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Title: Scritti politici
Author: Mamiani, Terenzio
Language: Italian
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                            SCRITTI POLITICI

                                   DI

                           TERENZIO MAMIANI.


                     EDIZIONE ORDINATA DALL'AUTORE.



                                FIRENZE.
                           FELICE LE MONNIER.
                                 1853.



AVVERTIMENTO DELL'EDITORE.


Un obbligo mi corre di delicata onestà nel dar fuori questo primo
Volume delle Opere dell'egregio Terenzio Mamiani: ed è, che questo
aver dato principio alla collezione di esse dagli _Scritti politici_,
è avvenuto contro il primo concetto formatosi e contro la prima
intenzione a me dichiarata dal medesimo Autore. Non già ch'egli
provasse pentimento nè alcuna vergogna delle opinioni che, secondo
coscienza, aveva in quelli espresse o propugnate: ma pareva a lui,
che quegli articoli ed opuscoli, la maggior parte improvvisati nei
tumultuosi tempi che corsero in ispecie dal 1847 al 49, non fossero
per la lor forma tali, di che la comune patria potesse in qualche modo
onorarsi, nè procederne verace incremento alla fama che il dettatore
di essi erasi con le altre sue produzioni meritata. Ed a me, d'altra
parte, era avviso che quelle scritture già sparse dovessero e insieme
raccogliersi e riprodursi prima che maggiormente invecchiassero (per
così parlare) le questioni che in quelle si agitano; ed anche perchè
dal loro avvicinamento venisse più compiuta e la generale idea di esse,
e più sicuro il giudizio che il pubblico avrebbe dovuto pronunziarne.
Sicchè, quando mi vidi al fine compiaciuto del grazioso assentimento
di lui a questo mio desiderio, mi sentii pure compreso da un doppio
affetto di gratitudine, parendomi che alla già usata cortesia di
permettermi la ristampa delle sue Opere, egli avesse come posto il
colmo col farmi sagrifizio di quella sua particolare opinione.

Comechessia, essendomi venuto a notizia che il signor Mamiani non
ha interamente deposto gli scrupoli a cui qui dianzi accennavasi; nè
potendosi ormai soprattenere il divulgamento di questo Volume, ch'è
già in procinto di spedizione e da assaissimi richiesto; ho stimato
dicevol consiglio, a far piena fede dell'animo di lui, il produrre
alcuni brani di una lettera ch'egli scrive intorno a ciò ad un suo
quasi conterraneo ed amico. «Temo e dubito forte di avere errato
a cedere alle iterate e cortesissime istanze del signor Felice Le
Monnier. Sónomi avveduto, rileggendo quelle mie povere filastrocche
sbalzate fuori dall'occasione e dalla necessità, che io m'illudeva a
sperare ch'elle facessero cenno a quella forma speciale di perfezione
che l'Italia domanda oggi a' suoi scrittori politici.» — «I tempi non
concedevano (ad Ugo Foscolo) di usare uno stile corretto e purgato;
ma il vigore, l'affetto e la veemenza non possono venir superati.
Io, invece, avevo dai tempi facoltà e modo di scrivere con rigor di
grammatica e proprietà esatta di voci e di frasi..... Ma nemmeno questo
pregio ò saputo ben conseguire, e m'accorgo di avere inciampato troppo
spesso in neologismi, e adoperato una lingua nè schietta nè evidente
nè sicura nè viva.» — «Neppure son tanto acerbo con me medesimo, che
io non conosca le molte e buone scuse che io ò della mia foggia di
scrivere. Tra l'altre, la novità della materia, l'aver dovuto spesso
parlare al popolo, l'esser vissuto in Francia, tornato assai tardi agli
studj della lingua; pressochè ogni cosa scritta come gittava la penna
ec.» — «Ma sopprimere l'edizione non si potrebbe, e conviene mandarla
al palio.»

In queste parole se molti ammireranno, com'è ben certo, la modestia
rarissima di chi ponevale in carte non coll'intento che fossero
depositate nel seno dell'amicizia, ma con quello assai manifesto che
servissero di avvertenza alla presente pubblicazione; io spero altresì
che altri vorranno leggervi e l'acquiescenza di lui al mio proprio
divisamento, e la mia brama di adempiere ad ogni più squisita maniera
di riguardi verso la persona dell'onorevole Autore. Per ciò poi che
concerne alle materie, delle quali in questo come in ogni altro caso
mai non m'ebbi arrogato il sapere nè il voler giudicare, mi gode
l'animo di poter rimettere i leggitori a quello che ne è ragionato da
un valoroso giovane Piemontese nella qui seguente Prefazione.

                                                       F. LE MONNIER.



PREFAZIONE


Discorrere a parte a parte le opere filosofiche e letterarie in
cui si esercitò l'ingegno di Terenzio Mamiani; seguirne il discorso
speculativo, incominciando col _Rinnovamento della Filosofia Italiana_
e dimorando ai _Dialoghi di Scienza Prima_; e dire della perpetua
eleganza con cui la classica forma e la pellegrinità dei concetti
si maritano negli _Inni_, negli _Idilii_, e nelle altre minori
composizioni di lui, sarebbe impresa la quale ricercherebbe non pure
comodità di tempo e ampiezza di spazio che non abbiamo, ma, e più
ancora, quella copia di dottrina e vigoria di mente a pochi soltanto
concedute; sulle quali se chi scrive qui credesse di far capitale,
meriterebbe nota più che di presuntuoso, di stolto.

Men largo e più facile intento hanno le brevi parole onde, a modo di
Prefazione, accompagniamo le _Prose politiche_ del Mamiani; poichè le
nostre avvertenze, pretermesse le altre considerazioni che ragguardano
l'illustre Autore, toccheranno solamente della natura delle dottrine
civili da lui costantemente professate, e di cui il presente volume è
insigne documento.

Terenzio Mamiani si connumera fra i più valorosi continuatori della
antica scuola politica italiana. La quale fiorita, prima in Europa
dopo il rinascimento, mercè sovrattutto dei Fiorentini e dei Veneti
ingegni, non pure è splendido monumento del passato, ma, siccome quella
che poggiò sui veri ed inconcussi principii, sarà per essere buona
guida sola essa nei progredimenti avvenire. La tradizione sua sembrò
chiudersi con Paolo Sarpi e colla libertà delle Repubbliche, a malgrado
della copiosa bibliografia del seicento, e non ostante le onorate
prove che, pur ormeggiando i Francesi, fecero nello scorso secolo i
Napoletani massimamente; e non venne ripigliata con originalità di vena
e sincerità di nazionale impronta, fuorchè nei tempi a noi più vicini,
dapprima, grazie agli scritti di Gian-Domenico Romagnosi e di Ugo
Foscolo, poscia per opera di quegli illustri coetanei che ognuno nomina
a dito.

L'antica scuola italiana pose a fondamento suo l'osservazione diligente
dei fatti; e lo studio dell'esperienza ne è il carattere particolare.
Questa dote le fu principalmente conferita dalla qualità degli
scrittori, uomini tutti che si erano mescolati nel vivo delle faccende,
ed erano stati attori pria che disputatori di politica. Mal cercheresti
quindi, a modo di esempio, nel Machiavello o in Donato Giannotti o in
Paolo Paruta quelle nebbiose visioni dei missionarii d'oggidì, per
cui pare dettata la sentenza di Tacito: _omne ignotum pro magnifico
est_; nei padri nostri era notizia profonda delle necessità della
natura umana invincibili e degli insuperabili ostacoli che spesso al
volere frappone la dura legge del fatto. Partecipi dei sommi magistrati
nelle loro città, rammentavano, scrivendo, quante sono le difficoltà
del reggimento, e quante dell'innovare e del mutare le malagevolezze
instanti e le conseguenti; troppo erano rigidi calcolatori di ciò che
è, per lasciarsi adescare dai vapori e dalle noje della fantasia.

Cotesto ritegno salutare induceva forse in essi una eccessiva timidità
di speculazione, per cui il loro pensiero si raggirava di soverchio
nei nudi fenomeni, e rado assorgeva alle origini e alle supreme ragioni
del diritto, fuor delle quali s'immiserisce la discussione dei problemi
sociali, e l'arte stessa del governare manca di base certa. Per lo che
il progresso naturale della scuola italiana rinnovata dovea consistere
appunto nell'accoppiamento del severo metodo sperimentale del
Machiavello colla generosa e libera signoria dei veri ideali, nella cui
contemplazione il genio di Giambattista Vico si era levato solitario e
gigante.

Il Vico avea detto che «questo mondo civile egli è certamente stato
fatto dagli uomini: onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritrovare
i principii dentro le modificazioni della nostra medesima mente
umana.» Ugo Foscolo costituì il suo discorso sulla detta massima,
tentando l'alleanza dell'osservazione e della filosofia. E noi facciamo
speciale ricordo di lui, così per debito di giustizia, essendo finora
rimasti pressochè ignoti all'Italia gli scritti politici suoi, come
perchè ne parve scorgere nel fiero cantor dei _Sepolcri_ una notabile
parentela d'idee col Mamiani. Fu il Foscolo, infatti, che descrivendo
la servitù della patria, pronunziò che nell'educazione dell'individuo
stava la somma di ogni radicale miglioramento politico, ed ebbe il
coraggio di snudare la piaga velenosa delle fazioni e delle sètte che
dilaniano le viscere d'Italia, e la fecero e fanno impotente; verberò
quindi a sangue con quell'unica sua veemenza di stile le ipocrisie
e le corruttele d'ogni maniera che avea sott'occhio; e ripudiando
una infiammativa teorica che potea sorridergli nell'immaginazione
ardente, si appartò da chi si faceva banditore di stato popolare in
questa contrada martoriata e avvilita da tre secoli di tirannide, e
oppressa da tanta mole di ignoranza e di superstizione. S'industriava
egli pertanto colle parole e cogli atti ad ottenere «il solo governo
comportabile dai nostri costumi; ed è, _un monarca potente per sola
autorità di leggi, per sola forza di armi italiane_.» E discorrendo
collo sguardo la serie delle italiane sventure, e scrutando perchè
così spesso cotanto buoni cominciamenti ebbero pessimo fine, dalle rupi
elvetiche dove andava ramingando e piangendo lo sterminio dell'ultima
speranza italiana, compiuto collo sperperamento dell'esercito del Regno
d'Italia, tuonava con voce di solenne e profetal rampogna, che prima
e sopra di ogni questione di libertà, prima e sopra di ogni contesa
di maggiori o minori larghezze di statuti e di leggi, vi è e vi sarà
la impresa della INDIPENDENZA DELLA PATRIA; e che questa si tenterà
indarno finchè le resíe scandalose delle fazioni apriranno al ferro
nemico la breccia nelle nostre file, le quali, divise e le une dalle
altre divulse, saranno prima sgominate che combattute.

Chi raccolga questi sensi che informano gli scritti del Foscolo e gli
riscontri con quelli che signoreggiano le prose di Terenzio Mamiani,
vedrà quanta amicizia di pensieri e comunanza di affetti corra fra i
due Italiani, e come si accordino a capello nelle pratiche conclusioni
e negli intendimenti finali. Del che mal si renderebbe ragione ove si
avesse l'occhio solamente alle diversità che passano fra le qualità
dell'ingegno dei due scrittori, l'uno dei quali precipita il corso
coll'impeto della bufera, e l'altro il prosegue colla tranquilla
maestà di un fiume arginato; ma di leggieri se ne avrà la spiegazione
quando si consideri che ambidue, tenerissimi essendo della italianità,
educarono la mente sui patrii esemplari, e da questi ritrassero l'abito
di sperare le cose alla luce del vero obbiettivo, e non già colla
lente variopinta del desiderio e del sentimento proprio. Vero è che
il Foscolo cresciuto fra il sensismo dello scorso secolo e la scuola
dell'Enciclopedia, e, per natura, incline ad una irosa melanconia,
accolse ne' suoi libri principii al tutto contrarii a quelli che
invalgono oggidì intorno ai dogmi della vita universa, e che sulle
origini e su' fini sociali ragiona per lo più colle funeste teorie
del tetro filosofo di Malmesbury; le quali ove si menasser buone da
senno, sarebbe follia il travagliarsi a felicitare la razza umana ed a
riformare il governo dei popoli. Il Mamiani invece, alunno e campione
della spiritualità che regna la filosofia presente, e fedele alle umane
ispirazioni del Cristianesimo, il quale abbraccia l'intiera famiglia
dei viventi come fratelli ed apre ai caduti la via della redenzione
anche quaggiù, si aggira e spazia in più serena regione di pensamenti,
e studia i quesiti del viver socievole colla fede e coll'amore che
ingagliardano l'ingegno e lo allenano allo scoprimento della verità
riposta.

Ma se questa preminenza filosofica del Mamiani dee in alcuna guisa
attribuirsi a maggior felicità di tempi, è tutta sua loda la copia
larghissima di sapere che ne rincalza le scritture, e la invidiata
castigatezza dello stile e della lingua onde sono da lui tratteggiate
le quistioni di Stato, di economia e di giure pubblico, disusati
argomenti alla prosa italiana. Chi si faccia a considerare la
condizione della letteratura di questi ultimi anni, dovrà pur troppo
lamentar la grande sterilità di opere fortemente pensate e con amore
condotte; e troverà per contro una ridondanza infinita di opuscoletti
e di scrittarelli in cui la gioventù studiosa snerva l'ingegno
impaziente. Addestrata così nella facile palestra dell'improvviso
dettare, si persuade che il magistero dello scrivere, la scienza del
pensare, e, per giunta, l'arte stessa dell'amministrare gli Stati,
s'impara mercè di una specie d'intuito misterioso, o si possiede per
beneficio di natura. Intanto il popolo dei lettori si avvezza a tenersi
erudito in politica, perchè vede manifestamente di saperne quanto lo
scrittore che gli ammannisce il giornale o il libercolo: e si viene
di tal fatta educando, prima, una generazione leggicchiante, il cui
stomaco debilitato ricuserà a corto andare ogni sostanziale e nutritivo
alimento; poi un'altra generazione sfringuellante, che cucendo e
ricucendo a strazio della grammatica qualche decina di frasi, costiperà
il sapere nazionale nelle dosi infinitesimali degli omiopatici. Ma
questo non è buono apparecchio per chi vuol sedere un giorno nei
consigli della Nazione, e i reggimenti liberi male si puntellano colle
sonore iperboli e colle vacue astrattezze, che sono tutto il costoro
bagaglio. Nè strapazzando la lingua, e dando irrecusabil saggio di
non aver avuta dimestichezza di sorta coi Classici nostri, si acquista
vanto di prodi Italiani.

Gli scritti del Mamiani eserciteranno a questo fine un salutevole
influsso sugli studi dei giovani, e proveranno ad un tempo che il
culto delle ottime lettere, non torna a scapito del profondo pensare,
e non reca nocumento alla costanza delle politiche opinioni. Vedendo
infatti in un sol corpo raccolte le cose da lui dettate in mezzo a
quel vertiginoso incalzarsi di avvenimenti straordinarii di cui fummo
spettatori nell'ultimo quinquennio, nessuno potrà non ammirare la
perduranza insigne del Pubblicista nostro, che per mutar di venti non
piegò costa nè mutò ciglio, e serbò invitta fede ai convincimenti suoi.
Ossequente al senno pratico, che fu già prerogativa degli Italiani,
e che in quegli ultimi casi sembrò smarrito e disperso, ebbe sempre
fisso nell'animo, che in politica il meglio è gran nemico del bene, e
non credette bene vero ciò che non era possibile ed asseguibile; parlò
un linguaggio solo e nell'esiglio quando incerte erano le speranze, e
quando spuntarono i lieti albori del sospirato tempo; poscia, allorchè
colla Repubblica Francese del 1848 crebbero contro i riformati governi
d'Italia i pericoli delle sètte rigermoglianti, con penna fatidica
prenunziò i mali che si apparecchiavano alla patria vezzeggiando
inconsultamente le novità d'oltremonte e discostandosi dalla nativa
spontaneità del nostro rivolgimento; e nel giorno nefasto in cui le
colpe dei regnatori, la levità del popolo e le nequizie delle fazioni
distrussero il Principato, e sfrenando la civile discordia aprirono
le porte all'invasione, alla conquista e al servaggio, secolari fati
d'Italia, protestò dal Campidoglio colla eloquenza dell'uomo di Stato
e col coraggio del cittadino, facendo indarno, cogli scarsi compagni,
ultimo riparo al gonfiato torrente delle passioni.

Assegnatezza di desiderii o liberalità di tolleranza conciliativa
tanto più rare e commendabili, in quanto che s'incontrano in uomo
percosso dalla domestica tirannia, e che nell'esiglio avea logorata
molta porzione della vita. Sono acerbe le punture dell'esiglio, quando
vivo è l'amore della patria, e lo sbandeggiamento è premio dell'averla
amata con degne opere. Agevolmente si ricevono allora nell'animo
preoccupazioni esiziali, per cui la stessa generosa religione della
libertà riesce a pernicie della nobil causa. L'errore più comune dei
fuorusciti è quello di credersi i veri e soli interpreti della Nazione,
non pure in ciò che concerne l'universale desiderio di più umani
istituti, ma eziandio riguardo alle forme che debbono questi assumere
e alle vie da eleggere per ottenerli. Portano fiducia che un medesimo
calore d'affetto riscaldi tutta quanta la cittadinanza loro, e che la
faccia lieta a qualsivoglia sacrifizio; costretti a vivere in mezzo
ad altri popoli, si avvezzano a loro insaputa a giudicare del popolo
loro colle idee di fuori e con quelle che essi vanno idoleggiando. Il
desiderio della patria perduta e la bramosia di racquistarla generano
in loro una credulità senza pari: credulità negli eventi che reputano
prossimi, immanchevoli ed accomodati ai loro divisamenti: credulità
nelle promesse degli estranei, che, nei paesi liberi, quando stanno
dal lato della opposizione, non si fanno coscienza di largheggiare in
parole per accattare benivoglienza e popolar clientela; ma ove salgano
in palazzo, badano agli interessi dello Stato, e si reggono secondo
la bilancia di questi, non colle voglie altrui: credulità, per ultimo,
nelle forze di lor parte e nei riscontri che ne hanno dai consenzienti
o dai pietosi, i quali leniscono agli assenti il dolore colle lusinghe
del meglio vicino.

Tra gli esuli poi, molti o per condizione di fortuna o affinità di
pensieri stanno in commercio colle parti più vive delle ospitali
terre; si aggirano così in una temperie artifiziata e ristretta, e si
straniano ovvero abborrono da ciò che nei più numerosi e forti ordini
sociali si pensa e si opera. Quindi è che le giuste ire proprie sono
del continuo rinfocolate dalle ire degli stranieri conventicoli, che
trattano le ombre di lor possanza come cosa salda, e fomentano nei
rifuggiti l'inclinazione alle dottrine estreme ed alle teoriche più
arrisicate di governo.

Chi mediti le dottrine del Mamiani, apprenderà come abbia egli saputo
tenersi immune da questi erramenti, per così dire, fatali, e come in
ciò niuna lode di moderanza e di senno gli basti. Ed oggidì che la
migliore Italia è proscritta, e confessa la bontà dei propositi col
sigillo della sventura degnamente sopportata, necessario è ricordare
più spesso cotali pericoli dell'esilio. Che se in noi fosse alcuna
autorità di nome, o qualche efficacia di eloquenza, le quali non
abbiamo, qui conchiuderemmo il dire insistendo su quest'ultima virtù
dell'esule Pesarese, e rivolgeremmo la parola alla gioventù della
emigrazione, dicendole con gran cuore: — Durissime sorti vi premono,
e la grandezza delle miserie vostre null'altro agguaglia fuorchè
la immacolata costanza onde la sostenete. Con voi si aduna il fiore
delle provincie e l'onore delle città vostre; e se è vero il detto di
Niccolò Machiavelli, essere più glorioso il titolo di orrevole ribello,
che il vivere schiavo cittadino, voi avete diritto non al rispetto
soltanto, ma all'amore e alla riverenza di ogni buon Italiano, e di
chiunque ama la libertà e la patria. Infelicissime sono le condizioni
d'Italia, e le enormità dei ristorati governi che la disertano, lascian
dietro per ferocia le nefandezze che la storia dei tempi andati abbia
meglio infamate, consacrandone gli autori al vindice abominio dei
secoli. Ogni giorno che spunta illumina scelleranze novelle; ogni
notizia che giunga da quei vietati confini, narra i casi di alcuna
impresa che supera le precedenti in barbarie. E a noi pure, nati nel
Regno Subalpino, felicitati da proteggevoli e bene amate istituzioni,
ai quali perciò costa meno il consigliar prudenza e longanimità,
a noi pure viene spesso sulle labbra la voce della collera indarno
soffocata. Alle ire vostre noi facciam quindi ragione, essendochè
soffrite tanto più di noi, e provate vive e nel petto stridenti le
punte dell'angoscia e dell'insulto. Ma deh! lo sdegno non vincavi,
come sarete vincitori per fermo delle corruttele e dello sconforto
increscioso, corruttela pari alle altre. Appunto perchè non scernete
coll'occhio fiso e bramoso nè lume di stella che splenda, nè vento
che spiri propizio, deh! non aumentate le difficoltà della comune
intrapresa che richiederà unanimità di sforzi eroici, coll'aggiungere
nuovo pondo e nuovo carico alla nave. Respingete i consigli troppo
assoluti, e le idee scombujate e piene d'incertezza; non preoccupate
le contingenze dell'avvenire con sistemi nati nell'ora dello sdegno e
condannati già dall'esperienza, maestra suprema dell'arte politica. È
utopista chiunque mura in aria senza il sussidio dei fatti: se alla
mente umana è dato di antivedere l'ordine generale del movimento
civile, e discoprire anticipatamente i sommi capi di un rinnovamento
politico, le è contesa nondimanco la divinazione degli accidenti e il
conoscimento preventivo degli atti particolari che debbono comporre
il disegno provvidenziale. Ripudiate per conseguente le improntitudini
delle sètte, che compilano e promulgano da qualche affumicata taverna
i capitoli del futuro statuto italiano, e lo inaffiano non col sangue
proprio, ma con quello di ignari ed ingannati seguaci; non vi allettino
le superficiali e fallaci dottrine della così detta sovranità popolare,
che a' suoi patroni procaccia il breve favore del volgo, e al despoto
astuto il lungo impero della spada; disegnando e colorendo l'Italia
futura, non dimentichiamo l'Italia presente, e non iscambiamo le realtà
coi fantasimi vani. Di tre membri consta la proposizione intorno a cui
la generazione presente, erede delle aspirazioni più o men distinte
delle età trascorse, si affatica e si affaticherà senza posa insino
all'integrale suo componimento: l'uno ragguarda l'Indipendenza,
base di ogni Italia e di ogni civil signoria; l'altro versa intorno
all'acquisto di un liberale governo; l'indipendenza poi, quando fosse
acquistata, rimarrebbe pericolante e mal difesa se non la tutelassero
le armi confederate dell'intiera Penisola, e le forme liberali
scapestrerebbero nell'anarchia dei voleri, ove non le moderasse un
supremo centro di azione sovrana. Sappiamo anche noi che non si ritesse
la tela del passato, e che chi si sequestra nelle angustie di una
formola, smarrisce la vena operativa che si apre feconda al cospetto
degli avvenimenti che sorgono e si svolgono improvvisi ed inaspettati;
ma queste dottrine che furono verità, or volgono cinque anni, questi
principii che sono appunto propugnati dal Mamiani insieme coll'altra
onorata schiera, sono verità d'oggi tuttavia, e forse lo saranno
sempre. Lasciamo all'avvenire di risecare ciò che vi sarà di mobile e
di accessorio nella loro attuazione; lasciamo all'avvenire la cura di
gettar la luce fra le tenebre; prepariamo di quest'avvenire l'evento.
Ed a voi, esulanti per amore d'Italia, non cada dall'animo che nella
universale dejezione della Penisola, la libertà e la nazionale dignità
ebbero un rifugio inespugnato nel Piemonte, dove, non ostante le
gelosie e gli odii che lo bersagliano, la concordia degli animi e
gli influssi della libertà ordinata medicano a poco a poco le ferite
amplissime che lo solcarono. E ciò chiarisca alla patria italiana,
che meglio profittano agli Stati i lenti e sicuri progressi, che
non i repentini sconvolgimenti disformi dalle abitudini dei popoli e
dalla tradizione anticata. A voi, reduci un giorno nelle ville natie,
daranno autorità e suffragio di popolo i ben sopportati patimenti, e il
pregio di senno pratico che si suppone in chi dimorò nei paesi retti
a vivere libero: or bene, di questa forza morale valetevi a temperare
le baldanze che trescano nei momenti felici; e al pari di Terenzio
Mamiani, recate con voi quella modestia di giudizio che tanto rimane
offesa dalle astiose rimembranze del passato, quanto è impossibile
allorchè si culla l'intelletto con insulse generalità di politiche
logomachíe: a voi allora si apparterrà il vanto più altero che possa
toccare ad uomo quaggiù, il vanto di autori e conservatori della
libertà nella patria. —

  _Torino, 18 marzo 1853._

                                                    DOMENICO CARUTTI.



PARTE PRIMA.

TEMPI DI RIFORME.


Venne in luce questo _Parere_ nel 1839 in Parigi. Ma, come ne avvisa
lo stesso Autore, i _Documenti Pratici_ contenuti nella seconda parte
uscivano l'anno avanti, ed erano, a quanto sappiamo, la prima scrittura
italiana che significasse il concetto di porre in disuso le temerarie
cospirazioni, e volgere tutto l'animo all'educazione delle moltitudini,
ed a persuadere ai governi riforme e miglioramenti. Dell'altra parte
dell'opuscolo la principale intenzione si fu d'indurre a calcare
la nuova via non pure gl'ingegni molto assegnati, ma i fervidi ed
impazienti, e che pigliavano ancora speranza in certa setta famosa e
ne' suoi disegni fantastici. Ma pochi de' moderati conobber lo scritto;
i cospiratori lo dispregiarono, e nessuna menzione ne venne fatta in
istampa, salvo che in un Articolo della _Revue des deux Mondes_, ove fu
censurato con brevi e sentenziose parole.

Dopo quattordici anni e tanti casi sopravvenuti, riesce ancora
acconcissimo il pensamento più generale del libricciuolo, che è di
educare noi stessi e il popol minuto, e tutta la gran famiglia italiana
infiammare nel sentimento di nazione. Scorgeva sin d'allora l'Autore,
che le moltitudini non educate, e con civile e bene ordinata carità non
soccorse e non provvedute, o rimarrebbono fredde e incuranti dell'opera
dei liberali, o gitterebbonsi in braccio degli utopisti fanatici. Su
molte cose peraltro che in questo scritterello sono annunciate come
operabili, l'Autore à corretto alquanto il giudicio suo, e riconosciuto
maggiori e più numerose le difficoltà che l'attuazione di quelle
impediscono. E d'altra parte, egli ragionava di speranze remote e
d'ultimi perfezionamenti sociali.



NOSTRO PARERE

INTORNO ALLE COSE ITALIANE.


I.

Qualora con occhio diligente si osservino le condizioni dello Stato
lombardo, del toscano, del pontificio e del piemontese, vedesi aperto
che in ciascuno di essi malamente si potrebbe tentare con mano armata
l'acquisto della libertà. Il regno lombardo à i forestieri poderosi
sul collo, e la Toscana è picciola e inerme; alle provincie romane
mancheria il tempo per gli apparecchi delle difese; e il simile convien
pensare altresì del Piemonte, alla cui città capitale possono venir
sopra i Tedeschi con due marciate. Genova e la Liguria sono, è vero,
muniti dai monti e dal mare, e nudrono popolazioni assai vigorose
e pugnaci: ma i castelli che à sopra capo quella città, e possono
in poche ore guastarla, debbonla suo malgrado far paurosa a tentare
un'aperta sollevazione.

Invece, se da queste provincie italiane si volta lo sguardo alle Due
Sicilie e si pon mente alle peculiari lor condizioni, sembra di doverne
dedurre conclusione assai differente.

Quivi le lunghe distanze e la gagliardia che subito acquista il
commovimento d'un vasto reame porgono agio e modo per ordinarsi a
respingere lo straniero: quivi poco meno che otto milioni di cittadini
abbondanti d'arme, di danaro e di vettovaglie: quivi, sopratutto, un
suolo che pare da natura appostatamente configurato alle guerresche
difese; il perchè un nostro buon cittadino lo assomigliò, con gran
convenienza, ad una fortezza esposta all'assalto degl'inimici nella
sola sua fronte, e questa, bene fortificata e non larga, e avente
dietro di sè muraglie, fosse e bastioni a più ordini, e da ultimo una
vasta e inespugnabile cittadella, che è l'isola di Sicilia.

Per queste cose, allorchè i forestieri ci chiedono quale cagione
prepotente e continua interdice all'Italia meridionale d'insorgere, noi
non sappiamo trovare le scuse nè molto spedite nè molto legittime.


II.

La Santa Alleanza è disciolta: le massime e le pratiche di libertà
vannosi radicando in Francia, in Belgio, nella Svizzera e nella
Spagna. In Inghilterra, l'autorità e la forza sono passate pressochè
interamente nella Camera dei comuni. La stessa Germania alle forme
costituzionali si lega e si stringe più saldamente ogni giorno. In tale
disposizione d'Europa, non è dubbio nessuno che il generale e compiuto
insorgere delle provincie napolitane, e supposto ch'elle si mostrassero
ferme ed abili a sostenere i primi urti delle schiere tedesche,
raccoglierebbe meglio che i voti e le propensioni della Francia;
imperocchè i medesimi affezionati a Luigi-Filippo ed al reggimento de'
suoi ministri sentono, quasi per atto d'istinto, che alla monarchia
nuova degli Orléans, per vivere riposata e sicura, fa bisogno di
avere amicizia e conformità di principj e di ordini con le nazioni
circonvicine. Lasciando stare che il progresso delle opinioni verso
un andamento più liberale della politica esterna sembra in Francia
divenire tanto più certo, quanto la fiacchezza dei governi assoluti
rendesi più manifesta. Degl'Inglesi poi si può dire che mai sotto il
governo dei Wighs non sopporterebbono di vedere le truppe austriache
sbarcare in copia e padroneggiare nella Sicilia.

Ma l'Austria medesima, quanto à meno di potenza e di predominio che nel
1821!

Fuori, le manca la lega dei re, i congressi di Lubiana e di Verona,
la facile prevalenza dei principj del reggimento assoluto: dentro,
à la paura d'ogni mutazione e d'ogni riforma, à l'Ungheria e la
Transilvania in bollore, la Galizia conspirante, la Boemia scontenta,
e le popolazioni scismatiche secretamente devote alla Russia. Aggiungi
il tesoro esausto, le rendite insufficienti, un imperatore idiota, un
ministro vicino a decrepitezza. Aggiungi le gravi apprensioni sugli
affari d'Oriente, e i progressi del moscovita lungo il mar Nero e
intorno al Danubio. Da ultimo, aggiungi il desiderio di libertà e
d'indipendenza, molto più propagato e vivo in tutte le parti della
nostra penisola. Quindi intervenire pericolo grave che a un primo
scontro d'armi per gl'imperiali non fortunato, veggasi tutta l'Italia
avvampare di tanto più sdegno e furore, quanto le umiliazioni sue ed i
patimenti e le sofferenze sono state lunghe e crudeli.[1]


III.

Ora, se tutte insieme queste prospere congiunture non bastano a
persuadere agl'Italiani del mezzogiorno una generale sollevazione
per redimersi in libertà, forza è concludere, o che quivi le opinioni
liberali procedano ancora assai lente, e dimorino in soli quegli ordini
del consorzio civile che quanto abbondano di agi e di buona istruzione,
altrettanto si peritano di affrontare pericoli estremi; ovvero che
la memoria delle passate sventure tenga tutti gli animi impauriti ed
incerti. Nell'un caso e nell'altro noi affermiamo che il sano partito
a cui debbonsi oggi appigliare ostinatamente e con fede i generosi e
i dabbene, si è di darsi ciascuno a rialzare intorno di sè gli spiriti
soverchiamente abbattuti, e a stenebrare le menti del popolo con lunga
e paziente opera. Questo, diciamo, è da farsi con gran pertinacia, con
gran solerzia, con grandissima alacrità; e non commettere la scempiezza
e la codardia insieme o di aspettare oziando e bamboleggiando che i
Francesi scendano giù dalle Alpi per rompere le nostre catene, o che la
fortuna intessa con le sue mani e componga noi non sappiamo bene che
sorta di avvenimenti straordinarj, onde un bel giorno ci ritroviamo,
quasi per atto di negromanzia, divenuti liberi ed indipendenti.

Noi sentiamo rispondere da parecchi, che per verità ei non aspettano nè
l'uno nè l'altro di tali prodigi, ma sì spiano quel momento desiderato
in cui le forze tedesche occupate e distratte fuori d'Italia non
potranno resistere se non debolmente assai alla rivoluzione italiana.

Contro a siffatto ragionamento noi obbiettiamo, che visti e considerati
per bene i casi politici odierni, e raffrontate insieme le condizioni
diverse degli Stati d'Europa, niun avvenimento sappiam noi prevedere
di quella natura e di quella efficacia che si spera e attende da
cotestoro. A simile giudicio noi siamo indotti malgrado nostro dalla
virtù prepotente della verità, e non badando ch'ei possa riuscire amaro
a moltissimi: imperocchè la salute d'Italia non pensiamo che sia per
sorgere mai dalle lusinghe e dai sogni del corrivo desiderio e della
troppo accesa immaginazione.


IV.

Le cagioni più gagliarde che ci ànno mossi a formare cotal giudicio
sono le infrascritte:

Tre avvenimenti crediamo noi che sia lecito di prevedere come capaci
di distrarre e occupare fuori d'Italia le forze tedesche: una guerra
fra i potentati d'Europa; una rivoluzione nuova in Francia; una
sedizione grave e durevole in alcune parti dell'impero austriaco.
Noi del primo affermiamo potersi ben dare alcune guerre parziali fra
i potentati inferiori e alcune dimostrazioni ostili fra i superiori
represse tostochè cominciate; ma una guerra generale europea non mai;
principalmente, perchè tutte le corone ne tremano come di certa ruina
loro: e se lo Czar non ci vede pericolo molto vicino per la propria
dominazione, ei non possiede la metà dell'ardire che gli bisogna per
rompere la prima lancia e strascinar seco a forza i paurosi alleati.
Oltrechè, la rabbia rintuzzata ma inestinguibile della Polonia, la
piaga inciprignita della schiavitù in casa, il tesoro insufficiente e
mal custodito, le triste prove fatte, or son pochi anni, a Varna, a
Silistria, a Ostrolenga; e più, la certezza di perdere le nuove sue
flotte e veder disertate dall'Inghilterra le sue marine, terranlo
indubitatamente a segno. E si osservi quante occasioni prossime e
vive di guerra sono sopravvenute in questi ultimi anni, che poi
si conducevano al niente. Noti ciascuno eziandio come nei casi
dell'Oriente, gravissimi, precipitosi e di suprema importanza, gli
sdegni, le minacce e le offese si risolvono d'ambo i lati in vane
mostre e parole. Debbesi egli tenere per vicina e probabile una guerra
europea, quando si pensa che l'Inghilterra è tuttavia travagliata nelle
proprie sue viscere da un conflitto incessante tra le nuove franchigie
e i vecchi privilegi, dall'esorbitanza del suo debito pubblico, dai
repentini turbamenti e sbilanci delle sue industrie; e più d'ogni
cosa, dallo stato inquieto e miserevole dell'Irlanda, inverso la quale
non giova ormai nè la liberalità nè la forza; la prima insufficiente
a placare, e la seconda a reprimere? Che diremo poi dell'Austria e
della Prussia? Nessuno ignora che gli accorgimenti e le arti famose
di Metternich consistono tutte nel rimuovere a suo potere le cagioni
e le occasioni d'ogni qualunque novità, e segnatamente della guerra;
conoscendo egli assai bene, che al primo cozzo gagliardo fra i re
d'Europa, l'impero austriaco n'anderebbe in pezzi. Quanto è alla
Prussia, basti il considerare le sue inquietezze sempre crescenti
per le provincie renane vogliose di libertà, e pel ducato di Posen;
e la povertà delle sue finanze, che durano a mala pena a mantenere
l'esercito, quantunque trasformato tutto in Landver; istituzione, che
se risparmia moneta, nuoce al nerbo ed alla perizia militare.

In fine, si voglia por mente che le guerre (massime una così generale
e rischiosa) neppur ne' paesi retti a governo assoluto si risolvono
e s'imprendono oggi contra il volere dei popoli: e questi, rivolti
come sono al presente alle prosperità materiali e a moltiplicare le
officine e i commerci, non si curano punto di guerre intraprese in nome
di alcuni principj speculativi o d'interessi poco visibili agli occhi
loro, siccome sarebbe quello della bilancia politica fra i potentati,
o l'altro di raffermare il diritto delle monarchie assolute, alle quali
suolsi prestare ancora obbedienza, ma non amore nè devozione.

Non taceremo che alcuni argomentano che appunto per questo scemare di
forza e di autorità delle monarchie assolute, e per questo prevedere
che fanno i principi la caduta poco lontana di lor dittatura, ei
debbono consentire animosamente a scendere in campo, e riguadagnare
ad un tratto colla vittoria quello che perdono a grado a grado in seno
della pace.

Tal ragionamento (a nostro giudizio) non prova più che una cosa,
cioè a dire che ai principi non rimane oggimai partito buono e sicuro
da scegliere. Da una parte, con la guerra, il rischio estremo d'una
ruina immediata e compiuta; dall'altra, con la pace, un perire assai
lento ma certo e finale. Ora, non vi è dubbio nessuno che la tempra
umana ordinaria com'è pusillanime e fiacca, così appigliasi sempre al
partito che lascia tempo e lusinghe in mezzo, dà luogo ai maneggi, alle
transazioni, agli accomodamenti, e non esige lo sforzo e il coraggio
d'azioni impetuose e piene d'audacia.


V.

Del secondo supposto, cioè che una rivoluzione nuova succeda in
Francia, noi affermiamo similmente che niuna buona ragione la dimostra
vicina e probabile; intendendo, come si dee, sotto nome di rivoluzione
non già un moto popolare in fra pochi dì represso e infrenato assai
facilmente, e qual può dirsi con poca alterazione del vero essere stato
quello del 1830; ma una scossa profonda e durevole che si propaghi
all'Europa tutta, rechi molte e sostanziali novità nell'ordine delle
cose, e ponga la Francia alle prese coi suoi nemici.

E per fermo, le vere rivoluzioni sono provocate ogni sempre da gravi e
pressanti necessità: ma di queste noi non sappiamo scorgerne alcuna in
Francia a' giorni che corrono. Il desiderio di forma migliore politica
non basta a un sì grande effetto; imperocchè nè un tal desiderio riesce
molto efficace e vivo presso d'un popolo converso tutto ai piaceri e
ai guadagni, nè dopo assai delusioni e le tante prove ed innovazioni
che à praticate, ei conserva grande e robusta fede alle promesse e alle
speranze del meglio. Oltreciò, sentendosi egli pieno di forza e arbitro
effettivamente della propria fortuna, non estima dover entrare in
incerte rivoluzioni per conseguire riforme e perfezionamenti, ai quali
pensa che giungerà senza fallo, e in modo piano e spedito, il giorno
ch'ei sieno desiderati e voluti con fermezza e vigore dalla generalità.
Da ultimo, ei non sa persuadersi che una o più sollevazioni sanguinose
e violente varrebbero a disgroppare il nodo di que' nuovi problemi
sociali, la cui risoluzione appar tenebrosa e lontana così ai filosofi
come al volgo.

Ben è vero che i _proletarj_ e soffrono e si dolgono tuttavia della
scarsa provvidenza delle leggi in verso di loro. Verissimo ch'ei sono
numerosi e maneschi, e quei di Parigi e di Lione arditi sopra ogni
credere e sprezzatori della morte: ma con tutto ciò, qual potere
effettivo risiede in loro e quale capacità di operare con unione e
perseveranza, bisognevoli come sono del lavoro quotidiano, sprovveduti
di capi e di ordinamento, senza disciplina e governo, senza disegno
e fine determinato? Gran porzione poi d'essi pressente quasi per
istintivo giudicio, e in parte eziandio per le cose vedute e sofferte,
che una rivolta operata dalle sole lor braccia o non reggerebbe contro
le forze unite e ordinate delle classi più ricche e civili, o verrebbe
senza profitto loro maneggiata e usurpata dai demagoghi, o infine non
recherebbe rimedio a quei mali di cui si querelano, e le cui triste
radici pajono penetrare e occultarsi nell'ultimo fondo dell'umana
natura e nelle condizioni essenziali del viver sociale. Il fatto è
poi, che la storia delle nazioni non ci porge esempio notabile alcuno
d'una sollevazione di plebe che senza l'ajuto efficace e spontaneo
delle classi civili abbia proseguito prosperamente e riuscito al fine
proposto. Potrà, pertanto, la porzione men sofferente e più baldanzosa
de' _proletarj_ francesi consumare rivolte gravi e piene di sangue, ma
non mai una rivoluzione profonda e durevole.


VI.

Rimane che si supponga qualche gran rivoltura in alcuno degli Stati
imperiali, come la Boemia, la Galizia, l'Ungheria e la Transilvania.
Ora, noi diciamo che tali provincie ajutano di già non mediocremente
l'Italia con la inquietezza e l'acuta esacerbazione che le tormenta;
perchè costringono l'Austria a mantenere per tutto considerevoli corpi
d'esercito, e scemano ciascun giorno il profitto ch'indi potrebbe
ritrarsi pel comun bene dell'impero. Ma credere che pur durante la pace
europea, esse abbiano forza e audacia d'insorgere e di sostenere guerra
aperta contro esso impero, è giudicio precipitato e vano. Il malumore
de' Boemi non à peranche nè intensione bastevole, nè omogeneità di
opinioni e di sentimenti. La Galizia non può in disparte dall'altre
provincie polacche osare di sollevarsi; e l'Ungheria è frenata dalla
disunione, che in lei perpetuano le differenze di razze e di lingue, le
gare fra i due ordini di nobiltà, e il giogo, difficilissimo a scuotere
in Austria, della militare disciplina.

Ci vien notizia che molti fra gli Italiani attendono con certezza
d'animo mutazioni e sconvolgimenti tragrandi alla morte di
Luigi-Filippo. Però, se le cose qui innanzi discorse si appongono al
vero, ognuno s'avvede quanto una simile aspettazione dia nell'errore:
imperocchè elle dimostrano molto chiaro lo stato presente d'Europa non
tanto dipendere dalla abilità e scaltrezza di Luigi-Filippo, quanto
dalla necessità dei fatti per parte dei potentati, e dalla natura delle
opinioni e degli interessi per parte della Francia.

In ultimo luogo, non taceremo neppur di taluni i quali, nonostante
le infelici prove della spedizione di Savoja, ripongono ancora molta
speranza nei tentamenti dei rifuggiti, e aspettano l'adempimento di non
sappiam bene quale sbarco armato sulle coste d'Italia. Ora, a chi ben
considera la sostanza delle cose e la pratica dei negozj, dee parer
manifesto che poche novelle e romanzi tornerebbono così difficili ad
attuarsi, come è difficile di avverare questo bel sogno dello sbarco
dei rifuggiti armati; e l'averci fede e aspettarlo come principio
desiderato e solenne della libertà italica, è, al creder nostro,
soverchia semplicità: la quale poi non sarebbe in alcuno se la storia
antica italiana venisse meglio studiata dai nostri giovani; imperocchè
ei vi leggerebbero quante volte ne' secoli addietro le vane speranze e
i vani disegni degli sbanditi ànno nociuto a quelli di dentro, e come
lo stato del loro animo radamente li rendeva capaci di riconoscere e
confessare la verità che lor dispiaceva sopra misura.


VII.

Debbono adunque gli Italiani, per tutto il fin qui ragionato, rimanere
persuasi e risoluti compiutamente di questo; cioè che lor bisogna o
reputare incerto e remoto assai il giorno dell'affrancamento della
patria comune, o non attendere congiunture molto migliori delle
presenti per dar mano all'opera. Della quale necessità non solamente
noi non ci sgomentiamo, ma invece ringraziamone Dio; imperocchè siamo
in questa ferma credenza, l'Italia non poter risorgere mai daddovvero,
se non fidando nel proprio valore e cimentandosi animosamente con lo
straniero. Le macchie antiche e recenti che oscurano l'onor nostro,
non potranno cancellarsi altramente mai, che tra le armi e col sangue:
tra le armi e col sangue avrem battesimo di nazione: tra le armi
ritempreremo l'animo, alzeremo l'ingegno, purgheremo gli affetti e i
costumi. Il genio di Dante e l'ardire di Masaniello, i prodigj della
lega lombarda e il disperato resistere delle Calabrie, lo splendore di
Roma, la libertà di Firenze, le armate Veneziane, i tesori Genovesi,
ogni gloria passata, ogni grandezza caduta lascerà trovare di sè fra le
armi e le battaglie alcuna semenza vivace e feconda, e tutte largamente
inaffiate dal nostro sangue rifioriranno.

Base d'ogni prosperità civile è il sentimento del proprio valore e
della propria dignità: vita delle nazioni è la gloria, e salda difesa
loro è la potenza che spiegano e la suggezione che incutono. Se lo
scoramento e la diffidenza stanno oggidì fra le ragioni precipue
del nostro servire, giammai non ne usciremo che per effetto de' lor
contrarj. Che sarebbe la libertà regalataci dallo straniero, salvo che
apparenze, vacillamento ed umiliazione? e i doni e gli ajuti della
fortuna che diverrebbono, se noi non siamo per ajutare noi stessi
gagliardamente? E ben ci sovvenga che più d'una volta in questa prima
parte di secolo la fortuna ci arrise e porse alle nostre mani tutta
quanta la chioma, e noi non sapemmo afferrarla.


VIII.

Io proseguirò pertanto a discorrere alcune cose intorno all'Italia,
ponendo a capo di tutte questo vero importante e solenne, ch'ella
non possa e non debba fidare eccetto che nelle forze proprie e
nella propria energia. E facendomi dal supposto che si voglia dar
mano all'opera dell'affrancamento senza aspettare congiunture molto
migliori, come quelle che non sono per accadere, dico che se il moto
della libertà dee procedere tutto da noi e con proposito fermo di
affrontare lo straniero il quale intenda reprimerlo, non pertanto
noi dobbiam concordarlo e in certa guisa proporzionarlo con lo stato
generale d'Europa. Però coloro i quali consigliano d'incominciare
la rivoluzione italiana proclamando altamente _la repubblica una ed
indivisibile_, domandano agli Italiani servi, divisi ed infemminiti
da tre secoli d'ozio e scoraggiati da tante sventure, ciò che
l'Inghilterra e la Francia non osano anche di porre in fatto. E si
pensi che contro la Francia, forse i re perderebbono ardire in quel
mentre stesso che i popoli l'ajuterebbono tentando sollevazioni. Contro
l'Italia, il più timido dei monarchi prenderà cuore, e i popoli non
confidenti guarderanno da lungi, aspettando l'esito. Noi avremo in
sulle braccia tutte mai le armi e lo sforzo delle corone d'Europa,
le quali temperate o dispotiche verranno in subito accordo e amicizia
per estinguere il primo incendio repubblicano. Dietro gli eserciti poi
staranno i macchinamenti, l'oro, le seduzioni, i terrori, tutto ciò che
la paura e la collera dei monarchi saprà inventare di più efficace e di
più pernicioso.

Ma instanno i tribuni nostri, dicendo che il proclamare la repubblica
trascina inverso di noi le plebi, le quali d'ogni consorzio civile
sono la parte più numerosa, più gagliarda e più generosamente devota
al bene. Gridando la repubblica, ogni mezzana via è chiusa: la
rivoluzione procede di necessità con modi energici ed assoluti: non
può retrocedere, non può transigere. Propagasi a tutti gli animi una
scossa viva e profonda, e attevole a suscitare in essi ogni facoltà,
e produrvi quella esuberante pienezza di coraggio, di attività e di
ardimento, che all'Italia abbisogna per cacciare d'ogni provincia sua
e per sempre il Tedesco. Atterra la bandiera repubblicana, e tu cadi
issofatto nelle antiche fallacie, nelle tradigioni de' principi, nelle
trame dei cortigiani, in quelle concessioni dissimulate e in quelle
mostre di libertà che addormentano gl'intelletti e il progresso vero
ritardano. — Cotesti, a ridurli alla loro sostanza, sono i ragionamenti
che si ripetono ciascuno dì da parecchi Italiani, in cui quanto
abbonda l'ingegno e lo zelo, altrettanto fallisce il giudicio ed il
senso pratico. Nè si vuol negare da noi, che alcuni aspetti chiari e
vantaggiosi appariscono nel partito che essi propongono, come alcuni
svantaggiosi ed oscuri in quello che propongono gli amici nostri. Ma
nelle faccende politiche niente è netto e assoluto, e sempre si à per
miglior consiglio quello che dà luogo a sconvenienze minori ed è più
praticabile. Molti svantaggi, poi, che sembrano andar di conserva col
tenore dei fatti e il metodo di operare che noi commendiamo, possono
venire scansati assai di leggieri, come si prova qui appresso.


IX.

Tre cose si ricercano per accertare l'esito buono della rivoluzione
italiana. 1º Ministri che mallevino con la vita propria della fedeltà
loro inverso la causa comune. 2º Lo stato-maggiore dell'esercito
rimaneggiato e rifatto compiutamente. 3º Il popolo tutto quanto
infiammato a salvare la libertà, sì per nobile affetto e sì per computo
d'interesse.

Perchè si ottenga il primo, vuolsi domandare e pretendere dai nuovi
capi dimostrazioni ed opere tali che, vinta la rivoluzione, serrino
loro ogni via di scampo e di perdonanza. Di più, bisogna che essi capi
così cimentati, pigliando la volta loro, inducano i parlamenti e i
capitani dell'esercito a fare opere e dimostrazioni altrettali; sicchè
nessuno di loro possa retrocedere d'una spanna.

Il rifacimento dello stato-maggiore dell'esercito richiede negli
ufficiali a ciò deputati viva e straordinaria energia e risoluzione. E
intorno a questa materia (come importantissima in supremo grado) verrà
in luce fra breve uno scritto assai meditato e molto savio e proficuo,
dettato da un egregio Napoletano conoscentissimo di tali cose.

Per infiammare e interessare l'animo dei popolani inverso la
racquistata libertà, sono molte le vie; tra le quali preferiamo di
accennar queste. Sminuire quanto è possibile il più le imposte e i
dazj che gravano sulle infime classi: riconoscere e guarentire ogni
franchigia municipale, con intervento e suffragio del popolo intero
nella scelta dei magistrati, e con _rendiconto_ al popolo stesso di
tutti i ministeri ed uffici loro. Manifestare in parole ed in opere,
che la prima e maggiore sollecitudine del reggimento nuovo sia inverso
le genti minute, le quali riescono da pertutto numerosissime e povere:
accrescere ed ajutare con instancabile zelo gl'istituti caritativi:
decretare scuole, ricoveri ed officine, ove i braccianti e gli operai
di qualunque ragione trovino per continuo istruzione e lavoro. De'
pubblici uffici e delle dignità investire persone specchiate e giuste,
ossequiose della religione e affettuose inverso la plebe. Adoperare
ogni diligenza per amicarsi la parte meno ambiziosa e più frequente del
clero, quella per appunto ch'esce dal popolo minuto e con esso popolo
vive; il che domanda dal lato nostro integrità di costumi, religiosità
di sentimenti, osservanza del culto. Ecco maniere, al nostro giudicio,
migliori e più certe di quelle proposte dai nostri passionati affine
di scuotere validamente le moltitudini, sventare gli intrighi dei
cortigiani e i tradimenti dei re. Del resto, noi dichiariamo di non
parteggiare in alcuna maniera per le opinioni repulsive e troppo
assolute, e di credere che le questioni di repubblica e di monarchia,
di unità e di confederazione, sieno, per rispetto all'Italia,
sommesse più assai che altrove a mille varie congiunture di tempi
e di circostanze. Sopra ogni cosa desideriamo la indipendenza,
come il fondamento primo e saldo della riedificazione italiana; noi
domandiamo eziandio l'unione morale, come il mezzo primo efficiente che
all'acquisto dell'indipendenza ne può condurre.

Tutte le forme, pertanto, di governo politico che a tali due fini
sembreranno menar l'Italia con maggiore sicurezza e facilità, verranno
da noi e acclamate e obbedite, fossero pure il dispotismo di un re, la
prepotenza di un capitano, la teocrazia di un pontefice.


X.

Ma se il numero degli Italiani ardenti e risoluti a menar le mani è
scarso tuttavia, e sperperato di modo da fare impossibile un degno
e ragionevole tentamento d'aperta sollevazione, rimane, come dicemmo
più sopra, a tutti i buoni e generosi il debito di rinfrancare a poco
a poco gli spiriti fiacchi e allibbiti, e di portar luce e calore in
mezzo alle moltitudini fredde ed intenebrate; impresa lunga e paziente,
piena di fatiche, d'industrie, d'accorgimenti e d'annegazione; ma certa
e maravigliosa altresì negli effetti suoi, qualora si voglia e sappia
condurre tale azione incivilitrice su quella parte principalmente
dell'umana comunanza in cui risiedono la vera forza e il vero coraggio,
e in cui ciascun radicato e nobile convincimento è semenza di fatti
strepitosi ed eroici; noi vogliam dire il popolo. E così non si fossero
scialacquati e dispersi già molti anni in sole cospirazioni e congiure,
senza attendere a coltivare con assidua fatica la mente e l'animo
delle classi inferiori, chè forse il risorgimento morale e politico
della nostra patria infelice sarebbe ora assai bene apparecchiato, e
porgerebbe buona caparra di riuscita.

Per norma, dunque, di cotesta lenta e difficile preparazione degli
animi alla indipendenza e alla libertà, egli ci par bene di ristampare
qui presso alcuni pratici Documenti, scritti e pubblicati non lungo
tempo addietro, ed ora ampliati notabilmente e corretti dall'autor
loro: con tali indicazioni e consigli, appropriati in ispecial modo
all'educazione del popol minuto, noi compiamo la esposizione del nostro
parere intorno alle condizioni presenti d'Italia.



DOCUMENTI PRATICI

INTORNO LA RIGENERAZIONE MORALE E INTELLETTUALE DEGLI ITALIANI.


CAPITOLO I.

PRELIMINARI.

Per gran ventura d'Italia, ciascuno si va ora persuadendo di questa
capitalissima verità, che il risorgimento italiano non possa aver luogo
senza il concorso efficace ed universale delle moltitudini, e però lo
sforzo di tutti i buoni doversi rivolgere all'educazione progressiva
del popolo. Un'altra persuasione sembra eziandio entrare e radicarsi
forte negli animi; e questa è, che per trascinar seco il popolo a fatti
animosi e ritemperarlo al bene, occorre participare ai sentimenti, agli
affetti e alle credenze di lui: nella qual cosa non pericola punto
la verità; ché quegli affetti e quelle credenze, guardate nel loro
midollo, costituiscono la natura instintiva dell'uomo, e sono fonte
delle passioni più generose, de' concepimenti e delle ispirazioni più
alte e magnanime che ricorda e ammira la storia. Non si dee pertanto nè
dispregiarle nè combatterle, ma sì purgarle di molti errori e di molte
misere superstizioni, e scioglierle dalle abbiette consuetudini indotte
per entro il cuore dalla servitù, dall'ignavia e dall'indigenza.

Si opina poi dai più assennati, che per giugnere a questo massimo
effetto della rigenerazione italiana, quattro cose sieno da praticare
da ogni buon cittadino. 1º La emendazione di sè stesso. 2º La carità
operosa nella parte minuta del popolo. 3º L'istruzione intellettuale e
morale di essa. 4º La cura e l'arte di convertire il clero alle nostre
opinioni.


1. — _Della emendazione di sè stesso._

Il buon Italiano a' dì nostri debb'essere un animo forte e incorrotto,
apparecchiato alla sventura, ugualmente sdegnoso della servitù, che
afflitto ed avverso ai vizj e alle colpe de' servi. In mezzo a genti
fiacche, oziose, lascive e non curanti del viver comune, ci dee serbare
austerità e purità di costumi, volontà infiammata e sempre operosa,
prudenza con dignità, coraggio con fede. A lui dee star sempre nel
cuore la dolce patria, e volerne il bene in tutti i modi, per tutte
le vie, con incessante sudore, con ferma perseveranza. Facil cosa
è cospirare; facile aspettare oziando e gozzovigliando il segnale
della rivolta; non troppo difficile e laborioso maneggiarsi nelle
sètte e rischiare la vita in una congiura: ma duro e difficilissimo
travagliarsi quotidianamente e in silenzio per cogliere senza fama un
frutto scarso e tardivo di bene, e per fecondare, con lunga e tediosa
sollecitudine, un suolo smagrato da tre secoli d'infortunj, di vergogne
e di tirannie.


2. — _Della carità operosa nel popolo._

O per qual buona ragione il minuto popolo à da tener dietro alle mosse
de' liberali? che opere fanno questi in suo pro? che esempj d'alte
virtù gli offeriscono per guadagnarsene la stima e la riverenza? che
dottrine professano intelligibili a lui e confacenti co' suoi pensieri
e co' bisogni suoi quotidiani?

Vuoi tu, o buon cittadino, tirarti dietro le moltitudini? vuoi tu il
sudore, il sangue, la vita loro per te e per la causa che tu caldeggi e
difendi? Comincia ad amarle di grande affetto: entra continuo a parte
dei lor patimenti: consiglia la loro ignoranza, conversa con esse
domesticamente, amorosamente. L'uno cade infermo; va tu accosto al suo
letto e soccorrilo: un altro à difetto di lavoro; fa di procurarglielo:
ài tu poderi? sii padre de' tuoi contadini, sovvienli nelle carestie,
largheggia ne' patti, instruiscili con pazienza nelle rustiche lor
faccende. Non fuggire la frequenza della gente minuta; e s'ella entra
in chiesa a pregare, e tu prega con lei; se accorre a qualche onesto
sollazzo, vi accorri tu pure e mostra di compiacertene. Per tali atti
e maniere, quando spunteranno giorni di grandi prove, e tu disceso
nelle piazze griderai: — Popolo, a me! — questo, non mai ingrato al
beneficio nè tiepido e pigro al bene che crede, risponderà tostamente:
— Siam teco; menaci dove vuoi; tu se' il nostro amico, sii il nostro
salvatore.


3. — _Dell'istruzione intellettuale e morale del popolo._

I buoni prendono giusta allegrezza a vedere che in Toscana, in
Lombardia e in altre provincie d'Italia si pensa e suda all'istituzione
delle _casse dei risparmj_, a quella delle scuole infantili e delle
scuole lancastriane, alla compilazione di più giornali popolareschi,
e ad altri mezzi efficaci ad educare e rigenerare la povera plebe.
Se dovunque il popolo è autore di grandi fatti, in Italia è stato di
sommi e miracolosi: e chi fa stima conveniente della vecchia stirpe
latina, ed à ragionevol fede nelle prodigiose facoltà inserite in lei
da natura, debbe ansiosamente aspettar di vedere quello che produrranno
le intelligenze popolane, riscosse dal torpore profondo di quasi tre
secoli; e quello che potrà in loro la coscienza restituita del proprio
ingegno e della dignità propria, la curiosità ridestata e vogliosa di
apprendere alcuna porzione del vero, la notizia sopravvenuta d'altri
paesi, d'altre leggi, d'altri istituti, di tanta maggior ricchezza,
potenza, gloria ed attività.

Abbiamo fede nelle plebi italiane.

Ma la nuda, nuda istruzione è strumento così del bene come del male,
e più rado forse del primo che del secondo. Però intendasi con fatica
incessante all'educazione dell'animo: e poichè il buon senso del
popol minuto sempre vuole unificata la moralità con la religione,
sforziamoci, quanto si può meglio, di purgare la pietà religiosa della
scura feccia che la corrompe: sopratutto si volga l'animo a insegnare e
persuadere la _religione civile_, quella cioè che insieme con le virtù
private insegna ed inculca le pubbliche, santifica tutte l'opere volte
ad ajutare il progredimento sociale, e chiama il Vangelo codice eterno
e divino di libertà e di fratellanza. Avventuratissimi gli Italiani, se
riusciranno a instillare nell'animo dei più la _religione civile_: ma
l'impresa è dura e diuturna e piena di cure e travagli; perchè quella
forma di religione non pure è nuova nel popol minuto, ma si è nuova
in gran parte nella cristianità, la quale à più spesso udito insegnare
l'obbedienza passiva, la perfezione dei solitarj e una muta e indolente
rassegnazione: però il vero non istà chiuso, e già comincia a splendere
di gran luce per molti libri. Il mondo impigliato ne' traffichi e
nelle lascivie, infiacchisce di più in più e prende a schifo i nobili
pensamenti, e poco o nulla risponde a quei desiderj e a quelle speranze
che tutto il cuore gli ardevano, or sono appena cinquant'anni. Un
sentimento nuovo bisogna, forte, immaginoso, infinito: e questo dove
lo rinverremo noi, salvo che nella religione civile, in cui la libertà
è santa cosa, la fratellanza e la carità nella plebe sono un supremo
dovere, il progredimento indefinito dell'umanità nel vero e nel bene è
il consiglio perpetuo della Provvidenza?


4. — _Della conversione del clero._

Il giovine Vito B..... possedeva un poderetto nelle montagne di
Barolo, e spesso andava colà per ricrearsi della caccia e dell'aria
buona. Il curato di quel luogo lo visitava, ed egli lui. Parlavano
di coltivazione, di pastorizia, d'uccellagione, e il curato trovando
il giovane non poco istruito e propenso alla religione, l'avea caro
oltremodo. Vito ne profittava per diradare le male apprensioni del
prete e farlo persuaso di utili verità. Gli accennava abilmente gli
ostacoli numerosi opposti dai reggimenti avari e oppressivi alla
pubblica prosperità: saliva bel bello dagli ultimi effetti alle somme
cagioni, e dai rimedj parziali ed incerti ai certi ed universali. Le
domeniche dopo i divini uffizj, cadendo il discorso più volentieri
sovra materie di chiesa, Vito esponeva prudentemente i principj, le
massime e la bellezza della religione civile. Alle sue parole davano
autorità li suoi specchiati costumi, l'animo caritatevole e l'amor
grande che portavagli la gente minuta di quel contado. Così non gli fu
gran fatica condurre a poco a poco il buon parroco a partecipare alle
sue opinioni, e fu immenso guadagno. Deh! che non potrebbe sperare
l'Italia se alcune centinaja di giovani possedesse simili a questo
Vito?


CAPITOLO II.

DI ALCUNI PRECETTI PARTICOLARI.

Ora andremo discorrendo partitamente di alquante pratiche relative ad
alcuna delle quattro categorie registrate in principio. E per seguitare
l'ordine loro, noi ci faremo dalle cose che ànno riferimento alla
emendazione di sè medesimo.


1. — _Dell'Attività e dell'Energia._

1º Piaghe vecchie e incancrenite d'Italia sono la mollezza e l'accidia:
a queste dunque rechiamo gagliardi rimedj. Se tu sei solo a sentirti
vigore d'animo e ad abborrire dall'ozio, fa di riscuotere intorno a te
que' pochi che ànno natura meno dissomiglievole dalla tua. Se non sei
solo, collégati con li tuoi pari, e sveglia in altrui la fermezza e
l'intensione del buon volere.

2º A questo troverai materia più idonea nelle persone che ànno corsa
la vita fra varj accidenti e pericoli, ovvero sostennero con moderanza
gravi infortunj, o tentarono alcuna cosa onorata e difficile.

3º Pungi con frizzi acerbi e deplora con isdegno _il dolce non far
niente_ degli Italiani, divenuto tristamente famoso fra gli stranieri.
Di questo scrivi e stampa e predica mille volte, in mille maniere. È
detto comune degli Italiani moderni che _non si può far nulla di bene_:
il tuo cotidiano operato li colga in menzogna. Se declamano sulla
tristizia dei tempi, e che i pericoli sono troppo grandi e frequenti,
mostra loro che non correvano migliori per Dio i tempi in cui Galileo
cadeva ginocchioni dinanzi all'inquisitore, in cui Vannini, Ruggeri
e Giordano Bruno salivano il rogo, Campanella era sette volte messo
al martoro, e il Sarpi mortalmente percosso di stile. Ma costoro,
albergando in petto prodigiosa forza di volontà, renderono sè stessi
gloriosi, onorata l'Italia e sapiente il mondo.

4º Sarebbe un gran bene a trovare il modo che perfino le donne avessero
a schifo i giovinastri scioperati e dappoco.

5º Un gran bene procederebbe eziandio dalla frequenza dei viaggi; chè
la vista della tanta operosità e vigoria degli altri popoli ci farà
all'ultimo vergognare della nostra ignavia.

6º Dal vigore del corpo sorge più pronta e più facile la valentía
dell'animo, e con essa la voglia del fare. Gioverà pertanto assai
l'instituire per tutto scuole di ginnastica, divenute fuor d'Italia non
meno copiose che profittevoli.

7º S'instilli ne' giovani desiderio della caccia, nuoto, scherma,
cavallerizza, pallone e altri robusti esercizj.

8º Molti ozieggiano per non trovar che fare: suggeriamo loro di onorate
ed utili occupazioni. I tempi ne offrono in più quantità e varietà
che per l'addietro. Per tutto crescono le faccende degli ingegneri:
s'aprono vie nuove di lucro ai meccanici, agli esperti di miniere, ai
chimici, agli enologi, ec.

9º Marciscono altri sconoscendo la propria natura: e forse non si dà un
solo ingegno al mondo senza alcuna speciale dote e attitudine. Studiamo
pertanto in ciascuno ciò che v'à di peculiare, e a quello indirizziamo
le facoltà sue. Il sentirsi valente in alcuna cosa e la speranza di
buon successo renderanlo attivo e volonteroso.

10º L'educazione de' fanciulli procacciamo che sia nè paurosa nè molle,
e ch'ei s'avvezzino alle fatiche e al dolore, nè si spaventino dei
rischj, delle infermità e degli infortunj.

11º Travagliamoci molto a impedire che la poca energia ed attività de'
giovani non si sperda (come oggi accade) in frivole gare e puntigli,
in basse invidie, in polemiche infruttuose e villane, o in cercare la
gloriuzza della provincia nativa in iscambio del suffragio e lode della
nazione intera.

12º Gli studj che mirano a poco alto fine e versano sopra materie
futili nè curano di nudrirsi di scienza profonda, snervano l'intelletto
e l'animo.

Perciò le vecchie accademie o si spengano o si trasformino: sia messa
in deriso la smania tanto comune del poetare e gli sciocchi tèmi
prescelti. Accusinsi d'inettezza i filologi e gli eruditi che non
contemprano le discipline loro con la filosofia e con le scienze. Si
biasimi forte quella turba di letterati egoisti e infingardi che vassi
baloccando coi libri senza voler nulla produrre.

13º Facciasi contro a tutto ciò che fomenta la vagazione e la
leggerezza degli animi, ajutando e promovendo in quel cambio tutto ciò
che v'induce gravità e meditazione: imperocchè da ambedue queste nasce
il forte sentire, e più tardi il forte volere.

14º Taluni si scolpano del loro scioperamento dicendosi natifatti
pel travaglio delle guerre, o per altri assai faticosi ed operativi
esercizj. Togliamo di mezzo la scusa, mostrando loro non essere
tuttavia interdette molte specie d'occupazioni travagliose ed ardite;
come viaggiare alla scoperta di luoghi nuovi o mal noti, salire
montagne altissime non ancora _perlustrate_, visitare e descrivere
vulcani, e simiglianti fatiche. Numero grande di viaggiatori francesi,
inglesi e tedeschi, esplora il mondo per ogni parte; e i discendenti
di Marco Polo, del Colombo, di Amerigo e del Cabotto, poltriscono
sonnacchiosi nelle sdimenticate loro case.

15º Predichiamo il coraggio civile, e noi per primi porgiamone esempio
frequente. Lodiamo a cielo qualunque dimostrazione se ne vegga o
grande o mediocre; ma il fondamento del coraggio civile sta nel nobil
sentire, nella fede profonda al bene e nell'abito delle virtù. Corretti
i costumi, rinvigorite le coscienze, ristaurati i principj, il coraggio
civile rampollerà d'ogni parte.

16º Svegliamo l'attività eziandio per mezzo di questa voglia smaniosa
d'oggidì delle industrie e del commercio.

17º Perchè la fiducia in sè medesimo e la speranza del buon successo
cagioni sono validissime a scuotere la volontà, così fa mestieri
di aumentare al possibile negli Italiani la fiducia in sè stessi, e
l'aspettazione certa della rigenerazione del _Bel Paese_.

18º All'opposto, occorre di combattere virilmente quelle dottrine false
e dannose che screditano lo sforzo dei buoni come sempre insufficienti,
e giudicano mere illusioni le sublimi speranze del genere umano, la
fede nel progresso civile, i premj immancabili della virtù.

19º Il popolo solo infonde fiducia vera, perchè in lui è la vera forza.
Con quella proporzione adunque che il popolo diverrà nostro amico,
crescerà la comune confidenza e il coraggio.

20º Condurrà pure a ciò una bene impressa notizia di quello che valga
la natura italiana per testimonio della sua storia, che fra le umane è
tuttora la più maravigliosa e grande. Adopriamoci pertanto a illustrare
la Storia patria e a propagarne la cognizione.


CAPITOLO III.

DELL'EDUCAZIONE DEL POPOLO.

Ora, seguitando, registreremo alcuni precetti intorno alla educazione,
si voglia morale e si voglia intellettuale, del popol minuto,
incominciando dall'ultima nominata.

1º Curiamo noi per primi d'istruire il minuto popolo conversando con
lui di frequente, e adattando l'insegnamento alla capacità e gusti
suoi.

2º Facciamo ogni sforzo perchè s'aprano e si moltiplichino le scuole
primarie, e dove sussistono si migliorino;

3º Perchè cresca il numero de' giornali popolari, procacciando che la
compilazione loro venga a mano di gente savia e dabbene.

4º Pubblichiamo trattatelli di geografia, di viaggi, d'agricoltura
e d'altre utili discipline, accomodati alla gente minuta, piegando
l'ingegno a tal sorta di modeste scritture, come Franklin non ischifò
di piegare il suo.

5º Sopra tutto, scriviamo ristretti di Storia patria, chiari, ordinati,
succosi. A ciascuno poi di cotesti dettati dee presiedere molta
prudenza, e spesso staremo contenti alla esposizione nuda dei fatti, i
quali riescon di per sè stessi istruttivi ed eloquenti.

6º Procacciamo che sorgano cattedre popolari di fisica, chimica,
geometria e altre scienze affini, con avvedimento applicate alle arti e
ai mestieri.

7º Si vogliono animare i più industriosi artigiani ad assottigliare
l'ingegno in qualche trovato, a prender notizia di quelli che
compariscono di mano in mano, a imitarli e perfezionarli: nelle quali
cose chi può esser loro di ajuto o col sapere o col denaro o con altro,
sì lo faccia liberalmente.

8º Sarà proficuo, pertanto, il promovere quelle istituzioni che
svegliano ed incoraggiano l'ingegno inventivo del popolo, come le
pubbliche mostre, i pubblici premj, i comizj agrarj e simiglianti.

9º Nell'ammaestrare il popolo, non solo si dee metter cura in fornire
la sua mente di utili cognizioni, ma puranche in addestrarlo a saper
pensare da sè ed esercitare abilmente le naturali facoltà sue.

10º Le statistiche ben compilate sono un mezzo molto acconcio
d'illuminare e persuadere le moltitudini. Utilissimo poi è il far loro
sapere quel che si pratica fuori d'Italia, e per alcuni fatti evidenti
e notorj indurle a paragonare lo stato proprio con quello d'altre
nazioni civili.

11º Si dica il medesimo per rispetto alle provincie italiane fra loro
paragonate, di modo che se in alcuna sorge qualche utile innovazione
e perfezionamento, il si faccia sapere alle altre, e segnatamente
al popolo; chè l'esempio vicino è stimolo assai più gagliardo. E
pure perciò le gazzette sono proficue, e più saranno col tempo, se
quante cose possono recare a notizia comune, tante registreranno,
singolarmente di governo, di finanze, di tribunali, di municipj ec.;
chè a poco a poco verrà desiderio e bisogno di sapere la cosa pubblica,
e il giudicio comune avrà molto peso nelle deliberazioni di chi regge
lo Stato.


1. — _Dell'Istruzione morale._

1º Porgendo noi quotidiano esempio di virtù private e civili alla
plebe, avanzeremo non poco la educazione morale di lei; e più, se ci
daremo a conoscere per suoi veri amici e zelatori del bene suo.

2º Provochiamo e rinvigoriamo per continuo gli istinti generosi, i
quali nel popolo, come meno discosto dalla natura, ànno germe assai
vivace e fecondo.

3º Si studino l'arti e i secreti dell'eloquenza popolare e quelle forme
di stile che più aggradano alle moltitudini, come gli apologhi, le
novelle, i motti sugosi, i proverbj ec.

4º Curiamo che le virtù insegnate e gli esempj addotti non si scostino
troppo dalle condizioni odierne del popolo, affine ch'egli riconosca
di avere alle mani materia idonea per praticare le verità che à lette o
ascoltate.

5º Gli esempj tratti dal popolo stesso riusciranno i migliori; e quante
volte verrà a taglio di raccontare le belle azioni di lui ne' vecchi
tempi e ne' nuovi, tante si faccia con efficace semplicità.

6º Fondamento dell'educazione civile del popolo è il farlo persuaso di
questo, che i doveri dell'uom dabbene non ànno rispetto alle sole virtù
private e domestiche, ma eziandio alle pubbliche, e maggiormente a
queste che a quelle pel maggiore effetto che n'esce.

7º Si renda piana tale dottrina applicandola spesso agli interessi
comuni che il popolo sente e conosce, e sono principalmente quelli del
municipio.

8º Si faccia il medesimo allorchè si passa a ragionare dei diritti.

9º Diasi forza a cotesti precetti lodando a cielo e onorando con
pubbliche dimostrazioni quei valentuomini, le cui buone opere, ancora
che ristrette al borgo o alla città o alla provincia natia, sono
affettuosamente ricordate e appregiate dal popolo.

Il trapasso dai negozj municipali ai generali dello Stato e d'Italia
sarà poi naturale ed agevole.

10º Si abbia cura di mostrar le ragioni poco degne e legittime,
perchè i nostri preti non inculcano mai su dal pergamo nè l'amor
della patria nè le virtù cittadine; e si spieghi come, nientedimeno,
quelle virtù sono comprese nel gran precetto dell'universale carità; e
come l'_Esodo_, il _libro dei Giudici_ e segnatamente i due libri de'
_Maccabei_ producono esempj mirabili per la pratica e santificazione di
tutte esse.

11º In tal guisa conviene purificare la religione, che le moltitudini
ànno sempre in costume d'unificare colla legge morale.

12º Ma perchè i preti ànno autorità maggiore sul popolo, e intervengono
in ciascun atto solenne della sua vita, e si spacciano per suoi
consiglieri, maestri e consolatori, occorre di fare due cose: la prima,
partecipare a questi ufficj di consigliero, maestro e consolatore; la
seconda, convertire alle nostre opinioni i preti di cuor retto e di
mente svegliata.

13º Sopra tutto, adoperiamoci molto per la fondazione e il
miglioramento de' luoghi pii e di qualunque istituto di carità;
imperocchè nessuna cosa è più santa, e nessuna ci dà maggior credito
appresso le moltitudini.

14º La Storia patria è pure una larga fonte di virtù cittadine.

15º Scriviamo piccoli Manuali di educazione, acconci all'intelligenza
e alle condizioni del popolo, affine che non gli manchi una scorta
nell'allevare i figliuoli, e a quelli insegnando educhi parimenti sè
stesso.

16º Le poesie popolari forniscono un altro mezzo efficace di educazione.

17º Qualora taluno del popolo s'ingegni di raffinare tale industria o
tale altra, invitiamolo a far ciò eziandio per guadagnare bella fama
a sè stesso e utile alla sua patria: nè a cotesti sensi generosi il
popolo è sordo.

18º Induciamo la plebe a partecipare a quello spirito che si domanda
di associazione, convincendola in molti casi della utilità delle spese
fatte e sostenute in comune. Così da una parte sentirà il profitto
dell'unione e della fratellanza; dall'altra conseguirà l'uso e l'abito
della disciplina, dovendo osservare quegli ordini e quelle regole cui
volontariamente si assoggettò.


2. — _Sentimento della propria dignità restituito._

1º Che da noi cominci l'esempio di trattare la plebe con dolcezza
fraterna senza ombra d'alterigia, e schivando quei modi che fanno
sentire più o meno al vivo la nostra maggioranza.

2º Se ci meschieremo o intratterremo a lungo col popolo, ei succederà
che la porzione di lui meno guasta e meno prostrata verrà imitando i
nostri costumi, e prenderà buon concetto di sè medesima.

3º Ritiriamo, quanto si può, la minuta plebe dall'estrema indigenza, la
quale invilendo l'animo spegne ogni senso di dignità.

4º Mettiamo il popolo sulla via dell'industria e delle fatiche onorate,
rimovendolo da que' mestieri che servono la persona e i capricci
dell'uomo; e vogliamo ricordare che l'ultimo de' campagnoli à spesso
maggior nobiltà di affetti e di pensamenti che il primo valletto di
corte.

5º Il vivere pitoccando, l'aspettare in sugli usci le minestre de'
frati, lo strisciare per le case de' ricchi servendo i servi e li
sguatteri, e simili altri mestieri vili, dobbiamo sforzarci di fare
odiosi alla plebe.

6º Ne' colloquj nostri col popolo, gli si faccia intendere che la bontà
delle opere è ciò solo che debbe innalzare l'uomo sopra i suoi simili:
che uguali sono i doveri, uguali i diritti: e che serbare intatta la
dignità d'uomo e di buon Italiano, è obbligo comune de' ricchi e de'
poveri, dei patrizj e del volgo.

7º Procacciamo di sopprimere tutti quegli usi e sollazzi che
ingaglioffano il popolo, e gli instillano gusti bassi e indecenti;
come la caccia del bue (molto diversa dalla giostra spagnuola che sa
del feroce, ma dove il coraggio e la destrezza fanno ogni cosa), le
cuccagne, il beffarsi degli idioti e dei pazzarelli, il buffoneggiare
per le bettole, il vituperarsi a parole, ec.

8º Perfino la nettezza del vestire e dell'alloggiare trae seco un
maggior sentimento di dignità.

9º A mano a mano che l'infimo popolo prenderà uso e piacere alla
lettura e spoglierà la grossa ignoranza antica, crescerà in istima di
sè medesimo.

10º Se c'imbattiamo a veder maltrattare alcun popolano o con parole o
con atti, pigliamo gagliardamente le sue difese.

11º Coloro fra il popolo che usano inverso noi stessi maniere troppo
servili o manifestano pensamenti troppo rimessi e paurosi, sieno da noi
ammoniti di non prostrarsi a guisa di rettili, e di sapere e sentire
che ànno un'anima d'uomo.

12º Sono più inclinati a pregiare e difendere la dignità propria coloro
fra il popolo che ànno praticato il mestiere dell'armi. Da questi
dunque si faccia capo.


3. — _Dell'Energia popolare._

I Calabresi e alcune altre popolazioni italiane aveano fino ai dì
nostri conservata o ricuperata molta fierezza e gagliardia. Spesso, gli
è vero, prorompevano in brutta ferocia, in vendette e in ammazzamenti;
ma era forza e non fiacchezza, ardore e non gelo.

Il dispotismo _eclerado_, come in Ispagna ebbe nome, seppe coi
gendarmi, le forche ed i codici prima spaventare poi addormire quelle
moltitudini, la cui mezza civiltà consiste oggi a non più sentire nè
triste passioni nè buone. Ritemprare quegli animi all'antica asprezza
non è possibile; perchè in parte ella procedeva dall'eccesso medesimo
dell'ignoranza e della selvatichezza, in parte dagli scomposti ordini
dello Stato: le quali cagioni sono rimosse e sminuite ogni giorno più
dalla civiltà crescente e comune d'Europa.

Ripariamo dunque, per quanto è da noi, alla presente fiacchezza:

1º Col dar noi al popolo esempj frequenti di vigore, sprezzando i
pericoli, sostenendo gli infortunj, praticando il coraggio civile, di
cui sopra ogni cosa abbisogna l'Italia.

2º Con allontanare (per quello che sta in noi) dal popolo qualunque
cosa possa ammollirlo e snervarlo di più: ritraendolo dalle costumanze
e dagli abiti effemminati, ai severi e forti allettandolo.

3º Più facilmente giungeremo a cotesti effetti, operando sulla parte
del popolo che a ciò è meglio disposta; come i tornati a casa dalla
milizia, i marinari lottanti con le tempeste, gli armaruoli e le guide
e altri tali artigiani avvezzi ad opere dure e rischiose.

4º Ai contadini si ponga in animo la comodità e la sicurezza dello
starsene armati, il piacere della caccia e del tirare al bersaglio.

5º Nelle sale d'asilo, nelle scuole primarie, negli orfanotrofi e in
simili altri istituti di educazione popolana, travagliamoci assai per
introdurre discipline ed insegnamenti che inducano forza, bravura e
propositi fermi e assai malagevoli.

6º Le paure e le vigliaccherie si deridano e vilipendano in quante
maniere si può: per contrario, si alzino a cielo gli atti animosi ed
intrepidi. Non che le storie e le poesie, ma le novelle, i proverbj,
gli apologhi, le farse ed ogni altra forma domestica e popolana di
scrivere dee venire a soccorso dell'opera.

7º Antico dettato è che l'unione dà forza; aggiungiamo, che
dall'unione, perchè forte, procede e abbonda il coraggio: adunque
procacciamo concordia ed unione massima fra tutti gli ordini del
popolo. Più cose che notammo qui sopra intorno all'attività e
all'energia delle classi colte ed agiate, tornano acconce ugualmente
per le rozze e inferiori.


CAPITOLO TERZO.

DELLE SPERANZE DEL POPOLO.

Nè solo dobbiam noi soccorrere il popolo di questi beneficj ed ajuti,
quali la condizione nostra presente concede di fare; ma dobbiamo
istruirlo altresì di quelli molto maggiori che gli promettiamo, appena
le sorti ci daranno facoltà e comodità di attuarli.

In altre contrade, la plebe meglio informata de' suoi diritti che
dei doveri, e meglio educata della mente che del cuore; accesa oltre
a questo dai demagoghi in affetti violenti d'odio, d'invidia e di
cupidigia; e infine, inasprita dal patente egoismo degli ottimati e
dei facoltosi, i quali ogni cosa tirano al lor profitto e si mostrano
la più gran parte indifferenti per li suoi mali, o tepidi e lenti a
procurarne i rimedj; la plebe, dico, in quelle contrade sembra divenire
subbietto di gravi paure, e minacciare la ruina degli ordinamenti
sociali.

Ma gl'Italiani, se intenderanno bene la lor generosa indole, e
studieranno assai nelle storie della comune patria, piene tuttequante
di fatti e di glorie popolaresche, nessuna paura prenderanno delle
povere plebi; e questo alto esempio porgeranno all'Europa di averle
sapute educare e ajutare tanto efficacemente, da sciogliere inverso di
loro il debito antico della civiltà, e farle capaci e degne di assumere
molti diritti e saviamente esercitarli.

Noi, mettendo da lato le innumerabili e strambe utopie de' _socialisti_
moderni, e scegliendo quelle riforme e quelle miglioranze che fin da
ora sono possibili e praticabili, segneremo qui qualche linea del vasto
disegno con che il secolo intende a rigenerare le classi inferiori, e
il quale tutti i buoni Italiani debbono meditare e correggere con lunga
e paterna sollecitudine.


1. — _Dei Principj direttori._

1º Quella comunanza di uomini che non sa trovar modo, o non vuole,
di schermire dalle necessità estreme della vita gl'indigenti onesti
e d'ogni fatica volonterosi, non può dirsi con proprietà _sapiente e
civile_, ma sotto apparenze molto contrarie è _barbara e insipiente_
tuttavia.

2º Le genti educate ed agiate sono dalla natura e da Dio costituite
madri e tutrici delle infime plebi, e di queste ànno a rendere conto
molto severo sì innanzi alle società umane e sì innanzi a Dio padre dei
poveri.

3º Quanto più le classi inferiori dispiacciono per la ignoranza, i
vizj e la ignavia della lor vita, e la viltà dell'animo loro, più le
classi educate perdono diritto di querelarsene; potendosi in generale
affermare, che delle colpe e delle brutture gravi e frequenti dei
figliuoli e dei pupilli sono da accagionarsi i padri e i tutori.

4º La tutela de' governi inverso la plebe non può consistere
unicamente, rispetto alle cose economiche, in toglier di mezzo ogni
maniera di ostacoli al libero cambio e alla libera concorrenza, siccome
ànno pensato parecchi moderni. Imperocchè la libertà del cambio e della
concorrenza giova a coloro soltanto che portano seco qualche facoltà
e qualche sostanza da competere e da ricambiare; ma la plebe oppressa
dall'ignoranza e dalla miseria, necessitosa del pane e non potendosi
valere nè avvantaggiare di alcuna cosa, rimarrà esclusa sempre da ogni
concorso, e vivrà in tutto all'arbitrio e alla mercede de' ricchi.

5º Ad ogni educazione morale del popolo mancherà sostegno e
progredimento, qualora non venga ogni giorno fortificata e scaldata
dalla virtù dell'esempio. Parimenti, alle pubbliche beneficenze e
a tutti i provvedimenti nuovi, pensati e trovati per sovvenire ai
bisogni delle plebi indigenti, mancherà gran parte dell'effetto
desiderato, se lo spirito vivo di carità non informi l'animo di coloro
che gl'intraprendono e li mantengono, e se la pietà privata non ripari
continuamente ai difetti della pubblica.


2. — _Doveri e Diritti del popolo._

1º Dovere del popolo è faticar nel lavoro con assiduità, con diligenza
e con zelo: suo diritto è che glie ne venga procurato almen tanto da
guadagnare ogni giorno il proprio sostentamento con sicurtà, e senza
strazio delle membra e dell'animo. Suo diritto è pure, cadendo infermo,
di essere medicato; e invalidandosi per vecchiezza o per altro, essere
dal Comune nudrito e ricoverato. A cotali diritti una restrizione sola
vien posta; e la segna e determina l'assoluta impossibilità nel Comune
medesimo di supplire all'uopo con sufficienza ed in ogni caso, dovendo
sempre rimanere intangibili la famiglia e la proprietà.

2º Dovere del popolo è farsi docile alle istruzioni ed ammonizioni
di coloro che lo sopravanzano assai di educazione e di scienza:
suo diritto è che gli si porga continuo il pane dell'intelletto e
dell'animo, e che passi su questa terra ben sapendo di nascere uomo,
e con qualche facoltà di perfezionare sè stesso ogni giorno più in
ciascuna nobile parte dell'essere suo.

3º Dovere del popolo è di serbarsi modesto nei desiderj, non isdegnare
la sua condizione, non invidiare ai ricchi, riuscire massajo e
sobrio, obbediente e disciplinato. Diritto del popolo è che i bisogni
incessanti ed insopportabili della vita non lo spronino ad ogni
momento al male, nol gettino e nol mantengano nelle bestiali abitudini
dell'intemperanza e della improvvedenza, e nol disperino d'ogni cosa.
Suo diritto è venir rispettato e pregiato nell'umile sua condizione,
e che l'esercizio delle proprie civili prerogative non incontri mai
altro limite e impedimento, salvo che la insufficienza effettiva di
alcune facoltà richieste al buono e sano esercizio di quelle. Suo
dritto è il trovar sempre le leggi ed i magistrati così giusti, benigni
e solleciti inverso di lui, come inverso de' ricchi e potenti. In
fine, è suo diritto (poichè de' beni di fortuna non gode, e vuolsi che
non se ne dolga troppo) essere educato per modo da saper gustare più
che mediocremente le felicità immateriali, come le buone letture, la
bellezza dei monumenti, la prosperità e gloria della patria ed altre sì
fatte.


3. — _D'alcuni mezzi per soddisfare ai diritti che risguardano la
sussistenza._

1º Abolire i dazj e le imposte d'ogni natura che gravano più
propriamente sull'infimo popolo.

2º Francarlo eziandio dalle tasse parocchiali assegnate all'adempimento
di certi atti solenni, religiosi e civili.

3º Moltiplicare e perfezionare gli ospedali, i ricoveri, i monti di
pietà e simili altri istituti di pubblica beneficenza, nell'invenzione
de' quali primeggia nelle storie la pietà italiana.

4º Propagare tali istituti il più che si può eziandio per le ville, e
imitare da pertutto l'esempio d'alcuni Comuni rurali italiani, che a
loro spese provvedono i contadini di medico e di medicine.

5º Riformare ed ampliare le leggi e i regolamenti circa ai patti e alle
mutue relazioni tra i fabbricanti, capomastri e bottegai da un lato,
e gli operai, giornalieri, manuali e apprendisti dall'altro, porgendo
a tutti i secondi guarentigia e soccorso nei termini dell'equità, e
contro l'egoismo e la durezza de' primi.

6º Istituire in ogni città, dove gli operai sovrabbondino, due sorte di
lavoreríe pubbliche permanenti; l'una pei rozzi braccianti, l'altra per
gli operai delle arti più comuni.

7º Tali istituti verranno ordinando per guisa i regolamenti e le
discipline proprie, e con sì fatta misura verranno proporzionando
le lor mercedi, da non sopraffare in nulla le industrie de' privati;
e d'altra parte, toglieranno a queste l'arbitrio di soverchiare gli
operai in nessuna cosa, e uscire dell'equità e della mansuetudine.

8º In tali lavorerie e officine pubbliche non debbono gli operai nè
venire costretti a viver rinchiusi, nè perdere alcuna porzione di
quella indipendenza di atti e di pensamenti che la civile libertà
concede ad ogni uomo onesto.

I lavori, poi, scelti e ordinati in quelle saranno volti con
provvidenza ed accorgimento alla pubblica utilità, e segnatamente a
quella del popolo minuto.

9º L'intromissione a tali opificj sarà conceduta ad ogni individuo
il quale darà prova di aver senza frutto offerto l'opera sua nelle
officine private; e questo farà esibendo certificati de' capomaestri,
ovvero altrimenti, secondo che la pratica verrà insegnando. Può
eziandio cansarsi in quelle lavoreríe il pericolo della frequenza
degli operai soverchia e non cagionata da mera necessità, con fare
strette più dell'uso ordinario le discipline; le quali poi debbono
esser pensate e trovate con ingegno sì fatto da convertirle in buoni e
cotidiani metodi educativi.

10º Tutto ciò ricerca che il tesoro arricchisca abbondevolmente per
altre vie. Nuova fonte di ricchezza pubblica può divenire la tassa che
domandano progressiva, ed una sulle eredità trasversali proporzionata
alla più o meno strettezza di parentela, e il far mobili e circolanti
(a parlare alla moderna) i beni immobili camerali, ed infine il fare
sparmio di tutta l'immensa moneta che inghiottono oggidì e scialacquano
i grossi eserciti stanziali, i gran favoriti di corte, i doganieri, li
spioni e mille altre specie di ufficiali e di salariati o perniciosi o
superflui.

11º Con molto valsente tenuto in riserbo, ovvierassi a quegli accidenti
imprevisti (e ai dì nostri non radi) che turbano a un tratto l'economia
delle industrie e del cotidiano lavoro: come le invenzioni rumorose de'
fisici che fanno inutili issofatto certe specie di manifatture, o le
macchine nuove di subito surrogate alla forza di migliaja di braccia,
o quegli sbilanci improvvisi di commercio e di traffico che mettono
in repentaglio la prosperità de' ricchi e la sussistenza de' poveri.
Così gli Italiani fondatori antichi delle _Case di lavoro_, e pur lungo
tempo innanzi che le altre nazioni ne avessero sentito il pregio,
perfezioneranno secondo conviene alla nostra età il pietoso trovato
degli avi loro.

12º In risguardo delle campagne, fa mestieri per prima cosa di
riformare e ampliare il codice agrario o forese, onde si tutelino con
più efficacia i patti e le relazioni giornaliere fra i possidenti e
i coloni, migliorando le condizioni di questi ultimi, e mallevandole
contra ogni ingiustizia e sopruso.

13º Secondamente, è bisogno che in ogni provincia s'instituiscano
compagnie d'assicurazione (sovvenute dal denaro del Comune) contro
i danni delle gragnuole, delle carestie, delle epizoozie e delle
inondazioni; a tale che i contadini si veggano accertato ogni sempre
il frutto del loro sudore. Il giudicio delle spartizioni si eserciti
da periti appostatamente eletti dal popolo. Ma negli anni in cui il
raccolto avrà oltrepassato un termine più che mezzano determinato dalla
legge, pure i contadini concorreranno per la lor quota al pagamento
della tassa di assicurazione.

14º Che un Consiglio superiore, ajutato dai succorsali delle provincie,
prenda in cura speciale lo studio e la vigilanza degli interessi
dell'infimo popolo. A questo consiglio verranno ascritti molti uomini
pratici e molti versati in dottrine particolari e correlative ai fini
proposti, e tutti poi splenderanno di specchiata probità e di zelo
grande nei poveri.

15º Una parte del Consiglio provvederà specialmente alla vita sana
del popolo, promovendo nel seno di questo le società di temperanza
felicemente iniziate in America, ed esaminando l'interno delle
officine, la materia e qualità dei lavori, i cibi quotidiani, gli
alloggiamenti, le vesti e simili obbietti. E buono sarà imitare
l'esempio di Leopoldo primo di Toscana, il quale a spese dell'erario
fece murare in buon luogo arioso gran numero di casette decenti
ed acconce pel popol minuto; e compiremo in tutto l'ufficio con
l'aggiungervi la modicità estrema delle pigioni.

16º Ad una seconda parte del Consiglio si darà incumbenza di vegliare
gli andamenti del popolo, e la qualità delle sue industrie e de' suoi
negozj. Illustrato il Consiglio sì dal lume delle statistiche e sì
dagl'indubbj principj delle scienze economiche, avrà cura d'informare
la gente minuta di quei fatti giornalieri e di quelle regole
sperimentali che possono farla prudente nella scelta e nell'avviamento
de' suoi lavori e de' suoi traffichi, e scostarla dall'imprendere
mali negozj, e dal fomentare, siccome accade, mille vane speranze che
tornano in sua ruina.

Vedrà eziandio il Consiglio quel che sia da ristorare degli antichi
Statuti dell'arti e quello che sia da aggiungervi; e ad ogni modo,
promoverà con istanza le congregazioni e consorterie legali degli
operai, de' capomaestri e d'ogni maniera artefici, con l'intento
di accrescere a ciascheduno i mezzi di produzione, e (ciò che più
monta) lo spirito di fratellanza e di disciplina; così ristorando e
migliorando, giusta il senno moderno, quelle compagnie italiane di
muratori e di fabbri ferrai che nel medio evo menavan grido per tutta
Europa. Similmente, il Consiglio promoverà con zelo perseverante
le unioni e consorterie dei piccoli proprietarj e dei fittajoli,
compensando di tal guisa i danni e gli inconvenienti dei troppo angusti
poderi.

Veglierà eziandio sulle pubbliche mostre, sui comizj agrarj, sugli
incoraggiamenti e sui premj da compartire; studierà il valore dei nuovi
trovati e degli ultimi perfezionamenti, ed agevolerà ai poveri artieri
lo smaltimento di loro lavorazioni, contro il monopolio dei troppo
ricchi, ed a freno degli incettatori e rivenditori.

17º Il Consiglio procaccerà di mettere in buono accordo fra loro
gl'istituti caritativi, facendo che si accostino tutti a certa unità
di massime direttrici, e che l'opera dell'uno venga a soccorso ed a
compimento di quella degli altri con perfetta reciprocazione e armonia.
Egualmente, procaccerà un accordo grande e una corrispondenza continua
tra la privata carità e la pubblica.


4. — _D'alcuni mezzi per sodisfare ai diritti che risguardano
l'educazione._

1º Le scuole infantili sieno costituite per ogni dove, secondo i
migliori metodi e sotto il vigile occhio del preallegato Consiglio
superiore.

2º Che le scuole primarie od elementari succedano alle infantili
similmente per tutto, e que' Comuni che mal possono sopperire alla
spesa, ricevano dal tesoro sufficiente sussidio.

3º I figli del popol minuto uscendo dalle scuole primarie e
principiando ad esercitarsi nell'arti come fattorini e apprendisti,
abbiano in certi dì della settimana licenza di frequentare alcune altre
scuole appostatamente trovate per coltivare l'ingegno loro.

4º In tali scuole s'insegneranno con gran chiarezza e semplicità i
rudimenti di quegli studj che giovano in modo peculiare e immediato al
buon esercizio delle arti e delle industrie.

5º Alcune scuole speciali insegneranno gli elementi della scienza del
commercio e della marineria.

6º Oltre tutto ciò, il popolo in tali scuole verrà istruito, almeno
per sommi capi, nella storia d'Italia, e iniziato a pregiare e sentire
tutte le glorie antiche della sua patria. Gli si mostreranno altresì
i rudimenti della scienza della vita civile, cioè le buone creanze e
gli ufficj da uomo a uomo, i doveri e i diritti del buon cittadino,
la natura e le forme giuridiche dei negozj ordinarj, e simili
ammaestramenti.

7º Se il Consiglio superiore esaminando le note e le relazioni annuali
delle scuole popolane, scoprirà ingegni di valore non ordinario e tali
da far presagire di loro alte cose, schiuderà in tempo idoneo a quei
giovanetti le scuole degli studj migliori e provvederà al mantenimento
loro.

8º Il popolo avrà altresì arbitrio di frequentare alcune scuole
domenicali, ove gli si farà lettura e commento (ben conformato alla sua
comprensiva) d'alcuno de' nostri gran poeti e gran prosatori. Che ciò
che vien fatto assai grossamente in sul molo di Napoli da un cencioso
e ignorante rapsoda, molto meglio e con gran profitto si potrà porre ad
effetto da un governo educatore.

9º Esso governo, per ufficio e preghiera del Consiglio superiore,
farà invito ai più dotti e facondi scrittori della nazione a dettare
opericciuole che ben si attaglino all'intelligenza del popolo, e sieno
ricreamento dell'animo suo in qualche ora disoccupata. Voglionsi
più che ordinarj i premj, e grande l'onore proveniente da siffatte
lucubrazioni.

10º Similmente farà compilare e stampare qualche efemeride per uso del
popolo, scegliendo scrittori di provata virtù, e ingegnosi nell'arte di
render piane e semplici le dottrine.

11º Ogni insegnamento popolare verrà concepito e condotto in guisa,
che l'animo se ne nudra tanto o più dell'ingegno. In ogni cosa si farà
luogo con grazia ed acconciatezza ai documenti morali, scansando le
troppo fine disputazioni, e cercando le vie del cuore, che nel popolo è
sempre svegliato e caldo.

12º Il Consiglio superiore ordinerà in modo la disciplina delle
pubbliche lavoreríe e degli altri istituti di carità, che ne risulti
un ben insieme di precetti, d'esempj e di pratiche appositissime ed
efficaci per riformare e comporre l'animo della plebe.

13º La somma degli insegnamenti morali, intendiamo di quelli più proprj
e meglio adattati al popolo, consiste nell'insinuare entro l'animo
suo una fede profonda nella giustizia eterna e riparatrice di Dio; e
con questa, un coraggio assiduo contro i mali della vita, e una carità
viva e operosa, segnatamente inverso i proprj consorti. Consiste quella
somma nel coltivare abilmente il germe degli istinti più generosi, e
movere la fantasia verso le imagini del bene; consiste nel far sentire
la dignità e santità del lavoro, e pregiare per quel che sono le
ricchezze e gli agi e l'apparente beatitudine dei doviziosi; infine,
consiste nell'avvezzare la plebe, in difetto dei materiali conforti, a
gustare con abbondanza i beni e i ricreamenti dell'animo, come la pace
e gli affetti della famiglia, i piaceri dell'amicizia, il dirozzamento
dell'intelletto, il perfezionamento dell'arte propria, la stima dei
confratelli, l'amore nella patria, le glorie di lei, gli ornamenti, la
prosperità.


5.

Queste sono le speranze a cui da ogni buon Italiano debbe venire
alzata la mente e il cuore delle moltitudini; queste le riforme e i
perfezionamenti cui darassi mano quando che sia, perchè tutte sono
operabili; questa la vera e sola e legittima _Carta del popolo_.[2]
Conciossiachè, a volerla mettere in atto, non è mestieri (come si
vede) di rovesciare e sconvolgere neppure un solo degli ordini sociali
odierni, nè di fabbricare alcuna forma politica ignota o troppo
discosta dagli usi nostri. Quello che vi si ricerca sostanzialmente,
si è il buon volere e lo zelo delle classi superiori; e, a chiamar le
cose col nome loro, si è la tarda giustizia dei facoltosi e potenti
inverso i poveri ed impotenti; si è il principio attivo e sincero
dell'uguaglianza e della fraternità che il Vangelo di Cristo à
predicata e promessa a tutti gli uomini.

Infrattanto non debbono i buoni Italiani, aspettando giorni migliori,
desistere mai dal cercare tutti i modi, tentare tutti gli espedienti,
rinvenire tutti gli ingegni per condurre ad effetto alcune parti
almeno di cotesto nobile disegno. E di che non viene a capo, di che non
trionfa la travagliosa operosità, la perseveranza e l'unione?

_Non chi comincia soltanto, ma chi persevera coraggioso entrerà nel
regno dei Cieli._


CAPITOLO IV.

DI ALTRI PRECETTI PARTICOLARI.

Veduto quello che importa di più nell'educazione del popolo,
procederemo a discorrere d'alcuni precetti che toccano materie di gran
momento per la rigenerazione italiana.


1. — _Cose conducenti all'unità morale degli Italiani._

1º Procacciamo che i parentadi si facciano i più frammisti che si può,
cioè tra famiglie di città, provincie e Stati diversi d'Italia.

2º Tuttociò che rende lo straniero maggiormente odioso e abborrevole;
tutto ciò che mostra più aperto i mali da lui cagionati e ne rinnova
il senso profondo e lo moltiplica e lo perpetua, torna di necessità
favorevole e vantaggioso alla patria; e per via di contrapposto, ajuta
a far radicare ed invigorire il sentimento nazionale.

3º Questo è fomentato eziandio da tutte le opere letterarie e
scientifiche il cui subbietto à riferimento speciale con l'intera
Penisola: come, per via d'esempio, una enciclopedia italiana, storia
d'arti italiane, gallerie d'Italia descritte, miniere d'Italia
visitate, e altrettali.

4º Sforziamoci di accrescere e moltiplicare il carteggio e ogni altra
sorta di relazioni e di contraccambi sì fra tutte le accademie della
Penisola, e sì fra tutti i compilatori delle sue stampe periodiche.

5º Agevoliamo e moltiplichiamo fra li suoi Stati il cambio de' libri e
d'altre merci attinenti alle lettere.

6º Similmente, procacciamo che i giornali d'una provincia si occupino
più che non fanno dei negozj letterarj e civili delle altre; e gran
pro farebbe un giornale costituito con questo intento di discorrere e
paragonare insieme le cose letterarie e civili d'ogni parte d'Italia, e
quelle degli altri Stati ancora più che del proprio.

7º Eccitiamo tutti, massime i giovani, a visitare città per città
e borgo per borgo la nostra Penisola, contraendo e coltivando in
qualunque luogo amichevoli affezioni e corrispondenze. Così fanno,
rispetto alla patria loro, i Tedeschi, molti de' quali stretti da
povertà sostengono di viaggiare a piedi con zaino dietro alle spalle.

8º Una grande sapienza civile ammirasi dai politici in quell'antico
precetto mosaico del dovere ogni anno tutti gli Ebrei concorrere nel
loco medesimo a celebrare insieme la pasqua. Deh! che non faremmo noi
per convertire in obbligo sacro questa peregrinazione degl'Italiani
per ogni parte del _Bel Paese_. Ma se tanto nè da noi nè da qualunque
altro si può, introducasi almeno appo i buoni la ferma opinione, che di
quindi innanzi quel giovine, il quale in età di trent'anni non abbia
peranche fornito il viaggio della Penisola tuttaquanta, è indegno di
venir reputato buono e caldo Italiano. Simile riprovazione sia fatta
cadere sopra coloro che alla medesima età ignorassero ancora l'antica
storia e la moderna d'Italia.

9º Tentisi di aprire una fiera annuale di libri, imitando quella
famosa di Lipsia, che è sede e capo del commercio librario di tutta
l'Allemagna. Luogo a ciò accomodato sembra essere Pisa.

10º Tentisi di istituire ragunanze generali di dotti Italiani, al modo
di quelle incominciate in Germania, che ogni anno mutano residenza.[3]

11º Tentisi di rimettere in fiore l'Istituto Italiano dal Lorgna
fondato, e di farlo centro e capo de' nostri studj scientifici.

12º Tentisi di celebrare con pompa solenne i giorni secolari, o come
altri li chiamano, i parentali de' nostri scrittori ed artisti massimi,
con partecipazione di ciascuna provincia, e operando in guisa che ogni
università e accademia invii deputati alla festa. La Germania à dato
testè un esempio insigne e imitabile di tale usanza con la celebrazione
del dì natalizio di Federico Schiller.

13º In fine, tentisi qualche accordo fra i nostri governi circa
agli ordini _doganali_, in guisa che i commerci interiori acquistino
maggiore franchigia, e tutta l'Italia sia loro comune emporio.

Nel che dobbiamo porre innanzi l'esempio del governo prussiano, il
quale, per aver forma di monarchia assoluta, dee parere modello non
punto rischioso a copiare: ciò si ripeta eziandio in risguardo di
molte altre innovazioni e provvedimenti che quel governo è per porre
ad effetto; come l'unità e conformità dei pesi, delle misure e delle
monete fra più Stati contigui.

14º Si offrano premj frequenti ad opere letterarie e scientifiche,
facendo invito a tutti gli ingegni italiani; i têmi proposti versino
sopra materie attinenti alle condizioni ed agl'interessi della Patria
comune. Per gli edifizj e lavori d'arte di gran momento, conserviamo
l'antica usanza italiana dei pubblici concorsi, aperti all'intera
nazione.

15º Scriviamo compendj di Storia italiana in modo piano e popolare,
ristringendoci, se non si può meglio, all'esposizione nuda dei fatti, e
ingegnandoci di ridurli a qualche forma di unità, e di tornarli spesso
in pensiero sotto diverse fogge ed aspetti, come di tavole sinottiche,
di catechismi, di biografie, di racconti, ec.

Una specie di scrittura assai popolare e istruttiva è quella degli
almanacchi ordinati per modo, che a ciascun giorno dell'anno cada il
ricordo d'un fatto notevole cercato nelle istorie d'Italia e nelle
biografie de' suoi grandi uomini.

16º Asteniamci dal parlare i dialetti, e curiamo che si faccia il
simile nelle scuole primarie, nelle sale di asilo e in altrettali
istituti di educazione popolare.

17º Studiamo e pregiamo assai la nostra lingua comune, purgandola dalle
forme straniere; imperocchè in essa è un legame fortissimo di nazione,
il solo non ancora spezzato; e in essa è pure la sola ricchezza campata
al naufragio del nostro civile imperio.

18º E gran bene procurerebbe colui che tentasse di trasformare
l'Accademia della Crusca in vero italiano istituto, componendolo di
socj chiamati in Firenze da ogni banda d'Italia, e intesi a imprimere
nella lingua l'universal carattere nazionale, e propagarne lo studio e
l'uso.

19º Ravviviamo e rinvigoriamo in tutte cose il sentimento italiano,
studiando l'indole e le tendenze che abbiamo sortite in proprio,
e adattando a quelle i pensieri e le opere. Sudiamo a comporre una
agricoltura e una industria italiana, ed abbia la letteratura altresì
sembianza veramente nostrale, e non semifrancese o semitedesca qual'è
la presente: il simile adoperiamo per la filosofia, per la medicina,
per la legislazione, per l'economia. Vorrei che fossimo Italiani
perfino nelle mode e negli usi più minuti del vivere e del conversare.

20º Buono è ripetere e moltiplicare quanto si può le effigie de' nostri
grand'uomini; vogliate per decoro ed intitolazione di accademie, di
teatri, di biblioteche e d'altri istituti; vogliate (e ciò più spesso
e più agevolmente assai) sotto forma di statuette, di medaglie e di
cammei; vogliate infine per fregio di pendoli, di sigilli, di spilletti
ec.

Comecchè da qualche tempo la Storia italiana porga materia frequente
alle invenzioni degli artisti e alle composizioni dei drammaturghi,
utile è di accrescere e propagare cotesta nobile usanza; e piacerebbemi
molto vedere più spesso in iscena taluni de' nostri sommi poeti,
artisti, capitani, navigatori e politici.

21º Similmente, piacerebbemi che i gran casi e le glorie de' nostri
tempi migliori fossero da chi cerca qualche subbietto da tragedia
anteposti e preferiti alle cupe e atroci scelleratezze delle famiglie
principesche. Tuttociò, poi, che riconduce la immagine di quei tempi
sotto gli occhi del popolo, sia che si faccia per via di stampe
e d'intagli, ovvero in pitture, in ispettacoli e in monumenti; e,
se meglio non si può, in mode, in balli, in maschere, in fogge di
vestimenti e di addobbi e in qualunque altra fattibil maniera; riesce
proficuo sopramodo a far radicare negli animi il sentimento nazionale.
E perchè i retori italiani non cesseranno nelle scuole di proporre per
têmi d'esercitazioni i soli eroi della Grecia e di Roma? perchè allato,
almeno, di Epaminonda non parlare di Andrea Doria e di Francesco
Ferrucci? perchè favoleggiar sempre dell'assedio di Troja, e non dir
verbo di quelli sostenuti da Firenze e da Siena? perchè tanto rumore
della lega Acaica, e tanto silenzio della Lombarda? La cacciata dei
Tedeschi da Genova non vale forse quella di Brenno da Roma?

Perchè non ci acconciamo a scrivere un gazzettino di mode italiane con
figurino italiano, traendo il bene puranche dalle umane frivolezze?
Perchè non s'innovano appresso di noi quanti usi e costumi italiani
antichi possono tuttora tornare graziosi e pregevoli? Perchè alle
stoffe, ai panni, ai fornimenti nostrali si preferiscono sempre gli
oltramontani, qualora non la cedano quelli a questi se non di poco sì
per la bontà e sì pel costo?

S'inviti l'Accademia dei Georgofili, od altra avuta in riputazione, ad
istituire una mostra triennale d'ogni industria italiana per tutti gli
Stati della Penisola, decretando medaglie e simili segni d'onore ai più
meritevoli. Altrettanto si faccia a rispetto dell'arti belle; e dove
nè alcun ricco privato nè alcun Governo nè alcun istituto vogliasi in
ciò adoperare, rimane che si colleghino con tale proposito i migliori
cittadini d'ogni parte d'Italia, seguitando l'esempio dato (poco è) dai
cittadini di Colonia.

22º Avvezziamo le menti, e sopratutto le giovanili, a scorgere ed a
riverire nell'eccelsa Roma la sola e legittima città capitale d'Italia.
Spegneremo con ciò molte gare.

23º Cooperiamo alla moltiplicazione dei battelli a vapore, delle
strade ferrate, dei canali, dei ponti e d'ogni altro mezzo efficace ad
accostare gli uomini ed accorciar le distanze.

Fra le imprese industriali, promoviamo quelle singolarmente che sono
di qualità da espandersi ed abbracciare l'intera Penisola o molte parti
di essa; come grandi consorteríe di assicurazione, corse di battelli a
vapore, strade che traversino più Stati italiani, e simiglianti.

24º Combattiamo per tutte le guise le preoccupazioni e i rancori
municipali, le sciocche animosità e invidie fra Stato e Stato, fra
città e città.

25º Travagliamoci segnatamente a conciliare le opinioni de' buoni,
e a tollerar quelle che non combattano di fronte il fine a cui debbe
tendersi unanimemente, la rigenerazione italiana.

Tra noi le opinioni riusciranno varie e diverse in qualunque tempo,
perchè troppa per natura è in ciascuno la singolarità e l'indipendenza
dell'ingegno. Ma se il cuor nostro verrà compreso e infiammato da
magnanimi affetti, e se la devozione sincera alla causa comune italiana
rattempererà l'invidia degl'inferiori e l'orgoglio e l'ambizione
smodata dei capi, la discrepanza dei pareri non impedirà mai certa
unità di operare nelle cose di maggior momento; perchè un affetto
generoso e comune e prevalente sugl'interessi privati e individuali
termina sempre col rinvenire alcuno spediente onorato e alcun modo
pratico di conciliazione e d'accordo. Rimedio, adunque, al conflitto
acerbo delle opinioni, al soverchiare dell'orgoglio e all'insorgere
abituale contro l'autorità e la disciplina, è l'amore immenso e puro
nella Patria comune, e il sentimento profondo e radicatissimo del
dovere.

26º Addottriniamoci delle condizioni topografiche, morali,
intellettuali, economiche, ec. di ciascuna parte d'Italia, affine che
cessi la vergogna perniciosissima di aver più notizia di alcuni Stati
forestieri che della nostra Patria medesima; e affine si sappiano
per appunto così i nostri mali, come i nostri beni, e i dati tutti
richiesti alla soluzione del problema nostro sociale e politico.

27º Poichè un secondo legame di fratellanza e un avviamento all'essere
di nazione sta riposto per noi Italiani eziandio nella unità delle
religiose credenze, e nel dimorare in Italia il capo e moderatore
augusto di quelle, curiamo d'imprimere in tale unità un carattere
peculiare che ci distingua dagli altri popoli, e faccia la Chiesa
italiana esemplare a tutte le altre. Spieghisi, pertanto, l'antica
bandiera cattolica di Arnaldo da Brescia, di Dante, del Savonarola, del
Marsilio, del Sarpi. La scritta della bandiera sia tale: — Ai dogmi
e all'ortodossía rispetto e osservanza profonda: l'autorità e forza
della Chiesa e l'opera de' suoi pontefici è meramente spirituale:
quindi l'opinione sola e non i governi ànno ingerimento legittimo in
essa: le discipline debbono essere riformate e rivocate alle origini:
debbe tutto il corpo de' chierici partecipare, come in antico, alla
scelta de' suoi gerarchi. — La legge morale evangelica è strettamente
incorporata con la vita civile e con le virtù cittadine.


NOTA.

Tutti i precetti e suggerimenti fino qui registrati sono
insufficientissimi a compire la trattazione delle materie a cui
guardano. Il poco che scrivemmo vuole unicamente delineare un esempio
della maniera d'investigare e proporre simile sorta di pratiche.



ALLA CONTESSA OTTAVIA MASINO

DI MOMBELLO.[4]


  Pregiatissima signora ed amica.

Alla sua gratissima rispondo molto più tardi del debito e del
conveniente; ma io desiderava pure poterle dir cose ferme e ben
risolute circa il mio tornare in Italia. E prima, io voglio renderle
grazie il più caldamente che posso della memoria sempre amichevole
che mi conserva e della grande amorevolezza di tutte le sue parole:
anzi le dico, che fra le innumerevoli dimostrazioni ch'ella m'à dato
di affetto e bontà in varj tempi e in mille maniere, questa ultima è
delle più care e non riesce inferiore ad alcuna; sicchè io ne custodirò
viva e perpetua nell'animo la ricordanza. Ora vengo al proposito, e
primieramente io mi rallegro con lei, con me, con la nostra patria e
con tutti i buoni, dell'atto d'amnistia promulgata da Sua Santità, pel
quale sonosi alfine vuotate le carceri e le secrete che da lunghissimi
anni mai non cessavano di riempirsi, rinnovando e martoriando gli
squallidi abitatori. L'accoglienza poi benigna e graziosa che Pio IX
à fatto a parecchi scarcerati, la scelta dello Gizzi a segretario di
Stato, e altri segni e dimostrazioni provano chiarissimo la vera e
profonda bontà del pontefice, e il suo desiderio sincero di riformare
lo Stato, contentare i popoli, e così porre termine a una condizione di
cose che veramente scandolezzava il mondo civile, e recava funestissimi
danni alla religione.

Dubito forte che riesca al pontefice di attuare la metà sola del bene
che disegna di fare; ma non per questo non sarà degno personalmente
di affetto e di riverenza grande; perchè in un secolo quale si è
il nostro, e in mezzo ad una nazione oppressa e degenerata, chi può
pretendere in cotesto sant'uomo la eroica ostinazione di Sisto V, il
coraggio di Giulio II, la mente e la sapienza d'Innocenzo III e di Pio
II?

Ma per ridurre il discorso alla mia persona, io le debbo far noto,
che contro l'animo, io credo, del papa, la nunziatura di qui richiede
due atti preliminari da ciascheduno che vuol giovarsi dell'amnistia.
L'uno è di far di ciò domanda speciale e in termini di petizione in
grazia, la qual domanda inviasi a Roma, e occorre di aspettare quello
che ne verrà risoluto colà. Secondamente, giunta che sia la risposta e
tenutala (poniam caso) per favorevole, debbesi apporre il proprio nome
ad un foglio, in cui fra l'altre cose vien dichiarato dal soscrivente
di voler godere _della grazia del perdono generoso e spontaneo
concessogli ec_. Ora, io non chiedo perdono di colpe di cui non mi
sento reo; e quando tale mi sentissi, non avrei, certo, aspettato
l'indulto del papa, ma da buon tempo avrei confessato l'errore a Dio
e agli uomini: perchè chi fa, falla; ma il galantuomo si ricrede e
confessa il peccato suo. Chiedano innanzi perdono essi (e qui non
c'entra il papa novello) del sangue che ànno sparso con processi e
giudicj che tutti riconoscono oggi essere stati veri assassinj. Qualora
il papa avesse ricerco agli amnistiati una promessa formale di vivere
quieti e obbedienti alle leggi del suo governo, e di non mescolarsi in
cospirazioni e in qual sia tentamento e sforzo di rovesciare e abolire
l'autorità sua, io tanto più volentieri l'avrei promesso, quanto insino
dal 39 (ed ella forse ne à memoria) mandava fuori un'opericciuola in
cui per tutte guise raccomandava alla gioventù italiana di desistere
dalle sètte e dalle macchinazioni, e di entrar nella via che ora sembra
finalmente voler esser calcata e seguita con buon proposito. Io non
posso adunque, purtroppo, senza fare ingiuria alla mia coscienza,
approfittare dell'amnistia. Il ciel mi guardi dal censurare chi la
intende altrimenti: queste cose, com'ella sa, le delibera e le risolve
ciascuno nel suo proprio sè, pigliando consiglio non da altro che
dall'intimo senso morale. Io non tornerò in patria, salvo che per la
porta dell'onore, diceva un grandissimo; ed io benchè picciolo assai ed
oscuro, non posso non ripetere quel degno concetto; poichè la coscienza
e l'onore ànno ugual pregio e misura uguale per tutti . . .

                             . . . . . . .

  Di Parigi, li 31 di agosto del 1846.

                                                    TERENZIO MAMIANI.



LETTERA IN FORMA DI CIRCOLARE.


  Signore.

In questo anno, come v'è noto, compiesi il centenario della cacciata
degli Austriaci dalla città e riviera di Genova. E il primo atto della
gloriosa sollevazione accadde il 5 del vicino dicembre. Tal gesto, il
più bello forse della storia moderna italiana, e che diviene caparra
e simbolo di altri non molto remoti da noi, merita di essere celebrato
con ogni possibile dimostrazione.

Pare a me ed ai miei amici che uno dei segni di gioja pubblica da
praticarsi in quel giorno, esser dovrebbe di ardere fuochi sulle
colline più prossime a ciascuna città nelle prime ore della notte. Noi
ne abbiamo scritto a parecchi in Romagna, in Liguria e in Piemonte.
Se vi garba l'idea, parlatene ai vostri amici e invitateli a porla in
effetto, facendo loro avvertire ch'ella è cosa la qual non incontra nè
spesa nè rischio; e d'altra parte, è vistosa e significativa oltremodo.
Nè altro per questa.

  Di Parigi, li 20 novembre 1846.

                                                    TERENZIO MAMIANI.



LETTERA AL CARDINALE FERRETTI

SEGRETARIO DI STATO.


(Dall'_Italico_, semestre II, n. 11. — Roma, 16 settembre 1847.)

  Eminenza Reverendissima.

L'Eminenza Vostra, senza neppure venir pregata e sollecitata da me, ma
solo per vive raccomandazioni de' miei parenti ed amici, ha voluto, per
gran bontà naturale, favorirmi e beneficarmi. E non essendo riuscita
nel primo atto d'intercessione presso il glorioso Pontefice, si è
pur degnata di replicare le istanze; e jeri mi giunse avviso che Sua
Santità condiscende, a contemplazione della domanda fattane dall'E. V.,
a darmi licenza di rivedere la mia provincia natale, e per lo spazio di
tre mesi poter quivi riconfortarmi con la mia famiglia e con gli amici
de' miei primi anni. Quanto poi alla condizione posta da Sua Santità,
ch'io prometta innanzi (trascrivo le parole medesime di V. Eminenza
nella lettera sua al Perfetti) di _non volere in alcun modo cooperare
nè direttamente nè indirettamente a turbare l'ordine delle cose
politiche negli Stati Pontificj_, io pensava che non le fosse nascosto
avere io compiuta assai largamente quella siffatta dichiarazione,
scrivendo nel marzo del corrente anno all'Eminentissimo Gizzi e
chiedendogli di venir posto a parte del benefizio dell'Amnistia; «la
qual promessa (aggiungeva io in quel foglio, e replico nel presente)
io fo molto più volentieri, e intendo di adempiere con tanto maggiore
lealtà, quanto è già lunga pezza che scrivo, e persuado i cittadini
miei di calcare le vie in cui sembrano alla per fine voler entrar tutti
concordemente, e le quali sole posson condurre alla vera e stabile
rigenerazione della Patria nostra.» Ciò io significava e scriveva
or fanno parecchi mesi; ed in questo mezzo tempo il succedere delle
cose è riuscito così favorevole alle speranze dei buoni, che quella
promessa di rispettare le leggi quali sussistono, e fuggire ogni
modo occulto e violento di mutazione, è divenuta un obbligo naturale,
necessario e comune, da poi che, mediante la saggezza miracolosa di
Pio IX, incomincia in cotesti nostri paesi un ordine vero legale, per
addietro sconosciutissimo, e per via di cui si à facoltà di procedere
pacificamente e di grado in grado all'acquisto d'ogni perfezionamento
civile.[5]

Che io non possa poi ringraziarla condegnamente, e come io desidero,
della bontà e parzialità singolare in me adoperata, scorgesi bene da
ciò, che se il rivedere la patria ed i suoi dopo sedici anni d'esilio
e dopo estinta la speranza di più abbracciarli, è da computarsi
fra le maggiori consolazioni del mondo, a me dee mancare qualunque
fiducia di esprimere all'Eminenza Vostra, non pur coi fatti ma con
le parole, la gratitudine che me le stringe e annoda in perpetuo.
Solo vorrei pregarla a considerare che questi sentimenti li dice un
uomo lontanissimo da ogni maniera d'adulazione, e a cui sono ignoti
affatto le corti ed i grandi, ignoto il conversare e il carteggiare
con esso loro; e a cui infine reca una vera e novissima meraviglia e
soddisfazione il potere e dovere far ciò la prima volta in sua vita
con l'Eminenza Vostra, nella quale si avvera e l'antico adagio che la
bontà soggioga ogni cosa, e l'antica massima dei giuristi filosofi, che
negli ottimi è un diritto naturale e non prescrittibile di dominio e
d'impero.

  Di Genova, li 15 agosto 1847.

Dell'Eminenza Vostra

                                  Devotissimo ed Obbligatissimo Servo
                                                    TERENZIO MAMIANI.



DISCORSO RECITATO AL BANCHETTO

CHE IL CIRCOLO ROMANO OFFRIVA E DEDICAVA ALL'AUTORE il dì 23 di
settembre del 1847.


  Fratelli e Compatrioti.

Il massimo de' misfatti è bagnare le mani nel sangue civile; e l'Italia
(eterno suo dolore e rimordimento!) ha per secoli molti lacerato col
proprio ferro le proprie membra. Però, chiunque non reputa le cose
mortali essere governate dal cieco caso, dee nel contemplar le ruine
e il disfacimento della patria comune, ridire a sè stesso: — Tremenda
ma giusta è la tua ragione, o Signore! — Per giudizio dell'alto, il
popolo stato per vigor d'armi e sapienza di leggi arbitro e reggitore
di tutto il mondo agli antichi conosciuto, passò sotto il giogo di
cento nazioni, le quali per insino a jeri se l'hanno diviso, mercatato
e venduto, come torma di vili giumenti. Per giudizio dell'alto, la
schiatta più gloriosa fra tutte le umane fu abbeverata a lentissimi
sorsi di umiliazione e di scherno: e noi miseri che trascinammo per
lunghi anni la vita in esilio, e vedemmo dappresso la boria dello
straniero e gli occulti suoi pensamenti, noi vi testifichiamo, o
fratelli, che il nome d'Italiano era sinonimo di codardo, e apponevasi
a modo d'antonomasia al giullare ed al barattiere.

Ma infine, le luttuose partite della colpa e della espiazione sono
pareggiate, e la pagina nuova che nel gran volume dei nostri destini
sta ora aperta e spiegata, porta le solenni parole di riscatto e
risurrezione. E perchè in nessun popolo viene ad effetto un profondo
e durevole rinnovamento, salvo che per virtù propria e interiore, e
gli Italiani scaduti e inviliti affatto innanzi al proprio cospetto
aveano dolorosamente smarrito ogni fede e ogni coraggio in sè stessi,
Dio, con consiglio amoroso e misericordievole, mandò loro un segno ed
una caparra evidente e infallibile del patto rinnovato e del perdono
largito. Allora scorgemmo in vetta al Campidoglio e a vista di tutte le
genti cristiane apparire un Angelo col nome di Pio, apparire un Labaro
sacro e vivente, in cui dall'Alpi al Lilibeo le serve e languenti
popolazioni girarono attonite il ciglio, e lesservi giubbilando _In
hoc signo vinces_. Nè questo solo prodigio ha mostrato il Cielo ad
accertare i Popoli nostri della salvezza insperata.

Di voi, o Romani (lasciatemi parlare il vero), di voi fieramente
si sentenziava e diceva: — Gli altri stanno distesi ed infermi, ma
questi son morti e putono di cadavere; quadriduani ei sono, perchè
da ormai quattro secoli, e propriamente dallo sfortunato Porcari
che esalò l'anima sul patibolo, più non dettero voce nè crollo. —
Ma Pio IX che penetrava gli occulti del vostro spirito, così non
parlò, ed accostatosi a voi come Cristo Signore alla figliuola della
vedova, esclamò pieno di fede: _Non est mortua, sed dormit_. E voi
vi svegliaste, e nel tratto di soli pochi mesi faceste l'Italia
meravigliare delle vostre civili virtù. Nel vero, parecchie di queste,
a guardarle nell'abito solo esteriore, possono sembrare altresì
accomunate a gente o guasta o incivile: l'amore di libertà è naturato
coll'uomo, e non rade volte s'accende tra cittadinanze rozze e feroci;
l'unione dei voleri può sorgere spesso da ferrea necessità, o dalla
fiamma non durevole dell'entusiasmo; sprezzar la morte e i pericoli
è dote eziandio dei selvaggi; ed alcune fiate negli ultimi eccessi
della barbarie ribolle negli animi umani un valor disperato. Ma ciò che
rimane peculiare e qualitativo dei popoli veramente civili, e forniti
di alto senno e di sentire magnanimo, si è la politica temperanza; si è
il reggere, come voi fate, l'impeto stesso degli affetti più generosi,
e il voler che procedano d'ugual passo la moderazione e la forza, la
prudenza e lo zelo, la ragione e l'istinto: ondechè in voi, si può
dire, sono principiati in un dì medesimo e il possesso di parecchi
diritti, e la difficile saggezza di saperli assai convenientemente
usare. Ma v'è più oltre di bene. Imperocchè, o Romani, noi vi accusammo
di angusti pensieri e di gretto egoismo, e che non iscorgevate nè mondo
nè umanità di là da Ponte Molle e da Porta Carmentale: e voi, in quel
cambio, chiamati appena a un cominciamento di vita politica, avete
pensato sopra ogni cosa all'Italia, e ogni vostro atto e consiglio
va sottomesso e coordinato pur sempre alla salute, al risorgimento,
allo scampo di qualunque individuo della comune famiglia Italiana. Vi
accusammo di basse superstizioni; e molti chiamavanvi per istrazio una
congrega di pusilli e di bacchettoni: e voi, a riscontro, mostraste
di avere in cima dell'intelletto e accogliere e serbare entro l'animo
la essenza più pura e fruttifera del Cristianesimo; significaste coi
fatti di professare la sua generosa e razionale moralità, scaldarvi
degli spiriti suoi più progressivi e sociali, ed ardere al fuoco di
libertà che tutto quanto lo investe e il vivifica; in somma, mostraste
di aver in cuore segnata e scolpita la Religione Civile, maestra ed
inculcatrice di tutte quelle virtù, quegli uffici, quelle annegazioni
in che versa la carità cittadina, e le quali assommano la grandezza
e la perfezione del saldo e verace Italiano. Per tante e inaspettate
prove d'un sentire liberale ed altissimo, avete, o Romani, insegnato
al mondo, che, contro a mille apparenze e mille sintòmi, le brutture
e la corrutela rimanevansi esteriori e parziali, e, come a dire,
solamente appastate all'intorno del vostro animo, e che mai la sostanza
e il midollo non intaccarono e offesero: onde esso fu simile a quelle
stupende sculture giacenti tra le vostre ruine o in alcun canto de'
vostri trivj, calpestate dal passeggiere, coperte di lezzo e di mota;
ma le quali rimesse appena in sustante, e lavate e deterse d'ogni
immondizia, subito rivelano agli occhi maravigliati di ognuno la loro
antica e non alterata bellezza.

A me le sorti non concederono il privilegio e l'onore di nascere
dall'augusta vostra sementa, ma però scorremi dentro le vene il puro
sangue latino; e voi, voi pure, o Romani, siete un latino rampollo,
e di gente latina crebbe e si allargò questa Città eterna e fatale.
A gloria poi ed a singolare compiacimento mi reco l'essere stato in
mezzo di voi e alle medesime vostre scuole allevato; e il Calandrelli,
il Conti, il Gasperini, il Folchi, ed alcuni altri ingegni debitamente
cari ed illustri, furono i primi balj e nutricatori della mia povera
mente. Da ciò pensate se mi tornò in somma dolcezza il rivedere
queste mura, lo spirar di nuovo queste aure, fissare gli occhi negli
occhi vostri, e, più che tutto, con voi conversare d'Italia e di
libertà. Da ciò pensate se mi s'imprime forte nell'animo una perpetua
riconoscenza dei larghi favori, dell'ospitale affabilità e della
fratellevole tenerezza con che vi piace di accogliermi; nè valgo a
significarvi a parole, quanto l'affetto abbondi e moltiplichi nel cuor
mio considerando tra me le splendide dimostrazioni e le segnalate e
invidiabili testimonianze d'onore con cui volete esaltarmi quest'oggi.
Il qual onore voi intendete per certo di conferire non alla mia persona
oscurissima, non ai meriti di buon cittadino in me troppo scarsi,
ma sì bene ai principj e alle massime generose e civili sempre e
invariabilmente da me professate, e all'amore e al desiderio di questa
nostra gran madre Italia, che m'hanno continuo infiammato, e da cui,
in sedici anni di amarissimo bando, mai non ho divertito l'animo un
sol dì e un solo istante. E ciò tutto voi fate perchè sia indizio e
pegno certissimo ed universale del come intendete premiare e onorare
coloro che non di sole parole e consigli (mio vano e sterile pregio),
ma sì bene avranno con tutto l'animo e con tutto il sangue ajutata e
affrettata la italiana rigenerazione; la quale (giova ripeterlo) voi,
Popolo Romano, avete iniziata, per voi s'avanza, da voi si sostiene,
e senza l'opera vostra mai non potrà riuscire nè santa, nè feconda, nè
duratura.



SULLA TOSCANA.


        (Dall'_Italico_, semestre II. — Roma 23 settembre 1847.)

Da lettere di Firenze raccogliesi, che la nuova legge colà pubblicata
circa all'ordinamento della Guardia Civica, non tragge seco l'adesione
e il suffragio di tutti, ed anzi qualche porzione di popolo ha fatto
perciò dimostrazioni sconvenevoli e tumultuose. Noi desideriamo che
quelle lettere sian cadute in amplificazioni: ad ogni modo, teniamo per
fermo che qualora si apponessero in tutto al vero, la stampa periodica
della Toscana, anzi dell'Italia intera, non mancherà al debito suo,
e rivocherà gli avventati e gli sconsigliati dalla via funesta dei
tumulti e delle sommosse.

Certo, noi non daremo per questo cominciamento di male in escandescenza
e in furore, e non ingiurieremo nessuno col titolo di fazioso, di
ribaldo, di demagogo. La storia e il raziocinio c'insegnan del pari
quanto sia facile entrare in possesso d'alcuni diritti, e quanto
difficile saperli saviamente serbare ed usare. Compatiamo in generale
all'inesperienza de' giovani e all'ardore impaziente delle moltitudini,
e ci sentiamo dispostissimi a ravvisare ne' lor moti disordinati più
presto un eccesso di zelo, che un effetto di male intenzioni, e ne' lor
capi e guidatori un subito accendimento di fantasia e una baldanzosa
presunzione di sè, di quello che mire personali e ambiziose, e voglia
vera e deliberata di perturbare e sconvolgere.

Con tali considerazioni, noi pigliamo speranza che la voce dei buoni
e degli assennati levandosi viva e concorde per biasimare codesti
eccessi, vedremo di corto i giovani ravvedersi e le moltitudini
rinsavire. A gente così ingegnosa, avvisata e penetrativa come i
Toscani sono, gli è impossibile che non apparisca chiarissimo il danno
grande ed inestimabile, che recherebbe alla causa italiana questo
rompere in clamori e in violenze ad ogni atto ministrativo che non
gradisca (poniamo pur con ragione) a molti ed eziandio all'universale.
Per gran ventura, àvvi oggi in Toscana rimedj regolari e pacifici ai
cattivi provvedimenti. Tanto manca che il buon Principe voglia o possa
al presente imporre a popoli suoi triste leggi ed improvvide, che ha
messo a tutela della giustizia e dei diritti, e a lume e scorta sicura
e comune del progresso civile, la libera e quotidiana esaminazione
e discussione della cosa pubblica. Or vuole essa la plebe, vogliono
essi i giovani inconsiderati preoccupare e sforzare il giudicio
della stampa periodica, rompere l'equo e difficile sindacato degli
atti ministrativi, la lenta e laboriosa maturazione delle riforme
e dei nuovi istituti? Per tutto dov'è conceduto il venir componendo
una mente ed un senso pubblico, e dov'è lecito all'opinione migliore
e più generale il manifestarsi ed il prevalere non subito nè senza
fatica, ma pure in modo efficace e perfettamente legale; il ricorrere
a' mezzi violenti e il far mostra d'ammutinarsi, e dirò anche il solo
turbar di frequente la quiete comune con atti sconci e rumori e grida
minaccevoli ed ingiurose, fa pensare al mondo che il popolo il quale
opera di tal guisa, mentre offende la propria sua dignità, disconosce
la forza suprema della ragione e del vero; rinnega altresì coloro che
tuttogiorno nelle stampe fannosi organo delle giuste querele e dei
comuni desiderj; abusa da selvaggio e da barbaro de' naturali diritti;
e merita di ricadere nell'ignobile stato di servitù e di codardia ove
la smoderatezza e i vizj e le colpe de' padri suoi il cacciarono. E
se questo in generale è vero, torna verissimo per noi Italiani, a cui
tanta maggior prudenza e moderazione abbisogna, quanto le condizioni
nostre sono state le più infelici del mondo, e permangono tuttora
le più pericolose e difficili. A voi Toscani è bellissima gloria
l'essere entrati primi o quasichè primi nell'aringo dell'italiana
rigenerazione: ma di quindi, a voi procede un obbligo vie maggiore di
porgere agli altri fratelli esempio salutare d'un'ordinata, prudente
e incolpabile risurrezione. Non udite voi l'Italia, la nostra madre
comune, la gran _Donna di provincie_, ancor tutta bagnata di lacrime
e coi solchi delle catene nelle braccia e ne' piedi; non l'udite voi,
ripeto, raccomandarvi affettuosamente la vita sua, la sua salvezza,
lo scampo estremo di tutti i suoi figli? Fra questi, Ella dice, v'ha
chi infinitamente più di voi tollerava e soffriva, chi ha dato prove
molto maggiori e malagevoli ad imitare di carità cittadina, costanza
magnanima, vigore indomabile, amore santo e animoso di libertà. Eppure,
vedete ch'ei sanno temperare i lor desiderj, e tenersi stretti e quieti
nelle vie della legge e dell'ordine. Perchè, dunque, sarete voi più
insofferenti ed immoderati? Deh, a che riuscirebbe, o figliuoli, la
vostra sconsigliatezza, salvo che a sbarbicare del tutto le riforme
bene iniziate, e la speranza che acquistan del meglio i fratelli
vostri subalpini, dal cui coraggio e dalla cui disciplina io aspetto,
quando che sia, d'essere fatta signora di me medesima? E non son del
mio sangue, e non sono viscere mie quegl'infelici, che pur mentre
io parlo, cadono laggiù trafitti dal piombo e dal ferro su ciascuna
riva dello Stretto? I vostri savj e ammisurati portamenti, la vostra
ragionevole discrezione e longanimità, il lieto spettacolo del vostro
riposato e concorde vivere civile, può far cessare quelle morti e quel
sangue, chiudere quelle larghe ferite, cambiar la mente e il consiglio
di chi tiene in mano le sorti della Sicilia e del Regno. Il contrario
(ahi misera!) procederà del sicuro dal disordine, dai tumulti e dalle
violenze. In qualunque atto, o figliuoli, e in qualunque deliberazione,
pensate ai profondi sospiri, pensate alle lagrime occulte e amarissime
di tanti vostri fratelli men di voi fortunati, non però meno cari e men
diletti al cuor mio.


                  (Dal medesimo-Roma, 7 ottobre 1847.)

Ci giungono di Toscana notizie certe ed esatte, dalle quali
siam confermati nella speranza che avemmo, che le molte lettere
mandate di là in cui parlavasi di fatti tumultuosi avvenuti per la
pubblicazione del Regolamento intorno alla Guardia Civica, eran
cadute in amplificazioni, ed entrate in paura non ragionevole di
scompiglio e sommosse. La saviezza della plebe (ci scrivono di colà)
e la discrezione e arrendevolezza de' giovani non è minore in Etruria
che nello Stato Romano, e l'antichissima urbanità e la universale e
pressochè ingenita educazione delle moltitudini toscane non lascian
temere ch'elle trascorrano di leggieri in atti violenti, e in
riprovevoli e licenziose dimostrazioni dei proprj desiderj.

A noi vengono carissime queste notizie, e con piacere ci affrettiamo
di farle assapere al pubblico. L'ufficio di ammonir con modestia, e
correggere con amore le moltitudini, è forse il più ingrato di quanti
competono al giornalista; il qual conosce assai bene non essere quello
il modo di andare a versi nè del popolo nè de' giovani, cui piace
naturalmente il sentirsi sempre lodati ed accarezzati. Ma la stampa
politica, a riguardarla nell'alto suo ministero, e sceverandola da ogni
basso fine di lucro e di ambizione personale e smodata, tien luogo
oggidì in gran parte di quella solenne censura che fu il magistrato
più austero e imparziale dell'antichità, e che mai non si sgomentava di
dispiacere ai sommi ed agl'infimi, ai governati ed ai governanti.

La rigenerazione nostra vive una vita ancor tenerella e infantile, e
può ammalare così di languore come di febbre. Noi, secondo le nostre
forze, combatteremo sempre ambedue quelle infermità, quante volte non
pure discoprirannosi apertamente, ma daranno indizio e sospetto di sè.
Sui fatti possiamo ingannarci; le intenzioni sentiamo di avere diritte
e generose.


                 (Dal medesimo-Roma, 14 ottobre 1847.)

(Precede una lettera sottoscritta da molti Toscani di eletto nome,
nella quale si fa alcuna rimostranza sul penultimo Articolo.)

Appena da nuove lettere di Toscana fu dissipata la grave apprensione
in che molti vivevano intorno alla quiete ed all'ordine di quella
provincia, io mi affrettai con vivissima compiacenza di ciò pubblicare
in questo giornale medesimo. con data dei 7 di ottobre. Il foglio che
giungemi di Firenze e leggesi qui stampato, riconfermando la buona
novella, riconferma me nella gioja e consolazione ricevutane. V'ha
molti casi nei quali la parola eccitata dalle notizie correnti, perde
opportunità ed efficacia qualora s'aspetti che il tempo o cancelli
appieno o raddrizzi ed emendi il racconto dei fatti. In cotali casi,
chi non vuol mancare al debito di scrittore e di cittadino, e d'altra
parte non vuol censurare senza buon fondamento, parla e ragiona per via
di supposti, dichiarando di avere ferma speranza che le cose narrate
o non s'appongano al vero o di molto l'amplifichino; e ciò appunto
faceva io nell'articolo del 23 di settembre: l'impeto dell'affetto e la
vivezza dei tropi debbesi unicamente recare all'indole dello scrittore
e all'importanza suprema della materia. Come si propalasse la voce
di disordini gravi accaduti e il sospetto di cose molto peggiori, io
non so; ma che ciò si scrivesse in più luoghi e da persone assennate
e di credito, è certo e noto ad ognuno. Nè il raziocinio valeva a
mostrare e provare quegli avvenimenti come impossibili; conciossiachè,
mancando a noi Italiani da troppo gran tempo la vita politica, ci
vien meno similmente il criterio e l'abilità di presumere con molta
certezza quello che siamo per operare. Ed anzi, considerandosi bene la
inesperienza comune, l'ardore delle fantasie, i tempi difficilissimi, è
più forse da maravigliare della universale prudenza e saviezza, che del
loro contrario. Ma d'altra parte, io confesserò volentieri che nessun
prodigio di senno civile è insperabile dai Toscani, privilegiati fra
tutti i popoli italici per altezza d'ingegno, e gentilezza d'animo e
di costumi. Del che mi sembra fare testimonianza molto notabile questo
foglio medesimo che tanti egregi Toscani sonosi degnati mandarmi.
Perchè non poteasi con parole più mansuete e cortesi, e con più
squisita urbanità dimostrarmi l'errore in cui venni indotto, e il quale
son quasi tentato di amare e di carezzare, dappoichè mi ha procacciata
una manifestazione di benevolenza e di stima superiore oltre modo e,
a meglio dire, senza proporzione veruna coi pregi della povera mia
persona. Voglia ciascuno di que' degnissimi soscriventi riconoscere
in queste mie parole un atto sincero di scusa, di ringraziamento e di
ossequio a lui particolarmente indiretto, e il quale io adempio con
la solennità che posso maggiore, per segno durevole di osservanza e di
gratitudine.[6]



PAROLE DETTE IN PERUGIA NELLE STANZE DE' FILEDONI

li 18 di ottobre del 1847.


  Fratelli e Compatrioti.

Quante solenni memorie, quanti affetti gagliardi, che immagini varie
di grandezze e ruine, di trionfi e cadute mi si adunavano intorno al
cuore, mentre io saliva (or son pochi giorni) questi famosi Apennini, e
scorgeva torreggiar di lontano la città vostra, antica e quasi naturale
regina dell'Umbria!

E per vero, io discerneva quivi da ciascun lato i vestigi ed i
testimonj d'infinite umane generazioni, e di più forme e procedimenti
di civiltà; e di quindi io raccoglieva come a dire un compendio e un
ritratto della storia intera d'Italia, in quel modo appunto che ne' più
profondi scoscendimenti o dell'Alpi o de' Pirenei avvisa e riconosce il
geologo la storia tutta quanta del globo terraqueo e de' paurosi suoi
cataclismi. Certo è che voi, Perugini, col solo indicare gli avanzi
che qui tuttora grandeggiano dell'opere ciclopee, e con l'aprire que'
sepolcreti non da molto scoperti e tornati alla memoria degli uomini,
ove intorno alle ceneri de' Lucumoni dormono gli antichissimi vostri
padri, voi potete, insieme con l'altre metropoli etrusche, darvi titolo
e gloria di progenitori veri dell'occidentale incivilimento; imperocchè
appo voi le arti, la religione, le leggi, le leghe, i commerci già si
attuavano e si spandevano, quando la Grecia medesima rozza rimaneva e
selvatica. E però, in fra le nazioni tutte moderne, a voi si compete
una specie di nobiltà naturale e di legittimo patriziato, conciossiachè
va ormai pel terzo migliajo d'anni da che siete usciti di stato barbaro
e entrati a iniziare l'umano perfezionamento.

Ma le vostre valli e colline situate come si veggono fra il Trasimeno
ed il Tevere, son tutte piene altresì di romane memorie; onde gli
antichi libri raccontano che fino a quando stette e durò la Repubblica,
stette e durò prosperevole il vostro Comune; e il ferro e il fuoco che
per le mani scelleratissime dei Triumviri l'ardeva e lo smantellava,
annunziò al mondo il prossimo disfacimento del maggiore degl'imperi.
Ma l'Italia è sacra e non può perire, e di voi similmente fu decretato
che alle ruine etrusche ed alle romane sorvivereste; e quando per lo
crescente splendore del pontificato il nome d'Italia ridivenne temuto e
onorando, e i vecchi municipj latini sentirono di aver riacquistata la
balía di sè stessi, la città vostra, o Perugini, fu in quella nuova e
maravigliosa costellazione di repubbliche un astro sereno e cospicuo:
il perchè leggesi lungamente in tutte le storie patrie quanto la
bravura di Fortebraccio, le armi e le astuzie de' Baglioni, l'autorità
e la prepotenza di sommi gerarchi, faticassero e travagliassero ad
assoggettarvi e a sbarbare dal vostro suolo la pianta divina della
libertà. Ed essendo che la generosa vostra natura dovea farvi partecipi
d'ogni ragione di gloria italiana, allato al valore di Niccolò
Piccinini e d'altri gagliardissimi condottieri usciti del vostro
sangue, nacque per gentil contrapposto quel miracolo d'arte Pietro
Vannucci, la cui fama, avvegnachè grande e perpetua, sarebbe massima
e sola, dov'egli non avesse nudrito del proprio senno e allevato
nelle proprie sue scuole colui al quale voleranno secondi tutti i
contemplatori del bello e gl'imitatori della natura.

Nell'età più bassa, voi pure, o Perugini, con tutta insieme la nazione
italiana siete caduti, e il comune peccato espiaste delle guerre
fratricide. I Genovesi nel sangue pisano e veneto, i Veneziani nel
genovese e lombardo, voi tingeste le infelici armi vostre nel sangue
fulignate e aretino: di quindi le miserie e le umiliazioni, di quindi
la cresciuta ignoranza, e le pessime leggi, e la tirannia straniera e
domestica.

Ma l'Italia (giova ridirlo) è terra sacra, e dai destini privilegiata;
conciossiachè si racchiudono nel grembo suo infinite semenze di civiltà
sempre nuova e ripullulante; e sembra che a ciò a punto il consiglio
supremo di Dio lascila di tempo in tempo incolta ed inoperosa, perchè
ristorata di forze quanto bisogna e purgata delle male erbe, faccia
altra volta maravigliare il mondo universo de' peregrini frutti di
sociale sapienza, che in modo affatto insperato produce e matura, e de'
quali nudrisce di poi molto volentieri le menti di tutti i popoli. E
che noi siamo al presente in questo ricominciare il glorioso cammino,
e che la benignità dei cieli conceda a nostri occhi di rimirare i
primordj fortunatissimi d'una quinta epoca d'italiano incivilimento,
il dicono assai manifesto la letizia de' vostri aspetti, la concordia
e meschianza di tutti gli ordini di cittadini, la significazione di
queste scritte e di questi emblemi, le parole calde e leali che a voi
ed a me or si fa lecito di pronunziare e di udire, il vedermi io stesso
in mezzo di voi e da voi festeggiato dopo la lunghezza e l'acerbità
d'un esilio più che trilustre. Ma forse meglio di qualunque altro
indizio, e con chiarezza ed efficacia maggiore di tutti i segni da me
notati, ciò che afferma, persuade e assicura qualunque intelletto del
certo nostro risorgimento, si è lo scorgere qui presenti gli stemmi
e l'effigie dell'Augusto e Ottimo Pio; il quale voi, o Perugini,
con sublime antonomasia e con un senso profondo di verità, chiamar
solete il liberatore, e ch'io credo altresì, senza pericolo niuno
d'adulazione, poter domandare il Divino ed il Taumaturgo; perciocchè la
subita trasformazione ch'egli ha operata nell'essere delle cose e nel
cuore degli uomini, à, più che d'altro, natura e qualità di prodigio.

