sive ab Osia rege Juda. Aliud
in quo vivitur secundum spiritum usque videlicet ad finem mundi, cujus
initiatio a diebus beati Benedicti. Fructificatio itaque vel proprietas
primi temporis, sive ut dicimus melius, primi Status ab Habraam usque
ad Zachariam patrem Joannis Baptiste, initiatio ab Adam. Fructificatio
secundi status a Zacharia usque ad generationem quadragesimam secundam;
initiatio ab Osia sive a diebus Asa sub quo vocatus est Heliseus
ab Helya propheta. Fructificatio tertii status ab ea generatione,
quae fuit vigesimasecunda a Sancto Benedicto, usque ad consumationem
seculorum; initiatio a Sancto Benedicto.

[565] _Conc._, II a, 18, fol. 13, col. 1. Ab Adam usque ad Jacob
fuerunt generationes 21: a Jacob usque ad Asa et alio modo usque ad
Osiam generationes 21; licet enim judices qui prefuerunt populo Israel
non pertineant ad ordinem generationum; tamen pro generationibus
accipiendi sunt, quia quedam propagatio spiritualis fuit in eis sicut
ut in regibus Jude et Israel. Exinde ab Asa usque ad Achim, sive ab
Osia usque ad Christum generationes 21.

[566] _Conc._, II, I, 19, fol. 13, col. 1. Quia denarius numerus
perfectus est integer in seipso, in eo velut in fonte aliorum
statuendus esset finis inquisitionis nostre .... Si quidem ab Adam
usque ad diluvium generationes decem, a diluvio usque ad subversionem
Sodomorum generationes decem. Exinde usque ad Obed, qui fuit
contemporaneus Hely, generat. X. Exinde usque ad Joas, in cujus diebus
cepit sterminari Israel ab Azael rege Siriae, gen. X. Exinde usque ad
trasmigr. Babilonis gen. X.

[567] _Conc._, II, I, 23, fol. 14, col. 3. Et que sint illa septem
signacula (memorata in libro Apocalipsi) septem signa quorum sex
peracta sunt in labore filiorum Israel, septimum in otium.

[568] _Conc._, II, I, 9, fol. 10, col. 2. Primus status tenendus est ab
Adam usque ad Christum, secundus ab Osia rege usque ad presens, tertius
a beato Benedicto usque ad consumationem seculi.

[569] _Conc._, IV, 24, fol. 53, col. 4. Illud autem lectorem moneo et
maxime in legendis historiis et notandis annorum numeris studiosum,
ut si forte in distinctione pontificum et imperatorum aliquid per
generationes singulas invenerit corrigendum, quod ex corruptione
multimodo chronicarum accidesse posse non nego, liberum sit ei pie
tamen et veraciter emendare, ne forte sicut ego in diversis diversa
repperi, ita accidere potuerit ud ad summam veritatis venire nequierit
....

[570] _Conc._, IV, 3, fol. 44-45. Il raffronto si chiude con queste
parole: Quod intelligens Constantinus imperator beato papa Silvestro
imperialem, quam ipse tenere videbatur, tamquam deditam Christo regi
sponte obtulit dignitatem. Verumtamen quia regnum Christi non est
ex hoc mundo, sic visum fuit romanis pontificibus debitam semper
a Christo accipere potestatem, ut tamen usum temporalis regni vel
potius bonorum corporalis regiminis illis cogerentur permittere,
qui mundi gloriam querunt, ne hi, qui juxta Apostolum militant deo,
implicarentur temporalibus negociis. Gioacchino conosce ed apprezza
grandemente l'opuscolo di S. Bernardo indirizzato a papa Eugenio.
(_Conc._, V, 64, fol. 94, col. 4). Bernardus noster abbas Claravallis,
qui in libro suo de Consideratione misso ad Eugenium papam, nihil de
negligentiis aut gravamine subjectorum derelictum est in tantum, ut
adeo liber ipse alter leviticus esse putaretur. Et quamvis sanctus vis
mordacius argueret in romano pontifico occupationem, non tamen absolute
occupationem, sed illam quae est secundum seculum, per quam ea, que est
secundum Deum occupatio, periit.

[571] IV, 5, fol. 46, col. 1. Non enim in hac generatone aliquis
imperator similis Salomoni in sapientia reperitur. Et tamen per
spiritualem intellectum completum est in hac eadem generatione secundum
aliquod mysterium Salomonis, quia Christus Jesus, quem significat
Salomon altius pre solito per quosdam preordinatos servulos abundanter
influxit .... Hylarius, Hieronimus, Joannes Chrisostomus, Augustinus.

[572] _Conc._, IV, 6, fol. 46, col. 4; IV, 8, fol. 47, col. 4; fol. 48,
col. 1.

[573] Il cap. IV, 17, fol. 52, col. 2-3, che riguarda Leone si chiude
con queste secche parole per Gregorio VII: Denique et in sequenti
generatione, que respicit Joachaz (Joachin), quia sine consensu
imperiali electus est Gregorius VII in romanum pontificem, obsessus ab
imperatore idem papa, sublatusque idem a duce normandorum ductus est
usque ad Salernum. In cujus locum idem imperator substituit Gilbertum,
ravennatem episcopum, vocavitque eum Clementem. Completa est autem
in hoc facto similitudo ei que accidit regi Joachaz, quem rex Egypti
amovit a Hierusalem, ne regnaret in eo, et substituit ei Joachim
fratrem ejus pro eo.

[574] _Conc._, IV, 22-25, fol. 53, col. 2; fol. 54, col. 3. Riporto
solo la fine di questo lungo passo. Etenim ordo ille, qui pro claritate
sapientie dici poterat aurum, modo obscuratum est et rursum velut
in nigrum plumbum. Et hii, qui quasi lapides preciosi contineri
consueverunt in claustro cordis, modo percurrentes vias latas, dispersi
sunt in capite omnium platearum, disponentes exteriora negocia,
dirimentes eas et lites judiciorum non bonorum .... Nunc autem ipsius
ecclesie exigentibus culpis, hii qui successerunt in ipso ordine
sacerdotali, nihil pene habentes de imitatione celestis hominis,
terreni sunt omnino et terrena sectantur.

[575] IV, 30, fol. 55, col. 4. In ecclesia vero incipit generatio
quadragesima prima anno domini 1201 .... Sed tamen expectandum est cura
ingenti timore.

[576] _Conc._, I, 8, fol. 9, col. 3: Habet et monachorum ordo imaginem
Spiritus Sancti qui est amor Dei; quia non posset ordo ipse despicere
mundum, et ea quae sunt mundi nisi provocatus amore Dei et tractus ab
eodem Spiritu, qui expulit dominum in desertum, veruntamen spiritualis
dictus est quia non secundum carnem ambulat sed secundum spiritum.
Igitur primus ordo initiatus est ab Adam, secundus ab Osia rege Juda,
tertius secundum aliquid ab Heliseo propheta, secundum aliquid a beato
Benedicto. Quare sic? Quia Spiritus Sanctus a patre filioque procedit.

[577] _Conc._, II a, 14, fol. 11, col. 4: Si autem incipis ab Asa
sub quo vocatus est Heliseus, ab ipso usque ad trigesimam septimam
generationem ab incarnatione Domini, sub qua et convaluit pre solito
ordo monasticus sub regula sancti Benedicti in partibus Galliarum
generationes sexaginta tres, usque vero ad initium tertii status
septuaginta.

[578] _Conc._, II, I, 14, fol. 11, col. 3: Et rursus a sancto Benedicto
usque ad consumationem seculi eadem existimatio manet sub eo tamen
dierum numero, quem novit ipse solus, qui fecit omnia secundum
consilium voluntatis sue. Ivi, III, 6, 7, fol. 42, col. 3: Ego autem
mediam horam (Apoc., 8, 13) in loco isto pro dimidio anno accipiendum
esse puto. Quid tamen de hoc verius sit judicio domini relinquendum.
V. 64, fol. 95, col. 1: Sed utrum natus sit puer, qui designatus sit in
Salomone aut in primo nasciturus, deus melius novit. Quia initia semper
obscura et intellectu difficilia. V. 118, fol. 134, col. 2: Si queris
dierum numerum non est meum dicere neque scire; quod nobis datum est
hoc solvimus.

[579] IV, 31, fol. 56, col. 2: In ecclesia incipiet generatio 42
anno vel hora quam Deus melius novit. Non è meraviglia che si possa
conoscere la fine di una generazione e non il principio, perchè
Gioacchino più volte ripete che la durata della generazione può
essere maggiore o minore del numero medio. Così _Conc._ II, I, fol. 12
Generationis in veteri Testamento variae fuerunt et inequales.

[580] _Conc._, II, I, 16, fol. 12, col. 3: Igitur in Testamento
novo non secundum carnem accipienda est generatio sed secundum
spiritum. Et quoniam triginta annorum erat dominus quando cepit
habere filios spirituales, quod et perfiguratum fuerat in unctione
David et inchoatione prophete Ezechielis prophete, recte spatium
generationis in novo Testamento triginta annorum numero terminatur
nimirum quod perfectio ipsius numeri ad fidem pertinet trinitatis.
Inde est quod nemo absque magna necessitate debet in novo Testamento
suscipere sacerdotii dignitatem ut fiat pater spiritualis nisi sit
triginta amorum .... Igitur generationes ecclesie sub spatio XXX
annorum singule sub singulis tricenariis accipiende sunt, ita ut sic
Mattheus comprehendit tempus primi status sub spatio generationum 42,
ita tempus secundi super eodem generationum numero terminari non sit
dubium, maxime cum ostendatur significatum in numero dierum, quo mansit
absconditus Helias (III _Reg._ 19) a facie Acab, et quo mulier amicta
sole, que designatur ecclesia, mansit abscondita in solitudine a facie
serpentis, (_Apoc._, XII, 6) accepto haud dubium die pro anno et mille
ducentis sexaginta diebus pro totidem annis.

[581] V, 15, fol. 67, col. 4: Sic quondam Helias certis temporibus
diebus vel annis mansit absconditus a facie Jezabelis, hoc est tribus
annis et mensibus sex, ita in eodem spatio dierum et annorum dicta est
memorata stetisse in solitudine, hoc est 1260 (_Apoc._, XII, 6). Hoc
tempus et tempora et dimidium temporis, quia vero numerus iste dierum
vel annorum noctibus sit ad agnoscenda tempora dies et annos, et in
secundo hujus operis libro sufficienter demonstratum est. Cfr. V, 75,
fol. 104, col. 2.

[582] _Conc._, V, 89, fol. 118, col. 2. Quod ergo mulier ista
ascenderat in eminentiorem partem domus, et ut fugeret consortia
publica, ibi se contegerat cum puellis suis, quid nisi vitam
contemplativam et anacoreticam significare creditur maxime cum scriptum
sit in libro Apocalypsi de muliere amicta Sole, et mulier fugit in
solitudinem ut pascat ibi diebus 1260. Cfr. _Apoc._, fol. 160, col. 2.

[583] _Conc._, l. c., fol. 117, col. 4. Vidua Judith ecclesiam
orientalem sicut puto designat .... mansit autem Judith in viduitate
sua annis tribus et mensibus sex. Magnum istud plane et apertum
mysterium. Hic est enim ille magnus numerus qui universa hec continet
facta. Sunt etenim menses 42 sive dies 1260, nihilque aliud designant
quam annos 1260, in quibus novi testamenti sacramenta consistunt.

[584] II, I, 14, fol. 11, col. 8. Ordo monachorum secundum aliquid
ab Heliseo propheta, qui vocatus est ad gratiam prophetie in extremo
tempore Asa regis Juda, et secundum aliquid a beato Benedicto, qui
quantum datur intelligi ex his que legimus in libro dialogorum vocatus
est a domino ad ordinem monachatus circa extremitatem 16 generationis
ab incarnatione Domini.

[585] _Conc._, II a, 25, fol. 15, col. 2. Reversus est autem Sol decem
lineis in diebus Ezechiae, qui fuit decimus tertius a Salomone, ut bis
decem generationes numerari debuissent.

[586] _Conc._, II a, 12, fol. 10, col. 4. Quod in sequentibus
diligentius prosequendum est liquet quod a Jacob patriarcha velut
duobus viis descenditur usque ad David seu per judices et rectores
populi, altera per patres ut ipse unus David veluti quidam prepotens
annis duos in se rivos suscipiat ex uno quidem fonte progressos, sed
diversis usque ad se aquarum ductibus venientes.

[587] _Apoc._, fol. 27, col. 4. Querendum est nobis .... cur
beatus Johannes, apocalipsis librum eisdem septem ecclesiis quasi
spiritualiter delegaverit, qui non modo ex parte ut prophetae ceteri
sed generalius prae multis aliis fidelibus loquitur universis.

[588] Ivi, fol. 29, col. 3. Igitur quod ad quinque tribus generaliter
spectat, ab exordio temporum usque ad Christum consummatum est.
Et non in eisdem quinque tribubus omnes illorum temporum electorum
progenies intelligendae sunt, que fide et operibus bonis eterne regnum
beatitudinis hereditare meruerunt.

[589] _In Apocal._, fol. 29, col. 1. Et recte quoque Ruben et Gad
et dimidia tribus Manasse ad plagam orientalem laborum suorum premia
perceperunt, quia prime ille generationes seculi, que ab Adam usque
ad Noe, a Noe usque ad Habraam, ab Habraam usque ad Moysen, quasi due
tribus et dimidia sine lege vixerunt, et mundi origini adjacentes
fuerunt velut ad plagam orientalem, hoc est in etatibus primis,
in quibus sine lege vivebant. Ivi, col. 2: Igitur a Moyse usque ad
Christum reliqua Manasse tribus dimidia, Effraim quoque et Juda velut
ex hac fluminis parte hereditatem acceperunt, quia sicut duas etates et
dimidiam ante legem, sic duas et dimidiam sub lege Deus onnipotens esse
voluit. Septem vero distinctiones temporum ab initio secundi status
usque ad initium tertii in hac vero etate sexta, secundum quod liber
iste docet, instituit, ut et numeri duodenarii servaretur integritas,
et perfectio quinarii ac septenarii si qua alia non de essent. In
questo luogo cita la _Concordia_: de quibus in opere _Concordie_
fecimus mentionem.

[590] _In Apoc._, fol. 48, col. 2. Veruna quod filius Dei, qui
proprie dicitur sapientia, formam servi assumpsit, in qua sustineret
lassitudinem et laborem, Spiritus vero Sanctus, qui vocatur Dei
charitas, non assumpsit; quia et nos in addiscenda sapientia
angustamur, affligimur et laboramus, in amando vero quem amare libet,
nullas afflictionis sustinemus angustias .... Et quia quinque sunt,
ut jam diximus corporis sensus, in quibus se mortalis homo ad studium
actionis exercet, septem vero dona spiritus, quibus homo interior
efficitur spiritalis, merito quinque principales ecclesie unigenita
Dei Filio attribuenda sunt, septem vero Spiritui Sancto .... quinque
opera Christi .... primum opus Christi nativitas fuit, secundum passio,
tertium resurrectio, quartum ascensio, sane quintum opus ipsa est
ostensio linguarum et missio spiritus sancti ....

[591] Fol. 54, col. 2. .... quid enim velit septem planetarum
distinctio cogitare compellimur, presertim cum septenarius numerus
tante perfectionis sic, ut vix aut nunquam possit carere non dico
qualicumque sed perfecto mysterio. Querimus ergo fide, ratione
juvante, et invenimus in electorum agminibus septem quosdam viros
proprietate quodam in misteriis ab illorum multitudini segregatos.
Adam, Noe, Abraam, Moyses, David, Joannes Baptista, Helias .... deus
omnipotens misit in mundum hos septem viros magnos et nominatos per
diversa intervalla temporum, ut quasi quosdam novos cursus peragerent
preceptorum Dei.

[592] Fol. 57, col. 1. Sunt itaque istorum radii septem proprietates
eorum, in quibus similitudines septem ordinum denotatae sunt.

[593] Fol. III, col. 4. Congruit namque proprietate quadam fortitudo
praelatis, scientia dyaconibus, intellectus doctoribus, sapientia
contemplatoribus, consilium conventualibus, pietas eis qui miseratur
pauperibus, timor conjugio alligatis.

[594] Vedi l'interpetrazione dei suggelli _In Apoc._, fol. 114 e
segg. Nel fol. 117, col. 3, si legge questo passo importante per la
cronologia di Gioacchino: Constet autem quod post quintum sigillum, in
cujus extremitate nos sumus, restat adhuc martyrum pugna.

[595] Fol. 118, col. 1. Volo enim illum scire, duobus modis accipi diem
ultimum et diem judicii. Accipitur enim largo modo pro quodam incerto
tempore .... et accipitur stricto modo de conclusione ipsius temporis,
quando consummatis cunctis mysteriis, ibunt impii in supplicium
eternum, justi autem in vitam eternam. Cfr. fol. 139, col. 4.

[596] Fol. 118, col. 4. Cura ordo ille preclarus, qui letus et
ylaris esse debuit, splendore lucidus et candore (fol. 119, col. 1),
accidentibus contra votum contrariis, pro merito pravitatis sue tristis
efficitur et obscurus. Dum enim multum laborat et parum proficit, dum
nimis occupatur in exterioribus pro stipendiis carnis, a studio vite
spiritualis incipit esse alienus .... Obscuratur aurum, cura splendor
vite contemplative in ordine monasticho inanescit, mutatur et color
optimus, cum hii qui positi sunt ad speculanda celestia, inhiare
incipiunt lucra terrena.

[597] Fol. 119, col. 2. Sed et vita clericorum, que primo radios lucis
sue effundere solebat in populo, proh dolor! in sanguinem versam esse
videmus. Nihil enim in ea spirituale, nihil celicum; sed omne pene
lubricum, totum carnale, totum caro et sanguis et evisceratio spiritus.
Ubi lites, ubi scandala, ubi rixe, ubi invidie, ubi emulationes?
Nonne in ecclesia clericorum? Nonne inter eos qui lucem exemplorum
suorum dare subjectis plebibus debuerunt?... Denique et stellas celi
absque numero cadere (VI, 13) videmus in terra, sive ruina pravitatis
heretice, sive (ut in pluribus) lapsu carnis.

[598] Fol. 123, col. 1. Silentium sacri sabbati silentium est vite
contemplative. Silent enim sancti consumatis mysteriis ut audiant quid
loquatur in se dominus deus.

[599] Fol. 130, col. 3. Quis fuit miser iste .... deus scit, clericum
tamen fuisse et imbutum scientia litterarum ex huius textu lectionis
apparet.

[600] Fol. 133, col. 1. Siquidem ut omnes illis Christi domini
dicebantur, ita et in secta ista multi jam precesserunt, qui essent
pro auctoritate perfidie dicendi Antichristi; maxime cum dicat
Joannes utens presenti vel preterito pro futuro: sicut audistis
quia Antichristus venit, nunc Antichristi multi facti sunt. Et quia
protinus subinfert (JOANN., 1): Unde scimus quia novissima hora est,
sequi non longe post ipsum magnum Antichristum demonstrat, quem ego
_considerans universas facies scripturarum et introitus et exitus
concordiarum, presentem puto esse in mundo, etsi necdum venerit hora
revelationis ipsius_. Oportet enim secundum Hieronimum desolari romanum
imperium, quod resistit ei, antequam reveletur .... revelabitur autem
manifeste sub sexto Angelo tuba canente, etsi antea velut occulte
operari incipiat. Tempus siquidem sexti Angeli omnino credimus
esse breve. A chi si riferisca Gioacchino è ben difficile dire. Non
sarebbe impossibile che accennasse a Federigo II, a quel tempo pupillo
d'Innocenzo III. Molti guelfi dubitavano che il Papato non avesse
a pentirsi dell'aiuto prestato ad un discendente di casa sveva, e
Gioacchino poteva essere bene uno di costoro. Ma è molto più probabile
che accennasse vagamente ad un re dei Saraceni, ad un nuovo Saladino,
che avrebbe recati maggiori danni del suo predecessore non meno alla
Chiesa che all'Impero.

[601] Fol. 133, col. 3. Tempus sexti angeli tuba canentis, de quo
in presente capitulo sermo est, ita secundum id, quod proprium est,
futurum esse sentimus, ut tamen secundum aliquid sumpsisse exordium
videatur .... Igitur in quantum capere queo, tempus quidem sexti
Angeli initiatum est, sed tamen tempus quinti necdum usque ad presens
consumationem accepit.

[602] Citammo altrove il passo che si riferisce alle notizie avute in
Messina. Ora citeremo quest'altro, dal quale si narra più chiaramente
che l'Anticristo per Gioacchino non può essere un imperatore cristiano,
ma un pagano, fol. 134, col. 4. Dictum est autem quod siccandae essent
aquae Euphratis, ut preparetur via Regibus ab ortu solis, quod sine
gemitu dicendum non est, initiatio quaedam terribilis precepit super
eo quod nuper accidit sub inclyto illo exercitu Frederici magni et
potentissimi Imperatoris et aliis exercitibus populi christiani, qui
transeuntes mare in infinita multitudine, vix in paucis reliquiis pene
sine effectu remearunt ad propriam.

[603] Fol. 140-141. Et sciendum quod aqua magis assimilatur rei viventi
quam terra, unde aquam vivam dicere consuevimus, magis autem ignis quam
aqua, quia dignius est Testamentum novum Testamento veteri, multo magis
proximum eterne vite.

[604] Riunisco in questa nota i passi dell'_Esposizione_, che si
riferiscono al terribile anno 1260. Fol. 145, col. 4: calcanda
(Ecclesia) perhibetur ab eis mensibus quadraginta duobus, quod est
dicere secundum Lucana donec impleuntur tempora nationum. Fol. 157,
col. 3: Et mulier fugiit in solitudinem, ubi pasceret illam Deus diebus
1260. Numerus iste quid significet liber quem propter ipsum et secundum
ipsum edidimus (evidentemente accenna alla _Concordia_) manifeste
declarat. La _Concordia_ è citata esplicitamente a fol. 165, col. 3-4,
nell'interpetrazione della frase di Daniele: in tempus et tempora et
dimidium temporis, che Gioacchino intende per 3 anni e mezzo ovvero
42 mesi. Fol. 164, col. 3: DANIEL scripserat: (VII, 24) .... Decem
cornua, que vidisti in bestia, ipsius regni deum reges erunt. Et alius
consurget post eos, et ipse potentior erit prioribus, et tres reges
humiliabit, et sermones contra excelsum loqueretur, et sancto altissimi
conteret, et putabit quod possit mutare tempora et leges, et tradentur
in manu ejus in tempus et tempora et dimidiam temporis .... Nec aliud
quod dicit Joannes: datum est ei facere menses quadraginta duos.

[605] Vedi l'interpetrazione della donna ammantata di sole nel fol.
154, col. 3; quella del drago, fol. 156, col. 2; infine quella della
bestia dalle sette teste, fol. 162, col. 2-4.

[606] Fol. 164, col. 4. Sarracenorum vero ex tot annis semel inchoata
perfidia perseverat in malo, et ubique christianum nomen impugnare pro
viribus non desistit .... forte futurum est ut christiani prevaleant
predicando magis quam preliando.

[607] Fol. 168, col. I. Sicut prima bestia, que egressa est de mari,
omnino concordat cum sexta visione Danielis, in qua agitur de quatuor
bestiis egressis de mari magno, ita hec secunda, que ascendit de
terra cum septima visione ipsius, in qua agitur de Hyrco caprarum
.... Sicut bestia illa, que ascendit de mari, habitura est quemdam
magnum regem de secta sua, qui similis sit Neronis, et quasi imperator
totius orbis, ita bestia, que ascendit de terra, habitura sit quemdam
magnum prelatum, qui sit similis Simonis Magi, et quasi universalis
Pontifex in toto orbe terrarum, et ipse sit ille Antichristus, de quo
dicit Paulus quod extollitur et adversatur supra omne quod dicitur
deus, aut quod excolitur. Fol. 169, col. 1-2. Igitur et in sexcentis
comprehenditur totum quod pertinet ad sex etates mundi, in sexaginta
specificatur illa pars que pertinet ad sextam etatem et in sex sextum
tempus hujus sexte etatis.

[608] Fol. 195, col. 3. Civitas, ut jam dixi, riproborum que dicta
est Babylon non tantum romana civitas existimanda est, aut ipsa (quod
absit) secundum totum, sed universa multitudo impiorum et natorum
secundum carnem. Fol. 196, col. 3: Primum caput fuit regnum Herodis et
successorum ejus; secundum, imperium romanorum usque at Diocletianum;
tertium, quartum, quintum et sextum quatuor in opere memorata regna
arrianorum; septimum caput, regnum Sarracenorum .... Et reges septem
sunt ut non isti septem reges singuli per singula capita, sed alio modo
surgere intelliguntur per singula septem temporum .... Horum primus
fuit Herodes .... secundus Nero .... tertius Constantius arrianus ....
quartus Mahomet vel potius Cosroe rex persarum .... quintus is qui
primus in partibus occiduis cepit fatigare ecclesiam pro investitura
ecclesiarum .... sextus autem rex, de quo dicitur, et unus est et ille
est rex undecimus in Daniele in cujus tempore aperienda est ad liquidum
revelatio ista et percutienda nova Babylon .... Post cujus percussionem
occidetur septimum caput bestie, et dabitur tranquillitas ecclesie
Christi.

[609] Fol. 197, col 1. Et decem cornua que vidisti in bestia decem
reges sunt .... hoc autem quomodo intelligi possit non video nisi ut
sub nomine sexti regis alius surgere intelligatur post alium, quatenus
post illum, de quo dicit Joannes. Unus est, quem propter temporis
instantiam puto fuisse Saladinum, famosissimum illum regem turchorum,
a quo nuper capta est illa civitas, in qua passus est Christus. Surgat
alius in successionem ipsius ....

[610] Nella _Concordia_, V, 84, fol. 112, col. 2, si troverà il
passo che tradussi nel testo. Ivi si legge: primus senum, secundus
juvenum, tertius puerorum. Il che sarebbe come a dire che l'umanità
segua un cammino a ritroso dei singoli uomini, cominciando dalla
vecchiezza e terminando nella puerizia. Altrimenti dice nel _Commento
all'Apocalisse_, fol. 139, col. 2: in primo erudiuntur parvuli, in
secundo instituuntur adolescentes, in tertio inebriabuntur amici.

[611] _Conc._, II, 1, fol. 8, col. 3 (cfr. _Apoc._, fol. 5, col. 3-4),
fol. 8, col. 3. Conjugatorum ordo initiatus ab Adam, fructificare cepit
ab Habraam. Clericorum ordo initiatus est ab Osia, qui cuna esset de
tribu Juda obtulit incensum domino, etsi non impune. Fructificavit
autem a Christo, qui verus est rex et sacerdos. Monachorum ordo
secundum quandam propriam formam, cui spiritus sanctus, qui est auctor
beatorum, perfectam exhibuit auctoritatem, incepit a beato Benedicto,
viro utique claro, miraculis ope et sanctitate, cujus fructificatio in
temporibus finis (istis?).

[612] _Conc._, II, I, 8, fol. 9, col. 3. Habet ergo conjugatorum ordo
imaginem patris, quia sicut pater ideo pater est qui habet filium, ita
ordo conjugatorum non nisi ad procreandos filios istitutum est a Deo
.... habet et clericorum ordo imaginem filii, quia verbum patris, quia
ad hoc constitutus est ipse, ut loquatur et doceat populum viam domini,
et ostendat ei continue legitima Dei sui ... habet et monacorum ordo
imaginem spiritus sancti, qui est amor Dei, quia non posset ordo ipse
despicere mundum nisi provocatus amore dei et tractus ab eodem spiritu,
qui expulit dominum in deserto.

[613] _Conc._, II a, 1, fol. 7, col. 1. Construendum est nobis cum
Helia (I, _Reg._, 18, 31-38) altare de terra ipsa, terra collocanda
inferius, ut aqua desuper locari queat, expectantibus nobis ignem
de celo, qui consumat terram et aquam, expectantibus spiritualem
intellectum, qui terrenam illam superficiem litere, que de terra est
et de terra loquitur, evacuando consumat, et nihilominus evangelicam
doctrinam designatam hic in aqua lambendo commutet, secundum et aqua
illa crassa, quam posuit in altari Neemias sacerdos (2 _Machab._, I,
20), conversa est in igne, aut sicut in cena Galilee aqua commutata
est in vino. _Conc._, V, 68, col. 1. In primo (periodo) solius patris
gloria revelata est populo illi antiquo, indocto, terreno et animali
nescienti intelligere quod esset verbum domini aut spiritus oris ejus;
in secundo gloria filii; et ex presenti gloria spiritus sancti. In
tertio reverenda est perfecta gloria ipsius spiritus, ut evacuetur
quod ex presente est. Plus ergo glorificati sunt homines secundi
status, quia plus noverunt; plus glorificabuntur homines tertii, quibus
revelata facie loquetur idem spiritus omnem veritatem ....

[614] _In Apoc._, fol. 86, col. 3. Fuit enim claritas secundi status,
secundum quod dicit idem apostolus: _videmus nunc per speculum in
enigmate_; claritas vero tertii erit jam prope secundum totum, secundum
plenitudinem veritatis, quod est videre facie ad faciem, parvissima
valde obsistente interpositione velaminis.

[615] _Conc._, V, 74, fol. 102, col. 4. Sicut enim evacuata est
observatio agni paschalis in observatione corporis Christi, ita in
clarificatione Spiritus Sancti cessabit observatio figure, ut non
sequantur ultra homines figuras, sicut ipsam semplicissimam veritatem,
que significatur in igne, dicente domino: spiritus est deus, et eos,
qui adorant eum in spiritu et veritate, oportet adorare.

[616] _Conc._, I, 9, fol. 5, col. 4. Claudit et nemo aperit abscondens
a prudentibus et sapientibus verba vitae et revelans ea parvulis ut
omnem philosophicae superstitionis vanitatem excludat. _In Apoc._, fol.
70, col. 3. Tales sunt illi scribi infra sanctam ecclesiam constituti,
qui inflati vanitate seculi et scentia mundi et magisterium sibi pravi
dogmatis arroganter usurpant, quorum superbe mentes nidi avium sunt, et
Arrius, Eunomius, Macedonius et fautores eorum. Cfr. _Apoc._, fol. 87,
col. 3.

[617] ROUSSELOT, _Joachim de Flore_, pag. 43.

[618] _Conc._, II b, 5, fol. 20, col. 3. Pater siquidem imposuit
laborem legi quia timor est; filius imposuit laborem discipline, quia
sapientia est; Spiritus Sanctus exhibet libertatem quia amor est. Ubi
enim timor, ibi servitus; ubi magisterium ibi disciplina; ubi amor ibi
libertas.

[619] _In Apoc._, fol. 179, col. 1. Igitur odium cordi radicatum
peccatum est ad mortem et peccatum nihilominus contra spiritum sanctum.
Nam spiritus sanctus amor est, quod est peccatum amori contrarium nisi
odium?