Sfavilli, adunque, d'amore e di gratitudine l'anima nostra verso un
tanto Pontefice, al quale ha piaciuto con l'ultimo atto di sua saggezza
di sollevare questi popoli alla giusta partecipazione della politica
potestà; e incominciando in tal guisa fra noi un ordine vero legale,
per addietro sconosciutissimo, e ponendo a principale custodia e difesa
di esso non l'armi forestiere e le mercenarie, ma le proprie e libere
de' cittadini, ha restituito a noi tutti il senso dell'umana dignità,
l'uso dei naturali diritti, l'alterezza del nome italiano. Però,
il modo più acconcio e migliore di mostrarsegli grati e nobilmente
rimeritarlo, si è per lo certo di proseguire, con ispirito animoso
insieme e prudente, la impresa grande e magnanima da lui cominciata,
e volere e operare l'universal bene com'egli l'opera e il vuole; cioè
a dire con cuor mondo e labbro verace, e con interissima annotazione
e rinunciamento de' nostri privati profitti. Affratelliamoci tutti
con franco e devoto animo, tollerando le differenze delle opinioni e
le ombre e le nebbie de' pregiudizj, spegnendo (se fia possibile) per
sino il nome di fazioni e di sètte, e accettando non che per vera ed
eterna, ma per benefica e salutare altresì quella massima la quale
afferma starsene effettivamente gli uomini spartiti e schierati in
due vasti campi; ma che nell'uno già non sono adunati i conservatori
e i retrogradi, e nell'altro i liberali ed i progressisti; nel primo
i solleciti e gl'impazienti, e nel secondo i moderati e i prudenti;
in questo il clero ed i nobili, in quello i laici e la plebe: ma sì
veramente nell'un campo stanno attendati gli onesti, e i disonesti
nell'altro; imperocchè la virtù e il vizio soltanto hanno facoltà di
spartire il genere umano, e inconciliabili sono fra loro pur solamente
la bontà e la tristizia, la leanza e l'ipocrisia. Ogni onesto pertanto
e ogni buono, qual veste o nome o condizione o pensieri ch'egli abbia,
venga lietamente da noi ricevuto, ed anzi ricerco e sollecitato. Ma
chiudansi perpetuamente le nostre porte agl'ipocriti ed ai malvagi,
poco badando che per avventura liberali sien detti e liberali opinioni
professino. Cademmo per le discordie e la corruttela, e per li soli
contrarj loro potremo risorgere. Inebriamoci, a così dire, della carità
cittadina, e un qualche tempo almeno viviamo dimentichi di noi stessi
e ricordevoli unicamente della patria comune: ed io vel giuro per gli
spiriti sacri e immortali dei martiri della libertà, noi salveremo
l'Italia, e tutta la salveremo e per sempre.

Quanto è poi alla mia persona e alle cagioni ed al fine di questa
lieta vostra adunanza, io pensando alle lodi veramente superlative che
di me ho ascoltate, e guardando a queste singolari dimostrazioni di
osservanza e di affetto, onde a voi, Perugini, gradisce di onorarmi e
fregiarmi oltremodo; io debbo, siccome fo, ringraziarvene con tutto
l'animo, e conoscente rimanervene fin di là dal sepolcro; e sempre
dinanzi agli occhi della mia mente dimoreranno le vostre sembianze
e la dolce e cara memoria di questo giorno: ma io non posso in
guisa alcuna ritrarne, come vorrei, una gioja sincera e un profondo
compiacimento, conciossiachè io mi riconosca di tali onori e di tali
fregi immeritevole affatto, nè piglio speranza per l'avvenire di
crescere tanto nella bontà e negli altri pregi, da molto scemare la
sproporzione coi vostri encomj e con la vostra ospitale cortesia e
larghezza. E per fermo, io m'avvedo di non aver operato a rispetto
d'Italia altra cosa degna e lodevole, fuorchè l'alimentare nel chiuso
petto una infruttifera intenzione e un desiderio inerte ed inefficace
di sua salvezza, e l'aver sostenuto con dignità conveniente la comune
sventura: nel che è piuttosto da lodare la rimozione del male che
l'adoperazione del bene, la quale appresso i popoli civili e magnanimi
non dee consistere mai nel nudo e semplice adempimento di ciò che
è debito universale d'ogni cittadino non reo e non vile. Perlochè,
giovandomi pure della calda affezione che mi portate, e del non poco
di autorità che ripor volete nel mio ragionare, sostenete che io vi
consigli e vi preghi ad essere di tali mostre e testimonianze d'onore
più parchi dispensatori, e serbarle tutte per quei generosi che in
tempi ancor più difficili, tra prove molto più ardue e laboriose,
tra cimenti di grave ed anzi d'estremo pericolo, sapranno, con forti
spiriti e con la spontaneità e religione del sacrificio, fermar le
sorti ancor vacillanti d'Italia, e pareggiar gli avi nostri nella
grandezza loro più malagevole ad imitarsi; io vo' dire, lo spregio
magnanimo d'ogni rischio e d'ogni infortunio, e il far getto sì degli
averi e sì della vita perchè della patria carissima sia la vita eterna
e gloriosa.



DISCORSO RECITATO AL BANCHETTO

CHE I PESARESI OFFERIVANO ALL'AUTORE CONCITTADINO il dì 31 di ottobre
del 1847.


  Fratelli e concittadini.

Sempre è dolcissima cosa rivedere la patria; e per poco ch'ella sia
stata lungi dagli occhi nostri, un attraimento soave ed irresistibile
a lei ci rimena. Ma rivederla dopo compiuti sedici anni, che sono
sì gran porzione di nostra vita; rivederla dopo l'esilio, e per
cessazione di quel divieto crudele che il desiderio di lei raccendeva
nell'animo e rinnovava senza conforto ogni giorno; rivederla, infine, e
ricuperarla quando la speranza n'era affatto venuta meno, quando parea
cosa certissima dovere il povero rifuggito lasciare in terra straniera
le sue ossa non lacrimate da alcuno, ciò reca tale e tanta squisita
dolcezza e abbondanza di gaudio, che le parole non vi arrivano, e
l'arte del dire smarrisce ogni sua facoltà. Ora, questa per appunto
è la condizione e la insufficienza in che trovasi di presente la mia
lingua e il cuor mio. Nè con tutto ciò, io v'ho ancora ricordato e
dinumerato l'altre cagioni vive e gagliarde di mia profondissima
commozione, e della piena impossibilità di significarvela.
Conciossiachè io pensava che a' miei sospiri e al mio dolore trilustre
fosse unico testimonio Iddio, e solo qualche amico d'infanzia dentro
nel chiuso animo se ne compiangesse; laddove voi mi dimostrate, o
fratelli, con mille prove, che tuttaquanta la mia città e provincia
natale partecipava al mio lutto e dolore. Vollero i nemici del bene,
e più specialmente nemici d'ogni libertà e grandezza d'Italia, non che
sbandeggiarmi per sempre e togliermi ogni cosa cara e diletta quaggiù;
ma eziandio alla pena aggiunger lo sfregio, darmi appellazioni piene
d'ingiuria, svegliarmi contro non l'amore e la compassione de' popoli,
ma bensì l'odio e lo sprezzo. E voi in quel cambio, o miei Pesaresi,
voi m'accogliete con quegli onori che non alla umile mia persona, ma sì
starebbero bene a un uomo illustre e magnanimo; voi vi compiacete di me
come s'io fossi augumento di vostra gloria, e passar mi fate, per così
dire, dall'oscurità alla fama, dall'esilio al trionfo.

Tutto questo, o concittadini, versa sulle piaghe che m'aprì la
fortuna un balsamo soavissimo, ed anzi elle sono già tutte chiuse e
rimarginate. Se non che, per la necessità ineluttabile in cui vivesi
l'uomo di sentire nelle cose più liete e felici la fralezza di sua
natura, una qualche stilla d'amaro si sparge eziandio nel pieno di
tal contentezza. Imperocchè io mi partiva di questa terra carissima
vigoroso e fiorente di età e di salute, ed ora mi vi riconduco assai
cagionevole e prossimo alla vecchiezza. Il sedere e conversare tra voi
e con voi m'è somma gioja e compiacimento; ma quando io giro lo sguardo
ne' vostri aspetti, troppe sono le sembianze amatissime e nel mio cuore
scolpite che io cerco ed, ahi! non ritrovo. Irreparabile caducità delle
umane sorti! Nello spazio di sedici anni, oh che dolorose trasmutazioni
si compiono, quante memorie soavi s'estinguono, quanti sepolcri si
schiudono, quanta parte della coetanea generazione vi scende!

Non però di meno, perchè lasciomi io rapire a sì triste meditazioni in
ore sì belle e sì fortunate? E che può mai importare la mia soprastante
vecchiezza e le mie infermità, quando io rimiro che la patria nostra
ringiovanisce, e che lo spirito di libertà cominciando a scorrere
nelle sue vene, tutta maravigliosamente la risana e rintegra? Parecchi
dei miei prediletti amici ànno chiuso gli occhi nel sonno mortale: ma
più non riposano in terra di schiavitù, ma il piede dello straniero
non potrà oggimai calpestare le tombe loro, e la viva riconoscenza
del popolo inverso ciò che vollero ed operarono a bene di lui, a bene
d'Italia, più non fuggirà paurosa li sguardi de' vilissimi spiatori; ed
anzi, mentre esso popolo verserà su quelle tombe dolce e ricordevole
pianto, le mani de' sacerdoti leverannosi a benedirle, e le lor sante
bocche pregheranno la pace de' giusti alle anime infiammate di carità
cittadina: imperocchè il maggiore de' prodigi e il più profittevole
al mondo che la sapiente bontà di PIO IX conduce in atto, si è del
sicuro quel caldo e fratellevole abbracciamento che vediam farsi in
modi così impensati e sublimi tra la virtù privata e la pubblica,
tra la libertà e la religione, tra l'incivilimento e la Chiesa. Io vi
dichiaro, o fratelli, con gran fermezza, che quando anche i miei disagi
e le mie afflizioni state fossero intrise di molto maggiore assenzio,
quando incontrato avessi non pure un esilio quale ho sofferto, ma
dieci altrettali ed ancor più acerbi, queste nuove sorti d'Italia
porgerebbermi una mercede e un compenso oltre misura superiori; e la
letizia che me ne procede, esser dee riposta tra le cose veracemente
ineffabili, e tra quelle divine pregustazioni delle delizie celesti,
che alcuna ben rada volta sono agli uomini concedute affin di aprire
il loro intelletto e crescere il lor desiderio inverso le bellezze
sovramondane ed eterne.

Per rispetto poi all'intenzione amorevole che tutti manifestate
di onorare in me non le opinioni solamente le quali ò sempre mai
confessate, e la santissima causa a cui son devoto, ma eziandio la
mia persona e quello che di lodevole a voi par di trovare nell'animo
e nell'ingegno mio, sinceramente vi affermo, che delle vostre
onoranze ed encomj io sento di meritare appena una minima parte, e
che pur questa io debbo da voi riconoscere. Imperocchè voi, come se
tutti mi foste padri e fratelli, m'avete con amorosi consigli e con
blandimenti e lodi ed esortazioni continue e infinite avviato al bene,
e, mediante una specie di cortesissima e affettuosa violenza, m'avete
fin dalla puerizia sospinto a desiderare la celebrità delle lettere.
Così da voi s'è mostrato, con bello e utile esempio, che non riesce
dannoso, come pensano molti, al primo svegliamento dell'intelletto e
dell'altre nobili facoltà il nascer discosto dalle grandi e rumorose
città capitali; perchè pure alle aquile, innanzi di avere spiriti e
gagliardezza per volare in cima dell'alpi e affrontar le bufere, fa
d'uopo di crescere quietamente nel piccolo nido, e con tenue cibo
venir nudrite. E similmente da voi s'è mostrato, come quello che suol
domandarsi oggidì _spirito municipale_, quando sia ben temperato e
commisurato all'amore e servigio che tutti dobbiamo alla patria comune,
divenga sorgente perpetua di profitto e virtù, massime in questa nostra
Italia, in cui la potenza individua di ciascun uomo tiene spesso del
prodigio; quando che altrove le grandi cose si operano solo per virtù
collettiva, come sforzo e peso di masse, il quale in ciascun atomo
componente non apparisce e non ha valore assegnabile.

Ma perchè lo spirito municipale non nuoca ed anzi giovi e fruttifichi,
egli è grandemente mestieri non solo di connettere e subordinare
ciascun atto della vita del proprio Comune all'universal vita della
nazione, ma di stringere quanti più legami si possono di socialità e
di fratellanza con le città finitime e prossime, affinchè un flusso
perenne di scienza e di civiltà corra e ricorra per esse tutte, come
sangue per ogni vena di corpo animato. In cotal guisa, o Signori, poco
avremo ad invidiare a quelle nazioni in cui li sparsi raggi d'ogni
bene comune e d'ogni specie di scibile radunansi tutti in un punto
solo sfolgorantissimo: conciossiachè i lumi del viver nostro civile,
non ostante la picciolezza e tenuità di ciascuno, congiungendosi
spesso e rischiarandosi mutuamente e a simiglianza di specchi l'uno
nell'altro riverberando, cresceranno da ultimo sì fattamente e di
numero e d'intensione, da soverchiare ogni forma e grandezza di
umano splendore. Dalla qual cosa procederà fra gli altri beni questo
prezioso e singolarissimo, di convertire l'astio profondo e le misere
nimistà antiche in emulazione ardente e operosa. Nè a voi, Pesaresi,
dee fare apprensione e paura l'entrare in simile competenza con mille
altre città; dappoichè la natura v'à di raro ingegno e di non comune
gentilezza privilegiati, sicchè picciolo popolo siete, ma glorioso e
caro alla nostra gran madre Italia. Deh vogliate, o giovani, serbare
a questa città natale il titolo suo invidiato di culta e di gentile,
e non vi piaccia di confondere mai l'austerità e la valentía con la
salvatichezza e con la ferocia, e di scompagnare dall'uso dell'armi gli
studi gravi e gli ameni. Ben conoscete che l'armi indòtte sono barbare,
e in guerra non durano e non prevalgono; come, per lo contrario, la
scienza imbelle e indifesa appiccolisce sè stessa e muor nel servaggio.
E a cui non è noto il simbolo esatto ed elegantissimo per via del quale
rappresentavano i Greci l'alleanza perpetua e necessaria dell'armi e
delle lettere? chi non sa che Minerva, figliuola della mente di Giove,
usciva dal capo del Dio brandendo l'asta e imbracciando lo scudo? Ma
perchè m'andrò io ravvolgendo tra le favole greche, mentre la storia
vera d'Italia offre a noi Metaurensi, e ai popoli tutti compaesani, uno
specchiatissimo esempio del sapere alle armi contemperare gli studi,
e fare scorta e governatrice d'ambedue la sapienza civile? E che altro
erano le città famose di Metaponto, di Crotone, di Taranto, di Locri,
di Reggio, se non collegi e famiglie di filosofi e di guerrieri? Quale
altra parte del mondo à saputo a un tempo medesimo e con l'ufficio
degli uomini stessi trovar le scienze e fondar le repubbliche;
eccellere nell'arte della poesia e della musica, come nell'arte del
difendersi e del battagliare? A chi non entrerà in cuore una giusta
e durevole ammirazione, considerando quell'alternare continuo delle
ginnastiche e delle meditazioni, quel passare di frequente dalle
accademie al campo, dalla investigazione profonda delle fisiche e delle
matematiche all'apprendimento disagiato e severo della milizia, e dalla
quiete e solitudine contemplativa al maneggio e all'uso delle faccende
politiche? Sono d'ogni cosa i padri nostri stati trovatori e maestri,
nè mai ci bisogna di trarre altronde gli esempj e gl'insegnamenti. Nè
dicasi che tutto ciò è antichissimo, e troppo remoto e diverso dalle
condizioni moderne. Conciossiachè, a rispetto della natura, noi siamo
sempre i medesimi, e nulla à cangiato sostanzialmente in Italia, salvo
che la tempra degli animi; a ricomporre la quale ci basterà oggimai
il fermo e saldo volere. Nulla nell'ordine delle cose mondane è più
resistente e meno mutabile che i germi primitivi e le forme ingenite
delle specie; e da voi non s'ignora per che serie innumerabile d'anni,
tra quali forze nemiche e pertubatrici, si serbano integre e incorrotte
le minute semenze di mille gracili pianticelle: or quanto più forti
riescono, quanto più perdurevoli i germi primitivi ed originali delle
umane famiglie! Noi siamo, ripeto, e ciò ne serva d'orgoglio insieme
e di vergognoso rimprovero, noi siamo li stessi che i padri nostri;
e la invasione de' barbari altro non à pur fatto, che insinuare
piccioli rivi d'estrania vena nel regal fiume delle razze latine; e
que' rivi o sono già dileguati, o, come insegnano i fisici, servito
ànno a ravvivare la virtù e l'efficacia delle antichissime stirpi. Nè
a chiunque s'ostini di ciò, negare dobbiamo rispondere altra parola,
se non invitarlo a girare gli occhi verso le sacre sponde del Tevere.
Là veggia, là contempli la forza e generosità indomabile delle vecchie
progenie. Essendochè quella misera plebe, giaciuta in sonno, in gelo
e in torpore di servitù e d'ignoranza pel voltare di qualche secolo,
e dopo aver tollerato lo sprezzo oltraggioso non che degli strani ma
de' medesimi compatrioti, ecco si vien riscuotendo alla voce soave del
suo Pontefice, e fa l'Italia e l'Europa maravigliare de' pensamenti e
delle opere sue. Ella così stramazzata nel fango e l'ultima giudicata
fra le plebi italiane, già sorge e procede animosa, già entra innanzi
a noi tutti, e pianta in Campidoglio un Labaro nuovo promettitore di
certa vittoria e in cui, dallato al nome augustissimo dell'autore e
principiatore di nostra risurrezione, potrà, senza paura di scandalo e
con approvazione e contentamento del mondo intero civile, riscrivere le
famose e tremende parole _Senatus Populusque Romanus_.



Il seguente scritto usciva dai torchi verso il finire dell'anno 47,
e in quel mentre appunto che in Roma si congregavano i deputati ad
una Consulta in cui ponevano le città dell'Italia media speranze più
che grandi. Desiderò l'Autore che il Municipio del suo paese natale
porgesse l'esempio di addirizzare al proprio deputato parole utili e
pubblicamente espresse, affine che da pertutto l'opinion generale dei
popoli avesse comodità di farsi sentire e valere. Al Municipio gradì
molto il pensiere, e l'Autore concittadino ebbe carico di porlo in
atto. Ogni cosa è qui assestata alle circostanze, e parecchi concetti
nuovi si meschiano ad altri comuni ed elementari di scienza politica.



IL MUNICIPIO DI PESARO

AL SUO DEPUTATO APPRESSO IL PONTEFICE.

                              ALLOCUZIONE.


I.

Noi crediamo debito nostro e utilità e profitto di questi popoli
Metaurensi l'aprire a Voi pubblicamente, o illustre signore, i nostri
pensieri circa que' negozj gravissimi, a trattare i quali siete
chiamato in Roma dal glorioso Pontefice. E del manifestarvi la mente
che abbiamo e i desiderj e le speranze che vi accompagnano, ci sembra
tanto maggiore la opportunità e la convenienza, quanto che noi non
siamo per via diretta e per suffragio proprio e immediato i committenti
vostri; tuttochè a noi sia gran cagione di stimarvi altamente e di
confidarci nel vostro zelo e sapere la scelta che à fatto di voi il
sovrano. Questi, nell'ultimo suo Motuproprio delli 15 ottobre, col
quale à recato gioja sì viva nell'animo de' suoi popoli e in cui
definisce gl'incarichi e le pertinenze dei deputati, rassegna fra esse
l'ufficio _di determinare le regole che la Consulta di Stato debbe
tenere in trattare, deliberare e sindacare gli affari_. Noi, dunque,
v'invitiamo per prima cosa a compiere quell'ufficio in maniera, che
la manifestazione della mente dei deputati e qualunque altro esercizio
di lor facoltà e prerogative sia franco e spontaneo quanto bisogna, ed
abbia per testimonio e per giudice quotidiano e debitamente istruito la
pubblica opinione.

E voi potete ciò facendo chiarire altresì ed estendere alcune
disposizioni di esso Motuproprio, le quali noi desidereremmo e più
larghe e meglio determinate, affinchè le pubbliche guarentigie che vi
si attengono, riescano da nessun lato apparenti e vacillanti, ma reali,
ferme ed irrevocabili in ogni parte.


II.

Il Santo Padre, nella circolare delli 19 aprile mandata dal cardinal
Gizzi a tutti i governi delle provincie, raccomandava più specialmente
alle cure e meditazioni dei fedeli deputati l'ordinamento nuovo de'
Municipj. E di vero, con gran senno il principe nella riformazione
dello Stato prende le mosse da quella che ragguarda i Comuni;
imperocchè, come puossi dare assetto, figura e vita all'intero corpo,
qualora non sieno per innanzi ben composte e figurate le membra? Noi
vi preghiamo, pertanto, se pure di ciò è mestieri pregarvi, che vi
occupiate con tutto l'animo nella costituzione nuova dei Municipj;
e intendiamo che ciò si faccia da voi con mente affatto imparziale
e con estesi e generali concetti, badando sempre alle condizioni ed
all'esigenze comuni, e non alle minute particolarità e pretensioni
di tal luogo o di tale altro: imperocchè noi non vogliamo che il bene
della città e provincia nostra sia per privilegio e per eccezione, e
meno vogliamo che torni a scapito di qualunque altra parte dell'intero
corpo della patria; ma sì domandiamo che ogni riforma ed innovazione
nostra particolare avvenga per effetto di leggi comuni, e si accordi
perfettamente con l'universale prosperità. Verso tre punti principali
debbe addirizzarsi la perspicacia vostra nella materia dei Municipj.

Il primo si è, che a rispetto dello Stato risiede nel Municipio una
libertà naturale di azione circa il formare e usare di tutti i suoi
beni, appunto come nell'individuo a rispetto della città. Di quindi
procede che le franchigie non gli son date dalla legge, ma sì dalla
legge sonogli assegnate le giuste limitazioni di quelle; e però, in
generale, la legge non dee (come sotto i governi dispotici) venire
numerando le speciali e singolari facoltà del Comune, e prescrivergli
quello che può, ma quello che non può e non dee.

Da cotal massima procede il secondo punto, che la legge cioè sappia
e voglia costituire il Comune con quanta maggior larghezza si può;
e intendiamo dire, che la spontanea vita di esso si svolga e cresca
e si eserciti sciolta dalle restrizioni e pragmatiche che or sotto
nome di tutela, or sotto quello di sopraveggenza e di buon governo,
impacciano dannosamente e oltre ad ogni necessità il corso naturale dei
pensamenti e delle azioni commutative. E qui ci piace di ricordarvi,
che la prima e fondamental cagione della prosperità sociale, durevole
e non artefatta, si è la spontaneità, siccome quella che s'ingenera
immediatamente dalla nobile natura umana, la essenza di cui è libera
e _incoercibile_: di tal guisa, l'avviamento dell'uomo al vero ed al
bene non dee venir procurato dalle prescrizioni della legge troppo
speciali e forzose, ma dall'impulso generale dei metodi educativi,
dall'incremento e diffusion del sapere, e da tutte quelle cagioni
che per semplice virtù ed efficienza morale persuadono e ottengono i
miglioramenti e perfezionamenti civili.

Per la ragione medesima, noi non vi raccomandiamo di estendere e
moltiplicare le pertinenze dei magistrati municipali; stantechè ogni
cosa per natural diritto è di pertinenza loro, quante volte essi
operino a nome e per facoltà del popolo committente, e non invadano
alcun ufficio che le leggi decretarono dover competere allo Stato e a'
suoi reggitori. Molte volte accade, per lo contrario, che al governo
generale dello Stato divenga profittevole sopramodo il chiamare i
Comuni a partecipare ad alcune funzioni politiche; come, per via
d'esempio, al ministero della polizia, ovvero a quello della giustizia
con la istituzione dei pacieri e dei giudicj conciliativi, e ad altri
incarichi d'ugual peso.

La terza considerazione che accade di fare intorno ai Municipj, si è
di conoscere e misurare sin dove debba la volontà di quelli piegarsi
e cedere alla volontà universale legislatrice, la quale reputa di
comandare a nome del maggior bene comune. Conciossiachè non àvvi bene
comune sì grande (toltone fuori le estreme necessità chiare e visibili
a tutti), che compensi il gran danno di violentar troppo l'arbitrio
individuale, e troppo restringere l'adoperamento e l'uso spontaneo
delle facoltà e dei beni proprj. Scoprire il giusto temperamento tra
l'arbitrio eccessivo dei Municipj e l'eccessivo ingerimento della
potenza legislatrice, imperante a nome del bene comune, non è agevole
impresa, ed è impossibile, noi crediamo, a determinarsi in universale.
Il buon senso e la pratica ammaestrano in ciò, come in altre ardue
questioni, più sicuramente e assai meglio che le ambiziose teoriche;
e però ci contenteremo di ridurvi in pensiero più d'un esempio che la
pratica moderna europea ne reca innanzi. Noi giudichiamo, pertanto, che
l'autorità legislativa in Francia degeneri parecchie volte in violenza,
a rispetto delle libertà individuali e comunitative; e per opposto,
giudichiamo che in Germania ella rimanga troppo timida in faccia de'
privilegi o personali o municipali. In Inghilterra scorgiamo (massime
in questi ultimi anni) una giusta e quasi perfetta proporzione fra
tali due estremi: e tanto più i concetti nostri in questa materia si
accostano all'Inghilterra e divertono dalle consuetudini della Francia,
quanto il comprimere di soverchio in Italia la individuale forza e
spontaneità, si è togliere a lei la più gagliarda cagione e la più
intrinseca di tutte quelle meraviglie e grandezze che la storia ricorda
e l'universo tuttora ammira.

Per ciò, poi, che s'appartiene alla forma costitutiva del Municipio
medesimo, desideriamo, o signore, che vi sia in mente la massima
professata nel Motuproprio di Sua Santità intorno alla fondazione
del Municipio Romano; e questa è che i titoli e i requisiti così di
elettore come di eligibile e così di magistrato come di consigliere,
scaturiscano tutti dal censo e dalla capacità; e che il censo a ciò
domandato sia tenue quanto si possa il più; e sia indizio della
capacità ogni professione il cui possedimento ed uso ricerca una
sufficiente coltura d'ingegno. Noi non vorremmo, inoltre, che il
censo venisse dalle rendite misurato, ma dalle imposte bensì e dalle
patenti, e da ogni maniera di dazj, inscrizioni e registrature;
imperocchè questi dati compariscono tutti ne' libri pubblici, laddove
le rendite ad essere bene conosciute domandano certa indagine che
à dell'_inquisitorio_, e però è sempre odiosa: che se il censo non
bene risponde all'entrate per difetti e disproporzioni gravissime
del catasto, ei bisogna emendarlo; e ad ogni modo, cotesto sconcio
è assai minore dell'altro accennato. Nè qui varrebbe citar l'esempio
dell'Inghilterra, fondato sopra costumi troppo diversi dai nostrali.
In genere, noi opiniamo che le disposizioni costitutive delle
magistrature e de' Consigli municipali esser debbano liberalissime
ed assai popolari; perchè, parlando secondo ragione, all'uso d'ogni
qualunque diritto non istà dallato altro limite certo e non valicabile,
salvo che la poca o nessuna sufficienza d'esercitarli; e perchè
questa nelle faccende comunitative riesce molto men rara che nelle
politiche, così molto minori e più rare debbono essere le esclusioni.
Non ignoriamo quello che da parecchi pubblicisti si obbietta contro le
assemblee popolari e i larghi ordinamenti elettivi: a noi non esce di
mente che la saggezza e la dottrina sempre sono di pochi; essere la
moltitudine passionata e tumultuosa; dimostrarsi dai matematici, con
certi lor modi speciosi, che la probabilità dell'ottima deliberazione
è in ragione inversa del numero dei deliberanti. Con tutto ciò, noi
pensiamo che l'equità e il diritto debbon passare innanzi ad ogni altra
considerazione, e che dove sta l'equità e il diritto debbe l'azione
del tempo condurre altresì la maggiore utilità pubblica: oltre a ciò,
noi pensiamo, le moltitudini essere più savie degli individui in quel
che s'attiene immediate agl'istinti e ai placiti del senso comune;
essere insofferenti e nimicissime sopra tutto dell'ingiustizia, ed
estimatrici egregie sì del valor morale degli atti e sì della bontà o
malvagità degli animi; lo spirito gretto e calcolatore del secolo farsi
tanto meno scorgere, quanto maggiormente si sale inverso il patriziato
o scendesi inverso il popol minuto; infine, nelle moltitudini scemano
l'ignoranza e le fallaci preoccupazioni col crescere della civiltà, e
questa colà cresce e propagasi più prestamente dov'è maggiore la vita
pubblica e la partecipazione di tutti ai comuni negozj. Oltrechè, il
mondo va ora per cotal via; nè si può fare il bene davvero se non per
essa, posciachè il secolo si può correggere, ma non mutare. Di tali
cose parliamo un po' più disteso, perchè è nostra mente, o signore,
che a voi piaccia, in qualunque caso d'istituzioni elettive, attenervi
sempre ai sistemi e alle pratiche meno strette e più popolari.

Vogliate del pari, che sciolto si mantenga d'ogni legame non necessario
il deliberare e l'operare del Municipio; e dappoichè al governo
è ragionevolmente serbata la facoltà d'interporre l'autorità sua
tuttavolta che il Municipio o travia dalle forme preordinate di sua
istituzione, o rompe alcuna legge od alcun decreto dello Stato, in
qualunque altro caso non fa mestieri e non giova l'assentimento de'
superiori, siccome atto giustamente presunto e che mai non difetta.
Molto meno, poi, fa d'uopo la presenza e assistenza de' supremi
ufficiali alle discussioni ed alli scrutinj comunitativi; molto meno
il richieder licenza per le ordinarie e straordinarie convocazioni de'
Consigli: e il simigliante si dica per altre suggezioni ed impacci.

Dopo le cose fino a qui ragionate, ci occorre di aggiungere poche
parole intorno ai Consigli provinciali. Imperocchè gli è manifesto che
molte delle franchigie e delle costituzioni qui avanti domandate pei
Municipj, convengono più che bene ai Consigli delle provincie. Del pari
divien manifesto, che noi vivamente desideriamo che il modo con cui
verranno chiamati i rappresentanti dei Municipj al consesso provinciale
sia il più largo possibile, ed ogni Circondario almeno abbiavi il suo
deputato: la qual cosa diviene oggi tanto più necessaria, quanto, a
tenore dell'ultimo Motuproprio, i Consigli provinciali s'ingeriscono
direttamente nella elezione dei deputati alla Consulta di Stato. E
però, nel determinare l'ordinamento finale di essa Consulta (secondo
l'arbitrio che ve ne lascia il sovrano), voi considererete per bene
tutte le intrinseche attinenze che legar debbono i Municipj ai Consigli
provinciali, e questi alla generale deputazione.

Possono ancora con vantaggio e con equità i Consigli provinciali
venire investiti del diritto di esamina e di revisione per tutte quelle
risoluzioni comunitative le quali inchiudessero gravi e straordinarie
spese, o decretassero istituzioni nuove di gran momento o l'abolizione
di antiche; il qual diritto dovrebbesi per innanzi determinare con
quanta maggiore esattezza e lucentezza è desiderabile e conseguibile
in tali materie. Nella vita sociale umana appajono quotidianamente
due atti contrarj e insieme correlativi, nel giusto combinamento dei
quali giace la precipua cagione d'ogni prosperità: il primo atto è
innovare, il secondo è conservare; e comechè ambedue facciano d'uopo
ugualmente al bene comune, ciò nondimeno la varietà degli umori e delle
condizioni produce che le tali persone sieno inclinate all'innovare
e le tali altre al conservare. Similmente occorre al bene comune,
che nelle faccende pubbliche gli uomini esercitino con opportunità
e con giusta misura così l'ardore dell'animo, come la riflessione; e
così l'impeto e l'energia del volere, come la lentezza e maturità del
giudicio. Ma egli avviene del pari, che la differenza dell'indole,
delle professioni e d'altri accidenti, facciano l'una specie o classe
di uomini più riflessiva e fredda di quello che operosa e infiammata;
ed un'altra, tutto il contrario. Ei si conviene, per conseguenza
di tutto ciò, stabilire che in ogni ordinamento sociale e politico
deesi far luogo agli innovatori e conservatori, agli ardenti ed ai
giudiziosi, per via di speciali e separate congregazioni. Ma perchè
poi l'umana repubblica è vita e operosità, e suo destino è procedere
innanzi nel nuovo, però nell'autorità conservatrice non mai (per
quello che noi ne sentiamo) debbe dimorare una illimitata potestà e
un divieto assoluto e definitivo, ma bensì una facoltà di rivedere,
sospendere e ritardare; di guisa che la riflessione spassionata e la
cognizione piena e corretta possano entrare in tutte le menti, e che
le ragionevoli rimostranze delle minorità (come suolsi chiamarle) non
sieno dalla prepotenza del numero soffocate. In questi termini, e non
altrimenti, noi vorremmo attribuire ai Consigli provinciali un diritto
di tutela e di moderanza; chè di là da quei termini potrebbero essi
Consigli addivenire tanto più soverchianti e oppressivi, quanto la lor
condizione ed origine non li scioglie abbastanza dalle passioni, dagli
errori e dagli interessi personali e locali.


III.

Ma le franchigie comunitative picciol frutto recherebbero, qualora non
fosse al cittadino guarentita pienamente e durevolmente la libertà e
sicurezza delle azioni private. A voi dunque apparterrà, o signore,
ajutare il principe nella difficile revisione dei codici, senza la
quale verrebbero quasi meno tutti gli altri miglioramenti e progressi.

Ne' paesi dove à potuto aver luogo il libero svolgimento della
ragion pratica del diritto, e in Francia singolarmente, sempre, nelle
relazioni personali e nell'uso e trasmissione delle proprietà, si è
veduto crescere e dilatare quello spirito di equità e di uguaglianza e
quelle massime di gius naturale, che fin dal tempo dei Cesari penetrava
e animava tutte le parti della legislazione romana, e che piegò il
fiero diritto Quiritario alle esigenze ineluttabili della giustizia e
ai principj assoluti del vero e del bene. In tal materia, pertanto,
men paurosa ai Governi, la saggezza vostra si eserciterà innanzi
tratto nello scegliere ciò che di più equo e insieme di più luminoso e
semplice è stato deposto nei codici meditati dalla sapienza moderna.

Quei filosofi i quali pensano che la legislazione giuridica delle
nazioni sia l'opera e il frutto lentissimo dei secoli e delle
consuetudini, e vogliono però che a quell'opera ed a quel frutto
s'abbia una riverenza e un rispetto molto prossimo al culto e
all'adorazione, non troverebbero modo alcuno di applicare le lor
dottrine all'Italia, dove le guerre, le invasioni e le rivolture ànno
interrotto e disfatto più d'una volta il tacito lavoro del tempo e
delle costumanze, e ànno quindi spogliata la legge del carattere sacro
e solenne che suole imprimerle l'antichità, e pel quale serbasi ella
più che mai veneranda e inviolabile. Noi, dunque, cadremmo in troppo
grave e sciocco abbaglio, se a fine di mantenere o di ristaurare pochi
avanzi sconnessi ed informi delle antiche legislazioni, rischiassimo
di smarrire i veri e sostanziali vantaggi che mena seco la facoltà
preziosa in che siamo di poter costruire con disegno nuovo, razionale
e abilmente coordinato, la legislazione nostra universale e giuridica.
Noi vi animiamo quindi a imitare anche in ciò la magnanimità del
principe, il quale si fa, dove occorre, non pure riformatore, ma
creatore. Oltrechè, la tradizione più antica e comune di tutti i popoli
italici, quella è del diritto romano, e antica è l'arte appo noi di
commentarlo e correggerlo secondo l'ordine di ragione. Così il nuovo
per noi sarà forse antichissimo, se non nella lettera, nello spirito
certamente.

Ma gli svolgimenti, le correzioni e le applicazioni del diritto sono
infinite, e non vuolsi credere che la scienza moderna le abbia presso
di qualunque culta nazione esaurite. Gran materia da meditare vedrete
raccolta sotto due rubriche quasi nuove ed importantissime, e sono il
diritto amministrativo e il diritto economico. Noi vi raccomandiamo in
risguardo del primo, di ben discoprire e determinare tutte le relazioni
che il legano con la patria legislazione, e con gli ordini nostri
sociali e politici. Distinguendo ciò accuratamente, e cogliendo la
ragione intrinseca di tutte le pratiche, l'amministrazione cesserà di
comparire arbitraria, incoerente e volubile, e accosterassi viemeglio
ai principj dell'equità, e all'esatto e continuo criterio del comune
interesse.

A rispetto poi di quello che noi domandiamo diritto economico, a
voi fa d'uopo indagare con diligenza e con perspicacia la varietà
e implicazione tragrande recata in tutti i negozj privati e publici
dallo incremento straordinario che in quest'ultimo mezzo secolo ànno
acquistato le ricchezze, le industrie e i commerci delle nazioni:
certo è che in verun paese, eziandio de' più dotti e operosi, sonosi
ancora definite a dovere le attinenze nuove, i raddrizzamenti e le
ampliazioni che lo stato presente economico vien recando di giorno in
giorno alle prescrizioni dei codici e a tutta insieme la legislazione
civile. Il codice commerciale avrà molta parte de' vostri pensieri; e
come quello ch'è più popolare degli altri, procaccerete che vada lodato
singolarmente di brevità, di semplicità e di chiarezza.

Il codice penale è fra gl'istituti umani il più necessario, perchè
ripara ai difetti e alla insufficienza così delle leggi e degli
ordini educativi, come di qualunque altra virtù governante e provida
che impedir vuole il delitto, piuttostochè rintracciarlo e punirlo.
In tal subbietto vi è noto, o signore, che a noi Italiani non fa
bisogno uscire di nostra patria, affine di rinvenire gli esempj e i
documenti migliori. A confessione dei dotti d'Europa, il codice penale
napolitano, considerato nel suo beninsieme e nella ragion generale,
risponde meno imperfettamente di tutti gli altri all'idea filosofica
del diritto punitivo. Se non che, le prigioni e le discipline nuove
penitenziali che or si vanno statuendo, e il concetto nobilissimo e
santo, professato ognor più dai legislatori moderni, d'imprimere in
ogni forma di pena il carattere espiatorio insieme e rigeneratore,
ricerca di necessità, che sì cotesto carattere e sì quegli ordini nuovi
penitenziali vengano intimamente legati e proporzionati al sistema
intero del diritto punitivo; il che in niun paese ancora d'Europa s'è
proposto ed effettuato secondo che i savj desiderano.

Ma lasciando ciò stare, noi reputiamo che a voi sia manifesto per sè
medesimo, che vive nel nostro animo la speranza fermissima di ottenere
dalla magnanimità del principe tutte quelle discipline e quegl'istituti
giuridici, intorno al pregio e dalla proficuità de' quali più non
si muove dubbio dagli statisti di vaglia; come, per via d'esempio,
l'aprire un tribunale di ultimo appello, o, come il domandano, _di
cassazione_; introdurre nei giudicj di reità i pubblici dibattimenti;
abolire i tribunali speciali sotto qualunque nome e colore; stringere
la competenza delle corti marziali alla sola milizia, e in materia sola
di militare disciplina.

Quanto poi al condurre i giudizj coll'intervento dei giurati, come
che noi vi riconosciamo una delle migliori e quotidiane malleverie
dell'umana giustizia e della libertà individuale e politica, ciò
nondimeno sentiamo che à luogo per esso più specialmente la legge della
opportunità; e l'ordine de' giurati non dice bene veramente se non
laddove ogni funzione della vita sociale e politica è partecipata dal
popolo, e ogni cosa s'adempie sotto il magistero della libertà e della
pubblicità.

Ma poco o nessun valore avrebbero i codici, poco o nessuno tutte le
leggi difenditrici della libertà personale e d'ogni uso legittimo del
proprio avere, quando non si volessero tramutare e rifare affatto gli
ordinamenti di polizia, il cui nome suona ormai così malgradito e così
pauroso, che si penerà molto a ritornarlo in pregio e osservanza. E
ciò verrà conseguito con questi principali spedienti: che, cioè, la
polizia cessi da quindi innanzi di farsi istrumento violentissimo e
odioso della ragion di Stato; ch'ella venga unicamente in soccorso de'
magistrati per vie legali e palesi; scelga mezzi concordi al tutto con
la moralità e dignità umana, ed usili in modo strettamente subordinato
ai ministeri che serve ed ajuta; non abbia tribunali proprj, non
officio e giurisdizione per sè e da sè, e le venga determinato dai
codici la specie e la guisa d'ogni portamento e d'ogni atto. Bello e
vivo esempio di tutto ciò porge l'Inghilterra, e da lei in tale materia
piglieremo utilissimi ammaestramenti.


IV.

Finito l'esame dei diritti individuali, a voi toccherà trattare e
discutere le leggi e le istituzioni che determinano e prescrivono il
debito dei cittadini inverso lo Stato, e gli uffici eminenti di questo
circa la comune prosperità. L'oggetto primo che si affaccia al pensiero
sono le imposte, cioè il contribuire che fa ognuno secondo sue forze ad
empiere e ristorare il pubblico erario.

Intorno alle imposte e alle altre sorgenti della ricchezza del
Tesoro, sono sei cose da meditare, e ciascuna di gran momento. La
prima, che i dazj e le tasse d'ogni maniera non eccedano le giuste
esigenze e necessità dello Stato; perché, quantunque non torni
vero (come piacque a moltissimi economisti di dire) che le imposte
sieno danaro infruttifero, o sottratto almeno alla più fruttifera
industria e solerzia privata, pur nondimanco è da pensare che, per
diritto naturale, l'uomo pretende di adoperare e fruire ad arbitrio
suo la propria pecunia, e ne cede allo Stato quella sola porzione
che divien necessaria alla generale comodezza e tutela. Seconda
condizione d'un buon assetto d'imposte, si è ch'elle sieno equamente
spartite, mantenendo la miglior proporzione possibile con l'avere
dei contributori. Perciò voi escluderete, o signore, tutte le tasse
personali, e parecchie di quelle denominate indirette, e che sono
di qualità da gravare il povero con isproporzionata misura, e senza
altronde fornirgli proporzionato compenso. Importa similmente all'equa
distribuzione dei dazj il riordinamento e raddrizzamento del catasto;
cosa da lunghissimo tempo desiderata. Terza condizione si è, che il
Tesoro non s'impingui giammai di denari ritratti per vie non buone
e alla pubblica moralità perniciose; siccome avviene pel giuoco
funesto del lotto, per l'enormità veramente importabile delle tasse
giudiciarie, per le leggi di confiscazione, e in gran parte altresì
per l'imposizione delle multe, essendo che il ricco di quelle non
sente disagio e il povero rimane oppresso. Illecite sono similmente
di lor natura le tasse e gabelle che rompono o scemano notabilmente
lo spaccio, il trasporto e la permutazione dei libri, e di tutt'altro
che giovi l'incremento dello scibile e la comunicazione del sapere;
illecite le tasse che inceppano e difficultano la manifestazione e
pubblicazione del pensiere. Quarta condizione si è, che le imposte
non cadano mai sui primi elementi generatori della ricchezza e del
commercio, e sugli strumenti primi dell'arti più necessarie e proficue:
i quali sconci avvengono (a citar qualche esempio) laddove, per le
tariffe smodate e per effetto di appalti esclusivi, incarar si fanno
gli utensili contadineschi, e dove con imposizioni e diritti eccedenti
si scema nei porti la frequenza delle navi e dei carichi. Quinta
condizione si è, che le materie le quali servono in diretto modo
al sostentamento del popolo, vengano tassate o nulla o pochissimo.
Chè quantunque gli economisti sembrino voler provare, il prezzo dei
salarj proporzionarsi altresì col buon mercato o il caro del vitto,
ciò non ostante gli è da notare che non tutti vivono di salarj, nè le
braccia sempre riescono più numerose della ricerca ed uso che se ne fa.
Oltrechè, nel caso qui divisato, scemando i salarj, scemano le spese di
lavorazione: quindi viene il miglior mercato delle manifatture, quindi
l'operajo provede con poca moneta a molti bisogni. Ad ogni modo, noi
dobbiamo continuamente avere in proposito di sminuire per via diretta
e immediata le privazioni e gli stenti della plebe: questo ci comanda
la carità e la saggezza civile: nè dobbiamo badare se altri accidenti
e viluppi d'interessi e di negozj possono menomare e combattere il
buon effetto da noi voluto. A voi dunque, o signore, starà in animo di
considerare per bene tali specie di dazj, e quelli segnatamente sul
sale e sul macinato, che molto affliggono il popolo nostro minuto. I
compensi, poi, alle rendite diminuite sono da trovarsi tassando invece
le robe di moda e ciò che serve al fasto ed al lusso, e decretando,
laddove occorra, l'imposta progressiva o scalata (come i vecchi nostri
dicevano); la quale, al nostro sentire, è nelle gravi emergenze più
che legittima e ragionevole, ma solo domanda opportunità e senno per
essere effettuata discretamente e con buon successo. Altro compenso
daranno le male spese abolite e le superflue risecate; ed altro
l'aumentato consumo, che sempre tien dietro allo sbassare delle tasse.
Rinfranco altresì dell'Erario saranno i molti capitali immobili ed
infruttiferi che possiede lo Stato, fatti (come dicono) circolanti e
fruttiferi mediante le pratiche nuove economiche, e l'arte d'ampliare
e fermare il credito pubblico. Sesta ed ultima cosa da ponderare nella
materia dei dazj, a noi sembra che sia la lor riscossione medesima,
la quale conviene che si operi senz'ombra di vessazione, con metodi
semplici e speditivi, e con ogni possibile risparmio di spese. Gravi
ed inveterati abusi avrete su tal proposito da censurare e abolire;
dappoichè sembra, a giudicare dalle partite di alcune statistiche, che
più del quinto di ciò che si manda al Tesoro vada sperperato e perduto
in ispese di riscossione. In tal subbietto entra pure la considerazione
dell'appaltare i dazj e le rendite, sul che c'è assaissimo da riformare
e correggere; e v'è altrettanto, e ancor più, in quelle regole e usanze
ministrative che da lunghissimo tempo non sanno impedire la frode e il
peculato. Noi vi raccomandiamo, da ultimo, di fare accorto il governo
di quanto sia pernicioso l'abito da esso contratto di rinnovare e
moltiplicare i prestiti, e quanto riesca illusorio il bene che stima di
ricavare dalle casse d'estinzione.

L'altra parte più che importante delle dottrine economiche a rispetto
del Tesoro, consiste ad aprir nello Stato fonti larghe e più sempre
copiose di produzione e ricchezza; chè quanto maggiormente abbonderanno
amendue, tanto se ne avvantaggerà il Tesoro senza giunta di aggravio
per li privati. A tale oggetto, pertanto, rivolgerete le vostre cure
e le forze dell'intelletto. Voi ben sapete che primo mezzo e prima
efficienza per arricchire lo Stato è la rimozione d'ogni maniera
d'ostacoli. E qui cade, in ordine alle proprietà, la questione del loro
spedito e facile affrancamento e trapasso, e in ordine alle industrie
e commerci la questione delle tariffe. Per compiere lo affrancamento
dei beni, a noi non pare audace nè intempestivo di dichiararvi, che
è in nostro desiderio l'abolizione ed inibizione dei fedecommessi e
dei maggioraschi, così temporarj come perpetui, e così universali come
parziali; perchè qui non dubitiamo di offendere la individuale libertà,
essendo ch'ella dee trovar sempre un limite saldo e non valicabile
nella naturale giustizia, e nelle leggi eterne dell'amore e della
parentevole imparzialità e uguaglianza. L'affrancamento dei beni vuol
essere unito alla malleveria delle ipoteche, la quale crescendo il
credito e la sicurezza, conduce eziandio la frequenza dei contratti e
spegne le usure. Il sistema, adunque, delle ipoteche debbe al possibile
conciliare tali due opposti della massima guarentigia, e del massimo e
agevole permutamento dei beni. Ognun vede che ciò rende difficile assai
la disposizione generale e le riforme parziali a introdurre in esso
sistema.

In risguardo delle tariffe, a noi è avviso che l'opinione dei così
detti protettoristi, considerata che sia in massima e nella università
dei casi, mostrasi falsa e divien perniciosa. Ma non pertanto vogliamo
escludere affatto qualche uso transitorio ed accidentale che possa
farsi delle tariffe. Solo intendiamo che in ogni questione in cui si
disputi e si controverta la libertà di commercio, siavi caldamente
raccomandato di seguir sempre le dottrine e la pratica de' padri
nostri, e perciò favorire gli slegamenti e le franchigie d'ogni
ragione: dalle quali essendosi discostate nei tempi più bassi le
nostre grandi città marittime, e segnatamente Venezia, il commercio
e l'industria italiana n'ebbe danno gravissimo e inemendabile. La
seconda scaturigine della ricchezza comune, anzi la maggiore e che
tutte le altre comprende, sì è il vivo eccitamento delle facoltà umane
e della umana operosità. Il governo provvidamente l'ajuta ed accresce
non col solo toglier da mezzo gli ostacoli e fare scorrere in ogni
cosa gli spiriti potenti di libertà, ma promovendo le associazioni e
consorterie, scavando canali, moltiplicando le strade e ogni altro
mezzo di accostamento e comunicazione, soccorrendo e mallevando il
credito pubblico, proteggendo con l'armi e l'autorità in ogni parte
del mondo la propria bandiera. Noi non siamo di quelli che pensano
il governo dover tutto fare e tutto provvedere, ma nemmanco siamo
di quelli che il vogliono spettatore inerte dei traffichi e delle
industrie private: bensì giudichiamo che l'ingerimento e l'ufficio d'un
saggio governo nell'universale ricchezza debba mostrarsi ed operare
assai più discosto e per indiretto che prossimamente e direttamente,
e preparar debba le remote e profonde cagioni piuttosto che gli
ultimi effetti; nè mai turbi quel naturale equilibrio d'interessi e
di profitti che il libero moto delle faccende umane produce; ed anzi
procacci e studi che gli effetti medesimi delle sue provvidenze pajano
al tutto spontanei e indipendenti da lui, e perciò moltiplichino
e durino. Un mezzo, però, immediato ed efficacissimo di aumentar
le ricchezze è in potestà e in arbitrio d'ogni governo, e consiste
nell'iniziare e diffondere la istruzion popolare, e quella segnatamente
che à maggiore attinenza con le arti e il commercio; e tale istruzione
entra debitamente nel novero delle cagioni efficienti e primarie che
noi veniam registrando della ricchezza e industria comune. Scendendo
voi col pensiero ad applicare siffatti principj alla nostra patria,
scoprirete, o signore, se male o bene si apponga al vero quello che
noi crediamo con gran fermezza; dovere, cioè, l'Italia moderna imitare
e gareggiar con l'antica eziandio in questo di cavare e dedurre ogni
sua ricchezza primamente dalle arti agrarie, e secondamente da quelle
industrie che meglio all'agricoltura si legano, in ultimo luogo dalla
navigazione. Egli occorre persuadersi (e vi preghiamo ad averlo molto
in memoria) che ai popoli meramente coltivatori fallisce di grado in
grado la facoltà di competere con le nazioni manifattrici, e sostener
con esse la utilità dei baratti e dei cambj. Per fermo, nell'arti
agrarie i miglioramenti e i trovati non vestono quella varietà e
moltiplicità infinita e maravigliosa di che son capaci le altre
industrie: oltre a ciò, l'agricoltura soddisfacendo alle primitive e
comuni esigenze del vivere, le quali di lor natura sono semplici ed
immutabili, cede pure da questo lato ai lavorii ed agli opificj d'ogni
maniera, da cui si promovono e soddisfano mille desiderj novissimi
e svariatissimi, e per cui si producono all'infinito gli agi, i
ricreamenti e le morbidezze. Ciò scorgendo i nostri progenitori,
all'arte agronomica, in cui furono solenni maestri, congiunsero la
industria dei lanificj e dei setificj, siccome quella che riceve dalla
coltivazione i suoi materiali, e con lei si annoda e collega.

A noi non vien fatto di conchiudere questi cenni brevissimi intorno
alle imposte ed alla ricchezza pubblica, senza mover parola speciale
delle strade ferrate, caldo e antico desiderio di queste popolazioni.
Insistete, o signore, per la effettuazione la più pronta ed estesa di
quei veicoli meravigliosi; mostrate che se dovunque apportano utilità,
in Italia l'apporterebbero centuplicata, raccostando paesi e genti che
sembran disgiunte e spartite da mari e deserti. Mostrate che quelle
strade non tanto sono da riguardare siccome effetto, ma eziandio, e
molto di più, come cagione iniziale di prosperità pubblica e di rapido
incivilimento. Mostrate, in fine, che lo spendio il qual sosterrebbe
il governo per ciò, sarebbegli in grandissima parte risarcito e
ricompensato dal certo e sollecito aumento d'ogni maniera di rendite,
pel fatto della ricchezza generale accresciuta.


V.

Forza è confessare che la scienza e la pratica insieme conoscono
molto meglio le guise di produr la ricchezza, di quello che il mezzo
e l'arte di equamente distribuirla. Noi vi preghiamo, o signore, con
viva istanza, di condurre spesso le vostre cogitazioni sullo stato
degli indigenti; e, in generale, su tutto ciò che tiene riferimento
col buono o mal essere della plebe, che è la parte maggiore e più
sfortunata dell'umana famiglia. V'à paesi in cui i lavori pubblici,
la polizia, la marineria, la casa del principe ànno sembrato oggetti
di gran pondo e sì vasti e implicati, da domandare la istituzione di
uno special ministero. Ma in niun luogo peranche (a quello che noi
sappiamo) è caduto in animo di commettere ad un supremo ufficiale
lo studio e il carico peculiare della tutela ed educazione del popol
minuto. A noi sarebbe caro oltremodo che questa gloria d'innovazione e
giustizia toccasse all'immortale nostro pontefice.[7] Ma come ciò sia,
noi desideriamo forte che del tutelare ed educare le classi inferiori
stia in voi continuo il pensiero e la cura, imperocchè questo è
domandato con pari istanza dalla civile carità e dalla salute d'Italia.
Nessuna gran cosa si opera al mondo senza l'animo e le braccia del
popolo, e dal popolo solo riceverà l'Italia la sua redenzione ferma e
finale. Ei si conviene pertanto, rimirando tal subbietto eziandio dal
lato degli interessi politici, che le moltitudini veggano apertamente
e si persuadano, la nuova forma dello Stato e le nuove miglioranze
tornare a certo e grande utile loro. Pur troppo, non ci è nascosto che
alla povertà e indigenza delle infime classi le leggi e gl'istituti
civili insino a qui praticati non valgono a recar rimedio sollecito,
sostanziale e durevole; e d'altra parte, sappiamo che nelle teoriche
nuove dei socialisti è poco più altro di bene dal coraggio e dal buon
desiderio in fuori: ciò non ostante, debbesi avere per fermo e per
dimostrato, che la beneficenza pubblica esercitata con zelo prudente e
sagace arreca mille conforti ed alleviamenti alle sventure del popolo,
e non v'è termine fisso ed irremovibile a questo parziale e gradual
scemamento dei mali dell'infima plebe. Ciò che spetta peculiarmente
alle leggi e al governo in tale materia, è il porre in concordia
e il condurre a certa unità d'azione e di mezzi tutte le disparate
e disgregate opere e istituzioni di carità e beneficenza; i quali
istituti ed atti bene coordinati e connessi moltiplicano e variano
senza fine l'efficacia loro, e disgregati invece e sconnessi perdono
non rade volte quasichè per intero il frutto prezioso dello zelo eroico
che gli à promossi e adempiuti.

Voi porrete altresì gran diligenza e premura a studiare il concetto
generoso e caritativo del principe di voler fondare case di
educazione, e pubblici lavorii e officine pel popolo inferiore; ma
pigliamo arbitrio di avvertirvi, che l'alto proposito è oltre modo
più malagevole ad effettuarsi, di quello che abbia paruto a taluni
chiamati ad ajutarlo col loro consiglio: e ciò diciamo tenendo l'occhio
sul rapporto testè pubblicato da essi, e indiritto all'eminentissimo
segretario di Stato cardinale Ferretti.


VI.

A tutto il fin qui discorso intorno alla comune prosperità, convien
dare il primo e incrollabile fondamento, il primo mezzo e la prima
efficienza; e ciò consiste nell'istruzione. Principio d'ogni cosa
sono le idee, e queste non iscaturiscono belle, luminose e operabili,
se non dalla scienza. La istruzione, quindi, la più sostanziosa e
moltiplice debbe farsi oggetto perpetuo del vostro zelo di deputato.
Nè perchè il Motuproprio di Sua Santità, col quale assegna a voi ed ai
vostri colleghi le pertinenze e gli ufficj, tace al tutto su questo
particolare gravissimo degli studj, voi intenderete giammai che il
principe voglia sottrarli alla vostra investigazione, che sarebbe un
togliervi il primo e più efficace strumento d'ogni riforma e d'ogni
progresso. Ed anzi, gli è tanto più naturale e credibile che la mente
savissima del Pontefice voglia udire intorno di ciò le opinioni de'
suoi consultori, in quanto egli sa e conosce che i popoli pontificj
sono rimasti da tempo lunghissimo esclusi dalla pratica del governare;
e a rispetto della teorica, è stata loro quasi abbarrata ogni via per
inoltrarsi nella cognizione non meno della filosofia civile che di ogni
altra scienza. Noi vi preghiamo, adunque, d'insistere su tal proposito
con animo franco e deliberato, e di condurre le vostre cure e domande a
qualche effetto notabile.

V'à in parecchi l'errore di credere che, per ristorare gli studj e il
sapere, possa venir sufficiente l'aprire di molte cattedre nuove, e
chiamarvi buoni maestri e scrittori. Ma la impresa è in fatto assai
più avviluppata e difficile, e ricerca un vasto e completivo sistema
di scuole, di accademie, di discipline, in virtù del quale compongasi
di mano in mano intorno alle menti de' giovani una specie (a così
domandarla) d'atmosfera e d'ambiente, per entro il quale vivendo esse,
l'erudizione e la scienza le penetrino da ogni lato, e a poco a poco le
nudriscano e invigoriscano, come piante gentili e tenere che da tutti
i pori e in tutto l'abito loro esteriore bevono l'aria e la luce. Però
voi curerete, o signore, così l'educazione elementarissima ed iniziale,
come la più alta e peregrina; e voi farete che il commercio dei libri,
le adunanze de' letterati, le biblioteche, i laboratorj, i circoli,
le disputazioni, i viaggi e tutti gli altri mezzi privati e pubblici
onde s'accresce e agevola il cambio delle cognizioni, sia per ogni
guisa promosso e per ogni guisa ajutato. Intorno poi alle accademie, ci
piace di farvi avvisato che noi non siamo di quelli che le deridono,
ma sì invece riconosciamo nel numero loro tragrande in ogni parte
d'Italia una prova patente della vecchia e oltremodo sparsa e diffusa
civiltà nostra; onde, quanto è bene di ristorarle, e correggendole
e tramutandole condurre l'opera loro ad utili fini, altrettanto
ci par biasimevole il lasciarle cadere in disuso, e sorridere con
compiacimento e con beffa alla loro ruina.

A voi è notissimo che le scuole iniziali o primarie fruttano assai
poco di bene, ed anzi torna impossibile vederle propagarsi e fiorire,
semprechè manchino le scuole magistrali, o, come le domandano oggi,
normali; e similmente i robusti e virili studj delle università
rimangono in gran parte infecondi, qualora gli studj mezzani e
preparatori de' licei e de' collegi non sieno condotti a sufficiente
perfezione, e non bene si proporzionino col più alto insegnamento.

A rispetto poi delle università, tre cose principali desideriamo, o
signore, che vi dimorino innanzi agli occhi. La prima, che se pur si
vogliono nel picciolo Stato nostro parecchie università, elle vengano
almeno disposte e coordinate fra loro in guisa da recare ciascuna un
incremento speciale al comune sapere; il che produrrà da ultimo una
profittevole varietà e copia di cognizioni, e il trapassare frequente
degli studianti da una città ad un'altra, con mutuo cambio di scienza
e di ospitale cortesia. Le circostanze poi e le tradizioni de' luoghi
occasionano e determinano la peculiar condizione di studj a quelli più
confacente: e, per via di esempio, ella è naturalissima cosa che in
Roma riescano più che altrove estesi e compiti gli studj teologici, e
vi splendano le cattedre di archeologia e di lingue orientali. Ma in
quel cambio, bene sta che in Bologna risorgano a grande lume gli studj
del diritto, e ricordino con la loro bontà e perfezione che ivi lessero
un giorno Irnerio, Bartolo e Accursio. Il secondo punto di osservazione
a noi si mostra esser questo, che la forza cioè e l'anima del pubblico
insegnamento risiede sopra tutto nei metodi e nelle discipline; e i
metodi desideriamo sciolti d'ogni pedanteria, e con larga e sintetica
speculazione trovati; le discipline desideriamo vigorose, giuste,
imparziali, immutabili, e che adusino i giovani a molta fatica, al
meditare profondo, e alla ginnastica varia ed assidua di tutte le
facoltà mentali.

L'ultima cosa che vogliamo vi stia presente allo spirito, si è la
libertà dell'insegnamento; la quale facciam voto che si conceda ai
popoli nostri così estesa ed intera, quanto può conciliarsi col debito
che ànno i governi d'universale tutela, e d'invigilare per tutto e
sempre la moralità pubblica e la santità della religione. L'Inghilterra
trascende forse in questa materia dal lato della libertà, la Francia
dal lato della soggezione; in Germania e nel Belgio si scorgono
migliori temperamenti e degni d'imitazione: ma leggendo e cercando
nelle antichissime istituzioni delle università italiane, forse si
troverà che i moderni poche cose migliori ànno intorno a ciò pensato e
messo ad effetto.

Di sì gran momento sono gli studj e sì necessarj alle condizioni
attuali d'Italia, che noi non vogliamo tacervi un nostro concetto, il
quale ci sembra molto capace di accalorarvi davvantaggio a favore di
quelli. Egli è difficile agli Italiani, ricordevoli di loro grandezze
non ancor superate da alcuno, egli è difficile, diciamo, il ricuperare
tanto animo, quanto fa mestieri a rigenerar sè medesimi, tuttavolta che
non istia loro in mente la speranza generosa e il pensiere magnanimo
di non solo raggiungere le altre nazioni nel corso della civiltà,
ma in qualche parte almeno di oltrepassarle e di primeggiare: e
ciò proviene eziandio da questo, che la civiltà conseguíta in fatto
dagli altri popoli si vede e si misura quanta è, e molti difetti vi
si discoprono; ma la speranza del primeggiare inchiude una grandezza
invisibile e immensurabile, e perciò risponde assai bene a quella
eccellenza ideale e a quell'infinito di perfezione che solo riempie
ed infiamma l'ambizione immensa dello spirito umano. Ora, noi vediamo
molto remoti quei tempi in cui l'Italia ridiverrà formidabile ai popoli
con gli eserciti e con le armate, ovvero li supererà nei commerci
e nelle ricchezze; ma il primato delle scienze e dell'arti nessuno
può toglierci se noi fermamente il vorremo, dacchè la natura ci à
nell'ingegno e nell'intuizione arcana del bello sovra ogni altra gente
privilegiati: e d'altra parte, qual più invidiabile predominio e quale
più glorioso e civile di quello che sorge e si cardina nella potenza
dell'intelletto?


VII.

Ma un sì vasto e laborioso edificio di leggi e di studj, a costruire
il quale vorrete intendere con ogni ardore, avrebbe fondamento di
creta e di sabbia, quante volte non l'afforzassero da ogni banda i
due sostegni più saldi del franco e sicuro vivere, che sono la libertà
di stampa e l'armi cittadine. E poichè piacque all'anima generosa del
nostro pontefice di voler munire a sufficienza dell'una e delle altre
la incominciata rigenerazione di nostra patria, noi vi preghiamo e
sollecitiamo ad usare ogni accorgimento e ogni modo a fine che il buon
desiderio del principe non sia impedito e frodato, e possiate voi e i
colleghi vostri compire e perfezionare tali due istituzioni; di cui la
prima è la mente e la seconda è il braccio del popolo; e con l'una si
cerca la piena e spontanea cognizione del vero, con l'altra si vieta a
chiunque di contrastarne e turbarne la possibile effettuazione.

Voi vi adopererete, pertanto, ad ottenere che in ogni materia
d'interesse civile e politico, e la qual non s'attenga nè al dogma
nè a negozj di religione, sia la censura a grado a grado abolita,
e solo rimanga il reprimente delle leggi come si pratica appresso i
popoli più civili. Chè quando anche, in sulle prime, l'esercizio di
tal preziosa facoltà e franchigia non procedesse mai sempre ammodato e
prudente (riuscendo molto più arduo il bene usare d'un diritto che il
possederlo), ciò non può turbare nè sgomentare salvo che i pusillanimi
e gl'inesperti affatto della vita politica: poichè la stampa emancipata
e sciolta da ogni censura, emenda col tempo e frena necessariamente sè
stessa; avverandosi ogni dì questo, ch'ella tanto scapita nel credito
e nell'autorità, quanto falsa il vero e trasmoda; e, per lo contrario,
tanto à maggiore e durevole imperio sugli animi e sulle intelligenze,
quanto si fa temperata, circospetta e severa. Rimane che noi vi
avvertiamo di cosa sopramodo importante; e ciò è ch'eziandio la stampa
non censurata diviene timida e serva con l'apparenza di liberissima,
ognorachè gli scrittori possano venire tradotti innanzi a giudici male
preoccupati e soverchio dipendenti e suggetti al governo. A voi tocca
quindi badare con gran diligenza alla specie di tribunale e alla forma
di giudicio cui si vorranno sottoporre i giornalisti e gli scrittori
d'ogni ragione.

Quanto è poi alle armi, voi primamente dovete levar di mezzo tutti
quegli impacci e rompere quelle dimore per cui la istituzione sì bene
augurata della Civica procede (sia luogo al vero) lenta, incerta, e
in varia e disforme maniera. Voi mostrerete al glorioso Pio, come i
municipj nostri sieno tutti apparecchiati a largheggiar nelle spese,
con sacrificio ed annegazione, per l'armamento spedito e compiuto
de' cittadini; come desiderino caldamente buon numero d'ufficiali
istruttori, de' quali se lo Stato patisce difetto, vorrebbero pure che
si chiamassero ed invitassero da alcun'altra provincia italiana, e dal
Piemonte segnatamente, che n'è in copia fornito: e ciò condurrebbe
eziandio questi popoli a stringere nuova colleganza e amicizia coi
subalpini fratelli nostri. Voi mostrerete come da tutti i savj delle
provincie pontificie s'aspetti bramosamente che gli ordini disciplinari
della Guardia cittadina sieno presto compiuti, propalati e condotti
all'atto, ed escludasi da essi persino l'ombra e il sospetto della
parzialità e del privilegio, vegliando il governo con assiduità e
rigore per la esecuzione esatta e durevole delle leggi. Imperocchè,
rimossa o rallentata di un poco tal vigilazione e perseveranza, la
istituzione della Civica o non gitterà affatto radici, o potrannosi
sbarbare e recidere più che facilmente; essendochè in Francia stessa,
dove i popoli sono per natura bellicosissimi e così adatti e proclivi
alle armi e arrendevoli alla disciplina, mal si sarebbe introdotta e
corroborata la milizia cittadina, qualora non l'avesse il governo,
con lodevolissima ostinazione e severità, conservata viva, e fatta
sempre istruire ed esercitare. In fine, voi mostrerete come potendosi
rinnovellare la paura e il rischio dell'invasione, sia per noi tutti
bisogno grande di prepararci alle più salde difese con quiete e
subordinazione, ma con prontezza altresì e con energia. Per ciò è
necessario che dalla Civica stanziale, o (come in Francia la dicono)
sedentaria, si cavi la Guardia mobile; la quale, sì per effetto
della cerna che la compone, sì per la speciale disciplina che le si
appropria, è sola capace di ajutare e spalleggiare utilmente la truppa
assoldata. Ma nessuna forma di Guardia civica, nessun ordinamento di
bande, nessun artificio di tattica può reggere e prevalere contro un
nemico assai poderoso, quando non vi sia esercito, o vi sia troppo
scarso e troppo male assettato: e chi non sente tal verità, cade in
errore grave e funesto, e di cui troppo tardi dovremmo pentirci. Le
cure, adunque, del governo e della Consulta sieno pur volte eziandio
inverso le truppe di linea: ne crescano quanto si può il numero; le
forniscano di buoni ufficiali, e di numerose e valide artiglierie; le
addestrino ed esercitino ad ogni fazione, ad ogni fatica; le scaldino e
confermino tuttavia ne' nobili sentimenti di nazionalità e di onore.


VIII.

Deputato delle città Metaurensi! nell'opere e ne' consigli vostri sta
ora collocata gran parte di nostra salute, anzi gran parte della salute
d'Italia; perchè, a similitudine de' tempi antichi, l'Italia torna
maravigliata a girar lo sguardo inverso di Roma; e l'esempio che di là
muove e risplende, i volenti attrae e i non volenti trascina. Per ciò,
la preghiera ultima che vi addirizziamo, si è di considerare in ogni
proposta e in ogni deliberazione non che il bene de' popoli pontificj,
ma le relazioni e i legami altresì che aver possono quelle col bene
e il risorgimento della patria comune. In questo tempo medesimo che
vi parliamo, ci giunge nuova che la lega doganale proposta fra Roma,
Firenze e Torino, viene dai principi contraenti accettata e decretata.
Noi in tal fatto riconosciamo con giubilo il cominciamento e la caparra
d'una Confederazione italica, da cui tutti trarremo, ajutandoci Dio,
la forza e la dignità di nazione; trarremo l'alterezza, il coraggio,
gli spiriti bellicosi, il gagliardo operare, l'audace intraprendere
de' popoli grandi. A voi spetta, con la bontà e opportunità de'
consigli, di preparare a tale evento fortunato e desideratissimo
tutte le vie e tutte le agevolezze. Con questa intenzione noi vorremmo
(per pure indicarvi alcuna particolarità) che ai principi della lega
fosse proposta e raccomandata la conformità perfetta della moneta e
quella dei pesi e delle misure. Vorremmo che fosser pregati a sbassare
di comune accordo la tassa sulle lettere, e a istituire in comune
pubbliche mostre annuali di arti e manifatture, cangiando di luogo come
per li congressi scientifici si costuma, e premiando i più meritevoli
con medaglie e scritte a nome della lega. Vorremmo parimenti, che a
nome di lei una bandiera s'inalberasse su tutte le navi pertinenti ai
tre Stati e a quelli che accederanno, e la quale correndo su i mari e
spiegandosi dentro i porti annunciasse al mondo questo fatto novissimo
e quasi insperato: che, cioè, la nazione italiana esiste, e che è
in via di raccogliere e ricongiungere pacificamente tutte le membra
intorno al sacrosanto suo capo, che è Roma.

  Il 25 di novembre del 1847.



PROGRAMMA DEL GIORNALE _LA LEGA ITALIANA_

CHE PUBBLICAVASI IN GENOVA.


Dal titolo che apponiamo a questo Giornale subito vien conosciuto che
il fine peculiare a cui si studia di giungere, e per cui distinguesi
da molti altri, egli è di promuovere con mezzi legittimi, e per quanto
l'opera d'inchiostro il può fare, una Lega Italiana, che da parziale ed
economica quale al presente la vogliono, divenga generale e politica,
e le si possa attribuire il nome di santa con molto maggior ragione
ed effetto, che a quella tentata (or fa trecent'anni) contro alla
prepotenza di Carlo V. Per fermo, l'impresa forse migliore e più
elementata di bontà e di religione che valgono gli uomini ad attuare
in ordine alla politica, a noi par quella di ajutare gagliardamente
un popolo a costituirsi e durare in essere di nazione. Conciossiachè,
come in ciascuna città e provincia la comodezza del viver comune si
origina principalmente dalla varietà delle industrie, delle attitudini
e degli uffici tra i cittadini, così il bene e l'avanzamento dell'uman
genere, più che dall'altre cose, risulta dalla varietà dell'indole
e dei costumi che tra le nazioni interviene. Ondechè, ogni popolo
giunto a potere e saper vivere di vita propria e spontanea, e però
ad assumere le forme ingenite e qualitative di mente e di cuore che
sortì da natura, accresce a tutta la stirpe umana nuove specie di
facoltà operose e fruttifere, e nuove sembianze e virtù di civile
perfezionamento. Perciò, chiunque partecipa e suda a produrre e
dar compitezza a un fermo e perpetuo stato di nazione, visibilmente
obbedisce un decreto de' più solenni e più manifesti di Provvidenza;
e per contrario, chi gli si oppone, reo diventa, per così dire, di
umanità lesa e tradita, e si affatica di sformare e di rompere l'organo
più efficace e maraviglioso dell'universal bene, e che stava in modi
specialissimi prepensato e preordinato nell'idea eterna della vita
sociale del mondo. Da questo procede, che promovendo noi e ajutando
(per quanto i privati il possono) la Lega Italiana, noi effettualmente
ajutiamo un'opera santa; essendo che nelle presenti condizioni di
nostra patria, niuna cosa può meglio d'una confederazione giovare al
fatto finale e massimo della _nazionalità_. Egli s'intende, nè sembra
mestieri il significarlo, che noi desideriamo a un tempo medesimo di
crescere e di solidare l'unione degli animi e delle azioni, stantechè
ella sia il cemento primo e vero della lega politica, come questa a
rincontro non pure dilata, riconferma e riaccresce l'unione, ma la
conduce a presto e abbondevolmente fruttificare; e sì dall'una e sì
dall'altra dee, come da radici validissime e profondissime, rampollare
e fiorire la compiuta e vera italianità, già disposta e iniziata
dalla natura, sancita dalla gloria del nome romano, consacrata dalla
unicità di religione e di culto, maturata dal tempo e dalle stesse
sventure, assentita e predestinata dai cieli, a cui piace di suscitare
per la quinta fiata i figliuoli[8] di questa terra veneranda e famosa
a compire alcun gran prodigio di civiltà, in profitto e splendore di
tutta l'umana repubblica.

Dappoichè la fortuna, o, meglio, la Provvidenza pone in arbitrio d'ogni
buon cittadino l'adoperarsi con utilità copiosa e attuale al cominciato
risorgimento d'Italia, vogliono la prudenza e il dovere, che, messe
in disparte le speranze troppo ambiziose e troppo fantastiche di cui
ricreavasi e consolavasi la nostra mente nell'inerzia del servaggio,
ora si badi con maggior diligenza alla realtà delle cose, e lasciato
il nudo possibile, addirizziamo l'intelletto al certo od al molto
probabile. L'Italia è da secoli divisa e rotta in più Stati, ed ha fra
essi poca o veruna comunanza di vita politica: per la qual cosa, non
potendosi toglier di mezzo le divisioni, e volendo pure che l'Italia
sia una quanto è fattibile mai, rimane che noi ci acconciamo a quella
forma di unità che sola può coesistere con la pluralità degli Stati:
cioè ad una confederazione la più stretta, la più omogenea, e la
meglio ordinata che dar si possa. A questa, dunque, intenderemo con
tutto l'animo e tutto l'ingegno; e talora con l'autorità della storia,
tal'altra col ragionamento, più spesso con le induzioni chiare ed
aperte che gli avvenimenti quotidiani suggeriranno per sè medesimi,
sforzeremoci di conseguire che il concetto di una Lega Italiana
politica divenga nella mente de' popoli segno e simbolo di nazione, e
desiderio intenso ed inestinguibile; e in quella dei principi, un'alta
necessità di fatto, pericolosa a combattere, profittevole ad accettare.

Duole ed affligge il pensiero che di tal lega debbano per al presente
rimanere esclusi i nostri fratelli Lombardi, che sono pur quelli da
cui tragghiamo un esempio di lega antichissimo e non superabile di
valore e di gloria, e il quale con la pienezza e felicità del successo
ne persuade l'utilità d'un nuovo nazionale confederamento. Ma, per
l'amore e la fede che l'altre Provincie italiane portano ad essi, ed
essi a tutte quelle, e per la speranza che abbiamo comune del compiuto
affrancamento d'Italia, riuscirà caro ai Lombardi che pur senza loro
noi ci stringiamo e ci colleghiamo, affine principalmente di poterli
con men ritardo e maggior sicurezza raccorre e abbracciare al banchetto
sacro della conquistata nazionalità.

Di un altro subbietto importante prenderà cura e farà studio
particolare ed assiduo il nostro foglio periodico, e questo è
l'ammendamento, l'educazione ed il bene stare del popol minuto.
Imperocchè, come la lega politica delle Provincie italiane discuopresi,
al giudicio nostro, qual mezzo appositissimo, ed anzi di tutti il
migliore ed il massimo, che nelle condizioni odierne ci può menare
all'indipendenza e al vero essere di nazione; del pari, nell'educazione
morale e intellettuale del popol minuto a noi si lascia conoscere il
mezzo più attivo e lo strumento più addatto ed usabile per conseguire
essa lega, e le altre maggiori felicità e grandezze italiane. E per
fermo, nessuna cosa di gran momento viene attuata nel mondo senza
l'animo e le braccia del popolo, e unicamente da lui riceverà la
nostra carissima patria redenzione certa e finale. E se ciò è vero per
ogni dove, in Italia è assai davvantaggio: perchè di là dalle Alpi
e dal mare si legge e si trova che la maggior parte degl'istituti e
delle glorie nazionali più ragguardevoli riconoscono l'origine loro
dai principi, dalla cavalleria e dagli ordini privilegiati; ma in
Italia, per lo contrario, autore od iniziatore primo di tutte le nostre
glorie fu il popolo. Quindi dovremmo per semplice utilità e cautela
politica voltare le cure e i pensieri alla parte sua più valida e più
numerosa, che è pure la men fortunata, dove lo spirito del Vangelo e
l'umanità dei nostri tempi ad obbligo stretto e incessante non ce lo
ascrivessero.

Abbiamo definito in breve quello che di speciale e di proprio intende
fare la nostra effemeride. Seguita che diciamo alquante parole intorno
alla sua ragion generale.

Nel giorno in cui la saggezza del principe concede ai popoli una
franca discussione ed esaminazione degli atti pubblici, il regno
della violenza e del cieco arbitrio ha suo termine; ed ogni potere
materiale ed irrazionale viene dispossessato e surrogato dalla forza
spiritualissima dell'opinione. In quel giorno fortunato, ogni buon
cittadino, giusta i limiti di sue facoltà, sente la necessità e il
debito insieme di promuovere e addirizzare le credenze, le cogitazioni,
i pareri ed i sentimenti della moltitudine, e accostarli a quella
sapienza attiva che è l'apice della perfezione civile. A tale ufficio
d'illuminare e addirizzare le menti a rispetto della politica e d'ogni
condizione assai rilevante del viver comune, noi pure intendiamo
di dar l'opera nostra con quante forze ci ha fornito natura; e d'un
ufficio siffatto scorgiamo assai chiaramente la somma importanza e
solennità, le malagevolezze e i pericoli. Noi sentiam bene, ch'esso
è una specie di magistrato, da cui si assume nel nostro secolo gran
parte di quella dignità e santità di carattere la qual risiedeva nel
tribunale censorio delle antiche repubbliche. Noi, quindi, procacceremo
con ogni industria, che se non l'altezza degli studi e la pellegrinità
del sapere, la purezza almeno delle intenzioni e lo zelo dell'operare
rispondano più che mediocremente al concetto di ciò che debb'essere lo
scrittore entrato ad illuminare e condurre i pensamenti e le credenze
del popolo. Per lungo disuso, è pressochè venuto meno all'Italia il
senso pratico delle faccende politiche, e i figli suoi si ridestano
quasi parvoli e adolescenti in mezzo a nazioni adulte e mature: e
d'altra parte, il comune nostro decoro, le stupende rammemoranze di età
gloriosissime, il viluppo strano de' casi che corrono, la necessità
del premunirsi e difendersi richieggono da tutti noi una vigorosa e
precoce virilità. Noi con questa considerazione pigliamo speranza che
i leggitori del nostro foglio non vorranno di leggieri accusarci nè
di presunzione nè d'ignoranza; chè presumere ci bisogna per la salute
comune, e saper bene non possiamo ciò che l'esperienza, l'uso e le
occasioni sole ne insegnano.

In due modi suole un giornale politico informare e dirigere la mente
ed il senso pubblico: prima col farsi o annunziatore pronto e fedele,
o raccontatore veridico e giudizioso degli avvenimenti quotidiani;
poi, col discutere sottilmente quel che rilevano, indagarne le cagioni
riposte, predirne gli effetti remoti, e far tutto ciò col lume e i
principii d'un'alta filosofia civile. Noi, dunque, ambedue queste
cose ci studieremo di adempiere secondo nostro potere, e con l'aiuto
efficace de' nostri amici e rispondenti. Noi cureremo sempre di
attinger le nuove alle fonti sincere, e col nostro privato carteggio
suppliremo spesso al silenzio e all'insufficienza delle gazzette. Nè le
notizie si stringeranno nel cerchio della politica, ma sì farem luogo
a quelle altre molte e diverse che importa all'universale di possedere,
ed hanno lor parte notabile nella vita comune.

A rispetto, poi, del pesar bene il valore dei fatti, scoprirne le
cagioni e le conseguenze, cavarne le massime direttive, e raddurre
il tutto agli assiomi della scienza di stato e alle teoriche della
civile filosofia, i compilatori avranno mente di conciliare del
continuo la pratica colla speculativa; e, per quanto sarà lor dato,
eserciterannosi a scorrere con sicurezza e per vie larghe e spedite
dalla esamina degli avvenimenti alla contemplazione de' principii;
e viceversa, dal concetto delle teoriche astratte ed universali alle
applicazioni certe, particolari e feconde. Noi ci farem debito altresì
di narrare e scrutare i casi correnti con animo affatto imparziale,
e con giudicio non infiammato e preoccupato da passioni di parte e
da bollori di fantasia; e però saremo avversi ad ogni ingiustizia, ad
ogni eccesso, ad ogni esagerazione così in risguardo de' governi come
de' governati: essendo che non s'agogna da noi quel favor popolare il
quale è acquistato e meglio diremmo comprato col piaggiare continuo il
volgo e le sue passioni, e maneggiando tutto dì le arti tribunizie;
ma desideriamo invece di conseguire quell'autorità e quella stima
che cresce occulta e lentissima, che dai tristi è combattuta e dagli
avventati è mal sofferta ed acconsentita, ma che alla perfine sovrasta
alla malvagità degli uni e alle esorbitanze degli altri, e serve come
di aroma prezioso a serbare intatto ed incorruttibile un nome di là
dal sepolcro. Soprattutto ci asterremo (per parlare alla moderna)
dalle personalità; nè mai la indignazione nostra si verserà sull'uomo,
ma bensì sull'azione in astratto considerata, e a riscontro d'alcun
documento morale o politico. La qual moderanza e giustizia a noi
riuscirà non molto difficile, dacchè le azioni malvage e gli affetti
bassi e torbidi sempre ci hanno svegliato più compassione che sdegno;
e quanto le sorti universe del genere umano e l'attuazione de' sommi
principii e la loro abbondevole fruttificazione ci sembrano cosa
grande e degnissima d'ogni onorata fatica, altrettanto gli individui
ci appajono leggier cosa, e non quasi mai meritevoli dell'odio del
saggio. Per le ragioni medesime, e guardando sempre ad effettuare
l'utile pubblico e giudicare imparzialmente uomini e cose, noi ci
pregieremo di dare leale ajuto e libera lode al governo, ognora che
gli piacerà di accrescere e di caldeggiare il sentimento nazionale,
e proseguire animoso nelle riforme. Ma non dubiteremo del pari di
contraddirgli _legalmente_ qualora se ne dilungasse o in tutto od
in parte: e quando (il che per lo certo non accadrà) l'opposizione
nostra sincera e dignitosa diventasse impossibile; esauriti innanzi,
fino ai termini ultimi delle leggi, tutti i rimedii, gli spedienti
e i partiti che lo zelo di buon cittadino sa rinvenire, il periodico
nostro cesserebbe di uscire in luce. Così noi speriamo di concordare la
moderazione e il vigore, la legalità e il coraggio. E perchè di questa
parola moderazione vien frequentissimo l'uso, ma la significazione
sua scorre varia e indefinita per gl'intelletti; a noi giova di
dichiarare, che domandiamo improvide e immoderate tutte quelle opinioni
le quali, impazienti di rimanere in essere di concetto e di desiderio,
discendendo dall'ideale al reale, oltrepassano e turbano ciò che
nell'atto presente si fa praticabile, e però è duraturo e fecondo
del meglio. Similmente, noi domandiamo improvide e immoderate quelle
imprese e quei fatti che conducono a travalicare i termini della
legalità; la quale benchè negli Stati della Lega sia peranche molto
imperfetta, pur tuttavia non nasconde e non confonde siffattamente i
suoi limiti, da lasciare incerto e pauroso l'uomo dabbene e il leal
cittadino. In un popolo vissuto per qualche secolo sotto la forza e
l'autorità dittatoria, sdegnoso sempre del servire, ma sempre ignaro
de' proprii diritti e doveri, niun sentimento è più malagevole a
insinuare e insieme più necessario del rispetto e quasi diremmo del
culto sacro inverso la legge: al qual culto (abbia luogo la verità)
appena cominciano ad avvezzarsi i suoi sacerdoti medesimi. E perciò,
noi raccomanderemo continuo così al popolo come ai principi, così ai
magistrati come alla plebe, la piena e ottemperante venerazione alla
legge, che è il Dio dello Stato.

Egli non è possibile ad una nazione la qual, risorgendo, à
consapevolezza e fede e ardimento d'incominciare un'epoca nuova,
fidarsi unicamente nella virtù degli instinti, e moversi e operare
secondo che danno i tempi ed i casi. Ma le occorre bensì di conoscere
con sufficiente chiarezza ove s'inoltra e ove tende, e quello che più
le conviene desiderare ed ambire; nè può negarsi, che tanto procederà
men dubiosa nel suo cammino ancora intentato, quanto meglio i suoi savj
le porranno distinto e ben divisato in sugli occhi il disegno intero
dei grandi e varj edifizj di civiltà e di scienza che dee lunghesso
la via costruire, e su vaste e incrollabili fondamenta innalzare. E
noi pure porgerem mano a lineare e colorire (quanto cel concederà
l'intelletto) quell'arduo disegno; e ciò adempiremo col ricercare
dapprima le condizioni odierne d'Italia e alle passate paragonarle;
poi coll'investigare quello che prossimamente debbono riuscire: nè tali
due specie d'indagini imprenderemo senza aver risguardo continuo alla
storia delle altre nazioni, all'essere e fortuna loro presente, alle
attinenze che ha l'Italia con esse; e in più special modo, all'influsso
ed ingerimento morale ch'ella sta forse per ripigliare su tutto quanto
il mondo cristiano e civile col nuovo risvegliamento suo; ed infine,
al concetto speculativo che i filosofi politici vannosi componendo di
tutto insieme il progredimento sociale e la vita dell'umanità.

Di cotal vita è sì gran porzione oggigiorno l'economia pubblica, sì
poderose diventano le nazioni per attività di traffichi e ampiezza
di commerci; tanto gl'ingegni si assottigliano e si travagliano a
raffinare le arti e moltiplicare le macchine; tante questioni nuove
di scienza da ciò scaturiscono, massime intorno al sostentamento
dell'infimo popolo e all'equa distribuzione delle ricchezze; che a noi
non si fa lecito di pretermettere alcuna di queste materie, o di sol
toccarle di passata e per incidente: e però noi deliberiamo di porle
sovente ad oggetto particolare delle meditazioni e disamine nostre,
e raccogliere con accuratezza minuta i fatti e le notizie ad esse
attinenti.

Degli eserciti e delle marinerie italiane parleremo tanto più spesso
e più volentieri, quanto il nostro giornale compare nella provincia
meglio agguerrita della Penisola, e in una città che tien viva memoria
dell'avere spiegato una bandiera famosa e temuta su tutti i mari.

Faremo eziandio occupazione nostra frequente gli studj e i metodi
insegnativi; e delle lettere e delle arti geniali terremo discorso
ognora che le faccende politiche ne lasceranno spazio e opportunità.
Alle genti italiane, ricordevoli di loro grandezze non ancora eccedute
da alcuno, è forse difficile il ricuperare tanto animo ed alacrità e si
ferma perduranza in ogni proposito, quanto ne fa mestieri a rigenerare
tutto l'essere proprio morale, qualora non sorga loro in mente la
speranza generosa e il concetto magnanimo di non solo raggiungere le
nazioni più progredite nel corso della civiltà, ma in qualche parte
almeno di oltrepassarle e di primeggiare. E ciò proviene eziandio da
questo, che la civiltà conseguíta in effetto dagli altri popoli si
scorge e si misura quanta è, e molti e gravi errori vi si discuoprono:
ma la speranza del primeggiare inchiude una grandezza invisibile
e immensurabile, e perciò risponde assai bene a quella eccellenza
ideale e a quell'infinito di perfezione, che solo riempie ed infiamma
l'attività e l'ambizione innata e sublime dello spirito umano. Ora, per
nostro giudicio, sono peranche molto remoti da noi que' tempi in cui
l'Italia ridiverrà formidabile ad ogni popolo con gli eserciti e colle
armate, ovvero li supererà nei commerci, nelle manifatture e nelle
ricchezze. Ma il primato della sapienza civile, e l'imperio altresì
delle lettere e delle arti geniali, nessuno può toglierci se noi
fermamente il vorremo; dacchè la natura ci à nelle virtù della mente e
nell'arcana intuizione del bello sopra ogni nazione privilegiati. In
trattenerci, adunque, con grande amore a discorrere così degli studj
pubblici come d'ogni incremento e progresso di qual sia parte dello
scibile, noi farem opera singolarmente di buoni cittadini, e d'avveduti
e prudenti statisti; e in ciò pure avremo animo di avviare gl'ingegni
all'amore e al culto delle memorie patrie e delle dottrine italiane,
e al saper rappiccare il filo delle tradizioni nostre letterarie ed
estetiche, e ad imprimere in ogni fattura della mente i segni e le
impronte dell'indole nazionale. Per ultima cosa, noi promettiamo a
tutti coloro che volgerannosi al nostro giornale sì con gli occhi e sì
col buon animo, che niuna fatica, niuno studio, niuna diligenza, niuna
parte di zelo sarà da noi trascurata per sollevar quello all'altezza
e alla dignità de' nuovi tempi e dell'Italiana rigenerazione: la
quale, dopo tante sventure e tantissime lacrime, standoci alla perfine
presente, e non ricercando per divenire compiuta e fruttifera se non
l'operosità incessante e l'annegazione sincera e serena dei buoni,
chi si fermasse tra via, ovvero nell'impresa magnanima tramischiasse
affetti privati, proverebbe di essere stato per innanzi non più che
un ipocrita di libertà, e tanto spregio e abbominio si mercherebbe,
quanto, concedendolo Iddio, il nome d'Italiano verrà racquistando
d'autorità, di venerazione e di gloria.

  Genova, il 5 di gennajo del 1848.


FATTI DI MILANO NEL GENNAJO 1848.

                                                     15 gennajo 1848.

Abbiamo da testimonio oculare e degno di tutta fede una narrazione
esatta e minuta dei deplorevoli casi succeduti in Milano dal 2 al 5
del mese andante. A noi par bene di farla conoscere intera, perchè in
quegli avvenimenti ogni cosa è stata grave e afflittiva, e l'Italia
debbe sdegnarsene e condolersene profondamente.

Nella mattina del 2, per effetto del divieto che il popolo milanese
ha posto a sè stesso, non incontravasi per le vie persona che
fumasse tabacco. Ma sulle undici ore uscirono fumando i commissarii
di _polizia_, parte travestiti e parte in divisa, e seguitati da
poliziotti. La plebe traea lor dietro in frotta ma silenziosa, e i
commissarii voltandosi a quella e parlandole in isconci modi, troppo
bene la provocavano, dicendo, in fra le altre cose: _vedete che noi
fumiamo, e a nessuno di voi dà l'animo d'impedirlo_. A questo il popolo
rispondeva con mormorii e con suono di fischiate. Allora i commissarii
ed i _poliziotti_ agguantavano parecchi che li seguivano più d'accosto,
menandoli in luogo d'arresto. Ma ciò non disperdendo la folla, ed anzi
ingrossandola, quelli incominciarono a malmenare ed anche a percuotere;
e verso le quattro dipoi meriggie, come moltiplicavano le pattuglie de'
_poliziotti_, così crebbero ancora i maltrattamenti; a segno che i capi
del Municipio e parecchi cittadini de' più notabili turbandosene ed
affliggendosene, lasciate le case loro, s'introdussero alla spicciolata
in mezzo alla moltitudine, affine d'interporsi autorevolmente fra essa
e le pattuglie.

Adempiendosi cotale ufficio pietoso e lodevolissimo dallo stesso
Podestà di Milano conte Casati, ei venne violentemente percosso in viso
e quindi arrestato. Poco dopo, essendo molte persone civili adunate
in contrada Santa Margherita contigua al maggior teatro, i gendarmi a
cavallo fieramente le caricavano; e perchè quelle s'erano ricoverate
di là da' quei pilastrini che reggono le catene intorno al detto
teatro, furono pure colà investite dai cacciatori tirolesi, schierati
dietro i cavalli dei gendarmi. Fra questo tempo, il conte Casati già
riconosciuto e sciolto e presto raggiunto dai suoi colleghi, lagnavasi
con giustissima indignazione degli strapazzi sofferti da lui e dal
popolo; e ricevendo dal Torresani, direttore di polizia, parole vane e
mendicate di scusa, si recò dal conte di Spaur, governatore generale
di Lombardia. Questi mostratosi dolentissimo dell'accaduto, negava
risolutamente di averci parte, e sosteneva che quelle cose non erano di
sua pertinenza e non ci poteva quasi nulla.

Così compievasi la giornata del 2. Il dì dopo era nella gente civile
molta sollecitudine di conoscere le risposte de' superiori, ma il
popolo minuto mantenevasi in quiete.

Quando, alle tre dipoi meriggie, la polizia fece appiccare su tutti i
canti un avviso, che cominciava con queste false e calunniose parole:
— «Gente _irrequieta e facinorosa_...... osava jeri d'_ingiuriare_
in pubblico tranquilli abitanti per impedir loro l'uso innocente del
fumare tabacco, e ardiva di farlo anche attruppandosi, _e violentando_
i passaggeri colti a fumare.» — Alcuno di tali avvisi fu spiccato o
lacerato forse per ira, ed altri il furono con poca o nessuna malizia
da que' monelli che, in Milano singolarmente, usano di ciò fare su
tutti i muri e d'ogni maniera di stampe. E qui non è da tacere d'un
grave accidente; e ciò è, che un agente di polizia, colto un ragazzo
nell'atto di squarciare l'avviso, lasciossi andare alla ferocia di
percuoterlo con uno stile: il qual fatto affermano e testimoniano
cittadini onorevolissimi, che di presente ne hanno scritta una
giuridica deposizione.

In quel tempo medesimo, uscivano dal Castello pattuglie di dragoni a
cavallo, comandate da soli sotto-uffiziali: e da esso Castello e dalle
caserme uscivano a torme ed alla rinfusa da circa tremila soldati, ben
caldi dal vino e con in bocca i sigari accesi. A costoro erano stati
pagati, qualche ora innanzi, denari di soldo per otto dì, e regalati
parecchi sigari e offerto vino e acquavite. L'_ordine del giorno_
esentavali dalla chiama, e gli invitava a difendere e conservare la
dignità della milizia contro a pochi perturbatori i quali pretendevano
di por divieto al fumare. Mossero sbandati per le più popolose strade,
e spargendosi nei caffè e nelle bettole, incitavano ogni sorta di gente
con lazzi, contumelie e mal viso. Sulle prime, la plebe guardando e
udendo quegli sbrigliati, maravigliava; poi, tratta da curiosità più
che da altra passione, si mise lor dietro. Ma irritata di mano in mano
da quelle ingiurie e soprusi che vedea fare, cominciò a mormorare e a
gittar fischi come il dì innanzi. Ed ecco le pattuglie si avventano
a caricare, gli agenti di polizia e i soldati sciolti snudano le
sciable e menano colpi alla cieca. Non è duello nè zuffa, ma è rabbia
e furia bestiale contro ad inermi e non resistenti. Qual tumulto ne
seguisse, quali strida ferissero l'aria, di che dolore e squallore si
riempisse di subito la città, non mi proverò a raccontare. Dai rapporti
più esatti degli spedali risulta, che v'ebbe dieci morti, e che i
feriti sommavano molte dozzine. Tra primi è il consiglier d'appello
Carlo Manganini, il quale, percosso in capo da due fendenti, spirò
sugli scalini della Galleria De Cristoforis. Era uomo sessagenario e
quietissimo. Alcuni manovali del carrozziere Giuseppe Sala, uscendo
dalla officina per girsi a coricare e scontrandosi in una di quelle
furiose pattuglie, furono strapazzati e pesti in maniera, che tre sono
morti. Il cuoco stesso del conte di Fiquelmont, in sull'entrare che
faceva da un salumajo a fornire sue spese, venne assalito ed ucciso. In
tal modo macellavansi i cittadini; ed in quel mentre stesso, il polacco
maresciallo Radetski gozzovigliava insieme col generale Scenatz e certo
Vociacoschi, polacco esso pure; e tutti e tre insieme ad ogni vittima
nuova che lor s'annunziava, mescevano e tracannavano. Nè la notte pose
termine pienamente a quella soldatesca licenza, tanto che nelle vie
più remote sull'ora tardissima scorrevano ancora que' mascalzoni, così
avvinazzati e rabbiosi com'erano, minacciando e imprecando; e guai se
taluno s'imbatteva per caso in essi.

Nei dì 4 e 5 si rinnovarono alcune violenze, e fu tra gli altri ferito
un famiglio di casa Litta. In que' giorni similmente scoppiò profonda
ed universale la indignazione, non che de' giovani e de' più risentiti,
ma di qualunque persona paziente, rassegnata e sommessa. È curioso a
sapersi, che il Fiquelmont, come lo Spaur, lavasi le mani di tutti quei
fatti, e va dichiarando di non avere facoltà e commissione bastevole
per li casi urgenti e straordinarii. Il 5, una deputazione composta
d'uomini i più ragguardevoli, fra' quali l'arcivescovo di Milano, il
conte Borromeo, il conte Giorgio Giulini e taluni altri, presentaronsi
al Vicerè, il quale accolseli secondo l'usanza con aria molto benigna;
promise di fare e di dire, e ciò pure secondo l'usanza; e congedandoli,
ripetè loro la canzone medesima dello Spaur e del Fiquelmont, cioè
a dire che non possedeva facoltà sufficienti: la qual cosa mena a
concludere, che i Milanesi in que' tristissimi giorni non avevano chi
li potesse salvare, e tutti li potevano invece ammazzare.

In quella sera medesima fu pubblicato dal Vicerè un suo proclama, unto
d'un po' di miele e promettitore di riforme: ma non pertanto, nella
notte à, con grande apparecchio di truppa, fatto chiudere il _Club_
ove radunavansi i giovani a legger gazzette, e a discorrere di Pio IX e
della Lega Italiana.

Troncando gran numero di osservazioni che subito corrono in mente a
chi legge e considera parte per parte la qui data narrazione, noi
ci stringeremo a notare, che nel popolo milanese mai non è sorta
la volontà di uscire dai termini della legge, e che il mormorare e
fischiar della plebe furono picciol effetto della molta provocazione.

Secondamente avvertiamo, che il sentirsi la moltitudine chiamare dal
Torresani _gente irrequieta e facinorosa_, dovè inacerbirla oltremodo,
e che lo strappare su pei canti alcuna copia dell'Avviso fu parimente
picciolissimo effetto allato alla grave ingiuria: ed in ogni modo,
doveansi punire di ciò i pochi operatori del fatto, e non altri.

Di quindi procede che la illegalità ricade tutta quanta sulla Polizia,
e su coloro che hanno sguinzagliata la truppa e menatala a infierire
contro un popolo inerme, e il quale negli atti medesimi di resistenza
che volea compiere, tenevasi ordinato e pacifico.

Da ultimo, ci giova molto di sapere, che tutti i particolari di quelle
violenze e ferocie non iscusate da veruna necessità, accesero tanto
sdegno e corruccio, che gli animi più rimessi e per condizione più
dipendenti hanno posta da lato la longanimità e la pazienza, e sonosi
ricordati soltanto d'essere uomini e cittadini.

A noi giunge notizia certissima, che non pochi impiegati italiani,
e fra questi il consigliere di governo Decio, uomo mitissimo e
fedelissimo, dopo avere tentato senza alcun frutto di conseguire
soddisfazione e riparo di quegli eccessi, hanno pregato che si
accettasse la loro rinunzia. Il signor Bellati, Prefetto di Milano, il
quale quindici giorni or sono ricusando di sottoscrivere la protesta
della Congregazione comunitativa cadeva in tristo concetto appresso del
popolo, convocata di poi la Deputazione provinciale, chiedea piangendo
e scusa e indulgenza; e ad alta voce leggeva a quella un rapporto,
in cui, rappresentata la indegnità ed enormità degli ultimi fatti,
concludeva dicendo: «e devesi maggiormente prestare orecchio e credenza
al rapporto d'un impiegato il quale, sol per servire con zelo il
governo di S. M. I., s'è quasichè attirata addosso la esecrazione de'
suoi patrioti.»

Infine, dal racconto qui sovrapposto si scorge, che alcuni ingegni
perversi vorrebbero sperimentare nel regno Lombardo-Veneto un modo di
reprimento diverso nella specie ma simile nella ferocia a quello usato,
sono appena due anni, in Galizia. Ma i Lombardi, come si vede, nè
cospirano nè si atterriscono. Nel paese loro non v'ha servi di gleba,
non v'ha classi nè ordini che si nimicano; e la prepotenza e bestialità
soldatesca, qualora volesse farsi durevole e abituale, affogherebbe nel
proprio sangue, non nell'altrui.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DELL'ORDINAMENTO NUOVO DE' MUNICIPJ.

                                                     15 gennajo 1848.

Tutti tre i principi nostri riformatori ànno avanti ogni cosa pensato
a riordinare i Comuni: nel che si vennero mostrando e avveduti e
provvidissimi. Il primo, perchè quelle riforme sono accettate più
volentieri, le quali toccano gl'interessi prossimi e cotidiani del
maggior numero; il secondo, perchè incominciare dal porre sesto e
regola al tutto, innanzi di aver bene e fermamente composte le parti,
tanto varrebbe per avventura quanto il costruire e l'architettare non
badando per niente alla forma e acconcezza de' materiali. Nello Stato
della Chiesa il Municipio nuovo romano è già in atto e in autorità:
così volle Pio IX, del quale veramente diranno i posteri, che _romanam
restituit rem_. Fino poi dall'aprile dell'anno poc'anzi cessato, una
circolare del Cardinal Gizzi raccomandava in ispecial modo alla cura e
meditazione dei deputati delle provincie l'ordinamento dei Municipj.
In Toscana, alli 25 di questo vertente mese, vedremo adunata una
Conferenza di sindaci e altre persone notabili affine di raccogliere
i fatti, udire le informazioni, conoscere i desiderj de' popoli, e
determinare le massime direttive della costituzione municipale che là
si prepara. Negli Stati Sardi, quello che in sul cominciare di novembre
fu promesso dal re in ordine a tal subbietto, vedesi ora mantenuto con
la promulgazione del _Regio editto per l'amministrazione dei comuni e
delle provincie_.

Noi di questo Editto parleremo tra breve, con la ponderazione e
maturità di giudicio che si conviene in tali argomenti. Oggi basterà
l'accennare i punti cardinali che porgono il primo criterio e le prime
norme per esaminar bene così il fatto come il da farsi; e ciò non solo
in Piemonte e in Liguria, ma eziandio negli altri Stati della Penisola.
Conciossiachè sarà intento particolare di questo giornale il discorrere
con egual cura, e (secondo sue forze) con egual cognizione, di tutte
insieme le Provincie italiane e di quelle della Lega segnatamente.

Ottima cosa è certo da reputarsi, che tutti tre i principi riformatori
partecipino a questo concetto speciale intorno alle istituzioni
comunitative; e ciò è, ch'elle debbono venir fondate con ordini
elettivi larghissimi, e coi principj assoluti dell'uguaglianza civile.
Nè per rispetto alla larghezza elettiva potrebbesi forse desiderare
o più o meglio di quello che si prescrive nell'Editto di re Carlo
Alberto. Ma non deesi porre in dimenticanza, che tale franchigia
può divenire angusta e povera negli effetti, qualora da un lato il
numero de' consiglieri comunitativi sia grande e quello degli elettori
grandissimo, e dall'altro sieno circoscritte e inceppate le facoltà
e pertinenze di essi consiglieri. Onde gli è da considerare, per la
libertà dei Comuni e insieme la spontaneità e il frutto delle opere
loro, qual cosa nel fatto e nell'uso torni migliore: se il numero degli
elettori larghissimo e più legate le facoltà, ovvero più ristretto quel
numero e maggiore la facoltà e scioltezza dell'operare. Per fermo, non
si dà franchigia municipale vera e fruttifera laddove non si componga
di queste tre parti essenziali; che sono: elezione popolare; giudicio
e scrutinio libero d'ogni interesse speciale e proprio del Municipio;
azione libera del suo magistrato.

Sotto queste considerazioni, a noi sembra che non tutto sia buono e non
tutto largo e lodevole nel Motuproprio del Santo Padre e nell'Editto
di sua Maestà Sarda; e fermamente crediamo, che molte disposizioni
di tale Editto oltrepassino quel bisogno di _unità_, di _uniformità_
e di _connessione col Principato_, che la legge ha avuto in mente di
soddisfare.

Se non che tra l'_Editto_ ed il _Motu-proprio_ interviene una
differenza fondamentale; essendo che il primo ha virtù generale,
perpetua ed irrevocabile; quando l'altro non dà fondamento e principio
salvochè a un istituto particolare, qual è il municipio della sola
città di Roma: e oltre a ciò, esso dichiara più d'una volta, che le
disposizioni sue dovranno concordarsi tutte con l'universal legge
riformatrice dei Comuni, alla quale s'affrettano di por mano i
deputati alla Consulta di stato. Ei si può dire pertanto, che su tal
subbietto nulla è per anco determinato nella media Italia, e la cosa
pende tutt'ora dal senno de' principi e de' lor consultori. Il perchè,
prevenendo le nostre parole in que' paesi ogni atto deliberativo, e
però potendone ancora uscire un qualche lume e profitto immediato,
a noi cresce l'obbligo di non tener chiusa la nostra opinione, e di
significarla invece con lealtà e franchezza.

Notiamo per prima cosa, che nel Regio Editto, ma più molto nel
Motuproprio di Pio IX, le facoltà e pertinenze del Municipio stanno
dinumerate e specificate una per una e con gran minutezza: il che
non accade quivi per abbondanza di dire e a schiarimento ed esempio
delle pratiche del diritto comunitativo, ma si è fatto al fine di
circoscrivere con rigore e definire con esattezza il potere che vien
largito dal Principe a forma di privilegio; e però le cose che son
taciute non possono in guisa veruna venir sottointese in virtù di
una qualche generale franchigia in altre parti del decreto espressa e
riconosciuta: onde ripetiamo, che in ciò il Motuproprio romano vince
in istrettezza l'Editto Regio, dacchè in questo oltre al cominciare
il legislatore dal riconoscere in universale la libertà dei Comuni,
esprime nell'articolo VIII del capo VII, che _il Consiglio Municipale
fa gli atti devoluti alla popolazione in massa, ed in generale delibera
su tutti gli oggetti di amministrazione locale che, eccedendo la
semplice esecuzione, non sono attribuiti al Sindaco_; nelle quali
parole, e segnatamente nella clausola prima pare sottinteso il
principio, che ogni qualunque atto possibile a farsi in comune dal
popolo cade sotto la deliberazione dei Consigli Municipali.

Ora, secondo noi, risiede nel Comune, a rispetto dello Stato, una
libertà naturale d'azione e di reggimento, appunto come nell'individuo
a rispetto del Comune. Di quindi procede che le franchigie non gli
son date dalla legge, ma sì dalla legge sonogli assegnate le giuste
limitazioni di quelle. E però, in genere, la legge non dee (come sotto
i governi feudali e dispotici) venir numerando le speciali e singolari
facoltà del Comune e prescrivergli ciò che può, ma ciò che non può
e non dee. Noi sentiam bene, che poco importerebbero tali rassegne e
specificazioni ove s'accompagnassero con formole generali di chiaro ed
ampio significato, e in cui lucesse una confessione piena e patente
del dritto. Noi sentiamo altresì, che parlare in nome dei principj
universali del giure non è stile e consuetudine de' _Motuproprj_ e
delle Carte e Statuti alla foggia antica. Ma i tempi ricercano altro
linguaggio, e non son queste del sicuro disputazioni di grammatica.

Da siffatto principio della libertà naturale d'azione e di reggimento
in che vive ogni Comune a rispetto dello Stato, emerge tutta quanta la
idea dell'ordinamento comunitativo e delle sue piene franchigie. Per
fermo, se il legislatore accoglie nell'animo quel principio, ei non
può non volere costituire il Comune con quanta maggiore larghezza di
facoltà e d'esercizio è fattibile; appunto com'egli adopera nel dettare
le leggi e le guarentigie della libertà privata di ciascun individuo,
ai quali mai non oserebbesi di prescrivere le specie, le condizioni
e i modi dell'uso ed eziandio dell'abuso delle proprie loro sostanze.
Col principio anzidetto, il legislatore dee confessare, che il limite
alle libertà naturali dei Municipj è segnato non dalle restrizioni
governative e ministrative arbitrarie, non dal desiderio di certa unità
fattizia e più militare assai che civile, non dalle vecchie pragmatiche
che, or sotto nome di tutela, or sotto quello di vigilanza e di buon
governo, nojosamente comprimono e impacciano, ma bensì dalle necessità
universali, e dall'ingerimento legittimo e razionale della potestà
legislativa operante a nome della utilità vera e durevole di tutto lo
Stato.

Col principio anzidetto, si debbono volere disciolte d'ogni legame
non necessario all'ordine e alla salute comune le deliberazioni dei
Consigli municipali e l'azione dei lor magistrati. E poichè al governo
è ragionevolmente serbato d'interporre l'autorità sua tuttavolta che il
municipio o travia dalle forme prestabilite di sua istituzione, o rompe
alcuna legge od alcun mandamento legittimo dello Stato, in qualunque
altro caso non dee far mestieri l'assentimento dei supremi ufficiali,
siccome atto con piena ragione presunto e che vuolsi avere per
compiuto. Molto meno poi fa d'uopo l'assistenza e presenza de' supremi
uffiziali alle discussioni ed alli scrutinj comunitativi; molto meno
il richieder licenza per le ordinarie o straordinarie convocazioni de'
Consigli: e il simigliante si discorra per altri vincoli e suggezioni.
Nè qui ci è lecito di tacere, che sì in risguardo della libertà di
congregarsi, deliberare ed eseguire, sì per la libertà e speditezza
d'azione de' magistrati municipali, sì infine per la indipendenza e
dignità di loro persone, l'Editto piemontese torna senza misura più
restrittivo del Motuproprio Romano, nel quale si legge, in fra le
altre risoluzioni, che _l'approvazione superiore delle deliberazioni
consigliari avrà sempre luogo, tranne il caso della mancanza di forme,
dell'eccesso di potere e di contravvenzioni alle leggi_. (_Titolo_ 1. §
27.)

E quanto è alla dignità e indipendenza del Magistrato, non v'ha nel
Motuproprio Romano neppur vestigio delle prescrizioni del Regio
Editto che qui registriamo: _Capo II._ § 6. _Il Sindaco è capo
dell'amministrazione comunale ed agente del governo._ § 9. _Il Sindaco
è nominato da noi e scelto fra i consiglieri comunali... Rimane in
carica tre anni e può essere da noi confermato._ § 10. _L'Intendente
generale può sospendere i Sindaci. Capo III._ § 16. _I Vice-sindaci
sono nominati per un anno, sulla proposta del Sindaco, dall'Intendente
generale, cui spetta di sospenderli e rivocarli._

Non ci è ignoto che la molta suggezione dei magistrati municipali,
il fluttuare de' sindaci tra il carattere cittadino e il politico,
l'intervenire continuo de' superiori negli atti comunitativi, e la
necessità del consenso e della revisione imposta a pressochè ogni
spesa ed ogni deliberazione, non qui solamente fra noi ma durano e si
perpetuano di là dall'Alpi, appresso di una nazione la quale presume
essere specchiatissimo esempio di libertà. Queste cose sappiamo da
lungo tempo. Ma duole e pesa all'anima nostra, che volendosi pure
imitare i popoli forestieri, non sempre si scelga il lor meglio, ma
talvolta eziandio il peggiore e il più strano. Oltrechè, le istituzioni
de' popoli molto civili sono una vasta e variatissima architettura,
ove la deformità d'alcun membro quasi scompare nella bella simmetria
e acconcezza del tutto insieme. Altrove la poca libertà dei Comuni
è supplita dalla moltissima dello Stato; ma dove questa scarseggia,
par necessario compensarla col dilatare e mallevare la vita franca e
spontanea del Municipio.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DISPACCI FRANCESI SULLE COSE ITALIANE.

Il _Débats_ delli 7 ci fa conoscere il testo di alcuni dispacci intorno
alle cose d'Italia mandati dal Guizot agli ambasciatori e ministri,
ed ora comunicati alla Camera. Sono tre lettere al conte Rossi in
Roma, una al conte Marescalchi in Vienna ed un'altra al conte di La
Rochefoucauld in Firenze; la sesta è in forma di circolare, e l'ultima
è indirizzata al signore di Bourgoing in Torino.

Chiunque si ponga a leggere cotesti dispacci, dee notare a bella prima,
quanto nei nostri tempi vada mutando il linguaggio dei diplomatici,
ovvero quanta diversa natura d'uomini sia quella che amministra oggi
i gran fatti politici. Per fermo, in essi dispacci v'ha un lusso di
generalità accademiche e un dissertare così vivo e abbondevole, che la
Sorbona li accetterebbe affatto per suoi. Il secolo, adunque, è gentile
se non vigoroso; gli uomini forse non grandi, ma pieni di facondia e
filosofia.

Noi confessiamo assai volentieri, che in tutte sette le lettere del
Guizot scorgesi aperto il buon desiderio del governo francese pel
risorgimento italiano. E di tal sentimento non può dubitare alcuno il
quale conosca la fine e classica civiltà della Francia, e pensi che non
v'è quasi villaggio colà ove non si spieghi Virgilio ed Orazio, e non
si stupisca dinnanzi alle tele o copiate od originali di Raffaele e di
Michelangelo. Del pari risulta da quelle lettere, che il Guizot vive
sempre in grave apprensione di veder trionfare i troppo infiammati, e
sembra stimare gl'Italiani non capaci ancora di più larghe concessioni
e più sostanziali riforme. Ma d'altra parte, com'egli ammira
sinceramente la saggezza insperata del popol romano, nè stenta ad
applicare simili elogi agli altri popoli della Penisola già ridestati,
a noi pare che se ne debba dedurre ch'essi sarebbero sufficienti a
molto maggior grado di libertà.

Sulle cose di Ferrara, spiace particolarmente al Guizot che il governo
Pontificio abbia posta la controversia in piazza. Ciò naturalmente sa
male a un diplomatico consumato, e gli sembra quasi una propalazione
indebita dei misteri e della scienza esoterica. Ma se i Tedeschi
invadessero un palmo solo del territorio francese, io sfido il ministro
Guizot a mantener quivi il secreto, la riservatezza, e la gravità dei
capitolati e dei protocolli. La lettera al Marescalchi, che appunto
s'aggira sul brutto frangente di Ferrara, è da un capo all'altro tutta
mite in verso dell'Austria, tutta lusinghevole e piena d'unzione;
e non v'ha neppure una fiammolina di sdegno, una favilla di giusto
risentimento. Certo, se il Papa non colpiva di religiosa paura il
capo medesimo dell'Impero, ognun può pensare quale difesa efficace e
gagliarda sarebbe uscita dalla dolce e tenera ammonizione del Guizot.
Pur troppo, i casi della Galizia ci fanno presumere che a Vienna le
orecchie non sono così delicate, e il cuore non così cereo come stima
l'insigne autore della Storia dell'incivilimento.

Vero è che nella lettera al La Rochefoucauld il ministro Guizot
accenna, così di passata, come il Papa abbia fatto richiedergli se in
certe date congiunture potesse fare assegnamento su d'una più attiva
cooperazione della Francia, e com'egli il Guizot crede d'avergli
risposto in modo da contentarlo. Ma qui il velo diplomatico diventa
sì fitto ed oscuro, da simigliare a quello che già copriva la statua
d'Iside, e non è più la intelligenza ma il cuore che giudica, e gli si
comanda un umile atto di fede.

V'ha però in queste lettere diplomatiche due proposizioni non pure
verissime, ma da stare ferme e inchiodate in mente degli Italiani.
L'una è nel dispaccio al signore di Bourgoing in Torino, e consiste in
dire che gl'Italiani s'ingannerebbero forte sperando la lor salute da
un rovescio di cose in Europa. L'altra è nella terza lettera al conte
Rossi, e la quale afferma che non bene opererebbono i principi nostri
a troppo tardare le riforme e le concessioni le quali fossero divenute
un'alta necessità di fatto. «In quella protratta aspettazione, dice il
Guizot, gli animi traviano per la foga pericolosa delle speranze e dei
timori soverchio aggranditi; e quindi colui che regge sembra cedere,
suo malgrado, all'urto popolare, dove in fatto egli obbedisce soltanto
alle persuasioni di sua coscienza. Il signor conte Rossi ha più d'una
volta ciò espresso con debita moderanza ai consiglieri del Santo Padre,
ed al Santo Padre esso stesso.»

Noi ringraziamo del dato consiglio e l'ambasciatore e il ministro, al
quale parimente dobbiamo e vogliamo esser tenuti della propensione
(quantunque un po' peritosa e non assai procacciante) che mostra
al bene d'Italia. Noi non ci poniamo tra quelli che da' forestieri
pretendono molto di più e molto di meglio, perchè sempre abbiamo
opinato che niuna nazione si salvi mediante l'altrui braccio: ed
esigere che le genti straniere vuotino per lo scampo nostro le loro
vene ed i loro scrigni, o mettano a repentaglio la pace che godono e i
negozj e le comodezze in cui vivono, ci compare, non sappiam bene, se
una sfrontatezza o una melensaggine: il rimproverarle, poi, fieramente
ed anzi svillaneggiarle perciò di continuo, come piace a molti, ci
sembra che senta del fanciullesco insieme e del vile.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DELLO STATO PRESENTE D'ITALIA.

                                                     19 gennajo 1848.

Vogliono i pensatori moderni, che la fortuna non abbia nè molta nè poca
parte nelle faccende umane. Io non so bene di questo, ma so che qualora
ne piacesse di battezzar con quel nome le cagioni occulte ed ignote de'
gran casi che avvengono, la fortuna comparirebbe ancora spessissimo
nella storia de' nostri tempi. E per fermo, chiunque venisse dicendo
di aver previsto punto per punto ciò che ora si compie in Italia,
rischierebbe forte di non essere creduto sincero. Comunque ciò sia,
l'ignoranza nella quale io confesso di rimanere della più parte delle
cagioni a rispetto di quel che accade in Italia, mi piace, perchè ho
sempre veduto gli avvenimenti massimi e fecondi davvero portar seco
questo carattere del farsi ammirare ma non intendere, e tanto più
ammirare quanto ciascuno si assottiglia di penetrarli.

Di tal genere, per mio giudicio, sono i fatti odierni della Penisola.
Pur nondimeno, egli sembra potersi dire, che la nostra patria dopo le
mutazioni e il conquasso della grande rivoluzione francese, ripiglia
oggi con vigore e saggezza virile il largo moto di civiltà e di
riforma a cui dava principio poco prima della metà del secolo scorso.
Allora, siccome oggi, iniziatori del mutamento furono i principi. Ma
in que' tempi, le riforme ampliavano la potestà regia, rovesciando
la feudalità, le privilegiate corporazioni e gli arbitrj della Curia
Romana: oggidì le riforme assumono, al contrario, per fine di temperare
il regio potere, e rinnovano in mezzo di noi quel genere di monarchici
che i padri nostri, latinamente e con profondo significato, domandavano
civile, come il solo buono e degno effettualmente dell'umano consorzio.
In que' tempi ogni sforzo tendeva all'equità ed all'uguaglianza;
quest'oggi tende alla libertà. Allora, cavatane l'Inghilterra,
nessun principato conosceva il freno degli ordini rappresentativi e
dell'altre pubbliche guarentigie; onde Pietro Leopoldo e il Tanucci
entrarono innanzi in più cose allo stesso Turgot, il quale in Francia
non compariva del certo un rimesso e lento riformatore: ma a questi
giorni, in tutta l'Europa è sciolto e cancellato il potere assoluto, se
n'escludi la Russia che è barbara, e l'Austria incapace di mutazione.
Allora i consiglieri arditi e liberali dei re erano letterati e
filosofi cortigiani; e ciò che persuadevano e conseguivano venía dai
popoli ricevuto o in silenzio rassegnato o con gioja pura ed immensa,
come suol farsi per beneficj inaspettatissimi, e i quali niuno osa
non che richiedere ma nemmanco sperare. Al dì d'oggi, se i letterati
proseguono a consigliare i monarchi, il fanno discosto, e per mandato
espresso e perpetuo delle moltitudini, e segnatamente delle classi
mezzane; e parlano e s'interpongono come la divina forza della ragione
e della giustizia, che vieta e impedisce il conflitto.

Da queste e da parecchie altre disparità che intervengono tra il moto
riformatore antico ed il nuovo, sorge il concetto generale, che ne'
principi, alle cui mani è affidato presentemente il governo d'Italia,
bisogni maggiore maturità di pensieri, più docilità di animo e minor
lentezza di opere.

D'altra parte, nel secolo andato e propriamente in quegli anni in cui
s'attuavano le riforme, lo straniero regnava in Italia assai meno
poderoso; e piuttosto che minacciare, difendevasi e patteggiava.
Patteggiava col re di Napoli e col re di Piemonte, patteggiava coi
Genovesi. Quello che oggi ne sia, ciascuno lo sa, ciascuno lo vede.
Nel secolo andato esistevano stati e genti italiane riconosciute
alla dolce favella del _si_, ma la nazione italiana non esisteva. Ne'
giorni nostri, se badasi alla nuda scorza dei fatti, nazione italiana
neppure esiste; se al sentimento, al desiderio, al proposito fermo ed
universale, le genti italiane son già pervenute a costituire una sola
persona morale. E appunto perchè dal sentimento e dal desiderio vuolsi
procedere alla piena realità, e gli ostacoli sono molti e gagliardi; e
perchè prevedesi di dovere o subito o non mai molto tardi invocare sul
Mincio e sul Po il Dio degli eserciti, e però fa mestieri a noi tutti
l'unione e la fiducia perfetta e reciproca; ne segue che abbisogni
eziandio ne' popoli altrettanta assennatezza, docilità e prontezza viva
e operosa. Saggia debb'essere la moltitudine in frenare all'uopo la
naturale impazienza de' suoi desiderj; e frutto primo e salutare di tal
suo senno debb'essere la docilità, cioè il saper riverire e ottemperare
alla legge, mostrarsi arrendevole ai suggerimenti e alle ammonizioni
de' buoni, e comportarsi per guisa che più non abbia verun poeta
moderno a poter replicare la sentenza del Tasso:

    . . . . . . . . . alla virtù latina
    O nulla manca o sol la disciplina.

Ma non pertanto, il popolo dee serbarsi pronto ed attivo, non inerte,
non freddo, non pusillanime. Distinguiamo sempre e in qualunque cosa
l'operosità dal tumulto, la vita dal sonno, l'ordine e la disciplina
dalla sommessione cieca ed irrazionale. Nel moto regolare e crescente
della cosa pubblica educhiamo l'intelletto ed il cuore; delle
concessioni ottenute caviamo buon frutto, le ottenibili maturiamo.
Con l'esempio del nostro vivere franco e pieno d'ardore, ma legale,
dignitoso e pacifico, con l'aspetto della nostra verace e pacata
letizia, con la concordia di tutti gli ordini, ma specialmente di
popolo e principe, facciamo impossibile la tirannia, impossibili
il negare ostinato e il resistere pauroso nelle rimanenti Provincie
italiane. Non si ricerca da noi che ancora un poco di moderanza, di
assennatezza, di longanimità; e i figli della gran madre staranno tutti
raccolti e tutti beati in un solo amplesso. La santa Lega Italiana avrà
compiuto e stretto il suo mistico fascio, nel cui mezzo starà sola una
scure, perchè infinite braccia parranno impugnare una sola spada; e
miseri quegli stranieri che vorranno assaggiarla.

Come in persone eziandio scorrette e di mala indole sorge tal volta
per mezzo all'anima un senso puro del bene e un desiderio generoso di
nobili geste, così accade che la Provvidenza spiri per qualche tempo
su tutto un popolo l'aura della virtù e del coraggio, e un amore di
sacrificio che agli occhi suoi stessi il fa nuovo e maraviglioso.
Procacciamo con isforzo continuo, che pur sopra noi, infralita
generazione, passi quell'aura sublime; e lo zelo attivo e sincero del
pubblico bene invada tutti i seni dell'anima nostra. Sui canti delle
strade di Genova (or non sono molti giorni) leggevansi stampate a
larghe majuscole queste belle parole: — _Ordine, Fratelli; tutta Italia
ci guarda_. — Ed io dico agl'Italiani: _Fratelli, siamo prudenti,
disciplinati, operosi; tutta Europa ci guarda_; e (facciasi luogo al
vero) ci guarda mezzo ammirata ed incredula, e dubita forte se noi
siamo ancora i figliuoli dell'eroiche generazioni che vinsero il mondo,
ovvero gente spuria e ragunaticcia la qual sogna le grandi cose e le
conta per fatte, agitandosi con furore tra le processioni, le luminarie
e i banchetti.

  (Dalla _Lega Italiana_.)


DEL FATTO DI LIVORNO.

                                                           Adì detto.

Gli ultimi casi di Livorno rattristano l'anima, perchè sono la prima
nebbia che sorge a intorbidare il sereno della nostra rigenerazione.
Ma forse il male non è tanto grave e profondo, quanto si mostra di
fuori: e a niuno poi venga in animo, come scioccamente fu detto, che
gl'imprigionati cospiravano a pro dell'Austria. Egli non è possibile
ormai in Italia rinvenire dieci persone di mediocre fama, e di vita
e condizione alquanto civile, che accolgano in seno un desiderio così
vile insieme e così scellerato. Se in quegli uomini si troverà colpa
(e speriamo che no), sarà colpa di fanatismo. Non perde subito una
nazione i modi e gli usi funesti a cui l'han menata le sventure e la
tirannia. Si cospirò per lunghissimi anni, e a mali estremi, e che
parevano inemendabili per altra via, si cercarono rimedj violenti e non
sempre legittimi. Si brandì il pugnale accanto alla mannaja, il secreto
fu contrapposto al secreto, l'inquisizione settaria all'inquisizione
di Stato; e, insomma, come i medici temerarj costumano, a fieri veleni
riparossi con altri più fieri e mortali. Forse ad alcuni, que' mezzi
sono paruti ancor necessarj; forse la inconsideratezza dell'ira e
i pungoli dell'orgoglio hanno fatto gabbo alla coscienza e velo al
giudicio. Di più non diciamo, e più là non vogliamo andare colle
presunzioni e i supposti. È debito di carità e di giustizia il non
aggravare coi sospetti e con la baldanza delle parole gente che sia a
repentaglio della vita e dell'onore, sebben della vita non crediamo e
non paventiamo. Nella felice Toscana, fra gli altri esempj di sapiente
mansuetudine che i Principi Lorenesi hanno dato non pure all'Italia,
ma sì all'Europa, questo è il maggiore ed il più solenne; di avere,
ottant'anni addietro, abolito il crimenlese. Poco stanno discosto da
noi que' giusti e benigni tempi, in cui non dico non si puniranno di
morte e d'altri gravi castighi gl'imputati di mere colpe politiche,
ma si prenderà maraviglia che ciò abbiasi potuto praticare per
secoli da tutto il mondo civile e cristiano, come si stupisce oggidì
dell'avere cercata e scrutata la verità con l'opera dei tormenti. Dove
cessa l'evidenza del reato, là cessa il diritto di punire; e v'ha,
pur troppo, infinite quistioni di giure sociale e politico in cui la
ragione vacilla, e il comune senso morale non dá risposta patente e
assoluta.

Noi non dubitiamo che agli imputati di Livorno non debba, nel processo
a cui danno materia, apparire manifestissimo, quanto il dominio della
pubblicità torni loro giovevole, e quanto gli amici e fautori di
libertà (nelle cui mani sono) procaccino e studino, anzi ogni cosa, la
imparzialità e integrità dei giudicii: o se questo vuol esser vero per
tutti, maggiormente desideriamo che sia per coloro, alcuni de' quali
hanno con noi sospirato e sofferto per la redenzione della patria.
Li tenemmo, pur jeri, compagni ed amici; non può il nostro cuore
assuefarsi a un tratto a stimarli nemici odiosi ed abbominevoli.

Ma un'altra osservazione importante vien subito fatta a chi bada un
poco a cotesto avvenimento. Il Governo Toscano è sembrato scarseggiar
sempre di forza, di attività e di speditezza. I tempi, infrattanto, da
quetissimi e sonnolenti son divenuti svegliati e vivi. Gli spiriti,
prima indolenti e molli, hanno contratto in poco d'ora alcun che
dell'antica febbre repubblicana. Tra le città poi toscane, Livorno è la
più ardente e più malagevole a governarsi. Un bel giorno, moltitudine
grande adunasi quivi in piazza, gridano armi, vogliono armi. Al
gonfaloniere ed ai superiori vien meno ogni modo di acchetarli. Creasi
a voce di popolo una deputazione, la quale in breve intervallo sembra
fatta signora della città ed arbitra delle cose. Le viene comandato di
cessare e scomporsi; ed ella, a rincontro, dichiara sè stessa organo e
rappresentanza vera del popolo livornese, e pon la sua sede nel palazzo
municipale. In questo mezzo, giunge il ministro Ridolfi, che per
primo atto fa in ogni quartiere assembrare la Civica: questa obbedisce
volonterosa e prestissima, e quattro mila cittadini già stanno accolti
e armati sotto le insegne. Entrasi in molte case, imprigionansi
cittadini non volgari, e parecchi de' quali erano principalissimi
tra i deputati; quindi son menati sul vapore reale il _Giglio_, e
condotti a Porto Ferrajo. Tutto ciò in qualche ora, con risolutezza,
con facilità e corampopulo. Ogni cosa ritorna in quiete; la città
ripiglia i negozj; in niuna parte è spavento, in niuna è sdegno e
rancore. Or che è questo? donde viene al Governo Toscano tanto vigore,
tanta prontezza, un fare sì animoso e sicuro, e il sapersi appigliare
a partiti forti e recisi? Da due cose ciò proviene: dal muovere che
fa il Governo i suoi passi di pari con l'opinione, e dal munirsi e
fidarsi compiutamente nell'armi cittadine. La Guardia Civica riesce in
Toscana ciò che sempre, ciò che per tutto è riuscita; vale a dire lo
scudo e il palladio dell'ordine pubblico, e il sostegno della libertà
vera e durevole, non della avventata e mal ferma. Nel Governo Toscano
ben rincalzato dall'opinione e dall'armi cittadine, è non solo risorta
la gagliardia e l'attività, ma egli porge caparra sicura che di quindi
innanzi sarà del corpo della Lega Italiana un membro saldo, sollecito e
poderoso.

Che diranno di tali fatti coloro cui la virtù e il regno della
opinione mette sgomento? E quegli altri eziandio che diranno, i quali
si ostinano a giudicare e credere la Guardia Civica non più che una
istituzione militare, apparecchiata in casi di guerra a supplire e
spalleggiare l'esercito?

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


L'ECO DELL'ALPI MARITTIME.

                                                           Adì detto.

Ci corre all'occhio il programma d'un nuovo giornale nizzardo, col
titolo l'_Eco dell'Alpi Marittime_. I compilatori annunziano di aver
gran fede nel moto vitale e rigeneratore che penetra e fa risentire
di mano in mano le più morte membra di nostra nazione. Desiderano con
ardore il risorgimento suo, la vogliono libera e indipendente, e si
professano e chiamano Italiani di sangue, Italiani di cuore. Ma, cosa
stranissima, ei dicono e ripetono tutto ciò in francese! Per prima
testimonianza dell'animo loro italiano, abiurano l'armonioso idioma di
Dante; e per primo atto d'indipendenza, fannosi servi d'un linguaggio
straniero, il quale tenta di snaturare e viziare sì fattamente il
nostro, che sarà dura e lunga fatica a guarirlo e salvarlo. Ei sembra
che pur anche a que' giornalisti sia caduto in mente un qualche
sospetto della loro stranezza; ma tosto l'hanno cacciato da sè,
racchetandosi con questa ragione, che _dobbiam cercare un po' meno
quello che ci divide, e molto di più quello che ci ravvicina_. O bella
o bella davvero! Ma, signori giornalisti nizzardi, noi per serbare
appunto e convalidare, quanto ci è dato il meglio, ciò che ne può
tenere uniti, abbiamo carissima la nostra lingua, solo segno visibile
e universale della comunanza del sangue, solo retaggio rimasto della
mente e gloria degli avi. Come ad ogni nazione è sortita una forma
propria intellettuale, così è sortito da Dio un organo particolare a
significarla. In esso, in quell'organo particolare e mirabile, sta la
nostra effigie, il nostro stemma, la nostra bandiera; in esso è quel
tesero antico ed inestimabile che nè il correr del tempo, nè le somme
sventure, nè il servaggio lunghissimo, nè la stessa nostra incuria
e viltà ci hanno potuto involare. Signori giornalisti nizzardi, voi
ci avete ferito, senza volerlo (crediamo), nella più nobil parte del
cuore. Certo, voi siete arbitri e liberissimi di parlare e scrivere la
lingua che più v'aggrada. Ma chi non parla e non iscrive la nostra,
dee sentirsi dire con qualche sdegno da tutti i buoni Italiani: — A
che mentite il nostro nome, o signori? a che v'accostate al nostro
banchetto? Uscitene, noi non vi conosciamo. —

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


NOTIZIE DELLA SICILIA.

                                                          21 gennajo.

Dalle nuove di Sicilia tutta l'Italia del certo sarà funestata; e
niuna cosa può riuscire più misera ed afflittiva al cuore de' buoni
Italiani, come vedere in mezzo al quieto e ordinato nostro risorgimento
scoppiare un conflitto la cui fine non può tornare se non infelice ad
entrambe le parti. Se la superano i sollevati, chi porrà modo alle
lor domande, e chi interdirà loro d'inalberare il vessillo isolano,
squarciando e dispiccando un membro di più al corpo già troppo lacero
e troppo diviso d'Italia? E se vince la podestà regia, ormai gli è
impossibile che ciò succeda senza moltissimo sangue, fiera semenza di
sollevazioni nuove e più pertinaci; e niun modo, poi, e niuna misura
verrà segnata agli esilii, agli incarceramenti e ai supplizj che già
tanto moltiplicavano in quelle provincie sfortunatissime. Dio conosce
gli autori e gl'istigatori di tanto male; e certo, a chi ha menate le
cose ad estremi così terribili, prepara nella sua giustizia squisiti
castighi e vendette.

Primamente, noi sentiam bene per tutto ciò, che gli animi colpiti così
a un tratto dalla narrazione di casi lacrimevoli a tutta l'Italia si
abbandonino al dolore e allo sdegno, e quasi disperino della salvezza
pubblica, od almeno si sentan fallire la dolce speranza di campare la
patria dai tumulti sanguinosi, dalle mutazioni violente e immature,
e dalle miserie e dal lutto della guerra intestina. Ma dato sfogo
al primo impeto dell'affetto, e rimenate le forze della ragione e le
virtù dell'animo agli uffici loro, debbono tali forze e virtù, avanti
ogni cosa, impedire che noi ci lasciamo vincere all'immaginazione,
invece di crescere in attività e in coraggio quanto i danni e i
pericoli crescono. Se il vorremo tutti, e gagliardamente il vorremo,
niun uomo, e sia pur coronato, potrà contrastarci di ricondurre la
conciliazione e l'ordine dove ora sono sbanditi, e di far cadere le
armi male impugnate, disfare i patiboli, restituire alla patria i
fuggiaschi, assicurare la pace, dar principio e base a riforme larghe
ed irrevocabili. Per tutto ove abbondano i buoni e accorrono risoluti
e operosi, mai non è mancato rimedio ai più profondi guasti e alle più
cangrenose piaghe dei regni. Poniamoci tutti, con quanta efficacia
di persuasione e con quanti mezzi possediamo di forza e ingerimento
morale, poniamoci in mezzo ai sollevati ed al principe: Dio e la
fortuna d'Italia compiranno il restante. Ma noi siamo privati, e
l'azione nostra va lenta, dislegata e difficile. Tocca pertanto ai
principi nostri riformatori il primo alto e il più vigoroso del morale
intervenimento di cui ragioniamo. E che? potrà una sola volontà, potrà
una sola mente caparbia turbare e sconvolgere a suo talento l'Italia
intera? Permetteranno i principi della Lega, che tante loro fatiche
e buoni desideri e savissime opere, che tante speranze e disegni loro
magnifici per salvate con progressivi e pacifici mutamenti l'Italia,
vadan perduti? No, questo non accadrà, chè sarebbe importabile e
mostruoso. Parlino ed operino essi con tutta la pienezza e la vigoria
di lor dignità, e con tutta quella che porge loro al presente la
necessità delle cose, la santità della causa, il dovere di padri e
salvatori de' popoli, l'orrore del sangue civile; e a ciascuno sarà
giuocoforza obbedire. Ma lascino addietro (noi ne li preghiamo e gli
scongiuriamo) le forme e le lungaggini diplomatiche, e come i fatti
sono straordinarj e giungono subitanei, altrettanto sia straordinaria
e subita l'azione loro. Guai se non riuscissero, guai. V'ha già chi
trae compiacenza di tal prima sollevazione, pigliando fiducia che le
cose precipitino tanto al male, da vedere disfatti e poi ricomposti a
lor modo i regni e i trattati. Ma noi, corretti dalle lunghe sventure,
noi non ignari della bestiale pazienza degli uomini, e che ne' gran
rovesci la libertà e i diritti de' popoli quasichè sempre vanno in
conquasso, noi speriamo tuttavia che la rigenerazione nostra regolare
e incolpabile abbia vita così poderosa e tanto piena di partiti e
compensi, da trionfare eziandio di questa prima battaglia, e rimovere
questo durissimo inciampo che trova nel suo cammino, semprechè i
principi della Lega vi si adoperino di concerto e con intera e pronta
efficacia. Deh! movali almeno l'enormità del pericolo, se altro
sentimento ed affetto non gli riscuote: sebbene dal cuore de' principi
nostri niun sentimento pietoso e nobile rimane escluso; e singolarmente
dal cuore di Pio, il quale benchè sia padre di tutti i fedeli, pure
sa e sente che gl'Italiani sono primogeniti suoi, primogeniti della
Chiesa.

Usi egli, dunque, larghissimamente della più che umana autorità del
suo grado e carattere; usi della maestà che possiede e della gloria
che ha conquistata; e interceda potentemente e con azione sollecita,
e con quanti modi e mezzi e clientele ed ajuti ha seco, interceda,
diciamo, per otto milioni e più d'Italiani e compatrioti suoi, i
quali pure in mezzo al tumulto e alle armi girano in verso di lui lo
sguardo, e ne invocano in ogni istante il nome venerando e miracoloso.
Noi non sappiamo quali ragioni distogliessero poco fa il Pontefice
dall'interporsi in guisa patente e solenne tra le popolazioni Svizzere
in procinto di azzuffarsi; ma questo sappiamo, che niuna ragione, niun
dubbio, niuna cautela può stoglierlo legittimamente dall'intromettersi
con somma efficacia tra il re delle Due Sicilie e le insorte
popolazioni. Quindi egli debb'essere risoluto di ciò; e noi, chinati ai
suoi piedi, ne lo supplichiamo con quella istanza e con quel fervore
d'affetto e profondità di dolore, che la civile carità e la voce del
sangue italiano ci fa sentire e significare.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DELLA SICILIA.

                                                          22 gennajo.

No, la felice innovazione delle sorti d'Italia non debbe così a
un tratto cangiar natura per la cieca pertinacia d'alcuno e l'ira
impaziente di molti.

Nè il sangue di nostre vene dee piovere in guerra fraterna o sotto
il ferro del manigoldo, ma bensì serbarsi per causa infinitamente
migliore, e spargersi tra le armi nemiche in guerra giustissima, anzi
nella sola accettevole a Dio, e in cui quel sangue laverà l'anime
nostre quasi un nuovo battesimo.

No, non è lecito ai buoni di starsi con le mani a cintola, in faccia
al nascente incendio dell'Italia meridionale. E noi invitiamo tutti
i buoni a pensare con zelo, e di stretto accordo, gli spedienti e i
ripari migliori e più praticabili: l'amor santo di patria e di libertà
vera, e la necessità di salvare il quieto e progressivo risorgimento
italiano, assottigli l'ingegno così de' privati come de' principi, e li
ajuti a rinvenire ed usare tutte le facoltà e i mezzi morali conducenti
a spegnere colaggiù le sollevazioni violente, abolire le condanne
e i supplizj, fondare e mallevare le progressive riforme. E perchè
l'opinione pubblica cresce ogni giorno di autorità e di efficienza,
ed ora ha modo in Italia di farsi conoscere quale e quanta è, giova
significare in guisa aperta e solenne il nostro cordoglio ed il
biasimo nostro a tutti coloro d'ambe le parti, che vogliono sommerger
nel sangue la speranza e la fede di una trasformazione ordinata e
conciliativa. Siamo certi che nè le distanze nè l'armi nè le polizie
nè il terrore impediranno alla voce di migliaja di buoni Italiani il
farsi intendere in mezzo de' combattenti. Ma la voce senza misura più
potente, efficace e penetrativa di tutte, debb'essere quella del Sommo
Padre e Gerarca. Non ha egli nelle Due Sicilie come nell'orbe intero
cattolico la sua sacra milizia, i suoi ministri e ufficiali? E che non
potrà la falange de' vescovi e de' sacerdoti inviata da lui, con alto
ed espresso comando, a spartire la mischia e riconciliare insieme i
popoli e il re, non a nome del dispotismo ma della ragionevole libertà,
non col diritto del forte ma con quello della civiltà progredita e
delle pubbliche guarentigie?

Noi per questo intento pigliamo arbitrio di trascrivere qui il
Memoriale che addirizziamo con debito ossequio al Pontefice, facendo
preghiera agli amici nostri, al clero, al popolo ligure e piemontese,
a tutte le genti della Penisola di ripetere questo fatto concordemente
e sollecitamente, affine che l'anima di Pio IX si senta nell'ufficio
santissimo fortificata dal voto manifesto, ardente e affettuoso, di
tutti i suoi figliuoli e compatrioti.


BEATISSIMO PADRE.

Gl'Italiani a Voi concittadini per sangue e figliuoli in Cristo
Signore, recano ai piedi vostri nelle parole di noi sottoscritti
l'espressione e il testimonio di lor profondo cordoglio, vedendo nelle
Due Sicilie scoppiare un conflitto il quale minaccia o di riempiere
nuovamente quelle contrade di crudeli giustizie e in peggiore servitù
sprofondarle, o di pervertire nell'intera Penisola il moto pacifico e
bene ordinato di rigenerazione politica.

Voi foste, Santo Padre, il glorioso principiatore di quel moto regolare
di civiltà, e a Voi s'appartiene di mantenerlo in sua via. Nè certo noi
veniamo a supplicarvi di ciò per bisogno che faccia di consigliare e
spronare la carità e saggezza vostra, ma solo per isfogo dell'anima,
e per accompagnarvi nell'opera santa con l'ardore de' nostri voti,
e affinchè sappiate essere noi apparecchiati e desiderosi di ogni
qualunque maniera di cooperazione.

Poco fa, uno tra' maggiori potentati d'Europa si scosse alla vostra
voce, e facendo luogo al diritto, risparmiò a sè e a' suoi regni
di assaggiare gli effetti della vostra lesa giustizia. Non potrà
un altro principe, che è doppiamente vostro figliuolo e si professa
religiosissimo, resistere alle preghiere di tanto padre, e ai consigli
e alle istanze di tanto pacificatore. Nè i popoli dall'altra parte
ricalcitreranno ostinati ed immoderati, ognora che Vostra Beatitudine
entri mallevadrice dei patti e serbatrice della fede. Voglia, per
altro, la Santità Vostra richiamarsi alla mente, che a lei fu fatta
promissione larga ed esplicita di concedere miglioranze e riforme
subitochè le sommosse di Calabria venissero a fine; le quali venute,
non pertanto è apparita nessuna volontà di riforme, e nessun decreto
che le annunzi almeno ed accerti per l'avvenire.

Ei si conviene, adunque, alla Santità Vostra nell'alto secreto di sua
prudenza investigare e trovare modi assai più efficaci e solleciti
d'intervenimento, e praticare rimedj tanto maggiori, quanto qualunque
indugio diviene sopramisura funesto, e i danni e i pericoli sonosi
fatti ogni giorno più gravi e ogni giorno meno evitabili.

Pieni di fiducia nella Vostra virtù e sapienza, umilmente ci
rassegniamo di Voi, Padre Santo e glorioso, devotissimi obbligatissimi
servi e figliuoli

                    IL DIRETTORE E I COMPILATORI DELLA LEGA ITALIANA.
                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


_Iscrizioni dettate pei funerali che Genova celebrò, il 22 di gennajo
1848, alle anime dei Lombardi uccisi in Milano e in Pavia._

                         _Rimpetto alla porta._

                       DEL RISORGIMENTO ITALIANO
                          GENEROSO INCOLPABILE
                         INIZIATO DAL GRAN PIO
                        SALVETE O MARTIRI PRIMI

                          _Dall'uno dei lati._

                               ALLE ANIME
                              DE' MILANESI
                            NOSTRI FRATELLI
                        NEL DÌ TERZO DI GENNAIO
                            DEL MDCCCXLVIII
                       UCCISI DAL FERRO STRANIERO
                                 INERMI
                      E NON RELUTTANTI ALLE LEGGI
                     PREGATE LA GLORIA DE' MACCABEI

                           _Dall'altro lato._

                          ORATE PEI GIOVANETTI
                                STUDENTI
                     CHE NEL DÌ NONO DI QUESTO MESE
                                IN PAVIA
                   CADDERO SOTTO LE PUNTE DE' BARBARI
                        IN ZUFFA DISUGUALISSIMA
                     PRELUDENDO AHI TROPPO ANIMOSI
                        AL FINALE COMBATTIMENTO

                          Rimpetto all'altare.

                             BEATISSIMI VOI
                          CHE NEL SENO DI DIO
                        OVE DAL MARTIRIO SALISTE
                       SCORGETE D'UN SOLO SGUARDO
                       TUTTA LA FUTURA GRANDEZZA
                                D'ITALIA

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DEL MEMORIALE AL PONTEFICE

PEI FATTI DI SICILIA.

                                                          24 gennajo.

Nella vita politica è gran bisogno che le opinioni si manifestino,
e ciascuno caldeggi la propria con lealtà e franchezza e con buon
coraggio civile. Da ciò nasce il profitto comune che la verità sia
discoperta e conosciuta con più sicurezza; e la discussione schietta e
libera sminuendo col tempo gli errori, le discrepanze, le ambiguità e
le amplificazioni, produca nell'universale un giusto criterio pratico:
oltrechè gli uomini politici sostenendo con dignità ed a viso aperto i
proprj pareri, possono divenire avversarj ma non nemici; e in quella
parte in cui tutti convengono, che per lo più sono i principj ed i
sentimenti d'amore patrio, d'indipendenza e di libertà, congiungono il
consiglio e l'azione con vigore e concordia maravigliosa.

A ciò abbiamo noi inteso con l'atto che jer l'altro compimmo di
addirizzare un Memoriale al Pontefice; il quale atto fortemente
suggella le nostre opinioni, e dichiara la via che vogliamo calcare
con indeclinabile lealtà e franchezza. E nostro pensiere non è stato al
sicuro, come stima taluno, di versar biasimo sulle insorte popolazioni;
e chi leggerà la Lega del 19 conoscerà bene sino a che punto (secondo
il nostro giudicio) sieno esse scusabili, ed a qual grado di fiera
disperazione abbiale trascinate la mala signoria che pure altra volta

    Mosse Palermo a gridar mora mora.