[620] _In Apoc._, fol. 180, col. 4. Primam perditionis causam peccatum
esse superbie .... peccans utique in ipsum Christum, qui parvus et
humilis factus est .... Qui, sciens paupertatem regis sui, erubescit
egere, nonne Christum offendit positum in presepio? Qui erubescit
ascendere mite animal Christi, et spumantis equi sibi arrogantiam
querit, nonne regem suum offendit, quem ludisse super asinum
reminiscitur.

[621] _In Apoc._, fol. 183, col. 2. Qui ergo vere monachus est nihil
reputat esse suum nisi citharam. _Conc._, IV, 39, col. 59, fol. 3.
Necesse quippe ut succedat similitudo apostolice vite, in qua non
acquirebatur possessio terrene hereditatis, sed vendebatur potius sicut
scriptum est.

[622] _Conc._, III, I, 20, fol. 37, col. 3. Danielem vero prophetam
significare spiritum sanctum, sicut et Joseph et Josue et Samuel, ipsa
prerogativa castitatis insinuat, quae ubique pene cum occurrit spiritui
sancto solet ascribi, eo quod fit ipse amor Dei et effusor spiritualis
voluptatis, quam nemo novit nisi qui accipit.

[623] RENAN, op. cit., pag. 153.

[624] AMARI, _Storia dei Musulmani in Sicilia_, I, 441.

[625] RODOTÀ, _Storia del rito Greco in Italia_, I, 153, 174 e segg.

[626] Che nell'arcivescovato di S. Severina si fosse conservato il rito
greco lo prova una lettera d'Innocenzo III, dalla quale si raccoglie
che un Pietro Guiscardo, protettore dei Florensi, minacciava i canonici
di strappare loro le mogli, se non acconsentivano di affidare ai
Florensi in danno dei cistercensi di Corazzo la chiesa di Calabro
Maria. (UGHELLI, IX, 479).

[627] UGHELLI, _Italia Sacra_, IX, 302, 307.

[628] BOLLANDISTI, maggio, II, 48; AMARI, op. cit., I, 519.

[629] Morì intorno al 903. BOLLAND., agosto, III, 489 e segg.

[630] BOLL., settembre, III, 343 e segg.

[631] BOLL., ottobre, VI, 332 e segg.

[632] BOLL., settembre, VII, 283 e segg.

[633] BOLL., settembre, VIII, 810 e segg.

[634] Sul commento di Alano vedi più sopra, pag. 303, n. 1.

[635] BOLL., marzo, I, 498. Fuit S. Cyrillus Presbyter Montis Carmeli
.... Ipse dum pro reverenda celebritate B. Hilarionis abbatis missarum
solemnia inchoasset .... nebula condensa sibi adstit. Ipso igitur
stupescente, angelus .... in ipsa nebula visus .... offerens virgam
liliatam et duas tabellas argenteas, litteris Graecis descriptas,
dixitque: cum sacramenta compleveris, has scripturas transcribes in
membrana, et constans tabellas formabis in calicem et thuribulum
ad libanda et adolenda in ara sacrificii matutini .... Dum igitur
sanctus iste eas tabellas transcripsisset et conflasset hujusmodi
transcriptum per Telesphorum monachum abbati Joachim, viro sancto et
illuminato, transmisit instantias supplicando ut ratione suae magnae
obscuritatis super eo commentariolum quoddam conficeret, quo abscondita
perducerentur in lucem .... Quod abbas Joachim ad instantiam S. Cyrilli
facere minime desistebat, rescribens ei epistolam, in qua inter cetera
nominat ipsum S. Cyrillum stellam manentem in ordine sanctitatis.
Questi due oracoli insieme alla lettera di S. Cirillo ed alla risposta
di Gioacchino furono pubblicati da Lezana nel 1663. Edidit postea
Abbas Joachim commentarium sive interpetrationem hujus oraculi, paullo
fusiorem, quam Lezana non audet transcribere, quia reperit aliqua
contineri, quae aliquibus pusillis saltem scandali occasionem afferre
possent.

[636] _In Apoc._, fol. 143, col. 4. Graecorum populo datus est Beatus
Johannis, a quo et incepit perfectorum religio monachorum. Fol. 144,
3. Igitur reliquia Graecorum, agnita veritate, que est in spiritu,
convertentur ad unitatem Ecclesiae. Et reliquie Judaeorum pari modo
convertentur ad dominum. Fol. 145, col. 2. Intelligamus monachorum
ordinem, quem designat Johannis, a Graecis pervenisse ad Latinos ....
revertetur ad eum populum, de quo venit ad nos, permansurus in eodem
populo usque ad finem. _Conc._, II, 1, 27, fol. 17, col. 3. Verumtamen
ut in populo illo claruerunt Helias et Heliseus .... ita inventi
sunt in populo grecorum magis heremite et abbates, habentes plures
discipulos in monastica perfectione.

[637] _Conc._, V, 47, fol. 82, col. 1. Siquidem clericorum ordo
secundum grecos, non secundum spiritum cepit ambulare sed secundum
litteram. Monacorum vero qui ab eis quidem incepit, sed tamen processu
temporis transiit ad latinos, audiens consilium apostoli de castitate,
magis elegit ambulare secundum spiritum quam secundum literam (1,
_Cor._, 7). Non enim simpliciter voluit audire de sacerdote unius
uxoris viro, sed magis illud: qui sine uxore est sollicitus est que
domini sunt quomodo placeat Deo; qui autem cum uxore est, sollicitus
est quomodo placeat uxori.

[638] _In Ap._, fol. 131, col. 1. Pathareni haeretici mundos se
coram populo, justitia preditos esse simulant, tamen ex occulto circa
finem verbi producunt aculeos erroris sui, quibus tamen non servos
Dei promittentur ferire, sed illos homines, qui mundanas delitias
concupiscunt .... pro subsidiis tamporalibus (credentes) adheserunt
eis (perfectis) sicut ex relatu eorum, qui tum fuerunt inter eos
et penituerunt, didicimus .... denique convenientes in unum faciunt
collectas bonorum suorum, et si quos vident inopes anhelare ad divitias
mundi, primo ostendut eis affectum misericordiae et miserationis:
deinde culpant Christianos divites et maxime Sacerdotes et clerum
qui deberent (ajunt) servare apostolicum vitam et sublevare miserias
pauperis et egeni, ut nemo esset egens in religione Christiana, sicut
non erat in Ecclesia primitiva. Deinde dicunt eos excidisse a fide,
factos autem persecutores justorum, sicut sacerdotes Judaeorum, qui
persequebantur apostolos. Ad ultimum fatentur se scire homines qui
servent ad integrum apostolicam fidem, ita ut fit aliquis inops inter
eos, et qui pauper venit ad illos, protinus efficetur dives. Haec et
his similia QUASI RATIONABILITER CONCINNANTES munda animalia se esse
fingunt quousque percutiant homines ex improviso dicentes: Et tu quoque
si vis esse de credentibus in fidem etc.

[639] Tra i molti luoghi in cui Gioacchino critica il Vecchio
Testamento scelgo questo della _Concordia_, II, 15, fol. 6, col. 1.
Qui sciebat duritiam cordis eorum, qui terreni erant, adhuc pro tempore
promisit eis multa, quae non decet sanctos, promisit non celestia sed
terrena, temporalia non eterna. Ergo ne pro terrena patria fundendus
est sanguis, et ut longo vivamus tempore serviendum est Deo .... Si
pro justitia sua Habraam patriarcha multiplicatus est in semine carnis,
quare in singulis regionibus multiplicati sunt filii Adam in gentibus
incredulis et non obedientibus Deo? Si pro munere credulitatis ejus
datum est ei, ut reges egrederentur de lumbis ejus, numquid non merito
paganorum filii preferre potuere numina idolorum suorum, qui colentes
et servientes eis etiam in toto mundo imperasse noscuntur? .... Sed
quasi per tot annos data est terra ipsa gentibus non servantibus
legem Dei, neque obtemperantibus Moisi servo Dei? Col. 2: Quomodo
aliam vitam permisere prophete, quam ea quam vere permiserat Moyses
observantibus legem? .... Si ista, quae deorsum est Hierusalem civitas
revera justorum est et mater credentium, quomodo in ea regnasse impii,
et justi et innocentes viri interfecti leguntur? .... Restat ergo ut
fateantur veram esse sententiam illam Apostoli (II, _Cor._, 3, 6), qua
dictum est: _litera occidit, Spiritus autem vivificat_.

[640] BONWETSCH, _Die Geschichte des Montanismus_, pag. 57.

[641] BONWETSCH, pag. 56.

[642] ROUSSELOT, _Joachim de Flore_, Paris, 1867, pag. 53.

[643] BULAEUS, _Historia universitatis parisiensis_, III, 26.

[644] GUILLELMUS ARMORICUS, in D'ARG., I, 127. Redit ergo Parisius,
et compellitur ab Universitate confiteri ore, quod in contrarium
praedictae opinioni suae sentiret ... Taedio ergo et indignatione
affectus, ut dicitur, aegrotavit, et lecto incumbens decessit in brevi.

[645] La fonte più antica, dalla quale a parola copiò il Rigordo,
voglio dire la Cronaca di Guglielmo Armorico, cappellano di Filippo
Augusto, esposta la dottrina di Amorico senza far cenno delle tre età,
seguita (D'ARG., I, 127): Post mortem ejus surrexerunt quidam, venenosa
ejus doctrina infecti, qui eo subtilius, plus quam oportet, sapere
cupientes, ad exsufflandum Christum, et ad evacuanda novi Testamenti
sacramenta, novos et inauditos errores et inventiones diabolicas
confinxerunt. Parimenti CESARE HEISTERBACH nella sua _Illustrium
miraculorum Historia_, V, 22, attribuisce la dottrina, che ei chiama
maximam blasphemiam in Spiritum Sanctum, non ad Amorico, e neanco a
Davide, bensì ad un mastro Guglielmo, ad un sottodiacono Bernardo, ad
un altro Guglielmo orefice ecc.

[646] MARTINO POLONO, in D'ARG., I, 128. Qui Almaricus asserit ideas,
quae sunt in mente divina, creare et creari .... Et sicut alterius
naturae non est Abraam, alterius Isaac, sed unius ac ejusdem, sic
dixit: omnia esse unum et omnia esse Deum .... Item dixit quod sicut
lux non videtur in se, sed in aëre, sic Deus nec ab Angelo, neque ab
nomine videbitur in se, sed tantum in creaturis.

[647] S. TOMMASO in 2 Sent. dist. 17, qu. I, art. I, accenna soltanto
il ragionamento di Davide senza svolgerlo: et haec tria esse unum, et
idem, ex quo iterum consequitur esse omnia per essentiam unum.

[648] Item asseruit quod si homo non peccasset, in duplicem sexus
partitus non fuisset, nec gravasset; sed eo quo modo sancti angeli
multiplicati sunt, multiplicati fuissent et homines, et quod post
resurrectionem utriusque sexus, adunabitur sicut fuit prius in
creatione. (M. POLONUS in D'ARG., I, 128).

[649] Dixerat etiam quod in charitate constitutis nullum peccatum
imputabant. MARTINUS, l. c., cfr. GUILLELMUS ARMORICUS in D'ARG., pag.
127. Charitatis virtutem sic ampliabant, ut id quod alias peccatum esse
si in virtute fieret charitatis, dicerent jam non esse peccatum. Unde
et stupra et adulteria in charitatis nomine committebant.

[650] VINCENZO BELLOV., _Spec. hist._, lib. XXX, cap. VII. Prima
haeresis ejus fuit, quod quilibet tenetur credere se esse membrum
Christi, et hoc esse unum de fidei articulis, sine quo homo non potest
salvari.

[651] GUILLELMUS ARMORICUS, in D'ARG., I, 130. Dicebant non aliter
esse corpus Christi in pane altaris, quam in alio pane, et qualibet re,
sicque Deum locutum fuisse in Ovidio, sicut in Augustino. Quest'ultimo
pensiero è molto importante. I veggenti della verità non si possono
distinguere in pagani, e gentili, ebrei o cristiani, chè a tutti
parimenti si è rivelata la somma sapienza. In quanto all'Eucaristia la
formola, di cui si solevano servire gli Almariciani, ci è conservata
negli _Atti_ del Concilio di Parigi del 1210 pubblicati dal MARTÈNE,
_Thesaurus_, VI, 163, D'ARGENTRÉ, I, 129: Id quod ibi fuerat prius
formis visibilibus, prolatione verborum subesse ostenditur. Le parole
mistiche, sulle quali insistevano i Valdesi, non sarebbero se non una
constatazione del fatto che il pane, come tutte le cose, possono dirsi
il corpo di Dio.

[652] Dagli _Atti_ citati, pag. 129. Item, filius incarnatus, id
est visibili formae subjectus, nec aliter illum hominem esse Deum,
quia unum ex eis cognoscere voluerunt. Item Spiritus Sanctus in eis
incarnatus, ut dixerunt, eis omnia revelabat.

[653] Dagli _Atti_, pag. 128: Pater a principio operatus est sine Filio
et Spiritu Sancto usque ad ejusdem Filii incarnationem.

[654] Dagli _Atti_, loc. cit. Pater in Abraham incarnatus, filius in
Maria, Spiritus quotidie in nobis incarnatus.

[655] Dagli _Atti_, pag. 129: Item Filius usque nunc operatus est,
sed Spiritus Sanctus ex hoc nunc usque ad mundi consummationem inchoat
operari. GUILLELMUS ARMORICUS in D'ARG., 127: Potestas Patris duravit
quamdiu viguit lex Mosaica .... postquam Christus venit aboleverunt
omnia Testamenti veteris sacramenta, et viguit nova lex usque ad
illud (istud?) tempus. In hoc ergo tempore dicebant Testamenti Novi
sacramenta finem habere, et tempus Sancti Spiritus incoepisse. CAES.
HEIST., V, 22: Sicut ceciderunt formae legales in primo Christi
adventu, ita nunc cadent omnes formae quibus Filius operatus est, et
cessabunt sacramenta, quia persona Spiritus Sancti dare manifestabit se
in quibus incarnabitur. VINC. BELLOV., XXX, 7: Viguit lex Christi usque
ad tempus Almorici, et ex tunc habuerunt finem, ac fuerunt evacuata
Baptismus, Poenitentia et omnia alia novae legis sacramenta.

[656] GUILLELMUS ARMORICUS, pag. 130: Negabunt resurrectionem corporum.
La trasformazione razionalistica c'è conservata dagli _Atti_. Riscontra
il passo citato più su, p. 415, n. 1, il quale finisce: et haec
revelatio (dello spirito) nil aliud erat quam mortuorum resurrectio.

[657] GUILLELMUS, l. c. Nihil esse Paradisum neque Infernum, sed qui
haberet, cognitionem Dei, quam ipsi habebant, paradisum haberet in
se; qui vero mortale peccatum, haberet infernum in se, sicut dentem
putridum in ore.

[658] Dagli _Atti_, pag. 129: Mentiti sunt bonorum Baptismatis non
egere parvulos.

[659] Altaria sanctis statui, et sacras imagines thurificari idolatriam
esse dicebant. Eos, qui ossa martyrum deosculabantur, subsannabunt.
(CAES. HEIST., pag. 130).

[660] Confessionem, Baptismum, Eucharistiam et alia, sine quibus salus
haberi non potest, locum de caetero non habere; sed unumquemque tantum
per gratiam Spiritus Sancti interius, sine actu aliquo, inspiratam
salvari posse. (GUILLELMUS ARMORICUS, pag. 127).

[661] CAES. HEIST., pag. 130: In quarta descendet ignis super Praelatos
Ecclesiae, qui sunt membra Antichristi. Dicebat enim qui Papa esset
Antichristus et Roma Babylon. Et ipse sedet in Monte Oliveti, id est,
in pinguedine potestatis.

[662] Debbo la notizia di questa cronaca al bibliotecario della
Nazionale di Napoli, sig. Alvisi, il quale ha studiate e confrontate le
diverse redazioni, e raccolti molti materiali sulle fonti. S'è cercato
finora invano un editore, che voglia pubblicare questo antico documento
nell'originale latino.

[663] L'AFFÒ, _Vita di frate Elia_, Parma, 1819, pag. 10, crede che la
cronaca rimonti ai principii del secolo XIV, ma non sia stata scritta
dal B. Angelo da Cingoli detto Clareno, come sospettava il Wadding.
La redazione italiana è anch'essa antica, e l'esemplare che vide
l'Affò non conteneva se non cinque Tribolazioni. In fine del volume in
carattere nero si leggeva: «Finisce la clonicha dellordine delli frati
minori ad gli anni MCCCXXIII».

[664] «Certamente, dice l'Affò a p. 11, questo libro è antico, e vi
sono inseriti dei squarci tolti e copiati interamente da altri ancora
più vecchi, perchè nella seconda tribolazione facendosi memoria di
fra Bernardo ecc., soggiunge l'autore: _E molti altri degli quali
io ne vidi alquanti e udii dalloro quello che io narro_; ma appunto
per essere un accozzamento di cose tolte da molti vi sono mescolate
moltissime falsità .... Accozzamenti di più racconti tolti qua e là
sono pure il Libro intitolato: _Speculum Vitae B. Francisci et sociorum
ejus_ e i _Fioretti di S. Francesco_, onde benchè antichi d'assai non
sono troppo sicuri». Al passo citato dall'Affò aggiungo quest'altro,
che accenna pure all'autore della Cronaca pag. 93_r_. _E noi che fummo
con lui_ (S. Francesco) _quando che scrisse la regola, e quasi tutte
le altre sue scripture, li rendiamo testimonianza che scripse più cose
nella regola e nelli altri suoi decreti, delle quali cose alcuni frati
li furono contrarii in vita sua_.

[665] TOMMASO DA CELANO, _Vita di S. Francesco_, cap. III, (_Acta
SS._, octobris, II, 689). Cum .... Sanctus Dei assistens ibidem verba
evangelica intellexisset, celebratis missarum solemnis, a sacerdote
sibi exponi Evangelium suppliciter postulavit; pag. 690, solvit
protinus calceamenta de pedibus, baculum deponit e manibus, et tunica
una contentus, pro corrigia funiculum immutavit.

[666] Vedi la seconda regola in WADDING, _Annales Minorum_, II, 64:
Si qui voluerint hanc vitam illis verbum Sancti Evangelii, quod
vadunt et vendunt omnia sua, et ea studeant pauperibus erogare.
Et caveant fratres et eorum ministri, ne solliciti sint de rebus
suis temporalibus, ut libere faciant de rebus suis quidquid Dominus
inspiraverit eis.

[667] S. BONAV., _Vita di S. Francesco_, cap. IV (BOLL., l. c. pag.
751) Faciebat namque sancta paupertas .... ipsos ad omnem obedientiam
prontos, robustos, ad labores et ad itinera expeditos. Et quia nihil
terrenum habebant, nihil amabant, nihilque timebant amittere, securi
erant ubique, nullo pavore suspensi, nulla cura distracti, tanquam
qui absque mentis turbatione vivebant, et sine sollicitudine diem
crastinum, et serotinum hospitium expectabant.

[668] Vedi il cap. II della prima regola in WADDING, II, 67. Alii
vero, qui promiserunt obedientiam, habeant unicam tunicam cum caputio,
et aliam sine caputio, si necesse fuerit, et cingulum et bracas. Et
omnes fratres vilibus vestis induantur, et possint eas repeciare de
sacis et aliis peciis. Cfr. cap. 14, pag. 73. Quando fratres vadunt per
mundum nihil portent per viam nec sacculum, nec peram, nec panem, nec
pecuniam, nec virgam.

[669] Cap. VIII della prima regola, in WADDING, I, 71. Omnes fratres
studeant sequi humilitatem et paupertatem Domini nostri Jesu Christi.
Così parimenti: Non resistat malo, sed si quis eos in maxillam
percusserit, praebeant ei alteram, et qui auferret eis vestimentum
non prohibeant. Cap. V, pag. 69. Similiter omnes fratres non habeant
potestatem vel dominationem maxime inter se. Cap. VI, pag. 70. Et
nullus vocetur Prior, sed generaliter omnes vocentur fratres minores,
et alter alterius lavet pedes.

[670] Cap. V. Fratres illi quibus gratiam dedit Dominus laborandi
laborent fideliter et devote .... De mercede vero laboris pro se et
suis fratribus corporis necessaria recipiant praeter denarios vel
pecuniam.

[671] Cap. VI, pag. 66. Fratres nihil sibi approprient nec domum nec
locum nec aliquam rem sed tanquam peregrini et advenae in hoc saeculo
in paupertate et humilitate Domino famulantes, vadant pro eleemosyna
confidenter.

[672] Sul cantico del sole vedi il BARTOLI, _Storia della letteratura
italiana_, II, 189 ed i _Fioretti_, cap. XV, XXI, XXII. S. BONAV., in
_Acta SS._, l. c., pag. 704. Affluebat spiritu caritatis, pietatis
viscera gestans, non solum erga homines necessitatem patientes,
verum erga muta brutaque animalia, reptilia, volatilia et caeteras
insensibiles creaturas; pag. 705: Quare sic fratres meos agnos ligatos
et suspensos excrucias? ... tolle pro pretio mantellum, quem porto, et
agnos mihi concede.

[673] HASE (_Franz von Assisi_, pag. 44) cita questo detto di S.
Francesco attribuitogli da S. Bonav. (_Vita_ nei BOLL., pag. 764): Pro
furto mihi reputo a magno Eleemosynario imputandum, si hoc quod fero
non dedero magis egenti.

[674] _Regula_, cap. VII, pag. 70. Et caveant sibi quod non ostendant
se tristes extrinsecus, nubilosos et hipocritas; sed ostendant se
gaudentes in Domino, hilares et convenienter gratiosos.

[675] La predicazione però dovea essere sottoposta alla licenza dei
vescovi. Vedi regola seconda, cap. IX, in WADDING, II, 67.

[676] _Tres Socii_ (BOLL., l. c., p. 691). Tunc beatus Franciscus omnes
(discipulos) ad se convocavit .... et ait ad eos: ite cautissimi bini
et bini per diversas partes orbis, annunciantes pacem hominibus et
poenitentiam in remissionem peccatorum. Vedi il cap. XV dell'antica
regola: nullo modo apud se nec apud alium et aliquo modo bestiam
aliquam habeant, nec eis liceat equitare nisi infirmitate, vel magna
necessitate cogantur.

[677] Che nella Corte pontificia Francesco trovasse molte resistenze
lo attestano le fonti più antiche. Tomaso da Celano racconta (pag.
693), che il vescovo di Sabina volea persuadere il Patriarca ut ad
vitam monasticam suam eremiticam diverteret. Il Papa stesso era restio
a favorire l'istituzione di nuovi ordini, come ne fa fede il canone 13
del Concilio lateranense. Secondo Matteo Paris, ad ann. 1227, avrebbe
accolto così male il santo mendico da dirgli (ed. londinese 1640, pag.
340): Vade frater et quaere porcos quibus potius debes quam hominibus
comparari, et involve te cum eis in volutabro, et regulam illis a
te commentam tradens officium tuae praedicationis impende. Codesto
discorso è inverisimile, perchè Francesco era stato raccomandato dalle
più alte autorità ecclesiastiche; ma è ben certo, come lo attestano i
tre socii, che fece osservazioni sull'applicabilità della regola, nè
si piegò ad approvarla se non dopo una visione, che ebbe in sogno. V.
pag. 736. Dominus Papa .... dixit ei et sociis: Filioli nostri, vita
vestra videtur nobis nimis dura et aspera, licet enim credimus vos esse
tanti fervoris, quod de vobis non oporteat dubitare, tamen considerare
debemus pro illis, qui secuturi sunt vos. Pag. 737: Inn. III ....
viderat in visione quod Ecclesia Sancti Joannis Lateranensis minabatur
ruinam, et quidam vir religiosus, mendicus et despectus eam sustentabat
proprio dorso submisso. Un'altra visione racconta la _Cronaca delle
Tribolazioni_, pag. 352.

[678] DANTE, _Parad._, XI, 92, dice che Francesco ebbe da Innocenzo
_Primo sigillo a sua religione_, e prima di Dante Onorio III nella
stessa bolla d'approvazione ricordava la regola a bonae memoriae
Innocentio Papa approbatam. Ma si deve intendere di una approvazione
verbale, come dice S. Bonaventura in BOLL., p. 739: licet praefatus
dominus Innocentius tertius ordinem et regulam approbasset ipsorum,
non tamen hoc suis litteris confirmavit. Pag. 749: Distulit tamen
perficere quod Christi postulabat pauperculus pro eo quod aliquibus de
Cardinalibus novum aliquid et supra vires humanas arduum videretur.

[679] I Bollandisti bene osservano che la regola sottoposta ad
Innocenzo non poteva essere quella, che il Wadding pubblicava nel primo
volume degli _Annali_. Perchè codesta regola è molto diffusa, laddove
la prima, secondo la più antica fonte, il _Celano_, p. 692, era scritta
simpliciter et paucis verbis. Inoltre nella regola pubblicata dal
Wadding manca l'articolo che nessun frate francescano possa lasciare il
suo ordine per entrare in altro, articolo che si sa approvato da Onorio
III. (Lettera di Onorio data XIV Kal. Jan., anno VIII, in WADDING, II,
71). Pare che anche Onorio volesse fare qualche correzione alla regola.
Secondo la _Cronaca delle Tribolazioni_, pag. 103_r_, ed il Wadding che
la copia (II, 69) avrebbe voluto mutare il capitolo X, ma S. Francesco
dichiarò non esser lui, ma Gesù Cristo che ha dettata la regola, che
dev'essere lasciata come sta.

[680] La seconda regola differisce nei primi otto capitoli tanto
poco dalla prima che vi sono ripetute non solo gli stessi precetti,
ma perfino le stesse parole. La sola differenza sta nella maggior
concisione.

[681] Il WADDING riporta il testamento di S. Francesco, dal quale tolgo
questi passi (II, 145). Et non dicant fratres: haec est alia Regula,
quia haec est recordatio admonitio et exortatio et meum textamentum,
quod ego frater Franciscus parvulus vester facio vobis fratribus meis
benedictis propter hoc ut Regulam, quam Domino promisimus, melius
catholice observemus. Et generalis minister et omnes alii ministri
et custodes per obedientiam teneantur in istis verbis non addere vel
minuere .... Et omnibus fratribus meis clericis et laicis praecipio
firmiter per obedientiam, ut non mittant glossas in Regula, nec in
istis verbis dicendo: ita volunt intelligi; sed sicut dedit mihi
Dominus pure et simpliciter dicere et scribere Regulam et ista verba,
ita simpliciter et pure et sine glossa intelligatis, et cum sancta
operatione usque in finem observetis.

[682] Il WADDING, II, 62 e segg., racconta le cose secondo la _Cronaca
delle Tribolazioni_, dalla quale tolgo i seguenti passi: pag. 15
_verso_: «E mentre questo nostro Francesco vacava e stava congiunto
con Dio, frate Elia con li suoi seguaci e con alcuni ministri si
riscaldorono e infiammorono e con tumulto gridorono. Ma perchè non
ardivano a ponersi al contrario pubblicamente, nascostamente li
tolsono e furorono la Regola a frate Leone, uomo di Dio, al quale S.
Francesco l'avea data a serbo. Pag. 98_r_: In questo mezzo mentre che
esso era tutto assorto con infiammati e celesti desiderii solo in Dio,
e domandando a Gesù Cristo la reparazione della regola, stimola il
diavolo e incita li ministri di diverse provincie, e commossi dallo
spirito dell'aquilone vennono insieme con frate Elia a rammaricarsi e
a porre querele con protestazione .....» Pag. 99_v_: «Qualmente alla
loro infermità basta d'avanzo e di soperchio d'observare le cose le
quali di già hanno promesso, che la loro infermità ha bisogno». Questa
narrazione viene compiuta dallo _Speculum vitae_.

[683] _Cronaca delle Tribolazioni_, pag. 89_r_: «(I ministri)
multiplicarono gente e non magnificarono letizia, accompagnando in
questo multiplicare l'ordine di gente molti uomini perversi, insieme
con li buoni e innocenti frati. Li quali huomini perversi, confidandosi
della loro prudentia, s'affrettavano e desideravano di reggere e non
d'esser retti, e di fare arrogantemente una regola secondo il loro
proprio senno e secondo la loro propria voluntà a sè e ad altri ....
e tanto crebbono questi mali avanti alla morte di S. Francesco che
esso poverello Francesco, il quale era abitacolo dello Spirito Santo,
non vi potette porre alcuno rimedio di curatione nè con parole, nè con
esempii, nè con segni, nè con miracoli. Ma mandando avanti l'orazione,
elesse per più sicura parte di vacare a Dio e rinunziare in tutto e per
tutto al offitio del generalato, e non aver più cura nè governo alcuno
delli frati». Nel capitolo seguente, è riferito un dialogo, nel quale
S. Francesco dopo la rinunzia al generalato avrebbe detto (pag. 92_r_):
«Solamente che li frati andassino e fussino andati secondo la volontà
di Dio e mia, io non vorria che li frati avessino altro ministro che me
per insino alla mia morte».

[684] L'AFFÒ, _Vita di frate Elia_, pag. 21, dopo avere riassunto il
racconto della _Cronaca_ e dello _Speculum_ dice: «Simili semplicità
anche dal Waddingo assai più circostanziate si replicano, senza
considerare se al confronto della ragione sussister possano. Ma
rimontando all'origine di tali narrazioni, e non vedendole noi entro
le opere dei coevi scrittori, prendiamo a discorrere dei sussequenti e
cominciamo a veder simil fatto descritto dal mentovato frate Martino da
Casale, il quale per farcelo credere afferma che avanti a tutti ce ne
lasciasse memoria fra Leone, uno dei primi compagni di S. Francesco in
certi rotoli depositati già nel convento di S. Chiara. Confessa però
di non averli potuti vedere, e per togliere a ciascuno la curiosità
di cercarli aggiunse: cum multo dolore audivi illos rotulos fuisse
distructos. A questa maniera è lecito a chiunque fingersi monumenti, ed
ingannar sulla fede i leggitori. Ma buon per noi che quanto fra Leone
e i suoi due compagni scrissero intorno la Vita di S. Francesco non
è perito, e la loro leggenda vedesi pubblicata dai Bollandisti senza
incontrarvi la menoma parola del finto racconto».

[685] BOLL., loc. cit., pag. 710. Cumque de die in diem infirmitas
illa succresceret, et ex incuria videretur quotidie augmentari, frater
Helias tandem, quem loco matris elegerat sibi, et aliorum fratrum
fecerat patrem, compulit eum ut medicinam non abhorreret.

[686] Vedi la _Cronaca_ dei XV e quella dei XXIV generali in AFFÒ, pag.
23. Post mortem vero fratris Petri B. Franciscus posuit ad regendum
ordinem fratrem Heliam de Assisyo virum utique famosa providentia
illustratum. Riscontra il passo del Celano nella nota precedente.

[687] _Cronaca delle Tribolazioni_, pag. 119_v_. «Venendo a morte
Francesco fece chiamare a sè frate Bernardo da Quintavalle, il quale
fu el primo frate dell'ordine dopo S. Francesco, e li pose la sua
mano dricta sopra il capo e davanti a tutti li frati lo benedisse con
cordiale e singulare affectione, e fece scrivere sotto dettato ad un
frate: il primo frate il quale il Signore mi dette fu frate Bernardo
.... Onde io voglio e comando quanto so e posso che ciascheduno il
quale sarà generale di questa religione ami quello, e l'honori come me
medesimo». I _Fioretti di S. Francesco_, cap. VI, rincarano la dose. «E
ponendosi frate Elia dalla mano diritta, Santo Francesco, il quale avea
perduto il vedere per le troppe lagrime, puose la mano ritta sopra il
capo di frate Elia e disse: questo non è il capo del mio primogenito
Bernardo, allora frate Bernardo andò a lui dalla mano sinistra, e S.
Francesco allora acconciò le braccia a modo di croce, e poi puose la
mano dritta sopra il capo di frate Bernardo e la manca sopra il capo
del detto Elia e disse a frate Bernardo .... Sia il principale dei
tuoi fratelli, ed al tuo comandamento tutti i frati obbediscano». Il
racconto dei _Fioretti_ è proprio il rovescio di quello più antico del
Celano, che ricorda pure l'incrociamento delle braccia, ma dice cumque
a sinistris ipsius resideret frates Elias, circumsedentibus reliquis
filiis cancellatis manibus dextram posuit super caput ejus, et dixit:
Te fili mi in omnibus et super omnia benedico. Si vede chiaro come
il racconto originale sia stato guasto per fine polemico. Ed è molto
istruttivo il confronto tra questo discorso del Patriarca, e l'altro
messogli in bocca dai _Fioretti_, cap. IV. _Male fate, frate Elia
superbo_ ecc. Tutto il racconto di questo capitolo è manifestamente
favoloso.

[688] La riporta l'AFFÒ, op. cit., pag. 29 .... pupilli sumus absque
patre et orbati lumine oculorum nostrorum ecc.

[689] Gli storici francescani non sono d'accordo su questo punto.
La _Cronaca delle Tribolazioni_ e il Wadding con essa (II, 164)
raccontano che alla morte di S. Francesco il vicario Elia fu fatto
generale, e che poi per dissidii insorti fu deposto e sostituito da
fra Giovanni Parente. Ben presto però Elia rifattosi dalla sconfitta,
avrebbe ripreso il generalato, dal quale dopo molto altro tempo venne
deposto da Gregorio IX. Questo racconto benchè confermato dal Salimbene
che dice di Elia a pag. 402: bis factus generalis minister, è poco
credibile come ha dimostrato l'Affò, op. cit., pag. 32, perchè fonti
antichissime, come Bernardo di Bessa segretario di S. Bonaventura,
dicono chiaramente: Fuerunt igitur post transitum sancti Patris hii
ejus successores videlicet frater Johannes cognominatus Parentius
.... isti successit frater Helyas. Con Bernardo s'accorda la Cronaca
dei XV e l'altra dei XXV Generali. L'espressione del Salimbene si può
intendere nel senso spiegato dall'Affò, che il vicario sino alla nomina
del nuovo generale fu da tutti riconosciuto per capo dell'ordine.

[690] L'AFFÒ, op. cit., pag. 36, scrive: «Frate Elia seppe tosto
indurre un divoto personaggio chiamato Simone Puzzarelli a fargli dono
del luogo detto Colle d'Inferno presso Assisi, ove gittar i fondamenti
dell'ideato edifizio. Il diligentissimo P. maestro Antonio Maria
Azzoguidi ci ha pubblicato il documento di tal donazione, steso il
30 di Marzo del 1228, per cui il donatore privossi del detto luogo,
e frate Elia a nome del Pontefice lo accettò ad habendum, tenendum,
possidendum, faciendum omnes utilitates et usus fratrum in ea videlicet
locum, Oratorium vel Ecclesiam pro beatissimo corpore Sancti Francisci,
vel quicquid ei de ipsa re placuerit in perpetuum». Codesta costruzione
era contraria alla regola, la quale prescriveva che le case dei frati
si costruissero in legno a guisa piuttosto di provvisorio ricovero che
di stabile dimora.

[691] La _Cronaca delle Tribolazioni_, pag. 143_r_, c'informa che
molti frati «lassata l'orazione mettevano avanti la curiosa e sterile
sapienza d'Aristotile alla divina sapienza, e che avidamente e con gran
sete desideravano d'udire maestri loici e filosofi, e che procurorono
ardentemente di avere e moltiplicare le scuole di queste scienze. E
che queste e altre simili cose li maggiori come li minori comunemente
predicavano excepto alquanti pochi admaestrati dallo spirito di Gesù
Cristo. Onde quelli frati spirituali si determinorono che era loro
necessario di ricorrere al sommo Pontefice e a la Chiesa romana».
Da questo passo s'inferisce che fin dal tempo di Elia il partito
intransigente cominciava a prendere il nome di SPIRITUALE, conforme
alle idee di Gioacchino. Non tutti i Gioachiti però avevano in dispetto
gli studii, ed il Salimbene (pag. 405) non che biasimare, loda frate
Elia, quia ordinem fratrum minorum ad studium theologiae promovit.
Che oltre alla teologia frate Elia coltivasse altri studii lo dice
il Salimbene, pag. 411: Undecimus defectus fratris Helyae fuit, quia
infamatus fuit quod intromitteret se de alchimia.

[692] SALIMBENE, pag. 402: Habebat gratiam Imperatoris et Papae. In
quanto al Papa basterà riferire questo brano della _Cronaca delle
Tribolazioni_, pag. 128_v_. «La buona memoria del Pontefice Gregorio
molto si confidava di frate Elia per la grande e costumata onestà, la
quale vedeva in lui e per la singulare prudentia e scientia, per la
quale si credeva che passassi sopra tutti li religiosi di quel tempo».

[693] Pag. 401: Et dominus Ghirardus de Corrigia, qui dicebatur
de Dentibus eo quod magnos dentes habebat, tunc temporis Potestas
parmensium erat, et venit personaliter cum quibusdam militibus ad locum
fratrum minorum ad visitandum fratrem Helyam generalem ministrum, qui
sedebat in domo, in qua hospites sive forenses comedunt, super lectum
de culcidra, et habebat ignem copiosum coram se et cappellam armenicam
in capite suo, nec Potestati intranti et se salutanti assurrexit,
nec de loco suo motus est, ut vidi oculis meis, quae fuit rusticitas
maxima reputata. Queste citazioni del Salimbene le tolgo dal libro
_De praelato_, il quale secondo il Novati non è un'opera a parte, come
parrebbe dall'edizione parmense, bensì una delle maggiori digressioni
che si leggono nella Cronaca. Vedi NOVATI, _La Cronaca di Salimbene_
nel _Giornale storico della letteratura italiana_, I, 390.

[694] La lettera è riportata dal WADDING, III, 20, colla data 1239:
Sunt inter nos aliqui, qui propter discipulatum et societatem sancti
Patris nostri Francisci habentur apud domesticos et exteros in magna
aestimatione, sed hi suo se regentes sensu, laxantes obedientiae
frenum, velut oves absque pastore et homines absque ductore, hic inde
discurrunt, loquentes quae placent ecc.

[695] SALIMBENE, pag. 405. Item supradictus Helyas ministros
provinciales ita tenebat sub baculo quod tremebant eum, sicut juncus
tremit cum ab acqua concutitur .... Deponebat eos ab officio ....
insuper caputium longum dabat quibusdam et mittebat eos ab oriente in
occidentem.

[696] Vedi l'aneddoto raccontato dal Salimbene, di un frate Alberto
parmense, ministro di Bologna, stato prima deposto dal suo ufficio, ma
poi che si sottomise restitutus fuit in gradum pristinum, insuper et
multa ab Helya obtinuit pro provincia sua.

[697] _Cronaca delle Tribolazioni_, pag. 132 (WADDING, III, 20):
«Comanda questo judice che frate Cesare, uomo innocente e in tutte le
sue cose savio e sancto, sia incarcerato con li ferri al piede ecc.
prese una stanga e lo percosse tanto crudelmente e fortemente che
.... si morì e fu il primo ammazzato ed ucciso per le mani delli suoi
fratelli, come el primo martire Stefano orando per li persecutori ....
In quella medesima ora che l'anima sua uscì dal corpo Papa Gregorio
vidde portare dagli angeli un'anima in cielo», pag. 133_v_, (l'angelo
disse al Papa) «della quale anima tu nel giorno della tua morte hai
a rendere ragione a Dio, perocchè per occasione della tua autorità
dopo la prigionia e li ferri e molte afflictioni, le quali tutte lui
pazientemente ha sostenute, dalli suoi frati e per la fede e pura
observantia della sua regola è stato morto da loro», pag. 137_v_. (S.
Antonio venendo in Assisi per avere il cadavere di S. Francesco) «fu
preso dai birri di frate Elia e spogliato e disciplinato insino al
sangue».

[698] Riporto dalla bolla di Gregorio IX (WADDING, II, 224) questo
passo: Duximus respondendum quod si rem necessariam velint fratres
emere vel solutionem facere pro jam empto possint vel Nuncium ejus a
quo re emitur, vel aliquem alium volentibus sibi eleemosynam facere
nisi iidem per se, vel proprios nuncios maluerint praesentare,
qui taliter praesentatus a fratribus non est eorum nuncius, licet
praesentetur ab ipsis, sed illius potius cujus mandato solutionem
fecit, seu recipientis eandem.... Ad quem etiam fratres pro hujusmodi
necessitatibus poterunt habere recursum, maxime si negligens fuerit,
vel necessitates ignoraverit eorundem.

[699] Frate Elia accettò in nome del Papa la donazione citata più
sopra (p. 437, n. 1). Vedi inoltre la Bolla di Gregorio, pag. 246:
Dicimus itaque quod nec in communi nec in speciali debent proprietatem
habere, sed utensilium et librorum et eorum mobilium quae licet habere,
eorum usum habeant.... nec vendi debeant mobilia vel extra ordinem
commutari aut alienari quoque modo, nisi Ecclesiae Romanae Cardinalis,
qui fuerit ordinis Gubernator .... auctoritatem super hoc praebuerit.
Confrontate la Bolla d'Innocenzo IV del 1245, riportata dal WADDING,
III, 129. Et licet in eadem Regula sit prohibitum, ne fratres recipiant
per se, vel per alios denarios vel pecuniam ullo modo, possunt tamen,
si rem sibi necessariam aut utilem velint emere, vel solutionem
facere pro re empta, vel nuncium ejus a quo res venditur, vel aliquem
alium volentibus sibi eleemosynam facere, nisi eidem per se vel per
proprios nuncios solvere maluerint. Pag. 130: Et taliter nominati vel
praesentati a fratribus non sunt eorum nuncii, seu depositarii; sed
illorum, a quibus eis pecunia vel denarii committuntur .... Cum tam
immobilium quam mobilium hujusmodi jus proprietas et dominium ....
nullo modo ad ecclesiam ipsam spectent, cui domus et loca praedicta
cuna Ecclesiis caeterisque suis pertinentes (quae omnia in jus et
proprietatem beati Petri suscipimus) omnino tam in spiritualibus quam
in temporalibus immediate subesse noscuntur.

[700] SALIMBENE, pag. 410: Octavus defectus fratris Helyae fuit quia
violenter voluit tenere dominium ordinis, quod ut melius tenere posset
plures sagacitates habebat. Primam quia frequenter mutabat ministros,
ne nimius radicati fortius insurgerent contra ipsum; secundam quia
illos fratres faciebat ministros, quos reputabat amicos; tertiam quia
non faciebat capitula generalia nisi particularia idest cismontanorum,
non enim vocabat ultramontanos ministros, timens ne deponeretur ab eis.

[701] SALIMBENE, pag. 403. Porro secundus defectus fratris Helyae
fuit quia multos inutiles recepit ad ordinem. Habitavi in conventu
senensi duobus annis, et vidi ibi XXV fratres laycos .... propter hoc
recipiebat multitudinem laycorum, qua posset melius talibus dominari
.... Tertius defectus fratris Helyae, quia homines indignos promovit
ad officia ordinis, faciebat enim laycos guardianos, custodes et
ministros, quod absurdum erat valde, cum in ordine esset copia bonorum
clericorum.

[702] Anche il Salimbene deve suo malgrado riconoscerlo, pag. 403. Si
quis autem objiciat verbum Regulae quod dicit: _Ipsi vero ministri si
presbyteri sunt_, dicimus quod hoc pro tempore dictum fuit, quando in
ordine non erat copia sacerdotum.

[703] Il Salimbene ai rimproveri riportati più su (p. 443, n. 1)
aggiunge questi altri: p. 404. Quartus defectus fratris Helyae
fuit quod toto tempore, quo fuit minister non fuerunt generales
constitutiones. Longum esset valde si vellem ruditates et abusiones,
quas vidi, referre. Pag. 405: Quintus defectus, quia nunquam
personaliter volebat ordinem visitare. Pag. 409: Septimus defectus,
quia nimis volebat splendide et delitiose et pompatice vivere.
Pag. 410: Et habebat palafredos pingues et quadratos .... Item raro
comedebat in conventu .... item specialem coquum habebat in conventu
Assisii, fratrem Bartholemaeum paduanum, quem vidi et cognovi, qui
cibos delicatissimos faciebat. [Il Salimbene se ne intendeva non poco].

[704] Questa congettura mi venne suggerita dalla lettera di Federigo
II, che si riferisce a frate Elia (HUILLARD, _Hist. dipl._, V, 346).
Revera papa iste quemdam religiosum et timoratum fratrem Helyam,
ministrum ordinis fratrum minorum, ab ipso beato Francisco padre
ordinis migrationis sue tempore constitutum, pro eo quod amore
justitie, cui est corde et opere dedicatus, pacem imperii promovens,
nomen nostrum, honorem et bonum pacis evidentibus iudiciis proponebat,
IN ODIUM NOSTRUM A MINISTERIO GENERALI REVOCAVIT, reverentia Christi
postposita, et juris sancti Francisci ordinatione contempta, divisionem
in fratribus faciens et in ordinationem et sectionem.

[705] Quanto rincrescesse al Papa l'accordo dell'Imperatore coll'ex
generale francescano lo prova la lettera di Gregorio IX del 1240,
(_Hist. dipl._, V, 777): Verum idem (Fridericus) non sub pastoris
virga humiliatus est verbere, quia potius super omne quod dicitur
Deus aut colitur elevatus, Helia et Henrico quibusdam non prophetis
sed prophanis apostatis, testibus suae perversitatis assumptis, in
lucis angelum in monte superbie transformatus, Christi claves et Petri
privilegium vilipendens, irriverenter divinis interesse presumit.

[706] La lettera è del 1243, (_Hist. dipl._, VI, 147): Tanta est bonae
fidei et devotionis probatae constantia, tantaque laudabilium efficacia
meritorum, quam in provido viro fratre Helia, dilecto familiari et
fideli nostro, semper et utiliter invenisse meminimus, quod ipsum jam
a fructibus agnoscentes personam suam domesticam nostris servitiis
libenter admittimus, et suae circumspectiones consiliis fiducialiter
inhaeremus. Cum igitur eundem fratrem nuper ad partes transmarinas
transfretare paratum pro quibusdam arduis excellentiae nostrae
servitiis, in quorum executione personam ejus utilem et necessariam
fore censuimus, a transitu ipso, praeter suae voluntatis propositum,
providerimus retrahendum, et ipsum licet invitum quodammodo in curia
vestra propterea mandavimus aliquandiu moratarum ecc.

[707] SALIMBENE, p. 412. Tertiusdecimus defectus fratris Helyae
fuit, quia namquam voluit ordini suo reconciliari; sed semper usque
ad ultimum diem vitae suae permansit in pertinacia sua .... Si
fuit absolutus, et si bene ordinavit de anima sua, modo cognoscit.
Viderit ipse .... (Qui la stampa non solo è mutila, ma errata). La
testimonianza del Salimbene, così precisa nei particolari, è certo
superiore a quelle, su cui si appoggia il Wadding per provare che Elia
si fosse ricreduto.

[708] Neanche Salimbene par che sia molto tenero di Gregorio, del
quale dice a pag. 8: Iste (Gregorius IX) etiam longo tempore fuit in
discordia et pugnavit cum imperatore Friderico secundo, qui multa mala
fecit Ecclesiae Dei, quae eum nutrivit et coronavit; ita quod pene
navis Petri sub praedicto Papa cecidit in profundum. Hoc est quod
abbas Joachim de romanis Pontificibus dixit, videlicet, quod aliqui
CONABUNTUR IN PRINCIPES, aliqui ducent pacificos suos dies.

[709] Rispetto al clero secolare non è diverso il linguaggio di
Federico da quello dei francescani intransigenti. Vedi la lettera
al Re d'Inghilterra in BRÉHOLLES, III, 37-38, pag. 50: In paupertate
quidem et simplicitate fundata erat Ecclesia primitiva, cum sanctos,
quos catalogus sanctorum commemorat, fecunda parturiret: sed olim
fundamentum nemo potest ponere praeter illud quod positum est a Domino
et stabilitum. Porro quia in divitiis navigant, in divitiis volutantur,
in divitiis aedificant, timendum ne paries inclinetur Ecclesiae, ne
maceria depulsa ruina subsequatur.

[710] SALIMBENE, pag. 3. Imperator vero Fridericus fuit homo pestifer
et maledictus, schismaticus, haereticus et epicureus, corrumpens
universam terram. Lo stesso frate racconta ingenuamente che
raccapricciò all'annunzio della morte di Federico. Pag. 57: Horrui
cum audirem, et vix potui credere. Eram enim Joachita, et credebam
et expectabam et sperabam quod adhuc Fridericus majora mala esset
facturus, quam illa qua fecerat, quamvis multa fecessit. Ma non tutti
la pensavano così, e Salimbene stesso racconta (pag. 37), di un frate
Gherardo da Modena, amicus et intimus beati Francisci, curialis homo,
liberalis et largus, religiosus et honestus et valde morigeratus,
temperatus in verbis et omnibus operibus suis .... erat multam
imperialis et nihilominus in pace et in aequitate ambulavit coram Deo
.... ed alla sua morte multa miracula Deus per eum operari dignatus
est. Un altro frate Bartolomeo Ghiscolo di Parma, (pag. 101) curialis
et spiritualis homo, sed magnus probator et magnus Joachita, et
partem imperialem diligens .... in vita sua fecit monstra et in morte
mirabilius operatus est.

[711] Di frate Alberto pisano, che sostituì Elia, non ci dice altro
il Salimbene se non che fu eletto nel 1239, e un anno dopo nel 1240
morì (pag. 17, 50-51). Il frate Aimone, che gli successe, scrisse
un'esposizione delle profezie d'Isaja, dalla quale Salimbene p. 224
riferisce questa frase: Manifestum est quod respublica debet subesse
Romano Pontifici. Frate Aimone morì nel 1244 (SAL., p. 60).

[712] SALIMB., pag. 97. Magni clerici et spirituales viri et maxime
Joachitae.

[713] _In Apoc._, fol. 77, col. 4.

[714] Il testo dell'_Apocalisse_, cap. XI: «et dabo duobus testibus
meis, et prophetabunt diebus mille dugentis sexaginta sacris amicti»
va interpetrato secondo Gioacchino così che l'un testimonio significhi
l'ordine dei chierici, l'altro dei monaci. Ille ergo significat
ordinem clericorum, iste ordinem monachorum, quadraginta duo menses,
quibus predicant induti saccis, significant totidem generationes (_In
Apoc._, fol. 148, col. 4). Nei libri apocrifi invece codesti ordini
sono proprio i mendicanti nati ad occidentalem ecclesiam in tota mundi
latitudine flagellandam (_Super Esaiam_, fol. 37 _recto_).

[715] Il Concilio di Arles dice dei libri di Gioacchino: a majoribus
nostris usque ad haec tempora remanserunt intacti, utpote latitantes
apud quosdam religiosos in angulis et antris, doctoribus indiscussi.

[716] Pag. 101: Et interfui etiam ego ipse isti doctrinae ut audirem
fratrem Hugonem, [che soleva per lo più dimorare in Nizza]. Nana
prius eram edoctus, et hanc doctrinam audieram, cum habitarem Pisis,
a quodam abate de ordine Floris, qui erat vetulus et sanctus homo
et omnes libros suos, a Joachim editos, in conventu pisano sub
custodia collocaverat, timens ne Imperator Fridericus monasterium suum
destrueret, qui erat inter Lucam et civitatem pisanam .... Credebat
enim quod in Friderico tunc temporis omnia essent complenda mysterio eo
quod cum Ecclesia discordiam habebat non modicam.

[717] Il Rousselot (_Joachim_, pag. 139), anche dopo la dissertazione
del Renan, seguita a sostenere: que le livre intitulé l'Evangile
eternel n'a jamais existé que sous forme d'un cahier redigé par
ceux, qui accusaient les Dominicains et les Franciscains. Il che è
contraddetto da una fonte molto importante, della quale non so perchè
il Rousselot non vuol fare nessun conto, voglio dire dal processo
verbale della Commissione cardinalizia di Anagni, ove è detto (Cod.
bibl. nat. de Paris, n. 1726, carte 139. Cfr. D'ARGENTRÉ, I, 163;
RENAN, _Revue des deux mondes_, tom. LXIV, pag. 109): Quod liber
Concordiarum vel Concordiae veritatis appelletur primus liber Evangelii
aeterni probatur XVII capitulo, et quod liber iste Concordiae sit
Joachim habetur per totum illud capitulum. Quod liber iste, qui dicitur
Apocalypsis nova, appelletur secundus liber ejusdem Evangelii probatur
XX capitulo. Similiter quod liber, qui dicitur Psalterium decem
chordarum, sit tertius liber ejusdem Evangelii. E più appresso in un
luogo, tronco nel D'Argentré, e pubblicato intero dal Renan, pag. 113:
Item XXVIII cap. ponuntur haec verba: _in primo libro ipsius Evangelii
aeterni videlicet in secundo secundae Concordiae_. Et tria praedicta
probantur similiter expresse XXXI cap., ubi distinguitur simplex
lictera (ibi: _attendent vero_ etc.), et similiter ante finem ultimi
capituli, ubi dicitur: _illud attendendum_ ecc. Da questi passi appar
chiaro: 1º Che l'Evangelio eterno non era altro se non la collezione
delle tre opere dell'abate Gioacchino. 2º Che gli scritti apocrifi
erano così cresciuti da oscurare i genuini dell'abate calabrese, sicchè
i raccoglitori si videro costretti a dimostrare l'autenticità delle
tre opere, che essi ben sapevano distinguere dalle altre falsamente
attribuite a Gioacchino.

[718] Si veda con che circospezione Gioacchino commenta il testo
dell'_Apocalisse_: «Et vidi alterum Angelum volantem per secundum celum
habentem Evangelium aeternum». Par che schivi di parlarne come al fol.
173, col. 4; conferenda sunt verba, que de eo scripta sunt et de duobus
aliis, qui sequuti sunt eum, ut alia per alia inquisita aut omnino
pateant intellectui nostro, aut quod reliquum fuerit igne comburatur.

[719] Secondo il Rousselot (op. cit., pag. 140), l'_Introductorius_
dell'_Evangelo eterno_ sarebbe la stessa cosa dell'_Introductorius_
premesso da Gioacchino all'_Esposizione dell'Apocalisse_. Basta
confrontare i passi estratti dalla Commissione d'Anagni, e già
pubblicati dal D'Argentré con gli analoghi dell'opera di Gioacchino
per rilevarne le differenze. Vedi Codice, carte 139, (D'ARG., I, 163;
RENAN, pag. 126, n. 1): Item XXIV cap. comparat vetus Testamento primo
coelo, Evangelium Christi secundo coelo, Evangelium aeternum tertio
caelo, et expressius XXV capitulo, ubi comparat vetus Testamentum
claritati stellarum, novum Testamentum claritati lunae, Evangelium
aeternum, sive spiritus sancti, claritati solis. Item XXVII capitulo
comparat vetus Testamentum atrio, novum sancto, aeternum sancto
sanctorum. Item XXX comparat vetus Testamentum cortici, novum testae,
Evangelium aeternum nucleo. Cfr. _Introd. in Apoc._, fol. 5, col. 2:
Secundus status fuit sub Evangelio et manet usque nunc in libertate
quidem respectu praeteriti, sed non in libertate respectu futuri ....
tertius ergo status erit circa finem saeculi, jam non sub velamine
literae sed in plena spiritus libertate. Come si vede qui non c'è
parola di _Evangelo eterno_, e più che l'opposizione è messa in
evidenza la continuità dei varii periodi (col. 3) de lege naturale
ad legem Moysi, de lege Moysi ad Evangelium, de Evangelio Christi ad
spiritalem intellectum, de spiritali intellectu ad veram et aeternam
contemplationem Dei.

[720] Fin dal tempo di Gregorio IX, erano nati dissidii tra il clero
secolare ed i nuovi ordini, come si raccoglie dalla bolla di questo
papa del 1232 _Nimis iniqua_. Non desunt plerique tam Ecclesiarum
Praelati quam alii, qui coeca cupiditate seducti, propriae aviditati
subtrahi reputantes quidquid praedictis fidelium pietas elargitur,
quietem ipsorum multipliciter inquietant.

[721] I Domenicani eran entrati come di soppiatto nell'Università
ottenendo una cattedra nel 1228, quando il corpo universitario
per protestare contro l'infrazione di alcuni suoi privilegi s'era
ritirato prima a Reims e poi ad Angers. Dopo pochi anni nel 1250
ebbero luogo altre proteste, ed il corpo universitario si ritirò di
nuovo, tribus magistris Regularibus, videlicet duobus Praedicatoribus
et uno frate minore exceptis, qui pro suae voluntatis arbitrio suum
renuerunt prestare consensum. Allora l'Università stabilì ut de coetero
nullus in quacunque facultate magister ad Collegium magistrorum vel
consortium Universitatis admittatur, nisi prius in plena congregatione
magistrorum, vel saltem coram quinque magistris suae facultatis, ad hoc
specialiter deputatis, juraverit statuta nostra licita et honesta et
nobis expedientia se firmiter observaturum. Il decreto surriferito si
può leggere nel DU BOULAY, _Historia Universitatis Parisiensis_, III,
250 e segg.

[722] Questo sospetto si trova in un cronista domenicano in verità
molto tardivo, il Corner, che attribuisce l'Evangelo eterno allo stesso
Guglielmo di S. Amore. (AFFÒ, _Vita del B. Giovanni da Parma_, Parma,
1777, pag. 75).

[723] Il trattato è intitolato _De periculis novissimorum temporum_.
Non avendo trovate le opere di Guglielmo io cito dall'edizione che
ne fece il Brown (_Appendix ad fasciculum rerum expotendarum et
fugiendarum ab Orthwino editum a.D.MDXXXV_, Londini MDCXC). Il Brown
ignora l'autore del libro, e lo suppone a torto composto nel 1389,
mentre invece fu pubblicato nel 1256 (_Hist. litt._, XIX, 202).

[724] _De periculis_, cap. 8, pag. 27: Ergo nos sumus in ultima aetate
hujus mundi, e cita parecchie autorità, tra le quali anche l'apocrifo
commento di Gioacchino a Geremia. Pag. 28: Haec omnia initia dolorum
sunt scilicet, quae erunt tempora Antichristi.

[725] _De periculis_, cap. 3, pag. 23: homines qui apti erunt et idonei
ad praedicta pericula .... charitatem anelantes non verbis sed factis.
Dum enim ambiunt officia praelatorum videlicet praedicandi, corrigendi,
confessiones audiendi .... charitatem factis abnegant. Cap. IV, pag.
23-24: et illi seductores, posteaquam per suam simulatam sapientiam et
sanctitatem principes et populos christianos ita seduxerunt, quod plene
acquiescunt consiliis eorum. Cap. V, pag. 24: Domus mulierum et virorum
seductibilium ingrediuntur .... seducunt mulierculas, prius eas, et per
eas viros eorum, sicut Diabolus seduxit Evam, et per eam Adam.

[726] Cap. XII, pag. 30-31. Praecipere illis qui sunt de secta illa
ut deserant eam .... inhibere illis, qui non sunt de secta illa, ne
de illa fiant .... Si haec facta fuissent, sufficienter repulsa essent
pericula praedicta.

[727] Questo scritto fu composto da Guglielmo quando sali sul trono
Clemente IV, che gli concesse di far ritorno a Parigi, donde era
stato esiliato per opera di Alessandro IV. Al benevolo papa Guglielmo
indirizzò il nuovo suo lavoro. Ed il Papa gli rispose in una lettera
pubblicata dal Martène (_Thes._, II, 417) ammonendolo amorevolmente che
il nuovo scritto non differiva dall'antico. (_Hist. litt._, XIX, 207).

[728] Il titolo del libro pubblicato dal Martène (_Amplissima
collectio_, IX, 1273) è il seguente: _Nicolai Oresme episcopi de
Antichristo et ejus ministris ac de ejusdem adventus signis propinquis
simul et remotis_. Il Leclerc (_Hist. litt._, XXI, 470 e segg.) ha
dimostrato luminosamente che l'Oresme, vescovo di Lisieux nel 1382,
non può essere l'autore di un libro, che appare composto non più tardi
del 1273. Ed è assai probabile l'ipotesi, adottata anche dal Renan,
che il nome di Oresme sia l'anagramma di S. Amore. Tutta la seconda
parte del libro è indirizzata ai precursori dell'Anticristo, che sono
i pseudo-profeti, i falsi predicatori, che sotto il manto della pietà
preparano la rovina della Chiesa.

[729] La Bolla è riportata dal DE BOULAY, III, 311. Nos libellum
.... tanquam iniquum, scelestum et execrabilem, et instructiones ac
documenta in eo tradita utpote prava, falsa et nefaria de fratrum
nostrorum consilio authoritate apostolica reprobamus, et in perpetuum
condemnamus, districte praecipientes ut quicumque libellum ipsum
habuerit, cum infra 8 dies, ex quo hujusmodi nostram reprobationem et
condemnationem sciverit, prorsus et in toto et in qualibet sui parte
comburere et abolere procuret.

[730] _De periculis_, cap. 2º, pag. 21. Unde videtur quod authoritate
sedis apostolicae, aut diocesanorum, praedicare possunt. Respondetur
quod de potestate Domini Papae aut Episcoporum disputare non volumus.
Verumtamen cum secundum jura tam divina quam umana in una ecclesia
non possit esse nisi Rector unus, alioquin Ecclesia non esset sponsa
sed scortum .... Si vero dominus Papa concedit aliquibus personis
potestatem praedicandi ubique, intelligendum est ubi ad hoc fuerint
invitati.