A noi non fu presente se non solo questo concetto; che, cioè, la
sollevazione de' Siciliani da un lato e l'ostinazione cieca e feroce
dall'altro, mettevano del pari a pericolo estremo il risorgimento
pacifico e progressivo d'Italia; e però convien tentare ogni modo
d'intervenire fra esse, e porre ordine ai moti incomposti e freno agli
sformati voleri.

Noi non siamo di quelli che desiderano e sperano di vedere oggidì
in Italia rinnovarsi alcun che del furore repubblicano francese;
il quale, con eccessi inauditi e con ispaventevole vigoria, tenne
fronte agli eserciti collegati e domò le intestine discordie; ma poi,
stanco e della metà consumato, si riposò sotto una ferrea dittatura.
E di grazia, dove sono appo noi le oppressioni feudali, le proprietà
conculcate, i diritti sociali offesi che infiammino le moltitudini?
dove l'aspettazione certa ed universale d'un secolo d'oro di civiltà
vicinissimo, e più bello del sogno di tutti gli antichi filosofi?
dove il senso e l'essere di nazione, nudrito appresso i Francesi
da mille anni di vita comune? dove le tradizioni guerresche, dove
l'animo oltremodo disciplinevole, e le vittorie strepitose e continue,
generanti in quel popolo un salutare orgoglio e una fede invitta in sè
stesso? dove, in corpo smisurato, un solo e gagliardo capo, e membra
numerosissime avvezze a obbedire con alacrità e con ardore? dove,
infine, lo spazio dato alla Francia di parecchi anni bastevole ad
educare le moltitudini e prepararle per ogni guisa al combattimento?
E che? noi mezzo inermi e divisi, noi inesperti e indisciplinati, noi
tutto fuori di quelle singolarissime condizioni poc'anzi rassegnate,
sfideremo non che l'Austria ma pur l'Europa, e vinceremo ad un tempo il
nemico esteriore e interiore?

Chi farà questo enorme prodigio? forse lo immenso vigore della stessa
rivoluzione? Ma quel vigore onde nascerà, se le cagioni anzidette nè
sono nè hanno tempo di sorgere?

In somma, la salute d'Italia intera estremamente pericola se le
manca tempo e opportunità di unirsi, di educare le plebi, d'armarsi
e apparecchiarsi d'accordo co' suoi governi, d'accordo con tutti
gli ordini dello Stato. E però, a lei conviene fuggire le violenti
rivolture, e l'esorbitanza delle pretese e delle passioni che ne
conseguono, e il porsi in nimistà e in discordia co' principi suoi,
con la diplomazia europea, col Papa e la miglior parte del clero.
Questa è la credenza nostra invittissima; e se in lei sta il vero, e la
pluralità degl'Italiani così la pensa, dico che debbe loro rincrescere
fuor di modo così la caparbietà dell'uno come le sollevazioni degli
altri; dico che il disperar subito di salvare l'ordine e la concordia,
e di raddrizzare il moto delle miglioranze e riforme pacifiche, è
debolezza ed avventatezza; dico che dobbiamo invece por mano a tutti i
rimedj, quanti ne sono in facoltà nostra.

Obbiettano ancora, che l'intervenzione e ingerimento morale de'
principi e del Pontefice, e qualunque nostra cooperazione ed azione
privata, quando farà sentire gli effetti suoi, le sorti del Regno
saranno già consumate; imperocchè, o la sollevazione avrà ceduto alla
forza regia, o questa alla sollevazione.

E noi rispondiamo, che ciò per appunto dimostra la grande proficuità
del proposito nostro, riuscendo ugualmente opportuno e ugualmente
utile in ciascuno dei casi. Perchè, se la superano i sollevati,
l'intervenimento morale procaccerà con ogni sforzo di temperare i
vincitori e ricondurli all'ordine ed all'unione; e se il principe
rimarrà superiore, l'intervenimento del pari procaccerà di non pur
scemarne lo sdegno e il risentimento, ma di rompere l'ostinazione
sua contro le larghe riforme ed innovazioni. A chi, poi, estima
che l'una e l'altra cosa sono affatto impossibili ad ottenere, noi
rispondiamo, anzi tutto: che il procedere regolato e concorde del
nostro risorgimento è si bello, sì necessario e sì salutevole, porge
tal nuovo esempio ed arreca tal maraviglia all'Europa, innalza a
siffatta grandezza di fama e d'onore il nome e la sapienza italiana,
che merita sia tentata ogni prova per mantenerlo e difenderlo, e sia
prevenuto col nostro proprio l'intervento degli stranieri. Rispondiamo
in secondo luogo: che mai le cose umane, e massime le politiche, non
riescono tanto assolute ed inesorabili, quanto considerate in astratto
appariscono; e la forza del pubblico voto, qualora sia saldo, manifesto
ed universale, e si conformi affatto col desiderio dei buoni e coi
principii eterni della giustizia e del bene, acquista ne' nostri tempi
un valore ed un'efficacia tanto maggiore ed inestimabile, quanto sembra
celare l'azione sua, ed usar solo le armi spirituali e invisibili della
verità e della persuasione.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


L'ALLOCUZIONE DEI PARI DI FRANCIA.

                                                           Adì detto.

I Pari di Francia proseguono da qualche giorno a discutere, con
la pacatezza loro ordinaria, l'allocuzione al re, o, come dicono,
l'indirizzo. Il solo incidente gradito e favorevole a noi Italiani è
stato un paragrafetto che vi si volle inserire, dove si parla con lode
di Pio IX e delle riforme iniziate da lui in Italia; cosa dimenticata
affatto nel discorso regio, non senza un po' di maraviglia di tutti i
Francesi. Ai ministri è paruto bene, scorgendo l'assentimento pressochè
unanime, accettare la cosa con garbo, e come se non inchiudesse biasimo
del silenzio. Il Guizot ha ragionato a un dipresso come ne' suoi
dispacci; e a riassumere la generale sentenza del suo discorso, basterà
di notare questo concetto, che mentre il popolo romano va intorno
al cocchio del Papa sclamando: «coraggio, Santo Padre, coraggio;» il
Guizot, in quel cambio, sembra dirgli ed anzi espressamente gli dice:
«adagio, adagissimo, Santo Padre. Oh Dio, vedete quanti pericoli e
quanti malanni. Ecco qua i Trattati, chi può toccarli? L'indipendenza è
delirio, la libertà non è matura, le teste bollono, l'Austria minaccia:
giudizio, per carità.» E se ciò consiglia il Guizot al Pontefice,
in cui (secondo suo dire) di costa al punto di movimento v'ha per
necessità un punto di resistenza continua ed invincibile, quali avvisi
ed ammonizioni andrem noi presumendo che porga ai principi secolari?

Ciò non ostante, noi ripetiamo che la buona propensione del governo
francese ci è cara, e gliene sappiam grato. Ma vedesi aperto, ch'ella
non può contentare l'opposizione parlamentaria, perchè questa dee
reputare che a un sì potente e sì liberale paese come è la Francia
conviene qualche cosa di più attivo e di più gagliardo. Onde, agli
occhi degli opponenti il sistema politico del Guizot dee far la
comparsa d'un guardiano di serraglio, alla custodia del quale sia
consegnata la pace d'Europa, bellissima favorita del suo signore.

Parecchi in tal discussione son venuti tratteggiando lo stato e le
condizioni d'Italia; ma, per nostro avviso, chi meglio di tutti ne ha
giudicato, è senza dubbio il Cousin. Il luogo ed i tempi, le ricordanze
di sua passata dignità e forse l'aspettazione della futura, hanno fatto
il suo parlare moderatissimo e assai contegnoso; ma, non pertanto,
egli ha dimostrato abbondevolmente, che la risurrezione italiana e il
bene stare dell'Austria implicano contradizione, se pure a ciò facea
mestieri dimostrazione alcuna. Oh quante parole per provare che la luce
risplende! Anche il ministero ha gli occhi, e la vede: pur nondimeno,
che può far egli volendo tenersi amici e l'Austria e le popolazioni
italiane? Ma del discorso del Cousin, la parte che accogliamo più
volentieri è quella dov'egli ci porge consigli sinceri e non superbi,
affettuosi e non imperiosi; diverso non poco in questo da qualche altro
Pari, e segnatamente dal Montalembert, che mal conosce l'Italia e male
la giudica: il qual errore in sè non farebbe caso, considerandosi
che ai forestieri riesce poco men che impossibile il conoscere con
giustezza e il ben valutare le cose nostre. Ma perchè allora tanta
sicurezza nel sentenziare, e tanta solennità e autorità nell'ammonire?
Stima egli forse il Montalembert, che basti essere nato francese
ed aver seggio nel palazzo del Luxembourg, per assumere quell'aria
boriosa, e far cadere così dall'alto le sue parole su ventiquattro
milioni d'uomini? Chè se la nazione francese operasse alcun gran
sacrificio per la emancipazione de' popoli, potrebbesi pigliare in
pazienza l'alterigia de' suoi oratori. Ma dappoichè ella si ristringe
nel suo diritto e pensa solo all'utile proprio, noi consigliamo il
Montalembert e gli altri colleghi a dismettere affatto il linguaggio
che usano da protettori e da Mentori; chè l'Italia potrebbe a ragione
finire col prenderne un po' di spasso. In quel loro linguaggio si sente
chiaro ch'essi ci trattano, sottosopra, come fanciulli inesperti.
E per fermo, noi non possiamo saper daddovero ciò che dal tempo e
dalla pratica sola viene insegnato. Ma, di grazia, non doveasi perciò
appunto ammirare quella specie di virilità e di senno precoce, e quella
divinazione della scienza politica di cui dà prova al presente la
nazione italiana, involta come è, pur troppo, in casi ed in circostanze
le più intricate e le più malagevoli che dar si possano?

Per vero, il conte di Boissy à lodato la nostra saviezza, e ha
contraddetto con zelo l'esagerate paure e i sospetti non ben fondati
che molti Pari hanno fatto intendere circa alle mene settarie, e
all'immoderatezza dei desiderj e delle opere negli Stati della Lega. Ma
il bel cuore e il retto senso del vero non sempre sortiscono il dono
delle belle parole; e quell'egregio signore ha confermato un poco il
proverbio, che un mal destro amico equivale a un nemico.

Noi dobbiamo, poi, ringraziamenti caldi e pienissimi alle parole
d'incoraggimento e di affetto che Vittore Hugo ha pronunziate. Il
risorgere dell'Italia è di necessità una vivente e magnifica poesia;
e però nel cuor d'un poeta doveva essa spegnere tutti i pensamenti
politici e tutte le arguzie parlamentarie, per solo lasciar campeggiare
e risplendere una ammirazione durevole e una speranza sublime.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


RIFORME NEL REGNO.

                                                          25 gennajo.

Dio protegge l'Italia; e perchè veggasi viemeglio che tutta opera delle
sue mani è il risorgimento di lei generoso e incolpabile, l'ha lasciata
gire fin sull'orlo estremo ove s'apre l'abisso delle rivoluzioni e
della guerra intestina; e poi tutt'a un tratto ne la ritrae, mutando
con salutari paure le volontà pertinaci, e schiudendo la via delle
conciliazioni e dei provvidi consigli.

Ieri l'anima nostra gemeva nel lutto; oggi si riconforta e quasi gode
e trionfa, non perchè non sovrastino ancora pericoli gravi e timori di
nuovo inciampo e di nuovo sangue, ma perchè a tali timori e pericoli
v'è tempo e modo di riparare, ed è validissima la speranza del buon
successo.

Il re di Napoli fa promessa d'un'amnistia; concede a' suoi Stati
larghezza di stampa; aumenta le pertinenze e prerogative della Consulta
di Stato; accresce il numero dei Consultori e cávali da ogni condizione
di cittadini; dilata le facoltà dei Consigli provinciali, e dà loro
adito alla Consulta di Stato.

Commette ad essa Consulta di far la proposta d'un ordinamento nuovo
di Municipj, al quale dia base: _1º La libera elezione dei Decurioni
conferita agli Elettori; 2º Ogni attribuzione deliberativa conceduta ai
Consigli comunali; 3º Ogni incarico di esecuzione affidato ai Sindaci._

Con altro decreto, re Ferdinando concede ai Siciliani governo,
amministrazione ed esercito proprio, rimettendo in atto ciò che fu
statuito nel 1816; epoca dolorosa per l'Isola, dacchè in quell'anno
appunto fu consumato l'annullamento della Costituzione siculo-inglese.

Di tal regio decreto noi prendiamo consolazione, non perchè ottimo,
spiacendoci forte la divisione nuova che ne risulta tra le due
Provincie italiane, ma perchè ne dee conseguire almeno un pronto
armistizio, e guadagnasi tempo ed agio ad usare mezzi più efficaci e
più accomodati per ricondurre la pace, l'unione e l'affratellamento.

Noi, dunque, non avemmo il torto a sperare che il moto pacifico e
progressivo della nostra rigenerazione, benchè scomposto e quasi
interrotto, poteva essere ancora raddrizzato e riordinato. I tempi
corrono velocissimi, e i casi nostri s'incalzano e quasi direi
s'accavalcano; onde ai provvedimenti d'un giorno convien dare il dì
dopo modificazione ed assetto nuovo: ma la sostanza non muta, e bisogno
è tuttora d'un morale intervenimento.

Quel che sappiamo finora delle tarde concessioni di re Ferdinando in
risguardo della Sicilia, non dà certezza di credere che gl'insorti
s'accheteranno e terrannosi per soddisfatti. Sembra, in quel cambio,
probabile assai, che, poichè sono in armi e non domi, ei richiedano la
Costituzione loro del 1812, giurata da Ferdinando il vecchio, e poscia
da lui sospesa e infine abolita di proprio arbitrio. Oltrechè, non
può il rimanente d'Italia vedere senza rammarico, che nel regno delle
Due Sicilie risorga di nuovo uno stato nello stato, invece di quella
unità di governo e perfetta riunione di membra che una larga e libera
legislazione potea solo ottenere. Molti nodi pertanto sono ancora
da sciogliere, ed è nostro debito di procacciare che non li tagli
la spada, nè la malvagità e l'ostinazione li ravviluppi, ma l'amore
ingegnoso e paziente della concordia e dell'italiana fraternità si
travagli e sudi a disfarli. Disponiamoci ad ogni maniera di sacrificj,
ricorriamo ad ogni spediente, imploriamo ogni ajuto così dal Pontefice
come dai principi della Lega; e niuna cosa rimanga intentata, perchè
lo straniero nè perturbi nè si intrometta nelle nostre faccende, e gli
estremi e sanguinosi cimenti sieno rimossi e fatti impossibili.

Noi non vogliamo sollevazioni e guerra intestina: ecco quello che
intese significare il Memoriale nostro al Pontefice. Noi non le
vogliamo, e con tutte le forze dell'animo, e con quanti mezzi legittimi
e usabili sono in nostro arbitrio, le allontaneremo da noi. Perchè,
tralasciando il discutere de' diritti e de' principj, e ragionando
solo di pratica, a noi sta fermamente fitto in pensiere, che l'Italia
di sconvolgimenti gravi e funesti è capace pur troppo, ma di vera e
generale rivoluzione non mai; e s'anco potesse farla, impossibile le
sarebbe condurla a buon fine: quindi gli stranieri disporrebbero a
lor talento delle sue sorti, rompendo e impedendo con forza e violenza
bestiale il suo felice comporsi in essere di nazione. Sta poi del pari
nel nostro animo una fede saldissima, che posto che tutti coloro i
quali assentono a tal verità vogliano porsi all'atto di scostare con
ogni mezzo e sperdere la tempesta delle rivoluzioni e dei sanguinosi
conflitti, ei del sicuro riusciranno nel nobile intento, raccogliendosi
in loro (per quel che pensiamo) la prevalenza altresì del numero,
e potendosi dalla volontà universale onesta e operosa trovar sempre
qualche riparo ai pubblici danni e qualche sorta di compromesso tra le
parti contendenti. E questo fu il secondo significato del Memoriale
nostro al Pontefice; conciossiachè l'esperienza fa, pur troppo,
vedere che ne' momenti difficili e quando l'azione de' buoni diventa
più necessaria, come ora in Italia, ella suole invece far difetto,
o almeno rallentarsi e rattiepidirsi, perchè la bontà comune non è
coraggiosa, e la comune virtù più presto s'astiene dal male di quello
che osi attuare il bene: quindi accade che gli spiriti turbolenti o
fanatici tengono solo il campo e sgomentano gli avversarj. Noi, dunque,
intendemmo e tuttora intendiamo di fare ai probi e savj Italiani una
chiamata solenne in quest'ora quasi direi formidabile, in cui l'Italia
può correr rischio di lasciare le vie di progresso pacifico e di mutua
confidenza, per entrare alla cieca nei cupi e inestricabili labirinti
delle rivoluzioni; alla porta dei quali, per seguitar la metafora, sta
un mostro biforme: cioè la discordia civile e l'intervento straniero,
pronto ed armato ad uccidere chi per avventura ne uscisse salvo.

Iddio, inverso l'Italia misericordioso, dischiude, dicemmo, fra le
tenebre che s'addensavano sopra il Regno una via di luce che mena a
salvezza. Guai, se tutti i prudenti e gli onesti non entrano in quella.
Ora fa d'uopo risolvere, e non occorrono declamazioni e sofismi. In
noi pure è il senso delle passioni generose, e freme in petto a noi
pure l'odio sacro e veemente contro i tiranni; a noi pure vengono
a schifo le prepotenze soldatesche, le bindolerie de' diplomatici,
e la fiacchezza e ignoranza del volgo. Ma più che la passione e il
risentimento, più che il desiderio del meglio e della perfetta libertà,
più d'ogni cosa, insomma, e più di noi stessi abbiamo a cuore la salute
estrema d'Italia.

Ripetiamo, pertanto, che gli è gran mestieri ordinare tutte le forze
morali omogenee, e raccogliere tutti i pensieri e gli affetti comuni,
onde n'esca poi l'unità e l'efficacia delle opere. Probabilmente,
non sono ancora di là dal Faro cadute le armi di mano de' sollevati,
e forse vi dura un'ira profonda e implacabile, una diffidenza cupa
e troppo scusabile, una voglia cocente di certe e irrevocabili
guarentigie. Forse al re non parrà fattibile abbandonare le forme del
governo assoluto; forse per resistere ai Siciliani tenta di amicarsi i
popoli di qua dal Faro, conoscendoli di più miti pensieri e più facile
contentatura. Per ricomporre e sedare sì gran tumulti, sciogliere tanti
viluppi e a tanti e sì vecchi mali recare rimedio stabile, appena sarà
sufficiente la viva e sollecita azione e cooperazione di tutti i buoni,
nè già timida e dislegata, ma stretta, coordinata e animosa.

Noi, nell'atto di jeri l'altro, arbitrammo di seguir l'uso d'ogni buon
capitano, il quale volendo ordinar la milizia e riempierne meglio le
file, fa, innanzi ogni cosa, la chiama, e così impara quanti accorrono
e quanti mancano al suo vessillo. E noi, del pari, desiderammo
conoscere quanti fra coloro che reputano inopportune e funeste in
Italia le rivoluzioni si dispongono ad operare concordi, vigorosi e
costanti per arretrarle. I tempi son fieri, il momento è più che mai
minaccevole. Innalzi ciascuno la insegna de' principj e delle credenze
sue proprie. Noi, col Memoriale al Pontefice, abbiamo innalzata e
spiegata la nostra. Chi vuol salvare davvero l'Italia, s'accosti a
quella e combatta; se no, adocchi un'altra bandiera e sott'essa si
arruoli. Ma, per Dio, non se ne rimanga indifferente ed inerte; e pensi
alla bontà e necessità della legge ateniese, la quale nelle politiche
alterazioni faceva delitto a ciascun cittadino il ritrarsi e il non
iscegliere la sua parte.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


CONSIGLI AL RE DI NAPOLI.

                                                          27 gennajo.

Alle concessioni di re Ferdinando si è fatto mal viso, non solo perchè
carpite a lui dalla subita paura, ma pel medesimo essere loro. Elle
aggiungono qualche larghezza e perfezionamento a quegl'istituti che
da ormai quarant'anni non diciamo governano il Regno, ma dimorano
scritti nelle sue leggi. Ognun sa che dal 1821 in poi è durata in
Napoli questa contraddizione sconcissima; leggi e istituti, cioè,
tanto buoni quanto possono stare in assoluta monarchia, e un Governo
ed una amministrazione pessima e inemendabile. E a ciò ha dato cagione
principalmente la veemenza sconsigliatissima con cui tutta l'opera
del 21 fu atterrata e distrutta. Da indi in poi, i reggitori di quelle
provincie hanno comandato ed amministrato a guisa di setta, e con la
diffidenza e la rabbia di una fazione che schiaccia la sua contraria
e lasciasi vincere alla paura. Questa ha fatto che il reprimento e
le concussioni eccederono tutti i termini comportabili; e d'altra
parte, i pensieri di libertà erano penetrati così addentro nell'animo
dell'universale, che il Governo non ebbe intorno di sè, salvo che i più
ignoranti od i più corrotti.

Così gl'istituti ottimi di cui fu fornita la monarchia, son rimasti
una lettera morta; e le poche larghezze che ora v'aggiunge il re,
sono comparse agli occhi del popolo come membra vive appiccate a un
gran corpo cangrenoso e disfatto. Per farli utili ed accettevoli,
conveniva, la prima cosa, chiamare al governo persone di fama integra
e di spiriti liberali, e però capaci di render vigore al cadavere delle
leggi: oltrechè avrebbero cominciato da ciò che è prima e fondamentale
necessità d'ogni accordo in quel regno; vogliamo dire dal ricondurre
negli animi un po' di fiducia, la quale n'è tutta uscita da lungo
tempo, ed a gran ragione.

Da tutto ciò è proceduto che ai nuovi decreti di Ferdinando, non pure
i Siciliani insorti, ma i popoli ancora di qua dal Faro, ne' quali si
stimava essere maggiore arrendevolezza, sembrano voler tutti rispondere
fieramente: «gli è troppo tardi;» terribil parola che muta e travolge
affatto il movimento delle cose italiane. Già l'animo infiammato
dei giovani esulta; già nella baldanza de' lor pensamenti e de' lor
desiderj applaudono ai nuovi successi, e gridano pure a noi, fautori e
propugnatori dell'ordinata e progressiva rigenerazione: «gli è troppo
tardi.»

Dunque, la ostinazione cieca d'un solo uomo avrà potuto non che mettere
a repentaglio la sua corona e sè stesso, ma la concordia e salute
di tutta l'Italia? Dunque, un risorgere così bello per misuratezza e
virtù, e degno d'essere dato ad esempio in ogni secolo ad ogni popolo,
verrà guasto e annullato dalla colpa di un solo? Quell'amicizia e
cooperazione mirabile di tutti gli ordini, quel consenso perfetto e
continuo di tutti gli animi, quella fratellevole congiunzione d'ogni
città, di ogni provincia, d'ogni Stato, non fia possibile salvare
in alcuna guisa dalla procella che, scoppiata nel mezzogiorno, non
tarderà guari ad invadere tutto il cielo italiano? Se ciò è destino,
non sì ammirino i lettori nostri sentendoci tornare più d'una volta
sulle medesime lamentazioni. Chè mai l'Italia non aveva visto e goduto
di giorni non dico sì fatti ma neppur somiglianti. Nel clero come ne'
laici, nella plebe e nei rozzi come nei dotti e civili, dalle officine
ai palazzi, dalle città ai villaggi, sempre, per ogni luogo ed in tutti
era un sol sentimento; la gioja, vo' dire, del nuovo stato, e la certa
e dolce speranza di veder fra breve l'Italia intera tornata libera e
grande. Nelle feste il pudore e il contegno, nella vita pubblica la
moderazione e l'ossequio alle leggi, in ogni atto politico la pietà
religiosa e la santità e pompa dei riti cattolici. Un aspettare non
inquieto, un domandare dignitoso, un obbedire ragionevole, un giudicare
assennato, un armarsi ed apparecchiarsi senza tumulti e con precoce
maturità di pensieri e d'affetti. E tutto ciò sparirà, dunque, in
un giorno? Tanto merito di prudenza, tanta fatica per riparare agli
eccessi, sì lungo studio per evitarli, finirà (com'è da temere)
nello scompiglio e nel sangue? Noi, benchè quasi sentiamo il rumore
dell'armi e le grida delle insorte popolazioni, benchè ogni corriere
e ogni nave che giunge rechi nuove più gravi e più avverse alla pace
e alla conciliazione, noi non possiamo disperarne del tutto, e mai non
caleremo il vessillo onorato che poco avanti spiegammo.

I mali sono profondi: mano, dunque, agli eroici rimedj. Tre ne
proporremo fallibili ed efficaci. L'intervenzione del Pontefice; la
immediata istituzione per tutto il Regno della Guardia Cittadina;
l'abdicazione di Ferdinando in favore del suo figliuolo.

Se il re di Napoli invece di comparire ne' nostri tempi, fosse nato
in quelli favolosi di Grecia e uscito dalla famiglia de' Pelopidi o
degli Atridi, i poeti, parlando di lui, avrebbero immaginato che tutte
tre le Eumenidi siedono invisibili accanto di lui, accecandolo in ogni
consiglio ed in ogni impresa, per vendicare e punire nella persona sua
molti ed antichi misfatti.

    Molte fïate già piansero i figli
    Per le colpe de' padri.

Certo è che ogni cosa ha pensato ed eseguito a rovescio; e quando era
bello di resistere ha conceduto, e quando di concedere ha resistito.
Mai nè i tempi nè gli uomini, nè il valor delle cose, nè i pensieri
e le esigenze del secolo gli sono comparse nell'aspetto loro verace e
istruttivo. Sedici anni d'impero assoluto, invece d'illuminarlo, son
venuti vieppiù annebbiando la non molta intelligenza che à da natura.
Al presente, a lui mancano per intero i due soli mezzi d'ogni regno
e d'ogni comando, il farsi amare o il farsi temere; e similmente, gli
vien fallita quella facoltà che è base e strumento d'ogni transazione
e riconciliazione, il dare e il ricever fiducia. Per nostro avviso, è
necessità suprema di fatto, che re Ferdinando abdichi volontariamente,
e lasci in suo luogo il figliuolo con una reggenza. Noi ripiglieremo
presto il discorso e la trattazione di sì grave materia.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


IL PASSATO E IL PRESENTE DI NAPOLI.

I.

                                                          31 gennajo.

Delle Provincie italiane la più disgraziata ci è sempre paruta la
terra di Napoli. In tutte l'altre, la fortuna girando sua ruota,
ha spinto i popoli, almeno per qualche tempo, in sull'alta cima. In
Napoli io non so quando quella ingegnosa e stupenda natura di uomini
abbia potuto mostrare appieno ciò che sente e che vale. Ogni sorta di
gente straniera ha corso e occupato il paese loro, e trattatolo come
conquista: onde tutte le specie di tirannide ha sostenute, tutte le
forme più improvide di governo ha provate; e quelle che lo potevano
prosperare e difendere, sono cadute appena comparse. Nel mentre
che nella rimanente Europa civile la feudalità rovinava, nel Regno,
per contro, parea col dominio Spagnuolo accrescersi e fortificarsi;
od almeno crescevano le angheríe e i soprusi, cresceva la boria e
l'insolenza dei baroni inverso de' popoli: certo mai non ha pesato
sopra una colta nazione e ricca d'intelletto e di cuore un reggimento
più funesto e più distruttivo di quello dei Vicerè Castigliani. Si
giudichi dopo ciò, qual tempra robusta d'animo e d'intelligenza sia
stata dalla natura impartita ai Regnicoli per avere non che resistito
a sì gran cumulo di sventure, ma dato a quando a quando segni tanto
mirabili or di energia e fermezza, or di eroica magnanimità, or di
luminoso e rapido incivilimento.

Ma, da ormai mezzo secolo le vicende del reame di Napoli corrono più
del consueto straordinarie e terribili; e variando sempre d'aspetto,
questa sola simiglianza hanno mantenuta con sè medesime, di non mai
riuscire a bene ed a salvamento di quella tanto nobile parte d'Italia.
Chi non sa le stragi del 99, la formidabile sollevazione delle
Calabrie, il tempestoso regno di Gioacchino, e la guerra infelice da
lui tentata nel 1815 a nome dell'indipendenza italiana? A chi non è
noto l'insorgere del ventuno, l'invasione degli Austriaci, il modo sì
deplorevole con che cadde la libertà, le vendette e oppressioni di poi
succedute, gli sforzi e i tentamenti per iscuotere il giogo, sempre con
audacia rinnovellati e sempre conchiusi con le prigioni e i patiboli?
Veramente, quella provincia è stata ed è tuttavia terra vulcanica, e il
Governo ha di continuo camminato

                     _per ignes_
    _Suppositos cineri doloso._

Ma in ventisei anni già corsi dall'annullamento della Costituzione, è
mancato affatto a quel Governo il senno e l'abilità di procacciarsi
altro migliore sostegno che i gendarmi e gli Svizzeri: onde per lui
nessuna forza morale può supplire alla materiale; quando non si voglia
chiamar del nome della prima quella prostrazione di animo in cui gli
onesti e generosi spiriti eran caduti, e lo sgomento rimasto in essi
dell'armi straniere, e il sentirsi e il vedersi sfregiati innanzi
all'Europa e innanzi a' proprj occhi: tutte cose di cui il Governo non
arrossiva di farsi arme e puntello.

L'effetto peggiore e più amaro di tal traviamento e di tal servaggio è
stato l'abbiezione e la corruttela. Diciamo l'effetto peggiore, perchè
dove l'animo non è troppo corrotto, le buone leggi tosto il risanano;
ma dove la depravazione abbonda, le buone leggi e le libere istituzioni
non bastano, ed anzi rischiano forte di essere contaminate e guaste
esse stesse. Gli è un fatto, che ovunque l'ingegno e la fantasia sono
più pronti, il sentire più vivo, l'indole più passionata e focosa,
quivi la servitù reca danni molto maggiori; perchè la scaltrezza
vuol supplire alla forza, la simulazione e la frode s'assottigliano
all'infinito; e quanto sono vietati i piaceri dell'animo e l'esercizio
delle maschie virtù cittadine, altrettanto l'accensione naturale del
sangue e le blandizie del clima trascinano l'universale ai piaceri del
senso, alle sconce libidini e alle intemperanze d'ogni maniera.

Nondimeno, rispetto al Regno, è da distinguere con gran cura le
provincie dalla città capitale. In questa poco rimane, a dir vero,
di sano e d'intatto; e quella plebe singolarissima, la quale insorse
tanto animosa nella metà del cinquecento per cacciar dal suo seno
l'Inquisizione; e un secolo dopo tenne fronte ella sola, può dirsi, a
tutta la gran potenza Spagnuola; e più tardi, in sul primo invadere
delle truppe francesi, mostrò a Championnet come in una città non
murata e senza armi rimanevano ancora nel nudo petto e nelle pronte
braccia del popolo fortissimi baluardi; quella plebe, diciamo, perdendo
il rozzore della barbarie, non per ciò ha contratto la dignità e
gentilezza civile, e con lo smettere a grado a grado le sue vecchie e
profonde credenze, nessuna nuova ne ha guadagnata: onde rimane una cosa
informe e scomposta, che non ha sembianza nè nome, e più s'approssima
al vizio che alla virtù.

Ma nelle provincie, massime negli Abruzzi e Calabrie, lo stesso
vivere appartato e poco socievole, le ricchezze men che mediocri, le
possidenze minutamente spartite, il trarre pressochè ogni sussistenza
dall'arti agrarie, certa semplicità di costumi durata per mezzo a
mille mutazioni, hanno conservato, per gran ventura, fra quelle genti
molta vivezza di affetti nobili e di pensieri liberali, accanto a molta
naturale bontà e schiettezza.

A ogni modo, noi siamo di quelli che reputano, che in popolazioni
eziandio guaste e degeneri, il numero dei non corrotti è infinitamente
superiore, e valgono a riparare ogni male e ricondurre ogni
sanità, posto che il vogliano fermamente, e che la bontà loro (nol
ripeteremo mai troppo) sia coraggiosa ed attiva. Per ciò ardentemente
desideriamo, che a qualunque altra innovazione nel Regno preceda la
istituzione della Guardia Cittadina. Imperocchè, tra gli altri profitti
notabilissimi che reca tal Guardia, debbesi annoverare la fortunata
necessità in cui pone gli onesti e assennati a divenire solleciti ed
operosi del bene comune, e a compiere una intervenzione gagliarda e
continua tra la tirannide e la licenza.

Per la ragione medesima, desideriamo e con calde istanze chieggiamo
l'intervenire del Pontefice; essendochè la sua voce e l'autorità sua
serviranno d'esempio e di sprone a tutti quei tepidi, benchè buoni,
i quali altrimenti starebbersi muti ed inerti, e lascerebbero andare
le cose a seconda delle immoderate passioni, e come la temerità e
improntitudine dei partiti le vuol condurre.

Ma oltre a tutto questo, a noi non esce dell'animo, che nelle nostre
provincie meridionali, se la natura sensitiva e delicatissima degli
uomini sembra con facilità stemperarsi e corrompersi, altrettanto
guarisce con celerità, e risorge e trasformasi in meglio, con istupore
di chi n'è testimonio. E certo, noi non crediamo che poco prima dello
scoppiare della rivoluzione francese i costumi della città di Napoli
tenessero dell'austero e del forte; chè anzi nella reggia e nelle
case de' grandi e sin nei chiostri e ne' seminarj v'era mollezza,
ignavia e dissolutezza non poca. Venne il turbine delle guerre e della
rivoluzione, corsero tempi e vicende le più rischiose del mondo, e fu
agli spiriti non volgari offerta occasione frequente di dure lotte e
di arditissime prove. Ora, egli avvenne che in seno di quella terra
voluttuosa e indolente, apparvero tutt'a un tratto uomini non solo non
disformi dal secolo, ma grandi come i suoi casi e forti come i suoi
rischi. Noi non possiamo se non accogliere in cuore speranze liete e
magnifiche di quella Provincia italiana ove il Cirillo, il Conforti,
il Caraffa, il Serio, Mario Pagano e cento con essi vestirono in
un momento l'animo antico, e porsero agli scrittori moderni materia
degnissima della penna di Plutarco.

Noi seguiteremo altra volta a spiegare a quali mezzi e provvedimenti
debbano por mano i nostri fratelli di Napoli per condurre a bene il
nuovo risorgimento loro, e uscire delle gravissime e difficilissime
condizioni in cui la cecità sventurata di alcuni gli ha posti.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


PALERMO BOMBARDATA.

                                                          31 gennajo.

Il supplemento dell'ultimo nostro foglio ha dato notizia che Palermo da
parecchi giorni era bombardata, e che aggiugnendosi ciò alli scontri
frequenti delle soldatesche coi cittadini, cagionava _una terribile
mortalità_. Ier sera poi ci venne riferito da testimonio oculare, che
il tredici dal Forte di Castellamare furono scagliate sulla città 132
bombe.

Nel 1821 Palermo insorse, e domandò di avere governo proprio sotto la
corona medesima, con la medesima costituzione. Nel Parlamento un'ira
ingiustissima accecò affatto il giudicio, e fu risoluto di vincere
con la forza la sollevazione Palermitana. Sbagliò il Parlamento, come
ora il Governo Napolitano; ma gli è impossibile di non osservare
e notare le differenze fra li due errori. Palermo nel 21 insorgeva
contro Napoli fatta libera, già venuta in possesso d'una forma di
reggimento politico, che in que' tempi volevasi la migliore di tutte e
la perfettissima. Oggi Palermo insorge contro un dispotismo violento
ed improvvido, e che s'incera l'orecchie per non udire richiami e
supplicazioni, e fa rispondere con le sciable agli _evviva il re_
e _le riforme_. Allora, capo della spedizione fu il generale più
reputato delle Due Sicilie, uomo di nobil cuore e di sentimenti e
pensieri liberalissimi, D. Florestano Pepe: oggi, capo e governatore
è il generale Majo, uomo spregevole affatto, e soldato inetto, e
dall'universale troppo mal visto. Allora il Pepe non accettò i sussidj
che Messina e Catania gli offrivano, abborrendo dal vedere spargere dai
Siciliani il sangue siciliano; potea tagliare i condotti dell'acqua
e nol fece; i mulini già occupati dalle sue truppe rendeva all'uso
cotidiano, in benefizio e ristoro della città; era già penetrato in
Palermo e poteva al tutto sforzarla, e non volle; e impose alle navi di
non danneggiarla, e a tutti di risparmiare al possibile le vite de' lor
fratelli.

Oggi, il Governo di Napoli non usa alcuno di tali rispetti; e incapace
di sforzar la città, la fa bombardare spietatamente; ed avventa il
fuoco su quelle venerande basiliche, in cui l'arte italiana conserva
gli avanzi e i testimonj maravigliosi di ciò che potè il nostro Genio
nella notte barbarica del medio evo. Tanta è la furia che pone a domare
gl'insorti, che rompe le costumanze e i buoni procedimenti d'ogni
nazione civile, e i quali son divenuti regole certe e costanti del gius
delle genti. Diffatti, la protesta dei Consoli da noi ristampata jer
l'altro, dà prova che niun tempo è stato lor conceduto di riparare e
provvedere così a sè stessi come ai loro compaesani. Le dimostrazioni
di fratellanza, il far luogo all'amore e alla compassione in mezzo
al conflitto medesimo, il saper temprare lo sdegno e reprimere il
risentimento, sono questa volta dal lato de' Siciliani. Dio protegga
la causa di chi fra l'armi e nel sangue non iscorda i doveri di buon
Italiano, e sente nel danno dell'avversario il danno e il dolore della
patria comune.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


IL PRESENTE E IL PASSATO DI NAPOLI.

II.

                                                          2 febbrajo.

Le cose di Napoli, chi ben le guarda, s'avviano verso d'un termine
che le assomiglia a quelle del 1820. Parecchie differenze per altro
intervengono, le quali son tutte, la Dio mercè, in favore della
innovazione presente. Noi ne darem conto ai lettori con brevità e
chiarezza, secondo il nostro istituto.

E primamente, diciamo che se l'Austria non fa disegno d'intervenire,
questo sol caso porrebbe tra oggi e il venti sì gran differenza, che
lascerebbe ai due tempi una mostra di simiglianza, e non altro. Ma
nell'Austria la voglia d'intervenire non può mancare, qualunque volta
non manchino la opportunità e la potenza. Divisiamo, adunque, per bene
quali condizioni nuove di cose difficultano la intervenzione austriaca
in Napoli.

Nel venti, la lega dei re assoluti, che per antifrasi fu detta sacra,
toccava il colmo della sua fortuna e potenza. Oggi, quella cospirazione
veramente inaudita e novissima contro le libertà dei popoli, non
solo è sconnessa e mezzo annullata, ma i governi rappresentativi
maggioreggiano in guisa da occupare ormai tutta l'Europa civile. E se
tu ne cavi la Turchia la quale è barbara, e la Russia ove ancor dura
la schiavitù, l'Austria sola accenna di voler, dove può, conservare il
pieno arbitrio monarchico: ma in Ungheria nol può, e in più altre parti
del vecchio e scrollato impero cesserà di poterlo.

L'Austria nel venti predominava in Germania, predominava in
Europa; pendevano dal suo labbro i gran consiglieri dei re; parea
rinsanguata, robusta e piena di vita. Al presente, è sopraffatta in
Germania dall'arti prussiane, poco ascoltata in Europa, incresciosa
all'universale, massime pei casi di Galizia e Cracovia e per gli orrori
dello Spielberg; la stimano tutti esausta, vacillante e decrepita: la
quale opinione, fosse pur falsa, riesce dannosa oltremodo, infin che i
fatti non la smentiscono.

Avea l'Austria nel venti quete le provincie, fedeli i popoli,
strette con vigore le redini del governo. Al di d'oggi, neppur ne'
Circoli austriaci è piena tranquillità, e dalle rupi del Tirolo alle
foci del Danubio non v'ha un palmo di suolo in cui si rincontri
buona contentezza e fidanza. Quel malumore, poi, che nel regno
Lombardo-Veneto serpeggiava qua e là al tempo della Costituzione
Napolitana, e non parea farsi intenso e profondo salvo che negli
uomini colti e bollenti d'affetto patrio, ora scoppia da tutte parti,
invade le moltitudini, e manifestasi con tali prove di virtù e coraggio
civile, da superar di gran lunga l'aspettazione medesima de' più caldi
Italiani.

Allorquando in sul principiare del ventuno l'Austria, poco dubbiosa
dell'esito, fece movere le sue truppe, lasciavasi dietro alle spalle
il Piemonte travagliato da sétte ma non insorto, e che non parea
prossimo a insorgere; e quantunque l'esercito Sardo ponessesi di poi
in sollevazione, subito discordò e si divise e tutto scompaginossi;
onde pochi reggimenti tedeschi bastarono a spegnere quel primo incendio
di libertà. Quest'oggi, l'Austria trova Liguri e Piemontesi tanto
infiammati quanto concordi, e così bene in arme e in assetto, come
docili alle leggi, ordinati nel loro ardore, e affidatissimi ne' loro
capi.

Nell'anno venti e ventuno, l'Austria scorgea buona parte d'Italia
commossa dalle opinioni liberali più in superficie che nel profondo:
v'avea società secrete estesissime, cospirazioni di ufficiali
d'esercito, scontentezza di molte provincie; ma ardor popolare assai
poco, e il sentimento nazionale appena spuntava, e, per isbaglio quasi
comune, più pensavasi alla libertà che all'indipendenza; ogni Stato
viveva in disparte e per sè, e il concetto di unione e collegazione
di popoli o non nacque o non si mantenne. Oggi, per lo contrario, il
desiderio d'indipendenza entra avanti a tutti gli altri; gli Stati si
confederano, i popoli chiamansi ad alta voce fratelli, e la vita morale
della nazione è già una, e ferve in tutti i suoi membri vigorosa e
omogenea.

Nel venti, in fine, i Principi nostri o alla scoperta o di soppiatto
tenevan con l'Austria, e taluni non vergognavano di confessarla solo
sostegno e salute rimasta alla persona e potestà loro. Al presente, più
d'uno fra essi sta dalla parte de' popoli, accetta ogni buon progresso
civile, sdegnasi dell'ingiuriosa tutela di Vienna, e gode di avere a
capo e scòrta il nome glorioso e la venerabile autorità del Pontefice.

Ora, di tutte queste notevoli differenze in fra i due tempi paragonati,
alcune rimangono ferme e indipendenti dai casi, altre si legano
all'andamento e alla fine che avranno le sollevazioni del Regno. Felice
l'Italia, se ne' popoli delle Due Sicilie sarà tanto di virtù e di
senno, da porre insieme due cose nate veramente per procedere bene
unite, ma che il volgo e i partiti disgiungono assai di leggieri: noi
vogliam dire l'energia e la prudenza.

Occorre a que' popoli l'energia, per rimovere la possibilità
d'ogn'inganno e sventare ogni trama cortigianesca, e mostrando
la gran fermezza e unione di lor desiderj, conseguire sufficiente
malleveria dell'ordine nuovo di cose. Occorre poi sopramodo a que'
popoli la prudenza, per non trascendere in cotesti atti il segno e il
termine della necessità, e saper tornare sollecitamente nell'ordine e
nell'obbedienza alle leggi.

Adoperando essi in tal guisa, e guadagnandosi e mantenendosi piena
ed intera la propensione e amicizia degli altri Stati Italiani, nè
dando ai Principi della Lega cagione legittima alcuna di spaventarsi;
l'Austria avrà tuttora contro di sè la unione che sì la sgomenta
de' cittadini d'ogni ordine, la consonanza perfetta degli animi,
la tenace confederazione di tutti gli Stati, il desiderio comune
ed inestinguibile d'indipendenza e di libertà, protetto oggimai
e santificato dalla maggiore e miglior parte del Clero, difeso da
eserciti disciplinati, e dalla mutua fede e assistenza di ventiquattro
milioni d'uomini.

Ma un'altra difficoltà, e forse la maggiore di tutte, debbono
procacciare all'Austria i nostri fratelli del Regno; e questa è di
toglierle ogni presunzione ed ogni speranza di veder rinnovati gli
errori gravissimi in cui la fortuna nemica d'Italia lasciò cadere i
Napoletani nei nove mesi che vissero di risorgimento e di libertà.
Distingueremo altra volta cotesti errori, e accenneremo i mezzi e le
pratiche più confacenti a bene evitarli.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


IL CARROCCIO,

GIORNALE DELLE PROVINCIE.

                                                          31 gennajo.

Con gran piacere leggiamo il Programma d'una nuova Gazzetta Politica
che sta per uscire in luce in Casale, e alla cui direzione intenderà il
conte Pier Dionigi Pinelli; nome che per se stesso è pegno grandissimo
della bontà del Giornale, e ne accerta particolarmente che quel
periodico mai da verun altro verrà sorpassato nella integrità e nobiltà
delle massime e delle dottrine. E veramente, quando vediamo persone
così specchiate e generose come il conte Pier Dionigi Pinelli porsi
a capo di tal sorte d'imprese, debbe ognuno augurare con sicurezza
un bene copioso e durevole per la nostra Italia; ricordandosi, fra
l'altre cose, come appresso molte nazioni, e in Francia segnatamente,
la stampa periodica sia venuta a mano di gente non molto onorevole, e
povera soprattutto di ferme e radicate credenze. Il titolo del giornale
Casalese sarà il _Carroccio_, bello e bene appropriato battesimo;
perchè, volendosi con quel Giornale prender cura peculiare dei municipj
e degl'istituti provinciali, doveasi riporre in mente ai popoli italici
quel simbolo antico de' nostri gloriosi Comuni; e il quale fu loro sì
sacro e cagionò tanto profitto, quanto forse ai Romani quell'ultimo
adito del Pretorio, ove, a modo di reliquie e di numi indigeti, stavano
raccolte le aquile e le altre insegne delle vincitrici legioni.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


ALLOCUZIONE AI NAPOLETANI.

                                                          2 febbrajo.

_Era giunta notizia che Ferdinando di Napoli, più non fidandosi di
resistere, apparecchiava una Carta costituzionale._

  Fratelli Napoletani!

La gioja che dentro al cuore ci abbonda non può rimanersene chiusa,
ma vuol mostrarsi di fuori ad ognuno; ed a voi particolarmente, o
Popoli Napoletani, aggiunti oggi a quella famiglia di patrioti che,
francheggiata dai Principi riformatori e stretta in lega santissima,
affrettava coi voti, preparava con gli scritti, predicava con gli
esempj la unione e rigenerazione di tutti i figliuoli d'Italia.

Deh! abbracciamoci strettamente, o Fratelli, in desiderio e in
ispirito, e ringraziamo dal profondo dell'animo il Dio Salvatore de'
Popoli e Datore eterno di libertà. Questi, nelle gran meraviglie che da
due anni fa comparire nella Penisola, manifestamente c'insegna che la
parola increata ha negli abissi di sua sapienza e bontà pronunziato che
l'Italia sia, e l'Italia infallibilmente sarà.

Oh quanti amari sospiri, quante angosciose sollecitudini, quante
querele sconsolatissime ci cagionavano i vostri mali, o Fratelli!
Oh come lo strapazzo indegno e la servitù miserissima d'una sì nobil
parte d'Italia spargeva di molto assenzio i cittadini banchetti e le
feste a cui entravamo! Oh come le lacrime vostre e ogni stilla del
vostro sangue dalla mannaja versato parea ripiovere sul nostro cuore, e
attristarlo dell'amaritudine della morte!

Ora godiamo delle speranze comuni, e nel puro e libero abbracciamento
dell'anime nostre esultiamo. Trenta secoli di civiltà sono già corsi
sulla Terra Italiana; e pur questo, o Fratelli, questo è il giorno
primissimo in cui gli abitatori dell'uno e dell'altro estremo di lei
possono pubblicamente e solennemente, in fatto e non in pensiero,
chiamarsi figliuoli e cittadini d'una sola gran patria. Nè cento mila
spade straniere bastano ad interdire quel grido sulle rive stesse del
Po, del Mincio e del Bacchiglione.

Fratelli Napoletani! sforziamoci con ardore e costanza operosa e
incolpevole di non rimanere inferiori all'altezza de' nostri destini.
Agli altri popoli è gran fatica il gir oltre, a noi il tornare quello
che fummo.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)



PARTE SECONDA.

TEMPI COSTITUZIONALI.


CONSIGLI AI PRINCIPI E AI POPOLI.

                                                     3 febbrajo 1848.

Noi riputiamo avere a quest'ora dato prove sufficientissime di quanto
teniamo a cuore la conservazione dell'ordine, l'unione di tutti gli
animi, la concordia fra popolo e principe. A noi sembra, pertanto,
aver conseguito qualche buon dritto di non palliare il vero e di non
dimezzarlo; ma, quando ci occorra, esprimerlo francamente, e quale il
sentiamo ed il conosciamo.

I fatti burrascosi dell'Italia meridionale non recarono (gran bontà
della Provvidenza) quel sanguinoso e profondo conquasso che temer
si potea. La rigenerazione nostra può procedere, oggi pure, ordinata
e con moto equabile, semprechè non si contrasti alla molto maggiore
velocità del suo corso, e non le si nieghino que' premj e guadagni che
già stima di avere in pugno. Occorre pertanto (e ogni giorno ci cresce
il debito di ripeterlo), che tutti i Principi della Lega intendano
questa incessante necessità, e si persuadano che ogni ritardo come è
inopportuno ed inefficace, così può riuscire odioso, e togliere ad essi
non poco credito di lealtà e non poco merito di spontanea risoluzione.
Certo, quel nobil carro, ed anzi propriamente quella nobil quadriga in
cui siede ora l'Italia e onde ai suoi destini è condotta, non potrà far
buona e regolar via, se tutti quattro i popoli non si attelano in riga,
quasi destrieri generosi, e tutti con uguale ardore e uguale prestezza
non muovono.

Che debbesi oggi da qualunque buon Italiano e sopra ogni cosa
augurare e desiderare alla patria? questo principalmente, che poco
o nulla si muti nel morale stato di lei; perchè migliore di quel
che si mostrava poc'anzi, non potrebb'essere. E quando l'Italia
ha conosciuto giorni così fortunati di concordia e di fratellanza?
quando ha goduto di simile congiunzione fra Stato e Stato, e di simile
amicizia e contemperanza fra la religione e la politica? quando vide
giammai estinte le sètte com'ora? quando cessate le cospirazioni,
ridotti quasi al nulla i partiti? quando i pensieri, i sentimenti,
le speranze, i disegni di tutti si risolvettero si pienamente in
un pensare e in un sentire universale e comune! Tutto ciò, adunque,
non dee mutare; e perchè non muti, occorre rimovere di mano in mano
qualunque cagione grave di risentimento e di turbolenza, e dare sfogo
ai desiderj divenuti impazienti e infrenabili, perocchè fatti maturi
e legittimi dalla prepotenza dei casi e del buon successo. Se da per
tutto gli animi debbon serbarsi in pieno consenso, è grande necessità
che le leggi e gl'istituti eziandio consentano da per tutto; e se non
vuolsi che le fazioni ripullulino, i savj si sgomentino, le passioni
s'inacerbiscano, convien porre in atto sollecitamente ciò che risponda
alla generale esigenza dei tempi. Jeri le cagioni di discordia parean
giacere nell'esorbitanza di certe opinioni e nell'eccesso dell'arder
giovanile; oggi possono rampollare dalle inutili resistenze e dalle
funeste dimore. Ei si vede che noi miriamo sempre al medesimo scopo,
e consigliamo con la debita modestia e imparzialità or l'una parte ed
or l'altra, e così i governati come i governanti; e però ci diamo pace
se mal ci spiegammo o male fummo capiti. Al presente, le nostre parole
debbono piuttosto che alle moltitudini addirizzarsi ai lor reggitori,
pigliando arbitrio di ricordare sentenze utili, benchè non nuove, ed
anzi vecchie quanto la civiltà umana. E già Omero le pose con rara
facondia sulla bocca del savio Fenice, il quale raccontando molto a
distesa di un re d'Etolia come troppo s'indugiasse ad appagare il suo
popolo, conclude che

    . . . . . . . . il tardo
    Beneficio rimase inonorato.

Sta col nostro animo una gran fede nella Provvidenza, che protegge ed
ajuta l'Italia; e confessiamo volentieri, ed anzi con viva letizia
il facciamo, che gli avvenimenti sono infino a qui riusciti più
avventurosi che non ci parea lecito di sperare, ed hanno contraddetto a
parecchi de' nostri timori. Con tutto ciò, non è bene di domandare dal
Cielo nuove maraviglie ogni giorno, e nè i popoli nè i re debbono in
alcuna guisa tentare Iddio. Chi non iscorge in fondo di tutti i cuori
l'ansietà e l'incertezza? Prima e presentanea cagione di sicurezza e di
calma sarà la vista desideratissima dell'armi cittadine. Colui che non
consiglia oggi a' suoi superiori la istituzione immediata della Guardia
Civica, o sconosce affatto la forza de' nuovi accadimenti, o resiste e
mentisce alla propria coscienza.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DEL NUOVO MINISTERO NAPOLETANO.

                                                     3 febbrajo 1848.

Noi non vorremmo così subito mostrarci scontenti dei nuovi reggitori
dello Stato, tanto più che si afferma non avere essi voluto accettare
il gravissimo carico, salvo che ricevendo promessa solenne di veder
promulgata una Carta. Ma la sventura di vivere il governo o in
conflitto aperto o in secreto coi governati debbe aver fine, e però
è necessario che l'universale possa di gran cuore stimare e obbedire
i supremi ufficiali; e noi dubitiamo forte, che il popolo napolitano
possa e voglia far ciò lungamente inverso i personaggi testè chiamati
da re Ferdinando. Quattro di loro sono principi. Io non partecipo alle
ingiuste preoccupazioni del volgo contro i gran signori: ma so che ad
essi è, in generale, troppo difficile il pensare e il sentire come la
maggior parte del popolo: so di più, che in Napoli parecchie di quelle
stirpi di gran titolati sono degeneri affatto e d'assai poca levatura:
e so infine, che agli errori quivi commessi debbe assegnarsi per cagion
principale, la turba inetta dei nobili cortigiani, che sconoscendo i
tempi e le cose, adulava e accecava il monarca.

Nel presidente del Consiglio, Serra Capriola, è molta onestà e naturale
benevolenza, e qualche pratica delle corti: ma troppo manca perchè
l'ingegno e l'animo suo pareggino le difficoltà del grado e del nuovo
reggimento, e dieno pegno bastevole di amare fortemente le libere
istituzioni. Assai minor pegno può darne il Cassero, che già più anni è
stato ministro quando, non dico la libertà, ma le miglioranze politiche
d'ogni maniera trovavano chiuse tutte le porte della reggia e dei
ministeri. Del Bonanni dicono che abbia, parecchi anni addietro, patito
guai per le sue liberali opinioni; ma fama di abilità e di politica
scienza non gode. Il sol nome caro ai Napoletani è il Colonnello
Cianciulli; uomo di spiriti moderatissimi, ma integro, illibato,
caldo dell'onor nazionale e amico sincero di libertà. Però, logoro e
cagionevole da gran tempo e desideroso di quiete, gli è da temere che
sopportar non possa tutta la gravezza di un tanto ufficio.

Del resto, quel nuovo ministero dee forse unicamente segnare un mezzo
tempo, ed agevolare un passaggio fra 'l regno dell'arbitrio e quel
delle leggi. Ma non ho mai veduto simili tentamenti e saggi riuscire a
bene e a profitto: per consueto, scontentano le due parti, e provocano
le moltitudini. Ad ogni modo, il ministero presente napolitano, nel suo
tutto insieme, non si confà per nulla con le esigenze e le pratiche
dell'Era nuova che in Italia incomincia. Noi ci siamo affrettati a
manifestare tal nostra opinione, perchè in Napoli più che altrove gli
uomini hanno fatto gabbo alle leggi; e ognun ricorda i danni gravissimi
che produsse nel 1820 e 21 quell'aver lasciato maneggiare la cosa
pubblica da gente poco devota alle franchigie costituzionali, e più
disposti a tollerare il giogo tedesco, che l'impero del popolo, e le
fatiche e i pericoli della libertà.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


COSTITUZIONE DESIDERATA DAGLI ITALIANI.

                                                     6 febbrajo 1848.

La parola Costituzione giunge gradita oltremodo agli orecchi del
popolo, non già perch'ella gli svegli in pensiero un concetto chiaro
e ben definito di tutto quel che significa, ma perchè gli ricorda
queste due cose bellissime e desideratissime, _Libertà e Guarentigia_
Conviene, pertanto, distinguere in una Costituzione ciò che ha virtù
e sodezza di fondamento ed è affatto universale, da ciò che muta e si
trasforma secondo l'indole delle nazioni e le varie contingenze dei
tempi e dei casi.

La prima parte, pertanto, è quella che, supposta certa maturità di
opinioni e certa efficacia di avvenimenti, mal si farebbe d'indugiare a
mettere in atto. L'altra invece (come si notava, fa pochi giorni, nel
_Corriere Mercantile_) ricerca molta meditazione e lunga disamina per
riuscire a bene, e adattarsi con proprietà e giustezza alle condizioni
peculiari d'ogni paese. In cotesta seconda parte si racchiude eziandio
la risoluzione ed applicazione di molte dottrine che non sono ancora
uscite di controversia; laddove la prima più non porge materia di
dubbio, e i suoi principj sonosi fatti, quasi a dire, massime di senso
comune, e come tali compariscono ne' nostri tempi in tutte quelle
provincie del mondo civile in cui mette radici la libertà.

In essi principj si raccoglie e conchiude quel general concetto della
forma migliore politica che l'epoca odierna venne trovando. Così
accadde della scienza di Stato in ogni tempo e in ogni contrada; e
quelle nazioni nel cui intelletto luceva l'idea d'un'ottima forma
politica, mai non conobbero vero riposo e prosperità insino a che
non la conseguirono ed effettuarono. Ad onta degl'infortunj nostri
grandissimi, la natura ci ha di tale e tanto ingegno forniti, e abbiam
conservato avanzi così notabili della civiltà e sapienza antica, che
la forma generale dei governi rappresentativi ci comparve la migliore
possibile e la più conveniente all'età in cui viviamo, prima ancora
che Montesquieu cantasse l'apoteosi della costituzione inglese.
Tutto ciò che è di poi accaduto, non altro poteva indurre nell'animo
degl'Italiani salvo che un più fermo e invitto convincimento di quella
verità: e però, chi governa l'Italia dee credere con gran saldezza che
questo si è l'inveterato e radicatissimo desiderio nostro, al quale
oggimai non sembra potersi altramente resistere che usando la forza
delle scimitarre straniere.

Ora, tornando alla distinzione di cui, poco è, parlavamo, occorre di
ricordare, che i fondamenti d'ogni qualunque costituzione debbono star
riposti nelle libertà e guarentigie sostanziali e primarie del diritto
privato e pubblico. E tali libertà e guarentigie riduconsi propriamente
alle cinque infrascritte, cioè: 1º La facoltà compiuta di pubblicare
le proprie opinioni. 2º La Guardia Cittadina. 3º Ministri sindacabili,
e però eziandio punibili. 4º La nazione chiamata per via di
rappresentanti a discutere e a squittinare le leggi e le imposte. 5º La
libertà personale, e l'altre sicurezze e tutele a cui particolarmente
provvedono i Codici. Qualunque di coteste franchigie e malleverie
mancasse in una Costituzione, o vi stesse in mostra ed in apparenza
più che in effetto, farebbe perdere a quella ogni suo valore, perchè
tutte si legano e si mantengono mutuamente; ed in altro caso, ella
somiglierebbe affatto ad una fortezza in cui moltissime porte fosser
guardate eccetto che una: e così nello Stato, per quel solo special
difetto di libertà e di sicurezza, entrar potrebbero a mano salva la
tirannide o la licenza.

Segue dal fin qui espresso, che ciò che importa di promettere
sollecitamente e in modo solenne ed irrevocabile, sono le cinque
istituzioni summentovate; ed anzi, l'ultima è in buona porzione di già
conceduta e sancita nei codici nuovi. Le due prime poi, con le quali,
a dir vero, componesi la universal mente e il braccio vigoroso del
popolo, come possono venire immediatamente ad effetto, così dovrebbero
esser date e compite senza dimora. Invece, per la seconda parte che
versa sui modi più confacenti di rappresentar la nazione nei congressi
legislativi, e sul restringere od allargare le pertinenze di questi,
e sull'altre materie attinenti; noi desideriamo assaissimo, che in
cambio di promulgare e ottriare in fretta simili leggi e istituti,
vogliasi innanzi ponderarli per bene e con gran diligenza e fatica,
e giovarsi di tutto il senno che emerge dalla pubblica discussione;
onde quelli sieno come il portato ed il parto della migliore sapienza
civile italiana. Passò quel tempo in cui gli statuti e le leggi
uscivano dai penetrali del tempio, o dalla mente d'un solo ed unico
saggio. Ora i popoli sono legislatori a sè stessi, e non riconoscono
mai in veruno il diritto assoluto di prevenire e d'interpretare ad
arbitrio suo il giudicio e la scienza comune. Certo, se al re di
Napoli fossero sovvenute queste verità, non avrebbe in quel primo
disegno di patto costituzionale specificate certe forme politiche,
le quali trovando subito contradittori, o scemarono il pregio ed il
credito della concessione, o indussero a desiderare che la legge non
appena nata venisse mutata: brutto abito contratto dai popoli servi,
alli cui sguardi la legge non ha nulla d'augusto, nulla di sacro e
d'inviolabile. Raro è che le nazioni sieno dalla fortuna condotte in
istato di potere alzare da' fondamenti, e quasi a piena lor voglia
e con un disegno preordinato, l'arduo edificio delle istituzioni
loro politiche. Ma più raro è ancora, che di tale facoltà preziosa e
fuggevole sappiano ritrarre utilità e profitto largo e durabile: chè
anzi quasi sempre sonosi vedute le leggi fondamentali uscire alla luce
o per concorso strano di casi, o da un conflitto passionato e violento
di parti, o dall'intelletto di uomini men che mediocri, balzati dalla
fortuna in cima alla ruota, e che per accidente trovavansi strette
in mano le redini dello Stato. Facciamo noi miglior senno, se gli
è possibile; e sempre ci dimori innanzi alla mente, che in noi si
trasfuse e il sangue e l'ingegno del più gran popolo legislatore
dell'antichità.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


LA LOMBARDIA E IL METTERNICH.

                                                     7 febbrajo 1848.

La Cancelleria di Vienna è istizzita, e nol può tacere. Ognuno sa
che le provincie dell'impero sono tutte sue figliuole carissime,
maternamente da lei governate. Fra queste si annovera la Lombardia,
la quale benchè sia figliuola prediletta, siccome l'ultima apparsa in
casa e venuta a consolare la vecchiezza della monarchia, ricalcitra
ingratamente contra i benefizj della tenera madre. E per vero, la
Cancelleria di Vienna dimostra in un articolo molto succoso, dato testè
a pubblicare alla Gazzetta d'Augusta, che il regno Lombardo-Veneto
possiede e fruisce da lunghissimi anni tutte quelle buone leggi e quei
liberali istituti, per la concessione dei quali i Romani, i Toscani o i
Piemontesi vanno in visibilio dalla gioja, e fanno di continue feste e
baldorie.

A questo osserviamo, che quando pur ciò fosse vero, resterebbe a
spiegare quel verso di Dante:

    Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

Dappoichè, ancora laggiù nel Regno stavano scritte bellissime leggi,
e ognun conosce il gran caso che ne faceva il Governo. Ma forse
Metternich o il suo segretario non intendono Dante, e occorre a ogni
modo farci sopra un po' di commento: e noi prendiam questo carico
assai volentieri, usando uno stile piano ed aperto, come si ricerca
al buon chiosatore. Diteci, pertanto, o Signori: avete voi conceduto
ai Lombardi la Guardia Civica, e una moderata libertà di stampare le
proprie opinioni? Egli è certo e provato che no: parvi dunque poco
divario avere le medesime leggi con quelle due libertà e guarentigie di
giunta? Una libertà moderata di stampa accanto all'armi cittadine, vuol
dire, e ben lo sapete, l'opinione fatta signora e governatrice: vuol
dir la mente dei savj che à il braccio del popolo per difesa.

Intendete cotal differenza? In Lombardia sono le bajonette Croate,
che quando accade, vibrano punte mortali alla cieca: e nell'Italia
media, il cittadino medesimo è fatto guardiano della libertà insieme
e dell'ordine, e però è sicuro che ogni riforma conveniente e ogni
progresso legittimo verranno di mano in mano attuati.

L'achille degli argomenti di Metternich è sempre questo: — La Lombardia
è straricca, la Lombardia è prosperosa. — Ma quante volte deesi,
dunque, suonargli all'orecchio il detto evangelico, che l'uomo non vive
del solo pane? quante volte deesi fargli entrare nel comprendonio, che
al popolo italiano non basta di far vita grassa ed allegra, e sentir
sulla sera suonar i pifferi de' Tirolesi, e vedere l'Essler trinciar
l'aria coi piedi e fare lezj e svenevolezze? Ei bisogna dire di
Metternich, salvo sempre il rispetto che gli si vuol serbare, o ch'egli
à l'anima tutt'adiposa, o che intorno di sè non vede nè conosce uomini
veri, ma gran pezzi di carne con gli occhi, e automati che respirano:
perocchè non so qual altro ministro di Stato abbia mai tenuto così a
vile il genere umano, e siesi dato a credere di poterlo governar bene
ingrassandolo e trastullandolo come si usa fare coi paperi.

Insomma, il Metternich non vuol pensare che i Lombardi e i Veneziani si
rivoltino così dispettosi e fieri per mancanza di buone leggi. — Tutti
questi tafferugli e subbugli movono, ei dice, da un _capriccio_ in cui
sono entrati, di volere insieme con gli altri Italiani costituirsi
in nazione. — E qui l'uom di Stato lascia di botto quel dolcebrusco
parlare che usa un padre col suo beniamino un po' scapestrato e
bizzarro, e ponendosi le mani sui fianchi e arrossando le gote,
minaccia guai a chi toccherà la corona di ferro sull'augusta fronte
del successore dei Cesari. — Costui, dice, andrà del sicuro col capo
rotto. — E forse in tal passo la minaccia sale più alto, e vuol essere
udita così di qua come di là dal Ticino. Come ciò sia, il diplomatico
senza spiegarsi da vantaggio, soggiunge: — Ma non verranno a tanto quei
sussurroni Lombardi; e però puniremoli non secondo le intenzioni, ma
come porta il fatto. Essi ci forzano a tener grosso esercito lungo il
Po e l'Adda, e sembra che l'incomodo della spesa maggiore cagionata
dal lor _capriccio_ non è per cessare domani nè doman l'altro: però
decretiamo fin da quest'ora, che ogni soprapiù di spesa verrà pagato
e rifatto in contanti dai signori Lombardo-Veneti, e i più ricchi ne
saranno pelati al dovere. —

Troppa fretta, o Principe! ei non si può dir quattro finchè non si à
nel sacco. Il cielo è nuvolo molto, e mal coprite con la franchezza e
baldanza delle parole l'apprensione e sollecitudine fiera dell'animo.
Voi toccate ormai la decrepitezza, e pure (confessatelo) voi non vi
siete imbattuto mai a vedere in Italia ed in Lombardia quello che ora
vi scorgete. Paese nuovo, nuova vita, uomini nuovi; e i mille sintomi
che d'ogni lato appariscono, fannovi argomentare una malattia sì
profonda e talmente maligna ed appiccaticcia, che tutta la spezieria
dello Spielberg non la guarisce.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


LE CAMERE FRANCESI.

                                                     8 febbrajo 1848.

In Francia nella Camera dei Deputati non d'altra cosa s'è ragionato
e discusso per due giorni interi, salvo che d'Italia e del suo
pieno risorgimento. Secondo il costume, i discorsi sono stati a
mostra d'ingegno e a sfogo dell'animo, non a mutare una virgola
nell'allocuzione o indirizzo, come ora il chiamano. Ciò nondimeno, alla
causa italiana non nuoce aver sentito pronunziare parole caldissime
in suo favore; e noi dobbiamo ringraziamenti a quei molti oratori
che hanno provato di amarci, e in particolar modo al Lamartine ed
al Thiers. Certo, quando il primo ha descritto lo spirito nazionale
italiano sempre vivo e rinascente, e il secondo ha versato a man
piene la lode sul nostro sforzo ordinato e gagliardo per attingere
la indipendenza e rinverdire la gloria degli avi, ardea nel lor
favellare una fiamma che rade volte sfavilla al presente nelle arringhe
parlamentarie francesi. Così pure, quando Thiers ha mosso discorso di
Palermo bombardata e delle uccisioni di Milano, e quando per simili
atti ha chiesto che in fondo al cuore di tutti i buoni sorga e ferva
quello sdegno giustissimo che per simili altre scelleratezze ha
commosso l'Europa, subito è parso eloquente e sublime, perchè i santi e
incancellabili dritti dell'uomo tuonavano sulle sue labbra. Per ciò noi
gli condoniamo quell'eccesso di orgoglio francese, per non dir vanità,
il quale gli fe pronunziare, che ogni cosa in Italia, qualora non sia
per le mani stesse della Francia operato, è, del sicuro, operato dal
Genio di lei. Tocca a noi di fare che ciò non sia, e che il solo Genio
italiano presieda alle sorti italiane.

Quanto è poi ai termini stessi della controversia, bisogna con molta
cura distinguere ciò che s'attiene direttamente alla Francia, e alla
lunga ed aspra contesa che l'opposizione sostiene contro il Guizot,
distinguere, dico, e separar l'uno e l'altro, dall'estimazione e
giudicio che dee farne l'Italia per sua propria norma ed utilità.

Il Guizot, nella discussione intorno le cose d'Italia, esponeva con
nettezza e franchezza maggiore che per addietro le massime direttive di
sua politica, o vogliam dire della politica di Luigi Filippo.

«Il nostro governo si fa debito, diceva egli, di conservare i fatti
consumati e accettati, e i diritti perdurabili e positivi; e ciò
per iscansare le rivoluzioni e le guerre. Esso accoglie, pertanto,
i trattati quali sussistono, e quelli del 15 specialmente, perchè
sono base dell'ordine moderno europeo. Esso vive, non che in pace ma
in osservanza e amicizia con tutti i governi, e combatte dove può e
quantunque può la demagogia. Se a Cracovia l'Austria ruppe i trattati,
noi ben l'avremo in memoria: ma non per ciò imiteremo lei ed i suoi
colleghi nell'infrazione dei patti. Abbiam usato in Italia il massimo
d'ogni sforzo per ajutare le riforme: più là v'è la guerra, la qual non
vogliamo e non possiamo volere. Ogni acquisto o perdita di territorio
trascina oggi a conflitto tutte le armi d'Europa: l'Austria assalita
sul Po non difenderebbesi sola.»

Queste e altrettali ragioni rispondeva il Guizot al Lamartine ed
al Thiers; ragioni connesse con un sistema il quale non rispondendo
all'esigenze naturali e legittime dei Francesi, è per la forza logica
stessa de' suoi principj pervenuto a conseguenze che sentono del
paradosso; e tra le quali poi il Guizot, passionato più che non sembra,
meschia non poche amplificazioni: e tale è senza dubbio quell'accusa
perpetua di radicalismo che scaglia sulla Penisola, e quel dire che
v'ha un partito gagliardo fra noi, a cui sta in mente di menare il
Pontefice a rimpastare tutta l'Italia e costituirvi un reggimento
quasi repubblicano. D'altra parte, la medesima esagerazione lo muove
a chiamar l'Austria del dolce nome di amica e di collegata, e lodarla
segnatamente di molta moderazione, e del compiacimento sincero che
prova per le riforme che vede altrove attuarsi.

Ma persuadiamoci bene, che non si confuta e non si atterra tutto
un sistema politico, salvo che contrapponendolo ad uno od a più, i
quali oltre al mostrarsi connessi e coordinati in ciascuna parte,
debbono eziandio comparire pratici ed operabili, e insegnar la guisa
di adempiere il lor disegno speditamente e con somma probabilità
di successo. Ora, a nostro giudicio, questo non fu mai definito e
insegnato dagli oratori della sinistra in modo chiaro e persuasivo; e
i discorsi facondi e splendidi loro negano e distruggono (la più parte
almeno) ma non edificano; e percuotono l'avversario di piatto ma non di
punta, ne' fianchi ma non mai nel mezzo del petto.

Voi temete sopra ogni cosa, noi diremmo al Guizot, le rivoluzioni
e le guerre: ma gli è agevole ritorcere contro di voi gli argomenti
vostri medesimi; perchè, sempre l'Europa vivrà in giusto sospetto e
paura delle rivoluzioni, e però delle guerre, infino a che i diritti
di molte nazioni sieno conculcati, e il gius delle genti non nel
bene comune e durabile, ma nella prepotenza di pochi avrà base. Tra
il rompere e il calpestare i trattati, ovvero osservarli pur come
stanno, e volerli intangibili e inviolabili, corre molto intervallo;
e vi giace in mezzo ciò che è sol degno d'una sì gran nazione come la
Francia, vale a dire osservare i trattati e chiederne e conseguirne
alla fine le necessarie modificazioni, e che le parti affatto sleali
ed inique ne vengan rescisse. Del pari, v'à qualche cosa in mezzo
tra il rispettare ciecamente la lettera dei trattati quando da tutti
i contraenti si faccia il simile, e rispettarli con tale scrupolo
quando gli altri, occorrendo, li trasgrediscono. Delle due parti che
compongono l'influenza politica esterna, cioè di quella che esercitar
si vuole sui re, e dell'altra ch'esercitar si vuole sui popoli, voi
sempre ed unicamente pensaste alla prima, e la seconda avete distrutta.
Eppure, in questa soltanto è la forza e grandezza morale della nazione
francese. Se in diciassette anni di pace non à la vostra diplomazia
saputo o voluto far nulla per emendare i trattati e porgere mano alle
nazioni che soffrono, voi brillate a giusta ragione fra i filosofi e
i cattedranti, ma uomo di Stato non siete. E se la paura delle guerre
e delle rivoluzioni dee fare immobile la politica e perpetuar le
ingiustizie, converrebbe chiamare la diplomazia un'arte deplorevole di
eternare il male e fare impossibile il bene.

A queste conclusioni, o ad altre poco diverse, è giunto sempre il
nostro pensiero, quante volte si è fermato a considerare la lite
acerba e ostinata che ferve da tanti anni in Francia tra il ministero
e l'opposizione. Ma riducendo ora il discorso alle cose nostre e al
giudicio che far dobbiamo di quei caldi dibattimenti, rispetto al
bene della causa italiana, ci sembra poter fermare le proposizioni che
seguono.

Le moltitudini in Francia sono inchinevoli e favorevoli alla causa
italiana.

Il ministero vuol conciliare due cose troppo nemiche; la sua buona
colleganza con l'Austria, e l'ajuto al risorgimento italiano.

Ad ogni modo, egli non potrà combatterlo scopertamente, nè avversar
molto i Principi nostri nel proposito saldo che ànno di concedere
maggiori franchigie e statuti rappresentativi.

L'Inghilterra ci favoreggia più alla scoperta e senza ritegni, e solo
domanda che non si rompa lo statu quo, in risguardo della possessione
di territorio.

Ma rotto che fosse, non moverebbe l'armi per ristorarlo.

Il ministero francese, quand'anco volesse in quel caso stare dal lato
dell'Austria, non par probabile che il potesse, perchè troppa ingiuria
recherebbe ai sentimenti liberali di sua nazione.

A noi, dunque, rimane arbitrio di proseguire nel cammino di libertà
in ciascuno Stato non sottomesso alla forza austriaca. In caso poi
di conflitto, ciò che par possibile a prevedere si è, che l'Europa
rimarrebbesi spettatrice. Nè altro noi domandiamo: l'Italia farà da sè.

La diplomazia europea non ci recherà, dunque, nè molto bene nè molto
male. Uniti ed armati, d'ogni nemico trionferemo, d'ogni impresa
verremo a capo; disuniti e sprovvisti, a niuno darem suggezione,
e s'aprirà di nuovo il mercato del nostro sangue e delle nostre
provincie.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


SULLA COSTITUZIONE CONCEDUTA IN PIEMONTE.

I.

                                                     9 febbrajo 1848.

Inutilmente noi ci sforziamo di contenere la nostra gioja e
padroneggiare il nostro animo, sì che possa questo foglio farsi organo
men difettivo ed araldo meno infedele della pubblica esultazione. A
noi pure, come al popolo intero di Genova, manca modo di raccontare
quel che sentiamo; e invece di parole, ci corrono al labbro tronche e
sospirose esclamazioni: conciossiachè pure il gaudio supremo guarda il
cielo e sospira.

Ecco sorge, ecco splende sul nostro capo il giorno fortunatissimo,
l'aspettato da cinquant'anni. Ecco ci sta presente e stringiam con mano
il frutto sublime di tanti travagli e pericoli, e il subbietto d'un
desiderio infinito. Ecco l'ultima maturezza dei tempi, il suggello
d'ogni nostra speranza, il fatto primo e novissimo ch'era in cima
d'ogni nostro pensiere, informava il più degno e profondo de' nostri
affetti, e fin dalla tenera giovinezza svegliò nell'ingenuo cuore i
primi moti generosi, e suscitò i germi vivaci d'un sentire forte e
magnanimo. Quel nome che per lunghi anni fu mormorato a bassa voce, e
nudrì e crebbe nel silenzio e nell'ombra la religione nostra politica;
quel nome che parea suonare infortunio, e mai non usciva scompagnato da
un gemito; quel nome che epilogava tutte le libertà, significava i più
fervidi voti, riempieva di sacro ardore tutto lo spirito, ora (bontà di
Dio) esce aperto e risonante dal labbro — Viva la Costituzione! —

Il sangue dei martiri ha fruttificato; le voci alzate dal fondo delle
prigioni giunsero all'orecchio di Dio; le amare e copiosissime lacrime
dei raminghi e degli esuli sono state convertite in rivo di ubertà,
in rugiada fecondatrice; e il fiore immortale e divino della libertà è
spuntato.

— Viva la Costituzione! — con tal grido sul labbro è lecito infine
ai Liguri e ai Piemontesi, lecito ai figliuoli tutti d'Italia di
ripigliare intera e lucente la dignità d'uomo, conquistar quella di
nazione, e sentirsi fremer nell'animo l'alterezza del nome italiano.

Fratelli e figliuoli d'una sola gran patria! stringiamoci caramente,
stringiamoci tutti in quello amplesso ineffabile di cui l'anime sole
sono capaci; e tra gli affetti gagliardi e soavi che d'ogni parte
c'investono e assalgono, predomini di presente la gratitudine, e sia
calda, sincera, abbondevole e quanta ne può capire in umano petto.
Primieramente, chiniamo le ginocchia al Signore Iddio, al largitore
eterno di ogni libertà e d'ogni gloria, e che degna scuotere dal
sonno di morte e dalla polvere dei sepolcri le razze latine, sempre
risorgenti e non mai periture. In secondo luogo, volgiamo l'animo
conoscentissimo a re Carlo Alberto, e ringraziamolo del gran benefizio
nel modo migliore e più conveniente d'un popolo rigenerato; facendogli,
cioè, solenne promessa di seguitar dappertutto la sua spada e le sue
bandiere, e di spendere per la sua Causa, che è la Causa d'Italia,
tutto il sangue nostro e de' nostri figliuoli.

— Viva Carlo Alberto! — Oggi egli è il più lieto e più avventuroso dei
Principi, conciossiachè gli avviene ciò che troppo radamente incontra
a chi siede sul trono; cioè di possedere certezza perfetta, che le
lodi le quali ascolta sono affatto leali e spontanee, e che vero è il
gaudio, vero l'amore, vera la felicità de' suoi popoli.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


II.

                                                    10 febbrajo 1848.

Noi siamo ancor tanto pieni di vera letizia e di gratitudine per la
conceduta Costituzione, che non vorremmo e non sapremmo far luogo
ad alcuna indagine critica intorno al suo contenuto, qualora ciò non
venisse a noi comandato dal nostro ufficio medesimo, che è una specie
d'intellettuale magistratura ordinata a illuminare le moltitudini: e
oltre a questo, ci sorge in pensiero, che il nostro esame può riuscire
non tutto disutile così per le provincie italiane ove ancora non
sono Governi rappresentativi, come per li medesimi Stati Sardi ove il
disegno intero del patto costituzionale non è compiuto.

Egli è manifesto per quello che noi dettavamo lunedì scorso nella
_Lega_, che molta maggiore soddisfazione ci avrebbe recato il
veder promulgare un decreto, ove promettendosi solennemente al
popolo d'investire i suoi deputati della facoltà legislativa, e
concedendoglisi l'uso immediato della libertà della stampa, e la
istituzione pure immediata della Milizia Cittadina, fossesi pel
rimanente significato di aspettare consiglio dal tempo, dalla scienza e
dalla pubblica discussione.

Forse il nostro Governo ha pensato che in Piemonte, ove può d'un subito
alzarsi l'incendio di guerra, e al canto giulivo degl'inni succedere
d'ogni parte il rimbombo dell'armi, dovesse provvedersi perchè le genti
non fossero di soverchio commosse e preoccupate dall'alte questioni di
forme e diritti costituzionali.

Nell'articolo quattordicesimo dell'insigne decreto degli 8, si annunzia
che v'ha chi prepara, per comando del Principe, il disegno intero
dello statuto fondamentale. Noi pigliamo fiducia che que' consiglieri
di Carlo Alberto a cui fu commesso il più grave e il più malagevole
di tutti gl'incarichi, farannosi coscienza di consultare gli uomini
più avvisati e meglio istruiti, e vorranno far buon tesoro di tutte le
cognizioni e giudicj che l'opinion pubblica espone di mano in mano con
l'organo della stampa.

Due cose ottime sono nel mondo; la scienza consumata di pochi, e
il buon criterio istintivo delle moltitudini. La perfezione sta nel
congiungere insieme tali due termini. Ma vicino ad essi è una terza
cosa non buona; e ciò è la presunzione e la falsa dottrina di quelli
che, tirati su pel ciuffetto della fortuna, o ricchi d'un bel casato e
poveri d'ogni altro bene, o infine avvezzi da lunghi anni al maneggio,
direi quasi, meccanico delle faccende di Stato, spaccian sè stessi per
grandi uomini, assediano tuttogiorno il Principe, nè sopportano che
esca loro di mano la lavorazione delle leggi. Ora, i tempi domandano
assai imperiosamente, che in luogo di questi tali sieno molto più uditi
i pochi veri sapienti tenuti discosto ed inonorati, e il buon criterio
istintivo d'ogni porzione onesta ed illuminata del popolo.

A noi non sa male la istituzione di due parlamenti, ed anzi la
reputiamo utilissima; perchè, come dice uno scrittore italiano,
«Innovare è mutare, e il mutamento solo non è progresso: adunque,
si fa necessaria la identità e permanenza allato alla mutazione; e
però necessaria si fa la scienza del conservare..... Ma rado è che
coloro i quali sanno ben conservare sappiano altresì innovare; ed,
e converso, rado è che gl'ingegni novatori e inventori sappiano e
vogliano serbare e modificare l'antico. Ma pur bisogna alla umana
società le due sorti d'intelletti e di spiriti insieme contemperare,
affine che la conservazione non diventi superstiziosa, nè l'innovazione
o falsa o immatura o malefica.»[9] Ora, tale contemperanza ritrova
la repubblica con la istituzione appunto di due consessi legislativi.
Nè ciò è nuovo de' nostri tempi, o è dottrina inglese e francese, ma
scaturisce, come vedesi, dall'indole universale e dalle condizioni
perpetue del convivere umano. Ma perchè tali due consessi riescano al
fine loro, uopo è che in ciascuno risieda una forza propria morale.
Ciò posto, quel parlamento che è tutto e solo ordinato ed eletto dal
re, sembra investito di pochissima autorità negli occhi del popolo,
dacchè all'ultimo non è il principe ma sibbene i ministri che scelgono
e chiamano a quella dignità ed ufficio: quindi se ne forma un consesso
affatto ministeriale, che non vien creduto e non è, nel fatto,
indipendente abbastanza. Ma noi ci rifaremo tra breve a parlare di
questo subbietto.

Nell'ordine e costruzione delle pubbliche guarentigie, la milizia
cittadina fa giusto riscontro alla libertà della stampa, e sono ambedue
le maggiori e più salde colonne del vasto edificio. Per vero dire, la
milizia _Comunale_ promessa dal regio decreto degli 8, non sembra poter
rispondere pienamente agli alti concetti di malleveria e di franchigia
che sogliono presedere alla istituzione e all'ordinamento della Guardia
Nazionale. Stando alle condizioni presenti del Regno Sardo, neppure
uno dei capi di bottega e di fondaco entrerebbe nelle righe della
Milizia Cittadina, essendo ch'essi non pagano censo alcuno diretto; e
posto eziandio che in processo di tempi sia deliberato che il paghino,
rimarrebbesi esclusa dal corpo di quella Milizia tutta la immensa
moltitudine degli operai; e ciò non crediamo nè provvido nè molto
legittimo. La legge non dee nè può senza ingiuria porre quelli affatto
in disparte, ma sì li debbe esentare dall'obbligo; conciossiachè il
costringerli loro malgrado ad interrompere di quando in quando il
lavoro onde traggono di continuo la sussistenza, sarebbe eccessiva
gravezza.

Da ultimo, nel vedere copiata a lettera la disposizione
dell'ordinamento francese la quale serba al Sovrano la facoltà di
inabilitare o sciogliere la Milizia Cittadina nei luoghi dove crederà
opportuno, ci è corso all'animo il desiderio che tal potestà fosse
accompagnata dall'altro savio temperamento della legge francese, la
quale assegna al Governo un termine certo di tempo entro a cui debbono
que' corpi disciolti di Milizia Cittadina venire rifatti e riordinati.

Tutto ciò abbiamo notato per iscrupolo quasi di pubblicista, e per
recare qualche utile alle rimanenti deliberazioni. È legge dell'umana
natura desiderare il bene, e questo conseguito, desiderar l'ottimo ed
il perfetto.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


D'UNA MARINERIA ITALIANA.

                                                    10 febbrajo 1848.

Io non istarò a numerare tutti i gran beni che recheranno all'Italia i
casi e le condizioni nuove di Napoli e di Palermo. Pure dirò qualcosa
a rispetto d'un particolar vantaggio che debbe uscirne per la comune
difesa.

Di tutte le Provincie italiane, Napoli è la meglio fornita di marineria
da guerra, massime in bastimenti a vapore. Questi, la maggior parte,
sono ottimamente costrutti, benissimo corredati, e nelle varie fazioni
che occorrono benissimo esercitati. Purtroppo, fino ad ora tale
esercizio ha proceduto da molto trista cagione; perchè il Governo
napolitano, più che d'ogni altro mezzo, valevasi dei legni a vapore
per estinguere rapidamente quelle prime fiamme di sollevazione che
scoppiavano qua e là in Sicilia e nel Regno. Ma Dio tragge il bene dal
male, e ciò che gli uomini ciechi propongono a un fine, Egli dispone
ad un altro. E così quelle navi che furono per tanti anni sgomento dei
popoli e mezzo validissimo di oppressione e di servitù, diverranno da
quindi innanzi buona difesa d'Italia, e a que' degni capitani che le
comandano sarà cessato il sommo cordoglio di spargere l'arte e i sudori
per ribadire i ceppi de' lor fratelli. Dico diverranno buona difesa
d'Italia, perchè supposto libero il mare, è incredibile in tempo di
guerra quale e quanto profitto possa ritrarsi da una buona squadra
di legni a vapore, massime in un paese configurato come l'Italia.
E di vero, quella squadra adoperata e diretta con accorgimento e
opportunità, tiene sempre forniti di armi, di provvigioni, di uomini e
d'ogni altra cosa acconcia alla guerra, le fortezze e i luoghi muniti
lungo le coste; ed a peggio andare, imbarca e salva le guarnigioni e le
artiglierie: e tutto ciò con somma agevolezza e prestezza.

Ma da una squadra copiosa e bene ordinata di legni a vapore si cava
in guerra quest'altra specie più notabile di utilità, che consiste
a condurre improvvisamente molte migliaja d'uomini e di cavalli e
moltissime artiglierie in qualunque punto si voglia, e farli giungere
inaspettati ad offendere o il fianco o le spalle dell'inimico: le quali
fazioni eseguite spesso e con senno, e validamente ajutate dai popoli
in mezzo de' quali succedono, soglion recare, col tempo, danni maggiori
e men riparabili d'una o due battaglie perdute.

Tutto questo bene (se Dio ci ajuti) riceverà la difesa d'Italia dalla
marineria da guerra napolitana. Ma perchè ciò succeda, conviene che
Napoli e la Sardegna non solo si dichiarino amiche, ma senza dimora
alcuna strettamente si colleghino; e il patto che le confederi non
sia solo d'interessi economici, ma di militari e politici. Chè anzi,
a dir vero, nella pratica degli affari di Stato, più malagevole assai
delle altre riesce la Lega economica. Per fermo, a volersi due o
più popoli stringere e collegare politicamente, basta che i grandi e
universali interessi loro sieno nella sostanza i medesimi: ma per la
lega doganale, come la chiamano, ricercasi, a poterla subito porre in
atto, non solo la professione delle stesse dottrine, ma una parità sì
perfetta, ovvero una equivalenza e una reciprocazione sì ben bilanciata
nelle condizioni economiche dei paesi collegati, che non è agevole
di trovare ed è difficile assai di comporre: senza dire del danno e
offesa che recasi inevitabilmente a molte industrie private, alle quali
bisogna pure per equità dar soccorso e provvedimento.

A noi non si fa lecito di nascondere più lungo tempo il vivo
rincrescimento e la grave e continua preoccupazione che ci cagiona il
vedere i Governi nostri così dubbiosi e lenti a promovere fra essi una
politica confederazione. Il tardare e il titubare su ciò, sembra troppo
pericoloso; e non sappiamo indovinare quel che si aspetti, massimamente
dopo i casi e le mutazioni del Governo napolitano. L'Austria stessa
non può ragionevolmente dolersi d'una confederazione ordinata con puro
carattere difensivo, e richiesta dalla crescente e visibile fratellanza
dei popoli. L'Austria, negli editti che manda fuori per interdire
l'entrata alle gazzette dell'Italia media, dà titolo di anarchia allo
stato nuovo di cose. L'Austria fa ripulsa intera e minaccevole alle
domande legali dei popoli del Regno Lombardo-Veneto, e con ciò si
discioglie e distacca viemaggiormente dagli Stati della Penisola, e
dalle massime e dai principj che li governano. L'Austria ingrossa sì
fattamente sul Po le sue truppe, e moltiplica i suoi apparecchi per
guisa, che l'Inghilterra medesima ha stimato debito di ricercarla
del perchè. L'Austria, interpretando a suo modo i trattati, tentò,
mesi sono, d'insignorirsi affatto della città di Ferrara; e sotto
colore or di buona vicinanza e amicizia, or di crescere pompa ad un
funerale, introduce l'armi sue in Modena e in Parma. Che più? Ciò che
al presente succede in Napoli ed in Piemonte, e fra breve succederà
nell'altre provincie italiane, eccetto la Lombardia, non fu nel 1820
dannato e colpito dagli anatemi dell'Austria? o le possono forse mancar
pretesti e sofismi per pareggiare affatto l'un tempo con l'altro, e
implicarli ambidue in una medesima riprovazione? E dopo tanto, non
sarà lecito ai nostri Principi di collegarsi per mera difesa propria,
e congiungere e ordinare in comune tutte le forze, in quel modo che le
menti e gli animi di tutti i popoli loro sono congiunti? Noi ripetiamo
con l'ossequio e modestia che ci compete, ma sì ancora con l'istanza
e sollecitudine di buoni e veri Italiani, che il collegarsi i Principi
nostri politicamente, e con fermo e tenace patto, entra oggidì fra le
più manifeste e le più calzanti esigenze della salute d'Italia.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DI NUOVO, DEL MINISTERO NAPOLETANO.

                                                    10 febbrajo 1848.

A noi non è facile significare quanto ci gode il cuore di veder
chiamato all'ufficio di ministro dell'Interno il cavalier Bozelli, uomo
insigne di virtù e di scienza, stato maggiore delle sventure, serbatosi
puro ed integro nella povertà, nell'esilio e nella prigionia, e alla
libertà e salute d'Italia invariabilmente devoto. Ma oltre a ciò, noi
godiamo di tal promozione, perchè ci è sicura caparra che quasi tutto
il ministero nuovo napolitano dovrà mutare fra breve. Il cavalier
Bozelli non può avere per lungo tempo a colleghi il duca di Serra
Capriola, il principe di Cassero e il generale Garsia; tre nomi che
non dànno alcuna sufficiente malleveria del loro zelo vivo e sincero
per la libertà e per la causa del popolo. Quanto più si vuole intera
e perfetta la inviolabilità del monarca e divertere dal suo capo le
imputazioni d'ogni mal operato, tanto fa bisogno sicurezza maggiore
ed anzi certezza piena dell'animo libero, generoso ed energico dei
ministri. Chi ha patteggiato con gli oppressori, e servito o lontano o
d'appresso un Governo che ha fatto arrossire l'Italia intera in faccia
al mondo civile, non può, non dee sedere nel consiglio del Re. Fratelli
Napolitani, sovvengavi spesso il disastro del 1821.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


FILOSOFIA CIVILE ITALIANA.

                                                    14 febbrajo 1848.

Noi, sotto questa rubrica, intendiamo d'intrattenere i lettori
nell'esame e speculazione di quegli alti problemi sociali e politici,
la cui soluzione sembra più specialmente commessa al Genio Italiano
ora ridestato: e così compiremo, se l'ingegno e la fatica ci basti,
quello che si annunzia nel nostro Programma; l'idea e il disegno,
cioè, dell'edificio nuovo civile, a cui tutti i buoni pongono mano.
Che se ciò non vien praticato dalla più parte de' giornali politici
forestieri, si voglia considerare che l'Inghilterra e la Francia
non sono al presente, o non credono essere, in via di profonda
trasformazione; e le leggi che si discutono nei lor parlamenti entrano
molto di rado nel novero di quelle che si domandano organiche, e
sono fondamentali e costitutive. Per lo contrario, chiunque andrà un
poco sfogliando i giornali francesi dettati in sul cadere del secolo
scorso, vedrà con quanto compiacimento e abbondanza discorrevano e
disputavano le teoriche di alta filosofia civile. Ma oltre a ciò, noi
non iscorgiamo ragion sufficiente per imitare in ogni qualunque cosa
le effemeridi oltramontane. E di più aggiungiamo, che tuttavolta che
occorre a quei fogli di entrare ad esaminare i principj (il che avviene
pur di frequente), la povertà e incertezza di lor cognizioni si fa
manifesta ai meno avveduti. Per la ragione stessa, le massime direttive
che nelle questioni cotidiane s'aggirano come spiriti ed elementi
vitali di tutto il corpo della scienza politica, sono accolte ed
asseverate il più del tempo e dalla più gente alla cieca e per forza di
uso. Onde poi interviene che molti e gravissimi errori son mantenuti e
perpetuati: e ne porge esempio l'Economia pubblica, intorno alla quale
ognun si ricorda il ripetere che hanno fatto i giornali francesi, per
tanti anni e con sicurtà e intrepidezza compiuta, abbagli sperticati e
falsissimi ragionamenti.

Ma come ciò sia, noi vorremmo nell'animo de' lettori trasfondere parte
del convincimento nostro intero e ben radicato; il quale è, che il
risvegliamento d'Italia non può non riuscire principio di cose grandi
e novissime nella vita sociale del mondo; e che però le fa d'uopo una
matura sapienza civile, la qual consiste precipuamente nella cognizione
profonda dell'umana natura, e nell'esperienza trita e copiosa dei
fatti, purgata e universalizzata al lume delle prime cagioni.

Posto che tale credenza risieda altresì nell'animo della pluralità
de' lettori, noi non temiamo con queste nostre dottrine e teoriche
di lor parere gente infusa di pedanteria e con indosso la zimarra
accademica. Dacchè gli è impossibile a chicchessia di persuadersi
che l'idea non debba antecedere al fatto, e che la repubblica umana
possa rassomigliare e imitare quella delle api, ove lo istinto insegna
misteriosamente ogni cosa.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


LA COSTITUZIONE NAPOLITANA.

                                                    16 febbrajo 1848.

Re Ferdinando ha, il 10 febbrajo, _risoluto di proclamare, ed ha
proclamato irrevocabilmente_ il Patto Costituzionale del Regno delle
Due Sicilie.

Temerario sarebbe il portar giudicio formale e definitivo su tanta
opera, nella strettezza del tempo in cui siamo. Ciò non ostante, a
noi giova di subito dichiarare que' primi concetti che al leggere la
nuova Carta Napolitana sonosi affacciati alla nostra mente. Laddove per
dar sentenza il cuore entra a parte col raziocinio, i primi pensieri
s'appongono forse alla verità meglio che i successivi. E il cuore,
innanzi a tutto, ci dice essere la Costituzione del Regno nel suo tutto
insieme lodevolissima ed assai liberale, e in parecchie materie entrare
innanzi a quella di Francia.

Sotto la rubrica delle _Disposizioni Generali_, nell'articolo 9, si
assicurano al Regno le franchigie comunitative e l'elezione libera dei
reggitori del Municipio; e non si assegna a tali diritti altro limite,
salvo quello di dover lo Stato vigilare la conservazione del patrimonio
comune.

Nell'articolo 29 della stessa rubrica, il secreto delle lettere vien
dichiarato inviolabile. Lode a Dio! L'Italia potrà vantarsi di aver
pòrto al mondo civile questo esempio salutare di riconoscere come
colpa di Stato l'apertura delle lettere d'ovunque vengano, da chiunque
scritte. Tanto tempo ha dovuto tardare questo natural diritto dell'uomo
a trovare suo luogo nella legge fondamentale degli ordinamenti
politici!

Nel capitolo III, che risguarda in peculiar modo la Camera dei
Deputati, le due grandi questioni da più anni agitate in seno dei
parlamenti francesi sono risolute in favore della libertà. Nel
Regno, il solo censo non darà titolo di elettore nè di eleggibile, ma
eziandio i pregi dell'intelletto. Nel secondo, terzo e quarto paragrafo
dell'articolo 56, si statuisce che i socj ordinarj dell'Accademia
Borbonica e dell'altre regie Accademie, e i cattedranti titolari nella
R. Università degli studj e ne' pubblici Licei autorizzati da legge,
ed all'ultimo i professori laureati della R. Università degli studj
in qualsia specie e maniera di scienze, di lettere e di arti belle,
sono tutti elettori. E sono poi eleggibili, conforme si determina nel
paragrafo 2 dell'articolo stesso, tutti coloro che hanno seggio nelle
tre R. Accademie della Società Borbonica, i cattedranti titolari della
R. Università, e in genere i socj ordinarj delle altre R. Accademie.

L'altra conquista di libertà viene sancita dagli articoli 58 e 59
del predetto capitolo. Si decreta nel primo, che sono elettori e
sono eleggibili tutti i pubblici magistrati e ufficiali, purché
_inamovibili_; e nel secondo, che gl'Intendenti, i Sotto-intendenti e
i segretarj generali d'Intendenza praticanti gli ufficj loro, mai non
potranno essere nè elettori nè eleggibili.

Il censo che debbe investire altrui del diritto di eleggere ovvero di
essere eletto, verrà più tardi definito e fermato da quella legge che
porrà norma e governo a tutti i particolari delle elezioni. Ma noi,
così dalle liberali disposizioni dei paragrafi citati, come dalla
fiducia che abbiamo grandissima nel libero animo di chi intenderà
a compilar quella legge, non dubitiamo che il censo prescritto a
condizione primaria ed universale sarà tenue quanto si possa.

Al Re appartiene la più splendida prerogativa de' Principi, il diritto
cioè di far grazia. Ma non potrà, ciò non ostante, valersi di tale
nobile sua spettanza inverso i ministri condannati, se non per domanda
espressa di una delle due Camere legislative. Alla _risponsabilità_
dei ministri, affine di bene determinarla, e quando occorre, metterla
in atto, provvederà una legge speciale. Ognun sa che tal subbietto non
è fuori di controversia in verun paese costituzionale; e stringerlo
tutto dentro una legge assai chiara e assai praticabile, è faccenda
malagevole ed implicata.

Queste a noi sono comparse le parti della Costituzione e più nuove e
migliori, costituendo paragone fra essa e la Carta francese, la quale
il legislatore napolitano ha scelto a solo modello suo. Ci spiace che
non gli abbia gradito di seguitarla in più cose di gran rilievo, e
segnatamente in ciò che spetta alla religione. Possibile, che nella
contrada ove più volte il popolo insorse per non aver sul collo il
funesto e miserando giogo della Inquisizione, si voglia ora decretare
una intolleranza compiuta inverso di tutti i culti? Speriamo che il
tempo farà sentire al Monarca piissimo, nessuna cosa discordar tanto
dallo spirito del Vangelo, quanto la intolleranza, pigli ella qualunque
colore, armisi di qualunque ragione. Trista cosa è altresì vedere
le leggi di reprimento supplite dalla censura per ogni scritto che
s'attiene a religiose materie.

Le categorie prescritte alla scelta dei Pari, sembrano troppo anguste,
e da riempiere l'alta Camera di uomini soverchio attempati.

Una grave omissione da non potersi tacere, si è senza dubbio la
istituzione dei giurati negletta. Comportisi per la giustizia
ordinaria; ma per gli abusi di stampa, noi reputiamo fermissimamente,
che dove i giurati non danno sentenza, gli scrittori non hanno
guarentigia vera e proporzionata, e i pericoli dell'ufficio loro
sono troppi ed esorbitanti. A rispetto della stampa, la massima
che può e dee governarla equamente è sol questa: la stampa è organo
dell'opinione; la sola opinione può giudicarla.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


D'UNA DIETA ITALIANA.

                                                    16 febbrajo 1848.

Non v'è Lega e Confederazione durevole al mondo, che non si compia e
non si mantenga con una Dieta. Perchè, unendosi e stringendosi i popoli
per lungo tempo, crescono gl'interessi e i negozj comuni, a tutti i
quali volendo dar sesto con mutua soddisfazione, occorre adunarsi a
certi tempi e discutere. Pertanto, la Confederazione Italiana avrà
essa pure una Dieta; e se i Principi nostri vorranno affrettarsi
ad assecondare il voto unanime delle provincie confederande,
saviamente faranno a mostrare all'Europa la volontà ferma in cui
sono di collegarsi, principiando dall'istituire una Dieta. Nessun
pronunziato di dritto pubblico, nessun articolo di trattato può loro
interdirlo; e intanto l'impressione che in tutte le menti e in tutti
gli animi recherebbe un tal fatto, appena si può immaginare. Ma perchè
dalla parte de' nostri popoli quella impressione viva e profonda
perseverasse, e la Dieta si mantenesse forte e autorevole, ognun
comprende che in lei non dovrebbero congregarsi solamente i ministri
plenipotenziarj di ciascun governo della Lega.

Qual paese in Europa era meglio disposto della Germania a entrare in
istretta confederazione? Certo nessuno. Benchè spartita e quasi direi
sminuzzata in numerosissimi Stati e feudi, pure il nome soltanto e
la dignità quasi inerme dell'imperatore l'avea per secoli tenuta in
certa unità, ed apparecchiata a ricevere un modo e una forma più salda
e più permanente di vita comune. A tutte quelle mutazioni e divisioni
intestine che avea cagionato la guerra terribile dei trent'anni, e
poi l'ambizione della casa di Brandeburgo e il declinare continuo
dell'autorità dell'impero, ponea rimedio e compenso il rinnovamento
dello spirito antico alemanno; il quale, dalla metà del secolo
scorso, invase prima le cattedre e le accademie, quindi comparve nella
politica, ed ebbe suggello dal sangue abbondantemente versato nei campi
di Lipsia. Di tutto quell'ardor nazionale fu erede e signora la nuova
Dieta di Francoforte, e niuna cosa parea doverle tornare difficile per
istringere in un sol volere e in un sol patto di fratellanza la gran
famiglia germanica. Ma tanto bene mancò affatto per questa cagione,
che nella Dieta di Francoforte, oltre al prevalere sfacciatamente i
forti sui deboli, fu rimossa eziandio qualunque rappresentanza diretta
dei popoli. Da ciò avvenne che a poco a poco i ministri dei Principi
non ebbero altra cura nè altro proposito se non di allargare le regie
prerogative, e combattere di concerto il desiderio di libertà che in
ogni parte ripullulava.

Simili errori non commetterà del certo la Dieta Italiana, perchè ai
Principi nostri la libertà non fa più spavento, ed ei si pregiano di
regnare col suffragio sincero e continuo dell'opinione. Oltrechè, una
Dieta Italiana, come delibera a nome delle provincie collegate, così
dee volerle rappresentare nel vero essere loro; e come in esse la
legislatura è spartita fra il re e i mandatarj del popolo, similmente
la legislatura della Dieta dee procedere da ambedue quelle fonti di
autorità. Del modo parleremo altra volta un po' più alla distesa,
essendo materia non pur di molta ma di suprema importanza. Deh!
affretti il giorno fortunatissimo, che in Roma e nelle stanze del
Campidoglio salutino tutti i figliuoli d'Italia la prima Dieta della
Nazione. Trenta secoli sono corsi per preparare e maturare quel giorno.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


QUESTIONI COSTITUZIONALI.

I.

                                                    18 febbrajo 1848.

Napoli e il Piemonte si son risoluti. Avremo, in sostanza, la Carta
Francese con parecchie modificazioni, e non tutte saranno ammende e
perfezionamenti. In Toscana, ove il sentire italiano è più antico, se
non più profondo, si voleva fare schermo e difesa da tanta invasione
straniera. Ma il torrente trascina tutti, e i giornali di colà
cominciano a chiedere essi medesimi una Costituzione sull'andare
della francese. Nè la ragione che adducono è certo da riprovare,
conciossiachè essi pensano doversi in Italia provvedere sopra ogni
cosa alla uniformità delle istituzioni. Ma per Dio, facciasi punto
una volta; e per tutto ciò che rimane ancora ad edificare, vogliasi
avere in mente l'indole nostra, la nostra storia, le tradizioni, i
costumi, le circostanze speciali. Mai questo Giornale non si stancherà
di ciò ripetere a quegl'Italiani che ora s'adoperano a riformare ed
a ricomporre la vita politica della Nazione. Noi copiamo modelli i
quali non sono essi medesimi veri esemplari, ma imitazioni in gran
parte, e talvolta racconciature e mosaici. Meno male, se di que'
modelli fosse lunghissima la durata, compiuta l'esperienza, sicura la
prova, l'effetto bellissimo e fortunato. E per fermo, in Inghilterra,
ove tutte queste cose in gran parte si avverano nella sua vecchia
costituzione, ben si comprende la tenacità di coloro i quali non ne
vorrebbero cambiare un jota. Ma l'Inghilterra è ammirabile più che
imitabile; e per potere senza pericolo traslatare nel continente le
sue istituzioni, occorre anzi tutto coglierne la ragione profonda ed
universale, e scordarsi affatto le forme speciali che vestono, e sì
il valore che assumono dalle rispondenze e armonie loro col tutto.
Noi dubitiamo forte, che ciò abbiano saputo far sempre i Francesi,
de' quali ci siamo resi fedelissimi copiatori. Ma come ciò sia, gli
è certo, noi ripetiamo, che più di una delle istituzioni moderne
francesi non hanno per sè nè la prova del tempo, nè quella degli ottimi
risultamenti, nè infine l'alta ragione speculativa.

Quando Luigi XVIII costituì la Camera Alta, fu da questo pensiero
condotto, che in Francia la democrazia traboccava d'ogni parte, con
troppo rischio e danno del trono e delle istituzioni monarchiche.
Sperò farle argine creando una nobiltà non più cortigiana e feudale, ma
essenzialmente civile e politica. Quindi imitò al meglio la Camera dei
Lordi Inglesi; e come in costoro è l'eredità e la ricchezza, dètte a'
suoi Pari l'eredità e gli emolumenti. Nei Lordi Inglesi è un diritto di
giudicatura rimasto loro molto naturalmente dalle antiche prerogative
feudali. Luigi XVIII, senza badar più che tanto alle differenze
de' tempi e de' luoghi, attribuì a' suoi Pari, a un dipresso, quel
diritto medesimo. In Inghilterra ogni cosa ha dell'inopinabile e del
singolare; e inopinabile e singolarissima cosa si è di vedere, che
un'aristocrazia superba e d'origine affatto feudale abbia investito
la Corona della facoltà di chiamare di quando in quando alcuni privati
a sedere nel Parlamento dei nobili, per sola virtù e a titolo solo di
pregi individuali. E questo pure imitò Luigi XVIII. Ma in Inghilterra
i ministri, posti a rincontro d'un Ordine così potente per grado,
ricchezza, clientela e opinione, mai non abusano (e già nol potrebbero)
del diritto di creare nuovi Lordi. In Francia, per lo contrario, non
v'ha ministero quasi, che in ciò non trasmodi, perchè gli mancano
sufficienti ritegni e abituale prudenza.

Sopravvenne la rivoluzione del 30. Quell'aristocrazia così un po'
svecchiata e tenuta su coi puntelli, subito andò in dileguo, e con essa
perdè la Camera Alta il suo carattere d'indipendenza: per restituirle
il quale, e accrescerle considerazione e valor morale appresso le
moltitudini, bisognava qualche partito reciso; come sarebbe stato che
la Corona scegliesse i Pari sulle terne offertegli da qualche Corpo
elettivo; ovvero, che tutti i primi ufficiali e magistrati del regno
e altre somme dignità fossero Pari di proprio e natural giure, e come
un ultimo premio e una civica corona che lo Stato lor serba, senza
dover mendicare suffragi nè dal principe nè dal popolo. Ma nè queste
nè altre combinazioni cercaronsi, e niuna legge fu vinta e nemmanco
proposta per moderare e ristringere l'uso del diritto d'illimitata
nominazione. Restò poi nei Pari, come per addietro, la facoltà
giudiciaria; e appresso un popolo amicissimo dell'uguaglianza civile
perfetta, e avverso ed intollerante d'ogni forma e guisa di trattare i
giudicj la qual sembri uscire dell'imparzialità e ponga eccezione alla
legge comune, mantennesi un tribunale separatissimo dalla giustizia
ordinaria, e cui manca tuttora una legge scritta circa al suo modo
determinato e speciale d'intavolare e condurre i processi che à ufficio
d'imprendere.

A noi sembra, dopo ciò, che si convenisse andar più a rilento
nell'imitare simili cose; le quali, come vedemmo, sono copie rimpastate
e ricomposte all'infretta, e come davano i casi.

Ma v'à di più: della Costituzione inglese medesima, la parte ancor
meno ferma e meno vitale è, del sicuro, la Camera dei Signori. E per
vero, lasciando stare l'alta questione dei majoraschi e il diritto
legislativo trasfuso da padre in figliuolo, questo è certo al presente,
che la Camera dei Comuni, fornita com'è in guisa tutta particolare
e propria della facoltà di ricusare le imposte, e fatta indipendente
e sincera dall'ultimo _bill_ di riforma, prevale oltre misura sulla
Camera aristocratica, e l'equilibrio fra esse due non è più che una
mostra ed una apparenza. Ciò prova che in tutta Europa il modo di
costituir bene una Camera Alta, e dotarla quanto bisogna d'indipendenza
e di morale efficacia, è problema non risoluto; e potea forse recare un
profitto non lieve a tutta la civiltà il prendere tempo per consultare
l'ingegno degl'Italiani. Ma noi riveriamo ora la legge quale ci viene
promulgata e largita; e solo preghiamo novellamente tutti coloro che
intendono a sviluppare e perfezionare i nuovi istituti, a credere meno
alla sapienza straniera, e alquanto di più al naturale criterio e alle
fortunate ispirazioni del Genio Italiano.


II.

                                                    25 febbrajo 1848.

A noi non cadde in mente giammai di sperare che le nuove Costituzioni
italiane fossero differentissime dalle forestiere, e sapevamo assai
bene che di necessità in molte cose doveano entrambi rassomigliarsi.
Neppure ci corse in pensiere di confondere insieme e artatamente
unificare gl'istituti comunitativi coi politici e universali. Ciò che
desiderammo con fede, fu solo che il senno italiano avesse agio di
meditare e dare sentenza, non potendo alcuno pronunziare con sicurezza,
che non ne sarebbe uscita veruna soluzione giudiziosa ed inaspettata
dei proposti problemi.

Ad ogni modo, ora il fatto è consumato, e convien solo badare che
presto sorgendo desiderio e necessità di mutarlo, la cosa si adempia
per vie pacifiche e con certo ordine prestabilito. Di ciò ha mosso
parola il nostro Giornale di lunedì, e prosiegue oggi a discorrerne
come di argomento gravissimo, e forse prossimo all'applicazione.
Veramente, a noi recherà sempre gran maraviglia la trascuranza
dei moderni in tale subbietto, parendoci che tra l'esigenze prime
e imperiose della vita odierna civile stia il ben provvedere alle
innovazioni maggiori e insieme non evitabili, le quali uscendo da
ogni termine ordinario, hanno bisogno di straordinarie disposizioni:
e però gli statuti fondamentali debbono essi stessi aprire a quelle il
cammino, e farle giungere al termine con mezzi legali e proporzionati
all'intento. Che tal pensiere non fosse negli antichi legislatori, non
è da stupire; conciossiachè nella più parte di loro stava la ferma
credenza di poter fondare un edificio immutabile; e quando il tempo
consumava o alterava sostanzialmente una forma di repubblica e di
governo, o solevano accusarne la inemendabile caducità e corruzione
delle faccende umane, o procacciavano, per solo rimedio, di ritirarle,
come Macchiavello insegna, verso i loro principj.

Ma pei moderni non va così; sapendosi oggi da ogni ordinatore di leggi,
che ne' corpi sociali umani è una vita profonda, la qual bisogna o
che sempre si svolga e trasmuti, o che si vizii e perisca. Quindi,
ad essi occorre di operar sempre due cose. La prima, di comporre
intellettualmente una rappresentazione e un prototipo della perfezione
sociale; l'altra, di considerar bene nell'uomo quel che è mutabile
e trasformabile, e quello che no. Nella prima, il divario appunto
da Platone ai moderni è questo, che la repubblica di Platone è un
archetipo assoluto ed immobile; dove quello degli Statisti moderni,
se vuol rispondere ai fatti e servire alle applicazioni, debbe uscir
sempre di quiete, e procedere senza mai fermarsi inver l'assoluto
d'ogni eccellenza. L'altra cosa da operare (che è il ben discernere
dentro l'uomo, e però nella comunanza umana, ciò che muta e ciò che
perdura) dee menare il legislatore a ben distinguere altresì negli
istituti e ne' codici la parte fondamentale e perpetua, da quella
che di mano in mano si va alterando, e che può peranche bisognare di
larghissime correzioni ed innovazioni.

Da ciò segue, che il dare, come si usa negli odierni Statuti, ai due
Parlamenti facoltà e arbitrio di abrogare certune leggi e produrne
delle nuove, non basta; perchè quelle leggi non valgono ad abolire
alcun difetto essenziale che si scoprisse nei fondamenti medesimi
del sociale edificio. Nè questo, d'altra parte, si dee correggere
con tumulto e violenza, ma con que' mezzi estraordinarj, e non però
illegali e disordinati, che la sapienza stessa legislatrice ha definiti
e previsti.

Pur l'Inghilterra, solenne maestra al mondo civile del saper
rispettare la legge e porre l'ordine allato alla politica agitazione,
ha rischiato, or fa quindici anni, di soggiacere a sanguinosi
sconvolgimenti, non trovando ne' suoi istituti alcun modo legale e
prestabilito di mutare affatto la forma della sua Camera dei Comuni. Nè
il partito fu vinto nel Parlamento dei Lordi per le vie ordinarie, ma
per la minaccia continua delle moltitudini di rompere e ammutinarsi,
e correre ad ardere gli antichi castelli, e devastare i tenimenti, e
forse ucciderne i possessori.

Provvedano, dunque, i nostri legislatori perchè in Italia non si corra
un simigliante pericolo; il quale tanto riuscirebbe più grave appo noi,
quanto ai nostri Statuti manca il venerando suggello dell'antichità.
E perchè appunto non sia impossibile a questo suggello di segnare a
grado a grado le leggi e le istituzioni umane, e farle spettabili e
come sacre agli occhi di tutti, conviene fin da principio saper piegare
quelle leggi e quelle istituzioni a ricevere la novità in modo avvisato
e premeditato. In tal guisa, ed unicamente in tal guisa, potrannosi
conciliare i profitti e i risultamenti dell'innovazione e della
conservazione, e le leggi saranno sempre e antichissime e modernissime.
Nè certo si può deplorare abbastanza quell'abito e facilità che ànno
molte nostre popolazioni di poco pregiare la legge e (potendo) di
eluderla; come, per lo contrario, non si dà fondamento migliore alla
perfezione civile, che il grande ossequio e la somma osservanza inverso
la legge. Ma perchè questa giunga ad infondere dentro gli animi tanta
e sì salutevole riverenza, occorre non già che permanga immutabile (la
qual cosa non si può fare), ma bene ch'ella sia inviolabile, e nessuna
forza e nessun arbitrio la manometta: ad ottenere il qual fine (noi
replichiamo), ricercasi che tutte le novità, eziandio sostanziali e
fondamentali, emanino dalla legge medesima.

L'antichità procacciava di mantenerla inviolabile circondandola di
religione, e convertendo gli umani decreti in divini pronunciati.
Questo significarono, per mio giudizio, i portentosi natali dei
prischi legislatori, e Temide fatta generare direttamente da Giove,
e gli arcani colloquj di Numa con la ninfa Egeria, e la scienza del
giure romano data a custodire al collegio dei pontefici. Nel medio
evo, poi, appresso molti popoli la legge serbavasi immobile per
virtù di consuetudine e forza di autorità, e per certa timidità nel
cercare il meglio e poca speranza di ritrovarlo. Oggi, di tutto ciò
non sussiste quasi vestigio. La legge non può altrimenti rimaner
venerabile, salvo che consonando con la ragione, che è legge suprema,
e veramente assoluta e immutabile. La consuetudine o fu rotta o non
basta, e forse anche è sospetta allo spirito indagatore del secolo.
Progredire si vuole a ogni costo, e correggere e perfezionare si spera
con fiducia e coraggio; e dove i modi usati e regolari fanno difetto,
o presto o tardi si abbracciano i disusati ed irregolari. A rimovere
quest'ultimo danno e pericolo, il rimedio debb'essere suggerito sempre
dalla Costituzione medesima; e tutte quelle in cui non si legge, non
dubitiamo di chiamare incompiute.

A noi par, dunque, che i nuovi Statuti italiani provvederanno
sapientemente all'indole e all'esigenze universali dei tempi, e molto
più alle condizioni singolarissime dell'Era grande che tutti iniziamo
nella nostra comune Patria, se verranno determinando a quali lunghi
intervalli, da che forma di consessi, con quante prove e dibattimenti,
a che numero di suffragi potrà discutersi e vincersi una proposta la
quale intenda o di mutare o di aggiugnere alcuna cosa di momento alla
legge fondamentale. A breve andare, noi saremo imitati da tutta Europa.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


AGLI UNGHERESI.

                                                    18 febbrajo 1848.

È vostro desiderio costituirvi in grande e forte nazione; e noi pure
il vogliamo, o popoli del Danubio. Voi vi sdegnate che al progresso
e spiegamento delle vostre virtù sociali faccia ostacolo la forza
straniera; e questo move del pari lo sdegno nostro. Voi volete la
libertà; e noi similmente. Avete fede e certezza di conseguirla; e
noi pure l'abbiamo. Se dunque i desiderj, gli affetti, il fine, le
speranze sono le stesse, l'Italia e l'Ungheria non che vivere amiche,
debbono giovarsi e schermirsi reciprocamente. All'Italia fa bene ogni
opposizione vostra legale, ma energica e pertinace; come a voi torna
utile soprammodo tutto il presente moto della Penisola, il quale
impaccia, affatica e consuma la prepotenza straniera. Or via dunque,
levatevi su, e al vostro ardore d'indipendenza e di libertà crescete
l'impeto e l'intensione. Fate soprattutto, che le classi e gli ordini
privilegiati cedano spontaneamente ciò che il tempo a non lungo andare
strapperà loro di mano. Perchè la legge preeminente e massima che
governa i casi dell'epoca nostra (ricordatelo, Ungheresi), è legge di
tutta uguaglianza. Non vi salverà il Danubio, non i monti Carpazj,
non la lingua e i costumi separatissimi dal rimanente d'Europa. La
democrazia toccherà e invaderà il vostro suolo; ed anzi, buona parte
l'ha invaso, e nel chiuso animo delle moltitudini vostre di già
trionfa. Onde i privilegi feudali permangono appresso di voi molto
simili a quelle poma del lago Asfaltico, che nell'esterior buccia
serbano colore e freschezza, ma nel midollo sono polve e carbone.

Profittate, Ungheresi, dell'aura vivace e feconda che spira d'Italia,
e accendetevi singolarmente di vergogna e dispetto considerando che i
vostri vassalli, ed anzi voi stessi in gran numero, serviate ancora
d'istrumento e di braccio all'oppressione e alla tirannia. Veri e
robusti rampolli del sangue Magiaro, come non arrossite che per le vie
di Milano, di Padova, di Pavia, di Brescia, alle scimitarre austriache
sieno tramischiate le ungariche, e le vostre mani grondino sangue
innocente? come non arrossite di vibrare il ferro nel petto di giovani
il cui delitto è simile al vostro, e il cui desiderio è quel medesimo
che vi fa eloquenti e animosi nelle vostre diete? Generoso empito di
Cavalleria vi mosse, già tempo, a salvare la casa di Ausburgo: movetevi
oggi a salvare l'onor vostro medesimo; e a chi vi ricordi la fedeltà
antica e gli allori in comune raccolti, fieramente rispondete: —
Cavalieri siamo, ma non carnefici. —

                                             (_Dalla Lega Italiana._)


LA COSTITUZIONE TOSCANA.

                                                    19 febbrajo 1848.

La Costituzione Toscana è promulgata. Al Granduca avrebbe gradito
pensarla e meditarla più lungamente; ma la impazienza non al tutto
ragionevole di moltissimi, e il dubbio e sospetto che già correva non
si volesse, sotto colore di fare opera affatto toscana, privare que'
popoli d'alcune notabili guarentigie, ha mosso il Governo ad affrettare
la pubblicazione del patto fondamentale. Mal si può _stans pede in
uno_ pronunziare giudicio alquanto sicuro intorno ad opera di tanto
e sì grave momento. Pur cediamo al desiderio e al piacere di subito
significare la molta soddisfazione ch'ella ci reca nel suo beninsieme;
e a noi non par temerario di dire ch'ella supera di bontà eziandio
la Carta Napolitana: la qual nostra lode ha però sempre rispetto
alle condizioni in cui sonosi posti senza necessità il Legislatore
Napolitano e il Toscano, d'imitare al possibile il patto costituzionale
francese.

Noteremo in breve i pregi principalissimi della Carta Toscana; dico i
proprj e speciali, essendochè gli altri sono comuni alla maggior parte
degli Statuti rappresentativi odierni.

Le parole del Proemio ci sono sembrate bellissime, e tanto degne d'un
Principe generoso, quanto sincere e piene d'affetto. Nè in quelle
parla soltanto il Principe di Toscana, ma l'uno dei contraenti della
Lega Italiana, ma il caldissimo cooperatore della rigenerazione nostra
comune; imperocchè Egli dice, di volere col nuovo Statuto procurare
a' popoli _quella maggiore ampiezza di vita civile e politica, alla
quale è chiamata l'Italia in questa solenne inaugurazione del nazionale
risorgimento_. E zelante e religioso Italiano si mostra pure laddove
conchiude raccomandando l'opera sua al Signore Iddio, _e rafforzando
la preghiera di quella benedizione che il Pontefice della Cristianità
spandeva poc'anzi sull'Italia tutta_.

L'art. 6 del titolo primo registra fra i principj del Giure pubblico
dei Toscani _la libertà del commercio e dell'industria_: ciò fa
suggello all'antica saviezza di quella contrada, ove non si credè
mai che le ricchezze e le industrie crescessero per privilegi
ed inibizioni. Ma bello è vedere i dogmi dell'Economia Pubblica
conformarsi alle nozioni del dritto universale, e prender luogo alla
perfine nella legge fondamentale d'un popolo.

Nel titolo terzo, fra le pertinenze dei Senatori non si annovera il
far giudicio di qualunque delitto di Stato. E questa pure è sapienza
toscana e degna del nipote di Leopoldo I, che osò abolire per fino
il nome di crimenlese. Già lo Statuto napolitano avea circoscritta la
facoltà giudiciaria dei Pari, applicandola unicamente ai reati di alto
tradimento _di cui possono essere imputati i componenti di ambedue le
Camere legislative_. Ora lo Statuto di Leopoldo II annulla affatto
quella particolare spettanza, e vuole, con alto senno, che una sola
sia la giustizia, uno il procedere di lei per tutti e per ogni ragione
di colpe. Se non che, fa eccezione a questo la responsabilità dei
ministri, dei quali potrà essere accusatore il Consiglio generale e
solo giudice il Senato.

Nell'articolo 30 del paragrafo secondo dell'articolo terzo, è scritto:
_il possesso, la capacità, il commercio, l'industria conferiscono
al cittadino toscano il diritto di essere elettore, ai termini e
coi requisiti della legge elettorale._ Non il solo censo, adunque,
porgerà titolo di elettore. Tanto promette lo Statuto; d'ogni rimanente
provvederà la prossima legge. E ben fa lo Statuto a non preoccupare in
gran parte la legge stessa, la quale versando sopra materie implicate e
difficili, dee potere liberamente informarle e coordinarle. L'articolo,
poi, 39 del paragrafo terzo del medesimo titolo, ne lascia intendere
che la legge elettorale vorrà escludere tutti coloro il cui ufficio è
salariato: altra ottima disposizione dello Statuto.

Nel titolo VII provvedesi alla Lista Civile. Molte cose attinenti
verranno discusse e deliberate dai Corpi legislativi. _Durante il regno
del Granduca attuale, è mantenuta alla R. Corte l'annua assegnazione
della quale è ora dotata, non ostante l'accaduta reversione di Lucca
al Granducato, e la conseguente perdita delle signorie di Boemia._ È
lodevole ed onorando vedere esso medesimo il Principe metter limite ai
proprj assegni, e far sentire con modestia a' suoi popoli quel che ha
perduto in lor beneficio.

Ma la parte nella quale lo Statuto toscano sopravanza oltremodo
quello del Regno, risguarda le materie di culto, intorno alle quali
poco cede alla Costituzione stessa francese. Il primo articolo del
titolo primo decreta, che _la religione cattolica-apostolica-romana
è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono
permessi conformemente alle leggi._ Dal secondo articolo si decreta,
i Toscani qualunque sia il culto al quale s'addicono, essere tutti
uguali al cospetto della legge, e tutti venire ammessi egualmente ai
civili uffici ed ai militari. Se non andiamo errati, ciò importa la
emancipazione compiuta degl'Israeliti, e il poter essi sedere nelle
assemblee ed esercitare ogni qualunque diritto politico. Nel qual
giudicio siam confermati dai termini e dalle parole del giuramento, non
introdotte a caso dal savio legislatore nello Statuto fondamentale.
Infine, nell'art. 6 dichiarasi che le leggi sulle mani-morte sono
conservate.

Da ultimo, non possiamo non avvertire con compiacenza, che tanto manca
che il Governo toscano concepisca ombra e sospetto dell'armi cittadine,
ch'egli conclude questa promulgazione del Patto costituzionale con
affidarlo in modo espresso e particolare alla vigilanza e al coraggio
della Guardia Civica, sua naturale tutela.

Per dire delle imperfezioni della grand'opera, noteremo, fra l'altre
cose, le poco avvedute disposizioni del titolo VIII ne' primi suoi
cinque articoli. La materia loro è il patriziato toscano e gli Ordini
cavallereschi. A noi non par bello del sicuro, nè utile alla patria
comune, abolire le tradizioni e gli onori delle grandi famiglie
storiche. Ma si convien trovare alcun modo dicevole ai tempi e ai
costumi per mantenere ad esse famiglie il lustro, l'autorità e la
considerazione che loro competono: i soli stemmi e titoli baronali e le
onorificenze di corte non giovano, ed anzi operano effetto contrario.
Similmente, noi non vorremmo annullare del tutto gli Ordini antichi
cavallereschi, perchè ogni cosa la quale ha lunghissima pezza durato
e mandato splendore di gloria, ha in sè un'efficienza di bene e un
elemento di vita civile. Però, innanzi di sradicare e spiantare le
istituzioni, deesi venir ricercando se non vi fosse guisa e spediente
di trasformarle e di rinverdirle: ma chi le serba quali già furono e
più non possono rimanere, egli per certo gitta l'opera e la fatica.

Osserveremo ancora, a rispetto dell'assemblea dei Pari, che se nella
Carta napolitana le categorie entro le quali dee cadere la scelta del
Re sembrano troppo anguste, quelle assegnate dallo Statuto toscano
largheggiano tanto, che la legge viene a dire poco più di questo: non
sceglierai persone volgari nè idiote.

Ma usciamo delle censure, e torni l'animo riconoscente a encomiare
con orgoglio italiano la saviezza e larghezza legislatrice del Secondo
Leopoldo.

                                             (Dalla _Lega Italiana._)


DELLA PROSSIMA

LEGGE SULLA LIBERTÀ DELLA STAMPA.

                                                    19 febbrajo 1848.

I tempi e gli avvenimenti s'affrettano tanto, ed è così veloce, per
non dire precipitato, il compilar delle leggi che fa ora l'Italia,
che la stampa cotidiana non trova spazio da prevenirle nè la pubblica
opinione da giovarle col suo consiglio. Ma non per tanto a noi si
menoma punto il dovere di ciò tentare ed effettuare, come il possiamo,
e per la tenue porzione che ci compete: ed ora che il re Carlo Alberto
ha commesso ad uomini specchiatissimi, di presentargli tra breve
la proposta d'una legge intorno alla stampa, noi ci facciamo debito
rigoroso di subito manifestare la nostra mente intorno a quella gelosa
materia, con l'usata sincerità e moderazione.

Ognun sa che l'Inghilterra è in Europa il paese classico della libertà
della stampa. Nulla cosa, dunque, si può suggerire al legislatore tanto
savia ed utile, quanto di accostare l'opera sua alle norme che son
seguite in quell'isola. Se non che, egli dovrà convertire in decreto
scritto e sancito gran parte di quello che in Inghilterra vennesi
costituendo per virtù di consuetudine. Chi sparla della stampa (e sono
moltissimi, e non d'ingegno mediocre) e ardisce accusarla dei mali
di cui s'affligge la nostra età, guardi e mediti sull'Inghilterra,
in cui, insieme con la libertà compiuta di stampa, crebbe, invece di
affievolirsi, il rispetto alle leggi, la bontà dei costumi, la pietà
inverso Dio e inverso gli uomini.

Non giudichiamo, poi, ad un tratto che l'Italia non sia capace di
tanta larghezza. Ella n'è capace (lasciatemi dire) più forse della
Francia medesima; perchè tutto quello che al presente veggo in Italia,
mostrami un popolo risorto gigante, e a cui l'uso della libertà e della
vita politica sembra non essere venuto meno pur mai, e che gli torni
a mente siccome cosa dimenticata, ma non ignorata. V'ha nell'indole
degli Italiani alcun che di grave e di positivo che salvali dalla furia
e dall'esagerazione: il buon senso pratico similmente li ajuta a non
abusare del dritto; e il sentimento vivo del bello e del grande, li fa
inclinevoli a rispettare ciò che è santo e ciò che è degno. Nel 1820
durò appresso i Napolitani per nove mesi la libertà della stampa; e fra
gente tanto impetuosa, in tempi così infiammativi, a vista di palpabili
tradimenti e spergiuri, la stampa non traboccò e non fece scandalo.

Comunque ciò sia, si consideri almeno accuratamente il principio che
in Inghilterra fa largheggiar tanto sul fatto della pubblicità: e il
principio è questo, che non solo il manifestare la propria opinione è
diritto naturale ed incancellabile, ma che è la prima e più vigorosa
e feconda efficienza del bene comune. Onde compete al legislatore, a
stretta ragione di debito, di agevolare al possibile e in tutte maniere
la piena e libera significazione del pensiero. Da ciò procede che in
Inghilterra non si domandano ai giornalisti depositi di gravi somme, e
in quella vece studiano i legislatori di sminuire, quanto è fattibile,
le spese del bollo. Da ciò procede che non è posto quivi in arbitrio di
alcun ministro il ripigliare agli impressori le lor patenti e chiudere
le loro oficine.

Da ciò procede che non pure son tollerate colà le stampe le quali
toccano gli ultimi termini del diritto, ma eziandio quelle che li
oltrepassano: e però i processi per delitti di stampa sono radissimi,
poichè la Nazione e il Governo serbano fede nelle forze del vero e
nell'universale buon senso; e conoscono per lunga prova, che la stampa
esercitando la sua medesima libertà, imbriglia e corregge a grado a
grado sè stessa; e ciò non facendo, perde di autorità e di credito.

Ad ogni modo, se ancora in tale materia gradisce al Governo Sardo di
calcar le orme della legislazione francese, piacciagli almeno di non
mozzarla nella parte sua più vitale e che inchiude la massima delle
guarentigie: noi vogliam dire, il condurre i giudicj dei delitti di
stampa con l'intervenimento e partecipazione dei cittadini giurati.

Sieno pure i giudici _inamovibili_ e de' più integri. Da chi mai
dipende il lor tardo o spedito salire alle superiori dignità? dal
Governo. Chi dà loro segni cospicui di parzialità, ovvero indizj e
prove di malumore e allontanamento? il Governo. D'altra parte, da
chi move l'accusa contro gli scrittori imputati? dal Governo. Chi
s'offende quasi sempre, di chi si sparla, contro chi s'imperversa dagli
scrittori nelle stampe incolpate? contro il Governo. Troppo, adunque,
è difficile la imparzialità dal lato de' giudici, e molto manca
perchè essi intendano al punto la ragione e i diritti dell'opinione,
e sappiano, per così dire, trasfondersi appieno ne' sentimenti e ne'
pensieri del popolo. Ma oltre di ciò, non v'ha nulla sotto il cielo,
nulla nella vita degli uomini di così indefinito ed indefinibile quanto
il pensiero; e però l'espressione sua non mai verrà sottoposta con
esattezza e con dirittura alle fredde disposizioni e circoscrizioni di
qual legge si voglia. Di quindi sorge la massima nostra, che l'opinione
soltanto può dar giudicio delle incolpate opinioni.

Noi speriamo pertanto, che alla saggezza dei consiglieri del Re non
isfugga quest'alta e vera necessità di concedere, pei delitti almeno
di stampa, la guarentigia preziosa dell'intervenimento de' cittadini
siccome apprezzatori e giudici del valor morale del fatto.

Ma per sola una cosa noi supplichiamo ed esortiamo, più che per
qualunque altra, i degnissimi compilatori della Legge reprimente
gli abusi di stampa; e ciò è di rimovere affatto dalla proposta di
essa legge qualunque determinazione e parola la qual sembrasse voler
prendere a sindacato e porre a materia di giudicio, non che i fatti
patenti e già consumati, ma eziandio le tendenze e le propensioni degli
scrittori. Conciossiachè, appresso dei tribunali cotesta voce tendenza
piglia un sentimento e un significato così incerto e così inquisitorio
nell'esercizio e nell'uso, e tanto nelle applicazioni divien vessatrice
ed arbitraria, da movere a indignazione giustissima chi medita un
poco i misteri e la natura profonda e inviolabile della coscienza
umana. Applicata poi quella voce a delitti di stampa, tanto cresce e
moltiplica maggiormente la sua tristizia, quanto son più nascoste e
difficili ad affermare e determinare le cupe e tacite macchinazioni del
pensiere e della parola.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


D'UNA CROCIATA DEI RUSSI.

                                                    21 febbrajo 1848.

I giornali tedeschi, hanno questi giorni passati, profuso nuove un
po' troppo nuove, cioè strane e non molto credibili. Una di esse
annunziava, che i Russi domandano il passo per 60 mila uomini, i quali
calerebbero giù a furia a soccorrere il re di Napoli e l'ex-ministro
Del Carretto. Gl'Inglesi questa sorta di novelle domandano un _puff_:
noi, pensando alla gran nazione a cui riferiscesi quella notizia, non
la chiameremo una _sparata_, ma una spiritosa invenzione, che accenna
forse scherzando al malumore d'un monarca assoluto. Più volte ho veduto
in Parigi quell'orso badiale che ha nome Martino, e d'intorno al quale
scherzano e ruzzano di continuo e alla spensierata una gran turba di
monelli, perchè l'orso che è giù in una larga lustra murata, non può
loro far danno alcuno. Parecchi potentati europei operano qualcosa di
simile intorno alla grande orsa del Norte. Ben l'accarezzano volentieri
finchè passeggia dentro il circuito vastissimo del suo impero; ma
se le tenta il cuore la voglia di uscirne, tirata dalla dolcezza de'
nostri climi, e' se ne adombrano forte, e si pentono de' troppi vezzi.
E benchè quella proferiscasi ad ajutarli senza interesse alcuno, e
prometta loro di aggiustar le faccende proprio secondo il gusto comune,
cioè tutte a norma e a talento del potere assoluto; ciò nondimeno
ei si spaurano molto in pensando la dura fatica e il fiero impaccio
che avranno per ricondurla poi con le buone dentro alle sue gelide
abitazioni.

I Russi, adunque, non moverannosi per al presente, e Nicolò non è uomo
da ritrovare le temerarie pedate di Suvaroff. Ma che lo Czar esibisca
denari agli Austriaci, e questi si lascino prendere ed invescare alla
dolce offerta, ciò mi par naturale e molto probabile. L'Austria è
bruciata di danari e cercali da ogni banda, come fa il prodigo che
vuol levarsi un capriccio e va e picchia a tutti gli usci degli usurai.
Alla Russia, invece, le miniere nuove d'argento colmano, a quel che si
dice, tutti gli scrigni; e se l'Austria nel pagare sarà morosa, pagherà
largamente d'altra moneta sulle bocche del Danubio e lungo l'Eusino.

A questo pensano i Russi, e non a mischiarsi per via di fatto nelle
cose d'Italia. Però, noi replichiam volentieri quello che il nostro
Giornale affermava, son pochi giorni: che, cioè, in caso di qualche
grave conflitto fra l'Austria ed i nostri Principi, l'Europa starebbesi
ansiosa a riguardare le due parti contendenti, ma niuno de' suoi
potentati darebbe nell'armi, a cagione principalmente, che, movendosi
l'uno, subito tutti gli altri verrebbero in campo, e una guerra
generale e terribile ne scoppierebbe. Ora, una simigliante guerra a
tutti fa gran paura, e quasi niuno può sostenerla senza pericolo di
ruina; e l'Europa intera uscirebbene così mutata e scompaginata, che
il sol pensarlo fa sudar freddo ai sovrani ed ai diplomatici. Armiamoci
dunque speditamente, e non confidiamo che in noi medesimi; e ogni buon
cittadino ripeta infinite volte quelle benedette parole: l'Italia farà
da sè.

Ma, infine (osserverà qui taluno), se un terzo entrasse nello steccato
e l'Europa isse tutta sossopra, come certo avverrebbe movendosi
un esercito russo, o d'altra nazione, che sarà dell'Italia? Sarà
dell'Italia tutto quel maggior bene che le avremo ammannito, armandoci
ora con diligenza, ed affratellandoci di più in più, e collegandosi i
nostri Principi in santa confederazione. Dacchè fra i regni forestieri
gl'interessi sono divisi e sovente opposti, niuno di loro può passarsi
di buoni compagni: e però il coraggio, l'unione e la prudenza trovano
del sicuro poderosi alleati. Li trovarono gli Olandesi, picciola
gente, ma generosa; li trovò l'America divisa e lontana; la Grecia di
questi dì gli ha trovati: al coraggio e all'unione italiana neppur
mancheranno. Armiamoci, su, ed affratelliamoci tuttavia: all'uscir
della lotta, quella nazione starà a galla che avrà tra i guerreggianti
stranieri frapposta con ardire e prodezza la spada propria, e
combattuto con dirittura e magnanimità, così per li suoi sacri diritti,
come per quelli della ragione e della giustizia comune.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DEL POPOLO.

                                                    22 febbrajo 1848.

Si affermò nel Programma di questo Giornale, che nessuna gran cosa
nel mondo viene operata e condotta a buon termine senza la immediata
partecipazione della parte più numerosa del Popolo. Or, quanto deesi
pensare che ciò sia più vero, trattandosi del nostro risorgere dopo tre
secoli luttuosi e pieni di servitù e di vizj, che è l'impresa maggiore
a cui si possa applicare qualunque nazione del mondo? A noi liberali
importa, quindi, assaissimo avere dal lato nostro piena d'ardore e
operosa cooperatrice la moltitudine. Due modi furono sempre considerati
come i più efficaci e diretti per affezionarsi durevolmente l'animo
della plebe; ciò sono istruirla e beneficarla. E però, a tali due
istrumenti del bene speciale di cui ragioniamo, s'addirizzeranno del
continuo le nostre parole, e le pratiche che verrem suggerendo.

La istruzione, a rispetto della vita politica, ha per materia sua
propria l'imprimere nelle menti e ne' cuori delle classi povere quel
senso di dignità che lor manca, e quel concetto de' proprj doveri
e diritti che sempre ànno avuto annebbiato dall'ignoranza, guasto
dall'abito del servire e dagli incitamenti ciechi dell'indigenza, e
viziato persino dal sentimento (per sè ottimo e santo, ma non ben
diretto e non ben purgato) della pietà religiosa. La istruzione
accenderà eziandio nelle lor menti il vero amore di Patria, non
ristretto nel palmo di terra ove nascesi, ma dilatato a tutta quanta la
sacra Terra Italiana.

Nella plebe stanno riposti (si creda pure) i germi vigorosi de' più
nobili istinti e degli affetti profondi ed eroici, appunto perchè
più prossima alla natura, e meno lisciata e forbita dalle molli e
artificiose consuetudini del vivere signorile. Deesi perciò incolpare
l'inerzia e l'incuria (per non dir l'egoismo) delle classi culte ed
agiate, se quei germi salutari e veramente divini imbozzachiscono
e muojono; imperocchè in tali classi risiede il debito naturale e
incessante di tutelare la plebe, educarla e sovvenirla. E il primo
benefizio e l'educazione prima sarebbero (a parlar sincero) mostrarle
ne' portamenti nostri l'esempio del vivere corretto e severo; laddove
è necessità il riconoscere che nella plebe v'à parecchie virtù che
ella può attribuire solo a sè stessa, e v'à moltissimi vizj che imita e
copia dai facoltosi e ben nati: e noi che scriviamo, vedemmo in Francia
coi proprj nostri occhi riconfermarsi questo vero ogni giorno più.

Ma non è da pensare che il solo amor di nazione, e il desiderio
solo di libertà e delle altre perfezioni politiche basti a condurre
sollecitamente le moltitudini dal lato nostro, e a farle infiammate
e perseveranti; poichè, per giungere a tanto effetto, occorre di
aspettare che il tempo e i metodi nuovi d'educazione e l'uso protratto
delle franchigie pubbliche convertano que' sentimenti e que' desiderj,
come a dire, in carne ed in sangue, e li rendano parte sostanzialissima
e abituale della vita comune. Ei conviensi, pertanto, supplire a
ciò con l'opera dei beneficj (comandata d'altra parte dalla pietà
cristiana), mostrando in effetto alla plebe che noi liberali siamo veri
e parziali amici di lei e d'ogni suo bene, e provandole altresì, con
saggi e fruttuosi provvedimenti, che il nuovo stato di cose le torna
senza confronto e più profittevole e migliore del già passato.

In tal guisa, l'interesse ed il sentimento cospirando insieme ad
un fine, avremo, ripeto io, nelle mani il più poderoso strumento
dell'opere grandi e forti, la plebe. In Francia, l'amor di nazione
che pure da secoli era fondatissimo, e il desiderio delle pubbliche
guarentigie nudrito per cinquant'anni da ogni ragione scrittori, non
sarebbero tornati sufficienti ad accendere le moltitudini e persuader
loro le azioni più coraggiose e più disperate, qualora non vi si fosse
aggiunto il pungolo dell'interesse: tanto che, la paura vivissima di
ricadere sotto il giogo dei baroni e sotto il reggimento dei privilegi,
dei balzelli e delle avanie, le tenne forti più che ogni altra cosa
alle difese e alle lotte; e volentieri detter la vita per una causa che
stimarono la santa causa delle plebi angariate ed oppresse.

In Italia, noi non abbiamo al presente (e siane ringraziato Dio) i
fieri motivi che infiammavano e inviperivano quel popolo minuto. Di
tutte le mutazioni che la rivoluzione francese recò allo Stato e alle
forme propriamente sociali, noi già raccogliemmo il frutto migliore;
e perfetta è oggimai nella nostra patria l'eguaglianza civile e
l'estinzione dei privilegi; e sino nell'isole, rimaste più separate
dal moto universale politico, gli avanzi e gli effetti della lunga
feudalità sono in procinto di scomparire. A noi, dunque, manca da
questo lato una leva molto gagliarda per sommovere le moltitudini,
e un incentivo assai efficace ed acuto per animarle a gran fatti
e tenerle salde ad ogni durissima prova. Ma qui accade considerare
come il presente moto italiano proceda diversissimo dal francese. Chè
quello fu tutto disordinato e violento: nudrivasi d'ira e d'orgoglio,
scuoteva gli ordini dello Stato dall'ultime fondamenta, provocava da
ogni banda nimicizie mortali, salir voleva di balzo all'acquisto d'ogni
libertà e d'ogni ideal perfezione, e affrettavasi al lume incerto
di dottrine fantastiche, e senza tener conto alcuno degli ostacoli e
dell'inopportunità. In quel cambio, il nostro moto presente è tutto
civile e pratico, e molto tende ad edificare, e poco o nulla distrugge.
E però, noi possiamo invitare ogni varietà di gente e ogni condizione
d'uomini all'impresa, universalmente proficua e nociva a nessuno, di
costituire l'Italia in essere di nazione, e di rialzarla a quel grado
di perfezionamento e splendore sociale e politico che la natura e i
cieli le destinarono.

Non occorre, adunque, alla nostra impresa la rabbia cieca, impetuosa
e infrenabile delle moltitudini, ma sibbene occorre il sentir loro
generoso, il buon senso ravviato e schiarito, e il saldo e intimo
convincimento che gli amici della libertà e della indipendenza italiana
sono gli amici loro costanti ed attivi; e in fine, che dessa libertà e
indipendenza, oltre all'essere cosa bellissima e nobilissima rispetto
a sè, soccorre e giova fruttuosamente le classi inferiori, ne inizia
e fomenta la educazione, ne tronca o mitiga i mali, e le introduce di
mano in mano a gustare il dolce della scienza, e godere il bello e il
maraviglioso della gloria e grandezza umana.

Ai quali termini tutti noi giungeremo assai prestamente, se il massimo
de' beneficj che usar vorremo nel popol minuto consisterà in una
industria ingegnosa e continua di convertire in qualche profitto certo
e immediato di lui quelle nuove franchigie e diritti, e quelle larghe
istituzioni di cui buona parte degli Italiani è ora dotata. Pur troppo,
ciò non vedesi praticare con molto zelo o perduranza neppure appresso
le nazioni più libere e più civili d'Europa. Nè noi ci ricordiamo dal
1830 in poi, d'aver sentito in Francia nei Parlamenti proporsi, più di
una o due volte, leggi e provvedimenti giovevoli in guisa immediata e
visibile alla porzione più numerosa e infelice del popolo. Noi facciam
voti perchè la sapienza civile italiana sappia calcare una miglior via.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DEI DAZJ DANNOSI AL POPOLO.

                                                    22 febbrajo 1848.

Non è facile a dire quanto ci rallegriamo di vedere il Governo
Sardo entrare innanzi ai privati, e dar loro splendido esempio in
questo fatto rilevantissimo del beneficare la plebe. Nell'articolo
quartodecimo del memorabil Decreto degli otto, fra le altre gravissime
disposizioni è registrato e promulgato, che dal primo di luglio in
poi la gabella del sale non eccederà il prezzo di 30 centesimi per
chilogrammo. Di tal benefizio a noi corre obbligo di ringraziare
particolarmente il Principe, così in nome nostro come della gente
minuta e più bisognosa, alla quale non dee sgradire che pure questo
Periodico si faccia interprete e testimonio dei sentimenti di lei.