[731] La prima osservazione che fecero i cardinali, cui fu commesso
l'esame del libro di Guglielmo, è che in esso fosser contenute
quaedam perversa et reproba contra potestatem et authoritatem Romani
Pontificis, come dice Alessandro IV nella bolla citata.

[732] I manoscritti sono segnati al num. 1726, ed al num. 1706,
fondo Sorbona. Alcuni documenti contenuti in questi manoscritti sono
riprodotti anche in un altro manoscritto num. 391 della biblioteca
Mazarino. RENAN, L'_Evangile Eternel_ (_Revue des deux mondes_, tom.
LXIV, pag. 109). I documenti sono quattro: 1º Il primo documento, che
si trova solo nel manoscritto num. 1726, contiene estratti dai libri
di Gioacchino, non pure dei tre autentici, ma anche dagli apocrifi,
come il commentario a Geremia, il _De oneribus provinciarum_, ed il
commentario ad Ezechiele. 2º Il secondo documento, che si trova in
tutti e tre i manoscritti, contiene gli estratti, che la Commissione
di Anagni fece dell'_Introduttorio_ all'_Evangelo eterno_. Fu
pubblicato dal D'Argentré, I, 163, secondo il n. 1706, che è il più
imperfetto. Il principio di questo documento ripubblicato nella sua
integrità dal Renan, pag. 109, nota 1 è il seguente: Haec notavimus et
extraximus de Introductorio in Evangelium aeternum-, misso ad dominum
Papam ab episcopo Parisiensi, et tradito nobis tribus cardinalibus
ad inspiciendum ab eodem domino Papa, videlicet Odone tusculanensi,
Stefano Prenestino episcopis, et Hugone sanctae Sabinae presbytero
cardinali. 3º Il terzo documento (manoscritto 1726 Sorbona e 391
Mazarino) è un altro processo verbale della Commissione d'Anagni,
nel quale si contengono gli estratti delle opere autentiche di
Gioacchino, certo secondo la nova edizione fatta per l'_Evangelo
eterno_, perchè oltre al testo si citano le note di fra Gherardo. Il
Renan ha pubblicato il principio di questo documento e le note. Io
aggiungerò qualche altro passo secondo il manoscritto del 1726, copiato
dal sig. Bencini e gentilmente collazionato dal mio amico E. Alvisi.
4º Il quarto documento, già pubblicato dal D'Argentré, si trova solo
nel num. 706. È un'altra enumerazione degli errori dell'_Evangelo
eterno_, identica a quella che si legge nel _Directorium inquisitionis_
dell'Eymerich.

[733] L'_Introductorius_ talvolta apparisce come un opuscolo
separato, ed il Renan osserva che alcuni scrittori contemporanei
come Matteo Paris, e Guglielmo di S. Amore chiamano Evangelo eterno
l'Introduttorio (op. cit., pag. 115). Nella nota precedente abbiamo
riportato il principio del resoconto d'Anagni, dal quale apparisce che
l'opuscolo, mandato al Papa dal vescovo di Parigi, è appunto codesto
_Introductorius_. Ma che in seguito di esso fossero pubblicate o le
opere autentiche di Gioacchino, o almeno estratti da esso lo prova
l'altro documento, il terzo della nota precedente, del quale sarà
utile riportare il principio (RENAN, pag. 110). Anno Domini MCCLV,
VIII idus Julii Anagniae coram nobis Odone episcopo tusculano, et
fratre Hugone presbytero cardinali, auditoribus et inspectoribus
datis a Papa, una cum reverendo patre Stephano Praenestino episcopo
se excusante per proprium capellanum suum, et nobis quantum ad hoc
vices suas committente, comparuit Magister Florentius episcopus
Acconensis, proponens quaedam verba de libris Joachim extracta
suspecta sibi, ut dicebat, nec publice dogmatizanda aut praedicanda,
sive in scriptis redigenda, ut fieret inde doctrina sive liber (par
che accenni alla nuova pubblicazione fattane) prout sibi videbatur.
Et ad haec audienda et respicienda una nobiscum duos alios scilicet
fratrem Bonevaletum, episcopum Pavendensem, et fratrem Petrum lectorem
fratrum Praedicatorum Anagniae, quorum unus tenebat originalia Joachim
de Florensi monasterio, et inspiciebat coram nobis utrum haec essent
in praedictis libris, quae praedictus Acconensis legebat, et legi
faciebat per tabellionem nostrum et inspiciebat sic. Questi libri,
che Florenzo leggeva, erano probabilmente o la nuova edizione degli
scritti di Gioacchino, o almeno gli estratti, che se ne fecero per uso
dell'_Evangelo eterno_. Ed i giudici di Anagni, che scrupolosamente
riscontrarono la nuova edizione coll'antica, non trovarono differenza.
Il che prova che i Gioachimiti non alterarono i libri dell'abate, come
sospetta il Renan (pag. 121); ma vi aggiunsero note quando pareva loro
di dover compiere il pensiero del profeta.

[734] L'Introduttorio insisteva sulle differenze nel 30º capitolo, ove
(D'ARG., 161-62) dicit quod ALIA est scriptura divina, quae data est
fidelibus eo tempore, quo Deus pater dictus est operari, et ALIA quae
data est Christianis eo tempore, quo Deus filius dictus est operari,
et ALIA quae danda erit eo tempore, quo Spiritus Sanctus proprietate
mysterii Trinitatis operabitur. L'opposizione è tale tra il secondo
periodo ed il terzo, che il nome di Vangelo par quasi venga negato al
Novo Testamento, e serbato solo ai libri gioachitici. Almeno così si
potrebbe interpetrare questo passo omesso dal D'Argentré e pubblicato
dal Renan, pag. 126, nota 5: Item XXVIII, dicit sacram scripturam
divisam in tres partes scilicet in vetus Testamentum, in Novum et in
Evangelium. (Vero è che si potrebbe sospettare non fosse stata omessa
dal copista la parola aeternum). Quod capitulum totum est notabile
et totum legatur. Si confronti il passo tolto dal quarto documento.
(Cod. Sorbona, num. 1706). EYMERICH, _Directorium_, pag. 271. Secundus
error quod Evangelium Christi non est Evangelium regni, et ideo non est
aedificatum.

[735] Il Concilio di Arles nel condannare l'_Evangelo eterno_ a ragione
notava che questo nome fosse dato ac si Christi Evangelium non aeternum
nec a Spiritu Sancto nominari debuissent.

[736] Queste proposizioni si trovano non nel resoconto d'Anagni, ma
in quell'altro fascicolo d'estratti esistente solo nel num. 1706,
già riportato dall'Eymerich (ed incompiutamente dal D'Argentré)
_Directorium inquisitionis_ (Roma, 1585), pag. 271. Quartus error: Quod
Novum Testamentum non durabit virtute sua nisi per sex annos proximos
futuros, videlicet usque ad annum Christi MCCLX. Sextus error, quod
Evangelium Christi aliud Evangelium subdet, et ita pro Sacerdotio
Christi aliud Evangelium (D'Argentré ha sacerdotium) succedat. Septimus
error: Quod nullus simplex homo est idoneus ad instruendum hominem
alium de spiritualibus et aeternis, nisi illis qui incedunt pedibus
nudis.

[737] EYMERICH, loc. cit. Duodecimus error: Quod spiritualis
intelligentia Novi Testamenti non est commissa Papae romano, sed
tantum litteralis. Tertius decimus error: quod recessus ecclesiae
Graecorum a Romana ecclesia fuit bonus. .... Quintus decimus error,
quod populus Graecus magis ambulat secundum spiritum quam populus
latinus .... Decimus nonus error, quod Christus et apostoli ejus
non fuerunt perfecti in vita contemplativa. Vicesimus error, quod
activa vita usque ad tempus abbatis Joachim fructuosa fuit, sed nunc
fructuosa non est: contemplativa vero ita ab ipso Joachim fructificare
coepit, et amodo in perfectis successoribus ejus perfectius manebit.
Tra questi passi e quelli della nota precedente secondo il D'Argentré
si legge questa nota: Haec de prima parte (cioè i primi sette errori
riportati dall'Eymerich). De secunda parte ejusdem libri, quae
appellatur concordantia Novi et Veteris Testamenti, sive Concordantia
veritatis, isti errores possunt extrahi. Codesti errori e quelli della
nota precedente sono tolti dal quarto documento inserito soltanto
nel cod. num. 1706, e già riportato dall'Eymerich. Secondo questo
documento l'_Evangelo eterno_ si divide in due parti; la prima formata
dall'_Introductorius_ o come è detto qui _Praeparatorium in Evangelium
aeternum_, la seconda dalla _Concordia dei due Testamenti_ divisa in
cinque libri. L'ordinamento dell'_Evangelo eterno_ riferito in questo
documento non differisce, secondo il Renan, da quello del resoconto
d'Anagni. Ed in verità il sostituire la parola _Praeparatorium_
ad _Introductorium_, ed il mettere come prima parte quello che nel
resoconto era considerato come introduzione sono lievissime differenze.
Messa come prima parte l'_Introduttorio_ era ben naturale che la
_Concordia_ ne fosse la seconda, e l'_Apocalisse_ e il _Decacordo_
sarebbero state la terza e la quarta, se il raccoglitore non le
avesse trascurate, forse perchè gli pareva che non contenessero nulla
di novo, che non fosse stato detto nella _Concordia_. Ma se queste
differenze sono lievi, altre mi pajono più gravi di quel che crede
il Renan. Nel resoconto di Anagni non sono notati nè il sesto errore,
che al sacerdozio di Cristo debba succedere un altro sacerdozio; nè il
settimo che nessuno all'infuori degli scalzi sia atto ad insegnare le
verità dello Spirito. Non è dunque esatto quel che afferma il Renan
che gli errori dell'_Introduttorio_, notati nel quarto documento,
sieno identici a quelli rilevati dalla Commissione d'Anagni. E meno
esatta ancora è l'altra proposizione del Renan, che gli errori estratti
dalla seconda parte sono effettivamente tolti dalla _Concordia_. Tutto
al contrario, in nessun'opera autentica di Gioacchino si leggono
proposizioni come la duodecima e le altre qui sopra riferite. Nè
i cardinali tra tanti luoghi, che estrassero dalla _Concordia_, ne
riportarono neanche una, che suonasse così aspra ed irriverente per
la Chiesa Romana. Da queste considerazioni s'ha da trarre questa
conclusione affatto opposta a quella del Renan, che cioè la redazione
dell'_Evangelo eterno_, dalla quale furono estratti gli errori
riportati dall'Eymerich, dev'essere ben diversa da quella che avean
sotto gli occhi i cardinali; nè è improbabile che sia posteriore.

[738] Cod., carte 142; RENAN, pag. 111, nota 1. Quod exponens frater
Girardus scripsit «haec abominatio erit pseudo-papa, ut habetur alibi»,
istud alibi reperitur longe infra quinto libro _Concordiae_ de Zacaria
propheta, ubi incipit: _in Evangelio_, et dicitur: cum videritis
abbominationem desolationis, quae dicta est a Daniel. (Cfr. lib. V,
cap. 104, fol. 124, col. 3). Rursus et ibi frater Gerardus: «haec
abbominatio quidam Papa erit simoniaca labe respersus, qui circa finem
sexti temporis obtinebit in sede, sicut scribit in quodam libello ille,
qui fuit minister hujus operis, Gerardus». Il Renan espunge a ragione
Gerardus, ed io aggiungo che forse si dovrà sostituire Joachim, il
quale è chiamato pure minister hujus operis nel passo che riporteremo
più appresso a pag. 469, n. 1.

[739] Vedi cod. carte 150. Item circa hoc idem diligenter notandum
qualiter praefert tertium statum secundo, et quamvis hoc inveniatur
in locis plurimis, sufficit tamen illa recapitulatio, quam facit in Vº
libro _Concordiae_ in fine secundae distinctionis quod incipit sic: _Ad
explanationem mysterii supra scripti_ (Cfr. ediz. ven. V, 82, fol. 112,
col. 2).

[740] Una nota di fra Gherardo (cod., carte 148 _tergo_; RENAN, loc.
cit.), rimanda infatti al _Decacordo_: Super hoc glossa fratris Girardi
declaratio est ejus, quod dicitur aevangelium aeternum in secundo
libro Psalterii decem chordarum scilicet XIX capitulo quod incipit: _in
primo sane tempore_ (Cfr. ediz. veneta, fol. 259, col. 4). Fin qui la
nota pubblicata dal Renan. La Commissione segue riportando le parole
di Gioacchino, che sono veramente notevoli. Sed jam nunc agendum est
de tempore quinto, in cujus initio sumus nos, in quo oportet adhuc
Spiritum Sanctum missum a filio operari opera sua multo altius, quam
hactenus operatus est, ut omnes discant honorificare Spiritum Sanctum
sicut Patrem et Filium. In quo? Haud dubium quod in Evangelio ejus.
Non enim sicut decet honorificat illum, qui non subjectus et devotus
recipit evangelium ejus. Et quod est evangelium ejus? illud quod
dicitur Joannes in Apocalipsi: Vidi Angelum Dei volantem per medium
coelum et datum est illi Evangelium aeternum. In quo (ediz. ven.,
_quod_) est Evangelium ejus? illud quod procedit de Evangelio Christi,
lictera autem occidit, spiritus autem vivificat. Gioacchino parla
qui per incidenza dell'_Evangelo eterno_, nè certo egli ha la superba
pretensione di dare questo nome ai suoi libri, ma certo è che anche lui
intende per _Vangelo eterno_ l'interpetrazione spirituale od allegorica
del vangelo di Cristo.

[741] Cod., carte 144 _tergo_: In praenotatis videtur quod iste novas
et falsas opiniones confingat, et hoc maxime vanae gloriae causa, idest
ut exaltet ejus ordinem incredibiliter et intempestive super alios
ordines immo super totam ecclesiam.

[742] Così ad esempio a carte 150 _tergo_ del codice (RENAN, pag. 112):
Dicit frater Girardus in notula: iste doctor sive Angelus (che apre
il sesto suggello) apparuit circa MCC annum incarnationis dominicae,
hoc est ille liber, de quo loquitur hic, in quo tonitrua loquuta sunt
voces suas, quae sunt mysteria septem signaculorum. È evidente qui
l'allusione a Gioacchino, che pubblicò i suoi libri nel 1200. Più
chiara è l'altra nota (cod., carte 150; RENAN, p. 111). Notula fratris
Gerardi: In hoc loco vir indutus lineis, qui fuit minister hujus
operis, loquitur de se et de duobus (S. Domenico e S. Francesco), qui
secuti sunt eum statim post mcc annis Incarnationis dominicae, quos
Daniel dixit se vidisse super ripam fluminis, quorum unus dicitur in
Apocalipsi: Angelus habens falcem acutam, et alius dicitur Angelus qui
habuit signum Dei vivi, per quem Deus renovavit apostolicam vitam.

[743] I Giudici d'Anagni a ragione citano a carte 142 la _Concordia_
(V, 66, fol. 95, col. 4), ove si legge: Senectus David hujus secundi
stati et ordinis ecclesiastici militantis in litera Evangelii
senectutem designat .... Quia vero in servando ordine suo incipiet
Pontifex [_romanus_, aggiunge l'ediz. veneta] frigescere, extollentur
adhuc aliqui de clero qui videbuntur esse strenui ad certamen, ut stent
in regno Ecclesiae pro patre suo. Sed non obtinebunt, quia non erit
adhuc necesse regnare ordinem belli in die pacis, sed magis oporteret
religiosos transire in illum ordinem, qui designatus est in Salomon.
Queste parole sono molto chiare, e sembrano scritte da fra Gherardo.
Egli è vero che in fine del capitolo Gioacchino aggiunge: non igitur,
quod absit, deficiet Ecclesia Petri, quae est tronus Christi, sicut
natis mulierum in fine veteris Testamenti, sed commutata etiam in
majorem gloriam, mauebit stabilis in aeternum. Ma queste pie proteste
non distruggono le precedenti proposizioni, e la Chiesa resterà eterna,
a patto che si trasformi. Non sarà un mutamento violento, ma un pallido
tramonto, come direbbero oggi. In un altro luogo della _Concordia_,
II. I, 28, fol. 18, col. 1, rilevato dai giudici a carte 144 _tergo_
è detto: Duo perfecti ordines claruerunt .... ecclesiasticorum unus,
alius monachorum, et ipsi duo unus sunt clerus, qui tamen uno modo
CONSUMATIONEM ACCIPIET in tribulatione antichristi, alio (alius?)
modo mansurus usque ad consummationem seculi. È evidente l'artifizio
di porre che i due ordini in fondo facciano un solo, perchè si possa
dire che non ostante sia per cessare l'ordine clericale, dura tuttavia
nel suo successore e continuatore. In qualche altro luogo è detto più
esplicitamente che l'ordine clericale rappresentato da Pietro cederà
al monastico rappresentato da Giovanni, così nel _Decacordo_, fol. 267,
col. 3, (cod., carte 145 _tergo_): Ubi autem transierit quod significat
Petrus sequens Dominum in cruce sua, succedet manifeste quod designat
Johannes .... La parola EVACUATIO è adoperata in molti luoghi. Nella
_Concordia_, II, 1, fol. 7, col. 2 (codice, carte 148, _tergo_) ....
expectantibus nobis ignem de coelo, qui consumat terram et aquam,
expectantibus idest spiritualem intellectum, qui terrenam illam
superficiem licterae .... EVACUANDO CONSUMAT .... Super hoc, aggiungono
i giudici d'Anagni, Girardus in glossa: In hoc mysterio vocat terram
scripturam prioris Testamenti, aquam scripturam Novi Testamenti,
ignem vero scripturam _Aevangeli aeterni_. Parimenti nel V, 74 della
_Concordia_ [ediz. ven. fol. 102, col. 4, codice, carte 151, _tergo_].
Sicut enim EVACUATA est mactatio (ediz. ven., _observatio_) Agni
paschalis in mactatione (e. v. _observatione_) corporis Christi, ita in
clarificatione Spiritus Sancti cessabit observatio omnis figurae.

[744] Cod., carte 152. Quinto notandum diligenter illud, quod dicit
in primo libri Psalterii .... ubi invehitur primo contra Sabellium
et Arrium, sed statim post contra magistrum Lombardum. E riprodotto
il luogo già da noi citato, fol. 229, col. 3, seguitano: Et paulo
infra eadem distinctione seu capitulo videtur adhuc astruere haeresim
dannatam in Concilio lateranensi .... Più appresso: Item habetur
apertius in libello ipsius Joachim De Articulis fidei descripto ad
quemdam filium suum Johannem, quod opus suspectum est ex ipso prologo.

[745] Vedi le bolle in DU BOULAY, III, 292 .... Alexander ecc.
Venerabili fratri Episcopo Parisiensi. Libellum quemdam, qui
in _Evangelium aeternum_, seu quosdam libros Abbatis Joachim
Introductorius dicebatur, et quem felicis recordationis Innocentio
Papae predecessori nostro misisti, postquam illum per venerabiles
fratres .... diligenter examinari fecimus, de fratrum nostrorum
concilio duximus abolendum. In un'altra bolla spedita poco dopo
raccomanda allo stesso arcivescovo (DU BOULAY, pag. 293), quod sic
prudenter, sic provide in apostolici super hoc mandati executione
procedas, quod dicti frates (minores) nullum ex hoc opprobrium,
nullamque infamiam incurrere valeant.

[746] _Direct._, pag. 271, cujus auctor fuit ut fertur communiter
quidam frater Joannes de Parma, italicus monachus.

[747] Il Salimbene dopo aver parlato del libro del S. Amour, seguita,
a pag. 233: Alter vero libellus continebat multas falsitates contra
doctrinam abbatis Joachym, quas abbas non scripserat, videlicet quod
Evangelium Christi et doctrina Novi Testamenti neminem ad perfectum
duxerit, et evacuanda erat MCCLX anno. Et nota quod iste, qui fecit
istum libellum, dictus est frater Ghirardinus de burgo Sancti Donnini,
qui in Sicilia nutritus fuit in saeculo, et ibi docuit in grammatica
.... Et Parisius fecit istum libellum, et ignorantibus fratribus
divulgavit, sed valde bene fuit punitus: pag. 255 Porro post multos
annos, cum habitarem in conventu Imolae, venit ad cellam meam frater
Arnulphus guardianus meus cum quodam libello, qui scriptus erat in
chartis de papiro, et dixit mihi: quidam notarius est in terra ista,
qui est amicus fratrum, et istum libellum, quem scripsit Romae quando
fuit ibi cum senatore urbis domino Brancaleone de Bononia, accomodavit
mihi ad legendum, et habet eum valde carum, quia frater Gherardinus de
burgo Sancti Donnini scripsit et composuit eum, quapropter legatis in
eo vos, qui studuistis in libris Ioachym, ut dicatis mihi si continet
aliquid boni. Cumque legissem et vidissem dixi fratri Arnulpho: iste
liber non habet stilum antiquorum doctorum, et habet verba frivola et
risu digna propterea diffamatus est liber et reprobatus ....

[748] Anche il Renan ha notato, pag. 116: les documents d'Anagni
ne disent pas avec la clarté désirable que Gerard soit l'auteur de
l'Introductorius à l'Evangile éternel. Io aggiungo che non lo dicono nè
chiaramente, nè oscuramente.

[749] Il Renan ha chiamato l'attenzione su questo passo
dell'Introduttorio: (cod. car. 139; RENAN, pag. 116; cfr. D'ARG., 164).
Item VIII capitulo dicit (cioè lo scrittore dell'Introduttorio) quod
sicut in principio primi status apparuerunt tres magni viri, scilicet
Abraham, Isaac et Jacob, quorum et tertius, scilicet Jacob, habuit XII,
et sicut in principio secundi status tres, scilicet Zacharias, Ioannes
Baptista et homo Jesus Christus, qui similiter secum habuit XII, sic et
in principio tertii status tres similes illorum, scilicet vir indutus
lineis, et angelus quidem habens falcem acutam, et alius angelus
habens signum Dei vivi. (D'altra mano è scritto in parentesi _scilicet
Sanctus Franciscus_. L'angelo della falce acuta è S. Domenico, il
persecutore implacabile degli eretici). Ipse primo habuit XII, (male
il D'Arg. _et habebit similiter angelus_), inter quos et ipse fuit
unus (cioè lo scrittore dell'Introduttorio), sicut Jacob habuit XII in
primo statu, et Christus XII in secundo. Item quod per virum indutum
lineis intelligat Joachim scriptor (sin qui il D'Argentré, il resto
fu pubblicato dal Renan, pag. 116, n. 1) hujus operis probatur XXI
cap. circa medium per haec (_haec_ omesso dal Renan) verba de quinque
intelligentiis et septem tipicis (Renan: _ubi sic ait_) sic ait «vir
indutus lineis in aperitione mysteriorum Isaiae (Renan: _Jeremiae_)
prophetae, ecce, ait, praeter historicum morale tropologicum etc.».
Item XXIII circa principium ita dicitur: «ad quam scripturam tenetur
populus tertii status mundi, quemadmodum populus primi status ad vetus
Testamentum et populus secundus ad novum, quantumcumque hoc displiceat
hominibus generationis istius». In questo passo il Renan stesso nota:
1º che l'autore dell'Introduttorio è detto indeterminatamente scriptor
hujus operis. 2º Che la frase _inter quos ipse fuit unus_ conviendrait
mieux à Jean de Parme qu'à Gerard. Queste due osservazioni basterebbero
a provare che l'autore dell'Introduttorio non può essere Gherardo; ma
v'ha una terza osservazione da fare. In un luogo del codice, pubblicato
pure dal Renan (pag. 110, n. 2) si legge: Item in XII c. versus finem
ponit haec verba: «usque ad illum angelum, qui habuit signum Dei vivi,
qui apparuit circa MCC incarnationis dominicae, quem angelum frater
Gerardus vocat et confitetur sanctum Franciscum». Secondo il contesto
di questo estratto quei che ponit haec verba, non è lo stesso di chi
vocat et confitetur. Codeste prove non sono sì lievi da poter dire
col Renan: rien n'autorise à croire que Jean de Parme ait participé
directement à la rédaction du livre poursuivi de tant d'anathèmes. Io
direi piuttosto il contrario, che molti indizii ci menano a conchiudere
essere l'autore dell'Introduttorio ben diverso da quello delle note, e
molto probabilmente Giovanni da Parma.

[750] Dico note introduttive, perchè parmi che si debbano distinguere
nell'_Evangelo eterno_ tre introduttorii. 1º Uno generale a tutte le
tre opere di Gioacchino; 2º uno speciale al _commento dell'Apocalisse_
il quale andava sotto il nome di Enchiridion seu Introductorius. 3º
Finalmente un terzo introduttorio, appartenente a Gioacchino stesso,
e pubblicato nell'edizione a capo dell'_Expositio in Apocalipsim_. Che
si debba distinguere l'Enchiridion dall'Introductorius appar manifesto
dal codice, perchè tutte le volte che si cita l'Enchiridion vengon
riferiti capitoli, che non si trovano nell'Introductorius pubblicato a
Venezia, e per i opposto tutte le volte che si cita l'Introductorius
la conformità tra il resoconto d'Anagni e l'edizione stampata è
così perfetta come per le altre opere autentiche di Gioacchino.
Cito alcuni esempi; a carte 141 si legge: Hoc expressius dicitur in
Enchiridion sive Introductorio novae Apocalypsis quod sic incipit:
nunc de VII signaculo et septem temporibus. Non c'è nessun capitolo
dell'Introduttorio stampato, che cominci con queste parole. Poche
righe più sotto seguitano gl'inquisitori: Similiter in Introductorio
_Apocalypsis_ cap. III quod intitulatur de tribus statibus mundi et
incipit «primus trium statuum» citazione che risponde a capello al cap.
V dell'ediz. veneta, fol. 5, col. 2. A carte 147 _recto_ e carte 151
_recto_, si citano dal capitolo dell'Enchiridion de septimo signaculo
passi che non si trovano nella stampa. Nel mentre a carte 147 _tergo_
è citato il cap. V dell'Introduttorio rispondente al cap. VII, fol.
9, col. 4 dell'ediz. veneta. A carte 144 _recto_ si cita il cap. XVII
dell'Introduttorio corrispondente al fol. 20, col. 1 della stessa
edizione.

[751] L'AFFÒ, _Vita del beato Giovanni_, Parma 1776, per iscagionare
non solo il generale, ma tutto l'ordine francescano, escogita l'ipotesi
strana che l'_Evangelo Eterno_ appartenga o agli Almariciani, (pag. 67)
o ad un ignoto Giovanni da Parma (pag. 77) ben diverso dal generale. Nè
vuol neanche (pag. 95 in nota) che se ne faccia autore fra Gherardino.
_E questo sia detto in prova di questa gran verità, che l'ordine dei
minori non ebbe alcun individuo tanto sfrontato, che fosse capace di
metter fuori libro sì pernicioso._ Eppure l'Affò conosceva benissimo la
Cronaca del Salimbene!

[752] Salimbene, pag. 97: Porro frater Hugo solitus erat dicere, quod
quatuor habebat amicos, quos specialiter diligebat, quorum primus
erat frater Johannis de Parma generalis minister (et hoc congruum
fuit quia ambo erant magni clerici et spirituales viri et maxime
Joachitae); cujus etiam amore mihi fuit familiaris et quia videbar
credere scripturis abbatis Joachim de ordine Floris. P. 132-33: Et
notandum quod quamvis frater Johannes de Parma habuerit multos mordaces
occasione doctrinae abbatis Joachim, habuit tamen multos qui eum
dilexerunt, inter quos fuit magister Petrus Hispanus (Papa Johannes
XXI).

[753] L'Affò, pag. 87 cita il Salimbene che a pag. 133 narra: Papa
etiam Innocentius IV diligebat fratrem Johannem sicut animam suam, et
quando ibat ad eum, recipiebat eum ad osculum oris, et cogitavit eum
facere cardinalem, sed morte praeventus, non potuit. Come mai, seguita
l'erudito francescano, il Papa che conosceva l'_Evangelo Eterno_ potea
pensare di elevare ai supremi onori l'autore del pessimo libro? Ma è da
notare che Innocenzo IV non potè esaminare codesto libro, mandatogli
dall'arcivescovo di Parigi nello stesso anno che morì. L'Affò
avrebbe potuto citare un altro luogo del Salimbene, del quale già
riproducemmo il principio nella nota precedente, e che seguita così:
Petrus Hispanus, qui factus cardinalis et postea ipse idem factus Papa
Johannes XXI, cum esset magnus sophista, loicus et disputator atque
theologus misit pro fratre Johanne de Parma, qui similia in se habebat,
voluit ergo Papa quod semper esset cum eo in curia et cogitabat eum
facere cardinalem, sed morte praeventus non potuit facere. Ma anche
questo passo non concluderebbe nulla, perchè al tempo di papa Giovanni
XXI (1276-77) le agitazioni francescane erano cessate, ed un profondo
obblio copriva l'_Evangelo Eterno_, condannato già 21 anni prima.
Anche per Niccolò III l'Affò avrebbe ben fatto a riprodurre tutto il
passo del Salimbene, dal quale si ha da cavare una conclusione affatto
opposta alla sua. Eccolo (pag. 131): Hic (Johannes de Parma) propter
doctrinam abbatis Joachym, quia nimis adhesit dictis suis, exosus
fuit quibusdam ministris et papae Alexandro quarto et papae Nicolao
tertio, qui ambo cum essent cardinales, fuerunt ordinis gubernatores,
protectores et correctores, et prius diligebant eum intime sicut
semetipsos propter ejus scientiam et sanctam vitam. Unde post longum
tempus dominus Johannes Cajetanus, qui erat papa Nicolaus tertius,
accepit eum per manum, et familiariter ducebat eum per palatium dicendo
sibi: cum tu sis homo magni consilii, non melius esset tibi et ordini
tuo quod tu esses hic nobiscum cardinalis in curia, quam sequi verba
stultorum, qui de corde suo prophetant? Respondit frater Johannes et
dixit Papae: de dignitatibus vestris non curo, quia de hoc commendatur
quilibet sanctus, ad cujus laudem cantatur: nec terrenae dignitatis
gloriam quaesivit, sed ad coelestia regna pervenit. De consilio autem
dando dico vobis quod bene sanum darem consilium si essent qui me
vellent audire; _sed in curia romana his diebus parum aliud tractatur
nisi de guerris et de tropheis et non de animarum salute_. Audiens
haec Papa ingemuit et dixit: sic sumus talibus consueti, quod omnia
quae dicimus et facimus utilia fore credamus. Cui frater Johannes
respondit: Et beatus Gregorius, sicut in dialogo legitur, de talibus
suspirasset. Post hoc dimissus frater Johannes reversus est ad heremum.
Da questo racconto risulta certo non l'innocenza di Giovanni, ma la
sua persistenza nelle opinioni gioachimitiche, non ostante che il Papa
cercasse di distiogliernelo. Si può dubitare che Giovanni abbia tenuto
un linguaggio così acre col Pontefice, ma certo quelle frasi erano in
bocca di tutti i Gioachimiti.

[754] SALIMBENE, pag. 131. Dixit mihi frater Bartholomaeus Calarosus
de Mantua; .... dico vobis, frater Salimbene, quod frater Johannes
de Parma turbavit semetipsum et ordinem suum, quia tantae scientiae
et sanctitatis et excellentissimae vitae erat, quod curiam romanam
corrigere poterat, si credidissent sibi; sed postquam secutus est
prophetias hominum fantasticorum, vituperavit seipsum, et amicos suos
non modicum laesit. Et respondi et dixi: ita etiam et mihi videtur, et
tristor non modicum, quia intime diligebam eum; sed Joachitae dicunt:
prophetias nolite spernere .... Pag. 132: cum disset mihi frater
Johannes de Castroveri .... quod frater Johannes de Parma, quondam
generalis minister adhuc erat in credulitate sua, et ego dixissem sibi
quod si essem cum eo sperabam quod possem eum revocare ab illa, dixit
mihi: vade ergo ad eum etc. L'Affò non nega che fra Giovanni fosse
Gioachita, ma per salvare l'ortodossia di lui, mutila le dottrine
di Gioacchino, riducendole al solo capo dell'Anticristo, nella cui
imminente venuta molti padri della Chiesa fermamente credettero (pag.
130). Invece noi abbiamo già dimostrato che le dottrine dell'_Evangelo
Eterno_ non che essere foggiate dagli Almariciani, si trovano
sostanzialmente nelle opere autentiche dell'abate florense.

[755] Secondo il Salimbene (pag. 137) le dimissioni furono spontanee,
e più d'un giorno insisterono i capitolari perchè le ritirasse, ma
persistendo il generale nel suo proposito, lo pregarono che indicasse
lui il successore. Et statim assignavit fratrem Bonaventuram de
Bagnoreto et dixit quod in ordine meliorem eo non cognoscebat: et
statim omnes consenserunt in eum et fuit electus. Non è probabile
che fra Giovanni indicasse a suo successore chi dopo eletto gli aprì
un processo. E l'Affò stesso cita un contemporaneo fra Peregrino
di Bologna, il quale (pag. 105) dice al contrario: idem Papa sibi
in secreto praecepit, quod renunciaret officio et quod nullo modo
assentiret, si ministri eum vellent in officio retinere. Et ego,
inquit, in capitulo fui mediator inter ipsum et ministros, et hoc
habui ex ore ejus. E se l'Affò non crede al racconto di fra Pellegrino,
perchè appartenente al partito di frate Elia, altri potrebbe dubitare
del Salimbene, appartenente al partito Gioachimita. Tanto più che il
racconto di Salimbene è improbabile, e non scevro di pie invenzioni
come questa che nel romitorio di Grecia, ove si ritirò fra Giovanni,
duae aves de sylva sylvestres, ad modum anseris grandis, et sub
disco suo, ubi studebat continue, fecerunt nidum ova et pullos, et
permittebant se tangi ab eo.

[756] Per esempio la _Cronaca delle tribolazioni_ a carte 181_v_: «Ma
secondo che testifica esso frate Giovanni in questa parte molto fallì
Bonaventura, perocchè parlando e conferendo insieme con frate Giovanni
dentro in cella della predetta quistione, si concordava e mostrava
di sentire e di tenere una medesima cosa con frate Giovanni, ma nel
cospetto delli frati, ed in comune si mostrava di tenere il contrario.
E per questo frate Giovanni molto temeva frate Bonaventura». Così pure
a carte 199 _recto_ e _tergo_: «è fatto stupendo a ciascheduna mente
come presummettono di trattare iniquamente e irriverentemente tanto
e sì fatto uomo con loro infamia con scandalo e vituperio di tutto
l'ordine e confusione di tutta la religione .... venne frate Giovanni,
e fu costretto di giurare come sospetto d'eresia, e fu inquisito il
savio dalli stolti e l'antico dalli giovani ecc. E allora s'oscurò
e impallidì la sapientia e sanctità di frate Bonaventura, e la sua
mansuetudine dal maligno spirito, che il commoveva, fu voltata in
furore». Questi passi mostrano chiaramente l'irritazione del partito
intransigente contro fra Bonaventura. Contro il quale solevano addurre
una pretesa profezia di fra Jacopo della Massa, come riferisce la
stessa cronaca a pag. 186 _recto_: « .... Questo frate Jacopo da Massa
nel principio del generalato di frate Giovanni da Parma stette tre
giorni rapto fuori di sè .... A costui fu data la intelligenza delle
scripture e lo spirito della prophetia, allora lui mi disse e manifestò
una cosa molto stupenda, cioè che .... vidde un arbore molto bello
e alto, la cui radice era d'oro ed il pedale d'argento, le foglie
d'argento inorato, li frutti dell'arbore erano huomini ed erano frati
minori, e vedde frate Giovanni da Parma, il quale stava nella cima del
ramo di mezzo di quest'arbore. E venne S. Francesco ad amministrare lo
spirito della vita alli suoi frati, secondo che li era stato comandato,
ed incominciandosi da frate Giovanni da Parma li dette il calice dello
spirito della vita .... e avendolo bevuto diventò lucente come sole,
quelli pochi che divotamente tutti lo bevevono, tutti diventavano
lucidi come il sole, ma quelli, li quali lo versavano, diventavano
tenebrosi e neri e orribili a vedere e simili alli demonii .... furono
date a frate Bonaventura, unghie di ferro taglienti come rasori (pag.
190): Gesù Cristo chiamò S. Francesco e li dette una pietra focaja
molto tagliente .... e S. Francesco venne e tagliò le unghie di frate
Bonaventura, e frate Giovanni si restò nel loco suo lucente come
il sole». Questa visione, riferita anche nei _Fioretti_, ed accolta
dal Mariano e dal Wadding, è certamente una invenzione del partito
intransigente, e l'Affò ben fece a dubitarne (pag. 109 e segg.), benchè
le ragioni addotte da lui tengano poco.

[757] Certo fra Giovanni fu accusato non solo quale capo del partito
intransigente, bensì come gioachimita e l'Affò ha ben torto di
sostenere che principalmente sul primo motivo gli fu aperto il
processo. Se non ci fosse stata la condanna dell'_Evangelo Eterno_,
e la necessità di salvare la riputazione dell'ordine, non si avrebbe
avuto il coraggio di sottoporre ad accusa un uomo come fra Giovanni.
Anche la _Cronaca delle Tribolazioni_ adduce varii capi di accusa, ma
confessa che il più grave fu quello delle opinioni gioachimite. Non
credo inutile riferire da questa cronaca inedita le accuse, riportate
pure dal Wadding e dall'Affò. Carte 148 _tergo_: «Una delle ragioni
dell'odio che molti ebbero contro Giovanni è il linguaggio severo che
teneva contro tutti, perchè i frati insegnano loro, (ai novizii) di
riservarsi le loro cose per libri, o veramente di darsi alli frati per
edificare Chiese o luoghi o per altri loro bisogni, e non annunziano
loro fedelmente come dice la regola, cioè che le distribuischino alli
poveri del secolo». Carte 170 _t_: «e li frati non sono contenti di
avere due tuniche di panno vile e di rappezzarle di sacco e d'altri
pezzi con la benedizione di Dio, ma procurano d'avere vestimenti
preziosi e delicati e duplicati e tutti quelli li quali amano li
vestimenti vili, e che predicano l'observantia regolare, li giudicano
come uomini indiscreti, e che si vogliono mostrare santi e li chiamano
hypocriti». Carte 171_r_: appena dicono l'ore loro. Carte 174_r_:
«diventano (li frati) mercanti, vendendo le cose spirituali per le
temporali, e le cose che acquistano le convertono nelli proprii usi».
Carte 175_r_: «non possono ascoltare pazientemente la verità delle
loro transgressioni; ma reputano che sia loro lecito d'inpugnare e
perseguitare tutti quelli parlano o sentono il contrario delle loro
opere». Carte 175 _t_: «tornando una volta da Roma un lettore della
nostra provincia riferiva alli frati in comune e ad alcun altro
lectore, come frate Giovanni predicando in Roma alli frati avea dicto
nel suo sermone ai frati contro ad ogni stato, e specialmente contro
alli frati tanto duramente che giammai li frati della Marca non
l'averrebbono perdonata a nessun altro frate». Carte 176 _t_: «diceva
qualmente il testamento e la Regola sono substantialmente una medesima
cosa». Carte 779 _t_: «Frate Giovanni biasimava molto quelli, li quali
addimandavano sopra la regola altre declarationi oltre al testamento,
e admonitioni di San Francesco, come coloro che revocavano in dubbio la
certezza della vera intelligenzia della Regola, e contro la obedientia
e comandamento del padre loro la storcevano al beneplacito della loro
tepida volontà; epperò portavano molestamente le sue parole e il
suo parere e sentimento; e apostata e presa la cagione di un'altra
questione perseguitarono e punirono acerbamente lui e li principali
compagni come infecti di eretica pravità .... Perocchè frate Giovanni
da Parma lui con li conpagni tenevano che l'abate Gioacchino aveano
tenuto e sentito sanctamente e cattolicamente della sancta trinità,
e dell'unità e divina essenza .... e la decretale d'Innocenzio Papa
non damnava lui, nè la sua dottrina per rispetto della sua posizione
e affermazione che lui fa di quella questione, ma riprova quello
libello che Joacchino compose contro mastro Pietro Lombardo .... però
quello libello fu dannato in quanto che era diffamatorio di maestro
Pietro Lombardo .... perocchè maestro Pietro non sentì nè tenne il
contrario di quello che tennono li sancti. Per questa seconda ragione
e cagione mossi li frati apparentemente provocorono frate Bonaventura
ad esaminare frate Giovanni e li compagni della fede e promossone
il figliuolo contro il padre, e il promosso contro il promotore e il
dilecto già discepolo contro all'amante maestro e pastore. La tertia
ragione della persecuzione fu lo scrivere di due sermoni fatti dai due
compagni di frate Giovanni. Dei quali il primo per empio e per modo
dire senza sale lodava la doctrina dell'abate Gioacchino insieme con la
persona, il secondo induceva nel suo sermone tutti li principali passi
della scriptura di Joachino, e che fanno e che sono a commendatione di
S. Francesco e della Regola e a declarazione della vita evangelica e
della sua istituzione e depravazione .... e principalmente toccava li
prelati e li più principali principalmente. Il quale libro leggiendo
frate Bonaventura si dice che sospirò e lagrimò perchè queste cose si
potevano intendere particolarmente per lui».

[758] Salimbene non fa nessun cenno nè del processo nè della condanna,
sebbene nel passo riportato più sopra dica chiaramente che Giovanni
cadde in disgrazia dei Papi Alessandro IV e Niccolò III. Ma la _Cronaca
delle Tribolazioni_, seguita dal Mariano e dal Wadding, racconta quello
che riferiamo nel testo, nè l'Affò ne dubita.

[759] _Cronaca delle Tribolazioni_, carte 186: «E chiamati prima li due
principali compagni di frate Giovanni, ciascuno delli quali era molto
suffitiente e molto docto nella divina scriptura, cioè frate Leonardo
e frate Giraldo li costrinsero a giurare di rispondere puramente
la verità. Carte 196 _t_: frate Giraldo era di tenace memoria e di
deserta e di pulita lingua e di acuto intelletto e dalla bocca sua
usciva un fiume d'auctorità: Carte 198_r_: come eretico condannarono
alla perpetua carcere lui e il suo compagno, il quale frate Giraldo
entrando nella carcere disse: in loco pascue ibi me collocavit, ove
stetti diciocto anni con tanto gaudio e letizia come se continuamente
avessi avute tutte le delicatezze del mondo .... vivendo come eretico e
scomunicato, e alla fine fu privato dell'ecclesiastica sepoltura sotto
la medesima penitenza vivette e morì frate Leonardo. Dopo molto tempo
Pietro dei Nubili perchè non volessi dare alii frati un trattato, il
quale avea compilato frate Giovanni, morì in carcere». Questa ultima
notizia è molto importante, perchè mostra che anche fra Giovanni avea
composto un trattato (l'Introduttorio?) sullo stile degli scritti
di Leonardo e fra Gherardo e al pari di quelli severamente proibito.
D'accordo colla _Cronaca_ il SALIMBENE, pag. 102: frater Ghirardinus
Parisius missus fuit, ut studeret pro provincia Siciliae, pro qua
receptus fuerat. Et studuit ibi IIII annos et excogitavit fatuitatem,
componendo libellum, et divulgavit stultitiam suam. De quo libello
iterum dicam, cum ad Papam Alexandrum quartum pervenero, qui ipsum
reprobavit. Et qui occasione istius libelli improperatum fuit ordini et
Parisius et alibi, ideo praedictus Ghirardinus, qui libellum fecerat,
privatus fuit lectoris officio et praedicationibus et confessionibus
audiendis et omni actu legitimo ordinis. Et quia noluit resipicere
et culpam suam humiliter recognoscere, sed perseveravit obstinatus
procaciter in pertinacia et contumacia sua, posuerunt eum fratres
minores in compedibus et in carcere, et sustentaverunt eum pane
tribulationis et aqua angustiae. Iste miser nec sic voluit resilire a
proposito obstinationis suae, permisit itaque se mori in carcere, et
privatus fuit ecclesiastica sepoltura. Sepultus in angulo horti.

[760] SALIMBENE, pag. 131 .... Et tu similiter Joachita fuisti, cui
dixi: verum dicitis sed postquam mortuus est Fridericus, qui Imperator
jam fuit et annus millesimus ducentesimus sexagesimus est elapsus,
dimisi totaliter istam doctrinam, et dispono non credere nisi quae
videro.

[761] WADDING, _Annales minorum_, V, 52, che segna la _Cronaca delle
Tribolazioni_, da lui citata nel nome di Chronica antiqua. Nelle note
seguenti mi varrò direttamente di questa fonte, pubblicandone per
quanto lo spazio mi consente, i brani più importanti.

[762] _Cronaca_, carte 204 _tergo_: «Della quinta tribolazione
dell'ordine delli frati minori della quale nelle parti ultramontane
frate Pier Giovanni fu il principale che ne partecipò, come si dirà
nel subsequente capitolo — Essendo assunto al cardinalato frate
Bonaventura contro alla sua volontà per la fama della sua scienza
ed eloquentia e sanctità, li succedette nell'offizio del generalato
frate Girolamo d'Ascoli, il quale poi fu Papa Niccolao quarto, che
fu uomo assai mansueto e modesto e tardo ad ira e a fare ingiuria,
posto che fossi tepido e rimesso a promuovere li buoni. Pag. 205: A
costui .... accusato il sancto uomo di Dio frate Pier Giovanni d'Ulivo
della provincia di Provenza e della custodia di Herbona, e nativo
d'un castello chiamato Serignano, che esso frate Pier Giovanni per
audacia e temeraria presunzione haveva composto alcune quistioni piene
di temerarie novitati. La qual cosa udendo frate Girolamo generale
lo fece chiamare a sè, e li disse che li portasse quelle quistioni
che lui haveva fatte della nostra donna, il quale frate Pier Giovanni
subitamente ebbe porto, e come il generale l'hebbe letto, li comandò
che li mettessi in sul fuoco e l'ardesse. La qual cosa fatta frate
Pier Giovanni senza mutare volto con l'animo tranquillo, come se avessi
ricevuto un grande honore, rallegrandosi si lavò le mani e celebrò la
messa. La qual cosa notando alcuni di quelli, che di già per lo merito
delle sue virtù l'amarono, appostata l'ora opportuna l'addimandorono
dicendo: frate Pier Giovanni come potesti tu dire la messa così
subitamente dopo tanta ingiuria e riprensione, che ti fu facta dal
generale non ti confessando tu avanti. Ai quali quello rispose e disse:
Io ho ricevuta quella riprensione e ingiuria per grande benefizio et
honore, e però non me ne sono dolsuto nè rammaricato. Anzi me ne sono
rallegrato, che se voi pensate che per quello ardere e distruggere di
quelle quistioni l'uomo se ne debba dolere, questo è niente, perchè a
me è agevole cosa di ritrovare e riparare quelle medesime».

[763] _Cronaca_, carte 214 «(fra Pier Giovanni) tolse un compagno,
e non chiamato nè licenziato se ne andò a frate Bonagratia generale
ministro .... E volendosi el generale spacciare di lui, e punirlo
aspramente con penitentia confusibile per la inobbedentia, la quale
avea commessa, fece radunare il capitolo spacciatamente, e frate
Giovanni propose per tema del suo parlare: spiritu oris interficient
ineptum. E poi seguitò il suo sermone con tanta efficacia e tanto
fervore di spirito, che tutti si stupirono nella virtù delle sue
parole. E tutti confusi nel cuore e nella mente, e non avendo ardire
di rispondere alle sue parole, tacettono. Ma agghiadato nel cuore
il generale non lo riprese della sua venuta, e non li dette alcuna
penitentia, e dissimulò il dispiacere il quale lui avea conceputo
contro a quello. Ma dipoi a pochi giorni, il generale infracidandosi
e consumandosi d'amaritudine si cadde in infermità e morì, e insieme
con lui morirono due principali adversari di fra Pier Giovanni». La
Cronaca non conosce nè l'accusa del capitolo nè la sentenza della
Commissione, nè la ritrattazione. Ma la condanna c'è nota dalla
risposta dello stesso Olivi ai suoi giudici pubblicata dal Duplessis
(D'ARGENTRÉ, _Collectio judiciorum_ I, 226). Il principio di questo
documento è il seguente: Reverendis in Christo fratribus fratri Arloto
de Prato, fratri Richardo de Mediavilla, fratri Drocho, fratri Joanni
Valensii, fratri Symoni sacrae theologiae doctoribus; fratri Aegidio
de Baysi, fratri Joanni de Murro, Bachalariis domus Parisiensis,
homuncius peccator vilissimus dictus frater Petrus Joannes Olivi, eam
reverentiae plenitudinem, quam decet Magistros et Patres tantos ac
tales etc. Quello di cui si duole principalmente l'Olivi è che sieno
state condannate le sue opinioni quaedam vero haeretica, quaedam in
fide dubia, quaedam nostro ordini periculosa, quaedam nescia, quaedam
praesumptuosa; nel mentre l'autore non fu ammesso a discolparsi, e
neanco venne interrogato. Miror satis quomodo tum rigidus processus
contra me actus, et quomodo tam solemnis tamque inusitata sententia,
tamque diffamatoria per viros tam solemne est data, me super his omnino
irrequisito. La formola di ritrattazione è riportata dal Wadding,
V, 122. Ego frater Petrus Joannes consentio in verba magistrorum
nostrorum, quae continentur in litteris sigillorum septem, qui Patres
ad praeceptum venerabilis Patris fratris Bonagratiae, tunc generalis
ministri, requisiti per obedientiam responderunt. Quel _tunc_ mostra
che la sottomissione ebbe luogo dopo la morte del generale, avvenuta
nel 1283.

[764] _Cronaca_, carte 222-23: «Esso fu chiamato dal generale a Parigi,
che dovessi rispondere alle cose proposte contro a lui davanti alli
maestri e alli altri frati quivi congregati. Alle quali cose lui
rispose tanto saviamente e pienamente e abbondantemente, che tutti li
circostanti se ne meravigliarono e stupirono e confessorono che vera e
cattolica era la sua posizione, e assertione delli predicti articoli,
e nessuno di quelli, che l'accusarono, fu ardito di dire una parola
contro a quello».

[765] _Cronaca_, carte 213: «Per la qual cosa si voltarono a
perseguitare li germogli e figlioli delli suoi razzi, e tutti li
giovani, che si sforzavano di conformarsi alli suoi costumi e alla
sua dottrina, con maligne inquisitione e perplesse e intrincate
examinationi, come se fossero morti nell'eretica pravità, li
incidevano col coltello dell'iniqua lingua diffamandoli, gittandoli e
nascondendoli nelle fosse e sepolture, nelle fosse delle loro carceri e
prigioni, e temendo li razzi delle loro chiarissime ragioni, infiammate
del calore di charità del sole padre loro, cioè frate Pier Giovanni, e
non potendo sostenere la sua presenzia, non avevono ardire di fare di
lui inquisitione».

[766] Anche quest'altra dichiarazione fu pubblicata dal WADDING, V,
p. 299: Ego frater Petrus Joannes dico et profiteor, fratres minores
non teneri ad aliquem usum pauperem neque ad aliam vivendi modum ultra
contentum in declaratione Regulae facta a domino Nicholao III etc.

[767] Il WADDING, V, 378, ci conserva le ultime parole dell'Ulivi.

[768] Il Daunou nell'articolo sull'Olivi (_Hist. litt._, XXI, 44)
parla d'un codice di Santa Croce, che conterrebbe l'_Esposizione
dell'Apocalisse_. Ma il Bandini non cita se non due soli codici
riferentisi all'Olivi, il primo (pluteo X dextr. cod. IV) contiene
l'esposizione di Matteo fino a carte 197, e da carte 110 l'esposizione
dell'evangelo di Luca. È notevole che in fondo al codice si legge una
nota di mano di fra Tedaldo, la quale ricorda le postille di fra Pietro
su Isaja, Ezechiele, le Sentenze, Geremia; ma non fa cenno alcuno del
_Commento all'Apocalisse_. Il secondo codice (plut. XXXI, sin. cod.
III) contiene parecchi opuscoli sulla povertà, e tra gli altri alcuni
di Pier Giovanni. Eccone l'indice:

Utrum sit melius aliquid facere ex voto, quam illud idem sine voto
(carte 131). Utrum vovere alteri homini obedientiam; Utrum appellare
ab inferiori (imperfecta et incompleta) (c. 132). Quod trium votorum,
castitatis, paupertatis et obedientiae sit perfectius (132). Utrum
Papa possit in omni voto dispensare (134). Utrum romano pontifici sit
in fide et moribus ab omnibus obedire (139). Item sine argumento, an
promittere alteri obedientiam in omnibus universaliter sit evangelicae
perfectionis (140). Expositio regulae sancti Francisci (141). Quaeritur
an status altissimae paupertatis sit simpliciter melior omni statu
divitiarum (142). Ad oppositum quaestionis arguitur. Quaestio est
pulchra. (162). Videtur quod status habens aliquid in commune sit
melior (164). Quaestio an usus pauper includatur in consilio seu votu
paupertatis (170). Utrum professoribus paupertatis evangelicae usus
pecuniae sit totaliter interdictus (172). Quaeritur utrum praedicti
pauperes teneantur vilissimis vestibus indui (174). Utrum Episcopi
et Praelati, qui ad perfectionem evangelicam sunt ex voto adstricti
teneantur ad pauperem usum (176). Utrum liceat professoribus evangelici
aliquid repetere per se vel per alium (177). Utrum liceat professoribus
evangelicis debita contrahere quacunque ex causa (178). Utrum ei liceat
annualia convivia, seu pietantias recipere, seu procurare (178). Utrum
virginitas, vel castitas, abstrahens ab omni concubitu, sit simpliciter
melior matrimonio (178). Utrum votum vitandi suspectum consortium,
vel colloquium includatur in voto evangelico (181). Utrum Religiosus
vovens ea, quae non obsunt observantiae regulare, teneatur votum illud
adimplere (182). Utrum sit conveniens ad professionem religionis, vel
solemnis voti castitatis multos recipi (182). Utrum vovens ingredi
Religionem si ducat uxorem, peccat semper mortaliter petendo debitum
(182). De antiqui hostis versutia contra statum evangelicae paupertatis
seraphici viri Francisci multiformi (183). Utrum perfectio evangelicae
paupertatis possit ad talem modum vivendi reduci, quod sufficienter
vivat de possessionibus et contradicitur a Papa vel Patribus (189).
Responsio Petri Joannis in Capitulo generali quando fuit requisitus
quid de usu paupere sentiret (204). De obitu dicti fratris Petri
Joannis et quid receptis sacramentis dixit quando et ubi recepit
scientiam suam, et quid senserit de usu paupere (206). Articuli
abstracti descriptis tuis ab aemulis et impugnatoribus (206). Item
tractatus ejus de usu paupere in fine quinti capitulo (206). Quaestio
pulchra seu tractatus ejusdem de vita activa et contemplativa (206).

[769] Nella professione di fede al letto di morte diceva l'Olivi
(WADDING, V, 378): dico abdicationem omnis juris, seu jurisdictionis
temporalis et pauperem rerum usum de substantia vitae nostrae
evangelicae; pauperem vero usum hunc ita explico: ut omnibus
consideratis censeatur potius pauper quam dives, seu declinet potius ad
paupertatem quam opulentiam. Si vede in questa formola, che pare tanto
logica, l'imbarazzo di definire il limite, al di là del quale l'uso
cessa di essere povero.

[770] I giudici del 1282 condannano la sentenza dell'Olivi (D'ARG., I,
pag. 231): quod usus pauper rerum, prout in se includit necessitatem,
quae dicit indigentiam manifeste existentem, vel de proximo imminentem
et talem quod debitus status corporis, vel personae Deo servientis,
nisi sibi succurratur, stare non potest, includitur in voto evangelicae
paupertatis. Cfr. _Cronaca delle Tribolazioni_, carte 224 _tergo_:
«provava e affermava che la renunziazione d'ogni giurisdizione e l'uso
povero era della sostanza della vita apostolica, e della professione
della regola di S. Francesco, e chiamava l'uso povero tale uso, il
quale, pensate tutte le circostanzie, vistamente si può chiamare
più povero che ricco, non quello il quale induce estrema necessità
delle cose da vivere, per il quale lo stato della nostra religione
diventa pericoloso, nè quello il quale esclude le cose necessarie alla
vita, e l'uso delle cose, cioè massaritie, ad usare per esecutione
delli uffizii dello stato loro; perocchè li frati non debbono avere
l'uso di tutte le cose, nè a nessuna superfluità ricchezze o pompe o
abbundantia, che diminuisce la povertà, o veramente a tesaurizare,
o per animo di vendere o dare ad altri o alienare, nè sotto spetie
di provvedersi per il tempo futuro nè per altra cagione. Anzi debba
apparire ed essere in loro quanto al dominio la espropriazione per ogni
modo e nell'uso la necessità».

[771] _Cronaca_, carte 226 «epperò diceva esso frate Giovanni che li
notabili eccessi delli luoghi e delli hedifitii quanto alla preziosità
della materia e alla curiosità della forma, pulitezza e bellezza e
quanto alla qualità e sumptuosità e spese e quanto alle molte maniere
delli acolti e procuratori che inducono e che richiedono per li
edifizii, diceva che era impurità pericolosa». Vedi in WADDING, V, pag.
379. Dico quarto, notabiles excessus in aedificiis quoad materiam et
curiositatem, pro quibus construendis multiplices et importuni fiunt
quaestus, periculosos esse .... Idemque censendum est de iis, qui
procurant suis monasteriis annuos redditus et determinatas vel statutas
sub singulis annis provisiones, praevenientes nimia sollicitudine omnes
necessitates.

[772] _Cronaca_, carte 227 «e similmente litigare e piatire per
jurisdictione delle sepolture o delli funerali o per qualunque cosa
temporale diceva esser notabile impurità .... et che fare questo per
persone seculari instigandole e conducendole a questo, pagando le
spese, e consigliandosi per questo modo, il quale noi vediamo che si
fa da molti, non solamente è impurità, ma è una frauda nascosta della
Regola». WADDING, loc. cit.: litigare vel causas movere coram judicibus
circa funeralia aut legata pia nobis relicta impuritas est maxima
contra Regulam; neque obstat quod per seculares seu fratrum amicos
fiant.

[773] _Cronaca_, carte 228 _tergo_ «Predicava ancora e diceva che li
apostoli e li episcopi, li quali hanno professato la vita apostolica,
come li apostoli quanto che per vigore del voto evangelico e della
professione evangelica sono tenuti di osservare l'uso povero». Cfr.
Wadding, loc. cit. Dico octavo quod viri apostolici, seu nostri
fratres, qui evangelicam vitam se gloriantur profiteri, debent etiam
in superioribus gradibus dignitatum, seu Episcopatuum constituti,
quantum eorum status permittit, quod Domino voverunt, observare. Cfr.
D'ARG., I, 232, ove l'Olivi rispondendo ai suoi giudici concede quod
non tenentur ad usum pauperem in illis, in quibus usus pauper impediret
eorum officium debitum.

[774] _Sexti Decret. De verb. signif._, cap. 3. Insuper nec utensilia
nec alia praeter eorum usum ad necessitatem et officiorum sui status
executionem, non enim omnium rerum usura habere debent, ut dictum est,
ad ullam superfluitatem divitias, seu copiam quae deroget paupertati
etc.

[775] L'ampia professione di fede cattolica riportata dal Wadding loc.
cit., non impediva all'Olivi di sostenere che ei si sentiva obbligato
di non credere nisi solo Romano Pontifici aut Concilio generali, nisi
quantum ratio vel auctoritas Sacrae Scripturae vel fidei Catholicae per
seipsam me cogit ut credam. Cfr. la _Cronaca_ carte 230 .... «credere
al Romano Pontefice o veramente al Concilio generale se non quanto la
ragione e l'autorità della sacra scriptura o della cattolica fede per
sè medesima diffinisce».

[776] Che l'Olivi appartenesse al partito creatore della letteratura
pseudo profetica lo mostra la _Cronaca delle Tribolazioni_, a c. 208:
«perocchè l'abate Gioacchino profetò di lui e mostrò che quello era
stato profetato dalli antichi e dalli altri, e tutta la prima parte
della profezia di Cirillo heremita, la quale esso abate Gioacchino
magnifica grandemente, principalmente tocca Pier Giovanni, il loco
della sua natività, l'ordine nel quale doveva entrare, e tutte le
persecuzioni le quali lui doveva avere lui e i suoi seguaci». A c.
209: «la Sibilla Eritrea li prophetò mille anni avanti al advenimento
di Christo intanto che la simplicità e la innocentia di S. Piero del
Murrone, e la renunziazione del Papato, ed il loco della seductione
(1294) e le persone seducenti, e profeti, e scrisse chiaramente, e così
ancora piacque acio che fussino profetati li singolari fatti di Pier
Giovanni.»

[777] Dagli estratti dell'_Apocalisse_ in BALUZE, ediz. Mansi, II,
267 a: Quidam ex pluribus, quae Joachim de Friderico secundo et ejus
semine scribit, et ex quibusdam, quae beatus Franciscus secrete fratri
Leoni et quibusdam aliis sociis suis revelasse fertur, opinantur quod
Fredericus praefatus cum suo semine sit respectu hujus temporis quasi
caput occisum, et quod tempore mistici Antichristi ita reviviscat in
aliquo de semine ejus, ut non solum Romanum imperium, sed etiam Francis
ab ipso devictis obtineat regnum Francorum, quinque caeteris Regibus
Christianorum sibi cohaerentibus.