Ognun sa che tra le tasse più dure e gravose per l'infimo popolo,
era da computarsi quella del sale, e segnatamente per gli uomini di
contado, a cui tornava costosissimo il quasichè solo condimento del suo
vitto più che frugale. E oltre ciò, difettava d'un mezzo efficace (per
quello che affermano parecchi pratici) di ben ristorare e ben nudrire
il bestiame: e chi considera che dal bestiame, e per conseguente
dal concime che dà, si origina ogni altro miglioramento agrario, dee
confessare che la gabella del sale, quando non sia tenuissima, prende
luogo fra quelle tasse perniciose ed improvvide che offendono la
prosperità e ricchezza comune nelle sue medesime scaturigini. Senza
dire quel che da taluni agronomi si va ripetendo; il sale, cioè,
poter servire da buon letame per praterie, e che non isconverrebbe
punto l'adoperarlo per succedaneo del guano, e d'alcuni altri concimi
artefatti. Ma di ciò veggano gl'intendenti.

Noi pigliamo fiducia, che da ora in poi il Governo Sardo cercherà e
studierà ogni guisa per iscemare notabilmente tutti quei dazj che
per diretto o per indiretto incarano le cose più necessarie alla
sussistenza. E il Tesoro ne riceverà molto minor danno che non si
stima; poichè il calo delle gabelle verrà riparato in gran parte, se
non in tutto, dall'aumentarsi il consumo, appunto come va succedendo
appresso gl'Inglesi. E quanto è al grave sbilancio che può accadere
ne' primi tempi, il Governo Sardo è in grado di non se ne sgomentare,
perchè i buoni risparmj fatti e l'ottimo assetto ministrativo gli
rendono agevoli molti compensi e molti partiti, di parecchi de' quali
faremo speciale ragionamento tra breve. Egli sarà in tal guisa lodato
da tutti i buoni, ammirato dagli Statisti ed Economisti d'ogni paese,
e, quel che più monta, verrà benedetto ogni giorno dalle famiglie de'
poveri; e la plebe, cogliendo larghi profitti dall'ordinamento nuovo
dello Stato, conoscerà con diletto quanto sia dolce cosa la libertà,
quanto giusto ed utile l'impero dell'opinione, quanto dignitoso
l'obbedire a un Principe liberale, e far parte di una Nazione che
risorge e grandeggia. E per tutti questi beni (siamone certi) la
plebe darà volentieri, occorrendo, il sangue e la vita; perchè nel
cuore di lei la gratitudine, per ordinario, è somma ed eroica, e
la devozione per ciò che ama ed ammira non ha misura nè termine. A
vero dire, il Governo procaccia dal lato suo di condurla a simili
sentimenti, e di ciò pure gli professiamo specialissima riconoscenza.
Per fermo, un pensier gentile e generoso fu quello di promettere al
popolo lo scemamento della gabella del sale in quel Decreto medesimo
che promulgava solennemente lo Statuto rappresentativo. Così vollero
i reggitori, che nell'animo della plebe stessero congiunte insieme
e annodate queste due cose: un suo profitto speciale, e le pubbliche
libertà e guarentigie. Questa è bontà sapiente e fruttifera, e annunzia
il disegno di grandi e malagevoli imprese, per le quali ricercasi non
pure la fedeltà e l'obbedienza, ma lo zelo animoso ed inestinguibile
delle moltitudini.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DI ROMA COSTITUZIONALE.

                                                    23 febbrajo 1848.

Da qualche giorno i fogli italiani discutono del potere o non potere
il Pontefice costituire un governo rappresentativo. A noi, tutte
le ragioni che vorrebbero provare il no, sembrano tanto invalide e
frivole, che non concepiam bene come qualche ingegno elettissimo abbia
speso non poche parole per confutarle. Noi nel Papa, come custode santo
de' dommi, vediamo bene certi confini di facoltà, e ch'egli possa
le tali cose e le tali altre non possa; ma come principe temporale
e governatore di popoli, non conosciamo divario nessuno da lui agli
altri. Per fermo, noi vorremmo che gli avversarj, quali che sieno, si
compiacessero di dichiarare sopra qual passo del Vangelo, o sopra qual
massima universale e perpetua di Santa Chiesa, è fondato il governo
assoluto e arbitrario delle province romane. Però, se nulla v'ha
in ciò di dogmatico e nulla d'inconcusso e d'irrevocabile, il Papa
rimane libero e sciolto al pari d'ogni altro monarca, non potendo le
cose spirituali e temporali cambiar natura per l'adagiarsi che fanno
in una sola persona, e come il poter temporale non dee trasformare e
alterare l'indole e la sostanza del potere spirituale, così questo non
dee travolgere l'autorità principesca, e volerla serbare arbitraria
contro la ragion delle genti e le esigenze estreme del secolo. E
quando pur si volesse, che la potestà temporale cedendo infinitamente
di dignità all'altra spirituale, fosse in debito d'imitarla, e di
porsela innanzi agli occhi come modello; ei ne seguirebbe una forma
d'impero oppostissima all'arbitraria, e prossima quanto mai al
governo che domandasi rappresentativo. Tutti conoscono risiedere la
facoltà legislativa ecclesiastica ne' concilj, congiunti nel debito
modo all'augusto lor capo: e similmente, a chi non è noto la facoltà
pontificia essere, per primo e proprio istituto, esecutrice fedele
delle sentenze conciliari; ed anche nelle materie di disciplina,
solersi sempre governare a norma dei canoni, e delle antiche e più
venerabili consuetudini? Il regno, adunque, temporale dei Papi, per
accostarsi come può al divino modello del reggimento ecclesiastico,
debbe porre da banda gli arbitrj ed i motupropri, e vestire le
forme costituzionali. Chè se queste son necessarie alla prosperità e
grandezza di qualunque mai popolo, noi reputiamo che il sono molto di
più alla salute e prosperità delle province romane. Per fermo, che è il
governo assoluto, salvo che una perpetua dittatura e tutela, la qual
presume di fare e maneggiare da sè sola ogni cosa, e reggere i popoli
come minori e pupilli? Ma per ciò adempiere, appena è sufficiente ad un
Principe lo spendere tutto il tempo che ha, e tutte le cure, fatiche,
ingegno, accorgimento ed ostinazione di cui è capace. Ora, come si può
adunar tanto carico sulle spalle al Pontefice, il quale e trema e suda
continuo sotto il peso del gran manto, e al cui ministero sono affidati
i religiosi negozj di tutto l'orbe cattolico?

Ma più: la dittatura perpetua agli occhi della ragione è
contradittoria; perchè ogni specie di dittatura vale come rimedio,
non come regola permanente; sospende le pubbliche libertà, ma non
può annullarle; compie la educazione dei popoli affine di farli uscir
di pupillo, non per serbarveli senza termine. Adoperata eziandio da
uomini sommi e santissimi, spegne a poco a poco dintorno a sè l'amore
alla causa pubblica, e l'abito delle virtù cittadine; e agli affetti
forti, generosi e magnanimi, fa succeder gl'inetti e i volgari. E
che? l'impero temporale dei Papi che far dovrebbesi specchio lucente
e norma sicura e inerrante di tutti gli altri, verrà condannato alla
indeclinabile necessità di non poter esser buono, e d'infiacchire e
abbassare l'umana natura?

Ma più ancora: nel comando assoluto è gran pericolo di mal fare, e
d'imbattersi in gravi e funestissimi errori; conciossiachè, quanto
maggiore è l'arbitrio, tanto cresce la facoltà di abusarne; e quando
un solo consiglio move ogni cosa, falso ed errato che sia, nessuna
forza il corregge e radduce al bene. Ma, a qual monarchia fa più
bisogno di non ingannarsi, a quale di non uscire dal buon sentiero,
se non alla pontificia? Evvi cosa al mondo così deplorevole, disordine
così tristo a vedersi, sconcezza tanto deforme, quanto che il Vicario
di Cristo, la persona più veneranda fra gli uomini, e guardiana e
rappresentatrice dell'essenza medesima della saggezza eterna, inciampi
in isbagli gravissimi, e pongasi a rischio di governare e imperare
in modo che tutto il mondo civile ne rida e si scandolezzi? Pur
troppo, non son queste supposizioni assai temerarie; e l'Italia il
sa, e ne piange tuttora. Invece, cambiata la dittatura in reggimento
costituzionale, nessuna imputabilità può salire fino alla seggia di
S. Pietro; e il Principe sacerdote può solo operare il bene e non mai
il male: principio, come è noto ad ognuno, e massima direttiva di quel
reggimento, e la quale sembra appunto pensata per dignità e decoro del
regno pontificale.

Potremmo senza fine moltiplicar le ragioni; ma le più sono state messe
in buona considerazione da egregi scrittori, e però ci asteniamo
dal ricordarle. Solo qui aggiungiamo, che se all'immortale Pio IX
sta veramente in cuore di tramandare intera la potestà regia a' suoi
successori, debbesi affrettare di darle per fondamento la libertà,
che è oggimai la sola e abbondevole scaturigine d'ogni potere e d'ogni
forza.

Certo è, che se il conculcare i popoli con le alabarde svizzere e le
bajonette tedesche domandasi pienezza di regno, Pio IX la rifiuta e
l'abbomina, e piglierassi piuttosto la parte che il tutto; e se colmar
le prigioni, sbandeggiare i migliori, erigere tribunali soldateschi e
feroci, armare i centurioni, e tinger di sangue le città di Romagna,
sono i soli mezzi rimasti per tramandare a' successori l'integrità
del potere, a Pio IX fa ribrezzo e dolore pur di pensarlo; e niuno
s'aspetti dalle sue mani innocenti un'eredità cotanto misera ed
abborrita. Il sentir dire, poi, e obiettare che, molti secoli fa,
giurarono i cardinali per sè e per gli ultimi lor successori di
conservare cotal plenitudine di diritti, e che in niuna guisa si può
derogare a quel giuramento antichissimo, ciò suona agli orecchi nostri
quasi come bestemmia. Questo non giurarono del sicuro i cardinali
in lor cuore e pensiero, e se il fecero, malissimo adoperarono, e il
peggiore sarebbe mantenere quel sacramento. Eh via, lasciamo una volta
i sofismi e i cavilli, che a ogni specie di prepotenza e di tirannia
servito hanno di velo e di scusa; e non si meschii, soprattutto, alle
faccende laicali la santità inviolabile della teologia. Il padre Boerio
e il padre Perrone pensino ad altro: qui non fa duopo il lor magistero.
Profani e materialissimi sono coloro che la spiritualità della Chiesa
e le condizioni sue eterne e immutabili involgono, in qualsiasi
maniera, con le contingenze, le varietà e i casi del potere temporale.
La Chiesa di Roma ha esistito e con l'autorità principesca e senza,
e ha provveduto a' suoi fini dallato a ogni forma sociale e politica,
compresavi eziandio la repubblicana, essendo Roma più d'una volta nel
medio evo stata repubblica e affatto signora di sè. A noi fa sdegno
veramente il vedere, che uomini i quali pur jeri l'altro riconoscevano
nel Pontefice ogni possibile latitudine di facoltà e di arbitrio,
sieno disposti a provare la sua impotenza unicamente quando si tratta
di largire ai popoli la libertà, e rivocare l'Italia alla grandezza e
gloria perduta.[10]

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


CARTEGGIO TRA METTERNICH E PALMERSTON.

                                                    23 febbrajo 1848.

Jeri e jer l'altro la _Lega_ ha riferito e tradotto un carteggio
ufficiale e di molta importanza tra il visconte Palmerston e il
principe di Metternich intorno ai casi d'Italia. Nel primo dispaccio,
dato alli due d'agosto dell'anno scorso, il gran Cancelliere di Vienna
comincia, secondo suo stile, a chiamare sconvolgimenti vertiginosi
le quiete e ordinate riforme che i Principi nostri han praticato
nell'Italia media. Per l'Austria ogni moto è sconvolgimento, perchè
simbolo del suo governo è il serpente a sonagli in torpore, e perchè
ella si fa gloria di traslatare la Cina in Europa: quindi a Vienna,
come a Pechino, ogni mutazione vien riputata sedizione. Dice poi
Metternich, che di tali scombujamenti le conseguenze si lasciano
indovinare anche troppo. Io non so degli altri, ma se le indovina egli
davvero quel gran Tiresia dei diplomatici, e vedele tutte e ben chiare,
il buon tempo è finito per lui, e nemmeno può confortarsi col motto
di Tiberio che molti pongono sulla sua bocca, _dopo me il finimondo_.
Insomma, avea gran ragione quel Greco di dire a Creso: «Scusami, ma
s'io non ti veggio innanzi morire, io non ti posso chiamar felice.»
Principe di Metternich, le glorie e i trionfi di Lubiana e di Verona
son mezzo affogati, e aspettatevi di vederli ridotti al niente. Oh
bel morire, sono già ventisei o ventisette anni, accosto al tappeto
verde, in su quel seggiolone a bracciuoli ove con maestà e grazia vi
sdrajavate, e l'Europa intera pendeva dal vostro labbro. Ma torniamo al
dispaccio. Metternich vuol tastare e sapere come la pensi l'Inghilterra
intorno al possesso e all'indipendenza reciproca degli Stati Italiani,
e se basti ad essi per piena ed intera malleveria il Trattato di
Vienna. Ogni frase ha senso lato e generalissimo, e conoscesi aperto,
che il fine di quello scritto è soltanto di scoprir terreno, ed esigere
una dichiarazione ex officio. In tal dispaccio stanno pure le famose
parole: _Italia è una espressione geografica._ Metternich pronunzia
il vero. Il Congresso di Vienna tolse alla povera Italia qualunque
altra significazione, fuor quella d'essere un pezzo di terra europea
configurato d'un certo modo, e al quale i geografi impongono per
abitudine un nome solo. A ciò non si risponde con le parole, ma sibbene
coi fatti; e finchè questi non parleranno, taci, popolo Italiano, taci,
ed infrattanto

    Fa dolce l'ira tua nel tuo secreto.

La seconda lettera del gran Cancelliere va ripetendo, quanto al
costrutto, il medesimo che nella prima; salvo che aggiugnevi una
pittura nerissima, ed oso dire grottesca dei moti d'Italia: e badisi
che al dispaccio è apposta una data anteriore di molti mesi ai fatti
di Sicilia e alle promulgate Costituzioni. Che vogliono gli agitatori
d'Italia e que' settarj malvagi che la sommovono da sì lunghi anni?
Metternich solo ha scoperto il secreto ed avvolto al dito il bandolo
della matassa: ei vogliono fare d'Italia una gran repubblica federata,
con un governo centrale de' più stretti e gagliardi. Scuotetevi dunque,
o Monarchi, alla voce del vostro amico, e provvedete al pericolo che vi
sovrasta. Così parla ed esorta il gran Cancelliere; e sono trent'anni
che la cosa stessa ripete; e veramente, _chordà obberrat eàdem_,
nè altro sa figurare il brav'uomo che sétte e pugnali, _comitati_ e
congreghe, rivoluzioni e repubbliche. Ciò prova che nelle fissazioni
mentali v'ha moltissimi gradi, e non tutti menano alla pazzia: senza
di che, il decano degli Statisti d'Europa soggiacerebbe da lungo tempo
alle docce fredde e agli altri calmanti.

Lord Palmerston fece da prima una sola risposta alle due lettere di
Metternich, e poi mandò una seconda con data degli 11 di settembre,
cioè in quel torno di tempo in che l'Austria avea sorpresa Ferrara;
laonde v'è inserita questa frase osservabilissima: — L'integrità
degli Stati Romani dee venir reputata siccome un elemento essenziale
dell'indipendenza politica della Penisola italiana. E non può accadere
alcuna invasione di quel territorio senza che ciò non meni gravissime e
importantissime conseguenze. — Parole son queste molto significative; e
la punta loro è sì acuta e pungente, che i soliti fiori segretarieschi
la cuoprono a mala pena.

In generale, Lord Palmerston ristringesi a dire, che l'Austria
richiamandosi, come fa, al trattato di Vienna per la conservazione
delle province lombarde, ha buon dritto e ragione; e che non solo
debbono venire adempite le determinazioni e le clausole di quel
trattato, ma il debbono essere _tutte_; il che vuol dire, a Cracovia
come in Italia. D'altra parte, prosiegue Palmerston, considerando che
nel congresso di Vienna i Sovrani d'Italia furono riconosciuti liberi
e indipendenti nel modo più formale ed esplicito che mai si possa, ne
discende che non debbono essi venir turbati in qualunque esercizio di
loro sovranità a rispetto del governo interiore; e però, qualunque atto
di cotal genere non può fornire all'Austria buona ragione d'invadere
con le armi veruno degli Stati italiani.

Questo parlare, nello stile sempre officioso e cortesemente dissimulato
delle cancellerie, ha del risoluto e del vigoroso; e però Metternich,
che squadernava e citava il trattato di Vienna, è stato benissimo
redarguito; e i due dispacci di Palmerston sono, per nostro avviso,
un molto leggiadro e continuo ritorcere d'argomenti, ove non manca
neppure la grazia dell'ironia, e ricorda quel grave e maliziosetto
sorriso de' gran signori, nel quale, eccetto la sincerità, si trova
ogni cosa. Lord Palmerston affermando il diritto che l'Austria possiede
di proteggere i possedimenti suoi sul Po e sul Mincio, fa pur notare
che niuno l'offende e il minaccia, e non si vede chiaro a che proposito
sia ricordato con tanta solennità e premura: laddove, per lo contrario,
il pericolo che non si rispetti l'indipendenza degli Stati d'Italia è
visibile e soprastante.

Quanto poi al disegno dei caposchiera italiani di giungere a fondare
o una repubblica sola o molte confederate, confessa il Palmerston,
con vera e sentita modestia, che benchè dappertutto abbia consoli, e
gente non poca che attende a ben informarlo, egli non ha avuto neppur
sentore di tanta e sì grave macchinazione. Ma ciò invece che quel
ministro ha da lunghissimo tempo saputo di certa scienza, e per mille
vie e per mille organi, si è che l'Italia veniva retta e governata
miserissimamente, e bisognavanle riforme pronte e larghissime,
soprattutto in Roma ed in Napoli. Laonde, conclude il Palmerston, gli
è da sperare che il ministero di Vienna, al quale più che a qualunque
altro dee stare a cuore la salda pacificazione d'Italia, vorrà dar
mano ai Principi della Penisola per condurre le riforme a termine
fortunato, e caldeggerà ogni determinazione loro intesa a quel fine.
Qui ognun vede che il velo della socratica ironia divien troppo
sottile, e si squarcia. Oh come! il Principe stesso di Metternich
dee con le sue proprie mani ajutare gli altri a scavargli la fossa?
Questo nol chiediamo neanche noi Italiani, perchè le virtù eroiche non
possono domandarsi a veruno. Noi nel servaggio abbiamo bensì perduto
parecchie doti, ma non la discrezione e l'urbanità. Il Metternich
invecchia assai, e gli sta bene, dopo enormi fatiche, un po' di riposo.
E perchè ai molto attempati ogni divertimento si cangia in tedio, la
gentilezza italiana preparagli uno spettacolo tanto vivo e patetico,
che impossibile è non lo svaghi per qualche poco, e non gli riempia gli
occhi e gli orecchi di straordinario e ricreativo diletto. Possa egli
vivere tanto da vedere finito il dramma e calato il sipario.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DI NUOVO,

DI UNA LEGA POLITICA DIFENSIVA.

                                                    16 febbrajo 1848.

Tra la lega de' popoli e la lega de' Principi, qual dee riuscire più
malagevole a praticarsi? certamente la prima; ed anzi, ella non può
essere menata in atto, salvo che dall'azione lenta del tempo, e da un
fortunato concorrere di avvenimenti e di circostanze. Eppure, scorgesi
oggi in Italia questa singolare contrarietà e discrepanza, che la
lega de' popoli tocca oramai la sua perfezione, laddove a quella de'
Principi neppure dàssi cominciamento. Ma che sai tu? mi diranno alcuni;
ella è forse molto innoltrata. Lavoransi ed apparecchiansi tali cose in
piazza? Gelosi negozj son questi, e da tenersi più che celati. Vorresti
tu provocare il nemico senza profitto ed innanzi al tempo? Gran maestri
furono gl'Italiani del secreto di Stato; e se la fortuna li abbandonò,
l'arte non li abbandona.

Rispondo ai contraddittori in tal guisa. V'ha due metodi, ciascuno
de' quali ha sue convenienze e disconvenienze: ciò sono il maneggio
occulto e diplomatico, e il pubblico e popolare. Quello da cui bisogna
astenersi affatto, si è il confondere insieme od il perturbare l'uno
con l'altro; imperocchè allora perdesi la maggior porzione dell'utile,
e incontrasi la maggior porzione del danno che sta in ambedue. Ora,
gettiamo le illusioni dopo le spalle: pretendere che a quattro Governi
italiani sia mai fattibile d'intavolare un patto e un capitolato
d'unione e confederazione politica senza che l'Austria nol sappia e
non ne conosca le clausole principali, sono supposti troppo innocenti,
e che disdicono alle commedie e ai romanzi medesimi, oltrepassando il
segno d'ogni naturale verisimiglianza.

Se, dunque, il secreto non è possibile, giovi francamente attenersi al
metodo opposto, e ritraendo tutto l'utile proprio della pubblicità,
saperne tollerare gl'incomodi. Ma noi soggiungiamo assai fermamente,
che quando anche fosse possibile di occultare il maneggio e il
trattato, i Principi non lo dovrebber volere. Conciossiachè i
popoli nostri sono sovrammodo impazienti di vederli e saperli tutti
confederati; e il giorno che ne correrà per Italia la certa notizia,
a ciascheduno di essi Principi crescerà la forza, la dignità e la
facilità dell'impero, come in ciascheduno de' popoli moltiplicherà
la fiducia e il coraggio. In tal guisa, il patto confederativo sarà,
al tempo medesimo, effetto immediato della fratellanza de' popoli, e
cagione efficace di sopraccrescerla, solidarla ed inanimarla.

Ma si conviene considerare questo medesimo sotto altro aspetto. Ciò che
al presente dà virtù e gagliardezza somma al moto italiano, e persuade
e trascina seco tutte le intelligenze e acquista di giorno in giorno
maggior momento nel giudicio di tutta Europa, si è quell'unione, quella
unanimità e quel profondo spirito di nazione che da un capo all'altro
d'Italia si manifesta in qualunque atto, in qualunque accidente, con
mille variatissime forme e dimostrazioni. Or, che sarebbe un'aperta
e solenne dichiarazione della lega de' nostri Principi, se non
testificare al mondo intero civile quell'unione ed unanimità, sancirla
ed avvalorarla con la importanza e la santità d'un gran patto, porgerle
pregio e vigore di ordinamento e di disciplina, sottoporla a una legge
costante, generale e uniforme, reggerne e governarne sapientemente il
moto e la vita, e farla in tal guisa non che ragguardevole e poderosa
a un potentato straniero, ma temuta ed inespugnabile a tutti? La lega
politica difensiva di circa diciotto milioni d'Italiani, proclamata
e fermata da un patto pubblico e indissolubile, costituirà issofatto
la Nazione Italiana, e per la prima volta la farà comparire nel mondo
unita, armata ed apparecchiata ad ogni qualunque accadimento.

La diplomazia de' popoli, ne' gran momenti di risurrezione e di
ardore politico, procede differentissima dall'ordinaria de' ministri
ed ambasciatori: questa è piena di sospetti e riguardi, quella di
franchezza e generosità; questa è scaltra, quella è forte; questa
intrecciatissima e involta, quella semplice e dispiegata. A noi
non bisogna al presente l'arte vecchia italiana di Mazzarino e di
Alberoni, ma le pratiche ardite e scoperte degli Olandesi e degli
Americani nei bei giorni dell'emancipazione loro. Conciossiachè, questo
debbono avere tuttodì avanti agli occhi i Principi nostri, cioè che
gl'Italiani conciliano oggi, con ammirazione di tutte le genti, due
cose credute impossibili a ben accordare; l'ordine, la disciplina, la
pronta e dignitosa obbedienza da un lato; e una profonda rivoluzione e
innovazione dall'altro.

Ma coloro che per abito temono il popolo, e vogliono della politica
fare un mistero, e d'ogni sala di consiglio un antro di Trofonio,
insisteranno dicendo, non essere d'uopo il correre a tali estremi;
imperocchè sembra, ed anzi par certo, e oramai non se ne ha più alcun
dubbio (queste frasi costumano sempre), che l'Inghilterra e la Francia
non consentiranno ad alcuno straniero d'impedire e turbare in nulla il
reggimento nuovo costituzionale degli Stati sovrani d'Italia.

E che? dipenderà, dunque, la nostra salute dal consentire o non
consentire di Guizot e di Palmerston? E a qual fine, adunque, uscirono
di tutela i Principi nostri; a qual fine s'affrettano di dotare
i lor popoli di larghi e liberali Statuti; a qual fine s'armano
spacciatamente e ordinano da per tutto le Milizie Cittadine, se
non sentono in cuore il legittimo orgoglio, anzi il debito sacro
di difendersi da sè medesimi? Grazie a Dio, l'un di essi ha pur
pronunziato quel detto, che a niuno è per cadere dalla memoria,
_L'Italia farà da sè_. Noi confidiamo nella saggezza di chi mandò
fuori quelle parole generose e profetiche. Di già, per togliere ai
nemici d'Italia qualunque pretesto di risguardare le concessioni di lui
come poco leali e spontanee, egli ha voluto innanzi al tempo, innanzi
a qualunque grave dimostrazione, prima d'ogni necessità, attorniato
dall'esercito fedelissimo, promulgare le nuove franchigie prontamente
e compiutamente. In egual modo, per rimanere saldo nell'armi e d'ogni
cosa ordinato ed apparecchiato, egli viene così ben temperando la
libertà con la disciplina, la vita pubblica con la quiete, l'ardor
nazionale con la prudenza, che ai nemici suoi e della causa italiana
non resta speranza veruna nè di sorprenderlo nè di scompigliarlo.
Noi di tanta saggezza lo ringraziamo con l'animo; ma, in pari tempo,
gli addirizziamo preghiere instanti e caldissime di adoperar quella
speditamente e con modi premurosi ed efficacissimi, per porre in atto e
proclamare in faccia all'Europa la lega politica difensiva dei quattro
Stati sovrani d'Italia.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


DI NUOVO, E SEMPRE

D'UNA LEGA DIFENSIVA ITALIANA.

                                                    26 febbrajo 1848.

Nel mondo politico, rado è che le cose mostrinsi da qualunque aspetto
vantaggiose e favorevoli; onde quelle sono da scegliere il cui bene
supera di lunga il male. Così diciamo, che della Lega costituita, fa
qualche mese, tra l'Austria, Modena e Parma, e al presente pubblicata,
è più assai il bene ritráttone dall'Italia, che il male. E primamente,
nuocono meno i nemici manifesti, di quello che gli amici dubbj e
dissimulati. In secondo luogo, dichiarati come oggi sono Modena e Parma
contro l'Italia risorgente e costituzionale, più non hanno campo di
richiamarsi agli antichi diritti. E qualora si venisse a spartir la
lite col ferro, potrebbesi senza ingiustizia imporre ad esse la legge
dei vinti, e far le acque della Parma e del Panaro scorrere tributarie
o della Toscana o di Roma.

Ma il profitto maggiore che può l'Italia dedurre da tal lega odiosa
ed ostile, gli è senza dubbio avere occasione, ed anzi necessità, di
risolversi alla perfine a stringere una Lega Italiana tra i quattro
Stati liberali ed amici. Grazie a Dio, le incertezze, i rispetti e
l'esitazioni sono fatte impossibili, e ne dobbiam merito al patto
delli 24 di dicembre. Oggi, a una lega difensiva dell'Austria, sono
i Governi nostri, quanto al diritto, liberissimi di contrapporne una
Italiana: e quanto all'interesse lor proprio, dico che sono in dovere
e in necessità di farlo al più presto; conciossiachè ad apparecchi
gagliardissimi di difesa risponder conviene con altrettanti; ed è
poi debito insieme e necessità il soddisfare al voto comune, che è
il più legittimo forse, il quale abbiano fino a qui espresso i cuori
Italiani. Quanto più ci pensiamo, e tanto ci cresce la maraviglia che
una Confederazione strettissima e veramente fraterna non ancora sia
pubblicata fra i quattro Principi riformatori: e però ci scusino coloro
che leggono, se ci rifacciam sempre a parlare del tèma medesimo; chè
qualunque replicazione in tal caso non è soverchia; e pur tornando
infruttifera, soddisfa al debito ed alla coscienza dello scrittore.
O come? que' Governi stessi che tanto sono solleciti a compiacere a'
legittimi desiderj de' Popoli, si peritano e s'indugiano a contentare
quest'uno solo, che forse supera tutti gli altri di utilità e
ragionevolezza? Che cosa importa l'unione degli animi, la parità delle
opinioni, la voglia intensa ed universale dell'operar di conserto,
se a tali ottime disposizioni è impedito di giungere all'atto? A che
giovano, in che ci avvantaggiono tante dimostrazioni d'amore e fiducia
reciproca, e tante proteste di fratellanza e segni e prove di vita
nazionale comune, quando tutto ciò si rimanga nel chiuso dei petti o
nel suono delle voci, e non ne risulti alcuna notabile congiunzione di
forze, nè alcuna bene avvisata cooperazione? Dubitano forse i Principi
nostri della generalità e caldezza del desiderio? Ma per Dio, se il
modesto pensiero delle moltitudini trasparisse di fuori, e quel che
giace dentro dell'animo sonasse distinto sopra le bocche, null'altro
udirebbesi replicar dappertutto e sempre, salvo che CONFEDERAZIONE,
CONFEDERAZIONE. Nè altro grido noi pure vorremmo innalzare ed
espandere, tutta volta che possedessimo quelle cento lingue d'acciaro
e quei dieci petti di bronzo di cui parla Omero; e se fossero a nostra
requisizione migliaia d'araldi, vorremmo che su dai pinacoli e dalle
torri, seguendo l'uso del popolo ebreo, a mane, a mezzogiorno ed a
sera, ei dessero fiato alle trombe d'oro, e non altro tramandassero
a tutti gli orecchi fuor queste voci: CONFEDERATEVI, O PRINCIPI,
CONFEDERATEVI.

Se utile poi si stima il silenzio, utili le cautele dei diplomatici,
necessario il tenere occulte le pratiche e i negoziati, noi pensiamo
aver dimostrato nel nostro Foglio del 16 l'errore e il danno di tale
opinione. Ed ora una nuova ragione ci suggerisce intorno al proposito
la Lega patteggiata e conclusa fra l'Austria, Modena e Parma. Di
vero, molte ragioni e molti rispetti consigliavano quelli tre Stati
ad occultare la Lega loro quanto più tempo si fosse potuto; e pur
nondimeno, maggior forza ha avuto sul lor consiglio questa sola
considerazione: che, cioè, rimanendosi occulto il Trattato, rimanevano
altresì impediti e sospesi in gran parte gli apparecchi e le difese
comuni. Ora, il simile si debbe affermare de' Principi nostri,
ai quali, infino a tanto che piacerà di tener celato il convegno
(supponendosi che sussista), verrà impedita ogni preparazione comune di
forte e bene ordinata difesa.

Ministri e ufficiali supremi de' quattro Stati, deh! risolvetevi una
volta, e rompete il funesto indugio. Noi non pensiamo che il cuore vi
manchi di adempiere il desiderio universale italiano con quell'ardore
e sollecitudine che i casi ricercano: ma quando ciò fosse, a voi non
dispiaccia che spiriti più coraggiosi e gagliardi suppliscano l'opera
vostra. Imperocchè questo è necessario assolutamente, che i Principi
nostri riformatori abbiano uomini intorno a sè, così pieni com'essi, di
forte e generoso sentire, e così grandi e straordinarj, come i tempi,
come l'Italia.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


AI LOMBARDI E VENEZIANI.

                                                    28 febbrajo 1848.

Quella angosciosa impotenza che sperimentano gli uomini in consolare
o l'amico o il parente percosso da estremo infortunio, prova, noi
crediamo, l'Italia intera in consolar voi, fratelli sfortunatissimi, e
in provvedervi di pronto ajuto e di sicuro consiglio. Ma se può valere
per conforto efficace, e per ajuto almeno dell'animo, la compagnia
del dolore, sappiate, o carissimi compatrioti, che ogni città, ogni
borgo, ogni casolare d'Italia partecipa al vostro lutto e alle vostre
amarezze. Abbiamo disdette le mense rumorose, acchetati gl'inni, dato
bando a qualunque dimostranza di pubblica contentezza. Nè questo
nostro compianto e rammarico è quale si converrebbe ai fanciulli e
alle femminelle. In noi lo sdegno pareggia la compassione, e a tutti
gli altri affetti prevale. Oltrechè, i tempi fatali maturano, gli
apprestamenti moltiplicano da ogni parte, e ogni cosa è pieno d'armi,
di sospetto e d'irrequieta preoccupazione. Un popolo intero e il qual
somma ventiquattro milioni, freme d'ira giustissima, e a mala pena
si può temperare. Poca favilla gran fiamma seconderà: e dove alcuna
cosa non fa difetto, salvo che l'occasione, può tenersi per certo, che
quella eziandio non è per mancare; tanto di sua natura ella è difficile
a rimanere, e facilissima a giungere.

Fratelli, grande e straordinaria sventura v'incontra; e voi gemete
veracemente sotto il giogo d'iniquissimi editti di polizia, i quali
non altrimenti sapremmo chiamare, che capricci ed insanie di tirannide
inferocita e ubbriaca di paura. Contuttociò, non vi dee recare poco e
fuggevole alleviamento il conoscere la indignazione di tutti i popoli
civili contro ai vostri oppressori, e l'ammirazione profonda inverso
l'opere vostre. Certo, lungamente stupirà il mondo di quella costanza
ed unanimità, e di quel coraggio ed accorgimento col quale costretto
avete i satelliti del Governo o a ruinare e disfarsi, o a gettar dopo
le spalle ogni verecondia e conculcare le proprie leggi; e uscendo
d'ogni dritto e d'ogni equità, distruggendo ogni ordine di giustizia,
adoperando la dittatura quale non si usa in regioni di barbari, e
confidandola alle mani le più abborrite e insieme le più disprezzate,
imperare a modo di masnadieri, e tener la spada di Damocle sospesa
sul capo d'ogni innocente e leal cittadino. L'Europa vi loda e vi
esalta; e la Polizia degli stranieri, per lo contrario, s'invelenisce
e s'invipera: chè mentre stimava sulle Lagune e sul Po di premere
con poco sforzo e di manomettere un popolo nelle ricchezze e ne'
piaceri avvizzato e sepolto, e dalla dispotica dominazione depravato
e inschiavito, trova in esso ad un tratto, e riconosce con ispavento i
non degeneri discendenti degli eroi di Legnano e di Famagosta. Laonde,
in lei è vera paura e sgomento, in lei è il rimordimento e l'obbrobrio;
dal lato vostro è dolore con serenità, è strazio con intrepidezza, è
oppressione con gloria.

Da tutte queste considerazioni, o carissimi, noi non dubitiamo
di vedervi raccogliere nuovo coraggio e nuova fermezza, e nelle
accresciute miserie accrescere d'altrettanto la forza, la dignità
e l'alterezza dell'animo. In coloro è una criminosa speranza di
scombujarvi e atterrirvi; e la scelleraggine loro, ben succeduta in
Gallizia, troppo li fa persuasi di conseguire il medesimo, e per qual
sia mezzo, in Lombardia e in Venezia. Ma di ciò noi siamo al tutto
sicuri che vanno ingannati, e del perfido tentamento rimarrà loro
soltanto il vituperio perpetuo e l'abbominazione di tutte le genti.

Non del coraggio, adunque, non dell'intrepidezza vostra sappiam
dubitare, o Veneziani e Lombardi, ma sì piuttosto della longanimità e
della sofferenza. E certo, a noi manca il cuore di pur consigliarvela;
perchè essendo noi liberi e armati, e sentendo forte nell'anima tutto
il debito della fratellanza, vergogniamo di recarvi ajuto di solo
pietose parole, e pregarvi di pazienza e rassegnazione. Ma gli è
affatto impossibile che voi leggendo nel chiuso de' nostri animi, non
ravvisiate chiarissimamente, che gl'indugi e i trattenimenti tornano
per noi quasi quanto per voi amarissimi. Piaccia a Dio e alla fortuna
d'Italia, o d'interromperli presto, o tanto più accrescere e assicurare
la felicità e pienezza del buon successo, quanto più lungo e doloroso
sarà l'aspettarlo.

A ogni modo, quello che mai dalla mente vostra non dee fuggire, si
è che tra la quiete e le armi, tra l'eroica pazienza e l'eroico
insorgere, non istà nulla per mezzo; e che il peggiore sarebbe
confondere le due cose, e versar sangue infruttifero, e dar pascolo
frequente alla rabbia de' vostri oppressori con parziali conflitti ed
ammazzamenti.

In secondo luogo, desideriamo e preghiamo che vi sia sempre
raccomandato il minuto popolo, massime quello sì numeroso e sì
bisognevole del contado; e che non vi paja dura nessuna fatica, nessun
dispendio, nessuna sollecitudine per obbligarvelo e affezionarvelo.
Senza la plebe, tutte imprese grandi vacillano, e le politiche sono
impossibili. Raccogliesi da indizj parecchi, che i vostri nemici
si studiano di seminare zizzania e risentimento tra i poveri e
i facoltosi, tra i signori e la plebe; e si fa verisimile molto,
che qualche nuovo editto di Polizia verrà promulgato, gravoso alli
benestanti e lusinghevole alla gente minuta. Rispondete, o fratelli,
alle arti malvage, con benefizj e larghezze maggiori inverso le
moltitudini; ond'elle s'accorgano e si persuadano, che non già lo
straniero, ma voi, e voi solamente siete gli amici loro operosi e
sinceri, e il naturale presidio e la durevol tutela. Affrettisi ognuno
a istruirle, affrettisi ognuno a beneficarle; e quando spunteranno
giorni di grandi prove, e qualcuno di voi, sceso nelle piazze, griderà:
_Popolo, a me_, questo, non mai ingrato nè tiepido, risponderà
tostamente: _Siam teco, menaci dove vuoi; tu sei il nostro amico e
benefattore: teco ritroveremo o la salute o la morte._

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)


CENNI D'UNA LEGGE ELETTORALE.

                                                        1 marzo 1848.

Machiavello scrive, che dal fiero strazio e dalle frequenti battiture
delle fazioni, Fiorenza in pochi anni di tregua e di pace risorgeva
così vigorosa, che non solo rifacevasi largamente de' danni passati,
ma lasciavasi addietro quasi ogni altra italiana in prosperità e in
ricchezza. La qual cosa, aggiunge quel gran pensatore, procedeva
singolarmente dalla partecipazione immediata d'ogni cittadino al
Governo ed alla sovranità; il che promoveva in ciascuno un tal senso
della dignità e importanza propria, che le facoltà e virtù della mente
e dell'animo in supremo grado s'ingagliardivano. I nostri tempi avendo
abolito i comizj e l'uso delle imborsazioni, e potendo le moltitudini
partecipare al Governo solo indirettamente coi mandati che affida ai
rappresentanti, a noi sembra, parlandosi in genere, che sia molto male
ristringere il numero degli elettori, e molto bene allargarlo; perchè
gli è un diffondere in tutto lo Stato il più importante esercizio e
il più nobile della vita politica; e gli è, quindi, un accrescere
ne' cittadini quell'alto sentire di sè, che nelle antiche nostre
Repubbliche trovasi avere operato tanti prodigj.

Ciò poi s'accorda con la ragione e col dritto; perchè, a dir vero,
la ragione non concede l'imperio se non ai sapienti ed agli ottimi,
e questi debbono essere dall'universale riconosciuti e salutati: e
però, sotto tale aspetto, quella legge di elezione dovrà reputarsi
migliore, ch'esclude dall'atto di solenne e spontanea ricognizione
coloro soltanto ne' quali difetta compiutamente la facoltà di ravvisare
e stimare il pregio degli uomini.

Alle moltitudini accade talvolta d'ingannarsi intorno al proprio bene
e profitto; ma più spesso accade che i facoltosi ed i maggiorenti
scordino l'altrui bene, o non se ne curino. Da ciò è proceduto, che le
moderne Costituzioni poco hanno giovato la parte più numerosa e più
sfortunata del popolo. Sotto quest'altro aspetto, adunque, tanto la
legge elettorale parrà più giusta, quanto farà giungere al Parlamento
più numerosi patrocinatori del popolo minuto.

V'ha nello Stato due specie differentissime d'interessi; il privato de'
Municipj, e il generale di tutta la Patria. Il perfetto temperamento
consiste nel conciliarli, e non nel sottomettere affatto e senza
misura il primo al secondo; come in Francia si fa sovente, ed altri
paesi s'avviano a fare. Per tal riguardo, che è pure di gran momento,
la legge elettorale migliore si dirà quella che faccia ne' Parlamenti
rappresentare, con giusto equilibrio, ciò che vogliono le provincie e i
Comuni, e ciò che lo Stato esige e desidera.

Due cose, poi, eccellenti (dicemmo noi, giorni addietro) sono nel
mondo; l'istinto e il buon senso delle moltitudini non idiote, e la
scienza fine e consumata dei pochi. Gli è, dunque, con ogni industria
da procacciare che il consesso dei Deputati raccolga in sè quelle
due eccellenze; e v'abbia da un lato chi sia pieno dello spirito
popolare; e chi dall'altro partecipi alla sapienza dei pochi; e di
questi ultimi v'abbia i pratici ed i teorici, i sommi speculatori e
i sommi amministratori. Dove trionfa la sola democrazia e il numero
fa la legge come in America, la plebe padroneggia troppo sovente ogni
cosa, e sparge da per tutto le sue passioni e preoccupazioni. Quivi,
così gli ambiziosi, come coloro a cui preme di servire e giovare la
patria, fannosi a corteggiar la plebe, e pensieri affettano ed usi
ed eloquenza plebea. Debbesi pertanto studiare un modo, il quale
senza togliere al popolo il dritto di concorrere all'elezione e farsi
validamente patrocinare nei consessi legislativi, conservi agli uomini
d'alto ingegno e d'animo indipendente la libertà d'opinione, e gli
esenti affatto o dalla necessità o dall'utile di plebeizzare. Dee
procurarsi altresì che le minoranze (come le chiamano) non siano più
del convenevole sopraffatte dalle maggioranze; e perciò, dee lasciarsi
aperta una qualche via onde alle persone di singolar merito che hanno
ottenuto il suffragio di tale o tal municipio, ma non quello del
generale scrutinio, si possa ciò nonpertanto ascrivere la dignità e
l'ufficio di Deputato.

Infine, forza è consentire, che nelle città dominanti v'è più sapere e
maggiore esperienza, e che i pensieri vi si compongono meno angusti, e
il modo di giudicare è più franco, e procede con massime razionali ed
universali.

Dopo queste considerazioni, osiamo trascrivere qui alcuni cenni
d'una proposta di Legge Elettorale Italiana: e diciamo Italiana, non
perchè molto diversa da tutte le forestiere, ma perchè pon sue radici
nel municipio e negli istituti letterarj, i due più antichi e più
peculiari elementi della civiltà italiana. Per mostrar come in rilievo,
e quasichè a dire in concreto, il nostro concetto, noi l'applichiamo
particolarmente allo Stato Romano, ove preparasi una legge municipale
larghissima, e ove la forma attuale della Consulta di Stato ha suo
fondamento ne' Consigli comunitativi e nei provinciali.

1. In ogni Comune di mille e più abitanti, chiunque partecipa
all'elezione dei consiglieri municipali, partecipa similmente e con
egual diritto a quella de' Deputati.

2. Tutti gli elettori sono eligibili.

3. In ogni Comune di mille e più abitanti, ai debiti tempi e con le
forme prescritte, tutto il Corpo degli elettori municipali raccogliesi
in Collegio elettivo per procedere alla scelta dei Deputati.

4. Son esclusi dal Collegio que' soli elettori che dànno voto nel
Collegio elettivo della provincia, come più avanti dichiarerassi.

5. In ogni Collegio di municipio saranno eletti a pluralità di suffragi
tre Deputati delli sei che manda ciascuna provincia. Ma gli eletti
serbano nome di candidati fino allo spoglio degli scrutinj che adempie
il Collegio elettivo della provincia, come dichiarerassi nel numero 9.

6. I nomi dei prescelti, il numero totale degli elettori, quello
dei presenti allo scrutinio e il numero dei voti raccolti, saranno
da ciascun Collegio inviati al presidente ordinario del consiglio
provinciale.

7. Nel giorno stesso che avvengono le elezioni in ciascun Collegio
di municipio, convocasi il Collegio elettivo della provincia nella
città ove il Consiglio provinciale risiede. Tal Collegio è composto
dei consiglieri di provincia ordinarj. Vi si aggiungono: 1º I rettori
degl'istituti pubblici d'educazione; 2º I rettori de' Licei; 3º
Il presidente e il segretario di ciascuna Accademia o dal Governo
riconosciuta, o che sussiste da dieci anni e stampa gli atti delle
adunanze; 4º I presidenti de' Tribunali di prima istanza e d'appello.

8. Il Consiglio provinciale, con gli elettori aggiunti, sceglie a
pluralità di suffragi due deputati.

9. Due dì dopo l'elezione, il Presidente ordinario del Consiglio
provinciale, il Gonfaloniere della città, il Legato della provincia,
il primo Segretario di Legazione e due Assessori, rivedono l'atto di
elezione di ciascun Collegio, e proclamano i nomi de' tre candidati
sui quali cade il maggior numero di voti. Tal numero dee risultare
dal paragone di tutti gli scrutinj onde sono usciti i nomi di tutti i
candidati.

10. Lo Stato è spartito in due divisioni, meridionale e settentrionale:
della prima è capo Roma, della seconda Bologna. Roma invia al
Parlamento nove deputati, e Bologna sette: l'elezione si fa dal
Corpo degli elettori municipali, eccettuati quelli che dànno voto
nel Collegio provinciale. I Consigli provinciali di Roma e Bologna
costituisconsi, come altrove, in Collegio elettivo, procedono alla
scelta di due deputati; e quindi allo spoglio degli scrutinj di ciascun
Collegio municipale, eccetto quello di Roma e Bologna.

11. Ma gli elettori aggiunti ai consiglieri ordinarii, sono il doppio
di numero; e porzione è levata dalle categorie sopraddescritte;
porzione dalle maggiori dignità letterarie e forensi che porgono le
due principali città dello Stato, e non sono nelle provincie, come i
rettori dell'Università, il Presidente del Tribunale di ultimo appello,
ec.

12. Al Collegio provinciale di Roma è inviata la nota dei candidati
di tutte le elezioni dei Collegi municipali compresi nella divisione
meridionale, e al Collegio provinciale di Bologna è inviata quella di
tutti i Collegi municipali compresi nella sua divisione.

13. Dopo ciò, i due Collegi provinciali scelgono su quelle note di
candidati o fuori di quelle, a pluralità di suffragi, un Deputato per
ciascuna provincia. E così è pieno il novero dei Deputati e consumata
l'opera dell'elezione.

Mancano a questo abbozzo di legge moltissimi particolari completivi
ed esplicativi. Ma quando il concetto suo generale sia falso, non
gioverebbono quelli per raddrizzarlo; e dove, per lo contrario, ei si
combaci in buona parte col vero, il pronto ingegno de' lettori supplirà
al rimanente.

                                             (Dalla _Lega Italiana_.)



Fu dettata questa Lettera appena giungeva notizia della sollevazione
parigina del 48, e venne qualche dì dopo mandata fuori in Firenze
dal Le Monnier. Ciò non pertanto, ella sembra in molte sue parti
piuttosto narrazione che previsione; effetto questo del diligente ed
assiduo studio che l'Autore à posto a conoscere le condizioni morali
e civili della nazione appresso la quale trovò rifugio e ospitalità
cordialissima per lunghi anni.



LETTERA AD ANTONIO CROCCO,

INTORNO AGLI ULTIMI CASI DI FRANCIA.[11]


                                   Di Firenze, li 10 di marzo del 48.

Questi giorni addietro, essendo io in procinto di lasciar Genova e
venirmene giù in Romagna per provvedere alle cose mie, cessai del
tutto di scrivere nella gazzetta _La Lega_, non mi bastando il tempo
nè il capo di attendere a parecchie private faccende e di dettar
fogli sopra materie gravissime come le dà ora il mutamento avvenuto
di là dall'Alpi. Ciò à sembrato a qualcuno una specie d'artifizio per
non dichiarar la mia mente e le mie previsioni in subbietto incerto
e rischioso. Io m'affretto, pertanto, a manifestare e spiegare al
pubblico quel che io ne penso, il più distintamente che io posso e per
quanto me ne dà arbitrio la legge;[12] stimando assai minor male il
prendere errore nel giudicare gli eventi umani, che l'incorrere taccia
d'artificioso e dissimulato: benchè, a dir vero, il silenzio mai stato
non sia reputato nè arte nè dissimulazione; ma in tempi difficili,
gli animi sono inchinati al sospettare, e i giudicj hanno qualcosa
d'immoderato, come gli avvenimenti. Però io studio di difendere la
reputazione mia; ed a voi singolarmente la raccomando, amico caro ed
egregio, siccome a colui che vincendo tutti di bontà e rettitudine,
dovete della lealtà e schiettezza delle intenzioni intendervene più che
bene. Quanto è poi al valore di questi miei pareri, se mai in veruna
cosa non può esser grande la importanza delle mie opinioni, impedendolo
la scarsità dell'ingegno e dell'esperienza, ne' nostri giorni elle
debbono assomigliare ai sogni ed ai vaniloquj: perchè ora la scienza
stessa consumatissima de' più prudenti sembra divenire inutile; e
da un lato, ogni paradosso piglia baldanza di apporsi alla verità;
come dall'altro, non v'à raziocinio fondatissimo ed evidente che non
pericoli di mentire.

L'ultima rivoluzione di Francia è di sì gran momento per tutta
l'Europa, che vi si possono ordir sopra infinite questioni e in
infinite parole condurle. Ma io voglio esser breve, secondo mio
istituto e come porta una semplice lettera. Senza che, le menti sono
a questi dì in sì fatta guisa distratte e preoccupate, che il lungo
sermonatore non trova uditorio. Io risolvo, quindi, di far parola
unicamente di quelle domande che ricorrono sulla bocca di tutti,
ed ànno riferenza maggiore con le cose d'Italia. E per produrre un
discorso alquanto metodico, mi torna bene dividerlo per paragrafi, ed a
ciascuno apporre la sua rubrica.


§ I.

_Se la rivoluzione ultima di Parigi sia pel progresso civile un bene od
un male._

Per definir la quistione, accade prima guardare se nel governo
repubblicano uscito della rivoluzione s'incontrino le qualità e
disposizioni dalle quali s'argomenta la fermezza e stabilità delle
cose, ovvero il contrario. E per certo, se la repubblica non durasse,
come la rivoluzione fallito avrebbe il fine suo, mancherebbe la
principal cagione di lodarla e chiamarla un bene e un profitto.
Secondamente, occorre considerare, se la repubblica potrà tenere
inverso del popolo le promesse singolarissime che gli fa; perchè,
quando a lei non fosse fattibile di tenerle nemmanco mediocremente, le
opinioni repubblicane scapiterebbero forte, e gli animi in generale
perderebbono molto della fiducia e speranza in quel progresso civile
che la Francia presume di maturare così prontamente. In fine, egli
è lecito agl'Italiani di valutare il male ed il bene dell'ultime
mutazioni a rispetto di sè medesimi, e pel vantaggio o il danno che sta
per procederne ad essi in particolar guisa. Ciascuna di tali cose noi
metteremo in distinta considerazione: ora qui notiamo soltanto alcuni
pregi ed utilità, e d'altra parte alcuni demeriti e danni parziali
dell'avvenimento straordinario e impensato del quale Parigi medesima
sbalordisce.

Io dico, pertanto, che ogni accadimento di simil genere è di gran
profitto ed insegnamento agli uomini; ed anzi, è di tanto maggiore,
quanto quello arrivò inopinato e contra l'aspettazione e il giudicio
dell'universale. Un volume intero non capirebbe forse tutte le
dottrinali sentenze e i documenti e precetti politici che scaturiscono
dall'ultimo moto francese: ma, per toccare un poco d'alcuni, e
di quelli segnatamente che ànno più spessa e facile applicazione,
vedesi, per primo, riconfermata con terribil suggello la massima del
Segretario Fiorentino, che, cioè, nessun nuovo re dee rischiarsi
a combattere quel principio in virtù del quale salì al trono. Ma,
certo, Luigi Filippo salito in seggio a nome della libertà e per
odio della Santa Alleanza, tanto ristrinse le libertà quanto n'ebbe
agio, e carezzò poi fuor di modo e senza pudore i governi assoluti e
nemici di Francia. Oltre a ciò, regnando egli principalmente per lo
sostegno e i suffragi del ceto[13] mezzano, mai non dovea nè poco nè
molto alienarsene l'animo e disamorarlo del suo governo. Per fermo,
quello sopratutto che nella giornata memorabile del 24 di febbrajo
fece traboccar la bilancia e dar la vittoria alla plebe, fu l'inerzia
e lo scontentamento della Guardia Cittadina, composta quasichè per
intero del ceto mezzano. Ma re Luigi Filippo è stato da tre principali
cagioni indotto in inganno: dall'adulazione crescente ed ipocrita dei
governi assoluti; dalla pienezza e facilità dei primi successi; e, in
fine, dal troppo basso concetto ch'ei s'era formato degli uomini in
generale, e più specialmente de' mezzani cittadini suoi difensori,
i quali a lui comparivano non altra cosa salvo che una turba di
trafficanti, desiderosi di guadagnare e di spendere e di menar vita
grassa e tranquilla. Il perchè, stimava egli con la pace e il riposo
a qualunque costo serbati, e con la frequenza e moltiplicazione dei
traffichi e delle industrie, tenerseli sempre amici; dimenticando
così, che gli uomini, e massimamente i Francesi, mai non sono una cosa
intera e omogenea, ma un misto di molte e diverse: senza dire che per
resistere alla plebe ardita e scontenta, non basta la pura indolenza
degli altri ceti, ma bisogna la vigilanza e lo zelo; e questo non vive
se non con l'affetto profondo, o con lo stimolo acuto e incessante
degli interessi. Negli uomini è in generale molta fiacchezza, ed ella
degenera non radamente in viltà; ma la natura nemmanco permette loro
di scordarsi del tutto la parte gentile e generosa dell'animo dalle
sue mani medesime fabbricata. Di quindi avviene che i principi i quali
si fidano e fan capitale della sola porzione volgare ed interessata
del cuore umano, trovansi un bel giorno ingannati: il che molte
volte accadde, e moltissime succederà per l'innanzi, conciossiachè i
principi per isventura non veggon sovente daccosto a loro risplendere
l'alterezza, la dignità e la grandezza umana; e benchè non dovessero
misurare il rimanente del mondo dai cortigiani, pure per abito naturale
il fanno, e ruinano. Insomma, nessun impero è saldo nel mondo se non
à fondamento in alcuna forza morale; nè si dà forza morale durabile
veramente, se non concilia con gli interessi la coscienza del bene. Ma
troppo era vecchio Luigi Filippo a mutar metodo ed opinione: e così
riman vera eziandio l'altra sentenza del Machiavello, che gli uomini
pajono grandi e sapienti il più delle volte perchè l'indole loro
si conforma affatto coi tempi; ma se questi o mutano o si alterano
profondamente, non sapendo quelli fare altrettanto perchè la natura
e l'abito non lo concedono, debbono guastare la propria fortuna, e
cadere.

Tali e inumerabili altri avvisi ed ammonimenti porge a pensare l'ultima
rivoluzione di Francia, ed è questo per sè un profitto molto notabile
a tutti i popoli. In essa è altresì un pregio comune con quella del
1830, e che merita singolar lode. Io vo' dire che ambedue sonosi
unicamente imprese e compiute per dar ragione e sicurezza al diritto, e
per allargare e riconfermare le pubbliche libertà. Per lo certo, nel 30
il ceto mezzano non combatteva dallato al popol minuto per questo fine
speciale di conquistare predominio ed autorità; come, parimente nel
48, la plebe non à creduto di vincere per solo difendere e migliorare
le condizioni sue proprie. In ambidue i tempi si corse all'armi e si
versò molto sangue a nome di alcuni generali principj di giustizia e
di libertà, e per ardore di sentimenti generosi e magnanimi: la qual
cosa torna ad onore particolare di Francia e della sua civiltà; e a
tutte le culte nazioni dee recare conforto e coraggio il sapere che
v'à un popolo nel bel mezzo d'Europa il quale fia sempre prodigo del
suo sangue per rivendicare alcun diritto comune, e aprir nuove vie al
perfezionamento sociale e politico.

Ma d'altra parte, e quantunque io sappia affermando ciò di sgradire e
contraddire a moltissimi, pure non tacerò ch'ei non si dee reputare
assai ferma e savia l'indole d'una nazione, nè assai progredita e
matura la sua vita politica, quando per abolire alcune pessime leggi e
impossessarsi d'alcune franchigie, noi la scorgiamo non saper ritrovare
altro mezzo che la via del ferro e del sangue: e questo dico in
ispecial modo per la rivoluzione ultima del 24 febbrajo; conciossiachè,
nell'altra del 1830 fu dura necessità di resistere a un improvviso
e violento assalto di tirannide armata. Io pertanto mantengo che in
quell'intervallo di diciassette anni compiuti, qualora ai Francesi
meglio educati e più autorevoli e savj non avesse fallito il coraggio
civile, la perseveranza e l'unione, e quando elli avessero voluto e
saputo por mano a tutti i mezzi efficaci e legali che lor porgeva la
Carta per conseguire o ricuperare tale franchigia e tal'altra, niuna
forza, niuna abilità, niuna scaltrezza, niuna corruttela di governo
e di deputati potea frodarli del lor desiderio. Ben è vero che non è
da imputarsi cotale errore alla plebe, la quale scorgendo da un lato
la pervicacia del principe e dall'altra la inettitudine d'ogni ordine
dello Stato a spezzarla e domarla, ebbe ricorso al vigore delle sue
braccia, e da sè medesima ricomperossi dell'umiliazione soverchia in
cui governo e governati lasciavano lei e la Francia intera in faccia
alle culte nazioni che la circondano. Ma perchè la vittoria sembra
magnificare ogni cosa e persino gli eccessi, e l'Italia precipita
sempre ad imitare ogni fatto straniero, però giova di ricordare, che
se la plebe à in Francia compiuto il suo debito in modo maraviglioso
ed eroico, avevano innanzi mancato al debito loro tutte le altre parti
della nazione: e ciò è quivi accaduto troppo sovente, e non per mera
accidenza; il perchè quel popolo vanta infinite e strepitosissime
vittorie d'armi, ma vittorie civili assai poche: e pur queste sono le
sole desiderabili, e dovrebbero esser le sole del nostro secolo.


§ II.

_Se la repubblica nuova francese mostri di potersi reggere lungo tempo._

I Francesi di maggior conto, e d'ingegno e studio più consumato,
tenevano per impossibile il buttare a terra Luigi Filippo, propriamente
per questo, che tra la repubblica e lui non rimaneva altro termine
a cui appigliarsi. Ora, quella impossibilità stessa di mettere
alcuna cosa in mezzo fra il governo presente e la discendenza di
Luigi Filippo o di Carlo decimo, terrà in piedi la repubblica.
Conciossiachè il frutto più naturale della vittoria ottenuta, si è di
volere sperimentare il governo nuovo che n'è uscito, e che è il solo
espediente non messo in uso da lungo tempo e non caduto di credito:
però, niuna forza può ora subito ricondurre i Francesi a rifar quello
di cui a gran pena si sono disfatti. E per questa necessità che sente
ciascuno, vedete come tutti riconoscono a gara il governo temporaneo
repubblicano, maravigliati insieme e orgogliosi di possederlo.
Ma esaminando la cosa alquanto più addentro, io porrò prima in
ricordazione, che la plebe parigina non professava da sedici anni a
questa parte altre opinioni politiche, salvo le schiette repubblicane.
Ben si potea giudicare che non isperasse di condurle ad effetto; e
come viveasi fuor modo scontenta ed amareggiata di tutto quello che
intorno di lei si operava, così facea mostra, massime negli ultimi
anni, di poco o nulla attendere alla politica. Ma non però cangiava,
o temperava le opinioni ed i desiderj. Al presente, avendola il
coraggio suo proprio e l'altrui cieca ed inesplicabile improvedenza
fatta signora ed arbitra dello Stato, e posseditrice di quella forma
di governo che secretamente agognava, noi non iscorgiamo cagione e
potenza alcuna capace di prontamente dispossessarla della conquista: e
a quel che pare, ne vive non poco gelosa; e nulla varrebbero appresso
di lei i nomi, le lusinghe, le promissioni, le vie mezzane e i termini
conciliativi che altra volta la sedussero; imperocchè l'esperienza è
tanto vicina, la memoria tanto viva, e l'illusione così poco durata,
da non lasciare speranza veruna di ritessere le arti medesime. Oltre
che, la repubblica in Francia è l'ultimo effetto e il termine ultimo
di quel corso preordinato e fatale che ivi ànno proseguito le cose.
Perchè in antico vi fu spiantata col ferro la grossa feudalità; poi
col ferro, con l'arte e col dirozzare le moltitudini, caddero l'uno
vicino all'altro i corpi privilegiati. Nel 30, il terzo stato (come il
domandano) raggiunse il colmo delle sue libertà e del suo predominio.
Nel 48, infine, comparisce la plebe, e segna l'ultima evoluzione
di quel riscuotersi ed affrancarsi di tutte le classi, il quale è
testimoniato da ogni pagina della storia moderna, e in cui forse si
adunano e si sustanziano i fatti più eminenti e cospicui dell'èra
presente. Ora, perchè la plebe trovi suo luogo allato agli altri
ordini e le sia conservata una qualche balía, fa duopo imprimere nello
Stato la forma più popolare che dar gli si possa; e questa o risolvesi
nella dittatura, la qual carezza la gente inferiore per combattere
chi sta sopra; ovvero risolvesi in pretta democrazia. Ma uscendo di
tali generalità, e riducendo il discorso al fatto della sussistenza
della repubblica nuova francese, a me non si lasciano immaginare se
non quattro cagioni per virtù delle quali potria essa repubblica
venire atterrata: e sono, il volere della plebe e della nazione
mutato; il volere e la forza d'alcuna classe speciale di cittadini
ovvero di tutte, levatane solo la plebe; la stanchezza delle continue
mutazioni e dell'anarchia; la violenza delle armi straniere. Il primo
supposto per niente non è probabile, perchè un desiderio sì vivo e
ostinato di sì gran moltitudine non può cangiare per lievi cagioni,
ma per molto straordinarie ed inopinabili; e tuttochè le provincie
si differenzino alquanto dalla metropoli, e in alcune parti della
Bretagna e in alcune del mezzogiorno i campagnoli favoreggino tuttora
in cuore la causa regia, io non dubito che dalle assemblee primarie non
esca una pluralità più che grande di voti per la repubblica. Nessuna
probabilità si accompagna neppure col secondo supposto, cioè che le
classi agiate insorgessero contro la plebe per ristorare la monarchia;
conciossiachè, o non sarieno tanto ardite, o venendo pure alle armi ed
al sangue, del sicuro, soccomberebbono. Nel terzo supposto ci è molto
minore inverisimiglianza; ma solo il tempo vale a condurre la sazietà
e la stanchezza; e innanzi di giungere all'ultimo effetto di queste,
ricercasi una lunga serie di prove e di tentamenti sfortunatissimi.
Il quarto supposto, poi, dell'intervenimento della forza straniera,
troppo è difficile ad avverarsi e a mettersi in atto nel presente
stato d'Europa, come presto discorreremo. Seguita da tutto ciò, che,
per mio avviso, cagione molto prossima ed efficiente della caduta
della repubblica, non appare e non si conosce. Forse taluno vorrà
tra esse annoverare lo sgomento e il ribrezzo che à lasciato di sè la
repubblica sanguinosa del 93. Ma ciò potea valere a non farla nascere,
ma è insufficiente a distruggerla; perchè i mansueti ed i timidi non
oseranno affrontare il pericolo che va insieme con quella caduta, ed
invece si volteranno a sperare che la repubblica d'oggidì dissomigli al
tutto dalla passata; e al governo _provvisorio_ si scorge che sta molto
a cuore di insinuare negli animi cotal concetto, e però ha decretato
l'abolizione della pena capitale per le incolpazioni politiche.
Insomma, il volgo che sempre è credulo e speranzoso, e scambia di
leggieri il fatto col desiderio, mostra di rinnovare sotto a' nostri
occhi la favola della volpe, la quale la prima volta che s'imbattè nel
lione, ebbe a morir di paura, ma la seconda si fece un po' animo, e
la terza gli stiè discosto sol dieci passi ed entrò seco in parole.
A me poi sembrano alquanto curiose eziandio le nostre gazzette, le
quali si sbracciano a dimostrare che le stragi e i supplizj della
passata repubblica non possono ricomparire, unicamente per questa
ragione, che i tempi nostri sono umanissimi e vincono tutti gli altri
di dolcezza, di tolleranza e magnanimità. Questa presunzione che à ogni
secolo di soprapporsi agli antecedenti in ogni bel pregio della mente
e dell'animo, a me si rappresenta come una gran vanità, e nessun vero
filosofo la può menar buona. Oh non sanno costoro quanto era umano e
benigno il secolo scorso, massime in sull'ultimo scorcio suo? Forse
che non predicavasi contro la pena di morte dal Beccaria, con lode
e compiacimento di tutta Europa; e Caterina II e Leopoldo I non la
sbandivano da' loro codici? Per certo, nessuno avrà ingegno da vincere
gli enciclopedisti in soavità di affetto e in mansuetudine di consigli;
e con le parole sul labbro di _fratellanza_ e d'_amore_ iniziarono
i democrati del secolo scorso le lor repubbliche transitorie e non
innocenti.

Per buona ventura, ciò che rimuove da' nostri tempi il rischio e il
sospetto di veder rinnovate le calamità e le stragi onde ancora si
piange e si teme, non consiste meramente nella bontà e tenerezza dei
cuori odierni, ma nell'essere dappertutto cessate le cagioni precipue
degli odj profondi, e delle ostinate e risorgenti persecuzioni.
Veramente, una caparra di lunga pace e di agevole conciliazione e
concordia, fu data agli uomini il giorno che l'uguaglianza civile entrò
nella ragion delle leggi e nella pratica della vita. Sembrano, adunque,
mancare nel governo nuovo repubblicano le intestine provocazioni alle
passate violenze ed atrocità; e mancherannogli poi le esteriori,
se i regni circonvicini risolveranno di non minacciarlo e di non
costringerlo a disperati partiti e difese.


§ III.

_Se la repubblica può mantenere quel che promette._

Ciò che moltiplicar potrebbe in Francia i disordini, e produrre
prestamente fastidio e stanchezza negli animi, e quindi preparare
la lor soggezione a un governo dittatorio assoluto, sarebbe se
la repubblica in niuna guisa potesse appagare ed affezionarsi la
moltitudine ond'ella è sorta. E però, noi dobbiamo con più diligenza
riandar la materia da questo lato. Nel dì stesso della vittoria, la
plebe mandava attorno un Programma ove son registrati i suoi desiderj,
e ove s'accenna in qualche modo il nuovo diritto pubblico ch'ella
intende di promulgare. Il qual Programma è da curarsi e da esaminarsi
in ogni sua parte; perchè, quanto difetta di formole ministrative e
di ordinamento scienziale, tanto mostra alla scoperta il moto primo
dell'intelletto del popol minuto, e c'insegna con sicurezza i voti
e l'esigenze più vive ed universali. Tre specie di enunciati son
nel Programma: l'una discorre delle istituzioni interne politiche;
l'altra delle corrispondenze esteriori; l'ultima di alcune novità ed
istituzioni interne sociali, come si usa chiamarle al dì d'oggi.

Delle innovazioni politiche, non sarà troppo malagevole contentare
la plebe; ma ne risulterà una tale democrazia, e sì fattamente pura
e gelosa di sue potestà, che il popol minuto sempre farà prevalere
la volontà propria su quella degli altri ceti, e l'impero del numero
non avrà verun contrappeso. In America è tuttociò temperato dalle
condizioni peculiarissime di quella contrada, che porgono modo
di provveder sempre alla sussistenza dell'infimo popolo: un altro
temperamento viene colà dalla forma confederativa, la qual reca meno
impeto nei consigli e nelle opere, e lascia al congresso centrale il
trattar solo i negozj effettivamente e universalmente comuni, e però
più larghi e meno mischiati di passioni e preoccupazioni. Il Senato
eletto a ragione di Stati e non di popolazione, e le franchigie
comunitative estese e intangibili sono un terzo e validissimo
temperamento. Ma in Francia, sino a che la plebe rimarrà sveglia e
manterrà suo potere, le assemblee vestiranno un carattere tribunizio
assoluto, e i deputati più ambiziosi vedrannosi astretti a plebeizzare,
quanto in America e più. Non àvvi, al parer mio, buona e leale
rappresentanza di tutto il popolo, e non è in questa potere e virtù
efficace e fruttifera del bene comune, che allorquando nelle assemblee
raccolgonsi i due elementi migliori dell'universale intelligenza: cioè
a dire, l'istinto morale e il buon senso pratico delle moltitudini
dirozzate; e la fina e meditata sapienza dei pochi, la qual dee
giungere al parlamento per la sua propria virtù e valentía, e non
mendicando il suffragio di chi non sa e non può giudicarla. Egli è
forte da dubitare che le assemblee sovrane e costitutrici in Francia
trovino un ordine di elezione il quale risponda al nostro concetto.

Il Programma soprannotato, racchiude altresì alcuni enunciati, o, a
dir meglio, alcuni voti e proposte delle dottrine sociali moderne.
Esso vuole che tra i lavoranti da un lato e chi li adopera e paga
dall'altro, intervenga un accordo tale, che il maggiore utile del
secondo mai non si converta in iscapito o in profitto minore de'
primi, ed, e converso, il profitto di questi torni eziandio a bene di
quello. Vuole il Programma in secondo luogo, che l'educazione morale e
intellettuale diffondasi nel popolo di maniera sì larga, imparziale e
compiuta, da non impedire ad alcuno il franco e pieno esercizio d'ogni
diritto civile e politico. Esso vuole, infine, che ai giornalieri e
braccianti mai non sia per mancare il lavoro: e dove i privati non
lo porgessero, provveda lo Stato, e il fornisca egli di continuo ed a
tutti.

A rispetto della prima pretesa, che, cioè, il governo concilii ed
unifichi gl'interessi de' lavoranti e di chi li adopera nelle officine
e in altre bisogne, è follia di sperare che cotal fatta di accordi
e di aggiustamenti possa procedere da una legge. V'à molte forme e
guise d'associazione tra gli artigiani, e quella pure vi si conta la
qual consiste a fare insieme le spese, insieme faticar il lavoro e
insieme spartire il guadagno. Ma, tuttavolta che da una banda sarà
il capitale e l'ingegno, e dall'altra la nuda opera delle braccia,
nessuna legge e nessuno spediente varrà a rimuovere l'antagonia tra
le due parti; e quello che finora fu speculato intorno al subbietto, o
riuscì insufficiente, o illusorio e non praticabile affatto. Piacesse
a Dio che si potesser levare da entro il consorzio umano le antagonie!
ma ve n'à delle necessarie ed irremovibili, perchè pongon radice
nell'intima costituzione dell'uomo: ed anzi, che è la natura senza
contrasti? Ei pare che rimosse le contrarietà cesserebbe ogni moto, e i
germogliamenti e gli effetti dell'universal vita s'ammortirebbono essi
pure, e di mano in mano dileguerebbero.

Quanto alla seconda richiesta della pubblica educazione, a me
non par dubbio che un governo popolare davvero, e caldo zelatore
dell'utile dell'infime classi, propagar non possa e moltiplicare
quel bene infinitamente di più e meglio che non s'è fatto fino al dì
d'oggi in Europa. Ma due cose son da notare su tal proposito. L'una
è che l'educazione è termine relativo, e relativa è la convenienza
e proporzione di lei con l'esercizio di tutti i diritti civili e
politici. Quindi, se vuolsi in Francia che la repubblica renda, a
breve andare di tempo, ogni cittadino capace di entrare al parlamento
e scrutarvi le leggi, non chiedonsi più fatti umani ma sovrumani,
e d'altro pianeta che non è questo il quale abitiamo. Se vuolsi,
invece, che la repubblica proceda con metodi tali, che la cultura
dell'ingegno e dell'animo sempre più s'accresca e si spanda nel
popol minuto, ciò non solamente è fattibile, ma sta segnato fra gli
uffici e le obbligazioni primissime d'ogni virtuoso e illuminato
reggimento. L'altra considerazione da compiere e da tener qui
presente, si è, che per isventura tutto ciò che riferiscesi in
diretto modo all'intelligenza ed al cuore, à natura tanto spontanea
ed _incoercibile_, che mal si può domandare a un governo e ad una
legislatura di porlo ad effetto per vie immediate e mezzi imperiosi.
Possono i reggitori e i legislatori mettere in arme un esercito,
costruire una flotta, decretare spedizioni e conquiste; non possono per
via d'impero e con sicurezza di frutto costringere un sol villaggio a
lasciar l'ignoranza ed addottrinarsi.

Per ultimo, ha domandato la plebe in Parigi, che ad ogni operajo venga
cotidianamente e senza pericolo d'interruzione fornito il lavoro, e col
lavoro accertata sussistenza. Ma di ciò, come di materia gravissima e
ancora molto involuta, faremo discorso distinto e particolare.


§ IV.

_Se la repubblica può fornir lavoro cotidiano agli operai che ne
mancano._

Per prima cosa, chi entra a speculare su tali argomenti e non à grande
uso, badi di non iscambiare le dispute e le speranze de' comunisti con
quelle de' socialisti. Ai primi sta fitto in capo di credere che possa
il mondo civile pervenire alla comunanza dei beni, e quindi abolire
affatto la povertà. Questa teorica è tanto disforme non pure dai
fatti fin qui durati fra gli uomini, ma dall'essere intrinseco delle
cose, che non diviene pericolosa se non fra genti di grosso ingegno
e selvatiche, o pel soverchio dei mali e dell'oppressione accecate e
infreneticate. Non vive a questi dì in veruna città d'Europa una plebe
così pronta d'ingegno, provveduta di cognizioni, accorta, sperimentata
e di buon giudicio come la parigina: il che ha bastato per disseccare
le barbe del comunismo in sul primo mettere che facevano; e tutto il
lor succo è stillato nella repubblica Icaria, i cui cittadini, come
s'impara dal nome, hanno l'ale appiccate con un poco di cera, e mai
non esciranno del labirinto che sonosi compiaciuti d'architettare a lor
posta.

Ma un'altra generazione di scrittori è in Francia, che ha per intento
speciale di meditare su quelle forme comuni di vita socievole, e su
quegli istituti generalissimi che appajono in ogni parte del mondo
cristiano, rimangono quasichè inalterati per mezzo alle mutazioni
e alle rivolture politiche, e compongono tutti insieme l'ordine e
l'assetto primo ed elementare in che si riposa da secoli la parte più
civile e più culta del genere umano. A tali scrittori suolsi dar nome
di socialisti; e non ostante che parecchi di loro trasmodino e corrano
a immaginare sistemi speciosi d'umana socialità, pur nondimeno il
concetto che sveglia le lor fantasie è nobilissimo e fondatissimo; e
in quello s'appuntano tutte le investigazioni della filosofia civile;
in quello fermò la mente Platone, e gli altri insigni intelletti che
guardano come da specola eccelsa i moti, i portamenti e le condizioni
della intera famiglia umana. Ma da un lato, sonosi questi scrittori
imbattuti in fieri problemi che sembrano chiusi e sepolti a qualunque
intelletto; e dall'altro lato, l'indole peculiare degl'ingegni
francesi mal si confà e si proporziona con essi: imperocchè l'acume
non basta ove domandasi profondità; nè la perspicacia analitica, ove
si desidera il sicuro sguardo sintetico; nè l'ordine, la lucidezza,
il minuto distinguere, il presto concludere, il facile concepire, ove
bisogna per vie implicate e tortuose aggirarsi, ove la minutezza,
la facilità e la speditezza non colgono e non abbracciano se non
la buccia e le foglie. Da ciò è seguito, che i libri de' socialisti
francesi con molte parole recano poca sostanza, e filosofano poetando,
e fabbricano castelli incantati. Ma in Francia ove ogni cosa si
volgarizza, e la scienza è trattata in modo assai piano e con favellare
accessibile all'intendimento comune, quelle gran parole _droit de
travail_, _organisation du travail_, _solidarité de tous pour tous_,
e altrettali, non furono dette al sordo: raccolsele il popol minuto
e ne fe capitale; ed oggi che à l'arme in pugno e sente l'aura della
vittoria, volgesi non minaccioso, ma instante e autorevole a coloro
medesimi dalla cui bocca uscivano quelle avviluppate sentenze, e
lor dice con gran franchezza: — Cittadini e maestri, noi vi tenemmo
fede; teneteci voi le fatte promesse, dappoichè la Francia è a vostra
requisizione, e or potete quel che volete. Agli altri ceti à bastato la
libertà e l'uguaglianza: a noi bisogna altra cosa; che la libertà sola
non ci disfama e non ci disseta: noi domandiamo alla repubblica un pane
in cambio del nostro sudore. — Così à discorso la plebe. Or che poteva
il governo rispondere ai vincitori armati, se non quello che disse un
officioso ministro ad una regina: — Vostra maestà stia certa che se la
cosa è possibile, ella è fatta; e se impossibile, si farà? —

Ma esaminando il subbietto ne' suoi principj, ei vi si trova subito
una dolorosa contraddizione. Che all'operajo voglioso della fatica non
debba mancare la sussistenza, comparisce un diritto così patente e un
debito così essenziale del consorzio civile, che vedendosi tuttogiorno
accadere il contrario, l'animo se ne sdegna profondamente, e viene
indotto a proferire quel medesimo che io scriveva, parecchi anni fa;
cioè «che ogni comunanza di uomini la quale non sa trovar modo, o non
vuole, di riparare dalle necessità estreme della vita gl'individui
suoi innocenti e non istanchi mai del lavoro, non può dirsi con rigore
nè sapiente nè civile, ma sotto sembianze molto contrarie è barbara
tuttavia e insipiente.» D'altra parte, le difficoltà di ben soddisfare
a tali diritti ed esigenze degli operai diventano in pratica così
sformate e quasi direi formidabili, che a pochi governi in sino al dì
d'oggi è bastato l'animo di affrontarle, a nessuno di vincerle; essendo
che noi intendiamo di ricordare i soli provvedimenti e i soli rimedj
conciliati con gli altri diritti umani, e massime con la libertà; e non
chiamiamo spedienti veri e legittimi quelle case di ricovero (a citar
pure un esempio) in cui l'uomo perde sua libertà naturale, disciogliesi
dalla famiglia e gli s'interdice di procrearla. Sta per compiere il
terzo secolo da che sotto il regno di Elisabetta, l'Inghilterra udì
pronunziare la sentenza medesima la quale oggi si va ripetendo dai
socialisti; che, cioè, il povero à buon dritto e buona ragione di
sempre poter barattare con un tozzo di pane il lavoro e la fatica delle
sue braccia. Eppure, quella sentenza fu per addietro e tuttavia si
rimane sì mal praticata e avverata nel suolo stesso ove fu proferita,
che ne dovremmo ritrarre un troppo sinistro augurio, e disperare da
questo lato del progresso del genere umano. Nel vero, assai poco giova
che il governo provvisorio di Francia siasi tanto sollecitato a mandar
decreti per costruire officine e iniziare i pubblici lavorii: qui,
per lo certo, cade in acconcio il trito proverbio, che dal detto al
fatto corre un gran tratto. Ciò non ostante, qualche notabile cosa
è da credere che porranno in istato, perchè a loro fa gran bisogno
di contentare le moltitudini. A noi rimane per al presente l'ufficio
di spettatori; nè l'esempio, comunque riesca, fia mai perduto. Di
questo, peraltro, io mi persuado e vivo certissimo, che quantunque
tra i componenti medesimi del nuovo governo siedano alcuni filosofi
socialisti, ad essi non va ora pel capo di mettere in atto la strana
dottrina dell'organisation du travail quale la c'insegnano alcune
loro stampe ed opericciuole, e che ad effettuarsi e compirsi non
è più spedita e facile o più durabile e profittevole delle utopie
de' sansimonisti e della repubblica Icaria. Niente ancora à trovato
l'ingegno umano di positivo e di pratico in ordine all'economia
pubblica, salvo i principj che si domandano della libera concorrenza;
la qual verità non ci vieta di riconoscere i danni e gli stenti che
ne procedono molte fiate al popolo degli operai. Ma rimane ad indagare
ancor più sottilmente, se la virtù medesima di quei principj sia capace
o no di rimuovere in buona parte, o di sminuire e stremare quelle
pregiudiciose e afflittive conseguenze; ovvero elle sieno tali da non
potersi emendare, eccetto che da riforme ed innovazioni profonde ed
isconosciute. Infrattanto, il senso morale e la intuizione immediata
dei sommi veri ci persuadono, che la libertà e la spontaneità debbono
pure in economia, come in qualunque altra disposizione sociale, essere
il germe fecondo e l'efficienza prima ed inesauribile d'ogni progresso,
d'ogni salute, d'ogni prosperità. Poco importa che il costringimento
s'adempia in nome di pochi, o d'uno, o di tutti: nell'ultimo caso,
è salva la dignità umana, non la spontaneità; e quindi l'energia, la
copia, la varietà e la perduranza dell'opere di mano in mano decadono
e si rallentano. Certo, fa gran maraviglia che quella nazione stessa a
cui in fatto di politiche libertà sembra di mai conseguirle nè larghe
nè sicure abbastanza, pretenda in fatto d'industria di procedere coi
divieti, e con l'intervenimento importuno e dispotico della legge.

Ciò presupposto, e tornando più strettamente al subietto de' pubblici
lavorii, noi diciamo che l'attuazione compiuta e perpetua di quelli
o tornerà affatto impossibile, o sommamente diverrà perniciosa allo
Stato, se non si conformi con le massime della libera concorrenza, e in
troppa gran porzione impedisca e conturbi la operosità economica dei
privati. Perchè ciò non accada, ricercansi principalmente le quattro
condizioni infrascritte.

1º Le pubbliche officine debbono istituirsi universalmente, e poco
meno che in qualunque grosso comune. Altrimenti, egli succederà molto
presto un'accumulazione tragrande di popolo in quelle sole città ove
saranno pubblici lavorii. Diciamo poi, che fatto anche che tali opificj
e lavori sieno per ogni luogo moltiplicati, ciò nondimeno rischiasi
forte di veder le campagne vuotarsi di gente e mancare le braccia
all'agricoltura, massime nelle provincie più montagnose e più sterili;
conciossiachè il trovare ne' luoghi murati ad ogni tempo e ad ogni
qualità di persone apparecchiato il lavoro e accertato il salario,
non può non accrescere a dismisura la propensione de' contadini
per ricoverarsi nelle città e lasciar la villa. Converrà, dunque,
in sull'aprirsi le officine per tutto lo stato, cercare compensi e
provvedimenti nuovi e gagliardi perchè le genti sparse per lo contado,
vi si mantengano.

2º Necessità vuole che si decreti e si fermi, i pubblici lavorii venire
costituiti per supplimento e riparo alla insufficienza delle industrie
private, e però ricevere da queste limitazione e misura; cioè a dire,
che nelle officine della repubblica sieno raccolti quegli operai
solamente a' quali nessuna privata industria ha potuto fornir lavoro.
E ciò si dovrà riconoscere dai commessarj, o in virtù di certificati
de' capo-maestri, o con altri metodi e discipline, secondo si troverà
più agevole e più sicuro. Chi si consigliasse altrimenti, vedrebbe in
cortissimo tempo ogni sorta di lavoranti sgombrare le officine private;
perchè, poste pari tutte le condizioni, ciò nondimeno la sola maggior
sicurezza e stabilità del salario, e il non servire ad uomo particolare
ma sì al pubblico, e non all'umore del principale ma sì agli ordini
disciplinati prestabiliti, indurrebbe gli operai ad abbandonare a mano
a mano il lavoro de' cittadini per quello del comune.

3º Se il governo non vuol menare a ruina di molte industrie private,
dovrà procacciare che i lavori da lui condotti, sieno di qualità da
non potersi dai particolari cittadini imprendere con profitto: la qual
cosa importa che le pubbliche manifatture quanto più crescono, e tanto
più costino e sieno a maggiore scapito del tesoro. Ogni altra specie
di lavori condotti dal pubblico renderebbe impossibile la concorrenza
privata in quella cotale specie. Ma, d'altra parte, al governo fa
gran bisogno d'assai varietà di lavori, perchè dee dar salario ad ogni
generazione di operai. Tutti questi nodi sono difficili a sciogliersi,
ed esigono nuovi temperamenti e partiti.

4º Avviata la generale istituzione dei comuni opificj, mai non potrà
il prezzo della mano d'opera (come usan chiamarla) sminuire tanto e sì
presto, quanto si vede ne' paesi ove il numero delle braccia soverchia
l'uopo che se ne à. Però, tutte quelle industrie le quali competono
con gli stranieri, mercè del buon mercato e del potere scemare fino
all'ultimo estremo i salarj, cesseranno e s'annulleranno. Tanto più
è comandato al governo di non recare perturbazione ed impaccio alle
industrie che valgono ad avvantaggiarsi e a fiorire non ostante il
prezzo più che mezzano della mano d'opera.

Segue dal fin qui ragionato, che più malagevole assai è per riuscire
al governo repubblicano il soddisfare e piacere alle moltitudini,
a rispetto delle nuove opinioni sociali, di quello che negli ordini
della politica; delle quali opinioni sorgerà una copia e una varietà
esorbitante, e così belle d'apparenza e lusinghevoli agli occhi del
popolo, quanto poco fondate e lontanissime dalla pratica. Ma perchè
le maggiori difficoltà della lor materia risiedono nelle viscere della
cosa, e in certe impossibilità naturali e invincibili, l'ingegno molto
svegliato e penetrativo della plebe francese non può non avvedersi,
dopo le prove iterate della discussione ed esaminazione patente e
comune, che il governo non à in pugno una verga da taumaturgo: e però
io penso che tali malagevolezze ed ostacoli non basteranno a mettere
giù la repubblica, ma sì basteranno a commuoverla ed agitarla continuo,
e a crescere l'inquietezza ed il malumore degli operai, i quali per
lungo tempo non poseranno, e correndo poi agli estremi, prepareranno
(com'io diceva in principio) la lor soggezione a un governo dittatorio
assoluto.

À la repubblica nuova tra mani le sue utopíe, come ebbe l'altra
del secolo scorso. Ma in quella era più arbitrio e più facoltà di
appagare il popol minuto. Conciossiachè, l'estinzione dei privilegi,
lo spezzamento e ripartimento che ne seguiva dei beni stabili, e
l'attuazione compiuta e súbita della libertà e uguaglianza civile,
erano novità ed effetti visibili a tutti, e di presto e general
giovamento. Ora, alla presente repubblica, per empiere i desiderj
di tutta la plebe, occorre di affaticarsi in miglioramenti male
studiati, mal definiti e poco o nulla operabili. Ma d'altra parte,
la repubblica antecedente armava contro di sè profonde passioni e
non placabili inimicizie: la presente fa male a pochi o a nessuno;
del pari, che crescere molto la somma dei beni, massime delle classi
inferiori, s'accorgerà di non potere. Ma quello che non eccede le sue
facoltà, ed entra innanzi a tutte le obbligazioni sue, si è l'ajutare
per ogni guisa la purgazione degli animi e dei costumi; perchè della
corruttela è tollerante la monarchia, intollerante la repubblica.
E la plebe francese presente, non così bene à serbato la severità
e la modestia come l'energia e il coraggio, e nella vita pubblica è
assai migliore che nella domestica. Usanza generalissima degli operai
di Parigi si è lo scialacquare in due dì della settimana il salario
degli altri giorni. La santità del matrimonio conoscono poco o nulla,
e in grossolani piaceri s'ingolfano senza misura e quanto i guadagni
cotidiani il concedono. Della religione serbano un sentimento confuso
e fugace, e mai non si affaccia loro il pensiere ed il desiderio di
meditare intentivamente sulle ultime sorti dell'uomo. A queste male
disposizioni ànno gli scrittori di là piuttosto aggiunto incentivo
che recato rimedio. E per fermo, nella più parte de' libri loro, che
altro s'incontra, salvo una pittura vivissima dei patimenti della
plebe, e un'amplificazione continua delle oppressioni e delle avaníe
ch'ella sostiene dai potenti e dai facoltosi? Quante parole spendono
essi per dimostrare all'infimo volgo i suoi diritti e le doti e i
pregi segnalatissimi che la fregiano, e quante poche per istruirla
de' suoi doveri e ammonirla delle sue colpe! Indicassero almeno le
vie dirette e pacifiche per condurre le moltitudini dalla povertà
all'agiatezza, dalla miseria alla giocondità: ma in quella vece, dopo
avere accresciuto alla plebe la cognizione e il sentimento de' proprj
mali, o si tacciono affatto, o propongono tali compensi e partiti,
ai quali essi medesimi non porgono fede. Medici veramente crudeli
ed improvvidi, che si dilettano di palpar le piaghe del popolo e
inasprirle e dilatarle, senza prima fornirsi di neppure una stilla di
balsamo sedativo e salubre! Insomma, in questi ultimi quindici anni gli
scrittori francesi ànno in troppa gran parte mancato all'ufficio loro;
e la dignità delle lettere ne à scapitato assaissimo; e la repubblica
nuova trovasi ora sulle braccia una plebe molto più adulata e guasta
dai libri che illuminata e corretta, ed emmendar la quale non pensò
nè punto nè poco Luigi Filippo ed il suo ministro, benchè loro non
mancasse tempo quieto ed accomodato.


§ V.

_Massimo impaccio per la repubblica sono le corrispondenze esteriori._

Contro forse l'opinione di molti, noi reputiamo che tra gl'impacci
maggiori del nuovo governo repubblicano sono da computarsi le
corrispondenze esteriori. E prima, si voglia notare che a tutti i
governi veduti sorgere in Francia, massime da cinquant'anni addietro,
le malagevolezze maggiori e i pericoli più imminenti e più gravi sono
provenuti dal di fuori; e ciò per l'intima connessione che i fatti e
le disposizioni esterne acquistano in quella contrada con gl'interni
fatti e disposizioni. La Francia tocca da ogni lato le più vitali parti
d'Europa, e mai non è sorto conflitto in alcuna nazione circonvicina,
che la spada del popolo francese non siasi snudata.

Ad ogni grandezza civile tengono dietro molti rischj e gravezze; e la
Francia grandeggiando in Europa, segnatamente per certo imperio morale
che esercita sugli animi e sugli intelletti, non può in niuna maniera
ristringersi in sè medesima, e goder pace se gli altri non l'anno:
e come ogni suo moto à consenso e ripercussione di fuori, così non
possono i suoi vicini rimanere indifferenti e neutrali, ma o caldi
amici o caldi nemici; e bisogna o ch'elli accettino i suoi principj e
le forme del suo vivere sociale e politico, od ella i loro in massima
parte.

Ora, venendo al caso presente, volentieri riconosciamo che una nuova
colleganza europea contro la Francia repubblicana non par probabile,
ma nemmeno scorgiamo su che fondamento saldo e durevole possa
costituirsi la pace, e come annodare leali e amichevoli corrispondenze
tra la repubblica e i regni circostanti. La diplomazia della plebe
è differentissima da quella dei principati e delle aristocrazie. Per
solito, non vuol secreti e non sopporta dissimulazioni; s'impazienta
agl'indugi, abborre i mezzani partiti, e (ciò torna a perpetua lode
sua) sempre à nelle risoluzioni dell'ardito e del generoso: testimonj
gli Ateniesi ed i Fiorentini. Aggiungasi a ciò il naturale de'
Francesi audace e mal sofferente, e quello spirito d'antica cavalleria
che mai non li fa quietare, e cacciali volentieri in difficilissime
imprese. Ma oltre di questo, la Francia, avanti ogni cosa, è armigera
e battagliera; à un esercito grosso, avidissimo di romper guerra, e
a cui vengono meno al presente le fazioni dell'Affrica, le quali se
abbastanza non l'occupavano e intrattenevano, pure gli ànno sempre
tenuto vivo il gusto e il senso della vita guerresca, e acceso un
desiderio smanioso di fatti grandi e di gloria un po' meno dispari e
dissomiglievole dall'antica. Ora, come potrà il governo far languire
nell'ozio delle caserme un esercito così fatto, e il cui ardore e la
cui ambizione è di tanto accresciuta dagli ultimi avvenimenti!

Una cosa è inevitabile al governo nuovo repubblicano; il dovere, cioè,
fare scelta fra due partiti in ugual modo pericolosi. A lui bisogna o
non più riconoscere i trattati di Vienna, e con questo solo perturbare
tutta l'Europa, e nimicarsi fin l'Inghilterra; o riconoscerli, e
smentire nell'atto suo primo tutte le massime insino a qui predicate
con solennità e veemenza da' suoi partigiani. Probabilmente, e malgrado
degli animi fieri e audacissimi, il governo provvisorio manderà fuori
un manifesto pieno d'ambigue parole e di mezzane opinioni, e dove
negherà da un lato ciò che dall'altro verrà affermando; e sopra ogni
cosa, protesterà fermamente di voler vivere non che in pace, ma in
buona concordia e amicizia con tutti i governi.[14] Se ciò sopportasi
dalla plebe, un grande frangente è tolto di mezzo, e può l'Europa
serbarsi in pace per ancora buon tempo. L'Inghilterra, nelle cui mani
sia ora la somma dei comuni destini, non dubiterà punto di mantener
con la Francia amichevoli intelligenze, e avere per legittimo e rato
il nuovo governo repubblicano. Conciossiachè le sue immense armate, e
le enormi ricchezze e l'animo coraggioso ed intrepido non le bastano a'
nostri giorni per rinnovare e assoldare la lega Europea contro Francia:
mancale altresì l'intensione e l'unità del volere, perchè sono mutati
in gran parte i suoi pensamenti e consigli; ed anche appresso di lei
le forme sono antiche ed intatte, ma la sostanza tutto dì si altera e
si trasmuta. La Russia, non ispalleggiata dalla Germania, non può nulla
di grave e di minaccioso intraprendere contro l'occidente europeo; e la
Germania si quieterà, ed anzi farà ottima diversione chiedendo riforme
e franchigie, qualora ne' Francesi stia tanta saviezza e prudenza da
non fiatare nemmanco delle provincie del Reno: chè, quando accadesse
altrimenti, i tre potentati del Norte possono ancora trovare obbedienti
i popoli loro, e collegarli e moverli contro la nascente repubblica.

Tutto ciò, ripeto, va per li primi tempi ne' quali la sospensione
stessa degli animi, la stravaganza dei casi, la preoccupazione
e il timore reciproco, il non essere i governi apparecchiati nè
consigliati a nessun gran cimento, ajuteranno il desiderio e il
bisogno di conciliazione. Ma si fermi pure la pace tra Francia e
i contermini potentati, rimangano in piedi i trattati di Vienna,
dichiarisi l'Inghilterra amica del nuovo governo, si queti la Germania
e riposi la Russia; pur nondimeno io manterrò sempre, che tal pace e
buona amicizia è vacillante e inferma di sua natura, e che in questo
dimorerà di continuo l'impaccio maggiore della repubblica. A' tempi
che corrono, non può sussistere, massime in un vasto paese, autorevole
e influentissimo, come è la Francia, un governo non pur differente da
quello degli Stati finitimi, ma di natura così attrattivo, e così caro
e invidiabile a tutte le moltitudini. Dico, non può sussistere molti
anni; e chi pensa altrimenti, e crede tra le due forme governative
di scorgere differenze poche e superficiali, fa visibile inganno a
sè stesso; e scorda, fra l'altre cose, che la picciola Svizzera così
divisa e disforme nei suoi elementi, e mista d'istituzioni moderne e di
viete e proprie del medio evo, pur nonostante à dato sospetti gravi e
durevol paura ai governi circonvicini. Come, dunque, non può l'Europa
quetare tanto che dura la repubblica appresso i Francesi, così a
questi, pure ordinandosi e componendosi a casa loro, sempre giungeranno
di fuori nuove perturbazioni, e pericolo instante di scompiglio e di
guerra.


§ VI.

_Conclusione di ciò che precede._

Ei si dee concludere primamente, che guardata e considerata parte
per parte ogni condizione dello stato presente di Francia, non
appare cagione alcuna per la quale si giudichi facile e molto vicina
la caduta della repubblica. Questa poi fu fondata per la vittoria
e il voto unanime della plebe; e però al nuovo governo dee stare
a cuore principalmente di farsi a quella grazioso e accettevole,
come ai passati reggitori era principale necessità di contentare e
favorire i borghesi. Ogni cosa, pertanto, in Francia prenderà aspetto
arci-democratico, e verserà intorno ai pensieri, ai sentimenti ed agli
interessi del popol minuto.

Secondamente, si dee concludere, che al nuovo governo aprirannosi vie
meno erte e scabrose per soddisfare i desiderj del popolo intorno alle
riforme interiori politiche, di quello che a rispetto delle sociali
ed economiche: e altrettanto spinoso e difficile gli sarà di condurre
a pace e a concordia i negoziati e le intelligenze esteriori; ed anzi
ciò gli tornerà impossibile affatto, quando dalla parte de' potentati
del Norte non superi tutti gli altri rispetti il timore incessante
di perdere e inabissare ogni cosa, e dalla parte dell'Inghilterra
il bisogno grande e non transitorio di accrescere e dilatare i suoi
traffichi.

Contuttociò, dall'alterazione continua delle attinenze esteriori può
scoppiare una general guerra e un totale sconvolgimento d'Europa, nè
alcuna di quelle alterazioni avrà luogo senza commuovere profondamente
tutti gli ordini governativi di Francia.

Oltrechè, il governo repubblicano non può rimanersi solitario
per lunghi anni; ma non cadendo per forza d'armi straniere, e non
iscompaginandosi con l'anarchia, dee di necessità propagarsi per tutto
ove la materia sarà disposta. Quindi non può col tempo non inquietare
e spiacer sommamente all'Inghilterra medesima; conciossiachè la
perduranza d'una perfetta e vigorosa democrazia pone in gravissimo
compromesso le aristocratiche istituzioni dell'isola.

Dalle questioni poi economiche, e più ancora dalle sociali agitate
in seno di popolaresche assemblee, pericolo è di veder sorgere in
Francia cagioni copiose di mutamenti e di rivolture, massime non si
conoscendo nessuna via piana e nessun mezzo efficace per attuare certi
concetti fantastici, e giungere a certi fini a cui la plebe si ostina
di pervenire. Però, la salute della repubblica, nell'interior suo, sta
tutta nell'illuminare le menti, evitare le sètte, e all'agitazione
somma degli animi e alla discussione procellosa de' nuovi problemi
trovare sfogo e andamento ordinato sì, che le mutazioni medesime non
compajano eccessi, e non inducano l'anarchia.

Che poi la repubblica sia per ispiegare tanta virtù e saviezza di
quanta è mestieri per tenere da una banda appagata la plebe, dall'altra
fuggir la guerra e innovare i trattati, e ogni cosa adempiere con
autorità di leggi e senza tirannide di fazioni, è cosa oltremodo ardua,
e assai più da desiderare che da sperare. Contuttociò, mal si può
affermarlo o negarlo assolutamente; imperocchè le storie non ci offrono
esempio nessuno dello stato civile e politico in cui di presente è la
Francia, e la più parte delle proposte che fa e degl'instituti che
va disegnando, riescono nuovi e impensati, segnatamente in Europa;
e quel simigliante che se ne vede in America, riesce, all'ultimo,
dissimilissimo, a cagione della sostanzial differenza che corre tra
i due continenti in ogni abito e forma di vita comune. Solo, non è
temerario di sentenziare, che in tanta incertezza ed oscurità di
dottrine, e in tanta esorbitanza di desiderj e improntitudine di
domande, non è punto credibile che possa trovarsi alla prima e con
quiete il meglio e il più praticabile, e ciò che mostri facoltà di
durare e di solidarsi: impossibile è, poi, che questo s'adempia o con
la guerra o con la perpetua sua minaccia o con l'imperversare delle
fazioni.

In genere, la Francia, dal lato degli studj e delle teoriche, è mal
preparata alla politica e sociale trasformazione in cui vuol entrare,
e però non istimo che per gran tempo valga ad allargar molto il
circolo delle cognizioni correspettive e ad approssimarle alle ultime
soluzioni; e chiaro è che ella ondeggia fra due sistemi di ordinamento
civile non pur diversi, ma opposti. Il primo produsse e governò la
rivoluzione dell'età scorsa; l'altro risulta, benchè tuttora mal
definito, dai pensamenti e dalle tendenze nuove della filosofia civile,
e dai nuovi fatti che il natural-progresso delle nazioni compie e
mette in considerazione. Il primo s'accorda troppo bene con l'indole e
l'attività del popol francese; l'altro l'è troppo contrario. Il primo
può dirsi consistere singolarmente in tre cose: nella rivoluzione
entro casa; nella propagazione sua di fuori per via dell'armi; nella
negazione ardita di tutto ciò che l'analisi acuta ma frettolosa e
imperfetta non trova e non riconosce in ogni materia di scibile e nelle
più chiuse parti del cuore. Certissimo è, che nelle gare politiche,
quando bisogni venire alle ultime prove, nessun popolo s'agguaglia
al francese in bravura e in ardore. Similmente, nessuno il pareggia
in impeto bellicoso; e tutti i pregi di sua natura risplendono vivi
e abbaglianti nelle fazioni di guerra. Nell'acume poi della critica,
nella perspicacia e ordine dell'analisi, e nella baldanza del negare
e del confutare, nessuno vince e neppur raggiunge l'ingegno francese.
Ma d'altro lato, i costumi nuovi e la nuova filosofia vanno ognor da
vantaggio persuadendo che le rivoluzioni violente distruggon sè stesse
e più non sembrano necessarie; che la guerra abituale è mestiere
da barbari, e affoga nel sangue la libertà; che le conquiste pesano
come cappe di piombo addosso agli occupatori; che la critica à ormai
compiuto il suo magistero, e vuolsi far debito luogo all'autorità delle
tradizioni, e scandagliare giù nel profondo la scienza arcana che si
raccoglie e si occulta nei suggerimenti mirabili dell'istinto: che
le libertà individuali e municipali son fondamento a tutte le altre,
e con esse dee misurarsi, ad esse adattarsi la potestà e l'arbitrio
legislativo; che, infine, dai subitanei consigli, dai mezzi veementi
e forzosi e dai metodi dittatorj mal può germogliare la libertà vera,
e che alla tirannide riesce non rade volte di mascherarsi col nome di
Convenzione, di sovranità popolare, e d'altri titoli strepitosi.

Dal contrasto di tali due sistemi procedono le contraddizioni molte che
appajono a questi giorni tra uno e altro atto del governo provvisorio,
tra uno e altro enunciato del Programma popolare, e così in ogni parte
e manifestazione della vita politica. Non può da simil conflitto non
provenire assai confusione ed incoerenza nelle deliberazioni e nei
fatti che sono per seguitare. Contuttociò, egli è da sperare e sembra
probabile che mai non verranno al sangue e alla guerra intestina.
Conciossiachè il pericolo maggiore da questo lato può stare nella
porzione più rozza e più indocile della plebe; ma perchè ogni suo moto
armato minaccerebbe l'avere così dei privati come del pubblico, ci par
naturale che tutto il rimanente del popolo sia per essere pronto ed
unito a resistere a quella furia. A tutti gli altri umori è credibile
che la uguaglianza perfetta civile e l'uso interissimo d'ogni maniera
di libertà dischiudano qualche sfogo, e impediscano che alcuna fazione
signoreggi, ed opprima talmente le altre, e s'impadronisca in sì fatta
guisa dell'imperio e dell'armi pubbliche, da ingaggiare battaglia con
gli avversarj, e insanguinar Parigi e la Francia.

Con tal condizione soltanto di saper fuggire lo sdrucciolo
dell'anarchia e fuggir la guerra civile, la repubblica nuova francese
avrà porto a tutti un esempio imitabile, e adempiuto un grande e
salutifero esperimento; e in solo quel caso potrà fermarsi ciò che in
principio di questa Lettera molto dubbiosamente si proponeva: cioè,
se l'ultima rivoluzione francese sia per riuscire al progresso civile
d'Europa un bene od un male.


§ VII.

_Quello che dee l'Italia pensare degli ultimi casi di Francia._

Lodi chi vuole ed esalti a cielo la vittoria fortunatissima del
popolo parigino; e confidisi pure ch'ella tornerà fra non molto a
progresso grande e magnifico di tutta l'Europa: io, come Italiano,
confesso che me ne dolgo, e la reputo, almeno, avvenuta pel nostro
paese nel tempo più disacconcio ed inopportuno che dar si possa. Dopo
tre secoli di silenzio e di sonno, e dopo aver toccato l'ultimo fondo
delle umiliazioni, dell'ignavia e delle sventure, l'Italia risorgeva
in modo sì bello e insperato, con portamenti sì ordinati e pacifici,
con tale pienezza e coscienza della giustizia e del dritto, con un
senso di virtù e di religione tanto istruttivo e tanto esemplare pel
mondo, che forzava i popoli tutti a maravigliarsene. Risorgeva l'Italia
e rigeneravasi per moto sì fattamente proprio e spontaneo, che in
cambio di aspettare e ricevere come l'altre volte, ella dava altrui
l'impulso e l'eccitazione; e tale impulso era tutto civile ed umano,
pieno di moderazione, di prudenza, di longanimità. La nazione stata più
afflitta dalle discordie e più tenuta divisa dalle arti di stato, dalla
fortuna e dalle colpe sue stesse, quella nazione, dico, ritempravasi
per prodigio nella fiamma d'amore, e in amplesso spirituale si
unificava: di ventiquattro milioni d'uomini uno solo era l'animo,
una la mente, uno il fine; e in tanto profondo rivolgimento e in così
subita innovazione, tu non rinvenivi un sol uomo il quale avesse potuto
chiamarsene offeso, e a cui il popolo, uscito appena di servaggio
e inesperto di libertà, avesse torto un capello, recato il sopruso
d'un obolo, fatto segno fugace di risentimento e vendetta. Spettacolo
certamente insolito a tutte le genti, e onorevole non che per l'Italia,
ma per l'intera famiglia umana. Quindi l'Europa e il mondo non potevano
trattenersi dall'encomiarlo: e già riconoscevano in noi le discendenze
e le propaggini auguste di Roma; già domandavano l'Italia la terra
perpetua de' prodigi; e s'annunziava per mille segni, ch'era oggimai
nostro ufficio introdurre le nazioni in nuovo corso di civiltà, e loro
fare scòrta su per li gradi d'altissimo perfezionamento.

Ora, tanta speranza vien sopraffatta in un subito dagli avvenimenti di
Francia, e siamo della nobile capitananza dispossessati: il mondo torna
all'idolatria antica, e, tra pauroso ed attonito, tien fermo lo sguardo
nella Francia repubblicana. Sieno pure questi nostri lamenti non degni
dell'uomo filosofo, e mantengasi pure con invitti argomenti, che il
bene, dovunque venga e comunque, è sempre avventuroso e accettabile.
Io fui Italiano molto prima di tentare d'esser filosofo, e sin dalla
puerizia ò pianto con isconsolata amarezza le umiliazioni e li sfregi
della mia patria: il perchè, della cara speranza che or balenava del
suo primato esultarono tutti gli spiriti del cuor mio, e chiunque
strappa di mano all'Italia quella sublime lusinga, mi fa dolore e
non gioia; e se questo è colpa o gran debolezza, io sento una forza
soave che rende amabile alli miei sguardi la colpa e invidiabile la
debolezza.

Ma oltre di ciò, a nessuno è lecito di negare che la rivoluzione
presente di Francia non ispanda per Italia un seme funesto di
divisione, il quale, per occulto ed inerte che si rimanga, non perde
facoltà di scoprirsi e di germogliare laddove i popoli sieno men
giudiziosi o i governi meno prudenti: e questo accade per appunto
quando abbisogniamo vie più dell'unione compita ed universale degli
animi, e quando al misericordevole Iddio era pur piaciuto di prepararla
per tutto, e disporre ogni cosa al finale conseguimento suo.

Ma perchè qualunque lamentazione non à virtù di cambiare i fatti e
arretrare gli avvenimenti, meglio è di condurre i pensieri su quello
che a noi importi di praticare e di fermamente volere dopo gli
straordinarj casi di Francia.


§ VIII.

_Stato presente d'Italia, e ciò che conviene di fare a' suoi popoli ed
a' suoi principi._

E primamente diciamo, che intorno ai consigli, alle risoluzioni ed ai
portamenti che agl'Italiani possono meglio convenire nelle congiunture
nuovissime in cui la rivoluzione francese gli à collocati, è cosa di
gran conforto vedere che l'opinione di tutte l'effemeridi nostre,
variando assai nell'aspetto, non differisce guari nella sostanza,
ed in tutte sembra spirare il senno e l'avvedutezza antica. La quale
opinione, a scioglierla dalle diversità dei modi e ridurla in brevi
concetti e persuasibili ad ogni mente, ci pare dover essere così
espressa. Sta il nerbo principale d'Italia in Piemonte, e l'esercito
di colà è la nostra spada: esso à dirimpetto lo sforzo intero
dell'Austria. Ma fino a che serbasi, come ora è, unito, disciplinato
e volonteroso, non si fa luogo a serj timori. Per lo contrario, tutto
quello che sconnettesse l'esercito e ne rompesse la disciplina,
volterebbesi in danno estremo di tutta la Patria comune; perchè
l'Austria profittando dello scompiglio, piomberebbegli addosso col
fiore delle sue truppe, e vedremmo un disastro non molto dissimile da
quello del 1821. Lo stesso caso, e con maggiore facilità e prontezza,
si compirebbe nell'altre provincie Italiane confinanti con l'Austria.
Nè dicasi che i Francesi repubblicani calerebbero in nostro ajuto.
Conciossiachè (presupposta pure come certissima la loro pronta calata
e la piena vittoria) io sostengo, che quello più non sarebbe ajuto
d'amici e contribuzione di collegati, ma occupazione e conquista;
e ciò che avverrebbe di noi tapini, tra la prepotenza e la ferocia
degli uni, e l'orgoglio e l'ambizione degli altri, la storia medesima
de' nostri tempi lo insegna, e ancora ne permangono i tristi effetti.
Necessario è, dunque, che la Liguria, il Piemonte, la Toscana e gli
Stati romani non tumultuino e non si scompongano, per infino a tanto
che alle frontiere di ciascuna di tali Provincie italiane stanno grosse
e minacciose le truppe austriache. Da ciò segue, che in esse Provincie
chiunque pensi a mutar la natura degl'istituti e imitare le nuove
forme politiche altrove comparse, fa opera pessima, e di turbolento
e reo cittadino. Manifesto è, poi, che se le Provincie meridionali
si sollevassero per mutar forma di reggimento, l'Italia media e la
subalpina non posson quetare: però, a tutti gl'Italiani incombe oggi un
medesimo debito; fuggire le novità che ci disordinano e ci disuniscono.
Abbiam guadagnato pur tanto di libertà, quanto bisognava per dar
dominio sicuro all'universale opinione, e proseguire ordinatamente di
migliorazione in migliorazione, sino a vedere attuato appresso di noi
tutto il più scelto, il più liberale ed il più proficuo delle odierne
istituzioni. A tre cose dobbiam ora voltar la mente con ardore di zelo
e fermezza incrollabile di volontà. La prima è stringere ed afforzare
l'unione; la seconda, armarci; la terza, consumare l'opera santa e
solenne dell'indipendenza. Quelle mutazioni, pertanto, che a tali tre
fini possono recare nocumento o ritardo, si abborrano e si respingano,
qualunque nome e colore specioso e allettativo portino seco.

Quanto è a nostri Principi, a me sembra di scorgere chiaramente, che
quel cammino che lor conviene di compiere, vada bensì per sentieri
aspri e difficili ma non tortuosi ed oscuri, e dopo molte scoscese
e sdrucciolevoli chine li meni in luogo ove potrebbe loro mancar la
fortuna ma non la gloria, e ove non può abbandonarli l'amore e la
riconoscenza eterna de' popoli.

A me va per l'animo, che a Vienna gli ultimi casi di Francia recato
abbiano sommo terrore a parecchi; ad altri, apprensione assai, mista
di molta speranza:[15] perchè coloro i quali s'ostinano negli antichi
pensieri, e reputano ogni rivoluzione un delitto e un furore che presto
passa, e debbe quindi espiarsi con servaggio nuovo e lunghissimo,
entrano forse in qualche fiducia di veder rinsavire le menti sedotte,
rannodar le vecchie colleganze, rifare le congreghe de' principi, la
libertà diroccare per li medesimi suoi eccessi, e il mondo spaventato e
sconvolto chiedere di riposarsi sotto lo scudo dei paternali governi.
Primo di tutti il Metternich move forse, in questi giorni medesimi,
tali o poco diverse parole ai Principi nostri: — Ecco, o Signori,
avverate a lettera le mie previsioni, ed anzi troppo più che voi
ed io non temevamo. A voi piacque, per eccessiva mansuetudine, di
carezzare e scaldare nel vostro seno le sètte dei liberali, credendole
assai temperate e pacifiche e ben corrette dall'infortunio. Vedetele
ora che son cresciute ed ingagliardite coi vostri favori. Avvi egli
concessione che li contenti, beneficio che li plachi, liberalità
che li riempia e li sazii? Prima mostravano di non vi chiedere se
non alquante riforme; poi vollero armi, poi licenza di scrivere
ogni enormità ed ogni scempiezza; oggi gli Statuti più larghi, le
guarentigie più salde, le libertà più estese e compiute non sembrano
loro abbastanza; oggi si tratta delle vostre corone medesime; si tratta
dell'essere o del non essere. Or che aspettate, o Signori? Forse che
la Francia espedisca di nuovo le fiere masnade de' suoi giacobini a
sommuovere tutti i popoli, a rovesciare tutti i troni? Deh facciam
senno una volta, e ricompriamoci, se egli è possibile e s'egli è ancor
tempo, dal giogo vile delle cenciose democrazie. Quel che vuol dire
scostarsi dall'amicizia dell'Austria, nudrire speranze inconsiderate
d'ingrandimento, correre dietro agli applausi delle ingratissime
moltitudini, stimo che apertamente il vediate. Ma l'Austria scorda
tutti gli oltraggi passati, compiange gli errori comuni, e solo
desidera e prega che il vostro pentirvi e ricredervi non sia tanto
tardi, ch'ella medesima non conosca e non rinvenga spedienti opportuni
e bastevoli per riscattarvi. Pensate che se i demagoghi si tacciono di
presente, e sembrano ancora avervi in rispetto e in considerazione,
ciò accadrà fino al giorno che le truppe imperiali ostinerannosi a
custodire e fronteggiare la Lombardia. L'ora in che avranno sgombrato
compiutamente l'Italia, sarà l'ultima del vostro regno. —

A me vien pensato che questi debbono essere gli ammonimenti e i
consigli del Gran cancelliere di Vienna; e a me pare, dall'altro
lato, udire rispondere così i nostri Principi: — Se d'una cosa noi ci
pentiamo, si è di avere troppo indugiato a riconoscere la perfidia
insieme e la vanità de' vostri documenti, pei quali rischiammo di
perdere affatto l'amore de' popoli nostri, che è il solo patrimonio
e la sola conquista degna d'un re. Voi procacciate di spaventarci
mostrando la crescente smoderatezza e la necessaria incontentabilità
delle moltitudini. Ma noi siam di credere, che l'opinione, qualora
possa manifestarsi senza pericoli e incitamenti, e non le manchi agio
nè tempo di esaminare, d'erudirsi e di avvisatamente concludere, mai
non si scompagni dalla moderazione e dalla giustizia: ma come ciò
sia, meglio ci sembra di ottemperare al desiderio eziandio indiscreto
de' nostri concittadini, che al comando del superbo straniero.
Insopportabile a noi s'era fatto il regnare come vostri luogotenenti,
e col puntello de' gesuiti; e ci è più dolce spartire col popolo
l'autorità della legge, che veder cancellato il nome di lui dal
libro delle nazioni, e l'Italia condotta ad essere non altra cosa
fuorchè _una espressione geografica_, come voi testè la domandavate.
Col restituire a' sudditi nostri la dignità d'uomo e di cittadino,
abbiamo a noi medesimi restituito la monarcale dignità, e sentiamo
che d'ora innanzi nella bilancia d'Europa li scettri nostri avranno
pondo e valore. Ad accrescere l'uno e l'altro, noi deliberiamo di
unirci in istretta e saldissima Confederazione; e presto bandiremo
una Dieta Italiana, ove siederanno con buon accordo e amicizia così
i nostri commessarj come i deputati delle assemblee. Voi dite che la
Francia torna minaccevole per tutti i troni, e che noi saremo continuo
tribolati, continuo sopraffatti dall'esorbitanze dei partiti. Ma non
vi cada della memoria quel grande sfogo che dar possiamo all'eccesso
dell'ardor giovanile e alle improntitudini della plebe. A ciò
basteranno, ben vel sapete, queste sole parole: Si passi il Ticino. Ma
sentiamo che replicate, che vinta la guerra, affrancata la Lombardia,
e vuota l'Italia d'Austriaci, nessuno porrà più argini alle passioni
e termine alle speranze e disegni dei democratici. Noi rispondiamo
invece, che niuna cosa può aggiungere credito e forza ai nostri
governi, quanto l'auge della vittoria, le armi avvezze a obbedire e
onorare le nostre persone, il merito sommo acquistato appresso della
nazione. O tutto questo può salvare le nostre corone e prerogative, o
nessun'arte e spediente lo può. Ad ogni modo, la giustizia procede con
noi, e i nostri nomi son consegnati alla fama, e staranno quanto la
storia dell'italiano risorgimento. —


AI SIGNORI DIRETTORI DELL'EPOCA.[16]

                                                      11 aprile 1848.

Giovandomi della sincera e cortese amicizia vostra, piglio arbitrio di
mandarvi alcune brevi considerazioni sui fatti di Lombardia, le quali
nelle congiunture presenti mi pajono non pur vere ed utili, ma che il
trascurarle torni troppo pregiudicioso alla causa italiana. Nè badate,
signori, che sieno pensieri d'arme e di guerra; imperocchè, a questi
tempi, qual buon cittadino non volge l'animo alle cose militari? Senza
dire che la scienza dell'armi non è tutta chiusa ed inaccessibile a chi
s'astiene dal maneggiarle, ma v'à alcune parti ove il naturale ingegno
può penetrare assai dentro, e scorgere con sicurezza ciò che al buon
capitano occorre d'imprendere e di provvedere. Quando, poi, questi
miei brevi pareri ed accennamenti non pure si raffrontino coi disegni
e le risoluzioni di coloro che al presente governano la guerra santa,
ma nemmanco abbiano spazio di prevenirle, io ripeterò in cuor mio _Hoc
erat in votis_, e coglierò grandissima contentezza dalla inutilità
delle mie parole.

Io dico, pertanto, che considerandosi da un lato le mosse dei nostri
e dall'altro quelle degli avversarj, s'intende assai chiaro, che
gl'imperiali procacciano di rannodarsi e difendersi principalmente
lungo l'Adige; e quivi, secondo che daranno i casi, o aprirsi
una ritirata sicura sgombrando del tutto l'Italia, o ripararsi in
Peschiera, in Mantova ed in Verona, aspettando quello che venga loro
comandato da Vienna. Possono eziandio tentar la sorte d'una battaglia
campale, con questo consiglio, che riuscendo vincitori, acquistino
facoltà d'invadere nuovamente gran parte della Lombardia e del Veneto;
e quando abbian la peggio, rimanga loro pur sempre un ricovero assai
ben munito e ben proveduto nelle dette fortezze. Sperare in ajuti nuovi
e gagliardi spediti loro di là dal Tirolo non sembra che possano per al
presente, e poco numero di gente non basterebbe al fine di rappiccare
le fila interrotte tra Verona e le terre austriache.

Dal lato nostro, conoscesi che Carlo Alberto è in pensiere
principalmente di sconnettere in più d'un punto e spezzare quella
continuazione di forze che gl'imperiali si studiano di mantenere fra
l'Adige e il Mincio; e nel tempo stesso, à l'occhio ai passi meno
difesi, e distribuisce sì fattamente le truppe dell'ala sua dritta, da
impedire al nemico di rioccupare per soprassalto alcuna città o luogo
importante. Con l'ala sinistra, poi, dell'esercito proprio spignesi,
a quel che sembra, verso il Tirolo, per soccorrere le popolazioni
insorte, minacciare il nemico alle spalle, e togliergli modo così di
tenersi congiunto colle terre dell'impero di là da' monti, come di
rinfrancarsi con qualche schiera che disegnasse di calare in Italia.

Ciò veduto, io sostengo, che è grandemente mestieri menar la guerra
con celerità e vigore massimo nel Tirolo, e far quivi grossa testa di
truppe, radunandovi altresì quanta più gente assoldata e disciplinata
può fornire la Venezia. Questo fatto, un buon nerbo di milizie
scendendo dal Cadorino e dal Friulano, dee spingersi con ardire e
prestezza ad occupare Trieste, e porgere ajuto ai partigiani e fautori
della causa italiana che sono pure colà. Sembra oggimai certo, che
Napoli invia legni e soldati nell'Adriatico; ma nessuno sforzo dalla
banda del mare conseguirà prontamente lo scopo della dedizione di
Trieste, qualora dalla banda di terra non sia stretta ed assalita con
istraordinaria gagliardia. In questa sollecita occupazione di tutta
l'Istria raccogliesi, al parer mio, un punto principalissimo della
liberazione d'Italia e un gran pegno della sicurezza avvenire; e però
è necessità di ciò procurare innanzi che il governo nuovo viennese
possa riaversi, e le sue provincie tedesche, paghe delle libertà e
guarentigie ottenute, risolvano di sostenere con ogni mezzo la ruinante
casa di Ausburgo. Fra poco si riordinerà eziandio la dieta Germanica, e
sarà dieta leale di popoli liberi, e quindi tenera sopramodo dell'onor
nazionale e gelosa dei vantaggi comuni degli Stati Alemanni. Tra tali
vantaggi debb'ella per certo annoverare il porto di Trieste, che è
per l'intera Germania il solo uscio aperto sulle acque dei nostri
mari, e la sola diretta via e comunicazione con l'ultimo Oriente.[17]
Potrebbe, adunque, tutta Lamagna commoversi fortemente per serbar
dominio sopra Trieste; la qual città, d'altra parte, rompe in mezzo
le terre italiane poste fra l'Isonzo e il Quarnero. Sino dai tempi di
Augusto, ànno l'Alpi Giulie e le Carniche segnato i confini d'Italia;
e però, tutta l'Istria e il littorale che corre da Pola a Venezia è
nostro, e niun vessillo vi dee sventolare salvo che l'italiano. In
me, pertanto, è gran desiderio e speranza che le schiere piemontesi e
le venete s'accampino presto in tutta quella regione, e chiudano allo
straniero ogni passo fra il Tagliamento e la Sava, e dai Monti della
Vena sino alle rive del mare. Per rispetto, poi, all'Illiria ed alla
Dalmazia, basti per ora il notare, che abita in quelle provincie una
gente nel cui arbitrio sta il dichiararsi o per la causa italiana o
per quella dei popoli Slavi; imperocchè di schiatta nascono slavi; di
costume, di lettere, di governo si sentono italiani. A noi importa sol
questo, ch'elli non sieno e non vogliano essere austriaci, e non possa
l'Austria nei porti di Dalmazia prepararci continue offese e molestie.

                                                      (_Dall'Epoca._)


SULLA GUERRA ITALIANA.

                                                      14 aprile 1848.

Le operazioni della guerra a me pajono procedere più fortunate che
preste e ben consigliate; e le spingono innanzi le popolazioni insorte,
più assai che l'attività e l'ardire dei capitani. Dell'esercito
di Carlo Alberto, l'ala destra à compiuto l'intento suo primo
(difficilissimo per addietro, e divenuto oggidì poco faticoso)
di snidare i Tedeschi da tutte le sponde del Po. Col marciare poi
raccolta e diritta sopra Desenzano e Montechiaro, e col venir sempre
di più spalleggiata da Bresciani, Bergamaschi, Cremonesi e altri
popoli circostanti, à forzato gli Austriaci a passare il Chiese, e
fermarsi sulla sponda sinistra del Mincio, e propriamente in quel
largo triangolo che fanno insieme Peschiera, Mantova e Verona: elli
abbandonano persino parecchi posti da lor tenuti a mezzo il cammino tra
Vicenza e Verona; e giusta gli ultimi rapporti, sembra potersi credere,
che l'armi piemontesi (e questa era fazione men facile) siensi spinte
col loro antiguardo tra Mantova e Verona.

Ma d'altra parte, dell'ala sinistra non si à nuova nessuna, e non
compajono bollettini. Di quegli ottomila fanti inviati verso Salò e
Gavarno, e nelle cui mani credesi caduto il forte di Rocca d'Anfo,
neppure una voce. Ad essi spettava di dilatare e soccorrere con
vigoría il sommovimento tirolese, e chiudere e impedire i passi. Certo
è che gli Austriaci mantengono ancora disgombra affatto o con pochi
interrompimenti la via da Bolzano a Trento e da Roveredo a Verona. Ma
come va tal cosa? come non si tenta ogni sforzo e non si opera ogni
bravura per insignorirsi di Trento, vera chiave del Tirolo italiano;
mentre insorgono le campagne, il Bresciano ed il Bergamasco si muovono
ad ajutare l'impresa, e l'ajuta d'altro lato con forte rincalzo la
sollevazione del Friuli e di tutta l'alta Venezia, e possono accorrere
al fine stesso i corpi franchi della Svizzera italiana e della
Valtellina?

Al presente, gli è ben avverato che il general Zucchi padroneggia Palma
Nova ed Osopo, e che que' montanari e segnatamente gli Udinesi ed i
Trevigiani sono pieni di ardore, e si armano e si disciplinano. Ora,
gran fatto sarebbe che il Zucchi non se ne giovasse quanto bisogna
per varcare al più presto l'Isonzo e piombare su Gorizia e Gradisca;
Gorizia città aperta in fondo a una valle, e Gradisca picciolo luogo
munito di picciol castello. Quella mossa sola basterebbe forse a far
succedere la dedizione di Trieste, tanto forte dal lato del mare,
quanto debole e sprovveduta dal lato di terra. Nè sembra da temersi
che il generale Zucchi e la gente che à seco non vi si potessero
reggere; conciossiachè tra breve essi cresceranno delle schiere del
generale Durando; e buona porzione delle soldatesche e dei corpi
franchi, raccolti qua e là nella bassa Venezia, potrannovisi condurre
sollecitamente; e infine, non mancheranno col tempo le truppe ed i
volontarj quivi recati dai legni Sardi e Napoletani. Ma, pur troppo,
tutto questo ricerca nei capi massima speditezza ed ardire; e ricerca
altresì un comune disegno, e una bene ordinata cooperazione. E però
Dio provveda, perchè di comuni accordi e disegni vedo pochissime
prove, e molte ne vedo contrarie. Certo è, poi, che l'Austria, quanto
sentirà più difficile e più rischioso il resistere e mantenersi nelle
interiori provincie lombarde, tanto radunerà ogni sua forza sulle
sponde dell'Adriatico. L'Istria è tutta intera in sue mani, e Trieste
s'acconcia all'antico giogo. Stando a quello che insegnano l'ultime
nuove, ogni apparecchio che studia di fare il governo Viennese non
è per soccorrere la sua causa in Tirolo, ma sì bene per fronteggiare
gagliardamente i nemici sulla sinistra dell'Isonzo, e proteggere la
Contea di Gorizia e le terre littorali. Mai non m'è rincresciuto
così duramente com'oggi di non possedere autorità di parole nè
arte infiammativa di stile; imperocchè io l'adopererei tuttaquanta
a persuadere i giovani nostri crociati di accorrere sull'Isonzo e
varcarlo coraggiosi, riconquistando a prezzo anche di molto sangue
le antiche e naturali frontiere d'Italia. All'Alpi Giulie, griderei
loro, all'Alpi Giulie, o militi! là su tutte le cime piantate il
vessillo italiano; e non tollerate, per Dio, che attraverso alle nostre
provincie, sulle nostre stesse marine, non diviso da monti e da fiumi,
non impedito non trattenuto da fortezze e bastìe, possa dimorare il
nemico eterno d'Italia, e con quiete e con agio ricominciare le offese
e perpetuar le minacce.

                                                      (_Dall'Epoca._)


DI NUOVO, SULLA GUERRA ITALIANA.

                                                      17 aprile 1848.

I combattimenti di Goito e di Monzambano recano alle nostre truppe
onor singolare. Il varco del Mincio, qualora gli approcci e le rive
del fiume sieno difese e munite secondo l'arte, non solo è aspra
cosa e difficile, ma compiuta con tanta prestezza come i Piemontesi
ànno fatto, porge prova bellissima di bravura e di abilità; perchè si
computa generalmente dai buoni maestri di tattica, che sia mestieri di
spendervi il triplo di tempo; e tanto ne spesero nelle guerre ultime
d'Italia i Francesi. In Goito s'erano gli Austriaci asserragliati in
più strade, e da ogni casa sparavano addosso agli assalitori. Or, chi
è pratico del guerreggiare, conosce troppo bene quali rischj e fatiche
s'incontrino a smovere e scovare eziandio poca milizia da un luogo in
cui ogni muro le serve di parapetto, e l'è il bersagliare e l'offendere
così agevole, come difficile l'essere offesa.

Ei pare che tutta la schiera cacciata da Goito retroceda verso Mantova;
e quella, invece, che contrastava il passo tra Monzambano e Valeggio,
si ricoveri sotto Verona. Ma non più padroni della sinistra del Mincio,
e rotta la congiunzione loro tra Mantova, Peschiera e Verona, forse gli
Austriaci in cambio di tenere e difendere animosamente quest'ultima,
s'apparecchiano di far sicura ritirata lungo il Tirolo, e salvar
gente, artiglierie e bagagli. Se il Tirolo fosse tutto in fiamme, come
al creder mio poteva essere, accorrendovi i Piemontesi, la ritirata
de' nemici o verrebbe affatto impedita, o non accadrebbe loro senza
molto sangue e senza perdite dolorose. Ma quando, poi, i Tedeschi
indugiassero e dai nostri si trascurasse di proseguir la vittoria e
di occupare le Alpi con buon nervo di truppe, certo, commetterebbesi
errore assai grave e pregiudicioso. Marciano a quella volta alquanti
volontarj comandati dal generale Alemandi; ma perchè marciano soli,
e nessuna porzione dell'esercito li accompagna? a quella fazione non
bisognano nè cavalli nè artiglierie, ma squadre di volteggiatori e
di bersaglieri, che da molti giorni potevano essere in via. A ogni
modo, raccomandiamo con somma istanza ciò che le presenti congiunture
d'Italia ricercano sopra ogni cosa; vogliamo dire, prestezza, ardimento
e buon accordo. Sono nel Veneto i volontarj Romani, Sardi, Napoletani,
Veneziani, Lombardi. A chi obbediscono essi? ad uno o a più capi?
Nessuno ancora l'à significato, nessuno lo sa. Alle operazioni loro
è guida un disegno e un consiglio prestabilito e comune? Speriamo che
sì, ma se ne ànno indizj e avvisi contrarj. Napoli manda truppe, delle
quali certo non si scarseggia; e trattiene invece la flotta sua, che
sarebbe ai Veneziani compiuto ristoro e salvezza.

Ricordiamoci che mai Dio non à mandato all'Italia tempi più fortunati.
Ogni giorno che spunta, reca opportunità di gran fatti, e serra nei
suoi brevi confini l'efficacia di tutto un secolo. Ora, i trattati
son rotti, la diplomazia è dispersa e muta; impaurano i gran potentati
per li guai che ànno in casa; l'Inghilterra medesima vive in qualche
apprensione delle sue cose; Lamagna non è concorde, e travaglia e suda
a ben ricomporsi. In tali condizioni e pressure, l'Europa attende di
ricevere nella sua stemperata materia quelle nuove forme che il senno
e l'arbitrio delle nazioni stanno per imprimerle, giusta la naturale
configurazione dei territorj, e l'indole ingenita e sostanziale dei
popoli. Affrettiamoci pure noi, di stender l'armi e le insegne su tutte
le nostre frontiere, e sieno per sempre ricuperate.

                                                      (_Dall'Epoca._)


AL GENERALE CARLO ZUCCHI.

                                      Roma, li 20 di aprile del 1848.

Io non temo, signor Generale, che a voi sembri temerario e importuno
che io vi scriva; perchè la vostra cortese natura mi rende certo che il
tempo non è bastato ad estinguere quella tanta benevolenza e parzialità
che mi mostraste in Bologna nel 1831, quando faticavamo entrambi a
ottenere che quel tentamento infelice di libertà e d'indipendenza, non
potendo più reggere, cadesse almeno onoratamente. E prima, vi scrivo
per dolce sfogo dell'animo; perchè in mezzo alle tante e insperate
maraviglie del risorgimento italiano, certo non dee reputarsi l'ultima
il veder voi padrone della città che la fredda e lunga vendetta degli
stranieri aveavi assegnata per carcere. E non è senza gran mistero del
providente consiglio di Dio, che voi per mezzo a infinite sventure e
pericoli, e in modi così straordinarj e quasi direi favolosi, foste
riserbato a questo giorno novissimo in cui s'adempie la redenzione
finale di nostra Patria. Non è senza mistero eziandio, che a voi
toccasse per ultimo campo del valore e del senno vostro guerriero
cotesta città, e cotesti popoli situati ai confini d'Italia e naturali
custodi dell'Alpi. Io non ò meco una sì gran dose di vanità, perch'io
presuma non dico di consigliarvi ma di parlare con esso voi di cose
militari, e di quelle segnatamente che avete ora tra mani. Solo,
ricordandomi dell'indole vostra lontana da ogni albagía, vorrei farvi
intendere, che a voi si conviene al presente di porre in disparte la
naturale ed abituale modestia, e sentire in modo compiuto il molto
profitto ed il gran momento di quella parte della guerra nazionale
italiana che a voi cadde in sorte. Chi non vede che l'Austria, ormai
disperata di proseguire le sue difese negli aperti campi di Lombardia,
e mal sicura altresì di Verona e di Mantova, volterà ogni sforzo dalla
banda del Tirolo, e sulle terre frapposte tra l'Isonzo e la Sava? Ma
voi ben premunito dentro le mura di Palmanova, e presto fatto capitano
(come tutta Italia desidera) d'un giusto corpo di esercito, avrete
arbitrio da un lato di soccorrere i Tirolesi insorti, e dall'altro
di assaltar con vigore le truppe austriache le quali pretendessero
di mantenersi di qua dall'Alpi, vogliamo in Trieste e nella contea di
Gorizia, vogliamo nell'Istria e nella Dalmazia. Però, io non dubito che
a voi non prema di sollecitamente istruire il re Carlo Alberto sulla
molta necessità che vi stringe di venir subito provveduto di numerosa e
scelta milizia, e che quanto maggior quantità di truppe italiane sarà
schierata sull'Isonzo, tanto riuscirà più certa e compiuta la nostra
vittoria adesso e nell'avvenire. E similmente, voi conoscete quello
che in tal fazione potrebbe e varrebbe il soccorso del re di Napoli;
il sol potentato italiano che sia fornito di molte navi a vapore ben
costrutte e ben corredate, e quindi attissime a bloccare i porti,
far mostra lungo tutte le rive dalmatiche della nostra bandiera, e
trasportare e sbarcare speditamente e dovunque sia l'uopo notabil copia
di armi e di armati. Ei bisogna che le Alpi segnino da tutte le bande
i confini d'Italia, come volle natura quando primamente configurolla.
Ma ei bisogna altresì, che questo s'adempia prestissimamente, e mentre
l'Austria giace tutta scomposta e di consiglio sprovveduta, e avanti
che la Germania intera non incominci a riordinarsi in forte e omogenea
confederazione. A voi non rimane ignoto, che ne' Tedeschi è ora più che
mai presente e vivissimo il desiderio di far buona comparsa sui mari,
a dispetto quasi della natura; accorgendosi essi, che il poco aver
prevaluto sull'altre nazioni, e poco aggiunto di peso e d'efficacia
infino al dì d'oggi ai gran casi dell'Occidente europeo, sia proceduto
principalmente dal non avere marineria. Il possedere, pertanto, per via
di Trieste, dell'Istria e della Dalmazia buoni porti sull'Adriatico,
e mezzo di pronta e diretta comunicazione col Levante e con l'Indie,
sembra ai Tedeschi un vantaggio notabilissimo, e circa il quale è
impossibile che non si svegli fra breve molta sollecitudine in tutta
quanta l'Allemagna.

Fa grandemente mestieri, adunque, che prima che ciò succeda, la vostra
gloriosa spada cacci di là dai gioghi dell'Alpi Giulie quel che rimane
di forze austriache, e i non abbondevoli sussidj che possono uscire
in questi giorni da Vienna. Affrancato una volta quel territorio, e
occupati e muniti i passaggi, tornerà più facile senza comparazione
il difenderli, benchè dal lato degli stranieri moltiplicassero le
armi e gli assalti. Quanto, poi, alle coste Dalmatiche, e a quelle
popolazioni tanto fedeli un tempo a Venezia, ei si conviene adoperare
più ancor della spada l'artificio dei negoziati, e subito entrare in
pratiche di buon accordo non già con l'Austria ma sì coi Dalmati, con
gli Ungaresi e i Croati. Quello che importa all'Italia supremamente, si
è che Dalmazia e Illirio non sieno austriaci nè tedeschi. Pel resto,
puossi trovar modo e via di accomodamento durevole; nè bisogna mai
che la nazione Ungarese, fortissima e potentissima, divenga nostra
inimica, ma invece compagna ed amica, siccome ai giorni per essa
gloriosi di Mattia Corvino. Per tutto ciò, mi sembra doversi pregare
con istanza e premura grande il re di Piemonte a mandar di presente
uomini esperti e avveduti appresso i Dalmati, i Croati e gli Ungaresi,
con ufficio espresso di dimostrare e persuadere a ciascuno dei tre,
— come il nemico loro comune sia l'Austria, e come niun d'essi debba
volere che quel potentato o per sè o in nome della Germania possa
tener dominio sulle coste dell'Adriatico. L'Italia desiderare e
pretendere unicamente ciò che natura le à dato, cioè le sue naturali
frontiere dal Varo al Quarnero; del rimanente, non domandare se non
buona vicinanza e amicizia. Una lega commerciale e doganale perfetta
fra Italia, Dalmazia, Ungaria, Transilvania e Croazia, poter mettere
in continua e profittevolissima congiunzione di traffico il Mar Nero
con l'Adriatico, il Levante col Ponente, le Indie col Baltico, il Po
col Danubio. Nessuna ambizione e interesse avere l'Italia d'uscire de'
suoi confini, nessuno di conquistare e predominare sulle popolazioni
slave dell'Albania, della Boemia, della Servia, della Bulgaria; in quel
mentre che l'Austria le va minacciando tuttavia, e da lungo tempo à
in animo di possederle: nè contra l'ambizione di lei potrebbero essi
popoli rinvenire altro collegato sincero e migliore fuorchè l'Italia;
imperocchè il Russo ajuterebbeli per farli soggetti; il Turco è barbaro
e inerme; la Francia troppo remota e incostante. —

Ma io mi stendo di soverchio a parlarvi di cose le quali, dove
s'appongano al vero, a voi non son nuove, e meglio e più profondamente
di me le scorgete e considerate. Nè il mio nome val nulla per
aggiungere a queste opinioni alcun grado di autorità; ma sì vi prego
che voi le pigliate a cuore, e Carlo Alberto insieme con voi le
caldeggi e fomenti, onde poi l'effetto dell'opera segua sollecitamente
alla ferma credenza di entrambi.



Seguitando a distribuire gli scritti del nostro Autore per ordine
di tempo, collochiamo qui alcuni discorsi da lui pronunciati nel
parlamento romano, detto con ispecial nome Consiglio di deputati; e
scegliamo quelli che per la importanza dell'argomento o la caldezza
dell'affetto o qualche lume maggiore recato alla storia degli ultimi
anni, porgono pure al presente materia accetta e non disutile
di lettura. Come poi l'Autore medesimo ne trascrisse più d'uno
nell'opuscolo impresso da lui in Genova nel 1850, e ristampato in
questo volume, noi ci asteniamo di qui registrarli. Invece, poniamo
subito allato ai Discorsi qualche altro breve dettato che in que'
giorni medesimi pubblicava il Mamiani nell'Epoca.

A ciascun discorso si premettono poche parole, per notificarne
l'occasione e le circostanze. A sminuire la noja del ripeter la
data comune a tutti, avvertiamo il lettore, ch'ei furono pronunziati
nel corso del 1848. Dalle stesse parole loro, poi, si rileva quando
l'Autore discorre secondo sua qualità di Ministro, ovvero da semplice
deputato.


Discorso sulla educazione del popolo

  _Discorso pronunziato nella tornata del 26 giugno, in occasione che
    alcuni Deputati proponevano di significare nell'Allocuzione al
    Principe il desiderio del Consiglio, che intendesse il Governo
    particolarmente a giovare ed educare il popol minuto._

Il voto col quale la tornata di jeri l'altro venne conclusa, riferivasi
ad un argomento sì grave e solenne pei tempi nostri, che non si fa
lecito al Ministero di non dichiarare sovr'esso la mente sua; e credo
opportuno, come testè io diceva,[18] tale dichiarazione accadere
innanzi che i commessarj sull'Allocuzione al Principe deliberino
intorno al proposito, e trovino quelle espressioni che parranno loro
più acconce e più rispondenti ai pensieri e alle massime del Consiglio
dei deputati.

Io comincerò dal notare, che sfortunata ed impertinente riesce oggimai
l'appellazione di riforme sociali e di questioni sociali, che molti
dànno per vezzo e per uso a importantissimi studj e a utilissimi
proponimenti. Simili nomi svegliano nella più gente un'apprensione ed
una paura non del tutto irragionevole; perchè il pensier loro corre
drittamente a quelle moderne utopie che non son lasciate spaziare nel
libero campo ed innocuo delle astrazioni accademiche; ma le si fanno
con foga e precipitazione discendere nell'ordine dei fatti civili,
cagionando, come pur troppo si scorge oltr'alpe, fiere e minaccevoli
perturbazioni. Pure, come ciò sia, noi qui non parliamo (od è questa
per lo manco l'opinion mia e de' miei colleghi nel Ministero), non
parliamo noi qui del mutare e rifare le fondamenta al sociale edifizio,
ma del correggere e migliorare la sorte del popol minuto; la quale
sarà sempre in cuore a tutti gli animi generosi e compassionevoli e
singolarmente al cristianissimo popolo di questa città, in cui, diceva
quel nostro,

    Giuste son l'alme e la pietade è antica.

Circa l'essere e le condizioni del popol minuto, due estremi debbonsi
ugualmente fuggire. Il primo, di non gittarsi a tutt'uomo in quelle
fantasie onde sono uscite con parto infelice le teoriche strane e
avventate che menano sì gran rumore di sè, ma le quali condotte alle
prime e più semplici applicazioni, subito ànno mostrato la vanità loro.
No, concittadini, alle questioni, come sono pensate e proposte oggidì
in Francia e che piglian nome di sociali, non trovasi, per isventura,
risposta veruna assoluta ed affermativa. Certo, io non ficcherò la
pupilla mia debolissima tra le ombre, anzi nella notte profonda del più
remoto avvenire; ed io non so bene se nel lunghissimo corso dei secoli
la provvidenza riserbi all'intelletto degli uomini qualche, dirò così,
impensata divinazione, per cui giungano elli a risolvere quei problemi,
e interpretare quegli enigmi che alla scienza moderna, e intendo
la solida e verace scienza, permangono chiusi ed inesplicati. Pur
troppo, considerandosi per ogni parte cotale materia delle questioni
sociali, si riconosce apertissimo, che stannovi dentro nascoste certe
disuguaglianze, o naturali ed ingenite, o necessarie ed inemendabili,
e certe discrepanze e contrarietà d'interessi, di facoltà e di uffici,
le quali niun mezzo, niun ritrovato, niuna forma d'istituzioni vale
a rimovere compiutamente. Però, chi ben guarda negli spedienti e
ne' partiti proposti, e medita i sistemi ambiziosi che i socialisti
architettano a lor talento, scorgeli tutti offesi da un peccato
medesimo; imperocchè tutti effettivamente rivolgonsi in un perpetuo
paralogismo, come la ruota d'Issione. Vuoi tu scemare al possibile
l'indigenza? noi siamo nel tuo desiderio. Ma se la vuoi sbarbicare
affatto e per sempre, credi che senza arricchire l'universale
diverrai povero tu. E se ben poni l'occhio alle tue vestimenta, alle
supelletili di tua casa, a quelle minute opere che altri adempiono in
tuo sostentamento e servigio ogni dì, affinechè tu possa vacare alli
studj tuoi razionali: e se quindi fai ragguaglio di tutto ciò con
l'intera famiglia umana, e consideri l'immenso apparecchio di ordigni
e manifatture, e il cumulo e la varietà infinita di materiali opere
che occorre alla civiltà per sussistere, crescere e perfezionarsi,
tu verrai nella nostra sentenza: la quale afferma che la porzione
massima del genere umano nasce destinata alle meccaniche faccende, le
quali d'altra parte senza fatica e travaglio grave e incessante non si
compiscono, e però bisogna cotidianamente agli uomini il pungolo acuto
ed amaro della povertà. Che se presumi, o socialista, di possedere
l'arte di far soave e desideratissimo ogni lavoro il più ingrato e il
più schifo, mediante certi compensi e armonie che dici avere scoperte
nell'uomo e nella natura; io affermo assai risolutamente, che tu
contempli un'altra natura ed un altro pianeta che questo dove abitiamo.

Io veggio bene che tali ubbie fra i nostri dotti non allignano e
non recan pericolo. Ad esse fa ostacolo insuperabile una delle più
comuni e più profittevoli doti che la natura à fornito alle menti
italiane; l'ingegno pratico, io voglio dire, e lo squisito buon senso.
Nè tampoco sono pericolose e attrattive per al presente all'infimo
popolo. Conciossiachè le nostre plebi, la più parte, sono campagnole,
e vivono frugali e modeste e così semplici nelle lor voglie e ne' loro
costumi e pensieri, come la circostante natura, il cui nudo e schietto
sembiante guardano e ammirano a tutte l'ore. Oltre di che, la religione
vive ancora e trionfa con pura fede nelle moltitudini nostre; e per
virtù di lei tollera ciascheduno que' gravissimi mali che crede dovere
infallantemente venir riparati in un mondo migliore; e con serena e
tranquilla pace di spirito non domanda insino a qui a Dio e agli uomini
altra cosa, in compenso del tanto sudore, salvo che uno scarso e rozzo
pane cotidiano.

Ma, signori, al dirimpetto dell'estremo di cui vi parlo, ne sorge un
altro non meno pernicioso, e consiste nell'incuria e nella dimenticanza
del vasto subbietto intorno al quale vi sto intrattenendo. Alcuni se
ne spaurano a modo, che via il cacciano dalla mente come cosa nefaria
e da porsi in tacere per tutti i tempi. Alcuni invece lo sprezzano e
lo deridono, e forse ciò fanno per cortezza d'ingegno e di scienza;
altri viene nel medesimo effetto per secreto movimento d'egoismo e
d'orgoglio, trattandosi della gente minuta, alla quale non appartiene
e che desidera tener soggetta. Altri spera o finge che non badando
alle questioni appellate sociali, si torrà loro importanza e rinomo,
e stancandosi gli uomini di ragionarne, elle andranno in dileguo. Ma
questo guanciale dell'incredulità e dell'accidia mai non à dato un
buon dormire e un buon riposare a nessuno, e non si cambiano per esso
le condizioni peculiari del secolo. Certissimamente, le questioni
dette sociali sono il vero e proprio qualitativo della età in che
c'imbattemmo a vivere; e non è lecito a un popolo da lunga mano educato
e civile, e similmente a un governo provvido e illuminato, il non
curarle quanto è mestieri. Debbe anzi egli cercarne per tempo e con
diligenza la parte sincera e operabile, affine appunto di resistere e
di combattere con pieno e facil successo ai copiosi e funesti errori
che quelle accompagnano. Nè del presente ei si conviene tanto fidarsi
da chiuder gli occhi sull'avvenire, forse poco discosto. In niuna
parte d'Europa s'alza oggi un incendio che non mandi per tutto le
sue faville: e se le materie, per gran ventura, non son qui disposte
a contrarre l'ardore, teniamo bene in memoria potere l'esempio, le
occasioni, le rivolture, la male usata libertà e gli errori nostri
mutarle; e puossi replicatamente diffondere un seme, che in sino
a quest'ora o non cadde sul nostro suolo, o vi rimase infecondo.
Sopratutto, convien ricordare che quanto succede di là dall'Alpi non è
solo da tribuirsi a cagioni locali ed accidentarie, ma sì a parecchie
universali e durevoli, di cui vi prego di fare attenta considerazione.