[778] BALUZE, pag. 261 (cfr. _Direct. inquis._, pag. 268). Igitur
commemorato est adhuc notandum a quo tempore debeat sumi initium
hujus sextae apertionis. Videtur enim quibusdam quod ab initio
ordinis et regula sancti patris praefati; alii vero quod a solemni
revelatione tertii status generalis, continentis sextum et septimum
statum Ecclesiae, facta abbati Joachim et forte quibusdam aliis sibi
contemporaneis; alii vero quod ab exterminio Babylonis et Ecclesiae
carnalis per decem cornua bestiae, id est per decem Reges fiendo;
alii vero quod a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum
Christi et Francisci, tempore quo ejus regula est a pluribus nequiter
et sophistice impugnanda et condemnanda ab Ecclesia carnalium et
superborum, sicut Christus condemnatus fuit a Synagoga reprobe
iudaeorum. Hoc enim oportet praeire temporale exterminium Ecclesiae,
sicut illud praeivit exterminium Synagogae.

[779] BALUZE, pag. 263 a (_Direct._, V). Hic ergo angelus est
Franciscus, evangelicae vitae et regulae sexto et septimo tempore
propagandae et magnificandae renovator, et summus post Christum et ejus
matrem observator .... Audivi etiam a viro spirituali valde fide digno,
et fratri Leoni confessori et socio beati Francisci valde familiari
quoddam huic scripturae consonum, quod nec assero, neque scio, nec
censeo esse asserendum, scilicet quod tam per verba fratris Leonis quam
per propriam revelationem sibi factam perceperat quod beatus Franciscus
in illa pressura tentationis Babylonicae, in qua ejus status et regula
quasi instar Christi crucifigetur, resurget gloriosus; ut sicut in vita
et in crucis stigmatibus est Christo singulariter assimilatus, sic et
in resurrectione Christo assimiletur necessaria tunc suis discipulis
confirmandis et informandis.

[780] BALUZE, pag. 258 (_Direct._, I). Primus status proprie coepit
a Spiritus Sancti missione, licet alio modo coeperit a Christi
praedicatione. Secundus vero proprie caepit a persecutione Ecclesiae
facta sub Nerone Imperatore, quamvis alio modo coeperit a Stephani
lapidatione vel Christi passione. Tertius vero coepit a tempore
Constantini Imperatoris ad fidem Christi conversi, seu a tempore
Silvestri Papae, seu Concilii Nicaeni contra Arrianorum haeresim
celebrati. Quartus vero proprie coepit a tempore magni Antonii
anachoretae, seu a tempore Pauli primi eremitae, vel secundum Joachim
a tempore Justiniani Augusti, de quo infra in decimo notabili amplius
tangetur. Quintus vero proprie coepit a tempore Karoli Magni. Sextus
vero aliqualiter coepit a tempore beati viri patri nostri Francisci.
Plenius tamen debet incipere a damnatione Babylonis meretricis magnae,
quando praefatus angelus Christi signo signabit per suos futuram
militiam Christi. Septimus autem uno modo inchoat ab interfectione
illius Antichristi, qui dicet se Deum et Messiam Judaeorum, alio modo
inchoat ab initio extremi judicii omnium reproborum et electorum.

[781] BALUZE, pag. 260 b. Sicut enim in primo statu saeculi ante
Christum studium fuit patribus enarrare magna opera Domini inchoata ab
origine mundi, in secundo vero statu a Christo usque ad tertium statum
cura fuit filiis quaerere sapientiam mysticarum rerum et mysteria
occulta a generationibus saeculorum, sic in tertio nil restat nisi
ut psallamus et jubilemus Deo, laudantes ejus opera magna, et ejus
multiformem sapientiam et bonitatem in suis operibus et scripturarum
sermonibus clare manifestatam. Sicut enim in primo tempore exhibuit se
Deus pater ut terribilem et metuendum, nude tunc claruit ejus timor,
sic in secundo exhibuit se Deus filius ut magistrum et revelatorem; et
ut verbum expressissimum sapientiae sui patris. Ergo in tertio tempore
spiritus sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris etc.

[782] BALUZE, pag. 258 b. Septimum est quare sextus status describitur
ut notabiliter praeeminens quinque primis, et sicut finis priorum,
et tanquam initium novi saeculi, evacuans quoddam vetus saeculum,
sicut status Christi evacuavit vetus testamentum et vetustatem humani
generis. Cfr. pag. 260 a: Sicut etiam in sexta aetate rejecto carnali
judaismo et vetustate prioris saeculi venit novus homo Christus cum
nova lege vita et cruce, sic in sexto statu, rejecta carnali Ecclesia
et vetustate prioris saeculi, renovabitur Christi lex et vita et crux.
Propter quod in ejus primo initio Franciscus apparuit Christi plagis
characterizatus et Christo totus concrucifixus et configuratus.

[783] Pag. 261 a: Secunda ratio est, quia uterque illorum substitutus
est alteri. Nam sicut gloria, quae fuerat Synagogae parata et
Pontificibus suis, si in Christum credidissent, translata fuit ad
primitivam Ecclesiam et ad pastores ejus, sic etiam gloria parata
finali Ecclesiae quinti status transferetur, propter ejus adulteria,
ad electos sexti status. Unde et in hoc libro vocatur Babylon meretrix
circa initium sexti status damnanda. Pag. 263 a: Tunc enim totus status
Ecclesiae in praelatis et plebibus et religiosis funditus subvertetur,
praeter id quod in paucis electis remanebit occulte.

[784] BALUZE, pag. 263 b: Ex praedictis autem patent aliquae rationes
quare ante exterminium novae Babilonis sit evangelica vita veritas a
reprobis solemniter impugnanda et condemnanda, e contra a spiritalibus
suscitandis ferventius defendenda et observanda. Pag. 264. Nunc fere
omnes clerici et regulares possidentes aliquid in communi videntur
minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione.

[785] BALUZE, pag. 262 a: Si quaeras quare Franciscus cum primis
sui ordinis sociis non fuit personaliter in initio tertio et quarto
.... dicendum quod ad hoc potest octuplex ratio dari. Prima est
generalis, non enim oportet nec congruit quod posteriora prioribus suis
correspondentibus in omnibus conformentur etc.

[786] BALUZE, pag. 263 a. Est enim tunc nova Babylon sic judicanda
sicut fuit carnalis Hierusalem, quia Christum Dominum crucifixit. Che
cosa s'intenda per la nova Babilonia nessun può ignorare. L'Olivi dice
ben chiaro: Potestas enim Papae et multitudo plebium sibi obediens et
favor ipsius est quasi magnus fluvius Eufrates impediens transitum.

[787] _Liber sententiarum inquis. tholos._, pag. 326: Dixit tamen quod
audivit ab aliquibus fratribus minoribus de illis vocatis spiritualibus
de Narbona et ita fore credidit quod ordo fratrum minorum debebat
dividi in tres partes, scilicet in communitate ordinis, quae vult
habere granaria et cellaria, et in fratissellis et fratribus, qui
sunt in Sicilia sub fratre Henrico de Ceva, et fratribus vocatis
spiritualibus vel pauperibus et etiam beguinis. Et dicebant quod prime
due partes, quia non observant regulam beati Francisci debebant cadere
et cassari, set tercia pars quia observabat regulam evangelicam debebat
remanere usque ad finem mundi, licet pateretur multas persecutiones,
sicut dicunt fuisse revelatum beato Francisco, et probabant quod dicta
tertia pars usque ad finem mundi debebat durare vel in multis vel in
paucis, quia Evangelium Christi durabit usque ad finem mundi, et regula
beati Francisci est regula evangelica. La separazione dei fraticelli
sotto Enrico di Ceva accadde nel 1318 (WADDING, VI, 312), ma è ben
certo che la formazione di questi partiti risale per lo meno al tempo
in cui gl'intransigenti per la prima volta tentarono di separarsi
dall'ordine per costituirne un altro, che prese il nome dal papa
Celestino V. Infatti a codesto movimento di separazione Pier Giovanni
e i suoi aderenti non presero parte, perchè essi volevano che tutto
l'ordine, anzi tutta la cristianità si convertisse alla loro fede;
talchè anche allora dai Celestini, come più tardi dai Fraticelli, si
distinsero gli Spirituali. Non occorre spiegare perchè prendessero
codesto nome i seguaci dell'Olivi, che credevano fermamente nel regno
avvenire dello Spirito Santo.

[788] _Cronaca delle Tribolazioni_, carte 249: «In questo mezzo essendo
frate Pietro detto Murrone fatto Papa, piacque al generale e a tutti li
principali frati .... principalmente a frate Currado d'Offida, a frate
Pietro da Montecchio, a frate Jacopo da Todi, a frate Tommaso da Trevi,
a frate Currado da Spoleto, e a tutti quegli altri, li quali amarono
la regola, che frate Pietro da Macerata ed il compagno (fra Liberato)
fossino mandati al sommo Pontefice. Perocchè quelli erano stati suoi
familiari avanti al papato». Carte 251: «absolvette frate Liberato e il
compagnio da ciascheduna obbedentia delli frati, e lo comandò .... che
non si chiamassino frati minori, ma frati di Papa Celestino o poveri
heremiti». Carte 252_r_: «rinunziando Papa Celestino l'offizio del
papato parve a quelli frati di dare luogo all'ira ed al furore; detti
frati per maggior pace e salute se ne andarono a luoghi (lontani?)».

[789] _Cronaca_, carte 262: «Ingannato il Papa (Bonifazio) colle loro
bugie consentì alla loro perversa petizione e fecie fare littere
nelle quali fece esecutori della loro punizione tre prelati cioè
messer Pietro patriarca di Costantinopoli e l'archiepiscopo di Atene,
e l'archiepiscopo di Patrasso. Il patriarca stava allora a Vinegia».
Carte 267_r_: «Subitamente che frate Consalvo sentì che frate Liberato
con li suoi compagni erano tornati, e che stavano in certi eremitori
nelle parti della Puglia, esso generale li armò delle littere della
sedia apostolica e se ne andò al Re di Sicilia .... e fu chiamato fra
Tommaso d'Aversa inquisitore». Carte 267_v_: «(fuggì fra Liberato) e
molti mesi giacque non cognosciuto da alcuna persona nel loco delli
Armeni di Viterbo, e doppo due anni si morì nel loco di S. Angelo della
Vena».

[790] _Cronaca_, c. 237: «Questa quinta tribolazione ebbe un altro
principio nella provincia della Marca Anconitana pigliandola al tempo
del Concilio generale facto a Lione da Papa Gregorio X». Carte 237_v_:
«alcuni frati dicevano che rivorrebbero le possessioni e le rendite
per observare la obedientia e il comandamento del sommo Pontefice,
e li decreti del Concilio, costoro rispondevano che farebbono il
contrario». Carte 238_v_: «Tre frati cioè frate Iramondo, frate Tommaso
da Tolentino e frate Pietro da Macerata confermavano la loro opinione
con ragioni e auctorità e ardentemente la difendevano dicendo, che
nè la Chiesa nè il Papa non farebbono mai questa cosa, come cosa la
quale non solamente era inconveniente e che conduceva all'apostasia
e che non cadeva sotto potestà del sommo Pontefice e però non li era
possibile» Carte 239: «Uno frate savio, che avea nome frate Beniamino,
par che componesse la quistione, la quale cessò dopo tre anni della
loro penitentia. Ma rimasono l'una parte e l'altra nella coscienza
discordante di studii diversi e di desiderî contrari, perocchè quelli
della maggior parte reputavano lo stato e il vigore ed il mantenimento
in edificare luoghi nel mezzo delle città e delli castelli per
attrarre a loro li populi, e in procurare le sepolture, in ricevere
testamenti e legati, e in multiplicare libri scuole e scuolari e in
inpetrare privilegi e simili cose. Ma quelli altri sentivano tutto
il contrario delle predecte cose». Carte 242: «furono messi di nuovo
in carcere come eretici e privati della confessione e delli altri
sacramenti e alla fine della sepoltura ecclesiastica». Carte 244 _v_:
«Morendosi il generale ministro Matteo Acquispartano, successe a lui
frate Raimondo di Gauffredo della provincia di Provenza (WADDING, V,
210), uomo mansueto, pietoso .... che radunato il Capitolo della Marca
chiese conto della sentenza pronunziata contro alcuni frati, e saputo
li scarcerò e li mandò al re Ayecon d'Herminia (Armenia)». Carte 246
_r_: «I frati erano frate Agniolo, frate Tommaso da Tolentino (morto
martire), frate Marco da Monte Lupone, frate Pietro di Macerata e un
altro frate Pietro». Questi fatti successero nel 1289-90. Vedi WADDING,
V, pag. 211, 236.

[791] DANTE, _Parad._, XII, 124.

    Ma non fia da Casal, né d'Acquasparta,
    Là onde vengon tali alla scrittura,
    Ch'uno la fugge e l'altro la coarta.

Di Ubertino da Casale, lo scolare di Pier Giovanni Olivi, diremo più
giù. Dante condanna i due opposti partiti i conventuali, rappresentati
dal generale Matteo d'Acquasparta, e gli spirituali rappresentati da
Ubertino. A Matteo successe Gaufrido nominato il 1289 (WADDING, V, 210)
e rimosso da Bonifacio VIII nel 1295 (op. cit., 338).

[792] _Cronaca_, carte 218: «Nientedimeno ebbe victoria la protervia e
la voluntà delli persequitori, e condannorono la sua dottrina insieme
con la persona, disotterrorono e scavorono li suoi ossi, e furiosamente
e con gran contumelia destrussono il suo sepolcro e li segni della sua
santità e li segni delle divotioni a lui offerti, e con tutte le forze
spensono le operazioni dello spirito nelli fedeli».

[793] _Cronaca_, carte 233: «Di poi quel sancto uomo di singolare
perfectione, cioè frate Pontio di Buontungato, potente in opere e
in parole .... perchè non volse dare ad ardere alcuni tractati, li
quali aveva fatti il sancto uomo frate Pier Giovanni, lo tractorono
tanto crudelmente e spietatamente, che la impietà della crudeltà,
la quale li fu facta, turba et empie d'amaritudine li animi delli
auditori. Lo rinchiusono in una carcere strettissima oscurissima e
putridissima, ligato colli ferri alli piedi, ficcando un ceppo nel
muro ed appiccandoci una catena ligata alli ferri, che haveva in piè,
e tanto lo ristringono et opprimono che non poteva andare un poco pure
alla necessità della natura se non dove sedeva, e non poteva se non
sedere, e aggravato dal peso del ferro e della strettezza della carcere
sopra la terra nuda, la quale era lotosa e fetente per l'orina e per
lo sterco, il quale li stava socto, e così sedeva nel brutto fango, e
li gettavano stretto pane e breve acqua voltando la faccia quelli, li
quali erano più crudeli che le bestie e più velenosi che li serpenti,
non mostrando mai a quello huomo, il quale cognoscevano bene che era
veramente sancto, alcuno obsequio nè alcuna humanitade, nè per opere
nè per parole insino alla morte sua, e alla fine essendo infermato
giaceva inchinato sotto il peso del ferro, e nel puzzo dello sterco e
dell'orina, lieto nell'animo e acceso del fuoco di carità e referendo
a Dio infinite grazie, rendette lo spirito a Jesu Christo, lassando
a tutti esempi e forma di fortitudine insuperabile e di patientia
imperturbabile». Il Wadding, che riproduce (V, 380) molto laconicamente
questo racconto, mette la morte di fra Ponzio nel 1297, poco dopo la
morte dell'Olivi. Oltre a frate Ponzio furono incarcerati altri frati
(come dice la _Cronaca_, a c. 233, e ripete il Wadding): frate Giovanni
da Valle, frate Giovanni da Quiliano, frate Francesco di Lionetto,
frate Raimondo di Auriolo, frate Giovanni del Primo e molti altri.

[794] Queste notizie il Wadding raccolse dall'opera stessa di Ubertino,
_Annales_, V, 417-18.

[795] _Cronaca_, c. 297: «Questo frate Ubertino habitando sul Monte
della Vernia della provincia di Toscana tutto devoto a S. Francesco,
fedele testimonio della prima ed ultima perfezione regolare, sincero
e fervente predicatore dell'evangelica verità infiammò e destò per
esempio della vita e per virtù della sua parola molti nella religione
e specialmente nella provincia della Marca e della Valle e di Toscana
alla pura e fedele observantia della promessa perfectione, e per la
vera charità, lassando lui stare la sua quiete, la quale lui haveva
in Gesù Christo, attendendo solamente a Dio e alle cose celestiali, e
assentendo al consiglio delle sancte persone per potere favorire li
frati e le persone spirituali, li quali pativono dalli frati molte
tribolazioni nella provincia di Toscana e della Valle di Spoleto, e
si mise scientemente a molti pericoli, e si dette a molte fatiche.
Imperocchè fu infamato a Papa Benedetto undecimo ed acusato di molte
cose dalli suoi adversari, e fu citato dal Papa e chiamato a Roma
a loro instantia, ma per lo ajuto di Gesù Cristo fu liberato per
mirabile modo da tutte le calunnie. Ma pochi giorni doppo mandando
li Peruggini solenni ambasciatori al predetto Papa, imposono a questi
ambasciatori che addimandissino al S. P. due cose principali, la prima
di restituirli il lume della loro direzione cioè frate Ubertino, il
quale aveva inluminata e singularmente tirata a Dio tutta la loro
città, la seconda cosa fu che offerendo al Papa come a padre e signore
liberamente tutta loro città e tutte le loro persone, e che li dovesse
piacere di venire a stare senza dimora insieme con li suoi fratelli
cardinali, allora il sommo pontefice sorridendo rispose: voi avete
messo frate Ubertino avanti a noi».

[796] Delle apologie, che Ubertino fece di Pier Giovanni, oltre
al sunto che ne riporta il Wadding, V, 380, 390 abbiamo alcuni
frammenti negli _Articuli Probationum contra fratrem Ubertinum de
Casali inductarum a frate Bonagratia_ pubblicati dal Baluze, ediz.
Mansi, II, 276. Riproduco questi passi. Pag. 276: Malignissime et
impiissime dicunt quod frater P. Johannis in scriptis et in postilla,
quam scripsit super _Apocalipsim_, vocat romanam ecclesiam meretricem
magnam, et alia multa in ecclesie vituperium dogmatizet. Hoc enim est
mendacissimum. Pag. 277: abdicatio proprietatis et dominii et omnis
juris et jurisdictionis temporalis, tam in speciali quam in communi, et
usus pauper omnium rerum nobilium est lampas nostrae fidei.

[797] Il Wadding, VI, pag. 168, pubblica la lettera di Clemente V
dilecto filio generali ministro, caeterisque fratribus tum praelatis
quam subditis ordinis minorum, nella quale dice di aver chiamato ad
inquirendum de propositis veritatem oltre al ministro generale, altri
ben noti, videlicet dilectos filios fratres Raymundum Gaufridi ....
olim generalem ministrum, Raymundum de Giniaco, dudum provinciae
Aragoniae provincialem ministrum, Guillelmum de Cornelione custodem
Arelatensem, Guidonem de Levis, Ubertinum de Casali, Bartholomeum
Siccardi, Guillelmum de Agantico, Petrum Rajmondi, Petrum Malodii.
E codesti frati ab omni obedientia et jurisdictione vestra, filii
minister, et praelati ac successorum vestrorum prorsus eximimus durante
negotio supradicto.

[798] Nella bolla _Exivi de paradiso_ (CLEMENTINARUM, lib. V, tit.
XI) Clemente espone così la questione insorta tra i frati, e che egli
risolve in favore del partito degli spirituali: Quibusdam ex ipsis
credentibus et dicentibus, quod sicut quoad dominium rerum habent ex
voto abdicationem arctissimam, ita ipsis quoad usum arctitudo maxima
et exilitas est indicta; aliis in contrarium asserentibus, quod ex
professione sua ad nullum usum pauperem, qui non exprimatur in regula
obligantur, licet teneantur ad usum moderatum temperantiae, sicut et
magis ex condecenti quam caeteri Christiani.

[799] CLEM., lib. I, tit. I .... ipsum Dei verbi non solum affigi
cruci et in ea mori voluit, sed etiam emisso jam spirito perforari
lancea sustinuit latus suum .... Porro doctrinam omnem seu positionem
asserentem aut vertentem in dubium, quod substantia animae rationalis
seu intellectivae vere ac per se humani non sit forma, velut erroneam
ac veritati catholicae inimicam fidei praedicto sacro approbante
concilio reprobamus .... opinionem secundam, quae dicit tam parvulis
quam adultis conferri in baptismo informantem gratiam et virtutes
tamquam probabiliorem .... sacro approbante Concilio duximus eligenda.
Che queste tre proposizioni si riferiscano a Pier Giovanni non è
dubbio. Per il colpo di lancia lo confessa il Wadding stesso (VI, 386);
per gli altri due basterà citare lo scritto stesso dell'Olivi riportato
dal Duplessis (_Collectio_, I, pag. 232): Quod anima intellectualis
non informat corpus sed tantum per sensitivam, pag. 231. Quod virtutes
non dentur parvulis in baptismo: De hoc, sicut jam dixi, nihil est in
scriptis meis, nihil etiam unquam asserui. Sed quod ex necessitate ad
eorum salvationem hoc fieri non oporteat, aut communiter hoc non fiat,
dixi ante tempora Fr. Hieronymi esse opinionem profundo et solemni
scrutinio discutiendam, et non temerarie tanquam haereticam a quolibet
reprobandam.

[800] Così si esprime Clemente nella bolla _Exivi_: declarando dicimus
quod fratres minores ex professione suae regulae specialiter obligantur
ad arctos usus seu pauperes, qui in ipsorum regula continentur
.... Dicere autem quod hereticum sit tenere usum pauperem includi
vel non includi sub voto evangelicae paupertatis praesumptuosum et
temerarium judicamus. Di questa dichiarazione scrive la _Cronaca delle
Tribolazioni_, carte 307-8 «fu facta la quarta declaratione papale,
la quale è in fra le altre come un'aquila volante tanto s'appressa
all'intenzione di S. Francesco, la substantia della quale la trassono
li Episcopi e li maestri di quelle cose, che frate Ubertino proponeva
per se e per li compagni». Quanta parte abbia avuta in codesta
decisione frate Ubertino, lo dice con viva compiacenza la _Cronaca_,
carte 298: «Ma perchè frate Ubertino dovea sostenere le insidie li
empiti e li assalti della sesta battaglia, però Dio li dette l'uscio
aperto delle sacre scripture, ed il chiaro e sottile ingegno della
intelligentia, e lo riempiè dell'acqua della sapientia del salvatore
Christo Jesu, intanto sparivano e mancavano dalla faccia sua le ragioni
delli adversarii, come le tenebre dalla faccia dello inradiante sole.
E questo fu manifesto a tutti avanti e dopo il Concilio, perchè uno
solo delli electi delli trentamila vinse fortemente la schiera delli
adversari e roppe le reti delli loro sophismi, come se fussino teli di
ragnia».

[801] WADDING, VI, pag. 313.

[802] _Cronaca delle Tribolazioni_, carte 300: «Per la quale cosa il
Papa non volse che havessi alcuno vigore cosa, che si proponesse in
juditio per parte del generale o veramente dell'ordine contro frate
Ubertino e li suoi compagni. E per questo arrabbiandosi molto più
li frati adversarii delli umili poveri di Gesu Christo, predicavano
e dicevano che era sacrifizio mattutino e vespertino offenderli e
perseguitarli come destructori e diffamatori dell'ordine, e questo
perchè essi humili figlioli della obbedientia e zelatori della
verità li aveano detta la verità, la quale conveniva loro dire per
l'ordine. E intanto si erono questi persequitori inanimiti contro alli
persequitati, che uno di loro non si vergognò di confessare arditamente
e pubblicamente avere avvelenato frate Raymondo di Gaufredo, frate
Guido dei Mirapesci, e frate Bartolomeo Sicardo, e un altro frate;
onde questa fama riempie quasi tutta la corte. Il Papa ancora più
volte massime nel Concilio di Vienna si lamentò della irreverentia e
l'inobedientia delli frati».

[803] _Cronaca delle Tribolazioni_, carte 305: «Conciosia cosa che
Papa Clemente quinto avessi assignato nel Concilio di Vienna episcopi
doctori in jure canonico e molti maestri in teologia per udire ed
esaminare quelle cose, le quali erano proposte per la riformatione
di tutta la religione da frate Ubertino e da tutti li altri fratelli
secondo che havevano havuto comandamento da esso Papa Clemente, tanta
crudeltà e tanto odio mostravano loro e alli loro aderenti li frati
in Provenza e in Toscana e nella provincia della Valle di Spoleto, che
ciascheduna persona si poteva accorgere che in poco o nulla reverentia
havevono l'obbedientia del Papa, e mostravano un odio tanto implacabile
contro a questi zelatori della Regola, che per le diverse persecutioni
furono costretti li frati zelatori della Regola di dividersi dalla
comunità delli frati e di separarsi da loro. Ridussonsi adunque
doppo quella segregatione e separazione dalli persecutori al convento
di Narbona e di Bises. Perocchè quelli uomini di quelle cittadi li
havevono in grande reverentia e devotione sì per la santità, la quale
cognoscevono in loro, sì per li miracoli che tutto il giorno vedevono
al sepolcro del santo uomo Pier Giovanni». Carte 310: «Per la qual cosa
conoscendo questi poverelli, che lo stare con quelli che li avevono
in odio ne seguitava loro pericolo corporale, trovorono una chiesa
derelicta e solitaria appresso a Malusana, dove era dell'acqua e alcuna
spelonca, ed ivi si raccolsono quelli frati zelatori di licentia del
Patron di quello loco, vivendo in vera e pura observantia della regola.
E la vernata seguente si stettono nel loco di S. Lazzaro di Vignone per
insino che fu data la diffinitiva sententia del Papa».

[804] Le lettere di Clemente V sono riportate dal Wadding, VI, 214.
Quia tamen relatione intelleximus fide digna quod nonnulli fratres
occasione dissensionis predictae, ad illicita laxatis habenis, quaedam
loca dicti ordines in eadem provincia constituta contra ipsius statuta
ordinis temeritate propria occuparunt .... non mandamus quatenus vos
vel unus aut duo vestrum per vos seu alium vel alios eisdem fratribus
ex parte nostra in virtute sanctae obedientiae districte praecipere
studeatis. La _Cronaca delle Tribolazioni_ ben rileva le conseguenze
funeste del dissidio toscano e narbonese .... carte 308-309: «Elessonsi
questi frati il generale e li altri prelati secondo la regola. La
qual cosa e tornò in scandolo a loro e a tutti li lor compagni, Papa
Clemente e li cardinali e tutti quelli ancora che per la reformatione
li davano favore ne furono turbati ed agevolmente potessono credere di
loro tutti li mali che di loro erano proposti in juditio dalli loro
avversarii. E avvenga che essi frati partiti mandassero appresso la
morte di Papa Clemente littere, che di tutto erano apparecchiati ad
obbedire a tutte le cose che comandassi sua Santità, e di stare sotto
alla sua correptione, nientedimeno quelle lettere non pervenneno alla
presentia del sancto padre».

[805] Il Wadding riporta (VI, 271) la lettera indirizzata da Giovanni
XXII dilecto filio fratri Ubertino de Ilia de Casali, vercellensis
dioecesis monacho monasterii sancti Petri de Gemblaco ordinis sancti
Benedicti dioecesis leodiensis .... Sane nobis exponere curavisti, quod
propter debilitates varias et infirmitates proprii corporis, quibus
frequenter molestaris et propter alias causas nobis explicitas, de
ordine fratrum minorum, quem ab olim fuisti professus .... ad ordinem
sancti Benedicti desideras transferre. Nos .... tuis in hac parte
desideriis annuentes, te ex nunc ab omni subjectione, jurisdictione,
obligatione, jugo et obedientia Regulae dicti ordinis fratrum minorum
et omnium Praelatorum ipsius, auctoritate Apostolica prorsus absolvimus
ecc. Datum Avenion. Kal. octobris anno II (1317).

[806] Contro i dissidenti toscani, che s'erano rifugiati in Sicilia
sotto la protezione di Federico II d'Aragona, scrisse la lettera del
marzo 1317 carissimo in Cristo filio regi Trinacriae, riportata dal
Wadding (VI, 266). Riferisco questo passo: Non modicum excellentiae
tuae derogatur honori, si hujusmodi viros devios, professionis propriae
ac sacrorum canonum transgressores, ac etiam seminatores errorum in
dicta insula permittas ulterius commorari. Simili lettere del maggio
1317 furono indirizzate dilecto filio officiali narbonesi, dilecto
filio officiali Biterrensi (WADDING, p. 268).

[807] _Extravag._, tit. XIV _De verborum significatione_. Nelle due
disposizioni accennate Giovanni non avea fatto se non riprodurre, come
lui stesso dichiara, le prescrizioni di Clemente V. Ma nella Clementina
_Exivi_ § 11 era chiaramente detto: non est verisimile voluisse
ipsum (Franciscum) eos habere granaria vel cellaria, ubi quotidianis
mendicationibus deberent sperare posse transigere vitam suam; e
solo per via di eccezione si permettevano le provviste: tunc tantum
cuna esset multum credibile ex jam expertis, quod non possent vitae
necessaria aliter invenire. L'_Estravagante_ riproduce la concessione,
ma tace la massima.

[808] _Extravag._, loc. cit. Magna quidem paupertas, sed major
integritas, horumque obedientia maximum, si custodiatur illaesa. Nam
prima rebus, secunda carni, tertia vero menti dominatur et animo.

[809] L'inquisitore che li condannò fu frate Michele dell'ordine
dei Minori, al quale Giovanni XXII nella bolla riportata dal Baluze
(ediz. Mansi, II, pag. 247) e dal Wadding (VI, 259) avea ingiunto
di procedere contro coloro che ricalcitravano alla costituzione
_Quorundam_. La sentenza di condanna pubblicata dallo stesso Baluze
(ediz. Mansi, II, 248), fu pronunziata in cimiterio beatae Mariae
de Aquis Curiatis Massiliae anno Domini MCCCXVIII, indictione prima,
VII maji, pontificatus sanctissimi Patris Johannis XXI anno secundo.
Tra i considerandi riporto questi: Asseruerunt quoc sanctissimus
Pater Johannes XXII non habuit nec habet potestatem faciendi
quosdam declarationes, commissiones et praecepta contenta in quadam
constitutione sive decretali .... quae incipi _Quorundam_, et quod ipsi
Domino Papae non tenebantur obedire. Et insuper coram nobis constituti
protestati sunt verbo et in scripti quod stabant et stare intendunt
usque in diem judicii in protestationibus .... videlicet quod illud
quod est contra regulae fratrum minorum observantiam et intelligentiam
est per consequens contra evangelium et fidem, alias non esset penitus
quod regula evangelica, et quod nullus mortalis potest eos cogere ad
deponendun ipsos habitos curtos et strictos.

[810] Vedi le aggiunte al rapporto sulla Postilla dell'Olivi
(BALUZE-MANSI, II, 271): nonnulli alii ejusdem ordinis, qui praedictos
errore abjuraverunt, fuerunt ad poenam carceris condemnati, ex quibus
aliqui postmodum infra annum .... transierunt ad gentes infedeles,
reliquentes in scriptis ea quae sequuntur, videlicet quod ipsi non
dimittebant ordinem, sed parietes; non habitum sed pannum; non fidem,
sed corticem; non Ecclesiam, sed Synagogam coecam; non pastorem, sed
divoratorem.

[811] _Inquisitoris sententia_ (BALUZE, II, 249). Et quia constat
nobis quod praefati errores imo haereses manifeste processerunt seu
originem habuerunt a venenato fonte doctrinae immo verius seductrinae,
quam frater Petrus Johannis Olivi .... temere scriptitavit, et
doctrinam ejus et libros .... fuisse per praefatum ordinem de consilio
etiam plurium magistrorum in sacra pagina condemnatos ac etiam igni
adjudicatos, et attendentes nihilominus quod praefatus sanctissimus
Pater Johannes Papa certis ex dominis cardinalibus et quibusdam in
sacra pagina magistris examinationem praedictorum librorum commisit
.... praecipimus .... quod pendente dicto negotio coram praefato Domino
Papa et ejus facto collegio nullus praesumat praenominato Petro Johanni
tanquam sancto aut catholico viro et approbato reverentiam exhibere.
La Commissione, a cui accenna qui la sentenza, è la stessa che scrisse
il rapporto a Giovanni XXII, pubblicato dal Baluze (II, 258 e segg.), e
dal quale ci siam serviti nell'esposizione delle dottrine dell'Olivi.

[812] L'inquisitore oppone naturalmente (pag. 247): quod nulla
regula religiosorum aequanda est evangelio, cum evangelium Christi
Sancta Universalis atque Romana Ecclesia propter eminentissimam ejus
auctoritatem nec mutet nec corrigat nec confirmet .... regulae vero
praedictae et quorumcumque religiosorum omnis tenor et vigor sic a
Romanae sedis potestate manat, ut nulla sit ejus auctoritas, quae ab
indulgentia seu confirmatione sedis apostolicae non decurrat.

[813] _Inquisitoris sententia_, pag. 248: ea quae in constitutione sive
decretali de habitu et quaestu et similia mandabuntur (nella decretale
_Quorundam_) erant contra consilium Christi evangelium et eorum votum
de altissima et evangelica paupertate, quam Christus servavit, et
Apostolis ac professoribus evangelicis imposuit ac servandum: Anche
l'Olivi (BALUZE, II, 261) aveva scritto: consta regulam minorum per
beatum Franciscum editam esse vere e proprie illam evangelicam, quam
Christus in se ipso servavit e apostolis imposuit, et in evangeliis
suis conscribi fecit.

[814] Il Baluze attribuisce a Giovanni di Belna l'opuscolo intorno
ai beghini e spirituali che comincia: Quaestiones aut dubia quae
circa illa, quae sunt fidei, oriuntur, ad sedem apostolicam pertinet
interpretari, declarare (II, 274).

[815] _Cronica della Quistione insorta nella corte di Papa Giovanni
XXII circa la povertà di Cristo_ pubblicata dallo ZAMBRINI in
appendice alla _Storia di fra Michele Minorita_ (_Scelta di curiosità
letterarie_, dispensa 50). Codesta cronaca è una traduzione del
_Chronicon de Gestis contra fraticellos auctore Joanne Minorita_
pubblicata dal Mansi in appendice al terzo volume del Baluze, pag. 206
e segg. Il Müller nella sua opera _Der Kampf Ludwigs des Baiern mit
der römischen Curie_ (Tübingen 1879-80, I, 354 e segg.), ed in una
memoria speciale inserita nella _Zeitschrift für Kirchengeschichte
herausgegeben von Brieger_ (VI. I pag. 63 e segg.) ha dimostrato non
solo l'identità della cronaca italiana colla latina, ma confrontando
un manoscritto parigino (Bibl. Naz., cod. lat. 5154) ha messo fuori
discussione che l'opera, attribuita a Giovanni dal Mansi, è identica
a quella di Niccolò Minorita, dalla quale il Raynald, il Wadding ed il
Böhmer cavarono alcuni estratti. Il vero nome è certo Niccolò, perchè
si trova non solo nella traduzione italiana, ma nel codice parigino e
nel vaticano. Ed io aggiungo che essendo scritto il nome dell'autore
colla sola iniziale, come nella traduzione italiana, era ben facile lo
scambio tra un J ed un N.

[816] Niccolò III teneva per evangelica la regola della povertà
(_Sext. Decr._, tit. XII, cap. III): Hi sunt illius sanctae regulae
professores, quae evangelico fundatur eloquio, vitae Christi roboratur
exemplo, fundatoris militantis ecclesiae, apostolorum ejus sermonibus
actibusque firmatur.

[817] La risposta di frate Ubertino è pubblicata dal Baluze (ediz.
Mansi, II, 279). Vedi anche _Cronica della Quistione_, pag. 77-80.

[818] MARCOUR, _Antheil der Minoriten im Kampfe zwischen Ludwig IV von
Baiern und Papst Johann XXII_, Emmerich, 1874, pag. 7.

[819] La traduzione italiana, pag. 64-76, tra le parole _tradi fecit_
e _volens igitur_ (BALUZE, MANSI, 207 _b_) inserisce un lungo racconto
del concistoro tenuto da Giovanni XXII nel 6 marzo 1322. Il racconto,
conforme in sostanza a quello che più brevemente si legge nella stampa
del Baluze pag. 270 _b_, par dettato, secondo il Müller (_Zeitschrift_,
pag. 66), da un testimone oculare.

[820] Vedi la Bolla _Quia nonnumquam_ (_Extravag._, tit. XIV, cap.
II). Nos autem attendentes quod argumentis frequenter et collationibus
latens veritas aperitur .... praesertim cum de novo suborta sint dubia
.... prohibitiones et poenas praedictas .... auctoritate apostolica
duximus .... suspendas. È data VII Kal. april, anno VII (1322).

[821] NICCOLÒ MINORITA ediz. Zambrini, pag. 84. Nell'originale
latino sono riportate per disteso le due circolari di fra Michele
(BALUZE-MANSI, III, pag. 208-211). Il Preger nella memoria _Ueber die
Anfange des kirchenpolitischen Kampfes unter Ludwig dem Baier_ (München
1882) ha con ragione notato che Michele da Cesena, Occam e gli altri
non si debbono considerare come rappresentanti degli spirituali, bensì
dei conventuali. Tanto vero che Bonagrazia da Bergamo nella protesta,
che fece quale procuratore dell'ordine contro Giovanni XXII, tenne a
distinguere la causa loro da quella degli spirituali, che ei chiama
_pseudo prophetas_ (BALUZE-MANSI, 220, col. a). Io aggiungo che Michele
da Cesena sottoscrisse la dichiarazione, che ritiene eretici questi
tre punti... 1º quod illud, quod est contra observantiam praefatae
regulae beati Francisci et ejus intelligentiam, est per consequens
contra evangelium et fidem et e converso, alias ipsa non esset penitus
pro regula evangelica 2º.... quod dominus Papa non habuit nec habet
potestatem nec auctoritatem faciendi constitutionem _Quorundam_.... 3º
Quod nec Papae nec praelatis dicti ordinis obediendum est in his, quae
in praefata constitutione continentur. (BALUZE-MANSI, II, 270-71).

[822] _Extrav._, tit. XIV, cap. III. Ad conditorem .... ipsum (cioè il
compromesso) non profuisse sed potius tam ipsis fratribus quam aliis
obfuisse subsequens magistra rerum experientia noscitur declarasse.
Quis enim simplicem usuarium dicere poterit, cui rem usuariam licet
permutare, vendere ac donare? .... nequaquam potest in rebus usu
consumptibilibus reperiri, in quibus nec jus utendi nec usus facti
separati a rei proprietate seu dominio possunt constitui vel haberi
.... De fratrum nostrorum Consilio hoc edicto in perpetuo volitare
sancimus, quod in bonis, quae in posterum conferentur .... fratribus
seu ordini supradictis (exceptis ecclesiis, oratoriis, officius,
et habitationibus, ac vasis, libris et vestimentis divinis officiis
dedicatis ....) nullum jus seu dominium aliquod .... Romanae Ecclesiae
acquiratur.

[823] La protesta francescana è riportata da Niccolò (BALUZE-MANSI,
III, 213-221). Il frate Bonagrazia che la distese è quello stesso,
come nota il Riezler (op. cit., pag. 69), che scrisse contro Ubertino
da Casale un opuscolo riportato dal Baluze (ediz. MANSI, II, 270). Il
MARCOUR (op. cit., pag. 39) dubita di questa identificazione, forse
indotto dalla data che il Raynald assegna a questo scritto, vale a dire
il 1325. Sarebbe stato infatti molto strano che dell'inchiesta contro
Ubertino fosse incaricato dalla Curia chi un anno prima era stato
messo in carcere per avere protestato contro il Papa. Ma io dubiterei
piuttosto della data, non dell'identificazione, che va d'accordo colle
notizie del Wadding, secondo le quali il Bonagrazia era così nemico
degli spirituali, che al dire della _Cronaca delle Tribolazioni_ e
del Wadding (VI, 317) dopo la dichiarazione di Clemente V in favore
dell'uso povero fu bandito dalla Curia. E morto Clemente tornò a
perseguitarli, e per opera sua morì in prigione un fra Bernardo delli
Consi, compagno dei quattro bruciati in Marsiglia (WADDING, VI, 321).
Questo altro fatto avrebbe potuto addurre il Preger per mostrare come
i più fieri nemici degli spirituali ora facessero causa comune con loro
contro il papa Giovanni XXII.

[824] Le due bolle sono riportate da Niccolò Minorita, la prima da pag.
211 _b_ a 213 _a_, la seconda da pag. 221 a 224 _a_. Nelle decretali è
riportata naturalmente la seconda, che fu la definitiva.

[825] _Extrav._, tit. XIV, cap. IV: _Cum inter nonnullos_ ....
assertionem hujusmodi pertinacem, cum scripturae sacrae, quae in
plurisque locis ipsos nonnulla habuisse asserit .... erroneam fore
censendam et hereticam de fratrum nostrorum consilio hoc perpetuo
declaramus edicto.

[826] La protesta di Ludovico si trova nel Baluze (_Vitae pap. Aven._,
II, 478-512) e nella Cronaca di Niccolò Minorita (BALUZE-MANSI, 224
_b_-232 _b_). Il Müller (_Der Kampf_, I, 357-58) le assegna la data
del 22 maggio 1324. Nella protesta di Norimberga del 18 dicembre 1323
Ludovico accusava il Papa di aver menomata l'autorità dei vescovi per
favorire i minoriti, contro i quali da tutte parti si levavano giuste
lagnanze (MÜLLER, op. cit., I, 70); nella protesta di Sachsenhäusen
invece l'accusava di perseguitare i minoriti col distruggere la
legge della povertà, fondamento del loro ordine. Tra le due proteste
però non corre, secondo il Preger (_Ueber die Anfange_, pag. 43), la
contradizione che vi scopre il Marcour (op. cit., pag. 32); perchè
nella prima protesta si difende la causa dei vescovi contro i minoriti
conventuali, e nella seconda la causa dei frati spirituali, che in
Spira s'erano messi dalla parte del vescovo, e non meno di lui si
opponevano alle pretensioni ed agli abusi dei conventuali. Il più
attivo fra codesti spirituali era frate Francesco di Lutra, a cui
secondo il Preger si deve la parte della protesta di Sachsenhäusen, che
riguarda le quistioni minoritiche. Non si potrebbe pensare ad Ubertino
di Casale, come sospetta il Riezler (_Die litt. Widersacher_, pag. 73),
perchè, come ha notato il Müller, Ubertino non lasciò Avignone prima
del 1325. Nè tampoco al provinciale tedesco Enrico di Thalheim, come
credono il Marcour (_Der Antheil_, pag. 35) e lo stesso Müller (_Der
Kampf_, I, 24), perchè nella bolla del 10 gennaio 1831 il Papa non lo
rimprovera di veruna partecipazione alla protesta di Sachsenhäusen.

[827] _Extrav._, tit. XIV, cap. V. Il Müller, op. cit., pag. 96,
giustamente riproduce il giudizio del Wadding, al quale il Papa
apparisce in questa bolla scholasticorum potius more disputans quam
pontificia auctoritate decernens.

[828] Nella lettera papale, riportata da Niccolò Minorita (BALUZE, pag.
237; ZAMBRINI, pag. 95) non pure Michele da Cesena è chiamato diletto
figlio, ma in una forma mitissima si accenna alle quistioni del giorno:
Cum propter aliqua negotia tuum Ordinem contingentia, tua fit nobis
praesentia opportuna ecc.

[829] Lo stesso fra Michele nella sua protesta del 13 aprile 1328
(BALUZE, 328) racconta che il Papa l'ebbe per iscusato, et quod
non fuerat suae intentionis nec volebat quod supra posse laborem in
veniendo ad eum.

[830] NICCOLÒ MINORITA, in BALUZE, pag. 237; ZAMBRINI, pag. 99: «Disse
il detto Papa Giovanni a esso general ministro, riprendendolo intra
molte altre cose, che egli era stolto, temerario, capitoso, tiranno e
favoreggiatore d'eretici, e che egli era serpente nutricato nel seno
da essa Chiesa. E spezialmente lo riprese d'alcuna lettera del capitolo
generale fatta a Perugia, che pendendo la quistione nella Corte di Roma
egli avea presunto di determinarla nel capitolo generale».

[831] NICCOLÒ MINORITA, in BALUZE, pag. 243; ZAMBRINI, pag. 105. «Da
poi che il predetto frate Michele, general ministro, udì che Papa
Giovanni pronunziava per eretica la lettera del capitolo generale
.... resistendogli nella faccia affermò lo detto papa Giovanni
essere eretico .... et a modo dei santi padri, i quali si partirono
dall'ubbidienza dei sommi pontefici, et eziandio perchè egli correva
pericolo di morte .... a dì XXIV di Maggio del detto anno MCCCXXVIII si
partì dalla ubbidienza e dalla corte del predetto papa Giovanni».

[832] NICCOLÒ MINORITA (in BALUZE, pag. 243 _a_-_b_) dopo aver
raccontato dell'elezione del frate di Corbara, cerca di giustificare
con citazioni canoniche la misura audace di Ludovico, intorno alla
quale a nonnullis fuit haesitatum hactenus, et adhuc haesitatum. Tutto
il passo da _deinde praefatus_ sino _ad brachium seculare_ è saltato
nella traduzione italiana.

[833] La sentenza fu pubblicata due volte, la prima a Roma il 18
aprile, e la seconda il 12 dicembre 1328 a Pisa. La prima edizione si
trova nel BALUZE _Vitae_ II, 512, ed in Niccolò Minorita (BALUZE-MANSI,
III, 240). Il Müller nella citata opera _Der Kampf_, I, 187, a ragione
rileva che nella prima edizione solo di sfuggita si accenna al domma
della povertà, che formava uno dei punti capitali della protesta di
Sachsenhäusen, e ne inferisce che in Roma ai minoriti era sottentrato
un altro consigliere, molto più radicale e che delle quistioni
fratesche non facea gran conto, Marsilio da Padova. Nella seconda
edizione invece (BALUZE-MANSI, 310_a_-314_a_), che sebbene riporti
l'antica data del 18 aprile, è del tutto una redazione nuova, tornano
ad occupare il primo posto le quistioni minoritiche. Il che mostra
che l'ispiratore in luogo di Marsilio fu ora Michele da Cesena, come
ha dimostrato il Müller, op. cit., p. 214 e 372. Il passo di Niccolò
(BALUZE, pag. 243 _a_), che si riferisce alla doppia redazione, non è
riconoscibile nella traduzione italiana (ZAMBRINI, pag. 104-105).

[834] La sentenza del papa inserita in Niccolò Minorita (BALUZE,
pag. 243; ZAMBRINI, pag. 106) porta la data: Avinionis VIII Idus
Junii Pontificatus nostri anno XII (6 Giugno 1328). Riproduco questo
passo: Ipse Michael .... associatis sibi quibusdam suae iniquitatis
complicibus, inter quos erant duo nequam viri, videlicet Bonagratia
de ordine praedicto .... et quidam Anglicus vocatus Guillelmus Ockam
ordinis praedicti, contra quem ratione multarum opinionum erronearum,
et haereticalium, quas ipse scripserat et dogmatizaverat, pendebat
in eadem Curia inquisitio auctoritate nostra diu jam incepta .... ad
portum supradictum deveniens .... galeam supradictam conscendit.

[835] La lettera indirizzata universis ministris, Custodibus,
Guardianis et eorum vicariis porta la data: nona die Julii a. d.
MCCCXXVIII. (NICCOLÒ, in BALUZE, pag. 244-46; ZAMBRINI, pag. 107).

[836] Delle due proteste, la prima più diffusa (in majori forma)
si suppone già fatta in Avignone nel mese di aprile in presenza di
frate Guidone, notajo pubblico di detto ordine, e rinnovata poi in
Pisa in domo fratrum minorum anno praedicto a nativitate Domini 1328,
Indictione XI, 14 Kalendas octobris, praesentibus testibus vocatis ....
et infrascriptis notariis pubblicis. La riporta Niccolò in BALUZE, pag.
246-303. ZAMBRINI, pag. 110. Questa protesta è una confutazione delle
tre decretali _ad Conditorem_ (pag. 246-75), _Cum inter_ (pag. 275-86),
_Et quia quorundam_ (pag. 287 e segg.) .... tres constitutiones
haereticales .... vitae et doctrinae evangelicae et apostolicae et
S. R. Ecclesiae et SS. PP. eam sequentium, statutis multipliciter
adversantes, quae tanquam fumus teter et horridus e puteo abissali, et
ab eo, qui pater est mendacii et schismatis, prorumpentes, veritatis
et doctrinae solem evangelicae obnubilant et obscurant. La seconda
protesta (appellatio in forma minori, BALUZE, pag. 303-310) ha la
stessa data della precedente; anno supradicto decimo (leggi vigesimo)
octavo mensis septembris. (ZAMBRINI, pag. 112). Il Müller (op. cit.,
I, 211) crede che codesta protesta sia stata redatta tardi, per esser
letta nell'assemblea tenuta dall'Imperatore nel 13 dicembre (VILLANI,
10, 111). In questa seconda protesta sono notevoli i seguenti passi,
che mancano nella prima (pag. 310): licet frater Bonagratia .... et
subsequenter serenissimus Dominus Ludovicus Romanorum rex appellaverit
legitime .... tamen dictus Joannes noluit corrigi, nec permisit quod
Concilium generale congregaretur super praedictis .... Ex quibus
patet dictum dominum Joannem fuisse et esse pertinacem et notorium et
manifestum haereticum. Et quod secundum jura, ex quo Papa in haeresim
lapsus est, ipso jure et facto est omni dignitate ecclesiastica,
potestate, authoritate et jurisdictione privatus .... nec obviat illa
regula per parem non potest solvere vel ligare, quia Papa haereticus
minor est quocumque Catholico.

[837] La data di codesta costituzione è del 16 novembre 1329
(BALUZE-MANSI, pag. 323-341). La traduzione italiana della
_Cronaca_ nel capitolo, di cui lo Zambrini (pag. 116) pubblica solo
l'intestazione, dopo aver riportato il principio della costituzione
sino alle parole _in rebus usu consumtilibus_ aggiunge: «Et così
seguita di parte in parte replicando le aleghationi di frate Michele
generale isforzandosi d'impugnarle per confermare le sue agiungniendo
tanti errori sopra errori, che una confusione pestifera pazza e
bestiale (_sic_). Perchè sarebbe troppo lungo e tedioso volgarizzare
tucte sue costituzioni et heresie, e le opposite appelationi et
alleghationi facte pro e contra, si pone in questa astrazioncella
(_sic_) della chronica il principio e il fine delle cose più notabili,
volgarizzandone alcune, che si possono dimostrare con più brevità
e convenevole chiarezza ai non litterati divoti ricercatori, i
quali avuta la introductione d'essa verità con meno fatica potranno
investigare la plenitudine sua dalli licterati intendenti et
ammaestrati nella sacra scriptura». (Codice Magliabechiano XXXIV, 76,
carte 63 _recto e verso_).

[838] La cronaca del Minorita (in BALUZE, pag. 341-355) riporta
un'_appellatio fratris Michelis a Generalis a Constitutione
praescripta_. Il Müller però (_Aktenstücke_, pag. 78) ha dimostrato,
che la protesta di fra Michele non poteva esser questa, ove si parla
non solo di Giovanni, ma dei successori suoi (pag. 351) e più sotto
dei tre successori (pag. 352 _b_). Inoltre questa protesta, che in
verità non ha la forma delle solite appellationes, non è se non il
_Defensorium_, male attribuito all'Occam, e già pubblicato dal Brown
(_Fasciculus rerum expetendarum_, II, 434-65), e prima di lui nel
_Firmamentum trinum ordinum_, Parigi 1512, e nel _Singulare opus
ordinis Seraphici Francisci_, Venezia 1513. Il codice parigino, a
differenza della stampa del Baluze, ha la vera protesta (pubblicata
in parte dal Müller, pag. 83). La traduzione italiana (cod.
Magliabechiano, carte 63 _verso_) ha soltanto il principio e la fine
della protesta conformi al testo pubblicato dal Müller. Eccoli: In
nomine patris et filii et spiritus sancti amen. Anno a nativitate
domini MCCCXXX indictione XIII in Monaco in domo fratrum minorum
venerabilis et religiosus vir frater Michael. E finisce così: Acta et
facta fuerunt predicta in Monaco, in domo fratrum minorum in refectorio
ejusdem domus anno predicto a nativitate domini MCCCXXX indictione
XIII, VII Kal. aprilis presentibus (la lacuna è nel codice). Explicit.
Amen. Oltre alla protesta Niccolò Minorita riporta una lettera del
Cesenate spedita a tutti i ministri, custodi e guardiani, che ha la
data del 4 gennaio 1331 (BALUZE, pag. 356-361). È riportata anche
dal Goldast, II, 1338 (leggi 1328). La traduzione italiana la dà per
intero volgarizzata da carte 64 a carte 86. Con questa lettera finisce
la stampa della cronaca fatta dal Mansi e la traduzione italiana. Gli
altri capitoli, la cui intestazione è riportata dallo Zambrini, non
appartengono più alla cronaca, bensì formano altri opuscoli riuniti,
come suole accadere, nello stesso codice. A differenza del testo del
Mansi e della traduzione italiana il codice parigino seguita più oltre
sino all'anno 1338.

[839] NICCOLÒ, in BALUZE, pag. 315-323. Una delle ragioni, su cui si
appoggiavano è questa (pag. 319 _b_): Sed constat quod dictus Dominus
Bertrandus se vicarium asserens ordinis antedicti pro libito voluntatis
contra formam Juris et Concilii instituit et creavit ministros
provinciales et custodes .... Et quod illi, qui fuerunt in dicta
congregatione imo verius conspiratione facta Parisiis, fuerunt pro
majori parte per dictum D. Bertrandum Provinciales et custodes creati.

[840] Vedi la lettera di fra Michele pubblicata dal Goldast, II, 1236,
che comincia: Literas plurium magistrorum in sacra pagina aliorumque
notabilium fratrum ordinis Beati Francisci tum Parisius quam de
partibus aliis me noveritis recepisse, per quas me inducere videbuntur
ut ad unitatem sanctae ecclesiae ac dicti ordinis, a qua me dicebant
aversum, accedere festinarem .... e finisce: Ex parte fratris Michaelis
generalis ministri dicti ordinis licet inviti de voluntate et assensu
fratrum Henrici de Thalheim. Francisci de Esculo, Guilhelmi de Okam in
sacra pagina magistrorum, et fratris Bonagratiae, et aliorum fratrum
eis adhaerentium .... Questa lettera è riportata anche nel codice
parigino della Cronaca di Niccolò (MÜLLER, pag. 75).

[841] In una lettera scritta la pentecoste del 1324 e pubblicata
da un codice parigino dal Müller (_Aktenstücke_, pag. 111) dice
l'Occam: Nam contra errores pseudopape prefati posui faciem meam
ut petram durissimam, ita quod nec mendacia nec false infamie nec
persecutio qualiscumque, que personam meam corporaliter non attingit,
nec multitudo quantacumque credencium sibi aut favencium vel eciam
deffendencium me ab impugnatione et reprobatione errorum ipsius,
quamdiu manum cartam calamum et atramentum habuero, numquam in
perpetuum poterunt cohibere.

[842] NICCOLÒ MINORITA, in ZAMBRINI, pag. 116: «Questa (_Quia vir
reprobus_) è la quarta decretale eretica di papa Giovanni XXII, eretico
manifesto, contra la quale appellò frate Michele, generale dell'ordine
de' frati minori, e compuose e fe' pubblicare contro a essa la sua
distesa appelazione da Monaco, e il maestro Guilglielmo Ocam fe' contro
l'opera de' novanta dì, e la quarta parte del suo dialogo e il maestro
Francesco Rosso fe' contro il libro, che comincia: _Del padre empio
si rammaricano i figliuoli_; i quali, con molti altri, solennemente
impugniorono sì essa sua decretale, come l'altre sue eresie».

[843] _Opus nonaginta dierum_, in GOLDAST, II, 993-1236. La bolla
_Quia vir reprobus_ secondo l'Occam pag. 996, in tres partes
principales dividitur. Primo siquidem respondetur ad objectiones contra
constitutionem _Ad conditorem_; secundo respondetur ad objectiones
contra constitutionem _Cum inter_; tertio ad objectiones contra
constitutionem _Quia quorundam_. Analogamente a questa divisione o
l'Occam stesso o l'editore, come vuole il Riezler, ha diviso l'_Opus_
in tre parti. La prima da pag. 966 a 1139; la seconda da pag. 1136
a 1220; la terza da pag. 1221 a 123 _b_. Benchè l'Occam adduca gli
argomenti delle due parti, naturalmente svolge con maggior copia e
forza le ragioni degli oppositori. E pare che egli sia stato il primo
ad esporle con larghezza, perchè dice nella chiusa: impugnantium
rationes scripturae mandavi, et quantum in me est omnibus pubblicavi,
quod ipsos audio toto desiderio cordis affectare. Forse lo scritto di
Occam precede quello di Michele da Cesena del 24 (o 4) Gennajo 1331
riportato da Niccolò in Baluze pag. 356-58, e pubblicato anche dal
Goldast, II, 1238 (V. MÜLLER, _Aktenstücke_, pag. 75).

[844] Questo libro, come già dicemmo altrove, forma la seconda parte
del _Dialogo_ (GOLDAST, II, 740-70). È intitolato: _De dogmatibus
Papae Johannis XXII_, e si divide in due trattati. Il primo, in
dodici capitoli, si riferisce alla predica tenuta da Giovanni XXII
nel concistoro, e ne combatte ad una ad una le ragioni (pag. 740-61).
Il secondo, in dieci capitoli (pag. 761-70), non si riferisce a
Giovanni, ma ai suoi difensori. V. pag. 761: Non tamen principalem
errorem improbare studebo, quia in aliis operibus inquisitus ejus
poterit improbatio reperiri, sed ad quasdam rationes sophisticas, quas
ad muniendum praedictum errorem adducunt, satagam respondere. I due
trattati non mostrano nessuna connessione tra di loro, ma il secondo
pare che vagamente ricordi il primo nelle parole surriferite. Il primo
pare che sia stato scritto nel 1333, perchè l'autore stesso dice che
il 3 gennaio di quell'anno gli venne fatto di leggere la narrazione di
ciò che era stato detto da Giovanni nel pubblico concistoro, tenuto,
come dice Niccolò Minorita in un passo pubblicato dal Müller (_Akten_,
pag. 89), la vigilia della Pentecoste dell'anno precedente (5 gennaio
1332). È molto improbabile che, lette le ragioni di Giovanni, tardasse
a rispondervi. Il secondo trattato è posteriore, ma non può essere
scritto al di là del 1334, perchè, come osserva il Riezler, si parla
di Giovanni XXII come ancora vivo, nè si fa cenno della bolla del 3
dicembre 1334, in cui pria di morire il Papa ritirò la sua dottrina
della visione beatifica, che egli in verità dava solo come una
opinione, secondo che confessa lo stesso Occam nel cap. VIII del primo
trattato.

[845] _Compendium errorum Johannis Papae XXII_ (GOLDAST, II, 957-76).
Qui sono combattute di nuovo le quattro costituzioni di Giovanni, che
l'Occam colla consueta arguzia medievale chiama _destitutiones_. Nella
prima _Ad conditorem_ (pag. 958-60) vengono trovati tredici errori;
sette nella seconda _Cum inter_ (pag. 261-62); diciotto nella terza
_Quia quorumdam_ (pag. 962-964); trentadue nella quarta _Quia vir
reprobus_. Oltre a queste si combattono altre sette eresie di Giovanni
XXII. Nella chiusa protesta contro una costituzione di Benedetto XII.
Quae quidem destitutio praefatam haeresim retro seculis inauditam
continens talis est: Districtius inhibemus ne postquam super negotio
fidei quaestio seu dubitatio aliqua, super qua sunt opiniones adversae
vel diversae, deducta fuerit ad Apostolicae Sedis examen, quisquam
extunc alterutram partem declinare, eligere vel approbare praesumat,
sed super ea sedis ejusdem judicium seu declaratio expectetur .... Unde
licet ille nomine non re Benedictus XII praedecessori suo, in doctrina
haeretica nunquam partecipasse .... tamen propter istam solam haeresim,
cujus est auctor .... est inter haereticos computandus. Il Riezler
(op. cit., pag. 77) crede che quest'opuscolo sia stato composto tra il
1335 ed il 1338. Nel 23 agosto 1338 Fra Michele da Cesena pubblicò la
protesta contro Benedetto XII, alla quale s'associarono Buonagrazia,
Occam ed Enrico di Thalheim, come racconta Niccolò Minorita nel
frammento pubblicato dal Müller (_Akten_, pag. 100-102).

[846] L'_Opus nonaginta dierum_, cap. 122, pag. 1224, riproduce la
protesta di Fra Michele contro quella parte della decretale _Quia
quorundam_, ove si sostiene che il Papa può revocare i decreti dei suoi
predecessori, e nel capitolo susseguente espone largamente le ragioni,
che stanno in favore della protesta, nonostante le denegazioni fatte
dal Papa nella bolla _Quia vir reprobus_. Parimenti nel _Compendium
errorum_, cap. 4, pag. 962. Primus error quod illa, quae per clavem
scientiae sunt a summis pontificibus in fide et moribus diffinita,
possunt a suis successoribus in dubium revocari .... et per consequens
fides esset in potestate hominum.