La storia antica, e segnatamente quella di Grecia e di Roma, appena ci
à tramandato il nome degl'infimi lavoranti e della più umile plebe,
e fatto conoscere alla nostra curiosità che in quell'era vivessero
poveri, e come fossero sovvenuti. Del qual silenzio voi ben sapete
la cagione. I veri derelitti allora e indigenti erano i servi, cioè
gregge umana e non cittadini, cose utili e non persone, enti animati,
incapaci di possedere del proprio nemmanco sè stessi e la luce che
loro mandava il sole. Ma il cristianesimo à, la Dio mercè, rivendicato
per sempre i titoli augusti e inviolabili di tutta l'umana famiglia.
E posto ancora, che il proletario de' nostri tempi viva altrettanto o
più disagiato dello schiavo greco e romano, la qual cosa in generale
non reputo vera; ciò nonostante egli occupa oggi con sicurezza e gode
a suo senno un tesoro eccelso ed inestimabile nel conoscere e praticare
la dignità della propria natura, obbedire ed assoggettarsi per patto e
secondo equità, e trovarsi con gli altri uomini in comunanza perfetta
di diritti e di doveri. Ma, come agli altri ordini di cittadini
bastava per affrancarsi compitamente e abilitarsi ad ogni vantaggio
l'estinzione dei privilegi e l'uso della libertà e dell'uguaglianza
civile e politica, comincia il proletario a discernere che ciò a lui
non è sufficiente, bisognandogli una tutela assai più stretta e più
soccorrevole, e desiderando ch'ella riceva a' dì nostri alcuna forma
legislativa e giuridica, nè sia scontata o con qualche specie di
servitudine e d'umiliazione, o col ritorno dei vecchi mali sott'altro
colore e denominazione. Esce da ciò, come vedete, una condizione non
men generale che nuova di tempi e costumi; e la lor ragione è riposta
così nella progressiva emancipazione delle classi, e nel perfezionarsi
a grado a grado i concetti e la pratica della universale equità e del
comune diritto, come eziandio nell'efficacia secreta e incessante delle
dottrine evangeliche, dentro le quali stanno veracemente inseriti e
racchiusi tutti questi germi benefici di ugualità e di fraterna tutela
a rispetto dell'infima plebe.

Ma, signori, cotali germi divini sono dalla provvidenza medesima
consegnati alla nostra ragione, perchè gl'illumini e li fecondi.
Fu il medio evo caldissimo tutto di carità verso i poveri; ma le
tenebre della mente annullavano quasi l'effetto di tanto ardore. A
noi s'appartiene col senno civile odierno di riparare l'esorbitanze
e gli errori delle vecchie età; e s'ingannerebbero forte coloro i
quali stimassero che la meditazione, l'uso e l'esperimento non abbiano
altresì da cotesto lato raggiunta a' dì nostri molta perfezione di
scienza, nè discoperti di mano in mano e insegnati parecchi progressi
sostanzialissimi.

Distinguiamo (giova ripetere) la porzione fantastica e ne' fondamenti
suoi mal ferma e cadevole delle teoriche odierne sociali, da quella che
pur vi rimane salda, positiva e operabile. Tra i mali veri e presenti
del popol minuto, e l'ultimo e inaccessibile punto di agiatezza e
prosperità che accennano i socialisti, intervengono moltissimi termini
e quasichè innumerevoli, ciascuno de' quali segna od una privazione
cessata, od una miglioranza speciale ottenuta; quando un qualche
incremento di ben essere materiale, e quando alcun progresso comune
d'istruzione e d'educazione. E a questi termini intermedj (notabile
cosa) mai non vedesi una piena impossibilità di aggiungerne altri
ed altri. Tale, o Colleghi, è l'arringo alle presenti generazioni
dischiuso: questo il campo della scienza moderna che tutti con
isquisita cura e massima diligenza dobbiam coltivare.

Così e non altramente il Ministero avverte e considera i fatti e
le dottrine che riferisconsi alle questioni dette sociali. E per
iniziare intorno ad esse l'attuazione graduale di quelle massime e di
que' propositi che sembrano a lui non che salutari e degni oltremodo
del vostro suffragio, ma praticabili in sin da ora, ed ottenibili
in qualche porzione, egli avvisò di proporre ai Consigli, come farà
per l'appunto tra pochi giorni, tal disegno di legge, per cui venga
costituito fra noi fermamente e con estese prerogative uno speciale
Ministero inteso alla beneficenza pubblica e alla educazione del popol
minuto. Datemi licenza, onorandi Colleghi, di porre in vostra notizia e
considerazione la circolare che il Governo à inviata, in ordine a ciò,
a' suoi primi ufficiali.

«Carattere principale del nostro secolo, e titolo vero e degno da lui
posseduto alla lode e conoscenza dei posteri, si è la sollecitudine
grande e sinceramente caritativa che mostra inverso il popol minuto,
nel quale pur troppo s'accoglie la più numerosa e più sfortunata
porzione del genere umano. Fervono da per tutto gli studj e le scienze
denominate sociali, e ad ogni provida e illuminata amministrazione
appartiene l'ufficio d'indurre da quelli ciò che vi si aduna di vero
e di praticabile, e per nulla non contradice ai principj eterni e
moderatori della famiglia, della proprietà e della libertà umana.

»Il Governo, persuasissimo della gravità e importanza suprema di
tal subbietto, à deliberato di proporre ai Consigli legislativi la
istituzione d'un Ministero nuovo speciale, con titolo di Ministero
della beneficenza publica. A questo spetterà in modo particolare
e proprio, la cura gelosa e il carico difficilissimo di emendare
e migliorare lo stato delle moltitudini più bisognose, scemarne
le privazioni e i disagi, combattere da ogni banda le cagioni
dell'indigenza, estirpare l'accatteria, stenebrare le menti, correggere
gli animi e incivilirli.

»Per dare un buon fondamento a siffatta impresa, egli è grandemente
mestieri che al Governo sieno fatte avere notizie ordinate e ragguagli
minuti ed esatti circa le opere e gl'istituti di pubblica beneficenza,
quanti e quali sussistono insino al dì d'oggi in ogni provincia dello
Stato, e sotto qualunque giurisdizione e denominazione.

»Io però invito e prego la Signoria Vostra Illustrissima a voler
commettere ai signori Gonfalonieri, e mediante essi, ai rettori e
ministratori dell'opere e istituti di pubblica beneficenza della
Provincia sua, che nel più breve tratto di tempo sieno raccolte e bene
ordinate le notizie e i ragguagli suddetti, e per mezzo di Lei fatte
giungere speditamente in questo nostro Ministero.

»Trattandosi di cosa che tanto importa, io non ho dubbio nessuno
dell'assaissima sua diligenza e premura, nè di quella de' signori
Gonfalonieri, ai quali le piacerà di vivamente raccomandarla.»

Cotal Ministero, o Colleghi, vòlto al beneficare e all'incivilire
le moltitudini travagliate e indigenti, è a noi comparso molto più
rilevante e proficuo di altri che in altre contrade ànno conseguito un
nome ed un essere proprio e distinto. Scorgesi in Inghilterra (a citar
qualche esempio) un Ministro che cura e vigila unicamente i palazzi
della Regina. Più volte si veggon Ministri a' quali nessuno ufficio
particolare viene affidato, e sembrano se non poco opportuni, certo non
necessarj. In parecchi Stati v'ha un Ministero, il cui solo negozio
è di reggere e provvedere i lavori pubblici. Nè io, per lo certo,
nego la importanza e il pregio di tal reggimento, e nemmanco intendo
di scemarli di verun grado nella vostra e mia opinione. Ma come si
potrà mantenere che i lavori meccanici dello Stato rilevino molto più
che la carità sua e i suoi beneficj nella gente minuta, o che questa
porga materia ministrativa meno ampia e meno implicata e difficile,
o non debba più forse di tutte l'altre cose stare a cuore al Governo?
Eppur mi sovviene, che nelle pagine del Vangelo la persona umana che
maggiormente vien ricordata ed accomandata, e posta in cima ai pensieri
e agli affetti, non è mai l'uomo savio o il potente, non è il dovizioso
o il bello o l'addottrinato o l'illustre, ma sì il pusillo ed il
povero; e della plebe minima e povera è naturale e sollecito padre il
Principe che noi obbediamo.

Io non vi nascondo, che alla istituzione disegnata e proposta da
noi movesi un'altra specie d'accusa. Sostenete che a purgarcene qui
brevemente e con manifeste ragioni, io spenda ancora alquante parole; e
ciò in considerazione di un ingegno elettissimo[19] che quella istanza
accennava.

Dicesi, pertanto, che la beneficenza pubblica affin di recare al mondo
spessi e abbondevoli frutti, dee pertenere unicamente al senno e allo
zelo dei Municipj.

Io son pieno, o Colleghi, di quest'albagia (nè la voglio celare),
che io stimo, cioè, e credo fermissimamente nessuno amare più di
me nè più di me prediligere e rispettare le libertà e le pertinenze
comunitative: sopra che il Governo presto darà a divedere coi fatti
la verità compiuta di tal professione. Ma, d'altra parte, egli accade
di giudicare o non vi essere nella società umana bisogno e desiderio
alcuno di norma universale e di pratica unità, ovvero che si convien
fornire sovente il Governo della facoltà di unire e coordinare lo
sforzo e le opere dei privati e dei municipj, e avviarle tutte a uno
scopo medesimo, sebbene gli s'imponga di usare in cotale atto la sola
efficacia dell'esempio e l'armi della scienza e della persuasione. Che
cosa in tale bisogna pretendono i reggitori dello Stato? null'altro
che di voltare a bene e profitto delle misere plebi quelle facoltà e
quei mezzi che solo essi possiedono. Dall'altezza del loro ufficio non
è egli vero che possono come da specula eminente girare all'intorno
il sicuro sguardo, e del tutto insieme dei luoghi (per seguir la
metafora) farsi un chiaro e distinto concetto, notarne le simiglianze
e le varietà, scuoprirne le rispondenze, le congiunzioni, i passaggi,
indicar delle vie quanto e come divertono e i possibili raddrizzamenti
e le scorciatoie e i tragetti; in quel mentre che ciascun uomo privato
e abitante in basso luogo, le parti conosce e non più dove pone i piedi
e può tirar d'occhio?

Certo è poi, che i censori, con la sentenza loro poc'anzi allegata,
debbono a un tempo scagliare accusa non pure d'inutilità, ma di
soperchieria e di danno contra alcun altro Ministero, e contra
quello massimamente della pubblica istruzione. Non debbono forse o
non possono i Municipj intendere tuttogiorno e con frutto copioso
e durabile all'ammaestramento del popolo? Certo lo possono, ed
anzi lo debbono. Ma sì nell'insegnamento loro, e sì nella scienza
sperperata e sconnessa, e venuta in arbitrio di mille diversi pareri e
consigli, mai non s'adempirà quel vasto e perfetto sistema di studj,
quella unità e vigorezza di discipline, quell'indirizzo potente e
comune degl'intelletti di cui bisogna lo Stato, e il quale nessun
uomo particolare e nessun municipio à forza di conseguire con tanta
pienezza, costanza, università ed autorità, con quanta è necessaria
al mantenimento e progresso di tutto lo scibile, e alla spedita ed
equabile propagazione del comune sapere.

In sostanza, egli m'è avviso che tal nostra controversia pigli
origine e forza più dal dubbio significato dei nomi, che dall'essere
delle cose. Forse a taluni fra noi (nè fa maraviglia) l'azione e
l'intervento ministrativo mette apprensione e paura, e sembra dover
riuscire, come per addietro, importuno, illimitato e arbitrario, e che
scemi pur sempre in alcuna guisa ed inquieti la libertà e l'opera dei
privati e dei municipj. Ma i nomi (bontà di Dio) tornano alle loro
antiche e naturali significazioni, e Governo più non vuol dire nè
signoria nè arbitrio nè privilegio nè forzoso ingerimento nè ipocrita
paternità. A voi piace che tutto il negozio dell'educare e beneficare
le moltitudini stia nelle mani dei Comuni; altri, in quel cambio, il
vorrebbe unicamente affidato e raccomandato al clero. Ed io vi dico
che il Governo non punto disegna di esautorare i Comuni ed il clero.
Ma se tale individuo o tale altro, se questa o quella congregazione,
se parecchi medesimi Municipj ed alcune provincie chiedono, siccome
accade, e ottengono dal Ministero, varie maniere di ajuti, e solenne
ricognizione e titoli e onorificenze, e stretta e particolare tutela
e malleveria e patrocinio, negherétegli voi il diritto d'invigilare e
sopravedere l'opere e gl'istituti di quelli? E se dove non giungono le
private virtù e il privato avere e la sufficienza e abilità dei Comuni,
vorrà supplire e complire il Governo, chiamerete voi ciò soprafacimento
ed usurpazione? In fine, se in questa bisogna dell'educare e
beneficare, franchi sono e liberi gl'individui, e ciascun Municipio e
ciascuna congregazione ed il clero; vorrete voi privare di libertà il
Governo, sì che non possa studiare l'arte egli pure di farsi liberale
e pietoso al popol minuto, e travagliarsi di porgere a tutti norme
ed esempj imitabili d'ottime scuole, ospizj, istituti e prevenimenti
e soccorsi d'ogni maniera? Ciò che il Ministero domanda, è troppo
discreta cosa; entrare in nobile gara di bene con tutti.

E che? non debbono dunque i più miseri e i più derelitti avere nessuna
particolare speranza e fiducia nell'opera del Governo? e questo,
che è naturale difenditore e tutore d'ogni interesse, d'ogni diritto
e d'ogni ordine di cittadini, non avrà licenza di mostrare in modo
effettivo e con segni permanenti e visibili il gran caso che fa della
plebe infelice, e le cure continue e diligentissime che disegna di
adoperare nel bene di lei? Osservisi, oltre di ciò, che recar sollievo
ai mali maggiori e più frequenti del popolo, è somma cosa, ma non è
tutto. Gran parte del beneficio consiste nella sua certa aspettazione,
e nella distribuzione uguale e ordinata, e nel poterlo ricevere
con dignità e senza troppo di stento, e nel non vederlo fluttuare e
mutare giusta i mille accidenti di mille consigli, e secondo che porta
l'ignoranza in un luogo e l'inesperienza e la fantasia in un altro; ma
conoscendo apertissimo, che v'ha una mente superiore ed assidua che
da per tutto penetra e invigila, e le fila sparse e disciolte della
carità procaccia di adunare e di tessere in larga tela e inconsutile.
Mal conosce il cuore dell'uomo colui il quale opina che altrove le
moltitudini non siensi inacerbite ne' lor sentimenti, nè indotte più
facilmente ad esorbitare, credendosi non protette e incurate, e nessun
chiaro ed esterno segno scorgendo della sollecitudine dei governanti
inverso di loro. Quindi il contrario operare, come à in animo il
Ministero presente, è gran saviezza ne' nostri tempi. E conciossiachè
la plebe più numerosa e indigente non manda a sedere su questi scanni
i rappresentanti suoi, e nemmanco li manda ne' Consigli delle provincie
e de' municipii; concedetele questo almeno, che il Governo pontificio,
universal curatore e rappresentante, mostri con ufficio particolare
e ordinatamente pietoso di sempre averla in pensiere, e del tacito
mandato di lei stimarsi fornito sempre e onorato.

Dopo ciò, chiedo perdonanza di avervi intrattenuti, o signori, con
discorso non pure prolisso, ma seminato di concetti e di voci più
cattedratiche assai che politiche. Forse la qualità dell'argomento a
sufficienza me ne scusa. Rimane che avanti di scendere di ringhiera, io
vi manifesti un voto il quale mi dura fervente e profondo nell'animo;
e il voto è questo, che piaccia a Dio provvidissimo di unire e
contemperare insieme nello spirito degl'Italiani, e segnatamente nel
nostro, il sapere dei moderni con la carità degli antichi. Nei secoli
di mezzo ardeva la carità e fiammeggiava, per così dire, insino alle
stelle; se non che l'ignoranza e le tetre superstizioni e le crudeli
giustizie, con l'ombra ed il fumo loro caliginoso, la cuoprivano e
la perturbavano. Sereno invece e splendido come sole è il sapere de'
moderni; ma i raggi che diffonde nè sono ardenti nè scaldano i cuori,
anzi direi che tornano freddi e infecondi, siccome quelli tramandati
la notte dal nostro satellite. Certo, se un simigliante maritaggio
s'adempie della carità antica e del sapere moderno, io non so quasi che
sorta di umane miserie non sia per trovare valido schermo, e conforto
efficace e abbondevole; e sopratutto, quella divina consolazione ch'è
la più dolce e cara, e la meglio accolta e desiderata dall'uomo, il
sincero amore e il fraterno compianto.


Discorso in difesa del Ministero

  _Nell'Adunanza delli 27 di giugno, accusato il Ministero di_ AVERE
    INIZIATO UNA POLITICA DI SEPARAZIONE, _e fattasi la proposta
    d'inserire nell'Allocuzione al Principe alcune frasi a ciò
    relative, l'Autore uscì in queste parole:_

Io non facea pensiero di parlarvi, o Colleghi, in questo dibattimento
sull'Allocuzione vostra al Principe; considerato che ella è materia
la quale dee più particolarmente esprimere così il vostro proprio
e franco opinare intorno agli atti del Governo, come i peculiari
desiderj e disegni che rivolgete per l'animo. Ma poichè il discorso or
ora udito d'un uomo illustre[20] sembra chiamare i Ministri a render
ragione del loro operato, e di certa diffidenza e separazione che,
dice egli, abbiam seminata dappertutto, e per cui proseguiamo a reggere
la cosa pubblica come di nostro capo e contro il volere d'una persona
augusta e magnanima; io sentomi astretto di addirizzare al deputato di
Viterbo, ed a tutti voi, poche parole ma sostanziose e calzanti; e non
di discolpa, che sembrami non bisognare, ma di più aperta e schietta
dichiarazione. La quale poi sosterrò che possa parere non richiesta ed
inutile a molti, dopo la fiducia espressa da voi per voto due volte. In
materia tanto gelosa, niuna replicata confessione e dichiarazione può
riuscire superflua.

Voi già udiste, o signori, in sull'aprirsi del Parlamento quel discorso
pensato, e dalle circostanze fatto solenne, col quale il Governo poneva
in luce le massime della politica sua. E voi pure udiste, compiutane
appena la recitazione, che il Ministero per la mia voce manifestò
essere quella enunciazione di principj direttivi e ministrativi stata
pienamente ed interamente approvata dal Principe. Ciò non rivela al
sicuro tra i Ministri e lui nè diffidenza nè sconcordia. E di più
dico, che se di principj e di metodi al Governo attinenti il Ministero
differisse dal Capo inviolabile dello Stato, voi ci vedreste salire
affrettatamente in ringhiera per istruirvi che non siamo più in grado
di ben servire la patria e il Pontefice.

Che dunque pretendesi dopo ciò? e qual dubbio e quale sospetto non
diventa fra queste pareti inopportuno affatto e illegale? Volete voi
un Ministero eletto e dichiarato secondo gli ordini e le forme usuali?
voi l'avete presente. Lo desiderate sindacabile in ogni atto suo, e
punibile a tenore di leggi? ed egli è tale in modo ancor più perfetto
che il precedente non era. Lo volete ben adatto ai tempi, partecipe
delle vostre opinioni, proveduto della vostra fiducia? ed egli fu
giudicato sì fatto da voi medesimi con doppio suffragio, e con la
risposta ufficiale e consideratissima che apparecchiate al Principe e
a noi. Oh le forme legali non bastano, e le convenienze parlamentari
non impediscono che fuor di questo recinto si sospetti e bisbigli.
Concedo che sì, e bisbigliano ancora che tali sospetti ed accuse sieno
fomentate e accresciute non meno dai poco amici del principato, che
dagli aperti nemici della libertà. Ma il sospettare e mormorar della
gente mai non à fatto legge a nessuno.

Del resto, guardiamoci, o Colleghi, ne' giorni che corrono
dall'incolpar le persone di certe non dirò discrepanze ed oppugnazioni,
ma differenze vive d'idee, che l'indole varia degli ufficj e
dell'educazione trascina seco; e sopra tutto, asteniamoci dall'accusare
e biasimare gli uomini a cagione di quegli elementi dispari e non
appieno omogenei di cui si compone l'antica e sostanziale forma della
civile comunanza in che ci troviamo. Non possono coteste disparità e
dissomiglianze venire abolite da tale individuo o da tale altro, ma vi
occorre l'azione occulta, travagliosa e ostinata dei secoli; e parecchi
ne sono trascorsi dacchè l'opera ebbe principio, e voi ben sapete che
la perfetta e amichevole conciliazione di quegli elementi ancora non
è compiuta. Per lo certo, a noi corre debito di accelerare con ogni
sforzo e fatica la perfezione e l'assodamento di tale concordia, e di
procurare in essa la gloria più bella e al genere umano più salutifera
del risorgimento italiano. Ma se le fatiche nostre e vostre riescono in
parte manchevoli e non sufficienti al grand'uopo, sieno le scuse e il
compatimento schietti, fiduciali e reciproci.

Che cosa siam noi, Colleghi, e le nostre forze e gl'ingegni a fronte
di questi alti problemi in cui tutta, può dirsi, la specie umana si
occupa e studia da lunghissima età? Spettatori piuttosto che autori,
impariamo dalla storia la travagliosa e lentissima trasmutazione.
Minuti ed effimeri enti, la ruota immensa del tempo ci preme passando,
e trita e confonde con la polvere della sua via, dove appena le intere
generazioni lasciano un segno e un vestigio. Io vi ripeto, signori,
con gran fermezza, che insino a quell'ultima ora che rimarremo nei
seggi ministeriali, nessuna cura, nessuna diligenza, industria e
arrendevolezza, nessun'arte di fina prudenza verrà intralasciata perchè
la più vera e benevola conciliazione mantengasi tra il Principe e gli
esecutori del suo Governo.

Però, a questa sempre cercata e desiderata composizione e concordia,
la natura stessa e la necessità delle cose prescrive un confine; e
rispetto a noi, lo segnano e lo mantengono i santi principj che abbiam
professato tutta la vita, e contro ai quali niuna autorità e possanza
del mondo ci farà pensare e operare alcun atto giammai.

Mi sembra pertanto, raccogliendo in un sol concetto le mie
brevi parole, che ogni cangiamento od aggiungimento al dettato
dell'Allocuzione, proposto con intenzione speciale di far sospettare
una qualchessia diffidenza e discordia fra il Principe e i suoi
Ministri, nè è savio e accettabile, nè punto conformerebbesi agli usi e
alle massime del reggimento costituzionale.


Discorso sulla rotta di Vicenza

  _Il dì 6 luglio, mentre gli animi erano turbatissimi della
    sconfitta toccata alle milizie romane sotto Vicenza, e
    ricalcitravano di assentire ai patti della Capitolazione
    seguitane, l'Autore si levò in Consiglio e disse:_ chiedo di
    compiere la narrazione insieme e dichiarazione fattavi jeri
    dal Ministro di Polizia. _Molte voci allora pronunziarono si
    udirà con piacere; e quindi il Mamiani salito in tribuna così
    discorreva:_

La materia è molto grave e gelosa; imperocchè inchiude una massima
direttiva della nostra politica e s'attiene da più lati ai principj
fondamentali del giure delle genti. Datemi arbitrio, pertanto, che io
svolga più per disteso i concetti che l'onorevole mio collega Ministro
di Polizia significava jeri facendo breve ed acconcia risposta alla
quistione del deputato Bonaparte. E prima, occorre che si conoscano
interi ed esatti quei casi sui quali dobbiam comporre e fermare la
nostra sentenza. Io li verrò esponendo con piano e preciso discorso,
accompagnato da tutta schiettezza di animo; imperocchè non voglio
nè debbo tacervi o nascondervi nulla, massimamente aspettando da
voi un giudicio formale e terminativo, e però pienissimo di matura
considerazione. Infrattanto, pregovi di quetare ogni febbre di affetti
eziandio generosi e legittimi; e già non dubito che tutti non siamo qui
apparecchiati a posporre ogni altro rispetto a quello della verità e
della universale giustizia.

Quando al Governo fu nota la capitolazione di Vicenza, subito gli
occorse il dubbio (ed era comune a molti) se i termini di quella
impedissero alle milizie romane le fazioni altresì di mera difesa. E
non venendogli trovato nelle storie più note alcun esempio ben chiaro e
bene assestato al caso, rimaneva incerto, e a nessuna ferma risoluzione
appigliavasi. Allora ebbesi ricorso all'acuto senno e alla molta
esperienza di un pubblicista famoso,[21] il quale confessò prestamente
di non conoscere nemmanco esso avvenimenti così conformi al nostro,
da porgere lume di autorità ed agevolare lo sgroppamento del nodo. Nè
si rimase il valentuomo di sfogliare trattati ed altre opere e scritti
all'argomento correspettivi; ed oltre a ciò, mandònne graziosamente una
sua carta, in cui venivano toccate da lui parecchie ragioni ingegnose
(ma sfornite affatto di quella virtù evidente ed irrepugnabile che
conviene si accompagni a tal sorta di prove) per dimostrare che l'armi
pontificie, non ostante il divieto della capitolazione di Vicenza,
mantenevano facoltà di combattere in difesa del territorio.

In quel mezzo tempo, il Commissario generale appresso l'esercito
convocò in Ferrara, sotto la presidenza del Cardinale Legato, gli
ufficiali tutti delle milizie che sgombrato avevano Vicenza e Treviso,
e fece loro presente il dubbio di cui vi parlo, chiedendo quello che
ne pensavano. Tutti concordemente opinarono, non credersi in guisa
veruna disciolti dal patto, si voglia per le offese, si voglia per
le difese. Di più, aggiunsero in forma di nudo e mero consiglio,
che appena (pregovi di notare la cosa) sarebbero bastati tre mesi,
cioè lo spazio appunto del vietamento dell'armi, a bene riordinare
e ricomporre l'esercito, in cui pur troppo era entrata per cento
porte, a così parlare, la diffidenza e la scorrettezza. Non si fermi
alcuno a considerare se perteneva al Commissario di adunare quegli
ufficiali e di adunarli a quel fine. Nemmanco si badi se lo spiegare ed
interpretare la lettera della convenzione competa ai soldati od a voi;
nè quanta esattezza e imparzialità sia nel giudicio di gente di cui
buona porzione è straniera, e sulle cose d'Italia non può sentire ad
un modo con noi. Voglio solo che vi sia manifesto qual'è la lor mente,
e dove penda la volontà di tutti essi, liberamente e spontaneamente
significata.

Dopo ciò, al Governo giunse copia d'un bando dell'Imperiale e Regia
delegazione del Polesine, che così dice: «Dietro ordine del 23
corrente, nº 475, di Sua Eccellenza il Tenente Maresciallo Barone
d'Aspre, si richiamano tutti quelli che avessero emigrato in paesi
rivoluzionarj o all'estero, a dover ritornare entro otto giorni in
patria, sotto la pena di confisca dei loro tesori.»

Alligata con questo foglio giunse altresì una dichiarazione, o protesta
che a chiamar s'abbia, del Governo _provvisorio_ di Milano; la cui
sostanza viene a dire, che vedutosi dai reggitori temporanei di
Lombardia il bando col quale il comandante delle soldatesche austriache
contraviene all'ultimo articolo e patto della capitolazione di Vicenza,
ei risolvono e decretano che tutti i Lombardi stati partecipi di
quelle fazioni militari, sieno riputati come disciolti affatto da
ogni qualunque promessa, dacchè (uso le formali parole della protesta)
_l'infrazione del patto è flagrante_.

Signori, che fece allora il vostro Governo, e a qual partito si attenne
egli? Trattandosi di convenzioni solenni e dell'universal giure delle
genti, opinò che niuno esame e niuna meditazione gli fosse soverchia
per colpire nel segno e non dilungarsi punto dal retto e dal vero: Egli
non chiuse gli occhi sul debito che gli correva di porre in silenzio
il giusto risentimento che noi tutti nell'animo racchiudiamo, e quel
bollore di alti e magnanimi affetti da cui provenne e non cesserà,
spero, di provenire ogni più nobil fatto e migliore del nostro
risorgimento. Lecito è ai privati secondare in tutto e sempre i moti
e gl'impeti generosi del cuore inverso la patria; ma chi soprasiede
al governo investigar dee le cose pacatamente, e da quell'alta sfera
giudicarle, in cui fuor della nebbia delle passioni dimorano il dritto,
l'equità, la ragione, e l'utilità certa e durevole dello Stato.

E prima, a noi parve il capitano dell'armi austriache avesse potuto
così rispondere a chiunque di noi si fosse fatto ad interrogarlo
intorno al proposito. Ma pregovi di tenere ben fermo nella memoria,
che in questo punto io piglio a imitare le parole e i ragionamenti d'un
nostro nemico. Egli avrebbe, dunque, potuto così discorrere. Verissimo
è che l'ultimo articolo della fatta capitolazione annunzia, dovere
il popolo vicentino esser _trattato con li benevoli principj di Sua
Maestà Imperiale_; nè io voglio cavillare su questi vocaboli: principj
e benevolenza nei quali è una molto estesa e troppo indeterminata
significazione. Nel grazioso animo dell'imperatore la benevolenza e
umanità dei principj è grandissima; pur non di manco, ella non può
contraffare nè sovrapporsi d'arbitrio a tutte le leggi dell'impero e
alla general ragione che le informa; e voi sapete che a rispetto delle
colpe politiche, il codice austriaco (ben lo confesso) è il più severo
di quanti ne sieno stati scritti e pensati in Europa. Ma lasciando le
generalità, e scendendo al caso speciale dei Vicentini, io mantengo
saldissimamente, che in fatto ei sono trattati con principj di vera e
speciale benevolenza, ragguagliandola con le leggi e le massime a noi
famigliari e tuttodì praticate. E di grazia, che sono mai i Vicentini
agli occhi dell'Austria? Un popolo ostinatamente ribelle, che due o
tre volte à con deliberato animo resistito e con gagliardia massima à
combattuto le armi fedeli di S. Maestà. Eppure, coteste armi entrate
in Vicenza con piena vittoria e dopo un lungo e sanguinoso conflitto,
non ànno taglieggiata la città, non ispogliata una sola casa, non
appropriatosi nulla. Similmente, la mannaja non s'è bagnata del sangue
d'alcun cittadino; nessuno è sostenuto in carcere per colpa politica.
Forse non sono i feriti vostri con ogni cura e mansuetudine medicati?
ed io Comandante non ò con aspro rigore e difficile sforzo impedito
che la sguinzagliata soldatesca si abbandonasse alla preda e al
saccheggio, il quale in effetto nè cominciò nè con veruna sua mostra
diede spavento? Vero è che abbiamo non già imposta la confiscazione, ma
sol minacciata a que' fuorusciti che in certo termine perentorio non
ritornassero alla nativa loro città. Ma, signori (seguiterebbe a dire
quel capitano), ogni qualunque pietà e benevolenza nei vinti non può
tollerare che, non compiuta ancora la guerra, e instando sempre danni
e pericoli estremi all'integrità dell'Impero, prosieguano i sudditi
nostri senza danno e pericolo niuno ad osteggiarci ed offenderci con
ogni possibile mezzo, e militando alla franca ed alla scoperta sotto
le bandiere e tra le file stesse de' nostri nemici. Per ultimo, vi
risovvenga non si vivere ora in tempi ordinarj, ma in istraordinarj
e di guerra. Il governo militare regna qui come altrove, e necessità
vuole ch'egli segni alcuna transitoria limitazione alla virtù delle
leggi comuni e pacifiche.

Tolgami Dio, Colleghi degnissimi, che io reputi queste ragioni
tutte valide e buone; e riconosco, oltre a ciò, che il cuore stesso
ci vieta di trovarle ben sufficienti e persuasive. Pur nullameno,
elle ci vietano altresì di ravvisare la infrazione del patto così
intera, aperta e _flagrante_, come il Governo lombardo la stima.
Ed anzi, quell'opinar suo tanto fermo e assoluto parrebbe quasi
incredibile, quando la cotidiana esperienza non insegnasse ad ognuno,
come per troppo amore del bene sia facile in politica di travedere e
travalicare.

Ma che d'uopo c'è, dirà qui alcuno, di guardarla così per sottile?
non è l'amor della patria mantello largo e onorato per cuoprire e
onestare sì fatta sorta di errori e di mancamenti? Nelle faccende
politiche, poi, il successo è ogni cosa: e quando noi sarem vinti
e col giogo sul collo, poco ci avvantaggerà il poter ricordare
ai nemici, che nell'osservanza dei patti siamo stati a maraviglia
scrupolosi e leali. Bene sta; ma io non posso pretermettere di notare,
che mostrerebbe giudicio povero molto colui, il quale si desse a
credere che il giure delle genti venga osservato nella più parte dei
casi con perfetta scrupolosità, eziandio da popoli mezzo barbari, a
cagione d'un sentimento puro e profondo di universale giustizia. La
necessità e l'interesse v'à la sua parte, ed anzi ardisco dire, la
principale. Abbiamo noi forse cessato di guerreggiare coll'Austria,
e sono chiuse con lei le partite del dare e dell'avere; intendo, i
danni, le rifazioni e le rappresaglie? o non si prevede in quel cambio,
che lunga, ostinata e sanguinosissima dee riuscire la lotta? E nella
guerra, per dirla con Cicerone, Marte è comune; e s'io quest'oggi son
trascurato ad adempiere i patti, domani potrò dolermi assai d'essere
dagl'inimici anche troppo imitato.

Nè questo ancora sarebbe tutto; ed io vi affermo ed assevero, che il
voto espresso ed unanime degli ufficiali, l'interesse ben calcolato
e la giusta apprensione pei casi avvenire, la dubbia interpretazione
del patto e la più incerta e dubbia contravenzione sua dalla parte
dell'Austria, bastati non sarebbero ad acquetarci la mente e lo
spirito. Conciossiachè al nostro giudicio e alla nostra deliberazione
avrebber dato motivo o il sospetto di non venire obbediti dai
militi, o il timore delle prossime rappresaglie, o la troppo visibile
insufficienza delle ragioni, o tutte insieme cotali considerazioni,
molto più atte a indurre nell'animo una gravosa necessità, che un pieno
e schietto convincimento.

Ma noi abbiamo pensato, nobili cittadini, che i passi primi della
diplomazia italiana dovesser procedere lucentissimi di fede e
di lealtà. Noi ci siam ricordati che nelle politiche relazioni
e corrispondenze coi popoli accade appunto il medesimo che nelle
commerciali e negoziative; in tutte le quali, l'osservanza gelosa dei
patti e il pronto e lieto mantenimento di ogni promessa cresce ed
accumula a poco a poco quel credito che, in mano soprattutto delle
moderne nazioni, convertesi in uno de' più fecondi e maravigliosi
strumenti della forza e grandezza loro. Noi abbiamo opinato che
mette assai meglio in siffatti casi gittare ogni colpa sugl'inimici,
di quello che arrisicare di farcene autori noi, e di non potere
alla finale vittoria dell'armi aggiungere altresì la vittoria del
dritto. A noi è sembrato che se queste massime tornano vere e sante
e profittevoli a qualunque nazione, fannosi tali infinite volte di
più alla gente romana, cui sta in capo il sommo Pontefice, tutore e
serbatore perpetuo dell'umana giustizia. Infine, da noi fu pensato
che il popolo romano, come il discorso ministeriale già l'esprimeva,
non valendo a gloriare ed a sovrastare tra le nazioni per la vigoria
dell'armi e la vastità dell'impero, farsi almeno doveva al mondo
esempio luminoso e specchiato di ogni forma eccellente e perfetta del
viver comune.

In una contrada non molto remota da noi scorre e fuma a questi giorni
un torrente di sangue, e nella metropoli sua le vie più frequenti e più
belle si veggono seminate di strage civile.[22] Quivi non è principio
di sociale giustizia che non sembri oggimai vacillare e disfarsi.
Quivi le nozioni stesse primigenie ed eterne del bene e del vero pajono
ottenebrarsi e travolgersi, e l'impero della forza e lo stato di guerra
farsi naturale e proprio agli uomini, quasi avverando l'abborrevole
sogno del filosofo di Malmesbury. Signori, a noi tocca nudrire ne'
nostri popoli il generoso ed utile orgoglio, che qui nella sacra
città, in cospetto del Campidoglio, al lume dell'antica sapienza, que'
principj e quelle nozioni sbandeggiate anche da tutto il mondo avranno
un certissimo asilo, e poseranno sicure all'ombra augusta del Vaticano.

Dopo ciò, non si stimi da alcuno di voi, che siensi messi in
dimenticanza e in non cale i possidenti di Vicenza tra noi rifuggiti
e dal bando dell'Aspre percossi. Al contrario, noi ci facemmo
debito di scrivere senza indugio al capitano dell'armi imperiali,
raccomandandogli con ogni virtù di parole quei miseri; ed anzi,
prevalendoci assai della nostra religiosità, poco da esso meritata,
nella osservanza dei patti, patrocinammo con tanta più forza e caldezza
la causa dei profughi.

Noi pigliamo speranza che quella nostra scrittura non giacerà senza
effetto: ma quando pure non conseguisse tutto il bene che il cuor
nostro desidera, piaccia a voi di considerare se meglio sarebbero
stati ajutati e difesi i profughi rompendo la fatta capitolazione, e
togliendo con ciò ogni qualunque ritegno alle austriache vendette.
D'altro lato, ricordiamoci che l'Italia tutta è oggimai segnata di
sventure e di martirj, nè serba provincia così riposta e queta e
sommessa, che molti generosi a questi giorni non tingano delle proprie
vene. La via che conduce all'indipendenza e alla libertà (tutte le
storie il confermano) è da ogni parte bagnata e molle di sangue e di
lacrime; e non sono questi per lo certo i danni e gl'infortunj, sotto
il cui fascio l'animo degl'Italiani si piegherà fiaccato e invilito.
E similmente, se per due o tre mesi porzione dell'armi nostre dovrà
ristarsi dal combattere, non perciò la causa nazionale, che è sacra
e perpetua, si verrà meno, o l'armi e le braccia del popolo nostro
mancheranno all'estreme e disperate difese.

Pericolo vero e solo e incessante sovrasta alla causa italiana nel
dissentire degli animi, nel traboccare delle passioni, nel macchinare
dei partiti. Or fa qualche giorno (io nol vo' tacere, o Colleghi, ed
anzi sovvienmi di averlo in altro ragionamento significato), l'anima
mia era contristata infino alla morte. Perocchè dappertutto io scorgeva
spuntare e moltiplicare i germi delle antiche discordie; e il lievito
micidiale delle vecchie invidie e dell'abituale orgoglio riprender
vigore, e le plebi corrompere e i giovani infatuare.

Ma qualche angiolo tutelare veglia per lo certo alla nostra salvezza; e
ne' libri del fato è veracemente scritta l'italiana risurrezione:

    Nè sillaba di Dio mai si cancella.

Signori, alle nuove che giungono di Piemonte mal possono i cuori
gentili temperarsi da un dolce pianto, e non mandare voci e grida di
gioja. Il gran decreto dell'Unione è già sulla Dora dai contraenti
popoli sottoscritto, e il Regno formidabile subalpino è fondato. Superò
l'Italia un gran punto, mirando coi propri occhi le vecchie gelosie
e le ostinate borie municipali dileguarsi innanzi alle necessità
della comune salvezza. In cotesto fatto un valor si racchiude ed
una efficacia più stupenda e migliore di qual sia battaglia campale
guadagnata sugli stranieri.


Discorso in difesa del Ministero

  _L'infrascritto discorso fu pronunziato nel Consiglio dei Deputati
    il dì 21 di luglio._

Io salgo in tribuna ad adempiere un debito ed un officio gravoso
più che difficile, rispondendo a parecchi e lunghi discorsi che jeri
udiva la Camera sull'operare, ed anzi (a dirla più schietta) in accusa
del Ministero. Sapete l'usanza mia d'andare diritto al segno e non
moltiplicare in parole. Quindi, s'io vi prometto di sciogliere da
lunghezza e da tedio l'ascoltazione vostra, mi confido che la vorrete
concedere silenziosa ed attenta.

Comincerò dal notare una nuova e singolarissima contradizione che va
succedendo tra noi. Sin dal primo suo nascere, il Ministero presente,
che vide egli a rispetto del suo governo? Testimonianze di piena
fiducia da un lato, pronti e ingiuriosi sospetti dall'altro; lodi
magnifiche mescolate a gravi censure, applausi dopo i rimproveri,
favore dopo lo sdegno. Tale vicenda e meschianza non è (per quel che
mi sembra) cessato un dì solo, e alcuna speciale ragione conviene
assegnarle. Io la ravviso in questo, o Colleghi, che il Governo
e voi vi sentite in ugual maniera offesi ed oppressi da durissime
necessità, e giacete mal domi sotto la forza veemente ed irreluttabile
delle cose. Stretta da simil pensiere la coscienza vostra, non che
averci per iscusati e per assoluti, giunge sovente a reputarci degni
d'encomio. Ma, d'altra parte, quell'aspra necessità delle cose premendo
e affliggendo ognuno di noi senza requie ed intermissione, ci fa
impazienti ed irosi, e ci trascina a credere ch'ella può essere vinta
e sopraffatta dall'arte umana: e perciò, in questo noi rassembriamo un
poco agli infermi e alettati, che scorgendo di non guarire o di non
subitamente guarire, muovono alte querele contro ai medici loro, i
quali non sanno o non possono essere taumaturghi.

Un'altra considerazione, o signori, vogliate serbarvi a mente; e questa
è, che nella più parte degli Stati Europei il vocabolo Ministero
suona la pienezza delle facoltà e dei poteri civili e politici, e
vuole indicare pressochè l'apice e il colmo di quelle forze morali
e autorevoli che assicurano e guidano la vita comune d'un popolo.
Ma guardandosi al vero, o Colleghi, il presente Ministero possiede
egli ed esercita senza contrasto la metà di que' poteri e di quelle
forze? Adunque, se giusti e imparziali mantener vi volete a rispetto
nostro, piacciavi di proporzionare le incolpazioni agl'impedimenti e
alle angustie in cui siamo, e alle avversità dolorose contro le quali
dibattesi il nostro coraggio, pertinace almeno, se non fortunato.

Ma scendiamo tosto ai fatti che fornivano jeri ragione molto apparente
e occasione pronta ed accomodata alle accuse. Il più rilevante di
tutti è la sventura dell'esercito nostro. Rendeteci trentamila uomini,
voi esclamate, tutta bella e fiorita gente, che dalle nostre braccia
si sciolse e partì volontaria per combattere gli stranieri. Voi,
come Ottaviano Augusto, gridate: rendimi le mie legioni, o Crasso. E
certo, è sommo infortunio e sempremai lacrimevole vedere il fiore de'
nostri giovani, che, or fa qualche mese, moveva a una santa guerra
tra gl'inni, le feste, le luminarie e i popoleschi tripudj, tornare
scemato per le morti, col volto dimesso, le vesti lacere, scorato,
affralito, disfigurato; e oltre a ciò, vedere iti in dileguo in un
giorno solo (può dirsi) i lieti successi, le prosperità e le glorie che
nel partire ei si tenevano in pugno. Parmi, narrando, di non isminuire
dramma alla gravezza del male, e m'industrio di non ammorzar per nulla
i colori vivissimi che jeri usava taluno in certe sue dipinture con
maestria e caldezza pennelleggiate. E pur nondimeno, oso affermarvi,
o Colleghi, che volendosi far giudizio equo e prudente, debbesi un
tanto infortunio recare non agli uomini, ma solo al destino. E crediate
che io sono, in siffatta opinione, non che imparziale, ma sommamente
discreto e benevolo; perch'io non voglio che la colpa levata di dosso a
me, vada a percuotere alcuno. Ma, come ciò sia, questo rimane certo ed
irrefragabile, che a qualunque altra persona si può tentare di chieder
ragione del tristo caso, eccetto che ai presenti Ministri. E veramente,
ruppero essi la guerra agli Austriaci? No. L'apparecchiarono essi di
lunga mano, la promossero con ardore, le porsero adatte occasioni?
No. Ascrissero, almeno, i soldati ed i volontarj, dieder loro gli
ufficiali, ordinarono l'esercito, miserlo in via, condussero di là dal
Po? Nemmanco. Ma in fine, salendo essi in grado, non ebbero a continuar
la guerra già incominciata? E neppur questo propriamente; perchè il
primo atto loro fu di condurre l'esercito sotto il comando immediato
di Carlo Alberto, e le cagioni vi son note. A noi rimase un ufficio
pien di fatica e sollecitudine, ma senza pericolo, e perciò senza
gloria; e fu, di provvedere ogni giorno agli armamenti, alle paghe,
alle salmerie, alle promozioni e alle altre bisogne ministrative: nè
su queste alcuno ci chiama in colpa; e dove non fosse debito rigoroso
del buon cittadino di adempiere ogni consimile incumbenza il meglio che
può, forse avrebbe il Ministero di che compiacersi e lodarsi, guardando
alle strettezze massime del Tesoro, alla precipitazione dei casi, alle
distanze, alle dispari abitudini e a cento altri contrarj accidenti. Ma
io ripeto, che nella sventura di cui tutti piangiamo, non ci fallisce
almeno questo conforto, di doverla recare necessariamente al solo
destino. Ricordatevi come fu composto ed elementato quell'esercito
nostro; ricordatevi (ed altre volte ne feci menzione) ch'egli s'adunò
quasi a furia di popolo e in modo affatto tumultuario; e che, appena
legate insieme le sue parti, o, a dir più giusto, accozzate, mosse
alle fazioni di guerra, e guerra lunga e campale; e contro a nemici
soverchianti per numero, per artiglierie, per uso, scienza, e vecchia
e provatissima disciplina. La scelta degli ufficiali cadde, la massima
parte, sopra uomini designati non dal criterio e dall'esperienza
di buoni giudici e competenti, ma dall'aura fugace e voltabile del
favor popolare. Ricordatevi che i giovani nostri (colpa dei subiti
avvenimenti e del vivere sfaccendato ed imbelle) corsero alle bandiere
mezzo cittadini e mezzo soldati. Io vo' dire che i giovani nostri, per
la inerzia passata, per la cortezza del tempo, e ancor da vantaggio
pel modo di ordinamento, non erano abbastanza disvezzi dalle comodità
e abitudini casalinghe, nè abbastanza avvezzi allo stento, ai disagi,
alla sommessione, e ad altre esigenze ed asperità della militare
disciplina. Nacque da tutto ciò, e, non poteva non nascere, che
alla prima fazione gagliarda e difficile veramente, e al primo cozzo
di schiere agguerrite e con abilità e ardire capitanate, le nostre
sformaronsi in poco d'ora, e da ogni lato scompaginaronsi.

Ma v'à di più: l'infortunio è gran pietra di paragone degli eserciti
veterani o novelli, bene o male apprestati e composti. Non ostante le
dure percosse e gli scontri sanguinosi e infelici, i ben apprestati
ed antichi cedono, ma non si scompigliano; e se pur questo accade, si
riordinano e si rifanno: ma per contrario, i mal composti e ordinati,
una volta rotti e dispersi, non più mai si raccozzano e si rassettano;
ed anzi, come materia poco omogenea e da poca cera appiccata,
rapidamente pervengono all'ultima dissoluzione. Di ciò appunto fummo
noi tutti, e con gran dolore e rammarico, testimonj. Tornarono non
più le schiere dei nostri, ma gli avanzi di esse; giunsero tumultuando
e disordinando assai peggiormente che non usavano durante la guerra.
Giunsero con mente accesa e avventata, ciascuno accusando i suoi proprj
ufficiali, accusando il Governo, i compagni, i Commissarj, i Piemontesi
e tutti, fuor che sè stessi. E replico che ciò sempre avvenne e avverrà
tuttavia tra soldati subitarj ed accogliticci da somma avversità
sopraggiunti.

Nè io voglio con tali parole menomare il pregio della fortissima
resistenza e dei gagliardissimi combattimenti che ottomila de'
nostri ànno avuto animo d'imprendere e di sostenere contro a più di
40 mila soldati austriaci: e basterà solo, io credo, la memoria de'
monti Berici per dimostrare al mondo come facilmente può ritemprarsi
all'antico valore, e la virtù de' suoi padri ricuperare questo popol
latino infelice e caduto, ma sempre a risorgere apparecchiato. Io
noto, pertanto, ed accuso non la virtù e il coraggio degl'individui, ma
quegli accidenti e difetti che nessuna bravura è bastevole ad impedire,
e la cui riapparizione è certissima dovunque mai l'esperienza, l'arte,
l'esercizio e l'efficacia del tempo, delle regole e delle tradizioni,
non fan riparo.

Dopo quel caso, e visto quel deplorevole scombuiamento, che altro
rimaneva da praticare al Governo? Voi tutti con esso e ad un animo
il venite pronunziando: scioglier l'esercito e con altri metodi
ricomporlo. Ma io prestamente m'appello a coloro, quanti pur ve ne sono
e di quante specie e generazioni è possibile ritrovare, i quali ànno
fiore di cognizione delle cose guerresche, e sentenzino essi se dentro
lo spazio di venti giorni una così complicata e malagevole opera sia
fattibile mai; e venti giorni soltanto, o Colleghi, nè un'ora di più è
trascorsa dal tornar delle truppe a quel frangente improvviso e funesto
che l'anime vostre à con giusta ira commosse.[23] Quello a cui non
varrebbe e non basterebbe uomo nessuno, reputo che voi non convertirete
in errore ed in colpa solo ed unicamente per noi. Credo invece, che
ogni spirito gentile e benevolo senta di doversi astenere non pur
dalle accuse, ma dalle superbe e gravose parole contro di tali, cui
la fortuna fa scontare coi subiti rovesci quel po' di bene che prima
ella lusinghevolmente proferse loro, di render la pace a questa città e
nelle provincie serbarla, ristaurarvi l'ordine, ampliarvi le libertà e
con l'impero delle leggi contemperarle.

Ma io sento voci che gridano: la patria è in pericolo, e questo estremo
frangente non pure debbe eccitare tutte quante le forze e gli spiriti
di chi ci governa, ma suggerir loro partiti straordinarj ed eroici; e
se bisognano prodigj, che i prodigj sien fatti.

Sta bene; ma le imprese eroiche e i miracoli umani altresì debbono
avere cagioni certe e proporzionate. Osserviamo. Per me, la patria
è solo tutta l'Italia, e non applico quel nome augusto ad alcuna
delle provincie sue, per insigne e bene amata che sia: similmente,
non bado a dove io nascessi, o dove abbia le cose mie o i parenti
o gli amici, ma sì ò per amici e parenti e per carissimi compaesani
coloro tutti che nacquero e vivono nella terra sacra che _Appennin
parte e il mar circonda e l'Alpe_. Ora l'Italia, bontà di Dio, non
corre pericolo estremo insino a che ordinato e gagliardo rimane
l'esercito di Carlo Alberto. E se alle schiere di quel re generoso
toccasse grave sconfitta, ondechè la patria nostra vera, cioè
l'Italia tutta quanta, venisse a rischio dell'ultima sua salute, il
meglio sarebbe, o Colleghi, interrompere queste nostre disputazioni,
prendere popolarmente le armi, e moverci tutti di buon accordo, e
senz'altro pensiere che di ristaurare le sorti mutate e periclitanti.
In questo mezzo, rivocando il discorso ai nostri paesi, i quali
pure bisogna difendere, due mezzi di fare ischermo e riparo avea tra
mano il Governo, ed entrambi mise ad effetto. Il primo, di scambiare
subitamente le truppe che ritornavano con le poche disseminate per le
nostre città. Il secondo, di fare istanze sollecite e ferventissime al
re di Piemonte, perchè mandasse ajuti di gente; ed anche pregarlo di
voler permutare porzione de' pontificj soldati, costretti dai capitoli
di Vicenza, con altrettanti de' suoi distribuiti per le fortezze, i
quali accorressero freschi di forze, animosi di voglie, specchiati di
disciplina a custodire le nostre frontiere. Fu il primo atto adempiuto,
o signori, con prestezza e premura maggior dell'effetto: perchè sapete
voi a qual novero per appunto è da recare la milizia allora rimasta
indietro a presidiare le più interne città? appena a quattro mila
uomini. Arrogo che non furono potuti movere tutti immediatamente,
perchè in Spoleto e in Civitavecchia fece mestieri lasciarne più
compagnie a custodia di circa mille forzati, abbandonando i quali,
giudica ognuno che danno gravissimo sovrastava non pure a quelle
città, ma sì allo intero Stato. Poteansi dunque, or domando, munire e
fronteggiare in guisa valida e sufficiente con due o tre mila uomini le
rive del Po, che nel nostro Stato corrono per la lunghezza di poco meno
che ottanta miglia? Ne dia sentenza chiunque è tanto o quanto perito
nelle militari faccende; anzi chiunque à sentimento delle cose, ed
occhi per vedere e senno per giudicare.

L'altra parte di nostra opera nemmeno fu da noi pretermessa, o tardata
o trascurata in veruna guisa, ma con fervore e con la massima diligenza
tentammo di adempierla. Ricorremmo affrettatamente a re Carlo Alberto,
e, come testè io diceva, gli domandammo pronti soccorsi non solo, ma la
permutanza di buona porzione delle soldatesche nostre con altrettante
delle sarde. Mostrammo per noi la necessità dell'ajuto, per esso
l'utilità; ricordammo la devozione di questi popoli alla sua persona,
la fede nella sua causa, i mali della guerra lombarda incontrati sì
lietamente da noi, i nostri apparecchi, il sangue sparso, il lutto
di nostre famiglie; quanto danno e pericolo arrecherebbero alle armi
sue le rive del Po signoreggiate dall'Austria, invase le Romagne,
minacciati i Ducati, non sicura la Toscana. Che avvenne? il re Carlo
Alberto assentì, il Ministro della guerra risolutamente negò. In
ultimo, una specie di permutanza ci è stata offerta. Ma quale? Non
è da tutti l'indovinarsela. Spedire gli Svizzeri nostri in Modena,
e i Piemontesi che quivi stanziavano mandarli a Venezia: che è come
chiedere ad uno che ti presti il mantello, e quegli invece proponga di
accomodarne il compare; senza qui aggiungere che gli Svizzeri nostri,
condotti in Modena, abbastanza non si scostavano dall'occasione e
pericolo di combattere; il che per tre mesi è vietato loro dai patti.
L'offerta, dunque, non profittava per niente alla guardia e difesa
delle nostre frontiere. Tacerò d'alcun partito da noi pensato con poca
speranza, ed a fine soltanto di non lasciar cosa del mondo possibile
e immaginabile di cui non facessimo esperimento. Come lo scrivere, per
esempio, al general Pepe in Venezia, e proporgli o di spedire qui a noi
que' soldati nostri che là combattono; o di spesseggiar le sortite e
ingrossarle sì fattamente, da mettere in seria e vivissima suggezione
gli assediatori, talchè non sia loro più agevole l'assottigliarsi di
uomini, e minacciar d'invasione le nostre provincie.

Or, raccogliendo il tutto, io vi chiedo, se queste vi sembrano
ragioni sode, schiarimenti precisi, allegazioni certe, fatti evidenti
e palpabili? Sa Iddio, quanto io desidero che possibile fosse di
contradirli e negarli, e quindi scemassero i nostri danni e i sospetti,
di quanto crescerebbe il torto e l'errore dei presenti Ministri.
Imperocchè nessuno de' miei avversarj mi reputa così vile e perfido,
che io posponga la salute della carissima patria al mio leso amor
proprio. Ma io sento bene, che la imparzialità de' giudicj non è unque
sperabile laddove il cieco entusiasmo e le offese e i danni di già
sofferti e l'apprensione del peggio farà di nuovo gridare ai più caldi,
e a proposito o no: la patria è in pericolo, e noi vogliamo che ad ogni
costo ella sia salvata.

Signori, giunto il discorso a questi ultimi termini, io vi pronunzio
che due sole specie di guerra conosce e pratica il mondo; due sole,
ripeto, e non più; e sono di esercito contro esercito, e di popoli
armati contro armate milizie. Ora, nettamente e fermissimamente
dichiaro, che guerra di esercito contra esercito, guerra promettente
non dico bella vittoria, ma lungo e onorato combattimento, non siamo
oggi, non saremo domani o il dì dopo in grado alcuno di fare. No, verun
Ministero ritroverete (e cercatelo pure per tutti i canti d'Europa e
d'America), il quale premendo col piede la terra, ne faccia balzar
fuori un esercito. Non v'à Ministero che possa (come usa dirsi)
improvvisare buoni soldati, esperti capitani e ben guerniti arsenali.

Ma dell'altro genere di guerreggiare, cioè quello delle moltitudini
che s'armano, e s'azzuffano coi soldati d'ordinanza, certo, non
si nega che può sempre venire in atto; nè altro che una condizione
ricerca per far probabile il buon successo, ma la vuol piena, la vuol
permanente, la vuole assoluta; e questa è il coraggio e la fierezza
intrepida e disperata delle popolazioni. Qualora ogni città di Romagna
convertasi in una Saragozza, o in qualcosa di somigliante, e debbano
gl'inimici pigliar d'assalto le mura, indi le strade asserragliate,
poi ciascheduna casa dalle canove alle antane; non dieci, non venti,
non forse cento mila bajonette imperiali varranno a sforzarle ed a
sottometterle. Però, d'un ardore siffatto, ogni qualunque Ministero
è piuttosto l'effetto che la cagione; il docile e acconcio strumento,
piuttostochè il fondamento e il principio.

Io so, nullameno, che da un Governo energico veramente e leale, sempre
vigile ed operante, franco, ardito, ingegnoso, e non inferiore,
insomma, alla gravezza minacciosa e straordinaria dei casi, può
accrescersi ed avvivarsi oltremodo la fiamma del popolare entusiasmo;
io lo so. Ma un Governo cotale à gran bisogno della pienezza d'ogni
potere e della libertà intera dell'opere sue; e se a voi piace di
guardar dentro alle cose, confesserete a marcia forza, che non è così
fatta la condizione dei presenti Ministri, i quali già da un mese
sono rinunzianti, ed a cui non è stato mai lecito di proferire nemmeno
quella parola che suona oggi sulla bocca d'ogni verace italiano, e si
attua in fieri e nobili gesti sulle rive del Mincio e dell'Adige.[24]
A questi dì, più assai della consumata politica e della sapienza
legislativa, occorrono le arti con le quali si eccitano e fomentano
le generose passioni. Di tali arti, nudrici del coraggio e della
magnanimità, dar saprebbe qualche saggio onorevole ed utile anche il
presente Ministero; perchè sempre il cuore infiammato avvisa e indovina
ciò che risveglia ed infiamma il cuore; e voi potete vederne forse
gl'indizj leggendo nelle gazzette quel che parliamo e ordiniamo ai
nostri ufficiali nelle provincie. Ma il forte volere non basta; e al
forte operare non abbiam sufficienti le facoltà.

Egli m'è avviso di avere non iscarsamente risposto alle accuse più
generali e più appariscenti che jeri lanciavansi da taluni contro
il Governo. Delle censure particolari e minute, alcune sono di assai
poco rilievo, altre emergono dall'ignoranza dei fatti, ad altre manca
ogni precisione e somigliano a colpi tirati senza pigliar la mira.
Tuttavolta, non vo' tacere di una, e importante per sè e gravosa al
cuore di tutti i Ministri.

Questa è di aver noi invitato a sedere nel Consiglio di amministrazione
e di disciplina il generale Durando, chiamato da taluno in
quest'assemblea ed _apertis verbis_ traditore alla patria. Osservisi,
anzi tutto, ch'egli, per ciò che affermano parecchi deputati, viene
accusato al medesimo tempo e qui e in Piemonte; qui come lancia di
Carlo Alberto, in Piemonte come troppo tenero del Pontefice. Chi
dunque tradisce costui? Nessuno, perch'egli non può ad una ordir
frode al Pontefice e a Carlo Alberto. Io credo convenga andar molto
a rilento nel proferire sentenze cotanto odiose e terribili; e per
fermo, così la pensa la più gran parte de' soldati e de' volontarj
che sotto i vessilli suoi combattevano. Essi (domandatene, o signori)
gli conservano stima grande ed amore cordiale. E sapete voi la cagione
principalissima? La cagione è questa, che dove la mischia ferveva più
calda e più sanguinosa, dove il pericolo era imminente, le bajonette
nemiche più numerose, il grandinar delle palle più spesso, là brillava
pur sempre la spada del Durando, il quale, con nuovo genere di
tradimento, ponevasi tuttogiorno al rischio di affogare la sua frode
nel proprio sangue.

Ora, ditemi, in nome di Dio, se veduto l'aveste fra tante palle e
tante austriache bajonette cadere ferito ed estinto, sarebbe nessuno
di voi stato ardito di domandarlo traditore, e nel cadavere suo ancor
sanguinante e dal ferro dilacerato imprimere un marchio d'infamia?
Ebbene, voi pigliate arbitrio e baldanza di atrocemente accusarlo,
solo perchè la fortuna à conservato quel braccio e quella spada
onorata al profitto d'Italia. Queste sono le ragioni per cui pensò
il Ministero di dar luogo al Durando in seno del consiglio testè
mentovato: e con tutto ciò, abbiamo premesso all'atto una diligente ed
esattissima investigazione dell'opera sua; e in fede di onesti uomini,
vi assicuriamo, che non v'è ombra di colpa e di trascuranza in tutte le
recenti fazioni di guerra del generale Durando. Egli commetteva forse
qualche errore di previdenza e di tattica; ma, con vostra pace, qual
generale non ne commise, o non fu a risico di commettere?

Dopo ciò, io reputo di toccar già la fine del mio troppo lungo
ragionamento; conciossiachè a rispetto dell'avvenire, di cui pure
moveste discorso, o Colleghi, poco o nulla ci conviene rispondere.
Noi da un mese non siamo solo in istato di rinunzianti, ma con viva
istanza e più d'una fiata abbiamo richiesto e pregato che la rinunzia
nostra si accetti. Jeri stesso abbiamo, ad un animo, rinnovato e
compiuto l'ultimo e risolutissimo atto di tale rinunziazione. E però
noi rimaniamo in sin da ora Ministri unicamente per conservazione
e custodia dell'ordine e quiete pubblica, e per tutela dei comuni
diritti. D'ogni rimanente ricade a voi la cura e il consiglio; e ci è
forza da quindi innanzi di non tollerare che si rovesci sul nostro capo
la più ponderosa e formidabile malleveria che premer possa la coscienza
d'un uomo onesto e d'un incolpabile cittadino.

Io mi dispenso dal giudicare se a voi venga meno la volontà o il potere
o l'opportunità o l'unione, per ispalleggiare e protegger quegli uomini
che la fiducia popolare condusse al governo, e, più costante di molti
di voi, sembra non abbandonarli ancora. Ma io so questo assai bene,
che i censori ed accusatori del Ministero, cercando una verità e una
utilità molto dubbia ànno indubbiamente peccato di grave imprudenza; e
quando sieno buoni e leali patrioti, com'io li stimo, tardo e doloroso
rincrescimento cagionerà loro il vedere e conoscere che il nostro
uscire di governo non sarà senza manifesta letizia dei nemici eterni
della libertà e indipendenza italiana.


Discorso sulla necessità della guerra

  _Il dì 7 d'agosto, occupandosi il Parlamento d'alcuna proposta di
    legge con fine di sopperire alle necessità della guerra italiana;
    e volendosi da parecchi sottometter quelle a nuova consulta nelle
    Sezioni; il Deputato di Pesaro parlò in questi termini:_

Io spero dalla vostra usata prudenza, o Colleghi, che le proposte di
legge le quali verrannovi presentate quest'oggi perchè si discutano e
vadano quindi a partito, non saranno rimesse in esame nelle Sezioni,
o di nuovo rimandate ai commissarj, conforme è il parere d'alcuni....
Odo che si mormora che io voglio sopprimere la libertà del vostro
suffragio: nulla di ciò mi sta in mente. Ma io non son fuori, credo,
del mio diritto, se io fo notare alla Camera che quando una Proposta
di legge fu discussa innanzi nelle Sezioni, quindi consegnata ai
commissarj scelti da quelle perchè ne giudichino e ne riferiscano, e
da ultimo fu da essi commissarj emendata accuratamente, dopo maturo e
libero esame, secondo il migliore lor senno e il frutto raccolto delle
varie opinioni udite; la Camera, tramutando quasi per intero l'opera di
quei commissarj, sembra a me che pongasi in qualche contradizione con
sè medesima; e ad ogni modo, dichiari e testimonii assai manifestamente
la poca stima che fa de' giudici e relatori prescelti da lei.

Io dico, pertanto, a voi e a me stesso: abbiamo ciò in considerazione
quest'oggi, trattandosi massimamente di leggi la cui opportunità
è sì fatta che dimanda una somma, anzi un'estrema sollecitudine.
Trattasi, ben vel sapete, di provvedere alle bisogne, ai pericoli
ed alle urgenze della gran Causa italiana; le quali dopo il disastro
di Custoza crescono poco meno che d'ora in ora. Quanto a me, io non
mi périto di dichiarare in sin da questo momento, che le proposte di
legge, segnatamente quali vi furono jeri significate dai commissarj, mi
piacciono assai e m'appagano. Ingegnose mi sembrano nella invenzione,
acconce al tempo ed al luogo, bene ordinate, sopratutto, e in ogni lor
parte e membro rispondenti e connesse. Quindi, se vi arrecherete voi
mutazione un po' sostanziale, romperete, del sicuro, quell'armonia che
le governa, e quel dritto filo raziocinale con cui vennero pensate e
dedotte.

Nè porzione di loro vi è nuova; perchè presentòlla a voi, se ben vi
ricorda, il passato Ministero: se non che, allora fu sottomessa al
vostro giudicio con forma e nome di tassa, non comportando i tempi che
senza pericolo niuno ragionar si potesse di prestazioni forzate. Oggi
le sventure sopravvenute dànnoci questa non desiderabile facoltà e
balía.

Concludo, pertanto, ch'egli bisogna, colleghi miei, affrettarsi.
Nè basta che ognuno di voi senta e ripeta nell'animo cotal verità.
Conviene vi rispondano i fatti, e rimanga delusa e scornata la
speranza d'alcuni infelici che vorrebbono far vani i vostri disegni
indugiandoli. Forse ch'ei fa mestieri ch'io vi stimoli e infiammi
con nuove e speciose ragioni? e non è suprema ragione il dire:
affrettiamoci, perchè ogni giorno che passa, reca non leggier
detrimento al successo della italiana risurrezione? Certo, io non salgo
a questa tribuna per crescere impacci al Governo; ed anzi saluterò
con vivissima compiacenza il novello Ministero, quando io vi vegga
rilucere il nome del conte Odoardo Fabbri. La sua veneranda e incolpata
canizie mi rassicura. Quella sua vita spesa tuttaquanta in soffrire e
combattere per la libertà e l'Italia, porgemi abbondante caparra che il
Ministero nuovo non tenterà nulla contro le pubbliche guarentigie, nè
contro il finale successo della guerra italiana. Ma per qual cagione
non compare esso qui e non siede fra noi? perchè si cela e non parla?
perchè ad ogni momento, in ogni occasione, sono l'esigenze e gli usi
d'un libero e rappresentativo governo manomessi e frustrati? perchè
taluno de' Ministri non reca, com'è suo debito, a questa o all'altra
Assemblea il disegno di quelle leggi che ambedue i Consigli ànno
già, non nella massima solo, ma nelle principali disposizioni puranco
approvate? Afflittive incertezze, dannose e inesplicabili esitazioni
son queste; ed in ciascun'ora di tale specie d'interregno cresce il
nostro comune pericolo.

L'esercito di Carlo Alberto dall'Adda e dall'Oglio ci guarda ed aspetta
soccorso. Genova (corre voce) si vuota di popolo, e fanno il simile
le città di Piemonte e di Lombardia. Un grido solo risuona per quelle
provincie, e da tutte le bocche ripetesi un grido solo: al campo,
Italiani, al campo. In me è gran fede, o signori, che se piace al
Governo, se voi lo volete, se i popoli vi udranno parlare, le città di
Romagna, le città delle Marche, e questa Roma medesima alzeranno tutte
insieme quel salutare e magnanimo grido: al campo, al campo.

Onorandi colleghi, trenta secoli di storia civile già sono trapassati
sopra l'Italia; eppure non vi si rincontra un punto di tempo e una
congiuntura di casi forse tanto solenne e tremenda siccome quella in
cui c'imbattiamo al presente; imperocchè la Penisola intera può con
isforzo gagliardo di volontà fabbricare oggi a sè stessa i proprj
destini, il che mai non le accadde. Può l'Italia effettualmente in
questi giorni (pensiamoci bene) salir tutta e per sempre alla signoria
di sè; e nelle sue monche e lacere membra suscitare e perpetuare la
congiunzione del viver civile, státale ognora interdetta, e principio
e cagione negli altri popoli d'ogni virtù, d'ogni gloria, d'ogni
possanza. Ella può, dico, questi prodigj; ma pareggiar le conviene con
l'ampiezza de' sacrificj il bene immenso ed inestimabile della libertà
e della indipendenza. Dopo molti sentieri trascorsi, dopo infiniti
passi perduti, eccoci alfine al bivio terribile, dove Dio e le sorti
e le nostre colpe e le altrui senza riparo e difesa ci àn trascinato.
O l'Italia sarà libera e grande, e conquisterà pure alfine un pieno
essere di nazione; o ricadrà per sempre nel sonno affannoso d'ogni
abbiezione e d'ogni servaggio. E dico sonno affannoso, perchè dopo
la tentata risurrezione, forza è a lei che quello trapassi turbato
e funestato ad ognora dal rimorso doloroso e profondo della propria
viltà.

Miriamo, signori, altresì al debito nostro speciale innanzi a Dio e
innanzi agli uomini, e come noi pure siamo posti in fra due estremi, e
sceglier conviene senza dimora. O i nostri nomi soneranno alle venture
generazioni i più benedetti e gloriosi, o i più miseri e abbominati del
mondo. A che giova, in che ci avvantaggia il chiudere gli occhi davanti
a questo fiero dilemma? egli non perciò stringe e martella con minor
furia le nostre coscienze. Rompiamo gl'indugi, tronchiam le parole; ai
fatti, signori, all'opere generose e virili. Se domani stesso io non
vedrò seduti in que' loro posti i nuovi Ministri, risalirò in ringhiera
affin di proporre all'estremo male un qualche estremo rimedio.


Discorso sopra tre modi straordinarj di difesa

  _Appena respinti gli Austriaci da Bologna, il Mamiani nella tornata
    del dì 11 di agosto proponeva tre insoliti provvedimenti,
    e facevali a pieni voti approvare con le infrascritte brevi
    parole:_

Egli accade delle nazioni come degl'individui per appunto; cioè a
dire che v'à momenti dolorosi e funesti, in cui l'animo di tutto un
popolo s'abbandona, e casca sotto il peso dell'infortunio. Ma quando la
fiamma del viver libero e indipendente arde vivace davvero ed intensa
per entro il cuor suo, ella, simigliante al fuoco sacro di Vesta,
può talvolta affievolire o negli ultimi penetrali occultarsi; ma non
estinguendosi mai, forza è che indi a poco riapparisca più sfavillante,
e tramandi intorno maggior luce e caldezza. Così quest'oggi avviene
all'Italia, ed è ciò che lo spirito mio à creduto e sperato sempre.

O felice e gloriosa Bologna! o fra le città italiane fortunatissima
e da tutte le generazioni invidiata, posciachè tu risvegli la nuova
favilla del nuovo e inestinguibile incendio. Noi adempiamo, o Colleghi,
un gran debito a renderle grazie solenni, e le più sentite e le
più magnifiche che possano uscire dal petto d'uomini riconoscenti e
autorevoli. Ma egli bisogna altresì, che questa tornata non si consumi
senza compiere qui alcun atto di segnalata cooperazione e d'ajuto
efficace, oltre alle cose dai Ministri saviamente deliberate.

Signori, nega questo tempo ad ognuno d'intrattenersi in lunghi
ragionamenti: e già non varrebbero mai le parole a bene significare una
parte anche minima di quegli affetti veementi e sublimi che premono e
investono da ogni lato l'anime nostre.

Bando non che ai discorsi studiati e freddi, agli eloquenti eziandio,
perchè corre l'ora del forte operare.

Io propongo, pertanto, senz'altro preambolo, tre provisioni, le quali
a me compariscono le più convenienti ed efficaci che la straordinarietà
dei casi ricerca.

Per prima cosa, io propongo che in ciascuna città dello Stato, sulle
publiche piazze si pongano tavole, alle quali sieda un delegato del
Governo ed uno del Municipio, e quivi sia inalberata e visibile a
tutti una scritta con le parole: _La Patria è in pericolo._ Ufficio
dei delegati sia di raccogliere e registrare i nomi dei Volontarj che
intenderanno di armarsi e combattere.

Per seconda cosa, dico doversi in ciascuna città istituire un
Commissariato, a cui spetti di ricevere tutte le offerte e le
largizioni dei cittadini e dei comuni per armare e vestire essi
Volontarj, e porli in grado di subito unirsi alle respettive bandiere.

Per terza cosa, propongo che sia il Ministero invitato e sollecitato,
affine preghi Sua Santità e fortemente il persuada a fare scrivere
a tutti i vescovi, e per essi a tutti i parrochi dello Stato,
perchè dall'altare e dal pulpito esortino con infiammative parole i
diocesani loro ad armarsi a popolo, ed accorrere alla difesa del trono
pontificale e della patria comune.


Discorso sullo stato d'Italia

  _In risposta a un discorso pronunziato dal Ministro Odoardo Fabbri,
    a dì 14 d'Agosto, per dare notizia dello stato delle Romagne
    e d'Italia, dopo che la città di Bologna ebbe valorosamente
    respinto l'assalto degli Austriaci; il Mamiani così parlò:_

Le parole che abbiamo udite sono, o Colleghi, degnissime di quell'uomo
che per tutta la sua vita non breve combattè, resistette, e travagli
e prigionie e proscrizioni sofferse per la libertà e l'indipendenza
italiana. Io sentomi lieto ed altero il doppio in questo momento
d'essere stretto con esso lui dell'onorevol nodo dell'amicizia. Debbono
le sue parole eziandio rinvigorare ed accendere tutti coloro che l'ànno
ascoltate, e coloro a cui verranno fuor di questo palagio con fedeltà
ripetute. Conciossiachè elle suonano in sostanza, che se gl'Italiani
non vogliono con le proprie mani atterrare ed abbandonare la causa
comune, questa non sarà mai per cadere.

E che? potea forse la malagevole e contrastata risurrezione del nostro
paese consistere tutta in una catena non mai spezzata nè rallentata di
felici successi, e dovea forse tenere sembianza d'un marciar trionfale
cominciato colà sul Mincio e terminato in pochi giorni sulla vetta
del Campidoglio? E in quai libri, in quali storie abbiamo noi Italiani
letto e imparato cosa a ciò somigliante? Forse nella storia antica di
questa Roma, quando i Galli la saccheggiavano o Pirro ne sconfiggeva
gli eserciti, o Annibale la sbigottiva con la vista delle prossime
insegne cartaginesi, o la guerra sociale le rivoltava contro tutta
l'Italia? E lasciando l'antichità come troppo diversa da noi, troviamo
forse miglior condizione di fatti nelle guerre nazionali moderne? in
quella di Spagna, per modo d'esempio, o in quella d'America, o nella
più recente ancora e terribile della Grecia? V'appellate voi alla
fortuna della rivoluzione francese, vale a dire del maggior fatto che
si compisse dal popolo più bellicoso e più formidabile e unito del
mondo moderno? Eppure a Tournay, in sul cominciar della guerra del
novantuno, le truppe incodardite e non vinte d'ogni parte sbandaronsi.
L'anno dopo, alla mala prova dell'armi in sul Reno aggiungevasi tutta
la Vandea insorta, insorti i Lionesi, sconvolte e riluttanti parecchie
provincie, padroni di Tolone gl'Inglesi. Più tardi, a molte e belle
vittorie succedettero nuovi disastri; ed era perduta la Francia se il
Genio non soccorreva di due sommi italiani, trionfando l'uno a Zurigo,
l'altro a Marengo.

No, signori, l'inestimabil bene della indipendenza e della libertà non
s'acquista con mediocre fatica, con poco sangue, con poche sventure.
Imperocchè è necessità e ragione che sia pagato tanto caro, quanto è
grande e infinito il suo pregio; e così tenacemente sia poi custodito,
quanto fu duro e difficile l'occuparlo.

Io non venni qui certo per farla con voi da erudito, e rimettervi in
mente i gesti gloriosi de' popoli che ognuno conosce ed ammira sin
dall'infanzia. Nientedimeno, permettetemi che di passata io vi ricordi
quel pugno di gente che abita le ultime arene del mare Germanico;
quel picciol popolo Olandese che per la causa nostra medesima insorse
e pugnò, ed ebbe ardimento di tener campo contro tutta la potenza
spagnuola, tremendissima allora e pressochè smisurata. Quel pugno
di gente, o colleghi, proseguì vent'anni la guerra, sostenne rovesci
senza numero, tribulazioni senza esempio, e vide con occhio asciutto
e spirito fiero ed intrepido diciotto mila de' suoi montare quando i
roghi e quando i patiboli. Questo ferocemente vogliono ed operano le
nazioni, allorchè ànno vero e santo proposito di sottrarsi al giogo de'
forestieri.

Che a questi giorni la Causa Italiana corra pericolo grave non è
dubbio; ma ch'ella sia già perduta o prossima ad essere, come osa
taluno affermare, io risolutamente lo nego: e qui ciascuno di noi
giudica e sente che ciò non è vero; imperocchè ciascuno di noi dispone
e sottomette il cuor suo al debito primo ed indeclinabile di tentare
ogni prova, reggere ogni travaglio, affrontare ogni rischio per la
salvezza comune. Ed è natura di tutti i cimenti, e condizione e legge
di tutte le forze morali; è decreto di giustizia, necessità di ragione,
ordine di provvidenza, che la ostinata, coraggiosa e magnanima volontà
di redimersi e di combattere le oppressioni, esca coronata e felice dal
lungo conflitto.

Io so molto bene, che parecchi di noi sarebber saliti in tribuna a
pronunziare oggi coteste massime con migliore loquela e con più faconda
e potente persuasiva. Ma, d'altra parte, io considero, e i vostri
applausi réndonmene certa testimonianza, che la bocca mia ragiona in
questo punto e dichiara ciò che ragiona e pensa l'animo di tutti gli
astanti. Però son sicuro che a rispetto della Camera intera, io adempio
in questo punto non altra opera che quella d'un araldo fedele, il qual
riferisce alla moltitudine radunata ciò che viengli commesso di dire,
con precisione e semplicità.

Signori, tempo è giunto che noi assumiamo tutta la nostra dignità
e la nostra maggioranza, e leviamo l'animo e il senno ad uguagliare
l'altezza dei casi, e quella dirò puranco delle sventure.

Roma è virtual capo d'Italia, e nel Parlamento romano è la naturale
potestà d'un ingerimento legittimo e salutare in tutti i fatti comuni
di tutte le provincie italiane. Se ciò è vero, e la storia e le
tradizioni e la pubblica voce e le nostre coscienze e l'universale
consentimento il conferma, noi non saremo così vili da ricusare la
gravità, le malagevolezze e i pericoli del grande e solenne ufficio.

Prima d'ogni cosa, è debito nostro, o uomini del Parlamento romano, di
dichiarare dall'alto di questi scanni e in faccia a tutta l'Europa, che
eziandio in vista dell'infortunio di Custoza, in noi non s'è menomata
d'un atomo solo la fede piena e inconcussa che abbiamo nella salute
d'Italia e nel coraggio de' suoi figliuoli. Per la seconda cosa, o
signori, egli appartiene a questo consesso di spegnere affrettatamente
le nuove faville di quell'egoismo antico e funesto che à cento volte
procurato la ruina della patria, ed è insieme una colpa enormissima e
un troppo visibile errore. Quell'egoismo, intendo, che fa credere per
passione alle varie provincie d'Italia, e per empietà le fa sperare
di salvarsi ciascuna da sè, e nel naufragio comune trovare per sè
sola un porto e un asilo. O tutti salvi o tutti perduti; ecco il vero,
colleghi onorandi: e il conformarvi i pensieri e le opere non solamente
è giustizia e dovere, ma è riconoscere altresì un assioma patente ed
irrepugnabile. Egli s'appartiene, per tanto, a noi di svellere con
prestezza i germi di cotale egoismo, che pullulano di già e ribarbano
in diverse contrade d'Italia; e nel tempo medesimo, spetta a noi di
persuadere agli spiriti apprensivi ed irresoluti, ch'ei non v'à cagione
niuna di disperare, ma solo di crescere e centuplicar l'energia, il
coraggio e l'annegazione. Sopratutto a noi s'appartiene, o colleghi,
di dare impulso veemente e dar direzione e coordinazione (quanto in
sì fatte cose è possibile) alla sollevazione dei popoli, che qua e là
serpendo e avvampando e come vasto incendio allargandosi, supplirà con
miglior fortuna alle arti non sempre felici della strategia, e alla
sola guerra dei battaglioni.

Sì, replico io, al Parlamento romano compete di buon diritto
l'ingerirsi e intromettersi nei comuni negozj di tutte l'altre
provincie d'Italia; perchè certamente il popol romano quello si fu che
nella presente italica guerra mostrò maggiore disinteresse, adesione
più intera, intenzioni più pure e sante e immutabili a rispetto del
bene de' suoi fratelli. Per fermo, quando voi vedeste scorrere in
copia a Vicenza e a Treviso il sangue de' vostri, pensaste forse
di chiedere in ricompensa vantaggio e profitto alcuno o d'oro o di
terreno o d'autorità? No certo; e quando testè s'ingrandivano i Reali
di Savoja ed insignorivansi con mirabile facilità dei Ducati, della
Lombardia e del Veneto; avete voi non dirò pensato ma dentro l'animo
concepito un'ombra sola di sospetto e di gelosia? Nessuna. Ditemi
ancora: quando per opera e zelo del vostro governo procacciavate di
stringere un forte patto di lega tra i Principi della Penisola, avete
voi comandato ad esso governo di fare alcuna riserbazione o clausola in
vostro favore, e di tener pratica per qualche specie di utilità e di
guadagno a queste provincie? No, giammai. Un sol compenso, e una sola
mercede voi domandaste, a un sol patto vi atteneste con gran fermezza;
vedere libera e indipendente l'Italia. Voi siete, adunque, degnissimi
di assumere e reggere il primato morale sulle varie contrade italiane.
Di ciò fare io vi chiedo con somma istanza; di ciò vi prego e supplico
ardentemente e con lacrime: ciò v'è obbligo e necessità d'intraprendere
per la salvezza comune.

E perchè, o signori, le mie parole non tornino in vano suono,
e i vostri nobili desiderj non giacciano senz'alcun principio
d'effettuazione, io piglio arbitrio di sottomettere alla sentenza del
Parlamento le due seguenti proposizioni:

1º Che il Consiglio de' Deputati elegga per iscrutinio dieci de' suoi,
i quali in termine di tre giorni gli riferiscano e lo ragguaglino su
tutto ciò che si possa indicare, trovare e proporre così al Ministero,
come ai Consigli deliberanti, per ajutare in modo efficace e immediato
la generale resistenza agli Austriaci e la salvezza di tutta l'Italia.

2º Che il Ministero sia pregato a scrivere di presente a tutti i
Governi italiani, invitandoli ed esortandoli, udito ciascuno i suoi
Parlamenti, a spedir subito in Roma loro deputati per discutere e
deliberare in comune, e sotto l'alto patrocinio di Pio IX, intorno al
modo migliore di difendere l'Italia ed accertarne l'indipendenza.[25]


ESORTAZIONE AI ROMANI.

I fratelli vostri di Bologna eroicamente combattono, e voi non movete
a soccorrerli? Dunque sosterrete ch'ei, soprafatti alfine dal numero,
scemati per le morti, le ferite e gli stenti, e sopratutto scorati dal
non vedere prossimi ajuti, soccombano all'armi e al furore de' barbari,
e sia l'antica, la dotta Bologna sforzata e manomessa dal ferro e dal
fuoco? imperocchè il dado è tratto; o la vittoria, o lo sterminio;
questa e non altra è la scelta.

Romani! a voi che sortiste il nome più grande e glorioso del mondo, a
voi darà il cuore di assistere a ciò riposati ed inerti come a curioso
spettacolo? Sorgete tutti, per Dio! armatevi a popolo, accorrete alle
insegne, moltiplicate le file; e scoppi e avvampi di nuovo ne' petti
vostri quel divino entusiasmo che di là dalle pontificie frontiere vi
sospingeva, or fa pochi mesi.

Siamo prudenti almeno e solleciti di noi stessi, se non giusti nè
pietosi inverso i fratelli. Alla Causa Italiana, ben lo scorgete,
tramischiasi al presente la nostra particolare; e dentro Bologna
si disputa ora la integrità e salvezza degli stati della Chiesa, la
tutela delle leggi, la guardia della libertà, la vita degli ordini
nuovi, la dignità, la pienezza, la inviolabilità del Pontificato.
Quindi il Principe stesso vi comanda e prega di pigliar l'arme
per la santa difesa, nè scende oggi lenta e dubiosa sulle vostre
spade la benedizione di Pio. Sorgete, marciate. Dietro il romano
vessillo seguiranno a frotte i popoli delle provincie, e lo Stato si
cambierà rapidissimo in un campo di valorosi; e a voi combattenti
nell'antiguardo toccherà la gloria invidiata e bella nei secoli,
di avere per ogni parte d'Italia risuscitato l'incendio sacro ed
inestinguibile della nazionale sollevazione.

Sì, Cittadini, alle arti compassate della strategia e alla sola guerra
de' battaglioni, ecco succede e s'alterna la guerra disperata dei
popoli, e quella lotta incessante ed universale d'ogni città, d'ogni
villa, d'ogni casolare, che à salvata a' dì nostri la Grecia e la
Spagna, e salvò l'Elvezia e l'Olanda. Romani, all'armi. Tutta l'Europa
vi guarda!

                                           (Dall'_Epoca_, 12 agosto.)


AI SIGNORI DIRETTORI DELL'_EPOCA_.

Ricordevole della calda affezione e della stima particolare e costante
onde vi piace di onorarmi, io vi chiedo di far luogo nel pregiatissimo
vostro foglio alla infrascritta dichiarazione, a dettar la quale sono
mosso dalla stretta necessità di difendere l'onor mio; e chiedo insieme
a voi ed a' vostri lettori infinite scuse dell'intrattenervi per alcun
poco della mia inutile persona in giorni così gravosi e minaccevoli per
l'Italia.

Molti o ingannati o maligni vanno spargendo da più tempo, che
nell'intimo del cuor mio sta l'intenzione deliberata di rovesciare i
presenti ordini dello Stato, e giungere alla fondazione d'un Governo
provvisorio; a tale occulto ed ultimo fine rivolgere io le cure e i
maneggi, ed alla preparazione sua essermi giovato per ogni guisa del
Ministero che da me pigliò il nome. A voci così bugiarde e ingiuriose
io non poneva, secondo mia costumanza, nessuna mente. Ma ora mi
vien riferito da gente proba e autorevole, ch'esse suonano eziandio
all'orecchio d'un personaggio, inverso del quale debbemi stringere,
oltre a molti altri nodi, quello soave e perpetuo della gratitudine.

Impertanto, a me corre obbligo di formalmente dichiarare, siccome fo,
che a quelle voci manca ogni sostegno di verità, e mai non sono state
le mie intenzioni quali si fingono dai tristi o si credono dai corrivi,
e che tutto è falso e calunnioso ciò che intorno al proposito si va
divulgando.

A due fatti poi si accenna più specialmente da' miei detrattori ed
accusatori, siccome a prove e testimonianze delle affermazioni loro; e
nemmanco di tali due fatti moverei qui o altrove alcuna parola, quando
non fossero raccontati nelle anticamere del Quirinale, ed ancora in
più secreti ed alti colloquj. Il primo si è d'avere io questi giorni
passati concluso un discorso alla Camera con questa frase per appunto:
_proporrò ad un estremo male un qualche estremo rimedio_. Sopra che,
affine di dissipare ogni sinistra interpretazione, bastimi di asserire
con pienissima lealtà e fermezza, che i rimedj estremi a' quali pensavo
non erano nè un Governo provvisorio nè altra cosa somigliante.

Convertonsi da taluni in secondo capo di accusa le parole che io dissi,
e i partiti che io proposi nell'adunanza privata la qual si tenne in
Monte Citorio la sera del primo agosto.

Ora, come in quell'adunanza si annoverarono non meno di trenta
deputati, e ch'ogni varietà d'opinione e di sentimenti ebbevi
rappresentanti ed interpreti, ciò ch'io vi discorsi e proposi mai non
si potrebbe nè nascondere nè alterare; quindi alla comune testimonianza
di que' deputati mi rimetto compiutamente. Di Governo provvisorio
nessuno fece motto, nessuno fiatò; e quelle proposizioni che io metteva
innanzi molto risolute e gagliarde come i casi portavano, tanto erano
legali e accettabili, che vennero il dì poi con leggier differenza
approvate e accettate da entrambi i Consigli deliberanti.

Scrissi, è già oltre a un anno, al Segretario di Stato Cardinal Gizzi
e promisigli sull'onor mio, tornando nello Stato Romano, di astenermi
da qualchessia modo violento di mutazione, e che avrei con sincerità ed
esattezza obbedito alle leggi correnti. Quel che promisi ho attenuto e
non cesserò di attenere, sì per debito di onestà e sì per utile della
patria comune, a cui nuovi sommovimenti e scompigli farebbero danno e
ruina.

Se in Roma si tenne proposito di Governo provvisorio, e nacque
rischio fondato di vederlo costituito, fu certo ne' primi di maggio
del vertente anno; e non si ignora, credo, da alcuno chi fosse colui
il quale contribuì con maggior efficacia e prontezza a rimovere ed a
cessar quel pericolo.

                                                    TERENZIO MAMIANI.

  Di Roma, li 22 di agosto del 1848.


_L'Autore venuto in Piemonte a partecipare agli atti della Società per
la_ CONFEDERAZIONE ITALIANA, _ebbe carico di dettare le due seguenti
scritture_.

RAPPORTO IN NOME DEI COMMISSARJ DEPUTATI A SCEGLIERE E COMPILARE LE
MASSIME DI UN PATTO FEDERATIVO.

  Signori.

Allorquando molti Italiani convennero da diversi Stati della Penisola
al presente Congresso per tenere l'invito che lor ne fu fatto, e dare
un qualche principio alla grande opera della Confederazione; venne per
prima cosa al giudizio ed esame dei congregati sottoposto un disegno
di Patto federativo; e pochi giorni di poi, un disegno di legge
per l'elezione di un'Assemblea, la quale assumer dovesse il mandato
speciale ed unico di compilare e sanzionare quel Patto.

Il Congresso posesi tostamente ad esaminare con zelo e diligenza il
primo dei due disegni, rendendo grazie particolari e publiche agli
autori di esso. Ma la intrinseca malagevolezza della materia aggiunta
alla sua novità, e, d'altro lato, il desiderio che molti sentivano di
produrre cosa piana, semplice e non impossibile a venire accettata e
presto condotta in atto, fecero che le discussioni, mosse non pure
da diversi pareri, ma da contrarie tendenze, procedessero lente,
sconnesse e oltremodo implicate. Perlocchè, considerandosi da una
parte la lunghezza di quel disegno e il breve durare del Congresso,
e considerandosi dall'altra che mal si poteva sperare che fossero dai
governi e da qualunque Assemblea costitutrice del Patto accolte quelle
distinzioni e dichiarazioni così particolareggiate e minute, accadde
che la vostra adunanza, dopo aver controversi e ammendati il proemio
e i due primi articoli, impose ad una Commissione a ciò deputata di
scegliere in tutto il disegno quei capi entro ai quali raccoglievasi
la sostanza di un Patto confederativo e la somma delle guarentigie
costituzionali; e questo, affine che non mancando tempo al Congresso di
discutere e pronunziare, ei valesse a produrre un'opera nell'essere suo
compiuta e applicabile.

Apprestatasi la commissione ad adempiere all'ufficio imposto, subito
le fu bisogno di usare la facoltà conferitale dal Congresso di mutare
cioè in parte il dettato degli articoli che doveva scegliere nel
disegno; conciossiachè conveniva esprimere la sentenza loro in modo
assai più generale; e similmente doveasi dar loro altr'ordine e altra
collegazione.

Con tali rispetti la Commissione à delineate le basi di un Patto
confederativo, e ne à definiti i principii e le massime direttrici.

Sembra alla Commissione, o signori, che in tali pochi capi racchiudasi
veramente ciò tutto che è sostanziale in un Patto confederativo. E
per fermo, se l'essenza di qualunque governo consiste nella mente e
nel braccio, o vogliamo dire in una potenza che fa la legge e in una
che l'eseguisce; voi trovate nei capi IV, VI e VII[26] la sostanza
di ciò che informa ed incardina un potere legislativo indipendente e
sovrano, e di ciò che compone le sue principali e massime pertinenze,
trattandosi di una Confederazione.

Nei capi I e V, poi, scorgete la sostanza di tutto quello che crea ed
ordina il potere esecutivo e ministrativo.

Quanto al capo X, sotto cui si registrano tutte le massime di gius
pubblico degne di venir confessate dalla Confederazione italiana, noi
volentieri abbiamo seguito pur qui la mente ordinatrice del proposto
disegno, la quale non solamente stimò di fare rassegna delle massime
pertinenti alle relazioni e corrispondenze fra Stato e Stato, ma
di quelle eziandio che fondano da per tutto e preservano la libertà
civile e politica, e perciò da ogni liberale costituzione venir debbono
professate. In tal guisa lasciandosi a ciascuno Stato ogni arbitrio
di foggiare e adattare a sè stesso la propria costituzione, ponsi
impedimento perpetuo ch'ei non conculchi giammai nè dimezzi o neghi o
dimentichi alcun sacro e imprescrittibile diritto dell'uomo.

La Commissione ha procacciato di segnare e dinumerare cotali diritti
e cotali massime di gius pubblico, secondo il concetto più compito e
migliore che far si possa oggidì delle condizioni morali e politiche
d'un popolo libero ed eminentemente civile; come nei pronunziati che
mirano specialmente alle relazioni e corrispondenze fra i varii popoli
della Confederazione, ha studiato di raccogliere il più importante e il
più pratico di ciò che risguarda i due subbietti predominanti di tutta
quella dottrina, che sono _Unione_ e _Reciprocazione_. Da ultimo, i
commessarii vostri ànno aggiunto ai nove capi prescelti e coordinati
una disposizione transitoria proposta da un vostro collega[27] e
approvata da voi nella tornata delli 22 del corrente mese, e la quale
à per fine di subito rendere profittevole alla Causa nazionale e alla
guerra santa che sosteniamo il primo adunarsi dei Deputati della gran
famiglia italiana.

S'appartiene ora al Congresso di giudicare se questo schema, a così
chiamarlo, di Patto confederativo sia degno del suo suffragio. Ma ciò
che il Congresso, discutendo la proposta di una legge elettorale, à
già risoluto, si è: 1º Che egli desidera che tale schema (esaminato
e riveduto innanzi da lui) diventi un limite e una disposizione non
alterabile, e sia materia di un mandato imperativo che i Governi
consegneranno a coloro a' quali verrà l'ufficio di terminare e sancire
il Patto confederativo: 2º Che il particolare disegno di una legge
elettorale per la Costituente italiana si conformi e si acconci con
esattezza ai principii e alle massime significate nello schema di
esso Patto. E intorno a tutto ciò la Commissione si ristringe a far
voti perchè la proposta di legge elettorale, tenuta da voi tuttora
in consulta e in esamina, non si dilunghi in nulla da tali due vostre
risoluzioni, e riesca altresì la più semplice, la più spedita e la più
accettabile che mai si possa.

Per soddisfare al presente, o signori, a quell'altro incarico dato
alla Commissione, di determinare cioè e descrivere le vie pratiche
le quali à da calcare la Società nazionale per la Confederazione
italiana, affine che il programma da lei proposto venga sollecitamente
ad effetto; sembra alla Commissione non altra cosa dover fare, se non
ricordare al Congresso ciò che nel seno della sua Sezione politica fu
discusso e deliberato.

Ei vi si ricorda pertanto, o signori, che pochi di sono, alcuno dei
vostri colleghi[28] raccomandò al Congresso di non patire che sia
disciolto innanzi di aver fermato alcuna cosa di più effettivo e
pratico che un nudo programma. E perchè è forza temere che esso pure
il programma della Società venga o dimenticato o respinto o al tutto
travisato da alcuni nostri Governi d'Italia, dato ancora che non gli
manchi l'assentimento e la lode della nazione, fa gran mestieri, diceva
quel vostro collega, di porre in consulta la infrascritta proposizione:
— Comunicato e raccomandato nei debiti modi ai Governi il nostro
programma, fatto lor sentire e conoscere la necessità di adempire il
voto comune intorno alla convocazione di una Dieta di governi e di
popoli e all'effettuazione di un Patto confederativo, trascorso non
picciol tempo senza vedere incominciamento buono dell'uno e dell'altro;
qual cosa resta da procurare e da tentare alla Società nazionale per
giungere senza tumulto e rivoluzione all'intento suo? —

Udita cotal proposta, fu da molti con alacrità disputata, e parecchi
spedienti e trovati vennero suggeriti pel conseguimento del fine.
Pareva ad alcuno che imitar si dovesse la radunanza di Haidelberga, la
quale in assai pochi giorni si trasformò in un'Assemblea costituente,
riconosciuta e obbedita per tutta Germania. Alcun altro escogitava la
convocazione di un consesso nato e formato dal suffragio universale,
tacendo però il modo di poter radunare le moltitudini e raccoglierne
ordinatamente il voto, contro il divieto dei Governi. Alcuno voleva si
facesse richiamo ai Circoli tutti politici per l'Italia disseminati,
e dal grembo loro uscissero i deputati alla dieta. In fine, l'autore
della soprascritta proposizione, avuta facoltà di parlare, e
incominciato dal ribattere ed eliminare ciascuno dei partiti sopra
accennati, definì e descrisse due modi, i quali insieme congiunti e
coordinati egli reputava molto efficaci, ed anzi, a dir vero, i soli da
potersi rinvenire ed usare secondo le vie legali e pacifiche. Il modo
primo, disse egli, essere la forza crescente dell'universale opinione;
il secondo, un richiamo gagliardamente fatto ai Parlamenti italiani,
e un'azione speciale ed assidua sopra essi esercitata. Doversi
moltiplicare la forza dell'opinione con lo spandere rapidamente e in
guisa ben regolata la Società nostra in ogni provincia, in ogni città,
e, se puossi, in ogni borgata, e col darle ajuto continuo di stampe
e pubblicazioni periodiche sotto forma di gazzette, di lettere, di
catechismi e simili scritti popolari, atti e convenienti a diffondere
e radicare in tutte le menti un solo concetto e in tutti gli animi un
sol desiderio. Doversi moltiplicare altresì quella forza coll'apporre
a memoriali diretti così ai Governi come ai Parlamenti migliaja e
migliaja di soscrizioni e più di una volta rinnovellate. La quale
opera non bastando, e proseguendo tuttora la resistenza al desiderio
comune e al diritto che lo sostiene, doversi allora por mano al secondo
modo, e sperimentare ogni via ed ogni arte perchè in un parlamento
almeno della Penisola il programma della Società nazionale trovi
pluralità di suffragi. Non sorgere appo noi fra i Governi e i popoli
altra autorità intermedia legale e dalle moltitudini riconosciuta,
salvo che i Parlamenti, i quali tutti o parte di loro od uno almeno
impossessandosi del gran fatto, e proponendo e vincendo il partito che
si richieda ai Governi italiani l'attuazione di una Dieta e d'un Patto
secondo le massime della Società, divenire certissimo che al Programma
di lei accrescerebbesi oltre misura il credito e l'efficacia, e sarebbe
consegnato a mani siffatte che possono, tentata prima ogni via legale
e conciliativa, condurlo all'atto da per sè medesime, e senza grave
e pericolosa perturbazione. Diffatto, potere quel solo Parlamento o
più d'uno con lui risolvere e decretare, che certo numero di Deputati
da lui prescelti s'adunino in tale o tale città, per quivi deliberare
intorno al Patto confederativo. E del resto, parere impossibile che una
determinazione così ardita e notabile, e un esempio così generoso come
quello sarebbe, non traesse dietro di sè, prima gli altri Parlamenti,
poscia i Governi più illuminati, in ultimo tutta la Nazione. Tale fu
il parere allora significato da quel vostro oratore, al quale aderì
pienamente il maggior numero degli astanti.

La Commissione vostra facendovene ora esatta e particolareggiata
menzione, siccome n'ebbe l'incarico, si piace d'aggiungere ch'ella
pure si accosta con piena fiducia al parere del vostro collega. E
però vi propone, dando subito un qualche cominciamento all'impresa,
d'inviare il nostro programma così a ciascun Governo, come a ciascun
Parlamento italiano, accompagnandolo con parole validate da tutte
le vostre sottoscrizioni, e proprie ed acconce a far bene intendere
quale sia il concetto, quale il desiderio che vi conduce; e come la
necessità estrema dei tempi vi astringe a pregare ed insiememente
esortare con istanze caldissime perchè l'opera loro s'affretti, e
non vogliano tanta parte della salute d'Italia o negligere o trattare
con tepidezza, o permettere che i demagoghi tumultuando la guastino
e la snaturino, e sia cagione di discordia e di sangue ciò che
dovrebb'essere di fratellanza e di pace. A cotesto primo atto della
Società e del Congresso, la Commissione spera e desidera che conseguiti
altra maggiore dimostrazione del nostro voto comune. Egli occorre,
come notammo qui sopra, che ogni città, e, se è cosa fattibile, ogni
borgata e villaggio possieda fra breve una Giunta della vasta e sempre
crescente Associazione nazionale, e che per opera di tali Giunte
vengasi prestamente ad apporre infinite sottoscrizioni al nostro
programma; il quale così fregiato e rinvigorato della spontanea ed
universale adesione dei popoli, tornerà ai Governi ed ai Parlamenti con
acquisto immenso di morale forza ed autorità.

In risguardo poi dell'azione speciale e incessante che esercitar
conviensi sui Parlamenti per condurne alcuno a favoreggiare il
programma e disporsi ad effettuarlo; in ogni Giunta della Società
nazionale se ne terrà particolare consiglio, e si vorrà profittare
d'ogni circostanza, spiare qualunque occasione, usare d'ogni mezzo
legale e d'ogni arte onesta e non vile, che la prudenza, l'ingegno, lo
zelo, l'attività e la perseveranza forniscono e insegnano; ed a tutte
queste parziali e locali industrie e provvedimenti darà poi direzione
e collegazione continua quella gerarchia che di necessità costituir fa
bisogno in seno di una società vastissima e numerosissima.

Se poi (il che tolga Dio) ai partiti che vi sono proposti, o signori,
non seguisse verun effetto notabile, rimarrebbe allora a ciascheduno di
noi il dovere di ristringersi colla propria coscienza, e deliberare e
risolvere qual sia l'officio del buon cittadino, quando ogni via legale
si chiude, ogni espettazione è frustrata, ogni longanimità è senza
frutto.


PROGETTO DI UNO SCHEMA D'ATTO FEDERALE, REDATTO DAL CONGRESSO NAZIONALE
PER LA CONFEDERAZIONE ITALIANA, RADUNATASI IN TORINO IL 10 OTTOBRE
1848.[29]

Allo scopo di creare unità nella vita politica dell'Italia, di
stabilire e difendere l'indipendenza, di conservare la pace interna,
di tutelare ed ampliare le libertà politiche e le utili istituzioni
civili, e di promuovere l'agricoltura, l'industria ed il commercio, il
Regno dell'Alta Italia, il Gran Ducato di Toscana, lo Stato Pontificio,
il Regno di Napoli, il Regno di Sicilia, si riuniscono a costituire la
CONFEDERAZIONE ITALIANA.

I patti e le norme di tale unione hanno per base i principj e le
massime che qui seguono:

§ I. La Confederazione ha un esercito, una flotta da guerra, un tesoro
ed una rappresentanza diplomatica all'estero.

§ II. La bandiera federale è la tricolore italiana.

§ III. La Confederazione è rappresentata da un'autorità centrale,
composta d'un Congresso legislativo e d'un Potere esecutivo permanente.

§ IV. Il Congresso legislativo è composto di due Camere; nell'una
ogni Stato è ugualmente rappresentato; nell'altra la rappresentanza è
proporzionale alla popolazione.

Le due Camere saranno elettive. L'elezione della prima apparterrà ai
poteri costituiti di ciascuno Stato. Quella della seconda, ai popoli.
A tal uopo l'Assemblea Costituente promulgherà una legge elettorale
comune.

§ V. Il Potere esecutivo è composto di un Presidente responsale, con un
Consiglio di Ministri similmente responsali. Il Presidente è nominato,
a tempo, dal Congresso legislativo. I Ministri sono nominati dal
Presidente.

§ VI. Appartiene al Congresso di proporre e deliberare sopra ogni
materia d'interesse generale della Confederazione.

§ VII. S'appartiene pure al Congresso d'intervenire:

1. Nei casi di collisione fra uno Stato confederato e l'estero;

2. Nei casi di grave contesa fra Stato e Stato della Confederazione;

3. Nei casi di perturbamento nell'interno d'uno Stato, qualora ad
impedire la guerra civile riescano insufficienti i poteri quivi
costituiti;

4. Nei casi di violazione del Patto federale.

§ VIII. Non esisteranno dogane fra Stato e Stato. Il sistema comune
doganale rispetto all'estero sarà fondato su principj di libero
commercio, salvi gli opportuni temperamenti transitorj.

§ IX. Una legge provvederà all'istituzione d'un supremo tribunale
federativo per giudicare:

1. Le controversie di diritto fra Stato e Stato;

2. Le controversie fra i singoli Stati e il Governo centrale federale.

§ X. La Confederazione riconosce come massime di gius-pubblico in tutti
i suoi territorj:

1. Libertà di stampa;

2. Libertà individuale;

3. Massime guarentigie giudiciali: non giurisdizioni nè procedure
eccezionali;

4. Libere istituzioni municipali;

5. Diritto di petizione individuale e collettivo;

6. Diritto di associazione;

7. Uguaglianza civile politica, non impedita da differenza di religione;

8. Libertà politica guarentita dalle forme rappresentative e dalle armi
cittadine;

9. Responsalità ministeriale;

10. Svincolameto della proprietà fondiaria;

11. Promozione dell'educazione e beneficenza popolare;

12. Agevolamento della reciprocanza dei diritti politici;

13. Ammissibilità di ogni cittadino della Confederazione italiana a
tutti gli uffici di qualunque Stato della medesima;

14. Promozione dell'uniformità in quelle istituzioni che importano
relazione di diritto civile fra i cittadini de' varj Stati;

15. Abolizione della pena di morte in materia politica.

_Disposizione transitoria._

L'Assemblea Costituente, innanzi di procedere alla discussione e
compilazione del Patto, proclamerà solennemente l'esistenza della
Confederazione italiana, e l'accettazione dei principj e delle
norme qui sopra descritte. E oltre a ciò, proporrà e delibererà sui
provvedimenti comuni richiesti dall'urgenza dei casi e dalla necessità
della guerra italica.

  _Presidenti._ MAMIANI TERENZIO. — GIOBERTI VINCENZO. ROMEO GIOVANNI
          ANDREA.

  _Vice-Presid._ PEREZ FRANCESCO. — BONAPARTE DON CARLO. LEOPARDI
          PIETRO.

  _Segretarj Gener._ FRESCHI FRANCESCO. — BORSANI GIUSEPPE. BRIGNONE
          GIOVANNI EDOARDO.


AL RE CARLO ALBERTO

il Congresso della Società Nazionale per la Confederazione Italiana.

  Sire

La Provvidenza per nuove ed arcane vie affretta e matura la salvezza
d'Italia. Un popolo forte e animoso combatte sul Danubio quel nemico
medesimo che noi sul Po e sull'Adige abbiam combattuto. Ecco nelle
mani di Jellacich rompesi quella spada che dovea solo ringuainarsi
dopo avere le membra del guasto impero tornate alla soggezione degli
oligarchi. Ma questi non meno abborriti in casa che fuori, affogan di
nuovo nel proprio sangue, e Vienna è testimonia d'una seconda e più
terribile vittoria del popolo. Oltre di che, per confusione profonda
dei Barbari, e consolazione non pure nostra ma di tutte le genti e
dell'umana giustizia, egli piacque lassù che cagione, principio e
sostenimento del notabile fatto fosse una schiera di quegl'Italiani
sfortunatissimi che l'Austria a colpi di verghe costrigne a
guerreggiare la patria e puntellare la sua tirannide. Ma la voce dei
lontani fratelli penetrò nel cuor loro, e sentirono e riconobbero che
il servaggio Ungherese saria primo anello alle dure catene d'Italia.

In tal guisa, o Principe, la Provvidenza ripara con patenti prodigi
gran parte dei danni che il peccato non vostro ma della sola fortuna
rovesciò sopra alle armi italiane, e che il vostro petto magnanimo
con fermo e sereno coraggio sostenne. Noi sappiamo, o Sire, che ferve
nell'animo vostro un'impazienza eroica di prontamente giovarvi delle
prospere congiunture, e voi solo (sia lode al vero) o pochi altri con
voi non avete guari dubitato delle sorti d'Italia: sicchè, aspettando
tuttora dal congresso di Brusselle patti e proferte di pace, mai non
avete tolta la mano d'in sull'elsa della spada, e mai non vi esce
della memoria l'impavido precessor vostro Emanuele Filiberto; il quale
assalito e spinto fuor dello stato, e perduta ogni sua provincia,
non disperò, ma riebbesi animoso, e vinse e ricuperòlle. A voi,
pertanto, debbe accrescere se non valore ed intrepidezza, conforto
almeno e compiacimento lo scorgere a chiari segni, come non solamente
ne' popoli vostri ma in tutti gli altri della Penisola sorge ora la
stessa impazienza di ripigliare le armi, e romper col ferro i nodi e i
viluppi dell'astuta diplomazia. Il Congresso della Società Nazionale
per la Confederazione Italiana, che parla a voi rispettosamente per
la nostra bocca, ve ne rende ampia e sicura testimonianza; imperocchè,
componendosi esso di cittadini qui accorsi e adunati da ogni provincia
del Bel Paese, fanno credenza interissima del volere e sentire di
quelle. Di giorno in giorno, anzi, a dir più vero, d'ora in ora aumenta
e moltiplica il desiderio e la brama ansiosa d'un nuovo conflitto;
e una profonda voce dell'anima fa a tutti pensare e conoscere, che
l'oscitanza e gl'indugi tanto sono funesti alla Causa nostra, quanto
giovano quella degli avversarj. Lode a Dio, o Principe, comincia
ad avvampare nei petti italiani una generosa vergogna di aver preso
sgomento grave d'un subitaneo disastro, quale arrecano per ordinario
le guerre ostinate e non brevi. Eglino, già ricreduti delle troppo
vive speranze riposte in altrui, tornano con magnanima risoluzione
ad aver fede unicamente in sè stessi. Tal fede, o Sire, riuscirà
cotanto più salda e incrollabile, quanto, non di mobil fortuna, ma
sarà figliuola di costanza e virtù; e quanto sono moltiplicate le
ingiurie e le ferocie dei Barbari; quanto lo sdegno trabocca ora più
veemente e legittimo; quanto l'onore delle armi, la gloria del nome
italiano, il sangue dei fratelli non vendicato, il frutto di amarissimi
sacrifici non ancora raccolto, la necessità stessa dei mali presenti e
la certezza ed enormità dei futuri, ci costringono oggimai a combattere
con salutare e invincibile disperazione. Il Congresso della Società
Nazionale offre e promette alla Maestà Vostra di concorrere alla
santa impresa con tutti que' mezzi che le facoltà proprie non solo, ma
l'ardore, l'efficacia, lo sforzo e l'ostinazione d'uno zelo operoso
e incolpevole sono capaci di porre in atto. La stella che la Maestà
Vostra aspettava tiene il mezzo del cielo: trenta secoli di civiltà le
hanno preparato il cammino.



Qui, per l'ordine del tempo, intramettiamo l'opuscolo che venne in
luce il 49 in Roma, e fu nell'anno medesimo ristampato dai fratelli
Pagano in Genova, con Appendice e Documenti, e con una prefazioncella
di mano dell'Autore. In questa nuova pubblicazione v'à di giunta alcun
documento e parecchie note.



                    DUE LETTERE DI TERENZIO MAMIANI,

                                 L'UNA
                           A' SUOI ELETTORI,

                                L'ALTRA
                        ALLA SANTITÀ DI PIO IX.


Le nuove accuse e persecuzioni dalle quali viene infestato e
oltraggiato l'Autore di queste lettere, lo persuadono a ristamparle,
e a meglio chiarirne il concetto con qualche nota e documento. E ciò,
non perchè gli atti di sua corta vita politica valgano l'attenzione e
considerazione del secolo, pienissimo di cose grandi; ma solo perchè
coloro a cui giungesse voce di lui, de' suoi scritti e dell'altre opere
sue, non disconoscano le intenzioni rette ed i fini egregi a cui sempre
à mirato con integrità di mente e di animo. Egli non si dorrà mai di
vivere oscuro, come comporta la sua mediocrità e insufficienza; ma non
vuol tollerare che altri procacci di ucciderne per tempo il nome con la
calunnia. Nè debb'esser lecito a coloro i quali ingrassano oggi delle
sventure della Nazione, il mentire con impudenza, solo perchè spogliano
l'avversario d'ogni facoltà di rispondere, e gli appuntano alla gola
le bajonette forestiere. Lecito non debb'esser loro di accusare gli
onesti senza giusto richiamo d'alcuno, e senza trovare chi li sbugiardi
solennemente, e li disusi dal vezzo che van pigliando di attribuire
il titolo di agitatori insidiosi dell'ordine[30] a gente la quale ogni
cosa à procurato e tentato appunto per ricomporre l'ordine, far cessare
le differenze, scansare gli eccessi. Il che a nessuno è più manifesto
che ad essi medesimi detrattori, i quali nelle ultime rivolture
d'Italia e di Roma, caduti in odio all'universale e però venuti in
paura estrema di raccogliere alfine il merito loro, mai non finivano
di ringraziare e lodare di moderazione, giustizia, bontà, modestia e
ogni bene l'Autore di queste lettere. Del rimanente, egli stima che
non dovrà correre moltissimo tempo perchè si veda chiaro ed aperto da
qual sorta di cittadini si commetta opera veramente perturbatrice e
sovvertitrice dello Stato: se da quella, cioè, che trascina oggi Pio IX
sulle fallaci orme del suo predecessore; ovvero da quella che a mani
giunte il pregava di compiere la ben cominciata impresa, separando al
possibile le due potestà, e non avversando negl'Italiani il legittimo
desiderio di costituirsi in pieno e sicuro essere di Nazione.


TERENZIO MAMIANI A' SUOI ELETTORI.

Le Camere sono dal presente Ministero state prorogate, o, a dir più
giusto, disciolte; dappoichè invece loro vien convocata un'Assemblea
generale, a cui si commette il pieno riordinamento delle pubbliche
cose.[31] A me corre pertanto l'obbligazione, o concittadini elettori,
di dichiararvi, almeno in compendio, come abbia io sostenuto il
nobile ufficio che mi affidaste, eseguito il geloso vostro mandato,
raccolte e interpretate le vostre opinioni, difese in ogni frangente
le prerogative e i diritti che vi appartengono Ma innanzi ogni cosa,
perchè a voi sia fattibile il giudicare equamente dei consigli e delle
opere mie, pregovi di ricordare, che queste provincie romane vivono in
condizione civile e politica affatto speciale e straordinaria, e si
differenziano perciò da tutte le altre del mondo. A noi popoli dello
Stato Ecclesiastico, il conseguire od il conservare quegli istituti
liberali di cui l'Europa e le Americhe godono oggimai con saldo
possesso, è impresa non pure assai malagevole e travagliosa, ma non
mai compita e non mai sicura dell'avvenire. Ciò accade principalmente
perchè altrove, presupposta la generalità e maturità di certe opinioni,
le libertà pubbliche sono conquistate e fermate per sempre, mediante
la mutazione d'alcuni fatti, e abbattendo l'armi prezzolate e l'altre
materiali difese che il dispotismo si tiene intorno. Ma contro di noi,
sta tutto intero un sistema antichissimo di dottrine e d'interessi,
il quale si vuol far parere da molti una seconda religione, ed un
tessuto mirabile non di pensieri e credenze assai controverse, ma
di dogmi assoluti e intangibili. E, per esempio, è dogma assoluto ed
irrepugnabile per cotestoro, che la sovranità temporale dei Papi abbia
origine miracolosa, e proceda dai più alti e profondi decreti della
Provvidenza, la qual vuole con essa difendere e tutelare la Chiesa,
e accrescerle autorità e splendore. Perciò, in quel mentre che in
qualunque contrada civile cessa ai dì nostri di venir confessato e
creduto il diritto divino dei principi, la potestà temporale dei Papi
ne rimane necessariamente e perpetuamente investita. Perciò pure,
ogni libertà e franchigia costituzionale che godano o sien per godere
i popoli dello Stato Romano, non muove da alcun diritto naturale in
essi riconosciuto, ma è dono e largimento spontaneo e revocabile del
principe, il quale in sostanza permane mai sempre arbitro supremo e
signore assoluto del tutto. Un altro dogma da cotestoro professato si
è, che alla sovranità temporale dei Papi conviene una ragione di stato
ed una politica diversissima da quella di ogni altro monarca. Nel vero,
i Papi, ricordevoli delle prove guerresche riuscite loro quasi sempre
infelicemente, non muovono l'armi al dì d'oggi contro a nessuno, non
si stringono in leghe, non entrano a parte di alcuna impresa generosa
o di terra o di mare, e serban sè stessi in una perpetua neutralità
ed immobilità; laonde avviene che gli Stati della Chiesa si separano
affatto dalla sorte degli altri regni e non appartengono propriamente
ad alcuna nazione, ma tutte le genti invece si debbono accordare a
rispettarli e a difenderli; e dove non succeda l'accordo, essi vanno
in fascio senza rimedio; e dove succeda, rimangono alla discrezione di
chi li ajuta. E però, conviensi porre gran cura che vicino a loro non
sorga alcun potentato così poderoso ed armigero da tenerli in sospetto
e timore continuo di dipendenza; considerato che alle loro popolazioni
tocca di rimanere perpetuamente inermi ed imbelli, e le provincie sono
aperte ed apparecchiate ad ogni invasione. Forse l'Italia spartita in
più regni e incapace di farsi nazione giova all'indipendenza degli
Stati Ecclesiastici; come lor giova assaissimo che i principi più
formidabili sieno disposti a proteggerli, in contraccambio del gran
sostegno che l'autorità regia e assoluta riceve ora dal papato. Del
rimanente, sentenzian costoro, il dominio temporale dei Papi à da
natura e per debito d'informarsi tutto quanto della potestà spirituale,
ed intendere in ogni cosa a favorire e servire la Chiesa, ed essere
il suo braccio e il suo scudo. Perlochè quei fatti e quelle opinioni
che la Chiesa censura e altrove non può colla forza impedire, ben
li dee impedire con la forza nel proprio Stato; e similmente, quei
precetti spirituali che altrove legano e stringono le sole coscienze,
la Chiesa nel proprio Stato fa ubbidire e osservare con tutti i
mezzi prepotenti di cui il principe si vale e dispone. Laonde v'à
certe libertà sostanziali e che dell'altre son fondamento, come,
exempligrazia, quella dello stampare e del divulgare, e quella del non
soffrire costringimento nella scelta nè nella professione del culto,
ambedue le quali in Roma non possono entrare; ed anzi vi sono dannate
ed abbominate, e l'encicliche pontificie ne scrivono ogni maggior
male e chiamanle _detestande_. Del pari, di quelle altre franchigie
civili e politiche, e di quelle istituzioni popolaresche che dovunque
ora vanno sorgendo e convalidandosi, una porzione molto scarsa e in
rigido modo temperata ed attenuata può accettarsi da Roma; alla quale
veramente, per la libertà pienissima della Chiesa, occorre una libertà
pienissima di comando. In fine, per questa ragione medesima della lega
e contemperanza dello spirituale col temporale, ogni moto politico
il quale intendesse a mutare le forme ministrative e a sottoporre il
principato a leggi e ordini ristrettivi, à negli Stati della Chiesa
nome e valore di sacrilegio, e sacrileghi ne sono tutti gli autori, e
sul capo loro balenano minacciose le folgori del Vaticano.

Tale è il sistema e tali gli adagi e le massime che sino a jer l'altro
(può dirsi) ànno governato la sovranità temporale dei Papi; la quale,
segnatamente negli ultimi tempi, quanto più scorgeva sè stessa debole
e minima a rispetto dei gran potentati, e sentivasi combattuta e scossa
nell'interno suo seno da incessanti macchinazioni e congiure, tanto più
si opponeva con ira profonda allo spirito di libertà, ed all'apparenza
perfino delle liberali istituzioni.

Ora, i popoli sempre facili a sperar bene e il passato dimenticare,
credettero (voi vel ricordale, o concittadini) che tutto ciò dovesse
mutarsi all'assunzione di Pio IX. E certo egli accadeva così, dove
avesser potuto bastare all'impresa la bontà specchiata, le intenzioni
purissime, la infinita soavità e mitezza di quella bell'anima; e
d'altra parte, fosse stato presente agli spiriti più caldi e animosi,
come non si spianta in un giorno solo quello che i secoli ànno
radicato, e come l'impeto e la violenza non ajutano a consumare le cose
le quali si reggono nella fede.

Ma lasciando ciò stare, certissimo è, che i nuovi e risoluti pensieri
dei nostri popoli doveano presto venire in lite con quel sistema di
cui ho discorso, e i cui settatori nè per le mutazioni sopravvenute
in tutta Europa, nè per le riforme di già compite, nè per lo Statuto
medesimo promulgato, erano tanto o quanto disposti a modificare le lor
viete dottrine, e sopprimere una sola di loro ambigue giurisdizioni.
Voi ben sapete che il primo patente conflitto scoppiò al pubblicarsi
dell'allocuzione pontificale del 29 di Aprile, in cui venia riprovata
e interdetta la guerra vivissima che le truppe nostre e il fiore de'
nostri giovani, mescolati con Subalpini e Toscani, combattevano di là
dal Po contro gli stranieri, a fine di riscattare l'Italia e in essere
di nazione rivendicarla. I Romani, che tra le file de' Volontarii
annoveravano chi il figliuolo, chi il padre, ognuno un parente o un
amico, fieramente se ne sdegnarono. La città turbata e sconvolta diè
di piglio alle armi, s'impossessò del Castello, mise guardie a tutte
le porte, ad ogni crocicchio; proruppe in minacce di morte contro ai
prelati che s'imputavano di avere mal consigliato il Pontefice, e sulle
piazze e per tutto parlavasi aperto di dare al governo altra forma e
altro capo.

Allora fu, come vi è noto, che la Santità Sua si degnò di chiamarmi,
e dopo seguito un lungo colloquio in presenza dei cardinali Altieri e
Antonelli, mi diè quella il carico di comporre un Ministero tutto di
laici, e dal quale fossero per concessione nuova trattati eziandio gli
affari esterni secolari. Io, quantunque conoscessi assai nettamente
che il conflitto era per rinnovarsi infinite altre volte, e nessuna
vittoria formale essersi guadagnata sulle pretensioni e le massime del
sistema sopradescritto; pure, volendo la fortuna che il nome mio avesse
in quei giorni arbitrio di racquetare la città e ricomporre l'ordine
pubblico, e considerando la gran ruina che cagionava l'abbandonarsi
affatto da noi Romani la guerra dell'Indipendenza, accettai la datami
commissione; e mercè della cortesia ed annegazione degli onorevoli
miei colleghi, venne il dì dopo costituito il nuovo governo, e la
città e le provincie quasi per incantesimo ricondotte all'usuale
tranquillità. Fu in sulle prime nostra gran cura, non potendo mettere
in atto se non la minima parte delle riforme ed innovazioni che i tempi
chiedevano, di significare almeno e dichiarare in faccia all'Italia
ed al mondo cattolico, qual modo noi credevamo più razionale insieme
e più pratico per conciliare le differenze, mettere in buon accordo
lo spirito dell'autorità assoluta e quello della libertà, convertire
tutte le forze dello Stato al fine massimo e santo dell'Indipendenza
nazionale, e cavare dalle condizioni speciali di Roma e della civiltà
sua un principio eterno ed universale d'inconcussa moralità e di vero
sociale perfezionamento: conciossiachè io scorgeva assai manifesto, che
alle tante ed inopinate rivolture d'Europa mancava la fede profonda nel
bene e nella giustizia, il concetto chiaro degli uffici e delle virtù
cittadine, e il sentimento vivo, operoso ed assiduo del dovere.

Le quali tutte cose noi pronunziammo in uno scritto che, il 9 giugno
del 1848, aprendosi per la prima volta i Consigli deliberanti,
leggemmo pubblicamente dalla tribuna, e fu domandato il programma del
Ministero. In esso proposesi quella sola ed unica forma di concordia
e armonia sincera e durevole fra la libertà e il papato, la qual
consisteva principalmente a distinguere e separare al possibile nella
persona medesima il regno spirituale dal temporale; e che il primo si
esercitasse dal Pontefice immediatamente con ogni pienezza di autorità,
l'altro fosse delegato in massima parte e lasciato all'arbitrio delle
due Camere, e dell'opinione più generale e più savia. Il perchè, «se
il governo rappresentativo (diceva il Programma) non esistesse in niun
luogo, inventar dovrebbesi per queste Romane Provincie.» Dalla quale
separazione leale e profonda sarebbersi in ultimo originati quei due
gran beni che il mondo moderno desidera e spera di effettuare; cioè a
dire, che la religione s'adusi a vivere in mezzo alla libertà, e che
questa si purghi, s'infiammi e nobiliti nella religione. In tal guisa
poteva da Roma procedere un influsso nuovo e universale di civiltà,
e noi Italiani ripigliare qualche insigne porzione della preminenza
antica. Essendochè «non sempre (affermava quel nostro scritto) la
grandezza dei popoli è da misurare dall'ampiezza del territorio e dalla
potenza delle armi. Imperocchè ogni vera e salda grandezza scaturisce
dall'intelletto e dall'animo. Epperò, in questa nè molto ampia nè
formidabile provincia italiana, noi tuttavolta siamo chiamati a
grandissime cose.(A)[32]

Ma tutto ciò non fu che un voto, e una professione accademica di
principj: nel fatto, il Ministero che da me prese il nome, sostenne dai
partigiani del vecchio sistema tal guerra e così contumace e furiosa,
da rendere vano ogni accordo e impossibile ogni transazione. E perchè
v'abbiate, o concittadini, un saggio della tenacità e ignoranza con
cui le intenzioni nostre e i disegni e le opere si combattevano e
denigravano, vi basti di sapere quello che dissero e fecero contro
una delle più pure e sante e insieme delle più civili e lodevoli
istituzioni da noi proposte, io vo' parlare del Ministero della
pubblica beneficenza. Qual cosa, in nome di Dio, era più conveniente
a un Pontefice, che dare al mondo l'esempio di reputare la pubblica
beneficenza e l'educazione del popol minuto una materia sì degna e
pia e sì grave e sollecitosa, da doversi raccogliere in un ministero
speciale e a quella sola materia applicato? Massimamente che, nella
nostra proposta di legge, gli ordinamenti, i metodi e le pertinenze
date a quel ministero mostravano con quanta saviezza (sia lecito
dirlo) erano scansati i due scogli in cui rompe il presente secolo; di
accettare, cioè, come praticabili e vere mille funeste utopie; o, per
lo contrario, di non degnare neppur di uno sguardo quelle quistioni
che versano peculiarmente sulla condizione e la sorte delle classi
più disagiate, quasi bastasse per attutire e sopprimere i fatti il
non tenerne conto e il non ragionarne. Ma gli avversarj nostri ci
accusavano al Principe di favorire e promuovere il socialismo, e che
era mio pensiero ripetere in Roma le prove sfortunatamente fatte dal
Blanc in Parigi.(B)

Con tutto ciò, io non mancava, o concittadini, nè alcuno de' miei
colleghi, di sostenere la lotta animosamente, e di proporre in
Parlamento profittevoli leggi, seguendo una ragione di stato schietta,
generosa e manifestamente amica d'ogni legale progresso. Avanzarsi
all'acquisto di più larghe franchigie, svolgendo e applicando le già
conseguite, e avvezzando i popoli all'osservanza scrupolosa della legge
e del dritto. Iniziare la vita politica vera, sì con l'esercizio intero
e comune delle libertà municipali, e sì faticando all'educazione delle
povere plebi, e attraendole col benefizio e con l'istruzione inverso i
nuovi istituti. Comprimere le sètte, fomentar la concordia, in nulla
cosa operare come fazione, ma sempre e in tutto come tutela comune e
imparziale. La diplomazia, franca, leale e severissima osservatrice
dei patti; come fu mostrato nella capitolazione di Vicenza e Treviso,
contro il volere di molti, e il fatto e le suggestioni d'altra
Provincia italiana. Primo d'ogni mezzo governativo, la moralità e
l'esempio. Suprema cura, l'Indipendenza nazionale e ajutare l'armi di
Carlo Alberto senza gelosia e secondi fini, con fede e disinteresse di
buoni italiani.(C) A queste mire salutevoli ed alte io volgea la mente
e l'azione, allorquando sopraggiunse il gran disastro di Custoza. Il
quale richiedendo partiti forti e ricisi, furono dal Ministero risolute
alcune proposte di legge da recarsi ai Consigli, vigorose, efficaci
ed ai casi proporzionale. Ma dal Principe non vennero consentite.
Perlochè apparendo chiaro a me ed ai miei colleghi di non potere più
oltre servire lo Stato senza diservire l'Italia, uscimmo dal Governo,
e commettemmo quel dì medesimo ad alcuni amici e fautori di recare
invece nostra quelle proposte dinanzi alle Camere. Così ebbe fine il
Ministero dei 2 di maggio, al quale insino all'ultimo durò ostinato e
fedele il favor popolare. Tornato io ai semplici uffici di deputato,
credo che non vi siano cadute della memoria parecchie provvisioni da me
suggerite e discusse nel Parlamento, e da esso accettate, con sempre un
fine medesimo, il quale era di por mano dal lato nostro a tutti i mezzi
operabili e a tutti gli spedienti arditi ed insoliti per ristorare la
fortuna delle armi italiane Io fo conto che tra voi, cittadini, non
sia nessuna di quell'anime fredde e accidiose cui parve allora cosa
ridevole che, per virtù d'una mia proposta, le Camere e il Ministero
invitassero le moltitudini a crescere e raddensare le file de' nostri
soldati, e a combattere tutti alla disperata e per ogni dove contro
gli Austriaci. Ma che io non proponessi e le Camere non approvassero
alcun concetto vano e fantastico, ben lo provarono i Bolognesi, che
soli, inermi e disordinati, cacciarono pur nondimeno dalle porte loro
molte migliaja di Tedeschi agguerriti, e per fresca vittoria orgogliosi
e feroci. Dal qual fatto è lecito di trarre misura di quello che
l'ardore de' nostri popoli avrebbe adempiuto se ajutavali prontamente e
gagliardamente il Governo.

Ma i nostri avversarj avevano fermo in cuore di non dare alcun esito
alle deliberazioni del Parlamento; il quale, perchè non mai desisteva
dal suo proposito e sempre ragionava d'Italia, d'indipendenza e di
guerra santa, venne alfine prorogato. Io non mi spiccherò punto dal
mio subbietto per raccontarvi come tornato, o compaesani, in mezzo di
voi, e fatto pensiero di ripigliare gli antichi studj, mi giungesse
invito di recarmi in Torino per assistere di persona a un congresso
promovitore della Confederazione Italiana; e come ciò parendomi cosa
di gran momento e promettitrice di sommo bene alla patria nostra, io
reputassi di dovermi subito metter in via, e sostenere nuovo disagio e
fatica.

A voi debbo unicamente e insino alla fine dar conto esatto del vostro
mandato. E però vi dico, che giacendo io infermo in Genova di non
leggier malattia, pervennemi notizia, che in una grave e sconcia
sommossa accaduta in Roma il dì 16 di novembre, s'erano al Santo
Padre proposti dal popolo alcuni nomi per un Ministero nuovo, e che
il mio era in capo di lista. Colpito dalla singolarità del caso più
che da altro pensiero, mossi affrettatamente da Genova, e per via
fummi recapitata la lettera in cui, per dispaccio dell'Eminentissimo
Segretario di Stato, io veniva dal Papa chiamato a reggere il ministero
delle corrispondenze esteriori. Similmente, m'istruivano le gazzette,
che i desiderj del popolo non erano andati più oltre di quel Programma
che io leggeva già in Parlamento; e solo, facevasi domanda calorosa e
formale di vederlo eseguito con lealtà e per l'appunto. D'altra parte,
osservando io che nella lista proposta dal popolo il Principe avea
cancellato alcun nome e supplito con altri in essa non designati, e
che similmente in luogo dell'Abbate Rosmini non accettante avea posto
il Decano di Rota Monsignor Muzzarelli, mi recavo a credere che Sua
Beatitudine volesse con tali mutazioni mostrare, non avere in ultimo
nella formazione del Ministero preso consiglio da altri che da sè
stesso. Ma giunto in Roma (il che fu otto dì incirca dopo i tristi casi
del 15 e 16), mi avvidi subitamente, che niuna cosa era concordata
e accettata, quantunque molte apparenze il contrario annunziassero;
e però, non volendo io tornare con eziandio peggior condizioni al
conflitto e travaglio del primo mio ministero, mi risolveva del tutto
a non consentire all'offerta; quando il 25 a mattina, Roma fu piena
della subitanea e soppiatta partenza del Papa. Allora, considerando
il pericolo grave in che rimanea lo Stato di non avere chi lo
reggesse, e di nuocere notabilmente al successo della Causa Italiana;
e considerando più ancora, che il Papa, in luogo d'ogni ordinamento e
d'ogni disposizione acconcia al bisogno, erasi ristretto, partendo, _a
raccomandare al Ministro Galletti e a tutti gli altri Ministri l'ordine
e la quiete della città_, secondo che vedesi scritto nella lettera
autografa al signor Marchese Sacchetti; a me parve quasi atto di
pusillanimità il persistere nel rifiuto, e quel dì medesimo entrai al
governo.

Non però ch'io non presentissi la guerra che d'ambo i lati avrei
sostenuta, e il difetto pressochè intero di autorità e di forza per
superarla; il che mi piacque più d'una volta di esprimere e dichiarare
dalla tribuna, e giunsi perfino ad assomigliare quella trista vita
ministeriale ad un'agonia:[33] ondechè, lasciando a ciascuno l'arbitrio
di giudicarne a suo modo, a me la coscienza testimonia e confessa, che
quell'entrare al governo fu dal mio lato un penoso atto di annegazione.
Gli ultimi nodi di amore e fiducia tra il popolo e il principe erano
spezzati; niun dubitava che a Gaeta i partigiani del vecchio sistema
avrebber tenute ambo le chiavi del cuore di Pio IX, e sbanditone a
poco a poco i pensieri più miti e più al secolo confacenti. La fuga di
Lui dava principio ad un gagliardo e vasto macchinamento di repulse,
di proteste, di monitorj, da quei partigiani apparecchiato, e intorno
al quale travaglierebbersi con tanta maggior passione, quanto le
umiliazioni in Roma sofferte erano state più numerose e pungenti.
Scomparso il Pontefice, lo Stato, speravano essi, traboccherebbe
nell'anarchia: quindi la stanchezza e lo sdegno dei popoli; quindi
un piano e naturale ritorno all'antica dominazione, senza bisogno
d'armi straniere; a peggio andare, quelle armi chiamate e sollecitate
verrebbero. D'altra parte, accanto a questi errori e perfidie della
corte di Gaeta, crescevano in Roma le smoderanze dei democratici; a
molti dei quali la sommossa del dì 16, ch'elli chiamavano rivoluzione,
pareva non aver recato frutto nessuno; e, secondo l'usato, accusavano
il Ministero di timidezza e d'ignavia: attesochè, a giudicio loro,
il sol fatto da farsi era proclamar la repubblica; il rimanente valea
come nulla. Le altre Provincie Italiane non si attentavano ancora di
giudicare; ma la diplomazia europea s'inveleniva contro di noi ogni
giorno più. E per vero, un Pontefice stato non molto tempo innanzi
il Dio degli Italiani; chiamato da essi tutti Salvatore e Liberatore;
creduto un vivente miracolo della Provvidenza, e levato al cielo con
lodi tanto superlative, che mai sulle bocche degli uomini non suonarono
le maggiori, doveva a forza destare in Europa gran compassione della
mutata fortuna, correndo voce per tutto, ch'Egli era costretto a
riparare e salvare in terra non sua non pure la maestà del pontificato,
ma la persona propria e la vita. S'aggiungeva a questo l'interesse per
ciascun potentato di non dispiacere alle sue provincie cattoliche;
poi la voglia d'ingerirsi nei fatti nostri, e tirarli ognuno al suo
pro. Forse a tali ragioni accompagnavasi un'altra migliore e di più
rilievo. Chi regge gli Stati sente più al vivo il bisogno di fondarli
in cosa ferma e inconcussa; e tanto esso desidera di conservare e di
ristaurare, quanto il popolo, impaziente e voltabile, di demolire e
mutare. Meraviglia non è, pertanto, se negli uomini d'alto affare,
sgomentati dall'accumularsi rapidissimo di tante rovine, è subito nata
una grande sollecitudine per le potestà e prerogative temporali del
Pontefice; giudicando che solo dalla religione possa oggimai rampollare
alcun principio di autorità, e alcuna virtù permanente, capace di
architettare più tardi e ricostruire sul sodo l'ordine intero sociale.
E perchè poi non si avvedono come la religione stessa, immobile nella
sostanza e nelle forme mutabile, dee con le nuove condizioni civili o
innovarsi o scadere, tutta la prudenza loro a rispetto di ciò consiste
a voler serbare intatto e inviolato (se fia possibile) ogni muro e ogni
pietra della fabbrica antica, e mostrarsene zelatori poco opportuni e
poco creduti.

Posta, dunque, tal natura di casi e tale singolarità di opinioni,
agevolmente se ne cavava ciò che il Governo dovea volere e tentare.
Alla crescente discrepanza degli estremi partiti conveniva procacciare
un termine molto sollecito, affine ch'ella non trascorresse
tant'oltre da giungere tardo qualunque rimedio. All'incertezze e agli
arrischiamenti di quel viver politico, ed alle speranze perverse che
fondavano gli avversarj sugl'intestini sconvolgimenti, doveasi opporre
una gran cura dell'ordine e quiete pubblica, e l'unione e consenso
massimo tra tutti i magistrati e rettori. Alle accuse maligne e alle
nemiche intenzioni della diplomazia facea mestieri rispondere con
la ragione patente del dritto, e con l'osservanza continua e gelosa
della legalità, e serbando scrupoloso rispetto e favore alle cose
singolarmente di religione e di culto. Infine, ogni altra diligenza
e fatica era d'uopo voltare alle armi, ed apparecchiar gli ajuti alla
guerra non evitabile e già soprastante. Tutto ciò per appunto facemmo,
od almeno iniziammo e tentammo io e gli ottimi miei colleghi; e tanto
parve opportuno e assennato questo operare all'universale, che le
Camere, il Municipio ed ogni ordine di cittadini con noi s'accostò e si
strinse; nè mai s'è veduto concordia tale in congiunture tanto strane e
pericolose; e nulla valse a spezzarla finchè stettero quelle massime, e
il Governo lor tenne fede.(D)

Ben vi è nota, o concittadini, la prima protesta di Pio IX, data in
Gaeta il 27 di Novembre e giunta in Roma il 3 del seguente mese. Da
lei era invalidata qualunque cosa pigliava radice dai fatti tumultuosi
del 16 di Novembre; e a dare poi un capo al Governo, rimasto tronco e
spartito, chiamavansi a reggerlo sette persone, di cui sole quattro
stanziavano in Roma, e di queste una sola non si occultò. Io ed i
miei colleghi, appena fummo sicuri che il Santo Padre infirmava ed
aboliva l'autorità nostra, subito rassegnammo per lettera gli uffici
ministeriali al Pontefice, e da questo lato ogni difficoltà era
rimossa. Ma durava l'altra infinitamente maggiore della Commissione
nuova governativa, la quale non adunatasi mai, e mantenendosi
inoperante e invisibile, avea più forma di sogno che di realtà; tenea
nascosto il mandato e gli altri carichi ricevuti, nè in verun modo
eseguivali; non parlava, non iscriveva, e interrogata e pregata non
rispondeva. Così la città, così le provincie senza governo alcuno si
rimanevano. Il che non potendo stare, massime in tempi straordinarj
e scomposti, le Camere affrettaronsi a provvedere in buon accordo
col Ministero; e questo continuò in via temporanea a reggere la cosa
pubblica; quelle decretarono che una deputazione di ottimi cittadini
scelti ne' due Consigli fosse mandata al Pontefice, e l'istruisse
della condizione vera della città. — La protesta di lui non avere fatto
ricredere alcuno, e invece avere inaspriti gli animi e dato ansa agli
esagerati: volesse tentare le vie di conciliazione, restituirsi alla
sua metropoli, o scegliere alcuna città dello Stato ben accomodata
all'uopo. Ciò non volendo, creasse almeno una Giunta di Governo
effettiva e non apparente, e le cui facoltà bastassero a farle tenere
il luogo del Principe, giusta i diritti e gli usi costituzionali.
Non potersi ai due Consigli addirizzare rimprovero alcuno fondato
e legittimo. Se le forme costituzionali valevano, le Camere dovere
accettare que' Ministri che presentavansi loro con lettera di nomina
sottoscritta dal Cardinale Segretario di Stato; ma se il Pontefice
avea ceduto alla forza ed all'apprensione del peggio, questa medesima
apprensione occupare l'animo dei due Consigli, e scusare gli atti di
adesione con cui si evitavano mali ed esorbitanze molto maggiori.
L'Europa intera e la più parte de' suoi Monarchi non essere stati
esenti da simili coazioni, ed anzi da assai più fiere e più sanguinose.

Ai deputati delle Camere, il Municipio romano volle aggiungere i suoi,
l'un de' quali fu il senatore stesso Tommaso Corsini. Ma e questo e
gli altri tutti ebbero impedito l'accesso al principe, non per qualche
accidente o per arbitrio di subalterni, ma per comando espresso
di Pio IX, significato da lettera del Cardinale Antonelli, nuovo
segretario di stato. Fu nel parlamento allora vinto il partito, che si
elegessero commissarj i quali, congiunti col Ministero, pensassero a
proporre alcuna provvisione e risoluzione proporzionata alla gravità e
straordinarietà degli avvenimenti. Io posso affermarvi, o concittadini,
che da noi ministri e dagli eletti del Parlamento fu, non ostante
la cortezza del tempo, ricercato ogni modo di accomodamento, e fatto
fare appresso il Pontefice gli ultimi uffici e l'ultime supplicazioni.
Alfine, convenimmo nella determinazione di proporre ai Consigli la
creazione di una temporanea Giunta di Stato, le cui ragioni, la cui
necessità e le cui pertinenze io non mi confido di farvi conoscere con
brevità e chiarezza maggiore di quella che appare nel testo medesimo
del decreto da noi promosso nelle Camere, e il quale io trascrivo qui
tutto intero, perchè confèssovi di averlo per un dettato non indegno
della prudenza civile degli Italiani.

«Governo Pontificio — Considerando che gli Stati Romani si reggono a
governo rappresentativo, e godono dei diritti e delle guarentigie di
uno Statuto costituzionale.

Che lo Statuto ha per fondamento la distinzione e insieme la
connessione di tre poteri, e che ove uno di essi faccia difetto, il
reggimento costituzionale è manco e non può adempire i suoi fini.

Che nella notte del 24 Novembre scorso, il Pontefice si è allontanato
da Roma, e non à lasciato alcuno a tenere le sue veci.

Che il foglio dato in Gaeta il 27 Novembre, in cui si nomina una
Commissione governativa, manca delle debite forme costituzionali, le
quali servono anche a guarentire l'inviolabilità del Principe.

Che la Commissione governativa nel sopradetto foglio nominata, non
à palesata la sua accettazione, e in niun modo e per niuna parte à
esercitate le sue funzioni, e neppure si è costituita di fatto.

Che i due Consigli deliberanti, d'accordo col Ministero e col
Municipio, ànno procacciato di riparare a tanta perturbazione col
mandare messaggi al Principe, chiedendogli istantemente di tornare a
reggere la cosa pubblica.

Che i messaggi stessi non solo non furono ammessi nello Stato
Napoletano, ma invano adoperarono pratiche per essere dal Principe
accolti, e che altre pratiche più recenti, e altri uffici compiti
appresso di Lui sono riusciti affatto frustranei.

Che dimorando Egli in terra non sua, ove si vieta l'ingresso per ordine
superiore a qualsiasi deputazione a Lui indirizzata, e togliendosi
così ai deputati un diritto espresso nello Statuto fondamentale,
rimane incerto se egli sia in grado di godere della piena libertà
e spontaneità delle sue azioni, e giovarsi d'imparziali e benevoli
consigli.

Nè potendo qualunque Stato o città rimanere senza compiuto governo, e
le proprietà e i diritti de' cittadini senza tutela:

Dovendosi per ogni guisa e con ogni spediente rimovere l'imminente
pericolo dell'anarchia e di civili discordie, e mantenere l'ordine
pubblico:

Dovendosi conservare intatto lo Statuto fondamentale, il principato e i
suoi diritti costituzionali:

I due Consigli deliberanti, consci dei loro doveri, e obbedendo
eziandio all'assoluta necessità di provvedere in guisa alcuna regolare
all'urgenza estrema dei casi, con atto deliberato da ciascuno di essi
in seno del proprio Consiglio,

                               Decretano

1. È costituita una provvisoria e suprema Giunta di Stato.

2. Ella è composta di tre persone scelte fuori del Consiglio dei
deputati, nominata a maggioranza assoluta di schede dal Consiglio dei
deputati stessi, approvata dall'Alto Consiglio.

3. La Giunta, a nome del Principe ed a maggioranza di suffragi,
eserciterà tutti gli uffici pertinenti al Capo del potere esecutivo
nei termini dello Statuto, e secondo le norme e i principj del diritto
costituzionale.

4. La Giunta cesserà immediatamente le sue funzioni al ritorno del
Pontefice, o qualora esso deputi con atto vestito della piena legalità
persona a tener le sue veci, ed adempierne gli uffici, e questa assuma
di fatto l'esercizio di dette funzioni.»

Ora, di codesto decreto, Pio IX à lasciato scrivere al suo segretario
di stato Cardinale Antonelli, essere un'enormità, e la protesta delli
17 di Dicembre lo dichiara e lo pubblica un attentato sacrilego.
D'altra parte, i liberali di larga cintola l'hanno chiamata
un'occupazione temeraria, e un'usurpazione violenta dei diritti
del popolo. Non farò risposta nessuna all'accusa della Protesta,
ove scorgesi un abuso grave e patente della parola sacrilegio, e
rinnovasi quella perpetua e funestissima confusione dello spirituale
col temporale. A riscontro della seconda censura, dirò breve quel
che bisogna. In tutto ciò che il Ministero, e con esso i Consigli
deliberanti vennero ponendo in atto dalli 17 di Novembre al
giorno che altri impresero di governare, che fu il 23 di Dicembre,
ciascuno riconoscerà issofatto la pienezza del giure e la legalità
perfettissima, qualora gli risovvenga che negli estremi frangenti sorge
e prevale una legalità e un diritto superiore a tutti gli altri, e il
qual domandiamo necessità sociale e politica. Non può il consorzio
umano disgregarsi e disciogliersi mai, nè cessare un attimo solo di
correre ai fini santissimi pei quali è costituito. Di quindi nasce
che sempre nei popoli è necessario un governo capace di tutelare assai
competentemente le proprietà e le persone, e indurre obbedienza alle
fondamentali leggi divine ed umane. Ogni volta, pertanto, che i casi
portano la cessazione in fatto d'un governo legale e che altro governo
legale e attuale non gli succede, a qualunque magistrato quivi presente
e il quale per ordine di gerarchia è primario, tocca il debito e viene
il diritto d'instaurare l'autorità e reggere lo Stato finchè altrimenti
non si provveda. Il suo mandato, più che dagli uomini, procede da
Dio; e la potestà di lui, non che regolare e legittima, è sacra e
divinamente provida. Ma questa sua direm naturale dittatura, come
dalla necessità deriva, così prende da lei confine e misura esatta:
il perchè le costituzioni, le leggi e i diritti attuali di ognuno per
ogni parte son rispettati e osservati, o tanto solo s'immutano quanto
lo impone la urgenza dei casi, vera, estrema e in guisa alcuna non
simulata. Or chi chiama tutto ciò occupazione dei diritti del popolo,
non considera che per usare dei suoi diritti, fa innanzi mestieri al
popolo di esser salvato, salvandosi la società civile e politica; e
chi vuole che in siffatte emergenze abbia voce ed imperio non altri
che tutto il corpo dei cittadini, sembra dimenticare che non può tutto
il corpo dei cittadini unirsi e deliberare ordinatamente, e secondo
ragione e giustizia, se a ciò non à provveduto o una legge anteriore
divenuta comune usanza, o un governo temporaneo di già formato e
insediato; essendo che manca agli uomini la virtù istintiva dell'api
di congregarsi e in comune operare quel che bisogna con puntualità e
concordia maravigliosa e immutabile.

Insomma, così il Ministero come il Parlamento fu savio e operò
legalmente; e ambedue iniziavano un metodo tale di difesa e di
resistenza, e una tal forma di reggimento, che povero è del giudicio
chi non ne scorge i larghissimi effetti, e il fine raggiunto con quiete
e con sicurezza non isperata.

Ma, secondo che io notava più sopra, non potevano questi accorgimenti
e queste arti di civile prudenza permaner molto saldi e operare con
efficacia. Il Ministero, quantunque non partecipe delle sommosse e
delle violenze, pareva da esse procedere; e il titolo di democratico
che gli fu apposto, quanto poco chiaramente definiva quel che voleasi
ch'egli fosse, tanto più faceva aspettare da lui cose straordinarie e
ben consonanti coi desideri degli esaltati. Nè la immoderanza di questi
poteva essere temperata dal Ministero con alcun'altra forza morale;
poichè le opinioni appresso di noi non sono avvezze ancora a pigliare
animo e farsi valere, sostenendo ciascuna con energia le pubbliche
controversie, e ordinando intorno al proprio vessillo le schiere de'
suoi seguaci. Così avveniva che accanto agli esaltati nessuno parlasse
e contraddicesse; ed elli soli tenevano il campo con tanta maggiore
sicurezza e maggiore arbitrio, in quanto lo Stato, così pel mutare
continuo dei Ministeri e l'incertezza d'ogni cosa, come per l'odio
alle leggi antiche e il difetto di nuove e migliori, avea rallentato
più che mai tutti i nodi ministrativi e infiacchita oltremisura
l'autorità. L'ignoranza de' negozj politici era piena ed universale;
inveterato l'abito delle sètte e delle cospirazioni; poche le armi e
indisciplinate; profondo e furioso l'odio contro la Casta prelatizia.
Al che tutto si aggiungeva la ferma determinazione mia e de' miei
colleghi di non trapassare in nulla i confini della stretta giustizia
e delle pubbliche libertà, e di non accettare per uscire di quelli il
pretesto specioso della salute del popolo. «Tolga Iddio (proferiva
io dalla ringhiera del Parlamento il dì 21 di Decembre) che noi, i
quali in tutta la vita nostra abbiam travagliato e sudato per vedere
alfine spuntar sull'Italia il sole della libertà, noi che nell'esilio
profondamente odiammo e abborrimmo le disposizioni violente e
tiranniche di cui si giovavano le polizie de' nostri governi dispotici,
veniamo ad imitare oggi que' miseri, que' colpevoli procedimenti. Per
conseguente, senza lo scudo della legge, no, questo Ministero anche ne'
suoi estremi momenti mai non vorrà supplir coll'arbitrio al diritto,
mai non farà pensiero nè atto, per quali che siano salutari compensi,
contrario agli eterni principj di libertà che ha scolpiti nel cuore.»

Il fatto sta, che in quei giorni medesimi in cui il Ministero, di
buon concerto colle Camere, riparava alle più triste e pericolose
occorrenze con senno e gagliardia insieme, una voce uscita da alcuni
circoli popolari acclamò la Costituente Romana. Quella voce, ripetuta
nelle Provincie dagli altri circoli, crebbe tanto di suono, che
parve e fu giudicata un comando espresso ed universale del popolo. La
Giunta suprema di Stato confermò quel comando, e il Ministero nuovo
da lei creato ne fece proposta formale al Consiglio dei deputati; e
perchè mostravansi questi renitenti e mal soddisfatti, l'uno e l'altro
Consiglio fu in apparenza prorogato, in sostanza disciolto.

A voi non è ignoto, o concittadini, ch'io nel nuovo Ministero non volli
aver parte, sì per mie private ragioni, e sì per gran dubbio che la
Costituente Romana tentando forme nuove politiche, non crescesse oltre
modo i pericoli dello Stato e la divisione degli animi, e maggiormente
non implicasse le faccende italiane in quel mentre che il ricominciare
la guerra sembrava imminente ed inevitabile. Oltre di che, io sempre
avea proceduto in accordo col Parlamento, e la mia ragione di stato
era similmente la sua; da lui gli applausi, da lui i suffragi, da lui
conseguito aveva ogni mezzo e ogni autorità per ben governare: parvemi
onesto, pertanto, di ritirarmi quando egli veniva annullato, e davasi
cominciamento ad una politica nuova, con metodo e con principj molto
diversi dagli anteriori.

Restami di accennarvi alcuni atti non volgari da me operati nel breve
spazio di questo secondo mio Ministero, durato solo ventotto giorni. E
quanto alle corrispondenze esteriori, le Gazzette ànnovi ultimamente
riferito il disteso di una mia Nota Ufficiale, in cui mi studiava
di fare intendere ai Diplomatici la vera e propria significazione
degli avvenimenti di Roma, e il nessun frutto che nascerebbe dalla
prepotenza e dall'armi de' forestieri.(E) Similmente, avete letto ne'
fogli la protestazione mia e de' miei colleghi contro alla minacciata
occupazione francese; e alla quale non pure il Parlamento fece gran
plauso, ma da me invitato, levòssi a protestare ancor egli con dignità
e fermezza italiana, oltre all'approvare le súbite risoluzioni e
disposizioni affin d'impedire, a nostro potere, lo sbarco delle truppe
di Francia, e la forza respingere con la forza.(F) Ma ciò che non
avete raccolto dalle pubbliche stampe, si è l'altra Nota indiritta da
me al Bastide, con la quale temperandosi convenientemente l'effetto
della protestazione, mostravasi la buona disposizione di questi popoli
inverso la nazione francese, il desiderio sincero di averla collegata,
non che amica; e come all'interesse e alla dignità di Lei convenisse
effettivamente di proteggere la libertà nostra, invece di opprimerla
e di turbarla; e che però, non trovando la Francia ragione legittima
e presentanea d'intervenire con l'armi nel nostro Stato, spettava alla
forza e grandezza sua di vietare vigorosamente ad ogni altra nazione il
poterlo fare sotto colore e pretesto di religione. Non furono, dunque,
come vedete, da me negletti, da un lato, i diritti sacri del territorio
italiano e l'oltraggio recato alla dignità nostra comune; dall'altro,
quella prudenza e quell'accortezza che il debole nostro Stato richiede,
e le quali procacciano di voltare a profitto proprio l'interesse
medesimo altrui e l'altrui albagia. Quel linguaggio e quei blandimenti
potean valere, e valsero in fatto, per tutto il tempo che noi non
uscimmo dal diritto costituzionale, e dalle vere e strette esigenze
della sociale necessità. Per vero, l'ordine d'imbarcare truppe a Tolone
fu revocato; alle prime acerbe impressioni succedevano altre più miti
e più ragionevoli, e qualche pratica potea condursi fra le due parti,
fondata sopra termini di giustizia e moderazione.

Quanto ai negozj interiori, farò menzione sol di due cose come
notabilmente utili e degne: delle altre tacerò volentieri. La prima
è l'aver presentato al Parlamento un disegno compito della legge sui
Municipj. La utilità e l'importanza di simil legge è grande in ogni
paese, ed è massima nel nostro Stato; conciossiachè, dove le libertà
politiche sono combattute e mal ferme, possono le municipali supplire
a buona misura. A questa nuova costituzione dei Comuni confesso di
aver posta una singolar cura; e lo studio e la diligenza furono pari
così per determinare i principj e le massime direttive di essa legge,
come per rivedere e secondo l'uopo mutare e modificare la compilazione
fattane dal Consiglio di Stato. Giova sperare che nessun consesso
deliberante chiamato a discutere e giudicare quella proposta di Legge,
sia per attenuare e impedire lo spirito largo e fecondo di libertà che
tutta la informa.(G)

Il secondo subbietto degno di venir ricordato è l'avermi la fortuna
conceduto il bene e la contentezza di proporre io primo, dall'alto di
una tribuna e fra le lodi e gli applausi di un congresso legislativo,
la Costituente Italiana. Ed io chiamo ciò dono e grazia della fortuna;
sì perchè nel primo mio ministero ogni fatica e diligenza dal conte
Marchetti e da me quotidianamente usata per istringere una forte
lega fra i principi nostri era rimasta infruttifera, e sì perchè
dalla sola Confederazione Italiana aspetto conforto e rimedio ai mali
della patria: da lei sola può fra' popoli della Penisola ingenerarsi
concordia durevole, unione sincera e spontanea, fratellanza operosa,
impeto e vigore di guerra, fondata fiducia in noi stessi e nell'armi
nostre. Per lei debbono tutti gli altri minori interessi lasciarsi
in disparte; e ciò che mena all'effettuazione sua debbe con ogni
sollecitudine venir procurato; e colui è più benemerito dell'Italia,
che più sa spianare le vie a quel fine: conciossiacchè, come prima
bisogna essere, e poi procacciare di essere felicemente, così ai
popoli fa bisogno avanti l'indipendenza e quindi la libertà e gli altri
beni civili; e però quei mezzi debbon venire più ricercati ed usati,
che meglio e più drittamente conducono a conseguire l'indipendenza
e l'essere di nazione. Ma che diremo del Congresso Confederativo
Italiano, il quale ad ambedue i fini dell'indipendenza e della
prosperità civile parimente conduce; e non pure fa esistere la nazione
e le porge animo e facoltà di combattere e riscattarsi, ma le presta
quella forma e quell'assetto politico che può unicamente confarsi con
l'indole sua, e rimove tutte le antiche e ostinate cagioni di lite e
di divisione? Io sempre ò pensato che i due cardini del risorgimento
italiano sono, da un lato, le franchigie municipali larghissime,
e dall'altro, la massima unione confederativa; e però ad ambedue ò
rivolto principalmente le cure e i pensieri. Voi già conosceste, o
concittadini, dai pubblici fogli, qual natura di principj e quali
modi discreti e conciliativi venissero per la mia bocca dal Ministero
romano proposti affin di attuare il più speditamente che sia fattibile
e in maniera accettevole a tutti i Governi la Costituente Italiana;
onde alla cosa dovete por mente, non all'appellazione impropria ed
amplificativa e di cui la voga popolare stringevaci a fare uso. Poche
Note da me mandate al Ministero toscano e poche da esso a me, erano
bastate per risolvere ogni difficoltà, e condurre i due Governi ad un
solo e medesimo fine pratico. D'altra parte, le dubbiezze, gl'indugi
e gli ostacoli d'ogni maniera, che il Piemonte sembrava porre alla
santa idea, caddero tutti (or fa un mese) al pigliare che fece le
redini dello stato il sommo cittadino Vincenzo Gioberti. Ora, voglia
Dio che le ultime mutazioni sopravvenute in queste nostre Provincie,
e il tenore della legge toscana testè promulgata in ordine a tal
materia,[34] non tardino e non difficultino la tanto sospirata
convocazione di un Congresso Confederativo.(H)

Questo è il racconto esatto e sincero, benchè semplice sopramodo e
conciso, del civile adoperamento e profitto che parvemi bene di fare
del vostro mandato, o concittadini elettori. Nè mi concedevano di star
silenzioso il senno e la dignità d'un Collegio del cui suffragio due
volte in pochi mesi sono stato onorato, e a cui mi legano durevolmente
l'amore e la gratitudine. Dal qual racconto io non ispero che si possa
e voglia ritrarre alcun giudizio migliore sull'opere mie, salvo che
in nessun tempo mi sia mancata l'onestà e il buon desiderio, e che la
custodia delle libertà pubbliche sia nelle mie mani riuscita la più
vigilante e la più scrupolosa del mondo. Alli 2 di Maggio dell'anno
scorso, nell'atto di assumere il ministero, la guardia civica,
pigliandomi bene in parola, volle che io promettessi di governare
secondo un programma da me dettato non molto tempo innanzi a nome
di un Comitato per le elezioni, e in cui le speranze nostre migliori
d'ogni libertà e d'ogni progresso erano assai minutamente registrate
e descritte. Ora, chi farà confronto di quel programma colle azioni
mie posteriori, troverà ch'elle nol rinnegano in niuna parte e in
niuna cosa: il qual fatto non è agli uomini di Stato molto comune.
Onesto, adunque, e osservantissimo delle libertà presumo di essere:
per ogni altro rispetto io confesserò volentieri la mia insufficienza,
grande per sè stessa, e grandissima in comparazione del secolo,
il quale domanda ingegni ed animi così vasti e gagliardi, come son
vaste, improvvise e terribili le rivoluzioni sue. Oltre di che, ben
si può dire, e segnatamente in politica, che nulla ha fatto e nulla ha
compiuto colui il quale non si è nè poco nè molto accostato al fine. E
il fine, a rispetto di Roma, era concordare la libertà con l'autorità,
e il Sacerdozio col Principato; per l'Italia, è l'Indipendenza e
l'Unione; per tutto il mondo civile, la riedificazione dei principj e
delle credenze. Tutte le imprese che non raggiungono quell'alte mête
e neppure le approssimano, forza è giudicare o che mal conoscono quel
che fanno, e per la poca utilità loro si confondono con le azioni
volgari; o che solo possiedono il pregio incompiuto ed ormai comune
di affrettare la distruzione di leggi e istituti già mezzo logori dal
tempo e dai nuovi costumi.

  Roma, li 15 di gennajo del 1849.


ALLA SANTITÀ DI PIO IX,

TERENZIO MAMIANI.

Duolmi, Padre Beatissimo, che la doppia persona la qual sostenete
di Principe e di Pontefice non renda possibile di ragionare all'una
siccome all'altra. Io m'inchino devotamente al Pontefice, e non ò
per la santa persona sua se non parole di encomio, di riverenza e di
religione. Al Principe non sento di poter favellare così umilmente;
e nelle opere sue non iscorgo sempre la santità, e nei suoi giudizj
la sapienza. Però, avendo intenzione con questo foglio d'indirizzarmi
al Principe solo, io prego Vostra Beatitudine di non si sdegnare se i
miei concetti saranno assai liberi, e le parole, quantunque assegnate
e rispettose, non parranno tali abbastanza in comparazione del vostro
augusto carattere.

Fu per benefizio di Vostra Beatitudine, che dopo sedici anni d'esilio
(gran porzione della vita), io potei rivedere la provincia natale, e
i pochi congiunti ed amici stati dal tempo e dalla fortuna serbati a
que' tardi e desideratissimi abbracciamenti. Nè un tanto bene mi costò
altra cosa se non di promettere alla Santità Vostra quello che gli
onesti fanno ordinariamente per proprio istituto, cioè _di ubbidire
alle leggi correnti e di non perturbare lo Stato_; il che importa,
con altre parole, di mai non uscire nelle cose politiche dai termini
della legalità. Vero è che, a riscontro di tal promessa, io mai non
ottenni nè per iscritto nè a voce di vedermi sciolto affatto dal bando,
e tornato in ogni diritto di cittadino. Solo mi si concedette di poter
visitare i miei, e convivere con esso loro lo spazio di tre mesi. E per
fermo, consumati che furono questi ed io tornátomi a Genova, il Console
di colà ebbe ordine di non mi concedere da indi innanzi il passo
per lo Stato Romano. Più tardi, e per effetto d'un grave infortunio
domestico, ebbi licenza (chiesta per me dagli amici) di altri tre mesi;
durante i quali avendomi la voce del popolo e la necessità delle cose
chiamato al governo, quel resto d'insolito sbandeggiamento andò a forza
in dimenticanza, mal potendosi conciliare la condizione di ministro
di Stato e quella di esule. Io non erro, dunque, ad affermare che
l'obbietto e l'intendimento per cui quella promessa fu pronunziata,
rimasersi mezzo non adempiuti. Ma, come ciò sia, la probità naturale
m'insegna di dover essere d'ogni promissione stretto e non cavilloso
mantenitore. E in più d'un caso, Beatissimo Padre, io l'ò col fatto
mostrato. E quel giorno che la Giunta Suprema di Stato, acclamando
la Costituente Romana e la universalità de' suffragi, trascendeva
i termini dello Statuto, ed anzi abolivalo virtualmente; io con
piena spontaneità, e del contrario pregato e sollecitato, rassegnai
l'incarico di ministro con atto assoluto ed irrevocabile.

Ma ciò non pertanto, io noto che l'ubbidire alla legge e
l'accompagnarsi in qualunque atto con lei, sono un modo di operare il
quale ne' governi assoluti à un carattere, ed un altro differentissimo
ne' costituzionali. E per fermo, nei primi le scaturigini della legge
stanno da ultimo nel volere e nell'arbitrio del Principe: quindi, chi
mai non vuole scostarsi da quella, dee sempre alla volontà del Principe
sottomettersi. Ma ne' reggimenti costituzionali, interviene tra il
popolo e il suo Sovrano un patto sinallagmatico, che ad ogni legalità
porge fondamento e principio: ed anzi, ogni legalità è quivi, come a
dire, bilaterale, ed obbliga e stringe così il popolo come il Principe.
Nè dove questi mancasse al patto e contraffacesse alle leggi, avrebbe
diritto nessuno che il popolo dall'altra parte non travalicasse egli
pure le convenzioni, nè trasgredisse le leggi che ne derivano.

Ora, appresso di noi lo Statuto fondamentale, quel gran patto di
fiducia e d'amore voluto e sancito dalla Santità Vostra, segnava per
tutti il cammino certo e drittissimo della legalità. Del qual vero
parevano più che gli altri guardiane gelose ed osservatrici esatte
le Camere legislative, siccome quelle che riputavano di aver trovato
nell'osservanza dello Statuto una salda difesa contro l'enormezze
passate, e un adito piano e legittimo ad attuare a grado a grado le
speranze dell'avvenire. Perciò, quando lo Statuto fu sì profondamente
scrollato dalle violenze del dì 16 di novembre, e di poi dalla infausta
ed inopinata partenza della Santità Vostra, i due Consigli deliberanti,
misurando l'opera loro da un lato con la necessità, dall'altro con
la legge e il diritto, mostrarono di volere salvo a ogni modo il
patto fondamentale; ed eziandio nelle novità transitorie che vennero
ad introdurvi, imitarono il più strettamente che fu possibile gli
esempj e le pratiche d'altri paesi costituzionali. Di presente, la
forza del vero mi stringe a dire alla Santità Vostra, che illusi e
sventuratissimi furon coloro i quali mossero Voi, e il cuor vostro sì
temperato e benigno, a riprovare con parole tanto assolute e sdegnose
le savie deliberazioni de' due Consigli, alle quali tutte mi onoro e
compiaccio di aver largamente partecipato. E che giudicio recherete,
Beatissimo Padre, d'altri men discreti cittadini, e quale fiera
appellazione cader lascerete sovr'essi, quando pure le Camere sono
accusate di fellonia e di sacrilegio? Sacrileghi, adunque, e felloni
que' cospicui prelati e quegli onorandi patrizj che siedevano nell'Alto
Consiglio, e alle anzidette deliberazioni non ricusarono il lor
suffragio?

Tanto è sembrato all'universale più dura cotale sentenza, quanto tutti
ànno visibilmente riconosciuto nelle due Camere uno zelo e una cura
diligentissima di non uscire dai termini del patto fondamentale; dove,
per lo contrario, nelle tre proteste non brevi della Santità Vostra
neppure un cenno s'incontra, e neppure il nome di esso Statuto, e
delle pubbliche libertà e guarentigie; le quali il popolo, affatto
innocente degli eccessi e ingiurie di pochi, à diritto patente e
pienissimo di veder conservate; massime da Colui il qual dee porgere a
tutti i Principi chiaro e continuo esempio di lealtà, e di fede gelosa
e incontaminata. Laonde, qual maraviglia se in tempi pieni di dubbio
e sommamente corrivi, quel silenzio (al certo stranissimo) induce le
moltitudini a credere che il vostro ritornare non avverrebbe senza la
morte delle libertà, e l'annullazione delle franchigie costituzionali?
Di queste tacciono tutti gli scritti che giungono di Gaeta; e, per
amaro compenso, dei diritti del principato ragionano magnificamente, e
con tali sentenze e con siffatta forma di stile, che sembrano pensati e
dettati quando i regni si governavano con l'autorità del giure divino,
e qualunque concessione rimanevasi revocabile; atteso che niuna d'esse
riconosceva i diritti del cittadino, ma ogni franchigia era privilegio,
e ogni privilegio era grazioso largimento dell'assoluto signore.

Nè mosse, del sicuro, da altro spirito quel consiglio pure infelice
dato alla Santità Vostra di sopprimere dentro di voi la gentilezza
innata dell'animo, la pronta compassione, l'affabilità e modestia che
sempre mai vi governano, e di rispingere indietro non ascoltati, non
veduti, i messaggi delle due Camere e del Senato Romano. Che se ciò era
contrario alla naturale benignità di qualunque Principe, sembrava poi
importabile e fuor del diritto movendo da un Principe, come voi siete,
Costituzionale. E dove è più la Costituzione, tuttavolta che gli organi
diretti e fedeli del popolo, gli autori e conservatori delle leggi, i
primi e inviolabili patrocinatori di qualunque cittadino aggravato ed
offeso, trovano interdetto l'accesso e chiuse le orecchie del Capo e
moderatore dello Stato?

Ei pare (e tutti i buoni se ne rammaricano) che nella corte di Gaeta o
non s'intenda o non si curi di intendere la ragione e l'essenza d'un
Governo Rappresentativo, la qual consiste principalmente nella mutua
limitazione dei poteri e dei diritti, e nell'impero assolutissimo
della legge, che obbliga tutti, e non privilegia neppure il Principe.
Che se la intendessero e la curassero quella ragione, non farebbero
forza alla Santità Vostra per tirarla ad atti illegali, e di diretto
contrarj allo spirito dello Statuto. Certo, ai tempi di Niccolò V e
di Giulio II, od a quelli più antichi e più tenebrosi di Adriano IV,
nei quali il Principe era lo Stato, e ogni mezzo tornavagli lecito per
rimenare al giogo i sudditi sollevati, perchè in lui solo credevasi
raccolto il giure di tutti; potea non parere indegno e sleale chiamare
l'armi forestiere, e col sussidio di quelle ripigliarsi la corona. Ma
ne' dì nostri, e nel reggimento Costituzionale, nessun'azione si può
commettere maggiormente odiosa e illegale, ed anzi più sovvertitrice
dell'ordine e della giustizia. Conciossiachè, quando nel Principe
Costituzionale fosse l'arbitrio di chiamare a sussidio proprio, e senza
il consentimento spontaneo della nazione, le armi straniere, niuna
libertà troverebbe difesa contro alla material forza; le pubbliche
guarentigie sparirebbono tutte dinanzi all'ardore e all'impeto
soldatesco, e il giudicio della spada risolverebbe le questioni del
buon diritto e della ragion civile; senza qui discorrere l'oltraggio
che recherebbesi alla dignità della patria, e il mettere a repentaglio
estremo la sua indipendenza. Eppure, v'à di molte persone, Beatissimo
Padre, in cotesta corte, le quali non contente di avere interrotta
fra voi e il popolo vostro ogni corrispondenza, e frustrato ogni
tentamento di composizione e d'accordo, studiansi con ostinazione
d'indurvi a chiamare le armi straniere, ondunque vengano e quali che
sieno. Tolga Iddio che mai questa persuasione possa entrare nell'animo
vostro, e sostener vogliate di rivedere Roma ed il Quirinale circondato
da bajonette che non sien quelle de' vostri figliuoli. Ma non è
poco errore, Padre Santissimo, il lasciare i popoli in dubbio e in
trepidazione sopra tal cosa. Imperocchè mi si condoni la soverchia
franchezza, a Voi principe legato a un patto Costituzionale correva
l'obbligo di dichiarare e di pubblicare, come, per sentimento e
dovere di buon italiano e di buon cittadino, l'animo vostro leale
abborra dall'intervento armato di qualunque straniero, e però averne
sollecitamente ringraziato le corti che il proferivano. Ma in luogo
di ciò, spandesi notizia che sono giunte carissime ed accettissime le
esibizioni spagnuole, e che ànno mosso a vivo dispetto le offerte di
Francia, da prima sì larghe e sì pronte, poi diversamente spiegate
e venute a nulla.[35] Perlocchè, io replico, cresce di giorno in
giorno l'apprensione e il timore de' popoli; e si giunge persino a
credere dalla moltitudine, che la Corte di Gaeta, disperata d'ogni
altro soccorso, non ricuserebbe da ultimo quello stesso dell'Austria.
Al quale torto giudicio del volgo porge occasione, pur troppo, il
vedere accettato e riconosciuto appresso della vostra sacra persona
un ministro e rappresentante della odiata Casa d'Ausburgo, come
pegno e testimonio della concordia e amicizia che corre fra li due
Stati. Fatto, che la più comunale prudenza doveva almeno indugiare
ad adempiere, affine di non avversare ed esacerbare in modo così
irritativo il sentimento degli Italiani, e quello in ispecie de'
Romagnuoli popoli vostri, ed ancora in considerazione della legalità;
essendo che i due Consigli deliberanti ànno sempre, ne' lor discorsi
e nelle proposte di legge e negli scrutinj, dichiarato in modo aperto
e solenne, essere infensi nemici dell'Austria, e consistere il sommo
de' lor desiderj nel vederla sconfitta, e gli avanzi dell'esercito suo
costretti di rivalicare l'Isonzo ed il Brennero.

D'un altro gran male e d'un'altra offesa profonda alla legge e al
diritto comune vorrebbe cotesto aulico comitato tentar di macchiare
l'anima vostra, la quale tutti siam certi che fieramente resiste
e diniega. E per fermo, ella è impossibile cosa, che Voi, generoso
principiatore del risorgimento nostro; Voi, il più mansueto degli
uomini e il più benigno e amorevole, tanto che per abborrimento dal
sangue e per affezione uguale a tutte le genti cristiane non sosteneste
di muover guerra neppure ai nemici eterni del nome italiano; ora siate
per consentire, non dico alla guerra civile, ma sì al pericolo di
suscitarla. Non permettete, dunque, o Santissimo, che il nome vostro
intatto e glorioso si spenda in impresa ed in trama così scellerata,
della quale appajono segni e testimonianze ogni giorno, e le cui fila
sono distese e introdotte non pur nelle mura di cotesta città, ma nelle
stanze dove abitate.(I)

Costoro, del rimanente, pajono sì forte occupati in tali pensieri e
disegni, che dimenticano di ajutare Vostra Beatitudine al reggimento
dello Stato, e vi fanno sembrar negligente in cosa senza la quale lo
Statuto è lettera morta, e del Principe si dee giudicare o ch'egli
intende di cedere altrui il governo, o d'operare fuor della legge e
contra la legge. Il fatto è questo, che in tempi di continuo minacciosi
e scomposti, la Santità Vostra, qual ne sia la cagione, lascia da
ormai due mesi lo Stato senza capo e senza governo. E veramente, la
Commissione governativa chiamata da Voi col Motu-Proprio delli 27 di
Novembre a comandare ed amministrare, nè mai si è adunata, nè à compito
alcuno de' vostri comandi e de' suoi ufficii; ond'ella è rimasta,
può dirsi, un desiderio ed una proposta; e l'azione sua invisibile ed
impalpabile, dove presumesse di reggere i popoli e di venire obbedita,
ricorderebbe la favoletta di quell'ostiere che nudrendo altrui
dell'odore dei cibi, fu pagato del suono delle monete.

Tuttociò è da' consiglieri vostri ben conosciuto e da lungo tempo,
secondo che l'attesta la Nota medesima del Cardinale Segretario di
Stato, poco dianzi venuta in luce. Or perchè, dunque, non vi provvedono
essi, e invece di leggi e di ordinamenti fanno solo moltiplicar le
proteste e scagliare i monitorj? e come sopportano che la Santità
Vostra sembri mancare al debito primo e fondamentale del principato?
come non s'avvedono che tolto di mezzo l'uno dei tre poteri, lo Statuto
conducesi al niente? come fingono a sè medesimi che di tal distruzione
non cada sovr'essi e sul lor Signore nessuna colpa? come non sentono
che mancandosi al patto dall'uno de' contraenti, l'altra parte, che è
il popolo, si stimerà sciolta d'ogni obbigazione e d'ogni obbedienza?

Ma lasciando stare il giudicio poco appensato e mal fermo delle
moltitudini, e raccogliendo il discorso intorno di ciò che dee fare
l'uomo prudente, e risolutissimo a seguitare la legge e fuggir le
violenze; io primamente ricordo alla Santità Vostra, che a quell'uomo
non è lecito di riconoscer la legge nel volere del Principe, ma sì
nelle prescrizioni Costituzionali, nelle pubbliche guarentigie, e
nell'uso debito e conveniente d'ogni libertà e d'ogni diritto. Vero è
che a lui non fa caso se alcuna fazione insorga, e tumultuando sforzi
le deliberazioni altrui; nè, per lo contrario, se il Principe, o mal
consigliato o da profonde preoccupazioni svolto e sedotto, trasvada
nelle opere sue e si soprapponga al diritto; imperocchè questo
debb'essere propugnato e salvato così contro gli eccessi delle fazioni,
come contro gli arbitrj del Principe: ma egli accade, pur nondimeno,
che molte volte l'amore e l'osservanza medesima della legalità meni il
buon cittadino a dover contraddire al Capo, uscito affatto dal proprio
giure. E, per via d'esempio, egli darà di piglio alle armi e combatterà
gli stranieri quali che sieno, e posto pure che in mezzo delle loro
file veder si facesse, per isventura, il Sovrano.

Nella Costituzione, pel buon cittadino, è la legge e tutta la legge;
e s'altri quella manomette, non gli varrà l'esempio e l'eccitamento
per fare il simile. Salvochè, se coloro che la Costituzione debbon
guardare e custodire con più gelosia, se ne mostrano osservatori freddi
e trascuratissimi, e per vie indirette le dànno assalto e le recano
offesa; non troverà l'uomo dabbene argomenti persuasivi e forza di
autorità e séguito di gran moltitudine, per ischermire e reggere in
piedi quel patto comune e solenne contro di cui gl'ingegni avventati
dell'una e dell'altra parte congiurano.

Una cosa poi rimane sciolta d'ogni dubbiezza e a tutti manifestissima;
e questa è, che dove il Principe non governa, e dove non commette nè
ordina che altri in suo nome ed autorità governi e provveda, è obbligo
e necessità insieme al buon cittadino di obbedire a coloro i quali,
per vie pacifiche e ragionevoli, tutelano a sufficienza le proprietà
e le persone, e impediscono al corpo sociale umano di disgregarsi e
dissolversi.

Ma consideri la Santità Vostra un po' più dappresso, e con occhi
affatto snebbiati, la condizione presente di questo popolo. In esso è
mala contentezza dell'oggi, e dubbietà e paura gravissima del domani.
Se volge lo sguardo a Voi, nel quale avea l'abito di riposarsi e
sperare, non solo ei vi vede lontano e in paese non vostro, e d'accanto
a...

                             . . . . . . .

ma d'intorno a voi scorge indizj e segnali di _reazione_ cieca e
veemente, e macchinazioni non molto coperte contro la libertà; scorge
il mal celato disegno de' cortigiani di risalire a qual sia costo
là onde cadevano, e di ripigliarsi il dominio antico, o per effetto
dell'universale scombujameuto e delle civili discordie, ovvero per la
invasione ingiusta, violenta e soverchiatrice delle truppe straniere.
Per le quali tutte cose, ciò che prima le nostre genti con sincerità
desideravano, vale a dire il vostro pronto ritorno, la vostra
dominazione, il mantenimento dello Statuto e i modi migliori e più
quieti di accordo e riconciliazione, al presente è da esse considerato
con vario consiglio; e di una porzione di quei desiderj disperano,
dell'altra vivono sospettose ed incerte. Per contra, ciò che prima
le sgomentava e parea loro eccessivo ed intollerabile, vale a dire
la dittatura del Ministero, l'esigenze ognor rinnovate e crescenti
de' circoli, l'annullamento dello Statuto, e il porre in balia
d'un'assemblea popolana (già prossima a radunarsi) l'esistenza perfino
del principato, quest'oggi è accolto con molta minor ripugnanza, e sarà
domani accettato come sola tavola nel naufragio: tanta mutazione ànno
operato in breve intervallo le esorbitanze di Gaeta! Nè pensate, Padre
Santo, che da ciò le ritraggano minimamente i Monitorj già promulgati,
o l'aspettazione di un Interdetto. Imperocchè, ne' savj e mezzanamente
istruiti non promuovono quelle scritture altro effetto se non di
addolorarli e attristarli dentro dell'anima per lo deplorevole abuso
degli anatemi e delle pene spirituali, così con ingiustizia applicate
ad atti che non le sopportano, come adoperate indebitamente per cagione
affatto secolare e mondana. Gl'idioti poi, che sono i più numerosi,
seguono, a simiglianza di gregge, l'esempio dato dai caporioni, e
irridono per vezzo e per moda quello che non intendono.

Dopo ciò, che pensieri e che portamenti saranno quelli del cittadino
leale e dabbene di cui ragiona questa lettera? La legge e il patto in
cui s'affidava stanno per essere spiantati e diradicati; nè scorgendo
alcuno che sorga a difenderli e propugnarli autorevolmente, come
voi solo, Beatissimo Padre, avreste arbitrio e potenza di fare, egli
serberà il suo zelo e l'opera sua a mitigare la foga delle passioni non
generose, e dai partiti temerarj ed arrischiatissimi, affrettatamente
presi per fondare un ordine nuovo politico; egli procaccerà di
dedurre (quanto lo può il privato o parlando o scrivendo) tutto quel
più acconcio e quel più ragionevole che gli detterà l'esperienza,
la probità ed il senno. Perchè, colpa gli sarebbe di rimanersene
inoperante laddove si tratta di campare le nostre provincie dal rischio
grave dell'anarchia, della guerra civile e della occupazione straniera;
i tre disastri maggiori onde può venir percosso uno Stato. Procurerà,
poi, sopra ogni cosa l'unione degli Italiani, l'attiva e forte
confederazione delle Provincie loro, e il sollecito rinnovamento della
guerra del riscatto; siccome colui che serba in cima d'ogni pensiero,
d'ogni desiderio, d'ogni sentimento, il proposito santo e incrollabile
della Indipendenza nazionale, e antepone mille volte i rischi e i
disastri medesimi della guerra ai danni e ai pericoli dell'anarchia e
delle zuffe intestine.

Queste dichiarazioni e questi pensieri ò creduto debito di recare
sinceramente a notizia della Santità Vostra, perchè io non vi sembri in
nulla diverso da me medesimo, nè possa alcuno accusarmi o di sovvertire
le leggi o di perturbare lo Stato. Del resto, la necessità sola di
porre i fatti in piena e nitida luce, e di condurre la mente a raccòrne
la significazione propria ed intrinseca, m'à mosso a parlarvi con
libertà ed ischiettezza, inusitate in qualunque corte, inusitatissime
nella romana. Ma il vero, ancorchè troppo nudo, mai non à recato
pregiudizio e rincrescimento, e mai non à dispiaciuto agli spiriti
grandi e magnanimi. Oltrechè, la inviolabilità della vostra sacra
persona, e la nobiltà e purezza non alterabile delle vostre intenzioni
tanto disgravano Voi d'ogni colpa, quanto l'accrescono ai diplomatici
ed ai prelati che vi attorniano e vi consigliano. A me dura, Padre
Santo, in cuore una viva speranza di vedervi fra non molti anni con
altre voci e con altri nomi glorificato, senza bisogno alcuno di
sindacare le opere vostre, e senza timore di trovarle in nulla dispari
alla sapienza divina che in Voi riposa, e alla maestà sovrumana che vi
circonda. Allora la Chiesa edificata dallo Spirito tornerà tutta allo
Spirito; e sdegnerà quei puntelli e quelle difese di materiale potenza
di cui non à d'uopo e i quali per molti secoli non conobbe, fiorendo
ciò non ostante di maggior santità, legando i cuori delle nazioni più
barbare, e splendendo più che dipoi non facesse nei miracoli e nelle
dottrine. Allora la religione vivrà sicura e onoranda in seno d'ogni
libertà civile e politica; e per converso, le libertà e i diritti de'
popoli si nudriranno di religione, che sarà domandata Umana e Civile
per eccellenza. E Voi, Padre e Pastore di tutte le genti, svestito
allora della grave cappa di piombo che il dispotico principato favvi
addossare, tornerete albeggiante del mondissimo cámice e luminoso della
stola pontificale; ed or sull'uno or sull'altro dei Sette Colli, quasi
su nuovo Taborre, innalzato e trasfigurato, non mirerete altra cosa
sotto di voi che turiboli agitati e fumanti, nè saliranno alle vostre
orecchie altri suoni se non di parole d'amore e di laudazione. Allora,
infine, salito dalle tempeste mondane e politiche alla serena pace dei
dogmi, e scorgendo di quivi alto il penoso affaticarsi delle presenti
generazioni, più abili assai per distruggere che per fondare, più per
ismuover le terre che per seminarle, più per negare che per affermare;
Voi porgerete le innocenti vostre mani a quell'opera augusta e finale,
senza di cui tutto il travagliare del secolo è vano delirio; dico alla
salda riedificazione dei principj e delle credenze.

  Roma, alli 30 di gennajo del 1849.



APPENDICE.


Terenzio Mamiani, chiamato a sedere nell'Assemblea Costituente Romana
dagli elettori della provincia di Urbino e Pesaro, accettò l'onorevole
ufficio con la speranza di far prevalere nel congresso le opinioni
sue intorno alla forma di governo; essendo che moltissimi deputati
sembravano partecipare a quelle opinioni, e volerle difendere con la
parola e col voto.

Nella terza tornata dell'Assemblea, cioè subito che si potè, giusta
gli ordinamenti, far luogo alla discussione, il rappresentante signor
Savino Savini salì in tribuna, e propose di dichiarare in quell'ora
medesima essere i Papi scaduti per sempre dal dominio temporale.
Allora il Mamiani, chiesto di parlare, ribattè la proposta col seguente
discorso, già pubblicato nel _Monitore Romano_.


  Signori,

Pronunziare la _decadenza_ dei Papi è dir cosa che racchiude due molto
distinte significazioni, le quali fa gran bisogno di ben chiarire e di
ben intendere. Dappoichè l'Assemblea Costituente risiede in Roma, e
giudica di essere qui mandata dal Popolo tornato in possesso di ogni
diritto, i Pontefici non possono più oltre pretendere alcun impero
temporale assoluto, nè alcun principio d'autorità il qual sia superiore
e nè manco pari a quello che rappresentasi dall'Assemblea. Con tale
sentimento, adunque, assumendosi la proposta della decadenza dei Papi,
credo che pochi o nessuno dissentirebbe in quest'Adunanza. Ma per
ciò che risguarda l'altra significazione, che comunemente s'intende
e s'inchiude in quel pronunciato, e ciò è che i Papi non debbano
venire mai più investiti, neppure da voi, di autorità principesca;
ella è cosa sulla quale desidero di manifestare e di esporre alcuni
miei pensamenti. Godo in primo luogo, che la discussione sia subito
pervenuta al suo capo essenziale. Alcuni qui sedenti desideravano
assai di procrastinare, e che l'Assemblea volesse avanti occuparsi
nella legislazione costituitiva del nostro Stato. Ma io godo (ripeto)
che il vero quesito, il principalissimo e fondamentale quesito sia
subito posto innanzi; per trattare il quale io accettava l'onore ed il
carico di rappresentare in questo consesso la Metaurense Provincia.
Per tale subbietto gravissimo, e affine di assistere a così grande e
solenne dibattimento; benchè io sapessi che il mio nome è caduto e
la mia influenza è annullata; benchè sapessi di non poter più fare
assegnamento su quella facile udienza, su quel pronto aderire e su
quegli applausi frequenti che seguitavano i miei discorsi in altra
Assemblea; pure, sciogliendomi da ogni dubbiezza e acchetando nel
cuore qualunque trepidazione, sónomi intieramente affidato alla vostra
benevolenza e alla vostra giustizia.

Signori, siamo schietti, e fuggiamo le sottigliezze e l'equivocazioni.
In Roma, non ci à via nessuna di mezzo; in Roma non posson regnare
che i Papi, o Cola di Rienzo. Mostriamoci dunque franchi e sinceri
alla prima giunta, e come s'appartiene più specialmente a un'Assemblea
popolana e certa dei proprj diritti, quale è questa appunto qui
radunata. Dichiarare la decadenza dei Papi in tutte e due le
significazioni anzi espresse, vuol dire nè più nè meno che stabilire in
Roma il Governo Repubblicano.

Approfittando della benignità singolare, ed anche della ragionevolezza
e rettitudine vostra, per cui vi avvisate di lasciarmi libertà piena
di opinioni e di parole, proseguirò ad aprire la mia sentenza con
ischiettezza e un poco distesamente, come ricerca la materia gelosa
e difficile. Innanzi a tutto, io vi annunzio, che qui non intendo
discutere minimamente il valor dei principj. In quanto ad essi, io vo
persuaso, che poca o niuna differenza interviene fra me e buona parte
di questa Assemblea. Io, nel vero, ò sempre opinato che qualora al
poter temporale dei Papi non riesca in niuna guisa di conciliarsi e
accordarsi con tutte le libertà e coi sentimenti nazionali; e qualora
venir non possa delegato in massima parte e rimesso alle Assemblee
ed ai Ministeri e conformato via via con la generale opinione, esso
continuerebbe oggi ad essere quello che, secondo il giudizio mio, è
stato troppo sovente, un flagello per l'Italia, un flagello per la
religione. Similmente io vi dico, che la Repubblica, al mio sentire, è
la più bella parola che suonar possa sul labbro dell'uomo; e dove la
virtù e il senno dei Popoli sia sufficiente all'uopo, la Repubblica
è del sicuro quel reggimento il quale si confà meglio colla dignità
della nostra natura, e tocca l'ideal forma della perfezione civile.
Io non questiono adunque nè di principj, nè di massime universali, nè
di diritti; io voglio solo fermare l'attenzione vostra sull'indole di
alcuni fatti, e indurvi a considerarne parecchie sequele gravissime;
e che ne esaminiate daddovero l'opportunità e la convenienza:
soprattutto, io voglio insieme con voi ponderare ciò che possono
apportare quei fatti alla comune salute e alle sorti estreme d'Italia,
la quale io so bene essere nel petto vostro il primo, il sommo dei
sentimenti e degli interessi.

Quando i Francesi deliberarono di spiantare il trono di Luigi
decimosesto, tenevano a requisizione loro, ed esecutrici del lor
volere, trecento e più mila militi agguerriti e disciplinati. Io mi
volgo a guardare intorno di voi, o signori, e non vedo l'esercito
ch'eseguir debbe i vostri decreti; perchè non suppongo bastare all'uopo
le non molte migliaja di uomini che noi possediamo, poco agguerriti
finora e disciplinati. Ma v'à di più: dallato alle trecentomila
bajonette francesi cresceva ogni giorno e abbondava un'altra forza
ugualmente o più formidabile ancora, l'attiva e fervososa adesione del
Popolo. Quelle plebi sollevate davano volenterose l'ultima goccia del
proprio sangue per la causa Repubblicana; e voi sapete bene il perchè.
Al sentimento Nazionale, radicato ed innaturato nel cuor de' Francesi
da secoli, aggiungevasi un'apprensione ed una paura assai generale,
che il furioso manifesto del Duca di Brunswick si avverasse; e cioè
a dire che il Popolo minuto tornasse sotto il peso e l'ingiuria delle
servitù personali, sotto il peso delle parangàrie, sotto le avanie, gli
spregi, i soprusi, e tutte mai le usurpazioni e le concussioni delle
classi privilegiate. Per questo principalmente la moltitudine levandosi
a stormo e facendo massa, correva ad affrontare il nemico e a romper
col ferro la congiurazione dei re; per questo principalmente rinnovò la
Francia tredici volte l'eroico esercito suo. Ma non iscordiamo, io vi
prego, non iscordiamo, o Signori, che ciò che la Rivoluzione Francese
à raccolto di veramente fruttifero ed utile alle classi inferiori,
è pressochè in intero accettato e praticato oggi dalle Nazioni più
colte e con saviezza governate. La libertà civile e la parità perfetta
innanzi alla legge, l'estinzione dei privilegi e lo svellimento fin
dall'ultime lor radici delle soperchierie feudali, buona pezza è
che, mercè di Dio, vennero procurati e compiuti in ogni Provincia
Italiana. Laonde, non si volendo aver ricorso ai delirj del Comunismo
e alle speranze vuote e fantastiche de' Socialisti, quello che si può
promettere oggi da noi alle moltitudini perchè ci seguano coraggiose
e infiammate, perchè versino largamente e con letizia il sangue delle
lor vene, si è un profitto ed un bene poco visibile e poco palpabile,
non molto certo, non vicino, non bastante ad accendere la fantasia e
lusingar l'interesse.

Peraltro, io sento i giovani generosi rispondermi, che la parola
Repubblica à suono portentoso e immortale. La vista del vessillo
repubblicano, dicono essi, esercita nel cuor dei Popoli un'invincibile
attraimento, e sveglia dovecchessia uno spirito sempre nuovo di
splendide azioni e uno zelo infinito di _Propaganda_. Noi dunque,
concludono, afferreremo con fede la santa bandiera, e traendola
trionfalmente per le contrade tutte Italiane, troveremo quell'armi,
que' tesori, quel séguito e ardore di genti e di opere, che alla
vittoria finale della notra causa bisognano.

A me, in considerazione della salute d'Italia, fa grandemente mestieri
di seguire con l'occhio e un po' più d'accosto indagare ed esaminare
questa trionfale processione del frigio berretto. E prima, concedo
che non sarà molto malagevole fare repubblicana la vicina Etruria;
e confesso che, nel trambusto e scombujamento in cui trovasi quello
Stato, tanto è facile imporgli qualunque forma di governo, quanto
difficile il conservarvela. Contuttociò, nè anche in Toscana mi avviso
sarà senza dolore il piantare la vostra bandiera; perchè, se il gran
Duca si rifuggisse (poniamo) in Siena, si avrebbe forse un lacrimevole
saggio del Medio Evo Italiano; e noi vedremmo ancora il sangue dei
Fiorentini e dei Sanesi bagnare le glebe del più fiorito giardino
d'Italia. Pure, ripeto, vi si conceda che la Toscana presto diventi
Repubblica; ma non molto di forza, non molto di tesoro, non copia
grande di gente, non notabile incremento di armi e soldati recherebbe
quella conquista alla causa che voi caldeggiate. Egli bisogna procedere
più avanti, varcar la Macra e la Sesia, varcar le frontiere del
Piemonte ancora armato ed intatto, perchè là è il nerbo, là il braccio
e lo scudo d'Italia. Ora, in Piemonte la conversione non può succedere
del sicuro con uguale facilità e con uguale prontezza, perchè ciascuno
quivi à la mente e l'animo pieno e informato di regie memorie e di
regie tradizioni e costumi. Il Popolo Piemontese, partecipando più
d'ogni altra stirpe italiana della natura settentrionale, à la fantasia
meno mobile, il consiglio più posato, molta gravità e costanza negli
usi, negli affetti e in qualunque intimo pensiero e convincimento.
E che lo spirito monarcale di quella provincia non sia fugace e non
iscemi rapidamente siccome altrove, si dimostra dalle cagioni. La
storia intera del Piemonte è da secoli parecchi la storia sola della
casa di Savoja. Tutto il bene e tutto il male provenne da lei, e
séguita a provenire. Nè possono i Subalpini dimenticare giammai, che
mediante la spada, il valore, la sagacità e la industria de' principi
loro sieno divenuti una gente che à moltissima dignità, forza,
importanza fra moltissime altre, e che è giunta oggi per effetto di
regie vittorie e di regie conquiste a tenersi in mano la più gran parte
de' destini della Penisola. So che accosto al Piemonte sta Genova, e
so che Genova è, per lo contrario, nutrita di tradizioni repubblicane,
e tra costumi repubblicani è cresciuta. Ma colui s'ingannerebbe
più che mediocremente, il quale reputasse Genova molto disposta ed
apparecchiata ad accettare la vostra bandiera. Genovesi e Liguri sono,
innanzi ogni cosa, mercatanti e navigatori; e per l'esperienza raccolta
in più di trent'anni, non v'à nessun cittadino colà, il quale non
siasi avveduto e non confessi candidamente, che alla città di Genova,
così a rispetto del suo commercio, come dell'importanza sua politica
e della salute comune d'Italia, torna utilissimo essere congiunta al
Piemonte, e rimanere provincia del regno Sabaudo. Ora, ecco il mio
discorso a che viene. Chiamando i Subalpini sotto il vostro vessillo,
voi non perverrete che ad uno di questi due effetti: o si sveglierà e
diffonderà pel paese una oppugnazione micidiale e rabbiosa contro le
idee repubblicane e contro le libere istituzioni; ovvero il vedrete
riempiersi tutto di partiti e di sètte, di sanguinosi tumulti, e di
soppiatte congiure e macchinazioni. Nell'uno e nell'altro caso, il
Piemonte verrà senza meno scompigliato e disfatto: cosa per la quale
l'esercito Subalpino, nel cui cuore e nelle cui braccia sta la vera e
la sola forza italiana, non potrà mantenersi ordinato e disciplinato,
nè congiunto e stretto da un solo legame di affetti, nè rivolto al
proposito solo della guerra santa del riscatto. A me poi non bisognano
molte parole a mostrare le conseguenze di tutto ciò.

L'astuto Radetzky ripeterà inverso del Piemonte quel medesimo che
operava a rispetto della Lombardia. Chiuso egli e ben trincerato nelle
sue vaste fortezze, venne spiando a grand'agio il luogo, il giorno, il
momento opportuno per assaltare e sbaragliare i nemici. Ora, pensate,
o Colleghi, che una simile cosa va mulinando colui in risguardo del
viver politico degl'Italiani; e visto il Piemonte sossopra e l'esercito
disunito e scompaginato, gli piomberà addosso un bel giorno, e in due
marciate, con poco sangue e contrasto, si accamperà nella nobil Torino.

Una istanza mi si può movere contro, ed è la presente. La Francia non
può del sicuro abbandonare questa od altre Repubbliche nuove, nate
dell'esempio suo, perchè ucciderebbe insieme il principio che la fa
vivere oggi, e il quale di sua natura è geloso, diffusivo e superbo.
Che quando anche a quel Governo non paresse necessità di soccorrere una
nascente Repubblica, sua compagna e sorella fidissima, il moverebbe
un'altra più certa e più sentita necessità; quella di non poter
tollerare i Tedeschi accampati al piè delle Alpi, e vicinissimi alle
sue sacre e inviolate frontiere.

A me sembra altresì di udire alcuno che aggiunge: — Forse alla impresa
nostra avremo compagna eziandio tutta la parte più animosa e civile
del genere umano, scossa e maravigliata della portentosa risurrezione
di Roma: i voti, le propensioni e gli sforzi di tutti i Popoli, non
ancora in compiuto modo emancipati e sicuri, in noi si convergeranno,
e starà con noi come vivo e organato lo spirito democratico di tutte
le genti; forse dal nostro esempio, il quale dal luogo e dalle memorie
prende valore inestimabile, scoppierà nuova scintilla di universale
e inestinguibile incendio, e a noi toccherà la gloria, non tocca a
veruno, di avere come cagione prossima affrancato davvero e rigenerato
per sempre l'Europa intiera. — Vedete che io non mi adopero punto a
celare ed attenuare la copia e il vigore delle vostre risposte, nè
le speranze, le congetture, i giudicj e gl'indovinamenti che il nobil
cuore e l'ardir generoso vi detta e vi persuade.

Signori, il danno d'Italia si è, che spesso ella incomincia e
intraprende ciò appunto che altrove è finito, e procaccia di rialzar
quelle insegne che altrove sono cadute: ella, per sua sventura, non
sa ben cogliere e usare nè il tempo nè l'occasione. Se alquanti mesi
addietro aveste ordito i vostri disegni e le vostre speranze in sulla
democratica forma che pigliava tutta l'Europa, io ci avrei ravvisato
alcun buon fondamento: ma quest'oggi, invece, non può da nessuno
ignorarsi che incomincia a prevalere e predominare in Francia, e per
ogni dove, uno spirito gagliardo di conservazione e di resistenza; e
che, pur troppo, la falange ordinata e strettissima ch'egli conduce,
ha guadagnato assai vittorie sui popoli; e torna peggio che inutile
il volerlo più oltre occultare e negare a noi stessi. Già la seconda
terribile sollevazione di Vienna è caduta e spenta; l'altra di
Berlino s'è tutta rivolta in favore del monarcato; e non mai la Casa
di Brandeburgo à di maggiore autorità e preponderanza e di maggiore
dignità regia goduto ed approfittato. A Francoforte, o Signori,
mentre poco fa nessun principio e forma di reggimento democratico
pareva assai larga e assai popolare a quell'Assemblea, oggi non più
si pensa ad un presidente di condizione privata, e scelto e foggiato
all'americana, ma si pensa e guarda ad un re di vecchia progenie e
di antica possanza, e il qual sia imperatore di tutta Germania, e non
elettivo come in antico, ma nella linea sua rinascente e perpetuo. La
Svizzera, finalmente, la Svizzera stessa che pur si regge a Repubblica,
e soscriveva testè un patto confederativo, fondato sopra massime le
più umane e le più liberali del mondo; quest'oggi, voi lo sapete,
cerca e studia di stringer legami di salda amicizia coi principi che la
circondano; e piuttosto si mostra parziale e tenera dei loro interessi,
che degli interessi e bisogni estremi e angosciosi dei miseri rifuggiti
Italiani.

Queste sono verità, miei Colleghi, positive e di fatto, e però evidenti
(almeno agli occhi miei) ed irrepugnabili; e se evidenti non sono, se
dubbie, se mescolate di falsità, bisogna ciò provare con allegazione di
altri fatti più veri e più certi, e non altramente.

Dopo ciò, voi replicherete ancora, il mondo, l'Europa rimanere con noi;
e se non il mondo, la Francia? Signori, a rispetto di quella potente
nostra vicina, io mi rimetto assai volentieri alle parole medesime del
Lamartine, alle parole solenni del Cavaignac. Io non discopro in esse,
e niuno può discoprirvi, se non che espressioni dubbie ed ambigue,
frasi artatamente mozze ed involte, dichiarazioni a doppio aspetto,
generalità con iscarso o nullo significato; poca volontà al certo di
mettere il proprio sangue e i proprj tesori in difesa e in redenzione
di alcuna parte d'Europa; e molta volontà invece di serbare le cose
quiete, munire le Alpi e assicurar le frontiere con accordi tra Governi
e intervenimenti comuni. E se ciò si udiva dalla bocca del Lamartine e
del Cavaignac, qual giudicio dee formarsi quest'oggi, che la Repubblica
in Francia è stenuata ed agonizzante, e che ognuno aspetta in più o
meno lunghezza di tempo un secondo Impero Napoleonico?

Ma tutto questo considerato, e concludendosi a forza che la
Repubblica è di presente impossibile, e all'Italia troppo funesta,
qual consiglio rimane da seguitare, e che ricisi partiti da vincere?
Riappiccheremo noi quelle pratiche che niuno spera di veder pervenire
ad alcun durevole risultamento? rinnoveremo e ritenteremo accordi
e conciliazioni fatte vane oggimai e impossibili? chiederemo forse
perdono di colpe che non si commisero? o rinuncieremo ai santi diritti
che la medesima natura à scolpito nel cuore di tutti gli uomini,
siccome titoli e note della grandezza dell'esser nostro?

Anzi ogni cosa, o Rappresentanti, abbiatevi questo per giudicato, che
la gran questione che oggi qui ci raduna non si risolve per intero col
nostro arbitrio e talento, e pigliasi errore non lieve, a pensarlo.

Per fermo, Voi siete padroni e arbitri della legislazione novella di
questa contrada; e in voi sta il potere legittimo, ed anzi lo stretto
debito di provvedere con ogni ampiezza alla sua vita civile e politica,
ma non più là di quella parte e di quell'ufficio che poco o nulla
s'attiene alla sostanziale ed universale salute d'Italia. Certo, a
voi non è lecito di far cosa la quale rompa la simiglianza, l'accordo
e l'armonia necessaria fra le istituzioni de' nostri popoli; e non
dovete imprendere mutazione che metta in compromesso estremo la quiete,
l'ordine, e il prossimo e ben augurato avvenire di tutte le Provincie
Italiane. Io affermo e sostengo pertanto, che questa gran parte
dell'arduo problema non è in vostra facoltà, e non pende dalla vostra
sentenza; ma voi dovete riporla nelle fraterne mani della Costituente
Italiana: ed aggiungo, che tanto a voi disdirebbe e nuocerebbe di più,
miei Colleghi, il sembrare poco guardinghi d'invadere e sopraffare
i diritti della Costituente Italiana, in quanto vi avete raccolto
il pregio e la lode d'iniziarla e di decretarla; e ciò fareste, o
patrioti, quando, in che giorno, in qual congiuntura, in qual luogo? in
mezzo di Roma, al cospetto de' vostri fratelli, con atto precipitoso e
dispotico, nella vigilia stessa (può dirsi) del dì fortunato che Ella,
la grande Assemblea, verrà a sedere sulle cime del Campidoglio.

Questo punto, adunque, del mio discorso rimanga ben chiaro, rimanga ben
fermo; che, cioè, pronunziare la decadenza del Papa, nella prenotata
ed ovvia significazione di quella voce, non è riposto onninamente nel
vostro arbitrio, nè pende dai vostri decreti, ma sì dalla Costituente
Italiana. E qualora vi martellasse lo scrupolo o la diffidenza o
l'orgoglio di non cedere nemmanco in ciò ogni giudicio a quel tanto
Consesso, degnatevi almeno di consultarne il parere, e non isfuggite
in sì procelloso e dubbio negozio di avere da lui norma, consiglio,
indirizzo ed approvazione; fate al mondo conoscere che siete veri e
leali Italiani non men nelle azioni che ne' pensamenti; e nessuna gran
cosa voler definire, nessuna deliberare, senza il beneplacito della
Nazione, in concordia con tutti i suoi popoli, in conformità con tutti
i suoi interessi. L'Italia aspetta da voi o l'ultimo esempio della
municipale superbia, o il primo della nazionale unione e docilità.

Prima che io scenda da questa ringhiera, dove troppo lungo tempo
mi accorgo d'esser rimasto, ma dove peraltro ò raccolto graziose
testimonianze della vostra gran cortesia, favorendomi tutti di una
così attenta e vivissima ascoltazione; io voglio solo mettere innanzi
alla mente vostra certo concetto che non mi sembra da trasandare nella
quistione.

Se lo straniero, o Colleghi, non istesse contro di noi accampato
in Lombardia, e cento mila bajonette non convergessero di continuo
le punte loro contro le nostre persone, io sosterrei volentieri che
voi compiste la troppo arrischiata prova, alla quale volete a forza
avventurarvi. Io so bene, e tutte le storie me lo insegnano, ed anche
la mia privata esperienza me lo conferma, che il risorgimento dei
popoli mai non procede per una via dritta e ben rispianata: ma, invece,
può il suo cammino venir figurato assai propriamente da una gran curva,
in cima alla quale concorrono e tumultuano le passioni più focose e
infrenabili, i tentamenti ed i conati più temerarj, le speranze fallaci
e la presunzione infinite volte delusa di attingere immediatamente e di
praticare l'idea suprema d'ogni politica perfezione; poi quella curva
gradatamente declina e discende, finchè la nazione che la trascorse
viensi a trovare in quell'assetto sociale e politico che si conforma
coll'indole sua verace e perpetua, si conforma coi suoi costumi, coi
suoi bisogni, co' suoi sentimenti; e allora, in fine, nasce e si assoda
la pace insieme col diritto, la dignità con l'ordine, la libertà con la
sicurezza, e a splender comincia una perdurabile gloria e possanza di
leggi, di scienza e di civiltà.

Ripeto che gli eccessi medesimi, qualora eccessi ed enormità sanguinose
avessero luogo, non mi sgomenterebbero più che molto; e forse è
vero così dei popoli come de' singoli uomini, che niuna esperienza
giova loro insegnata o dalle storie o dai savi, ma quella soltanto
che fanno eglino penosamente di sè medesimi. Ma quando la guerra è
imminente, e i segni e i forieri ne moltiplicano d'ora in ora; quando
i Croati ripigliano stanza e dominio in Milano, e Radetzky preme col
piede intriso di sangue il petto lacerato e pressochè inanimato della
Lombardia; possiamo noi abbandonarci, senza gran colpa, a lunghe, a
travagliose, a incertissime prove e saggi di forme di governo? Possiamo
noi rischiare di crescere ancor di vantaggio le perturbazioni e le
divisioni della patria nostra infelice? Ricordatevi, o Signori, che se
aveste oggi pupille così penetranti da speculare i campi Lombardi, voi
scorgereste colà i feroci Croati sforzare a torme gli asili innocenti
dei più pacifici e più ragguardevoli cittadini; scorgereste quei
barbari saccheggiare con egual furia i palazzi dei patrizj e le modeste
case dei popolani; e predando ogni cosa e guastando sotto nome e titolo
di balzelli e di taglie, vedreste per opera loro le città manomesse,
devastate le campagne, le donne contaminate, oppressa la più minuta
e misera plebe sotto continue spogliazioni, battiture ed ingiurie. E
similmente, o Signori, se fosse per poco tempo fornita agli orecchi
nostri una virtù tale da vincer lo spazio che si frappone fra noi e
le valli del Po, forse in questo momento medesimo che io vi parlo,
udiremmo lo scoppio orribile dei moschetti che mieton le vite dei
nostri fratelli, le vite care e generose che non sapemmo difendere, e
tanto tardiamo di vendicare.


A tale discorso risposero molti e molti, e due soli rappresentanti
favorirono e difesero la sua sentenza.

Volea l'oratore la sera di quel dì stesso provare il suo tèma con
argomenti d'altra natura, e con quelli in ispecie che guardano le
relazioni di Roma col Mondo Cattolico; ma disperò di venire la seconda
volta ascoltato con pazienza e benignità.

Acclamato che fu il Governo Repubblicano in seno dell'Assemblea e
fuori, Terenzio Mamiani addirizzò al Presidente di quella la lettera
qui infrascritta.


  Signor Presidente.

Fu mia intenzione principalissima, accettando l'insigne onore di sedere
in cotesta Assemblea, di combattervi con ogni forza alcune proposte
ch'io giudicava perniciose alla santa Causa dell'Indipendenza d'Italia.
Ora, essendo chiusi per quelle i dibattimenti; e ad ogni buon cittadino
correndo l'obbligo di rispettare le prese deliberazioni; a me rimane
di pregare i degnissimi Signori Rappresentanti a voler gradire la mia
rinunzia.

Il qual favore io chiedo con tanto più di ragione, quanto la mia salute
declinata e mal ferma ricerca la quiete e il riposo di qualche mese. Io
spero, Signor Presidente, che alla bontà e cortesia vostra piacerà di
ajutare coi proprj offici la mia giusta domanda.



NOTE E DOCUMENTI.


_Nota_ A, _pag._ 339.

  Il discorso pronunziato fu il seguente:

      «Signori,

  »Egli è bello e doveroso che le prime voci che s'odano risonare
  in questo recinto, sieno parole d'ossequio e di gratitudine
  all'immortale Principe datore dello Statuto. Pio IX nel cuor suo
  generoso à sentito che la cristiana carità dee potere scegliere il
  bene migliore e spontaneamente moltiplicarlo, e che la spontanea
  scelta del bene non è possibile dove è sbandita la libertà. Però
  in questa nobilissima parte d'Italia, e dopo tanto corso di secoli,
  il Principe nostro inaugura alla perfine quest'oggi il regno della
  libertà vera e legale. Le pubbliche guarentigie largite da lui,
  vengono in atto quest'oggi; e all'arbitrio, ai privilegi, alla
  tutela strettissima e non sindacabile, succede l'imperio delle
  leggi e del comune consiglio.

  »Non sempre la grandezza de' popoli è da misurare dall'ampiezza del
  territorio e dalla potenza delle armi. Imperocchè ogni vera e salda
  grandezza scaturisce dall'intelletto e dall'animo. E però in questa
  nè molto ampia nè formidabile provincia italiana, noi tuttavolta
  siamo chiamati a grandissime cose; e noi dobbiamo con coraggio
  non presuntuoso e con magnanimo sforzo tentare di non troppo
  riuscire inferiori alle memorie di Roma, e all'altezza augusta del
  Pontificato.

  »Un'opera vasta e feconda s'è qui incominciata, il cui finale
  risultamento riuscirà come un suggello non cancellabile della
  civiltà dei moderni.

  »Il Principe nostro, come Padre di tutti i fedeli, dimora nell'alta
  sfera della celeste autorità sua, vive nella serena pace dei dogmi,
  dispensa al mondo la parola di Dio, prega, benedice e perdona.

  »Come Sovrano e reggitore Costituzionale di questi popoli, lascia
  alla vostra saggezza il provvedere alla più parte delle faccende
  temporali. Lo Statuto, aggiungendo la sanzione sua propria e
  politica alla sanzione Cattolica, dichiara che gli atti del
  Principe sono santi e non imputabili, e ch'Egli è autore soltanto
  del bene, e al male non può in niuna guisa partecipare. Certo,
  guardando la cosa da questo lato, se il Governo rappresentativo
  non esistesse in niun luogo, inventar dovrebbesi per queste Romane
  Provincie.

  »Voi dunque siete chiamati, o Signori, a consumare un gran fatto
  e profittevole a tutti i popoli, ajutando il Sovrano ad elevare
  infino al fastigio il nuovo edificio costituzionale; e, oltre ciò,
  altri due beni notabilissimi arrecherete all'intero mondo civile.
  Il primo consiste a dare alle libertà e guarentigie della vita
  sociale e politica quella saggezza e moralità, quell'elevatezza,
  purità e perduranza, che la Religione sola imprime alle cose umane,
  e di cui le virtù e l'animo del Pontefice sono vivo specchio e
  modello. Il secondo bene sarà pur questo, ch'essa medesima la
  Religione fiorisca oggimai e grandeggi in mezzo della libertà vera
  e ordinata, ed a sè attragga gli uomini molto più efficacemente con
  la soave forza della persuasione e della spontaneità, che non coi
  mezzi del poter materiale.

  »A noi impertanto, o Signori, non toccherà solo di abbattere gli
  ultimi avanzi del medio evo, e gli abusi che necessariamente aduna
  ed accumula il tempo; ma ci è impartito un largo e nobile ufficio
  nel trovare e perfezionare, insieme con le più culte nazioni, le
  forme nuove della vita pubblica odierna.

  »Il Ministero che qui vedete presente, o Signori, non è di tanta
  opera se non una parte minimissima e transitoria. Ciò nondimanco,
  egli sente l'immenso ed arduo proposito a cui debbe intendere:
  a lui tardava assaissimo che voi veniste a indicargli le prime
  mête, e a incoraggiarlo del vostro suffragio, a spianargli col
  vostro senno le vie scabrosissime che dee calcare. Quando il
  Principe augusto lo chiamò a reggere la cosa pubblica, la quiete e
  l'ordine interno parevano assai vacillanti, e in alcuna porzione
  già manomessi: quindi la libertà stessa nascente, posta a gran
  repentaglio; quindi la Causa Italiana per indiretto modo offesa
  e messa in qualche pericolo. Impertanto, il debito proprio e
  l'ufficio speciale del Ministero, massime nella quasi imminenza
  dell'apertura de' due Consigli, fu quello di ristaurare l'ordine,
  ricondurre da per tutto la quiete; e, ricomponendo le menti e gli
  animi forte commossi, disporli a quella pacatezza ed equanimità,
  ch'è oltremodo necessaria a fornire la patria di buone leggi e di
  sapienti istituti. Dio à favorito l'opera nostra; e questo popolo
  generoso, ancor ricordevole della gravità e moderanza de' suoi
  antichi, è tornato in sì piena tranquillità e posatezza di spirito,
  che forse la maggiore non s'è veduta da poi che la voce soave di
  Pio IX chiamò Roma e l'Italia a nuovi e maravigliosi destini.

  »L'altra opera principale a cui c'invitava, e che anzi
  imperiosamente ci commetteva l'universale opinione, si fu di
  ajutare per ogni guisa, con ogni sorta di mezzi, con qualunque
  sforzo e fatica possibile, la Causa Nazionale Italiana. E in
  ciò non era facile a noi l'adoperarci meglio e più attivamente
  de' nostri predecessori. Procedendo pertanto assai risolutamente
  sulle orme di già segnate, io non istimo che ne' pochi giorni del
  nostro governo noi non abbiamo mostrato, con la prova patente del
  fatto, le nostre chiare intenzioni, e che lo scopo non sia stato
  raggiunto, quanto pur si poteva in questa nostra provincia, e coi
  mezzi certo non abbondanti di cui potevamo far uso.

  »Non vi è poi nascosto come, obbedendo più specialmente alla
  paterna sollecitudine di Sua Santità, noi ponemmo le truppe nostre
  ed i Volontarj sotto la provvida tutela e il comando immediato di
  Carlo Alberto; serbando, peraltro, al Pontefice e al suo Governo
  tutte quelle prerogative e diritti che la sicurezza e la dignità di
  Lui e nostra chiedevano, come agevolmente voi dedurrete dai termini
  della convenzione tostochè ne piglierete notizia.

  »Del rimanente, appena noi possiamo dire di avere seguito d'accosto
  l'ardore impaziente delle nostre città. V'à nella storia de'
  popoli alcuni momenti supremi, in cui lo spirito di nazione così
  profondamente gl'investe e commove, che ogni forza resistente
  ed avversa non pure diviene fragile, ma sembra convertirsi in
  eccitazione e fomento dell'opposta azione. In quel tempo solenne
  scalda ed invade tutti i cuori un solo pensiero, un sol sentimento,
  una sola incrollabile deliberazione; e tal subita e gagliarda
  unanimità, feconda di mille prodigj, parendo maravigliosa a quelli
  medesimi che ne partecipano, fa loro esclamare con sacro entusiasmo
  quel motto pieno di tanta efficacia e significazione: _Dio lo
  vuole_.

  »Testimonio essendo il Pontefice d'un sì gran caso, e d'altra parte
  abborrendo egli, pel suo Ministero santissimo, dalle guerre e dal
  sangue, à pensato con un affetto apostolico insieme e italiano,
  d'interporsi fra i combattenti, e di fare intendere ai nemici della
  nostra comune patria quanto crudele e inutile impresa riesca ormai
  quella di contendere agl'Italiani le naturali loro frontiere, e il
  potersi alla perfine comporre in una sola e concorde famiglia.

  »Il Ministero di Sua Santità, appena fu consapevole di cotale
  atto memorando di autorità Pontificia, sentì il debito pieno di
  ringraziarnela con effusione sincera di cuore; e segnatamente,
  per avere Ella statuito, a condizione prima e fondamentale di
  concordia e di pace fra i contendenti, che fossero alla nazione
  italiana restituiti per sempre i suoi naturali confini: e oltre
  ciò, perchè sperava il Ministero che quella implicita dichiarazione
  della giustizia della Causa Italiana spandesse novelle benedizioni
  sulle armi generose che i popoli nostri impugnarono, e al re Carlo
  Alberto crescesse animo di proseguire senza tregua nessuna la sua
  vittoria.

  »Nelle relazioni politiche con le altre Provincie Italiane, noi,
  compresi sempre dal debito massimo di secondare e caldeggiare al
  possibile la Causa nazionale, abbiamo súbito manifestato un gran
  desiderio di entrare con esse tutte in istretta e leale amicizia,
  rimossa ogni gelosia funesta ed ignobile dell'altrui ingrandimento,
  e pensando sempre ed in ogni cosa a ciò solo, che l'Indipendenza
  sia conquistata, e la concordia interiore sia mantenuta. E intorno
  a questa ultima, noi vi dichiariamo, o Signori, che appena prese
  le redini dello Stato, súbito abbiamo procacciato di rannodare le
  pratiche più volte interrotte circa una Lega politica tra i varj
  Stati italiani; ed altresì possiamo annunziarvi, che in noi è molta
  e ben fondata speranza di cogliere presto il frutto delle nostre
  istanze e premure, dalle quali vi promettiamo di non desistere
  insino all'adempimento del bello ed alto proposito.

  »Quanto a ciò che risguarda le relazioni coi popoli oltramontani,
  esse, come nelle mani del Sommo Gerarca sono di necessità
  estesissime, abbracciando tutti i negozj dell'Orbe Cattolico,
  nelle nostre mani invece essendo quelle cominciate soltanto da
  pochi giorni, non possono non riuscire scarse e ristrette. Dalla
  qual cosa noi ricaviamo per al presente piuttosto consolazione
  che altro: conciossiachè quello di cui insieme con tutti i buoni
  italiani nutriamo maggior desiderio, si è di essere lasciati stare,
  e che noi possiamo da noi medesimi provvedere alle nostre sorti.
  La massima forse delle sventure che cader potesse a questi giorni
  sulla nostra Nazione, saria la troppo fervorosa ed attiva amicizia
  di alcun gran Potentato.

  »In risguardo poi dell'Austria e della Nazione Germanica, noi
  ripetiamo assai volentieri in vostra presenza quello che altrove
  affermammo; cioè a dire, che da noi non si porta odio, ed anzi si
  porta stima ed amore alla virtuosa e dottissima Nazione Alemanna;
  e che agli Austriaci stessi siamo pronti ed apparecchiati a
  profferire la nostra amicizia in quel giorno e in quell'ora che
  l'ultimo suo soldato avrà di sè sgombro l'ultimo palmo della
  terra italiana. E come l'Italia è lontanissima da ogni ambizione
  di conquiste, e da qualunque disegno di valicare i certi confini
  suoi, perciò ella desidera sinceramente di stringere molti legami
  di buona vicinanza e amicizia coi finitimi popoli. Noi, di ciò
  persuasi, abbiamo sollecitato e pregato principalmente il Governo
  Sardo a spedire abili Commissarj con queste intenzioni medesime
  appresso la valorosa Nazione Ungherese; e noi giunge notizia
  certissima, che il Ministro delle relazioni esteriori del Regno
  Sardo ha tanto più volentieri accettata e assentita la nostra
  proposta, in quanto egli aveva (secondo che scrive) rivolto di già
  il pensiero a quel subbietto medesimo.

  »Ripiegando al presente il discorso sui nostri interni negozj e
  sulle politiche condizioni di queste Provincie, varia, abbondante
  e faticosissima è l'opera che da far ne rimane. Imperocchè non è
  parte del pubblico reggimento, la qual non domandi larghe riforme
  ed utili innovazioni; e se l'opera in ciascun suo particolare è
  laboriosa e difficile, essa è tale infinite volte di più nel suo
  tutto insieme, volendolo bene ed intrinsecamente coordinare ed
  unificare; la qual cosa ricerca un vasto sistema preconcepito di
  civile e politico perfezionamento: e a tale sistema intenderà il
  Ministero con tutte le forze sue.

  »Ciascuno di noi vi esporrà tra breve, o Signori, lo stato del
  suo special Dicastero, e le mutazioni necessaire e profonde che
  fa pensiero d'introdurvi. Il Ministro delle Finanze segnatamente
  v'intratterrà delle condizioni attuali del pubblico erario, e vi
  proporrà quei partiti che, dopo maturo esame e finissima diligenza,
  egli reputa esser migliori per ristorare così il Tesoro come il
  credito pubblico, e affine che ciò si adempia col minore aggravio
  possibile delle popolazioni.

  »Ai Ministri sta pure a cuore di presto sottoporre al giudizio
  e deliberazione vostra quelle proposte di legge che lo Statuto
  promette, e sono organi principali alla vita nuova costituzionale
  in cui, la Dio mercè, siamo entrati. Principalissime fra
  gl'istituti e le leggi nuove e fondamentali a cui dovrete por mano,
  saranno la costituzione dei Municipj, e la risponsalità effettiva e
  non illusoria dei Ministri e dei pubblici funzionarj. Lo istruirvi
  e ragguagliarvi quest'oggi sopra i particolari moltissimi di tali
  proposte e di somiglianti, non credo che riuscirebbe opportuno.
  Presto l'esigenze del nostro ufficio condurrànnoci a farlo con
  quella chiarezza e puntualità che domanda ciascuna materia.

  »Signori! i tempi corrono più che mai procellosi. Nei popoli è
  una soverchia impazienza di tramutare gli ordini, e perfino i
  principj e le fondamenta della cosa pubblica. Tutto ciò che i
  secoli effettuarono e stabilirono con fatica e lentezza, vien
  minacciato di súbita distruzione. Ma dopo aver atterrato, conviene
  rifabbricare con gran saldezza e con felice magistero; e da questa
  opera sola potrà giudicarsi il valore della moderna sapienza
  civile. Il Ministero à piena fiducia che voi radunati nella Città
  eterna, daccanto all'immobile seggio del Cristianesimo, varrete a
  compiere l'impresa difficilissima del riedificare e ricostruire; e
  che voi in queste arti di pace e di civiltà saprete pareggiare la
  gloria de' nostri armati fratelli, che là sulle rive del Mincio e
  dell'Adige rispondono con eroica bravura allo straniere insolente,
  che lanciava sul nostro capo inerme e infelice l'accusa bugiarda di
  slealtà, d'ignavia e di codardia.»

  Parrà molto strano al lettore oculato e imparziale, che questo
  discorso moderatissimo e tutto conciliativo, nè d'altro acceso
  che di vero spirito religioso e civile, abbia soggiaciuto ad amare
  censure, e provocato da ultimo una riprovazione più che solenne.
  Certo, accaddegli in sulle prime il contrario, e infinite lodi
  raccolse dall'ordine prelatizio; ed è notissimo in Roma, che
  fu letto e consentito dal Principe, il quale si degnò farvi di
  proprio pugno alcune ammende e postille. Ma la setta farisaica ed
  aggiratrice che mai non si scosta da lui, ed à i liberali tutti per
  reprobi, e ogni sentenza loro per abbominosa ed eretica, persuase a
  poco a poco al Pontefice, che in quel discorso si nascondeva molto
  veleno, e le intenzioni n'erano maligne, disleali e sovvertitrici;
  onde alla fine egli dubitò, se proseguiva a tacersi, di gravare la
  propria coscienza; e però, nell'Allocuzione sua del 20 aprile del
  presente anno,[36] dopo alquante parole fatte sul ministro Mamiani,
  aggiungeva queste altre, visibilmente relative al prefato discorso:
  — _Atque idem ipse (minister) haud multo post ea de nobis palam
  asserere non dubitavit, quibus Summum Pontificem ab humani generis
  consortio ejiceret quodammodo et dissociaret._ — Ai, lettore, da un
  lato il discorso, dall'altra la interpretazione romana; sei pregato
  di giudicare.

  Le altre accuse contro il Mamiani sono così nell'Allocuzione
  significate: — Memineritis, Venerabiles Fratres.........., _quomodo
  civile ministerium nobis fuerit impositum, Nostris quidem consiliis
  ac principiis et Apostolicæ sedis juribus summopere adversum......
  Unus ex illis Ministris asserere non dubitabat, bellum idem, Nobis
  licet invitis ac reluctantibus, et absque Pontificia benedictione,
  esse duraturum. Qui quidem Minister gravissimam Apostolicæ
  Sedi inferens injuriam, haud extimuit proponere, Civilem romani
  Pontificis Principatum a Spirituali ejusdem Potestate omnino esse
  separandum._ —

  Può darsi che il Ministero del 2 di maggio venisse dagli abitatori
  del Quirinale accettato come una dura e molto increscevole
  necessità. Ma certo di essa non fu nè autore nè strumento il
  Mamiani; il quale avendo prima usato quanta efficacia possedeva di
  parole e preghiere per sedare i tumulti, e ricondurre ogni cosa
  per entro i confini della legalità e dell'ordine, chiamato poi
  a consulta dal Principe, non propose nulla che non rimanesse nei
  più stretti termini della Costituzione; e mai, nè dallo spirito
  nè dalla lettera di quella si dipartì. Vero è che dopo non molto
  tempo, nacque, per isventura, dissentimento tra il Principe e i
  suoi nuovi Ministri; ma, giusta le massime costituzionali, eglino
  subitamente pregarono Sua Santità di accettare la lor rinunzia,
  alla quale non facendosi luogo, fu appresso alquanti giorni
  ripetuto quell'atto con instanze più vive, e similmente senza
  frutto; insino a che trascorse le cose agli estremi, le rinunzie
  furono date in modo assoluto ed irrevocabile, e senza aspettare
  accettazione. In tal guisa quei Ministri permasero (come dicesi
  oggi) dimissionarj la più parte del tempo che tennero in mano il
  governo, e non ebber licenza nè di lasciarlo nè di condurlo a lor
  modo, e a modo pure dei Consigli deliberanti, in ciascuno de' quali
  il maggior numero de' suffragi fu sempre e abbondevolmente con
  quelli. Come ciò rassembri a sopraffacimento e a violenza, e quanto
  sia ingiurioso ai principj e ai diritti della Sede Apostolica,
  aspettiamo di sapere dall'opinione dei savj.

  Circa alle altre frasi testè trascritte dell'Allocuzione, è
  primamente da confessare, che il Mamiani à in fatto desiderato
  assai di separare quanto più fosse possibile e conveniente la
  potestà principesca dalla pontificale; ma però sempre con l'azione
  dello Statuto e nei termini da esso prescritti; e se quelle parole
  omnino esse separandum niente più di ciò non vogliono intendere,
  il Mamiani non se ne tiene punto aggravato, anzi se ne loda e
  compiace. In fine, rispetto al proposito rimproveratogli di aver
  voluto proseguire la guerra dell'Indipendenza Italiana in sino a
  che rimaneva alle armi nostre speranza d'onore e di buon successo,
  ciò è tanto vero e manifesto, quanto non è che dalla tribuna o
  nelle sue circolari o in qualunque altro atto ufficiale e pubblico
  del suo ministero abbia egli significato quella deliberazione
  nel modo e nei termini che l'Allocuzione riferisce. Poco fedeli
  rapportatori, pertanto, sono stati coloro ch'ebbero cura ed ufficio
  di ragguagliare di tali cose il Pontefice; la colpa e l'eccesso
  de' quali è da misurare dall'importanza e solennità che soglion
  ricevere i fatti rammemorati, e ciascuna sentenza e ciascun
  giudicio espresso nelle allocuzioni pontificali, dette in presenza
  del consesso Cardinalizio, use a trattare i maggiori negozj della
  cristianità, e a censurare le sole opinioni eterodosse, e quegli
  uomini di perduta fede che sono scandalo e pregiudicio a tutto
  il mondo cattolico. Dal che si vede ch'era riposto nella mente
  di que' pessimi referendarj di assaltar la fama del Mamiani con
  parole autorevolissime, e così straziarla a loro agio ed ucciderla:
  perchè contro esse parole, per ordinario, o manca l'ardire della
  difesa o il mondo non l'accetta; e però possono venire applicate
  come aguzzi coltelli addosso a persona sprovveduta ed imbavagliata.
  Ma non pensavano i referendarj, che v'à richiamo quest'oggi da
  ogni qualunque sentenza la più assoluta e imperiosa; ed anzi, la
  parità del diritto al gran tribunale dell'opinione è tanta e così
  perfetta, che concedesi a tutti di giustamente recriminare e dar
  libello di falsità e di calunnia.

  Qui poi si tace il racconto (strano e curioso sopra ogni credere)
  che far potremmo delle vicende di quel discorso ministeriale
  poc'anzi riferito; e il quale, in considerazione appunto della
  guerra che gli fu mossa e delle menzogne che se ne spacciarono,
  abbiamo voluto riscrivere a lettera, e con tutte le mende e le
  negligenze di stile con cui fu dettato allora, sì per la fretta e
  sì per l'animo inquieto, e d'altro preoccupato che di grammatica.
  Ciò non pertanto, porzione di quella storia aneddota può leggersi
  nel Libro secondo sullo Stato Romano di L. C. Farini, dov'è
  inserita eziandio la bozza d'un'Allocuzione che il Mamiani scriveva
  a nome e d'ordine di Pio IX.


_Nota_ B, _pag._ 340.

  Ristampiamo volentieri quella Proposta di legge, non meno per la
  novità e utilità del concetto suo, come per meglio chiarire la
  falsità delle accuse scagliatele contro. Del resto, sfortunata e
  soppressa negli Stati Romani, trovò approvazione in Toscana, dove
  al Ministero dell'istruzione pubblica fu aggiunto l'officio di
  tutelare e dirigere la pubblica beneficenza. Nella infrascritta
  Proposta noi preghiamo altresì il lettore a voler notare un
  tentamento non ispregevole dell'arte difficilissima ed utilissima
  di dare all'opera del Governo quell'ampiezza e quell'efficacia,
  che accordasi compiutamente con qualchessia libertà di privati, e
  con ogni trasformazione e progresso nello spirito di socialità e
  di consorteria. Sopracchè riman di vedere quello che l'autore ne
  discorse di poi nell'Accademia di Filosofia Italica.[37]


  PROPOSTA DI LEGGE PER LA ISTITUZIONE DI UN MINISTERO SPECIALE DI
  PUBBLICA BENEFICENZA.

  _Ragione ed economia generale della Legge._

  Sorgente prima ed inconsumabile di beneficenza è la carità, cioè
  quella dilezione attiva ed eroica in verso del prossimo, che ci
  vien persuasa e insegnata principalmente dalla religione.

  Ma la carità operar deve _bene ordinata_,[38] e torna impossibile
  oggi il credere di avere ogni cosa fatto e ogni cosa provveduto a
  sollievo dei poveri, quando siensi, non che largite, ma eziandio
  profuse le proprie sostanze in profitto di quelli. E similmente,
  non è ragionevole il reputare che agl'istituti di beneficenza
  fondati da' padri nostri non bisognino molte e sostanziali riforme,
  e non rimanga oltre ciò da promuovere e da creare gran numero
  d'altri istituti o poco o nulla noti agli antichi: in fine, vietano
  i nostri tempi di giudicare che la carità bene ordinata possa
  procedere al vero vantaggio e conforto de' miseri senza attingere
  mille variate cognizioni ed applicazioni alla Economia pubblica,
  alla Statistica, all'Igiene, all'Industria, all'Agricoltura, alla
  Tecnologia.

  Ora, tale funzione della carità illuminata e bene ordinata
  appartiene così al Governo come a qualunque uomo particolare.

  Il mondo civile, siccome il fisico, è composto di antagonie.
  Quindi, nessuna risoluzione dei problemi civili è buona se
  volge le cose a un solo dei due estremi. V'à chi vuole lasciar
  imprendere e provvedere il tutto ai Governi; chi invece toglie
  loro pressochè ogni incumbenza, e si commette per intero e in ogni
  negozio all'opera de' privati e de' municipj. Ma come la natura,
  ogni volta che nelle sue creazioni vuol porgere lo splendente
  modello di alcuna perfezione, ci mostra sempre un temperamento
  mirabile dell'uno nel vario, e della vita vigorosissima delle
  membra congiunta e organata con la vita interiore e suprema del lor
  composto; così nel corpo sociale umano erra chi vuole, opprimendo
  l'agire spontaneo dei singoli cittadini e la libertà dei municipj,
  costituire una violenta unità e uno smoderato concentramento
  ministrativo. Ed erra del pari chi stima che il bene massimo
  della repubblica sia per uscire unicamente dall'azione disparata e
  sconnessa degl'individui e dei comuni, e senza bisogno di procurare
  e attuare al possibile la collegazione e l'unità dei principj,
  delle intenzioni e dei fini, e certo moto iniziale e universalmente
  direttivo.

  Con queste considerazioni è meditata la proposta di legge che a
  Voi rechiamo, o Signori, intorno al nuovo Ministero di pubblica
  beneficenza.

  In tale proposta vedrete, le opere del Governo e il suo legittimo
  ingerimento non ledere e non turbare per nulla le libertà del
  municipio e i diritti del privato; conciossiachè il modo d'azione
  sarà pur sempre o di mera tutela o completivo od esemplare; cioè
  a dire che il Governo o difende e protegge appunto quelle libertà
  e quei diritti ovvero supplisce alla insufficienza delle facoltà
  d'ogni particolare uomo e d'ogni comune, o per ultimo s'ajuta e
  sforza di porre nel cospetto dei cittadini un modello e un esempio
  luminoso e imitabile. Certo, il geloso rispetto a ciò che non dee
  cadere in guisa diretta e immediata sotto la potestà governante,
  se in ogni cosa è giusto e proficuo, in materia di beneficenza è al
  tutto necessario, non dandosi atto al mondo più nobile e santo, ma
  insieme più spontaneo e meno isforzevole della privata e pubblica
  carità.

  TESTO DELLA LEGGE.

  IL CONSIGLIO DEI MINISTRI

  Considerando che tra gli uffici principali e più degni di un
  governo probo ed illuminato si è quello di soccorrere e di educare
  le classi indigenti;

  Considerando che le dottrine e le pratiche della beneficenza
  pubblica sonosi ne' nostri tempi mirabilmente accresciute e
  affinate, e domandano studio ed occupazione moltiforme e continua;

  Conseguita l'approvazione de' due Consigli deliberanti;

  Avuta la sanzione Sovrana,

  _Decreta_

  1. È instituito un Ministero speciale di pubblica beneficenza.

  2. Le sue pertinenze e funzioni sono dichiarate da un respettivo
  ordinamento.

  3. Le pertinenze del Ministero dell'interno dinumerate nella
  distinzione 6ª e nella distinzione 9ª dell'articolo 19 del
  Motu-proprio sul Consiglio de' Ministri, divengono pertinenze del
  Ministero di pubblica beneficenza.

  4. Agli stipendj e alle altre spese d'officio del detto Ministero
  sono assegnati 9,500 scudi, e 1,000 per le spese del primo assetto.

  Dal Quirinale li..... di...... 1848.

  ORDINAMENTO DEL MINISTERO DI BENEFICENZA PUBBLICA.

  § 1.

  _Funzioni generali del Ministero._

  1. Il Ministro procura in genere la riforma, il perfezionamento e
  la moltiplicazione degl'istituti e delle opere di beneficenza che
  già sono in atto, e la fondazione e l'avviamento degl'istituti
  e opere nuove, conosciute per veramente salutari ed insigni e
  convenevoli al tempo ed al luogo.

  Invigila da pertutto sulle condizioni delle classi più disagiate,
  sui lavoranti, i contadini e i necessitosi di ogni ragione.

  Invigila e cura ogni istituzione ed ogni opera conducente alla
  educazione morale e intellettuale delle infime classi.

  2. Procura con mezzi mediati o immediati d'approssimare le opere
  tutte di beneficenza a certa unità e collegazione, affine che se
  ne aumenti da ogni lato l'efficacia, e non ne sieno gli effetti o
  troppo parziali o manchevoli.

  3. Promuove appresso i Consigli deliberanti le leggi e gli
  ordinamenti giovevoli alle classi indigenti e al popolo minuto.

  4. Sopraintende agl'istituti laicali di beneficenza da lui fondati
  o dal Governo posseduti, e a qualunque disegno e impresa da lui
  o dal Governo attuata, e la quale intende al sollievo e alla
  educazione delle classi inferiori.

  5. Sopraintende similmente a quegl'istituti e opere laicali di
  beneficenza e di educazione popolare, le quali sono poste dai
  fondatori sotto il riguardamento e la cura immediata di chi
  governa.

  6. S'ingerisce, d'accordo coi municipj o coi rettori privati, nel
  regolamento di quegl'istituti ed opere comunitative o private, alle
  quali viene il Governo in soccorso con la pecunia pubblica, o con
  altra maniera efficace e ragguardevole di ajuto.

  7. Quanto alle fondazioni e congregazioni, e similmente a qualunque
  specie ed atto di pubblica beneficenza, dipendenti al tutto dai
  municipj o dalla carità di privati, e che si rimangono esclusi
  dalle tre predette categorie, il Ministro ne piglia cognizione
  esatta e particolareggiata, ed esige copia autentica degli statuti
  e regolamenti.

  Invigila che non contravvengano in nulla alle leggi universali
  dello Stato.

  Promove e propone in seno de' Consessi legislativi quelle
  provvidenze e cautele che impediscono alle beneficenze d'istituto
  municipale o privato di fuorviare e corrompersi.

  Risponde ai consigli richiesti, e invita per via officiosa a
  modificare, migliorare, propagare e in ogni guisa perfezionare
  l'opera della beneficenza.

  Invita similmente e procura la colleganza e reciprocazione degli
  uffici e degli ajuti fra l'uno istituto e l'altro, e in genere
  favorisce e caldeggia per ogni modo l'azione loro.

  § II.

  _Funzioni speciali._

  1. Le pertinenze peculiari del Ministero si raccolgono tutte in due
  vaste categorie.

  La prima inchiude le opere di beneficenza riparatrice.

  La seconda le opere di beneficenza preservatrice. Non però che
  l'una non si meschi quasi sempre nell'altra; onde si distinguono
  solo per la prevalenza dell'uno ufficio sull'altro, cioè della
  beneficenza riparatrice sulla preservatrice, o viceversa.

  2. Nella prima categoria s'inchiudono principalmente:

      Gli Ospizj
        pe' sordo-muti, pe' ciechi, per gl'invalidi, per gli orfani,
        pe' trovatelli, per le partorienti;
      Gli ospedali
      I ricoveri per li mendichi
      I manicomj
      I soccorsi pubblici agl'indigenti
      I soccorsi per le case
      Gli opificj pubblici
      I discolati o case di correzione.

  3. Nella seconda categoria s'inchiudono principalmente:

      Le istituzioni igieniche
      Le sale di asilo
      Le sale di allattamento o incunabuli
      Le congregazioni di mutuo soccorso
      Le casse dei risparmj
      I monti di pietà
      Le scuole domenicali
      Le scuole di carità
      Le scuole rurali o di villa
      Le scuole industriali o artigiane.

  § III.

  _Funzioni straordinarie._

  1. In ogni grave perturbazione civile, e sopravvenendo le carestie,
  l'epidemie, i commerciali sconvolgimenti, i subiti stagnamenti
  de' traffichi, ed ogni altro sinistro che offenda e flagelli in
  guisa immediata il popol minuto, crescono di necessità le cure e
  gl'ingerimenti del Ministero.

  2. In que' casi, il Ministro o propone al Parlamento o delibera co'
  suoi Colleghi sul modo di recare straordinarj sussidj alle classi
  più povere. Propone e delibera:

      Sui lavori pubblici straordinarj
      Sull'ampliare o moltiplicare i ricoveri
      Sul sovvenire gli emigranti
      Sull'invigilare le incette, agevolare le _importazioni_ ec.

  E sopra ogni altro mezzo e spediente di sollecita ed efficace
  riparazione e confortazione.

  § IV.

  _Relazioni speciali con gli altri Ministeri._

  1. Le relazioni più frequenti e speciali sono:

  Col Ministero della istruzione pubblica, a rispetto della
  istruzione primaria e delle scuole tecniche popolari.

  Col Ministero della Giustizia, principalmente per la patrocinazione
  dei poveri, pe' luoghi di pena e per le discipline penitenziali.

  Col Ministero del commercio, dell'agricoltura e dei pubblici
  lavori, per la condizione de' lavoranti e dei contadini.

  Col Ministro o prefetto di Polizia, pe' malviventi e gli accattoni,
  e per le abitudini e costumanze del basso popolo.

  2. Regolamenti peculiari, accordati con tutti i Ministri e dettati
  secondo la mente del Motu-proprio sul Consiglio dei Ministri,
  definiranno più per minuto, e secondo che occorre, la materia e il
  modo delle relazioni, i limiti delle pertinenze e la reciprocazione
  degli uffici.

  § V.

  _Consiglio privato._

  1. Il Ministero di beneficenza à un Consiglio privato, presieduto
  dal Ministro medesimo, il quale lo chiama a consulta appresso
  di sè due volte almeno in ciaschedun mese, e più spesso ne' casi
  straordinarj.

  2. Il Consiglio non può essere composto di meno di Undici membri.

  Due vi stanno ascritti perpetuamente a cagione di loro dignità, e
  sono:

  Il Segretario della Congregazione dei Vescovi, e il Senatore di
  Roma.

  3. Tutti gli altri Consiglieri sono eletti dal Principe.

  4. Essi vengono scelti in modo da comporre, quanto è possibile,
  l'ordine qui segnato:

      1. Un professore o cultore di Scienze Economiche e di Statistica
      2. Un medico
      3. Un agricoltore
      4. Un pratico delle industrie e commerci
      5. Un professore o cultore di Pedagogia
      6. Un uomo di legge
      7. Un ingegnere
      8. Un ascritto alla Congregazione degli studj
      9. Un pratico delle agenzie.

  5. Le funzioni di Consigliere sono assolutamente gratuite e
  meramente onorifiche.

  § VI.

  _Congregazioni di Carità._

  1. In ogni città Capo di provincia risiede una Congregazione di
  carità.

  2. I suoi componenti non possono esser meno di Cinque nè più di
  Sette.

  3. Ciascuno di loro è scelto e deputato dal Principe.

  4. Oltre questi, siedono nella Congregazione per diritto di dignità
  il Vescovo e il Gonfaloniere della città, e ne sono membri onorarj
  perpetui.

  5. Tutti i componenti la Congregazione, così gli eletti dal
  Principe come gli onorarj, adempiono l'ufficio loro senza
  emolumento alcuno.

  6. Si adunano appresso il capo della provincia (loro presidente)
  una volta almeno per settimana, e più spesso nei casi straordinarj.

  7. La scelta de' componenti cade in genere sulle persone più dotte
  e specchiate e zelanti del bene delle infime classi.

  8. Ogni triennio la Congregazione si rinnova di un terzo.

  9. Pei due primi triennj, gli uscenti sono estratti a sorte.
  Appresso, seguono l'ordine di anzianità.

  10. Passato un triennio, ciascuno degli uscenti può venire
  rieletto.

  11. La Congregazione è consultata sopra ogni riforma ed innovazione
  in qualunque istituto ed opera caritativa della provincia.

  È consultata sull'amministrazione ordinaria di essi istituti, e le
  vengono presentati i bilanci di quelli che sono retti dal Governo e
  dai suoi delegati.

  Può venirle commesso dal Presidente qualche officio determinato e
  particolare intorno alla Beneficenza.

  Consegna e può raccomandare ad esso i memoriali e i richiami
  intorno al subbietto medesimo.

  La Congregazione elegge fuor del suo seno il suo segretario, e gli
  assegna uno stipendio.

  Gli atti di ogni sua tornata sono depositati nella cancelleria del
  Governo della provincia, e se ne manda copia al Ministro.

  § VII.

  _Segretariato._

  1. Il Ministro mantiene assidua corrispondenza officiale coi
  Presidi delle provincie, e altri rappresentanti del Governo,
  intorno all'opera di beneficenza, e per mezzo de' primi à relazione
  pure continua con le Congregazioni provinciali di Carità.

  2. Similmente, à corrispondenza officiale coi rettori e direttori
  di tutti quegl'istituti e opere caritative e di educazione
  popolare, le quali dipendono dal Governo, o dal Governo sono
  riguardevolmente soccorse.

  3. Carteggia poi in via officiosa, e in esercizio ed uso
  dell'azione sua direttiva e morale,

  Coi municipj, in quanto fondano ed amministrano istituti e opere di
  beneficenza dipendenti al tutto ed unicamente dall'autorità loro;

  Con le private congregazioni e consorterie e coi particolari uomini
  che fondano ed amministrano a conto proprio ed a bene pubblico esse
  opere ed istituti;

  Col Cardinale Prefetto della Congregazione de' Vescovi e Regolari,
  intorno al buon andamento degli atti ed istituzioni caritative di
  mera fondazione ecclesiastica.

  Similmente e per la stessa cagione carteggia coi Vescovi, ed altri
  rettori e direttori di quegli atti ed istituzioni.

  § VIII.

  _Ordinamenti speciali e dichiarativi._

  _Articolo Unico_. Ognuna delle materie partitamente trattate
  nei superiori paragrafi, riceverà di mano in mano maggiore
  dichiarazione e più minuta distinzione dai respettivi regolamenti e
  dalle circolari ministeriali.

                                                  TERENZIO MAMIANI.


_Nota_ C, _pag._ 340.

  Tra l'altre proposte di legge fatte alle Camere dal Ministero del
  2 di maggio, è da citare quella sul secreto postale; un disegno
  di Banco Nazionale; varie proposte di legge per provvedere alle
  crescenti spese straordinarie; una sulla regolarità dei pesi e
  delle misure; una sull'ordinamento delle Guardie Civiche mobili;
  una sulla costruzione dei telegrafi. Più proposte di leggi sugli
  armamenti e le leve; una sull'abolizione dei fedecommessi e dei
  maggioraschi; una sulla trasformazione della tassa del macinato.
  Intanto, al Consiglio di Stato che ricevè vita ed ordinamento dal
  medesimo Ministero, erano stati dettati i principj e le norme
  per compilare la legge sulla istituzione dei Municipj, quella
  intorno alla nuova forma dei tribunali, l'altra sul rimutamento
  dell'ufficio del Controllore, ec.


_Nota_ D, _pag._ 345.

  Il Consiglio dei Deputati, nelle prime parole che pubblicò, e
  fu il dì dopo della partenza del Pontefice, riconobbe in modo
  aperto e compiuto la legalità dei Ministri e del loro mandato,
  dicendo: «Dev'essere manifesto che nell'assenza del Principe
  il governo dello Stato permane costituito nelle medesime forme
  e colle medesime autorità. Il Consiglio dei Deputati, sempre
  fermo nell'esercizio de' suoi diritti e nell'osservanza de' suoi
  doveri, si accorda di tutta sua volontà col Ministero al quale il
  Santo Padre à conferito i poteri e nell'assenza sua raccomandato
  l'ufficio di tutelare l'ordine pubblico.»


_Nota_ E, _pag._ 351.

  Forse al lettore gradirà di leggere qui per intero tal Nota, e
  vedrà da quanta ragione e moderazione insieme venisse dettata, e
  come fosse una voce debole sì ma sincera (e doveva esser l'ultima)
  di conciliazione e di pace, alzata in mezzo ai tumulti e agli
  strepiti delle fazioni.

  N. 9681.

  DAL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI.

  _Circolare al Corpo Diplomatico_

                                            Roma, 29 novembre 1848.

  Gli ultimi casi di Roma, principiati da un atroce assassinio, e
  terminati con la improvvisa e soppiatta partenza del Principe,
  possono agevolmente far sorgere nella mente dei Ministri e
  Rappresentanti Esterni un concetto non giusto e non vero inverso
  coloro i quali reggono ora lo Stato, e i quali, invece, reputano di
  aver adempiuto un atto di gran devozione alla Patria, consentendo
  di sedere al Governo e di tutelare l'ordine pubblico.

  Il sottoscritto giunse in Roma parecchi giorni dopo i fatti
  violenti del 16 di novembre, e non accettò il Ministero, al quale
  lo chiamava il Principe con dispaccio dell'Eminentissimo Segretario
  di Stato, se non quando vide la Patria in pericolo estremo e a
  tutti visibile di rimanere senza Governo, e quando un Autografo
  del Santo Padre, indiritto al Marchese Sacchetti, Custode dei
  Sacri Palazzi, riconfermava ciascun Ministro nel proprio officio,
  e voleva ad essi raccomandata in ispecial modo la quiete e l'ordine
  pubblico.

  Rispetto poi ai degni Colleghi del sottoscritto, certo è che la
  sola parte ch'ebbe alcuno di loro negli avvenimenti del 16 di
  novembre, fu d'interporsi continuo fra il Popolo sollevato ed il
  Principe, affine di procacciare una composizione onesta e pacifica.
  Quanto al deplorevole ammazzamento del Rossi, il presente Ministero
  à, come poteva il meglio, soddisfatto al debito suo, col comando
  espresso e ripetuto che fece ai respettivi ufficiali, di procedere
  vigorosamente e speditamente alla scoperta e alla punizione del
  reo.

  Tutta Roma intanto aderisce in modo sollecito e manifestissimo al
  Ministero, e mai non s'è veduta maggiore e più intima unione fra i
  varj ordini di magistrati, come apertamente lo mostra il Proclama
  del Consiglio dei Deputati, quello dell'Alto Consiglio súbito dopo
  venuto in luce, e quello infine del nuovo Senato della città. Il
  che basti per istruire i Ministri e Rappresentanti dei Governi
  Esteriori intorno alla legalità perfetta del presente Ministero
  Romano, e alla integrità e schiettezza delle sue intenzioni.
  Dopo ciò, il sottoscritto à l'onore di porre in considerazione
  dei Ministri e Rappresentanti dei Governi Esteriori certi fatti
  e disposizioni morali di gran momento, e acconcissime a ben
  discoprire altrui l'indole e l'importanza degli ultimi accadimenti
  di questa metropoli.

  Prima cosa da notare si è, che il Santo Padre mai non à sostenuto
  la men che minima forza e minaccia, in qualunque esercizio ed atto
  dell'autorità sua pontificia. La tempesta più volte insorta con
  fiera e minaccevole furia, à sempre quietate e spianate le onde sue
  a piè dell'Altare.

  La seconda cosa, degna sopramodo di venir ponderata, si è, che
  d'ogni accidente più duro e d'ogni violenza occorsa negli ultimi
  tempi in Roma e nelle Provincie, è stata occasione e cagione
  perpetua il problema difficilissimo di convenientemente accordare
  il temporale dominio collo spirituale; desiderando i popoli tutti
  di questa contrada, con pieno ed unanime voto, che fra i due poteri
  intervenga una divisione profonda e compiuta, salva rimanendo la
  unità di ambedue nella stessa Augusta Persona; laddove dall'altro
  lato si è voluto e sperato più che ostinatamente di tenerli, come
  per addietro, in istretto modo congiunti e confusi. Alla soluzione
  quieta e durevole di tanto problema, abbisognava un mutuo spirito
  di tolleranza, di conciliazione e di longanimità; e soprattutto
  facea mestieri l'azione lenta del tempo e degli istituti, e la
  forza degli abiti nuovi e dei nuovi interessi. Ma le passioni
  di entrambi gli estremi partiti, e quella impazienza temeraria
  ed improvida che spinge in ogni parte di Europa e del mondo le
  presenti generazioni a rompere tutto ciò che di súbito non si piega
  e non muta, condussero in Roma la resistenza e il conflitto, e le
  rapide e forse immature trasformazioni.

  À poi meschiato ed aggiunto asprezza e impetuosità al conflitto
  il sentimento nazionale non soddisfatto, e il credersi in questi
  ultimi tempi che venisse a contesa colla politica nuova italiana
  la vecchia politica della romana curia, la quale à pensato troppe
  volte di scampare ed avvantaggiare sè sola nel naufragio della
  Nazione.

  Da tutto ciò il sottoscritto piglia arbitrio di concludere, che
  le agitazioni e le rivolture dello Stato Romano mettono radice
  in un sentimento universale, e in un bisogno fondatissimo ed
  incessante; il quale non verrà, del sicuro, attutato e distrutto
  dai temperamenti e uffici dei Diplomatici, e nemmanco dall'uso
  dell'armi quali che fossero. Elle sgomenterebbono temporaneamente
  gli spiriti senza mutarli nè vincerli; e li vedremmo ad ogni
  occasione ribollir più feroci e meno placabili, simiglianti a
  finissime molle, che altri può comprimere e storcere, ma non
  impedire che mille volte risorgano e scattino. Quindi reputa il
  sottoscritto, che niuna azione, niun ingegno, niun'arte e modo
  d'intervenzione straniera riuscirà a quetare e a sopprimere
  quella rinascente e durissima necessità delle cose, la quale à pur
  resistito alla forza attraente e soave delle virtù evangeliche,
  della bontà specchiata e della infinita e inalterabile mansuetudine
  del Sovrano Pontefice, ed à eziandio prevaluto all'amore
  riconoscente dei popoli inverso l'Iniziatore Augusto della
  nazionale rigenerazione.

                                                  TERENZIO MAMIANI.

  Ai termini di questa Nota, fattesi a voce da alcun nostro
  Commissario le debite chiose, le quali venivano, la più parte,
  dedotte dalle norme caute e prudenti allora seguite e che la
  presente Lettera accenna più sopra, ambedue i Governi, Francese
  cioè e Inglese, mostraronsi soddisfatti, e promisero d'interporsi
  tra il Principe e il popolo, come discreti e pacifici mediatori.
  Certo è che, innanzi alla convocazione della Costituente romana e
  all'acclamazione della repubblica, sebbene dal Cavaignac fu mosso
  discorso d'intervento armato e cominciátane l'esecuzione, non
  potè il disegno venir proseguito, mancando affatto i pretesti.
  Dell'Inghilterra basterà dire, che in ogni dispaccio di lord
  Palmerston intorno al proposito, raccomandavansi caldamente tutte
  le guise opportune e possibili di conciliazione e d'accordo, e
  biasimavasi con ricise parole qual si volesse intervento ed uso
  di forza straniera. Non per questo si presume da noi di negare,
  che rotto l'esercito italiano a Novara, diventava probabile assai
  l'invasione austriaca nelle Provincie Romane, quantunque mantenute
  si fossero nella suggezione del Papa, e dentro gli angusti limiti
  dello Statuto. Ma l'amore del vero e l'amor d'Italia ci forzano a
  dire, che gli ultimi rivolgimenti di Roma e della Toscana nocquero
  più che mediocremente al buon esito della riscossa; e ad ogni
  modo, l'Austria sola invadente arrecato avrebbe non altro che
  odio e scredito immenso alla fazione prelatizia che la chiamava.
  Forse mancato sarebbe allora la possibilità eziandio di abolir
  lo Statuto rimasto sempre in atto, e dimorando dal lato nostro
  intatti e compiuti la ragione e il diritto. Più certo è che non
  avrebbe potuto Leopoldo abolire il suo proprio in Toscana, nella
  quale senza le mene repubblicane ogni cosa sarebbesi mantenuta
  quieta. Ma praticandosi sino alla fine la politica iniziata
  dall'autore di queste lettere, ciò che del sicuro veniva impedito,
  era il fatto funesto e misero sopra tutti, d'una specie di Santa
  Crociata che l'Europa Cattolica à messo insieme per rialzare la
  potestà temporale dei papi, e rialzarla assoluta, e secondo le
  pretensioni e le massime del giure divino dei Monarchi. Onde, tanto
  sono ora angosciati e disanimati i popoli, quanto imbaldanzita e
  infreneticata la setta nemica d'ogni concessione e d'ogni interesse
  nazionale italiano; e a cui sembrano quasichè ritornati i tempi di
  Gregorio VII e d'Innocenzio III. Nè mai si può deplorare quanto
  ragion vorrebbe quest'uscio aperto e spalancato oggidì in Italia
  all'intromessione armata di tutti i forestieri nelle nostre
  faccende, sotto sembiante di reggere e puntellare il principato
  ecclesiastico.

  Oh! vi puzzano, dunque, le glorie che i repubblicani sonosi
  guadagnate, ed anzi ànno guadagnato all'Italia, combattendo in
  guerra disugualissima e senza speranza? Amiamo le vostre glorie,
  e come Italiani ne andiamo alteri. Ma lottare a morte contro
  l'Austria non era certo men bello che contro la Francia; e le file
  de' combattenti, sarebbero state più folte, il diritto più intero,
  la colleganza europea renduta impossibile, rimosso dalla patria
  un gran principio di divisione, strappato a forza il suffragio di
  quanti uomini liberi e onesti illumina il sole.


_Nota_ F, _pag._ 351.

  I termini della Protesta furono gl'infrascritti.

  Il Generale Cavaignac, nel dì 28 del mese scorso, significò
  all'Assemblea Nazionale di Francia, che giuntagli nuova dei casi
  succeduti in Roma il dì 16 di quel mese stesso, aveva, mediante
  i telegrafi, comandato fossero di presente imbarcati 3500 uomini
  sopra tre fregate a vapore, e diretti verso Civitavecchia, affine
  di assicurare la persona del Santo Padre, la sua libertà e la
  riverenza che gli si debbe. Nelle norme poi scritte e mandate dal
  Generale al signor de Corcelles, e lette all'Assemblea nazionale
  in quel medesimo giorno, s'incontrano queste formali parole: —
  Voi non siete autorizzato ad intervenire in alcuna delle questioni
  politiche in Roma agitate. Spetta solamente all'Assemblea Nazionale
  il determinare la parte che vorrà far avere alla Repubblica nei
  provvedimenti coi quali s'instaurerà uno stato regolare di cose nei
  dominj della Chiesa. —

  A noi sottoscritti è necessità di notare in primo luogo, siccome il
  dare ordine di entrare armata mano in un territorio straniero, non
  assentendolo i suoi abitanti e chi lo governa, è per sè medesimo
  atto contrario alle massime fondamentali del gius delle genti,
  ancora quando si compia con intenzione di assicurare la vita e la
  libertà del Principe quivi imperante. Conciossiachè ogni popolo è
  arbitro in casa sua d'ogni qualunque suo fatto, e giudice solo de'
  proprj interessi; e ne' Principi (giusta le dottrine universalmente
  ora accettate, e massime in Francia) non risiede una tal signoria e
  non vive un diritto tanto assoluto e divino, che facciali superiori
  ad ogni altro diritto sociale e politico, e li separi affatto dalla
  indipendenza e dalla sovranità nazionale.

  Secondamente, osservano i sottoscritti, come nella istruzione data
  dal Generale Cavaignac al signore de Corcelles, il primo inciso
  del periodo poc'anzi allegato contraddica patentemente al secondo.
  Imperocchè nel primo comandasi al De Corcelles di non intromettersi
  punto nella questione insorta tra il popolo ed il suo Principe; e
  nell'altro, è considerato il caso che l'Assemblea Francese deliberi
  e voglia in diretto modo partecipare ai provvedimenti più idonei
  per ricondurre lo Stato ecclesiastico in situazione regolare
  e pacifica. Il primo inciso, pertanto, sembra volere escludere
  l'intervento politico, e nel secondo si annunzia come possibile.

  I sottoscritti, tacendo per brevità molte ragioni concomitanti,
  e parecchi altri principj del giure internazionale che militano
  in lor favore, ristringonsi a ricordare al Generale Cavaignac la
  prescrizione chiarissima dell'articolo 5º della Costituzione nuova
  di Francia, col quale si decretò che le armi francesi mai non
  saranno adoperate a detrimento veruno delle libertà dei popoli.
  Ora, la prima, senza meno, delle libertà loro è la indipendenza
  nazionale, e il rimanere arbitri sempre e signori delle proprie
  sorti nel proprio Stato, arbitri e signori dell'interno assetto
  della cosa publica.

  Ma il Pontefice, si obbietta, oltre al signoreggiare tre milioni di
  sudditi, è Capo e Moderatore di tutto l'Orbe Cattolico; e però ad
  ogni Potentato che professi la Cattolica Religione, importa di aver
  sicurezza che il sommo Gerarca non sostenga mai veruna violenza,
  e nemmanco patisca grave e frequente perturbazione nell'esercizio
  piano e spontaneo della pontificia podestà.

  Noi non c'intratterremo qui nè a combattere nè a commentare cotesta
  massima, nella sua maggiore astrattezza considerata. Ma vogliasi
  riconoscere ad ogni modo, ch'ella dee venire applicata e addatta
  ai veri e congrui casi, non ai supposti o simulati od alieni dal
  subbietto. Ed oltre a ciò, egli farà bisogno sempre di convenire
  e accordarsi per innanzi sul modo di praticare con equità e
  imparzialità quella massima, e salvando scrupolosamente i diritti
  che a ciascun popolo alla indipendenza, alla libertà e al franco e
  intero maneggio de' suoi proprj negozj.

  Il che presupposto, diciamo in primo luogo, che l'intervento non
  può venire all'atto giammai, qualora la spirituale autorità del
  Pontefice non sia negli uffici suoi nè impedita nè perturbata. Ora,
  la differenza sorta fra il Santo Padre ed il popolo è meramente e
  unicamente politica. E neppur l'ingegno della calunnia potrebbe
  tanto aguzzarsi, da dare apparenza di verità a qual si voglia
  asserzione contraria. La _Chiesa_ è intatta ne' suoi diritti, nelle
  sue pertinenze, ne' suoi esercizj d'ogni specie e d'ogni ragione.

  In secondo luogo, fermato pure il caso, che il sacerdozio supremo
  non sia con la debita libertà e spontaneità esercitato, in guisa
  niuna potrebbesi consentire che una sola delle nazioni Europee si
  arrogasse il diritto e l'arbitrio d'intervenire da sè ed armata
  mano in un paese a lei forestiero, sia qualunque la ragione e il
  pretesto che ponga innanzi. Se il Re di Francia (quando era in
  seggio) ebbe nome di _Cristianissimo_, l'Imperatore d'Austria fu
  ed è chiamato _Apostolico_, il monarca di Spagna _Cattolico_, e
  _Fedelissimo_ quello di Portogallo; titoli tutti grandi egualmente
  e solenni: e però a ciascuno di tali Principi s'addirebbe il
  privilegio medesimo, e competerebbe un egual diritto d'ingerimento
  in Italia; e non già alla sola Francia repubblicana, come sembra
  opinare il Generale Cavaignac.

  Infine, nella fatta supposizione, occorre, come accennammo, che
  l'intervento non calpesti per nulla il dritto de' popoli, e, oltre
  di ciò, riesca durevolmente utile ed efficace. Imperocchè senza
  tali due condizioni, dell'equità per un lato e della utilità ed
  efficacia per l'altro, l'intervento sarebbe vano ed ingiusto,
  e però dannoso e riprovevole. Al presente, diciamo ch'egli è
  manifesto che l'intervento armato de' forestieri negli Stati della
  Chiesa non può succedere senza impedire ed offendere direttamente
  e in modo enormissimo le pubbliche libertà e franchigie del popol
  Romano, e per indiretto quelle d'ogni altro Stato d'Italia; e
  d'altra banda, non può tornare durevolmente utile ed efficace,
  e ben consuonare col fine. Problemi siffatti non si risolvono
  col taglio della spada, nè con qualunque atto e adoperamento di
  materiale forza. E perciò, tutta la parte assennata, temperata e
  virtuosa dei popoli pontificj à pensato e procurato di sciogliere
  l'arduo problema per vie razionali e pacifiche, correggendo le
  prime cagioni e non gli ultimi effetti, la sostanza e non gli
  accidenti, e procacciando di sbarbicare le vere e profonde radici
  dal male. Per ciò, essa fece plauso grandissimo al programma
  ministeriale delli 5 di giugno,[39] in cui si annunciava la lieta
  speranza di veder separata per sempre, e in guisa adatta e sincera,
  la potestà temporale dalla spirituale; comechè ambedue unite
  nella stessa Augusta Persona. E perchè avvi alcune azioni ed usi
  speciali del potere monarchico i quali il Pontefice afferma di
  non poterli accordare con la sua paterna e apostolica autorità,
  egli è grandemente mestieri che quella porzione di regio potere
  sia delegata e rimessa ad altrui in maniera conveniente e pratica,
  affine che i popoli dello stato Romano non vengano ad ogni tratto
  oppugnati nel desiderio legittimo il quale nutrono costantemente
  d'ogni ragionevole libertà e d'ogni progresso civile; e sopra
  tutto non vengano mai combattuti nel sentimento lor nazionale,
  e nella prima e sostanzialissima di tutte le condizioni sociali
  e politiche: quella, cioè, di vivere indipendenti e signori e
  moderatori delle proprie lor sorti, e di potersi con gli altri
  Italiani insieme affrancare dal giogo oltraggioso e durissimo dello
  straniero.

  Ma tornando ora al discorso del generale Cavaignac, a noi si
  rappresenta come molto credibile, che dopo aver egli saputo da'
  suoi commissarj e corrispondenti la quiete profonda in cui vivesi
  Roma e lo Stato sin dal dimane del giorno 16 di novembre; dopo
  conosciuta la concordia mirabile in cui si stringono ogni dì più
  il Ministero, le Camere, il Municipio, la Guardia Civica e tutte
  l'altre parti del popolo; dopo considerato come ciò mantenga in
  Roma e in ciascuna provincia un ordine veramente esemplare, e
  come in seno alla libertà illimitata di pensieri, di scritti e
  di opere in cui trovansi queste genti, non iscorgesi un atto ed
  un cenno non pure contrario alla fede Cattolica, ma nettampoco
  irriverente, e il quale offenda in alcuna parte e frastorni
  le pratiche numerose e le cotidiane dimostrazioni, apparati e
  cerimonie di culto esteriore; infine, dopo avere quel Generale
  considerato, che il Ministero, le Camere ed ogni altra magistratura
  nulla ànno che fare con le passioni del popolo nè con gli eccessi
  deplorevoli che ne possono rampollare, e come invece tutti essi
  que' governanti e que' magistrati mantengonsi fermi nella legalità
  e nello stretto esercizio de' loro diritti e de' loro doveri; si
  sentirà costretto a mutare opinione e deliberazione, e non verrà
  con la forza e l'impeto soldatesco a difficoltare e tardare quella
  leale conciliazione, la qual dee nascere spontaneamente con segni
  di perduranza e con reciprocazione perfetta; e così per virtù
  dell'amore e della persuasione, come per la necessità delle cose
  meglio conosciuta e sentita d'ambe le parti.

  Ma quello che sia di ciò, la deliberazione del Generale Cavaignac,
  alla quale mal ci soffre l'animo di credere che partecipi di
  buon grado la generosa Nazione Francese, reca un'umiliazione e
  un'ingiuria gravissima a tutte le genti Italiane. Sotto qualunque
  colore, e per qualunque ragione onesta e plausibile, il Generale
  Cavaignac intenda d'intervenire a mano armata in Italia, ciò è
  un fatto che, non consentito dalla Nazione e da chi per legge
  la rappresenta, costituisce una violazione vera e flagrante
  dell'universale diritto dei popoli.

  Il Generale Cavaignac neppure accenna alcun precedente accordo nè
  coi popoli nè coi Principi della Penisola. Egli non fa motto della
  richiesta o, per lo manco, dell'aperto e pieno accettare e aderire
  di Pio IX; la qual richiesta e il quale accettare e aderire noi
  neghiamo d'altra parte, che possa mai essere stato. Pio IX è il
  più mansueto de' Principi, ed à cuore alto e italiano. Però, come
  potrebb'egli voler tornare tra' suoi figliuoli e nella sua sede
  preceduto e fiancheggiato d'armi straniere? Chi ciò afferma, ed
  anzi chi ciò suppone di lui, crudelmente l'oltraggia. Oltre di che
  (non è soverchio il ripeterlo), trattandosi qui non dell'ufficio
  suo venerando e apostolico, ma unicamente delle differenze
  politiche nate tra lui e i suoi popoli, tornare in mezzo di loro
  mediante le armi e la violenza de' forestieri, saría compiere
  l'atto il più diametralmente contrario che far si possa ai principj
  del reggimento costituzionale, e alle massime più manifeste e
  volgari del dritto pubblico.

  Ciò tutto considerato, noi sottoscritti protestiamo formalmente e
  solennemente in faccia all'Italia e all'Europa contra la invasione
  francese deliberata e apprestata dal Generale Cavaignac; e
  dichiariamo che alle sue truppe verrà, secondo le nostre forze,
  impedito lo sbarco, e l'entrare e violare, dovechessia, il
  territorio nazionale. Il che facendo, noi intendiamo di difender
  l'onore non solamente di queste Provincie Romane, ma dell'Italia
  tutta quanta, e di secondare la volontà e la deliberazione
  fermissima di tutti i suoi popoli. E similmente facciamo caldo,
  espresso e, più che si può da noi, solenne e veemente richiamo ai
  Potentati di Europa, ed al senso loro di equità e di giustizia.
  Imperocchè la causa e l'ingiuria è comune a tutte mai le Nazioni
  gelose dell'indipendenza, e altere di aver conquistato la politica
  libertà.

      Roma, 8 dicembre 1848.


_Nota_ G, _pag._ 352.

  _La Commissione provvisoria_ di Governo, soli tre dì innanzi
  all'apertura della Costituente Romana, promulgò e sancì di proprio
  arbitrio quella legge medesima sui Municipj, che il Mamiani
  presentava al Consiglio dei Deputati il 21 di decembre. Qualche
  leggier mutazione ed aggiunta vi fu introdotta; ma, per fortuna,
  elle cadono sulle parti meramente disciplinali, e punto non
  alterano la sostanza e l'economia della legge. La sola disposizione
  nuova da notarsi, è questa: «Il diritto di decretare le imposte
  potrà, dopo l'esperienza di tre anni, venire limitato da una legge
  nazionale, che determini ed uniformi al sistema generale alcuni
  almeno degli oggetti della imposizione.»

  Tale riserva e cautela è superflua, dappoichè ne' consessi
  legislativi permane sempre la facoltà di limitare e modificare,
  secondo ragione e in vista dell'universal bene, l'uso dei
  diritti comunitativi; e ciò per massima di gius pubblico; e
  per dichiarazione speciale della legge di cui discorriamo,
  ove s'incontrano queste formali parole: «I limiti del potere
  deliberativo de' Municipj sono determinati...... dalle leggi
  universali dello Stato, dalle deliberazioni de' Corpi legislativi,
  ec.»


_Nota_ H, _pag._ 354.

  Non inutili forse alla storia sono le parole con che l'autore
  domandò, il dì primo dicembre, alla Camera facoltà piena
  di trattare coi Governi della Penisola intorno al Congresso
  Costituente italiano. Ogni memoria che concerne il tentamento fatto
  in que' tempi per unire gli Stati Italiani in confederazione, ci
  sembra che mai non debba cadere dall'animo degli ottimi cittadini;
  perchè in quel concetto solo è chiusa la salute e la redenzione
  vera e fattibile della Patria. Le parole, adunque, del Mamiani
  furono le seguenti.


  «Se apriamo i libri di parecchi gravi politici dell'età nostra,
  noi vi leggiamo questa sentenza; che, cioè, il mutare ed il
  progredire degli Stati d'Europa ànno principalmente mirato al fine
  di sciogliere i piccioli reami ne' grandi, e costruir da per tutto
  una salda e poderosa unità di governo. Il pronunziato di tali
  scrittori è vero in gran parte, nè io mi pongo qui a negarlo od a
  menomarlo. Per altro, io mantengo fermissimamente, che non debbesi
  in quel fatto avvisare e riconoscere sotto veruno aspetto l'ultima
  perfezione del moto civile dei popoli. A quella incorporazione
  di tante e sì vaste provincie diè molto minor cagione la mutua
  benevolenza e il mutuo vantaggio dei docili abitatori, che il
  material successo delle conquiste, l'accidente delle eredità,
  e i convegni e i maneggi dei principi. All'unità poi rigorosa e
  sempre cresciuta dei governi, porsero avviamento o occasione non
  la saviezza maggiore delle nazioni e il prezioso incremento e
  accomunamento della scienza politica, ma la successiva estinzione
  d'ogni ordine e d'ogni autorità intermedia fra i monarchi ed i
  sudditi, ma l'odio de' privilegi, e la naturale dittatura onde
  furono investiti i re per isbarbare gli ultimi dritti feudali.

  In ogni modo, a me non sembra cosa eccellente e perfetta l'adunare
  e addensare le forze civili e politiche in un solo ed unico punto,
  e quasi impedire le facoltà più svegliate e nobili de' provinciali,
  e sopprimere ogni forma diversa e spontanea di vita comune nel
  rimanente ed amplissimo corpo della repubblica. E s'io non temessi
  di parlarvi un linguaggio troppo accademico e inopportuno al luogo
  ed al tempo, v'inviterei, cittadini, a ben divisare le opere della
  natura, le quali quanta maggior perfezione organica ne dimostrano,
  tanto in ciascuna porzione e in ciascun membro e viscere dell'ente
  animato rivelano maggior varietà, vigorezza, implicazione e
  incremento di vita propria, bene armonizzata e congiunta colla vita
  centrale e moderatrice del composto.

  Ma come ciò sia, sembrami ora certissimo che la Provvidenza
  apparecchi all'Italia questo gran bene di mantenere in ciascuna
  sua parte la originalità, il vigore, la varietà e il maraviglioso
  dispiegamento delle sue forze e virtù speciali e individuali,
  in debita guisa contemperate ed unificate con la potenza e virtù
  generale e sopraeminente del tutto. Cagione di tal miracolo sarà
  senza meno la Confederazione Italiana, il cui patto fondamentale,
  le cui pertinenze e gli uffici verranno determinate e in perpetuo
  fermate da un Congresso Costituente.

  Allorchè io dico, o cittadini, Congresso Costituente, credo
  col nome solo aver chiaramente annunciato, ch'io non piglio a
  discorrere di una confederazione fra i principi soli, ma sibbene
  de' principi insiememente coi popoli; non di una confederazione
  transitoria ed accidentale, ma immobile e persistente, ma
  sostanziale e feconda; non di tali azioni o tali altre per
  accordo particolare pensate ed effettuate, ma di un potere e
  d'un reggimento centrale, comune e perpetuo, pieno di efficacia
  e d'autorità, saggio, illustre, imparziale e venerabile a tutti,
  sicchè ne' supremi ed universali interessi della Nazione non
  isdegnino di obbedirgli i coronati reggitori de' singoli Stati.

  Il Ministero vostro è pieno di fede nella Confederazione Italiana.
  Imperocchè un popolo diviso per lunghissima età in Istati diversi
  ed indipendenti, avvezzi a leggi, istituti, governi, usi, costumi,
  tradizioni e parlari lor proprj, e soliti da qualche secolo a
  inorgorglirsi e presumere della natura loro e disistimar quella di
  tutti gli altri; un popolo così fatto, io dico, non si scioglie e
  non si confonde in una sola provincia, se non per effetto della
  conquista o d'alcuna violenza interiore: e questa, io nol nego,
  può riuscire in più casi ed in più maniere, ma in nessuna sarà
  durabile; e un po' di conflitto che sorga negl'interessi e nelle
  ambizioni, il mal sopito egoismo delle provincie ridarà su rabbioso
  e funesto; e quella fortunata violenza o sorpresa che voglia
  chiamarsi, avrà da ultimo non altro fatto che apparecchiare i semi
  delle discordie intestine, e forse anche della guerra e del sangue
  civile. E però a quel popolo di cui parlo, o sarà impossibile
  sempre di ben comporsi in vero e durevole essere di nazione;
  o gli converrà aver ricorso alla forma confederativa, la quale
  tornerà poi tanto più salutare e fruttifera, quanto più stretta
  e maggiormente fornita di facoltà e prerogative. Nè tralascerò di
  notare, come una stretta Confederazione, chi ben la considera, non
  osteggia ed anzi prepara le cose e gli uomini a qualunque specie
  di maggiore unità politica; dove, per lo contrario, le unioni e
  incorporazioni subitanee e premature, e più assai comandate ed
  imposte che accettate e volute, possono convertirsi più tardi
  in cagioni avverse e disturbatrici di una leale e spontanea
  Confederazione. Nè già l'indole di questa e le disposizioni e le
  regole che si appropria sono così determinate e inflessibili, che
  mal si riesca a piegarle e adattarle alle differenti contingenze
  e necessità che incontra la lunga e rimutevole vita d'una nazione.
  L'ingegno e l'arte politica può invece disegnare e attuare un patto
  confederativo sufficiente ad ogni varietà di fortuna; ed ora simile
  a una dittatura e capace d'ogni unità e veemenza d'azione; ora
  così largo da somigliare più presto una compagnia ed un'amicizia,
  che altra cosa imperativa ed obbligatoria. Per contra, se v'à al
  mondo forma tenace ed aspra e poco arrendevole, si è del sicuro
  l'unità di governo assoluta ed onnipotente; come tuttogiorno il
  dimostra alcuna nazione europea troppo forse celebrata, e poco
  opportunamente imitata.

  Io salgo, pertanto, in ringhiera col grato ufficio di annunziarvi,
  che il Ministero vostro intende quest'oggi medesimo di dare
  cominciamento ad attener la promessa già fatta dinnanzi al popolo
  sinceramente e solennemente; che, cioè, sarebbesi spesa ogni
  estrema cura, sostenuto ogni fatica, adoperato ogni zelo affine che
  la Costituente Italiana possa quanto prima venire ad effetto.

  E certo, se l'impresa nobilissima e santa pendesse dal solo nostro
  arbitrio e giudicio, noi saliremmo qui a proferirvi un disegno
  di legge per iscegliere e convocare i Deputati Costituenti; e
  presto munita quella proposta dell'adesione e sanzione vostra, che
  altro rimarrebbe se non godere del fatto insigne, e nella vista
  del desiderato Congresso pascere lungamente gli sguardi e gli
  affetti? Ma, pur troppo, alla consumazione di tale atto bisogna
  il consentimento e l'unione di tutti gli Stati italiani, o di
  pressochè tutti. E però il Ministero presentasi dinanzi a voi
  fiducialmente a chiedervi d'esser fornito delle congrue facoltà
  per entrar subito in negoziato con essi Governi. E perchè voi non
  volete, com'è ragione, e mai non dovete, così mezzo alla cieca
  e senza un'antecedente e piena cognizione di causa, investire i
  Ministri di facoltà sì importanti e gelose; imperò noi veniamo
  a significarvi pochi principj, ma sostanziosi e precisi, coi
  quali intendiamo di condurre le pratiche coi Governi italiani. E
  l'espressione di que' principj fatta chiara, semplice e breve al
  possibile, si è la seguente.

  1º Gli Stati Italiani eleggeranno e convocheranno un'Assemblea
  Costituente comune, alla quale si confiderà il mandato supremo di
  compilare un Patto Confederativo, che, rispettando l'esistenza e
  l'autonomia dei singoli Stati, e lasciandone inalterata la forma di
  governo e le leggi fondamentali, valga ad assicurare la libertà,
  l'Unione e l'Indipendenza assoluta e perpetua della Nazione, e a
  promoverne ogni qualunque prosperità e grandezza.

  2º All'Assemblea Costituente ogni Stato manderà un numero uguale di
  Deputati rappresentanti.

  3º Questi verranno eletti in ciascuno Stato giusta il modo che
  ciascun Governo e Parlamento delibererà di usare.

  4º L'Assemblea Costituente si radunerà in Roma.

  5º Il modo col quale i paesi d'Italia occupati al presente dallo
  straniero esser dovranno rappresentati nell'Assemblea, rimarrà a
  trattarsi fra i Governi che aderiranno all'Atto Confederativo.

  6º L'Assemblea Costituente, innanzi pure di procedere alla
  discussione e compilazione del Patto, delibererà sui provvedimenti
  comuni richiesti dall'urgenza somma dei casi e fatti necessarj al
  pronto e compiuto conseguimento dell'Indipendenza Nazionale.

  Ecco i fondamenti e i principj secondo i quali il Ministero
  proponesi di entrar di subito in accordo coi varj Stati della
  Penisola intorno al disegno d'un Congresso Costituente. Se a voi
  gioverà di approvarli, noi, troncando ogni indugio, inizieremo
  il trattato prima col Governo Toscano; siccome quello che è gran
  zelatore della Costituente Italiana, e pur testè ci à fatto sapere
  che assai di buon grado porrà alquante modificazioni e restrizioni
  alle massime da lui promulgate intorno al proposito, essendo
  egli desiderosissimo di conciliazione e concordia. Venuti esso
  e noi in perfetto convegno (la quale opera non credo nè lunga
  nè malagevole), useremo entrambi ogni studio e tutte le forze
  dell'intelletto e dell'animo per accostare al nostro disegno e a
  tutte le nostre comuni intenzioni il Governo Piemontese.[40]

  Ciò conseguito, il Ministero tornerà innanzi di voi col
  risultamento dell'una e dell'altra pratica; e il vostro terminativo
  giudicio porrà in atto alla fine il desiderato e sospirato
  Congresso Costituente.

  Dirò schietto e franco, che sta molto discosto da noi il dubio
  che voi non siate per impartirci le facoltà le quali chieggiamo.
  Conciossiachè voi discernete, del sicuro, nella nostra proposta un
  gran mezzo (forse anche l'unico) per ovviare ai mali d'Italia, e
  i già cominciati e presenti ispegnere e riparare. Troppo la nostra
  Patria comune è mutata in questi ultimi tempi, ed anche in peggio
  è mutata. Un primo e solo disastro, rammentatelo o cittadini,
  sull'armi Subalpine caduto, una sola battaglia non vinta riuscì
  bastante a gittare per terra le anime nostre; ed ora eccediamo,
  per quel ch'io ne giudico, nello scoramento e nell'abbandono di noi
  medesimi, quanto eccedemmo da prima non in ardire generoso, ma in
  giovanile baldanza e in temerità sconsigliata.

  Signori, egli è grande necessità di provvedere alle condizioni
  sempre più misere di questa Patria comune, che a noi drizza
  gli occhi e tende le braccia, e mostra i campi Lombardi nel
  servaggio ricaduti, e Venezia stretta da fiera ossidione, e Napoli
  insanguinata e la Sicilia piena di strage civile.

  Io non mentirò all'animo mio, e dirò che la discordia, il sospetto,
  la diffidenza e l'orgoglio ànno la massima parte di que' mali su
  noi rovesciata, e ricaccian l'Italia nelle antiche sventure. Nè
  v'à oggimai provincia della Penisola che sia sana ed intera, non
  un palmo di terra in cui le sètte e i partiti ferocemente non si
  combattano. Eppure, a me sembra di udir tuttora il suono degli
  inni caldi e infiammati di fratellevole amore. Stannomi ancora
  dinnanzi agli occhi quelle giojose dimostranze, quei raduni senza
  tumulto, quei congressi senza contese, quelle feste piene di
  pura e fiduciale letizia, e in cui gli ornamenti, gli addobbi, le
  insegne, i simboli, le iscrizioni e ogni cosa ricordava e ammoniva
  la somma necessità dell'unione; ed anzi, la voglia testimoniava
  e il proposito fermo e inconcusso della concordia generale e
  perpetua. Ma tutto ciò è durato quanto la fragranza dei fiori e
  delle ghirlande che ai fraterni banchetti c'incoronavano, quanto il
  fumo degli incensi che ardevano per le chiese a ringraziare Iddio
  del risorgimento italiano. E però io v'annunzio col più ponderato
  giudicio e col più profondo convincimento dell'animo, che la
  unione e concordia nostra o per sempre sono perdute e distrutte,
  o non possono rigermogliare e rinascere che dal seno fecondo della
  Costituente Italiana.


_Nota_ I, _pag._ 364.

  A prova di ciò, ricorderemo un sol fatto tra molti. Durante
  il Governo Provvisorio, vennero le truppe Svizzere comandate,
  per volere espresso del Pontefice, di lasciare Bologna, dove
  stanziavano, e condursi in Roma. Le popolazioni, com'era da tenersi
  per più che certo, insorsero a mano armata per impedire il passo
  alle truppe; le quali non altrimenti potean forzarlo, che empiendo
  quei luoghi di molta strage. Vinse negli Svizzeri un sentimento di
  umanità, e non osarono di partire. Il quale atto così è giudicato
  dall'Allocuzione del 20 aprile: — _Quae (Helvetiorum copiae)
  huic nostrae voluntati haudquaquam obsequutae sunt, cum præsertim
  supremus illarum Ductor in hac re haud recte atque honorifice se
  gesserit._ —

  Del resto, se la bontà di Dio più che la prudenza umana ci
  preservò dal sangue civile, tutti gli altri mali dall'Autore
  presentiti e temuti fanno guasto e strazio crudele delle sfortunate
  Provincie Romane. L'oppressione e la servitù loro è già piena e
  consumatissima, e svaniron con essa le speranze magnifiche di tutta
  Europa, anzi di tutta Cristianità, di vedere il papato rigenerarsi,
  e la Chiesa procedere al fine di pari passo con la civiltà e
  gli alti concetti del secolo. Torna ostinato e funesto, come per
  innanzi, il dissidio antico tra il pontificato e la libertà, tra
  gl'interessi dello Stato Ecclesiastico e quelli della Nazione
  Italiana; e alla mente di ciascuno si riaffaccia con dolore la
  terribile comparazione di Machiavello della pietra incastrata fra
  le labbra della ferita, sì che mai non può guarire nè chiudersi.

  All'autore di questo scritto rimane, per ultimo, il debito di
  protestare, siccome fa, con tutte quante le forze dell'animo e
  tutta l'efficacia e la santità del diritto, contro l'abolizione
  violenta, perniciosa, illegale e per ogni modo ingiusta e tirannica
  delle libertà costituzionali nelle Provincie Romane. Egli,
  afflittissimo del presente e oltre misura spaventato dell'avvenire,
  non può non ripetere spesso in cuor suo, con angoscia affannosa e
  divinatrice: — Sventurata Roma, sventurato Pontefice! —



PARTE TERZA.

ULTIMI TEMPI.



Collochiamo in quest'ultima parte ciò che in materie politiche dettò e
pubblicò il nostro Autore dall'abolizione dello Statuto Romano in poi.

Viene per primo quel che inseriva Egli del proprio nel sol giornale
di opposizione liberale che scrivéssesi in Roma durante il governo
republicano, e dove difese la libertà, come prima e sempre avea fatto,
e farà in sua vita. Ma interruppe (com'era ben di ragione) la sua
dignitosa e franca censura, quando gli stranieri sbarcarono, e la Città
ebbe animo di salvar l'onore delle nostre armi e del nostro vessillo.


SULLA DISDETTA DELL'ARMISTIZIO.

                                                       20 marzo 1849.

L'armistizio è disdetto; la guerra sacra è intimata; e in quest'ora
medesima forse in che noi scriviamo, le aure lombarde spirano
nuovamente nel vessillo italiano. Il moto primo del cuor nostro
si è di ringraziare umilmente il Padre delle nazioni e il Datore
eterno di libertà, per avere infuso ne' Subalpini e nel Principe
loro tanta magnanimità e fortezza da non dubitare di rompere una
seconda volta la guerra, quantunque si vedano pressochè abbandonati
dal rimanente d'Italia, e debban riporre migliore speranza nei popoli
del Danubio che ne' proprj fratelli. À pure piacciuto al benigno
Iddio di non permettere ch'elli si sgagliardissero per divisione e si
scompigliassero per furore di partiti e di sètte, e à lor persuaso di
non aspettare che germinassero i mali semi di diffidenza e di fanatismo
sparsi di soppiatto da mani abilissime a sconciare e disordinare.
Stretti, disciplinati e raccolti intorno al lor Principe, ànno, benchè
soli, protetto l'Italia e contro gli stranieri e contro le interne
follie. Ora, la spada è di nuovo snudata, e in quegli animi generosi
non può capire che un sol pensiero: redimer l'Italia e vendicare le
sventure di Somma Campagna e di Custoza.

Non che il frasario ampolloso e superlativo delle nostre gazzette,
ma neppur lo stile dei sommi scrittori basterebbe, noi crediamo, a
descrivere la gioja coraggiosa e terribile che invade in questi giorni
il petto d'ogni Lombardo. Troppo ravveduti e corretti alla scuola
dell'infortunio, essi più non son per cadere nelle funeste incertezze,
nelle superbie municipali, e negli stolti e ingiuriosi sospetti ai
quali eziandio tra l'armi e in mezzo alla guerra sconsigliatamente
davano luogo. Deh! l'infortunio e l'esperienza corregga noi pure; e
finchè, almeno, dura la prova pericolosa e finale contro dell'Austria,
torni la misera Italia a quella invidiata concordia e a quella fiamma
di fratellanza e d'amore che fece cara e maravigliosa all'intero mondo
civile l'aurora del nostro risorgimento. Anche il medio evo conobbe le
_tregue di Dio_: non conoscerem noi per l'Italia una tregua di partiti
e di smoderate opinioni? Certo, per nostro avviso, ciò è tanto più
doveroso a coloro i quali, la vigilia medesima della guerra, osarono
di suscitare in alcune parti della Penisola nuove e feconde cagioni
d'odio, di scontentezza e di dissensione.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


SULLA NECESSITÀ DEL CONFEDERARSI.

                                                       27 marzo 1849.

L'Italia, chi può negarlo? ogni dì più si sconvolge, ogni dì più
si slega e disgiunge nei fatti, nelle opinioni e negli interessi.
Ufficio pertanto del buon cittadino è impedire che scompigliandosi
e dividendosi tuttavia, smarrisca i nobilissimi fini a cui vuol
pervenire, ed i quali sono principalmente la _Indipendenza_,
l'_Unione_, e la _Libertà_. E qui pure sembra mestieri che risovvenga a
tutti la massima del Machiavello, che per riordinare gli umani istituti
occorre di risospingerli inverso i principj. L'Italia diè cominciamento
al risorgere suo con la universale concordia e armonia delle menti e
degli animi; mostrò di abborrire da ogni fazione, e di voler conciliare
con fina e generosa industria i pensamenti, le mire e i desiderj
di tutti. L'ardenza e l'impeto delle passioni non volle adoperati
e sfogati nelle sètte e nelle brighe interiori, ma rivolti contro
dell'Austria, intesi al magistero delle armi, ai pericoli della guerra
e a quelle imprese ardite e magnanime che il riscatto della patria
comune ricerca ed inspira. Fra i mezzi e gli apparecchi più acconci per
menare a bene il fiero conflitto, conseguire l'indipendenza, acquistare
vita e abito di nazione, indicò e raccomandò con ardore tutti i modi
e tutte le vie per giungere a qualche notabile grado di consenso e di
unione tra i membri della gran famiglia italiana; e desiderò fortemente
in fra essi una leale ed intima Confederazione. Volle per ciò medesimo,
che in ciascuna provincia le istituzioni fossero tanto larghe, e tanto
almeno vi si godesse di libertà, quanto ne bisogna per concorrere
speditamente e con buon successo alla cacciata degli stranieri e
all'unione confederativa; il rimanente giudicò doversi lasciare, e
trattare a guerra finita. Volle poi quella libertà uguale per tutti,
avversa ad ogni violenza, amica d'ogni ordine di cittadini, tutrice
spassionata d'ogni diritto, d'ogni prerogativa, d'ogni possesso;
libertà vera, insomma, e non finta ed inorpellata da nomi e simboli
grandi e pomposi; libertà fondata sulla giustizia comune e imparziale,
servita da ministri e ufficiali così abili come integri, osservatrice
scrupolosa e severa delle leggi, promovitrice della pubblica
educazione, massime di quella del popol minuto, calda di spiriti
religiosi e caritativi, e informata soprattutto dal sentimento profondo
e radicatissimo del dovere.

Noi di queste massime e di queste pratiche, le quali tutte furono
fin da principio espresse e acclamate dal buon senso della nazione,
saremo indefessi propugnatori. E non è nostra colpa se torna utile
ed opportuno, per non dir necessario, il ripetere e raccomandare
all'Italia verità così ovvie ad un tempo, e così salutevoli.
Noi aderiremo con fede a tutti i governi che mireranno con zelo
instancabile ad effettuare l'indipendenza e il patto d'unione; a
tutti i governi aderiremo non ripulsivi ed intolleranti, non agitati
e predominati da focoso amore di parte, ma professanti equità,
moderazione, assennatezza, e capaci di annegazione e di sacrificio.

Da tutto ciò si raccoglie, che noi poco o nulla ci occuperemo in
questo Periodico delle forme di reggimento politico, e assaissimo
della bontà delle leggi; e però con diligenza e studio ne indagheremo
e invigileremo l'applicazione e l'esecuzione. Noi (per venire in
ispecialità a Roma e al suo Stato) in qualunque atto dell'Assemblea,
e in qualunque del Comitato esecutivo e del Ministero, esamineremo
anzi tutto e con massima cura le attinenze che avrà col bene comune
d'Italia, con la guerra del riscatto e col bisogno e l'aspettazione del
patto confederativo; poi con le condizioni particolari di queste nostre
provincie, e sempre con gli eterni principj della moralità, della
libertà e della giustizia.

Gli uomini passano, le istituzioni non buone si posson mutare,
le leggi oppressive abrogare. Ma le basse cupidigie svegliate, il
credito affatto spento, i nodi ministrativi disciolti, ogni principio
d'autorità sbandito, il dispotismo sotto nome di libertà, le coscienze
violentate, l'odio, il sospetto, la diffidenza, la discordia in ogni
canto seminate, sono mali tanto peggiori e più profondi e durevoli,
in quanto che rendono inefficaci e tardivi i rimedj, e corrodono e
guastano la tempra stessa degli animi e la probità universale, che è il
primo e l'ultimo fondamento del viver civile.