[847] _Compendium_, cap. 124, pag. 1232. Omnis error, qui contradicit
aperte scripturae divinae vel determinationi ab universali ecclesia
approbatae, est haeresis damnata explicite .... pag. 1233, sed iste
impugnatus (Johannis XXII) cogit christianam veritatem catholicam
abjurare, cum cogat multos veritatem declaratam per Niccolaum tertium
de paupertate Christi abjurare, ergo debet inter haereticos computari.

[848] Queste erano le obiezioni tra gli altri del nuovo generale
francescano Giraldo Odone, come dice l'Occam nell'_Opus_, pag. 1235.
Il cap. 8 del _Compendium_ torna su codeste opposizioni (pag. 973).
Et prima quidem objectio est, quod non potest papa haereticari, nec
contra fidem errare. Sed huic cavillationi leviter potest obviari. (E
vi risponde adducendo alcuni esempi di papi che fallirono). Secunda
objectio cavillosa est quod Papa non habet superiorem in his. (Anche
qui adduce alcuni esempi di Papi accusati e giudicati). Tertia objectio
cavillosa est, quod a Papa non potest appellari. — Sed Papa habet
superiorem, quia concilium generale. Cum etiam Papa haereticus effectus
minor sit quocumque catholico. [Vedi più sopra, p. 529, nota 1].

[849] _Opus nonaginta_, pag. 1233. Ipse autem non permittit generale
concilium congregari, et ita se subjicere correctioni et emendationi
illorum, quorum interest, recusat. Ergo haereticus est censendus.

[850] _Octo quaestiones_, I, cap. 17 (GOLDAST, pag. 332). Si autem
episcopi vel noluerint vel nequiverint papam haereticum judicare,
alii catholici, maxime Imperator, si catholicus fuerit, ipsum judicare
valebit.

[851] MAGISTRI GUILHELMI DE OCKAM, _Super Potestate summi Pontificis
Octo quaestionum decisiones_ (GOLDAST, II, 313-391). Bisogna convenire
col Riezler (op. cit., pag. 249) che questo titolo è affatto sbagliato,
perchè nè Occam decide nulla (pag. 391: Quid autem sentiam de
praedictis non expressi); nè discute solo della potestà pontificia, ma
benanco dell'imperiale. Se non che se l'opinione personale di Occam
non è espressa apertamente, egli però ben ne aveva una, come dice
lui stesso (non ut aliqua CERTA VERITAS in dubium revocetur, l. c.),
e parmi che il dotto storico esageri affermando che mal si potrebbe
indovinare qual sia. Non i singoli passi, ma l'orditura stessa del
libro ci dice qui, come nell'_Opus nonaginta dierum_, che cosa pensi
l'autore. Basterà addurre per esempio la prima quistione, perchè
allo stesso modo sono discusse tutte le altre. La quistione è: utrum
potestas spiritualis suprema et laicalis suprema, ex natura rei, in
tantum ex opposito distinguuntur, quod non possint formaliter simul
cadere in eundem hominem. Nel primo capitolo viene svolta l'opinione
che respinge la fusione dei due poteri. Nel secondo quella che
l'ammette. Nel terzo e quarto un'opinione intermedia, la quale ammette
la separazione, non però per necessità di natura, bensì quale istituto
di fatto e voluto da Dio. Nel quinto capitolo l'autore adduce le
ragioni, che si oppongono all'opinione antipapista, ma molto brevemente
e quasi chiedendo scusa del fatto suo. (Quia autem in hoc opuscolo
censui solum modo recitando et allegando procedere, narrandum est,
ecc.) Molto più diffusamente nei successivi dodici capitoli espone le
obbiezioni contro la teoria papista, e poscia ad una ad una combatte le
ragioni, che si sogliono addurre in suo favore. In un solo capitolo,
nell'ottavo (pag. 323), cita alcune repliche contro le obbiezioni
precedenti, ma per respingerle. Può esservi dubbio, che egli sta per la
separazione dei due poteri?

[852] Leopoldo di Bamberga avea distinto tra il regno tedesco e
l'impero romano. Il re tedesco non appena eletto ha diritto di
governare le provincie, che stavano sotto lo scettro di Carlo Magno,
come immediato suo successore, nè gli occorre alcuna conferma del
Papa. Non può però nè prendere la corona imperiale, nè esercitare
alcun potere sulle provincie, che non appartenevano a Carlo Magno,
se pria il popolo romano, secondo l'antica consuetudine, non l'abbia
acclamato imperatore. In quest'ultimo punto (MÜLLER, _Der Kampf_, II,
86) Leopoldo è d'accordo con Marsilio. E l'Occam lo combatte (pag.
383): Electio regis et imperatoris, quae nunc per principes electores
succedit, subrogata est in locum successionis vel electionis, quae
quondam fiebat per populum romanum, seu per exercitum, qui populus
romanus seu exercitus tunc repraesentabat totum populum romano imperio
subjectum secundum istum Doctorem (evidentemente Leopoldo). Da questo
accenno a Leopoldo il Riezler trae la prova che le _Octo quaestiones_
sono state scritte non pria del 1339, perchè a quel tempo rimonta lo
scritto del bambergese. Io aggiungo che l'Occam (pag. 382) cita anche
la decisione, data dai principi elettori riuniti a Rense il 16 luglio
1338.

[853] V. più sopra, p. 538, nota 2. Qui aggiungo che nella seconda
quistione: utrum suprema potestas laicalis proprietatem sibi proprie
habeat immediate a Deo, l'Occam non nasconde le sue ripugnanze contro
l'opinione: imperium est a Papa, e spende ben nove capitoli dal 6 al 14
per ribattere le ragioni, che se ne solevano addurre in sostegno.

[854] Ludovico nel decreto _licet juris_ stabiliva che anche il titolo
d'imperatore vien conferito dall'elezione, mentre i principi elettori
credevano che non si potesse prendere se non dopo l'incoronazione,
come s'era sempre praticato sin qui. E l'imperatore ebbe a piegarsi al
loro avviso nel decreto _fidem catholicam_, che fu certo redatto dal
minorita Bonagrazia, uno dei compagni di fuga dell'Occam (MÜLLER, _Der
Kampf_, pag. 76-81).

[855] Pag. 369. Quinto quaeritur: utrum rex haereditarie succedens
accipiat aliquam potestatem super temporalia ex eo quod a persona
ecclesiastica inungitur consecratur et coronatur, vel solum ex hoc
aliquam consequatur gratiam doni spiritualis. Che l'Occam rifiutasse
la prima alternativa parrà chiaro a chi confronti il capitolo quinto
col successivo (pag. 370-71), e che abbracciasse la seconda si vede da
questo, che alle brevi obbiezioni fatte nel capitolo ottavo si risponde
con forza nell'ultimo capitolo, che chiude la discussione.

[856] Pag. 374. Septima quaestio: utrum si talis rex ab aliquo
altero archiepiscopo, quam ab eo, qui antiquitus coronare consuevit,
vel sibi ipsi coronam imponeret, per hoc perderet titulum vel
potestatem regalem? La risposta negativa, che l'Occam preferisce,
è svolta largamente nel capitolo secondo, laddove l'affermativa è
accennata di volo nel capitolo primo. Questo partito di ammettere che
l'incoronazione possa farsi anche da altra autorità ecclesiastica, che
non fosse il Papa, era, secondo il Müller (_Der Kampf_, pag. 78-80), un
tentativo di conciliazione tra l'avviso dell'imperatore e quello dei
principi elettori. Lo stesso Müller ha trovato riscontri importanti
tra le _Octo quaestiones_ ed una scrittura pubblicata dal Ficker,
e precedentemente nota pei memorabili di Enrico di Hervord, e prima
ancora per la cronaca di Ermanno Corner.

[857] Pag. 374. Sexto quaeritur: utrum rex hereditarie succedens sit
coronatori in aliquo subjectus. Anche qui la risposta negativa è più
validamente dimostrata della positiva. E s'adduce questo argomento ad
hominem contro le pretensioni papali: Non enim Papa, qui nullum jus
habet, nisi eligatur canonice, electoribus est subjectus .... Imperator
.... non habet jus imperiale nisi a populo, et tamen populo non erit
subjectus .... ergo multo minus coronatori suo est subjectus.

[858] _Tractatus de Jurisdictione in causis matrimonialibus_ (GOLDAST,
I, 21-24). Vedi più sopra pag. 61, nota 1, ove ho riportato alcuni
passi che accennano al concetto del matrimonio civile. Debbo però
aggiungere a quella nota che il Riezler nell'_Historische Zeitschrift_
(40, 328), arrendendosi alle osservazioni del Scheffer-Boichorst, non
crede più che lo scritto di Marsilio da Padova sullo stesso argomento
(GOLDAST, II, 1386-1391) sia apocrifo. Sulle differenze tra i due
trattati vedi il MÜLLER, _Der Kampf_, II, 160.

[859] Il Dialogo, come dicemmo più sopra (pag. 62), va diviso in tre
parti. La prima (GOLDAST, II, 398-739) suddivisa in sette libri, è
intitolata _De haereticis_ e vi torneremo di qui a poco. La seconda
(740-770) è l'opera già esaminata _De dogmatibus Papae Johannis_.
La terza (771-976) è intitolata _De gestis circa fidem altercantium
catholicam_, e si divide, come dice l'autore stesso (pag. 771), in
nove trattati. Primus quidem disputando de potestate papae et cleri.
Secundum de potestate et juribus Romani Imperii. .... Tertius de gestis
Johannis XXII .... Quartus de gestis Domini Ludovici de Bavaria.
Quintus de gestis Benedicti XII. Sextus de gestis fratris Michelis
de Cesena. Septimus de gestis et doctrine fratris Giraldi Odonis.
Octavus de gestis fratris Guillelmi de Ockam. Nonus de gestis aliorum
christianorum, ecc. Il Riezler (op. cit., pag. 263) ha già notato
che dalla lettera del Badio al Tritemio, riportata dal Goldast (pag.
392-93), si raccoglie che il primo editore Trechsel ebbe tra mani tutti
i trattati; ma gli ultimi sette, ove si contenevano difese ed accuse
amariores, quam ut vulgo legerentur, lasciò da parte. E così non sono
pervenuti a noi se non due trattati. Il primo trattato si suddivide in
quattro libri, dei quali il 1º tratta de potestate Papae (pag. 770-82);
il 2º discute la quistione: an expediat toti communitati fidelium uni
capiti, principi ac praelato fideli sub Christo subjici et subesse
(pag. 788-819); il 3º torna sull'argomento toccato anche nella prima
parte del Dialogo: qualis fides scripturis aliis, quam canonicis,
debeat adhiberi (pag. 819-845); il 4º riesamina il quesito anch'esso
svolto nella prima parte del Dialogo: an Christus de facto constituerit
beatum Petrum principem et praelatum aliorum apostolorum et universorum
fidelium (pag. 846-889). Il secondo trattato si suddivide in tre
libri, dei quali il 1º inquirit an toti generi humano expediat unum
Imperatorem universo orbi praeesse (pag. 889-902); il 2º quae jura
habeat Imperator romanus super temporalia investigat (pag. 902-925); il
3º perscrutat, an Imperator romanus super spiritualia habeat potestatem
aliquam (pag. 926-957).

[860] _Dialogus_, III, I, 5 (GOLDAST, pag. 776). Lex enim christiana
ex institutione Christi est lex libertatis respectu veteris legis ....
Et ita constat, quod lex christiana esset majoris servitutis, quoad
temporalia, quam lex vetus, si Papa in temporalibus haberet hujusmodi
plenitudinem potestatis; quia illi, qui erunt sub lege mosaica, nulli
mortali erant in temporabilibus modo subjecti. Cap. 6, pag. 177, istud
est principalius vel de principalibus fondamentis et motivis quare
quidam dicunt quod Papa non habet talem plenitudinem potestatis. Anche
il Riezler ammette che codesta è l'opinione dell'Occam. Io aggiungo
che l'argomento della libertà è addotto colle stesse parole nelle _Octo
quaestiones_, I, 6, pag. 320.

[861] Anche nella terza parte del Dialogo (trattato 2º, libro 1º) come
nelle otto quistioni è discussa largamente la teoria: verum imperium
romanum est a Papa. E dal capitolo 18 sino al 24 sono bene addotte
dieci ragioni in suo sostegno, ma per scalzarle immediatamente. Nè
pago di queste confutazioni indirette ne adduce altre ben stringenti
e dirette nel capitolo 25 (pag. 896). Quod repugnat divinae scripturae
est haereticum; sed non posse esse verum imperium nisi a Papa, repugnat
divinae scripturae (Cfr. cap. 28, pag. 901).

[862] Nello stesso libro, citato nella nota precedente, l'Occam discute
separatamente le due quistioni sull'utilità e sull'origine di una
monarchia universale. Intorno all'origine si contano tre opinioni
(pag. 885): una est opinio quod imperium fuit a Deo constitutum et
non ab hominibus. Alia est quod fuit primo institutum et tamen per
homines scilicet per Romanos. Tertia opinio est quod verum imperium
fuit a Papa. Quest'ultima opinione dicemmo già nella nota precedente
come sia combattuta più vigorosamente delle altre due. L'opinione
dell'origine divina è fiaccamente difesa nel capitolo XXVI, pag.
898, ed alla spiccia combattuta con quest'osservazione, che chiude
il capitolo: Unico verbo respondetur, quia cum dicitur quod potestas
imperialis et universaliter omnis potestas licita et legitima est a
Deo, non tamen a solo Deo, sed quaedam est a Deo per homines, et talis
est potestas imperialis (la stampa del Goldast è guasta: non solo
ci sono ripetizioni dovute evidentemente ad errori di stampa, ma in
luogo d'_institutum ab hominibus_ deve leggersi _institutum a Deo_).
Non resta se non l'opinione dell'origine mista mediatamente da Dio ed
immediatamente dagli uomini (pag. 899): A populo est imperium. Item
ab illis fuit Imperium romanum, qui caeteras nationes Romam imperio
subdiderunt. Quest'opinione, che raccosta l'Occam a Marsilio, è difesa
nel capitolo XXVII, e resta padrona del campo, essendo risolute tutte
le obbiezioni che le si muovono. In quanto poi all'utilità di una
monarchia universale ci sono pure diversi pareri: 1º Una opinio (pag.
871), quod per unum principem secularem, qui non incongrue imperatoris
nomine censetur, mundus quoad temporalia, optime regeretur. Nec
sufficienter paci et quieti totius societatis humanae potest per aliud
regimen provideri. 2º Alia opinio (pag. 874) est contraria quod non
expedit mundo, ut universalitas mortalium uni imperatori seu principi
sit subjecta. 3º (pag. 875) Alia opinio .... quod expediret unum
principem non secularem sed ecclesiasticum universitati mortalium
presidere. 4º (pag. 875) Alia opinio: Mundus optime regeretur, si
plures simul mundi dominium obtinerent. 5º (pag. 876) Alia opinio est
quod secundum diversitatem, qualitatem et necessitatem temporum expedit
regimina et dominia mortalium variari. (Vedi più sopra, pag. 63, nota
1). La prima opinione non è certo quella dell'autore, perchè alle
ragioni, che da Dante in poi si addussero in favore della monarchia
universale, risponde vigorosamente in cinque capitoli, dal sesto al
decimo. Confuta parimenti le altre tre opinioni; ma l'unica che resta
inconfutata è la quinta, che dobbiamo quindi tenere per la preferita
dall'autore.

[863] Dialogo, 3ª parte, trattato 2, lib. 2, ove, stabilita la
distinzione delle due potestà temporale e spirituale, esamina (pag.
904) la quistione: an Imperator verus Romanorum per universum mundum
super temporalia habeat hanc potestatem, ita ut cunctae regionis mundi
ei in temporalibus oboediant. E l'Occam sta per l'affermativa, perchè
alle ragioni addotte nel capitolo 5º (pag. 904-906) per sostenerla non
replica più, laddove combatte nei capitoli 6º, 7º e 8º quanti argomenti
s'adducono in favore dell'opinione contraria. In quanto al diritto di
punire, alcuni sostengono: per judicem ecclesiasticum sunt criminosi
et pro criminibus secularibus puniendi (cap. X, pag. 910-11). (Anche
qui parmi errata la stampa, che a pag. 910 in finem dovrebbe leggersi:
una est, quod _non_ pro omni crimine seculari potest Imperator punire
omnes sibi subjectos). Altri per lo contrario: ad Imperatorem et
judicem secularem solummodo spectat pro criminibus secularibus plectere
criminosos (cap. II, pag. 911). Tra queste due opinioni tramezza una
terza, preferita evidentemente dall'Occam, secondo la quale solo in
alcuni casi è lecito l'intervento del giudice ecclesiastico, quando
ad esempio non est judex secularis: vel quando judex secularis est
negligens facere justitiam (pag. 913). In quanto poi ai beni, tra
l'opinione: imperator omnium rerum hujus mundi non est dominus (cap.
XXI, pag. 919), e la contraria: est dominus (cap. XXII, pag. 919-20)
c'è posto per questa terza, preferita dall'Occam: imperator non est sic
dominus omnium rerum temporalium, ut ad libitum suum liceat sibi vel
valeat de omnibus hujusmodi rebus, quod voluerit ordinare, est tamen
Dominus quodammodo omnium pro eo quod omnibus rebus .... potest uti et
eas applicare ad utilitatem communem (Cap. 23, pag. 920).

[864] _Dialogus_, P. 3ª, tr. 2, lib. 3, cap. 3 (pag. 927) licet
imperator specialiter ratione imperatoria dignitatis non habeat jus
eligendi summum Pontificem, vel alios praelatos inferiores, in quantum
Christianus catholicus et fidelis jus eligendi Summum Pontificem
potest sibi competere. Che codesta sia l'opinione dell'autore lo dice
il discepolo (pag. 929): Allegationes pro ista opinione secunda tam
evidentes mihi videntur, ut non curem ad ipsas responsiones audire. Il
popolo romano è per diritto di natura il vero elettore del Pontefice,
perchè (pag. 932) electio semper debet concedi paucis .... quia igitur
romani respectu aliorum catholicorum sunt pauci, et summus pontifex
est quodammodo episcopus eorum .... ideo rationabiliter alii catholici
non habent jus eligendi summum pontificem, nisi quando electio non
spectaret ad Romanos. I Romani poterono cedere ad altri il loro
diritto, come a dire ai cardinali, e ben fecero (pag. 937), quia saepe
aliqua multitudo habet jus eligendi, et tamen non expedit quod omnes
eligant; ma lo riacquistano subito nel caso che il papa e gli elettori
omnes infecti fuerint haeretica pravitate.

[865] Dialogo, loc. cit., cap. 17, pag. 947. Quod imperator possit et
debeat papam pro omni crimine judicare quampluribus viis ostenditur,
quorum una (quae etiam est in prima parte facta istius dialogi) sumitur
ex unitate summi judicis, quam omnis communitas bene ordinata habere
debet. E nello stesso capitolo e nei seguenti sono combattute le cinque
opinioni, che ammettono la pluralità dei giudici supremi. Finalmente
nel cap. XXIII, col quale si chiude il trattato, dice (pag. 956): Papa
non est magis exemptus a jurisdictione coactiva imperatoris et aliorum
secularium judicum, quam fuerunt Christus et Apostoli.

[866] Vedi più sopra, p. 538, nota 1.

[867] La prima parte del Dialogo (pag. 398-739) si divide in sette
libri, come dice l'autore stesso nel Prologo. Primam ergo partem de
haereticis acceleres inchoare: materiam in septem divide libros, quorum
primus investiget ad quos (theologos videlicet vel canonistas) pertinet
principaliter diffinire, quae assertiones catholicae, quae haereticae;
qui etiam haeretici et catholici debeant reputari. Secundus inquirat,
quae assertiones haereticae, quae catholicae sunt censendae. Tertius
principaliter consideret, quis errans inter haereticos est computandus.
Quartus quomodo de pertinacitate et pravitate haeretica debeat quis
convinci. Quintus, qui possunt pravitate haeretica maculari. Sextus
agat de punitione haereticorum, et maxime Papae, si efficiatur
haereticus. Septimus tractet de credentibus, fautoribus, defensoribus
et receptoribus haereticorum.

[868] Che la opinione del maestro traspaia dal Dialogo, sebbene non
la manifesti, lo dice chiaramente il discepolo nel Prologo: _tuam
conclusionem minime praetermittas_, quae tamen tua sit nullatenus
manifestes.

[869] _Dialog._, Parte 1ª, lib. II, cap. V, pag. 415-16. Quinque sunt
genera veritatum, quibus non licet Christianis aliter dissentire.
Primum est earum, quae in scriptura sacra dicuntur .... Secundus est
quae ab Apostolis ad nos per succedentem relationem vel scripturas
fidelium pervenerunt. Tertium est earum, quas in fide dignis cronicis
et historicis relationibus fidelium invenimus. Quartum est earum, quae
ex veritatibus primi generis et secundi tantummodo, vel quae ex eis vel
alterius eorum una cum veritatibus tertii generis possunt concludi.
Quintum est earum, quas Deus praeter veritates revelatas Apostolis
aliis revelavit vel etiam inspiravit. Si vede che l'Occam è molto largo
e non accetta l'opinione esposta a pag. 410: quod illae solae veritates
sunt catholicae, quae implicite vel esplicite in canone Bibliae
asseruntur. Ma ciò non pertanto ei combatte aspramente l'opinione di
alcuni canonisti del suo tempo, i quali sostenevano (pag. 418) quod
Papa potest facere novum articulum fidei; opinione della quale nonnulli
theologi scandalizantur (pag. 421).

[870] Lib. III, cap. III, pag. 437. Hereticus est vere baptizatus,
vel pro baptizato se gerens, pertinaciter dubitans vel errans contra
catholicam fidem. Eretico non è nè l'ebreo, nè il pagano, perchè non
sono battezzati, ma è bene eretico il cataro, il quale, sebbene non
sia, pure si dice e si crede cristiano. Che la pertinacia poi sia un
carattere essenziale nella definizione dell'eretico non pure lo prova
con argomenti di autorità e di ragioni (cap. VI-VIII), ma combatte
ampiamente le obbiezioni (cap. V, IX, X, XI). Tutto il libro quarto è
vôlto a definire la pertinacia ed enumerarne le specie, che ammontano
a 17. La decimasesta è la seguente (pag. 466): Potest Papa specialiter
convinci de pertinacia et haeretica pravitate si errorem, quem contra
fidem diffinit, solemniter a Christianis asserit tanquam catholicum
esse censendum.

[871] Tutto il libro primo della prima parte del Dialogo discute
codesta quistione. E non è dubbia l'opinione dell'Occam, che viene
riassunta nell'ultimo capitolo del libro (pag. 409-10) per rationes
autem universales ad ipsos (theologos) pertinet judicare, ubi deficeret
canonistarum prudentia ecc.

[872] Nel capitolo 2º del 5º libro, pag. 469-70 adduce alcuni esempii
di papi eretici, a cominciare da S. Pietro, al quale S. Paolo resistè
in faccia quia reprehensibilis erat. E cita le parole di S. Tommaso
che nella Somma, II, 2 qu. 33, art. 4: Paulus qui erat subditus Petro,
propter imminens periculum scandali circa fidem Petrum pubblice arguit.
Nel capitolo susseguente prova con 15 ragioni quod Papa canonice
electus potest manens Papa errare a fide et haereticari. Nel capitolo
IV muove alcune obbiezioni che vengono risolute nel quinto.

[873] Lib. VI, cap. 57, pag. 561. Praedicta inquisitio primo et
principaliter spectaret ad universalem ecclesiam, si essent ita
pauci, quod omnes convenirent in unum, vel possent leviter convenire.
Secundo pertineret ad Concilium generale, quod vicem tenet universalis
ecclesiae. Ivi, cap. 84, pag. 602. La convocazione del Concilio nel
caso di un Papa eretico spectat principalius ad praelatos et in Divina
lege peritos, secundo spectat ad reges et principes et alias publicas
potestates; tertio autem spectat ad omnes catholicos.

[874] Lib. VI, cap. 86, pag. 605. Concilium generale debet Papam
haereticum expellere de sede .... ab omni ecclesiastico ordine
degradare .... et potest ipsum curiae tradere seculari. Intorno
ai laici non accetta che all'autorità secolare spetti la condanna
dell'eretico, come dicono alcuni (Cap. 91, pag. 608-10), e tiene invece
questo altro modum ponendi, qui minus veritati repugnare videtur (Cap.
93, pag. 611-12): si clerici crederent eidem, ac circa correctionem
at cohibitionem ipsius essent damnabiliter negligentes, principes
saeculares, in quorum dominio moratur, et etiam populus, qui sciret
ipsum haereticum, coercere debent.

[875] Dicemmo più sopra che il secondo libro del primo trattato
della terza parte discute la quistione: an expediat toti communitati
fidelium uni capiti principi et prelato fideli sub Christo subjici et
subesse. Resta senza risposta il capitolo 25 (pag. 812-814), nel quale
è provato che absque unitate Summi Pontificis potest unitas ecclesiae
perdurare, vacante enim apostolica sede manet unitas ecclesiae. Così
pure rimane senza risposta il capitolo 28, nel quale sono enumerati
i casi, in quibus liceret plures tales constituere Patriarchas seu
primates. E finalmente nell'ultimo capitolo del libro sono ribattute
ad una ad una le ragioni addotte nel capitolo primo in sostegno
del governo monarchico della Chiesa. Noto tra le altre questa, che
è il segreto motivo dell'avversione dell'Occam al monarcato (pag.
818): si Papa efficeretur haereticus, praesertim habens potestam
temporalem .... formidandum esset ne fere omnes Christianos inficeret
haeretica pravitate. Quale fosse l'opinione dell'Occam lo dice il
discepolo nel principio del libro seguente: Quamvis regulariter
minime expediret totam universitatem fidelium uni capiti fideli sub
Christo subesse, tamen videtur quod nullus catholicus debeat dubitare
quin pro necessitate temporis, vel propter excellentiam beati Petri
vel ex alia causa speciali nobis fortassis ignota, aut de potentia
absoluta Christus potuit constituere beatum Petrum caput, principem
et praelatum aliorum apostolorum. Questo passo prova due cose: 1º che
la discussione del libro precedente la dà vinta contro il monarcato;
2º che la quistione teoretica sull'utilità di questo o quel governo è
indipendente nella mente dell'Occam dalla questione storica intorno a
S. Pietro.

[876] La quistione sul primato di Pietro è trattata, come dicemmo,
nella 3ª parte, 2º trattato, libro 4º. Che l'Occam vi risponda in
modo affermativo lo dimostra tutta l'orditura del libro, come ha
ben rilevato il Riezler. Ma al Riezler è sfuggito che in questo
libro l'Occam risponde a Marsilio, del quale riproduce a parola
l'argomentazione. Il capitolo primo dell'Occam (pag. 846-48) non è
altro se non il capitolo sedicesimo della seconda parte del _Defensor
pacis_ dalle parole: _nam tribuens Christus Apostolis_ sino a _vos
autem omnes fratres estis_ (GOLDAST, II, 241-44). Un solo brano è
saltato dall'Occam, quello che comincia: _dic igitur mihi_ e finisce
_probavimus supra_ (pag. 243), il quale salto rende inintelligibile
la citazione di S. Agostino, che l'Occam riproduce. Alle ragioni
di Marsilio l'Occam risponde in tutto il libro, ma principalmente
nel penultimo capitolo, contro il quale non s'adducono ulteriori
obbiezioni.

[877] Cap. 22, pag. 865. Tenendum est quod eadem assertio universali
ecclesiae debet adscribi, universalis autem ecclesia nullo tempore
etiam parvo errore potest contra fidem. Il Riezler (op. cit., pag.
259-267) crede che questo libro della terza parte contraddica al libro
quarto della prima parte, ove par che l'Occam abbracci un'opinione
affatto opposta. Ma io non credo che nel capitolo della prima parte
(p. 483), ove si adducono le ragioni contro il primato di S. Pietro,
l'Occam esprima la sua opinione, perchè nel capitolo susseguente
viene sostenuta l'opinione contraria, ed il discepolo dichiara che
non occorre andare più avanti (pag. 486): cum auctoritas debeat ad
eam tenendam sufficere. Canit enim ecclesia universalis de beato
Petro: _Tu es pastor ovium princeps Apostolorum_. Codesta, come si
vede, è la stessa ragione addotta nella terza parte, e in essa si
acquetano i disputanti e si passa alle altre proposizioni sostenute
dagli antipapisti, come a dire: 1º che la Scrittura non parla mai
della venuta di S. Pietro a Roma, nè S. Luca dice mai che abbia
retta la Chiesa di Roma (_Defensor pacis_, pag. 245; _Dialogus_, pag.
486); 2º Che giusta l'ordinamento di Gesù Cristo, nessun sacerdote
ha potere sull'altro, e la distinzione tra vescovi, arcivescovi,
sacerdoti è solummodo ex ordinatione humana et non ex ordinatione
Christi (_Defensor_, pag. 238-41; _Dialogus_, pag. 486-87); 3º Che
solo da Costantino in poi la Chiesa di Roma ebbe un primato sulle
altre (_Defensor_, pag. 293; _Dialogus_, pag. 487). Contro codeste
asserzioni viene opposto nel cap. XIX quod Romana Ecclesia ante tempora
Constantini super omnes alias habuit principatum.... auctoritate
Conciliorum generalium. Nel capitolo XX si adducono i testi per
provare quod Romana Ecclesia ab ipso Christo ante ascensionem recepii
principatum. Ma nel capitolo XXI, che chiude la digressione, si espone
l'opinione intermedia: quod Romana Ecclesia non habuit immediate a
Christo super alias ecclesias principatum .... sed primo immediate
habuit principatum a B. Petro transferente sedem suam in Romanam
Ecclesiam. Codesta terza opinione, contro la quale non s'oppone più
nulla, dovrebbe essere anche secondo il Riezler quella abbracciata
dall'Occam. Per tal guisa non v'ha contraddizione tra la 1ª e la 3ª
parte del Dialogo.

[878] Che il Concilio possa errare lo dimostra con cinque ragioni nel
capitolo 25 dello stesso libro quinto (pag. 494-95), e con esempi nel
capitolo 26. Adduce nel successivo capitolo gli argomenti in favore
dell'opinione contraria, ma nel 29 vi risponde diffusamente. E nel
successivo capitolo 30 passa all'altro argomento, se cioè possa errare
tutta la Cristianità. Che possa errare tutto il Clero lo dimostra
nel capitolo XXIX e lo riafferma nel XXXI ribattendo le ragioni in
contrario. Ma il Clero, anche preso nel suo complesso, non è la Chiesa,
perchè (pag. 500) ad congregationem autem fidelium ita pertinent laici
fideles, sicut clerici. Igitur de multitudine clericorum non debet
intelligi, quod errare non possit. Anche la Chiesa tutta può fallire in
qualche congiuntura, come alla venuta dell'anticristo, ma anche a quel
tempo aliqui erunt sancti viri electi qui in errorem minime inducentur
(pag. 594). E bastano queste eccezioni perchè la vera fede non perisca.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a pag. 565 sono state riportate nel testo.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "L'eresia nel Medio Evo" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home