Il tempo è giunto che l'opinione dei moderati si mostri aperta ed
intera, smettendo le reticenze ed i blandimenti. Tempo è giunto
che la lor falange numerosissima raduni e stringa ordinatamente le
proprie file, e proceda innanzi a bandiere spiegate, usando per la
sua Causa, che è la Causa d'Italia, quell'attività e quel coraggio che
gl'immoderati adoperano per la loro.

Tuttociò, rispetto al generale sistema, e alla franca e ferma ragione
di Stato che noi professiamo. Venendo ai casi del dì d'oggi, il che
vuol dire alla guerra santa di già scoppiata, le parole e i pensieri
nostri non possono nella sostanza differire in nulla da quelli d'ogni
buon patriota e d'ogni vero italiano, qualunque sia l'opinione e il
partito al quale s'accosta. La guerra è il gran fatto, il nobile scopo,
il supremo interesse di tutti; e quanto l'opera della penna, quanto
l'ufficio d'un'effemeride la può ajutare e giovare, tanto sarà da noi
praticato con sempre viva e premurosa sollecitudine. A noi non istanno
in cuore gelosie e sospetti dell'altrui fede ed ingrandimento, nè si
fa gravosa e terribile alcuna delle conseguenze della vittoria. Non
potrà Carlo Alberto profittare mai tanto de' suoi trionfi per sè e pel
monarcato, che non riesca infinitamente maggiore il bene e il profitto
recato dalla sua spada all'Italia, dandole seggio fra le nazioni, e
arbitrio e impero sopra sè stessa.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


DEL PARTECIPARE ALLA GUERRA LOMBARDA.

                                                       27 marzo 1849.

Jeri dal rappresentante del popolo Pietro Sterbini era consigliata
l'Assemblea di non punto inviare in Lombardia le nostre milizie, se
il governo di Piemonte non dichiarasse prima di riconoscere la nova
sovranità della Repubblica Romana. A questa opinione singolarissima noi
non avremmo neppur pensato di contradire, se non ci fosse da più bande
riferito, tale essere altresì la sentenza del Comitato Esecutivo, o
almeno di parecchi de' suoi. Nè per questo, vogliam credere ancora allo
strano proponimento. Imperocchè troppo doloroso riuscirebbe all'animo
nostro di vedere Roma ed il suo governo in sì basso stato caduti, da
patteggiare e mercanteggiare, quando trattasi del riscatto de' nostri
fratelli, trattasi dell'indipendenza italiana, anzi di questa medesima
libertà nostra, che siam gelosi di dilatare e di mantenere.

E che? la guerra di Lombardia è forse agli occhi dei Triunviri una
faccenda monarchica, e non una guerra nazionale e italiana? Se il
re Carlo Alberto fu primo a sguainare la spada per la patria comune,
gloria a lui in perpetuo, gloria a' que' generosi che fra i cimenti e i
pericoli lo seguitarono. Ma ciò non toglie l'obbligo formale e rigoroso
a noi tutti di accorrere, almeno secondi, alla comune difesa.

E che? dopo avere sì altamente gridato la guerra del popolo, e
riempiuto di frasi magnifiche gazzette e proclami, macchina forse il
governo della repubblica di vilmente disertare dalla Causa Nazionale?
No, noi ci ostiniamo a non crederlo, e respingiamo con grave sdegno le
parole acerbe e ingiuriose che ne' giornali di Francia scagliavansi
sopra il Mazzini ed i suoi seguaci, accagionandoli di codardia, e
di cessarsi ognora dal luogo dove ferve il combattimento e sovrasta
il pericolo. A noi sovviene con gran diletto, come parecchi fra loro
marciassero alla guerra lombarda, e d'ésservi prove di bel coraggio
e di ardore vivissimo per la indipendenza comune. Ma ora ch'elli
soli timoneggian lo Stato, ora che desso il Mazzini col voto unanime
dell'Assemblea viene acclamato cittadino romano, e ch'egli è tantissima
parte dei pensamenti e provedimenti del nostro governo; che cosa
farebbe dire e opinare di lui, che cosa de' suoi proseliti, quando Roma
e chi la regge non operasse a questi giorni con la prestezza, lo zelo
e la veemenza, che il rinnovarsi della terribile lotta ricerca e vuole
dagl'Italiani?

Un sol ricordo daremo al Governo, ed è questo: che se Roma e le sue
provincie lasciarono buttare a terra la potestà temporale dei Papi a
cagione principalmente che non sembrò fervorosa e infiammata abbastanza
per la Causa Nazionale, non rispetteranno certo il potere e i diritti
della Repubblica, s'ella mostrerà o lascerà indovinare la benchè menoma
esitazione ad ajutare con tutte le forze e tutto lo ingegno la santa
guerra Italiana.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


SULLA VERITÀ NELLA POLITICA.

                                                       28 marzo 1849.

Una sentenza magnifica si va ripetendo da molti; e questa è, che
il fondamento d'ogni sistema politico e d'ogni forma di governo
debb'essere la verità. Noi pigliamo volentieri in parola tutti coloro
che pronunziano e propagano oggi con gravità e sussiego, tale aurea
sentenza, e desideriamo forte che i fatti non vengano a contraddirli
giammai. Intanto prenderemo arbitrio di far loro qualche discreta
interrogazione, per levar di mezzo i dubj e gli scrupoli che ci
molestano, e forse contro ragione.

E prima, chiederemo se certi repubblicani, quando parlano di libertà,
esprimono il vero od il falso; perchè da una parte accusano ogni
governo costituzionale di fondarsi sulle finzioni, e d'impedire e
sopprimere molte preziose franchigie; dall'altra, pervenuti essi al
comando e póstisi alla prova del maneggiare lo Stato, si vede troppo
sovente che la violenza occupa il luogo del diritto. Chiediamo di
poi, se operandosi e favellandosi sempre in nome del popolo, qualora
la grande pluralità di questo o non curi o dissenta o dispregi, sia
mettere innanzi una verità od una menzogna. Chiediamo se lo spacciare
per effettivo e legittimo il suffragio universale, qualora in
moltissimi luoghi consista nel voto di poche dozzine di uomini, e in
altri venga indettato e manipolato dai capi soli di un partito, non
debba considerarsi come una certa e patente finzione. Chiediamo se le
ballottazioni e se gli scrutinj parlamentarj, eseguiti con pochissima
libertà e sotto l'influsso prepotente e continuo di un clamoroso
uditorio, debbansi reputare sinceri e spontanei, o rassegnare anch'essi
più giustamente nel novero delle finzioni. Chiediamo se l'imporre ad
un popolo alcuna forma di politico reggimento, alla quale si sa e vede
che la più parte di lui mal volentieri aderisce, e per la quale non è
per niente apparecchiato e disposto, sia un recare ingiuria alla verità
od un soddisfarla. Infine, ci sentiamo astretti di chiedere con istanza
e premura, se da un lato il gridare guerra e indipendenza della patria
comune, e dall'altro il produrre uno stato di cose che a quella guerra
non si confà, e sturba e difficulta l'unione di tutti gli animi, venga
a fondare la Causa italiana nel vero o nel falso.

Noi frattanto non taceremo, che da questo cumulo appunto di
dissimulazioni e menzogne nasce lo sconforto e il disdegno generale dei
buoni; perlochè temiamo con gran ragione che il popolo se ne stanchi, e
pigli ad odiare ed a fastidire la libertà; od almeno si lasci andare al
dubio, all'indifferenza, all'irrisione e allo scherno, rinfacciandoci
mille superbe promesse, e gridando ad una voce: d'ogni cosa i liberali
ànno mentito; promettevano la libertà e ci dierono la violenza;
promettevano un buono e santo governo, e ci dieron lo scredito, la
povertà, la discordia e l'universale scontentezza.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


INVITO ALLA CONCILIAZIONE.[41]

                                                       3 aprile 1849.

Poc'arte e poca dissimulazione bisognerebbe affine di dare al nostro
Periodico una sembianza vistosa e gradevole a tutti coloro i quali può
la sventura d'Italia mettere in grado fra breve di dispensare dignità
ed onori. Ma nessun'arte, nessuna dissimulazione si occulterà mai nelle
nostre parole; a cagione che l'intento a cui miriamo è purissimo, e
non abbiamo chiesto nulla e nulla aspettato da verun partito. Pregati
alcuni di noi e sollecitati a condurre a bene la cosa pubblica, il
fecero con lealtà e zelo, usando temperanza e longanimità, insino
al punto che non ne venivano offesi i principj da lor professati; ed
onesto fu l'uscire come l'entrare, perchè l'orgoglio e l'ambizione non
daranno mai crollo alle nostre coscienze. Già disse un Greco, essere
troppo rara fortuna veder salire la filosofia accanto al seggio de'
principi. Noi diciamo che altrettanto è raro veder salire la libertà
vera e compiuta accosto al seggio d'ogni maniera di governanti; perchè,
in genere, le passioni, gl'interessi ed il fanatismo così avversano
la libertà, come s'insinuano di leggieri nel cuor de' potenti. Da
questo deduciamo, che sarà forse ufficio nostro perpetuo lo sgradire
ai dominanti e censurarne le opere; ma non muterà per ciò la Impresa
che noi scegliemmo, e nella quale sta scritto a grandi lettere d'oro:
_Tutta la libertà, e per tutti_. Ciò basti a significare con piena
sincerità e franchezza le nostre intenzioni, delle quali peraltro
crediamo istruito e persuaso ciascuno che ci conosce. Il sindacato
ch'esercitiamo sugli atti di coloro da' quali al presente riceve il
nostro paese e leggi e comandi, non vuol ferire le persone, e non
dubita del buon volere. L'inesperienza, la giovinezza, l'accensione
dell'animo, l'esorbitanze della fazione contraria scusano per
avventura fra noi la più parte dei neo-montagnardi, che, senza troppo
avvedersene, menan le cose alla peggio. Ma ci è forza di accusare
e di rampognare i frequenti e gravissimi loro sbagli, affine che il
popolo, affatto nuovo alla vita politica, odiando la licenza, non odii
la libertà, e non confonda la interezza e generosità dei principj
con l'uso improvido che alcuno ne fa. Del rimanente, noi sappiamo
distinguere i tempi ed i casi; e quella nuda schiettezza di parole o
acerbità di giudizio che jeri conveniva assai bene contro la baldanza
e la presunzione, può disdire quest'oggi, che le vicende, pur troppo,
sono mutate. Noi, certo, non insultiamo la sventura e l'abbassamento
di alcuno, non solo perchè è la pessima delle vigliaccherie, ma
perchè insulteremmo eziandio noi stessi, colpiti quanti altri mai e
crudelmente trafitti dal comune infortunio. Sventura grave non è che
una forma di governo perisca, ovvero che tali uomini invece di tali
altri ascendano in alto e braveggino. Ma sventura somma e terribile è
che la santa Causa Italiana pericoli d'estrema ruina nei campi della
Sesia. E tanto siamo alieni dalla volontà di redarguire e recriminare,
e dallo spargere tossico sulle ferite dell'animo, che a noi sembra
nessun cittadino essere in fatto esente di colpa, e tutti dover
confessarsi di molti errori in faccia alle nuove sciagure d'Italia.
E che? i moderati ànno forse molto meno degli altri fallito? Ma se
nella schiera numerosissima de' moderati fosse comparso di buon'ora
quel coraggio civile, quella vigorezza assennata, e quel risolvere
pronto e reciso che alle dure emergenze de' tempi si confaceva,
sarebbe forse l'Italia trascorsa agli estremi? avrebbero avuto voce
o séguito gli ultra-democratici? Sarebbesi ogni cosa empiuta di
sospetto, di diffidenza e di confusione? Adunque, candidamente si dica:
_Iliacos intra muros peccatur et extra_; e siamo l'uno inverso l'altro
indulgenti e benigni. Purghiamo i nostri affetti e le nostre opinioni
nel comune dolore. Poco è naturale, ed anzi impossibile, che scordando
affatto noi stessi, e solo pensando e lacrimando d'Italia, Dio non
ispiri le menti nostre, e non le consocii e affratelli in qualche
concetto salutare, in qualche generosa risoluzione, che a tutti i buoni
Italiani debba ugualmente gradire, e venir da tutti voluta e operata
con quella pronta efficacia che le paurose necessità della patria
dimandano.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


SULLA

GUERRA DE' NAPOLETANI CONTRO I SICILIANI.

                                                       5 aprile 1849.

In quest'ora medesima che noi scriviamo, la guerra, anzi il fratricidio
di Napoli contro Sicilia è già forse incominciato. Avvenimento funesto,
e pel quale non si può formar voto e augurio buono e sincero! Vittorie
e disfatte sono deplorabili in egual modo, e le bandiere che vi si
spiegano debbono andar tutte coperte di negri veli, come dietro i
funebri cataletti. A noi muove gran meraviglia che alcune gazzette
italiane ne parlino come se non fosse guerra civile; come se il
risultamento finale, qual ch'egli sia, non debba crescere di necessità
fra i due popoli l'odio, la rabbia e il comune servaggio, e una sete
profonda ed abbominevole di mutua vendetta.

Incredibile a dirsi, il medio evo non è peranco finito in Italia. Si
mutino solo le date, e crederemo di assistere alle battaglie infami
di Chiozza e della Meloria. Appena un poco di libertà è ricomparsa in
Italia, che noi scelleratamente ne profittiamo per lacerare le viscere
della patria, là con l'aperta guerra dell'armi, qua con l'occulta delle
fazioni. E, per nostra maggior vergogna, quel coraggio ostinato e quel
furore di popolo che mal sappiamo suscitare ed adoperare contro gli
Austriaci, mostrasi vivo e terribile nel civile conflitto.

In Gaeta è un venerando personaggio a cui debbono più che ogni altra
cosa del mondo muover dolore ed orrore le guerre fraterne degli
Italiani, i primogeniti della Chiesa. Perchè non esce dal suo ritiro,
perchè non entra coraggioso fra i due popoli contendenti, perchè non
tenta con l'augusta presenza sua di far cadere d'ambe le parti le
armi inique e crudeli? Èvvi ufficio più degno del Gran sacerdote? Èvvi
coraggio e ardimento speso in causa migliore e con migliore speranza di
bene? Chè quando, per cagioni a noi sconosciute, gli sia impossibile di
ciò fare e tentare, non sostenga almeno di rimanersi testimonio quasi
incurante e impassibile di tante colpe e miserie italiane.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


DEL MODO DI AJUTARE LA GUERRA.

                                                       6 aprile 1849.

Nei pericoli estremi della patria comune conviene attutire ogni
discussione che non miri alle armi e alla guerra. Ogni governo,
purchè sia Italiano e la guerra Italica ajuti di cuore, dee venire
obbedito con lealtà e speditezza. Ai sonori proclami, alle enfatiche
declamazioni sia fine. Mano ai fatti; e le parole si spendano
solamente a suggerire opere utili daddovero, e a consigliare alcun
partito praticabile e pronto. Che si può quest'oggi medesimo mettere
in atto per ajutare i Piemontesi in modo efficace e sollecito? Ecco,
a nostro avviso, l'oggetto principalissimo, ed anzi unico, nel quale
dobbiamo occuparci. Apparecchi nuovi, nuovo ordinamento di nostre
schiere, metodi migliori d'istruzione guerresca, e simili cose, come
sono desiderabili e ottime, così al presente giungebero tarde ed
inopportune. Quante milizie regolari, quante guardie mobilizzate,
quanti volontarj abbiamo, si mandino tutti oltre Po a congiungersi
con le truppe del General Pepe; si mandino a lui subitamente per
via di terra o di mare, secondo che torna fattibile. Se l'armistizio
non è accettato e la guerra prosiegue, egli ne farà buona cerna, e
i meno atti a combattere porrà a difesa della città di Venezia e a
guarnigione nei forti; gli altri menerà seco a più ardite fazioni.
In tal guisa il Pepe, avendo possibilità di condurre contro al nemico
meglio di venti mila uomini scelti e bene ordinati, recherà gagliardo
soccorso all'esercito subalpino, o promovendo la sollevazione del
Veneto, o assaltando alle spalle alcun corpo smembrato d'Austriaci,
o in più altri modi; perchè parecchi ne può scegliere, e, secondo le
circostanze, cambiare le mosse e gl'intenti. Appigliamoci a questo
disegno, che è il solo proporzionato alle nostre forze, confacente
allo stato di nostre truppe, atto eziandio a impedire l'invasione delle
Romagne, e che ricerca per eseguirsi nè molto danaro nè molto tempo.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


SULLA

PENA IMPOSTA AI CANONICI DI SAN PIETRO.

                                                      11 aprile 1849.

Abbiamo, non con le parole soltanto ma col fatto cotidiano, mostrata
la risoluzion nostra di non crescere la scontentezza e inasprir le
passioni con quelle gravi censure che le pubbliche cose meriterebbero.
Ciò nonostante, quando i principj stessi pericolano e l'opinione
universale degli uomini può venir pervertita, parlare è necessità;
e noi il faremo con quella schiettezza che la verità e la giustizia
prescrivono, e con quella moderazione che la temperie dei tempi e
consiglia e comanda.

Leggesi nel _Monitore_ di jeri un decreto dei Triumviri, col quale
i canonici del capitolo Vaticano sono accusati, condannati e puniti,
per avere _reiterato il giorno di Pasqua il rifiuto di prestarsi alle
funzioni sacre, ordinate dal Governo_. Il decreto chiama criminosa
cotale ripulsa. È dunque materia non pure di polizia correttiva,
ma di giustizia penale e di Corte d'Assise, come direbbesi in
Francia. Dopo ciò, vennesi da noi cercando nel foglio, così l'atto
d'accusa e il compendio del processo, come la sentenza formale dei
giudici, l'allegazione del testo delle leggi rispettive violate,
e l'applicazione della pena. Ma il foglio tace di tutto questo, ed
è notorio all'intera Roma, che nessun atto di tribunale e nessuna
specie ordinaria o straordinaria di giudicio à qui avuto luogo. Or
come? s'incolpa e si taglieggia una congregazione intera e numerosa
di ecclesiastici senza veruna formalità e legalità di giudicio; e da
quelle persone medesime da cui move l'accusa, move altresì la condanna
e la punizione? Ma in qual mondo siam noi? nel bel mezzo d'Europa,
nella civilissima Roma sotto il più libero de' governi, ovvero in alcun
pascialatico della Romelia o dell'Asia Minore?

Una cosa, intanto, è certissima: che, cioè, qualora il dritto comune
stato fosse rispettato, e avessero i magistrati ordinarj assunto,
secondo lor debito, di conoscere e giudicare l'incolpazione, sarébbene
uscita di necessità una sentenza di pienissima assoluzione. Imperocchè
nessuna nozione di dritto, nessuna massima di gius publico, nessun
principio di equità e di naturale giustizia, indurrà mai il retto e
imparziale giudice a riconoscere in alcun cittadino il perfetto dovere
civile di compiere certi atti di culto, e recitar certe preci a tal
giorno, a tal'ora, per comando di chicchessia. E siamo noi che pigliamo
arbitrio di chiamar _criminose_ siffatte ricuse! noi propugnatori
d'ogni libertà, noi banditori dell'inviolabile diritto delle coscienze!

E dopo tanto gridare contra ogni maniera di materiale costringimento
in fatto di religione, noi stessi diamo ora l'esempio della violenza;
e non tolleriamo che altri neghi di porger mano ad un'opera spirituale
per timore, o giusto od erroneo, di commettere fallo dinanzi a Dio?
Guardando all'intimo della cosa e non agli esterni accidenti, in
verità che pochissima differenza si scorge tra queste nuove multe e
condanne, e le carceri e gli altri cruciati del Sant'Uffizio; e tanto
esce dal dritto e dall'equità il prete il quale usa come argomento
di persuasione la forza esteriore, quanto il magistrato civile che
pretende con la corporal forza di astringere il prete ad un atto di
culto e di mera pietà religiosa. Nella fede e nel culto vive ed opera
(chi non lo sa?) un intelletto ed una natura morale e spontanea, e però
abborrente da coazione; e la storia del medio evo è piena di sangue e
di lacrime, appunto per avere così i principi come il clero dimenticata
o disconosciuta, ciascuno dalla sua parte, una tanto solenne e
salutifera verità.

Noi di quelli non siamo che disperano facilmente dell'efficacia dei
principj, e credono la libertà e la giustizia essere piuttosto un
nobile desiderio de' buoni che un'asseguibile realità. Confessiamo pur
nondimeno, che questo veder ripetuti gli errori antichi, e ripetuti da
coloro che senza dubbio professano massime affatto opposte, ci perturba
e ci affligge più che mediocremente.

La salvezza pubblica è grande e famosa parola, e può di molti arbitrj
e di molte fiere deliberazioni essere causa e scusa ad un tempo. Ma non
si pronunzino almeno in simili casi i nomi di colpa e di pena, di virtù
e di dovere; perchè nessuna potenza e nessuna necessità umana potranno
alterare e scambiare giammai la indefettibile essenza della verità e
del diritto, di ciò ch'è innocente e di ciò che è reo.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


STUDJ SUL PROGETTO DI COSTITUZIONE

DELLA REPUBLICA ROMANA.


I.

                                                      21 aprile 1849.

Nel disegno di Costituzione che jeri l'altro fu letto dal deputato
relatore signor Agostini, molte cose riescono di necessità le medesime
che in altri Statuti fondamentali; ma parecchie sono nuove, o, a dir
meglio, sono innovate e ringiovanite. Ai compilatori del _Progetto_
è sembrato convenevole, che trattandosi di ordinare e dettare una
Costituzione repubblicana in Roma, dovessero ricomparire alcune
di quelle forme politiche, venerande di antichità e di gloria, le
quali governavano dal Campidoglio tutto il mondo civile. Perciò,
parecchi concetti e ricordanze classiche, come direbbero i letterati,
campeggiano in questo disegno di legge costitutrice. I Consoli,
il Tribunato e i Comizj vi sono risuscitati non solo nel nome, ma,
in qualche porzione almeno, eziandio nel fatto. La questione sta a
definire se quelle forme vetuste e dagli uomini (rispetto all'uso)
dimenticate, posson o tanto o quanto ripigliar vita e recare profitto.
Appresso i Romani, Consolato, Tribunato e Comizj erano parti d'un gran
tutto bene insieme congegnate e connesse, prodotte e compite dalla
invisibile azione del tempo e dalla lenta conciliazione degl'interessi,
e conformate a poco a poco alle singolari e non più ricomparse
condizioni di quel popolo miracoloso. Tentare oggi di ricondurle fra
noi, benchè a pezzi e frammenti, si è come incastrare nella basilica
di Firenze un colonnato di Vitruvio, e porre a riscontro del Mosè di
Michelangelo l'Apollo del Belvedere.

Oltre di che, ogni pensatore politico è persuaso quest'oggi, che le
antiche istituzioni si reggevano molto di più per l'efficacia dei
costumi, che per la virtù e maestria delle leggi; e più assai per
la forza della religione e dell'uso, che per la sapienza ordinatrice
interiore. Per contra, l'età nostra procaccia di supplire con l'intima
bontà delle leggi e degl'istituti al difetto delle tradizioni e
all'inefficacia de' costumi. I tre libri _De Republica_ scritti
dal dottissimo dei Consoli e giaciuti occulti per tanti secoli, poi
ritornati inopinatamente alla luce, non ànno niente di più ajutato
gl'ingegni a capire e scoprire la economia del governo romano; quella
economia intendiamo che induceva effetti e compiva imprese maravigliose
a tutto il mondo moderno.

Due consoli in Roma stavano più che bene, e facevano gran profitto
alla cosa pubblica, perchè studio cotidiano di quella città erano la
guerra e la conquista. Laonde, il più del tempo, l'uno de' consoli
guidava gli eserciti, l'altro provvedeva ai negozj civili. Spartivansi
parimente fra loro non pur gli ufficj, ma le provincie; e con siffatti
temperamenti, e forse con molti altri che mal conosciamo, evitavasi
la discettazione e il conflitto in fra due persone investite di
egualissima potestà e incumbenza.

Ma i due consoli di questa nostra repubblica, nessuno intende come
faranno a procedere sempre d'accordo. Il sì dell'uno vale quanto il
no dell'altro, nè più nè meno; e come la legge non partisce fra loro
nessun officio e nessuna giurisdizione, così quell'altercazione del
sì e del no può insorgere ad ogni momento e per ogni cosa, e non è
provveduto alcun modo di farlo cessare.

Manco male, se i consoli venissero eletti dall'Assemblea; perchè quivi
i rappresentanti più savj e sperimentati potrebbero convenire, e dare
i suffragj a persone il men che si può disformi di genio, d'opinione
e di scienza. Ma i consoli, giusta il disegno, escono essi pure dallo
scrutinio popolare; quindi, per li diversi umori delle provincie,
accadrà sovente di vedere appajati uomini differentissimi. E neppure è
lecito di credere che la stanchezza e la noja ovvero l'urgenza dei casi
costringali a cedere l'uno all'altro secondo i tempi e gli accidenti,
o a convenire in continui mezzi termini per giungere a qualche atto e
deliberazione comune. Imperocchè, sopra que' poveri consoli pesa una sì
tremenda e incessante malleveria, da spegnere qualunque buon desiderio
di mezzi partiti e di mutua condiscendenza. Nelle altre Costituzioni
sono i parlamenti che tengono arbitrio di sottoporre a un'imputazione
criminale i capi non inviolabili del Governo; ma nella nostra, ogni
cittadino può con un semplice suo memoriale promuovere l'accusa e la
condannagione dei consoli. Nè solo debbono essi render ragione delle
faccende della repubblica ad ogni sei mesi, e quante volte sieno
dall'Assemblea ricerchi di ciò; ma usciti appena d'uffizio, vengono
per disposizione suprema di legge posti a sindacato dai Tribuni, i
quali possiedono facoltà di tradurli di poi in giudicio. In Francia,
presidente e ministri incontrano tutt'insieme una pari obbligazione di
mallevare; ma la nostra Costituzione fa imputabili di colpe di stato
i soli due consoli, e ogni mancamento de' primi ufficiali del Governo
rovesciasi loro sul capo.

Abbiamo finito? non già, perchè riman di notare in questo medesimo
subbietto un altro grave disconcio. Conforme il disegno di cui
parliamo, ogni anno all'uno dei consoli tocca di uscire di magistrato,
e vien supplito dal console nuovo. Per tal guisa, colui che rimane,
dopo avere per avventura assai faticato e sudato a comporsi nelle
massime e nella pratica col suo collega, dee ricominciar l'opera e la
fatica con l'altro che sopraggiunge; al quale altro avverrà dopo un
anno la sorte medesima; e così senza fine. Oh Consolato degno di poca
invidia e di molta commiserazione!


II.

                                                      23 aprile 1849.

La vita politica delle nazioni, simigliando a quella dei corpi animati,
non può sussistere nè prosperare senza un artificioso contrasto delle
sue parti. Ma il contendimento in fra esse debb'essere tale, che invece
di uscirne la disgiunzione e la distruzione, e invece che le virtù e le
forze contrapponendosi vengano a sminuire e cessare, moltiplichino per
lo contrario la lor vigorezza e la loro efficacia, e compongano, quasi
a dire, una discorde concordia, piena di varietà e di ordine insieme.

L'arte, pertanto, dei filosofi politici consiste a trovare una felice
e durevole antagonía (mi si conceda il vocabolo) delle forze civili,
donde provenga continuamente l'ampliazione e la sicurezza delle libertà
pubbliche e del comune perfezionamento. Per contra, quelle costituzioni
in cui signoreggia un solo principio e una sola forza qualechessia,
portano entro sè la cagione dello scadimento e ruina propria. Le
monarchie assolute appena ebbero consumate le reliquie della feudalità
e ogni specie di gerarchia interposta tra esse e il popol minuto,
soggiacquero alla violenza di ripetute sollevazioni, e cessero il luogo
ai governi rappresentativi. Per simile, le aristocrazie di Venezia e
di Genova, dopo avere in sè accumulata ogni potestà ed ogni diritto,
si disfecero nella dissolutezza e nell'ozio. L'aristocrazia inglese,
in quel cambio, ponendo argine a sè medesima e alla sua prepotenza con
la Camera dei Comuni e con altre popolari franchigie, non solo è ancor
sussistente e gagliarda, ma non sembra dar segno nessuno di decadenza e
di prossimo disfacimento. Grande errore farebbe colui il quale stimasse
che i governi popolari vadano esenti da questa legge. I Fiorentini,
quando ebbero divelto dal seno loro ogni ordine di patriziato e ogni
autorità senatoria, e raccolto tutto il potere in mano delle Arti, non
perciò si quietarono, ma si divisero in sètte più numerose, e la città
e lo stato riempirono di tumulti e sollevazioni.

A coloro, impertanto, che si travagliano di ordinare e costituire in
maniera durevole le moderne democrazie, debbe star ferma in pensiero
cotesta massima fondatissima: di non permettere che la forza e
autorità popolare non abbia contrasto legale alcuno, e la vita così
politica come civile non esca sempre rinnovata e rinvigorita da un ben
congegnato sistema di antagonía.

A rispetto di ciò, debolissima e molto pericolante, a credere nostro,
è l'ultima Costituzione di Francia, e sarà tale qualunque altra le
voglia rassomigliare. Quivi una sola è la fonte e l'emanazione di
ogni dignità e di ogni potere; senza che alcuna prescrizione di legge
od ufficio di magistrato curi e provveda se non a impedire, almeno a
scemare notabilmente gli sconci assai gravi che il suffragio universale
conduce seco, e i quali dal lato degli elettori sono principalmente la
_volubilità_, l'_ignoranza_ e la _seduzione_. Quivi una sola assemblea,
originata da quel suffragio, fa e delibera tutte le leggi e ne veglia
l'esecuzione. Quivi il capo del governo trae l'autorità e l'ufficio
suo transitorio dallo stesso popolare scrutinio; e non possiede per
moderare alcun poco la onnipotenza dell'assemblea verun altro mezzo,
che farla richiedere dai ministri entro il termine solo di un mese, di
voler sottoporre a nuova deliberazione la legge per innanzi approvata;
e può l'assemblea non accedere alla domanda. Quivi, pertanto, è una
sola ed unica potenza e dominazione, la volontà delle moltitudini; le
quali di lor natura, come dicemmo, riescon voltabili e passionate,
nè si posson difendere quanto è bisogno contro la propria ignoranza
e l'altrui seduzione. Ora, nessun rimedio à trovato la Costituzione
nuova francese ai difetti e all'eccesso del regno assoluto delle
moltitudini, e alle esorbitanze del parlamento che discorre ed opera
in nome di quelle. Tutt'i poteri sono soverchiati continuo da una
forza incircoscritta e infrenabile; e l'antagonía salutare della vita
politica è sciolta e annullata.

In America, alla prevalenza cieca del numero e all'arbitrio pieno del
popolo minuto contrasta primamente la forma di governo confederativo;
la quale induce meno impeto nel consiglio e nell'opere, e commette al
congresso centrale la sola trattazione degl'interessi effettivamente
comuni, e però assai più larghi e meno mescolati ed intorbidati di
passioni e preoccupazioni. Secondamente, l'abbondanza inesauribile del
lavoro e l'alto prezzo delle mercedi, fa la plebe di necessità meno
inquieta ed astiosa, e ne' suoi pensieri e suffragi più temperata.
In terzo luogo, ognun sa che la potestà legislativa è spartita in
America tra la Camera dei Comuni e il Senato, e che non procedono
entrambi dal suffragio universale, nè sono eletti con una medesima
ragione proporzionale; imperocchè il Senato componesi secondo il numero
degli Stati, e la Camera de' Comuni secondo quello dell'universale
popolazione. E similmente, non dal suffragio delle plebi, ma da certo
modo particolare e ristretto di eleggere, esce il nome del presidente a
ciascun quadriennio.

Ora, non sussistendo nulla di tutto ciò in Francia, egli occorreva di
speculare e indagare altra natura di spedienti e altra efficacia di
rimedj: il che non fu fatto nè procurato.

Ai degnissimi cittadini che lungamente meditarono l'idea della
Costituzione romana, sembra che siffatti pensieri e difficoltà o non
sieno sorti nell'animo, o non li abbiano piegati ad altre cogitazioni
e risoluzioni. Certo è, che nel lor disegno di legge fondamentale
incontrasi, come appunto nella francese, una sola assemblea, una sola
forma di elezione, una sola origine di autorità e di potere. Ma in
Francia ogni proposta accolta nel parlamento dee, per avere forza di
decreto, venir messa a partito e vinta tre volte consecutive; e oltre
di ciò, il presidente, innanzi della promulgazione a lui affidata,
possiede come notammo, la facoltà di richiedere una quarta e ultima
deliberazione. Giusta il disegno di Costituzione di cui parliamo,
un consimile temperamento può venire usato dai Tribuni. Di questi,
adunque, diremo un po' alla distesa, e con sempre uguale franchezza e
sincerità di discorso.


III.

                                                      25 aprile 1849.

Chiunque ricorda il tribunato romano antico, pensa una tremenda
magistratura che, per effetto delle sue interdizioni, de' suoi giudizj
e de' suoi plebisciti, non solo la forza contrappesava e l'autorità
del Senato, ma non di rado soprapponeva il diritto e la volontà della
plebe alle giurisdizioni e alla potenza di tutto l'ordine dei patrizj.
Nel nostro _Progetto_ dì Costituzione il tribunato è cosa molto più
innocente e leggiera, e tra tutti gli ufficj della repubblica è del
sicuro il più scioperato ed agevole; tanto che sembrerebbe costituito
per serbare in Roma alcuna memoria e figura dei Benefizj Semplici,
quando il tempo e i costumi li sopprimessero. Per vero, ad esso non è
attribuito altro incarico peculiare e continuo, se non quello descritto
dall'articolo 33, con queste formali parole: «Sopra le leggi adottate
con maggioranza minore di due terzi, possono i tribuni richiamare
il suffragio dell'assemblea; e se dopo la seconda discussione sono
adottate con meno di tre quarti di suffragi, i tribuni hanno il diritto
di richiamarle a nuova discussione. Dopo la terza discussione, se la
legge è adottata a qualunque maggioranza, viene eseguita.»

Nella proposta neppure è indicato l'idoneo modo col quale il tribunato
esercita cotal suo diritto; cioè se il debba mettere in atto per
messaggio all'assemblea, o se per organo dei consoli od altri primi
ufficiali, ovvero presentandosi egli medesimo nel parlamento, e quivi
annunziando essere sua volontà che la discussione di tal legge o di
tal altra, benchè compiuta, si rinnovelli. Ma certo è che la legge
fondamentale non gli fa obbligo nemmeno di significar le ragioni
ond'è mosso a chiedere la rinnovazione dei dibattimenti e la prova del
bossolo.

Ciascun vede, pertanto, che comoda magistratura sia quella del
tribunato, scarica affatto di pensieri e di occupazioni, e non dovendo
ragione ad alcuno del proprio operato; imperocchè ella sola, secondo
la proposta, non incorre in veruna malleveria, e non riconosce potere
alcuno che le stia sopra.

Dicemmo nel primo Articolo, che in questo disegno di legge
fondamentale, chi porta davvero un basto ingrato e pericoloso, sono
que' tapinelli de' consoli: onde qui Cicerone non avrebbe per lo
certo di che compiacersi oltremodo, e non morderebbe sì spesso ne'
suoi discorsi que' tanto numerosi e protervi _qui honori inviderunt
suo_. E si avverta di passata la ingiusta parzialità che interviene
tra i consoli ed i tribuni. La proposta di Costituzione prescrive
nell'articolo 22, che i consoli debbono conseguire nei generali
comizj non meno di centomila suffragi; ai tribuni basta la pluralità
ordinaria; e ciò non pertanto i consoli sottostanno al sindacato dei
tribuni. Questi poi, come i prediletti e i beniamini dello Stato, sono
mantenuti e spesati dalla repubblica; del mantenimento dei consoli la
Costituzione non parla: eppure la lor bisogna e la briga è grandissima;
quella dei tribuni è pressochè nulla. Onde ci par di sentirli ogni
giorno, desinando nel nuovo Pritaneo, sclamare per gratitudine:
_Populus nobis hæc otia fecit._

Ma, rivenendo al primo proposito, egli si può dire che l'officio
sopradescritto del tribunato poco importa al corpo da' cittadini se
riesce lieve o gravoso a chi lo sostiene, quando torni in effetto
di gran momento e di gran salute per la repubblica. Ma qui appunto
la mente nostra si smarrisce in cercando i principj e le massime che
ànno condotto i compilatori della proposta ad immaginare questo lor
tribunato; il quale è inopportuno e soverchio per un rispetto, e per un
altro è inefficacissimo e vano. Soverchio, all'intento di conseguire
nuove discussioni e nuovi scrutinj, e soverchio altresì, come vedremo
più tardi, per sindacare l'azione dei consoli; inefficacissimo e
vano, per porre limitazione alla prepotenza popolare, e introdurre
nello stato una saggia e provvida antagonia; inefficacissimo, infine,
per mantenere nella repubblica una giusta misura fra i due elementi
costitutivi d'ogni progresso civile, la _conservazione_ vogliam dire e
l'_innovazione_.

Tanto è discosto da verità, che l'ufficio di domandare una discussione
nuova esiga la creazione di una sì alta e insigne magistratura qual'è
il tribunato, che in Inghilterra viene a ciò soddisfatto e supplito
da un semplice articolo di regolamento parlamentare, e in Francia da
una speciale prescrizione della legge costitutrice, là dove tratta
delle pertinenze e funzioni dell'assemblea. Ma sì in Francia e sì
in Inghilterra tale precetto di rinnovare i dibattimenti e dare più
d'una volta i partiti, non ad altro serve, salvo che ad impedire la
troppa sconsideratezza e precipitanza delle deliberazioni. Nè l'opera
dei tribuni può recare in ciò maggior bene, eziandio per questa
considerazione, che l'autorità loro appresso i deputati del popolo è
men che mediocre, venendo eletti, siccome quelli, dagli stessi comizj
e a pluralità ordinaria di voti: quindi, a rispetto del valore e
dell'importanza morale, i tribuni agli occhi dell'assemblea sono dodici
contro dugento; sono dodici muti ed inoperanti, contro dugento che
discutono e che risolvono.

Secondo la proposta, i consoli, terminato l'ufficio loro, ne rendono
conto ai tribuni. A questi poi appartiene o approvarli o proporne
l'accusa. Con ciò, non v'à dubbio, il tribunato ritroverebbe, una fiata
almeno ogni due anni, qualche giorno di briga e di occupazione. Ma
si consideri che innanzi a quel termine, ai consoli tocca per quattro
volte di render conto all'assemblea dello stato de' pubblici affari;
la qual cosa include di necessità l'esame e il giudicio minuto e
specificato dell'opere loro: ed anche intralasciamo di ricordare che
debbono i consoli ripetere punto per punto quell'atto, sempre che ciò
venga nel desiderio dell'Assemblea.

Posto, dunque, ch'essi della ministrazione loro sieno usciti netti
e incolpevoli, e niun cittadino gli abbia accusati od abbia potuto
far giungere l'imputazione insino alla forma del giudicio, la quinta
ispezione e indagine de' lor fatti e portamenti diventerà di leggieri,
piuttosto che altro, una formalità ed una sovrabbondanza. In caso
poi che il contrario avvenisse e proponessero i tribuni l'accusa
dei consoli, l'assemblea sarà pochissimo disposta ad approvarla
e continuarla; perchè moverebbe da gente non guari mallevadrice
dell'atto, sprovveduta di autorità grande, chiamata a supplire
i consoli per tutto il tempo del giudicio; e più ancora, perchè
l'assemblea confesserebbe la incapacità propria e la negligenza, col
non aver saputo o voluto prevenire i tribuni intorno al sindacare le
azioni dei consoli.

Rimane di far parola d'una straordinaria incombenza data ai tribuni;
d'invigilare e conoscere, durante la dittatura, se il pericolo della
patria è cessato. Merita la cosa che noi ne discorriamo a più bell'agio
nel prossimo foglio; e vedremo quanto curiosa e piacevole invenzione
riesca questo aborto di Tribunato.

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)


SULLO SBARCO DEI FRANCESI A CIVITAVECCHIA.

                                                      26 aprile 1849.

Lo sbarco delle truppe francesi in Civitavecchia è avvenimento
gravissimo, nel quale sta inchiusa una questione di fatto e una
questione di alto diritto. Sebbene, in quanto al diritto, la parola
questione è forse impropria ed equivoca; imperocchè, al sentir
nostro, la violazione del diritto è patente, e non può muovere alcuna
ragionevole controversia. Per ciò noi ringraziamo di cuore i Triumviri
per avere prontamente e con solennità protestato; ed altre grazie
avremmo ad essi reso, se per compire lo sbarco fosse ai Francesi
tornato necessario il venire a qualche atto di forza e all'uso
dell'armi, e i superiori e magistrati del luogo fossersi ritratti in
Roma o in altra terra sicura, secondo che in simiglianti frangenti
è costume di fare. Sì nel proclama dei Triumviri e sì in quello
dell'Assemblea, per ciò che spetta all'invasione del territorio, sono
adoperate parole piene di giusta indignazione e di romana alterezza.
Ma ci avrebbe gradito assai che le legittime rimostranze non fossero
unicamente state fatte nel nome nostro, ma di tutta la Nazione
Italiana; perchè non è lecito mai di scordare che noi siamo provincia
d'Italia e nobile parte del territorio nazionale comune, il quale
gli stranieri ànno offeso e violato, offendendo e violando il nostro
particolare. E in questi sensi per appunto fu dettata la protestazione
del Ministero del 16 di novembre contro il minacciato invio di truppe
francesi; in questi sensi parlò il ministro Mamiani al Consiglio
dei deputati, i quali tutti nella sua sentenza convennero con pieni
applausi ed unanime deliberazione.

Ma, salvato il principio, e fatto conoscere agli stranieri che alla
Nazione Italiana se manca tuttora il nervo non manca il senso, e che
l'altrui forza può bene opprimerla ma non ingannarla, nè indebolire
in cuor suo la coscienza piena che à racquistata del proprio diritto,
deesi considerare con gran diligenza la questione del fatto.

Noi preghiamo strettamente ogni buono e leal cittadino a ponderare
con fermo giudicio, se nelle condizioni presenti d'Italia e nella
disposizione più generale degli animi, e dopo cadute le armi subalpine
a Novara, sia probabile o no di trovare mezzi copiosi, séguito e ardore
di gente, ostinazione invitta e magnanima non diciamo per far trionfare
il diritto, ma per difenderlo con dignità. D'altro lato, è grandemente
mestieri di porre eziandio in esame, se la calata de' Francesi non
abbia per cagion vera e impellente la necessità di prevenire altre
violente occupazioni, ben davantaggio odiose e malefiche, e di gente
nimicissima d'ogni libertà nostra e del sacro nome d'Italia. Uopo è
di considerare se nel pericolo sommo in cui si travaglia la patria,
e sul punto di naufragare e perire, non le corra debito di gettar via
nell'onde qualche insigne parte del carico perchè tutto il restante si
salvi. Infine, veggano e considerino gl'ingegni integri e imparziali,
se in tanto bisogno di concordia e di fratellanza, non divenga
ufficio doveroso e pietoso insieme di rimovere quelle poche cagioni
di differenza che peranco insorgono in mezzo di noi, e impediscono
che noi ci stringiamo tutti in un sol pensiere e ci affatichiamo in
un solo studio, e il qual sia di campare ed assicurare alcuna porzione
di libertà, e quanta almeno i nuovi infortunj d'Italia e la prepotenza
degli stranieri ne posson lasciare intatta e sincera . . . . . .

                                       (Dalla _Speranza dell'Epoca_.)



ELOGIO FUNEBRE

DI RE CARLO ALBERTO

detto da Terenzio Mamiani nella Metropolitana di Genova il dì IV
ottobre MDCCCXLIX.


In sul cadere di giugno del 1849, entrati i Francesi in Roma,
e appresso a pochi giorni intimato insolentemente all'Autore di
uscirne, egli si rifuggiva in Genova, dove ogni maniera di ospitali
dimostrazioni e carezze lo accolse e riconfortò. In quel mezzo tempo,
giunse nuova della morte di Carlo Alberto, e Genova si apparecchiava
a riceverne le amatissime ceneri con riconoscente dolore e con funebre
pompa. Allora fu scritta al Mamiani la seguente lettera:

      «Chiarissimo signor Conte.

  «Il Municipio di Genova, mosso dal desiderio di tributare un
  estremo omaggio di devozione riconoscente alla memoria del
  Propugnatore dell'Italica Indipendenza, del Monarca Legislatore,
  cui i Popoli Subalpini sono debitori dello Statuto, deliberava
  che in occasione del passaggio per questa città delle venerate
  spoglie di CARLO ALBERTO, gli fossero celebrati solenni Ufficii di
  espiazione nella Chiesa Metropolitana.

  «Bramoso, oltreciò, il Municipio che i pregi e le azioni del
  Principe magnanimo e sventurato formassero in tal congiuntura
  il subbietto d'una Orazione funebre, e che i sentimenti da cui i
  Genovesi sono animati per CARLO ALBERTO fossero espressi da chi
  sapesse rendersi degno interprete d'un dolore che tutti i veri
  Italiani debbono partecipare, ebbe ad ascrivere a sua ventura che
  la presenza in Genova di un Terenzio Mamiani gli porgesse il modo
  più acconcio di soddisfare all'intento.

  «Al Corpo Civico non solo son noti i meriti letterarii e
  scientifici che rendono la S. V. uno de' più specchiati
  ornamenti d'Italia, ma stanno dinanzi i servigi segnalati
  ch'Ella generosamente prestava alla Patria Comune, ed insieme
  il particolare affetto ch'Ella nutre per questa città, la quale
  tanto si pregia di essere da V. S. Chiarissima stata eletta a sede
  ospitale.

  «Queste considerazioni determinando l'unanime assenso del
  Consiglio Delegato a commettere a V. S. l'incarico della Orazione
  da recitarsi dopo la sacra cerimonia, fanno concepir la fiducia
  ch'Ella vorrà accondiscendere alla preghiera che per mio mezzo
  Genova tutta Le porge.

  «Gradisca, chiarissimo signor Conte, l'attestato del riverente
  ossequio con cui ho l'onore di proferirmi

      «Di V. S. Chiarissima

      22 agosto 1849

                                  Devotissimo Obbedientissimo Servo

                                     _Il Sindaco_ ANTONIO PROFUMO.»

L'Autore rispose:

      «Signor Sindaco.

  «Di tutti gli onori e favori segnalatissimi che questa Città
  insigne e ospitale si è degnata parteciparmi, il maggiore senza
  dubbio è quello che la S. V. mi proferisce col suo foglio di jeri,
  invitandomi nelle prossime esequie di Re CARLO ALBERTO a recitarne
  publicamente le lodi. Ragionare convenientemente di quel gran
  Personaggio, e farsi organo fedele e diserto del popolo Genovese in
  tanto suo lutto e dolore, è certo impresa da sgomentare non pure il
  mio povero ingegno, ma quello eziandio de' più provetti e felici
  oratori d'Italia. Ma d'altra parte, ricusare un sì nobil ufficio
  e un'offerta capace da per sè sola d'illustrare tutta la mia
  bassa vita e fortuna, e in cui risplende un carissimo testimonio
  della rara predilezione per me di tutto questo glorioso popolo,
  ha sembrato al mio giudicio più presto un atto d'orgoglio che di
  modestia, e il quale non passerebbe senza qualche odiosa apparenza
  d'ingratitudine. A me corre obbligo, adunque, accettando l'onore
  ed il carico, di fare ogni sforzo ed ogni fatica per rimanere
  meno discosto che io potrò dalla grandezza del têma, e con lo zelo
  almeno e lo studio mostrare alla S. V., a suoi Colleghi onorandi e
  alla intera Città, che la riconoscenza mia e la devozione inverso
  di loro, se negli effetti è scarsissima, è somma e perpetua nel
  sentimento e nel desiderio.

  «Mi creda pieno d'osservanza e d'ossequio

      «Della S. V.

  «Li 23 di agosto 1849.

                                 Umilissimo e Obbedientissimo Servo

                                                 TERENZIO MAMIANI.»


I.

Dei veramente grandi e buoni è l'orazion funerale dettata prima d'ogni
altro dal popolo; e dove questo si tace, non vale facondia e abilità
d'oratore. A niun tristo principe, morente sicuro in suo letto, è
accaduto mai di non avere accanto al suo feretro un gonfio panegirista,
il quale osi di adulare e mentire eziandio tra le pareti del tempio,
alla presenza più viva e più manifesta di Dio. Se non che, in quel
caso, l'ostinato silenzio del popolo accusa e sbugiarda il celebratore.
Per lo contrario, dove l'amore e l'ammirazione delle genti accompagna
la morte d'un giusto re, nessuna eloquenza pareggia forse il buon
sentimento di quelle; come alla vista del feretro suo, nessuna forza,
nessuna astuzia, nessun pericolo potría ne' petti stagnar le lagrime,
e il lutto e il rammarico seppellirvi. Quando le ceneri di Germanico
per mare venute toccaron terra, da ogni loco eziandio non vicino
piovean le turbe accorate, e con ansia amorosa di vederle e onorarle;
nè astenevasi alcuno di mostrare e provare al mondo, che lui sfortunato
e tradito avean caro sopra tutti i potenti e felici, e volevanlo
glorificato al par d'un Iddio. Ora, quell'accoramento medesimo,
quell'affollarsi da tutte bande, quel gemere luttuoso ed universale
s'è pure udito e veduto in questo porto di Genova, appena vi salía la
nave che riconduce a noi dall'esilio la salma d'un re sventurato ma
grande, e la quale accoglievano afflitti e in gramaglia que' Senatori
e Rappresentanti a cui lasciava egli in perpetuo retaggio la libertà; e
circondavanla le milizie di que' segni stessi e di quelle bandiere (ahi
dimesse oggi e abbrunate!) ch'egli volle sopra tutte le torri della
Penisola inalberare, e farle in ogni terra e sopra ogni mare franche,
temute e trionfatrici.

Ma quanto è maggiore la perdita, più sentito il dolore, il tribolo più
generale e sincero, altrettanto l'anima del dicitore se ne sgomenta;
perch'egli non può fare come il pittore Timante che figura Atride
nascondentesi dentro le palme il viso; ma sì è costretto di ragionare
mentre non vorrebbe che piangere, e mentre in cambio di parole, gittar
vorrebbe muti sospiri e flebili suoni interrotti. Or che dirò della
povera mia loquela, o Signori, innanzi a sì alto subbietto, e in faccia
a sì grande, sì vero e non esprimibil dolore di tutta questa città,
che nell'ardore de' nobili affetti a niun popolo cede, a moltissimi
entra innanzi? Ma d'altra parte, io vo pensando che qui non si tratta
di sole funeree lamentazioni, e di solo sfogo al comune e soverchiante
cordoglio; e nemmanco si tratta di esimia palestra oratoria, e di
spiegare innanzi alla vostra curiosità sfoggiate bellezze d'arte e
di stile. Ben altra cosa domandano la santità e solennità del luogo
e del rito, l'anima augusta per cui preghiamo, l'Italia infelice che
a questa terra rimira, ultimo asilo e sostegno della sua libertà e
delle sue speranze, ahi già tanto superbe! Lasciamo alle prefiche
e alle femminette l'abbondanza del pianto e le inconsolabili nenie.
Nessuna cosa è più degna d'un popol civile raccolto d'intorno alla
spoglia mortale di strenuo principe, che il chiudersi in grave mestizia
e meditabonda, piena d'alti documenti e consigli, e che sia lume e
preparazione di migliori destini.


II.

Suole gran parte di coloro che studiano nelle storie, uscire dalla
notizia e considerazione di quelle con l'animo troppo diverso e
fuor misura disingannato, e odiando quasi la luce che d'indi è lor
balenata. Imperocchè stimano averne raccolto questo insegnamento più
generale e più certo: che, cioè, il genere umano vive e si pasce,
come durevolmente fanciullo, di perpetue illusioni; la fortuna
governare le cose nostre con usuale insolenza e perfidia; quei popoli
acquistare grandezza e quei principi venir lodati e famosi, che son
fortunati. Le imprese comechè giuste e nobili, gli sforzi comechè
dolorosi e magnanimi, quando il buon successo non gli accompagni, o si
estinguono nel silenzio, o con dispregio son ricordati. Se il cuore fu
schietto e sublime, il tentamento generoso, le intenzioni benefiche,
la volontà invitta e incrollabile, non si chiede. Invece, molti nomi
permangono illustri e molte opere ricordate nei secoli ed ammirate, le
quali la giustizia condanna, e la bontà deplora ed abbomina. Insomma
(sentenzian costoro), la lealtà, il coraggio, la rettitudine, la
bontà e l'annegazione sola valgono nelle storie meno che nulla, e di
lor si fa caso unicamente allora che menano seco la forza, l'ingegno,
l'abilità, la fortuna; e l'abilità, l'ingegno, la fortuna e la forza
valgono, pur troppo, e prevalgono anche sole. Ora, a tale sentenza
sconfortatrice e del sicuro non tutta falsa, ognun sa che dovrebbe il
virtuoso e il cristiano non si perturbare; essendo notissimo a lui, che
il mondo è cieco e strano dispensiere di fama, e il volgo si lascia
pigliare alle splendide e strepitose apparenze; notissimo è a lui,
che la virtù è rara e divina cosa per ciò appunto che tragge i premj
da entro sè stessa. E fuori di sè, non agli uomini li domanda ma sì
a Dio immortale, e dei parziali e sciocchi giudizj umani alteramente
sorride. Ciò resta vero; ma la virtù comunale e generalmente usata non
è profonda nè coraggiosa; e d'altra parte, ànno le storie del medio evo
mostrato e provato assai, quanto torni pericoloso il porre tutte mai
le speranze e tutti i pensieri fuori del mondo. Ei si fa necessario,
pertanto, che qualche preludio almeno di gloria, qualche cenno di
spiritual premio, qualche segno e testimonianza visibile di laude e di
onore, segna presto o tardi l'animoso ed il buono eziandio quaggiù in
terra, e gli tenga luogo di lieti successi e d'ogni altro bene.

Al presente, io mantengo che quel preludio di gloria, quel segno
d'onoranza più, direi, celeste che umano, e il quale o non mai o
rarissimo può mancare alle virtù grandi benchè infelici, sì è l'amore
appunto di tutti i buoni, e la compassione e insieme l'invidia di tutte
l'anime generose e gentili; si è il giudicio e la sanzione del popolo,
il quale tuttavolta che non vien soprafatto dalle arti maligne degli
ambiziosi e de' prepotenti, serbasi retto nell'assegnar la sua stima,
e scuopre e indovina assai bene la probità delle intenzioni e dei fini;
e dove non possa altrimenti, sfoga con segrete rammemorazioni e qualche
nascosta lacrima l'affetto riverente e pietoso.

In tal guisa, e contro i ludibrj della fortuna e a preferenza d'altri
re abilissimi e potentissimi, l'amore, l'ammirazione, l'encomio, il
compianto di tutta Genova, di tutto il Piemonte, di tutta l'Italia
accompagna, circonda, onora e quasi non dissi adora l'estreme reliquie
di questo Re, e lui caduto due volte nel santo intraprendimento, udiam
tuttavia chiamare e salutare un eroe.

Insegnamento sublime e più che altri mai profittevole, il quale esce da
queste esequie! Oggimai dee sapere qualunque Italiano, che quando anche
o dagli accidenti o dalla natura fossegli contrastato e interdetto di
segnalarsi per doti peregrine ed eccelse d'ingegno e d'arte, sempre gli
rimarrà, se lo voglia, il tesoro non dissipabile d'un eroico sentire
e d'un forte operare; e che gl'infortunj più fieri e impensati mai non
varranno a frodarlo della tacita maraviglia e dell'affezione ossequiosa
di tutti coloro che il pregio dei pensieri e dell'opere umane indagano
e pesano alla stadera e al lume della coscienza, e riscontrandole
esattamente coi dogmi eterni della giustizia e del bene. Il qual lume
e il quale riscontro c'insegnano oggi appunto con gran sicurezza,
che il peccato dei destini, la crudele indifferenza d'Europa, gli
eccessi delle fazioni e i funesti errori di tutti, contrastarono e
soprafecero le intenzioni più alte e schiette e magnanime che sieno
sorte e dimorate pur mai nel petto d'un re; e che sì le opere, i
benefizj e i tentamenti di CARLO ALBERTO inverso la patria comune, sì
ogni mezzo voluto e prescelto da lui nell'adempimento di essi, furono
tutti impressi e lucenti di quella prodezza antica e di quella civile
santità, che sola può salvare e riordinare, non che l'Italia, ma il
secolo, e queste viventi e le nasciture generazioni.


III.

Famoso è nelle storie d'Erodoto quel discorso di Solone a Creso re dei
Lidj, col quale fece il savio ateniese divisare e conoscere, come per
dar giudicio della bontà e felicità della vita convenga soprattutto
aspettarne e considerarne il termine; e che le ultime parti di quella
(quando già non sia dalla vecchiezza troppo consunta) ne racchiudono
il maggior pondo e valore, perchè ne sono, come a dire, il portato
a cui preparare trascorsero gli anni antecedenti. E sebbene questi
non paressero tutti laudevoli, o non quanto gli ultimi, fannosi di
leggieri dimenticare, sembrando tener simiglianza con quelle foglie
e quei tegumenti che bene allegato che abbia il frutto, si diseccano
e cadono. Per contra, dove l'ultima maturità della vita non riesca
corretta e gloriosa, poco o nulla stiman gli uomini le virtù e i pregi
anteriori. Certo, non è senza maraviglia il pensare, come i trascorsi
e la ferità di Ottaviano Augusto vengano quasi tenuti in non cale per
considerazione della sapienza e liberalità posteriore. Nè comparisce
meno strano, che il saper morire da forte e da generoso tramandasse
ai posteri il nome di Ottone pressochè mondo d'ogni sozzura. Ma,
per lo contrario, trapassò dubia e macchiata in sino a noi la fama
di Teodorico, soltanto per avere una vita tutta bella e incolpevole
bruttata, in sul finire, d'un fallo unico, incrudelendo contro que' due
gran giusti, Simmaco e Boezio.

Ciò bene osservato, a voi non parrà disdicevole che io, stretto dal
tempo e dal proseguimento del rito e di sue cerimonie, e sceglier
dovendo il meglio e il più sostanzioso della vasta materia, raccolga
il mio ragionare quasi tutto negli ultimi anni della vita di CARLO
ALBERTO; ne' quali, d'altra parte, un secolo intero sembra esser
trascorso, e ai quali porterà invidia in qualunque età qualunque
principe d'alto sentire, e che abbia cuore d'innamorarsi della sventura
e di non tremare il martirio.

Io dico e ripeto, impertanto, con gran fermezza, che i concetti e
le mire di CARLO ALBERTO, quali segnatamente negli ultimi anni si
palesarono a tutto il mondo, ed alle quali accomodò ogni pensiero e
ogni azione, furono le più pure insieme e le più eccelse e benefiche
a cui può voltarsi una elevatissima mente e un petto generoso ed
intrepido; e al mio giudicio, procede da esse sole tal merito, da
tenere viva e onorata in perpetuo la sua memoria. Nel vero, di molte
e varie accidenze di guerra e di molti imprendimenti formidabili e
strepitosi ragiona la storia; e più a lungo ed enfaticamente assai,
con quanto maggior sangue e maggiore perturbazione e ruina di cose
si consumarono. Ma se dalla giustizia ed utilità del fine lecito
fosse di misurare la bellezza e splendenza loro, quante di esse
imprese pensiamo, o Signori, che si rimarrebbero degne d'encomio e di
ammirazione? Certo, lasciando pure intatta ed inesplorata l'antichità,
io vorrei che in qualche dotto e prudente uomo fosse stato arbitrio
d'interrogar d'improvviso o Carlo quinto, o l'emulo suo Francesco, o
Luigi decimoquarto, o Carlo di Svezia, o (mi si dia licenza d'aprir
tutto il vero) quel Genio stesso tragrande che regnò, non à molti
anni, dal mare germanico al mar siciliano e dalla Loira alla Vistola,
e osò portar guerra ad un tempo medesimo sulle terre Gaditane e sulle
Moscovite. Io vorrei, dico, che in alcun giorno de' più radiosi e beati
del viver loro, quel savio che io mi figuro avesse inopinatamente
potuto a ciascun d'essi addirizzare queste o somiglianti parole: —
Creatura mortale e peccabile, che pensi, che imprendi, ove guardi?
Veggo gesti rumorosi e magnifici; veggo battaglie e conquiste, paesi
sconvolti, ordini antichi mutati; ma i fini proporzionati del bene e
dell'utile, e la necessità e giustizia delle cagioni non veggo. Degna
mostrarmi il largo e perpetuo profitto che il genere umano intero, od
almanco la tua nazione, è per trarre da sì gran copia di sangue, da
sì profondi guastamenti, da guerre sì lunghe e sì disastrose. — Del
sicuro, a interrogazioni cotali non avrebber fallito risposte ingegnose
e magniloquenti da ciascuno di que' famosi. Ma negli occulti del cuore
e negli ultimi penetrali della coscienza un subito scompiglio sarebbe
pur nato, e una involontaria e amarissima dubitazione intorno alla
bontà e legittimità del proposito. Interrogato in quella vece di ciò
medesimo Re CARLO ALBERTO in qualunque tempo e in qual sia frangente
di cose, chi di noi nol vede e non l'ode speditamente rispondere, con
pacata serenità e alterezza dal profondo dell'animo attinte: — Chiedi
quello che io voglio e ch'io fo? io la più santa e legittima voglio e
procuro di tutte le imprese, l'affrancamento d'Italia. —

D'ogni e qualunque azione civile, la principale e migliore per
merito, per dignità, per bellezza, per santità, per fama, sempre fu
reputato il procacciare, con arduo sforzo ed eroico, la liberazione
della patria dalla tirannide dei forestieri. Imperocchè, fondamento
d'ogni libertà e d'ogni diritto è la politica indipendenza; rimossa
la quale, può solo sussistere un'apparente libertà e un apparente
diritto. Del pari, nella indipendenza è il principio vero e spontaneo
e la cagione efficace e sempre ubertosa di ogni prosperità e grandezza
sociale; essendo che l'ordine morale del mondo à determinato e
prescritto ab eterno, che le nazioni, primamente e originalmente da
natura costituite, rimanendo signore ed arbitre de' proprj destini,
arrechino all'intera famiglia umana quella stessa varietà d'indole
e quella eccellenza stessa speciale di attitudini e di talenti, che
può ogni singolo uomo arrecare alla propria città; onde risulta
l'armonia portentosa delle differenze, il cambio e la mutuazione
degli uffici e dei comodi, e in fine l'incremento e il progresso del
comun bene. Il perchè, oppressare l'autonomia naturale dei popoli si è
rompere guerra scelleratissima alla Provvidenza, la quale a ciascuna
nazione liberalmente concesse di veder meglio che tutte le altre una
sembianza del vero e del bene eterno, e assegnò qualche proprio e
nobile ascendimento su per l'immenso scaleo della perfezione civile.
Da ciò procede, che l'antichità e la modernità puntualmente concordano
ad anteporre ad ogni specie di nome illustre quello di coloro che,
impugnata con retto animo la spada di Matatia, spesero i sudori, il
sangue e la vita per purgare la terra degli avi dal contatto pestifero
degli stranieri. Da ciò procede eziandio, che il tempo e la vecchiezza
consumatrice di tutte cose, in luogo di nuocere e logorar come tarlo le
memorie di quelli, le riforbisce di mano in mano, e le cinge di lampi
e splendori: tanto che si trasmutano in simboli e in figure ideali ed
archetipe, e sono segno e subbietto alle tradizioni popolari e alle
fantasie de' poeti; i quali, in tal caso segnatamente, la storia e la
favola tessono insieme non già per trastullo, ma con intuito secreto
d'una verità più alta e più vera della storia medesima. Così d'Erminio
è accaduto appresso i Germani, così di Guglielmo Tello appresso gli
Svizzeri, così di Giovanna d'Arco in mezzo a' Francesi, e di Giovanni
da Procida tra' Siciliani, e del Cid e de' suoi cinque figliuoli tra'
Castigliani. Ed io stimo medesimamente, che dai nostri tardi nepoti non
verrà nelle canzoni loro popolaresche taciuto il nome di CARLO ALBERTO,
nè andrà egli senza onore di simboliche figurazioni; chè anzi, quanto
più travaglio e sangue e sudore costerà agli Italiani il vendicarsi
in essere di nazione, con quanta maggiore felicità e amplitudine
ripiglieranno di poi il corso delle preterite glorie e ritroveranno
le orme dell'antica fortuna, altrettanto diverrà chiara e di giorno
in giorno più rinnovata e ringiovanita la tragica memoria di questo
principiatore eccelso della risurrezione italiana; conciossiachè gli
uomini delle cose grandissime ammirano sopra modo i principj, e gli
reputano come divini.


IV.

Ma io non vorrei, uditori, lasciarvi pensare che io vo derivando in
parte le lodi del mio personaggio dalle fonti della poesia. Chè anzi,
spiacemi oltre misura di non possedere parole tanto significative e
semplici insieme, da mostrare la materia che tratto nella sua nuda e
maestosa grandezza, fuggendo i fiori e gli stratagemmi della rettorica.

Pericle pregato dagli Ateniesi di dir le lodi solenni e publiche
de' cittadini morti nel primo anno della guerra peloponesiaca, usò
d'un artificio notato dai buoni maestri dell'eloquenza; e ciò fu
lo spaziarsi da prima con isplendente e copiosa orazione nelle lodi
d'Atene e della republica, descriverne i pregi, dinumerarne i gran
capitani, narrarne i gesti più chiari, espor la sapienza delle leggi,
i miracoli dell'arti e dei monumenti; poi, con subito trapasso e
non aspettato, conchiudere: — per sì fatta città e republica, per
sì gloriosa cittadinanza sono combattendo caduti e morti costoro.
— Convenientissima cosa a me pur sarebbe, o Genovesi, il misurare
dalle grandezze, come dalle sciagure estreme d'Italia, la nobiltà e
grandezza dei fini, dell'ardimento e dei beneficii di Carlo Alberto.
A me pure, dove il subbietto chiedesse ornamenti ed amplificazioni,
bello sarebbe stato entrar nelle lodi d'Italia, e concludere dicendo:
— per questa patria comune, la più gloriosa fra tutte, come altresì
la più sventurata; per questa madre onoranda della civiltà dell'intero
Occidente; per l'Italia due volte dominatrice del mondo e legislatrice;
per la culla sublime de' più sacri ingegni che la stirpe umana abbiano
mai decorato; per gli eredi del nome latino e della magnitudine vera
e pur non credibile del romano impero, è insorto, à combattuto,
à sofferto, è dal trono disceso, à la vita in travagli e angosce
trapassata e chiusa l'Eroe che qui celebriamo. —

Ma non sono ben degne di Carlo Alberto le lodi che a molti si possono
accomunare. Assai gli basta (e vel proverò) ciò che à di singolare
e di proprio; e vi giuro con sincerissima lingua, che io il miro
collocato in una cima di gloria, ove abita solo. E per rispetto
all'Italia, potrebbesi egli tacere ciò che il distingue veracemente fra
tutti, e che forse non tutti ànno a dovere considerato? Io vel dirò
molto in breve. Antichissima è certo la gentilezza di nostra patria,
e comparsa adulta e matura fra gli uomini infinito tempo prima di
quella delle moderne nazioni; imperocchè poco meno di trenta secoli
di civiltà ricorda e narra, giù per continue trasmutazioni, la storia
italiana. In tanto corso, adunque, di tempi e di avvenimenti, egli è
da cercare a quanti principi e capitani (chè degli uni e degli altri
è innumerevole copia) à gradito di sguainare il ferro e pericolarsi a
morte per salvare e redimere la patria comune. A quanti? Dio immortale!
a nessuno. Ricorderemo noi forse gl'imperatori tedeschi che, facendo
d'Italia un feudo alemanno, assumevano come per ischerno il titolo
di romani e di augusti? O, per lo contrario, ricorderemo gli autori
e conducitori della Lega Lombarda? Ahi lombarda l'appellarono con
ragione, e non italiana, dacchè tanta parte d'Italia ne venne esclusa.
Gran dicería si fa (e torna utile che si faccia) del proposito fermo
e virile che dicesi avesse Giulio secondo di smorbare l'Italia dai
barbari. Pienamente voglio credere all'alto e animoso disegno, non
malagevole ad effettuarsi in quel tempo dai Papi, quasichè onnipotenti.
Ma mentre il fatto non à provato la verità di quel desiderio, bene
col fatto si prova, che da verun altro ricevè Carlo VIII impulsi più
frequenti ed acuti per iscendere alla conquista di Napoli, da veruno
gli furono più raccorci gl'indugi, e meglio acchetati e rimossi i dubbj
e vinte le esitazioni, quanto da esso Giulio, allor Cardinale: e certo,
divenuto Pontefice, non incominciava egli da buon italiano la impresa
italiana, collegando seco Francesi e Tedeschi a danno e sterminio
dei Veneziani. Fu inutile presente della fortuna, che quel magno e
terribile delle cui vittorie l'età nostra non si stanca di ragionare,
uscisse dal nostro sangue, e stringesse in pugno tutti i nostri
destini. Sotto il costui impero, Roma, Firenze, Torino, e tu, Genova,
foste città francesi; e il Regno che portava il sacro nome d'Italia,
stringevasi tutto fra l'Olona e il Clitunno. Da ultimo, menzioneremo
noi quel soldato forestiero e audacissimo, che, certo di cadere dal
trono regalátogli poco dianzi da Buonaparte, gridò per estremo suo
scampo — Indipendenza italiana, — pronto a spartire di poi col cognato
la illustre preda, qualora quegli non ruinasse? Chiudiamo il discorso.
Questa meraviglia dovranno attestare i futuri, di questa nessuna storia
potrà tacere: che, cioè, tra l'immenso numero de' potenti a cui venne
per li tempi commesso il freno d'alcuna parte delle Belle Contrade, tu,
CARLO ALBERTO, fosti il primo e il novissimo che snudavi la spada per
riscaldare tutta quanta la terra Ausonica; nè leggiermente o per poco
il pensasti e volesti, ma sempre, e con tutte mai le potenze dell'animo
e le forze della mente e del braccio; nè porzione alcuna dell'essere
tuo rimásesi non addetta, non devota, non sacra all'Italia insino alla
morte; e morte desiderasti nella guerra liberatrice, e che qualche
salvezza ed onore all'Italia fruttificasse.


V.

Proviene da ciò, che ne' funerali questo dì celebrati nessuno
scorge una solennità genovese o ligure o piemontese, ma italiana ed
universale; e vi assistono in desiderio e in ispirito le genti della
Penisola quante ci sono. E al nostro gran lutto risponde per ogni
intorno il lutto della Nazione, e in ogni cuore trapassa il nostro
compianto, e da innumerabili petti esce un solo sospiro. Che se al
giusto e pio dolore degl'Italiani non fosse dalla violenza o straniera
o domestica vilmente interdetto il manifestarsi con publico rito, in
qual parte riposta e remota del Bel Paese, in qual minima città, in
qual villaggio, oso dire, non vorrebbesi suffragare ed esequiare in
comune, e con accompagnamento di vere e caldissime lacrime, l'anima
gloriosa di questo Monarca? il quale unico tra gl'infiniti signori
di nostra patria, e quasi non dissi fra i privati cittadini altresì,
amò tutte le genti italiane con dilezione ugualissima di fratello
e di padre; e, contro l'esempio e le inclinazioni de' suoi medesimi
precessori, in cambio di aver cari gli altri Italiani come prossimi e
consanguinei, ebbe cari i suoi Subalpini solo perchè Italiani. Ma le
sciagure stesse d'Italia, e le ingiurie e gli sforzamenti del crudele
inimico, questo effetto non malo producono almeno: che intorno al
feretro augusto s'adunano in folla i miseri sbandeggiati d'ogni nostra
provincia, e qui degnamente le figurano e rappresentano, e nel proprio
e manifesto rammarico attestano il secreto pianto e cordoglio di tutte
le latine città. Qui voi pure state presenti, ahi sventura! o fratelli
di Venezia, o invitto e intrepido retroguardo dell'armi italiane,
rifatti degni di rivestire la gloria di quattordici secoli, arditi
di combattere soli contro tutto un impero, manomessi non dal ferro
ma dalla fame, cedenti per accordo, non per disfatta. Sia luogo alla
verità; di niun corrotto e di niuna lacrima trarrà l'anima benedetta
di questo Martire più compiacimento e più onore, che delle vostre, o
prodi come incolpevoli, o per ogni virtù militare e civile insigni e
specchiatissimi Veneziani.


VI.

Bello e magnifico è tutto ciò, e sufficiente, mi sembra, a far
venerando ai venturi qualunque nome di re. Pur nondimeno, se in voi
mantiensi, uditori, l'onesto desiderio di più avanti considerare
l'essere sostanziale della virtù, seguitando a bene distinguerlo
e segregarlo dagli accidenti, massime dagli esteriori assai più
soggetti all'arbitrio dei casi e al torto giudicio degli uomini, le
lodi che mi rimangono a dire di CARLO ALBERTO riusciranno maggiori
e più rare; e se ne riverbererà un lume d'insegnamento da spandersi
con profitto grande non pure fra i popoli italici, ma sì fra tutte le
genti civili e cristiane. Il perchè, quando mi fosse fattibile, io
chiamerei volentieri ad udire questa parte seconda del mio discorso
gli uomini tutti che ànno in Europa autorità e ingerimento continuo
e principale nelle faccende publiche, ed assai facoltà d'informare e
allevare l'animo e l'intelletto delle moltitudini. Io dico ed assevero,
che io farei ciò premuroso e senza paura d'orgoglio; conciossiachè la
imperizia e la ruvidezza del ragionare non potrebbe dal lato mio esser
tanta, da spegnere affatto il fulgòre delle verità che fuor del mio
têma di per sè traluce e sfavilla.

Per fermo, tra i vizj molti e gravissimi che incattivirono la nostra
età, e onde marciscono in poco d'ora i frutti delle sue fatiche e de'
suoi tentamenti, il pessimo, al mio sentire, si è quella inerzia della
gente mezzana a combattere il male e zelare il bene; quel difetto
di fede profonda ed inconsumabile nella verità e nella giustizia;
quei concetti o dubitosi o travolti, così intorno ai diritti ed
alle franchigie, come intorno agli uffici ed alle virtù e imprese
cittadinesche; quello scarsissimo sentimento dell'annegazione e del
dovere, e quell'insorgere invece con infinita baldanza ed avventatezza
contra ogni autorità ed ogni titolo di primazia. Quindi, pur troppo, è
nato che l'eguaglianza civile e politica viene professata e voluta più
assai per invidia dei beni e delle preminenze altrui, che per ispirito
vivo e sincero di dolce fraternità: quindi, piuttosto che affaticarsi
ad alzare ed accostare gl'infimi ai sommi, abbattesi rabbiosamente ogni
cima, e a quella gretta mediocrità, che riman di poi, d'ogni condizione
e d'ogni intelletto, dàssi lo specioso nome di pura democrazía:
quind'infine, spogliato e nudato l'animo delle speranze sopramondane,
e lasciatogli le sole mondane e caduche, l'amor dei piaceri e delle
ricchezze predomina e tiranneggia, e nel volgo si fa bestiale, ed
ogni promettitore d'un paradiso in terra acclaman profeta e levano
in sullo scudo. Dopo ciò, non è da stupire, se in tanta declinazione
ed alterazione del senso morale, e, d'altra parte, in tanto sdegno ed
irrequietezza di spiriti, il mondo come tutto si è scosso e scomposto,
così nessun ordine e nessun assetto naturale e durabile abbia per
anche trovato; e nessun termine di moto e di mutazione al cominciamento
loro consenta e risponda. Agli impeti coraggiosi e alle sollevazioni
formidabili e quasichè generali, subito sottentra tedio, diffidenza e
stanchezza; alla bontà e interezza delle prime intenzioni succedono,
tra brevissimo, esorbitanze e tristizie: in secolo della sua civiltà
e de' liberi suoi concetti superbo e fastoso, vedesi ogni questione
di ordini e istituti politici vinta e risoluta dal ferro; e quei
governi rimanere al di sopra, che meglio conversero le milizie loro in
automati armati, e in cittadelle sè moventi, e costrutte e murate di
uomini. In cotal guisa, le idee del bene e del retto appajono dall'una
e dall'altra banda manomesse e sconvolte, e la forza è il Dio dello
Stato; e a quella nazione che vive

    Mai sempre in ghiaccio ed in perpetue nevi,

e geme tuttora, per iscandalo della civiltà e del Cristianesimo, in
abbiezione di schiavitù, sono concedute al presente le prime parti e il
supremo arbitrato d'Europa.


VII.

Ora, a siffatto pervertimento dell'ordine, e a tale nuova dissipazione
delle più care speranze del genere umano, non sarà posto compenso
nè termine, insino a quando non ritorni trionfante nei petti nostri
la religione. E d'altro lato, non mai questa gl'impronterà del suo
saldo e lucente suggello, insino a tanto che, permanendo eguale ed
immobile nella sostanza sua, non muteràssi in parecchie disposizioni
e accidenti, e non piglierà a santificare e validare con divina
sanzione quei pensamenti vasti, quegli affetti virili e quelle nobili
propensioni, le quali sveglia la libertà, la ragione approva, illustra
e nudre la scienza, e le quali confidansi di menare il consorzio umano
in più franca e spaziosa via di progresso e di perfezione. Da tutto ciò
risulta quello che mi sembra doversi chiamare assai convenientemente
la Religione Civile. E perchè non mi accade qui di spiegare e chiarire
come in aula accademica i larghi e fecondi concetti adunati sotto
tale denominazione, ve ne darò con qualche acconcia definizione e
similitudine un cenno ed un saggio. La Religione Civile, pertanto,
che è dal secolo desiderata più che altro bene, e si va nelle menti e
nei cuori ogni dì più rivelando, non reca (e mai nol potrebbe) alcun
detrimento ed alterazione alla santissima religion nostra, e alla
moralità perfetta degli Evangeli; ma, per opposto, ella è un incremento
leggiadro e mirabile, e una nuova faccia della virtù e del bene, poco
avvertita per innanzi e male intelletta: chè la virtù umana procede
ella pure con legge di spiegamento e di ampliazione, non forse a
rispetto delle sue interiori disposizioni, il cui pregio raccogliesi
tutto per avventura nella perfezione della volontà, ma sì certo a
rispetto delle esteriori manifestazioni, e della potenza ch'essa virtù
acquista maggiore e più celere di effettuare il bene e moltiplicarlo,
e crescere la universale eccellenza del genere umano. La _Religione
Civile_, pertanto, dilata e sublima con nuovi uffici la cristiana
pietà, in quanto che alle virtù mansuete e private aggiunge ed innesta,
assai meglio che per addietro, le pubbliche, e alle famigliari le
cittadine; santifica tutti i negozj politici con puro consiglio
operati; insegna, più schiettamente che in ogni passato tempo, i
termini dell'obbedire e del comandare; nè si ferma, come insino a qui
parean fare i buoni, ai lamentevoli libri di Giobbe, ma prosiegue
oltre, e legge e medita assai intentivamente e con fervoroso animo
nei santi libri de' Maccabei. Insomma, la Religione Civile infonde e
sveglia nella mistica lira dell'uman cuore una nuova e celeste armonia,
stata finora sentita da pochi spiriti eletti, e solo con segni e colori
simboleggiata dal divino Raffaele, quando alla forma greca soavemente
trasmise e congiunse la idea e il sentimento cristiano. Resta che nel
mondo morale la medesima contemperanza si effettui, e la immacolata
luce degli Evangeli penetrando di sè le virtù greche e latine,
le ammendi e purifichi, e tanto valore lor porga, quanto le virtù
ascetiche ed eremitiche ànno paruto sino a qui possedere per proprio ed
unico privilegio.


VIII.

Io sembro, o Signori, avere di mille miglia scostato il discorso dal
suo subbietto; eppure, mai non mi è partito da sotto gli occhi, e,
senza bisogno alcuno d'artificiosa transizione, torno a lui d'un sol
passo. Conciossiachè di quella fede inconcussa nel bene, nella verità
e nella giustizia; di quel senso coraggioso, immutato ed assiduo del
dovere, di cui dicemmo soffrire inopia grandissima la nostra età;
di quella religione civile, insomma, che nell'esercizio delle virtù
publiche ammaestra e infiamma il buon cittadino, e il fa nei pensieri
e nelle opere riuscire stupendo ed intemerato; io non mi diffido di
asserire, che il primo e solenne testimonio ed esempio dato a questi
tempi vanissimi e fluttuanti nel dubio, è Re Carlo Alberto. Costui,
negli ultimi anni del suo regnare, diventato modello a sè stesso, e
trovato nella sua rigida e guardinga coscienza un nuovo aspetto di
virtù, quale l'indole propria e il rimutarsi dei casi e i moderni
concetti e le necessità d'Italia e il corso e perfezionamento della
ragion morale gli dimostrarono, visse singolare e straordinario come
principe e come uomo, e a tutti gli avvenire porse subietto imitabile.
Gloria invidiata d'Italia, potere, in tanta caduta ed umiliazione,
farsi per lui, in materia gravissima, norma salutare all'Europa, e
scuola e ammaestramento ai popoli d'una pietà eroica, e d'un abito
di religione, con solo il quale varranno le odierne generazioni a
ricomporre la forma dell'animo, e, con l'animo, i sociali e politici
ordinamenti. Fu CARLO ALBERTO devoto e pio quanto il nono Luigi,
quanto lui valoroso e leale, al par di lui penitente: ma fu datore e
servatore di libertà come un re di Sparta; amò la patria e la gloria
come un antico; sentì il debito di cittadino ed ebbe concetti magnanimi
e smisurati come un romano. Il perchè, chi vuol far ritratto fedele
di questo Principe, cerchi le credenze più sane e più inviscerate del
medio evo, e raccolga in uno le cavalleresche virtù dei Crociati;
componga il rimanente con le luminose pagine di Plutarco e di Tito
Livio. Darà prova e conferma di tutto ciò quanto son per narrare.


IX.

Pochi anni dopo il 1840, apparvero i primi indizj dell'eminente
e riposto pensiero del Re. Al libro delle Speranze d'Italia e
all'altro del _Primato civile degl'Italiani_, mostrò di fuori buon
viso, nell'animo fece festa e plauso vivissimo, godendo di veder gli
scrittori persuadere e muovere la nazione a più savj consigli e a
praticabili proponimenti. In quel mezzo, le riforme moltiplicava; e
ampliando gli studj, massimamente di storia e di giure, promulgando
i Codici troppo lungo tempo aspettati, promovendo le industrie e i
commerci, l'arti geniali erudendo e premiando, suscitava ne' popoli
le infingardite facoltà dell'ingegno e del sentimento, adusavali
all'impero imparziale e non rimutevole della legge, e alzava a cose
magnifiche le loro speranze e i lor desiderj. Concordi, operosi
e disciplinati serbava gli ordini ministrativi, integerrimo il
magistrato. Altrettanto di bene volea succedesse nell'esercito e
negli armamenti, dove o l'imperizia o la trascuraggine, o molto
peggior cagione frustrato non avesse l'intento premuroso e continuo
del buon Principe. In sostanza, ogni cosa avviavasi, benchè
lentamente, a preparare i Subalpini a gran fatti, e a prove (può dirsi
metaforeggiando) non da uomini ma da giganti. Già nel 1846 scoppiavano
molte faville del nazionale ardore che in petto al Re divampava. Già
al Congresso degli Scienziati raccolto in Genova, e festeggiato a
cielo da questa ospitalissima cittadinanza, dava il Principe libertà
di discorso e di stampa; tanto che parve la radunanza accademica
tramutarsi affatto in politica, e l'Italia udire, racconsolata ed
attonita, la voce congiunta e concorde di tutti i suoi figli. A detti
e a sentimenti poco dissimili porgeva occasione il primo congregarsi
altresì de' Comizj Agrarj, dal Re consentito e voluto. Già, senza
uscir del buon dritto, ricusava CARLO ALBERTO di più oltre osservare
certi patti gravosi temporalmente convenuti tra l'Austria e il Piemonte
circa ad alcune merci e derrate dall'uno nell'altro Stato trasmesse.
All'Austria, avvezza a signoreggiare in ogni corte italiana, ciò parve
nuovo ed acerbo, e fieramente se ne sdegnò; ma non sì che intendesse
le mire ultime e generose nascoste in que' fatti: imperocchè non
possono i despoti figurare e credere in altri quel che non sentono essi
o dispregiano, e che alla volgare loro ambizione d'infinito spazio
sovrasta. Di tal modo le cose maturavano nel Piemonte. Ma, ciò non
pertanto, versava l'animo di CARLO ALBERTO in molte dubiezze; non a
rispetto del fine sovrano, e del volerlo (quando che fosse) interamente
e con gagliardezza raggiungere ed adempire; ma sì bene intorno alla
scelta dei mezzi, e all'indirizzo da darsi all'eroico intraprendimento,
e al come condurlo in guise ottime e conformi alla sua pietà, e fermate
sopra principj d'irrefragabile bontà e giustizia. Conciossiachè molti
fra suoi cortigiani, e fra' religiosi più intramettenti e troppo da
lui caldeggiati, veniangli mostrando e raccomandando una sorta di
pietà, di giustizia e di carità oppostissima al concetto che l'indole
sua, naturalmente diritta e nobile, s'avea foggiato. Ciò più che
altro il teneva perplesso. Però scolpiva in una medaglia il leone
Sabaudo pronto a percuotere con l'alzato artiglio l'aquila spuria e
difforme, solo che vedesse spuntare in cielo l'astro aspettato, cioè
un segno precursore e fatale ch'egli credeva non dovergli a tempo
fallire, e non esser remoto. Ed ecco, veracemente, sorgere un lume
improvviso e sfolgorantissimo in Vaticano, ai cui lampi ed al cui
tepore sembrano nel miserando deserto d'Italia rigerminar tutte le
antiche semenze di onore, di libertà, di sapienza e di gloria. Certo,
nessuno salutò quella luce con più di appagamento e letizia, che Re
CARLO ALBERTO; avvegnachè da quel punto a lui cessarono le esitanze,
e ogni oscurezza si dileguò, e raccolse entro l'animo il pieno e
sicuro criterio morale d'ogni futura opera sua. Stimò allora ed ebbe
per fermo, nè per qualunque mutare d'uomini e d'avvenimenti cangiò
egli di poi sentenza, che Dio medesimo gli rivelasse in modo patente
e straordinario, a quale specie di pietà e a quali virtù ardite e
maschie e fruttuose fosse chiamato ed eletto. Compiersi, alfine, il
felice connubio tra la libertà e il papato, tra il progredimento civile
e la Chiesa; Roma cessare di troppo blandire i potenti, e verso i
popoli nuovamente accostarsi; già riconoscere nelle Nazioni il dritto
primitivo ed ingenito di possedere sè stesse; già spandere benedizioni
sulle armi che quello difendono, e più validamente venir sancito
da lei quel pronunziato antichissimo, che combattere e perire a pro
della verità e della giustizia torna a un medesimo che combattere e
morire per Cristo Signore, _cum Christus sit veritas et justitia_.[42]
Allora CARLO ALBERTO, abbracciando la sublime impresa d'Italia con
la fede viva ed inestinguibile d'un Buglione e d'un Riccardo, subito
pose in disparte le troppe cautele, i viluppi, gli ondeggiamenti e
gli artificj dell'usuale diplomazia. Quanto più generosi ed aperti i
mezzi, tanto gli parevano da preferire; la calcolatrice prudenza de'
Gabinetti spregiò, e neppure si volse indietro a guardare i maneggi
e le pratiche del passato: così diverso volea che fosse il presente,
e di così animosi e solleciti fatti ripieno. Gran caso, vederlo
scostarsi ad un tratto da quella ragion di stato avveduta e scaltrita,
che mena ordinariamente i negozj di tutte le corti, nella quale sono
allevati e formati i principi, fatta a lui parere più necessaria dalla
malagevolezza dei tempi, predicatagli da tutta la storia di Casa sua.


X.

Di tal guisa, e per opera di tanta trasmutazione, eragli fatta facoltà
di pronunziare le parole stesse di Dante Alighieri: _In quella parte
del libro della mia memoria, dinnanzi la quale poco si potrebbe
leggere_ d'impensato e straordinario, _si trova una rubrica la quale
dice_ INCIPIT VITA NOVA. Non però, che Re CARLO ALBERTO non avesse
di lunga mano addestrato sè stesso all'eroica trasformazione con
abiti malagevoli di virtù, e con pratiche disciplinari, cotidiane e
durissime. E quantunque Egli siasi imbattuto a nascere d'una progenie
di re, severa quasi sempre di spiriti e austera di costumi e di
usanze, ciò non pertanto rimarrà notabile ed esemplare a moltissimi
principi il tenore della sua vita. Levarsi mattutino, e alle cure del
regno attendere tuttodì, fino alla tardissima notte, con applicazione
indefessa ed assidua. Non feste, non cacce, non isvagamenti, non
teatri, non balli: in tanta abbondanza d'agi e piaceri, in tanta
facilità di trovarli o crearli, niuna specie di singolari solazzi,
niuna voglia sregolata, niuna vanità. Frugale e parsimonioso per
sè, splendido negli altri e regalmente cortese, e delle arti geniali
munifico protettore. Presto infermato di quel malore lento e cupo,
che al sepolcro dovea menarlo molto innanzi del tempo, non pure il
sostenne con pazienza e serenità inalterabile, ma costantemente gli si
oppose con tale sobrietà ed astinenza, che ai testimonj giornalieri
soltanto del vivere suo si faceva credibile. Nè stimando, con tutto
ciò, spianata ogni ruga dell'anima, e meritato lume e soccorso da
Dio per la sacrosanta impresa che meditava, venne per parecchi anni
moltiplicando i digiuni e il fervore delle orazioni; le quali più volte
fu veduto ripigliare nel silenzio delle notti invernali, rompendo quei
sonni brevissimi che al logoro corpo suo concedeva. Così questo eroe
cristiano si persuase e credette, a parlare con l'Apostolo, _di vestir
l'uomo nuovo_, e riuscire perfetto campione della causa d'Italia, che è
pure causa di Dio.


XI.

Io m'accorgo, e nol celo, che le cagioni le quali ritrovo ed espongo
de' fatti che vo raccontando, sembrar possono troppo insolite, e troppo
tenere del maraviglioso e del mistico. Ma, d'altra parte, io sono
scusato compiutamente, se necessità mi sforza ad attribuire a quei
fatti le cagioni proprie e impellenti, ancora che al primo aspetto
elle ci compariscano nè bene congeneri nè proporzionate nè prossime:
e ch'io le desuma dalla natura vera ed intrinseca del personaggio
di cui discorro, vi diverrà chiaro e patente, quando l'attenzione
vostra non si ritiri dalle ultime narrazioni che imprendo. Certo, non
ò io fabbricato quel forte sorprendimento dell'animo, e per poco non
dissi quello stupore che induce in tutti vedere CARLO ALBERTO in sul
mettere le prime orme nell'arrischiato e non mai battuto sentiero;
vederlo, dico, alle più ricise e ferme e sollecite risoluzioni
appigliarsi, quando per addietro, predominato dal vizio stesso della
sua complessione, e dalle infermità che dentro le forze gli consumavano
e i più vigorosi spiriti del sangue mungevangli, pareva troppo
sovente rivolgersi e travagliarsi tra opposti consigli, ed éssersegli
fatto ordinario ed abituale l'esitare e il temporeggiare. Intelletto
assegnato e prudente, in nessuna cosa eccessivo, in nessuna impetuoso,
avvezzo a temere il male più che il bene a sperare, negli uomini poco
fidante, del rivolgersi dei casi estimator non corrivo; diviene, per
carità d'Italia, speditissimo e confidentissimo, e imprende fatti così
audaci e zarosi, che temerarj dimanderebbonsi dove men liberale e men
santo fosse lo scopo. Altrettanto prodigioso à sembrato vederlo ad un
tratto spogliare quell'apprensione continua dei popolari movimenti,
e quella voglia ed inclinazione a resistere loro, statagli per lunghi
anni accresciuta e avvivata da sleali consiglieri, che tante volte ànno
procurato ingannarlo, tante divertirlo da' suoi nobili concepimenti, e
d'una in altra contraddizione trabalzarlo. In fine (e ciò gli antichi
avrebbero quasi chiamato un trasumanarsi), dopo consumata la maggior
parte di sua vita in mediocrità di fama e di opere, non un pensiero,
non un atto, non una parola lasciar quindi innanzi udire e conoscere,
che eroica non sia, nè battuta (a così parlare) con lo splendido
conio della immortalità, e la qual non trascini seco la dilezione, la
maraviglia e la gratitudine di tutte le Genti Italiane.


XII.

Correva la fine del 1847, e crescevano i pegni dati da CARLO ALBERTO
dei suoi liberalissimi intendimenti. E per fermo, quel principe à
larghi e veri spiriti liberali, e desiderio sincero di spianar la
via alle pubbliche libertà, il quale scioglie dai vecchi legami la
stampa, e inizia in tal guisa l'educazione comune politica, e il regno
non contrastabile dell'opinione. Dalla quale franchezza di stampa
incominciò il Re, per appunto, l'emancipazione dei popoli suoi; la
quale dovea per lo meno esser tanta, da suscitare quelle potenze
migliori della mente e dell'animo, che sono mezzi necessarj all'opera
somma e finale dell'Indipendenza. A rispetto poi di questa, i colloquj
degl'Italiani eran tali, e le vistose e pubbliche dimostrazioni del
comun voto e proposito sì fattamente moltiplicavano (fra l'altre, la
bellissima e strepitosa dei Genovesi il dì decimo di dicembre), che
doveano presto o tardi le cose precipitare alla guerra; e però alle
armi pensava il Re più che mai studiosamente.

Ma Dio gli tolse di poter maturare il gran caso, e con molto più forti
apparecchi emendare il fallo de' suoi ministri. Per vero, al misurato e
savio procedere degli Italiani di riforma in riforma e d'una in altra
miglioranza, fece prima interrompimento la sollevazione di Palermo,
poi l'altra male augurata e tempestosissima di Parigi. Pure, per la
rivoltura di Palermo, divenne (mercè dell'affaticarsi de' buoni) il
moto riformativo italiano più concitato d'assai, ma non fazioso nè
ruinoso. Imperocchè le Carte ottriate dai principi ottennero che alla
piena subito cresciuta e già traboccante dei desiderj e delle esigenze,
fosse aperto un letto molto capace, e dove il corso di quella pigliar
potesse velocità equabile e regolare. Invece, il soqquadro di Francia
fu seme esiziale e non estirpabile de' nostri danni, facendo le menti
vertiginose, dissolutissimi i desiderj, sbrigliate le passioni, audaci
e soverchiatici le sètte.

Ogni buono se ne turbò. CARLO ALBERTO ne pianse in cuore, ma nulla
cambiò del proposito, nè indietreggiò nè si ristette nè schiuse l'animo
alle diffidenze ed alle paure. — Dio, con impulsioni interiori e con
l'esterno e lungo portento d'inopinabili fatti, comandami (pensava
egli) d'incominciare; eziandio a prezzo della vita e della corona,
il risorgimento italiano; e il cenno dell'alto verrà adempiuto. Se
gli uomini e la ventura sconceranno in gran parte il gesto sublime,
esso Dio, col tempo, docile ministro suo, e con l'arti ineffabili
di sua provvidenza, il ricomporrà. — In tale giudizio s'adagia Egli
tranquillo ed imperturbato. Ma ciò non toglie che, da buon cittadino
e da ottimo re, non provveda via via secondo l'urgenza e la pressura
dei casi. Arrola nuove truppe; a nuovi e solleciti apprestamenti fa
metter mano. Abolisce per le stampe ogni magistrato censorio; pone
a guardia delle pubbliche libertà le armi cittadine; promulga lieto
e spontaneo il Patto costituzionale, e affidane l'esecuzione ai più
caldi e provati fautori e promovitori. E perchè io non ritorni altra
volta su tale materia delle franchigie politiche largite e mantenute
da questo Re legislatore, io toccherò qui di volo, come Egli, con
diligentissima cura, anzi con gelosa e scrupolosa vigilazione sopra
sè stesso, mai non trasandò d'un attimo quei confini ch'egli medesimo
avea prescritti all'autorità regia, e sempre fece consiglio e volontà
propria la volontà e il consiglio del Parlamento e dei Ministri: il
che adempieva egli appunto in quei giorni in cui maggiore sorgeva il
bisogno d'una leale dittatura, e dopo contratto per diciotto anni di
quieto regno l'abito cotidiano dell'assoluto comando. Forse nei negozj
civili gli era comodità e riposo il dimetterlo: gli fu duro assai ne'
militari, antica e domestica occupazione di tutti della sua Casa, e de'
quali avea riempiuto le men tristi ore della sua vita. Pur nondimeno,
così volle al nuovo Statuto obbedire e star sottomesso, che quando
venne domandato da' suoi Ministri di cedere altrui l'impero supremo
dell'armi, mansuetamente rispose: — Se a voi par bene e giovi alla
patria e la legge il comandi, si faccia. — E non è dubbio, che qualora
a lui fosse venuto trovato tra' suoi capitani alcuno tanto degno di
quell'ufficio da spegner l'invidia e gradire all'universale, egli
avrebbe, simigliante a quel greco, ringraziato publicamente Iddio del
dare alla patria cittadini di sè più valenti: nè mancò di supplire al
difetto, chiedendo a Francesi, a Svizzeri, a Polacchi, ripetutamente
e con somma istanza, un esperto e già vittorioso conducitore. Tanto
la pietà, lo zelo e il debito sempre vivo e operoso inverso la
dolce sua terra, facea modesto e premuroso costui, e dimentico di sè
stesso e d'ogni passato. Proficuo precetto alle genti italiane, ed
anzi rimprovero fiero e solenne, quando si pensa il presumere loro
insolente, e l'acuta febbre d'invidia che continuo le travaglia e le
rode. Nell'altro esempio dell'osservare puntualissimamente i patti e le
leggi, molti principi si specchieranno, speriamo, con buon profitto: a
noi rimane la felicità di sapere, che alla Maestà di Vittorio Emanuele
II non fa bisogno, e che in ciò principalmente vuol esser egli del
padre suo non allievo e seguace, sì bene compagno e competitore.


XIII.

Ma giunta è l'ora, e le sorti della Penisola dipendono tutte oggimai
dal terribil giuoco delle spade. Milano insorge disperata e furiosa
contra il nostro antico avversario; e il popolo suo dà imagine di quel
gigante che pugna con innumerabili braccia da un sol corpo animate,
così congiunta e stretta e concordemente feroce combatte quella città.
Ne sono gl'imperiali alla perfine scacciati, e Re CARLO ALBERTO è
di pronto sussidio richiesto, perchè il frutto non si disperda della
vittoria difficile e sanguinosa. Nel consiglio del Re non siedono del
sicuro uomini dubitosi e timidi, nè poco caldi della causa nazionale.
Niente di meno, il passo audacissimo e di momento sommo e supremo, pone
tutti in grave apprensione, e pendono i più nell'avviso di soprattenere
la mossa. — Mancare all'esercito gran parte ancora dei Contingenti, e
molti di questi essere affatto svezzi dall'armi: sui nuovi coscritti
non potersi fare assegnamento veruno, perchè son al tutto e digiuni
d'ogni istruzione: dei fornimenti stessi da guerra aversi penuria
grande, e volerci tempo a supplire: sfidarsi uno de' più formidabili
potentati d'Europa, nel quale, checchè si dica, rimangono tuttora
vivissime forze; soprattutto, un esercito veterano e disciplinatissimo,
e turbe infinite da rifornirlo: aver penato Napoleone e la Francia
intera a domare l'Austria; che potrà il Piemonte mal preparato? andarci
la corona e l'onore di S. M., la salute dei Subalpini, l'avvenire
d'Italia. — Così ragionavano i consiglieri; ma il Re, con aspetto
animato insieme e sicuro, rispose: — Signori! i Milanesi, fratelli
nostri, son minacciati di sterminio e mi domandano scampo; negherò
io d'ajutarli? innanzi al dovere la volgare prudenza si tace: in me
riposate; io mi fo di tutto mallevadore: all'armi, Signori, all'armi!
— Ciò dice, e smosso e conseguito l'assenso dei circostanti, manda
affrettatamente il Generale Bes, con qualche schiera più spedita e
vicina, a soccorrer Milano; dentro le cui mura, per altro, dichiara
di non voler porre il piede, quando non abbia per innanzi con lo
splendore di qualche vittoria ben meritato di visitarla. Godano altri
d'ovazioni e festeggiamenti dal titolo nudo di re e da lusinghiere
aspettazioni provocati. Egli arrossirebbe d'esser lodato di sole
promesse e speranze, colà dove tutti ànno prodigiosamente attenute e
compiute le proprie. Il dì 22 di marzo, intima guerra agli Austriaci
con parole le più infiammative del mondo, e che mai l'Italia dalla
bocca di un principe suo non aveva udite nè sperato forse di udire. La
notte del 26, egli medesimo il Re monta in sella, e ponsi a capitanare
il maggior corpo delle sue schiere; le quali, per comando espresso di
lui, spiegano al vento i sospirati colori italiani, e il dì 29 entran
le porte di Pavia.

Così ebbe cominciamento la guerra del riscatto; durante la quale,
che il Re mostrasse valore e coraggio ad ogni pericolo superiori, è
poca meraviglia e mediocre pregio a paragone con altre sue doti, e
pensando che la militare bravura è comune a tutti della sua stirpe, e
già ne' suoi figliuoli risplende segnalata e chiarissima. Ma come non
accennare, almen di passata, quanta virtù e fermezza ed annegazione da
lui richiedessero gli altri uffici del guerreggiare? Vi risovvengano,
Signori, le infermità sue, la complessione distemperata e mezzo
consunta, i dolori acuti che il trafiggono, la lenta febbre che il
lima e discarna. E contuttociò, guardate come l'indomato suo spirito
con istoica sofferenza e ferreo vigore di volontà sostenta il corpo
affralito, e partecipa i disagi più duri, e le privazioni più lunghe
e penose de' menomi soldati. Ma sulle prime, Egli ebbe almeno a
conforto ed alleggiamento d'ogni patire i ben succeduti combattimenti,
le belle e frequenti prove dei nostri; vedere spesso il dorso
dell'avversario, sperare vicina una prospera e terminativa giornata.
A Goito, il 30 di maggio, sconfiggeva il Re trentamila imperiali con
solo diciannovemila de' suoi. A vespro, e in quel mentre appunto che
la vittoria scoprivasi a tutti sicura e patente, giunsero lettere del
Duca di Genova annunzianti la dedizione di Peschiera; fortezza quanto
altre mai gagliarda e munita, con abilità e bravura difesa, e per
soccorrer la quale movea da più bande molto sforzo di gente. Corre
la nuova tra le ordinanze, ripetesi di schiera in ischiera, e d'indi
escono voci infinite con un sol suono che grida: — Viva CARLO ALBERTO
re dell'Italia. — Beatissimo lui, se in quella giornata medesima, su
quel campo fatto glorioso, tra quelle armi vincitrici e incontaminate,
avessegli il piombo nemico squarciato il petto e recato la morte. Ma
sarebbe fallita alla misera Italia, troppa gran parte dei documenti e
degli esempi che le bisognano, e i quali doveano mostrarsi specchiati
e perfetti nell'esule volontario di Oporto! Molte cose memorevoli io
taccio e trapasso. Ma se mi vien meno il tempo di raccontare le belle
e venturose fazioni dell'esercito nostro, dovrò io distendermi a far
narrazione e pittura delle sfortunate e sinistre? Descriverò io con
dolore ciò che è in mente di ciascheduno, la battaglia di Custoza, le
vettovaglie a un tratto mancate, l'esercito Subalpino per gli stenti
della fame e gli spasimi della sete atterrato e non vinto? Narrerò come
CARLO ALBERTO, o per difender Milano o per procurarle almeno mansuete
condizioni dagli imperiali, abbandonasse i ripari certi che aveva
dietro le sponde del Po e del Ticino? Dirò come protestasse a molti più
avventati che coraggiosi, — poco importargli di farsi uccidere quivi o
altrove, tal dì o tale altro; e però, quando persistessero fermamente
a volersi ad ogni costo difendere, e privi eziandio d'ogni speranza
d'esito buono, ei disdirebbe le convenzioni trattate col maresciallo
austriaco, e di costa a loro combatterebbe insino all'ultimo sangue?
— Narrerò altresì com'egli effettivamente disdisse i patti, e il
Municipio invece li rannodò e concluse, scorgendo certissimo lo
sterminio della città; e come di quindi nascesse scompiglio feroce,
ire implacabili e pazze, rischio estremo di guerra fraterna, rischio
estremo di vita pel calunniato Monarca? Scrivano di tal subbietto i
nemici nostri, e palpino volentieri quelle luride piaghe: io ricondurrò
prestamente il vostro pensiero sulla bontà e intrepidezza di CARLO
ALBERTO; le quali, a guisa di nave fatta colle percosse, sotto il
martello dell'avversità vedremo riuscire compiute e ammirande, e alla
civile santità conformissime.


XIV.

In dieci dì, la ruota dei casi umani l'à dalla celeste cima travolto
nel fondo, e con lui è inabissata la patria italiana. Quante speranze
tradite, e che moltitudine tetra d'ingrate memorie gli assedian la
mente e gli pesan sul cuore! Mai non lesse egli in alcuna storia un
sì alto principio a sì vil fine cascato. L'Europa tutta inarcava le
ciglia (or fa pochi mesi) sull'assennato, concorde e virtuoso risorgere
degl'Italiani. Ora ogni cosa è corrotta dalle fazioni, e gli animi
appena congiunti ed affratellati, si sciolgono e s'inimicano. Dove
sono i popoli con esso lui confederati? dove la Dieta nazionale?
dove l'Italia cospirante tutta al gran fine, e travagliantesi con
tutti i mezzi nella maggiore delle opere? Le scarse truppe toscane
che seco menava, soprafatte a Curtatone, si sperdono; le pontificie,
vinte a Vicenza e a Treviso, ripassano il Po per non più ritornare;
le lombarde vanno in dileguo. Napoli rivoca a mezzo cammino le sue
fanterie, volta indietro l'armata, e all'Austria si ravvicina. Roma
riprova la guerra in cambio di benedirla, e rappella il Nunzio che
aveagli spedito nel campo a conforto e amicizia.[43] Non à guari, egli
scorgeva il regno suo dilatarsi dall'Isonzo al Panaro; di presente,
Tedeschi e repubblicani minacciangli la corona stessa degli avi.
Sapessergli almeno le genti buon grado del novo e inudito ardire, e di
tanto affanno e pericolo! ma in quella vece, l'invidiano e l'avversano
i principi, lo insidian le sètte, e lo ingiuriano le gazzette loro
sino ad incolparlo e tacciarlo di tradimento vile e insensato; e fra
le moltitudini stesse à fama non certa e molto dispari alla sua bontà
e grandezza. Dopo ciò, pongasi in luogo di CARLO ALBERTO qualunque
spirito forte e animoso, ma meno invitto e prestante, e meno retto
e santo di lui; e par verisimile assai di sentirlo dire fra sè: — Ò
errato a reputare l'Italia capace di migliori destini; perocchè sembra
men malagevole accostare l'una all'altra le cime degli Apennini,
che i cuori de' suoi figliuoli. In essi la discordia è naturata ed
inviscerata, e ogni poco di moto e d'ardore che sopravvenga, ne fa
pullulare i semi, all'infinito fecondi. Bello era il tentare; bello
scrivere nella storia questa gran prova del mio buon animo. Ora,
somiglierebbe a sciocchezza, poichè il naufragio della Nazione vien
sicurissimo, il non procacciare salvezza alla mia corona ed al popolo
mio. Sentiranno gl'Italiani disconoscenti quello che in me possedevano,
quello che in me ànno perduto e loro è impossibile ricuperare. —
Ma l'eroica mente di CARLO ALBERTO così non ragiona; imperciocchè,
dall'ora ch'ei concepì la virtù civile perfetta, e giurò in cuore
la impresa illustre e magnanima, ei fu, come a dire, trasfigurato,
e incentivo di privati interessi e ambizioni più nol toccò. Quindi
gli strabalzamenti della fortuna, i successi dell'armi ingiuste
e spietate, le malignità umane, le scoperte frodi, le dissipate
illusioni, possono all'anima sua recare trafiggimento ed angoscia, ma
non piegarla nè tramutarla. Scordando sè e immedesimandosi tutto con la
sua patria, vive non della propria ma della perpetua vita di quella.
Ripiglieràssi la guerra o no? placherannosi le sorti o peggioreranno?
Risorgerà egli onorato o sempre starà giacente; raccoglierà biasimo
o lode; morrà chiaro o disconosciuto? Queste cose, a petto della
salute d'Italia, e a vista delle remote e finali vicissitudini delle
nazioni, sono nel giudizio di lui non più che danni e accidenze
particolari, e declinazioni transitorie del corso diretto e inerrante
della provvidenza. A lui basta discernere, che quello che oggidì non
accade, accadrà domani o il dì dopo o non sa ben quando, ma certo
accadrà. Fatale è il conseguimento dei fini legittimi ed eminenti dei
popoli: ma chi lo vedrà col lume terreno e gli occhi di carne, Dio solo
conosce. Forse tutti coloro che travagliansi oggi per ciò con ansiosa
pena, giammai non mireranno il bene che tentano e sperano; ma beato
chi scende dentro la tomba consolato dalla visione dello immancabile
e giocondo avvenire. Per fermo, di tutti i beni mondani la gloria e
la buona fama tengono il colmo, e crucio gravissimo a sostenere è la
beffa e lo strazio del proprio nome. Pure, gran conforto è a pensare
che il dì della gloria spunterà nondimeno sull'onesto e sul prode:
conciossiachè l'onore necessariamente si sposa con la virtù; e il
sole della verità consuma col tempo il fango e il lezzo delle umane
tristizie.

A tale santità di pensieri e a tale prestanza di cuore si alzò CARLO
ALBERTO per l'efficienza miracolosa della religione civile, in cui
la pietà verso Dio e la carità inverso la patria si contemperano e
si confondono: il perchè qui rinasce, io ripeto, la virtù greca e
latina, ma più integra e meno fastosa, e non dubitante di sè medesima
come quella di Bruto, e insegnante a Catone di saper sopravvivere
alla sventura. Per tale virtù, mentre i partiti si accusano e si
rimbrottano rabbiosamente, CARLO ALBERTO nè si adira nè accusa nè
maledice, e oppone con regia alterezza alle macchinazioni la legge,
alle improntitudini la pazienza, alle calunnie il disprezzo. Per tale
virtù, mentre cresce da ogni banda lo scoramento, e mentre l'accorta
diplomazia si sbraccia a persuadere la pace, or proponendo discreti
patti e al Piemonte assai profittevoli, ora indugiando ed intrattenendo
e con arti sottilissime spaventando, CARLO ALBERTO maravigliasi forte,
che un primo rovescio abbia intorno a lui freddato tanto bollore, e
sdegnasi di negoziare a pro degli Stati suoi proprj, dove si tratta
della salvezza generale degl'Italiani: per questa sola avere pericolato
la vita, e quella carissima de' suoi figliuoli; aver profuso ogni suo
tesoro, interrotto ogni studio di pace, ogni domestica contentezza
e quanto à di bene il regnare. Quindi, del voto risolutissimo delle
due Camere, di doversi ritentare le sorti dell'armi e ripetere con
ogni fierezza e ostinazione la guerra, egli più che tutti gioisce e
l'approva, stimando con buona ragione, che il sollevamento Ungarico,
i mali umori de' Croati, il resistere di Venezia e il prossimo dar
nell'arme di tutta la Lombardia, porgano alla misera Italia occasione
e speranza di una felice riscossa. E però, come nulla avesse ancora
operato e patito, come arridessero appresso di lui le prime intatte
lusinghe, come non fossersi le fazioni piaciute di satollarlo
d'oltraggi e con isconce menzogne ucciderne la fama e l'onore,
tranquillo e fidante, e ne' rischi cresciuti e moltiplicati più
impavido che per l'innanzi, ecco impugna la seconda volta la spada, e
pianta di nuovo nel suolo lombardo la bandiera del nostro riscatto.


XV.

Quello che ne seguisse, non è qui, pur troppo! occulto a veruno.
Sotto i bastioni di Novara, l'Italia stramazzò tuttaquanta; e il
giardino del mondo, salve queste poche provincie, è dalle barbariche
torme novellamente calpestato e diserto. Fu supremo infortunio;
se non che, la bontà eroica di CARLO ALBERTO vi lampeggiò di tal
lume, che la stessa calunnia abbagliata e svergognata si ammutolì.
Troppo m'è ingrato e penoso, che dovendosi per me toccare queste
cose leggieramente e per transito, io non possieda almeno una più
maestrevole arte di compendiarle.

V'è noto, che nella giornata funesta di Novara, il valore tragrande
degli ufficiali e di alcune schiere elettissime fece per lunga pezza
propendere la vittoria dal lato nostro. Se non che, in sul tramontare,
gl'imperiali ingrossati di nuove truppe, rinfrescarono con tal vigore
gli assalti, che non pure s'ebbero in mano la Biccocca, già presa e
ripresa più d'una volta e con molto sangue; ma fu forza ai nostri
di cedere e di ritrarsi da tutte le parti, ricoverándosene buona
porzione dentro Novara. In quel punto, riarse l'ira pertinace ed
arcana de' nostri destini. In parecchie ordinanze entrò lo scompiglio,
in alcune lo sgomento, in altre l'indisciplina, nell'esercito intero
la certezza e lo sconforto della disfatta. Prima, una lunga fila di
feriti e fuggiaschi, mista di cavalli, d'artiglierie, di carriaggi, si
rimpiattava in città, e propagava intorno mestizia e paura. Seguivano
altre colonne poco ordinate, ed altre affatto scomposte e dal digiuno
allibbite. Qua ufficiali come dissennati per crepacuore; là caterve di
ammutinati che predavano e saccheggiavano; poi squadroni di lancieri
avventantisi contro i rapinatori; poi l'aria assordata di strida,
le vie tinte di sangue e di cadaveri ingombre; mentre sugli spalti
continuo sparavano le artiglierie, e fuor delle porte, a notte già
chiusa e sotto la fredda pioggia, duravano ancora ostinati alcuni
battaglioni a combattere, non più per la fortuna delle armi, ma per
scemar la vergogna. In tutto quel giorno, Re CARLO ALBERTO aveva
così alternati e meschiati gli uffici e le parti di capitano e di
fantaccino, che parecchi de' suoi Ajutanti erangli morti dallato; nè
però consentì mai di ritrarsi a luoghi men minacciati. Poi, quando
in sul calare del sole riconobbe la battaglia perduta, e tornare
inutili le prodezze del Duca di Genova per rivocare al conflitto gli
stanchi e scorati, inutile ogni uso ch'egli stesso faceva per ciò
dell'autorità regia ed ogni efficacia d'esempio, cesse riluttante al
suo fato, ed a lentissimi passi e confusi, nulla badando ai projetti
che ognora più spesseggiavano, faceasi prossimo alla città; quando gli
giunsero avvisi certi degli sforzamenti e delle rapine che là entro
e fuori si commettevano dai soldati suoi proprj. Allora, quel grande
infelice, rotto il silenzio e l'esterior calma che in tanto disastro
sapea pur mantenere, sclamò, con profondo trambasciamento del còre,
quelle memorande parole: — Ahi! tutto è perduto, ed anche l'onore. — Nè
potendo ristarsi nè quietare nè correre, cavalcava agitato e affrettato
lungo gli spalti ed i baluardi della città. Narrano, ma io non ne so
netto e sicuro il vero, ch'Egli meditando una fazione così temeraria
come gloriosa, facesse interrogare alcun drappello di cavalieri,
se volevano in quella medesima ora a un mortale cimento seguirlo:
risposero, che volentieri; ma che più non reggevano la persona, e mal
potevano, per la fatica, le armi. Ma, checchessia di ciò, quest'un
fatto è certissimo ed assai vulgato, che vedendolo il generale Durando
esposto tuttora alle offese del nemico, ed anzi cercare i luoghi di
più manifesto pericolo, pigliò ardire di usargli alquanto di pietosa
e cortese forza, e, strettagli affettuosamente la mano ed il braccio,
di là lungi il traeva. A cui il Re, con ineffabile dolore impresso nel
volto e nel suono delle parole: — Generale, disse, questo è l'ultimo
giorno mio, lasciatemi morire. — Voi l'udiste: l'eccesso dei publici
mali faceagli cara sopra ogni bene la morte, e come uomo che veste
carne, umanamente si doleva e parlava. Ma che niuna disperazione si
nascondesse in quei detti non degna della civile santità e d'un gran
cuore italiano, lo testimoniano gli atti di lui successivi, e quello
che raccolsero ammirati dalla sua bocca gli abitanti di Antibo, ai
quali, tre dì soltanto dopo il terribile caso, affermava essere la
causa italiana rivivente ed imperitura; e che quandunque e comunque
fosse la guerra per rinnovarsi contro dell'Austria, Egli saria
ricomparso a combattere, volontario soldato tra i volontarj. Le quali
cose ci rendono certi, che qualora fossegli riuscito d'accattar quella
sera una pronta morte dalle mani degli stranieri, già non avrebbe
cadendo gittato come Koschiusco la spada, e sconsolatamente gridato:
_Finis Italiæ_. Ed anzi, in quel punto medesimo in cui parlò quelle
tetre parole al Durando, ripigliato l'abituale e fortissimo impero
che esercitava sul proprio animo, concepì e risolvette un'azione più
difficile del morire. E per vero, entrato appena in casa il conte
Mellini, dichiarò ai circostanti, che per attenuare al possibile
quel tremendo infortunio e far tollerabili i patti del secondo
armistizio, egli, come specialmente odiato dal capitano dell'Austria
e sospetto ai diplomatici e ai principi, e d'altra parte geloso e
sdegnoso supremamente dell'onor suo, risolveva di abdicare. Subito,
ciascuno gli fu intorno, e i figliuoli segnatamente, per ismuoverlo
da quel proposito. Ma egli, levatosi in piedi, con fermo viso ed
atto imperante, soggiunse: — Io non sono più il Re; vostro Re è il
mio figliuolo Vittorio Emanuele II. — Cresce e propagasi il lutto
e l'accoramento, scorgendosi troppo bene, che piena ed immutabile
rimaneva quella sua volontà. Egli, ristrettosi a breve colloquio col
nuovo Re, parlògli l'estreme parole, pienissime di virtù e sapienza: —
dolergli forte che incominciasse a regnare in congiunture sì gravi e
sul pendio di tanta ruina; ma i saggi che avea veduti di lui, dargli
buon pegno che salverebbe il trono, l'onore e la libertà; tre cose
che pel buon principe fanno una sola, e che disgiunte, tradirebber
la gloria e la prossima grandezza e potenza di Casa di Savoja. Al
monarcato non porgere più fondamento e splendore il dritto divino, ma
la civiltà e larghezza degli istituti, la religione del giuramento
e l'universale dilezione ed estimazione; le quali non saranno mai
per mancare quanto tempo i re, piuttosto che dominatori ed arbitri,
gradiranno di essere i primi magistrati delle lor patrie. Credesse ciò
a lui sopra tutti, il quale avea scòrta la differenza che passa tra
l'affezione de' cortigiani e quella dei popoli, e quanto sia generoso e
soave regnare più assai come cittadino fra uguali, che come signore fra
sudditi. Del rimanente, si ricordasse ogni dì, ripensasse in ciascuna
ora, in ciascun istante, dove fosse egli nato e da cui. — Queste cose
diceva risoluto e tranquillo, mentre d'ogni intorno non era che pianto
e costernazione.


XVI.

Oh quanto è vero che gli atti umani tirano ogni pregio e decoro da
entro sè, e niuna cosa li può far grandi e memorevoli eccetto la sola
virtù! Di molti principi segna e menziona la storia la rinunciazione
del trono, e in questo secolo massimamente, alle corone poco grazioso
e benigno. Ma radissime volte all'atto è seguitata la commendazione
e la gratitudine delle genti, perchè mosso da cagioni o non tutto
virtuose, o poco o nulla spontanee. A Carlo Xº, a Luigi Filippo, a
Ferdinando austriaco (per tacere d'altri), diè legge la necessità
e non l'elezione. In passato, non furono ingiustamente a Cristina
di Svezia cantate lodi superlative da tutti i poeti d'Europa; ma,
infine, che fece ella se non posporre il trono all'apostasía, e
offrirsi poi a fastoso spettacolo a tutte le corti, e non si privando
d'alcuna pompa e d'alcuna regia delizia? Certo, volonterosi abdicarono
Diocleziano, Carlo V e Carlo Emanuele di Savoja: ma come dell'alta
ricusazione si pentissero poi e si arrovellassero il primo ed il terzo,
a nessuno è celato. Carlo V, il glorioso fatto guastò con la boria e
l'ostentazione, e continuando a voler governare l'Escuriale dalla sua
cella di San Giusto, troppo ancora sensitivo alle umane grandigie,
benchè facessesi vivo distendere in sulla bara e celebrare il mortorio.

Il deporre, invece, che fa lo scettro Re CARLO ALBERTO, oltre
all'essere volonteroso affatto e spontaneo, à per cagione immediata
ed unica la intenzione sincera del bene; e vien fatto con semplicità e
modestia, non ostanti mille contrarie preghiere e persuasioni, e quando
a lui è cresciuto sopra misura l'amore, la venerazione e l'obbedienza
dei popoli. Egli non iscambia, è vero, la reggia e il monarcale
paludamento con la povertà superba e affettata d'una cella e d'una
cocolla: ma perchè l'alto animo suo si mostri aperto ed intero qual
è, e il frutto che spera dell'abdicazione non sia dimezzato, danna sè
stesso ad esiglio perpetuo; la consorte, i figliuoli (degni tanto di
lui), le paterne case, gli amici d'infanzia, la sua Torino abbandona;
e non soffre che il seguano nel remoto ritiro, non che l'apparato
orgoglioso, ma gli agi e le commodezze del trono. In quella notte
medesima, preso commiato da tutti e ognun ringraziando affettuosamente,
con due soli famigli, così stanco e spossato come dalla battaglia era
uscito, con la poca moneta che improntò da' suoi Ajutanti, avviossi
quel generoso verso la lontana terra che a ricovero s'avea scelto.
Procedeva tacito e scompagnato, senza più insegna nè onore nè vestigio
alcuno di re; ma nelle sale del Parlamento rimbombava da ogni lato
l'acclamazione del suo nome, e solo a tempo a tempo la interrompevano i
singhiozzi e le lacrime dolci e abbondevoli d'amore e di gratitudine:
ognuno che di lui ragionava, prendea dal subbietto facondia insolita
e prepotente; e per dar fine a quell'estasi (se posso così domandarla)
di meraviglia e dolore, fu bisogno ricordare la maestà del luogo e la
fierezza sopraccrescente dei casi, la quale piuttosto che piangere di
tenerezza sulla bontà eroica di CARLO ALBERTO, ricercava da ogni buon
cittadino che se ne imitasse la costanza e il coraggio. Spettacolo
novo e sublime, e non potutosi ancor mentovare dagli annali d'alcun
Parlamento. Egli fu quel dì salutato la prima volta pubblicamente
col nome augusto di Martire: quindi un'aureola celeste e perdurabile
l'incorona, e il suo trionfo vassi di mano in mano tramutando in
apoteosi.

Io mi querelava più sopra di dover tacere nel mio racconto moltissimi
particolari, pieni di cospicui documenti e d'alto e maschio sentire.
Pure, non voglio del mesto pellegrinaggio di Carlo Alberto lasciare
ignoto un accidente, che nell'esteriore dimostranza è nulla, e
rispetto ai secreti del cuore è oltremodo significativo. Guardatelo;
egli entra sconosciuto in Burgos, metropoli della Vecchia Castiglia.
Quante memorie in quelle visigotiche mura, in quel combattuto castello
e in quel tempio vetustissimo, dove Pelagio prometteva e giurava al
Signore la redenzione delle Spagne, dove i Sanci e gli Alfonsi e il
Cid Campeadòr e i Cavalieri d'Alcantara e di Calatrava sospendevano
per trofeo le verdi bandiere e le ingemmate scimitarre! Memorie care
e venerande, segnatamente a Costui, ch'ebbe tutta l'anima sua nudrita
di spiriti cavallereschi e infiammata della fede dei popoli antichi;
a costui, ripeto, che adorando nella Causa d'Italia un giusto e santo
decreto di Dio, scorgeva nel suo Piemonte quasi un'immagine delle
Asturie Spagnuole, e ne' Croati e negli Stiriani una simiglianza di
Mori e di Saraceni.

Chi è questo forestiero, domandava la gente tra curiosa ed attonita,
così pieno di maestà e di pensosa e tacita melanconia, e il quale
erra così solo pel mondo? Quindi, con atto involontario, fánnogli
ossequio e cortéo. Risponde con grazioso saluto, e senza nè rallentare
i passi nè divertirli, va diritto alla Cattedrale. E quivi cadendo
ginocchioni, com'era usato, dinnanzi a Cristo in sacramento, entra in
tale fervor di preghiera, che in breve tempo gli occhi e le gote gli
si empiono e bagnano di caldissime lacrime, senza fine rinascenti e
copiose. E ricordate, o Signori, che nessuna delle sue grandi sventure
gli spremette mai dagli occhi una stilla nè gli trasse dal petto un
gemito sconsolato: solo nel grembo di Dio quell'animo generoso non
teme di rallentare un poco la rigida custodia che fa di sè stesso, e
dirottamente piange.

Oh perchè il mondo non seppe il tenore delle sue preci, e non ebbe
orecchi per quel colloquio dell'anima! Molti apprenderebbero del
sicuro, come convenga pregare Iddio ne' calamitosi giorni della patria,
come adorarlo umilmente da Italiani e da cittadini, e conseguire
virtù rassegnata insieme e imperterrita nelle politiche disavventure.
Lacrimava dirotto, e la pallida e severa sua faccia pareva in quel
santo lavacro tramutarsi quasi e rabbellirsi di gioventù. Imperocchè
non si mescolavano alle lacrime sue nè rimorsi nè terrori, ma
contentezza invece del bene accetto sacrificio, e sicurezza intera di
esaudimento; e forse un domandare da sua parte e un promettere lassù
dal cielo con arcane ed intime spirazioni, che presto sarà per uscire
dai travagli del doppio esilio.

Ma come ciò sia, questo rimane vero, che al Principe martire Dio
non consentì sulla terra neppure un anno di pacato raccoglimento
e di blando e ricreativo riposo; perchè in lui dovea colorirsi e
perfezionarsi fino alle menome lineamenta la imagine e la figura
dell'Eroe italiano, quale il vogliono i tempi, e secondo i nobili ed
austeri precetti della Religione Civile. Quindi, in sul cadere di
luglio, aggravatesi rapidamente le vecchie infermità sue, immaturo
d'anni, maturo di magnanimità e di gloria, fu con soave transito
ricevuto tra i seggi immortali, che ai vendicatori delle nazioni e ai
benefattori insigni del genere umano sono colassù apparecchiati.


XVII.

Io sempre ò notato e ripensato fra me, con cupa melanconia, come la
felicità di Giorgio Washington sia troppo rara nel mondo, e come troppo
sovente agl'iniziatori d'imprese sante e magnifiche venga interdetta
la gioja di trarnele essi medesimi a fine. E qui, per tutti gli esempi
valgami quello vulgatissimo e sì confacente al luogo ove parlo. Io dico
del profeta legislatore, morto in sul passo della terra di promissione,
e innanzi d'aver veduto piantare lungo il sacro Giordano i tabernacoli
d'Israele. Forse nascondesi in ciò un gran mistero di placamento e
d'espiazione, parendo che non si possa la libertà e prosperità dei
popoli conseguire senza sconto di dolore e tribolazione, la quale ne'
più illustri e innocenti torna maggiormente accettevole. O forse è
divino decreto, il qual vuole per più alta glorificazione degli uomini
sommi e delle vere virtù, che laddove queste nell'adempimento del fine
parrebbono assai compensate e ben profittevoli a sè, rimangano in
quella vece impremiate sempre ed a sè disutili, e sieno cimentate e
provate insino al dì ultimo dalle avversità; la maggior delle quali,
senza alcun dubbio, è perdere l'intento massimo ed unico per cui fu
spesa e logorata ed afflitta la vita intera.

Di quest'arte eccelsa e terribile di provvidenza vedemmo essere gran
testimonio alle viventi generazioni il giusto che qui piangiamo: Egli
a tanto dolore e jattura si rassegnò con pio e modesto silenzio.
E ciò non pertanto, diviso com'era da ogni speranza, e sprovveduto
d'ogni potere e d'ogni ricchezza, volle pur di lontano e insino agli
estremi spiriti proseguir sempre a giovare l'Italia in qualunque suo
pensiero ed atto; siccome colui che aveva deliberato di lasciar dietro
sè ogni cosa, salvo la perfetta bontà e grandezza dell'animo esulanti
insieme con lui, e per efficacia delle quali, eziandio nell'umiltà e
solitudine del suo romitaggio, ei porgeva esempj e proferiva parole
da registrarle la storia e ripeterle con meraviglia i nostri nepoti.
A lui nessuna nuova sciagura della patria era rimasta celata. Sapeva
le stragi di Brescia e la caduta dei Siciliani; quella dei Veneti
presentiva. Sapea Toscana invasa, Roma collegarsi con Vienna in
intimo patto d'amicizia e d'ajuto; la Russia schiacciar l'Ungheria;
Francia e Inghilterra rimanersene spettatrici; in Alemagna quel
desiderio spasimante di libertà e d'unione confederativa venirsi
agghiacciando; sì gran tempesta di animi, sì gran turbinio di casi
somigliare un esercito d'api azzuffato, il quale da pochi grani di
sabbia lanciativi dentro s'acqueta e discioglie. Cresceva amarezza
e cordoglio acutissimo all'abbandonato Re ognuna di esse sventure o
prevista o saputa: ma con tutto questo (giova pur replicarlo), la fede
di lui nel trionfo del buon diritto e nella libertà e indipendenza
degl'Italiani, quella robusta fede che sempre e ad ogni opera sua
porse i fondamenti e i principj, uguale a sè stessa e indeclinabile
si rimaneva; e quale fu in trono, tale durava in esiglio; quale sotto
le prime percosse, tale si mostrava sotto le ultime e irreparabili
dell'infortunio. Conciossiachè ella ardeva nel petto di lui nudricata e
difesa dalla virtù, come fiaccola di santuario perennemente custodita
ed alimentata, e che i venti e le procelle di fuori nè crollano nè
oscurano: con ciò insegnando a noi tutti e all'età incredula e fiacca
che il buon cittadino può d'ogni cosa vivere in dubbio e in paura; non
delle speranze, però, fondate nella giustizia e nel dritto; non della
sapienza altissima che creò da principio le leggi e gli ordini eterni
del mondo civile, e giurò nel profondo consiglio suo la salute delle
nazioni. Cotale trovarono CARLO ALBERTO i messaggi del Parlamento, e
sì fatti sensi, e non altri giammai, racchiudevano le sue risposte
e i suoi caldi e ingenui colloqui, nessun dei quali menava egli a
fine senza molto rammaricarsi e compiangere le nuove conculcazioni e
gli strazj della dolce patria perduta. Quanto a sè e alle avversità
proprie, al grande scopo fallitogli, al deposto diadema, all'acerbità
dell'esiglio, ai sostenuti travagli, alle immedicabili infermità, al
poco avanzo di vita, nessun lamento giammai e nessuna stanchezza, come
fossero sacrificj appena uguali al suo debito, od accidenti di nulla
importanza verso la causa comune e perpetua d'Italia. Degli sconoscenti
e calunniatori, di tanti che lo schernirono, e ne abusarono l'amicizia
e la fede, si risentiva sì poco, che pareva neppur saperli e neppur
ricordarli. Ma, rispetto al trasmodare dei partiti, ai lor soppiatti
maneggi, alle fomentate dissensioni, agli eccessi, ai vilipendj, alle
slealtà, se reputava dannoso il tacere, sempre mansuetamente parlavane,
compiangendo piuttosto che infierendo e increpando: accusava i tempi,
scusava gli uomini, e solo pregava da Dio che l'esperienza luttuosa
giovasse, e a tutti apparisse manifestissima la necessità di maggiore
prudenza, concordia ed annegazione; perchè appena imparato ad esser
virtuosi ed uniti, nessuna forza umana, diceva, c'impedirebbe di
diventare nazione, e pareggiar di nuovo con l'opere la inestimabile
grandezza delle memorie e del nome. Però, quest'unico desiderio
raccomandava, morendo, alla carità de' figliuoli, all'amore, alla fede
de' popoli suoi; questo consiglio legava come un tesoro ai presenti
Italiani ed agli avvenire.


XVIII.

E noi giuriamo d'esser virtuosi ed uniti, e sul tuo feretro lo
giuriamo, che poco o nulla disgrada dalla santità d'un altare. Vero è
bene, che secondo l'universal rito, la Chiesa (benigna madre) procaccia
con molte preci e olocausti di suffragare l'anima tua, e propiziarti il
giudicio di Dio, il quale ad ognuno volge tremendo ed occulto. Ma, in
cospetto di sì sfolgorante virtù e nel mondo sì inaspettata; per quel
paterno e incomparabile amore da te dimostrato ne' tuoi soggetti; per
le libertà e ottime leggi largite loro, e con fede antica e gelosissima
conservate; per l'esempio e la norma che agli uomini tutti ài segnata
dell'alta pietà religiosa e della civile carità, convenientissime
ai tempi; per quel testimonio che ài fatto solenne e dolorosissimo
della verità e della giustizia, onde del nome di Martire ti coroni;
lecito è a noi di pensare, che già trionfi nel sommo dei cieli,
purissimo d'ogni tabe, e che meglio ti si addirebbero gli osanna e i
turiboli, che le piangevoli requie e le funebri lustrazioni. Ciò noi
crediamo saldissimamente; e quindi dal tuo sepolcro come da veneranda
reliquia, piglieremo gli augurj e aspetteremo l'aura di redenzione;
e te accompagnato e seguito lassù dagli spiriti benedetti che per
l'Italia gettaron le vite o crudelmente patirono, te invocheremo
celeste riconciliatore tra Dio e la patria infelice. Tu per amore di
lei soffristi di non più rivederla e ogni cosa diletta lasciare; ma
la tua gloria sopramondana a Lei ti raccosta e congiunge con perpetuo
bacio ed abbracciamento, e a noi tutti nella tua forma migliore ti fa
presente; nè mai ci paresti più vivo e spirante, nè mai sì vicino, nè
meglio sentito e veduto. Noi sentiamo nei cuori la possente tua voce;
vediamo l'anima tua volante sulle nostre bandiere; e il contatto divino
e diuturno di lei con tutte l'anime nostre ci riempie e scalda non ben
sappiamo di quali affetti soavi, e di qual pungente desiderio d'opere
grandi e intemerate e degne d'Italia. Prosiegui, etereo intelletto,
con quella efficacia stupenda ed ineluttabile che ora puoi colassù
da Dio medesimo derivare, prosiegui a correggere i petti traviati e
superbi de' tuoi cittadini. Mostra loro, che non accade senza terribile
necessità l'accumularsi degli infortunj, l'infierire dei destini,
l'empie battiture dei Barbari; conciossiachè unicamente nelle calamità
e nel dolore ripurgansi al pari degli individui eziandio le nazioni,
e come oro nel fuoco lasciano alfine le scorie de' vizj, e rimondansi
d'ogni macchia e bruttura. E il buon antico metallo degli Italiani,
scorgesi apertamente che dal secolare servaggio, dalle astiose
passioni e dalla ruggine dell'invidia e dell'albagia, troppo è ancora
offuscato e corroso. Mostra deh! loro, che in tanta dissoluzione dei
vecchi principj e delle vecchie credenze per ogni parte d'Europa,
e in tanto universale rigoglio di basse cupidità e ambizioni, non
da alcuna autorità di fede e di legge infrenate, a quella nazione è
promesso non che l'essere e l'arbitrio di sè, ma sì veramente il morale
e intellettuale imperio del mondo, la quale saprà innanzi e meglio
dell'altre infiammarsi della virtù, riedificare i principj, fuggir le
sètte e le sedizioni; e praticando ogni più duro e travaglioso dovere
di cittadino, procedere nobilmente al possesso comune ed inconsumabile
del diritto e della libertà. Imperocchè una voce arcana mormora
dentro il cuore dei popoli, e va lor dicendo: — apparecchiate le vie,
addirizzate i sentieri alla nuova forma di civiltà. Il mondo à sete
di giustizia e credenza; à sete di libertà germogliata dal dovere, di
scienza irradiata dalla religione, di popolari reggimenti corretti e
magnificati dall'educazione e bontà delle plebi. Sorgete, apparecchiate
le vie; e quel primo in fra voi che ritempreràssi nella fede, e arderà
del fuoco della Religione Civile, e farà gl'infimi e i sommi con più
amorevole atto insieme abbracciarsi, quello spezzerà del sicuro, come
Sansone, le porte del carcere suo; quello grandeggierà fra voi tutti,
e le sue piaghe saranno sanate, e tornerà a risplendere sulla montagna
come signacolo delle genti.

Anima di CARLO ALBERTO, regnatrice vera e perpetua d'Italia, sento,
io medesimo sento che del tuo soffio immortale mi scaldo, e già della
virtù m'innamoro, della fratellevole unione ò desiderio infinito;
e parmi, nè stimo di errare, che simiglievoli effetti vai tu qui
producendo negli astanti numerosissimi. Concordia, o Liguri, o
Piemontesi, o Siciliani, o Napoletani, o Lombardi; amore e concordia,
per Dio. Dopo tante allucinazioni ed esorbitanze, dopo tanti odj e
sospetti, dopo le vane congiure, i temerarj conati, le gare fratricide
e spietate; giovi e talenti a noi pure di scrivere nella memoria,
o meglio nel sacrario del cuore, quella dantesca rubrica: _Incipit
vita nova._ Così i raumiliati e rifatti dalla sventura, così legati e
stretti d'un nodo, e potenti di fratellanza e di carità, faremo vero
quel tuo detto sovrano e profetico, o Re santo e inspirato; quel detto
a cui solamente il civile nostro dissidio à dato sembiante di amara
menzogna: L'ITALIA FARÀ DA SÈ.


_Due mesi dopo la recitazione dell'Elogio, veniva l'Autore scelto
deputato al Parlamento Piemontese dalle città di Genova e di Pinerolo.
Ma stategli dal Governo negate le lettere di naturalità, Egli
pubblicava nelle gazzette le parole che seguono:_


AGLI ELETTORI DI PINEROLO E DEL SESTO COLLEGIO DI GENOVA.

Fallitami una condizione richiesta ad esercitare l'ufficio di Deputato,
a me fallisce, Elettori, eziandio l'onore e la dignità di sedere
vostro rappresentante nel Parlamento. Ciò, per altro, non mi scema
il dovere di ringraziarvi pubblicamente, siccome fo, del mandato da
voi proffertomi; il quale, secondo mio costume, nè avea chiesto, nè
in alcuna guisa brigato e sollecitato. Io vi ringrazio, pertanto, con
caldo animo di aver voluto, scegliendomi, rendere buona testimonianza
all'intera mia vita, e dimostrare altresì ai popoli subalpini, che
voi tenete per concittadini vostri tutti i figliuoli d'Italia, e
credete ottimo consiglio di non rimovere dalla patria ogni soccorso
d'ingegno e d'opera che venir le possa da quelli. Intanto, col vostro
suffragio succeduto alle stampe del Comitato Elettorale della Liguria
da me sottoscritte, voi dato avete conferma e sanzione ai principii
in esse manifestati; e di ciò pure vi riferisco grazie speciali, e
trággone assicuranza e compiacimento: perchè non è mancato chi à voluto
appuntarle, e far chiose e commenti strani intorno ad alcuni nomi;
quasi che una lista prolissa di candidati non sia materia sottoposta
a molti accidenti, e ad alcuni peculiari e individuali rispetti e
motivi; e la volontà e l'opinione dei proponenti non uscisse chiara
e sincera dal tutto insieme della nota. E neppure è mancato in altre
provincie d'Italia chi quelle mie proteste d'imparzialità e di spirito
temperato e conciliativo à stimato insufficienti, e non abbastanza al
presente ministero inchinevoli e amiche: come se un ministero leale
e fidante nel proprio operato voglia e possa adombrarsi d'uomini
moderati, imparziali e conciliativi; atteso che questi certissimamente
piegheranno alla parte sua non pure quando la visibile bontà degli
atti di lui e il suo antico e assennato amore delle libere istituzioni
ad essi lo raccomandi, ma ben anche allora che, salvo l'onore e i
principii, la necessità dell'utile pubblico ciò senz'altro rispetto
e ragione lor comandasse. E in ambo i casi tanto più peserebbe e
fruttificherebbe il lor voto, quanto non cadrebbero appo veruno in
sospetto di servilità e di cieca adesione; e in quanto (giova serbarlo
in memoria) le passate miserie e paure non concedono ancora alla
moltitudine di spogliarsi di ogni sinistra preoccupazione inverso chi
regge la cosa pubblica, o loro s'accosta senza riserbo. D'altro lato,
io non so intendere come in paese da passioni tuttora commosso, e dalle
quali non sembrava abbastanza immune neppure chi amministra e provvede,
e quando era discrepanza non lieve di giudicii e di massime, chi volea
ragionar di concordia e persuadere ogni mente ad accorrere a dare i
suffragi, dovesse tutto gittarsi dall'una delle bande, e farsi tromba
di un sol partito.

Il proposito di tutti voi, Elettori, fu di sottrarre da ogni rischio
non solo la legge fondamentale, ma eziandio ciascuna di quelle che sono
domandate organiche, e mallevano l'uso e l'autorità dei vostri supremi
diritti. Nell'una e nell'altre torna funesta al presente ogni notabile
mutazione; imperocchè al popolo fa ora bisogno, sopra ogni cosa, il
sentimento comune e profondo della sicurezza, della fiducia e della
stabilità e perduranza; e il potere egli, senza alcuna apprensione e
sospetto, restringersi tutto col Governo, e francamente e vigorosamente
ajutarlo. Ma sia lode al vero; da chi temiamo oggi che possa procedere
maggiore pericolo di mutazione e maggior contrasto alle nuove
franchigie? dai nemici della libertà, ovvero dai troppo amici? Contro
questi è la condizione grave dei tempi, sono l'uso e l'esperienza
cresciuti, è il buon senso italiano che disnebbiato dal fumo delle
astiose passioni, torna a poco a poco a risplendere di sua tranquilla e
nitida luce. Per contra, ai nemici palesi od occulti della libertà, e
a coloro che se non ucciderla affatto, vorrebbono almeno a tisichezza
condurla, ogni cosa sembra in Europa dare ansa e recar favore; e
poco meno che la intera Diplomazia, massime intorno di noi, dà loro
di spalla, e tutto dì li rinfocola e sprona e consiglia. Ciò posto,
chi non vede la convenienza, o, meglio, la necessità di mandare al
Parlamento uomini tanto caldi e fermi e fondati nell'amore di libertà,
quanto assegnati e riguardosi; e così indipendenti, imparziali e scevri
d'ogni affetto di parte, come leali e conciliativi? Conciossiachè
siffatti uomini solamente, senza spiacere agli incerti e incuranti,
che sono i più, nè troppo offendere quelli cui il passato facea prode,
valgono a spirare fidanza piena e durabile alla parte viva e illuminata
del popolo, nella quale sola può da ultimo il nostro liberale Governo
trovare difesa sincera, e sostegno naturale e gagliardo. Solo uomini
indipendenti e conciliativi insieme ànno vera facoltà di porgere ajuto
efficace e valido al ministero presente, talchè resista, dove occorra,
con avveduta saldezza e prudenza alle aperte e alle soppiatte esigenze
ed insidie esterne; e perchè respinga facilmente sì le innovazioni
importune e immature, e le smoderanze degli impazienti e fanatici; e sì
quello che al dì d'oggi è più temibile assai, le voglie cioè risorte
e i disegni ripigliati di reazione, e qualunque infelice proposta di
legge, con fine d'intaccare e restringere le libertà delle quali tutti
per lo Statuto godiamo.

Queste considerazioni moveano voi, Elettori, nella vostra scelta;
moveano me, con pochi altri buoni italiani, a sottoscrivere le
circolari del Comitato Elettorale della Liguria. Io mi do pace assai
facilmente che se ne facciano ora poco benevole interpretazioni, e
ingiuriose alla fama mia. Più d'una volta i fatti ànnomi vendicato e
assoluto degli altrui torti giudicj;[44] ed io so troppo bene, che pesa
continuo sopra di me la sventura ostinata, ma non però ingloriosa, di
aver dispiaciuto a gente che mai non si placa e mai non perdona.

Genova, li 27 dicembre del 1849.



SUL PAPATO,

LETTERA ORTODOSSA A DOMENICO BERTI.

    _An non eligendi ex toto orbe orbem judicaturì?_
                       SAN BERNARDO, Consid. IV, 4.


Fu la presente lettera scritta per venire inserita nella _Rivista
Italiana_, Giornale di scienze morali e politiche che stampavasi non à
molti mesi in Torino; e però accenna in principio a un articolo dettato
dal chiarissimo professore Berti, intorno alla dominazione temporale
dei papi, e pubblicato in essa _Rivista_ il 15 di agosto del 1850.

  (_Nota premessa alle due edizioni genovesi del 1854._)


I.

Io non ò dubio, Signor mio, che allo scritto vostro intorno alle cose
di Roma, publicato or fa tre mesi in questa effemeride, non tenga
dietro l'assentimento e la lode degli uomini savj. Contro all'uso
corrente de' giornalisti che si compiacciono di asserir molto e poco
provare, e frondeggiano in concetti e in sentenze che, a stringerle
bene, dànno scarsa e leggiera sostanza, voi con un ragionare stringato
e calzante, e non iscordando mai (quello che in materie tali à gran
forza) il testimonio delle storie e il riscontro dei fatti, conducete
il lettore a certe e lucidissime conclusioni. Libere parole e forse
anche ardite adoperaste in geloso argomento, nel trattare il quale
gli assennati fanno ormai troppe reticenze, e troppe iperboli i
passionati. E d'altra parte, il buon senno italiano vi mosse a
distinguere sempre e con diligenza l'oro purgato ed incorruttibile da
sua scoria e mondiglia, separando la sostanza eterna di nostra fede
dalle forme caduche e mutabili. Certo, tale moderanza e giustizia che
esser dovrebbe usuale, massime in subbietti severi e di gran momento,
diviene oggi rarissima; e di là dall'Alpi, molto di più. Vedete la
Francia maneggiar di continuo, inverso il papato, o l'adulazione o la
contumelia. L'una fazione e l'altra avventa i sofismi come saette in
battaglia, e quindi accresce a dismisura la confusione e alterazione
degli animi. A noi Italiani, benchè dolorosi di danni e percosse tanto
maggiori che avemmo a tollerare da Roma, a noi in questa poca di terra
dove possiamo senza pericolo significare la mente nostra, non vien
meno la imparzialità del giudicio, e studiamo di recare ordine e luce
in quel generale scombujamento. Così non fossero mai gli stranieri
sopravvenuti a sturbare l'opera riformatrice de' padri nostri, i quali
più volte e con sapienza e coraggio altissimo impresero di raddrizzare
e correggere i traviamenti e le pravità della Curia Romana, senza
mettere in compromesso alcuno la sostanza della fede cattolica, e
fuggendo le controversie d'intorno al domma; una delle peggiori e
più mortifere pesti che affligger possano (diceva il Sarpi) l'umana
republica.

Io sono stato in forse di movere novamente la penna sui casi di Roma,
veggendomi colà fatto segno a incredibile odio e a basse e sfrontate
calunnie, ed essendomi state sottratte da mano più inquisitrice che
ladra moltissime carte che io preparava di mettere in luce su quel
subbietto.

Ma dalle parole vostre, o Signore, usciva uno spirito il quale mi à
fatto (io non so come) sentir dentro l'animo che il silenzio a questi
tempi, e in tale proposito, parrebbe o incuria o timidità o insipienza;
cagioni tutte tre biasimevoli. E se riscrivere tutto un volume sarebbe
fatica e tedio sproporzionato all'utilità, non per questo voglio
astenermi dal significare brevemente, e senza apparato di stile e
d'erudizione, alcuno di que' pensieri che io giudicava dover tornare
più profittevoli alla religione e alla patria. Nè già le menzogne
calunniose, e l'odio ostinato e cieco degli avversarj non manco miei
che d'Italia e dell'universal bene, mi condurranno a parlare stizzito,
e fuor dei termini del convenevole. Non può d'assenzio e di fiele avere
tinta la bocca colui il quale procaccia continuo di approssimarla alle
fonti sincere d'un'alta e libera filosofia. Oltre che, la ragione è
cosa serena ed imperturbabile: e non ostante che in Roma abbiano le
gazzette spacciato ch'io sono uscito del senno _ed ò perduto il ben
dell'intelletto_, desidero mostrar loro che ò l'intendimento sanissimo,
e neppure riescono di provocarlo all'impazienza e allo sdegno. Anzi,
voglio entrare con Roma in una gara onesta ed insolita, non tacendo
nessuna di sue miserie, e sfidandola tuttavolta alla prova di appuntare
d'eterodossia un solo de' miei concetti.


II.

Consento e lodo assaissimo quel pronunziare che fate, che le cose
romane non possono convenientemente trattarsi con l'osservazione sola
de' casi politici, e con l'indagar le cagioni più materiali e più
prossime. E veramente, chi durerà nel dubio e nell'incertezza intorno
di ciò, pensando che il supremo pontificato, di qualunque forza
mondana e di qualunque regio splendore si attornii, sempre rimane una
potestà essenzialmente spirituale, e la cui viva scaturigine è dal
lato dell'uomo riposta tutta quanta nelle comuni credenze? Di quindi
proviene la necessità (lasciate l'altre ricerche) di esaminare parte
per parte cotale ultimo sostentamento della Roma papale, e di scoprire
e indicare preciso quali alterazioni profonde ed intrinseche vi sieno
accadute, e come cessarle durevolmente.

V'à taluni publicisti in Francia, a cui pare oggi il Pontificato
sanissimo ed interissimo in ogni sua condizione, e pur tanto buono
e perfetto, che sono tinti di resía tutti coloro a cui entra in capo
di dubitarne; e riottosi e pessimi sono que' tre milioni d'uomini cui
non garbeggia gran fatto la paterna e mite censura del Sant'Uffizio,
e il dover rimanere esclusi soli essi e in perpetuo dalle private
e politiche libertà, di che godono o son per godere tra breve
tutte quante le nazioni civili d'Europa. Ma costoro volendo troppo
glorificare il papato, a me sembra che lo bestemmino, e travaglinsi a
scavargli sotto a' piedi la fossa, troppo meglio de' suoi nemici.

V'à poi la schiera de' Diplomatici (io volea quasi dire turba), la
quale o non vede o nega il pregio e l'importanza di tutto ciò che
trapassa le arti loro e pon fondamento nelle coscienze, ed al cui
buon esito nè i ripieghi de' protocolli tornano sufficienti, nè quelle
simulazioni e malizie da cortigiani, condite di urbanità e di eleganza.
Nel Giulio Cesare di Shakespeare, certo ciabattino romano, per
nobilitare l'arte propria, chiama sè stesso, con lepida antonomasia,
un chirurgo di scarpe. A me, dico il vero, dove senta discorrere di
Diplomazia, torna mio malgrado a mente quel ciabattino del gran poeta,
perchè là pure sotto magnifico nome veggo nascosta un'arte infelice
di rattoppare cose vecchie e logore, che di lì a poco torneranno a
sconciarsi.

Ma, come ciò sia, il pronunziato vostro rimane verissimo, che discutere
fondatamente del dominio temporale dei papi mai non si può, senza
discutere insieme, non che delle sorti comuni d'Italia, ma dell'essere
altresì sostanziale ed universale della cattolicità, e senza porsi a
scrutare le disposizioni odierne de' popoli intorno alla fede, e quello
che sia per ricondurre nei cuori una religione sincera e viva, e perciò
razionabile e non cavillosa, e conformissima punto per punto alla
scienza e alla civiltà.

Io, per me, sento di potervi bene asserire, che in nessun argomento
morale e politico ò fermato il pensiere più lungamente e sì spesso,
come in questo del principato ecclesiastico; mosso a ciò eziandio dalla
necessità, sì per essermi tocca la mala fortuna di nascere a quello
soggetto, e sì per avere a cagion d'esso la miglior parte della vita
trascorso nelle amaritudini dell'esilio. Così, dopo assai meditare
ed esaminare, dopo raffrontate le storie antiche con esse medesime
e con le presenti realità, e i fatti con le idee, e le applicazioni
coi principj, sono da ultimo venuto io pure nella conclusione, che a
rispetto di Roma, la controversia politica in niuna maniera non può
separarsi e disciogliersi dalla spirituale, siccome quelle che sono
ambedue informate da una sola e stessa ragione e natura; e chi presume
di tenerle divise e trattar l'una in disparte dall'altra, incorre ad
ogni tratto in palpabili contradizioni, e somiglia quello inabile e
sciocco artista che volesse in alcuna pittura emendare e mutare le
pieghe d'un velo o d'un panno, senza porre veruno studio a conoscere
il corpo e i membri che ne sono vestiti; conciossiachè al principato
ecclesiastico dà contorni e pieghe la spirituale persona che il regge.
E da ciò procede parimente, che in verun altro subbietto di scienza
civile insorge fluttuazione e discrepanza maggiore di pareri e giudicj;
in nessuno alla verità dei principj contradice e ripugna da ultimo sì
manifestamente il fatto, e in nessuno la guerra intestina e sempre mai
rinascente dei contrarj elementi annulla i trovati e le risoluzioni dei
gran politici.

Leviámone qualche saggio non men curioso che istruttivo. E prima,
voi v'imbattete in molti i quali (come onestissimi e al papato assai
riverenti) si sdegnano dell'opinione che si professa oltremonte, che
pel Papato non dica bene altra maniera di dominio temporale, eccetto la
dispotica; e sì provano con ragioni eccellenti, la libertà non dovere
mai riuscire avversa ed inconciliabile col principato ecclesiastico,
ed anzi dovergli prestar vigorezza e favore. Ma, per contrario, lo
scritto vostro afferma e prova con l'evidenza del fatto, che lo Statuto
romano nè fu dalla prelatura accettato lealmente, nè voluto eseguire
mai, salvo che per cessare i fieri e instanti pericoli. D'altro lato,
tal quale esso è (e parve prodigio), inchiude cento clausole e cento
riserbi da rendere vana (ove occorra e il consentano i tempi) qualunque
franchigia publica, e tutta la macchina del governo rappresentativo. Il
perchè, ogni mente oculata è costretta di credere, che rimanendosi Roma
quale oggi si vede, e le discipline della sua Curia e le condizioni
del Pontificato quali al presente sussistono, ogni qualunque specie di
costituzione liberale o diventerebbe in poco d'ora un nome vanissimo,
o saría cagione di guerra dolorosa ed interminabile tra la corte ed
il popolo, anzi tra la corte e qualunque altra potestà indipendente da
lei.

La repentina e terribile necessità dei casi (io replico) carpì ai
cardinali quell'informe Statuto; dileguandosi la necessità, doveva
esso o cadere, o fare illusorie le libertà che promette. Dopo la
battaglia di Custoza, s'incominciò a Monte Cavallo a indietreggiare più
alla scoperta, e in governo costituzionale far luogo a due Ministri
insigniti di porpora e immuni però da ogni legale sindacato, sciolti
dal pericolo di giudizio e di pena, e sempre innanzi alle Camere
taciturni e invisibili. Dopo la rotta di Novara, sarebbersi i prelati
prestamente disfatti del Rossi, quando non avesse una scellerata mano
prevenuto il disegno.

Del pari, v'à chi dimostra con argomenti robustissimi, attinti alla più
pura e profonda filosofia cristiana, che il dominio temporale dei papi
accordasi male con lo spirito del Vangelo, e ch'essi potrebbero senza
jattura veruna, ed anzi con utilità e rinvigorimento massimo della
religione, deporlo affatto, e tornare all'antica modestia apostolica.
Ma, d'altra banda, tutti coloro cui manca l'animo di pensare ad alcuna
essenziale riforma ed innovazione negli ordini della Curia romana,
veggono assai manifesto (quantunque vergognino di confessarlo), che a
quella Curia, spogliandola in tutto del principato, rimarrebbero brevi
anni, forse anche pochi mesi d'autorità e di vita.

E però, mentre parlano ad ogni tratto della fiamma di fede cattolica
che li avvampa, mostrano di dubitare del sostegno saldo e perdurabile
promesso alla Chiesa di Dio. Ma veramente li turba e tiene perplessi un
intimo sentimento, il quale li avvisa, non consistere punto la Chiesa
di Dio in certe giurisdizioni fittizie ed ambigue, e in certe viete e
dispotiche consuetudini che la sede pontificale s'incaparbisce a voler
serbare, ed a cui nessuna promissione di celestiale soccorso fu fatta.
Quindi s'ostinano a dire, che il principato ed i suoi conseguenti sono
puntello della Chiesa; e a sottrarglielo, potrebb'ella, se non cadere,
scompaginarsi; e che non bisogna tentare Iddio, e stringerlo a forza
ad operare miracoli: non badando essi che a molto maggior miracolo il
vanno stringendo ogni giorno, di salvare la fede e il papato ad onta
delle sconcezze ed enormità che seco mena il poter temporale; ed essere
un modo assai più sconvenevole di tentare Iddio, quello di volere che
per prodigio cotidiano di grazia efficace i preti, arricchendo, si
serbino poveri; imperando a modo dei re, si serbino umili; vivendo in
delizie, si mantengano casti; empiendo le carceri e alzando patiboli,
si mantengano misericordiosi.

Udiremo dire a moltissimi, che bisognava perdonare i prelati romani di
assai difetti. Non potevano a un tratto svecchiarsi, e in un giorno
solo svestire gli abiti del comando assoluto, nè con leggier fatica
avvezzarsi alla libertà, tenuta, e non senza ragione, in sospetto e in
paura per tanto tempo. D'ogni bene erano signori e dispensatori; qual
maraviglia se contendevano a pezzo per pezzo l'antichissimo patrimonio?
Colpa grave dei liberali fu volere ogni cosa ad un fiato. La libertà
sarebbe venuta ad oncia ad oncia, e proporzionando il carico nuovo
alle spalle del popolo che mal lo reggeva. Queste parole che sarebbero
savie in qualunque luogo, trovano in Roma ragioni opposte d'altrettanta
validità. Coi prelati romani non potersi fare a metà: cedono pur troppo
a due deità sole e terribili, la necessità e la paura. Altrove possono
le libere istituzioni avere piccolo cominciamento, ed aspettare dal
tempo e dalla educazione publica di profondare ed allargar le radici;
ma in Roma tanti germi ne porresti, tanti ne sbarberebbero, e tutto il
passato lo testimonia. Però bisogna che fra le due potestà intervenga
una piena separazione.

Per simile, molta gente va predicando che agli uffici pontificali
bisogna l'indipendenza, e questa senza principato correr pericolo e
vacillare ogni giorno. Guardisi quello che era il papato in Francia
alla corte d'Avignone, sotto le ferree mani di Filippo il Bello e de'
suoi discendenti.

Questa è la sentenza: ora mirate il fatto, e troveretelo tanto
discorde da lei, che assegnerete al vocabolo indipendenza ogni altro
significato, salvo il definito dai dizionarj. Certo, stranissima
indipendenza è quella che gode Pio IX tra l'armi tedesche e francesi, e
stretto e aggirato da' furiosi ristoratori d'ogni clericale tirannide.
Nè si dica essere accidente che passa. Perchè nessuno à cervello così
baldanzoso da indovinarne la fine; e tutto il lungo e miserevole regno
di Gregorio XVI trascorse in altrettanta preoccupazione e servitù di
mente e di spirito. I perpetui diritti, le vetuste giurisdizioni e le
libertà intangibili della Chiesa tacevano tutte innanzi all'Austria
e alla Russia. Quivi tre milioni e più di cattolici trapassavano
allo scisma con poco o nessun lamento di Roma; e con poco o nessuno
tornavano a quando a quando in Vienna a pigliar vigore le leggi
giuseppine: altra maggior cura premeva l'animo del pontefice; sventar
le congiure, sopprimere le cospirazioni, comandare nelle Romagne i
supplizj. In tale spavento viveva papa Gregorio non pure dei moti
politici, ma poco meno che d'ogni progresso di civiltà, che fu udito
affermare, infra l'altre cose, ogni strada nuova aperta ai viandanti
essere veicolo nuovo di corruzione. E nella enciclica addirizzata da
lui in principio del regno suo a tutti i vescovi moderatori del gregge
cattolico, non dubitava di registrare tra i flagelli del secolo le
politiche libertà: il che prova quanta poca misuratezza e imparzialità
di giudicio lasciavagli il principato, e con che massime dure e
imprudenti governar voleva la Chiesa.

Così da ogni parte balzano fuori (diceva io) le contradizioni; perchè
tra il regno ed il sacerdozio, quali stanno al dì d'oggi e si vogliono
mantenere, ogni termine di conciliazione è impossibile, e mai non è per
uscire ex _alienigenis membris compacta potestas_.

Tra parecchi partiti indagati e proposti per dare assetto e riposo
alla dominazione temporale dei papi, voi, Signore, scorgete assai più
vantaggi all'Italia, ed avviamento molto migliore al bene di tutta
la cattolicità, nell'avviso di alcuni statisti di stringere quella
dominazione alla città sola di Roma, od a poco altro territorio. Ora,
io pronunzio da capo, che non mutando l'essere e i privilegi dell'alta
ed infima prelatura, tanto è impossibile colorir quel disegno, quanto
tutti gli altri esclusi da voi; conciossiachè, dove l'armi straniere
non esercitino sempre un violentissimo reprimento, si vorrà dalle
genti di Roma fruire almeno delle libertà civili ordinarie e di larghe
franchigie comunitative, com'egli accade, per grazia d'esempio,
in America ai cittadini di Washington. Ma qual mai libertà civile
non verrà intorbidata ai Romani, ed anzi rotta e annullata, dal
Sant'Offizio, dagli sbirri del Vicariato, dall'arbitrio continuo ed
irrefrenabile de' maggiori prelati, dalle parzialità dei giudici, dalle
sciocche e strabocchevoli revisioni, censure ed inibizioni sulle stampe
e sui libri, dall'ignoranza e servilità delle publiche scuole, e dal
potere il governo inframmettere in ogni cosa l'autorità d'alcun canone
o d'alcuna bolla, dimenticata ma non disdetta, e giacente in archivio
com'arme vecchia in arsenale, che può a tempo e luogo tornare usabile e
acconcia?

Per quello, poi, che s'attiene alle franchigie comunitative, non
son dubioso di affermare, ch'elle o promuoveranno fiero e continuo
contrastamento col governo clericale, o diverranno ombre vane fuori
che nell'aspetto e nel titolo, come da secoli sono state. Imperocchè,
questa lode della gente romana è da ricordare, che cioè non ànno
valuto la Curia e la prelatura a domare e spiantare qualunque spirito
di libertà e di resistenza in quel popolo, per insino a tanto che
gli rimase la possessione di qualche diritto municipale. E già Sisto
V, appena insediato, e con le prime parole che disse da principe ai
Conservatori di Campidoglio, li minacciò di togliere loro quel poco
(trascrivo i suoi termini appunto) che, per benignità sola della Santa
Sede, rimaneva ad essi di publica amministrazione.[45] Ed eziandio
quel poco fu tolto. Onde gli è accaduto, che forse tra tutti i comuni
italiani, sempre usi a godere di alcuna franchigia, il comune solo
di Roma ne venisse per intero spogliato; e quella toga fulgidissima
d'oro e di porpora in che il Senatore e i Consultori di Campidoglio
splendevano, altra grandezza ed autorità non significassero, eccetto
che crescere copia d'arredi e vaghezza di addobbi ai vespri e alle
messe pontificali. Ma lasciando ciò stare, chi, chiedo io, nella pace
presente, e senza promovere da ogni banda pericolo instante di guerre
e sollevazioni, sottrarrà le Romagne e le Marche alla signoria dei
papi? Tentisi e facciasi da chiunque; adóperinsi le maniere, l'arti
e gli spedienti più sottili ed accomodati; segua per effetto di qual
vogliate accordo e lega di principi poderosi; la curia romana, com'è
al dì d'oggi elementata e costituita, lancerà scomuniche ed interdetti
furiosi e implacabili, e si ajuterà, nè senza profitto, di sommovere
e d'infiammare tutto il mondo cattolico, ed eziandio il greco ed il
luterano, con assai più zelo ed impeto, che se una nuova eresia od uno
scisma nuovo intendesse a squarciare e spiccare violentemente alcun
altro membro dal corpo di santa Chiesa.

Ben voi direte, che se gl'interdetti veementi e iracondi di papa
Caraffa non vinsero e non bastarono contro le armi del Duca d'Alva nel
bel mezzo del secolo XVI, meno assai basterebbero nell'età nostra. Ma
le plebi allora tacevano paurose: oggi quello che pensano e vogliono à
peso e pericolo; ed a cagione delle publiche libertà, più ardire mostra
al presente la scarsa fede rimasta, che la grandissima per antico.
Certo è, che quando gli Ottoni e gli Arrighi si brigarono d'aggiustare
le cose romane, nol fecero con le armi soltanto, ma eleggevano al sommo
seggio chi lor talentava di più, e l'esterior disciplina della Chiesa a
lor senno moderavano. Oltre di che, come userebbero i potentati, senza
troppo manifesta contraddizione, l'aperta violenza in quell'autorità e
in quell'uomo, per rialzare il quale ànno, poco è, sguainate le spade
con non picciolo spreco di danaro e di sangue? Impossibile, poi, tanto
accordo fra tanti principi e Stati, massime dove si tratta di ricche
spoglie da occupare e spartire.

Rimane inconcussa, dunque, ed irrepugnabile la sentenza, che, non
modificandosi in nulla la Roma spirituale, nessuna composizione si
trova tra essa e i popoli che tiene soggetti temporalmente; e di
pari rimane certo, che le cose d'Italia non si possono rassettare in
unione ed in libertà; nè la famiglia cattolica intera avrà buona pace:
anzi, l'autorità della religione, parte per isdegno e rabbia, verrà
combattuta e negata, parte travolta al male, e adoperata a perpetuare
vecchie superstizioni e tirannidi.

Per fermo, la gran bisogna dei prelati al presente è campare il dominio
loro secolaresco; e già da gran tempo son usi di accomodare piuttosto
le faccende della Chiesa alle necessità ed esigenze del principato,
di quello che adattare gli ordini del principato al miglior bene della
Chiesa. Nel che non adoperano quasi malignità: primo, perchè aggiustare
il principato come la Chiesa antica e lo spirito degli evangelj
ricercherebbero, vuol dire poco meno che rinunziarlo: in secondo
luogo, tutto quel popolo di chierici e di prelati che sale e scende
pel Quirinale e per l'Esquilino, cresce allevato in un sistema molto
fine ed artificioso di principj e di massime, venutosi componendo pezzo
per pezzo, e nel quale i privilegj dell'Ordine e le dignità cortigiane
e secolaresche sono con buona apparenza accordate e innestate con
lor dottrine teologiche; sicchè, ajutando quelle, credono queste
ajutare, essendo osservazione verissima e molto antica, che l'uomo
s'industria ed ostina a voler trovare un qualche utile compromesso tra
la coscienza e gli appetiti; e quindi, invece di conformare le azioni
ed i sentimenti ai sovrani dettati, piega bel bello e quasi senza
avvedersene i dettati all'utilità. La quale opera di storcimento e
dissimulazione per far bella mostra di sè e nascondere all'universale
(che è volgo) le fragili sue fondamenta, trova il soccorso degl'ingegni
battaglieri ed arguti, gran maestri di scrivere, autorevoli di scienza
e di vita, ed abilissimi a sciogliere nodi e viluppi di controversie. E
tali furono, per appunto, coloro i quali poco dopo la Sinodo Tridentina
dettero al sistema surriferito l'ultima forma dialettica, non più
mutata sostanzialmente di poi. E se ne può vedere un ritratto vivissimo
e coloritissimo nelle storie eleganti che di quel Concilio scriveva il
Cardinale Pallavicino.

Ma, come ciò avvenga, certo rimane tuttavia (nè a voi nè a niuno
rincresca udirlo ripetere), che insino a tanto che quella mistione
singolarissima di dogmatica, di canonica e di politica dura e persiste
in Roma, e porge norma quivi all'educazione di tutto il clero,
perpetuerannosi le cause delle sedizioni e delle violenze in Italia,
nessuna pace di spirito avranno le coscienze cattoliche, e la maestà
del gran sacerdozio mai non tornerà ad imperare nel mondo con soave e
spontanea suggezione degli animi. Perchè la Cancelleria e la Prelatura
romana mai non possono e debbono sostenere che lo Stato della Chiesa
contermini con popoli liberi, nè che l'Italia si componga in essere
di nazione e viva signora di sè; atteso, principalmente, che ella
faría molto presto valere le sue franchigie e la sua volontà e i
suoi patti confederativi altresì in Roma. Similmente, non avrà pace
d'intelletto e di cuore la cattolicità; perchè oggi ella si viene
informando di spiriti nuovi e altamente civili; desidera, se non
amicizia, almeno concordia leale con le diverse confessioni cristiane;
il culto e le dottrine morali ritira dalla eccessiva misticità, e
le immedesima con la ragione e l'ordine sostanziale ed eterno del
bene; accetta e s'allegra d'ogni progresso di scienza; vuole la pietà
nemica d'ogni esteriore costringimento, e la religione separatissima
dai fini mondani e dagl'interessi di Stato. In quella vece, la Curia
romana teme ogni sorta d'emancipazione intellettuale e politica,
à per sospetta la scienza, per ingiuriose le riforme; s'adombra e
s'inquieta delle novità; nessuna concordia equa e leale consente con
gli accattolici; e non pure prescrive e propaga usi e modi assai poco
nobili e razionali d'esercitare la pietà,[46] ma non abborre (dovunque
può) dall'inculcarla a furia di leggi, e ottenerne l'apparenze e
le dimostranze con mezzi costrettivi e violenti. Per vero, tenendo
altra via, non tanto spaurasi ella per la interezza della fede e la
incolumità della Chiesa, quanto per la propria maggioria e pel suo
potere temporale assoluto; e perchè, sentendosi fiacca al presente di
ogni facoltà, e inetta a reggere a qualunque specie di paragone e di
competenza, rifugge da tutto ciò che varrebbe a rompere il cerchio
magico entro il quale sta chiusa, e in cui poco numero di chierici
e di scribi, tutti e sempre d'una qualità e d'uno stampo, presume di
perpetuare in sue mani il governo del mondo cristiano. Nel vero, di
coloro che maneggiano in Roma gli alti negozj, la più parte e la più
procacciante o nasce colà medesimo e succhia subito il latte delle
dottrine curialesche, ovvero è calata giù dai monti della Sabina e
d'altre terre suburbane; o, se pur viene di fuori, riceve ne' chiostri
e ne' collegi romani una medesima impronta di pensieri e di sentimenti;
sicchè troppo bene s'appropria loro il carattere e il nome di Casta.
Quegli altri, poi, che nuovi e inesperti convengono a Roma per cercarvi
mantellette e prebende, se non sanno l'arte, la imparano; e quelle
orme, sempre e da tutti e a un modo stesso ricalcate, studiano e
seguono ad una ad una con indicibile diligenza; perchè chi le sgarra
o le muta, quando peggio non gli succeda, rimane indietro. E poniamo
che parecchi insigni ecclesiastici vengano per l'Europa onorati del
cappello, e debitamente onorati. Ciò può recare lustro e dignità
maggiore all'Ordine; non profitto al concistoro e al governo, del quale
non sono partecipi.

Adunque, di cotal gente quale io la descrivo, esce l'ordine prelatizio,
e di questo la principal porzione del collegio de' cardinali; dal
cui seno per ultimo esce il Pontefice, il quale dee di necessità
rispondere con la natura dell'opere sue alla natura del terreno e
alle qualità del seme di cui è rampollo. Ed egli e i suoi porporati e
il clero della sua Roma tanto meno aprono il cuore ad alcuna novità,
e ardiscono rompere una sola maglia di quella rete di pratiche e
d'opinioni in che sónosi da sè medesimi involti, in quanto ogni giorno
si riconoscono più straniati e divisi dallo spirito dei tempi, e manca
loro qualunque energia, salvo che di negare e resistere. Nell'avvenire,
nessun compenso al perduto, nessun rimedio al pericolo delle temporali
giurisdizioni, eccetto l'armi straniere e i patiboli. Mille accadimenti
e mutazioni reca via via il corso degli anni; ma tutte all'ultimo si
discuoprono sfavorevoli e inopportune alla prosperità e alla pace del
Quirinale, perchè a lui fa bene soltanto la immobilità, o ricomporre e
risuscitare il passato. Ma il flusso delle umane cose, simile all'acque
correnti, mai non torna allo insù. Tale a nostri giorni (nè vi esca
mai del pensiero) è il papato, e tale la schiera che più dappresso lo
circonda, serve e difende. Nè, per dir vero, sembra credibile a mente
sana ed illuminata, che le popolazioni cattoliche abbiano proseguito sì
lunga pezza a disconoscere il fatto, o conoscendolo, a non curarlo; e
che gran porzione del clero continui tuttafiata nella pietosa finzione
di giudicare che Roma e Chiesa riducansi ad un medesimo, mediante la
viva e fedele rappresentanza che far dee la prima della seconda. Oggi
l'orbe cattolico è rappresentato sì bene e sì lealmente in quella
metropoli, com'era sotto de' Cesari il mondo politico dai senatori
servi e adulanti, o dai Narcisi, dai Ninfidj e dagli Aniceti del
Palatino.

D'altra parte, l'età nostra è acconcia e matura perchè que' funesti e
perpetui ripiegamenti e ritorcimenti di Roma in sè stessa si rompano,
ed ella uscendo con la mente e l'affetto a visitar le nazioni, si
ritempri e ringiovanisca nello spirito nuovo ed universale della
cristianità. E dacchè è necessario per ciò nella Curia e Prelatura
romana mutare o le persone o l'animo, e questo è fatto inemendabile
dalla forza dell'abito e dell'interesse; occorre che l'altro partito
si tenti. Ma, per condurre e stanziare in Roma nuovo ordine di
ecclesiastici, assai diverso nell'opinioni e nell'opere dall'anteriore,
manifesto è ch'ei si conviene piegare e adattare a cotale effetto le
istituzioni e le discipline; con questo riserbo per altro, che tanto
solo si modifichino e si correggano, quanto bisogna perchè il fatto si
avveri e perseveri, e sia fecondo di bene.

Non m'è avviso per al presente di condurre il discorso a meglio
definire e specificare coteste mutazioni della Roma spirituale: mi
basta, egregio Signore, aver fatto rincalzo da molti lati a quella
proposizione con cui si apriva la lettera mia, ed in cui si sostiene
e s'incardina: che, cioè, in Roma la riforma politica intimamente si
connette con l'ecclesiastica; e l'una senza l'altra non può succedere,
nè, succedendo, durare e fruttificare.

Nemmeno è da mover dubio, mirandosi unicamente al valor razionale
delle cagioni, se le riforme politiche debbono antivenire o no
l'ecclesiastiche. Imperocchè noi dimostrammo abbisognare innanzi ogni
cosa, che per la virtù peculiare d'alcun ordine nuovo spirituale
muti l'ordine delle persone, e con esso gli animi, i pensamenti
e i costumi; e così fare asseguibili non soltanto le libertà e
trasformazioni opportune nel temporale, ma ogni buona fortuna d'Italia,
e il rinfrancamento delle credenze, e una gioventù nuova e robusta
di tutto il consorzio cattolico: il quale, la Dio mercè, a simile
risorgimento è apparecchiatissimo, e più assai che non vien reputato
dai cortigiani in rocchetto ed in cappa magna. Nè faccia gabbo al
giudicio vederne apparire sol pochi segni; perchè tuttavia perseverando
nella cattolicità una gerarchia stretta, riguardosa e fortemente
disciplinata, la infermità e torpidezza del principal membro fa
sembrare malsano e debole tutto quanto il corpo; e veramente, spirano
dal Vaticano ai dì nostri piuttosto che un soffio ricreante di vita,
influssi di letargia e d'agghiadamento.

Imperciò, presupponendosi eziandio che mutare qualcosa della Roma
spirituale riesca difficile e travaglioso quanto l'indurre larghi
e intrinseci cambiamenti nel temporale, porta la ragione che si
voglia piuttosto lo sforzo maggiore rivolgere a conseguire il primo.
Perchè, vinte quivi le resistenze ed appianate le vie, qualunque
natura di bene civile e politico se ne ingenera quasi di per sè
stesso: il che non si prova con altrettanta certezza dall'altro lato;
stantechè (teniamolo saldo in memoria) negli istituti che reggono
e signoreggiano per l'efficacia e il valore di antiche opinioni e
consuetudini, le mutazioni materiali ed estrinseche, discompagnate
dalle morali e interiori, violentano ma non correggono, e più sono
atte a perturbare che a rassettare. Chi mal consente a questo vero,
ricordisi almeno di ciò che vide egli stesso, o dal padre gli fu
narrato. Bonaparte condusse prigione Pio VII a Fontanableò, e il vi
tenne chiuso qualche anno, e dettavagli da ultimo un concordato a sua
voglia. Era uso di forza e d'audacia fortunatissima, ma sproveduta di
sapienza riformatrice; e non recò frutto. Cessato appena quell'impeto
soldatesco, Roma ripigliò le sue antiche sembianze, nulla avendo
imparato e men che nulla dimenticato. D'altra parte, non sembra
mai troppo difficile e faticoso all'uomo ciò che è necessario ed
inevitabile, e si fa scala insieme a grandissima utilità, e quando gli
vien dimostrato che tutt'altro tentamento sarebbe indarno.

Ben so che l'ordine di ragione troppo rado si accorda con quello de'
politici accadimenti, e la fortuna e l'armi e le passioni non iscelgono
la loro via; ma dove l'impeto li rivolge, colà si precipitano. Io so
bene altresì, che quando per effetto di qual sia caso la forza e la
volontà popolare venissero in Italia al di sopra, elle inesorabilmente
proseguirebbero la lor vittoria, stimandosi padrone affatto ed
onnipotenti. Ciò per altro non vieta che quella forza e volontà,
scompagnate dalle mutazioni morali e spirituali, non rimanessero
incerte del fine e nella vittoria stessa impacciate; e quindi, per
la ostinazione indomabile altrui, trascinate ad atti eccessivi, sino
a che sorgesse una dolorosa necessità di piegare ed indietreggiare,
perdendo i maggiori frutti e i migliori del buon successo. Del resto,
gli è assai naturale che le sollevazioni, le guerre ed altri violenti
e scomposti fatti entrino inconsultamente in quel primo sentiere che
lor si schiude davanti: ma colui che indaga il valore universale ed
intrinseco delle cagioni e l'ordine di operare che ne proviene, non può
nè correre nè fermarsi dove lo sdegno e il volgare giudicio e corre
e si ferma; invece, egli procede tanto oltre, quanto gli fa d'uopo a
trovare il punto da cui dipende la mole intera dei casi, e l'ultima lor
ragione. A cotesto punto, e non altrove, intende guardare la lettera
mia.


III.

V'à parecchi onesti e timorati, ai quali ogni pensiero d'innovazione,
tuttochè ristretta alle condizioni esteriori e non sostanziali del
Papato, sembra arditezza e profanità incomportabile, e uno sdrucciolo
all'eterodossia e alla miscredenza. Ma perchè non può accadere a' dì
nostri ciò stesso che più d'una volta à la Chiesa veduto e approvato
senza scandalo e nocumento, e rimanendosi intatta nell'essere proprio
e ne' suoi principj di scienza e di pratica? Ei si conviene o tener
chiuse tutte le storie, o lette dimenticarle, perchè risolutamente si
neghi le forme del Papato e la costituzione della gerarchia suprema
cattolica, non avere sostenuto mai mutazione profonda. Ma il vero è pur
questo, che tra le forme e disposizioni del Papato quale esercitavasi
da Gregorio Magno, e l'altre che incominciarono ad attuarsi e valere
per opera segnatamente di Niccolò II e Gregorio VII, interviene
assai più differenza di quella che, al mio sentire, ricercherebbesi
oggi a ricondurre in concordia piena, e d'infiniti beni ubertosa, la
civiltà e la religione. Parlo di notizie ovvie e non peregrine; pure
è necessità ricordarle a chi non le ignora, ma le dissimula. Gregorio
Magno poteva ogni cosa; e i maggiori negozj e le più dure discettazioni
d'Italia e dell'Occidente venivano trattate da lui, e con autorità
e sapienza composte. Ma tutto ciò, non per diritto di principato,
non perchè sudditi avesse nè esercito nè navile nè publico erario,
ma sì mediante un sommo arbitrato che i popoli nelle differenze loro
gli concedevano, per caldo di religione, e per la gran sicurezza
ch'entrava negli animi del senno civile di lui, non uguale solamente ma
superiore al secolo tralignato e ruinante a barbarie. Ildebrando, in
quella vece, aggiungeva al pastorale lo scettro; e non contento delle
provincie le quali già tenevano i papi da Carlo Magno, rifermava i
Normanni sul trono di Napoli con titolo di suoi tributarj, e pretendeva
diritti regj altresì sull'Ungheria, Danimarca, Croazia e Dalmazia; e a
Guglielmo il conquistatore ingiunse di riconoscere da lui solo il reame
d'Inghilterra, e di fargliene omaggio. Parvi egli, illustre Signore,
poca e leggiera trasmutazione, passare nel temporale dallo stato di
soggetto a quel di monarca, e la mansueta autorità dei Vangeli armare
di mondana potenza, fornirla di soldati, di balzelli e di giustizieri?
Ma vi è più oltre di novità. Gregorio Magno non solo piacevasi di
riconoscere i Cesari a sè superiori nelle faccende del secolo, ma li
comportava tali in molta porzione altresì della polizia esteriore
ecclesiastica; e obbedivali eziandio (quello che importa assai di
notare) ne' comandi che gli parevano gravosi al clero, e, sotto qualche
rispetto, dannosi al far prosperare la religione: come testimonia
quella lettera sua, mille volte citata, a Maurizio imperatore.[47]

In quel cambio, Gregorio VII e i suoi prossimi successori stimarono
a sè inferiori e soggetti i Cesari e tutti i monarchi del mondo,
i quali (uso della comparazione che leggesi nelle bolle), come la
luna piglia splendore dal sole, pigliano dal pontefice, sole della
cristianità, l'autorevole lume proprio. Quindi ai papi venne pensato
di ben potere (dove occorresse estremo castigo) deporre i monarchi
dai seggi loro, e dispossessarli d'ogni diritto, e dal debito di
sommessione e obbedienza disciogliere i popoli, ed anzi armarli alle
volte contro quelli e crocesignarli. Là, pertanto, con San Gregorio, un
pontificato affatto spirituale e che nulla del mondano s'arroga; qua,
con Ildebrando e coi proseguenti l'opera sua, un pontificato provisto
di regale giurisdizione, e divenuto signore ed arbitro delle corone.
Là, due potestà divise ed indipendenti ne' proprj ufficii; qua, una
sola, suprema e impartibile, che tutte l'altre soggioga, e la quale
fabbrica e innalza al colmo la universale teocrazia. Nè perciò tutte le
differenze peranco sono avvisate ed annoverate. Gregorio Magno era dai
suffragi del popolo, con liberi e appropriati comizj, eletto ed alzato
allo splendore e alla santità della tiara. Gregorio VII, invece, veniva
scelto e salutato pontefice nello stretto collegio de' cardinali,
istituzione singolare e novissima nella Chiesa. D'altre minori varietà
e differenze fra i due tempi paragonati, me ne passerò con silenzio;
parendomi che alle testè ricordate non se ne possano trovare e neppur
pensare delle maggiori.

Al presente, io mantengo essere al Papato sopravvenuta una
indeclinabile necessità di cambiare in sè stesso parecchie condizioni
e costituzioni; ed, al creder mio, nessuno fa guerra più pericolosa e
spietata al bene di quello, quanto chi si ostina a volerlo intatto ed
immobile in ogni sua forma attuale.

E che? sembrami già udir gridare i Farisei d'oltremonte, avresti tu
animo d'assomigliare la Roma spirituale moderna a quella di Nicolò e
d'Alessandro II o del suo magnanimo succeditore? Dove oggidì le fazioni
che si accoltellano e uccidono sulle piazze per tirare a sè col sangue
civile la elezione d'un papa? Dove oggi il concubinato del clero, le
simonie cotidiane, la feudale oltracotanza che invade il tempio santo
di Dio, e trasforma i prelati in baroni e le badie in castelli? Dove
la generalità dei preti e dei monaci oppressa e tiranneggiata dai
Vescovi fatti principi, e sì potenti divenuti di terre e vassalli,
che rendevano necessaria in Gregorio VII quella specie di dittatura,
e quelle arti medesime di cui più tardi usarono tutti i monarchi per
isciogliere e disfare le aristocrazie? Rispondo (se mi si concede
lingua), che i corpi morali infermano siccome i fisici di malattie
strane e diversissime infra di loro, ma pur simili in ciò che annullano
con effetto uguale la sanità; e posto che sieno gravi ed assai
radicate, ricercano pronto ed eroico rimedio. Nella età d'Ildebrando e
d'altri che il precedettero, il Papato ammalava d'ardente e acutissima
febbre; oggi è infermo di languore e di cascante vecchiezza. Roma
allora farneticava, oggi decrepita bamboleggia. L'un caso è dall'altro
differentissimo; ma in entrambi fanno mestieri farmachi vigorosi e
solleciti, sebbene di diversa natura e virtù.

Che manca ora al discorso? Certo, che si dimostri il vero di tanto
decadimento. Ma per gli uni è cosa manifestissima; per altri non
basterebber volumi a provarlo, perchè il vero che s'odia, quanto più
splende, con più sfrontatezza è negato. Fra le due schiere avversarie
rimangono molti non preoccupati e però imparziali, ma poveri di notizie
e impazienti di far ragguaglio minuto ed esatto fra tempi e cose tanto
diverse e lontane; e ad essi un compendio appunto di quelle notizie
tornerebbe, io credo, gratissimo e profittevole. Lasciatemi, dunque,
o Signore, delinearlo per sommi capi e com'io l'intendo. Userò parole
da storico, e forse più magistrali che una lettera non comporta; ma da
niuno scrittore e con nessun'arte si può combattere le necessità del
suo têma. A comparazione, poi, della vasta materia, sarò brevissimo.
Darò dei fatti poc'altro che un giusto elenco, ma tutti veri e
palpabili; quindi sufficientissimi a costruire buona dimostrazione.


IV.

Da chiunque conosce fiore delle storie ecclesiastiche verrà confessato,
che in tutta quasi la età di mezzo nessuna maniera di potenza e nessuna
specie di grandezza civile conobbe il mondo, la quale non rilucesse
in massimo grado nel Pontificato romano. E può dirsi anzi, che la
civiltà tuttaquanta foggiavasi allora e informavasi unicamente delle
fogge e forme che le porgeva la cattolicità, e però i capi supremi di
questa. Ai dì nostri, per contrario, è visibile che alcune di quelle
potestà e maggioríe sono affatto scomparse, e in tutte le rimanenti
è precipitosa declinazione; quando pure non se ne voglia eccettuare
quella tendenza perpetua della Roma papale, a ridurre di più in più
il reggimento della Chiesa a stretta forma di monarcato. Nel che io
concedo Roma non essere declinata; ed anzi, i modi del suo governo
tenere assai più del regio e dell'assoluto quest'oggi, che non ai tempi
(poniamo) d'Ildebrando e di Bonifacio. Perchè, sebbene ai giorni loro
niuno sospettasse dell'autenticazione e veracità delle false Decretali,
e tuttochè le sentenze d'un libro che ascrivesi comunalmente a Gregorio
VII[48] ricevessero confermazione dalla Sinodo ch'egli convocava appo
sè in Laterano nel 1076, e ponessero con ciò il colmo all'autorità dei
pontefici, così per la giurisdizione come per gli uffizj nell'Ordine;
purnondimeno confuse e mal definite e dubiamente applicate si
rimanevano in molta porzione quelle dottrine, e vi ostavano tuttogiorno
usanze e possessi antichi, privilegi e prepotenze di principi. E però,
all'arbitrio pieno ed incontroverso che le più volte esercitavano que'
pontefici nel reggimento della Chiesa, si vuole assegnare per cagione
principalissima l'altezza di mente, l'energia propria e fortunata
di parecchi di loro; e la ignoranza, lo scompiglio e la dissoluzione
estrema dei tempi.

Non vi sia di tedio, o Signore, lasciarmi alquanto discorrere questa
materia in cui giova insistere per maggiore dichiarazione del nostro
subbietto.

Dico, dunque, che il dominio assoluto dei papi trovò conferma e
sanzione solenne più tardi, e particolarmente dalla Sinodo tridentina,
la quale nol contradisse, e, fuori assai dell'aspettazione comune,
contradisse invece le massime ristrettive dei concilj di Costanza e
di Basilea. Vero è che alquante cose ne tagliò e corresse; ma con ciò
appunto a tutto il gran rimanente pose suggello, e stimò di rimarginare
le piaghe mortali aperte nel Papato dalla servitù avignonese e dallo
scisma durato non meno di quarant'anni. Più modernamente non sostenne
quel dominio assalti e guerre pericolose; imperocchè le dichiarazioni
del clero francese nel 1682 non vennero dall'Europa imitate, e
l'opposizione di Porto Reale affogò nella teologia.

A me non compete il giudicio del fatto. Ma sembrami utile assai che
il mondo se ne ricordi, e si noti con più diligenza il trapassare
che à fatto la comunione cattolica dagl'istituti (come in politica si
direbbe) popolari e misti, a quelli di monarchia poco meno che intera e
arbitraria.

A coloro cui mette spavento l'udir parlare di mutazione e di novità
nella Chiesa, io maraviglio forte come non faccia alcuna apprensione
nè svegli alcun dubio questa verissima e sostanzialissima alterazione
insinuatasi nell'orbe cattolico. Per fermo, ei non negheranno che
l'elezioni de' vescovi a popolo da prima si diradassero, e poi si
stringessero all'ordine solo dei preti, più tardi ai soli capitoli
delle cattedrali, e da ultimo cadessero tutte o in mano al pontefice,
ovvero in mano de' principi, con ciascuno de' quali (rimosso ed escluso
affatto il popolo e il clero) patteggia quegli di pieno arbitrio e
stipula i concordati: il cui primo esempio infelice quello fu tra Leone
e Francesco I, ove molto guadagnò il papa, moltissimo il re, e perdè
invece ogni cosa il clero, usato a richiamarsi ai principj e ai diritti
della Prammatica sanzione.

Per simil guisa, come in principio ogni vescovo perveniva alla
risoluzione de' negozj con l'ajuto e consiglio del presbiterio suo;
e i Patriarchi, i Primati e i Metropolitani, con quello dei Vescovi
suffraganei e de' Sinodi Provinciali e talvolta de' nazionali; e il
Papa, infine, con l'assistenza, autorità e consultazione di tutti essi:
in decorso di età, i vescovi pigliarono avviso o dal proprio senno
o dai mandamenti di Roma; e i papi, sempre meno solleciti di adunar
concilj, e raccolta ogni potestà consultiva nel Collegio de' cardinali,
terminarono col non molto inclinare ed attendere a questo medesimo, non
ostante i capitoli ristrettivi e severi giurati innanzi da Martino V e
da Eugenio IV, poi da Paolo II, e da talun altro lor successore. E dove
peraddietro ogni faccenda di momento deliberavasi in Concistoro, e si
pubblicavano le risoluzioni come fatte _de consensu Fratrum_, oggi quel
consentimento o non è domandato, o vien presupposto, o piglia valore
ed uso di cerimonia. Oltre di ciò, il titolo arrogatosi dai pontefici
di patriarchi d'Occidente; le riserve senza misura moltiplicate; le
cause avocate a Roma da tutte parti del mondo; i legati nelle provincie
spediti con facoltà imperiose e superlative; le fraterie dall'obbedire
agli ordinarj esentate; le dispense copiose e gli innumerabili
privilegi e favori che dal Quirinale tuttogiorno provengono,
sottraendo, come può scorgere ognuno, e derogando l'un di più che
l'altro alla giurisdizione propria dei vescovi, ànno altrettanto
aggrandita ed esagerata quella dei papi. La quale, d'altra banda, di
semplice esecutrice e custode di leggi, sembra ascesa e trapassata alla
gran potestà di quelle creare e mutare. E veramente, da lunghissimo
tempo le decretali e le bolle competono di materia, di maestà e di
forza, coi canoni più vetusti e solenni. Il perchè, la legislazione
ecclesiastica, guardata e avvisata negli usi suoi cotidiani e nel
concetto de' moderni, tende a convertirsi in un Editto papale perpetuo,
come di già nel civile l'Editto imperatorio pigliava il luogo dei
Senatoconsulti e dei Plebisciti.

Nè già si nega che questo condursi pian piano il Pontificato a più
stretti ordini di monarchia, fu condizione e incremento naturale di
cose, meglio che arte e ambizione di prelati e curiali. Conciossiachè,
lasciando stare l'altre ragioni, ei si fa manifesto per sè medesimo,
che in un gran corpo sociale composto di membra diverse, interessi
discordi, comunità orgogliose, superiori gareggianti, appena scema e
rallentasi quella caritevole unione che le virtù e lo zelo primitivo
ed eroico annodarono, bisogna o correr pericolo di scissure e
dismembramenti, o che cresca e pigli nerbo una forza interiore,
unitrice e moderatrice. E tanto è ciò vero, che al forse smoderato
predominio papale, ognuno, dopo lo scisma germanico, cedette luogo,
e lo reputò salutevole e necessario, singolarmente in Italia, fatta
provincia spagnuola, e dove il Papato serbava ancora alla nostra
nazione alcun titolo di preminenza. Io voglio unicamente notare fra
voi e me, che per lo stesso naturale procedere delle cose, la potestà
monarcale, ed anzi ogni potestà di governo, sia in uno o in pochi o in
tutti raccolta e compiuta, rischia di disfarsi e perire tuttavolta che
a sè medesima non procura un limite, una competenza ed un sindacato. E
si affermi pure, che il pontificato romano non possa disfarsi e perire;
può nondimeno infiacchirsi e scadere, e tutti i danni e gli sfregi
patire della infermità, della decrepitezza e dello scredito universale.
E però, con gran senno parlava quel vescovo di Granata ai Padri di
Trento, che s'egli con ardore venia fiancheggiando i diritti e le
giurisdizioni dei vescovi, ciò era appunto perchè volea salva e integra
in futuro l'obbedienza e l'ossequio de' popoli inverso la Santa Sede.
Per fermo, se al presente travagliare della Roma spirituale sono da
attribuirsi altre molte cagioni oltre l'imperio di lei eccessivamente
assoluto, questo, per lo meno, la reca ad un'accidia e ad un languore
funesto ed immedicabile, e rendela insufficiente ad ogni gran gesto,
e incapace per niuna guisa di restaurarsi e di rifiorire. Attesochè
non ferve la vita e non si mantiene rigogliosa e operante laddove
alle facoltà e doti de' valentuomini non è lasciato libero spazio e
sicuro; nè dove i premj e gli onori poco dipendono dalla virtù e molto
dal patrocinio; e dove, alfine, tutto si compie o col regolo di viete
prammatiche o col maneggio de' cortigiani.


V.

Non accadono molte parole a mostrare la depressione estrema e finale di
Roma a rincontro delle potestà civili del mondo. Cominciò il Papato con
assai modestia e prudenza, vivendo a quelle sottomesso e obbediente,
pure allorquando assalivano ed invadevano alcuna libertà vera e
legittima della Chiesa: testimonj que' Cesari che nei negozj conciliari
e nelle discipline clericali più del debito s'intramettevano. Dal
che appare, che mentre con gli anni, migliorandosi la fortuna e
crescendo le forze del Pontificato, si pensò di mescolare la facoltà
ecclesiastica con la civile, e rendere questa grado per grado suddita
a quella; ne' primi secoli, invece, lo sforzo e l'ambizione de'
papi stringevasi tutta a dividere quant'era possibile l'un potere
dall'altro: e Papa Gelasio affermava, opera di Gesù Cristo essere la
lor divisione, e del Diavolo il lor meschiamento. Disfacendosi, poi,
d'ogni lato l'impero orientale, e quello dei barbari smembrandosi in
minuti regni, mantennesi il Papato per molti anni indipendente ed
illeso ne' proprj officii spirituali. Alzò la speranza e l'ardire
con le sacre dei re e de' nuovi Augusti, abilmente intervenendo ad
autenticare diritti dubiosi ed incerta legittimità di possesso. In
tal guisa pian piano ascendendo, e vinta più tardi la lite pertinace
e terribile delle investiture, trovò in fine arbitrio di sentenziare,
ch'egli era principio e fonte d'ogni potestà eziandio politica e laica,
e Cesare stesso ricavare da lui l'origine della propria.

E come in sul primo alla elezione dei papi occorreva l'assentimento
imperiale, nel procedere del tempo fu bisogno invece agli imperatori
di chiedere per sè medesimi conferma e consecrazione ai papi; e quindi
stimarono i popoli, che da solo il consiglio e l'autorità di Gregorio
V venisse in Germania ordinato il modo di eleggere i Cesari, corretto e
sancito dipoi dalla celebratissima Bolla d'oro. Tantochè, Innocenzo III
(spirito alto e magnanimo) negò da ultimo di riconoscere nel Vicario
dell'impero alcuna signorile giurisdizione, se dal pontefice non n'era
investito e dalle sacerdotali mani non ne pigliava le insegne.

Magnifica esaltazione fu questa, ma non duratura; e Bonifacio VIII,
che del generale e rapido mutar dei pensieri non ben s'avvedeva,
lottando con Filippo IV di Francia, cadde nel conflitto e trascinò seco
l'universale teocrazia; la quale mai non potè riaversi della guanciata
sacrilega e vile del Nogarette. Non la guarirono di quel colpo le
sottili teoriche del Bellarmino e della scuola di Salamanca intorno al
giure divino e sociale; non le ristampe e promulgazioni reiterate per
tutta Europa, e massime da Pio V, della bolla in _Cœna Domini_. Essendo
principalmente che re e signori, senza destar rumore e mover querele,
si difendevano e schermivano abilissimamente, negando alle stampe e
alle intimazioni di Roma il _placet_ e l'_exequatur_; e in quel mentre
stesso che commettevano ai giuristi di corte di far valere appresso
la pontificia segreteria l'escusazioni o i privilegi o i diritti di
lor corone, minacciavano di prigione e di forca il primo prete che ne
zittiva. Tanto poco furono meritati i pontefici di essersi posti in
lega strettissima col principato, abbandonando quasi al tutto la causa
de' popoli, e di guelfi facendosi ghibellini, e sforzandosi con gran
zelo di far sentire ai monarchi quanto necessario era di accordarsi
bene insieme, e mettere impedimento alle novità temerarie che d'ogni
banda prorompevano.

Così declinarono rapidamente nel mondo cattolico l'idea e la pratica
dell'universale teocrazia: benchè la corte di Roma ne venisse poi
con diligenza, industria ed ostinazione incredibile, conservando e
ristorando parecchie parti, le quali sminuzzate e particolareggiate
sotto nome e titolo di giurisdizioni ecclesiastiche, le davano ad
ogni poco buona entratura nelle faccende temporali dei regni; e con lo
Stato civile, con le cause miste, con le dispense, con le clausole dei
concordati e con simili altri intermettimenti, ella occupava per tutto
e sempre una porzione notabilissima sì del dritto publico generale e sì
dello speciale e proprio di ciascun popolo.

Ma verso il mezzo del secolo andato, le cose cambiarono e si
rinvertirono di maniera, che l'ingerimento indiscreto e illegittimo,
e la voglia immoderata d'usurpazione passò di nuovo, e con molto
minore scusa, dai pontefici ai principi. In mano di questi ridotto
l'eleggere i vescovi, e dispensare altri ufficii e onori da chiesa;
abolite le immunità; cacciati a forza i Gesuiti; soppresse in più
luoghi le mani morte; imposte regole al noviziato monastico; vôtati più
conventi e distribuítone altrui l'avere; sottomessi a forza i frati
alla giurisdizione de' diocesani; annullate le decime; salariato il
clero; occupata in gran parte la collazione de' beneficj; dappertutto
aggravata la suggezione del sacerdozio alla autorità laicale; un
pontefice vecchio méssosi in lungo viaggio e, contra tutte usanze,
venuto egli stesso a Vienna ad implorare da Cesare di non più oltre
manomettere le facoltà e i diritti della Chiesa Lombarda ed Austriaca,
e tornatosi inesaudito: e ciò tutto avanti del gran conquasso che i
rivolgimenti strani e vertiginosi di Francia recarono alla fiacca e
logora Europa. Confesserò bene che i tempi sembran da capo mutare,
e appresso molti governi si va moderando il proposito antico di
assoggettare la Chiesa allo Stato. Ma ciò accade per virtù d'un
principio avversato ed astiato oltremodo dalla Curia Romana, ed i
cui medesimi beneficj le sono sospetti e le san d'amaro. Io intendo
discorrere sì delle libertà politiche, e sì di quella preziosa ed
inviolabile, che domandano di coscienza. La massima odierna si è, che
il comando civile non penetra negl'intelletti e nelle coscienze; e però
essendo la Chiesa nella sua vera sostanza una spirituale potestà che
non dee voler dominare salvo che ne' cuori e negl'intelletti, e con
forze prettamente morali e persuasive, lo Stato non à ragione nè titolo
alcuno d'inframmessa e d'impero nei negozj di quella. Concetto santo
ed alla religione medesima salutifero; ma Roma non se ne accomoda, e
i frutti buoni che or ne coglie, teme di dovere scontare più tardi a
grandissimo prezzo. Nè in tali apprensioni e paure ella piglia inganno.
Chè, per lo vero, il termine ultimo della libertà di coscienza è
pareggiare innanzi allo Stato e alla legge tutte le confessioni e i
culti cristiani, e far trapassare la Chiesa Cattolica dalle ampiezze e
privilegi del dritto pubblico che ancor le rimangono, alla modestia e
alla ugualità del dritto privato, come alla Chiesa Cattolica Americana
di già interviene. Per fermo, le attinenze varie e gelose e le
mutue obbligazioni tra Chiesa e Stato, che al presente sono dubiose,
implicate e in contesa acerba ed interminabile, diverrebbero allora
nette, piane, agevoli ed accettabili d'ambo i lati. Ma il Cattolicesimo
dovrebbe, in tal presupposto, maggioreggiare per virtù e luce soltanto
di sua dottrina, e per l'efficacia degli esempj e dell'opere. Al qual
cimento andranno fidanti e sicuri gli schietti e mondi e fervorosi
cattolici, ma la Curia romana vi andrà trascinata e come la biscia
all'incanto.

Io penso che da voi e da qualunque discreto lettore sarò prosciolto
affatto dall'obbligo di provare lo scadimento compiuto ed irreparabile
del potere temporale dei papi. Chi dice di nol vedere, o s'infinge,
o è talpa dell'intelletto, o vive fuor del mondo e del secolo. Oggi
più che mai sta vero ciò che il Machiavello scriveva, trecent'anni or
sono; cioè a dire che _il papa à Stato e non lo difende, à sudditi e
non li governa_. Ma più non è vero quel ch'ei soggiungeva, e cioè che
_li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, nè pensano
nè possono alienarsi da lui_. Oggi se ne curano tanto, che per fuggire
lo sgovernato regno de' chierici, darebbersi in braccio, io stava per
dire, al Russo od all'Ottomano; e stimo che non si dia fra le nazioni
cristiane un reggimento, e così odiato insieme e così spregiato: però è
debolissimo e disordinatissimo. Nè senza l'armi de' forestieri può star
su in piedi, ed esso le accetta insieme e le abborre con tutta l'anima;
onde particolarmente fra l'Austria e lui sembra da lunghissimi anni
durare l'un di que' patti che le leggende raccontano essere più d'una
volta seguiti tra l'uomo e alcuna potenza infernale, con iscambievole
necessità e detestazione. Quanti passi à fatto il mondo in questi
ultimi tempi nella scienza delle leggi e nell'arte del governare, di
tanto s'è lasciata scoprire la inabilità e inettitudine dei prelati, la
quale ora è veramente spettacolosa all'Europa. Nessuno poi (stimo io)
può indursi a credere che ciò non sia effetto insieme e cagione assai
ponderosa dell'affrettato e continuo abbassare del Vaticano. Nè la cosa
è mai per mutare: e sappiano i Diplomatici, qualora ei s'infingessero
d'ignorarlo, che niuna loro industria, preghiera, esortazione ed
ammonizione trarrà il governo ecclesiastico a qualche termine di bontà
e di saggezza civile e politica; ed i suoi sudditi continueranno senza
posa ed interruzione ad impoverire, e la plebe ad ingaglioffarsi, e
tutti a scadere più sempre e miseramente in ogni qualità e modo del
vivere privato e publico.

Le investiture de' beneficj; le possessioni e ricchezze de' monaci,
fautori naturali e propagatori dell'alta balía dei papi; i feudi
e principati ecclesiastici, sparsi segnatamente per la Germania; i
tribunali di mista giurisdizione; la Santa Inquisizione, e simili
altre forme e maniere di potestà, io son dubioso di rassegnare tra le
temporali prerogative di Roma, ovvero tra le spirituali. Ma, di qua
o di là che si pongano, questo permane certo, ch'elle sono privilegj
e mezzi di forte e generale dominazione, i quali scemano e scapitano
tutto giorno, e a non lungo andare ne rimarrà piuttosto la memoria che
il fatto. Di feudi ecclesiastici e della Santa Inquisizione non è più
vestigio, eccetto che in Roma; delle giudicature miste sussistono assai
pochi avanzi. Nelle principali provincie della cristianità, le frateríe
(come testè si accennava) o soppresse o de' beni loro spogliate, e le
ancora esistenti, voi le scorgete senza credito e senza valor morale, e
ignoranti e goffe la maggior parte. Nè Roma in sì lungo spazio à saputo
correggerle, addottrinarle, rigenerarle e renderle fazionate agli abiti
nuovi e alle nuove tendenze del secolo. Sopra che io dico: avvi egli
dimostrazione di vecchiezza e discadimento più chiara di questa, che
il pontificato o non s'accorga o stiasi inerte ed inoperante a veder
calare e discreditarsi per ogni luogo queste sue milizie e colonie,
mandate un giorno insino agli ultimi termini della terra, e per mezzo a
tutte le genti, a predicare la maestà del suo seggio, e la gloria della
sua corte?


VI.

Ma la declinazione maggiormente esiziale al papato, e men comportevole,
è quella accaduta nell'autorità e nella preminenza morale e civile;
perchè interviene in subbietto più sostanziale, e proprio dell'essere
suo. E per fermo, d'una potenza per al tutto immateriale e signora
degl'intelletti e degli animi, è peculiare, innanzi ogni cosa, il
dirigere ed informare i costumi, la scienza e l'educazione, e comporre
e lumeggiare altresì nelle menti la ragione guidatrice e sovrana del
vivere sociale.

Nel fatto, quantunque volte o il durare degli scismi, o l'imperversare
delle fazioni entro Roma stessa con lunghe stragi e abbominazioni,
non troncarono affatto i nervi al papato, e non gli tolsero di far
sentire diuturnamente e con efficacia l'azione sua, questa si spiegò
vigorosa e mirabile in ciascuno dei subietti testè mentovati, e riuscì
splendida e prevalente, benchè non sempre pura e lodevole, nè ben
condecente al carattere augusto del sacerdozio e agli spiriti del
Vangelo. Voi sapete le storie, e una lettera non le può raccontare.
Basti che riandiamo l'epoche e le date più insigni; e l'indole
diversa dei fatti paragoniamo. La vera e pienissima primazia morale e
civile, che Gregorio Magno (torna volentieri la penna a quel venerando
Gerarca) e alcuni avanti e dopo di lui mantenevano in Italia e fuori,
per ispontanea riverenza e adesione de' popoli, dimostra appunto
quello che possa la religione, praticante con senno la carità civile,
e incorporandosi con le arti e la sapienza del viver comune. Così
accadeva, come notammo più sopra, che Gregorio, sfornito di principato
e d'eserciti, conseguisse l'effetto medesimo che se stato fosse signore
d'immenso imperio. Laonde lagnavasi egli con parole d'oro, che meno
desiderava occuparsi nelle faccende secolaresche, come importune e
disformi all'apostolico ufficio, più gli si moltiplicavan tra mano.
Fatto è, ch'egli, il santissimo uomo, col senno migliore che portavano
i tempi infelici e inselvatichiti, riparava alle carestie, combatteva i
contagi, armava i popoli contra i barbari, il furor di questi placava,
ottenévano tregue e trattati di pace. Qualche parte ancora della latina
magniloquenza risuonar facea nel suo stile; ornava i templi ed il culto
di belle pompe, e di nuove ed austere armonie, che da lui pigliarono
il nome. Per sè e intorno a sè, lautezze e grandigie di corte non
conosceva; e mitemente querelavasi con alcun suo castaldo, che l'avesse
proveduto d'un sì sconcio palafreno, che cavalcar nol poteva senza noja
e disagio. Imbattutosi un giorno in certi schiavi d'Ibernia, e forte
ammirato di lor belle fattezze e bianchissime carni, fermò il proposito
di render cristiana ed ingentilire tutta Britannia. E quella contrada
fu convertita; e per lui e per alcuni suoi successori tante semenze di
buoni studj, e massimamente di lettere greche, vennero quivi trasmesse,
che tutta la sopravegnente barbarie d'Europa non le aduggiò, e Beda e
Scotto d'Erigene ed Alcuino ne fanno prova.

Di quello che il pontificato valesse, a rispetto della civiltà,
sorgendo pian piano, e durando colma e gloriosa la teocrazia (e,
poniamo, da Adriano I a Innocenzo III), quasi non fa mestieri tener
discorso, perchè la notizia n'è ormai volgare; e in questo secolo
ragionatore ed incredulo, la storia più di rado commette ingiustizia,
ed ànno gli scrittori avuto senso e intelletto vivissimo dello
smisurato animo e degli altissimi intendimenti di alcuni papi, altre
volte disconosciuti e frantesi. Al presente, accordasi ognuno a credere
che quella, diremmo, dittatura in istola ed in cámice, fu rimedio
e schermo terribile ma pur salutare contro alla feroce e superba
ignoranza dei barbari. Per quella lo spirito disarmato comandò alla
materia, e l'ingegno domò la forza, e in mezzo agli istinti ciechi
e disumani della conquista, rampollò l'idea del vero e del giusto:
per la teocrazia il poco di scienza rimasta agli Occidentali scampò
nelle scuole dei monasteri, e molti avanzi della civiltà latina
durarono, e il giure canonico, di romano giure impregnato, prevalse al
crudele diritto feudale. Per quella a cagioni infinite di slegamento
e contesa, e alle disgregate e minute sovranità dei Teutonici, fu
contrapposta la grande unità cristiana, il diritto collettivo d'ogni
sorta congregazioni, e il vivere e il deliberare a comune: per quella,
in fine, alla schiavitù rinnovellata sotto nome di vassallaggio, posero
freno e compenso le franchigie ecclesiastiche, e qualunque grado e
altezza di gerarchia mantenuto accessibile a tutto il popolo.

Non fu adulazione e lusinghería chiamar da Leone il secolo d'oro
delle lettere e delle arti nuove italiane, se con quel nome si volle
contrassegnare la Roma pontificale che apparve e fiorì, mettiamo, da
Nicolò V a papa Boncompagni od a Sisto V. Perchè forse nessuna città
dominante primeggia e sopravanza oggi tanto le altre per civiltà
e splendore di lettere, di quanto Roma in que' giorni eccedeva il
rimanente d'Europa, in gentilezza di arti, eleganza di vita, varietà
di sapere, copia e peregrinità delle cose ajutatrici degli studj;
nè in Italia medesima Firenze e Venezia potevano starle a petto. E
ancora che prevalesse il culto del bello, la filologia e l'erudizione,
nessuna parte ragguardevole dello scibile era trasandata, nè avuta in
sospetto (innanzi almeno allo scoppiare della Riforma), nè impedita
di speculare con ragionevole libertà il proprio subbietto: siccome
vedesi (a citar pure un esempio) dall'opera del Copernico dedicata ad
esso il pontefice, e dove l'antico sistema di Filolao veniva rifatto e
spacciato per vero; il medesimo che poi condusse Galileo nelle prigioni
del Sant'Officio. Ed ognun sa che infino all'anno 1549 stampavansi
le opere del Machiavelli, e publicavansi per l'Italia con ispeciali
privilegi della corte romana. Poi le proscrisse sì fattamente, che
sempre da ogni licenza del leggere libri inibiti venivano escluse.


VII.

Dopo ciò, se dal raccogliere insieme e dal contemplare questi tre
aspetti, ed epoche grandi e solenni della civiltà e gloria papale,
voi conducete, illustre Signore, lo sguardo sugli ultimi anni e sugli
ultimi concetti e proponimenti del Valicano, una grave maraviglia e
una secreta pietà, non vi stringe egli il cuore, in pensando a che
novissimi termini di decadenza sia trapassata la più insigne, al
sicuro, e più veneranda e magnifica delle istituzioni apparse sul
mondo? Nè solo è venuta in fiacchezza e in decrepità, ma, per mio
sentire, giacerebbesi affatto spenta e annullata, e incapace di uscir
del sepolcro, quando l'alito vitale del cristianesimo e la virtù
delle tradizioni quel moribondo corpo non sostentasse. Imperocchè,
per ragioni diverse e sotto molti diversi riferimenti, sempre torna
adatta a Roma la novelletta del Giudeo convertito, che il Certaldese
raccontava cinque secoli fa.

Dinanzi all'ultime sollevazioni delle Romagne, s'accorgeva egli il
mondo, che v'à il papato, salvo che per le continue renitenze o censure
con cui si sforza di contrastare al general moto degl'intelletti
e all'affrancamento de' popoli; e nega e sconosce pressochè tutte
le sembianze e gli abiti nuovi del viver civile? Qual ingerimento
paterno, accetto, eminente e degno del sacerdozio, esercita Roma a'
dì nostri ne' gran negozj del mondo? In quali è chiamato arbitro e
giudice il papa? Avvi potentato, avvi popolo che si comprometta in lui?
Avvi guerra nessuna da lui impedita, discordia civile cessata, patto
di tregua e di pace concluso? Trovo che l'ultimo atto d'intervento
efficace della potenza papale, fu sul cadere del secolo sedicesimo,
rappattumando in Vervino Francesi e Spagnuoli. Non molto dopo, nel
trattato di Vesfaglia, comecchè vi fossero mescolate materie gravissime
di religione, i nunzj pontificj non valsero con nessun'arte a mettere
le negoziazioni nella via desiderata e segnata da Roma, ed ella se
ne querelò e protestò senza frutto. Alla pace de' Pirenei, Mazzarino,
quantunque prete e cardinale di Santa Chiesa, rifiutò i benigni ufficii
offertigli dal pontefice; e nel trattato di Utrecca non parve insolente
e indebito ai contraenti il disporre a lor modo d'alcune provincie
reputate soggette e tributarie di Roma, senza pigliare accordi con lei,
e nemmanco far menzione de' suoi diritti.

È strano eziandio e maraviglioso, che quella medesima potestà la qual
sommoveva e tragittava, unite ed armate, d'Europa in Asia poco meno che
intere nazioni; e sconfitte di poi nelle guerre, e dalla fame mietute
e dalle pestilenze, persuadevale tuttavia a ritentare l'impresa, oggi
non possa allegare un sol fatto notabile per cui si dimostri, com'ella
riesca pure almeno a proteggere con successo le genti cattoliche,
ovunque o gl'infedeli o le Chiese eterodosse le opprimano; ed anzi in
que' luoghi stessi di antico pellegrinaggio, e ch'erano fine e cagione
delle Crociate, cresce di dominio e ricchezza il culto scismatico, e
soprafà ed ingiuria il culto latino.

Scorrete in altra materia; ponete l'occhio alle missioni che Roma al
presente prepara ed invia dal grembo suo, e subito vi verrà veduto la
estrema inferiorità e tepidezza loro, a comparazione dei tempi andati;
e i veramente grandi e portentosi concetti e disegni di Propaganda
scorgerete cadere in incredibile parvità; e quella sua stamperia
poliglota (per toccare un solo particolare), che fu prima ed unica
al mondo, non à quest'oggi caratteri da pubblicare una pagina di
sanscritto. Nè già potrebbero i papi scusarsi e piangere come l'antico
Alessandro, che manchi oggimai lo spazio alle sante conquiste loro. Di
dieci centinaja e più di milioni di uomini che nudrisce la terra, un
quarto solo sono cristiani. Ma l'ambizione di Roma sembra oggi rivolta
a ben altro proposito, che di recare ai barbari ed agli idolatri la
luce dei Vangeli, e l'umanità di nostre arti e costumi.

In mezzo ai traviamenti del secolo che trascorriamo, assentirete,
o Signore, che questa lode gli rimane interissima, di avere con
la scienza e le istituzioni moltiplicato ed illuminato le publiche
beneficenze, preso cura speciale dell'educare le moltitudini, cercato
alla povertà loro ogni possibile compenso, trovato con fina industria
copiosi conforti agli stenti e tribolazioni delle infime plebi. Avvi
cosa al mondo più degna e illibata, sollecitudine più cristiana, fatica
e studio al supremo sacerdozio meglio dicevole? Ma in questa sì bella
ed intemerata pagina della storia moderna incontri tu mai il nome del
papa? Delle nuove e tanto ingegnose e caritatevoli forme di comune e
privata beneficenza, àvvene una soltanto scoperta e iniziata in Roma, o
presto almeno e vivamente caldeggiata ed esercitata? Le sale d'asilo,
le sale d'allattamento, le prigioni e i metodi penitenziali, le casse
dei risparmj, le società di temperanza, quelle di mutuo soccorso, le
infinite miglioranze recate ad ogni maniera di ricoveri ed ospedali? Un
secolo e mezzo addietro, cadde in pensiero a Clemente XI di chiudere
in luogo abilmente ordinato al lavoro e alla correzione i giovinetti
discoli e abbandonati, e così camparli dai delitti e dall'ultima
corruttela. Pietoso e civile concetto insieme; il quale se fu poi per
altri l'occasione e il germe dei metodi nuovi penitenziali, non so;
ma questo io so bene, che quel germe fruttificava in pressochè tutta
l'Europa e l'America, eccetto che in Roma.

Infine, la scienza, che è tanta porzione di civiltà, ed anzi è scorta
e lume continuo suo; la scienza, già patrimonio del chiericato sì
particolare e proprio, che laico venne a significare inculto ed
illetterato; la scienza, dico, rinverdita primamente e riordinata
sì nelle scuole dei teologi e sì nelle università degli studj,
rette e corrette in ogni parte del mondo da bolle e prammatiche di
pontefici,[49] a che termini sta ora nelle lor mani, e come risponde
ai progressi e alle ampliazioni degli ultimi secoli? Qui la decadenza
corre agli occhi d'ognuno, ed è tale e sì deplorabile da non ottener
fede il discorso, salvo che da coloro i quali furono e sono testimonj
del danno e della vergogna. Penso che basterà il dire che Roma, non
ostante gli stranieri visitatori, l'intelligenza svegliatissima de'
suoi cittadini, e quel popolo d'artisti che vi dimora a studio de'
monumenti, è ormai divenuta la metropoli più ignorante d'Europa, e la
men fornita di ciò che occorre agli svariati incrementi del moderno
sapere. Nell'università sua, poco degna davvero del borioso titolo di
Sapienza che porta, si desidera per lo meno la metà delle cattedre che
ne' più culti paesi e nelle scuole meglio ordinate stimansi oggi non
che opportune ma necessarie a compiere lo ammaestramento delle morali,
delle fisiche, del diritto, della medicina e della storia; senza
voler qui sindacare i metodi falsi e le viete dottrine insegnatevi,
e il modo incredibilmente strano ed illiberale con che tutta insieme
quella istituzione vien moderata e disciplinata. Da voi non s'ignora
che sebbene il trovato (io doveva dire il miracolo) della stampa
accadesse di là dall'Alpi, Roma entrò innanzi a tutti in lodarlo e
in dargli ricetto, e volle giovarsene largamente e sollecitamente. Oh
gran mutazione di tempi e di uomini! Oggi quel che si imprime di libri
e di giornali in Roma, ragguagliato alle più dotte città straniere,
sta, senza timore alcuno d'amplificazione, siccome uno a cento; e
nelle pubbliche biblioteche trovi appena uno su mille de' buoni volumi
moderni, e agli antichi assai poca gente pon mano. Nè in altra guisa
può andar la bisogna colà dove ogni scritto e libro è cacciato tra le
filiere di tre censure, l'episcopale, la politica e la fratesca del
Sant'Officio; dove nell'encicliche più solenni chiamasi _detestanda_ la
libertà di stampare; dove fu proibito per lunghissimi anni il vaccino,
e tuttora è proscritto l'insegnamento della publica economia; dove
l'Inquisizione (or fa poco tempo) non dubitò di riprovare e dannare con
espresso decreto le sale d'asilo; e non volevasi testè udir parola di
strade ferrate; e chiunque osato avesse di condursi a que' congressi
scientifici, che Ferdinando stesso di Napoli avea tollerato nella sua
città e fatto vista di carezzare, veniva rimosso o dalla cattedra o
dall'impiego, se l'uno o l'altro tenea dal governo.

Durassero quivi almeno fiorenti e profondi gli studj sacri, quanto
furono altra volta, e quanto sembra domandare non che il decoro e
la dignità, ma il debito e l'interesse medesimo di quella gran sede
del mondo cattolico! Nè io dirò che in veduta elli sieno scarsi
e leggieri, o sia picciolo il numero degl'insegnanti, o poca la
frequenza ed assiduità de' discepoli. Ma dagli effetti cotidiani può
ben giudicare ogni uomo sensato, che in quegli studj non è più forza
alcuna inventiva, non robustezza e amplitudine di concetti, non luce
e svolgimento di feconde dottrine, non copia alfine e peregrinità di
filologia e d'erudiziene.

Ma forse voi vi maravigliate della mia maraviglia. Dove non ásola
un minimo fiato di libertà, può l'albero della scienza durar verde e
fruttifero? Per vero, di tutte quelle opere dottrinali ed apologetiche
o sotto altro rispetto fautrici e lodatrici di Roma, le quali anno
in questa prima metà del secolo meritato e conseguito celebrità
universale, neppure una ebbe principio e nascimento nelle scuole
romane, e neppure una pagina e un rigo di esse uscì dalla penna di
quelle insigni congregazioni, da cui si maneggiano colà tuttavia i
più serj negozj e i più gelosi interessi della intera cattolicità.
Frayssinous, Bonald, De Maistre, Haller, Göerees, Schlegel, Stolberg,
Hurter, Lamennais, Lacordaire, Balmes, Chateaubriand, Döllinger, per
tacer d'altri, mai non furono in Roma a dare scienza o riceverla.
Due sommi Italiani arbitrerei di potersi aggiungere a quel bel novero
assai giustamente, e sono il Gioberti e il Rosmini; ma la vita loro
intellettuale sortì l'inizio e il proseguimento, e rendè fiori e frutti
ammirabili in altro terreno ed in altre scuole. Da Roma venne ad essi,
per ciò che sappiamo, una cosa soltanto; la riprovazione e condanna
d'alcun loro scritto.

Se non che, Roma fu inverso l'uno dei due quasi costretta ad essere
ingrata: imperocchè, qual più spiacevole contrapposto e qual ritratto
men somigliante poteva métterlesi innanzi agli occhi, di quello che
le offerse il Gioberti, quando con sì nobil disegno e tinte sì vive
e smaglianti le figurava l'archetipo del primato civile dei papi, e
l'astringeva, mirandolo, a fieramente vergognare di sè medesima? Del
resto, non solo la maggioranza civile dei papi è venuta al niente,
ma la morale autorità eziandio si perde e consuma ogni di, non
ostante che sulla cattedra di San Pietro seggano, da poi la riforma
germanica, uomini per ordinario di santa vita, e d'incolpabili costumi,
e di specchiatissima religione. Ma il chiudersi intorno ad essi e
l'immiserirsi vie più sempre degl'intelletti e dei cuori, e l'avere
il Vaticano aderito imprudentemente allo spirito gretto e muliebre
di pietà e di devozione, che alcuni mistici e i Gesuiti segnatamente
affettano e inculcano, à menato di passo in passo la cosa a questo
infelice risultamento, che il mondo stima esservi ora due moralità e
due devozioni; l'una accettabile ad ogni maniera di oneste, gentili
e istruite persone, propria e comune a tutta cristianità, conforme
ai principj eterni della ragione, e all'ordine vero ed universale
del bene; l'altra involta nelle sottilità dei casisti, sopraffatta
da pratiche puerili, intinta non poco di superstizione, consigliera
di virtù monacali e alla repubblica inutili, servile ne' sentimenti
e negli atti, buona per genterelle idiote e da poco; ed è per appunto
quella lodata e caldeggiata perpetuamente da Roma e da' suoi dottori.
Ciò à fatto, come ognuno sel può vedere, che pure in mezzo ai cattolici
si vada oggimai pensando, la virtù essere meglio imparata ne' libri
degli antichi e dalla nuda lettera dei vangeli, che non dai moralisti
e predicatori di Roma. E rispetto al culto e alle devozioni, è
marcia forza confessare, che in molta porzione di loro forme e di lor
cerimonie la significazione scema e si oscura ogni giorno, e gli animi
ne ricevono una impressione fredda, materiale, e non immune spesse
volte da invincibile tedio ed increscimento.

Non è la moralità cosa angusta e servile; e chi spaura d'ogni libertà
e d'ogni grandezza non può effettivamente e sostanzialmente professare
e insegnar la virtù: conciossiachè, sentenzia un gran moralista,[50]
ogni virtù nostra procede dalla grandezza dell'animo: _ex animi
magnitudine_. Senza dire che le condizioni del principato assoluto, e
gli altri conseguenti del falso sistema che séguita la Curia Romana,
facendola indocile e riluttante al vero e germano spirito dei documenti
evangelici, l'ànno recata bel bello a insegnare e inculcare con assai
minor zelo l'intrinseco della bontà che l'estrinseco, e meglio stimare
la buccia e le fronde, che il succoso midollo e i frutti fragranti e
soavi della pietà operosa e magnanima.

Tornate, o pontefici, alla purezza e semplicità de' costumi antichi
(gridava dal pergamo fiorentino un fraticello di San Marco), e più
nel cuor delle genti non vacillerà la fede e la riverenza inverso di
voi. Certo, all'attuazione di quel consiglio, l'effetto saria seguito
copioso ed universale; e i popoli dimenticavano in poco d'ora le
battiture dello scisma, le turpitudini di Avignone e le umiliazioni
inflitte al papato dai concilj di Costanza e di Basilea.

Per immensa sventura, e segnatamente d'Italia, parve al sesto
Alessandro, a Giulio II, a Paolo IV e ad altri papi di quella età,
partito migliore e più valido la stretta amicizia dei re, il potere
temporale accresciuto, le frateríe moltiplicate, la Inquisizione
ed i Gesuiti. Da quei tristi giorni, il declinare di Roma divenne
precipitoso ed irreparabile; perchè la mente e l'anima vera e vitale
della pietà e dell'incivilimento cristiano non restò con lei, salvo
che in apparenza, e ciascuno di que' mezzi le si voltò in danno e in
vergogna; i re la illusero e la imbrigliarono; il poter temporale le
diè forza per quarant'anni, e tólsele credito per tutti i tempi; le
fraterie finirono incurate o derise, il Sant'Offizio abbominato, e i
Gesuiti non molto manco.

Or finiamo, e al crescere e sovrabbondare dell'argomento si ponga
quella misura che ricercano i termini naturali di questo scritto, e
l'ascoltazione vostra ch'io non debbo nè voglio abusare. E già per
molti sarà riuscita come una scorsa fuor di subietto questo paragone
di tempi antichi e moderni, e questa breve delineazione del tanto
grandeggiare e calare della sedia pontificale. Pure, io non andrò
accusato da tutti coloro (e voi, spero, sarete del novero) i quali
comprendono che ciò che importava di recare a saldissima prova, si è
che l'abbassamento e l'oscurazione continua del papato non è parziale
nè accidentale, non vizia e inferma soltanto l'estrinseche sue
condizioni e le men rilevanti e nobili, ma invade tutto l'essere, ne
storpia gli intendimenti e gli uffici, porta detrimento grave a tutta
la sua dignità, penetra alla viva sostanza, non lascia porzione sana,
non fibra integra e poderosa.

Un molto celebrato scrittor francese, ritraendo al vivo e con
maestrevole stile la bellezza e maestà dei riti pontificali, massime
nei giorni santi e ne' vespri solenni della Cappella Sistina,
ove con sì meste armonie e con sì acconcio apparato esprimesi il
lutto di Santa Chiesa, e lo squallore del tempio per la passione
e morte del Redentore, va eziandio narrando come in cuor suo
quell'ultima e diradata nebbia d'incensi, quei cantori che a poco
a poco s'ammutoliscono, quell'estinguersi di mano in mano dei
ceri, quell'ombra vespertina che cresce ed occupa tutto il luogo,
rendevagli immagine altresì del venir meno e dileguarsi la gloria e
l'oltrapossente grandezza papale. Certo, se il pontificato è gran parte
della Chiesa, e l'intristire o il declinare di quello arrécale sventura
e declinazione, io non so ben quando le sia nato cagione più giusta e
vera di significare il cordoglio suo, e da tutti gli altari, in tutte
le sedi della cristianità levar preghiere e supplicazioni al divino
autore della fede. Imperocchè, non di fuori le son venuti i flagelli,
ma da' suoi figliuoli e custodi; non per guerre e persecuzioni, ma in
seno della pace e della comune obbedienza: _ecce in pace amaritudo mea
amarissima_.


VIII.

Non, dunque, l'amore ordinario del bene e del meglio, non quelle
purgazioni ed emendazioni che a tempo a tempo fa mestieri di compiere
in tutte le cose umane, ma sì veramente la fiera ed irrepugnabile
necessità costringe e sforza a portar mutazione in qualche ordine
costitutivo del sommo pontificato. Ogni altro partito, qual che si
fosse, non ne fermerebbe il gran rovinío; nè cesserebbe Roma d'esser
cagione, o trista occasione almeno, di scandalo e setta nella famiglia
cattolica, e mai non ricondurrebbesi a tale bontà da saper ritrarre,
com'è ufficio suo peculiare, dalle viscere del cristianesimo virtù
spiratrice e riparatrice del mondo moderno. A ciò non poter bastare, vi
dissi, le riforme ed emendazioni del temporale; dovendo elle piuttosto
succedere come effetto, che antecedere come causa; o, per lo men male,
avvenire contemporanee con le spirituali ammende e riforme. Essere
presenti i giorni fortunosi e difficilissimi di Nicolò II e Gregorio
VII, in quanto che al risanare e reintegrare il papato occorrono
prammatiche nove, spedienti animosi, saldo e virile consiglio.

Nè anzi mi tratterrò di affermare, che i tempi odierni ànno a riscontro
di quegli antichi tale disposizione peggiore, e certo di gran momento;
che, cioè, nel secolo undecimo gli occhi soli della Chiesa erano aperti
a vedere ed a piangere i guasti e le sozzure del proprio suo tempio;
laddove oggi ogni cosa avviene sotto l'indagatrice pupilla dell'altre
Chiese cristiane, le quali non si astengono di predicare e trombettare
su dai pinnacoli, che appresso i popoli loro è la fede molto meno
rattiepidita, la moralità più sana e profonda, maggiore senza verun
paragone la dottrina e modestia del clero, e che quivi la religione è
congiunta e amicata ai concetti generosi, e a tutti i rivolgimenti e
progressi civili di nostra età: dalle quali asserzioni ci porgono poi
per riprova, da una parte, lo stato fiorente e glorioso di essi popoli,
come a dir l'Inghilterra, la Prussia, l'Olanda, gli Stati-Uniti; e
dall'altra, la depressione e lo scadimento di quelli, come Polacchi,
Spagnuoli, Italiani, Messicani, dove trionfò potentissimo e signoreggia
tuttora non contrastato il culto cattolico.

Voi m'avete parecchie volte udito affermare, che il clericato romano,
sebben muta i corpi, non muta il genio nè il vezzo, e che le menti e
gli animi vi sono tutti impastojati a una foggia, nutriti d'un latte
medesimo, fatti e formati a un medesimo stampo; laonde in ciascuno di
loro è ferma e tenacissima la volontà di serbare integro e sempiternare
(quando il potessero) quel tal misto d'ambizione, d'interesse e di
santimonia da lor fabbricato, e il quale non si péritano di chiamare
buono e perfetto governo della Chiesa e dello Stato. Quindi è fuor
del possibile ch'entri loro in cuore alcuna voglia viva e sincera di
correggere sè stessi, e innovare in parte veruna le lor condizioni,
e che ritrovino (quando pure il desiderio sorgesse) abilità e forza
proporzionate all'alto proposito.

Ora, i fatti più sopra allegati vi porgono di tale pertinacia e
impotenza una molto chiara dimostrazione. Conciossiachè, insegnano
tutte le storie, che nessun istituto civile, già roso nel suo midollo
e pervenuto a decrepitezza, abbia voglia ed abilità di rialzare sè
da sè stesso; e torna contraddittorio che là proprio dove la vita si
estingue, si rinvengano forze da ristorarla: invece, quelle cagioni
medesime che d'un abbassamento in altro maggiore trascinano con legge
dura e ineluttabile di destino, vietano il riaversi e il risorgere;
e si lo vietarono con l'azione loro incessante e mortifera alla Roma
d'Augustolo, alla Bisanzio dei Paleologhi, e alla Venezia dei Manini
e dei Renieri. Similmente, essendosi da ogni parte di quegli istituti
ritirato lo spirito, e rimanendo delle cose la nuda corteccia, mutare
per loro suona come annullarsi: quindi con severità farisaica vi
sono riformati i più fradici usi, serbate le più vane apparenze,
cresciuto di mille doppj il servaggio; i vecchiumi soli vi ànno lode, e
l'irragionevole ostinazione vi usurpa nome di virtù e di sapienza.

Nè da tale pervertimento e caducità degli umani fatti troviamo
arbitrio nessuno di credere esente il pontificato in ciò appunto che
à d'umano, e nelle sue esteriori e disciplinari disposizioni. Ed anzi
aggiungiamo, che in queste è maggiore necessità o di emendarsi, o di
perire. Avvegnachè, com'elle sono forme finite e determinate, e abito
accidentale e sensibile d'una divina sostanza, loro non è conceduto di
contenerla, e significarla, salvo che parzialmente e imperfettamente;
e alla inesauribile sua facoltà di ampliazione e d'organamento, niuno
dee pensare che riuscir possano in ogni tempo ed in ogni caso adatte,
sufficienti e commisurate. Laonde, chi si ostina a volerle serbare
intangibili ed immutabili, fa sembiante di negare la virtù infinita
del cristianesimo; la quale per ciò che opera sulla terra e nel tempo,
dee necessariamente assumere successione e limitazione; nè altrimenti
può dilatare la sua eccellenza nè le sue maraviglie mostrare, che
seguitando la legge imposta alla perfezione di tutti i finiti, cioè a
dire l'indefinito ed interminabile spiegamento dell'essere proprio.

Le quali tutte considerazioni tenendo io vive innanzi alla mente,
procederò con più stretto discorso alle ultime parti del mio subbietto.


IX.

Le mutazioni debbono esser cercate nè inferiori al bisogno
nè superiori. Debbono alla sostanza delle discipline antiche
ecclesiastiche non solo non contrastare, ma conformarsi
intrinsecamente, e rinnovarne lo spirito quanto l'indole dell'età
nostra il comporta. Debbono eleggersi le più semplici e pronte,
eleggersi tali che si vedano consentire sapientemente ai pensieri
nuovi del secolo; infine, eleggersi le più agevoli, od, a favellare
esatto, le men malagevoli, poichè la cosa di sua natura è tra le
difficili e travagliose. Gli anteriori discorsi provarono, credo, con
abbondanza, ch'elle non possono primamente e direttamente proceder
da Roma, e dovere oggi, com'altra volta, nel corpo cattolico il vital
calore ed il sangue dalle membra estreme salire e rifluire nel capo.
Conciossiachè per le membra scorre tuttora occulta e sottile un'aura di
salute e di vigoria più penetrativa e meglio efficace che nol giudica
il volgo. Dov'io m'inganni e m'illuda su cotal punto, e nemmeno nel
clero inferiore, il qual vince l'altro di sensatezza e di numero, non
sia buona disposizione a ricevere e seguitare le verità che la general
discussione va dimostrando e dilucidando, tutto il restante di questa
lettera confesso che cade e s'annulla.

D'altro lato, non è forse la Chiesa, per propria essenza, la vita
spirituale e comune di tutti i fedeli? Ella è in ogni luogo, e non è
intera in veruna parte; e ciò tutto che piglia sostanza ed autorità
perdurabile in lei, ottenne per innanzi l'universale consentimento,
vogliatelo espresso o tacito, posteriore ai decreti di Roma o
anteriore. Che il pontefice sia _caput Ecclesiæ_, ovvero _caput in
Ecclesiâ_, come sottilmente si questionò, poco importa di definire.
Conciossiachè nell'una e nell'altra sentenza rimane vero pur questo,
che da sè e per sè il papa non è la Chiesa, nè alla Chiesa può
prevalere.

Ma io vo dubitando non forse questo mio lungo proemiare e questo
discorrere alquanto sospeso sieno per accendere in voi una troppa
viva curiosità, la quale io non ò modo alcuno di soddisfare. E per
fermo, egli trattasi unicamente di ricondurre in onoranza e in costume
(benchè solo in qualche porzione e in maniera assai temperata) ciò
che la cristianità intera praticò abitualmente per molti secoli e
in tutte cose; intendo la elezione dei capi e dei reggitori fatta a
suffragio comune del clero, e accettante e plaudente il popolo. Dico
di rinnovarsene l'uso in qualche porzione, e in riguardosa maniera.
Seguite, vi prego, le mie parole, e giudicherete, illustre Signore,
s'io sono quell'avventato e guasto cervello che dicono. Io propongo,
adunque, per lo men male, che in niuna provincia italiana o straniera
si sveglino per al presente le gelosie di Stato; e però prosiegua il
pontefice, prosiegano i principi a scêrre, come per addietro, i pastori
spirituali de' popoli. Taccio similmente di Sinodo universale infino a
tanto che popoli e principi con ardore e concordia non lo richiedano:
il che sarà molto tardi. Ma voglio che dai suffragi del clero
appostatamente adunato in ciascuna provincia, escano tutti coloro a cui
spetta il nome e l'ufficio assai profanato, ma solenne pur nondimeno e
magnifico di cardinale di Santa Chiesa; e voglio, quindi, che il capo
e giudice di tutta la cristiana repubblica venga da tutta essa eletto
mediante que' suoi deputati nel novello Concistoro raccolti.

Il principio elettivo fu anima della Chiesa, e sua legge sovrana ed
universale. I tempi declinando al peggiore, e sempre più temperandosi
ella agli usi e alle fogge regie e feudali, recarono presso che al
nulla quel suo spirito di franchigia e di fratellanza. Ora, il mondo
che in ogni culta contrada esce di pupillo e ricompónesi a libertà, e
in tutte le funzioni civili e politiche e in ogni maniera di magistrati
rimena e dilata la virtù elettiva e forme più popolari di reggimento,
chiede con giusta impazienza di scorgere altresì il principio elettivo
restituito nella repubblica dell'anime e delle coscienze, che è la
Chiesa. Certo, comparirebbe strano ed intollerabile, che il diritto
dell'eleggere fosse durato appo lei ne' giorni ch'era sbandito dalla
città e dal consorzio politico, e non risorgesse al presente che è da
per tutto ricuperato, e in ogni principale esercizio del viver comune è
intromesso ed usato assai largamente.

Queste cose non prima si annunziano, che il buon giudicio universale
le assente, e brillano a tutti gli occhi di verità e di evidenza;
perchè le necessità e il carattere dell'età nostra, la maturezza
delle opinioni, l'indole singolare e propria de' nuovi costumi e de'
nuovi istituti, la mente, a così dire, di tutto il secolo le pensa e
le persuade. Ponete in disparte coloro al cui intelletto fa velo la
cupidità e l'orgoglio, e coloro alla cui pietà e religione fa misero
inganno la tirannia dell'uso, e la pochezza e viltà dell'ingegno
e dell'animo; e voi sopra ogni bocca cristiana udirete oggi suonar
di nuovo la sentenza antichissima di San Leone pontefice, che nelle
sacre elezioni _sia colui preferito il quale dal clero e dal popolo
consenzienti è richiesto_. Del pari, voi scorgerete esser nel voto
d'ognuno, che la Casta del Quirinale si sperda; e udrete quindi
ripetere comunemente quella troppo legittima e naturale interrogazione
di San Bernardo, ch'io poneva in fronte della mia lettera: _an non
eligendi ex toto orbe orbem judicaturi?_ Ben è vero che molte e
significative assai sono state le domande di quel non timido cenobita,
alle quali nè papa Eugenio nè gli eredi suoi nella tiara trovato ànno,
infino al dì d'oggi, buona e adequata risposta.


X.

Ma vediamo in iscorcio i modi più pratici, e insiememente legali,
ordinati e pacifici, per conseguire sì grande effetto. Voi col veloce
ingegno supplite alla parsimonia di mie parole.

Roma per troppa vecchiezza ormai non à lingua nè moto, e soltanto la
paura le rompe alcuna fiata quel sonno a cui torna sì volentieri, e
che già piglia sembianza di letargía. Mestieri è, pertanto, che le
Chiese sì provinciali e sì nazionali, risveglinsi e parlino, e quanta
vena d'acque pure e vitali va disseccandosi in Vaticano, altrettanta ne
sgorghi e zampilli per ogni dove del bel giardino cattolico. Concedo,
o Signore, che congregare nel lor concilio nazionale i vescovi delle
Gallie, o quelli delle Spagne nel loro, e così d'altri popoli, riesca
oggi difficilissimo; e forse ai governi rispettivi non gradirebbe il
disegno, ed alcuni de' più sospettosi ne impedirebbero l'attuazione.
Ciò non ostante, la cosa è da reputarsi per buona e fattibile in sè;
e gli esempj nelle storie ne abondano, e la necessità persuade azioni
incomparabilmente più malagevoli. Nè mi sgomento a pensare che i
concilj nazionali (a condurli con ogni piena e scrupolosa legalità)
ricercano l'assenso di Roma. Perchè mal potrebbe esso lungamente e
ostinatamente venir negato a un numero grande e concorde di vescovi,
ciascuno de' quali è al papa uguale e compagno nell'ordine, e
venerabile nella dignità. Ma io stimo e son fermo di credere, che
radunanze molto più anguste e men rumorose sieno bastevoli all'uopo.
E veramente, per li sinodi diocesani e annuali de' preti, e per li
provinciali e triennali de' vescovi (i quali ultimi cominciano appena
a farsi vedere oltr'Alpe e oltre Reno), il convocarli ed aprirli non
solo va esente dalle concessioni di Roma; ma l'astenersi dal porli in
effetto e dar loro favore e incremento, contradice ad una delle più
salutevoli disposizioni della Sinodo Tridentina,[51] la quale toccò
in questo i termini non del rigore ma dell'indulgenza; conciossiachè
dal concilio santissimo di Nicea venivano i vescovi comandati di
abboccarsi nella provincia loro due volte per ciascun anno. In tali
adunanze, adunque, prescritte non che lecite, da nessuno impedite,
agevoli e pronte ad effettuarsi, io scorgo il punto dove consistere,
e il germe fecondo vi riconosco d'infinita fruttificazione. Io non
sarò presentuoso e inconsiderato da voler qui definire per filo e per
segno quello che in seno di essi concilj dee venirsi deliberando. Una
sola cosa desidero e spero, e non potendo agli uomini, la chiedo a Dio
immortale; e ciò è, che i preti ed i vescovi congregati guardino alla
urgenza estrema dei tempi, la misurino tutta quanta è, e di quindi
piglino ardire e consiglio.

Che se alcuni di quei congressi (nè parmi speranza eccessiva) l'indole
vera de' nostri tempi conosceranno, e nel chiuso dei petti umani
s'industrieranno di leggere, e massimamente del clero inferiore, queste
parole o le simili a queste addirizzeranno al Pontefice:


XI.

— Un nuovo caldo di evangelico zelo ricerca, Padre Santo, le viscere
della Chiesa, e scoppiano qua e là faville di luce nuova. Imperocchè
l'anime pie, forte sgomentate delle vaste e crescenti ruine, e trafitte
in cuore dell'accidia abituale e immedicabile dei ministri di Dio,
pregarono con singhiottoso pianto al Signore, e sclamarono: _Vieni da
quattro venti, o spirito, e soffia su cotesti morti, e vivano._[52]
Però il mondo cristiano non à indietreggiato in sui sentieri di
perfezione, e posto à lunga fatica _a riempier di beni i famelici,
e nell'esaltazione degli umili_ si è compiaciuto.[53] Se non che
(facciasi luogo al vero), quegli ubertosi principj di umanità, di
scienza e di sempre crescente prosperità e gloria di nostra stirpe,
che il Vangelo va maturando, e quegli eterni ed inessicabili semi
di libertà, di fratellanza e d'universale amicizia fra i popoli che
la legge d'amore produce, ànno germinato assai meglio ed in maggior
copia nell'altrui campo e sotto le mani de' laici, che nelle terre
de' Chierici all'ombra stessa del santuario. Posciachè questi, mal
ravvisando il lento portato della cristiana carità, sembrano ributtare
indietro e combattere fieramente il vivere moderno civile, e l'infinita
potenza di bene che vi si cela. Quindi negano che nel suo grembo
prosiegua sotto altre sembianze l'effettuazione di quell'annunzio
apostolico: _Voi a libertà siete chiamati, o fratelli_;[54] quindi
ricusano di conoscere il decreto sommo e providissimo, il quale
dispone che al colmo d'ogni libertà si giunga per la pienezza d'ogni
scienza e per la progressiva sublimazione degl'intelletti e dei cuori;
essendochè fu promesso _che il vero ci farà liberi_,[55] e fu comandato
all'umano consorzio di ascendere di grado in grado nell'infinito d'ogni
eccellenza, _tanto che siamo perfetti, siccome il padre celeste è
perfetto_;[56] e similmente s'infingono di non sapere _che il regno
di Dio debba avvenire altresì sulla terra_;[57] e _la città santa
debba discendere dall'eccelso acconcia siccome sposa che al suo marito
s'adorna; mentre una voce uscente dal trono divino sarà udita sclamare:
Ecco il tabernacolo di Dio per mezzo agli uomini, ed egli abiterà
con loro, ed essi saranno suo popolo_.[58] A tale funesto dissidio è
necessità metter fine. Necessità grande si è che i pastori dell'anime,
entrando con esse per le inusate e magnifiche vie del secolo,
procaccino di divertirle dai precipizj dove, abbandonate da noi e di
noi fastidite, rischiano di dirupare.

Può la civiltà senza religione essere altra cosa che apparenza ed
orgoglio, ludificazione e rimpianto? e può la fede e la religione
divisa dagli abiti della presente vita comune, non riuscire un eccesso
di mente solitario e infruttifero, e _sembiante al tamarisco che sorge
nell'aridità del deserto e in terra abbruciata ed inabitabile?_[59]
Eziandio è grande necessità, che cotesto verbo evangelico il quale
ora udiamo _acclamare tra i popoli i loro diritti_,[60] e con alte
e distinte voci parlare di carità cittadina, di pubbliche e maschie
virtudi, e d'universale affrancamento e giustizia; e il quale,
come tutte le cose divine, è novissimo e antichissimo a un tempo;
echeggi non solo e riverberi negli orecchi della Santità vostra,
ma sempre le risuoni vicino; e non possano i motti de' cortigiani
e lo strepito delle cancellerie romane sopraffarlo ed estinguerlo,
nè altrui cavare della memoria, che _servir si debbe in novità di
spirito, non in vecchiezza di lettera_,[61] e che _lo spirito solo
vivifica e la lettera uccide_.[62] Ei fa bisogno oggimai, che gli
eletti e rappresentanti del clero cattolico, e i veri testimonj ed
annunziatori del comune ed universale pensiero cristiano, siedano
accosto all'eccelsa cattedra vostra, sì che la parola uscente da
quella, torni, siccome fu per antico, augusta ed autorevole a tutte le
umane prosapie; e sia cessato lo scandalo triste e lamentabile senza
fine di vederla accolta assai spesse fiate con muto dolore dai buoni,
con non curanza dalle plebi, e con beffevole riso dagli avversarj. Più
non è concedibile oggi, che tutto un preclaro e venerando collegio
il quale debbe ad una con la Santità vostra reggere e cardinare la
Chiesa, esca dall'arbitrante suffragio d'un solo ed unico uomo, sia
pure principalissimo e il più degno e onorando di tutti i credenti;
perchè all'individua esperienza e all'individuo consiglio di nessun
uomo è dato mai di conoscere gl'innumerevoli particolari de' luoghi
e delle persone, meglio o altrettanto di quello che li sa e conosce
ciascuna Chiesa a rispetto del proprio gregge e nei confini del proprio
ovile: però si legge nell'Esodo, _Peso è cotesto non dagli omeri
tuoi, nè potrai durarlo tu solo_.[63] Oltrechè, nei sacri negozj i
quali il divino afflato non comanda nè modera egli medesimo, ma sono
alla prudenza dell'ordine sacerdotale affidati, non par dubioso che
si convenga di governarli oggidì conformemente al genio dei tempi
universale e imperioso, ed a cui non apparisce ben validato e sancito
verun officio ed atto, quando da libera e larga elezione non pigli
origine e forza. E da qual dubio, Padre beatissimo, può rimanere su
ciò avviluppata la mente nostra, ricordandoci che nella Chiesa fu
massima inviolata e perenne della esemplarissima antichità, dovere
ogni qualunque sacro ministro essere conosciuto, amato, desiderato da
tutti coloro a cui gli appartiene di comandare? e che altro modo più
proprio e più conducente a cotal fine ci avverrà di trovare, se non
l'elezione operata da quelli in cui s'adempie il comando? Per fermo,
egli è scritto _il pastore va davanti al suo gregge, e questo lo
seguita perchè conosce la voce sua,[64] e perchè è pasciuto da lui con
la spontaneità, e non con la forza_.[65] E ciò tutto se per ogni luogo
è vero, quanto divien più vero e più certo in risguardo di Roma, dove
al presente ogni cosa si va meschiando di cupe passioni e disorbitanti,
e quasi si è fatto impossibile serbare giudizio imparziale e mente
non preoccupata e libera? Noi scorgiamo con gran dolore, che intorno
al seggio pontificale accalcasi una sempre medesima specie e natura
di uomini, mossi non rado da private mire e ambizioni, inesperti del
rimanente mondo, nati o allevati in iscuole e in dottrine sterili
e pedantesche, vuote di vera scienza, traboccanti d'orgoglio, ove
la lettera uccide lo spirito e usurpa il luogo della virtù e della
sapienza; ondechè ei son fatti _un rame risonante e un cembalo che
tintinna,[66] e i loro umani comandamenti saranno diradicati come
piantagione che non fu opera del padre celeste_.[67]

Angoscioso ufficio adempiamo di nudare e trattare le piaghe della
sposa di Cristo; _ma il cuor nostro si rassicura nel cospetto della
verità_,[68] e ci bisogna spegnere qualunque temenza di pronunciarla,
_perchè timore e carità non s'accorda_.[69] E come ardiremmo noi di
chiudere e sigillare le nostre bocche, vedendo tutto giorno lo studio
diligente e infelice che pongono costà i cortigiani e gli scribi,
perchè il sommo reggitore dell'orbe cattolico sia sempre una verga
pullulata di lor semenzajo, e perchè egli, a vicenda, delle propaggini
loro faccia rinfronzire i più eletti luoghi dell'orto di Cristo?
Vogliano i cieli misericordiosi disperdere cotale malizia, e confondere
il serpe, il quale mordendo la propria coda e sè in se stesso rigirando
continuamente, chiude dentro al suo viluppo l'altare e il tempio di
Dio. Certo è, beatissimo Padre, che fra quegli uomini e l'altre genti
diffuse per le terre cattoliche, sembrano alzate lunghe muraglie e
attraversati non valicabili fiumi.

Ma, per ragionare di ciò che il giudicio umano può, circa al proposito
nostro, avvisare e provvedere, egli è grandemente mestieri che intorno
di voi, supremo gerarca, radunisi, eletto innanzi nel seno d'ogni
nazione, un santo concistoro di cherici e vescovi, fiore di tutta
cristianità, sale della terra, munito, per così dire, e precinto dello
spontaneo voto e mandato delle chiese e dei popoli. Esente egli dalle
grette passioni, dalle subite paure, dalle soppiatte carnalità, dalle
temporali sollecitudini che in cotesta Roma dànno perpetua battaglia;
esente dalle prelatizie vanezze e piacenteríe, ignaro dei sofismi
curiali e delle mene e ambagi segretariesche, recherà ai piedi della
Santità vostra gli affetti e i consigli sinceri e patenti delle singole
comunanze cattoliche; e quivi dinanzi a Voi, con semplicità di cuore
e altezza d'intendimento, sponendo ciascuno il proprio concetto; da
ultimo, lo spirito inerrante di Dio trarrà da tutti i lor pensieri,
siccome da corde di celeste salterio, la mente armonizzata ed unificata
della gran Chiesa universale. _Ecco, io li adunerò da tutte quante le
terre...., e darò loro un sol cuore e una sola via._[70]

Antico adiutorio è questo che noi invochiamo, e alle apostoliche
tradizioni affatto conforme: però un consiglio interiore ci ammonisce
di sperare in esso altamente. E per solo esso, al conflitto acerbissimo
e lacrimabile insorto fra lo Stato ed il Sacerdozio, fra l'Italia e il
Papato, fra il governo clericale e le sempre ammutinate e calcitranti
provincie, può rinvenirsi buona composizione e durevole accordo;
perchè ai degni eletti delle diverse e remote provincie e nazioni poco
importando gl'imperj secolareschi e le ricche ed oziose prebende, verrà
presto veduto alcun modo di perfetta conciliazione fra la libertà dei
popoli, la franchezza d'Italia; e la indipendenza e libertà della Santa
Sede, a cui bisogna ugualmente di non obbedire nè alle plebi nè ai
principi; i quali con finissima dissimulazione vogliono alla Santità
vostra concedere quante più sembianze e mostre e apparati si trovano
d'arbitrio e di signoria, e quanta minore sostanza è possibile: però
si legge, _e lo vestirono di porpora, e gli posero nella destra una
canna, e beffandolo s'inginocchiarono_. Allora la rinnovata sapienza di
Roma, sposandosi ad ogni popolare e civile spirito dell'età nostra, e
cessando di riprovare i sentimenti generosi e le aspirazioni magnanime
di tanta e si nobil parte dell'umana progenie, un filiale amore,
un'osservanza ossequiosa e una dolce e perdurabile maraviglia entrerà
in cuore di tutti verso l'apostolico ministero della Santità vostra,
e le fornirà schermo e difesa infinitamente migliore che non le armi
straniere e il temporale principato. E per fermo, chi più di voi,
Maestà spiritale e sovramondana, dee vivere in sospetto e paura di
quella sentenza, _maledetto l'uomo che confida nell'uomo e s'appoggia
a braccio di carne?_[71] Nè dee cadere dalla vostra memoria, che la
pupilla del profeta vide i re inchinarsi alla donna sedente su molte
acque, e con lei fornicare e bevere alla coppa sua; ma scamparla da
mezzo ai rischj ed alle ruine già non li vide.

Non può la indipendenza vera e perpetua del sacerdozio d'altronde
uscire che dal diritto e incrollabile animo dei pontefici per un
lato, e dalla comune coscienza per l'altro delle nazioni civili,
la quale professi altamente e insegni e promulghi in tutte le leggi
ed insinui in tutti i costumi, essere iniquo e barbarico sturbare e
comprimere una potestà immateriale ed inerme, che chiede ai cuori e
agl'ingegni suggezione razionale e spontanea, e niun mezzo terreno
adopera, salvo la parola e l'esempio. Che se dalle Chiese adunate
innanzi alla Paternità vostra uscirà sapiente e libera quella parola,
non è sui monti di Dio così bene eretta e fondata, nè così d'armi e
palvesi celesti guernita la torre di Dávide, come sarà la seggia vostra
immortale e l'impero del Vaticano.

Noi confessiamo riverenti, che in Voi, santissimo Padre, è il colmo
d'ogni dignità e la plenitudine d'ogni giurisdizione; e sappiamo
che lassù prega Cristo Signore perchè la vostra fede detrimento non
soffra. Ma si consideri benignamente da Voi la umiltà degli Apostoli,
pieni d'infallibile verbo, i quali ciò non pertanto convocata la
moltitudine dei credenti, dicevano loro: _Avvisate di elegger fra voi
sette uomini...... acciocchè noi li costituiamo nel ministerio del
diaconato._[72]

Piacciavi, dunque, non che di permettere, ma sibbene di comandare e
sollecitare la pronta convocazione dei nazionali concilj, dovunque
non gl'interdica la legge secolare e scandalo non ne segua. E ad
ogni modo, prescriva la Beatitudine vostra da per tutto ove ancora
è bisogno, e con istudio e cura solerte e diligentissima instighi
e affretti la esecuzione piena e fedele del canone tridentino, il
qual vuole s'adunino per ogni luogo ed ogni anno le Sinodi diocesane
(_quotannis_); le provinciali de' Vescovi una volta almeno (_saltem_)
in ciascun triennio! Sia prescritto parimente e raccomandato
dall'oracolo vostro, ch'elle si pongano quanto più possono, e per ogni
onesta e spedita maniera, in commercio di mente e d'affetto fra loro;
talchè i pensieri, le proposte, le controversie, gli scrutinj, le
deliberazioni e le opere s'accostino fra tutte esse alla maggiore unità
di concetto, di proponimento e di metodo. Essendo, certissimamente, che
loro spetta di avverare la sentenza di Paolo: che siccome non v'à nei
cieli più che un Signore Iddio, così nella Chiesa v'à un solo corpo ed
un solo spirito;[73] e Similmente, elle debbono procacciare che sia la
preghiera di Cristo esaudita, _di rendere tutti i discepoli suoi una
cosa sola_.[74]

Fatto ciò, noi supplichiamo l'alto datore e dispensatore dei lumi,
perchè a Voi persuada fermissimamente e con giudicio immutabile, di
comandare a ciascuna di quelle pie radunanze d'eleggere fra' suoi
più illustri e specchiati per virtù e sapienza, uno o parecchi, i
quali sieno nunzj e rappresentatori di lei appo la vostra eccelsa
persona. Quindi, convenuti a grave consulta innanzi di Voi, con Voi
riposatamente e con apostolica libertà e zelo ragionino della salute
universa del cattolico gregge. Ma, principalmente, e per ufficio e
mandato espresso e particolare, discutano del modo più degno e più
pronto e meglio operabile di comporre in futuro appresso la cattedra
santa di Pietro, un Concistoro elettivo, da tutte le Chiese costituito,
interprete verace ed eloquente di tutte, e il quale partecipi ciascun
giorno al vostro magno ministero, e regga in Laterano le vostre
braccia, non per isconfiggere e vincere alcuno, ma per benedire e
letificare ogni umana generazione. Così liberamente appresso di Voi
_radunato il popolo d'Israel_, acceso di fiamma profetica e tristo a
morte delle accumulate ruine di Gerosolima, _porrà mano tutto lieto e
concorde a riedificare sulla pianta loro stessa l'altare e il tempio di
Dio_.[75] —


XII.

Vere e franche parole, direte voi, ma chi vorrà proferirle? Rispondo:
proferiránnole prima pubblicamente le lingue dei savj, e nel secreto
de' lor pensieri i chierici ricreduti e buoni; che oggimai sommano
gran moltitudine, e da per tutto ve n'à uno scelto drappello. A quelle
lingue (se trombe del vero) converrà pure che schiudan l'orecchie
dell'animo i prelati più modesti e sinceri di tutta cristianità, e a
cui le riforme non pesano e non mettono sbigottimento: nè coloro che
arieggiano tanto o quanto all'arcivescovo di Parigi, sono sì scarsi
al dì d'oggi; e il novero non può scemare, anzi è fatale che cresca.
Perocchè, dove non resistono gl'interessi, entra e invade la generale
opinione; e questa oggi è ricevuta dal clero, non fatta; e chi la fa,
desidera quel medesimo che voi ed io desideriamo.

Ora, ponete che i Sinodi diocesani ed i provinciali moltiplichino;
le discussioni sdrúcciolino quivi bel bello in tale argomento, e il
discorso popolare se ne occupi e se ne infiammi; ponete che l'esigenze
dei tempi s'aggravino; le strettezze di Roma s'addoppino, le sue sorti
precipitino, la sua smoderanza e gli errori spesseggino, come suole
avvenire ad ogni istituto scassinato e cadente. Fate che i Sinodi, come
par naturale, assicurino ai meno arrischiati e più circospetti libertà
onesta di parlare e di consigliare; e che l'oscitanza e l'ignavia di
gran porzione del clero sia vinta e sforzata, e la sua muta e timida
sottomissione abbia termine; ed ei si risenta alcun poco, e parli
e supplichi con voce riverente bensì, ma concorde e robusta, e non
mai discontinua: tutte cose, chi ben le stima, che il secolo nostro
apparecchia e trae seco quasi per mano. Fate che da alcuni reggimenti
più popolari (e già gli Svizzeri ne ragionano) venga restituito alle
parocchie il diritto di eleggere o di proporre per lo manco i proprj
rettori: esempio ne' nostri giorni impossibile a tenere occulto, e
senza efficacia d'imitazione. Fate, da ultimo, che a ciascun uomo,
ed ai governi e ai principi, non meno che alle popolazioni compaja
verissimo, siccome pur troppo è, nulla concessione, riforma ed
innovazione, potersi più oltre aspettare da Roma, quasi per paura
e viltà impietrita; e questa sola ed unica via che noi indichiamo,
rimanere sgombra e non intercisa, e dare varco e passaggio ad ogni
ammenda, ad ogni salute, ad ogni conseguibile grado di perfezione nella
Chiesa e nel mondo; e la cosa, da speculativa e ipotetica, piglierà
certamente aspetto compiuto di certa e non transitoria realità.

Io stringo, mio riverito Signore, ogni concetto in uno, e concludo: o
nessun partito e nessuna prudenza è buona e bastevole in tale materia,
perchè l'agita e la governa lo sdegno di Dio: ovvero è bisogno che
la presente prelatura romana si rimpasti e rinsanguini tutta, e muti
gran parte degli ordini suoi; e però faccia luogo a un santo e dotto
sinedrio, scelto e inviato alla città eterna da tutte le Chiese
cattoliche, per essere squille di verità, e nell'universo intero
dispanderla e celebrarla.

Crispo Salustio, interrogato da Cesare sul riformare lo Stato e il
governo di Roma, provavagli con gran saldezza, doversi cominciare,
anzi tutto, dal condurre in quella nuove schiatte di cittadini. Ora,
io dico ed affermo: chi vuol correggere e riformare la Roma moderna
pontificale, dia nuovi abitatori a Monte Cavallo.

  Di Genova, li 10 di novembre del 1850.



APPENDICE.


Il vivere appartato ed oscuro non bastò sempre all'Autore di queste
prose per sottrarsi alla indiscrezione di certi libri e gazzette, che
alcuna volta il maltrattarono e con menzogne l'assalirono. Ned egli
se ne risentì; perchè le ingiurie sconcie ed immeritate si spuntano;
le accuse zoppe cascan per via. Ma quando parlano scrittori probi,
diligenti ed assai reputati, il silenzio non è scudo buono, e può
parere confessione del torto.

Ora, l'Italia annovera con gran ragione tra que' probi, diligenti ed
assai reputati, il chiarissimo dettatore degli _Ultimi Rivolgimenti
italiani_, nel primo volume de' quali raccontasi, in fra l'altre
cose, la Convenzione fatta in Ancona il 26 marzo del 1831, tra il
cardinale Benvenuti e il Governo Provvisorio delle provincie unite
italiane, e vi si leggono le infrascritte parole: «Questo atto
però fu causa di recriminazioni anche fra i liberali. Terenzio non
lo aveva voluto firmare, credendo le cose tuttavia non disperate.
Gli eventi non giustificarono le sue speranze; ed egli con questo
rifiuto, che chiarivalo uomo più immaginoso che pratico, trovossi
tra i meno temperanti collocato: ciò era certamente più per eccesso
d'immaginazione, o piuttosto per voglia di primeggiare, che non per
radicali principj che nudrisse in cuore. Il fatto però dee notarsi.»

Che il Mamiani nel 1831 si chiarisse uomo più immaginoso che pratico,
non fa maraviglia; perchè, oltre all'essere egli il più giovine di
tutti que' suoi colleghi, ignorava interamente i maneggi politici, e i
maggiori negozj ministrativi, dai quali erano i sudditi laici del papa
gelosamente tenuti discosto. Se non che, sotto tal rispetto, non sembra
che fossegli da contrapporre l'ingegno e l'arte de' suoi colleghi;
imperocchè ad essi pure _gli eventi non giustificarono le speranze_, e
poca pratica dimostrarono, presumendo, contro la storia e contro ogni
buon giudicio, che alla convenzione da loro fatta in quel caso e in
que' termini avrebbe Roma tenuto fede. Ad ogni modo, l'abbondare di
fantasia per sè non è male, e la coscienza non se ne grava, potendosi
riversare la colpa sulla natura. Ma perchè promovere il dubbio che il
Mamiani dissentisse da' suoi colleghi per voglia di primeggiare? non
si conveniva egli o tacere l'accusa o fornirla di qualche prova? Se
pigliamo arbitrio di parlare poco lodevolmente delle intenzioni altrui
senza obbligo di citarne i segni e gl'indizj manifesti, nessuno andrà
esente d'errore; e si scriverà, per esempio (ed anzi fu scritto), che
i colleghi del Mamiani si unirono in quell'accordo non per prudenza
ma per paura. Del resto, il Mamiani (come vedesi dal Documento A
stampato qui appresso) ricusò di soscrivere la convenzione solo
perchè ne avea biasimato il concetto quando se ne tenne particolare
consiglio e deliberazione. Nel qual parere egli venne per due ragioni.
La prima, che reputava il patto insufficientissimo, e da non essere
mai serbato e osservato. La seconda, che gli sembrava poco onorevole
il dar quell'esempio agl'Italiani di chiedere venia ad un cardinale
che, mandato a sollevare le plebi delle Marche e delle Romagne, avea
costretto il Governo a trarselo dietro prigione da Bologna ad Ancona;
e falso è che venisse prosciolto prima del trattare la convenzione.
Aggiungeva a tutto ciò il Mamiani, doversi ad ogni modo aspettare
l'arrivo dello Zucchi, nè risolvere tanto affare senza che s'intendesse
la mente del capo delle milizie. Vero è peraltro, che la grande umiltà
di quell'atto rimase come velata agli occhi del popolo; ma non per
industria del Governo, bensì per quella del cardinale, che, divenuto a
un tratto, di prigione che era, padrone ed arbitro d'ogni cosa, mostrò
maravigliosa modestia e mansuetudine, e degna al tutto d'un santo
vescovo.

Pel rimanente, il Mamiani ringrazia il signor Gualterio del non avergli
attribuito opinioni eccessive, e del lodare che fa le nomine allora
avvenute dei prefetti e vice-prefetti, le quali procederono tutte
da esso Mamiani, che reggeva il ministero degli affari interiori, e
che nella scelta almeno delle persone mostrò di tenere in briglia la
fantasia.

Quanto poi al giudicio che leggesi nel primo volume dei _Rivolgimenti_
circa la sollevazione del 1831, non riuscirà forse inutile di
paragonarlo all'altro conciso, ma schietto, che ne dava il Mamiani
or sono parecchi anni, e il quale riferiamo sotto la lettera _B_,
togliendolo dal secondo volume delle _Memorie_ del generai Pepe, ove
primamente venne inserito.


A (_Tolto dal volume_ 24mo _della_ REVUE BRITANNIQUE, pag. 404.)


RECTIFICATION.

_A monsieur Amédée Pichot, directeur de la_ Revue Britannique.[76]

  Monsieur,

J'ai lu, dans le dernier numéro de votre Revue, un article signé par
Mazzini, où cet écrivain raconte et juge à sa manière les événemens de
la révolution de l'Italie centrale en 1831.

M. Mazzini, en rendant compte de la capitulation d'Ancône conclue
entre le Gouvernement provisoire des Provinces-Unies et le cardinal
_Benvenuti_, dit: «Le 26 (mars), tous les ministres apposèrent leur
signature, à l'exception de _Pepoli_ seul, qui était absent. Je dis
_Pepoli_ seul, quoique je sache bien que le nom de _M. Mamiani_
ne figure pas parmi les autres; mais j'ai à ma disposition le
procès-verbal de la séance du 25, où est décrétée la capitulation,
dont le traité du 26 n'est que la ratification et où son nom se trouve
joint.»

Il y a dans ces lignes une erreur de fait qui me regarde, et que je
tiens à rectifier.

Lors de la capitulation d'Ancône, M. Pepoli n'était pas membre du
Gouvernement, et il résidait à Pesaro en qualité de préfet.

Le seul ministre qui n'a voulu ni adhérer à la capitulation, ni la
signer, c'est moi, ainsi que cela est bien reconnu par toutes les
personnes qui ont été témoins du fait.

Si j'ai apposé ma signature au procès-verbal de la séance, d'après
l'usage qu'on avait établi pour chaque réunion, tout le monde sait
qu'un tel acte n'a d'autre valeur que de constater la vérité des faits
qui y sont rapportés.

Ce même procès-verbal, dont parle M. Mazzini, dit que la résolution
d'entamer un traité de capitulation avec le cardinal Benvenuti _fut
prise à la majorité des voix_, et c'est précisément sur ces paroles
que M. Mazzini devait porter son attention, s'il est vrai que la pièce
authentique soit demeurée dans ses mains.

Mais il est plus facile de croire qu'il a été induit en erreur par une
brochure du général Armandi, publiée quelques mois après les événemens
de 1831, où il est dit que la capitulation du 26 mars fut décidée à
l'unanimité. Dans ce cas, M. Mazzini ignore que cette erreur de M.
Armandi a été avouée et rectifiée par lui-même, ainsi qu'on le voit par
le document dont vous trouverez la copie ci-dessous.

Votre politesse, Monsieur, et votre loyauté bien connue me font espérer
que vous voudrez bien porter à la connaissance de vos abonnés cette
rectification qui a pour moi beaucoup d'importance.

Agréez, Monsieur le Directeur, l'assurance de ma considération
distinguée et de ma profonde estime.

De Paris, le 16 novembre 1839.

                                                    Votre très-devoué

                                                    TERENZIO MAMIANI.

  _«A M. le général Armandi, ancien ministre de la guerre du
  Gouvernement provisoire de Bologne._

      »Monsieur le Général,

  »Après avoir lu l'opuscule que vous venez de publier sous le titre:
  _Ma part dans les événemens de l'Italie centrale_, je me vois
  dans la nécessité de révéler une erreur qui vous a échappé. Vous
  dites, à l'occasion de la capitulation d'Ancône, que la résolution
  d'entrer en négociations avec le cardinal Benvenuti fut prise à
  l'unanimité par les membres du Gouvernement. Je dois vous rappeler,
  Monsieur, que cette unanimité ne fut pas complète, puisque sur neuf
  membres délibérans, il y en eut un qui fut d'un avis absolument
  opposé; et vous savez que ce fut précisément moi: c'est pour cela
  que le procès-verbal de ladite résolution annonce qu'elle fut prise
  _à la majorité des votes_, et non à l'unanimité; et c'est encore
  pour cela que je refusai de signer la convention lorsqu'elle fut
  conclue.

  »J'ai toute raison de croire, Monsieur le Général, que, par
  amour pour la vérité, vous trouverez juste que je donne toute la
  publicité possible à cette lettre.

  »Je suis, etc.

                                                        »T. MAMIANI
        »Ancien ministre de l'Intérieur du Gouvernement de Bologne.

  _»A M. le comte Mamiani._

      »Monsieur le Comte,

  »Je me souviens parfaitement des circonstances dont il est question
  dans votre lettre. Il est juste de dire que, pendant les débats qui
  amenèrent la convention d'Ancône, vous avez été d'un avis contraire
  à celui des autres membres du conseil; mais comme le procès-verbal
  de la séance a été revêtu de toutes les signatures, et que
  vous-même vous avez signé purement et simplement, sans prendre
  acte de votre opposition et sans la motiver, je pouvais regarder
  la résolution comme unanime, quelle qu'eût été la diversité des
  opinions pendant la discussion; diversité dont je n'ai pas oublié
  de faire mention dans mon écrit. Au fond, une majorité de huit
  voix sur neuf ne diffère pas beaucoup de l'unanimité, et c'était
  assez pour le lecteur, auquel je devais épargner des détails peu
  importans pour l'ensemble.

  »Je suis maintenant fâché de les avoir supprimés, puisque je vois
  que cela vous déplait; mais je vous prie de croire qu'en agissant
  de la sorte je ne pouvais jamais avoir l'idée de dissimuler la
  justice qui est due à votre manière de penser.

  »Veuillez bien en être persuadé, Monsieur le Comte, et agréer en
  même temps mes sentimens distingués.

  »Je suis, etc. etc.

                                              »Le général ARMANDI.»


B (_Tolto dal 2º volume delle Memorie del generale_ GUGLIELMO PEPE.)

La sollevazione dell'Italia media nel 1831, ebbe a proprio movente
l'odio pubblico e antico inverso il governo di Roma; per occasione, la
cacciata di Carlo decimo dal suolo di Francia; e per ultimo impulso,
il principio del non intervento con solennità proclamato dai ministri
di Luigi Filippo. Senza la fede (comune allora e fermissima) in quel
principio ed in quelle dichiarazioni, noi crediamo che nessuno grave
moto politico sarebbe accaduto in Romagna e nei due Ducati; e ciò, non
per poca avversione contro al governo assoluto, massime contro a quello
sbrigliato e sconvolto de' preti; ma per avere in sulle porte uno
straniero formidabile, apparecchiato a spegner nel sangue ogni sorgente
favilla di libertà. Cominciò dunque la sollevazione dell'Italia media
con ruinoso fondamento, e l'aspettazione certa degli ajuti francesi
fecela operare e procedere in ogni cosa con languore non iscusabile.
Ella dimostrò, peraltro, a rispetto de' moti politici anteriori, un
vero incremento di bene in ciò, ch'ella fu tutta di pensieri e di
voglie italiane, senz'ombra d'interessi e ambizioni municipali: il
che in ispecie lasciòssi scorgere e ravvisare ne' colori nazionali
inalberati dappertutto spontaneamente, nel gridarsi non altro che
_Viva l'Italia_; e in questo eziandio, che il governo principale colà
costituito s'intitolò _Governo provvisorio delle provincie unite
italiane_, volendo significare ch'egli aspettava altro maggiore
e miglior governo sotto di cui diversi Stati italiani sarebbero
addivenuti provincie di un sol paese. Impertanto, non è da badare a
certe frasi stampate allora ne' manifesti, ed a certi atti del governo
particolare della città di Bologna, ingiuriosi ed ostili a' poveri
Modenesi. Ognuno, e in quel governo e fuori, li salutava fratelli e
amávali come tali; ma la sciocca paura di non dare appicco all'Austria
d'intervenire e alla Francia di non impedirlo, fece scrivere e fare
parecchie inutili dissimulazioni, e certe finte e mostre più da
fanciulli che da uomini gravi e sensati.

«Venendo meno la speranza del non intervento, doveva all'Italia
media mancare altresì ogni fede in sè medesima, e ogni gagliardia
disperata per tentare di mettere in salvo la libertà. Tuttavolta io
penso che più di un fortunato accidente poteva impedire il disastro,
o ripararlo in massima parte, e cangiare forse per sempre i destini
della Penisola. Se il malumore di Modena, di Bologna e di Parma fosse
scoppiato parecchi mesi innanzi, quando in Francia l'ardore degli animi
ancor non freddava; o se in Piemonte ed in Napoli non fossero ascesi
al trono in que' medesimi dì due principi nuovi, a cui riuscì molto
facile il tener sospesi i corrivi ed i pusillanimi (che sempre sono i
più) con vane aspettazioni e sembianze di regno assai liberale, altra
piega avrebbero preso gli avvenimenti. Del pari, se ne' primissimi
giorni dell'insorgere delle provincie unite fosse quivi comparso un
uffiziale sperimentato e animoso, il quale, radunando le poche ma buone
truppe stanziate in que' luoghi, fosse proceduto diritto inverso gli
Abbruzzi per sollevarli, od anche avesse marciato fin sotto Roma; tale
era in que' giorni lo sgomento, la paura e la confusione de' prelati,
che quella Metropoli insigne caduta sarebbe in mano de' nostri, e si
importante caso traevasi dietro, come a forza, molte novità nel vicino
reame di Napoli. Un sol mese più tardi avevano le cose mutato faccia:
tanto nelle rivoluzioni conviene essere attivi e solleciti. Io accenno
poi cotesti varj supposti, ognuno de' quali non mi par temerario a dire
che bastava forse a far cominciare il risorgimento d'Italia, perchè
si vegga che quivi la materia non è così mal disposta ed inerte come
taluni van predicando; e di fatto, niuno, senza ingiuria del vero,
dee stimare immaturo e mal preparato alla libertà quel paese, ove
un qualche favorevole accidente la può far sorgere e far perdurare.
Ma tornando alla sollevazione del 1831, egli è da avvertire che sul
cadere di marzo la corte romana, per lettere autografe di personaggi
altissimi, venne accertata che all'Austria si dava licenza di accorrere
a rimetterla in piede e a schiacciare la generale rivolta. Questa
tolleranza insperata de' Francesi, bastò a farle riavere gli spiriti,
e dar mano a qualche vigoroso provvedimento. Armò gente campagnuola
e rozza, raggranellata nella Sabina e in Marittima; sparse danari e
indulgenze in Trastevere; sollevò gli animi, come potè il meglio, colle
predicazioni, e colle altre solite arti giovátele ne' vecchi tempi
maravigliosamente, e neppure allora sfornite d'ogni efficacia. Dopo
ciò, l'entrare in Roma e occuparla con un pugno di soldati e di giovani
volontarj più non era fattibile; e la causa della libertà italiana
dovette nuovamente soccombere, insegnando alle presenti generazioni
ed alle future, che la salute della patria non istà mai in altre mani
salvo che nelle proprie, e non vien data ma vien rapita, non si trova
ma si conquista.

Nel corso brevissimo di quella sollevazione dello Stato romano, tre
cose, a mio giudizio, furono di momento. La prima, che quanto grande
mostròssi in ciascuno l'inesperienza de' gravi negozj, altrettanto
riuscì bella e notabile la modestia, la probità e il disinteresse. La
seconda, che troppo si volle diffidar della plebe, e si usò scarsamente
de' mezzi legittimi e acconci, i quali potevano smoverla e trarla tutta
dal nostro lato: errore massimo e più volte ripetuto in Italia. La
terza, che la intenzione manifesta e la dichiarazione iterata e solenne
di abolire affatto il dominio temporale de' papi, nè scandalizzavano
le moltitudini, nè accendevano contro di noi la parte loro più
numerosa e ignorante. Gl'increduli e gl'indifferenti ne giubilavano;
i credenti e pii vi scorgevano la mano di Dio, per punire i vecchi
peccati del clero, e riformare la Chiesa. Per quest'ultimo rispetto,
la sollevazione dell'Italia media nel 1831, benchè tenue assai nelle
sue vicende e infelice nell'esito, segnò un punto rilevantissimo nella
storia civile de' nostri tempi; conciossiachè ella dichiarò al mondo
intiero cristiano, che quel dominio pontificale, stato per secoli una
delle funeste cagioni delle sventure italiane, e la principalissima
de' vizj e disordini della Chiesa, o più non vivrà di virtù e forza
propria, e sarà in odio e in disprezzo crescente ed inestinguibile alle
popolazioni sue stesse; o dovrà mutare dalla radice gli ordini suoi, e
per quanto il comporta la nostra età, ripristinare le forme e gli abiti
popolari antichi, e rimettersi in cuore gli spiriti generosi del regno
di Alessandro III.


  FINE.



INDICE.


  AVVERTIMENTO DELL'EDITORE.                               Pag. v
  PREFAZIONE.                                                  ix

  PARTE PRIMA. — TEMPI DI RIFORME.

  Nostro parere intorno alle cose italiane.                     5
    Documenti pratici intorno la rigenerazione morale e
    intellettuale degli Italiani.                              18
  Alla contessa Ottavia Masino di Mombello. — Lettera.         47
  Lettera in forma di circolare.                               50
  Lettera al cardinale Ferretti, segretario di Stato.          51
  Discorso recitato al banchetto che il Circolo Romano
    offriva e dedicava all'Autore il dì 23 di settembre
    del 1847.                                                  53
  Sulla Toscana.                                               57
  Parole dette in Perugia nelle stanze de' Filedoni,
    il 18 di ottobre del 1847.                                 63
  Discorso recitato al banchetto che i Pesaresi
    offerivano all'Autore concittadino, il dì 31 di
    ottobre del 1847.                                          68
  Il Municipio di Pesaro al suo Deputato appresso
    il Pontefice. — Allocuzione.                               77
  Programma del Giornale La Lega Italiana che
    pubblicavasi in Genova.                                   101
  Fatti di Milano nel gennajo 1848.                           110
  Dell'ordinamento nuovo de' Municipj.                        114
  Dispacci francesi sulle cose italiane.                      119
  Dello stato presente d'Italia. — 19 gennajo 1848.           122
  Del fatto di Livorno. — Adì detto.                          125
  _L'Eco dell'Alpi marittime._ — Adì detto.                   128
  Notizie della Sicilia. — 21 gennajo 1848.                   129
  Della Sicilia. — 22 gennajo 1848.                           132
  Iscrizioni dettate pei funerali che Genova celebrò,
    il 22 di gennaio 1848, alle anime dei Lombardi
    uccisi in Milano e in Pavia.                              134
  Del Memoriale al Pontefice pei fatti di
    Sicilia. — 24 gennaio 1848.                               136
  L'Allocuzione dei Pari di Francia. — Adì detto.             139
  Riforme nel Regno. — 25 gennajo 1848.                       141
  Consigli al re di Napoli. — 27 gennajo 1848.                145
  Il passato e il presente di Napoli. — 31 gennajo 1848.      148
  Palermo bombardata. — 31 gennajo 1848.                      152
  Il presente e il passato di Napoli. — 2 febbrajo
    1848.                                                     153
  _Il Carroccio_, giornale delle provincie. — 31
    gennajo 1848.                                             156
  Allocuzione ai Napoletani. — 2 febbrajo 1848.               157

  PARTE SECONDA. — TEMPI COSTITUZIONALI.

  Consigli ai principi e ai popoli. — 3 febbrajo 1848.        161
  Del nuovo Ministero napoletano. — 3 febbrajo 1848.          163
  Costituzione desiderata dagli Italiani. — 6 febbrajo
    1848.                                                     164
  La Lombardia e il Metternich. — 7 febbrajo 1848.            167
  Le Camere francesi. — 8 febbrajo 1848.                      170
  Sulla Costituzione conceduta in Piemonte. — 9
    febbrajo 1848.                                            174
  D'una marineria italiana. — 10 febbrajo 1848.               178
  Di nuovo, del Ministero napoletano. — 10 febbrajo
    1848.                                                     181
  Filosofia civile italiana. — 14 febbrajo 1848.              182
  La Costituzione napolitana. — 16 febbrajo 1848.             183
  D'una Dieta italiana. — 16 febbrajo 1848.                   186
  Questioni costituzionali. — 18 febbrajo 1848.               187
  Agli Ungheresi. — 18 febbrajo 1848.                         193
  La Costituzione toscana. — 19 febbrajo 1848.                195
  Della prossima legge sulla libertà della stampa. — 19
    febbrajo 1848.                                            198
  D'una crociata dei Russi. — 21 febbrajo 1848.               201
  Del popolo. — 22 febbrajo 1848.                             203
  Dei dazj dannosi al popolo. — 22 febbrajo 1848.             207
  Di Roma costituzionale. — 23 febbrajo 1848.                 208
  Carteggio tra Metternich e Palmerston. — 23 febbrajo
    1848.                                                     212
  Di nuovo, di una Lega politica difensiva. — 16
    febbrajo 1848.                                            216
  Di nuovo, e sempre d'una Lega difensiva
    italiana. — 26 febbrajo 1848.                             219
  Ai Lombardi e Veneziani. — 28 febbrajo 1848.                221
  Cenni d'una legge elettorale. — 1 marzo 1848.               224
  Lettera ad Antonio Crocco, intorno agli ultimi casi
    di Francia. — 10 marzo 1848.                              231
  Ai signori Direttori dell'_Epoca_. — 11
    aprile 1848.                                              263
  Sulla guerra italiana. — 14 aprile 1848.                    265
  Di nuovo, sulla guerra italiana. — 17 aprile 1848.          267
  Al generale Carlo Zucchi. — 20 aprile 1848.                 269
  Discorso sulla educazione del popolo. — 26 giugno
    1848.                                                     275
  Discorso in difesa del Ministero. — 27 giugno 1848.         286
  Discorso sulla rotta di Vicenza. — 6 luglio 1848.           288
  Discorso in difesa del Ministero. — 21 luglio 1848.         296
  Discorso sulla necessità della guerra. — 7 agosto
    1848.                                                     306
  Discorso sopra tre modi straordinarj di difesa. — 11
    agosto 1848.                                              309
  Discorso sullo stato d'Italia. — 14 agosto 1848.            311
  Esortazione ai Romani. — 12 agosto 1848.                    315
  Ai signori Direttori dell'_Epoca_. — 22
    agosto 1848.                                              316
  Rapporto in nome dei Commissarj deputati a scegliere
    e compilare le massime di un Patto federativo.            318
    Progetto di uno schema d'Atto federale, redatto dal
      Congresso nazionale per la Confederazione italiana,
      radunatosi in Torino il 10 ottobre 1848.                324
    Al re Carlo Alberto, il Congresso della Società
       nazionale per la Confederazione italiana.              327
  Terenzio Mamiani a' suoi Elettori.                          333
  Alla Santità di Pio IX, Terenzio Mamiani.                   355
    Appendice.                                                366
    Note e Documenti.                                         378

  PARTE TERZA. — ULTIMI TEMPI.

  Sulla disdetta dell'armistizio. — 20 marzo 1849.            405
  Sulla necessità del confederarsi. — 27 marzo 1849.          406
  Del partecipare alla guerra lombarda. — 27 marzo 1849.      409
  Sulla verità nella politica. — 28 marzo 1849.               410
  Invito alla conciliazione. — 3 aprile 1849.                 412
  Sulla guerra de' Napoletani contro i Siciliani. — 5
    aprile 1849.                                              414
  Del modo di ajutare la guerra. — 6 aprile 1849.             415
  Sulla pena imposta ai Canonici di San Pietro. — 11
    aprile 1849.                                              416
  Studj sul progetto di Costituzione della Repubblica
    Romana. — 21 aprile 1849.                                 418
  Sullo sbarco de' Francesi a Civitavecchia. — 26
    aprile 1849.                                              427
  Elogio funebre di re Carlo Alberto.                         433
  Agli Elettori di Pinerolo e del sesto Collegio di
    Genova.                                                   473
  Sul Papato, lettera ortodossa a Domenico Berti.             481

  APPENDICE.                                                  537



_Recenti Pubblicazioni_


  =VITA DI DANTE=, scritta da =Cesare Balbo=: con le Annotazioni
    di Emmanuele Rocco. — Un volume. _Paoli_                        7

  =FOSCOLO= (Ugo). =Epistolario=, raccolto e ordinato da F. S.
    Orlandini e da E. Mayer. — Volume 1º.                           7

  =VITA DI VITTORIO ALFIERI= scritta da esso. Questa edizione,
    riscontrata accuratamente sull'autografo esistente nella
    Libreria Mediceo-Laurenziana, è arricchita di un'Appendice
    che contiene parecchie Lettere edite ed inedite di Vittorio
    Alfieri, ed alcune a lui dell'abate di Caluso (finora inedite)
    che riguardano principalmente gli studi che l'Alfieri faceva
    della lingua greca. — Un volume, col _fac-simile_ della
    scrittura dell'Alfieri.                                         7

  =DAVANZATI= (Bernardo). =Le Opere=, ridotte a corretta lezione
    coll'aiuto de' manoscritti e delle migliori stampe, e annotate
    per cura di Enrico Bindi. — Volume 1º.                          7

  =TASSO= (Torquato). =Le Lettere=, disposte per ordine di tempo
    ed illustrate da Cesare Guasti. — Volume 1º.                    7

  =RACCOLTA ARTISTICA=, pubblicata per cura di una Società di
    Amatori delle Arti belle. — Tomo IX.                            7

  =CARCANO= (Giulio). =Angiola Maria=, storia domestica. — =Il
    Manoscritto del Vicecurato.= — =Ida della Torre=, episodio
    patrio. — _La Nunziata_, racconto campagnuolo. — =Canzoni
    popolari= e =Armonie domestiche=, inedite. — Un volume.         7

  =MACHIAVELLI= (Niccolò). =Le Opere minori=, rivedute sulle
    migliori edizioni; con Note filologiche e critiche, ed un
    Avvertimento preliminare di F.-L. Polidori. — Un volume.        7


_Prossime Pubblicazioni._

  =STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA=, di _Giuseppe Maffei_.
    Terza edizione originale, nuovamente rivista dall'Autore. —
    Saranno 2 volumi.

  =VINCENZO GIOBERTI.= =Del Buono e Del Bello.= Edizione
    condotta sopra un esemplare rivisto dall'Autore. — Un volume.

  =MEMORIE= dei più insigni =PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTI
    DOMENICANI=, del P. Vincenzo Marchese, dello stesso Istituto. —
    Seconda edizione, con giunte e correzioni. — Due volumi.

  =NOVELLE CASALINGHE DI GIULIO CARCANO=: _Memorie d'un
    fanciullo. — Una povera tosa. — Il giovine sconosciuto._ —
    _Benedetta._ — _La vecchia della Mezzegra._ — _La madre e il
    figlio._ — _Un buon galantuomo._ — _Rachele._ — _Una simpatia._ —
    _Tecla._ — _Il Cappellano della Rovella._ — _L'Ameda._ — Un
    volume.

                                                       _Aprile 1853._



NOTE:


[1] A Bologna, nel marzo del 1831, giunta la nuova del fatto d'armi di
Rimini e sparsasi voce che i Tedeschi erano stati in quello respinti
e assai maltrattati, già i facchini e altra gente minuta macchinavano
d'impadronirsi d'alcune artiglierie poste sulla piazza del Gigante, e
in tutte le case si ricavavano fuori le armi con indicibile audacia.

[2] Si accenna ai Cartisti inglesi e al loro Programma.

[3] Non molti mesi dopo la prima stampa di questi documenti, sparsesi
voce d'una radunanza in Pisa di scienziati Italiani, proposta da alcuni
benemeriti cittadini; alla qual voce à tenuto dietro, per gran ventura,
il fatto. Ciò provi ai lettori nostri, che quanto noi proponiamo non è
impossibile che venga all'atto se i buoni fermamente il vorranno.

[4] Questa privatissima lettera è qui stampata, perchè da alcune
Gazzette fecesi pubblica con onesta intenzione, ma senza saputa
dell'autor suo.

[5] Accenna all'istituzione della Consulta di stato con voce
deliberativa in cose di Finanza.

[6] Da ultimo si trovò che le notizie corse avevano qualche buon
fondamento.

[7] Cosa che l'autore tentò di eseguire entrato che fu nel governo.

[8] Che succedono agli Etrusci, ai Romani, ai Papi, alla rinascenza.

[9] _Dell'Ontologia e del Metodo_, Appendice, 1843.

[10] Venne poi la certezza di questi principj negata e disfatta dalla
contraria natura non delle cose ma degli uomini; ed oggi è necessità
ripetere con l'Autore: chi vuol correggere e riformare la Roma moderna
pontificale, dia nuovi abitatori a Monte Cavallo.

[11] Quelli succeduti nel febbraio del 1848.

[12] In niuna parte d'Italia, era in que' giorni la stampa esente da
censura.

[13] L'uso à raccolto e approvato questo latinismo non guari superfluo,
perchè è termine proprio ed univoco, laddove tali non sono _ordine_,
_classe_, _grado_, e se altri ve n'à.

[14] Ciò appena era scritto, quando comparve la Circolare del Lamartine
agli ufficiali delle ambascerie francesi. Le parole ed il sentimento
sono grandi e magnifici; ma la sostanza risponde alla previsione
nostra: non pertanto la Nota del Lamartine farà scandalo nelle Corti.
(_Nota della prima edizione_.)

[15] Nè Vienna ancora era insorta, nè Milano avea cacciato gli
Austriaci.

[16] Giornale Romano, succeduto all'_Italico_.

[17] E così fece per appunto la nuova Dieta.

[18] In una corta discussione che precedeva il discorso. Vedi la
Gazzetta di Roma.

[19] Il deputato Bianchini, chiaro scrittore, artista e filologo.

[20] Il professore F. Orioli, deputato di Viterbo.

[21] Pellegrino Rossi.

[22] Si accenna ai fatti sanguinosi del giugno del 48 in Parigi.

[23] Gli austriaci entrati grossi e minacciosi nel Ferrarese; e se ne
discorre più sotto.

[24] Si tollerava che i Ministri ajutassero in silenzio e come di
soppiatto la guerra, ma senza neppur nominarla.

[25] Ambedue le proposte furono tra vivi applausi accettate.

[26] Vedi qui appresso la proposta del Patto.

[27] Il Mamiani.

[28] Medesimamente il Mamiani.

[29] Non è scrittura dell'Autore, e solo si aggiunge per chiarire e
intendere quel che precede.

[30] Vedi la _Gazzetta di Roma_, 17 agosto 1849.

[31] Questi atti si compivano il 22 e il 23 di dicembre del 1848.

[32] Veggansi le Note a pag. 378 e seguenti.

[33] Vedi nella Gazzetta Romana la tornata del 4 dicembre.

[34] La Legge Elettorale per la Costituente Italiana.

[35] Intendi quelle del Cavaignac.

[36] 1849, data dell'edizione genovese di queste due lettere.

[37] Vedi _Saggi di Filosofia Civile ec._, pag. 113 e segg.

[38] San Paolo.

[39] Quello medesimo che leggesi a pag. 378 e seg.

[40] Il quale acconsentì poi nettamente e con zelo.

[41] Scritto appena giunte le prime e confuse nuove della rotta di
Novara.

[42] _Eadmeri_, _De Vitâ Anselmi_, lib. 1, pag. 2.

[43] CARLO ALBERTO, Memorie ed osservazioni sulla guerra
dell'Indipendenza d'Italia, pag. 122.

[44] Per vero, trascorsi appena due anni, è stato forza al Governo
Sardo, perchè le istituzioni non vacillassero, di accostarsi a quelle
persone che l'autore avea particolarmente lodate e raccomandate agli
Elettori.

[45] Coppi, _Discorso sul Consiglio e Senato di Roma_, 1848, pag. 58.

[46] Leggi _Della regolata devozione_ di L. Muratori.

[47] Vedi _Graziano nel Can. I, dist. 53._

[48] _Dictatus papæ._

[49] Vedi, fra le altre, la bolla: _Lignum vitæ._

[50] Jacopo Stellini.

[51] Sessione XXIV, _De Reformatione_, Cap. II.

[52] Ezechiello, Cap. XXXVII.

[53] San Luca, Cap. I, 52, 53.

[54] Ai Galati, Cap. V, 13.

[55] San Giovanni, Cap. VIII, 32.

[56] San Matteo, Cap. V, 48.

[57] San Matteo, Cap. VI, 10.

[58] Apocalisse, Cap. XXI, 2 e 3.

[59] Geremia, Cap. XVII.

[60] Maccabei, Cap. IV; 11. Ester, Cap. XVI, 4.

[61] Ai Romani, Cap. VII, 6.

[62] La seconda ai Corintj, Cap. III, 6.

[63] Esodo, Cap. XVIII.

[64] San Giovanni, Cap. X.

[65] Epistola prima di San Pietro, Cap. V, 2.

[66] La prima ai Corintj, Cap. XIII.

[67] San Matteo, Cap. XV, 9 e 13.

[68] San Giovanni, la prima Epistola, Cap. III.

[69] San Giovanni, la prima Epistola, Cap. IV.

[70] Geremia, cap. XXXII.

[71] Geremia, Cap. XVII.

[72] Atti degli Apostoli, Cap. VI.

[73] Agli Efesj, Cap. IV.

[74] San Giovanni, Cap. XVII.

[75] Esdra, Cap. III.

[76] NOTE DU DIRECTEUR. La _Revue Britannique_ n'a pas prétendu
accepter la responsabilité des articles de M. Mazzini sur l'Italie.
Nous nous empressons donc de publier la lettre suivante que nous
adresse le comte Mamiani, ancien ministre du gouvernement à Bologne.
Nous espérons que M. Mazzini lui-même, qui est à Londres, et dont M. le
comte Mamiani, pas plus que nous, n'inculpe la loyauté, s'empressera de
faire insérer cette rectification dans le _Magazine_ auquel la _Revue
Britannique_ avait emprunté sa lettre.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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